Il vuoto tra i poli

di Shireith
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Spaccato primo ***
Capitolo 2: *** Spaccato secondo ***
Capitolo 3: *** Spaccato terzo ***
Capitolo 4: *** Spaccato quarto ***
Capitolo 5: *** Spaccato quinto ***
Capitolo 6: *** Spaccato sesto ***
Capitolo 7: *** Spaccato settimo ***



Capitolo 1
*** Spaccato primo ***


Il vuoto tra i poli
Spaccato primo


01. work & rest

 Conan la trovava addormentata sulla tastiera del computer, tra i fogli scarabocchiati che solo lei poteva capire. Spegneva il display, riordinava i fogli, le metteva una coperta sulle spalle.
 Sussurrava: riposa.
 Ai rispondeva: lasciami lavorare.
 Tra le parole dette ce n’erano schiacciate mille mai dette.
 Ai pensava: lascia che sia io, per una volta, a fare qualcosa per te. Tu che per me hai rischiato la vita innumerevoli volte e che ora pensi che un po’ di lavoro in più possa ammazzarmi. Tu, proprio tu, mi dici di riposare?
 Come se non sapessi – pensava – che non aspetti che quello.
 L’antidoto.
 
 Erano loro due soli, Conan e il professor Agasa, quando il professor Agasa gli chiese: «Davvero non lo capisci?»
 Conan scosse la testa, limitandosi ad attendere la risposta nel silenzio.
 Agasa sospirò. «Lo fa per te, Shinichi-kun. Perché si sente in colpa.»
 
 Erano tutti e tre raccolti intorno al tavolo per la cena quando, come se niente fosse, Ai annunciò che l’antidoto era pronto.

NOTE ➺ Io che torno in questo fandom con l’ennesima ShinShiho sono come Aoyama che torna dopo la pausetta di due mesi con un filler: ma c’è la CoAi Week e non potevo esimermi.
I prossimi aggiornamenti saranno più corposi, ma metto le mani avanti e premetto che non sarà un progetto troppo lungo. Ci sarebbe un altro WIP più sostanzioso che vorrei pubblicare sempre per la CoAi Week, ma non so se farò in tempo.
Grazie a chiunque abbia letto fin qui; a domani!
Shireith

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Capitolo 2
*** Spaccato secondo ***


Spaccato secondo


02. past & present

 Si pensa che il presente sia l’unica fascia di tempo che si può controllare, ma per lei era un altro pezzo della sua vita che sfuggiva al suo controllo come sabbia tra le dita.
 Shinichi aveva un futuro perché aveva un passato, lei non aveva né l’uno né l’altro. Questo avrebbe voluto dirgli quando lui, quasi sconvolto, chiese, “In che senso non vuoi prendere l’antidoto?”, ma le parole non bastavano a dare una forma al vuoto che sentiva crescere dentro, e allora Ai si limitò ad alzare le spalle.
 «Ho detto forse.»
 Una vita senza Organizzazione se l’era sempre immaginata al fianco di Akemi, ma da quando Akemi era morta si era convinta che non ce l’avesse nemmeno più, una vita, né l’avrebbe mai avuta in futuro. Forse non ne aveva mai avuta una e basta.
 Passato, presente, futuro – Sherry, Ai, Shiho.
 Il primo, un nome che le avevano cucito addosso.
 Il secondo, una menzogna.
 Il terzo, tutto e niente. Da Shiho si originava la sua vita, da Shiho avrebbe dovuto ripartire. Ma per quanto si sforzasse di immaginarsi con l’uno o l’altro, nessuno dei tre le apparteneva davvero, e allora lei – solo lei – rimaneva nel limbo delle incertezze, allo specchio un involucro vuoto, un riflesso che non riconosceva come proprio.
 «Vuoi davvero rimanere bambina?» proseguì Conan. «Non ti manca il tuo vecchio corpo?»
 Avrebbe voluto sorridere della sua ingenuità. Perlomeno aveva detto “corpo”, non “vita”.
 Alzò le spalle. «A volte.»
 Ma…
 Ma?
 Ma non era abbastanza per farla tornare indietro.
 «E’ complicato, Kudo-kun.»
Non capiresti, Kudo-kun.
 
 (Le venne spontaneo, quella stessa sera sul tardi, associare lei e Shinichi ai poli: due entità unite dalla stessa condizione, ma quando da una parte c’è il sole dall’altra fa buio. 
 Quando Shinichi voleva vivere lei voleva morire.
 Ora che lui lasciava Conan per tornare Shinichi, lei si chiedeva che senso avesse l’una o l’altra, Ai o Shiho.  
 Lui, Shinichi.
 Lei, solo lei.)  

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Capitolo 3
*** Spaccato terzo ***


Spaccato terzo


03. fear & hope

 Svegliarsi una mattina in un corpo che non gli apparteneva era la più grande paura di Shinichi. L’Organizzazione esisteva ancora, oppure l’avevano sconfitta ma Ai non era riuscita a trovare un antidoto, oppure l’aveva trovato ma non aveva funzionato: gli scenari cambiavano, ma la conclusione era sempre la stessa, la sua paura più grande che diventava certezza.
 Le paure e le ansie di Shinichi, non di Conan. Mai sarebbero state di Conan. Se fosse stato solo Conan Edogawa non avrebbe avuto motivo di piangere una vita passata perché quella non c’era mai stata, e quindi le paure e le ansie erano di Shinichi – Shinichi che esisteva, non Conan che non esisteva. Era Conan che esisteva grazie a Shinichi, non viceversa: esisteva e sarebbe continuato a esistere anche se il mondo si fosse completamente dimenticato di lui. Quello che si vede alla luce del sole non sempre è la verità.
 Ai, per Shinichi, era un’amica. Un’alleata. Una ragazza che si era trovata incastrata in una situazione più grande di lei.
 La loro condizione faceva sì che Shinichi non dimenticasse mai che erano due intrusi, i bambini di troppo, eppure faticava a immaginare Ai fuori di un corpo che non fosse quello di sempre, come se persino ai suoi occhi non fosse che una bambina maturata prima del dovuto. L’aveva vista due volte nelle sue vere sembianze ed era strano accostare quei lineamenti – gli stessi solo più maturi, e ciononostante diversi – alla persona che conosceva. Nondimeno, aveva sempre dato per scontato che lei, proprio come lui, non aspettasse altro che l’occasione che lasciarsi le seccature dell’infanzia alle spalle.
 Chi, al suo posto, non avrebbe voluto tornare a essere Shinichi Kudo? Il detective liceale dalle cui labbra pendevano tutti, adulti compresi, mentre per il piccolo Conan erano più le volte che doveva dissimulare le sue piene capacità per non destare sospetti.
 Ma Ai – lei cosa aveva prima?
 
