High School Story

di Christine Cecile Abroath
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prefazione ***
Capitolo 2: *** Capitolo I: Adelante Corazón ***
Capitolo 3: *** Capitolo II: Reggaeton Lento ***
Capitolo 4: *** Capitolo III: Yo No Sé Mañana ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV: Despacito ***
Capitolo 6: *** Capitolo V: Échame la Culpa ***
Capitolo 7: *** Capitolo VI: Robarte Un Beso ***
Capitolo 8: *** Capitolo VII: Me Muero ***
Capitolo 9: *** Capitolo VIII: Ya Es Muy Tarde ***
Capitolo 10: *** Capitolo IX: 100 Años ***
Capitolo 11: *** Capitolo XI: Nada ***
Capitolo 12: *** Capitolo XII: Me Soltaste ***
Capitolo 13: *** Capitolo XIII: Solo Quedate En Silencio ***
Capitolo 14: *** Capitolo XIV: Sálvame ***
Capitolo 15: *** Capitolo XV: Rebelde ***



Capitolo 1
*** Prefazione ***


🤠ǫᴜɪ ᴘᴇʀ ʟᴇɢɢᴇʀᴇ ᴇ sᴄᴏᴘʀɪʀᴇ ɪ ᴄᴀᴘɪᴛᴏʟɪ: https://www.crisshex88.com/category/lifestyle/high-school-story

𝐒𝐢𝐞𝐭𝐞 𝐭𝐮𝐭𝐭𝐢 𝐢𝐧𝐯𝐢𝐭𝐚𝐭𝐢 𝐚 𝐩𝐚𝐫𝐭𝐞𝐜𝐢𝐩𝐚𝐫𝐯𝐢 𝐜𝐨𝐦𝐞 𝐒𝐜𝐫𝐢𝐭𝐭𝐨𝐫𝐢 𝐞 𝐋𝐞𝐭𝐭𝐨𝐫𝐢

Per #tipresentolamiastoria, oggi vi porto a conoscere più nel dettaglio il mio Progetto di Fan Fiction Interattiva "High School Story".

L'idea è che qualsiasi scrittrice può parteciparvi. Come in un vero e proprio Laboratorio Creativo ognuna può parteciparvi quante volte vuole ed ogni volta scrivendo un Capitolo che tenga conto degli sviluppi che con il tempo si creano frutto della fantasia e dell'operato degli altri partecipanti.

Come dice il titolo stesso il #genere di questa storia è TEEN, ma non si vuole limitare a questo in modo ristretto. Il "gioco" è infatti scrivere sì di adolescenti, ma molto spesso mettendoli anche in situazioni familiari e non complesse in cui anche un adulto troverebbe difficoltà a gestirle. Insomma non c'è nulla di meglio di vedere situazioni impossibili affrontate nel periodo più intenso e complesso della vita: l'adolescenza.

Il racconto si svolge nel città inventata di CEDAR SPRINGS, una cittadina del Texas ad est di Corpus Christi. Questo #luogo dista poco meno di 300 chilometri da Houston, la capitale, ed è caratterizzata dai suoi contrasti che la rendono uno dei posti più caratteristici della regione. E’ nota per il suo paesaggio lunare per via del suo aspetto arido e roccioso. Le spiagge sono prevalentemente di ghiaia e scogli, ma ampliamente frequentate, soprattutto dalle persone del posto. Seppur la città non è molto grande è caratterizzata dalla zona residenziale di Rockport ove risiedono alcune delle famiglie più ricche del paese.

L'#ambientazione non è però limitata solo all'ambiente scolastico, ma a tutto quello che circonda la vita di questi adolescenti: scuola, famiglia, sport, attività, eventi, amicizia, amore, etc...

Ed il #tempo è quello presente. Siamo dunque nel 2021, a breve nel 2022, ed ogni 2 capitoli coprono 1 mese. Il Capitolo 1 è ambientato nelle prime 2 settimane di Settembre, mentre il Capitolo 2 nelle ultime 2 settimane di Settembre. Il Capitolo 3 è ambientato nelle prime 2 settimane di Ottobre, mentre il Capitolo 4 nelle ultime 2 settimane di Ottobre. Etc...

 

🔴𝐂𝐡𝐞 𝐜𝐨𝐬'𝐞̀ 𝐇𝐢𝐠𝐡 𝐒𝐜𝐡𝐨𝐨𝐥 𝐒𝐭𝐨𝐫𝐲?

E' una Fan Fiction Interattiva, la cadenza è di 2 Capitoli al mese, sempre scritti da persone diverse, che però possono riproporsi tutte le volte che vogliono! Ad ispirare gli stessi sono delle canzoni. Il loro testa è musica è l'ispirazione sulla quale, in totale libertà, è possibile sviluppare il proprio capitolo. Il progetto prevede un totale di 19 Capitoli. A questo link è possibile seguire il progetto sia come Lettori che come Scrittori (di quest'ultimi ne abbiamo gran bisogno dunque se ti piace il mondo delle fan fiction e metterti in gioco, raggiungici!): https://www.facebook.com/groups/fanfictioncreativa

 

🟠𝐂𝐡𝐢 𝐬𝐨𝐧𝐨 𝐢 𝐩𝐞𝐫𝐬𝐨𝐧𝐚𝐠𝐠𝐢 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐬𝐭𝐨𝐫𝐢𝐚?

ғʀᴇsʜᴍᴀɴ (𝟷𝟻-𝟷𝟼ɴɴɪ)

🤠Andrea Antinori

🤠Christine Booth

🤠Emma Geller-Green

sᴏᴘʜᴏᴍᴏʀᴇ (𝟷𝟼-𝟷𝟽ɴɴɪ)

🤠Elizabeth Acero

🤠Mileva Epps

🤠Crystal Humphrey

🤠Finn Malone

🤠Christopher Park

🤠James "Jamie" Scott

🤠Leonardo Venegas

🤠Bree Witter

🤠Huck Ziegler

🤠Molly Ziegler

ᴊᴜɴɪʀ (𝟷𝟽-𝟷𝟾 ɴɴɪ)

🤠Henry Bass

🤠Luzma Casillas

🤠Georgina Ford

🤠Colin Jane

🤠Felipe Quintanilla

 

🟡𝐃𝐨𝐯𝐞 𝐞̀ 𝐚𝐦𝐛𝐢𝐞𝐧𝐭𝐚𝐭𝐚 𝐥𝐚 𝐬𝐭𝐨𝐫𝐢𝐚?

🇺🇸ᴄᴇᴅᴀʀ sᴘʀɪɴɢs🇺🇸

E’ una cittadina del Texas ad est di Corpus Christi. Dista poco meno di 300 chilometri da Houston, la capitale, ed è caratterizzata dai suoi contrasti che la rendono uno dei posti più caratteristici della regione. E’ nota per il suo paesaggio lunare per via del suo aspetto arido e roccioso. Le spiagge sono prevalentemente di ghiaia e scogli, ma ampliamente frequentate, soprattutto dalle persone del posto.

La città e caratterizzata principalmente da 𝟹 ǫᴜᴀʀᴛɪᴇʀɪ principali:

𝐑𝐨𝐜𝐤𝐩𝐨𝐫𝐭: *posto a nord-est è il quartiere borghese con tutte case sulla spiaggia o vicino al mare e dista 50KM dal centro. *

𝐏𝐚𝐥𝐨𝐦𝐚 𝐂𝐫𝐞𝐞𝐤: posto a sud-ovest è il quartiere del ceto medio, caratterizzato da villette a schiera, è abitato principalmente da famiglia e dista circa 40KM dalla costa e 10 KM dal centro.

️l'𝐎𝐝𝐞𝐦: posto a nord è il quartiere del ceto basso, caratterizzato da edilizia popolare, è abitato principalmente dagli immigrati ispanici e dista circa 40KM dalla costa e 25KM dal centro.

In relazione a ciò i ʀᴀɴᴄʜ delle Famiglie Casillas, Venegas e Acero si collocano:

𝐑𝐚𝐧𝐜𝐡 𝐂𝐚𝐬𝐢𝐥𝐥𝐚𝐬: *Loyola Beach ad 1 ora da Cedar Springs *(ʟᴏᴄᴀʟɪᴢᴢᴀᴢɪᴏɴᴇ sᴄᴏɴᴏsᴄɪᴜᴛᴀ)

𝐑𝐚𝐧𝐜𝐡 𝐕𝐞𝐧𝐞𝐠𝐚𝐬 *Refugio a 45 minuti da Cedar Springs *(ʟᴏᴄᴀʟɪᴢᴢᴀᴢɪᴏɴᴇ sᴄᴏɴᴏsᴄɪᴜᴛᴀ)

𝐑𝐚𝐧𝐜𝐡 𝐀𝐜𝐞𝐫𝐨: *Orange Grove a 30 minuti da Cedar Springs *(ʟᴏᴄᴀʟɪᴢᴢᴀᴢɪᴏɴᴇ ᴄᴏɴᴏsᴄɪᴜᴛᴀ in quanto il Ranch è la sede dell'attività di famiglia, l'allevamento dei cavalli)

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Capitolo 2
*** Capitolo I: Adelante Corazón ***


Svegliarsi di cattivo umore poteva capitare, svegliarsi sempre nervosi non andava bene eppure Andrea Antinori si stava abituando. Mentre mangiava svogliatamente i cereali che sua madre le aveva messo nel latte, osservò dalla finestra il sole che brillava alto in cielo. Di solito la metteva di buonumore il tempo così sereno, ma non accadeva più da quando si era trasferita. Questo se possibile alimentò maggiormente la sua rabbia. «Oggi vado a fare un po’ di spesa così domani possiamo avere una colazione americana di tutto rispetto» l’avvisò allegra sua madre. La cucina, come il resto della casa, era ancora invasa da scatoloni che non avevano ancora finito di sistemare, erano a Cedar Springs da appena un giorno ed Andrea avrebbe già voluto non averci mai messo piede. «Sei pronta per la scuola? Sarai emozionata per il tuo primo giorno»

La giovane emise un grugnito per risposta visto che l’emozione era l’ultimo dei sentimenti che provava in quel momento. Non avrebbe voluto trasferirsi in quella cittadina sperduta del Texas, le sarebbe piaciuto avere più voce in capitolo invece di dover seguire sua madre e il suo nuovo incarico. Claudia Munari era non solo un'ottima psicologa, ma anche una scrittrice atea che si affidava totalmente allo studio della mente. Questo le aveva permesso di avere un discreto successo, in Italia dove vivevano, ma per qualche strana ragione aveva accettato il ruolo di semplice psicologa del liceo, oltretutto lo stesso dove sarebbe andata Andrea, nemmeno nella grande e chiassosa Houston, ma in una cittadina di periferia.

Da Roma a Cedar Springs il cambiamento era stato enorme, soprattutto per il fatto che la giovane adolescente non ne aveva compreso minimamente i motivi ed in più non c’era stato modo di discuterne con la madre. Motivo per cui dall'oggi al domani aveva visto la sua vita essere completamente stravolta. «Andrea» l’ammonì la madre «So che è difficile per te, ti va di parlarne?» «Così poi potrai psicoanalizzarmi?» «Voglio solo che ti senta libera di parlarmi di qualsiasi cosa» rispose tranquilla Claudia. Andrea si chiedeva sempre come facesse a non perdere mai la pazienza facendo poi sentire lei in colpa di tutto. «Scusa» sospirò «So che ce la stai mettendo tutta e mi dispiace essere più lamentosa di quanto lo sia mai stata, ma mi mancano le mie amiche e questa nuova situazione è complicata da gestire tutta insieme»

«Lo so tesoro, ma vedrai che qui ci troveremo benissimo e lo so perché stasera ho una sorpresa» «Una sorpresa?» «Volevo aspettare per dirtelo, ma credo che farlo ora cancellerà il cattivo umore che ti accompagna da quando siamo arrivati. Padre Gabriel verrà a cena da noi» «Davvero? E’ qui anche lui? Wow come è possibile!?» chiese Andrea molto più contenta di quando si era svegliata. Padre Gabriel era una presenza costante nella loro vita e averlo in questa nuova città sarebbe stato bellissimo. Non era il classico prete di una certa età e insistente sulla predicazione del cattolicesimo, no lui era giovane e anche divertente e Andrea gli era sinceramente affezionata. In tutti i ricordi di lei da piccola c’era lui e vederlo sarebbe stato un po’ come tornare ad essere bambina.

«Sapevo che ti avrebbe fatto piacere e anche lui sarà felice di vederti» assicurò Claudia mentre si versava la seconda tazza di caffè della giornata. «È davvero una bellissima coincidenza che sia qui anche lui, strana, ma bellissima!» osservò Andrea e si stupì quando la madre annuì distrattamente evitando il suo sguardo. «Ehm hai ragione... quando mesi fa ci disse del suo trasferimento negli States non credevo sarebbe stato proprio qui, ma... ehm è bello averlo ritrovato no?» Andrea annuì, ma non poté notare il suo strano atteggiamento «Mamma...» «Vai a prepararti adesso o faremo tardi» la interruppe lei «Da domani andrai in autobus se preferisci, ma il primo giorno ci sono io e non voglio fare tardi anche al lavoro» «Va bene» cedette Andrea, ma promise a se stessa che avrebbe indagato ancora un po’ sulla questione. In camera scelse senza troppo entusiasmo l’outfit di quella giornata e mentre finiva di vestirsi fu distratta dal suono del cellulare che l’avvisava di una nuova notifica. Col sorriso sulle labbra guardò la foto delle sue migliori amiche che la salutavano con una sbuffa smorfia.

“Ci manchi Andrea, mi raccomando non dimenticarti di noi mentre vivi la tua vita laggiù” “Non succederà mai, vi voglio bene e mi mancate tanto anche voi” Avrebbe voluto aggiungere che sarebbe tornata presto a trovarle, ma non era nella condizione di far promesse e, non per la prima volta, le sarebbe piaciuto avere un’età più adulta così da poter scegliere da sola. «Sei pronta?» La voce della madre la indusse a sbrigarsi, afferrato lo zaino scese di fretta le scale per raggiungerla e stavolta si soffermò con maggiore attenzione alla grandezza della loro nuova casa. Le sarebbe piaciuto affermare di detestarla, ma avrebbe mentito anche a se stessa perché quella dimora era stupenda.

Sua madre non le faceva mai mancare niente, con il successo riscosso con i suoi libri avevano il lusso di vivere una vita agiata e senza problemi, ma quella casa era qualcosa che mai avrebbe immaginato potessero possedere. «Sono sicura che troverai tante nuove amiche a scuola» In auto Claudia continuò a sfoderare il suo sorriso solare che, come sempre, finì per contagiarla. «Non siamo in una di quelle serie americane mamma, sarà una semplice scuola e io una normale studentessa di cui neanche si accorgeranno» «Ne sei sicura?» Il tono dubbioso con cui la guardò fece venirle voglia di controllarsi di nuovo allo specchio. Aveva indossato una maglietta rossa e dei jeans, calzato le sue Nike preferite e messo tra i capelli un fermaglio rosso che forse avrebbe attirato di più l’attenzione, ma se faceva poca attenzione all’abbigliamento ci teneva che i capelli fossero sempre in ordine.

Adesso scendevano lunghi e rossi, perfettamente lisci dietro la schiena, erano il suo vanto più grande anche se di certo in quella scuola avrebbe incontrato bionde con occhi chiari che si sarebbe più fatte notare. «Lo sono» rispose alla madre convinta e poi accese la radio, le note melodiche della canzone di Maria José invasero la vettura. "Que la vida sin dolor no sabe igual... Adelante corazón, no llores más que el camino aún es largo para amar..." «Oltre l'inglese qui credo mi servirà tanto anche lo spagnolo, è praticamente una seconda lingua da queste parti!» «E chissà, magari potrebbe aiutarti anche per trovare l'amore...» suggerì Claudia con un sorriso complice. Stavolta Andrea la guardò malissimo e scosse subito la testa. «Hai visto com’è finita la mia ultima storia, ho chiuso con i ragazzi» «Le delusioni amorose fanno parte della vita tesoro, non chiudere il cuore ad altre possibilità. Sii invece grata che la vita non ti metta davanti a scelte impossibili e trova la felicità, è davvero complicata da raggiungere»

Andrea aprì la bocca pronta a replicare, ma si bloccò quando notò una leggera malinconia in quelle parole e restò in silenzio mentre la canzone proseguiva. Claudia Munari era ancora una bella donna e sua figlia era sicurissima che molti uomini aspettavano un suo solo cenno per starle accanto, ma lei si era resa inaccessibile a qualunque uomo da quando aveva perso il suo grande amore. Andrea non aveva mai conosciuto suo padre, morto quando lei era piccolissima, erano passati sedici anni eppure sembrava che sua madre ancora non l’avesse dimenticato. Come poteva essere bello un amore così devastante? Aveva provato più volte a spronare sua madre a uscire con qualcuno, pensava fosse giusto che si facesse una vita ora che era diventata grande, ma Claudia non ne voleva sapere.

Per lei il lavoro e sua figlia erano le priorità e Andrea si chiese se anche lei un giorno avesse conosciuto un amore così grande, forse visto l’effetto non ne era tanto sicura. «Puoi proseguire a piedi a questo punto, meglio che il primo giorno non ti vedano arrivare con tua mamma e sono sicura che lo preferisci anche tu» Come sempre la madre sapeva leggerle nel pensiero o più semplicemente era molto perspicace. Forse per il fatto di essere sempre state solo due contro tutti, il loro legame era forte e potente e Andrea sentì l’arrabbiatura che provava per lei da quando erano partite scivolare via. La strinse in un forte abbraccio pentendosi di essersi comportata in maniera così infantile. «Scusa mamma, sono sicura che domani andrà meglio»

Claudia amava sua figlia più di ogni altra cosa al mondo e vederla insofferente in quei due giorni le aveva fatto male al cuore. Aveva preso la decisione improvvisa di trasferirsi così lontana da casa spinta da una situazione che non era pronta a spiegare, ma fu felice che Andrea si stava dimostrando la ragazza giudiziosa e in gamba di cui era fiera. «Saremo felici qui, te lo prometto» Promettere qualcosa di così forte era forse un rischio, ma Claudia si sentiva pronta a mantenere quel giuramento. Ogni scelta che aveva compiuto nella vita era stata fatta con amore e sapeva che il suo cuore non aveva sbagliato nemmeno stavolta. «Qui fa già molto caldo, forse potrebbe essere l’occasione ideale per sfoggiare gli ultimi costumi che abbiamo comprato» osservò Andrea «E magari invitare le mie amiche qualche volta»

Claudia mascherò un sorriso di fronte a quel tentativo, per nulla sottile, di scroccarle un’altra promessa. «Appena ci sistemeremo per bene e se i loro genitori permetteranno loro di affrontare un viaggio così lungo… potranno venirci a trovare magari nel periodo natalizio, ma al momento dobbiamo rendere quella casa presentabile il che significa che servirà tanto olio di gomito» L’espressione di sua figlia cambiò espressione ma annuì scegliendo, saggiamente, di non replicare e Claudia ne fu grata. Anche se si era preoccupata di non far mancare nulla alla sua bambina, voleva che capisse qualcosa che lei aveva imparato sulla propria pelle: la vita non regala niente. «Buona scuola tesoro, io giuro che farò finta di non conoscerti!» Andrea annuì ancora prima di aprire lo sportello e quando le regalò uno dei suoi bei sorrisi, seppe che tra loro era tutto sistemato.

«Buon lavoro» Andrea percorse il breve tragitto che la separava dalla Oliver M. Berry Hight School. La scuola era immensa, molto di più delle foto che aveva visto on line. C’era gente ovunque, il loro abbigliamento variava per colore e stravaganza e per un attimo si sentì un pesce fuor d’acqua, ma era lieta di capire la lingua altrimenti sarebbe stato alquanto imbarazzante non comprendere nulla dei discorsi degli altri. Sua madre parlava correttamente l’inglese praticamente da sempre e fin da piccola era sempre stata bilingue. Quando erano sole, parlavano italiano, ma d’ora in poi l’inglese sarebbe stata la lingua predominante e doveva ancora capire se questa fosse una cosa positiva. Oltrepassò il parcheggio chiedendosi, distrattamente, se fosse l’unica in quella scuola a non possedere un’auto tutta sua. Mentre rifletteva come introdurre la questione con sua madre, dimenticò ogni cosa quando fu praticamente travolta e gettata sull’erba fresca da un armadio vivente.

Era questo quello che pensò mentre si massaggiava la spalla dolorante «Stai bene?» Non rispose subito a quella domanda, si tastò invece il braccio scoprendo con sollievo di averlo tutto intero. Per fortuna non aveva battuto la testa e lo zaino dietro le spalle era riuscito ad attutire l’impatto della schiena. «Non ti ho vista, stavo solo cercando di recuperare la palla» spiegò quella voce sconosciuta maschile. Stava tendendo una mano per aiutarla a rialzarsi e Andrea la afferrò con forza schermandosi gli occhi alla luce del sole mentre cercava di guardarlo meglio. «Di solito sono più attento» proseguì lui indicando quella che Andrea realizzò essere una palla da football.

Un attimo era tra le sue mani e quello dopo l’aveva lanciata con precisa velocità altrove, sentì distrattamente qualcuno urlare i complimenti per quel lancio perché la sua attenzione era tutta focalizzata su quel ragazzo che le stava di fronte e che doveva avere pressappoco la sua età. Non era biondo con gli occhi azzurri come aveva immaginato fossero tutti gli adolescenti o le persone da quelle parti. Aveva i capelli neri, ma occhi chiarissimi che non riuscì a capire subito vista la quantità di luce che c’era quel giorno. Grigi, forse verdi o magari erano blu? Dannato sole, possibile che... «E soprattutto ho buona memoria quando incontro una bella ragazza, sei nuova vero? Io sono Christopher Park» Andrea azzerò ogni suo pensiero quando notò una cosa insolita a cui era del tutto impreparata: due incredibili fossette ai lati della bocca mentre sorrideva e si presentava.

Un particolare che fecero rovinosamente precipitare le sue priorità perché lei aveva un debole per le fossette. Serie tv e libri erano pieni di questi stereotipi, ma lei non l’aveva mai visto dal vivo e adesso capì benissimo perché ogni ragazza si lasciava ammaliare da quella vista. Dovette staccare a fatica lo sguardo da quel sorriso così aperto e rammentò a sé stessa il motivo per cui aveva chiuso col genere maschile: Davide. Era stato il suo primo ragazzo e anche un amico con cui aveva condiviso tante cose, quando tra loro era finita era stato soprattutto l’amico a mancarle. Davide aveva preferito passare del tempo con un’altra ragazza trattandola come una scarpa vecchia di cui non vedeva l’ora di liberarsi e Andrea era stata malissimo a causa sua.

Consolata dalle sue amiche del cuore, aveva deciso di mettere una bella pietra sopra sull’intero genere maschile e si era attenuta a quella promessa senza alcun problema. Impegnandosi nello studio e passando il tempo libero con le amiche, era riuscita a trovare una sorta di stabilità e allora perché, la vista di questo bel ragazzo spuntato dal nulla le fece battere più forte il cuore? «Eh no, assolutamente stai fermo tu!» «Cosa?» chiese Christopher guardandola confuso. Arrabbiandosi con il proprio cuore, Andrea aveva parlato italiano e, a giudicare dalla sua espressione lui non doveva aver capito niente, ma era troppo assurdo e imbarazzante spiegare che stava minacciando il suo organo vitale di smettere di battere forsennato così minimizzò con un gesto della mano.

Ne approfittò per scioglierla dalla presa che stava cominciando a diventare troppo intima e cercò di non guardare quanto fosse alto e muscoloso e come quella maglietta valorizzava le sue spalle ampie. «Niente, lascia perdere e stai più attento la prossima volta che giochi a palla» Christopher la fissò disorientato quando la vide oltrepassarlo di corsa. In un’altra occasione avrebbe giudicato soltanto la maleducazione di quella strana ragazza, invece si scoprì a sorridere più apertamente e, aiutato dalle lunghe gambe, la raggiunse in fretta alle scale dell’entrata. «Italiana giusto?» chiese ricordandosi solo vagamente di aver ascoltato quella lingua in qualche serie televisiva. La vide sobbalzare mentre si rendeva conto di essere stata seguita, poi come vincendo la battaglia contro sé stessa decise di rispondere annuendo brevemente.

«Sì, mi sono appena trasferite da Roma…» spiegò con un inglese eccellente e di nuovo riprese a evitarlo forse credendo che in questo modo lui si sarebbe stancato in fretta, ma ancora non sapeva quanto potesse essere paziente. «Roma? Wow la Capitale e dimmi in Italia non ti hanno insegnato la buona educazione? Perché, se non l’avessi notato, io mi sono presentato ma tu non ancora» «Mi chiamo Andrea contento? Ora se vuoi scusarmi, dovrei andare» rispose lei fermandosi nel bel mezzo del corridoio incerta su dove proseguire. Il sorriso di Christopher aumentò. «Hai bisogno di una mano per caso?» «No, io... d’accordo» cedette guardandolo «Mi hanno detto di andare in presidenza a prendere l’orario, ma questo posto è un labirinto se mi dici dove andare faccio più in fretta»

«Guarda caso vado nella stessa direzione, quindi ti accompagno» decise d’impulso incamminandosi verso sinistra. Non si prese la briga di guardare se lei lo stava seguendo e infatti dopo un attimo d’incertezza, Andrea lo raggiunse velocemente. «Andrea e poi?» chiese quando superarono alcune classi e dopo aver ricambiato il saluto di qualche ragazzo. «Antinori» si decise a rispondere lei pensando che non ci fosse nulla di male ad essere educati «Grazie per l’aiuto, sei stato gentile, ma adesso credo di riuscire a cavarmela da sola» Aveva visto la scritta sulla porta chiusa e senza lasciargli il tempo di protestare bussò ed entrò l’attimo riuscendo finalmente a respirare con regolarità. Sbrigare le formalità richiese poco tempo, la segretaria della scuola si rivelò essere disponibile e paziente e Andrea cominciò a rilassarsi.

Aveva un orario molto fitto che comprendeva anche attività extrascolastiche, ma le andava bene se riusciva a ottenere dei crediti aggiuntivi visto che il suo progetto era quello di alzare ancora di più la media alta che già possedeva. Dopo Davide, lo studio era diventato la sua ancora in salvezza insieme alle sue amiche e dal momento che non poteva avere queste ultime con sé, si sarebbe concentrata su altro. «Aula 45» lesse a voce alta il primo orario del giorno mentre usciva dall’ufficio. Fu tentata di tornare dentro quando una voce ormai non più sconosciuta la fermò. «Chimica! Che coincidenza, è anche l’aula della mia prima ora. Andiamo?» «Non sono strane tutte queste coincidenze? E poi cosa fai ancora qui?» «Ti aspettavo» rispose Christopher con disarmante sincerità. Di nuovo Andrea fu costretta a seguirlo e la tranquillità appena trovata lasciò di nuovo spazio all’agitazione, possibile che un ragazzo le facesse quest’effetto?

Era del tutto assurdo, doveva prendere il controllo dei suoi nervi o sarebbe impazzita a breve. «Allora chiariamo le cose. Non sono interessata» «A cosa?» «A te, ai ragazzi, a te» ripeté convinta Andrea «Voglio solo studiare e basta quindi anche se sei bello e gentile, con me non funziona» «Bello?» chiese con un sorriso allegro Christopher e Andrea si sforzò, senza successo, di non fissare quelle adorabili fossette. «Penso sia inutile negarlo, lo sai benissimo quindi non giriamoci intorno» «Perché ho idea che questo non sia un complimento?» «Perché è un dato di fatto» puntualizzò lei «Grazie dell’aiuto, ma finisce qui. Non sono interessata» «L’hai già detto eppure dovresti sapere che a noi ragazzi piacciono le sfide e ti confesso un segreto» Si avvicinò al suo orecchio quando furono vicini alla loro aula «Io non amo perdere e, infatti, vinco sempre ogni sfida»

Andrea aveva il cuore che batteva come un cavallo impazzito quando lui le strizzò l’occhio entrando per primo e dimenticò quasi di respirare mentre imponeva al suo corpo di smetterla di comportarsi come una stupida, eppure non poteva ignorare il brivido caldo che aveva attraversato la spina dorsale mentre la sua voce roca le aveva parlato in quel modo. Christopher Park sarebbe potuto diventare un vero problema, doveva stargli alla larga per la sua salute mentale e per il cuore traditore che sembrava voler agire per conto proprio. Occupò un posto vuoto in fondo all’aula e lo osservò cautamente mentre parlava e scherzava con i suoi amici. Prima non aveva esagerato a definirlo bello, in realtà era molto più di questo soprattutto perché non si vantava di esserlo, lo sapeva e basta e quella sicurezza poteva essere davvero preoccupante se non la gestiva bene.

L’insegnante entrò in aula pieno di grossi quaderni come tutte le volte, erano ricchi di appunti per i loro esperimenti e se di solito Christopher trovava divertente vedere quell’uomo pieno di entusiasmo mentre spiegava il progetto del giorno, adesso si trovò concentrato a osservare la nuova arrivata. Andrea Antinori. Non aveva mai avuto problemi con le ragazze, da quando era entrato nella squadra di football cadevano tutte ai suoi piedi senza che facesse nessuno sforzo e per quanto non si lamentasse dello status di popolarità che aveva ottenuto, era bello che per una volta nessuno lo conoscesse come il figlio di due grandi dottori, come il fratello minore di un uomo importante come Kellan o come il giocatore migliore della scuola. Per quella ragazza sconosciuta e di un’insolita bellezza, lui era una distrazione e di colpo Christopher desiderò esserlo in tutti i sensi.

💔Story By Susy Tomasiello💔

Lei non lo sapeva, ma aveva appena lanciato un’esca e lui era pronto ad afferrarla. Prima non aveva mentito: lui vinceva sempre. Cresciuto in una famiglia dove la competizione era all’ordine del giorno e vivendo in una città dove emergere era al primo posto, aveva imparato che arrivare secondo era sbagliato e lui non l’aveva mai fatto. Avrebbe cambiato il “non sono interessata” di Andrea Antinori e l’avrebbe fatto con calma, d’altronde era sempre stato molto paziente e poteva aspettare. Con un sorriso più rilassato adesso che aveva un piano ben in mente si concentrò sulla lezione lanciando ogni tanto qualche occhiata al banco indietro e si sforzò di non ridere quando quella bella italiana finse di non guardarlo a sua volte. Sarebbe stato stimolante e anche divertente farla capitolare.

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Capitolo 3
*** Capitolo II: Reggaeton Lento ***


Christopher e Jamie se ne stavano seduti sulla grande panchina rossa che dava sul retro del cortile della Oliver M. Berry High School, avevano appena finito di mangiare il finto hamburger in simil cartone che la “signorina” Bonn, la grassa e corpulenta cuoca di origini tedesche che con la tipica rigidità del nord Europa governava la cucina e somministrava agli alunni pietanze dalla dubbia data di scadenza. «Non ho proprio idea di come faccia la gente a mangiare questo schifo!» disse Christopher deglutendo rumorosamente. «Se io fossi in te, non passerei il fine settimana a palpare il fondoschiena sodo della Zieglier, ma cercherei di convincere suo padre a licenziare la gemella della Signorina Trinciabue!» aggiunse in fine gettando quel che restava del panino nel cestino della spazzatura davanti a loro.

Jamie osservò quel canestro perfetto e pensò che suo padre non avrebbe fatto altro che complimentarsi con l’amico cercando di convincerlo a lasciare il football per il basket. «Il fatto che il padre di Molly sia uno dei maggiori finanziatori della scuola non vuol dire che possa scegliere il personale scolastico...» Jamie sospirò platealmente, poi ricambiando la spallata dell’amico sfoggiando un bianchissimo e vispo sorriso. «Invece che pensare alle mie palpate con Molly perché non pensi a come approcciarti con quella nuova, Andrea... Persino questa panchina ha capito che sei in fissa con lei!» Le gote di Christopher si fecero paonazze, avrebbe voluto rispondere per le rime alla provocazione dell’amico quando, dal fondo del ciottolato, in tutta la sua grazia ed eleganza apparve Molly.

Il capo indiscusso delle cheerleaders camminava solenne e fiera nella sua divisa verde e gialla, in mano reggeva un plico di fogli con sopra stampato il logo della scuola: Benjamin, un cowboy baffuto dal grande cappello verde. «Mi chiedo ancora come facciate ad essere vivi mangiando quella schifezza, dalla Bonn non mi farei nemmeno mettere un cerotto, figuriamoci far da mangiare!» disse la ragazza senza preoccuparsi di celare il disgusto verso il resto del panino sparpagliato dentro il cestino. «E tu come faresti a sopravvivere a questo cibo disgustoso?! Eh Molly?! Vivi di aria e Chanel?!» esclamò Christopher punzecchiandola. Tra i due non scorreva buon sangue. Il giocatore di football considerava la cheerleader una spocchiosa e viziata snob dall’intelligenza di un paguro vuoto, d’altro canto Molly considerava Christopher un volgare spermatozoo ambulante con il cervello diviso perfettamente in due parti, donne e football.

Era solo per via di Jamie che quei due si rivolgevano la parola con forzato garbo. «Mi sono fatta fare un certificato medico per le intolleranze alimentari, in questo modo posso portarmi da casa del vero cibo e non rischiare l’intossicazione ad ogni morso... » spiegò Molly con sufficienza a Christopher. Una delle doti principali della cheerleader dai lunghi e morbidi capelli bruni era quella di riuscire sempre a far virare qualsiasi fatto a suo vantaggio, il certificato medico di intolleranza alimentare ne era la prova. La signorina Marghareta Bonn era una colonna portante della Oliver M. Barry High School quando Molly, assieme al fratello Huck, iniziò il primo anno da liceale. Il primo incontro con la cucina “Bonnesca” fu decisamente traumatico, sul piatto di plastica ecologica furono sbattuti in modo violento dei crauti troppo cotti ed eccessivamente imbevuti di aceto accompagnati da un paio di wurstel rinsecchiti.

L’impatto con le papille gustative di Molly fu ancora peggio, fu come bere alla goccia il peggior prodotto del peggior discount in periferia. Il passaggio al fantomatico certificato per le intolleranze fu estremamente breve. Molly accusò, o meglio accentuò enormemente, un bruciore di stomaco causato dalla bassa qualità del cibo lamentandosene col padre. Il giorno seguente vantava già il suo esonero dalla mensa. «Cosa sono quei fogli che hai in mano?» chiese Christopher in modo sospettoso. La cheerleader guardò i giovani davanti a lei accennando un sorriso mefistofelico. «Questi?! Bhe sono i volantini per l’evento della scuola in programma per stasera! Un gruppo di storici ci farà un seminario sulla relazione nei secoli tra latino-americani e americani. Noi Gringos siamo fortemente invitati a partecipare. Dopo la conferenza ci sarà un rinfresco e della musica. Ovviamente la partecipazione comporterà un voto in più durante l’esame di storia e qualche credito extra»

La voce di Molly si gonfiava di orgoglio ad ogni parola, l’aspetto sociale era da sempre uno dei suoi interessi ed inoltre avrebbe potuto incrementare la sua popolarità a scuola. «Ti basterà la parte finale del discorso per convincere mezza scuola, l’altra metà la convincerà la tua gonna un po’ troppo corta» disse Jamie senza preoccuparsi di celare la genuina gelosia che provava per la sua fidanzata. Le bianche guance di Molly si arrossarono leggermente, adorava vedere quel ragazzo dai capelli biondi sempre scompigliati ingelosirsi per lei. «Amoreggiate da un’altra parte piccioncini!» disse Christopher smorzando il leggero romanticismo che si era creato. Guardò l’amico sfoggiando un sorriso sarcastico e continuò «Non credo avrai scelta e sono abbastanza sicuro che Andrea parteciperà a questa pagliacciata, le straniere vanno matte per queste “americanate” come le chiamano loro. Ti passo a prendere alle nove. Poi andremo a prendere la tua principessa»

«Scusa se mi permetto genio... Se la tua intenzione è quella di provarci con l’italiana non sarebbe il caso che tu andassi da solo?!» rispose acidamente Molly. «Principessa, è tutto calcolato... Se non avrò la macchina non potrò dare un passaggio ad Andrea, di conseguenza non correrò il rischio di rovinare tutto provando a baciarla... O altro...» Il volto di Christopher assunse un’espressione finto angelica che andava a cozzare terribilmente con il biasimo stampato sul viso di Molly. «Quindi a pallone gonfiato andiamo ad aggiungere: re indiscusso del rimorchio e australopiteco che non riesce a resistere ai suoi istinti. Wow! Il tuo curriculum per partecipare ad un reality trash è quasi completo!» La discussione tra i due nemici amici proseguì ancora per un po’ di tempo sotto lo sguardo genuinamente divertito di Jamie. «Gli eventi organizzati da tua sorella sono sempre un’ode al kitsch: Senza offesa eh!»

La voce bassa e leggermente roca di Mileva era appena udibile in mezzo al brusio causato da liceali semi sbronzi che si dimenavano a ritmo della più scadente musica commerciale reggaeton in circolazione. Il convegno storico - sociologico era riuscito nel difficile intento di non fare addormentare la maggior parte dei presenti, tra cui Mileva e Huck tatticamente seduti nel fondo della platea improvvisata in palestra. «Non posso offendermi se dici la verità! Mol è una bomba ad organizzare queste boiate, ma si lascia prendere la mano facilmente... Ma almeno il cibo è buono!» disse il ragazzo stiracchiandosi energicamente. Lo sguardo di entrambi si posò sull’enorme pupazzo di Benjamin fatto di palloncini che pendeva, in modo tragicomico, dal soffitto, i due amici si scambiarono uno sguardo d’intesa e scoppiarono in una sorda e grassa risata.

Finito il convegno si erano spostati vicino agli spalti in modo da non essere coinvolti i in nessun modo nei festeggiamenti. Attorno a loro, sparsi tra i larghi e scomodi gradini in legno, vi erano le coppiette appartate e dedicate anima e corpo all’esplorazione maxillofacciale reciproca. Era senza alcun dubbio il posto migliore se non si voleva essere disturbati. «A quanto pare gli unici scoppiati siamo noi...» disse ironicamente Huck guardando verso il centro della sala. «Parrebbe così, chi non è accoppiato è intento a fare una danza di corteggiamento da fare invidia alla National Geographic...» rispose acidamente Mileva. «Ti riferisci a quel gorilla di Christopher? Se io fossi Andrea sarei già scappata... » disse il ragazzo ridendo. Lo sguardo di Mileva si rabbuiò improvvisamente. Il cambio d’umore dell’amica non passò inosservato.

«Ascolta... non so come funzioni tra voi bisessuali, ma una cosa la so! Nessuna ragazza con un minimo di sale in zucca accetterebbe mai il corteggiamento di quell’idiota di Christopher... Quindi non ti preoccupare... Insomma... Come dire... Se anche lei è dalla tua sponda... Sarebbe pazza a preferire quel Gargoyle a te!» Le candide guance di Huck avvamparono senza che lui potesse fare nulla per controllarsi. Il ragazzo farfugliò qualcosa cercando di migliorare una situazione che credeva aver reso imbarazzante. Mileva però non sembrava ascoltare un gran che dei goffi deliri dell’amico, il suo sguardo era posato sulla folta chioma rossa di Andrea, la quale per un attimo parve ricambiare lo sguardo accennando un sorriso. «Maledizione! Mol sta arrivando... Presto, prima che faccia uno dei suoi monologhi su quanto io sia asociale!» disse Huck in preda all’agitazione.

🎶Story By Carola Codognotto🎶

Riconobbe nello sguardo passivamente aggressivo della sorella il rimprovero per non partecipare alla festa dei Gringos che si era dannata ad organizzare. Con un gesto fulmineo afferrò il braccio dell’amica trascinandola riluttante nella pista. Gli occhi di Mileva rappresentavano perfettamente un punto interrogativo, quando però si girò in direzione di Molly, leggendo la soddisfazione nel volto alla vista dell’intera scuola divertirsi per merito suo, eccezione fatta per le coppiette appartate, capì. Lasciò passare il braccio di Huck sui suoi fianchi e si rilassò. In sottofondo il DJ aveva messo una canzone reggaeton romantica, in realtà non le piaceva molto, ma la situazione la divertiva alquanto. Nessuno poteva sapere che in quel momento Huck era il liceale più felice del mondo.

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Capitolo 4
*** Capitolo III: Yo No Sé Mañana ***


Essere un’adolescente non doveva essere una cosa tanto brutta, non quando potevi contare su una migliore amica meravigliosa, una famiglia strana ma presente, una scuola piccola ma con standard di apprendimento piuttosto elevati. Eppure, per Christine Booth, così come per tutti gli adolescenti del pianeta, vivere questo “passaggio” richiedeva una dose smisurata di volontà, ottimismo e spirito di sacrificio. Soprattutto, quando ci si ritrovava con un quoziente intellettivo di gran lunga superiore alla media e una madre che era una specie di guru dei cadaveri… No, d’accordo, detta così sembrava un vero disastro, ma di fatto, la vita per Christine non era semplice come poteva apparire a un occhio esterno. I suoi genitori erano semplicemente magnifici, li adorava, tanto quanto adorava i due fratelli Parker e Hank. Ciò nonostante, tutti loro, si portavano dietro un bagaglio talmente pesante di esperienze e responsabilità che a volte si sentiva soffocare.

