No matter how life turns around (I'll see you again) di My Pride (/viewuser.php?uid=39068)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Atto uno: Ade ***
Capitolo 2: *** Atto due: Prati di Asfodelo ***
Capitolo 3: *** Atto tre: Elisio ***
Capitolo 1 *** Atto uno: Ade ***
No matter how life_1
Titolo: No matter how life
turns around (I'll see you again)
Autore: My Pride
Fandom: Super Sons
Tipologia: One-shot (divisa in tre atti) [ 10274 parole fiumidiparole
]
Personaggi: Jonathan Samuel
Kent, Damian Wayne, Vari ed eventuali
Rating:
Giallo
Genere: Generale,
Sentimentale, Malinconico, Azione
Avvertimenti: What if?, Slash, AU,
Hurt/Comfort
Vorrei incontrarti tra 100 anni
challenge: 50. Battito cardiaco || 177. Esame || 63. Contadino
(Tipologia 4: Incontrarsi in un altro contesto storico/sociale (AU) +
Reincarnation AU)
Take your business elsewhere
Challenge: 9. Di mezzo c'è un segreto || 17. Personaggio X non
è umano || 28. Uno specchio || 34. Y non è mai stato così vicino a X ||
39. Stupire
200 summer prompts: Balliamo
|| Segreto || Personaggio X vuole esserci
SUPER
SONS © 2016Peter J. Tomasi/DC. All Rights Reserved.
ATTO UNO. ADE
Jon si svegliò di
soprassalto in un bagno di sudore, col cuore che batteva a mille e il
respiro affannato. Gli ci vollero attimi interminabili per rendersi
conto che si era svegliato nella penombra della sua camera da letto e
che dalle tende chiuse filtrava qualche timido raggio di sole, troppo
scombussolato dallo strano sogno che lo aveva strappato troppo presto
dal suo sonno.
Non ricordava bene che cosa avesse sognato, ma gli
aveva lasciato nel petto una strana sensazione opprimente. Sprazzi di
immagini si accavallavano le une alle altre, volti sconosciuti gli
sorridevano e sfumavano in mezzo a nuvole dorate, mentre enormi colonne
bianche si crepavano e collassavano improvvisamente su loro stesse,
creando polveroni che inghiottivano quello strano mondo; grida di
terrore si mescolavano con urla di battaglia, ordini su ordini
echeggiavano nella sua testa in una lingua che a stento capiva, e calde
dita si intrecciavano alle sue, stringendo con forza le sue mani mentre
qualcuno gli sussurrava parole d'amore e lo guardava con profondi occhi
verdi velati di pianto.
“Tra cent'anni,
mio amato... ci rivedremo tra cent'anni”.
Quella frase si ripeteva nella sua mente ancora e
ancora, anche adesso che era sveglio, ed era assurdo che fossero le
uniche parole che, in quel miscuglio di frasi masticate fra i denti ed
esclamazioni, era riuscito davvero a comprendere. Per quanto non
ricordasse granché di quello strano sogno, il dolore che gli stringeva
tuttora il petto era sembrato così vero da costringerlo a svegliarsi.
Aveva provato lo stesso terrore che si provava quando, durante il
sonno, si aveva la sensazione di cadere nel vuoto e per istante quella
paura irrazionale si era impossessata del suo cervello, svegliandolo
con quella strana ansia e paura che non riusciva a spiegarsi al punto
da fargli venire la nausea e, scalciando via le coperte, Jon barcollò
verso il bagno e si accasciò sulla tazza per vomitare l'anima.
Era strano come un sogno riuscisse a rimescolare le
persone. Mentre la mente intorpidita si risvegliava, i ricordi di
quelle visioni avevano cominciato ad affacciarsi di nuovo nella sua
testa, e aveva come la strana sensazione che in quel sogno fosse...
morto. Era strano da pensare, eppure era propro così che si sentiva. Il
petto gli doleva in maniera indescrivibile e l'affanno non era ancora
passato, senza contare lo stomaco ancora in subbuglio e il modo in cui
il suo cuore batteva all'impazzata.
Con un lungo gemito doloroso, Jon allungò a tentoni
una mano per tirare lo sciacquone e si sedette sul pavimento del bagno,
schiacciando il palmo della mano contro il petto. Perché faceva così
male? Era come se una lunga lama si fosse conficcata nelle sue carni e
gli avesse strappato il cuore, e il solo pensiero lo fece rabbrividire
ancora una volta da capo a piedi; la sua vista sfarfallò per un istante
e nell'abbassare lo sguardo gli sembrò di vedere le mani sporche di
sangue, urlando a squarciagola quando l'odore gli schiaffeggiò le
narici cos all'improvviso che cercò di strisciare lontano da se stesso.
Cosa diavolo gli stava succedendo?
«Era solo un sogno, Jonathan», si disse nello
schiaffeggiarsi le guance, cercando di tornare in sé e di alzarsi in
piedi. Le gambe gli tremavano e dovette tenersi al bordo del water e
poi al lavandino per restare stabile, guardandosi allo specchio per
attimi interminabili mentre il respiro si regolarizzava e il battito
del suo cuore si stabilizzava. I capelli erano un completo disastro,
una massa informe e riccioluta che andava da tutte le parti senza una
vera forma, e le occhiaie erano così scure che dava proprio
l'impressione di non aver dormito affatto; il pallore del suo viso
metteva in risalto le sue lentiggini e il volto scarno che lo osservava
di riflesso quasi non gli sembrò il suo, dato quanto sembrava sciupato
per la notte insonne.
Forse uscire con suo fratello Conner e i suoi amici
non era stata una grandiosa idea. Forse avrebbe dovuto dar retta a
Kathy e lasciar perdere, concentrarsi sull'esame che avrebbe dovuto
dare tra tre giorni, studiare per il successivo e chiudere
definitivamente con l'università per gettarsi nel fantastico mondo del
lavoro - sua madre continuava a pressarlo per diventare giornalista, ma
lui non ne aveva la minima intenzione -, ma erano settimane che si
sentiva stressato e aveva pensato che divertirsi un po' non gli avrebbe
fatto male... ma si era maledettamente sbagliato. Se bere gli faceva
quell'effetto, forse sarebbe stato meglio concentrarsi sui libri.
Traendo un lungo respiro, Jon si sciacquò prima la
faccia, restando per qualche minuto con la testa sotto il getto d'acqua
per cercare di schiarirsi i pensieri, e poi si lavò i denti per
scacciare il retrogusto di vomito che gli era rimasto in bocca,
barcollando ancora una volta verso la camera da letto proprio nello
stesso istante in cui la sveglia suonò e gli ricordò che avrebbe dovuto
alzarsi. Beh, complimenti, sveglia.
Sei in ritardo. Sbuffò mentalmente Jon con amara ironia,
spegnendola prima di prendere un cambio e darsi una lavata in fretta e
furia. Sua madre lo aspettava al Daily per la giornata del lavoro e, se
non avesse voluto evitare di darle un dispiacere, l'avrebbe chiamata
per dirle che non se la sentiva di andare. Quel sogno che aveva avuto
era stato così... strano, ma non voleva che potesse rovinargli i piani,
dato che erano mesi che aveva dato conferma che ci sarebbe stato.
Uscì di casa esattamente venti minuti dopo,
ricacciando indietro l’ennesimo sbadiglio prima di infilarsi nella sua
jeep e metterla in moto; si insinuò nel traffico di quella calda
mattinata a Metropolis e accese la radio solo per un po’ di compagnia,
con la speranza che la musica e gli annunci lo distraessero dalla
strana sensazione che gli aveva lasciato quel sogno. Per quanto non
fosse ancora vivido nella sua mente e fossero solo sprazzi di colore
macchiati su una tela, Jon aveva cominciato a sentirsi stranamente
triste nel rifletterci; era come se il suo subconscio avesse cercato di
parlargli, come se ogni pezzo avesse bisogno di qualcos’altro –
qualcuno? – per incastrarsi come avrebbe dovuto, ma non riusciva a
spiegarsi da dove nascessero tutte quelle sensazioni che si erano
impossessate del suo animo. E quel che era peggio era che, qualunque
cosa provasse a fare, quel sogno si riaffacciava nella sua testa per
fare in modo che non lo dimenticasse, nonostante non sembrasse avere
intenzione di rendersi chiaro agli occhi di Jon.
Frustrato, batté una mano sul volante e suonò un
paio di volte il clacson quando le auto davanti a lui lo
imbottigliarono nel traffico, lasciandosi sfuggire a denti stretti
colorite imprecazioni che gli avrebbero fatto avere una lavata di capo
dai suoi genitori nonostante avesse superato da un pezzo l’età in cui
avrebbero potuto avere da ridire. Non era un ragazzo che amava
imprecare ma, quando era sotto stress, la considerava una buona valvola
di sfogo oltre al canto; provò quindi a canticchiare tra sé e sé quando
passarono “Numb” alla radio, gridando a squarciagola e ignorando le
occhiate dei guidatori che si fermavano accanto a lui ai semafori.
