Siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni

di Nymeria90
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'eroe di cui la galassia ha bisogno ***
Capitolo 2: *** Qualcuno da amare ***
Capitolo 3: *** La fine? ***
Capitolo 4: *** Noi siamo puro pensiero ***
Capitolo 5: *** Un luogo di pace in un mondo di guerra ***
Capitolo 6: *** Il Valhalla ***
Capitolo 7: *** Per sempre ***
Capitolo 8: *** La lunga strada verso casa ***



Capitolo 1
*** L'eroe di cui la galassia ha bisogno ***



Cittadella 2186

Il liquido ambrato riempì lentamente il bicchiere, accarezzando languidamente le pareti di cristallo.
C’era stato un tempo, non troppo lontano, che un simile gesto l’avrebbe perduta.
Gli anni della sua prima giovinezza erano stati segnati dall’alcol e dalle droghe: un’adolescenza violenta, vissuta tra puttane e criminali, che aveva segnato la sua anima come un colpo di scalpello sulla pietra grezza.
A salvarla da quell’abisso di oscurità e degrado erano stati i proiettili di una creatura più perduta di lei.
Quella era stata la sua prima morte.
Prese il bicchiere, facendolo ruotare tra le dita. Si avvicinò al pianoforte dall’altra parte della stanza e suonò pigramente un paio di note casuali. 
Il secondo colpo inferto dallo scalpello della vita sulla sua anima bitorzoluta e ammaccata, era stato più crudele del primo.
Tra le braccia accoglienti dell’Alleanza aveva creduto di trovare il senso della sua esistenza: una famiglia, uno scopo, l’amore della sua vita. Erano stati gli anni più felici della sua vita, tanto da illuderla di aver trovato la pace.
Purtroppo, come ogni cosa bella, quell’idillio dorato era destinato a svanire: lei aveva trovato la pace, ma la guerra, infine, trovò lei.
Si presentò travestita dal suo stesso orgoglio, cavalcando parole di spregio, aizzata da quello spaventoso passato che, molesto come una spina conficcata nelle carni, suppurava pensieri infetti.
La sua seconda morte fu meno misericordiosa della prima. Fu un’agonia straziante, un lento smembramento di tutto ciò che amava. Tra le fauci del suo orgoglio morirono urlando tutti coloro che aveva amato.
Bevve un piccolo sorso, mentre i suoi occhi vagavano oltre le vetrate, abbagliati dalle luci sgargianti della città.
Sentì un live pizzicore sulla lingua e la schioccò sul palato perché l’aroma del liquore si diffondesse in tutta la bocca.
Un tempo si sarebbe scolata la bottiglia intera senza nemmeno sentirne il sapore, per il semplice desiderio di dimenticare un passato spaventoso. Adesso sapeva che alcol e droghe erano banali trucchi da imbroglioni che promettevano sollievo per poi trasformarlo in dolore straziante: non esiste un modo per dimenticare il passato e il dolore. Quel pizzicore informe in fondo al petto, non va mai via. Si può solo imparare a conviverci finché non diventa parte di te, come i polmoni e il cuore. 
Era una saggezza, la sua, ottenuta a caro prezzo.
Aveva sperato che la sua terza morte fosse quella definitiva. 
E morta lo era davvero. Un corpo inerte nello spazio oscuro, finalmente libero, ma non in pace: sapeva di non avere il diritto di morire. Non ancora. Il suo debito non era stato saldato e Caronte, il traghettatore di anime, non accettò il suo dazio.
Fu così che tornò in vita per l’ultima volta. Resuscitata da quel nemico responsabile dei suoi più atroci dolori, costretta a guardare negli occhi la nemesi di tutta la sua esistenza e chiamarla amica.
Lo aveva fatto, plasmata da quello scalpello chiamato guerra, in onore di tutte le promesse fatte e mai mantenute.
Come il bruco divenuto crisalide e poi farfalla, era ora alle fasi finali della sua esistenza. 
Era nata impulsiva e violenta per poi crescere orgogliosa e arrogante, infine era diventata saggia.
Una saggezza che la faceva brillare come un faro in un cielo nero. Un faro attorno a cui le genti si aggregavano, in cerca di conforto, calore e ascolto.
Ascoltare era diventata la sua abilità più grande. Non importava che fossero soldati, potenti informatori, signori della guerra, intelligenze artificiali o ammiragli, prima o poi tutti arrivavano da lei, in cerca dell’unica cosa che mancava in quella galassia: qualcuno a cui importasse di loro.
Silenziosa e imparziale lei si metteva all’ascolto, senza esprimere giudizi, senza offrire perle di saggezza o consigli altisonanti: ascoltava e basta, facendosi custode del loro dolore come lo era stato del suo.
Portava un grande sacco sulle spalle, con dentro tutti i dolori del mondo, ma non le pesava: quei dolori erano molto più leggeri delle sue colpe. 
Ci fu un lieve bussare e qualcuno entrò nell’appartamento.
Il comandante Sasha Shepard appoggiò il suo bicchiere e andò incontro al nuovo arrivato.
Il tenente James Vega fece un ingresso baldanzoso, come sempre, sfoggiando con orgoglio il nuovo tatuaggio che si era fatto sulla schiena, in onore di quella squadra di élite, gli N7, tra i quali era stato recentemente ammesso.
Un’ombra velò il sorriso del comandante, così evidente che persino James si accorse che qualcosa non andava.
-Cosa succede, comandante?- chiese, preoccupato.
Quella domanda la colse così di sorpresa, che diede una risposta sincera – Stavo solo ripensando al giorno in cui ho accettato di entrare nel programma N7 e che cosa ho sacrificato per diventarlo.-
Ci fu un breve silenzio, in cui James la studiò attentamente, forse vedendola per la prima volta – E ne è valsa la pena?-
Sasha sussultò, mentre la voce di James si confondeva con quella di un altro uomo che, molto tempo prima, l’aveva posta di fronte allo stesso quesito.
-Questa, James, è un risposta che non posso dare a te.-
Il soldato abbassò lo sguardo – Mi dispiace, Lola, non volevo impicciarmi.-
Shepard gli diede un buffetto sulla guancia – Non c’è bisogno di scusarsi.-
Rassicurato da quel gesto, Vega le rivolse un’occhiata indagatrice – Posso farti una domanda?-
-Sentiamo.-
-Se tornassi indietro cambieresti qualcosa?-
Il sorriso di Sasha le si congelò sulle labbra. Si era posta spesso quella domanda, nell’oscurità della sua mente. Non aveva mai trovato una risposta, non una che fosse sincera; ma Vega meritava qualcosa di più di una semplice scrollata di spalle.
Si strinse le braccia intorno al corpo, cercando un calore che aveva perso da tempo.
-Non sono sempre stata così come mi vedi adesso. Vivevo alla giornata, senza preoccuparmi troppo del futuro, convinta che il presente fosse l’unico tempo importante. Ho fatto scelte avventate, che hanno prodotto risultati … terribili.- chiuse gli occhi un istante e lasciò che, dietro le palpebre abbassate, scorressero immagini che aveva tentato, invano, di cancellare. Vi si soffermò per un secondo, prima di ricacciarle indietro. – Sono il prodotto del mio passato, Vega, il risultato di scelte giuste e di scelte sbagliate. Senza di esse non sarei la donna che sono ora: il comandante in grado di portare sulle spalle il sacco dei dolori del mondo. Senza quegli errori non sarei Shepard e, forse, la galassia sarebbe spacciata. Se tornassi indietro cento volte, Vega, per novantanove volte rifarei le stesse scelte.-
-E la centesima?-
Sasha gli rivolse uno strano sorriso, a metà tra malizia e tristezza - La centesima sceglierei di essere felice.-
Vega inclinò la testa di lato – Avrei voluto conoscerti nella tua centesima vita, Lola.-
Rise come raramente le era capitato in quella vita e notò gli occhi di Vega illuminarsi di stupore e meraviglia, come se non avesse mai udito nulla di più bello.
-Temo che non sapresti nemmeno riconoscermi, Vega. In quella vita non avrei nulla in comune con il comandante Shepard.-
-Tu non hai eguali nella galassia, Lola, non hai bisogno di essere Shepard. Potresti vivere un miliardo di vite ed essere straordinaria in ognuna di esse.- non la stava lusingando. Era sincero.
Arrossì, come non le accadeva da molto, moltissimo tempo.
-Grazie, James. Significa molto per me.-
Un sorriso malizioso inclinò le labbra sottili del tenente e seppe che il momento delle confidenze era finito – A tua disposizione, Lola. Puoi chiamarmi quando vuoi, sia per parlare che per …altro.-
Sasha sollevò un sopracciglio, squadrandolo dall’alto in basso – Il letto è di sopra, Vega, perché non mi fai vedere quello che sai fare?-
James spalancò la bocca come un pesce fuor d’acqua: tutto si aspettava, tranne che la sua provocazione venisse raccolta.
-C … come scusa?-
Shepard scosse la testa, ridacchiando, e lo spinse gentilmente verso l’uscita – Sei un disastro, tenente. Forza, fila a casa, prima di metterti ulteriormente in imbarazzo. E pensare che stavi andando così bene.-
-Sei un demonio, Lola.-
- Ci provo.-
Lo guardò allontanarsi scuotendo la testa. James le ricordava terribilmente un altro soldato, spaccone dal cuore tenero, che aveva avuto il privilegio di chiamare amico, tanto tempo prima. Quell’amico non c’era più: era sopravvissuta a così tante persone che a volte le sembrava di avere più amici tra i morti che tra i vivi.
Un tempo avrebbe promesso a se stessa e al mondo che non avrebbe perso più nessuno, che non avrebbe più permesso a un amico di sacrificarsi in nome di un bene superiore … ma ormai non faceva più promesse, ne aveva infrante troppe per illudersi che avessero un qualche valore. La galassia si mangiava le anime pure per poi sputarle dilaniate e corrotte, tanto ciniche da suscitare sgomento.
Lei non era mai stata un’anima pura, aveva tentato di diventarlo, abbagliata dalla purezza di un’anima infinitamente più integra della sua, ma quando quel bagliore si era spento, soffocato dal suo egoismo e dagli orrori della galassia, allora aveva capito che il destino di un’anima pura era quello di corrompersi o morire.
Il cinguettio del terminale interruppe il flusso di quei pensieri intrisi di malinconia e corse nello studio, in tempo per sentire le ultime parole del messaggio registrato.
-… ho bisogno di parlarti. È urgente. Vediamoci al Purgatory, adesso.-
L’origine del messaggio le fece aggrottare la fronte, ma rispose affermativamente prima di gettarsi il giubbotto in pelle sulle spalle e lasciare l’appartamento.

La donna seduta al tavolo osservò il suo riflesso sbiadito nello specchio dietro al bancone del bar. I capelli un tempo neri ora erano grigi, gli occhi castani circondati da un groviglio di rughe, le spalle leggermente ingobbite sotto la divisa blu e oro.
Il tempo era stato inclemente con lei. Il tempo e la vita.
Aveva collezionato segreti terribili, che aveva chiuso in piccole scatole e gettato nel pozzo della sua mente, cercando di dimenticarli; ma laggiù, abbandonati a loro stessi,  erano diventati putridi e infetti, strisciando fuori dagli abissi come tentacoli alieni, avvinghiandosi attorno a tutto ciò che aveva di più caro. I suoi segreti, così ben custoditi, si erano presi il suo compagno e, infine, anche suo figlio.
Sospirò, bevendo un sorso dal suo bicchiere di vino rosso. Intorno a lei infuriava la festa: le persone ballavano, bevevano, ridevano, comportandosi come se quello fosse l’ultimo giorno della loro vita e, per molti di loro, lo sarebbe stato davvero.
Fuori, nella galassia, sui pianeti natali di ognuno di loro, infuriava la guerra madre di tutte le guerre. 
Se avesse svelato prima i suoi segreti ne avrebbe cambiato le sorti? Ne dubitava, ma il suo giudizio si era rivelato errato troppe volte, troppo tragicamente: per questo sedeva sola in mezzo alla festa.
Una persona si fece largo tra la folla, o meglio: la folla si fece largo al suo passaggio.
Il comandante Shepard era diventato qualcosa di simile a una divinità. L’eroe designato che avrebbe salvato tutte le genti di tutti i mondi, ma lei vedeva la donna dietro alla leggenda. Vedeva il viso stanco e provato, le occhiaie sotto gli occhi verdi, la magrezza sotto la divisa sgualcita, la durezza di una bocca che sorrideva sempre meno e rideva ancor più raramente.
Nessuno in quel locale sapeva che cosa aveva dovuto passare il comandante Shepard per diventare l’eroe di cui la galassia aveva bisogno. Lei era forse la sola persona vivente a sapere ogni cosa ed era proprio per questo che, per quasi dieci anni, le loro strade non si erano mai incontrate.
Avevano troppo in comune.
Sasha Shepard si sedette di fronte a lei, i capelli rossi serrati in una crocchia, le lentiggini che punteggiavano il viso pallido. 
Quella giovane donna, diventata leggenda, era la sola cosa che le restava di suo figlio: il grande amore della sua vita, l’erede di un glorioso destino che, in un’altra storia, sarebbe appartenuto a lui.
-Hannah.- la salutò – Lieta di vederti ancora viva.-
Il contrammiraglio Hannah Shepard annuì, ricambiando il saluto della donna che, in un passato mai dimenticato, era stata promessa a suo figlio.
-Sasha: hai mantenuto la tua parola. Hai dato al nome di mio figlio la grandezza che meritava.-
La donna giocherellò coi bordi della sua divisa – Il suo nome e le mie gesta riecheggiano nella galassia e lì rimarranno, per l’eternità. Abbiamo realizzato i nostri sogni, Hannah.- gli occhi verdi incontrarono i suoi, agghiaccianti nella loro disarmante sincerità -Ma non i suoi.-
-Alexander sarebbe orgoglioso di te.- pronunciare quel nome le provocava un dolore che temeva la facesse esplodere in mille colpevoli frammenti – Io lo sono.-
Sasha storse la bocca, ricacciando in gola lacrime che entrambe sapevano non avrebbe mai più versato – Perché hai voluto vedermi?-
-Perché alla vigilia della fine sento il bisogno di confessarmi.-
-Non sono un prete, Hannah.-
-Nessun prete può darmi l’assoluzione. Solo tu puoi farlo.-
Ci fu un sospiro, un breve silenzio e, infine: - Ti ascolto.-
-Vi ho mentito.- confessò in un sussurro – Quel giorno, quel terribile giorno, sulla Kilimangiaro, quando mi portaste le prove degli indicibili orrori in cui Cerberus era coinvolto, io vi mentii. Tuo padre non era un terrorista, Edouard Marchand non era un folle suicida, Amanda Phillips e la sua famiglia non furono vittime di una vendetta privata e il mio compagno, il mio amore, non morì da eroe romantico, ma assassinato nel più vile dei modi.-
Cercò i suoi occhi, ma Sasha guardava la pista da ballo senza vederla, lo sguardo velato, risucchiata da ricordi così dolorosi da renderle difficile persino respirare -Perché? – fu la sola cosa che riuscì a sussurrare.
-Per proteggervi.- rispose, senza esitare – Perché stavate scoprendo segreti troppo pericolosi, in maniera fin troppo maldestra. Pensavo che, facendovi desistere dalle vostre ricerche, Cerberus avrebbe smesso di considerarvi una minaccia. Pensavo che, vedendo che le ricerche si erano fermate, non avrebbero rischiato di abbattere un’intera squadra dell’Alleanza. Ero sinceramente convinta che fosse sufficiente mentirvi per salvarvi.-
La bocca di Sasha assunse una piega dura, amara – Invece non si sono presi solo la mia squadra, ma cinque interi plotoni semplicemente perché potevano farlo.- fissò lo sguardo in quello di Hannah che la fissava a bocca aperta – Akuze fu opera loro.-
-Come l’hai scoperto?-
-Durante la caccia a Saren ci imbattemmo in una richiesta di soccorso proveniente da un pianeta remoto. Lì trovammo un laboratorio di Cerberus e uno scienziato terrorizzato in fuga da un assassino. Quell’assassino si chiamava Toombs, caporale Toombs. Mi ricordavo di lui, fin troppo bene. Al nostro arrivo su Akuze, Alex mandò lui e la sua squadra a indagare su un segnale sconosciuto che, per pochi secondi, avevamo intercettato sulle colline. I nostri superiori credevano fosse un guasto o un’interferenza di poco conto ma Alex aveva un brutto presentimento, così disobbedì agli ordini dei suoi superiori e spedì Toombs sulle colline. Di lui e della sua squadra si perse ogni traccia. Ho sempre pensato fossero morti come tutti gli altri. I corpi non furono ritrovati ma, dopotutto, non erano i soli. Invece Toombs e la sua squadra incapparono in un destino ben diverso e forse persino più terribile. Quell’anomalia si rivelò una base segreta, una base di Cerberus. Catturati, furono sottoposti alle più atroci torture: Rick e Martin morirono, Toombs sopravvisse.- si passò una mano sul viso, come se quel gesto potesse cancellare gli orrori di Akuze – Non so come riguadagnò la libertà, non glielo chiesi e lui non me lo disse. So solo che da allora ha iniziato a dare la caccia a Cerberus e quello scienziato era solo l’ultimo di una lunga serie. Lasciai che lo uccidesse. Forse qualcun altro al mio posto lo avrebbe salvato, io non potevo farlo. Lasciai Toombs su quel pianeta con i suoi demoni e la sua vendetta. Era un uomo spezzato, al di là di qualsiasi salvezza e io … io ero il comandante Shepard e Akuze un ricordo che non potevo permettermi di affrontare: avevo una galassia da salvare.- abbassò lo sguardo sulle sue mani, intrecciate sul bordo del tavolo – Non ebbi più sue notizie, finché un giorno dopo la mia morte e resurrezione per opera di Cerberus,  trovai una mail sul mio terminale: era del caporale Toombs che mi domandava come potessi lavorare per l’organizzazione che aveva distrutto la nostra vita su Akuze e concludeva dicendo che, se ci fossimo rincontrati, mi avrebbe uccisa. Non risposi mai a quella mail.-
-Se potessi rispondergli oggi, che cosagli diresti, Sasha?-
- C’è una frase che continuo a ripetermi, giorno e notte, da quando ho parlato con la Sovereign e scoperto la fine dei Prothean, da quando mi sono risvegliata dalla morte in una galassia in cui gli unici ad ascoltare il mio avvertimento erano i mostri responsabili della morte della mia squadra e di Alex: “arriverà il giorno in cui l’umanità rischierà di essere spazzata vis e allora dovrai scegliere se sporcarti le mani per salvarla o guardarla bruciare nel vano tentativo di mantenere intatto il tuo onore.” Le ricordi queste parole, vero Hannah?-
Non credeva che Sasha le ricordasse ancora, lei, dal canto suo, non le aveva mai dimenticate – Per quanto io le senta vere più del vero, pronunciarle fu una delle cose più difficili che io abbia mai fatto. Quel giorno misi mio figlio di fronte all’orrore della vita che avevo scelto per lui.-
Sasha annuì – Per lui sarebbero state un obbligo e una maledizione. Al mio posto sono certa che avrebbe preso le stesse decisioni, fatto le medesime scelte, ma ad ognuno dei terribili bivi che questa vita gli avrebbe messo davanti avrebbe perso un po’ di se stesso. Perché lui voleva salvare tutti e non sacrificare nessuno. Io sono diversa: non amo sporcarmi le mani, ma in mancanza di alternative è una via come un’altra. Cerberus era uno strumento per raggiungere un fine e domani, finalmente, quello strumento starà fluttuando nello spazio profondo ridotto in milioni di insignificanti frammenti. E avremo la nostra vendetta.-
-Forse è un bene che non sia sopravvissuto per vedere tutto questo.- sussurrò Hannah – Questa guerra avrebbe ucciso il ragazzo che era in lui, trasformandolo in uomo che nessuna di noi due avrebbe riconosciuto.-
Sasha annuì – Alexander Shepard riposa in pace: è qualcosa di cui dovremmo essere felici.-
-Per quanto riguarda Cerberus c’è un’altra cosa che devo dirti.-
-Va bene così Hannah, non hai bisogno di giustificarti con me: hai il mio perdono.-
-No, non capisci!- doveva liberarsi di quel peso – Io ho contribuito a creare Cerberus e quando sono diventati troppo forti per essere fermati ho nascosto la testa sotto la sabbia e finto di non vedere … se avessi fatto qualcosa, forse ora non saremmo qui a parlarne.-
-Jack Harper, l’Uomo Misterioso, avrebbe trovato un modo per far del male a questo mondo con o senza l’aiuto dell’Alleanza. Credevate di fare del bene e forse, alla fine, conta solo questo. Tutti gli orrori compiuti in seguito, sono opera dell’Uomo Misterioso e di nessun altro. Domani la tua nave sarà con la flotta dell’Alleanza, accanto alla Normandy, per distruggere una volta per tutte Cerberus e il suo fondatore. Non pensare a te stessa come la donna che ha aiutato Cerberus a nascere, ma come la donna che lo ha aiutato a morire.-
Dopo tanto tempo un piccolo sorriso si affacciò sulle labbra stanche di Hannah Shepard – Dopotutto sei davvero eccezionale, comandante Shepard.-
Sasha scacciò il complimento con un gesto della mano – Sono solo una sopravvissuta che ha scelto la vita.-




