Sorella Morte

di _camus_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo I e II: quattordici anni prima (1972) e sette anni prima (1979) ***
Capitolo 2: *** ​Capitolo I: 30 aprile 1986. Maia ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2: 30 aprile 1986. Shaka ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3, parte I: 7 maggio 1986. Camus ***
Capitolo 5: *** Capitolo 3, parte II: 8 maggio 1986. Camus ***
Capitolo 6: *** Capitolo 4: 9 maggio 1986. Milo ***
Capitolo 7: *** Capitolo 5: giugno 1986. Shaka ***
Capitolo 8: *** Capitolo 6: luglio 1986. Maia ***
Capitolo 9: *** Capitolo 7, parte I: luglio/agosto 1986. Milo ***
Capitolo 10: *** Capitolo 7, parte II: luglio/agosto 1986. Milo ***
Capitolo 11: *** Capitolo 8: 9 settembre 1986. Shaka ***
Capitolo 12: *** Capitolo 9: 10 settembre 1986. Camus ***
Capitolo 13: *** Capitolo 10, parte I: 11 settembre 1986. Milo, Camus ***
Capitolo 14: *** Capitolo 10, parte II: 11 settembre 1986. Camus, Milo ***
Capitolo 15: *** Capitolo 11, parte I: 11-12 settembre 1986. Shaka ***
Capitolo 16: *** Capitolo 11, parte II: 11-12 settembre 1986. Shaka ***
Capitolo 17: *** Capitolo 12, parte I: settembre 1986. Maia ***
Capitolo 18: *** Capitolo 12, parte II: 24 settembre 1986. Maia ***
Capitolo 19: *** Capitolo 13, parte I: 8 ottobre 1986. Milo ***
Capitolo 20: *** Capitolo 13, parte II: 9 ottobre 1986. Milo ***
Capitolo 21: *** Capitolo 13, parte III: 9 ottobre 1986. Milo ***
Capitolo 22: *** Capitolo 14: marzo 1988. Shaka, Maia ***
Capitolo 23: *** Capitolo 15: aprile 1988. Maia ***
Capitolo 24: *** Capitolo 16: 30 aprile 1988. Maia ***



Capitolo 1
*** Prologo I e II: quattordici anni prima (1972) e sette anni prima (1979) ***


Sorella Morte

 

 

 

 

Sembri ancora lontana ed estranea,

sorella morte,

sovrasti come stella gelida

al mio destino

Il viandante alla morte, Hermann Hesse

 

 

 

 

 

Prologo I: quattordici anni prima (1972)

 

 

Un altro dì stava lentamente volgendo al termine, al Santuario di Atene; i raggi del sole calante illuminavano l’intera vallata, donando ai Templi e alle cose una vaga sfumatura dorata.

Maia, seduta su un muretto di mattoni, ammirava rapita tale spettacolo, gli occhi non ancora abituati a osservare tanta bellezza concentrata tutta insieme.

«Vedrai, ti piacerà!» erano state le parole di sua nonna, il giorno in cui l’aveva condotta al Grande Tempio per la prima volta «Sarà come entrare in un luogo incantato. Un luogo delle fiabe».

Ma, nonostante fosse passato solo poco tempo da allora, lei già pensava che l’universo di cui era entrata a far parte fosse migliore di una fiaba – perché, a differenza di questa, era reale.

«Maia! Maiaaaaa!»

Il richiamo sguaiato la colse di sorpresa, facendola sobbalzare; quando vide Milo comparire in cima al sentiero, sorrise di gioia.

«Maia! Finalmente ti ho trovato! Ti sto cercando da un’eternità!» esclamò il bambino biondo in tono quasi scandalizzato, una volta percorsa con velocità sorprendente la distanza che li separava.

«Da un’eternità… esagerato! Saranno neanche dieci minuti che hai finito gli allenamenti!»

«Ti dico che è vero! Oggi abbiamo terminato prima» rispose lui, indispettito dall’accondiscendenza dell’amichetta.

«Devi venire con me, subito!» riprese poi, fattosi nuovamente gaio «Alzati, dai!»

Maia sospirò, spazientita: a volte l’entusiasmo di Milo era davvero duro da sopportare.

«Non posso: mia nonna mi ha detto di attenderla qui. E poi, dov’è che vuoi andare? E a fare cosa?»

«All’Arena: Aiolia ci sta aspettando là. Spicciati, è una sorpresa!»

Giusto, Aiolia. Come aveva fatto a dimenticarsi di lui? Qualunque cosa riguardasse l’uno, in qualche modo includeva anche l’altro.

Alla fine, vinta dalla curiosità, la bambina cedette alle insistenze dell’amico e si lasciò letteralmente trascinare da questo lungo tutta la strada che portava all’Arena dei Tornei.

«M-milo, non correre così!» ansimò a metà tragitto, incapace di competere con la resistenza innata del futuro cavaliere di nonsiricordavacosa «Non riesco a starti dietro!»

Richiesta che, ovviamente, fu del tutto ignorata.

«Cosa diamine sarà mai questa sorpresa che pare eccitarlo tanto?» si chiese Maia, arrancando per la salita «Speriamo che ne valga la pena, almeno…»

«Milo! Perché ci hai messo tanto?! Il tuo amico qui non ne vuol sapere di spiccicare parola, e io mi sto annoiando!»

La voce irritata di Aiolia si levò da un piccolo spiazzo erboso adiacente la loro meta; il ragazzino stava seduto sul prato, accanto a un bambino che Maia non aveva mai visto.

Al loro arrivo lo sconosciuto non alzò nemmeno gli occhi, limitandosi a raddrizzare la schiena – già dritta in modo inverosimile – e a scostarsi un sottile ciuffo di capelli rossi dal viso, senza degnarli di uno sguardo. Come se non esistessero.

«Che maleducato».

«É perché non parla bene la nostra lingua, stupido!» abbaiò Milo ad Aiolia il quale, in risposta, gli spedì una sonora linguaccia.

«Maia,» riprese quindi il biondo «ti presento Didier. È arrivato da poche ore dalla Francia, ed è il predestinato all’armatura dell’Acquario. Adesso siamo al completo!» esclamò felice, facendo una piroetta.

Una gioia che nessuno dei suoi due compagni sembrò condividere, men che meno Maia; a essere sincera, era anzi piuttosto delusa.

Si era aspettata un’incursione nei Templi sacri a cui solo i cavalieri già ordinati avevano accesso, oppure un duello fra i santi dorati più grandi; un qualcosa di divertente, insomma.

Invece si trattava solo di una nuova recluta, forse meno interessante di tutte quelle che i suoi amici gli avevano fatto conoscere nel corso delle precedenti settimane, e per giunta antipatica: quando Milo li aveva presentati, lui aveva continuato ostinatamente a fissare l’erba, in silenzio.

E poi, che razza di nome era Didier?!

«Ma che razza di nome è Didier?» esordì quindi, dando voce al proprio pensiero «Sembra il nome di un gatto da compagnia».

«Si dice “Didiér”, non “Didièr”».

La frase, pronunciata con buffo accento in un greco stentato, lasciò tutti quanti a bocca aperta: finalmente l’oggetto di tanta attenzione aveva parlato.

«Ah, ma questo cambia tutto!» sbuffò stizzito Aiolia, più a se stesso che al resto del gruppo.

«Non mi interessa come si pronuncia il tuo nome. Sempre un gran maleducato rimani» decretò Maia, le braccia incrociate a sottolineare l’affermazione «Ti pare questo il modo di comportarsi? Non mi hai nemmeno salutata!»

Sentendosi rivolgere quelle parole dure, Didier sollevò la testa e lanciò a Maia un’occhiata penetrante, che la trapassò da parte a parte.

Incredibile come degli occhi di quel colore – «dorato. Mai visti, occhi del genere» – così caldo risultassero invece tanto freddi. Per non parlare dei capelli: ora che li guardava meglio, la loro particolare sfumatura fiammeggiante le appariva meravigliosa.

Poteva il loro possessore, al contrario, essere talmente gelido?

«Je suis désolé, j’ai été impoli» disse allora lui, sorridendo appena «Donc, tu t'appelles comment?»

L’evidente presa in giro infastidì la bambina fino all’inverosimile, soprattutto perché non aveva capito un accidente di ciò che le era stato chiesto.

Milo, che fino a quel momento era rimasto incredibilmente silenzioso, si sporse per sussurrarle all’orecchio: «Credo che ti abbia domandato come ti chiami».  

«Mi chiamo Maia. Comunque, casomai non te ne fossi accorto, siamo in Grecia. E in Grecia si parla greco, non francese!»

«Maia? Trés joli» commentò Didier, lasciando cadere la provocazione; poi, sempre con lo stesso irritante sorrisetto sulle labbra, si alzò in piedi e iniziò ad allontanarsi.

«Sai cosa sei, tu? Sei la persona più cafona, antipatica e arrogante che abbia mai avuto il dispiacere di incontrare! Dove stai andando? Torna subito qui!» gli urlò dietro Maia, paonazza in viso per la rabbia «Non te la caverai così facilmente! Un giorno te la farò pagare!»

«Alors, j'attendrai ce jour là avec trépidation!» gridò egli di rimando senza voltarsi, mentre il vento gli scompigliava i corti capelli rossi che sembravano confondersi con gli ultimi riflessi del sole ormai giunto al tramonto.

 


 

Note dell'autore 

Salve a tutti! Per chi già seguiva Sorella Morte: il presente prologo è rimasto pressoché inalterato – salvo, come specificato appena sotto, il nome di Camus. Per coloro i quali, invece, si approcciano a questa storia per la prima volta (benvenuti, a proposito!): gli avvenimenti qui narrati sono ambientati in un ipotetico"pre-reclutamento" dei futuri cavalieri d'oro.

Esso dura circa 6 mesi e ha lo scopo di fornire loro i primi rudimenti, in attesa che raggiungano il definitivo luogo di addestramento. Al momento dei fatti Milo, Aiolia, Maia e Camus/Didier hanno più o meno 7 anni.

Come avrete certamente intuito, ho deciso di battezzare Camus col nome"Didier" – che, in francese, letteralmente significa "Senza astri"; di converso, può essere anche letto come"Protetto, favorito dalle stelle" –; nei capitoli successivi verranno spiegati tutti i dettagli inerenti questo aspetto.

- "Je suis desolé. J'ai été impoli. Donc, tu t'appelles comment?" : "Mi dispiace, sono stato maleducato. Dunque, com'è che ti chiami?". La formula "Tu t'appelles comment?" è più informale rispetto allo scolastico "Comment t'appelles tu?";

- "Maia? Trés joli" : "Maia? Molto carino";

- “Alors, j'attendrai ce jour là avec trépidation!" : "Allora attenderò quel giorno con impazienza!

 

 

 

***

 

 

 

Avvertenze: il prologo sottostante, in termini temporali, si colloca a metà strada fra il precedente e il primo capitolo; è dunque ambientato 7 anni prima degli eventi che poi sfoceranno nella battaglia delle Dodici Case. Devo avvisarvi che sull’età dei singoli personaggi, sugli anni di inizio e fine dell'addestramento e sui meccanismi che presiedono l'assegnazione delle armature mi sono presa qualche licenza poetica utile a rendere la trama più lineare e verosimile possibile: del resto, ritengo che la confusione tuttora esistente in materia legittimi l'adozione di simili accorgimenti.

A tal proposito, segnalo altresì che, nello scrivere, mi rifarò solamente alla serie classica – perlopiù all'anime, ma con qualche elemento del manga –, non prendendo dunque in considerazione gli eventuali spin-off, missing moments et similia che negli anni sono stati pubblicati dagli autori della serie.

Orbene, a voi. Per ulteriori chiarimenti, ci vediamo dabbasso! 

 

 

 

Prologo II: sette anni prima (1979)

 

 

«Questo sarà un anno fantastico!» decretò Milo, infilzando quel che rimaneva della sua patata al vapore «Ma ci pensate? Fra qualche mese verremo ordinati cavalieri. Cavalieri di Atena!»

«Sì, splendido. Davvero splendido» commentò Aiolia con una smorfia, mentre si toglieva dalla guancia lo schizzo di salsa che il troppo entusiasmo del suo amico aveva spedito sin lì «Spero solo che, da qui all’otto di novembre, ti darai una calmata. Non credo che sopravvivrei, altrimenti».

Maia sorrise del suo finto sarcasmo: nonostante facesse di tutto per dissimularlo, anche Aiolia era emozionato all’idea di ricevere la tanto agognata armatura. Glielo si leggeva nel portamento, nel modo tutto nuovo che aveva di camminare a testa alta, come se già si preparasse a calpestare quei marmi in veste di Aiolia di Leo; a differenza di Milo, tuttavia, la cosa, oltre a eccitarlo, lo spaventava a morte – e il perché era facilmente intuibile per chi, come Maia, lo conosceva da sempre.

La ragazzina si mise a fissare i due, troppo occupati a tirarsi addosso briciole di pita per badare ad altro.

Nei rari momenti come quello parevano proprio dei tredicenni, in tutto e per tutto uguali ai compagni che lei frequentava sui banchi di scuola, fuori di ; ma bastava abbassare appena lo sguardo sui loro bicipiti troppo sviluppati per spezzare l’illusione di avere dinanzi due normali adolescenti.

Da quando era stata introdotta in quel mondo, aveva notato che la maggior parte dei cavalieri a servizio di Atena, oltre a non essere greci di nascita, spendevano la propria attività in luoghi molto distanti da Atene, tornandovi solo saltuariamente.

Questo riguardava soprattutto i Bronze e i Silver saints, ma anche il grosso della schiera dei futuri custodi dorati aveva svolto l’addestramento in altri Paesi; persino i Gold saints attualmente già in carica erano stati tutti iniziati nella loro terra natia, che avevano lasciato solo per il periodo di preparazione previsto prima dell’inizio della formazione vera e propria.

Milo e Aiolia, nati entrambi in Grecia – a Milos il primo, a Rodorio il secondo –, erano invece stati assegnati a maestri operanti dentro il Santuario, dove quindi avevano sempre vissuto. Per anni li aveva guardati correre nella polvere, abbattere pareti di roccia, sputare sangue ed esplodere in uno sfolgorio di stelle; era su di loro che, sotto la guida di sua nonna Franda e del dottor Savasta, aveva applicato le prime fasciature, nell’attesa di diventare medico e poter, un giorno, essergli maggiormente d’aiuto. Li aveva imboccati quando erano troppo malconci per fare qualsiasi movimento e spesso, alla sera, gli si era seduta accanto ad ascoltare le lezioni degli anziani che parlavano di Kósmos, guerre mitologiche antiche come il mondo e galassie distanti anni luce dalla Terra.

Li aveva, insomma, affiancati in quel percorso straordinario, senza mai riuscire a capire davvero come fosse possibile essere bambini e, al contempo, allenarsi tutti i giorni per imparare ad uccidere.

Dal canto loro, i due l’avevano sempre considerata come una sorellina un po’ avventata da proteggere e, se qualche volta gli era capitato di trattarla con sufficienza, per il resto del tempo avevano – fin dove possibile – tentato di includerla nella loro vita, meravigliandosi che appena fuori i confini di Rodorio si potesse condurre un’esistenza tanto diversa da quella di Santo; uno stupore che era andato stemperandosi coll’avanzare dell’età, ma la cui ombra gli si riaffacciava negli occhi ogni volta che riuscivano a trascorrere qualche misera ora lontani dal Tempio.

Le faceva quasi impressione pensarli ammantati d’oro, belli e letali come gli eroi dei canti epici; per loro l’investitura avrebbe rappresentato il definitivo passaggio dalla giovinezza alla maturità, e Maia temeva che, in seguito a essa, nulla sarebbe stato più come prima.

Eccezion fatta per Shaka di Virgo – la cui peculiarità era stata evidente sin dal primo istante –, gli altri cavalieri d’oro presenti al Santuario le incutevano una soggezione assolutamente incompatibile col rapporto intercorrente fra lei e i futuri Leo e Scorpio.

Non avrebbe sopportato di scorgere in Milo la stessa gravità che leggeva nello sguardo di Shura di Capricorn, così come non poteva pensare che Aiolia, una volta ottenuta l’armatura, prendesse le stesse bieche abitudini di Death Mask di Cancer, al cospetto del quale non c’era sottoposto che non chinasse intimorito la testa; lo stesso Aphrodite, nonostante accostasse alla sua sfolgorante beltà dei modi altrettanto garbati, le trasmetteva una sgradevole sensazione di artifizio che non avrebbe affatto voluto riconoscere nei propri amici.

Piuttosto, sarebbe stata ben felice di ritrovare in loro il calore e la grazia che, da piccola, aveva scorto nel fratello maggiore di Aiolia; benché fossero passati tanti anni, ricordava perfettamente il senso di pace e sicurezza che emanava la figura di Aiolos di Sagitter. A differenza del suo compagno Saga – splendido come una lontanissima stella incastonata nel blu siderale –, Aiolos sapeva di sole: aveva sempre una parola e un gesto affettuosi per tutti, grandi o piccoli, saint o non saint.

Dopo quanto accaduto, tuttavia, forse non era un bene augurarsi che Milo ed Aiolia assomigliassero a un soggetto accusato di tradimento… anzi, riflettendoci meglio, era decisamente una pessima idea.

«A che stai pensando, Maia? Ti vedo assente».

Al repentino richiamo di Aiolia, Maia trasalì colpevolmente, quasi che il ragazzino avesse indovinato la natura delle sue cogitazioni e gliene stesse chiedendo conto; per fortuna non ebbe il tempo materiale di rispondere, giacché un lembo di conversazione altrui catturò inesorabilmente l’attenzione di tutti e tre.

«Ancora non capisco il motivo per cui mangiare in questo tugurio ti piaccia tanto. È sporco, sovraffollato, maleodorante di cibo e sentori umani… fa passare la fame».

«Primo: perché il vitto della mensa è molto più buono e abbondante dei tuoi fottuti toast al salmone affumicato – quelli sì che puzzano, tra parentesi. Secondo: perché salire dall’Arena fino alla Dodicesima è sempre una scocciatura, figurarsi poi a stomaco vuoto. E, da qui in avanti, lo sarà ancora di più, vista l’imminente invasione dei marmocchi dorati; il tuo vicino di Tempio è arrivato proprio stamani, no?»

Se le schermaglie sulla qualità della mensa del Santuario fra il cavaliere dei Pesci e quello del Cancro erano all’ordine del giorno, l’ultima frase pronunciata da Death Mask rappresentava invece un’assoluta novità.

«Ehi, Death!» berciò Milo, chiamando a gran voce il proprio futuro camerata «Ho sentito bene? Stamani è arrivato il pretendente all’armatura dell’Acquario?!»

Il maggiore, interdetto dall’uso di quell’appellativo un po’ troppo familiare, tornò rapidamente sui propri passi, per poi piazzarsi a due centimetri dal naso del più giovane.

«Stammi a sentire, Milo quasidiScorpio:» scandì, fissando il suo interlocutore dritto negli occhi «per te, al momento, sono Death Mask. Non “Death”. Assolutamente, non “Death”. Intesi?»

«Guarda che non mi fai paura» rispose l’altro, sostenendo il suo sguardo rosso – lo stesso che le vecchie di Rodorio sussurravano fosse dovuto alla cattiveria, più che all’albinismo. «Non sono più un bambino, ma un tuo pari».

Di fronte alla sfrontatezza di Milo, Cancer non poté che scoppiare a ridere.

«Non ancora, piccolo aracnide. Non ancora. E non lo sarai nemmeno con l’armatura indosso, fidati di me: ne hai, di sangue da sputare» ghignò, le braccia incrociate dietro la testa.

«Comunque, riguardo la tua domanda: sì, Rosso Malpelo è arrivato questa mattina. Ma non mi chiedere dove sia andato a nascondersi: non lo so, e neppure mi interessa» concluse, allontanandosi nuovamente indirezione di Aphrodite.

«Quello è pazzo, lo sostengo da sempre. Eravamo rimasti ad Aquarius; chi sarebbe questo Rosso Malpelo?» domandò Aiolia contrito, una volta che Death Mask fu uscito dal suo campo visivo. Non si aspettava veramente che qualcuno rispondesse, per cui Maia lo colse di sorpresa: «È un personaggio di una novella italiana. Death Mask è siciliano come l’autore; anche se non ce lo vedo con un libro in mano, magari ha avuto occasione di leggerla durante gli anni di addestramento».

«Eh? E tu che ne sai, di letteratura italiana?»

«I parenti di mio padre vengono dalla Sicilia, non ti ricordi? Ci sono anche sta-»

«Oh, insomma!» sbottò Milo, al quale la piega che stava prendendo la conversazione non interessava affatto «Sappiamo bene quanto tu sia secchiona, Maia, non c’è bisogno che lo sottolinei. Piuttost-»

«Non sono una secchiona! Sei tu che non tocchi mai libro, neppure quando dovresti!»

«Piuttosto,» continuò quello, ignorando platealmente le – fondate – proteste dell’amica «non è pazzesco? Didier è qui! È tornato al Santuario!»

Aiolia lo guardò dubbioso, non capendo l’origine di tanta allegria.

«A dire il vero, non ci trovo nulla di pazzesco. Siamo a metà gennaio, e stiamo per entrare nel segno dell’Acquario. È più che logico che il suo cavaliere si stia preparando a ricevere l’investitura».

Così come Leo pareva non comprendere la reazione del compagno, allo stesso modo questi appariva del tutto ignaro del motivo per cui entrambi i suoi commensali stessero mostrando così poco entusiasmo.

«M-ma lui non è uno qualsiasi! Lui è Didier

«E allora?» intervenne Maia, sprezzante «Didier non è forse quel damerino con l’accento francese e la puzza sotto il naso che non parlava quasi mai? Tuttora non mi spiego il perché tu ci fossi tanto attaccato, Milo. Io lo vedevo di rado, ma ricordo bene che, quando accadeva, la sola cosa che mi veniva voglia di fare era prenderlo a schiaffi».

Rammentava alla perfezione quel ragazzino dai capelli di un rosso impossibile e l’espressione eternamente corrucciata, che l’aveva presa in giro non appena si erano conosciuti. In realtà, dopo quell’episodio, l’apparente atteggiamento scanzonato di Didier – se mai era esistito – sembrava si fosse del tutto volatilizzato; nei mesi successivi ben raramente l’aveva sorpreso a ridere, e men che meno a fare battute.

Sì, dopo gli allenamenti partecipava sovente ai giochi dei suoi compagni, ma ne rimaneva sempre un po’ in disparte, come se non riuscisse mai a farsi coinvolgere davvero; pareva interagire volentieri soltanto con Milo, e qualche volta neppure con lui, giacché spesso gli preferiva il silenzio della biblioteca del Santuario – piena di libri che all’epoca non era neanche in grado di leggere bene.

Maia non sapeva dire il perché, ma nello sguardo serio di Didier ci aveva sempre letto un qualcosa di così simile al disprezzo da renderglielo irrimediabilmente antipatico.

«E adesso, dopo tanti anni in mezzo ai ghiacci della Siberia e la promessa di un’armatura d’oro alle porte, la cosa non potrà che essersi acuita».

«Nah… all’inizio la pensavo come te, ma poi mi sono dovuto ricredere: a conoscerlo meglio, quel tipetto con le lentiggini non era poi tanto male» ammise Aiolia, passandosi una mano fra i ricci spettinati.

«Tuttavia,» continuò poi, rivolto a Milo «questo non giustifica tutta la tua esaltazione. Io sarò molto più contento di rivedere Paulo e Ariun… anche se presumo che non potrò più chiamarli così».

In quel momento la Meridiana dello Zodiaco, il cui rintocco si poteva udire distintamente all’interno di ogni parte del Santuario, batté le due del pomeriggio.

«Accidenti, sono già le due!» esclamò Maia, abbandonando di colpo il dolcetto che stava sbocconcellando da più di mezz’ora «Scusatemi, ma ho un sacco di cose da fare prima di rientrare a Rodorio. Devo prepararmi per una ricerca da esporre a scuola, e-»

Milo la interruppe con un gesto annoiato della mano: «Torno a ripetere quello che ho detto prima: sappiamo che sei una secchiona. Vai pure, tanto anche noi abbiamo da fare. L’aver concluso l’addestramento non significa che non dobbiamo continuare ad allenarci».

«E la cosa mi sta benissimo!» esclamò Aiolia, saltando su dalla panca in modo fulmineo «Avanti, Scorpio, muovi le chiappe: ti sfido ad arrivare all’Arena prima del sottoscritto! Ci vediamo, Maia!»

«Ehi, ma così non vale!» protestò l’altro, mentre guardava il compagno guadagnare l’uscita della mensa in un battibaleno.

«Ti saluto, Maia: c’è qualcuno a cui devo far mangiare la polvere!»

Maia non fece in tempo a replicare, che già quello era sparito al di là dell’androne; probabilmente adesso si stava scapicollando su per i gradini a una velocità impensabile per qualsiasi altro essere umano “normale”.

Rimasta sola, a lei non restò che ripulire il proprio vassoio – nonché quelli di Milo e Aiolia – e avviarsi nella zona antistante la scalinata delle Dodici Case, ove sorgeva l’antica e immensa biblioteca del Grande Tempio.

Benché Maia amasse incondizionatamente qualunque luogo contenente un agglomerato di libri più o meno ampio, la biblioteca del Santuario esercitava su di lei un’attrattiva impareggiabile: edificata quasi contestualmente alla realizzazione di quest’ultimo, in origine era servita soprattutto come spazio di raccolta e consultazione dei testi sacri relativi al culto di Atena; in seguito, essa era stata arricchita di opere di stampo naturalistico, filosofico ed epico.

Si vociferava persino che Omero, servitore del Grande Tempio, avesse lavorato proprio lì alla stesura dell’Odissea, ispirandosi alle gesta di un cavaliere legato alla Dea. Si trattava soltanto di leggende, certo, ma pensare che avessero un seppur minimo fondo di verità a lei faceva quasi girare la testa.

Attualmente l’imponente edificio ospitava diverse aree, adibite a differenti scopi: mentre all’ala più antica potevano accedere solo il Gran Sacerdote e i suoi stretti collaboratori, la maggior parte delle restanti sale era invece aperta a chiunque avesse necessità di consultare il materiale ivi custodito, essendo persino presenti delle apposite zone adibite a studio e lettura.

Fu proprio in direzione di una di esse che Maia si incamminò, immergendosi nel quieto silenzio degli scaffali colmi di libri e nell’odore di polvere e carta stampata che le piaceva respirare apieni polmoni.

Giacché l’anziano bibliotecario Xanthippe era momentaneamente assente, procedette da sola alla ricerca del manuale di storia greca che le serviva; non era la prima volta che le capitava, per cui possedeva una certa dimestichezza nell’individuare ciò di cui aveva bisogno. Anzi, pensava che, se non le fosse riuscito di diventare medico, avrebbe accettato volentieri un impiego come addetta in biblioteca… e, perché no, magari proprio lì, in quella del Santuario.

Stava girovagando fra i ripiani col naso per aria, quando si accorse di non essere sola; in fondo al corridoio del settore in cui si trovava c’era qualcuno seduto a terra, che pareva immerso nella lettura di un grosso tomo.

Essendo la zona leggermente in penombra, non riusciva a capire bene di chi si trattasse; neppure l’abbigliamento era troppo indicativo, poiché consisteva nella classica tenuta da viaggio in uso fra gli accoliti del Grande Tempio.

Non appena mosse un passo nella sua direzione, il tizio alzò lo sguardo dal libro, per poi fissarlo repentinamente su di lei.

Il colore dei suoi occhi – «dorato. Mai visti, occhi del genere. Eccetto una volta» – fu la prima cosa che Maia notò, rimanendone come folgorata: gli anni e la fatica non ne avevano alterato minimamente i toni, che erano rimasti intessuti d’oro esattamente come allora.

«Ero sicura che li avrei trovati ancora più freddi. E invece… »

«Didier… ?»

«Non mi chiamo più così da molto tempo» disse lui, mentre si faceva scivolare il cappuccio dalla testa e i capelli, divenuti lunghissimi, gli ricadevano sulle spalle «Adesso sono Camus».

 


 

 

Note dell'autore

Con la storia ferma da anni, c'era davvero bisogno di aggiungere un ulteriore prologo?

Bella domanda. Per chi approdasse su Sorella Morte solo adesso: dovete sapere che da tempo immemore avevo il fermo proposito di sottoporre la stessa a pesante revisione. I primi capitoli specialmente, oltre a essere scritti in maniera imbarazzante, erano impostati in un modo assolutamente inconciliabile col tono che ha progressivamente assunto la trama; in sostanza, la prima parte della storia risultava completamente a-contestuale rispetto al suo prosieguo.

Così, ho deciso di rimetterci le mani, collocando eventi e personaggi in una dimensione più seria, dettagliata e strutturata. Più consona, insomma, al mio modo di scrivere – non certo “leggero”, come ben sa chi mi seguiva più assiduamente.

Per ciò che concerne il prologo sovrastante, lo stesso ha la funzione di presentare un po' il rapporto intercorrente fra Maia, Milo ed Aiolia, nonché quella di introdurre il lettore alla mia personale concezione del "sistema Santuario". Andando per punti:

- come anticipato nelle Avvertenze, le età sono abbastanza arbitrarie. Nel mio immaginario, infatti:

a) Milo, Aiolia, Camus, Aldebaran, Shaka, Mu (e Maia) al momento della battaglia delle Dodici Case hanno circa 21 anni; dunque, nel prologo in questione, Milo, Aiolia, Maia e Camus hanno 13 anni – età in cui ho immaginato abbia luogo l'investitura a Gold saint (che, sempre nel mio immaginario, avviene nel giorno del compleanno del singolo soggetto). Shaka, in quanto supposto "Illuminato", fa eccezione, giacché ho ipotizzato sia diventato cavaliere due anni prima dei suoi coetanei;

b) Death Mask ed Aphoridite sono più grandi e qui hanno 17 anni;

c) Shura e Saga sono ancora maggiori, come verrà specificato meglio più avanti.

- Arbitraria è, altresì, la scelta di far addestrare Milo all'interno del Santuario, e non a Milos: me ne dispiaccio un po', ma un tale cambio risultava fondamentale alle esigenze di copione.

- Come forse avrete intuito, "Paulo" e "Ariun" altri non sono che Aldebaran e Mu; tranquilli, la faccenda dei nomi verrà spiegata nel capitolo I!

- So che la Meridiana dello Zodiaco ha ben altra funzione, rispetto a quella di segnare l'ora; diciamo che, in questo contesto, le ho assegnato anche dei compiti un po' più laici.   

 

 

 

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Capitolo 2
*** ​Capitolo I: 30 aprile 1986. Maia ***


Capitolo I. Maia BG

 

 Capitolo I: 30 aprile 1986. Maia

 

 


Anche dei semplici oggetti possono far male.

Prendi le foto, ad esempio: sono capaci di riportare in vita persino quelle sensazioni che pensavi di aver finalmente messo da parte.

Irene Pellegrini

 


 

 

 


Al Santuario di Atene non v’era giorno che scorresse inutilmente ozioso: fra quei marmi vecchi di millenni lo spettro della morte era una presenza tanto costante e tangibile che, per contrappasso, la vita vi scorreva come raddoppiata.

Non c’erano né tempo né voglia di indugiare nell’inerzia e, per questo, ciascun abitante del Mondo Segreto svolgeva alacremente i propri compiti dall’alba al tramonto, sprezzante della fatica; dall’Arena dei Tornei alle gallerie sotterranee, dagli alloggi degli apprendisti alle rimesse delle cucine, ogni angolo riecheggiava di voci e di passi fino al calar della sera, come in un grande alveare operoso.

Solo i Tredici Templi rimanevano immuni a tale umano affaccendarsi.

Le Dimore dei custodi dorati, bianche e imponenti nel sole di Grecia, proiettavano un’ombra di arcano e di quiete sul resto della Terra Sacra, protettive e silenti come lo sguardo della Dea nel cui onore erano state erette: raramente proveniva da esse alcun suono percettibile e, se ciò accadeva, di solito non era buon segno.

Dunque, quando rumori di grida e di colpi andati a vuoto giunsero da lassù sino all’ospedale da campo dove si apprestavano le prime cure ai feriti, tutto il personale medico interruppe quasi all’unisono ciò che stava facendo, improvvisamente in allerta. Anche Maia Ninis, sino a quel momento impegnata in un’operazione di routine, alzò gli occhi allarmata: se un simile trambusto fosse provenuto da un Presidio diverso da quello della Giara Sacra, probabilmente la cosa l’avrebbe turbata di meno. Ma era proprio da lì che ancora si alzavano strepiti, e quindi non poteva trattarsi di una faccenda da nulla.

«Maia! Maia!»

Il richiamo di Clio Papadakis, l’apprendista del dottor Savasta, la distrasse momentaneamente dai suoi pensieri.

«Maia, finalmente ti ho trovata!»

«Perché, dove credevi che fossi?» ironizzò bonariamente lei, accennando con la testa a un mucchietto di bende usate, in paziente attesa di essere lavate e sterilizzate; tuttavia, l’altra pareva così agitata che lasciò subito cadere lo scherzo. «Dimmi, Clio, cosa c’è? Ha a che fare con quello che sta succedendo all’Undicesima, per caso?»

«Esatto!» annuì la ragazzina «Le ancelle che prestano servizio lì mi hanno detto che il cavaliere dell’Acquario è molto arrabbiato per qualcosa che… che gli hanno fatto».

«Che significa “gli hanno fatto”? Chi? E cosa?»

«Gli altri cavalieri d’oro. Ma cosa esattamente sia avvenuto, non me l’hanno saputo dire. Pare ci sia di mezzo una foto… »

«Una foto? Tutto questo macello per una foto? Non ci credo. Non è da Camus».

Clio, in risposta, alzò le spalle: cosa poteva saperne lei di cosa fosse o non fosse da Camus, dato che a malapena sapeva che aspetto avesse? 

«E va bene,» sospirò Maia, togliendosi i guanti in lattice con uno sbuffo «se qui ci pensi tu, vado a dare un’occhiata».

«Ma il dottore mi ha detto che, per adesso, devo limitarmi a osservare te!» esclamò quella sdegnata, spalancando gli occhi «Non voglio combinare pasticci!»

«E quali pasticci potresti mai combinare con delle bende sporche? Andiamo, Clio: conosco tua madre, e non credo proprio che in quindici anni non ti abbia mai mostrato come si lavano i panni. L’unica differenza è che, in questo caso, devi immergere le bende nell’acqua bollente e lasciarle a mollo per almeno 15, 20 minuti. In ogni caso,» continuò la maggiore, strizzando l’occhio all’apprendista «oggi il dottor Savasta non c’è. Sai che viene qui solo quando è strettamente necessario».

Yorgos Savasta era il capo dei medici che operavano lì al Santuario, nonché il primario di medicina di uno dei più grandi ospedali di Atene, il Nikaia. Era proprio quest’ultima qualifica a renderlo una figura praticamente indispensabile, giacché gli permetteva di garantire l’accesso in ospedale qualora l’attività dei colleghi operanti sul campo non fosse stata sufficiente, nonché di approntare le coperture necessarie a non destare sospetti negli esterni; in aggiunta a questo, era, altresì, un ottimo dottore.

La sua mansione lo teneva impegnato al Nikaia per la maggior parte del tempo, ma appena poteva si recava sempre volentieri in quel loro presidio di fortuna, che fosse per impartire lezioni ai più inesperti o, in caso di bisogno, per dirigere il team e dargli un apporto materiale.

La nonna di Maia, che era stata infermiera per oltre quarant’anni, l’aveva preso sotto la sua ala protettiva quando era appena un tirocinante e lui, per ricambiare il favore, altrettanto aveva fatto con la nipote di questa; Maia l’aveva sempre considerato una sorta di padre, specialmente dopo la morte dei i suoi veri genitori.

«Un’orfana in un universo di orfani… che allegria. Ma almeno io ho avuto nonna Frandra a crescermi, e non persone che, al posto di darmi carezze, mi avrebbero preso a pugni per dovere»  pensò mestamente, passando accanto a un gruppo di bambini che, sotto la supervisione dei rispettivi maestri, se le stavano dando di santa ragione.

Lasciandosi alle spalle i vari campi di addestramento per le reclute svoltò quindi in direzione degli alloggi del personale di servizio; da lì avrebbe potuto accedere ai passaggi sotterranei che conducevano direttamente alla Nona Casa, senza dover per forza percorrere le scalinate dei Templi precedenti.  

«Visto che siete qui, vorreste spiegarmi cosa diavolo sta succedendo? Per favore! Mi sono fatta tutta questa strada solo per averne una vaga idea, ma non ho ancora scoperto nulla». 

Aiolia e Aldebaran, entrambi fermi sulla soglia dell’Undicesimo Tempio, si girarono simultaneamente verso di lei; Maia ebbe così modo di notare che il primo, oltre a tremare visibilmente nonostante il clima non certo rigido, aveva altresì il chitone da allenamento completamente fradicio.

«È-è tutta colpa di qu-quel deficiente di Milo! Lu-lui…»

Taurus, per fastidio o per pietà, posò una mano sulla spalla del compagno e continuò in sua vece: «Vedi Maia, il fatto è che Milo, frugando fra le cose di Camus – ovviamente senza permesso –, ha trovato una sua vecchia foto da bambino e, invece di lasciarla dov’era, ha pensato che sarebbe stato divertente mostrarcela».

«Sì, devi ric-riconoscere che, in eff-fetti, lo è stato… era così buf-ffo!»

«Ok, Aiolia, ma mi sembra evidente che la cosa non abbia fatto per nulla piacere a Camus: si è arrabbiato tanto che ci ha buttato fuori dai suoi appartamenti a colpi di Diamond Dust, arrivando persino ad alzare la voce. Sul momento anch’io l’ho trovato spassoso, ma adesso credo che abbiamo esagerato: probabilmente quella foto ha un significato particolare e noi, ridendoci su, gli abbiamo mancato di rispetto».

Nel notare il sincero abbattimento di Aldebaran, Maia non poté fare a meno di cercare di consolarlo: lui era una di quelle rare persone che, in assenza di un valido motivo, non avrebbero fatto del male nemmeno a una mosca. Gli credeva ciecamente, quando affermava che la faccenda gli era un tantino sfuggita di mano.

«Su col morale, Al. Sai com’è fatto Camus: è così riservato che basta un nonnulla a metterlo sulla difensiva. Qualsiasi altra persona – eccetto Shaka, presumo – non se la sarebbe presa tanto. Gli passerà presto: dobbiamo solo lasciare che si calmi e razionalizzi l’accaduto» disse, enfatizzando l’estrema pudicizia dell’Acquario forse più di quanto non avrebbe fatto in altre circostanze: nemmeno a lei piaceva troppo che i suoi affari fossero messi in piazza – e questo, con amici come Milo, rappresentava un bell’inconveniente.

«A proposito di Milo… non ditemi che è ancora dentro ad accampare spiegazioni!»

Aiolia, la cui temperatura corporea era nel frattempo rientrata nella norma, sorrise sotto i baffi: «Tu che ne pensi?»

Maia scosse la testa, a mezza via tra il divertito e il rassegnato: nel trattare con gli altri, lo Scorpione era davvero irrecuperabile. Sapeva benissimo quando non era il caso di adottare un certo atteggiamento o dire una determinata cosa, eppure, gira e rigira, finiva sempre per fare di testa propria. E, se si trattava di Camus, la sua mancanza di tatto dava puntualmente origine ad odissee contrapposte di scuse e silenzi ostinati.

«Vado gentilmente a ricordargli che non otterrà nulla, almeno per adesso» esclamò quindi, oltrepassando il colonnato «Anche se sono certa che se ne sia già accorto da solo, e abbia deciso di fregarsene».

Ognuna delle Dimore celesti possedeva la propria esclusiva peculiarità, e quella della Giara Sacra era la struttura a pianta circolare.

Ogni volta che vi si addentrava Maia aveva come l’impressione di trovarsi in una di quelle enormi basiliche cristiano-cattoliche che aveva avuto modo di visitare durante i suoi viaggi in Italia, dove tutto lo spazio confluiva verso la cupola centrale; e tuttavia, mentre quelle erano in genere riccamente decorate e affrescate, l’Undicesimo Tempio, costruito secondo il rigore e la grazia tipici dell’arte classica, appariva invece al visitatore austero ed essenziale.

Quella volta, però, non si lasciò suggestionare dall’ambiente che per un breve attimo, dirigendosi spedita verso l’ala a nord est dove in genere erano ubicate le stanze private dei Custodi; come previsto, Milo si trovava ancora davanti alla porta – chiusa – degli appartamenti di Camus.

«Sei consapevole che stare qui a fissare intensamente la porta non farà sì che questa si apra come per magia, vero?»

Lo Scorpione si voltò di scatto e le diede il benvenuto con un’occhiataccia: «Non ti ci mettere anche tu. È già abbastanza dura doversi cospargere il capo di cenere per uno scherzo da quattro soldi».

«Com’è che si dice? Ah, sì: “Chi è causa del suo male, pianga se stesso”. Dovresti sapere meglio di chiunque altro che, per andare d’accordo con Camus, certi comportamenti sono preclusi».

«Perdiana,» gli rispose lui, passandosi stancamente una mano sul viso «sembra di sentir parlare Camus in persona. Tutti a fare la paternale a me, e nessuno che faccia notare a lui quanto farebbe meglio ad essere un po’ meno rigido, almeno nella vita privata! Spesso mi domando se non sia nato con una scopa nel… insomma, in quel posto».

Poi prese a fissarla in maniera strana, evidentemente ispirato da una sorta di intuizione: «Anzi, visto che ritieni di essere tanto sensibile, perché non vai tu a parlargli? Vediamo un po' se riesci a fargli capire che prendersela così per una faccenda del genere è un inutile spreco di energie!»

A quella proposta, che aveva vagamente il sapore di una sfida, Maia rimase un tantino interdetta.

Lei non c’entrava nulla e non ci teneva affatto ad essere messa in mezzo, col rischio, magari, di dover prendere le parti dell’uno o dell’altro; inoltre, il pensiero di affrontare una conversazione di stampo più intimo con l’Acquario la innervosiva.

Camus era in grado di inibirla semplicemente guardandola: in sua presenza si sentiva sempre non abbastanza attraente, non abbastanza brillante, non abbastanza simpatica. Insomma, non abbastanza.

«Allora?» la incalzò Milo, di fronte al suo temporeggiare «Vai, o convieni con me che Mr. Portami Rispetto sia decisamente intrattabile?»

«Uffa, Milo!» sbottò Maia, spintonandolo leggermente affinché si facesse da parte «E va bene, vado! Però, la prossima volta che ti viene in mente un’idea stupida pensaci, invece di dargli immediata attuazione. Non hai più sette anni, santo cielo. E ricordati che mi devi un favore!»

Dopo aver bussato lievemente si accostò quindi alla porta, in attesa di sentire qualche suono provenire dall’interno. Passati pochi secondi, la voce di Camus si levò limpida e repentina.

«Te lo ripeto un’ultima volta, Milo: vattene. Non ho voglia di parlare con te, al momento».

«Ehm, Camus, in realtà sono Maia. Ciao» rispose lei, facendo intanto segno a Scorpio di allontanarsi da lì «Tranquillo, Milo se n’è appena andato. Sono passata per sapere se sia tutto a posto».

Al che, il tono di Aquarius si fece esitante: «Maia? Oh. Sì. Certo, è tutto a posto».

Maia non ebbe neppure il tempo di pensare a una possibile replica che già Camus le stava dinanzi, il corpo parzialmente appoggiato contro lo stipite e un’espressione appena più curiosa del consueto; quando lei se ne accorse, non riuscì a trattenersi dal sobbalzare.

«Scusa, non volevo spaventarti!» 

«Stupida, stupida Maia! Come se tu non fossi abituata alla gente capace di muoversi alla velocità della luce!»

«Ahah, figurati!» rise Maia, più per nascondere l’imbarazzo che per vero divertimento «É che mi scordo sempre quanto possiate essere rapidi, all’occorrenza».

«Già».

Per un momento stettero a fissarsi in silenzio, come bloccati in una sorta di impasse; infine, il cavaliere parve sovvenirsi delle regole della buona creanza – in cui, peraltro, in genere eccelleva.

«Vuoi entrare?» le chiese, facendosi di lato per spalancare la porta e permetterle di passare.

Accettato l’invito con un cenno della testa, Maia seguì il padrone di casa lungo il corridoio che percorreva l’appartamento fino ad approdare alla zona giorno; questa, nel caso dell’Undicesimo Tempio, si trovava esattamente dalla parte opposta rispetto all’ingresso ed era corredata di una sorta di veranda esterna da cui si godeva della vista di buona parte del Santuario.

Un po’ per la posizione, un po’ per la ritrosia del loro proprietario, fatto sta che di rado si riunivano nelle stanze di Camus; Maia stava giusto pensando a quanto tempo fosse passato dall’ultima volta che ci aveva messo piede, quando le parole di Aquarius la distolsero dai suoi – «inutili» – vagheggiamenti.

«Apprezzo che tu ti sia interessata alla mia condizione, davvero,» esordì quello, offrendole una delle poltrone con un gesto e mettendosi a sedere a sua volta «ma non ce ne sarebbe stato bisogno; probabilmente mi sono alterato più del necessario. E tuttavia, non ho bisogno di rammentarti quanto certi soggetti di nostra conoscenza riescano a diventare inopportuni, alle volte».

Maia, specialmente dopo quel “davvero”, alzò scettica un sopracciglio: con tutta la cortesia dell’intero universo, Camus le stava sostanzialmente sbattendo in faccia l’inutilità di quella visita.

Persino la sua posizione sul divano, eccessivamente rigida rispetto al contesto apparentemente informale, tradiva il fastidio per quell’intrusione né aspettata , tantomeno, desiderata.

«Del resto, come dargli torto? Anche vestito così, come l’ultimo dei soldati, sembra uscito da un dipinto rinascimentale. E poi, uno che non parla volentieri nemmeno con se stesso di cosa mai potrebbe voler discorrere con me?»

Amareggiata da tale consapevolezza la ragazza si alzò in piedi quasi di scatto, intenzionata a togliere il disturbo il più velocemente possibile.

«Hai ragione: in effetti, avrei potuto evitare. É solo che, giù all’ospedale, nessuno dei miei colleghi era al corrente di quanto fosse successo, così ho deciso di salire io ad accertarmene. Sulla soglia della tua Casa Aiolia e Aldebaran mi hanno spiegato tutto: ripensandoci, mi sarei dovuta accontentare del loro racconto» esclamò quindi in maniera affettata, guardando a malapena in viso il proprio interlocutore «Adesso me ne vado: mi spiace di averti dato ulteriori noie».

Camus reagì a quello strano atteggiamento in un modo che la sorprese; infatti, anziché assecondarla ed accompagnarla alla porta, si accomodò meglio sullo schienale, accavallò le gambe e disse, semplicemente: «No, ti prego. Resta».

Un invito che assomigliava ad un ordine, ma era molto più di quello in cui Maia avrebbe normalmente sperato.

«Ah. Ok. Va bene… » mormorò, saettando gli occhi qua e là in cerca di un argomento di conversazione che non toccasse il tasto dolente del fresco litigio e fosse, al contempo, in grado di interessarlo.

Come spesso accadeva, la sua attenzione fu ben presto attratta dalla piccola libreria posta accanto alla finestra, colma di manuali di anatomia umana, fisica e chimica; fra di essi, però, spiccavano altresì diversi romanzi, molti dei quali recavano titoli noti anche alla stessa Maia.

«L’Étranger, La Peste, La Chute… mi pare di intuire un qualche apprezzamento per il tuo omonimo algerino» scherzò, menzionando ad alta voce i primi titoli che le erano balzati alla vista.

«Credo che Albert Camus fosse lo scrittore preferito di uno dei miei genitori: non ricordo molto, ma nella mente ho distintamente impressa l’immagine di questi e di altri suoi libri in bella mostra sugli scaffali di casa, a Parigi».

Dinanzi a quella confidenza assolutamente imprevista, Maia si fece subito seria: sapeva per esperienza personale quanto potesse essere arduo riportare alla memoria certi dettagli, giacché intrinsecamente legati a persone care scomparse troppo presto. 

«Capisco. Per questo hai deciso di chiamarti così?» 

 Camus annuì, mentre una ciocca rossa gli ricadeva sul viso e i suoi occhi si facevano appena un po’ più distanti: «Sì. Come sai, gli aspiranti cavalieri di Atena nati fuori dal Santuario o da Rodorio e ivi arrivati con un nome e un cognome, prima di iniziare l’addestramento hanno l’onere di scegliersi un nuovo appellativo, per rimarcare la completa rinuncia alla loro vita precedente. Quando è stato il mio turno, non ho avuto dubbi sul fatto che avrei voluto chiamarmi “Camus”».

«E Didier… che fine ha fatto?»

Maia si morse la lingua, ma ormai era troppo tardi: la domanda le era uscita di bocca prima che potesse chiedersi se stesse o meno facendo un passo falso.

L’Acquario la guardò fissamente per qualche secondo, poi rispose secco: «È morto. Tanti, tanti anni fa: la neve se l’è preso al posto mio».

«Mi dispiace» sussurrò lei un po’ stupidamente, colpita dalla rabbia repressa racchiusa nelle sue parole. Mai avrebbe pensato di poter vedere un aspetto tanto intimo di Camus, e adesso la profondità di questo la stava letteralmente schiacciando.

«Quella,» continuò l’Undicesimo Custode, accennando con la testa a una vecchia polaroid poggiata sul tavolo «è soltanto una foto, ma Milo è a conoscenza di tutto ciò che ti ho raccontato. Per questo non tollero che scherzi sulla mia infanzia. Anche e soprattutto per questo».

«Posso?» chiese la ragazza, allungandosi timidamente verso l’ormai famosa fotografia.

«Fai pure. Almeno tu non ne riderai, ne sono certo».

«Te lo prometto».

Lo scatto in bianco e nero ritraeva un bel bambino vestito con dei pantaloni alla zuava, le bretelle e una maglietta a righe – presumibilmente blu e bianche –; in testa, manco a dirlo, portava il tipico cappello francese, le béret.

A differenza dell’adulto dalle fattezze simili che Maia in quel momento aveva davanti, il piccolo sorrideva felice, lo sguardo rivolto all’obbiettivo e le mani spavaldamente infilate dentro le tasche.

Sull’angolo destro dell’istantanea, redatta a penna con caratteri morbidi ed eleganti, stava la dicitura: Le petit Didier au Jardin du Luxembourg, Paris, june 1969.





Note dell'autore 

Bentrovati!

Come certo avrà notato chi era passato di qui già in precedenza, il capitolo è stato completamente stravolto rispetto al suo originale. Vi riassumo le principali divergenze, per sommi capi:

- ho riportato la dimensione spaziale entro i piani canonici, ricomprendenti Rodorio, il negozio di fiori e quant'altro (non mi dilungo, i dettagli li conoscete meglio di me);

- Maia non frequenta la facoltà di Lettere, ma quella di Medicina: mi è sembrato un mezzo più efficace a giustificare la sua presenza al Santuario (anche se la faccenda delle famiglie custodi, ampiamente spiegata al capitolo 6, rimane ferma);

- in questa versione Maia vive con la nonna materna perché i suoi genitori sono morti (in missione per conto del Santuario, come poi si dirà);

- la faccenda della foto appare drasticamente ridimensionata. Per esigenze di copione non l'ho eliminata del tutto, ma così mi pare decisamente più plausibile e adatta al contesto, rispetto a prima.

Svolte queste (in)utili premesse, mi sembra necessario dare un inquadramento temporale più o meno preciso alle vicende.

A livello canonico, l’unica cosa sicura è che la battaglia delle Dodici Case sia da collocarsi nel 1986, e tuttavia il mese rimane incerto. Tra chi diceva “febbraio”, e chi “settembre”, io ho scelto quest’ultima opzione, onde far sì che Saori avesse almeno 13 anni. Dunque, considerando che, tra la suddetta battaglia e gli eventi ad essa precedenti intercorre qualche mese, il presente capitolo è ambientato il 30 aprile 1986, otto giorni prima del compleanno di Al.

Adesso (sì, lo so, ho rotto), qualche precisazione più specifica:

- il Nikaia è l'ospedale più grande di Atene ed è sito nell'omonimo quartiere popolare, vicino al porto del Pireo (il quale, nella mia storia, è la zona di Atene più prossima a Rodorio e al Santuario). Nel 2011 è tristemente assurto a simbolo della crisi greca per casi eclatanti di malasanità e corruzione, ma questo non ha a che fare con Sorella Morte;

- Albert Camus, nato a Dréan – sulla costa orientale dell'Algeria –, è stato scrittore, filosofo, saggista, drammaturgo, giornalista ed attivista politico francese; quelle da me citate sono solo alcune delle sue opere più famose;

- Il basco, in Francia, è generalmente indicato col termine "béret" (o "berret");

- "Le petit Didier au Jardin du Luxembourg, Paris, june 1969." : "Il piccolo Didier ai giardini del Lussemburgo, Parigi, giugno 1969". I giardini del Lussemburgo sono i giardini pubblici antistanti al Palazzo del Lussemburgo, che ospita la sede del Senato francese.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2: 30 aprile 1986. Shaka ***


Capitolo 2. Shaka BG

Capitolo 2: 30 aprile 1986. Shaka

 

 


Le incomprensioni sono così strane,

sarebbe meglio evitarle sempre

per non rischiare di aver ragione,

ché la ragione non sempre serve.

Tiromancino

 

 



Shaka della Vergine meditava all’interno della Sesta Casa.

Dall’ampia arcata entrava una leggera brezza primaverile che, soffiando mite, annunciava il definitivo trionfo della bella stagione sui resti di un inverno insolitamente rigido; attraverso i suoi acutissimi sensi, sviluppati durante anni di dura concentrazione, il cavaliere poteva avvertire persino il lontano sciabordio del mare, che pure si trovava diverse miglia più in basso.

Quel ritmico infrangersi dell'acqua sugli scogli gli ricordava il periodo del suo addestramento allorquando, ancora fanciullo, sedeva sulle rive del Gange per intere giornate, apparentemente estraneo a tutto ciò che lo circondava.

«Che sciocchi» pensò con un sorrisetto bonario, rivedendo con gli occhi della memoria i ragazzini del villaggio che si facevano beffe di lui, approfittando del suo sguardo celato.

Se inizialmente simili episodi lo avevano riempito di sdegno, crescendo e maturando aveva smesso di farci caso, sicuro della sua superiorità non solo rispetto a quel povero gruppo di contadini indiani, ma altresì a confronto dei cavalieri suoi pari: lui, che aveva ottenuto l’armatura d’oro ben prima di aver raggiunto l’età ufficiale per l’investitura, era l'Illuminato, l’uomo più vicino agli Dei.

Dacché aveva memoria, Shaka era sempre stato consapevole della propria diversità, ed esattamente in virtù di questa aveva vissuto, rifiutandosi di condividere i giochi infantili dei suoi coetanei prima, e le normali pulsioni adolescenziali poi, senza mai provare alcun rimpianto per l’innocenza e la spensieratezza che non aveva mai posseduto; da qualche tempo, tuttavia, un vago senso di minaccia si era installato nel suo animo, insidiandosi fra le certezze che avevano guidato la sua intera esistenza.

Egli non sapeva spiegarsi da dove provenisse, né tantomeno quale ne fosse la causa, e ciò lo turbava, anche perché nemmeno i suoi compagni cavalieri sembravano percepirlo; per la prima volta nella sua vita il fatto di essere il solo lo infastidiva.

Un improvviso rumore di passi proveniente dall’entrata nord del Tempio interruppe bruscamente le sue complicate elucubrazioni mentali, riportandolo alla realtà. Stizzito, abbandonò la consueta posizione meditativa e si apprestò ad andare incontro al seccatore, sennonché questi, lungi dal chiedergli il permesso di passare, si limitò a rivolgergli un breve cenno della testa e proseguì per la propria strada.

«Non si attraversa una Casa celeste senza prima aver ottenuto il consenso del relativo Custode. Dopo anni di servizio è mai possibile che debba essere io a ricordarti quali sono le regole, Aiolia?»

Il cavaliere del Leone, per nulla colpito dalla freddezza del camerata, rispose laconico: «Hai finito di farmi la predica? Bene, perché si dà il caso che anch’io indossi un’armatura d’or-»

«Tzè! Non al momento, direi» lo interruppe Shaka, scrutando scettico la sua tenuta da allenamento sgualcita e resa completamente zuppa dai Diamond Dust ormai sciolti.

«… d’oro,» riprese Aiolia, sordo alla frecciatina «e che abbia la tua stessa età, quindi penso di essere abbastanza cresciuto per rispondere delle mie azioni, senza che un perfettino di mia conoscenza venga a darmi lezioni di vita!»

«Mi sento in dovere di correggerti. Il cosiddetto “perfettino” si è meramente limitato a rammentarti gli imperativi categorici che presidiano questo luogo sacro – i quali, se fosse come dici, dovrebbero esserti ben noti. Ma evidentemente sei meno consapevole e maturo di quanto tu creda».

«Cosa vorresti insinuare? Ti avverto, Shaka, non sono dell’umore adatto… »

«Io non insinuo nulla. Mi è giunta voce che, poc’anzi, tu e gli altri abbiate già dato spettacolo per futili motivi: da ciò deduco che la tua affermazione circa l’essere abbastanza cresciuto non corrisponda esattamente a verità» concluse Virgo, solenne al pari di un giudice che abbia appena emanato una sentenza di condanna.

«A me sembra, invece, che dovresti finalmente scendere dal piedistallo su cui ti sei adagiato sin da quando ti conosco. Non saranno le tue conversazioni con una divinità di dubbia qualifica a fare di te un cavaliere di Atena migliore degli altri!»  

A quelle parole, il volto solitamente disteso e candido di Shaka divenne di colpo una maschera cupa.

«Non osare mai più sbeffeggiare Buddha, maledetto bestemmiatore» ringhiò fra i denti «Non. osare. mai. più».

«E per quale motivo non dovrei farlo? Forse perché me lo dici tu? Io non prendo ordini da nessuno, tanto meno da te!»

«Adesso basta! Non ho nessuna intenzione di continuare questa discussione! Sai qual è il tuo problema, caro Leo? É che sei rimasto un bambino, tale e quale a quello che conobbi quattordici anni fa! Non hai rispetto per niente e nessuno: non per la tua Dea, non per noi, non per il titolo che porti, e nemmeno per la memoria di tuo fratello! Se almeno quella ti premesse, ti comporteresti come si conviene a un cavaliere del tuo rango!»

Aiolia, che fino a quel momento era rimasto più o meno calmo, esplose allora con un ruggito degno di un leone in carne ed ossa: «CHE NE SAI TU DI MIO FRATELLO, EH? CHE NE SAI TU, DI AIOLOS? COME PUOI GIUDICARMI, TU CHE NON SAI NIENTE? QUANDO FU U-» la voce gli si incrinò in un pericoloso sussurro, mentre un alone di cosmo dorato andava avvolgendosi intorno alla sua figura «quando fu ucciso, tutto ciò che riuscisti a fare fu stare lì immobile ad analizzare il suo cadavere, come fosse un interessante oggetto di studio…  PERCIÒ, NON TI AZZARDARE A PARLARE DI LUI CON ME!»

«Stai mentendo! Sarà anche vero che non so niente di Sagitter, ma la colpa non è mia se non hai mai voluto condividere le tue pene con me!» gli urlò contro Virgo, accendendo a sua volta il proprio cosmo.

«Cavalieri! Che sta succedendo qui?!»

«Questa voce... Shura!» pensò Shaka, riprendendo all’istante il suo abituale contegno «L’occhio e il braccio del Gran Sacerdote: cosa l’avrà spinto ad abbandonare la Decima Casa per venire fin qui?»

Ai tempi del loro reclutamento, i cavalieri d’oro già ordinati presenti al Grande Tempio erano Saga di Gemini, Aiolos di Sagitter e Shura di Capricorn. Essi erano stati buoni amici e, in qualità di compagni, avevano iniziato insieme i più giovani fra i futuri Gold saints, nell’attesa che questi raggiungessero la meta definitiva prefissata per il loro addestramento.

Dei tre, solo Shura era rimasto.

Nulla ancora si sapeva circa la repentina scomparsa di Saga, se non che la stessa aveva preceduto di una mera manciata di ore la morte improvvisa del Primo Consigliere di Shion di Aries, Gran Sacerdote allora in carica; oscure restavano pure le circostanze in cui, nella notte ormai tristemente ricordata come “Notte degli inganni”, l’onesto Aiolos era stato tacciato di aver rapito la Dèa infante appena reincarnatasi – accusa, questa, per la quale Sagitter aveva pagato con la vita.  

L’unica cosa certa consisteva nel fatto che era stata proprio la lama di Capricorn ad impartire al traditore la punizione esemplare prescritta dalle leggi del Santuario nei casi come quello: Shura aveva agito di pieno diritto, eseguendo il comando dello sconosciuto consigliere del Pontefice insediatosi sullo Scranno di Grecia dopo la dipartita di Shion, e tuttavia i segni del rimorso per quanto compiuto gli si erano impressi addosso con la stessa tenacia di un’erba infestante.

Dopo quella notte, da gentile e sensibile qual era, divenne serio, schivo, taciturno. Si chiuse in se stesso, trincerandosi dietro una serietà morbosa verso i suoi doveri di cavaliere e obbedendo con fiducia quasi cieca a tutti i voleri di Arles, il nuovo misterioso Gran Sacerdote; i suoi unici, veri amici erano Death Mask del Cancro e Aphrodite dei Pesci, che egli aveva preso sotto la sua ala protettiva sin da bambini e coi quali passava il tempo controllando continuamente ciò che avveniva all’interno del Santuario.

Negli anni, il suo carattere minuzioso e l’autorità che riceveva da Arles avevano fatto sì che i soldati e i cavalieri di grado inferiore fossero arrivati a temerlo; i suoi pari grado, al contrario, gli portavano grande rispetto e lo consideravano un modello da seguire.

Tutti, eccetto Aiolia. Leo nutriva infatti un odio profondo verso Shura, nel quale vedeva non solo l’assassino del proprio amatissimo fratello maggiore, ma anche l’uomo che aveva screditato il suo buon nome, ignorando volutamente che il Capricorno non aveva agito di sua sponte, bensì nell’adempimento di un dovere impostogli dall’alto.

A tanto pensò Shaka, nel momento in cui si vide comparire davanti Capricorn; questi, assottigliato lo sguardo, non perse tempo in convenevoli e si rivolse subito a lui ed Aiolia con tono severo.

«Ho avvertito i vostri cosmi contrapporsi pericolosamente, qualche istante fa: non sapete che la sacra legge del Santuario vieta scontri insensati fra cavalieri d’oro? L’energia che verrebbe sprigionata potrebbe nuocere gravemente a tutto ciò che vi circonda; vorreste mettere in pericolo vite innocenti solo per una stupida disputa? Non mi interessa quanto siano gravi i motivi che vi hanno spinto al diverbio, vi proibisco in ogni caso di ricorrere alla lotta!»

Virgo, al suono di quelle parole imperiose, si irrigidì impercettibilmente; la stessa prudenza non l’ebbe però Aiolia, che sbuffò anzi più sonoramente del dovuto, apparentemente intenzionato ad includere Shura nella loro discussione.

«Se non prendo in mano la situazione Aiolia farà sicuramente qualcosa di avventato».

«Nobile Shura,» prese dunque a parlare Shaka, in quella che voleva essere una sorta di mite apologia «ci rincresce oltremodo di aver seminato scompiglio per una simile facezia. Ritengo comunque opportuno chiarire che io e il cavaliere di Leo qui presente, benché entrambi irati, non saremmo mai arrivati allo scontro: il nostro è stato solo uno scambio di opinioni più “acceso”, se mi concedi il termine».

«Parla per-» cominciò Aiolia, che fu subito zittito dall’espressione omicida assunta dall’amico.

Il Capricorno, evidentemente soddisfatto della parziale remissività dimostratagli dall’altrimenti orgogliosissimo indiano, parve volutamente ignorare quell’intervento inopportuno: «Molto bene, cavaliere di Virgo, ti credo: mi auguro solo che un episodio del genere non si ripeta».

«Non accadrà».

«Ne sono convinto. Cavalieri... » Shura si congedò quindi con lieve cenno della testa, il lungo mantello a svolazzargli dietro la schiena.

«Dove c’è scompiglio, quello compare: a volte mi chiedo se non abbia un radar incorporato» sospirò Aiolia, rivolgendo un malevolo sguardo nella direzione dove era appena sparito Capricorn.

«A proposito, Virgo,» riprese subito dopo, voltando le spalle a Shaka «ti sono debitore: senza il tuo pronto intervento avrei sicuramente detto qualche sciocchezza e, oltre a sorbirmi l’ennesima ramanzina, sarei finito nei guai, visto quanto lo detesto. Tuttavia, non ho dimenticato ciò che mi hai detto – e neppure ho intenzione di farlo. Buona serata».

Pronunciate queste parole uscì spedito dalla Sesta Casa, senza aspettare risposta.

Fu solo per decenza che Shaka desistette dal gridargli dietro la replica che gli era salita sulla punta delle labbra; eccezion fatta per Death Mask di Cancer, pochi altri soggetti avevano la capacità di irritarlo allo stesso livello di Aiolia.

«Calmati Shaka, non lasciare che la rabbia ti invada, non ne vale la pena» pensò, nel tentativo di placarsi «Calpesterà il suo orgoglio e verrà a chiederti scusa non appena si renderà conto che TU non puoi essere in torto. Oh, se verrà!»

Soddisfatto dall’appagante immagine del Leone domato e implorante ai suoi piedi, il cavaliere era sul punto di tornare alla propria meditazione quando, per la terza volta nel giro di un’ora, avvertì che qualcuno si era introdotto all’interno del suo Tempio.

«Adesso ne ho davvero abbastanza».

«Chiunque tu sia, se hai bisogno del mio permesso per passare te lo concedo, altrimenti ti prego vivamente di ritornare da dove sei venuto!» esclamò, con tutta l’alterigia di cui era capace.

«Buonasera, Shaka».

Al suono della voce di Maia il cavaliere della Vergine aprì istintivamente gli occhi; in genere li teneva ermeticamente chiusi persino al cospetto del Gran Sacerdote, ma a lei proprio non riusciva a celarli. Gli piaceva, quella ragazza.

Non nel senso fisico del termine, no: lui non badava all’aspetto esteriore delle cose. Gradiva, piuttosto, i suoi modi pacati, il suo atteggiamento discreto e, soprattutto, la sua compagnia, così diversa da quella dei guerrieri che lo circondavano giorno e notte.

«Ti prego di perdonare i modi scortesi con cui ti ho accolta: cosa posso fare per te, Maia?»

«Ecco, vedi… » si agitò la giovane, tormentandosi una ciocca di capelli con le dita «stavo venendo a chiederti il permesso di passare, quando Lia è arrivato... »

«Adesso capisco il motivo di tanto nervosismo: ha sentito tutto».

Maia, probabilmente notando l’espressione di lieve disappunto sul viso del cavaliere, si affrettò quindi ad aggiungere: «Shaka, mi dispiace, non avrei mai voluto origliare. Anzi, quando vi siete messi ad urlare stavo per andarmene, ma poi è sopraggiunto Shura e... »

«É tutto a posto, non sono arrabbiato» la tranquillizzò subito lui  «Anche se ti pregherei di non parlarne con gli altri. É una questione fra Aiolia e me, e tale desidero che rimanga».

«Non ci sarebbe stato bisogno di dirmelo: non sono una di quelle che va a raccontare a destra e a manca i fatti altrui!»

«Certo, certo, scusami» le sorrise Shaka, conciliante «Era per dire».

I due rimasero zitti per un po’, lui con il fianco appoggiato a una colonna, lei in piedi, entrambi pensierosi.

«Shaka? Posso... darti un consiglio?» chiese titubante Maia dopo qualche tempo, rompendo il silenzio.

«Parla: ti ascolto» fu la cortese risposta di lui.

«Non offenderti per ciò che sto per dire, ma... secondo me, dovresti chiedere scusa ad Aiolia. Sì, qualche volta ha degli atteggiamenti infantili e superficiali, però tu, tirando in ballo suo fratello solo per avvalorare un tuo giudizio, sei stato davvero inopportuno e indelicato. Perdonami se sono così franca: mi è sembrato giusto dirtelo».

Il Santo della Vergine non rimase troppo sorpreso per quelle parole, le quali davano voce a un pensiero del tutto comune; non si aspettava che Maia, per quanto acuta e intelligente, comprendesse realmente la portata di quanto avvenuto.

«Come sempre, non posso fare a meno di apprezzare la tua limpidezza,» disse quindi, grave «ma permettimi di dissentire: non ho affatto esagerato. Aiolia ha profondamente mancato di rispetto a me e, cosa ancora più grave, al Buddha. Prima o poi la sua sventatezza lo porterà ad offendere qualcuno che, al contrario di me, non sarà così tollerante».

All’improvviso lo assalì una strana angoscia, un senso di spossatezza mai provati prima: era stanco, maledettamente stanco di fungere da guida spirituale per i suoi compagni, che oltretutto non sembravano apprezzare lo sforzo da lui compiuto.

Abbandonò la colonna a cui si era appoggiato e si diresse fuori, a cercare un po’ di requie nello spettacolo del sole che si inabissava nel mare, seguito a debita distanza da una taciturna Maia.

«Spesso ho la sensazione di essere di uno dei pochi a possedere la consapevolezza di cosa davvero comporti lo status di cavaliere» disse Shaka, rivolto più a se stesso che alla ragazza «É frustrante pensare che i tuoi pari lo impareranno più tardi, a loro spese».

Maia non aveva mai visto Shaka così turbato: lo aveva sempre creduto emotivamente indistruttibile, una fiaccola chiara e sicura nel bel mezzo delle tenebre dell’incertezza.

Non sapendo come rassicurarlo gli poggiò delicatamente una mano sulla spalla e la strinse, cercando di comunicargli qualcosa che a parole non riusciva ad esprimere.

Senza aggiungere altro rimasero a lungo così, in silenzio, ad osservare la luce morente del giorno.





Note dell'autore

Bentrovati!

Questo capitolo è rimasto essenzialmente uguale alla sua vecchia versione, fatta eccezione per alcuni dettagli che ho smussato.

Vogliate perdonare il tono polemico e un filino isterico di Shaka: prima della battaglia delle Dodici Case, è esattamente così che me lo immagino. Supponente, impaziente, pignolo. Ma cambierà, vedrete!

Preciso che il discorso di Aiolia: «quando fu ucciso, tutto ciò che riuscisti a fare fu stare lì immobile ad analizzare il suo cadavere, come fosse un interessante oggetto di studio» si riferisce a un episodio trattato nel capitolo 11, parte II.

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Capitolo 4
*** Capitolo 3, parte I: 7 maggio 1986. Camus ***


Capitolo 3, parte 1. Camus BG

 Capitolo 3, parte I: 7 maggio 1986. Camus

 

 


Pensare a te

che mi pensi

è un pensiero impensabile.

Irene Pellegrini

 

 



«Allora, posso considerarmi perdonato?»

«Me l'hai già chiesto almeno venti volte nel giro di mezz'ora e la mia risposta è stata, è, e sarà sempre la medesima: NO».

«Eddai, Camus, è passata una settimana! Non puoi continuare a ignorarmi per sempre!»

«Questo è un concetto assolutamente opinabile».

«Se la metti così, anche il fatto di leggere mentre qualcuno ti sta parlando è di una cortesia opinabile».

Dovendo riconoscere che per una volta Milo si trovava nel giusto, Camus chiuse Illusions perdues con un sospiro.

Era fermamente deciso a non perdere le staffe, benché fosse conscio della difficoltà dell’impresa: quando si impuntava su qualcosa, Scorpio era capacissimo di chiaccherare tanto da far smarrire la ragione anche ai sordi.

«Era ora» sentenziò quest’ultimo, le braccia incrociate sul petto con fare paternalistico «Non riuscirò mai a comprendere cosa spinga voi topi di biblioteca a voler passare ogni momento libero su quattro fogli di carta stampata. Insomma, ci sono così tante altre cose belle da fare a questo mondo!»

«Solo perché non ti piace leggere, ciò non significa che tutti debbano pensarla come te. Comunque, sempre meglio stare sopra a “quattro fogli di carta stampata”, come li chiami tu, che andare in giro tutto il giorno a scocciare la gente!» ribatté Aquarius, evidenziando in tono più marcato l'ultima frase.

Milo, captando l'evidente allusione alla sua persona, si lasciò cadere stancamente su una sedia con fare teatrale: «Cosa vorresti dire? Che ti sto scocciando? Con tutta la fatica che faccio per schiodarti di qui e mantenere in uno stato dignitoso la tua scarsa vita sociale... sei proprio un ingrato, Camus di Aquarius!»

«Ti ricordo, mon copain, che in quanto cavaliere ho dei compiti cui adempiere – compiti che non posso certo portare a termine stando all'interno della mia Casa. Come sai, anche io esco di mia spontanea volontà… e anche piuttosto frequentemente, a dire il vero».

«Mh. Se lo dici tu» commentò dubbioso Scorpio, cercando di concludere un discorso senza capo né coda che lo stava distogliendo dal suo obiettivo ultimo – ossia, quello di ottenere la tanto sospirata grazia.

«Tornando a noi, comunque, ribadisco quanto mi dispiaccia per il malinteso che si è creato. Non era mia intenzione prenderti in giro, e credo che lo stesso valga per Lia e Aldebaran. Non sono state risa di scherno, le nostre. Sono giorni che tento di spiegartelo, ormai mi sembra persino di aver finito le parole da utilizzare!»

L’udire nuovamente la cantilena che, in effetti, lo stava perseguitando da circa una settimana rischiò seriamente di mandare all’aria ogni suo buon proposito di mantenere la calma.

«Respira, Camus, respira profondamente».

«Perché ti ostini a non capire? Eppure non sei uno stupido» cominciò con pacatezza forzata il Custode dell'Undicesima Casa, prendendo a massaggiarsi le tempie «Non mi importa un accidente che non fosse vostra intenzione deridermi: vedendovi sghignazzare tutti e tre con in mano un mio oggetto personale – ottenuto senza permesso, oltretutto – è esattamente così che mi sono sentito: deriso. Troppo comodo venire a chiedere scusa adesso, dopo che vi siete sollazzati a mie spese quanto volevate. E quello che mi ha disturbato particolarmente è il fatto che tutto sia partito proprio da te a cui, da bravo stupido, ho persino riservato certe confidenze! Bel modo di ripagare la mia fiducia!»  

Frustrato, Camus si alzò di scatto dal divano su cui era seduto, il viso inespressivo in netto contrasto col marasma di emozioni che gli si agitava dentro: «Adesso avrei da fare, Milo, se non ti spiace: non ho più voglia di perdere tempo a spiegarti cose che dovresti aver compreso già dal nostro primo incontro!»

Una risatina trattenuta a stento lo spinse a voltarsi, incredulo e con gli occhi sgranati.

«Forse non sono stato abbastanza chiaro: esigo che tu lasci immediatamente le mie stanze. Non sto scherzando».

Niente, quello prese a ridere ancora più forte, come se avesse parlato al muro.

«CHE DIAV-» Aquarius si impose la calma con un ampio respiro «-olo ci trovi di tanto divertente?»

«Ahahah... santo cielo, scusami, Camus!» disse Milo, fra uno scoppio di ilarità e l'altro «Ma, dal momento che hai nominato il nostro primo incontro, non ho potuto fare a meno di pensarci: dì, te lo ricordi?»

«Non penso che riuscirò mai a dimenticarmelo» sorrise inaspettatamente Camus, viaggiando indietro nel tempo a cavallo della memoria.

Il bambino francese arrancava su per le scale col fiato corto e la testa bassa per lo sforzo, i capelli appiccicati alla fronte a causa del battente sole di mezzogiorno. Qualche gradino più su, i tre giovani cavalieri che gli facevano da guida salivano invece con passo fluido e per nulla affaticato.

«Chissà come fanno... questo dannato caldo è insopportabile!» borbottò fra sé, pensando con nostalgia alla coltre di neve che, in quel periodo dell’anno, spesso ricopriva ancora i parchi della sua amata Parigi «Sto facendo la figura del rammollito: pessimo esordio, Didier!»

Perso com’era nei suoi vaneggiamenti non si accorse del grosso ciottolo in mezzo alla via, finendo per inciamparci rovinosamente sopra.

«Ahia!» sussurrò piano, mentre cercava di rimettersi in piedi il più velocemente possibile: non voleva assolutamente che qualcuno si accorgesse della caduta.

Purtroppo per lui, il capitombolo non era passato inosservato; dall’ombra di un colonnato, infatti, apparve come per magia un bambino dai capelli lunghissimi e dagli occhi di un incredibile blu il quale, avvicinatosi con rapidità sorprendente, gli tese la mano per aiutarlo a rialzarsi.

«Ti sei fatto male?»

«No. Cioè, non sono affari tuoi» disse malevolo il ragazzino straniero, rosso in viso e scocciato per essere stato colto in flagrante «E poi, tu chi saresti?»

«Non ti devi vergognare per il fiatone, non c'è niente di male! Anzi, ti svelerò un segreto: la prima volta salii questa scalinata solo per metà tragitto. Arrivato alla terza rampa, ero così stanco che dovettero trascinarmi per un braccio fino alla Tredicesima Casa!» commentò l'altro, tirandolo su e ignorando la sua scortesia «Comunque, io sono Milo, futuro cavaliere d’oro di Scorpio».

«Non ci credo. Se fosse vero, non lo racconteresti a uno sconosciuto. Lo stai dicendo solo per togliermi d'imbarazzo!»

«No, te lo giuro, andò esattamente così: puoi chiedere ad Aiolos, se vuoi!»

«Davvero?»

«Davvero» lo rassicurò, facendogli un occhiolino complice «Non mi hai ancora detto come ti chiami, però».

«Didier Debussy. E, Milo… grazie».

«Figurati».

«Milo! A prescindere dal fatto che non dovresti essere qui, ti proibisco di infastidire il tuo compagno! Il Gran Sacerdote lo sta aspettando: dovrete rimandare le chiacchere a un momento più opportuno» li rimproverò dall’alto il cavaliere biondo e altero al pari degli eroi del mito, che si era presentato a Didier come Saga di Gemini.

«Eri così buffo, solo e spaesato come un pesce fuor d'acqua!»

«Dovevo essere davvero buffo, sì, e anche spaesato. Certo, però, che almeno l’arroganza non mi mancava!»

«Perché, adesso pensi di essere umile?» chiese Milo, sorridendo sornione «Comunque, fu proprio per questa tua alterigia che mi entrasti subito nelle grazie. Con le persone socievoli è sin troppo facile fare amicizia; instaurare un rapporto con quelli come te è molto più divertente, diventa quasi una sfida».

«Allora con Shaka ti sarai divertito tantissimo!» ribatté Camus, prendendolo in giro.

«Nah» rispose Scorpio, con una smorfia «Shaka non è solo indisponente, è... così poco umano, ecco! Ha un qualcosa di soprannaturale che lo rende quasi inavvicinabile; al suo confronto, tu sei dolce come uno zuccherino. Mi duole ammetterlo, ma Virgo è decisamente al di sopra delle mie capacità. Non capisco come faccia Mu a parlarci per ore intere».

«Perché Aries, con le debite differenze, è fatto della stessa pasta. Sarà l'aria che si respira in Oriente a donargli quel particolare sentore di trascendenza, non so; ammiro molto la loro calma, e tuttavia, nel caso di Shaka, più che di calma sarebbe opportuno parlare di coma emozionale».

Camus tornò a sedersi sul divano, finalmente rilassato; Milo parve avvertire il suo cambio di umore, giacché si mise a fissarlo serio – quasi volesse mangiarselo con gli occhi.

«Oh, va bene!» sbottò l’Acquario, girandosi dall'altra parte per non dargli troppa soddisfazione «Sei perdonato, non serve che tu mi guardi a quel modo. Vedi però di rigare dritto, d'ora in avanti, altrimenti potrei seriamente pensare di usare su di te la Freezing Coffin».

«GRAZIE, CAMUS!!» fu la reazione oltremodo entusiasta di Scorpio, che corse a buttarsi a pesce sopra l'amico per stritolarlo in un caldo abbraccio «Grazie, grazie, grazie! Giuro sul mio onore che non ti farò mai più uno sgarbo: sarò impeccabile, il migliore amico di tutti i tempi!»

«Sì, certo» commentò sarcastico l’altro, mentre cercava di sottrarsi a quella presa degna di un boa costrittore «Ehi, vacci piano, mi stai soffocando! Non ti servirà a nulla aver ottenuto la remissione dei tuoi peccati, se mi uccidi».  

«Sei simpatico come uno Scarlet Needle fra le costole».

«E tu sei un giullare. Infatti non mi sovvengo del perché non ti abbia ancora mandato a quel paese».

«Perché, pur volendo, non saresti capace di fare a meno di me».

Quella risposta era uscita fuori dalle labbra dello Scorpione così repentina da far presumere a Camus che non si trattasse affatto di una battuta; e tale impressione si fece anche più netta quando, sciolto l’abbraccio, Milo quasi gli si abbandonò contro, la schiena leggermente appoggiata alla sua spalla.

«Ah, quasi dimenticavo: hai impegni domani sera?»

«Uh? Domani è l’otto di maggio, giusto?» rispose Aquarius, distratto; al momento era difatti perso in altro tipo di pensieri, tutti scaturenti dal comportamento bizzarramente possessivo dell'Ottavo Custode.

Camus era generalmente refrattario al contatto fisico: lui, che con un solo dito poteva tramutare un uomo in una statua di ghiaccio, per una sorta di automatismo inconscio tendeva a classificare come potenzialmente lesiva qualsiasi esternazione corporale non strettamente necessaria. Il modo di rapportarsi di Milo, al contrario, era sempre stato caratterizzato da una fisicità dirompente, che non risparmiava niente e nessuno; a lungo andare, persino il Signore delle Energie fredde ci aveva dovuto fare l’abitudine, arrivando addirittura a trovarla, se non proprio gradevole, quantomeno sopportabile.  

E tuttavia, spesso l’atteggiamento dell’amico nei suoi riguardi assumeva una natura ambigua che Camus non riusciva a decifrare, come in quel momento. Se simili attenzioni fossero state rivolte a Maia, per esempio, la faccenda avrebbe assunto contorni ben più chiari; non era però del tutto certo che sarebbe stato contento di vedere il fascinoso cavaliere dell’Ottavo Fuoco intento a corteggiare la ragazza.  

L’oggetto delle sue riflessioni, ignaro di essere tale, lo riportò di punto in bianco alla realtà: «Sì, è l’otto di maggio: la data non ti dice niente?»

«Uffa, finiscila con questo ermetismo! Perché una data come un'altra dovrebbe dirmi qualcosa? Parla, avanti!» 

«Se esistesse un premio per l'insensibilità, tu lo vinceresti di sicuro: l’otto di maggio non è una data come un'altra, bensì il compleanno di Aldebaran» proclamò Milo, con un tono che sapeva di rimprovero «La tua proverbiale considerazione per gli amici ha colpito ancora!»

Camus si batté una mano sulla fronte: «Come ho potuto scordarlo?! E adesso come faccio?! Non farò in tempo neppure a pensarlo, un regalo decente».

Nel vedere la sua espressione sconsolata, Milo ghignò: «Non tutti sono svampiti come te, sai? Stai sereno, abbiamo già pensato a tutto: una tranquilla serata fuori dal Santuario, una di quelle tipiche osterie greche che a lui piacciono tanto, la nostra brillante compagnia... » sorrise quindi, soddisfatto «sarà un regalo perfetto!»

«Chi avete invitato?»

«Ci è sembrato giusto chiamare tutti, ma Death Mask e Aprhodite sono fuori per una missione, mentre Shura ha cortesemente declinato l’invito».

«Naturale: del resto, sarebbe parso strano vederlo seduto allo stesso tavolo con Aiolia in un contesto nient’affatto istituzionale» commentò Camus, immaginandosi i due commilitoni intenti a ignorarsi per tutta la sera.

«A sorpresa, l’ospite d’onore non sarà Al: il nostro Buddha ha infatti dichiarato di voler scendere dal suo fiore di loto per confondersi con noi comuni mortali. Giusto perché si tratta di Taurus, eh: ricordo bene che l'anno scorso, quando abbiamo avuto un'idea simile per Aiolia, ci ha quasi riso in faccia, rifiutandosi categoricamente di perdere il suo prezioso tempo per partecipare a “un'effimera serata di divertimenti terreni” – testuali parole».

«C'è da dire, però, che almeno per il regalo mise la sua quota».

«Fu imperdonabile lo stesso – più o meno come sempre, del resto. Insomma: saremo i soliti, pochi ma buoni. Compresa Maia, ovviamente».

«A proposito di Maia, sono alcuni giorni che non la vedo: che fine ha fatto?» buttò lì Aquarius, con nonchalance.

«Che io sappia, questa settimana è stata molto impegnata a preparare un esame all'Università... perché ti interessa?» chiese Milo, fattosi sospettoso: raramente Camus si interessava di faccende che non lo riguardassero da vicino.  

«Così, per sapere. In genere si fa viva almeno una volta ogni due giorni, se non più spesso!» rispose quest’ultimo, evasivo.

«Quando si tratta dello studio, la mia amichetta non sente ragioni. Assomiglia a qualcuno di nostra conoscenza».

In quel momento l'orologio a cucù di Camus batté rumorosamente l'una, facendo sobbalzare i due – i cui stomaci presero come per magia a gorgogliare.

«Quell'orologio, anche se orribile, qualche volta si rivela di una certa utilità: mi ha ricordato di avere una discreta fame».

«Immagino che tu non abbia nessuna intenzione di andare a pranzare per i fatti tuoi, lasciandomi così libero di mangiare in santa pace?» si lagnò l'Acquario, certo dell’epilogo che avrebbe avuto la questione.

«Ovviamente no» confermò lo Scorpione, alzandosi e dirigendosi in cucina, come se quella fosse casa sua «Non mi va di andare sino in mensa; giacché siamo qui, cucino io! Che cosa hai di buono in dispensa?»

«Non toccare niente, sto arrivando!» disse esasperato Camus, pensando con disperata rassegnazione al caos che Milo seminava in giro quando si metteva ai fornelli.

“SPLAT”: un rumore molto simile a quello che fa un uovo quando cade a terra.

«MILO... »

«Tranquillo, 'Mus, è tutto sotto controllo!»

«Ma chi me lo fa fare di sopportarlo?



Continua ...


 

 

Note dell'autore

Da questo capitolo in avanti, la mia incapacità di essere concisa e sintetica diverrà sempre più palese: tenderò molto spesso a suddividere le pubblicazioni in due parti, come ho fatto con la presente. Qui, lo scopo della scissione è di dare uno scorcio del rapporto Milo-Camus prima di trattare la parte centrale del capitolo.

Rispetto alla sua versione originale, ho cercato di dare alla narrazione un'impronta più matura ed equilibrata, senza tuttavia stravolgere le dinamiche interne della storia – in linea con la ratio della revisione complessiva. Al solito, alcune precisazioni:

- Illusions perdues è un romanzo di Honoré de Balzac, pubblicato in tre parti tra il 1837 e il 1843; una bella mattonata, ma appartiene a una corrente letteraria – quella realista – che io immagino possa rientrare nei gusti di uno come Camus.

- "Mon copain" : "Amico mio" – inteso qui in senso ironico, come "Mio caro".

 


 


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Capitolo 5
*** Capitolo 3, parte II: 8 maggio 1986. Camus ***


Capitolo 3, parte II. Camus BG

Capitolo 3, parte II: 8 maggio 1986. Camus

 

 


Platanos era una piccola e graziosa taverna in stile rustico, situata in un angolo tranquillo della zona di Plaka e frequentata da clienti di tutti i tipi e di tutte le età; quella sera, ad esempio, accanto al tavolo di un'anziana coppia di turisti che, mangiando, studiavano la cartina della città, sedeva un'allegra combriccola di ragazzine tutte intente a spettegolare su chissà quale succoso argomento.

La giornata era stata calda e soleggiata, e la serata si presagiva altrettanto mite: nel cielo, illuminato da una bianca luna piena, stavano giusto apparendo le prime stelle.

Grazie al clima favorevole erano stati allestiti i tavoli esterni, da dove si poteva osservare l'andirivieni dei passanti e ascoltare i vari motivetti provenienti dall'interno dei locali sparsi qua e là per la via.

Appena arrivati, Aldebaran sorrise estasiato: «Ragazzi, è un posto favoloso! Grazie davvero, non dovevate!»

«Se c'è qualcuno che devi ringraziare, quelli siamo io e il qui presente biondino;» gli rispose Aiolia, indicando prima se stesso, poi Milo «gli altri non avrebbero saputo dove andare a sbattere il naso. Comunque, non l'abbiamo fatto per te: il tuo compleanno è stato solo una scusa per avere il permesso di passare una sana serata lontani dalle grinfie del Gran Sacerdote e dei suoi leccapiedi!»

Nel vedere che il Toro, non avendo colto la battuta, c'era rimasto male, Mu scoppiò in una risata discreta: «Amico mio, non lo ascoltare, sta scherzando! Tutto questo è stato organizzato appositamente per festeggiarti e Aiolia, che fa tanto il duro, è quello che più si è dato da fare!»

«Ehi, non esageriamo!» intervenne Milo, interdetto «Lui avrà anche avuto l'idea e sparso la voce, ma io l'ho aiutato a scegliere il ristorante! E poi, quello a cui va il merito maggiore è Camus: è stato lui a formalizzare l’evento dinanzi ad Arles, ieri. Giusto, 'Mus?… Camus?!»