Quando finalmente arrivò al Planet e fermò la Jeep
nell’enorme parcheggio, si rese conto di aver passato quasi quaranta
minuti in mezzo al traffico e mugugnò qualcosa tra sé e sé, afferrando
il cellulare nello stesso istante in cui suonò, e Jon rispose al volo
al secondo squillo. «Ehi, mamma. Sì, tranquilla, non me lo sono
dimenticato». Roteò gli occhi mentre la ascoltava, contento che lei non
potesse vederlo. «No, no. Sono proprio qua fuori. Sì, traffico. No, non
è una scusa come due mesi fa». Sua madre era un mostro. «Sì, dirò a
Janet che la saluti, arrivo».
Jon riagganciò e diede un paio di botte al volante
con la fronte, lamentandosi a mezza voce. Beh, ormai era lì e tanto
valeva ballare, no? Lo faceva per sua madre, lo faceva per sua madre… e
non poteva nemmeno scaricare l’incombenza a suo padre, visto che era
fuori città. Jon insisteva col pensare che se la fosse filata apposta,
ma non poteva esserne sicuro. Così, battendosi le mani sulle guance e
facendosi coraggio, scese dall’auto e si diresse all’interno
dell’edificio come un condannato al patibolo, salutando Janet della
reception prima di imboccare uno degli ascensori per salire verso il
sedicesimo piano. C’era un mucchio di gente, il caldo era asfissiante e
la musichetta da sala d’aspetto aveva cominciato a innervosito, ma Jon
tenne duro e scivolò fuori il più in fretta possibile quando le porte
dell’ascensore si aprirono al suo piano, traendo un lungo respiro di
sollievo. La prossima volta si sarebbe fatto centinaia di rampe di
scale, piuttosto che usare uno di quei maledetti ascensori.
Si diede una rassettata e si affrettò a dirigersi
verso gli uffici per raggiungere sua madre, ma quando svoltò l’angolo e
andò a sbattere contro qualcosa, Jon si sarebbe aspettato di tutto –
Jimmy Olsen che correva a scattare foto, Cat Grant che aveva sentito un
nuovo gossip e andava ad accertarsene per la sua redazione, lo stesso
Perry, il direttore, che sgattaiolava via dal suo ufficio per
sgraffignare caffè e ciambelle – tranne un ragazzo della sua stessa età
che Jon rimase a fissare imbambolato, costringendosi a chiudere la
bocca per non sembrare un idiota. Verdi. Grandi e profondi occhi verdi
che, curiosi, ricambiavano il suo sguardo e venivano nascosti per un
istante dallo sbattere delle lunghe ciglia scure, mentre quel ragazzo
reclinava il capo di lato e assumeva un’espressione scettica. Ora, Jon
non era uno che credeva nei cliché, nell’amore a prima vista o roba del
genere, eppure aveva sentito il cuore fare una capriola nel petto
quando si era perso in quelle iridi color smeraldo. Aveva squadrato
quel ragazzo da capo a piedi, si era soffermato sul taglio corto di
capelli ai lati della testa e sulla fossetta ad un angolo della bocca
quando aveva arricciato un po’ le labbra, e sulla pelle ambrata che
sembrava stranamente invitante. Doveva sembrare un idiota a fissarlo in
quel modo come un pesce fuor d’acqua. Lo sembrava, giusto? Perché lui
si sentiva esattamente così. E adesso perché sembrava aver dimenticato
come si faceva a respirare?
«Oh, vedo che voi due ragazzi siete già insieme». La
voce di sua madre per poco non lo fece sussultare, ma Jon riuscì a
mantenere un minimo di decoro e a non urlare come un idiota. Bene,
stava migliorando. «Jon, lui è Damian. Damian, questo è mio figlio Jon.
Spero che renderà la tua giornata a Metropolis interessante».
«Sono certo che lo farà, Miss Lane».
La sua voce era bella e calda, Jon poté notare che
arrotondava il suono delle parole con uno strano accento straniero, per
un istante ebbe come la strana sensazione di averlo già sentito e si
portò una mano al petto, stringendo la stoffa della maglietta fra le
dita. Ma cosa…
«Solo Lois, Damian». Gli fece un occhiolino, poi
finalmente guardò Jon, ancora scombussolato. «Damian ti stava giusto
aspettando, Jon. È pronto per visitare Metropolis».
La voce di sua madre giunse lontana, Jon sbatté le
palpebre più e più volte per cercare di riprendersi e per ricambiare
quello sguardo, e quando finalmente tornò con i piedi per terra per
poco la sua mascella non toccò il pavimento. «Aspetta, cosa? Che dovrei
fare?»
«Se quando ti ho chiamato al cellulare mi avessi
ascoltata davvero, non mi chiederesti sciocchezze».
Ouch, beccato. Lo
ribadiva, sua madre era un mostro e aveva qualche strano super potere
da mamma, non c’era altra spiegazione. Jon sentì Damian lasciarsi
scappare un piccolo sbuffo ilare che nascose con un colpo di tosse
senza intromettersi nella conversazione, e avrebbe dovuto infastidirlo
sentirsi fare una ramanzina da sua madre davanti ad un perfetto
estraneo ma, accidenti, cos’era quello strano calore all’altezza del
petto e la strana sensazione che si conoscessero da una vita?
«Leggi le mie labbra, mio sconsiderato figlio». Lois
si picchettò quello inferiore. «La guest star di questa giornata del
lavoro è Bruce Wayne, ma non avevo previsto che venisse fin qui con suo
figlio. Mentre io mi occupo di intervistare il signor Bruce, potresti
mostrare a Damian la zona, visto che ha intenzione di trasferirsi da
queste parti?»
Adesso aveva un senso, ma Jon era ancora troppo
stranito per ribattere in tono abbastanza fermo e risoluto. Al
contrario, annuì automaticamente e fece strada a quel ragazzo, Damian,
sentendosi stupido e imbambolato mentre tornavano agli ascensori. Cosa
gli era preso? Di solito era un ragazzo loquace e non aveva problemi né
a farsi degli amici né a fare nuove conoscenze, avrebbe persino potuto
dire che poteva trasformarsi in breve nell’anima della festa se solo
avesse voluto, invece con quel Damian si sentiva in imbarazzo e come se
fosse assente. Un momento, Wayne?
«Tu sei
Damian Wayne?!» la sua voce suonò vagamente isterica e più alta di
un’ottava, sensazione incrementata dal fatto che le porte si fossero
chiuse proprio in quel momento e fossero soli in quell’ascensore.
Damian rise, e quella risata scosse Jon nel
profondo. «Ci hai messo meno degli altri a recepire la notizia. Sono
impressionato, Jonathan Samuel».
«Cristo, no, solo mia madre mi chiama così». Jon
storse il naso, allungando una mano verso di lui per fare le cose come
si conveniva. Ricordava ancora le regole del vivere civile, visto?
«Jon. Semplicemente Jon».
Damian parve divertito da quel fare, allungando a
sua volta una mano per stringerla nonostante l’aria altezzosa che
aveva. «Damian. Solo Damian». Sollevò entrambe le sopracciglia,
squadrandolo da capo a piedi. «Prima che tu prenda sul serio le parole
di tua madre, conosco già Metropolis», mise subito in chiaro, e Jon si
accigliò.
«Allora a che ti servo io?»
«Come scusa per evitare di annoiarmi a morte insieme
a mio padre».
Jon si portò teatralmente una mano al petto,
storcendo il naso. «Gh, mi hai usato. Non supererò mai più questo
trauma».
«Sei sempre così melodrammatico o lo riservi solo a
persone che hai appena conosciuto?»
«Entrambe le cose, suppongo». Finalmente stava
cominciando a sciogliersi come suo solito, e la cosa lo rincuorò. Non
avrebbe sopportato una strana atmosfera fatta di imbarazzi e sensazioni
assurde e stupida musica da sala d’aspetto. Anzi, in compagnia di
Damian nemmeno ci faceva caso più. «Quindi anche il tuo trasferimento
era una balla?»
«Quello era vero», esordì Damian, e Jon inclinò la
testa di lato.
«Perché? Insomma, non che Metropolis non sia un bel
posto, ma vengo da una famiglia di contadini e avrei preferito mille
volte restare in campagna».
«La sede delle Wayne Enterprises di Metropolis si
occupa di questioni ecologiche, ho intenzione di prendere in mano la
situazione e cercare di migliorare la situazione climatica».
Per un istante Jon si sentì di nuovo stupido, ma si
riprese piuttosto in fretta. «Oh. Whoa. Mi aspettavo, che so, che era
meno uggiosa di Gotham e che era un bel posto dove prendere il sole, ma
mi ha sorpreso la tua profondità di spirito», provò a scherzare un po’,
massaggiandosi il collo quando Damian gli lanciò un’occhiata stranita e
sollevò ancora una volta entrambe le sopracciglia. Ottima mossa, Jon. Tu sì che ci sai fare
con i ragazzi, si schernì da solo, ma si sorprese quando Damian
sghignazzò tra sé e sé.
«Non negherò che è anche un bel posto, ma è troppo
luminoso per J miei gusti». Quando le porte dell’ascensore si aprirono,
il primo ad uscire fu proprio Damian e lo guardò con un ghignetto. «Ora
offrirmi un caffè».
Seguendolo, Jon aggrottò un po’ la fronte. «Non
sarebbe più giusto dire “Che ne diresti di offrirmi un caffè, per
favore”?»
«Sono il tuo appuntamento, è il minimo che tu possa fare per me».
