Noi Casomai - Extra

di crazyfred
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Canto di Natale - Stille Nacht ***
Capitolo 2: *** Canto di Natale - Oh Tannenbaum ***
Capitolo 3: *** Canto di Natale - Lustig Lustig Tralalalala ***
Capitolo 4: *** Canto di Natale - Jingle Bells ***
Capitolo 5: *** Aspettative e Realtà (parte 1) ***
Capitolo 6: *** Aspettative e Realtà (parte 2) ***
Capitolo 7: *** Buongiorno mamma, buongiorno papà ***
Capitolo 8: *** Era mattina sul lago ***
Capitolo 9: *** Let it snow ***
Capitolo 10: *** Ritorno a casa - parte 1 ***
Capitolo 11: *** Ritorno a casa - parte 2 ***
Capitolo 12: *** Have yourself a merry little Christmas ***
Capitolo 13: *** Un fulmine a ciel sereno (parte 1) ***
Capitolo 14: *** Un fulmine a ciel sereno (parte 2) ***
Capitolo 15: *** Natale per due ***
Capitolo 16: *** Uno sgradito ritorno ***



Capitolo 1
*** Canto di Natale - Stille Nacht ***


Salve a tutti!!! Qui di seguito troverete un piccolo e personalissimo esperimento. Il seguito di "Noi Casomai" ma in una chiave diversa: una serie di one shot, concatenate o meno, dei piccoli quadri riguardanti la nostra amata tribù. Andremo avanti o, perché no, indietro nel tempo, rispetto alla fanfiction "madre", colmando dei vuoti e soddisfacendo dei desideri personali. Senza scadenze precise, per lasciarmi e lasciarci una porta aperta su questo universo.
Non vi tedio oltre e vi lascio alla lettura.
Fatemi sapere cosa ne pensate. A presto!
 

 

Canto di Natale
Capitolo 1 - Stille Nacht

 
 
 
 
 


 
Stille Nacht! Heilige Nacht!
Alles schläft, einsam wacht
Nur das traute hochheilige Paar.
Holder Knabe im lockigen Haar,
Schlaf in himmlischer Ruh!
Schlaf in himmlischer Ruh!
 
 
 
 
 
Il SUV avanzava sicuro sulla neve compatta sul manto stradale. Francesco percorreva quella strada dalle due alle cinque volte al giorno e ormai la conosceva come le sue tasche: era una fortuna perché con la neve che era caduta nel fine settimana, si era trasformata nel tracciato di una pista di fondo e tutti i punti di riferimento erano sommersi da quella fitta coltre bianca. Ancora fioccava e altre spolverate erano previste nelle serate a venire. L'inverno, dopo un inizio stentato, era arrivato anche a San Candido. Per la gioia di grandi e piccini, era arrivato nel pieno della stagione turistica, a dare quel giusto tocco di magia alle casette di legno dei mercatini e al paesaggio montano tutto intorno.
Appena il bosco si apriva nella piccola radura dove era situato il maso, la casa già da lontano gli dava il suo benvenuto con le luci provenienti dall'interno e l'illuminazione calda natalizia che contornava la sagoma della baita. Già solo così, sentiva meno freddo. Parcheggiata l'auto, non fece a tempo a girare la chiave nella serratura che fu accolto all'ingresso dall'abbaiare gioioso e selvaggio di Luna, che gli saltava attorno festosa. Il forestale a malapena riuscì a sfilarsi di dosso il giaccone e a mettere gli scarponi ad asciugare. La lupacchiotta aveva ormai raggiunto le 5 primavere, ma era rimasta la cucciola giocherellona e un po' testarda che era quando era arrivata in famiglia: cresciuta assieme agli altri piccoli di casa, il suo istinto predatore veniva fuori solo quando la portavano a spasso per i boschi, tra gli odori della terra e le tracce di altri animali.
Nel salotto le luci dell'albero e del piccolo presepe erano accese, fonte di luce nella stanza vuota, e due delle quattro fiammelle della corona dell'avvento alzavano altrettante piccole colonne di fumo. Era dal fondo del corridoio, però, che arrivavano i suoni e gli odori di tutta la vita che riempiva la sua casa. Man mano che si avvicinava s'imbatteva in un aroma diverso: il dolce della cannella, l'intensità della noce moscata, la freschezza un po' piccante dello zenzero e il forte calore dei chiodi di garofano. Era come se il Natale si stesse spandendo nell'aria.
"Buonasera famiglia!!!"  proclamò l'uomo, entrando in cucina. "Papà!" urlarono le sue bambine, in coro, scendendo goffamente dalle sedie dove erano salite per arrivare al piano di lavoro, i grembiuli da cucina adattati, ma sempre troppo grandi, e gli corsero incontro, gettandoglisi al collo. "Bambine siete tutte sporche di farina, non sporcate papà!!!" "Ecco le mie principesse pasticcere!!!" esclamò, prendendole in braccio, una per lato. Aveva festeggiato 50 anni a primavera, ma quando aveva i suoi figli attorno se ne sentiva addosso la metà.
Il piccolino di casa, Matteo, era seduto nel seggiolone, biscottini mangiucchiati in entrambe le manine, le gambine scalpitanti che penzolavano, reclamava l'attenzione del padre con dei piccoli gorgheggi e delle sillabe che non erano ancora classificabili come paroline vere e proprie. Era da un po' che ci provava e sia lui che Emma erano sicuri che la prima parolina sarebbe arrivata a breve.
Fatte scendere le piccole Sole e Sofia, che tornarono al bancone della cucina a maneggiare con la frolla speziata e le formine dei biscotti, Francesco prese in braccio il beniamino di casa, spupazzandosi quelle guanciotte tonde e rosse. La risata del piccolo, solleticato dalla barba del padre, gli ridava tutta l'energia che aveva consumato a lavoro.
"Luna stai lì" protestò Emma, accorgendosi che la lupa si era addentrata furtivamente in cucina, fingendo di annusare le caviglie del suo padrone. "Luna dov'è Leo?" le chiese l'uomo. Al nome del padroncino, gli occhi della cagnolona si illuminarono "Vai a chiamarl0 … dai! Dai!" Come se potesse capirlo, Luna si precipitò fuori dalla cucina e via su per le scale. L'avrebbe distratta per un po'.
"Buonasera signora Neri!" con il piccolo ancora tra le braccia, stampandole un lungo bacio. Era passato quasi un decennio dalla prima volta che si erano visti, quasi un decennio da quando si era innamorato di lei, ma non c'era un giorno in cui non gli togliesse il fiato, non un giorno in cui non sentisse d'amarla come quando si era dichiarato la prima volta.
"Ah buonasera signor Neri!" rispose, con un sorriso sarcastico, mentre infornava una teglia di biscotti "mi chiedevo quanto ancora avrei dovuto aspettare per essere salutata … ormai sembra che bisogna prendere il numero come al supermercato …"
Francesco sorrise, compiaciuto, di farle ancora questo effetto. Mise Matteo di nuovo nel seggiolone, distraendolo con un sonaglino e tornò da sua moglie, che non lo aveva mai perso di vista con la coda dell'occhio. Dopo tutti quegli anni, la stupiva che riuscisse ancora ad approfittare di ogni singolo attimo; che ancora, ogni secondo insieme, per Francesco era come miracolo che accadeva davanti ai suoi occhi, pieni di meraviglia: per Emma, suo marito era come un libro aperto, non c'era poro della sua pelle che non le parlasse della gratitudine dell'uomo per la loro vita insieme.
"Tu sei la prima cosa che vedono i miei occhi quando mi sveglio … e l'ultima quando vado a dormire. E mi sono impegnato che sia così per tutta la mia vita. Penso che questa possa bastare come rassicurazione, no?" domandò, ironico e suadente. "Finché Teo continuerà a fare incursione nel lettone credo che la prima cosa vedrai al mattino per un po' sarà il suo sederino spiaccicato sulla tua faccia" esclamò la donna, scoppiando a ridere e Francesco insieme a lei. Francesco passò le grandi mani attorno alla vita di Emma, accarezzandola lievemente, stringendola a sé. "Signor Neri, ci sono dei bambini…" sussurrò Emma. "Mmmm, che fa?!" rispose, chinandosi verso di lei leggermente "Al massimo impareranno come sono nati."
Questa volta il bacio non fu casto, ma lento, appassionato, di quelli che facevano tornare Emma ad essere la giovane ingenuotta, sognatrice e un po' folle che era arrivata tra quelle montagne e, invaghita persa per quell'uomo bello e tenebroso, si era fatta avanti a baciarlo senza sapere se fosse ricambiata o meno.
"Guarda, si baciano.." era la voce di Sole, che bisbigliava a sua sorella. "Eeeeuh che schifo!" esclamò Sofia, meno attenta a non farsi sentire. I due fecero finta di nulla, affogando la risata l'uno sulle labbra dell'altra. Fu solo la sveglia del forno a tirarli fuori dalla loro bolla.
"Ma  Leo?" domandò l'uomo "com'è che neanche Luna è riuscita  a portarlo giù?"
"Chiedilo a lui …" rispose Emma, ricompostasi, tirando fuori la teglia del forno e infornando l'ultima "ha passato tutto il pomeriggio fuori sulla neve e ora ha l'ordine tassativo di non alzarsi dalla scrivania finché non termina i compiti per domani" "Sei troppo severa … la mattina va a scuola, alle cinque è già buio. È normale che voglia sfogarsi un po' sulla neve" "E tu sei troppo permissivo, non ho un minimo di autorità con te che arrivi e disfi ogni regola" sbuffò, ma un sorriso furbesco dell'uomo era quanto serviva per renderla incapace di rimanere ferma sulle sue posizioni.
"Bimbe aiutate la mamma a riordinare e poi di sopra a fare il bagnetto" per la maggior parte della giornata era ancora Emma ad occuparsi della casa e dei bambini. Il suo lavoro di ricerca le permetteva, soprattutto d'inverno, di lavorare da remoto e Francesco aveva preso l'abitudine, fin dall'arrivo di Leo, di darle il cambio con i bambini e con la casa appena rientrato dal lavoro. Si poteva dire, a fine giornata, che era stato un lavoro di squadra e i bambini non sentivano mai la mancanza di nessuno dei due.
Salito al piano superiore, trovò Luna stesa sul parquet della stanza di Leonardo, afflitta per non essere riuscita a svolgere il compito che le era stato affidato. "Giovanotto!" esclamò, fermo sull'uscio. Ma Leonardo non rispose, la testa bassa sui libri. Francesco allora si fece avanti, portandosi alle sue spalle e massaggiandogliele brevemente, prima di lasciargli un bacio sulla guancia. Ma il bambino si scansò, urtato da quella smanceria. Bambino, pensò Francesco, aveva da poco compiuto 10 anni, ma dopo la prima comunione era diventato improvvisamente più alto, un uomo in miniatura. Ogni giorno assomigliava sempre di più a Livia e a Marco e Francesco non poteva smettere di pensare, quando guardava il figlio, che mancava davvero poco a quel momento, il momento in cui Leonardo sarebbe diventato più grande di quanto fosse Marco al momento della sua morte. Questo però non lo rendeva triste. Malinconico forse, ma davanti a sé aveva un'avventura che non aveva mai vissuto: avere un figlio adolescente. Sarebbe stata una bella sfida; non la temeva, aveva al suo fianco la migliore alleata possibile.
"Che fai?" "Tedesco" "Ahia … mi dispiace ma non ti posso aiutare molto, meglio se chiedi a mamma. È molto più brava di me" "Io non ci parlo con quella lì" "Ehi!" lo richiamò il padre, la voce ferma "Si dice così?"
Leonardo non rispose e Francesco rimase in silenzio accanto a lui, sedendo sul letto. Sbirciò il diario che furtivamente aveva preso dalla scrivania e notò il lungo elenco di compiti che gli erano stati assegnati. Se quello era l'ordine in cui li aveva svolti, era solo a metà lista. Ed erano le sei di sera.
"Mamma lo dice per il tuo bene, perché non vuole che fai i compiti a tarda sera, quando sei stanco e rischi di farli in fretta e male" spiegò, calmo ma risoluto "perché se dobbiamo aiutarti, anche noi siamo stanchi e ci sono i tuoi fratelli che fanno i capricci"
"Non è giusto però" protestò Leonardo, finalmente degnando il padre di uno sguardo, seppur lagnoso "io qui a studiare e Sole e Sofi a giocare nella neve!"
"Ti fidi delle mie promesse?" il bambino annuì. Le promesse di Francesco erano il modo in cui l'uomo era riuscito a vincere il cuore del suo bambino quando era ancora un orfanello spaventato e diffidente nei confronti di tutto e tutti. "Ti prometto che questa neve non si scioglie né domani, né tra una settimana. E se fai i compiti quando te lo dice mamma, domenica ce ne andiamo io e te a sciare da soli" "Soli soli?" "Parola di forestale!" pronunciò l'uomo solennemente, mettendo una mano sul cuore e l'altra alzata a mo' di giuramento.
"E comunque" proseguì l'uomo appena Leo accennò ad un sorriso "quel modo di parlare nei confronti di mamma non è tollerato in questa casa. Né la gelosia nei confronti di Sole e Sofia che vanno ancora all'asilo." "Ma…" "È chiaro?" "Sì papà" rispose il ragazzino, triste per strigliata ricevuta. "Noi non ti neghiamo niente, ma ci fa stare più tranquilli sapere che oltre ai diritti rispetti anche i tuoi doveri. E questo è quello che fa un fratello grande. Da l'esempio … vuoi che Sole, Sofia e Matteo diventino capricciosi?"
"No, fanno già troppo rumore così"
"Papaaaà!!!" una vocina lagnosa preannunciò l'arrivo di Sole "Appunto ..." commentò Francesco, gli occhi al cielo, mentre la maggiore delle figlie entrava nella stanza del fratello. "Sofia vuole fare il bagno per prima, ma io ho fatto i dolci con mamma, sono più sporca" spiegò, mostrando al padre la maglietta sporca di farina. "Non è verooo!!!" ecco che spuntava anche la seconda, 3 anni e un caratterino che non si faceva per nulla intimidire "anche io ho cucinato!"
"Innanzitutto non vedo ancora i pigiamini e la biancheria puliti. E le principesse senza pigiamini puliti non possono fare il bagno" esordì Francesco, inginocchiandosi davanti alle bambine "e poi la vasca è grande abbastanza per tutte e due." "Come in piscina?" chiese la più grande. "Ma con le bolle!" esclamò Francesco, sgranando gli occhi per impressionare e convincere la piccola.
Alla parola bolle, entrambe le bambine corsero urlanti verso la cameretta, per preparare tutto l'occorrente. "Fammi andare … prima che aprano i rubinetti e allaghino casa. Se hai bisogno …" "…chiamo mamma" concluse la frase il ragazzino.
Francesco scompigliò la chioma di Leo, perennemente folta e disordinata. Era diventato ufficialmente Leonardo Neri da un paio d'anni, ed era stata festa grande, come se fosse nato una seconda volta, eppure nessuno ci credeva quando veniva fuori che era stato adottato. Non si poteva dire che somigliasse fisicamente ai fratelli, né ai genitori, ma sia nei manierismi, sia nel carattere volubile spesso ricordava Francesco. E il suo buon cuore … quello, per Francesco, era tutto uguale ad Emma.
 
Dopo cena, Emma stava allungata in poltrona. Un libro aperto sottosopra sul tavolino davanti al divano che non aveva voglia di leggere, la tv accesa ma tenuta a volume bassissimo, un ronzio più che altro, che non stava trasmettendo nulla di interessante, si mise a canticchiare una canzoncina di Natale al piccolo Teo, che se ne stava sonnacchioso tra le sue braccia dopo aver scolato l'ultimo biberon della giornata, in procinto di cadere nel sonno più profondo.
Non si poteva dire che fosse il preferito di Emma, avrebbe fatto l'inverosimile per ciascuno di loro, ma Teo era il suo Francesco in miniatura ed era innegabile che ci fosse un'alchimia particolare tra loro due, la stessa che Francesco aveva con Sole, la mini-Emma della famiglia.
"Sia benedetta l'ora del bagnetto" esclamò Francesco, entrando nel salone, con aria soddisfatta "sono crollate". Emma, mentre il marito sedeva al suo fianco, portando le gambe di lei sulle sue, gli porse il telecomando, ma l'uomo spense la tv prontamente. Prese a massaggiare i piedi di Emma, delicatamente.
"Mmmm…se continui ancora un po', dovrai portarci entrambi su in braccio" rilassandosi completamente, sciogliendo quello che rimaneva di uno chignon tutto scompigliato che sopravvissuto ad una giornata in compagnia dei suoi figli in età prescolare. La sua folta chioma lunga e setosa celebrava la ritrovata libertà.
"Non c'è problema" rispose lui, gentile e tranquillo. Dopo il ritorno a casa, quello era in assoluto il momento della giornata che preferiva, quando l'unico rumore era il ronfare di Luna nella sua cesta nel corridoio del piano di sopra, a guardia delle camere da letto.
"Leo?" "Dorme anche lui … era stanco. Oggi, oltre a quelle di scuola, ha imparato una grossa lezione qui a casa." "Sono stata troppo severa, non è da me. Ma Teo faceva i capricci e le bambine mi assillavano con i biscotti … non avevo la forza per stare a sentire anche lui che faceva storie. A volte sono proprio capaci di farti sentire schiacciato …" "Non è colpa tua. Tu hai fatto semplicemente la mamma, a volte ci vuole tenerezza, altre rigore. Non sentirti in colpa. E per favore, promettimi che la prossima volta che ti senti così mi chiami, non voglio che lo affronti da sola" Emma cercò di minimizzare la cosa con un verso, ma Francesco non era dello stesso avviso "Non sto scherzando Emma, li abbiamo voluti insieme, insieme condividiamo tutto. Mmh?"
Emma annuì, toccata dalle attenzioni che mai Francesco le faceva mancare. Era solo la consapevolezza di potersi aprire con lui, ma ance il poter contare sulla sua presenza e sul suo supporto concreto. Non erano solo parole.
"Come è andata a lavoro, oggi?" gli domandò. Calati il silenzio e la calma in casa, i due coniugi potevano prendersi un momento per raccontarsi, cosa che non potevano fare con i bambini intorno che reclamavano le loro attenzioni e facevano baccano e disordine. "Questa neve è stata un disastro" spiegò lui, oggettivamente provato "abbiamo passato la giornata a portare generatori e generi di prima necessità alle case che sono rimaste senza corrente e nelle frazioni più isolate."
Mentre per loro la tormenta del ponte dell'Immacolata era stata una manna, la scusa ideale per tenere i bimbi sotto le coperte e recuperare un po' di sonno e di coccole arretrate, alcune famiglie non erano state altrettanto fortunate.
"Posso immaginare… la preside della scuola di Leo mi ha chiamato oggi per rimandare alla prossima settimana gli incontri con le classi per il progetto. Molti bambini non sono andati a scuola stamattina e non ce la faranno nemmeno nei prossimi giorni. Mai mi sarei aspettata una cosa del genere qui dove sono super organizzati."
Francesco annuì, pensieroso. Loro erano stati fortunati, ma quelli erano momenti in cui ponderava se una casa come la loro, lontana dal centro e che ha bisogno che si attraversi un bosco per essere raggiunta, fosse la soluzione migliore e più sicura. Ma poi si ricordava di dove aveva fatto vivere Emma - e soprattutto come - all'inizio della loro relazione: era stato un miracolo che non fosse scappata a gambe levate dopo un paio di giorni di convivenza. Ma era il loro posto del cuore e non aveva rimpianti.
"Comunque …" disse, ridestandosi "oggi ho parlato con Valeria" "Ah!" esclamò Emma, sarcastica "adesso parli pure con Valeria" "Beh, sì, può capitare quando si lavora insieme … del resto anche tu parli con il caro Andreas" Andreas era l'etologo che aveva sostituito Emma nel progetto di scuola nel bosco dopo la nascita di Sole ed, insieme, avevano iniziato a collaborare per ingrandire negli anni l'iniziativa, fino ad integrarla in un progetto di ricerca per il Parco Nazionale, allargando la loro squadra e il loro raggio d'azione oltre i confini del comune di San Candido. Francesco ne era, neanche troppo velatamente, geloso, e non mancava occasione per marcare il territorio.
Emma, che non tollerava quella ingiustificata gelosia, scattò, assestandogli un bel calcio sulla gamba, facendo attenzione a non svegliare Matteo che dormiva ormai beatamente sul suo petto.
"Devi fare sempre lo stronzo …" sbraitò a bassa voce. Con quegli occhi da cucciolo bastonato, a cui Emma non sapeva resistere, le domandò perdono, correndo con le mani dalle caviglie fin quasi alle cosce e posandovi un bacio. La donna mantenne un atteggiamento sostenuto, anche se dentro andava in autocombustione. "Sentiamo" sentenziò "cosa ti ha detto Valeria?" "Mi ha chiesto due settimane di ferie … quest'anno andranno a Napoli per Natale" "Cosa?" "Pare che Eva condurrà il capodanno in piazza lì e così per far passare le feste a Mela con la madre scendono loro" "E quando hanno intenzione di partire?"
Francesco non ne aveva idea, la sua vice aveva solo fatto richiesta per le ferie a partire dal 20.
"Cosa? Ma io la strozzo!!!" Emma scattò in piedi con così poca delicatezza, che fu un miracolo che il piccoletto tra le sue braccia non fece una piega. Per sicurezza però, Francesco corse ad afferrare il bambino mentre, furiosa, cercava il suo cellulare in giro per casa. "Il 21 è il primo compleanno di Matteo e Vincenzo è il padrino, non può mancare"
Non era solo per il compleanno del bambino: in 7 anni che erano diventati una grande famiglia allargata, non era mai successo, fino a quel momento, che avessero passato le feste separati. Poteva capitare di stare separati un giorno, per dedicare del tempo alle famiglie in visita, ma i Neri e i Nappi a San Candido erano considerati praticamente inseparabili. Lo sapevano anche il macellaio e il panettiere, il fruttivendolo e il salumiere che, per Natale, era come se le loro case avessero ingressi comunicanti e tavolate lunghe e chiassose erano apparecchiate dal 24 dicembre al 6 gennaio.
Trovato il telefono sul ripiano del mobile all'ingresso, Francesco glielo sfilò con un movimento fluido dalle mani "Mancano 2 settimane a Natale … evitiamo di litigare senza motivo." "Senza motivo?" "Adesso io metto a letto Matteo, tu ti togli questi vestiti di dosso e domani pensi a Valeria. Comunque penso sia impossibile che si sia dimenticata della festa di Teo … è un mese che non fate altro che parlarne" "Mi sono persa un passaggio …" lo interruppe Emma, fintamente perplessa, alzando l'indice come se dovesse fare una domanda "… tra il togliermi i vestiti e domani …"
"Non pensavo di dover essere ancora così esplicito dopo tutti questi anni, Giorgi" ammiccò l'uomo, mentre le sbottonava il primo bottone della camicia. Era una sua camicia a quadrettoni, regalo di compleanno di Huber, che aveva indossato un paio di volte giusto per farlo contento e che lei aveva preso in prestito a tempo indeterminato. Le piaceva perché era calda e comoda e perché, nonostante i tanti lavaggi, diceva di sentirci comunque il suo profumo addosso.
"Sai com'è … magari le mie impressioni erano sbagliate … magari eri stanco e volevi solo andare a dormire" spiegò, mentre saliva le scale, indugiando ad ogni passo; Francesco la guardava ancora come il primo giorno, con quel misto di orgoglio ed incredulità di averla al suo fianco.
 
In quella notte silenziosa, la neve aveva ripreso a scendere lenta ma sicura, rimbiancando le strade sgombre, le auto ferme nei parcheggi, i tetti alleggeriti, gli ingressi e i passaggi liberi. Il giorno dopo si sarebbe ricominciato a spalare da capo, come si faceva da sempre, come era sancito nel tacito patto tra uomo e natura in quelle zone, senza fiatare, a capo chino e braccia leste. Ma in quella notte, fredda e solitaria, c'è ancora tempo per dormire in pace, al caldo delle carezze e degli abbracci, nell'intimità dei baci.

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Capitolo 2
*** Canto di Natale - Oh Tannenbaum ***


 

Canto di Natale
Capitolo 2 - Oh Tannenbaum



 
 
 
 
 
 
O Tannenbaum, O Tannenbaum
Wie grün sind deine Blätter!
Du grünst nicht nur zur Sommerzeit
Nein auch im Winter wenn es schneit!
O Tannenbaum, O Tannenbaum
Wie grün sind deine Blätter!
 
 
 
 
Dopo un'abbondante colazione e aver aiutato Emma con i bambini, Francesco iniziò a sistemare gli sci sul tetto dell'auto e Leonardo caricò il borsone con gli scarponi e un paio di maglie di ricambio e gli asciugamani che Emma aveva messo di nascosto dai suoi uomini che facevano sempre gli eroi e poi si beccavano i malanni. I Neri, pur non disdegnando il brivido della velocità e delle curve in discesa, erano fondisti. La calma e la bellezza dei paesaggi che può offrire una tranquilla pattinata tra i boschi o ai bordi di un lago, erano per loro impareggiabile. Avevano iniziato quando Sole era ancora una neonata e avevano scoperto che in Scandinavia i bimbi riuscivano a seguire mamma e papà sulle piste grazie a pratici slittini trasformati in culla. Dopo lo scetticismo iniziale di Francesco, non erano più riusciti a farne a meno.
"Luna, andiamo!" gridò il ragazzino e la lupa si fiondò al suo fianco, prima rotolandosi tra la neve alla ricerca di coccole, contenta di andare all'avventura con il suo padroncino, poi seduta composta e attenta, mentre Francesco apriva il bagagliaio per farle prendere posto nell'apposito trasportino. Tra tutti i membri della famiglia, Leonardo e Sole erano quelli che più di tutti avevano un rapporto speciale con l'animale: Leonardo l'aveva trovata e Sole era praticamente cresciuta insieme a lei. I loro nomi, Sole e Luna, ammiccavano quasi alla simbiosi tra le due.
Emma seguì i suoi ragazzi nello spiazzo davanti casa, gli stivali e il giaccone messi sul pigiama, Sole in lacrime silenziose in braccio a lei, altrettanto imbacuccata, il visino nascosto tra i suoi boccoli e quelli della madre.
"Piccolina che c'è?" domandò Francesco, carezzandole la guancia umida di lacrime con l'indice della mano guantata "volevi venire anche tu? La prossima volta andiamo tutti, promesso. L'inverno è appena iniziato." Ma la bimba scosse la testa "Voglio Luna!!!" "Principessa, anche Luna ha bisogno di un giorno di libertà, non può stare sempre a casa e mamma ha organizzato una gita speciale anche per voi oggi"
"Noooo papà!" esclamò Emma, fingendo di protestare facendo l'occhiolino "doveva essere una sorpresa!!!" "Ops!" La piccola rise alle facce buffe del padre, bastava poco per farle tornare il buonumore.
"Che sorpresa?" chiese poi, la boccuccia aperta quasi a formare una o per lo stupore, voltandosi verso la madre. "Se è una sorpresa non si può dire, sennò che sorpresa è?" spiegò Emma "su, dai un bacio a papino e corri dentro che fa freddo!"
Dalle braccia della madre, la piccola si buttò addosso al padre, che la strinse forte. Odorava delle mandorle che profumavano il bagnoschiuma e della camomilla che beveva tutte le sere prima di andare a dormire. Ancora non poteva credere che fossero passati 5 anni da quando gli avevano messo quello scriccioletto tra le braccia la prima volta, quando si perdeva quasi tra le sue braccia. Se non ci fossero stati Sofia e Matteo, avrebbe detto che erano trascorsi solo cinque minuti da quella lunga notte tra padre e figlia, forse la notte più felice e piena della sua vita.
La piccola, grandi occhioni verdi come i suoi, gli prese il volto tra le mani. Francesco non era mai riuscito a capire se avesse visto Emma farlo e avesse iniziato di riflesso o se, semplicemente, era un comportamento ereditario; francamente, gli interessava poco: riusciva a scaldargli il cuore con poco. "Mi raccomando …" disse, solennemente, quasi fosse un'adulta "ti voglio bene"
"Ti voglio bene anch'io, principessa" premendo forte le sue labbra sulla sua guancia morbida e profumata. La spedì dentro casa prima che potesse vedere la commozione nei suoi occhi, che sarebbe stata difficile da spiegare. Tirò su col naso, grattandosi la punta con il dorso del guanto fingendo nonchalance.
"Ciao papaaaà!!!" una voce acuta attirò l'attenzione. Sofia si era arrampicata sul cassettone appoggiato giusto sotto al davanzale e aveva aperto la finestra del salotto. "Sofi scendi subito da lì!" "Chiudi la finestra che ti ammali!" gridarono all'unisono i suoi genitori, mentre chiudeva la finestra ridacchiando, gli occhietti vispi che con lei sorridevano della marachella, sotto la frangetta bruna.
"Qualche giorno ci farà morire di crepacuore quella lì!!! Ma da chi ha preso?" domandò Emma perplessa e sconcertata. "Vediamo … chi è che si è buttata in un lago ad aprile senza saper nuotare o si è arrampicata su per le montagne con mezzi di fortuna e neanche la radio …" le ricordò il marito, strizzando l'occhio. "Ah quindi adesso è colpa mia?!" ribatté la donna, ridendo "non mi pare di capire che tu fossi tanto un angioletto da ragazzo". Francesco si morse la lingua "Touché!" esclamò, mani in alto.
"Sei sicuro che non volete portarvi neanche un panino?" "Amore, abbiamo fatto una colazione che sembrava un pranzo e poi per l'una andiamo al rifugio, così ci riscaldiamo anche un po'" la tranquillizzò, sistemandole una ciocca di capelli dietro le orecchie. "Non ti stancare troppo" si raccomandò l'uomo, lasciandole un lieve bacio sulle labbra prima di salire in auto. "E voi non fatemi stare in pensiero, non vi cacciate nei guai" disse Emma, affacciandosi nel finestrino dentro l'abitacolo "Leo, dico a te, hai capito?" "Mm mm" rispose distrattamente il ragazzo, seduto di fianco al padre, mentre smanettava tra telefono e computer di bordo. L'ultima volta che erano stati sugli sci, la stagione precedente, Leonardo si era avventurato da solo su una pista rossa, staccandosi da Francesco che lo stava inseguendo per raggiungerlo: lo aveva ritrovato fuori pista con una caviglia slogata, per via una curva che non era riuscito a gestire.
"Fate i bravi" "Ti amo" sussurrò Francesco, portandosi di nuovo sulle labbra di sua moglie.
 
Dopo la pennichella del pomeriggio, avvolti i bambini i giacche, sciarpe e cappelli, quasi all'imbrunire Emma si mise in auto direzione sorpresa.
Mentre guidava sbirciava la ciurma nel sedile posteriore, tutta in sicurezza nei rispettivi seggiolini. Matteo a pochi metri da casa si era già appisolato - il movimento dell'auto aveva un effetto talmente benefico su di lui che Francesco aveva dovuto fare la spola San Candido-casa durante tutto il periodo delle colichette in piena notte per farlo dormire un po', Sole guardava attenta e curiosa la strada, forse tentando di capire dove stessero andando e Sofia invece giocherellava con due cavallini giocattolo della sua collezione. Le sue storie della buona notte erano le avventure del suo papi a cavallo e non passava giorno che non chiedesse quando avrebbe potuto iniziare a salire su un cavallo vero: per lei, i pony che lo zio Giulio aveva nel suo maneggio non contavano.
La strada, con la neve tutt'intorno, aveva cambiato le sue sembianze: Emma, nel suo primo inverno in Val Pusteria, aveva avuto serie difficoltà a muoversi nelle strade fuori dal centro abitato; ora, invece, aveva imparato a riconoscere anche il più stupido dettaglio per aiutare il suo orientamento, magari in una casa dalla porta rossa sul ciglio della strada oppure un adesivo su un cartello stradale messo da un ciclista di passaggio. Guardò sul cruscotto e l'orologio segnava le 5, la strada era ormai praticamente buia e di sicuro i ragazzi sarebbero tornati a casa a breve. Neanche il tempo di pensarlo e il suo cellulare segnalò con un  leggero scampanellio l'arrivo di un messaggio; accostando leggermente, lesse il messaggio: Siamo a casa. Doccia e vi raggiungiamo. Il tutto correlato dall'immancabile cuore finale, che lasciava sempre un sorriso sul volto della donna.
Quasi in dirittura d'arrivo, sul ciglio della strada, anche nel bel mezzo del bosco, le auto erano parcheggiate su entrambi i lati della carreggiata. Un vigile intimava alle automobili in fila davanti alla sua di fare dietro front per mancanza di parcheggio ma, non appena abbassò il finestrino, Emma fu lasciata passare con un saluto d'ordinanza. Non era mai stata tipa da favoritismi, ma con tre bambini e passeggino, in quel caso aveva fatto davvero comodo.
"Mamma ma siamo al lago!!!" esclamò la maggiore, appena arrivati al grande parcheggio. "Sì amore, ti piace la sorpresa?" "Sììì!!!"
Il lago era il loro posto speciale, tutti i bambini dei Neri lo sapevano, era la loro seconda casa, anche se non capivano bene il perché, ma le occasioni di passarvi del tempo libero e non solo qualche minuto di passaggio mentre papà era a lavoro diventavano sempre più rare, soprattutto d'inverno.
Emma si fece notare da un forestale che era di servizio, il quale la guidò verso il parcheggio della caserma senza che nessuno la fermasse.
"Scusate, cosa ci fate voi qui?" tuonò una voce dal tono minaccioso, con un forte accento locale "Questo parcheggio è riservato!" Emma, che nel vociare della folla non era riuscita a distinguere se appartenesse a qualcuno di sua conoscenza, sbuffò sonoramente, alzando gli occhi al cielo, mentre faceva scendere le bambine dall'auto. "Lo so bene, ma ho avuto il permesso dalla forestale" spiegò, senza voltarsi, entrando nell'abitacolo per sganciare Matteo dal seggiolino.
"Signora forse non ha capito, lei qui non può stare!" La donna si girò, nera in volto, pronta a rispondere per le rime. Valeria, la sua migliore amica, le scoppio a ridere in faccia non appena Emma ebbe messo a fuoco la forestale alla luce giallastra del lampione del parcheggio. "Vale stavo per mandarti a quel paese, sappilo! Non si fa così ad una madre che bada a tre figli da sola … dovresti saperlo"
Valeria, in borghese, era infatti in compagnia di Mela e Dominik, di un anno più grande di Sofia. Il nome era stato frutto di una lunga e dolorosa scelta, che aveva lasciato sul campo cadaveri del calibro di Giuseppe, Ciro e Gennaro perché Valeria non avrebbe mai permesso che suo figlio subisse la stessa sfortuna di Mela, salvata in extremis da un soprannome che fa tanto figlia di star di Hollywood. Alla fine la scelta era caduta su Dominik, compromesso che accontentava anche mammà a Napoli, visto che Domenico era il nome del padre di Vincenzo. Vincenzo però, continuava ad usare la versione italiana perché, nonostante i documenti, diceva che Dominik Nappi non gli suonava. Valeria, per ripicca, lo chiamava Domme, come tanti campioni di sci della regione. Vincenzo lo detestava e rispondeva con Mimì o anche Dummì. Neanche il matrimonio era riuscito a renderli meno cane e gatto, ma andava alla grande, nonostante tutto.
"Zia Valeria!" corse ad abbracciarla Sole "Guarda i miei stivali rossi!!!"
"Amore sono bellissimi!" esclamò Valeria, chinandosi verso di lei "Veramente chic! Sono nuovi?" Sole fece sì con la testa. "Siamo arrivati fino a Brunico per trovarne un paio come quelli della sua migliore amica dell'asilo" sottolineò Emma, caustica. La bimba, tutta orgogliosa per i complimenti ricevuti, si incamminò nella piccola discesa verso la caserma mano nella mano con la sua migliore amica, Mela, guardando le sue scarpine nuove ad ogni passo che faceva. Non era viziata - impossibile esserlo con altri tre fratelli - né si poteva dire che era appariscente, ma aveva sviluppato un proprio gusto nel vestirsi molto precocemente, a dispetto degli altri bimbi che alla sua età ancora si facevano guidare dai genitori.
Le due bambine ripetevano le battute del loro film d'animazione preferito, che vedevano ogni volta che Sole andava a dormire dai Nappi. Sofia, più indietro, imitava le più grandi, per attirare la loro attenzione.
A bordo del lago, dopo che per anni la tradizione era stata abolita, erano state installate delle minuscole casette per la vendita di decorazioni per gli alberi, ghirlande, dolci e vin brulé. Solo nel week end, le sponde del lago si animavano di visitatori all'imbrunire. Era una veste in cui Emma non aveva mai visto quel luogo, che era stato sempre e solo suo e di Francesco oltre il tramonto. Vederlo brulicare di vita era strano. Non le dispiaceva, ma lo rendeva diverso da quello che rappresentava per lei.
Sullo specchio d'acqua ghiacciato e coperto da un manto bianco battuto, una slitta con i dei cavalli prestati dalla forestale portava in giro lungo le sponde del lago turisti infreddoliti ma divertiti. Per riscaldarsi, punch caldo, vino speziato e sidro di mele erano la giusta soluzione che rinfrancava il corpo e lo spirito.
I canti di Natale, le luci delle decorazioni, le musiche dei corni alpini e i profumi delle feste, salivano sui costoni delle rocce, su fino in cima, dove la luna faceva brillare d'argento i crinali ricolmi di neve. I pini e gli abeti, appesantiti dalle abbondanti nevicate dei giorni precedenti, davano all'ambiente una colorazione a metà tra il bianco e nero, dove le luci della festa non arrivavano, e il rossastro.
"Il capo dov'è?" domandò Valeria, mentre passeggiavano tra le casette. "Giornata padre/figlio, sono andati a sciare. Tra un po' ci raggiungono" "E intanto a te ne ha lasciati tre … e non iniziare a difenderlo come al tuo solito" aggiunse Valeria, conoscendo bene l'amica. Emma alzò le mani, in segno di resa. Colpita e affondata.
Come Francesco aveva previsto, Emma non aveva dovuto temere la defezione da parte due suoi amici alla festa di compleanno del piccolino di casa e la rabbia nei confronti dell'amica era dissipato come una brutta nuvola. Ovviamente la tristezza del Natale separati rimaneva, ma se ne sarebbe fatta una ragione.
"Tuo marito invece?" "È di servizio … da qualche parte …" disse guardandosi intorno. Ma in mezzo a quella folla, era impossibile scorgere qualcuno a più di un paio di metri di distanza.
"Ma chi me lo doveva dire che avrei passato questo Natale a fare da paciere tra mia suocera e mia cognata?" si lamentò Valeria, tirando di fuori di nuovo l'argomento. "Ma non hanno ancora risolto?" domandò Emma, sorpresa. "Quella pazza di Manuela questa volta ha superato ogni limite. Mia suocera è su tutte le furie e tocca a noi andare a sistemare la situazione." "Pazza…dai Vale non esagerare!!!" "Emma … ha annullato il matrimonio con quel santo di Giorgio con cui stava da anni per mettersi con quel tizio che non voglio nemmeno nominare. Ti sembra normale?" "Non fare la provinciale, non è da te" "Non faccio la provinciale, potrebbe essere suo padre e ha distrutto una famiglia: vorrei vedere se fosse stato tuo marito!"
Emma ci pensò un attimo, perché c'era stato un momento in cui si era sentita la rovinafamiglie di turno, quando pensava di non avere il diritto di pretendere che Francesco ricambiasse i suoi sentimenti. Ma questi pensieri svanirono in fretta: il matrimonio di Francesco con Livia era finito da tempo, quasi si poteva dire non era mai veramente iniziato.
"Penso semplicemente che si è in due a fare le cose. Se lei si è messa in mezzo, lui le ha dato il permesso. La colpa è anche di lui. A maggior ragione se dici che è tanto più grande di lei." "Te lo garantisco, sembra sua figlia. Dovresti vedere le foto della vacanza alle Maldive che sono andati a fare il mese scorso: uno spettacolo veramente indecoroso. Gli sta attaccata come una cozza allo scoglio! Uno schifo." "Vincenzo che dice?" chiese Emma. Lei non era abituata a giudicare, ma Valeria era sempre stata un po' pettegola e la lasciava fare. "Lo sai com'è fatto. E nonostante voglia bene a sua sorella e di solito sia sempre permissivo, questa volta non transige. Ha detto che se si presenta a casa la sera della vigilia con quello - testuali parole - ce 'ntussicamm 'o Natale" proclamò, gesticolando per tentare in qualche modo di imitare il dialetto napoletano dell'uomo "è pronto a cacciare di casa la sorella."
"Insomma non andate a fare da paciere. Siete in guerra anche voi." "In poche parole sì."
Un cellulare squillò. Era Vincenzo.
"Vincenzo?! Vincenzo! Parla più forte perché c'è casino e non sento" Valeria tentava di capire il marito mentre Dominik e Sofia tiravano per salire sulla carrozza che si era fermata a pochi metri da loro e le bimbe più grandi invece avevano puntato ai bretzel caldi appena sfornati nell'angolo dove era stato allestito un forno a legna  "… sì … sì sono con Emma e i bambini … siamo più o meno al ponticello … dove? … alla chiesetta?  … Ok arriviamo"
Emma, mentre guardava i bambini non poteva fare a meno di buttare l'occhio oltre il piccolo ponte, dove il passeggio dei turisti, illuminato di tanto in tanto da lanterne, portava verso la sua vecchia casa. Nel cuore, non aveva mai smesso di esserlo. Era ancora loro, di fatto, ma la usavano solo d'estate di tanto in tanto, soprattutto Francesco ci andava per sbrigare qualche lavoretto di bricolage e manutenzione. Avrebbe voluto di più per la loro tana, meritava di più, ma con la casa, il lavoro e i bambini era già tanto che lei e Francesco riuscissero a ritagliarsi qualche ora per essere marito e moglie. Non avrebbe sostituito la sua vita presente con nessun'altra, ma ogni volta che vedeva quella casa sul lago le partiva la nostalgia per quei giorni, non facili, ma più semplici. Vedeva i turisti che si mettevano in posa davanti al casotto dell'ingresso per un selfie oppure i fotografi amatoriali che posizionavano le loro macchinette sul treppiedi e passavano ore a produrre lo scatto perfetto. Ognuno di loro pensava di cogliere la bellezza del luogo, ma nessuno avrebbe mai avuto il privilegio di conoscere la vera anima del lago o di avere un rapporto quasi viscerale con quel suo abitante tanto particolare.
"Bimbi è arrivato Babbo Natale, andiamo!" Valeria distolse Emma dai suoi pensieri ma, prima di incamminarsi verso la chiesetta, il cui esterno, eccezionalmente, per l'occasione, era diventato la casa di Babbo Natale, si girò a dare un ultimo sguardo, orgogliosa, a casa sua.
 
"Ma questo non è Babbo Natale!!!" puntualizzò Sofia, risoluta, indicando l'uomo vestito da vescovo con la barba lunga e bianca che stava davanti alla chiesetta a distribuire i doni insieme agli angeli, suoi aiutanti, e ai krampus, i diavoli che con i loro campanacci e le loro facce spaventose, erano pronti a spaventare ai bambini che hanno fatto i cattivi durante l'anno. Alcuni bambini più grandicelli e spavaldi tiravano le cose e i costumi dei krampus per provocarli e farsi scherzosamente aggredire, facendosi sporcare, come da tradizione, la faccia e i vestiti con la cenere. Dominik, stretto alle gambe della madre, si avvicinava a testa bassa, gli occhi fissi a terra, per paura di incrociare lo sguardo di quelle figure da brivido.
"Amore quello è San Nicolò" spiegò Emma, inginocchiandosi e cingendo con un abbraccio la vita della sua bambina, che poggiò il braccino sulla spalla della mamma, continuando a scrutare scettica la figura che aveva di fronte. Le spiegò che Babbo Natale si faceva chiamare in modi diversi e aveva costumi diversi nei vari posti che visitava e quello era il nome con cui era conosciuto in Alto Adige. La bimba, persuasa dalla spiegazione convincente di sua madre, prese coraggio e insieme alla sorella e a Mela si avvicinò al vescovo buono, che le salutò con affetto e le incoraggiò ad essere sempre brave ed ubbidienti. Anche Dominik, tra le braccia di Valeria, ricevette il saluto di San Nicolò, convincendosi alla fine che non c'era nulla di malvagio; Matteo invece, troppo piccino ancora per capire, fu spaventato da quei mostri con la folta pelliccia nera, le corna e i campanacci.
"Ma ditemi voi se è normale che una festa così bella come il Natale, deve essere rovinata da dei mostri che fanno impressione ai bambini?" domandò Vincenzo, che li aveva raggiunti, vedendo Teo scoppiare in lacrime. "Ma scusa nel resto d'Italia non esiste la Befana?" face notare Valeria. "Beh e mò che tieni da ridire sulla Befana?" ribatté il marito. "La Befana è una strega!" "Ma quale strega??? La Befana è una nonnina buona e poverina, non fa male a una mosca … mica come sti diavolacci dei krampus" "Commissario, insomma, vivi in Alto Adige da quasi 20 anni e non ti sei ancora abituato alle tradizioni?" domandò Emma, divertita, cullando il suo bambino per calmarlo. "Non è questione di abitudine su…è questione che i bambini qui li traumatizzano. Poi vedi come si spiegano soggetti come Huber …" "Vincenzo!!!" lo sgridò la moglie. Huber, che finiva sempre per beccarsi la nomea dell'eccentrico del gruppo, aveva solo la colpa di vivere il suo quotidiano come se l'Alto Adige fosse veramente come in una manifestazione folkloristica per turisti, ma aveva il pregio di essere sempre di buonumore, sempre positivo e sempre propositivo, a differenza di quel brontolone di Vincenzo.
Nella folla, Emma scorse Francesco che si avvicinava assieme a Leonardo, sbracciandosi, dalla zona delle stalle, per farsi notare. Indicò subito il padre alle bambine, che corsero ad attaccarsi praticamente alle sue caviglie, dopo aver trascorso una giornata senza vederlo.
"Ce ne avete messo di tempo!" disse Emma, salutando suo marito con un bacio. "Eh si. Abbiamo dovuto sistemare un paio di cose" farfugliò Francesco, lanciando un'occhiata di intesa a Leonardo che semplicemente annuì. Emma lasciò correre, pur notando che qualche complotto era in corso; aveva imparato negli anni che, con Francesco, in certe occasioni era meglio non sapere, per non arrabbiarsi o, meglio ancora, non rovinarsi le sorprese. Lasciò immediatamente Matteo, al quale era passata ogni angustia, tra le mani sicure ed affettuose del padre per abbracciare Leonardo che, per una volta, sembrava in vena di coccole.
"Ecco i nostri sciatori!!" salutò Vincenzo, abbracciando il suo compare. Poi, gli si avvicinò all'orecchio, discretamente "Una giornata da solo senza donne …" commentò Vincenzo, ammirato "dimmi come fare che la prossima settimana ce sta Napoli-Juventus…. me la vorrei godere in grazi'e Dije!" "Hai proprio sbagliato persona" gli rispose a tono l'amico "non ho proprio bisogno di fuggire da casa mia. Era solo una promessa fatta a Leonardo"
Vincenzo lasciò perdere: lui e il suo compare andavano così d'accordo proprio perché complementari, due pianeti opposti che in qualche inspiegabile modo, si attraevano.
"Com'è andata la giornata?" domandò Emma al ragazzino, che ancora si stringeva alla madre appoggiandosi a lei insonnolito. Ormai Leonardo aveva superato il metro e cinquanta ed Emma faticava ad abituarsi all'idea che a breve non sarebbe stato più il suo bambino. Quei pochi sprazzi di infanzia che ancora si concedeva, con i compagni di squadra dell'hockey che lo facevano sentire già più grande di quello che era, Emma se li gustava tutti, sempre consapevole che potevano essere gli ultimi. "È stata bellissima" disse, sbadigliando "ora sono stanco però" "Dai che tra un po' torniamo a casa, che ne dici se preparo i tortellini panna e prosciutto che ti piacciono tanto, eh? E ho preso anche la Sacher in pasticceria." "Mmm!!! Grazie mamma!" Emma gli posò un bacio tra i capelli. "Alla faccia …" commentò Vincenzo "ci andiamo leggeri uagliù!" "Ehi! Mio figlio deve crescere grande e grosso, mica posso dargli la pastina con il formaggino...vero Leo?!" Il ragazzino annuì deciso e felice che la madre gli riservasse quelle attenzioni particolari.
Le nuvole della settimana passata si erano diradate: Leonardo non aveva mai sofferto particolarmente di gelosia nei confronti dei fratellini più piccoli, né i suoi genitori adottivi gli avevano mai fatto sentire la differenza tra lui e gli altri, tuttavia la mancanza di qualcuno, in famiglia, più vicino a lui d'età, si faceva sentire, così come la presenza di tanti bimbi piccoli in casa finiva, a suo parere, per togliergli quel tempo tutto speciale che aveva passato tutto solo con Emma e Francesco. Ecco perché quella giornata con il padre e la premura della madre lo riportarono in dietro a quei giorni magici. Ma Sole e Sofi erano le sue protette e non vedeva l'ora che Teo crescesse un po' di più per insegnargli lui stesso ad andare in bici o a fare tante altre cose, insieme.
"A proposito di mangiare" disse Valeria "si è fatta ora di tornare a casa…noi stiamo qui dalle quattro. Se stiamo qui un altro po' i bambini inizieranno a pretendere tutte le schifezze che vendono negli stand. Vieni anche tu, Vincenzo?" "No, amò, vi accompagno alla macchina, ma devo passare prima in commissariato a sistemare alcune cose." "Il crimine non dorme mai, eh commissario?" domandò Francesco, prendendo in giro l'amico. "Eeeeh sfotti, sfotti tu…ha parlato l'Indiana Jones della Val Pusteria"
 
Le due famiglie di amici si separarono, Francesco ed Emma rimasero con i bambini ancora un po' al lago. Non si concedevano spesso delle serate in mezzo alla folla, specialmente in occasioni di fiere o mercatini: era difficile, infatti, muoversi tra la folla con il passeggino o frenare le voglie dei bambini. Ma era un'occasione speciale in un posto speciale e non potevano mancare.
Arrivati alla fine degli stand, dove il rio Braies nasceva dal lago per andare verso valle, Emma fece per girare il passeggino. Francesco, invece, con Sofia seduta sulle sue spalle, la invitò a proseguire, attraversando il piccolo ponte. "Ma non c'è niente di là" disse la donna. "Questo lo dici tu, vieni" bastarono quelle parole, un piccolo cenno e la risarella di Leo per convincere Emma. Da lì, si incamminarono verso la palafitta ed Emma sentiva il suo cuore battere forte. Anche se quella fosse stata la loro destinazione finale, non riusciva veramente a spiegarsi perché si sentisse improvvisamente così agitata, come se fosse la prima volta che la vedesse.
Arrivati davanti alle scalette dell'ingresso, Francesco fece scendere Sofia dalla "groppa" e si avvicinò al portoncino di legno, per rimuovere il lucchetto, intimando alla folla di stare indietro. "È proprietà privata, non c'è niente da vedere…forza bambini entrate!" "Ma che stai facendo?" chiese Emma, mentre il marito chiudeva il portoncino del piccolo casotto alle loro spalle. "Ti fidi di me?" le domandò, la voce resa più cupa e risonante dall'acustica di quel piccolo porticato. "In teoria…" rispose lei, titubante. Francesco si lasciò andare ad un leggero ghigno soddisfatto. L'emozione di Emma era forte. Solcare quelle travi dopo mesi, in pieno inverno, era qualcosa che non capitava più tanto spesso. L'odore del legno bagnato, la neve fino alle ginocchia da dover spalare per aprire la porta, il freddo delle acque ghiacciate che saliva fin dentro le ossa, la riportava indietro a giorni felici, di attesa e di speranza verso quel futuro che era ora il loro presente.
Francesco tirò fuori una torcia da una cassetta degli attrezzi che aveva lasciato in quella piccola anticamera e la accese per illuminare il pontile che univa la casa sul lago alla terraferma. La neve, che fino a qualche giorno prima copriva il corridoio fino al corrimano, era stato spalata per creare un corridoio in cui passare. Restava un leggero strato, frutto dell'ultima nevicata della notte precedente.
"Mamma che dobbiamo fare?" domandò Sofia mentre, ferma davanti alla porta d'ingresso della casa, aspettava che il padre aprisse anche il lucchetto della seconda porta. "Non lo so amore, papà stasera è in vena di sorprese" "Un'altra sorpresa? Ma non è ancora Natale!" sentenziò Sole. Emma rise e ringraziò che attorno a loro era tutto buio, perché la maturità del modo di parlare di sua figlia la disarmava e la divertiva in una maniera che le sembrava scortese nei confronti della piccola.
"Prego signora Neri, a lei l'onore …" la invitò ad entrare, cortese, il marito. Nonostante l'unica luce accesa fosse la torcia che Francesco aveva passato a Leonardo, i loro occhi, incrociandosi, affermavano la comune gioia di entrare in quel luogo a loro tanto caro. Quegli sguardi pieni commozione e fierezza li riportarono indietro alla prima volta che Emma aveva dormito in palafitta, su un giaciglio di fortuna: nonostante la scomodità, avere Francesco a vegliarle la fece dormire tranquilla come non le accadeva da tanto tempo.
Mentre entrava, tutto ancora al buio, si accorse di Francesco che le scivolava affianco, per far partire il generatore elettrico. In men che non si dica, i suoi occhi vennero abbagliati dallo scintillio di luci rosse e gialle attorno ad un grande abete posizionato dove in passato c'era il tavolo che ora era nel loro giardino. Come tante fiammelle, facevano risplendere anche i rami verdi dell'albero. Al suo fianco due renne luminose, una che sembrava brucare a terra e l'altra alta e fiera. Man mano che gli occhi si abitavano a quella luce e che lei stessa si riprendesse da quel colpo, Emma riusciva a mettere meglio a fuoco tutti i dettagli, accorgendosi delle lampadine che formavano il contorno della facciata della casetta e la ghirlanda che correva lungo tutto il parapetto della terrazza, trapuntata delle stesse luci che adornavano l'albero.
La piccola Sole iniziò a canticchiare le parole di una canzone che aveva imparato all'asilo per la recita di Natale  "O Tannenbaum, O Tannenbaum! Wie grün sind deine Blätter!" e Sofia, che l'aveva imparata assieme lei, le andava dietro.
"È una stupidaggine …" si giustificò Francesco, imbarazzato. "No, non lo è affatto. Anche se l'albero fosse stato spelacchiato e le luci fulminate mi sarei commossa allo stesso modo" ammise, candidamente, accarezzandogli il volto. Lui e quel suo bruttissimo difetto di minimizzare ogni cosa.
"Tu fai tanto per noi e noi non facciamo mai abbastanza per te" spiegò Francesco "così Leo ha pensato …" "Leo?" domandò, voltandosi ammirata verso il ragazzino. "Sì Leo." Affermò Francesco, con una punta di orgoglio nella sua voce "È una sua idea, sai: una winter wonderland - o come cavolo si dice - in palafitta." "Il nostro primo Natale insieme" disse il ragazzino, telegrafico, ma dietro quelle parole c'era un universo di emozioni e ricordi che Emma coglieva e condivideva a pieno. Un albero in terrazza con pochi addobbi in legno perché in casa non c'era spazio, il tavolino troppo piccolo per tre posti a sedere dove mangiarono stretti stretti e la calza con dolci appesa alla stufa accesa e un sacco con la scritta Polo Nord, pieno di regali, accanto a quello del carbone.  Allora non lo sapeva nessuno di loro, ma in realtà era stato con ogni probabilità il loro primo Natale in quattro.
"Oh il mio bambino!" "No, mamma, ti prego no!" Leonardo tentò di ritrarsi dal suo abbraccio e dai suoi baci, ma la realtà era che neanche lui ci teneva particolarmente, le voleva troppo bene.
In lontananza le luci e i suoni dei mercatini si confondevano con il vociare della gente che, incuriosita dalle luci che venivano dalla palafitta, si stava accalcando sul viale. Emma rise, sedendo accanto a Francesco sulla panca appoggiata alla parete, pensando al lavoro extra che avevano dato al commissario e ai suoi uomini per disperdere la calca.
Mentre i bimbi giocavano con quel po' di neve che era rimasta, loro se ne stavano con una tazza di caffè fumante, i bretzel dolci che aveva comprato e una copertina ad ammirare il paesaggio come erano abituati a fare prima che quella brigata rumorosa, disordinata e a volte anche maleodorante riempisse loro le giornate.
"Insomma hai pensato a tutto … il thermos con il caffè, il plaid … quasi mi viene il sospetto che la gita padre figlio fosse tutta una montatura" "No, lo giuro, stamattina siamo andati davvero a sciare" confermò l'uomo aprendo le braccia, mentre la moglie, poggiata la tazza vuota a terra, si stringeva a lui per scaldarsi meglio. Emma poggiò il suo viso contro la guancia di Francesco, ma il naso ghiacciato lo fece sussultare per un istante; entrambi ridacchiarono, stringendosi ancora più stretti.
"Abbiamo fatto tutto in settimana, quando ti abbiamo detto che gli allenamenti di hockey si erano dilungati più del previsto" "Dovrei tirarvi le orecchie per le bugie, ma questa è stata una bella bugia …" ammise, ancora commossa.
"Ti manca stare qui?" domandò Francesco. "Sì ovviamente, ma non potrei mai rinunciare a quello che abbiamo ora. E non parlo della casa" "Ovvio che no" "Ogni tanto ci penso …" confessò Emma "alle mattine sotto il piumone stretti stretti per il freddo … non doversi preoccupare di biberon, pannolini, cucinare per ognuno qualcosa di diverso…" "…e le lavatrici, le pulizie… il cane … il giardino" continuò Francesco, guardando i bambini. Leonardo era sceso fino al lago tramite le scalette del molo, dove la neve era accumulata sul ghiaccio per giorno, raccogliere tanta neve quanta ne bastava per fare un pupazzo. Le sue sorelle gridavano di gioia. Anche Matteo, camminatore precoce, stava in piedi mano nella mano delle sorelle, al caldo della sua tutina da neve blu e del passamontagna, ad osservare quello che faceva Leonardo. Magari avrebbe voluto imitarlo, ma Sole, da buona sorella maggiore, gli raccomandava di non muoversi, che lui era ancora troppo piccolo. E Matteo obbediva, giudizioso.
"Ma non rinuncerei mai a quegli occhioni pieni di lacrime da consolare, o ai sorrisi piedi gioia" decretò il forestale. "O quei mamma e papà detti come se fossimo l'unica cosa conta" aggiunse Emma. "Voglio ben sperare che alla loro età siamo l'unica cosa che conta!"
Entrambi risero. I giorni che avevano trascorso in quella casetta sul lago erano scivolati con l'impazienza e la rapidità con cui vola il tempo quando si aspetta qualcosa. Quel qualcosa era una vita insieme fatta di piccole cose, semplici, anche banali. Una vita che smettesse di essere vissuta alla giornata, nell'auspicio di poter aggiungere un altro giorno a quello appena trascorso.
Quel sogno era diventato presente, aveva preso le sembianze di un ragazzino alto e atletico, complicato ma dal cuore tenero, di una bambina dai lunghi capelli biondo cenere e dagli occhi verdi come le acque del lago, dolce e affettuosa, di un'altra con gli occhietti caldi e vispi e il caschetto alla francese, temeraria ed esplosiva ed di un piccolo batuffolo dalle guanciotte rosse e gli occhi verdi, con un carattere ancora tutto da scoprire.
Nessuno di loro, la prima volta che avevano messo piede in quella vecchia casetta sulle acque del lago, avrebbe mai potuto immaginare una prospettiva simile. Con le loro vite distrutte, con il futuro spezzato, un'immagine del genere sarebbe stata, ai loro occhi, più una presa in giro che una speranza di rinascita.
Trovarsi ora lì, invece, pieni del loro presente e con il futuro davanti ai loro occhi, non c'era più nulla che facesse loro paura.