*
 
 «Kudo-kun? Mi stai ascoltando?»
 «Eh? Ah, sì, sì. Devo… bere molto, dormire e rimanere qui almeno fino a domani nel caso di eventuali effetti collaterali.»
 La sfuriata che minacciava di sfuggire ad Ai le morì sulle labbra quando si rese conto che, nonostante l’espressione trasognata, Conan aveva ascoltato tutto quello che aveva detto.
 «Tieni.»
 Conan prese il farmaco tra pollice e indice con delicatezza, come se temesse di romperlo, e lo osservò incredulo. «Tutto qui?»
 «Ti aspettavi dell’altro?»
 No.
 Forse?
 «È solo che… aspettavo questo momento da sempre e ora non mi sembra vero.»
 Ai annuì seria, quasi… malinconica? «Lo è. Tutto sta per tornare come prima.»
 Si volse, sicura di aver detto tutto, ma la voce di Conan la spinse a rimanere nella stanza. «Non proprio come prima.»
 Quello che aveva sempre sperato, che tutto tornasse come prima. Shinichi che gironzolava per la sua immensa casa, Shinichi che risolveva casi senza doverne attribuire il merito agli altri, Shinichi che si metteva in mostra alle partite di calcio, Shinichi che andava e tornava da scuola con Ran.
 Ciò che non aveva messo in conto prima d’ora era che non c’era più un prima, un contesto immutato a cui tornare come se il passato fosse slegato dal presente. Shinichi voleva tornare al passato, ma la condizione cui faceva ritorno era il presente, cambiato da quei mesi che non poteva cancellare come tracce lasciate sulla neve.
 «Tutto sarà diverso da come lo era prima.» Piegò le labbra in un sorriso nostalgico. «Non pensavo che l’avrei mai detto, ma mi mancheranno i ragazzi.»
 Genta, Mitsuhiko e Ayumi – come se non dire i loro nomi rendesse il tutto meno reale.
 Ai non disse nulla che facesse intendere se voleva rimanere con loro o tornare nel suo vecchio corpo e ricominciare da zero. Shinichi avrebbe voluto aiutarla, ma sapeva che quella era una decisione che spettava solo a lei, tanto più che i sentimenti dell’amica a riguardo rimanevano per la maggior parte un’incognita.
 «Qualsiasi cosa tu decida di fare, spero ti renda felice», fu l’ultima cosa che le disse prima di rinchiudersi in una camera vuota e ingoiare l’antidoto.

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Capitolo 4
*** Spaccato quarto ***