Damian si incamminò verso l’uscita senza nemmeno
aspettarlo, lasciando Jon a fissare la sua schiena con fare
scombussolato e stranito per attimi che parvero interminabili, finché
non recepì il messaggio, arrossì fino alla punta delle orecchie e non
cominciò a balbettare come un idiota, correndogli dietro.
«Aspetta, chi ha deciso che questo era un
appuntamento?!» urlò, sentendo la fragorosa risata di Damian rimbombare
per tutta la hall prima che uscissero entrambi dall’edificio e Jon
pensò che tutto sommato non era poi così male sentir ridere quel
ragazzo.
Sì, forse non sarebbe stata una brutta giornata,
dopotutto.
_Note inconcludenti dell'autrice
Scritta
per la #vorreincontrartitra100anni e
per la #elsewherechallenge sul
gruppo facebook Hurt/comfort
Italia e anche per
l'iniziativa #200summerprompts indetta
dal gruppo Non
solo
Sherlock - gruppo eventi multifandom
Comunque. Questo è letteralmente un mattone ed è il motivo per cui io
non scrivo le AU: non ho il senso della misura ed è una fortuna che per
questa mi sia fermata solo a diecimila (a differenza dell'altra che è
decisamente molto più lunga di questa), quindi ho voluto dividere
questa storia in tre piccole parti suddivise in sottosezioni
Al momento non sembra che stia succedendo granché, ma vediamo Jon alle
prese con degli incubi e... il suo primo incontro con Damian! Gioia e
gaudio, anche se amian pretende già piccole cose e Jon resta lì
imbambolato come uno scemo
Oh, l'immagine di apertura è di Rim (sia lode e sempre) io l'ho solo
manipolata un pochino per creare l'effetto del titolo
Commenti e critiche, ovviamente, son sempre accetti
A presto! ♥
Messaggio
No Profit
Dona l'8% del tuo tempo
alla causa pro-recensioni.
Farai felici milioni di
scrittori.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Atto due: Prati di Asfodelo ***
No matter how life_2
Titolo: No matter how life
turns around (I'll see you again)
Autore: My Pride
Fandom: Super Sons
Tipologia: One-shot (divisa in tre atti) [ 10274 parole fiumidiparole
]
Personaggi: Jonathan Samuel
Kent, Damian Wayne, Vari ed eventuali
Rating:
Giallo
Genere: Generale,
Sentimentale, Malinconico, Azione
Avvertimenti: What if?, Slash, AU,
Hurt/Comfort
Vorrei incontrarti tra 100 anni
challenge: 50.
Battito cardiaco || 177. Esame || 63. Contadino (Tipologia 4:
Incontrarsi in un altro contesto storico/sociale (AU) + Reincarnation
AU)
Take your business elsewhere
Challenge: 9.
Di mezzo c'è un segreto || 17. Personaggio X non è umano || 28. Uno
specchio || 34. Y non è mai stato così vicino a X || 39. Stupire
200 summer prompts: Balliamo
|| Segreto || Personaggio X vuole esserci
SUPER
SONS © 2016Peter J. Tomasi/DC. All Rights Reserved.
ATTO DUE. PRATI DI ASFODELO
Era passato un mese
dal suo primo incontro con Damian e, per quanto nelle ultime settimane
si fossero divertiti, quei sogni – ormai incubi – non avevano smesso di
tormentare Jon.
Ogni notte si facevano sempre più vividi, le nuvole
dorate diventavano ammassi voluminosi che ricordavano antiche case, le
colonne diventavano sempre più alte e gli abitanti di quel luogo da
sogno figure sempre meno spettrali, ma c’era sempre e solo una
costante, quegli occhi verdi e languidi colmi di lacrime. Di chi erano?
Per chi piangeva quel ragazzo? Jon non riusciva a riposare come avrebbe
voluto e si svegliava sempre più stanco, senza più riconoscere la sua
immagine riflessa nello specchio. Quel mattino non era andata meglio, e
le occhiaie erano così profonde, mentre osservava il suo riflesso nello
specchio del bagno, che decise di rimanere a casa nel tentativo di
riposare almeno un po’. Avrebbe dovuto dare l’ultimo esame il prossimo
mese, ma in quelle condizioni non sarebbe riuscito a fare niente,
figurarsi a studiare. Così chiamò i suoi amici e disse loro che stava
male e che non sarebbe passato in biblioteca, facendosi una lunga
doccia per schiarire i pensieri e rilassarsi.
Fu mentre si stava lavando, però, che un paio
d’occhi verdi si affacciarono nuovamente nella sua mente e Jon si portò
una mano a coppa fra le gambe, rendendosi conto di ciò che stava per
fare appena in tempo. Oh. Oh,
Cristo. Stava per masturbarsi pensando a Damian? Perché, sì,
era inutile girarci intorno: sognava degli occhi verdi da un mese, ma
era ovvio che quelli che lo facessero impazzire erano gli occhi verdi
di Damian e che fossero anni che non si sentiva così vicino a qualcuno
come con lui. Com’era strana la vita, certe volte.
Picchiettò la fronte contro il muro e si diede
mentalmente dello stupido – prima o poi si sarebbe fatto venire una
commozione – mentre borbottava tra sé e sé, cercando di scuotersi e di
lavarsi e basta. Rimase sotto il getto scrosciante della doccia per
quelle che gli parvero ore, lo sguardo fisso sul piatto e sui suoi
piedi per osservare l'acqua che veniva inghiottita dallo scarico, con i
palmi contro il muro e i capelli che gli si incollavano il viso in
ciocche completamente zuppe. Il dormire poco gli aveva fatto peggiorare
il mal di testa che aveva da giorni e aveva pensato che una doccia
l'avrebbe rilassato un po', ma si era maledettamente sbagliato. Così,
una volta asciugatosi e infilatosi giusto un paio di pantaloni,
riacchiappò il suo cellulare e si gettò sul divano, indugiando nel
fissare lo schermo. Avrebbe dovuto chiamare Alan? Dirgli davvero che
avrebbe saltato l'incontro solo? Non lo sapeva, ma si sentiva piuttosto
fiacco e non aveva davvero voglia di vedere nessuno.
Stava quasi per cercare il numero dell'amico quando
il cellulare squillò e lui per poco non saltò dal divano come un
idiota, acchiappando quel maledetto telefono che era quasi scivolato
via dalle sue mani solo per notare l'ID chiamante e sospirare. Kathy. Aveva un sesto senso per
quelle cose oppure era soltanto una sua impressione?
«Ehi», rispose al terzo squillo, e subito gli giunse
alle orecchie la replica indignata dell'amica.
«Non dirmi “Ehi”, Jonno». La voce di Kathy suonava
abbastanza stanca e, mentre lei tratteneva uno sbadiglio, Jon sentì
qualche brusio di sottofondo. «Dove sei? Io e i ragazzi ti aspettiamo
da un'ora».
Un'ora? Ma
che diavolo...? «Un'ora?» ripeté ad alta voce, e Kathy sbuffò ilare.
«Beh, ben svegliato, bell'addormentato».
«Gh, non prendermi in giro, sono troppo stanco per
risponderti a tono e con lucidità».
«Oh... qualcuno ha fatto le ore piccole?» Jon non
poté vederla ma, dalla risatina che le scappò, fu sicuro che Kathy
stesse sorridendo come non mai. «Magari con quel ragazzo di cui ha
parlato tanto fino alla nausea?» Schioccò la lingua, imitando il rumore
di un bacio e poi qualcos'altro di molto più osceno risucchiando
l'aria, cosa che fece arrossire Jon fino alla punta delle orecchie.
«Cosa?! No!»
esclamò a voce un po' troppo alta e troppo in fretta, e Kathy scoppiò
in una fragorosa risata.
«Rilassati, Johnny! Stavo soltanto scherzando!»
«Ehi, Kathy, di' a quel Casanova di portare qui le
chiappe se ha passato la nottata a scopare!»
Alle parole di Alan, urlate così forte che poté
sentirle perfettamente nonostante fosse dall'altro capo del telefono,
Jon provò l'impulso di seppellire la testa nei cuscini del divano e
nascondersi fino alla fine dell'anno scolatico. Odiava i suoi amici e
le loro supposizioni, dannazione a lui e al fatto che avesse parlato
loro di Damian.
«Non ci ho combinato niente, idioti», borbottò
arreso, passandosi una mano sulla faccia. «A stento ci siamo baciati».
«Come no, frequenti un tipo per un mese e nemmeno lo
baci. Cos'è, aspettate il matrimonio?»
Avrebbe strozzato Kathy e la sua ironia, parola sua.
«Ci sentiamo, Kat», tagliò corto Jon con un brontolio, ma l'amica lo
frenò con una sequela cantilenante di “No, no, no” alla quale Jon
sbuffò. «Senti, non ho dormito bene e credo di avere la febbre. Tutto
qui». Dal ricevitore sentì un suono, una specie di mormorio di
disapprovazione, poi qualche rumore come se Kathy si fosse allontanata
e infine un sospiro.
«Ancora quegli strani sogni?» domandò sottovoce, e
Jon esitò. Kathy era l'unica a sapere degli incubi che faceva, anche se
non raccontata tutti i dettagli per non farla preoccupare troppo.
