No matter how life turns around (I'll see you again)

di My Pride
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Atto uno: Ade ***
Capitolo 2: *** Atto due: Prati di Asfodelo ***
Capitolo 3: *** Atto tre: Elisio ***



Capitolo 1
*** Atto uno: Ade ***


No matter how life_1 Titolo: No matter how life turns around (I'll see you again)
Autore: My Pride
Fandom: Super Sons
Tipologia: One-shot (divisa in tre atti) [ 10274 parole [info]fiumidiparole ]
Personaggi: 
Jonathan Samuel Kent, Damian Wayne, Vari ed eventuali
Rating: Giallo
Genere:
Generale, Sentimentale, Malinconico, Azione
Avvertimenti: What if?, Slash, AU, Hurt/Comfort
Vorrei incontrarti tra 100 anni challenge: 50. Battito cardiaco || 177. Esame || 63. Contadino (Tipologia 4: Incontrarsi in un altro contesto storico/sociale (AU) + Reincarnation AU)
Take your business elsewhere Challenge: 9. Di mezzo c'è un segreto || 17. Personaggio X non è umano || 28. Uno specchio || 34. Y non è mai stato così vicino a X || 39. Stupire
200 summer prompts: Balliamo || Segreto || Personaggio X vuole esserci



SUPER SONS © 2016Peter J. Tomasi/DC. All Rights Reserved.
 
ATTO UNO. ADE

    Jon si svegliò di soprassalto in un bagno di sudore, col cuore che batteva a mille e il respiro affannato. Gli ci vollero attimi interminabili per rendersi conto che si era svegliato nella penombra della sua camera da letto e che dalle tende chiuse filtrava qualche timido raggio di sole, troppo scombussolato dallo strano sogno che lo aveva strappato troppo presto dal suo sonno.
   
    Non ricordava bene che cosa avesse sognato, ma gli aveva lasciato nel petto una strana sensazione opprimente. Sprazzi di immagini si accavallavano le une alle altre, volti sconosciuti gli sorridevano e sfumavano in mezzo a nuvole dorate, mentre enormi colonne bianche si crepavano e collassavano improvvisamente su loro stesse, creando polveroni che inghiottivano quello strano mondo; grida di terrore si mescolavano con urla di battaglia, ordini su ordini echeggiavano nella sua testa in una lingua che a stento capiva, e calde dita si intrecciavano alle sue, stringendo con forza le sue mani mentre qualcuno gli sussurrava parole d'amore e lo guardava con profondi occhi verdi velati di pianto.

    “Tra cent'anni, mio amato... ci rivedremo tra cent'anni”.

    Quella frase si ripeteva nella sua mente ancora e ancora, anche adesso che era sveglio, ed era assurdo che fossero le uniche parole che, in quel miscuglio di frasi masticate fra i denti ed esclamazioni, era riuscito davvero a comprendere. Per quanto non ricordasse granché di quello strano sogno, il dolore che gli stringeva tuttora il petto era sembrato così vero da costringerlo a svegliarsi. Aveva provato lo  stesso terrore che si provava quando, durante il sonno, si aveva la sensazione di cadere nel vuoto e per istante quella paura irrazionale si era impossessata del suo cervello, svegliandolo con quella strana ansia e paura che non riusciva a spiegarsi al punto da fargli venire la nausea e, scalciando via le coperte, Jon barcollò verso il bagno e si accasciò sulla tazza per vomitare l'anima.

    Era strano come un sogno riuscisse a rimescolare le persone. Mentre la mente intorpidita si risvegliava, i ricordi di quelle visioni avevano cominciato ad affacciarsi di nuovo nella sua testa, e aveva come la strana sensazione che in quel sogno fosse... morto. Era strano da pensare, eppure era propro così che si sentiva. Il petto gli doleva in maniera indescrivibile e l'affanno non era ancora passato, senza contare lo stomaco ancora in subbuglio e il modo in cui il suo cuore batteva all'impazzata.

    Con un lungo gemito doloroso, Jon allungò a tentoni una mano per tirare lo sciacquone e si sedette sul pavimento del bagno, schiacciando il palmo della mano contro il petto. Perché faceva così male? Era come se una lunga lama si fosse conficcata nelle sue carni e gli avesse strappato il cuore, e il solo pensiero lo fece rabbrividire ancora una volta da capo a piedi; la sua vista sfarfallò per un istante e nell'abbassare lo sguardo gli sembrò di vedere le mani sporche di sangue, urlando a squarciagola quando l'odore gli schiaffeggiò le narici cos all'improvviso che cercò di strisciare lontano da se stesso. Cosa diavolo gli stava succedendo?

    «Era solo un sogno, Jonathan», si disse nello schiaffeggiarsi le guance, cercando di tornare in sé e di alzarsi in piedi. Le gambe gli tremavano e dovette tenersi al bordo del water e poi al lavandino per restare stabile, guardandosi allo specchio per attimi interminabili mentre il respiro si regolarizzava e il battito del suo cuore si stabilizzava. I capelli erano un completo disastro, una massa informe e riccioluta che andava da tutte le parti senza una vera forma, e le occhiaie erano così scure che dava proprio l'impressione di non aver dormito affatto; il pallore del suo viso metteva in risalto le sue lentiggini e il volto scarno che lo osservava di riflesso quasi non gli sembrò il suo, dato quanto sembrava sciupato per la notte insonne.

    Forse uscire con suo fratello Conner e i suoi amici non era stata una grandiosa idea. Forse avrebbe dovuto dar retta a Kathy e lasciar perdere, concentrarsi sull'esame che avrebbe dovuto dare tra tre giorni, studiare per il successivo e chiudere definitivamente con l'università per gettarsi nel fantastico mondo del lavoro - sua madre continuava a pressarlo per diventare giornalista, ma lui non ne aveva la minima intenzione -, ma erano settimane che si sentiva stressato e aveva pensato che divertirsi un po' non gli avrebbe fatto male... ma si era maledettamente sbagliato. Se bere gli faceva quell'effetto, forse sarebbe stato meglio concentrarsi sui libri.

    Traendo un lungo respiro, Jon si sciacquò prima la faccia, restando per qualche minuto con la testa sotto il getto d'acqua per cercare di schiarirsi i pensieri, e poi si lavò i denti per scacciare il retrogusto di vomito che gli era rimasto in bocca, barcollando ancora una volta verso la camera da letto proprio nello stesso istante in cui la sveglia suonò e gli ricordò che avrebbe dovuto alzarsi. Beh, complimenti, sveglia. Sei in ritardo. Sbuffò mentalmente Jon con amara ironia, spegnendola prima di prendere un cambio e darsi una lavata in fretta e furia. Sua madre lo aspettava al Daily per la giornata del lavoro e, se non avesse voluto evitare di darle un dispiacere, l'avrebbe chiamata per dirle che non se la sentiva di andare. Quel sogno che aveva avuto era stato così... strano, ma non voleva che potesse rovinargli i piani, dato che erano mesi che aveva dato conferma che ci sarebbe stato.

    Uscì di casa esattamente venti minuti dopo, ricacciando indietro l’ennesimo sbadiglio prima di infilarsi nella sua jeep e metterla in moto; si insinuò nel traffico di quella calda mattinata a Metropolis e accese la radio solo per un po’ di compagnia, con la speranza che la musica e gli annunci lo distraessero dalla strana sensazione che gli aveva lasciato quel sogno. Per quanto non fosse ancora vivido nella sua mente e fossero solo sprazzi di colore macchiati su una tela, Jon aveva cominciato a sentirsi stranamente triste nel rifletterci; era come se il suo subconscio avesse cercato di parlargli, come se ogni pezzo avesse bisogno di qualcos’altro – qualcuno? – per incastrarsi come avrebbe dovuto, ma non riusciva a spiegarsi da dove nascessero tutte quelle sensazioni che si erano impossessate del suo animo. E quel che era peggio era che, qualunque cosa provasse a fare, quel sogno si riaffacciava nella sua testa per fare in modo che non lo dimenticasse, nonostante non sembrasse avere intenzione di rendersi chiaro agli occhi di Jon.

    Frustrato, batté una mano sul volante e suonò un paio di volte il clacson quando le auto davanti a lui lo imbottigliarono nel traffico, lasciandosi sfuggire a denti stretti colorite imprecazioni che gli avrebbero fatto avere una lavata di capo dai suoi genitori nonostante avesse superato da un pezzo l’età in cui avrebbero potuto avere da ridire. Non era un ragazzo che amava imprecare ma, quando era sotto stress, la considerava una buona valvola di sfogo oltre al canto; provò quindi a canticchiare tra sé e sé quando passarono “Numb” alla radio, gridando a squarciagola e ignorando le occhiate dei guidatori che si fermavano accanto a lui ai semafori.