Spaccato quarto


04. routine & change

 Le parole di Conan della sera prima le avevano lasciato una strana sensazione di vuoto e tepore al tempo stesso. Si era sentita rincuorata al pensiero che Shinichi si era mostrato interessato alla sua sorte, perché la verità era che non voleva perdere una persona così importante come lui. Voleva che, se anche la loro vita quotidiana stava per subire cambiamenti drastici e irreversibili, loro creassero una nuova routine.
 Non avrebbero più percorso insieme il tratto che li avrebbe portati a scuola? Si sarebbero incrociati per strada per altri motivi. Niente più Conan che convinceva Ran a lasciarlo dormire a casa del professore? Si sarebbero visti comunque, sempre a casa del professore. Un caffè insieme, un pranzo o una cena ogni tanto. Erano vicini di casa, oltre che amici.
 Shiho voleva che la sua vita fosse lì, a Tokyo, con il professore, con i ragazzi. E con Shinichi. Loro due che erano amici e si prendevano in giro in una conversazione sostenuta. Lui che gli raccontava dell’ennesimo cadavere e lei che gli parlava di… di cosa?
 Shiho accarezzò ancora una volta l’idea di tornare all’università, una prospettiva di vita di cui nessuno ancora era a conoscenza; si crogiolò al pensiero di quella vita che aveva tanto invidiato agli altri, prima tra tutti sua sorella.
 «Vuoi davvero rimanere bambina?» le aveva chiesto Conan. «Non ti manca il tuo vecchio corpo?»
 Una verità l’aveva detta: sì, alle volte le mancava.
Nessuna persona che abbia seguito il consueto processo di crescita può abituarsi a un corpo da bambina nel giro di mesi.
 Quando si perde un oggetto l’opzione migliore è frugare nei propri pensieri a ritroso e tracciare un filo immaginario che abbia un inizio e una fine. Così Shiho, seguendo questa linea di pensiero, si era resa conto che la libertà di bambina – e soprattutto di non membro dell’Organizzazione – l’aveva ottenuta a scapito della libertà di donna quasi adulta, che pure aveva i suoi vantaggi.
 Le mancava potersi vestire seguendo il suo gusto e non tenendo a mente anzitutto che agli occhi del mondo doveva dare l’illusione di essere una bambina di sei anni. Nemmeno l’Organizzazione poteva impedirle, almeno nei giorni migliori, di viaggiare con la fantasia e domandarsi se avrebbe preferito tale o talaltro vestito. Akemi aveva contribuito quando le aveva fatto notare che aveva davvero buon gusto; sempre alla ricerca di un modo per strappare Shiho alla monotonia di numeri e formule, quando possibile la portava in giro per il centro città e si faceva dare consigli sui vestiti che voleva comprare.
 «La mia personale consigliera», diceva con un sorriso, finendo, più spesso che no, per metterle qualche vestito sottobraccio.
 Shiho si concesse una sbirciatina all’interno di un bar che affacciava sulla strada e fu investita da odore di caffè misto a cornetti appena sfornati. Si fermò, considerò se approfittarne, entrò.
 Cinque minuti dopo era di nuovo in strada. Non riusciva a stare ferma, sentiva l’impulso di camminare come a dover seguire il ritmo dei suoi pensieri.
 Il caffè, anche quello le era mancato. Persino nel corpo di bambina se ne concedeva uno ogni tanto, specie quando si rinchiudeva nel laboratorio del professor Agasa e ne usciva dodici ore dopo, ma aveva dovuto rinunciare alle dosi di una volta perché il corpo non reggeva. Era una questione complessa, a tratti paradossale: sebbene il suo orologio biologico, come quello di Shinichi, fosse rimasto perlopiù quello di un tempo, risentiva comunque dei limiti di un corpo così piccolo e ancora in pieno sviluppo. Come quando le gambe iniziavano a farle male dopo un tratto che di norma avrebbe percorso con il minimo sforzo.
 Ripensò al ragazzino che al bar l’aveva chiamata “signorina”. Le era sembrato impacciato e un po’ timido, le aveva dato l’impressione di un ragazzo delle medie che si era procurato un lavoro part-time per racimolare una piccola somma. Shiho per un attimo l’aveva guardato senza capire, il tempo di rendersi conto che non aveva dovuto alzare il collo in un’angolazione scomoda per poterlo vedere in faccia, né che le era stato chiesto dove fossero i suoi genitori.
 Nel ripensare a loro, Shiho avvertì un buco nel petto.
 Altra nota positiva dell’aver preso l’antidoto: poter usare il loro nome, il suo nome, per fare del bene. Come a volerlo ripulire del marcio in cui l’avevano gettato. Riscattare l’onore della sua famiglia, sua madre che aveva come unico desiderio curare le persone, non contribuire alle loro sofferenze, e suo padre che aveva l’ambizione di chi vuol cambiare il mondo, non renderlo un posto peggiore.
 Quanto sarebbe piaciuto anche a lei poter mettere le sue conoscenze al servizio di una giusta causa. Sì, voleva riscattarsi ai suoi stessi occhi – non a quelli degli altri, che non sapevano – guardarsi allo specchio e dire: ecco chi ero, ecco chi sono diventata.
 Così, a tarda notte, Ai Haibara aveva preso l’antidoto, e quella stessa mattina, di buon ora, Shiho Miyano era uscita di casa mentre gli altri due ancora dormivano.

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Capitolo 5
*** Spaccato quinto ***