NA Non so se c’è ancora qualcuno della vecchia guardia in questa sezione. Io stessa non ci tornavo da … tre anni credo. Finchè non mi sono imbattuta nelle mie vecchie storie di Mass Effect e nei miei comandanti, Alex e Sasha. Non ho resistito e, rileggendo quelle storie, mi è sembrato che mancasse qualcosa: una degna conclusione. Così eccomi qui, a scrivere quella conclusione che credo meritino entrambi. Questa storia prosegue il filone narrativo iniziato con “La fine è il mio inizio” ma è senza ombra di dubbio legata a doppio filo anche con “Requiescat in pace” e la “In Aeternum”. 

 

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Capitolo 2
*** Qualcuno da amare ***




 

Cittadella 2186

Fu accolta dal piacevole profumo di carne alla griglia. Kaidan Alenko si stava dando da fare dietro i fornelli, col viso arrossato e i primi bottoni della divisa slacciati.
Sasha fu felice di trovarlo lì. Ultimamente la solitudine iniziava a pesarle.
Si avvicinò da dietro, cingendogli la vita con le braccia e posandogli un bacio lieve sulla guancia ruvida.
Kaidan le lanciò un’occhiata fugace da sopra la spalla, accennando un sorriso – Le birre sono nel frigo.-
Cogliendo il “velato” suggerimento andò a prenderne due, gliene porse una e andò ad accomodarsi al bancone di fronte a lui, per guardarlo cucinare.
-Hai passato una buona giornata?- le domandò, tra un sorso di birra e una spolverata di sale.
Sasha non rispose subito, rapita da quella scena così aliena ai suoi occhi.
Dunque era così che ci si sentiva ad avere una vita normale?
Una bella casa, un compagno premuroso, una birra ghiacciata nella mano e nessuna galassia da salvare.
A una vita del genere aveva voltato le spalle e, per quanto continuasse a ripetersi che dopo tre giorni si sarebbe annoiata a morte, una piccola parte di lei si ostinava a credere che avrebbe almeno dovuto provarci.
-Shepard?-
Scrollò il capo, bevendo un sorso di birra – Mi sono vista con una … persona al Purgatory. Abbiamo chiacchierato un po’.-
Kaidan le rivolse uno sguardo indagatore mentre le allungava il piatto con la sua bistecca fumante – Niente di grave, spero.-
Lo seguì con lo sguardo, mentre faceva il giro del tavolo e si sedeva accanto a lei – No. Aveva solo bisogno di qualcuno che … che l’aiutasse a ricordare e farsene una ragione.-
-E tu? Tu te ne sei fatta una ragione?-
Shepard sospirò – Credo di sì.-
Non ci fu bisogno di aggiungere altro.
Finirono di mangiare avvolti in un confortevole silenzio, consapevoli della presenza l’uno dell’altra, ma rispettosi dei rispettivi pensieri.
Non c’era mai stato bisogno di molte parole, tra loro.
Si conoscevano senza essersi mai raccontati veramente, eppure era bastato uno sguardo, un semplice sguardo tanti anni prima, per riconoscersi anime affini.
Entrambi avevano perso più di quanto erano disposti a sacrificare e, l’uno nell’altra, avevano trovato un po’ di conforto.
Avevano chiuso il cuore in una scatola e affidato la chiave a qualcuno che avevano perduto per sempre. La scatola non poteva più essere riaperta, il cuore rimaneva inaccessibile, eppure si erano fatti custodi di quegli scrigni colmi di tesori, evitavano che il legno si scalfisse, che le giunture si arrugginissero e che, infine, andassero perduti.
In una galassia dove perdersi era la cosa più facile del mondo loro si tenevano per mano.
Finito di mangiare si spostarono nel salotto, Kaidan si distese sul divano e Sasha si accoccolò tra le sue braccia, la schiena contro il suo petto, la testa appoggiata nell’incavo della sua spalla.
Con delicatezza le sciolse i capelli imprigionati in una crocchia serrata e affondò le dita nella cascata fiammeggiante che le si sparse sulle spalle. Sasha si strinse più forte a lui, cullata dal suo calore e dal ritmico battito del suo cuore.
-Hai paura?- gli domandò, a bruciapelo.
Non dovette specificare di cosa. Su di loro incombeva la più grande battaglia della storia galattica. La battaglia che, qualunque fosse stato il suo esito, avrebbe mutato le sorti dell’universo intero.
-No.- le rispose, senza esitare.
Sasha voltò la testa per poterlo vedere. Nel chiaroscuro delle fiamme che ondeggiavano nel camino il suo viso era tranquillo.
-Non sto cercando di fare lo splendido. Non è questione di eroismo … solo stanchezza, credo. Domani, quando chiamerai Hackett e gli dirai di radunare le flotte per attaccare Cerberus, saremo al punto di non ritorno. E allora sarà questione di vita o di morte, di vittoria o di sconfitta, ma comunque vadano le cose sarà finita e riposeremo in pace, da vivi o da morti, senza alcun rimpianto.-
-La morte non ti fa paura, Kaidan Alenko?-
Sentì le sue dita scivolarle tra i capelli – Sappiamo bene, tu ed io, che esistono cose ben peggiori della morte.-
Si lasciò andare contro il suo petto con un sospiro – Ed è per questo che devo strapparti una promessa che non ti piacerà.-
Lui non rispose ma in qualche modo sapeva che aveva già capito. Forse aveva formulato quel pensiero prima ancora che lo formulasse lei stessa.
-Promettimi che, qualunque cosa accada, mi lascerai andare, Kaidan.-
Sentì i suoi muscoli irrigidirsi, ma quando parlò la sua voce era misurata e composta, come sempre – Dammi un buon motivo, comandante, uno solo e avrai la tua promessa.-
Fissò lo sguardo sul fuoco dove ondeggiavano le sagome di chi aveva perduto – Con la morte dell’Uomo Misterioso i miei debiti con la galassia saranno saldati e non avrò più ragione di esistere. Essere il comandate Shepard non era il mio destino, ma la mia punizione. Quando sarà finita questa guerra non ci sarà più bisogno di un comandante Shepard e io … io non posso essere nulla di diverso. Non più. Ho scelto tanto tempo fa di essere soltanto questo. Nei miei sogni ho visto infinti futuri, ma in nessuno di essi io c’ero. Il mio futuro non è più in questo mondo.- realizzò quanto fossero brutali le sue parole e sentì il pungolo della colpa in fondo al petto – Mi dispiace, Kaidan.-
La sua mano scivolò sul suo viso, gentile e delicata come era lui – Va tutto bene, Sasha. Ho sempre saputo che non ci sarebbe mai stato un lieto fin per noi. Fin dalla prima volta che ho posato gli occhi su di te mi sei apparsa evanescente: un fantasma che, per qualche motivo, era rimasto bloccato nel mondo dei vivi. Tu non sei mai stata mia e io non sono mai stato tuo, apparteniamo ad altri amanti, tu ed io, persone che non ci sono più o ci hanno dimenticati.-
Sasha si morse il labbro – La ami ancora?- domandò con un filo di voce -Ami ancora la tua Rahna?-
Rimase in silenzio così a lungo che temette non le avrebbe mai risposto e, quando parlò, per la prima volta da quando lo conosceva, la sua voce tradiva un profondo turbamento - È strano, se ci penso. Gli anni di Jump Zero sono stati indubbiamente i peggiori della mia vita e Rahna è stata l’unica cosa che me li ha fatti sopportare. Amo il ricordo che ho di lei, amo la persona che ero all’epoca, amo l’ingenuità che avevo, la convinzione di sapere esattamente dove fosse il bene e dove fosse il male. Credo che ciò di cui sono innamorato è il ricordo dei momenti passati insieme a lei, della purezza delle nostre anime, dell’innocenza delle nostre vite. Se dovessi incontrare Rahna, adesso, probabilmente nemmeno la riconoscerei e, se anche accadesse e lei fosse ancora quella di un tempo, proverei per lei solo un grande affetto e nulla di più. Il ragazzo che l’amava è morto a Jump Zero, assieme al Turian che la torturava.-
Cercò la sua mano e intrecciò le dita con le sue, sentendosi vicina a lui come mai era stata – Capisci dunque perché ritengo che il mio tempo sia finito? Ho perso troppo lungo la strada per arrivare fin qui. Tu, l’equipaggio, la Normandy … significate per me più di quanto si possa esprimere a parole e vi amo, come non avrei mai immaginato di poter fare di nuovo, ma ….-
-Ma non siamo abbastanza. Ti credo, Sasha.- la interruppe lui, posandole un bacio sulla fronte – E ti amo proprio per questo: perché sei leale e giusta e non hai paura di dire la verità, per quanto terribile possa essere. Ti lascerò andare, comandante Shepard, e spero che, quando arriverà, la morte sia più gentile di quanto non sia stata la vita.-
Sasha lasciò andare il respiro che non ricordava di aver trattenuto e assieme al fiato le uscirono dalla bocca parole lievi come una brezza di primavera – Ti amo, Kaidan, e vorrei poterti dare di più.-
Kaidan si  mosse, costringendola a voltarsi, le prese il viso tra le mani, obbligandola a fissarlo negli occhi, quei profondi  occhi castani dentro cui si rifletteva il bagliore del fuoco – Mi hai dato ciò che rimaneva del tuo tempo, comandante, non avrei potuto chiedere dono più bello.- 
Il bacio che seguì fu dolce e struggente insieme. Ciò che rimaneva delle loro vite era lì, racchiuso in quell’ impalpabile lasso di tempo che separa un giorno dall’altro. L’indomani avrebbero di nuovo indossato le armature, imbracciato i fucili e preso decisioni spietate, ma in quel momento, nel riverbero di un fuoco alieno, erano solo due amanti che si dicevano addio.
Mentre le mani di Kaidan esploravano la sua pelle nuda e la sua bocca tracciava scie ardenti sul suo corpo, Sasha Shepard contemplò la vita, ricordò quant’era bella ed infine realizzò che ne era valsa la pena.




 

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Capitolo 3
*** La fine? ***


Cittadella 2186

Fu come un orgasmo. 
Guardare dentro gli occhi disumani dell’Uomo Misterioso e premere il grilletto le provocò una scarica di piacere che mise a dura prova il suo corpo stremato.
Aveva perso tutto a causa di quell’uomo. La sete di vendetta, il desiderio bruciante di vederlo morire, erano diventati la sua ossessione, da quando il caporale Toombs le aveva rivelato chi si celava dietro il massacro di Akuze. Eppure, in nome di un bene superiore e di promesse sigillate col sangue davanti alle tombe di chi aveva perduto, aveva chiamato alleato il suo più grande nemico.
Di tutte le punizioni infertagli dalla galassia, quella era stata la peggiore.
Ma adesso era arrivato per lei li momento di raccogliere i frutti dei suoi immani sacrifici e mai raccolto era stato più dolce.
Trascinandosi la gamba ferita, premendo una mano insanguinata sul ventre squarciato, zoppicò fino al terminale di controllo e lanciò la sua ultima sfida ai Razziatori.
Passò accanto al corpo devastato dell’uomo che un tempo portava il nome di Jack Harper, prima che lui stesso lo abbandonasse assieme alla sua umanità.
Lo sentì sussurrare parole di agonia mentre le braccia della Cittadella si aprivano e svelavano un mondo che stava bruciando.
Definì la Terra perfetta, prima di chiudere gli occhi per sempre.
Non lo era, perfetta, dissentì Sasha mentre appoggiava le braccia sul terminale per sostenere il suo corpo morente.
Non sapeva esattamente perché amasse la Terra. Era sporca, corrotta e infetta. A volte bugiarda e traditrice, spesso impietosa e indifferente. Eppure, dopo averla vista anche solo una volta, non era più possibile farne a meno.
No, non era perfetta: per questo doveva salvarla.
La perfezione poteva essere imitata, ripetuta, copiata … la Terra, così ricca di difetti, era unica nell’universo:  un motivo più che sufficiente per combattere per essa.
Tornò da Anderson, angelo custode della sua vita sconsiderata, e si lasciò cadere al suo fianco: non più Shepard, solo Sasha.
Seduti fianco a fianco attesero la morte, da pari a pari.
La morte arrivò, si prese Anderson, la guardò e sussurrò a mezza bocca “non ancora”.
Con un gemito e una bestemmia ascoltò l’invocazione di Hackett a fare qualcosa, qualunque cosa, per far funzionare quell’arma maledetta in cui avevano riposto tutte le loro speranze.
Moribonda e stremata rivestì i panni del comandante Shepard e strisciò fino al terminale.
Arrancò senza sapere cosa fare, sconfitta a un passo dalla vittoria. Si lasciò cadere sul gelido metallo e fu a quel punto che, infine, qualcosa … accadde.