    Quando finalmente arrivò al Planet e fermò la Jeep nell’enorme parcheggio, si rese conto di aver passato quasi quaranta minuti in mezzo al traffico e mugugnò qualcosa tra sé e sé, afferrando il cellulare nello stesso istante in cui suonò, e Jon rispose al volo al secondo squillo. «Ehi, mamma. Sì, tranquilla, non me lo sono dimenticato». Roteò gli occhi mentre la ascoltava, contento che lei non potesse vederlo. «No, no. Sono proprio qua fuori. Sì, traffico. No, non è una scusa come due mesi fa». Sua madre era un mostro. «Sì, dirò a Janet che la saluti, arrivo».

    Jon riagganciò e diede un paio di botte al volante con la fronte, lamentandosi a mezza voce. Beh, ormai era lì e tanto valeva ballare, no? Lo faceva per sua madre, lo faceva per sua madre… e non poteva nemmeno scaricare l’incombenza a suo padre, visto che era fuori città. Jon insisteva col pensare che se la fosse filata apposta, ma non poteva esserne sicuro. Così, battendosi le mani sulle guance e facendosi coraggio, scese dall’auto e si diresse all’interno dell’edificio come un condannato al patibolo, salutando Janet della reception prima di imboccare uno degli ascensori per salire verso il sedicesimo piano. C’era un mucchio di gente, il caldo era asfissiante e la musichetta da sala d’aspetto aveva cominciato a innervosito, ma Jon tenne duro e scivolò fuori il più in fretta possibile quando le porte dell’ascensore si aprirono al suo piano, traendo un lungo respiro di sollievo. La prossima volta si sarebbe fatto centinaia di rampe di scale, piuttosto che usare uno di quei maledetti ascensori.

    Si diede una rassettata e si affrettò a dirigersi verso gli uffici per raggiungere sua madre, ma quando svoltò l’angolo e andò a sbattere contro qualcosa, Jon si sarebbe aspettato di tutto – Jimmy Olsen che correva a scattare foto, Cat Grant che aveva sentito un nuovo gossip e andava ad accertarsene per la sua redazione, lo stesso Perry, il direttore, che sgattaiolava via dal suo ufficio per sgraffignare caffè e ciambelle – tranne un ragazzo della sua stessa età che Jon rimase a fissare imbambolato, costringendosi a chiudere la bocca per non sembrare un idiota. Verdi. Grandi e profondi occhi verdi che, curiosi, ricambiavano il suo sguardo e venivano nascosti per un istante dallo sbattere delle lunghe ciglia scure, mentre quel ragazzo reclinava il capo di lato e assumeva un’espressione scettica. Ora, Jon non era uno che credeva nei cliché, nell’amore a prima vista o roba del genere, eppure aveva sentito il cuore fare una capriola nel petto quando si era perso in quelle iridi color smeraldo. Aveva squadrato quel ragazzo da capo a piedi, si era soffermato sul taglio corto di capelli ai lati della testa e sulla fossetta ad un angolo della bocca quando aveva arricciato un po’ le labbra, e sulla pelle ambrata che sembrava stranamente invitante. Doveva sembrare un idiota a fissarlo in quel modo come un pesce fuor d’acqua. Lo sembrava, giusto? Perché lui si sentiva esattamente così. E adesso perché sembrava aver dimenticato come si faceva a respirare?

    «Oh, vedo che voi due ragazzi siete già insieme». La voce di sua madre per poco non lo fece sussultare, ma Jon riuscì a mantenere un minimo di decoro e a non urlare come un idiota. Bene, stava migliorando. «Jon, lui è Damian. Damian, questo è mio figlio Jon. Spero che renderà la tua giornata a Metropolis interessante».

    «Sono certo che lo farà, Miss Lane».

    La sua voce era bella e calda, Jon poté notare che arrotondava il suono delle parole con uno strano accento straniero, per un istante ebbe come la strana sensazione di averlo già sentito e si portò una mano al petto, stringendo la stoffa della maglietta fra le dita. Ma cosa…

    «Solo Lois, Damian». Gli fece un occhiolino, poi finalmente guardò Jon, ancora scombussolato. «Damian ti stava giusto aspettando, Jon. È pronto per visitare Metropolis».

    La voce di sua madre giunse lontana, Jon sbatté le palpebre più e più volte per cercare di riprendersi e per ricambiare quello sguardo, e quando finalmente tornò con i piedi per terra per poco la sua mascella non toccò il pavimento. «Aspetta, cosa? Che dovrei fare?»

    «Se quando ti ho chiamato al cellulare mi avessi ascoltata davvero, non mi chiederesti sciocchezze».

    Ouch, beccato. Lo ribadiva, sua madre era un mostro e aveva qualche strano super potere da mamma, non c’era altra spiegazione. Jon sentì Damian lasciarsi scappare un piccolo sbuffo ilare che nascose con un colpo di tosse senza intromettersi nella conversazione, e avrebbe dovuto infastidirlo sentirsi fare una ramanzina da sua madre davanti ad un perfetto estraneo ma, accidenti, cos’era quello strano calore all’altezza del petto e la strana sensazione che si conoscessero da una vita?

    «Leggi le mie labbra, mio sconsiderato figlio». Lois si picchettò quello inferiore. «La guest star di questa giornata del lavoro è Bruce Wayne, ma non avevo previsto che venisse fin qui con suo figlio. Mentre io mi occupo di intervistare il signor Bruce, potresti mostrare a Damian la zona, visto che ha intenzione di trasferirsi da queste parti?»

    Adesso aveva un senso, ma Jon era ancora troppo stranito per ribattere in tono abbastanza fermo e risoluto. Al contrario, annuì automaticamente e fece strada a quel ragazzo, Damian, sentendosi stupido e imbambolato mentre tornavano agli ascensori. Cosa gli era preso? Di solito era un ragazzo loquace e non aveva problemi né a farsi degli amici né a fare nuove conoscenze, avrebbe persino potuto dire che poteva trasformarsi in breve nell’anima della festa se solo avesse voluto, invece con quel Damian si sentiva in imbarazzo e come se fosse assente. Un momento, Wayne?

    «Tu sei Damian Wayne?!» la sua voce suonò vagamente isterica e più alta di un’ottava, sensazione incrementata dal fatto che le porte si fossero chiuse proprio in quel momento e fossero soli in quell’ascensore.

    Damian rise, e quella risata scosse Jon nel profondo. «Ci hai messo meno degli altri a recepire la notizia. Sono impressionato, Jonathan Samuel».

    «Cristo, no, solo mia madre mi chiama così». Jon storse il naso, allungando una mano verso di lui per fare le cose come si conveniva. Ricordava ancora le regole del vivere civile, visto? «Jon. Semplicemente Jon».

    Damian parve divertito da quel fare, allungando a sua volta una mano per stringerla nonostante l’aria altezzosa che aveva. «Damian. Solo Damian». Sollevò entrambe le sopracciglia, squadrandolo da capo a piedi. «Prima che tu prenda sul serio le parole di tua madre, conosco già Metropolis», mise subito in chiaro, e Jon si accigliò.

    «Allora a che ti servo io?»

    «Come scusa per evitare di annoiarmi a morte insieme a mio padre».

    Jon si portò teatralmente una mano al petto, storcendo il naso. «Gh, mi hai usato. Non supererò mai più questo trauma».
   
    «Sei sempre così melodrammatico o lo riservi solo a persone che hai appena conosciuto?»

    «Entrambe le cose, suppongo». Finalmente stava cominciando a sciogliersi come suo solito, e la cosa lo rincuorò. Non avrebbe sopportato una strana atmosfera fatta di imbarazzi e sensazioni assurde e stupida musica da sala d’aspetto. Anzi, in compagnia di Damian nemmeno ci faceva caso più. «Quindi anche il tuo trasferimento era una balla?»

    «Quello era vero», esordì Damian, e Jon inclinò la testa di lato.

    «Perché? Insomma, non che Metropolis non sia un bel posto, ma vengo da una famiglia di contadini e avrei preferito mille volte restare in campagna».

    «La sede delle Wayne Enterprises di Metropolis si occupa di questioni ecologiche, ho intenzione di prendere in mano la situazione e cercare di migliorare la situazione climatica».

    Per un istante Jon si sentì di nuovo stupido, ma si riprese piuttosto in fretta. «Oh. Whoa. Mi aspettavo, che so, che era meno uggiosa di Gotham e che era un bel posto dove prendere il sole, ma mi ha sorpreso la tua profondità di spirito», provò a scherzare un po’, massaggiandosi il collo quando Damian gli lanciò un’occhiata stranita e sollevò ancora una volta entrambe le sopracciglia. Ottima mossa, Jon. Tu sì che ci sai fare con i ragazzi, si schernì da solo, ma si sorprese quando Damian sghignazzò tra sé e sé.

    «Non negherò che è anche un bel posto, ma è troppo luminoso per J miei gusti». Quando le porte dell’ascensore si aprirono, il primo ad uscire fu proprio Damian e lo guardò con un ghignetto. «Ora offrirmi un caffè».