«Eh? State parlando con me?» si riscosse Camus, che fino ad allora era parso molto occupato a osservare l’acciottolato ai suoi piedi.

«Proprio vero che i nati sotto il segno dell'Acquario pensano sempre agli affari propri! Sì, Rouge, stavamo parlando con te e, più precisamente, io ti stavo elogiando per la buona volontà che hai dimostrato chiedendo al Sommo il nulla osta per l'uscita!» commentò Scorpio, dandogli dei colpetti come per accertarsi che non si rimettesse a dormire in piedi.

«Tieni le mani a posto, ormai la mia attenzione l'hai ottenuta!» lo fulminò l'altro con un'occhiata dorata, rivolgendosi poi al resto della compagnia «Comunque, non mi è stato di nessun fastidio: ho solo approfittato di una convocazione personale, non ci sono andato appositamente».

Le facce dei suoi amici, esclusa quella di Milo che già ne era al corrente, si fecero quindi perplesse; perfino Shaka sembrava meno indifferente del solito.

«Ma, Camus… tu eri già stato convocato a fare il regolare rapporto mensile due settimane fa. Perché questa seconda chiamata? É successo qualcosa?» chiese Al, sul cui volto era scesa un'ombra di inquietudine.

«Già dall’inizio mi è parso un po’ insolito, in effetti; sennonché dopo, per la natura del colloquio, l'ho trovato ancora più bizzarro. Il Gran Sacerdote mi ha chiesto notizie su Hyoga, discepolo del mio ex allievo Crystal Saint, che è da poco divenuto cavaliere del Cigno. Non avendo visto il ragazzo che un'unica volta, io ho saputo dargli solo risposte lacunose; ho tentato di sondare il motivo che lo spinge a interessarsi ai Bronze saints, ma a questo riguardo il Pontefice è stato molto misterioso. Tuttavia, l’aspetto più peculiare della vicenda è che, per tutto il tempo della mia permanenza nella Sala del Trono, ho avuto la netta sensazione che qualcosa non andasse – che nell’aura di Arles ci fosse un non so che di ostile; quando mi sono finalmente richiuso la porta alle spalle, ho sentito la tensione abbandonarmi di colpo… come se mi fossi liberato di un peso opprimente».

Il racconto tanto dettagliato di Camus – che, in genere, era invece molto parco di parole – aveva suscitato un po’ di sconcerto nei cavalieri presenti, così come l'episodio del giorno prima l'aveva prodotto in lui: tutti se ne stavano a capo basso, pensierosi.

L'unico che non sembrava particolarmente colpito era Aries, il cui penetrante sguardo fra il verde e l'azzurro scrutava attentamente Aquarius.

«Nei suoi occhi giurerei di poter leggere comprensione – come se sapesse, come se si aspettasse che qualcosa sta per succedere. Ma cosa, Mu? Perché non ci riveli ciò che pensi?»

Nonostante trascorressero insieme la maggior parte del tempo, capitava assai di rado che i cavalieri d’oro discutessero fra loro delle questioni inerenti la politica del Santuario; in quanto soldati, vigeva fra essi la generale consuetudine di non contestare le decisioni di colui sotto il quale servivano, essendo loro precipuo dovere eseguirle, piuttosto che analizzarne il merito.

E tuttavia, v’era consapevolezza diffusa che ognuno dei dodici Sacri Custodi possedesse la propria personale visione delle cose, la quale poteva distaccarsi anche di molto da quella degli altri. Benché l’Ariete ostentasse davvero poco il suo pensiero, non era affatto un mistero che egli non condividesse per nulla la linea dura abbracciata da Arles negli anni del suo pontificato.

Aiolia, che per una sorta di coerenza morale si imponeva – quasi sfacciatamente, alle volte – di non assegnare mai troppo valore a quello che riguardava il Gran Sacerdote, fu il primo a riprendersi dal generale smarrimento: «Chissà cosa starà macchinando, quel folle! Non dategli peso, se c'è qualcosa che bolle in pentola vedrete che ben presto verrà fuori. Ma ora basta, siamo qui per rilassarci: almeno per stasera non pensiamo al lavoro, vi prego!»

«Il “folle” al quale ti riferisci è altresì la persona per la cui bocca si pronuncia la tua Dea: dovresti portargli un po’ più di rispetto, a mio avviso» disse Shaka, in tono atono e, al contempo, minaccioso.

«Appunto, “a tuo avviso”: non mi pare di averti chiesto alcun parere, Virgo» fu la ringhiante risposta del Leone.

«Ehi, ma che diavolo vi prende?! Datevi una calmata! Aiolia ha ragione, basta parlare di lavoro: non mi sono fatto il giro di Ulisse solo per venire a litigare qui» intervenne Aldebaran, separando i due con la sua poderosa stazza e mettendo così fine alla discussione «Piuttosto: avrei un certo languorino, e sono le otto e mezza. Perché non entriamo?»

«Al, sono più di venti minuti che siamo impalati qui davanti come sei allocchi» alzò gli occhi al cielo Milo «Se fossimo potuti entrare, l'avremmo già fatto da un pezzo; non noti un personaggio che brilla per la sua assenza?»

«BU!»

«AH!» sobbalzarono un po’ tutti quanti.

«Accidenti! O sono veramente molto brutta, oppure voi, come cavalieri, non valete un soldo bucato!»

«Maia, maledizione, ci hai preso alla sprovvista! Quando sei arrivata?!»

«Esattamente due secondi fa! Come avete fatto a non sentirmi? Con questi tacchi faccio una confusione pazzesca, peggio di un carro armato... »

«Stavamo discorrendo di questioni complicate» ammise Leo, giustificando in tal modo quella loro clamorosa defezione «Effettivamente devo darti ragione: l'ultima volta che ti ho visto con delle scarpe del genere addosso sembrava di stare a un concerto. Ma solo perché sei tu che non ci sai camminare: sei sgraziata come un elefante!» la punzecchiò poi, sorridendo malefico.

«Sgraziata?! Cielo, come fa a dirlo? É perfetta».

Perfetta, benché oggettivamente non fosse la classica bellezza da togliere il fiato.

Perfetta, con i suoi capelli biondo scuro – quasi sempre legati in una lunga treccia – e i suoi occhi neri come la notte.

Perfetta, con il suo naso alla greca, dritto e volitivo.

Perfetta, soprattutto quella sera, con quel vestito verde che, pur coprendo, molto lasciava ad intendere; perfetta persino mentre dava un pestone ad Aiolia con i suddetti tacchi, per vendicarsi dell'affermazione poco carina.

O almeno, così la vedeva Camus – anche se avrebbe preferito tagliarsi la lingua, piuttosto che ammetterlo.

«Ahia, piccola strega! Mi hai fatto male!»

«Ben ti sta, così impari ad essere meno cafone!» concluse soddisfatta Maia, per poi correre ad abbracciare Aldebaran «Auguri, mio caro! Grazie per avermi invitata!»

«Grazie a te per essere venuta» ricambiò la stretta lui, gioioso.

«Non sono abituata a vedervi senza assetto da battaglia. Siete così eleganti da sembrarmi più belli del solito!»

Approfittando della rara uscita dal Santuario concessagli, i ragazzi si erano in effetti vestiti con molta cura: il festeggiato sfoggiava un look total black, Milo e Camus erano entrambi in giacca e camicia, mentre Aiolia portava una bianca maglietta attillata con sopra un giubbotto nero.

Gli altri, invece, avevano optato per soluzioni decisamente più orientali: sopra dei classici pantaloni di tela Mu indossava un abito color panna chiamato Kurta, tipico della sua terra natia – molto simile a quello rosso di Shaka.

«E tu, invece? Vuoi far colpo su qualcuno? Ma guardati! Mini vestito verde smeraldo, chiodo marrone intonata alle scarpe, orecchini in tinta col vestito… hai persino i capelli sciolti! Non è che dopo hai un appuntamento segreto, vero? Se è così, devi dirmelo: sai che sono geloso» disse Milo, squadrandola da capo a piedi; quando diceva di essere geloso non scherzava, lo era davvero.

E, a insaputa di tutti, non era neppure l'unico.

«Ma con chi vuoi che mi veda? Smetti di fare il fratello maggiore, e rilassati, Mílo

A quel soprannome, la bocca dell’interessato si contrasse in una smorfia infastidita: «Ti ho già detto mille volte di non chiamarmi così: non sono una mela! Comunque, gentili signori e signora, io direi che i tempi sono maturi per appropinquarci verso il nostro tavolo».

«Sì, sì, sono pienamente d'accordo con te» approvò decisamente Al, che manifestava da un pezzo di avere un certo appetito.

I sette, dunque, entrarono: dietro il bancone stava un ometto stempiato che, appena si accorse del loro ingresso, berciò festoso: «Milo! Aiolia! Ragazzi miei, come state? Sono secoli che non venite a trovarmi!»

«Ciao Alexandros! Già, ne è passato di tempo! Come vanno gli affari? E a casa? Tutto bene?» lo salutò Aiolia.

«Mah, si tira avanti... » rispose quello, prendendolo sotto braccio «la buona nuova è che, appena una settimana fa, Daphne ha dato alla luce il suo primogenito: sono diventato nonno, vi rendete conto? Io, nonno!»

«Oh, congratulazioni!» si complimentò Milo «Maschio o femmina? Che nome gli avete dato?»

«Femmina: l'abbiamo chiamata Sophia» annunciò Alexandros, tutto orgoglioso «Piuttosto, ditemi di voi: come vanno le cose? Fortuna che Maia la vedo spesso, così mi tiene aggiornato sulle nuove del Santuario; fosse per la frequenza con la quale passate voi due, potrei essere morto da un pezzo!»

Sentendo nominare il Mondo Segreto, gli esclusi dalla conversazione drizzarono subitamente le orecchie.

«Ma che sta dicendo? Come fa a sapere dell’esistenza del Santuario?!» sussurrò Camus a Maia.  

«Vedete,» spiegò lei al resto del gruppo, sempre a voce bassa «Alexandros e i suoi fanno parte di una delle famiglie custodi che operano qui nella capitale. Spesso si occupano di parte degli approvvigionamenti per il Grande Tempio, acquistando la merce in proprio e destinandola poi alla mensa di quest’ultimo. Nel corso degli anni, soprattutto durante l’addestramento, Aiolia e Milo hanno mangiato qui praticamente ogni volta che sono venuti sino ad Atene».

«Senti, Alexandros:» si rivolse poi all’oste, cercando di interrompere con molto tatto il suo racconto dettagliato sulla durata del travaglio della figlia «Aiolia aveva prenotato un tavolo per sette persone sulla terrazza. Siamo ancora in tempo, nonostante il ritardo?»

«Certo, certo, mi sembra il minimo!» esclamò l’uomo, annuendo vigorosamente; solo in quel momento parve rendersi conto della presenza degli altri quattro ragazzi i quali, via via che la consapevolezza si faceva strada nella mente di Alexandros, furono squadrati da questi con piglio sempre più ammirato.

«Non ditemi che questi sono vostri parigrado… » balbettò quindi, preso da improvviso imbarazzo per non essersi loro rivolto col dovuto riguardo; la cosa buffa era che, al contrario, verso Milo e Aiolia non aveva ritenuto necessario adottare alcuna formalità.

«Ah sì, scusaci!» prese la parola Milo «Dunque: questo qui accanto a me è Mu di Aries, il ragazzo biondo con gli occhi chiusi Shaka di Virgo, quello coi capelli rossi Camus di Aquarius e il gigante là in fondo è Aldebaran di Taurus – che, fra l’altro, oggi compie gli anni».

«Molto piacere» sorrisero i quattro.

«Vogliate perdonare la mia scortesia» disse l’oste, inchinandosi leggermente «Eccezion fatta per Aiolia e Milo, non sono abituato a ospitare personalità così importanti nella mia umile taverna».

«Ma dai, Alexandros, finiscila! Non ti abbiamo mica portato il Gran Sacerdote in persona!» commentò Leo, un po’ divertito, un po’ seccato dal repentino cambio di atteggiamento del vecchio che, per i suoi gusti, si stava facendo sin troppo deferente.

«Mi dispiace» gli rispose quello contrito, guardandolo come se gli fosse improvvisamente apparsa addosso l’armatura d’oro; poi disse, rivolto al Toro: «Comunque, giacché è il vostro compleanno-»

«Datemi del tu, signor Alexandros, per favore» sorrise allora Aldebaran, bonario.

«D’accordo, bene. Giacché è il tuo compleanno, il dolce lo offre la casa, con i nostri migliori auguri. Venite, prego, da questa parte» fece finalmente strada, conducendoli lungo una stretta scala a chiocciola che sbucava direttamente su una terrazzina coperta di rigogliose bouganville: da lassù si godeva della vista dell'intero quartiere di Plaka.

Il tavolo riservatogli era quello più appartato di tutti, onde consentire loro maggiore intimità.

«Se la posizione non è di vostro gradimento si può sempre cambiare; i menù sono lì, sul tavolo».

«Grazie Alexandros, è perfetto. Ti chiamiamo noi quando abbiamo scelto, vai pure».

«Allora vado. Se serve qualcosa, non fate complimenti: io sono di sotto» si congedò l'oste velocemente, richiamato da altri avventori.

«Certo che è un tizio ben buffo, quel signore» commentò Camus, una volta al sicuro da orecchie indiscrete.

«Perché nella tua voce leggo una certa nota critica?» gli chiese Milo, indovinando il fastidio represso dell’altro per tutte quelle chiacchere – che l’Acquario avrebbe senz’altro definito inutili.

«Non sto giudicando nessuno; dico solo che, parlando di meno, avrebbe forse evitato di fare magra figura».   

«A me sembra, al contrario,» si intromise Maia «che giudicare sia proprio quello che stai facendo, oltretutto basandoti su un imbarazzo che è invece pienamente giustificato. Sai, fatta eccezione per coloro che vivono a stretto contatto col Santuario, non è cosa da tutti i giorni imbattersi in dei cavalieri d’oro. Molti dei membri delle famiglie custodi sentono parlare di voi per una vita, senza vedervi mai; e poi, quando succede, si trovano davanti dei ragazzini più giovani dei loro figli. È naturale, dunque, che non sappiano come comportarsi. Non sto parlando per esperienza personale, naturalmente, ma per riferito – in via più o meno diretta».

«Splendido: ci mancava solo di passare per supponente davanti a lei. Ottimo lavoro, Camus!»

«Credo che Maia abbia ragione, Cam: eccettuato Alexandros – che, avendomi praticamente visto crescere, forse non riesce a considerarmi un Gold saint –, tutto il personale esterno con cui mi è capitato di avere a che fare dopo l’investitura non ha mai saputo come trattarmi, all’inizio. Probabilmente ci vedono davvero come delle creature mitologiche, e rimangono dunque di stucco quando si accorgono che, in realtà, siamo fatti di carne e ossa esattamente come loro» rincarò la dose Aiolia.

«Avanti, voi due. State parlando come se Camus fosse un insensibile, senza considerare che il succo del suo discorso, in realtà, era: “Se non sai cosa dire, limitati a rimanere in silenzio”» intervenne Mu, conciliante come sempre.

«Giusto: troppo spesso si tende a sottovalutare l’importanza del saper tacere» commentò infine Shaka, giunto in suo soccorso da chissà quali impervi meandri del proprio personale mondo.

«Vi sono debitore, ragazzi» li ringraziò di cuore Camus, sorpreso soprattutto dall'inaspettato intervento difensivo del Custode del Sesto Tempio.

Sia Virgo che Aquarius amavano la quiete e la solitudine, ed erano ambedue riservati e schivi; parevano simili, a vedersi, specialmente per la loro aria da freddi e arroganti calcolatori, eppure la differenza che correva fra essi non era certo di poco momento.

Camus, dietro l’apparenza, nascondeva un’indole meno ferrea di quanto gli sarebbe piaciuto, mentre Shaka… Shaka sembrava essere immune da gran parte delle umane debolezze.

«Scusa, ‘Mus, con la mia domanda non volevo dare origine a un vespaio simile. Adesso, però, mi faresti la cortesia di metterti a sedere? Sei l’unico rimasto in piedi, mi stai dando uggia».

Milo, sistematosi accanto ad Aiolia, gli stava parlando da sotto in su e non aveva tutti i torti: effettivamente Camus era il solo a non aver ancora preso posto.

Questi si accomodò quindi sull’unica sedia rimasta libera; a sinistra aveva Aldebaran, capotavola, di fronte Shaka e a destra, neanche a farlo apposta, Maia.

Appena si fu sistemato, la ragazza si girò nella sua direzione e gli sorrise – un sorriso ampio, genuino, che le arrivò sino agli occhi.

Nel vederlo, il francese pensò che anche il detto “Chi tardi arriva, male alloggia” avesse le sue eccezioni.

 

*

 

Camus, appoggiato alla balaustra della terrazza, dette uno sguardo distratto alla tavola su cui giacevano i piatti con i resti della loro cena: Mu e Shaka, entrambi vegetariani, avevano ordinato un'insalata greca, mentre gli altri si erano abbuffati di Moussaka, Souvlákia e di polpette ripiene di sugo di carne e pomodoro – le Soutzoukákia. Lui, che non amava particolarmente il manzo, aveva optato per il pesce.

Come promesso da Alexandros, il dolce era stato offerto dalla direzione, la quale non aveva badato a spese: crostate, biscotti e torte erano arrivati in continuazione per circa cinque minuti buoni. Infine, completavano l’insieme tre bottiglie di vino ormai vuote, di cui due di rosso e una di bianco.

Era stata una serata piacevole: faticava a riconoscere se stesso e i suoi compagni d'armi in quei sei ragazzi che, per una volta, gli erano sembrati spensierati quasi conducessero vite da normali ventenni.

Avevano parlato perlopiù della loro infanzia, ricordando anche episodi avvenuti in quei primi sei mesi di permanenza temporanea al Santuario, e ognuno di loro aveva altresì rivelato cosa sognava di diventare quando era bambino; fra le idee più assurde, era venuto fuori che ad Al sarebbe piaciuto essere la guardia del corpo di un personaggio importante. Ciò aveva suscitato grande ilarità, visto che, in un modo o nell'altro, il Toro pareva essere stato l'unico a realizzare i suoi progetti.

E poi c'era stato il brindisi, durante il quale uno per uno avevano fatto gli auguri al festeggiato – che, a un certo punto, si era quasi commosso.

Unico neo, la misteriosa tensione fra Aiolia e Shaka, su cui nessuno aveva avuto il coraggio di indagare: vero, i due non andavano mai d’amore e d’accordo, ma era altamente improbabile che non si fossero rivolti parola solo per quel battibecco iniziale.

No, di sicuro ci doveva essere una ragione più seria… ma quale?

All'improvviso, due mani gli calarono sugli occhi e una voce camuffata fece, giocondamente: «Chi sono?»

«Milo, che scherzi idioti!»

«Anche se non mi paiono proprio le mani di Milo – non sono così lisce, le sue».

«Sbagliato! Prova di nuovo!»

Senza sapere bene il perché, Camus decise di stare al gioco.

«Allora, vediamo; escluderei a priori Shaka, e sì, anche Mu, nonché Aldebaran – lui potrebbe coprirmi l'intero viso con una sola mano. Milo è già stato scartato, dunque dico: Aiolia, o Maia!»

«”Io sono un vero maestro nel parlare tacendo: ho parlato tacendo tutta la vita e ho vissuto delle vere tragedie dentro me stesso, tacendo”».

«Non credo che Aiolia abbia mai letto nulla di Dostoevskij, quindi ne deduco che tu devi essere Maia».

«Però, ce ne hai messo di tempo... ti facevo più sveglio» disse Maia, togliendogli le mani dagli occhi.

«E io ti facevo giù di sotto con gli altri. Perché sei salita di nuovo?»

«Giro a te la domanda: perché te ne stai qui da solo?»

«Pensavo... » rispose Camus, evasivo.

«A cosa?»

«A una quantità di cose, in effetti».

«E non vorresti condividerne qualcuna con me?»

«No, penso di no».

«In realtà, mi piacerebbe. Ma non ci riesco, è più forte di me. Mi dispiace Maia, non capiresti».

A quelle parole, dure come una porta chiusa in faccia, l’espressione di Maia virò dal divertito all’amareggiato in meno di un nanosecondo.

«Adesso comprendo il perché tu e Milo, nonostante tutto, siete sempre appiccicati: lui in modo, tu in un altro, fatto sta che siete bravissimi entrambi a far perdere la pazienza!» esclamò quindi, mentre, prendendolo per le spalle, lo invitava a girarsi verso di lei «É stata una bella serata, ci siamo divertiti, abbiamo riso e scherzato: che c'è, ti senti in colpa per questo? Ti autopunisci isolandoti? Dannazione, Camus! Sarà pur vero che io, povera stupida ragazzina, non so nulla di cosa significhi portare sulle spalle il peso con cui convivete tutti i giorni, ma penso che anche voi ogni tanto abbiate il diritto di prendere parte a questo spettacolino che va sotto il nome di “vita”! Non puoi passare la tua intera esistenza stando sempre all'erta, ad aspettare un nemico che forse neanche verrà!»

Si interruppe per riprendere fiato, gli occhi neri spalancati, e gli posò delicatamente le mani sulle spalle – il volto sorvolato improvvisamente da un pensiero poco piacevole.

«Oppure non si tratta neanche di questo? No, forse il problema è che ti senti superiore, che ritieni i tuoi pensieri troppo preziosi perché io li conosca. Del resto, prima non hai fatto mistero della tua scarsa considerazione per la gente comune».

«Non essere sciocca. Quello di qualche ora fa è stato un malinteso: in verità, io non mi sento superiore a nessuno» la interruppe bruscamente Camus, abbassando lo sguardo «Soltanto, ci sono delle cose che ritengo sia giusto non condividere. Tu dovresti capirmi, visto che, in questo, hai sempre sostenuto di essere simile a me».

«Hai detto bene, “delle cose”. “DELLE”, Camus, non “TUTTE”. Eccezion fatta per quello che mi hai miracolosamente confidato l’altro giorno, io non so NIENTE di te!»

«Non urlare, ti sento benissimo. Ma hai bevuto, per caso?»

«No. Cioè sì, un pochino. Perché, cosa c'entra adesso?»

«Perché stai diventando inopportuna» sentenziò l'Acquario, glaciale come i ghiacciai siberiani intorno a cui era cresciuto.

Non lo vide neanche – forse perché non se lo aspettava –, ma certamente lo sentì benissimo: uno schiaffo sorprendentemente forte lo colpì in pieno viso.

«Uno schiaffo. A me. Da lei» si disse, mentre già sentiva ribollire la rabbia e la delusione di non essere stato capace di farle capire ciò che realmente sentiva.

Camus non reagì, limitandosi a guardarla immobile.

Maia, incredula per ciò che aveva fatto, ricambiò ostinatamente quell'occhiata d'oro liquido.

Poi, senza alcun preavviso, risoluta e altezzosa come una gatta, lo prese per il bavero della giacca e portò il viso di Aquarius a pochi centimetri dal suo.

«Je suis désolée, monsieur, j'ai été impolie» sussurrò piano, scimmiottando ciò che lui gli aveva detto la prima volta che si erano incontrati; infine, lo baciò. Aveva ancora le dita artigliate alla sua doppiopetto, come se volesse impedirgli di scappare – senza sapere che lui non l'avrebbe mai fatto; che sarebbe stato lì per sempre, se solo avesse potuto.

«Maia. Maia. MAIA» Camus non riusciva a pensare ad altro, non c'era parola che gli suonasse meglio di quella.

Fu molto brava a lavorarselo: attaccava mordendolo, e poi retrocedeva, negandogli le labbra.

Finché le sue difese non caddero, e si lasciò andare anche lui: quel bacio l'aveva sognato in segreto per molte notti, e adesso che era divenuto realtà non voleva fare da spettatore. Non in quel frangente.

Con una mano le afferrò la nuca e con l'altra le sollevò una gamba, portandosela intorno alla vita, mentre la sua lingua continuava a tenere il tempo frenetico di quella di lei.

Dallo stato confusionale in cui si trovava sentiva i rumori della via scorrere sotto di loro, ma non se ne curava: l'unica cosa che gli importava erano le dita di Maia che gli stavano graffiando la schiena, e la sua bocca, che sapeva ancora di caffè.

Fino a quando non si ricordò chi fosse e, soprattutto, dove fosse.

«Camus, riprendi il controllo, prima che sia troppo tardi. Camus, riprendi il controllo… CAMUS!»

Fu con uno sforzo immenso che si staccò da lei, ansimante.

«Accidenti... me l'avevi detto, quel giorno, che me l'avresti fatta pagare» le sorrise «Ma, a essere sincero, non avrei mai pensato che il tipo di pagamento sarebbe stato questo».

«Perché, avresti preferito darmi del denaro?» ribatté Maia, squadrandolo dal velo dei capelli scarmigliati.

«No di certo. Non cambierei una cosa come questa nemmeno per tutto l'oro del mondo».

Lei lo abbracciò, felice di sentirselo dire.

«”Il vino prepara i cuori e li rende più pronti alla passione”. Nel tuo caso è andata proprio così!» la schernì dolcemente Camus, depositandole un lieve bacio sulla testa.

«Il vino è servito soltanto a darmi coraggio, che poi era l'unica cosa che mi mancava. “In vino veritas”, neh?»

«Ehi, voi due!» la voce di Milo li raggiunse dal piano di sotto «Volete farci la muffa, lassù?! Camus, muoviti, c'è da pagare il conto!»

«Arrivo!» gli urlò di rimando quello, sollevato che non fosse venuto a chiamarli fin lì: non avrebbe saputo indicarne con esattezza il motivo, ma aveva la sensazione che, se li avesse trovati in atteggiamenti equivoci, allo Scorpione sarebbe venuto un colpo apoplettico.

«Dai, andiamo» sussurrò poi a Maia, sciogliendosi a malincuore dal suo abbraccio.

«Camus?»

«Sì?»

«Non è stato solo un bacio, vero?»

«Ti è costato farmi questa domanda, vero? Certo, è stato solo un bacio. Un bacio che io spero abbia iniziato molto, molto di più».

Non le rispose, ma le prese la mano e la strinse forte, portandosela alle labbra; gli occhi di Maia, in quel momento, erano più luminosi della luna.




 

Note dell'autore

Coucou!

Dettaglio assolutamente preliminare: avendo posticipato le date della storia, il compleanno da me descritto nel capitolo in questione è diventato quello di Aldebaran – e non più, quindi, quello di Mu.

Nel revisionare questa seconda parte del capitolo 3 mi sono divertita a cambiare un po' gli argomenti di discussione, dando altresì un rapido flash sull'atteggiamento generale dei Gold saints rispetto all'operato del Gran Sacerdote.

Partendo dal presupposto che, nell'opera originale, i membri della casta dorata praticamente non si conoscono, nell'alterare un simile dettaglio mi è parso giusto introdurre dei correttivi. Mi spiego: benché, almeno nel contesto della mia storia, i cavalieri d'oro passino gran parte del loro tempo assieme, arrivati alla battaglia delle Dodici Case mostreranno comunque di avere visioni molto distanti l'uno dall'altro – come da trama canonica. Da qui, il breve excursus sulla loro abitudine di parlare raramente di "politica".

Altro inciso: al momento dei fatti narrati, presumo che la Guerra Galattica fosse già iniziata. Ho però immaginato che, grazie all'assenza di mezzi di comunicazione di massa quali TV o giornali, nonché alla minuziosa opera di censura di Arles sull'argomento, al Santuario la notizia non fosse  ancora trapelata.

Venendo, adesso, ai chiarimenti più specifici:

- oltre alle pietanze da me menzionate, anche la taverna Platanos esiste davvero; pensate che, tempo fa, mi imbattei in una sua foto su Instagram!

-  Mílo, in greco moderno, significa "Mela".

- “Io sono un vero maestro nel parlare tacendo: ho parlato tacendo tutta la vita e ho vissuto delle vere tragedie dentro me stesso, tacendo.” è una frase tratta dal racconto Il sogno di un uomo ridicolo di Fedör Dostoevskij. Essendo questi russo, ho immaginato che le sue opere non dovessero essere a Camus sconosciute; Maia sceglie tale citazione proprio perché altamente certa di essere capita.

- "Je suis désolée, monsieur, j'ai été impolie" : "Mi spiace, signore, sono stata maleducata." Come accennato direttamente in narrazione, la frase è la stessa che Camus rivolge a Maia nel Prologo I.

- "Il vino prepara i cuori e li rende più pronti alla passione" è ripresa dall'Ars Amatoria di Ovidio – che, detto tra noi, la sapeva luuunghissima –, mentre "In vino veritas" è un famoso proverbio latino.


 

 

 


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Capitolo 6
*** Capitolo 4: 9 maggio 1986. Milo ***


Capitolo 4. Milo BG

Capitolo 4: 9 maggio 1986. Milo

 

 


Che cosa resta degli anni passati ad adorarti?

Cosa resta di me?

Baustelle

 



Milo si svegliò che il sole era già alto.

La chiara luce del giorno entrava dalla finestra socchiusa e gli arrivava dritta negli occhi, rendendogli impossibile riaddormentarsi.

Con un grugnito si liberò di malagrazia dalle coperte di fortuna racimolate poche ore prima in un vecchio armadio polveroso e, borbottando per il mal di schiena, si diresse verso il bagno.

«Maledetto divano! Sono mesi che voglio disfarmi di te, ma se fino a ora mi ha trattenuto il ricordo dei nostri migliori anni insieme dopo stanotte non ho più dubbi! Sta per suonare la tua ultima campana, caro mio!»

Si bagnò il viso molte volte, beandosi del refrigerio dell'acqua fresca sulla pelle, e tuttavia ciò non convinse lo specchio a restituirgli un'immagine decente di se stesso: vuoi per le Soutzoukákia che gli erano rimaste nello stomaco, vuoi per la notte passata pressoché in bianco, aveva una pessima cera.

«Fa niente Milo, resti pur sempre un gran bel pezzo di ragazzo. Comunque, un buon caffè sarebbe d'aiuto» ironizzò fra sé e sé, mentre entrava in cucina.

Amava molto il caffè, in particolar modo per l'odore che la moka sprigionava in tutta la stanza: associava quel particolare profumo a un uomo biondo segnato dal tempo e dal sale che ogni mattina, alle prime luci dell’alba, si preparava ad andare per mare a suon di polpo essiccato e tazze di liquido scuro.

Per anni aveva segretamente guardato quell’uomo dalla finestra dell’orfanotrofio, illudendosi che potesse essere suo padre.

«Milo, c'è del caffè anche per me? In caso di risposta negativa, sappi che potrei anche uccidermi».

«Ehi, guarda chi si vede! Come va la sbronza?»

«Non c'è bene, grazie».

La sera prima, una volta terminata la cena, il gruppo si era diviso: Shaka, Mu e Aldebaran avevano deciso di tornare al Santuario, mentre lui, Maia, Camus ed Aiolia, dopo aver decretato che la notte era ancora giovane, si erano attardati in centro ancora per qualche tempo.

Era andata a finire che, passando da un locale all'altro e bevicchiando un po’ qua, un po’ là, Maia aveva rimediato una sbornia considerevole; non sentendosela di tornare a Rodorio in macchina, né di rientrare a casa in quelle condizioni, aveva dunque supplicato Camus di farla dormire da lui.

La risposta dell'Acquario – il quale, oltre a essere fin troppo ligio al dovere, sembrava anche inspiegabilmente irritato dalla situazione – era stata un secco e prevedibile “No.; così Milo, preso a compassione, aveva accettato di ospitarla in vece del suo acido amico, rassegnandosi a cederle il letto e a passare una scomodissima notte sul divano.

Nonostante tutto, l’aveva fatto volentieri. In parte era anche colpa sua – sua, e di Aiolia – se la ragazza aveva alzato il gomito a quel modo: dato che il ruolo di cavalieri imponeva loro di essere costantemente nel pieno delle rispettive facoltà mentali, lui e Leo si erano di conseguenza divertiti a far sbronzare l'unica fra di loro che potesse permetterselo.

«Dai Maia, bevi! Bevi, tu che puoi! Non sai quanto ti invidio. Vorrei tornare a quando avevo tredici anni solo per il piacere di ubriacarmi come si deve!» aveva detto Aiolia sognante, con la mente rivolta a chissà quale criminoso ricordo.

«Eh, bei tempi quelli! Prima di ricevere l’investitura ci facevano faticare come porci per tutto il giorno, ma almeno non eravamo costretti a fungere da modello di comportamento!» gli aveva fatto eco Scorpio.

Dal proprio canto, Camus aveva fermamente tentato di dissuaderla dal dare attuazione a simili loschi piani; epperò, complice il vino già bevuto a cena, Maia si era mostrata sorda ai suoi saggi consigli, buttando allegramente giù l’Ouzo e i cocktails che gli altri due compari le offrivano.

Ciò, almeno finché non aveva cominciato a dare i numeri; a quel punto la scelta di rientrare era stata unanime, e l’onere di portare la ragazza quasi di peso sino al Santuario era toccato proprio a Milo e Aiolia, quale sorta di punizione divina.

Punizione divina altresì messa in atto dalle battutine di Aquarius, che per tutto il tragitto aveva cantilenato sarcastico "L'avete voluta la bicicletta? Ora pedalate" e sentenze del genere.

«Anche Maia l'ha voluta, la bicicletta... » pensò Milo, guardando gli effetti del post-sbornia sull'amica nel momento in cui ella fece ingresso in cucina.

Accidenti, poteva tranquillamente affermare che era in condizioni ben peggiori delle sue: sul pallore innaturale del volto risaltavano due occhiaie violacee profonde, segno che nemmeno lei aveva chiuso occhio. Inoltre aveva l'aria di chi, al posto dello stomaco, abbia Hiroshima e Nagasaki dopo lo scoppio atomico.

«Che hai da guardare?» gli lei chiese di punto in bianco lei, versandosi del caffè in una tazza.

«Nulla: stavo solo constatando che un reduce da una tortura medievale avrebbe dovuto avere più o meno il tuo aspetto attuale».

«Spiritosone!»

«Ehi!» esclamò lui, notando ciò che aveva indosso «Quella è la mia maglietta!»

«Sì, l'ho presa a caso da uno dei tuoi cassetti. Non è che saresti così gentile da prestarmi un paio di scarpe per dopo? Non avrei molta voglia di farmi tutta la strada fino a casa con i tacchi».

«Vuoi scherzare?! Porto il quarantatré! È praticamente impossibile che ti stia. Potresti chiedere a Shaka: ignoro assolutamente che numero di scarpe abbia, ma ricordo che non molto tempo fa Death era solito chiamarlo “piedino di fata”».

Maia sbuffò in una sorta di risata trattenuta: «Certo che quello lì è proprio malefico: non gli sfugge un solo dettaglio, purché questo serva a sbeffeggiare il suo prossimo».

«Devo essere sincero: in tanti anni che lo conosco, non ho ancora capito su quali presupposti l’armatura di Cancer abbia scelto proprio lui. Vero, nessuno di noi nove è perfetto, ma Death Mask, a parer mio, rappresenta un concentrato di tutte le caratteristiche che un cavaliere non dovrebbe avere. Potrà sembrare un tantino infantile, detta così, ma lui è... cattivo. Sì, non c'è termine migliore per descriverlo. Quando capita che gli venga impartito un ordine comportante il nuocere a qualcuno, lui ci prova quasi gusto. Niente a che vedere con l'orgoglio di essere riuscito a portare a termine una missione, no, solo appagamento per aver avuto l'occasione di dimostrare la propria superiorità sull'avversario. Non come Capricorn, che porta ancora i segni del rimorso stampati addosso per ciò che ha dovuto fare ad Aiolos... »

Milo si interruppe, un velo di composto dolore nei begli occhi azzurri: all’epoca, la morte di Sagitter l'aveva sconvolto molto.

E non solo per lo strazio che tale perdita aveva provocato in Aiolia, con cui Scorpio condivideva tutto sin dalla primissima infanzia, ma anche perché era sinceramente affezionato al giovane, da lui considerato alla stregua di un fratello maggiore acquisito.

Maia, per alleggerire la tensione che si era venuta a creare, riportò il discorso sul soggetto originale.

«Chissà perché proprio “Death Mask”, poi;» disse, accarezzandosi il mento meditabonda «bisogna riconoscere che gli si addice, ma mi auguro che almeno da bambino sia stato diverso!»

«Gli unici che l’abbiano conosciuto prima dell’investitura sono Shura ed Aprodhite,» rispose lo Scorpione, lieto che l'amica l'avesse distolto dai suoi tristi pensieri «e non credo proprio che apriranno bocca sull’argomento. Pensa che il vero nome di Cancer, col tempo, è assurto a mistero “ufficiale” del Santuario: è oggetto di scommesse da sempre».

Mentre lui parlava, Maia aveva aperto la finestra e si era seduta sul davanzale.

«Che stai facendo? Vieni via di lì! Non è esattamente ortodosso, se ti sorprendono alle dieci e mezzo sulla mia finestra con addosso solo una mia maglietta! Vuoi proprio che pensino male, neh? Peccato che io non sia disposto a sorbirmi una lavata di capo unicamente per soddisfare la tua ambizione, tesoro» scherzò Milo, fra il serio e l'ironico.

Per tutta risposta lei, dopo averne presa una, gli tirò in faccia un pacchetto di sigarette: «Sei solo uno sciocco presuntuoso! Per di più, questa è la finestra che dà sul retro: chi vuoi che mi veda, gli spuntoni di roccia?!»

«In effetti, non hai tutti i torti. Ehi, le Lucky Strike Red! Posso favorire?» chiese, raccogliendo il pacchetto da terra.

«Mh. Non te lo meriteresti, ma fai pure».

Era il loro piccolo segreto: ogni tanto, quando erano soli, si concedevano il piacere di una sigaretta insieme.

Non accadeva molto spesso, onde evitare che a entrambi – ma soprattutto a Milo –, venisse la voglia di cominciare seriamente, e forse era anche per questo che a lui piaceva così tanto: lo trovava un momento intimo, rilassante. Una parentesi durante la quale dismettere le proprie vesti ufficiali, insomma.

«A proposito,» disse poi Scorpio, divertendosi a espirare il fumo addosso a Maia «che vi siete detti su in terrazza tu e Camus, ieri sera? Da quando è sceso non ha fatto altro che guardarti in modo strano».

Gliel'aveva chiesto serenamente, senza malizia o provocazione, perciò si stupì nel vedere come la ragazza fosse al contrario scattata sull'attenti, come durante un interrogatorio.

«Nulla di interessante, proprio no. Abbiamo parlato del più e del meno... » rispose lei, rigirandosi nervosa l'accendino tra le dita.

«Sento puzza di bruciato: se davvero non fosse successo niente non avrebbe motivo di essere così agitata!»

«Maia;» sospirò Milo, spegnendo il mozzicone di sigaretta e afferrando un bicchiere pieno d'acqua «essendo io in grado di inventare una frottola credibile in pochi secondi, sono anche capace di riconoscere chi, invece, non possiede questa facoltà. Non fingere con me, non serve a nulla. Dai, non ci sono mai stati segreti fra noi due, lo sai che puoi dirmi tutto».

«Ma io sto dicendo la verità!»

«Perché si ostina a non dirmelo?! Non sarà che... »

«Ti ha parlato male di me, vero?» domandò allora, fattosi improvvisamente mogio «Lo sapevo. Dall'esterno può sembrare sinceramente affezionatomi, ma in realtà sono certo che mi sopporta solo perché deve farlo. Non gli piace la mia compagnia, me lo fa capire in tutti i modi... stupido io, che non riesco ad accettarlo!»

«Ma che scemenze vai dicendo?» lo scosse Maia «Certo che gli piace la tua compagnia, sei il suo migliore amico da sempre! Dovresti aver capito come è fatto, non è avvezzo a manifestare ciò che sente. Non hai motivo di pensare cose del genere».

L’amico la guardò avvilito: «Fidati, non sono scemenze: ho le mie buoni ragioni per pensarlo. Avanti, dimmi cosa ti ha detto, ti prego!»

«Ok, d'accordo;» esclamò lei con tono scocciato «te lo dirò. Però mi devi promettere che, quando anche Camus te ne parlerà – non può non farlo, è troppo importante –, tu fingerai di non sapere niente: io e te non ne abbiamo discusso. Ci stai?»

«Sì, sì, ci sto! Su, sputa il rospo» liquidò il patto Milo, impaziente quanto un bambino di fronte a un regalo incartato.

«Non abbiamo parlato di te, anzi, non abbiamo parlato affatto… o, perlomeno, non è l'argomento della nostra conversazione il nocciolo della questione».

«Stai tergiversando: arriva al dunque».

«Insomma, per farla breve: ci siamo baciati» Maia terminò la frase tutto d'un fiato, attendendo con trepidazione di vedere come Milo avrebbe reagito.

«No. Lei non ha detto davvero quello che hai appena sentito, è tutto un gigantesco equivoco».

«M-ma come? Perché?» balbettò Scorpio, sperando che lei si affrettasse a dirgli che era stato uno sbaglio dettato dal troppo vino -che non sarebbe più accaduto. Che erano stati due sciocchi.

Invece la risposta fu ben diversa, e gli arrivò chiara e dolorosa come una stilettata dritta in mezzo al petto.

«Perché già da tempo entrambi desideravamo che accadesse; solo che ignoravamo ciò che l'uno provava per l'altra. É stato splendido, Milo!» dichiarò la ragazza con un sorriso raggiante, felice di poter condividere quella gioia con il suo amico preferito «Non pensavo che si potesse essere presi da qualcuno in questo modo, io... MILO! COS'HAI?»

«Camus. Il MIO Camus... non è possibile, non mi aveva mai parlato di lei! Lui… con lei… con Maia. La nostra amica Maia!»

Perso nel folle vortice dei suoi pensieri, Milo non si era accorto di aver stretto il bicchiere che aveva in mano con una foga tale da spaccarlo in mille frammenti; numerose schegge di vetro gli si erano conficcate nel palmo e il sangue colava copioso lungo le dita, per poi gocciolare sul pavimento. Tuttavia, Scorpio pareva non curarsene affatto: continuava a fissare dritto davanti a sé – pur non vedendo nulla.

«Lui non poteva essere d'accordo, NON POTEVA! Io devo andare a parlargli, non c'è altra soluzione. Mi dispiace, Maia, ti stai sbagliando: lui non potrebbe mai provare qualcosa per te».

«MILO, CHE TI PRENDE?! MI SENTI? RISPONDIMI, MILO!»

La voce di Maia, nonostante ella stesse urlando, gli sembrava poco più di un ronzio inconsistente: si costrinse a prestarle attenzione solo quando lei cominciò a prenderlo a schiaffi, nel tentativo di farlo uscire da quella sorta di trance.

La allontanò da sé trapassandola con un'occhiata bieca, preso dal folle desiderio di fargliela pagare.

«Che sto facendo? Lei non sapeva, lei non sa, nessuno lo sa. Solo Camus avrebbe dovuto capirlo, lei non ha colpa.... »

«M-Milo?» chiamò piano lei, costernata dalla brutalità del suo sguardo.

«Tranquilla. Sto bene adesso» sussurrò il ragazzo, rattristato.

Maia non aveva mai avuto paura di lui, né dopo aver assistito ai suoi combattimenti né quando egli gli aveva sadicamente descritto quali atroci sofferenze provocassero i suoi colpi.

Mai si era sentita in soggezione al suo cospetto, nemmeno la prima volta che le era apparso davanti con indosso l'armatura dello Scorpione.

Eppure, in quel momento si accorse che era spaventata. Da lui, dal suo essere cavaliere: la cosa lo scioccava più di quanto già non lo fosse.

«Perdonami, non so cosa mi sia preso. Ora è tutto a posto» bisbigliò col capo chino, i capelli a nascondergli l'espressione affranta.

Poi, non potendo sopportare più a lungo quel silenzio opprimente, uscì dalla stanza a grandi falcate e si chiuse in bagno a medicarsi la ferita che da solo si era inferto.

Quando tornò in cucina, la trovò seduta su una sedia con il viso tra le mani.

Appena entrò, lei disse: «Capisco che tu possa esserti sentito offeso per il fatto che nessuno dei due, benché entrambi tuoi migliori amici, ti abbia coinvolto in questa faccenda. Ma perché reagire così, Milo? Mi aspettavo stupore, stizza magari, non certo questo! Pensavo che saresti stato felice per me... per noi!» terminò alzando la testa di scatto, ormai prossima alle lacrime.

«Scusami tanto, Maia. Mi spiace, non volevo turbarti. Adesso devo andare: ricordati di chiudere, quando esci».

«Aspetta! Dove vai?»

«Credo che tu lo sappia già, per cui non provare a seguirmi» ribatté Milo, sbattendosi la porta alle spalle.

 

*

                                     

Il Tempio dell'Acquario in genere era sempre silenzioso, e quella mattina non faceva eccezione; i passi di Milo risuonavano al suo interno come cupi boati prima di un temporale.

Aveva fretta e, nello stesso tempo, paura di arrivare alle stanze del Custode. Non era sicuro di voler sentire ciò che egli gli avrebbe detto.

Tuttavia, una volta giunto all'ingresso dell'alloggio privato di Camus, prese il coraggio a due mani e ne spalancò i battenti. Ed eccola lì, la sua meta, comodamente acciambellata su una delle poltrone di vimini che costituivano l’unico arredo della piccola veranda esterna al soggiorno.

Un corridoio, ai cui lati erano disposte le altre stanze, collegava direttamente l'entrata alla porta-finestra che dal salotto dava sulla veranda; da dove si trovava Milo poteva quindi osservare Aquarius di schiena, i lunghi capelli leggermente smossi dal venticello che da giorni soffiava sull'Attica.

Scorpio, dimentico solo per un attimo dell'amaro motivo per cui si trovava lì, pensò che quei capelli fossero meravigliosi.

«Milo!» disse Camus una volta avvertita la sua presenza, lanciandogli un'occhiata fra l'assonnato e l'incuriosito «Che diamine ci fai qui a quest'ora? Non sai che è maleducazione presentarsi in casa altrui senza avvertire? Via, per questa volta non fa niente. Vieni, accomodati accanto a me, piuttosto! É una giornata bellissima, non c'è nemmeno un velo di foschia».

«Io lo so perché oggi sei così gentile. Che avresti fatto ieri nella stessa situazione, eh? Mi avresti risposto male, come fai sempre, e magari mi avresti anche buttato fuori! Oggi invece sei felice, vero, Camus? Sei felice per quanto non lo sono io, maledizione!»

«Allora?! Sei forse sonnambulo? Questo spiegherebbe la tua inaspettata apparizione, in effetti».

«Nient’affatto. Sono sveglissimo» rispose secco Milo, raggiungendolo all'esterno.

Il suo compagno aveva ragione: quel giorno il sole splendeva più del solito e pareva che cielo e mare si mescolassero sulla linea dell’orizzonte, tanto l'aria era limpida. Peccato che un simile idilliaco spettacolo fosse in totale disaccordo con il suo umore.

«Che hai? Ti sei alzato con il piede sbagliato? Sembri arrabbiato, e-»

«Lo sono, Camus. Lo sono eccome» lo interruppe lo Scorpione.

Poi aggiunse, senza troppi preamboli: «È vero che tu e Maia vi siete baciati, ieri sera?»

«Oh. L’uccellino ha già cantato» arrossì Camus, lievemente imbarazzato «Avrei voluto essere io il primo a dirtelo; comunque sì, ci siamo baciati. Dopo cena, quando voi eravate di sotto a prendere il caffè».

«Perché l'hai fatto, ‘Mus? Non posso credere che tu provi qualcosa per lei».

«Sentiamo, perché non dovrei? È bella, intelligente, profonda... e infine, cosa non meno importante, a Maia non devo nascondere nulla. Con un'altra ragazza sarei costretto a mentire continuamente per tenere segreto il mio ruolo, mentre con lei posso evitare di fingere di essere una persona che non sono».

«M-ma... »

«Milo, ascoltami:» proseguì Aquarius serio, alzandosi in piedi a sua volta onde poter guardare l'amico negli occhi «so che avrei dovuto parlarti molto prima di ciò che provo per Maia; se non l'ho fatto, è perché una piccola parte di me sperava che fosse solo una cosa passeggera, senza importanza. Me ne vergognavo persino, poiché, più che l’amoralità della faccenda, era soprattutto la paura di non essere ricambiato a trattenermi. Dopo ieri sera però, ho capito che non posso – anzi, non voglio – più ignorare questo stato di cose. Non devi preoccuparti per lei: sono sicuro di ciò che faccio, ti prometto che non la farò soffrire. Mi conosci, sai che mantengo sempre la parola data. Come sai, d’altronde, che non mi permetterei mai di intromettermi nel vostro rapporto, privandovi del tempo che solete passare insieme».

Terminato il breve discorso, Camus gli rivolse un sorriso molto somigliante a quello che era apparso sulla bocca di Maia poco prima; un sorriso che avrebbe dovuto trasmettere gioia, tanto era sinceramente sentito, mentre per lui era solo un ulteriore passo verso l'orlo del baratro.

«E… e io? Io e te, che fine faremo?»

Voilà, la domanda cruciale. Il quesito che più gli premeva, e la cui risposta temeva in misura ancora maggiore.

«Come “che fine faremo”? Continueremo a essere amici, che dubbi ti vengono?!» lo guardò stupefatto il francese, senza cogliere la sottile sfumatura della frase che, agli occhi di Milo, era invece così evidente.

«Ovvio. È evidente solo ai MIEI occhi. Lui non ha capito un accidente. In tutto questo tempo, non ha mai voluto capire. Per lui sono solo un amico, lo sono sempre stato. Un amico. Sciocco io, a pensare che quella volta avesse cambiato tutto, per sempre».

Milo era oltremodo esaltato, quel giorno: del resto, aveva molti validi motivi per esserlo.

Era il suo tredicesimo compleanno, ed era appena divenuto a tutti gli effetti Cavaliere di Scorpio.

L'armatura, pur essendo la prima volta che la indossava, sembrava essere stata modellata su di lui: gli abbracciava il corpo come un'amica conosciuta da sempre. Sentiva il cosmo prorompere al suo richiamo, brillante e potente come non lo era mai stato.

Al termine della cerimonia di investitura, gli altri erano accorsi a festeggiarlo: Shura si era complimentato con tono solenne; Death Mask e Aphrodite gli avevano stretto la mano; Shaka aveva sorriso, concedendogli l'onore – tale era, secondo Virgo – di mirare il celestiale azzurro dei suoi occhi; Mu ed Aiolia l'avevano abbracciato commossi, mentre Aldebaran aveva riversato tutto il suo entusiasmo in un'allegra pacca sulla spalla.

Solo uno mancava all'appello.

Milo era sicuro di averlo scorto sugli spalti dell'Arena, seduto accanto all'Ariete, dove era rimasto per tutta la durata del rito; così come possedeva la certezza di aver visto una chioma cremisi allontanarsi discreta alla fine di esso.

Non amando la ressa, l'Acquario aveva sicuramente deciso di porgergli le sue congratulazioni in un momento più intimo; e, infatti, qualche ora più tardi se lo ritrovò seduto ad aspettarlo nelle stanze interne dell'Ottava Casa.

Eccezion fatta per la Vergine, fra i cavalieri d’oro più giovani Milo era stato l'ultimo a ricevere le sacre vestigia, Camus il primo – l'uno l'opposto dell'altro, anche in quel frangente.

Era già un po’ di tempo – forse da quando lui era tornato dalla Siberia – che lo Scorpione guardava l'amico con occhi diversi; non poteva negare che non era solo affetto, quello che lo legava all'Undicesimo Custode. No, almeno da parte sua c'era dell'altro. E in quel momento, sopraffatto dalle troppe emozioni, non seppe resistere.

Quando Camus si alzò, lui gli andò incontro correndo e, senza dire una sola parola, lo tirò a sé per baciarlo sulle labbra. Fu un bacio breve, appena accennato, a cui Aquarius, pur rimanendo rigido, non si sottrasse.

Una volta divisi, il rosso si limitò a rivolgergli un penetrante, insondabile sguardo aureo, salvo poi stenderlo con un pugno poderoso subito dopo.

«Adesso siamo pari. Ah, dimenticavo: congratulazioni, cavaliere di Scorpio!» disse questi con un mezzo sorriso al compagno disteso a terra «Comunque, la mia armatura è più bella!»

Non avevano mai fatto parola di quel bacio, ma da quel momento Milo aveva covato la segreta speranza di poter, un giorno, essere ricambiato da Camus, coltivandola costantemente come un fiore bellissimo e delicato.

E adesso quel fiore, custodito per tanti anni, era appassito nel giro di un'ora – morto prima ancora di sbocciare.

Non aveva nient'altro da dire; le sue illusioni erano andate in pezzi, e l'unica cosa che davvero desiderava era rimanere solo.

Si voltò quindi di scatto e prese a camminare a falcate sempre più grandi, sordo ai richiami stupefatti di Camus; incapace di credere che la persona maggiormente cara al suo cuore potesse dargli un dolore così grande, voleva soltanto allontanarsene il più possibile.

Milo corse, corse e corse, percorrendo senza fermarsi le restanti Case e ignorando le domande e le occhiate dei loro Custodi, fino a quando, ansante, si ritrovò nei pressi dei campi che separavano il Grande Tempio dall’accesso ai sotterranei per Rodorio.

La collera era svanita, lasciando il posto a qualcosa di peggiore.

Si sedette all'ombra di un vecchio ulivo frondoso e si sfilò il ciondolo a forma di anfora che portava al collo da quando Camus gliel'aveva regalato per il suo sedicesimo compleanno.

«Questo ti fungerà da coscienza in mia vece: guardalo sempre, prima di fare qualcosa di stupido!»

«Camus... »

All'improvviso, gettò stizzosamente la collana fra l'erba. Se ne pentì subito dopo – e pianse.





Note dell'autore

Salve a tutti!

Povero, povero Milo. Ogni volta che, per qualsiasi motivo, mi trovo a rileggere questo capitolo, Scorpio mi fa sempre più pena.

Rispetto alla precedente versione, non è mutato granché, salvo qualche aspetto relativo a Death Mask nel dialogo fra Milo e Maia; la divergenza più importante risiede sicuramente nell'attuale forma della collana di Milo, che prima avevo immaginato essere un ciondolo contenente una foto di lui e Camus da ragazzini. Tuttavia, accorgendomi che era una cosa decisamente kitsch – assolutamente non da Camus, comunque – ho deciso di dare allo stesso la forma del simbolo dell'Acquario.


 

 

 

 

 


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Capitolo 7
*** Capitolo 5: giugno 1986. Shaka ***


Capitolo 5. Shaka BG

Capitolo 5: giugno 1986. Shaka

 

 


L’incertezza è il peggiore dei mali, fino al momento in cui la realtà ce la fa rimpiangere.

Alphonse Karr

 

 


La riunione era stata indetta in fretta e furia, senza tutti quei riti ufficiali di convocazione che in genere richiedevano molte più formalità.

Eppure era proprio quell'urgenza, congiunta alla tensione che aleggiava nell'aria come nebbia, a tradire la serietà della situazione: non era mai avvenuto che il Gran Sacerdote avesse radunato contemporaneamente tutti i cavalieri d'oro e, perciò, non c'era da aspettarsi nulla di buono.

Nelle espressioni dei compagni, schierati in attesa ai piedi del Trono, Shaka poteva leggere la stessa trepidazione e lo stesso sgomento che anche lui provava.

Essendo disposti secondo l'ordine zodiacale, si trovava tra Aiolia e Milo, poiché la Bilancia non aveva risposto al cosmo che li aveva richiamati.

Oltre a Libra mancavano il cavaliere di Gemini e, ovviamente, quello di Sagitter: la Nona Casa era vuota da oltre tredici anni, ossia dalla morte di Aiolos e dalla conseguente scomparsa dell'armatura.

Contrariamente a come si era aspettato, Leo non aveva dato segni di essersi pentito del litigio avuto due settimane prima e, anzi, se ne stava impettito con la testa palesemente voltata dall'altra parte, mentre Milo da un paio di giorni non si pronunciava che a monosillabi; Shaka poteva quindi rimanere in silenzio, indisturbato.

A un tratto, il chiacchiericcio concitato che gli era risuonato nelle orecchie da quando erano entrati si spense di colpo: il Gran Sacerdote aveva fatto il suo ingresso in sala e si era posizionato di fronte a loro, il volto come di consueto celato da quella maschera che incuteva soggezione in chi troppo a lungo aveva l'ardire di osservarla.

«Aries, Tauros, Cancer, Leo, Virgo, Scorpio, Capricorn, Aquarius, Pisces:» i lunghi capelli grigi del pontefice ondeggiavano leggermente al suo passaggio, sfiorando quasi i cavalieri che, una volta appellati, si erano inginocchiati «nobili guerrieri, sono lieto che abbiate risposto in modo così celere alla mia chiamata. Mi duole invece notare l'assenza di Gemini e del vetusto Libra» disse in tono grave, accomodandosi sullo scranno dorato e facendo loro cenno di alzarsi.

«Il motivo per cui vi ho riuniti qui oggi è grave, e della massima urgenza. Si tratta di un caso di insubordinazione che già da qualche tempo aveva attirato la mia attenzione, anche se fino a ora non l'ho ritenuto così preoccupante da coinvolgere la più alta casta di cavalieri – quali voi siete. Tuttavia, il corso degli eventi mi vede costretto a mutare opinione e a farvi quindi partecipi del crimine che si sta consumando nei confronti di Atena, dei miei, e di quelli di tutte le sacre leggi del Grande Tempio. Sotto l’egida della giovane nipote di Mitsumasa Kido, quattro dei nuovi cavalieri di bronzo sostengono che il Santuario di Atene sia guidato dalle forze oscure e che siano loro, invece, i veri difensori dell'umanità, protetti dalla Dea in persona – reincarnatasi, a parer loro, in quella ragazzina».

Al che, Arles fece una pausa ad effetto, onde poter captare le reazioni provocate dalla scandalosa rivelazione: il brusio che si levò dalla maggior parte dei presenti, carico di sdegno e astio, non lo lasciò deluso.

«Che oltraggio! Come hanno osato, quei… quei miserabili!» pensò Shaka, chiudendo le mani a pugno, infiammatosi d'un tratto al pari di Shura e Milo.

«Signore;» disse Camus, una volta ristabilito un parziale silenzio «voi avete menzionato poc'anzi un certo Mitsumasa Kido. Stiamo quindi parlando della nipote del celebre milionario giapponese da poco deceduto, fondatore e proprietario della Fondazione Grado? Colui che ha raccolto un gran numero di orfani nella sua villa di Tokyo per prepararli fisicamente e, in seguito, inviarli nei vari luoghi di addestramento per cavalieri di Atena?»

«Esatto, Aquarius:» annuì il Gran Sacerdote «lo stesso uomo che, tredici anni fa, entrò in possesso dell'armatura di Sagitter in circostanze a me tutt'ora sconosciute, e che adottò la bambina rapita dal traditore».

A Virgo era sembrato che, nel pronunciare la parola "traditore", il Pontefice si fosse voltato provocatoriamente verso Aiolia, e la sua impressione venne acuita dall'improvviso irrigidirsi del compagno.

Pur essendo ancora adirato con lui, non poté fare a meno di provare una sorta di pena nei suoi confronti – la quale, però, svanì ben presto: non era capace di provare pietà, lo riteneva un sentimento sciocco e inadatto alla sua persona.

«E dunque,» intervenne all'improvviso Aphrodite, ragionando ad alta voce «se il vecchio è morto, le sacre vestigia del Sagittario adesso... »

« …adesso sono passate alla nipote, nonché ai Bronze ribelli!» concluse la confutazione il suo compare, Death Mask.

«Proprio lì era mia intenzione giungere;» riprese Arles «la vera minaccia non sono tanto i quattro scellerati, quanto il fatto che abbiano in mano l'immenso potere dell'armatura d'oro più forte fra tutte – anche se dubito che abbiano la facoltà di usufruirne. Nonostante ciò, converrete con me che questa faccenda vada sistemata il prima possibile: è in gioco il prestigio del Grande Tempio, e non solo quello» proclamò, battendo il pugno sul bracciolo.

«Scusate, ma ancora non capisco quale sarebbe il nostro ruolo nella dinamica dei fatti. Con tutto il rispetto, sommo Arles, un cavaliere d'oro non può scendere in campo contro un altro a lui così inferiore, ne andrebbe del suo buon nome!» irruppe Milo, offeso solo dalla prospettiva di tale infamante scontro.

«Placati, Scorpio, sono sicuro che il vostro intervento non sarà necessario. Purtroppo, il tradimento di Ikki di Phoenix – colui a cui avevo dato il compito di sbarazzarsi di quegli infedeli e di recuperare l'armatura – ha mandato a monte i miei piani; confido tuttavia nella buona riuscita dei cavalieri d'argento. Misty di Lizard è già in viaggio verso la capitale giapponese. Per adesso, voi non sarete chiamati a compiere alcun tipo di azione: dovrete solo stare all'erta e non allontanarvi per lunghi periodi dal Santuario senza avvisarmi».

«Sarà fatto, Signore» garantì Shura, a nome di tutti.

«Ora potete andare: tenetevi pronti per qualsiasi evenienza».

Essendo stati congedati sbrigativamente, uno alla volta tutti i cavalieri si inchinarono davanti al Gran Sacerdote per poi affrettarsi a uscire, chi per discutere delle scioccanti novità, chi per poter rimanere finalmente solo a riflettere.

Shaka era uno degli appartenenti alla seconda categoria e, onde evitare di venire invischiato in conversazioni indesiderate, fece in modo di essere l'ultimo a varcare la soglia della sala; appena prima di chiudere i battenti dell'imponente portone lasciò cadere lo sguardo sulla figura di Arles, ancora seduto sul Trono.

Questi aveva abbandonato la postura eretta tenuta dinanzi al loro cospetto; si era anzi quasi accasciato, con una mano posata sugli occhi.

Sembrava che stesse male: mormorava ripetutamente parole incomprensibili, mentre il suo corpo era scosso da piccoli spasmi irregolari.

Dopo qualche attimo, però, parve avvertire la presenza di Virgo, poiché si ricompose all'istante.

«Cosa c'è, cavaliere di Virgo? Perché sei ancora qui?» inquisì, con tono rude e autoritario.

Per un secondo Shaka fu sul punto di chiedergli se fosse tutto a posto, ma poi pensò che sarebbe stato più saggio farsi gli affari propri.

«Nulla, Signore, mi sono solo attardato un momento. Buona giornata» disse con calma, uscendo senza dar segno di aver visto nulla.

«Meglio non far capire a un uomo del genere che l'hai colto in un momento di debolezza. Non si sa mai» pensò, una volta lasciatasi alle spalle la Tredicesima Casa.

Era sì orgoglioso, ma anche prudente: dei dissapori fra il Gran Sacerdote e un cavaliere del suo rango non erano auspicabili, men che meno in quella situazione.

Le nefaste nuove non lo preoccupavano, piuttosto lo sconvolgevano: come era stato possibile che quattro ragazzini avessero osato tanto?

Il mancato riguardo verso le gerarchie era da sempre la cosa che peggio sopportava; il corso naturale delle cose doveva essere obbligatoriamente rispettato, perché così voleva l'ordine precostituito a cui niente e nessuno poteva sottrarsi.

Chi si credevano di essere quegli scellerati?

«La sensazione ignota di malessere che da tempo mi perseguita… ecco cos'era! Io avevo avvertito questa minaccia molto prima del Gran Sacerdote» affermò a se stesso con alterigia.

Non si era soffermato al Dodicesimo Tempio – dove Death Mask, Aphrodite, Milo, Aiolia e Aldebaran stavano parlando animatamente –, ma aveva proseguito spedito, diretto verso la Prima Casa.

In merito alla questione, l'unica persona di cui gli interessava conoscere l'opinione era Mu dell'Ariete; in particolare, lo incuriosiva sapere per quale ragione lui solo fosse rimasto pressoché impassibile per tutto il colloquio.

Attraversando la Dimora dell'Acquario intuì la presenza di Maia e Camus, il quale probabilmente le stava raccontando a grandi linee lo svolgimento della riunione; dovevano essere così assorbiti dalla conversazione da non accorgersi del suo rapido e silenzioso passaggio – con grande sollievo di Shaka.

La diceria del loro improvviso colpo di fulmine era giunta anche alle sue orecchie, benché i pettegolezzi di questo tipo – e, più in generale, tutti i pettegolezzi – non lo interessassero affatto. Contrariamente a coloro che avevano esclamato «Era l'ora!», lui c'era rimasto di sasso: l'Acquario, che stimava proprio per la sua rigidità, lo aveva sorpreso in senso negativo.

Non l'avrebbe mai creduto così debole da innamorarsi e, pur riconoscendo che diversi aspetti di Maia piacevano anche a lui, condannava la decisione da Camus presa.

All'interno del Palazzo del Montone Bianco Mu si stava svestendo dell'armatura, riponendola con cura pezzo per pezzo dentro lo scrigno, apparentemente assorto in quell'attività; Shaka sapeva che la sua aria concentrata era in realtà dovuta a ben altri pensieri.

In fondo, provava una sorta di affetto per quelli che lui considerava amici, anche se certi loro atteggiamenti puerili talvolta lo irritavano; Aries, però, era diverso. Il solo, fra tutti, che Virgo considerasse suo pari.

La saggezza che gli si poteva leggere negli occhi non aveva nulla di infantile, nulla di avventato, nulla che non meritasse rispetto e stima.

Fece per annunciarsi, ma Mu fu più rapido.

«Vieni avanti, Shaka, non avere timore di disturbarmi; ho finito» disse questi, poggiando l'elmo sopra gli altri pezzi che, una volta insieme, andarono a ricomporsi nella forma di un ariete.

«Posso tornare più tardi, se sei occupato».

«No, resta pure. Sei venuto per discorrere con me riguardo a ciò che ci ha comunicato Arles, non è così?»

«Sì, infatti».

Mu rimase silente per un attimo, come se stesse raccogliendo le forze, poi lo invitò ad uscire: «Accompagnami: facciamo due passi».

Shaka gli si accostò e, insieme, si diressero all'esterno, privi di una meta precisa.

Nubi scure si andavano addensando nel cielo sopra il Grande Tempio, incupendo l'atmosfera: dopo settimane di sole, quel pomeriggio sarebbe tornato a piovere.

«Tu avevi già avvertito che stava per succedere qualcosa, vero?» gli chiese Aries di punto in bianco.

«In effetti, è un po’ di tempo che mi sento irrequieto» confessò lui «Probabilmente stavo solo percependo l'ostilità del debole cosmo dei quattro cavalieri di bronzo traditori, senza riconoscerla».

A quelle parole, Mu sospirò di nuovo – in un modo che spazientì Shaka.

«Perché mi tratta con fare di sufficienza? Se ha qualcosa da dire, che la dica subito!»

«Dunque, Mu? Cosa ne pensi tu della questione? Non mi pari sdegnato come invece dovresti sentirti».

«Io penso che tu sia giunto alla conclusione sbagliata» rispose cauto quello, per non offendere la suscettibile Vergine «Vedi, anche io ultimamente sono disturbato da qualcosa di oscuro, qualcosa a cui, fino a oggi, non avevo saputo dare nome. Ricordi il giorno del compleanno di Aldebaran, quando Camus raccontò della strana impressione che gli aveva provocato il contatto con il cosmo del Gran Sacerdote? Ebbene, stamani ho avuto la stessa sua sensazione: secondo me la minaccia che abbiamo scorto è interna, non esterna».

«Cosa vorresti dire?»

«Voglio dire che io vedo in Arles il nemico da estirpare» esplicitò Aries «Pensaci, Shaka: chi è costui? Ci guida da tredici anni, ma nessuno è ancora riuscito a scoprire qualcosa sulla sua vita passata. Cosa avvenne davvero durante la Notte degli inganni? Perché il fedele, il giusto Aiolos venne marchiato come traditore? Quale crimine commise? E, infine, perché temere così tanto quattro ragazzini, inguainati di armature così scarse rispetto alle nostre? Se ciò che proclamano fosse di sicuro falso, la Dea avrebbe già provveduto a punirli. Uno di essi è l'allievo del venerabile Libra, il più saggio e lungimirante fra tutti i cavalieri d'oro: non potrebbe aver allevato una serpe in seno per anni senza avvedersene».

«Mu! Ti rendi conto di quanto ciò che sostieni sia privo di fondamento?» lo interruppe Shaka «Stai accusando il nostro Gran Sacerdote di una colpa che, per il ruolo che ricopre, non può commettere: le sue azioni sono guidate direttamente da Atena. Mettere in dubbio la sua parola è come mettere in dubbio quella della Dea stessa! Inoltre, la prova che porti a supporto della tua causa è, invece, la chiara testimonianza dell'opposto: l'allievo della Bilancia è un traditore, così come lo è il suo maestro. Se no, a che scopo non rispondere a una convocazione del Grande Tempio? Cosa ci può essere di più importante nella vita di un cavaliere?» aggiunse poi, spalancando le palpebre per la foga.

Mu smise d'un tratto di camminare, e fissò con sguardo triste gli occhi del compagno: «Mi duole sentire che la pensi così, amico mio. Comunque, la mia opinione resta immutata».

«Pare allora che le nostre strade si dividano, per il momento. Se, un giorno, dovessero tornare a incrociarsi, forse saremo nemici. Forse, dovremo batterci. Spero che ciò non avvenga mai, ma, se così non fosse, temo che sarò chiamato a compiere il mio dovere – nonostante il nostro legame» dichiarò solennemente Shaka.

«Più che giusto. Vale lo stesso per me».

«E adesso che farai? Non puoi rimanere al Santuario, prima o poi si verrebbe a sapere come la pensi» chiese l’indiano, voltandosi verso il bordo della scogliera che avevano raggiunto passeggiando.

Il temporale era imminente: il mare, scosso dal vento che soffiava da ponente, ribolliva sotto di loro.

Le Dodici Case, alle spalle, sembravano più grigie che mai.

«Partirò, credo il prima possibile. Non è più sicuro qui, per me» rispose l'Ariete, contemplando i fulmini che illuminavano l'orizzonte.

Già iniziavano a cadere le prime gocce di pioggia.





Note dell'autore

Ciao a tutti!

La riunione da me descritta in questo capitolo è, ovviamente, del tutto fittizia (ma dai?!); secondo il mio immaginario, la stessa si collocherebbe tra il "voltafaccia" di Ikki e l'arrivo di Misty a Tokyo – che, all'epoca della stesura della storia, non sapevo corrispondesse alla Nuova Luxor dell'anime. Benedetta ignoranza.

Per ciò che riguarda la dimensione spaziale del Grande Tempio, ammetto che è un tantino difficile riprodurre a parole la "mappa" esistente dentro la mia testa; diciamo che, a grandi linee, l'intero Santuario (Dodici Case, Arena, Biblioteca, mensa, alloggi, campi di addestramento vari e zona campestre antistante l'accesso per Rodorio) sarebbe situato in una zona isolata poco distante dal porto del Pireo – dunque, a ovest rispetto ad Atene.

Uffa, è soprattutto in questi momenti che vorrei saper disegnare decentemente: lo schizzo che ho realizzato a mio uso e consumo è talmente indecifrabile che potrebbe tranquillamente passare per un'opera d'arte astratta – o per gli scarabocchi di un fanciullo di due anni.

Spero che mi perdonerete!

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Capitolo 8
*** Capitolo 6: luglio 1986. Maia ***


Capitolo 6. Maia BG

Capitolo 6: luglio 1986. Maia

 

 

Sei giunto: hai fatto bene: io ti bramavo.

All'animo mio, che brucia di passione, hai dato refrigerio.

Saffo

 

 

 

 

L’autobus procedeva scricchiolando lungo la strada sterrata, lento come solo i vecchi autobus di quella specie sapevano essere; i tiepidi raggi di sole che filtravano attraverso i finestrini, insieme al silenzio generale dei passeggeri, contribuivano a rendere l’atmosfera piacevolmente sonnacchiosa.

Maia stava appunto per appisolarsi con la testa appoggiata al vetro, quando il mezzo si fermò di botto e l’autista annunciò a gran voce la fermata: «Rodorio!»

La ragazza, ricacciando indietro uno sbadiglio, si affrettò a scendere a terra in un turbinio di giacca, borse e fogli volanti che – come spesso accadeva – le caddero tutti di mano; quando ebbe finito di raccogliergli, il bus era ormai sparito alla sua vista.

Le ci volle un attimo per abituarsi al nulla pieno di ulivi e di campi che aveva davanti: passare dal caos ateniese alla quiete quasi fuori dal mondo del suo paese natale la spiazzava ogni dannata volta.

Nonostante questo, mai avrebbe scambiato la seconda col primo – per un milione di motivi differenti.

Certo, Atene aveva un fascino da cui non si poteva non essere attratti; come tutte le capitali possedeva un melange di nuovo e antico che incantava solo a respirarne l’aria.

Il via-vai incessante di persone, mezzi, musica e luci costituiva un vortice dal quale era difficile non lasciarsi rapire, e la visione del Partenone al tramonto era uno degli spettacoli più belli cui si potesse assistere.

Ma la piccola e, all’apparenza, anonima Rodorio, con le sue casette tutte uguali e le sue viuzze strette di acciottolato, nascondeva un luogo che non poteva essere paragonato a nient’altro al mondo. “Un luogo delle fiabe” l’aveva chiamato sua nonna tanti anni addietro.

Alla luce di ciò che vi aveva visto succedere nel corso del tempo Maia non avrebbe potuto definirlo ancora in tal modo, e tuttavia il Santuario di Atena rimaneva, ai suoi occhi, il posto straordinario per eccellenza. Quello dove, nonostante tutto, valeva sempre la pena tornare.

Riavutasi dallo stordimento, la ragazza si incamminò senza fretta lungo la strada che, smarcandosi da quella principale, si inerpicava fino al cuore del paese, diretta all’unico negozio che sapeva avrebbe trovato aperto nonostante l’ora pomeridiana.

“L’ulivo” era, a prima vista, un banalissimo negozio di fiori, situato a mezza via tra l’entrata di Rodorio e la cima di questo, ove sorgeva la piccola chiesa ortodossa; la sua proprietaria, Aghiliki Panagulis, conduceva la ditta di famiglia con amore e buon gusto, recandosi lei stessa al mercato notturno di Atene per acquistarvi i prodotti più freschi.

Lei e suo marito avevano sempre un sorriso e una parola gentile per tutti, e non mancavano di consigliare utilmente anche i clienti più indecisi; ma, in realtà, tutto il paese sapeva che era ben altra l’attività principale dei coniugi Panagulis.

Ciò che di più prezioso conteneva il loro locale era infatti costituito da una semplice porta di legno situata sul retrobottega, di norma seminascosta dietro le rimanenze di magazzino; da lì, si accedeva a una stretta scala che, inoltrandosi nelle profondità della roccia, terminava in un apparente vicolo cieco.

Apparente solo per chi, naturalmente, non stesse cercando di raggiungere il Grande Tempio: coloro che erano a conoscenza del Mondo Segreto, infatti, giunti sino a quel punto sapevano perfettamente di dover alzare la botola sopra la loro testa, oltrepassata la quale ci si ritrovava all’esterno, in una zona di antiche rovine circondata da campi lasciati allo stato brado.

L'intero posto dava il senso di abbandono, a partire dai terreni incolti tutto intorno; l'aria di mistero e di desolazione che avvolgeva il luogo, i resti di edifici, le zolle di terra brulla, erano tuttavia soltanto un'illusione, creata in un passato remoto per nascondere il presidio di Pallade dagli occhi indiscreti del mondo esterno. Bastava superare il limite invisibile che, una volta oltrepassato, permetteva solamente a chi lo cercava di raggiungere il Santuario per ritrovarsi all’improvviso di fronte al suo monumentale complesso di templi, scale ed edifici.

Quelli che avevano vissuto l’esperienza solevano dire che fosse un po’ come vedere riemergere dalle acque la leggendaria isola di Atlantide; era esattamente questa l’impressione che Maia provava ogni volta, vedendo apparire dal nulla un intero universo.

Tuttavia, quel pomeriggio il suo sguardo era impegnato a setacciare l'ambiente in cerca di qualcos'altro – o, meglio, qualcun'altro.

«Dove sarà andato a cacciarsi? Di solito è sempre così puntuale! Non vorrei che l'avessero trattenuto all'Arena, mi toccherebbe arrivare fin lassù... oh, beh, non importa: per lui questo ed altro!»

Stava giusto per incamminarsi, quando sentì un fruscio sospetto dietro di sé; si voltò quindi di scatto, finendo rovinosamente in mezzo alle sterpaglie per il troppo slancio proprio mentre l'elegante figura dell'Acquario compariva all'orizzonte.

Maia lo osservò rapita, scordando persino di alzarsi da terra.

 Quel giorno Camus aveva un aspetto più trasandato del consueto, e tuttavia, nonostante i capelli scompigliati dal vento, la maglietta chiazzata di sudore e le fasciature protettive parzialmente sciolte, rimaneva pur sempre la cosa più bella che avesse mai visto.

«Nessuno, nemmeno un Aphrodite al massimo della forma potrebbe eguagliare anche solo la metà della grazia innata di Camus».

«Camus!» chiamò, pensando che non l'avesse scorta «Cam, sono qui!»

«Lo so» le rispose questi, una volta fattosi più vicino «Ti ho visto cadere da lontano».

«Avevo avvertito un movimento alle mie spalle e, per controllare, sono inciampata. Pensa, credevo fossi tu che volevi farmi uno scherzo!» protestò lei, sollevandosi in piedi.

«Ti paio il tipo da scherzi, io? Non sono Milo» la rimbeccò l’altro, irritato.

«Ahia. É di umore talmente cattivo da pronunciare il suo nome dopo due frasi appena».

Ultimamente Camus non lo tirava mai in ballo e, quando lo faceva, era chiaro segno che qualcosa non andava.

«Vedo benissimo che non sei Milo: sarò anche stupida, ma sicuramente non sono cieca. Che c'è? Su, dillo – fare il reticente servirà solo ad avvelenare anche il mio umore».

Ricambiarlo con la stessa sua scortesia rappresentava l'unico modo che Maia conoscesse per far sfogare il proprio taciturno compagno.

«Nulla: non c'è nulla. Come vedi, sono tranquillissimo. Ho solo incontrato Scorpio per le scale, scendendo».

«Ti ha salutato, stavolta?»

«No. Ha fatto finta di non vedermi, come di consueto».

«Ah. Capisco».

Da quando Milo era venuto a conoscenza della loro "tresca amorosa" – così l'aveva chiamata – evitava accuratamente sia di salutare Camus, sia di rivolgergli la parola.

Benché cercasse di nasconderlo con ogni mezzo possibile, era invece piuttosto evidente quanto ad Aquarius mancasse il suo amico; soprattutto, egli non capiva il perché quest’ultimo avesse preso a comportarsi in quel modo assurdo, privo di ogni logica.

Quando bisticciavano, di norma era lui quello che si chiudeva in se stesso, mentre Milo sceglieva sempre la parte di colui che tornava; stavolta, però, lo Scorpione pareva non aver nessuna intenzione di seguire il solito schema, e Camus stava faticando molto a digerirlo.

La circostanza forse più bizzarra era che con Maia, al contrario, il greco cercava di comportarsi come se niente fosse accaduto; spesso, però, la cosa non gli riusciva particolarmente bene, complice il suo mutismo di fronte a qualsivoglia argomento riguardante l’Undicesimo Custode .

«Non ti angustiare;» Maia tentò di consolare Camus nella maniera più discreta possibile, onde non intaccare il suo complicato amor proprio «sono sicura che gli passerà presto. Probabilmente è uno dei suoi soliti capricci… solo, un po’ più lungo».

«No, non gli passerà. Lo conosco troppo bene, non fa parte del suo carattere ignorare le persone in questo modo, senza un valido motivo... se solo sapessi quale!» scosse la testa lui, con mesta rassegnazione.

Lei, invece, una ragione pensava di averla trovata, ma non era sicura che, esponendola, avrebbe migliorato la situazione: appena gli era balenata in mente tutti i pezzi avevano trovato il loro incastro alla perfezione, illuminando episodi rimasti nel buio dell'ignoto molto a lungo. E tuttavia, se la sua supposizione fosse stata esatta, la verità sarebbe risultata estremamente difficile da accettare – per lei, per Camus, per tutti.

«Camus, senti. Ho pensato molto a quanto sto per dirti, per cui sappi che non lo faccio assolutamente a caso: non ti pare che Milo possa essere-»

«Oh, basta parlare di lui! Mi sono stufato: se ha qualcosa da chiarire con me, venga a farlo. Altrimenti, che si arrangi!» la interruppe sbrigativo Camus «Ricominciamo tutto da capo: facciamo finta che io sia arrivato solo adesso e che ti debba ancora salutare, vuoi?»

«Con piacere» gli sorrise lei, grata di poter accantonare la spinosa questione – almeno per il momento.

«Ciao, chérie» fece quindi il cavaliere, dando inizio a quella piccola recita che, fatta da chiunque altro, sarebbe risultata un filino stupida.

«Ciao, Camus. Dal tuo aspetto deduco che tu sia venuto dritto dritto dall'Arena, o sbaglio?» stette al gioco la ragazza, divertita.

«Non sbagli. Mi sono allenato con Aiolia, quest'oggi, e ho faticato più del solito: per questo mi vedi in condizioni tanto miserande. Sarei voluto passare per le mie stanze a fare una doccia, se solo ne avessi avuto il tempo».

«Perché non l'hai fatto? Ti avrei aspettato volentieri».

«Sai che detesto arrivare in ritardo a un appuntamento… specie se l'appuntamento in questione è con te» confessò Aquarius, non senza un certo imbarazzo.

Per ringraziarlo della gentilezza spontanea Maia gli rispose direttamente con un bacio ben assestato, che li occupò per alcuni minuti. Non le pareva vero di poter liberamente leccare le sue labbra sottili, toccarne il corpo muscoloso ma esile, accarezzargli la chioma ramata; ogni volta aveva l’irrazionale timore di trovarsi dentro uno dei tanti film mentali che era solita costruirsi in passato – insomma, non era possibile che uno come Camus fosse felice di stare con lei!

Lui era un Gold Saint, uno dei dodici uomini più potenti della Terra. Un diletto di Atena. Maia, al suo confronto, era solo una persona comune. Una ragazza banalissima, che stava vivendo un sogno dal quale destarsi sarebbe ormai risultato troppo doloroso.

All’improvviso, il bisogno di esplicitare i dubbi che le affollavano la mente divenne così impellente da costringerla ad interrompere – seppur a malincuore – l’intenso lavoro delle loro bocche.

«Camus, rispondi sinceramente: cosa ci trovi in me? Sei uno dei detentori delle leggendarie dodici sacre armature, vivi in una sorta di universo parallelo, sei in grado di congelare mezza Grecia con un mano – potresti uccidere una manciata di uomini armati con un dito! Non pensi di meritare una persona meno, come dire, anonima

«Ho vissuto un’esistenza segnata da più privazioni di quante si possano contare, ma sai qual è la cosa che mi è mancata in misura maggiore?» le domandò in risposta l'Acquario, apparentemente a caso.

«Tipico di Camus: aggirare domande scomode con altre domande».

«Una casa? Una famiglia?»

«Anche quelle, certo, però… no. Potrà sembrarti cinico, ma ciò che mi ha sempre destabilizzato di più è la mancanza di normalità» rivelò Camus, sciogliendosi distrattamente le bende macchiate di rosso.

La sua noncuranza di fronte al sangue che gli colava dalle nocche martoriate pareva il simbolo di quanto stava affermando: un uomo normale non sarebbe certamente rimasto impassibile di fronte a ferite del genere, da lui considerate invece alla stregua di un taglietto.

«Avere una routine, non essere mai troppo in balìa del caso: ho dovuto accettare di fare a meno di tutto questo, perché a un cavaliere come me non è dato nemmeno sapere se il giorno dopo sarà vivo o morto. Fa parte del mio ruolo, va bene così. Ciò non significa che io non apprezzi quel poco di normale che posso concedermi».

Come a sottolineare le proprie parole, le cinse la vita con le braccia e abbassò appena la testa per guardarla meglio.

«Inoltre, è da quando avevi sei anni che scorrazzi indisturbata in una zona proibita al resto del mondo: come puoi dire di essere anonima?» riprese poi con un sorriso, attorcigliandosi fra le dita una ciocca di capelli biondi abilmente sfuggita alla treccia.

«Non c’è nulla di così speciale nel far parte di una famiglia custode».

A quel punto, Aquarius si fece per un attimo pensieroso; poi, parve finalmente cedere a un qualche impulso, perché le chiese, quasi titubante: «Premetto subito che non è mia intenzione mettere il naso in questioni che non mi riguardano: se non vorrai o non potrai rispondermi, non mi offenderò. Tuttavia, mi piacerebbe capire come funziona il ruolo di custode, e tu saresti la persona perfetta per spiegarmelo».

Maia lo fissò, meravigliata.

«È mai possibile che, in tutto questo tempo, tu non abbia mai avuto occasione di approfondire l’argomento con nessuno?»

«Non ho rinvenuto libri che trattino della questione, per cui ho pensato che fosse una cosa strettamente riservata».

«Fidati: anche se lo fosse, non lo sarebbe mai quanto te» lo prese bonariamente in giro Maia «In biblioteca non hai trovato nulla perché la disciplina discende da consuetudine, dunque non è regolamentata in forma scritta. Quello di “famiglia custode” è un titolo che si trasmette per successione, in base al genere: nella mia famiglia, ad esempio, è la componente femminile a detenerlo. Non a caso porto il cognome di mia madre – che, a sua volta, porta quello di mia nonna. Tutte le donne appartenenti al mio albero genealogico dall’ultima Guerra Sacra sono legate al Santuario in maniera indissolubile, e devono apportare a esso il loro contributo secondo necessità».

«É questo il rapporto che vincola coloro che svolgono servizio nei luoghi di addestramento, se non erro» intervenne Camus, dando segno di essersi appassionato alla discussione.

«Sì, certamente: “secondo necessità”, appunto. Siamo circa 100 famiglie, sparse in tutto il mondo».

«La nomina a custode è riservata solamente al genere femminile? Non ci sono custodi maschi?»

«Cielo, quante domande! Mi sembra di tenere una lezione universitaria!» rise Maia, fintamente spazientita: in realtà, le faceva piacere essere lei ad avere qualcosa da insegnare a Camus, per una volta.

«La carica può essere ricoperta sia da donne, sia da uomini: dipende dal sesso del primo soggetto che è stato, per usare un termine a te congeniale, “investito”. Chiunque concerna, però, l’onere vincola l’intero nucleo familiare. Mio padre, per esempio, ha collaborato attivamente con mia madre fino… fino alla fine, insomma».

Nell’accennare alla morte dei propri genitori, la bocca di Maia assunse una piega amara: proprio a causa del titolo di custode della madre i suoi avevano intrapreso quella che, nell’arco di una notte, si era tragicamente mutata nella loro ultima missione.

«Mi spiace di averti costretto ad affrontare questo discorso: non avevo pensato alle sue possibili ricadute. Sono stato leggero, perdonami» le sussurrò Camus, passandole un braccio attorno alle spalle e stringendola a sé.

«Non fa nulla. Del resto, qui dentro non sono certo l’unica a cui il Santuario ha sottratto qualcuno. Almeno io, però, ho avuto – ed ho – nonna Frandra. A ben vedere, sono stata molto più fortunata della maggior parte di voi» disse lei, cercando di liquidare la faccenda il più velocemente possibile; non aveva voglia di contaminare l’atmosfera creatasi fra lei e Camus con l’acredine che ancora le montava dentro al ricordo di mamá e bampás.    

«Facciamo una passeggiata, vuoi?» le propose allora l’Acquario, sicuramente nel delicato tentativo di cambiare argomento.

Tiratisi su, i due camminarono per un po’ in silenzio, mano nella mano, godendo semplicemente della reciproca compagnia; infine si fermarono all’ombra di un grande ulivo dall’aria antica, col tronco scavato come il volto di un vecchio – loro non potevano saperlo, ma si trattava dello stesso albero ai piedi del quale, appena qualche settimana prima, Milo si era lasciato andare a uno dei rarissimi pianti della sua vita.

«Comunque,» esclamò Maia improvvisamente, rammentandosi di non aver ricevuto la risposta che più le stava a cuore «non mi hai ancora detto cosa ci trovi in me. Sarò pure una custode, ma questo, in tutta evidenza, non mi dà alcun tipo di potere».

Nel sentire quelle parole, il cavaliere al suo fianco la fissò come se fosse pazza.

«Non farmi ridere… potere?! Pensi davvero che io desideri avere intorno ulteriori macchine da guerra umane? Ne ho già abbastanza, grazie. Perché sei così cocciuta? Ho detto che voglio stare con te, e questo varrebbe anche se tu fossi la larva più inutile del mondo. Ciò ti sia sufficiente: non amo ripetere le cose più volte del necessario, dovresti saperlo».

Camus sancì la dichiarazione baciandola di nuovo, con un impeto tale da farli cadere entrambi a terra, aggrovigliati l’uno sopra l'altra.

Aquarius prese ad accarezzarla piano lungo tutto il corpo, reggendosi sul gomito per non gravarle troppo addosso; poi, abbandonò la sua bocca per avviare l'esplorazione del collo, mordicchiandolo qua e là.

Quando sentì la mano di lui insinuarsi sotto la maglietta e indugiare sui suoi seni, Maia ebbe un fremito.