Inoltre neanche lui sapeva dare una vera e propria spiegazione a ciò
che sognava e a volte a stento li ricordava, quindi non avrebbe potuto
farlo comunque nemmeno volendo. Così sospirò e annui, ricordandosi solo
dopo attimi di silenzio che Kathy non era lì e non poteva vederlo.
«A volte», ammise. «Adesso riesco a vederli meglio,
ma non capisco comunque cosa vogliano significare».
«Forse dovresti davvero prendere in considerazione
l'idea di andare da un oniromante, Jon».
Jon storse il naso, arricciando le labbra. «Non mi
va di parlare di quello che sogno ad un perfetto sconosciuto, Kathy».
«Intanto è un mese che non dormi decentemente
proprio per colpa di quei sogni, quindi tu cerca di pensarci, okay?»
La preoccupazione della ragazza era palpabile anche
attraverso il cellulare, e Jon sospirò pesantemente, passandosi una
mano fra i capelli. «...d'accordo. Salutami i ragazzi, okay? Di' loro
che non mi sento bene, ci vediamo domani». Indugiò per un istante,
mordendosi il labbro. «Magari potresti accompagnarmi tu da
quell'onirocoso».
«Contaci», replicò, e dalla voce parve più
rassicurata. «Cerca di riposare, Jonno».
«Ci proverò. Ciao, Kathy».
«Ciao, Jon».
Quando riagganciarono, Jon gettò il cellulare sul
divano e spalancò le braccia dietro lo schienale, reclinando la testa
all'indietro con un gemito frustrato. Parlarne non lo aveva fatto
sentire meglio, ma almeno era riuscito a togliersi in parte il peso che
aveva nello stomaco da quando si era svegliato. Odiava dover dar buca
ai suoi amici in quel modo e ancor più non riuscire più a seguire il
normale ritmo della sua vita, e a lungo andare aveva quasi paura che
sarebbe incappato in una crisi nervosa e che il poco sonno che si
concedeva avrebbe finito col farlo delirare. Forse Kathy aveva
ragione, doveva proprio decidersi a parlare con qualcuno, ma poteva
farlo davvero? Lui stesso a volte si sentiva terrorizzato dai suoi
sogni, come avrebbe potuto raccontarli ad uno sconosciuto che, in base
ad essi, avrebbe giudicato anche la sua psiche? Non l'aveva nemmeno
accennato ai suoi genitori, dannazione! Persino suo fratello Conner era
completamente all'oscuro della cosa, e a Conner aveva raccontato
letteralmente di tutto, persino della sua scappatella con la sua amica
Georgia quando aveva quindici anni e del terrore che aveva avuto nel
credere che l'avesse messa incinta.
Sì, forse potrei
provare, si disse comunque, allungando pigramente un braccio per
afferrare il telecomando e cominciare a fare zapping; a quell'ora non
c'era granché da vedere, così mise semplicemente il canale dei cartoni
animati e lasciò che i Looney Tunes riempissero il soggiorno con le
loro voci squillanti e le loro situazioni al limite dell'assurdo,
giusto per avere un po' di compagnia e distrarsi dai sogni che gli
avevano rimescolato la testa. Non seppe quanto tempo passò lì seduto a
vegetare, sdraiandosi poco dopo solo per sprimacciare il cuscino e
alzare un po' il volume, lo sguardo fisso sullo schermo della tv e
l'aria a dir poco annoiata.
Nemmeno si accorse di essersi addormentato, ad un
certo punto. Qualcuno nella sua testa urlò a squarciagola un nome e Jon
vomitò al lato del divano prima ancora di aprire gli occhi, portandosi
le dita fra i capelli per stringere le ciocche e urlare, come se ciò
potesse aiutarlo a scacciare le orribili immagini che si erano impresse
nelle sue retine che schiacciò contro i palmi delle mani. Stavolta
l’incubo era stato fin troppo chiaro, e l’aveva terrorizzato: giganti
che calpestavano corpi ormai senza vita, colonne divelte e spezzate che
erano crollate in mille pezzi in un’enorme spiazzale che un tempo era
stato dorato e che si era invece macchiato di sangue, e poi un ragazzo
dal volto ancora sfocato, con addosso un’armatura scura e il cappuccio
a nascondere gran parte dei capelli, la falce in frantumi quanti le
spalline dorate e le vesti logore, che urlava il suo nome – il suo
nome? No, un momento, quello che aveva sentito nel dormiveglia non era
il suo nome – e cercava di raggiungerlo nonostante la caviglia
spezzata, poi qualcosa gli afferrava gli arti e lui aveva appena il
tempo di voltarsi indietro solo per vedere uno di quegli enormi Titani
strappare la sua carne e dilaniarlo, smembrandolo e divorandolo davanti
agli occhi terrorizzati di Thanatos.
Jon interruppe il filo dei suoi pensieri e sgranò
gli occhi, sbirciando il soggiorno attraverso la fessura tra le dita.
Chi era Thanatos? Perché quel nome si era fatto largo nella sua mente
come se avesse dovuto significare qualcosa? D’accordo, ne sapeva
abbastanza di mitologia da rendersi conto che erano nomi di Dei e che
Thanatos era considerato dai greci la personificazione della morte, ma
questo come lo aiutava a spiegare i suoi incubi? Non lo faceva, ecco
come. Conosceva solo in parte la storia di Thanathos, del “dio”
arrogante e impulsivo nemico degli umani e mal visto persino dagli
altri Dei, ma come avrebbe potuto il padrone del Tartaro, una potenza
così meschina e implacabile, piangere la morte di qualcuno quando egli
stesso rappresentava la morte? Tutte domande a cui Jon non sapeva
rispondere e che gli facevano solo dolere la testa, e si massaggiò le
tempie con entrambe le dita mentre si drizzava a sedere sul divano.
Era tutto così… strano e assurdo, ogni tassello che
gli sembrava di trovare si frantumava nelle sue mani solo per
aggiungerne un altro più complicato del precedente, e stava cominciando
davvero a sentirsi stanco per la situazione che stava vivendo. Anche se
adesso aveva almeno un nome, non se ne faceva assolutamente niente
quando quel nome accavallava nella sua testa dubbi su dubbi e lo
rendeva ancora più confuso di prima.
Sbuffando, Jon si alzò barcollante e andò in bagno
per lavarsi la bocca, afferrando anche lo straccio per dare una
ripulita. Fortunatamente aveva fatto sparire il tappeto mesi prima – lo
aveva considerato solo un ricettacolo di polvere che lui si scocciava
di pulire –, altrimenti gli sarebbe toccato portarlo in tintoria per
lavar via tutto il vomito che aveva sporcato il pavimento; storse un
po' il naso alla vista e per poco non diede di nuovo di stomaco – era
sensibile, d'accordo? Tante persone non resistevano –, ma si diede un
contegno e ripulì ogni traccia, passandosi il dorso della mano sulla
fronte accaldata. Non aveva fatto chissà quale sforzo, quindi perché si
sentiva bruciare? Forse il suo corpo stava cominciando a risentire
delle poche energie che riusciva ad accumulare, ma Jon non aveva
intenzione di provare a dormire ancora. Sarebbe stato letteralmente
inutile. Andò invece in cucina a prepararsi una bella tazza di the –
anche se faceva caldo voleva un the, e allora? Non voleva essere
giudicato per questo – e si piazzò poi davanti al computer portatile,
mollandolo sul tavolino per cominciare la sua ricerca. Ma cosa stava
cercando, esattamente? Informazioni su Thanatos? Sul perché facesse
quei sogni? Non lo sapeva, ma iniziò una ricerca a tappeto mentre
sorseggiava il proprio the al bergamotto, la fronte aggrottata dalla
concentrazione e lo stomaco che poco a poco si assestava grazie alla
bevanda calda.
Passò molto probabilmente ore davanti al computer,
scartando siti web che davano solo informazioni inutili per cercare
invece qualcosa che avrebbe potuto avere senso, e stava quasi per
rinunciare quando un articolo catturò la sua attenzione e lui cliccò
immediatamente su di esso; le prime righe erano cose che già sapeva,
vecchie rimembranze di vecchi racconti di sua zia Diana quando tornava
dai suoi viaggi nei siti archeologici di tutta la Grecia, ma ben presto
il racconto si fece più intenso, tanto che avvicinò il viso allo
schermo.
«Nei rari
ritratti, Thanatos è rappresentato come un giovane alato, spesso in
compagnia di suo fratello Ipno. Il suo carattere, secondo il mito, è
irruento: egli ama il sangue, la morte e la violenza, ritenuta un
potere invincibile. È nemico del genere umano, ma odia anche gli dei».
Jon lesse quel paragrafo ad alta voce più e più volte, quasi volesse
cercare di imprimerlo bene nella testa mentre si grattava il mento. Ciò
che aveva sognato non aveva assolutamente senso, soprattutto se ogni
ricerca su internet gli dava sempre lo stesso risultato riguardo
Thanatos e la sua storia. «Nella
mitologia non ha un mito vero e proprio, ma è presente nei racconti
popolari. Esiodo lo descrive come una creatura dal cuore di ferro,
visceri di piombo e ali di pipistrello».