Pensava a se stessa come “al Catalizzatore”, l’entità che l’accolse in quel limbo dove si decidevano le sorti dell’universo.
Quell’essere, che la torturava assumendo le sembianze di chi non era riuscita a salvare, le disse che doveva scegliere. Lei, che si era spinta più in là di qualsiasi essere vivente del passato e del presente, che aveva portato sulle spalle il sacco con tutti i dolori del mondo, ora doveva scegliere il destino di una galassia intera.
Un’altra persona avrebbe pensato fosse troppo. Un’altra persona sarebbe crollata sotto il peso di una simile responsabilità. 
Ma lei non era una persona normale, non lo era mai stata, non avrebbe mai potuto esserlo.
Era nata portando la morte, cresciuta con un’arma nel pugno, aveva distrutto ciò che aveva amato e salvato ciò che nessuno poteva amare. Infine era morta e rinata e poi morta ancora, finché non aveva capito che se voleva andare avanti doveva accettare di tornare indietro: doveva aprire il libro dei suoi errori, leggerlo tutto dall’inizio alla fine, ed infine farsene una ragione. Non poteva aspettarsi sconti dalla galassia, nessuna comprensione, nessuna empatia: la galassia non era giusta, la galassia non era equa, non aveva ordine e non aveva regole, non era buona e nemmeno crudele. Era solo caos che si prendeva ogni cosa, senza guardare in faccia nessuno.
Poteva portare ordine nella galassia, questo le stava dicendo l’intelligenza. 
Poteva mutare per sempre la natura del mondo, fondendo la vita organica con quella sintetica, donando a tutti un’eternità perfetta e banale. Lei sarebbe divenuta Frankenstein e la galassia il suo mostro. 
Le tornò in mente una domanda che aveva posto all’intelligenza artificiale della sua nave, in un passato recente che in quel momento le sembrava lontanissimo: -La sottomissione è preferibile all’estinzione?”
Sapeva la risposta, la sapeva a memoria. 
Non avrebbe trasformato la galassia in un abominevole parco giochi di creature ibride ed eterne: preferiva l’estinzione a quella soluzione.
La sua seconda scelta era quella dell’Uomo Misterioso: prendere il posto dell’intelligenza, diventare una divinità e plasmare l’universo come più le sarebbe piaciuto.
Era una proposta allettante, una prospettiva per la quale l’Uomo Misterioso aveva compiuto i più atroci crimini: era la Soluzione a tutti i problemi dell’universo.
Guardò il fascio di luce blu e poi il suo sguardo si fissò sulla “cosa” che aveva le sembianze di un bambino. Immaginò se stessa al suo posto, avviluppata nella sua stessa coscienza, imbrigliata per sempre in un eterno pensiero, costretta a convivere con se stessa fino alla fine dei tempi, priva di forma ma non di memoria.
Era disposta a compiere un simile sacrificio in nome di un bene superiore?
Non ebbe bisogno di pensarci: la risposa le uscì dalle viscere, le salì sulle labbra come un rigurgito: - NO.-
La mano della pistola tremava, ma la sua volontà era salda.  
Aveva dato alla galassia tutto, non le avrebbe dato altro.
Il bambino le disse che con quella scelta avrebbe salvato tutti, sacrificando solo se stessa e la galassia sarebbe stata al sicuro da guerre future. Sasha non degnò il bambino di una risposta ma alla parte di lei, quella portava il nome di Shepard e continuava a ripeterle che sarebbe stata la scelta più nobile, ribadì che lei aveva fatto abbastanza, che IDA e i Geth non valevano un simile sacrificio: nessuno lo valeva. Il destino della galassia non era più nelle sue mani: lei aveva fatto abbastanza.
Quando l’intelligenza capì cosa voleva fare tentò di farle cambiare idea, perché dopotutto, per lei, la Distruzione era la scelta peggiore.
-Lui avrebbe scelto il Controllo.- le disse, con la sua inquietante voce bambina.
Non si riferiva all’Uomo Misterioso, ma un altro comandante che, in un’altra storia, in un altro universo, sarebbe stato lì in piedi al suo posto.
-Lui era un eroe.- rispose seccamente, spianando la pistola davanti a sé – Io sono un essere umano.-
Non dovette aggiungere altro.
Nonostante tutta la sua forza, lì nel luogo in cui era nato, il Catalizzatore era impotente: non poté fermarla mentre avanzava, pistola spianata verso i giunti che avrebbero annientato i Razziatori e tutte le creature sintetiche dell’universo.
Rovesciò su quella terribile tecnologia una pioggia di proiettili; provò pena per la specie che stava annientando, ma non colpa.
Guardando fin dove era arrivata, le perdite che aveva subito, i sacrifici che aveva dovuto compiere, chi nella galassia, avrebbe avuto il coraggio di biasimarla per aver scelto la morte invece dell’eternità?
Quando i giunti finalmente esplosero, Sasha Shepard allargò le braccia e, con un sorriso sulle labbra insanguinate, finalmente abbracciò la morte.
Il suo corpo fu sbalzato via, si sentì cadere e poi … poi fu un meraviglioso oblio.

La Normandy ondeggiava e cigolava come una nave in balia di una tempesta; il suo muso affusolato fremeva e le possenti ali faticavano a tenerla in posizione, eppure, nonostante tutto, si ostinava a rimanere ancorata alla Terra, legata al destino del suo comandante come l’anima al corpo.
Shepard non era morta cercando di raggiungere il raggio, di questo Kaidan era fermamente convinto. 
Sapeva, meglio di chiunque altro su quella nave e forse nell’intera galassia, quanto irremovibile fosse la volontà di quella giovane donna dai fieri occhi verdi. 
Sasha Shepard aveva un debito da saldare: con l’Uomo Misterioso, con i Razziatori ed infine con la galassia intera. Non sarebbe morta, non avrebbe permesso a se stessa di morire, prima di aver saldato il suo debito.
E mentre tutti si arrendevano al panico e alla disperazione, convinti che le ultime speranze dell’universo si fossero estinte nell’accecante bagliore rosso che aveva disintegrato l’ultimo, disperato, assalto, al raggio della Cittadella, Kaidan Alenko rimase fermo al suo posto, sul ponte della Normandy, incurante del sangue che gli inzuppava la divisa.
Attendeva. 
Attendeva che Shepard facesse il suo dovere.
Ed infine la sua fede fu premiata.
Le braccia della Cittadella si aprirono e il comandante Shepard eseguì l’ultimo ordine datole da un essere umano: attivò il Crucibolo.
Una luce rossa, abbagliante e devastante, squarciò la Cittadella e i Razziatori più vicini esplosero come fuochi d’artificio in una notte di festa.
La flotta della resistenza si sganciò dal conflitto, cercando in qualche modo di sfuggire a quel raggio devastatore. 
Ma la Normandy non si mosse. Non aveva intenzione di partire senza il suo comandante.
Fu allora che Kaidan Alenko capì perché, di tutti gli esseri della galassia, lei avesse scelto proprio lui.
Perché lo aveva guardato negli occhi e nel profondo delle sue iridi scure aveva intravisto il riflesso di se stessa.
Il maggiore Kaidan Alenko posò la mano sullo schienale della poltrona di Joker che, invano, si affannava a tenere la Normandy aggrappata alla Terra e al suo comandante.
-Dobbiamo andare, Joker.-
Ma Jeff non lo ascoltava, incapace di abbandonare il suo comandante a morte certa … per la seconda volta.
-Lei è ancora là, maggiore. –
- Jeff …-
-Non la abbandonerò di nuovo!-
Kaidan chiuse gli occhi e si obbligò a mantenere la sua promessa -Non possiamo salvarla, Jeff. Non dobbiamo salvarla.- affondò le dita nel sedile in pelle, aggrappandosi all’ultima cosa che gli restava di lei: la sua nave – È giusto che il comandante Shepard riposi in pace. Dobbiamo lasciarla andare.- 
Al suo fianco Samantha Traynor represse un singhiozzo, sentì la sua mano aggrapparsi al suo braccio, ma non disse nulla per contraddirlo.
I terminali della nave lampeggiavano, come impazziti, il ponte tremava, le luci fluttuavano: la Normandy piangeva la fine del suo comandante.
Infine Jeff Moreau capitolò – Maledizione.- fu l’unica cosa che disse.
La Normandy si allontanò dalla Terra, tuffandosi nello spazio inseguita da quell’onda di pura energia, rossa e terribile, che le lambiva la coda. Tentò di fuggire, ma non vi riuscì: fu travolta e, infine, precipitò. 



N.A. Non c'è molto da dire. Non si tratta più di un terribile ritardo, ammetto di aver pensato di abbandonare.
Eppure c'è sempre qualcosa che mi riporta indietro. Sembra proprio che io debba finire questa storia e credo che lo farò, prima o poi ... che sia rimasto qualche lettore oppure no. A chiunque sia arrivato qui grazie e, se invece non è arrivato nessuno ... bhé in quel caso è inutile scrivere altro ... 
A En Sev En gentilissimo e graditissimo recensore vanno le mie scuse per non aver mai risposto. Vedo solo ora la sua splendida recensione e lo ringrazio. Confesso di esserne rimasta molto sorpresa e commossa.
Mi scuso anche con chiunque altro abbia letto i precedenti capitoli e sia rimasto deluso dal fatto che io non abbia continuato. Se c'è qualcuno di nuovo bentrovato, se non c'è nessuno ... bhé valgono le righe di sopra ...

 

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Capitolo 4
*** Noi siamo puro pensiero ***


Ovunque, sempre

Udì il fruscio del vento. Udì le strida dei gabbiani. Udì il rumore lontano delle onde. C’era odore di salsedine e fiori. Sul viso percepì un tepore meraviglioso e a lungo dimenticato. Aprì gli occhi, ma una luce che non vedeva da troppo tempo l’abbagliò, costringendola a schermarsi il viso con le mani.
Pian piano i suoi occhi si abituarono alla luce e divenne consapevole dei capelli sciolti che le accarezzavano il viso, mossi dal vento, e del suo corpo disteso sulla nuda terra. Si mise lentamente a sedere e per prima cosa si guardò le mani: non c’era traccia di sangue o fuliggine o sporcizia su di essere. Erano pulite, come non lo erano state mai.
Sollevò lo sguardo al cielo, convinta di vedervi stagliate le orribili sagome dei Razziatori, invece i suoi occhi si posarono su un cielo limpido, di un azzurro talmente puro da sembrare dipinto. D’istinto il suo sguardo scese alla terra: ricordava crateri fumanti e incendi e alberi sradicati e cumuli di macerie. Non era preparata alla rara bellezza che le comparve davanti: si era risvegliata in un campo di papaveri baciato dal sole. Il vento accarezzava i petali rossi con la malizia di un amante. Fin dove lo sguardo riusciva ad arrivare, vedeva solo quella distesa vermiglia che scendeva lungo i dolci declivi delle colline, fino ai bassi pendii di monti scoscesi.
Sasha Shepard girò su se stessa, abbracciando con lo sguardo quel paesaggio incantato e scoprì che più avanti, oltre la marea rossa, c’era il mare. Una vasta, liscia, distesa d’acqua cangiante come un prisma.
Il sole l’abbagliava, impedendole di distinguere i contorni delle cose, ma più avanti, prima delle scogliere che portavano al mare, le parve di intravedere i contorni di una casa.
Prese un respiro profondo e mosse un passo in quella direzione. 
Appena il suo corpo si mise in moto avvertì una strana assenza: non provava più alcun dolore.
Nella sua mente giaceva il ricordo straziante di un corpo martoriato e morente, ma quando abbassò lo sguardo sull’addome, non vide nessuna ferita e nemmeno i resti dell’armatura bruciata; le sue mani tremanti toccarono la stoffa sottile di un abito verde e ocra con una stampa a fiori.
-Questo è …- sussurrò ai papaveri - … questo è il ricordo di un sogno.-
Senza ulteriori indugi s’incamminò verso la casa e poi la sua camminata divenne una corsa, finché non si ritrovò, ansimante e senza fiato, davanti a un portico adornato da una splendida buganvillea rosa scuro.
Rapita dalla bellezza di quei fiori si accorse dell’uomo seduto sul portico solo quando le rivolse un gentile benvenuto – Eccoti, finalmente, Shepard. Pensavo non arrivassi più.-
Sasha sussultò e, con fatica, mise a fuoco l’uomo che le sorrideva da sopra un libro aperto – Anderson? Pensavo … pensavo fossi morto.-
-Lo sono.- rispose lui, con disarmante semplicità.
Sasha si morse un labbro, guardandosi intorno spaesata – Questo è un sogno?-
-No, non lo è.-
Lei rabbrividì – Se non è un sogno … allora che cos’è?-
-Un posto dove ritrovarsi.-
Sasha si torse le mani, sentendosi vulnerabile per la prima volta dopo molto tempo – Sono … sono morta, Anderson?-
Lui non le rispose, limitandosi a rivolgerle un sorriso comprensivo.
-Ricordo … - chiuse gli occhi e la sua mente fu invasa dalle terribili immagini dell’ultima battaglia - … ricordo il Catalizzatore, le Scelte che mi ha offerto e la mia decisione. Ricordo il rinculo della pistola nella mano, i proiettili che andavano a segno e infine un accecante lampo rosso. Che ne è stato dei Razziatori? E la Terra … c’è ancora qualcuno vivo sulla Terra? Jeff, Kaidan, Garrus … dov’è il mio equipaggio?-
-Calmati, Shepard.- il sorriso di Anderson era stato sostituito da un’espressione di sincera tenerezza – Il tuo equipaggio è sopravvissuto, a parte IDA. La Normandy è al sicuro. La Terra è salva. I Razziatori sono stati sconfitti e la galassia … è relativamente in pace. Hai compiuto la tua missione, comandante: hai vinto.-
Sentì le ginocchia cedere e dovette aggrapparsi alla balaustra per non cadere – Dopo tutto questo tempo, Anderson …- le tremava la voce – Cosa farò, adesso?-
Lui rise – Solo tu puoi fare una domanda del genere in un posto come questo. Ancora una volta la scelta è tua, comandante Shepard: puoi scegliere di tornare indietro o di andare avanti.-
-Non posso rimanere qui, con te?-
-Questo è solo un posto di passaggio dove i morti aspettano i vivi prima di andare oltre. Io ho … ho qualcuno da aspettare. Se lo vorrai, potrai rimanere anche tu, per tutto il tempo necessario, ma non saremo insieme. Abbiamo … persone diverse da attendere. In ogni caso non si può rimanere qui per sempre, prima o poi bisogna andare oltre.-
Sasha deglutì, guardandosi intorno, spaesata … non sapeva … non sapeva cosa fare.
Anderson si alzò, notando il suo sconforto, e le posò una mano calda sulla spalla – Perché non entri, Sasha? Ci sono delle persone che stanno aspettando te.-
Sasha alzò gli occhi verdi su di lui, provò l’impulso di correre dentro, ma qualcosa la trattenne … la consapevolezza che, varcata quella soglia, non l’avrebbe più rivisto.
-Questo è un addio, Anderson?-
Lui le posò un bacio delicato sulla fronte, in un gesto d’affetto che mai si era concesso in vita – Sono sicuro che, da qualche parte, ci incontreremo ancora: dopotutto siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni.- le asciugò una lacrima con il pollice -Ora vai, Sasha Shepard, ci sono amici che ti aspettano da tanto tempo.-
Lei annuì gravemente e, dopo aver lanciato un’ultima occhiata all’uomo che le aveva cambiato la vita, si avvicinò alla porta, allungò la mano ed entrò.