«Speriamo che non si accorga dell'imbottitura del reggiseno» fu il suo ultimo pensiero più o meno coerente, prima che i suoi ormoni prendessero il sopravvento sulla ragione.

Mugolando a causa della progressiva discesa di quella irriverente mano dal petto al sud-ombelico, inarcò il bacino fino a premere contro l'urgenza di Camus, che sentiva essere del tutto uguale alla sua; avidamente gli tirò giù gli stretti pantaloni della tuta da allenamento, per poter meglio toccare la sua virilità.

L'iniziativa strappò non pochi gemiti all’Acquario, le cui dita si fecero più sicure nell'addentrarsi in quella zona accogliente e sacra del corpo di lei.

In quel momento, pensando un po' confusamente ai propri precedenti ragazzi, a Maia parve una sciocchezza colossale ritenere di avere amato qualcuno prima di Camus.   

«Cam. Camus» ansimò, aprendo gli occhi «Prendimi. Non ce la faccio più».

Al che, la reazione del diretto interessato fu singolare e sorprendente: infatti, anziché accontentarla, si staccò di botto e, alzatosi in tutta fretta, si allontanò da lei di qualche passo.

«M-ma che ti prende?» domandò Maia basita, sollevandosi a sedere.

«Scusami, ma se non fossi stato così risoluto non ce l'avrei fatta a resistere alla tentazione» le rispose quello con voce roca, mentre tentava di ricomporsi alla bell'e meglio.

«Perché, Camus? Hai detto poco fa che desideri stare con me; pensavo che questo implicasse anche il sesso. Non mi ritieni all'altezza, forse?»

Era amareggiata. Aveva smarrito ogni pudore, l'aveva accolto con tutto l'ardore possibile, e lui la rifiutava!

«Cielo, Maia, non fare la bambina! Lo vorrei con tutto me stesso, mi sembra di avertelo, ehm, dimostrato,» esclamò Camus, reso meno burbero dal tenue rossore delle sue guance «ma sappiamo bene entrambi che ho un voto di castità da rispettare».

«CHE COSA?!»

«Shh! Non urlare, per la miseria!»

«Perdonami» riprese Maia, più piano «Quindi vorresti dirmi che tu sei vergine, e che tale vuoi restare per il resto della tua esistenza?!»

«Non “voglio”. Devo» precisò lui.

«Camus, ti rendi conto che stai rinunciando a una fetta importantissima della vita di un uomo solo per rimanere fedele a un giuramento vecchio di secoli e ormai in disuso? Nessuno dei tuoi compagni, a parte Shaka e forse Mu, presta più attenzione a questo obbligo… di alcuni si sa per certo!»

«Loro possono fare quello che più gli aggrada, sono responsabili delle azioni che compiono» tagliò corto Camus, risoluto.

Poi, vedendo la delusione dipinta sul volto di lei, le prese le mani e le strinse forte.

«Non devi pensare che la mia scelta dipenda da te. Anzi, se non te la senti di sopportare questa rinuncia posso capire, non ti chiedo di sacrificarti a tal punto per me» disse, con sguardo grave ma deciso.

«Sono una sciocca egoista. Non avevo capito niente. É una persona meravigliosa, e devo ringraziare le stelle ogni giorno per avermi concesso di essere ricambiata da lui».

«Rinuncerei a ben altro, pur di continuare ad averti vicino» sussurrò Maia, accoccolandosi contro il suo petto e sfiorandogli la punta del naso con la propria.

«Rouge».

«Sì?»

«... sei tutto sporco di terra!» esclamò quindi, con una risata.

Camus si scostò quel tanto che bastava a esaminarsi, e dovette costatare che era vero.

«Non sono l'unico, però» ribatté, gettando un'occhiata alle braccia e ai capelli di lei, dove comparivano macchie scure un po’ ovunque.

«Potremmo andare alle terme a sciacquarci... » propose la ragazza, speranzosa.

«E dar modo a mezzo Santuario di sparlare sul fatto che ci siamo rotolati per terra insieme? Fossi matto! Piuttosto, che ne diresti di un bagno in mare?»

«Sei impazzito?! L'acqua sarà gelida!» dissentì l'altra, rabbrividendo al pensiero.

«Certo… neppure il mare di Siberia potrebbe reggere il confronto» ghignò Aquarius, sarcastico.

«E allora fattelo da solo il bagno, Signore delle Energie fredde! Io mi laverò a casa più tardi!»

«Affare fatto» dichiarò lui avviandosi, soddisfatto del compromesso.

Mentre si apprestava a seguirlo, Maia scorse un luccichio metallico fra le piante a poca distanza da lei; nel chinarsi, riconobbe subito il ciondolo che Scorpio portava al collo da anni.

Lo raccolse senza farsi vedere, accarezzandone la forma ad anfora con le dita.

«Maia! Allora?» la chiamò Camus, che intanto aveva già percorso un bel po’ di strada.

Lesta, si infilò l'oggetto in una tasca dei pantaloni; che il suo proprietario fosse d’accordo o meno, lei gliel'avrebbe restituito.

E, in cambio, avrebbe preteso una spiegazione definitiva.





Note dell'autore

Qualche volta ho l'impressione che la povera Maia sia l'OC più bistrattato al mondo: devo essere l'unica autrice che, creata una coppia, le preferisce sistematicamente un'altra.

Se non fossi stata una tale amante della MiloXCamus, forse le cose sarebbero andate diversamente – hai il permesso di maledirmi, Maia XD

Lasciando da parte le considerazioni stupide, questo capitolo ha subito una revisione contenutistica di discreta entità. Ho totalmente cambiato la prima parte, dando uno scorcio – inventato di sana pianta – del modo in cui, da Rodorio, si accede al Grande Tempio; e ho, altresì, aggiustato la faccenda delle famiglie custodi – sperando di averla spiegata in maniera comprensibile.

Avrei preferito tagliare del tutto la scena pseudo-erotica – giacché non amo scrivere di sesso –, ma questa era necessaria a introdurre il voto di castità di Camus... non avrei potuto fargli dire «Ehi, sai che sono vergine, e che lo sarò per sempre?» con la stessa naturalezza con cui si parla del tempo, vi pare?

Di seguito, le necessarie (?) precisazioni:

- una consuetudine è una regola non scritta, frutto di un comportamento reiterato nel tempo da parte degli appartenenti a una comunità. Per assurgere al rango di consuetudine, detto comportamento deve presentare un carattere soggettivo – opinio iuris ac necessitatis, ossia la libera convinzione di tenere un comportamento obbligato – e uno oggettivo, rappresentato dalla diuturnitas, che consiste nella diffusione di tale atteggiamento fra i consociati.

- mamá e bampás : "mamma" e "papà", in greco.


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Capitolo 9
*** Capitolo 7, parte I: luglio/agosto 1986. Milo ***


Capitolo 7, parte I. Milo BG

Capitolo 7, parte I: luglio/agosto 1986. Milo

 

 

 Nulla è più complicato della sincerità.

Luigi Pirandello

 

 

 

Il Gran Sacerdote troneggia su di lui come un gigante la cui figura tutto sovrasta; lo sguardo inespressivo della maschera dietro la quale cela il suo vero volto da ormai tredici anni pare mandare sinistri bagliori rossastri.

Importa ben poco che lui sia un cavaliere d'oro, vestito della sua armatura e forte di un cosmo vastissimo: davanti a quell'uomo che, pur vivendo nell'ombra, manovra tutti loro come fa un burattinaio con i suoi pupazzi non può impedirsi di provare disagio, smarrimento.

É mai possibile che bastino una tunica e un copricapo a metterlo in soggezione? O c'è dell'altro, che nulla ha a che fare con gli abiti?

«Cavaliere di Scorpio,» la voce del Pontefice sembra rimbalzare sulle pareti di pietra e giungere alle sue orecchie di molto amplificata «è giunto il momento: troppo in là si sono spinti i traditori. Tua sarà la mano che monderà i loro peccati. Tua sarà la mano che riporterà la giustizia su questa terra, secondo la mia volontà.

A nuovo ordine ti recherai a Tokyo: trionferai dove tutti gli altri hanno fallito».

Dunque, i cavalieri d'argento non sono riusciti nell'impresa: stenta a crederci. Quali poteri, quali segreti nascondono quei cinque combattenti di bronzo? Che siano protetti da una qualche entità superiore?

Cerca di fugare i suoi dubbi alla svelta, non vuole mostrarsi titubante: «Consideratelo fatto, Signore. Andrò».

«No, lui non andrà. Sarò io a farlo».

Aiolia sopraggiunge lento e fiero, lo oltrepassa senza guardarlo e si inchina dinanzi all'altare.

«Se Voi lo permetterete, mi occuperò io dei Bronze ribelli. Avranno la lezione che si meritano».

Il Gran Sacerdote lo studia interessato prima con gli occhi, poi con il cosmo: ha deciso.

«D'accordo, cavaliere di Leo: la missione è tua. Al momento opportuno, ti comunicherò quando partire».

«Ma-» prova intanto a protestare Milo.

Le sue obiezioni vengono troncate sul nascere: «Così è deciso».

Il Quinto Custode si alza e lascia la stanza, continuando ad ignorarlo. Perché? Cosa l'ha spinto a rimettersi all'improvviso ai voleri di colui che per secondo detesta di più?

«Leggo accusa nel tuo viso, nobile Milo. Ti starai chiedendo la ragione della mia scelta».

La rabbia che prova nei confronti di Aiolia offusca per un attimo l'affetto che li unisce, lo spinge a dire cose che in realtà non pensa. Se ne pente subito.

«Infatti. Signore, Leo non ha mai dato prova di non meritare la vostra fiducia, ma… è pur sempre fratello di Sagitter. Sapete come si dice? “Buon sangue non mente”».

Capta il ghigno del Gran Sacerdote allungarsi sotto la maschera. Gli pare quasi di vederlo, quel sorriso beffardo, benché non riesca a immaginarne i contorni.

«Alla luce di ciò l'ho preferito a te: per testarne la fedeltà. Solo in tal modo potrò finalmente conoscere la sua vera natura».

Scorpio dà segni di volersi congedare, ma Arles lo trattiene: «Ora che ci penso, prima di lasciar andare il cavaliere di Leo c'è un'altra cosa che va fatta... e sarai tu ad occupartene».

La scena è cambiata: non si trova più alla Tredicesima Casa, adesso è in un luogo aperto, pieno di terra e di fumo – l'isola di Andromeda.

Tutto è confuso, sconnesso, le immagini sono offuscate: sa solo che sta combattendo.

I suoi sensi sono acuiti al massimo, l'aura dorata che lo circonda va espandendosi; non riesce a pensare lucidamente, la sua mente è guidata da una furia insolita, la furia della battaglia.

Alcuni ragazzini con le armature si frappongono fra lui e il suo obiettivo, disubbidendo all'ordine di farsi da parte; un attimo dopo i loro corpi giacciono a terra, inerti – mai cercare di ostacolare Milo di Scorpio.

Con la coda dell'occhio vede delle figure che stanno scappando, ma non se ne cura, è l'uomo che ha di fronte quello che gli interessa. Il Gran Sacerdote è stato chiaro in proposito: o con lui, o morto.

O bianco o nero, non c'è più tempo per indugiare sulle sfumature.

«Eccoci alla resa dei conti: nessuno ci disturberà più, i tuoi allievi superstiti se la sono data a gambe. Sei rimasto solo» gli dice lo Scorpione, con una malignità che poi stenterà a riconoscere come propria «Cosa vuoi fare? Rendere un giusto servizio alla Dea e accettare di seguirmi al Grande Tempio, o morire qui per mano mia, marchiato come traditore? A te la scelta».

Daidaros di Cefeo guarda affranto i cadaveri intorno, poi si erge in tutta la sua statura e risponde con il maggior sprezzo di cui è capace: «Tanto so cosa volete da me: vi servono delle informazioni sul mio ex discepolo, Shun di Andromeda. Avete paura di lui e dei suoi compagni perché si sono opposti a voi, guidati da una forza maggiore della vostra. Arles vi sta ingannando, cavaliere d'oro! Dice di rappresentare la volontà di Atena, ma in realtà vuole solo dominare incontrastato sul mondo intero; redimetevi, scegliete la strada della giustizia, finché siete in tempo! Non riuscite a sentire le forze oscure che albergano in lui?»

«Taci. Quelle che dici sono eresie senza senso. Pagherai tali ingiurie con la morte, ti sei condannato da solo!»

«Piangerete lacrime di sangue, su quella verità che ora vi rifiutate di vedere. Ebbene, Scorpio, morrò: ma non starò ad aspettarti passivo, prima dovrai sconfiggermi».

La lotta comincia: Milo attacca senza sosta, sa che Daidaros non potrà respingere i suoi assalti alla velocità della luce molto a lungo.

Una, due, tre, quattro Scarlet Needle.

Il sangue sprizza dalle ferite del Silver Saint, eppure egli non cede, continua a difendersi strenuamente – un degno sfidante, non c'è che dire.

Basta un attimo di distrazione e lo Scorpione si trova con le catene dell'avversario strette intorno al collo; chiama in aiuto il cosmo, ma il ferro è più resistente di quanto credesse e già comincia a perdere forze.

D'improvviso, la morsa si scioglie, e lui torna libero.

Una rosa rossa è piantata ai piedi del suo nemico, una risata argentina e grottesca risuona nell'aria: Aphrodite di Pisces.

Adesso Daidaros è più stanco, indebolito dal veleno del fiore: senza esitare Milo scaglia la sesta Scarlet Needle, che lo centra proprio in mezzo al petto. L'altro cade faccia in giù, agonizzante.

La frenesia di poco prima è sparita, è rimasta solo amarezza: lo lascia così, con il viso nella polvere – non se la sente di vedere gli occhi di un uomo che muore.

Tuttavia, riconoscendone il valore, lo finisce con un ultimo colpo, risparmiandogli le atroci sofferenze a cui sarebbe andato altrimenti incontro. Chissà se lui avrebbe fatto lo stesso, al suo posto.

Non sa dire perché, ma è sicuro di sì.

 Ancora uno stravolgimento di paesaggio.

Lo scenario stavolta è bianco e ovattato, indefinito: un posto senza tempo né spazio.

C'è una figura che cammina solitaria davanti a lui; avvicinandosi, ne riconosce la lunga chioma ramata.

Lo chiama più volte: «Camus!»

Questi, anziché voltarsi, aumenta il passo e comincia a correre.

Milo non capisce, lo insegue, continua a urlare il suo nome: «CAMUS!»

Perché non si ferma? Perché non lo aspetta?

Ad un certo punto, Aquarius inciampa, frana in avanti e rimane immobile al suolo.

Lo raggiunge con una certa apprensione, ha paura e non ne conosce il motivo; forse perché quella posa innaturale e quel silenzio lugubre comunicano uno sgradevole senso di morte.

«Camus» sussurra, inginocchiandoglisi accanto.

Nessuna risposta.

Delicatamente allora lo gira, come se fosse un pezzo di cristallo fragile e prezioso, ma con stupore si accorge di non avere fra le braccia il suo Camus: il volto in parte sfigurato che ha davanti è infatti quello sofferente di Daidaros di Cefeo.

Nel momento in cui molla la presa, scioccato, il corpo ricade a terra con un tonfo sordo e l'uomo di cui ha stroncato la vita spalanca di colpo gli occhi vitrei, colmi di nulla.

«Piangerete lacrime di sangue, su quella verità che ora vi rifiutate di vedere» dice, con voce terribilmente atona.

«C- come?» balbetta Milo, inorridito.

«Piangerete lacrime di sangue, su quella verità che ora vi rifiutate di vedere» ripete quello, più forte.

«Non è possibile, tu dovresti essere morto! Io stesso ti ho ucciso con sei Scarlet Needle, sull'isola di Andromeda! Perché sei ancora vivo? Che cosa hai fatto a Camus?»

Daidaros pare non udirlo neanche; seguita a cantilenare quella sorta di predizione sciagurata alla stregua di un disco rotto, mentre fiotti di liquido scarlatto cominciano a sgorgargli dalle cicatrici lasciate dal colpo dello Scorpione.

«Piangerete lacrime di sangue, su quella verità che ora vi rifiutate di vedere».

Un grido di orrore è bloccato nella gola di Milo, un grido che non può più trattenere: lo lascia uscire, e questo esplode – doloroso, liberatorio.

«NOOOOO!!»

Si destò ansante, madido di sudore.

«Non è nulla, Milo: sei nel tuo letto, è tutto finito» pensò, cercando di calmare i frenetici battiti del suo cuore.

Tese le orecchie per avvertire eventuali rumori, ma tutto intorno c'era un silenzio di tomba: anche se aveva urlato piuttosto forte, nessuno pareva averlo sentito. Uno dei tanti vantaggi di abitare nell'unica Casa in mezzo a due Templi deserti.

Studiando la fievole luce che filtrava dalla finestra socchiusa concluse che doveva essere molto presto, forse l'alba; nonostante questo, decise comunque di alzarsi. Sapeva che non sarebbe stato capace di riprendere sonno.

Erano notti che faceva lo stesso sogno – e si svegliava sempre in quelle condizioni, come la prima volta.

Non era tanto la veridicità della prima parte dell'incubo a inquietarlo, quanto l'inspiegabile comparsa del volto di Daidaros sul corpo di Camus, e quella maledetta frase dalle fattezze profetiche che gli risuonava nel cervello praticamente ogni minuto.

«Piangerete lacrime di sangue, su quella verità che ora vi rifiutate di vedere».

In fondo, non significava nulla: erano solo parole di un uomo spacciato, pronunciate solennemente con la speranza di impressionarlo e fargli mutare opinione.

Perché, allora, non riusciva a togliersele dalla testa?

Scostò le coperte che gli si erano incollate al corpo; più tardi avrebbe fatto una doccia, magari, ma in quel momento aveva solamente voglia di prendere un po’ d'aria.

Si vestì dunque alla meglio e uscì all'esterno. Aveva visto giusto, il sole appena sorto dal mare stava tingendo tutto l'orizzonte di un rosa che sarebbe andato sbiadendo in fretta.

Si prospettava un'altra bella giornata… solo climaticamente parlando, ovviamente.

L'aria fresca del primo mattino lo riscosse quel tanto che bastava a scacciare l'impressione di irrealtà propria dell'attimo successivo al risveglio, permettendogli di pensare con maggior lucidità – non che ne fosse particolarmente capace, ultimamente.

«É tutto sbagliato. Io sono sbagliato».

La sua esistenza stava andando a rotoli pezzo dopo pezzo; la traballante scala di punti fermi che con tanta fatica si era costruito perdeva un piolo alla volta.

«Camus e Maia. La ribellione dei cavalieri di bronzo. La fuga di Mu. E ora questo».

Era stato addestrato a combattere; a sopportare la fatica fisica e il dolore; a non dar peso alla solitudine; a scegliere sempre la strada più giusta – che, in genere, era pure la più difficile.

Considerava maestri non solo quelli che gli avevano insegnato come bruciare il cosmo o attaccare un rivale, ma anche coloro dai quali aveva appreso come affrontare la vita, come non cedere di fronte a un destino infausto.

«Milo, guarda le stelle: ammirale e impara a non temerle, anche se spesso ti sembreranno troppo lontane, o troppo crudeli. Siamo stati generati per ristabilire la pace lasciandoci guidare da esse, non per sottostare silenti ai loro capricci. Ogni uomo è artefice della propria sorte: nessuno nasce schiavo del fato, nemmeno noi cavalieri» gli diceva Saga nelle chiare notti estive di tanti anni addietro quando, dopo la lezione di astronomia, il piccolo Scorpio si attardava sempre a fissare la volta celeste.

Uomini valorosi e saggi gli si erano affiancati nel suo cammino, sì; eppure nessuno lo aveva davvero preparato all’idea di portare morte, né Saga né gli altri.

Sapeva da sempre che un giorno sarebbe arrivato il momento di uccidere, per questo era venuto al mondo: uccidere per proteggere Atena, per estirpare il male insito nella natura umana e divina – ma comunque di uccidere si trattava.

Quel giorno era infine arrivato: aveva compiuto il suo dovere eliminando dei traditori, ma tutto si sentiva meno che orgoglioso di se stesso.

«Forse è una cosa a cui ci si abitua col tempo» si disse senza convinzione, mentre il chiarore del dì dissolveva definitivamente gli ultimi resti di notte.

 

*

 

Pomeriggio inoltrato.

Milo sonnecchiava nel divano, di un sonno leggero e suscettibile.

Gli allenamenti quotidiani l'avevano sfiancato; accettare di misurarsi con Shura non era stata un'idea molto brillante. Sfidare il Capricorno voleva dire doversi spostare alla massima velocità continuamente, pena la mutilazione di qualche arto: decisamente poco raccomandabile, per uno con il sonno arretrato vecchio di giorni.

Durante la breve pausa aveva scorto Camus impegnato in un corpo a corpo con Aldebaran; ai suoi occhi era sempre uno spettacolo favoloso vedere l'esile compagno scansare con eleganza i possenti fendenti del Toro, per poi contrattaccare circondato da un'aura di cristalli ghiacciati.

Prima solevano lottare insieme, Scorpione contro Acquario, in combattimenti che potevano durare anche ore; conoscendo a menadito l'uno i colpi dell'altro, si divertivano a studiare strategie ogni volta diverse nel tentativo di sorprendersi a vicenda. Poi, per sbloccare la situazione di stallo, Milo finiva sempre col ricorrere a mosse sleali e, a quel punto, Camus si ritirava dallo scontro con un'espressione sdegnata che faceva scoppiare a ridere Scorpio.

Accidenti, se gli mancava.

Un paio di volte, nel vederlo, era stato tentato di mandare all'aria i suoi propositi di indifferenza e di perdonarlo, ma poi aveva pensato a lui e Maia abbracciati e l'immagine era stata sufficiente a fargli tirare dritto senza degnarlo di uno sguardo.

Ovviamente Aquarius non si era neppure sognato di andargli a chiedere spiegazioni e questo, oltre a rappresentare l'ennesima coltellata, l'aveva fatto irritare ancora di più.

La sua risolutezza nel volerlo dimenticare non stava però dando i frutti sperati: più si vietava di pensare a Camus, più si ritrovava in situazioni che glielo ricordavano – come nel caso di quel pomeriggio.

La triste, squallida verità era che a lui sarebbe bastato riavere il loro vecchio rapporto, e tuttavia non voleva accettarlo, considerandolo troppo umiliante.

Aveva deciso che non avrebbe potuto comunque continuare ad aspettarlo per sempre: l'avrebbe avuto come amante, oppure non l'avrebbe avuto affatto.

O tutto, o niente: non era più tempo di indugiare sulle sfumature, l'aveva detto anche il Gran Sacerdote.

... O bianco o nero, non c'è più tempo per indugiare sulle sfumature.

«Eccoci alla resa dei conti: nessuno ci disturberà più, i tuoi allievi superstiti se la sono data a gambe. Sei rimasto solo. Cosa vuoi fare? Rendere un giusto servizio alla Dea e accettare di seguirmi al Grande Tempio, o morire qui per mano mia, marchiato come traditore? A te la scelta».

«Tanto so cosa volete da me: vi servono delle informazioni sul mio ex discepolo, Shun di Andromeda. Avete paura di lui e dei suoi compagni perché si sono opposti a voi, guidati da una forza maggiore della vostra. Arles vi sta ingannando, cavaliere d'oro! Dice di rappresentare la volontà di Atena, ma in realtà vuole solo dominare incontrastato sul mondo intero; redimetevi, scegliete la strada della giustizia finché siete in tempo! Non riuscite a sentire le forze oscure che albergano in lui?»

«Taci. Quelle che dici sono eresie senza senso. Pagherai tali ingiurie con la morte, ti sei condannato da solo!»

«Piangerete lacrime di sangue, su quella verità che ora vi rifiutate di vedere».

«Milo! Milo, svegliati!»

«N-no... »  

«Milo!»   

Mani ferme e decise lo costrinsero ad aprire gli occhi.  

«Eh? Cosa? Maia!» Milo si guardò intorno, riconoscendo la figura china su di sé.

«Finalmente! Scusa se ti ho destato in modo brusco, ma stavi mugolando nel sonno: ti ricordi il sogno che hai fatto?»

«No» mentì lui «Quindi non era nulla di così terribile, probabilmente».

«Sarà... sei sicuro di stare bene? Mi sembri pallido, e un tantino sciupato. Non è che ha a che fare con la missione da cui sei rientrato pochi giorni fa?»

«E tu come fai a sapere della missione?» indagò Milo «Doveva essere una questione della massima segretezza».

«Intuito» rispose Maia, soddisfatta di averci azzeccato «Quando uno di voi sparisce per più di ventiquattro ore è difficile che si tratti di qualcos'altro, specialmente con lo stato di allerta in corso».

«Il ragionamento non fa una piega. Ma allora, perché tutti hanno dato per scontato che Mu sia fuggito?» pensò Scorpio, rammentando i discorsi poco lusinghieri che aveva sentito a proposito della fulminea sparizione dell'Ariete.

«Dove ti hanno mandato?» gli chiese poi la ragazza.

«Mi dispiace, non sono autorizzato a rivelarlo. Come ho già detto, è una faccenda che non può essere resa pubblica».

«Oh. Capisco» fu il commento poco entusiasta di lei.

Milo era conscio di averla delusa, non tanto perché gli interessasse davvero sapere della spedizione, quanto per la ragione che lui si ostinava a tenergliela nascosta: in altri tempi non sarebbe successo.

«Le cose cambiano, Maia. Dovresti saperlo».

«Se volevi passare, avresti potuto farlo tranquillamente... non c'era bisogno di venire sin qui a chiedermi il permesso» esclamò Scorpio un po’ stupidamente, per troncare il silenzio imbarazzato che si era creato.

«Lo so. Ma era te che volevo: ho bisogno di parlarti».

«Ah, ok. Accomodati, allora».

«No, grazie. Preferisco restare in piedi» rifiutò l'invito Maia, tradendo un certo nervosismo.

«Come vuoi. Dunque? Che cosa hai da chiedermi?»

«Allora, sì» tentennò quella «... come va?»

Milo sospirò: aveva già capito.

«Maia, ti avviso subito: se hai intenzione di ricominciare con la storia di Camus, per me la discussione finisce qui. Mi sembrava di essere stato piuttosto esplicito. Non ho voglia di questionarci sopra, men che meno con te» mise le cose in chiaro.

Perché Maia rendeva tutto così complicato? Durava già abbastanza fatica a sforzarsi di trattarla come al solito, era pretendere tanto che lei evitasse di portare sempre la conversazione su quel tema?

«Milo, io non sopporto più di vederti in questo stato. Tu stai male, è evidente. E Camus non è da meno. Ci deve essere una ragione dietro al tuo mutismo, non puoi negarlo. Se proprio non ne vuoi parlare con Cam, perché non ti confidi con me come hai sempre fatto? Pensavo tu avessi più fiducia nei miei confronti».

«Immagino… povero Camus! É talmente dispiaciuto che non si è nemmeno degnato di venire a chiedermi qualcosa! Di certo si strugge di dolore, tra le tue braccia!» commentò lui, sarcastico – un sarcasmo amaro, che sapeva di bile.

«Che tu ci creda o no, gli manchi! Ma sai meglio di me quanto è orgoglioso».

«Ecco, è proprio questo il punto: io mi sono stufato del suo orgoglio. Anche io ne ho uno, per tua informazione, e l'ho calpestato infinite volte per lui. Se davvero gli importasse, non manderebbe te a far da ambasciatore».

«Ti stai sbagliando» scosse la testa Maia «Lui ignora quanto io stia insistendo con te. Se lo sapesse, si arrabbierebbe di certo. Comunque, tra le altre cose, sono venuta a chiederti se riconosci quest'oggetto» disse, tirando fuori dalla borsa un gioiello d'argento.

«Il mio ciondolo! Perché ce l'ha lei?

Milo glielo prese dalle mani, esaminandolo: era proprio il suo, non c'erano dubbi.

«Dove l'hai trovato?»

«Nei campi intorno al Santuario. Perché l'hai gettato via?»

«Non l'ho buttato, l'ho perso».

Che immane bugia. Come poteva sperare che lei gli credesse? E, infatti, non se la bevve.

«Milo! Ti conosco come le mie tasche, so benissimo che tieni più a questo ciondolo che a tutti i tuoi averi messi insieme. Non saresti mai stato capace di smarrirlo. Avanti, dimmi perché te ne sei disfatto».

«Te l'ho detto, l'ho perso. Capita, sono un essere umano anch’io».

«Adesso ne ho veramente piene le tasche!» sbottò Maia, così repentinamente da farlo sobbalzare «Credi che io sia stupida?! Potrai anche essere bravo a ingannare il resto del mondo, ma io non ci casco! Ho capito, sai, quello che stai nascondendo! Speravo tu fossi così onesto da rivelarlo almeno a me: evidentemente, mi sono sbagliata».

A quelle parole Milo si irrigidì, e fu sul punto di crollare; chissà come, però, riuscì a mantenere una dose sufficiente di sangue freddo per risponderle con finta strafottenza: «Avanti, veggente, sentiamo: sono curioso».

«Per quale maledetto motivo non mi hai mai detto di essere innamorato di Camus?»

«Ebbene sì, Maia, ecco svelato l'arcano».

Faceva un effetto strano sentirsi smascherati a quel modo, dopo anni di attente precauzioni; l'aveva indubbiamente sottovalutata. Urgeva correre ai ripari, e subito.

Negare non sarebbe bastato: serviva una soluzione più drastica, e Scorpio ricorse a tutta la sua faccia tosta.

«AHAHAHAH, bella questa! Sono desolato, ma credimi, stavolta hai preso un granchio» dichiarò, continuando a ridere come se Maia avesse detto la più grossa delle sciocchezze.

La ragazza, tuttavia, non si lasciò convincere dal suo teatrale diniego: «È inutile che tenti di prendermi in giro. Stai solo peggiorando le cose».

«E dire che c'eri andata vicina! Peccato tu abbia commesso un errore» continuò lui, con fare misterioso.

«Ah, sì? E quale sarebbe?» gli chiese lei, scettica.

«Hai sbagliato l'oggetto della mia infatuazione».

«Che cosa?!»

«Come fai a non arrivarci? Eppure è così semplice... » sussurrò Milo, prendendole le mani e tirandola su di sé.

«Milo, che stai facendo... lasciami!» esclamò Maia, cominciando a dar segni di comprendere.

Scorpio non sapeva se quello che stava per fare avrebbe complicato ulteriormente la situazione, e neppure gli importava: tutto ciò che voleva era che i suoi sentimenti nei confronti di Camus rimanessero celati, per poter meglio continuare a proteggerli.

«No che non ti lascio» disse, aumentando la stretta.

«Milo:» lo pregò lei, con un'espressione talmente triste da impressionarlo «lasciami, ti prego… non farlo».

«Troppo tardi, amica mia. Troppo tardi» pensò mortificato lui, prima di baciarla.

Fu uno dei momenti più dolorosi della sua vita: sentire Maia che si divincolava nel tentativo di liberarsi dalle sue braccia e dover fingere di volerla trattenere a tutti i costi era molto peggio di essere preso a pugni.

Aveva agito d'istinto, troppo preoccupato a nascondere la verità, ma adesso non era più tanto sicuro che farle credere di essere innamorato di lei, anziché di Aquarius, fosse il male minore.

Mollò la presa solo quando sentì in bocca un sentore di sangue, e capì di essere stato morso.

Intanto, al di là della porta che Maia aveva lasciato socchiusa, qualcuno strinse i pugni: aveva visto tutto.


Continua ...





Note dell'autore

Coucou tout le monde!

Fate attenzione a questa prima parte del capitolo, perché in seguito risulterà fondamentale per comprendere appieno gli sviluppi della storia e, in particolare, l'evoluzione del rapporto Milo-Maia.

La frase «Piangerete lacrime di sangue, su quella verità che ora vi rifiutate di vedere» tenetela a mente (si fa per dire XD), giacché tornerà anche negli aggiornamenti successivi.

Qualora non fosse molto chiaro – il che è possibilissimo – la narrazione si svolge su piani differenti: l'incipit in corsivo è una rivisitazione onirica degli avvenimenti immediatamente precedenti a quelli direttamente oggetto del capitolo. Il tutto, comunque, si svolge nell'arco di nemmeno una giornata.

Per ciò che concerne la missione di Milo sull'isola di Andromeda, ho fatto uno strano melange fra anime e manga – come mio solito, del resto –: le vicende attengono al primo, i nomi al secondo. Viva la coerenza!

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 10
*** Capitolo 7, parte II: luglio/agosto 1986. Milo ***


Capitolo 7, parte II. Milo BG

Capitolo 7, parte II: luglio/agosto 1986. Milo

 

 


Milo si leccò via il sangue uscitogli dal labbro inferiore, reprimendo l'innato impulso di reagire all'offesa subita. Tuttavia, era grato a Maia per quel morso: mai una maschera gli era parsa più fastidiosa e pesante da portare.

Ora lei gli stava davanti e lo fissava in silenzio con sguardo ferito; era evidente che si sentiva tradita – dall’unica persona in cui avesse sempre riposto fiducia incondizionata, per giunta.

Poi, tremando impercettibilmente, alla fine disse: «M-Milo, io sto con Camus. Io provo qualcosa di serio per Camus. Di serio, capisci?»

«Come se non lo sapessi... » replicò lui, in un sussurro flebile.

«Pensavo tu fossi il mio migliore amico, contavo nel tuo affetto disinteressato! Quello che hai fatto... cambierà le cose, te ne rendi conto?! Perché, Milo? Perché mi vuoi costringere a scegliere fra te e Camus? Perché?!»

La frase suonò alle orecchie di Milo strozzata, distorta. Un moto di rabbia gli salì alle guance, imporporandole. Cosa credeva Maia? Che fosse l'unica a venir messa di fronte a una scelta dolorosa?

Pur rinunciando alla loro amicizia, a lei sarebbe rimasto Camus: lui, invece, aveva mandato tutto al diavolo per un sogno irrealizzabile.

«Stai parlando come se fosse colpa mia. Non ho scelto io di innamorarmi. Ai sentimenti non si comanda, dannazione!»

Vero. Non importava quale fosse l'oggetto della sua passione, il concetto era il medesimo: lui non aveva deciso un bel niente.

Non aveva deciso di provare quella maledetta sensazione di gioia nel vedere apparire la chioma rossa dell'Acquario; non aveva deciso di considerare bello solo ciò che a lui si poteva associare; non aveva deciso di innamorarsi di quello che avrebbe dovuto essere il suo amico più caro – non aveva deciso di soffrire così.

«Sarei io a dover chiedere perché. Perché Camus, Maia? Perché, fra tutti gli uomini del mondo, hai scelto proprio il mio?»

«Come faremo a guardarci in faccia? Milo! Come faremo?»

Era stufo di recitare, di continuare a farle del male; era stufo di guardare i suoi occhi nerissimi e di vederne altri, dorati e chiari.

Voleva rimanere solo.

«Io non intendo condizionarti in alcun modo, so già quello che vuoi. Vai da lui, Maia. Vai da lui e lasciami in pace» decretò duro, sdraiandosi nuovamente con il viso rivolto verso i cuscini del suo liso divano.

«Milo... »

«VATTENE!»

La sentì sostare alle sue spalle per qualche minuto, e poi uscire lentamente tirando su col naso.

«Dèi, come sono stanco. Sono tanto, tanto stanco» pensò, chiudendo leggermente le palpebre.

Non fece neppure in tempo ad accomodarsi meglio, che venne brutalmente buttato a terra – da chi, però, lo ignorava.

«Ma che diav-» balbettò, prima di essere preso per il colletto della maglia e alzato di peso.

«Tu!» ringhiò l'assalitore, scuotendolo manco fosse una camicia stropicciata «Ti ha dato di volta il cervello? Cosa credevi di fare? Perché l'hai baciata contro la sua volontà, eh? Rispondi!»

«Sei forse impazzito?! Mollami! Mollami, ti dico!» reagì Milo, prendendolo per i polsi e spingendolo a distanza di sicurezza.

«Questa non ci voleva… come avrà fatto a-?! Avanti Milo, temporeggia, trova una balla orecchiabile!»

«Allora? Sto aspettando una spiegazione» lo incalzò quello, ancora furente e pronto a saltargli addosso.

«Anzitutto, datti una calmata. E poi, devo forse ricordarti che non sta bene origliare o spiare alle porte altrui, Aiolia

Di fronte all'accusa di mancata riservatezza, il cavaliere di Leo parve tentennare: «Mi sembrava doveroso darti chiarimenti sul mio atteggiamento ambiguo al cospetto del Gran Sacerdote, ero appunto venuto per questo. Quando poi ho visto l'ingresso socchiuso mi sono arrischiato a sbirciare, e-»

«Già, a proposito: sarei io a dover essere arrabbiato con te, per aver interferito fra me e Arles».

«Ci tenevo a quella missione, Milo. Fino a ora sono stato trattato come se fossi perennemente sotto esame. Questa è l'occasione che potrebbe scagionarmi da tutti i possibili sospetti una volta per sempre, e me la sono presa. Mi dispiace di averti mancato di rispetto, ma confido che tu capisca la mia situazione... comunque, mi pareva di averti fatto una domanda ben precisa!» si riscosse d'improvviso, tornando minaccioso «Maia non è solo amica tua: anche io ci sono cresciuto, e anche io mi sento in dovere di proteggerla da chiunque le metta le mani addosso – te compreso!»

«Ah, sì? E perché mai allora non sei ancora andato a menare Aquarius, di grazia?»

Aiolia sbuffò, spazientito: «Milo, Camus è il suo ragazzo! E, in quanto tale, ha tutto il diritto di fare quello che più gli piace».

«Adesso lo è, ma all'inizio... »

«”All'inizio” cosa? Cielo, non finirò mai di stupirmi del fatto che proprio tu sia stato l'unico in tutto il Santuario a non accorgerti che quei due si morivano dietro da non so quanto. Per come la vedo io, ci hanno messo anche troppo tempo».

«Io non ci avevo mai fatto caso. Avreste potuto parlarmene».

«Davamo per scontato che ne fossi a conoscenza: al tuo posto, anche un cieco l'avrebbe notato, considerando il tuo stretto rapporto con entrambi. E poi, tu sei sempre stato abbastanza intuitivo. Solo adesso mi sovviene che forse, più che non vedere la realtà, ti sei rifiutato di accettarla».

A Milo non piacque l'occhiata di velata commiserazione che gli lanciò il compagno.

«Che vorresti insinuare? Che sono un codardo?» replicò, astioso – non gli avrebbe permesso di giudicarlo senza conoscere la verità.

«Sì, Milo. In un certo senso, sì» assentì Aiolia, contrito «Ho trovato molto infantile il tuo comportamento nei confronti di Camus. Lui non poteva sapere che ti piaceva Maia, così come non poteva saperlo la diretta interessata. Ora mi sembra un po’ tardi per recriminare. Così facendo, hai solo danneggiato lei e te stesso. Hai perso l'unica possibilità che avevi di starle accanto».

«Sentiamo, tu cosa avresti fatto al mio posto?»

«Arrivati a questo punto, penso che mi sarei tenuto per me ciò che provavo. Comunque, io le avrei detto tutto molto prima».

«Non è così semplice».

«Hai perso l'unica possibilità che avevi di starGLI accanto».

Aveva voglia di urlare: dopo quello che era successo, il nodo che Scorpio si portava dentro attorcigliato nello stomaco era salito in superficie. Avrebbe dato qualsiasi cosa pur di poterlo buttare fuori.

Tentò di far capire a Leo la sua scomoda posizione, pur rimanendo sul vago: «E se fossi stato sicuro che non ti avrebbe ricambiato in nessun caso, avresti parlato lo stesso – correndo il rischio di allontanarla da te?»

«Perché, non è ciò che hai appena fatto? Sarebbe stato meglio avvertirla, anziché prenderla alla sprovvista con un bacio non richiesto e una dichiarazione tanto fulminea quanto sconvolgente».

«Hai sentito tutto? Ma da quanto te ne stavi sulla soglia a impicciarti?» commentò Milo, acido.

«Ehm... sono arrivato quasi subito, e-» fece spallucce l'altro, imbarazzato.

«Lascia stare, non fa nulla. Piuttosto, rispondi alla domanda».

«Lo sai come sono fatto. Non mi piace avere delle questioni in sospeso, se posso evitarlo. Mai».

Oh, certo che lo sapeva.

Quante volte loro due avevano discusso per una apparente sciocchezza, solo perché ad Aiola non era andato giù un suo atteggiamento; quante volte si era ritrovato a doverlo trattenere a viva forza, per impedirgli di ridurre in poltiglia coloro che avevano avuto l’ardire di insultarlo. Quante raccomandazioni di accortezza erano uscite dalle labbra dei più giudiziosi, volte a frenare la sua impulsività fin troppo accentuata.

Eppure, di fronte alle cose veramente importanti, il Leone aveva dimostrato di possedere una lungimiranza e una pazienza normalmente sopite in lui.

Con calma e tenacia aveva ricostruito il suo buon nome, guadagnandosi il rispetto e la fiducia di quelli che contavano; con devozione e tolleranza era riuscito a ottenere l'armatura d'oro, riscattando in qualche modo la memoria del fratello morto nell'infamia.

Milo ammirava e invidiava questa ambivalenza dell'amico; lui, al contrario, non riusciva mai a staccarsi dal suo vero se stesso, e certe volte la mancanza gli pesava: un conto era raccontare bugie per coprire qualche malefatta di scarso rilievo, un altro era dover fingere fino a forzare la propria natura – come stava facendo in quel momento.

«Che intendi fare, dunque?» gli chiese Aiolia, dopo qualche minuto di silenzio.

«Nulla, è ovvio. Tanto Maia non dirà niente a Camus, per timore della sua reazione o per pietà nei miei confronti».

«Milo, io non ti riconosco più. Che fine hanno fatto il tuo carattere, la tua grinta, la tua onestà? Davvero lasceresti tutto così? Con che coraggio ti guarderesti allo specchio, sapendo di aver tentato la donna del tuo compagno? Con quale animo continueresti a sopportare di vedere la persona che ami tra le braccia di un altro, dal momento che le hai rivelato ciò che senti?»

Dinanzi a quell'accalorato rimprovero, qualcosa scattò nel cervello dell'Ottavo Custode; qualcosa di tanto forte da spingerlo a sputare il nodo, finalmente.

«Si fa presto a vomitare sentenze» cominciò quindi, grave in viso «C'è una cosa sulla quale ti ho mentito: la persona che amo da tempo immemore la vedo tra le braccia di un'altra, non di un altro! Non è Maia che mi tiene sveglio la notte. Non è Maia il pensiero che mi desta al mattino. Non è Maia quella che anelo di legare a me per il resto della mia esistenza. È di Camus che sto parlando, Aiolia: ciò che hai visto è stata tutta una colossale messa in scena.

Il giorno dopo il compleanno di Al, quando Maia mi raccontò entusiasta che lei e l'Acquario si erano scambiati effusioni, all'inizio pensai si fosse trattato di una stupidaggine causata dall'ebbrezza. Lei abbatté subito la mia flebile speranza, ma non volli crederle, così mi recai all'Undicesimo Tempio in cerca di rassicurazioni. L'unica cosa che ottenni fu solo un incupirsi del mio stato d'animo: probabilmente Camus non avrà mai più lo stesso sorriso luminoso che mi rivolse quella maledetta mattina.

Mi resi conto così che quella da me considerata alla stregua di una sorella e il ragazzo per cui darei tutto – persino le sacre vesti di Scorpio – si erano invaghiti l'uno dell'altra, e proprio sotto il mio naso! Mi crollò il mondo addosso. Letteralmente.

Da lì, con la scusa di essere offeso per il fatto di avermi celato il suo interesse nei confronti di Maia, ho cominciato a evitare Camus; in realtà, avevo deciso di doverlo dimenticare a tutti i costi. Non me la sentivo tuttavia di riservare lo stesso trattamento a Maia, non so bene perché; lei, però, non credendo alla mia sorta di alibi, ha iniziato a fiutare la verità – specialmente dopo aver trovato nei campi intorno al Grande Tempio questo,» nel raccontare, si sfilò il ciondolo per mostrarglielo «che io stesso avevo gettato per rabbia».

Aiolia guardò l'oggetto scintillante, interessato: «Ma non è la collana che ti ha regalato Camus qualche compleanno fa? Quella che ti porti appresso persino sotto la doccia?»

«Sì, è lei. E appunto perché uso separarmene il meno possibile, Maia deve aver intuito che dietro al mio comportamento stizzito ci fosse qualcosa di grosso. Ho dovuto fare quello che ho fatto, capisci? Se io avessi confessato tutto, lei probabilmente si sarebbe sentita in colpa e, per rimediare, ne avrebbe parlato con Camus, rovinando il suo e il mio rapporto con lui: io volevo assolutamente impedire che ciò avvenisse.

Se Aquarius venisse a sapere di ciò che provo per lui da fonti esterne perderebbe ogni fiducia nei miei riguardi. Il fatto che non si sia mai accorto di nulla, che nonostante abbia passato anni ad adorarlo abbia continuato a considerarmi solo un amico, ne è la prova lampante. Chiamami codardo, vigliacco, indolente, come preferisci: mi farebbe troppo male ricevere un suo netto rifiuto».

Dovette fermarsi per riprendere fiato: si sentiva svuotato di ogni emozione.

Rivelando il suo segreto più prezioso aveva mostrato quella parte di se stesso che custodiva gelosamente in fondo all'anima, lasciando così scoperta la sua maggiore debolezza – che cominciava e finiva in Camus.

Si aspettava che Aiola si indignasse, che lo rimbrottasse nuovamente; rimase perciò di sasso quando questi, senza dire alcunché, gli si avvicinò e lo strinse in un abbraccio commosso.

Ricambiò il gesto cingendogli la vita.

«Che c'è che non va in me, ‘Lia? Non è normale innamorarsi del proprio migliore amico, ammesso che io l'abbia mai considerato solamente tale. Per quanto mi sforzi di convincermi che non ci sia nulla di male, rimango del parere di essere sbagliato. Alieno. Contro natura» biascicò, attaccato alla sua spalla.

«Milo, il tuo problema è proprio questo: se sei tu il primo a pensare di avere qualcosa fuori posto, non ce la farai mai a persuadere gli altri che così non è. Perché non ti sei sfogato prima? Perché ti sei tenuto questo peso dentro? Non è sempre possibile sopportare tutto da soli, a volte si deve anche saper chiedere aiuto. Avresti potuto fidarti di me come io ho fatto con te in passato».

«Avevo paura che non avresti capito; che ti saresti scostato da me».

«Sei uno sciocco: non l'avrei mai fatto. Io sono stato, sono e sarò tuo amico per sempre, nel bene e nel male: non saranno certo le tue tendenze sessuali a farmi cambiare idea».

Lentamente, Aiolia sciolse la sua stretta per guardarlo dritto negli occhi.

«Non devi vergognarti di quello che provi per Camus. Il tuo sentimento è di sicuro più bello e puro di quello di tanti altri, che sia magari indirizzato a esponenti del sesso "giusto". Anche Aio-» si umettò le labbra, a disagio «anche mio fratello era come te».

Per quanto la notizia l'avesse stupito, Milo rimase in rispettoso silenzio: sapeva quanto fosse difficile parlare di Sagitter, per Aiolia.

«Lui e Saga... io penso che si amassero. A sette anni non si è affatto pratici di certe faccende, ma intuivo lo stesso chiaramente che, tra loro, non v'era solo amicizia: semplicemente nell'avvertire la presenza di Gemini, Aiolos si accendeva di una luce strana. Ricordo di esserne stato geloso, soprattutto dopo averli sorpresi mano nella mano in un angolino del Nono Tempio. Avevo una certa remore a parlarne, persino con lui: temevo fosse una cosa sporca, proibita, e questo presentimento si trasformò in certezza quando... quando successe.

Nella mia mente confusa e sofferente di fanciullo rimasto pressoché solo al mondo, tra tutti i crimini imputati a mio fratello io ci includevo perfino la passione che lo legava a Saga e, anzi, la ritenevo forse la colpa più grave. Crescendo, ho poi compreso di essere stato ingiusto, almeno sotto questo particolare aspetto: probabilmente la mia era semplice paura di aver perso il primo posto nel suo cuore, mascherata da qualcosa di meno infantile».

Leo tacque, visibilmente affranto.

«Lasciamelo dire, ‘Lia: io credo che tu non abbia nulla da rimproverarti. Nonostante le malelingue che ti hanno perseguitato per la maggior parte della tua vita, hai saputo scindere Aiolos il traditore dalla figura immacolata dell'Aiolos che noi tutti abbiamo conosciuto e onorato. Non sappiamo come sia andata veramente quella notte, ma io sono convinto che Sagitter – il Santo, il dorato Sagitter – non sarebbe mai stato capace di compiere il gesto per cui ha subito una condanna senza appello, se non avesse avuto dei motivi che lui riteneva validi e giusti. Ho come la sensazione che la damnatio memoriae a cui l'ha sottoposto il Gran Sacerdote, la scomparsa di Gemini, l'esilio volontario del vecchio Libra e il repentino ritiro in Jamir di Mu nascondano un enorme scheletro nell'armadio».

«Anche io sono del parere che ci sia un posto vacante tra le varie tessere del puzzle: chissà che la ribellione dei cavalieri di bronzo traditori non rappresenti l'anello mancante dell'intera vicenda» confermò Aiolia, incrociando pensoso le braccia.

«Tutti i pezzi troveranno il loro incastro alla perfezione, presto o tardi: la resa dei conti si sta avvicinando. E forse,» pensò Milo «il momento verrà anche per noi due, Camus».





Note dell'autore

Ed eccoci qua con la seconda parte del capitolo 7; a differenza di altri, questo aggiornamento è rimasto pressoché identico all'originale.

Benché i fatti non mi diano ragione – emblematico, sul punto, è l'accento posto da Milo sul fatto che Aiolia sia fratello di un traditore –, a me piace pensare che fra Scorpio e Leo corra un rapporto di amicizia molto, molto stretto.

Perché, nonostante i doverosi distinguo, io trovo che i due abbiano lo stesso modo di approcciarsi alla vita: passionale, impulsivo. Emozionale. Niente a che vedere con l'atteggiamento riflessivo e calcolatore di altre figure, insomma.

Posto ciò, se esiste una sola persona in grado di ispirare a Milo una fiducia tale da permettergli di aprirsi su una faccenda del genere – il cui valore emotivo spero di aver sottolineato a sufficienza –, questa è proprio Aiolia.

Vogliate perdonare l'accenno alla Saga/Aiolos, non ho saputo resistere. Le coppie "non convenzionali", in Saint Seiya, sono come le ciliegie: o le si ripudia completamente (da bravi puristi), oppure una tira l'altra. E io, evidentemente, appartengo alla seconda categoria XD

Stavolta non mi pare ci siano particolari precisazioni da fare, salvo quella sulla damnatio memoriae.

Saprete meglio di me che cos'è, ma io, per pignoleria, lo ribadisco: "damnatio memoriae" è una perifrasi latina che indica la condanna all'eliminazione di memorie, opere od atti di personaggi ritenuti scomodi o colpevoli di qualche grave crimine. Nell'antica Roma, questa veniva utilizzata contro i cosiddetti "hostes", ossia i nemici del Senato o dell'intera città; più tardi il termine acquisirà anche accezioni leggermente diverse, distaccandosi dal suo concreto significato.

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Capitolo 11
*** Capitolo 8: 9 settembre 1986. Shaka ***


Capitolo 8. Shaka BG

Capitolo 8: 9 settembre 1986. Shaka

 

 

 

Chi non cambia è solo il saggio più elevato, o lo sciocco più ignorante.

Confucio

 

 


Shaka di Virgo aspettava con la schiena appoggiata contro una colonna e le braccia incrociate sul petto.

I soldati posti a difesa dell'ingresso della sala del Trono lo guardavano timorosi, come si osserva di sottecchi una creatura rara e bellissima: circondato com’era dal fulgore delle sue sacre vestigia, pareva davvero un – irritato – angelo vendicatore.

Il Gran Sacerdote l'aveva convocato d’urgenza per motivi a lui ignoti, salvo poi relegarlo alla porta ad attendere come fosse un qualunque sottoposto.

«Soldato, chi c’è a colloquio col Pontefice?» chiese imperioso, apostrofando l’uomo armato più vicino a lui; questi, sentendosi chiamare all’improvviso, sobbalzò visibilmente: «Si tratta di Aiolia di Leo, Nobile Virgo. É arrivato senza appuntamento e si è diretto verso l'entrata con una certa irruenza. Abbiamo provato a fermarlo, ma-»

«Basta così, grazie» lo interruppe lui, disgustato.

«Maledetto Leo!»

Aiolia, Aiolia, sempre lui: nell'ultimo periodo gli aveva dato continui fastidi, volontari o involontari che fossero. Shaka aveva molte doti, ma la virtù della pazienza non era certo annoverabile fra queste, e il Leone d'oro stava mettendo a dura prova quella poca che possedeva.

«Calpesterà il suo orgoglio e verrà a chiederti scusa non appena si renderà conto che TU non puoi essere in torto. Oh, se verrà!»

Quel giorno era stato davvero troppo ottimista: una persona superba come un predatore e testarda al pari di un mulo di certo non avrebbe potuto dimostrare di essere al contempo saggia e remissiva, neppure sapendo di trovarsi in errore.

Si tolse l'elmo e si passò una mano fra i capelli, scostando dal viso le ciocche più ribelli: da quando le aveva tagliate erano cresciute parecchio e velocemente, anche se non sapeva con esattezza in che misura; non possedeva specchi, e neppure ricordava quanto tempo fosse passato dall'ultima volta che ne aveva usato uno – al suo posto, Aphrodite sarebbe impazzito.

Lui, invece, derideva e biasimava certe inutili vanità: in molti gli dicevano che era bello, ma la cosa lo lasciava indifferente al punto da disinteressarsi completamente del proprio aspetto fisico. Aveva un concetto di beltà del tutto diverso da quello comune.

«Adesso mi sono stancato. Me ne vado, non ho tempo da perder-»

Fu trattenuto dal minaccioso guizzo di cosmo proveniente dall’interno della stanza: Aiolia stava espandendo la sua aura in modo inusuale per un semplice colloquio con il Pontefice.

Com’era prevedibile, le guardie sembravano non essersi accorte di nulla.

Si accostò impercettibilmente alla porta, tendendo l'orecchio per captare i discorsi; non era sua abitudine origliare, ma la peculiare situazione lo richiedeva.

«... menzogne! Vili calunnie! Quei dannati ti hanno fatto il lavaggio del cervello! Io contavo su di te, Aiolia di Leo! Ti ho addirittura preferito a Scorpio! É questo il tuo modo di ripagare la fiducia concessati?»

«Le uniche calunnie sono quelle con le quali Voi avete infangato il mio e, soprattutto, il nome di mio fratello! Arles! Toglietevi la maschera: voglio guardare in faccia colui che sta per muovere guerra alla dea Atena, la stessa Atena che avete finto di rappresentare per oltre un decennio!»

«Aiolia ha perso il lume della ragione. Devo fermarlo» pensò Shaka, sconvolto e inorridito da quelle parole orribilmente blasfeme.

Il cavaliere del Leone non era mai stato un modello di santità, ma fino a quel momento la sua fedeltà verso l'istituzione del Grande Tempio aveva retto solida e costante – a dispetto del trattamento da essa ricevuto. Che cosa era accaduto, ora, da fargli muovere accuse gravi a tal punto?

Intanto, nella sala, i toni si erano fatti più accesi.

«Tu sei pazzo! Pazzo e traditore, proprio come Sagitter!»

«BASTA! NON VI PERMETTERÒ DI INSULTARLO OLTRE! LIGHT-»

«Ferma la tua mano, cavaliere! Vuoi forse commettere un sacrilegio?»

Nel veder comparire il Custode della Sesta Casa dai battenti spalancati, Aiolia si bloccò; il fascio di luce che andava formandosi nel suo palmo destro perse potenza, fino a spegnersi del tutto.

«Virgo! Che cosa-»

«Cavaliere di Virgo!» urlò rabbioso il Gran Sacerdote, puntando il dito contro Leo «Costui ha tradito! Gli avevo ordinato di recarsi a Tokyo per eliminare definitivamente lady Saori e i suoi cinque seguaci di bronzo, ma lui si è ribellato ai miei voleri! Non solo li ha risparmiati, si è persino unito alla loro eretica causa! Un attimo fa ha cercato di usare il potere della sua armatura contro di me – quell'armatura di cui io stesso l'ho investito! Uccidilo, Shaka, punisci la sua infedeltà con la morte! Non ne resti che cenere!»

«Shaka, non credergli!» gridò di rimando l'accusato «Arles è un impostore! Tredici anni fa uccise il vecchio Shion, e con la frode ne usurpò il titolo di sommo Pontefice. Durante la Notte degli Inganni, poi, cercò di assassinare la piccola Saori, poiché aveva riconosciuto in lei il cosmo della dea Atena: ci sarebbe anche riuscito, se Aiolos non fosse intervenuto per trarla in salvo. Prima di morire sotto i colpi di Capricorn, al quale era stato comandato di inseguire il fuggitivo, mio fratello affidò la neonata e le vestigia di Sagitter a Mitsumasa Kido, che, conoscendo l’esistenza del Santuario, era riuscito a superare la barriera invisibile posta a sua protezione.

L'uomo condusse la bambina a Tokyo, allevandola come una figlia; deciso a portare alla luce la verità, riunì altresì attorno a lei cento ragazzi per prepararli e inviarli successivamente nei luoghi di addestramento per cavalieri di Atena, affinché, una volta conquistata l'armatura, fossero in grado di restaurare il giusto ordine qui in Grecia».

«Una favoletta ben congegnata,» commentò Shaka «ma adatta a convincere unicamente un fanciullo imberbe. Come puoi essere caduto così in basso, Aiolia? Stai voltando le spalle a tutto quello che hai conquistato col sudore di una vita! Ritorna in te, abbandona i tuoi folli propositi!»

«No, Shaka, ascoltami! Mentre lottavo con uno di loro, l'armatura di Sagitter è apparsa dal nulla e si è posta a sua difesa, per proteggerlo dai miei attacchi! Ho udito la voce di Aiolos!»

«Le sacre vestigia del Sagittario a Tokyo?! Ma erano date per disperse da mesi, ormai!» intervenne il Pontefice, con tono sinistramente eccitato.

«E poi,» il Leone ignorò l'esclamazione del Gran Sacerdote, teso com’era a cercare di persuadere il parigrado «ho sentito il cosmo di Atena provenire dalla giovane lady Saori. Era caldo, rassicurante... sconfinato. Solo l'aura di un dio può superare in splendore e vastità quella di un cavaliere d'oro. Non sto mentendo, e posso dimostrarlo!»

«Virgo, cosa stai aspettando?! Metti a tacere queste bestialità, subito!» rinnovò l'ordine Arles, perentorio.

«Per secoli la Giustizia ha regnato sovrana su questo sacro luogo, e così continuerà a essere, perché in tal modo ha deciso la Dea. Non saranno i tuoi vaneggiamenti, né quelli di cinque ragazzini, a cambiare quest'immutabile stato di cose. Sono profondamente addolorato da ciò che mi accingo a fare, ma sei tu che mi ci hai costretto: non avrei mai voluto arrivare a tanto. Ora, preparati» sibilò Shaka mettendosi in posizione, il corpo fremente.

«Finché non smetterai i panni della semi-divinità infallibile, non potrai mai capire. I tuoi occhi, che tieni chiusi per meglio vedere, sono bui come quelli di un cieco. E sia, dunque;» sentenziò Aiolia funereo, preparandosi alla difesa «ma non credere di potermi battere. Vieni, ti sto aspettando!»

«TENBU HORIN!»

«LIGHTNING PLASMA!»

Pugno contro pugno, i due sfidanti si ritrovarono faccia a faccia.

Virgo espanse il cosmo fino ai limiti estremi della sua costellazione, il volto deformato da una smorfia di sforzo e frustrazione; con un ringhio sommesso, Leo fece lo stesso.

Non si trattava di un corpo a corpo, nessuno dei due accennava a scostarsi per colpire l'altro: era, bensì, una battaglia fra aure dorate – il feroce e possente Leone contro la raffinata e spietata Vergine.

Le scariche elettriche generate dalla loro contrapposizione fendevano l'aria, e le colonne già cominciavano a incrinarsi per effetto della tensione.

«Così non possiamo continuare! La nostra potenza è pari, finiremo per scatenare una Guerra dei Mille giorni!»

All'improvviso, la forza che alla sua si stava opponendo subì un brusco calo, e l'energia sprigionata dal Tenbu Horin e dal Lightning Plasma si liberò attraverso un'esplosione che gettò a terra entrambi.

Shaka, benché confuso dall'inspiegabile e repentina perdita di vigore del cosmo avversario, si rialzò velocemente, pronto a riprendere lo scontro.

«In guardia, Leo!» gridò, prima che il Rikudo Rinne gli morisse in gola.

Anche Aiolia era in piedi, e tuttavia non dava segni di voler continuare la lotta; a dirla tutta, sembrava che non sapesse nemmeno chi e dove fosse.

I suoi occhi verdi, in genere brillanti e svegli, fissavano opachi il pavimento; le spalle erano leggermente incurvate, la testa reclinata di lato.

«Che il Tenbu Horin abbia centrato l'obiettivo, contrariamente alle mie aspettative? No, non è possibile, l'ho sentito disperdersi!»

«Aiolia?» chiamò, totalmente spiazzato dallo strano comportamento dell'ormai ex compagno.

Questi, sentendo il proprio nome, parve ritrovare una parziale lucidità, perché si girò verso di lui e disse, senza alzare lo sguardo: «Shaka di Virgo, ti chiedo di perdonare la mia oltraggiosa condotta. Mancando di rispetto al Gran Sacerdote non ho dileggiato solamente Atena, ma anche tutti i miei pari – te compreso. Adesso, però, mi sono ravveduto. Qualsiasi maligno controllo abbiano esercitato sulla mia mente quei miserabili, ora è svanito».

Virgo lo guardò allibito, la bocca semiaperta per lo stupore.

«Tutto questo è assurdo. Privo di ogni logica».

Gettò un'occhiata alla figura di Arles, per controllarne la reazione: al contrario di lui, non appariva poi tanto sorpreso. Se avesse dovuto abbinarlo a uno stato d'animo, l'avrebbe anzi accostato alla soddisfazione. Nonostante non potesse osservarlo in volto, si sentiva in grado di affermare che tutto di lui cantava vittoria, a cominciare dal portamento – altero per quanto era divenuto dimesso quello del Leone.

«AHAHAH! Sentito, Shaka? Il nostro Leo si è redento. Chissà di quali loschi e infidi inganni è stato vittima! Molto bene: direi che la questione è risolta. Non sei d'accordo?»

«Ma, Signore... ne siete sicuro?»  rispose Virgo, nient’affatto convinto – a lui la faccenda sembrava tutto fuorché conclusa. Il mutamento di opinione di Aiolia era stato così repentino che, per quanto ne sapeva, avrebbe anche potuto essere una finta atta ad allontanarlo dalla sala; chi gli giurava che, una volta uscito, il Quinto Custode non avrebbe smesso la maschera e attentato nuovamente alla vita del Gran Sacerdote?

«Certo che ne sono sicuro. Non avverto nel suo cosmo alcuna traccia di ombra – non più. Cavaliere di Virgo, ti avevo fatto chiamare per dei motivi che ora, data l'entità degli ultimi eventi, mi sfuggono: sei dunque libero di tornare al tuo Tempio».

Più che incertezza nei confronti della condotta di Aiolia, dalla risposta del Pontefice traspariva semmai la smania di veder congedato proprio lui.

«Come desiderate, Sommo» lo accontentò, dopo aver rivolto un ultimo sguardo dubbioso al novello pentito, che continuava ad avere un'inquietante aria persa.

Uscendo, Shaka finse di non notare le sbirciate curiose del capannello di soldati assemblatosi intorno all'ingresso della stanza del Trono, attirati presumibilmente dalle urla e dai rumori della breve lotta consumatavisi; quando la brezza esterna portò l’odore del mare alle sue narici egli emise un lungo sospiro di sollievo, grato di essere finalmente fuori dalla Tredicesima Casa.

Non riusciva a spiegarsi l'accaduto, sotto più di un aspetto.

Punto primo: perché assegnare una missione delicata come quella proprio ad Aiolia? Fra tutti i cavalieri d'oro presenti al Santuario, lui era di sicuro quello meno vicino al Gran Sacerdote.

Punto secondo: cosa aveva spinto Leo a credere alla storiella dei Bronze? La sua assurdità era chiara come i raggi del sole.

Punto terzo: possibile che bastassero pochi minuti per cambiare un' idea di tale portata?

E poi, quell'atteggiamento stranito così fuori luogo sull'ardente e vivo Leone…  dubitava fortemente dell'onestà del cavaliere del Quinto Fuoco.

«Tuttavia, l’aspetto più peculiare della vicenda è che, per tutto il tempo della mia permanenza nella sala del Trono, ho avuto la netta sensazione che qualcosa non andasse, che nella sua aura ci fosse un non so che di ostile

 

Voglio dire che io vedo in Arles il nemico da estirpare...

 

Shaka, non credergli! Arles è un impostore!»

Prima Camus, poi Mu; ora, Aiolia – se fosse stato nel Gran Sacerdote, si sarebbe guardato le spalle molto accuratamente.

Virgo evocò la protezione del cosmo e la eresse attorno a sé per uscire indenne dalla discesa della scalinata che portava al Dodicesimo Tempio, costellata di rose velenose.

Stava calando la sera e la luce morente del giorno illuminava di sbieco i fiori maledetti del cavaliere dei Pesci, donandogli un fascino mortalmente sublime molto simile a quello del loro creatore.

Giunto all’entrata posteriore della Casa dei Pesci fu colpito dal lembo di una conversazione che si stava presumibilmente svolgendo fra Aphrodite, Shura e Death Mask.

«… e poi, in quell’angolo di mondo dimenticato persino dalle pulci, indovinate chi spunta dal nulla, esattamente nel momento in cui stavo per spedire nell’aldilà l’inetto allievo del vecchio? Il nostro caro Mu di Aries. Altro che la solita flemma, avreste dovuto vedere com’era infuriato!»

«Mu? Ma non si era ritirato in Jamir volontariamente?» chiese Shura, dubbioso.

«Esatto! Quando uno si ritira in esilio dovrebbe voler farsi gli affari propri, no? Al contrario! Quell'ameba travestita da cavaliere d'oro si è messa in mezzo, impedendomi di portare a termine la missione. Ho dovuto filare via come un cane bastonato, ma solo dopo aver ascoltato la ramanzina di Libra sulla pace, sulla giustizia e via discorrendo – due palle che non vi dico».

«E così, Mu continua a tradire il Grande Tempio. Perché, amico mio?»

«Povero Death... “cornuto e mazzato”, come diresti tu!» rise Pisces.

«Si dice “cornuto e mazziato”, bambolina. Se proprio devi citarmi, fallo in modo corretto!»

La lezione di dizione fu tuttavia interrotta dall'arrivo di Shaka, che salutò con un cenno i compagni e tirò dritto fingendo di non aver sentito nulla.

«Ehi, “piedino di fata”! Tutto bene alla Tredicesima Casa? Abbiamo notato un certo trambusto persino da quaggiù: sembra che tu e il tuo micio arruffato non stiate andando molto d’accordo, in questo periodo… » gli gridò dietro Death Mask.

«Va tutto benissimo, Cancer, ti ringrazio dell’interessamento» rispose lui, affrettandosi a oltrepassare il Tempio.

Non sopportava i modi dell'italiano. Anzi, non tollerava proprio niente di lui: era, e sarebbe sempre stato così.

All’ingresso della Giara Sacra per poco non andò a sbattere contro Maia, che proveniva dalle Case inferiori; chissà da dove le derivava quella buffa abitudine di andare sempre in giro senza badare alla direzione dei propri passi.

«Salve, Maia».

Probabilmente la colse alla sprovvista, poiché ella tese le braccia in avanti come a ripararsi; così facendo, però, il carico di libri che si portava appresso cadde inevitabilmente a terra, spargendosi sul pavimento con un gran fracasso.   

«Ciao Shaka!» esclamò la ragazza, imbarazzata dalla sua stessa sbadataggine «Scusa, non ti avevo visto».

«L'ho notato» disse lui con un sorrisetto, chinandosi a raccogliere un tomo particolarmente grosso.

«Manuale delle malattie infettive» lesse, una volta aperte le palpebre «È per il tuo corso di studi?»

«Sì. Questa è la materia principale del semestre. A livello teorico me la cavo, ma con le diagnosi sono ancora un po’ carente. Il fatto è che spesso si tratta di malattie di cui non ho mai potuto osservare i sintomi: come la Dengue, tanto per dirne una».

«Io, al contrario, ho una certa dimestichezza con la febbre dengue. Riconoscerla è invero piuttosto semplice, se sai cosa cercare: benché differiscano lievemente per sintomatologia, tutti e cinque i sierotipi del virus si manifestano attraverso il caratteristico esantema».

Maia lo stava osservando affascinata, come se avesse appena scoperto un tesoro nascosto.

«Ma certo! A causa del tuo aspetto, dimentico sempre che sei indiano: naturale che tu abbia più familiarità di me coi virus tropicali. Però, come puoi conoscere dei dettagli tanto tecnici?»

«Il monastero dove sono nato e cresciuto dava spesso assistenza sanitaria agli indigenti; ho acquisito le conoscenze mediche che possiedo direttamente dai monaci, nonché dai pochi libri scientifici di cui disponevano» rispose Shaka, che aveva ancora ben impressi nella memoria sia gli odori nauseanti di certe piaghe, sia i lamenti disumani dei moribondi con le viscere consumate dal colera.   

«È magnifico!» esclamò allora quella, entusiasta «Non avrei mai pensato che tu ti intendessi di medicina. Nel caso in cui trovassi delle difficoltà con qualche malattia di questa specie, ti seccherebbe se venissi a chiederti consiglio? Quando non sei occupato con cose più importanti, ovviamente… »

«Volentieri. Il tempo speso per la conoscenza non è mai sprecato».

«Anche io la penso così, e... Camus!»

Quando la figura dell'Esperto dei ghiacci apparve dalla scalinata che collegava la Decima e l’Undicesima Casa, Maia gli corse incontro, totalmente dimentica di Shaka; nel vederla, gli occhi dell'Acquario da seri si fecero subito ridenti, pieni di un chiarore particolarmente brillante.

Qualunque cosa fosse quella luce, era bella da vedere; tuttavia, per Shaka – e solo per lui – era anche un po’ amara.




 

Note dell’autore

Bentrovati!

Quella descritta nel presente capitolo dovrebbe essere una rivisitazione dello scontro di Shaka e Aiolia al cospetto di Arles, avvenuto subito dopo il ritorno di Leo da Tokyo; solo che, nel contesto della mia storia, esso ha luogo due giorni prima dell'arrivo dei Bronze – e non il giorno stesso, come nell'anime.

Dunque, se fino a ora le vicende sono state ambientate in un periodo di tempo relativamente ampio – che va dal 30 aprile 1986 fino ad agosto inoltrato –, ora ci sarà un notevole rallentamento: i prossimi capitoli andranno di giorno in giorno, o giù di lì.

Mentre la prima parte dell’aggiornamento (ossia, quella importante) è rimasta pressoché inalterata, l’ultima ha invece subito qualche ritocco.

In particolare, ho aggiustato il racconto di Death Mask a proposito della sua missione ai Cinque Picchi, nonché la conversazione fra Shaka e Maia, adesso incentrata sull’ars medica; nel mio immaginario, infatti, Shaka ha qualche rudimento di medicina – come verrà altresì specificato nel capitolo 11, parte II.

Riguardo gli aspetti un po’ più “tecnici”:

- alcuni pensieri di Virgo sono tratti dai precedenti capitoli:

a) “Calpesterà il suo orgoglio e verrà a chiederti scusa non appena si renderà conto che TU non puoi essere in torto. Oh, se verrà!” (capitolo 2);

b) "Tuttavia, l’aspetto più peculiare della vicenda è che, per tutto il tempo della mia permanenza nella Sala del trono, ho avuto la netta sensazione che qualcosa non andasse, che nella sua aura ci fosse un non so che di ostile" (capitolo 3, parte II);

c) "Voglio dire che io vedo in Arles il nemico da estirpare" (capitolo 5).

- L'espressione "cornuto e mazziato" ha origini partenopee e significa, pressappoco, "oltre al danno, la beffa".

- La febbre dengue – o, più semplicemente, Dengue – è una malattia infettiva tropicale causata dall'omonimo virus (che esiste in 5 sierotipi); si trasmette tramite la puntura della zanzara di genere Aedes.

I sintomi più comuni sono febbre, cefalea, dolore muscolare e articolare, nonché la comparsa dell'esantema (ossia, un'eruzione cutanea) di cui parla Shaka.

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Capitolo 12
*** Capitolo 9: 10 settembre 1986. Camus ***


Capitolo 9. Camus BG

Capitolo 9: 10 settembre 1986. Camus

 

 

 

Così ti stringevo al mio cuore

come fosse l'ultima notte felice del mondo,

l'ultima notte importante per dimenticare di essere soli,

di essere soli da sempre.

Baustelle

 

 

 


Pioveva a dirotto: quel giorno Atene si era svegliata zuppa fino al midollo, e sarebbe andata a dormire satura d'acqua.

Una spessa coltre di nubi violacee ricopriva l’orizzonte come un pesante lenzuolo, dal quale filtrava poca e timida luce; la città, da lontano, sembrava avvolta in un involucro scuro.

Il temporale non stava risparmiando neppure il Santuario, ove le gocce di pioggia si raccoglievano sulle scalinate e sui tetti in pozzanghere e rigagnoli fruscianti; se non altro il marmo dei Templi, ora ingrigito dall'atmosfera cupa, col ritorno del sole sarebbe apparso più bianco e candido di prima.

Camus di Aquarius, invece, dubitava di essere mai stato davvero candido: in quel momento, anzi, si sentiva pieno di ombre – quasi oscurato.

Fermò i suoi passi nel bel mezzo della discesa che dalla Dodicesima Casa conduceva alla sua, e godette del freddo, avvolgente abbraccio della pioggia sul corpo.

Sperava che il cielo, con tutte quelle gocce simili a lacrime, oltre alle Dimore dei cavalieri d'oro riuscisse a purificare un po’ anche lui: quando la realtà minacciava di sopraffarlo – e ciò avveniva di rado – si faceva cullare da tali immagini fantasiose. Vi si abbandonava senza tuttavia farlo davvero; permetteva che lo accarezzassero, questo sì, ma non aveva più l'età per riuscire a illudersi.

Passò in rassegna con gli occhi la porzione di Grande Tempio che si stagliava sotto di lui, dal maestoso Palazzo del Montone Bianco fino all'armoniosa circolarità della Sacra Anfora.

Senza avvedersene, soffermò lo sguardo sulla Casa dello Scorpione del Cielo un po’ più a lungo del dovuto; le persiane delle stanze private non erano ancora state chiuse, per cui si intravedeva un mite chiarore elettrico provenire dalla finestra della camera da letto di Milo.

Milo. Chissà che stava facendo; conoscendolo, probabilmente era sdraiato sul letto con le cuffie del suo amato walkman alle orecchie. Quell’aggeggio, acquistato due o tre anni prima, gli era costato lo stipendio di mesi; avevano girato mezza Atene a piedi per trovarlo, in un pomeriggio scuro e tempestoso come quello e, alla fine, erano tornati al Santuario molli come pulcini – Scorpio al colmo della soddisfazione, Camus decisamente irritato.

Cosa non aveva fatto, pur di veder sorridere quel suo amico così brillante e rompiscatole!

Peccato, tuttavia, che nulla fosse bastato. Gli mancava – e tanto, anche.

Gli mancava come manca lo zucchero in un caffè troppo amaro; come manca l'arredo in una stanza troppo vuota. Come manca un libro sul comodino prima di andare a dormire.

C'erano, fra loro, troppe cose non dette: ma quali?

Se ne fosse stato a conoscenza, Aquarius non avrebbe avuto alcuna esitazione ad andare da lui – non quel giorno, non più: gli pareva che i tempi si fossero fatti troppo ristretti per continuare a rimandare.

Però si sentiva così maledettamente distante, un foglio di carta in balia del vento… no, non sarebbe sceso all'Ottava Casa.

«Lui si è inventato un problema. Lui ha eretto una barriera fra noi. E, così come l'ha creata, sarà lui stesso a infrangerla, se vorrà. Non sta a me».

Uno colpo di tosse gli risalì la gola, rompendo l'incanto in cui era caduto e convincendolo finalmente a rientrare; una volta all'asciutto fra le colonne si diresse senza fretta nelle sue stanze, lasciando dietro di sé una scia di piccole pozze d'acqua.

Quando aprì la porta che dava sul corridoio, fu investito da un tepore caldo e accogliente che sciolse l'umidità penetratagli nelle ossa.

«La perturbazione improvvisa che sta interessando l'Attica in queste ore continuerà a imperversare anche nottetempo; ma non preoccupatevi, il sole tornerà a splendere sull'intera regione già dalla mattinata di domani, e la temperatura dovrebbe rientrare nella media stag-» Click.

Camus spense la radio nuova di zecca, meravigliato: possibile che l'avesse dimenticata accesa? No, certe mancanze non erano da lui.

«Maia?» chiamò, affacciandosi in salotto. Nessuno.

«Le sei e trenta spaccate. A quest'ora avrebbe dovuto essere già qui» si disse, osservando le lancette dell'orologio a cucù che troneggiava al centro della parete principale della stanza – regalo di Aldebaran del Natale precedente: nonostante per loro fosse una festa laica, non disdegnavano di scambiarsi doni.

«Ho pensato che ti potesse far comodo;» aveva esclamato il Toro tutto contento, non notando il piglio schifato dell'amico all'apertura del pacco «uno preciso come te non può fare affidamento solo sull'orologio da polso!»

Il ragionamento non faceva una piega, e tuttavia la gradevolezza estetica dell'oggetto in questione era alquanto discutibile.

Nonostante gli sghignazzi di Milo e Aiolia e le occhiate dubbiose dei più educati, Aquarius aveva deciso di appenderlo al muro per non offendere il buon Taurus, il cui scarso buon gusto veniva ampiamente compensato da un’inesauribile generosità.

Scosse la testa, tentando di riemergere da quel ricordo – l'ennesimo.

«Quand'è che sono diventato così nostalgico? Mi sto decisamente rammollendo».

«Maia! Ci sei?»

Vuoto anche il bagno.

Alla fine la trovò in cucina, addormentata sul bordo del minuscolo caminetto con la testa abbandonata sulle braccia.

Ogni Casa dello Zodiaco aveva delle particolarità rispetto alle altre: l'Undicesima era l'unica a pianta circolare, e la sola che potesse vantare un camino.

Pensata assurda e antitetica assegnarlo proprio al Signore dei Ghiacci, era stato il commento generale.

Ma lui, che di neve e freddo aveva vissuto per la gran parte della propria esistenza, non aveva mai condiviso tale idea: solo chi ha dovuto affrontare il gelo più intenso può apprezzare davvero il calore di un focolare.

Inoltre, Maia gli aveva detto di adorarlo a sua volta; così, benché in Grecia lui non ne sentisse il bisogno, nelle giornate più plumbee e tristi aveva comunque preso l'abitudine di accenderlo. Al di là della sua mera funzione, infatti, Camus amava lo scoppiettio della legna intaccata dalle fiamme, i bagliori rossastri che si allungavano sul pavimento, la danza ipnotica delle lingue di fuoco; mitigavano l'aria austera e distaccata del resto dell'edificio – e anche lo spirito del suo Custode.

Restò per un attimo a osservare il volto disteso della ragazza, avvolto dal chiaroscuro che i tizzoni ardenti generavano tramite strani giochi di luce; poi, inginocchiandosi accanto a lei, ne seguì delicatamente i contorni con le dita.

A causa del contatto freddo e bagnato, Maia si destò.

«Ah!» esclamò, alzandosi di scatto dalla posizione rannicchiata in cui era, gli occhi semichiusi a cercare la fonte di quel disturbo ghiacciato.

«Tranquilla, Maia, sono io».

«Camus... » biascicò lei, stiracchiandosi «ma dove sei stato? Sei fradicio».

«Aphrodite mi ha invitato da lui per un tè».

«E da quando in qua bere un tè comporta anche fare la doccia?»

«Piove ancora, fuori. Mi sono bagnato durante il tragitto» spiegò lui, spiccio.

«Mh. Aspetta qui, non ti muovere».

La sentì trafficare tra gli sportelli dell'armadio di camera, finché non tornò con dei vestiti asciutti e un enorme asciugamano, che gli avvolse intorno al corpo.

«Il fatto di essere il padrone delle Energie fredde non esclude che raffreddori e malanni da comuni mortali possano colpirti» scherzò, sfiorandogli la fronte con le labbra.

Sulla sua pelle marmata erano bollenti, come bollente era quel qualcosa che prendeva vita dentro Camus quando Maia gli riservava tali semplici attenzioni: per l'Acquario avevano un significato particolare perché, prima di lei, non ne era mai stato oggetto.

«Chérie... » cominciò esitante, bloccato da una paura ben nota; lo assaliva spesso, ossia ogni volta che provava ad esporsi.

«Uhm?» lo incoraggiò quella, continuando a strofinargli i capelli con il telo.

«Io-»

Maledizione. Le parole gli stavano inciampando fra i denti.

«Io sono uno cretino. Ecco quello che dovrei dire».

«Tu cosa?»

«Nulla, non è importante» mentì Aquarius, sgusciando via dalle sue braccia.

«Il tuo problema, caro Camus, è che sei emotivamente stitico».

La frase, pronunciata da Aiolia una sera di tanti anni prima nel disordine accogliente della Quinta Casa, gli tornò alla memoria improvvisamente. Anche in quell’occasione, era stato Milo a difenderlo.

«Ma no, ma no! Non confondere l'incomunicabilità di Camus con l'insensibilità, ‘Lia! Il nostro Rouge, più che emotivamente stitico, è... sentimentalmente dislessico!»

Al che, Maia aveva annuito convinta: «”Sentimentalmente dislessico” non è un titolo molto elegante, ma ti si addice».

«Sono sentimentalmente dislessico, avevano ragione. Anche se non ho mai capito bene cosa voglia dire».

«Camus, a che pensi? Ti sento lontano oggi. Qualcosa non va?»

La Maia del presente gli stava sventolando la mano davanti agli occhi e lo guardava con fare interrogativo – accidenti, si era imbambolato di nuovo.

«Macché, figurati. È tutto a posto» rispose, quasi seccato che lei si fosse accorta del suo malessere celato a fatica. Si legò i capelli in una lunga coda di cavallo umidiccia, mettendosi a faccia in giù per nascondere la sua espressione corrucciata.

«Ah, dimenticavo» disse poi, afferrando la maglietta e i jeans che ella gli aveva portato «Stasera Aldebaran ci ha invitato per una pizza alla Seconda Casa».

«Oh, non so» tentennò lei, a disagio «Chi viene?»

«I soliti, presumo. Nessuna ricorrenza, giusto per stare qualche ora insieme. Dovremmo essere io, te, Al, ‘Lia, Shaka e Milo».

Al nome di Scorpio, la ragazza trasalì appena.

«N-non credo che sia una buona idea. Shaka e Aiolia si ringhiano contro da mesi, tu, io e Milo non ci parliamo: sarebbe masochistico».

«Come, tu e Milo non vi parlate? C'è qualche problema?» chiese Camus, allarmato: non gli era giunta voce di alcun litigio che fosse avvenuto fra i due.

«No, no, nulla!» si corresse lei, svelta «É solo che, con te in mezzo, risulterà difficile instaurare una conversazione serena».

«Senti, sono conscio che le cose non sono più come prima, ma… ma è importante, per me. Sono nervoso, e non ne conosco il motivo. É come una sensazione di urgenza che mi attanaglia lo stomaco. Ho bisogno di avervi vicino: di sentire che, nonostante tutto, ci siete».

Aquarius chinò il capo, intristito dalla sua stessa confessione di debolezza.

«Che mi sta succedendo? Questo non sono io. Non è da me sentirmi così insicuro. O forse sì, ma non al punto da ammetterlo».  

Maia allora lo abbracciò forte, infischiandosene degli abiti intrisi d'acqua.

«Io, per te, ci sarò sempre. Sempre e per sempre. Non ti lascerò mai solo» disse, baciandolo sulla bocca tra una parola e l'altra «E se la mia presenza ha il potere di farti sentire meglio, sappi che ti seguirò anche all'inferno – e sarò felice di farlo. Su, vai a cambiarti ora, o faremo tardi» disse, allontanandolo da sé con una spintarella in direzione della porta.

«Grazie» sussurrò Camus, voltandosi sulla soglia prima di varcarla.

 

*

 

«Alla buon’ora, piccioncini!» li accolse festosamente Aldebaran un'ora e mezzo più tardi «Siete arrivati dopo le pizze! Pensavamo che non sareste più venuti».

A Camus quel saluto, benché privo di malizia, non piacque: avrebbe preferito essere annunciato in maniera più discreta – o, meglio ancora, non essere annunciato affatto.

«Scusa, Al, è colpa mia;» ammise Maia «mi sono stesa un attimo sul letto e sono caduta nel mondo dei sogni come una pera cotta».

Subito dopo, fece un occhiolino ad Aquarius: sul letto c'era finita davvero, ma in sua compagnia – e non esattamente a dormire.

«Figurati! Semmai vogliate perdonare me, che non ho saputo resistere dal dare un morso alla mia pizza; sapete, avevo fame... » confessò Taurus con un po’ di imbarazzo «Per fortuna gli altri sono stati più educati: prego, entrate!»

Il Secondo Tempio sembrava essere stato costruito su misura del suo Custode: i mobili, le pareti, perfino alcuni oggetti erano più grandi del normale.

Trovarono il resto della compagnia seduto al mastodontico tavolo della sala da pranzo, i cartoni di pizza da asporto ancora chiusi.

«Buonasera a tutti!»

«'sera, ragazzi» fu il laconico benvenuto di Shaka, mentre Aiolia si limitò a un cenno del capo, lo sguardo apparentemente fisso sul bicchiere davanti a sé – ma, più probabilmente, perso nel vuoto.

«Aldebaran:» sussurrò Camus «cos’ha Aiolia?»

«Non saprei» bisbigliò quello di rimando «Da quando è arrivato non ha pronunciato una sola parola. In effetti, sto cominciando a preoccuparmi».

«Al, ti informo che è finito il sap-oh, salve».

Milo comparve dal bagno e, nel vederli, la sua espressione – da allegra che era – si fece subito lugubre.

«Ciao, Milo» salutò timidamente Maia, mentre il suo compagno restava in silenzio.

«Se sapeva che ci saremmo stati anche noi – e lo sapeva – perché fa quella faccia? Avrebbe dovuto essere preparato».

«Ehm, bene!» spezzò la tensione il padrone di casa «Ora che siamo tutti, direi che possiamo iniziare!»

Camus prese posto accanto ad Aldebaran, e Maia al suo fianco, vicino a Shaka.

Aquarius si augurò vivamente che lo Scorpione si mettesse di fronte all'indiano, ma, come aveva tragicamente predetto, si accomodò invece di rimpetto a lui.

Per scansare quegli occhi indagatori sollevò il suo cartone, rimanendo però interdetto.

«Chi è il genio che aveva il compito di ritirare le pizze? Io ho ordinato una Margherita, non una Diavola» esclamò, contrariato – detestava il salame piccante.

«Il “genio” in questione è il sottoscritto;» rispose Milo, sarcastico «stai tranquillo, la tua ce l'ho io».

Erano le prime parole che l'Ottavo Custode gli rivolgeva, dopo mesi di ostinato mutismo. E, in fondo, avrebbe dovuto aspettarselo: lui era l'unico a cui piacesse la Diavola. Da anni prendeva ogni volta la solita.

«Désolé» borbottò Camus, arrossendo.

Da sotto il tavolo, Maia gli allungò una pedata.

Merde, aveva parlato in francese come faceva sempre quando era arrabbiato o agitato; peccato che tutti conoscessero questo suo vizio, Milo in primis.

«Nessun problema» rispose questi, con aria tra il contrito e il soddisfatto.

«In un modo o nell'altro riesce sempre a mettermi a disagio».

Non era una novità che il biondo greco fosse il solo ad avere il potere di imbarazzarlo: in genere capitava quando si lasciava andare a gesti troppo affettuosi nei suoi confronti o a discorsi poco consoni in pubblico, ma mai era accaduto in contesti tanto sgradevoli.

Rimpianse di non essere capace di fare il cafone: in quell'occasione, infatti, gli sarebbe tornato molto utile buttarsi a capofitto sul boccale di birra che si era versato, evitando così altre magre figure.

Restò invece composto, cercando di ritornare impassibile.

«Non pare anche a voi che manchi qualcuno?» proruppe Maia all'improvviso, per sviare l'attenzione dal suo uomo.

«Non so se l’hai notato, Maia, ma manca effettivamente qualcuno. Anche se non è mai stato un gran chiacchierone, questo non significa che l'assenza di Mu non si noti» disse mestamente Scorpio, la cui sorta di predica fu seguita da un grosso sospiro di Aldebaran; tutti sentivano nostalgia della serenità e della calma di Aries, soprattutto in tempi come quelli.