Spaccato quinto


05. lost & found

 «Professore, ha visto il mio…?»
 Shiho sollevò il mento appena in tempo per vedere Shinichi immobile sull’uscio della cucina, la distanza tra loro improvvisamente riempita da un silenzio che si allargò come un elastico.
 Fu Shiho a romperlo. «Hai visto un fantasma?»
 Shinichi alzò le punte delle labbra in un’espressione sardonica che morì l’istante dopo.  «Alla fine l’hai preso», disse, facendosi subito serio.
 «Te l’avevo detto che ci avrei pensato», ribatté Shiho, girando svogliatamente qualche pagina di una rivista. Con poca sorpresa di Shinichi, gli dedicò più attenzione solo quando fu il momento di chiedergli: «Hai riscontrato qualche effetto collaterale?»
 «Emicrania, mal di stomaco, ossa indolenzite…» elencò Shinichi, e Shiho ebbe il sospetto che ancora una volta volesse farle capire che era stato a sentire. «No, niente di tutto ciò. Ce n’è un po’ anche per me?» aggiunse con un cenno in direzione del caffè.
 Shiho pensò di negarglielo, più per dispetto che per altro, ma poiché non aveva né la voglia né tantomeno la forza di provocarlo, riempì una seconda tazza e gliela allungò.
 «Il professore sta ancora dormendo, perché lo cercavi?»
 «Ho perso il papillon di Conan. Ieri il professore ha messo i miei vestiti – quelli di Conan – in lavatrice, forse sa che fine ha fatto.»
 «A cosa ti serve, a fare gli scherzi telefonici?»
 Il tentativo di Shiho di fare dell’ilarità non ebbe l’effetto desiderato. Shinichi alzò le spalle e puntò lo sguardo sul pavimento. «Ho deciso di conservarlo.» Per un attimo, la questione parve finita lì, poi Shinichi aggiunse: «In un certo senso penso che che Conan non me lo lascerò mai alle spalle. Sono successe tante cose che preferirei dimenticare, ma altre vale la pena ricordarle.»
 Shiho lo scrutò con genuino interesse, forse una punta di sospetto, come se vedesse in Shinichi un’altra persona. «Tipo cosa?»
 «Tanto per cominciare, ho dei nuovi amici.»
 «Una delle quali può ucciderti con una pillola piccola così», disse Shiho avvicinando indice e pollice fino quasi a farli toccare.
 Shinichi finse di studiare la sua tazza di caffè con espressione grave, concentrandosi, per un attimo, sul cerchio luminoso che il lampadario proiettava nel liquido scuro.
 Scrollò le spalle. «La vita è fatta di rischi» – e bevve.
 Shiho si ricordò degli altri due cornetti che era passata a comprare allo stesso bar prima che rientrasse. Sentendosi particolarmente generosa, ne prese uno e lo sistemò sotto il naso di Shinichi.
 «Non so a che gusto è», disse, ma Shinichi lo stava già addentando senza fare complimenti. «Se non hai avuto effetti collaterali», continuò Shiho, «puoi anche andare. Se succede qualcosa, hai il mio numero.»
 «Stai cercando di liberarti di me?»
 «Pensavo solo avessi altro da fare. E poi, io tra un po’ esco.»
 «Dove vai?»
 «A far visita alla tomba di mia sorella.»
 Il silenzio che ottenne in risposta la mise a disagio. Come a dovergli dare spiegazioni, Shiho aggiunse: «Con l’Organizzazione a piede libero, prima era troppo pericoloso, e anche una volta che mi credevano morta ho preferito evitare.»
 Per ovvi motivi, Shiho era sempre stata molto più scrupolosa di Shinichi circa le questioni che avrebbero potuto tracciare un collegamento, per quanto sottile, tra Ai Haibara e la sua precedente vita.
 Shinichi annuì. «Vuoi che venga con te? O, che ne so, che ti accompagni almeno fino al cancello.»
 Shiho inarcò un sopracciglio. «Perché?»
 «Era tua sorella», rispose Shinichi, come se non fosse ovvio, «magari vuoi un amico al tuo fianco. Sai, sto cercando di essere gentile.»
 «Mh. Non ci sono abituata.»
 «Ah-ha.»
Questo era ciò che temeva di perdere. Lei, Shinichi, il loro cameratismo. Una persona con cui sentirsi alla pari, un amico su cui contare. Shiho non poteva negare almeno a sé stessa che tra i motivi che l’avevano spinta a prendere l’antidoto c’era anche Shinichi; nello specifico, il desiderio di non perdere i rapporti con lui, cosa che eventualmente sarebbe successa se fosse rimasta alla vita di bambina.
 Si sentì debole e spaurita al pensiero che, persino dopo Akemi, una persona potesse contare così tanto per lei, ma non ebbe il tempo di scavare più a fondo in quel pensiero perché in quel momento si sentì la voce di Agasa invadere la cucina. Aveva chiamato il nome di Shinichi ed era sul punto di aggiungere altro, ma le parole gli morirono in gola quando raggiunse la soglia.
 Un attimo di silenzio, poi: «Oh, Ai-kun! Hai preso l’antidoto anche tu?»
 Shiho rispose qualcosa alzando le spalle. Il nome di Ai sembrò rimanere appeso sopra le loro teste finché Shinichi non lo riacciuffò e disse: «Dovremmo chiamarti Shiho ora?»
 Shiho assottigliò gli occhi. «Tutta questa confidenza da dove viene?»
 Shinichi fece spallucce. «Tu puoi chiamarmi Shinichi.»
 Quasi tutti i suoi amici lo facevano già, dopotutto.
 Poiché Shiho non rispose, Shinichi si voltò a guardare Agasa. «Ha visto il mio papillon?»
 Il professore frugò in una tasca e ne estrasse l’inconfondibile papillon rosso. «Stavo per metterlo in lavatrice, poi mi sono ricordato che non è resistente all’acqua!» disse con una risata.
 «È possibile renderlo resistente all’acqua?»
 «Ci posso provare. Perché, vuoi tenerlo?»
 «Sì. Ho pensato che può sempre tornare utile. Tipo…» Shinichi si concesse un attimo di silenzio, l’espressione seria di qualcuno che stesse inseguendo un pensiero complesso, poi armeggiò con le due levette presenti nella parte interna del papillon finché non fu soddisfatto. Quando parlò, «Tutta questa confidenza da dove viene?» risuonò tra le pareti con la voce di Shiho. Simile a quella di Ai, ma più adulta.
 «Visto? Al primo colpo!» disse Shinichi con una risata.
 Anche il professor Agasa sembrava divertito, ma si astenne per solidarietà nei confronti di Shiho, che sfoggiava una delle espressioni infastidite migliori del suo repertorio.
 «Kudo-kun.»
 «Mh?»
 «Dimenticavo di dirti che un altro degli effetti collaterali dell’antidoto è l’impotenza.»
 Agasa che dava qualche colpo di tosse imbarazzato e Shinichi che sputava il caffè nella tazza rovesciandosene un po’ addosso furono due reazioni che Shiho accolse in modo diverso: la prima, notandola a stento; la seconda, con un sorrisetto soddisfatto, gli occhi socchiusi.
 Stava per godersi, trionfante, le proteste di Shinichi, ma delle voci provenienti dal salotto li congelarono nel tempo.
 In quell’esatto momento, Shiho poté giurare di sentire il cuore affondarle nel petto.

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Capitolo 6
*** Spaccato sesto ***