    Seguendolo, Jon aggrottò un po’ la fronte. «Non sarebbe più giusto dire “Che ne diresti di offrirmi un caffè, per favore”?»
«Sono il tuo appuntamento, è il minimo che tu possa fare per me».

    Damian si incamminò verso l’uscita senza nemmeno aspettarlo, lasciando Jon a fissare la sua schiena con fare scombussolato e stranito per attimi che parvero interminabili, finché non recepì il messaggio, arrossì fino alla punta delle orecchie e non cominciò a balbettare come un idiota, correndogli dietro.

    «Aspetta, chi ha deciso che questo era un appuntamento?!» urlò, sentendo la fragorosa risata di Damian rimbombare per tutta la hall prima che uscissero entrambi dall’edificio e Jon pensò che tutto sommato non era poi così male sentir ridere quel ragazzo.

    Sì, forse non sarebbe stata una brutta giornata, dopotutto
.





_Note inconcludenti dell'autrice
Scritta per la #vorreincontrartitra100anni e per la #elsewherechallenge sul gruppo facebook Hurt/comfort Italia e anche per l'iniziativa #200summerprompts indetta dal gruppo Non solo Sherlock - gruppo eventi multifandom
Comunque. Questo è letteralmente un mattone ed è il motivo per cui io non scrivo le AU: non ho il senso della misura ed è una fortuna che per questa mi sia fermata solo a diecimila (a differenza dell'altra che è decisamente molto più lunga di questa), quindi ho voluto dividere questa storia in tre piccole parti suddivise in sottosezioni
Al momento non sembra che stia succedendo granché, ma vediamo Jon alle prese con degli incubi e... il suo primo incontro con Damian! Gioia e gaudio, anche se amian pretende già piccole cose e Jon resta lì imbambolato come uno scemo
Oh, l'immagine di apertura è di Rim (sia lode e sempre) io l'ho solo manipolata un pochino per creare l'effetto del titolo
Commenti e critiche, ovviamente, son sempre accetti

A presto! ♥



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Capitolo 2
*** Atto due: Prati di Asfodelo ***


No matter how life_2 Titolo: No matter how life turns around (I'll see you again)
Autore: My Pride
Fandom: Super Sons
Tipologia: One-shot (divisa in tre atti) [ 10274 parole [info]fiumidiparole ]
Personaggi: 
Jonathan Samuel Kent, Damian Wayne, Vari ed eventuali
Rating: Giallo
Genere:
Generale, Sentimentale, Malinconico, Azione
Avvertimenti: What if?, Slash, AU, Hurt/Comfort
Vorrei incontrarti tra 100 anni challenge: 50. Battito cardiaco || 177. Esame || 63. Contadino (Tipologia 4: Incontrarsi in un altro contesto storico/sociale (AU) + Reincarnation AU)
Take your business elsewhere Challenge: 9. Di mezzo c'è un segreto || 17. Personaggio X non è umano || 28. Uno specchio || 34. Y non è mai stato così vicino a X || 39. Stupire
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ATTO DUE. PRATI DI ASFODELO

    Era passato un mese dal suo primo incontro con Damian e, per quanto nelle ultime settimane si fossero divertiti, quei sogni – ormai incubi – non avevano smesso di tormentare Jon.

    Ogni notte si facevano sempre più vividi, le nuvole dorate diventavano ammassi voluminosi che ricordavano antiche case, le colonne diventavano sempre più alte e gli abitanti di quel luogo da sogno figure sempre meno spettrali, ma c’era sempre e solo una costante, quegli occhi verdi e languidi colmi di lacrime. Di chi erano? Per chi piangeva quel ragazzo? Jon non riusciva a riposare come avrebbe voluto e si svegliava sempre più stanco, senza più riconoscere la sua immagine riflessa nello specchio. Quel mattino non era andata meglio, e le occhiaie erano così profonde, mentre osservava il suo riflesso nello specchio del bagno, che decise di rimanere a casa nel tentativo di riposare almeno un po’. Avrebbe dovuto dare l’ultimo esame il prossimo mese, ma in quelle condizioni non sarebbe riuscito a fare niente, figurarsi a studiare. Così chiamò i suoi amici e disse loro che stava male e che non sarebbe passato in biblioteca, facendosi una lunga doccia per schiarire i pensieri e rilassarsi.

    Fu mentre si stava lavando, però, che un paio d’occhi verdi si affacciarono nuovamente nella sua mente e Jon si portò una mano a coppa fra le gambe, rendendosi conto di ciò che stava per fare appena in tempo. Oh. Oh, Cristo. Stava per masturbarsi pensando a Damian? Perché, sì, era inutile girarci intorno: sognava degli occhi verdi da un mese, ma era ovvio che quelli che lo facessero impazzire erano gli occhi verdi di Damian e che fossero anni che non si sentiva così vicino a qualcuno come con lui. Com’era strana la vita, certe volte.

    Picchiettò la fronte contro il muro e si diede mentalmente dello stupido – prima o poi si sarebbe fatto venire una commozione – mentre borbottava tra sé e sé, cercando di scuotersi e di lavarsi e basta. Rimase sotto il getto scrosciante della doccia per quelle che gli parvero ore, lo sguardo fisso sul piatto e sui suoi piedi per osservare l'acqua che veniva inghiottita dallo scarico, con i palmi contro il muro e i capelli che gli si incollavano il viso in ciocche completamente zuppe. Il dormire poco gli aveva fatto peggiorare il mal di testa che aveva da giorni e aveva pensato che una doccia l'avrebbe rilassato un po', ma si era maledettamente sbagliato. Così, una volta asciugatosi e infilatosi giusto un paio di pantaloni, riacchiappò il suo cellulare e si gettò sul divano, indugiando nel fissare lo schermo. Avrebbe dovuto chiamare Alan? Dirgli davvero che avrebbe saltato l'incontro solo? Non lo sapeva, ma si sentiva piuttosto fiacco e non aveva davvero voglia di vedere nessuno.

    Stava quasi per cercare il numero dell'amico quando il cellulare squillò e lui per poco non saltò dal divano come un idiota, acchiappando quel maledetto telefono che era quasi scivolato via dalle sue mani solo per notare l'ID chiamante e sospirare. Kathy. Aveva un sesto senso per quelle cose oppure era soltanto una sua impressione?

    «Ehi», rispose al terzo squillo, e subito gli giunse alle orecchie la replica indignata dell'amica.

    «Non dirmi “Ehi”, Jonno». La voce di Kathy suonava abbastanza stanca e, mentre lei tratteneva uno sbadiglio, Jon sentì qualche brusio di sottofondo. «Dove sei? Io e i ragazzi ti aspettiamo da un'ora».

    Un'ora? Ma che diavolo...? «Un'ora?» ripeté ad alta voce, e Kathy sbuffò ilare.

    «Beh, ben svegliato, bell'addormentato».

    «Gh, non prendermi in giro, sono troppo stanco per risponderti a tono e con lucidità».

    «Oh... qualcuno ha fatto le ore piccole?» Jon non poté vederla ma, dalla risatina che le scappò, fu sicuro che Kathy stesse sorridendo come non mai. «Magari con quel ragazzo di cui ha parlato tanto fino alla nausea?» Schioccò la lingua, imitando il rumore di un bacio e poi qualcos'altro di molto più osceno risucchiando l'aria, cosa che fece arrossire Jon fino alla punta delle orecchie.

    «Cosa?! No!» esclamò a voce un po' troppo alta e troppo in fretta, e Kathy scoppiò in una fragorosa risata.

    «Rilassati, Johnny! Stavo soltanto scherzando!»

    «Ehi, Kathy, di' a quel Casanova di portare qui le chiappe se ha passato la nottata a scopare!»

    Alle parole di Alan, urlate così forte che poté sentirle perfettamente nonostante fosse dall'altro capo del telefono, Jon provò l'impulso di seppellire la testa nei cuscini del divano e nascondersi fino alla fine dell'anno scolatico. Odiava i suoi amici e le loro supposizioni, dannazione a lui e al fatto che avesse parlato loro di Damian.

    «Non ci ho combinato niente, idioti», borbottò arreso, passandosi una mano sulla faccia. «A stento ci siamo baciati».

    «Come no, frequenti un tipo per un mese e nemmeno lo baci. Cos'è, aspettate il matrimonio?»

    Avrebbe strozzato Kathy e la sua ironia, parola sua. «Ci sentiamo, Kat», tagliò corto Jon con un brontolio, ma l'amica lo frenò con una sequela cantilenante di “No, no, no” alla quale Jon sbuffò. «Senti, non ho dormito bene e credo di avere la febbre. Tutto qui». Dal ricevitore sentì un suono, una specie di mormorio di disapprovazione, poi qualche rumore come se Kathy si fosse allontanata e infine un sospiro.

    «Ancora quegli strani sogni?» domandò sottovoce, e Jon esitò. Kathy era l'unica a sapere degli incubi che faceva, anche se non raccontata tutti i dettagli per non farla preoccupare troppo. Inoltre neanche lui sapeva dare una vera e propria spiegazione a ciò che sognava e a volte a stento li ricordava, quindi non avrebbe potuto farlo comunque nemmeno volendo. Così sospirò e annui, ricordandosi solo dopo attimi di silenzio che Kathy non era lì e non poteva vederlo.