 

Angolo dell'autrice

Salve a tutti! Eccoci con un nuovo appuntamento con gli extra di "Noi Casomai". Questo nuovo capitolo, è il seguito ideale del capitolo precedente. Abbiamo ritrovato Valeria, Vincenzo, Mela e ... anche Dominik, Domenico, Domme, Dummì...insomma, c'è un po' di discussione ancora in famiglia su come chiamare questo bimbo, ma gli vogliono tutti molto bene XD.
Piccola precisazione: io non ho niente contro Manuela Nappi, sia ben chiaro, per me con Giorgio stava benissimo. Ma da quando l'anno tirata fuori dal cilindro per affiancarla a Francesco nella serie tv, non è che mi vada proprio giù questa cosa. E ho voluto vendicarmi un po', con l'unica arma a disposizione: la scrittura. Spero possiate perdonarmi ahahah!!!
A presto!

crazyfred

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Capitolo 3
*** Canto di Natale - Lustig Lustig Tralalalala ***


Canto di Natale
Capitolo 3 - Lustig, Lustig, tralalala

 

 
 
 

 
Wenn ich schlaf’, dann träume ich:
Jetzt bringt Niklaus was für mich.
Lustig, lustig, tra-la-la-la - la,
bald ist Nikolausabend da,
bald ist Nikolausabend da
 
 

"È stata una bellissima festa, Emma, tutto assolutamente perfetto!" si complimento Rosa, aiutandola a sistemare i piatti puliti, appena tirati fuori dalla lavastoviglie, nella loro credenza. "Già" confermò Valeria "quattro figli, un lavoro di ricerca e una casa, non so come fai a fare tutto". La forestale era rimasta a casa dell'amica per dare una mano, mandando a nanna marito e figli.
In soggiorno, Leo giocava a carte con il nonno, in silenzio, godendo insieme del ritrovato silenzio dopo il lungo pomeriggio tra urla di bimbi e chiacchiere degli adulti per festeggiare il primo compleanno del piccoletto di casa, Matteo.
"Mi sembra abbastanza ovvio … non farei nulla senza la mia famiglia di San Candido" spiegò, strizzando l'occhio a Valeria. "A proposito di famiglia …" intervenne zia Vittoria, entrando in cucina con alcune sedie che erano rimaste in soggiorno "…cosa ne pensiamo di Linda?"
Linda era la ragazza di Giulio che, per l'occasione, era stata presentata al resto della famiglia. In realtà la conoscevano tutti, e tutti sapevano che i due stavano, mancavano solo le presentazioni ufficiali con l'etichetta. "Solo il meglio zia … anche perché - e io non vi ho detto niente - mi ha detto l'uccellino che dobbiamo iniziare a prepararci per un matrimonio estivo…" Ci fu un sospiro di gioia e stupore generale. Giulio aveva completamente messo alle spalle i suoi problemi con la droga, tornando ad occuparsi di sé e della sua vita, realizzando il progetto ambizioso di un maneggio per ippoterapia. Ma ricostruirsi significava anche riscoprirsi e aprirsi agli altri, cosa che gli era costata fatica finché, un bel giorno, non scoprì che la persona che più faceva per lui, gli era stata accanto fin dal giorno in cui lui e il suo socio, Klaus, avevano tolto i sigilli dal Maso Moser,  ed erano andati alla ricerca di personale per la struttura.
Erano colleghi e amici e, poco per volta, erano diventati qualcosa di più. Emma era estasiata.
"Veramente?" domandò la zia, quasi fisicamente braccando Emma all'isola della cucina. "Mm mm" annuì la donna "la proposta dovrebbe arrivare nei prossimi giorni, ma voi non sapete nulla, sia ben chiaro!"
"Fortuna che domani pomeriggio levo le tende" esclamò Valeria "non so se sarei stata in grado di tenermi dentro una cosa del genere … ma quando torno si inizia a programmare tutto con la sposa, sia ben chiaro!" "Suona più come una minaccia, Vale" rispose Emma, intimorita. "Lo è, Emma, lo è. Emma sa già cosa l'aspetta, ma tu e Linda, cara Vittoria, assisterete alle mie leggendarie organizzazioni di eventi" La forestale era estasiata all'idea di poter organizzare di nuovo un matrimonio. Forse anche troppo esaltata. Molti a San Candido le dicevano che, sposando un napoletano, aveva finito per acquisire la teatralità dell'espressioni  e l'amore per la sceneggiata. Emma sosteneva che, invece, era un tratto che avevano in comune già da prima.
Ma Valeria, in barba ad ogni modestia, sapeva bene che suo matrimonio e quello di Emma erano stati, a detta di tutti, gli eventi del secolo per San Candido. Le voci e le foto sui social girano veloci e tutte le spose, nel loro piccolo, avevano finito per copiarle. Qualcuno addirittura le aveva proposto di lasciare la forestale e trasformare quella passione in mestiere ma lei era convinta che la perfezione potesse realizzarsi solo conoscendo a fondo gli sposi e volendo loro un ben dell'anima. Emma, tentando di non farsi vedere dall'amica, fece dei gesti in direzione della zia, preoccupata da questa deriva invasata della donna, per rassicurarla: dopo le vacanze di Natale le avrebbe parlato e l'avrebbe rimessa al suo posto. Erano le nozze di Linda e Giulio, non si sarebbe fatto nulla che non avrebbero voluto loro.
"Per fortuna che in casa ho due grosse mani d'aiuto, allora" affermò Emma, assecondando l'amica nel culmine del suo fervore. "Ah sì? E dove sono queste due grandi mani d'aiuto, sentiamo? Io non le vedo …" Valeria non era polemica, ma provocatrice sì. Emma aveva imparato a conoscerla e a volerle bene anche con questo suo caratterino.
"Sta mettendo i piccoli a dormire" specificò Rosa. La donna era sempre pronta a prendere le difese di Francesco, come una mamma in tutto e per tutto. Non era solo gratitudine per non averli dimenticati, per aver permesso loro di essere parte della vita di Leonardo e per non avere avuto, nei loro confronti, alcun astio per quello che Livia aveva fatto ad Emma e a lui. Forse per questo, forse perché era dolce, affettuosa e comprensiva, i bambini non avevano esitato un momento a chiamare Antonio e lei, nonno e nonna, come fosse la cosa più naturale del mondo.
"Seeeeh ciao" esclamò Valeria "e questo lo chiami aiuto? Mettere a letto i bambini è la cosa meno faticosa che si possa fare in una casa … fallo cucinare o pulire e poi vediamo se è tanto contento di aiutarti"
"A parte che fa già tutte queste cose …" puntualizzò "e comunque parli così perché non conosci i miei figli. Sono delle centrali elettriche … non si stancano mai. Io in compenso arrivo a sera morta…lascio volentieri a lui tentare di scaricargli le batterie. Soprattutto quelle di Sofia."
 
Al piano di sopra, nella camera dei maschietti, Francesco appoggiava delicatamente Matteo nella culla, avendo cura di rimboccare le coperte poco al sotto delle spalle, per lasciarlo respirare liberamente.  Mentre il padre posava sulla sua fronte un bacio, pur rimanendo ad occhi chiusi il piccoletto girò la testolina da un lato, la boccuccia aperta e i pugnetti, portati all'altezza della bocca, stretti stretti, come quando dava le manine ai genitori per camminare. Francesco si abbassò all'altezza del lettino, scrutando tra le sbarre quell'angioletto che dormiva beato: secondo Emma era l'immagine speculare di Francesco, per lui invece, tutti i suoi bambini avevano la dolcezza innata di Emma, indipendentemente dalle somiglianze, le sue guance rosee e un po' paffute e quella luce che irradia chiunque stia loro intorno.
Per il bimbo era stata una lunga giornata: l'eccitazione per la festa, l'attenzione che tutti gli avevano riservato e la presenza di tanti bambini e distrazioni varie gli avevano fatto combattere il sonno pomeridiano con tutte le sue forze che alla fine, Emma, aveva ceduto e aveva desistito dal farlo addormentare. Alla fine era crollato, dopo aver spento la sua prima candelina, tra le braccia della madre.
Luna, con il suo passo felpato entrò nella stanza, facendosi notare solo per il flebile guaito e il muso tra le sbarre del lettino ad annusare il piccolo. Anche lei sembrava gradire quella miscela di latte e biscotti e di bucato appena fatto.
"Buona Luna, lasciamo dormire Teo, dai" l'animale, si avviò verso il corridoio precedendo il suo padrone che si attardò per attivare il carillon alla base del lettino che, oltre a suonare una ninna nanna, proiettava delle stelline sul soffitto della camera: un conforto per il piccoletto se si fosse svegliato nel cuore della notte e un aiuto per Leo che, entrando in cameretta, non avrebbe avuto bisogno di accedere le luci. Quando Emma e Francesco gli avevano detto che c'era un altro bambino in viaggio, la gioia per la notizia era stata presto spenta dalla consapevolezza che, a questo giro, avrebbe dovuto per forza condividere la sua stanza, quella che aveva scelto, quella che avevano arredato a suo gusto, con il nuovo arrivato. Nessuno, da queste premesse, avrebbe potuto immaginare che, nel momento cruciale, Leo si sarebbe rivelato un fratello maggiore impeccabile e affezionato nei confronti del beniamino di casa. Le prime notti in cui avevano provato a far dormire Teo nella stanza dei bimbi, Emma e Francesco avevano trovato Leonardo a cullarlo e consolarlo in attesa del loro arrivo: un'immagine che scaldava il cuore e restituiva loro tutto l'amore e l'impegno che avevano dedicato a quel bambino tanto sfortunato con cui avevano deciso di condividere la loro voglia di famiglia.
Dopo aver dato un ultimo sguardo di controllo in cameretta, Francesco passò alla stanza delle bambine, sedute sul pavimento e impegnate nei loro giochi. Luna, che era entrata nella stanza prima di lui, si era allungata affianco a Sole, la quale per tutta risposta, si era accomodata su di lei come fosse una comoda sdraio. Se c'era una persona che poteva permettersi qualsiasi cosa nei confronti di Luna, quella era proprio Sole.
Vedere le bambine lì, concentrate in quello che stavano facendo, le labbra imbronciate dalla concentrazione, erano una gioia per gli occhi: quelle due scricciole, assieme ai loro fratelli, gli avevano riempito la vita, gliel'avevano resa degna di essere vissuta anche nelle piccole noie quotidiane, anche in quelle mattine in cui alzarsi è una fatica oppure in quei giorni che a lavoro andava tutto storto; bastava un loro sorriso e tutto tornava a posto.
"Mamma ha detto che San Nicolò è Babbo Natale. Ma allora a noi non ci arrivano i regali a Natale perché San Nicolò è già passato qui" indagò Sofia con sua sorella, mentre pettinava la criniera del suo cavallo giocattolo preferito, che aveva - ovviamente - ribattezzato Oliver.
"No, Sofi. Non funziona così … mamma e papà me l'hanno spiegato a me. San Nicolò passa a controllare che facciamo i bravi e poi a Natale viene a portare i regali che gli abbiamo chiesto nella letterina."
Francesco sorrise mentre le sbirciava. Si ricordò della storia arzigogolata che avevano dovuto inventare lui ed Emma l'anno precedente quando, svegliata dal fratellino appena nato che piangeva nel cuore della notte di Natale, trovò i genitori intenti a sistemare i regali sotto l'albero. Avevano dovuto dirle che, senza un camino, San Nicolò aveva lasciato i loro regali fuori dalla porta, e aveva affidato loro il compito di prepararli per le bambine. Avevano anche dovuto creare una scusa ad hoc per il latte e i biscotti intatti sul tavolo della sala ma, con un po' di fantasia, erano riusciti a farle credere che il vescovo buono era in ritardo con le consegne e non aveva avuto tempo di fermarsi a riposare.
La piccola Sofia sembrò altrettanto soddisfatta della spiegazione e il Natale sembrò salvo anche per lei.
"Avete lavato i denti?" domandò loro il padre, finalmente affacciandosi alla porta. "Sì, ci ha aiutato zia Vicky" rispose la maggiore. "E allora filate sotto le coperte che si è fatto tardi! E in silenzio che Teo dorme già" le anticipò Francesco, sapendo che nel loro range vocale esistevano generalmente solo due volumi: forte e fortissimo.
Le bimbe corsero nei loro lettini senza fiatare, ma sveglie come se fosse mezzogiorno e scattanti come appena sveglie. Le loro risatine, anche se a mezza voce, gli dicevano che tra il metterle a letto e farle addormentare c'era un abisso di differenza. Non che non lo sapesse già, ma ogni tanto era bello sperare.
"Papà ci racconti una storia?" Quella era ormai la frase tipica di ogni sera. Sofia partiva con la richiesta e Francesco poneva un po' resistenza, in un gioco di tira e molla che le divertiva e le disponeva meglio all'ascolto. "Però basta con le avventure di Oliver!" si lamentò Sole "Sceglie sempre Sofi, voglio scegliere anche io una volta!!!"
Le favole della buona notte, anche un po' a causa di Francesco e della sua scarsa esperienza a riguardo, finivano sempre per attingere al repertorio lavorativo del forestale: le missioni esplorative in alta quota, i ritrovamenti e i salvataggi. Oliver, suo fedele destriero, era diventato un vero e proprio eroe per le bambine, in particolare per Sofia che scalpitava di poter salire in groppa al cavallo del padre per la prima volta.
"Ma papà … papà non le sa le storie delle principesse che vuoi tu. Vero papà?" Sofia aveva tutta l'aria di voler convincere il padre a non cedere alle richieste di sua sorella, lasciando però che si assumesse tutte le responsabilità. "Sofi…" la ammonì il padre "Sole ha ragione, ogni tanto è giusto che anche lei senta una storiella che le piace. Dai!" "Uffa! A me le principesse non mi piacciono" "Però il principe delle favole ha anche un cavallo di solito. O no?" "Ed è importante?" "Te lo prometto …"
Francesco si sedette sul letto della più piccola delle due con Sole che, allungata nel suo letto, faceva capolino dal piumone.
"C'era una volta …" iniziò, raccogliendo le idee "in una città molto grande e molto lontana, un re …" "E come si chiama questo re?" domandò Sofia. "Decidi tu, Sole" "Io dico Filippo" "Shhh" Sole rimproverò sua sorella, con il dito davanti alla bocca "tu nemmeno la volevi sentire questa storia! Per me si chiama Francesco" "Come me?"
La bimba annuì vistosamente, rispondendo con un sorriso all'occhiolino del padre. Doveva aver già intuito dove sarebbe andata a finire la storia. Lei, in fondo, la sentiva raccontare, seppur in maniera diversa, dalla notte della sua nascita.
"Re Francesco aveva iniziato un lungo viaggio" prosegui l'uomo, deciso ed eloquente, nel raccontare una storia che sembrò intrigare le bambine fin dalle prime battute. Raccontò loro del grande dolore del re e di come, triste, era arrivato in una terra selvaggia ma meravigliosa, stabilendosi, insieme al suo fido compagno Argo, in una casa su un lago fatato.
"Papà ma i re vivono nei castelli non in una casa normale!" "Ma questo re era triste e voleva stare da solo e non voleva fare il re, così vivere in una casa povera non avrebbe fatto avvicinare nessuno. Ma si sbagliava" chiarì "non aveva fatto i conti con la magia del lago. Un giorno, mentre stava nella casa, il re sentì un urlo da lontano …"
Francesco continuò il suo racconto, in cui la vita vera, quella che aveva vissuto sulla sua pelle, diventava una favola. Quello che gli aveva fatto battere il cuore, lo aveva fatto penare, si stava poco a poco trasformato in una storia fantastica per le sue bambine. Non ci aveva pensato mai veramente, prima di allora, ma davvero, guardandola da quel punto di vista, ne avevano passate di ogni, anche troppe per una vita sola ed in così poco tempo. Sembrava il lavoro di fantasia di uno scrittore annoiato e persino in malafede, che si era divertito ad accanirsi sui suoi personaggi.
Le bambine ascoltavano attente e con gli occhi sbarrati, nessuna intenzione di dormire da parte loro. Il salvataggio di Emma era diventata l'impresa di un eroe buono ma triste che aveva salvato un'affascinante sirena del lago, che voleva scoprire il mondo degli umani e la cui malattia era dovuta alla lontananza dalle sue acque.
Se c'era una cosa che a Francesco mancava totalmente, si era spesso rimproverato in gioventù, era la fantasia: la totale incapacità di immaginare così oltre la sfera del concreto; persino con Marco, le uniche - poche - favole della buona notte che aveva raccontato venivano da qualche libricino comprato apposta per non sfigurare. Ora era tutto diverso: a cinquanta anni suonati aveva acquisito una leggerezza tale da sentirsi libero di improvvisare; la paura del giudizio altrui, anche quello di bambini piccoli, o del rendersi ridicolo non era più un problema. Merito di Emma, della serenità e autenticità che la loro vita insieme gli aveva donato. Quando nella vita non c'è più finzione, pensava l'uomo, torni ad essere libero di sognare.
"E come era la sirena?" chiese Sole, interessata "Come Ariel?" "Molto più bella di Ariel" rispose Francesco, sicuro. Se la ricordava ancora, molto bene, come se potesse vederla davanti a lui. Non era cambiata molto, nonostante gli anni e la maternità avevano inevitabilmente trasformato il suo corpo. Quella luce e quella purezza, che nemmeno le più terribili esperienze erano state in grado di scalfire, erano ancora lì, intatte, a trasparire dai suoi grandi occhi pieni di vita e di gioia. "Era bella, alta, snella, ma non era quella la cosa che più colpiva chi la incontrava. Erano il sorriso, gli occhi e soprattutto quella strana sana follia. Il re provò subito qualcosa per lei, ma non capiva cosa fosse"
Sole, il cui desiderio di una storia d'amore era stato esaudito, con gli occhi illuminati dalla gioia affermò soddisfatta che il re si stava innamorando. "E poi lo ha capito?" incalzò contemporaneamente Sofia, che aveva ceduto alle smancerie delle romanticherie del racconto che il padre stava imbastendo per loro.
"Insomma … " ammise l'uomo "questo re era un bel testone. La ragazza si era innamorata di lui, si era fatta coraggio e glielo aveva anche detto. Ma lui aveva paura." "Di cosa?" chiese Sole, stupita. L'ingenuità della bambina lo disarmò. Per lei, evidentemente, non c'era cosa più semplice del volersi bene. Di cosa? In passato avrebbe fornito una lista di ragioni valide per cui cedere a quel sentimento era la scelta più sbagliata che potesse fare. Ora, invece, di fronte alle conseguenze di quella scelta, erano diventate stupidaggini, inezie di chi non aveva mai conosciuto l'amore vero. L'uomo, di fronte a quella domanda, fece spallucce. "Difficile dirlo. La verità era che il re non lo sapeva nemmeno lui. Ma così facendo aveva finito per allontanare la donna che amava. Lei aveva anche deciso di andarsene" "Ha fatto bene. Mica poteva aspettare" dichiarò Sofia, solenne. Francesco nascose una risata come meglio poteva: non c'era dubbio che lo spirito libero ed indipendente della donna che aveva rincorso non era andato perso nella nuova generazione.
"E poi?" domandò invece Sole, preoccupata. "E poi un giorno, quando sembrava essere troppo tardi, il re salì in groppa al suo destriero e scalò la montagna. Lì la trovò, seduta su una roccia, poco prima che partisse. Fu lì che le confessò il suo amore e i due si baciarono" "E poi cosa succede?" domandò Sofia. "Vissero sempre felici e contenti, che domande. È così che finiscono tutte le storie, quando il principe bacia la principessa" affermò Sole, quasi infastidita che sua sorella non conoscesse le basi delle storie d'amore e interrompesse ad ogni frase. "Eh no" la sorprese il padre "perché questa storia non è finita. La storia continua ancora …" "Davvero?" Annuì. "La sirena è diventata la sua regina ed insieme al re sono andati a vivere in un bel castello. Sono felici e si racconta che hanno avuto quattro bambini. Due principini e due principessine: Leonardo, Matteo … Sole e Sofia" "Ma siamo noi!!!!" esclamò Sofia, ridendo. "Beh… il re si chiamava Francesco …" ribatté il padre, sornione, facendo l'occhiolino.
Sole, si fiondò ad abbracciare il padre, buttandoglisi addosso sul letto della sorella. Francesco la accolse tra le sue braccia: tre mesi o trent'anni, sarebbe stata sempre la sua principessina dai capelli color miele e gli occhi smeraldo, dello stesso colore del lago dove era nata; anche Sofia, vagamente gelosa, si gettò nella mischia e Francesco incluse anche lei nell'abbraccio.
"Adesso però a fare la nanna" disse alle bambine, rimboccando loro le coperte. "Io voglio sognare il re Francesco e le sue principesse" confessò Sole, chiudendo gli occhi stretti stretti, nella speranza, forse, concentrarsi meglio. "E tu Sofia, cosa sognerai?" chiese Francesco alla più piccola. "Io voglio sognare San Nicolò che mi porta il cavallo del re" Tanto per cambiare, pensò il padre. Quell'istante di semplice vita domestica sarebbe sembrato, fino a qualche anno prima, una favola per il forestale. Lui che era convinto di non meritare di essere amato, di non essere in grado di occuparsi di una famiglia tutta sua, ora era a capo di una ciurma grande e chiassosa; niente di tutto quello, però, sarebbe stato possibile senza la sua regina, senza quella sirena che aveva tratto in salvo quel mattino dalle gelide acque del lago.
 
 
"Che cosa hai raccontato alle bambine?" domandò Emma, l'indomani, accomodandosi in una delle sedie alla scrivania di Francesco. Capitava spesso che, con la scusa del lavoro, Emma ne approfittasse per andare a trovare suo marito in servizio. Di solito lo faceva in compagnia del piccolo ma, con i nonni e zia Vittoria in paese, aveva potuto concedersi un'oretta di libertà, approfittando degli ultimi giorni di scuola per i più grandi prima delle vacanze di Natale.
"Perché?" domandò il marito. Era uscito presto di casa quella mattina, salutando i bambini in fretta ancora sonnacchiosi nei loro letti. "Perché a colazione e durante il tragitto verso l'asilo non hanno fatto altro che parlare di re, sirene e non so che altro …"
"Ma niente" sorrise l'uomo "solo una favola …" "Mmmm … che aveva tutta l'aria di essere una riproposizione di fatti realmente accaduti" "Ti da fastidio?" "Assolutamente no" lo tranquillizzò "ma la prossima volta voglio i diritti"
Emma si alzò dalla sua sedia e, una volta accertatasi che le tendine dello studio erano ben chiuse, si portò alle spalle del marito, abbracciandolo mentre ancora restava seduto. "Re Francesco …" gli sussurrò nell'orecchio, posandogli un bacio sul collo "l'ho sempre detto che quando vuoi sai essere un pavone con tanto di ruota…". Emma rise sonoramente, scompigliandogli i capelli.
"Ho una certa età … non sono più credibile come Principe Azzurro, amore mio" Francesco prese Emma per un braccio e, con un movimento repentino, la portò a sedere su di lei. A causa della sedia girevole si trovarono a girare su loro stessi. Francesco dovette soffocare la risata fragorosa della moglie con un bacio, prima che attirasse su di loro tutta l'attenzione della caserma. "Ti difendi benissimo ancora, amore, non preoccuparti" lo consolò la donna "e comunque per me sarai sempre quel gran figo che ho conosciuto il primo giorno" "Gran figo, eh? Ci avrei giurato che qualcuna era rimasta impressionata" "Senti chi parla" scherzò Emma, tirando un lieve scappellotto sul petto del marito "se c'è qualcuno qui che ha fatto la radiografia all'altro quella di certo non ero io"
Francesco posò un bacio sul braccio di Emma e anche se, tra la sua pelle e le labbra del marito c'erano almeno 2 strati di stoffa, riusciva comunque a farle salire un brivido lungo la schiena. Ancora, dopo quasi un decennio. 
"È successa una cosa …" disse Emma, tornando seria. "Tua madre o tuo padre?" La voce greve parlava per lei e Francesco era quasi totalmente sicuro che c'entravano i suoi genitori. Emma, con il tempo, aveva ricostruito una specie di rapporto con i genitori. Non era affettuoso, ma era quanto bastava per far avere quella presenza nella vita dei bambini: lei che aveva sentito forte, crescendo, l'assenza dei genitori, che aveva visto con i suoi occhi l'effetto della loro negligenza sulla pelle del fratello, non avrebbe mai permesso che i suoi figli fossero privati dei loro nonni. Non stava a lei scegliere: li avrebbero conosciuti e, crescendo, avrebbero fatto la loro scelta. Era l'ultima possibilità che gli dava, la più grande della loro vita - e glielo aveva detto chiaro e tondo: il fallimento sarebbe stato tutto sulle loro spalle.
"Mia madre" rispose, telegrafica. Suo padre, a causa delle lezioni universitarie, non aveva potuto lasciare Milano per il compleanno di Matteo, ma aveva già confermato la sua presenza durante tutte le feste di Natale. Si stava impegnando e, anche se non era la persona più naturale e spigliata con i bambini, al contrario di Antonio che sembrava nato per fare il nonno, i bambini riuscivano ad avere un minimo rapporto con lui. Ogni anno che passava, le cose sembravano andare meglio, come se l'uomo non fosse in grado di giocare con i nipotini, ma ad avere solo un approccio allievo/insegnante: con Leonardo, quando si vedevano, passavano le ore davanti agli atlanti del corpo umano e ad altri libri che gli aveva regalato.
Sua madre, invece, costantemente nel suo iperuranio d'artista, difficilmente riusciva a tornare sulla Terra tra i comuni mortali. Questo era un difetto che Emma aveva sentito spesso criticare da suo padre, nei tanti litigi pre-divorzio. Lei, ancora ragazzina, la trovava divertente e un po' matta e da adulta sentiva di aver ereditato un pizzico di quella vena folle, ma ben presto aveva dovuto arrendersi all'idea che non fosse affatto sana: la sua arte veniva sempre prima di tutto, tranne forse le cene di società dove vendeva i suoi quadri e svendeva sé stessa per racimolare due spicci per tirare a campare. Per essere un'artista, però, mancava totalmente di sensibilità ed umanità: non aveva condiviso l'adozione di Leonardo, soprattutto quando capì chi era e da dove veniva; diceva la mela non cade mai lontana dall'albero e che se le adozioni sono sempre difficili, l'adozione del figlio di una ex era l'emblema di un legame mai reciso con il passato, che Emma avrebbe pagato dazio con gli interessi prima o poi. Ma quel prima o poi non arrivava e allora le sue previsioni di Cassandra si spostarono verso gli altri bambini, sempre troppi a suo parere, buoni solo a rovinare la carriera di sua figlia mentre il marito andava a lavorare. Ti sei arresa al patriarcato, le disse, quando Emma annunciò l'arrivo dell'ennesima cicogna.
Francesco le avrebbe volentieri fatto assaggiare un boccone di quel patriarcato di cui tanto blaterava, ma Emma preferiva che si crogiolasse - e corrodesse - in quel femminismo distruttivo e di bassa lega da sola. I bambini la trovavano strana e l'unica che riusciva a trovarla vagamente divertente era Sofia; era molto probabile che, crescendo, si sarebbero allontanati da lei da soli, senza alcuna influenza da parte loro.
"Che vuole?" "Dice che forse riesce a passare un giorno o l'altro durante le vacanze di Natale perché è ospite da un'amica a Cortina e magari fa un salto a salutarci, oppure possiamo andare noi" spiegò Emma, imitando quella voce nasale e quell'accento fiorentino un po' snob che la madre aveva acquisito per sembrare più intellettuale.
Non solo Emma non avrebbe avuto con sé i suoi amici, ma avrebbe dovuto anche sopportare la presenza di sua madre, a sorpresa. Non c'era niente che andava bene quell'anno.
Francesco rimuginò un po', abbracciando stretta Emma ancora seduta in braccio a lui, ciondolando un' po' la sedia girevole mentre pensava. Emma restava in silenzio, fissando il vuoto, mogia.
"Posso chiamarla e dirle che non è la benvenuta. Posso dirle cosa pensiamo di lei … ma so che non vorresti mai" esordì l'uomo. Emma si lasciò andare ad un sorriso perché ormai le loro menti erano un filo diretto: lei pensava e lui lo diceva o lo eseguiva, e viceversa. Francesco sapeva benissimo riconoscere quei silenzi, quel suo raggelarsi senza dire una parola, quando avrebbe voluto essere un fiume in piena ma quella testolina le diceva che è il caso di fermarsi e contare fino a dieci, cento, mille, prima di fare qualcosa di cui avrebbe potuto pentirsi.
"E che facciamo?" domandò afflitta. "Qualcosa ci inventeremo" sentenziò Francesco "non è forse quello che ci riesce meglio?"
Le promise che sarebbe andato tutto bene e con quella voce calda e sicura lei gli avrebbe creduto anche in bilico su un ponte pericolante, anche appesi ad una fune lungo un costone ripido e franoso.
Era così che funzionava tra loro: tu ti butti, io ti prendo.

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Capitolo 4
*** Canto di Natale - Jingle Bells ***


Canto di Natale
Capitolo 4 - Jingle Bells

 
 
 
 


 
Dashing through the snow in a one-horse open sleigh,
over the fields we go, laughing all the way.
Bells on bob tail ring, making spirits bright
What fun it is to ride and sing a sleighing song tonight.
 
 
L'antivigilia di Natale era il giorno dei regali in casa Neri. Con i bambini che riuscivano a mettere le mani ovunque i loro occhi arrivassero, nonostante le chiusure di sicurezza delle ante degli armadi e tutto il resto, era praticamente impossibile nasconderli da qualsiasi parte in casa, tanto più con Teo che prendeva sempre più coraggio e i suoi passi diventavano ogni giorno più sicuri e le braccine più forzute.
Così, da almeno quattro anni, avevano preso l'abitudine, diventata ormai tradizione, di lasciare a casa i bambini con gli zii o con i nonni, e andare a trascorrere un pomeriggio a Merano, tra negozi e casette dei mercatini. Non importava che le stesse cose avrebbero potute trovarle a Brunico o Bolzano, molto più vicine: a suo modo quella giornata lontano da casa era anche un regalo che Francesco ed Emma facevano a sé stessi, concedendosi, una volta l'anno, il piacere di un'uscita a due senza dover controllare che i bimbi scappassero di qua e di là o toccassero la merce con le mani sporche e appiccicose di dolciumi o patatine.
Entrambi amavano Merano, città elegante e storica. Emma adorava l'atmosfera mitteleuropea che si respirava per le vie del centro, dai palazzi signorili e i portici pieni di negozi. A Francesco, pur con le dovute proporzioni, il traffico nelle ore di punta lungo i viali alberati faceva spesso pensare al lungotevere al tramonto: non gli pesava aver lasciato indietro la sua città natale, non c'era più nulla che lo legasse, ma era bello ogni tanto cambiare, lasciare le montagne e farsi trascinare dai ritmi veloci di un centro vivace e dinamico…per  poi tornare a casa.
Lasciata l'auto nel parcheggio sotterraneo del centro, risalirono in superficie, nella moderna piazza che affacciava sulla passeggiata lungo il fiume Passirio, souvenir in mattoni e ferro battuto dell'età asburgica. Emma, passeggiando tra i tavolini dei bar e il porticato liberty, aveva sempre la sensazione di sentire riecheggiare le note di un valzer o di una polka degli Strauss o di veder spuntare dame dell'alta società viennese nei loro abiti di metà Ottocento, in villeggiatura al seguito della famosa Imperatrice. Nemmeno le casette in legno dei mercatini dal design moderno erano riuscite a togliere quell'aria chic e d'altri tempi al panorama che si apriva di fronte a loro.
Il Passirio, che scorreva veloce tra le rocce che ne fendono il letto, portava in città il freddo delle montagne da cui scendeva, ed Emma fu costretta a stringere più forte la sciarpa attorno al collo. Già batteva i denti al pensiero della temperatura che non poteva far altro che scendere col passare delle ore.
Nella piazza era stato allestito un piccolo villaggio natalizio, benvenuto alla città per i turisti che posteggiavano l'auto nel parcheggio sottostante. Una grande pista di pattinaggio, un albero alto e ricco di decorazioni, una giostra vintage, e tante altre attrazioni per grandi e piccini, preludio al mercatino al di là del fiume; ma era ancora presto: tutto, si poteva dire, dormiva ancora, aspettando che l'oscurità della sera portasse avventori e vitalità tra gli stand gastronomici e i locali tutt'intorno.
La donna, meccanicamente, si avviò verso il ponte che conduceva al centro città. "Emma!" sentì il marito chiamarla, dalla direzione opposta "Amore dove vai?"
Voltandosi, lo trovò fermo al centro della piazza, con un sorriso smagliante e furbesco. "Dove vuoi che vada? Verso i negozi" "Dobbiamo andare di là" controbatté lui. "Che novità è questa, di qui si fa prima. Basta attraversare il ponte, passare Porta Bolzano e siamo arrivati" "Perché non mi lasci fare mai?" domandò lui, con quello sguardo implorante che difficilmente Emma riusciva a contraddire. Non era assolutamente vero che non gli permettesse iniziative personali, ma era altrettanto vero che, con quella frase, Francesco riusciva sempre a fregarla.
"Avanti" si arrese Emma, senza opporre troppa resistenza "vediamo cosa ti sei inventato stavolta …"
Francesco, con la stessa contentezza di un bambino che ottiene ciò che vuole, prese sua moglie per mano, conducendola verso l'ingresso dell'edificio di fronte a loro.
Entrando si accodarono alla fila di persone che si era formata al grande bancone al centro di quella che era una hall immensa. "Che stiamo facendo?" "Cosa ti sembra che stiamo facendo?" "La fila per le terme?" "Ja!" rispose, marpione. "Ma che sei matto?" Emma dovette frenare sé stessa dall'alzare il volume della voce per lo stupore. Ogni volta che andavano a Merano, ripartendo, si ripromettevano di trascorrere qualche ora alle terme la volta successiva, ma la volta successiva buona non arrivava mai. Una volta erano di fretta, l'altra avevano troppo da fare, l'altra ancora non ci avevano pensato prima.
Francesco era dell'opinione che le cose migliori, per quanto li riguardava, accadevano sempre e solo grazie all'improvvisazione e così, questa volta, aveva deciso di fare un'improvvisata ad Emma. Aveva messo i costumi e le ciabatte nello zaino e gli accappatoi li avrebbero noleggiati, si era informato.
"Mi ha meravigliato che tu non abbia fatto domande sullo zaino" dichiarò, sinceramente stupito, ma anche soddisfatto di essere riuscito a sorprenderla. Emma rimase a bocca aperta e non fu capace di dire assolutamente nulla, al di fuori di un grazie sussurrato sulle labbra. Era talmente piena di pensieri … i bambini, sua madre, il lavoro, organizzare pranzi e cene delle feste, i regali … che uno zaino per andare a passeggio tra i negozi era l'ultima cosa a cui prestare attenzione.
Fatti i biglietti, indossati i braccialetti identificativi, scesero verso gli spogliatoi per cambiarsi. Ad accompagnarli, uno scroscio d'acqua che, dal soffitto, scendeva a pioggia dentro una vasca posta alla fine della scalinata.
Per abbattere i tempi - alla reception erano stati estremamente chiari "Sulle tre ore a disposizione, avete 15 minuti massimo di tolleranza" - erano entrati nella cabina insieme per cambiarsi.
"Per me possiamo anche restare qui …" suggerì Francesco, malizioso, la voce roca, slacciando il reggiseno di Emma e posandole un bacio sulla schiena, all'attaccatura del collo. "Per quanto la cosa possa essere allettante, non ti ho lasciato spendere 50 Euro per starcene dentro questo cubicolo per 3 ore …" rispose, smaliziata, scansandosi per quanto le consentivano le dimensioni ridotte del vano. Uscirono dagli spogliatoi sghignazzando come due adolescenti e trovarono una coppia di anziani, intenti ad armeggiare con la chiusura dell'armadietto e il chip del braccialetto che fungeva da chiave. La signora li guardò, indignata: probabilmente aveva origliato la loro conversazione e non si aspettava di trovare degli adulti. Francesco, senza scomporsi, aiutò il marito di lei con il sistema elettronico, congedandosi altrettanto garbatamente.
"Sei troppo signore…" commentò Emma "non se lo meritavano. Hai visto come ci ha guardato lei? Sembrava che ci avesse colti in atti osceni in luogo pubblico" "Amore, quante volte te lo devo dire: fregatene! Lascia parlare …" la rassicurò, tenendole aperta la porta d'ingresso della sala bagnanti; tante volte, per curiosità, avevano sbirciato quel posto dalle vetrate della reception, dove correvano per riscaldarsi po’ dal freddo dei pomeriggi invernali meranesi. Si erano sempre domandati cosa si provasse a stare in costume da bagno mentre fuori c'è la neve e la temperatura rasenta lo zero o scende ancora più giù, quando dal piano superiore ti guardano invidiosi, stretti delle loro sciarpe e nei loro giubboni invernali.
Ora avevano la risposta: era una sensazione meravigliosa, il caldo umido che sale dall'acqua calda delle piscine ti accoglie con il suo abbraccio, invitandoti a lasciare tutte le tue cose sulla prima sdraio disponibile e a raggiungerla, immediatamente. Talmente calda, che i passi sulle scalette di discesa non erano lenti e indecisi come quando si entra in acqua al mare; solo per decenza e rispetto dei bagnini di vedetta che nessuno si tuffava nelle grandi vasche fragorosamente.
Emma si gettò risoluta, galleggiando sulla schiena e lasciandosi avvolgere totalmente, testa e corpo, gli occhi chiusi, dal tepore di quelle acque. Non pensava a nulla, non sentiva nulla: era in un totale stato di beatitudine. Ben presto sentì due mani sorreggerle la testa e la schiena e non ebbe alcuna difficoltà a distinguere la presa salda e forte del marito, neanche ad occhi chiusi. Il profumo poi, anche in acqua, era inconfondibile.
"Non ho più bisogno del maestro di nuoto, la ringrazio" esclamò, fingendo indifferenza. "È il maestro di nuoto che ha bisogno di te, Giorgi" ammise l'uomo, divertito. Emma allora, con un movimento fluido, si portò alle spalle del marito, saltandogli sulla schiena.
"Vacci piano, koala, ho una certa età, dovresti saperlo" "Ma stai zitto …" lo riprese, ridendo.
L'acqua non era profonda, arrivava poco al di sotto delle loro spalle e Francesco, accovacciato appena per restare entrambi al caldo, iniziò a camminare lentamente in direzione del passaggio verso l'esterno, dove la piscina continuava. Entrambi sembravano due bambini sulle giostre, incuriositi e intimoriti allo stesso tempo dalla nuova esperienza: si aspettavano di venire travolti dal freddo, di sentire netta la differenza tra l'acqua calda e la temperatura dell'aria, invece quello che trovarono fu uno spettacolo insolito ed entrambi restarono a bocca aperta. Una nebbia fitta e alta li avvolse, a stento riuscivano a vedere ad un metro di distanza da loro, ma di freddo neanche l'ombra. Il calore aveva sciolto la neve nelle pedane tra una vasca e l'altra ma, al di là della foschia che si alzava dalla piscina, si intravedeva il prato del vasto giardino ricoperto di una coltre bianca che ancora persisteva dopo l'ultima nevicata della settimana precedente.
Intorno a loro il chiacchiericcio e le risate delle altre persone presenti, spaparanzate a godere dei benefici dell'idromassaggio, i gridolini e le imprecazioni dei temerari che affrontavano le vasche a basse temperature dopo quelle ad acqua calda e, ogni tanto, qualche fischietto di richiamo per i bimbi che tentavano tuffi a bomba nelle piscine interne.
"Piacerebbe tanto ai nostri venire qui" commentò Emma. "Me lo fai un piacere?" disse Francesco, prendendola tra le braccia e portandola di fronte a sé. "Facciamo che questa rimane una cosa solo nostra … la nostra oasi di pace. Li adoro, sono la mia vita, ma non dobbiamo dimenticarci di essere Francesco ed Emma. Per i prossimi 364 giorni saremo mamma e papà, ma quando veniamo qui … oggi e nei prossimi anni ... siamo solo tu ed io. Mmm?"
La donna non proferì parola: Francesco sapeva quanto fosse una leonessa quando si parlava dei figli e temeva che non avesse accolto favorevolmente la sua proposta. Rimuginava, lo sguardo nel vuoto. Per attirare la sua attenzione, l'uomo le tirò un colpetto impercettibile con il naso sulla guancia. D'improvviso, invece, Emma cinse con le sue gambe la vita del marito, portando le braccia sulle sue spalle, con fare sensuale. Con le mani, sistemò i capelli bagnati dell'uomo, tirandoli indietro. Non erano più lunghi come quando era nata Sole, erano molto più simili a quando lo aveva conosciuto, ma erano di una lunghezza sufficiente per passarci le mani attraverso, morbidi e profumati come piacevano a lei.
Senza dire nulla, avvicinò lentamente le sue labbra a quelle del marito, incontrandole prima timidamente, poi in maniera sempre più decisa, lasciandogli poi il compito di condurre le danze. Sembrava la pioggia leggera e calda di una doccia in una sera d'inverno, un'esplosione dei migliori sapori dell'universo che si mescolavano a creare una sensazione di benessere accogliente e familiare. Pur appoggiati alla parete della vasca, forse per effetto dell'acqua che li avvolgeva, persi l'uno nell'altra, non gli sembrava di essere ancora nel proprio corpo o in questo universo.
Era un sì taciuto e pronunciato con i fatti, che valeva mille parole dette ad alta voce, era un voler mai rinunciare ad essere sé stessi. Anche adulti, maturi, responsabili, doveva esserci sempre spazio per tornare alla libertà - e forse anche all'incoscienza - di quei giorni, forse troppo pochi, in due.
La giornata era volata. I capelli ancora umidicci sotto ai cappelli, l'automobile piena di regali nascosti nel bagagliaio, si rimisero in viaggio quasi ad ora di cena, tornando a casa tardi, con i bambini già messi a letto e Luna nella cuccia che, appena riconobbe la vettura, tornò a dormire senza grandi cerimonie. Vittoria li aspettava, seduta sul divano vicino alla grande stufa in pietra del salotto, a leggere un libro, mentre Rosa e Antonio erano già andati a dormire, presso il B&B dove soggiornavano ogni volta che andavano in visita.
"Avete svaligiato Merano, per caso?" "C'è stato un piccolo cambiamento di programma…" tagliò corto Francesco, lanciando un'occhiata complice a sua moglie, prima di salire al piano di sopra. "Tutto bene?" domandò la zia, scettica, seguendo la nipote che si dirigeva in cucina. "Siete accaldati...Emma sei tutta rossa" "Ma sì, zia, tutto bene. Abbiamo solo messo il riscaldamento al massimo in auto …" ammise la donna, mettendo il bollitore sul fuoco.
"Ehm non voglio sapere i dettagli intimi del vostro pomeriggio, ti ringrazio" si affrettò a precisare Vittoria, imbarazzata. Emma, dal canto suo gongolava: d'altronde era stata lei ad indagare.
"Se non ti dispiace … io me ne andrei" proseguì la zia "si è fatto tardi." "Vuoi che ti accompagni Francesco? Lascia qui l'auto, vieni a riprenderla domani … non sei abituata a guidare con la neve"
Vittoria sarebbe dovuta tornare al maso dei Moser, dove Giulio aveva ricavato il proprio appartamento dai vecchi alloggi per il personale e dove Emma stessa aveva vissuto per qualche tempo. Giulio, che non viveva con Linda, la invitava sempre volentieri. La donna, però, rifiutò l'offerta di Emma: le strade erano non erano così ghiacciate e aveva comunque gli pneumatici da neve; detestava quando la gente del posto - non importava che fossero sconosciuti o i suoi stessi parenti - la trattasse come la classica signora di città impedita e senza spirito di adattamento.
"E poi" punzecchiò sua nipote "ho visto tuo marito parecchio provato dalla giornata di … diciamo shopping. Lascialo riposare."
Emma, che rientrando nella casa calda aveva messo su un paio di guance rosse che spiccavano sul maglione di lana bianco, sentì le gote avvamparsi ancora di più. Si voltò verso la credenza, per prendere una tazza, nella speranza che la zia non notasse l'imbarazzo.
"Buonanotte, ci vediamo domani" la salutò la donna, sparendo nel corridoio e chiudendosi, con una leggera risata, la porta d'ingresso alle spalle.
Con la mug fumante salì le scale, non prima di aver spento tutte le luci della zona giorno. Nel camino della stufa, si era accertata, era rimasta della brace rovente che si sarebbe spenta pian piano da sola, continuando a riscaldare la casa lentamente per tutta la notte.
Sbirciò nelle stanze dei bambini: Leo dormiva scoperto dalle lenzuola, che rimboccò delicatamente, Teo invece, il piccolo angioletto, stava fermo e calmo esattamente come lo aveva posato la zia. Se non lo avesse visto con i suoi occhi, non avrebbe creduto mai che fosse lo stesso piccoletto in grado di svegliare l'intera casa per obbligare i genitori ad accoglierlo nel lettone nel cuore della notte. Visto così, però, era un tirabaci nato.
Le bambine, strette nei loro piumoni, dormivano beate, l'una stretta al suo peluche preferito, l'altra di traverso nel letto. Emma mosse la più piccola leggermente, tanto per essere sicura che non battesse la testa allo spigolo del comodino.
A tutti loro posò un bacio sulla fronte: tra le braccia di una madre, le aveva detto una volta una vecchina vedendola con Sole piccolina addormentata tra le sue braccia, i figli non si svegliano.
Andò in camera da letto e poggiata la tazza fumante sul comodino, una vecchia abitudine che si portava dietro da quando vivevano nella palafitta dove tutto era in un'unica stanza, si mise il pigiama. Era talmente stanca che per una volta forse avrebbe disobbedito alle raccomandazioni che lei stessa faceva ai bambini prima di andare a dormire.
Francesco entrò in stanza dopo essere stato in bagno a prepararsi. La porta era chiusa per non disturbare i bambini con la pur calda e tenue luce delle abatjour. Trovò la moglie seduta sulla panca ai piedi del letto, mentre sorseggiava la sua tisana e con l'altra mano appuntava qualche riga sulla sua agenda.
"Mi stavi aspettando? Potevi entrare, non avevo chiuso a chiave" disse, parlando a bassa voce, richiudendo la porta alle sue spalle ma non completamente, lasciando uno spiraglio di sicurezza per i bambini. Con la casa calda non c'era verso che Francesco usasse la maglia del pigiama, ma neppure la maglietta della salute. Lo stesso valeva per Emma: per farle indossare un pigiama con i pantaloni lunghi, invece della solita una sottoveste, ci voleva almeno un metro di neve accumulata sul tetto, eppure nessuno dei due aveva mai preso un raffreddore o un mal di schiena per questo.
"No tranquillo" rispose calma "stavo scrivendo" Non era un diario come quelli che si scrivevano una volta da ragazzine, piuttosto una breve raccolta di memorie. Era una pratica che aveva iniziato dopo la scoperta della sua malattia, quando temeva che un'emorragia cerebrale avrebbe potuto causarle perdite di memoria. Quando accadeva qualcosa di speciale scriveva sempre due righe, ma anche quattro se necessario: cosa era successo, cosa aveva provato, i colori, i sapori, le persone che aveva incontrato. Quando aveva superato l'intervento, era stata una delle cose che l'aveva aiutata ad affrontare la convalescenza, i lunghi giorni di riposo, l'attesa di miglioramenti, la ricerca di ogni minimo cambiamento che potesse fare la differenza. Poi era arrivato Leo, poi la gravidanza, la casa nuova, Luna e via via tutte le tappe importanti, i nuovi arrivi e le nuove esperienze. Tutto valeva la pena di essere ricordato, nulla doveva essere dimenticato.
"Posso leggere?" Francesco aveva sempre rispettato quel momento di intimità di Emma con i suoi pensieri, ma ogni tanto le chiedeva il permesso di poterne fare parte. Lo fece sedere accanto a lei, accavallando la sua gamba su quella di lui. Francesco, automaticamente, le accarezzo la coscia nuda, setosa e tonica.
"23 dicembre 2024. Io e Francesco siamo andati alle terme" lesse Emma a bassa voce "per un attimo mi sono sentita come quando mi insegnava a nuotare nel nostro laghetto. Tranne per l'acqua, che non era gelata. E poi..." "E poi?" "E poi concludo domani" proclamò Emma, chiudendo l'agenda "è tardi e ho sonno. Se aspetto altri cinque minuti mi getto nel letto senza passare per il bagno"
Emma notò che Francesco era rimasto turbato che non volesse continuare a scrivere il diario davanti a lui. Ma era stanca e quando si è stanchi le parole non escono come vorremmo: banali, riduttive, non all'altezza di quella giornata: si era sentita bene quel giorno, si sentiva bene ogni giorno, da quando lui era al suo fianco. Lo rassicurò: l'indomani, lo avrebbero scritto insieme.
 