«Scusa tanto, Milo, ho dato per scontato che tutti i presenti fossero in grado di riconoscere un modo di dire» sbuffò la ragazza caustica, suscitando ulteriori perplessità nei presenti – escluso Leo, che continuava a mangiare meccanicamente.

«Ma che diavolo!? Maia non me la racconta giusta, è palese che abbiano discusso anche loro» pensò Camus, notando gli strani atteggiamenti reciproci fra lei e il proprio camerata «Il Santuario sta diventando un posto invivibile – come se fosse mai stato il paese dei balocchi, poi!»

«Comunque,» continuò quella, soffocando sul nascere eventuali repliche «Shaka, tu con lui hai un legame speciale. Non è che ti ha fatto avere sue notizie, recentemente?»

Virgo, prima di rispondere, si pulì la bocca con il tovagliolo: «Ha provato a raggiungermi col cosmo settimane fa, e io ho ricambiato il contatto. Poi più nulla, da parte sua. Anche se-»

«NO!» urlò Aiolia all’improvviso, battendo i pugni sul tavolo e lasciando tutti di sasso «Shaka, se sai dove si trova Mu non dire niente! Io devo allontanarmi da qui, è stato uno sbaglio venire! Potrebb-»

Dopo queste parole, il Leone si accasciò a terra e prese a dondolarsi avanti e indietro con la testa fra le mani, emettendo flebili lamenti.

Maia, Aldebaran e Milo si precipitarono su di lui come un sol uomo.

«’Lia! ‘LIA!»

«Insomma, Maia, fa’ qualcosa! Sei tu il dottore!»

«Non sono una psichiatra! Fatelo rinsavire voi, piuttosto!»

«Chi, Aiolia? Chi potrebbe? Perché è stato uno sbaglio venire? Che significa?»

Avevano perso il sangue freddo in un soffio: non poteva crederci, sembravano preda di un'isteria collettiva. Shaka, rimasto un po’ in disparte, si era invece limitato a spalancare le palpebre, sorpreso ma non troppo.

«ORA BASTA!» gridò Camus, a sovrastare il cicaleccio dei compagni.

Ottenuta l'attenzione generale, riprese con tono più basso: «Aria: lasciategli spazio. La confusione che state facendo di certo non lo aiuterà!»

Miracolosamente, quelli obbedirono senza protestare.

Nell'avvicinarsi al Leone rannicchiato su un fianco, Aquarius avvertì su di sé occhiate penetranti, ansiose, che non riuscirono però a minare il suo autocontrollo; con il proprio gelido potere acceso nelle dita egli prese il viso dell'amico e lo sollevò a forza, guardandolo dritto nelle iridi verdi – che, nel frattempo, erano tornate spente.

«Aiolia. Aiolia, mi senti? Come stai ora? Va meglio?»

Al suono fermo della sua voce il ragazzo parve recuperare un minimo di lucidità, perché si liberò dalla presa e mormorò qualcosa.

«Che ha detto?» chiese subito Milo, allungando il collo.

«Non l'ho capito, ha sussurrato troppo piano!»

«Ho detto che va tutto bene! Toglietevi di mezzo, per favore!» dichiarò l'interessato, rimettendosi in piedi con irruenza.

«Aiolia, che ti prende?»

«Niente. Ora fatemi passare» ribadì il Leone, dirigendosi verso la porta a spintoni.

«Ma sei impazzito?! Dì, ti ha dato di volta il cervello? É tutto il giorno che non sei in te, ora hai messo su questa bella piazzata e, subito dopo, dici di volertene andare? Non credi di doverci una spiegazione?!» lo aggredì Scorpio, irritato e preoccupato insieme.

Maia gli posò una mano sul braccio nel tentativo di placarlo, e poi prese la parola: «’Lia, se ti è successo qualcosa devi dircelo. Non sei... normale»

«La sola cosa che dirò è questa, e lo farò un'altra volta soltanto: fatemi passare».

Non pareva voce umana, bensì un minaccioso ringhio animalesco.

«Ha ragione: lasciatelo andare, prima che vi sbrani» commentò sarcastica la Vergine, da un angolo.

«Shaka, ti sembra questo il momento opportuno per fare dell'ironia?!» sbottò Aldebaran.

Approfittando dell'attimo di distrazione, Aiolia scattò verso l'uscita, ma il troppo impeto lo fece urtare contro un tavolino; questo franò a terra con fracasso, insieme alla cornice che vi stava sopra.

Ancora inginocchiato, Aquarius recuperò la fotografia in bianco e nero tra i pezzi di vetro infranto: nel riconoscerla fu preso da un tremito che, per fortuna, riuscì a sopprimere subito.

«Mi ero dimenticato di questa».

Era stata scattata circa quattordici anni addietro, qualche giorno prima della notte che aveva interrotto bruscamente il loro pre-addestramento al Santuario di Grecia: al centro della scena c'erano Aiolos, Saga e Shura, circondati dai sei bambini che i tre avevano affiancato e sostenuto in quel lasso di tempo. Individuò se stesso e Shaka seduti ai piedi di Gemini; Milo e Aiolia, entrambi con un ampio sorriso, ai lati di Sagitter; infine, Aldebaran e Mu, stretti contro Capricorn. Quelli in foto erano visi giovani, ancora pieni di belle speranze, molto diversi dagli attuali; il tempo aveva fatto il suo corso, portando altrove con sé due dei cavalieri più anziani e le illusioni dei piccoli.

Sulla stanza, intanto, era sceso il silenzio più totale.

Aiolia guardò prima l'antico scatto, poi i compagni, sempre più sconvolto.

«Scusate» sillabò debolmente, prima di precipitarsi via a capo basso, scansando con una spallata chi ancora stava cercando di trattenerlo.

«Aiolia!»

Milo gli corse dietro, uscendo a sua volta: i loro passi affannati risuonarono lungo tutto il Secondo Tempio per qualche istante, fino a spegnersi del tutto.

Camus si alzò in piedi e depositò la foto nelle mani di Aldebaran, che la studiò affranto.

«Era tutto diverso, allora».

«Gli anni passano, amico mio. Il problema è farsene una ragione» disse l'Acquario per consolarlo.

Dopo, si rivolse a Virgo: «Shaka, sai se quello che sta succedendo a Leo abbia o meno a che fare con lo scontro alla Tredicesima di ieri? Tutto il Santuario ha sentito la terra vibrare per la contrapposizione dei vostri cosmi; se ne è discusso per l'intera giornata, eppure nessuno è giunto a una plausibile spiegazione in grado di giustificare tale comportamento fra parigrado. Che cosa gli ha fatto Arles?»

«Arles non gli ha fatto assolutamente niente, semmai è stato Aiolia a provare ad attaccarlo. Sono arrivato al momento giusto» dichiarò l’interpellato, con un filo di alterigia.

«Aiolia attaccare il Gran Sacerdote?» ripeté Al, sbigottito «Ma è impossibile!»

«Ti dirò di più: non solo non ha portato a termine la missione assegnatagli – di recarsi a Tokyo per eliminare i Bronze traditori –, ma al suo ritorno era fermamente convinto che il Pontefice fosse un impostore. Per tale ragione l'ho sfidato; durante lo scontro, poi, si è apparentemente pentito. Arles gli ha creduto, ma secondo me è tutta una messa in scena. O finge o è stato plagiato da quei maledetti, non c'è altra spiegazione».

«E chi ti assicura che non sia stato proprio il Pontefice a plagiarlo?» inquisì Camus.

Non condivideva del tutto le argomentazioni di Shaka: voleva sapere fino a che punto l'asceta riponesse fede in colui che occupava il Trono di Grecia.

«Ciò che è arrivato ad affermare a proposito della nipote di Kido è blasfemo e ridicolo. Tanto ti basti, Camus; se fossi in te, comunque, mi tratterrei dall'accusare così apertamente il Gran Sacerdote».

«Fede assoluta. Non ne dubitavo».

«Ho avvertito una lieve minaccia nelle tue parole, cavaliere di Virgo. Ma, come sai, io non amo rispondere alle provocazioni» dichiarò Aquarius, calmissimo eppure gelido da far accapponare la pelle.

«Oh, il mio non voleva essere né una provocazione né una minaccia: solo un consiglio» affermò l'altro, anche se dal tono pareva l'esatto contrario.

«D'accordo, lo terrò a mente. Grazie» concluse allora Camus, sbrigativo «Maia, io vado a vedere come sta Aiolia».

«Io ti raggiungo tra poco: aiuto Al a mettere in ordine».

«Ma no, non ce n'è bisogno... » rifiutò gentilmente il Toro, che pure era grato all’amica per quell’offerta.

«Tranquilla, stai pure. Aldebaran, grazie di tutto. Shaka... buonanotte».

Una volta congedatosi, Camus si allontanò dalla Seconda Casa di buon grado; il Sesto Custode era insopportabile, quando voleva dimostrarsi superiore a tutti i costi.

«Lo sarebbe davvero, superiore, se non si ritenesse tale».

L'accaduto l'aveva leggermente scosso, giacché costituiva l'ennesima prova che qualcosa non fosse al posto giusto; che un ingranaggio girasse in senso contrario al resto dei meccanismi. Si ricordò improvvisamente delle nozioni di anatomia umana apprese durante l'addestramento a proposito dei tumori.

«Come se, nell’organismo, ci fosse una cellula cancerosa che sta corrompendo pian piano le sane».

All'interno della Casa di Gemini rallentò l'andatura, un brivido a corrergli lungo la schiena: fra le colonne del Tempio, rimasto vuoto per tanto tempo, aleggiava un'aria nuova – sinistra. Un’aura oscura e potente, che sapeva di cosmo appena risvegliatosi da un lungo sonno.

Passò oltre in fretta, chiedendosi se, oltre che nostalgico, non fosse diventato anche suscettibile.

Giunto alla Quinta senza ulteriori intoppi, si ritrovò inaspettatamente faccia a faccia con Milo, che era seduto sui gradini anteriori.

La luce della luna faceva capolino dalle nuvole che si andavano diradando, lasciando intravedere un cielo più blu e ammantato di stelle che mai; i raggi dell'astro notturno colpivano le chiome di Scorpio senza tuttavia alterarne il dorato, creando una sorta di perfetto chiaroscuro.

«Non vuole parlare con nessuno. Si è chiuso dentro e mi ha intimato di lasciarlo in pace» spiegò quello, quasi a motivare la sua inattesa presenza lì.

«Dovresti fare come ti ha chiesto» disse Camus, semplicemente.

La faccenda, del resto, gli sapeva moltissimo di dejà-vu: anche lui provava il desiderio di rimanere solo se qualcosa lo turbava.

Tutti sapevano quando era il caso di stargli alla larga, eccezion fatta per Milo – che forse non se ne rendeva conto o, più probabilmente, se ne infischiava alla grande.

“«Allora, posso considerarmi perdonato?»

«Me l'hai già chiesto almeno venti volte nel giro di mezz'ora, e la mia risposta è stata, è, e continuerà ad essere sempre la medesima: NO».

«Eddai, Camus, è passata una settimana! Non puoi continuare ad ignorarmi per sempre!»

«Questo è un concetto assolutamente opinabile»

«Se la metti così, anche il fatto di leggere mentre qualcuno ti sta parlando è di una cortesia opinabile»”.

Da allora erano passati appena tre mesi, ed era già cambiato tutto.

Basta un attimo per stroncare una vita, questo l'insegnamento che si portava dentro sin dall'infanzia; avrebbe quindi dovuto essere abituato a veder svanire in un battito di ciglia cose, persone, affetti.

Invece, così non era.

Conosceva tutto riguardo al ghiaccio, al congelamento, alle tecniche di lotta per cogliere di sorpresa l'avversario, ma sui sentimenti aveva ancora molto da imparare – ammesso, poi, che ci sarebbe mai riuscito; ammesso, altresì, che avrebbe avuto abbastanza tempo per provarci.

Come si sarebbe comportato sapendo di avere a disposizione solo una notte ancora?

Provò ad immaginarselo, e la risposta fu che non sarebbe certamente rimasto lì, in silenzio, davanti al suo migliore amico da cui pure pretendeva delle spiegazioni.

«Ma io non ho a disposizione solo una notte: ho ancora degli anni, innanzi a me. Ci sarà tempo per tutto».

«Camus, io-»

Aquarius si riscosse, quasi che la voce di Milo l'avesse punto al pari di una sua cuspide.

Il vento, felice di poter tornare a smuovere le nubi, batteva impetuoso su di loro arruffando i capelli, gli abiti e persino i pensieri.

«Ecco, io-»

«Avanti, parla tu al posto mio. Io non ci riesco, sono sempre stato negato nelle confessioni».

«Camus! Dunque, come si sente Aiolia?»

Il sopraggiungere di Maia dalla Quarta Casa ruppe inclemente la spannung.

Lo Scorpione, che fino a un momento prima sembrava sul punto di sputare il rospo, abbassò gli occhi; quella fu l’unica volta in cui Camus non gioì nel vedere la propria ragazza.

«Non lo so. Non ha fatto entrare nemmeno lui» rispose, facendo un cenno in direzione di Milo.

«Allora sarà meglio aspettare che si calmi da solo;» decretò quella «non mi pare il caso di continuare a insistere».

Dinanzi al suo pragmatismo, il proverbiale buon senso di Aquarius non poté che darle ragione.

«Sono d'accordo» disse quindi; poi aggiunse, rivolto a Scorpio: «Allora, noi andremmo … »

«Buonanotte» fu l'unico, stringato commento dell'altro.

«‘notte, Milo» augurò Maia, incamminandosi.

Prima di apprestarsi a seguirla, l'Undicesimo Custode si volse indietro a incontrare nuovamente lo sguardo celeste del compagno, che lo stava sfidando a rimanere; tuttavia, lui non seppe raccogliere l’invito e si allontanò con quell'intercedere pacato ed elegante che adottava inconsciamente quando si sentiva invece più a disagio.

*

«Che serata infernale!» esclamò Maia qualche tempo dopo, accasciandosi sulle scale dell'Undicesimo Tempio.

Le previsioni meteo non avevano indovinato nemmeno in quell'occasione: la pioggia era cessata ben prima dell'indomani, regalando ad Atene una notte meravigliosamente serena.

«Mh» mugugnò Camus, ancora concentrato su Milo e sul loro mancato colloquio.

«Che vi siete detti tu e Milo? Quando sono arrivata mi è parso di aver interrotto qualcosa; se me ne fossi resa conto in tempo, probabilmente avrei fatto marcia indietro».

Ad Aquarius non sfuggì lo sguardo ansioso che aveva accompagnato la domanda della ragazza; era incredibile quanto ella fosse brava nella difficile arte dell’intuire la natura delle sue riflessioni.

«Un po’ come Milo».

«Nulla di particolare: abbiamo parlato di Aiolia. Ed è già un passo avanti».

Non era vero: in realtà, non avevano parlato di niente – o forse si erano detti tutto senza pronunciare una sola sillaba. Comunque fossero andate le cose, erano fatti che non aveva voglia di condividere.

Si sedette accanto a lei, desideroso di cambiare argomento.

«Cosa ne pensi tu di ciò che è successo?» le chiese, un po’ per distrarla, un po’ perché voleva davvero conoscere la sua opinione in proposito.

«Non ne sono sicura, ma credo anch'io che ci sia qualcosa che non va. Io ho avuto modo di parlare personalmente col Sommo Arles una volta sola, durante le esequie dei miei genitori; puoi ben capire che, in un momento del genere, non avrei potuto notare alcunché. Visto il ruolo marginale che ricopro qui dentro, forse quella è stata la mia unica occasione, e tuttavia non mi serve averci direttamente a che fare per percepire come, in lui, ci sia un che di disturbante. Secondo me un Gran Sacerdote dovrebbe invece trasmettere pace e serenità, in quanto portavoce della Dea sulla terra; è in questi termini che mia nonna descrive sempre il precedente Pontefice, quando mi racconta di lui».

«Giusto».

«E poi… insomma, non che mi intenda molto di guerra e politica, ma mi pare così strano che cinque cavalieri di bronzo sfidino l'autorità del Grande Tempio senza una valida ragione, proclamando le stesse presunte verità per le quali Aiolos è morto. Non hanno speranza contro di voi, eppure vi muovono guerra: o sono pazzi suicidi, oppure una forza maggiore li anima e sostiene. Uno di essi è stato allenato dal tuo discepolo, quindi, per certi versi, è allievo anche tuo: possibile che sia mosso da intenti tanto diversi rispetto ai tuoi?»

«Ero molto giovane quando mi recai in Siberia ad addestrare l'ex Cigno, divenuto per mano mia un Silver Saint: lui era più vecchio di me, e mostrava un animo forse più fedele e savio del mio. Gli ero superiore solo per tecnica, non per spirito: non dubito che abbia saputo impartire a Hyoga – così si chiama il ragazzo – i giusti valori».

Ripensava di rado agli anni passati al Nord in compagnia di quella figura adulta già matura e preparata, molto diversa dai bambini che aspiravano a divenire cavalieri di bronzo; Aquarius gli aveva insegnato a perfezionare i colpi, l'altro gli aveva trasmesso la sua esperienza nelle faccende umane. Era stato un addestramento singolare, in cui entrambi si erano scambiati nozioni, anche se di dissimile forma: l'allievo era cresciuto in potenza, il maestro in saggezza.

«No, se il ragazzino ha sviluppato un carattere ribelle, di certo non è stata colpa del maestro» asserì, convinto.

Maia gli si strinse contro.

«Ho paura, Camus. Paura che presto succederà qualcosa di irreparabile».

«Come dirti che anche io ne ho? Anzi, no: la mia non è paura. Non ho mai avuto paura di niente, io. É solo un… un presagio. Un presentimento – funesto».

«Tu non devi avere paura;» disse lui, circondandole le spalle con un braccio «non accadrà nulla di male né a te né a nessuno di noi. Sono solo fanciulli rivestiti di bronzo: niente potranno, contro il settimo senso e le corazze dorate di cui noi disponiamo».

Alzò gli occhi verso il cielo ad incontrare la sua costellazione, colei che l'aveva scelto per sé come suo rappresentante nel mondo: benché in quel periodo dell’anno non fosse perfettamente visibile dall’emisfero boreale, lui l'avrebbe scorta anche se si fosse abbuiata del tutto.

«La vedi quella stella lassù, a nord-est rispetto a dove ci troviamo noi ora?» chiese, alzandosi e puntando il dito verso uno squarcio di blu.

«Quella là?»

«Sì, brava. Quella è Sadalsuud, l'astro più brillante della costellazione dell'Acquario».

Tornò a sedersi, invitando la giovane ad accomodarsi nel gradino più in basso, fra le sue ginocchia.

«Se mai dovessi avere bisogno di me e io non ci fossi, ti basterà sollevare lo sguardo: Sadalsuud illuminerà la tua via molto meglio di quanto non riuscirei a fare io stesso».

Lei gli lanciò un'occhiata preoccupata: «Perché mi dici questo?»

«Così. Per parlare» sdrammatizzò Aquarius, onde non turbarla troppo.

Al momento poteva bastare, ma, presto o tardi, anche Maia avrebbe dovuto prepararsi al peggio: un cavaliere doveva essere pronto a dare la vita, se necessario, e lui non si sarebbe macchiato di infamia per aver salva la pelle – meglio morto, che disonorato.

«Non prendermi in giro: tu non parli mai senza motivo. Anzi, qualche volta non parli nemmeno se interpellato».

Vedendo che il suo discorso l'aveva messa in allarme, cercò di ridarle serenità baciandola profondamente, provando ad imprimere in quel contatto tanto amato tutte le sicurezze che a parole non sapeva darle.

«Camus».

«Sì?»

«Cosa spinge una persona a diventare cavaliere? A scegliere di seguire una strada piena di privazioni, solo per mantener vivo un credo?»

Che domanda ingrata. Erano concetti ardui da spiegare ai profani.

«Non sempre c'è scelta» cominciò lui «A noi Santi d'oro, ad esempio, non sono state lasciate alternative: le stelle ci hanno eletto come loro messaggeri terreni per affiancare la divina Atena nella difesa della pace. Alla luce di ciò, portiamo dentro un ardore che ci renderebbe impossibile discostarci dal nostro ruolo. Tuttavia, benché il motivo fondante della nostra esistenza sia appunto quello di proteggere Pallade, siamo tutti mossi da scopi differenti. Shura lotta perché ha fede; Aiolia lo fa per riscattare la memoria del fratello; Death Mask, per convenienza; Aphrodite, per inseguire la bellezza che si cela dietro l'ideale di Giustizia; Aldebaran e Mu perché entrambi hanno un debole per il genere umano e Shaka per seguire quello che lui chiama “ordine precostituito”. Milo… beh, Milo lo fa perché nutre affetto per il Santuario. È sempre stata casa sua, questa».

«E tu? In ragione di cosa lo fai, tu?»

«Già. Io. Per cosa mi batto, io? Per Atena? Per una Dea che non ho mai visto, né mai mi si è manifestata? Per difendere un mondo pieno di uomini ingrati? Per la Giustizia, che è una mera utopia?»

«Per la gloria» rispose alla fine, intimamente sicuro di ciò che stava affermando «Perché l’essere Saint mi ha dato la possibilità di far sì che, alla mia dipartita, il mio nome non divenga una semplice incisione su una tomba bianca. Troppo spesso ci si scorda dei deceduti e delle loro gesta: desidero andarmene sapendo di aver lasciato una traccia del mio passaggio su questa terra. Solo così sarà valsa la pena di aver sofferto tanto».

«Fa molto Achille. Ma lo sai quale fu la sua fine, vero?»

«Per ottenere l'immortalità fra i posteri, andò incontro alla morte del corpo. Sì, e sono disposto ad emularlo, pur di raggiungerla a mia volta».

«Preferiresti quindi cadere in battaglia nel fiore degli anni ed essere cantato nei poemi e nelle leggende, piuttosto che vivere una vita lunga e serena – magari con me accanto?»

«Ahia. Qui la si butta sul personale».

«Che cos'è, un modo per testare la mia diplomazia?» chiese, divertito. Maia faceva la furba, ma lui lo era di più: non gli avrebbe estorto la verità nemmeno con le pinze.

Accortasi che tanto non sarebbe riuscita a tirargli fuori alcunché, la ragazza gli depositò un lieve bacio sulle labbra, abbandonando l'accogliente rifugio delle sue gambe.

«Si è fatto tardi: sarà meglio che vada. Domani mattina ho lezione all’Università, e l’autobus per Atene passa prestissimo».

A quelle parole, in verità normalissime, il senso di non ritorno che da diversi giorni accompagnava Camus si acuì improvvisamente, come se qualcuno lo stesse trafiggendo con uno spillone appuntito.

«Non verrò spedito negli inferi, se per una volta rimane a dormire con me... solo stanotte. Perché mi sento strano; perché avverto quel presagio funesto che aleggia sopra la Grecia, sopra il mondo intero. Carpe diem, Camus».

«Allora? Non mi saluti neanche?» chiese Maia infastidita, mal interpretando il silenzio del compagno.

«Rimani».

«Cosa? Che hai detto?»

Oh, al diavolo la discrezione: «Rimani. Rimani con me. Non andare».

Il volto di lei si distese in un sorriso bianco.

«Dici sul serio?»

«Sì. Il letto mi parrebbe troppo grande per uno soltanto, stanotte».




 

Note dell’autore

Ciao a tutti!

Come avrete notato, i protagonisti assoluti del capitolo sono Camus e i suoi "lavoretti" mentali: se ne fa tantissimi.

Più che su quelli, comunque, sono intervenuta a revisionare un po’ i dialoghi, nonché qualche dettaglio, in modo da rendere il tutto conforme ai vari cambiamenti di trama che la storia ha subito.

Ad esempio, nella foto di gruppo Death Mask e Aphrodite non compaiono più, giacché, avendogli aumentato l’età di qualche anno, al momento del pre-addestramento dei Gold più giovani Cancer e Pisces già si trovavano uno in Sicilia, l’altro in Danimarca.

Venendo alle precisazioni meno generali:

- "Désolé: "Perdonami".

- lo “sclero” (passatemi il termine) di Aiolia durante la cena è causato da un'ipotetica e momentanea ripresa del controllo sulla propria mente, prima di ricadere sotto l'effetto dell'illusione oscura di Arles. 

- il dialogo cui Camus ripensa quando si trova alla Quinta Casa con Milo è tratto dalla prima parte del capitolo 3.

- Per quanto riguarda il discorso prefinale sul Crystal Saint, come al solito ho lasciato vagare la fantasia. A causa di esigenze di copione, ho immaginato che, al momento dell'inizio dell'addestramento con Camus, il maestro di Hyoga avesse già ottenuto l'armatura di bronzo – ossia quella del Cigno, che poi lascerà all'allievo –  e volesse passare a quella d'argento. Altrimenti ci sarebbero voluti troppi anni. In realtà, non so se si possa salire di livello. Boh.

- Sadalsuud, come spiegato da Camus, è la stella più luminosa della costellazione dell'Acquario. Il suo nome ha origine araba, e significa "fortuna delle fortune". Appartiene alla rara classe delle supergiganti gialle.


 

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Capitolo 13
*** Capitolo 10, parte I: 11 settembre 1986. Milo, Camus ***


Capitolo 10, parte I. Milo, Camus BG

Capitolo 10, parte I: 11 settembre 1986. Milo, Camus

 

 

 


Pianse quel giorno Aquarius, nonostante i suoi convincimenti pianse per te!

Milo di Scorpio

 

 

 


Erano arrivati alle prime luci dell'alba, in quattro, con gli scrigni sulle spalle e l'aria vagamente baldanzosa; poi la ragazzina – la famosa nipote di Kido – era stata colpita al petto dalla Phantom Arrow di Tramy della Freccia e i fuochi della Meridiana avevano iniziato a scandire le dodici ore messe loro a disposizione per scalare le Case dello zodiaco, arrivare alle stanze del Gran Sacerdote e salvarla.

Una missione suicida destinata a fallire già al Primo Tempio, ove Aries aveva fatto ritorno nottetempo: tanto si era detto fra le schiere di Arles, ghignando.

E invece, scorsi sessanta minuti esatti, eccoli uscire senza lotta dal Palazzo del Montone Bianco, tutti indenni e con le armature riparate: il Grande Mu aveva tradito.

Un voltafaccia annunciato, ma che, in fin dei conti, nessuno si sarebbe mai aspettato davvero.

Un po’ meno annunciato, invece, era stato quello del nobile Aldebaran del Toro: dopo una blanda opposizione anche lui aveva ceduto il passo, permettendo a uno di loro di raggiungere addirittura un barlume di settimo senso.

Inaccettabile da parte di un cavaliere senza macchia come lui, eppure non eccessivamente sorprendente: la magnanimità era sempre stata il punto debole del Secondo Custode.

Subito dopo, avevano varcato la soglia della Terza Casa. Saga di Gemini, il suo guardiano, era scomparso anni or sono, così come le sacre vestigia del segno; e allora, da dove proveniva l'oscuro cosmo che andava espandendosi all'interno del Tempio, sottile e ingannatore al pari delle stelle da cui nasceva?

A chi – o a cosa – apparteneva? Quale forza stava trattenendo i giovani guerrieri?

Milo di Scorpio se lo domandava insistentemente; dall'alto della sua posizione osservava le sorti dei Bronze da quando essi erano comparsi nei pressi del suolo consacrato, tre rintocchi addietro.

Li aveva visti affannarsi per le scalinate, semplici puntini colorati in lontananza, ed era rimasto piacevolmente colpito dalla determinazione che i loro cosmi, seppur deboli, emanavano.

«Peccato non poterli sfidare: sarebbe stato divertente».

Ogni remora, ogni dubbio che lo tormentava da mesi sembrava essere stato messo improvvisamente da parte: il suo celeste dovere veniva innanzi tutto.

Si sentiva stranamente calmo, pronto a lasciarsi avvolgere dalla lucida furia che lo prendeva prima della battaglia, ma sapeva che, quel giorno, non avrebbe combattuto: i colpi di scena erano terminati.

Pur ammettendo che fossero riusciti ad arginare le infide insidie del labirinto dei Gemelli, di nuovo in piedi dopo tanto tempo, quegli impavidi folli non sarebbero giunti oltre: alla Quarta Casa li attendevano dolore e morte. Cancer, uno dei fedelissimi del Gran Sacerdote, era potente e spietato; nulla li avrebbe salvati da una gita di sola andata nell'Ade.

Un' inaspettata variazione di equilibri riportò la concentrazione di Scorpio alla lotta in corso alla Terza; Pegasus e Dragon avevano appena trovato l'uscita del labirinto, mentre gli altri ancora lottavano al suo interno. Uno dei restanti due doveva essere per forza l'allievo – dell'allievo – di Camus.

Sicuramente anche Aquarius stava seguendo gli scontri, forse in maniera anche più apprensiva di lui. Forse, sì, e tuttavia nutriva forti dubbi in proposito: probabilmente neanche sapeva cosa fosse, l'apprensione. Piuttosto, lo immaginava a studiarne critico la tecnica e la tempra, confrontandole magari con le proprie.

«In fin dei conti, il ragazzo è pur sempre parte del frutto del suo operato. Chissà che effetto fa veder spirare il proprio discepolo per mano della tua stessa fazione, senza avere la possibilità di parlargli almeno una volta».

Se fosse stato nei panni del suo amico – «ex amico, Milo. EX» – Milo si sarebbe sentito terribilmente frustrato, ma di certo quello non era il caso del francese: si era sempre mostrato così sicuro di sé e del suo potere, lui.

Della propria indiscussa maestria in tutto ciò che faceva, pareva non dubitare mai; era rimasto impassibile persino nell'apprendere del tradimento del ragazzino al quale, anche se in maniera indiretta, aveva trasmesso il suo sapere.

Gelidamente determinato: così appariva Camus di Aquarius. Eppure, in cuor suo, Scorpio pensava che quella fosse una semplice copertura, volta a mascherare le enormi incertezze che in realtà albergavano nell'animo dell'Undicesimo Custode, rendendolo fragile e delicato. Era impossibile per Milo pensarlo altrimenti: un fragile e prezioso cristallo da avvolgere in un morbido velo di velluto. Irrazionalmente, gioiva del fatto che egli presiedesse la penultima Casa: non avrebbe sopportato di saperlo esposto al pericolo, benché fosse esperto e pressoché infallibile.

Rumori di passi alle sue spalle lo costrinsero ad accantonare tali riflessioni, totalmente inappropriate in un momento come quello.

«Mai abbassare la guardia, durante una guerra».

«Salve, Milo».

Quasi fosse scaturito dalle sue cogitazioni, Camus gli comparve dinanzi; quella visita era così inattesa che, per un attimo, lo Scorpione credette di immaginarselo soltanto, vestito della sua armatura e immobile.

Si concesse una fugace constatazione sullo splendido modo in cui l'oro delle sue sacre vestigia gli faceva risaltare l'aurea sfumatura degli occhi; poi, appurato che non era una visione, rispose con forzata strafottenza.

«Camus. Che ci fai qui? Conosci gli ordini: non abbandonare mai la postazione, in stato d'assedio».

«So benissimo quali sono le regole, grazie» disse l’altro, nient’affatto irritato «Ora, se non ti dispiace, dovrei passare».

«Ma per andare dove?!»

«Alla Casa di Libra».

Milo stava davvero cominciando a spazientirsi: cos'era tutto quel mistero?

«Camus, da secoli non c'è nessuno alla Settima Casa! Perché recarvisi proprio ora?»

«Lo vedrai da solo, non ho tempo per spiegartelo».

Così dicendo Aquarius lo superò, passandogli accanto senza attendere repliche.

«È impazzito».

No, Camus non faceva mai nulla a caso: doveva esserci una spiegazione logica, e lui esigeva conoscerla subito. Non gli piaceva l'idea che si avvicinasse al focolaio degli scontri, anche solo di qualche gradino.

Inconcepibile voler proteggere un guerriero del suo spessore, d’accordo; ma non riusciva a impedirselo, era una persona troppo importante per lui – la più importante.

La sera prima, spinto da uno strano impulso, era stato sul punto di rivelargli tutto e, se non fosse arrivata Maia, l'avrebbe anche fatto; ora, nel vederlo dirigersi verso l'ignoto, lo stesso impulso si stava ripresentando prepotente, quasi inarrestabile. Sapeva che era il momento meno adatto, ma, chissà perché poi, si sentiva come se quella fosse la sua ultima occasione.

La recita che aveva portato avanti tanto a lungo gli appariva d'un tratto priva di significato: era durata abbastanza.

«’Mus,» lo bloccò, prendendolo – inconsciamente – per mano «aspetta».


***


L'Acquario si voltò di scatto e guardò con la fronte aggrottata dapprima Milo, poi le loro dita – le une sulle altre.

Non capiva perché lo stesse trattenendo; eppure gli pareva di essere stato chiaro, aveva detto di non poter restare. Che volesse riprendere il loro muto discorso della sera precedente?

Assurdo: l'aveva ignorato per mesi, e adesso pretendeva la sua attenzione – nel bel mezzo di un conflitto!

«Il solito irresponsabile. Basta, devo andare alla Settima Casa, non ho tempo per stare a sentire le sue idiozie!»

Nonostante il suo cervello sapesse esattamente il da farsi, una strana cosa chiamata “istinto” gli stava al contrario dicendo di stringergliela, quella maledetta mano. Prima, un simile contatto l'avrebbe imbarazzato fino ad infastidirlo; da quando aveva dovuto farne a meno, invece, si era reso conto che gli mancava moltissimo.

«Milo, lasciami, io non-»

Sussultarono entrambi quando una tenue scintilla di cosmo, a malapena percettibile, apparve nel Settimo Tempio.

«Hyoga» sussurrò Camus, pianissimo.

Non poteva davvero indugiare oltre: il suo sacro onere di maestro veniva innanzi tutto.

Sciolse quindi la presa, risoluto, e si diresse a passo svelto verso l'entrata principale della Casa dello Scorpione Celeste, senza girarsi.

Scese di corsa la scalinata che portava al Presidio della Bilancia, la mente svuotata di qualunque pensiero che non riguardasse l'imminente scontro, e si fermò soltanto a destinazione raggiunta. Una volta all'interno non badò alle colonne più candide del normale per la poca usura, né al buio surreale che regnava sovrano: il suo sguardo era come calamitato dalla figura bionda riversa al centro del Tempio.

«Alzati, Hyoga».

Il ragazzo sollevò la testa e, nel riconoscerlo, sgranò gli occhi.

«Ma tu, tu sei... il cavaliere di Aquarius!»

«Camus è il mio nome, e sono cavaliere d'oro dell'Undicesima Casa: quella dell'Acquario, appunto».

«Camus di Aquarius: colui che ha insegnato l'arte del gelo al mio maestro! Non è la prima volta che ci incontriamo... »

«No, infatti».

Per lui, tornare in Siberia era un po’ come tornare a quella casa che mai aveva avuto.

Negli anni, il paese in cui aveva trascorso l'infanzia e parte della giovinezza non sembrava mutato di una virgola: le umili abitazioni di legno, le barche da pesca lacustre ormeggiate al piccolo molo, i resti di un falò al centro della minuscola piazzetta erano rimasti esattamente come li ricordava.

Dopo aver rivolto una fugace occhiata ai dintorni, entrò nella taverna; era, questo, il posto più affollato dell'intero villaggio, dove uomini e donne si ritrovavano per scambiare quattro chiacchere dopo una lunga e faticosa giornata sul ghiaccio.

Nel riconoscerlo, un tiepido sorriso si fece strada nel volto dell'oste.

«Bentornato, nobile Camus. Qual buon vento vi porta in queste fredde lande?»

«Grazie, Adam. Sono qui per incontrare una persona» rispose spiccio, pur provando gratitudine per quell'accoglienza quasi confidenziale: Adam era sempre stato uno dei pochi a non trattarlo con eccessiva deferenza.

«Maestro Camus».

L'uomo che l'aveva chiamato sedeva in un tavolo vicino all'ingresso del locale, gli occhi grigi brillanti di genuino piacere; vedendolo, si alzò per andargli incontro.

«Sono lieto di rivedervi. Avete fatto buon viaggio?»  lo salutò, stringendogli la mano.

«Non molto buono, in realtà. Ma ti prego di abbandonare tutte queste formalità, Markel: non ce n'è bisogno, non sei più mio discepolo».

«Mi riesce difficile pensarlo: in un modo o nell'altro, lo sarò sempre. É motivo di grande onore per me».

Camus liquidò la questione con un gesto della mano: le lusinghe, specie se veramente sentite, lo mettevano a disagio.

«Permettimi almeno di offrirti da bere».

«D'accordo: vodka liscia. In Grecia non sanno nemmeno che sapore abbia, una vodka bevibile».

Mentre quello si avviava verso il bancone, ad Aquarius venne in mente l'ultima volta che era stato lì, in una sera tempestosa di gennaio di non molti anni prima: pareva fosse passata una vita.

«Ecco a te» lo riscosse Markel, di ritorno.

«Ti ringrazio».

Sorseggiarono l'alcolico per un po’, in silenzio.

«Allora? Come mai sei tornato? Nostalgia delle nevi eterne?» prese a un certo punto la parola il più anziano.

«Sono in missione per conto del Grande Tempio».

Il Crystal saint rimase un tantino interdetto, ma non indagò oltre: era abituato alle stringate risposte del suo ex mentore.

«Piuttosto, dimmi di te: ho saputo che sei diventato a tua volta maestro» chiese poi Camus, sviando così l'attenzione dalle sue faccende private.

Al che, il volto dell'uomo divenne, se possibile, ancora più entusiasta: «Oh, sì! Subito dopo aver ottenuto l'armatura d'argento. All’inizio il bambino ha avuto qualche difficoltà ad adattarsi: l'aver perso la madre in un naufragio proprio nelle acque del mare di Okhotsk non deve essere stato d'aiuto».

«Strano; non mi è giunta nessuna notizia, al riguardo. Quando è successo?»

«Quando il piccolo aveva solo tre anni. Non era una nave molto grande, anzi, alcuni sostenevano addirittura che fosse una semplice imbarcazione addetta al trasporto merci: per questo non se n'è parlato granché».

«Un iceberg?» chiese il francese, riferendosi alla causa dell'affondamento.

«No. Un'esplosione nella sala macchine, che ha diviso la barca a metà».

L'Acquario annuì e non disse più nulla, segno che per lui il discorso era chiuso, così l'altro riprese a parlare del proprio allievo.

«Comunque, ha talento da vendere: apprende e fa suoi gli insegnamenti in modo sorprendentemente celere. Sono così orgoglioso di lui! Posso presentartelo? L'ho portato con me, stasera».

«Ne sarei felice».

«Hyoga! Hyoga, vieni qui».

Al richiamo rispose un fanciullo biondissimo, che Camus non aveva notato perché semi nascosto all'interno del grosso caminetto in pietra della locanda; era piuttosto alto per la sua età, ma fin troppo magro. Un po’ come lui da ragazzino.

«Mi avete chiamato, Maestro?» chiese Hyoga, con voce spenta e la testa bassa.

«Sì, Hyoga. Lo vedi quest'uomo che siede con me? Lui è il nobile Camus, il mio venerabile maestro».

Aquarius rimase immobile, in attesa di valutare l'atteggiamento del bambino.

«Piacere di conoscervi, nobile Camus» lo salutò questi, facendo un piccolo inchino alla maniera giapponese.

«Il piacere è mio, Hyoga» rispose burbero lui, continuando a studiarlo.

Quando la recluta alzò il viso per guardarlo in faccia, Camus rimase colpito da un solo dettaglio – i suoi occhi, di un azzurro particolare.

Non blu come quelli di Milo, né dell'indaco sbiadito di quelli di Aphrodite; celesti, di quel celeste che tinge i malinconici cieli invernali nelle giornate serene.

Celesti, e impregnati di una feroce tristezza.

«Chi l'avrebbe detto, quel giorno, che ci saremmo ritrovati in circostanze tanto drammatiche».

Camus non commentò.

«Così, questa è l'Undicesima Casa;» riprese il novello Cignus, rivolgendosi più a se stesso che al suo interlocutore «com’è possibile che io sia arrivato fin qui dalla Terza? Ricordo solo Shun e il cavaliere di Gemini, e poi un gran senso di vuoto... »

«Il cavaliere di Gemini?»

«No, ti sbagli. Questo non è l'Undicesimo Tempio, ma il Settimo: quello di Libra».

«Il Settimo? Ma, allora… perché sei qui?»

«Perché Dohko della Bilancia da molto tempo non calpesta il suolo di Grecia, e nessuno custodisce la sua Casa. Ora giro a te la domanda: perché tu sei qui? La richiesta è meno stupida di quello che sembra, perciò fai attenzione a come rispondi».

Hyoga lo guardò come se fosse pazzo, tuttavia, dopo averci pensato, disse: «Per smascherare Arles, l'impostore. Egli ha compiuto azioni abominevoli fingendo di parlare per bocca di Atena, la stessa Atena che ora giace trafitta sui gradini della Prima Casa. Devi lasciarmi passare, cavaliere! Ne va della vita della tua Dea!»

Aquarius ignorò l'esortazione: «Il Gran Sacerdote guida i nostri passi da oltre tredici anni, e pace ed armonia hanno regnato fino alla vostra venuta. Quelle che chiami “azioni abominevoli” sono state commesse semplicemente al fine di mantenere l'ordine: per quale ragione dovrei crederti?»

«Avanti ragazzo, mostrami quanto ardore muove i tuoi ideali!»

«Come puoi dire questo? Non ti accorgi di quanta sofferenza ha causato con il suo operato? Di quante persone innocenti sono morte per mano sua? Nessun dubbio ha mai sfiorato la tua mente sulla legittimità del ruolo che ricopre?!»

«No, mai».

Non era vero: di dubbi al riguardo Camus ne aveva, e molti. Ma durante una guerra le esitazioni andavano lasciate da parte. Cancellate, così come le emozioni.

«Allora c'è una cosa che devi sapere, e che forse avrà il potere di convincerti: il Crystal saint, tuo ex allievo, è morto. E l'ho ucciso io».

«Che cosa?!»

«Markel... »

Il biondo raccontò con evidente struggimento di come il suo maestro, soggiogato dalle oscure macchinazioni di Arles, avesse prima costretto gli abitanti del villaggio siberiano in schiavitù e, poi, tentato di uccidere il proprio discepolo quando lui e Pegasus erano intervenuti per fermarlo.

«A causa della sete di potere del Pontefice la mia onorata guida è morta sotto i miei attacchi, e io non riesco a sopportare il senso di colpa. Gli dovevo tutto, tutto! E ora lui non c'è più, per colpa di quel maledetto!»

«Markel è morto».

Il saggio guerriero del Nord non era stato solo il depositario del suo sapere; per lui aveva rappresentato anche – e soprattutto – un amico.

«Non posso pensarci. Non ora. Non qui».

Avrebbe avuto modo di elaborare il lutto più tardi, fuori dallo scontro.

«E con ciò? Sarebbe dunque tale notizia a dovermi convincere?» chiese Camus, duro e sprezzante.

«M-ma era tuo allievo! Non provi un minimo di dispiacere per la sua perdita?»

«Nient’affatto. Non sono tenuto a interessarmi di ciò che accade a coloro che addestro, una volta concluso il mio compito».

Hyoga lo fissava incredulo, quasi disgustato.

«Sei... sei un essere senza cuore. Non sei degno della sincera ammirazione che il Crystal saint nutriva per te! Io, invece, intendo vendicarlo e lo farò! Fatti da parte, ho perso anche troppo tempo!»

«E di chi vorresti vendicarti? Di te stesso? Tua è stata la mano che ha spezzato la sua vita. Tua, non di Arles. Inoltre, dove credi di poter andare? Le tue motivazioni sono troppo blande, totalmente inadatte a sostenerti nelle prove che ti aspettano: sei mosso da rancore, più che da vere convinzioni, e ciò non ti permetterà mai di eguagliare anche solo un quarto della potenza dei cavalieri d'oro!»

«Questo lo dici tu!» ribatté il Cigno con un ringhio.

Camus, come a voler esemplificare la sua affermazione, chiamò a raccolta il cosmo e, dopo aver attinto a un'esigua parte di esso, aprì il palmo della mano, generando un getto di cristalli ghiacciati che mandò Hyoga a sbattere contro una colonna.

«Il mio era un colpo estremamente fiacco, eppure l'ha messo al tappetto. Perché non reagisce?»

«Forza Hyoga: sollevati e combatti, se sei cavaliere come ti vanti!»

Il giovane si rimise in piedi, sputando sangue dalla bocca, ma non passò al contrattacco.

«No, non voglio battermi contro di te! Non voglio levare la mano sull'ultimo maestro che mi è rimasto, benché tu sia totalmente diverso dal primo! Non mi macchierò anche di questa colpa!»

«Allora non sei nient'altro che un debole! Dimentica il Crystal saint: è su di me che ti devi concentrare! Sono io il tuo avversario adesso, non permettere che il passato abbia la meglio sul presente! In battaglia i sentimenti e i rimpianti vanno accantonati, non devono divenire il tuo unico scopo, altrimenti sarai sempre destinato a soccombere! É dunque questo che desideri?»

«Non siamo costretti a scontrarci per forza! Cedimi il passo, Aquarius!»

«Cocciuto ragazzo! Non vuoi proprio capire, eh?» sussurrò Camus, le palpebre abbassate «Ebbene, non mi lasci altra scelta».

«Non ho alternative... sciocco, sciocco!»

Davanti allo sguardo attonito del Cigno l'Acquario concentrò tutta la propria aura, espandendola ai limiti estremi della sua costellazione; dopodiché, dal suo braccio sollevato partì un fascio di luce intensissima che andò a forare il soffitto del Tempio e sparì in alto, inghiottita dal cielo.

«Che... che stai facendo?» chiese Hyoga, incerto.

Egli non gli badò e indirizzò il raggio verso nord, nel punto in cui giaceva il relitto dove riposava la madre del Bronze saint: una volta spaccato lo strato di ghiaccio che separava l'aria dall'acqua lo mandò a schiantarsi contro la nave, la quale si inabissò nelle remote profondità del mare siberiano.

«Che stai facendo?!» ripeteva intanto l'altro, sempre più allarmato.  

«Ho affondato i resti della barca in cui riposava tua madre» parlò finalmente Camus, glaciale – come la morsa che gli attanagliava le viscere.

«C-cosa? No, non è possibile! Come potevi sapere di mia madre? Come potevi conoscere l'ubicazione del luogo che gli fa da tomba? Stai mentendo!»

«È stato il tuo stesso maestro a raccontarmi di lei, la sera che io e te ci incontrammo per la prima volta. Sempre lui mi ha poi indicato il posto, che io sono andato a visitare prima di far ritorno ad Atene».

Hyoga continuava a scuotere fervidamente il capo, come a scacciare quell'orribile verità: «Non ti credo, non ti credo! Perché avresti dovuto farlo?!»

«Perché era necessario».

«Per spronarti a reagire: anche se per collera, almeno ora mi attaccherai».

Cignus lo guardò dritto negli occhi, per capire se stesse o meno dicendo la verità: l'espressione ferrea di Aquarius gli confermò i suoi sospetti.

«COME HAI POTUTO?» esplose allora, una vivida luce sanguinaria accesa nelle iridi «COME HAI POTUTO? Mia madre era innocente! Lei... lei è il motivo per cui sono diventato cavaliere! Sapere di poterla andare a trovare mi spingeva a combattere, a sopravvivere! Era il mio unico conforto! Perché, perché me l'hai tolto? PERCHÉ?»

«Eccola! Eccola, quella feroce tristezza! È ancora lì, in mezzo al celeste, dopo tutti questi anni. È il suo morboso attaccamento ai ricordi che gli impedisce di maturare».

«Sei troppo ancorato al passato, Hyoga! Il solo fatto che tu, fino ad ora, sia stato spinto a lottare unicamente per tornare a rivedere tua madre fa di te un perdente! Devi scordarti di lei, del tuo maestro! Loro son morti, mentre tu appartieni al mondo dei vivi; fattene una ragione e vai avanti!»

Quello l'assalì, senza preavviso: «DIAMOND DUST!»

Pur colto di sorpresa, a Camus bastò levare una mano e il colpo si estinse fra le sue dita. «Dovrai fare di meglio, se vuoi sconfiggermi. Sono stato io a insegnare questa tecnica al Crystal saint, dunque ne conosco ogni singolo punto debole. Eccola, la vera Diamond Dust».

Aquarius scagliò l'offesa con una calma totalmente antitetica rispetto alla furia del suo allievo, il quale finì di nuovo a terra, ansante.

«N-non è l'unica carta di cui dispongo» rantolò il ragazzo, rialzandosi a fatica, ma riuscendo comunque a concentrare il cosmo: «AURORA THUNDER ATTACK!»

L'attacco era più potente del precedente, e il cavaliere d’oro fu costretto ad incrociare le braccia per contrastarlo; tuttavia, nemmeno quell'ultimo, disperato tentativo sortì alcun effetto.

«Finché ti aggrapperai a dolori e rimorsi non riuscirai mai a tirar fuori la forza necessaria a risvegliare il settimo senso. Dimentica, Hyoga: dimentica

«I-io... io NON POSSO!»

Hyoga abbandonò la posa di guardia e cadde sulle ginocchia, prendendosi il volto fra le mani: «Non voglio farlo! Non voglio dimenticare né mia madre né il mio maestro! E, anche volessi, non ci riuscirei!»

«Non è pronto. Non ha spirito sufficiente per affrontare i Gold saints, né tantomeno per illuminare i suoi spettri. Io ho tentato, ho provato tutto ciò che era in mio potere, ma non è bastato. Non so cos'altro fare se non donargli quella pace che gli è sempre stata negata».

Camus fissò a lungo il giovane, chiedendosi se scendere alla Settima Casa non si fosse rivelato un errore.

«Almeno gli ho risparmiato il supplizio di lottare contro Milo».

Poi, intrecciando le braccia sopra il corpo e preparandosi ad attaccare, disse: «Mi dispiace Hyoga: avrei voluto aiutarti, ma tu non me l'hai permesso. Addio».

Il Cigno alzò la testa di scatto: «C-come?»

«Aurora Execution!»

Aquarius sentì il proprio potere provenire direttamente dalle stelle ed avvolgerlo, circondandolo d'oro cosmico; il sacro fendente dell'Acquario brillò ancora per qualche istante attorno a lui, per poi andare a centrare alla velocità della luce il petto dell'avversario. Questi spalancò la bocca in un grido muto e si accasciò al suolo, esanime.

Quando il cosmo del cavaliere di bronzo si spense di botto, l’Undicesimo Custode boccheggiò: gli parve persino di udire un canto di cigno, lamentoso e lontano.

«Perdonami, Hyoga. Perdonami se non ho saputo fare di te un guerriero» mormorò al ragazzo che, ormai, non poteva più udirlo «Io credevo... credevo che sarebbe stato sufficiente spronarti. Ho fallito. Io, Camus di Aquarius, ho fallito nel mio compito di maestro».

Sentì qualcosa di caldo e bagnato scorrergli lungo le guance, e si accorse con sgomento che erano lacrime: lacrime che aspettavano di uscire da una vita intera, ché lui non aveva mai pianto prima. Mai.

Lacrime di frustrazione, di impotenza; di rabbia, contro se stesso e contro Hyoga, che si era arreso al destino; di dolore, per la morte del Crystal saint, e per la consapevolezza di essere rimasto l'unico detentore della nobile arte del Freddo.

«Mi dispiace, Markel: avrei dovuto prendere il tuo allievo dal punto in cui l'avevi lasciato e guidarlo lungo il cammino come avresti fatto tu, invece l'ho ucciso».   

Altro pianto continuava a scendergli dalle ciglia, quasi che, una volta cominciato, non fosse più in grado di smettere.

«Sì, l'ho ucciso. Ma non permetterò che il tempo corroda il suo corpo: almeno questo te lo devo».

Così, levata la stessa mano che in precedenza aveva usato per offendere, sussurrò con voce rotta: «Freezing Coffin!»

Un strato di ghiaccio abbracciò soave il fu cavaliere di Cignus; dapprima sottile, divenne progressivamente sempre più spesso, fino a formare una bara trasparente al pari del cristallo, al cui centro troneggiava Hyoga in tutta la sua bellezza.

Camus toccò il gelido feretro come a voler trasmettere ad esso un po’ di calore, benché di calore da donare non ne avesse mai avuto – e, in quel momento, meno di sempre.

«Adesso sei immortale. La ombrosa quiete della Settima Casa cullerà il tuo sonno, proteggendoti da ogni male. Addio, cavaliere».

Si allontanò, asciugandosi gli occhi. E non si voltò più indietro.

 

***

 

Il settimo fuoco della Meridiana dello Zodiaco vampò per un ultimo istante, poi si spense del tutto.

«Io sono il prossimo. Avanti, ragazzini, salite all'Ottava Casa: le calde braccia della nera Signora vi stanno aspettando. Le avete fatte attendere anche troppo a lungo».

Milo di Scorpio gettò un ultimo sguardo ai Templi dabbasso, rientrando nel proprio con un fluido svolazzo di mantello bianco. Gli avvenimenti a cui aveva assistito nelle ore precedenti avevano veramente dell'incredibile.

La sconfitta di Death Mask lo lasciava ancora di stucco, così come gli strani eventi succedutisi alla Quinta Casa, dove Aiolia aveva massacrato il cavaliere di Pegasus fino a che Cassius non si era frapposto fra i due, pagando con la vita la sua intromissione. Era molto probabile che il Gran Sacerdote avesse soggiogato la mente del Leone; ciò, fra l’altro, sarebbe stato in grado di spiegare l’ambiguo comportamento tenuto da quest’ultimo nei giorni passati. Le ragioni di tale gesto, però, rimanevano oscure: perché temere i sospetti di Leo al punto di plagiarlo? Se Arles era nel giusto, cosa l'aveva spinto a ricorrere all'inganno?

E poi, la disfatta di Virgo.

Ora, i Gold saints avevano tutti enormi poteri, inferiori solo a quelli di un dio; tuttavia, se Milo avesse dovuto scegliere il più valente fra loro, avrebbe di sicuro fatto il nome del Sesto Custode. Shaka della Vergine non era solo un cavaliere d'oro: era anche l'Illuminato, il guardiano della porta dell'Ade, l'incarnazione del Buddha.

Un appiglio saldo e sicuro a cui aggrapparsi, certi della sua incrollabilità.

Eppure, alla fine di un combattimento serrato ed estenuante, la Fenice l'aveva abbattuto, trascinandolo con sé verso la morte; aveva sentito il cosmo di entrambi affievolirsi, e poi ritornare a brillare soffuso grazie all'intervento di Mu.

Gli sembrava impossibile di essere arrivato a temere per Shaka; probabilmente aveva commesso il grande errore di sottovalutare l'avversario, ma chi non l'avrebbe fatto, al suo posto?

Quei Bronze dovevano per forza essere guidati da qualcosa di più del semplice spirito di rivalsa nei confronti dell'autorità del Grande Tempio: avevano ricevuto aiuti, certo, ma dubitava che, in assenza di una forte motivazione, essi sarebbero stati tanto efficaci.

«Arles vi sta ingannando, cavaliere d'oro! Dice di rappresentare la volontà di Atena, ma in realtà vuole solo dominare incontrastato sul mondo intero; redimetevi, scegliete la strada della giustizia finché siete in tempo! Non riuscite a sentire le forze oscure che albergano in lui?»

Aiolos, Libra, Daidaros, Aries; le file di chi vedeva nel Gran Sacerdote un usurpatore del Trono di Atene si stavano ingrossando in maniera preoccupante.

Ma non era compito suo sindacare su cosa li spingesse a sostenere tali ragioni: lui era stato chiamato a difendere il proprio Tempio e così avrebbe fatto, cercando però di evitare gli sbagli dei suoi compagni. Gli prudevano le mani: la cuspide reclamava vendetta per l'umiliazione inflitta al Santuario.

«Eccoci giunti all'Ottava Casa, infine».

Dall'arcata esterna provennero delle voci; Pegasus e Dragon avevano varcato la soglia.

Milo rimase nascosto nella penombra, in attesa.

«Milo di Scorpio la presiede, colui che distrusse l'isola di Andromeda; l'assassino di Daidaros. Uomo pericoloso e letale, costui» sussurrò il più alto, il vincitore della lotta contro Death Mask.

«Ah, non male come presentazione» pensò lo Scorpione, anche se avrebbe preferito non essere ricordato quale assassino.

«Shiryu, cosa credi avesse in mente Shun? Sono preoccupato».

«Faresti bene a preoccuparti per te stesso, stolto!»

A quel punto il ragazzo chiamato Shiryu narrò all'altro una favoletta appresa – a suo dire – in Cina, a proposito di una lepre che, non avendo nulla da donare a un uomo affamato, sacrificò se stessa gettandosi tra le fiamme. Se la ratio di tutto ciò sfuggì a Milo, Pegasus al contrario dette segno di aver inteso benissimo, perché chiese, con voce tremante: «Allora, tu pensi che anche Shun... »

Dragon annuì, contrito.

L'esplosione inattesa di un cosmo proveniente dalla Settima Casa fece voltare di scatto i due.

«SHUN!»

«Seiya, dobbiamo impedirglielo! Torniamo indietro!»

«Provateci, se vi riesce!»

Era giunto il momento di entrare in scena.

«Tzé, che maleducati! Andarvene dall'Ottavo Tempio senza salutarne il Custode! Mi avete forse preso per un usciere?» tuonò sarcastico, sbucando da dietro una colonna «Non vi lascerò né andare avanti, né tornare indietro, mi spiace».

E, per dimostrare quanto in realtà fosse rammaricato, indirizzò loro un ghigno soddisfatto.

«Seiya, combatterò io con lui: tu vai!» soffiò il Dragone nell'orecchio dell'amico.

«M-ma... »

«Vai, ti dico!»

Il brusco retrocedere del ragazzo castano non sfuggì però a Milo, che gli intimò di fermarsi espandendo minacciosamente un filo di cosmo.

«Sei forse duro di comprendonio, ragazzo? Ho detto che non vi lascerò né andare avanti né tornare indietro: quale parte della frase non ti è chiara?»

«Non credi di essere un po’ troppo arrogante, Scorpio?» disse Shiryu, prevenendo la possibile reazione avventata dell'amico.

«Nient’affatto. E, comunque, chiamatemi Milo: non ho mai sopportato i formalismi» rise lui, con una punta di malizia. Adorava spiazzare gli avversari fingendosi dapprima gentile, cordiale addirittura, per poi colpirli quando avevano parzialmente abbassato la guardia: era come giocare al gatto col topo.

E poi, in fondo, era dannatamente vero che non sopportava i formalismi.

«Lascia perdere i convenevoli! Se non hai intenzione di farci passare, allora combattiamo!» eruppe Seiya, visibilmente irritato.

«Quanta impazienza! Dunque, fate pure; siete voi ad avere fretta, se non mi sbaglio».

«Sarò io il tuo avversario;» dichiarò allora Shiryu «sei pronto alla lotta, cavaliere?»

Milo rispose con uno sbuffo divertito.

«Rozan Shoryuha!»

Il colpo esplose in un lampo di luce verde smeraldo, talmente lento per i riflessi di Scorpio che egli non si prese nemmeno la briga di scansarlo: levata una mano all'ultimo secondo, lo spense semplicemente chiudendo il pugno davanti allo sguardo attonito del Dragone.

«”Guarda che non mi fai paura. Non sono più un bambino, ma un tuo pari”

“Non ancora, piccolo aracnide. Non ancora. E non lo sarai nemmeno con l’armatura indosso, fidati di me: ne hai, di sangue da sputare”

Lasciatelo dire, caro Death: mi hai deluso. Ti sei fatto sconfiggere da un novellino».

«Così, questo sarebbe il famoso Rozan Shoryuha; famoso per il nome, non certo per altro, a quanto sembra!»

Una smorfia di rabbia percorse il volto dapprima impassibile del Bronze.

«Mai sottovalutare l'avversario! Alcuni dei tuoi compagni hanno pagato a caro prezzo questo sbaglio!»

«Ma io non ho fatto nulla di simile: qualora non l’avessi notato, per parare il tuo attacco ho posto una mano come scudo. Credimi, non ne avevo alcun bisogno: era così blando che la mia armatura sarebbe bastata da sola, ad infrangerlo».

«PEGASUS RYUSEI KEN!»

Il cavaliere di Pegasus, intanto, aveva concentrato il cosmo ed attaccato; non sarebbe riuscito a coglierlo di sorpresa se, un attimo prima di schiantarsi contro il suo braccio, le tante piccole scariche che componevano il Pegasus Ryusei Ken non si fossero unite in una sola meteora.

«Ma che-»

Con un tonfo secco il suo elmo cadde a terra, centrato dal fulmine.

«Adesso, Seiya! ROZAN SHORYUHA!»

«PEGASUS RYUSEI KEN!»

«Questi ragazzini sono fastidiosi come zanzare, però non si può dire che manchino di iniziativa».

«Molto scenografico, davvero,» commentò Milo, parando simultaneamente le due offensive combinate «ma del tutto inutile. I vostri colpi viaggiano a malapena alla velocità del suono: è come se li vedessi a rallentatore».

Poi, tendendo l'unghia scarlatta dinanzi a sé, riprese: «E ora, se non vi dispiace, sarebbe il mio turno. Scarlet Needle!»

Precisi come frecce, due rossi getti filiformi di energia cosmica andarono a centrare l'addome degli avversari, che caddero a terra con la faccia sconvolta dalla sofferenza.

«È-è terribile. Non riesco più a muovermi! Il mio corpo è paralizzato!» disse Seiya, la voce distorta, ogni traccia di baldanza sparita.

«Lo Scarlet Needle, l'attacco delle quindici stelle: il colpo più temuto di tutto il Grande Tempio» sussurrò Scorpio, compiaciuto «Nessuna esplosione, nessuna devastazione esteriore. Dalla prima all'ultima cuspide – Antares, l'astro guida della costellazione dello Scorpione –, solo tormento interno. Però, se ci pensate bene, è anche l'arma più misericordiosa che ci sia, perché lascia al nemico il tempo di redimersi… se avrà la forza di restare in vita. E voi, giovani traditori, fino a che punto l'avrete?» concluse, preparandosi a lanciare la seconda puntura.

«Scarlet-»

Non poté terminare, poiché qualcosa lo bloccò all'improvviso: un cosmo, all'interno dell'Ottava Casa.

Quel cosmo.

Lo stesso che aveva percepito, flebile, comparire al Tempio di Libra poche ore prima, e che gli aveva impedito di dire la verità a Camus; così simile a quello dell'Acquario, anche se assai meno potente.

Il suo possessore avanzava fiero ed eretto, portando in braccio un cavaliere esanime, abbandonato sul petto del Cigno.

Un brivido di rabbia attraversò la schiena di Milo, scuotendolo da capo a piedi: dunque era per lui che Aquarius aveva pianto. Invano.

«Allora si trattava del tuo allievo;» esordì Milo, quando Camus fece ritorno dal Settimo Tempio a testa bassa «secondo me hai fatto la cosa giusta. Non era pronto».

«Non mi pare di aver chiesto il tuo parere in proposito» rispose laconico Aquarius, passando oltre senza degnarlo di uno sguardo.

«Camus, fermati. Volevo semplicemente sapere come ti senti».

«Mai stato meglio, grazie. Adesso scusami, ma devo tornare alla mia Casa».

No, che non stava bene: avrebbe potuto ingannare chiunque, ma non lui. Il tremito della sua voce, benché impercettibile, non era infatti sfuggito a Scorpio.

«Maledizione, quante volte ti ho detto che mi DEVI guardare, quando ti parlo?»

All'alterata esortazione, Camus finalmente si voltò; il suo viso aveva un qualcosa di strano.

«Io non prendo ordini da te. Non accetto che tu mi dica cosa devo o non devo fare. Ti è chiaro, Milo?»

Ecco cosa c'era che non andava: i suoi occhi erano lucidi, freschi di lacrime.

Non poteva credere che Camus di Aquarius avesse pianto. E per chi, poi.

«Hai pianto» sussurrò allora Milo, sbigottito dalla scoperta.

«Cosa?»

«Avevi già ucciso, prima d'ora. Cos'aveva quel ragazzo di talmente speciale da farti piangere la sua scomparsa?»

Camus chinò nuovamente il capo, come a voler nascondergli le iridi traditrici: «Sciocchezze».

«Non mentirmi!»

Quello non replicò, tornando a dirigersi verso l'uscita del Tempio.

Milo, arrabbiato, si sporse in avanti e lo trattenne per un braccio; era la seconda volta che lo faceva, quel giorno, ma non si aspettava che l'altro reagisse così male.

«Lasciami. Subito».

«No».

«Ti ho detto di lasciarmi, Scorpio».

Il gelo con cui pronunciò tali parole mascherava a stento l'ira che ormai lo dominava, ma lo Scorpione non mollò la presa.

«Perché dovrei farlo? Nemmeno io prendo ordini da te».

 Non fece in tempo ad aggiungere altro che si ritrovò scaraventato contro il muro, col viso di Camus a pochi centimetri dal suo e la mano libera di questi stretta intorno al collo.

«Osa ancora toccarmi senza permesso, e giuro che di te non rimarrà nemmeno un briciolo di polvere. Mi hai capito?»

Milo non l'aveva mai visto in quello stato: era fuori di sé. Ammutolito da un simile scatto furioso, annuì impercettibilmente e allentò la presa.

Aquarius lo lasciò a sua volta, si scostò da lui con sdegno e riprese a camminare.

«A proposito:» disse poi, prima di sparire oltre la soglia «io non ho pianto».

Adesso Milo aveva davanti la fonte di tale turbamento, e tuttavia non gli pareva meritevole di tanto profondo cordoglio da parte di Camus.

«Se fossi morto io, probabilmente quel bastardo non avrebbe versato una sola lacrima, mentre per costui si è fatto venire gli occhi rossi. Non te lo perdonerò tanto facilmente, biondino».

Pensò che, per una volta – e una soltanto –, arrecare morte gli avrebbe procurato piacere.

«Benvenuto nella mia Casa, Hyoga di Cignus».


 

Continua ...



 

 

Note dell’autore

Con questo capitolo inizia ufficialmente la parte più difficile – e più bella – della storia: il “durante” e il “dopo” la battaglia delle Dodici Case.

Sebbene sia divisa in due parti (pena un capitolo mostruosamente lungo), la narrazione tratta della stessa giornata; ho altresì intenzione di raccontare i fatti dal punto di vista sia di Camus, sia di Milo, per accentuare differenze e similitudini tra loro. Per amor di equità avrei dovuto inserire anche Shaka e Maia, ma purtroppo non riesco a essere un narratore completamente imparziale XD

Ringrazio di cuore tutti quelli che mi stanno seguendo, quelli che hanno inserito Sorella Morte tra le preferite e le ricordate e, naturalmente, chi recensisce o recensirà!

Venendo, al solito, alle questioni più specifiche:

- mi sono permessa di battezzare Markel il Crystal saint: mi sembrava brutto lasciarlo senza nome!

- Il discorso: «Arles vi sta ingannando, cavaliere d'oro! […]» è un ricordo tratto dalla parte prima del capitolo 7.

- « “Guarda che non mi fai paura. Non sono più un bambino, ma un tuo pari”.

“Non ancora, piccolo aracnide. Non ancora. E non lo sarai nemmeno con l’armatura indosso, fidati di me: ne hai, di sangue da sputare.”». Altro ricordo, stavolta tratto dal Prologo II e riguardante una conversazione fra Milo e Death Mask.

 

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Capitolo 14
*** Capitolo 10, parte II: 11 settembre 1986. Camus, Milo ***


Capitolo 10, parte 2. Camus, Milo BG

Capitolo 10, parte II: 11 settembre 1986. Camus, Milo

 

 

 


Era proprio necessario che arrivasse quest'uomo a farmi capire l'inutilità della mia esistenza? 

Camus di Aquarius

 

 

 

 


Quel giorno, dalle gradinate dell'Undicesima Casa, l'aria sembrava più celeste che mai – come se un pezzo di paradiso fosse precipitato giù, sulla Terra.

Camus di Aquarius l'aveva sempre amato, il celeste: era un colore freddo, altero e impenetrabile come i ghiacci della sua Siberia, dietro al quale le pulsioni dell'animo parevano sopirsi fino a scomparire, inghiottite dalla quiete distaccata che tale tinta ispirava.

Ma allora, perché lui era riuscito a leggere così tanto nel pallido celeste degli occhi del Cigno? Lì, in mezzo all'azzurro, aveva visto brillare cose terribili, sentimenti talmente vividi e trasparenti da mozzargli il respiro.

Era stato proprio quel vortice di rabbia e disperazione a permettergli di annientare Hyoga solamente levando il braccio destro; peccato che, subito dopo, la sua stessa arma gli si fosse rivolta contro.

Non la Diamond Dust, non l'Aurora Execution, bensì la distruzione del relitto in cui riposava la madre aveva sconfitto il cavaliere di bronzo e Camus, benché avesse compiuto tale gesto unicamente per spronare l'avversario, sentiva di aver giocato sporco. Si vergognava di essersi approfittato del dolore di un ragazzino per non venir meno al suo dovere – un dovere che da ormai molto tempo non sentiva più come proprio.

Ma il destino, o chi per lui, pareva deciso a concedergli una possibilità di riscatto: il Bronze, infatti, era stato dapprima liberato dal suo gelido feretro con la spada di Libra, grazie all'intervento del Dragone, e poi riportato alla vita dal cosmo del coraggioso cavaliere di Andromeda che, pur di salvarlo, aveva sfidato la morte.

Sebbene rimanesse fermamente convinto delle motivazioni che l'avevano spinto a condannare il suo allievo, Aquarius desiderava affrontarlo ancora, per confrontarsi con lui alla pari: nessun sotterfugio stavolta avrebbe macchiato le sue azioni, e nessun rimorso sarebbe in seguito tornato a tormentarlo.

L'onore era la cosa più importante, sempre.

Ora doveva solo – solo? – aspettare. E sperare che Milo avrebbe compreso.

«Allora si trattava del tuo allievo. Secondo me, hai fatto la cosa giusta. Non era pronto».

Vero, Hyoga allora non era pronto. Ma adesso? Adesso, dopo aver conosciuto e disprezzato il freddo – rassicurante – abbraccio dell'oblio, lo sarebbe stato?

Nel cosmo del Cigno Camus non percepiva più quella sorta di rassegnazione che vi aveva trovato durante lo scontro alla Settima Casa: al suo posto, brillava ora una nuova scintilla di rivalsa.

La stessa rivalsa che, però, ritrovava raddoppiata nell'aura di Scorpio.

Non era la lealtà verso le ragioni portate avanti dal Gran Sacerdote a muovere l'unghia scarlatta dell'Ottavo Custode o, perlomeno, non soltanto. Un qualcosa di ben più temibile accompagnava la giusta volontà di difendere il proprio Tempio, ma cosa? Astio? Odio? Vendetta? Perché?

Aquarius conosceva bene l'indole e il modo di combattere dell'amico – «ex amico, Camus. EX» –, e mai aveva visto ribollire in lui tanto accanimento; quasi che fosse un qualche conto personale a spingerlo contro Hyoga, e non la causa comune che, al contrario, l'aveva animato nel corso della battaglia con Pegasus e Dragon.

«E se, invece, fosse un modo per punire me?»

Era un pensiero assurdo, e tuttavia non privo di fondamento; fra le schiere dorate Milo spiccava per la sua onestà, ma anche per la potente e spesso indomabile irrazionalità.

«Osa ancora toccarmi senza permesso e giuro che di te non rimarrà nemmeno un briciolo di polvere. Mi hai capito?»

In preda al dolore, Camus gli aveva rivolto parole dure, intrise di una rabbia malsana. Lo aveva odiato perché, come suo solito, Scorpio aveva saputo leggergli dentro tutto, per poi sbattergli in faccia con una semplicità disarmante cose che lui avrebbe invece preferito tenere nascoste e sigillate nell'angolo più profondo del cuore. Si era sentito smascherato, violato nella sua intimità, e aveva attaccato come un animale braccato, senza chiedersi il motivo per cui il segno indelebile delle sue prime lacrime avesse sconvolto tanto lo Scorpione – forse più di quanto aveva turbato lui stesso quando si era sorpreso a piangere.

Ma ora, che all'Ottavo Tempio avvertiva collidere e sovrapporsi cosmi così determinati a prevalere l'uno sull'altro, era – di nuovo – troppo tardi per chiedere perché.

Il danno era fatto, eppure Camus nutriva l'ardente speranza di poter, in qualche modo, raccogliere e rimettere insieme i cocci. E quel maledetto presagio, quel presentimento funesto gli suggeriva di farlo il più in fretta possibile.

Desiderava che Hyoga riuscisse ad arrivare sino all'Undicesima Casa, per dimostrare a lui e alla propria coscienza di essere in grado di batterlo senza inganno, e con pari intensità voleva che Milo sopravvivesse – non poteva pensare di perderlo.

Anche se litigi e incomprensioni avevano corroso come acido il loro rapporto, Scorpio era pur sempre il suo amico. Il suo migliore amico.

Sì, prima o poi avrebbero chiarito tutto, e sarebbero tornati a essere quelli di una volta. Se solo gli fosse bastato il tempo – aveva come la sensazione di non averne più molto a disposizione. Chissà con che diritto ne era convinto, poi.

«Camus».

Camus si irrigidì appena: gli era parso di udire la voce di Maia, da qualche parte alle sue spalle. No, impossibile. Maia se n'era andata molto prima e, per fortuna, ora doveva essere al sicuro. Ignara del tradimento di Mu, del suo imbroglio, della morte di Death Mask, della disfatta di Shaka, della rabbia di Milo, ma al sicuro. Chissà se l'avrebbe rivista.

Rivolse nuovamente l'attenzione allo scontro in atto alla Casa dello Scorpione Celeste, col cuore gonfio.

Camus aprì gli occhi lentamente, lasciando che il sonno scivolasse via pian piano, senza fretta. Da dietro le tende non filtrava un solo spiraglio di luce, eppure la stanza non era totalmente avvolta nel buio – doveva mancare poco, allo spuntar del sole.

Il silenzio che regnava sovrano all'esterno veniva interrotto, di quando in quando, dai cinguettii sommessi di qualche uccello particolarmente mattutino e dal canto penetrante di una civetta tardiva.

Maia giaceva supina al suo fianco, con i lunghi capelli sciolti intrappolati sotto la spalla sinistra; ogni tanto, preda di chissà quale sogno agitato, si muoveva di scatto e corrugava la fronte.

Le tazze della sera precedente erano rimaste sul comodino, dimenticate – una volta terminato il latte nessuno dei due aveva avuto voglia di alzarsi per riportarle in cucina.

Si erano coricati stretti l'una all'altro, aspettando che Morfeo li accogliesse fra le sue confortevoli braccia; Camus le si era rannicchiato contro e lei aveva riso nel vederlo in quella strana posizione, così dimessa rispetto al suo solito atteggiamento solenne.

«Il prode cavaliere dell'Acquario che dorme accoccolato come un bambino! Perdonami, ma è un'immagine un po' bizzarra».

«Spiritosa» aveva replicato lui, fintamente offeso «Mi sono abituato a dormire così per necessità; al Nord, specialmente in inverno, non fa così caldo».

Per amor di onestà, Aquarius avrebbe poi potuto dirle che, in realtà, tale abitudine era caduta in disuso subito dopo il suo ritorno in Grecia, ma aveva preferito non farlo. In quel momento starle il più vicino possibile era tutto ciò di cui sentiva bisogno, e tanto bastava.

Le accarezzò piano la testa, stando attento a non destarla: gli piaceva guardarla dormire. Nel fioco chiarore del primo mattino, con il corpo abbandonato e il volto disteso, era bella come non mai.

DON. DON. DON.

Camus si drizzò a sedere, preoccupato: era stata solo la sua immaginazione, oppure... ?

Il dubbio fu subito sciolto da un secondo rintocco che, più forte del precedente, squarciò impietoso i restanti residui di quiete.

Doveva essere successo qualcosa di particolarmente grave se la campana d'allarme suonava come impazzita: erano passati tredici anni, dall'ultima che l'aveva udita, ma ancora ricordava ogni singolo istante di quella terribile notte.

Balzò in fretta giù dal letto e, indossata al volo la prima cosa capitatagli a tiro, si precipitò fuori dalla stanza.

All'esterno del Tempio per poco non andò a sbattere contro un soldato in corsa nella sua direzione, rosso in viso e ansante.

«Soldato, ma che sta succedendo? Ho sentito la campana suonare, poc'anzi».

Quello cercò di riprendere fiato il più velocemente che poté, poi rispose: «Nobile Aquarius, i cavalieri di bronzo ci attaccano! Le nostre sentinelle li hanno visti varcare il confine sacro pochi minuti fa! Sono quattro, accompagnati da una ragazzina».

L'Acquario, alla notizia, strinse leggermente i pugni: l'avevano fatto davvero.  Sapeva che sarebbe accaduto, ma non si aspettava così presto.

«Il Gran Sacerdote ne è al corrente?»

«Io ho ricevuto l'ordine di avvisare soltanto voi Gold saints: il soldato incaricato di informare il Pontefice dovrebbe essere giunto alla Tredicesima Casa, ormai» disse l'uomo, palesemente sollevato all'idea di non essere stato scelto per quell'ingrato ruolo – la reazione di Arles alle cattive nuove era tristemente nota in tutto il Santuario.

«Ti ringrazio. Adesso non indugiare oltre, vai da Pisces. Vai!»

Egli non se lo fece ripetere due volte e, inchinatosi appena, riprese la sua corsa in direzione del Dodicesimo Tempio.

Camus, nel rientrare, gettò uno sguardo dabbasso: la luna non era ancora interamente tramontata, e già il Grande Tempio si stava mobilitando per respingere l'invasione. Il canto degli uccelli che aveva accompagnato il suo risveglio poco prima era stato repentinamente soffocato da urla di comandi confusi e strilli spaventati di servitori in fuga verso i loro alloggi, situati a est rispetto ai Templi Sacri.

Sembrava che nessuno sapesse bene cosa fare.

Lui, al contrario, conosceva il proprio compito: avrebbe dovuto aspettare e, se fosse stato necessario, difendere l'Undicesima Casa a costo della vita.

Anche i suoi compagni erano pronti, lo sentiva; i loro cosmi dorati bruciavano vividi e sfolgoranti, sprazzi di luce potenti che diffondevano sicurezza in mezzo alle tenebre di quel caos.

Fu sorpreso di riconoscere, fra essi, anche quello di Mu. Ammesso – e non concesso – che fosse stata solo una coincidenza, Aries era tornato proprio al momento giusto.

«Camus,» chiese Maia agitata, una volta che lui fu di nuovo in camera «mi vorresti spiegare che sta succedendo? Perché sento la gente correre e urlare?»

«Succede che siamo in guerra. I cavalieri di bronzo ribelli hanno invaso il Santuario» rispose lui, aprendo lo scrigno contenente le sue vestigia.

La ragazza lo osservò stralunata illuminarsi d'oro a poco a poco, via via che un pezzo dell'armatura si incastrava con l'altro.

«É uno scherzo, vero?»

«No, Maia, non lo è. E proprio perché non lo è, tu te ne devi andare – il più presto possibile».

«M-ma, ma... no!» esclamò lei, scuotendo la testa con impeto per mostrare tutto il suo disappunto «Non provare a chiedermelo di nuovo, tanto non lo farò».

«Lo farai, invece. Non hai altra scelta».

«Invece sì, ed è quella di rimanere con te!»

Aquarius sospirò, passandosi una mano sul viso – e pensare che, di solito, Maia era una persona piuttosto ragionevole.

«Maia, ti prego. Siamo sotto attacco, non è certo questo il momento di fare i capricci. Non sappiamo con esattezza che intenzioni abbiano, questi cavalieri venuti da lontano. L'unica cosa certa è che, se sono giunti al punto di muoverci guerra, non si faranno alcun tipo di scrupolo di fronte a nulla. Difendere il Tempio della Sacra Anfora da chiunque tenti di attraversarlo senza consenso è il mio dovere, una responsabilità a cui io non intendo sottrarmi per nessuna ragione al mondo. Se mi verrà richiesto di farlo, non potrò pensare ad altro. Non potrò proteggerti, lo capisci? Non ti permetterò di mettere a rischio la tua vita solo per stupida ostinazione, sono stato abbastanza chiaro?»

A quelle parole, Maia abbassò gli occhi e non rispose.

Era la prima volta che usava la sua autorità di cavaliere su di lei; se ne dispiaceva, ma non aveva altri mezzi per convincerla, ed era importante che comprendesse la gravità della situazione. Era stato lui a chiederle di rimanere, la sera precedente, e se le fosse successo qualcosa non se lo sarebbe mai perdonato.

«Ora,» riprese subito dopo in tono appena più dolce, posandole delicatamente le mani sui fianchi «raggiungi anche tu gli alloggi della servitù. Ti ricordi come ci si arriva? Devi accedere alle grotte sotterranee della Nona Casa, e-»

«Lo so benissimo come ci si arriva!» lo interruppe lei, infastidita «Qualora non lo rammentassi, ero io quella che giocava a nascondino laggiù, insieme ad Aiolia e Milo».

«Oh, sì, lo rammento bene. Soprattutto, rammento che ogni volta vi perdevate, e che toccava sempre al povero Aiolos venire a prendere tutti e tre per le orecchie» sorrise involontariamente Camus, al ricordo.

La ragazza, un poco rincuorata dal parziale sciogliersi della tensione, gli gettò le braccia al collo e lo baciò con foga. Aquarius, maledicendo segretamente il freddo metallo dell'armatura che gli impediva di stringerla a sé come avrebbe voluto, ricambiò il gesto.

«Adesso vai» disse poi, allontanandola gentilmente «Non è saggio aspettare oltre».

Lei si staccò riluttante, con gli occhi lievemente velati: «Fai attenzione, ti supplico».

«Non ti preoccupare per me, né per gli altri: sappiamo badare a noi stessi. Ci riabbracceremo presto, vedrai».

Maia annuì e se ne andò correndo, la leggera stoffa bianca del vestito a ondeggiare nell'aria innaturalmente immobile. Camus sapeva che aveva evitato di voltarsi per non concedere a se stessa il tempo di cambiare idea.

Mentre la guardava scomparire fra le colonne, si chiese se davvero avrebbe potuto riabbracciarla presto.

 

***

 

Milo di Scorpio aveva sempre riposto fiducia incondizionata nel suo istinto.

Le complicate elucubrazioni mentali preferiva lasciarle agli strateghi: lui era un predatore e, come tale, agiva secondo gli stimoli del momento, senza stare troppo a soppesare pro e contro.

Non si era dunque posto domande quando, all'entrata in scena del Cigno, aveva sentito ribollire il sangue nelle vene, smanioso di vendetta; gli si era semplicemente lanciato contro, ridendo delle – false – sicurezze mostrate dall'avversario.

«Che si illuda di potermi battere, se vuole» aveva pensato, scansando le sue Diamond Dust – così flebili, rispetto a quelle di Camus – e rispondendo con Scarlet Needle consecutivi «Dovrà tuttavia ricredersi in fretta: non sarà certo il suo tiepido ghiaccio a fermare il veleno dello Scorpione».

Ma arrivato alla dodicesima puntura Hyoga ancora non dava segni di volersi arrendere, e Milo cominciava a credere che l'innato sesto senso in cui riponeva tanta fede forse stavolta si stesse sbagliando.

Daidaros, cavaliere d'argento, era morto dopo sei cuspidi – numero che gli era valso stima e rispetto da parte dell'Ottavo Custode. Prima di lui, altri avevano retto ben meno. Nessuno, proprio nessuno comunque era mai resistito a più di dieci colpi.

Possibile che un ragazzo vestito di bronzo fosse invece giunto alle soglie di Antares senza nemmeno impazzire?

Non che i suoi attacchi non avessero avuto alcun effetto: i segni della sofferenza erano ben impressi sul volto – «giovane. Troppo giovane» – del Bronze, e presto la paralisi dei sensi l'avrebbe certamente indebolito ulteriormente, tuttavia sembrava che a ogni assalto l'ardore dei suoi perché andasse rinforzandosi, piuttosto che diminuire.

Era davvero la stessa patetica persona per la quale, appena poche ore prima, Aquarius aveva versato lacrime di compianto?

«Avevi già ucciso, prima d'ora. Cos'aveva quel ragazzo di talmente speciale da farti piangere la sua scomparsa?»

L'immagine degli occhi umidi del guardiano dell'Undicesimo Fuoco e il pensiero dei compagni sconfitti fecero d'improvviso riaccendere la fiamma dello sdegno in Milo – Cignus e i suoi erano dei traditori da eliminare. Non v'era spazio per altro, tantomeno per qualche tipo di ammirazione.

O, almeno, così tentava di convincersi: la frenetica rabbia iniziale stava infatti cominciando a sbiadire, vinta da riflessioni contrastanti fra loro. Da una parte la voglia di rivalsa, dettata dalle sue pulsioni. Dall'altra, il dubbio.

Se almeno Hyoga si fosse arreso, lui non sarebbe stato costretto a scegliere; decise dunque di concedergli un'ultima possibilità di salvezza, nonostante tutto.

«Te lo chiederò un'altra volta ancora, cavaliere» disse al biondo, riverso a terra dopo aver accusato l'ennesima offensiva «Decidi: o la resa, o la morte».

«Ah, Scorpio, mi dispiace. Nessuna delle alternative che mi offri è di mio gradimento» rispose lui pacato, sollevandosi «Né mi arrenderò né morirò: anche da questa vittoria dipende la salvezza di Atena».

«La salvezza di Atena... »

«E sia. Preparati, Hyoga di Cignus: stai per ricevere l'Ago della Cuspide. Sentiti onorato, è la prima volta che mi vedo costretto a usare la mia tecnica sacra. Addio» dichiarò Milo, preparandosi a scagliare l'attacco finale.

«A me pare un po’ presto per dire addio» ghignò l'altro, inaspettatamente «Non credo che tu sia in grado di lanciare Antares, al momento».

«Che intendi dire?» chiese allora Milo, alquanto irritato – non aveva affatto gradito il tono di sfida con cui Hyoga gli si era rivolto.

«Tutta questa ironia te la porterai nella tomba, ragazzino: non è ancora nato colui che sarà degno di prendere in giro Milo di Scorpio».

«Guardati le gambe, cavaliere».

Scorpio fece come gli era stato suggerito, più per curiosità che per vero interesse, e rimase di sasso: i suoi polpacci erano completamente avvolti in uno strato di ghiaccio. Immobilizzati.

«Ma che... come hai fatto?!»

Eppure lui non si era accorto di nulla; che si fosse approfittato del suo brevissimo istante di raccoglimento?

«Tu eri troppo occupato ad attaccarmi, per accorgerti che le mie Diamond Dust stavano pian piano facendo effetto: adesso pagherai per tale disattenzione».

«Le Diamond Dust! Io credevo di averle schivate tutte! Tu guarda che carognetta travestita da cigno!»

L'aveva beffato, doveva riconoscerglielo. Ma se credeva di spaventarlo con così poco, si sbagliava di grosso.

«Mai abbassare la guardia, durante una guerra. Vedo che hai appreso la lezione meglio di me» commentò sarcastico, socchiudendo gli occhi «Cos'hai intenzione di fare, adesso?»

«Lo vedrai presto;» rispose Hyoga, espandendo il suo cosmo bianco «ecco il colpo segreto più efficace di Hyoga di Cignus: AURORA THUNDER ATTACK!»

Milo si divincolò nel tentativo di liberare le gambe congelate, però non fu abbastanza veloce; il colpo lo raggiunse in pieno, scaraventandolo in aria. In un primo momento temette di non riuscire a contrastare il flusso di gelo che lo stava trascinando verso il soffitto, ma il suo sconcerto durò meno del tempo sufficiente a rendersi conto che, in realtà, l'attacco non era né freddo quanto un'Aurora Execution né rapido come un Lightning Bolt, e nemmeno irruento al pari di un Great Horn. Si era lasciato incantare dall'inaspettata forza sprigionata dall'aura del Cigno, senza rendersi conto di essere allenato a contrastare assalti ben più potenti.

Una lieve pressione del suo cosmo dorato, e l'Aurora Thunder Attack in cui Cignus aveva riposto tante speranze si dissolse di botto.

«Come neve al sole. Il sole del deserto».

«Bravo. Davvero bravo, Hyoga» si congratulò, atterrando con grazia dinanzi a lui «Con un po’ di impegno in più, saresti forse anche riuscito a colpirmi come si deve; ritenta, sarai più fortunato!»

Il volto del Bronze, nel vederlo illeso, si contrasse in una smorfia di frustrazione: «Non mi lascerò scoraggiare da te! Io... ah!»

Un'improvvisa fitta all'altezza del petto gli impedì di continuare; scivolò involontariamente su un ginocchio, premendo la mano sulla parte offesa.

Scorpio si fece serio: sapeva bene cosa significasse quel malessere.

«Troppo tardi, mio giovane amico. Il veleno è definitivamente entrato in circolo: in men che non si dica ti priverà di tutti e cinque i sensi, rendendoti più simile ad una larva che non a un essere umano».

«Stai solo cercando di spaventarmi» rantolò Cignus, tentando di concentrare nuovamente il cosmo per attaccarlo.

«Oh no, ho già compreso che la fine non ti spaventa: questo ti fa onore. Ma vedi, c'è modo e modo per morire, e tu stai andando incontro al peggiore che esista. Guarda tu stesso».

A quelle parole, Hyoga abbassò lo sguardo verso l'armatura e inorridì: dagli innumerevoli fori lasciati dagli Scarlet Needle cominciavano a uscire fiotti di sangue scarlatto, tanto intensi da formare pozze sul pavimento marmoreo.