    «A volte», ammise. «Adesso riesco a vederli meglio, ma non capisco comunque cosa vogliano significare».

    «Forse dovresti davvero prendere in considerazione l'idea di andare da un oniromante, Jon».

    Jon storse il naso, arricciando le labbra. «Non mi va di parlare di quello che sogno ad un perfetto sconosciuto, Kathy».

    «Intanto è un mese che non dormi decentemente proprio per colpa di quei sogni, quindi tu cerca di pensarci, okay?»

    La preoccupazione della ragazza era palpabile anche attraverso il cellulare, e Jon sospirò pesantemente, passandosi una mano fra i capelli. «...d'accordo. Salutami i ragazzi, okay? Di' loro che non mi sento bene, ci vediamo domani». Indugiò per un istante, mordendosi il labbro. «Magari potresti accompagnarmi tu da quell'onirocoso».

    «Contaci», replicò, e dalla voce parve più rassicurata. «Cerca di riposare, Jonno».

    «Ci proverò. Ciao, Kathy».

    «Ciao, Jon».
   
    Quando riagganciarono, Jon gettò il cellulare sul divano e spalancò le braccia dietro lo schienale, reclinando la testa all'indietro con un gemito frustrato. Parlarne non lo aveva fatto sentire meglio, ma almeno era riuscito a togliersi in parte il peso che aveva nello stomaco da quando si era svegliato. Odiava dover dar buca ai suoi amici in quel modo e ancor più non riuscire più a seguire il normale ritmo della sua vita, e a lungo andare aveva quasi paura che sarebbe incappato in una crisi nervosa e che il poco sonno che si concedeva avrebbe  finito col farlo delirare. Forse Kathy aveva ragione, doveva proprio decidersi a parlare con qualcuno, ma poteva farlo davvero? Lui stesso a volte si sentiva terrorizzato dai suoi sogni, come avrebbe potuto raccontarli ad uno sconosciuto che, in base ad essi, avrebbe giudicato anche la sua psiche? Non l'aveva nemmeno accennato ai suoi genitori, dannazione! Persino suo fratello Conner era completamente all'oscuro della cosa, e a Conner aveva raccontato letteralmente di tutto, persino della sua scappatella con la sua amica Georgia quando aveva quindici anni e del terrore che aveva avuto nel credere che l'avesse messa incinta.

    Sì, forse potrei provare, si disse comunque, allungando pigramente un braccio per afferrare il telecomando e cominciare a fare zapping; a quell'ora non c'era granché da vedere, così mise semplicemente il canale dei cartoni animati e lasciò che i Looney Tunes riempissero il soggiorno con le loro voci squillanti e le loro situazioni al limite dell'assurdo, giusto per avere un po' di compagnia e distrarsi dai sogni che gli avevano rimescolato la testa. Non seppe quanto tempo passò lì seduto a vegetare, sdraiandosi poco dopo solo per sprimacciare il cuscino e alzare un po' il volume, lo sguardo fisso sullo schermo della tv e l'aria a dir poco annoiata.

    Nemmeno si accorse di essersi addormentato, ad un certo punto. Qualcuno nella sua testa urlò a squarciagola un nome e Jon vomitò al lato del divano prima ancora di aprire gli occhi, portandosi le dita fra i capelli per stringere le ciocche e urlare, come se ciò potesse aiutarlo a scacciare le orribili immagini che si erano impresse nelle sue retine che schiacciò contro i palmi delle mani. Stavolta l’incubo era stato fin troppo chiaro, e l’aveva terrorizzato: giganti che calpestavano corpi ormai senza vita, colonne divelte e spezzate che erano crollate in mille pezzi in un’enorme spiazzale che un tempo era stato dorato e che si era invece macchiato di sangue, e poi un ragazzo dal volto ancora sfocato, con addosso un’armatura scura e il cappuccio a nascondere gran parte dei capelli, la falce in frantumi quanti le spalline dorate e le vesti logore, che urlava il suo nome – il suo nome? No, un momento, quello che aveva sentito nel dormiveglia non era il suo nome – e cercava di raggiungerlo nonostante la caviglia spezzata, poi qualcosa gli afferrava gli arti e lui aveva appena il tempo di voltarsi indietro solo per vedere uno di quegli enormi Titani strappare la sua carne e dilaniarlo, smembrandolo e divorandolo davanti agli occhi terrorizzati di Thanatos.

    Jon interruppe il filo dei suoi pensieri e sgranò gli occhi, sbirciando il soggiorno attraverso la fessura tra le dita. Chi era Thanatos? Perché quel nome si era fatto largo nella sua mente come se avesse dovuto significare qualcosa? D’accordo, ne sapeva abbastanza di mitologia da rendersi conto che erano nomi di Dei e che Thanatos era considerato dai greci la personificazione della morte, ma questo come lo aiutava a spiegare i suoi incubi? Non lo faceva, ecco come. Conosceva solo in parte la storia di Thanathos, del “dio” arrogante e impulsivo nemico degli umani e mal visto persino dagli altri Dei, ma come avrebbe potuto il padrone del Tartaro, una potenza così meschina e implacabile, piangere la morte di qualcuno quando egli stesso rappresentava la morte? Tutte domande a cui Jon non sapeva rispondere e che gli facevano solo dolere la testa, e si massaggiò le tempie con entrambe le dita mentre si drizzava a sedere sul divano.

    Era tutto così… strano e assurdo, ogni tassello che gli sembrava di trovare si frantumava nelle sue mani solo per aggiungerne un altro più complicato del precedente, e stava cominciando davvero a sentirsi stanco per la situazione che stava vivendo. Anche se adesso aveva almeno un nome, non se ne faceva assolutamente niente quando quel nome accavallava nella sua testa dubbi su dubbi e lo rendeva ancora più confuso di prima.

    Sbuffando, Jon si alzò barcollante e andò in bagno per lavarsi la bocca, afferrando anche lo straccio per dare una ripulita. Fortunatamente aveva fatto sparire il tappeto mesi prima – lo aveva considerato solo un ricettacolo di polvere che lui si scocciava di pulire –, altrimenti gli sarebbe toccato portarlo in tintoria per lavar via tutto il vomito che aveva sporcato il pavimento; storse un po' il naso alla vista e per poco non diede di nuovo di stomaco – era sensibile, d'accordo? Tante persone non resistevano –, ma si diede un contegno e ripulì ogni traccia, passandosi il dorso della mano sulla fronte accaldata. Non aveva fatto chissà quale sforzo, quindi perché si sentiva bruciare? Forse il suo corpo stava cominciando a risentire delle poche energie che riusciva ad accumulare, ma Jon non aveva intenzione di provare a dormire ancora. Sarebbe stato letteralmente inutile. Andò invece in cucina a prepararsi una bella tazza di the – anche se faceva caldo voleva un the, e allora? Non voleva essere giudicato per questo – e si piazzò poi davanti al computer portatile, mollandolo sul tavolino per cominciare la sua ricerca. Ma cosa stava cercando, esattamente? Informazioni su Thanatos? Sul perché facesse quei sogni? Non lo sapeva, ma iniziò una ricerca a tappeto mentre sorseggiava il proprio the al bergamotto, la fronte aggrottata dalla concentrazione e lo stomaco che poco a poco si assestava grazie alla bevanda calda.

    Passò molto probabilmente ore davanti al computer, scartando siti web che davano solo informazioni inutili per cercare invece qualcosa che avrebbe potuto avere senso, e stava quasi per rinunciare quando un articolo catturò la sua attenzione e lui cliccò immediatamente su di esso; le prime righe erano cose che già sapeva, vecchie rimembranze di vecchi racconti di sua zia Diana quando tornava dai suoi viaggi nei siti archeologici di tutta la Grecia, ma ben presto il racconto si fece più intenso, tanto che avvicinò il viso allo schermo.

    «Nei rari ritratti, Thanatos è rappresentato come un giovane alato, spesso in compagnia di suo fratello Ipno. Il suo carattere, secondo il mito, è irruento: egli ama il sangue, la morte e la violenza, ritenuta un potere invincibile. È nemico del genere umano, ma odia anche gli dei». Jon lesse quel paragrafo ad alta voce più e più volte, quasi volesse cercare di imprimerlo bene nella testa mentre si grattava il mento. Ciò che aveva sognato non aveva assolutamente senso, soprattutto se ogni ricerca su internet gli dava sempre lo stesso risultato riguardo Thanatos e la sua storia. «Nella mitologia non ha un mito vero e proprio, ma è presente nei racconti popolari. Esiodo lo descrive come una creatura dal cuore di ferro, visceri di piombo e ali di pipistrello».