L’accolse un immenso salone: la casa era evidentemente molto più vasta di come apparisse all’esterno. C’erano grandi e luminose finestre che mostravano paesaggi diversi, appartenenti ad innumerevoli mondi, che si univano in una melodiosa cacofonia di colori e immagini che erano poco più che impressioni. Dentro quella sala si muovevano figure sfocate, evanescenti come fantasmi. Alcune era più nitide di altre e si stagliavano vive e reali in mezzo a quella foschia di infiniti popoli e infinite genti.
Scorse Bailey, il Consiglio, la matriarca Benezia, Pressly e Jenkins: erano ombre appena più vivide in mezzo a milioni di figure senza volto; i contorni dei loro corpi parevano bozze tracciate a matita da un disegnatore incerto. Le rivolsero cenni di cortese saluto: qualcuno chinò il capo, qualcun altro le sorrise, Jenkins la salutò apertamente con la mano, ma nessuno tentò di parlarle, nessuno le si avvicinò e Sasha capì che non stavano aspettando lei.
Ricambiò il saluto e passò oltre.
Ed ecco apparire una figura così famigliare che quasi si dimenticò del posto in cui si trovava e, per un attimo, le parve di essere di nuovo sul punte della Normandy, nella cabina di pilotaggio, quando lei le veniva incontro con quella sua aria solenne che preannunciava domande importanti.
La colpa le serrò il petto come un pugno ghiacciato, mentre fissava negli occhi quella creatura che di robotico non aveva più nulla. 
Gli occhi grigi avevano la saggezza di infinite coscienze e le labbra pallide tremavano di emozioni a cui nemmeno lei sapeva dare un nome. In quel luogo dove non erano altro che puro pensiero, l’ombra dei loro corpi terreni dava forma allo spirito senza più nasconderlo.
Erano bottiglie di vetro che infine mostravano il loro contenuto.
IDA era il riflesso delle sue scelte: una creatura che aveva modellato la propria anima, passo dopo passo, scoperta dopo scoperta, con la dolce delicatezza del più abile artigiano. Il  risultato era di una bellezza sconcertante. 
Quando le fu davanti, con l’emozione e la colpa che le serrava la gola, Sasha prese le sue mani nelle sue: erano calde e morbide al tocco. L’attirò a sé, finché le loro fronti non si toccarono. Respirò piano, chiudendo gli occhi per evitare di incontrare i suoi.
-Avrei potuto salvarti.- confessò a fior di labbra – Avrei potuto salvare i sintetici e ho scelto di non farlo. Potrai mai perdonarmi, Ida?-Pronunciò il suo acronimo come se fosse stato il suo nome, perché altro non era: non era più un’Intelligenza Difensiva Avanzata. Era Ida, soltanto Ida.
- Shepard, tu mi hai dato la vita, non come semplice esistenza, ma come essenza. Mi hai insegnato a ridere, a piangere, ad arrabbiarmi, a sognare … mi hai posto davanti a domande a cui io, una delle creature più intelligenti e sapienti della galassia, non ho saputo dare risposte. E, più di ogni altra cosa, mi hai insegnato che sopravvivere non basta. Guardami, Shepard.- come attratta da un potentissimo magnete, Sasha sollevò le palpebre e si perse in quegli occhi grigi pieni di umanità – Io potevo aspirare all’eternità, come tutti i sintetici: ma è la morte che ci rende vivi. Non nego che avrei desiderato qualche anno in più insieme a Jeff e a tutti i quanti voi, ma non baratterei mai i miei, pochi, anni insieme a voi con un’eternità solitaria. Come potrei incolparti per aver scelto la morte invece di una spaventosa eternità? Se ti può consolare, io avrei preso la stessa decisione: meriti di riposare in pace, Sasha Shepard, lo meritiamo tutti.-
Sasha strinse forte le mani di Ida tra le sue -Grazie, Ida.-
-Comandante Shepard …-
Sussultò al suono di quella voce famigliare e sconosciuta insieme: in sé racchiudeva l’eco di mille voci diverse.
Aggrottò la fronte alla vista della persona che si stava avvicinando: aveva le sembianze e le movenze di un Quarian, ma il suo viso era offuscato, come se non sapesse esattamente quali tratti assumere. Non indossava tuta o abiti che riuscisse a identificare: tutto il suo corpo  era avvolto da una luminescenza cangiante, come se centinaia di luci brillassero in totale indipendenza e completa armonia.
-Ti stavo aspettando, comandante Shepard.-
Il modo in cui pronunciò il suo nome le fece salire un brivido lungo la schiena – Legion?-
Le luci fremettero -Non volevo andarmene senza averti rivisto.-
Sasha prese un profondo respiro – Io ti devo delle scuse, Legion. Le devo a tutto il tuo popolo. Il tuo sacrificio …- si sforzò a mantenere la voce ferma: non aveva il diritto di mostrarsi debole - … temo che tu ti sia sacrificato invano, Legion: io non ho avuto il tuo stesso coraggio. Ho lasciato che il tuo popolo si estinguesse, perché non volevo rinunciare a …- si guardò intorno, allargando le braccia - … a questo.-
-Comandante Shepard, Sasha.- il suono del suo nome riverberato da mille voci la lasciò senza fiato e, di nuovo, le luci fremettero: capì che era un sorriso – Quando chiunque altro pensava solo a disattivarci tu ci hai parlato. Quando abbiamo scelto, di nuovo, di stare dalla parte delle Antiche Macchine, tu ci hai dato il beneficio del dubbio. Quando abbiamo chiesto la tua incondizionata fiducia, tu ce l’hai concessa. Prima d’incontrarti la nostra sola prospettiva era la perfezione o la disattivazione. Se avessimo voluto solo sopravvivere, avremmo accettato l’offerta delle Antiche Macchine. Loro volevano darci l’eternità, ma tu ci hai dato …- imitò il suo gesto, abbracciando con lo sguardo tutta la stanza - … questo. Adesso anche noi siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni e non avremmo potuto desiderare dono più prezioso.-
La stessa frase pronunciata da Anderson: le differenze che avevano segnato tutti quanti loro in vita, sembravano solo il lontano ricordo di un incubo protrattosi troppo a lungo. Sasha allungò lentamente una mano – Il tuo aspetto, Legion …-
La mano luminosa di Legion incontrò la sua a mezz’aria e, quando si sfiorarono, Sasha sentì lo sfrigolio dell’elettricità sulla pelle 
– Questo è ciò che sono. Io sono. È tutto quello che desideravo essere e lo devo solo a te.-
Le sfuggì un risolino – Il bambino si sbagliava … non nel mondo reale, ma qui: Sintesi. Qui dove ogni cosa è come dovrebbe essere, non siamo più organici o sintetici. Qui, semplicemente, siamo.- chinò il capo davanti a Legion – Sei come ti immaginavo, amico mio, e molto di più. Il vostro perdono …- spostò lo sguardo su Ida che ascoltava quietamente il loro scambio - … ha un valore che le sole parole non possono esprimere.-
-Shepard …- mormorò Ida - … dopo tutto quello che hai fatto per noi, come potremmo rimproverarti qualcosa? La vita che ci hai donato avrebbe avuto un sapore molto amaro se, per permetterci di conservarla, tu avessi dovuto rinunciare a tutto questo. Non è la fine perfetta, Sasha, ma è la fine giusta. Qui gli eroi non arrivano: qui ci siamo noi.-
Sasha Shepard annuì, grata, il petto troppo gonfio di commozione per poter dire qualcosa.
-La mia attesa è finita, comandante Shepard.- si congedò Legion con uno sfarfallio di luci – È tempo che io raggiunga il mio popolo.-
Sasha guardò con affetto la sua luminosa figura. Lasciarlo andare, finalmente, le parve giusto – Addio, amico mio.-
Ci fu come un lampo e poi … poi il mondo che la circondava divenne impercettibilmente un po’ più buio.
-E tu? – si rivolse a Ida a voce bassa, timorosa della risposta – Anche tu te ne stai andando?-
- Comandante Shepard, io rimango qui, per un po’.- c’era un sorriso sulle sue labbra e nella sua voce – Aspetto la mia famiglia, il mio amore. Vorrei che fosse una lunga attesa e, se vorrai, mi farà piacere la tua compagnia.-
Sasha aprì la bocca per rispondere, ma Ida la fermò – No: non rispondere, non adesso. Prima, ci sono altre persone da incontrare …- indicò qualcosa alle spalle di Shepard.
Sasha seguì la sua indicazione ma, inizialmente, vide solo altre ombre indistinte, quando si voltò per parlare con Ida scoprì che anche lei era diventata sfocata. Seguì con lo sguardo la sua figura sfuggente perdersi nella folla, prima di incamminarsi nella direzione che le aveva indicato. 
Senza rendersene contò varcò una soglia e si trovò, d’improvviso, in riva a uno splendido mare, su una lunga spiaggia dorata. Alle sue spalle non c’erano né scogliere né case, solo dune e arbusti spinosi. Nell’aria c’era odore di salsedine e sole.
Si tolse le scarpe, abbandonandole nella sabbia. Con un sospiro di pura estasi affondò i piedi nudi nei tiepidi granelli dorati.
Un cantante stonato interruppe il ritmico borbottio delle onde e Shepard si ritrovò a sorridere al cielo mentre la voce raggiungeva acuti che rivaleggiavano con le strida dei gabbiani.
Mordin Solus sgambettava sul bagnasciuga, raccogliendo conchiglie di cui cantava le proprietà man mano che le esaminava per poi scartarle. 
Era così assorbito dalla sua ricerca che arrivò a un passo da lei senza accorgersi della sua presenza.
-Esemplare insolito. Mai visto conchiglia con questa forma.- le lunghe dita si avvicinarono furtivamente al suo alluce – Questo è … oh.- la curiosità divenne sorpresa e poi disgusto – Piede umano.-
-Sei uno scienziato brillante, Mordin.-
Se vederla in quel posto lo sorprese non lo diede a vedere. Fece un sorrisetto mettendosi dritto – Io credevo questo posto perfetto.- lanciò un’ultima occhiata disgustata al suo piede – Chiaramente io illuso. Però potrei migliorare.-
Sasha allontanò velocemente il piede – In trent’anni nessuno si è mai lamentato dei miei piedi: non li farò certo modificare da un dottore Salarian defunto.-
-Peccato. Avevo idea di usare conchiglie …-
Risero entrambi e si lasciarono cadere sulla sabbia.
-Alla fine ce l’hai fatta.- commentò Shepard – Hai avuto la tua spiaggia e le tue conchiglie. Per essere un così gran chiacchierone ti sei scelto un posto molto solitario dove aspettare.-
-Suono di mia voce è sempre stato mio preferito. E poi io non da solo.- indicò un punto più avanti, dove la spiaggia si allargava a formare un piccola laguna – Lui arrivato qui poco dopo me.-
C’era una figura solitaria in piedi sulla sabbia, sottile come un giunco. Aveva le mani intrecciate dietro la schiena e gli occhi senza pupille fissi sull’orizzonte – Thane …- vederlo lì, in riva al mare, non la sorprese affatto.
Riportò la sua attenzione su Mordin che, canticchiando, aveva ripreso la sua ricerca di conchiglie.
-Adesso che farai? – gli domandò.
Per la prima volta da quando lo conosceva lo scienziato Salarian non aveva la risposta pronta.
Dedicò un’attenzione esagerata al banale guscio di una cozza, prima di ributtarla in mare con un’espressione sofferente sul viso rugoso – Io … io non lo so.- confessò. Pronunciare quelle parole parve provocargli un autentico dolore fisico.
Sasha immaginò che mai, durante la sua corta ed iperattiva esistenza, avesse affermato un cosa del genere.
-Mio lavoro non ha lasciato spazio per affetti e affrontare ultimo passo da solo mi …- era a corto di parole.
-… spaventa.- concluse Shepard per lui.
Mordin annuì – Genofagia necessaria, ma difficile. Qui solo verità, Shepard. E verità dice che Genofagia causato molto dolore e io responsabile.-
-Non è la tua volontà a tenerti qui …- mormorò, colta da un’improvvisa rivelazione – Tu non puoi andartene.-
-Credo tutte e due cose, Shepard, non voglio e non posso. Questo posto è difficile da capire. Giudizio su mie azioni negativo e quindi costretto qui, a contare conchiglie.-
-Io credo che dipenda da te, Mordin. Non c’è un tribunale, nessuno giudice divino: ci sei solo tu e quello che hai fatto.-
-Cambia qualcosa? Per tutta mia vita giustificato mio lavoro, detto a me che fatto cosa giusta, ma qui, dove bugie svaniscono, mi accorgo che io sono giudice e condanno mie azioni.-
-La Genofagia è stata un autentico flagello, ma non è il tuo flagello.-
-Shepard …-
Lo zittì con un gesto – Ascoltami: la Genofagia è figlia dei Salarian che hanno elevato i Krogan per i loro scopi; è figlia dei Turian che non hanno esitato ad usarla per porre fine alla guerra; è figlia dei Krogan che hanno giocato a fare i conquistatori di una galassia che non voleva essere sottomessa; e, naturalmente, è anche tua figlia che l’hai aiutata a crescere, ad evolversi, a mutare. Ne sei il tutore, ma non sei stato tu ad averla liberata nel mondo: la decisione di crearla e di usarla non fu tua. I colpevoli della Genofagia sono più di quanti ne potremo mai contare: lo sono anch’io che, se non fosse stato per i Razziatori, avrei continuato a considerarla parte di questa galassia. La Genofagia ha molti padri e molte madri, ma la cura ha solo un padre e …  un patrigno: bisogna dare a Maelon i suoi meriti. - gli puntò il dito al petto – Quando si è trattato di porre rimedio alla Genofagia tu non ti sei tirato indietro: hai creato la cura, l’hai usata e io so, che con o senza i Razziatori, tu l’avresti usata comunque. Migliaia di persone, per innumerevoli secoli, hanno condannato i Krogan senza possibilità di appello, solo una ha scelto di dar loro un futuro.- Mordin distolse lo sguardo, fissandolo sul mare che, placido, continuava il suo moto perpetuo, senza curarsi dei loro problemi. I grandi occhi scuri del Salarian avevano un luccichio inusuale.
Shepard gli mise una mano sulla spalla sottile -  Io non posso darti l’assoluzione per la Genofagia, Mordin, nessuno può farlo, ma non è una colpa che devi portare da solo. –
-Rimane mia responsabilità.-
- Sì, lo è. Ma prima di salutarci vorrei porti un’ultima domanda: la Genofagia sarebbe stata modificata anche senza di te?-
Ci fu un lungo silenzio, interrotto solo dalle strida dei gabbiani – Sì.-
-Se tu ti fossi tirato indietro, se avessi lasciato a un altro la tua responsabilità, e se questa persona si fosse sbagliata i Krogan si sarebbero estinti e in questo posto, davanti a questo mare, non ci sarebbe stato nessuno, perché a noi sarebbe stata riservata l’eternità dei Razziatori.- gli strinse la spalla – La Genofagia era una tua responsabilità: qualcun altro avrebbe potuto sbagliare.-
Le labbra dello scienziato tremavano e le doppie palpebre dei suoi grandi occhi globulosi sbattevano più veloce del solito – Credi che Krogan … loro …-
Sasha sorrise – Credo che faranno buon uso della loro nuova vita. Credo che torneranno ad essere grandi.-
-Io … io vorrei saperlo, prima di andare.-
-Li puoi aspettare, Mordin: Bakara, Wrex … l’equipaggio della Normandy. Dopotutto era quella la tua famiglia, no?-
-Sì.- Mordin sorrise – Voi famiglia e Bakara come … come sorella. Io credo di sapere dove andare, adesso. – si alzò spazzolandosi via la sabbia dai vestiti – Tu venire?-
Lo sguardo di Sasha si posò su Thane, immobile nella stessa posizione di prima – Non ancora, Mordin. Ci sono altri amici che voglio salutare.-
Mordin annuì – A presto, Shepard.-
Quando il comandante riportò lo sguardo su di lui era sparito.
Un po’ controvoglia si alzò, restia ad abbandonare il suo tiepido giaciglio di sabbia.
Camminò lentamente lungo la riva del mare, lasciando che le onde le lambissero le caviglie.
Non ricordava di aver mai passato, in vita, una giornata come quella: a passeggiare in riva al mare, godendo del calore del sole sulla pelle, del vento che le scompigliava i capelli e degli spruzzi di acqua marina che le solleticavano le gambe.
Il suo lento passeggiare la condusse accanto alla figura, solitaria e immobile, che scrutava l’orizzonte come se stesse aspettando di vedervi comparire una barca.
L’impercettibile rilassarsi delle sue spalle fu l’unico segno che avesse notato la sua presenza.
Meccanicamente Sasha imitò la sua posa: braccia dietro la schiena e testa eretta, mentre il mare, di fronte a loro, rimaneva immutato, nonostante le ombre che, di tanto in tanto tremolavano sulla superficie come pesci fantasma.
Una nuova consapevolezza si fece strada nella mente del comandante e, quando si guardò attorno, si accorse che la spiaggia non era poi così deserta come l’aveva dipinta al primo sguardo: anche lì s’intravedevano i contorni di figure evanescenti. Spiriti erranti in attesa dei loro cari.
Quando tornò a guardare Thane si accorse che, dopotutto, non era solo. Accanto a lui l’aria vibrava e s’incurvava assumendo i contorni di qualcuno che non poteva vedere. La persona accanto all’assassino le era sconosciuta, ma sapeva perfettamente chi fosse, anche se era celata al suo sguardo.
-L’universo è un po’ più luminoso in questo posto.- mormorò rompendo il religioso silenzio che alleggiava su di loro.
Le labbra di Thane s’incurvarono appena – Qui ci sono occhi che hanno il colore del tramonto.-
-Lei è qui?-
-Sì.- vide la mano di Thane allungarsi alla sua destra e sfiorare qualcosa che lei non poteva vedere – Dice che non esistono parole adatte per esprimere la sua gratitudine nei tuoi confronti.-
Sasha Shepard sospirò, scuotendo mestamente il capo -Avrei voluto poter fare di più. Tu, meritavi di meglio.-
Thane rise e, per la prima volta, lo sentì libero dalla malattia: la sua risata era profonda, lunga, senza pause per respirare. Era potente come il rombo del vento.
-Mi hai riportato dalla mia famiglia, Shepard, dai miei dèi. Hai dato un senso agli ultimi anni della mia vita e mi hai concesso di morire in pace. Guardami, comandante …- i loro occhi si incrociarono e nei profondi occhi del Drell lesse un senso di pace che le fece venir voglia di piangere - … questa è la mia anima ed è integra, grazie a te. Ho ritrovato la mia amata e qui, sulla riva di questo mare, attendiamo insieme nostro figlio.-
Sheapard prese una mano del Drell tra le sue – Un giorno mi dicesti che solo poche persone hanno quello che meritano, nel bene o nel male. Tu meriti tutto questo, Thane Krios: meriti di essere felice qui, oltre il mare, con la tua famiglia.-
Thane si portò la sua mano alle labbra e vi posò un bacio lieve. Le sue labbra erano fredde sulla sua pelle – La Normandy è stata la mia seconda casa e voi una famiglia. Tuttavia non sarò al vostro fianco per l’ultimo viaggio. Il mio è posto è qui.-
-Lo so e non ti chiederei mai di abbandonarlo. Riposa in pace, amico mio.-
-Anche tu.-
Chiuse gli occhi e, quando li riaprì, era di nuovo sola.
Le onde placide del mare lambivano pigramente i suoi piedi nudi mentre il sole scendeva oltre l’orizzonte: una sfera rossa e tremante che sprofondava nel mare. Davanti allo spettacolo di quel tramonto sul mare, Sasha Shepard pianse.
Non avrebbe saputo dare un nome a quelle lacrime. 
Erano gioia per il mondo che aveva salvato e gli amici che aveva ritrovato. 
Erano dolore per la sua nave perduta e l’equipaggio abbandonato in una galassia da ricostruire.
Ed erano vergogna per il timore che covava in fondo al suo petto. 
Oltre quella spiaggia c’erano altri luoghi e, in quei luoghi, altre anime da affrontare e non tutte sarebbero state quiete e pacifiche come quelle appena incontrate. 
Ida e Legion, Mordin e Thane, erano morti in nome di un bene superiore, per rendere la galassia un luogo finalmente libero. 
Non era una galassia giusta; non era equa; certamente non era buona. Era solamente libera: era più di quanto fosse mai stata, più di quanto avrebbe mai meritato di essere. 
In ognuna di quelle morti c’era la consapevolezza di aver raggiunto uno scopo più grande della vita stessa.
Ma non era sempre stato così. Non tutti i sacrifici erano stati compiuti in nome di un bene superiore. Alcuni, i più terribili, avevano come unica causa il mero egoismo. Erano quelle le anime che Sasha paventava d’incontrare: le anime degli amici morti perché il comandante Shepard potesse diventare … ciò che era diventato.  
Il vento le scompigliò i capelli e uno spruzzo d’acqua salata le solleticò il viso. Dietro di lei sentì il rombo di un tuono.
Era tempo di andare.
Avanzò nell’acqua e le sovvenne un ricordo d’infanzia, quando ancora credeva in una salvezza che sarebbe giunta dalle stelle.
Il Mar Egeo l’aveva accolta come una madre amorevole e nelle sue acque aveva versato in segreto le sue lacrime di bambina. Come stava facendo ora.
Nelle acque cristalline di quel luogo che non esisteva, ritrovò i suoi ricordi perduti e scoprì che erano belli.
La distesa di acqua che, sconfinata, si stendeva fino all’orizzonte non le fu più sconosciuta. 
Era a casa.
Prese il mare tra le mani e se lo buttò in faccia, non più donna, di nuovo bambina.
E con un riso che si perse tra le onde, si tuffò in quel mare dipinto dai colori del tramonto.