Spaccato sesto


06. innocence & guilt

 «Le somigli tantissimo!»
 Shiho si sforzò di ignorare il groppo alla gola delle dimensioni di una noce. Sorrise, ma tutto quello che ne uscì fu un sorriso tirato. Per sua fortuna, i bambini erano troppo ignari per accorgersene. «In famiglia me lo dicono spesso.»
 L’ennesima bugia. Il senso di colpo che le artigliava la gola fino a toglierle l’aria e poi strozzarla.
 Ayumi, Genta e Mitsuhiko erano entrati tutti contenti in cucina, ormai così di casa da non bussare nemmeno alla porta. Si erano fermati di scatto quando avevano individuato i due intrusi: i loro occhi si erano posati prima su Shinichi, che avevano conosciuto brevemente, poi su Shiho, che non conoscevano, o quantomeno credevano di non conoscere. Prima che le loro menti saltassero a conclusioni affrettate, per quanto corrette, il professor Agasa aveva presentato Shiho come sua parente, e dunque anche di Ai.
 “Shiho-chan”, l’aveva chiamata. Forse aveva sostituito il solito -kun in preda all’agitazione, forse era stata una scelta consapevole. Quale delle due fosse, Shiho aveva provato un moto d’affetto senza pari. Avrebbe voluto scoppiare a piangere. Per il professore, che provvedeva a lei come a una figlia. Per questi tre bambini meravigliosi che fin dal primo giorno l’avevano accolta come una di loro e a cui lei, in cambio, aveva sempre mentito.
 Per il loro bene, si ripeteva. Ma dove finiva la verità e iniziava la bugia? Anche ora mentivano per il loro bene? Perché non avrebbero retto il colpo, o perché lei e Shinichi non reggevano al solo pensiero che quei bambini li odiassero?
 Ne sarebbero stati capaci?
 Shiho tornò a guardare Ayumi, che ora rideva per una battuta di Genta, e non seppe rispondere a quella domanda. Le sembravano troppo buoni e innocenti per essere capaci di un sentimento così nero, ma se fosse stata proprio una rivelazione simile a scatenarlo in loro? Non a caso si dice che c’è sempre una prima volta, e scoprire che i tuoi amici che credi essersi trasferiti in un altro paese sono sempre qui, nella stessa stanza, e ridono – con te? di te – non è cosa da poco.
 Quando i tre bambini se ne andarono, Shiho aveva a malapena spiccicato parola, così persa in sé stessa da non rendersi nemmeno conto degli occhi di Shinichi che saettavano su di lei come attratti da un magnete.
 Il professor Agasa si allontanò dalla stanza per delle ragioni che il suo udito non riuscì a cogliere. Non avrebbe sentito nemmeno la voce di Shinichi se prima non le avesse sfiorato una spalla con una mano.
 «Tutto bene?»
 Shiho sentiva ancora le voci dei bambini rimbombare tra le mura delle pareti come se non se ne fossero mai andati. Ripensare a loro le scavava un vuoto in petto e lei temeva che, se solo non fosse stata attenta, vi sarebbe precipitata dentro.
 Si allontanò un poco da Shinichi, come se a una distanza fisica corrispondesse un distaccamento emotivo che l’aiutasse a riordinare i pensieri, e in effetti lo sentì – il vuoto che s’allargava sotto i suoi piedi, tra lei e Shinichi. Il vuoto tra i poli.
 Tornò a guardare Shinichi. Lo guardò a lungo, ogni secondo che passava il suo sguardo si faceva più pesante da reggere. Eccola lì, l’unica persona che potesse comprendere le difficoltà del prima e del dopo, eppure lo stesso che non ne capiva quanto lei.
 Si sentì come al centro di una bilancia.
 Avrebbe capito, Shinichi? Lui che odiava mentire, eppure – eppure cosa?
 Eppure mentiva.
 «Shiho?»
 «Non avremmo dovuto mentirgli.»
 «Avevamo scelta?»
 Lei alzò le spalle. «Sì.»
 «Dirgli la verità avrebbe solo peggiorato le cose.»
 «Per essere uno che odia mentire ti viene incredibilmente facile.»
 Shiho poté leggerglielo negli occhi che le sue accuse furono per Shinichi come una stilettata al petto. No, non gli piaceva mentire: Shiho l’aveva visto con i suoi stessi occhi quanto gli fosse costato tenere a debita distanza Ran, pur di non farla soffrire: e se anche era stato un errore, Shiho sapeva che le intenzioni erano buone.
 «Dico solo…»
 «Scusa», tagliò corto Shiho, stupendosi di quanto le costasse una sola parola.
 Shinichi parve dubbioso. «Immagino di meritarmelo.»
 L’immagine di Shuichi Akai le apparve nella mente come un fulmine che squarci il cielo: subito Shiho la scacciò via. Non voleva pensarci, non di nuovo, non ora.
 No, non se lo meritiva.
 Shiho lo avvertì ancora una volta – il silenzio che si dilatava come a dir loro: tu stai qui, tu stai là.
 «Era più facile quando eravamo bambini.» Shiho chiuse gli occhi, li riaprì. «Bambini per finta. Ma era più facile»
 Shinichi parve genuinamente confuso. «Mentirgli?»
 Shiho si strinse nelle spalle. «Tutto quanto.»
 Perché i bambini sono spontanei, non hanno malizia. Ayumi, Genta e Mitsuhiko erano riusciti a farsi amico persino uno come Shinichi.
 Una come lei.
 «Non è che mi piaccia mentirgli», disse Shinichi con voce cauta, «ma penso che sia davvero la cosa migliore. Non credo l’avrebbero presa bene se gli avessimo detto: “Ehi, ragazzi, ricordate Conan e Haibara? Eccoci qui!”.»
 Se il suo era un tentativo di farla ridere, funzionò.
 Tuttavia, pochi secondi passarono e di nuovo Shiho s’incupì. Erano sempre le bugie e trattenerla a un passo dalla felicità, o quantomeno dalla libertà, una prospettiva di vita più realistica.
 Ai Haibara? Una bugia. Se anche fosse rimasta bambina, poi cosa sarebbe successo? Le fughe sono belle proprio perché la temporaneità è la loro caratteristica; fuggire sempre è peggio che non essere mai scappati.
 Con i bambini rideva e scherzava e allora pensava che quelle fossero le sue prospettive di vita, ma la verità era che pure in loro presenza lei era la ragazza diciottenne che sarebbe stata senza la minaccia incombente dell’Organizzazione: spensierata, innocente, insomma simile a una bambina, ma comunque una diciottenne. 
 Ai Haibara, rifletteva, non era solo la bambina di sei anni, la fuga da Sherry; piuttosto, Shiho Miyano senza Sherry. Quanto tempo sarebbe passato prima che trovasse insostenibili i programmi scolastici che l’aspettavano dalle elementari alle superiori, lei che pure era laureata? Quanto prima che si rendesse conto che la piccola Ayumi era una sorella minore prim’ancora che una migliore amica, e che le bambine parlano di giocattoli e cartoni animati?
 Shinichi le aveva detto una volta, scherzando, che quando si parlava di Higo Ryusuke lei sembrava «quasi normale». Eccola, dunque: una ragazza che si era presa una sbandata violenta per un bel ragazzo in televisione, non allo stesso modo in cui avrebbero potuto ammirarlo Ayumi e altre bambine che fossero tali anzitutto per mentalità.
 In un certo senso, lei sei anni non li aveva mai avuti, non glieli avevano concessi. Se non aveva funzionato la prima volta, cosa la illudeva che la seconda sarebbe andata meglio?
 Una voce nella sua testa le ricordava che anche Shiho Miyano era l’ennesima bugia, ma mentre lei avrebbe dovuto mentire solo sul suo passato, Ai Haibara avrebbe mentito sempre. E dunque, cos’era meglio? Mentire una volta ai bambini o mentirgli per sempre?
 Si morse il labbro. Anche Shiho Miyano, per loro che l’avevano conosciuta prima, era una bugia: ogni giorno o quasi li avrebbe visti e ogni giorno o quasi avrebbe tenuto per sé i mesi trascorsi insieme.
 Tornò a guardare Shinichi. «Pensi che un giorno gli diremo la verità?»
 Shinichi si strinse nelle spalle. «Vorrei dirti di sì, perché se lo meritano. Ma più passa il tempo e più temo che non troveremo il coraggio.»
 Tra di loro, nel vuoto, si dilatò un silenzio scomodo, sgradito. Rimase lì, soffocante e immutato, finché Shinichi non chiese:  «Non vai più da tua sorella?»
 Con l’arrivo improvviso dei bambini, che erano rimasti lì per pranzo, Shiho se n’era dimenticata. Scoccò un’occhiata all’orologio e si stupì che fossero già le due di pomeriggio. Si era ripromessa, solo qualche ora prima, che niente le avrebbe impedito di far visita ad Akemi, ma ora si sentiva come svuotata di ogni buona intenzione ed energia.
 «La mia offerta è ancora aperta.»
 Shiho inarcò un sopracciglio. «Davvero, da dove viene tutta questa gentilezza?»
 Shinichi mostrò i palmi. «Mi hai beccato, sto cercando una scusa per liberarmi di mia madre.»
 