    Uno strano brivido corse lungo la sua schiena e Jon si gettò automaticamente una rapida occhiata alle spalle, scrutando il soggiorno come se avesse la sensazione di essere osservato; aggrottò la fronte e si passò una mano fra i capelli, scuotendo la testa nel darsi dell'idiota subito dopo. Si tratta solo di suggestione, Jon, si disse immediatamente, traendo un lungo sospiro prima di voltarsi di nuovo verso lo schermo del computer e continuare a digitare ricerche su ricerche, deciso più che mai a trovare una spiegazione. Si fermò solo quando trovò l'ennesima pagina che parlava in linea di massima delle stesse cose, ma un paragrafo in particolare colpì Jon, che si sistemò gli occhiali sul naso come se ciò avrebbe potuto aiutarlo a leggere meglio.

    «In altri miti, Thanatos non viene ritratto in modo così implacabile, e viene contrapposto al fratello Ker, simbolo della morte violenta, come rappresentazione della morte in pace».

    Era così concentrato che un rumore improvviso lo fece trasalire e sussultò, voltandosi verso la finestra col cuore in gola; inciampando nei suoi stessi piedi, si affacciò e scrutò il cielo, cercando di scorgere l'ombra scura che gli era parso di vedere quando era corso fin lì; per quanto stesse calando il tramonto, quell'ombra era sembrata ben più di un comune uccello che si librava là fuori, aveva avuto come l'impressione di vedere grosse ali di pipistrello sbattere davanti ai vetri socchiusi, uno strano rumore di cuoio rilegato e il possente spostamento d'aria che aveva fatto gonfiare le tende, eppure non c'era assolutamente niente là fuori. Forse il poco sonno e la stanchezza stavano iniziando a fargli immaginare fin troppe cose, e i racconti che stava leggendo di certo non aiutavano la sua paranoia.

    Il suono di una notifica su Instagram lo distrasse dai suoi pensieri e, afferrando al volo il cellulare, sorrise un po’ alla vista del nome di Damian tra i messaggi privati. Si erano seguiti a vicenda praticamente lo stesso giorno in cui si erano conosciuti e di tanto in tanto Jon sbirciava tra le sue storie e i suoi post – per lo più aveva foto dei suoi animali, un alano e un gatto dal pelo nero che sembrava un piccolo maggiordomo –, ma avevano anche passato il tempo a messaggi are quando trovavano un momento per farlo; era strano come Damian riuscisse a tranquillizzarlo pur non essendo lì, soprattutto tenendo conto di quanto fosse sembrato stupido e impacciato in sua compagnia durante i primi giorni in cui si erano visti. Non si stavano esattamente frequentando, ma a Jon di certo non dispiaceva passare del tempo in sua compagnia e non sarebbe stato male nemmeno uscire a vedere un film o… d’accordo, doveva frenare un attimo. Un paio di uscite erano da considerare un appuntamento? Sì, lo erano di certo. Jon si diede dell’idiota e aprì il messaggio, sorridendo se possibile ancora di più.

    “Ciao, Jonathan. Mi chiedevo se fossi libero domani”.

    Jon ridacchiò. Quale ventenne era così formale anche quando scriveva un messaggio su Instagram? Avrebbe quasi voluto prenderlo in giro, ma aveva già l’umore sotto le scarpe senza che il suo stupido lato sarcastico si mettesse a punzecchiare Damian che, sì, a parte i messaggi formali era stato persino gentile per i suoi standard. Jon in quel mese aveva imparato che Damian sapeva essere piuttosto arrogante e saccente quando voleva aver ragione a tutti i costi, impressione data anche dallo snobismo che permeava tutto il suo essere. Eppure Jon aveva capito che quella era solo una facciata per tenersi dentro ciò che provava.

    “Ehi, D. Ho un po’ di febbre, ti faccio sapere”.

    La risposta non tardò ad arrivare, quasi avesse guardato per tutto il tempo il cellulare. “Hai bisogno di qualcosa? Posso essere lì in mezz’ora, quaranta minuti”.

    Quanto accidenti era carino quel ragazzo, quel giorno? “Tranquillo, un’aspirina e un po’ di sonno e starò alla grande”.

    “Mhn, se lo dici tu. Questo succede perché dormi in mutande”.

    D’accordo, Jon si rimangiava tutto quello che aveva detto. Damian era lo stesso idiota che aveva conosciuto in quel mese. “E tu che diavolo ne sai che dormo in mutande?

    “Grazie per averlo confermato. Prendi qualcosa e va’ a dormire”.

    “…ti odio, D”.

    “Felice di sentirlo”.

    Jon indugiò un po’ su cosa scrivere, cancellando più e più volte messaggi che avrebbero potuto sembrare provocanti – “Ho cambiato idea, vieni a curarmi tu”, “Sai cosa, forse ho bisogno di un infermiere” – o addirittura pessime frasi di abbordaggio mentre tornava seduto davanti al computer, ma Damian fu più svelto di lui.

    “Guarda che stavo scherzando”, scrisse, e Jon per poco non scoppiò a ridere. Oh, accidenti, aveva davvero pensato…

    “Non ti stavo evitando”.

    “Oh, sei vivo. Sembrava il contrario”.

    “Volevo scrivere una battuta stupida, ma forse il mio cervello è troppo sciolto dalla febbre per funzionare come si deve”.

    “Dormi, Jonathan. Ci vediamo quando starai meglio”.

    “Voglio davvero uscire con te”.

    Oh, dannazione, l’aveva inviato davvero e non aveva fatto in tempo a cancellarlo che Damian l’aveva già letto, tanto che in quei pochi secondi che passò nel vedere che stava digitando qualcosa quasi gli si mozzò il fiato nel petto.

    “Felice di saperlo
😉” scrisse stavolta, e Jon si passò una mano davanti al viso arrossato nel rendersi conto che Damian aveva persino usato un’emoji. Va bene, sarebbe morto di vergogna e di lui avrebbero ricordato che faceva strani sogni e ricerche su déi greci.

    “Sarà meglio che dorma ciao” rispose in fretta, gemendo quando gli arrivò l’emoji di una faccina divertita e un “Buonanotte” da parte di Damian. Figure dell’idiota ne aveva? Perché ne aveva appena fatte parecchie uva dietro l’altra, quindi tornò a concentrarsi sulle sue ricerche per scacciare l’imbarazzo della situazione.

    La sensazione di oppressione al petto tornò mezz’ora dopo, quando ormai la vergogna era scemata e lui aveva sentito la testa ribollire di domande su domande e girare vorticosamente, dolente; faticava a tenere gli occhi aperti e gli sembrava che stessero letteralmente bruciando, tanto che finì con l’appisolarsi per un istante proprio sulla tastiera. Stavolta gli sembrò di camminare su una nuvola, lo strano odore di zolfo sfumò e si mescolò con quello dei fiori e lui si guardò intorno per cercare di capire cosa stesse succedendo, dato che aveva come l’impressione di star letteralmente vivendo il sogno; non c’erano colonne, non c’erano altre persone all’infuori di lui se non ombre lontane, i suoi piedi nudi affondavano nel terreno e le sue dita sfioravano i petali di quel prato di asfodeli, donandogli pace; aveva la testa leggera e le sue vesti leggere si muovevano pigramente alla piacevole brezza che trasportava con sé una moltitudine di profumi, pollini e petali, soffi di zefiro che carezzavano le narici e placavano l’animo, tutto così diverso dalla distruzione che, ogni singola notte, Jon aveva visto quando si immergeva nel profondo dei suoi incubi.

    Un nitrito lo distrasse, il volo di una moltitudine di uccelli colorati richiamò la sua attenzione e lui si voltò, avvertendo il suono familiare – un attimo, perché avrebbe dovuto esserlo? – di un battito di grosse ali cartilaginee e lo stridio della punta di una falce che scivolava contro una roccia. Col cappuccio calato sugli occhi, l’armatura scintillante sotto al sole e la collana d’oro che avvolgeva finemente tutto il collo, la figura appena atterrata gli si avvicinò con passi aggraziati e silenziosi, facendo frusciare la lunga veste scura che indossava.

    «Non dovresti essere qui», disse Jon, ma quella non era la sua voce. Era più roca, più profonda, vagamente velata di rimpianto e preoccupazione, ma tutto svanì in un istante quando una gelida mano gli sfiorò il viso, carezzandogli una guancia con tocco gentile.

    «Possono temermi, odiarmi e addirittura incatenarmi… ma non possono tenermi lontano da te. Non con ciò che sta per accadere».

    «Neppure tu che sei la Morte puoi modificare il destino deciso dalle Moire, Thanatos».

    Le mani strinsero più forte, l’odore dei fiori sparì come se fossero appassiti tutti nello stesso istante. «Abbi fiducia in me… Zagreus».

    «Jonno?»

    Jon sollevò la testa così in fretta che il collo scrocchiò e lui gemette di dolore, ripulendosi la bocca con il dorso della mano quando si rese conto che un rivoletto di saliva aveva cominciato a colargli giù fino al mento; gli ci volle un attimo di troppo per mettere a fuoco la figura di Kathy, la quale lo osservò stranita mentre sbatteva le palpebre. L’amica sapeva dove nascondeva una copia delle chiavi quindi era sicuramente entrata così, ma perché non aveva semplicemente suonato anziché farlo sobbalzare in quel modo?

