Prom night - One more day

di softandlonely
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Present Tense ***
Capitolo 2: *** The path trails off ***
Capitolo 3: *** A low flying panic attack ***
Capitolo 4: *** You've grown up, baby queen ***
Capitolo 5: *** Dreamers, they never learn ***
Capitolo 6: *** I'll be your mirror ***



Capitolo 1
*** Present Tense ***


Nota autrice:
Ma ciao! Come state? Ecco a voi Miss Coerenza che aveva giurato di non scrivere più niente e invece è di nuovo qua, con pochissimo tempo a disposizione tra l’altro, ma… volere è potere, mettiamola così :)
Piccola premessa necessaria: questa storia si colloca dopo quella che ho scritto in precedenza.
Dunque se non avete letto “Prom Night” ci sono due strade, o recuperarla o iniziare a leggere da qui… magari all’inizio non sarà tutto chiarissimo ma credo si possa intuire :’)
Se invece l’avete letta ma volete immaginarvi per conto vostro il seguito… ehhh, la scelta è vostra, comunque sappiate che vi voglio bene lo stesso, anche se decidete di non proseguire. 
Per chi invece volesse scoprire quello che frulla nella mia testa, sarete accontentat*! Fatemi sapere cosa ne pensate.
Un abbraccio, S.
 
 
New York
Gennaio 1987
 
A Prospect Park il tempo sembra scorrere a una velocità diversa rispetto al resto del quartiere.
Tutto è lento, perfino un po’ noioso se paragonato alla frenesia della città.
Forse proprio per questo motivo Chrissy ha eletto quel luogo immerso nella foschia come sua meta preferita per le corse mattutine che si concede un paio di volte alla settimana. Ms. Jones le ha consigliato di non strafare, per evitare che quella nuova abitudine si trasformi velocemente in un’alternativa alle dita in gola.
Nemmeno lei vuole che accada: sta solo cercando un modo diverso per mettersi in contatto col suo corpo, o più semplicemente per sentirsi viva. Viva nonostante tutto, anche se non è nemmeno lontanamente felice – o infelice – com’è stata.
 
Quando attraversa il ponte, le vecchie assi di legno scricchiolano al suo passaggio. Sotto di lei l’acqua verdastra del lago mezzo congelato è immobile, così come gli scheletri degli alberi nella debole luce del mattino.
Non c’è un’anima viva, solo qualche scoiattolo che si nasconde dietro i rami spogli, e quel che resta della neve caduta qualche settimana prima, che attutisce il rumore del traffico in lontananza.
Chrissy inspira aria gelida, lascia che le attraversi i polmoni prima di trasformarsi in un fumo bianco e denso.
Quel piccolo angolo di mondo sembra in letargo eppure riesce a percepirla anche lì, quell’aria satura di promesse.
 
Sa di essere puntuale quando prende la curva del vialetto sterrato e incrocia il ragazzo che incontra ogni volta in quel punto, sempre alla stessa ora: porta a passeggio il suo enorme cane e si ferma lì per lanciargli un bastone e farselo riportare, un rito che si ripete uguale.
Quando la vede lui accenna un saluto, che lei ricambia con un mezzo sorriso, avviandosi verso Bedford Avenue.
Raggiunto il palazzo infila la chiave nella toppa arrugginita del portone, che fatica un po’ ad aprirsi, e lancia un’occhiata fugace e automatica alla cassetta della posta, trovandola vuota. Proprio come il giorno prima e quello prima ancora.
Non ha tempo per dispiacersene: una nuova giornata ha fretta di iniziare.
 
Appena entra in casa e si chiude la porta dietro le spalle, il familiare sei tu di Diana la raggiunge dal piccolo bagno che condividono, mischiandosi al rumore delle chiavi lanciate sul tavolo. Due occhi azzurri nascosti dalla frangetta scura, identici a quelli di sua cugina Jessica, spuntano solo per un attimo da dietro il muro. Si sta truccando come ogni mattina, perdendo un’infinità di tempo a caricare il suo sguardo con una quantità esagerata di ombretto. Arriverà in ritardo a lezione, e Chrissy può già prevedere quello che le chiederà di lì a poco.
 
“Ehi Chris, non è che potresti farmi un favore? Puoi coprirmi all’ora di pranzo? Ti prego, non ce la farò mai.”
 
“Non è un problema, ma non credo che i tuoi non se ne accorgeranno.”
 
“Vorrei sapere perché cavolo mi costringono a fare quello stupido lavoro. Senza offesa.”
 
Diana odia il ristorante dei suoi genitori, ma a loro non importa niente. Hanno la ferma convinzione che lei debba almeno fingere di guadagnarsi quello che ha, sperimentare la fatica. In ogni caso, a parte quell’odiosa mania di chiederle di coprirla, è una collega ok e una coinquilina quasi sempre piacevole.
 
“Hai preso tu la posta?” le chiede Chrissy, nel tono più neutro che le riesce.
 
La ragazza si affaccia di nuovo, un’espressione enigmatica sul volto. “Sì. Mi spiace, ancora nulla da parte del tuo ragazzo immaginario.” le dice. Ormai è diventata una sorta di abitudine tra di loro, una provocazione a cui Chrissy non fa nemmeno più caso. Anche se a volte si chiede anche lei se quello che ha vissuto fino a pochi mesi prima sia davvero accaduto, ora che sembra essere più lontano di quanto non sia mai stato.
 
Diana esce dal bagno, raggiunge il mobile di legno accanto all’ingresso e fruga nel primo cassetto, estraendone una busta che le porge con aria trionfante.  “In compenso è arrivata questa.”
Chrissy la afferra, la stringe tra le dita. I suoi occhi si spostano veloci tra le lettere e il logo verde impresso sul davanti.
 
Columbia Greene Community College. Chrissy Cunningham.
 
Le sembra impossibile che quelle parole possano convivere sullo stesso pezzo di carta.
Diana le avvolge le spalle con il braccio, stringendola come se volesse infonderle coraggio. “Avanti, aprila.” le dice, un sorriso pieno di fiducia nella voce, senza rendersi conto di quanto quella busta rappresenti per lei. Un altro piccolo passo verso quella che vorrebbe diventare, la Chrissy che non ha bisogno di compiacere nessuno.
 
Così stacca piano la colla sul retro, estrae il foglio. Trattiene il fiato e fa viaggiare lo sguardo tra le parole, qualche riga scritta a macchina e uno scarabocchio a penna in basso a destra.
 
“Allora?”
 
“Ammessa. Ammessa!” balbetta, mentre lacrime piene di incredulità pungono gli angoli dei suoi occhi, oscurandole la vista, appena prima che Diana la stringa in un abbraccio soffocante.
 
 
 
Hawkins
Giugno 1986
 
Per la loro prima vera uscita gli aveva chiesto di andare a vedere un film. Un cliché totale, se ne rendeva conto, ma aveva bisogno, davvero bisogno, di un po’ di normalità. Eddie aveva acconsentito senza fare storie. Del resto le aveva promesso che avrebbe fatto qualsiasi cosa gli avrebbe chiesto, anche se perfino per lui quella nuova dimensione di quotidianità era qualcosa di nuovo a cui abituarsi.
E lei aveva indossato un vestito a scacchi colorati che lui non le aveva mai visto addosso, perché voleva davvero che quell’uscita fosse qualcosa di memorabile e speciale, pur nella sua semplicità.
C’era una rassegna di cinema all’aperto nella piazza principale e quella sera davano “Ritorno al futuro”, uscito ormai un anno prima. Niente di strano: a Hawkins tutto sembrava arrivare in ritardo rispetto al resto del mondo.
La serata era tiepida e invitante, le strade della città erano più popolate del solito.
Avevano parcheggiato un po’ distante dal centro con l’idea di fare due passi. Camminavano l’uno accanto all’altra, senza nessuna fretta, parlando di tutto e di niente come erano soliti fare. Ma qualcosa non andava. Chrissy si era accorta che Eddie tendeva a starle lontano, un atteggiamento insolito da parte sua, che la faceva sentire a disagio.
Quando si era avvicinata e aveva fatto scorrere un braccio dietro alla sua schiena, infilando il pollice in un passante dei suoi jeans aveva notato come lui avesse trattenuto il respiro per un attimo.
Ma poi gli aveva sorriso e lo aveva sentito rilassarsi all’istante. Le aveva circondato le spalle con un braccio e tutto sembrava essere di nuovo perfetto, come quando erano al sicuro dal resto del mondo.
Nella piazza, davanti allo schermo improvvisato, erano state sistemate delle panche di legno dall’aspetto vissuto, già quasi del tutto occupate. Loro avevano finito per decidere di sedersi un po’ in disparte, su una delle panchine del parco.
Troppo distanti per vedere bene lo schermo, ma abbastanza isolati da sentirsi a loro agio.
 
“Ne vuoi un po’?” le aveva chiesto Eddie, allungandole il sacchetto pieno di pop-corn al caramello che aveva insistito per comprare.
 
“Sei consapevole di avere i gusti di un bambino di cinque anni, vero?” gli aveva risposto, spingendo via l’involucro a righe bianche e blu con la mano aperta come se le avesse proposto del veleno.
 
Eddie si era lanciato un paio di palline dorate in bocca e le aveva rivolto un sorriso sbilenco. “Come vuoi Cunningham. Tanto lo so che poi mi pregherai di farteli assaggiare.”
 
Sistemandosi meglio accanto a lui, Chrissy aveva finto di ignorarlo, per non dargli soddisfazione. In effetti da quando lo frequentava le era successo un sacco di volte. Lui le proponeva qualcosa che lei non aveva mai provato e che credeva non le sarebbe mai piaciuto e ogni volta, ogni maledetta volta, finiva per doversi ricredere.
 
Il film era leggero e tutto sommato divertente. Alla fine della proiezione la piazza si era quasi del tutto svuotata e loro erano rimasti lì, sulla panchina nel parco, Eddie che disegnava cerchi immaginari nella parte interna del suo ginocchio mentre parlavano, senza nessuna fretta di andarsene.
 
“Lo sapevo che ti sarebbe piaciuto. Hai un sacco di cose in comune con quel tipo. Una band che fa troppo casino, una scuola in cui non ti lasciano fare quello che vuoi…” gli aveva detto, sicura di scatenare una sua reazione.
 
“Tu lo chiami casino quella roba? Se proprio devo identificarmi con qualcuno preferisco Doc. Un genio pazzo e alienato.” le aveva risposto sogghignando. Le aveva posato le labbra su una tempia e lei aveva chiuso gli occhi, indugiando nel suo tocco, assorbendo il calore del suo braccio che ancora le avvolgeva le spalle.
 
“Ti è mai capitato di desiderare di cambiare qualcosa del passato?” gli aveva chiesto. Così, dal nulla.
Anche se sapeva che quello, il passato, non era tra gli argomenti preferiti di Eddie, molto più focalizzato sul tempo presente. Ma voleva che fosse consapevole che, se mai avesse voluto, avrebbe potuto parlarne. Con lei.
Lui aveva riflettuto in silenzio per qualche secondo prima di risponderle.
 
“È successo, sì. Qualche volta. Avrei voluto non aver visto, sentito o vissuto certe cose. Ma se ci pensi bene… beh, se non fossero successe, non avrei quello che ho ora.”
 
Nel dirlo aveva abbassato gli occhi, incontrando quelli di lei.
Lei che doveva ancora impegnarsi per accettare il suo riflesso allo specchio, ma piano piano stava imparando a contare i suoi lividi e apprezzarli, nonostante tutto.
 
“Dai, fammi assaggiare quella roba.” gli aveva sorriso, e lui non si era fatto pregare. Le aveva passato il sacchetto ancora mezzo pieno e lei lo aveva aperto, inspirando il profumo stucchevole che emanava.
 
“Cosa ne dici?” le aveva chiesto, non appena si era infilata in bocca il primo pop-corn al caramello della sua intera esistenza.
 
“È dolce.”
 
Nel dirlo aveva incrociato per un attimo il suo sguardo soddisfatto. L’ennesimo “te lo avevo detto” era nell’aria, senza che lui sentisse bisogno di pronunciarlo. Invece le aveva preso la mano e si era portato alle labbra le sue dita perfettamente curate, rese appiccicose dal caramello. Succhiandoglielo via in un modo che le aveva fatto immaginare altre situazioni in cui sapeva essere dannatamente dolce con lei.
 
“Delizioso.” le aveva detto, lasciandole un bacio sul palmo della mano e poi sul polso.
 
Chrissy aveva smesso di respirare.
Accadeva spesso che lui le facesse quell’effetto. Sarebbe stato per sempre così? In quel momento non lo sapeva e non voleva chiederselo. Aveva iniziato ad avere paura di quanto tutto le sarebbe mancato di lì a qualche tempo.
 
 
 
La stanza di Chrissy nell’appartamento di Bedford Avenue è molto più piccola rispetto a quella di Hawkins ma altrettanto vuota. Il letto, una scrivania, uno specchio, l’armadio. Nessun quadro alle pareti verde pallido, leggermente scrostate.
Tende di cotone alla finestra che dà sul cortile interno, spesso invaso dall’odore del fumo e delle pentole sul fuoco.
E lei, rannicchiata tra le lenzuola, una maglia nera troppo grande, la lettera stretta contro il petto.
Rientrata dal suo turno al ristorante ha dovuto rileggerla tre volte per rendersi conto che è tutto vero. Che le cose stanno iniziando a girare per il verso giusto, che tutti i suoi sforzi stanno prendendo forma in qualcosa di concreto.
Sarebbe tutto perfetto se non fosse che…
 
“Chrissy, dobbiamo uscire a festeggiare.” le urla Diana irrompendo nella stanza. Ha indossato una maglia verde fluorescente sopra un paio di jeans chiari e ha raccolto i capelli con un nastro colorato.
L’assenza di qualsiasi genere di risposta provoca in lei una reazione infastidita, costringendola a incrociare le braccia sul petto e alzare gli occhi verso il soffitto.
 
“Non mi dirai che hai intenzione di stare qui a fissare il telefono aspettando che suoni. Oggi che hai la serata libera. Oggi che hai ricevuto la lettera.”
 
“Io non fisso il telefono… solo…”
 
Solo ha bisogno, dannatamente bisogno, di sentire la sua voce.
Di condividere quel momento con l’unica persona che sa davvero quello che ha passato per arrivare fino a qui.
Le manca talmente tanto che a volte le sembra di avere un abisso al posto del cuore.
 
“Solo cosa Chris?”
 
“Potrebbe chiamare. Lo sa che stasera non lavoro.”
 