 (Una volta incamminati, poco più tardi, l’argomento di conversazione introdotto da Shinichi sarebbe stato: «Quando parlavi di quell’effetto collaterale… stavi scherzando, giusto?»)

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Capitolo 7
*** Spaccato settimo ***


Spaccato settimo


07. mend & break


 In qualità di scienziata, Shiho credeva solo nei fenomeni che potevano essere studiati, nei teoremi che potevano essere dimostrati con una formula matematica. Se avesse creduto nel soprannaturale, o quantomeno nel destino, forse avrebbe tracciato una linea immaginaria che ricongiungesse il 30 giugno di dodici anni prima a questo esatto momento.
 Lei e Shinichi che camminavano per le strade della città conversando e scherzando tra loro come se nulla fosse cambiato le sembrava un ricordo lontano di anni. Ora c’era solo Ayumi che la fissava da sottinsù con due occhi che Shiho giurò potessero ucciderla.
 Si sforzò di regalarle un sorriso di conforto, proprio come aveva fatto quella volta Akemi, quando Shiho era caduta dalla bicicletta e sua sorella l’aveva riportata a casa in spalla.
 Shiho ci provò davvero, ma questo non era il suo territorio, e ogni volta che le veniva richiesto di uscire dal mondo dei numeri e della ragione era come prendere una bambina e gettarla in una gabbia di leoni. Non era come loro – come Akemi, come Ayumi: non era come loro e non lo sarebbe mai stata.
 «Brucerà un po’», disse. E infatti, quando passò il pezzo di cotone col disinfettante sul ginocchio di Ayumi, la bambina non riuscì a trattenere un ahi! stridulo. Shiho la vide catturare il labbro inferiore tra i denti e mordicchiarlo per trattenere le lacrime.
Va tutto bene, Shiho, un attimo e passa tutto.
 (Va tutto bene, Shiho.)
 «Va tutto bene, ora passa.»
 Aveva sei anni. Akemi, solo tredici. Nemmeno diciotto: tredici. Lei che una madre ce l’aveva avuto il tempo necessario per impararne i meccanismi e subentrare al suo posto, poco importava che fosse figlia e non madre, e che di una madre avesse bisogno tanto quanto Shiho. Akemi era subentrata al posto di Elena e Shiho non aveva potuto fare altro che accettarlo.
 E ora, che pure Shiho di anni ne aveva diciotto, niente sembrava esser cambiato. Si svegliava nel cuore della notte e voleva sua madre, la voleva perché non ce l’aveva mai avuta – si svegliava nel cuore della notte e rivoleva Akemi, la rivoleva perché ce l’aveva sempre avuta e ora che non c’era più era come se le avessero amputato un braccio. Come nella sindrome dell’arto fantasma, alle volte sembrava che Akemi non se ne fosse mai andata: la cercava, non la trovava, e perderla faceva male come la prima volta.
 «Ayumi, tieni!»
 Fu la voce di Mitsuhiko a strapparla ai suoi pensieri. Shiho lo vide puntellarsi sulle punte dei piedi per lasciare un bicchiere di succo sul tavolo su cui lei stessa aveva fatto sedere Ayumi quando, tornando a casa del professore (Shinichi aveva ceduto alle insistenze di sua madre, alla fine, e ora chissà dov’era), aveva trovato Mitsuhiko e Genta – Ayumi in spalla a Genta – che bussavano senza ottenere risposta. Shiho li aveva informati che il professore era uscito e perciò li aveva fatti entrare lei.
Shiho, cosa hai fatto? Scema! Vieni qui!
 «Com’è che ti sei fatta male?»
 La domanda era rivolta ad Ayumi, ma fu Genta a rispondere. «È caduta tra i cocci di un vaso rotto.» Shiho annuì mentre fasciava il ginocchio di Ayumi con una garza pulita. «Spero solo che la signora Yamamoto non lo scopra…»
 «Genta!» sibilò a denti stretti Mitsuhiko, dandogli un colpetto sulla spalla, ma se anche il suo intento era stato quello di impedire all’amico di tradirsi, l’esagerazione del suo intervento sortì l’effetto opposto.
 Shiho si sforzò di trattenere un sorriso. «Siete scappati senza chiederle scusa?»
 Genta cercò di mostrarsi disinvolto, ma finì solo per sembrare ancora più colpevole di quanto già non fosse. 
 «Dovreste chiederle scusa», disse Shiho. «Sono sicura che capirà.»
 «Shiho-san ha ragione!»
 (Shiho-san, non più Ai-chan: lei e Ayumi, del resto, erano estranee.)
 «Oh!» esclamò Mitsuhiko battendo il pugno chiuso sul palmo. «Potremmo portarle uno di quei dolci che fa Subaru-san per farci perdonare!»
 «Ma si è trasferito…» gli fece notare Genta.
 «Magari Yukiko-san può dirci dove trovarlo!»
 Gli scambi seguenti avvennero senza che Shiho ebbe il tempo di fare o dire alcunché: Mitsuhiko e Genta dissero ad Ayumu di rimanere lì finché la “signorina” non avesse finito di medicarla, e nel frattempo ci avrebbero pensato loro a informarsi sulla nuova abitazione di Subaru-san!