    «Mi hai fatto prendere un colpo, Kat». Jon si massaggiò il collo, sentendo dolore da tutte le parti. «Non mi spiace che entri quando vuoi, ma almeno vorrei che tu mi avvertissi».

    «Ti ho chiamato per mezz’ora e non hai risposto, mi ero preoccupata e sono corsa qui».

    Jon si fermò con la mano premuta dietro al collo, guardando l’amica con tanto d’occhi. «Mezz’ora?» chiese conferma, e al suo annuire rimase ancor più sconcertato. Possibile che non avesse minimamente sentito il telefono, visto il baccano infernale che solitamente faceva la sua suoneria? «Scusa, tutto okay. Mi sono solo appisolato».

    «Non hai una bella cera, sicuro di star bene?»

    «Sì, io… credo di sì».

    «Credo è la parola giusta, sei bianco come un fantasma». Senza tanti preamboli, Kathy gli spiaccicò una mano sulla fronte, sgranando gli occhi nel sentirla bollente sotto al suo tocco. «Accidenti, stai bruciando», lo accusò quasi, chiudendo le stessa il portatile nonostante le proteste di Jon. «Per oggi basta cazzeggiare, un bel brodo di pollo e dritto a letto».

    «Tu frequenti troppo mia nonna, Kat».

    Kathy grugnì in risposta. «Martha è il mio spirito guida. Ora smettila di insultare i suoi rimedi e datti una mossa, campagnolo», disse schietta, e Jon roteò gli occhi.

    Non se ne sarebbe andata finché lui non avesse fatto ciò che aveva chiesto, così si fece forza sulle gambe malferme e si tirò su, barcollando per un istante; l’amica ebbe la prontezza di riflessi di afferrarlo per i fianchi e di sorreggerlo, e Jon le gettò un braccio dietro alle spalle per non gravare con tutto il suo peso su di lei mentre si dirigevano in camera da letto. Senza Kathy probabilmente Jon sarebbe stato perso, ed era bello sapere che, nonostante non si fossero inizialmente visti per anni, la loro amicizia d’infanzia non fosse cambiata un granché. Fino a dieci anni aveva vissuto nelle campagne di Hamilton e Kathy e suo nonno erano stati un vero e proprio aiuto per la fattoria, o sarebbero colati a picco il primo anno; col tempo erano riusciti a mantenere la baracca ma, non appena i suoi genitori avevano ricevuto la proposta di lavorare alla redazione giornalistica di Metropolis, l’intero mondo di Jon era cambiato. Aveva pestato i piedi, aveva urlato che non era giusto e che non avrebbe voluto abbandonare i suoi amici, aveva pianto e implorato come solo un bambino di dieci anni avrebbe potuto fare, ma alla fine si era ritrovato comunque ad impacchettare la sua roba per cominciare una vita lontano da Hamilton. Salutare Kathy era stata la parte peggiore e avevano pianto una giornata intera, e persino nella sua nuova casa di Metropolis Jon si era sentito piuttosto a disagio. Gli ci era voluto del tempo, molto più di quanto i suoi genitori avessero previsto, ma alla fine era riuscito ad adattarsi e ad abituarsi alla frenetica vita di città, del tutto diversa da quella vissuta fino a quel momento in campagna.

    In tutto quel tempo aveva cercato di tenersi in contatto con i vecchi amici e, quando Kathy si era trasferita per l’università, aveva toccato il cielo con un dito al pensiero di poter passare nuovamente del tempo con la sua migliore amica. Forse all’inizio da bambino aveva avuto una piccola cotta per lei, ma col tempo aveva finito col vederla come la sorella che non aveva mai avuto e a distanza di anni era bello poter contare ancora su di lei. Anche se a volte era una ragazza petulante, era la sua ragazza petulante. E non l’avrebbe cambiata con nessun altro al mondo.

    Quando arrivarono i camera, Kathy lo costrinse letteralmente a togliersi la maglietta nonostante le nuova proteste, sbottando che non era di certo la prima volta che lo vedeva mezzo nudo e che il suo fidanzato non ne sarebbe certamente stato geloso; Jon aveva replicato comunque che Damian non era il suo fidanzato, ma Kathy aveva fatto letteralmente finta di non sentirlo e, mentre lui si cambiava, era andata a prendere dei medicinali nell’armadietto del bagno, tornando persino con una pezza umida che gli schiaffò letteralmente in fronte senza tanti complimenti.

    «Kat! Ma che diavolo--»

    «Oh, sta’ zitto. Ti farà bene, ti abbasserà un po’ la temperatura», affermò lei nel porgergli un bicchiere e delle pastiglie, e Jon borbottò tra sé e sé, scostando le lenzuola coi piedi prima di squadrare quelle medicine e storcere il naso. «Non fare quella faccia e manda giù, Jonny-boy».

    «E tu piantala di imitare mia madre, sei inquietante».

    «Sarai ancora più inquietato quando la chiamerò per dirle che suo figlio si comporta come un moccioso e sarà qui davvero».
Jon sgranò gli occhi. «Non oseresti», sibilò, ma Kathy rise e si curvò verso di lui, sorridendo.

    «Mettimi alla prova», affermò, ridendo a più non posso all’espressione sconcertata che si dipinse sul volto di Jon prima che si decidesse a prendere le medicine.

    Tutto sommato, Jon ammise a sé stesso che, per quanto non si fosse sentito molto in vena di ricevere visite, non fu comunque male avere compagnia. Avevano parlato, Kathy si era assicurata che stesse bene e, lamentandosi di quanto poco fosse affidabile il suo frigo mezzo vuoto, gli aveva ordinato la cena – “Grande e grosso e hai davvero solo ramen istantaneo da mangiare?!” – e si era assicurata che la finisse tutta e che prendesse le sue medicine, senza pressarlo sulla questione che lo opprimeva da un po’ di tempo a quella parte. Era stato Jon stesso a dirle delle sue ricerche e delle strane sensazioni che aveva provato nel farle, di ciò che aveva scoperto e di quanto tutto suonasse ridicolo e assurdo, e Kathy aveva insistito sul fatto che avrebbe dovuto parlarne con qualcuno, anche solo per venire a capo della matassa che si era ingarbugliata nella sua testa. Jon aveva parlato letteralmente di tutto… ma non le aveva raccontato quel sogno che aveva fatto, lo strano sogno in cui aveva discusso con Thanatos come se lo conoscesse da tutta la vita, né tanto meno le aveva parlato di come in quel sogno fosse un’altra persona. C’era troppo da spiegare e troppo da catalogare… e stava cominciando a pensare che le cose gli stessero letteralmente sfuggendo di mano.

    Forse la notte avrebbe portato consiglio.






_Note inconcludenti dell'autrice
Allora, qui cominciamo ad addentrarci un po' di più nel cuore della storia e qualche nodo comincia a venire al pettine, anche se se ne stanno creando di nuovi
Qui entra in scena anche un'amica storica di Jon: Kathy! L'avevo già nominata in altre one-shot legate alla raccolta Allegretto ~ Deux ou trois choses que je sais de nous e anche in qualche storia della raccolta Smile in a cornfield ~ a flower that has the breath of a thousand sunsets
A differenza di quelle storie, però, qui Kathy ha un ruolo più centrale e sembra un po' guidare Jon, sempre più confuso dai sogni che sta facendo e sempre più desideroso di vivere quella nuova relazione che sta cominciando a vivere insieme a Damian. Come andranno a finire le cose tra loro? Lo scopriremo presto!
Commenti e critiche, ovviamente, son sempre accetti

A presto! ♥



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Capitolo 3
*** Atto tre: Elisio ***


No matter how life_3 Titolo: No matter how life turns around (I'll see you again)
Autore: My Pride
Fandom: Super Sons
Tipologia: One-shot (divisa in tre atti) [ 10274 parole [info]fiumidiparole ]
Personaggi: 
Jonathan Samuel Kent, Damian Wayne, Vari ed eventuali
Rating: Giallo
Genere:
Generale, Sentimentale, Malinconico, Azione
Avvertimenti: What if?, Slash, AU, Hurt/Comfort
Vorrei incontrarti tra 100 anni challenge: 50. Battito cardiaco || 177. Esame || 63. Contadino (Tipologia 4: Incontrarsi in un altro contesto storico/sociale (AU) + Reincarnation AU)
Take your business elsewhere Challenge: 9. Di mezzo c'è un segreto || 17. Personaggio X non è umano || 28. Uno specchio || 34. Y non è mai stato così vicino a X || 39. Stupire
200 summer prompts: Balliamo || Segreto || Personaggio X vuole esserci



SUPER SONS © 2016Peter J. Tomasi/DC. All Rights Reserved.
 