“Non ti chiama da... boh, non so neanche io da quanto.”
 
“Avrà avuto da fare e comunque non è così facile. Che ne sai tu…”
 
Chrissy si rigira nel letto, pianta gli occhi in una crepa del muro.
Sente il rumore scricchiolante dell’armadio che si apre, seguito dal tonfo ovattato di qualcosa di morbido che le colpisce le gambe atterrando sul materasso, proprio lì accanto.
 
“Avanti ti ho scelto i vestiti. Poi non dire che non sono un’amica… preparati e vieni fuori con me. Prendi pure i miei trucchi. Esagera.”
 
Chirissy si volta appena, incrociando lo sguardo celeste della sua amica che si è improvvisamente ammorbidito.
 
“Diana…”
 
“Chris, andiamo. C’è anche Jessica. Ho già organizzato tutto, non fare la solita guastafeste. Sei a New York da mesi dannazione, e non hai visto altro che il ristorante dei miei genitori, quello stupido parco e la tua strizzacervelli.”
 
“Lo sai che devo risparmiare.”
 
“Stasera offro io. Dobbiamo festeggiare. Te lo meriti.”
 
Chrissy si mette a sedere, le mani aggrappate la stoffa della sua maglia. Sposta lo sguardo sui vestiti accanto a lei e li afferra, stringendoseli addosso. Quando si decide a raggiungere il bagno per indossarli e attraversa il corridoio dà un’ultima occhiata la telefono che non squilla da giorni.
 
Lo farà più tardi, rompendo la quiete silenziosa dell’appartamento buio e vuoto.
Dall’altra parte ci sarà qualcuno che Chrissy evita sempre di nominare.
Qualcuno che vorrebbe dirle Ehi, sono io. Sono qui. Sta andando tutto a puttane, ma ci sono ancora.
Parole inutili che resteranno sospese nello spazio di una cabina silenziosa e lontana.
E lui, quattro gettoni nel palmo della mano, in attesa di una risposta che quella sera non arriverà.

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Capitolo 2
*** The path trails off ***


 
Hawkins
Luglio 1986
 
“Tu non sei esattamente il tipo di persona che ci si aspetterebbe di vedere in un posto come questo a quest’ora del mattino. E invece eccoti qua, e non puoi certo dire che il terreno ti sia del tutto sconosciuto, anche se i particolari sono confusi.”
 
Chrissy leggeva a voce alta il libro con la copertina blu che reggeva tra le mani, ma Eddie aveva smesso quasi subito di ascoltarla.
Forse era colpa del titolo. “Le mille luci di New York”.
Una coincidenza? Suonava più come una gran presa per i fondelli.
 
Magari invece era solo a causa dell’aria opprimente e carica di umidità della sua piccola stanza, nient’altro che un ventilatore cigolante a spostare calore da una parte all’altra che dava loro solo l’illusione di un sollievo.
O piuttosto era lei, accovacciata tra le sue gambe con una delle sue magliette addosso, in mezzo alle lenzuola stropicciate, la schiena che premeva contro il suo petto. I suoi capelli biondo fragola sciolti sulle spalle che gli facevano il solletico sul viso, rilasciando quell'odore capace di disintegrargli le cellule cerebrali, una alla volta.
Un profumo di albicocca – sì, albicocca – che si mischiava a quello molto più scadente del suo bagnoschiuma.
E qualcosa di dolce, qualche traccia di quella roba lucida che metteva spesso e rendeva le sue labbra scivolose.
Comunque. Chrissy non era il tipo di persona che qualche mese prima si sarebbe aspettato di avere nella sua stanza, con quella piccola mano che lasciava il libro per scomparire nella sua mentre leggeva.
Gesù. Non riusciva proprio concentrarsi. In fin dei conti era solo un essere umano.
 
“Tu sai benissimo che il momento è arrivato e passato, ma non sei ancora disposto ad ammettere di aver superato il limite oltre il quale tutto è effetto collaterale gratuito e paralisi di terminazioni nervose.”
 
Cosa ci faceva lei lì? Continuava a chiederselo. Com’era potuto accadere che Chrissy – Cunningham, la reginetta della scuola, quella Chrissy, proprio lei – se ne stesse quasi tutto il tempo con lui in quella squallida casa?
Che poi non era neanche una casa, a pensarci bene.
Si sentiva quasi rassicurato quando ricordava che quel “qualsiasi cosa fosse” aveva già una data di scadenza.
Gli sembrava che l’ordine delle cose e le poche certezze della sua vita non fossero poi cambiati più di tanto.
Alla fine dell’estate sarebbero partiti entrambi, con le loro valigie piene di sogni e nient’altro.
In due direzioni opposte, senza farsi promesse.
Se ne sarebbe andata. Verso un’altra città, un’altra vita, migliore di quella. In un altro Stato. Dannatamente lontano.
E lui sarebbe scappato via, ovunque purché non fosse Hawkins. Sembrava davvero figo. Lo era. Tranne per la parte che la riguardava.
 
Eddie aveva alzato gli occhi al soffitto. Cercava di distrarsi, giusto per non parlare troppo come al suo solito e finire per dire qualcosa di cui avrebbe potuto pentirsi. Tipo... beh, niente di nuovo, da sei anni o giù di lì.
Solo che lei era così vicina da confonderlo. Da far sembrare la stanza ancora più piccola e rovente.
Il sole di luglio cuoceva le lamiere del tetto, un cane rabbioso tenuto alla catena continuava ad abbaiare poco lontano, costringendola ad alzare un po’ la voce per farsi sentire.
Senza pensarci più di tanto le aveva dato un morso, nel punto esatto in cui il collo si congiungeva con la sua spalla.
Non tanto forte da farle male – o no? –, ma abbastanza da farla sussultare. E sospirare, in un modo che era riuscito a sentire in ogni parte del suo corpo. Soprattutto, era riuscito a farla smettere di leggere.
 
“Che stai facendo?”
 
“Scusa Cunningham. Lo ammetto, mi stavo annoiando.” le aveva risposto con aria innocente.
 
Lei si era girata quel tanto che bastava per incrociare il suo sguardo.
Sbuffando, anche se non sembrava arrabbiata. Il suo labbro inferiore era gonfio e arrossato, come se lo avesse stretto tra i denti. L’aveva baciata, portandole via quel poco che restava di quella specie di rossetto appiccicoso.
Le sue labbra erano calde come il suo respiro. No, non era affatto arrabbiata.
E poi i suoi occhi si erano fatti grandi e tristi, come sempre quando aveva qualcosa da dirgli e nessuna voglia di farlo.
C’era voluto un po’, ma alla fine ci era riuscito.
 
“Mio padre mi ha chiesto quando lo dirò anche a lei…”
 
“Del fatto che te ne vai?”
 
“E di cosa se no? Di te sa già tutto.”
 
“Ah lo sa? Strano che non mi abbia ancora invitato a pranzo.”
 
Chrissy aveva arricciato il naso, come faceva sempre quando lui diceva qualche cazzata. Le aveva sorriso.
Non poteva trattenersi. Era adorabile quando lo faceva.
 
“Scherzi a parte Chris, non mi sembri il tipo che sparisce nel nulla. Anche se tua madre è una stronza. Se dirglielo è quello che vuoi possiamo farlo insieme.”
 
“Non è una buona idea.”
 
“Cosa?”
 
Lei lo aveva guardato e lui aveva capito subito. La sua presenza non era gradita in casa Cunningham.
Niente di nuovo, nemmeno questo. Non che gliene importasse qualcosa. Aveva imparato fin troppo presto a fregarsene del giudizio degli altri, a fare buon viso a cattivo gioco. Ma l’idea che lei ne potesse soffrirne, quella sì, lo disturbava.
E poi c’era qualcos’altro. Era una piccola, fastidiosa e onnipresente sensazione.
Quella di essere il segno meno davanti alla sua vita.
Non era abituato a sentirsi in quel modo, ma era come se lei gli avesse aperto una voragine nel petto.
Lo faceva sentire totalmente esposto, anche nei suoi angoli più bui. Quelli più vulnerabili.
 
“Potrei accompagnarti, tutto qui. A distanza di sicurezza. La sai quella regola dei vampiri che non possono entrare nelle case se non sono invitati? Penso che sia valida anche per i seguaci di Satana.”
 
“Quanto sei scemo.” aveva risposto lei, inginocchiandosi davanti a lui, dandogli una perfetta visuale delle sue gambe. Eddie aveva seguito il percorso delle sue piccole mani mentre scendevano sul suo petto e si aggrappavano alla maglietta che gli si era praticamente incollata addosso.
Quando voleva sapeva essere insistente e tenace, Chrissy Cunningham. Chi lo avrebbe mai detto.
Ma stava sorridendo di nuovo: bingo. E lo guardava, tutta occhi, come faceva lei: un caleidoscopio di grigio, blu e verde.
Lui la fissava a sua volta, sicuro di sembrare un idiota.
Perché era così bella con la sua roba addosso? Da quando lei era nei paraggi non aveva mai un cazzo da mettersi, e Dio sa quanto odiava fare il bucato, ma…
Sul collo di Chrissy era rimasto il segno rosso che le aveva lasciato poco prima.
L’aveva sfiorato con le dita, la sua pelle soffice che sembrava riscaldarsi sotto il suo tocco.
 
“Perché non lo rifai?” gli aveva bisbigliato lei.
 
Ok, sapeva di essere fottuto. Ma non sapeva ancora fino a che punto.
 
E così qualche giorno dopo si era ritrovato a osservarla dal suo furgone, mentre percorreva il vialetto e gli lanciava un’ultima occhiata per scomparire dietro la porta di casa. Quella casa dove si ostinava a tornare ogni giorno, nonostante tutto. Diceva di farlo soprattutto per suo fratello, ma lui sapeva che era vero solo in parte.
Mentre la aspettava Eddie si guardava intorno. I prati perfettamente tagliati, gli alberi senza una foglia fuori posto, le auto lucidate a specchio. Un passante che portava a spasso un cagnolino, uno di quelli piccoli e fastidiosi, mentre spiava dentro al furgone con aria circospetta. Lui aveva agitato una mano in una sorta di saluto, sfoggiando un sorriso finto che aveva costretto il tizio a spostare lo sguardo sul marciapiede, con un moto imbarazzato.
Eddie scrutava con crescente preoccupazione le finestre della grande casa bianca, tutte coperte da tende altrettanto candide che gli impedivano di vedere all’interno.
Ma poi, all’improvviso, Chrissy era uscita ed era stato subito chiaro quanto tutto fosse andato storto.
Aveva gli occhi gonfi, le guance bagnate di lacrime e mascara, il viso arrossato specialmente sulla guancia sinistra come se… Cristo, l’aveva schiaffeggiata come una bambina.
Si era rannicchiata sul sedile stringendosi le gambe contro al petto fino a che non aveva ceduto all’insistenza dello sguardo silenzioso di lui. Avrebbe voluto, davvero voluto, saper dire la cosa giusta.
 
“È stata una pessima idea. Sarebbe stato meglio sparire nel nulla. Vorrei non averlo fatto. Vorrei… non doverla rivedere mai più.”
 
“Puoi farlo. Puoi… non rivederla.” le aveva bisbigliato, senza dare il tempo alla sua dannata bocca di connettersi al cervello, sempre che gliene fosse rimasto uno.
 
“Che intendi dire?” gli aveva risposto lei. Quei suoi occhi grandi erano di nuovo pieni di lacrime.
 
“Lo sai. Che puoi stare da me. In fondo cosa cambia rispetto a ora? Non… significa niente. Quando sarà il momento te ne andrai. Ce ne andremo.”
 
Chrissy non aveva detto di no. Aveva solo tirato su il naso e poi l’aveva guardato in quel modo.
Come se gli stesse silenziosamente chiedendo se faceva sul serio.
 
Sì cazzo, facciamolo, aveva pensato lui.
Improvvisamente non importava più quello che sarebbe successo dopo, perché lei aveva smesso di piangere.
 
“Vieni con me?” gli aveva chiesto, balbettando.
 
Sceso dal furgone, aveva varcato per la prima volta quella porta.
Una volta Chrissy aveva definito quella casa come una specie di sala operatoria. A lui sembrava più che altro un museo.
Molto più tetro, a dirla tutta, rispetto a quelli che aveva avuto modo di visitare in gita scolastica.
Non c’era nulla fuori posto, nemmeno un granello di polvere.
Un divano bianco che sembrava appena uscito da un negozio.
Fiori sul tavolino del soggiorno, accanto a riviste che, ci scommetteva, non interessavano a nessuno.
Avevano salito le scale silenziosamente, i loro passi ovattati dalla moquette, e avevano raggiunto la stanza di Chrissy.
Era grande tre volte la sua ma conteneva solo una scrivania e un letto tutto cuscini rosa pallido.
Pareti bianche, nessuna ispirazione. Niente che gliela ricordasse, se non l’uniforme da cheerleader appesa a una gruccia.
Lei si era infilata dietro la porta dell’armadio, dentro alla quale aveva recuperato un paio di scatole.
Avrebbe voluto dirle di non riempirle troppo. Lo spazio nel caravan era quello che era e lei sembrava avere una quantità assurda di vestiti.
Solo, non aveva il coraggio di chiederle di rinunciare a qualcosa.
In un attimo Chrissy ci aveva infilato dentro abiti e biancheria alla rinfusa, qualche libro, un quaderno dalla copertina fuxia recuperato dal cassetto del comodino.
Ne aveva presa una invitandolo con lo sguardo a fare lo stesso con la seconda, e si era affrettata giù per le scale.
Stava per seguirla dietro la porta di quella casa spettrale quando aveva sentito una voce tagliente raggiungerlo alle spalle.
 
“E così sarebbe a causa tua che mia figlia sta buttando all’aria la sua vita.”
 
Si era voltato e lei era lì, gli occhi dello stesso colore di quelli di Chrissy.
Vestita con una giacca scura abbottonata fino al collo, nonostante il caldo soffocante.
E delle calze, Cristo, chi diavolo indossava le calze in pieno luglio?
 
“Signora Cunningham.” l’aveva salutata, mentre lei continuava a fissare assente la scatola straripante di vestiti che reggeva tra le mani.
 
“Se non fosse per causa tua non se ne sarebbe mai andata.” aveva mormorato a denti stretti, la voce che sembrava incrinarsi appena. “Chrissy non è mai stata particolarmente intelligente, ma non mi aspettavo certo che finisse con uno come te. Io lo so chi sei. Lo so da dove vieni. Sei solo uno spiantato, drogato, figlio di puttana.”
 