La sera della vigilia di Natale, puntuale come un orologio svizzero, arrivò la videochiamata da Napoli che Emma aspettava. Erano quasi le undici, ma avevano concordato di sentirsi prima di prepararsi per andare alla messa di mezzanotte.
Valeria aveva fatto una carrellata del salotto di sua suocera con la telecamera del tablet. Le aveva mostrato il ripiano della credenza, ancora imbandito di ogni bontà: struffoli, mostaccioli, torroni, babà. Sulla tovaglia rossa del tavolo erano sparpagliate le cartelle della tombola, il cartellone e i ceci per coprire i numeri. Le fece vedere il famoso presepe di casa Nappi, quello in sughero con i pastori artigianali che aveva fatto il nonno di Vincenzo e che era l'orgoglio della famiglia: non c'era stato un Natale in cui Vincenzo, che portava il suo nome, non ne avesse fatto menzione, con gli occhi lucidi di orgoglio e nostalgia. Mentre passava in rivista tutti gli invitati, Emma notò la presenza di Eva e del suo compagno. Non poteva credere ai suoi occhi; ricordava fin troppo bene i modi freddi con cui la trattava in quelle rare occasioni in cui le aveva viste insieme, durante qualche festa. "Mia suocera dice che lei è gentile con le persone che le portano rispetto …" spiegò Valeria, scettica, con un'espressione che era tutta un programma, guardandosi attorno per accertarsi che la donna fosse tornata in cucina "ma quando mai? In realtà è solo un affronto alla figlia e naturalmente uno smacco alle vicine che vedono un bell'attore a casa della signora Nappi"
"Allora come va in trincea? Qual è il bollettino di guerra?" domandò Emma.
"Direi che è stata proclamata una tregua" spiegò l'amica. "Bene dai, sono contenta, almeno avete passato un Natale sereno in famiglia" "Ma che hai capito, Emma?! Cosa ... lì … Manuela … non si è presentata proprio." "Davvero?" "È andata a passare Natale e Capodanno a New York con … l'amico Fritz … dice che lei con dei montanari ripuliti e bigotti non ci passa il Natale. Con me ha chiuso" "Beh se le cose stanno così, è indifendibile" "Lo dico anche io signora Emma …" la madre di Vincenzo sbucò nello schermo, con un vassoio di dolci con cui ancora tentava di ingozzare i suoi commensali, sfatti sui divani. Emma annuì, a disagio come solo la signora Maria Carmela riusciva a metterla. "Mammà dove hai messo il cappottino di Domenico? Oh ciao Emma!" la voce di Vincenzo arrivava da fuori campo, ma ben distinguibile. Valeria alzò gli occhi al cielo: Emma sapeva bene che detestava che chiamasse il bambino alla napoletana. "Ciao Vincenzo!"
Nel frattempo, Matteo si era arrampicato sulle gambe della mamma, avendo riconosciuto la voce degli zii che proveniva dal telefono e si era avvicinato per sbirciare, tirando con la manina il braccio di Emma verso il basso, insistentemente, incuriosito dal vederli parlare in uno schermo. "Per il resto come va?" domandò la donna, affettuosa.
"A parte il fatto che sto boccheggiando e con una cena avrò messo su venti chili?! Tutto bene."
Entrambe risero della situazione surreale in cui si era ritrovata Valeria, ma non poterono continuare a lungo la conversazione in santa pace poiché le bambine di Emma e Mela, attirate dalle risate delle due donne, si avvicinarono al telefono.
"La tua tribù?" domandò Valeria, provando a scorgere Emma tra le testoline delle sue bambine. "Esattamente come la conosci … affollata, chiassosa … felice"
Con un atto di fermezza, Emma si riappropriò del telefono, mostrandole la casa e i suoi ospiti. Il maso era esattamente con Valeria se lo aspettava: l'albero era illuminato e la stufa era accesa, il lungo tavolo da pranzo apparecchiato con classe da una tovaglia bianca e un semplice runner rosso e le candele del centrotavola ormai ridotte a dei lumicini, le stelle di Natale sui davanzali delle finestre, le decorazioni in legno, i cuscini natalizi sulle poltrone e sulla panca del tavolo, che correva lungo la parete del muro. Tutto trasmetteva quella pacifica energia, calda e accogliente che solo le case di montagna sanno dare, anche con poco, a Natale.
Valeria vide il padre di Emma, arrivato in tempo per la vigilia come promesso, conversare amabilmente con Rosa e Antonio, un bicchiere di brandy in mano; era un uomo formale, a tratti imperturbabile, ma sapeva stare in compagnia e nessuno avrebbe mai potuto dire di lui che fosse noioso o antipatico. Difficilmente avrebbe raccontato una barzelletta, ma sapeva affascinare con gli aneddoti sui cantanti d'opera e i direttori d'orchestra che passavano per La Scala, sua grande passione dopo la sua cattedra di Semeiotica Medica all'università.
Vittoria se ne stava in un angolo della stanza, da sola, anche lei al telefono, a salutare i figli che quell'anno erano rimasti a Milano con il padre, un po' malinconica.
Giulio era stato invitato a casa di Linda e l'indomani sarebbero stati a pranzo da loro, con molta probabilità facendo sfoggio dell'anello che Emma aveva contribuito a scegliere.
Leonardo e Francesco, in cucina, riordinavano prima di uscire; anche quella era una loro piccola tradizione: a chi vinceva a Mercante in Fiera toccava lavare i piatti per essere stato sfacciatamente fortunato. I due, che facevano sempre società, avevano sbancato con ben tre carte fortunate: mogi, avevano dovuto adempiere alla penitenza.
Non erano la famiglia perfetta, anche se a molti, visti da fuori, lo sembravano. Avevano i loro alti e bassi, litigi in cui la voglia di far volare i piatti o una parola di troppo è tanta, ma nessuna giornata dove a chiudersi senza chiedere scusa o senza dirsi di nuovo ti voglio bene.
 
Erano le prime ore del mattino. La casa era immobile, come ferma nel tempo; tutti ancora dormivano. Luna, sdraiata di fronte alla stufa, ronfava approfittando del tepore che la pietra ancora tratteneva. Con il freddo e l'ennesima fioccata della stagione, nessuno aveva avuto il coraggio di spedirla nella sua cuccia all'esterno.
I bimbi, nei loro lettini, ancora sognavano, tranquilli, la giornata speciale che li attendeva. Mamma e papà nel letto, approfittavano degli ultimi minuti di libertà.
"Buongiorno" sussurrò Francesco, già sveglio, notando un piccolo cenno di risveglio da parte della moglie. Non capitava spesso, ma svegliarsi prima di lei e guardarla dormire era una delle cose che preferiva di più al mondo.  "Buongiorno" Emma sorrise, stiracchiandosi. Non c'era una mattina che, svegliandosi, pur sonnacchiosa, Emma non sorridesse, scaldando il cuore di suo marito. Se c'era una cosa che lo rendeva felice, quella era il sorriso di sua moglie appena svegli.
"Buon Natale, amore" "Buon Natale a te …" la donna ricambiò l'augurio con un bacio, rannicchiandosi contro di lui a riccio e tornando a chiudere gli occhi, nella speranza di poter dormire un altro po', coccolata tra le braccia del marito. "Cucciola siamo dormiglione questa mattina?" "mmmm è la mattina di Natale…altri dieci minuti"
D'altronde, tornati dalla messa, era passata oltre un'ora prima che potessero sistemare i regali dei bambini senza venire beccati, così erano andati a dormire che non era più tardi, ma decisamente presto. "Allora speriamo che anche loro abbiano sonno …"
Francesco strinse Emma contro di sé, accarezzandole la testa e la schiena, posandole dei leggeri baci tra i capelli che profumavano di Natale, di vaniglia, mandorle e arancia. Prese a contare i minuti che passavano, combattendo l'impulso a riaddormentarsi: adorava vegliare Emma nel sonno, soprattutto se era tra le sue braccia. Era come se le tessere del puzzle combaciassero perfettamente, come se tutto, in quegli istanti fosse esattamente al proprio posto: sereno, pieno, perfetto.
Nell'oscurità calma e ovattata della camera da letto, interrotta da qualche flebile raggio di luce che filtrava dalle persiane, Francesco sentiva delle vocine acute provenire dalla stanza di fronte, ma tentò per qualche istante di estraniarsi, nella speranza - o forse illusione - che sarebbero rimaste dov'erano.
"Din don dan, din don dan, che felicità
bello è andare col cavallo sulla neve bianca.
Din don dan, din don dan, oh che bello andar
scivolando con la slitta nel silenzio andiam."
Due scriccioletti, nei loro pigiamini natalizi coordinati e senza calzette perse, come al solito, tra le lenzuola, spalancarono la porta con tutta l'energia che possono avere in corpo due bambine della loro età la mattina di Natale, con i decibel che avevano superato immediatamente la soglia del sopportabile per qualcuno che aveva messo in conto di prendersela con calma e dormire più del solito.
"Nella notte santa s’ode da lontano
l’eco di campane din don din don dan.
Canteremo insieme al suon dei campanelli
augurando a tutti un lieto e buon Natal."
"Ugh finita la pace…" bofonchiò Emma, il volto ancora pressato sul petto del marito "Ma chi c'è qui? Le mie principesse" esclamò Francesco, mettendosi a sedere, mentre le bambine si arrampicavano su per il lettone. Sole, avvinandosi alla madre, l'abbracciò canticchiandole nell'orecchio, se pur a bassa voce "Sei già sveglia oppure dormi?", le prime note di una delle sue canzoni Disney preferite. "Sono sveglissima!!!" si voltò la donna, prendendo la bambina tra le braccia "buon Natale!!!"
Ci metteva poco ad attivarsi, in realtà, quando i bambini erano nei paraggi. Mentre tutte e due le birichine si facevano coccolare dai genitori anche Leonardo, con in braccio Matteo, si affacciò alla porta della stanza. "Possiamo?" domandò, timidamente. "Che fai ancora lì? Forza sotto le coperte che fa freddo!!!" lo incitò il padre, aiutandolo con il piccoletto, alquanto confuso dalla scena insolita. Quel letto, di norma, era suo territorio personale.
"Scendiamo giù! Dobbiamo vedere se è passato Babbo Natale!!!" prese ad incitare Sofia, mettendosi in piedi sul letto e passando alle spalle della madre e del padre nel frattempo si davano il cambio con Matteo: con i suoi gridolini, il piccolino richiedeva le coccole mattutine anche dalla mamma. Le prese il viso con le manine e, a bocca spalancata, iniziò a mordicchiarle la guancia, lasciandola tutta bagnata. "Regali! Regali! Regali!" reclamava Sofia, saltellando sul lettone come fosse un tappeto elastico.
"Perché non facciamo che state qui altri cinque minuti con mammina e papino, tutti insieme sotto le coperte … è una cosa carina …" reclamò Francesco. "Non c'è fretta" Sole concordò, mentre insieme alla mamma giocherellavano con Teo che si faceva delle grosse, inspiegabili risate. Probabilmente lo faceva ridere vedere la sorella saltare tra le lenzuola e tuffarsi sui cuscini.
"Ma Babbo Natale!!!" si lagnò Sofia "Avanti papà alzati!" "Sofi dai! Un po' di tregua … è Natale. Questa bimba è troppo accelerata …" commentò Francesco. Emma avrebbe voluto fare una battuta sugli spermatozoi del marito, ma valutò che con una cervellona come Sofia era meglio non provocare. "Che significa accelerata?" domandò la piccola. "Ecco appunto …" decretò l'uomo, snervato. Ed erano solo le otto del mattino: sarebbe stata una lunga giornata. "Forza" incitò "incominciate a scendere che papà e mamma arrivano. Ma non aprite i regali finché non scendiamo noi"
In men che non si dica i più grandi si fiondarono tutti nel soggiorno, e le urla ultrasoniche riuscivano a superare anche le travi del soffitto del salotto. Babbo Natale o San Nicolò, come lo chiamavano da quelle parti, era passato, come sempre, eppure le bambine non riuscivano a non essere sorprese. Commentavano ogni dettaglio: le orme degli scarponi lasciate sul pavimento dalla porta fino all'albero, il piattino dei biscotti in cui erano rimaste solo le briciole, il bicchiere di latte e cioccolato in cui era rimasto solo il fondo, la ciotola con le carote vuota. Quell'anno i coniugi Neri avevano strafatto, ma dopo la gaffe dell'anno precedente dovevano recuperare punti.
Il tutto era naturalmente  contornato da Luna che, ogni volta che c'era confusione in casa, prendeva parte all'eccitazione generale ululando.
Di punto in bianco la quiete, anche Luna venne richiamata al silenzio. "Ecco" commentò Francesco, sogghignando, prendendo dalle mani di Emma il pannolino bagnato di Matteo "hanno trovato la lettera"
Mentre Emma rivestiva Teo potevano sentire Leonardo leggere alle sorelline il bigliettino di ringraziamento - ideato da lei e scritto da Francesco - per i dolcetti e le carote che avevano lasciato a lui e alle renne. San Nicolò invitava i bimbi ad essere sempre buoni, ad ubbidire alla mamma e al papà e a volersi bene, sempre.
"Eccoci qua, siamo tutti puliti e profumosi, vero Teo?!" disse Emma a Teo, con quella vocina vezzosa che lo faceva ridere e strapazzandolo di baci dal pancino alle guanciotte tutte rosse, mentre era ancora steso sul fasciatoio. "Direi che è ora di scendere, non resisteranno a lungo alla tentazione di aprire i regali" sentenziò Francesco. "Lo penso anche io, andiamo" "Andiamo a vedere se c'è un regalo anche per te, eh piccolino? Su! Su!" lo spronò il padre. "Certo che c'è un regalo per questo bimbo … è il bimbo più dolce della terra" lo rassicurò la madre.
Il piccolo, pur non comprendendo molto di quello che gli accadeva intorno, era divertito dall'atmosfera di festa generale e batteva le manine mentre lasciava la cameretta tra le braccia della madre.
Capitava raramente, di mattina, che in casa non ci fosse fretta. Anche di domenica, normalmente, veniva fuori qualche motivo per andare a cento all'ora: pranzo da preparare, la messa per le famiglie, il papà in servizio straordinario, le partite di hockey di Leonardo. Natale, invece, era il giorno dell'anno in cui, non importa quanti invitati fossero attesi a pranzo, crollasse il mondo Emma e Francesco si sarebbero dedicati ai bambini con tutta la calma che quel santo giorno meritava.
"Allora" chiese Francesco, entrando in salotto "è arrivato Babbo Natale?" "San Nicolò, papà!" tenne a precisare Sole. "E ci ha lasciato anche un biglietto" affermò Sofia, porgendo fiera la lettera al padre "lo ha letto Leo" Emma notò la maggiore delle bambine in piedi di fronte all'albero, immobile ed esitante "Che succede amore?" domandò, carezzandole la guancia "Ora potete scartare i regali!" "Mamma sono tutti uguali …"
Emma si inginocchiò di fronte all'albero e, lasciato libero Teo che scalpitava per gattonare vicino ai fratelli, frugò tra i regali, tutti impacchettati allo stesso modo e distinti solo dalla targhetta con il nome. Ritrovato quello per la bambina, le mostrò la targhetta. Nel frattempo Leonardo prese il suo ed iniziò a scartarlo. "Riesci a leggere quello che c'è scritto?" All'asilo, infatti, Sole aveva iniziato a fare pratica con le lettere dell'alfabeto, iniziando a leggere qualche parolina. Lentamente, la piccola, scandì "Esse .. ooo … elle … ee" "Ora proviamo con le sillabe …" "Sooo…le. Sole! È il mio!!!" "Bravissima amore!!! Dai … adesso vediamo cosa ti ha portato San Nicolò?!" La piccola iniziò a scartare, con calma, Emma non avrebbe saputo dire se stava attenta a non rovinare la carta oppure stesse semplicemente assaporando il momento. In questo era molto lei, ci si riconosceva.
"Wow!" esclamò Leonardo "I pattini!!! Grazie ma.." Francesco fece in tempo a zittire il figlio maggiore prima che si lasciasse scappare un'altra parola. Leonardo era nell'età in cui Babbo Natale non aveva più il significato che aveva per i fratelli, ma Emma e Francesco erano dell'idea che anche lui avesse diritto alla sua dose di magia e di sorpresa nel giorno di Natale. Fino a quel momento, i pattini per giocare ad hockey li aveva forniti la squadra per la necessità, naturale, di cambiarli di frequente. Ora, però, che Leo era ben determinato a continuare a praticare lo sport stabilmente, era arrivata l'ora di averne un paio tutti suoi, nuovi, affilati, comodi. Il ragazzino, aprendo la scatola per toccarli, per poco non scoppiò a piangere, commosso. In silenzio abbracciò il padre e diede un bacio alla madre. Indossò i pattini e, messi i coprilama, iniziò a camminarci in casa, salendo le scale per vedersi allo specchio nella stanza dei genitori.
Francesco ed Emma si scambiarono un'occhiata di complicità. Erano stati bravi, e non solo per il regalo. Se lo ricordavano bene com'era Leo, quando lo avevano conosciuto. Silenzioso, scontroso anche un po' egoista, ma non come possono esserlo tutti i bambini piccoli: era un cucciolo ferito, che aveva bisogno di essere curato e aveva bisogno di essere guidato. Ora, pian piano, iniziava a lasciare loro la mano, ad incamminarsi da solo. Sarebbe stato bello vederlo allontanarsi, guardandogli le spalle.
"Mamma!!! È Anna regina!!!" urlò Sole, incredula. Nella lettera non aveva fatto nessuna richiesta. Era una bambina talmente sensibile e speciale che, quando la mamma si sedette assieme a lei e alla sorellina per scrivere la lettera, le disse solo di scrivere che le piacevano le principesse delle favole. Non le interessava avere nulla in particolare, già solo l'idea di ricevere un regalo era un dono per lei. "Ma come faceva a sapere che era proprio quella che mi piace di più?" "Amore Babbo Natale è proprio speciale, sa leggere i pensieri e i sogni di ogni bambino buono" Sì, Babbo Natale conosce bene i cuori e i desideri dei suoi bambini.
"Sofi, principessina, perché non apri il regalo?" domandò Francesco alla piccola. Era stata quella che aveva fatto più baccano per scendere e scartare i regali e ora che era arrivata l'ora se ne stava impietrita di fronte alla scatola. "Voglio indovinare …" "Cosa avevi chiesto?" "Un cavallo vero, ma qui non ci entra …" Visitando spesso il maneggio di Giulio era praticamente sempre in groppa ai pony e spesso aiutava lo zio con la biada: l'unico momento in cui stava buona e ferma, concentrata e premurosa, era quando spazzolava il crine, poco importava se fosse vero o finto. Per lei però, non bastava più; Francesco sapeva bene che il desiderio più grande della sua bambina era uno solo: andare a cavallo con il papà in groppa ad Oliver. Da quando aveva scoperto che, ancora piccolina, ci era già salita, non si dava praticamente più pace. E l'uomo sapeva che la pazienza che le aveva chiesto era uno sforzo veramente grande per una bambina tanto piccola, ma Oliver era l'unico cavallo di cui si fidasse e in quel momento, non era in condizione. Aveva subito un brutto infortunio durante una ricognizione in quota e la riabilitazione era stata lunga e snervante per l'animale. Spesso era irrequieto e anche Francesco faceva difficoltà a tenerlo a bada. Ma il veterinario era fiducioso: presto sarebbe tornato l'Oliver di sempre.
"Io se fossi in te non aspetterei oltre …" l'uomo pungolò la bambina, facendole l'occhiolino "anche perché dalla scatola non so quanto si possa capire" "Va bene"
La bambina allora si decise a scartare il pacco, al contrario della sorella in maniera poco aggraziata, senza curarsi di mantenere la carta regalo intatta. Era una semplice scatola da imballaggio, marroncina, senza alcuna scritta né indicazione. La bambina era perplessa ma, incitata dai genitori, non si perse d'animo. Il padre corse in suo aiuto con le forbici, per rimuovere l'ultimo strato di nastro adesivo che chiudeva la confezione. Apertala, si trovò davanti una miriade di chips in polistirolo. Si girò verso la madre e i suoi occhi sembravano chiederle se fosse per caso uno scherzo. Voleva essere forte, ma tra le righe iniziava a leggersi una vena di delusione: era dolcissima, ed Emma quasi si sentiva in colpa per averla fatta penare così tanto, a differenza degli altri bambini, ma non era colpa sua se il pacco era arrivato in quel modo.
"Amore è solo l'imballaggio" spiegò Francesco, tranquillo e sicuro "evidentemente è qualcosa che non si deve rompere e Babbo Natale è stato attento. Cerca nella scatola"
La bimba di tuffò con le braccine nell'imballaggio e le sue manine subito trovarono quello che cercava. Tirando su la sorpresa, tutte le "patatine" di polistirolo si sparpagliarono sul pavimento. "Un caschetto?" domandò. "Guarda meglio … " la incoraggiò il padre, indicando un lato del casco rosa "qui c'è disegnato qualcosa". La bimba girò il casco nella direzione che le aveva indicato il padre. Era un elmetto blu, piccolo, perfetto per la sua testolina, decorato con tante stelline colorate tutte intorno e, là dove puntava il dito del papà … un cavallo bianco che guarda la luna.
"È un cavallo!!!" "Eh sì … e allora lo sai che vuol dire questo?" domandò Francesco. "Cosa?" "Che a primavera devo proprio portarti insieme a me ed Oliver …" le disse, sgranando gli occhi per impressionarla. La bimba urlò di gioia, saltellando per la felicità nella stanza. Sole, con la sua bambola, e Teo, che sotto l'albero aveva trovato un tappetino musicale e ci stava ballando sopra aiutato dalla madre, non sembravano altrettanto toccati. A Sole piacevano i cavalli, ed Oliver era il suo protetto, ma a confronto, Sofia era un caso patologico. "E quando è primavera?" domandò la bambina, riprendendosi. Era buffa: anche lei come Leo, aveva indossato subito il suo regalo,  ma l'allacciatura andava regolata e la visiera del caschetto finì per coprirle interamente gli occhi e fu costretta ad alzare il mento per guardare la madre, tendendo il casco con le mani per non farlo cadere all'indietro. "Vieni qui" il padre la portò verso di sé, per aggiustarlo. Sapeva, infatti, che difficilmente sarebbero riusciti a toglierglielo nell'ora successiva. "Tra qualche mese" le spiegò la mamma "quando non farà più buio presto e quando il lago non sarà più ghiacciato".
Per allora, speravano, Oliver si sarebbe ripreso completamente e Francesco avrebbe potuto portare la piccola a cavallo, come desiderava. Condividere le proprie passioni con i figli, era per l'uomo uno dei regali più preziosi che la vita gli aveva fatto. Ce lo siamo fatti da soli, gli diceva Emma spesso: lei era dell'idea che era solo il frutto dell'educazione che avevano dato ai bambini, mostrando loro ciò che più conta nella vita e non l'affetto per i beni materiali.
"Bene … io direi che è ora di fare colazione … io avrei un certo languorino. A chi va una fetta di pandoro con la Nutella?" "Emma …" "È Natale, su…Leo, scendi!"
Mentre in cucina le tazze di latte caldo fumavano e in cucina i cucchiaini tintinnavano contro lo smalto delle tazze, Francesco si era attardato in salotto, con la scusa di rimettere tutto in ordine. In realtà c'era un regalo in sospeso. Stava in piedi vicino ad una cornice appesa alla parete, una foto in bianco e nero di lui e Marco, una delle ultime, che Rosa e Antonio conservavano e avevano fatto ingrandire. Con la neve che arrivava alle ginocchia dove non veniva spalata regolarmente, era impossibile d'inverno fare visita al cimitero della pieve. D'altronde, Francesco, non aveva bisogno di una lapide per sentirlo vicino: nel suo cuore sarebbe rimasto sempre così, sempre il suo bambino, eppure ora avrebbe 22 anni, sarebbe stato uno studente universitario, o magari avrebbe già avuto un lavoro e avrebbe chiesto al padre di non fargli più regali, perché era grande e non ce n'era più bisogno.
Chissà come sarebbe stato, se fosse ancora vivo. A volte si chiedeva se avrebbe mai conosciuto Emma, se ci sarebbero stati Leo e Sole e Sofia e Matteo. Persino Luna. La verità era che, in qualche modo, tutto quello che era successo era stato un clamoroso e perfetto allineamento di stelle. Doveva succedere, sarebbe successo comunque. Ne era sicuro. Non era solo un caso.
Prese una scatolina dalla base dell'albero e la aprì. Era la collanina che, insieme a Leo, avevano fatto e regalato ad Emma per la nascita di Sole. "Adesso sei un ragazzo … giocattoli non ne puoi più avere" disse, parlando con la foto, sommessamente "io ed Emma pensiamo che debba averla tu. È giusto così. Ti sarebbe piaciuta Emma."
Avrebbe voluto dirgli mille cose, gliele diceva ancora ogni giorno e sentiva la sua voce, ancora quella del bambino che gli rispondeva "Ah pa', ma è Natale, oggi non ci sta niente da piangere"
E non avrebbe pianto. Era felice per tutto quello che la vita gli aveva dato. Per i bambini, che non avrebbero mai capito appieno la sofferenza che lui aveva provato, né la gioia che il loro arrivo aveva portato nella sua vita. Ed era felice anche per Marco, per i giorni che avevano potuto passare insieme, anche se pochi.
"Amore il caffè è …" Emma si frenò, vedendolo appendere il piccolo tao in legno alla cornice in salotto. Gli si avvicinò, silenziosa, incrociando il suo braccio a quello del marito e appoggiando la guancia sulla sua spalla "Tutto bene?" "Sì …" Emma lo scrutò, portandosi dentro la solita preoccupazione. Poteva solo immaginare quello che passava per la mente di Francesco: c'era stato un periodo in cui aveva creduto di portarsi dentro lo stesso dolore, ma la verità era che erano imparagonabili. La sua ferita si era via via rimarginata: non era sicura che si potesse dire la stessa cosa per suo marito.
"Non è giusto però" disse, tentando di stemperare i toni "tutti hanno ricevuto un regalo quest'anno tranne tu" "Io non ti ho fatto nessun regalo … come nei patti" "E la serata in palafitta? O il pomeriggio alle terme?" Francesco sbuffò "Quelli non contano … la palafitta era per la famiglia e le terme per tutti e due. E comunque"  preciso "se proprio vogliamo fare i precisi io ce l'ho il mio regalo di Natale. Sembrerà banale ma sei tu tutto quello che voglio. Passare la giornata sapendo che ci sei e svegliarmi sapendo che non è stato un sogno vale più di qualsiasi cosa che possa essere impacchettata e messa sotto l'albero."
Ad Emma sfuggì una lacrima. Ricordarlo com'era quando lo aveva conosciuto, vederlo com'era ora, di fronte a lei, era la prova che i miracoli non accadono solo a Natale, ma giorno per giorno, poco alla volta, di fronte ai nostri occhi. A volte senza neanche farci caso.
Corse con la sua mano ad accarezzare il volto del marito, che aveva unito la sua fronte alla sua. Quando stavano così, il tempo si fermava. Sentivano solo i loro battiti e i respiri che, poco alla volta, si sincronizzavano. Erano a casa.
Un colpo sulle gambe, però li distrasse dalla loro bolla. La lupacchiotta di casa uggiolava per protesta, tenendo il guinzaglio tra i denti: sarà stato anche Natale, ma per lei era solo l'ora dei bisognini. "Buon Natale anche a te Luna!" esclamarono all'unisono, ridendo.
Un'altra giornata era iniziata, con la sua routine e  i suoi ritmi, poco diversa da tutte le altre, alla fine, nonostante fosse un giorno di festa. Ma, a loro modo, tutti i giorni erano speciali: erano insieme apertamente, con i loro pregi ed i loro difetti, chiassosi, complicati, ognuno pronto a svilupparsi in direzione diversa, come dei rami di un albero. Ma, proprio come i rami di un albero, erano uniti da quel tronco che era il loro grande amore.


 

Angolo dell'autore

Siamo arrivati alla fine di questa piccola avventura, un viaggio nel futuro della nostra amata banda di matti. Spero vogliate farmi sapere le vostre impressioni a riguardo.
Ma non pensate che sia finita qui, c'è tutta una lista di cose che mi piacerebbe raccontare perciò state sempre all'erta perché da un momento all'altro potrei tornare con un nuovo capitoletto di questa raccolta.
A presto


crazyfred

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Capitolo 5
*** Aspettative e Realtà (parte 1) ***


Salve salvino gente!!! Ci ritroviamo qui finalmente per un nuovo episodio di quella che io ho ribattezzato la mia "bolla". Stavolta facciamo un passo indietro rispetto all'ultimo capitolo pubblicato, nello specifico a qualche mese dopo la fine di "Noi Casomai". Come sempre quando scrivo, i personaggi vanno da un'altra parte e, quello che doveva essere un semplice "quadro", si è trasformato in qualcosa di più. Così sono stata costretta a dividere la storia due parti e ci troviamo tra un paio di settimane con la seconda parte.
Prima di lasciarvi con la lettura vi invito a mettere "mi piace" alle mia nuova pagina Facebook dove potrete trovare informazioni su capitoli, video e, se vi va, salutarmi e commentare insieme a me i capitoli. 
Buona lettura!!!
 
 
Aspettative e realtà
(parte 1)





 
Davanti allo specchio in camera da letto, Emma sbuffava, girandosi e rigirandosi di fronte al proprio riflesso con addosso l'abito avorio in tessuto bouclé che aveva acquistato per l'occasione. Francesco la osservava in disparte, divertito, fermo sull'uscio della porta della loro camera, finché sua moglie non si accorse della sua presenza.
"Che fai?" domandò. "Nulla" rispose l'uomo, avvicinandosi, alle spalle "sto solo cercando di capire quale sia il problema …" "Il problema siamo io e la mia cattiva abitudine di fidarmi di Valeria" bofonchiò. Ma dallo sguardo del marito, la donna comprese che non seguiva il suo ragionamento. "Guarda" esclamò, indicando la mise "è un disastro!" "Perché? Non è assolutamente vero" ribatté immediatamente Francesco, posando delicatamente le sue mani sui fianchi della moglie e, lentamente, lasciandole scivolare in avanti per stringerla in un abbraccio e posandole un bacio sulla guancia "sei bellissima."
Aveva imparato che il tempismo era vitale durante queste crisi di autostima: negare, negare sempre e tante coccole per aumentare i livelli di serotonina.
"Leo?" "Di sotto. Sono arrivati tuo fratello e tua zia." "Vestito?" Francesco annuì. "Non durerà cinque minuti" Il marito fece spallucce. Era un bambino, sudato o disordinato non sarebbe stato uno scandalo per nessuno.
"Uff" sbuffò ancora Emma, tornando a concentrarsi sull'immagine allo specchio "Sono enorme e il bianco non aiuta" "Ma cosa dici? Amore sei stupenda"
Non era una bugia, Francesco lo pensava davvero ed era oggettivo. Non molte donne sulla faccia della terra potevano dire di avere quel fisico a quattro mesi dal parto: con la gravidanza era sbocciata, ma la maternità - a dispetto delle notti insonni e dei pianti talvolta inconsolabili - l'aveva resa ancora più bella. La luce che si portava dentro era diventata qualcosa di accecante. E se davvero ci fosse stato qualche chiletto in più, era tutto a favore della dolcezza delle sue forme e del suo viso.
Ma le parole del marito non sembravano essere d'alcun aiuto. "Non è vero" sbuffò "sono ridicola, da far ridere i polli"
"Scusa eh … ma da quand'è che ti importa come ti cade addosso un vestito? Non sei tu quella che dice sempre: deve piacere a me, se agli altri non piace che guardino altrove?!"
"Ma oggi è un giorno speciale! Voglio che sia tutto perfetto per i bambini"
Il giorno speciale era il battesimo dei bambini. Leonardo non era stato battezzato e, ottenuto il permesso dei nonni e degli assistenti sociali, era stato deciso di battezzarlo assieme alla sorellina. Al di là dell'aspetto religioso, più importante per Emma che per Francesco, era stato un modo per sottolineare che i due bambini per loro erano uguali in tutto e per tutto. "E lo sarà" affermò Francesco " E vuoi sapere perché? Perché sono con la loro mamma, il loro papà e tutti quelli che gli vogliono bene. Non certo per un vestito … che per la cronaca ti sta benissimo"
"Ma ci credi davvero che bastino due parole a convincermi?" "Sono tuo marito…vorrei ben sperare" "Ecco, perché per qualche motivo sta funzionando" affermò, aprendo le labbra ad uno di quei sorrisi furbi che tanto piacevano a lui.
Francesco, ancora stretto in quell'abbraccio alle spalle,  scese con la testa fino a poggiare il mento sulla spalla di Emma, per posarle delicatamente un bacio sul collo. Il forte aroma di vaniglia che poche gocce di profumo riuscivano ad emanare, lo abbracciava e inebriava totalmente, quasi stordendolo; avrebbe voluto perdersi su quella pelle e tra quei morbidi capelli. Ancora non abbastanza lunghi per i gusti di suo marito, Emma li aveva raccolti e appuntati leggermente a mezza altezza, lasciando che l'ondulatura naturale delle ciocche facesse il resto.
Tuttavia, mentre la coppia indugiava in quella fugace coccola, dalla stanza di fronte un pianto urgente e imperioso richiamò la loro attenzione. La piccolina di casa si era svegliata ed era ora di prepararla. Emma, gli occhi al cielo, si spogliò in fretta, mettendo addosso la tuta. Aveva pensato di farsi furba e vestirsi in anticipo, con calma. Ma non aveva fatto i conti con i bisogni primari di una neonata di quasi quattro mesi. Già prima della nascita della piccola, difficilmente si metteva in tiro, ma da quattro mesi a quella parte aveva abbandonato quasi del tutto il trucco e acconciature che non fossero trecce o chignon per tenere i capelli al loro posto. E l'ultima cosa di cui aveva bisogno era una macchia di rigurgito, pipì o pupù sul vestito nuovo di zecca.
"Stai. Vado io" si fece avanti suo marito. "Ma dove vai tu che ti devi ancora lavare? Sbrigati che altrimenti facciamo tardi!"
 
Nella nursery, Sole scalpitava nel suo lettino, sbracciandosi e agitando la trapunta; c'era di che far venire il mal di mare anche agli orsacchiotti stampati sul lenzuolino. "Ciao amore mio!" la salutò la madre, curvandosi sul lettino "Che c'è? Ti sei spaventata a svegliarti da sola in cameretta?"
La bambina, ovviamente, dormiva ancora nella sua culla in stanza con i suoi genitori; tuttavia, al mattino, dopo la prima poppata, Emma e Francesco la facevano scivolare nel lettino della sua camera, non appena si riappisolava, per poter mettere in ordine nelle altre stanze. La moglie di Huber e alcune mamme dell'asilo di Leo avevano detto ad Emma che era quasi ora di trasferirla in cameretta in pianta stabile, ma loro non si sentivano pronti a lasciarla andare, avrebbero quantomeno fatto passare l'inverno; provarci, per Emma, tanto per vedere come andava, non era un problema, ma al solo inizio di una conversazione sull'argomento Francesco si alzava e se ne andava.
Emma prese in braccio la bambina che, agitata, quasi letteralmente si tuffava verso il suo seno. "Piano patatina! Hai fame, eh?" esclamò, sorridendo. Dovette battagliare un po' per sistemarsi sulla poltroncina ed allattarla con calma: il latte non le mancava, Sole cresceva bene, ma quando era così vorace si domandava se magari il latte non le bastasse più e non fosse il caso di iniziare a svezzarla appena superato il traguardo dei quattro mesi. L'idea la elettrizzava e la spaventava molto più che farla dormire in un'altra stanza, perché significava iniziare a separarsi da lei. Prima o poi sarebbe successo, presto sarebbe anche tornata a lavoro, ma erano in una simbiosi così perfetta quando la bimba era attaccata al suo seno che non riusciva a pensare di farne a meno lei stessa.
Mentre se ne stava in quella bolla senza tempo che era per lei l'allattamento, Emma sentiva l'acqua scrosciare nel bagno, di fianco alla cameretta e le ante della doccia aprirsi e chiudersi perché Francesco vi entrasse. Pensò per un attimo a quelle mamme che, in attesa dal pediatra, si lasciavano andare a commenti del tipo "con un figlio si imparano ad apprezzare anche le piccole cose, come una doccia". Non voleva sminuirle, perché di sicuro era così, ma lei non poteva raccontare a nessuno che, dopo aver rischiato di morire a trent'anni, non era stato certo l'arrivo di sua figlia a farle vedere il mondo sotto un'altra prospettiva. Si poteva dire, anzi, che la guarigione prima, e la nascita di Sole poi, l'avevano riportata indietro ad uno stile di vita in cui poter permettersi di vivere tutto con più leggerezza, apprezzando sia le cose fondamentali che quelle più frivole.
 
Cambiata la piccolina e vestita di tutto punto con un vestitino semplice in lana e velluto bianco, Emma tornò in camera assieme a Sole; suo marito era nelle stesse condizioni in cui lui l'aveva trovata poco prima. Pantalone scuro, camicia bianca immacolata, armeggiava disperatamente con la cravatta davanti allo specchio. "Non capisco tutta questa necessità di mettere la cravatta" "Lo hai detto tu che è un'occasione importante" "Lo è" riaffermò Emma "ma continua sfuggirmi il nesso tra l'importanza del giorno con la cravatta. Quando ci siamo sposati non te la sei messa, mi pregavi disperato…devo dedurre che il nostro matrimonio non era niente di serio?"  
Adorava punzecchiarlo, ancora di più quando riusciva ad essere sufficientemente credibile da istillargli il dubbio che fosse seria. "Ma perché devi dire stronzate? " domandò il forestale a sua moglie mentre, con le mani, copriva le orecchie della bambina, la quale dimostrava di essere più interessata a raggiungere con le manine la sua passione del momento, i suoi piedini, che al turpiloquio di suo padre "E poi … disperato … quanto sei esagerata …"
La donna sapeva di poter scherzare con certe cose con suo marito perché tanto non ci credeva nemmeno lui a quello che stava dicendo. Era un bisticcio innocente, scherzoso, quasi malizioso.
Emma fece sedere suo marito sul letto proprio di fronte alla specchiera, mettendo la bambina seduta sulle gambe del padre che, ciondolando ritmicamente con la gamba, simulava il trotto di un cavallo. "Vacci piano" lo pregò Emma "ha appena finito di mangiare".  Sole, invece, sembrava gradire: i gridolini acuti e le sue risate riecheggiavano nella stanza. Emma si portò alle loro spalle e alzò il colletto della camicia del marito "Vediamo un po' …" Guidandosi con l'immagine riflessa,  prese le estremità della lunga cravatta celeste e iniziò i passaggi del classico nodo Windsor.
"Questa me la segno" "Cosa?" "Da quand'è che sai anche annodare una cravatta, Giorgi?" "Da molto più tempo di quanto immagini, Neri" confidò Emma, sorridendo sommessamente "in realtà è uno dei pochi ricordi d'infanzia piacevoli che ho. Prima che Giulio nascesse … avrò avuto sei, sette anni, non so … la mattina mio padre era spesso in ritardo e mi sedevo sulla poltroncina della camera da letto dei miei ad aspettare che fosse pronto per accompagnarmi a scuola. Se si accorgeva che mi annoiavo lasciava che lo aiutassi ad annodare la cravatta. Era poco … era un gioco, ma era speciale per me." Francesco, dai racconti di Emma, aveva sempre dato per scontato che la sua infanzia non fosse stata rose e fiori. Ma evidentemente doveva esserci stato anche per lei, e per fortuna, un prima e un dopo, un periodo, anche se breve, in cui aveva potuto essere semplicemente una bambina, senza preoccupazioni. "È un bel ricordo … non dire che è poco"
Conoscendo la relazione complicata che Emma aveva con i suoi genitori, era un sollievo sapere che c'erano dei bei ricordi che lei, comunque, aveva conservato. E non era un caso se la voce si addolciva proprio con un ricordo legato a suo padre. Tra i due, infatti, quello che per primo si era fatto avanti dopo la nascita di Sole, era stato proprio l'integerrimo Dottor Giorgi. Emma era rimasta con i piedi per terra, dava tutta la colpa alla zia Vittoria che aveva di sicuro insistito con il fratello affinché approcciasse sua figlia e andasse a conoscere la sua famiglia. Non avrebbe preso parte alla funzione, quel giorno, aveva accampato una scusa qualunque sulla sessione di esami in università dove insegnava oltre al suo lavoro di medico, ma il passo lo aveva fatto, questo lei glielo riconosceva.
"Ecco fatto … fammi vedere?" disse, facendogli segno di girarsi verso di lei "Assolutamente perfetto!" "Assolutamente pinguino" esclamò lui, alzandosi dal letto e portandosi davanti allo specchio per allentare leggermente il nodo "ma per la mia principessina questo ed altro. Vero patatina?" Strinse la piccolina con tutte e due le braccia, portandola di fronte a sé, e prese a riempirle le guanciotte paffute di baci; la piccolina, con il ditino in bocca, gli lasciava una scia di bavetta sul viso, mentre rideva di gusto.
Emma sarebbe stata lì a guardarli per ore, assolutamente innamorata ed estasiata da quella visione. Era proprio per quello che aveva lottato con le unghie e con i denti per sopravvivere all'intervento a cui si era sottoposta. Non per diventare madre - non solo, almeno - ma per poter vedere l'uomo che amava libero e felice come lo era in quel momento.
 
L'inverno era particolarmente clemente, quell'anno, in Val Pusteria. Di nevicate copiose come quelle dell'anno precedente se n'erano viste ben poche, ma questo non impediva alle temperature di essere glaciali e ad uno strato sottile e ghiacciato di neve di resistere, pericoloso ed infame, lungo le strade, per giorni e giorni. Per arrivare alla chiesa di San Michele, nella piazza principale, lasciata l'auto in un parcheggio decentrato, Emma dovette aggrapparsi forte al braccio di suo marito che spingeva la carrozzina, pregando in tutte le lingue del mondo di non beccare alcuna lastra di ghiaccio e scivolare. Al freddo, ormai, nemmeno faceva più caso. Le sue gambe, sotto la gonna, velate solo da un leggerissimo paio di collant, aveva smesso di sentirle uscendo di casa. Leonardo, poco più avanti, saltellava incauto, stretto nel suo giaccone pesante, raccogliendo la neve accumulata agli angoli dei palazzi per lanciarla verso lo zio che rispondeva, non curante della gente che passeggiava intorno e mandava imprecazioni in italiano e in tedesco, ugualmente irritati.
"Leo basta!" Francesco esclamò, deciso ma comprensivo, all'ennesimo sguardo in cagnesco di un passante. Fosse stato per lui lo avrebbe lasciato fare, ma quando erano in giro, il Comandante Neri e la sua famiglia erano sempre tenuti a dare l'esempio. "Ho vinto io!!!" gridò Leonardo allo zio, quando il padre decretò la fine dei giochi. Giulio, compresa l'antifona, prese per mano il nipote e tornarono a camminare composti, verso la chiesa, garantendogli che nel pomeriggio, nel giardino di casa, si sarebbe preso una rivincita con i controfiocchi.
Lungo il corso, i turisti lasciavano di buona lena gli alberghi per dirigersi, in scarponi e sci in spalla, verso gli impianti di risalita; altri, i più temerari, erano seduti ai tavolini del bar nonostante il freddo per una colazione in tarda mattinata o si mettevano in posa davanti alle sculture di ghiaccio. L'atmosfera delle feste appena passate, del resto, era ancora intatta: le casette di legno dei mercatini, che avevano chiuso i battenti con l'Epifania, erano state rimosse durante la settimana; le decorazioni, invece, erano state lasciate così com'erano, per mantenere ancora forte lo spirito festoso e allietare il passeggio dei turisti, soprattutto a sera quando, calata la notte, le luci si accendevano lungo i viali e riscaldavano l'atmosfera, rendendola più accogliente.
Fuori dal sagrato, mentre gli altri fedeli accorrevano per la funzione domenicale, gli ospiti dei Neri aspettavano la famigliola davanti al portone della chiesa. Vedendoli arrivare, ad una decina di metri, Huber fece partire un applauso scrosciante, mettendo immediatamente i due coniugi in imbarazzo. "Ricordami perché lo abbiamo invitato" chiese Francesco a sua moglie, che fece finta di non sentire quel commento ingeneroso. Era il casinista del gruppo, quello che riusciva sempre a fare qualcosa che mettesse in soggezione gli altri, ma alla fine tutti gli volevano bene com'era, perché lui voleva bene loro in un modo pulito e totalmente disinteressato.
"Ecco la famiglia più figa di San Candido" esclamò Klaus, mentre Emma e Francesco salutavano parenti e amici, scattando foto neanche fosse un paparazzo "e con la sua bellezza da uno schiaffo morale a tutti" "Dai smettila Klaus" lo pregò Giulio, bisbigliando e tirando una gomitata complice all'amico "mio cognato già è un pavone, se continui così finisce che ci crede davvero!"
I due cognati avevano creato un rapporto di stima e affetto, cementato dal bene che entrambi provavano per Emma e i bambini. Non c'erano stati dubbi quando c'era da scegliere il padrino per Leonardo. Lo zio Giulio era sembrato la scelta più ovvia. I due, infatti, si erano trovati e capiti immediatamente, forse perché avevano percepito, l'un l'altro, l'impaccio del pesce fuor d'acqua in quella banda di matti che era la loro famiglia. Più di chiunque altro, più di Emma, Leonardo aveva permesso a Giulio di ritagliarsi un posto tutto suo all'interno della comitiva e anche il sodalizio tra Klaus e Giulio, sebbene i due si conoscessero già vagamente, era un po' merito suo.
"Emma cosa sono quelli?" protestò Valeria, madrina di Sole, indignata, indicando gli stivali senza tacco color cuoio che indossava sotto al cappotto. "Non incominciare" la fermò immediatamente l'amica "non avevo alcuna intenzione di rompermi l'osso del collo indossando i tacchi a spillo" "Ma è una cerimonia!" "Ma è il 12 Gennaio e per terra c'è il ghiaccio!!!"
Le due, pur volendosi un bene dell'anima, erano diventate proprio come due sorelle, che bisticciano e si punzecchiano per le cose più stupide ma, in fondo, ridevano sotto i baffi per il teatrino che inscenavano ogni volta. I loro compagni spesso le lasciavano fare, ben consci che non avrebbero mai tenuto il broncio. A calmare le acque, notando il parroco che, sull'uscio della chiesa, accoglieva i fedeli e guardava accigliato a quella chiassosa compagnia, intervenne Vincenzo: "Nenné dai entriamo … qua fuori si gela e Mela già tiene un po' di mal di gola". Neanche l'avesse premeditato, Carmela tossì con un tempismo impeccabile proprio mentre il padre pronunciava queste parole. "Ecco, vedi, le vuoi fa' piglia' na polmonite a sta criatura" "No, no per carità" decretò la giovane forestale "altrimenti poi mi tocca fare da balia anche a te che stai male per solidarietà"
"Dai dai entriamo! Non facciamoci  riconoscere" tagliò corto anche il comandante della forestale, richiamato dalle campane della chiesa all'imminente inizio della funzione di cui erano, evidentemente, i protagonisti, ma più preoccupato che la sua bambina non venisse spaventata dai rintocchi assordanti della torre sopra le loro teste.
 