Le aspettative su di lei erano tante, non la pressavano, questo no, ma conosceva bene la pignoleria della madre. Se fosse stato per lei, a quest’ora, Christine sarebbe stata già diplomata con tre anni di anticipo. Suo padre, invece, aveva insistito affinché completasse le scuole “nei giusti tempi”, perché “la scuola non è solo studio, ma soprattutto esperienza di vita!” E la piccola Booth-Brennan avrebbe voluto saltare in braccio al padre per ringraziarlo di quelle parole, se non avesse avuto troppo timore di offendere sua madre. La dottoressa Brennan era irreprensibile, a volte troppo rigida, ma sapeva che voleva solo il meglio per la sua bambina, per questa ragione odiava deluderla. Entrambi, ognuno a loro modo, rappresentavano per Christine un esempio da seguire… solo, che a volte, le sarebbe piaciuto essere solamente sé stessa.

Non era neppure tanto sicura di piacersi così com’era diventata, ma forse era ancora troppo presto per giudicarsi davvero. «Christiiii, andiamoooo, oppure farai tardi a scuola!» Eccola la voce del suo fratellone Parker, fratellastro in realtà, ma era riuscito a farle dimenticare fin da subito questo dettaglio. Aveva da poco finito il college e si era preso una piccola pausa prima di buttarsi nel mondo del lavoro. Sotto sotto, ma questo l’aveva confidato solo alla sua sorellina, stava ancora cercando di capire cosa fare. Perciò, aveva approfittato dell’assenza del padre e di Temperance, alle prese con un caso difficile fuori dallo Stato, per tornare a casa e godersi la famiglia, o quel che ne rimaneva! Hank frequentava a sua volta il college, perciò di fatto erano rimasti solamente lui e la sua “sorellina”. Christine lo raggiunse, zaino in spalla e un sorrisone stampato sul volto levigato.

La pelle chiara accentuava le labbra naturalmente rosse, il tutto sottolineato ancor di più dalla completa assenza di trucco. «Pronta!» lo apostrofò pimpante. «Sei l’unica liceale felice di andare a scuola quando c’è una verifica di matematica! E magari fosse solo la matematica… secondo me, non sei umana… nessun adolescente ama le verifiche in generale!!!» Parker adorava prenderla in giro perché fin troppo amante dello studio, ma il gioco finiva presto, perché Christine non accennava mai a un’arrabbiatura, anzi a sua memoria, non ricordava di averla mai vista perdere le staffe. A volte, dubitava che fosse sua sorella… al suo contrario era molto più istintivo, amava affrontare le questioni di petto, era la sua eredità paterna, mentre Christine in questo aveva preso tutto dalla madre, con un’unica controindicazione: non sfogandosi mai e razionalizzando tutto, rischiava di tenersi dentro emozioni che potevano trasformarsi in veleno.

«Non è colpa mia se ho ereditato la genialità di tutta la famiglia…» La ragazza fece una linguaccia al fratello, prima di correre dritta in macchina, pronta per una nuova giornata di scuola in cui essere l’adolescente geniale che tutti conoscevano… ma qualcuno sapeva che non era solo quello…

«No, Emma, te lo proibisco!» Christine aveva provato a fare la voce grossa ma con Emma equivaleva a spingerla nella direzione indesiderata. Emma Geller-Green era la migliore amica di Christine, insospettata migliore amica, perché di fatto erano l’una l’esatto opposto dell’altra. Se a Christie piacevano i colori, Emma preferiva il bianco e nero; se la prima amava il gelato, la seconda andava matta per i crostini salati; Christine adorava la musica classica ed Emma impazziva per i gruppi rock. Insomma, erano la prova vivente che per essere amiche non era per forza necessario avere le stesse passioni. «Non posso continuare a permettere questo stillicidio. Christy, è esattamente un anno che sospiri senza remissione di peccati. Devi dirgli tutto!» Ed ecco un’altra cosa su cui le due amiche erano in totale antitesi: l’approccio con gli esponenti dell’altro sesso.

I ragazzi erano una specie di tabù per Christine, era intelligente, spigliata, a suo modo divertente – per chi considerava divertente lo humor all’inglese – ma quando si entrava in argomenti simili diventava una persona diversa: balbettava, sudava freddo e perdeva tutte le sue sicurezze. Emma? Era ovviamente il contrario e la sua giovane età non le permetteva di essere più tollerante con l’amica, soprattutto quando la vedeva soffrire. Da quando si conoscevano si era messa in testa di capire cosa generasse questo assurdo blocco emotivo. «Emma, non sono te! So già come andrebbe a finire…» Di fronte a quelle parole, Emma perse del tutto le staffe, tanto che rischiò di far crollare il bricco di latte che aveva sul vassoio. Il cibo “pseudo-tedesco” abbandonato nei piatti faceva da triste spettatore.

«La devi smettere di paragonarti a me. È vero, non ho peli sulla lingua, né filtri tra cervello e lingua, ma ciò non significa che sia sempre un bene. Però, il punto è un altro. Devi buttarti! Devi smetterla di rimandare, se non ci provi non saprai mai se sarà davvero un fiasco… e se invece, lui ricambiasse? Vuoi restare col dubbio fino alla fine dei tuoi giorni?» Emma era tutta rossa in viso, le trecce castane si muovevano impazzite sulle spalle, al ritmo del suo stesso nervosismo. Christine la guardava da sotto le ciglia scure, non voleva farla arrabbiare, ma era più forte di lei. Il solo pensiero di dichiararsi le mandava in pappa il cervello, si sentiva già andare in iperventilazione, tanto da farle venire la nausea. Emma se ne rese conto e le prese una mano.

«Stai calma, non devi starci male. Dovresti invece goderti questi momenti che, ne sono convinta, quando sarai grande rimpiangerai!» Le strinse le dita con decisione, per costringerla ad alzare lo sguardo e guardarla negli occhi. «Sei troppo saggia per la tua età…» la stuzzicò Christine, con un piccolo sorriso spuntato più per farle piacere che per reale volontà. Poi, i suoi occhi chiari seguirono un’altra traiettoria, superarono i vassoi, il profilo del tavolo e sfiorarono quello di due postazioni più avanti. Era occupato da una sola persona e tutti giorni si ripeteva lo stesso rito. Finn Malone sedeva un po’ scomposto, ma solo perché le sue gambe erano troppo lunghe per stare comode sotto quel trabiccolo. Aveva un paio di cuffiette nelle orecchie, mentre i capelli si disperdevano in riccioli castani e ribelli, erano troppe le volte che ci passava dentro con le dita.

Tra le mani stringeva un libro con la copertina scura, ideata proprio per non far sapere agli altri che cosa stesse leggendo. Ma questo era solo uno dei tantissimi modi che Finn Malone aveva per chiudere tutto il mondo fuori in quei pochi momenti di solitudine che la scuola gli permetteva di avere. Christine lo osservava spesso, sicura che non sarebbe mai stata colta in flagrante. Mai, ma proprio mai, lui aveva alzato il suo sguardo dalla sua occupazione… né tantomeno, aveva mai incrociato il suo di sguardo. Come poteva andar lì, di punto in bianco, e dirgli che voleva conoscerlo meglio? Come diavolo avrebbe potuto imporre la sua presenza a qualcuno che “palesemente” non voleva compagnia? «Fidati di me, Christy, se anche dovesse andar buca, almeno potrai toglierti il pensiero! Ci soffrirai per un po’, ma non avrai rimpianti.» Eccola Emma che tornava all’attacco. Quegli sguardi rubati avevano il potere di farle ribollire il sangue nelle vene. «A una condizione!»

«Cosa sentono le mie orecchie? Mi stai proponendo un patto per vincere la tua più grande paura? Lo sai che accetterò qualsiasi cosa, vero?» Emma era super eccitata adesso, gli occhi sgranati e i denti bianchi in bella mostra. Eppure, avrebbe dovuto aspettarselo da Christine, la conosceva fin troppo bene. «Io andrò a parlare a Finn, se tu farai lo stesso con Leonardo!» Sapeva benissimo di esserci andata giù pesante, ma se Emma voleva il suo bene, per Christie non era da meno, anche se la sua situazione era di gran lunga più complicata. Infatti si beccò una occhiataccia in tralice e un sonoro sbuffo. «Ti piace girare il coltello nella piaga, eh?! Lo sanno tutti che sta con Elizabeth…» «Io non li ho mai visti baciarsi! È vero, si abbracciano, a volte si tengono per mano, ma per quanto ne sappiamo potrebbe essere un forte rapporto di amicizia!»

L’occhiata seccata di Emma si trasformò ben presto in disperata. «Christy, sono una casta, nessuno può entrare in una cerchia come la loro. Sembrano una fottuta pigna. Mi conosci, non mi sono mai fatta problemi a farmi avanti, ma c’è una bella differenza tra essere intraprendente e un’aspirante suicida sentimentale.» «Ti piace e anche tanto. Hai provato a vederti con altri, ma il tuo pensiero corre sempre a lui. A questo punto, ti rigiro le tue stesse parole: cos’hai davvero da perdere?» Christine sapeva essere convincente quando lo voleva, ma era lo scopo comune che le spingeva a essere così determinate: la felicità dell’altra. «Affare fatto! Però pongo anche io una condizione! Tra due settimane ci sarà la festa di Halloween, io proverò a parlargli in quella occasione… devo riuscire a beccare Leonardo lontano dalla sua cricca. Ma TU, signorina, dovrai farlo adesso!»

«Ma l’ora del pranzo è ormai terminata!» si giustificò Christie, benedicendo l’orologio e la sua imminente verifica di matematica. «Allora dopo le lezioni, ma dovrà essere oggi, altrimenti il nostro patto salta e la nostra amicizia ne uscirebbe irrimediabilmente danneggiata!» Emma aveva il melodramma nel sangue, questo era certo. «E non fare quella faccia da cerbiatto quasi investito da un’auto in corsa… me lo devi, visto che hai posto tu per prima condizioni infauste…» «Va bene, va bene, hai vinto!» Christie cedette ma era certa che non avrebbe pensato ad altro fino alla fine delle lezioni, al diavolo anche la verifica.

Finn Malone appoggiò lo zaino contro il tronco dell’albero, tolse le cuffiette dalle orecchie e si sedette sull’erba del piccolo parco che costeggiava la strada verso casa. Vi si fermava ogni pomeriggio, in un cantuccio in particolare, dove si rimetteva in contatto col mondo esterno, la natura e i suoi pensieri. Le ore trascorse a scuola le viveva come in una sorta di apnea. Teneva sempre la mente occupata, gli spazi morti pieni fino all’orlo, attento a non intrecciare rapporti non strettamente essenziali. Non era un misantropo per natura, ma aveva capito che questo era il modo migliore per non avere grane, non dover rispondere a domande indiscrete, non essere costretto a subire i conseguenti cicalecci. L’attacco era la miglior difesa… questa era una delle poche cose che aveva imparato da suo padre. Certo, Finn aveva studiato un attacco silenzioso, ma si era rivelato molto efficace.

Rispondeva agli insegnanti, studiava, partecipava ai gruppi di studio per guadagnare i crediti extra, ma nulla di più. Si teneva ben lontano da qualsiasi complicanza adolescenziale, la sua vita era già abbastanza incasinata così. Perciò, quel posticino nella natura, era dove si ritirava per far "decantare" i pensieri prima di ritornare nell’ennesima bolla di finzione e solidi muri. Casa sua: non era diversa dalla scuola, anzi era il motivo per cui in quest’ultima aveva adottato tale comportamento. Finn lasciò che le dita accarezzassero i ciuffi d’era, che dopo le prime piogge autunnali stavano tornando verdi. L’aria era frizzante, però non tanto da impedirgli di sdraiarsi e fissare il cielo come faceva in estate. Le nubi si addensavano e sarebbe piovuto ancora, ma non prima di quella notte, aveva ancora qualche ora. Poi, sarebbe tornato in teatro. Fingere di non sapere lo stava avvelenando, di questo ne era consapevole.

Aveva smesso di sorridere, aveva smesso di essere l’anima gioviale e piena di vita degli anni infantili. Quel bambino non c’era più, così come non esisteva più la sua famiglia… quella che aveva sempre considerato il suo rifugio. Perché? Perché era tutta una menzogna: la famigliola felice non era mai esistita. Uno scricchiolio di rami secchi calpestati lo distolse dalle sue elucubrazioni. Da un lato ne fu felice, perché cercava sempre di evitare di contaminare il suo nuovo rifugio con i problemi che lo assillavano; dall’altro, però, ne fu infastidito. Nessuno aveva mai "violato" quel fazzoletto di paradiso… Quando alzò lo sguardo sul disturbatore la speranza che si trattasse di un senzatetto o un ragazzino in cerca della sua palla sfumò, assieme al benessere che aveva provato toccando l’erba umida. Si trattava di una ragazza della sua scuola, gli sembrava frequentasse il secondo o il terzo anno. Christine Booth.

Figlia di un agente dell’FBI e di un’antropologa forense che lavorava con i federali. Già solo il mestiere di suo padre gli faceva tornare i crampi allo stomaco, era logico, visto che il suo di padre faceva lo stesso lavoro, anche se non si occupava di omicidi ma di persone scomparse… poco importava! Ciò nonostante, la conosceva anche per un altro motivo: a pranzo non faceva altro che fissarlo, si aspettava che prima o poi avrebbe tentato di parlargli. Beh, quel momento era arrivato. Christine era talmente nervosa che quando incrociò lo sguardo di Finn perse la presa sui due volumi scolastici che aveva tra le mani, che finirono dritti dritti in una piccola pozzanghera, con buona pace di numeri e problemi geometrici. Per un attimo fu indecisa se abbassarsi a raccoglierli oppure fuggire via a gambe levate…

Finn lesse quell’atroce dubbio negli occhi della ragazza e qualcosa si mosse dentro di lui. Qualcosa di indefinito. Faceva davvero così paura? Allora perché si era decisa ad avvicinarlo? Lui, dal suo canto, si accostò a Christine e afferrò i suoi libri… «Credo che ormai siano da buttare…» disse con voce atona, mentre tentava di scrollare via il fango dalle pagine bagnate. Christine era ancora in cerca d’aria, perciò riuscì a ribattere dopo attimi infiniti. «Non fa niente, ho quelli di mio fratello a casa!» E annuì convinta, quando Finn fece cenno di gettarli nel cassonetto dell’immondizia. Poi, gli porse delle salviette per pulirsi le mani dalla terra… che disastro! «Come mai da queste parti?» Finn non amava i convenevoli, soprattutto se entrambi conoscevano – o credevano di conoscere – il motivo di quell’incontro poco fortuito.

Si sedette sulla panchina sotto il suo albero e attese. Forse, avrebbe dovuto trovarsi un altro posto dopo quel pomeriggio… «Beh, stavo tornando a casa e dalla strada ti ho visto, cioè, in realtà ti vedo ogni giorno, abitiamo vicini, lo sapevi? Quindi praticamente abbiamo percorso gli stessi passi, tutti i giorni degli ultimi tre anni.» Christine stava per farsi prendere dal panico, ma inaspettatamente Finn le fece posto sulla panchina in un chiaro invito a sedersi. Le sue sinapsi erano in fase di fusione, ma riuscì a trovare due sole motivazioni per quel gesto: uno, anche lui aveva piacere a parlarle; due, voleva che la smettesse di battere i tacchi sul terreno e torcersi nervosamente le mani. Propendeva per la seconda opzione.

Gli occhi di Finn erano persi tra le fronde degli alberi più lontani, sembrava rassegnato, forse pensa che fosse l’unico modo per far finire in fretta il supplizio… che era lei! «Lo so… che abitiamo vicini, intendo» le rispose una volta che Christie si fu seduta. Con la coda dell’occhio scorse le dita di lei finire tra le gambe, per costringersi a tenerle ferme, invano però, lo strofinio con i jeans le arrossò malamente. Non erano affari suoi. Non lo erano affatto. E allora perché con la sua mano grande prese quelle di Christine e le distese sulle sue ginocchia tremanti? Non se lo sapeva spiegare. «Avete fatto una scommessa con la tua amica? Sai, credevo che sarebbe stata lei a provarci. Insomma, tra le due mi è sempre sembrata la più intraprendente.» Christie ebbe la sensazione di ricevere uno schiaffo in pieno viso dopo aver toccato il cielo con un dito.

Finn sembrava dire certe cose con i gesti e cose completamente diverse con le parole. Queste ultime però avevano fatto male, molto male. Cercò di ribattere con qualcosa di intelligente, ma… «Scoprire il segreto di Finn Malone. Quanto avete scommesso? Una cena? Un paio di scarpe? Perché nessuno di voi riesce a farsi gli affari propri?» Eccolo, il fiume aveva rotto gli argini. Non ce l’aveva con Christine, né con la sua amica, ma non era la prima volta che capitava che qualcuno lo avvicinasse per scoprire il motivo del suo comportamento non proprio tipico di un adolescente. E l’interesse delle due ragazze a mensa non poteva avere altre ragioni… «No, aspetta! Emma e io non abbiamo fatto nessuna scommessa! Volevo solo, ecco io, volevo solo parlarti…» Idiota, idiota, idiota. Christie doveva spiegare quello stupido equivoco, ma non sapeva come trovare le parole senza rendersi ancora più ridicola.

Finn, a quel punto, si voltò verso di lei, trovandola ancora più in difficoltà di poco prima. Cosa diavolo tentava di dirgli?! «Vorresti dire che sei venuta fin qui perché volevi conoscermi… e basta?» Era sorpreso, doveva ammettere che questa opzione non l’aveva proprio presa in considerazione. Christine Booth era incuriosita da lui… come ragazzo? No, questo era fin troppo assurdo, perciò rise, rise di se stesso. «Cosa ci sarebbe da ridere?!» Christie aveva ritrovato la voce, il moto di vergogna che era salito dopo quella risata di scherno anziché farla scappare, le diede il coraggio di battersi. «Non sono certo Molly Ziegler, ma questo non ti autorizza a ridicolizzarmi così!» Le lacrime erano dietro l’angolo, ma non gli permise di fare capolino. Strinse i pugni attorno alla tracolla della sua borsa e si alzò di scatto.

Finn parve essere colto da una illuminazione, cadendo letteralmente dal cielo. In quale enorme equivoco si era infilato? Afferrò la ragazza per un polso, bloccando la sua onorevole ritirata. «Aspetta, non ridevo di te. Solo, non avevo neppure immaginato che tu fossi qui per… me… tutto qui.» Le sue dita erano ancora strette attorno alla pelle morbida di Christy e lì restarono fino a quando non incrociò anche il suo sguardo fatto di cristallo liquido. Era sorpresa, forse più di lui. «Perché non dovrei essere qui per te. Sei bello, misterioso, i tuoi occhi sembrano fatti di cioccolato fondente e cerco il coraggio di avvicinarmi da un anno intero.» Cosa. Aveva. Detto??!! Doveva essere impazzita, del tutto rincitrullita, assolutamente fuori di testa. «Cioè, volevo dire che, insomma…»

«Siediti, ok?» Finn era rimasto colpito, forse troppo, dalle parole spontanee della ragazza. Non avrebbe dovuto crederle, era abituato a diffidare di tutto e di tutti. Dietro l’angolo c’era sempre qualcuno che voleva fargli lo sgambetto perché non sopportava il suo modo di tenere il mondo fuori dal suo spazio vitale. Non sapeva bene il motivo di quell’astio nei suoi confronti, ma era lì, forte e tangibile. E lui aveva smesso di credere nella buonafede delle persone, tanto quanto aveva imparato a non cedere alle loro moine o provocazioni. «Prima dell’estate, uno dei giocatori della squadra di football mi ha fatto un brutto scherzo, così sono diventato ancora più sospettoso di quanto già non lo fossi prima…»

📚Story By Anne Louise Rachelle📚

«Tanto brutto da farti dimenticare di essere un ragazzo carino e che magari potresti interessare per altro?!» Christine lo scimmiottò nel tentativo di replicare la sua voce maschile, ma ne venne fuori una bruttissima imitazione, che li fece ridere entrambi. Poi continuò. «Sembri più adulto della tua età, ti comporti come se il peso del mondo fosse tutto sulle tue spalle… non voglio scoprire i tuoi segreti, ognuno di noi ne ha ed è giusto che restino tali, ma vorrei solo alleggerire quel peso con qualche chiacchiera, di tanto in tanto… ecco…» Finn la osservò meglio, si era rimessa al suo fianco, un po’ più vicina. I balbettii erano scomparsi, ma si vedeva ancora quanto ogni parola le costasse. Era timida, impacciata, ma sincera, di questo ne era certo.

«Solo questo? Qualche chiacchiera?» La domanda del giovane era chiaramente provocatoria e colse nel segno. Christine, allora, lo fissò di colpo, le iridi trasformate in quelle di un cucciolo curioso. «In realtà, una cosa da chiederti ce l’ho, una cosa che non mi fa dormire la notte… a cui penso anche di giorno, quando dovrei studiare…» Finn iniziò ad agitarsi, perché la sua voleva essere una provocazione giocosa, ma rischiava seriamente di pentirsene. Non avrebbe dovuto lasciarsi tanto andare, di sicuro aveva aperto troppo quel minuscolo spiraglio che Christine aveva individuato… «Cosa diamine stai leggendo?! Insomma, sempre con quella copertina nera, impenetrabile, assomiglia a una sorta di scudo radioattivo, che tortura!»

Finn sgranò gli occhi, sorpreso, no… di certo non si aspettava una curiosità simile, davvero genuina… e dolce. Christine era una ragazza onesta, non avrebbe forzato la serratura per entrare, avrebbe atteso il suo "avanti", fino a quando non fosse arrivato. Scosse il capo, un leggero sorriso sulle labbra. Poi, si alzò e rovistò nello zaino per qualche istante prima di tirarne fuori il suo libro oscuro. «Scoprilo tu stessa…» Christine afferrò l’oggetto che Finn le porgeva con gesti lenti, quasi solenni. Neanche lei si aspettava una risposta simile, ci aveva provato certo, usando l’arma del sarcasmo che suo padre le aveva lasciato in eredità e che aveva sempre creduto inutilizzabile con l’universo maschile. Poi, incoraggiata dallo sguardo di lui, tolse la copertina nera, leggendo il titolo della brossura: "L’arte della guerra" di Sun Tzu.

«Ci vai giù pesante!» esordì lei, senza celare la sua ammirazione. «Ci provo soltanto…» si schernì Finn, rimettendosi al suo fianco. «Ti va di leggermi i passaggi che ti son piaciuti di più fino ad ora?» Il sorriso di Christine era adesso aperto, non c’era traccia di dubbio o paura. Certo, l’impaccio non sarebbe svanito nel nulla, tuttavia, doveva riconoscere che Emma aveva ragione: la soddisfazione di aver provato era enorme, ma quella di esserci riuscita era ancora più grande. Finn annuì piano, consapevole che accettare sarebbe stato l’equivalente di una mano tesa. Non sapeva come sarebbe andata a finire, forse avrebbe sofferto ancora, forse no, solo il tempo gli avrebbe dato torto o ragione. La novità era che, con Christine, si era ritrovato disposto a rischiare.

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Capitolo 5
*** Capitolo IV: Despacito ***


Il fuoco scoppiettava nella Gola di Bonnie View, lì dove i ragazzi erano soliti vedersi lontano da tutti e tutto. Era una zona neutra, abbastanza distante dai ranch ove abitavano e anche dalle strade principali. Le due jeep con cui erano arrivati erano parcheggiate poco distanti da loro, mentre i quattro intorno al fuoco, ed in silenzio, parevano in attesa. Nessuno proferiva parola, tesi come corde di violino, quando improvvisamente lo sguardo scuro di Luz Maria si accese e facendo un segno agli altri con il capo indicò il fuoristrada poco lontano di suo fratello che li stava raggiungendo. L'amicizia che li legava era forte, ma anche contrastata tanto dalle loro famiglie quanto da tutto l'ambiente che li circondava. Casillas, Venegas, Quintanilla ed Acero erano cognomi importanti. Cognomi conosciuti da tutti per i loro legami palesi con il narco traffico.

DEA, ICE, FBI, Marina, Polizia, etc... tutti erano sulle loro tracce, ma mai nessuno pareva avere abbastanza prove per poter seriamente anche solo tentare di acciuffarli. Oltretutto erano Cartelli potenti, le coordinate dei loro ranch erano segrete e avevano molte altre proprietà in cui scappare in caso qualcuna fosse stata scoperta. I ragazzi vivevano, tuttavia, una vita tranquilla, in quanto non erano perseguiti per i crimini dei loro genitori e tanto meno avevano fatto o dato adito a qualcosa d'interessante per cui bisognasse tenerli d’occhio. Oltretutto, anche l'amicizia tra loro era segno che gli stessi cercassero solo la normalità in un mondo che non gliel’avrebbe mai concessa. Aurelio Casillas era a capo del Cartello di Sinaloa, passava pochissimo tempo negli Stati Uniti e gestiva i suoi affari da casa insieme alla sua compagna d'amore e d'affari: Monica Robles, la stessa con la quale aveva avuto un figlio: Isidro.

La madre di Luzma e suo fratello Heriberto erano morti anni prima, proprio per colpa di quella vita, e lei appena ne aveva avuto l'occasione aveva seguito la sorella Rutila negli States, mentre il padre si rifaceva una vita ed una famiglia seppur il suo essere un donnaiolo non cessava di far parte di lui. Infatti se Ximena, Heriberto, Rutila e Luzma erano la sua famiglia ufficiale, molte donne ed amanti aveva avuto e si era perso il conto dei figli illegittimi che aveva sparso. Tra questi vi era Nicandro, lo stesso che in quel momento li raggiunse con un’espressione scura sul volto. «Ho pessime notizie, l’Alarcón ha di nuovo alzato il prezzo per la carta e l’inchiostro!» «Maledizione!» esclamò Felipe passandosi una mano sul volto, mentre Leonardo si portava le mani sui fianchi e guardando a terra scuoteva la testa.

«Lo avevo detto che quello era un hijo de puta!» «Lo sarà anche, Leo, ma è l’unico che ha i contatti giusti per fornirci carta ed inchiostro direttamente dal Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti!» Lo imbeccò Elizabeth. «Quanto vuole in più?» chiese Luzma ed il numero che indicò il fratello con le mani fece impallidire tutti. Niki era il più grande di loro, andava al secondo anno di college a Corpus Christi ed era quello che finora si era occupato di reclutare gli uomini che lavoravano alla cabaña, un’apparente baita in mezzo ai boschi che nascondeva in realtà la loro “piccola attività di stampa di soldi falsi”, ed El Chico quello che potevano definire il loro matón di riferimento.

Anche Leonardo guardò l’amico e soppesò bene il da farsi. Lui era figlio di niente di meno che Rutila Casillas ed El Chema Venegas, di fatto, Luzma era sua zia nonostante fossero coetanei e per questo e per il fatto di essere cresciuti praticamente insieme si consideravano più fratelli. Suo padre, da sempre, era l’acerrimo nemico di Aurelio e da sempre il suo scopo era quello di destituirlo dal ruolo di Capo del Cartello di Sinaloa. Tuttavia, anche se non ci era ancora riuscito si considerava comunque fiero del suo traffico di armi e droga negli States ed ancor più di essersi innamorato pazzo, ed essere ricambiato, dalla figlia del suo acerrimo avversario seppur fosse molto più giovane di lui. «Diamoglieli!» tagliò corto come era suo solito fare. Leo non parlava molto, ma quando lo faceva era perché aveva sempre qualcosa di deciso e giusto da dire.

«È tutto quello che abbiamo guadagnato finora!» gli fece notare Felipe. «Leo ha ragione! Abbiamo fatto tanto per farci prendere sul serio, per diventare un nome e non possiamo buttare tutto all’aria, anche perché senza la carta e l’inchiostro che l’Alarcón può fornirci… be’ non abbiamo possibilità di continuare… non saremmo più i migliori!» constatò Elizabeth incrociando le braccia al petto. «Concordo! Grazie a Rutila e Monica abbiamo i contatti e le richieste e sta andando bene!» Con Niki che appoggiava anche lui la proposta, tutti si trovarono ad accettare l’offerta. Avrebbero dato la cifra richiesta e si sarebbero dati da fare per recuperare i soldi persi. Dopotutto, sia Felipe che Elizabeth venivano da una famiglia che aveva fatto proprio del lavaggio di denaro la loro arte primaria.

La madre del padre adottivo di Elizabeth e il padre del padre di Felipe erano grandi amici. La prima aveva lavorato per anni per il secondo che l’aveva protetta ed aiutata quando ne aveva avuto più bisogno ed in questo modo era nata la grande Famiglia Quintanilla-Acero ove poco contavano i legami di sangue, ma molto quelli affettivi. Sia Elizabeth che Felipe non erano figli naturali dei loro genitori, ma questo non impediva ai ragazzi di sentirsi tali. Andavano fieri della loro grande e disfunzionale famiglia che nonostante le difficoltà aveva sempre trovato il modo di stare unita. A differenza dei Casillas e Venegas poi, non erano nel mondo della droga, lavavano denaro per l’appunto e si occupavano anche dell’attività di coyote. Oltre a questo riuscivano ad avere una “facciata pulita” grazie all’attività del ranch dove allevavano cavalli.

Quando tutti diedero l’ok, Niki salutò gli amici e si mise in macchina per ripartire ed occuparsi immediatamente della cosa. Anche Felipe e Luzma salutarono gli amici salendo sulla jeep ed allontanandosi, mentre Elizabeth si ritrovò a guardare il suo amico di lunga data. Era strano, a scuola nessuno di loro si poteva considerare popolare, ma nonostante questo tutti li rispettavano, probabilmente più per paura che per altro. Si mormorava di chi fossero figli ed in una città così di confine non era difficile non conoscere quei cognomi e a chi e che cosa fossero collegati. Leo non si accorse dello sguardo dell’amica, ma quando lo incontrò entrambi si lasciarono andare ad una risata complice. «Pensi quello che penso io?» chiese lei sedendosi su uno dei tronchi intorno al fuoco e portandosi una lunga ciocca riccia dietro l’orecchio.

«Che tra Felipe e Luzma ci sia qualcosa? E… ti dirò mi pareva di averlo notato!» Ridacchiò lui raggiungendola. «Non mi dispiacerebbe, sono belli insieme!» «Come tutti ci dicono sempre che lo saremmo anche noi?» ironizzò lui. La verità era che il loro legame era talmente complice che risultava impossibile non pensare che stessero insieme. Il modo in cui lui le cingeva sempre le spalle, in cui lei si sedeva sulle sue gambe o le loro mani si cercavano mentre camminavano uno di fianco all’altro… Sì, effettivamente avevano un rapporto molto fisico, ma… era vero. Erano solo amici. «Lo hai mai pensato?» chiese improvvisamente Elizabeth mordendosi un labbro e guardandolo.

«Che stessimo bene insieme? Ehm… forse, ma poi mi sono ricordato che non permetterei mai che per qualche ragione la nostra intesa perfetta, la nostra amicizia finissero…» rispose lui secco. Il fuoco che si rifletteva sulla sua pelle olivastra gli dava un alone rossastro che accentuava ancor più i suoi capelli nerissimi. «Idem! Ma mi rendo conto che il mondo non è capace di capire questo tipo di amicizia uomo e donna, come non lo è nel discernere che non tutto è solo nero o bianco!» sospirò la ragazza girando lo sguardo nocciola verso il fuoco, così che le fiamme iniziarono a danzare in esso. «Guardaci! Sicuramente siamo cresciuti in un mondo che ci ha fatto diventare grandi presto. Mi basta pensare alla storia della mia famiglia per vedere il sangue scorrere a fiumi, ho perso il conto di quante persone sono morte o abbiano comunque subìto violenze atroci… Ma questa è la vita che ci è toccata e grazie ad essa, forse, sono in grado di vedere il mondo per quello che è. Ove non è per niente scontato che la polizia siano i “buoni” i narcos siano i “cattivi”… Seppur il solo pensarlo, per i perbenisti finti ed ipocriti come Molly Ziegler, fa di me una cattiva persona, ma non mi interessa. Né di quello che pensa lei né di quello che pensano tutti i nostri compagni… Vivono nelle loro bolle dove se la prendono per cavolate e si credono dèi solo perché sanno tirare una palla!»

Leonardo ridacchiò, per poi passarle un braccio intorno alle spalle e come sempre stringerla a sé, poggiando la sua guancia sul capo di lei. «Lasciali parlare Elizabeth… lasciali vivere… dopotutto loro mica hanno dovuto imparare a maneggiare un’arma a 10 anni o cambiare più case che abiti… Ciò non toglie che anche noi ci meritiamo la nostra parentesi di normalità ed ogni tanto, come adesso… questo momento… non è male non trovi?» Elizabeth arricciò le labbra senza dire nulla. Faticava a crederci. Era forse disillusa, ma non credeva che avrebbe mai potuto godersi una festa o avere un fidanzato e riuscire a vivere il tutto come se la sua vita non fosse com’era. Per questo non aveva mai nemmeno provato a farsi amici e viveva la scuola come un luogo ove andare, fare lezione ed andarsene a casa prima possibile.

Gli altri, invece, la vedevano diversamente, credevano che proprio perché non si erano scelti la vita che avevano dovevano il più possibile trovare in essa un angolo di normalità. Momenti in cui vivere e fare quello che qualsiasi ragazzo della loro età faceva e godendosi quei momenti, se era possibile, ancor più degli altri, proprio perché avevano coscienza di quanto non fosse per nulla scontato averli. «Sarà… ma intanto che ne dici se rimaniamo ancora un po’ qui… voglio vedere le stelle!» Leonardo sorrise, assentendo in silenzio, la strinse ancora un po’ a sé e lasciò che pian piano il manto scuro della sera li avvolgesse.

In occasione di Halloween ovviamente la “Reginetta della Scuola”, Molly Ziegler, non poté farsi sfuggire l’occasione di richiedere ed ottenere il permesso di creare una mega festa con la scusa che sarebbe stato meglio in un luogo sicuro e conosciuto con precisi orari di inizio e fine, piuttosto che qualche party fuori controllo in casa di un alunno. Inutile dire che, come sempre, trovava il modo di raggirare il consiglio scolastico. Il fatto che fosse la figlia di un uomo importante, in strettissimo contatto con il Presidente degli Stati Uniti – cosa che lei adorava rimarcare – le faceva ottenere qualsiasi vittoria facilmente. Elizabeth non aveva per niente voglia di andarci, ma adesso si trovava nella sua camera da letto con la madre che le stirava i capelli.

«Credo che l’idea di aver scelto Jenni Rivera e Selena come travestimenti sia davvero originale… i ragazzi cosa hanno scelto?» Alla vista chiunque avrebbe detto che Rosario fosse sua sorella più grande piuttosto che sua madre e lo stesso si poteva dire di Salvador e in effetti era così. I due infatti avevano solo 15 anni in più di lei, l’avevano adottata quando aveva solo 5 anni e mai le avevano nascosto la verità sulle sue origini e la sua storia. Alla domanda di Rosario sbuffò non rispondendo, mentre invece Felipe faceva il suo ingresso in camera chiedendo alla zia come stesse. «Ed eccoti servito il grande José José… Leo farà Juan Gabriel!» «Ti piace zia? L’ho aiutato con il trucco!» esclamò un’entusiasta Belinda indicando il trucco del fratello maggiore, mentre Miguel ridacchiava osservandolo.

I due bambini avevano entrambi 10 anni e per tutti erano gemelli, mentre anche la Famiglia Quintanilla era a dir poco complessa. Felipe, come Elizabeth, non era figlio naturale dei suo genitori essendo che Josefina, sua madre, lo aveva cresciuto in quanto figlio del suo precedente marito e l’amante.

Si era preso cura di lui fin da neonato amandolo come suo e tale amore era stato sempre contraccambiato e seppur avesse trovato complesso il rapportarsi al suo nuovo patrigno, molto più giovane della madre, aveva finito per amarlo come tale. Anche se aveva dovuto subire in famiglia situazioni bizzarre, come il fatto che il patrigno per un periodo aveva due compagne ufficiali: sua madre e Deborah, da cui ebbe Miguel. Nello stesso periodo la donna morì e sua madre venne violentata dando alla luce Belinda.

Nonostante questo, i tre fratelli e i loro genitori vivevano in armonia, ne avevano passate tante e ne erano usciti più forti e legati che mai. «Che bella idea, giustamente con il make up da Dias de Los Muertos rendete l’idea di questi grandi idoli e leggende che tornano in vita per questa notte così magica!» disse Rosario sorridendo e si voltò per rimirare nello specchio lo sguardo annoiato della figlia. Gli Acero, tra tutte le famiglie, erano quelli che meno ostacolavano l’amicizia tra i ragazzi, seppur Salvador si manteneva sempre all’erta. L’ultima cosa di cui aveva bisogno erano tensioni con i Casillas e i Venegas, che a lui andava più che bene si facessero la guerra a vicenda. Proprio questi entrò nella stanza con in braccio la neonata Sara che piangeva.

Lei era loro figlia naturale e dopo tutto il male che avevano subìto, Elizabeth era contenta di quel dono e anche di essere una sorella maggiore. «Sai che vi dico, rimango a casa e faccio da baby sitter…» «Non se ne parla signorina, ora tu finisci di prepararti e vai a quella festa con i tuoi amici!» la rimproverò la madre raggiungendo il marito e prendendo in braccio la piccola. «Vabbè, se non ha voglia di andare…» «¡Salvador cállate! ¡La chica está de fiesta esta noche!» Il giovane uomo si trovò ad alzare le mani in segno di resa, per poi guardare la figlia come a dirle “ehi io ho provato ad aiutarti” e poi scomparve lasciando i ragazzi in stanza da soli.

Anche Miguel e Belinda erano andati via, mentre Felipe si sedette sul bordo del letto della cugina, che dalla sedia della sua toeletta si voltò per incontrare il suo sguardo scuro. «Sarà divertente…» «Forse è questo il problema!» «Divertirti?» «Illudermi di poterlo fare prima che l’ennesima tragedia mi ricordi che non ci è concesso essere felici!» Felipe scosse violentemente il capo. Aveva un viso allungato, capelli biondi ed il fisico atletico. Molte ragazze gli morivano dietro, ma alla fine non osavano mai avvicinarlo. I loro padri erano tra i finanziatori della scuola, ma non bastava questo a renderli meno temuti. Ufficialmente, la loro famiglia non era agli onori della cronaca come quella di Leo e Luz, la loro era una famiglia per bene, ma forse era proprio la loro unione ed il loro essere sempre sulla difensiva a renderli inavvicinabili.

«Proprio per questo dobbiamo goderci questi momenti… Solo noi sappiamo tutto quello che abbiamo passato ed ancora probabilmente passeremo nella nostra vita… Motivo in più per strappare a questa schifosa realtà un momento di felicità… Fanculo, ce lo deve!» Quelle parole bastarono per far sorridere apertamente Elizabeth che trovò la voglia di prepararsi e seguire i suoi amici in quella notte di magia e divertimento. Leonardo aveva scroccato al padre una delle sue macchine d’epoca e con una Chevrolet Corvette C1 senza tettuccio rossa arrivarono alla festa attirando una frotta di sguardi invidiosi ed eccitati su di loro. Questo al piccolo gruppetto non interessò, mentre entrando nella palestra si guardarono intorno, per nulla sorpresi di come tutto fosse perfettamente allestito. La palestra si era trasformata in un enorme cimitero ove lapidi in polistirolo, ma perfettamente ricreate, spuntavano qua e là con tanto di ciuffetti d’erba e braccia di zombie.

Anche il buffet appariva come un mix mostruoso di punch di sangue, dita mozzate e ragnatele di zucchero filato. Elizabeth era proprio al buffet quando Molly e la sua schiera di oche le si avvicinarono. «E tu da chi diavolo saresti vestita?» le chiese sprezzante osservandola da capo a piedi. Inutile dire che il suo essere vestita da Mean Girls versione zombie, insieme alle sue amiche, era a dir poco scontato. «Jenni Rivera, è una leggenda della musica, ma non mi aspetto che tu la conosca… solo in versione Día de los Muertos» esclamò pacata la ragazza, con una mano sul fianco e lo sguardo ben puntato in quello della cheerleader. «Oh e poi fattelo dire, il biondo platino non ti dona per nulla!» ironizzò con sarcasmo. «Non so chi diavolo sia, ma mi chiedo cosa potevo aspettarmi da una messicana come te… voi e la vostra strana musica…»

Elizabeth scosse il capo ignorandola, non aveva proprio voglia di cadere nelle sue solite e noiose provocazioni. Dunque fece di tutto per ignorarla. Si allungò per prendere un bicchiere e versarsi del punch mentre quella continuava nel suo solito infastidirla. «Potevi vestirti da prostituta… da quel che so sia tua madre naturale che quella adottiva lo erano… sicuramente è un talento di famiglia!» A quel punto, la ragazza non ci vide più e voltandosi le lanciò il punch addosso, decidendo di superarla ed uscire di lì. Se fosse rimasta l’avrebbe presa per i capelli e trascinata per tutta la palestra, ma non aveva la minima voglia di mettersi al centro di uno scandalo. Molly urlò disperata per il suo make up e il travestimento rovinati e lanciò maledizioni contro Elizabeth Acero, promettendo di fargliela pagare.