Uno strano brivido corse lungo la sua schiena e Jon
si gettò automaticamente una rapida occhiata alle spalle, scrutando il
soggiorno come se avesse la sensazione di essere osservato; aggrottò la
fronte e si passò una mano fra i capelli, scuotendo la testa nel darsi
dell'idiota subito dopo. Si tratta solo di suggestione, Jon, si disse
immediatamente, traendo un lungo sospiro prima di voltarsi di nuovo
verso lo schermo del computer e continuare a digitare ricerche su
ricerche, deciso più che mai a trovare una spiegazione. Si fermò solo
quando trovò l'ennesima pagina che parlava in linea di massima delle
stesse cose, ma un paragrafo in particolare colpì Jon, che si sistemò
gli occhiali sul naso come se ciò avrebbe potuto aiutarlo a leggere
meglio.
«In altri miti,
Thanatos non viene ritratto in modo così implacabile, e viene
contrapposto al fratello Ker, simbolo della morte violenta, come
rappresentazione della morte in pace».
Era così concentrato che un rumore improvviso lo
fece trasalire e sussultò, voltandosi verso la finestra col cuore in
gola; inciampando nei suoi stessi piedi, si affacciò e scrutò il cielo,
cercando di scorgere l'ombra scura che gli era parso di vedere quando
era corso fin lì; per quanto stesse calando il tramonto, quell'ombra
era sembrata ben più di un comune uccello che si librava là fuori,
aveva avuto come l'impressione di vedere grosse ali di pipistrello
sbattere davanti ai vetri socchiusi, uno strano rumore di cuoio
rilegato e il possente spostamento d'aria che aveva fatto gonfiare le
tende, eppure non c'era assolutamente niente là fuori. Forse il poco
sonno e la stanchezza stavano iniziando a fargli immaginare fin troppe
cose, e i racconti che stava leggendo di certo non aiutavano la sua
paranoia.
Il suono di una notifica su Instagram lo distrasse
dai suoi pensieri e, afferrando al volo il cellulare, sorrise un po’
alla vista del nome di Damian tra i messaggi privati. Si erano seguiti
a vicenda praticamente lo stesso giorno in cui si erano conosciuti e di
tanto in tanto Jon sbirciava tra le sue storie e i suoi post – per lo
più aveva foto dei suoi animali, un alano e un gatto dal pelo nero che
sembrava un piccolo maggiordomo –, ma avevano anche passato il tempo a
messaggi are quando trovavano un momento per farlo; era strano come
Damian riuscisse a tranquillizzarlo pur non essendo lì, soprattutto
tenendo conto di quanto fosse sembrato stupido e impacciato in sua
compagnia durante i primi giorni in cui si erano visti. Non si stavano
esattamente frequentando, ma a Jon di certo non dispiaceva passare del
tempo in sua compagnia e non sarebbe stato male nemmeno uscire a vedere
un film o… d’accordo, doveva frenare un attimo. Un paio di uscite erano
da considerare un appuntamento? Sì, lo erano di certo. Jon si diede
dell’idiota e aprì il messaggio, sorridendo se possibile ancora di più.
“Ciao, Jonathan.
Mi chiedevo se fossi libero domani”.
Jon ridacchiò. Quale ventenne era così formale anche
quando scriveva un messaggio su Instagram? Avrebbe quasi voluto
prenderlo in giro, ma aveva già l’umore sotto le scarpe senza che il
suo stupido lato sarcastico si mettesse a punzecchiare Damian che, sì,
a parte i messaggi formali era stato persino gentile per i suoi
standard. Jon in quel mese aveva imparato che Damian sapeva essere
piuttosto arrogante e saccente quando voleva aver ragione a tutti i
costi, impressione data anche dallo snobismo che permeava tutto il suo
essere. Eppure Jon aveva capito che quella era solo una facciata per
tenersi dentro ciò che provava.
“Ehi, D. Ho un po’
di febbre, ti faccio sapere”.
La risposta non tardò ad arrivare, quasi avesse
guardato per tutto il tempo il cellulare. “Hai bisogno di qualcosa? Posso essere lì
in mezz’ora, quaranta minuti”.
Quanto accidenti era carino quel ragazzo, quel
giorno? “Tranquillo, un’aspirina e un
po’ di sonno e starò alla grande”.
“Mhn, se lo dici tu. Questo succede perché dormi in
mutande”.
D’accordo, Jon si rimangiava tutto quello che aveva
detto. Damian era lo stesso idiota che aveva conosciuto in quel mese. “E tu che diavolo ne sai che dormo in
mutande?”
“Grazie per averlo
confermato. Prendi qualcosa e va’ a dormire”.
“…ti odio, D”.
“Felice di sentirlo”.
Jon indugiò un po’ su cosa scrivere, cancellando più
e più volte messaggi che avrebbero potuto sembrare provocanti – “Ho
cambiato idea, vieni a curarmi tu”, “Sai cosa, forse ho bisogno di un
infermiere” – o addirittura pessime frasi di abbordaggio mentre tornava
seduto davanti al computer, ma Damian fu più svelto di lui.
“Guarda che stavo
scherzando”, scrisse, e Jon per poco non scoppiò a ridere. Oh,
accidenti, aveva davvero pensato…
“Non ti stavo
evitando”.
“Oh, sei vivo.
Sembrava il contrario”.
“Volevo scrivere
una battuta stupida, ma forse il mio cervello è troppo sciolto dalla
febbre per funzionare come si deve”.
“Dormi, Jonathan.
Ci vediamo quando starai meglio”.
“Voglio davvero
uscire con te”.
Oh, dannazione, l’aveva inviato davvero e non aveva
fatto in tempo a cancellarlo che Damian l’aveva già letto, tanto che in
quei pochi secondi che passò nel vedere che stava digitando qualcosa
quasi gli si mozzò il fiato nel petto.
“Felice di saperlo
😉” scrisse stavolta,
e Jon si passò una mano davanti al viso arrossato nel rendersi conto
che Damian aveva persino usato un’emoji. Va bene, sarebbe morto di
vergogna e di lui avrebbero ricordato che faceva strani sogni e
ricerche su déi greci.
“Sarà meglio che
dorma ciao” rispose in fretta, gemendo quando gli arrivò l’emoji
di una faccina divertita e un “Buonanotte”
da parte di Damian. Figure dell’idiota ne aveva? Perché ne aveva appena
fatte parecchie uva dietro l’altra, quindi tornò a concentrarsi sulle
sue ricerche per scacciare l’imbarazzo della situazione.
La sensazione di oppressione al petto tornò mezz’ora
dopo, quando ormai la vergogna era scemata e lui aveva sentito la testa
ribollire di domande su domande e girare vorticosamente, dolente;
faticava a tenere gli occhi aperti e gli sembrava che stessero
letteralmente bruciando, tanto che finì con l’appisolarsi per un
istante proprio sulla tastiera. Stavolta gli sembrò di camminare su una
nuvola, lo strano odore di zolfo sfumò e si mescolò con quello dei
fiori e lui si guardò intorno per cercare di capire cosa stesse
succedendo, dato che aveva come l’impressione di star letteralmente vivendo il sogno; non
c’erano colonne, non c’erano altre persone all’infuori di lui se non
ombre lontane, i suoi piedi nudi affondavano nel terreno e le sue dita
sfioravano i petali di quel prato di asfodeli, donandogli pace; aveva
la testa leggera e le sue vesti leggere si muovevano pigramente alla
piacevole brezza che trasportava con sé una moltitudine di profumi,
pollini e petali, soffi di zefiro che carezzavano le narici e placavano
l’animo, tutto così diverso dalla distruzione che, ogni singola notte,
Jon aveva visto quando si immergeva nel profondo dei suoi incubi.
Un nitrito lo distrasse, il volo di una moltitudine
di uccelli colorati richiamò la sua attenzione e lui si voltò,
avvertendo il suono familiare – un attimo, perché avrebbe dovuto
esserlo? – di un battito di grosse ali cartilaginee e lo stridio della
punta di una falce che scivolava contro una roccia. Col cappuccio
calato sugli occhi, l’armatura scintillante sotto al sole e la collana
d’oro che avvolgeva finemente tutto il collo, la figura appena
atterrata gli si avvicinò con passi aggraziati e silenziosi, facendo
frusciare la lunga veste scura che indossava.
«Non dovresti essere qui», disse Jon, ma quella non
era la sua voce. Era più roca, più profonda, vagamente velata di
rimpianto e preoccupazione, ma tutto svanì in un istante quando una
gelida mano gli sfiorò il viso, carezzandogli una guancia con tocco
gentile.
«Possono temermi, odiarmi e addirittura incatenarmi…
ma non possono tenermi lontano da te. Non con ciò che sta per
accadere».
«Neppure tu che sei la Morte puoi modificare il
destino deciso dalle Moire, Thanatos».
Le mani strinsero più forte, l’odore dei fiori sparì
come se fossero appassiti tutti nello stesso istante. «Abbi fiducia in
me… Zagreus».
«Jonno?»
Jon sollevò la testa così in fretta che il collo
scrocchiò e lui gemette di dolore, ripulendosi la bocca con il dorso
della mano quando si rese conto che un rivoletto di saliva aveva
cominciato a colargli giù fino al mento; gli ci volle un attimo di
troppo per mettere a fuoco la figura di Kathy, la quale lo osservò
stranita mentre sbatteva le palpebre. L’amica sapeva dove nascondeva
una copia delle chiavi quindi era sicuramente entrata così, ma perché
non aveva semplicemente suonato anziché farlo sobbalzare in quel modo?