“Oh, fanculo. Con tutto il rispetto, signora Cunningham, per me può andare a farsi fottere.”
 
Ormai era evidente: la sua cazzo di bocca era collegata direttamente allo stomaco invece che al cervello.
Ma era troppo tardi per pentirsente.
Nella testa di Eddie c’era solo rumore bianco mentre prendeva la porta, sbatteva la scatola sul retro del van e si infilava al posto di guida.
 
“Perché ci hai messo tanto?”
 
Senza dire una parola aveva avviato il motore per dirigersi a Forest Hills.
Era stata lei a interrompere l’assurdo silenzio che si era creato tra loro.
 
“Eddie. Questa cosa è una follia. E Wayne? Si arrabbierà secondo te?”
 
Già si immaginava quello che avrebbe detto a suo zio. Qualcosa tipo “Ehi vecchio, ti ho fatto i pancake per colazione. A proposito, Chrissy resterà qui per un po’, ma non è come pensi. Tranquillo, ho tutto sotto controllo. E, ehi, lo scarico del lavandino si è intasato un’altra volta.”
 
“Naaa. Lo sai che ti adora.” le aveva sorriso, agitando una mano davanti a sé.  
 
Chrissy lo aveva ricambiato e si era rilassata contro il sedile. Sembrava stare di nuovo bene.
Sentiva che in qualche modo era quella l’unica cosa a contare davvero.
Anche se le parole di quella donna continuavano a risuonargli fastidiosamente nel cervello, si ripeteva che non erano importanti. Non fino a quando fosse riuscito a renderla felice.
 
 
Atlanta
Gennaio 1987
 
Suonare per bere gratis è fantastico, davvero.
Probabilmente è uno dei motivi per i quali si è appassionato alla chitarra.
Solo che negli ultimi tempi sembra meno divertente. È piuttosto triste, a dire il vero, soprattutto perchê i soldi messi da parte per quel viaggio cominciano a scarseggiare, ogni giorno di più.
Eddie si chiede da quando le cose hanno iniziato a prendere quella piega, mentre esce dal locale insieme a Gareth e si accende l’ennesimo joint.
La notte non è esageratamente fredda e comunque, l’alcol sembra fare il suo dovere.
Lo riscalda, lo aiuta a non pensare, o a farlo meno intensamente.
 
“Torno subito.” dice all’amico, che gli risponde con un mugugno infastidito.
È il loro modo di comunicare, da quando per entrambi è evidente che le cose non stanno andando esattamente come avevano sperato.
Da quando Gareth gli ha detto chiaro e tondo che vorrebbe tornare indietro, che hanno fatto una cazzata.
E Hawkins è diventata di nuovo una presenza ingombrante, un non detto grande quanto un elefante in mezzo a loro, in quel furgone, un ammasso di lamiere ammaccate che sta cadendo a pezzi.
In fondo Eddie l’ha sempre saputo.
C’è sempre stata una parte di lui consapevole del fatto che da quel parcheggio dei caravan non c’era via d’uscita.
Quella parte di lui terrorizzata dalla paura di non vivere.
Di finire ad avvitare bulloni in fabbrica come suo zio per il resto dei suoi giorni.
 
Rovista nelle tasche, ritrova i gettoni che ha cambiato qualche giorno prima.
Si infila nella cabina, illuminata dalla luce al neon, mentre tutto intorno a lui la notte è un cielo scuro, punteggiato dalle luci dei palazzi e immerso in rumori ovattati e distanti.
Il numero lo sa a memoria, anche se il foglietto rosa su cui Chrissy l’ha segnato è sempre lì, al sicuro nel suo portafoglio.
Lo compone velocemente, senza riflettere troppo su quello che le dirà o non le dirà.
Sperando che non sia in casa o scelga di non rispondere, come qualche giorno prima, anche se quella mancata conversazione lo ha trascinato in una spirale di pensieri negativi che si sarebbe risparmiato più che volentieri.
La linea suona a vuoto per un po’, fino a che qualcuno dall’altra parte risponde.
Il primo gettone se ne va.
 
“P-pronto?”
 
È una voce debole, la sua voce, quella dall’altro capo del filo.
 
“Ciao, principessa.”
 
“Eddie? Ciao.”
 
“Ti ho svegliata?”
 
“Lo sai che ore sono?”
 
“No. Scusami.”
 
“Non fa niente. Dove sei?”
 
“Ad Atlanta. Abbiamo appena finito di suonare in un posto davvero figo. Dovresti venirci…” le mente.
 
“Perché hai questa voce?”
 
Quella domanda lo infastidisce più di quanto dovrebbe.
L’ultima cosa che vuole è sentirsi in dovere di dimostrarle di essere degno di lei.
 
“Scusa, mammina.” le risponde, più freddo di quanto avrebbe voluto.
 
Anche con la sua totale assenza di lucidità si accorge di quanto deve esserle sembrato stronzo.
Infatti quello che segue è un silenzio vuoto, anche se gli sembra di poterli scorgere, i suoi piccoli, veloci respiri nella cornetta. Quasi riesce a immaginarla, nel buio del corridoio, appoggiata al muro, i capelli scompigliati e il filo del telefono attorcigliato attorno all’indice, mentre aspetta che lui le dica qualcosa di più di stupide frasi di circostanza.
 
“Sul serio Chris, è tutto a posto. Volevo solo sapere come stai.”
 
Un sospiro. Un altro gettone che scende.
 
“Mi hanno ammessa, Eddie. Ho ricevuto la lettera qualche giorno fa. Non mi sembra vero.”
 
Eddie esita qualche istante.
Lascia che quella notizia si depositi piano tra i suoi pensieri e le sue consapevolezze.
Lascia che lo divida a metà, tra la gioia di vederla sbocciare e la presa di coscienza di quanto la distanza tra di loro stia diventando sempre più difficile da riempire. Tra l’essere felice per lei e il sentirsi dannatamente egoista.
 
“Cosa ti avevo detto Chris? Sono fiero di te. Davvero.” le dice, cercando di infilare in quelle parole di tutto quello che lei merita di sentirsi dire. Perché in fondo ha ancora bisogno di renderla felice, di sentirsi importante per lei.
 
“Grazie. Grazie… io… Eddie…” sospira lei dall’altra parte, lasciando la frase a metà. “Dimmi di te. Quale sarà la vostra prossima meta?”
 
“Credo che staremo qui per un po’. Un bel po’. Abbiamo trovato un ingaggio, ci pagano, quindi… va tutto alla grande, davvero alla grande.”
 
Un’altra bugia.
 
“Oh… certo, capisco.”
 
Non gli dirà che le manca e nemmeno lui lo farà.
Non gli chiederà di raggiungerla e lui ne sarà felice, perché anche se volesse non potrebbe permettersi di farlo.
E forse non lo vuole, non questa volta. Forse vuole solo smettere di combattere contro l’inevitabile.
Continua a ripeterselo. Doveva essere così.
Quel “qualunque cosa fosse” aveva già una data di scadenza.
 
 
*****
La mia prima volta nei pensieri di Eddie… c’ho un’ansia che non avete idea.
Mi spiace se ha fatto male ç_ç
Un abbraccio. S.

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Capitolo 3
*** A low flying panic attack ***


New York
Ottobre 1987
 
Le sedute da Ms. Jones iniziano sempre con una sosta più o meno lunga nella sala d’attesa dai soffitti alti, con le imponenti finestre che danno sul grande giardino dell’istituto. Chrissy lascia vagare lo sguardo oltre i vetri, sullo strato di foglie secche che si è depositato sull’erba e sui vialetti là fuori. Aspetta, spesso da sola, altre volte condividendo il silenzio con qualcuno che si siede sulla poltrona in pelle un po’ consumata al lato opposto della stanza.
Quasi sempre ragazze come lei, o addirittura più giovani, da sole, o accompagnate da quelli che ha ipotizzato essere i genitori. Con loro non c’è mai stato nulla oltre l’accenno di un saluto e uno scambio di occhiate imbarazzate, piene di domande scontate e risposte altrettanto ovvie.
Quando la dottoressa la chiama nel suo studio si accomoda nel suo solito modo, con le mani infilate nelle tasche dei jeans e le spalle che sembrano perdersi nel suo spesso maglione di lana bianco.
Le serve sempre un po’ di tempo per sciogliersi e iniziare a parlare a ruota libera.
Ms. Jones interviene poco, le fa qualche domanda per dare una direzione ai suoi discorsi. Sulla scuola, il lavoro, la sua vita. Il suo rapporto con il cibo e i motivi che lo hanno reso un problema hanno finito per diventare argomenti secondari, rimasti sullo sfondo delle loro conversazioni.
È successo per gradi, uno strato alla volta, una lacrima per volta, una crepa alla volta nella sua armatura di autocontrollo.
Fino a che è riuscita ad accettare che certe difficoltà faranno sempre parte di lei, nascoste tra le pieghe della sua esistenza, come un pensiero collaterale che non si silenzierà mai del tutto. Solo, sono diventate più facili da tenere a bada. Un qualcosa con cui si è messa in contatto, che ha imparato ad ascoltare, a consolare, a comprendere.
 
“Ho dato il primo esame. Non… un esame-esame. Era una valutazione intermedia, in realtà.” racconta, nascondendo le mani nelle maniche troppo lunghe.
 
La dottoressa annota qualcosa sul foglio che le sta davanti e le rivolge un’occhiata incoraggiante.
 
“E com’è andata?”
 
“Bene, davvero bene.” sorride lei.
 
Ms. Jones appoggia la penna. Toglie gli occhiali, incrocia le braccia sulla scrivania come fa sempre quando sta per dirle qualcosa che farà bene a tenere a mente.
 
“Sono molto contenta Chrissy. Insomma, dopo quello che hai attraversato te la stai cavando alla grande. Hai fatto tanta strada dalla prima volta che ti ho vista. Credo che ora tu possa camminare da sola.”
 
Quelle parole arrivano in modo del tutto inaspettato, accompagnate da un sorriso materno che la lascia spiazzata.
Anche se in fondo sa anche lei che è arrivato il momento. Sa di potercela fare.
 
“A meno che non ci sia qualcos’altro di cui senti il bisogno di parlarmi.”
 
“No, nient’altro.” si affretta a rispondere lei, scuotendo la testa come a scacciare un pensiero. “Però devo pagare le ultime sedute…”
 
“Non c’è fretta, lo sai. Le amiche della dottoressa Kelly sono anche mie amiche.”
 
Quando Chrissy esce un caldo raggio di sole autunnale illumina la strada e gli alberi ingialliti.
Percorre a due e a due gli scalini e si infila in un vagone della linea verde, che porta dall’East Village a Brooklyn. La metropolitana è uno dei luoghi più trascurati e decadenti di New York. Ma è anche piena di vita e storie che si diverte a tentare di immaginare.
Una mamma che tiene un bimbo piccolo fasciato sulla schiena, un anziano con il suo bastone, colletti bianchi e camerieri con la divisa ripiegata in un sacchetto. Volti di tutti i colori si mischiano davanti a suoi occhi, vite agli antipodi che si intrecciano solo per qualche manciata di minuti prima di separarsi nuovamente, ognuna a rincorrere il proprio destino.
E poi c’è sempre qualcuno che si esibisce in uno spettacolo improvvisato per portarsi a casa un paio di dollari.
A Franklin Avenue sale un ragazzo con i capelli lunghi e una chitarra. Inizia a suonare una canzone di cui Chrissy riconosce vagamente la melodia, l’ombra di un ricordo che le attraversa la mente. Così fruga nelle tasche, lascia cadere un po’ di spicci nel bicchiere che ha appoggiato per terra.
 
È a quel punto che inizia il tratto sopraelevato, la parte che preferisce del tragitto verso casa. Il treno sbuca dal suolo, la luce arancione invade il vagone costringendola a ripararsi gli occhi con la mano. Appena li riapre può scorgere lo skyline in lontananza, mentre le strade del quartiere scorrono sotto di lei.
Ancora più lontano c’è il luna park deserto, il lungomare dove ancora non ha mai messo piede, nonostante abiti lì vicino da oltre un anno. A ogni fermata la metro si svuota un po’ di più, quando tocca a lei scendere non c’è quasi più nessuno.
Chrissy si stringe nella giacca e sorride, camminando a passo svelto verso il ristorante.
 
 
Hawkins
Agosto 1986
 
Casa Harrington per certi versi assomigliava alla sua. Ordinata in modo maniacale, elegante, vuota.
Seduta a bordo piscina nel suo leggero vestito bianco, Chrissy, in compagnia di Nancy, osservava i ragazzini cuocere marshmallow attorno al falò e riempire il silenzio con le loro risate. Per qualche motivo sembravano essere molto più grandi della loro età. Era un gruppo davvero bizzarro, si era ritrovata a pensare, ma per qualche motivo ben affiatato.
La serata era trascorsa piacevole e tranquilla, tra chiacchiere e qualche inevitabile discorso sul futuro.
 
“È bello che abbiate organizzato questa cosa prima della partenza di Eddie.”
 
“E della tua.” aveva sottolineato Nancy, rivolgendole un sorriso affettuoso.
 
Chrissy aveva fatto scivolare le dita nell’acqua, osservando i riflessi azzurri e le ombre proiettate dalle luci dei faretti e si era lasciata cullare da quella nuova sensazione. Era semplice andare d’accordo con Nance, con tutti loro.
Nessuno l’aveva mai giudicata per la sua “versione precedente” nonostante non dovesse risultare particolarmente simpatica.
 
“Sai, non credevo che lui fosse… beh. Così.” aveva detto, accennando a Steve, che stava parlando con Eddie poco più in là. Era strano vederli scherzare, ma in fondo la cosa non avrebbe dovuto stupirla più di tanto.
 
“L’apparenza inganna. Tu dovresti saperlo bene.” 
 
Dallo stereo uscivano le note di un disco degli XTC che non sopportava. Eddie sembrava quasi essersene accorto. Si era distratto dal discorso che stava facendo e, intercettando il suo sguardo, le aveva mimato un “tutto bene” al quale lei aveva risposto annuendo.
 
“Dì un po’ è sempre così apprensivo?” le aveva bisbigliato Nancy, alzando gli occhi al cielo.
 
Chrissy le aveva risposto con un’alzata di spalle. Stava diventando fin troppo facile abituarsi al fatto che lui si prendesse cura di lei. Quando la ragazza si era allontanata per andare a prendere qualcosa da bere, lui l’aveva raggiunta e si era seduto lì accanto.
 