Nel mentre, suo fratello non aveva potuto fare a meno di sentire cosa aveva detto e corse dietro ad Elizabeth, battendo sul tempo Leonardo, che poco lontano aveva assistito alla scena. Elizabeth era nella zona utilizzata dai ragazzi nella bella stagione per mangiare fuori, camminava tra i tavoli avanti ed indietro tenendosi la testa tra le mani, nervosa. Poi crollò su una delle panche cercando di non piangere, e così facendo inghiottì tutte le lacrime che aveva. Quando una mano si appoggiò sulla sua spalla, d’istinto la discostò furiosa, ma quando vide il volto gentile di Huck si sentì uno schifo. Non si poteva dire che avessero un vero rapporto, ma a differenza di sua sorella, lui si era sempre comportato bene con lei. «S-Scusa io… io non volevo disturbarti, ma… volevo… ecco… s-scusarmi…» disse il ragazzo un po’ in ansia.

Era vestito d’astronauta e teneva il casco sotto braccio. Appariva goffo, con i capelli ricci più scompigliati del solito. Elizabeth sorrise scuotendo il capo e gli fece cenno di sedersi accanto a lei. «Scusarti… e di cosa?» gli chiese genuinamente, un sorriso triste sul volto. «Per Molly» rispose lui prendendo posto al suo fianco. Non poteva dire di esserle amico, ma con tutto ciò che sua sorella faceva, lui si era sempre sentito in dovere di compensare standole vicino ed aiutandola come poteva. Non gli importava quello che si diceva su di lei, di fatto Elizabeth si era sempre comportata bene con lui e, fino a prova contraria, non l’aveva mai vista offendere o far male a qualcuno, anzi… «Non devi!» «Ma è mia sorella e non doveva dirti quelle cose, ha superato il limite e… scusa, non volevo origliare, ma stavo andando al buffet e…»

«Huck non sei lei, dunque non devi scusarti per cose che fa Molly e poi… non ha detto niente di falso!» Concluse Elizabeth facendo spallucce e guardandosi la punta delle scarpe con malinconia. Poco lontano, Leonardo li osservava e con lo sguardo di chi pareva essere appena stato colpito in volto rientrò. «Questo non giustifica tirare in ballo la questione…» La ragazza assentì, non lo guardava e stava facendo una fatica immensa per non piangere, nonostante i suoi occhi stessero diventando sempre più lucidi. A quel punto, Huck non sapeva se stesse peggiorando o meno la situazione stando lì, e nel dubbio si alzò. Ma proprio mentre stava per andarsene, Elizabeth lo prese per mano chiedendogli silenziosamente di rimanere. «Sai non l’ho mai conosciuta… mia madre intendo…» esordì lei, mentre il ragazzo si risedette e la guardò. Non gli dispiaceva essere la spalla su cui poteva piangere ed anzi l’onorava che lei si stesse aprendo con lui. «Non devi raccontarmi nulla se non vuoi…» «Credo che mi farebbe bene che qualcuno, oltre i miei amici, inizi a conoscermi sai?» chiese lei retoricamente.

«Sono sempre così chiusa, perché temo che qualsiasi cosa che possa accadermi di bello, che qualsiasi persona che faccio avvicinare, in un mondo o nell’altro possa finire male… Non so cosa tu sappia di me o cosa tutti a scuola sappiano davvero, ma la verità è che sì… mia mamma era una prostituta, una che lo ha fatto per necessità… che ha perso l’amore della sua vita quando credeva che una come lei non potesse essere amata e che si è poi innamorata di un uomo sbagliato. Mio padre era un pazzo sadico da cui mi ha sempre protetto, la sua vita e i suoi errori lo hanno portato alla morte. E mentre mia mamma si rifaceva una vita come cantante, crescendomi ed innamorandosi di nuovo… è stata uccisa. Il suo nuovo compagno mi ha cresciuto come se fossi sua figlia, ho pochi ricordi di lui, ma Marcelo era buono… purtroppo anche lui è stato ucciso… Mia madre, Aracely, era la migliore amica di Sara Acero, madre di mio padre Salvador. Quando Sara è stata uccisa, mia madre sentendosi da sempre sua zia se ne è presa cura e lui ha contraccambiato tutto quello che lei ha fatto per lui, adottandomi!»

Elizabeth non ci credeva di aver detto quelle cose ad alta voce e a qualcuno che non fosse né la sua famiglia, né il suo circolo ristretto di amici. Le lacrime le solcavano il volto e lei paradossalmente si sentiva leggera come mai si era sentita. Si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, mentre lui con imbarazzo le toccava una mano per poi stringergliela. «Certe cose pensavo di averle sentite solo nei film… in effetti corrono molte voci a scuola su di voi… ma sai Elizabeth non mi è mai importato, sono dell’idea che ognuno ha la propria storia e non è compito di nessuno giudicarla. La tua è tremenda, io al posto tuo credo che sarei già impazzito, nessuna persona dovrebbe vivere certe cose, tanto meno una ragazza dolce e sensibile come te. Non ci conosciamo bene, lo so, ma… ti vedo sai? Riconosco nel tuo atteggiamento schivo e riservato molto di me, anche se a questo punto le mie motivazioni per essere come sono mi paiono sciocchezze al confronto…»

Ammise lui con timidezza abbassando lo sguardo, ma proprio allora la presa di Elizabeth sulla sua mano si fece più forte. «Lo hai detto tu adesso, ognuno conosce la propria storia e nessuno può giudicarla. Non sminuire le tue motivazioni… io di sicuro non lo farò e… grazie… per avermi ascoltato e… aver capito…» Huck sorrise e in quel momento i loro sguardi si incatenarono in modo molto naturale. Nessuno dei due si sarebbe mai aspettato di parlare l’uno con l’altra e tanto meno facendo un discorso del genere, ma ecco che era successo. Nella notte di Halloween e vestiti in un modo improbabile. Forse avrebbero riso se non fosse stato che, senza nemmeno rendersene conto, i loro volti si erano avvicinati e le loro labbra si erano accarezzate. Non era il primo bacio per Elizabeth, ma certamente lo era per Huck.

Il loro contatto fu delicato, appena accennato, fin quando lei si sospinse un poco più verso di lui e si trovarono a baciarsi. Ancora non era un bacio profondo, ma sicuramente di conoscenza. Non sapeva nemmeno come Huck si fosse ritrovato con le sue mani sui fianchi di lei ed Elizabeth invece perse nei suoi capelli ribelli, ma mentre si guardavano, tutto intorno pareva essere cessato. La musica, il vociare degli altri, ogni cosa… Huck arrossì, mentre Elizabeth sorrise mordendosi il labbro inferiore. «Sei un bravo ragazzo Huck, mi spiace non essermi approcciata a te prima…» confidò sincera, mentre lui aveva il cervello in tilt. Era abbastanza sicuro verso chi aveva una cotta, ma anche quello che stava accadendo in quel momento era così naturale da fargli chiedere come aveva fatto a non accorgersi di quanto lei gli piacesse.

«Di solito le ragazze come te non guardano i ragazzi come me» ammise con voce tremante, quasi temesse di scoprire da un momento all’altro che tutto era uno scherzo. «Di solito i ragazzi come te non danno credito alle ragazze come me» rispose lei a tono ridacchiando con lui di questo. Era vero, la maggior parte la consideravano una poco di buono, motivo per cui le ragazze la giudicavano per la sua storia familiare e i ragazzi si aspettavano che fosse una facile. Il profumo legnoso e speziato di Elizabeth colpì le narici di Huck che lo inspirò lentamente, forse dopo tutto quello avrebbe potuto essere solo un sogno e per questo voleva tatuarselo nei ricordi. E, sospinto da un coraggio e spirito d’iniziativa che non credeva di avere, le si avvicinò solo per sussurrarle qualcosa all’orecchio: «Non se esiste un domani per questo, ma ricorda che ci sarà sempre chi sarà pronto ad ascoltarti senza giudicarti.»

💵Story By Cristina Petrini💵

Di nuovo gli occhi di Elizabeth si riempirono di lacrime, perché era così difficile per lei fidarsi, andando oltre la sua cerchia. Ed infatti quando tornò a guardarlo in volto si lasciò andare a lui abbracciandolo forte e posando il viso sulla sua spalla. Huck la strinse e le accarezzò i capelli. Da lontano Molly li osservava scuotendo il capo: avrebbe fatto qualsiasi cosa per allontanarli, non poteva permettere che suo fratello avesse a che fare con quella lì. I due non si erano resi conto che Molly li stava osservando e per fortuna, poco dopo questa si allontanò stizzita. Huck le asciugò una lacrima sul volto e lei si sporse affinché le loro labbra si incontrassero di nuovo, questa volta voleva perdersi in un vero e profondo primo bacio. Le parole hanno il potere di distruggere qualcuno in mille pezzi, ma possono anche rimetterlo insieme, e questo era ciò che Huck aveva fatto. Elizabeth non lo avrebbe dimenticato e seppur il domani rappresentava un mistero, quel momento era un dono e lei non voleva rinunciarci per nessun motivo al mondo.

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Capitolo 6
*** Capitolo V: Échame la Culpa ***


Luz Maria era fin troppo mattiniera e anche quando doveva andare a scuola, si svegliava e si preparava sempre con largo anticipo. Una volta pronta, adorava attendere Leonardo all’esterno, lui passava a prenderla per poter raggiungere assieme l’istituto. Per lei, in effetti, rappresentava un salvataggio in piena regola, che la strappava dall’incubo di vivere nella stessa casa con suo padre. Luz era diventata insofferente e il loro rapporto si stava incrinando sempre di più. Non tollerava il suo modo di fare possessivo e autoritario e l’affetto di padre era un fantasma che non si faceva vivo neppure durante el Día de los Muertos. Proprio per questo, molte volte fuggiva per trovare asilo nella casa della sorella maggiore Rutila, madre del suo “salvatore” Leo. La fuga le dava un po’ di sollievo ma non riusciva ad alleviare del tutto il senso di oppressione che sentiva premere sul petto.

Se chiudeva gli occhi riviveva le urla, le discussioni, vane e insensate. Quanto avrebbe potuto resistere in quelle condizioni? Non lo sapeva, ma temeva per il peggio, ogni giorno che passava. Anche quella mattina, si era rifugiata nel suo angolino preferito del parco che circondava l’immenso ranch paterno. Un portico di legno bianco a forma di semi luna, decorato con piante rampicanti e fiori. Non era facile mantenere rigoglioso il verde del giardino, con la stagione invernale alle porte, ma l’aria era ancora piacevole, sebbene più frizzante e lei adorava sostare di fronte a quel magnifico spettacolo. Afferrò il suo cellulare e scorse i messaggi con estrema curiosità. Negli ultimi giorni, una bizzarra novità era giunta a scuotere l’apatico scorrere della sua vita. Non aveva avuto il coraggio di parlarne a nessuno, neppure con Elizabeth.

Sapeva bene che era qualcosa di assurdo, soprattutto perché si trattava di lei, ma non voleva svegliarsi da quel labile sogno che stava vivendo. Preferiva crogiolarsi ancora un po’, per godersi una normalità che pareva un miraggio, benché molto vivido. Aveva un sorriso accennato sul volto ed era immersa nei suoi pensieri sognanti, quando Leo arrivò di soppiatto e la fece saltare con due subdole dita sui fianchi. «Perché hai quel sorriso ebete sulla faccia, LuzMa?» chiese, con molto poco tatto e senza un briciolo di pentimento per il gesto appena fatto. Luz Maria iniziò a fare dei respiri profondi, per recuperare il fiato e per controllarsi, in modo da non saltare addosso al “nipote” e fargli passare un tremendo quarto d’ora. «Ti giuro che se lo fai di nuovo, ti ritroverai senza denti! Sappilo, sei stato avvisato» disse con una mano ancora sul petto e l’altro dito puntato, minaccioso, verso di lui.

Tecnicamente Leonardo era suo nipote, poiché figlio della sorella, ma per il rapporto che i due avevano, si potevano benissimo considerare dei fratelli. D’altro canto, Luz era più grande soltanto di un anno. «Va bene, zietta! Prometto di non farlo più» e le regalò una linguaccia impertinente, sintomo che non avrebbe affatto mantenuto la sua promessa. Luz Maria non aveva alcuna intenzione di rispondere alla domanda di Leo e pregò che quel tenero siparietto avesse fatto dimenticare al ragazzo quanto aveva notato al suo arrivo. E le sue preghiere furono accolte. «Ascolta un po’, ho appena ricevuto notizie da Nicky, la produzione sarà incrementata nel momento in cui arriverà la nuova fornitura di carta e inchiostro. Dovremo riunirci con gli altri e fare il punto della situazione. Per quanto ci costa, dovremo rivedere i prezzi “al dettaglio” per i nostri clienti. Non possiamo rischiare di rimetterci pure!»

Il suo discorso non faceva una piega e Luz acconsentì alla riunione. Almeno avrebbe avuto un motivo in più per non rincasare presto quella sera. Poi, notò Leo che leggeva un messaggio appena giunto sul suo smartphone ultima generazione, e il suo voltò che si incupiva. «Cosa c’è? Qualcosa non va?» gli chiese preoccupata. «No, no… tutto ok. È Elizabeth, mi ha detto che lei e Felipe ci aspettano prima di entrare a scuola, hanno proposto di fare colazione assieme» disse con sguardo pensieroso. «E cosa ti prende? Per caso non ci vuoi andare? Hai qualche problema con Liz? È dalla festa di Halloween che ti vedo un po’ strano, cupo» andò dritta al punto. Era in ansia per lui, ma era stata “distratta” da mille incombenze e non aveva mai trovato l’occasione per parlargli.

«Sto bene. È che mi stanno succedendo delle cose strane, che non mi aspettavo. Ma tranquilla, le saprò gestire. Sai che sono un ragazzo dalle mille risorse, io!» e un sorriso sghembo apparve di nuovo sul suo viso. «Tu, piuttosto, che fine hai fatto quella sera? A un tratto sei sparita. Non sai quanto Felipe ti abbia cercata, sembrava un pazzo!» concluse divertito. «Ovvio che poi ha fatto pure finta di nulla, quel deficiente.» Luz Maria percepì il petto e le gote avvampare per l’imbarazzo. Si sentì come un topo in trappola, certa che di lì a breve, Leo avrebbe scoperto il suo segreto. Poi, ripensò a Felipe, non credeva che la sua assenza nel gruppo, alla festa, avrebbe fatto così tanto la differenza, per lui… provava una strana sensazione, che non seppe interpretare. «Ma che dici! Non essere esagerato, dai! Devi fare sempre il melodrammatico» tentò di sviare il discorso per non rispondere, di nuovo, e ci riuscì. Con Leo era semplice.

La sua mente era come un vulcano e non riusciva a star dietro a tutti i pensieri esplosivi e irruenti che produceva. «Perché, vorresti dire che tra di voi non c’è del tenero?» proseguì imperterrito sulla scia delle assurdità. Quando pensava a Felipe un piacevole calore le si annidava nel petto, ma credeva si trattasse di affetto, di semplice e puro affetto. Cos’altro avrebbe potuto essere. «Adesso è meglio che andiamo, perché se ti abbandono a te stesso, rischi che cominci anche a farneticare. Sai benissimo che tra me e Felipe non c’è nulla. Siamo molto vicini, ci aiutiamo a vicenda, siamo naufraghi sulla stessa isola, come con te ed Elizabeth. È questa la nostra forza!» pronunciava quelle parole per convincere Leo, ma anche per convincere se stessa e sgusciare fuori dal labirinto di incertezze che stava prendendo il sopravvento.

«Ok, ok, per questa volta ti lascio andare, ma io rimango della mia idea. C’è qualcosa che non mi quadra» e le strizzò un occhio, complice. Si allontanarono dal piccolo cantuccio, che sembrava sospeso nello spazio e nel tempo e si avviarono per iniziare una nuova giornata.

I quattro amici erano seduti a un tavolino del Café vicino alla scuola. Molto spesso si ritrovavano lì a conversare, confrontarsi, discutere. In quell’occasione, però, regnava una strana atmosfera. C’era un leggero strato di imbarazzo e un velo fosco di cose non dette. Ognuno di loro aveva i propri segreti, che non era pronto a rivelare. Elizabeth, Leo, Felipe, Luz ripensavano agli strani eventi occorsi più di una settimana prima alla festa di Halloween e tra una chiacchiera e l’altra, un caffè, un cappuccino e un croissant, era scattato un gioco di sguardi pericoloso, che non si sapeva dove avrebbe portato.

Leo guardava di sottecchi Liz, Felipe faceva lo stesso con LuzMa… Quest’ultima fu la prima a rompere il ghiaccio e far tornare tutti i ragazzi con i piedi per terra. «Basta! Non ce la faccio più a vivere in quel ranch. Devo trovare una soluzione per andarmene…» disse esasperata. Leonardo la guardò preoccupato. Sapeva quanto Aurelio poteva essere insopportabile. Era perfettamente in grado di estinguere ogni alito di libertà e speranza, come un buco nero che attraeva la luce e la inglobava. Non faticava a credere alle parole della ragazza. «Sai che la nostra porta è sempre aperta LuzMa… se ti senti soffocare, non esitare a venire da noi. E non solo per pochi giorni…» specificò infine. «Non capisco perché tuo padre non ti consenta di trasferirti da tua sorella. Alla fine, non stai andando in Europa.» Era Felipe ad aver parlato. Era una sofferenza quasi fisica per lui, percepire il dolore e l’esasperazione dell’amica.

Doveva sopportare una dannata guerra ogni giorno. Pensò che per quanto la sua famiglia fosse anticonvenzionale, in fin dei conti, in casa erano sereni… avrebbe voluto che lo fosse anche lei. La osservò con i suoi occhi di ghiaccio, espresse tutto il suo disappunto, stringendo forte la mascella squadrata. Luz Maria sentì uno strano movimento all’altezza dello stomaco, come uno sfarfallio, e ripensò alle parole di Leo di quella mattina. Scosse il capo, non poteva essere! “Lui prova solo un senso di protezione per me. Nient’altro” tentò di convincersi. Il suo gesto del capo venne ricondotto al discorso che stavano tenendo un istante prima. «Purtroppo, sai bene che mio padre è un maniaco del controllo e un vendicativo. Uscirebbe di testa se sapesse che vado a vivere in maniera fissa con la sua figlia degenere, che lo ha sempre osteggiato e infine tradito. Questa è la sua visione. È già tanto se mi permette di andarla a trovare di tanto in tanto. E questo è uno dei motivi delle nostre liti costanti. Cosa ci posso fare?»

Sapeva di aver fatto una domanda retorica. Nessuno dei suoi amici avrebbe risposto dando una soluzione. Tutti loro era consapevoli che mettersi contro Aurelio Casillas era un suicidio. Felipe sbuffò sonoramente e poi Elizabeth introdusse un altro argomento, più leggero e allegro. Luz Maria gliene fu immensamente grata. Le sorrise e questa le fece un occhiolino complice. Era fortunata ad avere un’amica come Liz al suo fianco. Erano tutti preziosi, ognuno a suo modo, e lei ringraziava Dio ogni giorno, per non dover affrontare da sola l’orda barbarica rappresentata dalle loro strambe famiglie e dai loro loschi affari.

Era un miracolo che fossero arrivati fin lì sani e salvi – di mente e di fisico – nonostante il loro passato, nonostante il fiume di sangue in cui avevano sguazzato fin da bambini e Luz Maria sapeva che il gruppo di cui faceva parte era qualcosa di insostituibile, a cui non avrebbe mai potuto rinunciare… Ma cosa sarebbe accaduto se un nuovo elemento fosse stato inserito in quell'equazione perfetta? Luz si fermò a riflettere e si sentì dannatamente in colpa verso i suoi amici. Per una volta però, avrebbe fatto di testa sua, perché voleva davvero provare a vivere un po’ di normalità. Felipe scrutava ogni espressione enigmatica della ragazza. Temeva gli stesse nascondendo qualcosa, ma non se la sentiva di chiedere apertamente. Una punta di amarezza gli lambì il petto. Era troppo riservato e restio a dare dettagli della sua vita e questo lo portava ad essere più rispettoso della privacy altrui.

Però… quando si trattava di LuzMa… rischiava di perdere la sua proverbiale saggezza. Si morse un labbro per convincersi a non fare domande stupide, ma ogni suo tentativo fu bloccato sul nascere, quando vide la sua amica sorridere allo schermo del cellulare. «Mi dispiace ragazzi, devo andare. Ho una cosa da fare prima delle lezioni.» Era impacciata, ma il suo volto tradiva una certa eccitazione. Felipe notò le guance arrossate e il suo cuore perse un battito. Un sentimento infido come la gelosia gli si insinuò sotto pelle e tentò di consumare il suo buon senso. «Dove cred…» L’intervento di Leo fu interrotto dai movimenti lesti della ragazza, che aveva raccolto le sue cose e si era allontanata, dopo averli salutati con una mano. Luz Maria sentiva l’adrenalina scorrerle nelle vene, ignara e curiosa di ciò che il futuro le avrebbe riservato.

Henry Bass era il classico dandy con il sorriso da stronzo. Madre Natura lo aveva dotato di un volto scolpito e un corpo marmoreo ma snello. Capelli chiari e pelle come la neve, attirava e affascinava un lungo stuolo di ammiratrici, come se fosse un perfido pifferaio magico, ben lontano dal personaggio puro e buono della fiaba. Le usava e poi le gettava via come fossero immondizia. Nessuna era mai alla sua altezza. Solo alcune poche elette avevano avuto l’onore di entrare nelle sue grazie, ma solo per scaldare il suo letto un po’ più a lungo. L’unico scopo che lo muoveva era soddisfare il suo enorme ego. Era ricco, bello e intelligente. Cos’altro poteva desiderare? Henry si trovava di fronte al suo armadietto, al centro della fila di armadietti di metallo scintillante. Semi nascosto dallo sportello aperto era intento a inviare un messaggio, quando venne interrotto da una voce melodiosa e misurata.

Crystal era la migliore amica di Henry. Rappresentava ciò che nessuno avrebbe mai creduto possibile: quel ragazzo, strafottente e arrogante era capace di avere un rapporto alla pari con il “gentil sesso”, senza implicazioni o secondi fini. Erano entrambi figli di migliori amiche. Le loro madri si conoscevano fin dal Liceo e ancora oggi erano inseparabili. La loro forte amicizia era seguita in maniera del tutto naturale. Cresciuti insieme quasi come se fossero fratelli. Crystal era bellissima ma non se ne faceva un vanto, era ricchissima ma non si affannava a sottolinearlo. Era la nemesi che si contrapponeva perfettamente al suo amico, sebbene non disprezzasse l’eleganza e la vita agiata. Tutt’altro. «Stai dietro ancora a quella lì? Non ti sei stancato del suo bel faccino?» disse con voce ironica, ma stranita al tempo stesso. Otto giorni di corteggiamento galante erano fin troppi per i suoi standard di conquistatore seriale.

Crystal provava in ogni modo a contenere la personalità esuberante e superba di Henry, ma spesso non le riusciva ed era costretta a rimanere spettatrice delle stragi di cuori che perpetrava. In quell’occasione, ad esempio, era fortemente contraria e non ne aveva fatto segreto. «Tranquilla, sono arrivato al mio scopo. È stata un osso duro, ma credo di averla fatta cadere ai miei piedi» rispose con fare canzonatorio. Crystal era preoccupata. La ragazza non era “una qualsiasi”. «Te l’ho detto fin dall’inizio e te lo ripeto. Luz Maria Casillas non è una persona con cui puoi fare i tuoi giochetti. Sai benissimo di chi è figlia e di chi si circonda.» Non sapeva come avrebbe potuto convincerlo a lasciar perdere. Quando si incaponiva, diventava davvero irremovibile. Henry guardò l’amica con un sorrisetto derisorio.

«Credi che non ci abbia pensato? Non c’è nessun problema. La ragazzina ormai è cotta e quando darò la stoccata finale, si sentirà troppo umiliata e non correrà da papino a piangere. Nel modo in cui mi ha resistito all’inizio, ho notato una certa vena d’orgoglio. Fidati!» Crystal ancora non era persuasa e provò a replicare… ma lui la interruppe. «Un'altra prova a sostegno è che ha mantenuto il segreto con tutta la sua cricca. Non si è confidata neppure con il gorilla protettore che si porta sempre dietro. Nessuno sa di me. Ed è giunto il momento di scoprire le carte.» La ragazza vide un sorriso vagamente perfido sulle sue labbra scolpite ed ebbe un brivido di paura. Sapeva che Luz Maria ne sarebbe uscita con il cuore in frantumi e lei sarebbe rimasta a guardare, come sempre. D’altronde, non era la protettrice di donzelle in pericolo. Per lei erano solo delle perfette sconosciute…

«Quando metterai fine a questa storia assurda?» chiese seccata. Era stanca di impelagarsi in quei suoi sporchi giochi. «Quando ci siamo visti stamattina, in biblioteca, le ho dato appuntamento sotto gli spalti in palestra. E in questo istante le ho confermato l’orario. È tra venti minuti. Io mi recherò lì tra pochissimo. Mi voglio assicurare che sia tutto perfetto prima del suo arrivo. Le persone importanti vanno ricevute in grande stile…» e rise di nuovo, incurante della sua infausta arroganza. Crystal prese ciò che doveva dal suo armadietto, vicino a quello dell’amico e poi si eclissò, dopo aver dato l’ultimo avvertimento. «Stai esagerando Henry. Spero solo che nessuno del suo gruppo lo venga a scoprire, altrimenti, stavolta, sarai in guai davvero grossi. E non parliamo solo di padri o di fratelli incazzati. Quei tipi non scherzano.»

Il caso o la fortuna volle che proprio un ragazzo della cricca di LuzMa fosse appena dietro l’angolo e avesse ascoltato tutta la conversazione tra i due amici. Felipe era immobile, con la schiena schiacciata alla parete e i pugni chiusi. Le nocche erano bianche e i denti quasi stridevano per la collera. Una sensazione di calore lo avvolse e tentò di controllarsi. Fosse stato per lui, avrebbe dato di matto in quello stesso istante e avrebbe distrutto il bel faccino di Henry. Ma non era il momento. Sapeva bene cosa doveva fare. Era tutto chiaro nella sua testa. Senza rivelare la sua presenza si allontanò e si diresse verso il punto di incontro stabilito per Luz e quel viscido. Durante il tragitto ricordò, come se fosse un film, l’evoluzione che aveva subìto.

Fin da piccolo era sempre stato molto timido e aveva dovuto sopportare ogni sorta di violenza che circondava la sua intera famiglia, fino a che la sua fragile psiche di adolescente si era incrinata, avendo un crollo molto grave. Ricordò l’adrenalina e l’esasperazione che aveva provato quando aveva tentato di togliersi la vita. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per porre fine al suo dolore di ragazzo incompreso e distrutto. Da quella crisi, però, era venuto fuori più forte e più consapevole delle sue capacità. Aveva affinato la sua mente, diventando razionale e calcolatore. A volte, però, si faceva cogliere da una profonda ira che lo divorava dall’interno. Soprattutto quando erano coinvolte persone a lui care, persone che amava… lasciava uscire la belva silenziosa che era in lui e le consentiva di attaccare senza pietà. Non gli sarebbe sfuggito. Nessuno avrebbe toccato LuzMa. Nessuno le avrebbe fatto del male.

Felipe riusciva a guardare con chiarezza la scena che gli si parava dinnanzi, mentre se ne stava acquattato in un cantuccio nascosto dietro agli spalti. Henry stava sistemando con cura delle candele su dei sostegni appositi. A terra vi erano delle coperte riposte l’una sopra l’altra. Era un posticino riservato, invisibile dalla parte anteriore e all’ora di pranzo, la palestra era deserta. Felipe represse un conato di vomito. Henry aveva organizzato tutto alla perfezione per rubare l’innocenza di LuzMa. Avrebbe voluto attendere l’arrivo della sua amica per poter smascherare la serpe in sua presenza, ma la furia cieca fu una pessima consigliera: quella maledetta messinscena non sarebbe durata un secondo di più. Si avvicinò a passo di carica, rivelando la sua presenza. Afferrò Henry per il colletto della costosa giacca di pelle che indossava e lo trascinò all’indietro. Questi, preso alla sprovvista, lanciò un urletto ridicolo, che fece sorridere Felipe.

Henry era adesso steso sul pavimento, il ragazzo poggiò un ginocchio sul suo petto e spinse con calcolata forza. Voleva farlo soffrire e ci sarebbe riuscito… lo afferrò per i capelli e i suoi occhi chiarissimi diventarono due laghi ghiacciati. Freddi e spietati. «Hai sbagliato persona, viscido senza speranze!» e gli tirò un pugno in pieno viso, rompendogli il naso, che sprizzò sangue sul pavimento e sulla maglietta di Felipe. «Non capisco… di chi stai parlando? Non so a cosa ti riferisci…» balbettava senza ritegno, vittima di un vivido terrore. «Vorresti fare il finto tonto? Mi conosci, vero? Il gorilla protettore… Sai chi sono…» L’ultima non era una domanda, ma un dato di fatto. Non era solito usare il suo nome per terrorizzare e sopraffare, infatti non era la sua famiglia che rappresentava in quel momento, ma se stesso. Era lui il nemico. E sferrò un altro pugno che sfregiò il sopracciglio del poveretto.

«Sto rovinando la tua preziosa faccia. Come farai ad ammaliare e distruggere la vita di povere ragazze innocenti? Maledetto bastardo!» Un altro pugno e un altro ancora. «Sì, so chi sei… ma io non ho cattive intenzioni con Luz...» La sua frase venne bloccata da un altro colpo a sorpresa. «Non mentire spudoratamente… chi vuoi che ti creda? Sei un dongiovanni seriale che ha spezzato centinaia di cuori gentili! Ma questa volta hai scelto male, molto male… hai toccato qualcuno a me caro. E la devi pagare. Spero che ti sarà di lezione» Un montante a un fianco mozzò ancora di più il respiro di Henry. Un urlò disperato ruppe l’atmosfera terrificante che si era creata e che velava gli occhi di entrambi i ragazzi, ognuno per motivi diversi. Felipe si fermò di colpo dall’ennesima raffica furiosa e si voltò con uno scatto meccanico.

Luz Maria era in piedi alle loro spalle che assisteva a una scena raccapricciante. Felipe che massacrava senza pietà il ragazzo di cui si era invaghita. Il suo squarcio di normalità. «Fermati! Cosa stai facendo! Basta! Lascialo!» urlò mentre si avvicinava concitata. Guardò il sangue sparso intorno, che macchiava gli abiti e il volto dei due. Sempre violenza. Ancora violenza. Di nuovo violenza. Non ne poteva più, ogni angolo della sua esistenza era impregnata di sangue e risse. Felipe si rese conto della disperazione dell’amica e si alzò. La prese per le spalle per tentare di calmarla, ma lei si divincolò con forza e lo evitò. Si precipitò al fianco di Henry e gli prese il volto insanguinato tra le mani. «Oddio, Henry, come stai?» Era una domanda inutile perché le sue condizioni erano, con ogni evidenza, pessime, anche se non gravissime.

Felipe sapeva bene come picchiare e non avrebbe creato danni permanenti, anche se sperava in qualche cicatrice, a ricordargli per sempre il dolore che aveva causato alle sue “vittime”. Felipe non sopportava di vedere quel ridicolo siparietto. Afferrò di nuovo per le spalle LuzMa e la trascinò via. «Tranquilla! Sopravvivrà, ahimè. Non ce ne libereremo per sempre. Adesso vieni con me.» Lei scalciò e tentò di divincolarsi, ma le braccia forti dell’amico glielo impedirono. Dopo vari tentativi si rassegnò a seguirlo e si trincerò dietro un mutismo ostinato, fino a che giunsero fuori dalla palestra e l’aria novembrina sferzò i loro visi. Felipe si diede una rapida pulita con la manica lunga del suo maglioncino leggero con scollo a V e lei, a quel gesto, parve recuperare tutta la sua collera.

«Perché? Dimmi perché lo hai aggredito? Perché non capisci che lui rappresentava per me il mio angolo sicuro, di normalità!?» E pianse tutte le sue lacrime, mentre gli scaricava una serie di colpi sul petto, disperata. Felipe le bloccò i polsi e rispose, colto da una foga improvvisa. «Benissimo! Odiami! Dammi la colpa per quello che è accaduto. Ritienimi il responsabile della tua infelicità, ma non mi pento di ciò che ho fatto! Quello era solo un farabutto, non la normalità che tanto brami. Era l’ennesimo brutto ceffo passato nella tua vita.» Felipe avrebbe dovuto raccontarle la verità, ma non voleva ferirla. «Non ti credo! Ti stai inventando tutto. Lui non è cattivo, lui non ha alle spalle genitori assassini, familiari delinquenti, spacciatori, lui…» aveva ripreso a dimenarsi, urlando. «Vuoi dire che lui non è come tuo padre, come tuo cognato, come… me?» disse infine, gli occhi tristi, ma ancora infervorati, mentre tentava di contenere la disperazione dell’amica.

❤️‍🩹Story By Roby Y. Calaudi❤️‍🩹

«No, tu… cosa dici, sai bene a cosa mi riferisco.» LuzMa si bloccò all’improvviso. Era in difficoltà. Non credeva certo quelle cose tremende su di lui. “Era il suo Felipe” si disse con il cuore gonfio… il “suo”? Si sorprese di quel pensiero confortante. Come se avesse ritrovato casa nel mezzo di una tempesta, come se fosse avvolta da una calda coperta, quando fuori c’era la neve. «Non sei colpevole di essere nata in questa vita fatta solo di morte e soprusi, ma sono sincero, se ti avessi lasciato alla mercé di quel maledetto, adesso saresti in lacrime, ma per motivi ben diversi. Non ti preoccupare, adesso mi ritieni responsabile della fine di un sogno. Fallo, ti prego, ma domani mi ringrazierai. Ti renderai conto di aver vissuto solo un’illusione incantata e che la realtà non è poi così male se ti guardi bene intorno.» Felipe fissò intensamente la ragazza e le trasmise tutta la sofferenza che stava provando. «Henry voleva solo usarti e poi buttarti via… No, non mi stava affatto bene.»

LuzMa scoppiò in un pianto infinito. Sfilò i polsi dalla stretta di Felipe e gli prese il viso tra le mani. «Sì, Felipe. Sei colpevole di aver distrutto una stupida fantasia! Mi ero illusa, solo illusa di poter vivere una banale esperienza della mia età, ma mi sbagliavo. È tutto diverso… Viviamo in un mondo di schifo e non solo per colpa della mia famiglia o della tua. Sono tutti marci… marci dent…» Le sue parole disfattiste furono interrotte da un bacio disperato, senza dolcezza. Impellente, senza tenerezza.

Felipe aveva ricambiato il gesto di accogliere il suo volto tra le mani e le aveva regalato un po’ di calore, un briciolo del suo cuore. Dopo attimi che parvero infiniti e dopo aver assaggiato uno le labbra dell’altro, si staccarono. Luz Maria sentì come se le mancasse l’ossigeno. Una nuova consapevolezza si fece largo nel suo animo. Felipe era importante per lei, troppo importante. Aveva sempre pensato che lui la considerasse come una sorella e che volesse proteggerla, ma quel bacio improvviso aveva cambiato tutto, aprendole, finalmente gli occhi. «Non perdere la speranza LuzMa. Siamo noi gli artefici del nostro destino. Non dobbiamo rassegnarci a subire… possiamo e dobbiamo scegliere ciò che è meglio per noi. Sempre! Ce la possiamo fare!» La ragazza, con ancora le ciglia umide di lacrime, lo abbracciò forte fino a fondersi con il suo petto e affondò il viso nell’incavo della spalla. Potevano tirare un sospiro di sollievo perché sapevano di aver trovato un alleato inestimabile, vitale l’uno nell’altra. E insieme avrebbero potuto affrontare il mondo intero.

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Capitolo 7
*** Capitolo VI: Robarte Un Beso ***


Era un pomeriggio di metà novembre a Cedar Springs nel Texas. In un'aula vuota al secondo piano della Oliver M. Berry High School, due ragazze erano sedute alla cattedra, davanti a una tazza di caffè e a dei quaderni. «Siamo noi gli artefici del nostro destino. Non dobbiamo rassegnarci a subire», borbottò all'improvviso Georgina Ford, dopo essersi alzata e avvicinata alla finestra, lasciando vagare lo sguardo sul campo da football, dove le cheerleader, con la loro divisa verde e gialla stavano provando delle coreografie. «Pianeta Terra chiama Georgina. Non so cosa tu stia pensando di fare, ma voglio metterti in guardia da Molly e dalle sue seguaci. Portano solo guai. Lo sai bene. Le conosci anche tu», Bree Witter sbuffò, avvicinandosi alla sua migliore amica. Il suo sguardo si soffermò al di là del vetro, sulle foglie gialle che svolazzavano nell'aria per poi posarsi a terra.

Pensò che sarebbe stato tutto più facile se Georgina si fosse concentrata su quel meraviglioso paesaggio autunnale, invece che su quelle ragazze, che erano solo una fonte inesauribile di guai. Infatti la loro attenzione avrebbe dovuto focalizzarsi su ciò che le aveva costrette a trascorrere il lunedì pomeriggio in quell'aula vuota. Il Ringraziamento era alle porte e il padre di Bree, Pacey Witter, agente di borsa e proprietario del ristorante “The Icehouse”, aveva organizzato una giornata per i più bisognosi, che si sarebbe celebrata proprio durante il Thanksgiving nel locale di famiglia. Aveva coinvolto anche la preside del liceo, che aveva chiesto al Comitato Organizzativo di cui Bree era un membro di una certa rilevanza, di dare vita a una raccolta di abiti e oggetti usati e di coinvolgere gli studenti interessanti, che avrebbero potuto presenziare all'evento, servendo l'ottimo cibo, preparato dallo stesso Witter, a tutte quelle persone che non potevano permettersi tre pasti caldi al giorno.

La riunione era appena terminata e Bree avrebbe voluto discutere con Georgina di alcuni dettagli, ma aveva dovuto fare i conti con il cuore dell'amica che a quanto pare era stato messo alla prova dall'allenamento delle cheerleaders. «Non sono una codarda, io» Il tono aggressivo usato da Georgina, che sembrava leggerle la mente, spaventò la Witter. Perché non capiva che lei desiderava solo proteggerla? «Sono preoccupata per te. Conosco quelle streghe delle amiche di Molly. Molte di loro sono omofobe. Ti farebbero a pezzi e forse la prima a calpestare i tuoi sentimenti potrebbe essere proprio la tua amata. A proposito lei chi è? Posso conoscere la sua identità?» «Non sono un'idiota e non è compito tuo proteggermi»

«Vuoi forse finire immischiata in qualche rissa con le cheerleader e rischiare di perdere l'anno? Sai bene come funzionano le cose qui. Non so chi sia la fortunata. Colei che ti ha rubato il cuore. Una cosa, però, la so. Rischi di metterti nei guai», Bree stava insistendo, aveva afferrato le spalle della compagna per costringere i suoi occhi blu a non sfuggire al proprio sguardo. Perché Georgina era così testarda? Non aveva fatto, però, i conti con la Ford, che con una forza inaspettata si staccò dalla sua amica, si avvicinò alla cattedra e raccolse le sue cose, in preda a un'ira che in tanti anni non aveva mai riversato contro Bree. Giunta davanti alla porta, prima di uscire nel corridoio ormai deserto, Georgina si voltò verso la Witter. «Parli così solo per colpa di Henry. Perché con lui è finita. Sei gelosa, Bree» Poi sparì, mentre il cuore della sua migliore amica si frantumava.

Due giorni. Erano passati due giorni da quando lei e Georgina avevano litigato. Dopo aver chiuso con forza la porta di quell'aula la Ford aveva evitato la sua migliore amica, che ora rimuginava sull'accaduto. Per parlare con Georgina sarebbe bastato attraversare la strada e bussare a una porta. Erano vicine di casa, abitavano entrambe nell'esclusivo quartiere di Rockport. Non riusciva a trovare, però, il coraggio per affrontarla. La verità era che la sua migliore amica le mancava, terribilmente. Le mancava occupare lo stesso tavolo in mensa. Le mancava prendere in giro insieme a Georgina il cibo terribile che la signorina Bonn, la cuoca della Oliver M. Berry, propinava agli ignari studenti. Le mancava dividere con la sua migliore amica il pranzo che Samuel, lo chef del “The Icehouse”, preparava per lei. A volte si aggregavano anche Andrea Antinori e Colin Jane. I suoi amici.

Ora le restava solo la giovane italiana che si era trasferita da loro a settembre. Andrea non faceva domande, ma Bree aveva capito che stava morendo dalla curiosità di scoprire che cosa fosse accaduto all'indistruttibile duo Witter - Ford. Parlarne con l'amica, però, avrebbe significato tradire Georgina e lei non poteva farlo. Proprio quando la ragazza stava per afferrare il cellulare per mandare un messaggio a quella testarda, Pacey Witter entrò nella stanza. Era ancora un uomo affascinante. Tra la chioma nera e corta di tanto in tanto si notava qualche capello bianco, ma gli occhi erano vivi e birichini come quando aveva diciassette anni ed era riuscito a conquistare il cuore della seria e diligente Joey Potter, sua madre. Era stata colpa dei genitori se aveva sempre creduto nel principe azzurro e nel matrimonio perfetto. Forse se fosse stata più cinica, il loro vicino, Henry Bass non sarebbe riuscito a prendersi gioco di lei.