 Shiho dubitò che Shuichi Akai – o Subaru Okiya, o qualsiasi altro alias avesse deciso di adottare nel frattempo, vista la sua inclinazione a farlo come fosse uno sport – avesse il tempo di mettersi ai fornelli.
 Per l’ennesima volta, Shiho si sforzò di accantonare l’immagine dell’uomo e tutto ciò che lo riguardava, lo ripose in un cassetto immaginario e lo chiuse a chiave, sebbene fosse troppo consapevole di come funzionasse la sua mente per illudersi che ciò bastasse a scacciare per sempre la questione. Se ripensava a tutte le persone che erano state coinvolte nella lotta all’Organizzazione, Shiho si domandava come facessero loro – loro che pure di bugie ne avevano dette tante – a vivere con il piede in due scarpe. Una parte di lei avrebbe voluto chiederglielo, le sarebbe piaciuto ritrovare le sue stesse ansie nelle parole degli altri, poter dare a quelle ansie un nome e una forma. Ma di parlare Shiho proprio non n’era capace, e allora le rimaneva solo Shinichi, Shinichi che però in quella questione era così diverso da lei da risultare come l’ennesimo punto cieco, più che uno specchio in cui rivedersi.
 Si erano salutati sulla strada del ritorno quando Shinichi si era finalmente degnato di rispondere a sua madre: perché lui una madre ce l’aveva – e un padre, e degli amici, e uno scopo nella vita.
 «Shiho-san?»
 Ayumi la strappò ai suoi pensieri e Shiho gliene fu grata. Le ci volle tuttavia ancora un attimo prima di tornare completamente alla realtà, il tempo di pensare che questa bambina meravigliosa era l’unica amica che avesse mai avuto all’infuori di Shinichi. Quanto era diventato facile per Ai Haibara abbassare le difese in sua presenza, e ora Shiho Miyano doveva ripartire daccapo. Le capitava, alle volte, di domandarsi se abbandonare la prima per la seconda non fosse stato un errore, ma poi si ricordava: una bugia cucita sulla realtà. Una fuga, che in quanto tale non può durare in eterno. Forse in un primo momento sarebbe stato più facile – lei che andava alle elementari con Ayumi, Genta e Mitsuhiko senza doversi preoccupare di costruire una nuova vita da zero – ma il passato sarebbe tornato a reclamare anche Ai Haibara.
 Il passato che le diceva: non hai sei anni, ma diciotto.
 Eppure Shiho si sentiva come se a ognuno di quelli ne corrispondessero dieci e forse più e che quelli, moltiplicandosi come cellule cancerogene, finissero per sformarla da dentro. Bambina non poteva esserlo, ma mai si era sentita più tale, così vicina alla paura dei bambini nel momento in cui si svegliano nel cuore della notte e piangendo chiamano mamma o papà. Lei, che negli studi era più avanti dei suoi coetanei, era indietro su tutto il resto. Quanto faceva male averne diciotto, di anni, e sentirsene novanta e zero al tempo stesso: troppo grande per vedere la realtà con gli occhi di Ayumi, troppo piccola per vederla attraverso gli occhi di coloro che ce l’avevano fatta.
 È come correre senza mai fermarsi per raggiungere un punto, e anche se ti sembra di scappare via da qualcosa e non verso qualcosa, anche se il petto fa male e i polmoni vanno a fuoco, anche se urli: per favore, ho tutta la vita davanti, non ce n’è bisogno, tutto quello che ottieni in risposta è: corri
 E così, Shiho correva. Ma anche mentre correva le sembrava che fosse l’intero mondo a muoversi e che lei fosse, al centro, ferma.
 «Shiho-san?»
 Questa volta, Ayumi riuscì a restituirla alla realtà. Shiho sbatté le palpebre per inquadrarla nel suo campo visivo e solo allora si accorse di un accenno di lacrime incastrate tra le ciglia. Riuscì a eliminarne ogni traccia mentre fingeva di rimettere in ordine il kit di pronto soccorso e solo allora tornò a rivolgersi ad Ayumi.
 Fu il turno di Ayumi di distogliere lo sguardo per puntarlo sulle gambe che penzolavano dal tavolo. «Secondo te Genta si sente in colpa?»
 «Per cosa?»
 «È stato lui a rompere il vaso della signora Yamamoto», spiegò Ayumi, e Shiho pensò fosse tipico di Genta, «però non l’ha fatto apposta… Non è colpa sua se poi io sono caduta…»
 Sorriderle le venne naturale. Per la prima volta da quanto era tornata Shiho Miyano, ebbe l’impressione di poter confessare ad Ayumi tutti – quasi tutti – i suoi segreti. Ayumi era sempre Ayumi. Era Shiho che, ora adulta agli occhi di chiunque, osservava i tessuti che compongono le relazioni sociali e non sapeva come discernerli.
 «Non è colpa sua.» A onor del vero, Genta era un ragazzo che difficilmente nascondeva le sue emozioni, e a Shiho non era parso incolparsi per quello che era successo ad Ayumi, ma si sentì comunque di aggiungere: «Però dovresti dirglielo, così saprà che non ce l’hai con lui.»
 