“Ehi Cunningham. Stavo quasi iniziando a sentire la tua mancanza.”
 
“Non ci credo.”
 
“È vero. Sei stata qui con Nance tutta la sera. Cosa stavate confabulando?”
 
“Stavo cercando di capire cos’avete in comune tu e Steve.”
 
“Semplice. Dustin.” aveva risposto lui, accennando al ragazzino tutto riccioli e apparecchio ai denti, la pecorella più preziosa del suo piccolo gregge.
 
“È solo che sembrate così diversi. Steve mi ha sempre dato l’idea di essere... beh, lo sai no? Atletico, sfacciato, popolare…”
 
“Tutto il contrario di me. Puoi dirlo, non mi offendo, il tuo stupore è comprensibile. E guarda quei capelli.” le aveva risposto, mentre si accendeva l’ennesima sigaretta proteggendo la fiamma con una mano. Stava fissando intensamente il fondo della piscina, come se per qualche inspiegabile ragione quel discorso lo stesse mettendo in imbarazzo.
 
“Eddie, onestamente non credo che i capelli siano un tuo problema.” aveva scherzato lei, infilando una mano tra i suoi riccioli scuri. Lui l’aveva guardata per qualche secondo negli occhi, senza dire una parola. In quel momento avrebbe voluto poter leggere i suoi pensieri.
 
“Sai, a volte me lo chiedo. Perché tra tutti, hai scelto proprio me.”
 
Chrissy aveva piegato la testa di lato, come per studiarlo. Da dove saltava fuori tutta quella insicurezza? Così si era avvicinata ancora, abbastanza da incrociare le braccia dietro al suo collo, cercando i suoi occhi che sembravano fare di tutto per sfuggirle.
 
“Beh, facile. Perché cucini bene.”
 
“Non posso darti torto.”
 
Eddie non era riuscito a trattenere un mezzo sorriso che somigliava più a una smorfia. Percorreva la stretta spallina del suo vestito tra pollice e indice e lei si era ritrovata a inseguire il suo movimento con lo sguardo, anche quando, incontrando il grande fiocco sulla sua spalla, aveva aggrottato le sopracciglia perplesso.
 
“Detto da me non sembra un gran complimento vero?” aveva aggiunto lei, in un sospiro.
 
“No. Ma apprezzo la tua autoironia Cunningham, dico sul serio.”
 
Le aveva spostato una ciocca di capelli dal viso. Chrissy non aveva mai desiderato niente per sé stessa, eppure lui era la sola cosa che aveva fatto di tutto per avere. A tal punto da cambiare per sempre, stravolgere la sua vita.
 
“E comunque Eddie, Steve non è il mio tipo.”
 
“No?”
 
“No.”
 
“Lo immaginavo. Hai pessimi gusti in fatto di uomini. Guarda Carver per esempio…”
 
E poi l’aveva guardata dall’alto al basso con quegli occhi resi ancora più scuri dal buio. La sua bocca si era piegata in quello stupido sorriso. Chrissy poteva sentirlo sogghignare dietro il suo orecchio, sempre più giù. E aveva finito per sorridere anche lei.
 
 
New York
Ottobre 1987
 
“Dovresti dargli una possibilità lo sai?”
 
Chrissy e Diana si abbassano all’unisono per sbirciare oltre la finestrella del pass che separa la cucina dalla sala.
Il “tipo del cane”, così lo hanno soprannominato senza troppa immaginazione, è lì anche oggi. Come ogni fine settimana da qualche tempo a questa parte se ne sta seduto al tavolo con un caffè davanti e il New York Times tra le mani. Il suo povero amico a quattro zampe sarà come al solito in attesa, accucciato fuori dalla porta del ristorante.
 
Chrissy rivolge alla sua amica uno sguardo innocente, per poi continuare a riempire le bottigliette di ketchup appoggiate sul vassoio davanti a lei. “Guarda che gliel’ho data la possibilità.”
 
“Di cosa stai parlando scusa? Di quella volta che gli hai servito il caffè, lui ha attaccato bottone e tu l’hai piantato in asso dopo… quanto? Cinque minuti?”
 
“Esatto.”
 
“Non è quello che intendevo. E comunque, che impressione ti ha fatto?”
 
“Non è male.”
 
“Dio, quanto entusiasmo. E?”
 
“E basta. Non mi ricordo neanche il suo nome.” ammette lei. “Ah, il cane invece si chiama Duggie.”
Diana alza gli occhi al cielo frustrata, si porta una mano alla fronte coperta dalla frangetta scura. Non prova neanche a nasconderlo: la reputa un caso disperato, ma non è certo una che si arrende facilmente.
 
“Hai visto?” le dice, indicando la finestrella incorniciata da mattonelle bianche. “Ha la felpa della Columbia. Il che significa che è anche ricco, oltre che bello.”
 
“Mi dispiace deluderti ma non è il mio tipo.”
 
“Come sarebbe a dire? A parte il fatto che non ho ancora capito quale sia il tuo tipo, non è che te lo devi sposare.”
 
Per tutta risposta, Chrissy le rivolge una smorfia scettica e continua il suo lavoro senza aggiungere altro. Diana sbuffa, delusa.
 
“Non mi sembra tu stia apprezzando il mio tentativo di dare una scossa alla tua vita. Non ti rendi proprio conto di quanto hai bisogno di me, eh?”
 
“In effetti… no.”
 
“A proposito, non è che potresti farmi un favore?”
 
Chrissy appoggia il barattolo del ketchup sul tavolo d’acciaio, piega la testa di lato. “Ci avrei scommesso. Mi pare che il bisogno sia reciproco.”
 
A quel punto Diana si è già pulita le mani sul grembiule e lo sta slacciando, pronta a sgattaiolare fuori dalla porta del retro prima che i suoi genitori possano accorgersene e rimproverarla. “Mi farò perdonare. Farò i piatti per una settimana.”
 
“Facciamo due.”
 
“Aggiudicato. Ti adoro.”
 
Quando la sua amica esce tutta sorridente dalla cucina, Chrissy si concede un’ultima occhiata verso la sala.
Il tipo del cane si guarda intorno come se avesse perso qualcosa, o qualcuno.
Dopotutto la sua coinquilina non ha proprio tutti i torti.
Potrebbe semplicemente uscire, sedersi accanto a lui con la scusa di versargli altro caffè.
Potrebbero parlare di Duggie, o del tempo, giusto per rompere il ghiaccio.
Potrebbe chiedergli di nuovo come si chiama e sforzarsi di ricordarlo, stavolta.
La radio sta passando l’ultima canzone dei The Cure. Chrissy si lascia avvolgere da quella dolce malinconia e si accorge che anche le zuccheriere hanno un gran bisogno di essere riempite.
Le chiacchiere invece possono aspettare ancora. Magari la prossima volta.
 
Sta per riempire l’ultima quando si sente chiamare dalla madre di Diana dall’altra stanza.
La vede affacciarsi alla porta, mentre con una mano copre la cornetta, il lungo filo teso che scompare dietro l’anta di legno. “È per te.” bisbiglia, con l’aria un po’ perplessa. È piuttosto insolito, in effetti, che qualcuno la chiami al lavoro. È piuttosto insolito che qualcuno la chiami e basta.
 
“Chi è?”
 
“Un certo Justin. Non ho capito bene…”
 
Chrissy si sforza di fare mente locale. Non le sembra di conoscere nessuno che con quel nome.
Forse un compagno di corso? E anche se fosse, perché dovrebbe cercarla al ristorante? È ancora sovrappensiero quando esce dalla cucina, afferra il telefono e si accorge che il tipo del cane la sta salutando con un cenno della mano e un sorriso a trentadue denti, a cui risponde con fare distratto.
 
“Pronto?”
 
“Chrissy! Ehi. Come va?”
 
Il suo cuore perde un battito, la sua mente corre veloce. La voce dall’altra parte è inconfondibile. “Dustin? Sei proprio tu? Ma… come hai fatto a…”
 
“Andiamo, dovresti conoscermi. Cosa vuoi che sia per uno come me recuperare un numero di telefono!” risponde lui, anticipandola come sempre.
 
“Oh… sì certo. In effetti hai ragione.”
 
“Comunque, l’ho chiesto a tuo fratello.”
 
“Dave. Giusto, come ho fatto a non pensarci. Hai fatto bene. Sono felice di risentirti.”
 
Il ragazzino resta in silenzio, così come lei.
Un silenzio che accompagna quel senso di ansia che sente crescere e risalirle alla gola, mentre appoggia le spalle al muro e si guarda intorno, come se temesse che qualcuno possa sentire quello che nemmeno lei ha il coraggio di chiedere.
 
“Va tutto bene Dustin? Stai bene? State tutti bene?”
 
“Sì, sì, diciamo di sì.”
 
Non sa perché ma ha l’impressione che ci sia qualchedi troppo in quella risposta. Chrissy stringe gli occhi.
Dentro di lei sente mescolarsi sollievo e qualcos’altro, sepolto da troppo tempo nella parte più nascosta dei suoi pensieri e nei suoi ricordi, ma ancora abbastanza vivo da farle male.
 
“Allora dimmi. A cosa devo l’onore di questa chiamata?”
 
Dustin si schiarisce la voce e lei riesce a vederlo, proprio come se lo avesse lì davanti.
Dev’essere cresciuto parecchio, ma non abbastanza da aver abbandonato il suo onnipresente cappello e quelle camicie dall’aspetto improbabile.
 
“Chrissy, è successa una cosa che credo vorresti sapere. Credo che dovresti… dovresti tornare a Hawkins.”
 
 
 
*****
Nota autrice: un grande grazie a chi arriva a leggere fino a qui. Mi rendo conto che non sia proprio semplicissimo e forse un po’ noioso viste le mie divagazioni e la distanza che tutto questo prende dalla serie. Dunque, grazie di cuore per la pazienza. A presto!

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Capitolo 4
*** You've grown up, baby queen ***


Nota autrice: è triste, ma poi migliora. Promesso :)
 
Hawkins
Ottobre 1987
 
“Che ci fai ancora qui? Credevo te ne fossi andato.”
 
“No. Dovevo solo fare… una telefonata.”
 
Eddie solleva la testa che teneva tra le mani e rivolge a Dustin un’occhiata annoiata. “Voi ragazzini non avete programmi per stasera?”
 
“Eddie…”
 
“A quest’ora tua madre avrà già chiamato la polizia. Vai a casa.” lo rimprovera.
 
La sua voce è stanca, poco incisiva, mentre si volta verso la grande porta rossa, l’unica nota di colore in quella stanza così fredda, una scatola vuota con le pareti bianche e asettiche, illuminate dalle luci al neon.
Sono ore che la fissa, con i suoi piccoli oblò e tutti quei cartelli appesi, perlopiù divieti, aspettando che qualcuno varchi la soglia. Quasi non si accorge quando il suo piccolo amico si avvicina per sedersi lì accanto, prendendo posto su una delle poltroncine disposte in fila.
 
“Hai bisogno di dormire, Ed.”
 
Il suo tono pieno di saggezza, quasi fosse lui l’adulto tra loro due, lo fa sentire riconoscente, ma anche infastidito.
 
“Tra poco me ne vado. Tra poco, Henderson. Lasciami stare qui ancora un po’. Non è così male, dopotutto.” gli risponde, nel modo più rassicurante che gli riesce.
 
Anche se odia ammetterlo, Dustin ha ragione. Dovrebbe dormire, fare un pasto decente.
Non succede da troppi giorni e ne ha davvero bisogno. Solo che ancora non gli va di andarsene.
Nella sua testa continuano a girare parole a vuoto, le stesse frasi confuse che ha sentito pronunciare al telefono dal caporeparto della fabbrica dove suo zio si è spaccato la schiena per più di metà della sua vita.
 
La caduta, l’emorragia.
La terapia intensiva, la possibile operazione.
 
Niente a cui sia mai stato minimamente preparato.
Quando qualcuno gli chiede della sua famiglia, è di Wayne che parla, dei suoi modi bruschi, della sua passione per la pesca e per il baseball. A pensarci bene non hanno poi tanto in comune, eppure suo zio si è sempre preso cura di lui, a modo suo. Per questo quando ha ricevuto quella telefonata si è messo alla guida, senza mai fermarsi. Come un automa, come se fosse anestetizzato. Senza riuscire a provare niente, il che è piuttosto strano per uno come lui, che ha passato la vita a sentirsi eccessivo, sopra le righe, dilagante in tutto.
 
“Ehi, Eddie.”
 
“Che c’è ancora?”
 
“Prometti di non incazzarti con me?”
 
“Spiegati meglio.”
 
“Niente, dico in generale. Tu prometti e basta.”
 
“Ok, come vuoi. Non ho intenzione di farlo, se è questo che vuoi sentirti dire. Ma ora sparisci.” ripete lui senza riflettere, agitando una mano in aria.
 
Più tardi, dopo aver parlato con l’infermiera, si convince a tornare a Forest Hills per provare a riposare qualche ora.
La situazione è stabile, i dottori non hanno ancora deciso, gli ha detto, con quell’espressione materna a cui non riesce ancora a fare l’abitudine. Lungo il tragitto Eddie riprende confidenza con le strade di Hawkins, ritrovandole esattamente uguali a come le ha lasciate. Si era ripromesso di non mettere più piede in quella città e ora si maledice per non averlo fatto più spesso, per non aver chiamato di più, per non essersi preoccupato abbastanza.
Quando parcheggia e infila le chiavi nella serratura, i rimproveri di Wayne gli invadono la mente come se fossero rimasti lì per tutto il tempo, impigliati tra le lamiere e la ruggine del vecchio caravan che gli ha fatto da casa per anni.
 
Quanto cazzo hai fumato.
 
Vattene a scuola una benedetta volta.
 
Non fare tardi.
 
Cristo, cosa darebbe adesso per poter ingannare il tempo, sentirsi sgridare ancora.
Quando varca la soglia il confine tra passato e presente sembra svanire. Tutto è al proprio posto, come al solito, quasi come quella vecchia baracca stesse aspettando indifferente il ritorno di suo zio, e il suo.
Anche la sua stanza è uguale a come l’ha lasciata l’ultimo giorno, comprese le scatole accatastate accanto al letto. Frugandoci dentro, Eddie riesce ancora a sentirla, la debole scia di quel profumo, che gli penetra nelle narici come una cura.
 