Ed era anche colpa del famoso regista Dawson Leery, il migliore amico dei suoi genitori, l'ex fidanzato di sua madre e il padrino della stessa Bree. Era stato proprio lui a creare una serie tv ispirata alla storia di Pacey, di Joey e dei loro amici, facendole nutrire delle alte aspettative sull'amore. Avrebbe dovuto denunciarlo, lui e le sue battute a effetto tipo “Non è la vita il contrario della morte. Il contrario della morte è la nascita”. Come lo zio Dawson anche Bree amava scrivere. Magari un giorno sarebbe diventata famosa grazie a un romanzo sulla sua disavventura con quel pallone gonfiato di Bass. Suo padre la fece tornare alla realtà: «Ho prestato alla mamma la tua macchina, Scricciolo. Doveva correre a lavoro per un'emergenza. Anche io sto uscendo. Ho un appuntamento fuori città con un fornitore» annunciò. Non diede il tempo alla ragazza di ribattere. «Ho parlato con Patrick. Passerà a prenderti Colin. Anche lui è di turno al “The Icehouse”» «Va bene, papino. Non preoccuparti per me», Bree cercò di non fare notare al padre la malinconia che albergava in lei da un po'. Dopo averle dato un bacio in fronte, Pacey Witter si alzò, lasciando la figlia sola.

Georgina Ford entrò nella sua stanza, abbandonò la borsa sulla poltrona e poi si gettò sul letto, seppellendo il volto nel cuscino. Avrebbe dovuto dare ascolto a Bree e si sarebbe risparmiata quel dolore e la relativa umiliazione. “Mi piaci”, aveva rivelato quel pomeriggio alla ragazza di cui si era innamorata, mentre il cuore le batteva forte. La cheerleader allora era scoppiata in una fragorosa risata e le aveva ripetuto quelle parole offensive che ora si ripetevano in loop nella sua mente. Come sarebbe riuscita a dimenticarla?

“Sveglia, Principessa! Tutto il mio impegno per portarti a letto si è rivelato una fatica sprecata. Io sono Henry Bass e mi basta schioccare le dita per trovarne una migliore di te con cui divertirmi tra le lenzuola” Le parole di quel seduttore da quattro soldi rimbombavano nella testa di Colin Jane, mentre stava colpendo con forza il sacco da boxe che da qualche settimana faceva parte dell'arredamento della sua stanza da letto. Doveva diventare più forte. Doveva proteggere Bree e non fare più la figura del debole quando quel damerino di Bass offendeva la ragazza che gli faceva battere il cuore. Voleva difendere Bree usando i pugni come aveva fatto qualche giorno prima anche Felipe. Era così impegnato a colpire e a schivare il sacco da non rendersi conto che Patrick, suo padre, il famoso Mentalista che collaborava con le autorità, era entrato nella stanza.

«Figliolo, potresti donarmi un po' di attenzione. I tuoi pensieri ultimamente affollano la mia mente. È così difficile gestite voi adolescenti», urlò l'uomo afferrando il sacco. Colin invitò il padre a sedersi con lui sul letto e con un cenno del capo lo esortò a parlare. «Mi ha telefonato Pacey Witter. Joey ha preso in prestito l'auto di Bree e toccherà a te darle un passaggio fino al locale». Davanti al silenzio imbarazzato del figlio, Patrick prosegui: «Colin, riesco a leggerti dentro. Però al contrario di me, Bree non può nemmeno lontanamente immaginare quello che provi. Se prima di farti avanti con lei, il tuo desiderio è quello di trasformarti in Rocky Balboa, forse l'attesa potrebbe rivelarsi eterna. Non tutti i ragazzi che incontrerà saranno degli idioti come quel Bass. Potrebbero portartela via prima che tu riesca a potenziare la muscolatura» Quando l'uomo uscì dalla stanza, Colin non torno al suo sacco, ma si sdraiò sul letto. Suo padre aveva ragione. Avrebbe chiarito ogni cosa con Bree.

Colin stava per arrivare e poi avrebbero raggiunto insieme il locale dei Witter… Il pensiero di Colin era per Bree una coltellata. Erano sempre stati molto amici sin dalle scuole elementari, tanto tempo prima che Georgina si trasferisse a Cedar Springs. All'inizio c'erano stati solo loro due. Avevano trascorso le loro estati a giocare nella piscina dei Witter. L'anno precedente avevano persino deciso di lavorare insieme come camerieri al “The Icehouse”. Erano stati inseparabili fino a quel drammatico giorno in cui Henry Bass aveva mostrato a Bree il suo vero volto. L'ex fidanzato le aveva rivolto la parola per la prima volta allo Yacht Club, dove Joey lavorava come responsabile Pr. Durante una festa, la giovane era riuscita a conquistare le attenzioni del dandy della Upper East Side e si era sentita come la principessa di una delle serie televisive dirette dallo zio Dawson.

Avrebbe fatto di tutto per Henry, anche donargli la sua verginità. Bree ringraziò il cielo per non aver commesso un simile errore. Quel dannato giorno in cui tutto era precipitato come un castello di carte, Henry era arrivato al “The Icehouse” nel tardo pomeriggio, come faceva spesso da quando aveva puntato Bree, per mangiare un hamburger e per lusingare la fidanzatina con dei complimenti degni di un dongiovanni che sapeva come conquistare delle ragazze di provincia. Quel giorno, però, mentre Bree era in cucina per spiegare allo chef i desideri di una cliente, le urla provenienti dalla sala l'avevano colpita. Si era precipitata fuori, seguita da Samuel. Non c'era più nessuna traccia di eleganza in Henry mentre prendeva a pugni Colin.

«Idiota, hai idea di quanto costi questa camicia? Per risarcirmi quel fenomeno da baraccone di tuo padre dovrebbe lavorare un anno intero. Pezzente» mentre ascoltava Bass pronunciare quelle parole, Bree impallidì. Il suo amico d'infanzia aveva per errore versato della salsa sulla camicia di quel damerino, ma la violenza e l'arroganza di Henry non potevano essere giustificate in alcun modo. Dopo aver controllato lo stato dell'occhio di Colin, che sarebbe sicuramente diventato nero, Bree si era avvicinata a Henry, che era stato immobilizzato da Samuel. «I soldi non determinano il valore di una persona e tu ne sei l'esempio. Vergognati» la Witter si accorse di aver iniziato a urlare. Il tono di voce di Bass invece era di nuovo calmo e carico di disprezzo. «Non accetto di essere offeso da una come te. Sveglia, Principessa! Tutto il mio impegno per portarti a letto si è rivelato una fatica sprecata. Io sono Henry Bass e mi basta schioccare le dita per trovarne una migliore di te con cui divertirmi tra le lenzuola»

ʟᴀsᴄɪᴀᴍɪ ʀᴜʙᴀʀᴛɪ ᴜɴ ʙᴀᴄɪᴏ ᴄʜᴇ ᴍɪ ᴀʀʀɪᴠɪ ғɪɴᴏ ᴀʟʟ'ᴀɴɪᴍᴀ, ᴄᴏᴍᴇ ᴜɴ ʟᴇɴᴛᴏ ᴅɪ ǫᴜᴇʟʟɪ ᴠᴇᴄᴄʜɪ ᴄʜᴇ ᴄɪ ᴘɪᴀᴄᴇᴠᴀɴᴏ. ʟᴏ sᴏ ᴄʜᴇ sᴇɴᴛɪ ʟᴇ ғᴀʀғᴀʟʟᴇ ɴᴇʟʟᴏ sᴛᴏᴍᴀᴄᴏ, ʟᴇ sᴇɴᴛᴏ ᴀɴᴄʜᴇ ɪᴏ. ʟᴀsᴄɪᴀᴍɪ ʀᴜʙᴀʀᴛɪ ᴜɴ ʙᴀᴄɪᴏ ᴄʜᴇ ᴛɪ ғᴀᴄᴄɪᴀ ɪɴɴᴀᴍᴏʀᴀʀᴇ ᴇ ɴᴏɴ ᴀɴᴅᴀʀᴇ ᴘɪᴜ̀ ᴠɪᴀ. Colin pensò che il testo di “Robarte un beso” fosse perfetto per esprimere i sentimenti che quella sera rischiavano di scoppiare nel suo petto. Il pensiero di come avrebbe fatto a trovare le parole lo avevano tormentato quando si era recato a casa dei Witter per dare quel famoso passaggio a Bree e non lo aveva abbandonato per il resto della serata, quando aveva sbagliato un'ordinazione dopo l'altra, sotto lo sguardo triste e preoccupato dell'amica. Colin Jane era un ragazzo timido e riservato. Non era capace di dichiarare il suo amore senza balbettare o arrossire. La soluzione al suo problema era arrivata mentre serviva una fetta di sacher a una cliente abituale.

Aveva deciso che si sarebbe affidato alla musica. Ora che il “The Icehouse” era chiuso e che erano rimasti solo lui e Bree a sistemare i tavoli, poteva tentare il tutto per tutto. Per questo motivo aveva selezionato proprio quella canzone. Aveva afferrato la mano di Bree e l'aveva trascinata al centro della sala, stringendola a sé. La giovane non lo respinse, anzi… Lei si accoccolò tra le sue braccia, appoggiando l'orecchio sul petto di Colin, proprio all'altezza del cuore. «Come batte forte!», sussurrò la Witter. «Mi piaci, Bree. Credo di essermi innamorato di te» La ragazza alzò la testa e per un attimo i loro sguardi si catturarono a vicenda come attratti da una calamita. Le labbra seguirono l'esempio degli occhi e si unirono in un bacio che divenne sempre più appassionato.

Era sera e mancava poco all'inizio della parata che si svolgeva ogni anno a Cedar Springs in occasione del Giorno del Ringraziamento. Georgina scorse Bree Witter mentre si sistemava il vestito da dama del '700 che le avevano assegnato gli organizzatori. Presto sarebbe salita sul carro. La Ford non aveva più rivolto la parola alla sua migliore amica dal giorno del loro litigio. Avrebbe voluto starle vicino e domandarle della relazione con Colin, che ormai faceva coppia fissa con Bree da qualche giorno. Desiderava chiederle scusa per le parole crudeli che le aveva rivolto. L'aveva osservata tutto il giorno, mentre servivano i pasti ai più bisognosi al “The Icehouse”. Non si era, però, avvicinata. Il suo stupido orgoglio glielo aveva impedito, ma aveva deciso di rimediare. Ora o mai più. Georgina raggiunse Bree, facendola sobbalzare. «Riescono sempre a incastrarti e a convincerti a salire su uno di quei dannati carri», affermò tesa. Come avrebbe reagito la sua migliore amica? Le avrebbe chiesto di lasciarla sola?

🍁Story By Silvia Bucchi🍁

«Se non altro quest'anno non mi hanno costretto a vestirmi da aragosta» Bree sorrise. Quanto le erano mancati i sorrisi della sua migliore amica. «Mi dispiace. Avevi ragione su tutta la linea. Non penso davvero tutte le cattiverie che ti ho riversato addosso», sussurrò Georgina. «Volevo solo proteggerti. Conosco bene quante sofferenze hanno patito lo zio Doug e il suo compagno Jack. I bigotti e gli omofobi hanno reso un inferno prima la loro vita e poi anche quella di mia cugina Amy. Non permetterò a nessuno di fare del male alla mia migliore amica» Bree era di nuovo al suo fianco dove sarebbe rimasta per sempre. Georgina la strinse in un forte abbraccio e poi le sussurrò in un orecchio: «Ora ti lascio salire su quel dannato carro. Poi, però, ti rapirò e sarai costretta a raccontarmi tutti i dettagli della tua appassionata storia d'amore con Colin» Osservò Bree allontanarsi per prendere posizione. La parata stava per iniziare. La loro amicizia era preziosa e lei non avrebbe più fatto nulla per metterla in pericolo.

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Capitolo 8
*** Capitolo VII: Me Muero ***


Mancavano dieci giorni al compleanno di Mileva e Huck ancora non sapeva cosa regalarle. Non aveva idee, zero, tabula rasa dalla sera di Halloween e dalla sua chiacchierata con Elizabeth Acero. Dallo strano bacio che si erano scambiati senza quasi accorgersene. Non aveva ancora cos’era successo neppure a Mileva, anche se era la sua migliore amica e con lei parlava sempre di tutto. Solo che quello… quello era qualcosa per cui non riusciva ad aprirsi e gli dispiaceva. Avrebbe voluto dirglielo, tanto, tuttavia si sentiva sulle spine al pensiero di ciò che avrebbe potuto rispondergli. Se fosse stata felice, o se invece si fosse arrabbiata con lui. Perché poi? Un altro punto a sfavore del raccontarle ciò che era successo erano le confidenze di Elizabeth. Si era aperta dopo le parole orribili di sua sorella Molly e rivelarne solo una parte a qualcun altro lo sentiva come un tradimento.

Perciò si era tenuto dentro tutto, come sempre. Anche perché Mileva era impegnata a pensare ad altro. «I trogloditi erano più intelligenti di certe persone» la sentì dire, lo sguardo puntato sulla sua bibita mentre aspettavano seduti a uno dei tavolini della Coffee House nel centro di Cedar Springs. «Il rapporto tra conoscenze e abilità era effettivamente più alto rispetto a quello moderno» ironizzò Huck, la tensione dell’attesa che si tagliava con un dito. Non erano contenti di essere lì, ma Molly li aveva incastrati per bene. Si erano ritrovati nel comitato per l’organizzazione del ballo d’inverno perché Mileva l’aveva vista come un’occasione per conoscere meglio Andrea, la cotta che diventava sempre più evidente, almeno per Huck, che la conosceva meglio di chiunque altro.

Quello che nessuno aveva previsto era che sarebbero finiti in gruppo anche con il rivale della sua amica: Christopher Parker, il troglodita che da settimane tampinava la ragazza per chiederle di uscire. Non potevano essere più diversi l’uno dall’altro e adesso che a scuola era girata la voce di ciò che era successo tra una delle cheerleader e Georgina Ford, la dichiarazione finita come presa in giro da parte del gruppo di sua sorella, non sarebbe stato facile fare quel lavoro di gruppo insieme. Anche perché si trattava di scegliere un tema per il ballo, una gara tra loro quattro e Molly e le sue amiche. E lui e Mileva non erano ferratissimi nell’essere popolari. Non che a loro importasse.

«Di sicuro sono più intelligenti e maturi di tua sorella» continuò la sua amica, ignara della tensione. «Il massimo a cui è riuscita a pensare è stato per quanto tempo lei e le sue minions avrebbero potuto trasformare la Ford nello zimbello della scuola.» «Non che poi lo abbia fatto… Alla fine che Quintanilla abbia preso a pugni Henry Bass è ancora al centro dell’attenzione dei nostri coetanei decerebrati. E non tutti sono come Mol…» suggerì Huck, determinato a risollevare il morale della ragazza, anche perché non sopportava di vederla arrabbiata. «Io non lo sono, né le amiche di Georgina.» «Pochi ma buoni, eh?» domandò sarcastica, alzando la testa di scatto quando la campanella sopra l’ingresso tintinnò, sovrastando la musica di sottofondo.

Entrando nella sala ampia e luminosa della Coffee House, Andrea si chiese perché fosse finita insieme a quel ragazzo che non la lasciava mai stare e che la faceva agitare a ogni minimo sguardo. Era insistente fino all’esasperazione, per lei che aveva messo una pietra sopra all’altro sesso, e cercava di evitare al minimo le uscite. Era contenta di aver conosciuto Bree e Georgina, le prime due vere amiche della sua nuova vita in Texas, ma dopo i primi mesi nella nuova scuola sia sua madre sia padre Gabriel le avevano caldamente suggerito si allargare le proprie conoscenze. Non ne era stata entusiasta, ma aveva ceduto per impedire loro di interferire con la sua vita ancor di più. "Sono qui per farli contenti", si ripeté mentre attraversava il locale per arrivare a uno dei tavoli dietro i séparé tutti colorati. Christopher le stava accanto tutto esaltato dalla prospettiva di passare il pomeriggio con lei.

Fortuna che c’erano anche Ziegler e Mileva. Non li conosceva molto; avevano parlato poco e l’ultima volta giusto per il tempo necessario a mettersi d’accordo su dove e quando incontrarsi, ma almeno aveva una distrazione dalle sensazioni che le risvegliava nel cuore il sorrisetto sicuro del Center dei Gringos. Trovò i due amici già seduti a un tavolo e li salutò con un caloroso sorriso quando si unirono a loro. «Ciao! È da tanto che aspettate?» «Non molto.» «Che si dice, gruppo?» esordì Christopher sedendosi a cavalcioni su una delle sedie libere. «Già trovato delle idee brillanti per il ballo d’inverno?» «E fare il lavoro sporco per Molly? Subito, come no.» Andrea apprezzò tantissimo il sarcasmo di Mileva. Era una ragazza schiva, da quanto aveva capito dai discorsi di Bree e Georgina, ma, se quelle erano le premesse, non vedeva l’ora di conoscerla meglio.

Anche perché sembrava gravitare a chilometri di distanza dalla cerchia di Molly Ziegler, come anche il suo stesso fratello gemello. «Non lo meriterebbe, in effetti. Non dopo quello che le cheerleader hanno cercato di fare alla mia amica.» «E se invece fosse il modo di farla pagare a quel gruppo di oche?» Andrea fu presa in contropiede da quella proposta. «Ma tu non fai parte del suo gruppo di amici?» Chris scosse la testa. «Non ci stiamo molto simpatici. Ed è un’oca, senza offesa per lo Ziegler presente al momento.» Il gemello della capo cheerleader si strinse nelle spalle. «Quindi, come facciamo fare loro la figura delle sceme? Quale super tema proponiamo?» Andrea sollevò gli occhi al soffitto. Christopher forse teneva al rendere giustizia alla sua amica, ma di certo la sua competitività era ciò che lo guidava al momento. Non che se ne lamentasse, se potevano finire in fretta quel lavoro di gruppo.

«Per ora, vado a prendere qualcosa da bere. Poi posso provare a pensarci. Voi?» «Io sì, vengo con te» si offrì Huck prima di chiunque altro e insieme si incamminarono verso il bancone affollato. «Fammi capire: una frase a effetto o due credi bastino a farla cadere ai tuoi piedi?» Mileva non riuscì proprio a trattenersi, le parole secche e acide che le scivolarono dalle labbra per abbattersi sull’espressione compiaciuta di Parker. Lo trovava così irritante che strappava commenti caustici anche a lei che di solito se ne stava sulle sue con Huck. Ma aveva visto come Andrea era rimasta colpita dal suo suggerimento sul trovare un buon tema per il ballo d’inverno e mettere all’angolo Molly e le sue minions. Si era sentita travolgere dalla gelosia e quel commento spiattellato senza riflettere ne era la prova.

«E tu che ne sai, Epps?» si informò Christopher sprezzante, convinto delle proprie mosse e incredulo che una come quella ragazzetta timida e davvero inacidita ne sapesse più di lui. «Perché non pensi a te, e al tuo ragazzo, e te ne stai fuori dagli affari miei?» Mileva cadde dalle nuvole. «Il mio ragazzo? Ma di chi parli?» «Ziegler, no?» «Huck?» Rise sarcastica. «È il mio migliore amico, ma capisco che tu possa non concepire una situazione simile tra sessi opposti.» «Senti, nerd della matematica, non mi importa cosa c’è tra te e il gemello di Molly.» La soppesò dalla testa ai piedi, irritato perché non lo conosceva per niente. «Ma non sono affari tuoi se ci provo con Andrea. Cos’è, ti piace?»

Alla domanda Mileva si tese. Non andava a sbandierare a chiunque di essere bisex, ma che quel gargoyle la sezionasse da vicino le dava i nervi. «Che ti frega?» replicò secca. «Sai che non hai speranze, vero?» la canzonò l’altro divertito. «A chi potrebbe piacere una ragazza strana e acida come te?»

A Mileva non interessava l’opinione di quel bestione senza cervello, però le sue parole le fecero male lo stesso, proprio nell’istante esatto in cui dagli altoparlanti del locale partiva una nuova canzone. “Me Muero” di Carlos Rivera. La riconobbe subito, perché l’aveva sentita spesso e ogni volta si ritrovava a pensare ad Andrea.

Mi sento morire per la voglia che ho di rubarti un bacio e perdere la ragione.

A chi poteva piacere? Be’ magari era il tipo di Andrea e, spronata dalla rabbia, dall’offesa e dalle parole tentatrici della canzone, Mileva puntò lo sguardo verso la ragazza che le piaceva e che stava tornando verso il loro tavolo. Ora o mai più. Ora o muoio. Si staccò dal tavolo e raggiunse Andrea in un lampo. «Ehi, stavo giusto…» «Mi piaci, Andrea. Davvero tanto» confessò, prima di sporgersi e rubarle un bacio.

Huck non credeva ai propri occhi. Già era stato un colpo sentire Mileva che lo relegava nella categoria di “migliore amico” con una risata, ma vederla prendere in mano la situazione in quel modo era strano. Non da Epps, eppure capiva che, quando c’era di mezzo il cuore, niente andava per il verso giusto. Il suo cuore però ci mise un secondo a incrinarsi quando vide il viso della ragazza italiana farsi paonazzo e mormorare qualcosa che non riuscì a sentire. Erano troppo lontane e lui troppo sconvolto per capirci qualcosa. Come era sconvolto Parker, che osservava le ragazze a occhi sgranati. Poi all’improvviso la sua migliore amica scosse la testa e partì in quarta verso la porta, abbandonando la Coffee House come se fosse in fiamme. Huck e lo sport erano due rette parallele, eppure fu velocissimo a seguirla e a uscire per la strada mezza deserta di quei primi di dicembre.

Ovunque erano spuntate le prime decorazione natalizie ma lui aveva occhi solo per la schiena tremolante della sua amica, persa in mezzo alle auto parcheggiate come se non avesse idea di dove andare. «Mileva!» Non servì alzare la voce per richiamarla e in un attimo si ritrovò a fissare i suoi occhi pieni di lacrime. «Stai bene?» «Certo, Huck, sto benissimo.» Si pentì subito di averlo attaccato. Non era lui che aveva appena fatto una follia per dimostrare a Christopher Parker l’impossibile ed era subito stato rifiutato nel modo più carino possibile. «Scusa… Non… Non dovevo. Mi dispiace.» «O-ok, è tutto ok» esitò, ancora scosso perché non sapeva se stesse davvero bene. «Cos’è successo? Cioè, ho visto cos’è successo ma…» Mileva scosse le spalle. «Sono stata un’idiota, ecco cos’è successo! Un’idiota che ha dato ascolto a un troglodita. Huck…» esitò, l’anima sarcastica più brillante che conosceva messa a soqquadro da un dubbio tremendo. «Se non piacessi a nessuno?»

Qualcuno forse era uscito dalla caffetteria, perché alle orecchie di Huck arrivò di nuovo uno strascico della canzone che era partita mentre Mileva si lanciava nel vuoto come mai avrebbe pensato e quei nuovi versi sembrano scavargli dentro. Dopo tutti i silenzi in cui si era rifugiato, venne travolto da qualche strofa che quasi non si sentiva.

Se dovessi morire fa che sia per amore. E che sia d’amore per te.

Forse era arrivato il momento di buttarsi, lui che aveva sempre guardato quella ragazza come se fosse la più bella del mondo. Coprì l’ultimo passo che li separava e, imbarazzo o no, posò le labbra sulle sue senza darle il tempo di chiedere cosa stesse facendo. Fu un bacio delicato, appena uno sfiorarsi di labbra perché non voleva farla scappare, e in un secondo si tirò di nuovo indietro, gli occhi persi in quelli spalancati di Mileva. «Huck… cosa…»

«A me piaci, Mileva Epps» confessò senza esitare neppure una volta, anche se moriva per l’imbarazzo e la paura. «Mi sei sempre piaciuta, perché sei intelligente, sei sarcastica e passerei giornate intere ad ascoltare le tue battute. Sei la mia migliore amica e non è vero che sei strana, o acida. Sei perfetta così così come sei, perché sei te stessa e adoro chi sei.» Mileva non sapeva cosa dire. Lei e Huck si conoscevano meglio di chiunque altro e quella confessione era una vera e propria sorpresa. Era sempre stato solo il suo migliore amico, non lo aveva mai guardato in nessun altro modo, ma adesso la loro equazione perfetta era stata scombinata e lei non sapeva come riportarla nei binari giusti. Quelli che conosceva da tutta la vita. Era sotto shock. Non aveva previsto niente di tutto ciò e non sapeva come riavvolgere la situazione così che tornasse tutto come prima.

💋Story By Federica Caglioni💋

«O-ok… Ho sganciato una bomba senza precedenti… Senti, sappi che sei sempre la mia migliore amica, come io spero di essere il tuo, e che se non provassi lo stesso… Insomma, lo sai… Se non la vedessimo allo stesso modo…» Si stava arrampicando sugli specchi senza più sapere da che parte andare a parare per fare le cose per bene. «Quello che voglio dire è che… Io ci sono, per qualunque cosa, per sempre. Ok?» Lei annuì, ancora frastornata da come la sua vita era cambiata per ben due volte nel giro di una decina di minuti. Non sapeva come avrebbe affrontato le parole di quel troglodita, il rifiuto di Andrea e la confessione di Huck – soprattutto la confessione– tuttavia non poteva lasciar andare tutto allo sfacelo. Ormai era troppo tardi per tirarsi indietro ed era ora di affrontare tutto senza paura. Lo avrebbe fatto. Un passo alla volta.

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Capitolo 9
*** Capitolo VIII: Ya Es Muy Tarde ***


«Venerdì sera ci sarà il ballo d’inverno, non vedo l’ora!» Emma Geller-Green strappò dalla parete uno dei tanti volantini dell’evento che tappezzavano la Oliver M. Berry High School. «Non capisco cosa ci sia di tanto speciale in questa festa. Molto probabilmente il deejay farà girare una playlist già fatta e con brani di dubbio valore culturale, qualcuno correggerà il punch e alcuni si ubriacheranno fino a vomitare l’anima. Non mi sembra la definizione corretta di “divertimento”.» ribatté Christine Booth, mentre si dirigeva con la sua migliore amica agli armadietti per scambiare il manuale di Storia Americana con quello della lezione successiva. «Solo perché non è il tipo di intrattenimento che tua madre approverebbe, non significa che non sia un’esperienza da fare. Dai, andiamoci, potrebbe essere un bel ricordo delle superiori!» Christine non rispose. Se Emma sperava di convincerla giocando la carta “Ciò che non farebbe la dottoressa Temperance Brennan”, sbagliava di grosso.

Aveva già provato l’ebbrezza di un evento scolastico organizzato da Molly Ziegler e il suo comitato, quando era al primo anno, e non si era trovata a suo agio in quell’ambiente né in mezzo a così tante persone. Non aveva intenzione di ripetere l’esperienza ancora una volta. «E poi il ballo sarebbe un’ottima occasione per chiedere a Finn di accompagnarti.» All’udire quel nome, le guance di Christine si imporporarono per l’imbarazzo. «Em, cosa dici? Non lo inviterò mai!» «Perché no? Da quando ti sei decisa ad avvicinarlo, non siete mai usciti veramente: passate il vostro tempo insieme al parco a discutere di libri. Era una cosa carina all’inizio, ma adesso c’è bisogno di movimentare la situazione e fare il passo successivo.»

«Non posso… E se rifiutasse? Non sopporterei l’umiliazione di chiacchiere e frecciatine da parte di tutta la scuola.» Christine ripensò ad alcuni giorni prima, quando Mileva Epps si era avventatamente dichiarata, con tanto di bacio, alla nuova studentessa straniera in caffetteria. Nei corridoi della Oliver M. Berry non si era parlato d’altro e non sempre erano commenti gentili. «Non succederà, ma se dovesse capitare, ti coprirò io le spalle.» le promise Emma, esibendo uno sfolgorante sorriso per tranquillizzare la sua migliore amica.

Christine ripensò al discorso della sua migliore amica per tutto il giorno. Forse Emma aveva ragione: doveva invitare Finn al ballo, se voleva che la loro amicizia si trasformasse in qualcosa di più. Però chiederglielo la terrorizzava. Però se non lo avrebbe fatto, se ne sarebbe pentita per tutta la vita. Inspirò ed espirò profondamente, preparandosi mentalmente alla sfida più difficile che avrebbe mai affrontato. Affrettò il passo e, con decisione raggiunse, il ragazzo dei suoi desideri sotto il solito albero nel solito parco sulla strada di casa. «Ciao, Finn.» «Ehi.» ricambiò lui, senza alzare lo sguardo dal libro che stava leggendo.

«Devo chiederti una cosa.» iniziò lei, ma il coraggio per continuare non le arrivò. Finn si accorse della pausa, così si staccò dalla lettura e la guardò negli occhi, per dimostrarle che aveva tutta la sua attenzione. «Avanti, dimmi.» «Io…» Christine stava andando nel panico ed era inusuale per lei. Aveva sempre avuto il controllo delle proprie emozioni, ma quel ragazzo la destabilizzava in tutti i sensi. Inspirò ed espirò ancora, cercando di calmarsi e di tirare fuori il coraggio. È come strapparsi un cerotto da soli. «Verresti al ballo d’inverno con me?» Fatto, bomba sganciata! Finn sgranò gli occhi. Di tutte le domande che poteva aspettarsi, quella non era contemplata. È vero che lui e la Booth si erano avvicinati di recente, ma non riusciva ad immaginarsi in una relazione con lei.

Soprattutto non adesso. «No, mi dispiace.» rispose lui, secco. «Oh…» Maledizione, l’aveva ferita! Finn glielo leggeva negli occhi delusi e più umidi del normale. Di certo, fra poco Christine sarebbe scoppiata a piangere. «Va bene, ciao.» si congedò però lei, prima che potesse succedere. Decisa come era arrivata, così Christine se ne andò. Non aspettò nemmeno che lui rispondesse al suo saluto: voleva allontanarsi il più possibile da Finn Malone, prima che le lacrime le colassero sulle guance. Si abbandonò al pianto disperato soltanto quando chiuse il portone di casa dietro di sé.

Era il giorno della festa scolastica, ma per Finn Malone era un normale venerdì sera come gli altri: senza suo padre. Forse lo avrebbe visto domenica, ma tutto dipendeva dal suo lavoro. Quello era più importante, persino della sua famiglia ufficiale... Tutta quella situazione lo irritava da morire. Come poteva sua madre accettarlo? Aveva bisogno di distrarsi: gli stava venendo la nausea a furia di pensarci. Andò allora in cucina e riscaldò al microonde un sacchetto di pop corn, da stuzzicare sul divano davanti ad un film. Era sul punto di far partire una vecchia pellicola western, quando udì il rumore metallico di chiavi che giravano nella serratura dell’ingresso. Samantha Spade era rientrata all’ovile. Ecco che appendeva il cappotto all’attaccapanni e che si dirigeva in salotto, ticchettando con le decolleté sul parquet. «Oh, Finn, sei qui!» «Dove altro dovrei essere?» «Pensavo fossi andato al ballo organizzato dalla tua scuola.» il ragazzo stava per chiederle come facesse a sapere della festa, poi ipotizzò che le fosse arrivata la comunicazione tramite il bollettino per i genitori. «Non mi interessa.» spiegò lui, lapidario.

«Perché no? Dovresti provare ad andare ad una di queste attività, per socializzare e conoscere i tuoi compagni di scuola. Tra poco andrai al college e il ballo delle superiori sarà un bel ricordo…» «Non me ne frega niente di quei bambocci che sono a scuola con me, non voglio averci niente a che fare!» Finn saltò su dal divano e la interruppe bruscamente. Non voleva sentirsi dire come doveva vivere la sua vita, soprattutto non da LEI, che aveva accettato una relazione clandestina con un uomo sposato. «Finn, tesoro, che cosa ti prende? È la prima volta che ne parli… È forse successo qualcosa a scuola? I tuoi compagni ti bullizzano?» il ragazzo non rispose, tirò soltanto le labbra in una smorfia. Non ci credeva, lei non ci arrivava. «Tesoro, per favore, dimmi cosa stai passando… Io voglio aiutarti, vederti felice.» «Felice? Sarei felice se mio padre avesse scelto me invece della famiglia di New York!» gridò Finn, liberando così tutta la rabbia che aveva covato fino a quel momento. Invece sua madre era sconvolta, lo dimostravano i suoi occhi sbarrati e la fronte aggrottata: non sospettava minimamente che suo figlio avesse scoperto la verità su Jack e c’era rimasta male. Vederla in quello stato lo irritò ancora di più. «Finn, io…» iniziò a balbettare Sam, ma Finn non la voleva ascoltare. «Non voglio sentire le tue scuse.» e il ragazzo si precipitò fuori dalla sala… E anche da casa! Finn si rese conto di essere uscito, quando per poco non urtò il cancelletto che recintava la proprietà. Aveva agito d’impulso, accecato dalla rabbia.

Ora dove sarebbe andato? Prese l’angolo a destra e continuò a camminare, cercando di farsi venire qualche idea su cosa fare. Camminò e camminò senza meta per il quartiere di Paloma Creek, finché non scorse una figura femminile baciata dalla luna a pochi vialetti di distanza. Aveva i capelli raccolti in un’elegante chignon e sotto il cappotto intravedeva un’ampia gonna di chiffon che le arrivava alle ginocchia. Sicuramente era un vestito da ballo scolastico e sembrava donarle alla pallida luce notturna. Si avvicinò per capire chi fosse la misteriosa ragazza, infine la riconobbe: Christine Booth. Quindi sarebbe andata alla festa senza di lui, magari con un altro cavaliere… Immaginarla danzare fra le braccia di un altro gli fece salire dell’amaro in bocca. Era stato troppo impulsivo nel rifiutare il suo invito. Aveva rovinato una cosa bella che aveva e se ne stava rendendo conto soltanto adesso, dopo giorni in cui non si erano nemmeno salutati. Avrebbe potuto raggiungerla e chiederle scusa, ma che differenza avrebbe fatto? Lei aveva già trovato un rimpiazzo, evidentemente. Sconfitto, è così che Finn si sentiva. La sua presenza lì non avrebbe fatto la differenza, perciò era meglio tornare sui suoi passi e cercare un posto in cui scaldarsi dall’altra parte del quartiere. Stava per farlo, ma fu fermato dal richiamo della ragazza. Diamine, lo aveva visto! Finse un sorriso e alzò una mano a mo’ di saluto.

Christine stava aspettando Emma per andare al ballo insieme. C’erano voluti molte ore, molti pianti e molti discorsi di incoraggiamento per convincerla a partecipare ugualmente all’evento, alla faccia di Finn! Non si sarebbe aspettata però di ritrovare il ragazzo che l’aveva ferita nei pressi di casa sua, soprattutto la sera della festa! All’inizio lo aveva ignorato, fingendo di non averlo notato, però lui aveva un’espressione stravolta, simile a quella di un cucciolo bastonato. Doveva essergli successo qualcosa, ipotizzò. Non poteva lasciarlo in quello stato, dopotutto era un suo amico, così lo chiamò quando si accorse che stava per andarsene. «Finn, come mai sei qui? Hai una faccia…» «Sto facendo una passeggiata, tutto qui.» mentì lui. Christine alzò un sopracciglio, segnalando che non gli aveva creduto. «Senza giacca? Va bene che siamo in Texas, ma di notte fa freddo per via della forte escursione termica, soprattutto d’inverno. Sii sincero con me, per favore.»

«È troppo personale.» «Ma siamo amici, no? Gli amici non si supportano nel momento del bisogno?» Christine gli prese le mani, sperando che il contatto fisico lo rassicurasse più delle parole. Finn voleva crederle, sul serio. Era l’unica persona della scuola con cui aveva allacciato un flebile rapporto e sembrava sinceramente preoccupata per lui. Doveva smetterla di allontanarla da sé, se non voleva perderla. «Hai ragione, però tu stai per andare al ballo e non voglio trattenerti.» il ragazzo si aspettava un cenno di assenso da parte di lei, invece Christine sfoggiò un sorriso radioso. «A questo c’è rimedio!» e da una delle tasche del cappotto tirò fuori il cellulare. Christine ci mise poco a digitare il numero di telefono di Emma e ad annunciarle che non avrebbe partecipato all’attività scolastica per un imprevisto, che le avrebbe spiegato poi l’indomani. «Fatto, ora sono solo per te! Entriamo però in casa, che sto gelando.» e lo condusse all’interno della dimora Booth, che quella sera era deserta.

Christine fece sistemare il suo ospite in soggiorno, mentre lei metteva sul fuoco una pentola di latte e del preparato per cioccolata calda. Con tutto il freddo che Finn doveva aver preso venendo da lei, pensò che una bevanda calda potesse essere un buon metodo per risollevargli il morale. In effetti, il ragazzo si mostrò contento quando ne ricevette una tazza. «Allora, Finn, che cosa è successo?» «Ho litigato con mia madre.» e le raccontò la sfuriata di poco prima, senza tralasciare la sua storia famigliare e di come aveva scoperto di suo padre. Fu facile buttare fuori tutto il dolore e la rabbia che covava da tanto: Christine era un’ottima ascoltatrice, poi sentiva che di lei poteva fidarsi. Era una ragazza unica: intelligente, spontanea e teneva genuinamente a lui, lo aveva dimostrato poco prima. Aveva sbagliato ad allontanarla e non voleva commettere più lo stesso errore.

❄️Story By Alessia Baraldi❄️

Christine ascoltava, senza fare domande. Lo lasciò sfogarsi: era evidente quanto lui avesse sofferto e che non aveva nessuno con cui confidarsi. Ed era incredibile che lui stesse affidando il suo segreto proprio a lei… e ne era felice. «Capisco quanto tu sia deluso e frustrato, però credo che dovresti parlarne con tua madre. Dopotutto, è lei che ha scelto di portare avanti la relazione extraconiugale. Dovresti comprenderne i motivi, oltre che accusarla della vostra situazione famigliare.» suggerì lei ad esposizione finita. «So che hai ragione, ma adesso non ne ho le forze.» «Certo, è comprensibile.» Christine annuì. «Puoi restare qui ancora per un po’, almeno finché i miei genitori non tornano dal ristorante. Ci guardiamo un film, nel frattempo?» la ragazza aspettò una risposta, ma Finn non dava segnali che volesse farlo.

Lui stava lì, di fianco a lei sul divano, e la guardava in modo strano. Gli occhi del ragazzo brillavano, ma Christine non ne intuiva il motivo. Forse era solo la luce del lampadario che si rifletteva nelle sue iridi… «Christine… Grazie.» inaspettatamente lui spostò il busto, avvicinandosi a lei, e colmò la distanza con la testa, sfiorandole le labbra con le sue. Christine non respirò all’inizio, troppo stupita dal gesto, ma poi si abbandonò a quel bacio. Finn le aveva finalmente aperto il cuore e lei non poteva che esserne felice.

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Capitolo 10
*** Capitolo IX: 100 Años ***


Molly Ziegler se ne stava seduta a gambe incrociate sul letto della sua cameretta. Accarezzava svogliatamente il copriletto in finta seta color ocra. Fuori dalla finestra scrosciava una calma e rilassante pioggia invernale. Accanto a Molly, appoggiata in modo barcollante sulle coperte, vi era una tazza di thè fumante. La ragazza, assorta nei suoi pensieri sfogliava svogliatamente un grande album fotografico riccamente decorato con biglietti di vario genere, bustine di caramelle, fiocchi e adesivi vari. Gelosamente custodite in ordine sparso all’interno dell’album c’erano le fotografie che raccontavano i circa due anni di relazione tra Molly e Jamie.

Lo que yo siento por ti no tiene explicación Y solo me pregunto cómo derrumbaste, en mí, cada rincón Has hecho nuestra cama siempre un verano Volviste divertido lo cotidiano Y no entiendo cómo lo lograste, pero sé que hoy

De ti, quiero más, más Me gusta todo lo que me das, más Y sin permiso Me has robado el corazón, poco a poquito

Molly e Jamie si stavano frequentando da circa un mese. Non erano ancora una coppia ufficiale, ma tutto il liceo non faceva altro che parlare di loro. Avevano creato una loro routine, si aspettavano all’entrata della scuola, durante le lezioni stavano con i propri gruppetti fino al suonare della pausa pranzo dove, finalmente e in modo molto discreto, si sedevano vicini in mensa, in un tavolino un po’ riparato. Dopo scuola entrambi si allenavano, Molly era entrata nelle cheerleaders e Jamie nella squadra di football. Finita la giornata scolastica Jamie aspettava che Molly si cambiasse e poi, accompagnato da Chris, il quale non vedeva di buon occhio la ragazza, andavano in una piccola caffetteria in centro città.

Questa routine durò per qualche mese, tra un flirt impacciato, una serata al cinema passata a far finta di essere “solo amici” e frappè alla fragola alla caffetteria. Arrivò però il fatidico giorno. Jamie era stato convocato per una partita di football contro un liceo avversario. Molly era a bordo campo con le altre cheerleaders, la ragazza si sentiva estremamente in colpa nel tifare solo per Jamie e non per tutta la squadra, ma non poteva farci nulla, aveva occhi solo per lui.