Erano ormai le cinque del pomeriggio. La notte era calata e dalle finestre della casa di Francesco ed Emma si potevano vedere, in lontananza, le luci accendersi nelle case in paese come tanti lumicini. Nel soggiorno, tutti gli invitati e qualcuno in più che era stato invitato per la classica fetta di torta parlavano tranquilli e di buonumore, ma era più un brusio di sottofondo che un vero e proprio rumore. Il festeggiato aveva resistito con il vestito buono per un'oretta, tempo di mangiare qualcosa e tuffarsi nella neve in giardino con lo zio e gli altri bambini. Ora, tutti insieme, se ne stavano buoni e stanchi davanti ad un gioco di società. Leonardo, i cui occhi facevano una fatica bestiale a rimanere aperti, si era seduto in braccio a Klaus e, in silenzio, tentava di capire il gioco. Aveva passato tante serate, a casa della sua prima famiglia affidataria, a tentare di stare al passo con i ragazzi più grandi di casa.
La festeggiata invece, aveva ben presto salutato tutti: il giorno di festa non era una giustificazione sufficiente a spezzare i suoi regolari ritmi del sonno. Dopo che Sole si era addormentata tra le braccia del papà, Emma aveva faticato un po' a convincerlo quantomeno a poggiarla nel carrozzino.
Valeria se ne stava seduta in un angolo del divano, sola; tutti erano in qualche modo occupati, anche Vincenzo era impegnato in una conversazione con i nonni di Leonardo, e lei restava a guardare, un po' annoiata e mesta. "Valeria che ci fai qui tutta sola soletta?" le domandò Vittoria, la zia di Emma, tornando nel soggiorno. La Vicky non era una semplice zia. Per Emma era una madre a tutti gli effetti, le era stata vicina quando più aveva bisogno di una figura femminile al suo fianco negli anni dell'adolescenza e l'unica della sua famiglia a restarle accanto durante la malattia. "Nulla … sono solo un po' stanca" pensò che la scusa potesse reggere, in fondo si era offerta di aiutare Emma nei preparativi il giorno precedente, accompagnandola in paese per le ultime spese mentre il marito era di turno in caserma e Vittoria e Rosa badavano ai bambini.
"Ti trattieni ancora qualche giorno Vittoria?" domandò allora Valeria, cercando di cambiare argomento. "Vorrei tanto, ma il lavoro mi chiama, e tra la nascita di Sole e le feste di Natale ho esaurito tutte le ferie".
A Milano aveva due figli coetanei di Giulio ad aspettarla, ma diceva sempre a tutti, con una punta d'orgoglio, che Emma era figlia femmina che aveva ricevuto in dono dal cielo.
Fisicamente molto simile a sua madre, caratterialmente era tutta sua zia; ora che anche Emma era diventata mamma, Vittoria riconosceva ancora di più nella nipote la laboriosità e l'intraprendenza che le appartenevano. Provava un orgoglio immenso nei confronti di quella che per lei sarebbe sempre rimasta la sua bambina, che aveva preso sotto la sua ala protettiva quando era solo una ragazzina la cui famiglia era andata in frantumi. L'aveva aiutata a costruirsi un mondo sicuro, rigido … studio, lavoro … dove non potesse accaderle nulla di male, dove tutto potesse filare liscio. Ma la vita aveva altri piani per la sua bambina: ed era stato allora che Vittoria ha dovuto rendersi conto che quella di fronte a lei non era più una bambina, ma una donna fatta e finita, con sogni e desideri che, pur nel momento più buio, era riuscita ad avverare camminando da sola.
"Tu come stai? Non puoi capire quanto mi faccia piacere sapere che con Vincenzo procede tutto a gonfie vele" "Per ora non mi posso lamentare .. è complicato, ma ci stiamo lavorando. Ogni giorno però sembra sempre più facile"
Non sapeva dire perché, ma anche Valeria si trovava straordinariamente a suo agio con Vittoria. Forse la incredibile somiglianza caratteriale con la sua migliore amica, faceva sentire Valeria libera di aprirsi come faceva con Emma. Senza paura di venir giudicata, ma fiduciosa di trovare un consiglio spassionato.
"Perché dici così? Quando vi vedo insieme, fattelo dire, siete il ritratto della felicità!" "Ti ringrazio, … ma come direbbe Huber: la vita non è sempre una concerto a richiesta" "Come?" "Non è sempre domenica…"
Esaurito l'entusiasmo delle prime settimane, infatti, era stato difficile conciliare la sua vita e la vita che stava costruendo con Vincenzo. Da un lato c'erano il suo lavoro, sempre più pieno di incarichi e responsabilità da quando era nata la piccola Sole e Francesco aveva imparato quanto fosse utile avere un vice, e Isabella, che a 16 anni, sebbene molto matura per la sua età, era comunque un'adolescente da seguire in tutto e per tutto; dall'altro lato c'era l'uomo che amava insieme alla sua bambina, con un carico di responsabilità ed esigenze che andavano incastrate con il loro bisogno, da coppia appena formata, di stare insieme. Volevano andarci piano, volevano capire come e dove stavano andando come coppia e, a loro modo, come famiglia allargata, e così avevano finito per restare a vivere ciascuno a casa propria, vedendosi poche ore al giorno durante la settimana e stando insieme solo nel weekend.
"Non lo è per nessuno, neanche per quei due piccioncini…" disse Vittoria, indicando la nipote e il marito che, curvi sul carrozzino, guardavano la loro creatura e si guardavano a vicenda come non ci fosse altro al mondo. Emma e Francesco erano passati dall'essere una coppia ad essere una famiglia in così poco tempo eppure sembravano nati per quella vita. Vederli nella loro bolla di felicità faceva sembrare tutto così facile che lei, nel tentativo di gestire un fidanzato, una nipote e una figlia putativa, temeva di non poter reggere il confronto. "Lo so" rispose, ma sentiva che quelle parole erano dette più per circostanza che convinzione: Valeria sapeva benissimo che i suoi amici, per arrivare dov'erano, avevano dovuto scalare montagne più alte delle cime che li circondavano, ma a volte era difficile ricordarselo.
"Valeria! Cara, è tutto ok?" la scosse Vittoria, poggiandole una mano sulla spalla. "Insomma …" ammise la giovane "da quando sono tornata qui la mia vita è stata capovolta totalmente, ma almeno avevo dei momenti per fermarmi a respirare assieme ad Emma." Dopo la morte di Adriana, Emma era diventata la cosa più vicina ad una sorella che avesse. Sì, ogni tanto ancora si concedevano un'uscita, una chiacchierata al telefono, ma non erano più così frequenti e non erano più la stessa cosa. Passavano il tempo a mandarsi foto di Mela e di Sole, a parlare di pannolini e capricci che tutto il resto passava il più delle volte in cavalleria.  A volte la sera, quando chiudeva la porta della foresteria e lei ed Isabella restavano sole, ripensava a quelle serate che trascorrevano tutti insieme, prima che la piccolina di casa Neri arrivasse, prima che la polizia si trasferisse nel nuovo commissariato, e a volte, in un angolo remoto del suo cervello complicato, iniziava a capire i timori di Huber. Che le cose non sarebbero state più uguali era inevitabile, ma non credeva che il nuovo equilibrio li avrebbe allontanati così tanto. Si diceva che era colpa dell'inverno, che, arrivata la bella stagione, avrebbero ricominciato le passeggiate e i pic nic all'aria aperta. Ma erano solo a Gennaio e l'inverno le sembrava ancora troppo lungo. Neanche il Natale l'aveva aiutata.
Si guardò attorno per sincerarsi che Vincenzo non potesse sentirla e lo trovò impegnato in una conversazione con i nonni di Leonardo all'altro capo della tavolata. "Amo Vincenzo" continuò, la voce sincera che quasi le si rompeva in gola per l'emozione, non riusciva ancora pienamente a capacitarsi "ma non è proprio la stessa cosa" "Hai provato a fare ad Emma la stessa domanda che ti ho fatto io? Magari sbaglio eh … ma è possibile che Emma provi la stessa cosa" "Impossibile" "Dici?" "Guardali … voglio dire, la famiglia del Mulino Bianco è meno perfetta di loro. E poi Francesco è il suo migliore amico…" "Ah … questo lo so bene. Ma a volte c'è bisogno anche di una persona che ci aiuti a dire le cose al nostro migliore amico. O no?"
La forestale si ricordò di quella volta che Emma le aveva confidato di aver sentito la mancanza di un'amica come lei nei primi mesi di relazione con Francesco, quando erano ancora troppo poco in confidenza per poter condividere con lei il peso di una gravidanza complicata e indesiderata, di una malattia che era d'ostacolo alla sua felicità e di due presenze ingombranti e dannose alla sua vita di coppia con l'uomo che amava. Se ci fosse stata lei, le disse, forse avrebbero fatto entrambi meno cazzate. Al contempo, senza Emma e senza Francesco, lei e Vincenzo non si starebbero neanche barcamenando tra due case, una bambina dell'asilo e una ragazzina adolescente e una storia complicata, ma pur sempre una storia.
Forse lei e Vincenzo non sarebbero mai stati migliori amici, non avrebbero mai raggiunto, pur con tutto l'amore del mondo, quel livello di intimità naturale ed innata, ma ci potevano lavorare su come avevano fatto fino a quel momento. Parlando, proprio come avevano imparato da Francesco ed Emma.
"Forse dovrei chiedere anche a qualcun altro se va tutto bene…" commentò Valeria, buttando uno sguardo sul commissario. "Vedi?!" replicò la donna, gli occhi che le brillavano maliziosi per aver colto nel segno "Se hai pensato a lui non hai niente da temere. Hai la situazione completamente sotto controllo" "È che a volte mi sento schiacciata. E allora penso che se mi sento così dopo pochi mesi, cosa succederà quando saranno passati anni?!"
Quando si poneva questa domanda ripensava ai primi giorni, a quando era determinata a lavorare su di sé e sulla sua relazione giorno per giorno, senza piani. Ma si era potuta illudere per poco: non poteva non fare piani, perché  quella con Vincenzo non era, purtroppo, una relazione a due.
"Succederà quello che deve succedere. Non bisogna fasciarsi la testa prima d'averla rotta. È quando lo facciamo che allora arrivano i danni."
Quando Vittoria le parlava, sembrava davvero di avere a che fare con una versione più adulta della sua amica, la stessa calma, lo stesso candore, la stessa limpidezza. Era certa che le parole che uscivano dalla sua bocca le venivano dritte dal cuore, senza preconcetti né falsità.
"Il mio matrimonio è finito, e da allora non ho avuto relazioni stabili e durature … un po' perché non è capitato, un po' perché sto bene così come sto. E quindi forse non sono la persona migliore da cui andare per consigli sulle relazioni. Ma una cosa posso dirtela perché vale per tutti i rapporti: non pensare di poterli gestire da sola, perché ci sarà sempre qualcun altro con cui condividerai le scelte e le decisioni che prenderai. A quel punto … è meglio percorrerla insieme la strada, no?!"
Valeria annuì, e stava per risponderle ma sentì un paio di mani appoggiarsi sulle sue spalle e massaggiarle delicatamente la nuca. Era il suo punto debole e Vincenzo lo sapeva; avrebbe potuto sciogliersi a quel tocco.  "Lo sai che mi sei mancata, nenné?" le sussurrò all'orecchio, abbassandosi su di lei. "Ero qui, a neanche un paio di metri di distanza" Valeria fingeva nonchalance, ma non poteva negare che la cosa la colpisse. Quelle piccole attenzioni che le rivolgeva le facevano scordare ogni malumore.
"Guarda Mela..." le disse. La piccola, seduta in braccio ad Isabella, si era appisolata. Anche lei, come Leo, finiva sempre a giocare con i bimbi dei Fabricetti o con Klaus ed Isabella, nonostante fosse troppo piccola per molti dei loro giochi e, il più delle volte, si limitava a muoversi nella loro orbita. Nonostante l'ansia non abbandonasse mai il padre, Vincenzo la faceva fare, tenendo sempre un orecchio teso ed un occhio vigile a che non succedesse nulla alla sua creatura. "Forse è il caso di tornare a casa" dichiarò Vincenzo. "Vai pure … io aspetto che finiscano loro di giocare" disse Valeria, accennando ai ragazzi riuniti attorno al tavolo "ci riporta a casa Klaus" "E ja', lasciali stare tranquilli. Vieni con me, ti fai venire a prendere quando vanno via ..."
Il commissario dovette pregare un po' la ragazza perché andasse con lui, notando come fosse un po' stranita. Notò anche che, al momento di lasciare casa degli amici, Valeria pregò Emma di sentirsi presto, che aveva bisogno della sua amica. Preferì però non dirle nulla, perché quella puzzava di giornata no e, nelle giornate no, con la sua imbranataggine avrebbe rischiato di fare danno.


(continua...)

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Capitolo 6
*** Aspettative e Realtà (parte 2) ***


Aspettative e Realtà
(parte 2)




 
Il viaggio in auto fu silenzioso: da un lato Vincenzo, preoccupato da Valeria, fredda e distante; dall'altro Valeria, assillata dalle paure e dai dubbi, indecisa sul se e sul come parlarne con il suo compagno. Era per questo che la giovane gli aveva detto di no, inizialmente, preferendo restare da sola; spesso si divertiva a punzecchiare il suo commissario sulla sua durezza di comprendonio, ma sapeva benissimo che era abbastanza arguto da capire che c'era qualcosa che non andava. Lo sguardo fisso sulla strada, con il gomito appoggiato alla portiera, tamburellava pensieroso la mano sulle labbra. Aveva quella terribile sensazione di déjà vu, come se avesse già vissuto quella stessa situazione. Poi si rese conto: quella cena nel ristorante di lusso che nelle sue intenzioni doveva fare chissà quali miracoli per la loro relazione ed invece aveva finito per allontanarli. Non ci avevano mai più messo piede. A volte ci pensava e gli veniva da ridere a quanto era stata ridicola - pur nelle migliori intenzioni - quella inutile parata in abiti eleganti per loro che al massimo erano abituati a mettere la divisa durante le cerimonie formali con la polizia o la forestale.
 
Vincenzo mise la bambina, che non aveva fatto una piega dall'auto fino a casa, sul letto in cameretta, coprendola con la copertina. Questo pisolino fuori orario lo avrebbe pagato con gli interessi, ma non gli piaceva proprio svegliarla a forza, e poi aveva bisogno di un po' di calma per parlare con Valeria.
Tornando nella zona giorno trovò la giovane, seduta sul divano, impegnata con il telefono a digitare freneticamente un messaggio. "Che fai?" le domandò. "Niente … mi sto mettendo d'accordo con Isa per tornare a casa". "Dai … rimani" le chiese, sedendosi al suo fianco e passando un braccio attorno alla sua spalla. Valeria, automaticamente, si accoccolò; Vincenzo, che era teso per la conversazione che lo aspettava, fu tranquillizzato da questo gesto. "So già cosa vuoi dirmi" continuò, notando un tentativo di protesta da parte di Valeria "hai messo Mela a dormire ora e stanotte ci terrà svegli … ma almeno mi fai compagnia"
Valeria sorrise sommessamente, lo sguardo basso "Mi piacerebbe" confessò, sincera "ma domani mattina sono di turno e preferisco stare già in caserma per non fare tardi. E poi c'è Isa" "Non mettere sempre tua nipote in mezzo. È grande abbastanza ormai per capire come vanno le cose e non scandalizzarsi o formalizzarsi" "Lo so … ma non va bene. Siamo le uniche figure vagamente genitoriali che ha, se non le diamo noi l'esempio …!"
"Ci amiamo e vogliamo stare insieme … quale migliore esempio può esserci?"
A questa frase, Valeria lasciò cadere ogni tentativo di controbattere. Cosa poteva dire? Aveva già detto tutto lui e l'aveva lasciata emozionata e senza parole. Se solo sapessi cosa mi fai commissario, pensò, rimanendo completamente impassibile all'esterno.
"E comunque non mi va di lasciarla sola…" "Ma non avete una nuova coinquilina? C'è lei, non corre alcun pericolo"
Nei mesi precedenti, c'era stato qualche cambiamento nell'organico della forestale. Martino, a seguito di una promozione, era stato trasferito. Al suo posto era arrivata una nuova agente che per il momento aveva preferito stare in foresteria.
"Dai Vale vuoi dirmi che c'è?!" insistette l'uomo al silenzio della donna "È tutto il giorno che sei strana..." "Sono solo stanca, tutto qui" "Tu stanca?" esclamò ironico Vincenzo "la mia Valeria? Quella che può stare senza dormire per 48 ore e non fare una piega?" "No" ribatté lei "quella che ha i lavori in casa da due mesi e sia che lavori, sia che stia a casa, ha tutto il giorno trapani e martelli pneumatici che le rimbombano in testa"
Tra le varie novità, c'erano anche i lavori di ristrutturazione. Dopo che la polizia aveva lasciato la caserma sul lago, la forestale si era riappropriata di tutti i locali dello stabile e, lentamente, stava riguadagnando i suoi spazi. Al piano superiore, Francesco aveva ottenuto dal Comando Provinciale dei fondi per riunire alla foresteria alcune stanze che fino a quel momento erano state adibite a camere di sicurezza e di cui loro non avevano bisogno. Non se ne andavano certo in giro ad arrestare orsi e stambecchi.
"La soluzione c'è … te l'ho già detto mille volte" chiosò Vincenzo. "E sai già la mia risposta" "La so e ancora oggi non la capisco".
Molto semplicemente, Vincenzo aveva proposto a Valeria di trasferirsi a casa sua, assieme ad Isabella. La casa era grande, lo spazio non mancava e la ragazzina avrebbe avuto persino una stanza tutta sua. Non era molto grande, ma era anche vero che tra scuola, amici e fidanzatino, Isabella in foresteria si vedeva solo ad ore pasti e per dormire. Ma a Valeria continuava comunque a sembrare ancora una scelta troppo azzardata. Sì, tecnicamente avevano già convissuto, ed erano abituati a viversi nella quotidianità, ma sentiva che adesso era tutto diverso e temeva che il loro essere coppia avrebbe influenzato e cambiato quei ritmi che per loro sarebbero dovuti essere perfettamente normali.
"Io … io …" balbettò lei, prima di prendere un grosso respiro. Buttò via l'aria e tutte le energie negative, prendendo coraggio "Io mi sento confusa. Non … non so cosa voglio" "Che significa?" Vincenzo sentì il cuore tuffarsi e un brivido freddo gli percorse la schiena.
"Non so dove stiamo andando, Vincenzo. Non lo vedo, non lo capisco …" "C'è bisogno per forza di andare da qualche parte? Erano questi i patti, o forse ricordo male?!" "No … tu hai ragione. È solo che … non so se mi basta più"
Vincenzo si alzò dal divano ed iniziò a camminare senza riposo nella stanza. Valeria, dispiaciuta per essere arrivati a questo punto lo guardava, impietrita là dove era seduta. "Io fatico a seguirti Valeria, te lo giuro" esclamò l'uomo, spalancando le braccia, la voce incerta di chi non sapeva che pesci pigliare "un minuto fa mi hai ribadito che non vuoi venire a vivere con me e ora mi vieni a dire che non ti basta stare insieme cosi come siamo ora. Fattelo dire: fai pace con il cervello perché così è un casino"
Non voleva rimproverarla, ma lui e la sua vita non avevano bisogno dell'ennesimo dubbio, dell'ennesima incertezza. Ci aveva messo oltre un anno a decidersi con Valeria perché voleva essere sicuro che potesse funzionare, perché tutti i tira e molla che aveva vissuto con Silvia e con Eva non si ripetessero. Doveva essere sicuro che lei sapesse in cosa si stava imbarcando e che fosse disposta a dividerlo con un'altra persona: sua figlia. Non poteva permettersi il lusso di una relazione a singhiozzo: non l'aveva tollerata con la madre di sua figlia, figuriamoci con altre donne.
"Lo so. E ti chiedo scusa" disse Valeria, tirando su con il naso e strofinando con il dorso della mano sulle narici. Non voleva che la vedesse piangere e questo era il massimo che sapeva fare per dissimulare "ma ero stata chiara con te. Io non lo so come si sta in una relazione. Voglio davvero che funzioni tra di noi, ma ho una paura matta di rovinare tutto e più ci penso e più sento che sta già succedendo."
"Dimmi solo una cosa … da quant'è che c'hai sti pensieri?" Non poteva credere che non si fosse accorto di nulla, né che un dubbio del genere potesse esserle venuto di punto in bianco. "Sono arrivati un po' alla volta" ammise Valeria "forse, forse da Natale, non so dirtelo con certezza" "Da Natale? E tutto quello che c'è stato in mezzo è stata una messa in scena?" A Capodanno Vincenzo aveva preso l'iniziativa e, sorprendendo tutti, aveva mandato la bambina da Eva e aveva portato Valeria a Venezia per un paio di giorni. Niente di troppo romantico, una pensioncina piccola ma ben tenuta e, al posto del giro in gondola, gambe in spalla tra ponti e calli. Ma Valeria tornò a casa così entusiasta che sembrava quasi avessero soggiornato al Danieli. "Oddio Vincenzo no! Adesso non fare il melodrammatico" "Ah adesso mi tocca pure prendermi del melodrammatico. Tu non sai cosa vuoi e io sarei il melodrammatico! Vale' non mi far parlare …"
"PARLA!" lo spronò, alzando la voce più del dovuto, più di quanto volesse, alzandosi e portandosi di fronte a Vincenzo. Voleva che dicesse tutto quello che sentiva, aveva bisogno di capire, di vedere se erano ancora sulla stessa lunghezza d'onda. "Cosa vuoi che ti dica?" "Tutto quello che ti passa per la testa. Che sono una ragazzina, una sciocca irresponsabile, una cretina…quello che ti pare." "Non sei niente di tutto questo. Ma io conoscevo la tua storia e l'ho accettata e ti sto aiutando a portare il tuo fardello. Tu conoscevi la mia e speravo avresti fatto altrettanto. Anzi, ne ero convinto fino a poco fa."
Ovviamente il riferimento alle loro famiglie era chiaro. Entrambi sapevano che non erano soli quando hanno iniziato la loro relazione ed era andato bene a tutti e due; ma qualcosa si era rotto in Valeria.
"Ma è così, ti assicuro che non è cambiato nulla da quel punto di vista.  Solo … a volte mi piacerebbe che potessimo essere solo Vincenzo e Valeria per qualche settimana. Senza Isabella, senza Mela, senza Klaus … e tutta la corte celeste che ci tiriamo dietro"
Quell'oretta che si concedevano tutti i giorni prima di tornare ognuno nelle proprie case, davanti ad una birra, era troppo poco e quel weekend ogni mese in cui Eva portava la bambina a Milano con sé non arrivava mai e durava troppo poco.
"Tu mi ami?" le chiese Vincenzo, serio e diretto. "Che domande sono? Certo che ti amo!" "E allora non dovresti porti nessun'altra domanda."
Valeria non riuscì più a reggere. Mentre gli occhioni scuri si riempivano di lacrime, si buttò al collo di Vincenzo, alzandosi in punta di piedi, stringendolo così forte da fargli quasi mancare il respiro. Già solo sentire quel profumo familiare così vicino la faceva stare meglio. Sentendo le mani accarezzarle la schiena, era come se i pianeti si riallineassero. "Non mi lasciare" lo pregò. "Ué nenné" esclamò Vincenzo, dolcemente "e che 'ré mo? Chi ti vuole lasciare?! Io no di certo"
Stretta a lui, le sentì il cuore tornarle a battere di nuovo ad un ritmo umano e non più come il rullante di un plotone. Le baciò la fronte, accarezzandole la chioma riccia. A Napoli si diceva che ogni riccio è un capriccio; forse valeva lo stesso a San Candido. E a lui Valeria, in fondo, piaceva pure per quello. Per la sua imprevedibilità. A volte pensava che sarebbe stata Valeria e non Carmela a fargli venire i capelli bianchi, ma altre non lo trovava così male il doversi mettere sempre alla prova che quella relazione gli offriva. Non era un giocare con la sua pazienza, affatto: era un costante provare a migliorarsi.
Dal canto suo Valeria sapeva che c'erano cose che doveva sistemare, più in sé stessa forse che nella sua relazione, ma ora che tutto era alla luce del sole sentiva di potercela fare. "Ti ho deluso, però" "Affatto" rispose lui. Lei non sapeva se credergli: poteva essere anche solo una cosa detta per cortesia, per non farla sentire in colpa. Ma andava bene comunque, si sarebbe meritata anche di peggio. "Sai quanti problemi mi sarei risparmiato in vita mia se fossi riuscito a fare quello che hai fatto tu adesso?" "Ma forse non staresti con me, quindi un po' è meglio così" "Sì … forse è meglio così"
 
"Hör mal, ich bleibe hier und das Auto waschen. Okay?" disse l'agente che era di turno assieme a Valeria, mentre scendevano dall'auto. "Kein Problem, Lukas" **
La forestale era esausta. Quando aveva deciso di appendere l'attrezzatura da arrampicata al chiodo ed entrare nel Corpo Forestale si era immaginata una routine sedentaria in ufficio, tra timbri e scartoffie per permessi di caccia e pesca. Al massimo qualche passeggiata nei boschi per il controllo della flora e della fauna d'estate. Nessuno l'aveva avvertita però che si stava arruolando in corpo a metà strada tra la polizia stradale e protezione civile. Ma non si lamentava, prestare servizio sulle piste da sci aveva i suoi vantaggi.
"Ehi Emma che ci fai qui?" Valeria, mentre si avvicinava alle scale della caserma si imbatté nella sua amica che andava via, accompagnata dal marito "Neanche in libera uscita riesci a staccarti da tuo marito?" Valeria sapeva che Isabella era al maso Neri insieme a Klaus per fare da baby sitter ai bambini quel pomeriggio, ma non aveva idea che l'avrebbe trovarla in caserma. Emma sorrise "Magari fossi in libera uscita. No … avevo bisogno di alcune mappe e dati per il lavoro. Ti avevo detto che avrei ripreso subito dopo il battesimo dei bambini."
Sì, glielo aveva detto. Ma con quello che era successo con Vincenzo la settimana precedente la sua testa era spesso sulle nuvole. Anche al lavoro, faceva una fatica immane a rimanere concentrata e per questo arrivava stanchissima a fine turno.
"Sì hai ragione, perdonami." "Mi sa che sei tu quella che ha bisogno di una libera uscita. Facciamo qualcosa a riguardo comandante?" scherzò l'etologa, rivolta a suo marito. "Basta chiedere, io non sono mica uno schiavista" "Qui mi ci vuole qualcosa in più che una libera uscita…" dichiarò la forestale, ma non voleva riversare il suo stress e le sue preoccupazioni all'amica, così cambiò argomento, chiedendole un passaggio in centro. Vincenzo la aspettava per cena.
"Ci metto due minuti a cambiarmi. Promesso" affermò, salendo le scale due alla volta. Era una stupidaggine, eppure quel passaggio la mise di buon umore. Voleva cinque minuti con la sua migliore amica e la sua buona stella l'aveva accontentata.
Scesa nel parcheggio, Valeria trovò Emma al telefono. "Fra!" era la prima volta che Valeria sentiva Emma chiamare il marito così. Di solito era amore oppure semplicemente con il nome completo. Era … abitudinario. Le faceva strano. "Isa dice che abbiamo finito i pannolini" "Impossibile. Non li hai comprati ieri?" "Certo" "E dove li hai messi?" "Che c'entro io? Hai scaricato tu l'auto quando sono rientrata dal supermercato."
Valeria si bloccò. Non poteva credere ai suoi occhi: Emma e Francesco che bisticciavano. Pensava che probabilmente sarebbe caduto un meteorite da un momento all'altro o che si sarebbe sciolta di punto in bianco tutta la lastra di ghiaccio che ricopriva il lago. Non stava bene ascoltarli, ma doveva salire in macchina con Emma, non poteva evitare di essere lì e poi la cosa al contempo la intrigava e la divertiva.
Francesco mise una mano sulla fronte, incredulo. Con l'altra, prese la chiave dell'auto e aprì il bagagliaio. Il pacco di pannolini era lì, dalla sera prima. "Francesco!!!" esclamò Emma, attonita "Mi stai prendendo in giro? Hai preparato tu la bambina questa mattina, ti saresti dovuto accorgere che erano finiti i pannolini e non c'era il pacco nuovo!" "Me ne sono accorto ieri e infatti l'ho scritto nella lista della spesa" "E io li ho comprati, ma avresti dovuto portarli in casa, non lasciarli nel bagagliaio!" "Non li finiremmo così in fretta se ne comprassimo in quantità sufficiente" rimbeccò l'uomo. "Non ho intenzione di trasformare casa in un deposito di pannolini come l'ultima volta che hai fatto di testa tua…"
Francesco sbuffò, tentando di nascondere gli occhi al cielo. Ma non poteva evitarlo "A parte che era un'offerta convenientissima … e comunque non ho detto di comprare tutti i pannolini del mondo! Semplicemente Sole mangia tanto e come tale … va beh lasciamo stare … forse potremmo prenderne un pacco o due in più ogni volta. Per sicurezza."
"Ah quindi ora è colpa mia?" "Ma ho detto che è colpa tua?" "Sai sarebbe veramente carino se per una volta dicessi 'è colpa mia' e la finissimo qui. Una volta sola. Per cambiare." "Ma sì, facciamo che sono il pupazzo della festa del raccolto che tutti prendono di mira per farlo cadere dall'albero della cuccagna … è colpa tua! È colpa tua!" Tra i due scattò un silenzio imbarazzante…finché entrambi non scoppiarono a ridere. Francesco tirò un grosso sospiro "Grazie amore!" esclamò, abbracciando la moglie e baciandole  la fronte "Avevo bisogno di sfogarmi un po' … non prendere a parolacce il Comandante stamattina è stata veramente dura"
Valeria sapeva che Francesco era stato a Bolzano per una riunione e al suo ritorno si era sparsa subito la voce che tra Francesco e il direttore del dipartimento foreste erano volati i coltelli. "Mi dispiace di aver lasciato i pannolini nel bagagliaio, davvero. Sono un idiota" "Amore non sei un idiota. E lo sappiamo entrambi che Sole è rimasta altre volte nel pannolino sporco più a lungo di quanto impiegherò per tornare a casa. Quindi…" Emma fece spallucce. Valeria ora li riconosceva. "Il pupazzo del raccolto? Come ti è venuto in mente?" gli domandò Emma, salendo in macchina, scuotendo la testa sconcertata ma anche divertita. "Sì…mi è venuto così, senza pensarci. Ti ricordi la festa a Dobbiaco, no?!"
Anche Valeria se la ricordava. Erano andati tutti insieme, con la piccola Sole nata da appena un mesetto e loro due che avevano cercato di frenare Vincenzo e Francesco dal partecipare alla bevuta di una pinta di birra alle 10 del mattino assieme ai contadini del paese.
 
"Scusa per prima" disse Emma, imbarazzata, mentre erano in auto "scusa se ti abbiamo messo a disagio con quella specie di litigata, non so che ci è preso. Andiamo molto più d'accordo di così" "Non lo avrei mai detto sai? Di solito i livelli di glicemia quando esco da casa vostra sono sempre così bassi" ridacchiò Valeria, ironica, notando il sorriso grato dell'amica.
Sua nonna aveva sempre sostenuto che di una coppia parlassero molto di più le loro litigate che le effusioni. Per essere giusto, un litigio doveva essere come una pentola a pressione: rumoroso, ma una volta finito quello che ne viene fuori è una delizia. Lei credeva che i suoi amici fossero ormai immuni dai bisticci, dopo tutto quello che avevano passato, ma forse il segreto stava in quelle valvole di sfogo di tanto in tanto, in cui tirare tutto fuori, riderci su e ricominciare daccapo.
"Tranquilla, veramente. Anzi, vedervi litigare è stato molto istruttivo." "Istruttivo? Addirittura!" "Io pensavo di essere quella sbagliata, che non si sa tenere un uomo buono come Vincenzo" "Oddio Vale … che è successo? Che mi sono persa?" "No tranquilla, non è successo niente … il solito…"
Lei ed Emma l'avevano ribattezzata la bomba emotiva. Valeria era tornata a San Candido senza avere alcun rapporto con sua sorella o i pochi familiari che le restavano, totalmente indipendente e libera da relazioni o vincoli e si era ritrovata al centro di una tribù come la loro, affollata e chiassosa, in cui tutti, a loro modo, erano dipendenti l'uno dall'altro. Emma si rendeva conto perfettamente che per lei poteva essere ancora uno shock alle volte, nonostante fosse passato oltre un anno.
"Ma tu non hai mai di questi momenti Emma? Sinceramente … non pensi mai: voglio staccare da tutto e tutti per un po'?!" Emma sorrise timidamente, mantenendo lo sguardo sulla strada, mentre entravano in paese.
"Certo che ce li ho. Non sono mica un automa. A volte vorrei prendere zaino, sacco a pelo e andare a dormire sul cucuzzolo della montagna da sola. Altre volte vorrei prendere Francesco e chiuderci in palafitta da soli senza una data di ritorno." "E come fai a farteli passare?" "Non lo faccio. Semplicemente cerco di sfruttare al massimo quel poco tempo per me che ho a disposizione." "Forse per te è più facile … con Francesco un po' di tempo voi due soli lo avete avuto. Io ho avuto a malapena una settimana"
"L'avessi avuta io una settimana senza che nessuno rompesse le scatole! Persino la prima notte che abbiamo passato insieme siamo stati interrotti. E non aggiungo altro." "Eh ma allora il premio sfiga te lo becchi tutto!!!"
Finirono per ridere di questa cosa ma Emma non voleva essere indelicata. Non le avrebbe detto che era stata la disgrazia che aveva coinvolto Adriana ad interromperla, ma non era stata certo quella l'unica volta che il cellulare di Francesco era stato inopportuno. E troppo spesso ad opera di Vincenzo.
La realtà era però che quel tempo che avevano passato soli non lo avrebbe augurato nemmeno al suo peggior nemico. Dopo due mesi era già incinta e aveva fatto armi e bagagli per allontanarsi dal padre del bambino che aspettava. Valeria aveva avuto momenti di crisi - chiunque ne ha in una relazione, non è facile diventare una cosa sola; ma non aveva avuto, ed Emma era felice per lei, notti insonni, giorni in cui nemmeno riesci a sostenere lo sguardo dell'altro, momenti in cui ti trovi di fronte l'uomo che sai di amare ma che senti di odiare con tutta te stessa e vorresti semplicemente sparisse dalla faccia della terra per rendere le cose più facili.
"Non possiamo pretendere di avere tutto facilmente" concluse Emma, mentre imboccava il viale che portava a casa di Vincenzo, ripetendole la lezione che lei e Francesco avevano imparato proprio dal loro amico commissario e avevano fatto propria "una relazione non è una soap opera, dove se va bene, va tutto bene, e se qualcosa va storto, poi va tutto a rotoli. Si può avere una frenata, un disaccordo, ma se ci si vuole bene i problemi si affrontano e passano. Purché li si affronti insieme."
"Adesso lo so" confermò Valeria, sommessamente. Aveva imparato sulla sua pelle quanto era bello sfogarsi e accorgersi che di fronte a sé non c'è un muro ma qualcuno che ti sta ad ascoltare davvero e che, anche se non ti capisce, ci prova. Ed era anche per quello che ci doveva provare anche lei. Lo doveva a Vincenzo.
Emma parcheggiò l'auto vicino al condominio e le due rimasero a parlare per un po'. Valeria le raccontò delle sue paure, della discussione con Vincenzo e di come voleva veramente che le cose funzionassero per tutti. Per loro come coppia e per la loro famiglia. Prese dalla conversazione, non si erano neanche accorte che nel frattempo si era fatto buio.
"Oddio Emma ti ho trattenuta fin troppo" esclamò Valeria dopo che lo sguardo le cadde sullo schermo dell'auto che indicava l'orario "hai la bimba a casa senza pannolini" "Tranquilla … prima ho scritto a tua nipote di controllare nella borsa del cambio ed è tutto apposto" "Cosa? Sei tremenda! Non lo diciamo a tuo marito, però. Gli è venuta una crisi di nervi per nulla" "Se non era per i pannolini, sarebbe successo stasera per la senape o … che ne so … la carta igienica. Capita a tutti di stare carichi a pallettoni e aver bisogno di sfogarsi un po'. Ti farei vedere quando succede a me …"
"Non riesco ad immaginarti" "Meglio così, perché so essere veramente stronza" affermò Emma, ridendo di sé "comunque … da quello che mi hai detto non hai proprio bisogno di alcun consiglio. Sarai pure piena di dubbi ma sulla cosa principale mi sembri abbastanza sicura"
Sì, su quello non c'erano dubbi. Amava Vincenzo e voleva stare con lui, a tutti i costi. "Il resto verrà da sé con il tempo. Non ci sono tempi e modi prestabiliti, quando ti sentirai pronta per andare a vivere con lui te ne accorgerai e mano a mano tutto il resto" "Grazie Emma! Avevo bisogno della mia migliore amica" Valeria le si gettò letteralmente addosso per un abbraccio. Era assurdo anche solo pensarlo, perché alla fine non si erano mai perse di vista, eppure le era mancata. "Di nulla … ma non ho detto niente di che" "Forse … ma per un attimo abbiamo parlato di noi e non di pediatri, pastine e pannolini. Dovremmo farlo più spesso." Emma annuì, complice. "Ti ho detto che Leo ha iniziato la scuola di hockey?" In realtà era più un corso di pattinaggio per il momento ma il bambino si divertiva e la squadra lo aiutava a crescere con valori come l'aiuto reciproco, il rispetto e la correttezza e quella era la cosa più importante per i suoi genitori. Valeria rispose affermativamente, ma non capiva cosa c'entrasse con il loro discorso. "Ecco … ci si mettono 10 minuti dal maso al palaghiaccio ma invece di andare via rimango a vedere gli allenamenti. Anche se non sono la cosa più divertente del mondo. Ma mi permettono di staccare la spina per un'oretta" ammise. Era sicurissima che Francesco lo avesse capito e facesse semplicemente finta di nulla perché sapeva che le faceva bene e gli era grato per questo, un po' come quando aveva le nausee durante la gravidanza e la supportava in silenzio. "Magari qualche volta puoi accompagnarmi" aggiunse, facendole l'occhiolino. "Assolutamente sì" decretò Valeria, scendendo dall'auto di nuovo di buon umore, così come piaceva alla sua amica "io porto un thermos di cioccolata calda e i bretzel dolci"
Non solo Emma aveva compreso il problema dell'amica, ma era d'accordo. Lei stessa era convinta di aver superato la fase da ragazza che ha bisogno di consigli, ma doveva ammettere che quella non è una fase e non passa mai veramente; che chiedere consigli, a venti o quarant'anni, non è mai sintomo di debolezza. Tutt'altro. E poi anche da moglie e da madre, era giusto continuare a sentirsi donna, tanto con il proprio uomo, quanto con le proprie amiche. Era grata a Valeria per averglielo ricordato.
Tornata al maso, parcheggiò l'auto davanti casa e si premurò di prendere il pacco di pannolini dal bagagliaio. Entrata, il calore della sua casa la investì in pieno, e non si trattava affatto della troppa legna nella stufa del soggiorno.
"Mamma mamma!" urlava Leo, scendendo dalle scale, quasi letteralmente placcandola alle gambe. Erano lontani i tempi in cui era un bambino timido e taciturno, ormai i suoi decibel superavano quelli di un concerto rock. Assieme a lui, il controcanto offerto da Luna che ululava contenta per la padrona che rincasava, completava l'opera. "Ho finito tutti i compiti e ho disegnato i Superpigiamini con le tempere che mi ha portato Klaus"
"Amore dove li hai disegnati i superpigiamini? Sulla tua faccia?" Emma si era ritrovata con i jeans macchiati dall'abbraccio del figlio e non sapeva quasi dove mettere le mani. "Klaus che avete combinato?" domandò al ragazzo che si avvicinava come un cane bastonato, indicandogli che la faccia del figlio era dipinta tutta di verde, come la maschera del supereroe dei cartoni e anche i vestiti erano pieni di chiazze e schizzi di tempera di tutti i colori.
"Giuro che la cameretta è pulita e le tempere sono lavabili" "Almeno quello …" "Scusa Emma" "No va bene … basta che la prossima volta mi avverti, così mi preparo psicologicamente!" Emma tirò un forte sospiro, senza farsi notare, riponendo la giacca e la borsa nel guardaroba all'ingresso. "E tu di corsa in bagno a fare la doccia" disse al figlio, fintamente severa. Il bambino recepì il tono di gioco ed obbedì sghignazzando all'istante "che se papà ti trova in questo stato quando torna gli prende un coccolone" "Se vuoi lo aiuto io" "Nossignore, Isa deve andare a studiare ora, portala immediatamente da Vincenzo"
Mentre la donna seguiva il bambino  sulle scale per andare al piano superiore, trovò Isabella che usciva dalla sua camera da letto. "Sole si è appena addormentata, spero non sia un problema" "Tutt'altro, visto che ora mi tocca lavare il piccolo Hulk" salutò la ragazzina, pagandole quanto le doveva e dandole appuntamento al venerdì successivo, mentre preparava il necessario per la doccia di Leo. Entrando in bagno tirò su le maniche del maglione rosso e raccogliendo i capelli con una pinza. Sì, anche lei aveva bisogno di riprendere fiato da quella vita che le era piombata addosso da un momento all'altro, ma la verità è che, esattamente come Valeria, era una vita che aveva scelto e che non avrebbe mai cambiato con quella che aveva prima.

** "Senti, io resto qui a lavare l'auto. Okay?" "Non c'è problema, Lukas"

 

Angolo dell'autore

Salve a tutti! Eccoci con la conclusione di questo episodio di vita della nostra ciurma preferita. Valeria dovrà mettere un po' in ordine la sua testolina complicata, ma nel frattempo il duo Giorgi/Ferrante è tornato unito e più carico che mai, per la nostra somma gioia.
Spero di tornare presto con qualche nuovo "quadro". Vi ricordo che, nel frattempo, mi trovate sulla mia pagina Facebook.
A presto, la vostra Fred

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Capitolo 7
*** Buongiorno mamma, buongiorno papà ***


Ciao a tutti!!! Eccoci di nuovo per un capitolo extra di "Noi Casomai". Rispetto agli ultimi capitoli pubblicati, ci spostiamo in avanti di quasi 12 mesi, passiamo. Nella mia serie ho deciso di seguire un arco temporale ben preciso e di collocare il racconto nella nostra realtà. Come presto scoprirete, anche i nostri amati protagonisti hanno vissuto il nostro stesso periodo buio. Spero questa decisione non sia impopolare o straniante; anche perché, presto lo scoprirete, in realtà questo buio ha saputo regalare diversi sprazzi di luce.
Prima di lasciarvi con la lettura rinnovo l'invito a mettere "mi piace" alle mia pagina Facebook dove potrete trovare informazioni su capitoli, video e, se vi va, salutarmi e commentare insieme a me i capitoli. 
Buona lettura!!!
 



Buongiorno mamma,
buongiorno papà



 
 
Dicembre 2020
 
 
Un'altra giornata di lavoro era finita. Da quando la pandemia era iniziata i forestali erano stati incaricati dalla provincia di dare man forte alle altre forze dell'ordine per vigilare sul rispetto delle norme in vigore.
Francesco si riteneva fortunato. Il suo lavoro gli permetteva di uscire di casa e stare, in piccola misura, in mezzo alla gente. Non era altrettanto per Emma, il cui progetto di scuola nel bosco non aveva avuto altro modo per sopravvivere se non reinventarsi con la DAD, ma non era affatto la stessa cosa. Per Emma era importante il contatto fisico e il coinvolgimento di tutti i sensi durante le lezioni. Nella stagione invernale, infatti, quando la neve non permetteva di andare nei boschi, generalmente gli incontri con i bambini sarebbero avvenuti nelle classi; in quella circostanza però, anche se gli alunni delle elementari continuavano le lezioni in presenza, per ragioni di sicurezza lei li "incontrava" solo via webcam.
Quando rincasò, a tarda sera, il marito la trovo in cucina davanti al PC. Sul fornello acceso c'era un pentolino con l'acqua sul punto di bollire e la pastina della bimba già pesata sulla bilancina. La piccolina di casa se ne stava tranquilla, seduta sulle gambe della madre a sfogliare un libricino di stoffa. Sole era una grande "imitatrice", le piaceva fare tutto quello che facevano i grandi attorno a lei: correre e giocare con il fratello e Luna, salire in barca con il papà e studiare come la mamma; forse era per quello che era stata precoce sia nel camminare che nel parlare e sembrava più grande dei suoi 14 mesi.
A giudicare dai rumori provenienti dal piano superiore, Leonardo e Luna erano invece in cameretta a fantasticare una nuova avventura. In cameretta, Francesco aveva costruito un piccolo soppalco, una specie di casa sull'albero - senza albero ma in tutta sicurezza - e lì il bambino e la lupacchiotta passavano giornate intere, fingendo che la scala fosse una parete rocciosa o le scale della palafitta che portavano sul lago ghiacciato. Spesso Luna finiva anche per addormentarcisi, anziché andare nella sua cuccia.
Fugacemente, il forestale si chinò alle spalle della moglie, scostandole i capelli, per posare un bacio all'altezza della nuca. Ormai era impossibile anche solo scorgere la cicatrice dell'intervento, ma Francesco la baciava comunque. Per lui era come dire: abbiamo vinto noi.
"Sei già a casa?" "Sono quasi passate le 7" "Di già? Oddio ma è tardissimo!" esclamò la donna, andando nel panico "bisogna anche preparare la cena!!!" "Tranquilla faccio io. Lavo le mani e mi invento qualcosa" le disse, placido.
"È che sto preparando un video per la lezione di domani" spiegò Emma, quando lui tornò in cucina per mettersi ai fornelli "ma prima per correre da Sole che stava per far cadere un bicchiere ho inciampato nel cavo dell'alimentatore e puf! PC spento e progetto non salvato. Ho dovuto ricominciare daccapo" "Amore non mi devi dare alcuna spiegazione" la tranquillizzò "lo smart working non è inferiore al mio lavoro o a qualsiasi altro lavoro fuori casa"
Emma si rasserenò. Lavorare con una bimba che ti gironzola intorno e che non capisce perché, se la mamma è in casa, non può darle tutte le attenzioni che normalmente le riserverebbe non era una cosa da niente. E con le restrizioni della pandemia, Valeria alle prese con il suo piccolo di appena due settimane, il fratello impegnato con la tesi e il lavoro, al di fuori di suo marito non poteva contare sull'aiuto di nessun altro.
"Vieni da papà" disse Francesco alla piccola Sole, che non se lo fece ripetere due volte, tendendogli le braccine cicciose e morbide. Tenerla stretta, respirare il suo profumo dolcissimo, era meglio di qualsiasi camomilla o goccina per dormire. Nella tempesta di quel periodo, la sua famiglia era il porto in cui rifugiarsi. "Adesso lasciamo lavorare mamma finché non è pronta la cena" le disse e sembrava veramente che la piccolina comprendesse le raccomandazioni del papà che la sistemava nel marsupio. "Poi se ti serve ancora del tempo dopo cena ti aiuto un po'...per quel che posso si intende."
 
"Chi sta male?" domandò Francesco di punto in bianco a sua moglie, mentre si sedeva a tavola, di fronte al seggiolone, per dare la minestrina a Sole  "Chi? Cosa?" Ribatté Emma, confusa. "Prima ho visto che c'è un sacchetto della farmacia nell'immondizia" Emma non gli aveva detto nulla e lui e la sua sindrome da Sherlock Holmes si erano trattenuti sin troppo.
"Ah sì, cioè no, nessuno sta male" chiarì Emma "stamattina sono andata a comprare il ciuccio nuovo a Sole. Lo sai che abbiamo una figlia esigente."
Francesco rise, annuendo. Anche se il pediatra si era raccomandato di toglierle il ciuccio - sì, era vero, andava per i 15 mesi,  ma lo usava un po' solo per addormentarsi - loro preferivano fare con calma, poco alla volta. Per qualche strano motivo, però, Sole voleva solo un modello ben preciso che solo la farmacia in centro vendeva.
Dopo un po' l'uomo sentì lo sguardo della moglie addosso; Emma lo fissava ed era strana, incerta, come qualcuno che ha qualcosa da dire ma non sa se può.
"Che c'è?" le chiese, con il cucchiaino a mezz'aria, pronto per l'ennesimo aeroplanino. "Ehm no, niente niente …" disse, scuotendo la testa e tornando al suo lavoro. "Non mi sembra proprio." Emma buttò fuori l'aria in un lungo respiro, convincendosi che non poteva trattenersi oltre. "È che sono andata in farmacia anche per un altro motivo…" disse, vaga e timorosa. Si prese qualche istante, sperando che non sembrasse un'eternità. Francesco dovette obbligarsi a respirare. Quando si trattava di argomenti di salute, in particolare riguardo ad Emma, non riusciva mai a non pensare al peggio.
"Ho un ritardo" gli disse lei, tutto d'un fiato, aggirando lo sguardo del marito. Sì, era vero che ne avevano parlato e che ci stavano provando da un qualche mese, dal primo compleanno della piccola, perché la gravidanza di Valeria e l'arrivo del piccolo Dominik avevano dato loro il desiderio di avere di nuovo un batuffoletto in giro per casa. Magari un maschietto. Sì, certo, Sole era ancora piccolina e Leo era l'ometto di casa, ma crescevano troppo in fretta. Nessuno dei due però aveva preso la cosa così seriamente da aspettarsi che sarebbe successo così in fretta e non sapeva che reazione aspettarsi da suo marito. Certo avrebbero dovuto prevederlo che sarebbe accaduto in tempi brevi, con i loro precedenti.
"Che ritardo?" domandò suo marito, cadendo dalle nuvole. "Come che ritardo, Francesco?!" le dispiaceva mettersi a ridere in faccia al marito, ma non poteva farci nulla, era troppo divertente quanto adorabile "QUEL ritardo…il ciclo" "Ah. E quindi?" Emma non riusciva a decifrare il suo sguardo: se fosse più shockato in positivo o in negativo. "E quindi niente, ho comprato un test" "E quindi?" "Ma ti sei incantato per caso?" Ormai la concentrazione era bella e andata così, visto che le rimaneva solo da aggiungere qualche foto per rendere le slide più carine ed accattivanti per i bambini, Emma salvò il lavoro e chiuse il computer per dedicare la sua attenzione completamente all'argomento del momento. "Non l'ho fatto mica … ho letto che per essere più attendibile è meglio farlo al mattino, quindi lo faccio domani. Magari lo facciamo insieme... se vuoi" "Amore mio però se mi dici così …"
Il forestale, la voce rotta dall'emozione, si alzò e andò ad inginocchiarsi di fronte a sua moglie, accarezzandole il volto. Aveva la mano appiccicosa del formaggino che aveva sciolto nella pastina, ma Emma non ci fece proprio caso "… io rischio di non dormire questa notte per l'ansia… lo sai vero?"
 
 
"Amore, amore sveglia è ora" Francesco sussurrava dolcemente all'orecchio di Emma, che dormiva pacificamente sotto il caldo piumone. L'inverno era arrivato e, complice forse la pausa forzata che il mondo si era preso, tutti dicevano che sembrava uno di quegli inverni di una volta, che non si vedevano più da una vita. Freddi, secchi, pieni di neve pesante che attecchiva e avrebbe resistito fino ad aprile.
Ma non era un inverno di quelli che sanno riscaldare il cuore. San Candido di certo ne aveva vissuti di migliori. I mercatini erano stati annullati e in paese il calore delle feste imminenti e il via vai dei vacanzieri invernali non erano pervenuti.
Un inverno memorabile e nessuno che ne poteva godere. Metteva a tutti una grande tristezza.
"Che ore sono?" domandò Emma, tirandosi su e stiracchiandosi. "Le 6 e mezza" era così presto che da fuori non entrava il benché minimo spiraglio di luce. "I bambini?" "Dormono" "E tu mi hai svegliata? Chiamami tra mezz'ora…" bofonchiò, arruffata, tornando sotto le coperte dando le spalle al marito.
"Amore il test. Dobbiamo fare il test!" insisté Francesco. Sembrava un bambino a cui i genitori promettono un giro alle giostre alla festa di paese. Impaziente, era riuscito a prendere sonno tardi e aveva aperto gli occhi presto, troppo presto per tirare Emma giù dal letto. Aveva aspettato un'oretta rigirandosi nel letto e ma alla fine aveva ceduto.
"Nnnn...ci vogliono 5 minuti. Fammi dormire un altro po'" "Dai Emma…"
Forse qualcuno avrebbe potuto dire che, ormai, avrebbe dovuto essersi abituato, ma non ci si abitua mai. Puoi essere padre due, cinque, dieci volte, ma ogni volta è come la prima. E poi per un uomo è diverso. Forse Emma se lo sentiva, forse la risposta il suo istinto già gliel'aveva data, ma a lui no. Gli uomini hanno bisogno di tutti e cinque i sensi per capire che sta succedendo veramente.
Grazie a suo marito, ormai anche per Emma il sonno era bello che andato. Forse era meglio così, con Leonardo e Sole che ancora dormivano, avrebbero potuto farlo in tranquillità e avere un momento tutto per loro, qualunque esito avrebbero ricevuto.
Emma tirò fuori la scatola del test dal comodino e andò in bagno seguita dal marito.
 
"Posiziona la punta assorbente rivolta verso il basso esponendola al flusso di urina per soli 5 secondi. Fai attenzione a non bagnare le altre parti dello stick del test di gravidanza. In alternativa, raccogliere un campione di urina in un contenitore pulito e asciutto. Posiziona la punta assorbente rivolta verso il basso nell'urina per 20 secondi. " Francesco leggeva ad alta voce dalle istruzioni, concentrato neanche fosse un manuale di fisica nucleare, mentre sua moglie era seduta sul gabinetto "Forse è il caso che vada a prendere un bicchiere di carta in cucina…"
"Fatto" disse Emma, laconica, poggiando lo stick sul davanzale della finestra "non ci vuole una laurea ad Harvard per fare un test di gravidanza…"
"E ora?" "Aspettiamo 3 minuti"
Seduti sul bordo della vasca da bagno, i due aspettavano che i tre minuti più lunghi della loro vita passassero. Il ticchettio del countdown sul telefono del forestale era riuscito a far agitare un po' anche Emma.
Tutto era così surreale. Forse sarebbe stata la sua terza gravidanza, ma per assurdo era la prima volta si trovava in quella situazione. Le altre due volte infatti, era stato un uomo in camice bianco a dirle che era incinta. Stavolta, invece, stava facendo tutto da sola, nella sicurezza e nel calore di casa sua. Non era una condanna, non era una sorpresa inaspettata, ma solo la giusta conclusione di un percorso preso con consapevolezza assieme al suo uomo.
E lui era seduto accanto a lei, in silenzio, la mano sinistra intrecciata alla sua e le gambe che tradivano la sua agitazione, battendo ritmicamente. Quelle sue piccole fragilità, le sue paranoie: le amava tutte, tanto quanto era facile amarlo per il suo fascino e il suo coraggio. Forse lo rendevano un uomo imperfetto, ma anche un uomo vero ed era l'uomo che voleva per essere il padre dei suoi figli.
Un uomo che aveva imparato a non scappare più dalle sue paure, né a nasconderle, un uomo con cui condivideva gli stessi valori di lealtà, rispetto e gentilezza che voleva trasmettere ai suoi figli.
I loro sguardi si incrociarono, senza dirsi nulla, ma in realtà dicendosi tutto. Qualunque fosse stato il risultato, loro erano insieme. Sorrisero, in un sospiro e restarono fermi, fronte a fronte, finché il telefonino non segnalò che i tre minuti erano trascorsi.
"Ci siamo" disse l'uomo, alzandosi dalla vasca come se fosse improvvisamente piena di chiodi sul bordo dove era seduto "che si fa?"
Emma sì alzò, con calma, passando una mano tra i capelli arruffati che le andavano davanti agli occhi e, incamerando aria in un respiro profondo, prese lo stick dal davanzale, stringendolo stretto tra le mani, ma senza guardarlo.
"Come fai ad essere così tranquilla?" le domandò suo marito, incredulo "è una cosa che ci cambierà la vita"
Emma fece spallucce. In molti spesso scambiavano la sua serenità per faciloneria. Ma era semplicemente un approccio diverso al mondo e alla vita, una prospettiva completamente diversa da tutti gli altri che non avevano vissuto quello che aveva vissuto lei.
"C'è stata solo una cosa che mi ha cambiato la vita" disse, perfettamente seria, di fronte a suo marito; a separarli, la distanza di un bacio. "Cosa?" "Averti incontrato. Ha scombussolato tutto. Io che volevo solo salutare il mondo prima di lasciarlo, mi sono trovata ad aggrapparmi con tutte le mie forze per rimanerci. Cosa vuoi che sia un terzo figlio?"
Francesco, repentinamente, la tirò a sé abbracciandola in vita e baciandola, avido di lei e della loro vita insieme, di quell'amore che aveva generato vita in tutti i modi in cui la vita può essere generata.
"Lo leggi tu?" mormorò Emma, quasi ancora sulle labbra di Francesco. "Cosa?...perché?" "Perché sì" gli sorrise, sorniona "l'altra volta … anzi no, le altre volte sono stata sempre io a darti la notizia"
Avevano perso un bambino, ma per Emma non faceva differenza, non aveva mai smesso di considerarlo parte della loro famiglia.
"Sarebbe carino, anche se per pochi secondi, che sia tu a saperlo prima di me"
Francesco le posò un bacio sulla guancia, tenero, fugace. "Cosa ho fatto per meritarti?!"
"Dai su ricomponiti!" esclamò Emma, ridacchiando e scacciandolo via scherzosamente. Francesco stette al gioco, mani in alto "Va bene, va bene!!!"
Emma portò le sue mani chiuse a pugno, con cui teneva il test stretto e nascosto, all'altezza degli occhi del marito. "Due linee incinta, una linea non incinta" precisò e lentamente lasciò andare la presa di una delle due. 
Teneva gli occhi fissati sul quelli del marito, ma non riusciva a decifrare nulla. Poteva essere felice, come poteva essere deluso. O forse semplicemente qualcosa era andato storto e non c'è il risultato. Sarebbe stato clamoroso se avesse dovuto ripeterlo, soprattutto perché avrebbe dovuto tenere a basta quel frettoloso di suo marito.
"Non è uscito niente vero?" gli domandò. Ma fu allora che sul viso di Francesco si aprì il suo sorriso preferito, quello delle occasioni speciali, quello di chi sta toccando il cielo con un dito.
"Buongiorno mamma" le disse, fiero ed estasiato.
Emma avrebbe voluto urlare per la gioia, ma si ricordò dei due cuccioli che dormivano beati e ignari nelle stanze vicine. Si limitò a ricambiare quello sguardo orgoglioso, quel sorriso raggiante.
"Buongiorno papà"
Talmente felici, che nemmeno si erano resi conto che i festeggiamenti stavano avendo luogo in un bagno. Loro erano su una nuvola, leggera, lontana, felice.
 