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Capitolo 5
*** Un luogo di pace in un mondo di guerra ***


Quando la sua testa infranse la superficie dell’acqua era notte e, sopra il suo capo, brillavano milioni di stelle.
Attorno a lei il vasto e liscio orizzonte era stato sostituito dalle chiare pendici di montagne innevate. Si trovava in un lago montano, illuminato dal riverbero di una luna sorprendentemente misteriosa e inviolata. Era in un luogo fuori dal tempo.
Nuotò fino a riva, mentre un freddo pungente le penetrava le ossa senza farle alcun male.
Quando i suoi piedi toccarono terra si trovò a camminare su una distesa di neve.
Sotto i piedi nudi sentiva il gelo della bianca coltre e, la parte razionale della sua mente, la informò che avrebbe dovuto provare dolore e preoccuparsi di un congelamento imminente. Ma le regole della materia non esistevano in quel luogo sospeso tra i mondi e lei camminava, scalza e bagnata, nell’aria gelida di un inverno montano, senza alcun timore della morte poiché, morta, lo era già. 
Prenderne coscienza fu un immenso sollievo.
Si avviò verso l’unica fonte di luce che brillava nell’oscurità di quella valle affacciata sul lago. I suoi passi avanzavano eterei sulla neve, senza lasciare traccia alcuna. 
Era un fantasma in un mondo di puro pensiero.
La casetta comparve all’improvviso, come per magia. Le parve di udire l’eco, lontano e indistinto, di una risata infantile. Si guardò intorno, cercando la fonte di quel suono inaspettato, ma non vide nulla. 
Qualcosa di umido le bagnò la guancia e quando alzò gli occhi al cielo si accorse che la luna e le stelle erano scomparse, tutte tranne una, che brillava sopra la sua testa come l’occhio luminoso di una divinità. Stava nevicando.
La porta della casetta si aprì e una forma indistinta comparve sulla soglia.
Sasha Shepard rimase immobile in mezzo alla neve, chiedendosi di chi stesse violando il riposo.
-Ah, sei tu.- disse una voce femminile, tra l’annoiato e il rassegnato – Mi chiedevo se saresti mai arrivata.-
Seguì un lungo silenzio mentre entrambe si domandavano cosa sarebbe accaduto dopo.
Fu la donna sulla soglia a parlare di nuovo– Avanti, vieni dentro. Il calore del fuoco è piacevole, anche se sei morto.-
Sparì all’interno, lasciando la porta socchiusa.
La luce che filtrava da dentro attirò il comandante come la falena verso la fiamma.
Sasha entrò con circospezione, guardandosi intorno alla ricerca di un indizio su chi fosse la sua misteriosa ospite.
La capanna era piccola e ospitale. Un caldo nido che parlava di famiglia e dolci ricordi. 
Era un luogo di pace.
Seguì il tepore del fuoco e si ritrovò in un salotto raccolto attorno a un camino di pietra. I divani sembravano fatti apposta per sprofondarci dentro e sul tavolo di legno grezzo erano appoggiati una teiera fumante e un vassoio di biscotti.
Di fronte a lei, sulla parete, capeggiava il ritratto ad olio di un uomo distinto che indossava con fierezza la divisa dell’Alleanza. Riconobbe gli occhi scuri e il naso aquilino dell’uomo e, in un attimo, l’identità della donna non fu più un mistero.
-Era tuo nonno?-
-Sì.- la voce giunse da una delle poltrone che davano le spalle alla porta – Il generale Williams amava e odiava quel ritratto. Gli ricordava l’uomo che era stato e ciò che non avrebbe più potuto essere. Non ho mai capito perché l’avesse appeso qui, nell’unico luogo dove poteva essere uomo, padre e nonno, invece che un generale. Questo è sempre stato un luogo di pace in un mondo di guerra.- la donna gettò un ceppo di legno nel fuoco che sfrigolò, felice di quel dono inaspettato – Non me l’ha mai voluto spiegare e, anche adesso, si rifiuta di darmi una risposta.-
Sasha Shepard incrociò gli occhi del generale. Erano stati dipinti con un’espressione autoritaria e altera, ma lei sapeva che c’era molto altro dentro quegli occhi: colpa e vergogna.
-Forse sapeva di non meritare un luogo come questo. Ci sono persone che non meritano pace. Ci sono colpe che non hanno redenzione.-
Ashley Williams prese un respiro profondo – Non sta a lui decidere, comandante Shepard. Qui la guerra non esiste. Qui i colpevoli non arrivano. C’è redenzione per le sue colpe, anche se lui si rifiuta di vederla. E c’è redenzione anche per te, Sasha.-
-Su Virmire ti ho lasciato indietro a morire.-
Ashley si alzò dalla poltrona. Non era cambiata. Era fiera e altezzosa, bella come un’antica dea, altrettanto superba.
Non erano mai state amiche. E come avrebbero potuto esserlo? Erano nate per essere rivali.
Eppure, nonostante tutto, avevano saputo essere alleate ed ora si guardavano negli occhi come sorelle.
-Fu anche una mia scelta. Non t’illudere di essere stata tu ad uccidermi.-
Persino in quell’occasione non voleva dargliela vinta.
-Ash … è più complicato di così e tu lo sai.- aveva la bocca arida e le mani sudate – Salvai Kaidan perché …- le mancò la voce, ma non poteva più tirarsi indietro. Le doveva una risposta e la doveva anche a se stessa, per quanto orribile potesse essere – Perché lui era mio amico e tu no. Ho scelto lui perché l’idea di perderlo mi era insopportabile. Ho scelto lui perché lo amavo più di te.-
Si sentì avvampare di vergogna, ma non poteva rimangiarsi quelle parole così orrende. Era la verità. Una verità terribile nella sua sconcertante banalità.
Con sua sorpresa Ashley sorrise. Era il sorriso oscenamente sollevato di chi sente finalmente una verità taciuta e terribile, ma sempre sospettata. Ashley sapeva da sempre che era quello il motivo della sua morte e sentirselo dire, infine, la liberava.
-Ci vuole coraggio, comandante, ad ammettere una scelta così brutalmente egoista. Credi che non lo sapessi? Nel momento in cui capii che avresti fatto una scelta seppi che avresti scelto lui. E perché non avresti dovuto? Sappiamo entrambe che Kaidan meritava di essere salvato, molto più di me. Lui è sempre stato il tuo rifugio, come per mio nonno questa capanna: un luogo di pace in un mondo di guerra. – Ashley Williams versò una tazza di tè e gliela porse – Tieni: si discute meglio davanti a una tazza di tè.-
Shepard strinse le dita attorno alla ceramica calda e si lasciò cadere su una poltrona – Ero certa che mi avresti odiata.-
-E l’ho fatto.- ammise Ash, sedendosi a sua volta – Per molto, molto tempo ho covato rancore. Non ero pronta a morire. Credevo di esserlo. Per tutta la vita mi sono preparata a quell’evenienza, come ogni soldato. Ma nulla può prepararti ad affrontare la consapevolezza di essere giunto alla fine delle propria esistenza, quando persino la speranza di un salvataggio impossibile ti abbandona. Quando capii che avresti scelto Kaidan io …- le sue labbra tremarono e abbassò lo sguardo, come se temesse che Shepard potesse leggerci dentro una verità imbarazzante - … non ho mai provato una paura così grande e una rabbia così profonda. Tu eri il comandante Shepard, il primo Spettro umano … pensavo che avresti trovato un modo per salvare entrambi, come hai sempre fatto. Ma io fui il tuo fallimento … proprio io...-
Shepard strinse le mani intorno alla tazza, così forte da scottarsi – Se tu mi conoscessi sapresti che non ho mai salvato nessuno e che i miei fallimenti sono innumerevoli. Tutti quelli che amavo sono morti.-
-Hai salvato Kaidan. Hai salvato Garrus. Hai salvato Jack e Miranda, Grunt e Jacob. Hai salvato i Krogan e i Racni. Hai salvato la Terra e l’umanità. Hai salvato la galassia intera.- gli occhi scuri di Ashley Williams brillavano – Ma non hai salvato me. Il comandante Shepard non ha mai fallito, tranne che con me. – si asciugò una lacrima sfuggita al controllo – Sarebbe stato più facile se tu non avessi salvato nessuno, se infine avessi perso la dannata guerra. Non sarei stata sola. Sono orrendi pensieri, non è così?- Ashely fissò le fiamme che sfrigolavano placide – Ma non è più il tempo né il luogo delle buone parole e dei buoni pensieri. Questo è il luogo della verità e la verità è questa: non sopporto l’idea di essere stata il tuo unico, vero, fallimento. L’unico membro dell’equipaggio ad essere stato lasciato indietro. Per questo … per questo perdonarti è così difficile.-
Non sapeva cosa risponderle. Bevve un sorso di tè per darsi coraggio. Non funzionò.
-Eppure lo hai fatto. Non sarei qui altrimenti.-
Ashley sospirò – Siamo molto simili tu ed io. Per questo non siamo mai state amiche. Abbiamo troppo in comune. Su Eden Prime sono stata l’unica superstite della mia squadra. Tu sai bene cosa vuol dire.- i loro occhi si incrociarono: vi era riflesso lo stesso, insondabile dolore – Non c’è onore nell’essere dei sopravvissuti, solo colpa. Azionare quella bomba, su Virmire, era la mia espiazione, come la tua lo è stata quella di distruggere il maledetto Catalizzatore. Morire laggiù era il mio destino. Nel momento in cui l’ho accettato ho smesso di biasimarti. Mi avevi già salvato una volta, cos’altro potevo pretendere? Non si può solo sopravvivere. La vita non è questo, un soldato non è questo.-
-Non ci avevo mai pensato in questi termini … è molto saggio quello che hai detto.-
Lo sguardo di Ashley si fissò su qualcuno che solo lei poteva vedere, seduto sull’unica poltrona rimasta libera – Non è farina del mio sacco. Io sarei rimasta arrabbiata per sempre. Ma è a questo che servono i nonni, no? Ad essere saggi quando tu non sei in grado di esserlo.-
Shepard rivolse un cenno di ringraziamento a quella presenza che poteva solo intuire, poi si alzò allungando la mano verso Ashley 
-Lui ti ha mostrato la via, ma sei stata tu a scegliere di seguirla. Il tuo perdono mi dona pace ed è più di quanto io meriti. Grazie, Ashley Williams. E, per quello che vale, sappi che quel fallimento, quel terribile, imperdonabile fallimento, non tormenta solamente te. Ma non è stato l’unico. Il comandante Shepard è stato creato per essere perfetto, ma Sasha … lei ha fallito molte volte: Akuze, Virmire, la prima Normandy, Arathot, Thessia. Garrus una volta mi disse che noi umani ci colpevolizziamo troppo, che vogliamo sempre salvare tutti anche se è impossibile … comprendo le sue parole, ma non riesco ad accettarle: che razza di eroe non riesce a fare l’impossibile? -
- Non ho risposte a questa domanda, ma c’è verità nelle parole di Garrus, anche se mancano di sincerità. – sospirò, lanciando un’occhiata in tralice al quadro suo nonno – Ricordo la sua disperazione nel non aver salvato degli innocenti. La colpa è un fardello con cui ognuno di noi deve convivere e la perfezione un’utopia irraggiungibile. I tuoi fallimenti, comandante Shepard, non mi consolano e questo …- Ashley strinse energicamente la sua mani con una smorfia che assomigliava ad un sorriso - … questo è un bene.-
-Ovunque tu decida di andare, Ashley Williams, sappi che c’è sempre un posto per te, sulla Normandy.-
-Un ultimo viaggio, comandante?-
-Con chi vorrà farlo. Quando sarà il momento lo saprai, e potrai scegliere se venire con noi. Non ti lascerò più indietro, Ashley Williams.-
Ashely scosse il capo con un sorriso beffardo sulle labbra, ma i suoi occhi erano finalmente liberi da qualunque dolore – Lo farai comandante, se sarò io a chiedertelo, come hai già fatto. Ma va bene così.- rise, una risata che sorprese entrambe nella sua genuina spontaneità – Va bene così.-
-Non hai mai avuto peli sulla lingua, Ash, sono felice che la morte non ti abbia cambiato.-
-Pure io, comandante, pure io. – Ashley Williams si ricompose e in lei Sasha notò una leggerezza che non aveva mai avuto prima, né da viva né da morta – Ti ringrazio, comandante per essere venuta fin qui, per essere tornata da me, ne avevo bisogno.- le impedì di replicare con un gesto perentorio. Il discorso era chiuso. Per sempre – Penserò alla tua offerta, ma prima devo occuparmi della mia famiglia. Sono stata lontana per troppo tempo. –
-Non c’è fretta, Ashley Williams … qui … qui c’è tutto il tempo del mondo. Buona fortuna e, se non dovessi più rivederti, sappi che è stato un onore averti al mio fianco.-
Ashley Williams si mise sull’attenti, per l’ultima volta – Comandante: requiescat in pace.-
Shepard non riuscì a trattenere un ampio sorriso: per la prima volta, dopo tanto tempo, quel sacco, pieno di tutti i dolori del mondo, cominciava ad alleggerirsi ed ora iniziava a sperare che, alla fine di quel lungo viaggio, avrebbe trovato finalmente la pace.
-Lo farò, Ash, lo farò.-
Non rimaneva altro da dire. Si avviò verso la porta e, di nuovo, fu in riva al mare.