*
 
 Le sue stesse parole continuarono a riecheggiare nella sua testa anche dopo che Ayumi se ne fu andata. Inizialmente, Shiho non seppe spiegarsi il motivo. Poi, come un fulmine che squarci il cielo all’improvviso, tracciò un filo invisibile che collegava Genta e Ayumi a lei e Shinichi.
 
*
 
 Era passata quasi una settimana quando, una mattina, Shiho scese al piano di sotto senza stupirsi che il professore si fosse alzato prima di lei vista la tarda ora, e invece scoprì che a fare rumore in cucina era Shinichi.
 «Ti trasferisci qui e nessuno mi ha detto niente?» fu il suo saluto.
 «Ti piacerebbe!» Shinichi si sporse per prendere una tazza. «Caffè?»
 Shiho non era sicura le piacesse la nonchalance con cui Shinichi si presentava a casa del professore, ma una vocina nella sua testa le ricordò che Shinichi gironzolava per quella casa da molto prima che lo facesse lei. Non volendo tuttavia cedere alla ragione, pur non di darla vinta a Shinichi, fece finta di niente.
 «Senza zucchero.»
 «Questo spiega molte cose.» Prima che Shiho potesse ribattere, Shinichi distolse la sua attenzione altrove tamburellando con due dita su un rettangolo bianco che si mimetizzava col tavolo. «È arrivata per te stamattina, il professore l’ha aperta per sbaglio», disse. «È la tua lettera d’ammissione all’università.»
 Shiho strinse gli occhi. «Quando dici che il professore l’ha aperta per sbaglio, intendi per sbaglio o per sbaglio per sbaglio
 «Per sbaglio per sbaglio. Pensava fosse una lettera di un suo amico che sta a Kyoto – davvero, chi usa ancora le lettere?»
 Shinichi le chiese se voleva sentire un aneddoto su quell’amico di Kyoto, ma la sua voce si fece ovattata come sott’acqua mentre Shiho apriva la lettera e leggeva le righe in cui la informavano che era stata presa. Non se ne stupì, eppure la notizia ebbe lo stesso effetto di una prospettiva insperata che avesse bassissime probabilità di avverarsi: eccolo, il primo passo verso una nuova vita. Una vita senza Akemi che per la prima volta le sembrava avere un senso, un accenno di normalità.
 Fu in quel momento che si ricordò della questione in sospeso tra lei e Shinichi fin dal giorno in cui aveva curato le ferite di Ayumi – Ayumi che, per la cronaca, le aveva detto che lei era la dottoressa migliore da cui fosse mai stata.
 «Kudo-kun?» lo interruppe, e la serietà nella sua voce sembrò passare da lei al volto di Shinichi. «Quando hai voluto accompagnarmi da mia sorella, tu… perché?»
 Aveva cercato di dare un contegno alla voce, ma quella l’aveva tradita. Non c’era modo in cui potesse conferire all’argomento un tocco meno personale perché era personale. In un certo senso, era per merito della morte di Akemi, se di meriti si può parlare, che lei e Shinichi si erano incontrati.
 «Te l’ho detto, no? Siamo amici.»
 Lei annuì. Gli credeva, ma…
 Ma?
 Ma c’era dell’altro; se lo sentiva, come un prurito fastidioso sotto pelle.
 Le ci volle una forza di volontà incredibile per sostenere il suo sguardo, di un blu intenso come l’acrilico fresco; la gola sembrava sul punto di bruciare al passaggio di quelle parole che per il momento restavano solo l’ennesima verità sepolta.
 Tra lei e Shinichi c’era complicità, c’erano cameratismo e onestà, ma dare una forma ai loro sentimenti più intimi non era arte né dell’uno né dell’altra.
 Shiho si umettò le labbra prima di dire, la voce così bassa da sembrare un sussurro nel vento: «Lo sai che non te ne faccio una colpa.»
 Un tempo sì. Si era chiesta perché quel detective spaccone che sembrava vedere il filo invisibile che collegava eventi che per altri erano solo un ammasso di coincidenze avesse salvato tutti tranne sua sorella. Lo aveva odiato: lui che diceva di amare e servire la giustizia e ciononostante non era stato capace di salvare l’unica persona che per diciotto anni l’aveva tenuta attaccata alla vita.
 Ma ora che l’aveva osservato in disparte per tanto tempo – lui che guardava il mondo, lei che guardava lui, che lo studiava come Shinichi avrebbe fatto con un qualsiasi caso particolarmente complesso – mai sarebbe stata capace di fargliene una colpa. Per quanto facile, persino rassicurante, fosse trovare qualcuno da incolpare, quel qualcuno non era Shinichi.
 Era Gin.
 Gin, che era dietro le sbarre.
 Perché tutto era finito.
 «Lo so.»
 
*
 
 La sapeva, eppure…
 Eppure Shinichi sapeva pure che la morte è una ferita che non puoi curare, il vaso che una volta rotto non si può né riparare né sostituire, solo piangerlo per il resto dei tuoi giorni.
 Ma quando è notte, quando la mente proietta sulle palpebre chiuse occhi vacui e vestiti macchiati di sangue, non puoi fare altro che urlare.
 Avrebbe voluto dirle: ho gli incubi ogni notte, ce li hai anche tu, vero? Mi dispiace, credimi: vorrei aiutarti, vorrei farlo ma non posso, non so come fare.
 Avrebbe voluto dirle quello e tanto altre cose, ma dare una forma ai sentimenti più intimi non era arte né dell’uno né dell’altra.
 Nella stranezza della loro condizione, uguale eppure diversa, c’era un punto di incontro ma, per arrivarci, avevano bisogno di tempo.
 Per questo Shinichi non le disse: dai, esci; dai, fai questo, fai quest’altro. 
 Però le disse, uno di quei giorni: «La tua università è vicina al Teitan. Lo so perché l’ho cercata su Google.»
 Lei lo fissò riducendo gli occhi a due fessure. «Un’allusione poco velata, la tua, Kudo-kun.»
 Lui alzò le spalle. «Era giusto per dire.»

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