 
Hawkins
Settembre 1986
 
Il destino aveva voluto che il suo ultimo giorno a Hawkins fosse un martedì.
E il martedì significava solo una cosa: suonare all’Hideout. Solo che quella sera sarebbe stata l’ultima volta, la fine di tutto ciò a cui teneva di più. E l’inizio di qualcosa di nuovo e sconosciuto, che aveva atteso per tanto tempo, sicuro che quella città rappresentasse la morte di tutti i suoi desideri.
Alla fine del concerto lui e i ragazzi si erano abbracciati per la prima volta: era stato breve, strano, anche abbastanza inquietante, ma necessario.
Era la fine di un’era, di un sogno in cui si erano rifugiati per anni per combattere la loro solitudine, per sentire che anche loro erano parte di qualcosa. E lui non era ancora pronto a rinunciare a quel qualcosa.
 
Lei era lì, era stata lì tutto il tempo. Delicata e fragile, forse un po’ imbarazzata. Totalmente fuori contesto e ancor più meravigliosa proprio per questo. Aspettando paziente mentre lui smontava gli strumenti e li caricava nel furgone per l’ultima volta, fermandosi di tanto in tanto per salutare qualcuno che probabilmente non avrebbe più rivisto.
Mentre lo faceva, Eddie la teneva sempre sotto controllo, come se temesse che potesse sparire troppo presto.
E poi l’aveva presa per mano, senza mai lasciarla nemmeno mentre si rovistava nelle tasche alle ricerca delle chiavi di quella che, da poco tempo, era la casa di entrambi.
Una volta dentro era rimasta immobile, appoggiata alla porta d’ingresso che la incorniciava come fosse un dipinto, le mani dietro la schiena e gli occhi fissi sui pochi bagagli già pronti per il giorno seguente, accatastati vicino alla poltrona.
Non gli era sfuggita, quell’ombra nella sua espressione.
 
“Hai… preso tutto?” le aveva chiesto, camminando avanti e indietro nel minuscolo ingresso con le mani affondate nelle tasche nei jeans, nel disperato tentativo di non gesticolare.
 
“Credo di sì.” aveva annuito, incerta. “Wayne sarà contento eh? Finalmente gli lasciamo campo libero.” aveva aggiunto poi, sforzandosi di scherzare.
 
Eddie avrebbe voluto dimostrarsi sicuro. Invece aveva sollevato un angolo della bocca, in uno stupido ghigno pieno di incertezza che faceva trapelare tutta la sua frustrazione.
 
“Già. Non vedeva l’ora che ci levassimo dai piedi. E anche io, a dire la verità.”
 
“Ah sì?”
 
“Certo. Hai idea di quanto ti muovi nel sonno?”
 
“Senti chi parla.”
 
“E hai un sacco di roba. Gesù, non ci si passava più in camera mia con tutte le tue cose. Cominciavo a non poterne più.”
 
Lei aveva scosso la testa, nascondendo un sorriso. Illuminata dalla debole luce del soggiorno, il petto che si alzava e si abbassava al ritmo del suo respiro impedendogli di ragionare, lo faceva sentire il più fortunato e il più miserabile bastardo della terra allo stesso tempo.
 
“Sul serio, come ti senti Chrissy?”
 
“Spaventata.”
 
Le aveva accarezzato il viso, con la consapevolezza che poteva essere l’ultima volta in cui lo faceva, sfiorandole le labbra con il pollice mentre le lo osservava sotto le sue lunghe ciglia.
 
“Anche io.”
 
“Davvero?”
 
“Sì. Sto solo cercando di fingere.”
 
L’aveva baciata, leccando nella sua bocca, sulla pelle accaldata del suo collo. Guardandola, come se gli occhi potessero dirle tutto quello che le parole non riuscivano.
 
Non te ne andare.
Ho paura. Paura che non tornerai mai più.
 
Spostando la mano che teneva aggrappata al suo fianco era sceso fino a sollevarle la gonna.
Le sue dita avevano incontrato la stoffa della sua biancheria e avevano scoperto qualcosa di diverso da quello che indossava di solito.
 
“Cunningham, mi meraviglio di te. Avevi già deciso come concludere la serata.”
 
“Non so di cosa stai parlando.” aveva risposto lei, sforzandosi di rimangiarsi un sorriso.
 
Aveva spostato le dita oltre quel tessuto ruvido. E lei era così bagnata, un regalo solo per lui ancora per un giorno, che non attendeva altro che essere scartato. Aveva spinto le sue dita dentro di lei. Voleva darle qualcosa di ricordare, anche quando sarebbe stata nel posto più lontano del mondo, con chiunque. Era un pensiero stupido, lo sapeva, ma non poteva farne a meno.
 
E all’improvviso, quella maledetta sensazione. La voglia di scappare a gambe levate, per non sentirsi così debole.
Il terrore di essere perso lontano da lei, lei che presto si sarebbe accorta che c’era un mondo, là fuori, che la stava  aspettando e poteva offrirle molto di più di quel poco che lui aveva da dare.
E lui odiava sentirsi così, odiava pensare di non essere abbastanza. Detestava quel senso di sfiducia e di solitudine che per fin troppo tempo aveva fatto parte della sua vita e che era sempre stato determinato a cancellare.
Anche se sapeva che, almeno in quel caso, era il segnale della sua esigenza più urgente.
 
Ti amo così tanto da avere paura. Paura che tutto questo possa uccidermi.
Dopotutto sarebbe stato un bel modo per morire. Una cosa molto cool da scrivere sulla sua lapide.
Glielo avrebbe voluto dire, ma non era abbastanza coraggioso per farlo.
Lui che la spronava a comunicare, a tirare fuori il suo dolore, a fare le sue scelte, non era nient’altro che un codardo.
Chissà se lei lo aveva già capito.
 
Aveva spinto un altro dito dentro di lei, sempre più a fondo, trovando il ritmo che aveva fatto tremare le sue gambe, rendendola instabile tra le sue braccia. Soffocando i suoi respiri nella sua bocca, costringendola a nascondere il viso nell’incavo del suo collo, tra i suoi capelli.
 
“Guardami.” le aveva chiesto.
 
“No, per favore.” aveva bisbigliato lei.
 
“Guardami, voglio vederti.” Più che un ordine, suonava come una dannata preghiera.
 
I suoi occhi avevano il colore del cielo dopo una tempesta.
E aveva capito. Per lei valeva la pena di essere rischiare, anche se il rischio era quello di essere vulnerabile, come non lo era mai stato. Le avrebbe dato qualcosa da ricordare? Si stava raccontando una bugia.
Era lui ad averne bisogno. Sarebbe stato lui a ricordarsi di quel momento, del suo viso, per sempre.
 
 
Eddie tamburella le dita sulla stoffa consumata dei suoi jeans scuri e getta un’altra occhiata alla maledetta finestra a forma di oblò dal quale non si affaccia nessuno da ore.
Dalle grandi vetrate della sala entra l’autunno. È già quasi buio quando si alza per sgranchirsi le gambe, con un disperato bisogno di fumare. Il pacchetto di sigarette, gettato sulla sedia lì accanto, è ormai praticamente vuoto.
Ne afferra una, la lascia pendere dalle labbra, imprecando fra i denti contro il dannato accendino che non è mai al suo posto quando serve. Quando finalmente lo trova e sta per uscire, lei è lì, sulla porta. È costretto sbattere le palpebre un paio di volte per essere sicuro che non sia solo il frutto di un’allucinazione.
Ma Chrissy è lì, con le braccia incrociate, avvolta da un cappotto scuro e una sciarpa colorata e lui riesce solo a fissarla come un idiota. Dopo tutto il tempo in cui se l’è portata dentro, eccola lì. Sempre lei, eppure così diversa.
 
“Ciao.” gli dice. “Ti trovo bene, Eddie.”
 
“Sul serio?”
 
Chrissy scuote la testa, agitando la solita coda alta in cui ha raccolto i capelli. “No. Sto solo cercando di capire se l’adulazione funziona ancora con te.”
 
Lei sorride e lui con lei, per la prima volta dopo tanti giorni. “Cosa ci fai qui? Hai deciso di fare una gita in città per Halloween o…”
 
“Dustin.”
 
Rimangono in silenzio, per un minuto buono. Scrutandosi a distanza di sicurezza, lui con le mani infilate nelle tasche, lei immobile come fosse paralizzata. In imbarazzo come non sono mai stati, nemmeno la prima volta che si sono incontrati al tavolo da pic-nic nel bosco.
 
“Non so cosa dire, e lo sai che non mi capita spesso.”
 
Chrissy diventa seria, un’ombra le attraversa lo sguardo. “Allora non dire niente, Eddie. Davvero. Non sono qui per questo. Sono qui perché lui… è stato un padre per me, quando avevo bisogno di un padre. Anche se per poco tempo.”
 
Lui sente pungere agli angoli degli occhi, come se quelle parole avessero aperto la porta a qualcosa sepolto molto in fondo ai suoi pensieri. Chrissy sembra accorgersene. Lo capisce dall’espressione lacerata sul suo viso, da quella mano che sembra volerlo raggiungere, ma poi si ritrae.
 
“Eddie, vieni?”
 
Il tempismo, nemmeno questa volta, sembra essere loro alleato. L’infermiera lo osserva con un sorriso di circostanza, ma ben allenato a dimostrare compassione. È costretto ad asciugarsi gli occhi con il dorso della mano prima di voltarsi.
 
“Arrivo.” risponde. Un secondo dopo il suo sguardo è di nuovo su Chrissy.
 
“Resti qui o…”
 
“Ok.”
 
La guarda un’ultima volta, prima di scomparire dietro la grande porta rossa.
 
 
 
Più tardi, quando esce dal reparto, si ritrova nella sala vuota. Chrissy è sparita nel nulla.
Allora percorre i gradini di corsa, esce dall’ospedale, lo sguardo che si muove tra i passanti e le auto parcheggiate lungo la strada. Ma lei non se n’è andata davvero, non questa volta. È seduta su una panchina del cortile, immersa nell’aria pungente della sera. La prima cosa che fa quando si siede accanto a lei è accendersi una sigaretta, quella che avrebbe voluto fumare già da un po’.
 
“Non è che me ne offriresti una?” gli chiede.
 
“Sei sempre la solita scroccona, eh Cunningham?”
 
“Cosa vuoi farci, certe cose non cambiano mai. Allora, ci sono novità?”
 
Eddie prende una lunga boccata prima di rispondere. “Domani. Lo operano domani.”
 
Per un po’ nessuno dei due parla, e Eddie sa che non è solo per via di Wayne.
Mentre lei continua a fumare in silenzio, lui si passa una mano tra i capelli almeno una mezza dozzina di volte.
Ha trascorso un anno a chiedersi cosa Chrissy stesse facendo, se stesse bene, e adesso che se la ritrova lì vorrebbe non aver lasciato scorrere il tempo, vorrebbe non aver allentato la presa permettendo ai loro giorni migliori di sbiadire.
E quello che vorrebbe più di ogni altra cosa è dirglielo, invece di restare lì come un coglione a lasciare che il silenzio si porti via ogni secondo di più quello che sono stati. Quando si volta per farlo però, lei lo sta guardando, gli occhi spalancanti nei suoi. Nella sua espressione c’è qualcosa che non ha mai visto prima.
 
“Ok, Eddie, senti. Lo so che ti ho detto che non ne volevo parlare ma non ce la faccio. Ho smesso di tenermi dentro quello che mi fa male. E tu mi hai fatto male, cazzo. Ho passato mesi a darmi della stupida, perché è vero che non ci eravamo promessi niente ma tu mi hai detto una bugia.”
 
“Che cosa?”
 
“Hai sentito bene. Hai fatto l’unica cosa che mi avevi promesso di non fare. Sei scomparso, mi hai mentito sulla cosa più importante. Ma è ok, davvero, l’ho accettato. E ora che te l’ho detto sto decisamente meglio e… si può sapere cos’hai da ridere?”
 
“Non sto ridendo.” le risponde, sforzandosi di tornare serio.
 
“Sì invece, stai sghignazzando e mi dai sui nervi, se lo vuoi sapere. Allora, cosa c’è di così divertente?”
 
“Niente. Solo che… sei cresciuta, Chrissy Cunningham. E io sono fiero di te.”
 
Chrissy si stringe nel cappotto, le guance arrossate. Forse è per il freddo, di certo è così.
Eddie si alza dalla panchina, si passa una mano tra i capelli per l’ennesima volta.
 
“Sai che ti dico? Mi è venuta una gran fame. Ti va di farmi compagnia? Ho davvero, davvero bisogno di passare un po’ di tempo insieme a te.”
 
Lei alza gli occhi al cielo, per poi posarli nei suoi. Il solito mare in tempesta, e qualcosa di caldo. Per la prima volta quella sera, gli sembra di rivederci dentro la sua anima.

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Capitolo 5
*** Dreamers, they never learn ***


Seduta sulla panchina di fronte all’ospedale, Chrissy osserva Eddie dal basso, la sua figura allungata che la sovrasta, in attesa di una reazione. Sembra a pezzi, preoccupato come non l’ha mai visto. Deve raccogliere tutto il suo coraggio per riuscire a parlargli.
 
“Non mi muovo da qui fino a che non mi dici la verità.” gli mormora, gli occhi fissi nei suoi.
 
Se ne pente un secondo dopo, sentendosi una bambina stupida e petulante.
Sa che non è il momento giusto, che c’è Wayne, che lei non può e non deve essere una priorità. 
Ma c’è una parte di lei, una parte che ha iniziato a conoscere da poco, che non può farne a meno.
 
Ha sempre odiato discutere e ha sempre evitato di farlo, da che ha memoria.
Per anni ha schivato ogni motivo di contrasto con sua madre, sforzandosi di non ribattere perfino quando la umiliava con le sue osservazioni, a volte sottili, altre decisamente meno. Al liceo si è tenuta alla larga da ogni litigio, troppo impegnata nella sua costante rincorsa della perfezione: i voti alti che non erano mai abbastanza buoni, gli allenamenti in cui dava il massimo, perché doveva diventare capo cheerleader, i suoi impegni sociali, perché la sua vita non era mai abbastanza piena. E Jason, che la voleva esattamente così. Una stupida bambina che non ribatteva mai, che non usciva mai dal seminato, senza pensieri e opinioni proprie, a cui non era richiesto altro che mantenere un bel sorriso stampato sulla faccia – sforzandosi di non sorridere troppo, ovviamente – perché in fondo era una cheerleader, era popolare, e questo doveva bastare a renderla felice.
Ha impiegato mesi per accettare che non era colpa sua. E ora che ha dato voce a quella parte di lei, non è più in grado di metterla a tacere.
 