ATTO TRE. ELISIO

    L’influenza aveva deciso di lasciarlo in pace solo la settimana successiva.

    Non era mai stato uno che si ammalava facilmente, ma durante quei giorni aveva davvero pensato di essersi beccato chissà quale virus sconosciuto che aveva prosciugato gran parte delle sue forze vitali. Tutti i suoi buoni propositi erano stati gettati letteralmente alle ortiche e i suoi sogni erano diventati i deliri insensati di un povero disperato in preda alla febbre, ma l’odore dei fiori e le carezze sul suo corpo durante quelle notti non lo avevano abbandonato mai. Non aveva più sognato la distruzione di quella dimora dorata, né aveva sentito il dolore delle carni strappate e delle ossa fatte a pezzi, ma i sussurri di Thanatos e  bagliore dei suoi occhi erano divenuti più intensi attimo dopo attimo, sparendo ad ogni battito di ciglia e ripresentandosi ad ogni zaffata di asfodeli.

    Jon aveva persino pensato di essere impazzito, ad un certo punto. Kathy era andato a trovarlo un paio di volte, ma le aveva detto che non voleva che si ammalasse e l’aveva fatta desistere, discorso che aveva fatto al resto dei suoi amici e a Damian stesso. Ogni volta che Jon riusciva a tenere gli occhi aperti, si messaggiavano e finivano col fare battute sempre più provocanti l’un l’altro, cosa che faceva sorridere Jon e fargli desiderare di passare più tempo con Damian. Non aveva mai provato quel tipo di attaccamento per nessuno, aveva avuto delle storie e non sempre erano finite tutte bene – il suo ultimo ragazzo gli aveva hackerato il profilo Facebook ed era stata una fortuna che non avesse inserito dati troppo sensibili come il numero di telefono o quello di previdenza sociale –, ma con Damian era… diverso. E quella stupida influenza aveva scelto proprio il momento peggiore per colpire.

    Da una parte non se n’era meravigliato più di tanto, a dire il vero. Stanco, stressato e perennemente assonnato, era stata una normale risposta fisica del suo organismo sotto sforzo che alla fine era collassato su se stesso, e Jon aveva purtroppo dovuto farci i conti e starsene chiuso in casa; aveva provato a studiare per quel maledetto esame, ma il suo cervello gli aveva sbottato contro e si era rifiutato categoricamente di farlo, quindi aveva passato quei giorni a morire a letto e a chiacchierare di tanto in tanto al cellulare con amici e famiglia per tranquillizzarli e dir loro che, febbre a parte, non stava mica morendo. Suo fratello Conner l’aveva preso un po’ in giro e accennato al fatto che adesso non avrebbe più potuto farsi chiamare “ragazzo d’acciaio”, e a lui aveva riservato una bella fotografia del suo dito medio scattata proprio in mezzo alle cosce. Risultato? Conner aveva riso come un idiota e sbottato che era proprio uno sporcaccione – e di mettersi quel dito da tutt’altra parte, provocando l’indignazione di Jon –, accennando che quando sarebbe guarito se ne sarebbero andati a bere una birra e a festeggiare. Pessima idea, ma gli aveva comunque detto sì.

    Quando era guarito, la prima cosa che aveva fatto era stato mandare un messaggio a Damian per chiedergli se era libero. Aveva osservato la casella di messaggi privati per ore – no, d’accordo, erano stati solo sette minuti e quattordici secondi, non avrebbe dovuto esagerare – prima di ricevere una risposta, esultando come un completo idiota quando Damian gli aveva detto che era libero e che avrebbero potuto vedersi nel pomeriggio di quel giorno stesso. E Jon aveva passato la mattinata a decidere cosa mettere, in videochiamata con i suoi amici anche per discutere della presentazione che avrebbero dovuto portare e per mettersi d’accordo per il giorno successivo, così da poter riprendere i loro studi. Aveva tutte le intenzioni di mettersi in pari, ma aveva dovuto subirsi le battute e le frecciatine dei suoi amici quando avevano saputo che sarebbe uscito solo per un appuntamento.

    Il destino, però, sembrò avercela con lui, poiché quando nel pomeriggio prese le chiavi della jeep e provò a metterla in moto una volta seduto sul sedile del guidatore, quello stupido rottame non partì. Jon imprecò tra sé e sé a denti stretti e tentò di dare gas più e più volte, battendo una mano sul volante quando capì che non ci sarebbe stato niente da fare. Beh, perfetto. Mi tocca andare a piedi, si disse, fissando il tettuccio per attimi interminabili prima di decidersi a scendere tra uno sbuffo e l’altro, già accaldato. Quel giorno le temperature erano alte e l’idea di farsi un bel po’ di isolati a piedi non era il massimo, ma la voglia di vedere Damian prevalse e si incamminò fra le strade di Metropolis col sorriso ugualmente sulle labbra.

    Stava attraversando insieme ad altre persone quando lo stridio dei freni e il suono dei clacson li colse tutti impreparati, vedendo un’auto sfrecciare come un missile verso di loro; senza avere il tempo di spostarsi, Jon sgranò gli occhi e si portò automaticamente le braccia a coprirsi il viso come se ciò avesse potuto trattenere l’impatto, sentendo lo schianto rimbombare nelle sue orecchie e la sensazione che il suo corpo si fosse accartocciato su se stesso per un istante. Non c’erano suoni, non c’erano odori, voci, tutto era avvolto in uno strano silenzio che risultava ironicamente assordante, seppur Jon fosse conscio che ciò che sentiva era il battere frenetico del suo cuore nel petto; il buio lo aveva avvolto e non vedeva nulla ad un palmo dal naso, ma quando provò a tirarsi su e a mettersi almeno seduto, una fitta di dolore al costato lo costrinse a sdraiarsi di nuovo, storcendo il naso. Cosa diavolo era successo? In lontananza aveva cominciato a sentire dei rumori lontani, echi di voci terrorizzate che solo vagamente riusciva a capire, e rabbrividì quando un soffio gelido gli sfiorò il collo, cercando invano il punto da cui proveniva lo spiffero quando provò di nuovo a mettersi a sedere.

    «Sta’ fermo. Non muoverti».

    Riconoscendo la voce di Damian, Jon boccheggiò per un istante, tentando di far funzionare la bocca come avrebbe voluto e chiedergli cosa ci facesse lì e cosa fosse successo. Era come se il suo cervello non avesse intenzione di mandare segnali ai nervi e permettergli di aprirla, come se ogni parola avrebbe potuto persino suonare superflua, ma lo sforzo di far uscire almeno qualche gemito gli morì letteralmente in gola quando la figura di Damian si stagliò nell’oscurità, fendendo quel buio con la sua strana quanto luminosa presenza. Aveva già visto quelle vesti, conosceva quelle sembianze: con il cappuccio calato sul viso, i gioielli luminosi al collo e ai polsi e la lunga falce sorretta con la mano sinistra, quella figura si avvicinò passo dopo passo, fermandosi letteralmente ad una spanna da lui. Le sue vesti grige frusciavano nel vuoto ma non soffiava alcun vento, era come se possedessero vita propria e si attorcigliavano intorno alle lunghe gambe scure, almeno finché quella presenza non si inginocchiò davanti a lui e ripose la falce ai lati del suo corpo.

    «Thanatos», affermò Jon, e la figura sorrise. Afferrò il cappuccio con entrambe le mani e lo abbassò all’indietro, rivelando il bel volto ambrato di Damian e quegli incredibili occhi verdi che Jon aveva sognato per mesi.

    «Finalmente sai chi sono». La sua voce era possente, completamente diversa da quella che Jon aveva imparato a conoscere, ma non per questo meno piacevole da ascoltare. Era come il rombo di un tuono prima di un temporale, come le onde che si infrangevano contro gli scogli e la forza della risacca, ma aveva la stessa bellezza mozzafiato che catturava gli animi dinnanzi alla vastità della potenza devastante della natura. «Lo attendevo da secoli».

    Jon si tenne la testa con una mano, cercando di ricordare le parole che aveva sentito nei suoi sogni confusi. «Eri tu… sei sempre stato tu. La tua voce… cent’anni…» sussurrò, ma qualcosa non quadrava e gli si attorcigliò lo stomaco. «Sono passati più di cent’anni», constatò, sentendo la bocca completamente arida e le voci nella sua testa farsi sempre più alte e terribili. Perché non stavano zitti? Perché non lo lasciavano in pace?

    La risata di Damian – Thanatos? – suonò alle sue orecchie come vetro spezzato. «Ne sono passati dieci, cento e mille altri da allora… ma ti ho sempre aspettato e ti avrei aspettato ancora». Una gelida mano gli sfiorò il viso, e fu strano come Jon ebbe come la sensazione che fosse per lui una dolce carezza. «Ad ogni tua reincarnazione, ho atteso che ricordassi; ad ogni mio passaggio nel regno degli uomini per adempiere ai miei doveri, ho cercato di esserti vicino con mille sembianze».