D'improvviso, il rumore della maniglia che provava ad aprire la porta ma era bloccata. "Chi c'è?" la vocina di Leo chiese, dall'esterno "mi scappa la pipì"
Francesco aprì, per fare entrare il bambino che, in fretta, corse al gabinetto, con gli occhietti semichiusi, disturbati dalla luce improvvisa della luce del bagno.
"Ma che ci fate qui tutti e due?" domandò quando i suoi occhietti si erano finalmente adattati alla luce e si rese conto che i suoi genitori erano lì. "Niente di che, cucciolo" disse Emma, fingendo nonchalance, mettendosi a pettinare i capelli "quello che si fa in bagno. Ci stavamo preparando" "Ma è presto!" "Sì mamma e papà hanno tanto da fare oggi…"
Il bimbo non fece altre domande e loro non gli diedero altre risposte. Non erano sicuri fosse la cosa giusta da fare, ma sentivano che ancora troppo presto per condividere la notizia con chiunque ed avevano provato con Sole quanto fosse bello tenersi quel dolce segreto per loro, anche solo per un po'. E poi si trattava di un paio di settimane al massimo: a Natale, sarebbe stato il loro regalo speciale da poter dare alla loro banda di matti, anche solo in videochiamata.
Leonardo domandò se potesse tornare a dormire un altro po' e loro glielo concessero, anche se solo per un quarto d'ora, per poter stare ancora un po' da soli. Sarebbero rimasti sempre Francesco ed Emma, anzi: più la loro famiglia cresceva, più loro si sentivano uniti come coppia. Ed ora che erano, quasi, in cinque, avevano bisogno di essere uniti più che mai.
Mentre se ne tornava in cameretta sonnacchioso, Francesco fermò Leonardo.
"Non hai dimenticato niente?" domandò, intendendo il lavaggio delle mani.
"Ah sì" affermò il piccolo "Buongiorno mamma! Buongiorno papà!"
 

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Capitolo 8
*** Era mattina sul lago ***


Ciao a tutti!!! Dopo diverso tempo, torno di nuovo - e finalmente - a scrivere un capitolo extra di "Noi Casomai". Oggi facciamo un bel salto indietro, tornando tanto indietro da arrivare a subito dopo la fine della quinta stagione e prima degli eventi di "Noi Casomai", alla mattina dopo la riappacificazione di Emma e Francesco nel finale di stagione.
Avevo già accennato a questa parte nel primissimo capitolo del racconto principale, ma mi andava di arricchirlo un po'. Per questo, qua e là nel testo, troverete delle parti in grassetto: corrispondono alle parti che ho ripreso direttamente da "Noi Casomai" (sì, se non mi complico la vita sola, non riposo XD).

Prima di lasciarvi con la lettura rinnovo l'invito a mettere "mi piace" alle mia pagina Facebook dove potrete trovare informazioni su capitoli, video e, se vi va, salutarmi e commentare insieme a me i capitoli. Se vi va, inoltre, ho da poco iniziato a pubblicare una storia romantica, dal titolo "Contro Ogni Regionevole Previsione". Se vi va di passare anche lì mi rendete la persona più felice del mondo.
Buona lettura!!!
 



Era mattina sul lago







 
Era mattina sul lago. Ad est il sole brillava, facendo capolino tra le cime più alte e irradiando la piccola spiaggia, la chiesetta e la caserma. Presto tutto avrebbe preso vita. Il profumo inebriante, quasi di nettare e miele, saliva dalle pendici dei monti e dai larici che, seri e severi, si stagliavano verso il cielo.
C'era un angolo del lago, però, dove qualcuno ancora dormiva. No, in realtà gli occhi erano aperti, lo erano rimasti tutta la notte, ma non c'era alcuna intenzione di alzarsi per scostare le tende e far entrare la luce del giorno. Quei piccoli spiragli di luce che penetravano dalle pieghe del tessuto bastavano e avanzavano.
Emma e Francesco se ne stavano allungati nel letto, abbracciati, i respiri che, lenti, all'unisono li cullavano in quel dolce dormiveglia. Era una mattinata fredda, come sempre a 1500  metri, ma nella casa sul lago gli abiti e le lenzuola erano finiti sul pavimento. Sul piccolo letto, c'era spazio solo per i due amanti e il calore dei loro corpi stretti era sufficiente a riscaldarli.
Quella appena trascorsa era stata una lunga notte, una bella notte, di quelle da ricordare per sempre e da custodire gelosamente, nel silenzio. Dopo essere stati separati per settimane, dopo che per mesi le incomprensioni li avevano divisi, erano tornati una cosa sola. Abbandonati tra le braccia l'uno dell'altro, non c'era stato un centimetro di pelle che non fosse stato marchiato a fuoco dalle loro labbra o riconquistato dalle loro mani. Io sono solo tuo. Io sono solo tua. Non lo avevano detto a parole, ma lo avevano dimostrato, recuperando la fiducia e la confidenza che era venuta a mancare, ritrovando quella magia che erano capaci di generare quando erano insieme e il mondo sembrava fermarsi per stare a guardare. Emma non era riuscita a prender sonno. Non aveva voluto perdersi alcun instante di quella notte che ormai stava finendo.
Emma sapeva però, che era arrivato il momento della verità. Le venne in mente che ancora non aveva detto a Francesco dell'intervento. Ora poteva parlare, non aveva paura di ferirlo, né di rimanere ferita. Mancava la benedizione del prete o la firma del ufficiale di stato civile, ma era come se quella notte avessero celebrato il loro matrimonio. Lo sentiva, erano diventati marito e moglie, e sapeva che per lui era lo stesso.
Ma per qualche strano scherzo del destino, fu lui a prendere per primo la parola, come se anche lui sentisse che quello era il momento giusto per tornare a dirsi le cose come facevano quando si erano appena conosciuti e avevano imparato a scoprirsi nel modo più semplice possibile, aprendosi all'altro e raccontandosi.
"Il nostro angelo … io lo volevo, Emma. Lo volevo il bambino. Più di ogni altra cosa" Non avevano mai affrontato l'argomento, non come si deve, almeno. Fino a quel momento lui aveva sentito troppo forte la colpa per averla lasciata sola e per lei era stata a lungo una ferita ancora sanguinante. In entrambi la paura di farsi male era stata più grande della necessità di lenire il dolore lasciato dalla perdita.
Emma teneva la testa sul suo torace e sentiva la sua mano accarezzarle la schiena, impercettibilmente, ma quel tanto che bastava per farle salire un brivido lungo la schiena ad ogni piccolo tocco.
"Ho avuto il coraggio di dirtelo quando era troppo tardi, sono stato uno stupido" ammise, mortificato "ma non c'è stato un momento in cui non lo abbia amato. E non per quello che è successo con Marco, ma perché tu sei l'amore della mia vita … nessun'altra persona al mondo vorrei al mio fianco per diventare padre. Solo tu"
Le raccontò di come, quando l'aveva vista con la bimba dei Kirk in braccio, solo pochi giorni prima, il suo cuore si era fermato. "Se solo fossi stato davvero l'uomo giusto che mi vanto di essere, molte delle cose si sarebbero potute evitare. Se non mi fossi fatto prendere dal panico forse adesso staremmo pensando all'arrivo di nostro figlio, anziché a rimettere insieme i cocci. Io sarei dovuto andare fino in capo al mondo per trovare qualcuno in grado di salvare il bambino e salvare te, invece mi sono fermato alla soluzione più facile e mi faccio schifo per non averci neanche provato."
Lei, allo stesso modo, incalzata dalle sue parole e rincuorata dal calore del suo abbraccio, dalle dita che giocavano con i suoi capelli, si tirò su, incrociando il suo sguardo. Non c'era difficoltà, né dolore o recriminazione. Stavano semplicemente aprendo i loro cuori, come non avevano mai fatto davvero fino a quel momento, entrambi con la mente sempre da qualche altra parte per affidarsi completamente a quel sentimento che li univa. 
"Dopo che l'ho perso mi sono sentita in colpa per non essere stata attenta, nonostante mi avessero avvertita che si trattava di una gravidanza a rischio. E io avevo un bisogno … disperato … di averti vicino perché in fondo eri suo padre, ma soprattutto l'uomo che amo, eppure ogni volta qualcosa andava storto."
Non voleva rabbuiarlo ulteriormente, così preferì glissare, in quel momento, sul ricordo di lui ed Elena che brindavano in palafitta mentre lei moriva dentro. Lo avrebbe fatto sentire in colpa e non era quello che le interessava in quel momento. C'era una cosa però, su cui non voleva nascondersi. "E più ti volevo vicino e più invece ti allontanavo e lasciavo che qualcun altro mi attirasse sé"
Non fece il suo nome, ma il riferimento a Kroess era chiarissimo.
"Mi sono sentita sporca quando si sono resa conto di quello che era successo, credo … credo di andata totalmente in blackout perché non mi ricordo nulla" Non stava tentando di impietosirlo, né di discolparsi per averlo tradito. Francesco la lasciava parlare, calmo, e ogni tanto le sistemava dietro l'orecchio quella ciocca ribelle che sfuggiva mentre si confessava a lui animatamente. Sapeva che era sincera, perché i suoi occhi cioccolato, dolci e caldi come lei, non si erano staccati dai suoi neanche per momento.
"Quando mi hai chiesto di sposarti avrei voluto solo sprofondare nel terreno per la vergogna" continuò lei "ma sei l'unica persona che voglio accanto a me, volevo solo provare a ricominciare daccapo, per questo ti ho detto di sì".
Lui passo la sua mano sulla nuca di lei, intrecciandola ai suoi capelli e avvicinandola a sé. Senza dire nulla la baciò, con tutta la passione e il dolore che si portava dentro da mesi, come aveva fatto davanti alla chiesetta in alta montagna, dove avrebbe voluto sposarla, dove lei lo avrebbe sposato, se fosse uscita viva dall'intervento. Era quello il momento giusto per dirgli a verità. "Voglio operarmi, Francesco. Ho deciso"
Lo disse tutto d'un fiato, prima che lui potesse fermarla, prima che lei stessa potesse fermarsi.
Per un attimo che sembrò durare un'ora, ci fu silenzio. Ma non quel silenzio placido e perfetto che avevano respirato fino a quel momento; era un silenzio che urlava angoscia.
"Sei sicura?" domandò Francesco, prendendo un respiro febbrile, la voce che stentava a rimanere tranquilla. Emma studiò la sua reazione: i suoi verdi si incupirono, in loro di nuovo quel terrore che aveva visto troppe volte e aveva imparato a conoscere sin troppo bene. Nonostante i rischi e le paure di lui, era giusto, ora più che mai. Non sopportava di vederlo nascondere l'angoscia ad ogni minimo mal di testa, le preoccupazioni mal celate quando la lasciava da sola, vivere la propria vita di coppia come se ogni istante fosse l'ultimo. Annuì. "Ho già fissato il ricovero. Tra dodici giorni."
Francesco volse lo sguardo verso la finestra, concentrandosi su una piccola fessura tra le tende, dove poteva scorgere le sue amate montagne. Chiuse gli occhi per un'istante ed Emma avrebbe potuto giurare di scorgere una lacrima rigargli lo zigomo mentre, di traverso, scendeva fino alla federa del cuscino. Prese il volto tra le sue mani, obbligandolo ad incrociare e sostenere il suo sguardo: gli sorrise e, lentamente, andò a posare le sue labbra su quelle di lui. Era difficile, a quel punto, distinguere dove finiva il sapore di lui e dove iniziava quello di lei, quella notte erano davvero diventati una cosa sola. Staccatasi, con la mano accarezzò la fronte corrucciata di Francesco, a voler stendere quella ruga che l'ennesima preoccupazione gli stava provocando. Era bello il suo uomo, ma non perfetto come una statua greca. Il suo volto era segnato dagli anni e da tutti i dolori che aveva vissuto. Lei non voleva essere l'ennesima ruga sulla sua fronte, l'ennesimo pianto inconsolabile, l'ennesimo incubo notturno. Emma soffiò delicatamente sul suo volto, per asciugare quella lacrima, riuscendo così a farlo sorridere. Era più bello quando sorrideva, glielo diceva sempre.
"Non voglio perderti" confessò "e pensare a quanto rischio andando sotto i ferri mi fa tremare. Ma è proprio perché non voglio perderti che ci devo provare. Perché voglio darmi una possibilità di vederci entrambi pieni di rughe e con i capelli bianchi."
 E poi voleva diventare madre: avere un figlio da lui e dargli un figlio, mettere al mondo un esserino che fosse la sintesi perfetta di quell'amore e l'estensione di sé fuori dal proprio corpo.
Quella frase, detta quando meno si sarebbe aspettato una battuta, lo fece ridere. Fu una vera esplosione di gioia inaspettata. Un balsamo in quel momento di fatica. "Spero che tu possa capirlo" aggiunse, tornando seria.
Lui non capiva, ma lo accettò comunque. "Io ti amo" sussurrò "e sono sempre con te, qualunque cosa deciderai di fare. Perché anche se ci riguarda entrambi, questa decisione è solo tua."
Non era finita la paura: era semplicemente finito il tempo in cui si sarebbe fatto guidare - e frenare - dalla paura. "Ti starò vicino" giurò "qualunque cosa succede; e se si perde, perdiamo insieme"
Emma aveva portato energia e luce nella sua esistenza, gli aveva ridonato la vita che la morte di Marco si era portata via, e non avrebbe permesso che quella luce si spegnesse; non poteva obbligarla ad una sopravvivenza fatta di sacrifici e rinunce.
Quella promessa di combattere insieme diede ad Emma la forza di affrontare i giorni che sarebbero arrivati. Lo avrebbe fatto comunque, ma ora aveva una motivazione in più. In quel momento, però, voleva concedersi di non pensarci, almeno per un po'.
"Non voglio uscire da qui …" gli disse sulle labbra, portandosi a sedere su di lui. "Non dobbiamo farlo se non vuoi" rispose Francesco, la voce cavernosa e trepidante, passandole le mani sulla pelle nuda della schiena e risalendo dai fianchi fino alle spalle, stringendola forte a sé.
 
"France'! Francesco!" la voce del commissario Nappi riecheggiava sulle acque del lago, percorrendo la passerella che dalla riva portava all'ingresso della palafitta.
"Shhh! Non ti azzardare a rispondergli …" intimò Emma al suo uomo, tirandolo ancora di più a sé. "Ma come faccio? Sa che sono da solo" "Eeee vorrà dire che sei andato a cavallo o sei uscito a correre"
Non avevano neanche idea di che ora fosse. Potevano essere le sette del mattino, come mezzogiorno, per loro non faceva granché differenza. Quello che sapevano per certo, era che non volevano essere disturbati per nessuna ragione al mondo.
"No dai non posso … ok che è Vincenzo, ma non è così stupido, lo sa che sono in casa" La sella era lì fuori, davanti all'ingresso, il suo cavallo nelle stalle della caserma e quando andava a correre non chiudeva mai a chiave. A meno di una partenza improvvisa, c'erano tutti gli indizi per supporre che non fosse uscito.
"E se ti arresto? Come fai?" lo prese in giro Emma, ridacchiando e bloccandogli i polsi. Ma Francesco con un movimento fulmineo si smarcò e, cingendola alla vita, la stese sul letto, sotto di sé. "Ci metto cinque minuti" disse, stampandole un bacio sulla punta del naso "te lo prometto." L'uomo si alzò dal letto, raccogliendo i suoi vestiti. "Sì sì, come no" sbuffò la giovane, tirando su il lenzuolo "tanto già lo so che mi lasci qua per andare a giocare all'investigatore da qualche parte"
Francesco sorrise, uscendo sulla terrazza. "Eccomi eccomi!" affermò, mentre Vincenzo bussava ancora e lui apriva il chiavistello della porta "non mi buttare giù casa"
Aprendo, trovò l'amico con il braccio la sua bambina. "Sorpresaaaa!" esclamò l'uomo, con un sorriso smagliante. Solo un paio di sere prima si era sfogato con lui,  raccontandogli che aveva perso la battaglia legale ed Eva avrebbe portato Mela a Madrid con sé. Ora invece la bambina stava lì con lui. "Che è successo?" "Eva ha cambiato idea, mi ha lasciato la bambina!!!" proclamò, fiero ed estasiato, entrando sulla terrazza. Stringeva la piccola come fosse un trofeo, portandola quasi in trionfo. Vincenzo gli raccontò di quello che era successo, di come Eva lo aveva sorpreso all'ultimo momento, quando lui era convinto che ormai avessero lasciato il paesino. Ed ammise anche di aver pianto come un bambino. Francesco però era un po' assente ed irrequieto e Vincenzo non ci mise molto ad accorgersene. Mentre il commissario gli parlava, il suo sguardo andava alla palafitta. "Allora zio Francesco, non sei contento che sono rimasta?" gli domandò ironico il commissario, fingendo di parlare a nome della bambina.
"Ma certo che sì" rispose, sereno, lasciando una carezza sulla guancia della piccola "e sono contento pure per il tuo papà che ti vuole così bene. Chissà perché me lo immaginavo che avresti pianto." "Beh mettiti nei miei panni. Cosa avresti fatto tu se … oddio scusami. Scusami sono stato indelicato." "No figurati. E comunque sì, avrei pianto anche io."
Francesco era troppo smanioso e Vincenzo non ne poteva più di ignorarlo. Sperava non avesse fatto qualche cazzata. Un paio di giorni prima aveva cacciato via dalla caserma la psicologa che lo aveva seguito nei mesi precedenti, che si era messa in mezzo tra il suo amico ed Emma, dandogli consigli a dir poco discutibili. Ma era abbastanza sicuro che la donna non si sarebbe lasciata intimorire dalla sua strigliata.
"Ah France'?! Ma si può sapere che tieni?" "Niente … niente" "Sei sicuro che non dovrò levarti il saluto? Non è che mi stai nascondendo qualcosa … o qualcuno?"
"Vincenzo!" Emma stava alla porta finestra della casa sul lago, le gambe e i piedi nudi, stringendosi un cardigan di lana grigio alla vita con le braccia.
"Oddio!" esclamò Vincenzo, incredulo ma entusiasta "Emma!" La giovane donna si avvicinò ai due amici e alla piccola, alla quale dedicò delle moine che Mela non sembrò disdegnare. "Che ci fai tu qui? Non eri partita?" "E che ci faccio qui secondo te?" I due innamorati si scambiarono uno sguardo complice e compiaciuto e l'uomo tirò a sé la donna, passando il suo braccio attorno alla spalla. Lei si strinse a lui lasciando che l'uomo le posasse un bacio sulla fronte.
"Cioè io vengo qua per farti una sorpresa …" disse il commissario all'amico "e la sorpresa la fate voi a me … sono, sono senza parole, ve lo giuro!"
Erano felici, come Vincenzo non li aveva mai visti prima. Nemmeno nei primi giorni della loro relazione, nemmeno dopo l'annuncio del fidanzamento li aveva visti così. Al commissario, che li osservava, davano la sensazione di essere finalmente liberi da ogni ostacolo ed esitazioni. Finalmente completi.
Era così che si sentivano: erano insieme, non avevano bisogno di altro.



 

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Capitolo 9
*** Let it snow ***






Let it snow

 

Emma aprì gli occhi. Era una bellissima sensazione farlo e ricordarsi che poteva smettere di ripetere la frase che aveva ripetuto a sé stessa negli ultimi 3 anni: ancora un altro giorno.
Ora, oltre ogni ragionevole dubbio, aveva tutto il tempo che voleva a sua disposizione. Da quando aveva avuto la diagnosi aveva quasi smesso di dormire: non solo aveva il terrore di non risvegliarsi, ma aveva fretta, una fretta matta di fare cose, di esplorare, di inventarsi ogni giorno una sfida e un'avventura nuova, per tenersi occupata e non pensare a quello che le stava succedendo, formalmente, ma a tutti ripeteva che era semplicemente la lista delle "cose da fare prima di schiattare". Tutti si preoccupavano attorno a lei - Emma non fare questo, Emma stai attenta, Emma così, Emma cosà -  ma lei no. Lei sorrideva sempre e comunque, perché il tempo era l'unica cosa che non aveva,  nemmeno per piangere.
Ora, invece poteva prendersi tutto il tempo che voleva, per ridere, per piangere, per non fare assolutamente nulla, se le andava così, ed era una sensazione meravigliosa.
Girò leggermente il capo alla sua sinistra. Francesco dormiva beato, anche lui come non gli capitava da un po'. Aveva ancora i suoi momenti, le sue ansie e i suoi incubi, ma lentamente stavano andando via.
Emma sorrise a vederlo dormire placido. Si ricordava delle prime notti che avevano passato insieme in palafitta, di quel suo modo innaturale di dormire, perennemente contratto, in posizione supina, quasi dovesse essere all'erta anche durante il sonno, pronto per scattare in caso di emergenza: di fatto, non riposava mai davvero. Ora invece dormiva a pancia in giù, molto più comodamente, e anche il suo viso era rilassato. E certo non era un caso quel cambio di posizione: gli rendeva più facile prenderle la mano sinistra con la sua sinistra, rimanendo così tutta la notte, con le mani intrecciate e le fedi nuziali che si sfioravano.
Erano passate poche settimane dalle nozze, l'oro degli anelli era ancora lucido e brillante ed Emma non riusciva a non sorridere quando ripensava a quel giorno, né quando pensava a sé stessa come signora Neri: erano stati insieme per troppo poco tempo, tra alti e bassi, per poter metabolizzare quel passaggio così importante, ma non c'era altro che volesse se non passare il resto della sua vita con Francesco. Era strano, sì, ma era giusto.
Emma lasciò la stretta lentamente, per non svegliarlo, ma evidentemente il suo sonno era più leggero di quanto sospettasse. "Che succede?" le domandò, bisbigliando. "Nulla...devo solo andare in bagno" rispose lei, posandogli un bacio sulla guancia caldissima e ispida per il leggero filo di barba "torna a dormire"
Uscire fuori dal letto si dimostrò una bella impresa. Le assi del pavimento in legno erano gelate nonostante il legno sia ben noto per essere in grado di conservare il calore e la temperatura della stanza era crollata nettamente rispetto alla sera precedente.
Per ragioni di sicurezza non c'era mai il fuoco vivo nella stufa quando andavano a dormire, lasciavano solo che gli ultimi pezzi di brace ardente si spegnessero naturalmente e così, al mattino, bisognava accendere di nuovo il fuoco per riscaldare la piccola casetta sul lago. Normalmente era Francesco ad occuparsi di quell'incombenza, lui che si svegliava sempre prima della sveglia e di Emma, naturalmente, e le dava il buongiorno con caffè, pane tostato, burro di malga e marmellata di mirtilli. Forse complice il freddo e l'innaturale silenzio circostante, quella mattina Francesco era rimasto sotto le coperte; così, vicini, non si erano accorti di nulla.
Emma corse a mettersi addosso la prima cosa che aveva a portata di mano,  una maglia di Francesco che era appoggiata sulla poltroncina in pelle,  e le pantofole leggermente tiepide che lasciava ai piedi della stufa e andò in bagno.
Ancora assonnata, mentre lavava le mani, intravide nel riflesso del piccolo specchio l'esterno della palafitta. Forse i suoi occhi la ingannavano, forse il sole del mattino le stava giocando un brutto scherzo, ma le sembrava che tutto fosse...bianco.
Tornò nello stanzone principale, alla grande finestra e scansò leggermente le tende, a sufficienza per vedere fuori e non abbastanza da dare fastidio a suo marito.
No, la luce non le aveva giocato un brutto scherzo. Tutto era bianco intorno a lei. Il terrazzo della palafitta, il tavolo di legno, le panche, gli alberi.
LA NEVE.
Gli occhi di Emma si riempirono immediatamente di lucciconi, eppure era felice. Preso un grosso respiro a pieni polmoni, un misto di commozione e gioia pura. Lei non l'aveva mai vista la neve sul lago, era la prima volta che capitava, ed era uno spettacolo come non ne aveva mai visti.
C'era stata una spolverata leggera a cavallo tra settembre ed ottobre, prima del loro matrimonio, ma lei era ancora in fase post operatoria e dormiva così tanto al mattino che il sole aveva fatto in tempo ad alzarsi e a sciogliere tutto intorno. Solo le cime erano rimaste bianche, ma a quelle, banalmente, era abituata: al suo ritorno a San Candido, nel mese di marzo, il lago era ancora ghiacciato in alcuni punti e la neve imbiancava le rocce.
Tempo un mesetto e sull'acqua si sarebbe formata una lastra di ghiaccio spessa, permettendo alla neve di posarsi e trasformare quel bacino in una immensa radura dove pattinare, sciare, passeggiare. Francesco le aveva raccontato persino che un allevatore nelle vicinanze nel weekend saliva con i suoi cani per fare il giro del lago con la slitta. Se lo conosceva un po', avrebbe protestato e storto il naso, ma alla fine avrebbe trovato il modo per sorprenderla e far fare quell'esperienza anche a lei.  
Per il momento, il riflesso dei larici scuri ricoperti di neve bianchissima aveva trasformato lo specchio d'acqua in una distesa verde petrolio, a metà tra il verde e il blu. Con le nuvole bianche basse e ancora cariche di neve la Croda del Becco, il tozzo monte che si staglia sul lago, era praticamente invisibile.
"Che guardi?" Emma non si era accorta che Francesco si era svegliato definitivamente, e se ne stava allungato sul letto abbracciato ad un cuscino ad osservarla. Sembrava assurdo ma, da quando lei era tornata a casa, non poteva fare a meno di notare quanto fosse diverso ed ogni giorno che passava era come se al suo fianco ci fosse un'altra persona. Era sempre Francesco, ovviamente, ma era come se la persona di cui si era innamorata, e che era nascosta in un bozzolo tutto il tempo, e solo lei riusciva ad intravedere, oltre gli strati di dolore e amarezza che la vita gli aveva accumulato addosso, ora stesse venendo fuori, poco alla volta, ma sempre più prepotente. C'erano dei giorni in cui le era sembrato un uomo anziano, affaticato, stanco della vita; ora invece, aveva dentro tutto il vigore di un uomo nel pieno della sua vita, la vitalità e l'energia di un ragazzo, talvolta persino l'ingenuità e la tenerezza di buon bambino. E con quegli occhi lì, grandi e profondi, lei si scioglieva come avrebbe fatto quella neve che era sul terrazzo se fosse uscito il sole.
"La neve" esclamò Emma, aprendosi in un sorriso estatico "ce n'è tanta stavolta"
Aprì le tende completamente e il riflesso della luce del giorno sulla neve fu accecante per entrambi.
Francesco si alzò dal letto, andando ad abbracciare sua moglie, di spalle, cingendola in vita. Il suo profumo di vaniglia, cannella e mandorle tostate lo avvolse completamente. Era il profumo dell'inverno e delle feste ed era perfetto per lei, con il suo carattere espansivo ed esuberante, ma al contempo dolce ed empatico. Ed era perfetto per lui che aveva un disperato bisogno di ritrovare un po' di gusto in una vita che gli aveva riservato solo delusioni e sofferenze per lungo tempo.
"Copriti che fa freddissimo!" gli intimò Emma, al contatto con il torso scoperto di suo marito. Francesco prese dalla piccola cassapanca ai piedi del letto un plaid, portandolo sulle spalle come un mantello da supereroe. Per lei, in fin dei conti, un po' lo era: non era facile trovare la forza di andare avanti con quello che gli era successo. Lui non era d'accordo: se c'era qualcuno con i super poteri, tra di loro, quel qualcuno era Emma.
Con un movimento fluido l'uomo avvolse anche Emma, la quale sorrise soddisfatta di quella iniziativa. Francesco le posò un bacio sulla tempia destra, ed Emma chiuse gli occhi per un po', lasciandosi completamente andare appoggiata con la schiena al petto del suo uomo. Prese un lungo respiro, assaporando il suo profumo deciso ma non aggressivo, legnoso ma fresco, lo stesso dei boschi in cui si addentrava ogni giorno, lo stesso che impregnava la palafitta, come fossero l'uno la prosecuzione ideale dell'altra. Era profumo di casa per lei, la faceva sentire benvenuta, amata, coccolata.
"Che vuoi fare oggi?" chiese l'uomo. Erano passati solo due mesi dall'operazione e anche se si era perfettamente ristabilita, continuava ad insistere che non si stancasse troppo, ma conosceva troppo bene sua moglie da sapere che non sarebbe riuscita a stare senza fare niente troppo a lungo. Quante volte aveva provato ad impedirle di fare qualcosa, per poi ritrovarsi a dover riparare a qualche danno, a soccorrerla o a dirle vedi, te lo avevo detto. Ormai non glielo diceva neanche più, era una battaglia persa in partenza.
"È contemplata l'opzione niente?" "Non me l'aspettavo ma assolutamente sì" "E posso non fare niente insieme a te oggi?" "Purtroppo non questa mattina" le disse, accarezzandole la guancia con un dito e poggiando una mano sulla sua palla, poggiandovi le labbra, mentre Emma teneva il plaid serrato per entrambi. Ad Emma quelle piccole attenzioni, quei gesti quasi impercettibili, facevano impazzire. Non era una cosa alla Francesco, non ci era abituata; tra i due, la più espansiva, la più fisica, era sempre stata lei. Lui l'aveva sempre rincorsa, sotto questo punto di vista. Ora invece, poco alla volta, iniziava ad essere più facile anche quello. "Sono di turno questa mattina ma il pomeriggio lo dedico tutto a te" spiegò "promesso"
Ci credeva alle sue promesse, ora. C'era stato un periodo in cui aveva smesso di fidarsi, in cui i suoi grandi proclami e le belle intenzioni, finivano per svanire come bolle di sapone. Non più. Le aveva promesso che le sarebbe sempre rimasto accanto in ospedale: lo aveva fatto; le aveva detto che l'avrebbe tirata anche per i capelli per tenersela stretta e beh - i capelli ce li aveva ancora tutti, ad esclusione di quelli che avevano dovuto radere per l'intervento - ma aveva lottato con lei ogni singolo giorno per farla risvegliare, e per lei contava come una promessa mantenuta.
"Vorrà dire che farò una lunga ma proprio lunga colazione, metterò su un maglione di lana e passerò la giornata ad aspettarti seduta sulla poltrona a leggere un libro"
"Metti anche dei pantaloni" disse lui, la voce baritonale più scura del solito ma insolitamente accesa "altrimenti passerò tutta la mattina a cercare di togliermi dalla testa l'immagine delle tue gambe"
 
A fine turno, Francesco infilò su il giaccone verde militare per uscire. Il sole, quel giorno, non aveva fatto capolino neanche per un secondo. Il cielo, coperto, non aveva fatto altro che scaricare fiocchi di neve a ripetizione per tutta la mattina. Nevicata o meno, doveva tornare a casa; onestamente, non vedeva l'ora.
In passato i suoi turni in caserma non avevano un orario preciso: generalmente era il primo ad arrivare e l'ultimo ad andare via. Ora, invece, finite le sue ore salutava tutti e andava via, con sommo stupore di quanti gli stavano intorno e negli anni avevano imparato a conoscerlo come il primo degli stacanovisti.
Certo, questo cambiamento repentino non era totalmente una sorpresa: nella casa sul lago, adesso, aveva ad aspettarlo una buonissima ragione, una ragione che portava il nome di Emma.
Francesco passò le consegne alla sua vice, salutò i colleghi e uscì. Non fece in tempo a mettere piede sul primo gradino della scalinata che, senza che se ne accorgesse, impegnato a mettere i guanti, gli arrivò una palla di neve sul braccio. Si voltò: Emma se ne stava sorridente, le guance e il naso arrossati per il freddo, nello spiazzo davanti alla caserma ad aspettarlo, gli stivali da neve ai piedi, il cappuccio del giaccone tirato sulla testa con la pelliccetta che le incorniciava il viso e una sciarpa rossa attorno al collo. Tra le mani un nuovo mucchietto di neve che stava diligentemente trasformando in una nuova palla.
"Non ci provare!!!" le intimò, correndo giù per le scale in fretta. "Seeee ciao Comandante …" Fu fiato sprecato, Emma gli lanciò anche quella seconda palla con la stessa enfasi. Lui riuscì a schivarla per poco, correndo verso di lei a fatica sullo strato di neve fresca che si era accumulato nelle ore per abbracciarla stretta prima che potesse chinarsi di nuovo a prendere altra neve da lanciargli. Nel silenzio del paesaggio innevato, dove non c'era anima viva, se non le poche persone a lavoro nell'edificio, la risata cristallina della giovane riecheggiava fragorosa. "Che vuoi fare?" "Non si vede? Voglio trasformarti in un pupazzo di neve" "Ma non se ne parla proprio…" di peso, Francesco tirò Emma sulle spalle, quasi fosse un sacco di patate e il volume delle risate finì solo per aumentare. "No dai Francesco … mettimi giù!" le urla di Emma si fecero più acute mentre suo marito iniziò a correre lungo la strada verso casa.
Non potevano saperlo, ma erano diventati uno spettacolo per i forestali ancora a lavoro nella caserma.
"Dai basta!!!" si lamentò la donna. "Basta?! E così vuoi scontare ben due palle di neve?" sghignazzò lui, un po' in affanno tra una falcata e l'altra. Senza volerlo, l'uomo mise un piede in fallo, a causa della neve copriva dislivelli e buche. Perse l'equilibrio e lui ed Emma finirono a terra in mezzo alla neve fresca. Velocemente si spostò per non pesarle addosso, preoccupato di averle fatto male, ma sua moglie rideva sonoramente.
"Amore stai bene? Ti ho fatto ma-"
Prima di concludere la frase, Francesco si trovò stampata sul volto una manata gelata di neve fresca, ed Emma gli si gettò addosso con tutto il corpo, sghignazzando soddisfatta. "E tre!" decretò. Il volto del forestale, a causa della neve gelata, che aveva ricevuto, era diventato tutto rosso. Emma seppur divertita ma sentendosi un po' colpevole, gli tolse la neve di dosso in fretta e furia, posandogli un bacio lungo bacio sulle labbra, mentre ancora stavano distesi sulla coltre bianca.
Era bello, anche solo per qualche minuti, dimenticarsi di quello che Emma aveva passato, ed iniziare a godersi anche le cose più semplici, senza paura delle conseguenze. Probabilmente dopo cena lei sarebbe stata stanca, più stanca del solito, avrebbe dormito fino a tardi il giorno dopo e a Francesco sarebbe montato il solito senso di colpa per aver approfittato troppo della salute di Emma. Ma in quel momento, piaceva pensarlo ad entrambi, tutto era finalmente normale.

 

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Capitolo 10
*** Ritorno a casa - parte 1 ***


 



Ritorno a casa

(parte 1)
 




Era una bellissima giornata di sole, o forse il sole Emma e Francesco quella mattina lo avevano dentro di loro e tutto intorno diventava bellissimo ai loro occhi, positivo, luminoso.
Era il giorno in cui Emma, finalmente, dopo 15 interminabili giorni, sarebbe tornata a San Candido, a casa. Aveva resistito tutto quel tempo in una camera d’ospedale da dove vedeva solo edifici, edifici e ancora altri edifici, solo perché sapeva che 2 volte al giorno Francesco sarebbe andato a farle visita. Pur nata e cresciuta in città, non era più abituata all’idea di affacciarsi alla finestra e vedere che il massimo della natura era un’aiuola su un marciapiede e qualche albero risparmiato all’asfalto e al cemento. Aveva bisogno di aria pulita e cieli tersi, ne aveva abbastanza della nebbia della pianura. E così aveva stretto i denti: dopo la terapia intensiva, dalla quale credeva non sarebbe mai uscita, i dottori avevano parlato di ripresa in tempi record, qualche infermiera vecchio stampo aveva sussurrato, di nascosto dai professoroni, la parola miracolo, ma nessuno di loro conosceva la forza di volontà che Emma sapeva tirare fuori quando voleva una cosa; Francesco, invece, la conosceva bene. E così il bollettino medico aveva iniziato a migliorare, diventando evidente agli occhi di tutti: dal letto era passata alla poltrona, dalla poltrona si era fatta trovare in piedi a tutti i costi e poi, piano piano, aveva iniziato a muovere dei primi passi scoordinati, via via sempre più sicuri e decisi. I due, in questo percorso, continuavano a scambiarsi sguardi silenziosi ma orgogliosi: ce l’avevano fatta, la promessa era stata mantenuta: avevano vinto loro.
In auto, la radio accesa tenuta come un leggero sottofondo, il paesaggio cambiava lentamente mentre sfrecciavano lungo l’autostrada. La pianura e i colli poco alla volta lasciavano spazio alle montagne, ma non erano ancora le loro: per quelle ci sarebbe voluto un po’ di tempo. Francesco guidava tranquillo e prudente. Qualcuno, a San Candido, avrebbe protestato che lo stesso riguardo Francesco non lo aveva per lui quando erano in macchina insieme. Un sorrisetto scappò al forestale tra sé e sé: Vincenzo non poteva pretendere di essere sullo stesso piano di Emma. “Perché ridi?” domandò Emma. “Niente … sono solo felice” “Anche io. Non vedo l’ora di rivedere tutti” “Non oggi però. Il viaggio è lungo e devi riposare. Ho detto agli altri di lasciarti qualche giorno in pace” “Mhmm va bene … forse hai ragione. Però Leo lo andiamo a trovare” “A quello non so dirti di no”
In effetti aveva ragione da vendere. 3 ore e mezza di viaggio erano ancora tante per lei. Si era data tanto da fare per tornare ad essere autonoma, ma a fine giornata era ancora molto debole e l’equilibrio precario. Francesco la vegliava in silenzio, man mano che salivano di quota dopo aver lasciato l’autostrada, buttando di tanto in tanto un occhio su di lei che guardava il paesaggio scorrere fuori dall’auto e stringendole la mano: temeva che tutti quei tornanti potessero stordirla e provocarle nausea, ma era tranquilla, rapita dalle prime case in legno con il tetto spiovente, dal verde dei prati misto all’oro dei larici che poco alla volta si preparavano ad accogliere il freddo dell’inverno. Ma forse quel controllo serviva più a lui che a lei, per sincerarsi che stesse succedendo davvero, che avevano davvero superato anche quell’ostacolo.
“Emma … amore?!” “Mh?” “Siamo al Passo di Monte Croce” Al confine tra Veneto e Alto Adige, il passo a 1600 metri era la porta di ingresso alla Val Pusteria. Dietro le poche costruzioni, un hotel, un bar e qualche malga e rifugio sparsa tra i prati e i boschi, le Dolomiti di Sesto si stagliavano imponenti e improvvise, quasi a darle il bentornata. In realtà era anche per un altro motivo che Francesco le aveva segnalato dove si trovavano: oltre un breve sentiero si apriva una piccola radura. Lì, di fronte alle loro amate montagne, era incastonato il posto dove si erano ritrovati, poco meno di un mese prima, là dove avevano fatto cadere ogni muro: ogni incomprensione non poteva valere quanto l’amore che provavano. E lì, un giorno, nella chiesetta troppo piccola anche per i loro pochissimi amici, avrebbero detto sì. Il paesaggio, man mano che scendevano verso San Candido, diventava sempre più familiare. Quaranta minuti più o meno e sarebbero stati a casa.
Arrivati a destinazione, Emma fu paradossalmente grata che il suo stato di salute, ancora non al 100%, non le consentisse di camminare più velocemente, perché così poteva riassorbire in ogni fibra la bellezza incontaminata del lago, i suoi profumi, i suoi colori. Era come essere alla presenza dell’eterno, per una volta a portata di mano. I suoi occhi non sapevano dove posarsi prima: le acque color smeraldo con il sole che si riflette luccicante, il verde ancora brillante delle conifere, l’argento delle cime rocciose ancora sgombre di neve, il rosso acceso delle bacche tra gli arbusti. Si teneva forte allo steccato che contornava il sentiero attorno al lago, passo dopo passo, avvicinandosi alla palafitta: il cuore le batteva all’impazzata nonostante si sentisse pervasa da un senso profondo di pace e totale beatitudine. Mentre Francesco toglieva il lucchetto alla porta di ingresso lei si fermò sul pontile a bearsi di quel sole, alto e caldo quasi non fosse fine settembre: forse era una mera suggestione, ma le sembrava che anche solo quel piccolo gesto bastasse per farla sentire meglio già meglio. “Amore?!” sentì Francesco chiamarla “Che hai? Non ti senti bene … dimmi la verità”
Emma se ne stava appoggiata ad una colonnina degli ormeggi, vicino alle scale per scendere in acqua. La vedeva pallidissima, gli occhi chiusi e le guance rigate dalle lacrime. Immediatamente Francesco si sentì in colpa: non avrebbe dovuto darle retta e, anziché fermarsi solo brevemente per andare in bagno a metà percorso, avrebbero dovuto fare molte più soste e ben più a lungo. L’aveva affaticata troppo ed era stato avventato a credere che tutto fosse tornato come prima: il peggio era passato, certo, ma il cammino verso la normalità era ancora lungo. “Sono stanca ma sto bene, davvero!” tentò Emma di rassicurarlo, asciugando le lacrime; nemmeno si era accorta, lì per lì, di star piangendo. “Sono solo felice di essere a casa” ammise candidamente “per un attimo ho avuto paura di non riuscire a rivedere tutto questo … e poi pensavo a quanto siamo fortunati a chiamare questo posto casa. Chi sta meglio di noi?” Francesco sorrise, abbracciandola in vita e poggiandole un lungo bacio sulla tempia. Emma si abbandonò totalmente a quell’abbraccio, quasi lasciando andare il suo peso contro di lui che, alle sue spalle, la sorreggeva. Nessuno stava meglio di loro, pensò Francesco, ma il luogo c’entrava fino ad un certo punto … erano insieme, questa era la cosa più importante. Lui aveva deciso: se non fosse tornata da quel viaggio, avrebbe chiuso la porta con le catene e se ne sarebbe andato, perché avrebbe smesso di essere casa, sarebbe diventato solo l’ennesimo luogo doloroso ed inospitale. “Entriamo” le sussurrò, scacciando quel brutto pensiero “forse è meglio se ti stendi un po’”
Era assurdo, ma per Emma era come mettere piede su quelle assi di legno per la prima volta: forse era lei a sentirsi diversa, ora che sapeva di avere tanto tempo extra a sua disposizione. Sul terrazzo non era cambiato nulla, forse c’era un po’ più di ordine e qualche attrezzo in meno, e conoscendo Francesco di sicuro c’era di mezzo la sua determinazione a farla stare in un posto il più ospitale e confortevole possibile. Già si immaginava gli uomini della caserma e i loro amici a sistemare casa per il suo ritorno sotto il comando del comandante Neri. Avrebbe voluto assistere alla scena e sperava che ci fosse qualche video clandestino, magari di Valeria o Isabella - se le conosceva un po’ di sicuro non avrebbero perso l’occasione per documentare tutto. Quando entrò all’interno, invece, quella sensazione di novità era diventata certezza. “Ma cosa hai fatto?” gli domandò, sedendosi sul letto al centro della stanza e guardandosi attorno, stupita: le gambe, per l’emozione, non le reggevano “È cambiato tutto qui!” “Nah … ho solo fatto ordine e aggiunto qualche mobile. Hai bisogno di una casa, non di un tugurio”
Ai due lati del letto c’erano due comodini veri, e non più una sedia e un masso – anche se avere una roccia in casa l’aveva sempre fatta sorridere ed era così da Francesco. Ai piedi del letto una cassapanca, non molto grande ma sufficiente per tenere in ordine. Sulla parete di fronte al letto la stufa a legna la faceva da padrone. Emma notò dei bagliori rossastri: qualcuno era andato ad accenderla prima del loro arrivo ed era rimasta solo la brace incandescente, sufficiente a donare alla casa un piacevole tepore. Alla destra della stufa il banco che Francesco ricopriva di mappe e altre scartoffie del lavoro, era finalmente diventato un piccolo ma funzionale tavolo da pranzo; di fronte, la poltrona in pelle e un tavolino da lettura si sposavano bene con gli scaffali finalmente liberi dal cibo in scatola e dagli attrezzi di falegnameria. Vicino alla porta d’ingresso aveva persino trovato spazio un mobiletto appendiabiti in legno, con tanto di specchio e scarpiera.
Anche se restava uno stanzone, non più grande di un monolocale, ora era molto più accogliente della tana scomoda e sciatta che era stata fino a quel momento. Ma Emma non incolpava nessuno: era tanto caotica quanto ingarbugliate erano state le loro vite fino a quel momento.
“Dove sono tutte le tue cose?” gli domandò lei, incredula. “Ho tenuto e messo in ordine lo stretto necessario … il resto l’ho dato via” ammise, candidamente. Non era un accumulatore, ma essere da soli fa perdere la misura delle cose. “Adesso puoi sbizzarrirti a riempire questa libreria” continuò “finalmente non devi andare a prendere i libri in prestito in biblioteca o accontentarti degli ebook che ti fanno venire il mal di testa” “E per la dispensa?” “Non hai visto il pezzo forte …” disse, spalancando il braccio verso il piccolo corridoio laterale. Emma si alzò, lentamente, ricordando le raccomandazioni del neurologo e sbirciando là dove il compagno le aveva indicato. Anche lì dove prima c’era un semplice piano di legno e una misera cucina da campeggio, Francesco aveva sistemato un paio di mobili e delle mensole. “Qui ci devo ancora lavorare un po’, ma quando sarà finita sarà un gioiellino” promise. “Non che non apprezzi lo sforzo, anzi. Ma anche agghindata così, rimane sempre una cucina da campeggio” Più che un’aria rustica sembravano mobili che non si utilizzavano da una vita, presi da una vecchia casa abbandonata. “Amore abitiamo su una palafitta su un lago, anche volendo miracoli non ne posso fare” “Così però non imparerò mai a cucinare come si deve” Emma questo lo sapeva bene; e poi lui si era dato da fare, il tutto mentre si preoccupava per lei chiusa in un ospedale, e questo contava tantissimo. “Sono di poche pretese, lo sai. L’importante è che non mi avveleni” In altre circostanze avrebbe ribattuto a quella battuta, magari gli avrebbe persino tirato un buffettone o una gomitata, ma non quel giorno: era sopraffatta dagli eventi e dalle forti emozioni.
Emma prese il volto di Francesco tra le mani, accarezzandolo leggermente. “Hai fatto tutto questo per me …” “L’ho fatto perché è arrivato il momento di tenere fede alla promessa che mi hai fatto … anzi che ci siamo fatti … prima di andare in ospedale” “Quale delle tante?” “Di prenderci quel futuro che ci spetta … e prendercelo con tutti gli arretrati e gli interessi” “Molto volentieri” sospirò Emma, felice. Fisicamente si sentiva ancora molto debole, ma dentro scalpitava: non vedeva l’ora di poter vivere quella vita che con la guarigione le si prospettava. “Allora iniziamo subito. Ho qualcosa di tuo che devo ancora restituirti” le disse, ma lei aggrottò le sopracciglia, confusa. Francesco allora sbottonò il colletto della polo per tirare fuori la catenina che aveva al collo. Presa da tutto quello che era successo, Emma aveva completamente dimenticato l’anello che lui le aveva regalato e che gli aveva affidato. “Con tutta la riabilitazione e i continui spostamenti in ospedale non volevo rischiare che lo perdessi” “Hai fatto bene”
Francesco tolse la finissima vera in oro giallo dalla catenina, di fianco alla medaglietta in ricordo di Marco. “Nn nn” scosse la testa e ritrasse la mano quando Emma gli presentò il suo palmo per prendere l’anello e metterlo da sola “non così. Siediti!” con un cenno del capo le indicò il letto. Emma, perplessa, andò a sedere e ben presto Francesco le si inginocchiò davanti. “Cosa stai facendo? Ancora? Francesco me l’hai già chiesto due volte …” “Non c’è due senza tre” le rispose, sornione, facendole l’occhiolino. La prese per mano, portando l’anello sulla punta dell’anulare. Per la prima volta entrambi si accorsero di quanto il ricovero avesse cambiato Emma fisicamente: le mani, lunghe e affusolate, erano diventate quasi scheletriche e l’anello avrebbe avuto bisogno di essere portato a stringere dal gioielliere. Quello che però più fece gelare il sangue di Francesco, pur dissimulando con tutte le sue forze, era il loro colore: normalmente di un bianco porcellana, nobile e prezioso, ora erano diafane, e i continui prelievi e le cannule infilate sul dorso della mano avevano lasciato un souvenir bluastro. In ospedale, con i cerotti e le maniche del pigiama strategicamente posizionate, nessuno dei due ci aveva fatto caso o forse c’era tanto altro a cui pensare.
“Emma Giorgi …” “Ti voglio sposare?! Sì lo voglio, te l’ho già detto …” scherzò lei. “Fammi finire …” “Scusa” si zittì, spiacente ma anche un po’ divertita. “Una volta qualcuno mi ha detto…vivi la vita, smettila di pensare a tutte le cose che vorresti fare ma falle…” Era stata proprio lei a dirglielo, un giorno, seduti a guardare le montagne da quello che poi sarebbe diventato il loro posto speciale. “E io pensavo che ci volesse del coraggio a vivere sapendo di avere le ore contate. E quanto coraggio hai avuto amore mio” Lui, così imbrigliato nelle sue paure, si faceva sopraffare dai suoi fantasmi; lei, a dispetto della sua diagnosi, riusciva a trovare tutte le mattine una ragione per alzarsi e dar valore ad ogni singolo giorno, col sorriso. “Tu mi hai insegnato a lottare” proseguì Francesco “a sorridere nonostante tutto perché è possibile trovare del bello in tutte le cose” Emma annuì, arricciando le labbra, commossa. Era un bel giorno non voleva piangere. “Anche nei giorni più bui” commentò. “Sì, anche in quelli” concordò l’uomo “ma io non ci credevo davvero e scoprirlo mi ha lasciato senza fiato” Per incredibile che fosse, c’erano momenti, in cui riusciva ad andare avanti anche in quei giorni in cui lei era riversa, esanime, su un letto d’ospedale. Poteva essere la chioma di Leo appisolato sulla sua gamba in sala d’attesa, o la risata di Mela dall’altro capo del telefono quando aggiornava gli amici, o il colore di un fiore nella vetrina del fioraio di fianco all’ospedale. Piccoli lampi di luce e colore in un mondo che era diventato, da un momento all’altro, buio e in bianco e nero. “Vedi?” continuò “Ogni singolo giorno riesci a stupirmi, dandomi qualcosa di nuovo da imparare. Ed è per questo che io voglio farlo Emma!” “Cosa?” “Voglio vivere la mia vita e voglio viverla con te, sin da ora. Perché non voglio smettere più di stupirmi, voglio continuare a rimanere senza fiato” Lo avrebbe fatto prima, quando il loro futuro era incerto e a maggior ragione lo avrebbe fatto in quel momento, quando la nebbia che contornava il futuro di Emma si era ormai diradata.
“E meno male che dici sempre di non essere bravo con le parole” mormorò Emma, asciugandosi la guancia da una lacrima che era scesa senza che neanche se ne accorgesse. Francesco fece scorrere la fedina nel dito e veramente le andava larga, ma non importava a nessuno dei due in quel momento. Emma chiuse il pugno sulla mano del compagno, stringendola più forte che poteva, pur non staccando mai gli occhi dai suoi. “Sposiamoci” “Certo che lo faremo, ti ho detto di sì già … tre volte ormai” “No … cioè … volevo dire…sposiamoci subito!” “Come subito?” “Prima che arrivi l’inverno. Avevamo una data … le partecipazioni erano pronte, siamo ancora in tempo …” “Ma è poco più di mese da oggi?! … tu sei completamente pazzo …” “Sì … di te. Non so tu, ma io non ho bisogno di una cerimonia grande. Tu, io, i testimoni e il prete” “E Leonardo” “Sì, anche Leonardo. In jeans e felpa e una birra per brindare.” “Ma perché? Io non vado più da nessuna parte. Ora più che mai abbiamo tutto il tempo del mondo” “Perché tutto il tempo del mondo voglio passarlo con mia moglie …”
Non sapeva spiegarlo meglio, ma era importante. Forse era una solo una formalità, ma quel sì lo voglio detto davanti alle persone più importanti nelle loro vite era per Francesco il segno tangibile che ce l’avevano fatta, che il loro amore aveva vinto su tutto.
“Va bene” decretò Emma, sorridendo “facciamolo” “Davvero?” domandò Francesco, leggermente incredulo che avesse accettato. “Sì” Emma stava ridendo, di gusto, come non le vedeva fare da giorni. La fatica le lasciava spesso solo la forza per esili sorrisi, che si imponeva di fare per tranquillizzare il suo compagno che tutto procedeva per il verso giusto. “Del resto” aggiunse “quando mai io e te facciamo una cosa normale?! Però una cosa me la devi concedere … che ti vesti elegante, con tanto di cravatta” “Nooooo Emmaaaa”
La giovane si sporse verso di lui, che era ancora in ginocchio davanti a lei, ancorandosi alle sue spalle. La sua fronte sulla tempia dell’uomo, gli posò un bacio sulla guancia, giocosa. “Mi è mancato tutto questo … la nostra bolla” Lui e lei, insieme, le piccole cose, anche i bisticci innocenti, erano la cosa che più la facevano sentire viva e felice di esserlo, la cosa a cui, più di tutte, si era aggrappata per poter tenere fede alla promessa fatta a Francesco di tornare da lui.