«Mi hai fatto prendere un colpo, Kat». Jon si
massaggiò il collo, sentendo dolore da tutte le parti. «Non mi spiace
che entri quando vuoi, ma almeno vorrei che tu mi avvertissi».
«Ti ho chiamato per mezz’ora e non hai risposto, mi
ero preoccupata e sono corsa qui».
Jon si fermò con la mano premuta dietro al collo,
guardando l’amica con tanto d’occhi. «Mezz’ora?» chiese conferma, e al
suo annuire rimase ancor più sconcertato. Possibile che non avesse
minimamente sentito il telefono, visto il baccano infernale che
solitamente faceva la sua suoneria? «Scusa, tutto okay. Mi sono solo
appisolato».
«Non hai una bella cera, sicuro di star bene?»
«Sì, io… credo di sì».
«Credo è la
parola giusta, sei bianco come un fantasma». Senza tanti preamboli,
Kathy gli spiaccicò una mano sulla fronte, sgranando gli occhi nel
sentirla bollente sotto al suo tocco. «Accidenti, stai bruciando», lo
accusò quasi, chiudendo le stessa il portatile nonostante le proteste
di Jon. «Per oggi basta cazzeggiare, un bel brodo di pollo e dritto a
letto».
«Tu frequenti troppo mia nonna, Kat».
Kathy grugnì in risposta. «Martha è il mio spirito
guida. Ora smettila di insultare i suoi rimedi e datti una mossa,
campagnolo», disse schietta, e Jon roteò gli occhi.
Non se ne sarebbe andata finché lui non avesse fatto
ciò che aveva chiesto, così si fece forza sulle gambe malferme e si
tirò su, barcollando per un istante; l’amica ebbe la prontezza di
riflessi di afferrarlo per i fianchi e di sorreggerlo, e Jon le gettò
un braccio dietro alle spalle per non gravare con tutto il suo peso su
di lei mentre si dirigevano in camera da letto. Senza Kathy
probabilmente Jon sarebbe stato perso, ed era bello sapere che,
nonostante non si fossero inizialmente visti per anni, la loro amicizia
d’infanzia non fosse cambiata un granché. Fino a dieci anni aveva
vissuto nelle campagne di Hamilton e Kathy e suo nonno erano stati un
vero e proprio aiuto per la fattoria, o sarebbero colati a picco il
primo anno; col tempo erano riusciti a mantenere la baracca ma, non
appena i suoi genitori avevano ricevuto la proposta di lavorare alla
redazione giornalistica di Metropolis, l’intero mondo di Jon era
cambiato. Aveva pestato i piedi, aveva urlato che non era giusto e che
non avrebbe voluto abbandonare i suoi amici, aveva pianto e implorato
come solo un bambino di dieci anni avrebbe potuto fare, ma alla fine si
era ritrovato comunque ad impacchettare la sua roba per cominciare una
vita lontano da Hamilton. Salutare Kathy era stata la parte peggiore e
avevano pianto una giornata intera, e persino nella sua nuova casa di
Metropolis Jon si era sentito piuttosto a disagio. Gli ci era voluto
del tempo, molto più di quanto i suoi genitori avessero previsto, ma
alla fine era riuscito ad adattarsi e ad abituarsi alla frenetica vita
di città, del tutto diversa da quella vissuta fino a quel momento in
campagna.
In tutto quel tempo aveva cercato di tenersi in
contatto con i vecchi amici e, quando Kathy si era trasferita per
l’università, aveva toccato il cielo con un dito al pensiero di poter
passare nuovamente del tempo con la sua migliore amica. Forse
all’inizio da bambino aveva avuto una piccola cotta per lei, ma col
tempo aveva finito col vederla come la sorella che non aveva mai avuto
e a distanza di anni era bello poter contare ancora su di lei. Anche se
a volte era una ragazza petulante, era la sua ragazza petulante. E non
l’avrebbe cambiata con nessun altro al mondo.
Quando arrivarono i camera, Kathy lo costrinse
letteralmente a togliersi la maglietta nonostante le nuova proteste,
sbottando che non era di certo la prima volta che lo vedeva mezzo nudo
e che il suo fidanzato non ne sarebbe certamente stato geloso; Jon
aveva replicato comunque che Damian non era il suo fidanzato, ma Kathy
aveva fatto letteralmente finta di non sentirlo e, mentre lui si
cambiava, era andata a prendere dei medicinali nell’armadietto del
bagno, tornando persino con una pezza umida che gli schiaffò
letteralmente in fronte senza tanti complimenti.
«Kat! Ma che diavolo--»
«Oh, sta’ zitto. Ti farà bene, ti abbasserà un po’
la temperatura», affermò lei nel porgergli un bicchiere e delle
pastiglie, e Jon borbottò tra sé e sé, scostando le lenzuola coi piedi
prima di squadrare quelle medicine e storcere il naso. «Non fare quella
faccia e manda giù, Jonny-boy».
«E tu piantala di imitare mia madre, sei
inquietante».
«Sarai ancora più inquietato quando la chiamerò per
dirle che suo figlio si comporta come un moccioso e sarà qui davvero».
Jon sgranò gli occhi. «Non oseresti», sibilò, ma Kathy rise e si curvò
verso di lui, sorridendo.
«Mettimi alla prova», affermò, ridendo a più non
posso all’espressione sconcertata che si dipinse sul volto di Jon prima
che si decidesse a prendere le medicine.
Tutto sommato, Jon ammise a sé stesso che, per
quanto non si fosse sentito molto in vena di ricevere visite, non fu
comunque male avere compagnia. Avevano parlato, Kathy si era assicurata
che stesse bene e, lamentandosi di quanto poco fosse affidabile il suo
frigo mezzo vuoto, gli aveva ordinato la cena – “Grande e grosso e hai davvero solo ramen
istantaneo da mangiare?!” – e si era assicurata che la finisse
tutta e che prendesse le sue medicine, senza pressarlo sulla questione
che lo opprimeva da un po’ di tempo a quella parte. Era stato Jon
stesso a dirle delle sue ricerche e delle strane sensazioni che aveva
provato nel farle, di ciò che aveva scoperto e di quanto tutto suonasse
ridicolo e assurdo, e Kathy aveva insistito sul fatto che avrebbe
dovuto parlarne con qualcuno, anche solo per venire a capo della
matassa che si era ingarbugliata nella sua testa. Jon aveva parlato
letteralmente di tutto… ma non le aveva raccontato quel sogno che aveva
fatto, lo strano sogno in cui aveva discusso con Thanatos come se lo
conoscesse da tutta la vita, né tanto meno le aveva parlato di come in
quel sogno fosse un’altra persona. C’era troppo da spiegare e troppo da
catalogare… e stava cominciando a pensare che le cose gli stessero
letteralmente sfuggendo di mano.
Forse la notte avrebbe portato consiglio.
_Note inconcludenti dell'autrice
Allora, qui cominciamo ad addentrarci un po' di più nel
cuore della storia e qualche nodo comincia a venire al pettine, anche
se se ne stanno creando di nuovi
Qui entra in scena anche un'amica storica di Jon: Kathy! L'avevo già
nominata in altre one-shot legate alla raccolta Allegretto
~ Deux ou trois choses que je sais de nous e anche in qualche
storia della raccolta Smile in a
cornfield ~ a flower that has the breath of a thousand sunsets
A differenza di quelle storie, però, qui Kathy ha un ruolo più centrale
e sembra un po' guidare Jon, sempre più confuso dai sogni che sta
facendo e sempre più desideroso di vivere quella nuova relazione che
sta cominciando a vivere insieme a Damian. Come andranno a finire le
cose tra loro? Lo scopriremo presto!
Commenti e critiche, ovviamente, son sempre accetti
A presto! ♥
Messaggio
No Profit
Dona l'8% del tuo tempo
alla causa pro-recensioni.
Farai felici milioni di
scrittori.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Atto tre: Elisio ***
No matter how life_3
Titolo: No matter how life
turns around (I'll see you again)
Autore: My Pride
Fandom: Super Sons
Tipologia: One-shot (divisa in tre atti) [ 10274 parole fiumidiparole
]
Personaggi: Jonathan Samuel
Kent, Damian Wayne, Vari ed eventuali
Rating:
Giallo
Genere: Generale,
Sentimentale, Malinconico, Azione
Avvertimenti: What if?, Slash, AU,
Hurt/Comfort
Vorrei incontrarti tra 100 anni
challenge: 50.
Battito cardiaco || 177. Esame || 63. Contadino (Tipologia 4:
Incontrarsi in un altro contesto storico/sociale (AU) + Reincarnation
AU)
Take your business elsewhere
Challenge: 9.
Di mezzo c'è un segreto || 17. Personaggio X non è umano || 28. Uno
specchio || 34. Y non è mai stato così vicino a X || 39. Stupire
200 summer prompts: Balliamo
|| Segreto || Personaggio X vuole esserci
SUPER
SONS © 2016Peter J. Tomasi/DC. All Rights Reserved.
ATTO TRE. ELISIO
L’influenza aveva
deciso di lasciarlo in pace solo la settimana successiva.