Eddie sembra sorpreso, ma anche compiaciuto. “Quando sei così impositiva ti adoro.” le risponde. È ironico, ma non del tutto.
 
Lei lo guarda in cagnesco. “La vuoi piantare?”
 
“Di fare cosa?”
 
“Questo. Fingere che non sia successo niente. Voglio davvero starti vicino, non sarei qui altrimenti. E lo farò sempre se vuoi…”
 
“…ovviamente lo voglio.”
 
“Ma tu devi essere sincero con me. Perché sei sparito? Ho bisogno di saperlo.”
 
Quando si siede accanto a lei lo sente, quel un respiro profondo che si trasforma in fumo bianco nell’aria fredda della sera. Intravede la sua espressione seria, oscurata dal buio, con i fari delle auto che di tanto in tanto gli illuminano il viso.
Le sue mani tormentano la stoffa sfilacciata dei jeans.
 
“Credo di aver perso la strada. Per un po’.”
 
“Cosa significa?” ribatte, frustrata. È la prima volta in vita sua in cui è costretta a tirargli fuori le parole di bocca. “Non capita a tutti a vent’anni?”
 
“Forse. Il fatto è che stava andando tutto male. Non siamo riusciti a riformare la band, nessun posto ci faceva suonare e tantomeno ci pagava. Siamo rimasti a piedi per un sacco di tempo, Gareth se n’è andato e mi sono ritrovato da solo come un coglione, senza sapere che diavolo fare. Ho smesso di suonare, di fare tutto quello che mi piace. Non c’era una sola cosa che andasse per il verso giusto.”
 
“L’ultima volta mi avevi detto che…”
 
“Non era vero.”
 
“Perché lo hai fatto?”
 
“Beh, a te le cose stavano girando bene. Non mi andava di essere la tua causa persa.”
 
“Potevi lasciar decidere me. L’hai sempre fatto. Perché stavolta no?”
 
“Non lo so. Credo che una parte di me non riuscisse ad ammettere di essere il fallimento che tutti si aspettavano. E poi… non volevo che la mia felicità dipendesse solo da te.”
 
Chrissy preme le unghie contro il palmo della mano fino a far comparire delle mezze lune sulla pelle.
Quando ritrova i suoi occhi, scuri nella notte, sono pieni di quell’intensità capace di farla fremere dentro la giacca.
 
“Perché dovrei crederti?”
 
“Perché non ti mentirei mai.”
 
“Hai appena detto di averlo fatto.”
 
“Tecnicamente no. Più o meno. Magari un po'. Ho solo evitato di metterti al corrente che la mia vita era diventata un completo disastro, più di quanto non fosse mai stata.”
 
Lei rimane in silenzio, senza capire se quella giustificazione la soddisfa, se è abbastanza.
 
“C’è altro che vuoi sapere Cunningham?”
 
“Non adesso. Adesso andiamo. Ho fame.”
_
 
Le strade di Hawkins sono semibuie, avvolte in una nebbiolina che le solletica il naso. In giro poca gente a piedi e qualche auto. Le foglie secche scricchiolano sotto le sue scarpe e Chrissy si ritrova a pensare che in fondo anche lei e Eddie sono due strade parallele, che solo per poco tempo hanno viaggiato in una sola direzione.
Mentre camminano fianco a fianco non sa bene cosa dire.
Si stringe nel cappotto, pensando a quante volte ha immaginato il giorno in cui si sarebbero incontrati di nuovo.
A volte con speranza, altre con rabbia, spesso con rassegnazione. Quante volte la porta del ristorante si è aperta, e ha sperato fosse lui, per dirle Ehi, sono qui, non ho dimenticato.
In fondo, le bastava questo.
In qualunque modo avesse deciso di far parte della sua vita lo avrebbe accettato. Quello che non avrebbe mai immaginato, che non avrebbe mai voluto, è che il rivedersi costasse il dolore di una persona così importante per entrambi. Sbircia di nuovo, lo vede camminare pensieroso al suo fianco. Capisce che non ha senso rimuginare su quello che è stato o non è stato. Che non c’è niente di giusto o sbagliato da dire. Ora c’è solo una cosa che conta davvero.
 
“Andrà tutto bene, lo sai?”
 
“Lo pensi veramente?”
 
“Deve essere così.”
 
Lui guarda davanti a sé, affonda le mani nella giacca, sempre la stessa. “Hai ragione, deve. Lui è… non farmi dire tutte quelle cose ovvie sulla famiglia che non ho mai avuto, per favore.” le risponde, agitando una mano davanti a sé con la faccia disgustata.
 
“Lo so.”
 
“Quando tornerà a casa gliela farò pagare.”
 
La guarda e lei lo ricambia, felice di scorgere nei suoi occhi un po’ di fiducia.
_
 
Mentre aspetta che lui ritorni con il cibo che hanno ordinato, Chrissy osserva una comitiva di studenti prendere posto poco distante. I suoi occhi si posano sulle gambe sottili di una delle cheerleader, che indossa un’uniforme identica a quella rimasta appesa nella sua stanza ormai diversi mesi fa.  Eddie arriva al tavolo, interrompendola giusto un attimo prima che inizi a scivolare in una spirale di pensieri senza senso. Quando consumano la loro cena non può fare a meno di notare l’espressione soddisfatta che gli si dipinge in volto quando la vede intingere le patatine nel ketchup, sgranocchiandole allegramente mentre gli racconta del ristorante e di tutte le cose che ha imparato a fare in quei mesi.
 
“Stai molto bene.” lo sente dire. Il modo in cui lo fa la riscalda dentro, eppure non basta a non farle prendere in considerazione l’ipotesi che quelle parole siano solo un modo gentile per dirle che è ingrassata.
Si chiede se magari ora, così, la trovi meno attraente, e quel pensiero non le piace.
Forse perché è consapevole del fatto che si tratta di uno strascico dei suoi fantasmi; forse perché ci tiene ancora, al fatto che lui la trovi bella. E lo sa, quanto tutto questo sia sbagliato.
 
“Ci è voluto un po’ in realtà a sistemare le cose.” minimizza, sforzandosi di scacciare quel pensiero.
 
“E ora? Sei felice Chris?”
 
Glielo chiede a bruciapelo, costringendola a riflettere su una domanda che negli ultimi tempi non ha mai avuto il tempo di porsi.
 
“Credo di sì. La maggior parte del tempo. Insomma, ho iniziato il college, ho un lavoro, ho nuovi amici.”
 
“Amici?” le chiede, allungando una mano sul suo viso. Le passa il pollice all’angolo della bocca, portandole via quello che si rende conto essere del ketchup. Mentre lo fa la guarda con quegli occhi, quegli occhi. Quelli di cui conosce ogni sfumatura, troppo grandi per la sua faccia, si trova a pensare, mettendo tutto l’impegno che le riesce per trovargli dei difetti.
 
“Non fare così, Eddie.”
 
“Come così?” le risponde, con aria innocente, come se fosse un cerbiatto e lei un tir pronto a investirlo.
 
“Come se fossi una cosa tua.”
 
Lui spalanca gli occhi e alza le mani in segno di resa, in quel modo scenografico che la fa incazzare a morte.
Un attimo dopo però la sua espressione si addolcisce.
 
“Tu non sei mai stata una cosa mia. Né mai lo sarai. È solo che…” prosegue, un po’ incerto “quando ci siamo incontrati, sentivo di poterti dare qualcosa che gli altri non potevano darti. La fiducia di cui avevi bisogno. Che potevo salvarti, in un certo senso. Dio sa se lo meritavi. E poi…”
 
“E poi cosa, Eddie?” lo incalza, sicura che quello che sta per dire sia qualcosa di importante. Lui esita, come se stesse riordinando i pensieri, le labbra socchiuse, il pollice che percorre con insistenza un punto del tavolo in cui la vernice è rimasta scheggiata.
 
“In questi ultimi mesi sentivo di non avere niente da darti. Stavo male, ma non è solo questo. Tu potevi avere di meglio, continuavo a pensarlo. Lo penso ancora.” spiega, incrociando i suoi occhi. “E così per non affrontare l’inevitabile agonia di perderti, mi sono allontanato da te. Geniale vero?”
 
Chrissy vorrebbe rispondere, ma le parole le muoiono sulle labbra. Non trova di meglio da fare che rigirarsi la mollica del pane tra le dita, contemplando il suo hamburger con esagerato interesse. Eddie il suo lo ha finito da un pezzo. L’appetito che lo contraddistingue è rimasto quello di sempre. Quando ritrova il coraggio di guardarlo lui la fissa come se volesse leggere dentro i suoi occhi, e ancora più oltre.
 
“Parlami un po’ di questi amici.” le chiede, un che di autoritario nella voce.
 
Qualcosa è cambiato in lui. Qualcosa che, inspiegabilmente, le provoca una sensazione piacevole al centro dello stomaco. “Beh, c’è Diana, la mia coinquilina. Ti ricordi no?” risponde, fingendo un’aria totalmente disinteressata.
 
“Quella svitata?”
 
“Sì. È convinta che tu non esista ma a parte questo… credo che ti piacerebbe.”
 
Eddie aggrotta le sopracciglia, come se non capisse fino in fondo quell’affermazione.
Esita un attimo, tornando subito dopo a concentrarsi su di lei.
 
“E poi?”
 
“Che c’è stai cercando di capire se esco con qualcuno?”
 
“Non posso nasconderti niente, Cunningham.” le risponde, spalancando gli occhi come a voler sottolineare l’ovvio.
 
Chrissy si schiarisce la voce, porta le mani sotto al mento, sforzandosi di reggere il suo sguardo indagatore.
 
“Si chiama Duggie.”
 
“Che razza di nome è Duggie?” lo sente tossire, e quasi si strozza mentre sta bevendo.
È costretta a nascondersi dietro alla mano per non fargli notare il sorriso compiaciuto che automaticamente le si dipinge in faccia.
 
“Lascia perdere… comunque. Va alla Columbia.”
 
“Duggie eh...”
 
Chrissy sente le guance scaldarsi, fa scorrere le dita lungo l’orlo della sua camicia, che lascia intravedere una spruzzata di lentiggini che scendono sul suo collo. Decide tra sé e sé che è molto meglio cambiare discorso.
 
“Basta parlare di me. Dimmi di te.” gli chiede, cercando di condurlo in un terreno di conversazione meno imbarazzante.
 
Lui si gratta la testa, come fa sempre quando è nervoso. Si lascia scappare un sospiro.
 
“Per qualche mese è stata dura, davvero dura. Non avevo niente, nemmeno i soldi per mangiare.”
 
“E?”
 
“Mi sono rimboccato le maniche e ho tenuto duro. Sono rimasto ad Atlanta per un po’ facendo di tutto, dal lavapiatti al tuttofare in officina.”
 
“Molto sexy.” scherza lei, continuando a sgranocchiare le sue patatine fritte. Lui alza un sopracciglio, sembra piuttosto appagato da quella sua osservazione.
 
“Mi sarei venduto anche un rene pur di non tornare a Hawkins.”
 
“E adesso? Sei felice, Eddie? Perché a me sembra che tu lo sia.”
 
Lo vede passarsi una mano tra i capelli, mentre qualcosa cambia nella sua espressione, che diventa un misto di orgoglio e imbarazzo. “Credo di sì. La maggior parte del tempo. Sto a Chicago da un paio di mesi. E ho trovato un lavoro molto figo, uno vero cazzo. Non… beh, lo sai. Quello per cui ci siamo conosciuti.”
 
“Di cosa si tratta?”
 
“È un negozio di dischi. Lo so, ne avevamo parlato e adesso è tutto vero. Ho imparato anche ad aggiustare qualche strumento, quasi tutte chitarre, in realtà. La cosa migliore di tutte è che ho ricominciato a suonare. Come turnista, per adesso, il che non è esattamente la mia massima aspirazione. Ma mi pagano. Soldi veri. Non molti, ma…”
 
Mentre parla, aggiungendo particolari sul suo capo, un tipo che – a quanto dice, pare abbia conosciuto Al Jourgensen di persona, il che lo rende una specie di leggenda ai suoi occhi – Eddie non fa altro che gesticolare, perdendosi nei suoi discorsi come fa quando è davvero entusiasta di qualcosa.
 
“È fantastico. Dico davvero.”
 
“Già. Lo è. Lo è.”
 
“E che ne è stato della tua idea della Florida? Di andare a cercare…”
 
Chrissy vorrebbe rimangiarsi quella frase quando lo vede irrigidirsi e qualcosa di cupo si fa strada nel suo viso.
Se ne avesse voluto parlare lo avrebbe fatto lui stesso, pensa, dandosi mentalmente dell’imbecille.
 
“Scusa.”
 
“No è ok, è ok. Wayne mi aveva dato un indirizzo. Ci sono stato. L’ho vista da lontano, ha due bambini piccoli adesso, una bella casa. Una nuova vita. Me ne sono andato, fine della storia.”
 
Per un po’ rimangono in silenzio, ascoltando un disco anni ’50 che suona nel vecchio jukebox.
_
 
Hawkins è come è sempre stata. Un po’ sinistra nei giorni d’autunno, con i negozi semivuoti, la vita che scorre lenta e monotona, le poche distrazioni. Quando escono dal fast food, dall’altra parte della strada, Chrissy riconosce una vecchia amica di sua madre, che fissa lei e Eddie con gli occhi fuori dalle orbite. In fondo ad Hawkins tutti sanno tutto di tutti. Per molti loro sono ancora lo svitato e la cheerleader, forse lì resteranno sempre e solo questo.
 
“Certe cose non cambiano mai eh?” le dice lui, con un sorriso sghembo, come se fosse ancora in grado di leggere nei suoi pensieri, mentre si studiano l’un l’altra, senza sapere bene cosa dire o fare ora che il loro tempo insieme sembra essere arrivato alle battute finali.
 
“Penso me ne andrò a casa adesso.” borbotta, gli occhi fissi sulle scarpe da ginnastica. “Sai, dovessero chiamarmi dall’ospedale…”
 
“Certo.” annuisce lei, che nel frattempo si sistema meglio la sciarpa attorno al collo. Sente freddo, nonostante ormai si sia abituata alle temperature decisamente più rigide di New York.
 
“Tu…”
 
“Sto da Jessica. Non mi andava di tornare a casa… sai…”
 
“Lo so.”
 
Lo vede scostare alcune foglie secche dal marciapiede e poi allungare il braccio per appoggiarsi al palo della luce, lì accanto. Il suo tentativo di mostrarsi disinvolto non pare riuscirgli molto bene. D’altra parte nemmeno Chrissy sembra cavarsela poi tanto meglio.
 