La prima cosa che la colpì, fu la limpidezza dolorosa della luce. Una luce così pura che, per un istante, ne rimase abbagliata. La brezza marina portava alle sue narici odore di pino e terra calda.
Si trovava su un pendio sassoso che, dolcemente, arrivava fino a un mare liscio e cristallino. Il vento arrivava dall’entroterra, soffiando verso il largo, così nessuna onda giungeva a lambire la spiaggia sassosa. Attorno a lei cresceva un boschetto di olivi, antichi come la terra stessa. Erano anneriti e nodosi, forti e robusti, e la facevano sentire effimera, come se fossero esistiti da ben prima del tempo degli uomini e avrebbero continuato ad esistere per migliaia di anni dopo la fine di quel tempo. Persino in quella dimensione, dove il tempo non esisteva, si respirava aria d’eternità.
Esisteva un solo luogo in tutto l’universo così dolorosamente antico.
Era di nuovo a casa, nella sua Grecia, il luogo della sua prima morte.
Quel luogo era … tutto ciò che aveva cercato di dimenticare. Per tutta la durata della sua giovane vita, aveva accuratamente evitato ogni reminiscenza di quel passato tormentato e ostile … ma c’era bellezza in esso, lo vedeva soltanto adesso.
Diede le spalle al mare e risalì la piccola collina coperta di olivi. Il sole le scottava la schiena.
La casa era piccola e spartana, poco più di un quadrato di mattoni rivestiti di intonaco bianco. Una capretta brucava nel piccolo cortile dove troneggiava un grosso olivo dai rami spioventi. Sotto l’albero imponente c’era un tavolino di legno con sopra un cestino di verdure. Qualcuno aveva iniziato a tritare le cipolle e lì le aveva lasciate, con accanto un coltellaccio da cucina.
Davanti alla porta era steso un filo col bucato ad asciugare.
Era un luogo povero e spoglio, ma c’era in esso un dignitosa cura e una confortevolezza che raramente le era capitato di trovare. Di certo non nei luoghi più scintillanti della galassia. Per molti versi le ricordava la flotta Quarian, quelle navi pieni di difetti ed imperfezioni, ma più accoglienti e vive della Cittadella stessa.
Una donna uscì dalla porta, sorreggendo una grossa pentola piena d’acqua. D’istinto, Sasha, si rannicchiò dietro un albero, nascondendosi nell’ombra .
Non aveva mai visto quella donna, ma l’avrebbe riconosciuta ovunque. I lunghi capelli rossi, raccolti in una treccia spettinata, incorniciavano un viso cosparso di lentiggini. Era come guardare il proprio riflesso nell’acqua: c’erano delle discrepanze ma nessuna differenza.
Non aveva mai conosciuto sua madre, una prostituta di Atene morta dandola alla luce. Aveva sempre cercato di non pensare a lei, forse perché le, poche, cose che sapeva sul suo conto, raccontavano una storia terribilmente triste.
Non c’era nulla di bello nella sua vita da ricordare.
Un’orfana venduta e scambiata, sfruttata e stuprata nell’indifferenza assoluta. Una storia orrendamente comune.
Era stata una vita opaca quella di Sophie che tutti chiamavano Lily, finché non aveva conosciuto un ragazzo, un soldato dell’Alleanza, che l’aveva lasciata con un figlio nella pancia, un nome sussurrato nella notte e una promessa mai mantenuta. 
Lui si era perso tra le stelle e la puttana dai capelli rossi, un giglio tra i tulipani, era morta dando alla luce una bambina che aveva stretto tra le braccia giusto il tempo per darle il nome di suo padre: Sasha.
E quella bambina, dal retaggio così infame, era cresciuta fino a diventare l’eroe della galassia, quel comandante Shepard che era ormai una leggenda e ora si nascondeva, fantasma in un mondo di ombre, tra gli olivi di Grecia, incapace di affrontare la sua prima vittima.
Che cosa poteva dirle?
Sophie si era fermata davanti alla porta di casa e scrutava il mare che si intravedeva oltre gli oliveti nella costante attesa di una salvezza che non sarebbe mai giunta. Il ragazzo che aspettava non sarebbe arrivato in quel mondo di ombre come non era arrivato nel mondo reale. Sasha aveva conosciuto l’uomo che era diventato e non c’era salvezza per esso.
Ma quel luogo, in costante mutamento, non aveva ancora esaurito i suoi trucchi.
Da qualche parte, in mezzo agli olivi, non molto distante da lei,  si levò una melodia. Era uno splendido suono, come se un tordo avesse adattato il proprio canto ai gusti umani e stesse riversando tutto il suo cuore tra i rami nodosi. Una cascata di note la travolse, sorprendente come uno scroscio improvviso di pioggia, e poi divennero lievi e delicate, come una pioggerellina leggera che solletica appena la pelle, e infine le nuvole si diradarono e il sole splendette. 
Quando la musica finì si sentì defraudata: come poteva, una cosa tanto bella, terminare così all’improvviso?
Eppure le era già successo, molti anni prima, quando la morte si era intromessa, prepotente, nei giorni più felici della sua vita, portandoglieli via per sempre.
Dall’oliveto emerse un ragazzo con un mandolino a tracolla e il viso di Sophie s’illuminò con la stessa veemenza del sorgere del sole.
Era un giovanotto biondo e slanciato, che camminava come se non avesse alcun pensiero al mondo. Sasha sapeva chi era. Per anni aveva tenuto in tasca una fotografia con impresso il suo viso, sperando di scorgerlo tra una folla di sconosciuti. 
Quando l’aveva trovato, anni dopo aver smesso di cercarlo, quel viso era così trasfigurato da essere inconoscibile, eppure in quegli occhi verdi, identici ai suoi, aveva trovato il padre di cui portava il nome.
Ma del giovane uomo che aveva promesso a una puttana una vita tra le stelle non rimaneva che il guscio. La vita non gli aveva risparmiato alcun tormento, trascinandolo in un abisso dal quale non c’era alcuna risalita.
Ed ora, guardando il giovane musicista che abbracciava e baciava sua madre, capì che non era l’uomo che, in una bettola di Atene, le aveva raccontato i crimini di guerra dell’Alleanza prima di sacrificarsi per salvarle la vita. Lì, nel crocevia dei mondi, un uomo come quello non era il benvenuto.
Il giovane soldato di cui sua madre si era innamorata non era mai tornato dallo spazio profondo. Era morto in battaglia durante la Guerra del Primo Contatto.
Il padre che Sasha aveva conosciuto e pianto, il mostro di Frankenstein dell’Alleanza, era solo un dato statistico, una delle tante vite deviate e rovinate dalla guerra, un eroe corrotto e destinato al nulla.
Quell’uomo si era dissolto nel momento della sua morte e la sua anima putrida era finita sotto terra assieme a ciò che restava del suo corpo. In quel luogo di felicità e innocenza rimaneva soltanto il ragazzo che, per una notte, aveva amato sua madre.
L’uomo che rideva nel cortile era soltanto un volto impresso su una fotografia, nulla di più, e sua madre… lei non era nemmeno quello. Erano due sconosciuti che per caso e per gioco le avevano donato la vita.
Perciò Sasha non si mosse. Rimase a guardarli mentre si scambiavano tenerezze finché lui non rientrò in casa. 
Sasha desiderava andar via, ma qualcosa la trattenne: sua madre si era attardata sulla soglia e osservava il mare come se si aspettasse di veder sopraggiungere qualcuno.
Sasha sobbalzò, colpita da una rivelazione:  quella donna non attendeva il ritorno del suo uomo, stava aspettando sua figlia.
Le gambe si mossero da sole e, un passo dietro l’altro, la condussero allo scoperto, fuori dall’ombra degli olivi. Non si avvicinò alla casa, non tentò di parlare con sua madre, si limitò a rivolgerle un cenno di saluto e guardarla dritta negli occhi.
La donna trasecolò e si portò una mano al petto. Ebbe un’esitazione e lanciò un’occhiata dubbiosa alla porta dietro di sé, dove era svanito il suo compagno, ma non lo chiamò. Quel momento era solo per loro due, madre e figlia. Era stata lei a metterla al mondo nel dolore e nel sangue; lei a stringerla mentre lanciava il suo primo vagito; lei, ad implorare,  mentre la vita la abbandonava, che le fosse risparmiata un’esistenza come la sua.
Lui non c’era stato in quei momenti, gli unici passati insieme, e non era giusto che fosse lì adesso, in quel ricongiungimento che era già un addio. 
Sasha sorrise a sua madre, mentre lei si avvicinava silenziosamente al muretto che le separava. Non ci sarebbe stato nessun abbraccio, nessun pianto straziato, nessuna dichiarazione d’affetto. Erano due fantasmi vissuti senza mai conoscersi, dolorosamente consapevoli delle rispettive esistenze, ansiose di vedersi almeno una volta. E così era stato.
Si salutarono, guardandosi negli occhi, cercando di respingere quell’amarezza che faceva tremare entrambe: non era giusto incontrarsi così, alla fine delle rispettive esistenze, senza avere avuto alcuna possibilità di conoscersi. Eppure dovevano essere grate: non avrebbero dovuto aspettarsi nemmeno quello.
Sua madre, quella Sophie di cui aveva sempre sognato, annuì con riconoscenza e si portò una mano al cuore. Sasha Shepard fece lo stesso. 
E gli olivi iniziarono a dissolversi, il rumore delle onde sfumò, il vento cessò di accarezzarle la pelle e la piccola casa dall’intonaco bianco si dissolse assieme alla collina. Un velo si posò su sua madre, rendendola sfocata e lontana e, infine, scomparve.
Sasha Shepard fluttuò nell’oscurità, mentre scene di una vita passata le scorrevano davanti come spezzoni di un vecchio film di cui si è scordata la trama ma si conserva il ricordo.
Eccola assieme a Kobe e Louise, mentori di una vita sbagliata … e gli anni trascorsi con la Banda, il sangue versato, le violenze commesse, i terribili inganni e poi … poi fu luce abbagliante.

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Capitolo 6
*** Il Valhalla ***