Non era mai stato uno che si ammalava facilmente, ma
durante quei giorni aveva davvero pensato di essersi beccato chissà
quale virus sconosciuto che aveva prosciugato gran parte delle sue
forze vitali. Tutti i suoi buoni propositi erano stati gettati
letteralmente alle ortiche e i suoi sogni erano diventati i deliri
insensati di un povero disperato in preda alla febbre, ma l’odore dei
fiori e le carezze sul suo corpo durante quelle notti non lo avevano
abbandonato mai. Non aveva più sognato la distruzione di quella dimora
dorata, né aveva sentito il dolore delle carni strappate e delle ossa
fatte a pezzi, ma i sussurri di Thanatos e bagliore dei suoi
occhi erano divenuti più intensi attimo dopo attimo, sparendo ad ogni
battito di ciglia e ripresentandosi ad ogni zaffata di asfodeli.
Jon aveva persino pensato di essere impazzito, ad un
certo punto. Kathy era andato a trovarlo un paio di volte, ma le aveva
detto che non voleva che si ammalasse e l’aveva fatta desistere,
discorso che aveva fatto al resto dei suoi amici e a Damian stesso.
Ogni volta che Jon riusciva a tenere gli occhi aperti, si messaggiavano
e finivano col fare battute sempre più provocanti l’un l’altro, cosa
che faceva sorridere Jon e fargli desiderare di passare più tempo con
Damian. Non aveva mai provato quel tipo di attaccamento per nessuno,
aveva avuto delle storie e non sempre erano finite tutte bene – il suo
ultimo ragazzo gli aveva hackerato il profilo Facebook ed era stata una
fortuna che non avesse inserito dati troppo sensibili come il numero di
telefono o quello di previdenza sociale –, ma con Damian era… diverso.
E quella stupida influenza aveva scelto proprio il momento peggiore per
colpire.
Da una parte non se n’era meravigliato più di tanto,
a dire il vero. Stanco, stressato e perennemente assonnato, era stata
una normale risposta fisica del suo organismo sotto sforzo che alla
fine era collassato su se stesso, e Jon aveva purtroppo dovuto farci i
conti e starsene chiuso in casa; aveva provato a studiare per quel
maledetto esame, ma il suo cervello gli aveva sbottato contro e si era
rifiutato categoricamente di farlo, quindi aveva passato quei giorni a
morire a letto e a chiacchierare di tanto in tanto al cellulare con
amici e famiglia per tranquillizzarli e dir loro che, febbre a parte,
non stava mica morendo. Suo fratello Conner l’aveva preso un po’ in
giro e accennato al fatto che adesso non avrebbe più potuto farsi
chiamare “ragazzo d’acciaio”, e a lui aveva riservato una bella
fotografia del suo dito medio scattata proprio in mezzo alle cosce.
Risultato? Conner aveva riso come un idiota e sbottato che era proprio
uno sporcaccione – e di mettersi quel dito da tutt’altra parte,
provocando l’indignazione di Jon –, accennando che quando sarebbe
guarito se ne sarebbero andati a bere una birra e a festeggiare.
Pessima idea, ma gli aveva comunque detto sì.
Quando era guarito, la prima cosa che aveva fatto
era stato mandare un messaggio a Damian per chiedergli se era libero.
Aveva osservato la casella di messaggi privati per ore – no, d’accordo,
erano stati solo sette minuti e quattordici secondi, non avrebbe dovuto
esagerare – prima di ricevere una risposta, esultando come un completo
idiota quando Damian gli aveva detto che era libero e che avrebbero
potuto vedersi nel pomeriggio di quel giorno stesso. E Jon aveva
passato la mattinata a decidere cosa mettere, in videochiamata con i
suoi amici anche per discutere della presentazione che avrebbero dovuto
portare e per mettersi d’accordo per il giorno successivo, così da
poter riprendere i loro studi. Aveva tutte le intenzioni di mettersi in
pari, ma aveva dovuto subirsi le battute e le frecciatine dei suoi
amici quando avevano saputo che sarebbe uscito solo per un
appuntamento.
Il destino, però, sembrò avercela con lui, poiché
quando nel pomeriggio prese le chiavi della jeep e provò a metterla in
moto una volta seduto sul sedile del guidatore, quello stupido rottame
non partì. Jon imprecò tra sé e sé a denti stretti e tentò di dare gas
più e più volte, battendo una mano sul volante quando capì che non ci
sarebbe stato niente da fare. Beh,
perfetto. Mi tocca andare a piedi, si disse, fissando il
tettuccio per attimi interminabili prima di decidersi a scendere tra
uno sbuffo e l’altro, già accaldato. Quel giorno le temperature erano
alte e l’idea di farsi un bel po’ di isolati a piedi non era il
massimo, ma la voglia di vedere Damian prevalse e si incamminò fra le
strade di Metropolis col sorriso ugualmente sulle labbra.
Stava attraversando insieme ad altre persone quando
lo stridio dei freni e il suono dei clacson li colse tutti impreparati,
vedendo un’auto sfrecciare come un missile verso di loro; senza avere
il tempo di spostarsi, Jon sgranò gli occhi e si portò automaticamente
le braccia a coprirsi il viso come se ciò avesse potuto trattenere
l’impatto, sentendo lo schianto rimbombare nelle sue orecchie e la
sensazione che il suo corpo si fosse accartocciato su se stesso per un
istante. Non c’erano suoni, non c’erano odori, voci, tutto era avvolto
in uno strano silenzio che risultava ironicamente assordante, seppur
Jon fosse conscio che ciò che sentiva era il battere frenetico del suo
cuore nel petto; il buio lo aveva avvolto e non vedeva nulla ad un
palmo dal naso, ma quando provò a tirarsi su e a mettersi almeno
seduto, una fitta di dolore al costato lo costrinse a sdraiarsi di
nuovo, storcendo il naso. Cosa diavolo era successo? In lontananza
aveva cominciato a sentire dei rumori lontani, echi di voci
terrorizzate che solo vagamente riusciva a capire, e rabbrividì quando
un soffio gelido gli sfiorò il collo, cercando invano il punto da cui
proveniva lo spiffero quando provò di nuovo a mettersi a sedere.
«Sta’ fermo. Non muoverti».
Riconoscendo la voce di Damian, Jon boccheggiò per
un istante, tentando di far funzionare la bocca come avrebbe voluto e
chiedergli cosa ci facesse lì e cosa fosse successo. Era come se il suo
cervello non avesse intenzione di mandare segnali ai nervi e
permettergli di aprirla, come se ogni parola avrebbe potuto persino
suonare superflua, ma lo sforzo di far uscire almeno qualche gemito gli
morì letteralmente in gola quando la figura di Damian si stagliò
nell’oscurità, fendendo quel buio con la sua strana quanto luminosa
presenza. Aveva già visto quelle vesti, conosceva quelle sembianze: con
il cappuccio calato sul viso, i gioielli luminosi al collo e ai polsi e
la lunga falce sorretta con la mano sinistra, quella figura si avvicinò
passo dopo passo, fermandosi letteralmente ad una spanna da lui. Le sue
vesti grige frusciavano nel vuoto ma non soffiava alcun vento, era come
se possedessero vita propria e si attorcigliavano intorno alle lunghe
gambe scure, almeno finché quella presenza non si inginocchiò davanti a
lui e ripose la falce ai lati del suo corpo.
«Thanatos», affermò Jon, e la figura sorrise.
Afferrò il cappuccio con entrambe le mani e lo abbassò all’indietro,
rivelando il bel volto ambrato di Damian e quegli incredibili occhi
verdi che Jon aveva sognato per mesi.
«Finalmente sai chi sono». La sua voce era possente,
completamente diversa da quella che Jon aveva imparato a conoscere, ma
non per questo meno piacevole da ascoltare. Era come il rombo di un
tuono prima di un temporale, come le onde che si infrangevano contro
gli scogli e la forza della risacca, ma aveva la stessa bellezza
mozzafiato che catturava gli animi dinnanzi alla vastità della potenza
devastante della natura. «Lo attendevo da secoli».
Jon si tenne la testa con una mano, cercando di
ricordare le parole che aveva sentito nei suoi sogni confusi. «Eri tu…
sei sempre stato tu. La tua voce… cent’anni…» sussurrò, ma qualcosa non
quadrava e gli si attorcigliò lo stomaco. «Sono passati più di
cent’anni», constatò, sentendo la bocca completamente arida e le voci
nella sua testa farsi sempre più alte e terribili. Perché non stavano
zitti? Perché non lo lasciavano in pace?
La risata di Damian – Thanatos? – suonò alle sue orecchie
come vetro spezzato. «Ne sono passati dieci, cento e mille altri da
allora… ma ti ho sempre aspettato e ti avrei aspettato ancora». Una
gelida mano gli sfiorò il viso, e fu strano come Jon ebbe come la
sensazione che fosse per lui una dolce carezza. «Ad ogni tua
reincarnazione, ho atteso che ricordassi; ad ogni mio passaggio nel
regno degli uomini per adempiere ai miei doveri, ho cercato di esserti
vicino con mille sembianze».