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Capitolo 11
*** Ritorno a casa - parte 2 ***




 
Ritorno a casa
(parte 2)


 
 
“Buongiorno!” Aprendo gli occhi lentamente, Emma trovò il viso di Francesco di fronte al suo. Nella penombra della stanza, dopo 14 giorni d’ospedale aveva impiegato qualche secondo a ricollegare dove fosse e cosa stesse facendo. Ma quando le sue sinapsi si decisero a partire, una gioia al limite dell’inspiegabile la travolse. Era a casa, era con Francesco, finalmente libera da quel macigno che era stata la sua malattia. Quasi non le sembrava vero, eppure quei giorni d’inferno che aveva superato erano una prova più che tangibile che era tutto vero.
“Ti prego non dirmi che hai passato la notte in bianco a guardarmi dormire” disse Emma, la voce ancora un po’ impastata, stiracchiandosi: purtroppo sapeva che ne era totalmente capace. Ed di essere così prevedibile, a Francesco, in quel momento, non faceva né caldo, né freddo…era la prima notte che passavano insieme a casa dopo il ricovero: fosse stato per lui non se ne sarebbe perso un secondo. Non solo per l’unicità dell’evento, ma anche perché voleva essere sicuro che fosse tutto apposto. Emma stava bene, ogni giorno stava meglio, ma c’era ancora una spia nel suo cervello che lampeggiava: da rossa ormai era diventata gialla, ma perché potesse passare al verde e smettere di lampeggiare ci voleva ancora un po’. Ci voleva qualche giorno insieme, da soli. “In realtà” ammise “ho chiuso gli occhi intorno alle 3 e mi sono svegliato alle 6…mi sto rammollendo” “Ti preferisco rammollito e riposato sinceramente” scherzò lei, tirandolo a sé per la maglietta e dargli un bacio. Nei giorni del ricovero Francesco non le aveva mai fatto mancare i suoi baci o piccoli gesti d’affetto, ma non sentire sotto il naso quell’odore di medicinali e non essere imbrigliati in fili e tubi, o sentire lo sguardo del personale del reparto o degli altri pazienti addosso era un piacevole sollievo. C’erano solo loro ed era una sensazione meravigliosa.
 
Se c’era una cosa di cui Emma era profondamente convinta, era che la sua malattia le avesse insegnato a non dare mai niente per scontato. Ed invece, tornata a casa, si era resa conto che in realtà c’erano ancora tante cose, le più piccole e banali, per le quali non era mai stata abbastanza grata. Sapeva di essere una privilegiata, non tutti potevano dire di avere una casa fronte lago, ma raramente in passato avrebbe apprezzato più di tanto un plaid caldo sulle gambe o una tazza di tisana bollente. In quel momento, anche quelle le sembravano un piccolo miracolo.
“L’aria è frizzantina, sei sicura di non voler rientrare?” “Ho tutto quello che mi serve per stare al caldo, sono rimasta chiusa per troppo tempo” mentre parlava, dalla sua bocca usciva la classica nuvoletta di fumo dei giorni più freddi. Era così surreale che stesse succedendo quando non era ancora finito il mese di settembre, ma a quell’altitudine non doveva stupire e, anzi, doveva farci l’abitudine: presto sarebbe arrivata anche la neve, lo sentiva nell’aria.
Francesco, anche se un po’ controvoglia, l’aveva lasciata fare, capendo benissimo cosa si prova a stare per troppo tempo lontani da quei posti; soprattutto, era fermamente convinto che l’aria incontaminata delle loro montagne fosse, per uno spirito indebolito, la medicina migliore per ritemprarlo. Così, con la scusa di alcuni lavoretti di manutenzione nel suo angolino bricolage sul terrazzo, le aveva fatto compagnia quasi tutto il pomeriggio. Emma apprezzava che le stesse affianco così, discretamente: le restituiva la dimensione di una quotidianità ritrovata, anche se non era proprio come prima o come sarebbe stato da lì a qualche mese, come sperava. Però erano insieme, all’aria aperta, senza l’odore di disinfettanti e medicinali, senza l’orribile cucina ospedaliera, senza le luci fredde delle corsie. E di questo era sicuramente ben più che riconoscente.
“Cosa vuoi per cena?” le domandò Francesco, mentre con uno straccio toglieva il grasso dalle mani. Da quando era tornata a casa, Emma non aveva praticamente mosso un dito; era a malapena riuscita a sistemare il letto quella mattina, approfittando che il compagno fosse sotto la doccia. Neanche a dirlo, la cucina era quindi off limits. Non che le dispiacesse essere coccolata per qualche giorno, ma conosceva troppo bene Francesco per non sapere che era necessario imporgli dei limiti o sarebbe arrivato a scarrozzarla in giro sulle sue spalle se avesse dato troppo spago alle sue attenzioni. “Quello che vuoi … tutto è meglio della cucina dell’ospedale, anche gli avanzi di ieri” Per il ritorno dall’ospedale, Huber aveva riempito il frigo e le mensole di che sfamare un reggimento per un mese. In caldo sulla stufa aveva lasciato persino l’arrosto con le patate, ma loro erano in due e nella casseruola ce n’era abbastanza da essere troppo anche per la numerosa famiglia del poliziotto. “A proposito di avanzi…e se facessi il gröstl?” “Però ci metti anche le uova …” “Ovviamente, sennò che rosticciata è?!” gongolò soddisfatto Francesco, posandole un leggero bacio sulle labbra prima di rientrare in casa per lavare le mani e mettersi ai fornelli. Emma aveva inevitabilmente perso peso in ospedale e, nei limiti della dieta imposta dai medici per tenere a bada tutti i valori, Francesco si era messo in testa di farla tornare in forma a modo suo, prenderla per la gola. E cosa c’era di meglio di una padella che sfrigola sul fuoco e da cui salgono profumi autentici e genuini di un rifugio alpino, che deve fare di necessità virtù e recuperare quanto più possibile?!
 
“Se il medico sapesse quello che sto mangiando in questo momento farebbe partire un ricovero forzato all’istante” esclamò Emma, addentando una grossa forchettata di carne. “E noi non glielo facciamo sapere … occhio non vede, cuore non duole. E poi non lo sai che le diete si cominciano sempre di lunedì?! E oggi è sabato …” ironizzò Francesco, sornione, facendo l’occhiolino. Emma contraccambiò il sorrisetto furbo, complice. Due settimane di brodini insipidi erano state sufficienti e si meritava qualche giorno di tregua.
“Ascolta … stamattina ero ancora un po’ sottotono, ma adesso mi sento già meglio. Domani andiamo a trovare Leo?” “Emma non devi affaticarti, il medico è stato tassativo!” “Povero piccolo, sa che sono tornata, non voglio dargli l’impressione che mi sono dimenticata di lui. E poi capirai che fatica … ci sediamo su una panchina e stiamo in giardino con lui! Mi dispiace solo che ci resterà male quando saprà che non possiamo andare insieme a vedere i lupi come gli avevamo promesso” Purtroppo gli educatori e gli assistenti sociali erano stati chiari: il bambino non poteva allontanarsi dalla casa famiglia per più di un paio di ore ogni settimana e loro non erano nessuno per ottenere deroghe. Prima o poi, speravano, avrebbero potuto fare di più, riuscire a strappare un pomeriggio intero, o anche qualcosa di più, ma era ancora presto. “Stai tranquilla, a quell’età si fa presto a trovare un diversivo” cercò di rincuorarla. “Cosa hai in mente?” “A Dobbiaco c’è una specie di piccolo zoo. Non ci saranno i lupi, ma cervi e stambecchi non sono animali che si vedono tutti i giorni, no?” “No, infatti” “E poi ci possiamo andare insieme tra un paio di settimane, anche se dovesse nevicare” Quella era, in definitiva, la principale preoccupazione di Francesco: indipendentemente da ogni motivazione, quella che più importava per l’uomo era non lasciare indietro Emma; a lei forse non importava doverlo lasciare andare per mezza giornata, ma a lui sì. Si era ripromesso che non l’avrebbe lasciata più da sola quando aveva bisogno di lui ed era determinato a mantenere la promessa.
Emma lasciò le posate nel piatto per intrecciare la sua mano con quella dell’uomo, seduto di fronte a lei. D’improvviso, mentre gli sorrideva, non staccando lo sguardo da quello del suo uomo, i suoi si fecero lucidi. “Che succede? Perché piangi amore?” “Niente … è solo il calore della stufa, mi irrita gli occhi” provò a sdrammatizzare la giovane, stropicciando gli occhi, ma tutti e due sapevano che non era quello il motivo. “Grazie” sussurrò. “Di cosa?” “Di essere come sei …” “Come? Un idiota che stava per perderti per sempre?” Ad entrambi scappò allora un leggero sorriso, ma Emma scosse la testa “l’uomo meraviglioso che sei … che quando in ballo c’è qualcosa o qualcuno a cui tiene davvero non si arrende finché non è finita. E forse neanche allora …” Sì, quel pensiero forse le era venuto in mente per una stupidaggine, per una gita ad uno zoo in cui voleva includerla, ma quando vedi la morte in faccia niente è più lo stesso e tornare a vivere come fanno tutti, con superficialità, per Emma avrebbe richiesto un po’ di tempo. Sperava sinceramente che Francesco, a quei suoi discorsi malinconici, non scappasse a gambe levate. “Ma quello lo devo solo a te” ribatté il forestale “mi hai conosciuto nel momento più buio della mia vita, lo sai fin troppo bene com’ero. Quando sei arrivata tu ho avuto di nuovo qualcosa per cui valesse la pena di lottare: tu” Non era stato facile venire fuori da quelle sabbie mobili in cui aveva imbrigliato la sua vita, volontariamente, perché, diceva, se lo meritava dopo quanto successo a suo figlio. E anche se a volte quella vocina interiore tornava a sussurragli che la colpa era sua, anche per la più piccola cosa, ora gli bastava incrociare lo sguardo di Emma, prenderla per mano e lasciarsi guidare: non sarebbe più sprofondato. Per quel motivo, quando lei non poteva, aveva combattuto per tutti e due e avrebbe continuato a farlo.
 
Quella sera, dopo cena, Emma chiese a Francesco di poter fare una doccia. Anche se ne sentiva bisogno da quando era tornata a casa, aveva rimandato il più possibile.  In ospedale aveva sopperito con salviette e shampoo secco laddove, passata l’emergenza, si sentiva di essere un peso anche per gli infermieri. Le dicevano di non farsi problemi, ma lei era fatta così. Era fatta così che, in quella situazione, si sentiva d’impiccio persino con Francesco, che l’aveva vista in condizioni ben peggiori; doveva mettersi a nudo di fronte a lui, mostrargli i segni che l’intervento aveva lasciato su di lei. Così aveva tirato avanti il più possibile, raccogliendo i capelli in una crocchia e lavandosi da sola come poteva; ma il giorno dopo, avrebbe rivisto Leonardo e poi gli amici e l’ultima cosa che voleva è che vedessero la cicatrice dietro la testa poco più in altro della nuca. Non se ne vergognava, anzi: era come una medaglia appuntata da portare con orgoglio, perché ce l’aveva fatta e ce la stava facendo ogni giorno di più. Ma non voleva essere compatita, non voleva sguardi di pietà da nessuno: poverina, chissà cosa ha fatto … così giovane, erano le parole che immaginava ronzare nella testa di chiunque incrociasse anche per pochi istanti. Ma lei non era una poverina, lei aveva vinto una battaglia che per tanto tempo aveva considerato impossibile.
“Certo che puoi…perché me lo chiedi?” “No … è che … da sola non mi sento sicura”
Francesco si sentì stupido per averle fatto quella domanda. Era chiaro che non era molto stabile e probabilmente temeva di scivolare in doccia. In più, anche se riusciva a nasconderlo bene, aveva qualche piccolo problema di forza e di coordinazione: il neurologo aveva detto che era transitorio, che dipendeva dall’ematoma causato dall’emorragia e pian piano sarebbe scomparso, ma alcune cose banali come asciugare i capelli o allacciare bottoni e lacci erano ancora piccole imprese quotidiane.
“Scusa” sussurrò “non … non avevo capito. Penso a tutto io, dimmi cosa serve”
Emma lo guardò preparare tutto il necessario come un maestro guarda un alunno durante un esame, con tenerezza e simpatia nel vederlo impacciato nonostante fosse la cosa più basilare del mondo. Lentamente, si avviò nel piccolo bagno, dove anche in due si stava stretti e bastava far uscire per poco l’acqua calda che il legno delle pareti faceva il resto per rendere l’ambiente gradevole.
Proprio quando si era ormai liberata della biancheria intima, Francesco entrò nello stanzino con l’accappatoio e gli asciugamani puliti. I loro sguardi si incrociarono ed Emma dovette resistere all’istinto di coprirsi di fronte a lui, il suo uomo. Le ultime notti in palafitta, prima di partire, erano state le più lunghe e le più belle della sua vita, si erano trovati e scoperti in un modo nuovo, più libero e più vero, forse anche per il terrore che fossero le ultime notti insieme, per sempre. Ma ora era tutto da rifare da capo: addosso portava i segni di quei giorni in cui lei era inerte sul letto della terapia intensiva e lui, impotente, non poteva far altro che stare lì a guardare, pregando e sperando che cambiasse qualcosa.
“Cosa devo fare?” le domandò, quasi sottovoce, goffo ed insicuro. “Faccio da sola” gli disse, prendendolo per mano per scavalcare il piccolo gradino del piatto doccia “però rimani qui”
Il picchiettio gentile dell’acqua sul suo corpo la estraniò poco alla volta da quella situazione, il calore del vapore che saliva tutt’attorno a lei la avvolse facendola sentire al sicuro, calmandole il cuore che poco prima aveva iniziato a correre, confuso e agitato da quella strana situazione. È Francesco, va tutto bene, pensava tra sé e sé. Ma non andava bene per niente, perché lui avrebbe dovuto vederla nuda in un momento di passione, sarebbe stato giusto e normale, come giusto e normale sarebbe stato essere nudi insieme dentro quella doccia, ridendo come due cretini perché era troppo piccola e stretta per tutti e due. Ed invece lui stava lì fuori ad aspettarla, a controllare che non mettesse un piede in fallo o peggio, debole com’era, che il calore della doccia non le provocasse uno svenimento.
Però quella doccia lei poteva ancora farla, e poteva raccontare quella situazione surreale. Era stata a tanto dal non tornare più a casa, doveva essere grata alla medicina e alla sua buona stella.
Terminata la doccia Francesco aprì la tendina. Emma, di spalle, stava strizzando da un lato, con le mani, i capelli lunghi, lasciando scoperta la porzione della testa che era stata rasata per l’intervento. Era la prima volta che la vedeva: all’inizio coperta dalle bende, Emma aveva sempre avuto cura di coprirla con il resto della chioma. Sotto i capelli che avevano iniziato a ricrescere, molto lentamente, c’era un cordoncino rossiccio, con tanti puntini ai lati sulla lunghezza del taglio quanti erano stati i punti di sutura. Prima di poggiarle l’accappatoio sulle spalle si avvicinò con cautela e le poggiò un bacio sulla spalla e, poco per volta, risalì lungo il collo fino ad arrivare alla testa, nel punto che era stato la loro croce ma anche, per fortuna la loro delizia.
Un brivido corse lungo la schiena della giovane, che non si aspettava un moto del genere da parte dell’uomo e dovette sorreggersi per un attimo alla parete, sorpresa. Istintivamente, inarcò leggermente il collo all’indietro e con il braccio lui la sorresse stringendola in vita. Le curve generose che amava di lei sembravano sparite. Era ancora bellissima, di una bellezza che non sfiorisce perché viene da dentro, ma tutta la dolcezza dei suoi tratti aveva lasciato il posto a leve lunghe ed esili ed un viso tutto spigoli. “Ti stai bagnando tutto” mormorò Emma, la voce bassa e strozzata, abbandonandosi ad una lieve smorfia compiaciuta. “Chissà perché finisce sempre che mi bagno con te … fin dal primo giorno” aggiunse, se il riferimento al loro primo incontro non fosse abbastanza chiaro. Ma per Emma era chiarissimo. Si voltò, mentre Francesco l’aiutava a coprirsi, stringendole con cura il bavero dell’accappatoio attorno al collo, le mani di lui che si muovevano più sicure e senza più soggezione.
“Se vuoi per i capelli posso chiamare Valeria” le disse. “Perché? Non sai tenere in mano un phon?” “Ma lei è una donna, di sicuro ci sa fare più di me” “Non ho bisogno di un’acconciatura all’ultimo grido, basta che li pettini bene … mi fido di te”
I due si sorrisero: in qualche modo, anche quei piccoli gesti li stavano aiutando a riprendere confidenza l’uno con l’altro, ritrovando l’intimità perduta.
 
Il weekend, per i gusti di Francesco, era passato troppo in fretta. Non era uno che amava starsene in casa a non fare nulla, e viveva per il suo lavoro – in realtà gli piaceva di più ficcare il naso nelle indagini della polizia – ma con il ritorno di Emma a casa non c’era altro posto dove volesse essere se non con lei, in palafitta. Ma finito il ricovero, anche lui doveva tornare alla vita di tutti i giorni e ai turni in caserma. Per non disturbare Emma che dormiva, si era sistemato sulla terrazza a fare colazione, ma uno schiocco rapido sulla guancia lo colse di sorpresa, mentre era sovrappensiero.
“Buongiorno!” esclamò Emma, andando a sedere sulla panca al suo fianco. “Buongiorno!”
Nonostante il colorito della sua carnagione ancora così innaturalmente pallido, nonostante l’aspetto emaciato, era ancora bellissima, da rimanere senza fiato; tutta la sua bellezza, Francesco lo sapeva bene, veniva dai suoi occhi: l’equilibrio interiore, la pace con sé stessa e con gli altri e la meraviglia che provava di fronte anche alle più piccole cose emanavano una luce e un calore in grado di riscaldare anche i cuori di ghiaccio come il suo. “Ci si può abituare ad una vista così?” chiese, con lo sguardo rapito dal lago. Non era una giornata bellissima, il cielo era grigio e solo un po’ di vento avrebbe risparmiato loro la pioggia, ma il contrasto tra la nuda roccia grigia e gli alberi che cambiavano colore poco alla volta riusciva comunque ad attirare l’attenzione. “Difficilmente” decretò Francesco. “Bene” commentò Emma, soddisfatta. La giovane si versò del succo di mela nel bicchiere e iniziò a spalmare la marmellata su una fetta di pane tostato. Una cosa era certa: l’aria di montagna le aveva messo appetito. Francesco pensava a come era solo un paio di settimane prima e la guardava estasiato. “La smetti di guardarmi come se avessi avuto una visione?!” “Ma tu sei una visione!!!” Emma gli tirò una pacca leggera sul braccio, sorridendo timidamente, imbarazzata. Se non altro, quel complimento le aveva provocato un leggero rossore sulle guance, che la rendevano una quasi bambola di porcellana. Francesco la strinse in vita, delicatamente, attirandola a sé per darle un bacio. Le sue labbra, pur screpolate, avevano per fortuna ancora lo stesso sapore e Francesco vi si staccò malvolentieri. “Stanotte ho dormito come un ghiro … e non ho visto neanche che ore sono” dichiarò Emma, soddisfatta. Non era ancora al top, ma sentiva addosso tutta la differenza e l’energia che essere a casa le aveva dato. “Le nove” “Le nove? Ma oggi non devi tornare a lavoro?” domandò, sconvolta, mentre strappava il primo boccone di pane e marmellata. “Sì ma tranquilla, ho il turno di pomeriggio. Hai il fisioterapista questa mattina” “Ah già … la mia testa lavora ancora un po’ a rilento” “Non ti preoccupare amore, una cosa per volta … anzi … per quella cosa che ti ho detto l’altro giorno, se non te la senti …” “Cosa? Il matrimonio?” Francesco annuì: la foga del momento lo aveva portato a chiederle di sposarlo subito, ma forse era stata una mossa avventata.
“Cosa c’è … già hai cambiato idea? Non se ne parla Neri, non lanci il sasso per poi nascondere la mano. Lo voglio e lo faremo …” “Molto bene Giorgi. Allora inizia pensare ad un testimone per te perché dobbiamo anche andare in comune e dal prete” Quello era un dettaglio che Emma non aveva considerato. Non era esperta di matrimoni, era stata solo damigella di sua zia quando era bambina, ma immaginava che in questi casi si scelga qualcuno di importante per sé e per la propria storia d’amore. E, purtroppo, a lei veniva in mente solo Vincenzo, ma era sicura che Francesco lo avrebbe scelto e non lo avrebbe privato del suo migliore amico. L’altro papabile, invece, era a settemila chilometri di distanza, e non gli avrebbe mai chiesto di tornare in Italia dal Nepal per partecipare al matrimonio di una persona a cui aveva fatto da guida per caso durante un viaggio con un’altra che nemmeno conosceva. Suo fratello, invece, neanche a parlarne, era ancora una ferita aperta.
“Ah dimenticavo…” disse Francesco, distogliendola dai suoi pensieri “mi ha mandato un messaggio Vincenzo, Valeria deve accompagnare Isabella a Brunico oggi pomeriggio e lui rimane a lavoro fino a tardi. Ti va di occuparti di Mela?” “In foresteria?!” “Sì, certo” “Proprio oggi pomeriggio che tu sei di turno …” indagò Emma, diffidente. Non aveva moltissima confidenza con Valeria, ci aveva avuto a che fare quando era venuta a mancare Adriana, qualche volta quando era andata a trovare Francesco in caserma e naturalmente quando era stata ospite della foresteria, allo scoppio del caso Moser; sapeva bene però che per la piccola Mela si era sempre fatta in quattro e lei e sua nipote non la lasciavano mai con nessun’altro che non fosse il padre. A loro modo, senza legami di parentela, quei quattro erano a loro modo una famiglia a tutti gli effetti. Ergo: c’era lo zampino di Francesco. “Eh …” “Vabbeh … comunque certo che mi va. Molto volentieri” Non avrebbe mai detto no alla sua strampalata compagnia che, poco alla volta, si stava trasformando in una vera e propria famiglia

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Capitolo 12
*** Have yourself a merry little Christmas ***




 
Have yourself a merry little Christmas



colonna sonora

 
“Sarei dovuto venire io a prendere Leo …” “Ma per favore … e chi la spalava tutta la neve attorno a casa? Comunque non ti preoccupare, i bimbi stanno uscendo adesso. 10 minuti e sono a casa.” “Allora sappi che trascorrerò i prossimi 10 minuti in apnea”
Emma alzò gli occhi al cielo, esasperata, chiudendo la telefonata.
Ogni volta che il paesaggio a San Candido e dintorni si imbiancava, tra Emma e Francesco era sempre la stessa storia: l’una rivendicava la sua indipendenza e l’altro pativa per l’ansia di non riuscire ad avere tutto sotto controllo. Quell’inverno, fino a quel momento, era stato abbastanza clemente con la vallata, ma le rare incursioni nevose a quote più basse sapevano, come in quei giorni, farsi notare e dare fastidio. Al loro maso, tanto per dirne una, si accedeva tramite una stradina privata che bisognava mantenere pulita se non si voleva rimanere isolati.
In attesa davanti all’uscita atleti del palaghiaccio, Emma aspettava solo che Leonardo uscisse dalla lezione di hockey per tornare a casa, ma ogni volta che si metteva in auto da sola di sera Francesco andava nel panico: era il suo secondo inverno in montagna ed era una brava guidatrice, di certo non avrebbe messo i suoi figli in pericolo, ma Francesco era Francesco e sapeva di doverlo prendere come veniva, con tutto il pacchetto di manie ed apprensioni di chi si portava ancora, nonostante tutto, un grosso peso sul groppone. Andava meglio, molto meglio, ma era sempre lì. A lei il compito di alleggerire il carico e lo faceva molto volentieri.
“Mamma! Mamma!” Leo tra la piccola folla di bambini, le corse incontro urlante e aggrappandosi al suo giaccone iniziò a saltellarle incontro, strattonandola leggermente. “Amore fai piano …” Avvolta dal caldo parka, la piccola Sole se ne stava comodamente nel marsupio, abbracciata al petto della madre, cullata dal movimento della sua camminata, ma gli occhioni spalancatissimi. A lei di hockey, strade notturne o cumuli di nevi importava poco: l’importante era avere il latte della mamma a disposizione quando voleva, un pannolino asciutto sempre pronto e le braccia forti e calde del papà dove addormentarsi alla sera. “Non sono caduto neanche una volta oggi!” affermò il bambino orgogliosamente. Le lezioni di hockey erano, per i bimbi alle prime armi come lui, più un’introduzione ai fondamentali del pattinaggio. Il disco e i bastoni sarebbero arrivati più in là. “Ma davvero? Sei stato bravissimo!!!” Emma finse stupore: era rimasta a seguire la lezione dagli spalti, ma il bambino, concentrato a far bene, non se n’era accorto. “Adesso torniamo a casa che papà ci sta aspettando”
Mentre si allontanavano con l’auto da Dobbiaco per tornare a San Candido, il centro abitato illuminato e con le strade pulite lasciava il passo alla vallata innevata e a strade buie, sulle quali si incrociava solo qualche camion di tanto in tanto. Al buio e con la neve che copriva tutto, i suoi soliti punti di riferimento erano difficili da trovare. Emma era prudente alla guida e cercava di non pensare che, in fondo in fondo, Francesco forse aveva ragione, che non era stata una buona idea avventurarsi all’imbrunire da sola fuori dal paese: una buona idea sarebbe stata parlare del più e del meno con Leonardo, così da non pensarci troppo, se solo non si fosse addormentato sul suo rialzino già a metà strada. Il cartello di benvenuto a San Candido e il leggero traffico di auto e di autobus che andavano e venivano dai mercatini in centro la rinfrancarono. Superato il bosco, la piccola radura, con il maso e le luci calde accese in casa e la città sullo sfondo, illuminata quasi fosse un presepe, le fece tirare un sospiro di sollievo.
Luna, la lupacchiotta di casa, con le orecchie a punta ben alzate, l’aspettava sull’attenti, anche lei in apprensione, sull’uscio di casa, ululando anziché abbaiando, appena Emma uscì dall’auto. Attirato dal richiamo dell’animale, anche Francesco sbucò dalla legnaia di fianco alla casa con una cesta piena di legna da portare in salotto, per la stufa. Aperto il portone e lasciata la cesta sull’uscio, Francesco corse da sua moglie.
“Copriti santo cielo! È freddissimo!” il termometro dell’auto segnalava -5°, ma Emma faticava a crederci, probabilmente erano anche di meno, e suo marito aveva a malapena messo addosso la giacca della divisa sopra una tshirt nera. “Non ti preoccupare, non mi ammalo. È freddo secco. E poi ho appena finito qui fuori di spalare, sento caldo” “Se va beh, come no …” Emma aveva su il giaccone, la sciarpa, il cappello di lana e i guanti e già non sentiva più il viso. Lo braccò alla buona prima che potesse aprire la portiera dell’auto e, con un gesto repentino gli tirò su la cerniera del giaccone, stampandogli un bacio veloce e furbo sulle labbra, compiaciuta di averla spuntata “aiutami con i bambini. Dormono.” “Tutti e due?” Emma annuì vistosamente, fiera di quella piccola vittoria. Per Sole erano arrivate le colichette: era un angioletto e miracolosamente dormiva quasi tutta la notte, ma il pomeriggio per lei e per i suoi genitori si scatenava l’inferno, il più delle volte si placava solo per sfinimento. “Da domani giretto in macchina fino a Dobbiaco terapeutico” dichiarò Francesco, sorridendo sornione, prendendo in braccio Leo che biascicò qualcosa tra sonno e veglia a proposito della lezione di hockey. “Me lo racconti più tardi a cena, piccolo … adesso riposa” lo tranquillizzò il padre, baciandogli la guancia. Emma, con l’ovetto di Sole tra le braccia si trovò per un attimo a pensare, come potesse vedere loro quattro insieme ma dal di fuori, e sorrise, ma non solo per la battuta: erano passati quasi tre mesi dalla nascita della piccola, ma a lei talvolta sembrava fossero passati solo pochi giorni da quando era tornata da ben altro ospedale e ben altro ricovero. Anche vedere Francesco così tranquillo, nonostante quegli sprazzi di piccole ansie domestiche, era una gioia per i suoi occhi. Era successo tutto così in fretta che aveva ancora il sapore di un miracolo, un bel miracolo natalizio.
“Portiamoli in salotto” propose, chiudendo la porta di casa dietro di sé “è caldo”. Luna, furtiva, si intrufolò tra i loro piedi e corse a piazzarsi di fronte alla stufa accesa, dove le avevano riservato una cesta per le notti più fredde. Emma si trovò inondata non solo dal calore che la stube emanava e il legno della casa tratteneva ma anche dall’odore resinoso e penetrante dell’abete che da qualche giorno faceva bella mostra di sé in casa. Forse era solo suggestione, ma quando gli si avvicinava per annaffiarlo, era sicura di sentire anche gradevole odore di arance.
“Facciamo l’albero?” farfugliò Leonardo, sbadigliando, mentre la madre gli toglieva la giacca di dosso. L’albero, non molto alto ma folto e ben proporzionato, che avevano scelto in un piccolo vivaio locale, era ancora spoglio, ma già solo la sua presenza aveva portato il Natale in casa: ad Emma era sembrata una bella idea quella di avere un albero vero e, con il grande giardino, provare a prendersene cura e vederlo crescere, così da avere, anno dopo anno, un albero di Natale sempre più grande e bello. Emma accarezzò dolcemente la fronte del suo ometto, sistemando quella chioma folta che non riusciva mai a tenere a bada. “Lo facciamo, tranquillo …” Si ricordò dell’anno precedente, quando ancora non gli era concesso di passare con loro più di un paio di ore a settimana, quando per poterlo portare fuori dalla casa famiglia bisognava scomodare le alte sfere dei tribunali per permessi speciali. Il piccolo alberello malandato dalla neve e dal vento che avevano messo sulla terrazza della palafitta, decorato con qualche pigna e poche decorazioni in legno, sembrava la cosa più bella che avessero mai visto. Poter essere insieme per qualche ora, tutti e tre, come quella vera famiglia che ancora non potevano essere, valeva molto di più di ogni decorazione costosa e griffata che i mercatini e i grandi magazzini avevano in esposizione.
“Ugh … non mi abituerò mai al caldo di questa casa” si lamentò Francesco, riponendo il giaccone nel guardaroba all’ingresso. Non scherzava, a spalare la neve aveva sudato veramente. “Non mi dire che preferivi la palafitta piena di spifferi … e comunque io non mi abituerò mai a questo …” gongolò sua moglie, accennando provocante ai suoi bicipiti. Certo non prevedeva di trasformarsi nel personaggio di una soap opera anni ’50, ma fino a pochi mesi prima quella nuova routine, non troppo diversa da quando aveva pronunciato, più che convinta, il suo sì lo voglio, le sarebbe sembrata un’utopia. Forse il segreto risiedeva in quell’amore che per troppo tempo avevano cercato di rifuggire e ora non riuscivano più a tenere a bada, o forse, più semplicemente, in quel marito che sembrava rifiorito e che girava sempre per casa come fosse un bagnino californiano in piena stagione estiva, e in quei pensieri ridicoli da adolescente in piene turbe ormonali che, tutto sommato, la divertivano: scoprirsi ancora donna, oltre che madre, dopo la maternità, era una strana ma piacevole sensazione. A sentire la controparte però, le cose non è che andassero tanto meglio: anche Francesco aveva il suo bel da fare a resistere alle forme generose che la maternità aveva lasciato a sua moglie.
“Vieni con me” le disse, la voce roca, un sorriso obliquo di chi non ha in mente niente di buono. “Che vuoi fare?” La prese per mano e senza dire una parola la condusse su per le scale, ma a metà scalinata Emma si fermò “Francesco … i bambini!” “Io sistemo il baby monitor tu pensa all’acqua” Emma cercò di non dargli a vedere che nella sua mente si erano profilate ben altre aspettative, ma ormai era tardi: tra di loro, ormai, erano un libro aperto. “Signora Neri!” esclamò, tirandola a sé una volta arrivati in cima alle scale “Per quello bisogna aspettare la fine della fascia protetta, in seconda serata … accontentiamoci di un bel bagno caldo per ora” “Mi sembra un’alternativa più che dignitosa … ma fai in fretta, lo sai che i pisolini sono peggio delle bombe ad orologeria”
 
La vasca bianca, essenziale e contemporanea, era l’unico vezzo di design e lusso che si erano concessi nella loro nuova casa che, con attenzione, rispettava le linee e i materiali rustici e tradizionali della regione, incastonandosi perfettamente nel panorama circostante. Era la gioia di Leo che ci sguazzava come fosse in piscina, ma nei loro piani era stata pensata più come una piccola oasi personale, dove potersi rifugiare tra le onde leggere e rilassanti dei gettiti d’aria nell’acqua calda e il profumo degli olii essenziali; con il freddo e la stanchezza accumulati in quella giornata e i bimbi che dormivano al piano di sotto, quel tardo pomeriggio di inizio dicembre era proprio l’occasione perfetta per mettere in atto quella scappatella per la prima volta.
 “E comunque … tornando al discorso di prima” disse Francesco, tirando via un ciuffetto di schiuma dalla spalla nuda di sua moglie “certo che preferisco tutto questo … e questo” interrompendosi poi per posarle un bacio lì dove aveva tolto la schiuma “ma la palafitta è la palafitta. Avrà sempre un pezzo del mio cuore” “E del mio. L’importante è che il resto sia qui” “E dove vuoi che sia? È tuo…” “e di Leo” “e di Leo…e di Sole…e pure di Luna, anche se dobbiamo ancora pulire i suoi bisogni ogni tanto”
Emma si lasciò andare ad una risata spensierata e sonora, sprofondando un po’ di più nell’acqua calda e profumata della vasca. Quando aveva conosciuto Francesco, la cosa che più di tutte l’aveva conquistata era la sua capacità di farla ridere con poco, di punto in bianco, anche nei momenti più insospettabili. Lui, sempre così serioso, quasi al limite del pesante e del deprimente, con due parole riusciva a tirarla su il morale: sapeva ridere di sé e far ridere gli altri. Forse nemmeno se ne rendeva conto e forse allora gli pesava persino, conoscendolo, scoprirsi ancora in grado di poter essere felice e rendere felici gli altri; vederlo ora così libero di godersi quei semplici momenti di coppia, senza sentirsi in colpa per la sua felicità era una gioia per gli occhi e spingeva anche lei a lasciarsi andare sempre di più, a differenza del passato, quando si imponeva di contare fino a dieci, domandandosi se fosse il caso forzare la mano.
“E poi sta arrivando il Natale…non so tu ma io non vedo l’ora. Quest’anno ancora di più dello scorso anno”
Da fresca sposina, Emma aveva sentito lo spirito natalizio batterle forte nel cuore come mai prima in vita sua: il suo primo inverno a San Candido, la prima neve, l’emozione di trascorrerlo con Francesco, da marito e moglie, il batticuore e le speranze per il futuro lo avevano reso speciale ed indimenticabile. Nei giorni che avevano preceduto l’inaugurazione dei mercatini in centro, mentre i volontari e gli operai stavano allestendo le casette e le decorazioni, le era tornata alla mente la prima volta che aveva sentito il profumo dolce del brulé di mele e quello pepato dei dolci in vendita, il vociare della folla per le strade e il trambusto dei giorni di festa assieme agli amici.
Ma il Natale in arrivo era ulteriormente diverso e ulteriormente speciale: oltre alla famiglia che si era scelta, ora c’era anche la sua: con Francesco, Leonardo e Sole erano una famiglia a tutti gli effetti, non più solo nei loro cuori. Avevano una casa che portava il loro nome, e avrebbero aperto le sue porte a parenti ed amici per i giorni di festa. Tutto era diverso e tutto era nuovo: quel futuro che avevano sognato, è diventato il loro presente.
“Ho la netta sensazione che faticheremo a contenere l’entusiasmo di Leonardo. Siamo al 7 dicembre ed è già su di giri” commentò scherzoso il forestale. “Beh per forza, con San Nicolò, i mercatini e la neve è più facile. Qui sembra già Natale da un pezzo. E sarebbe anche l’ora di addobbare l’albero!” “Uff quante storie” “È in casa da una settimana … non capisco proprio perché vuoi aspettare così tanto?!” “Perché con mia madre lo addobbavamo il pomeriggio dell’8 dicembre, era la nostra tradizione. E ora che abbiamo una casa tutta nostra, volevo rispettarla”
Da piccolo, la madre metteva su un trentatré giri di canzoni natalizie e insieme a sua madre passavano il pomeriggio a decorare l’albero, ma poi, quando lei non c’era più, aveva continuato la tradizione da solo, sperando invano che suo padre riuscisse a ritrovare il calore delle feste che il lutto gli aveva portato via. All’arrivo di Marco, invece, era lui a non essere mai in casa per fare l’albero: riusciva a tornare per il cenone della vigilia, quando andava bene; se andava male, invece, il massimo del Natale a cui poteva ambire era una telefonata o una videochiama dal computer della base militare e la speranza di tornare a casa il prima possibile per festeggiare insieme, anche se in ritardo.
Emma dal canto suo si sentiva una stupida per non averci pensato: nei suoi ricordi d’infanzia c’era solo la decoratrice d’interni che sua madre ingaggiava ogni anno; tutto era bellissimo, le decorazioni sempre all’ultimo grido, ma per lei era come andare in un negozio: guardare e non toccare. Quando poi i suoi genitori si erano separati - le verrebbe persino da commentare con un finalmente - con suo fratello lontano, il padre sempre troppo occupato, e sola con gli zii e dei cugini troppo piccoli, il tempo per divertirsi a decorare l’albero di Natale lo sentiva passato da un pezzo. Solo ora stava ritrovando il piacere di farlo, perché vedeva negli occhi del suo bambino tutto quello che le era mancato e sentiva forte la gioia di trascorrere le feste con chi si ama. Il Natale, finalmente, non era più solo una festa comandata.
“Allora non vedo l’ora che arrivi domani … ti prometto che sarà un pomeriggio bellissimo” esclamò, intrecciando le sue mani con quelle del marito. “Tutti i giorni sono bellissimi da quando sei con me. So già che questo non farà eccezione” le disse Francesco, sussurrando. Sciolse le loro mani e con le sue risalì le braccia della moglie, accarezzandole. Si sentiva così fortunato ad averla nella sua vita e non per chissà quali motivi grandi o potenti; no, era grato che lei ci fosse per prendersi cura di lui nelle piccole cose, per aver donato di nuovo dignità alla sua vita buttata lì per troppo tempo così come veniva, proprio come un giardiniere fa con una pianta lasciata a sé stessa. Lui non era abituato ad esprimere i suoi sentimenti e non solo con le parole: sua moglie, poco alla volta, gli aveva insegnato la bellezza non solo del ricevere amore ma anche del dimostrarlo. E ora non sapeva più farne a meno.
Emma lentamente si mise in ginocchio dentro la vasca, girandosi verso l’uomo. Gli prese il viso tra le mani, scostando dal volto i capelli inumiditi da vapore e da qualche piccolo schizzo d’acqua. Quando iniziò ad accarezzarlo con il pollice, fu allora che ad entrambi si stampò un sorriso leggero e rilassato sul viso; quel piccolo gesto, semplice eppure pieno di forza, rinnovava le promesse che si erano fatti: di esserci sempre e, non solo guardarsi l’un l’altro ma, insieme, guardare verso la stessa direzione. Persi l’uno negli occhi dell’altro, vedevano riflessa quella direzione comune: la loro famiglia, la loro vita insieme.
“Io non ti merito” dichiarò Emma. “Non dire così … lo hai visto cosa ci è successo quando ci siamo separati e come invece tutto funziona quando siamo insieme” un tempo anche Francesco pensava di non meritare una come Emma, che fosse troppo per un giocattolo rotto come lui “guarda quanto è bella Sole … e quanto è cambiato Leo. Li abbiamo fatti noi. È la prova che io e te ci meritiamo eccome. Non ci può essere altra soluzione.” “Io ti amo” disse Emma, la voce che le tremava, gli occhi che si riempivano di lacrime.
Mentre ormai le sue labbra sfioravano quelle di Francesco, inspirandone il profumo e percependone la morbidezza, il baby monitor gracchiò, anticipando di poco un vagito acuto e bramoso e Leo che, svegliandosi, richiamava la loro attenzione. Emma allora, sospirando delusa, fu costretta a stampare un bacio frettoloso sulle labbra del marito prima di alzarsi e uscire dalla vasca, avvolta nell’accappatoio.
“Dai, lascia stare, vado io” la frenò suo marito. “Sono le sei” spiegò Emma, ridacchiando mentre guardava lo schermo del telefono “è ora della poppata e quella non la puoi fare tu. Rilassati ancora un po’ …”
 
Il pomeriggio successivo, dopo una mattinata trascorsa con lo slittino lungo il crinale della collina dove sorgeva il maso, tra le grida entusiaste di Leonardo, le raccomandazioni di Francesco e le spintarelle di Emma che incoraggiava il piccolo ad osare sempre un po’ di più sotto lo sguardo esterrefatto del marito, riscaldati e rifocillati, finalmente Emma, Francesco e il piccolo si riunirono attorno all’albero per decorarlo. Leonardo aveva saltato persino il pisolino pomeridiano tanto non stava più nella pelle; Sole no: la piccolina, inconsapevole di quanto stava accadendo, era beatamente assopita nel carrozzino, con Luna appisolata – ma di guardia - ai suoi piedi.
Dopo aver sistemato le luci, era il fatidico momento delle decorazioni. Emma le aveva scelte con cura; non voleva un albero opulento, di quelli patinati che le ricordavano sua madre e la sua infanzia, lo preferiva invece minimalista, un po’ in stile scandinavo: sobrio, delicato, naturale ma al tempo stesso caldo e accogliente. E la lana e il legno grezzo erano perfetti per ottenere l’effetto desiderato.
La prima a finire sull’albero fu la pallina che l’anno prima Emma aveva fatto personalizzare per Leonardo. Era in legno, semplicissima, con il disegno pirografato di una casetta stilizzata in mezzo agli alberi, dei fiocchi di neve e il suo nome che campeggiava, gigante al centro. Era costata pochi euro eppure nelle mani del bambino sembrava fosse fatta di madreperla o avorio, tanto maneggiava con cura il fiocchetto rosso annodato per appenderla all’albero.
Sistemata la sua pallina, come l’aveva orgogliosamente ribattezzata Leonardo, il bambino si tuffò nella scatola degli addobbi, rovistando attentamente. “Cosa fai Leo?” “Sto scegliendo…” “Piccolo le dobbiamo mettere tutte, non importa da dove cominciamo” gli fece notare il padre. “Ma io voglio trovare una per te e una per mamma …”
Emma avrebbe ancora potuto dare la colpa agli ormoni, che con l’allattamento giocavano ancora brutti scherzi di tanto in tanto e le rendevano l’umore ballerino, ma Francesco non aveva nessuna scusa: i lucciconi che sentiva spuntare negli occhi erano colpa di quello scricciolo che gli stava davanti, in ginocchio, riverso sullo scatolone e impegnato a cercare un addobbo natalizio da poter dedicare alla madre e al padre.
“ECCO!!! Questa è tua” disse al padre, porgendogli una decorazione a forma di stella, come le stelle che a lungo, l’estate prima, avevano guardato e studiato nelle notti serene, come quelle stelle che aveva messo sul soffitto della camera di Marco. “E questa è per te” Per la madre, invece, aveva scelto un angioletto che, di profilo, aveva un cuore tra le mani. “È bellissimo, piccolo, grazie” disse, chinandosi di fianco a lui. Chissà, forse lui la vedeva come il loro angelo custode, forse nella sua mente, più o meno consciamente c’erano ancora le immagini di quando lo aveva portato via, correndo all’impazzata, dalla furia del padre adottivo. Ma non poteva sapere che Emma custodiva nel suo cuore il ricordo di un vero angelo, l’angelo custode della loro famiglia, che nessuno di loro aveva potuto conoscere ma che avrebbe vegliato su di loro ogni giorno, lei ne era certa. “Sai che facciamo” decretò, cercando di ricacciare le lacrime “quando a fine Natale mettiamo via gli addobbi questi li prendo e ci scriviamo i nostri nomi, che ne dici? Così saranno per sempre gli addobbi di mamma e papà. Va bene” Leonardo, contentissimo per l’idea di Emma, annuì vistosamente. “E per Sole?” domandò. “Non ti preoccupare” disse Emma “ho pensato anche a lei”
Tirò fuori da un cassetto della credenza una scatolina trasparente; dentro c’era una placchetta in legno, con la scritta Il primo Natale di Sole incisa, l’anno e il disegno di Bambi in mezzo alla neve.
Emma lasciò che fosse il bambino a posizionarla, voleva che si sentisse incluso e mai sminuito rispetto a Sole. Era solo in affidamento, ma lei e Francesco lo sentivano in tutto e per tutto figlio loro. Leonardo passò poi in rivista ogni singola decorazione, correndo da una parte all’altra dell’albero per chiedere di essere lui a sistemarle.
Emma si era accorta, all’improvviso, che si era anche fatto buio fuori e bisognava accendere le luci. Avevano impiegato letteralmente tutto il pomeriggio per mettere una cinquantina di decorazioni, forse anche meno, ma ora capiva perfettamente perché Francesco aveva voluto aspettare un momento in cui potersi dedicare totalmente a quell’attività: quel pomeriggio non avevano solo decorato casa, ma avevano creato dei ricordi, dei momenti speciali di cui nessuno di loro si sarebbe più dimenticato. Lei di certo non lo avrebbe fatto e, a giudicare dai sorrisi e dalle risate di suo marito e suo figlio, nemmeno loro.
A volte era difficile rendersi conto che era successo davvero, che in meno di un anno era diventata madre, forse non per la legge ma di sicuro nel suo cuore, di due bambini: ma quel pomeriggio no, quel pomeriggio era semplicissimo.
“Mamma ho fame, posso fare merenda?” domandò Leonardo. “Ma certo. Lo sai cosa ho comprato?” domandò a bassa voce, ma sempre in modo che il marito la sentisse. “Cosa?” “Il Pandoro! Che ne dici se ci spalmiamo un po’ di Nutella?” “Mmmmm” “Emma è l’8 dicembre!” “Appunto!” “Eh…se cominci così, non so come ci arriviamo al 25…”
Ma sua moglie lo liquidò con una linguaccia, divertente e dispettosa, e portò con sé Leonardo in cucina, assicurandogli che non avrebbero lasciato nulla al padre, viste le sue rimostranze.
La piccola Sole, come si sentisse esclusa da quel quadretto familiare, appena Francesco rimase solo in salotto con lei, si svegliò dalla nanna. Non era agitata per fortuna, forse quello dei giorni passati era stato solamente uno scatto di crescita, come lo aveva definito il pediatra e ora avrebbero tutti riposato meglio di prima. Lo sperava sinceramente, non per sé, ma per la bambina e per Emma: lo distruggeva sempre vedere la prima piangere e la seconda tentare di calmarla, ogni volta in un modo diverso, ma invano, avvilita e stanca. Le dava il cambio ogni volta che poteva, ma comunque, e comprensibilmente, nessuno dei due riusciva a riposare di fronte a quei pianti estenuanti.
“Ben svegliata principessina!” esclamò l’uomo, curvo sulla navicella del carrozzino “sei sempre più bella amore mio”
Forse era solo il pensiero di un padre innamorato della sua piccolina, ma ogni volta che si svegliava le sembrava più grande e più bella, meno neonata arruffata, più bambolina rosea e paffuta. Non seppe resistere a quegli occhioni che gli sorridevano né alle braccine che si tendevano verso l’alto a reclamare di essere presa in braccio. 45 anni ed era in totale balìa di un batuffoletto di poco meno di 3 mesi, e gli andava benissimo così.
La calda tutina rossa di ciniglia era morbida e calda al tatto, ma non come le guanciotte rosse e accaldate della piccolina che si dimenava di fronte ai baci del suo papà. “Principessina mi dispiace” commentò Francesco, ridacchiando sornione “a mamma la mia barba piace quindi su questa cosa non ti posso proprio far vincere, dovrai farci l’abitudine …”
Spense la luce del salone, rimanendo di fronte all’albero illuminato dalle tante lucine gialle. La piccola rimase in silenzio, la boccuccia aperta in una piccola O e la fronte leggermente aggrottata, come cercasse di capire cosa aveva di fronte.
“Questo è un albero di Natale, la festa più bella di tutte. Vedrai che ti piacerà”
Ma quell’atmosfera così magica e pacifica per un attimo rabbuiò il forestale. Pensò al cenone della vigilia, al pranzo di Natale e al veglione di Capodanno. Un altro anno se ne andava, un altro alle porte e che Marco non avrebbe visto. Non sarebbe andato con loro, probabilmente sbuffando, al concerto di Natale a cui il padre era stato invitato come autorità, non avrebbero scartato i regali insieme, non avrebbero acceso gli scintillanti a mezzanotte, non avrebbe dato gli auguri ai nonni. Tutto questo Sole lo avrebbe vissuto per la prima volta e lui non c’era. Francesco era sereno e un po’ se ne sentiva in colpa, perché tutto quello che stava vivendo in quei giorni e che avrebbe vissuto durante le feste, non lo aveva mai dato completamente al suo ragazzo: troppo preso dalle sue missioni speciali e troppo freddo nel suo carattere per essere capace di manifestare appieno il suo amore paterno.
Era arrivato alla conclusione che nulla succedeva per caso, e forse quel sacrificio estremo e il dolore che ne era seguito erano serviti a farlo diventare un uomo migliore. Certo, si sarebbe dannato l’anima per dare ancora anche solo un Natale a Marco, ma forse senza quello che era successo non sarebbe mai diventato un buon marito per Emma e un padre migliore per Leo e Sole.
Prese tra le mani una stellina delle decorazioni e la sfiorò delicatamente: “Sai principessina, in cielo c’è qualcuno di molto speciale che ci ama.  Forse è per questo che in questa casa abbiamo un pezzetto di paradiso”

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Capitolo 13
*** Un fulmine a ciel sereno (parte 1) ***




 
Parte 1
 
 
Mentre il sole calava dietro le montagne, lasciando la valle e il paese in lontananza nella penombra, Leonardo era in giardino a giocare con Luna; con le giornate che diventavano sempre più corte, era bello per tutti, grandi e piccini, poter approfittare di temperature ancora gradevoli e degli ultimi sprazzi d’estate prima di doversi rintanare al chiuso per il freddo e il mal tempo, godendo dei colori autunnali che iniziavano a cambiare lentamente il paesaggio intorno. Non a caso settembre e ottobre erano i mesi preferiti di Emma: certo la primavera aveva in sé la gioia, ma l’autunno sapeva essere molto più romantico. E poi, nella sua memoria, erano mesi ricchi di bei ricordi da celebrare: la riuscita del suo intervento, il suo matrimonio, la nascita di Sole. Qualcuno in casa - Leonardo- avrebbe però avuto da ridire: a settembre si tornava a scuola e di quelle belle giornate ancora calde e soleggiate lui poteva goderne troppo poco per i suoi gusti.
“Leo cosa fai lì?” gridò sua madre, affacciata da una finestra del piano di sopra. “Stiamo facendo il tiro alla fune!” “E i compiti?” “Li ho finiti!” “Sicuro?” “Sicuro sicuro” “E allora vai a mettere a posto i quaderni che hai lasciato in cucina, tra un po’ devo far mangiare Sofia” Come al solito, quando si trattava di andare a giocare, Leonardo andava completamente in black out, dimenticando tutto in disordine ovunque fosse. Emma avrebbe provveduto da sola a mettere in ordine, ma Francesco era dell’opinione che in una famiglia numerosa come la loro ognuno dovesse avere i suoi compiti e collaborare, soprattutto ora che Emma era entrata nel terzo trimestre. Sì, a casa Neri la cicogna avrebbe fatto presto di nuovo visita. L’arrivo era previsto in tempo per il Natale, un maschietto. Huber scherzava dicendo che aveva già proposto la sua candidatura al parroco del paese per il presepe vivente in parrocchia. Francesco, prendendolo sempre troppo alla lettera, non riusciva a riderci su.
“Cinque minuti ancoraaaa, ” “Niente ” si oppose Emma “e poi ormai sta facendo buio, lo sai che non mi piace che state fuori!”
Sbuffando, Leonardo ordinò alla lupa di sciogliere la presa della corda che teneva tenacemente tra i denti e mestamente si avviò verso casa. La fedele compagna di giochi seguì il bambino in casa, facendogli compagnia e consolandolo battendo con il muso contro le gambe.
“Mamma ho messo il pigiamino da sola!” Sole, un metro e cinque centimetri di guance rosse e paffute e lunghi capelli biondo caramello, entrava in camera della madre soddisfatta della sua conquista. “Bravissima amore mio!” esclamò la madre, prendendola in braccio e sorridendo per quella maglia messa al contrario. Alla terza gravidanza e con due bambine sotto i 5 anni, il peso della pancia crescente Emma aveva dovuto imparare a gestirlo senza farci troppo caso. A fine giornata, però, la fatica si faceva sentire. Mise la piccola in piedi sul lettone, di fronte a lei, e le sistemò il pigiama. “Adesso però devi fare la brava e non prendere freddo, hai appena fatto il bagnetto e sei accaldata, non vogliamo il catarrino vero?” “Nooo” “Ecco, brava la mia bimba” disse, baciandole la fronte “adesso andiamo a prendere Sofia”
Sofia, la piccolina di casa, se ne stava in cameretta a giocare – in tutta sicurezza grazie al cancelletto montato dal papà – sul cavallo a dondolo che aveva ricevuto per il secondo compleanno. A due anni era già chiaro che i cavalli sarebbero diventati per lei più di un interesse momentaneo, per la gioia di suo padre che condivideva la stessa passione. “Sofiii … è ora di cena” disse sua madre, dolcemente, entrando nella cameretta. “Sofi oppa!!!” esclamò la piccolina, dondolando più energicamente sul dondolo. “No adesso basta galoppo! Adesso bisogna fare la pappa e poi la nanna … anche il cavallino deve riposare”
Emma prese in braccio la bambina che tra le lacrime protestava con attenzione mentre metteva il cavallo a dondolo nella tenda giocattolo all’angolo della stanza. “Guarda … adesso il cavallino va nella stalla …” “Mamma quella è la mia tenda” dichiarò Sole, contrariata. “Lo so amore, ma adesso non facciamo piangere Sofia, più tardi lo togliamo. Va bene?” La bambina annuì, non particolarmente convinta da quella soluzione.
 