Llenas mis días completos de tan buen humor Y me enseñaste a ver las piedras del camino como un escalón Por eso eres tú mi plan favorito Contigo, yo me quedo hasta el infinito Y no entiendo cómo lo lograste, pero sé que hoy

Yo quiero estar cien años contigo Contigo la vida es mejor Yo quiero estar cien años contigo Bailando la misma canción, bien pegaditos

La partita si stava per concludere e i Gringos stavano lottando per mantenere il controllo sulla squadra avversaria. Jamie guardò di sfuggita verso Molly, respirò profondamente, strinse a sé la palla e si gettò a capofitto verso la fine del campo facendo un epico touch down. La squadra di football si voltò verso Jamie per festeggiare il punto partita, ma il ragazzo si era già diretto verso Molly Ziegler. Afferrò la ragazza sollevandola da terra e, finalmente, trovò il coraggio di baciarla per la prima volta. Non gl’importava se tutti dagli spalti li stavano guardando, se i suoi compagni festeggiavano senza di lui. La sola cosa che voleva era sprofondare nelle calde e rosse labbra di Molly Ziegler, della sua Molly Ziegler. Quella partita sancì l’inizio della loro relazione.

Yo quiero estar cien años contigo Contigo la vida es mejor Yo quiero estar cien años contigo Bailando la misma canción, bien pegaditos

Tú y yo (tú y yo), los dos (los dos) Vamos bailando Y estar así (y estar así) Me gusta tanto

💘Story By Carola Codognotto💘

Molly teneva in mano la foto dove, preso dall’euforia Jamie la sollevava da terra. La ragazza sorrise nel vedersi tirare giù la gonna in modo impacciato. Guardò la foto stringendosela al petto, quello era stato uno dei momenti più felici della sua vita.

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Capitolo 11
*** Capitolo XI: Nada ***


Crescere in una famiglia dedita alla truffa ed il raggiro era probabilmente da considerare un evento nefasto, ma solo se questo significava non far parte della Leverage Inc., un nome alquanto azzeccato che indicava con precisione ciò in cui la famiglia di Georgina Ford era coinvolta. Tutto era iniziato una ventina di anni prima, quando suo padre –Nathan Ford – dopo aver perso il suo primo figlio, aveva deciso di vendicarsi contro l’assicurazione per cui aveva lavorato e che aveva negato di pagare le cure sperimentali che avrebbero salvato la vita di Sam. Il fratello che Georgina non aveva mai conosciuto e che, se fosse stato ancora in vita, avrebbe avuto 14 anni più di lei. Da quel momento, la sua strada si era incrociata con alcune persone a dir poco originali: con l’esperto di lotta e zone di guerra Elliot Spencer, texano burbero, dal cuore tenero che, dietro il suo grugnito ed il suo essere un gran latin lover, nascondeva una forte passione per la cucina e la musica country. L’hacker nerd, estroverso e grande appassionato di hip pop, Alec Hardison. La ladra apparentemente insensibile e tutto tranne che empatica, Parker, ma, in realtà, dal cuore e l’ingenuità di una bambina. A completare il quadro vi era la ladra d’arte e truffatrice Sophie Deveraux. Nathan aveva faticato ad accettare di essere anche lui un ladro, oltre che un alcolizzato, ma quando lo aveva fatto si era anche reso conto che quella strana banda di individui lo aveva salvato, rendendolo un uomo migliore e più forte, lui aveva indirizzato il loro talento verso la possibilità di usarlo a fine di bene. Come una sorta di Robin Hood moderni.

Dopo 5 anni dalla loro formazione ed essere sfuggiti parecchie volte a Interpool, FBI ed affini, il gruppo aveva deciso di dividersi. Nathan e Sophie, che nel mentre si erano innamorati, avevano passato il timone ad Elliot, Parker e Hardison. Coloro che avevano visto come figli, a cui avevano insegnato tutto ciò che sapevano e che ora erano responsabili abbastanza per camminare da soli. Tuttavia, i due avevano condotto una vita normale solo per pochi anni, perché quando avevano scoperto di attendere la loro prima ed unica figlia, si erano già ritrovati con gli altri. Di fatto, Georgina era nata in una famiglia che aveva amato fin dal primo giorno e di cui aveva seguito i passi appena era stata abbastanza capace per farlo. Ognuno gli aveva insegnato qualcosa e i suoi genitori appoggiavano incondizionatamente il suo voler far parte dell’attività di famiglia. Anche per quello, nell’ultimo periodo, l’avevano resa più partecipe a missioni e briefing, seppur per Georgina non fosse facile. Non voleva che nessuno dei suoi amici, tanto meno Bree, sapesse di quel lato della sua vita. Le doti culinarie di suo zio Elliot gli avevano fatto trovare lavoro come capo chef presso il locale del padre di Bree, mentre zia Parker lavorava come cameriera al country club dove lavorava sua madre. Non era proprio il suo mestiere, in quanto non ci sapeva fare con le persone e per questo zio Hardison si era fatto assumere come barman. Stavano insieme da anni e lui decisamente era l’unico che sapesse come prenderla.

Sua mamma, invece, gestiva il teatro della città, che teneva anche dei corsi; suo padre si presentava come un non specificato imprenditore dedito all’import-export. «Perdonate il ritardo. All’ultima ora, il professore di Storia ha continuato la lezione per un’altra mezz’ora, nonostante gli avessimo detto che era suonata la campanella!» esclamò una Georgina alquanto insofferente, entrando in casa. Abitava in una lussuosa villa a palafitta a Rockport che dava direttamente sul mare. Con porticciolo privato, piscina e tre piani di pura bellezza. L’ingresso era al primo piano adibito a zona giorno con affaccio sul mare e sul giardino con piscina, al secondo vi era la zona notte circondata da un ampio balcone che girava a 360° intorno alla casa ed al terzo – off limits per chiunque non fosse della famiglia – vi era la loro sede operativa. Lì, lei era appena giunta e vide tutti seduti al banco luminoso delle riunioni e di fronte a loro Hardison illustrava su dei monitor informazioni e materiale raccolto. Tutti la salutarono, quando si sedette tra i suoi genitori, rispose prima alla madre che le chiese come stava e poi al padre circa il risultato del test d’inglese. Aveva la fortuna di poter parlare liberamente con tutti loro ed anche il suo coming out era avvenuto praticamente durante il primo anno di liceo, senza drammi o problemi.

«Larry Duberman, fondatore e presidente della Duber Tech. Anni fa ha scritto un libro sulla sicurezza dei database digitali a tutt'oggi considerato un testo sacro. Ha guadagnato centinaia di milioni grazie alla rivoluzione digitale» iniziò a spiegare Hardison, facendo apparire sugli schermi alcune riviste in cui l’uomo in questione appariva. Di circa 55 anni, basso, magrolino e con pochi capelli in testa appariva come un nerd che cercava a tutti i costi di essere più figo di quanto non fosse. «Parliamo di Manticora giusto?» chiese Georgina, che era attenta a quelle riunioni come non lo era nemmeno lontanamente in classe. Giorni prima, lei e suo padre avevano parlato con un potenziale cliente. Era amico di Hardison, anche lui hacker conosciuto nell’ambiente. Nome in codice: Cyrus. Era negli Stati Uniti con un visto di studio. Iraniano, era ad un passo da mettere le mani su Manticora, un sistema d’intercettazione usato dal governo del suo Paese, per identificare ed arrestare gli oppositori al regime. «Esattamente, ma non capisco una cosa… perché Larry Duberman dovrebbe vendere software all'Iran? Non ha bisogno di soldi!» fece notare sua madre che, da buona british quale era, stava versando del tè a lei e Georgina nel loro servizio preferito di porcellana, quello della Royal Worcester. «Però lo fa: cloud storage, calcolo distribuito... tutto ciò sta mettendo in crisi l'azienda di Duberman. Può essere che voglia ampliare il suo mercato...»

«E nel frattempo si procura delle entrate in nero vendendo tecnologia ai paesi sotto embargo.» «Un ottimo metodo per aggirare il fisco» esclamò la giovane, intenta a sorseggiare il suo tè, mentre si scambiava uno sguardo d’intesa con il padre che aveva parlato poco prima di lei. «Duberman ha un contratto a lungo termine per la gestione di Manticora…» «Quindi Elliot aveva ragione e la polizia segreta iraniana non centra nulla... è stato Duberman» esclamò Georgina, ricordandosi il loro incontro con Cyrus, durante il quale lo zio aveva immediatamente smontato il ragazzo circa la possibilità che invece potesse trattarsi di loro. «E non per questioni politiche. Cyrus era una minaccia per l'azienda...» «Va bene, allora il nostro bersaglio è Duberman. Qual è la situazione?» Tagliò corto Nathan. Lo scambio di battute era sempre con zio Hardison che stava guidando il briefing. «Il server principale si trova nell'ufficio privato di Duberman. Disattivando il server qui, disattiviamo Manticora in Iran.» «Allora cosa aspettiamo?» «Elliot, quel tizio ha scritto la bibbia sulla sicurezza dei dati informatici... mi sono spiegato? Non posso accedere a Manticora da remoto, bisogna disattivare il server manualmente.»

Quando la mattina dopo Elliot, Hardison e Parker erano fuori per occuparsi di accedere all’ufficio di Duberman, Georgina era in camera sua intenta a mettersi dello smalto sulle unghie. Era sabato, non c’era scuola e la mattina amava alzarsi presto, fare jogging, tornare a casa, farsi una doccia calda, yoga e poi concludere la mattinata dedicandosi un po’ a sé stessa. Osservava soddisfatta lo smalto nero che aveva appena finito di stendere, quando sulla soglia della sua elegante camera, lungi dall’assomigliare alla cameretta di un’adolescente quanto più a quella di una studentessa d’arte di Parigi, comparve sua madre. Alle pareti, infatti, aveva quadri rinomati e di valore inestimabile, rubati da Sophie negli anni, e che lei amava osservare. C’era anche qualche pezzo di arredo anch’esso rubato, da cui un bellissimo uovo di Fabergé, regalo di zia Parker per il suo primo anno di vita. Indubbiamente, aveva in quella camera milioni di dollari, ma tutto ciò che lei vedeva era solo bellezza. La madre l’aveva cresciuta tra i musei più belli del mondo, facendola appassionare alla pittura, alla scultura, alla poesia ed al teatro. Sophie, che stringeva in mano un vassoio con sopra la colazione, sorrise alla figlia e con la stessa si spostò sul balcone ove mangiarono insieme osservando il mare. Era inverno, ma di giorno e sotto i potenti raggi del sole, si stava benissimo quasi fosse primavera.

«Papà?» chiese Georgina prendendo il succo di arancia, appena spremuto, per berne un sorso. I capelli erano ancora avvolti nell’asciugamano ed il fisico longilineo ed atletico era avvolto dall’accappatoio. Era appena uscita dalla doccia. «È su, sta seguendo i ragazzi…» rispose la donna con il suo solito modo gentile, per poi osservare di sottecchi la figlia, che alzando gli occhi al cielo si voltò per affrontarla. «Mamma ti ho già detto che sto bene!» «Lo so. Non sono di quelle madri apprensive, lo sai… più che altro sono colpita…» La giovane ghignò, ma non rispose. Preferì rimanere in ascolto, concentrata a mangiare la squisita brioche che ogni mattina suo zio Elliot faceva trovare pronte per tutti loro. «Quello che è accaduto non è casuale, lo hai voluto, vero? Immagino che perfino la ragazza a cui ti sei dichiarata non sia quella che davvero ti piace. Almeno dimmi, hai ottenuto quello che volevi?» La ragazza sospirò, era davvero difficile cogliere in castagna la madre, ma dopotutto era la sua maestra. Tutto ciò che faceva glielo aveva insegnato lei. «Ora, tutta la scuola crede che io sia una piccola povera innocente, un po’ ingenua forse… ma tanto romantica. Dichiararsi ad una cheerleader e tra le peggiori, come l’Avery! Chi lo farebbe?» chiese con finta innocenza e retorica Georgina, prima di riderne con la madre. Avevano la stessa eleganza, bellezza e furbizia.

«Sei stata brillante. A differenza del Clan Acero-Casillas. Solo per le loro famiglie dovrebbero stare all’erta, ma non fanno nulla per non far pensare che anche loro nascondano qualcosa…» e se la conosceva bene, sia lei che suo padre avevano anche già scoperto cosa. «Se voglio che il mio team funzioni, devo apparire tutto tranne ciò che sono davvero!» sospirò la ragazza, in parte dispiaciuta per questo. Era triste vedere Bree struggersi per la sua situazione. «Per questo, quelli come noi non hanno amici… O se li hanno diventano poi la tua famiglia!» concluse. Si guardò sorridente con la madre, ma presto la malinconia tornò in agguato. «Bree è una brava ragazza. Con lei non sei mai diversa da come sei realmente, diciamo solo che qui e là fai cose che servono per tenerla lontana dal resto… Ha un cuore troppo buono, non capirebbe mai cosa facciamo!» «Lo so. Per questo è la mia migliore amica, amo la sua purezza…» Tuttavia, la chiacchierata delle due donne fu bruscamente interrotta dal forte imprecare di Nathan al piano di sopra e ben presto ne scoprirono il motivo.

A fronte degli eventi accaduti, il piano d’azione era cambiato ed in un certo senso a favore di Georgina. La stessa aveva, infatti, dato appuntamento nel pomeriggio ai ragazzi al loro solito posto. Si trattava di un pub irlandese di dubbia reputazione ad Odem, nella periferia della città. In realtà, era gestito da un “amico di famiglia” ed era principalmente frequentato da tifosi di calcio che si radunavano per vedere le partite, sfondarsi di birra ed ogni tanto prendersi a pugni. Con indosso un paio di pantaloni a vita alta e a zampa d’elefante, neri ed un crop top dello stesso colore, sorseggiava la sua pinta di birra artigianale, mentre osservava i suoi compagni. I capelli erano sciolti e leggermente ondulati, l’eyeliner era perfettamente disegnato regalando ai suoi occhi uno sguardo da gatta. A concludere il look, dei grossi orecchini d’oro ed una giacca di pelle nera. Il tacco era alto, almeno 10 cm, le labbra pitturate di rosso ed il suo piglio era sicuro ed allegro. Se qualcuno li avesse visti non avrebbe creduto ai suoi occhi, anche e soprattutto perché a scuola Georgina e quei suoi compagni nemmeno si rivolgevano la parola, ma il tutto faceva parte del loro patto di protezione gli uni verso gli altri. «Sono l'unico che trova illegale comprare un annuario online?» Finn aveva pronunciato quella domanda, guardando scettico l’annuario del 1985, del loro stesso liceo, aperto sul tavolo. Georgina e gli altri risero alla sua domanda, per poi successivamente osservare Colin rispondere piccato all’esclamazione del compagno: «Sei proprio ingenuo, credi ancora nella privacy...»

La giovane scosse il capo, mentre Mileva ringraziava il ragazzo che portò la birra anche a lei e gli altri e poi chiese: «Allora è vero? Stiamo davvero proponendo un piano a tuo padre?» «Dubito che lui non ne abbia già uno, ma… il fatto che ne voglia anche uno da noi è decisamente un ottimo segnale. Abbiamo mostrato di essere bravi e questa è la nostra occasione. Lo vaglierà e potrebbe anche sceglierlo!» disse orgogliosa. Georgina aveva raccontato loro ogni cosa circa Manticora e vista anche la causa sociale importante, tutti si erano sentiti subito coinvolti. «Le password sono nomi di compagni, insegnanti e l'ultima era la combinazione di un armadietto... Questo uomo ha un’ossessione per il liceo: memorabilia, il computer della scuola...» osservò Colin, al limite del disgusto. «Sì, doveva essere il classico nerd informatico, scusa...» aggiunse Finn girandosi verso Mileva, che alzò le spalle come a dirgli che a lei non la tangeva «Le ragazze lo ignoravano, i ragazzi lo sfottevano e nonostante oggi abbia successo, non riesce a dimenticare… Questo tizio è patetico!» «Vuole ricordarsi chi era e questo lo ha reso ciò che è» concluse Mileva riassumendo decisamente in poche parole la psicologia di Duberman. «Questo è un vantaggio, perché usa il liceo come una specie di stanza romana!» A quella frase tutti si girarono verso Colin che li guardò stupito e poi, con il suo solito modo di fare arrogante, chiese ai suoi compagni come facevano a non sapere cosa fosse una stanza romana. «Meno arie e più spiegazioni Jane, sei insopportabile quando fai così!» lo ammonì annoiato Finn.

«È una tecnica mnemonica. Mio padre me l’ha insegnata… Ad ogni modo, ognuna delle password corrisponde ad un oggetto che si trova in un ambiente particolarmente familiare. Nel suo caso, il corridoio del liceo dove si trovava il suo armadietto. Stavo dunque pensando che, siccome non si può entrare nel server di Duberman senza la password primaria... allora potremmo scoprirla entrando nella sua stanza romana...» Il che aveva senso ed infatti un sorrisino sinistro si dipinse sul volto di Georgina. «La Ziegler non stava preparando per la settimana prossima una festa per ex alunni?» chiese e si sporse in avanti per osservare i suoi compagni. «Oh sì, Huck me ne ha parlato! Un’altra delle sue idee trash, ci saranno alunni di vari anni… ha deciso per il tema 80s, dunque immagino sceglierà alunni di quella decade!» «Dobbiamo solo assicurarci che inviti chi vogliamo noi. Dobbiamo capire chi Duberman potrebbe voler rivedere per pavoneggiarsi… potrei assicurarmi che i miei genitori partecipino, fingendosi suoi ex compagni…» «E noi potremmo far parte del commitee… non mi entusiasma l’idea, ma è l’unico modo per occuparci dell’organizzazione con Molly e gestire l’evento come fa comodo a noi!» osservò Colin. Finn e Mileva non parevano entusiasti della cosa, considerando i loro volti, ma sapevano che non si poteva fare altrimenti. «Il lavoro è lavoro ragazzi, dunque ingioiamo il rospo e diamoci da fare!» concluse Georgina, senza troppi giri di parole e con la praticità che la contraddistingueva, per gentile concessione della parte di DNA che aveva ereditato da suo padre.

«Georgina Ford, Colin Jane, Mileva Epps e Finn Malone. Il più vasto ed improbabile gruppo di individui che avrei mai immaginato che potesse far parte del mio commitee. Se non fossi in totale e completo ritardo con i preparativi e non fosse così urgente vi avrei già sbattuto fuori, ma… visto che ho bisogno di tutto l’aiuto necessario per organizzare al meglio e in tempi record, che dire… benvenuti all’evento “80 di questi Badger”» Con quella frase Molly Ziegler, scettica ed al quanto stupita, aveva dato il benvenuto al gruppo nel suo comitato di organizzazione. Il titolo della festa era orribile, voleva giocare sul fatto che un tempo la mascotte del liceo era un tasso e che era dedicata alle classi degli anni ’80, come tutte le decorazioni al limite del trash. Tuttavia, come la cheerleader stessa aveva fatto presente, il tempo era poco e le cose da fare tante ed immaginando che i suoi compagni desiderassero solo crediti extra, li accettò senza batter ciglio, ma si vendicò comandandoli a bacchetta o dandogli lavori da fare nel tempo extra scolastico. Oltre loro, però, era presente nel commitee anche Crystal Humphrey, vice capo cheerleader e per questo presente su richiesta esplicita di Molly. Era raro poterci avere a che fare, la sua cerchia di amicizie toccava le vette più alte passando dai personaggi più popolari a quelli più ricchi della scuola, ma con grande sorpresa di tutti non era poi così male. A differenza di Molly era una ragazza concreta, alla mano e che non aveva paura di rimboccarsi le maniche e lavorare duramente.

Questo, però, non aveva stupito Georgina che da tempo l’aveva capita, osservandola da lontano e scambiandoci quelle poche parole che un compito assegnato insieme o un esercizio in classe poteva comportare, costringendole ad aver a che fare l’una con l’altra. Forse per questo la sera dell’evento, Georgina rimase alquanto colpita quando proprio la Humprey l’avvicinò con un gran sorriso ed un elegante e bellissimo abito viola. Stretto con lo scollo a barca e le spalle scoperte, doveva essere di un importante stilista, anche se anche lei si difendeva bene. Georgina, infatti, indossava uno smoking nero, camicia dello stesso colore slacciata fino al seno e tacco alto. Crystal si avvicinò camminando tranquilla, mostrando che nonostante i tacchi a spillo non avessi problemi di alcun genere, l’affiancò ed insieme a lei iniziò a fissare alcune delle foto apposte alla parete. «La fiera dell’assurdo… un sacco di persone con sguardo allucinante, vestite in modo improponibile…» «Chissà, forse tra quasi 40 anni qualcuno dirà lo stesso di noi!»

Georgina si voltò verso di lei, ridacchiando alla sua esclamazione senza nascondersi dall’osservarla in un modo che non era mai solita fare. Non certamente a scuola, e Crystal parve accorgersene. «Cosa nascondi, Ford?» la voce della Humphrey era suadente, ma calma. Non nascondeva una nota di curiosità. I capelli erano sciolti e leggermente mossi, a differenza di quelli di Georgina che erano raccolti in uno chignon morbido. Con le mani in tasca ed il portamento deciso, le dava un’impressione così diversa da quella che era solita portare. «Nascondere? Io?» «Sono una cheerleader, ma non sono stupida. Avevo già dubbi in merito quando ci siamo parlate quelle poche occasioni che abbiamo avuto… ma… Bè dopo averti frequentata in questi giorni, ne ho avuto la certezza. Sei brillante, intelligente, simpatica e spigliata…»

«Wow! Quindi di solito sono ottusa, stupida, noiosa ed impacciata?» la punzecchiò. Crystal scosse frettolosamente il capo, facendo ondeggiare i lunghi capelli neri, e poi si lasciò andare ad un lieve sorriso. «No! Non intendevo quello! Intendevo che… non lo so, sembra quasi tu non ti voglia far conoscere… Sei… mh, come dire… enigmatica ecco…» concluse mordendosi il labbro inferiore e Georgina dovette quasi trattenersi dal fremere. Tuttavia, fece un passo verso di lei e fissandola negli occhi le arrivò ad un solo centimetro dalle labbra. «Enigmatica, mh?» «Come una sfinge!» la provocò Crystal che dovette ammettere che si sentiva colpita da quell’atteggiamento spavaldo. Nessun ragazzo era mai stato all’altezza di incuriosirla al punto di non smettere di pensare allo stesso giorno e notte… Georgina ci era riuscita ed adesso con fare tanto audace ed inatteso. Se non fosse stata brava ad avere una poker face così salda sui tacchi, forse avrebbe ammesso che qualcosa dentro di lei la stava facendo barcollare. «E se questa sfinge ti proponesse una sfida?» «Da quel che so, se la sfida viene vinta, la sfinge permette allo sfidato di accedere ai segreti che custodisce…» Georgina ghignò di sottecchi. «E sia…» mormorò quasi sulle sue labbra.

Inutile dire che nessuno dei suoi compagni, in collegamento auricolare con lei, erano entusiasti di ciò che stava facendo. Credevano che stesse giocando con il fuoco, ma suo padre aveva ammonito tutti dicendo di fidarsi di lei. Entrambi erano abili giocatori e mai i loro azzardi erano fatti senza essere prima attentamente soppesati e calcolati. «Fidatevi di me, ok? Finn e Mileva con sono Elliot alla Dubertech…» «Mi chiedo appunto che ci sto a fare qui!» abbaiò Elliot. Si era occupato personalmente dell’addestramento di Finn ed era certo che avesse potuto occuparsene da solo, ma Nathan considerava ancora leggermente pericoloso metterlo contro eventuali servizi segreti senza nessuno che potesse coprirgli le spalle. «Una volta dentro rimanete in attesa, quando avremo la password, Mileva dovrai entrare nel computer di Duberman e distruggere Manticora!» «Agli ordini!» Georgina fece vagare lo sguardo nella palestra adibita per la festa, mentre nella stessa stavano arrivando gli invitati. Suo padre e sua madre erano a casa e seguivano tutto dalla loro sala operativa, Hardison era in un furgoncino nel parcheggio della scuola per supporto tecnico e Parker si fingeva una cameriera per lo stesso motivo. Dall’altra parte della stanza vide Colin a cui fece un segno con il capo.

«Ford, sicura?» lo sentì chiederle nell’orecchio. «Fidati di me ok? C’è solo un cambio di ruoli, Crystal sarà anche più credibile di me. Io fungo da osservatore esterno e vi guido. Fate quello che vi dico e tutto andrà alla grande!» «Non so a che gioco state giocando, ma non vedo l’ora di scoprirlo!» La voce della Humprey raggiunse le orecchie di tutti quelli in ascolto, pochi erano convinti di quell’improvviso cambio di programma, ma non i genitori di Georgina. «Lo sapevo che non era quella la ragazza che le ha rubato il cuore…» sussurrò Sophie, guardando il marito ed alzando un sopracciglio con fare complice. «Georgina non è il tipo che metterebbe a rischio la missione per un crush, dunque mi fido del suo piano!» Nate pronunciò quelle parole con tono sicuro e Sophie gli si avvinghiò ad un braccio. Marito e moglie stavano osservando insieme tutto dagli schermi della base operativa che avevano in casa. Parker, prima della festa, aveva installato telecamere nei corridoi e nella palestra. «Imprevedibile come il padre, anche tu non ti fidi mai a caso! Dunque, fate tutti quello che vi dice… Che lo show abbia inizio!»

Come da programma, Hardison forniva informazioni a Crystal per la sua copertura, nomi d’abbinare a volti e poter così acquisire veridicità con il suo ruolo. Parlò qui e là con qualcuno, mentre a Molly il loro muoversi per la sala apparve solo come un ottimo modo di comportarsi con gli ospiti ed essere sempre al loro servizio. Da lontano, Georgina sorrise a Crystal seguendone ogni felino ed elegante movimento, fin quando dopo averle rivolto uno sguardo d’intesa si diresse verso Duberman, che era appena entrato nella sala. Salutava lì e qua suoi ex compagni di scuola e non, dopotutto era un personaggio famoso ed averlo lì era un lustro. Tutto stava nell’intercettarlo prima di Molly e Crystal ci riuscì alla perfezione.

«Guarda guarda chi si vede, il responsabile del laboratorio d'informatica Larry Duberman.» «Ehm... tu sei?» «Oh sì, mi perdoni Signor Duberman, l’entusiasmo ha avuto la meglio su di me. Sono Madeline Fitzgerald, per il Cedar Spring News. Siamo un piccolo giornale di provincia, lo so... ma i nostri lettori amano leggere di questi piccoli revival in città e sapendo che era presente un guru dell'informatica come lei... Non abbiamo l'onore di avere così spesso delle celebrità del suo calibro in città!» «Così mi lusinga Miss Fitzgerald...» Duberman parve incredulo che una ragazza così bella potesse rivolgergli la parola, Georgina sapeva che la chiave era far leva su quel lato nerd e da sfigato che si portava dietro dal liceo. All’epoca avrebbe pagato affinché una ragazza come Crystal lo “vedesse” e fosse così attratta da lui, oltretutto il suo portamento newyorkese e la sua testa matura la facevano apparire ben più grande della sua età. «Oh, ma è la verità! Al confronto i presenti sono tutti perdenti senza la minima possibilità di competere con lei! È vero che ha un campo di squash sul suo yacht?» «Ebbene sì ed anche un bowling, a dire il vero!» Attraverso gli auricolari tutti stavano ascoltando, colpiti.

*DUBERTECH* «C’è da dirlo è sorprendentemente brava!» esclamò Mileva, voltandosi verso i due uomini alle sue spalle. Lei era seduta al pc nell’ufficio di Duberman, in attesa di inserire parole chiave da provare come password. «Poco entusiasmo ancora, siamo lontani dall’ottenere ciò che vogliamo!» Esclamò uno stizzito Colin, che dopo essersi dato una sistemata ai capelli ed essersi sistemato il bavero della giacca elegante blu che indossava, camminò verso i due, strinse la vita di Crystal e le lasciò un bacio sulla gola.

*OLIVER M. BERRY HIGH SCHOOL* «Ehi bambolina, eccoti qui!» Il ragazzo non aveva problemi ad apparire altezzoso ed arrogante, gli veniva naturale e così, scambiando uno sguardo quasi disinteressato a Duberman lo squadrò sprezzante, ben sicuro di provocargli terribili ricordi. «E questa faccia da cane bastonato con cui parli chi è? Non gli darei nemmeno 5 $.» Ironizzò e nello stesso momento passò la vecchia mascotte passava tra la folla urlando un: «Viva Bager 85» e Molly gli correva in contro contrariata. La prese da parte e la trascinò via, ricordandole che vi erano studenti di vari anni e non era carino continuare a ricordare solo quelli dell’85. «Bravissima Parker» Le disse Georgina attraverso l’auricolare, mentre la donna si toglieva la testa del tasso ed usciva dalla sala incollerita. «Quella è un’arpia!» «Sempre detto!» Esclamò Finn, braccia incrociate a riflettere perfettamente la posa di Elliot al suo fianco.

«E' il Signor Duberman, per l'amor del cielo Terry! Mi scusi Signor Duberman, ignori i modi maleducati del mio fidanzato! Anzi, Terry perché non vai a prendere da bere per sdebitarti?» Crystal parve stizzita e infastidita, Duberman se ne accorse e così le offrì il proprio braccio prima di invitarla a fare due passi. Era una giornalista, no? Lui era più che lieto di fornirle un’intervista in esclusiva. La giovane ridacchiò apparendo, Georgina lo sapeva bene, ben più tonta e frivola di quanto fosse. «Humphrey, portalo nella sua stanza romana!» le ordinò Colin attraverso l’auricolare, lui raggiunse il fianco di Georgina con la quale fece tintinnare un bicchiere di punch. «Certa che sia in grado di farcela?» «Dalle tempo Colin, ti sorprenderà!» mormorò Georgina sicura di sé, sorseggiando il suo cocktail.

«Una donna intelligente come lei è strano che stia con un ragazzo così grezzo come lui…» «Dopo 8 mesi, me ne rendo conto ogni giorno che passa…» mormorò Crystal alquanto affranta, camminando con Duberman per il corridoio della scuola. «Ha bei ricordi, qui?» «Sia belli che brutti. Questo corridoio è scolpito nella mia memoria.» «La capisco, io ho finito da pochi anni… ma penso lo stesso. Oh guardi, quella è la classe della Professoressa Zabrasky. C’era anche all’epoca sua?» Duberman alzò lo sguardo, mentre osservava la classe, accanto alla quale vi era un cartellone con scritto “Badger ‘85” e ridacchiò. «Wow, non pensavo insegnasse ancora! Sì e ricordo che una volta durante un appello, in una sua lezione, un mio compagno – Pat Brandt – fece vedere le chiappe davanti a tutte.»

*DUBERTECH* Crystal rideva fingendosi ammaliata, nello stesso momento in cui Mileva digitava velocemente al computer nell’ufficio del Signor Duberman “Brandt”, ma non funzionò. Hardison, poco dopo, le suggerì “Brandt303” che era il numero del suo armadietto. «Ragazzi questa l’ha presa, mi ha aperto un archivio dei pagamenti!» esclamò trionfante Mileva. «Ottimo! Ora bisogna avere un po' di pazienza, lo carichiamo al punto giusto. Pigiamo il bottone e ci darà la password che vogliamo!» Concluse una sempre più sicura di sé Georgina, ma ben presto la voce concitata di Elliot li avvisò che la polizia segreta iraniana stava irrompendo nell’ufficio di Duberman. «Ragazzi, i piani sono appena cambiati, dovete accelerare!» avvisò un Finn che già si stava preparando a fare a pugni. Elliot lo aveva allenato bene, ma oltre a piccole risse non aveva ancora ricevuto il battesimo del fuoco e qualcosa gli diceva che quello lo sarebbe stato. «Ragazzino, sei pronto?» «Ho scelta?» Il tempo di quello scambio di battute, che il primo uomo entrò con la pistola puntata contro di loro, ma immediatamente Elliot si fece avanti per abbassargliela e dargli un gancio sinistro. Nel frattempo, Finn si abbassava per evitare il pugno del secondo uomo entrato e poi, bloccando il secondo che voleva dargli, lo prese alla sprovvista e gliene diede invece uno lui nello stomaco, mozzandogli il fiato. Elliot, intanto, venne preso e sbattuto contro la bacheca dei trofei liceali di Duberman, il vetro si ruppe e si infranse a terra. L'uomo fu libero solo perché Mileva, recuperato un trofeo, lo diede in testa all'iraniano che cadde a terra privo di sensi. Finn approfittò dell'uomo con cui lui si stava scontrando, che era piegato in avanti, per dargli una ginocchiata in volto e così metterlo ko. «Ragazzi, qui ce la stiamo cavando, ma dovete muovervi!» disse concitata Mileva per avvisare il resto del team sull’andamento delle cose.

*OLIVER M. BERRY HIGH SCHOOL* Georgina bevve tutto d’un sorso il suo punch e scambiandosi uno sguardo con Colin capì che non aveva altra scelta. «Sei sicura?» le chiese Parker a mezza voce, passandole qualcosa avvolto in un panno nero. «Abbiamo scelta? Tu tieni d’occhio la Ziegler e assicurati che non esca da questa palestra!» «Evviva, a me il compito più divertente!» si lamentò Colin alzando gli occhi al cielo appena ricevette l’ordine. «Non ti lamentare!» lo riprese Finn, che con Elliot e Mileva friggevano considerando la situazione in cui erano.

Il portamento di Georgina era sicuro, insolente e incuteva timore. Avanzava verso Duberman e Crystal la scrutò con un sorrisino. Non diede nemmeno il tempo all’uomo di aprire bocca, che già aveva alzato il braccio ed ora gli puntava contro una pistola. «E’ un uomo finito Duberman… abbiamo scoperto la password, l’Iran la ringrazia, ma non abbiamo più bisogno di lei!» Crysatal sgranò gli occhi e non si sorprese che l’uomo accanto a lei, improvvisamente, non pareva più molto interessato, ma non si scompose, seppur doveva ammettere che in quella veste, Georgina era se possibile ancora più eccitante. Duberman sudava freddo, prese il suo cellulare e cercò di mantenere un atteggiamento sicuro e spavaldo. «C-Chi sei… t-ti hanno assunto loro, vero? S-Sei un’assassina? T-Ti posso pagare più di loro…» «Davvero?» chiese Georgina, piegando il capo da un lato ed osservandolo interessata. «S-Sì! Fammi solo cambiare la password… non uccidermi!» La ragazza fece finta di pensarci. «Fallo e poi deciderò se risparmiare te e la tua amichetta!» Lui, tutto trionfante e con mani sudate si apprestò a cambiare la password, ma nemmeno il tempo di farlo che Georgina lo colpì con il calcio della pistola sulla fronte, poi prese per mano Crystal e con lei velocemente corse via. «Mileva ha cambiato la password! Muoviti! Ah e per la pistola, tranquilla è finta!» disse prima a Mileva tramite l’auricolare e successivamente guardando Crystal negli occhi. Appena ricevette l’ordine, la giovane digitò velocemente la parola “Badger85” e da ottima hacker qual era, esperta anche di computer vintage come quello, cliccò su “Authorized”, cancellò le directory interessate e… «E’ fatta! Manticora è morta!» esclamò trionfante. «Ottimo! Fuori da qui, andiamo!» annunciò Elliot ai due ragazzi con sé. Meglio andar via prima che i tizi che avevano messo al tappeto si fossero svegliati.

Quella serata al limite della follia si concluse nell’ampio giardino di Georgina. I “grandi” avevano lasciato i ragazzi da soli, dopo che tutti si erano complimentati ampiamente con loro e soprattutto con lei. Suo padre, nel dettaglio, era proprio fiero e quella luce negli occhi era la sua forza. La piscina a fagiolo era illuminata dalle lucine che davano vivacità al giardino. I ragazzi erano tutti seduti sulle sdraio, a piedi nudi, intorno alla stessa ed erano intenti a bere birra. «Molly ci ammazzerà tutti per averla mollata!» «Molly ci ammazzerebbe comunque anche senza un motivo!» Rispose Colin a Mileva, mentre tutti ridevano. Crystal era ubriaca di emozioni ed informazioni. Non si considerava una ragazza che si fermava a giudicare gli altri da quello che davano ad apparire o che aveva pregiudizi di genere, ma era anche vero che era cresciuta in un ambiente di inganni e sotterfugi, ove ogni mezzo era lecito per il successo. Però, lì vi era qualcosa che andava oltre a quello… «Allora mi spiegate cosa e chi siete? Fino ad oggi ero convinta che nemmeno foste amici tra voi!» Crystal era seduta sul bordo della sdraio di Georgina, che dietro di lei, aveva la schiena poggiata alla stessa e le gambe incrociate. «Ladri. Truffatori. Scegli tu la parola che preferisci. La mia famiglia lo è da sempre, sono cresciuta imparando da loro tutto ciò che so…» esclamò. Nel farlo si allungò verso Finn, nella sdraio accanto alla loro, e gli toccò il braccio. «Un’altra birra…» gli sussurrò e quello si sporse per prenderla dal secchiello con il ghiaccio tra le loro due sdraio.

«Diciamo che i tempi erano maturi per iniziare a mettere su la mia squadra…» e così dicendo guardò i suoi compagni. Nuovamente toccò il braccio di Finn e senza che dovesse dirgli nulla, quello le aprì la bottiglia di birra. «Il limone…» aggiunse, toccandogli di nuovo il braccio. Lui glielo mise e poi le porse la bottiglia. «E come è successo?» chiese Crystal curiosa. Non le era sfuggito quel fare di Georgina, strano e misterioso nei confronti di Finn che inspiegabilmente pareva servirla e riverirla senza battere ciglio. Colin rideva sotto i baffi. «Il come non è importante. Diciamo che io avevo doti da mentalista che non potevo sprecare, Malone aveva bisogno di mostrare a suo padre quanto valesse ed Epps è un mago dei computer che si era stancata di hackerare il Pentagono a tempo perso!» rispose sardonico Jane. Ancora rideva, quando Finn capì il motivo e mandò al diavolo Georgina. «Al diavolo, Ford!» disse alzandosi ed allontanandosi, anche Mileva rideva «Ci casca sempre!» Crystal li guardava, ma non capiva. «Cosa?» «Programmazione neuro-linguistica. Si sfrutta il potere della suggestione: birra, limone e un paio di colpetti strategici sul braccio!» le spiegò la giovane con semplicità. «E’ quello che abbiamo fatto con Duberman! 5 $ dollari, 8 mesi, Vai Badger 85, etc…» «Lo avete costretto a cambiare la password con quella che volevate voi!» «Esatto. Ma vedi Crystal, questo non è un gioco, ne conosciamo i pericoli. Sappiamo che fondamentalmente agiamo dal lato della barricata che è visto come quello sbagliato, ma oggi abbiamo aiutato un hacker iraniano a liberarsi di un sistema informatico che gli impediva di parlare con la sua famiglia e perseguitava gli oppositori del regime in Iran. E’ quello che facciamo. I ricchi e i potenti si prendono ciò che vogliono? Noi ridiamo il maltolto!»

La serata passò in un modo inaspettatamente piacevole, Crystal aveva scoperto quei ragazzi sotto una nuova luce e aveva perfino scoperto quanto fossero nobili e leali l’un l’altro. Colin e Georgina erano amici anche alla luce del giorno, ma non così tanto da aspettarsi un simile affiatamento. Gli altri poi, erano una sorpresa, eppure si vedeva quanto rispetto e reale fiducia ci fosse tra loro e Georgina. Pensava a questo mentre li osservava da un lato del giardino. Loro erano intenti a parlare e scherzare, quando la Ford non le arrivò alle spalle e le spostò i capelli dal collo parlandole direttamente all’orecchio. «Capisci che adesso fai parte del clan… non potrai raccontare nulla di tutto ciò…» Crystal si strinse le braccia, aveva freddo e così Georgina si tolse la giacca nera la posò sulle sue spalle. «Non riesco a crederlo. Mi hai raccontato tutto questo, mi hai reso partecipe. Perché?» fu la sua domanda, si voltò e la guardò nei suoi profondi occhi nocciola. «Non era quello che volevi? Scoprire l’enigma della sfinge?» «Sì, ma a che costo?» lo chiese mordendosi un labbro e stringendosi maggiormente la giacca addosso. «Ti ho costretto a fidarti di me e senza alcuna garanzia!» «Ne sei così sicura?» Georgina fece un ulteriore passo verso di lei, la distanza ormai era quasi nulla. Sorrise e le spostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio.