Quando gli occhi ricominciarono a vedere, era in piedi in una piazza affollata. Moderni grattacieli luccicavano sotto un cielo di vetro e le astroauto sfrecciavano sopra la sua testa come bizzarre stelle cadenti.
Attorno a lei impazzava la festa. 
Era una moltitudine colorata e rumorosa quella che la circondava. Centinaia di persone che ballavano, ridevano e bevevano come se si trattasse del giorno più bello della loro vita. Era una massa senza volto e confusa, che l’attraeva e la spaventava: lì in mezzo sarebbe stato molto semplice perdersi.
Scorse una tenda ergersi come una montagna tra quei corpi ammassati, si fece largo a spintoni e si fermò sulla soglia, per nulla stupita da chi vi trovò dentro.
C’era stato un tempo, prima della Normandy e del suo equipaggio, prima di Cerberus e dei Razziatori, in cui si era illusa di poter vivere una vita normale. Era un’orfana terrestre divenuta soldato dell’Alleanza e lì aveva trovato quella famiglia tanto desiderata: la sua prima squadra, il suo più grande fallimento.
Ed ora erano proprio davanti a lei, i ragazzi della “33”, i soldati della cui morte si era sempre ritenuta colpevole.
Ballavano e ridevano in quella sera di festa, senza preoccupazioni, senza paura. Era quello il ricordo che avrebbe voluto conservare di loro, invece sognava ogni notte i corpi mutilati riversi nella sabbia nera di Akuze.
Lì guardò da lontano, senza osare unirsi a loro. Sorrise quando Abigale e Dario inscenarono un romantico walzer, tanto sgraziato quanto divertente. Si intenerì alla vista di Habib, Jake e Jin che chiacchieravano pacifici in un angolo della tenda. Le effusioni tra Nadine e Tiger, di solito così imbarazzanti, la commossero. Una lacrima sfuggì al suo controllo quando vide C.J. appoggiato al bancone, intento a sorseggiare l’immancabile Gin Tonic con la sua migliore aria da sbruffone.
Voleva correre in mezzo a loro e abbracciarli, voleva stringerli per mai più abbandonarli … ma non ne aveva diritto. 
Come poteva guardare negli occhi i fantasmi di quei coraggiosi ragazzi morti a causa sua?
Fece un passo indietro e poi un altro, non più Shepard, solo Sasha. Si sentiva codarda e sbagliata, ma non riusciva a vincere quella paura. La paura di guardare un amico negli occhi e vederne il disprezzo.
La sua schiena impattò contro una massa imponente.
-Cerchi ancora di scappare, non è così Cenerentola?-
Sasha si impietrì, come un bambino sorpreso con le mani nella marmellata. 
Lasciò andare un respiro tremulo che sapeva già di pianto – Comandante Cross …- 
-Trovo che i gradi e le formalità dell’Alleanza siano un po’ ridicoli in questo luogo, non credi, comandante Shepard?-
Sasha alzò gli occhi al cielo: era tipico di Cross farsi beffe di lei anche in un momento come quello.
-Non saprei come altro chiamarti … comandante.-
Cross ridacchiò e le passò un braccio dietro le spalle. Istintivamente, Sasha si rilassò contro il suo petto. Era vulnerabile e sola e lui, lui era quel padre di cui aveva sempre avuto bisogno.
-Ne abbiamo passate tante insieme, tu ed io. Avrei dovuto proteggerti. Avrei dovuto fare di più per risparmiarti un po’ di questo dolore.- 
Sasha scosse il capo – Se c’è una cosa che ho imparato in tutti questi anni è di accettare l’inevitabile. A volte il nostro meglio non è sufficiente. A volte si fallisce e basta. La vita è anche questo.- 
-E allora perché ti nascondi in mezzo alla folla invece di correre ad abbracciare i tuoi amici più cari?-
Aveva la bocca arida – Come comandante Shepard ho subito diverse sconfitte. Ho sacrificato il consiglio della Cittadella per salvare vite umane. Ho lasciato che i Collettori distruggessero la mia prima nave e poi che rapissero il mio equipaggio. Ho sacrificato membri della mia squadra e ne ho guardati morire altri. Ho distrutto un intero sistema. Ho perso Thessia. Eppure l’ho sopportato. La corazza del comandante era spessa abbastanza. Durante una guerra galattica, durante una mietitura, non c’è posto per la colpa e i piagnistei. Le vittorie sono effimere e le sconfitte atroci. Lo sapevamo tutti. Lo sapevo io. - si morse le labbra – La strage di Akuze non fu il tragico risultato di una guerra galattica, non fu la vittoria di un nemico invincibile … fu un capriccio e un gioco. Fu superficialità e sciatta negligenza. Fu il mio peggio. Come posso andare da loro e guardarli negli occhi, Cross? Provo una tale vergogna.-
Cross la strinse – Non riguarda soltanto te. Se gli volti le spalle, se ti rifiuti di guardarli negli occhi e di accettare il loro destino, che razza di amica sei? Non credi che meritino di vedere la tua vergogna, di sentire il tuo dolore? Questo posto, questo incontro, non riguarda soltanto te. È anche per loro. Devi affrontare ciò che è successo. Devi affrontare loro, solo così potrai lasciarli andare. Altrimenti rimarranno qui per sempre e tu con essi.-
-Non è un brutto posto dove rimanere.- sussurrò.
-C’è bellezza nei momenti di festa, te lo concedo. È bella l’eccitazione che la precede. È bella la frenesia del momento. Ed è bella vederla finire e tornare alla vita di sempre sognando un’altra festa. Ma un’eternità in festa è … grottesca. I tuoi amici sono intrappolati in questo eterno momento, circondati dal rumore e dal caos, dove tutto è lecito e nulla è reale. Ti puoi perdere e dimenticare chi sei.- 
Sasha rammentò la sua giovinezza, passata nei locali più malfamati di Atene. Giornate intere strabordanti di alcol, droghe, musica a tutto volume e squallido sesso. C’erano giorni in cui nemmeno vedeva la luce del sole.
Voleva questo per i suoi amici? Un’eternità senza alcun riposo?
Ida, Thane, Mordin, Ash, persino i suoi genitori, avevano trovato luoghi di pace in cui attenderla. Ma non c’era pace per la “33”. Doveva essere lei a portargliela, nello stesso modo in cui, tanti anni prima, aveva portato loro la guerra.
Raccolse tutto il suo coraggio e si buttò nella mischia. 
E la festa si trasformò in qualcos’altro.
Si ritrovò catapultata su un pianeta alieno, con un orizzonte rosso come la terra su cui poggiava i piedi.
Un vento caldo sollevava la sabbia che le faceva lacrimare gli occhi e strida acutissime riecheggiavano nel cielo.
Le aveva già sentite … così tante volte da perderci il sonno, eppure non riusciva a ricordare a quale mostro appartenessero: mietitori? Banshee? Divoratori?
Si acquattò sul terreno con consumata esperienza. Tra le mani stringeva un fucile e il suo corpo era di nuovo rivestito da un’armatura completa. Ma non era l’armatura in cui era morta, quella nera e rossa del comandante Shepard. Era l’armatura leggera della specialista Red, la donna che era stata prima di diventare leggenda.
Davanti ai suoi piedi il terreno iniziò a frantumarsi, squassato da un violento terremoto.
L’istinto prese il sopravvento su ogni altro pensiero e cominciò a correre, nel disperato tentativo di sfuggire ad un impietoso destino.
Un rombo cupo accompagnò l’affanno del suo respiro e sotto i suoi piedi sentì la terra cedere e sprofondare. 
Tentò di rassicurare se stessa dicendosi di essere già morta, eppure non riusciva ad arrendersi, nel profondo del suo cuore sapeva che la sua paura era giustificata. 
Un rumore meccanico la sorprese alle spalle e, per poco, non cadde in terra, destabilizzata da un vento improvviso.
Alzò lo sguardo e vide una navetta sospesa sopra di lei, col portellone aperto. Non esitò. Con un balzo si aggrappò al pianale, proprio mentre la terra si apriva sopra di lei. 
Il veicolo prese rapidamente quota. Dall’abisso a cui era appena sfuggita emerse una creatura rivoltante e vermiforme, che schizzò verso l’alto come un proiettile sparato fuori dalla canna. La navetta s’inclinò sfuggendo alle fauci tentacolose del mostro, ma Shepard perse la presa. Si sentì cadere nel vuoto. Era la fine.
Una mano in armatura si strinse attorno al suo polso, il contraccolpo fu così forte da spezzarlo e strapparle un grido di sorpreso dolore.
Lei era morta! Come poteva rimanere ferita?
Il suo salvatore la sollevò senza apparente sforzo e, finalmente, si ritrovò al sicuro nell’abitacolo.
Mentre il portellone si chiudeva, il soldato che l’aveva salvata, un tipo tarchiato in armatura da incursore, si tolse il casco.
Shepard rimase a bocca aperta: non era un uomo, era una donna.
 Conosceva quel viso, l’ aveva guardata morire.
-Abigale …- bisbigliò, incredula.
La sua vecchia compagna ammiccò – Chi non muore si rivede … si dice così, vero Jin?-
Dalla cabina di pilotaggio giunse una breve risatina – Hai la memoria corta, Gunny, noi siamo morti.-
Abigale si accasciò su un sedile con un sospiro di sollievo – Dettagli insignificanti. Cos’è quella faccia, Cenerentola? Sembra che tu abbia visto un fantasma …- ammiccò di nuovo -O forse due …-
Sasha aveva la bocca arida – Vi ho visti … c’era una festa e voi eravate … e poi io … e questo posto, le armi, l’armatura …- Abigale la guardava impietosita. Scosse il capo per schiarirsi le idee -Cosa diavolo succede?-
La biotica allargò le braccia – Ne sappiamo quanto te, tesoro. Siamo in una specie di loop, sempre uguale. Battaglia e poi festa e poi di nuovo battaglia e poi festa e così via, all’infinito. – Abigale sbadigliò – Tiger dice che gli ricorda un’antica leggenda della sua gente, ma a che serve capire? Questa è la nostra vita, adesso, tocca farcene una ragione. Poteva andarci peggio.- 
- Già.- la voce di Jin era forzatamente allegra – Fiumi di sangue di giorno e fiumi di vino la notte. Il colore è sempre lo stesso. Cosa potremmo volere di più?-
Abigale sforzò le labbra in un doloroso sorriso.
-Il Valhalla … - mormorò Sasha, parlando più a se stessa che agli altri – Questo è il nostro Valhalla.-    
Jin si voltò a guardarla, un’espressione imperscrutabile sul volto. Distratto, non si accorse del Divoratore che sferrava il suo secondo, più letale, attacco. Erano sfuggiti alle sue fauci, ma il fiotto di veleno colpì uno dei motori della navetta, facendolo esplodere.
Sasha si trovò catapultata contro il portellone mentre Jin tentava, inutilmente, di riprendere il controllo della navetta che precipitava ruotando su se stessa.
Abigale era immobile al centro della navetta, indifferente, la fissava, inspiegabilmente divertita - Ci vediamo alla festa, comandante.-
Sasha aprì la bocca per dire qualcosa, ma lo schianto l’anticipò. La navetta impattò sul terreno, scaraventandola con violenza contro il soffitto. Ci fu un istante di sospensione, poi tutto esplose.