Mentre girava la pastina di Sofia nel piattino per raffreddarla più velocemente, Emma buttò uno sguardo all’orologio sul muro della cucina. 19.30. Francesco non era ancora rientrato. Quella mattina, prima di portare Leonardo a scuola e Sole all’asilo le aveva detto che sarebbe rientrato più tardi del solito, che doveva fare dei controlli e che non doveva preoccuparsi. Ma era proprio quando rimaneva tanto sul vago e le diceva di non preoccuparsi che lei si preoccupava: non perché fosse imprudente – da quando avevano messo su famiglia non era tipo da prendere rischi inutili – ma perché era semplicemente istintivo e naturale essere in pensiero. Non importava che fossero passati 5 giorni, 5 mesi o 5 anni, per lei era come ci fosse una parte di sé lontana e non saperla al sicuro era insopportabile. Ma doveva essere forte perché non era più una ragazzina, perché c’erano delle personcine in quella casa che si affidavano completamente a lei e soprattutto perché doveva fidarsi di lui come lui si fidava di lei, se lo erano giurato. Così provò a distrarsi imboccando Sofia e chiacchierando con Sole mentre guardava i cartoni animati. All’improvviso, il campanello d’ingresso suonò: certo Francesco poteva aver lasciato le chiavi al lavoro, ma il suo istinto le diceva che non era lui, persino il rumore dell’auto in avvicinamento le era sembrato diverso.
“Vado io” sentì la voce di Leonardo, mentre scendeva le scale. “Se non sai chi è non aprire” si raccomandò “sto arrivando” Lei, nel frattempo, prese Sofia in braccio “C’è mamma?” sentì la voce familiare di Vincenzo provenire dal corridoio e parlare con il figlio maggiore. “Commissario! Huber!” “Emma … ma che bella questa Mädchen* … si fa ogni giorno più grande e bella!” esclamò Huber, letteralmente strappandole la bimba dalle braccia senza un saluto o degnarla quasi di uno sguardo. Forse leggeva troppo in una situazione da niente, ma c’era qualcosa che le non quadrava.
“Cerchi il tuo compare? Perché ancora non è tornato dal lavoro…giornata piena” Emma guardava Vincenzo e poteva vedere pena, quasi dolore fisico nei suoi occhi e non capiva. Il suo cuore iniziò a battere più veloce, una vocina nella sua testa iniziava a dirle che c’era qualcosa che non andava e iniziava ad avere paura.
“Sì … lo so… era con me” “Come con te? Mi ha detto che aveva dei controlli nei boschi …” “Sì … non posso entrare nel dettaglio. Abbiamo fatto un’operazione congiunta con gli austriaci, una roba un po’ delicata, per questo non ha potuto dirti niente” “E perché sei qua?” la voce, rotta, sembrava dire quello che la sua mente si rifiutava di pensare e la sua bocca pronunciare. “Perché … perché c’è stata una sparatoria Emma …”
Emma era in piedi, stabile per inerzia, un braccio portato sul fianco meccanicamente e la schiena leggermente inarcata, l’altro braccio attorno alle spalle di Leo: inconsciamente sapeva già di avere bisogno di un appoggio. E infatti, dentro c’era il vuoto. Vincenzo le parlava ma non sentiva una parola, vedeva solo le sue labbra muoversi, il tempo attorno si era arrestato, provava solo una sensazione profonda di buio, se così si poteva definirla: era come se qualcuno avesse preso il suo cuore, lo avesse strappato e gettato via. Non c’era dolore: non c’era niente. Si ritrovò a riprendere coscienza di quello che accadeva intorno dopo un tempo che non sapeva quantificare con certezza e si era trovata seduta sulla cassapanca dell’ingresso, con una mano di Vincenzo attorno alle spalle e Leonardo che, intimorito, non riusciva a staccarle gli occhi di dosso.
“È … è … vivo?” si impose di chiedere, anche se il suo cervello aveva pensato ad un’altra parola. “Certo che sì, tuo marito è un guerriero. Ma lo hanno colpito in un brutto punto e stava perdendo tanto sangue.  Dobbiamo andare in ospedale” “Devo … devo prendere le sue…le sue cose. Io … i bambini…” “Ai bambini ci penso io, stai tranquilla …” la rassicurò Huber, premuroso “e le cose di Francesco per ora non servono, ora ha solo bisogno di sua moglie vicino.”
 
Lungo la strada per l’ospedale, il commissario si sentì in obbligo di spiegare ad Emma come erano andate le cose. “Mi dispiace Emma, credimi, ma avevamo bisogno di qualcuno che ci aiutasse nei boschi e non c’è nessuno che conosce queste montagne meglio di tuo marito”
Emma avrebbe voluto tanto obiettare, ribattere che però la pallottola se l’era presa Francesco e che delle sue scuse non se ne faceva niente se suo marito fosse … no, quella possibilità non voleva, non doveva contemplarla nemmeno. Vincenzo l’aveva detto, Francesco era … è un guerriero, sarebbe uscito con i suoi piedi persino dalla sala operatoria conoscendolo e avrebbe minimizzato l’accaduto con una scrollata di spalle, facendole promettere che avrebbero dimenticato tutto. Sì, sarebbe andata di sicuro così, e per questo lei doveva essere forte, perché doveva aiutarlo ad essere forte.
E poi, oggettivamente, Vincenzo aveva ragione: non c’era nessuno in grado di battere a tappeto quei boschi come lui, a volte sembrava quasi ci fosse nato, non poteva biasimare Vincenzo per averlo coinvolto. E Francesco stesso non le avrebbe permesso di farlo: era parte del suo lavoro, era stato un soldato e i forestali in posti come quello fanno anche da poliziotti se necessario, suo marito glielo ripeteva sempre. E a lei toccava solo sperare che non succedesse nulla; ora che era successo le restava solo pregare. “Lo so, tranquillo” si limitò a chiarire, senza fare polemiche inutili. In quel momento, smaniosa nel suo sedile, con la cintura che la opprimeva e il corpo che per la tensione non la smetteva di tremare, totalmente fuori dal suo controllo, voleva solo arrivare a destinazione il prima possibile.
In ospedale, fuori dalla sala operatoria, c’era Valeria ad aspettarli. Le due amiche si abbracciarono a lungo pur senza dirsi una parola. In quella stretta c’era tutto quello che sentivano e le parole non avrebbero mai espresso appieno. Tra la forestale e il suo comandante c’era un rapporto di sincera stima e amicizia che andava al di là del lavoro: si erano trovati uniti dalla sofferenza e dalla solitudine, nel ricordo di Adriana, ma soprattutto dall’affetto per le loro rispettive metà.
“Novità?” domandò Emma. Valeria scosse la testa, l’ultima volta che aveva visto Francesco era stato all’ingresso del Pronto Soccorso dove l’avevano tassativamente tenuta fuori. Le avevano detto che lo stavano portando in sala operatoria e si era spostata lì: per il resto, ne sapeva quanto tutti gli altri.  “Perdonami Emma, avrei dovuto dirtelo, fregarmene degli ordini …” “Sarebbe cambiato qualcosa? Non credo … di certo saperlo non mi avrebbe permesso di fermarlo, lo sai com’è fatto. E poi è il vostro lavoro …” commentò, andando a sedere ad una delle panche di quella saletta d’attesa.
Dopo un’oretta, sbrigato il lavoro al maneggio, anche Giulio raggiunse sua sorella. Il ragazzo, senza dire alcunché, si sedette al suo fianco e la strinse forse a sé, accarezzandole la testa. Quando erano piccoli, era spesso lei a consolarlo quando i loro genitori litigavano e lei non voleva che se ne accorgesse o che si preoccupasse più di tanto. Ora stava a lui restituire il favore. Tuttavia il tempo sembrava non passare mai, anche solo 60 secondi sembravano un’eternità e che non ci fosse personale in giro a cui chiedere informazioni era ancora peggio. Vincenzo ci aveva provato a bussare ai reparti, a chiedere informazioni, ma aveva ricevuto le solite risposte che si ricevono in quelle circostanze: che non sapevano nulla, che sarebbe stato il chirurgo a farsi vivo. Bisognava aspettare, impotenti, ed era la cosa più difficile che Emma avesse fatto nella sua vita; più del suo primo parto, persino di più del dover andare lei stessa in sala operatoria: questa volta, infatti, stava affrontando tutto da sola, Francesco stava combattendo la sua battaglia lontano da lei, non poteva stringerle la mano e dirle andrà tutto bene.
Emma si stacco dal fratello per appoggiarsi con la schiena allo schienale della panca e iniziò accarezzare la pancia: il piccoletto, lì dentro, si stava facendo sentire a suon di calcetti. Almeno lui ci provava a dirle, a modo suo, che sarebbe andato tutto bene. Fai il bravo piccolino mio, non fare scherzi mi raccomando, pensò Emma, basta papà a darci pensieri in questo momento, devi essere forte e resistere al calduccio. “Emma va tutto bene?” le domandò Valeria, preoccupata, vedendola massaggiarsi “vuoi che chiami un medico?” “Sto benissimo, stavamo solo facendo due chiacchiere” provò a scherzare, ma il tono rimaneva sempre malinconico. “Devi mangiare qualcosa … devi sostenerti, vado a prendere qualcosa al bar, un pezzo di pizza …” le disse Vincenzo, che era rimasto tutto il tempo appoggiato alla parete vicino alla porta della sala operatoria, come se quella cosa potesse influire sull’esito dell’intervento o gli desse la precedenza sulle notizie. “No, tranquilli ragazzi sto bene così … tanto non riuscirei a buttar giù niente” l’incertezza, l’ansia di non sapere cosa stava succedendo le aveva stretto lo stomaco in una morsa e non c’era verso di pensare ad altro, figurarsi mandare giù del cibo. “Tu piuttosto …” disse, rivolgendosi a Valeria “perché non vai a casa dai bambini. Saranno quasi le 9 ormai” “C’è Isabella con loro, stai tranquilla, non mi muovo da qui finché non so che è tutto a posto. È il minimo che possa fare”
Più che il minimo, pensò la forestale, non c’era altro che potesse fare. Stare vicino alla sua amica, alla moglie del suo comandante e alla madre della sua figlioccia sembrava l’unica cosa possibile. Loro c’erano stati per lei quando sua sorella stava male, lei doveva esserci per loro.
Erano passate più di 5 ore da quando Emma era arrivata in ospedale, l’orologio sulla parete segnava quasi mezzanotte e loro erano ancora lì senza notizie. Più passava il tempo, più provava a convincersi che non potesse essere una brutta cosa quell’assenza di aggiornamenti: il chirurgo stava solo facendo il suo lavoro con calma e attenzione. Anche il suo intervento era stato lungo e non era stato una passeggiata, e lei era lì per raccontarlo. Sì, deve essere per forza così.
Alla fine, quella maledetta porta si aprì, finalmente, e un’infermiera comunicò con dolcezza e un gran sorriso che l’intervento era riuscito e invitò Emma ad andare assieme a lei nel reparto di chirurgia, dove il chirurgo l’attendeva per parlare con più calma. In quella piccola saletta vuota le grida di gioia e sollievo rianimarono l’ospedale come fosse pieno giorno. Il cuore di Emma aveva cominciato a battere all’impazzata ma era un batticuore bellissimo, felice, come quello di una persona innamorata … e in fondo era così che si sentiva, come una ragazzina innamorata e follemente felice. Vincenzo e Valeria che, come due angeli custodi, erano rimasti al suo fianco sostenendola quasi fisicamente fecero per andare con lei. “Solo i familiari” disse l’infermiera “mi dispiace ma è la regola” “Ma non vede che la signora è incinta? Non vorrà mica lasciarla da sola … e poi sono il commissario” “C’è mio fratello” si limitò a far notare Emma, troppo stordita dalla bella notizia e troppo stanca per quanto accaduto per farsi trascinare in polemiche inutili “lui può venire con me?” “Lui sì”
Vincenzo sbuffò, per lui Francesco era il fratello che non aveva mai avuto e ricordarsi che non era veramente un familiare era assurdo quanto doloroso. Ne avevano passate troppe insieme, nonostante i loro inizi stentati, che chiamarsi solo amici oramai era semplicemente riduttivo. Persino Emma, dopo tutti quegli anni, gli era quasi più cara di sua sorella.
 
“Allora dottore, come sta mio marito?” domandò Emma prima ancora di sedere alle sedie di fronte alla scrivania che il medico aveva indicato a lei e Giulio. “Dal punto di vista chirurgico l’intervento è perfettamente riuscito, signora” iniziò, per poi passare a spiegarle più nel dettaglio cosa era stato fatto durante l’intervento per trattare la ferita e i danni che aveva recato il proiettile conficcandosi tra collo e spalla. “Che significa dal punto di vista chirurgico?” lo fermò di punto in bianco Giulio il quale, interdetto dalle parole del sanitario, esattamente come sua sorella, aveva dato voce al pensiero di entrambi. “Voglio essere sincero con voi. Il quadro clinico del paziente è abbastanza serio, il comandante ha perso molto sangue e i valori non sono stabili. In più nei prossimi giorni dovremo capire se ci sono state conseguenze di tipo neurologico” “Che genere di conseguenze?” “La paralisi di un arto, per esempio” dichiarò ma subito, notando l’agitazione della donna fronte a lui, si affrettò a chiarire “sono sicuro che non sarà così, ma la mia professione mi impone di non escludere nulla, signora. Già domani mattina saremo in grado di saperne di più” “Ritiene che sia fuori pericolo?” domandò. “Preferisco aspettare per sciogliere la prognosi … ma direi che ci sono ottime probabilità” solo in quel momento Emma si accorse di star trattenendo il respiro. Portò una mano davanti alla bocca e le lacrime, che fino a quel momento aveva trattenuto per pudore, uscirono senza più dover chiedere permesso. Suo fratello, delicatamente, le massaggiava la schiena. Il medico, comprensivo, si alzò dalla scrivania per andarle di fianco e sostenerla “vada a casa, signora, deve essere stanca…” “Non posso vederlo?” “È tardi, non la farebbero entrare a meno di condizioni particolarmente gra
vi e quelle di suo marito non lo sono, stia tranquilla. In più ho preferito che per ora rimanesse sedato, è sporco di sangue … non sarebbe un bello spettacolo” “È mio marito, sa come si dice: in salute e in malattia …” commentò sarcastica. Francesco le era stato vicino tutto il tempo che era stato necessario quando era toccato a lei essere in ospedale e non poteva credere che delle stupide regole e degli stupidi orari le stessero impedendo di fare altrettanto. Lui, al suo posto, avrebbe mosso mari e monti e persino usato le maniere forti per starle vicino.
“Posso chiederle se ha altri figli?” domandò l’uomo, sorridendole pacatamente, notando la pancia che cresceva. “Tre … perché?” “Torni a casa a riposare signora, li prenda con sé e stia con loro nel lettone, dica loro che il papà sta bene e presto tornerà a casa. In questo momento è più utile che stare qui seduta fuori da un reparto dove non la farebbero entrare”.
A quelle parole, il pensiero corse al maso, alle sue piccoline che l'avevano vista uscire in fretta e furia senza capire perché ed erano andate a dormire senza veder rientrare né lei né il loro papà, a Leonardo che aveva visto con i suoi occhi Emma uasi svenire e sapeva cosa era successo. Emma comprese che in una guerra, non ci sono solo i campi di battaglia e i feriti, ci sono anche le retrovie, dove la gente aspetta e soffre alla stessa maniera. Francesco era un guerriero, e stava già combattendo. A lei, invece, toccava lasciare il fronte. Francesco avrebbe capito.


Mädchen: bambina, signorina
 
 

Salve a tutt*!!! Torno su questi lidi dopo una lunghissima pausa. So che questa volta mi sono avventurata su un terreno triste e difficoltoso, ma se ci pensate e ricordate le vecchie "bolle extra" dovreste conoscere da voi la risposta su come andrà a finire questa storia ahahah. Ad ogni modo spero in una settimana/10 giorni al massimo di darvi la seconda parte.
A presto,
Fred ^_^

 

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Capitolo 14
*** Un fulmine a ciel sereno (parte 2) ***




 
Un Fulmine a Ciel Sereno - Parte 2
 
 

 
Emma non poteva certo dire di aver passato una notte tranquilla. Quando era tornata a casa le avevano fatto prendere una tisana per dormire e l’aveva mandata giù a forza, quasi con un senso di nausea. La tensione, le preoccupazioni, tutto quello che era riuscita a trattenere in quel momento per restare concentrata e razionale stava venendo fuori tutto insieme, come una diga aperta. Con suo fratello che era rimasto da lei, aveva spostato i bambini già addormentati nel lettone, proprio come le aveva consigliato il chirurgo. Poi, con una scusa biascicata a caso si era chiusa in bagno e, a discapito dell’ora, si era allungata nella vasca. L’idea, fondamentalmente, era di nascondere con l’acqua il rumore delle sue lacrime, ma poi il tepore e il gettito d’acqua l’avevano aiutata a calmarsi poco per volta; il sonno, però, una volta in camera da letto, era arrivato solo per sfinimento, forse intorno alle due o alle tre, con l’odore di Francesco che impregnava le lenzuola e le faceva sentire la sua mancanza più forte che mai. Sarà a casa presto, lo ha detto anche il dottore, ripeteva nella sua testa, ma la paura di perderlo era più forte di ogni rassicurazione.
Quando la sveglia del telefono, impostata automaticamente, risuonò nella stanza, per la prima volta in tutta la sua vita quel suono si era dimostrato più un sollievo che una tortura: sapere che la notte era passata senza telefonate improvvise e che presto avrebbe rivisto suo marito le dava la forza necessaria per aprire gli occhi senza perdere tempo e darsi da fare. Al suo fianco, nel letto, c’era il suo ometto. Povero piccolo, pensò, baciandogli la fronte, ne aveva passate troppe nella sua brevissima vita, ci mancava quella nuova disavventura.
“Mamma” bofonchiò, la voce impastata dal sonno. Solo in quel momento, accarezzandogli i capelli arruffati, notò che aveva letteralmente braccato il cuscino del padre in un abbraccio. Forse era solo un caso, perché Leo dormiva sempre con una mano sotto il cuscino, ma a lei piaceva pensare che non lo fosse, che cercava anche lui un modo per sentirlo vicino. “Che c’è cucciolo?” sussurrò Emma, per non svegliare le bambine, che dormivano incuranti della sveglia. Non era più un cucciolo da un pezzo, ormai era un ometto, ma per lei sarebbe stato quel bimbo silenzioso ed impaurito la cui vita sembrava nata sotto una cattiva stella ma che loro erano riusciti, poco alla volta, a far diventare buona.
“Come sta papà?” “L’hanno operato e l’intervento è andato bene” esordì, alzandosi dal letto “ma non ho potuto vederlo … più tardi vado in ospedale e parlo con i medici. Ma lo sai cosa mi ha detto il dottore che lo ha operato?” “Cosa?” domandò il bambino, seguendola fuori dalle coperte. “Che presto tornerà a casa” “Veramente?” Leonardo corse ad abbracciarla, per quanto potesse con un pancione di sei mesi. Emma aveva l’impressione – ed era stato proprio Francesco a farglielo notare, che ad ogni gravidanza la pancia diventava sempre più grande. Lei si sentiva già incinta da nove mesi … ma in realtà ne mancavano ancora tre. Con la testa di Leonardo comodamente appoggiata sulla sua pancia quasi fosse un cuscino, Emma poggiò le mani sulla testa del bambino e lì posò un bacio, serena: anche se le costava fatica, doveva mantenere la calma per tutti; del resto, non era successo niente che valesse la pena di scenate isteriche. Scaricare la tensione con un pianto, di nascosto, doveva servire solo per essere più forti di prima. Questo, in un certo senso, lo aveva imparato da Francesco: lui era il migliore nel restare concentrati in situazioni al limite. Non sapeva se il sorriso che suo figlio le stava restituendo fosse una gentilezza, quasi a dire ok mamma, facciamo finta per tutti e due che ci credo o se ci credesse davvero.
“Voglio stare con te … voglio venire anche io in ospedale” decretò Leonardo, deciso. “Non si può, cucciolo. Sei troppo piccolo … e poi tu devi andare a scuola” gli ricordò Emma, mentre uscivano dalla camera da letto. “Non ci posso andare a scuola” “E perché?” “Perché di sicuro non ci riesco a concentrarmi …” “Piccolo, io lo so che è difficile, ma devi fare uno sforzo. Anche per papà … lo sai che non vorrebbe mai saperti così triste.” Leonardo era abbastanza grande ormai per capire quello che succedeva attorno a lui e comprendere lo stato d’animo degli adulti e questo per sua madre era forse persino più intollerabile, perché per quanto si sforzasse di nasconderlo era evidente che il bambino percepisse la sua tensione e la sua preoccupazione. “Perciò oggi vai a scuola e divertiti, altrimenti poi quando papà torna a casa cosa gli racconti?” disse Emma, facendo l’occhiolino.  Per quanto fosse difficile - per lei certo, ma anche e soprattutto per i bambini – era necessario che la vita continuasse a scorrere normalmente, come se quella cosa successa la sera prima fosse solo una frenata leggera alle loro routine anziché uno schianto contro un muro.
 
Quella mattina, cascasse il cielo, Vincenzo sarebbe entrato in reparto assieme ad Emma. Ok, magari non insieme – un po’ di privacy ai due l’avrebbe concessa, ma per nessun motivo si sarebbe lasciato mettere alla porta come la sera precedente. Del resto la polizia a San Candido era lui, non potevano chiamarlo per autoallontanarsi: mentre era davanti allo specchio del bagno quella mattina si era sentito profondamente intelligente per essere giunto quella conclusione.
Per prima cosa aveva chiamato Emma per offrirsi di andarla a prendere e accompagnarla in ospedale, lasciando che Giulio si occupasse dei bambini: al suo arrivo al maso, con sua grande sorpresa, aveva trovato una situazione relativamente normale e tranquilla, che a malapena faceva indovinare quale uragano si era abbattuto sulla famiglia meno di 24 ore prima. Leonardo era più silenzioso del solito, Sole più irrequieta del normale e persino la piccola Sofia e Luna sembravano aver capito che qualcosa non andava e che Francesco non era rincasato, ma nulla che non potesse essere gestito. Il commissario non sapeva dire se da parte di Emma ci fosse una certa dose d’inconsapevolezza del rischio corso o una tremenda sicurezza nella loro buona stella dopo tutto quello che gli era successo, ma era meglio così: non era quello il momento di farsi prendere da panico e sconforto. Quando se l’era trovata davanti la sera prima, quando l’aveva vista avvicinarsi alla porta con quel pancione e Sofia tra le braccia, tutto il discorso e le parole che si era preparato erano spariti dalla sua mente e dalle sue labbra, completamente polverizzati: era così bella, il ritratto di una felicità normale e semplice, senza troppi fronzoli o pretese, che l’idea di distruggere quel fiore lo faceva star male.
Certo, Emma non lo stava molto a sentire, ma quella era normale amministrazione con i Neri: lui parlava e loro facevano di testa loro, sempre, quindi anche a quello era abituato. Lei lo precedeva spedita e sicura dentro i corridoi dell’ospedale, come se sapesse già dove andare, chi cercare, cosa fare. Era una donna forte la piccola Emma – che piccola non era per niente, ma Vincenzo provava per lei un senso di protezione e affetto fraterno – e sempre di più aveva la prova che lei e Francesco si erano scelti perché semplicemente si erano riconosciuti: fatti della stessa pasta, era nei momenti difficili che veniva fuori il meglio di entrambi.
Vincenzo accompagnò Emma in una piccola stanzina dove l’infermiera la fece accomodare per mettere addosso un camice e la aiutò con la cuffia per i capelli. Nonostante la ritrosia del medico di turno, alla fine era riuscito ad ottenere un compromesso: mentre Emma sarebbe stata dal marito, lui avrebbe aspettato fuori e si sarebbero dati il cambio quando lei era dal medico. Del resto, non poteva più aspettare: doveva tranquillizzarsi e sincerarsi che non avesse messo il suo amico troppo in pericolo e, soprattutto, chiedergli scusa il prima possibile. Se lo conosceva abbastanza, il comandante della forestale lo avrebbe mandato a quel paese ma il commissario aveva bisogno pure di quello.
“Allora io vado” disse Emma, affidando la sua borsa al commissario. Prese un grosso respiro mentre Vincenzo le fece un occhiolino di incoraggiamento e un grosso sorriso. Varcò la porta e l’infermiera la condusse lungo un breve corridoio che sembrava identico a quello di tutti i reparti ospedalieri che lei aveva visitato: la stessa luce fredda e impersonale, lo stesso odore asettico e fastidioso. “È sveglio?” domandò. Non aveva idea di come lo avrebbe trovato, sperava il più lucido possibile ovviamente, ma in qualsiasi modo sarebbe stato comunque il suo uomo e gli sarebbe stato accanto: lui aveva fatto lo stesso quando lei nemmeno era in grado di sentirlo e rispondergli. “Fin troppo …” “Come scusi?” “Questa mattina prima del cambio turno i nostri colleghi della notte hanno terminato la sedazione e abbiamo temuto che avesse un tipico episodio di delirio post operatorio, era molto agitato e voleva togliersi i tubi e fili dei monitor ma poi abbiamo capito che…” “…che ha solo un caratteraccio?!” concluse Emma, sarcastica, ridendo sotto i baffi. Senza bisogno di una diagnosi medica, già quelle poche parole erano state sufficienti per rassicurare Emma che suo marito era perfettamente in sé, anche se un po’ acciaccato.
Le due donne entrarono in uno stanzone dalle pareti azzurre con una serie di letti in fila, separati solo da paraventi. Emma avrebbe voluto cercare suo marito con lo sguardo, ma al contempo era imbarazzata all’idea di intrufolarsi nelle vite e nei dolori degli altri e così tenne lo sguardo basso, finché l’infermiera si fermò davanti all’ultimo letto sulla destra, indicandolo ad Emma con un ampio gesto del braccio, sorridendole serenamente. Solo a quel punto Emma alzò lo sguardo, trovando Francesco allungato sul letto, una medicazione sulla spalla, pericolosamente vicina al collo e un braccio fermato vicino al torace con una fasciatura, probabilmente per una lussatura. Tolti i lividi e le escoriazioni, oltre gli elettrodi e i fili per l’ECG e i tubi dei drenaggi, Francesco era lì tutto d’un pezzo e con gli occhi aperti, vivi e luminosi come sempre, come li amava. Non avrebbe pianto, no. Mentre i loro sguardi si incontravano lui doveva vedere solo la gioia che le traboccava dal petto, nient’altro.
“Emma!” la voce era fievole, un sussurro, ma lei l’avrebbe sentita anche se i bip dei macchinari avessero superato i decibel di un concerto rock. Le sorrideva, ma gli occhi lucidi non nascondevano l’universo di emozioni contrastanti che lo stavano attraversando in quel momento: il sollievo per avercela fatta, per aver avuto ancora la possibilità di rivedere la donna che amava, la vergogna per averle nascosto qualcosa e la paura, la grande paura che lo aveva attraversato nel momento in cui le forze gli erano mancate dopo lo sparo. Per Emma e i bambini, che non dovevano restare soli e poi un po’ anche per sé stesso: quando non hai niente di bello, le privazioni non costano fatica, non più di tutto il resto; quando sei felice, invece … e lui era felice, tanto felice, come non lo era da tempo, come forse non era mai stato. E l’idea di finire lì la sua vita lo aveva terrorizzato e lo aveva fatto incazzare. E forse era stata quella rabbia a salvarlo, la voglia matta di tornare a casa, dalle sue bambine dolci e monelle, dal suo ragazzino silenzioso e capriccioso, da quel piccoletto che non aveva ancora un viso né un nome e dalla donna che amava e lo amava, il dono più grande che la vita gli potesse fare: non lo avrebbe sprecato arrendendosi tanto facilmente ad una pallottola di pochi millimetri.
E quella donna se ne stava in piedi davanti al letto, Francesco poteva giurare di vedere stampato sul suo volto quello stesso sorriso che gli aveva rivolto quel giorno che le aveva confessato che sì, anche lui l’amava. Forse era solo l’anestesia ancora da smaltire che gli giocava brutti scherzi, o forse no: perché la sua Emma era bella come il giorno che si erano conosciuti e lo sarebbe rimasta per sempre, ma di una bellezza che non ha niente a che vedere con l’aspetto fisico. Aprì e tese, sforzandosi con quelle poche forze che sentiva di avere, la mano libera sul lettino, provando a farle capire che non doveva avere paura, che dietro quella figura malridotta c’era sempre l’uomo che aveva sposato, che poteva avvicinarsi.
Emma non aveva paura, non si era permessa di averne neanche per un secondo, figurarsi in quel momento in cui i suoi occhi vedevano che tutto stava andando per il meglio. Si avvicinò e sedendo sulla sedia di fianco a letto, sfiorò la mano fredda di Francesco, finché le loro dita si incrociarono. Non dissero una parola, lasciarono che i loro occhi esprimessero tutto quello che c’era da dire in quel momento. Glielo aveva detto una volta, d’estate, quando aspettavano Sole: non ho mai avuto bisogno degli occhi per vederti. Ed era ancora così.
“Scusa” sibilò, stringendo come poteva la mano di Emma per farle sentire quanto erano vere quelle parole. “Shhh” “Non avrei … non avrei mai dovuto… la forestale…” “Ascoltami bene perché lo dico adesso e non lo dirò più: non ho sposato un impiegato che mette i timbri ai permessi di caccia e pesca. Io ho sposato Francesco Neri e non voglio che tu sia neanche un’unghia diverso da come sei. O non saresti più tu. Capito?”
L’uomo annuì, chiudendo gli occhi e serrando le labbra per evitare di piangere, ma un rivolo di lacrime bagnò comunque l’angolo dei suoi occhi e giù poi, di corsa verso gli zigomi.
Emma si alzò e, abbassandosi su di lui, gli stampò un lungo bacio sulla bocca. Le labbra erano secche, i capelli che gli stava accarezzando erano impolverati e impiastricciati, la pelle odorava di terra, sangue e disinfettanti, ma era lì, stava tutto sommato bene e il resto passava in cavalleria.
“Come stai?” le chiese, con un filo di voce, mentre lei, con il suo sguardo dolce e protettivo, gli accarezzava la fronte. “Io come sto? Tu lo chiedi a me?!” esclamò Emma, ma non ne era poi così sorpresa: Francesco era quel tipo di persona, di quelle che mettono sempre al primo posto gli altri. Sentì in quel momento l’indice della mano di suo marito sfiorarle la pancia lievemente, con il saturimetro ancora attaccato. Lei afferrò quella mano e tornò a sedere, lentamente, di fianco a lui. “Sto bene … stiamo bene. Soprattutto adesso” sorrise, soddisfatta di poterlo ammettere.
“Voglio tornare a casa” “Lo so … ma non bisogna correre con queste cose … i bambini non hanno bisogno di un papà a mezzo servizio” “Mi perdoni?” “Ancora?! Non c’è niente che ti debba perdonare … ma promettimi solo che non mi nascondi più nulla. Non ho sposato un semplice forestale, ma nemmeno James Bond”
Francesco scoppiò a ridere a quella battuta ma subito si rivelò una pessima idea: il suo corpo, nonostante la grossa dose di antidolorifici, era tutto un dolore e il massimo che riuscì a tirare fuori fu un gemito di dolore.
“Dai, raccontami di casa …” lo diceva come se mancasse da giorni, come se si fosse perso chissà cosa mentre aveva solo perso le proteste di Leo, Sole che aveva messo il pigiamino da sola e Sofia, come al suo solito, aveva sbrodolato tutto il latte sul pigiamino a colazione. Ma Emma capì che a lui serviva anche quello che poteva sembrare nulla per rimanere aggrappato a quello che c’era fuori dall’ospedale e stare bene. Del resto c’era passata anche lei e quanto le avevano fatto bene quelle chiacchiere sui fattarelli di paese che non interessavano a nessuno. Chiusi dentro una stanza d’ospedale, fredda e asettica, anche poter figurarsi nella mente la scena di un’auto bloccata da una mandria di mucche in una stradina d’alta montagna era uno spiraglio di normalità e una grossa dose di speranza.
Quando il primario della terapia intensiva mandò a chiamare Emma, la donna si congedò dal marito con un baciò e una lieve carezza. “Torno appena possibile” lo rassicurò “e tu non far disperare gli infermieri … ci hanno messo 5 minuti a conoscerti”
L’uomo sorrise sornione, strizzando l’occhio verso la moglie che non ne voleva sapere di uscire dal piccolo cubicolo nonostante le pressioni dell’infermiera che era andata a chiamarla.
 
                                   
Vincenzo era nervoso come prima di un esame. Per la precisione come prima di Procedura Civile: gli stessi livelli di caffeina nel sangue – era rimasto sveglio tutta la notte in commissariato a suon di caffè napoletano per evitare di dormire in caso di emergenza – e ripetizione a macchinetta di quello che avrebbe dovuto ripetere. Sì perché si era studiato nei minimi dettagli quello che avrebbe dovuto dire al collega e amico, come approcciarlo, come chiedergli scusa. E come prima di ogni esame, era arrivato persino il momento in cui non ricordava più nulla, black out totale. Poteva darsela a gamba, nessuno lo avrebbe biasimato, ma si sarebbe biasimato da solo. Al momento di darsi il cambio con Emma, l’amica era stata spinta in fretta verso lo studio del primario che non c’era stato il tempo nemmeno di domandarle come era andata. Non sembrava particolarmente sconvolta, ma quei due insieme ne avevano passate di tutti i colori che a quel punto, pensò Vincenzo, probabilmente era subentrata una sorta di assuefazione mista a rassegnazione.
Quando arrivò al letto dell’amico, trovò dei sanitari intenti a completare una medicazione. “Ecco qua, Comandante” disse la donna che era di spalle, rivolta a Francesco, con una voce che a Vincenzo parve familiare “ma mi raccomando, niente movimenti bruschi che è un attimo a far saltare i punti. Adesso che ha visto sua moglie può farcela a stare più tranquillo, vero?” “E se non ce la fa da solo ci pensa il suo testimone di nozze” “Commissario!” esclamò la donna, voltandosi. E così Vincenzo la riconobbe: era Lucia, una giovane infermiera che arrivata da poco a San Candido dal sud Italia e abitava proprio nel suo stesso palazzo. Il giorno che si era trasferito aveva sentito odore di parmigiana per le scale e, divorato dalla curiosità e dalla gola, era andato a bussare alla sua porta per conoscerla e magari scroccarle una porzione di melanzane. Aveva sempre trovato divertente quella coincidenza.
L’infermiera rivolse un grosso sorriso al vicino di casa, prima di lasciarlo con una raccomandazione “Mi raccomando, commissà, veloce veloce perché noi dobbiamo cominciare il giro visite tra un po’ e lei non è manco un parente” “Io e il comandante siamo quasi parenti, mi ha promesso che il prossimo figlio lo battezzo io! E poi sono sempre il commissario…” “Manco il papa ci potrebbe entrare qua dentro, commissà …  non me lo strapazzi troppo! Il comandante è ancora molto debole”
Un uomo alto con i capelli biondissimi e con una divisa bianca e i bordini rossi, molto probabilmente il caposala, li guardò torvo senza dire una parola ma evidentemente contrariato da quel baccano inusuale per quel reparto. Lucia abbassò la testa e, a bassa voce, salutò il commissario portando via il carrellino delle medicazioni.
L’uomo, scuotendo la testa divertito, si girò verso il compare che in tutto quel tempo era rimasto in silenzio ad osservare la scena anche lui evidentemente rallegrato da quel siparietto. Stava immobile sul letto, in una posizione contratta, forse per il dolore, e vagamente innaturale, con il tubicino per l’ossigeno alle narici, diversi fili e tubi che partivano dal corpo e lo collegavano ad una caterva di macchinari. Sul corpo i segni della caduta nella scarpata dopo che aveva ricevuto il colpo.
Vincenzo era abituato per il suo mestiere ad immagini crude e situazioni violente e aveva visto ben di peggio, ma quando di mezzo c’erano persone a cui teneva era tutta un’altra storia. Il senso di colpa gli rimontò su dopo tutti i tentativi fatti autoconvincersi che era solo lavoro, che non c’era niente di cui biasimarsi. E invece si incolpava eccome. Da qualche parte in quel reparto c’era una donna col pancione che aveva rischiato di diventare madre senza un marito accanto, per colpa sua, e c’erano 3 bambini – quasi 4 – che avevano rischiato di non avere più un padre.
Lentamente, senza dire una parola, si sedette sulla sedia di fianco al letto e si lasciò andare ad un grosso sospiro. “Come stai?” domandò, la voce tremolante, guardando verso i monitor dei macchinari come se ci capisse qualcosa. “Com’è che dite … a Napoli? Ah sì…una chiavica” Che domande, Vincè, pure tu…
La voce di Francesco era flebile, tra una parola e l’altra emetteva sbuffi di dolore e si vedeva che stava imponendo a sé stesso di stare meglio il prima possibile o quanto meno di fingerlo di fronte agli altri. Tipico di Francesco.  “E nun te sforzà!” si raccomandò il commissario “scommetto che a tua moglie non hai fatto capire niente, come al tuo solito” “Come se posso nasconderle qualcosa…”
Eppure della loro operazione era stato costretto a tacere, controvoglia, proprio da lui. Gli aveva ripetuto una decina di volte che ad Emma doveva accennare qualcosa, che non poteva andare contro gente armata senza dirle nulla. Nella sua testa, faceva parte dei suoi voti nuziali: nella buona e nella cattiva sorte. Ma Vincenzo era stato irremovibile: facile parlare per lui, aveva pensato Francesco, sua moglie era in forestale ed era al corrente di tutto. Ma lasciare Emma quella mattina e liquidare la sua giornata con vado a fare dei controlli quando sapeva benissimo che avrebbe impugnato un’arma e avrebbe indossato un giubbotto antiproiettile era stata dura: per essere credibile, doveva crederci prima di tutto lui, ed era un pessimo attore.
A tutto questo Vincenzo non aveva pensato e si sentiva doppiamente, triplicemente in colpa. Quando aveva visto Francesco togliersi il giubbotto per darlo al poliziotto infiltrato tra i narcotrafficanti, Vincenzo avrebbe dovuto capire che aveva fatto una cazzata di dimensioni epiche a coinvolgerlo e quella sua leggerezza l’avrebbero pagata entrambi. Perché Francesco era così: in mezzo alla merda faceva il soldato, dimenticava tutto il resto e ci si buttava a capofitto.
Quando lo avevano tirato fuori dalla scarpata e messo nell’eliambulanza le uniche parole che Francesco era stato in grado di pronunciare furono Emma e i bambini. Ovviamente: mai che pensasse alla sua pellaccia.
“Ho fatto una cazzata” “Ah tu?” “Non ci sono solo più io” ammise, dolente. “Siamo due deficienti che quando si tratta di lavoro non capiscono più niente. Io ti devo chiedere scusa, per averti fatto correre un rischio troppo grande. Emma è pure incinta!” “Ma io ti ho dato retta … siamo pari”
L’uomo alzò alla buona il braccio, tendendo la mano all’amico che la strinse impacciato e ancora mortificato. Gli sarebbe passata quell’angustia, ma ci sarebbe voluto un po’ e Francesco già se lo vedeva scodinzolargli attorno servizievole come un cane che si sente in colpa per una marachella.
 
Una settimana c’era voluta per rimettere in sesto il comandante della forestale. Più precisamente per farlo uscire dall’ospedale: avrebbe avuto bisogno di un’altra settimana in una clinica per la riabilitazione, ma era ad un’ora da casa, con orari di visita stabiliti e lui senza moglie e figli per altri sette giorni non sapeva proprio starci. Teneva la spalla ferma in un tutore e la terapia necessaria l’avrebbe fatta in sedute settimanali da un fisioterapista della zona. I suoi lavori di falegnameria avrebbero funzionato anche meglio aveva decretato, a dispetto delle proteste di Emma.
I bambini non avevano potuto visitare il padre in ospedale e il massimo che si erano concessi erano le videochiamate che, soprattutto per le più piccole, erano ancora uno strumento strano e finivano per distrarsi facilmente. I resoconti di Emma erano stati belli fino al secondo giorno, poi il desiderio di riabbracciare tutti aveva avuto il sopravvento. Non per il contatto fisico, non solo almeno, ma anche per il loro profumo di pulito, per quelle vocine che lo chiamavano papà e quegli occhioni blu, verdi e nocciola che lo guardavano come fosse un l’eroe delle favole della buonanotte o il grande gigante gentile dei libri per ragazzi. E invece era solo uno stupido che si era messo a giocare al soldato ma lui era molto di più: lui era il marito di una donna straordinaria e il papà di 3 bambini dolci ma anche un po’ pesti; aveva davanti una miriade di nottate insonni con il piccolino che doveva arrivare, e migliaia di cambi di pannolini, di rigurgiti, di prime volte così diverse da quelle degli altri che sarebbero state nuove anche per lui. E non voleva perdersene neanche una.
Aveva fatto promettere ad Emma che tolto il tutore non avrebbero più parlato di quella storia, che d’ora in avanti avrebbe svolto solo il suo lavoro di noiosi timbri, ispezioni negli allevamenti e nei boschi e poliziotti in servizio ne avrebbe incontrati solo per sbaglio mentre era in auto. Emma aveva riso, alzato gli occhi al cielo e risposto, laconica: “…l’importante è crederci”.
Quel pomeriggio, per riaccompagnarlo a casa, si era offerto Vincenzo, nonostante le proteste di Emma che insisteva sul fatto che fosse solo incinta e non malata e che era perfettamente in grado di guidare. Ma né suo marito, né il suo testimone di nozze avevano voluto sentire ragioni: in quella settimana di ricovero si era strapazzata più del dovuto e ora meritava di riposare anche lei.
Arrivati davanti al maso, Vincenzo prese il borsone con le poche cose di cui Francesco aveva avuto bisogno in ospedale mentre il forestale e sua moglie si incamminavano assieme verso casa. Appena sceso dall’auto l’uomo aveva spalancato il braccio libero e cinto con il suo abbraccio le spalle della moglie.
“È bello essere a casa, vero?” gli domandò Emma, con una punta di commozione nella sua voce, appena scesi dall’auto, entrambi fermi davanti al maso. Non era una bella giornata, il sole non splendeva alto e la pioggia della notte aveva lasciato strascichi di freddo umido che saliva dalla terra ancora bagnata. Ma per Francesco non c’era differenza: era una giornata splendida, luminosa, e il profumo di aria pulita e salubre gli riempiva finalmente i polmoni. Prese dei grandi respiri e fece il pieno di tutto il bello che lo circondava.
Era ancora incredibile, per lui, avere un posto da poter chiamare casa, lui che a lungo era stato un vagabondo e un solitario, per cui un bivacco o una villa in collina non facevano differenza: erano solo la soddisfazione di un bisogno primario, un tetto sopra la testa.
Ma ora quelle mura erano intrise di ricordi, di voci, di suoni, di quelle visioni che da speranze erano diventate realtà. Dalla finestra del soggiorno, nonostante i fiori ancora rigogliosi nelle fioriere esterne, Francesco scorse il muso di Luna e il viso di Leonardo stampati sul vetro di una delle finestre del pian terreno, di vedetta. Appena il sguardò dell’uomo incrociò quello del figlio, il bambino schizzò via dalla finestra e con lui la lupacchiotta di casa.
“Hanno preparato qualcosa per il mio ritorno, vero?” “Fingiti sorpreso, ci hanno lavorato tutto il pomeriggio di ieri” sembrò quasi sbuffare Emma. Suo marito non ce la faceva proprio ad evitare di dedurre cose. “Parola di forestale” decretò Francesco, sugellando la promessa con un bacio. Emma sospirò, ma non poté smettere di sorridere. Lei che di ospedali se ne intendeva, aveva sempre dichiarato che il ritorno a casa era la parte più bella, e mai come in quel momento rinnovava la sua opinione a riguardo. Lasciò che fosse suo marito ad aprire la porta, toccava a lui godersi a pieno quel momento. Il corridoio, però, al contrario di quanto si aspettavano entrambi, era vuoto; il comitato di benvenuto che era pronto a scommettere era stato organizzato per l’occasione, era da qualche altra parte. “Sono a casa!” esclamò, con la solita cantilena dei giorni lavorativi, come se fosse andato via per lavoro per qualche giorno e fosse pronto a riprendere il suo posto in famiglia come se nulla fosse successo.
“Papaaaaà!” le voci delle piccoline di casa riempirono il corridoio spuntando dalla cucina e correndo a tutta forza incontro a Francesco che istintivamente si inginocchiò per abbracciarle “Le mie principesse! Dio come mi siete mancate!”  A quell’abbraccio si unirono sia Leonardo che Luna, che aveva appeso al collo un piccolo cartellone con su scritto Bentornato Papà e le impronte delle mani dei bambini fatte con la tempera; dietro di loro Francesco poté a malapena scorgere Giulio, i nonni di Leonardo e la zia di Emma che erano accorsi a San Candido per aiutare Emma e i bambini: la foga era stata eccessiva e tra gridolini, risate e latrati erano finiti tutti a terra, in pieno corridoio. 
Avesse avuto il potere di fermare le lacrime, di certo non lo avrebbe usato. Piangere di gioia, lo aveva ormai imparato, era la cosa più bella del mondo. Era la stessa sensazione di quando le aveva prese in braccio la prima volta, lo stesso profumo di pulito e di dolci, solo che il loro sguardo era pieno d’amore e di gioia e non di perplessità del tipo ah sei tu il tizio che chiameremo papà?! Anche in Leonardo c’era la stessa meraviglia del giorno in cui gli avevano detto che sarebbe andato a vivere insieme a loro, la medesima incredulità positiva.
Sapeva di essere amato, ne aveva la certezza e lo considerava un privilegio perché aveva sempre avuto – e sua moglie glielo ripeteva costantemente – la brutta abitudine di non considerarsi né una persona particolarmente interessante né di valore; ma il modo esplosivo che quelle piccole creature glielo stavano dimostrando non aveva pari. E non importava che lo stessero schiacciando, che un gomito di Sofia fosse finito proprio sulla ferita, che per rialzarsi ci avrebbe impiegato un’ora e avrebbe dovuto prendere un antidolorifico. Loro erano il migliore sedativo ad ogni sofferenza. Come aveva solo potuto pensare di barattare una vita con loro per dieci minuti da rambo non riusciva ancora a capacitarsene.
“Papà ci sei mancato!” proclamò Sole prendendogli il viso tra le mani. Francesco la osservò per un’istante e poi osservò anche gli altri bambini. Era passata solo una settimana eppure gli sembrava che fossero cresciuti a dismisura e cambiati totalmente. “Anche voi, principessina!” la baciò sulla guancia, provando a mettersi almeno seduto e la piccola come d’abitudine si strofinò la guancia dove la barba del padre aveva pizzicato un po’.
“Stai bene ora papà?” domandò Leo, che lo guardava guardingo; lui più degli altri capiva la situazione e forse temeva di fargli male. “Sì, Leo, sto bene adesso” lo rassicurò, assicurando la presa di Sofia che era l’unica, giustamente, a non capire a pieno cosa stava succedendo e pensava forse che quella specie di festa fosse per lei e non per il padre. “Non ancora al 100% ma adesso che sono a casa tornerò in forma più in fretta, vedrai” lo tranquillizzò, mascherando una smorfia di dolore con un grande sorriso.
“Forza bambini, lasciate respirare papà che deve riposare” li richiamò Antonio, battendo le mani e muovendo le braccia quasi fosse un vigile; di sicuro in corridoio in quel momento si era creato un bell’ingorgo.  “Noi andiamo..” gli fece eco Rosa, accarezzando la guancia del genero, che era stato aiutato da Giulio a rimettersi in piedi.  “Ma come? Di già” “Ma sì Francesco, ci vedremo nei prossimi giorni” “Eh sì, ordini del medico” disse Vincenzo, alle sue spalle, ma indicando Emma con un cenno del capo e un occhiolino “devi riposare e stare tranquillo per qualche giorno”
Come se fosse davvero possibile, pensò Francesco: in quella casa non c’era un attimo per stare davvero tranquilli, forse neanche a sera dopo aver messo tutti a nanna. Ma in fondo andava benissimo così, non desiderava che la sua vita fosse un millimetro differente da com’era.
 
A sera era stato difficile mettere i bambini a dormire, o per meglio dire era stato difficile convincere Leonardo e Sole a lasciare andare il papà per andare nei loro letti dopo aver visto tutti insieme un cartone. Lo avevano seguito al piano di sopra e si erano tuffati nel lettone. Persino Leonardo, che dopo la nascita di Sofia aveva orgogliosamente proclamato di essere grande e di non avere più bisogno di dormire in mezzo ai genitori, quella sera faceva fatica a staccarsi dal padre. Non che a Francesco desse fastidio, i bambini gli erano mancati troppo, al punto che quando la piccolina era crollata tra le sue braccia a cena gli era dispiaciuto ammettere che, per via delle ferite, degli ematomi e la generale fatica che ancora aveva addosso, era pesante e faticoso tenerla. Stringendo i denti l’aveva messa nel lettino lui stesso, baciandole la fronte profumosa sotto la folta chioma bruna: era la sua piccola peste, che quando dormiva si trasformava nel più dolce degli angeli e quel profumo di latte e fiori di montagna era più efficace di tutti gli antidolorifici con cui lo avevano imbottito nei giorni precedenti.
“Lasciali stare Emma, hanno ragione, sono mancati anche a me” protestò l’uomo quando sua moglie diede l’ultimatum ai bambini di lasciare riposare il papà. “Non scherziamo, hai ancora i punti e la spalla è lussata” ricordò al marito “basta una mossa sbagliata e siamo di nuovo punto e a capo”
Francesco la guardò negli occhi, mentre aveva ancora Sole letteralmente abbarbicata sul suo braccio sano, con nessunissima intenzione di staccarsi. Emma non era petulante, né opprimente, ma aveva un grosso problema con gli ospedali, che nemmeno due lieti eventi avevano saputo placare. Quell’incidente aveva, era proprio il caso di dirlo, riaperto una ferita vecchia e dolorosa. Capiva il perché delle sue rimostranze.
“Vieni qui” le disse, slegandosi dalla stretta della figlia e tendendole la mano. Emma si avvicinò, ancorandosi letteralmente alle dita del marito con le sue. “Compromesso?” le domandò, lo sguardo inquisitorio. La donna lo guardò diffidente ma divertita, arricciando le labbra in attesa della proposta del marito. “I bambini possono restare … ma vicino a me ci dormi tu, che dici? Mh?” Emma si sciolse. Non per quello che le aveva detto, ma come lo aveva fatto, con quella faccina da lupetto solo e abbandonato che sapeva utilizzare fin troppo bene a suo favore. “Con il piccoletto qui dentro saremo in cinque però” lo provocò. “Vorrà dire che ci stringiamo … ti dispiace?” “Stringermi a te? Neanche per idea” per quanto le consentiva quella pancia che iniziava a diventare ingombrante, si avvicinò più che poteva prendendo tra le mani il suo volto e stampando un bacio sulle sue labbra. Finalmente, dopo una doccia e una serata in casa, il suo profumo di montagna e di caldo legno di baita era tornato, facendole dimenticare di quell’odore terribile di disinfettanti che le entrava nel naso bruciando fino agli occhi e alla testa. “Mi sei mancato Neri” “Di più tu, Giorgi” rispose lui, rispondendo a quel bacio “di più tu”
 
 

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Capitolo 15
*** Natale per due ***


 



Natale per due




BOSTON
 
Finalmente era uscito il sole. Era una coincidenza fortunata perché una partenza in programma durante una tempesta di neve era garanzia di una partenza rimandata. Ed era l’ultima cosa di cui Emma aveva bisogno. Chiuse la valigia dopo aver controllato che tutti i cassetti fossero vuoti, prese il borsone e lo zaino e lasciò l’appartamento. Si tornava in Italia. Non finalmente, non purtroppo: si tornava e basta. Bisognava solo andare avanti ed inventarsi qualcosa di nuovo.
Prima che il taxi arrivasse, però, aveva ancora venti minuti, perfetti per prendere un Caramel Brulée Latte e un biscotto natalizio nella caffetteria dietro l’angolo: era una porcheria tutta americana, ma non poteva dire di essere stata negli Stati Uniti senza aver bevuto ogni giorno uno di quei beveroni bollenti ed extra dolci. E poi avevano il wi-fi gratis: non c’era opzione migliore per stare al caldo e attendere.
Seduta al suo tavolino, con le valigie ben in vista e il caffè fumante nella tazza di cartone da asporto, prese il pc e controllò le ultime mail. L’occhio le cadde sulla cartella delle bozze, dove aveva lasciato una mail della sera prima, 
non inviata .
Ciao Francesco, come stai? Lesse e  cancellò, immediatamente. Ehi! Cancellò pure quello, sostituendolo con qualcosa di più diretto.
 