«Quando mi sono dichiarata all’Avery, tu sei stata l’unica, a differenza delle tue compagne a non prendermi in giro. A non umiliarmi. A non fomentare la macchina del pettegolezzo, anzi hai fatto ogni cosa in tuo potere per preservarmi… perché?» Crystal parve presa alla sprovvista, aprì la bocca un paio di volte, ma non uscì alcun suono. «N-Non lo so… insomma… non mi piace calpestare gli altri solo per ottenere, cosa poi? Popolarità? Se devo essere popolare va bene, non mi lamento, anzi non ti nego che mi piace. Ma ho la coscienza a posto nel sapere che il mio successo non è scaturito dall’aver fatto del male a nessuno…» Il viso femminile, fine e bellissimo di Georgina si aprì in un dolce sorriso, per poi far scivolare due dita sul profilo illuminato dalla luna di Crystal e le prendeva il mento tra esse. «Ecco. Per questo mi fido…» «E l’Avery?» «Gioco a carte scoperte, hai davvero bisogno di una spiegazione?» «No, direi di no…» Crystal annullò le distanze tra loro ed ancora sorridendole si sporse verso di lei. Le braccia intorno al suo collo, mentre una mano di Georgina saliva sulla sua schiena e l’altra le stringeva un fianco. Era un bacio profondo, sensuale e sentito.

💎Story By Cristina Petrini💎

Crystal non era lesbica, mai una volta si era sentita attratta verso il sesso opposto, ma con Georgina era accaduta una cosa strana. Non era la cosa di una notte. Era un insieme di emozioni. Dal loro avere a che fare durante le lezioni, i compiti, durante il committee… ora capiva che da tempo lei le stava dietro. Ma non l’aveva approcciata come chiunque altro, l’aveva lentamente ammaliata e poi attratta nella sua tela come un abile ragno. Il fatto era, però, che una volta trovatasi impigliata nella sua ragnatela non ne era voluta scappare, anzi non si era mai sentita tanto bene. Lei non si era innamorata di Georgina perché le piacevano le ragazze o perché aveva scoperto di essere lesbica, no. Lei si era innamorata, senza nemmeno accorgersene, perché era lei. Era la sua anima che voleva, le sue labbra, le sue attenzioni ed il suo cuore… non quello di una qualsiasi altra ragazza. Perché non si trattava che lei fosse donna, oh no… semplicemente lei era tutto ciò che voleva e nessun ragazzo avrebbe mai potuto essere. Georgina le stava baciando il labbro inferiore ed intanto le loro lingue si sfioravano e quella di Crystal le accarezzò il contorno delle stesse quando nuovamente si incontrarono in un nuovo bacio. Il tempo di staccarsi solo per prendere fiato e poggiare la sua fronte contro quella di lei. «Ed ora?» «Dimmelo tu…» la sfidò la Ford. «Voglio essere tua. Tua complice… tua fidanzata…» «Sei disposta a correre il rischio?» «Puoi mettermi alla prova se vuoi, avrai capito che mi eccita!» Le due ridacchiarono tra loro prima di incontrarsi in un nuovo bacio, dietro di loro gli altri tre e gli adulti dal balcone del primo piano ridevano e fischiavano. Si staccarono solo per quello, prima che Elliot facesse il suo ingresso nel giardino con delle carne. «Ed ora un buon barbecue di mezzanotte, chi ci sta?» inutile dire che tutti, adulti e ragazzi, alzarono i calici pronti per una notte di bistecche, birra, musica e tanti sorrisi.

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Capitolo 12
*** Capitolo XII: Me Soltaste ***


Bree Witter osservava lo schermo bianco del PC. Un foglio vuoto. Il blocco dello scrittore era arrivato proprio quando avrebbe dovuto iniziare la stesura di un romanzo destinato a un concorso letterario. Mancavano ancora alcuni mesi alla scadenza dei termini, ma scrivere un testo che avesse anche solo una piccola possibilità di vincere richiedeva tempo e studio. Spostò da un lato il PC e afferrò uno dei manuali di scrittura creativa. Cavolo, aveva bisogno di un aiuto. Dannato Strunk, nemmeno i suoi consigli di stile sembravano fornirle il minimo sostegno. Accatastò i volumi, allontanandoli da sé. Che sciocca era stata a spendere tutta la sua paghetta per acquistarli. Poteva ambientare la storia in Corea del Sud? Bastava per conoscere una cultura così diversa aver consumato kdrama e cibo coreano come se non ci fosse un domani? Le guide che aveva consultato erano sufficienti? Cercare altro materiale le avrebbe sottratto del tempo prezioso e lei voleva consegnare il testo a un editor per la revisione. E se avesse scritto un regency? La fan di Georgette Heyer e di Jane Austen che viveva in lei esultò, per poi ricordarsi che non sarebbe stato affatto semplice ottenere l'adeguata documentazione con le tempistiche imposte dal concorso. Cavolo, dovrò rinunciare, sono un fallimento, pensò. Chiuse gli occhi e il volto sorridente dello zio Dawson fece capolino nell'oscurità.

«Scrivi di ciò che conosci. Delle persone che fanno parte della tua quotidianità. Del mondo che ti circonda. Nulla è così semplice come sembra e nel tuo quotidiano possono nascondersi storie interessanti» Possibile che l'aiuto di cui aveva tanto bisogno le stesse giungendo proprio da una conversazione con lo zio Dawson avvenuta l'estate precedente. «Sei sicuro che simili idee funzionino?» gli aveva chiesto, mentre erano seduti sul pontile davanti alla casa dei Potter a Capeside. «Cavolo, signorina. La mia serie più famosa è nata in questo posto, su questo pontile. Ogni scena parla di Capeside, dei suoi abitanti e dei miei amici. Siamo cresciuti, la vita ci ha portato ai capi opposti del Paese, alcuni di noi non ci sono più. Ho voluto rendere quegli istanti immortali, trasformarli in arte, o almeno ho tentato. Far conoscere e provare quelle sensazioni così intensa anche a degli sconosciuti.» Lo zio sorrise, immerso in quel paesaggio legato ai ricordi di un'infanzia e di una adolescenza che il grande regista e sceneggiatore Dawson Leery non avrebbe mai dimenticato. Bree non aveva mai conosciuto la zia Jen, la migliore amica dei suoi genitori. L'immagine di lei che scendeva dal taxi che l'aveva condotta a Capeside, l'avrebbe però accompagnata per sempre grazie alla serie tv dello zio. All'improvviso la Witter aprì gli occhi e tornò nel cortile dell'Oliver M. Berry High, durante la pausa pranzo.

Pausa pranzo che stava trascorrendo alla ricerca di una storia da trasformare in arte… Era letteralmente circondata di storie. Il cortile brulicava di materiale umano. C'erano Emma e Leo che mantenevano le distanze, visto che la famiglia di lei aveva vietato loro di frequentarsi, ma i loro occhi si cercavano senza sosta. In continuazione. Emma che aveva preso una pallottola al posto di Leo e alla quale non importava dei traffici pericolosi della famiglia di lui. L'unica cosa che contava era il loro incontro segreto, che sarebbe avvenuto di lì a poco, proprio grazie alla stessa Bree, che da qualche settimana metteva a loro disposizione un capanno di proprietà dei Witter. E poi c'era Georgina che aveva baciato Crystal di nascosto, senza sapere che lei le aveva sorprese. E in realtà non era starà nemmeno la sola. Henry Bass si era ritrovato a poca distanza da lei a osservare sgomento le loro rispettive migliori amiche baciarsi con passione. «Sono sicuro che troverai la giusta ispirazione. Magari la storia di una giovane e affascinante scrittrice che riesce a cambiare quell'arrogante del suo ex ragazzo. Dopo aver scoperto che l'attuale fidanzato le sta nascondendo qualcosa insieme a una carissima amica.»

La voce sensuale di Bass la raggiunse, proprio lì in cortile. Che cosa voleva da lei? Perché non la lasciava in pace? Perché era in grado di far spuntare nella sua testa delle idee velenose come funghi? Davvero voleva farsi avvelenare l'esistenza di nuovo da Bass, che dalla sera del bacio di Crystal e Georgina, non smetteva di insinuare dei dubbi in lei su Colin e sulla Ford. La prima cosa che si pensava in questi casi è che il fidanzato avesse una relazione con l'amica del cuore. Un classico delle serie tv. Lo zio Dawson lo aveva vissuto nella realtà, sulla propria pelle, proprio per colpa dei genitori di Bree. Come avrebbe voluto che quella fosse stata davvero la verità. L'assoluta certezza dell'assenza di ogni interesse romantico tra Georgina e Colin la preoccupava sempre di più, perché dovevano esistere altre spiegazioni ancora più inconfessabili. «Ti odio, Henry Bass.» Si alzò di scatto dalla sedia, sbatté uno dei libri sul tavolino, poi si affrettò a riporlo nella borsa, dove aveva infilato, con poca gentilezza, anche il portatile e gli altri volumi. In realtà odiava sé stessa, colpevole di non odiare quell'arrogante figlio di papà nonostante il male che le aveva fatto. A giudicare dal sorrisetto di Bass, ne era consapevole anche lui. La Witter si allontanò senza voltarsi indietro.

Henry Bass si ripromise di non seguirla. Cavolo, sarebbero potuti davvero diventare una coppia degna del più romantico dei romanzi, se solo lei non si fosse rivelata così testarda. Tutto era cambiato la sera in cui aveva scoperto Crystal baciare la Ford. I castelli di carta, che aveva costruito e che avrebbero dovuto rappresentare il suo futuro, erano improvvisamente crollati. Sposare Crystal, l'unica ragazza che considerava degna di lui, ormai gli era sembrato del tutto impossibile. Quel bacio glielo aveva fatto comprendere con una chiarezza che non poteva essere spezzata nemmeno dalla più tenace delle illusioni. Si era sentito mancare. Dove erano finite le sue certezze? Aveva pensato che avrebbe potuto divertirsi con tutte le ragazzine più patetiche del liceo e poi del college, ma alla fine avrebbe messo su famiglia con quella giovane popolare quanto lui, ma allo stesso tempo migliore, perché Crystal, a differenza sua, non desiderava ottenere la popolarità a scapito degli altri. Lei era pura. Mentre stava osservando la sua migliore amica abbracciare la Ford, qualcuno si era avvicinato a lui e lo aveva costretto a seguirlo. Era salito nell'auto di Bree Witter… Era lei la sua rapitrice.

Aveva assistito alla scena del bacio e per un attimo lui aveva provato una enorme soddisfazione. Non era stato il solo a essere ingannato da una persona di cui si fidava. Anche Georgina aveva nascosto la verità alla sua migliore amica. La presenza fisica di Bree lo aveva riportato con violenza nell'abitacolo, ponendo fine alle elucubrazioni a cui si era abbandonato. Doveva essere impazzito. La scoperta sulla figlia di Serena doveva averlo sconvolto al punto da trovare all'improvviso gradevole il profumo al borotalco di Bree, che solo qualche settimana prima gli aveva fatto storcere il naso, visto che sicuramente era stato acquistato in una dozzinale profumeria. Aveva cercato di ignorare la fragranza sprigionata dalla sua ex. «Dove stiamo andando? Ti ricordo che il rapimento è un reato e che i miei genitori possono disporre della migliore consulenza legale del Paese.» Bree aveva scosso la testa. Lo stava davvero trattando come una mosca fastidiosa, non degnandolo nemmeno di una risposta? In effetti non avrebbe avuto tutti i torti. Era sempre stato così arrogante, si era sempre considerato superiore, ma aveva fallito come un comune mortale. Perché all'improvviso, come se si fosse appena liberato da un morso che lo frenava, il suo cuore stava accelerando i battiti? Sto impazzendo. Non è possibile, aveva pensato.

Per sua fortuna il tragitto era stato breve e aveva potuto ben presto scendere da quell'auto che sapeva così tanto della figlia di Pacey Witter. Pacey Witter che non sarebbe stato affatto contento di saperla lì, nel suo locale ormai chiuso, proprio con un arrogante come lui. Di certo se quell'uomo avesse potuto vedere l'espressione sul volto della sua bambina, si sarebbe sicuramente tranquillizzato. A malincuore, Henry Bass era stato costretto ad ammettere, come del resto era prevedibile, che in Bree Witter non albergava alcun intento romantico. Del resto perché avrebbe dovuto averne o lui desiderarli? Stava forse impazzendo? La ragazza sembrava più che altro un toro inferocito, pronto a scattare. «Farai finta di non aver visto nulla, a meno che non siano le dirette interessate a parlarne o a renderlo pubblico.» aveva detto lei, sbattendo la mano su uno dei tavoli. «Mi sembra una richiesta ragionevole. Non c'è bisogno di farti ingessare la mano per dimostrami che fai sul serio.» «Non farai del male a Georgina per ottenere la tua vendetta nei confronti di Crystal. Non ti permetterò di ferirla come hai già fatto con me e Colin.» «E se l'unica a essere ingannata fossi tu? Non da me, non preoccuparti. Da loro. Da Ford e Jane. Le due persone che ti sono più vicine.» «Non è vero.» «Lo sai anche tu perché li hai visti confabulare, più volte.» «Non potranno mai farmi più male di quanto me ne abbia fatto tu. A differenza tua, Henry, loro hanno dei valori» Bass aveva sorriso mestamente.

«Feriscono di più i gesti di persone che reputi amiche rispetto a quelli degli squali come me. Dovresti saperlo anche tu, Witter. Inoltre per perseguire dei fini nobili, o presunti tali, si possono anche sacrificare affetti, amori e amicizie. Sai che ho ragione, Bree. Hai solo paura di ammetterlo.» Spinto da una forza a cui nemmeno lui sapeva dare un nome, Bass si era avvicinato e aveva preso il volto di Bree tra le mani. Le sue labbra erano sempre state così carnose? Perché non se ne era mai accorto quando erano stati insieme? Lei si era divincolata. «Io ti ho avvertito, Henry.» Erano usciti dal locale. Bree si era affrettata a salire in macchina, aveva messo in moto e lo aveva lasciato lì, come un idiota, davanti al The Icehouse. «Ehi, prima mi rapisci e poi mi abbandoni in mezzo alla strada.» aveva urlato Henry, ma lei era già scomparsa. Questo era accaduto la sera in cui Bree e lui avevano scoperto il bacio scambiato dalle loro migliori amiche. Da allora Bass la seguiva, la osservava e forse la tormentava, come aveva appena fatto nel giardino della scuola. Erano solo passati solo pochi giorni, in realtà. Lei, però, era diventata importante per lui quanto l'aria per respirare.

Qualche giorno dopo Colin Jane entrò nella sua stanza e sobbalzò. Seduta sul letto c'era Bree Witter, con indosso quella maglia blu che lui adorava tanto. I capelli neri raccolti in una lunga coda di cavallo. Qualche tempo prima si era divertito a tirarla. Bree aveva deliberatamente scelto dettagli che lui apprezzava, eppure sapeva che quella conversazione non sarebbe stata piacevole. Lo leggeva negli occhi della fidanzata, che si erano trasformati in due fessure. «Tuo padre mi ha permesso di entrare. Poi è uscito a cena con tua madre. Mi aveva assicurato che saresti tornato a casa a minuti. Invece ti aspetto da due ore.» Bree si era alzata, era rimasta ferma, in piedi, rigida accanto al letto. Devi farle del male se vuoi mantenere il tuo segreto, pensò Colin. «Non avresti dovuto fermarti per tanto tempo in un appartamento che non è tuo. Al buio, poi.» «So bene di non aver agito come una persona educata. Devo sapere cosa mi nascondi.» Bree si sforzò per non alzare il tono della voce, per non picchiarlo o scuoterlo. «Non sono affari tuoi.» Si indispettì Colin, nascondendo in un armadio lo zaino che aveva con sé. «Dovresti fidarti di me, credere nel nostro amore. Invece di permettere a Henry Bass di riempirti la testa di dubbi.» «Siete tu e Georgina che colmate la mia testa di dubbi.» «La scadenza per il concorso è vicina. Non rischiare di perdere tempo prezioso preoccupandoti per questioni inutili. La fiducia è alla base di un rapporto. Fidati di me.»

Colin si avvicinò a Bree, le prese il viso tra le mani. I suoi occhi si perdevano in quelli della ragazza. Lei, però, si allontanò, ansimando. «Mi fido di te. Ho solo paura che tu possa metterti in guai seri, però. Ho una brutta sensazione. Guarda cosa è successo a Emma e Leo. Temo per te.» Si rese conto di aver urlato quando incontrò con lo sguardo gli occhi spalancati di Colin. Le vennero in mente le parole pronunciate da sua madre qualche giorno prima, quando lei, in cerca di un consiglio, si era rivolta a Joey. «Dovresti saper attendere il momento giusto. Aspettare che le persone siano pronte ad aprirsi. Non affrettare le cose. Concedi agli altri i loro tempi.» Le aveva consigliato la madre. Bree si rese conto di aver gettato alle ortiche non solo il suggerimento della signora Witter, ma anche la relazione con Colin. Mentre una lacrima solitaria gli scorreva su una guancia, il ragazzo cercò di mantenere ferma almeno la voce. «Non mi lasci altra scelta. È finita, Bree» disse. Lei non pose resistenza, si limitò ad annuire, mentre lasciava in silenzio la stanza.

Erano trascorsi due giorni dalla rottura, Bree era sola al The Icehouse dopo l'orario di chiusura. Lavorare di solito l'aiutava a non pensare, ma in quel momento la sua testa stava brulicando. Aveva perso Colin. Era triste per aver perso il suo fidanzato o uno dei suoi più cari amici? L'immagine di Bass fece capolino nella sua mente. Negli ultimi tempi lui la confondeva. Era tornato il batticuore e il ricercatissimo profumo, che lui si faceva consegnare direttamente dalla Francia, la inebriava. Colin poteva essere sostituito senza troppi traumi come fidanzato. Aveva, invece, perso il suo amico, quello con cui aveva costruito una casetta sull'albero e organizzato lunghe escursioni in bicicletta. Era per questo che lei non aveva affrontato anche Georgina. Non voleva rinunciare anche a lei. Del resto Jane avrebbe dovuto già da un pezzo informare la Ford del loro scontro e dei sospetti della loro amica. Lei sapeva dei suoi dubbi, ma non era corsa a trovarla. «Anche Georgina ha paura di affrontarmi» Bree si accorse di aver pronunciato quelle parole ad alta voce, quando udì una risposta. «Sì, Witter. È molto probabile.» Era Henry Bass, il ragazzo che la ossessionava da giorni. Poteva uno sguardo trapassare l'anima? Sì, la risposta era, evidentemente, un sì. Lo sguardo di quel damerino fissato su di lei stava accelerando I battiti del cuore della ragazza. Si era dimenticata delle sedie da sistemare sopra ai tavoli, del pavimento da pulire, di Colin e persino di Georgina. Henry, invece, si avvicinò al Juke Box e…

ᴍɪ ʜᴀɪ ʟᴀsᴄɪᴀᴛᴏ, ᴍɪ ʜᴀɪ ʟᴀsᴄɪᴀᴛᴏ ǫᴜᴀɴᴅᴏ ᴘɪᴜ̀ ᴀᴠᴇᴠᴏ ʙɪsᴏɢɴᴏ ᴄʜᴇ ᴍɪ ᴀғғᴇʀʀᴀssɪ. ʜᴀɪ sᴄᴏᴍᴍᴇssᴏ ᴇ ᴍɪ ʜᴀɪ ᴏʙʙʟɪɢᴀᴛᴏ ᴀ ᴄᴇʀᴄᴀʀᴇ ʟ'ᴀᴍᴏʀᴇ ᴀʟᴛʀᴏᴠᴇ. ᴏʜ ʟᴏ sᴏ ᴄʜᴇ ɪɴ ǫᴜᴇsᴛᴏ sᴄᴇɴᴀʀɪᴏ, ʜᴏ ɢɪᴏᴄᴀᴛᴏ ʟᴀ ᴍɪᴀ ᴘᴀʀᴛᴇ. ᴏʜ ʟᴏ sᴏ ᴄʜᴇ ᴇ̀ ᴏʀᴍᴀɪ ᴛᴀʀᴅɪ ᴘᴇʀ ᴛᴏʀɴᴀʀᴇ ɪɴsɪᴇᴍᴇ

Henry Bass aveva scelto proprio quella canzone. Mentre le note si diffondevano nell'aria, le parole di “Me Solsaste” le colpirono il cuore e la mente. Henry l'aveva abbandonata e delusa, e così aveva trovato conforto in Colin, che era diventato molto più che un amico per lei. Le scelte compiute da entrambi l'avevano resa quasi una replica di sua madre da adolescente: sempre in bilico tra Pacey e Dawson e incapace di prendere una decisione o di andare oltre quei due. Bass non pronunciò una sola parola. Si limitò solamente a stringerla tra le braccia e coinvolgerla in un lento. La teneva così stretta da toglierle il respiro. O forse bastava la sola presenza di Henry per ottenere quell'effetto. Era come stare sulle montagne russe. «Sei bellissima» sussurrò il giovane, con una dolcezza che nemmeno lui sospettava di possedere. La baciò e le labbra rimasero avvinte come i loro corpi.

💔Story By Silvia Bucchi💔

Quella sera stessa, una volta tornata a casa, Bree Witter si sedette alla scrivania e aprì il PC, con un'energia che non sapeva di avere. Il foglio bianco all'improvviso si riempì di parole. Di ricordi. La prima marachella con Colin, le confidenze con Georgina, le risate in compagnia di Andrea e poi i baci di Henry. Come sempre lo zio Dawson aveva avuto ragione.

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Capitolo 13
*** Capitolo XIII: Solo Quedate En Silencio ***


Quel lunedì mattina di aprile la sveglia non suonò, con grande gioia di Andrea. Erano iniziate le vacanze di primavera, o Spring Break come le chiamavano i suoi amici americani, e lei aveva intenzione di sfruttarle dormendo e rilassandosi… E studiare per gli esami finali dei corsi a cui era iscritta, ma per quello c’era tempo. La Oliver M. Berry High School era tosta per essere una scuola pubblica statunitense, però la distribuzione delle pause didattiche permetteva agli studenti di riposarsi e mettersi in pari con lo studio, che non era mai eccessivo. Una bella fortuna rispetto all’istruzione italiana, pensò la Antinori. Le sue amiche di Roma le avevano raccontato di quanto fosse difficile il liceo classico, dello stress causato da verifiche e interrogazioni troppo ravvicinate e dalla sproporzione del carico di lavoro da fare a casa rispetto al tempo libero che avevano a disposizione, giorni di vacanza compresi. A quanti sfoghi aveva assistito Andrea su Skype! Nonostante le mancassero da morire le sue besties, preferiva di gran lunga il sistema scolastico americano a quello italiano e doveva ringraziare sua madre se poteva sperimentarlo in prima persona. Già, sua madre… Si erano trasferite a Cedar Springs prima dell’inizio dell’anno scolastico, però Andrea non aveva ancora scoperto il motivo per cui la dottoressa Munari aveva accettato l’incarico da psicologa scolastica oltreoceano e questo non sapere la tormentava. Aveva provato a chiederglielo numerose volte, ma la donna aveva sempre eluso l’argomento, come se stesse nascondendo qualcosa. La ragazzina ci stava pensando anche quella mattina, mentre scendeva in cucina per fare colazione. In fondo, l’atteggiamento della madre era stato a dir poco sospetto da quando erano arrivate in Texas: era poco presente a casa e, quando era di turno a scuola, la ignorava. Sembrava che fosse Claudia Munari a non voler far sapere agli studenti che Andrea era sua figlia e non il contrario, come sarebbe dovuto essere. Davvero strano. Così come era strano che la porta della cucina fosse chiusa. Sua madre non la chiudeva mai, nemmeno quando friggeva. La ragazzina impugnò la maniglia e la stava per girare, quando udì la voce di Claudia dall’altra parte. «No, Gabriel, non ho ancora scoperto niente. Racconta lo stretto necessario durante le sedute, ma cambia argomento quando nomino Cadavid. Il legame con la Setta è forte e le sue difese psicologiche non cedono. Temo che ci vorrà più tempo del previsto per accertarsi del loro coinvolgimento in quell’omicidio… O comunque un nuovo approccio.» A giudicare dalle pause che Claudia faceva fra una frase e l’altra e la mancanza della voce profonda dell’interlocutore, Andrea intuì che la conversazione era telefonica. Quando ci fu un silenzio più lungo degli altri, la ragazza si accorse di star trattenendo il fiato. Quindi era per questo che la dottoressa Munari aveva accettato un incarico inferiore alle sue capacità in un altro continente: era ancora sulle tracce dell’organizzazione che aveva combattuto a Roma insieme a Padre Gabriel! Subito si sentì orgogliosa della sua mamma, ma poi realizzò quanto fosse pericoloso l’incarico, se l’aveva tenuta all’oscuro di tutto. Il cuore le batté all’impazzata, ma doveva fare finta di niente se voleva tenere entrambe al sicuro. «Ci penso io a riferirlo al FBI dopo lo Spring Break: se Cadavid mi fa tenere d’occhio, non si insospettirà se la psicologa scolastica chiamerà un genitore, che è anche un agente speciale, durante l’orario di lavoro per rassicurarlo sull’inserimento sociale della figlia-genio in classe.» Quindi era coinvolta anche una delle più importanti agenzie governative, era davvero un caso enorme! Basta, non voleva origliare oltre, così iniziò ad allontanarsi lentamente dalla porta… O almeno questa era la sua intenzione. Non fece in tempo a muovere un passo, che il cellulare che teneva in una mano si illuminò è lanciò la suoneria dei messaggi. Porca miseria! La ragazza portò il dispositivo davanti agli occhi e lo sbloccò per mutarlo, ma prima partì un secondo squillo altrettanto forte. Se sua madre non l’aveva sentita la prima volta, adesso la rossa era sicura che si era accorta di lei. «Gabriel, devo andare. Andrea è scesa in cucina. Ci sentiamo presto.» sentì infatti chiudere in fretta la chiamata e, pochi secondi dopo, la porta si aprì. «Cosa stavi facendo dietro la porta, signorina?» Claudia la salutò così: con una domanda tagliente e il suo sguardo inquisitorio ancora più affilato. Neanche un “Buongiorno” aveva detto, aveva preferito andare dritta al punto. Era una donna troppo perspicace, la sua fama non le rendeva giustizia. «Non stavo origliando, se è quello che penso… O almeno, non l’ho fatto intenzionalmente.» si difese lei. «Stavo per entrare in cucina, quando ho visto la porta chiusa e ti ho sentita parlare al telefono, così me ne stavo andando per non disturbarti.» sua madre fece un respiro rumoroso e scosse la testa. «Quanto hai sentito?» la Antinori abbassò lo sguardo. Non sapeva cosa fare: doveva mentire o essere sincera? Quale delle due opzioni era la meno pericolosa per entrambe? «Andrea, non finirai nei guai per questo. Voglio solo capire qual è la nostra nuova situazione. Potrebbero esserci delle ripercussioni fra di noi, anche gravi, se non mi dirai la verità.» «Ho sentito poco… Ma a sufficienza per capire che non devo parlarne con nessuno, stai tranquilla.» la dottoressa Munari annuì. «C’è qualcosa di poco chiaro? Ti posso spiegare altro?» «No, ho capito perfettamente la situazione e non voglio saperne di più. Credo che sia già rischioso così.» rispose la figlia. Andrea si aspettava un altro cenno oppure una frase monosillabica di assenso da parte di sua madre, invece Claudia la strinse in un forte abbraccio. La ragazzina sentì gli occhi pizzicarle, come quando era sul punto di piangere, per quanto il gesto della psicologa era colmo di affetto. Ricambiò la sua stretta e tutto l’amore che provava per la donna che le aveva dato la vita e che la voleva proteggere dal suo pericoloso lavoro. «Ti preparo la colazione, sarai affamata.» affermò Claudia, dopo che ebbe sciolto l’abbraccio. Andrea la ringraziò e, intanto che sua madre inseriva due fette di pane nel tostapane, si sistemò a tavola e controllò le notifiche che l’avevano fatta scoprire. Era Bree, che le chiedeva se aveva voglia di fare qualcosa insieme quel giorno, magari un giro al centro commerciale. Non le sarebbe dispiaciuto trascorrere qualche ora in giro per negozi, così accettò l’invito e accordò un orario di ritrovo. Terminata la colazione, Andrea corse in camera sua a prepararsi per uscire. Mentre stava decidendo qualche t-shirt indossare, il suo cellulare squillò un’altra volta. La ragazza fissò lo schermo illuminato con una certa sorpresa: Christopher Park la stava chiamando! Che cosa poteva mai volere da lei?

«Hello?» «Ciao, Andrea, sono Chris. Hai da fare oggi? Vengono da me alcuni amici, ci facciamo un paio di tuffi qui in piscina. Mi stavo chiedendo se ti andasse di fare un salto, ecco.» Christopher arrossì. Era rimasto folgorato da lei fin da quando si erano conosciuti, però non era mai riuscito a trovare un pretesto per andare oltre la semplice amicizia. Che quell’invito fosse la volta buona per prendere un po’ di coraggio e passare alla fase successiva? Stava già fantasticando sui possibili scenari, poi i suoi sogni si frantumarono all’istante. «Mi dispiace, ma mi vedo con un’amica più tardi.» ecco, lei era già impegnata, avrebbe dovuto immaginarlo! Aveva cantato vittoria presto! Però aveva parlato di una sola amica… I suoi genitori erano stati chiari sul numero e la tipologia di amici che poteva invitare a casa: non volevano ritrovarsi una festa senza controllo con ragazzini minorenni durante lo Spring Break. Andrea era una ragazza tranquilla e sicuramente lo sarebbe stata anche la sua misteriosa amica. Che poi, tanto misteriosa non era: la compagnia della rossa era composta esclusivamente da Bree Witter e Georgina Ford, ma dato che quest’ultima aveva improvvisamente preferito Crystal Humphrey, probabilmente si trattava della Witter. «Che problema c’è? Chiama anche lei! Più siamo e meglio è.» «Davvero? Fantastico. Adesso la sento e ti so dire fra un po’.» «Perfetto, a dopo!» Chris chiuse la conversazione e non aspettò di ricevere la risposta per mandare alla sua bella la posizione della sua villa. Se sapeva già dove abitava, Andrea non avrebbe potuto rifiutare l’invito.

Più tardi… «Jamie, no, smettila!» le urla e le risate di Molly Ziegler e Jamie Scott sovrastavano qualsiasi altro suono nelle vicinanze di casa Park. I due fidanzatini si stavano infatti divertendo a schizzarsi l’acqua della piscina, come se fossero due bambini piccoli. Christopher li trovava alquanto infantili, ma erano carini a modo loro. Anche se non sopportava la ragazza del suo migliore amico, riconosceva che lei lo rendeva felice e questo bastava per sopportarla il giusto, anche quando invitava Jamie da lui. Ma al contrario di loro due, lui non si stava divertendo affatto. Park aveva organizzato quella giornata per passare del tempo da solo con la studentessa italiana, ma lei aveva portato con sé la Witter… Sì, era vero che era stato lui a dirle di farlo, era l’unico modo per poter stare con lei, tuttavia non immaginava che le ragazze si sarebbero isolate dal gruppo, sedendosi nel lato più basso della vasca e confabulando fra di loro. Aveva bisogno di smuovere le acque e aveva la persona giusta a portata di mano. «Ehi, Ziegler.» «Cosa vuoi, Park?» le rispose acida la moretta. «Perché non vai a parlare con le altre due ragazze e le inviti ad unirsi a noi?» «Ma sei scemo? Perché dovrei farlo io? Sei tu il padrone di casa o sbaglio?» «Perché sei una femmina anche tu e sei meno minacciosa di me.» Molly fece una smorfia in segno di disgusto. Park aveva dei modi orribili nel trattare gli ospiti. Dio, come lo detestava! «Voglio qualcosa in cambio.» «Sentiamo.» «Voglio che tu la smetta di imbucarti alle uscite fra me e il mio ragazzo il venerdì e il sabato fino alla fine della scuola.» Christopher alzò un sopracciglio, sorpreso. Gli stava praticamente imponendo di non vedere il suo migliore amico durante il fine settimana… Con chi avrebbe passato il tempo fuori da scuola? Con Andrea, forse, se il suo piano sarebbe andato in porto. «D’accordo.» e le allungò la mano per siglare il patto. Molly ricambiò la stretta, poi non perse tempo e si diresse dalle altre ragazze. «Quindi non ti vedrò più nel week-end, amico.» fece Jamie, non appena la fidanzata si fu allontanata. «È un piccolo prezzo da pagare, se voglio avvicinare Andrea.» «Pensi che questa sarà la volta buona?» «Lo spero.» «Beh, in ogni caso, sarà bello non averti fra i piedi per un paio di mesi.» e il biondo si lasciò andare ad una fragorosa risata. Chris non ricambiò però, fece solo un ghigno. «Sì, è molto divertente. Mi annoierò a morte senza di te.» «Io non penso: avrai più tempo da dedicare alle tue spasimanti e lo stesso farò io con la mia.» «Che cosa ci vedi in lei, Jamie? Non riesco proprio a capirlo.» «Molly non è quel sembra. Ha una grande cuore e una bella mente, ma si fa amare solo da chi vuole lei. Credo che lo faccia come meccanismo di auto-difesa.» rispose Jamie, lanciando uno sguardo colmo d’affetto verso la fidanzata. Christopher alzò invece le spalle: il suo migliore amico era davvero cotto di quella ragazza e lui non riusciva ancora a vederne il motivo.

Quel pomeriggio a casa Park aveva scombinato tutti i piani di Bree. La cheerleader avrebbe preferito essere al centro commerciale in cerca di nuovi vestiti, invece che a prendere il sole in piscina con delle persone con cui aveva scambiato poche parole fra i corridoi della Oliver M. Berry. Almeno c’era con lei un’amica leale e sincera come Andrea, non come la Ford. I messaggi non inviati di Georgina dopo la sua rottura con Colin le facevano ancora male, in più si era avvicinata nuovamente a Henry Bass e aveva disperatamente bisogno di parlarne con qualcuno. E chi meglio di Andrea? Quella giornata insieme doveva essere il pretesto per dedicarsi alle confidenze, invece era stata invischiata nelle trame amorose del padrone di casa, che continuava a tampinare l’italiana senza successo. Per fortuna, le due erano riuscite ad appartarsi per un momento e Bree aveva potuto raccontare tutto quanto le era successo di recente all’amica. «Quindi pensi di dare una seconda chance a Henry?» chiese Andrea. «Sinceramente non lo so, mi ha già presa in giro una volta e non vorrei ripetere l’esperienza… Però è stato veramente dolce l’altra sera! Accidenti, non so cosa fare.» sospirò la Witter, nascondendo il volto fra le mani. «Io non farei nulla, se fossi in te.» rispose una nuova voce. Molly Ziegler si era aggiunta al gruppo, senza neanche essere invitata. La moretta si sedette nella parte bassa della vasca, esattamente di fronte alle due ragazze. «È vero che Bass sa essere un amore, ma è viscido e manipolatore come pochi. Ti ha già trattata male in passato, quindi perché dovrebbe essere diverso questa volta?» «Scusami, ma è un discorso privato e tu non sei stata invitata a parteciparvi.» ad Andrea non era piaciuta l’intromissione, così aveva messo in chiaro e senza mezzi termini che la Ziegler non era gradita nella conversazione. «Non mi interessa, i ragazzi mi hanno allontanata dal gruppo per fare… Beh, discorsi da maschi. E io non so con chi altro stare. Voi sembrate una così bella compagnia e a scuola non ci siamo mai frequentate molto, quindi potrebbe essere una buona occasione per conoscerci meglio.» continuò imperterrita la moretta, che non aveva alcuna intenzione di andarsene. Andrea stava per risponderle per le rime, ma Bree alzò una mano per fermarla. «Nessuno le vieta di restare. E poi ha ragione: Henry non è esattamente un angioletto.» ammise la Witter. «Ma questo non dovrebbe trattenerti dal riprovare a stare con lui. Forse ha capito che splendida persona tu sia e ha deciso di tornare da te.» aggiunse Andrea. «Sì, può essere. Comunque, se non sei sicura di lui, non dovresti dargli una seconda chance… Almeno non adesso. Sei appena uscita da una storia con Colin Jane e già pensi a Bass… Non ti sto giudicando, però è chiaro che hai il cuore in subbuglio e la testa confusa. Dovresti prima capire chi vuoi davvero ed essere single aiuta a schiarirsi le idee.» ribatté Molly. Andrea dovette ammettere con se stessa che il discorso aveva un senso, così appoggiò l’altra. «Forse avete ragione, dovrei prendermi del tempo per me e non pensare troppo ai ragazzi. Solo così potrò venire a capo del mio dilemma.» convenne Bree. «Bene, così puoi concentrarti come si deve sul tuo racconto per il concorso!» si lasciò sfuggire Andrea. «Stai scrivendo un racconto per un concorso? Ma dai, è fantastico! Di cosa parla?» il viso di Molly Ziegler si illuminò di puro entusiasmo: Andrea e Bree non l’avevano mai vista così sinceramente interessata a qualcosa che non fosse il gruppo delle cheerleader! La Witter iniziò a spiegarle il progetto a cui stava lavorando e delle difficoltà che stava riscontrando nel trovare la conclusione della sua storia. Aveva vari finali in mente, ma nessuno lo trovava calzante e questo la spaventava: temeva che non sarebbe riuscita a completare il testo per la data di consegna e, di conseguenza, di non partecipare alla competizione. Stava per raccontare le possibili conclusioni, quando un pallone gonfiabile cadde a poca distanza dalle ragazze, schizzandole tutte. «Vi va di fare un gioco tutti insieme?» Christopher si era stancato di aspettare che Molly coinvolgesse le due nuove del gruppo, così era andato all’attacco, scagliando la palla vicino a loro per attirare la loro attenzione. «Tu, lurido lombrico!» lo insultò un’infuriata Molly Ziegler, agguantando la sfera di plastica e lanciandola con tutte le sue forze in pieno petto al padrone di casa. Chris lanciò un gemito di dolore e Jamie scoppiò a ridere per la scena, seguito a ruota da Andrea e Bree. «A cosa giochiamo?»

Il pomeriggio in piscina era giunto al termine: l’orario di cena si stava avvicinando e i ragazzi si stavano preparando per rientrare alle proprie abitazioni. Bree si stava sistemando nel bagno degli ospiti in casa Park, mentre Molly e Jamie si erano appartati nella dépendance per cambiarsi i costumi. Andrea stava invece raccogliendo le sue cose dallo sdraio in giardino ed era da sola, notò con gioia Christopher. Era il momento giusto per agire: le si sarebbe avvicinato e avrebbe fatto un po’ di conversazione prima di farle la fatidica domanda. Un piano perfetto e dal risultato garantito! «Ti sei divertita?» «Sì, è stato un piacevole pomeriggio. Non avrei mai detto che Molly e Jamie fossero così simpatici!» «Sì, beh, bisogna conoscerli per apprezzarli.» rispose lui, facendo un sorrisetto. Bene, ora aveva l’aggancio perfetto per tastare il terreno. «Spero che tu abbia rivalutato anche me.» «Sei una buona compagnia, Park, lo devo ammettere.» il cuore di Chris saltò un battito a quelle parole. Vedeva un barlume di speranza, allora il suo piano aveva funzionato! «Quindi posso sperare di rivederti più spesso?» Andrea storse la bocca, era evidente che stava valutando l’opzione. «Se organizzate delle altre uscite e mi chiamate, potrei esserci.» restò lei sul vago. Contro ogni pronostico, Andrea si era trovata bene con quella cricca e non le sarebbe dispiaciuto ripetere l’esperienza, se si fosse ripresentata l’occasione. Dopo tanti mesi dal suo trasferimento, forse si stava davvero ambientando in quella realtà così diversa dalla sua Roma. «E se fossimo solo noi due a uscire?» Chris ammiccò, sentendosi già la vittoria in tasca. Andrea era arrossita e questo era un buon segno, secondo lui. La ragazza era imbarazzata: temeva che quel momento sarebbe arrivato, ma non immaginava così presto. Anche se Christopher si era dimostrato più simpatico di quanto le era sembrato a scuola, lei non provava nulla per lui ed era giusto che lo sapesse. «Ascolta, Christopher, sono stata bene oggi con te, però io non vedo una storia romantica fra noi due. È che ti vedo solo come un amico.» lo scintillio di spavalderia negli occhi del ragazzo morì: evidentemente non si aspettava un rifiuto. «E questo non potrà mai cambiare?» continuò lui, imperterrito. Se aveva un margine di successo, Christopher voleva saperlo. «Non lo so, ti conosco da troppo poco… E adesso non me la sento di avere una relazione con te o chiunque altro.» sbottò lei, spazientita dall’insistenza del ragazzo. «Certo, hai ancora in testa il tuo ex italiano, lo capisco.» dedusse lui. Andrea voleva dirgli che stava sbagliando completamente strada, però se questo pensiero lo avrebbe tenuto buono per un po’, forse era meglio lasciarglielo credere. «Sì.» «Pazienza. Ci vedremo in compagnia degli altri e chissà, magari conoscendomi meglio, cambierai idea un giorno.» e lui le diede una pacca sulla spalla, come sono soliti fare i ragazzi con i loro amici maschi. Andrea sorrise, ma il modo in cui lo fece sembrava più irritato che accondiscendente. L’insistenza di Christopher le dava sui nervi, ma non poteva farci niente. La prossima volta, doveva essere più brutale. Per sua fortuna, Bree tornò in giardino prima che la conversazione degenerasse ulteriormente. «Sei pronta, Andrea?» chiese la Witter, che si era accorta dalla lunga occhiata supplichevole di salvezza che le aveva lanciato l’amica. «Sì, possiamo andare.» la rossa si affrettò a mettere l’asciugamano nello zaino e a salutare tutti, prima di tornarsene a casa insieme a Bree.