«N-non importa: combatterò comunque, nonostante la vista mi stia abbandonando... » sussurrò, come per farsi coraggio.

Milo fece qualche passo nella sua direzione, calpestando il rigagnolo purpureo che andava allargandosi.

«Non puoi più combattere, mi rincresce. Sei destinato a spegnerti qui all'Ottavo Tempio, annegato nel tuo stesso sangue. Io ho tentato fino all'ultimo di dissuaderti dal continuare, ma tu, ancora una volta, non hai voluto ascoltare i consigli di chi ne sa più di te. La lezione di Camus non ti è servita a nulla».

Il ragazzo, al nome di Camus, si riscosse appena e affilò lo sguardo, cercando di dissipare la nebbia che gli adombrava la visuale: «L-la lezione di Camus? Che ne sai tu, di ciò che è successo alla Settima Casa? Avanti, parla!»

«É in fin di vita. Perdonami, Camus, ma ha il diritto di sapere; visto che non potrai parlare tu, lo farò io al posto tuo – come sempre, del resto».

«Tu lo odi, vero? Pensi che il suo comportamento sia stato ignobile, e che lui sia un essere cinico e senza cuore. La verità, invece, è che quello che ha fatto, l'ha fatto per salvarti».

«Per... per salvarmi?»

«Per salvarti da tutto questo!» proseguì lo Scorpione, spalancando le braccia a indicare le colonne devastate e le macchie di cremisi di cui Hyoga era coperto «La prova a cui ti ha sottoposto al Tempio della Bilancia era volta a mettere in luce le tue migliori doti di cavaliere – doti che ti sarebbero state indispensabili per acquisire il settimo senso, fondamentale prerogativa di un Gold saint. Solo dopo essertene appropriato avresti potuto davvero competere con cavalieri a te tanto superiori».

«Il settimo senso... il potere ultimo».

«Esatto. Ma, leggendo nel tuo animo solamente rimpianto e scarsa determinazione, Camus ha pensato che tu non fossi pronto ad affrontarci; così, ha preferito ucciderti lui stesso, senza dolore, e rinchiuderti in un sepolcro di ghiaccio dove avresti riposato indisturbato, protetto in eterno dalla quiete della Settima Casa».

Milo si interruppe per un istante, oppresso dal pensiero dello strazio che tali gesta avevano certamente procurato all'Undicesimo Custode – forse cominciava a comprendere il motivo delle sue lacrime.

«Sbagli però, se credi che questa decisione non gli sia costata: ha persino pianto, sul tuo gelido feretro. Nonostante i suoi convincimenti, ha pianto per te. E credimi, in tanti anni che conosco Camus di Aquarius, non avrei mai pensato che sapesse piangere».

«Mai avrei pensato che sapesse piangere, no. Anche se ho sperato per anni che, un giorno, avrebbe potuto farlo per me».

Ecco, adesso Hyoga sapeva, e lui avrebbe dovuto lasciarlo morire, oppure finirlo.

Rimpianse di non averlo ucciso subito, quando l'intero suo corpo gridava vendetta, perché ora dubitava fortemente di riuscirci: come poteva stroncare la vita dell'unica persona per la quale Camus aveva messo a nudo la sua anima?

«Nessuna pietà per i traditori».

Ma Hyoga di Cignus era davvero un traditore?

Ciò che Scorpio aveva visto durante quella maledetta giornata, casomai gli dimostrava il contrario: avrebbe forse dovuto rimanere cieco, in virtù del suo solo status, e giocare invece al Dio giustiziere come il Gran Sacerdote? Come Shaka di Virgo?

No, lui era diverso. Servivano prove certe per condannare qualcuno, e quelle che aveva non le riteneva sufficienti – non più.

«Così ho deciso, cavaliere» disse, voltando le spalle al suo avversario «Ti lascerò vivere e ti restituirò l'uso dei cinque sensi, a patto che tu abbandoni la lotta e te ne vada da Atene per sempre».

 «Perché tu solo hai saputo penetrare a fondo nel cuore di Camus».

«No, non accetto».

«Come, prego?!»

Nonostante Milo simulasse stupore, se l'aspettava. Gli aveva offerto salvezza molte volte – dodici, per la precisione – e per altrettante il Cigno l'aveva rifiutata con sdegno. Per quale ragione ora avrebbe dovuto essere diverso?

«Hai sentito benissimo!» ringhiò l'altro, alzandosi in piedi con fatica «Non accetto la tua misericordia, è un disonore che non merito!»

Lo Scorpione guardò dritto negli occhi dell'avversario: v'era ora più che mai ferrea determinazione, in quel celeste malinconico, e una nuvola di emozioni carica di tempesta.

«Un disonore... »

«Sì, un disonore! Con quale coraggio potrei continuare a sopravvivere, sapendo di aver voltato le spalle ai miei amici proprio nel momento del bisogno? Uomini con cui ho condiviso dolore e gloria, timori e speranze! Li lascerei a se stessi solo per aver salva la vita, quella vita che non avrei più se non fosse stato per loro? No, Milo di Scorpio, non posso farlo: la mia esistenza non avrebbe più nessun senso, senza di essi. La storia dei cavalieri di bronzo al Grande Tempio narra gesta di amicizia, di altruismo, di spirito di sacrificio, di coraggio senza precedenti: mai questi marmi avevano visto fiorire al loro interno sentimenti tanto nobili in un solo giorno! E io dovrei abbandonare tutto questo per egoismo?! Sarebbe peggio di un tradimento!»

Quelle parole, pronunciate con tanto ardore, colpirono profondamente l'Ottavo Custode, soprattutto perché erano vere: durante la scalata i Bronze avevano effettivamente dimostrato quanto fosse stretto il loro legame, e forte la condivisa convinzione nella causa che portavano strenuamente avanti.

E loro, cavalieri d'oro, potevano dire altrettanto?

Ripensò ad Aiolia e Shaka, che erano perfino arrivati a scontrarsi; a Mu, scomparso senza dire nulla; a se stesso e Camus, divisi per faccende personali; a Shura, Death Mask, Aphrodite. Tornò con la mente al suo ultimo colloquio con Arles quando, accusando il Leone di essere simile al fratello, aveva commesso il più grande dei torti nei confronti del suo amico d'infanzia – solo per stupido orgoglio.

«Signore, Leo non ha mai dato prova di non meritare la vostra fiducia… ma è pur sempre fratello di Sagitter. Sapete come si dice? “Buon sangue non mente”».

Per cosa lottavano loro? Cosa li teneva uniti? Nulla, se non il fatto di appartenere alla medesima casta. Nulla, tantomeno la fede nella figura del Pontefice.

Si sentiva spaesato, perso in incertezze così gravi da farlo vacillare.

«Che devo fare, Camus? Devo dunque lanciare Antares contro di lui? Devo giustiziarlo, nonostante non lo meriti?»

Impresse la disperazione di tale domanda nel cosmo, che espanse fino a toccare quello del compagno: sapeva che Aquarius stava seguendo lo scontro dall'alto dell'Undicesimo Tempio – l'aveva sentito vicino sin dai primi istanti. Non si sorprese, quindi, quando avvertì l'aura limpida di Camus accarezzarlo, come a dire: «Fa ciò che ritieni più opportuno».

Milo annuì impercettibilmente, un sorriso mesto sulle labbra rosse.

Il Cigno aveva infine preso la sua decisione, e lui non avrebbe potuto fare altro che accontentarlo. Ma se era una dipartita gloriosa quella che l'avversario cercava, ebbene, l'avrebbe avuta: non era tipo da negare l'ultimo desiderio a un condannato a morte, lui.

«Sia quindi fatta la tua volontà, Hyoga. Non intendo disonorarti oltre con la mia pietà: hai scelto di affrontarmi da uomo, e io ammiro il tuo coraggio. Ora alzati. Alzati e combatti».

«Uno sforzo ancora».

Il giovane si mise in posizione di guardia, cominciando a incendiare le sue stelle in un turbinio di fiocchi candidi.

«Questo sarà forse il mio ultimo canto» disse, la voce appena incrinata dallo sforzo «Ma non importa, non importa perché so di agire in nome della Giustizia! Sei pronto alla lotta, cavaliere?»

Scorpio in risposta sollevò il dito indice, dove l'unghia scarlatta già prometteva bagliori di morte, e si circondò del proprio cosmo purpureo.

«Sì, sono pronto».

«AURORA THUNDER ATTACK!»

«ANTARES!»

Gli occhi di Hyoga, da vicino, erano come due pozze di cielo: lo notò subito, non appena posò lo sguardo sul suo viso – un cielo a cui non rimanevano che pochi istanti.

Estrasse l'Ago della Cuspide dall'addome del Cigno, e dalla ferita schizzò altro sangue; le mani del Bronze volarono avanti a cercare un appiglio per fermare la caduta, ma non lo trovarono.

Franò a terra, agonizzante.

«È finita».

«Lode a te, Hyoga di Cignus. Ti sei battuto con onore».

Milo si appoggiò a una delle poche colonne rimaste in piedi, col fiato corto: si sentiva prosciugato di ogni energia, al punto che faticava a respirare.

Un brivido di freddo lo fece trasalire, all'improvviso; abbassò distrattamente la testa, e ciò che vide lo lasciò di stucco.

«Ma cosa-»

Le quindici parti vitali della sua armatura erano completamente coperte di ghiaccio.

«C-come è possibile? Quando… quando è successo?»

L'Aurora Thunder Attack l'aveva colpito: se non fosse stato per le sue sacre vestigia, sarebbe morto – morto senza avvedersene.

«Chi è davvero costui? Costui, che è riuscito a congelare un'armatura d'oro in fin di vita, a una velocità quasi superiore alla mia!» esclamò, posando gli occhi sulla figura del ragazzo che era stato capace di arrivare a tanto, e che ora continuava imperterrito a proseguire, strisciando nel suo stesso sangue «No, non può trattarsi di un cavaliere normale. Egli è guidato da una forza superiore, non c'è più alcun dubbio».

«"Sotto l’egida della giovane nipote di Mitsumasa Kido, quattro dei nuovi cavalieri di bronzo sostengono che il Santuario di Atene sia guidato dalle forze oscure e che siano loro, invece, i veri difensori dell'umanità, protetti dalla Dea in persona – reincarnatasi, a parer loro, in quella ragazzina"

 

"Arles vi sta ingannando, cavaliere d'oro! Dice di rappresentare la volontà di Atena, ma in realtà vuole solo dominare incontrastato sul mondo intero; redimetevi, scegliete la strada della giustizia finché siete in tempo! Non riuscite a sentire le forze oscure che albergano in lui?"

 

"Anche da questa vittoria dipende la salvezza di Atena!"».

Tutte quelle voci si andavano sovrapponendo nella sua testa, mischiandosi le une con le altre in un vortice impazzito e devastante. Che cosa avevano fatto? Che cosa aveva fatto?

No, aspetta: forse non era ancora troppo tardi, per lui. Non poteva risarcire Hyoga per il dolore che gli aveva inferto, ma poteva almeno salvarlo da morte certa – ed era esattamente quello che avrebbe fatto.

«Hyoga! Fermati!»

Lo raggiunse a grandi falcate, chinandosi sul suo corpo martoriato; poi lo prese tra le braccia e, espandendo il cosmo, premette con le dita sulle lesioni lasciate dagli Scarlet Needle, in modo da arrestare la corsa del veleno verso il cuore del giovane.

«Sopravvivrà. Non tutto è perduto».

Il Cigno sollevò il viso e lo fissò intensamente: «Perché, cavaliere?»

Una domanda semplice, la cui risposta avrebbe però necessitato di troppo tempo per essere esaustiva.

«Un dubbio – «una certezza» – ha sfiorato il mio cuore. Un dubbio che da molto era latente, e che è venuto alla luce grazie a te» si limitò quindi a mormorare Milo, scostandosi per lasciarlo passare.

Guardando Cignus allontanarsi, eretto nonostante l'andatura lievemente arrancante, Scorpio si chiese che ne sarebbe stato di lui.

Il Tempio di Sagitter – «sei tu che guidi questi cavalieri, Aiolos? Che li sostieni come facesti con noi tanto tempo fa?» – era la prossima tappa; più avanti, la Decima Casa. Si diceva che Capricorn, l'uomo più fedele ad Arles, fosse anche e soprattutto il più devoto ad Atena: forse avrebbe capito, e la sua spada sacra sarebbe rimasta inerte. Forse.

E poi, Camus. Camus e le sue stelle di cristallo; Camus e il suo onore da proteggere a ogni costo.

Aveva paura. Lui, che non aveva temuto per la sua vita neanche un solo istante, era in ansia per quella di Aquarius.

«Sii savio, amor mio. Fai la cosa giusta» sussurrò al vento, con l'anima proiettata all'insù e la mente sconquassata da parole ormai familiari.

«Piangerete lacrime di sangue, su quella verità che ora vi rifiutate di vedere».

 

***

 

L'ora del Capricorno era appena volata via, portando con sé il cavaliere da cui prendeva il proprio nome.

Camus sollevò una mano verso il cielo, seguendo con le dita la scia luminosa che si stagliava fra le nuvole rosate sopra al Grande Tempio – l'ultima traccia di Shura. L'ultimo segno del suo passaggio su questa terra.

«Che le stelle ti preservino, Shura di Capricorn; forse, fra di esse, sarai finalmente capace di perdonarti e i tuoi occhi torneranno di nuovo a sorridere».

Lungo le gradinate sottostanti qualcuno gridò di dolore: «Shiryu!»

Anche i Bronze stavano piangendo il loro amico, spirato nella lotta assieme all'avversario.

Quante vittime ancora avrebbe mietuto quella giornata? E lui sarebbe stato fra queste?

Ma non era più tempo di pensare – gli spiriti non sono buoni compagni, durante una lotta. A pochi scalini di distanza da lui, infatti, comparvero le figure di Pegasus e del redivivo Andromeda.

E, soprattutto, quella di Cignus.

Così come era accaduto alla Settima Casa, l'attenzione di Aquarius fu tutta attirata dal biondo ragazzo che, fra le gelide lande della Siberia, aveva conosciuto il suo stesso freddo.

Avvertì a malapena gli altri due sfilargli accanto su esortazione del Cigno, troppo occupato ad esaminare il suo vero sfidante, l'unico che gli interessasse; Aphrodite sarebbe stato felice di occuparsi del resto.

Sulla corazza di bronzo il sangue intorno ai fori generati dagli Scarlet Needle non era ancora del tutto secco, eppure Hyoga era lì, di fronte a lui, pronto ad affrontarlo nuovamente.

«Pronto a morire?»

Ringraziò mentalmente Milo per avergli concesso la possibilità di riparare ai suoi errori, benché sapesse che Scorpio l'aveva lasciato passare per motivi ben diversi. Durante lo scontro al Presidio dello Scorpione Celeste il greco si era dimostrato generoso e leale, riuscendo ad andare oltre all'apparenza per arrivare – non senza tentennamenti – alla verità; lui, invece, aveva intuito già da tempo come in realtà stessero le cose, ma, per quanto si sforzasse, non era capace di attribuirgli la giusta importanza.

Ai suoi occhi ciò che più contava era altro – vincere. Senza trucchi, stavolta.

Interruppe a fatica quel contrasto di sguardi e si diresse maestoso all'interno dell'Undicesimo Tempio, invitando tacitamente Cignus a seguirlo.

«Prima di dare inizio al combattimento,» esordì questi, una volta entrato «lascia che esprima la mia gratitudine nei tuoi riguardi: grazie a te, che l'hai trasmessa al Crystal saint, sono stato iniziato alla nobile arte del Freddo. Sempre per merito tuo, poi, ho intravisto un barlume di settimo senso alla Casa di Libra. Però spiegami, Aquarius: perché hai scelto di privarmi delle spoglie di mia madre? Non v'era altro modo per farmi giungere allo stato ultimo?»

«In realtà, di modi ce n'erano molti. Sei tu che, con la tua arrendevolezza, mi hai costretto ad usare il più drastico» avrebbe voluto rispondere Camus, ma la faccenda gli pesava nel petto come un macigno e non aveva intenzione di discuterne ancora.

«No. Quello era l'unico, e ciò ti sia sufficiente. Non sono tenuto a giustificare il mio operato con superflue spiegazioni: non l'ho mai fatto, e non comincerò certo adesso. Le risposte che desideri le dovrai cercare da solo. E ora... fatti avanti!» esclamò, scostandosi il mantello dai fianchi.

Hyoga non se lo fece ripetere due volte, quasi che anche lui, come l'Acquario, avesse aspettato tante ore solo per disputare quel duello.

«DIAMOND DUST!»

Camus parò il palmo della mano dinanzi a sé, sospirando impercettibilmente, ed estinse il colpo senza nemmeno usufruire del cosmo.

«Te l'ho spiegato solo quattro rintocchi fa;» disse, scandendo piano parola per parola «la Diamond Dust non ha alcun effetto su di me. La conosco come si conosce la propria immagine riflessa allo specchio. Questa, comunque, non è che una pallida imitazione del vero attacco. É così debole il tuo colpo prediletto, allievo!»

Per far comprendere meglio quanto aveva appena affermato ritorse il getto di cristalli ghiacciati contro colui che l'aveva generato, raddoppiandone però la potenza: il Cigno non seppe respingerlo, e fu scaraventato contro una colonna.

«La gamba... non riesco più a muoverla! É completamente congelata!» notò questi con sgomento, quando tentò di rialzarsi.

L'Undicesimo Custode mosse qualche passo nella sua direzione, un lieve segno di soddisfazione sul volto altrimenti impassibile: «É congelata perché la mia Diamond Dust era molto vicina allo Zero assoluto. Sai che significa, nevvero? Il tuo maestro te ne avrà certamente parlato».

Nel nominare Markel fu colto da un piccolo fremito, che però scacciò subito. Lo addolorava parlare del suo defunto ex pupillo come se nulla fosse, ma questa era la parte che si era scelto e l'avrebbe portata avanti fino in fondo.

«Sì, ricordo le sue parole-»

Camus, non lasciandogli il tempo di terminare la frase, lo attaccò di nuovo, e ancora una volta Hyoga finì a terra.

«Anche la gamba destra è ora immobilizzata! Sono in sua completa balia!» sussurrò, osservandolo impotente avvicinarsi di più.

«No, non è detto. Vedi, lo Zero assoluto è noto come la più bassa temperatura che esista, ma questo è vero soltanto in teoria. In pratica, si sa per certo che è invece possibile superare le sue soglie; tuttavia, nessuno è mai riuscito nemmeno a raggiungerlo – me compreso. Fra noi due-»

Fece una pausa improvvisa per fermarsi a riflettere: era giusto lasciargli almeno una speranza? Era giusto illuderlo con irreali scenari di trionfo?

Scelse di sì: anche se non esisteva possibilità che lo superasse, sarebbe sempre potuto migliorare.

«Fra noi due avrà la meglio chi più si accosterà allo Zero assoluto. Spera pure, non c'è un limite: questa è la mia ultima lezione di maestro».

Il Cigno lo fissò con riverenza mista ad astio: «Dovrò avvicinarmi il più possibile allo Zero assoluto, forse anche valicarlo-»

«Dovrai fare meglio di me;» lo interruppe Camus, altero «e ti assicuro che non sarà facile, perché non voglio assolutamente che si dica che l'allievo Hyoga di Cignus ha superato il maestro Camus di Aquarius!»

Ecco, era questo tutto quello che realmente desiderava: dimostrare al mondo di essere superiore al proprio allievo. Ai suoi occhi, infatti, non esisteva nulla di più infamante di essere additato come colui che si era lasciato sconfiggere da un ragazzo di bronzo, a cui aveva per giunta trasmesso il suo sapere.

Era sbagliato? Era futile? Può darsi. Ma non gli importava.

Aveva dedicato l'intera vita a cercare di primeggiare; arrivato a questo punto rinnegare i propri sforzi sarebbe equivalso a cancellare il senso della sua esistenza stessa. L'affetto verso i suoi amici, perfino il sentimento che provava per Maia sembravano scolorire, messi di fronte alla necessità di raggiungere di tale obiettivo.

Intrecciò così le braccia sopra la testa, deciso a porre fine alla lotta al più presto.

«Tenta di difenderti, se puoi!»

Hyoga cercò di rimettersi in piedi, in preda all'angoscia.

Aquarius capiva il suo stato d'animo: l'ultima volta che aveva assunto quella posa, lui non era sopravvissuto. Questo, tuttavia, non lo dissuase dai propri precedenti propositi.

«Aurora Execution!»

Quando il brillante fascio di ghiaccio centrò il nemico Camus distolse lo sguardo, sicuro che l'attacco gli avesse nuociuto gravemente; rimase perciò interdetto nel momento in cui, voltandosi, lo ritrovò eretto e già pronto alla controffensiva.

 «Strano» constatò del tutto calmo, a dispetto del fallimento «L'Aurora Execution era davvero vicina allo Zero assoluto!»

Evidentemente non si era concentrato abbastanza. Pazienza, avrebbe avuto modo di rimediare.

«Non è servita a nulla l'Aurora Execution! E ora è il mio turno!» proruppe il Cigno, quasi trionfante «Le tue parole e le tue azioni mi sono state di grande insegnamento, e le considero preziose. Adesso guarda, maestro, guarda il tuo discepolo e digli se ha ben appreso la lezione!»

L'aura del cavaliere di bronzo si dilatò fino a circondarlo completamente, tanto che l'aria intorno a lui parve raffreddarsi.

«Che cos'ha in mente?» si chiese il guerriero più anziano, aggrottando la fronte «Sarebbe la prima volta che espande il cosmo come si deve».

«AURORA THUNDER ATTACK!»

L'offensiva si dimostrò nuovamente più vigorosa della Diamond Dust, tuttavia Aquarius, benché in parte compiaciuto dal miglioramento del ragazzo, giudicò l'azione prevedibile e la respinse, mormorando: «Non riuscirai a battermi. Non devi riuscirci».

«Lesto e abile ad apprendere lo sei, e io lo riconosco. Ma non sufficientemente forte, non abbastanza».

«Per ora».

Era innegabile che Hyoga, nel corso di appena poche ore, fosse maturato; l'indolenza che aveva portato Camus a condannarlo era svanita del tutto, cancellata dalle successive avversità – specialmente dallo scontro con Milo. E se, a forza di lezioni, alla fine avesse trovato il modo di avere la meglio, nonostante la sua netta inferiorità?

«Non sappiamo con esattezza che intenzioni abbiano, questi cavalieri venuti da lontano: l'unica cosa certa è che, se sono giunti al punto di muoverci guerra, non si faranno alcun tipo di scrupolo di fronte a nulla».

L'aveva detto lui stesso a Maia proprio quella mattina, e i fatti gli avevano dato ragione: bastava pensare a Phoenix, o a Dragon. Non credeva che Shaka e Shura si fossero dimostrati di livello tanto infimo da sottostare ad un cavaliere di bronzo, eppure avevano perso. La forza della disperazione – «che altro, sennò?» – qualche volta si rivelava essere più efficace della potenza effettiva.

No, lui avrebbe evitato la triste sorte dei compagni. Possedeva milioni di buoni motivi per farlo.

Rivolse lo sguardo sul combattente immobile alla sua destra e prese la sua decisione: sarebbe ricorso alla Freezing Coffin, ancora una volta. L'aveva usata alla Settima Casa, piangendo lacrime salate perché non era riuscito nell'intento di far progredire il proprio discepolo; ora l'avrebbe fatto di nuovo, per la ragione opposta.

«Freezing Coffin!»

«Riposa in pace, Hyoga di Cignus, stavolta per sempre. Qui, nel Tempio della Sacra Anfora, testimonierai con la tua presenza che un allievo non potrà mai superare il proprio maestro. Do svidaniya».

«É finita» pensò con una punta di amarezza, allontanandosi.

Era stato lo stesso Cigno, con la sua presunzione, a obbligarlo ad agire in quel modo. La coscienza avrebbe finalmente smesso di tormentarlo: aveva tenuto alto l'onore combattendo onestamente, con le sue sole armi – col suo solo gelo, che aveva riconfermato il proprio primato a buon diritto.

Fece appena in tempo ad avvertire il cosmo di Hyoga bruciare furioso che un'esplosione inattesa lo scaraventò contro un pilastro, senza che lui si fosse reso conto dell'accaduto.

«N-no... non è possibile!»

Dove un attimo prima v'era il feretro di ghiaccio, ora stava il corpo del Bronze. Ancora a terra, certo, ma libero – e vivo.

«Non ci credo: ha infranto la Freezing Coffin con la sola forza delle braccia! Un cavaliere di bronzo! Eppure la temperatura a cui avevo portato la teca era così prossima allo Zero assoluto... che abbia dunque... no, no! Non può averlo già fatto suo! Deve essere successo qualcosa: che cosa, però? N-nulla di cui abbia esperienza può operare un tale miracolo!»

La sua mente lavorava frenetica, in cerca di una spiegazione logica che tuttavia non trovò. Era talmente sconcertato da non riuscire a ragionare con l'abituale freddezza, e ciò lo agitava terribilmente – in circostanze simili, l'ignoranza era il peggiore dei mali. La voce di Hyoga lo riportò bruscamente alla realtà: «Leggo lo stupore sul tuo viso, Camus di Aquarius. Non sei capace di leggere nel mio cuore come faceva il Crystal saint. Ma non capisci, dannazione?! Era lui l'allievo che ti ha superato, non io! Ed è morto per colpa di Arles!»

L'Acquario strinse i pugni, ormai pericolosamente vicino a perdere il controllo: «Che m'importa di Arles!»

Già: cosa gli importava di Arles?

Faceva davvero differenza che sul Trono di Grecia sedesse un usurpatore, al posto di Atena? Per come la vedeva Camus erano entrambi dei despoti, crudeli ed egoisti. Quanti sacrifici aveva richiesto la devozione alla Dea? Quante morti?

Ripensò ad Aiolos, deceduto nella polvere come un'infame; ad Aiolia, che si strappava i capelli gridando davanti al cadavere deturpato del fratello; a Shura, con l'anima macchiata di rimorso indelebile; a Saga, che era scomparso senza lasciare traccia.

Le immagini dell'infanzia di tutti loro, trascorsa nella violenza, gli scorrevano dinanzi agli occhi come se le stesse rivivendo: Milo, coperto di sangue, che si mordeva le labbra per lo sforzo di non piangere; Aldebaran, disteso in mezzo all'Arena, con entrambe le gambe fratturate. Rivide un bambino coi capelli rossi fradici di neve arrancare senza più fiato sul ghiaccio, reggendosi una gamba sul punto di entrare in cancrena per il freddo.

Le petit Didier au Jardin du Luxembourg, Paris, june 1969.

Avrebbero tutti condotto esistenze normali, circondati dall'amore di una famiglia, se non fosse stato per Atena. Ma come facevano quegli sciocchi a credere che a una Dea potesse veramente stare a cuore il destino di una manciata di uomini? Se il Gran Sacerdote era un impostore, perché non era intervenuta lei stessa a fermarlo? No, aveva preferito usare loro come carne da macello, e lui non avrebbe rinunciato a tutto quello che gli rimaneva – la dignità – in nome di una Dea simile.

Rispose con rinnovato vigore all'assalto del Cigno, opponendo alla sua scia di cristalli gelidi una del tutto uguale.

«É la prova che stavo cercando!»

La forza sprigionata dai loro attacchi era ormai pari: i suoi timori precedenti avevano infine trovato fondamento.

«La distanza fra maestro e allievo è ormai impercettibile. Ma io ho un'ultima carta da giocare».

«Ben fatto, cavaliere del Cigno!» disse all'avversario «Lo stato a cui sei giunto è di piena maturazione: non c'è più distinzione tra i nostri cosmi. Adesso ciò che mi rende a te superiore è la mia armatura: fattore non da poco, e forse decisivo. Le sacre vestigia d'oro, proprie dei cavalieri appartenenti alla casta più alta, a differenza di quelle di bronzo e d'argento non hanno limite di sopportazione e congelano solo oltre lo Zero assoluto. Non hai speranze, arrenditi!»

Ma Cignus pareva non udirlo nemmeno più, tanto era concentrato nella lotta fra le loro energie contrapposte.

«Che sia privo di coscienza?»

No, non lo era: il suo cosmo cresceva in maniera esponenziale, come se non avesse limite.

Un brivido di paura attraversò la schiena di Camus, e la sensazione di non ritorno gli invase i sensi: stava dunque andando incontro alla fine? Quel presentimento funesto che lo perseguitava si sarebbe quindi trasformato in realtà?

«Non ti preoccupare per me, né per gli altri: sappiamo badare a noi stessi. Ci riabbracceremo presto, vedrai».

Aveva promesso a Maia che si sarebbero riabbracciati; aveva promesso a se stesso che avrebbe fatto pace con Milo. Aveva giurato di vincere. Non poteva cedere. Non adesso. Non così!

«Devo darti il colpo di grazia! Addio, Hyoga!»  urlò, intensificando allo spasimo il suo getto di gelo.

Getto che, nonostante avesse fatto l'armatura di bronzo in pezzi, venne però intercettato dall'allievo – poteva ancora definirlo tale? – e rilanciatogli contro, in una sfera di luce argentea.

Sentì il diadema scivolargli dalla fronte, e il suo corpo schiantarsi a terra.

«Come può essere sopravvissuto, se persino la sua corazza non ha retto?!» pensò rialzandosi fulmineo, sempre più sconvolto. Ma il suo stupore arrivò all'apice quando notò che il copri spalla dell'armatura dell'Acquario si era fatto cristallo.

«Non vi sono più dubbi: il discepolo ha raggiunto lo Zero assoluto – ne è, anzi, quasi il padrone. Non c'ero mai riuscito io! Io che ne sono il mentore! Lui, l'allievo, mi pone di fronte alla mia incapacità».

Doveva accettare l'evidenza dei fatti e dichiarare la resa?

Lui, Camus di Aquarius, Custode dorato dell'Undicesima Casa?

«Che ne sarebbe di me? Che ne sarebbe di tutta la mia fatica? Di tutto il mio sudore, di tutte le mie lacrime non versate? Sarei poi costretto a chinare la testa al suo passaggio? A dargli un onore che fino a ora è appartenuto a me?»

«Mi dispiace, riconosco il tuo valore, ma in un modo o nell'altro devi essere sconfitto!»

«Tu o io: non c'è posto per entrambi».

Tese le braccia in alto a congiungere le mani, ampliando la propria aura fino alle stelle; abbassò le palpebre un istante, raccogliendo le forze necessarie.

«Ma cosa-»

Dovette scuotere la testa per rendersi conto che ciò che vedeva non era frutto della propria immaginazione: Hyoga aveva assunto la sua stessa posa.

Anche lui si preparava a lanciare l'Aurora Execution.

«Sta fingendo. Non è possibile che l'abbia già appresa».

Un affronto simile era veramente troppo da sopportare.

«Hyoga, se puoi ancora udirmi, non usare il mio colpo segreto;» disse Camus, la voce incrinata dalla rabbia repressa «l'hai visto due sole volte, e nessuno è capace di fare propria una tecnica in così poco tempo, nemmeno tu. Questo è solo un ultimo, disperato tentativo dettato dalla follia che ti governa!»

Niente, parole al vento. Hyoga era come paralizzato, i palmi uniti, la bocca digrignata, il viso celato dai capelli: sì, forse aveva a che fare con un pazzo.

Se solo avesse potuto guardarlo negli occhi – «quegli occhi così trasparenti» – forse avrebbe ritrovato il senso di tutto questo, ché ormai gli sembrava di essere divenuto folle a sua volta.  

«Ebbene, che sia l'Aurora Execution a decidere della mia sorte» sussurrò, prima di scagliare l'attacco e venire investito da un bagliore accecante.

 

***

 

Milo sentì tutto così intensamente che avrebbe giurato di essere stato colpito da una pugnalata al centro del petto.

Sentì le due Aurora Execution scontrarsi ed esplodere in schegge di diamanti bianchi; sentì il cosmo di Camus eclissarsi in una parabola di luce ghiacciata, simile alla coda di una stella cometa, e poi fermarsi sul limitare del nulla – a brillare ancora per qualche battito di cuore. Il suo, di cuore, lo sentì scoppiare dentro la cassa toracica nell'istante in cui si mise a correre.

 

***

 

L'Undicesima Casa non era mai stata tanto celeste – o forse era quella luce lontana che vedeva oltre il soffitto a dare ai suoi marmi una sfumatura così bella.

Girò appena la testa verso la figura del nuovo Signore delle Energie fredde accasciata al suo fianco: Hyoga di Cignus avrebbe avuto la sua armatura. Il suo posto. Il suo titolo.

Ma non gli importava. Ne era più degno di lui.

«Era davvero necessario che arrivasse quest'uomo a farmi capire l'inutilità della mia esistenza?» aveva pensato mentre cadeva a terra, schiacciato dal gelo.

Forse sì.

Forse era davvero valso a qualcosa buttare la vita sul ghiaccio per inseguire sogni e ambizioni, se poi il frutto della sua fatica era un ragazzo – un uomo – come Hyoga. Gli era grato per essere giunto fin lì, per aver resistito fino all'ultimo contro la sua cecità: se non l'avesse fatto Camus non avrebbe mai saputo cosa lui stesso, col suo operato, aveva contribuito a creare.

Buffo arrivare alla fine della propria strada ed esserne quasi felice.

«Camus!»

Sorrise appena, nell'udire la voce di Maia: avrebbe mantenuto la promessa di riabbracciarla, in fondo.

«Maia» sussurrò flebilmente, vedendola chinarsi su di lui «Non dovresti essere qui».

«Non sopportavo più di aspettare senza sapere nulla, così sono venuta di corsa qui e... oh, Camus, perché l'hai fatto?»

Aveva i capelli scomposti e gli occhi – «neri come la notte. Caldi» – lucidi: dèi, non voleva vederla piangere. Le accarezzò il volto contratto e si accorse che stava tremando.

«Vattene, chérie. É troppo freddo per te».

«É stato troppo freddo anche per me».

Lei, in risposta, lo sollevò per le braccia, cercando di trascinarlo fuori da quello che, più che un Tempio, sembrava ormai un sepolcro gelido.

«Ti porterò fuori di qui!» disse, come in preda al delirio «Tu non morirai: no, non puoi morire! Non ti permetterò di lasciarti andare!»

Nemmeno lui avrebbe voluto lasciarsi andare, no. Ma ormai era troppo tardi, e si sentiva maledettamente stanco... voleva solo riprendere fiato, parlarle, permettere a quella luce celeste – che si era fatta più vicina – di avvolgerlo.

«Maia, ti prego, fammi riposare. Sono tanto, tanto stanco».

A quelle parole Maia si irrigidì impercettibilmente, ma fece come le era stato chiesto, posandolo delicatamente in un angolo appartato fra le colonne superstiti.

«Ascolta;» cominciò Camus, con tono così basso da sembrare un lamento sommesso «non mi è rimasto molto tempo, e prima di morire voglio che tu mi prometta un po' di cose».

«Ma che stai dicendo? Ti ho detto che non morirai!» esclamò lei con sempre meno convinzione, le guance già bagnate da qualche lacrima.

«La prima:» riprese Aquarius in fretta, ché respirare stava cominciando a risultargli difficile «quelle che vedo dovranno essere le ultime lacrime che verserai per me».

La ragazza annuì, prendendogli la mano.

«La seconda: non odiare Hyoga. Tutto ciò è avvenuto per colpa della mia ostinazione. Lui... lui ha fatto solo quello che doveva essere fatto. Merita il tuo rispetto».

«No, questo no! Io-»

Lui raccolse le poche energie che gli restavano per stringerle il braccio: «Promettimelo. É importante».

«Va bene, lo prometto».

«L-la terza... »

Ma esisteva, una terza?

Si interruppe, tossendo: sentiva il ghiaccio prendere lentamente possesso delle sue vene, fermandogli il sangue. Fra non molto sarebbe arrivato sino al cuore, e allora – ma guarda, la luce azzurra era più brillante, adesso.

«Camus, non parlare» disse Maia che ormai quasi singhiozzava «Non parlare, ti fa male».

Un tiepido cosmo dorato lo raggiunse, inatteso.

«Milo».

Sembrava abbracciarlo: non aveva mai letto tanta dolcezza nella splendida aura dello Scorpione, che pure l'aveva toccato tante e tante volte.

E, d'un tratto, capì. Capì e tutte le sue certezze si infransero di nuovo, come le onde sugli scogli. Capì come si fa nel ripensare a un ricordo lontano, a un segnale caduto nel dimenticatoio, a un gesto all'apparenza inspiegabile.

Il grano di giugno cresceva rigoglioso, nei campi, e l'aria profumava di sole e di mare. Un pomeriggio quasi sonnacchioso, quello, per gli standard del Santuario.

Camus e Milo se ne stavano sdraiati all'ombra di un ulivo, ascoltando in silenzio i grilli frinire – c'erano solo loro due, le spighe dorate e gli insetti. A distanza di un grido dal resto del mondo, eppure entrambi convinti di essere lontani anni luce da tutto e tutti.

«Cos'è per te l'amore, Camus?» chiese Milo a un tratto, rompendo la quiete.

Aquarius rimase un tantino interdetto: che razza di domanda era?

Tuttavia, dopo averci pensato, rispose: «Non saprei. Non credo di essere mai stato innamorato».

Alla parola gli venivano in mente solo immagini sfocate – orli di vestiti primaverili e capelli non troppo biondi –, ma no, non avrebbe saputo associare l'amore a qualcosa di più definito.

«E per te? Cos'è l'amore per te, Milo?»

Il giovane Scorpio socchiuse gli occhi, meditabondo: «Ecco... quando penso all'amore, mi viene in mente qualcosa di... rosso. Di delicato, di sfuggente. E di freddo».

Camus lo guardò come si guarda una creatura bizzarra: «Di freddo!? Ma se dici sempre di odiarlo, il freddo!»

«Oh, non ci fare caso: sono solo fantasie» rispose quello imbarazzato, prendendo a giocare con la catenina di una collana che lui riconobbe subito.

«Smetti di torturare quell'affare, Milo! Non te ne regalerò un’altra, se la rompi!».

Milo sorrise: «Stai tranquillo, Rouge, non potrei mai rovinarla: ci tengo troppo».

Ecco il perché di quel bacio di tanti anni prima, che lui aveva classificato come uno stupido scherzo. Ecco il perché del suo strano – «doloroso» – comportamento dei mesi precedenti.

Il perché del suo stupore, della sua rabbia.

«E... e io? Io e te, che fine faremo?»

Milo era innamorato di lui – da sempre, forse.

«Cielo, Milo, perdonami... »

Si riscosse: aveva trovato l'ultima promessa da strappare a Maia.

«La terza: stai vicino a Milo. Sostenetevi l'uno con l'altra. Dissipate i vostri rancori, quali che siano. Fatelo per me».

Maia annuì ancora, sollevandolo appena da terra per stringerlo a sé.

Adesso poteva finalmente andarsene in pace: era sicuro che le due persone più importanti della sua vita non avrebbero sofferto da sole. Anzi, no. C'era ancora un'altra cosa che sentiva il bisogno di fare.

«Avvicinati, Maia».

Non seppe con quale forza riuscì ad alzare la testa per baciarla lievemente sulle labbra; si abbandonò a quell'ultimo contatto con lei come se questo avesse potuto fermare il tempo e regalargli ancora qualche istante.

«Camus, ti prego, non mi lasciare... »

La luce celeste era ormai a portata di mano, tanto che Camus ne allungò una per tentare di afferrarla.

«Maia, guarda quella luce...  c'est si belle, n'est-ce pas

Maia sollevò il viso di scatto, come pietrificata.

«Quale luce? Oh no, Camus, no!»

Non capiva come facesse a non vederla: era immensa, sterminata al pari dell'universo – piena di stelle.

Si lasciò circondare da essa con un sospiro sereno. Il braccio ricadde inerte su un fianco. Gli occhi si spalancarono, abbagliati.

E poi, fu solo celeste.

 

***

 


Le gambe. Le stesse gambe che l'avevano sorretto nelle fatiche più estenuanti, che l'avevano portato ai confini del mondo senza mai un'incertezza nei polpacci forti avevano ceduto per la prima volta proprio lungo la scalinata del Capricorno.

Milo alzò gli occhi verso l'Undicesimo Tempio, a misurare la distanza che lo separava da esso – tardi: anche se fosse stato capace di rialzarsi, sarebbe arrivato troppo tardi.

«No, tesoro, non ti lascerò morire da solo».

Espanse il cosmo nel modo più dolce e straziante di cui era capace, e accompagnò Camus per mano fino alla fine.

«Addio, amore mio».





Note dell’autore

Bene. I giochi sono fatti, e penso che tutti vi aspettaste un epilogo del genere.

Premettendo che la revisione non ha minimamente intaccato il presente capitolo 10 (parte I e II) – se non sotto forma di mera correzione ortografica –, confesso che il pezzo più ostico è stato senza dubbio quello con Camus come protagonista.

Aquarius, in questa parte, si comporta veramente da stronzo irrazionale (scusa, tesoro): un momento prima piange per Hyoga, un momento dopo ci ripensa e lo vuole fare secco a tutti i costi, per conservare l'onore. É proprio per questo che ho tentato di incentrare l'intera sua riflessione sulla dignità e compagnia bella: per motivare un atteggiamento che, altrimenti, sarebbe parso totalmente illogico. Vogliate perciò perdonarmi per i pensieri poco lusinghieri su Atena: è stata l'unica strada che ho potuto intraprendere, la più sensata per spiegare l'ottica di una persona che, pur essendo formalmente al servizio di una divinità, se ne infischia alla grande delle sue sorti.

Alcuni dialoghi sono in parte ripresi dall'anime parola per parola – non perché non avessi voglia di cambiarli, ma per il semplice fatto che solo quelle determinate espressioni permettevano di chiarire al meglio il concetto.

Spesso nei pensieri di Milo e Camus ci sono delle frasi identiche, volte ad avvicinare sensazioni e impressioni dei due: spero che leggendo si capisca, ma è sempre meglio specificare.

Qui i rimandi ai capitoli precedenti sono così tanti che spero di non saltarne nessuno:

- «Allora si trattava del tuo allievo. Secondo me, hai fatto la cosa giusta. Non era pronto». (capitolo 10, parte I);

- «Osa ancora toccarmi senza permesso e giuro che di te non rimarrà nemmeno un briciolo di polvere. Mi hai capito?» (capitolo 10, parte I);

- «Avevi già ucciso, prima d'ora. Cos'aveva quel ragazzo di talmente speciale da farti piangere la sua scomparsa?» (capitolo 10, parte I);

- «Signore, Leo non ha mai dato prova di non meritare la vostra fiducia … ma è pur sempre fratello di Sagitter. Sapete come si dice? “Buon sangue non mente”». (capitolo 7, parte I);

- «Sotto l’egida della giovane nipote di Mitsumasa Kido, quattro dei nuovi cavalieri di bronzo sostengono che il Santuario di Atene sia guidato dalle forze oscure e che siano loro, invece, i veri difensori dell'umanità, protetti dalla Dea in persona – reincarnatasi, a parer loro, in quella ragazzina». (capitolo 5);

- «Arles vi sta ingannando, cavaliere d'oro! Dice di rappresentare la volontà di Atena, ma in realtà vuole solo dominare incontrastato sul mondo intero; redimetevi, scegliete la strada della giustizia finché siete in tempo! Non riuscite a sentire le forze oscure che albergano in lui?» (capitolo 7, parte I);

- «Piangerete lacrime di sangue, su quella verità che ora vi rifiutate di vedere». (capitolo 7, parte I);

- Le petit Didier au Jardin du Luxembourg, Paris, june 1972. (capitolo 1);

- «E... e io? Io e te, che fine faremo?» (capitolo 4).

Per quel che riguarda i ricordi di Camus sugli episodi di infanzia di Aiolia, Aldebaran e Milo: gli scorci rammentati hanno avuto luogo durante i famosi sei mesi di pre-addestramento al Santuario, a eccezione del suo.

- "Do svidaniya” : “Addio" in russo.

Infine, ho immaginato che le ultime parole di Aquarius fossero in francese perché talmente vicino alla morte – la luce celeste, tanto per intendersi – da regredire ad una sorta di stato "primordiale": «[…] c'est si belle, n'est-ce pas?» : “è così bella, non è vero?”.

Orbene, spero di non aver dimenticato nulla: ringrazio a cuore aperto chi ancora segue questa storia, nonostante la latitanza.

Spero che il capitolo valga gli sforzi.

Saluti e abbracci!!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 15
*** Capitolo 11, parte I: 11-12 settembre 1986. Shaka ***


Capitolo 11, parte I. Shaka BG

Capitolo 11, parte I: 11-12 settembre 1986. Shaka

 

 


Un'intera nottata

buttato vicino

a un compagno massacrato

con la sua bocca

digrignata

volta al plenilunio

con la congestione

delle sue mani

penetrata nel mio silenzio

ho scritto lettere piene d'amore.

Non sono mai stato tanto attaccato alla vita.

Giuseppe Ungaretti

 

 

 

 

 


É mai possibile che l'aria tremi?

No, che sciocchezza – l'aria non può tremare.

Eppure, mentre Arles cade a terra con un tonfo sordo, a Shaka pare di sì.

Gli sembra, anzi, che persino il cielo sia scosso dai brividi nel momento in cui quello sconosciuto dai capelli grigi e gli occhi rossastri che ha distrutto le loro vite scompare, per lasciare il posto a Saga di Gemini.

Non v'è più ombra sul suo viso, come se lo squarcio che da solo si è aperto nel petto con una Galaxian Explosion avesse cancellato in un attimo tredici anni di inganni; non v'è più buio nella sua voce, come se il tocco di Atena fosse bastato a spazzare via tutto il male.

Vorrebbe provare rabbia, Shaka di Virgo; vorrebbe poter distogliere sprezzante lo sguardo dal dramma che si sta consumando a pochi metri da lui. Vorrebbe chiudere gli occhi – in fondo, l'ha sempre fatto – ed estraniarsi, per non vedere più nulla.

Ma non ci riesce, perché è conscio che, in quel dramma, anche lui ha giocato la sua parte. Così, continua a fissare la scena in silenzio, accanto a quei compagni che mai prima di adesso ha sentito tanto vicini e, al contempo, tanto distanti.

«Custodi dorati:» Saga alza appena la testa dal grembo della Dea, una mano tesa verso di loro «anche a voi chiedo perdono».                                                           

Un sussurro che mantiene un sentore di autorità.

Shaka se lo ricorda ancora, Saga dei Gemelli, quando saliva altero le scalinate dei Dodici Templi sacri con il piglio duro e insieme misericordioso che unicamente gli esseri celesti possiedono. Rammenta fin troppo bene l'ammirazione che da bambino nutriva nei confronti del guardiano della Terza Casa, e la sensazione di perdita avvertita alla notizia della sua scomparsa.

Dovrebbe provare vergogna di tali sentimenti, seppellirli in una fossa comune con tutte le cose che – solo adesso – si è accorto di  aver sbagliato. Come fare, tuttavia, a negare assoluzione a un uomo come quello?

Milo, Aldebaran e Mu paiono condividere il suo pensiero, poiché accolgono la richiesta con un impercettibile cenno di assenso, senza proferire parola; Aiolia, invece, rimane rigido – assurdamente immobile. Somiglia a una statua; una di quelle statue marmoree, severe e bellissime, poste all'entrata dei luoghi di culto per intimorire i fedeli.

«Cavaliere di Leo».

Persino Gemini se n'è accorto, e il suo richiamo stavolta suona vagamente come una preghiera.

«Cavaliere di Leo, avvicinati, per favore... »

Aiolia non si muove, non parla, a stento respira; i suoi occhi, fattisi gelidi, sono inchiodati a quelli di Saga. Mentre dal volto di pietra del fu Gran Sacerdote non traspare emozione alcuna – forse solo una lieve stanchezza, vecchia di anni –, nelle iridi del Leone si può al contrario scorgere una miriade di sensazioni diverse – rabbia, stupore, dolore, stralci di memoria. E, soprattutto, la parola assassino, scritta con lettere fiammeggianti talmente vivide da compensare la stasi del resto del corpo.

«Ti prego, cavaliere, accontentalo. Non gli rimane molto tempo».

La voce sommessa di quella Dea che nessuno di loro ha riconosciuto squarcia d'improvviso la situazione di stallo: incitato dall'invito di Atena – ché quello di chiunque altro non avrebbe sortito il medesimo effetto –, Aiolia comincia ad avanzare lentamente e si ferma a pochi metri da Saga, senza tuttavia chinarsi su di lui. Quest'ultimo, dal canto suo, pare d'un tratto svuotato di ogni energia, al punto da non riuscire più a controllare gli spasmi che gli scuotono il petto devastato; il respiro gli si fa sempre più corto, via via che l'anima preme per staccarsi dai resti mortali e prendere il volo.

«C'è un uliveto,» dice debolmente, schiarendosi la gola «ai piedi della Collina delle Stelle, in quella zona accessibile solo al Gran Sacerdote – si gode della vista dell'intera Atene, da lassù».

Dopo questo discorso all'apparenza privo di senso si interrompe, e affila lo sguardo appannato dalla morte ormai imminente verso Leo.

«Lui... lui è sepolto lì, all'ombra dell'albero più rigoglioso. I suoi resti non sono mai stati abbandonati alla mercé delle intemperie e delle bestie selvatiche, come comanderebbe la legge del Santuario nei riguardi dei traditori. Ai-Aiolos di Sagitter è tornato a fondersi con la terra che gli diede i natali».

Milo trasalisce appena da qualche parte di fianco a Shaka, ma lui a stento se ne accorge; sta provando a convincersi che ciò che vede e sente è reale, e non il frutto di un incubo incredibilmente veritiero. Però l'aria continua a fremere, e non lasciarsi cullare da un'illusione tanto accattivante è quasi impossibile.

Nel parlare, Saga si è inconsapevolmente – o no? – teso verso Aiolia: c'è un desiderio disperato in quel gesto dimesso, e dolcezza, e... cos'altro?

«T-tu, Aiolia... gli assomigli così tanto».

É al passato che la sua mente è rivolta adesso, lo si capisce dall'espressione distante – forse a ricordi felici, senza macchie di sporco a deturparne il manto candido. Ed è con questa serenità dipinta sul viso che il corpo del più celeste e buio dei Santi guerrieri dorati si riabbassa piano, fino a rimanere d'improvviso inerte al suolo. Morto.

Le sue ampie spalle poggiano rilassate sulle ginocchia di Saori, prive finalmente dell'immane peso che per tanto tempo hanno sostenuto; quelle di Aiolia, che Virgo vede da dietro, sono appena più curve di prima ora, e sconquassate da brividi involontari.

Shaka si chiede ancora se davvero l'aria possa tremare, e di nuovo si ripete che no, non è possibile. Si renderà conto solo più tardi che era lui stesso, a farlo.

 

*

 

Di solito, alla fine di uno scontro, una calma silenziosa cala come foschia sottile su entrambi gli schieramenti; all'esuberanza dei vincitori si mescolano lo strazio e la vergogna dei vinti e, mentre i corvi cominciano gracchiando a volteggiare sinistri sopra il campo di battaglia, i superstiti raccolgono i loro morti, benedicendo chissà quale cielo di essere ancora vivi.

Shaka, a dispetto di tutto, non era da meno – ma con qualche fondamentale riserva. Infatti, benché riconoscesse la grazia assolutamente immeritata di essere rimasto in vita, aveva come la sensazione che il presente al momento fosse buio e terribile quasi quanto l'Oltretomba.

Nel tempo successivo al combattimento alla Sesta Casa tale impressione gli era solo balenata in mente, senza assumere tratti definiti; durante gli interminabili minuti al capezzale di Arles – «Saga. Saga di Gemini. Arles. Come possono essere stati la stessa persona?» – da presentimento confuso si era poi di colpo tramutata in certezza insopportabile, e Virgo pensava che il “dopo" si sarebbe rivelato ancora peggiore.

D'altro canto, la medesima paura l'aveva letta anche sul volto dei suoi compagni, mentre raccoglievano da terra i cavalieri di bronzo per condurli nelle stanze adibite alle ancelle del Pontefice, onde permettere loro di riprendere le forze. Era stato lui stesso a offrirsi di portare quasi di peso Ikki di Phoenix, in quella che era apparsa come una sorta di pagana Via Crucis.

La Fenice, nella sua condizione di semi-coscienza, gli aveva rivolto uno sguardo incolore e si era astenuto dal protestare – nonostante fosse evidente che avrebbe preferito poter camminare sulle proprie gambe, piuttosto che doversi appoggiare a lui. Uno sbuffo era uscito dalla bocca del ragazzo quando il Custode del Sesto Fuoco l'aveva deposto con delicatezza sul letto, seguito da un impercettibile "grazie" nel momento in cui Shaka si era richiuso la porta alle spalle. Un "grazie" al quale, però, lui non aveva risposto – per eccessivo riserbo o, forse, per semplice rimorso.

Tuttavia, era ora, alla fine di tutto, che veniva la parte più difficile: rendersi conto dell'accaduto, soppesarlo, soffocare le urla della propria coscienza ridotta a brandelli.

«Da che parte si ricomincia a vivere? E come, poi? Con quale coraggio uno può rialzarsi e farsi largo tra i cadaveri?».

Erano dubbi terribili, e Shaka ne aveva paura.

Mai prima di allora si era ritrovato a dover fare i conti con l'incertezza e adesso questa, apparsa così all'improvviso da lasciarlo totalmente impreparato, lo stava stritolando in una ferrea morsa. Prima o poi la forza di iniziare ad aprirsi un varco fra le macerie sarebbe arrivata, lo sapeva; sarebbe tornata la speranza e, con essa, la voglia di combattere per riparare agli errori commessi – ma non quella notte. Quella notte l'avrebbero passata tra gli spettri, e arrivare a vedere la luce del giorno sarebbe stato un traguardo per ognuno di loro.

«Qualcuno potrebbe anche non farcela» pensò, soffermando gli occhi – aperti, ché non riusciva più a chiuderli – sui visi stanchi di Milo, Aldebaran, Mu e Aiolia, come lui in attesa che Atena uscisse dal Tredicesimo Tempio e impartisse ulteriori istruzioni.

Erano tutti persi nelle proprie riflessioni, nessuno accennava a voler parlare; forse avevano persino timore di farlo.

Cosa ci si dice fra sopravvissuti?

Quando Saori comparve, lo sguardo dei cinque cavalieri fu completamente attratto dalla sua figura, come se i contorni di ciò che stava a lei intorno non esistessero più; pur apparendo anch'essa sfinita e addolorata emanava ancora serenità e fermezza al sol vederla.

«Come il sole, che attira attorno a sé l'intero sistema con forza irresistibile. Possibile che una ragazza tanto giovane e all'apparenza tanto fragile, sia invece una divinità? La divinità che io venero? Possibile che, nonostante il ruolo da me ricoperto, non l'abbia riconosciuta?».

«Cavalieri,» disse ella, avvicinandosi lieve al punto in cui si trovavano «ho una richiesta da farvi. Da parte mia, ma soprattutto dei Santi di bronzo».

«Siamo a vostra disposizione» rispose Mu, poiché il resto del gruppo provava troppo, malcelato imbarazzo per rivolgerle direttamente parola – Shaka compreso. In verità, lui avrebbe voluto disperatamente genufletterlesi dinanzi e chiedere perdono, ma era come paralizzato. Paralizzato dall'orgoglio, e dalla consapevolezza che, in fondo, un gesto del genere non sarebbe stato né dignitoso né appropriato: il suo pentimento avrebbe dovuto dimostrarlo con le proprie gesta future, e non attraverso vane e tardive parole di scusa.

«Vi prego a nome loro di attendere a sposta-» un debole segno di cedimento le incrinò la voce per un secondo «a spostare i vostri compagni caduti. Terrebbero molto a farlo personalmente, prima delle esequie ufficiali. Sempre che per voi non sia troppo gravoso, naturalmente».

Queste parole acuirono ulteriormente lo sconforto e il senso di inadeguatezza della Vergine, che tutto si sarebbe aspettato meno delle richieste così umili.

«Noi siamo gli sconfitti. Dovremmo essere noi ad implorare loro, non viceversa».

Invece, non solo la Dea provava sincero cordoglio per la morte di cavalieri traditori, ma si mostrava benevola persino con i rimanenti – che erano ugualmente colpevoli.

Era forse quella la misericordia su cui tanto aveva dissertato col Buddha nei silenzi quieti della sua infanzia, e che non aveva mai compreso realmente? Era forse quella la pietà che ogni Santo di Atena doveva possedere, per essere ritenuto tale?

«Cosa sono stato io fino ad ora? Chi?»

Con lo scorrere dei minuti il ribrezzo che provava verso se stesso stava aumentando a dismisura.

Dopo qualche secondo di raccoglimento fu Aldebaran ad assentire, stavolta: «Come desiderate, divina Atena».

«Vi ringrazio. Adesso, andate a riposare anche voi. É stata una... lunga giornata».

«E Voi? Cosa farete?» chiese Aiolia, in un goffo slancio di preoccupazione.

Ella rivolse loro un sorriso mesto, per poi lanciare un'occhiata inconsapevole alla salma di Saga, che giaceva a pochi metri di distanza: «Io credo che rimarrò qui ancora un po'».

Dietro quell'affermazione cortese Shaka colse un desiderio inespresso di rimanere in solitudine. Probabilmente avrebbe vegliato tutta la notte: in quel momento tanto particolare i tormenti interiori erano ben più impellenti della mera spossatezza fisica.

Dopo essersi dunque accomiatati da lei con un lieve inchino, tutto ciò che restava della schiera dei Gold saints cominciò la discesa delle Dodici Case; si accingevano a percorrere in senso inverso la stessa strada che, quasi ventiquattro ore prima, era stata solcata dai cinque giovani di bronzo, tutti consapevoli del fatto che sarebbe stata per loro altrettanto dolorosa.

Anzi, forse persino di più.

Scesero le scale che portavano al Presidio dei Pesci in ordine sparso, senza curarsi di evitare le rose velenose le quali fungevano da simbolo del Tempio e della scalinata stessa – ci aveva pensato Pegasus a spazzarle via. Tuttavia, il profumo dei petali vermigli continuava ostinato ad aleggiare nella brezza notturna, portando alla memoria di Virgo tutte le innumerevoli volte che l'aveva annusato solo distrattamente, non soffermandosi a distinguerne le varie sfumature come adesso, invece, gli veniva spontaneo fare.

Quel che faceva più male, però, era realizzare di aver riservato il medesimo trattamento anche al loro creatore: aveva sempre evitato Aphrodite, un po' per la convinzione che fosse diametralmente opposto a lui – e, dunque, sbagliato. Non era uomo da amare la diversità, Shaka di Virgo –, un po' perché non gli era mai interessato veramente conoscerlo. Ora che era morto non ci sarebbe stata occasione di scoprire se avesse avuto ragione o meno, sul suo conto.

«Qualcuno sa almeno quale fosse il suo vero nome?» domandò una volta che l'ebbero dinanzi, bello e rivestito di rose come non era mai stato.

«Dan,» rispose Aiolia in un sussurro «si chiamava Dan. Ma non gli piaceva: pensava che fosse troppo banale».

All'occhiata stupita che gli altri gli rivolsero – dovuta presumibilmente al fatto che nemmeno fra lui e Pisces era mai corso troppo buon sangue –, Leo aggiunse: «Me lo disse Death Mask per fargli un dispetto. Ma il suo – quello di Cancer, cioè – non volle rivelarmelo, così non insistetti... beh, potete immaginarne il perché. Non andavo molto d'accordo con quei tre, io».

Quei tre: Death Mask, Aphrodite e Shura per molti anni erano stati semplicemente "quei tre", agli occhi dei restanti cavalieri d'oro. Forse per il loro profondo attaccamento fra sé, o per la maggior legittimazione che avevano ricevuto dal Gran Sacerdote in virtù della completa devozione da essi riservatagli, fatto sta che raramente v'era stato modo di valicare quel muro di pregiudizio esistente fra i vari membri della casta dorata.

Il risultato e i motivi di tanta frammentazione erano divenuti di totale evidenza solo quel giorno, e "quei tre" avevano pagato anche per i restanti cinque, i quali in realtà non possedevano minori responsabilità.

«Chissà se loro sapevano chi si celava dietro alla maschera pontificale. E, se ne erano a conoscenza, chissà per quale ragione hanno scelto di continuare a operare nella menzogna, piuttosto che denunciare la verità».

Quando giunsero all'entrata posteriore del Tempio della Sacra Anfora si fermarono simultaneamente, quasi in automatico; varcare quella soglia avrebbe rappresentato il passo più ostico per tutti quanti, sebbene in diversa misura. Milo specialmente appariva provato, benché si sforzasse di non darlo a intendere: era stato il primo a bloccarsi, e ora il suo sguardo fissava vacuo quell'arcata buia come l'antro di una grotta, vedendo forse qualcosa che loro non riuscivano a scorgere.

Una sorta di pena profonda si impadronì di Shaka, nel guardare di sottecchi il viso dell'amico, fattosi tanto pallido da poterne contare le sottili vene blu che pulsavano sottopelle; aveva infatti intuito a cosa stesse pensando. Nella risalita delle Case Zodiacali, mentre Atena restituiva la linfa vitale a Hyoga di Cignus, il corpo di Camus non si era scorto da nessuna parte – anche se, a differenza di quelli di Cancer e Capricorn, avrebbe dovuto trovarsi all'interno del proprio Tempio. Sul momento, persino Virgo aveva preso in considerazione l'ottimistica possibilità che, non essendoci traccia del cadavere, Aquarius potesse essere ancora vivo, salvo poi rendersi conto – con una strana stretta al cuore – dell'impossibilità di tale speranza. Tutti avevano avvertito il suo inconfondibile cosmo cristallino affievolirsi fino a scomparire, e l'estinguersi dell'aura di un cavaliere rappresentava da sempre il segno inequivocabile della sua dipartita.

Tuttavia, probabilmente Scorpio non riusciva – forse non ci stava nemmeno provando – ad accettare la morte dell'Acquario, e si aggrappava ancora all'illusione che il proprio migliore amico fosse scampato a quel destino, pur sapendo, dentro di sé, che appunto di illusione si trattava.

«Un cavaliere di Atena deve avere spalle larghe abbastanza da poter sorreggere il mondo intero» aveva detto il vecchio Shion un giorno, in uno dei pochi ricordi che Shaka conservava di lui; e, forse, non si trattò di un caso che fu proprio Mu a infrangere quella fragile bolla di sapone in cui tutti si erano rifugiati di buon grado. Difatti, il suono secco che il tacco dell'armatura dell'Ariete generò a contatto col marmo li strappò dal loro limbo di indecisione, impedendo che le rispettive volontà vacillassero ulteriormente: erano cavalieri, e, in quanto tali, non potevano permettersi di mostrare debolezza – non in modo così vistoso, perlomeno.

All'interno dell'Undicesima Casa faceva dannatamente freddo, tanto che Virgo riuscì a stento a impedirsi di stringersi addosso il mantello strappato. Un sottile strato di ghiaccio ricopriva ogni superficie visibile, dipanandosi dal pavimento alle pareti e poi su, fino al soffitto; la soffice luce della luna piena che vi scivolava sopra donava all'ambiente una sottile sfumatura lattiginosa tendente al celeste, rendendo simile quel Tempio in rovina a un luogo trascendentale. Vi regnava un'atmosfera quasi surreale, totalmente antitetica rispetto alla cruda devastazione del resto del Santuario: Shaka, camminando fra le colonne, ne rimase ipnotizzato.

La stessa sensazione di smarrimento che aveva rischiato di sopraffarlo alla Tredicesima ora stava tornando a tentare di schiacciarlo, prepotente; si stupì ancora una volta di non essere in grado di sopportare stoicamente le conseguenze della loro errata condotta. Il modo in cui il Gran Sacerdote aveva approfittato della sua buona fede e il dolore per aver voltato così a lungo le spalle alla Dea a causa di inganno altrui rappresentavano un'offesa bruciante, ma quello che lo sconvolgeva di più – contrariamente a come avrebbe dovuto essere – era la cruenta scomparsa dei suoi camerati.

Uomini che avevano deciso, spontaneamente o meno, di seguire una strada diversa da Giustizia e dunque indegni di compianto; di Aiolos almeno, era questo che aveva sempre pensato.

Dunque, per quale motivo ora tali giudizi gli sembravano assurdi?

Il fatto che il suo essere ancora vivo lo dovesse esclusivamente al capriccio del fato aveva davvero il potere di farlo cambiare opinione così drasticamente?

Un grido improvviso, proveniente da un angolo buio del Tempio, lo strappò dalle sue dispersive riflessioni; un nome, pronunciato con angoscia, che mai avrebbe voluto udire in un momento simile.

«Maia! MAIA!»

Si voltò di scatto in quella direzione, col cuore in gola.

«Atena, ti prego, non questo. Tutto, ma non questo».

 

Continua...



 

 

Note dell’autore

Sì, lo so: questa prima metà del capitolo fa piuttosto pena, soprattutto se confrontata con l’aggiornamento precedente.

Qui sono entrata nel vivo dei pensieri e degli stati d'animo del personaggio che io credo sia in assoluto il più colpito, a livello di consapevolezze, dagli eventi della battaglia delle Dodici Case: Shaka.

Cosa avrà provato il nostro sedicente Illuminato alla fine dello scontro e nella notte a esso immediatamente successiva? Ebbene, col capitolo 11 io ho tentato di rispondere a tale domanda; in un modo che è molto soggettivo, lo ammetto, ma che è anche l'unico da me reputato ammissibile – ossia, al contrario di come uno si aspetterebbe.

La parte iniziale, pur essendo una sorta di flash back, è trattata al presente, per meglio sottolineare la solennità del momento e i riscontri che questo avrà nei protagonisti. Per scriverla mi sono rifatta quasi interamente all’anime: ho provato a seguire il manga, ma l’idea che volevo sviluppare – e che, di fatto, ho sviluppato – era troppo diversa dalle dinamiche lì utilizzate.

Adesso, qualche chiarimento in relazione al testo:

- Visto che non si capisce in nessuna maniera (o, forse, l'unica a non averlo capito sono io) come tecnicamente si uccida Saga, ho ipotizzato che si colpisca al petto con una Galaxian Explosion. Mh.

- L’idea di battezzare “Dan“ Aphrodite l’ho ripresa dalla mia vecchia One shot “La rosa più bella“, che è inserita nella storia round robin “Nati sotto una stella“ di ElenaNJ. Tanto per fare un po’ di pubblicità!

Poi, cos’altro? Beh, il comportamento di Shaka parrà senz’altro strano, specie se si considera la concezione che egli ha sempre avuto di se stesso. Ma pensate anche solo per un attimo alla portata della rilevazione che gli piomba addosso in neanche una manciata d’ore: ci sarebbe di che impazzire. E non solo perché si rende conto di aver vissuto come un pupazzo cieco per anni, ma anche (e soprattutto) perché alcuni dei compagni di una vita – benché per la maggior parte di essa detestati, beninteso – per il suo stesso errore hanno pagato molto più di lui. Lo chiamano “il rimorso dei sopravvissuti“. Ma gli passerà prima o poi, vedrete ;)

Che dire, mi scuso per le note incredibilmente lunghe (più lunghe dell’aggiornamento, in effetti), e ringrazio di cuore chi ancora mi segue; manifestazione di gratitudine particolare da parte mia va poi a LuluXI, _Sisifo_, Sagitta72, Moncheri ed Eirien per le loro bellissime recensioni al capitolo 10, seconda parte.

Un abbraccio a tutti.


 

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Capitolo 16
*** Capitolo 11, parte II: 11-12 settembre 1986. Shaka ***


Capitolo 11, parte II. Shaka BG

Capitolo 11, parte II: 11-12 settembre 1986. Shaka

 

 


Gli occhi spenti: fu questo il primo dettaglio che Shaka notò, osservando il corpo ormai esanime di Aquarius. E gli parve paradossale, perché in vita, a dispetto del suo fare schivo, Camus aveva avuto occhi pieni di una luce stranamente brillante.

Nulla rimaneva, adesso, di quella scintilla: le grandi iridi dorate fissavano vacue e vuote il soffitto, perdute in invisibili spazi ultraterreni – irrealmente spalancate.

«Qualcuno dovrebbe chiuderglieli» si ritrovò a pensare, mentre l’attenzione di tutti gli altri era invece rivolta alla figura accasciata sopra l’armatura incrostata di ghiaccio dell’Undicesimo Custode. Il volto di Maia era affondato nell’incavo della spalla di Camus e le mani, che avevano assunto una tinta bluastra a causa del freddo, ne stringevano convulsamente le braccia; il suo torace era immobile. Non respirava.

Nel rendersene conto, Shaka avvertì – di nuovo? – il morso della paura afferrargli lo stomaco.

«Maia è innocente. Non ha nulla a che fare con tutto questo. Non può essere morta. Non deve essere morta».

«Maia!»

Milo fece per avvicinarsi impetuosamente all’amica, ma Aiolia lo bloccò con un gesto della mano.

«Fermo» disse, il tono di voce dominato da una calma che su di lui, specialmente in quel momento, appariva stridente «Credo che sia opportuno toccarla il meno possibile, e tu e io non ci intendiamo affatto di pronto soccorso».

Poi, si rivolse a Shaka: «Shaka, mi risulta che tu sappia qualcosa di arti curative. Potresti-»

«Certo,» rispose lui, chinandosi tempestivamente sulla ragazza senza che Leo dovesse aggiungere altro «sempre che… »

« ...sempre che non sia troppo tardi».

 La constatazione aleggiò fra loro in maniera quasi palpabile, pesante come piombo, tuttavia nessuno ebbe il coraggio di esplicitarla – d’altra parte, sarebbe stata un’esclamazione del tutto superflua.

Virgo lasciò dunque cadere la frase e posò delicatamente due dita sul collo esposto di Maia, a cercare la vena giugulare; le sue mani non vennero rallentate da alcuna esitazione, benché fosse conscio che, una volta trovato il punto da lui cercato, il responso sarebbe stato definitivo. Perciò, quando sentì un flebile battito di cuore scuotergli lievemente i polpastrelli, si morse le labbra per il sollievo: era viva. Era viva!

«É viva» dichiarò, spostando lo sguardo sui volti solcati dalla preoccupazione che lo fissavano, in attesa «Il battito è appena percettibile, ma c’è. Siamo arrivati in tempo».

Lo sciogliersi della tensione fu evidente quasi quanto lo era stata l’apprensione pochi attimi prima: Aiolia sospirò, Mu e Aldebaran si lasciarono sfuggire un sorriso, Milo schiuse i pugni contratti.

Tuttavia, nonostante il peggio fosse ormai stato evitato, la situazione rimaneva ancora piuttosto grave: bisognava far sì che Maia riprendesse a respirare, e Shaka non aveva idea di come agire. I modesti rudimenti di scienze mediche che possedeva gli derivavano dai primi anni di addestramento in India, e nulla avevano a che fare con l’assideramento: si trattava piuttosto di saper riconoscere erbe e sostanze naturali utili a curare disturbi causati da malnutrizione e infezioni di vario genere.

A essere onesti, comunque, doveva ammettere che molto di rado si era dedicato a tali attività e, se talvolta era successo, l’aveva fatto controvoglia: all’epoca – fino a poche ore prima, di fatto – credeva fermamente che il Figlio del Cielo non dovesse abbassarsi a svolgere simili compiti, checché ne dicessero i monaci.

«E ora?» chiese quindi, dimenticando la sua solita riluttanza a chiedere consiglio «Io non sono affatto pratico di assideramento. Non so cosa sia opportuno fare… ci vorrebbe un esperto in materia».

«Ci vorrebbe Camus».

Sicuramente non fu il solo a pensarlo, a giudicare dalle occhiate piene di tristezza che tutti lanciarono alla figura immobile dell’Esperto dei ghiacci, cui non avevano fino a quel momento potuto prestare attenzione – non era il momento di lasciarsi andare. Non ancora.

«Usa il cosmo».

«Che?» Aiolia si girò verso Milo con sguardo interrogativo.

«Il cosmo, Shaka, usa il cosmo!» riprese Scorpio «Ci hanno sempre detto che la nostra aura non ha proprietà curative di nessun genere, ma è falso: alla Settima Casa è stato proprio grazie al cosmo che il cavaliere di Andromeda è riuscito a riportare in vita Hyoga di Cignus. Maia non è neppure un saint: anche una piccola quantità sarà sufficiente».

A Shaka parve che quel rimedio fosse un po’ troppo campato in aria, ma in mancanza di valide alternative si affrettò a seguire il suggerimento, sperando che il suo compagno non si sbagliasse. Dopo aver sollevato e posato a terra Maia congiunse entrambi i palmi sul suo petto, all’altezza del cuore, ed evocò una scintilla del proprio potere. Sembrò funzionare: passati pochi istanti, Virgo avvertì che il battito della ragazza si era già fatto più intenso.

«E tu come fai a saperlo? Di ciò che è successo alla Casa di Libra, intendo» domandò Aldebaran a Milo sottovoce, mentre il cavaliere del Sesto Tempio continuava a emettere energia cosmica.

«Ho seguito le sorti del Cigno con molto… interesse» rispose lo Scorpione, con un bisbiglio che suonò talmente atono da apparire inquietante.

Shaka non udì il resto della loro conversazione, se mai ce ne fu uno; un ronzio insistente gli invase a poco a poco le orecchie, oscurando tutti gli altri suoni.

Aggrottò la fronte e incrementò i suoi sforzi. Sentiva che “la cura“ stava facendo effetto: le deboli membra di Maia assorbivano il cosmo con la stessa voracità di una pianta che si fosse trovata senz’acqua per molto tempo. Gli effetti benefici erano evidenti anche a prima vista: il blu malsano dell’ipotermia che le colorava la pelle quando l’avevano trovata, pur non essendo svanito del tutto, andava lentamente stemperandosi, segno che il sangue aveva ripreso a scorrere correttamente; tuttavia, ancora nessun segno di vita proveniva da lei e Virgo stava cominciando a preoccuparsi seriamente.

Ignorava quanto a lungo Maia fosse rimasta in stato di apnea, e non serviva certo un dottore per capire che ogni secondo in più avrebbe potuto fare la differenza. Fu con rabbiosa disperazione – sentimenti così dissonanti col suo modo di essere – che ampliò ulteriormente il getto della propria aura, ormai accresciutosi tanto da avvolgere l’intera figura della giovane.

«Avanti, Maia… avanti!»

All’inizio nemmeno si accorse di quel tenue rumore che andò a confondersi col suo respiro; fu solo quando vide il torace di Maia sollevarsi e riabbassarsi piano che Shaka comprese di non averla perduta.

Fra le tante vite che in quella giornata si erano spente, almeno una – la più innocente – era riuscito a salvarla: chissà se, successivamente, Maia l’avrebbe ringraziato o maledetto per questo.

«Shaka, ti senti bene?»

La voce di Mu arrivò alle sue orecchie lontana, ovattata; si sforzò di apparire meno spossato di quanto in realtà non fosse.

«Sì, certo» rispose, alzandosi in piedi.

«Ne sei sicuro?»

Shaka confermò con un frettoloso gesto della mano: «Sì, io sto benissimo. Non preoccupatevi per me. Piuttosto, dobbiamo portare Maia via da qui. Va messa al caldo, il più presto possibile».

«Ha ragione: prima ce ne andremo di qui, meglio sarà per tutti» intervenne Aiolia, accingendosi a prendere in braccio la ragazza.

Virgo lo guardò sollevare Maia senza sforzo, con movimenti impregnati di una tenerezza quasi materna; a Camus, invece, Leo non riservò che un’occhiata opaca e fuggevole, prima di incamminarsi verso l’uscita del Tempio in rovina.

«Non sarebbe opportuno chiudergli almeno gli occhi?» esalò qualcuno che Shaka riconobbe essere Aldebaran, benché stentasse a credere che da un petto tanto ampio potesse uscire un suono così flebile.

Al che, il Leone fermò i suoi passi, continuando tuttavia a dar loro le spalle.

«Hai sentito la nostra Dea: ci ha umilmente chiesto di non toccare i corpi, e io non intendo andare ancora contro i suoi voleri».

«Ma-»

«Diamo ascolto ad Aiolia, Aldebaran» lo interruppe Mu, poggiando una mano sulla spalla dell’amico a mo’ di conforto «Dobbiamo pensare a Maia, adesso. Almeno per lei possiamo ancora fare qualcosa».

«Già. Per Camus e gli altri, al contrario, siamo arrivati maledettamente tardi».

Shaka non si stupì troppo per l’apparente cinismo dimostrato dal guardiano del Quinto Fuoco: ognuno aveva i propri modi di reagire al dolore, e probabilmente quello di Aiolia era la risolutezza. Un atteggiamento che anche lui avrebbe voluto adottare – se solo gli fosse riuscito.

Messo di fronte al dovere nei confronti prima di Atena, e poi di Maia, Taurus lasciò cadere la replica, sospirando appena.

«Milo,» chiamò Aiolia, voltandosi «andiamo».

Già, Milo. Nei concitati momenti che erano seguiti al suo intervento su Maia Virgo non aveva più pensato a lui, né si era soffermato a chiedersi il perché di quel prolungato silenzio da parte dello Scorpione.

Ora che lo guardava, ne capiva il motivo: sembrava spento. Se non fosse stato per i leggeri brividi che gli scuotevano le membra – dovuti al freddo, forse – si sarebbe detto morto come il compagno che stava fissando con un’insistenza tale da far credere che volesse distendersi al suo fianco e non rialzarsi mai più.

No, quello non era Milo: quell’ombra non possedeva nulla dell’Ottavo Custode, a eccezione delle fattezze fisiche. Il cavaliere che Shaka conosceva avrebbe gridato, inveito, preso a pugni qualcosa, forse avrebbe persino pianto, ma di sicuro non si sarebbe mostrato così annientato – sì, “annientato” era la parola giusta.

«Di cosa ti stupisci, stolto? Nemmeno tu ti stai dimostrando in grado di reggere il peso di tutto questo. Era il suo migliore amico, in fin dei conti».

«Milo?» chiamò ancora Leo, abbandonando completamente il suo precedente tono severo. Ancora una volta Scorpio non dette segni di aver udito, tanto che nemmeno alzò la testa.

«Piangerete lacrime di sangue, su quella verità che ora vi rifiutate di vedere» mormorava ripetutamente a se stesso, in rantoli stretti fra i denti. Solo Shaka, che gli era accanto, lo stava sentendo; benché gli paresse tetramente azzeccata per la situazione, si chiese cosa potesse mai significare una frase simile.

Quando capì che non ci sarebbe stata risposta, il cavaliere del Leone tornò sui suoi passi e raggiunse l’amico, sempre tenendo Maia inerte su una spalla.

«Milo».

Percependo la presenza di Aiolia così vicina, lo Scorpione girò leggermente il busto – il viso ancora rivolto verso Camus.

«Milo, dai, vieni con me. Vieni via».

Una supplica travestita da esortazione.

«Non credo di esserne in grado» sussurrò il biondo, gettando al compagno uno sguardo carico di disperazione «Lui… lui è-»

«Lui è morto, Milo» nel dirlo Aiolia gli cinse lieve la vita con il braccio libero, come a sorreggerlo nel caso non avesse retto alla dichiarazione «E stare qui non lo farà ritornare. Rimanendo faresti solo del male a te stesso. Non insistere, te ne prego. Andiamo».

«S-sì».

Alla fine Milo si lasciò condurre fuori, una mano di Leo premuta saldamente sulla schiena a impedirgli di tornare indietro; Virgo li guardò allontanarsi e poi sparire all’esterno, seguiti da Aldebaran.

Lui, per qualche motivo, rimase fermo. Non riusciva a muoversi, non riusciva a smettere di fissare gli occhi vuoti di Aquarius e di desiderare di chiuderglieli, nonostante ciò che aveva detto Aiolia.

«Shaka, vieni?» Mu era sulla soglia, lontano, e lo studiava con fare interrogativo.

«Non ce la faccio, Mu. Non ce la faccio più a ignorare il fatto che il cadavere di Camus è a terra, e nessuno di noi si è fermato a piangerlo. Vorrei tanto essere deciso come Aiolia, imperturbabile come te o rassegnato come Milo, ma purtroppo non lo sono. Io, Shaka della Vergine, oggi ho scoperto di essere debole come mai avrei pensato possibile – il più debole di tutti».

Avrebbe voluto dirle a Mu, queste cose; avrebbe voluto lasciarsi guidare da lui fuori dall’Undicesima Casa, così come Leo aveva fatto con Scorpio pochi istanti prima.

E invece, al solito incapace di mostrarsi in difficoltà, rispose: «No, Mu. Voglio rimanere ancora un po’. Tu vai, io vi raggiungo più tardi».

L’ombra di comprensione che passò sul volto di Aries, veloce come il transitare di una nuvola trasportata dal vento, lo rincuorò: lui capiva. L’aveva sempre capito, nonostante non l’avesse mai meritato.

«D’accordo».

Mentre il suono dei passi dell’Ariete diveniva via via più flebile, Shaka si lasciò scivolare lungo la parete ghiacciata fino a sedersi.

Si sfilò i bracciali dell’armatura e rabbrividì di sollievo quando, a dispetto del freddo, le ustioni lasciategli dall’Hoyoku tensho entrarono in contatto con l’aria gelida del Tempio. La carne era spellata e rossa in diversi punti delle braccia; le parti più bruciate già perdevano pus e facevano un male terribile.

La Vergine pensò che, alla luce di quanto scoperto con Maia, avrebbe potuto guarirle semplicemente usando il cosmo, ma decise di non farlo. Quelle ferite l’avrebbero deturpato per sempre, lasciandogli brutte cicatrici visibili anche da lontano; tuttavia, esse rappresentavano i suoi sbagli e grazie a loro gli sarebbe stato impossibile ricadere nell’errata convinzione di essere qualcosa di più di un semplice uomo.

«Te lo saresti mai immaginato, Camus?» mormorò alla figura del fu Undicesimo Custode stesa sul pavimento «Proprio io, che mi consideravo il meno terreno di voi, adesso sono l’unico rimasto qui a vegliarti – pieno di angoscia e di sentimenti così umani da farmi spavento. Forse, a vedermi ridotto in questo stato, persino tu rideresti. Tu, che si diceva sapessi ridere poco quanto me».

Ma era vero, poi, che Camus non sapeva ridere?

Nonostante avessero vissuto nel medesimo luogo per diverso tempo, e nonostante l’avesse sempre considerato più un amico che un semplice collega, Shaka non poteva dire di aver conosciuto a fondo Camus di Aquarius. Sì, ne aveva apprezzato la tempra e, nella maggior parte dei casi, la condotta morale, ma a parte questo non c’era molto altro che sapesse su di lui.

E la cosa buffa era che tale consapevolezza lo feriva persino più di quanto non avesse fatto, poco prima, l’accorgersi di non aver mai considerato abbastanza Aphrodite, Shura e Death Mask, perché per l’Acquario aveva provato – a suo modo – affetto. Un affetto più simile a stima che a genuina affezione, a dirla tutta, ma questo era l’unico sentimento positivo che avesse mai sentito nei confronti di altre persone e non sarebbe stato capace di definirlo in modo diverso da “amicizia“.

«Non mi sono mai dato pena di pensare a cosa significhino per me i miei compagni d’arme, nemmeno quelli con cui soglio passare del tempo; perché questi dubbi mi vengono proprio adesso, adesso che il nostro – il mio – mondo fittizio è crollato come un castello di carte? Perché?»

Una domanda a cui non seppe trovare risposta.

Con un movimento lento, dolente a causa delle contusioni che solo ora cominciavano a farsi sentire, si inginocchiò vicino a Camus. La sua chioma rossa era incrostata di ghiaccio al pari dell’armatura che, sotto quella patina, non sembrava nemmeno dorata; Shaka gli sfiorò il viso freddo con la punta delle dita, evitando di guardarlo troppo fisso negli occhi immoti.

Si chiese a cosa avesse pensato quando si era accorto che Hyoga di Cignus l’avrebbe sopraffatto: di sicuro non l’aveva supplicato di risparmiarlo. Quelle labbra, ora serrate per sempre, non erano fatte per le suppliche.

Non come le sue, traditrici, che di loro sponte si erano spalancate in una vergognosa e tardiva richiesta di misericordia: «Io capirò! Fermati! Così ci oscureremo in un mondo di luce!»

Incredibile a dirsi che uno come Shaka della Vergine si fosse scordato persino dell’orgoglio, pur di avere salva la vita; per giunta, dinanzi ad un cavaliere poco più che bambino il quale, al contrario, non aveva esitato neanche per un istante.

Camus, che per orgoglio era vissuto e morto, avrebbe certamente disapprovato.

Ma – e questo pensiero lo colpì come una folgore – Camus non c’era più.

Se n’era andato, ucciso dal troppo amore per la propria dignità, mentre lui, per quanto indegno, era ancora vivo. Con un’intera esistenza da rivedere e fantasmi a camminargli accanto, ma vivo – in grado di fare, vedere, sentire.

Aquarius non avrebbe mai potuto godere della luce che Atena irradiava, mai avrebbe udito la sua voce, mai avrebbe potuto inginocchiarsi al suo cospetto e mostrarle la devozione che per tanti anni tutti loro avevano riservato a un’idea errata. Non avrebbe più potuto osservare i volti dei propri compagni e leggerci dentro un destino comune, parlare e ridere con loro.

Non che Shaka, fino ad allora, avesse mai desiderato davvero farlo, tuttavia la consapevolezza di essere ancora in tempo per iniziare gli dava coraggio; quello stesso coraggio che solo alla Tredicesima Casa credeva di non possedere, ora sapeva dove cercarlo.

Era tempo di abbandonare il mondo dei morti e ricongiungersi coi vivi.

Allungò una mano verso Camus e, lentamente, gli abbassò le palpebre. Nessuna ulteriore remora accompagnò tale gesto: pensandoci bene, il buio era calato su quelle iridi dorate ben prima del loro arrivo. Dunque, perché aspettare?

«Arrivederci, Camus. Ci incontreremo di nuovo, forse prima di quanto si possa credere: un cavaliere di Atena non è destinato a invecchiare, e tu questo lo sapevi. Tutti noi lo sappiamo da sempre».

Mosse le labbra in una preghiera silenziosa, lunga un istante; poi uscì nelle tenebre, lasciandosi alle spalle l’Undicesima Casa.

 

*

 

L’interno del Quinto Tempio era un ammasso di macerie e colonne crollate; Shaka si fece largo fra i detriti, diretto alle stanze private del Custode.

Non nutriva alcun dubbio sul fatto che gli altri si fossero riuniti lì; la Casa di Aiolia si trovava all’incirca a metà tragitto rispetto ai restanti Templi, e probabilmente nessuno se l’era sentita di attendere lo spuntar del sole in solitudine.

Dopo aver dischiuso la porta quel tanto che bastava a varcarla, Virgo fece qualche passo nel corridoio principale, tendendo le orecchie: come pensava, era dal locale che fungeva da cucina che provenivano rumori di passi e discorsi indistinti. Era quello il posto dove stavano, le volte in cui si ritrovavano negli appartamenti del Leone.

Quando Shaka entrò nella stanza, Mu l’accolse con un tenue sorriso: «Un po’ di tè, Shaka?»

Gliel’aveva chiesto con naturalezza, come se quello fosse uno dei loro usuali appuntamenti pomeridiani alla Casa della Vergine e non il momento tragico che in realtà era. L’idea gli parve talmente assurda che quasi scoppiò a ridere.

«Ma sì, un tè per l’Illuminato cieco. Chissà che non riesca a togliermi un po’ di gelo dalle ossa».

Dubitava che una semplice bevanda calda avrebbe potuto spazzare via il freddo che gli si era annidato dentro, ma forse, almeno per quello esteriore, sarebbe servito a qualcosa.

«D’accordo. Senza zucchero, come sempre. Grazie».

Aries versò dell’acqua bollente in una tazza, nella quale poi mise una bustina di tè scadente, acquistato chissà quanto tempo addietro – in Grecia non usava berlo e Aiolia non ne era né un amante né un cultore. Pazienza, se lo sarebbe fatto piacere.

Shaka prese la tazza fra le mani, osservando la polvere disciogliersi nell’acqua in sottili scie ambrate.

«Come sta Maia?» domandò di getto – avrebbe sollevato la questione appena arrivato, se Mu non l’avesse distratto con quella stupida faccenda del tè.

«Stabile: è ancora incosciente, ma almeno non ha subito ricadute. Aiolia l’ha messa a letto, sotto a tutte le coperte che sta riuscendo a racimolare. Adesso dobbiamo solo sperare che si risvegli presto. Tutt’ora non capisco cosa ci facesse al Tempio della Giara Sacra in un frangente simile: deve essere arrivata mentre noi eravamo alla Tredicesima Casa, quando ormai non c’era più nessuno a presiedere l’entrata del Grande Tempio».

«No, non credo. Mi pare più probabile che sia rimasta a dormire da Camus, invece. Ieri sera è venuta a cena al Santuario, e poi non è più scesa».

Se Mu rimase stupito di quello che aveva appena sentito, non lo diede minimamente a vedere.

«Anche se fosse, mi pare strano che stamani Camus non abbia provveduto a metterla al sicuro. Non è… era da lui correre rischi, specialmente quelli di tale portata» emise un breve sospiro, prima di concludere «Comunque sia andata, tuttavia, ora non ha più importanza».

Virgo non trovò di che replicare, così rimase in silenzio a rigirarsi la tazza fra i palmi; bevve un sorso di tè, e poco ci mancò che lo sputasse. Aries, nel vedere la sua espressione di disappunto, non poté trattenere una risata discreta.