“Allora, buonanotte. Ci vediamo domani, da Wayne.” farfuglia, voltandogli le spalle per incamminarsi senza nemmeno controllare di aver preso la direzione giusta. Riesce a fare appena tre passi prima di sentirlo pronunciare il suo nome.
 
“Ehi Chris.”
 
“Che c’è ancora?”
 
“Non andare da Jessica.”
 
“Perché?”
 
“Sarebbe troppo egoista dirti che è perché ne ho bisogno?”
 
Chrissy lo guarda, cerca di decifrare quelle parole che le bruciano nel petto, come una ferita piccola e fastidiosa che ha provato a ignorare, eppure è ancora lì.
 
“Sì.”
 
“Allora non te lo dico. Ma è così. E poi quella casa, insomma… casa mia, o meglio, la casa di Wayne. È ancora casa tua. Lo sarà sempre. Lo so che suona male, che sembra che io voglia approfittare della situazione per manipolarti, ma ti giuro che non è così.”
 
Più tardi, Chrissy si maledice in silenzio quando si ritrova sul sedile del van, la testa appoggiata contro il finestrino freddo, in cerca di un po’ di sollievo. Senza riuscire a smettere di respirare quell’odore familiare. Erba, tabacco, quel sapone orribile che Wayne evidentemente non ha mai smesso di comprare.
 
E poi la serratura del caravan, la chiave che come sempre fatica a entrare.
La poltrona in un angolo, il muro tempestato di cappellini da baseball. I due diplomi incorniciati, uno accanto all’altro.
Una pila di piatti sbeccati sul bancone della cucina, lo sgabello su cui faceva colazione ogni mattina con Eddie che, passando dietro le sue spalle, le lasciava un bacio tra i capelli costringendola a spingerlo via per non farla sentire in imbarazzo davanti a suo zio. Wayne, che le preparava il caffè e ogni tanto la convinceva a pescare dal barattolo dei biscotti, quelli che comprava apposta per lei, per invogliarla a mangiare un po’ di più e mettere un po’ di carne su quelle gambe scheletriche.
 
Senza che possa fare in tempo a rendersene conto, gli occhi le si riempiono di lacrime.
 
“Ti lascio la mia camera, io resto sul divano.” lo sente dire, quando tutto quello che vorrebbe è abbracciarlo, dirgli quanto le è mancato per tutto il tempo. È costretta a respirare a fondo prima di voltarsi, incrociando i suoi occhi neri nel buio della stanza, spezzato solo dalla luce ovattata della vecchia lampada nell’angolo.
 
“Buonanotte, Eddie.” gli sussurra.
 
È sicura che la veda, quella crepa nei suoi occhi, così come ha sempre visto quelle del suo cuore. In fondo è lui ad aver raccolto tutto ciò che era rotto dentro di lei, ad aver unito i pezzi con pazienza, incollandoli insieme uno per volta.
Sente la sua mano cercare la sua, le dita ruvide che la sfiorano, il calore del palmo a cui si abitua poco a poco.
 
“C’è ancora una cosa che non ti ho detto Chris.”
 
“Che cosa?”
 
“Non ti ho chiesto scusa. Mi ero promesso che sarei stato migliore degli altri, per te. Che non ti avrei mai fatto soffrire. Invece ho fatto un casino, e ho finito per farti del male. L’ho capito solo adesso e sai una cosa? Vorrei avere una macchina del tempo per tornare indietro. Tipo la DeLorean, ti ricordi?”
 
Lei si rimangia un sorriso, che si specchia nel suo.
 
“Davvero, vorrei tornare a un anno fa. Chiamarti ogni giorno, anzi, raggiungerti a New York, portarti dei fiori…”
 
“Per favore… non essere ridicolo.” lo interrompe.
 
“Cristo, hai ragione, niente fiori. È patetico.” le dice, portandosi una mano alla fronte. “Ok, allora… passeggiare con te, dormire con te, svegliarmi con te. Restarti accanto mentre tu diventi tutto quello che meriti di diventare, raggiungi i tuoi sogni uno dopo l’altro. Farti sentire la persona più amata del mondo, perché lo eri. Lo sei.”
 
Chrissy porta le loro mani unite contro il petto di lui, ritrae la sua. Scuote la testa.
 
“Buonanotte, Eddie.” ripete, senza permettergli di finire. È già andato troppo oltre, ed è troppo tardi. Troppo tardi.
Così si infila nella sua stanza, chiudendosi la porta alle spalle e restandoci appoggiata per un po’ fino a che il suo respiro torna a farsi normale, fino a che non ha più bisogno di tenere gli occhi chiusi e può guardarsi intorno.
Si sfila il cappotto e la sciarpa, appoggia tutto sulla sedia nell’angolo.
 
In mezzo all’odore di polvere c’è ancora una debole scia di quell’aroma di erba che impregna le tende e il tappeto.
Non molto è cambiato da quando condividevano quel minuscolo letto. Tra quelle pareti, c’è quello che rimane della Chrissy di un anno prima. Infila una mano in una delle scatole accatastate accanto al letto. Ci ritrova vestiti che non metterebbe più, libri che non comprerebbe. I resti di un passato che non le appartiene.
Si rende conto che nulla sarebbe successo, se quel giorno, al tavolo da pic-nic in mezzo al bosco, Eddie non avesse creduto in lei quando ancora nessun’altro lo aveva fatto prima. Se non avesse deciso di conoscerla, di accettarla, di salvarla.
 
Quando riapre la porta lui sta trafficando con una coperta sul divano. Ha tolto la giacca, che ora è un mucchio di stoffa lacerata e ferraglia sopra al tavolino del soggiorno, e indossa una maglia degli AC/DC che gli lascia scoperte le braccia, quella pelle chiarissima marchiata di inchiostro, tracce che Chrissy conosce a memoria mischiate a qualcosa di nuovo.
Rimangono per un po’ a studiarsi da lontano.
 
“Avanti, vieni.” gli dice, con un cenno della testa, le braccia incrociate sul petto.
 
Lui rimane imbambolato. “Sei seria?”
 
“Andiamo, te lo sto chiedendo, stupido.” gli risponde.
 
Quando si incrociano sulla soglia lui sembra volerla interrogare su quel cambio di rotta.
 
“Anche tu meriti di essere salvato. E puoi permetterti di sbagliare.” gli dice, prima ancora che lui le chieda spiegazioni.  “E comunque non significa che ti ho perdonato.”
 
“No?”
 
“Assolutamente no.”
 
Il vecchio materasso cigola quando lui si sistema dal suo solito lato, quello accanto alla finestra, facendole spazio, come se avesse paura di toccarla. Chrissy si stende davanti a lui lentamente, cerca il suo sguardo le mani che si aggrappano alla stoffa della sua maglia.
 
“Sarei troppo egoista se ti chiedessi di abbracciarmi?” gli dice, la voce che le esce in un sussurro.
Lo vede sollevare leggermente un angolo della bocca, la testa appoggiata sul cuscino, gli occhi dentro ai suoi.
 
“Sei testarda Cunningham. Sei anche un po’ prepotente, come sai. Ma non sei egoista.”
 
Chrissy incastra la testa sotto il suo collo e le gambe tra le sue. Il suo corpo lo conosce a memoria, reagisce alla sua presenza prima che la ragione possa intervenire.
Respira nella stoffa scura, lo sente fare altrettanto tra i suoi capelli, il petto che si solleva leggermente sotto le sue dita.
 
“Che buon profumo hai. Dio se mi sei mancata.”
 
Lei si lascia avvolgere nel suo abbraccio da quelle parole, come se fossero una carezza.
Chiude gli occhi, mentre si adatta al suo respiro, il corpo che si modella sul suo.
 
“Non è che poi Duggie è geloso? Cosa direbbe se sapesse che sei qui?”
 
Lei sorride, felice che lui non possa accorgersene. “Penso che scodinzolerebbe.”
 
“Che cosa?”
 
“Lascia perdere. Io non ci dormo, con Duggie, se lo vuoi sapere.”
 
Eddie si sposta leggermente indietro, quel tanto che basta per scoprire il suo viso. Sembra piuttosto perplesso.
 
“Si può sapere cos’ha che non va quel tipo?”
 
Chrissy stringe un po’ più forte la stoffa tra le dita, percorrendo la scritta con l’indice mentre riflette sulla risposta.
 
“Non ha niente che non va. Solo che… non è te.”
 
È sicura che lui stia sorridendo quando le preme le labbra sulla fronte, per poi spostarle sulle sue tempie, sul suo orecchio, sul collo. Lì dove può sentire il battito del suo cuore.
 
“Dormi adesso.” si affretta a dire, affondando la testa nel suo petto.
 
“Ehi Chrissy…”
 
“Che c’è.”
 
“Ti ricordi quella volta che Wayne è tornato prima dal lavoro e…”
 
Chrissy ringrazia il cielo che la stanza sia al buio, che lui non possa vedere il colore del suo viso in quel momento. “Ti prego. Non sono riuscita a parlargli per una settimana.”
 
Lo sente soffocare una risata. “Odio ammetterlo, ma non vedo l’ora che torni a casa, quel vecchio brontolone.”
 
“Lo farà. Presto. Dormi adesso.”
 
Hawkins, per Chrissy, è il passato. Un passato che ora guarda da lontano e sente distante, come se per diciott’anni avesse vissuto la vita di qualcun altro. Non ci ha mai pensato, al giorno in cui sarebbe tornata. Non ha mai pensato che si sarebbe sentita a casa. Eppure è questo ciò che prova adesso, ed è qualcosa che New York non le ha mai dato. Forse dipende dal fatto che in fondo è lì che è cresciuta, è lì che è cambiata. Forse dipende dal ragazzo che la sta stringendo, come se il tempo non fosse mai passato. Nonostante tutto.

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Capitolo 6
*** I'll be your mirror ***


Può sentirlo ancora, riempirgli la bocca e il cuore. È un sapore zuccherino, appagante, inaspettato.
Inizia sempre così, il sogno che lo rincorre ormai da mesi.
È un ricordo sfocato dei divanetti di fòrmica del bar in cui l’ha accompagnata mille volte a comprare le sigarette.
Quella mattina, insieme al solito pacchetto bianco e rosso avvolto nel cellophane, aveva chiesto anche un bicchiere di succo di frutta per lui. Non succedeva mai.
E l’aveva osservato tutto il tempo, con quegli occhi profondi e morbidi come il velluto, mentre lui faceva del suo meglio per berlo un sorso alla volta per far durare il più possibile quel momento. Aveva finito per buttarlo giù alla velocità della luce, senza riuscire a risparmiarsi, perché in fondo, già allora, risparmiarsi non era cosa per lui.
Sorridente, gli aveva allungato una moneta per prendere un giocattolo dal distributore lì accanto: una di quelle palline di plastica colorate di cui lui non sapeva bene cosa fare. In quel momento non era importante: era il dono più prezioso del mondo. Sembrava tutto diverso quella mattina, migliore. E Eddie era felice, davvero felice.
 
Il viaggio in auto era durato abbastanza, con il ronzio del vecchio motore e le buche sull’asfalto ad accompagnarlo in una sorta di dormiveglia. Se ne stava ancora così, steso sui sedili posteriori, quando lei aveva parcheggiato. L’aria gelata gli aveva procurato un brivido quando era scesa, allungandosi per sgranchirsi le braccia, con la sua grazia inconfondibile e i capelli scuri e lisci che le accarezzavano le spalle. Sul collo, dall’orlo del suo maglione, sbucavano ancora i segni giallognoli di un ematoma in via di guarigione. E lui lo sapeva, come se l’era procurato, ma nemmeno quella volta era stato in grado di impedire che accadesse.
 
Quando lei si era chinata per prenderlo, credendolo profondamente addormentato, l’aveva lasciata fare.
Gli piaceva sentire quel profumo speciale, inconfondibile.
E proprio come ogni figlio, gli piaceva stare tra quelle braccia sicure e amorevoli, alle quali si era abbandonato con fiducia.
 
Le molle del vecchio materasso, schiacciate dal suo peso, avevano emesso un cigolio poco accogliente, e la porta della stanza si era chiusa dietro le sue spalle.
Poteva ancora sentirla parlare.
 
“Aspetta almeno che si svegli.”
 
“Meglio di no.”
 
L’ultima volta in cui aveva sentito la sua voce, la prima volta che aveva sentito quella di suo zio.
Eccolo lì, proiettato nel futuro scelto da qualcun altro, la cosa migliore che la vita poteva offrirgli in quel momento, qualcosa di cui in fondo avrebbe dovuto essere grato.
 
Eddie spalanca gli occhi, ed è ancora in quel letto. Ogni volta che quel sogno torna a fargli visita si fa strada dentro di lui come l’aria fredda che proviene dalla vecchia finestra che nessuno ha mai riparato.
Il sole sta sorgendo dietro gli alberi, è la prima cosa di cui si rende conto. La seconda è che è solo.
Quando esce dalla stanza l’odore della polvere che Wayne usa da una vita per il bucato gli penetra nel naso, come se lui fosse tornato, come se nulla fosse successo. I vestiti puliti sono piegati in una pila ordinata, sul divano. Chrissy non c’è.
Ha il cuore che gli batte in gola, nelle tempie, quando apre la porta e la ritrova fuori, seduta sotto il portico.
Si passa una mano tra i capelli, tentando invano di mascherare la sua apprensione con l’indifferenza.
 
“Ah, sei qui.”
 
Chrissy si volta piano, come se anche lei si stesse risvegliando da un sogno. “Perché, credevi che me ne fossi andata?”
 
“No.”
 
“Vieni, è quasi ora.”
 
Gli lascia una carezza sfuggente sul petto e rientra in casa, portandosi via la sua paura.
Lo fa semplicemente. Con la sua sola presenza, tutto quello di cui lui ha bisogno adesso.
Nelle sue mani Eddie ha consegnato la parte più vulnerabile della sua anima. Le ha dato il permesso di vederla, di custodirla, esattamente come Chrissy ha fatto con lui.
Un’altra parte molto importante di lui è in ospedale, in attesa di conoscere il proprio destino.
 
 
 
Settembre 1986
 
Quando l’aveva sentita entrare, Eddie stava friggendo le uova per la colazione con una mano sola. L’altra la stava usando per massaggiarsi il collo, indolenzito per la posizione scomoda in cui era stato costretto a dormire per la maggior parte della notte, il viso di Chrissy premuto contro il petto che gli impediva di muoversi.
Non si era spostato, e non solo per la paura di svegliarla.
 