Facciamola breve: dammi un consiglio, Francesco Neri, come si inizia una email ad una persona che non si fa sentire da mesi?! Gli orsi in letargo e le acque ghiacciate del lago devono averti tenuto parecchio indaffarato, suppongo...se l’ultimo contatto è stato un pollice all’insu quando ti ho detto che ero atterrata.
Così, diretta al punto, era perfetta, pensò. Andò avanti con la lettura.
Sono giorni che provo a scrivere e cancello e poi riscrivo e poi ricancello e non so nemmeno se poi te la invierò. Anzi, è altamente probabile che non lo farò alla fine, quindi al diavolo la forma e proverò a mettere nero su bianco tutto quello che mi passa per la testa, più per me stessa che per te … Roccia aveva ragione, un lupo non si può addomesticare e a te piace proprio essere un lupo solitario.
Ti starai chiedendo a questo punto perché ti sto scrivendo; presto detto: è arrivata una tormenta di neve che ha coperto tutto di bianco, in 24 ore ne è caduta così tanta da arrivare alle ginocchia. E così d’istinto ho googlato “neve” e “San Candido”. Non lo so perché, forse perché non ho fatto a tempo a vedere il lago ghiacciato e le cime innevate. Quelle foto che ho visto mi hanno levato il fiato. Come si fa a competere? È vero che la neve abbellisce tutto, anche Boston è diventata affascinante, e le luci di Natale fanno il resto, ma chi sta meglio di te?! Spero solo che abbia trovato una soluzione migliore della stufetta per riscaldarti perché ho letto che fa parecchio freddo e lo so che hai la pessima abitudine di coprirti poco. Forse non sarai d’accordo, ma meno male che ci sono Roccia e Huber a badare a te. No, Vincenzo non lo conto…che sotto sotto è un bambino come te. Ti offenderai ma la verità va detta, comandante Neri.
Ora però passiamo alle cose più serie: sono arrabbiata con te. E delusa. Ma soprattutto arrabbiata. Nera. Perché sono d’accordo con te, questa di Boston era una grossa opportunità per la mia carriera, ma questo non significa non sentirsi per mesi. E sei l’ultima persona da cui mi sarei aspettata questo comportamento. Io lo so che non è un buon momento e forse con l’avvicinarsi del Natale è anche peggio, e so che è anche per questo che mi hai incoraggiata a partire. Stare lontani per un po’ avrebbe fatto bene ad entrambi, ma non così. Non ti ho mai chiesto di venire qui a trovarmi, non ci credo neanche se lo vedo che lasci la tua palafitta per venire in una grande città americana, né lo pretendo, ma una mail, una telefonata ogni tanto, quelle sì che me le aspettavo, eccome. Viviamo entrambi nella civiltà, anche se a volte tendi a dimenticarlo. E non lo dico per chissà quale ragione, ma siamo amici, e gli amici questo fanno: si interessano gli uni degli altri. Sia che le cose rimangono sempre uguali, sia che esse cambiano, è bello sapere che puoi contare su di loro. Ed io credevo di poter contare su di te.
Comunque … alla fine se sono qui a scriverti è perché comunque anche se mi fai incazzare da morire alla fine ti voglio bene e lo so che da solo smetti di funzionare. E fa male perché è come se tutti gli sforzi fatti e le promesse e le belle parole ogni volta non servissero a nulla. Ma come tu sei tu anche io sono io e alla fine mi armo di pazienza e ci provo di nuovo, per l’ennesima volta, a tirare fuori quel buono che hai dentro ma ti ostini a nascondere. E quindi faccio per entrambi quello che dovresti fare pure tu: parlare del più e del meno.
Carina Boston, se ti piace il genere, ovviamente. Non posso dire bella o bellissima, perché niente si può dire bello o bellissimo dopo che vedi le nostre montagne o il nostro lago. Che poi è assurdo: io ci ho vissuto per pochi mesi eppure le considero mie come se avessi vissuto lì da sempre. Ma è inutile che te lo dico, perché sicuramente converrai con me che quei posti ti cambiano la vita. Con me lo hanno fatto e credo pure con te, anche se dubito lo ammetteresti ad alta voce.
Nella mia vita di base non è cambiato nulla, anzi, adesso ti faccio ridere: le cose sono anche peggiorate se devo dirla tutta. Ti ricordi quella bomba ad orologeria nella mia testa? Beh è diventata più simile ad una bomba atomica, pensa un po’. Buffo! Trasferirmi qui doveva essere un’opportunità irripetibile e invece … potrei pure non tornare più da qui. Un attimo e zac!
No, questa parte era meglio ometterla se avesse mai inviato quella mail, altrimenti sarebbe stato lui quello che alla fine avrebbe fatto zac e l’ultima cosa che voleva è vederlo fare il melodrammatico preso dai sensi di colpa … - vedi che ti conosco meglio di quanto tu conosci te stesso? - pensò.
Ma si va avanti, come ho sempre fatto: si continua a vivere, a lottare; dovresti conoscermi: aspettare fermi e comodi che arrivi il momento non fa per me.
È solo che a volte, un po’ come questa sera, mi prende un po’ di nostalgia. Mi piacerebbe mollare tutto e tornare sulle Dolomiti, sulla palafitta. Me la immagino lì, ferma sulle acque del lago limpide come uno specchio, così piccola di fronte a quel gigante dormiente che le troneggia di fronte. E mi perdo nei ricordi: ripenso a quel vecchio letto che avevi per terra e su cui mi hai fatto dormire, a quella brandina su cui ti sei sacrificato per me. Ripenso anche alle tue lezioni di cucina … non va così male ora, sai?! Non solo non campo più di panini e pasti caldi della mensa del campus, ma riesco anche a girare una frittata senza romperla. Ok, lo ammetto, con il forno sono ancora una frana, ma sono solo 6 mesi che cucino senza supervisione!
E Argo? Come sta quel cagnolone silenzioso e pacioso? A volte ripenso con nostalgia persino ai giorni di pioggia, quando entrava in palafitta tutto bagnato e puzzolente. Sono strana, lo so e so che lo sai. Ma c’eravamo trovati anche per questo, no? Perché riuscivo a strapparti un sorriso con le mie cretinate quando tu eri giù …
Adesso vado a dormire, sono stanca – più stanca del solito – e domani parto, torno in Italia … non so se ti manderò mai questa mail, non so se ci rivedremo ancora, ma un buon Natale anche solo col pensiero volevo augurartelo.
Emma
In quel momento, guidata esclusivamente dall'istinto, portò le dita sulla tastiera e iniziò a digitare una nota alla fine della lettera.
p.s. è mattina e sono ancora qua!!! Per me è un miracolo, non ridere … e non alzare nemmeno gli occhi al cielo! Sono in una caffetteria di quelle che si vedono nei film americani a prendere un caffè e il sole sta sciogliendo la neve. Ne avrà ancora per molto, ma nel frattempo l'acqua scende decisamente, goccia dopo goccia, dai tetti e dalle grondaie. Io sto aspettando il taxi che mi porterà in aeroporto. Volevo dirti che ho rileggendo a mente fredda quello che ho scritto e anche se è vero che sono incazzata mi sento una stronza perché mi rendo conto che il Natale per te non deve essere facile, tuo figlio probabilmente ti mancherà di più del solito, lo immagino e lo comprendo. Mi farebbe piacere sentirti, ogni giorno nonostante tutto ci spero di ricevere una tua email e sapere che stai bene e anche tu avrai compagnia durante le feste, Vincenzo forse o qualcuno dei tuoi colleghi. Perché posso essere incazzata con te, ma non posso non volerti bene.
 
Il suo cellulare squillò. Era il servizio taxi. Uno sguardo fuori dal finestrone e l’auto gialla era lì fuori ad aspettarla. Era destino, ormai era chiaro: quella mail non doveva partire. Spense il pc infilandolo nella borsa e, dopo essersi imbacuccata per bene, uscì dalla caffetteria. “Where to, Miss?” “To the airport please, the International Terminal”
 
 

SAN CANDIDO

A fine giornata, un secondo lavoro attendeva il forestale. Per rientrare in casa, doveva spalare la neve che l’ultima nevicata aveva accumulato sul pontile, accendere la stufa e, mentre aspettava che la casa fosse sufficientemente calda per togliere la giacca, controllare che il peso della neve non avesse fatto danni al tetto. Incombenze stagionali a parte, le cose procedevano come sempre, lente, quasi immutabili nella loro routine quotidiana e a Francesco andava benissimo così, lo trovava rassicurante. Se era vero che usava l’adrenalina e il pericolo per annebbiare il cervello come fossero una droga, per dimenticare il macigno che aveva dentro, seppur brevemente, d’altro canto c’erano cose che non voleva assolutamente dimenticare e una vita solitaria e abitudinaria era la migliore alleata per raggiungere il suo obiettivo.
Terminate le ispezioni quotidiane, Francesco dismise finalmente la divisa e fece partire lo scaldabagno, per ritemprarsi con una doccia calda prima di preparare qualcosa da mettere sotto i denti per cena. Come al suo solito, senza troppo impegno, avrebbe aperto una scatoletta di legumi e tagliato qualche strisciolina di speck per farne una zuppa e abbrustolito sulla stufa un po’ di pane che era rimasto dal giorno prima. Era capace eccome di cucinare, ma quando non si divide il pasto con nessuno non si ha granché voglia né fantasia di complicarsi la vita. A causa della tormenta, non era potuto scendere in paese a lavare la biancheria nella lavanderia a gettoni e così fu costretto a prendere degli asciugamani puliti da uno degli scatoloni in cui teneva in ordine le sue cose, seppure poche. Chissà, magari in primavera si sarebbe deciso e finalmente avrebbe comprato un armadio vero e proprio. I suoi amici glielo ripetevano in continuazione che non poteva vivere come un cavernicolo, ma per lui faceva davvero poca differenza: gran parte della giornata la trascorreva in caserma e l'importante, dopo il lavoro, era avere dell'acqua calda e un posto caldo e asciutto. Alla luce fioca delle lampade da campeggio che illuminavano la palafitta, tirò fuori un telo da bagno e un asciugamano troppo morbidi e troppo candidi per essere suoi. Per un attimo pensò che fossero di Livia e gli venne un nodo in gola, ma poi notò, sull’etichetta con le istruzioni per il lavaggio, una E scritta con il pennarello indelebile. Emma…doveva averli dimenticati da lui quando aveva lasciato la palafitta ed erano finiti in mezzo alle sue cose. Emma … il magone nel frattempo si era trasformato in batticuore … chissà cosa stava facendo in quel momento, se era ancora negli Stati Uniti, se ogni tanto pensava ancora a lui. Come poteva? pensò, erano mesi che non si sentivano, o meglio che lui non si era fatto vivo con lei, nonostante glielo avesse promesso, e se provava a capire perché non lo avesse fatto non sapeva darsi una vera risposta. Eppure c’erano tante cose da raccontare: Vincenzo che presto sarebbe diventato papà, i lavori di ristrutturazione della foresteria, quelli a casa di Vincenzo, del suo incontro con Adriana e Isabella … se solo le avesse conosciute, di sicuro sarebbero andate d’accordo …
Andò sotto la doccia e sperò di riuscire a lavare via quel pensiero deleterio dalla sua testa, ma Emma era come un tarlo: una volta che si faceva strada nei suoi pensieri, era difficile rimuoverla. E capì anche perché non l’aveva mai contattata, né con una email, né con un messaggio, figurarsi con una chiamata: perché con lei non era in grado di mantenere la distanza di sicurezza, non riusciva a non preoccuparsi. Far finta che non esistesse era pressoché impossibile, ma era la soluzione migliore. E probabilmente lei lo stava odiando, se mai si fossero rivisti come minimo che gli avrebbe vomitato addosso tutta la tua rabbia – e se lo sarebbe meritato – ma forse alla fine era la cosa più giusta da fare e lo avrebbe ringraziato persino.
Non era cattiveria, perché ci aveva davvero provato a darsi una chance, ci aveva provato anche ad aprire l’email e a scriverle ma non era andato più in là della data o di Ciao Emma, come va?, ma per quanto per lui stare accanto alle persone ed aiutarle fosse qualcosa di più di una vocazione, quasi una droga, aveva imparato che non ci voleva nulla a rimanere coinvolti e farsi male; c’erano troppi fantasmi nella sua vita, troppi brutti ricordi che non sapeva scrollare di dosso e probabilmente non era nemmeno interessato a farlo, e non poteva permettersi che facessero parte né della vita degli altri né che lei, in particolare, diventasse uno di quei fantasmi. Ed era consapevole che, a un occhio esterno, potesse suonare come una contraddizione, ma c’erano dei giorni in cui un piccolo dettaglio come quell’asciugamano la faceva tornare a galla e la sua forza di volontà nel tenerla lontana era più debole e il ricordo tuo sorriso più forte. Quello era uno di quei giorni.
Terminata la doccia, messo qualcosa di pulito addosso, prese il telefono dalla tasca della giacca … d’istinto, senza pensare. Scorse la rubrica e si fermò sul numero di Emma. Adesso la chiamo, almeno per farle gli auguri, come va va, pensò, e se non risponde vuol dire che non è destino. Ma se non avesse risposto, se fosse stata irraggiungibile, avrebbe lasciato traccia di sé e lei avrebbe potuto richiamare e non voleva correre il rischio di doverla affrontare in un momento diverso, quando fosse stato più lucido. Spense il telefono nella speranza di rimuovere ogni tentazione e, risoluto, si mise a preparare la cena.
 
  
 
 
 
Un anno dopo
 
Era giorno da qualche ora ormai, ma il cielo plumbeo lasciava ancora strascichi notturni e poca voglia di svegliarsi sia alla natura che agli abitanti delle sparute abitazioni; così, complice anche il freddo tagliente, tutto taceva sulle rive del lago. E poi era la mattina di Natale, era diritto di tutti prendersela con comodo.
La neve aveva raggiunto l’alberello che era stato addobbato sul terrazzo con delle decorazioni in legno e qualche fiocchetto rosso: non era molto grande, ma era vero e profumato e finite le feste sarebbe tornato al suo posto tra i suoi simili nel bosco, a crescere grande e forte. In casa, dove gli spazi risicati non avevano permesso grandi decorazioni, una ghirlanda decorava la finestra e di fianco alla stufa, in mancanza di un vero camino – un sacco di iuta pieno di regali, decorato come se provenisse direttamente da Polo Nord e il suo mittente fosse davvero Babbo Natale.
Era tutto pronto per quel giorno di Natale, speciale ed unico per tanti motivi, ma nessuno dei due padroni di casa sembrava essere particolarmente in ansia, nemmeno all’idea di avere un ospite speciale a pranzo, il piccolo Leo, li impensieriva. Emma dormiva ancora, avvolta dal caldo piumone. Francesco, invece, pur sveglio, preparava la colazione con molta calma e attenzione: anche quel gesto, pur così piccolo e banale, aveva il sapore di una coccola e il valore di un regalo ben più prezioso. Nemmeno per loro che vivevano la loro vita in una specie di bolla lontano dal caos della città era facile ritagliarsi un momento di pausa e sedersi al mattino per una colazione che fosse qualcosa di più di un caffè e una fetta biscottata. Era già tanto per uno come lui, che fino a poco tempo prima a malapena si concedeva un caffè a colazione, ma sapeva di poter fare di più e, 
soprattutto, Emma lo meritava. Accese il fuoco nella stufa, perché la stanza non fosse troppo fredda, apparecchiò il piccolo tavolino di fianco alla stufa come fosse l’angolino di un bar durante le Feste e passò nel cucinino.
Ben presto l’aroma di caffè misto al profumo caldo e avvolgente del burro di malga fuso si diffusero, favoriti dal calore che saliva dalla stufa, per tutta la stanza, arrivando fin sotto le lenzuola, dove Emma ancora dormiva beata. Ma anche lei, un po’ per fame, un po’ perché la notte aveva ormai fatto il suo corso, finì per arrendersi alla casa che prendeva vita.
“Francesco…” bisbigliò, ancora assonnata, cercando il marito nel letto vuoto a metà. L’uomo sbucò dal piccolo angolo cucina, con i pantaloni della tuta, la maglietta e un canovaccio sulle spalle, sorridendo dolcemente “Fröhe Weihnachten” le disse, dolcemente, quasi in soffio. Gli diceva che doveva applicarsi di più col suo tedesco e così, per dispetto e per gioco, lui ogni tanto se ne usciva con qualche parola o frase.  “Fröhe Weihnachten” rispose la donna, stiracchiandosi goffamente. Sembrava quasi una bambina, un piccolo esserino docile e fragile e poteva sembrarlo alle volte, ancora così magra e pallida, ma nascondeva una forza di volontà più grande delle montagne che circondavano la casetta sul lago. “Che stai combinando?” domandò alzandosi e raggiungendolo ai fornelli, con addosso solo la giacchina del suo pigiama di raso leggerissimo, troppo poco abbottonata per non distrarlo. Alzandosi leggermente sulla punta dei piedi gli stampò un bacio sulla guancia, ma con le mani si era intrufolata sotto alla t-shirt, come se nulla fosse. Oltre ad essere forte e docile allo stesso tempo, Emma sapeva essere anche una donna estremamente sensuale: forse lei non se ne rendeva nemmeno conto, ma Francesco, al contrario ne era pienamente consapevole e i suoi occhi e le sue mani indugiavano fin troppo spesso su quelle gambe lunghissime e su quel seno florido.
“Starei cercando di non bruciare la colazione” disse, sornione e divertito, versando un mestolo di pastella nel padellino “quindi se gentilmente ti accomodi” “E con questo cosa vorresti insinuare, sentiamo … ricominciamo con la solita storia, per caso?” “Niente affatto amore mio, ma se gironzoli intorno a me per altri 5 minuti conciata così, finisce che riprendiamo il discorso di questa notte senza spegnere i fornelli e brucio tutto” “Mmmm non sarebbe un’idea malvagia, ma magari a stomaco pieno. Non vogliamo sprecare tutto questo ben di Dio” “A Natale poi…” “Sia mai…”
Emma andò a tavola sedendo però scomposta come piaceva a lei e come – lo sapeva oppure no faceva poca differenza – mandava su di giri suo marito, con le gambe in bella mostra. Francesco, a quello spettacolo, fu costretto a concentrarsi ancora più attentamente su quello che stava facendo. Accese la radiolina che aveva nel cucinino e ringraziò che le uniche frequenze disponibili fossero in lingua tedesca: avrebbe dovuto impiegare il doppio dell’attenzione.
Da un vassoietto sul tavolo, pieno di biscottini natalizi, Emma prese una stellina alla cannella, sgranocchiandola distrattamente; ancora vagamente appisolata, impiegò un po’ a fare mente locale. “Aspetta un momento" si fermò, il biscotto a mezz'aria e squadrando il resto del tavolo "ma queste tazze? E i piattini?” “Buon Natale, amore” disse Francesco, gongolando soddisfatto ma senza staccare gli occhi dai fornelli.
Se c’era una cosa che Francesco amava di quel piccolo angolo di paradiso dove aveva il privilegio di vivere, era la possibilità di vivere in maniera estremamente frugale, senza alcuna forma di superfluo. Ma quello era il suo stile di vivere e non voleva imporlo ad Emma, sebbene lei sembrava condividerlo e adattarsi bene alla prospettiva di vivere con poco…o per meglio dire quasi nulla. “Vorrei che tu sentissi a casa qui” confessò, girando il pancake nel padellino. “Che stai dicendo? Perché non dovrei sentirmi a casa?” “No cioè…quello che voglio dire è che…vivere qui…non è una casa…nemmeno un servizio di piatti abbiamo. E volevo regalarti qualcosa che facesse più casa” “Ascoltami bene” gli disse, alzandosi e andando verso di lui; gli prese il viso tra le mani, costringendolo a guardarla dritto negli occhi. In passato, spesso le era toccato farlo perché lui rifiutava di affrontarla, quasi avesse timore di farsi leggere dentro da lei, ora era solo un piccolo gesto tutto loro, parte della loro routine di coppia, ma non lo davano mai per scontato “Non ho bisogno di nulla che mi faccia sentire in una casa”
Quando era tornata dall’ospedale, dopo l’intervento, aveva trovato la palafitta messa a nuovo, e dopo le nozze aveva ultimato persino la sistemazione della cucina. Ora avevano dei fornelli veri, un forno, un bagno decente e persino una lavasciuga nello sgabuzzino del retro. È vero, piatti e bicchieri erano spaiati e non ne avevano spazio per avere ospiti d’inverno, quando non potevano usare il tavolo sul terrazzo
 (Leo non faceva testo, era talmente piccolo), ma non aveva bisogno di alcun oggetto materiale che le desse una vita diversa da quella che aveva e che aveva scelto. Aveva detto sì, l’aveva detto davanti all’officiante e davanti a dei testimoni che forse avevano versato qualche lacrima di troppo per i suoi gusti ma l’avevano sentita chiaro e tondo.
“Sei tu la mia casa”
Lei non aveva molte cose di proprietà e la sua famiglia era quella che si era scelta e non quella che le era toccata per nascita: non c’era da stupirsi se la sua casa non era fatta di mura, di mobili e soprammobili, ma di affetti. Home is where your heart is, si dice in inglese: casa è dove è il tuo cuore, e per lei lo era davvero.
“E tu la mia” mise in chiaro lui, arrossendo mentre sorrideva placido. Sì, sotto quella pelle olivastra e naturalmente abbronzata, si scorgeva uno stralcio di rossore sulle guance. “E sai quando l’ho capito?” aggiunse. “Quando?” domandò lei, curiosa. “La prima volta che sei rimasta a dormire qui, quando ancora non stavamo insieme, quando sono tornato in palafitta dopo la passeggiata di Argo e avevi fatto il caffè”
Emma se la ricordava bene quella mattina, svegliarsi immersi nel silenzio più totale, al profumo del legno delle assi della casetta, e quello spettacolo della natura circostante a darle il buon giorno. E si ricordava anche lo sguardo di Francesco, la sua espressione sorpresa e riconoscente per una semplice tazzina di caffè. Era da un po’ che nessuno lo faceva, le aveva detto. Cosa? Preparargli un caffè? No, prendersi cura di lui.
“Io che ero ossessionato dall’idea di preoccuparmi per gli altri non avevo nessuno che si preoccupasse per me e quella mattina ho scoperto quanto è bello tornare a casa e trovare qualcuno ad aspettarti, qualcuno che ti faccia trovare anche solo un goccio di caffè caldo”
Sua moglie, Livia, non lavorava, aveva scelto di occuparsi di Marco mentre lui era via - non avevano problemi economici, se lo potevano permettere – ma ad esclusione della gioia di rivedere suo figlio, Francesco non aveva mai provato quella tenerezza quando rientrava a casa e c’era Livia ad aspettarlo. Era tutto dovuto, scontato.
“C’è mancato poco che mandassimo tutto in malora…” “Pochissimo” confermò lei, sospirando “ma siamo qua. È quello che conta”
Mentre le loro labbra si avvicinavano, teneramente, un odore di bruciato salì dai fornelli. “Ecco qua! Che ti avevo detto…vatti a sedere immediatamente, Giorgi, sei una guastafeste!” “E va beh, dai che sarà mai…” ridacchiò lei, prendendo un barattolo 
da uno dei pensili “quante storie...non c'è niente che un po' di Nutella non possa risolvere”

 

Salve a tutti! Da queste parti è un po' che torno, ma per il momento questo è l'angolo delle occasioni speciali. Permettetemi innanzi tutto di farsi un augurio di buon Natale, anche se è passato e di un buon anno che verrà! 
Questo capitolo si snoda in due momenti diversi e in due posti diversi (a cui il titolo) come avrete di certo notato. Nella prima parte siamo a metà tra la quarta e la quinta stagione, quando Emma è a Boston. Poi ci spostiamo un anno dopo, dopo la fine della quinta stagione quando i nostri piccioncini hanno coronato il loro amore (e nella mia storia ovviamente Emma è anche guarita dalla sua malattia). Per me è stata una nuova avventura perché non mi ero mai avventurata così indietro con questi due personaggi. Devo ammettere che mi hanno dato un bel po' di filo da torcere, ma spero che il risultato sia convincente e in linea con quello che ci ha fatti innamorare di loro (che è ben lontano da quello che spesso hanno raccontato nella serie, almeno per quanto mi riguarda).
Rinnovo i miei auguri e spero stiate seguendo, o vogliate seguire anche la mia altra "serie", Contro Ogni Ragionevole Previsione. Per tutti gli aggiornamenti e gli avvisi sapete dove trovarmi. A presto,
Fred ^_^
 

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Capitolo 16
*** Uno sgradito ritorno ***


Uno sgradito ritorno

 

 

“Arrivo! Un attimo!”
Carlo sentì la voce di Emma rispondere da dietro la porta o comunque da qualche stanza più in là. Nel frattempo, aspettava pazientemente nello spiazzo davanti alla casa, una bellissima baita tradizionale ma rimessa a nuovo, era facile da intuire, da poco. Sulla porta della casa erano segnate delle lettere e dei numeri, gli pareva di ricordare di aver letto qualcosa a proposito di una tradizione legata ai re Magi.
Carlo aspettava e nel frattempo approfittava del tiepido sole primaverile, libero dalla cappa di smog e umidità a cui lui era abituato in città. Dal pendio di fianco alla casa si scorgeva, oltre gli alberi e le siepi, la valle con il piccolo paese, il campanile a punta della pieve e altri piccoli villaggi e frazioni nei pendii circostanti. Non era difficile capire perché Emma avesse scelto proprio quel posto per vivere.
“Eccomi! Ce l’ho fatta…buongiorno!” gli sorrise, aprendo la porta. Era davanti a lui esattamente come la ricordava, alta, bellissima, un raggio di sole nella nebbia milanese, eppure non era più lei. E l'uomo era conscio che, razionalmente, quel pensiero non aveva il benché minimo senso, ma era così che la percepiva. Certo era passato un po’ di tempo dall’ultima volta che si erano visti, tante cose erano successe, ma non pensava di trovarla così cambiata. In primis, c’era quella cosa …o meglio quell’esserino…che penzolava dal marsupio; non poteva avere più di un anno, spilungona ma paffutella, con dei folti riccioli color caramello e tenuti a bada da un fermaglietto e degli occhioni grandi e blu che viravano al grigio. Da come lo guardava, con un ditino in bocca e lo sguardo dubbioso, sembrava non fidarsi di lui. Come poteva? Era uno sconosciuto: praticamente era un miracolo che vedendolo per la prima volta non fosse scoppiata a piangere.
Poi c'era il suo look: Emma non era mai stata una che seguiva le mode e non era ossessionata dallo shopping come le altre compagne di corso, ma era sempre in ordine, i morbidi boccoli curati e un velo di trucco ad impreziosire la sua pelle di porcellana; ora invece i suoi capelli gridavano “datemi ora giornata libera”, impigliati in una crocchia spettinata, la felpa troppo grande per lei era rimboccata in dei jeans che aveva di sicuro messo solo perché c'erano degli ospiti in casa e non voleva farsi vedere in tuta; tuttavia, sebbene non ci fosse un filo di trucco sul suo viso, riusciva ad irradiare tutto intorno la sua luce interiore anche più di come ricordava.
“Buongiorno a te” rispose, ma si fermò lì: la presenza di quella bambina tra le braccia di Emma lo fece sentire a disagio, come se fosse capitato nel posto sbagliato e lui, lì, non c’entrasse nulla; quello però doveva essere un incontro di lavoro, tutte quelle pippe mentali non avevano ragione d'esistere. “Entra prego!” lo invitò, garbata come sempre, a differenza sua completamente a suo agio. “Mi devo scusare” esordì Carlo “so di essere in anticipo, ma lo sai che sono un imbranato con la tecnologia e mi perdo anche con il navigatore. Non volevo correre rischi” “Non ti preoccupare ma devo assolutamente far partire la lavatrice, altrimenti al prossimo rigurgito questa bimba non ha nulla da mettere. E non possiamo andare in giro in topless, vero Sole? Non siamo mica al mare qui” disse Emma alla bambina, che rideva di fronte alle smorfie e alla vocina leziosa “ma fai come fossi a casa tua. Poggia le tue cose nel tavolo del salotto e se vuoi un caffè vai pure in cucina, in fondo al corridoio. La macchinetta del caffè è già pronta sul fornello.” “Posso…posso darti una mano…” “Ma vah, è tutto perfettamente collaudato, io e Sole ce la caviamo benissimo, vero Fagottina?”
Emma sparì in men che non si dica con la bambina dietro una delle porte che affacciavano sul corridoio. Allora Carlo fece esattamente come gli era stato detto: poggiò le sue cose sul tavolo del salotto, una stanza dallo stile montano che assomigliava più una stube di un rifugio che una casa privata e poi se ne andò in cucina. Nel corridoio, l’attenzione di Carlo fu attirata da una serie di fotografie in bianco e nero. Emma sembrava ancora parecchio indaffarata a giudicare dalla telecronaca che stava facendo alla bambina e che arrivava dall’altra stanza e così si soffermo a sbirciare. Erano tre foto normalissime, di quelle che molto banalmente si trovano in tutte le case di famiglia: due sposi abbracciati, una foto con un pancione e una con la piccolina tra le braccia. In tutte queste foto c’era anche un maschietto, avrà avuto cinque o sei anni, ma le spiegazioni potevano essere mille. Carlo, del resto, di quell’uomo che aveva incrociato un paio di volte durante la sua unica visita tra quelle montagne non sapeva nulla.
“Allora, lo prendiamo questo caffè?” Emma e quella creaturina nel marsupio per cui la sua mente non riusciva ancora ad elaborare la parola figlia stavano in piedi sulla porta della lavanderia. Emma non sembrava infastidita ma lui comunque si vergognò come fosse stato un ladro colto in flagrante. “Sì, molto volentieri … allora, alla fine te lo sei sposato quel forestale” commentò cercando di puntare sulla nonchalance mentre si accomodava in cugina. A differenza del salotto, la cucina era luminosa, nonostante i soffitti bassi e il legno delle travi e del tavolo si sposava a meraviglia con il bianco dei mobili e delle pareti. Il profumo naturale del cirmolo che si spandeva per la casa e si mischiava ai profumi dolci di una colazione appena conclusa restituiva una sensazione di calma e familiarità, ma quest'ultima forse era anche colpa del seggiolino e dei giocattoli sparsi in giro. “Si chiama Francesco” rispose lei, e questa volta era invece abbastanza seccata. Emma non credeva ci fosse cattiveria nelle parole di Carlo, ma le sembrava di percepire comunque un tono di sufficienza – totalmente immeritata - nei confronti di Francesco. Gli diede un attimo le spalle per accendere il fornello sotto la moca ed Emma ne approfittò per prendere un lungo respiro e approfittare del suo calmante naturale: il profumo di sua figlia. Almeno c'era lei ad aiutarla a non perdere le staffe.

 

Quando il suo nuovo collega del progetto le aveva detto di aver rintracciato Carlo per una collaborazione, spiegandole che era uno dei più grandi etologi in circolazione e, in soldoni, un treno che passa una sola volta nella vita, Emma non aveva saputo spegnere il suo entusiasmo, né se l'era sentita di tirarsi indietro per via del loro passato; aveva semplicemente ammesso di aver studiato con lui all'Università e deciso di comportarsi da adulta. Non si aspettava però che lui avrebbe avuto quell'atteggiamento un po' immaturo.
“Meno male che non c’era nulla tra di voi” commentò Carlo, provando a buttarla in caciara ed esagerando con il tono scherzoso. “Perché era così, allora” spiegò Emma.“Però ci avevo visto giusto, no?” “Col senno di poi direi … direi sì” Lei aveva lasciato Carlo e Milano dopo la diagnosi di aneurisma perché sentiva di non meritarsi più una vita normale, perché la sua non era più una vita normale: doveva aspettare solo quel momento e per farlo doveva concentrarsi solo su sé stessa, senza coinvolgere nessun altro nel suo dramma. Non aveva fatto però i conti con quell'incontro sulle sponde del lago che le avrebbe stravolto ogni piano. Si era imposta di restare sola e aveva finito per scoprire l'amore della sua vita. La sua vita. “E l’altro bambino” indagò l'uomo “… quello che ho visto nelle foto… è suo figlio?” “Nostro figlio. Leonardo” lo corresse, la voce ferma “è in affidamento ma speriamo di poterlo adottare appena possibile” La legge e la burocrazia erano sempre troppo lunghe per qualcosa che il loro cuore aveva già stabilito.
Quando il caffè fu pronto, Emma lo servi all'uomo senza troppi complimenti. Quel piccolo interrogatorio che forse per lui voleva essere semplice small talk le lasciò una sensazione di disagio addosso, come se lui stesse violando la sua privacy. Gli voleva bene, come se ne vuole sempre ad una persona con cui si è condiviso qualcosa, un dolce ricordo di anni bellissimi ma senza nostalgia, perché era pienamente soddisfatta del suo presente, non sarebbe mai tornata indietro. Tuttavia essere da sola con lui, che faceva parte del suo passato, lì dove viveva il suo presente pieno e gratificante, non lo sentiva giusto: non per sé stessa, ma per lui, che le restituiva la sensazione di non aver mai messo davvero un punto finale a quello che era successo tra loro. E su queste cose, le diceva sempre Valeria, lei aveva un sesto senso affinatissimo.
“Ho incontrato tuo padre tempo fa mentre ero in ateneo a Milano per una conferenza” le disse tra un sorso di caffè e l'altro “mi ha detto dell'operazione e sono stato molto felice di sentire che stavi bene” “Ti ringrazio” “Mi è solo dispiaciuto che tu non mi abbia detto nulla”
In quel momento, mentre Emma cercava delle parole per scusarsi, la serratura dell'ingresso scattò. Il passo pesante e un po' militaresco tracciato dagli scarponi di Francesco era inconfondibile per le orecchie di Emma, che istintivamente trattenne il fiato. Era contenta di quel diversivo, la infastidiva l'idea di dover dare spiegazioni ad una persona a cui sentiva di non doverne solo perché lei era fatta così.
“Amore non ci crederai ma ho lasciato il pranzo nel fri-” fermo sulla porta, Francesco di freddò a vedere Carlo seduto proprio al suo posto a tavola. Emma non gli aveva nascosto nulla, suo marito sapeva di quella visita e sembrava averla presa con grandissima filosofia, comportandosi, con grande meraviglia di Emma, esattamente come ogni mattina, con tranquillità. Troppa tranquillità in effetti: ma quel colpo di genio non lo aveva previsto nemmeno lei, nemmeno quando lo aveva visto armeggiare con il portapranzo pur sapendo che di solito la pausa la passava in foresteria insieme agli altri colleghi.
“No, no, ci credo ...” borbottò quasi, gli occhi al cielo “eccome se ci credo. Ti ricordi di Carlo?” “Come no...è un piacere rivederti” gli strinse la mano, con un sorriso tanto ampio quanto affettato, ma molto brevemente; la piccola Sole infatti reclamava l'attenzione del padre con veemenza, al punto che Emma temeva potesse strappare le cuciture del marsupio e cadere a terra. “Prendila prima che mi riempia di lividi” disse, proteggendo il volto dai pugnetti festanti. L'aveva portata in grembo per nove mesi, vomito, nausee, mal di testa, svenimenti, era diventata una mamma papera per quanto detestasse quel nomignolo, dolori atroci per partorirla e poi … occhi solo per il padre. Grazie tante, eh!
Francesco, innamorato pazzo, prese in braccio la sua principessa senza lesinare smancerie di fronte a quell'estraneo e la riempì di baci a cui la piccolina rispose attaccandosi letteralmente alla guancia del padre: ormai quel filo di barba che lasciava come unico vezzo estetico non era più un problema per la bambina.
“Avete una bambina bellissima, Francesco. Però mi dispiace dirti che non ti assomiglia per niente.” “Perché dovrebbe dispiacermi? È bellissima come la sua mamma, vero principessina?” “E poi non è vero che non somiglia il padre” lo riprese Emma “gli occhi sono tutti i suoi” E non potrei esserne più felice, aggiunse Emma tra sé e sé.
Francesco, con ancora la bimba tra le braccia che non voleva saperne di scollarsi, aprì il frigo e si nascose dietro l'anta, fingendo di cercare il lunch box che era in bella mostra sul primo ripiano, ma Emma con la coda dell'occhio lo vedeva gongolare tronfio. Missione compiuta evidentemente.
Preso il pranzo, Francesco tornò all'auto accompagnato da Emma che doveva recuperare la bambina dalle braccia del marito ma non voleva saperne di lasciarlo andare. “No, amore mio non piangere, sennò piange anche papà. Il pomeriggio arriva subito!” la consolò Francesco, passandola alla madre con molta fatica. Vedere la sua bimba singhiozzare non era per nulla divertente né ci faceva mai l'abitudine. “Lo sai che facciamo, Sole?” propose la madre “Oggi andiamo noi a prendere Leo a scuola e poi andiamo da papà al lago? Eh?” “È un'idea bellissima!” sancì il forestale; cinse la vita di sua moglie con un braccio e la strinse, posando un bacio lungo e appassionato sulle sue labbra. “Ehi!” protestò Emma, ritraendosi “La smetti di fare il gelosone?” “Non sono geloso” “Nooo, come lo chiami questo? Marcare il territorio?” “Lo dici sempre che sono un lupo...” commentò, strizzando l'occhio, sagace mentre saliva in auto. Da lontano, nel frattempo, un auto si avvicinava nel piazzale: erano gli altri partecipanti alla riunione, un rappresentante del consiglio comunale, che avrebbe dovuto aiutare a sbrigare tutte le questioni burocratiche e che da mesi stavano rincorrendo per dare una sede alla Scuola nel Bosco e il collega di Emma, Andreas, che Francesco detestava anche più Carlo.
“È meglio se vado, vah” commentò Francesco, vedendo uscire l'uomo dall'auto “altrimenti oggi non vado a lavorare” Emma rise sotto i baffi, mentre il marito premeva il piede sull'acceleratore e i suoi ospiti si avvicinavano. “Guten morgen und wilkommen!” li accolse, calorosa.

 

La riunione, proficua, si concluse nel primo pomeriggio, lasciandole tutto il tempo per preparare la bimba con calma senza dover uscire di fretta all'ultimo minuto sembrando una pazza totale. Carlo però se la stava prendendo con troppa calma. Approfittando del risveglio della piccolina dalla pennichella, e dovendo allattarla, riuscì a trovare la scusa migliore per liquidarlo senza sembrare maleducata. Lui però, mentre metteva a posto le sue cose, prese di nuovo la palla al balzo, tornando al discorso che quella mattina avevano lasciato in sospeso “Perché non mi hai detto niente dell'operazione, Emma? Io ci sarei stato” “Perché...”non voleva essere tagliente ma la stava costringendo. Fin da ragazzina, lei era sempre stata quella che si caricava le spalle del peso del mondo, ma per una volta nella sua vita non voleva essere la paladina degli oppressi. “Perché non fai parte della mia vita, Carlo. Ho bellissimi ricordi degli anni passati insieme, ma sono passati...appunto” lui ci sarebbe stato davvero, di questo ne era sicura, ma non era di lui che aveva bisogno in quel momento. Chi doveva esserci, c'era già. “È vero” continuò “quando ti ho lasciato e sono andata via da Milano l'ho fatto perché non potevo importi la mia malattia, ma quando ti ho rivisto ho capito che era finita davvero, aneurisma o meno” “E poi c'era Francesco” “No, Francesco non c'entra, non lo mettere in mezzo. È vero, provavo già qualcosa per lui, ma se io e te ci fossimo rincontrati mesi prima non sarebbe cambiato nulla”
Ecco, lo aveva detto chiaro e tondo. L'uomo allora prese a rimettere tutte le sue cose nello zaino che aveva con sé, a testa bassa, in fretta, come se volesse scappare. “Posso farti una domanda io, invece, Carlo?” Emma prese coraggio: era il momento degli addii, anche se si sarebbero comunque visti nei giorni successivi, ma non era giusto chiudere malamente quella giornata perché non c'era mai stato del male tra loro. “Dimmi” il tono della voce dell'uomo, stavolta, sembrava sconsolato, e verosimilmente le aveva dato il permesso di parlargli solo per cortesia. “Perché non riesci ad andare avanti?”
Quando si erano salutati, anni addietro, sulla terrazza della palafitta sul lago le era sembrato che la conversazione che avevano avuto servisse più a lui per voltare pagina che per capire cosa fosse successo davvero, ma si era sbagliata. “È difficile trovare qualcuno che sia alla tua altezza” dichiarò Carlo. Ma Emma scosse la testa, le mani conserte, ne aveva abbastanza di quelle stronzate: “Non devi sostituirmi, anche perché non sono niente di speciale. Devi innamorarti, sono due cose diverse” “Come tu ami tuo marito?” “Te lo auguro veramente, perché quando succede è la cosa più bella che possa capitarti. Ti cambia la vita” A lei, non l'aveva solo cambiata: l'aveva letteralmente salvata e da allora non c'era augurio migliore che potesse fare a chi la circondava, di vivere un'esperienza così totale come la sua.
“Spero che sia come dici tu” in questo era sincero. Aveva visto interagire Emma e suo marito e ne era stato immediatamente geloso: no, non di Emma, ma di quello che avevano tra loro, sembrava davvero unico.

 

A fine estate, specialmente quando la stagione era stata particolarmente calda e soleggiata, il lago cambiava completamente volto. Dello specchio cristallino e profondo che si era risvegliato a primavera e aveva accolto le acque del disgelo dopo il lungo inverno, restava poco. Le acque si erano ritirate, scoprendo le sponde e lasciando all'asciutto anche i piloni della casa sul lago. Era un paesaggio quasi desolante, ma non meno affascinate. La gente del posto, che raccontava storie e leggende sul lago, diceva sempre che i selvaggi che avevano creato il lago, in questo periodo provavano a riprendersi il tesoro nascosto nelle sue acque, prima che le piogge e le nevicate tornassero a rinvigorire il bacino.
Racconti fantastici a parte, quello era in assoluto il periodo preferito dell'anno per Francesco: i turisti abbandonavano i sentieri e la natura poteva tirare un sospiro di sollievo dopo l'invasione dell'alta stagione estiva, e lui, che ne era il guardiano, insieme a lei. E poi quei colori lo rapivano, ogni singola volta: aspettava con ansia il momento in cui i primi larici iniziavano ad abbandonare il loro colore verde scuro per passare al rossastro o al dorato e poi il castagno maestoso davanti casa che iniziava posare le sue foglie sul prato, che era ancora verde e brillante. Era tempo di Törggelen, nelle osterie e nei masi, dopo una lunga passeggiata: castagne, vino nuovo e i dolcetti della festa. Erano davvero giorni di festa, ma non c'entravano solo la fine dei raccolti o il ritorno del bestiame dagli alpeggi: quelle, per il forestale, alla fine, erano solo manifestazioni da controllare come facevano i colleghi della polizia; per lui, invece, era tutta una questione privata: l'anniversario di nozze, nel compleanno della sua bambina che a breve avrebbe spento la prima candelina e l'anniversario di quel giorno meraviglioso in cui Emma aveva vinto la sua battaglia più grande. L'autunno per la gente del posto era una stagione d'oro, Goldener Herbst lo avevano ribattezzato, e per lui lo era veramente.
Emma aveva mantenuto la promessa: uscito dalla caserma, l'aveva trovata ad aspettarlo vicino alle scuderie, con Leonardo arrampicato ad una staccionata – tanto per cambiare – e Sole che dormiva nel passeggino. “La macchina ha colpito ancora?” “Come sempre” rispose Emma, lieta per quell'arma in grado di mettere k.o. Sole di tanto in tanto. Luna, che quella mattina aveva accompagnato Francesco al lavoro, era corsa ad annusare i suoi fratelli a due zampe, istintivamente attenta in particolar modo a che Sole non si svegliasse. Con Leonardo invece si permetteva di essere più espansiva: fin da subito, l'ometto di casa Neri si era dimostrato per lei il perfetto compagno di giochi.
La famigliola iniziò a fare il giro del lago in tranquillità, approfittando della pace che il posto aveva riguadagnato senza gli avventori estivi. Leonardo e Luna potevano correre tranquilli e indisturbati, nonostante le lamentele di Francesco perché il bambino non scavasse nel terriccio imitando la lupacchiotta di casa. Emma alzava gli occhi al cielo e, di nascosto, strizzava gli occhi al figlio perché continuasse senza problemi “Ho le salviette, non ti preoccupare” gli sussurrava all'orecchio “divertiti”.
Beneficiando del sonno della piccoletta, anche lei si mise a raccogliere qualche foglia e pigna: non avrebbe potuto, in realtà, ma avere un marito forestale aveva i suoi vantaggi e poi le sue attività con i bambini della scuola erano sempre la scusa perfetta. E poi Francesco era in modalità relax che non lo avrebbe infastidito nulla in quel frangente, impegnato solo a spingere il passeggino della sua bimba con cautela.
La barchetta di legno era rimasta sull'arenile, a causa del livello dell'acqua sceso sensibilmente nelle ultime settimane di caldo senza piogge. Leo corse verso la barca, salendo a bordo insieme a Luna e fingendo di remare. Francesco prese anche la piccola dal passeggino, che finalmente si era svegliata, e la fece sedere su una delle panche della barca. La piccola sembrava pensosa, incuriosita da quel posto strano dove il papà l'aveva messa. In effetti, nata a fine estate e cresciuta nel maso, era la sua prima volta nell'imbarcazione. Volle presto scendere dalla panca e, con solo i calzettini ai piedi provò a dare qualche passetto appoggiata al bordo della barca, poco più basso di lei, aggrappandosi forte. Era da un po' ci provava ma era la prima volta che da sola, senza che nessuno la incoraggiasse, si metteva in piedi. Non c'è che dire: era proprio figlia di quelle acque, per Emma non era affatto un caso.
La donna prese repentinamente il telefono dalla tasca della giacca e si mise a scattare qualche foto per immortalare quel traguardo speciale. Era adorabile: i calzini bianchi leggermente penzolanti, la salopette a fiorellini che si gonfiava sul sederino per via del pannolino e il cappellino da sole sulla testolina ancora leggermente grande; con le manine tastava la superficie lucida e liscia della barca, ma non poteva sapere che era stato proprio il suo papà a metterla a nuovo, e ogni tanto, con il nasino all'insù si guardava attorno, un po' per essere rassicurata, un po' per cercare da dove provenisse il cinguettio degli uccellini che le piaceva tanto.
“Papà!” domandò Leo. “Sì?” “Possiamo andare sull'acqua? Non ci sono più i turisti!”
Francesco d'estate evitava di usare la barca il più possibile, soprattutto privatamente: aveva posto il suo veto ad un pontile per le barche di cui aveva fatto richiesta un rifugio nella zona, mettendosi anche contro il comune e doveva evitare ad ogni costo che i turisti richiedessero questo servizio; così si limitava ad andare da solo con la scusa di controlli e pattugliamenti che ci stava sempre bene: una volta aveva persino beccato degli americani a tuffarsi da scogliere alte e pericolose.
“No dai, giocate qui a riva...altrimenti poi vuole venire anche Sole con noi” “E la facciamo venire...ci vuoi venire in barca con noi, Sole?” domandò Leo, chinandosi sulla sorellina; la piccola fece un urletto: era difficile dire se avesse compreso davvero la domanda del fratello o se semplicemente era solo una risposta all'attenzione ricevuta, ma sembrava veramente entusiasta all'idea. “Ha detto sì!” dichiarò Leonardo, soddisfatto. “Ah non sapevo parlassi bambinese...” esclamò sottovoce Francesco, sarcastico. “Dai amore, che ti costa?!” intervenne Emma “Se ti fa stare più tranquillo, vengo anch'io” “Eh certo...” si lagnò il forestale, gli occhi al cielo “ti pareva che non dovessi fare la parte del genitore permissivo?” “Non l'avevamo stabilito già da un po'? È per controbilanciarti, amore” dichiarò la donna, posando un bacio persuasivo sulle labbra del marito.
Ad Emma piaceva andare in barca, ma per un motivo o un altro contava quelle gite sul lago sulle dita di una mano: c'era quando la stava restaurando ma non aveva mantenuto la promessa di inaugurarla con lei; non era colpa di nessuno, ma comunque si era fatto perdonare il giorno delle nozze e quello era stato ancora più speciale.
“E sia!” Non le sapeva dire di no, nemmeno ci provava ad opporre resistenza. “Ma dovete promettere tutti che state fermi e buoni. Sono stato chiaro?” chiese perentorio. “Signor sì, signore” lo prese in giro Emma, facendo un saluto militare. Anche Luna, quasi lo capisse, abbaiò affermativamente.
Francesco fece salire tutti e, tolte le scarpe, spinse la barca a largo quanto bastava per poter salire anche lui e usare i remi. Luna, che non era la fan più accanita dell'acqua, presto si rintanò tra le loro gambe sotto le panche dell'imbarcazione, nonostante Leonardo avesse provato ad incoraggiarla a venire fuori e a godersi la gita. “Non insistere Leo, non si deve agitare” lo riprese la madre, che era permissiva ma non incosciente “ora vai al tuo posto” “Va bene...però dopo guido io” Il bimbo, arreso, andò a sedersi, o per meglio dire quasi a distendersi, panca a prua, alle spalle di Francesco, giochicchiando con l'acqua che fendevano avanzando. “Certo che guidi tu” rispose il padre, tentando di trattenere un sorriso.
Emma invece, tenendo Sole stretta stretta seduta sulle sue gambe, si lasciava guidare dal suo bel marinaio, approfittando di quel bel pomeriggio di sole d'autunno, che non era né troppo caldo, né troppo freddo né ancora troppo freddo. Francesco la guardava, rilassata, serena e non poteva fare a meno di chiedersi come si era conclusa la riunione in casa sua con quel Carlo tra i piedi: si fidava di sua moglie, ma non si fidava di lui.
“Com'è andata stamattina?” “Bene” rispose Emma, tranquilla, con gli occhi chiusi e il naso all'insù mentre godeva di quell'arietta leggera che soffiava dalle montagne intorno al lago. “Bene...o bene bene?” Emma aprì gli occhi e squadrò suo marito, seria e inquisitrice. “Vuoi sapere di Carlo …” sondò “proprio non ce la fai...?!” “Non ci vedo nulla di male, è un tuo amico...non lo vedi da anni...” minimizzò; non l'avrebbe data a bere a nessuno, figurarsi a Emma che lo conosceva meglio di quanto si conoscesse lui stesso.
La donna sospirò, arrendendosi all'idea che Francesco fosse fatto così, che non l'avrebbe cambiato: era geloso, sì, ma di quella gelosia buona e piccante che poteva rincuorarla del fatto che non la desse mai per scontata, ma che non le impediva mai di esprimersi o realizzarsi come meglio riteneva.
“Innanzitutto ti manda i suoi saluti” esordì, mentre con lo sguardo andava oltre il marito per tenere d'occhio Leonardo “e poi dice che nei prossimi giorni lui e Andreas possono continuare a lavorare da soli” “Che gli hai detto?” domandò l'uomo e Emma non poté fare a meno di sorridere di fronte a quell'espressione compiaciuta che era nata sul viso del marito. “Niente...” “Dì la verità ...lo hai asfaltato per bene” “Ma neanche per idea, che ti viene in mente!” esclamò, indignata … quello era un trattamento che riservato solo a lui, lo custodiva per le occasioni davvero speciali “gli ho solo detto che deve andare avanti, che non vale la pena restare ancorati al passato” “Giusto così” In fondo, non gli aveva detto nulla che non applicasse anche a loro stessi: quante volte aveva lo aveva spronato ad andare avanti a non guardare più indietro se significava farsi solo del male e restare impantanati.
“E poi per me...non ne valgo la pena” “Ehi ehi! Signora Neri!” la sgridò suo marito “tu ne vali sempre la pena, ricordatelo” “Sì, lo so” affermò, sorridendo soddisfatta “ma solo e soltanto per te”
Emma si sporse leggermente per avvicinarsi a suo marito, facendo attenzione a Sole tra le sue braccia e Luna ai suoi piedi. “Vorrei ben vedere” sussurrò Francesco, smettendo di remare, trovandosi le labbra della moglie ad una distanza molto ravvicinata e volendo eliminarla definitivamente. Prese il collo di Emma tra le mani, accarezzandole la nuca leggermente e finalmente posando un bacio su quelle labbra che erano l'unico posto in cui si sentiva veramente a casa. E lo stesso poteva dirsi per Emma: solo tra le sue braccia si sentiva completamente al sicuro e anche quando osava o superava i suoi limiti, lo faceva solo nella certezza di avere Francesco, il suo uomo, al suo fianco.
“Adesso però tocca a me!” esclamò Leonardo, incurante del momento di intimità dei suoi genitori: per lui, così abituato a quelle smanceria, una in più o in meno non faceva differenza. Francesco, strizzando l'occhio a sua moglie, complice, occhiolino che sapeva tanto di riprenderemo più tardi e anche meglio, fece accomodare il bambino tra le sue gambe, aiutandolo a destreggiarsi con i remi per virare e tornare verso la palafitta.

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