«Sì, lo so, è pessimo. Non sono riuscito a trovare nulla di meglio, nella dispensa di Aiolia» ammise, posando il proprio bicchiere in un angolo del lavello.

«Non fa nulla. Non è colpa tua».

Shaka distolse lo sguardo dal contenuto della sua tazza e si soffermò a studiare il viso del compagno, la cui fronte era solcata da fini rughe di espressione che mai aveva notato prima; sotto i suoi occhi si allungavano lievi ombre violacee.

Quei segni parlavano da soli: a dispetto dell’atteggiamento posato, anche Mu era triste e stanco. Molto più stanco dell’ultima volta che aveva potuto osservarlo bene, in quel pomeriggio – che sembrava essere appartenuto ad una vita precedente – dopo il Chrysos Synagein al cospetto del Gran Sacerdote.

«Pare, allora, che le nostre strade si dividano, per il momento: se un giorno dovessero tornare ad incrociarsi, forse saremo nemici. Forse dovremo batterci. Spero che ciò non avvenga mai, ma, se così non fosse, temo che sarò chiamato a compiere il mio dovere – nonostante il nostro legame».

Che stupido era stato, anche in quell’occasione. Purtroppo non dubitava del fatto che il suo – vecchio? – se stesso non avrebbe esitato un minuto a mettere in pratica ciò che aveva affermato con tanto ardore; che dire di Mu, invece?

Anche lui si era dichiarato d’accordo con quella posizione, eppure alla fine del combattimento alla Sesta Casa aveva accolto senza indugio la sua richiesta d’aiuto.

Per permettere a Ikki di Phoenix di proseguire la sua corsa, certo. Ma anche perché era riuscito a cogliere tutto il pentimento e tutta l’umiltà di cui l’appello di Shaka era impregnato, andando oltre il comune pensiero che Virgo avesse come unico fine solo quello di salvarsi la vita. Di fatto, era stata la misericordia di Mu a concedergli la seconda possibilità che, al contrario, sarebbe per sempre mancata a Shura, Saga, Death Mask, Aphrodite e Camus.

La misericordia di Mu, non quella di Atena. Doveva dunque ringraziarlo, tentare di esprimere a parole quanto gli doveva? Oppure era meglio tacere?

La voce di Aries, levatasi all’improvviso, lo colse di sorpresa.

«Credo di sapere a cosa tu stia pensando. E, casomai te lo stessi chiedendo, non pretendo nessun ringraziamento da te. Ho solo fatto ciò che era giusto fare».

Shaka spalancò gli occhi, sbigottito; aprì la bocca per aggiungere qualcosa, ma non gli venne in mente nulla di sensato da dire. Si limitò quindi a stringergli brevemente la mano, accompagnando il gesto con una tenue scintilla di cosmo – il modo più intimo di comunicare, per un cavaliere.

L’ingresso di Aiolia nella stanza costrinse i due a interrompere il loro contatto; non che ci fosse nulla di male in quello che stavano facendo, ma la faccenda fra lui e Mu era un qualcosa di personale e Virgo non la voleva condividere con nessun altro. Un po’ come non aveva mai voluto condividere il suo – assurdo e insensato – litigio avvenuto mesi prima proprio con Leo.

«Shaka» il padrone di casa fece un breve cenno nella sua direzione, evitando di chiedere dove fosse stato fino a quel momento.

«Aiolia» rispose lui, in una perfetta replica del saluto rivoltogli «Novità su Maia?»

«Come di sicuro ti avrà detto Mu, è stabile. Non si è risvegliata, ma respira regolarmente e mi pare che il polso abbia ripreso un po’ di vigore. Adesso sta dormendo».

«Posso… vederla?» un desiderio improvviso che gli era salito alle labbra ancor prima di attraversargli la mente, a cui Aiolia replicò scompigliandosi i riccioli castani.

«Beh, credo di sì. Una tua supervisione non potrà farle che bene: in fondo, è a te che tutti noi dobbiamo la sua vita. Ti accompagno?»

«Ciascuno di voi avrebbe potuto ottenere il mio medesimo risultato, dunque a me non va merito alcuno» precisò Shaka, in un tentativo di risultare umile talmente riuscito che persino Mu lo fissò stupefatto «Comunque, se non ti dispiace, preferirei andare da solo».

«D’accordo. La strada la conosci».

Virgo lasciò così i due compagni ai loro discorsi – o ai loro silenzi – e si avviò verso la camera da letto di Aiolia; la porta di legno chiaro era chiusa. Girò la maniglia lentamente e sbirciò all’interno: nella piccola stanza, Maia a parte, nessuno.

Strano che Milo non ci fosse: l’assenza dello Scorpione al capezzale dell’amica suonava stonata, lui che qualche volta era andato a trovarla fino a Rodorio solo per poche linee di febbre.

Varcò la soglia con un movimento fluido, chiudendosi il mondo esterno alle spalle. C’era oscurità nel locale, appena mitigata dall’imposta che Leo aveva sicuramente dimenticato aperta; sul letto a una piazza la figura di Maia a malapena si distingueva, sotto il cumulo di coperte in cui Aiolia l’aveva avvolta.

Aggirando la sedia che gli intralciava il passaggio, Shaka le si avvicinò.

L’avevano adagiata supina, con la testa appena ripiegata di lato; sul suo volto, pallido in modo insano, spiccavano chiari i segni della sofferenza. Doveva aver pianto a lungo prima di cadere incosciente, a giudicare dal gonfiore che ancora era visibile sotto gli occhi.

Le accarezzò piano una guancia, usando la stessa delicatezza che aveva riservato al di lei amante morto nell’abbassargli le palpebre.

«Il tuo dolore è un’altra spina nel mio fianco. Un’altra lama conficcata nel mio petto. Un’altra voce che grida la mia colpevolezza».

Avrebbe capito Maia? Sarebbe riuscita a dare un senso alla morte di Camus? Oppure la sua estraneità al loro essere cavalieri l’avrebbe portata a condannarli tutti, per il mero fatto di aver conservato la vita? Lei apparteneva solamente in parte al Grande Tempio, al Santuario e ad Atena; lei, al contrario di Shaka e gli altri, fuori da quel mondo conduceva un’esistenza normale – lontana da cosmi, devozione e giuramenti.

Loro, Custodi superstiti, sapevano di meritarsi cordoglio e senso di colpa, perché gli avvenimenti di quella giornata erano perlopiù frutto di proprie convinzioni e decisioni sbagliate; ma Maia non aveva avuto ruolo in ciò che era successo. L’aver ritrovato la luce della Dea sarebbe bastato a consolarla? Per quanto lo desiderasse ardentemente, Virgo ne dubitava.

Tuttavia, al momento non serviva a nulla fare congetture: solo al risveglio della ragazza sarebbe stato possibile sondare la sua reazione. Fu con la speranza – mista a timore – di vederla presto in piedi, che il guardiano del Sesto Tempio abbandonò la camera per recarsi in soggiorno, dove presumibilmente si trovavano gli altri.

«Allora? Come ti sembra che stia?» lo interpellò Aldebaran una volta che ebbe ripercorso la cucina e attraversato l’arco che collegava le due stanze.

«Non l’ho trovata né peggiorata né migliorata. Probabilmente le servirà qualche giorno per riprendersi. Di sicuro, per fortuna, non è in pericolo di vita» dichiarò lui, appoggiandosi appena al bracciolo della poltrona su cui Leo stava seduto. Il movimento gli procurò una fitta al braccio destro, col quale si era sorretto per sistemarsi meglio; si affrettò a dissimulare la smorfia di dolore che gli aveva attraversato il volto gettando uno sguardo distratto intorno a sé.

Il salotto di Aiolia era arredato in modo spartano ma confortevole, con mobili semplici e qualche stampa fotografica di Atene a decorare le pareti bianche; sugli scaffali della modesta libreria, fra i vari fumetti, spiccavano grossi volumi di mitologia greca ai quali il Leone era molto affezionato. Qualcuno sosteneva che ci tenesse particolarmente perché tali volumi erano appartenuti ad Aiolos, ma Shaka non era in grado di dire se fosse davvero così.

«E ora? Cosa succederà, secondo voi?» disse improvvisamente ‘Lia, rompendo il religioso silenzio che quella notte piombava su di loro a cadenze regolari «Immagino che, a seguito di quanto è accaduto oggi, cambierà tutto».

«Ti sbagli: tutto è già cambiato» pensò Virgo, senza però dare voce alla constatazione.

«Tante sono le cose fra le quali mettere ordine» assentì Mu dall’angolo in cui stava a braccia conserte «Innanzitutto, dobbiamo attendere che i cavalieri di bronzo si riprendano dalla fatica e dalle ferite. Poi ci sono le esequie ufficiali da organizzare e -»

La frase rimase a metà, spezzata dal rumore della tazza di Milo che cadeva in frantumi sul pavimento di cotto, spargendo tè ai loro piedi.

«Perdonatemi: mi è scivolata» si scusò lui, gli occhi spalancati – finestre blu su un abisso di strazio – in modo anormale «Pulisco subito».

«Lascia stare Milo, non importa-»

Ma Aiolia non aveva nemmeno finito di parlare, che già Scorpio si era chinato a raccogliere i cocci di vetro. Era l’unico, oltre allo stesso Shaka, ad avere ancora indosso l’armatura: i pettorali della corazza dorata erano resi purpurei dagli schizzi di sangue secco – sangue di Hyoga di Cignus.

Nonostante i suoi sforzi di celarlo, le mani di Milo tremavano tanto che la maggior parte dei frammenti da lui raccolti ricadeva a terra; quando Aldebaran si alzò per aiutarlo, ‘Lia scattò in piedi di botto, tutta la calma dimenticata.

«Io vado a prendere una boccata d’aria» disse d’un fiato, precipitandosi fuori dalla stanza tra le occhiate basite dei presenti. Per qualche strana ragione, a Shaka venne voglia di seguirlo e lasciarsi alle spalle la tazza rotta, le mani tremanti di Milo, gli sguardi mortificati di Al e Mu e quell’odioso, insopportabile silenzio che era di nuovo tornato a regnare sovrano; così uscì nella notte, fresca perché prossima all’alba.

Trovò Leo con la testa fra le mani, seduto poco distante dall’entrata del suo Tempio; senza dir nulla, gli si sistemò accanto.

«Non ce la facevo più a vederlo ridotto in quello stato» mormorò, rimanendo a capo basso.

«Non c’è bisogno che tu ti giustifichi. Comprendo perfettamente come ti senti».

«Forse più di quanto ti immagini».

«No, tu non puoi capire» replicò Aiolia con una smorfia, ben visibile nonostante la sua posizione «É… è distrutto. Tanto distrutto da non riuscire a nasconderlo. E non oso nemmeno immaginare quale devastazione alberghi dentro di lui».

«É solo sconvolto. Tutti noi lo siamo, a nostro modo. Camus era il suo migliore amico: ha bisogno di tempo per elaborare il lutto» tentò di mediare Virgo, benché tali parole suonassero superficiali persino alle proprie orecchie. Non poteva negare che nell’atteggiamento di Milo ci fosse qualcosa di strano – qualcosa di così perso e struggente da far quasi paura.

Il Leone gli rivolse uno sguardo pieno di dolorosa consapevolezza: «Vorrei tanto che fosse come dici. Tuttavia, credimi, non lo è. Se Milo avesse perso qualsiasi altra persona, me compreso, si comporterebbe in maniera completamente diversa. Sarebbe arrabbiato, adesso. Affranto e stanco, come noi, ma soprattutto arrabbiato. Invece è Camus che è venuto a mancargli, e l’unica cosa che lo tiene in piedi è l’etichetta. Lui, che di formalismi e galateo non ne ha mai voluto sapere nulla, ora si sorregge solo per il dovere morale di temperare quanto più possibile le sue emozioni. Ma è fin troppo evidente che non ce la sta facendo».

Si passò nuovamente una mano tra i capelli, nervoso, e tacque.

Shaka fu costretto a riconoscere la veridicità delle parole di Aiolia: in quel momento, Milo di Scorpio sembrava effettivamente inerme come un bambino – anzi, non lo sembrava soltanto: lo era sul serio. Il perché Leo ritenesse che la sua condizione attuale fosse tutta dovuta alla sola scomparsa di Camus, tuttavia, non lo chiese. Non era sicuro di voler sapere.

«Tenere gli occhi chiusi è sempre stata la cosa che meglio so fare, del resto».

«Poi c’è Maia,» riprese il Quinto Custode, inaspettatamente «che si è quasi uccisa da sola, pur di restare vicina al corpo di Aquarius; come pensi che potrà affrontare questa perdita, lei che non ha errori da rimproverarsi né ruoli da interpretare? Il suo dolore, quello di Milo, il nostro… non posso fare a meno di pensare che sia in gran parte colpa mia».

«Non dire sciocchezze» lo rimproverò Virgo, indurendo il tono e lo sguardo «Chi più, chi meno, abbiamo sbagliato tutti. La responsabilità degli eventi che si sono consumati oggi – i quali hanno radici molto più profonde – non è certo solamente tua».

«Purtroppo è vero, invece» ribatté l’altro, alzandosi dal gradino con impeto «Io l’ho vista, Shaka. Quel giorno, a Tokyo, io ho visto Atena. Ho visto la sua luce, udito le sue parole, sentito il suo potere, eppure non sono riuscito a impedire che Arles – Saga – giocasse con la mia mente, prendendone possesso. E stamani, se Cassios non si fosse frapposto fra me e lui, avrei stroncato la vita di Seiya di Pegasus con le mie mani! Pegasus, che combatteva nel di Lei nome, DANNAZIONE!»

Aiolia riversò tutta l’ira trattenuta fino a quel momento in un pugno ai danni della colonna a lui più vicina, che si incrinò con un suono stridente; la maschera di calma e compostezza che si era calcato indosso stava velocemente andando in pezzi.

C’era tanta, tanta amarezza traboccante di senso di colpa in quello sfogo.

Poteva ben comprendere il suo stato d’animo Shaka, visto che, per certi versi, lo condivideva. Soprattutto perché, nella faccenda, era stato qualcun altro a giocare il ruolo determinante – lui stesso.

«Dimentichi che sono stato io a fermare il tuo braccio, nella sala del Trono. É a causa del mio intervento se il… se Gemini ha avuto occasione di lanciare il Genrō Ken. Se io non fossi mai giunto, probabilmente tutto questo non sarebbe successo».

«Forse. Oppure, avresti potuto fidarti delle mie parole. Resta il fatto che io, a quel punto, conoscevo la verità… ma non è bastato. Nemmeno l’aver udito la voce di mio fratello è stato sufficiente a darmi la forza di reagire. Mio fratello, che io ho creduto un traditore per tutto questo tempo, nonostante lo conoscessi meglio di chiunque altro. Nonostante avessi visto quanto splendore e quanto amore serbava nel cuore… Ai- Aiolos… »

Pronunciare quel nome tolse definitivamente ogni energia ad Aiolia, che quasi si accasciò contro la colonna da lui precedentemente colpita, appoggiandovi la fronte; i suoi singhiozzi sommessi si alzarono gravi nel silenzio circostante, raccontando di anni e anni fatti di cordoglio nascosto e ferite brucianti, di lotte quotidiane contro l’odio e la vergogna – di un affetto mai davvero sopito.

Ecco che, infine, il Leone era domato, completamente scoperto e vulnerabile; benché solo poco tempo addietro se lo fosse augurato ardentemente, adesso Shaka non trovava nulla di appagante nel vederlo tanto prostrato. Avrebbe anzi voluto fare qualcosa, ma non sapeva affatto come comportarsi: mai avrebbe pensato che, fra tutti, Aiolia si sarebbe lasciato andare a quel modo proprio con lui – lui, che le uniche lacrime versate da Leo prima di allora le aveva ancora scolpite nella memoria, solide e definite come solchi nella roccia, nonostante il tempo trascorso. Strana cosa, il destino.

Era stata una notte di pioggia e lampi.

Lampi che avevano squarciato il cielo, illuminando a giorno le scalinate e i Templi sacri; lampi inattesi di cosmi potenti, schierati gli uni contro gli altri; lampi i cui tuoni non erano riusciti a coprire il suono di piedi in corsa e le grida di allarme.

«Prendetelo! Ha rapito la bambina!»

«Tradimento! Tradimento!»

«Uccidetelo! É un ordine del Gran Sacerdote!»

E, veloce come un lampo, al mattino si era propagata la notizia: Aiolos di Sagitter, traditore del Grande Tempio e di Atena, era morto per mano di Excalibur, la spada portatrice di Giustizia. Il suo corpo ora giaceva tra le rovine all’entrata del Santuario, in attesa di essere spostato; delle sacre vestigia del Sagittario e dell’infante creduta Dea, invece, nessuna traccia.

Il piccolo Shaka, non ancora “di Virgo“, in principio aveva deciso di non andare a vedere.

«La cosa non mi riguarda» si era detto, serrando con decisione le gambe incrociate nella posa meditativa «Se davvero Sagitter era un traditore, le sue spoglie non meritano la mia attenzione».

Poi, però, spinto da una curiosità infantile che dopo quella volta avrebbe sempre soppresso, aveva mutato idea e si era recato alle porte da solo, con passo lento.

La zona era deserta e silenziosa. Un po’ come l’intero Presidio di Atena che invece, specialmente a quell’ora, avrebbe dovuto brulicare di attività. A Shaka pareva quasi di essere finito in un luogo maledetto, dimenticato dagli dèi e dagli uomini – un luogo dove non c’è vita di nessun genere e solo il sole batte impietoso, unico sovrano di una terra mai calpestata.

Era tutto così irreale. Così sbagliato.

Lì, da qualche parte ai piedi di quelle mura, si diceva ci fosse il cadavere di uomo – un cavaliere d’oro – tacciato di aver infranto le sacre leggi del Grande Tempio e di aver rapito la Dea reincarnata; eppure a nessuno era stato comandato di sorvegliare il posto, nessuno si trovava là, come lui, a cercare risposte.

Come se a nessuno importasse nulla di quanto accaduto. Oppure, come se tutti avessero troppa paura – ma di cosa? – per uscire allo scoperto.

Un improvviso trambusto, levatosi poco lontano da dove si era fermato, attirò la sua attenzione.

«Levategli le mani di dosso, capito? NON TOCCATELO!»

Aiolia. Era la voce di Aiolia, quella.

Shaka riprese a camminare, stavolta più velocemente.

«Togliti dai piedi e lasciaci lavorare, marmocchio! Gli ordini del Gran Sacerdote non si discutono! Oppure vuoi seguire sin da subito l’esempio di tuo fratello, da brava sua brutta copia quale sei?»

Giunse giusto in tempo per vedere ‘Lia rispondere alla provocazione del soldato con un pugno nel ventre; date la poca dimestichezza dell’offensore nel dosare il cosmo e la furia con cui era stato scagliato, il colpo scaraventò l’uomo diversi metri più avanti, lasciandolo privo di sensi. Il futuro Leo avrebbe anche infierito, se Paulo, Didier e Milo non l’avessero trattenuto per le braccia.

«Aiolia fermati, fermati! Così ti caccerai nei guai!»

I compagni dell’armato fuori combattimento, che non si sarebbero certo attesi tanto potere da un bambino così piccolo e privo di armatura, erano intanto indietreggiati.

«Non te la caverai così facilmente, ragazzino!» minacciò tuttavia uno di essi, puntando il dito contro Aiolia «Adesso andiamo a chiamare il nobile Shura e vedremo se tu e i tuoi amichetti avrete il coraggio di opporvi anche a lui!»

«Ma sì, andate! Andate, codardi!» sbraitò loro dietro Milo, galvanizzato, mentre i due si allontanavano di corsa in direzione dei Templi.

«Shaka,» esclamò Didier, quando lo scorse «che ci fai tu qui?»

«La stessa cosa che ci fate voi, a quanto pare».

A quel punto il resto del gruppetto si voltò a guardarlo, sorpreso per quell’arrivo decisamente inatteso. Persino Aiolia, liberatosi di malagrazia dalla stretta di Paulo, gli lanciò una rapida occhiata: la sua faccia era una maschera di odio e dolore – un’espressione che Shaka gli avrebbe visto spesso, una volta diventato “di Virgo“, ma dalla quale all’epoca fu turbato. Tuttavia, non abbassò né chiuse di nuovo gli occhi – ci sarebbe stato tempo per affinare gli altri sensi.

Ora doveva guardare.

Doveva vedere se il viso di Aiolos celava lo spettro del tradimento, dietro ai suoi bei tratti.

Doveva capire.

Così spostò la sua attenzione sul corpo di Sagitter, che giaceva subito dietro al fratello, e sul quale aveva evitato fino a quel momento di concentrarsi.

Come poté in fretta constatare, il ragazzo era stato colpito in vari punti, e non solo da Excalibur; sul suo torace nudo spiccavano infatti diversi segni scuri, che Shaka non riuscì a ricollegare a nessun attacco da lui conosciuto. Appariva però evidente che l’offesa fatale portava la firma di Capricorn: la ferita al fianco, quasi orribile alla vista, era molto profonda e aveva squarciato la carne fino all’osso.

Si era davvero meritato di morire macellato al pari di un animale Aiolos, colui che tutti avevano chiamato “Santo“? Per quanto si sforzasse di rintracciare l’inganno nel suo volto – per la prima volta indurito, nella morte –, lui non ci riusciva.

Col passare del tempo e il cementificarsi dei propri credo, si sarebbe infine convinto di avercelo letto: nella piega aspra della bocca socchiusa, forse, oppure nella fronte sporca di terra e di rosso.

Ma allora, ciò che notò fu solo pena.

La stessa pena che distorceva adesso i lineamenti infantili di Aiolia: l’ira l’aveva di colpo abbandonato, lasciandolo solo a lottare contro una sofferenza che prese subito il sopravvento su ogni altra emozione possibile. Lacrime grandi e pesanti cominciarono a scendergli giù dagli occhi, che erano ancora, senza un perché, fissi su Shaka; in breve, tutto il suo corpo fu scosso da violenti spasmi e gli iniziali gemiti sommessi si tramutarono presto in lamenti sempre più forti, fino a diventare urla acute.

Il giovanissimo, futuro Virgo represse a stento l’istinto di scattare in avanti e impedire ad Aiolia di cadere, nell’istante in cui questi gli voltò le spalle e si accasciò a terra accanto all’amato congiunto. Troppo occupato a tentare di non farsi coinvolgere rimase in disparte persino quando Milo, con una delicatezza per lui inusuale, si inginocchiò e strinse a sé l’amico, spingendo anche gli altri ad avvicinarsi.

Cosa provò Shaka nel vederli tutti lì uniti in quella sorta di abbraccio a cui lui non volle – o non poté – prendere parte, lo seppe definire solo tredici anni dopo.

Solitudine: era questo che aveva sentito.

Non la superiorità con la quale aveva tentato di arginare il peso di una consapevolezza posseduta da sempre, e nemmeno un più mite senso di estraneità – solo pura e semplice solitudine.

Ma non sarebbe ricaduto nello stesso errore, no. Non quella notte, non dopo aver giurato di iniziare a meritarsi la vita che gli era stato concesso di preservare; non dopo essersi sentito, per la prima volta senza riserve, più uomo che cavaliere.

A dispetto dei suoi timori, fu di una semplicità disarmante avvicinarsi ad Aiolia, prenderlo per le spalle e lasciarlo sfogare contro il proprio petto, mentre le prime luci dell’aurora tingevano di rosa il mondo intorno a loro e la notte svaniva.

Fu talmente semplice che quasi non ci credette.



 

 

Note dell’autore

Allora.

É uno Shaka davvero molto umano quello che ho presentato in questa seconda parte del capitolo. Umano e, per certi versi, umile. Troppo? Nah. É più che altro la voglia di discostarsi dal suo precedente atteggiamento – atteggiamento errato, come ha avuto modo di constatare a caro prezzo – a spingerlo ad agire in un certo modo, a chiedersi il perché delle cose, a non dare giudizi troppo affrettati, a tentare di lasciarsi andare.

Ovviamente non gli basterà di certo una sola notte per cambiare del tutto modo di essere: anzi, alcuni aspetti del suo carattere rimarranno i medesimi, sebbene mitigati, anche nel post battaglia delle Dodici Case. Sarà però l'ossatura di fondo, la sua personale visione a mutare: ed è proprio da ora che comincia il processo di evoluzione, che Shaka avverte la necessità di rivedere la sua esistenza.

Una notte di transizione e di acquisizione di consapevolezze, che Virgo vivrà intensamente fino allo spuntar del sole: questo ho tentato di descrivere. Mi auguro di non essere uscita eccessivamente fuori dal seminato.

E ora veniamo ad alcune precisazioni in merito ad aspetti del capitolo meno generali:

- In primis, mi sembra doveroso dare una ratio all'atteggiamento di Milo.

Come ho fatto dire ad Aiolia: «è… è distrutto. Tanto distrutto da non riuscire a nasconderlo». Non sarà così per sempre, no: Scorpio – a parer mio – possiede una forza interiore e una dignità straordinarie, lungi da me sminuirle. Anzi.

Ma adesso – e soprattutto dopo aver visto il corpo inequivocabilmente senza vita di Camus – il peso della scomparsa di Aquarius lo immagino per lui insostenibile, tanto da farlo o, meglio, non farlo reagire. Diciamo che è in una fase di parziale rifiuto della realtà.

- «Piangerete lacrime di sangue, su quella verità che ora vi rifiutate di vedere» (capitolo 7, parte I).

- «Pare allora che le nostre strade si dividano, per il momento: se un giorno dovessero tornare ad incrociarsi, forse saremo nemici. Forse dovremo batterci. Spero che ciò non avvenga mai, ma, se così non fosse, temo che sarò chiamato a compiere il mio dovere – nonostante il nostro legame» (capitolo 5).

- Il flashback sulla mattina successiva alla Notte degli Inganni: quanto da me descritto avrebbe dovuto, secondo la mia immaginazione, avere luogo allo scadere degli ormai ultracitati sei mesi di reclutamento e pre addestramento al Santuario, e dunque Aiolia, Shaka &co dovrebbero avere qui circa 7 anni. Come spiegato nel – revisionato – capitolo I, gli aspiranti saints non orfani di nascita avevano l’onere di scegliersi un nuovo nome non appena raggiunto il luogo definitivo del loro addestramento; qui, dunque, Aldebaran e Camus – che io ho immaginato avessero conosciuto i propri genitori – erano ancora Paulo e Didier, mentre Milo, Aiolia  e Shaka, al contrario, non avendo una famiglia da “rinnegare”, hanno sempre portato il nome scelto per loro dal personale facente parte del “Mondo segreto” – che opera dentro e fuori il Santuario di Atene.

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Capitolo 17
*** Capitolo 12, parte I: settembre 1986. Maia ***


Capitolo 12, parte I. Maia

Capitolo 12, parte I: settembre 1986. Maia

 

 


Ho sceso, dandoti il braccio, almeno milioni di scale, e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.

Eugenio Montale

 

 


Nelle giornate terse non esiste sole tanto brillante quanto quello che splende sul Santuario. Sotto i raggi dell’astro diurno il Grande Tempio rifulge di una luce tutta particolare, che può sembrare bianca, dorata o rossa a seconda della zona in cui ci si trova.

L’aura sacrale che si espande dai Dodici Presidi zodiacali, cuori pulsanti dell’intero sistema, oggi mitiga appena l’atmosfera stranamente serena e lieta proveniente dall’Arena: è mezzogiorno inoltrato, e tutti si stanno recando in mensa o al villaggio per consumare il pranzo prima di riprendere ognuno le proprie occupazioni.

Solo i cavalieri d’oro rimangono ancora ad allenarsi, approfittando dello sfollarsi del campo dei guerrieri di grado inferiore e di giovanissimi allievi; qualcuno di questi ultimi si attarda un momento, con la speranza di assistere ad almeno uno scambio di colpi di quegli uomini i quali, ai loro occhi, assomigliano più a divinità che non a comuni mortali .

Maia, dall’alto delle tribune, sorride dello sguardo ammirato impresso sui volti dei bambini; lo condividerebbe senz’altro, se non fosse che i destinatari di tanta adorazione sono gli stessi ragazzi con cui è cresciuta.

Non che non si lasci anche lei prendere dallo stupore nell’osservarli scontrarsi, talvolta: a dire il vero, le succede spesso di rimanere a bocca aperta di fronte a un’azione particolarmente riuscita. É solo che conosce talmente bene i fautori di tali prodigi da non essere più capace di scindere la persona dal Santo.

Ad esempio, il feroce combattente in procinto di lanciare il proprio colpo scarlatto è lo stesso Milo che, due sere prima, le ha rovesciato addosso la birra di proposito, e il suo bellissimo avversario non è diverso da colui il quale, nel vederla, le regala sempre una rosa e un saluto gentile.

Poco lontano, ecco cadere a terra e rialzarsi fulmineo il più irruento dei guerrieri e il più affettuoso degli amici, Aiolia di Leo; a lui ora si sta opponendo Mu dell’Ariete, potente e amabile in pari misura.

E poi, c’è Camus.

Camus di Aquarius, il gelido e altero Esperto dei ghiacci che per Maia è caldo come il fuoco che arde tra i suoi capelli.

Camus che è fatto di gravità e risate inaspettate, di ferrea risolutezza e indecisione, di dolcezza e distacco; Camus, che un momento prima sembra non basti una vita a decifrarlo, e un momento dopo appare trasparente come cristallo – quando ti dà modo di leggergli dentro.

Se fra i cavalieri d’oro ne esiste uno al quale Maia non smetterà mai di guardare con meraviglia sempre crescente, quello è proprio l’Acquario: come non rimanere incantati dalle scie azzurre dei suoi attacchi, dalla sicurezza che trasuda ogni suo movimento, dal modo fluido che ha di scansare le offese avversarie?

Anche adesso, nell’evitare i ripetuti Sekishiki Meikaiha di Death Mask, pare che danzi.

L’ultimo dei colpi va però a segno e Camus, colto alla sprovvista, cade a terra; Cancer si abbandona allora a una sghignazzata di soddisfazione, poi gli tende la mano per aiutarlo a sollevarsi – lo scontro è finito.

Persino da lassù la ragazza può scorgere la lieve smorfia di disappunto dipinta sul viso del francese, smorfia che tuttavia scompare non appena si volta verso di lei e la vede: al che, come per magia, tutte le ombre si dissolvono e agli angoli della sua bocca spunta un sorriso luminoso.

Maia ricambia con gioia quel saluto, reso ancora più bello dalla spontaneità che l’ha caratterizzato; sta per fargli segno di raggiungerla quando, d’un tratto, la luce del sole si oscura improvvisamente e i dintorni precipitano nell’ombra.

Un violento brivido di freddo attraversa la schiena della giovane greca, che si stringe di riflesso nella sua giacca di jeans e alza un poco impaurita gli occhi al cielo, a cercare la fonte di quel cambiamento climatico tanto radicale. Non trova altro colpevole che una piccola nuvola in transito sopra di loro: una semplice, innocua nuvola bianca sospinta dal vento – che stupida, per un momento ha temuto si trattasse di qualcosa di ben peggiore.

Scuote forte la testa per liberarsi da quella bizzarra sensazione di smarrimento, quindi torna a rivolgere l’attenzione in basso, ma Camus non è più là, e nemmeno nelle immediate vicinanze.

A niente le giova esaminare con apprensione l’intera Arena, soffermando lo sguardo sul campo di terra purpurea, sui gradoni, sulle entrate, persino dietro di lei: Aquarius sembra scomparso nel nulla.

Gli altri, invece, sono ancora nella medesima posizione in cui li aveva lasciati qualche secondo prima; strano che proprio lui se ne sia andato, per giunta tanto in fretta e di nascosto.

Comunque sia, non è affatto il caso di farsi prendere dal panico per così poco… eppure.

Eppure Maia, nell’aria, ora avverte qualcosa che prima non c’era. O, per essere precisi, qualcosa che prima c’era e adesso non c’è più – come un filo che si è spezzato nel silenzio.

Scende svelta le gradinate, cercando di ricacciare indietro la paura.

«Death Mask!»

Il cavaliere del Cancro alza gli occhi dal suo panino, sorpreso e scocciato insieme per l’inattesa interruzione.

«Cosa vuoi? Non vedi che sto mangiando?»

Normalmente quella risposta ai limiti della cortesia l’avrebbe irritata non poco, ma ora ha altro per la testa.

«Sì, scusami. Sai per caso dove sia andato Camus?»

«Camus!?» le risponde Cancer, con una punta di sdegno nella voce «E cosa vuoi che ne sappia io, di Malpelo? Con tutti i suoi amici in giro, perché lo chiedi proprio a me?!»

Maia lo guarda stralunata: sta tentando di prenderla per i fondelli, come al solito. Peccato che abbia decisamente scelto il momento sbagliato.

«Vuoi scherzare?! Solo pochi minuti fa stavate lottando insieme!»

L’espressione dell’italiano si è fatta più strana parola dopo parola, tanto da risultare in bilico fra l’arrabbiato e il divertito; alla fine egli pare propendere per la seconda inflessione, perché scoppia a ridere.

«Pochi minuti fa? Lottare, io e Aquarius?! Maia, ragazza mia,» esclama, allungandole una pacca piuttosto forte sulla spalla «mi sorprendi positivamente: non ti facevo una che beve, soprattutto a quest’ora!»

«A proposito:» aggiunge subito dopo, ghignando «se ti serve un compagno di sbronza, sai dove trovarmi».

Poi le dà la schiena e si allontana, incurante dell’aria sconvolta della sua interlocutrice – la quale, intanto, si sta domandando chi fra i due sia uscito di senno, se lui o lei stessa.

No, non parlava sul serio: Maia li ha visti combattere, ha prestato attenzione alla maggior parte del loro scontro. Death Mask le ha sicuramente detto una sciocchezza, tanto per ridere alle sue spalle.

Bah, non importa: ha semplicemente chiesto alla persona meno indicata, tutto qui. Non c’è assolutamente niente che non vada.

«Camus? No, mi dispiace, non l’ho visto».

«Come non sai dove sia? Io pensavo fosse con te!»

«É strano che Camus salti gli allenamenti quotidiani. Sono l’unica cosa che lo fa uscire di casa di buon grado. Hai provato a chiedere a Milo?»

Nonostante la situazione continui a sembrarle paradossale, al solo udire il nome di Milo l’angoscia di Maia si stempera notevolmente; lui sa sempre dove trovare Camus, quasi abbia una specie di apposito radar. E poi è la persona in cui ella ripone più fiducia al mondo, in qualunque circostanza.

«Secondo me, il principio è il medesimo».

«Ti dico di no! Le nostre tecniche non hanno nulla a che vedere l’una con l’altra: tu lanci rose velenose, e io… beh, ora che ci penso bene, forse… »

«Milo».

Sentendosi chiamare, Milo distoglie lo sguardo da Aphrodite – col quale sta discutendo di chissà cosa – e si gira verso Maia: ha il chitone da allenamento sporco di terra e un piccolo taglio sulla spalla sinistra. Qualche ciuffo biondo, sfuggito con facilità all’elastico della coda, gli ricade morbido sul petto; curioso come in pochi secondi si possano notare tanti dettagli.

«Maia! Ti ho visto sugli spalti, prima. Non dovresti scendere fin quaggiù, qualcuno potrebbe colpirti per sbaglio. Te l’ho già detto mille vol-»

«Milo, ti devo parlare».

Colpito dalla serietà della ragazza, Scorpio fa un breve cenno al cavaliere dei Pesci e poi la conduce poco più in là, al riparo da orecchie indiscrete.

«Cosa c’è?» domanda, preoccupato «Ti vedo agitata».

«Io-» esita quella, non sapendo bene come spiegargli l’accaduto.

Alla fine decide di non girarci troppo intorno, ed esclama: «Io non riesco a trovare Camus. Un minuto prima era lì, in mezzo all’Arena, e un minuto dopo… puf. Scomparso nel nulla. E la cosa che più mi preoccupa è che nessuno, tranne me, pare averlo visto! Ma lui c’era, ne sono sicura! Ti prego, Milo, dimmi che almeno tu sai dove sia andato!»

«Oh… stai cercando Camus».

Nel dirlo il suo tono ha perso tutta l’enfasi di cui prima era permeato; persino l’espressione del viso è mutata, come se fosse rimasto deluso. Ma da cosa?

«Sì,» conferma Maia, impaziente «te l’ho già detto. Perché, che ti aspettavi?»

Milo fa spallucce e non risponde; continua a fissarla in silenzio, in un modo che la inquieta ulteriormente.  Lo scuote per un braccio, ormai prossima all’isterismo: «Insomma! Lo sai, sì o no?!»

«Sì!» sbotta infine Scorpio, svincolandosi stizzito dalla presa di lei «Lo so. Ma non credo che debba interessarti. Non più, almeno».

«Come?!»

«Oh, andiamo, Maia! Affronta la realtà: Camus non fa per te! É meglio se lo dimentichi».

«Si può sapere cosa diavolo stai farneticando?! Avanti, Milo, non ho più voglia di giocare. Dimmi dov’è Camus! Subito!»

Lui la guarda ancora in quella maniera strana, poi sbuffa: «D’accordo. Se proprio ci tieni, te lo dirò. Però devi giurare che resterà un segreto fra te e me».

La giovane acconsente subito, smaniosa di porre finalmente termine a tutte le assurdità dell’ultima mezz’ora: «Lo giuro».

«Ecco, vedi,» le sussurra quindi complice, tendendo le labbra verso il suo orecchio «io … io l’ho ucciso».

«Che cosa?!»

In un momento normale non avrebbe dubitato nemmeno per un secondo della falsità di quell’affermazione; tuttavia, adesso…

«Ah, non devi ringraziarmi» ammicca Milo «L’ho fatto anche per me, sai? Così ora potremo stare insieme!»

Gli occhi gli brillano di una luce malata – una luce che non mente. L’ha fatto sul serio. L’ha fatto, e ne è pure felice.

Maia si scosta da lui violentemente, inorridita. Ha paura.

«M-ma, Milo… c-come, quando?»

«É stato un gioco da ragazzi; gli altri non se ne sono neanche avveduti. Non penso che faranno domande in proposito» sorride soddisfatto, guardandosi attorno con noncuranza «Camus si riteneva tanto importante, ma in realtà non lo era affatto. É stata sufficiente una nuvola bianca a cancellarlo».

Nel gesticolare, ha alzato le mani – sono mani sporche di sangue.

Dèi del cielo, ha le mani sporche di sangue. Come ha fatto a non accorgersene prima?

La giovane non ha più voce per parlare, né parole per pensare. L’unica cosa che riesce a fare è fissare il suo migliore amico con gli occhi sgranati e il cuore ammutolito d’orrore. Quella nuvola bianca…

«Perché?» esala alla fine.

«Come perché? Perché io ti amo, Maia!»

No, questo è troppo da sopportare. Davvero troppo.

Maia indietreggia ancora, sfuggendo per poco alle braccia che Scorpio ha teso in avanti; il sorriso di lui si è trasformato in un largo ghigno.

Il sangue inizia a colargli dalle dita impregnate, per poi gocciolare a terra con un ticchettio meccanico: fissarlo, voltarsi e iniziare a correre è un attimo.

Le gambe, come animate di vita propria, procedono senza direzione precisa. Al pari della loro proprietaria, vogliono solo allontanarsi da lì – fuggire il più lontano possibile.

«Aspetta, dove stai andando?! Maia! Maia!»

 «Maia!»

«Vi dico che ha aperto gli occhi! È stato solo un momento, ma io l’ho visto chiaramente!»

«Va bene Al, abbiamo capito! Non serve che tu lo ripeta di nuovo!»

Parole lontane la sottrassero pian piano al torpore, senza tuttavia riuscire a squarciare il velo in cui le sembrava di essere avvolta.

Era tremendamente confusa, e quel cicaleccio indistinto non faceva altro che peggiorare la situazione; ogni suono giungeva alle sue orecchie distorto, amplificato a dismisura. Aveva come l’impressione che di lì a breve le sarebbe scoppiato il cranio.

«Abbassate il tono, per cortesia. Nessuno è sordo qui dentro – non ancora» si levò all’improvviso una voce, perentoria. Shaka?

«Maia. Mi senti?»

«Sì, Shaka, ti sento» avrebbe voluto rispondere lei – se solo non avesse avuto la gola così riarsa.

Attraverso le palpebre semichiuse vedeva spostarsi delle ombre a cui non sapeva dare contorno preciso; provò ad aprirle un po’ di più, ma la luce le ferì gli occhi.

«Nessuna reazione, a parte lo sbattere delle palpebre» constatò Virgo da qualche parte sopra di lei «Non riesco neppure a capire se sia sveglia».

«È strano, però. Il dottore ne aveva escluso la possibilità, eppure è febbricitante da quasi due giorni».

«Il dottore si è sbagliato, Mu. Non dubito della competenza del signor Savasta, ma in questo caso pare abbia commesso un errore di calcolo».

Gli strascichi dell’incubo – lo era stato davvero, solo un incubo? – la fecero sussultare appena, nel riconoscere il timbro profondo di Milo.

Che ci facevano tutti lì? Cosa era successo? E perché stavano parlando di dottori e febbre? Non riusciva a comprendere, non riusciva a concentrarsi: la testa le pesava come un macigno.

«Ancora un momento a occhi chiusi» pensò, mentre il buio tornava a circondarla «Solo un altro momento… »

 Luce. Luce che entra dalle finestre spalancate del soggiorno, e che sembra portarsi dietro qualche cosa dello sterminato rettangolo azzurro visibile all’esterno; un sottile refolo di vento fa danzare sui vetri le tende di lino bianco in movimenti delicati e sinuosi.

Maia si guarda attorno meravigliata, tentando di abbracciare l’intero ambiente con un’unica occhiata: sono sempre stati così ariosi gli appartamenti privati dell’Undicesimo Tempio?

«Maia».

Il richiamo la spinge a voltarsi: lo fa lentamente, perché già sa a chi appartiene quella voce – la riconoscerebbe fra mille.

Camus è sulla soglia della piccola cucina, con indosso una maglietta marrone e il migliore dei suoi sorrisi.

«Camus. Sei qui. Sapessi quanto ti ho cercato!» esclama alla fine lei, stranamente rilassata: gli eventi succedutisi appena poco prima adesso sembrano appartenere a una vita passata. L’Arena, la nuvola bianca, Milo... ancora non sa spiegarsi nulla, eppure non le importa più.

Ha trovato ciò che desiderava, e tanto basta.

Aquarius risponde tendendole i palmi distesi; la ragazza li afferra senza esitare, stringendoli come se non volesse più separarsene.

Si siedono lentamente al tavolo, l’uno di fronte all’altra, e rimangono immobili a fissarsi.

I capelli rossi, le labbra sottili, il lungo collo bianco, le piccole lentiggini appena visibili agli angoli del naso: dettagli di Camus che Maia conosce a memoria, ma che ora paiono risaltare maggiormente rispetto al consueto, a rendere la visione di insieme più bella di quanto non sia mai stata. Gli occhi specialmente gli brillano in maniera intensa: le pagliuzze castane scintillano quasi, in mezzo all’iride dorata.

Sarà forse merito di quella luce anomala, impregnata d’azzurro? Oppure sono solo suggestioni dettate dalla gioia di essere lì con lui?

«Sei bellissimo» si lascia sfuggire in un soffio, incurante del leggero astio che il suo compagno nutre verso i complimenti – si sente troppo libera, troppo in pace per preoccuparsi di simili, irrilevanti proforma.

«Anche tu sei bellissima». Nessun mugugno, nessuna smorfia. Incredibile.

É tutto come… come in un sogno.

Camus si sporge un poco in avanti e, staccando una mano dalla presa di lei, le accarezza la guancia: Maia socchiude le palpebre alla maniera dei gatti, godendosi il contatto fresco delle sue dita sulla pelle del volto. Le piacerebbe rimanere lì per sempre.

«Chérie».

A dispetto del nomignolo, stavolta il tono dell’Acquario è suonato più duro; la giovane spalanca gli occhi, di colpo nuovamente all’erta.

«È tempo che tu torni indietro. Gli altri sono preoccupati per te».

«Tornare indietro? Gli altri? Che significa?»

Nel pensare ai loro amici le vengono in mente con chiarezza le parole di Milo, nitide come se fossero appena uscite dalla sua bocca.

«É stato un gioco da ragazzi; gli altri non se ne sono neanche accorti. Non penso che faranno domande in proposito: Camus si riteneva tanto importante, ma in realtà non lo era affatto. É stata sufficiente una nuvola bianca a cancellarlo».

Era stato solo uno scherzo per spaventarla, alla fine.

Eppure, dopo aver visto lo sguardo di Scorpio e posato gli occhi sulle sue mani sporche di sangue, lei non ne è troppo sicura.

«Cam, ascoltami: c’è una cosa che devo dirti. So che ti sembrerà assurdo, m-ma ti consiglio di stare attento a Milo» dichiara, sputando fuori il nome dello Scorpione con estrema fatica.

In risposta, l’Acquario prorompe in una risata composta – non la sta prendendo sul serio, è evidente.

«Camus, non sto scherzando! É complicato da spiegare, tuttavia tu devi fidarti di me! Non l’avevo mai visto in uno stato simile … pareva convinto di averti ucciso!»

«Lo so».

La sicurezza, la noncuranza con cui ha affermato quel “Lo so“ lasciano Maia totalmente spiazzata.

«Come, lo sai? Tu non ti rendi conto-»

«Conosci Milo,» la interrompe lui, tranquillo come se stessero parlando del tempo «sai che tende sempre a esagerare. Dentro di sé è davvero convinto di avermi causato la morte. Starà a te convincerlo che così non è stato: in fondo hai promesso di stargli accanto, ricordi?»

No, Maia non ricorda nulla, non comprende nulla; sente di nuovo crescere l’apprensione e non sa come fermarla.

«Io non so di cosa tu stia parlando».

«Capirai, tesoro: capirai».

Adesso la figura di Camus è talmente avvolta dalla luce da sembrare evanescente – è proprio strano, pensa di sfuggita la ragazza, dal momento che dietro di lui non c’è nessuna finestra.

Aquarius si alza in piedi e lei lo imita spontaneamente, avvicinandosi fino a poterlo cingere per la vita. Il cavaliere ricambia l’abbraccio e la guarda in faccia per lunghi, silenti attimi; infine, mormora: «Ora vai, ti stanno aspettando. Loro hanno bisogno di te più di quanto non ne abbia io».

Un sorriso singolare gli sale alle labbra, un po’ malinconico e un po’ sereno, fatto di rimpianto e consolazione insieme.

«Vai. E non smettere mai di guardare il cielo: io sarò lassù. Veglierò su di te dall’alto, attraverso la luce delle stelle. Au revoir, Maia».

Un’ultima stretta, un ultimo sguardo; poi tutto si dissolve in una nuvola d’azzurro.

«Ca …»

 «… mus».

Fu destata dal suo stesso sussurro, che la riportò alla realtà in modo repentino e improvviso. Un risveglio limpido, pulito, di quelli che spazzano via tutti i resti di sonno.

A rompere il generale silenzio attorno a lei solo il ronzio di una mosca e rumori lontani, quasi impercettibili.

Maia rimase un attimo immobile ad assaporare la strana quiete che la pervadeva: le pareva di aver fatto un bel sogno, pieno di luce, ma non riusciva a ricordarselo.

Quando aprì gli occhi non riconobbe subito il soffitto bianco che attirò il suo primo sguardo, né il vecchio comò di legno scuro alla destra del letto; le ci vollero qualche secondo e il leoncino di peluche sulla scrivania per realizzare di essere nella stanza di Aiolia. Il perché vi si trovasse, però, le rimaneva del tutto oscuro.

Rammentava confusamente di aver avuto la febbre alta e poi più nulla, come se fosse in preda a una specie di amnesia.

«Aiolia» gracchiò, cercando di mettersi eretta «Aiolia!»

Niente. Forse non si trovava in casa; da quel che poteva vedere dalle imposte lasciate socchiuse, fuori era giorno pieno.

«Ai-»

«Maia!»

La porta si aprì di scatto, e Aiolia comparve sulla soglia.

Era senz’altro nato sotto il segno giusto: mai una volta che lo sentisse arrivare, tanto aveva il passo leggero e felpato.

«Maia,» ripeté Leo, andando a sedersi sul letto in modo quasi affettato «quando ti sei svegliata? Come ti senti? É da molto che mi cerchi?»

«Caspita, quante domande!» rise debolmente lei, lasciando che il ragazzo la sollevasse appena per tastarle la fronte «Cos’è, un interrogatorio?»

«La febbre sembra essersene andata: sei fresca» dichiarò ‘Lia, senza raccogliere la battuta; poi, di colpo, l’abbracciò.

«Tu non sai, non sai…  che sollievo… eravamo così in ansia!» continuò, aumentando la stretta a ogni parola «Santo cielo, Maia, abbiamo davvero temuto di perderti!»

Maia, turbata dalla gravità dell’affermazione, scostò un poco il viso per osservare quello del suo amico, che le parve più pallido del consueto: aveva i capelli arruffati e le occhiaie tipiche delle notti insonni. Non era facile sorprendere il cavaliere del Leone – qualsiasi cavaliere, a dir la verità – in un simile stato di evidente stanchezza. Cosa diavolo era accaduto di tanto grave?

Prima che potesse chiedergli alcunché, egli balzò in piedi improvvisamente.

«Devo andare ad avvisare gli altri;» esclamò, lo sguardo rivolto verso la porta «non è necessario che rimangano ancora in pena inutilmente».

Gli altri…

«È tempo che tu torni indietro. Gli altri sono preoccupati per te».

Il bel sogno che rammentava di aver fatto adesso le stava tornando alla memoria velocemente. Quella frase bizzarra… ma dove era Camus, a proposito? Avrebbe dovuto essere lì.

«Aiolia, aspetta:» lo fermò, proprio mentre stava per sparire dalla sua vista «non me ne voglia il resto del gruppo, però… potresti chiamare Camus per primo? Vorrei passare qualche minuto da sola con lui, se possibile. É che l’ho sognato, e-»

A quelle parole Aiolia si girò lentamente, una mano stretta sullo stipite; il velo di tristezza e pietà che gli appannò per un attimo gli occhi verdi le fece gelare il sangue nelle vene.

«Camus?» chiese, smarrito «Maia, cosa ricordi di quanto accaduto, esattamente?»

«Ricordo di essere stata male» rispose la ragazza, con una punta di paura annidata nella voce «E poi, non so… ho l’impressione di avere un gigantesco vuoto di memoria. Ma perché, cos’è successo?»

«Oh, Dèi, aiutatemi,» mormorò Leo a fil di labbra «datemi la forza».

Maia lo guardò tornare a sedersi accanto a lei, senza capire il senso di quell’invocazione; il timore di ciò che stava per sentire la spinse irrazionalmente ad indietreggiare, tanto che si ritrovò con la schiena schiacciata alla tastiera del letto.

«Che è successo, ‘Lia?» lo interrogò ancora, artigliando le coperte che le arrivavano alla vita «E dov'è Camus?»

Di nuovo quella maledetta domanda: non sapeva perché, ma le sembrava di ripeterla da un’infinità di tempo.

Aiolia le prese le mani e l’attirò a sé, nonostante le sue timide resistenze – gesto che, lungi dal rassicurarla, la gettò maggiormente nel panico: aveva visto troppa gente annunciare cose brutte in maniera simile per non allarmarsi.

«Maia… » iniziò il Leone, cauto come se stesse soppesando ogni sillaba «possibile che non ti sovvenga proprio nulla? L’invasione dei cavalieri di bronzo, la scalata, l’Undicesimo Tempio, Hyoga di Cignus… »

Hyoga di Cignus.

Bastò quel nome e ogni singolo dettaglio le si riaffacciò alla mente con un’esattezza indicibile – insieme al freddo. E all’orrore.

Camus allungò un braccio verso l’alto, con impressa nel volto la meraviglia di chi finalmente riesce a vedere aldilà del reale.

«Maia, guarda quella luce… c’est si belle, n’est pas?»

Poi quello stesso braccio gli ricadde su un fianco, e lui non si mosse più.

Quando Maia tornò a guardarlo in viso la luce aveva abbandonato le sue iridi per sempre, lasciandole spalancate a fissare il vuoto in modo quasi grottesco.

Che fine indegna per degli occhi fatti di sole come quelli – che sacrilegio.

In preda allo shock la ragazza si alzò di scatto, privando la testa di Aquarius del sostegno su cui prima poggiava; quel bel cranio sbatté sul duro marmo del Tempio con un tonfo sordo che le strappò un grido di dolore.

«Perdonami, Camus!» singhiozzò, gettandosi di nuovo accanto al cadavere e prendendo ad accarezzargli i capelli «Mi dispiace, mi dispiace… mi dispiace!»

Rimase in tale posizione per un tempo che le parve lunghissimo, senza smettere di toccare quello splendido corpo che non sarebbe mai invecchiato, nonostante il freddo si fosse ormai fatto insopportabile. La parte razionale del suo cervello sapeva che non sarebbe dovuta rimanere lì ancora per molto: le mani le si erano già fatte completamente blu e le gambe erano talmente intorpidite da risultare pressoché inservibili, tuttavia non le interessava.

L’uomo che aveva amato – che amava – giaceva a terra, indifeso, e lei non poteva abbandonarlo proprio adesso. Poco contava che fosse morto.

Alla fine, vinta dalla prostrazione e dal gelo, si distese sopra di lui col capo abbandonato sulla sua spalla. Aveva smesso persino di tremare.

Non si curò nemmeno del suono di passi e di voci che dopo un po’ le giunse ovattato alle orecchie: lasciò semplicemente che si andasse a confondere coi contorni sempre più sfumati dell'Undicesimo Tempio, finché tutto si fece silenzio e tenebra.

«Maia, ti senti bene?»

La voce di Aiolia la strappò da un abisso dal quale, senza, forse non sarebbe riuscita a risalire; Maia lo guardò stralunata per un attimo, prima di rendersi davvero conto della verità – Camus era morto. Morto.

«Mortomortomortomort-»

«No».

«Come?»

«NO!» urlò lei, liberandosi dalla presa di Leo con una forza che solo la disperazione fu capace di donarle «No che non sto bene! E come potrei? Camus è morto, Aiolia! MORTO, LO CAPISCI?!»

Si sentì pervadere da una rabbia così potente da non poterla controllare – una furia cieca che, dimenticata del tutto la precedente debolezza, la spinse a levarsi in piedi e a cominciare a girare freneticamente in tondo per la camera, ansimante.

«Maia, ascoltami… »

«STÁ ZITTO! Devo pensare» ringhiò, torcendosi le dita «Devo pensare… pensare… »

Ma pensare a cosa? Non c’era nulla che potesse fare. Niente a cui aggrapparsi, nessuno a cui chiedere aiuto. Solo quella immutabile, lancinante consapevolezza.

«Camus è morto. Ucciso, assassinato. Morto. E io, invece, sono ancora viva».

Le mancava l’aria, non riusciva a respirare.

Si buttò quindi nel corridoio, a cercare un minimo di sollievo; tuttavia, fatto qualche passo, le gambe non la ressero più e franò a terra. Le esplosioni di collera che fino a poco prima le avevano sconvolto le viscere si trasformarono ben presto in violenti conati – conati a vuoto, ché nello stomaco non aveva cibo da rigettare.

Mentre vomitava saliva sulla lunga maglietta rossa che qualcuno doveva averle messo addosso durante la sua incoscienza, avvertì la presenza di Aiolia accovacciato a fianco a lei.

«Brava, Maia, butta fuori» disse egli dolcemente, scostandole i capelli sudati dalla faccia «Butta fuori tutto, e poi vedrai che starai meglio».

Quando le contrazioni cessarono era tanto spossata da non riuscire né a stare eretta né tantomeno a sollevarsi; si rannicchiò allora contro il petto del Custode del Quinto Tempio, permettendo alle lacrime che gli annebbiavano la vista di uscire.

«’Lia,» soffiò poi inaspettatamente, irrigidita da un nuovo, atroce dubbio «chi altro, oltre a-a Death Mask, Shura e… e Camus… ?»

«Non preoccuparti di questo. Presto saprai tutto» rispose lui, un bacio carezzevole sulla fronte «Riposa, adesso».

Avrebbe voluto chiedere di più, ma le palpebre le si andarono facendo via via sempre più pesanti; cadde addormentata ancor prima che Aiolia l’avesse messa a letto.

 

Continua ...



 

 

Note dell’autore

Dopo tanto finalmente torna in scena il punto di vista di quella che, almeno teoricamente, sarebbe la protagonista dell'intera storia: Maia.

Ero indecisa sul personaggio a cui assegnare il capitolo immediatamente susseguente alla notte dopo la battaglia delle Dodici Case – se sulla suddetta Maia o su Milo. Come avete potuto constatare, la scelta è ricaduta sulla prima. Un po' perché, appunto, era tanto che non le dedicavo un po' di spazio, un po' per esigenze di copione.

Questa prima parte dell'aggiornamento si colloca nell'arco delle 48-72 ore successive alle vicende del capitolo 11, e si svolge perlopiù nella dimensione onirica; un unico sogno, frammentato, che assume un significato più o meno preciso, specie per quello che riguarda il supposto ruolo di Scorpio nella morte di Camus.

La faccenda è qui rielaborata dal subconscio di Maia – che, come si vedrà meglio successivamente, è già sommariamente informata di ciò che è successo prima dello scontro fra Aquarius e Hyoga –, ma riflette una ancora non ben definita posizione in merito della ragazza.

Venendo, poi, alla scena ambientata nelle stanze private dell’Undicesimo Tempio: sogno anch'esso, o qualcosa di più? A voi decidere come meglio vi aggrada!

Che dire di più? Mi auguro che gradiate il capitolo e che continuiate ad accordarmi la vostra indulgenza: vi assicuro che di impegno – mentale e non – ce ne metto. In modo mooolto saltuario, ma ce ne metto.

Bisous bisous!

 

 

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Capitolo 18
*** Capitolo 12, parte II: 24 settembre 1986. Maia ***


Capitolo 12, parte II. Maia

Avvertenze: Ero arciconvinta che un momento simile non sarebbe mai giunto; che questa storia fosse destinata a rimanere per sempre al punto in cui l’avevo lasciata sei – cielo, mi sta venendo un malore – anni orsono.

E invece, contro ogni pronostico, rieccomi qui: proprio vero che per noia si compiono le imprese più impensate!

Cosa molto importante: ho finalmente revisionato da cima a fondo Sorella Morte, riscrivendo i capitoli iniziali di sana pianta e aggiungendo addirittura un secondo prologo – che si trova nello stesso capitolo del primo.

Le linee generali della trama non hanno subito mutamenti sostanziali (tante grazie, è incentrata su quella originale XD), ma ho “uniformato” il tono della narrazione e inserito diversi dettagli in più: qualora ci fosse qualche anima pia che, all’epoca, seguiva questa storia, le consiglio vivamente di tornare indietro a dare un’occhiata.

Avevamo lasciato Maia a fare i conti con la consapevolezza della morte di Camus; in questa seconda parte qualche nodo comincia a venire al pettine – ingarbugliando ancora di più la situazione, invero.

Orbene, a voi (alleluia); ci vediamo dabbasso!

 

 

 

Capitolo 12, parte II: 24 settembre 1986. Maia

 

 


Dacché ricordava, Maia aveva sempre avuto a che fare con le scale.

Nel corso della sua breve vita doveva aver sceso e salito almeno un milione di gradini – talmente tanti che, ormai, non si lasciava spaventare nemmeno dalle rampe più ripide. Era un’eredità propria di tutti quelli che potevano dire di essere cresciuti al Santuario di Atena, e lei non faceva eccezione.

Ma quel giorno fu diverso; non per le gambe che ancora la sorreggevano malvolentieri, né tantomeno per il terreno crepato o i detriti ammassati alla rinfusa ai lati della via.

No, quello c’entrava poco o nulla.

Tutto il peso, tutto l’affanno che sentiva le derivavano dal pensiero della destinazione, dalla consapevolezza del posto a cui quella particolare scala conduceva; un luogo, visitato tante volte per ragioni di studio, dove mai avrebbe desiderato recarsi per il motivo che adesso l’animava.

Eppure doveva – voleva – farlo. Che il suo stomaco, il suo cuore e tutti i Gold saints del pianeta protestassero pure: lei aveva tutto il diritto di rivederlo – di dirgli addio una volta per sempre. Niente le sembrava più importante, al momento.

«No, Maia» le aveva detto Aiolia la sera prima, rispondendo alle sue richieste «Mi spiace, ma non potrai partecipare alle esequie. Non ti sei ancora rimessa del tutto: assistere a una cerimonia del genere non gioverebbe affatto al tuo stato. Non vogliamo correre rischi inutili».

Maia l’aveva guardato stancamente, senza nemmeno tentare di ricercare l’appoggio degli altri presenti – giacché sarebbe stato perfettamente inutile: pur avendo caratteri e punti di vista fra loro diversissimi, in quel frangente ‘Lia, Milo, Shaka, Mu e Aldebaran stavano dimostrando una stupefacente identità di pensiero.

L’aveva guardato stancamente, sì, e si era voltata verso la parete, rimanendo fissa in quella posizione così a lungo da troncare sul nascere ogni eventuale apologia; non possedeva la forza di polemizzare e, comunque, nella sua testa era già tutto programmato.

Così, la mattina dopo quel colloquio, aveva atteso che i cavalieri prendessero parte alla riunione indetta da quella ragazzina nelle stanze della Tredicesima Casa rimaste ancora in piedi; poi, con la scusa di aver bisogno di riposare, aveva altresì fatto in modo di allontanare dal suo capezzale sia il personale di servizio della Quinta Casa, sia Clio.

Un po’ più difficile era stato togliersi di torno nonna Frandra.

La vecchia signora era così preoccupata per la nipote che, nel corso della sua malattia, raramente l’aveva lasciata sola per più di qualche ora: al fine di convincerla a rientrare a Rodorio, Maia aveva dovuto persino trattarla male. Le aveva rivolto parole dure, maledicendo tutta la sua famiglia per averla costretta a far parte di un mondo che, lungi dall’essere “Un luogo delle fiabe”, si era invece rivelato un vero e proprio inferno di sangue, morti e devastazione – un mondo da cui, alla luce degli ultimi eventi, lei voleva soltanto allontanarsi.

Che lo pensasse sul serio o meno, aveva comunque raggiunto lo scopo di essere lì a barcollare di nascosto lungo la gradinata più triste e appartata dell’intero Grande Tempio – quella che, inoltrandosi nelle profondità della roccia, collegava direttamente l’ospedale da campo all’obitorio.

Un cavaliere di Atena non è destinato ad invecchiare: quanto spesso avesse sentito pronunciare questa frase, Maia non avrebbe saputo dirlo. Lì dentro la ripetevano tutti come fosse un mantra in grado di giustificare qualsiasi scempio, anche quello di dover riporre in dei sacchi neri i corpi senza vita di bambini o di uomini e donne poco più che ragazzi.  

Lei, in qualità di aspirante medico, si era sempre imposta di non concentrarsi troppo sull’a-moralità di tutto ciò che vedeva, limitandosi a svolgere il proprio dovere col distacco scientifico richiesto alla sua professione; eppure, nel riconoscere in quei cadaveri persone con cui aveva avuto a che fare fino al giorno precedente, sovente le erano tremate le mani.

Mai prima di allora, però, si era trovata a odiare di un odio tanto viscerale quelle poche e semplici parole, che le stavano adesso esplodendo nel cervello alla stregua di uno dei dodici fendenti zodiacali: Un cavaliere di Atena non è destinato ad invecchiare.

Era stata un’ingenua a pensare che tale assunto non avrebbe mai riguardato coloro ai quali teneva di più, a credere che la prima linea del fronte – quella dei cavalieri d’oro – sarebbe per sempre rimasta intatta: i Gold saints erano carne da macello come e più degli altri, e i fatti recenti l’avevano ampiamente dimostrato.

Lo stato di lutto proclamato a seguito della battaglia le permise di arrivare a destinazione senza intoppi; ogni attività era stata infatti rimandata a dopo la cerimonia funebre, per cui non aveva trovato difficoltà a sgusciare via dalle stanze di Aiolia e giungere sin lì senza incontrare nessuno.  

Arrivata dinanzi al portellone della sala mortuaria, Maia dovette appoggiarsi alla parete per non cadere; l’energia che l’aveva sorretta sino a quel punto sembrava essersi di colpo volatilizzata, lasciandola impaurita e sola come non lo era mai stata. Le sembrava di essere tornata alla mattina di dieci anni prima, quando, svegliata dallo squillo del telefono, si era recata in salotto e aveva trovato nonna Frandra seduta a terra con la cornetta tra le mani e lo sguardo assente di chi ha appena ricevuto una notizia irreparabile.

«Maia, tesoro. Vieni qui, vieni vicino a me: devo dirti una cosa. Promettimi di essere forte».  

La morte dei suoi genitori era stata dura da mandar giù. Aveva sempre faticato ad accettare che il Santuario si fosse inghiottito il sorriso di mamà e la voce calda di bampàs, sputando in cambio una misera menzione d’onore e tante condoglianze; e tuttavia, in virtù del fioretto fatto a sua nonna, si era consolata al meglio delle sue possibilità, pensando che i fulmini si abbattono anche sugli aerei normali.

Ma cos’aveva di normale quello che era successo pochi giorni addietro? C’era forse qualcosa di naturale nel vedersi spirare fra le braccia il proprio amante, assassinato col beneplacito della divinità che pure aveva servito tutta la vita?

No. Non c’era nulla di normale, nulla di naturale, nulla di giusto.

Con la mente annebbiata da questo pensiero, spalancare i battenti dell’obitorio e varcarne la soglia si rivelò più semplice del previsto; una volta dentro, tuttavia, fu di nuovo a un passo dal crollare.

Il freddo intenso, la luce azzurrognola delle lampade a neon, il silenzio irreale – l’Undicesimo Tempio, il ghiaccio scintillante fra le colonne, l’odore di morte.

Maia si costrinse a tornare alla realtà conficcandosi le unghie nei palmi fino a farli sanguinare: non poteva cedere adesso. Quella era la sua ultima occasione, e non l’avrebbe sprecata per colpa di uno stupido attacco di panico. Dopo avrebbe avuto tutto il tempo che voleva per gettare la spugna e abbandonarsi alle pulsioni più miserande.

«Per buttare fuori tutto lo schifo che sento. Sommergerne il mondo intero».

Quando i battiti cardiaci le si furono riassestati, la ragazza prese ad avanzare lentamente lungo l’enorme stanzone spoglio, composto da più locali; il primo di questi era adibito alle autopsie, mentre il secondo conteneva le celle frigorifere.

Data l’imminenza delle esequie i corpi erano stati lasciati sui tavoli, pronti per essere prelevati; a giudicare dallo stato delle salme – «integre, pulite. Come dei pupazzi» – il personale addetto doveva aver già proceduto alla loro composizione.

A dispetto della convinzione che la Morte renda tutti uguali, i cadaveri si presentavano al contrario disposti in modo strettamente gerarchico. Maia sfilò di fianco ad alcuni soldati semplici e al mancato cavaliere di Pegasus, riservando loro poco più di un’occhiata; tuttavia, non le riuscì di ignorare allo stesso modo le spoglie di Saga di Gemini.

Un dio fattosi uomo, esattamente come lo ricordava: solo qualche ruga agli angoli della bocca tradiva il tempo trascorso, rivelando al mondo che certe maschere ti plasmano più dello scorrere di mille stagioni.

Incredibile che nessuno se ne fosse accorto. Inconcepibile che un assassino avesse regnato sul Santuario di Grecia per tutto quel tempo, senza che una sola voce – se non quella, inascoltata, di Aiolos di Sagitter – si fosse levata a protesta.

No, nonostante lo squarcio al centro del petto Arles non aveva pagato abbastanza: a fare le spese delle sue colpe erano stati chiamati anche i compagni a lui più fedeli – tutti e tre: Death Mask, Shura e Aphrodite.

E poi, lui.

«Je suis désolé, j’ai été impoli. Donc, tu t'appelles comment?»

«Non mi chiamo più così da molto tempo. Adesso sono Camus».

«No di certo. Non cambierei una cosa come questa nemmeno per tutto l'oro del mondo».

«Ciao, chérie!»

«Rimani. Rimani con me. Non andare».

«Ci riabbracceremo presto, vedrai».

Camus indossava uno dei suoi semplici, banali chitoni da allenamento; oltre che della vita, l’avevano depredato anche dell’armatura di Aquarius – un cadavere non è più buono a nulla, tantomeno a combattere. Giusto?

Maia gli sfiorò i lunghi capelli rossi, rimirandone il viso disteso: le sue rade lentiggini si stagliavano nitide in mezzo al pallore ceruleo e le labbra erano lievemente dischiuse.

Sembrava che dormisse – sembrava.  

«Svegliati, Camus. Ti prego, svegliati!»

Il desiderio di vederlo aprire gli occhi – «dorati. Mai più rivedrò degli occhi del genere» – la investì con tanta potenza da trasformarsi quasi in bisogno fisico, mentre la vista le si appannava a causa delle lacrime.

«La prima: quelle che vedo dovranno essere le ultime lacrime che verserai per me».

Che promessa impossibile. Davvero quel pazzo suicida pensava che lei sarebbe stata in grado di mantenerla?

«Tu lo sapevi, vero? Sapevi che l’epilogo sarebbe stato questo. Volevi la gloria e, per ottenerla, ti sei fatto ammazzare. Ma cosa te ne fai adesso della gloria, espèce de gros salaud?!»

Un rumore improvviso la fece voltare di scatto: qualcuno aveva appena aperto la porta dell’obitorio.

In un incredibile guizzo di lucidità, la giovane riuscì a infilarsi nell’armadietto dei camici giusto un attimo prima che lo sconosciuto visitatore superasse la sala autopsie e accedesse alla vera e propria camera mortuaria.

Nel timore di essere scoperta, Maia decise di non arrischiarsi a sbirciare. Quasi sicuramente era soltanto un addetto venuto a recuperare della strumentazione, non ci avrebbe messo molto ad andarsene. Quello che sentì subito dopo, però, fu un inconfondibile suono di passi inguainati di metallo – e gli addetti non indossavano armature. Purtroppo per lei, quindi, doveva trattarsi di un cavaliere.

«Ciao, ‘Mus».

«M-milo?»

«Sì, sono di nuovo qui. Scusami, non ho potuto farne a meno: lo sai che mi piace scocciarti».

Il respiro dello Scorpione era così pesante che sembrava avesse l’affanno: non era affatto normale per un saint, e men che meno per uno del suo rango. Un lieve fruscio, poi la voce di Milo si fece più vicina. Probabilmente si era accostato al tavolo dove giaceva il corpo dell’Acquario.

«La riunione si è conclusa poco fa: hanno deciso che vi sep-» un tremito «seppelliremo domani. “Hanno”, non “abbiamo”: fosse per me, ti terrei qui per sempre. Detesto l’idea che, che-»

Milo si bloccò di nuovo, a prendere una boccata di quell’ossigeno che gli stava venendo a mancare: «… che non ti vedrò più. Non riesco a sopportare l’immagine di te, al buio, in una cassa. Oh, lo so che ti piace stare da solo, in silenzio: me lo ripeti sin da quando eravamo bambini. Ma, Camus… quanto ci metterà la terra a inghiottirti? A mangiarsi il tuo viso, i tuoi… i tuoi capelli. Dei, quanto ho amato i tuoi capelli. Finalmente posso dirtelo – senza paura di farti ribrezzo».

«Guarda:» riprese poi, dopo una breve pausa «ieri ho trovato il tempo di scendere al mercato di Rodorio e ti ho preso questa. La pietra non è lavorata come quella della mia, ma non sono riuscito a scovare di meglio; ha la forma di uno scorpione, se non altro. Spero che ti terrà compagnia… ovunque andrai».

A ogni parola, lo stomaco di Maia si contraeva con violenza sempre maggiore. Quello non era un commiato riservato a un amico: ad Aiolia, cui pure era affezionatissimo, mai Scorpio avrebbe fatto un discorso simile – né da vivo né da morto.

No, Milo non stava salutando un semplice amico: stava dicendo addio a qualcuno di cui era completamente, disperatamente innamorato.

«Lo sapevo. Lo sapevo, maledetto stupido!»

La storia della gelosia, del bacio, del fatto di essersi invaghito di lei era stato tutto un gigantesco, assurdo teatrino montato ad arte. L’evidenza era – ora come allora – tanto lampante che Maia si stupiva di averci creduto anche per un solo istante.

Troppo sconvolta per aver paura delle conseguenze, aprì impercettibilmente una delle ante dell’armadio che le fungeva da nascondiglio; la visuale non era un granché, ma almeno le consentiva di gettare un occhio su ciò che stava avvenendo all’esterno. In quel momento l’Ottavo Custode era in piedi accanto al corpo di Camus, con una mano poggiata sul suo petto e gli occhi immoti: aveva un’espressione indicibile – che metteva i brividi.

Da quando Maia si era svegliata, mai le era parso tanto distrutto: se quello che adesso gli si leggeva in viso era ciò che realmente provava, allora doveva essere davvero un bravo attore.

«Proprio vero che non si finisce mai di conoscerle, le persone».

Avrebbe voluto fargli milioni di domande – «perché non me l’hai mai detto? Per quanto tempo hai guardato Camus col mio stesso sguardo? Quanto male ti ha fatto?» – e tuttavia, fra queste, ce n’era una la cui importanza offuscava di gran lunga le restanti. Una questione assolutamente preliminare, soprattutto alla luce di quanto aveva appena scoperto.

«Se davvero l’amavi, come hai potuto permettere a Hyoga di Cignus di arrivare sino all’Undicesima Casa? Di levare la mano su Camus, ben sapendo che entrambi non si sarebbero fermati dinanzi a niente? Che razza di amore è quello che non protegge il suo oggetto?»

Se il non impedire equivale al cagionare, allora lo Scorpione era colpevole allo stesso modo del cavaliere di bronzo: già da prima traballante, adesso – di fronte a una cosa simile – l’adempimento di un dovere si rivelava una scriminante del tutto insufficiente.

Aveva passato gran parte della giornata a dormire o a fingere di farlo; per lo stato in cui si trovava, avere a che fare con qualsivoglia essere umano le pareva uno sforzo assolutamente insostenibile.

Tuttavia, quando Mu e Aiolia erano venuti a sincerarsi delle sue condizioni, aveva costretto entrambi a sedere accanto a lei e a raccontare esattamente quanto fosse avvenuto tre giorni addietro; dinanzi alla sua ostinazione, i due non avevano potuto far altro che scambiarsi un’occhiata rassegnata e accontentarla.

Per bocca un po’ di uno, un po’ dell’altro, era così venuta a conoscenza di tutto, sia di quello che non era trapelato dalle voci di corridoio circolate durante lo scontro, sia degli avvenimenti succedutisi dopo il suo arrivo all’Undicesima Casa.

Erano tantissimi gli aspetti che, partendo da presupposti diversi, normalmente le sarebbe interessato chiarire, e altrettanti erano i pensieri che avrebbe dedicato a coloro che non ce l’avevano fatta, sebbene non vi fosse particolarmente attaccata; ma ora la morte di Camus si prendeva l’intero spazio disponibile – una volta crollato il muro portante, manca di senso domandarsi quali altre parti del palazzo abbiano ceduto.

Così, tutta l’attenzione di Maia si era catalizzata su pochi punti fondamentali: il cavaliere del Cigno, il cavaliere di Aquarius e il cavaliere di Scorpio. Aveva voluto inquadrare il concreto ruolo giocato da Milo negli eventi da cui era scaturito l’irreparabile, e la risposta finale le aveva fatto ancora più male di quanto pensasse.

«È stato Milo a far sì che Cignus arrivasse sino alla Sacra Anfora. Milo l’ha fatto passare e, in cambio, lui ha trucidato Camus sulla soglia del suo Tempio».

L’aveva sussurrato piano, più a se stessa che ai propri interlocutori, sputando ogni parola come fosse veleno; l’aveva sussurrato piano perché ripeterlo a voce alta le sarebbe suonato davvero troppo ridicolo.

«Non è andata così, Maia».

Diplomatico come sempre, Mu aveva cercato di farle comprendere quanto la faccenda potesse assumere portata differente, se guardata dal loro punto di vista di saints.

«Milo aveva capito che Hyoga era nel giusto, e ha fatto quello che tutti noi avremmo dovuto fare sin dall’inizio: gli ha permesso di passare, pur sapendo che Camus non l’avrebbe imitato. È stato il senso del dovere a uccidere Aquarius: né il Cigno né tantomeno Milo. Solo il senso del dovere... e quell’amor proprio che, purtroppo, gli si è rivelato fatale».

Una parte di Maia – la più razionale – era conscia che quelle parole contenevano un fondo di verità. Sapeva perfettamente quanta importanza il cavaliere dell’Acquario avesse sempre dato a onore e dignità, con quel suo modo vagamente altezzoso di anteporre il merito a tutto il resto; altrettanto bene conosceva la naturale avversione dell’Ottavo Custode per soprusi e ingiustizie, che lo portava ad agire strettamente secondo coscienza, quali ne fossero le conseguenze.

Ma esiste un limite al sacrificabile – e l’incolumità di un amico si trovava oggettivamente al di là di esso.

Avrebbe dovuto intuirla questa sfumatura, Mu di Aries, visto che era stato proprio lui a intromettersi in una battaglia non sua, salvando Shaka di Virgo da un destino ormai segnato.

«Se fosse come dici, allora anche Shaka avrebbe dovuto spirare per mano di Phoenix. Invece, tu sei intervenuto a salvarlo. Perché nessuno ha fatto lo stesso con Camus? Si meritava di morire, lui? Con quale faccia Milo può dire di essergli stato amico se, dopo aver fatto passare quel ragazzino di bronzo, è persino rimasto immobile ad aspettare che l’uno freddasse l’altro?!»

Come era avvenuto quella stessa mattina, la rabbia le stava facendo dimenticare tutta la propria debolezza. Era assurdo che non capissero. Che si ostinassero a nascondere quella tremenda verità dietro il dito della “cosa giusta”.

«Per come la vedo io, Milo avrebbe potuto evitare la morte di Camus. Se solo l’avesse voluto davvero» bisbigliò infine, con lo sguardo rivolto a terra e la voce incrinata.

Fu in quel momento che Aiolia, rimasto in silenzio sino ad allora, prese di colpo la parola.

«Io ti giuro, Maia,» disse, afferratale la mano «ti giuro su quello che ho di più caro che se fosse stato possibile Milo avrebbe impedito il corso degli eventi con qualsiasi mezzo. Anche con la sua stessa vita, ne sono più che certo. E tuttavia, sai bene com’è… com’era fatto Camus. Non gli avrebbe mai perdonato una sua intromissione, non in un combattimento ove era in gioco il suo status».

Poi, inchiodando i propri occhi in quelli neri della ragazza, continuò: «Sono conscio che i nostri discorsi su dovere, giustizia e fedeltà debbano sembrare poco più che parole morte alle orecchie di una persona che non ricopre il ruolo di saint e che, per di più, sta soffrendo per colpa altrui. Però ti prego, Maia,» la presa sulla mano di lei aumentò «ti scongiuro, non rivelare a Milo quello che pensi veramente. È già abbastanza devastato: sentire cose come queste gli darebbe il colpo di grazia».

Avrebbe fatto lo stesso discorso, Aiolia, se avesse saputo ciò che Milo provava per Camus? Proprio lui, che per ben tredici anni aveva segretamente rimproverato al fratello caduto di averlo abbandonato?

Maia non lo sapeva e, sinceramente, neppure le importava; l’unica cosa a cui riusciva a pensare erano le ultime parole che Camus le aveva rivolto lucidamente, un attimo prima di perdersi in spazi inaccessibili.  

«La terza: stai vicino a Milo. Sostenetevi l’uno con l’altra. Dissipate i vostri rancori, quali che siano. Fatelo per me».

Solo adesso, nel guardare Milo stringersi al petto la mano inerte di quello che avrebbe dovuto essere il suo migliore amico, si rendeva conto del reale peso di quella frase.

«Te n’eri accorto. Non so quando, non so come, ma tu alla fine te n’eri accorto. E tuttavia,» pensò, distogliendo penosamente lo sguardo da Scorpio «questa è un’altra promessa che non penso di essere in grado di mantenere, Camus».





Note dell’autore

Ho letto da qualche parte che dopo la battaglia delle Dodici Case i cavalieri di bronzo sono rimasti in coma per circa un mese. Qui, invece – sopravvalutandoli alquanto – gli ho dato tempo due settimane: facciamo finta che Saori-san si sia data una mossa e abbia devoluto loro qualche benedizione divina. Viva la licenza poetica!

Riguardo alle esequie, ero convinta che nella Grecia classica le stesse si sostanziassero sempre e comunque nella cremazione del cadavere; dato che nel caso di specie far bruciare i corpi avrebbe comportato qualche problemino con la successiva saga di Hades, è stato un sollievo scoprire che, in realtà, la procedura più diffusa era anche allora la sepoltura.

Come avrete forse notato, Maia è arrabbiata – arrabbiata con Atena, coi cavalieri di bronzo, col Santuario, con i Gold superstiti, persino con lo stesso Camus.

Potrà esservi sembrata un po’ infantile, ma provate a mettervi nei suoi panni di comune essere umano privo di cosmo, armature e compagnia bella: le hanno ammazzato l’amante praticamente sotto il naso, ma nessuno si è risentito per questo. Nessuno, neppure quelli che, in vita, l’Acquario considerava amici. Anzi, “gli invasori” vengono adesso ritenuti degli eroi ed è proibito provare verso di essi il minimo risentimento.

In quest’ottica scevra da giuramenti e fedeltà, il suo disgusto appare quasi giustificato; e lo scoprire l’esatto ruolo di Milo nella faccenda (nonché i reali sentimenti di quest’ultimo per Camus), non potrà che peggiorare la situazione. Per lei è inconcepibile anteporre la salvezza del nemico – vero o supposto che sia – a quella della persona amata: il fatto che Scorpio abbia anche solo accettato di correre il rischio lo rende, ai suoi occhi, colpevole.

Se il non impedire equivale al cagionare, allora lo Scorpione era colpevole allo stesso modo del cavaliere di bronzo: già da prima traballante, adesso – di fronte a una cosa simile – l’adempimento di un dovere si rivelava una scriminante del tutto insufficiente.” : qui ho giocato un po’ con qualche figura giuridica (scusate, sguazzo in quella roba da mane a sera, è come avere un parassita nel cervello).

Per l’articolo 40 del codice penale “il non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale al cagionarlo”; una scriminante, invece, è un fatto che, qualora esistente, rende non punibile l’autore del reato – e l’adempimento di un dovere è, per l’appunto, una scriminante.

Dopo l’interessantissimo (come no) approfondimento, vengo alle specificità del capitolo:

- “Un luogo delle fiabe” : frase tratta dal Prologo I;

- «Je suis désolé, j’ai été impoli. Donc, tu t'appelles comment?»: frase tratta dal Prologo I;

- «Non mi chiamo più così da molto tempo. Adesso, sono Camus»: frase tratta dal Prologo II;

- «No di certo. Non cambierei una cosa come questa nemmeno per tutto l'oro del mondo»: frase tratta dal  Capitolo 3, parte II;

- «Rimani. Rimani con me. Non andare»: frase tratta dal Capitolo 9;

- «Ci riabbracceremo presto, vedrai»: frase tratta dal Capitolo 10, parte II.

- «dorati. Mai più rivedrò degli occhi del genere» : questa osservazione sugli occhi di Camus ritorna, variata a seconda del momento, nel Prologo I, nel Prologo II e qui. È un dettaglio che avrei anche potuto non segnalare, ma mi sono voluta togliere lo sfizio XD.

- «La prima: quelle che vedo dovranno essere le ultime lacrime che verserai per me» : frase tratta dal Capitolo 10, parte II.

- espèce de gros salaud : in francese equivale più o meno a “brutto pezzo di idiota”.

- «La terza: stai vicino a Milo. Sostenetevi l’uno con l’altra. Dissipate i vostri rancori, quali che siano. Fatelo per me» : frase tratta dal Capitolo 10, parte II.

Piccolo spoiler: a chi volesse angosciarsi fino alla morte, consiglio vivamente il prossimo capitolo – che sarà su Milo, finalmente.

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 19
*** Capitolo 13, parte I: 8 ottobre 1986. Milo ***


Capitolo 13, parte I. Milo

Capitolo 13, parte I: 8 ottobre 1986. Milo

 

 

 

Lui era il mio Nord, il mio Sud,

il mio Est e il mio Ovest,

la mia settimana di lavoro e il mio riposo la domenica,

il mio mezzodì, la mia mezzanotte,

la mia lingua, il mio canto;

pensavo che l’amore fosse eterno:

avevo torto.

Non servono più le stelle,

spegnetele anche tutte […]

Wystan Hugh Auden

 

 

 

Milo di Scorpio non era mai stato un gran lettore; nervoso e scattante come un giovane purosangue, pensava che intrattenersi con personaggi immaginari ed esistenze mai vissute fosse davvero uno spreco di tempo.

Se c’era un genere letterario che proprio non sopportava, poi, quello era la poesia: per come la vedeva lui, si trattava soltanto di termini altisonanti accostati fra loro a tavolino.

Poi, però, si era ricordato di una certa poesia, letta tanti anni prima al solo scopo di smontarne il valore a colui che gliel’aveva consigliata.

«Ebbene, ‘Mus, quale sarebbe il titolo del presunto capolavoro?»

«Di fronte a una composizione del genere il tuo sarcasmo è del tutto inappropriato. Si chiama “Funeral Blues”, del poeta Wystan Hugh Auden».

 

“Fermate tutti gli orologi, isolate il telefono,

fate tacere il cane con un osso succulento,

chiudete i pianoforti e fra un rullio smorzato

portate fuori il feretro, si accostino i dolenti.

 

La cerimonia funebre si era svolta nel fresco mezzodì di un settembre che già sapeva d'autunno.

La bruma, sottile e lattiginosa, aveva continuato a sostare ad altezza d’uomo sino a tarda mattinata, insinuandosi tra i capelli e nelle menti di quanti, a gruppi o singolarmente, si erano apprestati a salire le scalinate che conducevano sino alla cima dell’Acropoli; tutti erano stati invitati a presenziare al rito, e tutti avevano con solerzia risposto all’appello – persino quelli che, per l’età troppo giovane o troppo avanzata, mal si reggevano sulle proprie gambe.

Quel giorno, sotto gli occhi benevoli e immoti della statua d’Atena, si erano radunati addetti, soldati, ancelle, reclute, apprendisti, personale di servizio, semplici abitanti di Rodorio, cavalieri e amazzoni; la maggior parte di essi, pur vivendo all’ombra del Santuario, non aveva mai oltrepassato nemmeno la Prima delle Dodici Case zodiacali.

L’intera popolazione della Valle Sacra era giunta fin lassù a porgere l’estremo saluto ai Gold saints caduti, ma non solo per quello: al grande sconcerto provocato dai fatti recentemente venuti alla luce si accompagnava una altrettanto profonda curiosità circa coloro che avevano stravolto le gerarchie del Grande Tempio tanto repentinamente, nonché – e soprattutto – nei confronti di Quella a cui molti, ormai, non credevano neppure più.

Ai piedi della sua antica effige, vestita di bianco e di sacro, la Dea aveva pronunciato parole di dolore, redenzione, orgoglio e rinascita, benedicendo i presenti con la voce e lo sguardo; circondata dai propri Santi bambini – già in piedi nonostante le ferite loro inferte –, la giovanissima Saori, lungi dal provare riserbo davanti a quel numero abnorme di volti sconosciuti che la fissavano, era anzi apparsa come una figura ancestrale, infinita e senza età, il cui cosmo abbracciava l’universo intero. Dinanzi a una siffatta immagine persino il meno devoto aveva chinato il capo commosso, giurando fedeltà con un ardore tutto nuovo e autentico.

Ma non era ancora tempo di festeggiare la rinnovata ascesa di Atena al Trono di Grecia, e quelle bare d’ulivo poste al centro del piazzale sovrastante il Tredicesimo Tempio avevano ben presto catturato di nuovo l’attenzione generale. Come se fossero state lì a gridare che tutto ha un prezzo, persino il ritorno di Giustizia.

 

Incrocino gli aeroplani lassù

e scrivano sul cielo il messaggio Lui È Morto,

allacciate nastri di crespo al collo bianco dei piccioni,

i vigili si mettano i guanti di tela nera.

Lui era il mio Nord, il mio Sud, il mio Est ed il mio Ovest,

la mia settimana di lavoro e il mio riposo la domenica,

il mio mezzodì, la mezzanotte, la mia lingua, il mio canto;

pensavo che l’amore fosse eterno: avevo torto.

 

«Piangerete lacrime di sangue, su quella verità che ora vi rifiutate di vedere».

Così era stato, come sciaguratamente predetto da Daidaros di Cefeo. Il sangue era  scorso a fiumi, inondando di rosso i marmi immacolati, ma di lacrime – lacrime vere – nemmeno l’ombra: i Custodi superstiti erano rimasti silenziosi e immobili nelle loro auree corazze per tutto il tempo dell’orazione, lo sguardo asciutto e il volto contratto.

Gemini, Cancer, Capricorn, Aquarius, Pisces: affinché fosse ripristinato lo status quo ante, l’ordine precostituito aveva preteso la vita di cinque Gold saints.

Cinque compagni, e altrettante casse da morto – di cui due a far da mero simbolo.