Il sole stava tramontando sul Texas, quando Bree parcheggiò l’auto nel vialetto. Era stanca, ma tutto sommato era stata una bella giornata: aveva scoperto un lato di Molly Ziegler di cui non era a conoscenza, eppure erano nella stessa squadra di cheerleader! Come lei, amava leggere e adorava le autrici inglesi romantiche, però non ne faceva vanto perché non voleva essere etichettata come nerd, come era successo al fratello gemello. Le aveva persino chiesto di poter leggere il racconto per il concorso, una volta terminato! E il consiglio che le aveva dato su Henry Bass era molto saggio… Insomma, Molly si era rivelata una tipa interessante e, se avesse continuato a frequentarla, Bree era certa che ne sarebbe nata una bella amicizia. Anche il suo fidanzato, Jamie Scott, era stata una sorpresa: pensava che fosse uno di quegli atleti spocchiosi e ignoranti che pensano solo al football, invece era un tipo alla mano e aveva uno spiccato senso dello humor. L’unica non-novità era Christopher: lui era esattamente il galletto gradasso che aveva incontrato fra i corridoi della scuola, però era sopportabile in presenza di Jamie, che riusciva a smorzare il suo pessimo carattere con la sua mitezza e qualche battuta. Sì, pensò infine, ci uscirei volentieri un’altra volta. Bree raggiunse il portone d’ingresso e aprì la tasca della borsa dove teneva di solito le chiavi, ma non le trovò. Iniziò a cercare in ogni angolo e in ogni possibile nascondiglio della sacca. Guardò persino in macchina, nel caso le fossero cadute sul sedile o le avesse lasciate distrattamente nel portaoggetti. Niente, le chiavi non c’erano! «Maledizione!» doveva averle dimenticate nel piattino dove le teneva sempre e a quell’ora non c’era nessuno in casa: sua madre era allo Yacht Club per un evento, mentre il padre doveva essere già al ristorante per l’apertura serale. La ragazzina sbuffò. Non aveva voglia di rimettersi in viaggio e chiedere a uno dei due genitori di prestarle il proprio mazzo di chiavi. Non aveva nemmeno l’intenzione di chiedere ai vicini se ne avevano una copia per le emergenze o se poteva stare da loro finché Joey o Pacey non rientravano. La rottura con Colin le bruciava ancora e voleva evitarlo a tutti i costi, se poteva. Ci doveva essere un’altra soluzione al suo problema… Ma certo, la chiave di scorta dentro il vaso! Joey ne aveva nascosta una nel giardino sul retro per ogni evenienza, perché diceva che era troppo vecchia per entrare nell’abitazione dalle finestre. Sicuramente era ancora lì. Con un’agile mossa, la cheerleader scavalcò lo steccato in legno bianco che delimitava la parte posteriore della tenuta, svoltò l’angolo in direzione dell’ingresso posteriore e… Per poco non le venne un infarto! C’era qualcuno seduto sui gradini dell’uscio, che sicuramente la stava aspettando! «Che ci fai qui?» la voce le uscì più acida di quanto avrebbe voluto. Non era il modo di comportarsi che i suoi genitori le avevano insegnato, ma se si trattava di una persona che ti aveva pugnalato alle spalle, senza neanche sapere il perché. «Sono venuta a parlare con te.» rispose Georgina Ford. «Ho beccato Pacey mentre andava al lavoro. Mi ha detto che non c’eri, ma che saresti tornata presto, così ho deciso di aspettarti.» «Non potevi lasciare un messaggio?» «Non è un argomento di cui si può parlare al telefono.» «Ah sì? Beh, ormai è tardi. Ne avevi di occasioni per spiegarti, invece sei sparita. Mi hai ignorata. E mi hai fatto male. Adesso non voglio più saperne di te!» «Non lo pensi davvero, Bree, ti conosco fin troppo bene.» la voce di Georgina era calma e controllata. Sembrava un pezzo di ghiaccio e non l’impacciata ragazzina passionale che Bree adorava. «No, probabilmente no. Però è vero che mi hai ferita. Avevo bisogno di te e non mi hai cercata. Io, questo, lo interpreto come non voler più essere mia amica.» «Per questo sono qui.» Dopo il furto, Georgina aveva pensato di continuare la sua solita recita con Bree, ma a trattenerla era stata la rottura con Colin. Lui aveva mollato Bree, perché lei aveva il timore che la stesse tradendo con la stessa Georgina, quando in realtà Jane era il mentalista della banda. Come poteva spiegare all’amica che il loro era solo un rapporto di lavoro? Avrebbe dovuto raccontarle della sua vita segreta e sapeva che Bree non avrebbe capito la sua scelta. Perciò aveva approfittato della crisi fra lei e Colin per allontanarsi, inoltre era stata piuttosto presa dalla sua nuova relazione con Crystal. Ma più passavano i giorni, più si era resa conto che l’amica stava soffrendo enormemente per il distacco ingiustificato. Doveva mettere un punto alla loro amicizia, così si era fatta coraggio e aveva deciso di aprirsi. Per questo era andata a trovarla, ma Pacey le aveva detto dov’era e con chi era e ciò fu sufficiente per far cambiare idea a Georgina. Bree si meritava un’amica migliore, che non le nascondesse chi era realmente, e se questa persona era Andrea Antinori o, peggio, Molly Ziegler, lo avrebbe accettato. Avrebbe lasciato la parte migliore di lei libera di essere felice, perché Bree se lo meritava. «Ero sparita, perché avevo bisogno di pensare. Sono successe molte cose di recente, che mi hanno fatto ripensare alla nostra amicizia. Sei una ragazza fantastica, Bree Witter, forse l’amica migliore che abbia mai avuto e che avrò mai… Però nell’ultimo periodo non sono stata bene con te. Non posso frequentare qualcuno che dubiti di me in ogni occasione, soprattutto che creda che io mi veda di nascosto il suo ragazzo, quando sa benissimo che sono lesbica.» Georgina fece una pausa. Stava perdendo il controllo del proprio tono di voce e gli occhi si stavano caricando di lacrime. Il discorso che aveva preparato era più doloroso di quanto aveva immaginato. «Hai ragione, non sono stata una buona amica per te ultimamente. Ti ho data troppo per scontata e mi sono lasciata trasportare dalle mie insicurezze. Ho dipeso troppo da te e da Colin, ma non voglio più essere così. Forse è un bene se ci separiamo per un po’ e facciamo nuove amicizie e nuove esperienze. Quando saremo più mature, forse saremo pronte per ricominciare.» Bree stava piangendo. Il discorso di Georgina l’aveva fatta riflettere sui suoi comportamenti infantili: la Witter aveva ancora bisogno di crescere, mentre la Ford sembrava già più adulta di qualche settimana prima. Bree avrebbe voluto sapere cos’era successo per farle prendere la decisione di allontanarsi da lei, ma non poteva. Doveva rispettare la decisione di Georgina, così si comportava una vera amica. L’altra ragazza annuì e si alzò dallo scalino su cui era ancora seduta. Doveva andarsene in fretta, pima che iniziasse a piangere anche lei. «Grazie per aver capito… E grazie anche per la frase da serie tv di Dawson Leery: è un bellissimo modo per salutarsi, non lo dimenticherò mai. Ti auguro tutto il meglio dalla vita, Bree.» «Ti auguro lo stesso, Georgina.» Georgina era a pochi passi da Bree. Aveva una manciata di secondi per decidere se andarsene così, se stringerle la mano o se abbracciarla un’ultima volta. Propendeva più per l’ultima opzione, ma le guance rigate di lacrime dell’amica e nella sua espressione da cucciolo ferito la intenerirono. E senza pensarci due volte, le prese il viso fra la mani e le baciò le labbra. Non era mai stata attratta da Bree, ma quel gesto le era sembrato il modo perfetto per dirsi addio. E così fu. Ora l’aveva davvero lasciata libera.

💙Story By Alessia Baraldi💙

Dopo che Georgina se ne fu andata, Bree rimase ancora un po’ in giardino, imbambolata, a fissare la porta. Non smetteva di piangere, ma il suo era un pianto silenzioso. Non c’era più rabbia nel suo cuore, ma non per questo la separazione faceva meno male. Credeva nelle parole che aveva detto alla Ford: voleva davvero crescere e diventare una persona migliore. Senza di lei ma per lei. Glielo doveva. Le bastò questa consapevolezza per calmarla a sufficienza e ricordarle ciò che era venuta a fare nel cortile posteriore. Trovò la chiave di scorta sotto un grande vaso di terracotta ed entrò in cucina. Dopo essersi fatta una doccia, accese il computer portatile, aprì il file per il concorso e, così come aveva romanzato gli ultimi avvenimenti, affidò al racconto il suo saluto a Georgina. Quella era senza dubbio la conclusione perfetta per la sua storia, perché aveva tutti gli ingredienti necessari: aveva dramma e sentimentalismo, ma era anche proiettato con ottimismo verso il futuro. Era questo che la gente cercava nella finzione: la speranza nelle difficoltà di tutti i giorni. Chiunque lo avesse letto, si sarebbe immedesimato nei suoi personaggi e avrebbe trovato conforto nelle sue parole. O ancora meglio, un amico. Soddisfatta del risultato, Bree allegò il file alla domanda di partecipazione all’iscrizione e premette il comando di invio. «E anche questa è fatta!» ora era pronta ad iniziare un nuovo capitolo di un nuovo racconto.

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Capitolo 14
*** Capitolo XIV: Sálvame ***


Cos’era l’amore a 16 anni? Un soffio, un tocco, un battito di ciglia. Forse. O forse no. L’amore poteva essere una valle di farfalle tanto quanto una valle di lacrime, avendo sedici o cinquant’anni. L’età non era così importante quando dentro percepivi spilli roventi conficcarsi nel cuore, quando lo stomaco si intestardiva a rimanere chiuso, quando le palpebre erano ormai secche perché avevano espulso ogni goccia disponibile. Emma Geller-Greene aveva vissuto tutti gli stadi di quello che molti etichettavano come il primo amore adolescenziale. Aveva guardato l’oggetto di quell’amore dapprima sospirando, da lontano, subito dopo aveva fatto una follia che l’aveva portata all’attenzione del soggetto, successivamente si erano vissuti momenti idilliaci come solo i primi baci e le prime esperienze sanno essere. Infine, era arrivata la rottura. Quella più dolorosa, perché determinata da fattori esterni: i suoi genitori. Leonardo era pericoloso, la sua famiglia lo era: la vita della loro figlioletta non poteva essere di nuovo messa a rischio. Così erano arrivati i divieti, le imposizioni, i rimproveri, le discussioni. Emma, ad ogni no, sprofondava sempre di più in uno stato prima di ribellione, poi di apatia. Lei e Leonardo si erano visti di nascosto, in luoghi appartati, con la complicità di qualche amico… ma poi, lui era cambiato. Aveva potuto vedere nella sua testa ogni singolo ingranaggio muoversi. Leo non voleva che la sua vita fosse stravolta… o messa in pericolo, di nuovo. Non voleva che Emma avesse contrasti con i genitori, i quali lui comprendeva perfettamente. Era consapevole che sarebbe arrivato il momento in cui l’avrebbe dovuta lasciar andare… per il suo bene. Emma lo sapeva e aveva atteso quel momento con un’ascia piantata nel cuore. Non aveva fatto scenate, non aveva proferito una sola parola in risposta al razionalissimo discorso di colui che aveva amato fino al punto di rischiare la sua stessa vita. Emma aveva solo guardato i suoi occhi scuri, ne aveva impresso ogni singolo riflesso dentro di sé, prima di abbassare il capo sulle scarpe e mordersi a sangue il labbro inferiore. Poi, se n’era andata, si era rifugiata nella sua cameretta – felice di essere sola in casa dopo settimane di sorveglianza speciale – e allora aveva urlato, con il viso sprofondato nel cuscino, tutta la sua disperazione. Dopo diverse ore, era ancora nella stessa posizione, ormai senza più voce e lacrime. La trovò lì la sua migliore amica: Christine Booth. La signora Greene l’aveva chiamata molto preoccupata e indecisa sul da farsi. Appena rientrata in casa, era subito andata nella stanza di Emma. Era immobile sul letto, la testa appoggiata sul cuscino, gli occhi aperti ma non aveva dato segno di averla vista. L’aveva salutata piano, ma temeva che fosse in bilico, sull’orlo di un precipizio, e aveva capito che se fosse stata lei a intervenire avrebbe potuto farla cadere. Così aveva chiamato Christine. La ragazza dai capelli corvini e dalla pelle diafana si accostò al bordo del letto. Si sedette adagio, prima di appoggiare il palmo aperto sulla testa dell’amica. «Emma, parlarmi. Tua mamma mi ha chiamata preoccupatissima e non hai risposto a nessuno dei miei messaggi. Se continui così, potresti davvero perderti…» La sua voce era delicata mentre si esprimeva in un carezzevole rimprovero. Sì, anche lei era preoccupata. La sua amica non diede segno di averla udita. Batteva le palpebre, era sveglia, respirava – piano – ma lo faceva. Di sicuro l’aveva udita, ma non era arrivata nessuna risposta. «Un giorno, quando saremo più grandi, ci racconteremo questa storia. Io ti dirò quanto tu sia stata fantasticamente coraggiosa e allora tu sospirerai orgogliosa, perché hai salvato la vita del tuo primo amore. Passerà, passa tutto, Emma. E io sarò sempre al tuo fianco.» Non avrebbe detto altro. Non ce n’era bisogno, perché vide silenziose lacrime scendere dagli occhi della sua amica, di nuovo arrossati. Ci sarebbe voluto del tempo, ma Christine sapeva quanto fosse forte… sperava solo che quel futuro lo avrebbero potuto vivere davvero assieme. L’idea paventata dai coniugi Geller-Greene di trasferirsi l’aveva terrorizzata. Non voleva perdere la sua migliore amica, ma avrebbe comunque accettato tutto pur di saperla di nuovo serena. Aveva detto con chiarezza ai suoi genitori che non la trovava una buona idea, allontanare la figlia da tutto ciò che conosceva e amava avrebbe solamente peggiorato le cose. Emma era una ragazza in gamba, avrebbe saputo incastrare ogni cosa nella giusta composizione, fino a far venire fuori un dipinto perfetto. Il consiglio di Christine non era dunque ispirato dall’egoismo, ma dalla consapevolezza raggiunta grazie ai tanti racconti di casi simili che i suoi stessi genitori avevano affrontato. Sarebbe stato un trauma ancora maggiore… ne era certa. Mentre rifletteva su ciò, non aveva smesso di accarezzare i capelli dell’amica con una mano e con l’altra giocherellava con le dita di lei appoggiate sul cuscino. Fu quando Emma le afferrò che capì che la sua presenza non era stata vana… così si accoccolò al suo fianco, canticchiando una melodia fanciullesca che le accompagnava fin dall’infanzia. Era il loro modo segreto, un codice, per consolarsi quando dovevano nascondersi da grandi… quello le parve il momento adatto.

Quando Christine percepì il cellulare vibrare nella tasca, fuori dalla finestra sembrava già pomeriggio inoltrato. Emma pareva dormire e, forse, si era appisolata per un po’ anche lei. Si mosse con cautela, slegandosi dall’abbraccio e facendo attenzione a non svegliare l’amica adorata. Guardò il display e trovò un messaggio di Finn. Lo aprì, emozionata come sempre, e vi trovò un testo alquanto strano: una stringa di caratteri alfanumerici. Che avesse sbagliato a digitare? Perché inviarlo così? Non aveva gatti, perciò dubitava che un micetto impertinente avesse deciso di giocargli un brutto scherzetto. Rispose più per togliersi un pensiero e prenderlo un po’ in giro, che per reale interesse.

Ti sei addormentato sulla tastiera del cellulare?

La visualizzazione e la risposta furono quasi in contemporanea all’invio del suo messaggio.

Tutto ok. Scusa.

Nessuna faccina. Nessun preambolo. Nessun saluto nonostante non si sentissero da diverse ore. Non che si aspettasse davvero delle emoticon, Finn non le aveva mai usate in alcun caso, però… le era parso freddo e frettoloso. Le sue antennine si drizzarono all’istante. Le succedeva di rado, ma altrettanto raramente si sbagliava. Suo papà si vantava del fatto che avesse ereditato il suo intuito infallibile, mentre la sua mamma sosteneva che fosse frutto del suo QI di molto sopra la norma, e ovviamente questa era una sua eredità. Quando accadevano questi battibecchi, lei restava a guardarli sconsolata, ma con un leggero sorriso di orgoglio sulle labbra…

Stai bene? Dove sei?

Christine voleva andare fino in fondo. Qualcosa la spingeva a non lasciar correre anche se di fatto non aveva alcuna prova che ci fosse davvero qualche dettaglio fuori posto. Visualizzato. Nessuna risposta. Che stai combinando, Finn?, si chiese improvvisamente preoccupata. Poteva significare tutto e niente quel silenzio, ma a lei non convinceva affatto.

Finn, non evitarmi. Lo sai che non funziona. Stai bene?

Visualizzato. Qualche attimo di attesa. Poi la risposta:

Sto bene. Stai tranquilla. Ti chiamo dopo.

Non aveva risposto alla domanda di prima. Dove si trovava? Non poteva dirglielo? La stava evitando, era chiaro come il sole.

Se vuoi, ci possiamo vedere. Io sto uscendo ora dalla casa di Emma. Come sta?

Tergiversava, eludeva le sue domande importanti. Perciò fu Christine, questa volta, a visualizzare e non rispondere. Spense la applicazione di messaggistica e andò ad aprire la sua app trova famiglia e amici, era molto comoda per capire se aveva a disposizione passaggi immediati in caso di necessità. L’aveva installata anche sul cellulare di Finn, anche se con qualche difficoltà perché si trattava di uno smartphone antidiluviano. Lo usava pochissimo, perciò non ne aveva molta cura. Glielo aveva detto per correttezza, ma dubitava se ne ricordasse ancora visto che era tutto impegnato a leggere un romanzetto qual era l’Iliade di Omero. Sperava che non l’avesse nel frattempo disattivata o cancellata. Cercò il suo numero e la fortuna fu dalla sua parte. Benedisse lo stato di trance in cui Finn precipitava quando si immergeva in una lettura impegnativa. Il segnale lo dava a qualche chilometro di distanza, anche se era piuttosto lontano da casa sua. Che stava combinando? Christine non voleva spiarlo, non era il genere di ragazza gelosa che guarda il telefonino del ragazzo e lo sorveglia h24, tutto il contrario, detestava comportamenti del genere che lei definiva infantili. Non credeva che fosse con un’altra, però temeva che si stesse mettendo in qualche guaio. Nelle ultime settimane, benché non le avesse fatto mancare la sua presenza, lo aveva visto distratto, irrequieto, una volta anche agitato. Ma le scuse erano state tante… e a volte anche molto vaghe. Non ci stava più. Era brava a capire quando le persone mentivano e a Finn lo aveva permesso in virtù del fatto che stavano insieme da poco, non poteva costringerlo a raccontarle ogni cosa. Però, quel messaggio, il comportamento evasivo, le antennine che si erano drizzate. Doveva capire che cosa si celava dietro tutto quel mistero…

Come vuoi che stia. Distrutta. Ora però sta riposando. Io torno a casa. Chiamami appena puoi.

Sperava di non aver destato sospetti a sua volta. Christine, a differenza degli altri adolescenti, non era brava a mentire, neppure per messaggio, a volte era persino fastidiosamente sincera – proprio come sua madre – anche se non le accumunava la mancanza di tatto della dottoressa Brennan.

Sii prudente. A dopo.

Si preoccupava sempre per lei, si sentiva davvero in colpa a fare ciò che stava per fare… Christine si diede un buffetto sulla guancia per riportare in alto la sua razionalità. Doveva essere ferma nelle sue decisioni, senza farsi fuorviare dai sentimentalismi, con le conseguenze avrebbe fatto dopo i conti. Seguì le indicazioni dell’app, il gps funzionava bene in quel quartiere, altro piccolo colpo di fortuna. Ringraziò il cielo di aver deciso di mettere le scarpe da tennis, perché qualche chilometro si trasformò in diversi chilometri, addentrati in un boschetto a cui si arrivava attraverso un sentiero piuttosto sterrato. Ma chi diavolaccio me l’ha fatto fare?, si domandava a ogni passo, col dubbio che quello stupido coso la stesse mandando a finire in qualche burrone. Se fosse caduta e si fosse rotta qualcosa, avrebbe potuto urlare per giorni, nessuno l’avrebbe mai udita… Si diede un altro pizzicotto. Era il suo modo per non distrarsi. Era esausta, sudata fino al midollo, i vestiti le si erano appiccicati addosso, così come la frangetta aveva aderito alla fronte. Stava iniziando a valutare che forse era il caso di tornare indietro, quando iniziò a udire una serie di voci in lontananza. Voci di ragazzi… e ragazze. Senza rendersene conto, Christine accelerò il passo, incurante del crepuscolo sempre più imminente, seguendo i nuovi suoni e ritrovando la speranza che si era ormai ridotta a una flebile fiammella. Più si avvicinava, più le voci erano forti. Chi rideva, chi scherzava, chi riportava l’ordine… Quando fu a pochissima distanza, poté intravedere un grande falò recintato – che illuminava la piccola radura quasi a giorno – delle tovaglie da picnic, diversi tronchi facevano da sedute mentre un grosso tavolo di plastica – un po’ fuori contesto dalla scampagnata che aveva immaginato – campeggiava al centro, ricoperto da quelle che sembravano cartine topografiche, tablet pc, apparecchiature elettroniche di vario genere. Sorpresa da ciò che stava guardando, non si rese subito conto dell’identità dei presenti, si era sporta per vedere meglio ma la fortuna decise di abbandonarla proprio in quel momento. I lacci delle scarpe, durante la leggiadra avanzata, si impigliarono in una radice affiorante. La caduta fu inevitabile quanto imprevista. Christine finì, rumorosamente, lungo distesa. Evitò di farsi davvero male solo grazie al letto di foglie secche che ricoprivano il terreno battuto. Tuttavia, non fu piacevole. In realtà, fu ancora più spiacevole ritrovarsi gli sguardi di tutti i ragazzi sorpresi puntati su di lei. Che vergogna. Era stata beccata con le mani nel sacco. Ma… ormai che era lì, che cosa avrebbe potuto fare? Scappare non era una opzione, lo capì quando si rese conto che di fronte aveva alcuni suoi compagni di scuola, anche se il gruppo era, a dir poco, eterogeneo e fuori da ogni sospetto: Georgina Ford, Colin James, Crystal Humphrey, Mileva Epps e… Finn, il suo Finn. Una festa senza invito. Non la voleva tra i piedi. Aveva degli amici di cui non ne sapeva niente. Era plausibile, eppure, sentiva che non fosse tutta la verità. Christine si rimise in piedi, un po’ impacciata, dopo aver osservato quella scena pseudo bucolica dall’umiliante posizione in ginocchio. Percepì subito il profumo di Finn – quel misto di menta piperita e carta antica che adorava -, le si era avvicinato, forse preoccupato per le sue condizioni, forse arrabbiato per quell’intrusione gratuita. Non aveva neppure il coraggio di guardarlo in viso. Aveva un nodo in gola e le lacrime pungevano dietro le palpebre. «Christy, ti sei fatta male?» La voce di Fin fu come un balsamo per le sue orecchie, poi con le mani le spazzolò via la terra e le foglie dai vestiti, controllando le ginocchia per vedere che non ci fossero ferite. Poi le guardò bene i palmi, erano escoriati, si era infilata qualche scheggia di legno dolorosissima, ma non ebbe il coraggio di dir nulla. «Che ci fai qui? Come mi hai trovato?» le chiese infine, ma non sembrava arrabbiato, era tutto intento a togliere con le unghie quelle schegge. Sapeva quanto facessero male. «Con la app trova famiglia e amici. Sono imperdonabile. Ho interrotto qualcosa… di importante. Sono inqualificabile. Me ne vado. Fai finta che non abbia visto nulla, io farò altrettanto. Sono una brutta persona…» Com’era prevedibile, dal silenzio assoluto, Christine era passata al fiume di parole compulsivo. «Shhh, va tutto bene.» Finn le mise un dito sulle labbra, sembrava sollevato che stesse bene, ma non solo per quello. Il suo sguardo aveva una espressione ambigua, come se fosse lieto di averla lì… in una situazione tanto spinosa. «Certo che sei coraggiosa… Perché mi hai seguito?» «Quel messaggio.» Un lampo di comprensione balenò negli occhi di lui. «E poi il tuo comportamento evasivo. Le mi antennine si sono drizzate. Ciò non toglie che non avrei dovuto impicciarmi…» Erano rinchiusi in una bolla strana, ovattata, pochi attimi parevano essersi dilatati in minuti interi. Bolla che venne infranta da una voce femminile: Georgina Ford aveva rotto ogni indugio. «Finn Malone non fare il cafone, porta qui Christine!» La diretta chiamata in causa sobbalzò. Pensava che sarebbe stata linciata, non accolta. E invece si sbagliava di grosso. Finn la lasciò libera dallo scudo che le stava facendo con il corpo, le si mise al fianco e la invitò ad avvicinarsi all’assortito gruppo. Il tavolo era stato riordinato, le cartine messe via e tablet pc spenti: chiaramente nascondevano qualcosa, ma Christine non poteva neanche lontanamente immaginare in quale mondo era appena inciampata, anzi… letteralmente cascata dentro.

«Pensi che sia stato saggio introdurla nel gruppo?» Crystal stava mangiucchiando uno spiedino di verdure, seduta accanto a Georgina che le accarezzava distrattamente i capelli scuri, lasciati liberi sulle spalle. Fissavano entrambe Christine e Finn che parlottavano, vicini vicini, all’altro capo della radura. Era stato strano scoprire che un gruppo tanto atipico nascondesse una verità tanto profonda, ma Crystal non ne era rimasta scioccata… o traumatizzata. Tuttavia, lei non era Christine, non la conosceva bene al punto da sapere come avrebbe giudicato tutto ciò. Georgina, invece, pareva sapere sempre quel che faceva. «È una ragazza intelligente oltre la norma, spigliata e avventurosa. Di quest’ultimo pregio non ne è ancora consapevole ma lo diverrà. Con i genitori che si ritrova conosce bene certi meccanismi, certo, suo padre è un puro idealista, ma sua madre è molto più pragmatica. In lei sguazzano i geni di entrambi… un mix molto interessante. Per gradi, non tutto e subito, ma credo potrebbe essere un soggetto notevole da valutare…» Georgina aveva parlato con voce bassa, rilassata, mentre creava e disfaceva un boccolo della capigliatura di Crystal, la quale la osservava, adesso, quasi a bocca aperta. «A volte mi fai dimenticare che abbiamo la stessa età. Mi fai sentire così piccola… una farfalla di fronte a una montagna.» Le parole erano venute fuori spontanee, sull’onda di quella ammirazione profonda che provava per la ragazza che – piano piano – le stava anche rubando il cuore. «Ma le farfalle possono volare e raggiungere la vetta delle montagne più alte…» Un’altra stoccata da manuale, colorata da un sorriso dolce e ammaliatore al contempo. Crystal si sporse per darle un bacio fugace, un ringraziamento a fior di labbra, ma Georgina approfondì il contatto, dando più forza a ciò che aveva appena detto. Insieme erano complete, lo stavano scoprendo poco alla volta, ma erano felici di poter finalmente esprimere i propri sentimenti senza preoccuparsi del giudizio altrui… in fondo, tutto quel gruppo aveva lo stesso problema in fatto di stranezza apparente, eppure tutti loro si erano ben amalgamati… in maniera naturale… come acqua limpida che sgorga da una fonte e diventa fiume. Il destino, forse, vi avrebbe fatto aggiungere una goccia in più, ma avrebbe dovuto dimostrare di essere all’altezza del fiume.

«Cosa significava quel codice che hai inviato per messaggio?» Christine era ancora un po’ frastornata, ma non quanto avrebbe dovuto. In realtà, era certa che non le era stata detta tutta la verità su quel manipolo di ragazzi con abilità straordinarie. D’altro canto, cosa poteva pretendere? La sua schiena era appoggiata al torace di Finn, tra le sue gambe lunghe, lei vi si era accoccolata per godersi la sua vicinanza. Avevano steso una coperta sul prato e si erano appartati un po’, avevano bisogno di parlare, ma soprattutto di ritrovarsi. Le stelle tra le fronde scure facevano da birichine spettatrici… «Dovevo mandarlo a Colin. Indicava questo posto» rispose Finn, un po’ in imbarazzo, conscio che aveva fatto un brutto passo falso. Elliot lo avrebbe strigliato per bene. «Passerai guai a causa mia?» chiese ancora la ragazza, una strana emozione nella voce, a metà tra il rimpianto e la curiosità. Finn le baciò la fronte, facendole alzare la testa con due dita sotto il mento sottile. Così le baciò le ciglia lunghe e la punta del naso. No, forse non era stato un passo falso. «Nulla che non possa sopportare. Ma non ne potevo più di stare in silenzio su… questa cosa… Ogni giorno diventava sempre più difficile.» Era stato sincero, lo doveva a quell’angelo che era entrato in punta di piedi nella sua vita e sembrava non volerlo lasciar andare. «Lo sai, il caso non esiste, forse il destino?» «Tu ci credi nel destino?» chiese Finn, il tono di solito profondo si era trasformato in un sussurro. Lo sguardo di Christine lo inchiodava dal basso, senza possibilità di sfuggirle. «Mio papà sì, mia mamma no. Io? Direi di sì, ma sono consapevole che ha bisogno comunque di qualche aiutino…» Un luccichio vispo fece capolino nelle iridi chiare, che parvero davvero brillare sotto il riflesso del fuoco. Vivendo con dei genitori come i suoi, aveva capito che le posizioni estreme non potevano essere sostenute. Non esisteva solo il bianco o il nero. Non si poteva mettere una etichetta basata sulle apparenze. Perciò, non lo avrebbe fatto, non avrebbe giudicato Finn per le sue bugie, né tutti quei ragazzi per ciò che nascondevano. Era lì, insieme a loro, in attesa che la ritenessero degna di entrare nel gioco. Tanto le sarebbe bastato fino a quando le sue antennine non avrebbero nuovamente avvisato di qualche nota stonata… per ora, sembravano essere ritornate a riposo. «Allora direi che possiamo ritenerci soddisfatti, oggi abbiamo fatto la nostra parte.» Il sorriso che Christine regalò a Finn fu il dono più spettacolare che il giovane potesse ricevere, dopo anni di solitudine, smarrimento, rabbia repressa. Era riuscito a trovare amici sinceri che lo avevano aiutato a dare una direzione a tutto quel dolore e una ragazza stupenda capace di leggergli nella mente, ma anche nel cuore. Poteva di certo ritenersi soddisfatto…

«sᴀʟᴠᴀᴍɪ ᴅᴀʟʟᴀ sᴏʟᴜᴛᴅɪɴᴇ (sᴀʟᴠᴀᴍɪ sᴏɴᴏ sᴛᴀɴᴄᴏ) ᴍɪ ᴘɪᴇɢᴏ ᴀʟʟᴀ ᴛᴜᴀ ᴠᴏʟᴏɴᴛᴀ̀ (sᴀʟᴠᴀᴍɪ ᴅᴀʟʟ'ᴏʙʟɪᴏ)

««Ti manca?» Colin Jane sussultò, facendo cadere il telefono. «Anche a me.» Georgina era arrivata alle sue spalle, silenziosa come un gatto. Aveva notato che il suo amico si era messo in disparte da un po’, lontano dagli schiamazzi degli altri ragazzi che facevano acrobazie attorno al fuoco: capriole, calci rotanti, piegamenti, una sfida e una birra bevuta per penitenza. Il momento del lavoro era già finito quando la tipetta dagli occhi di cristallo aveva fatto il suo bizzarro ingresso nella radura. Poi, si erano concessi una serata sotto le stelle nel più totale relax… Ma se i sorrisi, complice un po’ di alcool, erano diventati giochi per tutti loro, Colin non ne aveva preso parte. Il suo carattere un po’ rigido ci aveva messo lo zampino, ma era la malinconia ad averlo tradito… Georgina ne era stata certa quando aveva sbirciato la galleria di foto che stava scorrendo. Bree Witter. La loro ex migliore amica. La sua ex ragazza. Colin riprese il cellulare e lo oscurò. Non voleva essere compatito da Georgina, anche se sapeva che anche lei ne soffriva ancora. Il suo carattere però era più pragmatico rispetto a quello del giovane, il quale faticava ancora a digerire la comune decisione di lasciarla andare… Bree era davvero tanto ingenua, pura, persino Christine Booth non riusciva a superarla in questo, anche se – a parte Georgina e Finn – nessuno di loro lo avrebbe mai detto. Avevano dunque preferito non coinvolgerla nel loro mondo segreto, evitando così tante complicazioni da un lato, ma dall’altro si erano trovati a dover rinunciare a un affetto enorme… e forse anche al vero amore. «Sì, mi manca. Non riesco a credere che si faccia girare ancora intorno quel viscido di Bass. Prima non potevo proteggerla perché ero un totale inetto, ora che potrei farlo, in realtà non posso perché non ho più alcun diritto nei suoi riguardi.» Colin sbuffò, irritato da quella paradossale beffa. «Bree è ingenua, ma non è stupida. Saprà fin dove spingersi. Ha accettato la decisione di separarci con una maturità che non mi aspettavo, sai… le possibilità che valuterà bene le chance di Bass sono molto alte.» Georgina gli aveva dato un punto di vista totalmente diverso. Non aveva tutti i torti, anche se una fitta di gelosia bruciante gli fece contrarre lo stomaco. «Riuscirò ad abituarmi alla sua assenza, Gina?» Quel vezzeggiativo lo usava di rado, solo nei momenti in cui si sentiva davvero vulnerabile. La sua amica lo abbracciò di slancio, consapevole di quanto ne avesse bisogno in quel momento. «Sei più forte di ciò che pensi, Colin. Devi solo crederci.» «Ci proverò. Grazie.» Appoggiarono la fronte l’una contro l’altra e un sospiro di lui sancì quella promessa.

🙏🏻Story By Anne Louise Rachelle🙏🏻

A diversi chilometri di distanza, un ragazzo fissava l’infrangersi burrascoso delle onde oceaniche sulla spiaggia. I suoi occhi di solito ambrati erano altrettanto tempestosi, tanto da sembrare quasi neri. Anche i suoi capelli, di solito perfetti nella loro costosa piega, erano a dir poco scombinati, a causa delle centinaia di volte in cui ci aveva infilato dentro le dita. Continuava a martoriarsi con i denti le labbra, rovinando l’aspetto curato che per anni aveva fatto cadere ai suoi piedi le ragazze più belle e popolari. Belle e popolari. Ecco il suo target. Perché diamine doveva essersi ridotto in quello straccio per una ragazzetta senza charme, né stile, né chissà quale bellezza. Anzi, se ripensava al suo viso, la simmetria non era affatto sua amica… ma il suo sorriso era grande e dolce; i suoi occhi enormi ed espressivi; la sua bocca carnosa e invitante. Il vento che veniva dall’oceano frustava i suoi vestiti, la temperatura era mite, ma la notte era ormai profonda e non aveva neppure portato la giacca… Ciò nonostante, non aveva voglia di tornare a casa, né di partecipare a una di quelle feste super esclusive in un club ancora più esclusivo che di sicuro si stava tenendo da qualche parte… mentre lui si torturava come un comune mortale per una ragazzina qualunque. Più se lo ripeteva, più non ci credeva. Forse per questo il suo rifiuto lo faceva stare così male? Lo aveva capito troppo tardi, dopo che l’aveva umiliata, derisa, ingannata. Era questo che si poteva definire karma… e lui che non ci aveva mai creduto. Erano passati tanti giorni – o erano settimane? Aveva perso la cognizione del tempo con la fine della scuola – da quando le aveva inviato un ultimo messaggio.

Mi hai detto che hai bisogno del tempo per te. Devi elaborare la rottura con Jane, comprendere cosa vuoi dalla vita. Lo capisco. Però, anche se so che non mi crederai, sappi che ti aspetterò. Non rispondere adesso. Ti aspetterò tutte le sere al lungomare, sotto la statua del tritone, di fronte l’oceano. Non so per quanto riuscirò a farlo o se cancellerò questo messaggio prima che sia consegnato… mi sento così stupido, eppure non posso continuare a mentire. Sarà anche per me una prova. Mi troverai lì se e quando vorrai rivedermi…

Questo aveva significato serate perse, divertimenti andati, occasioni perdute. Sì, doveva decisamente essere impazzito! «’Fanculo!» si ritrovò a urlare contro la notte. «Ti sembra questo il modo di salutare?» Quella voce. Non poteva essere. Henry si voltò verso la strada, come aveva fatto a non udirla arrivare? «Cammino… da un po’» rispose Bree alla sua muta domanda, il rumore dell’oceano aveva coperto i suoi passi. Aveva passeggiato per tutto il lungomare fino a raggiungerlo. Era notte fonda. «Volevo schiarirmi le idee prima di arrivare.» Altra risposta senza che nessuna sillaba fosse pronunciata da Henry, che sembrava pietrificato. Non si era mai concesso di immaginare quel momento, convinto che mai si sarebbe avverato, e ora non aveva la più pallida idea di cosa fare. «Henry Bass rimasto senza parole? Direi che possiamo annotare questa giornata negli annali…» «Bree…» «In carne e ossa, non sono un’allucinazione. Giuro.» Poi sorrise, sorrise proprio a lui. Fu tentato di chiudere e riaprire gli occhi, o di darsi un pizzicotto, per essere certo che non stesse immaginando tutto. «Certo che ce ne hai messo di tempo!» Fu la prima cosa che disse, prima di mordersi la lingua. «Eccolo il Bass che conosco, stavo cominciando seriamente a preoccuparmi che non fossi tu l’allucinazione…» lo prese in giro lei, scuotendo il capo e abbandonandosi a una risata cristallina. Erano passati secoli da quando l’aveva udita l’ultima volta. Henry annullò la distanza che li separava e la abbracciò stretta, tanto da seppellirla in una prigione di torace e braccia. Bree fu presa alla sprovvista e il magone che aveva avuto per tutta la passeggiata tornò a premere forte in gola. Lasciò che il suo viso si plasmasse al petto di Henry, era sincero, l’aveva fatto davvero, l’aveva aspettata. Per tutti quei giorni: lo aveva visto… sempre più tormentato… era stata dura non raggiungerlo già dopo la terza sera. Passava, silenziosa, alle sue spalle… sua madre era divenuta complice di quegli appostamenti furtivi, aveva intuito anche lei che il messaggio di Henry non poteva essere solo dettato dal momento di sconforto… e andava verificato. Così avevano fatto. «Mi hai aspettata davvero» riuscì a mormorare tra le pieghe della sua maglietta. Nessuna camicia elegante copriva il suo petto… anche questa una stranezza per il nuovo Henry Bass. Lui la lasciò un po’ andare, ma solo quel tanto per poterla guardare negli occhioni lucidi. «Non pensavo nemmeno io che lo avrei fatto. Ma è successo» confessò con voce limpida, come non lo era mai stata. La sorpresa era passata, adesso era rimasta solo una gioia incontenibile. «E adesso? Cosa succede?» Bree lo chiese senza troppe aspettative, ma il cuore batteva fortissimo. «Adesso succede che ti bacio e poi diventerai ufficialmente la mia ragazza…» La risposta arrivò sicura. «L’unica ragazza… vorrei sperare…» specificò lei con uno sguardo fintamente sospettoso. «Ci puoi scommettere!» Henry non ebbe dubbi, aveva avuto tanto tempo per riflettere, i fatti avevano dimostrato che senza di lei era incompleto. Nessuna festa o vizio avrebbe potuto sostituire quel vuoto, quel sentirsi a metà. Ora si sentiva tutto intero, completo, invincibile. Era l’"effetto Bree" non c’era più alcun dubbio. Si baciarono, mentre schizzi di oceano arrivano quasi a benedire quel nuovo amore. Era stata una prova sia per Henry quanto per Bree, ormai ne erano certi. Una prova decisamente superata… per entrambi.

sᴀʟᴠᴀᴍɪ ᴅᴀʟʟ'ᴏsᴄᴜʀɪᴛᴀ̀ (sᴀʟᴠᴀᴍɪ sᴏɴᴏ sᴛᴀɴᴄᴏ) ɴᴏɴ ʟᴀsᴄɪᴀᴍɪ ᴄᴀᴅᴇʀᴇ, ᴍᴀɪ

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Capitolo 15
*** Capitolo XV: Rebelde ***


Il calendario segnava dieci giorni in cui si sarebbero svolti gli esami, da martedì 13 a martedì 28 giugno. Erano esclusi ovviamente i sabati e le domeniche. Se non si contavano i primi due giorni e l'ultimo, gli stessi si sarebbero svolti la mattina alle ore 9 e il pomeriggio dalle 13 in poi. Con il foglio tra le mani Leonardo si sentì morire. Si poteva considerare un ragazzo fortunato perché a scuola aveva sempre avuto ottimi volti senza contare che anche a livello disciplinare non aveva mai avuto richiami. Sapeva cosa voleva dire tenere un basso profilo, tuttavia, gli eventi degli ultimi mesi gli avevano creato qualche difficoltà oltre che conflitto. Il rapporto altalenate di Elizabeth, la sparatoria, l'attacco del consiglio dei genitori verso lui e i suoi amici per farli espellere, aveva reso complesso concentrarsi. Ci aveva tenuto tanto a darsi un'occasione con Emma, non avrebbe mai dimenticato quello che lei aveva fatto per lui, ma... comprendeva anche la paura che i suoi genitori avevano provato. Non li biasimava che le avevano impedito di frequentarlo e che dopo gli esami l'avrebbero portata via fino a settembre a New York, sempre che non decidessero poi di rimanerci. Aveva avuto piacere a uscire con lei, a conoscerla, ma alla fine era stato ben contento di allontanarla. Voleva proteggerla, conosceva troppo bene il suo mondo per permetterle di farne parte. Era meglio spezzarle il cuore che farle rischiare di nuovo la vita.