    La testa gli scoppiava, il dolore alle costole aumentò e parole su parole avevano cominciato a macinare terribilmente nella sua mente, quasi stesse cercando di dare un senso a ciò che aveva appena sentito; frammenti di immagini di un tempo passato si accavallarono a momenti vissuti appena un mese prima, attimi rubati fra campi dorati si persero in una tazza di caffè e in una risata, ma quegli occhi verdi erano sempre lì, sempre presenti, e lo fissavano con la bellezza ammaliante di chi sfidava il fato; baci, carezze, ansiti e sussurri a mezza bocca, imprecazioni masticate sottovoce e vesti che scivolavano via dalle spalle, e quella danza continua intorno a colui che rappresentava la morte.

    Jon strizzò le palpebre a quella consapevolezza, sentendo la nausea attanagliargli le viscere. «Se tu sei qui… se incarni la morte… significa che sto morendo?» soffiò, ma una nuova risata aleggiò nell’oscurità, creando crepe nel buio da cui filtrarono infiniti raggi di luce prima che Damian chinasse il viso verso di lui.

    «Non questa volta, mio amato… non questa volta», mormorò in un soffio contro la sua bocca, catturando le sue labbra secche in un bacio che, per un lungo istante, lo lasciò senza fiato e gli diede realmente la sensazione che stesse morendo.

    Riaprire gli occhi e tornare a respirare fu più doloroso dell’asfalto rovente su cui era riverso. Jon boccheggiò senza fiato, lo sguardo rivolto verso il cielo azzurro sopra di lui che venne ben presto coperto da volti di persone sconosciute, mentre le sue orecchie ricominciavano a sentire e i suoni ovattati tornavano ad essere grida e clacson bloccati. Qualcuno urlava di chiamare un’ambulanza, qualche curioso cercava di farsi largo e chiedeva se ci fosse scappato il morto, ma tutti sobbalzarono quando Jon aprì gli occhi e si mise a sedere come se nulla fosse, guardandosi intorno stralunato.

    «Ragazzo, stai bene?!»

    «Non dovresti muoverti, hai avuto un incidente!»

    «Riesci a respirare?»

    «Potresti avere un’emorragia interna!»

    «È un miracolo!»

    Voci di uomini e donne si accavallarono le une alle altre e c’era chi cercava di farlo sdraiare ancora una volta per impedirgli di muoversi, ma Jon si sentiva… bene. Bene come non lo era mai stato negli ultimi tempi, così bene che avrebbe potuto toccare il cielo con un dito con un semplice salto, e cercò di allontanare tutti da sé mentre si rimetteva in piedi, così pieno di energie da essere assurdo. E ancor più assurdo era il fatto che fosse vivo, visto che, quando scrutò oltre la folla di curiosi, vide l’auto che lo aveva investito con il parafango divelto e il cofano schiacciato, come se qualcuno – qualcosa? – avesse poggiato un peso su di esso e bloccato in parte la vettura in corsa. Qualcuno continuava ad insistere che fosse stato un miracolo e opera di Dio, qualcun altro diceva di aver visto un’ombra calare sull’auto e altri ancora che era stato lui stesso a ridurla in quel modo, ma Jon sentiva vagamente le loro parole, troppo sconvolto dalla vista dell’auto e del conducente che era stato appena arrestato per guida in stato di ebrezza.

    Qualunque cosa fosse successa davvero, sapeva solo che era vivo. Non sapeva se ciò che aveva visto in quel luogo oscuro fosse stato solo un delirio provocato dallo shock o fosse successo davvero, ma si portò due dita alle labbra e le sfiorò, sentendole calde e umide. Aveva ancora la sensazione di quel bacio su di esse, e non sparì nemmeno quando fu costretto a restare sul luogo dell’incidente a parlare con i paramedici che avrebbero dovuto soccorrerlo e con i poliziotti per capire la dinamica, ma non avrebbe saputo rispondere a nessuna delle domande che gli stavano ponendo poiché neanche lui sapeva bene che cosa fosse accaduto.

    Fu solo quando fu finalmente libero che, ore dopo, raggiunse Damian proprio come aveva programmato di fare. Lo vide seduto al tavolino, una gamba accavallata sull’altra e il cellulare in mano, a scorrere distratto con un dito sullo schermo mentre leggeva chissà cosa, un caffè abbandonato sul tavolino e qualche biscotto ancora intatto nel piattino di ceramica. Gli aveva mandato un messaggio per dirgli che avrebbe fatto tardi, ma non aveva spiegato ciò che era successo, ancora incerto se fosse stato un sogno o meno e troppo scombussolato per riuscire davvero a farlo con la lucidità che avrebbe dovuto avere.

    «Resterai lì a fissarmi tutto il giorno, oppure ti deciderai a venire qui?»

    Preso in contro piede, Jon deglutì e fece qualche passo verso il tavolino, scostando la sedia per accomodarsi davanti a lui sotto il suo sguardo vagamente divertito. Quei profondi occhi sono stati verdi lo scrutavano curiosi come la prima volta, ma Damian aveva uno strano sorriso dipinto sulle labbra. «Scusa il ritardo», tastò il terreno, ma Damian agitò una mano in risposta prima di ficcarsi il cellulare in tasca.

    «Immagino che succeda, quando si ha un incidente e si ritorna improvvisamente in vita».

    Jon sgranò gli occhi, boccheggiando per un istante come un idiota. Aveva davvero sentito ciò che aveva sentito? «Aspetta, cosa?» sbatté le palpebre ma, contro ogni sua aspettativa, il dio volto si rilassò e si concesse persino il lusso di un sorriso. «Quindi non eri solo un sogno… Thanatos».

    «Sono più vero che mai e finalmente ricordi il mio nome anche sul piano terrestre… Zagreus». Damian chinò il viso verso di lui, sollevando un angolo della bocca in un ghignetto. «O preferisci che ti chiami Dioniso», rimbeccò nel fargli un occhiolino, e Jon si massaggiò il collo, accennando un piccolo sorriso tra il divertito e l’imbarazzato.

    «Jon. Solo Jon».

    «Allora io sono Damian, Jon… felice di averti rivisto ancora».

    Si guardarono dritto negli occhi, forse stranamente impacciati, parlando dinanzi a quei caffè che erano ormai stati dimenticati mentre le parole si affollavano e le esperienze si comparavano, facendo finalmente sentire Jon esattamente dove avrebbe dovuto essere. Era strano come ogni cosa si fosse incastrata nel giusto tassello mentre i ricordi di una vita passata tornavano vividi nella sua mente, aiutati anche dalle parole di Damian e dal modo in cui gli andava in contro per far sì che ricordasse; c’erano ancora lacune, sprazzi di momenti dimenticati che cercavano di farsi largo dentro di lui, ma non era più solo una moltitudine di pensieri e parole che non avevano senso, erano attimi condivisi, enormi porte che si aprivano al suo passaggio e parole saccenti che nascondevano amore, un vortice di sensazioni ed emozioni che esplodeva nel petto di Jon e lo faceva sentire come se avesse passato l’eternità in un’ora.

    Quando pagarono e si spostarono nel parco, fu strano come la sua mano cercò automaticamente quella di Damian e la strinse sotto il suo sguardo confuso, ricambiano lo sguardo che gli lanciò e in cui parve perdersi per un lungo istante. Quante cose aveva dimenticato, quanti secoli erano passati e quanti ancora ne avrebbero probabilmente vissuto ancora, ma avrebbe avuto la consapevolezza che quegli occhi sarebbero rimasti per sempre con lui. E quando si fermarono in riva al lago, e Damian si alzò sulle punte dei piedi per sfiorargli le labbra con le proprie, Jon si perse ancora una volta in quello sguardo profondo nell’istante in cui lo fissò con attenzione.

    «Che sciocco fosti ad innamorarti della morte», sussurrò Damian con velata ironia, e Jon sorrise nell’intrecciare quelle dita fra le sue, chinandosi ancora un po’ verso il suo viso.

    «Forse lo sono ancora… ma la morte non è mai stata così bella», replicò, sugellando in un bacio l’amore che aveva covato nel cuore in quei secoli di solitudine
.





_Note inconcludenti dell'autrice
E siamo infine giunti alla fine della storia!(wow, finalmente ho finito qualcosa, ma quanto mi sento brava in questo momento? Devo decidermi a riprendere tutte le altre)
Questa è quella meno "avventurosa", se così vogliamo chiamarla, ma mi sto già preparando per postare la successiva (stavolta mi sa che la dividerò in cinque parti, essendo più lunga) intitolata "Dust to Dust, Ashes to Ashes", sembra una AU su Super Sons impostata però in un universo omegaverse (quindi, sì, ci saranno quelle dinamiche ma sarà un po' più... cruda di queste) e ho anche intenzione di postare una raccolta di tutte le AU che ho scritto, chissà. Comunque sia, spero che questo capitolo sia piaciuto e che sia stato apprezzato anche il finale
Commenti e critiche, ovviamente, son sempre accetti

A presto! ♥



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