Milo di Scorpio, fatalmente, non aveva avuto occhi che per una sola di esse. Anche se era rimasto impassibile ed eretto al pari degli altri, perché i cavalieri non piangono.

«I cavalieri non piangono, no. Neppure quando vorrebbero. Non piangono perché non possiedono abbastanza lacrime» aveva pensato confusamente, fissando le screziature del feretro di Camus sino a impararle a memoria.

E dire che ci aveva provato, a piangere, nei giorni precedenti.

Si era seduto con la testa fra le mani, cercando di concentrarsi sull’enormità del cratere che sentiva di essere diventato, ma non aveva ottenuto altro che ulteriore vuoto.

A dispetto del dovere, della fede ritrovata, dei Templi da ricostruire, la sua esistenza gli era parsa soltanto un enorme buco nero, occasionalmente attraversato da echi lontani di cose, persone, giorni. Un antro buio, sterile – arido. Arido come le zolle di terra prosciugate dall’estate sotto cui, di lì a breve, avrebbero sepolto tutto il buono che aveva e che avrebbe mai posseduto.

I capelli di Camus, fiamme danzanti nel vento impetuoso che viene dal mare; la scia di stelle fattesi polvere che gli brillava attorno dopo ogni singola Diamond Dust; la sua voce elegante che pronunciava il nome “Milo”, storpiandolo appena; il suo modo discreto di incantarsi di fronte alle cose che gli piacevano, come lo zucchero a velo – «mi ricorda la neve» aveva ammesso una volta, arrossendo – o la grazia armonica delle Case Zodiacali; le sue sottili mani bianche.

Le stesse mani che durante il loro ultimo incontro gli erano volate al collo come schegge di ghiaccio impazzite, a cercare di sigillare una verità la quale, solo qualche ora più tardi, l’avrebbe ucciso – «insieme a Hyoga del Cigno. E a me».

Come facevano, tutti quanti, a pensare che sarebbe davvero esistito un futuro senza Camus di Aquarius?

Come potevano Aiolia, Mu, Shaka, Aldebaran, i cavalieri di bronzo, le persone riunite lì attorno, il mondo intero, credere a un “dopo” che non lo contemplasse?

Che senso avrebbe avuto il Santuario, senza i suoi passi a calpestarlo? Quale armonia, quale bellezza trarre ancora dal vestire un’armatura dorata, una volta estinto colui che l’aveva indossata con maggior orgoglio? Dove trovare la forza per scendere nuovamente in campo, avendo la consapevolezza che il cosmo di cristallo dell’Undicesimo Custode non avrebbe più aleggiato sulle sue battaglie come uno sprono gentile?

Per quanto si sforzasse, Milo non credeva, non pensava, non sentiva più nulla: la sua vita si era spenta in conseguenza di un’Aurora Execution troppo freddo e lui, in quel momento, non si trovava affatto lì.

Non aveva mai veramente lasciato l’Ottava Casa sulle proprie gambe, rispondendo al richiamo dell’amico Leo; non aveva rivolto uno sbrigativo cenno di saluto a quanti si erano rispettosamente inchinati al suo passaggio; non aveva preso posizione accanto a Shaka di Virgo, dalle palpebre aperte e le braccia ustionate; il suo sguardo non si era mai incrociato con quello di Cignus, tingendosi di un misto di astio e innegabile stima.

No, in realtà lui aveva osservato tutto da una posizione differente; più precisamente, da quella bara dentro cui, insieme a Camus, era finita anche la parte più consistente di se stesso.

 

Non servono più le stelle: spegnetele anche tutte;

imballate la luna, smontate pure il sole;

svuotatemi l’oceano e sradicate il bosco;

perché ormai nulla può giovare.”

 

Al segnale convenuto, ognuno dei cavalieri d’oro si era caricato sulle spalle il proprio fardello di legno e carne – «Cinque contro cinque. Uno spettro ciascuno» –, per poi mettersi alla testa del corteo diretto ai piedi della Collina delle Stelle.

Quel tragitto, che pure constava di una ripida salita lungo sentieri scavati nella roccia, a Milo era invece sembrato brevissimo. Se avesse potuto, lui si sarebbe trascinato il suo peso sino ai confini dell’universo – almeno sino alla costellazione dell’Acquario, che era stata tanto egoista da richiamare a sé il proprio Custode anzitempo.

«Milo, guarda le stelle: ammirale e impara a non temerle, anche se spesso ti sembreranno troppo lontane o troppo crudeli. Siamo stati generati per ristabilire la pace lasciandoci guidare da esse, non per sottostare silenti ai loro capricci. Ogni uomo è artefice della propria sorte: nessuno nasce schiavo del fato, nemmeno noi cavalieri».

Quanto si era sbagliato, Saga. Altro che libero arbitrio, altro che esser padroni del proprio destino: la verità era che loro, Custodi dei Dodici Presidi, si trovavano in completa balia degli stessi astri da cui discendevano, che li manovravano come fa un bambino coi suoi giocattoli.

Ebbene, se così stavano le cose, Milo di Scorpio alle stelle non avrebbe rivolto più un solo sguardo. Che si abbuiassero pure tutte insieme nell’arco di una sola notte: il loro brillare distante, ormai, a lui non sarebbe più stato di alcun conforto.

Da allora in avanti era alla terra che avrebbe rivolto la dedizione rimastagli, perché in essa Camus si sarebbe dissolto. Proprio lì, sotto quella spoglia lapide bianca recante la dicitura di rito “Camus di Aquarius (Didier Debussy). 1965 – 1986”.

Calata la bara nella fossa scavata di fresco, l’Ottavo Custode si era chinato a raccogliere una manciata di terriccio umido; ne aveva assaggiato la consistenza con le dita, e respirato l’odore vagamente marcescente che sarebbe andato a coprire per sempre il lieve profumo di muschio e di limpido della pelle di Aquarius; infine, l’aveva lasciato cadere sul feretro in tanti minuscoli frammenti – come fosse polvere di diamanti.

Milo di Scorpio era rimasto lì in piedi molto a lungo, una volta terminata la cerimonia. Tanto che, sul far della sera, a malapena lo si sarebbe potuto distinguere dalle ombre.

 «L’ho letta, Camus. L’ho letta più volte, ma non mi ha detto alcunché».

«Probabilmente significa che non hai mai perso qualcuno a cui tenessi davvero».

 

 

*

 


Erano trascorsi dieci giorni.

Revocato lo stato di lutto, la quiete surreale e ipnotica che aveva regnato in tutta la Valle Sacra prima dei funerali era stata repentinamente sostituita dall’attività più febbrile; durante il dì non c’era angolo dove non si udisse martellare, scalpellare, assemblare o abbaiare ordini. Onde accelerare l’opera di ricostruzione si era deciso di impiegare persino le reclute e i saints già ordinati, i cui allenamenti adesso consistevano un po’ nel demolire le parti dei Templi non restaurabili, un po’ nel rimuovere i detriti con la nuda forza delle braccia.

Sembrava quasi che tutti avessero fretta di terminare al più presto, così da potersi dimenticare dell’accaduto nel minor tempo possibile.

Anche Milo di Scorpio forniva alacremente il suo contributo, lavorando senza sosta dall’alba al tramonto e, spesso, addirittura oltre; almeno sino a quando qualcuno non poggiava cautamente una mano sulla sua spalla e gli suggeriva di andare a riposarsi.

«Che sciocchezza» pensava lui, nell’accontentare il soggetto di turno – personale di servizio, ancelle o compagni che fossero – «Non ne ho bisogno».

“Riposare” voleva dire essere costretti a pensare – a ricordare –, ed era esattamente l’ultima cosa che gli servisse.

Lo sforzo fisico del sollevare blocchi di marmo sfregiati sino ad appannarsi la vista; la meccanica ripetitività di impilare, contare, catalogare; la libertà di muoversi senza il peso – fattosi insostenibile – della sua corazza, sporcandosi faccia, corpo e capelli di polvere bianca: solo questo gli permetteva di obnubilare la mente quel tanto che bastava a rendere la sua esistenza sopportabile.

Al di là c’era troppo vuoto, più di quanto riuscisse a tollerare.

Alle incombenze istituzionali cui non era consentito sottrarsi adempiva con viso neutro e voce incolore, evitando il contatto umano per quanto poteva; unicamente l’interagire con la Dea gli dava un minimo di requie, ma durante le riunioni l’agenda di ordini del giorno da trattare era tanto fitta da lasciare spazio a ben poco altro.

Si parlava di successioni, di titoli, di alleanze da ripristinare, di schiere da epurare: tutti argomenti che a Milo non sarebbero interessati neppure in circostanze ordinarie, e in merito ai quali non aveva nulla da dire. In quelle occasioni erano soprattutto Mu e Shaka a parlare a nome della casta dei Gold saints, mentre lui si limitava a prestare il proprio consenso, ove richiesto; la sua attività principale consisteva infatti nello studiare di sottecchi Hyoga, cercando di sondarne la personalità.

Fra i Bronze, Cignus appariva come quello più schivo: se l’abissale differenza intercorrente fra lui e i cavalieri di Pegasus e Andromeda era evidente già a primo acchito, il suo modo di fare divergeva altresì da quello pacato e composto del Dragone, nonché dall’atteggiamento decisamente recalcitrante di Ikki di Phoenix.  

Si pronunciava di rado, senza mezzi termini, fissando il proprio interlocutore dritto negli occhi; le sue poche e misurate parole avevano quasi sempre il sapore di un qualcosa di definitivo, al quale diventava difficile replicare.

Era incredibile quanto somigliasse a Camus, come se questi l’avesse cresciuto e allenato personalmente. Era davvero incredibile, e altrettanto doloroso.

Sarebbe stato molto più facile se fosse stato capace di scindere totalmente quello sconosciuto ragazzino biondo dalla persona di cui egli aveva spento la vita; sarebbe stato più semplice, perché avrebbe potuto mutare la cupa, intollerabile sensazione di impotenza che sentiva in odio feroce, accecante, propulsivo.

Tuttavia, era stata proprio la somiglianza fra il Cigno e Aquarius la prima delle ragioni che avevano portato Scorpio a cedere il passo, lasciando che il Bronze superasse l’Ottava Casa e giungesse sino all’Undicesimo Tempio – «dove tutto si è fermato» –; un’affinità d’animo che non poteva cominciare a negare proprio adesso, soltanto per irrazionale ed egoistica necessità.

E poi, in fondo, a cosa sarebbe servito? Niente avrebbe riportato indietro Camus; né l’amore né tantomeno l’odio. Niente.

Milo smise per un attimo di puntellare il sostegno di una delle tante colonne crollate, ripensando alle innumerevoli chiazze vermiglie che avevano costellato il Tempio all’indomani della battaglia e delle quali, ora, non rimaneva alcuna traccia.

Ripulire il pavimento e le pareti da quello scempio era stato un lavoro immane, in cui lui, incapace di tollerarne la vista, si era cimentato sin da subito; a chi aveva obiettato che non si trattava di un’occupazione confacente al suo rango Scorpio aveva risposto strofinando con maggior tenacia, sino a rendere il marmo ancora più candido di quanto non fosse stato in precedenza… almeno esteriormente.

Non esistevano ramazza o straccio capaci di raschiare il sentore di sangue – «di Hyoga. Di Camus» – che avrebbe aleggiato per sempre nella Casa dello Scorpione Celeste, così come non c’era sapone in grado di lavarne via gli schizzi dalle sue mani; mani che Milo sentiva sporcate in maniera indelebile, tanto che spesso le avvertiva quasi bruciare.

Si stava appunto chiedendo quale macchia scottasse di più, quando Mu di Aries comparve dall’entrata principale dell’Ottavo Presidio, recando seco un cesto di frutta, dell’acqua e il tipico sguardo di chi ha qualcosa da domandare, ma non sa bene come farlo.

Con lui c’era anche Kiki, il bambino tibetano che l’Ariete allenava.

Da anni si sapeva della sua esistenza, e tuttavia mai prima di allora Mu l’aveva portato con sé al Santuario, preferendo tornare in Jamir ad addestrarlo ogniqualvolta se ne era presentata l’occasione; mentre i più avevano bollato tale comportamento quale ennesimo sintomo del distacco fra il cavaliere del Primo Fuoco e il Grande Tempio, altri – Aldebaran in testa – erano fermamente convinti che dietro lo stesso ci fosse una ragione più recondita, irrazionalmente legata alla volontà di salvaguardare il suo pupillo dal triste destino di morte che aveva segnato l’apprendistato dello stesso Aries. Milo non aveva mai maturato un’idea precisa sul punto, ma adesso gli pareva probabile che entrambe le ipotesi presentassero una percentuale di verità.

«Mu. Cosa ti porta qui?» chiese, dopo aver rivolto ai due un cenno di saluto.

«Io e Kiki stiamo passando di Casa in Casa a offrire un po’ di ristoro a coloro che lavorano» rispose questi, indicando la frutta e l’acqua con un movimento della spalla destra «Vuoi qualcosa?»

«È un pensiero gentile, ma al momento non mi va nulla. Grazie comunque».

Al che, Mu emise un sospiro appena percettibile: «Milo, non sta a me dirti di cosa hai bisogno, ma sono giorni che non tocchi cibo. Fra poco non potrai essere di molto aiuto, se continuerai a non mangiare».

«Cos’è, ti ci metti anche tu adesso? Non bastano Aiolia e Aldebaran?» sbottò Scorpio, a cui tutte quelle attenzioni non richieste stavano cominciando a dare sui nervi «Ce l’abbiamo già una convalescente per cui preoccuparci, e quella è Maia. Io sto benissimo».

«Non è detto che chi manifesta apertamente un malessere stia peggio di colui il quale, invece, lo dissimula» ribatté cauto l’altro, palesemente intenzionato a convincere il proprio irragionevole interlocutore della bontà delle sue argomentazioni.  

Per mettere fine a quell’inutile e fastidiosa discussione Milo – che sapeva di essere in torto – si arrese a inghiottire controvoglia qualche acino d’uva, il cui sapore zuccherino gli offese il palato: non gli piacevano le cose troppo dolci. Non gli erano mai piaciute.

«Ecco, ho mangiato. Sei soddisfatto? Ora posso tornare a lavoro?» disse quindi, dopo aver buttato giù mezza bottiglietta d’acqua nel tentativo di sciacquarsi la bocca.

«A dire il vero, c’è qualcosa di cui vorrei discorrere con te. Sempre che tu non sia troppo occupato» rispose Mu, passando il cesto di frutta a Kiki; il ragazzino, colto al volo l’invito a congedarsi, indirizzò un breve inchino in direzione di Milo e sparì oltre l’arcata posteriore del Tempio.

Nonostante avesse soltanto voglia di tornare a saldare la colonna che stava restaurando, lo Scorpione non poté ignorare la sottile richiesta dell’amico a prestargli attenzione: non era da Mu perdersi in chiacchere inutili, senza che queste precedessero qualcosa di più importante. Si sedette dunque sulla catasta di travi da lui impilate quella stessa mattina, invitando l’altro a fare altrettanto: «No, posso benissimo continuare più tardi. Ti ascolto».

Aries prese a parlare lentamente, partendo da lontano quasi stesse prendendo le misure: «Come forse ricorderai, Milo, un cavaliere d’oro diviene di diritto il maestro di colui che sarà il suo successore. Al termine del pre-addestramento io sarei dovuto rimanere al Santuario come te e Aiolia, quale allievo di Shion di Aries. L’allora Gran Sacerdote aveva da poco iniziato a impartirmi qualche lezione, quando Saga lo uccise; per evitare che mi accorgessi dello scambio di persona la primissima cosa di cui Gemini si preoccupò la mattina successiva all’omicidio fu quella di farmi rispedire in tutta fretta nello Jamir. Tuttavia, in virtù del legame che già mi univa al mio defunto maestro, io ebbi comunque il tempo di percepire il suo cosmo svanire, per essere sostituito da un altro a me sconosciuto – altrettanto vasto, ma molto, molto più oscuro.                                     Una volta divenuto adulto, non ci ho messo molto a prendere coscienza dell’inganno che si stava consumando qui in terra di Grecia… eppure, mai vi ho fatto partecipi di quello che sapevo. Ho sempre preferito tacere, per poi ritirarmi in esilio quando gli eventi sono precipitati».

Milo lo guardò in modo interrogativo: «Cosa stai cercando di dirmi, Mu?»

«Che credo che ognuno di noi abbia qualcosa da rimproverarsi. Persino il sottoscritto, che pure non ha mai levato la mano su i veri protettori di Atena. Se non fossi rimasto in silenzio, forse qualcuno dei nostri compagni avrebbe capito senza dover andare incontro alla morte».

Il tono con cui aveva pronunciato quel “qualcuno” sottintendeva palesemente a chi si riferisse, e tuttavia Scorpio non pensava affatto che conoscere la verità avrebbe minimamente inficiato sulle convinzioni del soggetto in questione. La certezza di combattere per la fazione sbagliata sarebbe stata decisiva nel caso di Shura, magari, non certo nel suo. Scosse dunque la testa, nascondendo il viso tra i folti capelli biondi: «A Camus non interessava chi sedesse sul Trono, se il portavoce della Dea o un impostore: per come lo conosc-»

«Conosco».

«-evo, ciò che per lui contava davvero era dimostrare a tutti – forse anche a se stesso – di essere superiore a un cavaliere di bronzo versato nelle sue medesime tecniche. Non sarebbe indietreggiato di fronte a nulla».

Poi, amaramente, aggiunse: «Comunque, adesso non ha senso chiedersi come sarebbe o non sarebbe andata “se”. Non possiamo fare più niente, ormai».

«Non possiamo riportare in vita i nostri camerati, no» gli rispose l’Ariete «Forse, però, possiamo far sì che la loro dipartita non sia stata vana».

«E come?»

«Supportando coloro per i quali sono morti. Coloro che, pur così giovani e inesperti, hanno saputo mostrare la Via a dei guerrieri tanto più potenti di loro, compiendo un vero e proprio miracolo».

«La storia dei cavalieri di bronzo al Grande Tempio narra gesta di amicizia, di altruismo, di spirito di sacrificio, di coraggio senza precedenti: mai questi marmi avevano visto fiorire al loro interno sentimenti tanto nobili in un solo giorno! E io dovrei abbandonare tutto questo per egoismo?! Sarebbe peggio di un tradimento!»

Le parole di Hyoga gli risuonarono nella mente come se le stesse udendo in quel momento. Sì, i cavalieri di bronzo avevano davvero realizzato l’impossibile, abbattendo con determinazione ogni barriera – di marmo, di idee, di carne  eretta tra questi e il loro obiettivo: la schiera dei Gold era dovuta arrivare alla decimazione per rendersi conto di quanto si fosse consumato sotto il suo stesso, incurante sguardo.

In che modo avrebbero potuto essergli d’aiuto loro, superstiti tra gli oppositori?

«Supportarli? Ci hanno sconfitto. Non abbiamo nulla da insegnargli, noi che abbiamo vissuto nell’ombra per tredici anni».

«Ti sbagli. Tutti hanno qualcosa da imparare, e tutti sono in grado di insegnare qualcosa: questo ricordalo sempre».

«Inoltre,» riprese Mu, piegandosi fino a poterlo fissare negli occhi «se esiste un gesto concreto atto a risarcire i cavalieri di bronzo da quanto patito, quello è sicuramente riparare le loro armature – che noi stessi abbiamo distrutto. Ma per restituire nuova linfa a cinque corazze serve molto sangue; ben più di quanto ne possieda io da solo, in effetti».

Ed eccolo qua, il nocciolo della questione. Cinque erano le armature di bronzo, tante quante gli attuali custodi dorati: in sostanza, quindi, Mu gli stava chiedendo di donare il suo sangue per restaurarne una.

«Immagino che gli altri abbiano già acconsentito».

«Questo non è importante. Il punto è: tu te la sentiresti, Milo?»

Già. Se la sentiva lui?

Se la sentiva di versare un tributo sulla corazza che aveva danneggiato con le sue proprie mani, e che poi era stata completamente distrutta dall’ultimo Aurora Execution di Camus? Sarebbe stato capace di compiere una simile azione per il ragazzo che, spegnendo le stelle dell’Acquario, aveva irrimediabilmente oscurato anche il suo cielo?

Milo alzò lo sguardo in direzione delle Case sovrastanti, ma nessuno apparve sulla soglia dell’Undicesimo Tempio a indicargli la decisione da prendere; così, la sua mano volò come per istinto a cercare il ciondolo che si portava sul petto, per carezzarne i contorni a forma di anfora.

«Questo ti fungerà da coscienza in mia vece: guardalo sempre, prima di fare qualcosa di stupido!»

«Qualcosa di stupido come l’amarti, magari. L’idiozia più grande dell’universo, che tuttavia ha dato alla mia vita un senso più ampio, più alto della fede stessa».

Amare un fantasma, però, non era solo stupido; era anche inutile.

Dove cercare un significante, quindi, se non nell’adempiere a un dovere a cui è impossibile far fronte da sotto una lapide? Dove riversare l’immensità del suo sentimento, se non nell’appoggiare colui per il quale, suo malgrado, il cavaliere dell’Acquario era arrivato a sacrificare se stesso?

Esisteva una risposta soltanto, ed essa coincideva con un nome: Hyoga di Cignus.

«D’accordo, Mu. Donerò anch’io il mio sangue. Sarà grazie a quello che l’armatura del Cigno tornerà a nuova vita».

 

Continua ...




 

Note dell’autore

Ma salve!

“Dammi una lametta che mi taglio le vene” sarebbe stato il titolo più adatto a questa prima parte del capitolo 13. È dagli albori di Sorella Morte che smanio per poter parlare del post battaglia delle Dodici Case dal punto di vista di Milo, ma riconosco che il risultato è decisamente angosciante.

Non so quanto sia facile da intuire, ma la narrazione è suddivisa essenzialmente in due parti.

La prima è una sorta di flash-black dei funerali appena celebrati (che si apre e si chiude con un ricordo inerente a un momento imprecisato dell’adolescenza di Milo e Camus), il quale è scandito dalla – tristissima – poesia del poeta inglese Wystan Hugh Auden; la seconda, come detto in narrazione, è ambientata dieci giorni dopo, e anticipa quella che sarà la riparazione delle armature di bronzo da parte dei Gold saints.

Spero che non abbiate storto il naso dinanzi all’atteggiamento apatico del cavaliere dello Scorpione; in merito a questo, le parole che Aiolia pronuncia alla fine dell’undicesimo capitolo (parte II) mi paiono ancora le più adeguate a spiegare in breve lo stato d’animo di Milo: “Se Milo avesse perso qualsiasi altra persona, me compreso, si comporterebbe in maniera completamente diversa. Sarebbe arrabbiato, adesso. Affranto e stanco, come noi, ma soprattutto arrabbiato. Invece, è Camus che è venuto a mancargli, e l’unica cosa che adesso lo tiene in piedi è l’etichetta. Lui, che di formalismi e galateo non ne ha mai voluto sapere nulla, ora si sorregge solo per il dovere morale di temperare quanto più possibile le sue emozioni.

Colgo altresì l'occasione per ribadire il ruolo assolutamente primario che assume l'avvertimento "What If?" nell'ambito di questa storia: le dinamiche del "sistema Santuario" da me immaginate – qui come altrove – sono davvero inventate di sana pianta.

Venendo agli aspetti più specifici:

- «Piangerete lacrime di sangue, su quella verità che ora vi rifiutate di vedere» : frase tratta dal Capitolo 7, parte I;

- «Milo, guarda le stelle: ammirale e impara a non temerle, anche se spesso ti sembreranno troppo lontane o troppo crudeli. Siamo stati generati per ristabilire la pace lasciandoci guidare da esse, non per sottostare silenti ai loro capricci. Ogni uomo è artefice della propria sorte: nessuno nasce schiavo del fato, nemmeno noi cavalieri» : frase tratta dal Capitolo 7, parte I;

- Come nella versione del manga, Kiki qui è un semplice allievo di Mu;

- «La storia dei cavalieri di bronzo al Grande Tempio narra gesta di amicizia, di altruismo, di spirito di sacrificio, di coraggio senza precedenti: mai questi marmi avevano visto fiorire al loro interno sentimenti tanto nobili in un solo giorno! Ed io dovrei abbandonare tutto questo per egoismo?! Sarebbe peggio di un tradimento!» : frase tratta dal Capitolo 10, parte II;

- «Questo ti fungerà da coscienza in mia vece: guardalo sempre, prima di fare qualcosa di stupido!» : frase tratta dal Capitolo 4.

Fatemi sapere che ne pensate, se ne avete voglia; sono molto attaccata a questo pezzo, nonostante non sia esattamente il massimo dell’allegria (eufemismo grande come una casa)!

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 20
*** Capitolo 13, parte II: 9 ottobre 1986. Milo ***


Capitolo 13 (parte II). Milo

Capitolo 13, parte II: 9 ottobre 1986. Milo

 

 

 

Erano state sufficienti dodici misere ore a spazzare via la maestosa, apparentemente imperturbabile grazia del Grande Tempio.

Agli occhi di un qualsiasi osservatore il Santuario appariva adesso mutilato e sconfitto come una fiera sanguinante – come un’antica divinità decaduta.

L’evidenza si faceva persino più netta se solo si alzava lo sguardo in direzione dei Dodici Presidi zodiacali: a dispetto dei febbrili lavori di ricostruzione che proseguivano giorno e notte, la maggior parte dei Templi Sacri era ancora ridotta a un triste ammasso di mura crollate.

Ben pochi edifici erano usciti indenni dalla battaglia che aveva scosso quei marmi vecchi di secoli e, fra questi, figurava anche la Prima Casa.

L’interno del Palazzo del Montone Bianco, rimasto solido e intatto a ergersi nella devastazione generale, era quieto e ombroso come sempre; così simile a prima che Milo, ormai assuefatto ai soffitti crepati delle restanti Case, per un attimo si era illuso di essere tornato indietro nel tempo – un tempo al di là dell’abisso che aveva inghiottito ogni cosa.

La voce di Mu, proveniente da poco distante l’ingresso posteriore del Tempio, ruppe la sua esile bolla di sapone davvero troppo presto.

«Vieni avanti, Milo. Ti stavamo aspettando».

Anche i suoi quattro compagni superstiti, come lui, indossavano la propria corazza; ai piedi di ciascuno di loro giacevano altrettanti mucchietti di polvere bronzea disposti in cerchio.

Scorpio si posizionò dinanzi al quinto cumulo in silenzio, senza dar segno di aver notato l’occhiata vagamente ansiosa lanciatagli di sfuggita da Aiolia.

«Adesso che siamo tutti,» disse Aries, inasprendo appena il tono sull’ultima parola «credo che potremmo cominciare. Se siete d’accordo, ovviamente».

«Noi siamo pronti, Mu. Dicci cosa dobbiamo fare» rispose Aldebaran, anche a nome di chi si era limitato ad annuire.

«Come forse saprete, le tecniche per restaurare le Sacre armature sono essenzialmente due. La prima, indicata per i danni di minor entità, implica l’utilizzo degli strumenti del mestiere e di speciali polveri lavorate; la seconda, che serve a ridare vita a corazze così lesionate da non poter essere aggiustate diversamente, richiede invece il tributo di sangue di un cavaliere».

«Non penso sia utile stare a discutere su quale metodo scegliere, in questo caso» intervenne Leo, probabilmente con l’intento di passare al sodo il più in fretta possibile.

«No, infatti» asserì pazientemente il Primo Custode, per nulla irritato dall’interruzione «ma debbo comunque avvertirvi: il secondo metodo, benché più efficace e più celere del primo, comporta dei rischi che possono variare a seconda dello stato dell’armatura. Quanto più essa sarà deteriorata, tanto maggiore sarà la dose di sangue richiesta».

«Quindi, potrebbe anche darsi il caso che tutto il sangue di un singolo individuo non sia sufficiente» commentò Shaka, incolore come se stesse parlando di sciocchezze.

«Potrebbe, sì. Ed è per questo che torno a chiedervi se siete davvero disposti a tutto – anche a mettere in gioco la vostra vita –, pur di riparare le armature di bronzo. Vi prego di rifletterci seriamente: una volta avviato, il processo non può essere interrotto fino al suo totale compimento».

Milo già si aspettava un qualcosa del genere: «Per restituire nuova linfa a cinque corazze serve molto sangue; ben più di quanto ne possieda io da solo, in effetti» aveva detto Mu il giorno addietro, senza tuttavia specificare esattamente la quantità di tessuto fluido necessaria.

Per la prima, vera volta da quando era entrato lo Scorpione si soffermò a studiare i resti della cloth che gli stava davanti.

L’armatura del Cigno si presentava malridotta al punto tale che l’unico suo componente vagamente riconoscibile era il diadema; il resto, già irrimediabilmente compromesso dalle quattordici Scarlet Needles ricevute, non aveva retto al successivo scontro con Camus – le cui vestigia, al contrario, riposavano intatte fra le mura ancora incrostate di ghiaccio dell’Undicesima Casa.

«Come vorrei che fosse accaduto l’inverso» pensò irrazionalmente, lo stomaco contratto in uno spasmo «Che fossi tu quello ad aver perso l’armatura, anziché la vita».

La meschinità di un simile desiderio lo fece prontamente vergognare di se stesso, spingendolo a esplicitare per primo quella che, senza alcun dubbio, era la volontà comune a tutti i presenti.

«Saremmo forse qui, se non fossimo pronti ad accettare qualsiasi rischio? Non è più tempo degli egoismi: abbiamo un debito da ripagare» esclamò quindi, con una voce ferma e risoluta che da circa un mese non assomigliava più alla propria.

Dinanzi al generale cenno di assenso che seguì tali parole, Aries sorrise lievemente: «Molto bene, dunque. Adesso osservatemi con attenzione».

Da principio, Mu sollevò il braccio destro proprio sopra ciò che restava dell’armatura del Dragone, ruotandolo verso l’alto; poi, estratto un piccolo pugnale da uno dei suoi gambali, si recise la vena cubitale con un movimento fluido.

«So che ai saints di Atena non è consentito indossare armi,» precisò, incurante del sangue che gli scivolava copioso lungo la parte inferiore del braccio «ma, a differenza di qualcuno di voi, il mio cosmo non ha alcuna proprietà che potesse servire allo scopo».

Mentre Aiolia, Shaka e Aldebaran dovettero seguire l’esempio dell’Ariete, a Milo bastò tendere il dito indice.

«Scarlet Needle» sussurrò, incidendosi la carne più in profondità di quanto sarebbe stato necessario; ritrasse l’unghia solo quando sentì la pelle inondarsi di qualcosa di caldo e vischioso.

Stette immobile a osservare il denso liquido scuro colargli dalla ferita sino alle estremità delle falangi per quella che a lui parve un’eternità; il passare del tempo era scandito soltanto dal meccanico gocciolare del sangue sul metallo spezzato delle corazze di Hyoga del Cigno, Shun di Andromeda, Seiya di Pegasus, Shiryu il Dragone e Ikki di Phoenix.

Più i minuti passavano, più l’Ottavo Custode avvertiva il proprio senso della realtà distorcersi a poco a poco.

La testa gli si era fatta stranamente leggera, e aveva come la sensazione di guardare il suo corpo da una distanza sempre maggiore; strani pensieri gli si accavallavano in mente all’unisono, ma nessuno di essi era tanto definito da riuscire ad acquistare un senso compiuto soddisfacente.

Tic. Tic. Tic. Tic. Tic.

Fiotti rossi continuavano a sgorgare dalle loro vene esposte, eppure le vestigia di bronzo erano ancora meri ammassi di frantumi scintillanti.

«E se non fosse possibile ripararle? Se fossero destinate a rimanere per sempre così – rotte, inutili, inermi?» si chiese Milo nebulosamente, indeciso sul reale soggetto della domanda. Si stava riferendo alle armature, oppure a se stesso?

«Ugh».

L’involontario, quasi impercettibile anelito di Shaka lo distolse dalla specie di trance in cui stava scivolando senza accorgersene.

Scorpio volse appena il viso verso quello del compagno posizionato alla sua destra e non si sorprese di trovarlo mortalmente pallido: a fronte del vastissimo cosmo di cui disponeva, Virgo aveva una corporatura sottile che lo rendeva poco avvezzo agli sforzi fisici estremi.

Osservandoli con maggior attenzione, notò che anche Mu e Aiolia erano piuttosto provati; persino il colorito morbido e scuro di Aldebaran pareva decisamente più cinereo del solito.

Quanto a lungo avrebbero potuto continuare, prima di crollare a terra esanimi?

«Mu» chiamò il Leone all’improvviso, in un rantolo che sembrò espandersi a dismisura per tutta la sala «sei davvero certo che stia funzionando?»

«Abbi fede, amico mio: non senti il loro canto farsi più forte di secondo in secondo?»

«M-ma di che accidenti stai parlando?! Io non sento nessun c-»

«Ha ragione, Aiolia. Ascolta!» lo interruppe Milo, esortandolo debolmente al silenzio con la mano libera.

Se Mu non fosse stato il primo a parlarne, avrebbe bollato quella strana musica che gli riempiva le orecchie quale ulteriore effetto dell’ingente perdita di sangue subita; adesso, invece, la percepiva chiaramente salire dalle armature di bronzo, dolce e tintinnante come il rintocco di piccole campane in lontananza.

Era una melodia piena, carezzevole, che invogliava ad addormentarsi lasciandosi cullare dal suo crescendo – oh, quanto gli sarebbe piaciuto…

«Ehi, guardate!»

Il grido di Aldebaran fu accompagnato dal repentino cessare di ogni altro suono, e da un lampo di luce bianchissima che li costrinse tutti a serrare le palpebre per non rimanere abbagliati.

Quando Scorpio fu nuovamente in grado di aprire gli occhi, i pezzi di metallo accumulati ai suoi piedi erano spariti; al loro posto, adesso, si ergeva un’armatura splendente come ghiaccio irrorato di sole.

La nuova corazza del Cigno aveva forme più aggraziate ed essenziali rispetto alla precedente, e un’intrinseca dinamicità che anche il suo sguardo inesperto era in grado di apprezzare.

Ne saggiò la fattura con le dita, rimanendo colpito dall’inaspettata robustezza dei materiali.

«Wow,» sussurrò fra sé e sé, ammirato «credo che la sensazione di toccare un diamante debba essere esattamente così».

Anche le altre cloths avevano subito notevoli trasformazioni, guadagnando in armonia e compattezza; i loro colori intensi risaltavano sulle spoglie colonne bianche come gemme incastonate in una parete d’acciaio.

«Milo, la ferita».

«Come, prego?»

«La ferita, Milo:» ripeté Shaka, una scintilla di accondiscendenza nelle iridi cerulee «tamponala, o morirai dissanguato».

«Oh, sì. Grazie» rispose lui, accettando distrattamente la benda offertagli dal camerata. Aveva perso quasi del tutto la sensibilità del braccio, che era così intriso di sangue da non sembrare nemmeno più un arto umano.

«Come hanno fatto ad assumere queste nuove sembianze? Io credevo che il processo servisse semplicemente a ristabilire lo status quo ante» chiese poi, vinto da una strana – antica, dimenticata – curiosità.

Virgo gli rivolse un sorriso vagamente enigmatico: «Il sangue è un oggetto magico molto potente, se sai come usarlo. E Mu, nel suo campo, è senza dubbio il migliore».

«Maestro Mu».

L’apprendista di Aries, apparso praticamente dal nulla, prima di continuare li salutò con un piccolo inchino: «Salve a voi, nobili cavalieri».

«Buongiorno a te, piccolo Kiki. Non ti ho né visto né sentito arrivare: sei sicuro di non aver usato il teletrasporto?» domandò Aldebaran, un ampio sorriso bonario a rischiarargli il volto insolitamente grave.

«Qui dentro l’uso della telecinesi è precluso a utilizzatori ben più esperti del mio discepolo; ciò non toglie che Kiki sia molto bravo a spostarsi nel più assoluto silenzio» disse Mu in vece del suo allievo, sfiorandogli la testa con una carezza.

Poi, si rivolse al bambino: «Immagino che tu ci abbia interrotto per una buona ragione».

«Maestro, i cavalieri di bronzo ti chiedono udienza».

Alla notizia, la fronte di Aries non fu l’unica a corrugarsi.

«Non credo si tratti di un caso» mormorò Aiolia, rivolto verso la buia entrata del Tempio «falli entrare, Mu».

«Siate i benvenuti nella mia Casa, cavalieri di bronzo. Avvicinatevi, vi prego».

Non dovettero attendere molto: qualche secondo dopo, infatti, le sagome dei cinque diletti di Atena emersero dall’ombra.

Avanzavano con una titubanza e un riserbo tali da far pensare che fossero intimiditi  dalla situazione; persino il saint di Pegasus pareva meno sfrontato del solito – lui, che pure aveva avuto a che fare col Santuario e i suoi abitanti per sei lunghi anni. Pur se confusamente, Milo si ricordava di quel marmocchio con la bocca troppo larga, allievo della Silver saint dell’Aquila.

«Grande Mu! Ma cosa…» disse questi, spostando perplesso lo sguardo da loro cinque alle corazze appena tornate alla vita «… cosa significa? A chi appartengono queste armature?»

Un barlume di comprensione passò sul volto antico di Shiryu il Dragone, che gli stava a fianco.

«A noi, Seiya. Sono le nostre vestigia, restaurate… »

«… col sangue. Il loro sangue» concluse la frase il ragazzo castano, le labbra spalancate e l’espressione incredula «Perché? Perché l’avete fatto?»

«Perché era necessario. Siamo stati noi a distruggere le vostre armature, ed era giusto che fossimo noi a ripararle» rispose Aiolia, con voce intrisa di dignità e fermezza.

«A qualunque prezzo?» 

«Qualunque» dichiarò sicuro Shaka, replicando al bisbiglio quasi inudibile di Ikki di Phoenix.

«Esattamente come voi, quando vi siete parati dinanzi a ogni Custode dorato che voleva sbarrarvi il passo» aggiunse il Toro, lanciando un’occhiata eloquente alla stampella a cui ancora doveva aggrapparsi il cavaliere di Andromeda – ironico, che il veleno delle rose di Aphrodite fosse sopravvissuto persino al proprio creatore.

Nonostante Hyoga non avesse proferito parola, Milo sapeva benissimo su chi erano puntati i suoi occhi; si sentiva come trapassato dal celeste di quell’espressione austera – che tanto somiglia alla tua, benché i colori non siano gli stessi.

Alzò quindi il viso a guardare quello del Cigno, e si stupì di trovarlo commosso sino alle lacrime.

«Grazie» gli sussurrò il Bronze a fior di labbra, tanto piano da non poterne distinguere il suono.

Scorpio si limitò a rivolgergli un cenno della testa, ammutolito da un groppo alla gola che stava rischiando di soffocarlo.

Sarebbe stato bello potersi buttare a terra, strapparsi i capelli e singhiozzare tanto da non avere più fiato; ignorare status, doveri, responsabilità e piangere, piangere, piangere – piangere fino a inondare la terra sopra la tomba di Camus, per toccarlo di nuovo.

«Ma i cavalieri non piangono e, comunque, i miei occhi non sono mai stati tanto asciutti».

«Possiamo… provarle?» domandò Seiya dopo qualche minuto, sfiorando la nuova cloth di Pegasus con infinita riverenza.

Mu sorrise, quasi che fosse divertito da tanta premura: «Non devi chiedere a noi il permesso di indossare la tua armatura, Seiya».

Detto questo, i cinque cavalieri d’oro fecero un passo indietro, sì da permettere ai più giovani di avvicinarsi alle rispettive vestigia; fu sufficiente una lieve pressione del loro cosmo ad animare le armature, i cui pezzi andarono a incastrarsi sul corpo dei rispettivi possessori in modo fulmineo.

Milo aveva sempre usato la vestizione automatica poco volentieri, riservandola ai soli casi davvero urgenti; detestava privarsi del piacere di sentire la forza delle proprie stelle fluire progressivamente dall’armatura dello Scorpione alle sue membra – di realizzare il miracolo di essere un cavaliere di Atena un poco alla volta, senza fretta.

La battaglia delle Dodici Case era riuscita a uccidere persino la meraviglia che per anni aveva conservata immutata: adesso, più che a una seconda pelle, la cloth di Scorpio gli pareva spaventosamente simile a una gabbia.

«È magnifico!» esclamò Shun, rimirando entusiasta le catene rispondere ai suoi comandi «La mia armatura non è mai stata tanto reattiva!»

«Già,» aggiunse Hyoga, stupito «e nemmeno così leggera».

«O potente» commentò infine Phoenix, l’espressione un po’ meno corrucciata del consueto.

«Non ci sono parole adeguate a ringraziarvi» disse il Dragone rivolto a Mu, chinando la testa in segno di profondo rispetto.

Aries era sul punto di replicare, ma fu nuovamente interrotto dall’ingresso del suo pupillo.

«Maestro, c’è una persona che chiede di passare».

«Di chi si tratta?»

«Di Maia, signore».

A quel nome, le spalle del Primo Custode si irrigidirono appena – per più di un motivo, probabilmente.

Suonava stonato che Maia adottasse tanta formalità, lei che prima soleva entrare e uscire dai Templi con la naturalezza di chi calpesti il suolo di casa propria; inoltre – e soprattutto –, la ragazza non avrebbe potuto scegliere un momento peggiore per decidere di attraversare le Case senza ricorrere ai consueti passaggi sotterranei.

«Non farla entrare, Mu. Non lo sopporterebbe».

L’amarezza dell’affermazione di Aldebaran rifletteva l’incresciosa situazione in maniera perfetta.

«Un Custode può esimersi dal concedere il passo solo nei casi tassativamente previsti, lo sai bene» intervenne Shaka, il tono sommesso miracolosamente privo di qualunque saccenteria.

Pur riconoscendo che Virgo aveva ragione, Milo non poté impedirsi di sperare che Mu cogliesse il suggerimento del proprio vicino di Tempio: non osava neppure immaginare la reazione di Maia di fronte a quanto da loro appena compiuto.

Con estrema riluttanza, alla fine il saint dell’Ariete cedette al dovere di diligenza.

«Lasciala passare, Kiki, per favore».

Tutto questo aveva avuto luogo dinanzi allo sguardo perplesso dei cavalieri di bronzo i quali, per delicatezza, si erano astenuti da qualsivoglia commento; una qualche curiosità li spinse però a girarsi verso l’entrata principale del Palazzo del Montone Bianco alla stessa maniera dei combattenti dorati.

«Che sta succedendo, secondo te?» bisbigliò Pegasus all’orecchio di Hyoga, a voce non abbastanza bassa da sfuggire al fine udito di Milo «Chi sarà mai, questa Maia?»

La brutale, inaspettata risposta del Cigno risucchiò l’aria dai polmoni di Scorpio con inusitata violenza: «La compagna di Camus di Aquarius».

«La compagna?! E tu come-?»

«Shh!» lo zittì l’altro, proprio mentre la figura di Maia si stagliava nella luce diurna proveniente dall’esterno.

Benché fosse stata dichiarata del tutto guarita persino dal proprio mentore, l’aspetto della giovane continuava ad essere palesemente insano.

Il suo corpo era diventato sottile ed aguzzo nell’arco di nemmeno un mese, tanto che le scapole sporgevano dalla maglietta come ali ripiegate su loro stesse; sul viso tirato e spento risaltavano nette delle occhiaie profonde.

Ma la cosa che a Milo faceva più male era l’espressione indurita che aveva ingoiato il sorriso sereno dell’amica, stravolgendone i lineamenti sino a renderla quasi irriconoscibile.

Sebbene avesse pregato ardentemente affinché ella si risvegliasse, da quando era successo lui e Maia non avevano mai scambiato più di qualche parola, evitandosi reciprocamente per una sorta di tacito accordo – complice, forse, anche il bizzarro assetto di rapporti venutosi a creare fra loro a seguito della finta dichiarazione dello Scorpione.

Le rare volte in cui si erano ritrovati da soli nessuno dei due aveva avuto il coraggio di aprire bocca, rendendo la tensione così palpabile da costringere l’uno o l’altra ad accampare una scusa qualsiasi per allontanarsi.

Dopo le esequie, le cose erano addirittura peggiorate.

Scorpio non sapeva se ciò fosse dipeso dal veto che lui e gli altri avevano posto sulla sua partecipazione ai funerali, tuttavia, il fatto che la ragazza avesse smesso perfino di guardarlo in faccia lo spingeva a credere che questa provasse nei suoi confronti una forma di risentimento particolarmente acuta – «come darle torto, del resto? La maggior parte delle volte io stesso non riesco a tollerare la mia immagine riflessa allo specchio».

«Mu, che novità è questa?» chiese Maia, ancora troppo distante per distinguere bene i dettagli della scena «Da quando costringi il tuo allievo a farti da uscere?»

Fatto qualche passo in avanti, però, la visuale d’insieme le fu subito più chiara.

«Oh» disse semplicemente, immobilizzandosi sul posto come una statua di sale.

Dapprima, i suoi occhi sbarrati squadrarono i saints di bronzo e le loro vestigia splendenti, poi si soffermarono con più attenzione su Aiolia, Aldebaran, Milo, Mu e Shaka; tuttavia, fu solo quando notò le bende macchiate di rosso e il pavimento intriso di sangue che comprese davvero.

«N-non è possibile,» balbettò a mezza voce «ditemi che non è vero».

«Maia, ascoltami… » cominciò Mu, quasi a mo’ di preghiera.

Ma Maia non aveva nessuna intenzione di ascoltare. Non stavolta.

«Come avete potuto? Come avete potuto prestare il vostro sangue per riparare le armature di questi assassini?» sibilò, le membra contratte dallo sforzo di contenersi «Hanno invaso una terra non loro, senza prima esperire alcun tentativo di conciliazione; si sono fatti strada con la violenza, trucidando chiunque non abbia dichiarato la resa. È forse in nome di questa “giustizia” che sono state sacrificate le vite di Death Mask, Shura, Aphrodite e Camus? Contavano così poco, per voi, i vostri compagni?»

Le sue parole trasudavano talmente tanta indignazione che sembrava sul punto di esplodere in milioni di pezzi da un momento all’altro. In tanti anni Milo non l’aveva mai vista così arrabbiata e, al contempo, così fragile.

Avrebbe voluto avvicinarsi e afferrarle le mani, perché smettessero di tremare; stringerla contro di sé e sussurrarle che poteva sfogarsi quanto voleva, come tante volte era avvenuto in passato – un passato irrimediabilmente estinto, al pari delle persone che erano stati.

«Ti sbagli. Era Arles l’unico vero assassino, e noi l’abbiamo fermato».

Prima che Maia avesse il tempo di replicare alla rude – ma veritiera – constatazione di Ikki, Aiolia decise di prendere in mano la situazione.

«Ha ragione lui» disse quindi il Leone, compunto «Quella che ha sconvolto il Grande Tempio è stata una guerra in piena regola, ed era Arles il nemico da sconfiggere. Lui e chiunque l’abbia appoggiato, volontariamente o meno… compresi noi Gold saints».

Poi, addolcendo appena lo sguardo, aggiunse: «Credimi, io so bene cosa voglia dire provare rancore: conosco perfettamente la sensazione bruciante che rende intollerabile anche il solo pensiero di condividere la stessa aria con chi ti abbia privato di qualcuno a te caro. Ed è proprio perché so come ti senti che ti suggerisco dal profondo del cuore di provare a osservare le cose con più distacco. L’odio è un veleno che appanna la vista e ottenebra la ragione, Maia».

Maia aveva ascoltato il discorso di Leo in silenzio, coi pugni serrati e gli occhi bassi; quando lui tacque, ella rimase nella stessa posizione per qualche secondo ancora, come se stesse pensando.

«Facile parlare a posteriori, eh, Aiolia?» esclamò infine, senza alzare la testa «Non sei tu quello che ha sputato su ogni passo di Shura per tredici anni, senza considerare neppure un istante la sua posizione di subordinato? Lui non era forse un soldato, obbligato a eseguire gli ordini? Sì, lo era – eppure, hai continuato a detestarlo lo stesso. Non ti sembra ipocrita, adesso, venire a darmi lezioni di perdono e accettazione?»

«Maia, stammi a sentire… »

«NO, Aldebaran» rispose lei, girandosi di scatto verso il Toro «non voglio più ascoltare le vostre scuse. Come potete fregiarvi del titolo di “protettori dell’umanità”, quando nemmeno la morte dei vostri più cari amici pare toccarvi? La triste verità è che, qui dentro, la vita umana non ha alcun valore – e io non sono più disposta ad avvallare una simile mostruosità».

«Non puoi voltare le spalle al Grande Tempio. Fai parte di una famiglia custode» bisbigliò Shaka, nell’estremo tentativo di riportare Maia alla ragione.

Tentativo che, invece, sortì esattamente l’effetto opposto.

«Oh, sì che posso: dopo la morte di mia madre, il titolo di custode è tornato a mia nonna. Avevamo stabilito che io le sarei succeduta una volta diventata medico, per cui, ad oggi, è ancora lei a detenerlo. Come vedi, nessun vincolo di tipo formale – né morale – mi trattiene qui».

A quel punto, il tono fermo e sferzante della sua voce si incrinò di botto: «Questo non è più il mio posto. Dopo quanto successo… dopo la m-morte di C-camus… »

Pronunciare il suo nome le dette il colpo di grazia; incapace di continuare, la ragazza si nascose il viso tra le mani e corse verso l’entrata della Prima Casa con le spalle scosse dai singhiozzi, senza voltarsi indietro – «senza nemmeno un addio».

Guardandola scomparire oltre l’arcata, il buco che aveva preso il posto del cuore di Milo si espanse dolorosamente. 

«Non posso perdere anche lei. Non riuscirei a sopportarlo» pensò, mentre le gambe si animavano di vita propria e lo conducevano sulla scia di quella che, per lui, era come una sorella.

Gli bastarono poche falcate per raggiungerla fuori, dove ne interruppe la fuga afferrandola per un braccio.

Maia si girò lentamente, quasi si aspettasse che qualcuno avrebbe cercato di fermarla; nel riconoscerlo, tuttavia, i suoi occhi colmi di lacrime si spalancarono a dismisura.

«Milo!» esalò, incredula «Io… tu, tu non… non toccarmi

«Osa ancora toccarmi senza permesso e giuro che di te non rimarrà nemmeno un briciolo di polvere».

Per un attimo le immagini dell’Ottava Casa e del respiro spezzato dell’Undicesimo Custode su di lui si sovrapposero al presente, oscurandolo; la somiglianza fra il comando di Maia e quello che Camus gli aveva rivolto durante il loro ultimo colloquio era stata tale da spingerlo a mollare la presa ancor prima di rendersene conto.

«Non andartene, Maia. Ti prego» disse di getto lo Scorpione, la voce ridotta a poco più di un sussurro.

«Speravo che avessi almeno la decenza di risparmiarti la recita – l’ennesima. Sono davvero un’ingenua».

«R-recita? Quale recita? Ti sto chiedendo di restare perché non posso tollerare di perdere anche te. Magari non ti sembra, ma giuro c-che… che condivido il tuo dolore più di quanto immagini».

«Molto, molto più di quanto immagini».

Per tutta risposta, la giovane eruppe in una risata sarcastica: «Oh, questo lo so bene: te l’ho letto in faccia mentre credevi di non essere visto. E io, che pensavo di conoscerti come le mie tasche! Ci hai giocati tutti con grande maestria, devo ammetterlo. Me compresa».

Un brivido gelido corse lungo la schiena di Milo, sconquassandola come se fosse stato denudato di armatura, abiti e pelle.

«Non capisco di cosa tu stia parlando» mormorò, senza metterci alcuna convinzione.

«Davvero? Quindi per te Camus era solo un amico, giusto? Un caro, carissimo amico e nient’altro, eh?»

Scorpio annuì impercettibilmente, pur sapendo che stavolta nessun trucco sarebbe stato in grado di salvarlo.

«Sei uno schifoso bugiardo!» gridò Maia, crocifiggendolo con un’occhiata «Per quanto ancora ti ostinerai a negare l’evidenza? Per quanto ancora fingerai di non essere stato follemente, perdutamente innamorato di Camus di Aquarius?»

 

Continua …



 

Note dell’autore

Devo fare i complimenti a coloro che, dopo essere sopravvissuti alla parte I, si siano spinti sino a qui: se esistete, siete davvero coraggiosi – nonché masochisti, ma io vi amo lo stesso.

A proposito del precedente aggiornamento, ribadisco con convinzione ciò che ho scritto nelle note in calce al medesimo riguardo al “What If?”: il discorso di Mu sui metodi di riparazione delle armature, il concreto funzionamento della procedura e gli altri aspetti di dettaglio sono frutto della mia fantasia. Mi trastullo con Saint Seiya dalla notte dei tempi, ma ciò non esclude che alcune informazioni canoniche possano essermi sfuggite XD

Maia fa un po’ la cagaca***, ne sono consapevole. E tuttavia, è pur vero che “l’odio è un veleno che appanna la vista e ottenebra la ragione” [cit. Aiolia]: non so se avete mai provato la sensazione di sentirvi mangiare da dentro, ma vi assicuro che è un qualcosa di così potente da offuscare persino la mente più razionale.

Dunque, dinanzi a quello che, per lei, è l’ennesimo schiaffo alla memoria di Camus – e non solo –, la decisione di mollare tutto e lasciare il Santuario ad annegare nel proprio fango diviene l’unica soluzione praticabile.

Come ella stessa ammetterà poi, era soprattutto la sua affezione per i Gold saints a tenerla lì, non essendo ancora vincolata da un onere formale; venuta meno questa, la ragazza non ha più alcuna ragione di continuare a servire un ente divenutole ostile. Soprattutto se la più accorata richiesta di restare proviene dal suo ex migliore amico che, oltre ad averle mentito spudoratamente più di una volta, sembra altresì avere accettato la morte della persona che entrambi amavano senza battere ciglio.

Non so perché mi ostino ogni volta ad annoiarvi con la pseudo psicanalisi dei “miei” personaggi; sarà che ho il terrore di scadere nell’assurdo, perdonatemi!

Riguardo alle citazioni presenti nel testo:

- «Per restituire nuova linfa a cinque corazze serve molto sangue; ben più di quanto ne possieda io da solo, in effetti» : Capitolo 13, parte I;

- «Osa ancora toccarmi senza permesso e giuro che ti di te non rimarrà nemmeno un briciolo di polvere» : Capitolo 10, parte I.

(Spero) a presto, con la terza – e ultima – parte del capitolo 13!

Un abbraccio, e buon Natale a tutti!

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Capitolo 21
*** Capitolo 13, parte III: 9 ottobre 1986. Milo ***


Capitolo 13, parte III. Milo

Capitolo 13, parte III: 9 ottobre 1986. Milo

 

 

 

«Milo innamorato di Camus?! Maia, ma cosa dici?»

La voce di Aldebaran si levò all’improvviso, incredula e inaspettata – stonata, così come la presenza di lui, Mu, Shaka e Aiolia sui gradini antistanti la Prima Casa.

Maia non dette segno di averli notati, lo sguardo ancora inchiodato a quello di Milo.

«Ti ho già detto che non è così» disse questi automaticamente, senza neppure sapere perché stesse perseverando in quella inutile farsa. Aveva creduto che nulla potesse spaventarlo più dell’orrida realtà in cui si trovava, ma il suo subconscio, evidentemente, la pensava in maniera diversa.

«Certo. Perché “l’oggetto della tua infatuazione” sono io, giusto? Cielo, che razza di cretina sono stata. Avrei dovuto continuare a seguire il mio istinto, piuttosto che prendere per buone le tue fandonie» replicò lei, portandosi di riflesso la mano alla bocca – quasi volesse pulirla.

«Io… »

«Non c’è nulla che tu possa dire per convincermi del contrario. Ti ho visto, Milo; all’obitorio, il giorno prima dei funerali. Ti ho visto toccare il cadavere di Camus con una delicatezza che non hai mai posseduto; ti ho sentito rivolgergli parole che mi hanno strappato l’anima, perché sono le stesse che avrei potuto pronunciare io. Il punto non è più se, ma da quanto; da quanto tempo, Milo? Sei capace di dire la verità, per una volta?»

Dinanzi a una simile dichiarazione, lo Scorpione avrebbe potuto fare molte cose. Avrebbe potuto domandare a Maia come, perché e quando, oppure accusarla di essersi inventata l’intera scena; avrebbe potuto intimarle di tacere, magari sottolineando la cosa con un pugno ben assestato sulla prima superficie disponibile.

Invece, si limitò a sospirare.                                                                                                                 

Oh, al diavolo. Che tutti ascoltassero pure l’indicibile segreto di Milo di Scorpio: tanto l’unico di cui aveva sempre temuto il giudizio non era più in grado di sentirlo.

«Da quanto tempo provo qualcosa per Camus, mi chiedi» esordì quindi, vagamente divertito dalla facilità con cui le parole rotolavano fuori «Ebbene, non ne sono completamente certo neppure io. So solo che non c’è nulla che io rammenti più chiaramente di quando lui mi è comparso davanti dopo sette anni di lontananza. È stato come… come iniziare a vedere davvero».

Chiuse gli occhi un attimo appena, a rivivere quell’istante perfetto: Camus nel sole di Grecia, pallido come neve, con lo sguardo altero un po’ smarrito e un tenue sorriso sulle labbra sottili: «Sei proprio tu, Milo?»

Fu con immenso sforzo che si costrinse ad accantonare il ricordo – dove Aquarius era più giovane, meno austero e vivo – per tornare alle faccende presenti.

«Sta di fatto che, da quel momento, non sono più riuscito a guardare altro» aggiunse, ormai dimentico di ogni pudore «E adesso… adesso sono come un cieco a cui è stata tolta la vista».

Dietro di lui qualcuno dei suoi compagni trattenne il respiro, ma egli non se ne curò; la sua attenzione era tutta concentrata sulle grosse lacrime che, per rabbia o pietà, avevano ripreso a scorrere lungo le guance di Maia.

«Se davvero l’amavi così tanto,» disse questa, asciugandosi il viso con un movimento brusco «perché non gliel’hai mai detto? E, soprattutto, perché non gli hai impedito di farsi ammazzare?»

A quella domanda, l’interno del petto di Milo – incredibile, c’era ancora qualcosa! – si contrasse in uno spasmo; tuttavia, prima che potesse rispondere, l’altra riprese a parlare.

«Lui sentiva che sarebbe morto. Non l’ha mai ammesso esplicitamente, ma era evidente che lo sapeva. Tu, però, eri troppo impegnato a giocare alla parte offesa per accorgertene. E dopo… » un singulto « … se io avessi presagito ciò che poi è successo, mi sarei buttata in mezzo alla lotta fra Camus e il Cigno senza pensarci due volte. Tu, invece, non hai fatto niente. Nessuno di voi ha mosso un dito per salvarlo».

«Camus non voleva essere salvato. Se mi fossi intromesso, mi avrebbe odiato per il resto della sua vita» sussurrò Scorpio, in maniera così labile da essere a malapena udibile. Se lo ripeteva sin da quando il cuore di Aquarius aveva smesso di battere: una motivazione che, col passare del tempo, era divenuta fragile e stantia persino alle sue stesse orecchie.

«E ritieni che tollerare il suo disprezzo sarebbe stato peggio di sopportarne la morte, Milo? Sei sul serio così egoista?!»

«N-no. È solo che… che speravo capisse. Che facesse passare Hyoga, come ho fatto io».

«Beh, se davvero hai pensato una cosa del genere, allora lascia che ti dica questo: tu non hai amato altro che un’idea» sentenziò Maia, funerea «Camus non si sarebbe mai fatto da parte in favore di un invasore, venuto da chissà dove con la pretesa di distruggere i pilastri della sua intera esistenza. Avresti dovuto saperlo meglio di chiunque altro. Avresti dovuto sbarrare la strada a quel ragazzino con ogni mezzo e, invece, hai lasciato che arrivasse fino all’Undicesimo Tempio e che togliesse la vita ad Aquarius. Non hai avanzato obiezioni neppure quando la sua Dea l’ha rianimato, senza tuttavia degnare di considerazione alcuna lo sconfitto – lui pure, cavaliere di Atena. E ora, ora hai persino prestato il tuo sangue per ripararne l’armatura… »

«Basta così, Maia» esclamò Aiolia nervosamente, facendo un passo nella loro direzione «Stai esagerando».

Il monito del Leone ricordò alla ragazza che altri stavano assistendo al confronto fra lei e Milo; il suo sguardo si spostò dunque da Scorpio al resto dei Gold saints in modo insopportabilmente lento, come se volesse trapassarli tutti con un’unica occhiata.

«Sapete che c’è? Mi fate ribrezzo. Tutto di questo luogo “sacro” mi fa ribrezzo. Me lo ha sempre fatto, per certi versi, nonostante mi sia impegnata ogni giorno a nasconderlo; in virtù del legame di servizio che vincola la mia famiglia, certo, ma soprattutto in ragione dell’affetto che vi portavo. Ho continuato a fare il mio dovere persino dopo che il Santuario mi ha derubato dei miei genitori, perché pensavo che ne valesse comunque la pena. Ma ora si è sorpassato ogni limite, e io sono stanca – del Mondo Segreto, delle sue logiche incivili che non apportano altro che morte. Stanca di voi, e specialmente di te» soffiò poi, di nuovo rivolta all’Ottavo Custode «Non ce la faccio più a fingere che tu non abbia avuto ruolo nell’assassinio di Camus. Sei stato tu a consentire a Hyoga del Cigno di giungere sino a lui, pur sapendo a cosa sarebbe andato incontro. L-le tue mani sono sporche di sangue tanto quanto le sue!» 

«MAIA!»

Al grido di Mu, Maia sembrò realizzare appieno la portata di quanto aveva appena detto; si portò quindi le mani alla bocca inorridita, ma non abbastanza velocemente da potersi rimangiare quella che già da tempo era la nenia delle notti insonni di Milo – il sussurro strisciante che lo accompagnava ovunque andasse.

“Le tue mani sono sporche di sangue tanto quanto le sue”: nient’altro che la pura, terribile verità. Sentirla pronunciare ad alta voce le dava soltanto un senso ancor più innegabile.

«Va tutto bene, ragazzi. Non importa» mormorò Scorpio, facendo loro segno di non intervenire; quindi abbassò gli occhi per incontrare quelli di Maia, vacui ed enormi.

«Hai ragione tu:» disse, mostrandole i palmi macchiati di rosso «il sangue secco che vedi verrà lavato via a breve, ma quello di Camus continuerà a bruciare almeno finché avrò vita. Se può consolarti, sappi che avrei preferito milioni di volte morire al posto suo… in un certo senso, la Morte ha preso anche me. Solo che io respiro ancora, mentre lui no. Mi dispiace, Maia».

Quest’ultima lo fissò senza fiato, scossa da singhiozzi così violenti da impedirle di parlare. Per un lunghissimo istante parve quasi sul punto di buttargli le braccia al collo e abbandonarsi contro il suo petto, ma poi, chissà come, trovò la forza di calmarsi.

Ella indietreggiò appena, a percorrere – «per l’ultima volta?» – il profilo mutilato delle Dodici Case e le facce di chi era rimasto sulla soglia del Primo Tempio, passando dall’espressione addolorata di Aldebaran a quella, insolitamente tesa, di Shaka; un poco di più indugiò sui visi dei suoi due amici più cari, quasi volesse imprimerseli nella memoria con maggior precisione.

«Addio» sussurrò infine, accartocciata su se stessa come un involucro vuoto.

Mentre Maia si allontanava con tutta la rapidità concessale dalle sue membra sfibrate, Aiolia si accostò a Milo in silenzio; poi, sempre senza dire una parola, lo prese per mano.

«Come quando eravamo soltanto dei mocciosi spaventati» bisbigliò Scorpio, guardando le loro dita intrecciate con un sorriso amaro.

«Lo siamo ancora, certe volte. Più spesso di quanto pensiamo».

Insieme osservarono la figura della ragazza farsi sempre più indistinta gradino dopo gradino, sino a che non scomparve dalla loro vista.

 

*

 

Il forte vento di Scirocco che aveva preso a soffiare a metà pomeriggio si era portato appresso enormi nubi nere e viola; una volta addensatesi, queste decisero di iniziare a rovesciare il loro carico d’acqua senza alcun tipo di preavviso.

Il temporale sorprese Milo lungo la scalinata che collegava la Sesta alla Settima Casa, costringendolo a percorrere di corsa il resto del tragitto: era così abituato a detestare la pioggia da scordare per un momento che di bagnarsi, attualmente, non gli importava assolutamente nulla.

Giunse all’Ottavio Tempio col fiato corto e le ginocchia molli per la fatica. Si sentiva terribilmente spossato, manco avesse combattuto per ore ed ore.

L’interno dei suoi appartamenti era buio come a notte inoltrata, ma Scorpio non ebbe problemi a trascinarsi a colpo sicuro sino al frusto, sgangherato divano di cui da mesi giurava di disfarsi – promessa vana, giacché in vita sua non era mai stato capace di disfarsi di niente. L’intera casa strabordava di oggetti da lui accumulati negli anni, molti dei quali non possedevano più nessuna utilità pratica.

Per esempio, le bandierine greche acquistate allo stadio di Atene in occasione del campionato europeo di atletica leggera troneggiavano indisturbate sugli scaffali del salotto dal 1982; poco più in là, invece, faceva bella mostra di sé la bottiglia vuota di Etna Rosso Riserva che Death Mask si era procurato tramite certi suoi conterranei per “allietare” il veglione del Capodanno precedente; sul davanzale della finestra di cucina una strana piantina sudamericana prosperava miracolosamente senz’acqua, e lo sportello del frigorifero pullulava di post-it colorati zeppi degli scarabocchi di Maia. Sopra il comodino della camera da letto, accanto al frammento di roccia forato dal suo primo Scarlett Needle, stava la confezione di carta da lettere regalatagli da Camus alla vigilia del proprio rientro in Siberia per addestrare l’aspirante Crystal saint.

«Casomai ti prendesse voglia di scrivermi» aveva spiegato Aquarius, passandogli un foglietto contenente l’indirizzo con imbarazzo travestito da supponenza.

Ma Milo, che amava fare le cose in grande, si era stufato di quel mezzo di comunicazione piuttosto velocemente. Così, alla prima occasione buona, era volato a Mosca; da lì aveva preso la linea transiberiana fino a Tajšet, per poi proseguire con la più recente ferrovia Bajkal-Amur in direzione di Tynda. In seguito, tra mille imprecazioni contro il freddo, la lingua russa e la neve, si era imbarcato sul fiume Lena per Jakutsk, dove aveva noleggiato una slitta trainata da cani.

Era giunto a Ojmjakon dopo dieci giorni di viaggio totali – e con le mani a un passo dalla cancrena –, ma il guizzo di genuino piacere che aveva attraversato il viso esterrefatto di Camus nel vederselo comparire alla porta della sua isba era stato ampiamente sufficiente a ripagare Scorpio di ogni fatica.

«Dobryy vecher, ‘Mus! Porca miseria, che razza di posto!»

«Putain, Milo… tu sei, sei… »

«Congelato? Sì, esatto! Fammi entrare, piuttosto, prima che ti muoia sull’uscio di casa».

«… tu sei completamente pazzo».

Gli sembrava impossibile che la sua voce fosse diventata un mero ricordo. 

«Avresti mai detto che sarebbe finita così?» domandò, rivolgendosi a un interlocutore che non poteva più rispondergli «Perché io no. Mai».

«Lui sentiva che sarebbe morto. Non l’ha mai ammesso esplicitamente, ma era evidente che lo sapeva. Tu, però, eri troppo impegnato a giocare alla parte offesa per accorgertene».

Maia aveva ragione? Camus si era davvero preparato a morire? Ma allora, perché fermare Hyoga già alla Settima Casa?

«Per impedirmi di combattere una battaglia che egli considerava soltanto propria? Oppure per evitarmi la fine a cui poi è andato incontro lui stesso?»

Un improvviso giramento gli abbuiò la vista per un attimo, obbligandolo a poggiare la testa sullo schienale del divano. Fece qualche respiro profondo, nel tentativo di sfollare il cervello dalla nebbia che lo stava rapidamente offuscando; un po’ come era accaduto quella stessa mattina, durante il rito.

Pensando che fosse decisamente arrivata l’ora di consumare un pasto decente, Scorpio fece per alzarsi in piedi, sennonché un secondo capogiro lo colse a metà del movimento. No, c’era qualcosa che non andava – l’armatura: doveva essere quella a togliergli l’aria. Si spogliò quindi del diadema, poi del busto e del bracciale sinistro; nello sfilare il destro, però, realizzò che il suo malessere non dipendeva affatto dalle vestigia.

Non aveva idea di quando la ferita si fosse riaperta: si era lavato il braccio solo sommariamente, e questo doveva avergli impedito di accorgersi della nuova fuoriuscita di sangue. Avrebbe dovuto dare ascolto agli altri e andare con loro all’ospedale da campo per farsi mettere i punti – se solo fosse riuscito ad accettare che, stavolta, non sarebbe stata la sua migliore amica ad applicarglieli. Il solito cretino sentimentale.

Con enorme fatica, Milo poté infine sollevarsi e arrancare verso il bagno; una volta dentro, dovette appoggiarsi al bordo del lavandino per non cadere a terra.

Trovarsi faccia a faccia con lo specchio gli restituì un minimo di lucidità, quel tanto che bastava a rendersi conto una volta di più di essere diventato molto simile a un fantasma. Il suo viso, fino a poco tempo addietro abbronzato e vigoroso, appariva adesso spaventosamente ingrigito, come se fosse invecchiato di cinquant’anni; la linea della mascella si era fatta talmente tesa da far pensare che l’osso stesse per bucare la pelle e uscire fuori da un momento all’altro. Il corpo, poi, non era certo messo in condizioni migliori: aveva le clavicole sporgenti quasi quanto le scapole di Maia.

Sembrava stesse diventando il trasparente contenitore della propria disperazione. Il lato più inquietante della faccenda, tuttavia, era che la cosa non lo toccava minimamente.

La benda che aveva applicato ore addietro era tanto intrisa di sangue da aver aderito alla lacerazione come una seconda pelle; staccarla, oltre che un bruciore acuto, provocò altresì l’ovvio aggravarsi dell’emorragia.

La ferita era una linea appena visibile sotto la piega del braccio, sottile ma profonda: dopo averla sciacquata e disinfettata, Scorpio la fasciò stretta con una delle garze sterilizzate che teneva nel mobiletto delle emergenze. Sperava che tale medicazione di fortuna gli desse il tempo di riprendere energie sufficienti a trascinarsi fuori e chiedere aiuto a chiunque si trovasse nei paraggi – sentinelle adibite alla guardia notturna, perlopiù, data l’ora e le condizioni climatiche.

Oppure avrebbe potuto usare il cosmo e richiamare l’attenzione dei suoi parigrado: se solo fosse riuscito a concentrarne una quantità anche minima…

Milo ispirò avidamente, cercando di incamerare più aria possibile; poi, con la massima cautela, chiamò a raccolta la propria aura… e tutto si fece buio.

Quando riaprì gli occhi, si ritrovò disteso sul pavimento del bagno – o almeno così gli parve: la testa pulsava tanto da rendergli difficile persino pensare. Evidentemente, viste le sue attuali condizioni, bruciare il cosmo si era rivelato uno sforzo al di là delle proprie possibilità.

Non credeva di essere rimasto incosciente molto a lungo; fuori, infatti, stava ancora piovendo. Il ticchettio dell’acqua contro il soffitto del Tempio produceva un suono piacevole, rilassante: tutto a un tratto, lo assalì una gran voglia di dormire.

Ma sì, ci avrebbe pensato il giorno successivo alla ferita.

«La ferita… »

La ferita aveva di nuovo ripreso a sanguinare.

«Merda. Merda. Merda!»

Scorpio utilizzò le ultime forze che gli restavano per barcollare sino in camera, dove si lasciò cadere ai piedi del letto. Dietro di lui si allungava una scia di piccole pozze scure – «assomiglia al succo di melograno che bevevo da bambino».

Doveva assolutamente fare qualcosa finché era in sé: se fosse svenuto ancora, con ogni probabilità non si sarebbe più svegliato.

«Morire come un animale scannato… che dipartita gloriosa per un cavaliere d’oro di Atena».

O magari, dopotutto, quella era esattamente la fine che meglio gli si addiceva: spegnersi nel suo stesso sangue, versato a mo’ di tributo per gli errori che aveva commesso.

«Piangerete lacrime di sangue, su quella verità che ora vi rifiutate di vedere».

Daidaros gliel’aveva detto, che le sue lacrime sarebbero state rosse – rosse come il dolore. Come il sangue che non era mai uscito dal corpo congelato dell’Undicesimo Custode, e che adesso, per contrappasso, strabordava dal suo.

«Camus non si sarebbe mai fatto da parte in favore di un invasore, venuto da chissà dove con la pretesa di distruggere i pilastri della sua intera esistenza. Avresti dovuto saperlo meglio di chiunque altro».

Era vero: avrebbe dovuto saperlo. Ma aveva amato Aquarius così tanto e così a lungo da non riuscire a vedere come, per lui, l’onore venisse ancor prima della Giustizia stessa: una mancanza, la sua, che a Camus era costata cara.

Con che diritto Milo continuava a vestire i panni di saint se, oltre ad aver creduto a una chimera per tredici anni, non era stato neppure capace di salvare la persona alla quale teneva di più? No, lui non meritava realmente di combattere fra le schiere di Pallade; non era degno di presidiare il Santuario, a cui pure doveva tutto – persino la vita.

In qualunque stagione dell’anno si fosse, il porto di Adamas non mancava mai di accogliere i forestieri col suo sentore di pesce e spezie: sentivi di essere arrivato a destinazione ancor prima di vedere i cartelli, quasi che l’odore fungesse da infallibile comitato di benvenuto.

Milo ne ispirò qualche boccata, socchiudendo gli occhi nel sole di mezzogiorno; nonostante la calura estiva, i bianchi contorni delle abitazioni rimanevano netti come le loro solide fondamenta di pietra e calce.

«Dunque, questo sarebbe il tuo paese natale?» chiese Maia una volta sbarcati, lo sguardo curioso che guizzava incerto qua e là.

«No, questo è il paese dove ho vissuto sino alla chiamata – avvenuta l’otto novembre 1971, giorno del mio sesto compleanno. Non so dove sono nato: la Madre Superiora raccontava di avermi trovato dentro una vecchia barca incagliatasi sulla battigia, poco distante dall’orfanotrofio. È per questo che, all’anagrafe, ero iscritto come “Milo Thalássia” – qualcosa come “Milo del mare”, appunto».

«E tu, Aiolia? Non hai mai avuto un qualcosa di simile a un cognome?»

Quello, in risposta, scosse la testa: «Quando venni alla luce, già sapevano che ero il predestinato all’armatura del Leone. Il mio nome non è mai comparso nei registri dell’anagrafe nazionale».

«Piuttosto, Milo» proseguì subito dopo, esaminando i dintorni «dove si trova l’istituto? A Plaka?»

«No. È proprio ad Adamas, a circa 500 metri dal porto. A vantaggio di praticità e riservatezza, suppongo».

Scorpio si volse alla sua sinistra e indicò una viuzza sterrata che si allontanava dal centro: «Basta seguire quella strada sino alla curva della costa. Volete che ve lo mostri? Non ci vorrà molto, ve lo assicuro».

«Beh, non vedo perché no. In fondo, siamo in vacanza!» esclamò Maia, facendogli l’occhiolino.

Lui le sorrise di rimando, vagamente imbarazzato; benché avesse fatto finta di nulla sino ad allora, sapeva benissimo che quella gita, lungi dall’essere frutto di un’idea estemporanea, faceva invece parte del piano architettato da Maia e Aiolia per riportarlo a Milos, sulla sua isola – dove, chissà perché, non aveva più avuto il coraggio di tornare.

«L’ultimo che arriva è un cavaliere di bronzo!» gridò all’improvviso il giovanissimo saint di Leo, iniziando a correre.

Milo lo imitò a stretto giro, ridendo forte: «Sempre i soliti trucchi sleali, micio!»

«Ehi! Non fate gli idioti, aspettatemi!»

«Non prendertela, Maia! Ci vediamo in fondo!»

Zigzagando tra la folla a tutta randa, il cavaliere dello Scorpione si lasciò alle spalle l’ultimo gruppo di case in brevissimo tempo. Fuori dal piccolo agglomerato urbano l’aria perse il suo sapore di pescato in favore di uno diverso, fatto di sale e terra.

Essendo un corridore fenomenale, Aiolia non aveva mai avuto difficoltà a vincere le gare di velocità che spesso ingaggiavano; negli ultimi tempi, tuttavia, il Leone si era fatto vistosamente più massiccio, sviluppando in potenza e perdendo in rapidità. L’Ottavo Custode, invece, presentava ancora le fattezze esili e fanciullesche tipiche della prima pubertà: l’unico aspetto positivo della faccenda era proprio quello di aver potuto soffiare il titolo di velocista al parigrado.

«Ciao-ciao, ‘Lia!» schiamazzò Milo, sorpassando l’amico nel punto in cui la strada piegava bruscamente a destra; superata la curva, però, il sorriso gli morì sulle labbra.

Il convento dalle cupole azzurre che ricordava era sparito, volatilizzato, dissolto: al suo posto, in un’area delimitata da vecchi nastri segnaletici scoloriti e strappati dal tempo, rimaneva soltanto un cumulo di resti bruciacchiati. In quello che una volta era stato il cortile interno qualche erbaccia aveva addirittura ricominciato a crescere, sprezzante della desolazione generale.

«Cos’è successo qui?» chiese Aiolia a bassa voce, dopo averlo raggiunto.

«N-non ne ho la più pallida idea».

«Siete… pant, pant… i soliti stronzi! Lo sapete che non riuscirei a starvi dietro neppure con la bicicletta, eppure vo-oddio».

Dinanzi al triste spettacolo dipanatosi dinanzi a lei, Maia interruppe di botto la propria accorata invettiva.

«Un incendio?»

«Probabile» rispose Scorpio, facendo qualche passo verso ciò che restava dell’edificio; la brezza proveniente dal mare, di quando in quando, alzava la sabbia in piccole nuvolette di polvere scura. Le fiamme dovevano essere divampate con una violenza inaudita, se erano riuscite a carbonizzare pressoché l’intera costruzione.

A quel punto, il silenzio fu bruscamente interrotto dal ragliare di un asino. La bestia era legata a un alberello spuntato per caso nei pressi degli scogli, dalla parte opposta della spiaggia; il suo padrone stava seduto su uno spuntone di roccia poco più in alto, completamente assorto nella contemplazione della lenza dinanzi a sé.

«Ehi, signore!»

Al richiamo di Milo il vecchio li guardò spaesato per qualche secondo; tuttavia, una volta appurato che ce l’avevano proprio con lui, fece loro segno di avvicinarsi.

«Nessuno ti ha mai insegnato che non si urla a qualcuno che sta pescando, ragazzo? I rumori troppo forti fanno scappare i pesci».

«Vogliate perdonare la mancanza di tatto del mio amico. Siamo mortificati» pigolò Maia, adottando l’espressione più addolorata che le riuscì di simulare. Il tentativo di rabbonire l’uomo, per quanto scontato, andò comunque a segno.

«Umpf,» grugnì quello, un po’ meno infastidito di prima «cosa volete da me? Avete perso la strada di casa?»

«Ehm, non esattamente. In verità volevamo chiedervi se sapete cosa sia accaduto al convento di Sant’Irene».

Il pescatore gettò un’occhiata fugace alle rovine dietro di lui, in silenzio; quando si girò nuovamente verso di loro, la sua faccia bruciata dal sole aveva perduto ogni traccia di stizza o ironia.

«Mh. Brutta storia quella» mormorò, aggrottando la fronte «brutta, bruttissima storia».

«Perché, che è successo? Ce lo potete dire?»

«Non c’è molto da raccontare: un fulmine colpì il campanile, provocando l’esplosione di un incendio. Dato che i soffitti erano fatti per la maggior parte in legno, le fiamme attecchirono così rapidamente che neppure la pioggia poté fermarle».

«M-ma le suore? E i ragazzi dell’orfanotrofio?» balbettò Milo, la gola chiusa da un nodo sempre più stretto.

«Il temporale scoppiò ben prima delle Lodi mattutine. Quando giunsero i soccorritori, il fuoco aveva già invaso i dormitori. Non è sopravvissuto nessuno» concluse l’isolano, sospirando tristemente «Sono passati tanti anni, eppure lo ricordo come se fosse ieri: era la notte a cavallo fra l’otto e il nove novembre 1971».

Se Milo non fosse nato con la luce di Antares nelle vene, la sua vita avrebbe trovato termine dopo sei anni appena; sarebbe morto insieme a Damian, Georgos, Petro, Theodoros, Suor Eleni, Suor Agnes e tutti quelli di cui non ricordava il nome, lasciando nient’altro che un mucchietto di cenere dietro di sé.

A lui, trovatello dal destino già segnato, Atena non aveva rubato nulla: al contrario. Il Grande Tempio era stato la sua salvezza, la sua casa, la sua famiglia – il suo posto nel mondo. Indipendentemente da Camus, che pure l’aveva reso migliore.

Ma era troppo tardi per tornare indietro, ormai.

Chissà, magari spegnersi assomigliava ad attraversare un posto candido e deserto come la steppa che circondava Ojmjakon; una volta arrivato dinanzi a una casetta di legno scrostata dal vento avrebbe dovuto bussare alla porta tre volte e, infine, lui sarebbe andato ad aprirgli. 

«Sei proprio tu, Milo?»

«Milo?»

Scorpio impiegò davvero molto tempo a rendersi conto che la voce da lui udita non era quella di Camus. Qualunque fosse l’origine della nausea che sentiva, poi, di certo non aveva nulla a che fare col freddo delle lande siberiane – dove non c’era quel fortissimo, pungente odore ferroso.

«Cavaliere, posso entrare? Va tutto bene? Ho avvertito il tuo cosmo, poco fa, e mi è sembrato spaventosamente debole… ehi, ma cos-»

Rumore di passi incerti sul bagnato, esclamazioni soffocate.

«Milo!»

C’era qualcuno sulla soglia di camera sua: ne percepiva confusamente i contorni, ma non ce la faceva proprio a sollevare le palpebre e guardare chi fosse. Tuttavia, quando sentì il respiro del nuovo venuto solleticargli il volto, lo riconobbe.

Hyoga gli sollevò la testa delicatamente, guardandolo con un misto di incredulità e orrore: «Milo, riesci a sentirmi? Rispondimi, per favore!»

«Hyoga… » lo Scorpione aveva la bocca talmente secca da riuscire a stento a parlare «… che ci fai qui?»

Il ragazzo, nel rispondere, si morse le labbra: «Ecco, io… ero all’Undicesimo Tempio. Poi ho sentito il tuo cosmo languire, e… ma cosa è successo?»

«Ho avuto un piccolo… incidente» rantolò lui, di nuovo sul punto di perdere i sensi «H-Hyoga, tu devi-»

Milo si interruppe di colpo, la mente ancorata all’immagine dell’isba in mezzo alla neve: se avesse chiuso gli occhi anche per un solo istante forse la porta si sarebbe aperta sul serio…

Il Santuario ha bisogno di te, Milo di Scorpio. Io ho bisogno di te. Ti prego, resta.

A quelle dolci parole, improvvise come una carezza inaspettata, una straordinaria sensazione di calore avvolse il petto languente dell’Ottavo Custode – una pienezza che aveva creduto definitivamente perduta.

Il tuo dolore è il mio, cavaliere. Non sei solo.

No, non era solo. Non lo era mai stato, e sarebbe rimasto esattamente per rendere il giusto grazie. Finché la sua missione non si fosse conclusa, non poteva far altro che rassegnarsi a vivere.

«Perdonami, Camus. Ti amo – ti amerò sempre –, ma ora devo lasciarti andare» pensò, mentre il paesaggio di velluto bianco dei suoi ricordi sbiadiva e la cruda, solida realtà tornava in superficie. 

«Hyoga, devi portarmi subito all’ospedale da campo. Temo di aver urgente bisogno di una trasfusione di sangue».

Cignus lo studiò assorto, stordito e insieme rincuorato da quel repentino guizzo di energia: «Sei sicuro di riuscire a reggere la traversata?»

Per la prima volta dopo quelli che parevano secoli, dalla gola di Milo salì la tenue ombra di una risata.

«Non fare domande sciocche, ragazzino. Sono un cavaliere d’oro di Atena, io».




 

Note dell’autore

E così, dopo ben 45 pagine complessive di depressione cosmica, siamo infine giunti al termine del capitolo 13.

Porca paletta, se è stato un parto – per la sottoscritta, ma soprattutto per Milo.

C’è una canzone, di un tale Paolo Vallesi, che recita: “Quando toccherai il fondo con le dita, a un tratto sentirai la forza della vita”: ebbene, questo è pressappoco il senso della sorta di Via Crucis che ho inflitto al povero cavaliere di Scorpio.

Nel caso di specie, mi è sembrato giusto che tale forza assumesse le vesti di Atena, sì da correlare l’affezione che l’Ottavo Custode prova per il Santuario a un legame di fede più profondo; il fatto che la Dea intervenga proprio nel momento in cui Milo ha più bisogno non può che confermare quanto egli, in fondo, ha sempre pensato: “Il Grande Tempio era stato la sua salvezza, la sua casa, la sua famiglia – il suo posto nel mondo. Indipendentemente da Camus, che pure l’aveva reso migliore.

La scelta di affidare a Hyoga la vita “fisica” dello Scorpione, invece, è stata dettata dall’intento di agevolare la transizione di questi verso l’accettazione della morte di Aquarius; a differenza di Maia, Milo ha avuto plurime occasioni per constatare come il Cigno non sia affatto un assassino e l’episodio in questione ne rappresenta l’ulteriore – e più importante – riprova.

Nel buttare giù questo capitolo ci ho messo così tanto sentimento che potrei continuare a parafrasarlo per ore; mi astengo dal farlo soltanto per amor vostro, e passo ai soliti dettagli “tecnici”:

- “l’oggetto della tua infatuazione” : espressione tratta dal capitolo 7, parte I.

- “le bandierine greche […] 1982” : nel 1982 Atene ospitò veramente la tredicesima edizione dei campionati europei di atletica leggera, i quali vennero disputati allo stadio olimpico Spyros Louīs.

- L’Etna Rosso Riserva è un vino avente Denominazione di Origine Controllata (DOC), prodotto in alcuni comuni della provincia di Catania. A discapito di altre etichette più famose (come il Nero d’Avola, per intenderci), ho scelto questa in omaggio alle origini di Death Mask.

- La ferrovia transiberiana è la ferrovia che attraversa l'Europa orientale e l'Asia settentrionale in territorio russo, collegando Mosca con le regioni centrali e orientali della Siberia: avviati nel 1891, i relativi lavori di costruzione terminarono nel 1916.

La ferrovia Bajkal-Amur, di successiva realizzazione, si snoda invece da Tajšet sino a Komsomol'sk-na-Amure, arrivando a toccare l’estremo oriente russo.

All’epoca in cui Milo decise di andare a trovare Camus a Ojmjakon (che, per inciso, è uno dei tre paesi a contendersi il titolo di “Polo nord del freddo”) soltanto il tratto Tajšet – Lena era stato completato; da qui, la necessità che Scorpio raggiungesse Jakutsk (da cui era possibile procedere verso l’entroterra). Sì, un gran casino.

- “Dobryy vecher” : “buonasera” in russo.

- “Putain” : espressione che, in francese, può assumere significato più o meno volgare; tuttavia, qui è intesa quale esclamazione di sorpresa similare al precedente “Porca miseria” di Milo.

- «Piangerete lacrime di sangue, su quella verità che ora vi rifiutate di vedere» : frase tratta dal capitolo 7, parte I (e disseminata un po’ ovunque, in realtà).

- Con riferimento al flash-back, spero di aver creato un contesto sufficientemente chiaro.

Milo, trovatello accolto dal convento-orfanotrofio di Adamas (porto della città di Plaka, capitale dell’isola di Milos), venne condotto al Santuario da un delegato del Grande Tempio l’otto novembre 1971, giorno del suo sesto compleanno. Ciò gli permise di scampare all’incendio che, la notte immediatamente successiva, distrusse detto convento e le vite di chi vi abitava.

Le Lodi mattutine, nell’ambito della Chiesa cristiano-cattolica, rappresentano una delle due maggiori ore canoniche della Liturgia delle Ore: sono recitate nelle prime ore del mattino, non lontano dall'alba.

Orbene, metto finalmente un punto a queste interminabili note ringraziando chiunque legga e/o recensisca questa storia!

Un abbraccio,

Irene

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Capitolo 22
*** Capitolo 14: marzo 1988. Shaka, Maia ***


Capitolo 14. Shaka, Maia BG

Capitolo 14: marzo 1988. Shaka, Maia

 

 

 

Ho avuto il coraggio di guardare indietro

i cadaveri dei miei giorni:

segnano la mia strada e li piango.

Guillaume Apollinaire

 

 

 

 

Nel monastero Theravāda si predica che i diletti di Virgo vengano al mondo illuminati dall’abbacinante riflesso di Spica, l’astro che nella volta celeste per quindicesimo brilla di più.

Forti di una simile luce interiore, essi non hanno bisogno di guardare per vedere, né di conoscere per sapere: la verità si schiude loro dinanzi come i fiori di loto al passaggio del Gautama e non hanno altra missione che quella di divulgare il Verbo di Atena al resto dei mortali.