Quando si era voltato lei lo stava osservando con le braccia incrociate e la sua maglietta addosso, quella che usava spesso per dormire.
 
“Puoi tenerla quella se vuoi.” le aveva detto, fissando la padella fino a sentire gli occhi che bruciavano.
 
E poi quelle piccole mani gli si erano aggrappate addosso, e lei aveva appoggiato la fronte tra le sue scapole. Sentiva il calore del suo respiro sulla schiena. Si erano seduti per mangiare, con Chrissy che lo osservava scettica mentre lui si versava un’oscena quantità di cereali nella tazza: un perfetto mix di Ice Cream Cones, Crunch Berries e Honey comb.
 
“Che c’è? Guarda che la colazione è il pasto più importante della giornata.”
 
Per tutta risposta, lei aveva affondato il cucchiaio nella sua tazza e si era infilata in bocca un po’ di quella poltiglia, deglutendola a fatica.
 
“Buono eh? Eh?”
 
“È orribile, Eddie. Sei proprio uno svitato.”
 
E poi aveva ripreso a rigirare la forchetta nel piatto senza concludere niente.
Ma Eddie lo sapeva, in fondo era affascinata da tutte le sue stranezze e del resto la cosa era reciproca.
A volte sperava di essere l’unico a conoscere le piccole cose che rendevano Chrissy la “sua” Chrissy, la stessa ragazza che stava per accompagnare a prendersi la vita che meritava di vivere.
Il suo modo di guardarsi allo specchio senza piacersi mai, per esempio, o il fatto che piegasse i vestiti perfettamente, disponendoli nell’esatto ordine in cui li avrebbe indossati il giorno seguente. Perfino lo strano suono che faceva quando rideva forte. Avrebbe potuto farlo per tutta la vita: sbirciare nel bizzarro mondo di Chrissy Cunningham e lasciarla pescare dalla sua tazza di cereali.
 
Sul tavolo, accanto a loro, il foglietto rosa sul quale lei aveva annotato il suo nuovo numero di telefono a New York, con quella sua grafia aggraziata.
Al contrario di lei, Eddie non aveva una meta precisa e tantomeno un numero di telefono da appuntare.
Quale sarebbe stato il suo posto da quel momento in poi?
Per tutto il tragitto verso la stazione delle corriere Eddie aveva mormorato la melodia di una canzone, tamburellando le dita sul volante. I bagagli che sbattevano nel retro del van a ogni buca dell’asfalto.
In quelli di lui c’erano tutti i suoi sogni da realizzare: l’unica cosa che lo rendeva ricco, tutto ciò che possedeva.
 
Davanti al suo autobus, con uno zaino sulle spalle e un’altra pesante borsa che pendeva dalle sue mani, Chrissy aveva lasciato andare un profondo sospiro, pieno di paura ma anche di speranza.
 
“Ci siamo.”
 
“Già. Tic tac, il tempo passa e la tua carrozza sta per partire, principessa.”  
 
Si era sforzato di sembrare allegro, nonostante la voce insistente nella sua testa continuasse a ripetergli “Non dimenticarti che a mezzanotte precisa l'incanto finirà, e tutto tornerà com’era prima”.
 
“Grazie… beh, di tutto.” aveva balbettato lei.
Se fosse stato davvero in sé le avrebbe impedito di ringraziarlo, ma era già altrove.
Non aveva più nulla da offrirle, e doveva pur difendersi dal vuoto che quell’incertezza gli lasciava dentro.
In quel momento pensava solo a come aveva potuto ridursi così.
In fondo era tutto perfetto, prima. C’era la musica, c’era D&D, c’era…
 
“Allora ci vediamo.”
 
Gli aveva sorriso debolmente. Riusciva a vederla quella nuova luce, quell’eccitazione nei suoi occhi.
 
“Certo, ci vediamo.”
 
Nemmeno lui credeva a quelle parole, ma non aveva potuto fare a meno di contraccambiarla.
Più tardi avrebbe avuto modo di occuparsi dei suoi sentimenti, a costo di strapparseli via dal cuore. Ancora una volta.
 
 
Hawkins
Ottobre 1987
 
Quando apre la porta, Eddie scopre un profumo conosciuto, che si è già insinuato nell’odore di disinfettante della stanza. Infatti la trova lì, seduta accanto a Wayne, con quei suoi grandi occhi pieni di sorpresa e un giornale stretto tra le mani.
 
“Ehilà.” li saluta, mentre appoggia sul comodino una busta con alcuni cambi puliti.
 
“Che c’è? Ho interrotto qualcosa di importante?” chiede, sentendosi improvvisamente fuori posto non appena si rende conto del silenzio in cui quei due sono piombati appena l’hanno visto apparire sulla porta.
 
Chrissy si schiarisce la voce e si allunga sulla sedia, agitando una mano davanti al suo viso con aria noncurante. “Stavo solo aggiornando Wayne sulle ultime notizie.”
 
“Una scossa di terremoto e l’ennesima studentessa scomparsa. Certo che le cose da queste parti non migliorano mai…”
 
“Sempre meglio delle cazzate che mi leggi tu di solito, ragazzo.” si intromette Wayne. “Quando pensi di mettere la testa a posto e smettere di giocare con i tuoi pupazzetti?”
 
“Ora sono ferito. Non ti ricordavo così stronzo.” ribatte Eddie, portandosi una mano al cuore con quel suo modo teatrale che non fa altro che indisporre ulteriormente suo zio.
 
“Mi hai portato le sigarette?”
 
“Che cosa? Si può sapere per chi mi hai preso?”
 
Il battibecco prosegue ancora un po’, fino a che Chrissy afferra il cappotto e si congeda, balbettando qualcosa su delle commissioni da fare prima della partenza. Eddie non può fare a meno di notare l’espressione del suo vecchio, burbero zio, che la osserva allontanarsi pieno di apprensione fino a che non la vede dileguarsi. Quando lo fa, Wayne appoggia una mano sulla sua fronte fasciata, come se all’improvviso si sentisse affaticato.
 
“E così domani se ne va.” lo sente bofonchiare.
 
“A quanto pare. Beh, lo sai no? Il college, gli esami e tutto il resto…”
 
“Che cosa hai intenzione di fare?” gli chiede, scrutando il suo viso con l’aria di chi ha tutta intenzione di attaccare una predica infinita. Ma a quella domanda, Eddie rimane in silenzio. Non farebbe mai pesare a suo zio il fatto che dovrà restare nei paraggi ancora un po’, almeno fino a quando non si sarà ripreso e per il resto… beh, non gli va di pensarci.
 
“Ti rendi conto che siamo nella stessa situazione di un anno fa?” si limita a osservare.
 
“Allora fai in modo che le cose vadano diversamente.” E poi aggiunge, come se gli avesse letto nel pensiero “Perché io non ho intenzione di starti a guardare mentre ti deprimi.”
 
“Non mi deprimo, io.”
 
“Certo che no, e non ti arrabbi mai, giusto? Riporterai il tuo culo dove deve stare.”
 
“E cioè?”
 
“Lo sai.”
 
“Andiamo Wayne, guardaci. Guarda lei. E guarda me.”
 
“Di’ un po’, cosa ne hai fatto di mio nipote? Quello che sapeva quello che voleva e soprattutto, sapeva chi era e voleva essere. Perché a me pare che qualcuno abbia già scelto e che tu stia soltanto…”
 
“Ok, ok, basta così.” lo interrompe.
 
Suo zio alza gli occhi al soffitto e scuote la testa, così lui può approfittarne per scostare la tenda polverosa che copre la finestra. Si affaccia, lasciando correre lo sguardo tra i passanti e le auto della città che piano piano si sta risvegliando sotto di loro.
 
“Ci rinuncio. Ho già dato fin troppo con i discorsi da padre con voi bambini.” sente brontolare in sottofondo.
Eddie non sa più se Wayne stia parlando con lui o con sé stesso.
Per tutta risposta, si accende la prima sigaretta della giornata, beccandosi un ulteriore brontolio di disapprovazione.
 
“Ok, hai vinto tu. Se fai il bravo ti faccio fare due tiri.”
 
 
 
Eddie non ripenserà a quel discorso fino a sera, quando si ritroverà nel caravan con Chrissy e quella scena fin troppo familiare tornerà a tormentarlo. Entrambi stanno fingendo che domani non esista, impegnati nella seconda partita di Clue della serata. Non che sia il suo passatempo preferito, ma Eddie sa bene quanto lei sia competitiva e questo è abbastanza per fargli venire voglia di giocare. Dev’essere un retaggio del suo passato da sportiva o qualcosa del genere. Un’altra delle piccole cose che terrà a mente senza farsi notare, come se stessero condividendo un segreto.
 
“È stato il colonnello Mustard, con la pistola, nella sala da biliardo.” le dice con aria indifferente, sfilando le tre carte dalla busta gialla e sventolandogliele sotto il naso.
 
“Hai vinto di nuovo. Non ci posso credere.”
 
Chrissy spalanca la bocca e mette su un’aria scioccata.
Sembra prendere davvero sul serio quella sconfitta, il che è semplicemente esilarante, specie per uno come lui.
 
“Sei proprio una perdente, Cunningham.” la provoca.
 
“Mh.”
 
“Dai, ti sei offesa? Lo sai che in queste cose sono più bravo di te.”
 
La sua mano raggiunge quella di lei, ancora appoggiata sul tabellone che sta scannerizzando, e lui lo sa che si sta scervellando per capire dove ha sbagliato stavolta, cosa è andato storto. Le dita di Eddie catturano le sue, poi risalgono sul suo braccio e scompaiono sotto la manica della sua maglia per conquistare qualche centimetro in più della sua pelle.
 
“Mi piaci quando ti arrabbi.”
 
“Sta’ zitto. Ti odio.”
 
“Naah. Mi ami, invece.”
 
Glielo dice senza pensare, ma poi, quando la guarda, tutto il suo divertimento sembra dissolversi.
Il silenzio si addensa attorno a loro come una nebbia fitta e pesante quando lei incontra i suoi occhi.
È come se, con quel silenzio, Chrissy volesse svelargli un altro segreto e chiedergli una promessa.
Gli entra dentro come una scheggia che per quanto si sforzi, non riuscirà più a mandare via.
Nemmeno quando sentono bussare alla porta e lei abbassa lo sguardo sulla sua mano, facendosi indietro imbarazzata.
 
Quando Eddie apre sbuffando dall’altra parte c’è Max, la sua vicina, che a quanto pare è passata per chiedere notizie di suo zio.
 
“Tutto bene, tornerà tra pochi giorni.”
 
“Ho portato una torta. L’ha fatta mia madre. Ogni tanto sa essere ancora gentile.” gli dice, allungandogli un piatto coperto di stagnola.
 
“Che pensiero dolce, rossa, non dovevi disturbarti.
 
La ragazzina sembra cogliere il sottotesto di quell’affermazione perché si stringe nella giacca di velluto scura prima di sollevare una mano incerta verso Chrissy, rimasta qualche passo indietro, in segno di saluto.
 
“Beh, ci vediamo.” taglia corto, prima di voltarsi e scomparire nell’oscurità, accompagnata dall’abbaiare insistente di un cane che cerca di liberarsi dalla catena.
 
La torta finisce sul bancone della cucina e, quando Eddie si volta verso Chrissy, quell’intensità non è scomparsa.
Non se ne va nemmeno quando si avvicina e, per farla ridere, le fa il solletico sui fianchi costringendola a divincolarsi per poi scontrarsi contro il suo petto. È ancora lì anche quando percorre la curva del suo collo, prima con il pollice, poi con le labbra.
 
“Magari facciamo un altro gioco. La prossima volta.” le dice, quando ritrova i suoi occhi.
 
“Già, la prossima volta.”
 
“E magari ti lascerò vincere…”
 
E questa volta riesce a immaginarlo veramente. In fondo è semplice. Forse bastava questo, forse è sempre bastato.
Anche se sono confusi e spaventati, proprio come un anno fa. Anche se ora hanno scoperto di potercela fare nonostante tutto a essere felici, anche da soli. Entrambi.
Forse è proprio questo a dar loro la forza di ammettere che insieme lo sono di più.
 
 
New York
Dicembre 1987
 
“Fai il bravo.” mormora Chrissy, le ginocchia strette contro il petto e una mano affondata nel pelo lungo e folto del grosso cane che le sta accanto e che non sembra badarla più di tanto, impegnato com’è a far scomparire ogni traccia di cibo dalla ciotola di avanzi che gli ha portato fuori.
 
“Sembra proprio che gli piaccia.” ridacchia Chrissy, rivolgendosi al suo padrone, che la osserva dall’alto.
Quando lei si solleva, una folata di vento gelido la costringe a stringersi un po’ più forte nel maglioncino che indossa per lavorare. Lui sembra preoccuparsi.
 
“Hai freddo?” le chiede.
 
“No, tranquillo. Sto io qui con Duggie. Tu vai pure dentro, Diana ti aspetta, non vede l’ora di darsela a gambe.”
 
Il ragazzo non si lascia pregare e un attimo dopo scompare dietro i vetri appannati del ristorante, dal quale proviene una piacevole confusione di chiacchiere, musica e stoviglie che tintinnano.
Chrissy fa un’altra carezza al cane.
È una giornata straordinariamente tranquilla, per essere un sabato poco prima di Natale.
L’aria è gelata, ma si riesce a sentire: quella calma felicità pervade ogni cosa, si riesce a cogliere anche nel cielo, nel suo inconfondibile colore grigiastro che preannuncia neve. Un rumore di passi alle sue spalle la fa voltare.
 
“Porcaputtanachefreddo.”
 
Le viene da ridere quando vede Eddie saltare da un piede all’altro, con la sua giacca troppo leggera per le temperature rigide di New York.
 
“Come fai a stare qua fuori con questo tempo?”
 
“Ti stavo aspettando. Ce ne hai messo ad arrivare.” gli sorride, cogliendo all’istante l’espressione furba che gli si dipinge in viso.
 
“Hai detto che avresti aspettato anche tutta la vita…”
 
“So cosa ho detto, Eddie.” taglia corto lei. Poi lo prende sottobraccio, allegra. “Andiamo dentro dai. Ti ho già detto che sono diventata cintura nera di pancake? E ho un sacco di novità da raccontarti.”
 
“C’è tempo Cunningham, c’è tempo. Forza, andiamo.”
 
*****
Nota autrice:
A volte ritornano… buon anno nuovo!
Vi saluto qui, grazie come sempre :*

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