Felipe era in una situazione molto simile all'amico, con l'aggiunta che dopo l'evento funesto che lo aveva visto protagonista con Bass, adesso sul suo fascicolo spuntava una nota rosso sangue che lo avrebbe messo in difficoltà con le domande del college. In camera sua, con Luzma stesa al suo fianco e con il viso appoggiato sul suo petto avevano parlato a lungo della cosa, prendendo senza mezze misure una decisione drastica. «Ai nostri genitori non piacerà…» mormorò lui fissando il soffitto, mentre dolcemente accarezzava i capelli della sua ragazza. «Lo so, dopotutto sperano e credono che il college sia una buona occasione per allontanarci da tutto… Ma la scelta è nostra e se non vogliamo andarci non possono obbligarci!» esclamò lei perentoria. Si sollevò un poco e poggiando il viso sulla mano che teneva sul petto di Felipe lo guardò negli occhi, quando lui si voltò per osservarla. Si guardarono profondamente innamorati e felici per poi baciarsi con intimità, confidenza e amore. Lei sorrideva ancora quando lui si scostò e guardandola le portò una ciocca di capelli castani dietro l’orecchio. «Diciamo che il college è un bivio, per noi il prossimo sarà l’ultimo anno e poi…» «Potremmo essere liberi? Ma lo saremmo mai veramente? Da questo mondo non se ne esce Felipe e lo sai meglio di me, è una battaglia persa!» «Motivo per cui dobbiamo prendere il toro per le corna prima che questo ci infilzi!» «Ben detto Señor Quintanilla» disse lei con tono ironico e malizioso, per poi mettersi a cavalcioni su di lui e ben presto incontrarsi in un nuovo bacio. La scuola era finita e i primi tre giorni di esami già trascorsi, avevano il weekend per loro e non avevano intenzione di sprecarlo.

L'esame di matematica di venerdì era stato per Mileva una passeggiata, più complicato era stato inglese al lunedì. Le materie umanistiche le erano ostiche rispetto a quelle scientifiche, ma confidava comunque nel fatto che non aveva mai preso un’insufficienza dunque era abbastanza tranquilla che non avrebbe certo iniziato durante gli esami. La giovane si sentiva prosciugata e non era solo colpa del caldo afoso che impregnava la città con una cappa umida che impediva perfino di respirare. Le giornate erano infinitamente lunghe e il bollettino meteorologico era sempre in allerta, dopotutto quelli erano i mesi in cui il rischio che si incappasse in qualche uragano era dietro l’angolo. Studiare era dunque più difficile del solito, ma era molto felice di poterlo farlo con il suo nuovo gruppo di amici. Non ci credeva ancora di aver trovato persone così diverse da lei con cui andare così d’accordo. A scuola continuavano quasi a ignorarsi, ma fuori avevano creato con il tempo un legame vero e solido. Lo stesso non era condizionato solo da quello che facevano, ma anche dal profondo laccio di lealtà e fiducia reciproca che gli eventi aveva costretto loro a creare. Questo aveva permesso a ognuno, seppur in modo diverso, di affrontare i propri demoni e le proprie barriere. Chiacchierare con Georgina, ma anche Colin, l’aveva fatta riflettere molto su tutto ciò che in quei lunghi mesi l’avevano confusa. Si era allontanata da Huck, per la necessità di far chiarezza nei suoi pensieri, e aveva trovato loro e grazie a loro aveva raggiunto quelle risposte che tanto cercava.

Huck era quasi incredulo, quando l'ultimo giorno di esami prima che l'esame di scienze iniziasse, Mileva lo aveva avvicinato chiedendogli se alla fine avrebbero potuto vedersi al Karen's Café per parlare. Lui ovviamente aveva accettato senza remore, le mancava la sua migliore amica e le era costato molto averla lontana da lui in quel lungo periodo. Il locale era accogliente, dall'ambiente familiare ed era una bakery in cui poter mangiare un boccone al volo o gustare un dolciume fatto in casa. Visto il caldo, i due ragazzi avevano però optato per due banane split in stile anni '50 ed avevano aspettato a parlare solo quando la cameriera si allontanò dal tavolo. «Allora come ti sono andati gli esami?» chiese lei con naturalezza, cercando di rompere la tensione che sentiva esserci. Huck la guardò come imbambolato, era come se notasse solo in quel momento che c’era qualcosa nell’amica, anche se non avrebbe saputo dire cosa. Era più rilassata, sicura e dei due quello a disagio era lui non certo lei. «Non mi preoccupano, lo fanno solo i miei. L’anno prossimo dovrò iniziare a pensare al college e loro vogliono che vada a Washington D.C. come Molly, lei ovviamente già sa che farò giurisprudenza. Ma a me non interessa… vorrei rimanere qui sinceramente, fare il college dello stato e vedere dove la corrente mi porta… Molly sarà pur interessata al loro mondo fatto di politica, discorsi e apparenza, ma io no.» Mileva sorrise mentre ascoltandolo mangiava il suo gelato e comprendendo bene il suo cruccio. Ne avevano parlato spesso. Lei era fortunata, amava la materia e il mondo dei genitori motivo per cui per lei non era una costrizione seguire i loro passi, anche se nell’ultimo periodo delle cose erano cambiate… «Come sai io ero ben sicura della strada che volevo seguire e lo sono ancora, ma in questi mesi in cui non ci siamo frequentati ho rivisto un po’ le mie prospettive. Ho compreso meglio come vorrei usare le mie abilità e… anche quello che sento…» Su quell’ultima frase Huck si irrigidì, il cucchiaino ancora a mezz’aria. Erano arrivati al motivo del loro incontro. A fronte del suo silenzio, la ragazza proseguì. «Mi sono sentita sempre abbastanza sicura circa la mia sessualità… Sai che odio le etichette, motivo per cui non mi sono mai definita con un orientamento specifico. Non sono interessata a che forma o colore abbia chi mi farà battere il cuore, quando l’amore si paleserà di fronte ai miei occhi lo seguirò senza pregiudizi…» Huck assentì, con il cucchiaino continuava a prendere gelato che di fatto non arrivava mai alla sua bocca. Fu allora che Mileva allungò una mano e la poggiò sull’altra di lui, immobile giaceva appoggiata sul tavolo. «La verità? Non ho ancora mai vissuto ciò…» Lui la guardò sorpreso e confuso. «Huck io non ho mai avuto una storia, nemmeno un bacio. Solo tanti crush e tanta confusione… ma alla fine, non ho mai sentito dentro di me… niente…» «M-Ma Andrea?» chiese lui corrucciando la fronte. Lei sorrise e mordendosi un labbro sospirò, voltò appena il capo e fu allora che notò qualcuno seduto dall’altra parte del locale, qualcuno che Huck non aveva notato. Tornò a guardarlo e gli chiese: «Tu cosa hai provato quando ti sei baciato con la Acero?» «C-Cosa?» «Rispondimi!» lo incitò lei e lui si fece un po’ rosso in viso, ma poi rispose. «È stato inaspettato, ma… ecco mi sono venuti degli strani brividi… ma non è stato solo il bacio, anche il mondo in cui mi ha parlato, si è aperta… È… boh non so cosa dirti… mi è pure venuto il mal di pancia!» Mileva ridacchiò tirandosi indietro, ma non lo stava prendendo in giro. «E quando hai baciato me?» «M-Ma… I-Io…» «Rispondi!» «È stato diverso! Mi sono sentito agitato, preoccupato, ansioso… nella testa mi chiedevo continuamente come, quando e in che modo… ho analizzato attentamente la situazione, ho ragionato a lungo su come fare quando e…» «Ecco vedi!» «Cosa?» Mileva lo osservava con le braccia conserte e un gran sorriso. «Come io con Andrea ci siamo fatti tanti castelli in aria, innamorati più dell’idea di essere innamorati che di vivere poi il momento… Quando ho rimuginato sul bacio che le ho dato ho capito che non avevo provato nessun brivido, nessun mal di pancia…» disse lei facendogli il verso, lui parve capire. «Quando davvero per qualcosa si prova, il più delle volte nemmeno lo si sa… è come un temporale improvviso…» E così dicendo con il capo le indicò Elizabeth, che solo in quel momento Huck notò.

Una folta chioma bionda, che cadeva in una cascata di boccoli, riluceva alla luce del sole che dalla vetrina del cafè entrava. Stava sorseggiando un milkshake alla menta, mentre con un quadernino aperto davanti controllava quello che di fatto era un libro contabile scritto cifrato. Il giro di soldi falsi era un business che negli ultimi mesi aveva avuto un’impennata. Grazie alle entrate ricevute oltre al El Chico, i maton erano diventati ben cinque, tutti addetti alla sicurezza della cabaña e al funzionamento delle macchine di stampa. Avevano assunto anche alcune persone addette alla circolazione del denaro, ricevevano un quantitativo di soldi falsi che dovevano mettere in circolo, potevano acquistarci ciò che volevano, ma nulla di appariscente e mai usare cifre troppo alte nei solti posti. Con i resti ottenuti, in quanto di soldi veri, dovevano riconsegnare l’intera cifra a loro. Il giro d’affari tuttavia si stava ampliando, era incredibile notare che chi aveva maggior bisogno di grossi quantitativi di denaro fosse chi già lo aveva. In virtù di questo offrivano prestiti, senza alcun tipo d’interesse, in cui la somma doveva essere restituita semplicemente in denaro vero. Ingrandirsi e farsi un nome era importante, ma iniziava ad attirare – come era normale – attenzioni anche sgradite. I nemici cominciavano a crescere e perfino i loro genitori avevano iniziato a sentire parlare della loro attività. Ovviamente, non avevano la minima idea che i loro figli ne erano gli artefici, ma Elizabeth si disse che avrebbero affrontato un problema per volta. Chiuse il quadernino di scatto e si massaggiò le tempie, le mancava molto l’unione con gli altri. Non che avessero smesso di essere uniti, ma ovviamente con Felipe e Luzma fidanzati e con il suo rapporto con Leonardo raffreddato pareva quasi che qualcosa si fosse rotto. Alzandosi fece per andare a pagare, senza accorgersene si mise in fila alla cassa, proprio poco più avanti del tavolo di Huck e Mileva. I due infatti udirono una telefonata che la giovane ricevette, la stessa che fece saltare in mente alla Epps un’idea folle. Lasciando i soldi sul tavolino prese per mano Huck e lo trascinò con lei fuori dal locale, Elizabeth aveva appena messo giù quando le toccò la spalla. Quella si voltò sorridendo confusa ai due e salutandoli. «Ehm prima senza volere abbiamo udito la tua telefonata… un tuo amico ha bisogno di assistenza in Kansas?» L’Acero li guardò con le braccia conserte al petto, non le piaceva essere spiata né che altri si impicciassero degli affari suoi, ma per qualche motivo non ci riusciva ad essere arrabbiata con Huck che un po’ in imbarazzo la guardava. «Pensavamo solo che… ecco se avete bisogno di un passaggio… Io ho un grazioso furgoncino Volkswagen anni ’70, non è un fulmine, ma essendo noi in sei…» Huck ed Elizabeth parvero leggersi nella mente, perché entrambi la guardarono straniti. Il primo non voleva assolutamente sembrare un ficcanaso e la seconda non ricordava di averli invitati, tuttavia pensò velocemente che in effetti i loro genitori non li avrebbero lasciati andare. Avrebbero preteso la scorta per un viaggio così lungo, tuttavia se avessero detto di andare con loro due… Alla fine il viaggio in sei si fece. Tutti ne avevano da guadagnarci, Mileva poté convincere facilmente i suoi genitori e la madre di Huck, la sorella era a Washington D.C. dal padre e la donna era in tour elettorale non avrebbe lasciato il figlio solo, ma lui andava alla casa al lago degli Epps e dunque fu tranquilla. Charlie e Amita avevano accettato di buon grado che la figlia ci andasse per qualche giorno con il suo amico ritrovato. Al contempo, gli altri quattro dando la tranquillità di stare in un luogo isolato, tranquillo e con due amici che non si potevano dire certo al centro del ciclone di nessuna questione ebbero senza problemi il permesso di assentarsi.

Quello che era nato come la semplice richiesta d’aiuto di Niki – era stato fermato dai dei poliziotti in Kansas ed aveva bisogno che i suoi amici lo tirassero fuori – si era trasformato in un viaggio on the road non programmato. Mileva si era auto invitata per il chiaro tentativo di spingere Huck a far chiarezza con ciò che provava con Elizabeth, lei perché desiderava esplorare quel suo nuovo lato di sé che già con Georgina e gli altri stava ampiamento amando… ma anche per gli altri quattro componenti di quello strano gruppo era un’occasione. Luzma e Felipe non chiedevano di meglio per ritrovare l’armonia del loro quartetto indissolubile, Leonardo necessitava di cambiare aria ed Elizabeth desiderava tanto chiarirsi con lui, ma anche si era ritrovata inspiegabilmente eccitata all’idea che Huck si fosse unito all’avventura.

Ciò che si prospettò per i sei avventurieri erano 12 ore di viaggio, ciò significava che essendo partire nel tardo pomeriggio non sarebbero arrivati prima della mattina alla meta. Mileva era alla guida del suo furgoncino colorato, era celeste chiaro e bianco, al suo fianco Luzma si era proposta di occuparsi della musica. Dietro gli altri quattro cercavano di ignorare la bizzarria in cui si trovavano, seppur era più facile concentrarsi su quello che sulla tensione che c’era: Felipe osservò Elizabeth al suo fianco, Leonardo e Huck di fronte, bastò per capire che si sarebbe potuta tagliare con il coltello. «La casa al lago, a cui abbiamo fatto credere che stia andando, è a quattro ore e mezza da Cedar Spring, questo significa che se consideriamo l’andata e ritorno ed eventuale qualche imprevisto, la nostra scusa che saremo via per il weekend combacia con i tempi!» esclamò allegramente Mileva. Doveva ammettere che era stata una ragazza molto chiusa, restia ad aprirsi per fare nuove conoscenze. Fino a quel momento la sua amicizia con Huck le era bastata, ma l’allontanarsi da lui l’aveva aiutata a espandere la sua visione e comprendere che forse non sarebbe stato così spaventoso dare una possibilità alla miriade delle persone che aveva intorno e così aveva iniziato a fare scoprendo amicizie inaspettate. «Per la cronaca, come mai tuo fratello è stato fermato dalla polizia di Whichita?» chiese infine voltandosi verso Luzma, in una situazione diversa si sarebbe irrigidita per non complicare la loro già pessima reputazione, oltre che segreti, ma fortunatamente non era quello il caso. «Rissa. Tuttavia, di tutti i miei fratelli Niki non è tipo di questo genere di cose, lui come me infatti ha un pessimo rapporto con mio padre! Ci siamo parlati pochi minuti, ma da quello che ho capito difendeva una ragazza verso cui due ubriachi facevano avances, quelli lo hanno aggredito e lui si è difeso. Niki è maggiorenne, ma non aveva soldi a sufficienza per pagare la cauzione e non ci pensa minimamente a chiamare nostro padre!» La ragazza aveva risposto con semplicità, mentre sfogliava i cd che la giovane aveva per scegliere quale mettere e rimase sorpresa dalle playlist presenti: country, musica romantica, rock anni’80, reggeaton, ecc… «Non amo solo un genere, poi sai dipende dal mood del viaggio!» spiegò pratica Mileva, mentre Luzma si voltava e sorrideva come a chiedere da quando la Epps era un tipo così simpatico. «Sei sicuro che non avrai problemi a star con noi? Non vorremo mai…» a parlare era stato Leonardo che rivolgendosi ad Huck lo vide voltarsi quasi stentasse a credere che il giovane parlasse con lui. «Oh sì, insomma mia mamma in realtà sa che sto con Mileva, non sa di voi!» A quella frase Felipe fece un ghigno, Leonard alzò le sopracciglia grattandosi il capo ed Elizabeth distolse lo sguardo. Huck capì come sempre di essere stato indelicato e un’idiota e dunque tentò di rimediare: «La politica! Tsk, la odio… io non ho tutte quelle fisime, sai con chi devi parlare, come vestirsi… in casa mia tutto viene fatto in base a questo!» «L’apparenza è tutto, lo capiamo Zielger, tranquillo!» rispose piccato Felipe, mentre lui sospirava sentendosi peggio. «Huck non è come Molly!» disse improvvisamente Elizabeth, ce l’aveva ancora con lui, ma glielo doveva. Gli rivolse un piccolo sorriso ed era impossibile non notare l’imbarazzo tra loro. Il resto del viaggio proseguì tranquillo, si diedero spesso cambio alla guida e mentre ancora mancavano quasi cinque ore all’arrivo, ormai tutti si erano appisolati. Solo Leonardo, che guidava era sveglio, e Mileva che dopo aver fatto il primo turno si era svegliata da poco e aveva deciso di affiancarlo sul sedile del passeggero per fargli compagnia. Il giovane voltò appena il capo, quando notò del movimento al suo fianco, mentre la ragazza prendeva posto e stiracchiandosi un po’ osservava il rettilineo di fronte a sé. Rimasero per un po’ in silenzio e poi improvvisamente lei quasi dal nulla gli chiese come stesse senza nemmeno voltarsi a guardarlo. «Ehm… tutto bene, ho solo la testa affollata…» «Ti direi di sputare il rospo e sfogarti per fare chiarezza, ma dubito che Leonardo Venegas lo farebbe, tanto meno con un’estranea…» Lui la osservò con la coda dell’occhio colpito, ma sul chi va là e allora lei decise di voltare il capo verso di lui. «Lo so che la mia idea vi ha fatto comodo e avete accettato solo per questo, non siete tipi molto espansivi…» mormorò gettando un’occhiata al resto del gruppo addormentato. Elizabeth aveva la testa poggiata sulla spalla di Huck e Luzma era abbracciata a Felipe. «Dove ero rimasto io, nemmeno tu sei mai stata tanto estroversa…» la pungolò lui, le braccia tese sul volante. «Touché!» gracchiò lei con fare però leggero e scanzonato. «Credo che in questi tre anni di liceo sia stata tre persone diverse. Al primo anno ero timida e impacciata, mi prendevano tutti in giro e subivo in silenzio. Il secondo anno ho capito che la mia intelligenza innata non era qualcosa di cui vergognarsi e ho iniziato a fregarmene del giudizio altrui ostentando sicurezza e menefreghismo. Questo è stato invece l’anno dell’esplorazione sessuale, orgogliosa mi sono eretta sul mio piedistallo decisa a mostrare cosa volevo e come lo avrei ottenuto senza pregiudizi…» La voce di Mileva era andata tuttavia ad assottigliarsi, era sempre meno divertita e sempre più amareggiata. Si passò una mano sulla fronte, per poi abbandonare il capo sul poggiatesta. Leonardo non rispose, ma si ritrovò ad ascoltarla colpito da quell’improvviso suo aprirsi. «Il prossimo anno voglio solo essere me stessa…» concluse lei con un po’ malinconia. «Sono stanca di essere quello che gli stereotipi si aspettano che io sia, quello che devo ostentare di essere per farmi notare e ancor più quella che deve aggregarsi a lotte sociali per mostrare che ha valori. Tanto non potremo mai piacere a tutti no? Tanto vale piacere a noi stessi!» A quella frase sorrise, poi i due si guardarono senza dir nulla. Erano quelle classiche situazioni inattese, segrete e speciali ove cullati dal manto della notte ci si lasciava andare a stati animi che con la luce del sole si tentava di nascondere. «I problemi della vita non si risolvono su un pulmino vecchio e polveroso in viaggio verso il Kansas, dunque forse è meglio spegnere il cervello e rilassarci…» Quella frase non era stata gettata a caso e Mileva non la stava rivolgendo solo verso di sé, era chiaro che seppur Leonardo non le avesse detto nulla, il suo silenzio era carico di pensieri e riflessioni tali e quali a quelle che lei aveva espresso ad alta voce. Solo allora si permise di aprirsi a un sorriso più ampio e assentendo entrambi tornarono a guardare la strada lieti della compagnia silenziosa l’uno dell’altra.

L'area metropolitana di Wichita si dimostrò alquanto grande e popolosa, dunque sapere esattamente ove trovare Niki parve una sfida assai difficile. Come se non bastasse, il vecchio furgoncino Volkswagen aveva dato forfait all'entrata nella minuscola contea di Kingman. Lì, Leonardo – seguito da Felipe e Mileva – decise di attendere il carroattrezzi, mentre Elizabeth, Huck e Luzma decisero di andare nella piccola stazione di polizia nella speranza che potessero aiutarli. Nemmeno a farlo a posta, appena Luzma fece il nome del fratello il poliziotto disse che lo avevano arrestato la sera prima per aggressione e rissa in un bar. Rincuorata da un cotanto colpo di fortuna pagò la cauzione con la propria carta di credito e pochi minuti dopo erano fuori dalla stazione di polizia. Sul marciapiede di fronte, gli altri tre li attendevano. «Non mi aspettavo un comitato di benvenuto più due ospiti!» ironizzò lui salutando con confidenza Leonardo e Felipe con una forte stretta di mano seguito da un abbraccio e poco dopo non perse tempo per presentarsi ad Huck e Mileva, mostrandosi particolarmente charmant con quest’ultima. «Sono stati così gentili da fornirci un alibi, sai come sono i nostri… vigilanti come degli avvoltoi…» ironizzò Luzma stretta al fratello che le teneva un braccio intorno alle spalle. «Noi abbiamo parlato con il meccanico e il furgoncino non sarà pronto fino a domani, ma ci sono delle stanze libere in un motel, mi sono preso la libertà di prenotarle!» avvisò loro Leonardo. Le mani nelle tasche e lo sguardo perso nel guardarsi intorno. «Kingman, 8000 abitanti e ben poco da fare, come inganniamo il tempo?» chiese Felipe un po’ perplesso. L’idea venne a Mileva che alzando lo sguardo disegnò sul proprio viso un’espressione furba. «Andremo al ballo!» Tutti seguirono il suo sguardo ed Huck prima di chiunque altro la guardò di traverso: «Ti vuoi imbucare a ballo di Kingsman?» «Il nostro ha fatto schifo, tra un motivo e l’altro nessuno di noi mi pare se lo sia goduto…» Elizabeth aveva parlato guardando i suoi amici che effettivamente si trovarono a concordare con lei. «Io ho finito il liceo da un po’, ma perché no? Sarà divertente, ma dove prendiamo i vestiti?» «Guardate là!» Luzma indicò un negozio che vendeva orribili abiti vintage, alcuni da festa e cerimonia in puro stile anni settanta, erano così kitch da risultare esilaranti. «Che dire, ci andremo in vecchio stile!» disse con un sorrisino Leonardo, poi seguito dagli altri si incamminarono verso il negozio. Solo i fratelli Casillas erano rimasti indietro per parlare un attimo da soli. «La rissa è stata prima o dopo la consegna?» chiese lei alzando lo sguardo scuro sul fratello al suo fianco. Era ancora stretta a lui, con il braccio di Niki sulle spalle e la sua mano stretta in quella di lui. «Ero sulla strada del ritorno… dunque quella è andata a buon fine, ehi stavano importunando la cameriera… non potevo farmi gli affari miei!» La ragazza scossa i lunghi capelli castani, la frangetta si mosse leggermente. Niki era fatto così, sotto sotto era un gentiluomo. «Quindi non preoccupatevi per i vostri amici… la mia auto è ancora nel parcheggio del bar e dentro non vi è nulla di compromettente. Detto questo le cose stanno andando bene sorellina, dovremo solo parlare al nostro ritorno di come gestire la curiosità crescente delle nostre famiglie…» «Un problema per volta, ti va? Adesso siamo qui e non sarebbe male godersi qualche ora di totale e completa normalità…» Lo pregò lei, lui le fece l’occhiolino e dandole un piccolo bacio sul capo raggiunsero gli altri.

Nelle stanze del motel tutti si prepararono per la serata. Mileva aveva scelto un semplice abito bianco corto. Faceva molto disco anni '70 e bisognava dire che gli stivali color oro e la lunga collana dello stesso colore ne aumentavano l'effetto. Per questa ragione Luzma alle sue spalle le stava acconciando i capelli in modo coerente per essere ancora più bella con quello stile. «Sai stanotte ti ho sentito parlare con Leo…» la voce di Luzma era di chi decisamente con curiosità stava indagando al proposito, ma non era accusatoria, al contrario, un sorriso sornione le era comparso sul volto mentre guardava Mileva dallo specchio. «Oh sì devo dire che è un ragazzo… difficile?» «Vuoi dargli torto? La sua vita, come quella di tutti noi, ci impone di non aprirci molto con gli altri. La prima regola che ci insegnano appena nati è: non fidarti mai di nessuno!» «Il che lo posso capire, le persone hanno la brutta abitudine di deludere!» «Soprattutto quando a farlo e chi credevi fosse diverso!» Elizabeth era appena uscita dal bagno con indosso un bellissimo abito lungo color carta da zucchero. Era sbracciato, si legava dietro il collo e le lasciava la schiena completamente nuda. Con i tacchi che la slanciavano e i lunghi capelli biondi raccolti sul capo l'effetto era decisamente molto accattivante e lei pareva ancora più bella e misteriosa. Raggiunse le due e si sedette sul bordo del letto dietro Luzma, guardandole attraverso lo specchio. Stava combattendo con il cinturino di uno dei due sandali con il tacco a spillo. Risultava sempre allacciato troppo stretto o troppo largo. «Parli di Huck vero?» le chiese improvvisamente Mileva. «Non credo lo abbia fatto apposta, se può consolarti posso assicurarti che mai nulla di ciò che tu gli hai raccontato ad Halloween è uscito dalla sua bocca e lui parla solo con me…» «È che credevo… in realtà non lo so nemmeno io cosa credevo!» «Forse che qualcun altro oltre io, Felipe e Leonardo avrebbe potuto far parte del tuo piccolo mondo?» chiese Luzma ovviamente non riferendosi a ciò che faceva, ma alla realtà interiore dell’amica. Quella che teneva celata al mondo per proteggersi. «Tu gli piaci… credo non se ne fosse nemmeno reso conto, e ora che l’ha fatto ha così paura che tu lo odi che… non fa nulla!» Mileva aveva appena finito di parlare, quando guardando il risultato finale sorrise radiosa. Luzma era fiera del risultato, lei al contrario aveva lisciato ulteriormente i suoi capelli, aveva indossato un micro abito privo di spalline di pure pailletes, nere e azzurre, e delle semplici décolleté a tacco alto nere. Sempre nello stesso negozio aveva preso dei grandissimi orecchini cerchiati dorati e sporgendosi verso lo specchio fece per infilarli nel lobo delle orecchie. «Allora dovrai far qualcosa tu Liz… stanotte divertiamoci, non pensiamo a ciò che è stato fatto o no. A ciò che è stato detto o meno… qui siamo tutti e nessuno, qui non esiste la nostra reputazione scolastica o i pregiudizi su di noi… qui possiamo essere chi vogliamo e per questo realizzare ogni cosa!» Luzma aveva appena finito di indossare i suoi orecchini, quando dando le spalle allo specchio si era poggiata alla piccola scrivania marrone sottostante. Quella a cui Mileva era seduta e che lei guardò spostando lo sguardo di lato, prima di rivolgerlo a Elizabeth seduta sul letto di fronte a lei. A tutte piacquero quelle parole e sorridendosi a vicenda si dissero: «Perché no? Cosa abbiamo da perdere? Valeva davvero la pena perdere tempo e su cosa poi? Arrovellamenti inutili?»

Al ballo anche i ragazzi fecero la loro figura in un abbigliamento tanto assurdo da farli apparire affascinanti. Leonardo indossava un pantalone a palazzo nero, giacca di velluto scuro con risvolto di raso e una camicia giallo spento con dei ridicoli volant sul davanti. Aveva tirato i capelli indietro ed entrò con una sorridente Mileva nella palestra guardandosi intorno incuriosito. Era decisamente alla buona, rispetto al loro ballo, ma tutti sembravano divertirsi in modo molto più genuino. Felipe aveva optato per un classico smoking, a la giaccia era bianca panna profilato di nero, la camicia bianca era semplice. I capelli erano stati portati indietro con il gel e Luzma mano nella mano sorrise ai lampadari stile disco che gettavano bagliori di luce arcobaleno in tutta la sala. Huck, più dietro, era quello che si sentiva più goffo, con dei pantaloni di costine neri, giacca dello smoking color carta da zucchero con risvolti neri e infine una camicia del colore della giacca con volant. Il problema era che Leonardo risultava comunque figo, lui solo ridicolo. Elizabeth però al suo fianco, parve non pensarla allo stesso modo perché lo guardò sorridendogli con complicità. A chiudere la fila c'era Niki. Era il più figo di tutti con semplici pantaloni neri da vestito, camicia bianca e una favolosa giacca da smoking in jacquard a sfondo verde pavone e ricami dorati. All’ingresso furono subito placcati da alcuni ragazzi che li squadrarono da capo a piedi. «Siete usciti dagli anni ’70?» chiese uno corrucciando la fronte. «Vi siete imbucati?» chiese poi un altro. I sette si guardarono tra loro e poi Luzma prese la parola: «Per via di forza maggiore siamo bloccati nella vostra città fino a domani e pensavano che siccome il nostro ballo non è stato un granché…»¬ lasciò la frase a metà così che Elizabeth si aggregò: «Non ci tradirete vero?» I ragazzi davanti a loro gli sorrisero complici. «Tranquilli siete i benvenuti! Divertitevi!» Fu davvero bellissimo per tutti non dover tener conto di nulla, lì erano estranei, senza nome e senza storia. Nessuno di loro era giudicato per la loro reputazione o storia. Non esistevano né vinti né vincitori e questo li fece sciogliere, buttandosi in pista e ballando a più non posso che fosse da soli, in compagnia o in coppia un bel lento. Come stava accadendo in quel momento tra Elizabeth e Leonardo. «Mi chiedevo… cosa pensi davvero di me?» la voce della bionda era leggermente alticcia. Il punch l’aveva aiutata a lasciarsi andare e tutta la serata spensierata le avevano regalato una spensieratezza che non credeva potesse avere. Teneva le braccia intorno al collo di Leo, mentre lui le stringeva la vita. «Cosa intendi?» «Pensi davvero che io sia stata pessima? Con te intendo… sai ho pensato a molto a quello che mi hai detto…» «Ormai è storia vecchia, abbiamo chiarito…» «Lo abbiamo fatto?» lui alzò gli occhi al cielo pensieroso. Poco lontani Huck li osservava, era seduto scomposto su una sedia scomoda di legno di quelle pieghevoli e beveva punch sconsolato. «Mai lasciarti ingannare dalle apparenze!» quasi sobbalzò, quando Niki prendendo posto al suo fianco gli passò un braccio sulle spalle con fare fraterno. «Non serve a nulla stare qui a crogiolarti, alzati, va da lei e ballaci insieme…» «Ma-ma… io… v-veramente…» bofonchiò fissando Liz e Leo sospirando amaramente. «Hanno sempre avuto un rapporto speciale, tutti noi ragazzi lo abbiamo. Inutile dire che non abbiamo potuto mai permetterci altri frequentazioni senza rischi… Devi essere conscio, se lei ti piace veramente, di chi è e a che mondo appartiene. La domanda è ti interessa? Sei pronto a prenderti tutti i rischi del caso?» e con quella domanda Niki si alzò non prima di dargli una pacca sulla spalla. Come un novello Grillo Parlante lo mise di fronte alla realtà, ai motivi non solo politici per cui la madre e il padre gli avevano intimato di starle lontano. Ciò che era successo a Emma Geller-Greene era stato un monito. Leonardo, del tutto inconsapevole dello sguardo di Huck su lui ed Elizabeth si lasciò andare a un sorriso sereno, ampio, mentre osservava la sua più grande amica. «Gli amori come i nostri sono grandi Liz… ma non tutti gli amori sono romantici, esistono tante forme d’amore e ora lo sappiamo…» lei parve concordare, mentre arricciando il naso si spinse un po’ verso di lui e lo abbracciò forte. Luzma poco lontano non aveva potuto fare a meno di ascoltarli e vederli e stava ancora sorridendo quando Felipe la colse in flagrante. «Dovresti smetterla di origliare le discussioni altrui…» «Ehi balliamo a trenta centimetri da loro!» tentò di giustificarsi lei, per poi stringersi maggiormente a lui e gettare uno sguardo poco lontano ad Huck e Mileva che raggiungendolo gli portava del caffè preso dalle macchinette nei corridoi. Probabilmente per impedirgli di diventare un po’ troppo brillo per i punch ingurgitati. «Luzma…» «Che c’è?» chiese lei con tono innocente. «Smettila a giocare a fare cupido…» «E perché mai? Sento odore di amore nell’aria…» disse furba, avvicinando la bocca alla sua per poi baciarlo dolcemente. «Vuoi davvero coinvolgere gente come loro con gente come noi?» Le parole di Felipe non erano state cattive, semplicemente pensava che fosse una cosa su cui riflettere. «Non esiste gente come loro o gente come noi Felipe, ma solo delle zone grigie. Dimmi quello che vuoi, ma loro mi sembrano più simili a noi di quanto credi. Sono persone buone, che vanno oltre le convenzioni e che non credono che tutta l’oscurità celi del male…» «Detta così…» Lei alzò le sopracciglia con un cenno che stava a indicare che lei aveva ragione e non c’era altro da dire, motivo per cui la discussione si chiuse con un altro bacio.

Proprio come era accaduto alla notte di Halloween, otto mesi prima, a Leonardo non sfuggì come tra Huck ed Elizabeth ci fosse qualcosa. Lei era rientrata in stanza solo pochi minuti prima che lui le bussò e fu fatto entrare. Per lui le informazioni finivano lì, ma quella volta non sentiva gelosia o confusione, semplicemente sorrise decidendo di raggiungere il gazebo illuminato che nel parchetto davanti al motel si trovava e lì sedersi respirando l’aria fresca della sera. Si era tolto la giacca e sbottonato un poco la camicia, quando poco dopo venne raggiunto da Mileva che si sedette al suo fianco. «Serata indimenticabile eh?» «Sì devo dire che mi sono divertito!» Lei che aveva un braccio poggiato sullo schienale di legno della panca, aveva piegato una gamba, mentre voltando il capo osservava il ballatoio del motel. «Li hai visti?» «Huck e Liz? Sì! Spero smettano di giocare al gatto con il topo!» «Sì, anche a me tutto questo rincorrersi dà sui nervi!» sentenziò seria per poi scoppiare a ridere quando guardandolo lui fu il primo a non trattenersi. «Mi spiace…» esordì poi la giovane poco dopo, lui parve non capire. Con il capo poggiato sulla mano e i capelli scompigliati ampliò il suo pensiero. «Per Emma, lei ha fatto un gesto nobile per amore e poi non avete nemmeno avuto la possibilità di… di dar seguito a un possibile qualcosa. Ho sentito che forse l’anno prossimo cambia scuola.» Lui che guardava di fronte a sé aveva le gambe leggermente divaricate, le braccia molli tra esse. «Vuoi dargli torto?» chiese poi voltandosi a guardarla. «No, credo di no» rispose Mileva sincera. Rimasero a guardarsi in totale silenzio, quando senza un perché o un ma i loro visi presero ad avvicinarsi e le loro bocche a sfiorarsi. Quando Leonardo si scostò lei ancora stava saggiando il suo sapore sulle sue labbra. Aprì gli occhi poco dopo di lui. «Quelli come me non posso aspirare a più di questo…» «Di un bacio rubato nella notte?» «All’illusione di un amore semplice e puro…» «E chi ti dice che io sia semplice e pura?» Mileva gli rispondeva in modo diretto e secco. Non c’era timore o tentennamento nel suo sguardo e questo colpì Leonardo che si scoprì a vederla per la prima volta. «Se ti dicessi che sono molto di più di una semplice secchiona innamorata della matematica? Che so quale affare tu e i tuoi amici avete tra le mani e che anche io faccio parte di qualcosa?» Tutto ciò lasciò di stucco il ragazzo che improvvisamente prese una posizione più rigida, sollevò la schiena e anche lui si voltò sulla panca. Un braccio lungo lo schienale, la mano su quella di lei e lo sguardò sconcertato di chi non era certo di aver capito bene. «Ci sono i bravi ragazzi… ci sono i cattivi soggetti… e poi ci siamo noi. Senza definizione, ma nobiltà d’animo. A me questo basta e a te?» Lei pronunciò quelle parole con profonda verità e una consapevolezza che fece alzare l’altra mano di Leonardo verso il suo volto, solo per fargliela scivolare sulla guancia, verso il capo e perdersi tra i suoi capelli. Le stava ancora osservando le labbra carnose, quando di nuovo si persero in un nuovo bacio.

💃🏻Story By Cristina Petrini💃🏻

Elizabeth era sola in camera. Luzma aveva approfittato, ovviamente, per godersi la notte con Felipe e Mileva aveva detto che si sarebbe fatta una passeggiata, dunque quando bussarono si stupì di trovarsi Huck di fronte, ma fu lieta di farlo entrare. La stanza era piccola, un letto king size la occupava quasi tutta. La carta da parati era demodé e il bagno imbarazzante. Ma tutto sommato Liz non si lamentava, si era appena tolta le scarpe dunque aveva perso tutto il suo slancio e tornando quei pochi centimetri più bassa del suo interlocutore. Lo stesso che con le braccia lungo i fianchi se ne stava lì teso, probabilmente non sarebbe riuscito a rilassarsi fin quando non le avrebbe detto tutto quello che pensava. Gli occhi azzurri puntati in quelli di lei. «Tu mi piaci Liz» disse improvvisamente e la ragazza sorrise un attimo presa alla sprovvista. «Non lo sapevo, non lo capivo, troppo concentrato su quello che credevo di volere… Poi i miei e la sparatoria e…» «Tranquillo ti capisco, insomma nemmeno io ci proverei con una come me!» disse lei facendo un passo verso il ragazzo, ma lui alzò un braccio come a fermarla. Fece un passo indietro, Liz si stranì, ma lui continuò a parlare: «La verità è che non mi importa, cioè mi importerebbe se morissi, ma di fatto il resto no. Oggi ho capito che tu non sei una ragazza come le altre…» Lei si passò una mano sul collo a disagio ed Huck capì che stava facendo un disastro. Scosse il capo e annullando le distanze la raggiunse prendendole il volto tra le mani. «Tu mi hai visto Liz. Tu mi vedi come nemmeno io sono in grado di fare… e fanculo non me ne frega un cazzo della tua famiglia, di quel che fanno… perché credo a te, a quello che su di loro mi racconti… crederò sempre in te… alla tua parola… Quello che cerco di dire è che, voglio entrare nel tuo mondo se tu vuoi permetterlo, perché tu fai già parte del mio!» Ad ogni parola gli occhi di Elizabeth divennero sempre più lucidi. Poggiò le mani su quelle di lui e alzandosi sulle punte cercò le sue labbra. Si baciarono in modo lieve, poi sempre più profondo e infine le mani di lei erano già finite a sfilargli la giacca che cadde a terra. Si staccarono quel tanto affinché i loro visi fossero ancora vicini e i loro respiri si mischiassero. Le dita di lei stavano già combattendo con i bottoni della sua camicia e quelle di lui le sciolsero il nodo dell’abito dietro la schiena. Quando si trovarono sul letto, lei nuda sotto di lui, Huck non era certo che stava davvero accadendo. Aveva zero esperienza e temeva di fare qualche figuraccia, seppur le sue mani facevano tutto da sole. Il modo in cui la accarezzavano e la stringevano. «Ti voglio nel mio mondo Huck… entra dentro di me stanotte… oltre la pelle… fino al cuore… e non lasciami più andare…» gli sussurrò lei all’orecchio, mentre si aggrappava alle sue spalle. Fecero l’amore per la prima volta, l’uno con l’altro, ma anche in assoluto, eppure così non sembrò. Stretta sul suo petto Liz non smetteva di sorridere, mentre lui le accarezzava i capelli e la schiena nuda illuminata dalla luna. Lei alzò il capo e le loro bocche non resistettero dal cercarsi di nuovo. Huck faticava ancora a credere che tutto quello fosse vero. «Sai, sono curioso di scoprire cosa quest’estate ci riserverà… perché di una cosa sono certo, questo viaggio è stato un viaggio nel vero senso della parola. Torneremo tutti cambiati e consci delle promesse celate nei nostri cuori…»

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