Shaka della Vergine era stato svezzato a suon di tale assioma, e ci aveva dunque creduto per gran parte della propria esistenza; del resto, che fosse gradito o meno, il Vero aveva sempre bussato alla sua porta spontaneamente – come quando, ancora infante, aveva scoperto di essere il frutto dello stupro perpetrato da un inglese ai danni di una contadina indiana malata di mente; o come quando, non molto tempo dopo, si era reso conto che la maggioranza degli uomini è troppo impegnata a sopravvivere per interessarsi a cosa comandino i Cieli.

A dispetto della loro infinita saggezza, però, i monaci di Lumbini avevano mancato di considerare due risvolti fondamentali.

Primo: esistono alcune verità che, lungi dallo svelarsi da sole, devono essere cercate.

Secondo: se pronunciate per bocca di uomini empi, persino le Volontà della Dea possono essere manipolate.

Anche questi ultimi due assunti erano arrivati dinanzi agli occhi ­– chiusi – del Sesto Custode senza invito alcuno, palesandosi insieme nei panni dell’irruento cavaliere della Fenice.

Ikki di Phoenix era comparso nel Tempio della Vergine in una lingua di fuoco, con lo sguardo scuro e la cruda sfrontatezza di chi arriva dall’Inferno; nell’arco di appena un’ora aveva sperimentato l’oblio dei sensi, oltrepassato la porta dell’Ade e costretto Shaka ad accettare l’indicibile. Poi, come se non fosse stato già abbastanza, era tornato dalla morte giusto in tempo per frapporsi tra Seiya e Gemini, consentendo al saint di Pegasus di portare a termine con successo la fatidica scalata delle Dodici Case.

In passato, mai e poi mai Virgo avrebbe pensato che la Verità potesse discendere da un uomo come Ikki; dopo averlo conosciuto, invece, aveva dovuto constatare che egli era capace di scindere il bene dal male molto meglio di quanto lui stesso fosse mai stato in grado di fare.

A seguito della cacciata di Arles, il Bronze aveva preso la bizzarra abitudine di tornare alla Sesta Casa a cadenze più o meno regolari. Sembrava quasi che, non pago di avergli stravolto l’esistenza, volesse continuare a coglierlo di sorpresa quando meno se l’aspettava.

«Salve, Virgo» disse semplicemente quel giorno, presentandosi sulla soglia del Tempio come se quella fosse la cosa più naturale del mondo «è passato un po’ dal nostro ultimo incontro. Mi stavo chiedendo se, nel frattempo, tu non avessi raggiunto il Nirvana».   

Ikki aveva occhi e capelli nerissimi, spalle ampie e un’espressione sin troppo adulta per appartenere a un ragazzo di quindici anni; ogni sua parola era ammantata da un sottile strato di sarcasmo, sì che non riuscivi mai a capire davvero fino a che punto fosse serio.

Salve a te, Phoenix. L’avrei raggiunto da un pezzo, se tu non mi seccassi tanto spesso” avrebbe risposto Shaka in condizioni ordinarie, mentre gli tendeva la mano in segno di saluto.

Al momento, però, non era nello stato d’animo adatto a portare avanti una delle loro solite schermaglie: quella della Fenice non era stata la visita più imprevista della giornata, e Virgo doveva ancora assimilare le implicazioni della precedente.

«Qualcosa non va, Shaka? Per quanto tu sia poco simpatico, generalmente non arrivi a fingere di ignorarmi».    

«Perdona la scortesia, ma stavo riflettendo su un fatto… insolito».

Senza attendere un invito a sedersi, il cavaliere di bronzo si accomodò su uno dei gradini antistanti il Fiore di Loto dove Shaka soleva meditare; di norma non avrebbe gradito guardarlo dal basso verso l’alto, e tuttavia anche lui sembrava essersi fatto più interessato all’inquietudine del Gold che non alle loro reciproche prove di forza.

«Che genere di fatto, se mi è concesso sapere?»

«Mi è stato chiesto un favore».

«Se non hai intenzione di approfondire il discorso, dillo apertamente. Non mi offenderò» sbottò Phoenix, sicuramente infastidito da quel procedere a monosillabi.

Il Sesto Custode gli rivolse un’occhiata dubbiosa; nonostante l’umiltà fosse l’esercizio che praticava in maniera più assidua da quasi due anni, chiedere consiglio continuava a risultargli particolarmente ostico.

«Ti ricordi di Maia, non è vero?» sospirò quindi, deciso a fare almeno un tentativo: al di là della mera apparenza, Ikki non era tipo da dare giudizi affrettati. Anche se non l’avesse aiutato a capire, la sua opinione avrebbe potuto comunque rivelarsi utile.

«Maia? Non è la custode che ha lasciato il Santuario, quando… »

«… quando abbiamo riparato le vostre armature. Sì, lei» concluse Virgo, evitandogli l’imbarazzo di specificare.

Dopo l’accaduto i Bronze non avevano domandato spiegazioni di sorta, ma persino lui sapeva che i dettagli erano arrivati anche alle loro orecchie.

«Ebbene, sua nonna – la vera custode della famiglia Ninis, per inciso – se n’è andata da qui poco prima che tu arrivassi. Mi ha pregato di convincere la nipote a tornare».    

Estrasse un foglietto spiegazzato da una piega della tunica per leggere di nuovo l’indirizzo scritto al suo interno.

Tositsa, civico 78”.

Dentro quella scarna manciata di lettere stava l’accorata supplica di un’anziana donna rimasta sola, che aveva deciso di riporre in lui tutte le proprie speranze.

«Si è smarrita, Shaka. Ha perso se stessa, ma rifiuta categoricamente di farsi aiutare. Però, dove la mia mano tesa ha fallito, forse la Vostra potrebbe ancora riuscire».

Shaka non aveva chiesto a Frandra Ninis le ragioni della sua scelta, ma – a differenza di quanto sarebbe avvenuto prima – una simile decisione lo lasciava tuttora perplesso.

«Perché io?» si era domandato subito dopo quello strano colloquio, affacciandosi dalla Casa della Vergine per osservare le Dimore di Aries, Taurus e Leo stagliarsi nel candore del giorno «Perché non uno di loro, invece?»

Perché non Aiolia, così risoluto, amico d’infanzia e di sempre?

Perché non Mu, dotato di invidiabile tatto, o il generoso Aldebaran?

«Ciascuno di essi sarebbe più adatto di me ad affrontare una missione di questo genere, e lei lo sa. Perché proprio io, dunque?» chiese, ripetendo ad alta voce i dubbi che gli affollavano la mente.

La Fenice rimase in silenzio per qualche attimo, sfregandosi distrattamente le nocche; infine, come divertito dalle sue stesse riflessioni, scoprì i denti in un sogghigno.

«Non capisco cosa ci sia da ridere».

«Non lo capisci perché sei totalmente privo di senso dell’umorismo, caro il mio bonzo» esclamò bonariamente il saint più giovane.

Poi, fattosi serio, riprese: «Non conosco né la ragazza né sua nonna, ma la spiegazione mi pare evidente. Fra i cavalieri d’oro che hai menzionato nessuno ha dovuto rivedere le proprie posizioni quanto te».

A quelle parole, una smorfia di disappunto attraversò il volto di Shaka.

Non gradiva che gli si ricordasse l’enormità dei suoi errori, soprattutto perché sottolinearla sembrava rendere inutili i tentativi di fare ammenda in cui si stava strenuamente impegnando; tuttavia, credeva di aver capito dove volesse andare a parare l’osservazione di Ikki.

«Servono coraggio e lungimiranza per imparare dai propri sbagli: tu, Shaka, hai dimostrato di possedere entrambi in abbondanza» riprese quest’ultimo, fissandogli le braccia piagate con inusuale intensità «Dunque, chi meglio di te potrebbe insegnare a qualcuno come fare altrettanto?»

«Sempre che questo qualcuno sia disposto ad ascoltare» mormorò Virgo a fior di labbra, poco convinto.

Lui non lo era stato, al punto che Phoenix aveva dovuto costringerlo con la forza; cosa avrebbe fatto se Maia si fosse rivelata parimenti ostinata?

«Sapete che c’è? Mi fate ribrezzo. Tutto di questo luogo “sacro” mi fa ribrezzo».

Chissà, magari la rabbia e il risentimento che un tempo provava nei loro confronti si erano sedimentati tanto da renderla inavvicinabile; per quanto pensarci gli risultasse sorprendentemente detestabile, non poteva escludere l’ipotesi che la ragazza si rifiutasse persino di riceverlo.

In ogni caso, stavolta non avrebbe atteso che fosse la verità a presentarglisi davanti: sarebbe andato personalmente a scovarla. Aveva dato la sua parola.

«Vi scongiuro, nobile Shaka: riportatela al Santuario. Riportatela a casa».

 

 

***

 

 

La settimana precedente non aveva fatto altro che piovere, al punto che l’umidità pareva essersi appiccicata alle pareti con invidiabile tenacia; nonostante il sole battesse sui vetri da più di due ore, la stanza continuava a risultarle gelida ai limiti del sopportabile.

Maia si strinse meglio nella coperta di pile, incurvando le spalle tanto da sfiorare i bordi della scrivania. Stava seduta su quella sedia da tempo immemorabile, ma la colonna di fogli e libri impilati dinanzi a lei non accennava ad abbassarsi – anzi: le pareva che la disperata sessione di studio alla quale si era sottoposta le avesse apportato soltanto uno spiacevole mal di schiena.

Sollevatasi con un pesante sospiro, la ragazza prese a percorrere in lungo e in largo la sua camera da letto, socchiudendo gli occhi nell’infruttuoso tentativo di affogare nel buio nozioni di anatomia, angosce e pensieri di varia natura; poi, stufa anche di quello, finì per accomodarsi sul davanzale della finestra.

All’esterno era una mite domenica di metà marzo.

Le prime avvisaglie della bella stagione in arrivo avevano spinto la maggior parte degli ateniesi fuori di casa, sì che adesso le strade brulicavano di chiacchiericcio, rumore di risate e di passi; benché il palazzo dove abitava fosse situato alla periferia del quartiere, riusciva comunque a distinguere chiaramente il brusio della folla levarsi in lontananza. 

«Io e le altre andiamo a goderci un po’ di sole in centro; ti va di venire?»

«Mi piacerebbe, Antea, ma sono terribilmente indietro col ripasso di Anatomia umana».

«Anche io sono in sessione, però non mi importa! Eddai, Maia, stai sempre a studiare: esci con noi, un po’ di svago ti farebbe soltanto bene!»

«Sarà per dopo l’esame. Salutami le ragazze».

Antea, che frequentava Maia sin dalla scuola primaria, non aveva mai compreso il motivo per cui quest’ultima fosse così attaccata al suo paese natale da volerci tornare non appena possibile; era perciò rimasta piacevolmente sorpresa quando, poco meno di due anni addietro, la sua stramba amica aveva improvvisamente manifestato l’ardente desiderio di trasferirsi ad Atene.

Così, cogliendo la palla al balzo, ella le aveva proposto con entusiasmo di prendere in locazione la seconda singola dell’appartamento dove abitava: da molto cercava qualcuno con cui dividere le spese, e la Ninis le era sempre stata simpatica.

«Povera Antea, che delusione devo essere stata» mormorò Maia, ripensando alla triste rassegnazione con cui la coinquilina aveva accolto il diniego di poco prima – l’ultimo di una lunga serie.

Conoscendola da anni, Antea si era accorta piuttosto velocemente che la sua nuova convivente non possedeva quasi nulla della ragazza ironica e piena di interessi con la quale soleva passare del tempo; l’ordinato robottino che si era presa in casa viveva esclusivamente per le lezioni, il tirocinio in ospedale e i manuali.

A nulla erano valsi i suoi tentativi di capire che cosa avesse provocato un cambiamento tanto radicale nell’amica, e ancor meno erano serviti quelli atti a smuoverla dall’apatia: il cortese mutismo di Maia dinanzi a qualsivoglia domanda era stato così ostinato da indurla a rinunciare del tutto nell’arco di una manciata di mesi.

Ad oggi, dubitava persino che ad Antea importasse ancora sapere e, del resto, lei non la biasimava affatto – così come non biasimava se stessa. Non poteva farci niente se, ai suoi occhi, il mondo aveva perso qualunque attrattiva.

L’insaziabile acredine dell’inizio era scemata più in fretta di quanto avrebbe desiderato, lasciando il posto a nient’altro che puro e semplice disgusto. Non avrebbe saputo indicare con esattezza il momento in cui era accaduto, ma da allora esso pareva grondare da ogni cosa.

Quello che prima aveva amato adesso la lasciava indifferente, suscitandole tutt’al più un vago senso di stantio dèjà-vu; la sua perenne curiosità era stata sostituita da un labile ma costante sentore di repulsione che, pur non impedendole di fare quanto necessario, la privava della ben che minima passione.

Si alzava la mattina presto, si vestiva, usciva di casa, seguiva i corsi, mangiava, andava all’ospedale, mangiava di nuovo, studiava, si lavava e andava a dormire, per poi ricominciare daccapo il giorno successivo: non c’era spazio per altro, né lei aveva interesse a trovarlo.

E poi aveva sempre, sempre freddo.

Non c’erano maglione, stufa o temperatura elevata che fossero in grado di riscaldarla: in estate e in inverno, con la pioggia o col sole, Maia si sentiva perennemente avvolta da uno spesso strato di nebbia ghiacciata.

Quella sensazione non la lasciava mai – «a differenza di qualcun altro» –, e stava cominciando a temere che se la sarebbe portata addosso per il resto della vita.

Dlin-dlon. Dlin-dlon.

Il suono del campanello giunse così inatteso da farla sobbalzare: non aspettava nessuno, né pensava che a qualcuno fosse venuta voglia di farle un’improvvisata. Forse Antea aveva dimenticato le chiavi, succedeva di frequente.

Dlin-dlon.

«Arrivo!» gridò, scendendo scompostamente la rampa di scale che separava il loro appartamento dall’ingresso del condominio.

Anche a lei in passato era stata un tantino sbadata, ma Antea esagerava; prima o poi le sarebbe capitato di rimanere chiusa fuori durante uno dei suoi turni, Maia ci scommetteva l’esame.

«Non prendertela, Antea, ma dovresti davvero farti fare una copia di riserva da tenere sempre appresso» esclamò, una volta spalancato il portone principale «Se continui così, finirai pe-»

Il resto della frase le morì in gola, soffocato dal tintinnio del mazzo di chiavi sul selciato e dall’assurdo, assordante rumore dei propri battiti cardiaci.

«Non può essere».

Per nulla turbato dal suo silenzio, Shaka di Virgo si chinò a raccogliere le chiavi di Antea con un movimento elegante.

«Namasté, Maia».

 

***

 

Rivederla era stato come tornare in un luogo caro e trovarlo mutato.

La persona che gli aveva aperto la porta del civico 78 di via Tositsa non era il mare in tempesta che temeva, ma neppure il limpido fiume dei suoi ricordi; somigliava piuttosto a un immobile specchio d’acqua stagnante, pronto a inghiottirti al primo passo falso.

Maia non aveva più l’aria insana del periodo immediatamente successivo la battaglia delle Dodici Case. Doveva aver rimesso su qualche kilo, e le pesanti occhiaie che le segnavano il volto erano state sostituite da un’ombra violacea vagamente percettibile; persino la piega della bocca sembrava essersi stemperata in una linea meno dura, sì che la sua espressione amara aveva assunto una sfumatura del tutto incolore.

Nonostante questo, Shaka non riusciva a rinvenire nessuna traccia dello spirito fluido che un tempo l’aveva contraddistinta: non c’era entusiasmo nei suoi gesti, non una nota vibrante a inspessirne il timbro piatto della voce.

Gli occhi neri fissavano opachi dei punti determinati, mancando di saettare qua e là come erano soliti fare una volta, e i capelli… i capelli, originariamente biondo cenere, adesso erano di una sgradevole tonalità rossiccia che nulla aveva in comune con quella da cui presumibilmente traeva ispirazione.

Dopo essere saliti in casa, Maia l’aveva fatto accomodare nella piccola cucina del suo appartamento; gli aveva servito un bicchiere di latte freddo e un po’ di frutta, accompagnando il tutto con una raffica di parole tanto intensa quanto impersonale.

Era chiaro come il sole che il suo intento fosse quello di procrastinare il più possibile l’inevitabile confronto, ma Shaka non avrebbe potuto assecondarla per sempre neppure se avesse voluto.

«Non so se sei passato per il viale principale del quartiere: alcuni dei graffiti sui palazzi padronali sono davvero splendidi! Ci sono dei momenti della giornata in cui sembrano enormi farfalle inquiete, e-»  

«Questo non è il tuo posto, Maia».

La giovane reagì a quella brutale interruzione serrando le mani sulle ginocchia: «C-come?»

«Mi hai sentito» sospirò Virgo, cercando di inchiodare lo sguardo di lei al proprio «non importa quanto tu stia provando a farti piacere il tuo nuovo stile di vita: dentro di te, sai benissimo di appartenere a un altro luogo. Lì hai lasciato il cuore, e lì è giusto che tu faccia ritorno».

«Ti sbagli: il luogo di cui parli non esiste più – così come non esiste più la Maia che conoscevi».

L’inflessione monocorde da lei usata lungo tutta la precedente conversazione si era già incrinata, lasciando intravedere i primi spiragli di astio nascosto: Shaka decise di buttarsi a capofitto in quelle crepe, perché soltanto là sotto avrebbe potuto ritrovare la vera Maia.

«Hai ragione: il Santuario in cui hai vissuto non esiste più. Il Grande Tempio è risorto dalle ceneri dell’inganno e ora, finalmente, risplende della luce di Giustizia – la stessa di cui, prima di andartene, tu stessa hai denunciato la mancanza» decretò quindi, risoluto; poi, addolcendo appena il tono, aggiunse: «Credimi, ho trascorso moltissime ore a pensare alle tue ragioni. Non sono qui per giudicare il risentimento che ti ha animato all’indomani della scalata delle Dodici Case: esso era dettato dal dolore per quanto accaduto, lo comprendo. Tuttavia, Maia, noi siamo guerrieri. Guerrieri che credevano di combattere in nome di Atena, e che invece militavano dalla parte sbagliata. Le morti prodotte quel giorno sono state vane, ma non per colpa dei cavalieri di bronzo: se tutti noi Gold saint, compresi Camus e gli altri-»

«Non ti azzardare a parlare di lui, Shaka» ringhiò Maia a quel punto, dimentica di ogni diplomazia «Non voglio sentirne pronunciare neppure il nome. Anzi, ciò che assolutamente non voglio è continuare questa conversazione: la mia esistenza è andata in milioni di pezzi, e io desidero solo dimenticare. Non so come tu sia riuscito a rintracciarmi, ma è stato del tutto inutile: ti prego di tornare da dove sei venuto. Subito» concluse, alzandosi di scatto e indicandogli la porta.

«È stata tua nonna a chiedermi di intercedere presso di te. Teme che tu abbia perso te stessa: da ciò che vedo, sono propenso a credere che abbia ragione».

«Invece avete torto entrambi. Ora vattene, e dille di non provare mai più a fare una cosa simile. Se desidera vedermi, conosce il mio indirizzo: il resto non mi interessa».

No, Shaka non le credeva: era troppo in collera perché davvero non le importasse. Come se, sotto la patina di indifferenza, covasse ancora intatti i sentimenti che l’avevano resa viva. Bastava scavare, dunque?

Fu proprio per scoprirlo che il saint della Vergine rimase fermo al suo posto, nonostante l’accorato invito a congedarsi.   

«Era solo questione di tempo. Qualcuno avrebbe comunque deciso di venirti a cercare, presto o tardi: come ho detto, tu appartieni al Santuario – perché il Santuario appartiene a te. Gli hai dedicato i tuoi sogni ben prima di innamorarti di Camus».

«TI HO DETTO DI NON NOMINARLO!»

Che strano: l’ira di Maia aumentava ogniqualvolta la discussione toccava il defunto cavaliere dell’Acquario. L’accanimento con cui ella si rifiutava di rammentarlo sembrava sottendere un bizzarro meccanismo difensivo, quasi che…

«Sei arrabbiata con lui, vero?» domandò Shaka, ormai certo della sua improvvisa intuizione.

«Cosa?»

«La tua rabbia verso Hyoga del Cigno, il Grande Tempio e noi tutti è soltanto lo specchio di ciò che provi nei confronti di Camus. In realtà, è con lui che ce l’hai in misura maggiore».

Maia si morse le labbra e abbassò lo sguardo, d’un tratto smarrita: «N-no. Ce l’ho con Cignus perché ha ucciso un uomo unicamente per reclamare un potere non suo; ce l’ho con Atena e il Grande Tempio perché propugnano la pace, ma di fatto hanno portato solo guerra. E ce l’ho con voi perché non avete voluto difendere i vostri compagni – né prima né dopo».

Tali parole ricalcavano fedelmente quelle da lei pronunciate nell’ottobre dell’86, eppure mancavano della medesima convinzione: parevano invero far parte di un discorso artefatto, imparato a memoria e non del tutto condiviso – simile a quelli che Virgo si era ripetuto per una vita intera.

«Hyoga ha fatto soltanto il proprio dovere – come ogni buon soldato: l’hai detto tu stessa di Shura, rammenti? –, e ti posso assicurare che ne sta pagando tutt’ora le conseguenze. Atena propugna la pace, è vero, ma è stato Arles a volere la guerra: senza il suo imbroglio, la battaglia delle Dodici Case non avrebbe avuto ragion d’essere. E noi superstiti… »

«Ecco, voi: cosa avete fatto voi? Perché adesso tu sei qui, mentre loro stanno tre metri sotto terra? Perché tu hai avuto la possibilità di salvarti, al contrario di Camus?» esclamò la ragazza, nell’estremo tentativo di smontare l’argomentazione che più poteva essere confutata.

«Non fraintendermi, sono… felice che tu sia vivo» aggiunse subito dopo, sporgendosi sul tavolo per prendergli la mano «ma non riesco a capire come abbiate potuto accettare passivamente il corso degli eventi rimanendo immobili nelle vostre corazze. Come se non vi importasse nulla».

Il Sesto Custode fissò per un attimo le loro mani, imbarazzato. Il gesto di lei era stato spontaneo, dettato dalla foga, eppure l’aveva messo fortemente a disagio: non era abituato a quel genere di contatto.

Sciolse la presa in modo garbato, con la scusa di accomodarsi meglio sullo schienale – doveva rimanere concentrato.

«Mu è intervenuto in mio soccorso soltanto perché gliel’ho chiesto. A differenza di Death Mask, Shura, Aphrodite e Camus, io volevo essere salvato: se avessi deciso altrimenti, Ikki di Phoenix non sarebbe mai potuto tornare dall’Ade. Non si è trattato di mancanza di affetto, Maia, ma di rispetto della volontà dei nostri camerati: è stato Camus a scegliere di andare fino in fondo, e tu lo sai – ed è per questo che non l’hai ancora perdonato».

Nell’ascoltarlo, gli occhi della greca si erano riempiti di lacrime a poco a poco; stava rannicchiata sulla propria sedia con le spalle incurvate, quasi a volersi schermare da quanto le stava dicendo.

«Perché l’ha fatto?» singhiozzò debolmente, rivolta forse a lui, forse a se stessa «Perché ha preferito morire, pur di non ammettere di essersi sbagliato? Sapeva cosa – chi – avrebbe lasciato: perché non è stato sufficiente a farlo desistere?»

Dinanzi al suo dolore Shaka rimase in religioso silenzio; del resto, non avrebbe affatto saputo come replicare.

«Ero conscia di quale fosse il suo pensiero: più volte mi aveva lasciato intendere che, per lui, l’onore era la cosa più importante di tutte. E-eppure non sono riuscita a fargli cambiare idea. Ho dato la colpa a voi, quando l’unica responsabile sono io. S-se penso a ciò che ho detto a M-milo… »

All’immagine di Scorpio, Maia smise improvvisamente di piangere.

«Come sta, Shaka? Come sta Milo?» chiese quindi con impeto, colta forse da qualche dubbio poco piacevole.

«Se può consolarti, sappi che avrei preferito milioni di volte morire al posto suo… in un certo senso, la Morte ha preso anche me. Solo che io respiro ancora, mentre lui no. Mi dispiace, Maia».  

Ripensare alle parole di Milo suscitava in Shaka sensazioni spiacevoli.

Come tutti i soggetti cresciuti in contesti militari, Virgo era assuefatto al dolore fisico, inflitto o subito che fosse: riteneva assolutamente normale continuare a combattere anche dopo essere stato ferito e, pur nel rispetto dell’avversario, non esitava a colpire dove faceva più male.

Nell’arco della propria esistenza aveva avuto modo di osservare mutilazioni, lesioni e malattie di ogni genere, e di assistere impassibile ad agonie terminate soltanto con la morte; il funzionamento della sofferenza psichica, invece, continuava irrimediabilmente a sfuggirgli.

Non aveva mai compreso come fosse possibile logorarsi per l’invisibile, e si era dunque convinto che un simile fenomeno riguardasse soltanto i deboli di spirito.

Milo di Scorpio, però, non era un debole di spirito.

Non era debole in nessun senso, eppure, specialmente nei primi tempi, Shaka e gli altri l’avevano guardato impotenti consumarsi silenziosamente giorno dopo giorno, lungo un processo di disfacimento più simile a un male incurabile che non a semplice tristezza.

Attualmente le cose andavano meglio, e tuttavia dichiarare che lo Scorpione si era ripreso sarebbe stato del tutto falso.  

«Milo è ancora… terribilmente fragile» disse quindi, cauto «Non fa nulla che possa dare adito a una simile affermazione – né l’ha mai fatto: la sua compostezza è diventata davvero impeccabile –, ma è una cosa di cui ci si accorge alla prima occhiata».

La condizione di Milo divergeva da quella di Maia, di questo il Sesto Custode era convinto; nel caso di Scorpio non sarebbe bastato andare a fondo, perché egli non aveva da tirar fuori nient’altro che pena e devota rassegnazione.

Stavolta Maia non replicò; rimase zitta con la testa fra le mani, presumibilmente sopraffatta dal senso di colpa.

Il suo viso era segnato da un’espressione così pietosa che Shaka non seppe – né volle – resistere all’impulso di alzarsi e andarle vicino.

«Maia… »

Lei, per tutta risposta, gli si aggrappò addosso.

 

 

***

  

 

Rivederlo era stato come piombare di nuovo in un sogno sognato troppo spesso.

Fermo nello squallido vialetto del palazzo, coi capelli lunghissimi e il volto affusolato, Shaka di Virgo le era parso bello e maestoso in un modo insopportabilmente familiare; lui le aveva rivolto lo stesso sorriso imperturbabile di una volta e a Maia non era rimasta altra scelta che lasciarlo entrare – insieme al resto dei fantasmi.

Guardarlo muoversi e sentirlo parlare l’avevano come catapultata indietro nel tempo, quando tutto ciò che egli rappresentava faceva parte integrante della sua vita; insieme a questa sensazione di appartenenza, però, anche la rabbia era tornata prepotentemente in superficie. Maia l’aveva sentita ribollire nelle viscere al pari di allora, come se non avesse atteso altro che potersi aggrappare a qualcosa di più tangibile dei meri ricordi.

Complice la sua spietata precisione, il Santo della Vergine aveva impiegato davvero molto poco a smantellare il piccolo, infelice mondo costruito dalla ragazza nell’ultimo anno. La traballante sequenza di trincee eretta a sua difesa era saltata a una velocità quasi imbarazzante, costringendola a venire a patti con una verità all’apparenza inaccettabile: anteponendo il proprio buon nome a tutto il resto, Camus aveva deciso di morire. Aveva deciso di lasciarla sola, senza curarsi di quanto dolore avrebbe potuto causarle.

Soffrire per una ragione simile era egoista al punto tale che Maia se ne vergognava; eppure, Shaka non aveva avanzato nessuna critica. Non l’aveva rimproverata o derisa; non aveva pontificato come era solito fare un tempo, né aveva cercato di imporle a tutti i costi le proprie argomentazioni. 

Lungi dal pretendere di capire il suo cordoglio, il Sesto Custode se ne era anzi messo rispettosamente ai lati con una sensibilità per lui inusuale, evitando però di mostrare eccessivo coinvolgimento.

Soltanto parlare di Milo sembrava averne minato il contegno in maniera significativa; per qualche bizzarro motivo questo aveva riempito Maia di così tanta gratitudine nei suoi riguardi che, nel momento in cui lui si era avvicinato, abbracciarlo le era sembrata l’unica cosa sensata da fare.

La giovane premette il viso contro il ventre piatto di Virgo, respirandone a pieni polmoni l’odore vagamente incensato delle vesti, e altre lacrime salirono a pungerle gli occhi.

Si sentiva come se stesse stringendo a sé tutto quello che aveva perso e che tanto si era sforzata di dimenticare: il Santuario e chi vi abitava; le sue speranze, i suoi sentimenti buttati alle ortiche; Aiolia, Milo. Camus – che però non avrebbe mai più rivisto, a prescindere da qualunque decisione avesse preso.

Dopo poco, due mani non troppo ferme le si posarono sulle spalle.

«Maia,» ripeté Shaka, allontanandola con gentilezza «io non so cosa… dire».

Il suo volto leggermente arrossato tradiva un’insicurezza del tutto inedita, al pari della lieve accelerazione che gli alterava il respiro.

«Allora non dire niente. Però ti prego, concedimi ancora un istante così. Prima che svanisca tutto».

A quelle parole la postura eccessivamente rigida del cavaliere si rilassò un poco, ed egli spostò le mani sulla schiena di Maia in un goffo tentativo di ricambiare la stretta; tuttavia, così facendo, il mantello da viaggio gli scivolò di dosso e cadde a terra.

«Lascia stare, lo raccolgo io» sussurrò Maia, piegandosi di lato sino a sfiorare l’indumento di cotone grezzo con le dita.

«Santo cielo, Shaka… »

Le braccia di Virgo, che la tunica senza maniche lasciava nude, erano costellate da cicatrici da ustione tanto estese da non poter distinguere la fine dell’una e l’inizio dell’altra: in quei punti la pelle, normalmente bianchissima e sottile, appariva invece decisamente più scura e spessa.  

«Non è niente. Hanno smesso di far male da molto» disse il Gold facendo un passo indietro, improvvisamente sulla difensiva.

«”Niente”?! Questi sono segni da ustione di terzo grado!»

Maia si tese ad afferrargli il polso destro, per poi tastare i contorni della piaga più grande con un misto di fascinazione professionale e amaro dispiacere: se curato nel modo giusto, quello scempio avrebbe potuto essere assai meno visibile.     

«Sapevo che avevi riportato ferite, ma non pensavo fino a questo punto. Possibile che nessuno, nemmeno Savasta, sia stato in grado di-»

«Il personale medico non ha colpe: sono stato io a scegliere di sottopormi soltanto agli interventi strettamente necessari. Forse avrei potuto guarirmi persino da solo, col cosmo, ma ho preferito non provarci neppure: mi interessava solamente mantenere l’uso delle braccia, nient’altro».

Lei gli rivolse un’occhiata incredula: stava parlando di una menomazione permanente con lo stesso tono sereno di chi accenni a un fastidio da nulla, ma non era quello l’aspetto scioccante della faccenda.

«Perché, Shaka? Perché hai deciso di rimanere segnato per sempre? È stato un sacrifico inutile, che non ha giovato a nessuno!»

Dinanzi all’indignazione della sua interlocutrice il Custode della Sesta Casa scosse la testa divertito, negli occhi un guizzo dell’antica accondiscendenza: «Giova a me, invece. Imparare dagli errori non è esattamente l’arte in cui meglio mi distinguo… ma non è mai troppo tardi per invertire la rotta».

«Invertire la rotta… ».

Il fatto che Virgo avesse utilizzato proprio quel termine lasciava trapelare il messaggio ad esso sotteso in maniera tanto sottile quanto univoca: se lo si desiderava davvero, era comunque possibile tornare indietro.

Shaka c’era senza dubbio riuscito, e ora Maia capiva appieno le ragioni che avevano spinto nonna Frandra a rivolgersi proprio a lui, non ad altri – non ad Aiolia, che per affetto avrebbe forzato la mano; non a Mu, così distante nel suo ruolo di perenne mediatore; non ad Aldebaran, troppo sensibile per essere in grado di mostrarle appieno la cruda verità.

E soprattutto non a Milo, anch’egli schiacciato dal terribile spettro della sua assenza. 

«La terza: stai vicino a Milo. Sostenetevi l'uno con l'altra. Dissipate i vostri rancori, quali che siano. Fatelo per me».

Delle tre promesse fatte a Camus, quella era l’unica che Maia si pentiva di aver mancato; ma, se era vero che "non è mai troppo tardi per invertire la rotta", allora avrebbe ancora potuto tentare di rimediare.  

«Ci proverò, Camus. Ma non per te: per lui».



 

Note dell’autore

Buonsalve a tutti!

Nel capitolo 10, incentrato esclusivamente su Milo e Camus, avevo osservato di non essere un narratore completamente (cioè, per niente) imparziale; tuttavia, siccome “non è mai troppo tardi per invertire la rotta”, ho pensato che fosse giunto il momento di reinstaurare una sorta di par condicio fra i “miei” protagonisti.

L’aggiornamento, piuttosto lungo, è ambientato circa un anno e mezzo dopo gli eventi del precedente: in questo arco di tempo il Santuario è stato ricostruito, la pace è tornata sovrana (salvo la battaglia contro Poseidone, che però ha intaccato soltanto indirettamente il Grande Tempio) e al nostro Shaka viene chiesto un favore particolare. La faccenda, all’apparenza quasi ossimorica, sa molto di contrappasso: Virgo si ritrova a dover vestire i panni del Guru spirituale proprio dopo aver scoperto di essere diversamente infallibile.

Tuttavia, in materia, io la penso esattamente come Ikki: se è mai esistito un momento in cui Shaka poteva essere in grado di portare a termine un compito del genere, questo è adesso.

Maia… Maia è stata un po’ più difficile da trattare. Qualcuno ha – non a torto, direi – storto un po’ il naso di fronte al suo atteggiamento forzatamente ostile, e tuttavia torno a ribadire come noi esseri umani, pur dotati di raziocinio, spesso agiamo in maniera meno ponderata di tutto il resto del creato.

Ci vogliono tempo, umiltà e coraggio per rivedere posizioni che, sul momento, sembravano legittime (e che, per certi versi, continuano ad esserlo); ebbene, pur avendo intimamente compreso quale sia il suo reale punctum dolens, la ragazza ha preferito rimanere nella sua bolla di indolenza piuttosto che tornare e, magari, chiedere scusa – soprattutto a Milo.

Rivedere Shaka l’ha costretta ad affrontare una verità messa volutamente da parte, offrendole altresì la “scusa” per poter tornare da persone che, a conti fatti, le sono mancate – e le mancano – come l’aria.

(Inciso per i più maliziosi: Maia non ci sta “provando” con Shaka. Il suo bisogno di contatto fisico deriva da un mix di emozioni difficilmente catalogabile, totalmente avulso da qualsiasi tipo di “desiderio”. L’iperventilazione di Virgo, invece... sarà la castità forzata? XD).

Venendo – finalmente – agli aspetti più tecnici:

- Lumbini, che si dice abbia dato i natali a Siddhartha Gautama, è oggi un sito religioso buddista a cavallo fra il Nepal e l’India. Esso è contornato da una grande zona monastica, divisa in orientale e occidentale: quella orientale contiene il monastero di Theravada, l'occidentale quelli Mahayana e Vajrayana;

- Spica è la stella più luminosa della costellazione della Vergine, nonché la quindicesima più brillante del cielo notturno. La sua vicinanza all'equatore celeste la rende visibile da tutte le regioni popolate della Terra;

- Il termine “Bonzo” deriva dal giapponese “bōzu” ed indica genericamente tutti i monaci del Buddhismo. Ikki lo usa in tono scherzoso, a mo’ di sfottò;

- «Sapete che c’è? Mi fate ribrezzo. Tutto di questo luogo “sacro” mi fa ribrezzo» : frase tratta dal capitolo 13, parte III;

- “Namasté” è un saluto originario delle zone di India e Nepal, e viene usato comunemente in diverse regioni dell'Asia. Di solito, si accompagna al gesto di congiungere le mani all’altezza del petto, unendo i palmi con le dita rivolte verso l'alto.

- «Non so se sei passato per il viale principale del quartiere: alcuni dei graffiti sui palazzi padronali sono davvero splendidi! …» : ho immaginato che Maia risieda nel quartiere ateniese di Exarchia, in cui si trova il conosciuto Politecnico Universitario. Esso è famoso per essere un quartiere a vocazione fortemente anarchica.

- «Se può consolarti, sappi che avrei preferito milioni di volte morire al posto suo… in un certo senso, la Morte ha preso anche me. Solo che io respiro ancora, mentre lui no. Mi dispiace, Maia» : frase tratta dal capitolo 13, parte III;

- «La terza: stai vicino a Milo. Sostenetevi l'uno con l'altra. Dissipate i vostri rancori, quali che siano. Fatelo per me» : frase tratta dal capitolo 10, parte II.

 Uff, dovrei proprio imparare a scrivere note più succinte!

Grazie a chiunque sia arrivato sin qui e, soprattutto, alle anime belle che vorranno pure lasciare un commento!

Irene


 

 

 

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Capitolo 23
*** Capitolo 15: aprile 1988. Maia ***


Capitolo 15: aprile 1988. Maia

Capitolo 15: aprile 1988. Maia

 

 

 

 

 

Non si può misurare la perdita, il vuoto non ha confini.

Michele Ronchetti

 

 

 

 

 

La porta del salotto era chiusa, eppure le sentiva urlare come se si trovasse nella loro stessa stanza.

La mamma e la nonna non litigavano quasi mai, ma da qualche giorno sembrava non fossero capaci di fare altro.

«Pare che il Gran Sacerdote sia ormai prossimo alla morte e il Primo Consigliere non sta agendo con la sua abituale diplomazia. Le voci sono così varie e frammentate che neppure i vertici dell’organo di Coordinamento riescono a fornirci una versione univoca dell’accaduto. Però una cosa è certa: al Grande Tempio è successo qualcosa di terribile, mamma. L’intero Mondo Segreto è in subbuglio, dall’Africa alla Siberia, e io non ho alcuna intenzione di lasciarti portare Maia proprio nel bel mezzo del caos! Ha a malapena sette anni, per l’amor di Atena!»

«A Rodorio non si parla che del tradimento di Aiolos di Sagitter. La bambina è soltanto preoccupata per Aiolia, Eleni».

«È proprio questo il punto!» esclamò sua madre, inasprendo il tono «Nonostante siano trascorse quarantotto ore appena, il nome del Nono Custode è già diventato bestemmia; e tu vorresti accompagnare mia figlia da suo fratello? Sarebbe come esporci tutti alla gogna!»

Poi, abbassando la voce sino a ridurla a un sussurro, sospirò tristemente: «Mi piange il cuore ad ammetterlo, ma il destino di quella povera creatura è segnato per sempre; dal poco che so, sembra persino che nessuno voglia più fargli da maestro. No, anche ammesso che sopravviva, Aiolia non sarà mai cavaliere d’oro di Leo».

«Dovresti vederlo adesso, mamma: saresti felice di scoprire quanto ti sei sbagliata» pensò Maia, osservando il profilo di Aiolia stagliarsi magnifico nell’incerta luce del primo mattino; la stava aspettando appoggiato alla balaustra della terrazza panoramica di Rodorio, lo sguardo perso nel mare dinanzi a lui.

Oltre loro due, solo qualche gabbiano di passaggio. Si erano dati appuntamento lì e a quell’ora proprio con l’intento di non incontrare nessuno che potesse disturbarli: Maia non era ancora rientrata al Santuario e non voleva che confuse voci di corridoio precedessero il suo effettivo ritorno.

«Aiolia, sono qui».

«Lo so. Hai mantenuto la pessima abitudine di camminare trascinando i piedi».

Aiolia si voltò lentamente nella sua direzione, una mano stretta sulla ringhiera e gli occhi verdi dilatati come quelli di una fiera dubbiosa; Maia gli permise di studiarla senza fretta, quasi dovesse conquistarsi la fiducia di un gatto selvatico un po’ altezzoso, però era terrorizzata.

Si era ripromessa di accettare stoicamente qualunque trattamento avesse voluto riservarle, ma in quel momento realizzò che non sarebbe mai riuscita davvero a sopportare il disprezzo di ‘Lia.

«Perché ci hai messo tanto?» chiese infine quest’ultimo, dopo un tempo mostruosamente lungo.

«M-mi dispiace. Adesso abito ad Atene, e il primo autobus per Rodorio parte alle-»

«Perché ci hai messo tanto a decidere di farti viva

«Oh».

«”Oh”? È tutto quello che hai da dire?!» dinanzi al suo commento spaesato, Aiolia serrò i pugni «Dacché te ne sei andata, io sono sempre stato l’unico sciocco a sperare di ricevere tue notizie. Hai idea di quanto ho aspettato un tuo messaggio, una tua lettera, un tuo qualsiasi cosa che mi assicurasse che stavi bene?»

«No, non ce l’hai» continuò poi, senza attendere repliche «Mi sono sforzato di non pressarti, come volevano gli altri, e tu mi hai ripagato con quasi due anni di assoluto silenzio. Quando Shaka – Shaka! – mi ha detto che volevi incontrarmi, stavo quasi per dirgli di mandarti al diavolo da parte mia. E ora ti presenti qui con i tuoi “Oh” e quei capelli… »

«L-li sto facendo ricrescere biondi. Ci vorrà del tempo, il rosso è un colore d-difficile da mandar via».

Maia era così annichilita da quello sfogo che non aveva trovato nulla di meglio con cui ribattere: in fondo, Aiolia aveva ragione.

Era stata lei ad andarsene, maledicendo tutti coloro che avevano cercato di trattenerla; poi, troppo presa dal proprio dolore per soffermarsi a riflettere sulla possibilità che anche loro soffrissero, non si era più fatta sentire. Si aspettava forse un comitato di “bentornata”?

«Quant’è vero. I miei ci hanno messo un bel po’ a perdere quella terribile tinta arancione, ti ricordi?»

L’inaspettata dolcezza con cui Leo aveva pronunciato quella frase spinse Maia ad alzare la testa per poterlo guardare in faccia: i suoi occhi si erano fatti più morbidi e lucidi, come se fosse sul punto di piangere.

«Dannazione, Maia,» sussurrò quindi il cavaliere, avvicinandosi e sollevandola tra le braccia prima che lei potesse rendersene conto «mi sei mancata terribilmente».

 

*

 

 Scultoreo e imponente come la più pregiata statua di bronzo, Aiolos di Sagitter era stato la perfetta personificazione dell’antico eroe greco: quello che, figlio degli uomini, aveva ricevuto gloria immortale soltanto per la prodezza delle sue gesta.

Neppure Saga aveva mai potuto competere con la terrena solidità del Nono Custode: la mistica bellezza di Gemini era sempre risultata troppo inavvicinabile perché qualcuno, foss’anche il più valoroso dei guerrieri, vi si potesse identificare.

Da piccolo Aiolia era andato smisuratamente orgoglioso della sua stupefacente somiglianza col fratello maggiore, tanto da cercare di accentuarla in ogni maniera possibile: non contento di rassomigliargli solo fisicamente il futuro Leo aveva addirittura provato ad acquisirne i modi, imitando di nascosto la sua camminata e scimmiottando senza successo il suo tono baritonale.

A seguito della Notte degli Inganni, però, gli sforzi del bambino avevano preso direzione opposta quasi di punto in bianco; superati i primi momenti di nera disperazione, infatti, Aiolia si era smarcato dalla figura ormai maledetta di Sagitter con una velocità tale da far pensare che fosse il primo a credere ciecamente nel suo tradimento.

I toni gentili da lui appresi con tanta solerzia avevano ben presto lasciato il posto a un atteggiamento ruvido e un po’ strafottente che diventava aggressivo al minimo scherno; in luogo del suo caldo sorriso si era calato in volto una maschera di serietà e abnegazione che, all’inizio, nemmeno Maia e Milo erano riusciti a scalfire.

Aveva anche iniziato a pretendere di essere chiamato “‘Lia” in luogo di “Aiolia” e posto un tabù assoluto su qualsiasi argomento che riguardasse il suo scomodo legame di sangue, la cui ossessione aveva continuato a perseguitarlo persino dopo la – insperata, eppure desideratissima – investitura a Gold saint.

«La cosa peggiore di tutte era guardare dentro lo specchio e accorgermi che, negli anni, la mia faccia si stava facendo sempre più simile alla sua: come se, nonostante tutti i miei sforzi, fossi comunque destinato a trasformarmi in lui. Finché un giorno, preso dalla rabbia, ruppi lo specchio in mille pezzi e decisi di… tingermi i capelli».

«Davvero lo facesti per questa ragione?» chiese Maia sbigottita, drizzando la schiena.

Erano seduti su una delle tante panchine che fiancheggiavano il camminamento, sotto i rami frastagliati di un vecchio albero spoglio: a quell’ora il sole d’aprile era ancora troppo dolce per dare fastidio.

A dispetto della gravità dell’argomento, Aiolia si lasciò sfuggire una risatina: «Esatto. Che stupido, vero?»

«No. Ma non mi aspettavo che dietro quel colpo di testa ci fosse un motivo così serio».

Si ricordava benissimo di quel pomeriggio, quando Aiolia era uscito dalla Quinta Casa con una nonchalance inversamente proporzionale alla vividezza della sua nuova tinta mandarancio.

«Beh? Che avete da guardare?»

«Mah, non saprei. O ti hanno rovesciato un otre di succo d’arancia in testa mentre dormivi, oppure i miei occhi hanno decisamente qualcosa che non va. Tu che ne dici, ‘Mus?»

«Dico che non sono affari nostri, Milo».

«Certo che lo sono! Non posso andare in giro con uno conciato così, ne va della mia reputazione! Maia, ti prego, supportami almeno tu!»

All’epoca Maia non era riuscita a trattenersi dallo scoppiare a ridere, bollando la cosa come un bizzarro moto di ribellione adolescenziale; se avesse avuto il minimo sentore del reale significato di quel gesto, la sua reazione sarebbe stata certamente diversa.

«Per questo sono rimasto così sconvolto, quando ti ho vista. Mi hai ricordato me stesso – e la mia disperazione» sussurrò Leo, afferrandole con delicatezza una ciocca di capelli «Trovo insopportabile pensare di non esserti stato accanto in un momento simile».

«Si può dire che io sia stata mossa da motivi totalmente opposti ai tuoi. Coll’andare del tempo, mi sono resa conto che il suo viso stava sbiadendo dalla mia memoria ogni giorno di più. Non… potevo permettere che accadesse».

«Ha funzionato?»

Maia scosse flebilmente la testa, lo sguardo basso: «No».

«Già. Neppure con me».

Dopo quell’amara constatazione i due rimasero in silenzio per un po’, cercando forse di mettere ordine nei rispettivi pensieri.

Se Maia guardava al passato, poteva affermare di aver sempre avuto un buon rapporto con Aiolia.

Il suo carattere nient’affatto impulsivo le aveva permesso di arginare gli scoppi d’ira dell’amico nella stragrande maggioranza dei casi, permettendole di rimanergli affianco anche quando a tutti gli altri risultava inavvicinabile; non se l’era mai presa troppo per i suoi modi bruschi, che sapeva essere soltanto il frutto più evidente di un dolore né accettato né sopito – un dolore troppo grande e radicato per guarire grazie al mero scorrere delle stagioni.

Al netto di questo, tuttavia, era altrettanto vero che stare vicino al Leone spesso le era risultato pesante: non di rado bastava una sola parola sbagliata a scatenarne la reazione, come fosse stato una bomba a orologeria perennemente in procinto di esplodere.

Ora, però, la costante tensione che aveva caratterizzato il fare di Aiolia per lunghissimi anni sembrava essersi dissolta.

Non era una cosa di cui ti accorgevi subito: bisognava prestare attenzione a dettagli apparentemente di poco conto, come il tono di voce o la postura che prima soleva adottare, e confrontarli con la quieta serenità che adesso promanava dalla sua figura; quasi che un enorme giogo gli fosse rotolato via dalle spalle, lasciandolo finalmente libero – libero da sospetti, senso di colpa, paura, risentimento.

Libero di essere se stesso, né uguale né diverso da Aiolos di Sagitter.

«Come hai fatto?» gli chiese Maia all’improvviso, girando completamente il busto verso di lui «come hai fatto a sbarazzarti del rancore? Io ci sto provando disperatamente, ma è come se avessi uno spillo conficcato nel ventre. A volte punge tanto che non riesco a pensare ad altro».

La visita di Shaka aveva avuto l’indubbio merito di liberarla dalla teca di ghiaccio in cui da sola si era ibernata, ma tornare a sentire non era stato affatto indolore: in alcuni momenti il riaffiorare di certe immagini la colpiva così intensamente da paralizzarla, come se non fosse passato che un istante da quando, dopo essersi svegliata, Aiolia le aveva ricordato quanto accaduto durante la battaglia delle Dodici Case.

Quell’assurdo sentore di impotenza e ineluttabilità era l’emozione più terribile che avesse mai provato e rappresentava uno dei principali motivi per cui aveva lasciato il Grande Tempio; nonostante fossero trascorsi anni, dubitava di essere capace di fronteggiarlo senza lasciarsi sopraffare – ammesso, poi, che ci sarebbe mai riuscita davvero.

«Non me ne sono sbarazzato. È ancora qui dentro, sai» rispose il Leone, poggiandosi distrattamente una mano sul petto «solo che, come dire… morde con meno violenza. E meno spesso».

Poi abbassò lo sguardo su quello di lei, gli occhi carichi di consapevolezza e partecipazione: «Te lo dissi quel giorno, ricordi? Io so bene cosa significhi covare risentimento: l’ho fatto per quasi tutta la mia esistenza. Ci ho messo anni ad imparare come rimanere impassibile al cospetto del Gran Sacerdote, e altrettanti ne ho impiegati per sfilare accanto a Shura senza provare l’impulso di saltargli al collo; non puoi neanche immaginare quanto sia stato difficile resistere alla voglia di scoppiare, di cedere ai miei istinti peggiori – di diventare una bestia e ammazzarli tutti».

«Oh, sì che posso».

«Ovviamente, neppure Aiolos si salvava dalla mannaia del mio astio. Ma questo non diminuiva affatto l’odio che provavo per Capricorn, Arles e tutti i miei detrattori».

«”Provavi”?! Adesso che conosci la verità non è anche peggio?»

«Ti sembrerà strano, ma… no».

A quell’affermazione, la ragazza gli rivolse un’occhiata di sincero stupore: «In che senso?»

Prima di rispondere, il Leone dorato si prese un momento. 

«Scoprire che mio fratello non è morto nell’infamia del peccato mi ha dato un sollievo che non pensavo di essere in grado di provare» cominciò quindi, la voce rotta dall’emozione «Un sollievo tale da far scolorire tutto il resto. Io… »

Poi si interruppe, evidentemente sopraffatto.

«Va bene così, ‘Lia. Non serve che tu ti sforzi, credo di aver capito».

«Scusa: è difficile spiegarlo a parole. Però, è importante che la tua domanda trovi risposta. Mentirei, se ti dicessi che ho perdonato… ma la verità non è mai semplice come appare. Spesso la ragione non sta interamente da una sola parte: anche le azioni peggiori possono essere sorrette da motivi giustificabili».

«Peccato che saperlo non consoli» bisbigliò Maia, mordendosi l’incavo della guancia sino ad affogare il sapore di bile in quello del sangue «Anziché darmi pace, la consapevolezza non ha fatto altro che intorbidire ciò che avevo di più prezioso».

Dopo la scomparsa di Camus e il totale sgretolamento del suo personale universo, l’unica cosa che le aveva permesso di non naufragare del tutto era stata la purezza del sentimento che provava per Aquarius: nell’estremo tentativo di non affogare nella devastazione generale, si era aggrappata ad essa con la stessa tenacia di un religioso che protegga la reliquia più sacra dall’incendio della Cattedrale.

Aveva creduto che nulla potesse infangare l’altare su cui brillava l’effige di Camus; nulla, tantomeno banale razionalità. E invece…

«Quando l’abbacinante dolore dei primi tempi ha cominciato ad attenuarsi, mi sono accorta di non riuscire più a pensare a Camus senza addossargli una parte di responsabilità. Il ricordo del suo volto, della sua voce, di quanto abbiamo vissuto insieme ha iniziato a mischiarsi sempre più c-coi terribili attimi all’Undicesimo Tempio, costringendomi ogni volta a domandarmi come sarebbe stato se… se solo si fosse fermato prima».

Un solitario refolo di vento le spinse i capelli sulla faccia, guizzo rossastro nell’aria chiara – «La fiamma sbiadita di ciò che è stato».

«Realizzare di come sia andato incontro alla morte pur sapendo di essere in torto mi ha fatto nascere il dubbio di averlo amato unidirezionalmente. Quale senso ha avuto la mia levata di scudi sulla sua memoria, se è stato proprio lui a scegliere di…?»

Maia sapeva che il suo era un discorso contorto e confuso, ma si sforzò comunque di continuare: desiderava ardentemente che Aiolia comprendesse. Che potesse darle il conforto cui tanto aspirava. 

«La verità è che mi sembra di aver sofferto – e di soffrire – per un sentimento che non è mai esistito. Eppure, nonostante questo, continuo a provare un malessere sordo che non mi dà tregua: ce l’ho nella testa, nello stomaco… dappertutto. Non riesco più a difendere Camus incondizionatamente e, al contempo, non sono ancora capace di rassegnarmi. C-cosa diavolo dovrei fare?»

«Shaka ci aveva visto giusto… incredibile!» mormorò Aiolia a quel punto, apparentemente perso nelle proprie riflessioni; poi, riscossosi, la strinse a sé con fare protettivo. Maia gli si acciambellò contro volentieri: aveva sempre trovato rassicurante la determinazione dell’amico, confortevole e calda come il colore ambrato della sua pelle.

«Il cordoglio non ha motivi né confini, Maia. Non saranno uno scopo, una fonte o una ragione a renderlo meno atroce: l’assenza di una persona importante fa male a prescindere. Puoi benissimo avercela con Camus e, allo stesso tempo, continuare a provare dolore per la sua scomparsa. Una cosa non esclude l’altra».

«Comunque,» proseguì poi, scrutandola dritto negli occhi «io non credo che lui non ti ricambiasse. Cam era solo… troppo attaccato ai propri ideali – tanto da morirne. La decisione che ha preso non ha nulla a che fare coi suoi sentimenti per te».

«”Tutto ciò è avvenuto per colpa della mia ostinazione”: è questo che mi ha detto, prima di morire. Faticava persino a respirare, ma il suo viso aveva un’espressione mai vista. Così… serena».

Fra la miriade di dettagli che ricordava di Camus, l’immagine del suo sguardo trasognato a pochi istanti dalla fine capeggiava indiscussa: era stato allora che aveva capito di averlo perso per sempre.

 «Maia, guarda quella luce… c’est si belle, n’est-ce pas?»

Non parlò del resto: non delle promesse, non di Milo. Le mancò la forza.

Aiolia, che la stava ancora fissando, sembrò percepire la sua reticenza; tuttavia, ebbe l’accortezza di non indagare.

«Credo di sapere il perché» disse invece, scandendo lentamente le parole «Probabilmente stava guardando Lei».   

«L-lei… »

«Sì, Lei» proseguì il Leone, la voce traboccante di adorazione ed orgoglio «Contrariamente a quanto credi, Atena ha tentato con ogni mezzo di salvare – anche – i nostri caduti. Ma essi Le erano troppo distanti: quando la Sua luce li ha raggiunti, le loro anime stavano già rispondendo al richiamo dell’Ade. Non è stato possibile riportarli indietro».

«Come fai a esserne certo?»

«L’abbiamo percepito».

Gli occhi di Aiolia, da soli, erano in grado dire molte cose: tutte, eccetto le menzogne.

In quel momento guardarli faceva un male terribile, eppure Maia non riusciva a smettere.

Voleva credergli e, allo stesso tempo, aveva timore di farlo.

«Quelli che affollano il tuo cuore sono dubbi troppo intensi perché io possa sperare di dissiparli, Maia. Nessuno di noi ne sarebbe capace. C’è solo una persona in grado di darti le risposte di cui hai bisogno».

All’affermazione, la ragazza sentì un brivido salirle lungo la spina dorsale.

«La Dea sa che oggi sono qui. Le ho parlato di te: desidera incontrarti».




 

Note dell’autore

Bentrovati!

Se dovessi assegnare una collocazione al presente aggiornamento, direi che esso rientra di diritto fra i classici capitoli di transizione; benché la trama di questa storia non sia esattamente delle più avvincenti (XD), ogni tanto è comunque necessario non far succedere praticamente nulla.

Nell’ambito di Sorella Morte, Aiolia è sempre stato il primo dei personaggi secondari: l’ho fatto comparire in quasi tutte le vicende messe in campo, spesso assegnandogli il ruolo di spalla (per Milo) o di “avversario” (per Shaka), ma non mi ci ero mai soffermata meglio.

Quando penso al cavaliere del Leone, la primissima cosa che mi viene in mente è un amico fidato; se Virgo si è dimostrato l’unico in grado di scuotere emotivamente Maia, nell’attuale stato dei fatti soltanto ad Aiolia ella avrebbe potuto confessare apertamente i propri dubbi – ancora troppo “umani” perché uno come Shaka potesse comprenderli e/o condividerli.

Spero che non abbiate trovato forzato il parallelismo fra la situazione di Maia e quella di Leo: a mio avviso, escludendo il cruciale dettaglino circa il torto o la ragione dei rispettivi cari estinti, entrambi sono vittime di eventi più grandi di loro, ed entrambi sono stati costretti ad avere a che fare con rancore e perdono.

Adesso, al solito, s’impone(?) qualche considerazione più mirata:

- "Il Gran Sacerdote è [...] e il Primo Consigliere [...] diplomazia" : siamo due giorni dopo la Notte degli Inganni. Saga, che ha già ucciso sia Shion che Aiolos, si sta "improvvisando" Primo Consigliere (eliminato a suo tempo) in attesa di inscenare la morte del Gran Sacerdote e prenderne definitivamente il posto. L’organo di Coordinamento citato dalla madre di Maia è un ente di mia invenzione, che vorrebbe fungere da raccordo tra il centro di potere del Santuario e i rappresentanti delle famiglie custodi;

-  «Quant’è vero. I miei ci hanno messo un bel po’ a perdere quella terribile tinta arancione, ti ricordi?» : isolata ed estemporanea citazione ad Episode G, dove Aiolia sfoggia dei capelli rossissimi. Mi sono divertita a immaginare che Leo si sia servito dell’Henné (più pratico e veloce della classica tinta): io – che ho i capelli un po’ più chiari di lui – l’ho usato una sola volta, ma ricordo ancora benissimo l’inquietante sfumatura arancione che è venuta fuori quando, dopo qualche lavaggio, ha cominciato a stingere;

-  «”Tutto ciò è avvenuto per colpa della mia ostinazione” e «Maia, guarda quella luce… c’est si belle, n’est-ce pas?» : frasi tratte dal capitolo 10, parte II;

- L’idea che Atena abbia cercato di riportare in vita anche i cavalieri d’oro caduti (e non soltanto i propri seguaci di bronzo raccomandati ) è frutto della mia fantasia: non so (o non ricordo) se corrisponda o meno a verità.

Ebbene, anche questo giro di giostra è andato; fatemi sapere che ne pensate, se vi va. Ne sarei felice!

Un abbraccio,

Irene

 

 

 

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Capitolo 24
*** Capitolo 16: 30 aprile 1988. Maia ***


Capitolo 16. Maia BG

 

Capitolo 16: 30 aprile 1988. Maia

 

 

Ricordatevi di me, ricordatevi di me,

dimenticate il mio destino.

Alessandro Baricco

 

 


 

 

 

 

Volgi gli occhi lucenti su di noi,

o Atena Glaucopide:

noi che viviamo con cuore saldo e pietoso,

nell’attesa del Tuo ritorno.

Era la prima preghiera che i devoti ad Atena insegnavano ai bambini: la più semplice, la più conosciuta e, come spesso accade, anche la più amata.

All’inizio della sua esperienza al Santuario Maia l’aveva sentita recitare innumerevoli volte, non di rado accompagnata da canti e altri inni che parlavano di fede e speranza; a quel tempo il Grande Tempio si stava preparando ad accogliere la reincarnazione della Dea, ed era quindi divenuto meta di pellegrinaggi da ogni parte del Mondo Segreto.

Nei mesi immediatamente antecedenti l’evento l’eccitazione e la letizia dei credenti erano state tali che neppure la strana scia di omicidi e sparizioni dipanatasi nell’arco delle settimane aveva avuto il potere di scalfirle: cavalieri di basso grado trovati senza vita negli avamposti, cadaveri di soldati semplici gettati in fondo alle rupi… eventi di scarsa rilevanza, dinanzi alla resurrezione della Divina.

Dopo la Notte degli Inganni, però, l’ombra scura della morte e del tradimento si era definitivamente allungata sul tanto atteso ritorno.

“A causa delle empie azioni di Aiolos di Sagitter, Atena bello sguardo non benedirà proprio nessuno”: questo il messaggio intrinseco racchiuso nelle parole del nuovo Gran Sacerdote, assiso sul Trono di Grecia a seguito della dipartita del vecchio Shion di Aries.

Durante il suo pontificato, poi, Arles aveva progressivamente trasformato il culto della Dea in una questione prettamente elitaria, riservata a lui e a pochi accoliti scelti.

L’iniziale divieto di presenziare ai riti, dapprima rivolto soltanto alla gente comune, in seguito era stato esteso anche alla maggioranza dei saints; un numero sempre più folto di editti aveva via via proibito ogni attività riguardante il pubblico esercizio della preghiera al di fuori delle festività stabilite, sino ad arrivare a rendere illecita qualsiasi invocazione fatta ad alta voce.

Lo scopo di una tale strategia era stato infine raggiunto: col passare del tempo, infatti, la benevola immagine di Pallade occhi lucenti radicata nel cuore dei fedeli aveva finito per lasciare il posto a quella di una divinità distante e inaccessibile – un theós di cui non era saggio attirare l’attenzione.

Ancora troppo piccola per curarsi del timore reverenziale che stava montando attorno alla figura di Atena, da bambina Maia si era divertita spesso ad immaginarne le sembianze: prendendo a modello l’enorme statua che sovrastava il Santuario e le scarne descrizioni dei testi antichi, soleva figurarsela bellissima e misericordiosa, con gli occhi grandi come quelli di certi rapaci notturni.

Neppure più tardi le subdole macchinazioni di Arles avevano attecchito troppo, nella sua mente: a minarne la fede era bastata e avanzata la cruda realtà a cui per anni aveva assistito, che sembrava prendersi gioco degli sforzi di chiunque – compresi quelli di coloro da lei amati. 

I suoi genitori e i loro interminabili viaggi, che spesso li tenevano lontani da casa per mesi interi; nonna Frandra e le preghiere che si ostinava a bisbigliare nel silenzio della sera; il Dottor Savasta, impegnato a salvare vite votate alla Morte; quei suoi amici pieni di solitudine, cicatrici e ossa rotte da rattoppare.

Non aveva mai compreso cosa spingesse tutti loro a lottare per un qualcuno nel cui nome si commetteva ogni sorta di ingiustizia, così si era limitata a voltare la testa dall’altra parte e tentare di rendersi utile come meglio poteva: imparare a usare un bisturi, ricucire ferite, riparare fratture, sistemare denti saltati era diventato il suo modo di combattere, la religione alla quale dedicare la propria fatica.

Non aveva più dato importanza alle fattezze di Atena… fino a che Ella non le era sfilata dinanzi.

Era successo qualche giorno dopo la cerimonia funebre, durante una visita della Dea all’ospedale da campo. 

Maia vi si trovava contro ogni ragionevolezza, i nervi sovraeccitati in netto contrasto col corpo ancora sfibrato dalla recente malattia; stava dando istruzioni agli apprendisti, quando delle voci concitate avevano iniziato a serpeggiare tra il personale.

«Atena e i cavalieri di bronzo stanno venendo qui!»

«Durante il funerale l’ho vista soltanto in lontananza: quale onore poterLa ammirare così da vicino!»

«Datevi una sistemata: mica vorrete stare al Suo cospetto in condizioni così indecenti?!»

«Maia, hai sentito? Sta per arrivare la Dea!» aveva esclamato Clio estasiata, tirandola per la manica del camice «Cosa dobbiamo fare?»

In principio, Maia non le aveva risposto. Aveva la gola troppo secca, e le dita impegnate a stringere le forbici con una foga tale da sbiancarsi le nocche.

«Non voglio incontrarla. Non voglio incontrare nessuno di loro» aveva pensato, preda di un terrore del tutto irrazionale. 

«Maia?»

Poi, facendosi forza, si era costretta a prestare attenzione ai ragazzi che la fissavano incerti.

«Maia, ti senti bene?»

«Sì. Dunque, voi…»

«Eccola lassù!»

Dopo tali parole, gli sguardi di tutti si erano sollevati all’unisono.

Sei persone stavano percorrendo la strada che, costeggiando la scalinata principale, conduceva sin lì: cinque uomini, tutti un po’ zoppicanti e malconci, circondavano una donna vestita di bianco.

Persino da quella distanza a Maia erano sembrati soltanto degli adolescenti fuori posto, stranieri in terra straniera: soprattutto colei che chiamavano Atena la Grande le era apparsa piccola e fragile. Insignificante.

Non aveva avuto il tempo di incontrare i suoi occhi, né di scoprire se essi fossero davvero lucenti come se li era immaginati durante l’infanzia; aveva lasciato cadere le forbici ed era corsa via, nell’indifferenza generale.  

 

 

*

 

La Tredicesima era la più imponente e superba di tutte le Case dello Zodiaco.

Essa sorgeva all’ombra della Collina delle Stelle, proprio accanto all’effige della Dea: da quella posizione dominava l’intera Valle Sacra come un sovrano che si lasci ammirare dalla folla esponendosi sul balcone del palazzo reale.

All’infuori dei Gold saints, Maia non conosceva nessun altro che si fosse addentrato fra i suoi colonnati – eccettuati coloro che, chiamati a comparire al cospetto di Arles, non avevano più fatto ritorno.

Neppure lei vi si era mai recata personalmente; quella era la prima volta che ne varcava l’ampia arcata, oltre la quale si distinguevano soltanto mura e penombra.

La ragazza diresse i suoi passi lungo i pavimenti di marmo con guardinga soggezione, stringendosi nella stola da viaggio che non metteva da anni. L’aveva rispolverata appositamente per l’occasione: indossare il mantello era il modo più sicuro che conoscesse per attraversare il Santuario con discrezione.

Tuttavia, giunta dinanzi a un alto portone, dovette abbassare il cappuccio e palesare la propria identità ai soldati di guardia lì presenti. Erano due, un ragazzo e un uomo in età matura.

«Dichiarate chi siete e cosa vi porta all’ingresso della Sala del Trono».

«Sono Maia Ninis, nipote della custode Frandra Ninis. Sono stata convocata da Lady Saori con l’intermediazione del cavaliere d’oro di Leo» rispose lei, porgendo al più anziano dei due una pergamena siglata da Aiolia.

L’uomo ruppe la ceralacca ed esaminò il documento con espressione incolore, poi lo passò al compagno; questi si chinò a sussurrargli qualcosa all’orecchio, coprendosi la bocca con la mano.

Maia assistette alla scena senza muovere un muscolo, troppo occupata a pensare a cosa avrebbe fatto e detto una volta dentro per lasciarsi infastidire da tutto quel rigorismo. Era così tesa che il lieve cigolio prodotto degli enormi cardini placcati d’oro la fece sobbalzare.

«Potete passare» esclamò infine il soldato, mentre si scostava leggermente per lasciarla entrare.

Non appena ebbe attraversato  la soglia, la porta si richiuse dietro di lei con uno schiocco repentino. 

«C-c’è qualcuno?» chiese quindi, intimorita dal silenzio sacrale che le era improvvisamente piombato addosso.

La sala era vasta e spoglia, decorata soltanto da un tappeto di velluto rosso che attraversava gli spazi come un simmetrico rivolo di sangue rappreso; nessun lume rischiarava l’ambiente, fatta eccezione per il fioco chiarore che filtrava dai pesanti drappeggi collocati sul lato opposto della stanza.

Maia si avviò svelta in quella direzione, gli occhi puntati sulle tende. Era inspiegabilmente attratta da ciò che doveva esserci al di là di esse, tanto da dimenticare per un attimo che la sua domanda non aveva ancora ricevuto risposta.

Quando ne tirò una a sé, venne inondata da un brillante fascio di luce pomeridiana.

La vetrata affacciava sul lato destro del Grande Tempio, il meno scosceso; oltre i profili delle Case dispari era possibile osservare il resto del Santuario digradare dolcemente fino alle scogliere che calavano a picco sul mare.

Pur non volendo, la sua attenzione fu ben presto catturata dai contorni dell’Undicesimo Tempio. Sembrava strano guardarlo da quella posizione, perché contemplarlo dall’alto sottintendeva che aveva avuto il coraggio di attraversarlo.

Nei suoi incubi, invece, non ci riusciva mai.

Aveva sognato la sua personale “scalata” per innumerevoli notti, ripercorrendo la stessa scena – quella, già vissuta, dell’11 settembre 1986 – sino a svegliarsi tremante.

Il Tempio scintillante, il respiro condensato in nuvolette di vapore acqueo, i contorni azzurrati delle cose; Camus a terra, perfetto nella sua stasi ormai immutabile, coi capelli intessuti di ghiaccio e lo sguardo vuoto.

«Camus. Camus. Camus!»

Maia lo chiama, lo scuote come se quel corpo potesse ancora destarsi e parlarle; poi, vinta dal freddo e dall’inutilità dei suoi sforzi, si accascia sopra il cadavere.

Non si rialza più.

«È bellissimo, non trovi?»

La voce, limpida e soffice, si era levata da qualche parte alle sue spalle.

«Sì, Camus era davvero bellissimo».

«Bellissimo...»

Maia aveva risposto automaticamente, senza riflettere; quando se ne rese conto, si affrettò a voltarsi.

«… il Santuario».

«Certo: il Santuario. Sai, mio nonno era un appassionato di storia e cultura antiche. Soprattutto l’Ellenismo lo affascinava: non si stancava mai di parlare della civiltà greca, dei suoi personaggi illustri e dei suoi miti. Poter vivere in un luogo come il Grande Tempio l’avrebbe reso immensamente felice».

La sua interlocutrice era una ragazza dalle spalle minute e le guance rosee come petali; aveva meravigliosi capelli castani e grandi occhi di un blu così scuro che si sarebbe potuto confondere col nero.

«Perdonami: ti sto trattenendo con inutili chiacchiere senza nemmeno essermi presentata. Sono Saori Kido» disse poi, eseguendo un inchino appena accennato.

Maia, che aveva una conoscenza assai superficiale delle usanze giapponesi, ricambiò il gesto in modo goffo: «Maia Ninis».

«Sei stata gentile a rispondere al mio invito così rapidamente, Maia. Ma adesso vieni, ti prego: sediamoci un po’».

Saori si mosse leggera verso il centro della sala, per poi fermarsi ai piedi di una piccola scalinata che Maia, entrando, non aveva notato; sulla cima di questa si ergeva una specie di altare marmoreo, basso e disadorno. L’effetto finale restituiva all’osservatore un senso di incompiuto, quasi che ci fosse uno spazio vuoto da riempire.

La greca fissò per un attimo la sommità dei gradini, immaginando Arles assiso su un enorme trono intarsiato e tutti i Gold saints chini al suo cospetto; se lo figurò in maniera sorprendentemente nitida, l’ex Gran Sacerdote, mentre osservava ghignando quelli che avrebbero dovuto essere i suoi parigrado porgergli degli onori del tutto indebiti.

«Manca il Trono» constatò allora, sottovoce «questa viene chiamata la “Sala del Trono”, però qui non c’è nessuno scranno».

«Hai ragione» asserì l’altra con un cenno della testa «A quanto pare il Seggio pontificale è andato distrutto durante lo scontro tra Ikki di Phoenix e Saga, ma io non ho ritenuto necessario sostituirlo».

La frase fu pronunciata con un’autorevolezza e, al contempo, un’umiltà tali da far accapponare la pelle di Maia.

Non ho ritenuto necessario sostituirlo equivaleva a dire Non ne ho bisogno, eppure le due espressioni non suonavano affatto alla stessa maniera.

«Perché una Dea dovrebbe dissimulare la propria potenza, specialmente di fronte a qualcuno che non è neppure un saint? Si tratta forse di falsa modestia?» pensò, mentre si appoggiava cautamente al bordo dell’altare su cui Saori si era seduta nel frattempo.

Quest’ultima, se anche fece caso alla sua diffidenza, non lo diede ad intendere. Rimase anzi in silenzio per qualche secondo, lisciandosi le pieghe di un abito rosso dall’aria antica e piuttosto costosa; poi, tutto a un tratto, il suo sguardo insondabile si alzò a cercare quello di Maia.

«È curioso: nonostante tu sia poco più di una semplice civile, qui al Santuario il tuo nome è più noto di quello della maggior parte dei saints minori. Ho sentito molte cose su di te, Maia Ninis: so che sei la nipote di Frandra Ninis, custode fedele da più di mezzo secolo; so che i tuoi genitori, Eleni Ninis e Federico Spadaro, sono morti in missione per conto del Grande Tempio; so della tua vocazione per la medicina e del prezioso contributo che da anni fornisci al personale sanitario interno».

Saori si interruppe un istante, le mani poggiate in grembo e un sorriso discreto sulle labbra: «Ma queste sono informazioni che ho reperito soltanto dopo qualche tempo, in virtù della frequenza con cui i cavalieri d’oro sono soliti rammentarti – spesso inconsciamente. Mi ha colpito non poco il fatto che tu sia presente in quasi tutti i loro ricordi… esclusi quelli più recenti».

A quelle parole, Maia sentì il corpo farsi pesante.

«Ecco, ci siamo».

Benché fino ad allora si fosse mantenuta sul vago, era spaventosamente ovvio che la sua interlocutrice non l’aveva convocata solo per fare conversazione.

Cosa sapeva, Saori? I cavalieri di bronzo le avevano sicuramente riferito quanto accaduto subito dopo il rito di restaurazione delle armature, ma poi?

Se davvero ella aveva parlato con tutti i Gold saints, allora era molto probabile che fosse a conoscenza anche del resto; non poteva neppure escludere l’eventualità che sapesse tutto a prescindere.

Le stava forse per chiedere di dare conto delle proprie azioni? In fondo, secondo le leggi penali vigenti al momento del fatto, ciò che Maia aveva detto contro il Grande Tempio e la Dea stessa costituiva un’eresia passibile di condanna a morte…

«Leggo la paura sul tuo viso, Maia. Ma se pensi che io ti abbia fatto venire fin qui per metterti sotto processo, stai sbagliando».

Le si era rivolta con un’espressione serissima, quasi che dalle convinzioni di Maia dipendessero le sorti del mondo intero. 

«Non ho alcun diritto di giudicarti, e neppure ho mai avuto l’intenzione di farlo; piuttosto, volevo… ringraziarti».

«Ri… ringraziarmi? E per cosa?»

«Per il tempo che hai trascorso con Aldebaran, Mu, Aiolia, Shaka e Milo mentre io non… potevo esserci. Seppur in diversa misura, ognuno di essi nutre sincero affetto nei tuoi riguardi. Ti sono grata per esserti presa cura di loro – e non soltanto di loro – come se fossero parte integrante della tua famiglia».

“Quella stessa famiglia di cui TU li hai privati”: in un passato non troppo remoto, Maia avrebbe senza dubbio risposto così.

Avrebbe accusato Saori di quella e mille altre cose, dando finalmente voce a una lista di recriminazioni allungatasi per anni, ma adesso le pareva un gesto stupido e inutile.

Gettò un’occhiata in tralice alla ragazza che le sedeva accanto, silenziosa e composta in maniera impeccabile: aveva l’aspetto di un’adolescente, eppure la sua presenza incuteva indubbio rispetto.

Non avrebbe saputo dire se ciò dipendeva più dalle consapevolezze che aveva faticosamente raggiunto o dalla dignità che trasudava da lei; tuttavia, c’erano delle responsabilità che non potevano non esserle addossate.

Stava ancora cercando qualcosa con cui ribattere, quando l’altra prese nuovamente la parola: «Non aver timore di esprimere ciò che senti: so che imputi a me la colpa di quanto è accaduto. Parla pure liberamente».

«Atena propugna la pace, è vero, ma è stato Arles a volere la guerra: senza il suo imbroglio, la battaglia delle Dodici Case non avrebbe avuto ragion d’essere».

«Io non… non riesco a capire!» esclamò allora Maia, le palpebre serrate nello sforzo di non esagerare «Gli dei sono esseri primigeni. Creature immortali, onniscienti, onnipotenti: è questo che insegnano tutti, dai maestri laici sui banchi di scuola ai rappresentanti dei culti più svariati. È questo che proclamano i sacerdoti del Mondo Segreto ad aspiranti e fedeli. Ma se così è, che senso ha servirsi di braccia armate umane? Perché mandare a morire i propri adepti, quando basterebbe schioccare le dita?»

La sua voce, resa più acuta dalla concitazione, rimbombò fra le pareti della sala vuota come un grido di sdegno mai del tutto represso: «Quando iniziò la sua ascesa al potere, Saga di Gemini aveva appena diciassette anni: un ragazzino prodigio che ha saputo ingannare il mondo intero, costruendosi un alter ego attraverso cui distribuire vita e morte ad esclusivo piacimento della sua mente malata. Un semplice uomo che ha finto di agire in nome e per conto della divinità a cui si era votato, la quale, una volta accortasi della frode, avrebbe dovuto polverizzarlo seduta stante. Invece, a combatterlo, sono stati mandati altri umani: saints poco più che bambini, che hanno ucciso per non essere uccisi. Arles è stato sconfitto, sì, ma a quale prezzo? Vincitori con le mani intrise di sangue, superstiti devastati da senso di colpa, soccombenti ammazzati senza possibilità di redenzione… mi risulta davvero difficile credere che non esistesse altro modo per giungere al medesimo risultato».

Poi tacque di botto, il respiro incastrato tra i denti per l’affanno.

Aveva la sensazione di aver detto troppo e, insieme, di non aver detto abbastanza.

La sua mente tornò alla notte precedente l’attacco al Santuario, alla figura di Camus avvolta dalla luce bianca della luna.

«Per la gloria. Perché l’essere saint mi ha dato la possibilità di far sì che, alla mia dipartita, il mio nome non divenga una semplice incisione su una tomba bianca. Troppo spesso ci si scorda dei deceduti e delle loro gesta: desidero andarmene sapendo di aver lasciato una traccia del mio passaggio su questa Terra. Solo così sarà valsa la pena di aver sofferto tanto».

Aveva pronunciato quelle parole con tono ed espressione ferrei, addirittura feroci, quasi che già conoscesse cosa sarebbe accaduto a neppure 24 ore di distanza.

Ma che traccia aveva lasciato Aquarius, in fondo, se non quella dell’avversario battuto?

L’essersi opposto senza riserve a Hyoga del Cigno aveva del tutto oscurato la persona eccezionale che era stato, consegnandolo alla storia e agli occhi della sua Dea quale traditore; era morto così, senza grazia né gloria. Invano.

Il solo pensiero le provocava la nausea – anche se Aiolia aveva detto che dare un senso alla morte spesso non serve a nulla.

«…»

Per la prima volta da quando le si era palesata, Saori non la stava guardando; anzi, il suo accorato discorso sembrava averla messa a disagio. Adesso teneva la schiena leggermente incurvata e il viso nascosto tra i capelli.

«I tuoi sono dubbi legittimi,» sussurrò dopo un po’, le braccia rigide «ma ricorda ciò che sto per dirti: non c’è nulla di davvero onnipotente. Esiste un equilibrio di forze a cui niente e nessuno può sottrarsi».

Poi si alzò in piedi e fece qualche passo in avanti, dando le spalle a Maia: «Nel settembre del 1986, quando giunsi al Santuario coi cavalieri di bronzo, non era mia intenzione ingaggiare una guerra aperta contro Arles. Avrei voluto percorrere le Dodici Case in maniera pacifica, parlare con ogni Gold saint disposto ad ascoltarmi e arrivare alle stanze del Gran Sacerdote senza versare una sola goccia di sangue. Purtroppo, però, la ferita inferta al mio corpo mortale dalla Phantom Arrow non me l’ha permesso; così, per salvarmi, Pegasus e gli altri non hanno avuto altra scelta che quella di combattere».

Il suo tono precedentemente gentile aveva lasciato il posto a un’amarezza che ella non fingeva neppure di nascondere; persino il piccolo corpo le si era trasfigurato, dandole un’aria quasi senza tempo.

«Sono rimasta per dodici ore sulla scalinata della Prima Casa, impotente, ma ho condiviso con tutti i miei cavalieri più di quanto fossi capace di sopportare. Non c’è stato un solo spasmo di dolore che non abbia morso anche le mie carni, non un turbamento che non abbia adombrato anche il mio cuore. Tempio dopo Tempio, ho sentito agitarsi dentro di me i timori di Mu, i dubbi di Aldebaran, la paura di Death Mask, la rabbia di Aiolia, la confusione di Shaka, il dissidio di Milo, il rimorso di Shura, la disillusione di Aphrodite… lo sdegno di Camus».

Al nome del fu Undicesimo Custode, Saori finalmente si voltò; i suoi occhi, dapprima blu cupo, ora brillavano di un’incredibile luce celeste.

Maia prese a fissarli senza alcun pudore, ammaliata e sconvolta. Quella luce…

«Maia, guarda quella luce… c’est si belle, n’est-ce pas?»

Non era paragonabile al crepuscolo azzurro e impregnato d’addio che affollava ogni suo ricordo alla Casa dell’Acquario; piuttosto, le rammentava certe immagini indistinte, forse provenienti da un qualche sogno pieno di pace. Di punto in bianco ebbe la certezza che sarebbe potuta rimanere a guardarla per ore intere.

La voce dell’altra, però, attirò nuovamente la sua attenzione. 

«Cancer, Capricorn, Aquarius, Pisces… sono riuscita a raggiungerli soltanto in punto di morte, quando erano ormai disposti a lasciarsi toccare, ma il Dio dell’oltretomba ha risucchiato le loro anime prima che io potessi chiamarle a me. Non sono stata abbastanza forte da impedirglielo».

«Contrariamente a quanto credi, Atena ha tentato con ogni mezzo di salvare – anche – i nostri caduti. Ma essi Le erano troppo distanti: quando la Sua luce li ha raggiunti, le loro anime stavano già rispondendo al richiamo dell’Ade. Non è stato possibile riportarli indietro».

Maia si lasciò sfuggire un gemito: non si era trattato di un’impressione falsata dalla devozione del Quinto Custode, era tutto vero. Era sempre stato vero, nonostante avesse passato l’ultimo anno e mezzo a consumarsi per l’opposto.

«A dispetto della loro miscredenza, Atena non ha rinnegato i suoi cavalieri. Nessuno di essi, neppure Camus».

Con gli occhi di nuovo aggrappati a quelli di Saori, stavolta convincersene le venne facile e naturale come respirare. L’aria stessa pareva entrare e uscire dai suoi polmoni in maniera più fluida, quasi che si fosse dissolto un qualche residuo di brina ancora nascosto.

Assurdo: sapere che Aquarius non era spirato da reietto non gliel’avrebbe affatto restituito, ma per la prima volta da moltissimo tempo si sentiva, per dirla alla maniera di Aiolia… sollevata.

Si chiese se anche Camus, nello spegnersi, avesse provato lo stesso; se, una volta al cospetto della luce celeste, non avesse compreso tutto ciò che c’era da comprendere nell’arco di un solo minuto.

«C’è un’altra cosa che vorrei sapere. Una soltanto, l’ultima. Giuro che non domanderò di più».

«Mi auguro di poterti rispondere».

 «Lui… se n’è andato in pace?»

Dinanzi a quella richiesta, l’espressione della sua controparte tornò nuovamente ad addolcirsi: «Durante gli scontri al Settimo e all’Undicesimo Tempio ho tentato in più occasioni di lambire il cosmo di Aquarius, trovandomi sempre davanti un granitico muro di ghiaccio – che, date le mie condizioni, non avrei avuto la forza di penetrare».

Saori fece una breve pausa, forse per darle modo di interiorizzare ciò che stava dicendo un poco alla volta; a dispetto di qualunque logica, la cosa fece sentire Maia stranamente protetta –  come quando, da bambina, sua madre la consolava dopo un brutto episodio.

«Tuttavia, al termine della battaglia alla Sacra Anfora, ciò che ho avvertito è stato completamente diverso. Il cosmo può rivelare molte cose sul proprio portatore, nel momento in cui questi acconsente a farsi toccare: dietro quel muro, l’aura del saint dell’Acquario era bianca e morbida come la neve appena caduta. Nulla ne turbava il candore… a parte una lieve ombra di malinconia. È stato così fino alla fine».

Lo sguardo della Dea, fisso su di lei, ora brillava più che mai. Lo vedeva perfettamente, nonostante i contorni delle cose le si fossero fatti appannati e tremuli.

«La prima: quelle che vedo dovranno essere le ultime lacrime che verserai per me».

Quante lacrime avesse effettivamente versato sulla memoria di Camus, Maia non avrebbe potuto contarle; sapeva, però, che quelle che adesso scorrevano lungo le sue guance avevano un sapore diverso dalle precedenti. Decisamente meno acre e, forse, anche un po’ liberatorio.

Furono davvero le ultime.



Note dell’autore

 

Buonsalve, brava gente. Spero stiate tutti bene.

Circa due anni fa, quando decisi di dare una seconda chance a questa storia, giurai a me stessa che non avrei mai più fatto passare troppo tempo da un aggiornamento all’altro: promesse da marinaio – un po’ come quelle di Maia, in fondo. 

A mia discolpa posso solo dire che questo capitolo aveva un focus particolarmente ostico da sviluppare: non ho mai fatto mistero di quanto poco apprezzi la figura di Saori, che io trovo vergognosamente priva di spessore (nonché di credibilità logica, ma ciò risente del mio essere irrimediabilmente atea).

Ho dunque provato a “correggere” un poco il tiro, motivando il personaggio e il suo agire nel modo che mi pareva più plausibile. In tale contesto, grande rilevanza assume la scissione Saori/Atena, ove la seconda, quando si manifesta, è comunque soggetta ai limiti del corpo mortale della prima; quest’ultima, di contro, possiede un’autorevolezza e un’attrattiva che io immagino irresistibili – o, se preferite, straordinarie.  

Per ciò che invece concerne il ruolo della suddetta negli eventi legati alla battaglia delle Dodici Case, torno a ribadire la centralità dell’avvertimento “What If”: non ho nessunissima pretesa circa l’esattezza canonica della ricostruzione da me operata, che ho modellato a esclusivo uso e consumo di questa storia. Stesso dicasi per il cambio di colore degli occhi; giocando un po’ con le differenze fra le prime serie (dove gli occhi di Saori sembrano quasi neri) e quella di Hades, mi sono divertita a ipotizzare che le iridi celesti siano il segnale più evidente del momentaneo prevalere della divinità sulla donna.  

Del resto, quest’ultimo dettaglio si appalesa fondamentale soprattutto per l’altra protagonista del presente capitolo, il quale rappresenta l’apice di un percorso emotivo iniziato grazie a Shaka, consolidatosi per merito di Aiolia e terminato proprio con Saori. 

Confrontarsi col motivo principale della morte di Camus – ossia, Atena – ha dato a Maia la forza di perdonare Aquarius, così come a suo tempo l’intervento di Hyoga e Atena medesima fu fondamentale per consentire a Milo di assolvere se stesso. 

Adesso c’è solo da andare avanti, un passo alla volta. A voi di indovinare quale sarà il prossimo. 

Prima di lasciarvi definitivamente in pace, qualche precisazione più tecnica: 

-theós: termine con cui nella lingua greca antica si indica genericamente un dio. Ho scelto questa parola perché rimandasse a un qualcosa di impersonale, quasi di estraneo;

-«Atena propugna la pace, è vero, ma è stato Arles a volere la guerra: senza il suo imbroglio, la battaglia delle Dodici Case non avrebbe avuto ragion d’essere» : frase tratta dal capitolo 14;

-«Per la gloria. Perché l’essere saint mi ha dato la possibilità di far sì che, alla mia dipartita, il mio nome non divenga una semplice incisione su una tomba bianca. Troppo spesso ci si scorda dei deceduti e delle loro gesta: desidero andarmene sapendo di aver lasciato una traccia del mio passaggio su questa Terra. Solo così sarà valsa la pena di aver sofferto tanto» : frase tratta dal capitolo 9; 

-«Maia, guarda quella luce… c’est si belle, n’est-ce pas?» : frase tratta dal capitolo 10, parte II; 

-«Contrariamente a quanto credi, Atena ha tentato con ogni mezzo di salvare – anche – i nostri caduti. Ma essi Le erano troppo distanti: quando la Sua luce li ha raggiunti, le loro anime stavano già rispondendo al richiamo dell’Ade. Non è stato possibile riportarli indietro» : frase tratta dal capitolo 15; 

-«La prima: quelle che vedo dovranno essere le ultime lacrime che verserai per me» : frase tratta dal capitolo 10, parte II. 

Ringrazio a cuore aperto chi ancora ha la pazienza di seguire – e magari commentare – “Sorella Morte”: abbiate fede, il traguardo potrebbe essere più vicino di quanto non sembri ;) 

Un abbraccio a tutti, (spero) a presto!

Irene

 

 

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