La testa gli scoppiava, il dolore alle costole
aumentò e parole su parole avevano cominciato a macinare terribilmente
nella sua mente, quasi stesse cercando di dare un senso a ciò che aveva
appena sentito; frammenti di immagini di un tempo passato si
accavallarono a momenti vissuti appena un mese prima, attimi rubati fra
campi dorati si persero in una tazza di caffè e in una risata, ma
quegli occhi verdi erano sempre lì, sempre presenti, e lo fissavano con
la bellezza ammaliante di chi sfidava il fato; baci, carezze, ansiti e
sussurri a mezza bocca, imprecazioni masticate sottovoce e vesti che
scivolavano via dalle spalle, e quella danza continua intorno a colui
che rappresentava la morte.
Jon strizzò le palpebre a quella consapevolezza,
sentendo la nausea attanagliargli le viscere. «Se tu sei qui… se
incarni la morte… significa che sto morendo?» soffiò, ma una nuova
risata aleggiò nell’oscurità, creando crepe nel buio da cui filtrarono
infiniti raggi di luce prima che Damian chinasse il viso verso di lui.
«Non questa volta, mio amato… non questa volta»,
mormorò in un soffio contro la sua bocca, catturando le sue labbra
secche in un bacio che, per un lungo istante, lo lasciò senza fiato e
gli diede realmente la sensazione che stesse morendo.
Riaprire gli occhi e tornare a respirare fu più
doloroso dell’asfalto rovente su cui era riverso. Jon boccheggiò senza
fiato, lo sguardo rivolto verso il cielo azzurro sopra di lui che venne
ben presto coperto da volti di persone sconosciute, mentre le sue
orecchie ricominciavano a sentire e i suoni ovattati tornavano ad
essere grida e clacson bloccati. Qualcuno urlava di chiamare
un’ambulanza, qualche curioso cercava di farsi largo e chiedeva se ci
fosse scappato il morto, ma tutti sobbalzarono quando Jon aprì gli
occhi e si mise a sedere come se nulla fosse, guardandosi intorno
stralunato.
«Ragazzo, stai
bene?!»
«Non dovresti
muoverti, hai avuto un incidente!»
«Riesci a
respirare?»
«Potresti avere
un’emorragia interna!»
«È un miracolo!»
Voci di uomini e donne si accavallarono le une alle
altre e c’era chi cercava di farlo sdraiare ancora una volta per
impedirgli di muoversi, ma Jon si sentiva… bene. Bene come non lo era
mai stato negli ultimi tempi, così bene che avrebbe potuto toccare il
cielo con un dito con un semplice salto, e cercò di allontanare tutti
da sé mentre si rimetteva in piedi, così pieno di energie da essere
assurdo. E ancor più assurdo era il fatto che fosse vivo, visto che,
quando scrutò oltre la folla di curiosi, vide l’auto che lo aveva
investito con il parafango divelto e il cofano schiacciato, come se
qualcuno – qualcosa? – avesse poggiato un peso su di esso e bloccato in
parte la vettura in corsa. Qualcuno continuava ad insistere che fosse
stato un miracolo e opera di Dio, qualcun altro diceva di aver visto
un’ombra calare sull’auto e altri ancora che era stato lui stesso a
ridurla in quel modo, ma Jon sentiva vagamente le loro parole, troppo
sconvolto dalla vista dell’auto e del conducente che era stato appena
arrestato per guida in stato di ebrezza.
Qualunque cosa fosse successa davvero, sapeva solo
che era vivo. Non sapeva se ciò che aveva visto in quel luogo oscuro
fosse stato solo un delirio provocato dallo shock o fosse successo
davvero, ma si portò due dita alle labbra e le sfiorò, sentendole calde
e umide. Aveva ancora la sensazione di quel bacio su di esse, e non
sparì nemmeno quando fu costretto a restare sul luogo dell’incidente a
parlare con i paramedici che avrebbero dovuto soccorrerlo e con i
poliziotti per capire la dinamica, ma non avrebbe saputo rispondere a
nessuna delle domande che gli stavano ponendo poiché neanche lui sapeva
bene che cosa fosse accaduto.
Fu solo quando fu finalmente libero che, ore dopo,
raggiunse Damian proprio come aveva programmato di fare. Lo vide seduto
al tavolino, una gamba accavallata sull’altra e il cellulare in mano, a
scorrere distratto con un dito sullo schermo mentre leggeva chissà
cosa, un caffè abbandonato sul tavolino e qualche biscotto ancora
intatto nel piattino di ceramica. Gli aveva mandato un messaggio per
dirgli che avrebbe fatto tardi, ma non aveva spiegato ciò che era
successo, ancora incerto se fosse stato un sogno o meno e troppo
scombussolato per riuscire davvero a farlo con la lucidità che avrebbe
dovuto avere.
«Resterai lì a fissarmi tutto il giorno, oppure ti
deciderai a venire qui?»
Preso in contro piede, Jon deglutì e fece qualche
passo verso il tavolino, scostando la sedia per accomodarsi davanti a
lui sotto il suo sguardo vagamente divertito. Quei profondi occhi sono
stati verdi lo scrutavano curiosi come la prima volta, ma Damian aveva
uno strano sorriso dipinto sulle labbra. «Scusa il ritardo», tastò il
terreno, ma Damian agitò una mano in risposta prima di ficcarsi il
cellulare in tasca.
«Immagino che succeda, quando si ha un incidente e
si ritorna improvvisamente in vita».
Jon sgranò gli occhi, boccheggiando per un istante
come un idiota. Aveva davvero sentito ciò che aveva sentito? «Aspetta,
cosa?» sbatté le palpebre ma, contro ogni sua aspettativa, il dio volto
si rilassò e si concesse persino il lusso di un sorriso. «Quindi non
eri solo un sogno… Thanatos».
«Sono più vero che mai e finalmente ricordi il mio
nome anche sul piano terrestre… Zagreus». Damian chinò il viso verso di
lui, sollevando un angolo della bocca in un ghignetto. «O preferisci
che ti chiami Dioniso», rimbeccò nel fargli un occhiolino, e Jon si
massaggiò il collo, accennando un piccolo sorriso tra il divertito e
l’imbarazzato.
«Jon. Solo Jon».
«Allora io sono Damian, Jon… felice di averti
rivisto ancora».
Si guardarono dritto negli occhi, forse stranamente
impacciati, parlando dinanzi a quei caffè che erano ormai stati
dimenticati mentre le parole si affollavano e le esperienze si
comparavano, facendo finalmente sentire Jon esattamente dove avrebbe
dovuto essere. Era strano come ogni cosa si fosse incastrata nel giusto
tassello mentre i ricordi di una vita passata tornavano vividi nella
sua mente, aiutati anche dalle parole di Damian e dal modo in cui gli
andava in contro per far sì che ricordasse; c’erano ancora lacune,
sprazzi di momenti dimenticati che cercavano di farsi largo dentro di
lui, ma non era più solo una moltitudine di pensieri e parole che non
avevano senso, erano attimi condivisi, enormi porte che si aprivano al
suo passaggio e parole saccenti che nascondevano amore, un vortice di
sensazioni ed emozioni che esplodeva nel petto di Jon e lo faceva
sentire come se avesse passato l’eternità in un’ora.
Quando pagarono e si spostarono nel parco, fu strano
come la sua mano cercò automaticamente quella di Damian e la strinse
sotto il suo sguardo confuso, ricambiano lo sguardo che gli lanciò e in
cui parve perdersi per un lungo istante. Quante cose aveva dimenticato,
quanti secoli erano passati e quanti ancora ne avrebbero probabilmente
vissuto ancora, ma avrebbe avuto la consapevolezza che quegli occhi
sarebbero rimasti per sempre con lui. E quando si fermarono in riva al
lago, e Damian si alzò sulle punte dei piedi per sfiorargli le labbra
con le proprie, Jon si perse ancora una volta in quello sguardo
profondo nell’istante in cui lo fissò con attenzione.
«Che sciocco fosti ad innamorarti della morte»,
sussurrò Damian con velata ironia, e Jon sorrise nell’intrecciare
quelle dita fra le sue, chinandosi ancora un po’ verso il suo viso.
«Forse lo sono ancora… ma la morte non è mai stata
così bella», replicò, sugellando in un bacio l’amore che aveva covato
nel cuore in quei secoli di solitudine.
_Note inconcludenti dell'autrice
E siamo infine giunti alla fine della storia!(wow,
finalmente ho finito qualcosa, ma quanto mi sento brava in questo
momento? Devo decidermi a riprendere tutte le altre)
Questa è quella meno "avventurosa", se così vogliamo chiamarla, ma mi
sto già preparando per postare la successiva (stavolta mi sa che la
dividerò in cinque parti, essendo più lunga) intitolata "Dust to Dust,
Ashes to Ashes", sembra una AU su Super Sons impostata però in un
universo omegaverse (quindi, sì, ci saranno quelle dinamiche ma sarà un
po' più... cruda di queste) e ho anche intenzione di postare una
raccolta di tutte le AU che ho scritto, chissà. Comunque sia, spero che
questo capitolo sia piaciuto e che sia stato apprezzato anche il finale
Commenti e critiche, ovviamente, son sempre accetti
A presto! ♥
Messaggio
No Profit
Dona l'8% del tuo tempo
alla causa pro-recensioni.
Farai felici milioni di
scrittori.
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=4035943
|