Quando gli occhi ricominciarono a vedere, era in piedi in una piazza affollata. Moderni grattacieli luccicavano sotto un cielo di vetro e le astroauto sfrecciavano sopra la sua testa come bizzarre stelle cadenti.
Attorno a lei impazzava la festa. 
Ebbe un sussulto: conosceva quel posto, ci era già stata.
Ricordava una festa e una battaglia. Ricordava di essere morta.
Oltre la moltitudine di corpi che si muovevano intorno a lei, scorse un tendone e vi si diresse senza esitare. Sapeva chi vi avrebbe trovato.
I ragazzi della “33” erano esattamente come li ricordava: spensierati e felici, ignari, forse, di essere intrappolati in un inferno mascherato da paradiso, un luogo di eterna festa ed eterna battaglia, il Valhalla delle antiche leggende.
Una grossa mano le si posò sulla spalla – Stai facendo tardi alla festa, Cenerentola. Perché non li raggiungi?-
Il comandante Cross era di nuovo lì, dove era sempre stato: ai margini della festa a vegliare su quei ragazzi che amava come figli.
-Li ho già raggiunti, comandante, e li ho persi. Come è successo in passato, come succederà in futuro.-
-Questo è il luogo dalle infinite possibilità, Cenerentola. Qui non c’è sconfitta che possa farti perdere la guerra.-
Lei scosse mestamente il capo – Ma non c’è nemmeno vittoria, Cross. Le possibilità di cui parli sono due solamente: festa e poi guerra, e poi guerra e poi festa, in un ciclo infinito e sempre uguale a se stesso. Preferisco la sconfitta a questo.-
-E quando mai tu sei stata sconfitta, comandante Shepard?-
– Lo sai bene, Cross.- si accigliò. Cross era diverso. Durante il loro primo incontro era stato dolce e comprensivo, adesso sembrava arrabbiato – Ne abbiamo già parlato.-
-Davvero?- scrollò le spalle – Sembra che non sia servito a molto. Continui a piangerti addosso, a fare la vittima. Cerchi compassione e quando la trovi ti crogioli in essa. Non ho più intenzione di compatirti.- le rivolse uno sguardo furioso, come non l’aveva ai visto. Per la prima volta, Cross mostrava il suo lato cattivo – Adesso io ti accuso: su Akuze furono tutti sconfitti, tranne te. – indicò i ragazzi che ridevano e ballavano – Loro furono sconfitti. Alexander fu sconfitto. Ma tu, la donna che li portò su quel sasso, tu sei sopravvissuta.- 
Era un’accusa ben precisa, meditata negli anni, un’accusa che non aveva mai avuto il coraggio di farle in vita, frutto di pensieri che non aveva mai confessato neppure a se stesso, e che adesso avevano finalmente trovato le parole che potessero esprimerli. Non c’era nulla che lei potesse ribattere.
-Non posso cambiare il passato, Cross. Non posso cancellare Akuze.-
Cross non la guardava nemmeno in faccia – Eppure lo hai fatto. Sei morta e risorta e quando è accaduto Akuze è diventato il passato di un’altra donna. Hai guardato l’Uomo Misterioso negli occhi e lo hai chiamato alleato. Dannazione, Sasha: hai combattuto fianco a fianco con le stesse persone responsabili di quel massacro!-
-E poi li ho distrutti!- gridò stringendo i pugni – Non ho chiesto io a Cerberus di ricostruirmi! Non ho chiesto io l’onere di dover salvare la galassia a qualunque costo, ma è su di me che è ricaduto. –
-Davvero? Non sei stata tu a chiederlo? Io ricordo, Sasha, una ragazza disposta a tutto pur di dimostrare il suo valore. Una ragazza che ha posto l’ambizione davanti all’amore e all’amicizia.-
Tremava di fronte a quelle accuse lanciate da quell’uomo che aveva amato come un padre – E se non lo avessi fatto che ne sarebbe ora della galassia? Non chiederò scusa per aver fatto il mio dovere.-
-Ti prego, risparmiami l’ipocrisia. Non rivestire di nobiltà una scelta che fu solamente egoistica. Tu volevi la gloria e l’hai avuta ma questo …- indicò nuovamente i soldati della “33” che, ignari o forse indifferenti, proseguivano la loro eterna festa
 - … questo è il prezzo da pagare. Sono intrappolati qui, in questo luogo destinato a chi non ha pace, a chi è vissuto e morto solo per la guerra, perché questo è stato l’unico ruolo che tu hai saputo dargli. Ma loro erano molto più di questo …- sospirò e le mise una mano sulla spalla, stringendo forte - … tu eri molto più di questo.-
Sasha fece un respiro tremulo. Si sentiva impotente – Come ce ne andiamo, Cross?-
-Voi ve ne andrete. Io rimarrò qui. Questo non è il vostro posto, ma è il mio. Qui io sono vivo. – le accarezzò la guancia - Riguardo a te, Cenerentola, confido nel fatto che, quando verrà il momento, saprai fare la scelta giusta.-
Fece per allontanarsi, ma lei lo trattenne, prendendogli la mano – Aspetta! Cosa succede se fallisco?-
-Allora passerai un’eternità di festa e di lotta, lontana dalla tua nave, lontana dall’amore della tua vita, per sempre in guerra, per sempre Shepard. Ci sono destini peggiori, ma non per te. Tu meriti di meglio. Loro meritano di meglio.- le diede un bacio in fronte 
– La galassia aveva bisogno di un soldato perfetto, ma qui basti tu, Sasha. Sii la donna che avresti potuto essere.-
Cercò di trattenerlo ancora, ma la mano di Cross le scivolò via dalle dita e l’uomo che era stato padre e mentore si perse nella folla, tra migliaia di volti sfocati.
Era sola, costretta ad affrontare i fantasmi degli amici traditi. Si disse che aveva affrontato di peggio, era una bugia, ma crederci le diede un po’ di coraggio.
Prese un respiro profondo e si fece largo, sgomitando, tra la folla. Il mondo attorno a lei parve fermarsi, poi esplose in mille, inafferrabili, frammenti. Quando si ricomposero la città era sparita: attorno a lei solo sabbia e deserto.
Era di nuovo su un campo di battaglia, in un luogo che non conosceva, ma che era uguale a tutti quelli che aveva visitato.
Era il sole di Tuchanka quella sfera, rossa e rovente, che brillava sopra la sua testa? E quel cielo dalle sfumature rosa non era forse identico a quello che aveva guardato, impotente, oscurato dalle navi dei Razziatori, su Thessia?
E là in fondo, quella costruzione solitaria e antica, non era forse il Big Ben?
Il vento caldo le soffiò la sabbia in faccia, facendola tossire. Ai suoi piedi giaceva un casco ammaccato e bruciato, sui lati spiccavano due caratteri: N7.
Sasha si piegò sulle ginocchia e raccolse il pezzo ammaccato, soffocò un urlo quando si accorse che non era vuoto: dentro c’era una testa. Lo lanciò lontano: non aveva certezze riguardo all’appartenenza di quella testa mozzata, ma nemmeno dubbi.
Ovunque erano sparsi i rottami di una navetta distrutta.
Un movimento appena impercettibile sulla cresta dell’avvallamento attirò la sua attenzione. Sasha sollevò il fucile, pronta a far fuoco, ma lo abbassò subito, quasi gli cadde dalle mani, quando riconobbe la donna comparsa sul crinale.
I capelli biondi di Nadine sventolavano nel vento come una bandiera, prepotenti quanto la sua bellezza.
Sasha strizzò le palpebre: l’ultima volta che l’aveva vista non era altro che un corpo spezzato nella sabbia nera di Akuze.
La statuaria francese le fece cenno di seguirla e Sasha obbedì, con una solerzia che mai aveva avuto in vita.
Trotterellò dietro la sua vecchia amica come un cane fedele, senza osare aprir bocca.
La seguì lungo i sentieri sabbiosi di quel pianeta sconosciuto simile a milioni di altri. Attraversò crateri e si arrampicò su rocce rosse, s’inerpicò lungo pendii scoscesi sotto un sole bruciante. Nell’aria risuonavano le grida di mostri senza nome.
-Dove siamo?- osò chiedere dopo ore di silenzio, a quella compagna che non era mai stata così silenziosa.
La sua domanda parve infastidire Nadine ma, quando notò la sua espressione si addolcì – Ovunque e in nessun posto. Qui è dove noi attendiamo.-
-Aspettate cosa?-
L’altra scrollò le spalle – Non lo so. Forse stavamo aspettando te. Attenta!- la tirò per un braccio, gettandola a terra. Il rumore di uno sparo riecheggiò nella valle e le rocce dietro di lei esplosero.
Nadine si sdraiò al suo fianco, sollevando il fucile di precisione. Appoggiò l’occhio al mirino e si sollevò su un gomito, trattenendo il respiro. Un secondo proiettile scalfì la sabbia appena davanti a loro, ma Nadine non batté ciglio, spostò leggermente il fucile e premette il grilletto. Il rumore dello sparo non si era ancora quietato che già era in piedi.
-Muoviamoci. Dove ce n’è uno ce ne sono altri.-
Sasha imbracciò il fucile mentre si alzava in piedi – Chi sono?-
Di nuovo Nadine scrollò le spalle, sembrava indifferente a tutto ciò che la circondava – Noi li chiamiamo razziatori. Sono altri intrappolati qui come noi, in un’eterna battaglia.-
Razziatori … quel nome le suonava familiare, eppure non riusciva a ricordare dove l’avesse già sentito. La sua mente era come annebbiata. Più tempo passava in quel luogo più i suoi ricordi diventavano sfumati. Rammentava nitidamente solo la tragedia di Akuze. Sapeva di essere sopravvissuta a tutta la sua squadra, eppure ciò che era accaduto dopo quei terribili eventi lentamente sfumava, quasi fosse stata la vita di un’altra.
-Li avete mai visti?- si sentì domandare – Sono umani?-
-Cosa importa? Ci sparano addosso, non serve sapere altro.-
Sasha si accigliò – Forse se provassimo a parlargli, a capire chi sono e cosa vogliono, si potrebbe trovare un accordo e convivere in pace.-
Nadine fece un verso strozzato, a metà tra una risata e un singhiozzo – Guardati intorno, Sasha, ti sembra forse un luogo dove possa esistere pace? Che cos’altro si può fare, se non la guerra, in posto come questo? Qui si muore e basta.-
Era vero. Non c’era speranza di vita in quel deserto devastato dalle bombe e infestato dai mostri.
Eppure … quella parte di lei che ricordava un’altra vita le stava dicendo che, per salvare un luogo come quello, aveva sacrificato un amico. Persino in un posto del genere aveva trovato il modo di sopravvivere.
-Già …- mormorò, rivolta a se stessa – Qui si muore.-
Nadine le lanciò un’occhiata indagatrice ma preferì non chiedere nulla. Si rimisero in marcia, attente al minimo segnale che indicasse la presenza dei compagni del cecchino che le aveva attaccate.
Apparentemente il cecchino era solo perché arrivarono al campo senza ulteriori scontri. Sasha si avvicinò al campo con il cuore in gola. 
Era stata lei a causare la morte di quelle persone rintanate dietro barricate di latta, a strenua difesa di un pozzo. 
Era orrendamente colpevole e non sapeva come affrontare quegli amici terribilmente traditi.
Nadine le lanciò un’occhiata veloce da sopra la spalla, e negli occhi azzurri della bella francese le parve di scorgere un lampo di compassione.
Sasha mise da parte il fucile e si fece coraggio, seguendo la francese oltre le barricate. Sul campo scese un gelido silenzio.
Gli occhi di tutti erano su di lei, che teneva la testa bassa e i pugni serrati.
-Ve l’avevo detto.- mormorò Abigale – Ve l’avevo detto che sarebbe arrivata.-
Sentì uno di loro alzarsi e avvicinarsi. Anche senza vederlo o sentire la sua voce sapeva chi era: conosceva bene i suoi defunti compagni.
-Alza la testa, Sasha Red. Guarda gli amici che hai ucciso.-
-Finisicla, Tiger!- intervenne  C.J., sempre pronto a difenderla – Non fu colpa sua.-
-Se non è colpevole perché non riesce a guardarci?-
Il fucile era pesante nelle sue mani. Lo lasciò cadere con un tonfo sordo.
Aveva lo stomaco stretto in una gelida morsa.
Non riusciva ad alzare la testa.
Tiger si infuriò – Abbi la decenza di guardarci, Sasha. È stata la tua ambizione ad ucciderci, ci meritiamo almeno uno sguardo!-
Sasha strinse i denti, ma non poté impedire alle lacrime di scendere a rigarle le guance – Ricordo i vostri volti. E ricordo ciascuna delle vostre morti.- si asciugò il viso e, finalmente, alzò gli occhi – Voi siete il mio dolore più grande.-
Erano lì, davanti a lei, sospesi oltre lo spazio ed il tempo, i compagni d’arme di una vita quasi dimenticata, quei fratelli sacrificati perché lei potesse diventare l’eroe di cui la galassia aveva disperato bisogno.
Jake la fissava con occhi sgranati sotto quella frangia da nerd che non aveva mai voluto tagliarsi, nonostante le ripetute prese in giro. Habib se ne stava seduto in disparte, come al solito, silenzioso osservatore esente da ogni giudizio. Abigale mostrava un’aria preoccupata, come una madre che vede bisticciare i suoi figli, con Dario sempre affianco, pronto a intervenire se gli animi si fossero scaldati un po’ troppo. Jin si torceva le mani, a disagio, gli occhi a mandorla che non sapevano su chi posarsi.
Sasha non era stupita dalla reazione di Tiger, anzi, si era preparata per un attacco molto più violento. Ma persino lui, sempre pronto alla lite, sembrava stanco di tutte quelle battaglie. Alle sue spalle avvertiva la presenza di Nadine, stranamente silenziosa, e infine c’era C.J. pronto a difenderla anche in quella circostanza. 
Mancava una sola persona all’appello, quel comandante Shepard a cui aveva rubato il nome e la vita.
In quel silenzio irreale trovò il coraggio di porre la domanda che la tormentava, ben sapendo che li avrebbe fatti infuriare – Lui dov’è?-
Tiger sbuffò e le voltò le spalle, mentre un lampo di delusione passava negli occhi di C.J., subito mascherato dalla sua solita aria strafottente – Non lo sappiamo. Lo abbiamo cercato, senza mai trovarlo. Mi dispiace deluderti, ma qui ci siamo solo noi.- si allontanò a sua volta, nel vano tentativo di mascherare un’amarezza evidente.
Sasha si lasciò cadere su un masso, prendendosi la testa tra le mani. Era confusa e spaesata, ma non aveva dubbi che, in ogni parola dei suoi compagni, ci fosse la chiave della loro, e della sua, liberazione.
Ebbe un sussulto, mentre una fitta di lancinante dolore le attraversava la testa e, da qualche parte, sentì il tonfo sordo di qualcosa di pesante che si schiantava al suolo.
Si guardò intorno, in allerta, ma tutto era, all’apparenza, tranquillo.
-Avete sentito anche voi?- mormorò.
Ricevette solo occhiate corrucciate e un secco no di Tiger. Si toccò la nuca, convinta di sentire i capelli impiastricciati di sangue, ma quando ritirò la mano era perfettamente pulita.
Deglutì a vuoto: c’era qualcosa che le sfuggiva.
-Avete mai tentato di andarvene da qui?- 
Tiger sollevò gli occhi al cielo e Habib scosse piano la testa con un sorrisino di scherno.
-Certo.- borbottò Dario, evitando il suo sguardo – Ci proviamo ogni santo giorno.-
-Come?-
Dario guardò gli altri, forse per trovare qualcuno che gli desse il cambio in quella conversazione che non aveva nessuna voglia di sostenere. Tutti evitarono attentamente il suo sguardo.
Si alzò, sbuffando, e fece cenno a Sasha di seguirlo. Lei lo seguì, sentendosi a disagio come una recluta qualunque. Per anni quei soldati erano stati suoi amici, ma adesso faceva persino fatica a parlarci. Era tutti sbagliato.
Si arrampicarono lungo la cresta della montagna, fino a una sporgenza che dava sulla valle – Laggiù.- indicò Dario – Quella nave è sempre lì. Ci aspetta. Se riuscissimo a raggiungerla saremmo liberi, lo sappiamo tutti. Ma non ci riusciamo quasi  mai. Solo una volta un paio noi sono riusciti a farla partire, ma non sono andati lontano. Questo pianeta non vuole lasciarci andare. Ogni volta moriamo tutti e ritorniamo al punto di partenza a prepararci per una nuova battaglia e una nuova sconfitta. Tu sei la prima cosa diversa che accade da … da quando ho memoria.-
Sasha lo sentiva a malapena. Era annichilita. Conosceva quella nave. Eccome se la conosceva. 
Non ricordava come fosse morta, né quali peripezie l’avessero condotta su quel pianeta. Aveva vaghi ricordi della sua via dopo Akuze, aveva dimenticato molto, forse tutto, ma non aveva dimenticato quella nave.
Mosse un passo verso di lei, come in trans, e d’improvviso si sentì mancare il fiato. Rivide il bagliore di un’esplosione e la sgradevole sensazione di essere risucchiata nel vuoto. Provò la disperazione di essere perduta tra le stelle e la rabbia per una morte che arrivava troppo presto.
Dario l’afferrò per il polso, trattenendola dal cadere nel precipizio.
-Che succede?-
Lei scosse il capo, aveva la bocca arida e il fiato corto – Conosco quella nave.- si sentì rispondere – Fu distrutta in un’imboscata. Era la mia nave. Si chiamava Normandy, Normandy SR1.-
Dario non sembrò sorpreso da quella rivelazione. In effetti era difficile immaginare qualcosa che potesse sorprendere un uomo nella sua situazione.
-Distrutta, eh? Sembra che tu riesca sempre a sopravvivere.-
Sasha si accigliò – Non sono sopravvissuta. Quel giorno io sono morta.- sapeva che da quella conversazione doveva trarre un insegnamento importante, eppure non riusciva coglierlo, le sfuggiva come un sogno che si dissolve al risveglio.
Dario la guardò corrucciato, ma qualunque cosa volesse dirle si perse nel rumore di uno sparo e nel grido di dolore che seguì.
Corsero giù dal pendio, scivolando e inciampando, e trovarono il campo in subbuglio, con Abigale e Jin raccolti attorno a Jake che si contorceva dal dolore e gli altri accucciati dietro le barricate, intenti a rispondere al fuoco di chi li aveva assaliti.
Mentre Dario si precipitava al fianco dei combattenti, Sasha si chinò per esaminare la ferita di Jake. Lo avevano colpito all’addome. Era una ferita che non poteva essere curata con un po’ di medigel e qualche bendaggio.
-Abigale, premi sulla ferita. Jin prendi del medigel, dobbiamo stabilizzarlo.-
-Ma …-
-Fa come ho detto!- ringhiò. Jin non osò più protestare.
Spostò i capelli fradici di sudore dalla fronte pallida di Jake: soffriva terribilmente.
Lui la fissò con occhi sgranati -Te ne andrai anche questa volta?- sussurrò – Dovrò morire di nuovo perché tu possa vivere?- non era un’accusa, ma un’agghiacciante realtà. Nessuno dei due aveva dimenticato com’era stata la sua prima morte: Alex lo aveva lasciato cadere per poter salvare lei. Jake era morto perché Sasha potesse sopravvivere. Non era stata una sua scelta, ma ne era ugualmente responsabile.
E, d’improvviso, capì perché Alexander Shepard non si trovava lì, con il resto della sua squadra: persino in quel mondo fittizio, lui avrebbe sacrificato ogni cosa pur di farla sopravvivere, ancora e ancora e ancora. Ma lì dove l’esistenza stessa era solo un pallido sogno, lei doveva cavarsela da sola.
-No.- accarezzò il viso di quel ragazzo che amava la musica elettronica e i videogiochi – Questa volta non lascerò indietro nessuno. Questa volta io rimango.-
-È una promessa, Sasha?-
Sussultò. Non si era accorta di C.J. che si era accovacciato accanto a loro ed ora la guardava con quei suoi occhi limpidi da bambino. A lui non avrebbe mai potuto mentire.
-Lo prometto.-
Jin arrivò con il medigel e Abigale iniziò a medicarlo strappandogli un grido di dolore.
La grossa biotica le rivolse un’occhiata accigliata – Sta soffrendo molto.-
Lo sapeva. Anche lei era stata colpita in quel punto; il dolore era atroce, ma la morte arrivava lenta. Jake poteva essere salvato.
Gli spari cessarono e Tiger li raggiunse per informarli che gli assalitori erano stati sconfitti. Quando si accorse delle condizioni di Jake gli puntò contro la pistola – Non ha senso tenerlo qui in questo stato. Ci vediamo alla festa, ragazzo.-
-No!- Sasha si frappose tra l’arma e il ferito.
-Sei ubriaca? Sta soffrendo inutilmente! Tanto non cambia niente, siamo morti. Domani saremo di nuovo qui.-
Sasha non si mosse.
-Tiger ha ragione.- tentò di convincerla Abigale – Succede sempre così: moriamo in battaglia e poi ci ritroviamo alla festa e dopo si torna in battaglia e moriamo ancora … così all’infinito.-
-Non questa volta.- mormorò Sasha e, mentre pronunciava quelle parole, seppe che erano vere. 
Vacillò mentre udiva voci che la chiamavano e rumori metallici. Si schermò gli occhi quando una luce abbagliante le ferì le palpebre.
-Sasha?- qualcuno la stava scrollando – Sasha stai bene?-
Scoprì di essere caduta in terra e C.J. era chino su di lei, un’espressione preoccupata in viso.
Si rialzò faticosamente – Sto bene … era solo un capogiro.-
-Sei sicura? Sei caduta a peso morto, come se avessi abbandonato il tuo corpo.- Jake emise un altro gemito di dolore e il viso di C.J. si adombrò -So che può sembrarti crudele, Sasha, ma dobbiamo occuparci di lui. Tu non sai come funziona qui…-
-Nemmeno voi. – si raddrizzò, cercando di mostrare una sicurezza che non aveva – Ascoltate, io non so se questo sia solo il delirio di una donna agonizzante oppure sia qualcosa di reale. Quale che sia la risposta non cambia quello che dobbiamo fare. E noi dobbiamo raggiungere quella nave. Non ci saranno seconde occasioni, non ci saranno altri tentativi. Se vi perdo oggi, sarà per sempre.- 
Tiger sbuffò – Per tutto questo tempo abbiamo fatto a meno di te. Non presumere di essere la nostra salvatrice. Siamo in grado di salvarci da soli.-
Sasha cominciava a innervosirsi. Indicò Jake, finalmente tranquillo ora che il medigel stava facendo effetto – Se questa è la tua idea di salvezza, Tiger, non credo che tu stia facendo un buon lavoro. Ascolta …- lo prese per un braccio - … la mia non è presunzione. Io non credo che voi non siate fuggiti per incompetenza, ma per il semplice fatto che non vi era permesso farlo. Quella nave laggiù è la Normandy. La nave che è andata in frantumi nello spazio con me dentro. È la mia nave.  La Normandy non è qui per caso, io non sono qui per caso. Questa è la mia occasione, la mia sola occasione, di riparare al torto che vi ho fatto. E se fallisco anche questa volta, se lascio indietro anche solo uno di voi …- scosse mestamente il capo, lasciando che il resto della frase si perdesse nel vento torrido. 
-Ascoltala, Tiger.- biascicò Jake - Io credo che … credo che abbia ragione. Questa volta è diverso. Sembra reale.-
Tiger prese un respiro profondo. Darle ragione gli costava molto, eppure non poteva fare diversamente – Spero tu abbia un piano.- sibilò.
Sasha tirò un sospiro di sollievo – Può darsi.- sollevò il viso verso il sole rovente – Però prima dovete raccontarmi di tutte le volte che siete morti.-

Avevano un piano. Non era infallibile, ma era migliore di molti di quelli che avevano elaborato in vita.
Il loro grande vantaggio consisteva nel sapere esattamente chi e dove fossero i loro nemici. 
Appena usciti dal campo li attendeva un’imboscata ai lati della gola: due cecchini su ogni lato e poi, all’imboccatura del canyon, un mezzo corazzato con una mitragliatrice sul tetto. 
Superata l’imboscata avrebbero dovuto fare i conti con un branco di varren, sette in tutto. Dopo i varren dovevano proseguire lungo una morena e calcolare bene i tempi, perché se fossero stati troppo lenti rischiavano di essere trascinati a valle da una frana.
E poi c’era il divoratore: la mostruosa creatura era piazzata a guardia della Normandy.
-E non è finita qui.- Jin indicò un punto a nord – Siamo riusciti a decollare, una volta, ma c’è un cannone planetario. Siamo stati abbattuti appena siamo entrati nella stratosfera.-
-I sistemi di occultamento della Normandy erano attivi?-
Jin si strinse nelle spalle – Avevamo un Divoratore attaccato al culo, ho acceso i motori e fatto partire la nave.-
Sasha si passò una mano tra i capelli fradici di sudore – Vorrà dire che questa volta li attiveremo. Siete pronti?-
C.J. fece un sorrisetto sarcastico – Non può andare peggio delle altre volte: siamo sempre morti.-
Era una battuta fatta per alleggerire l’atmosfera, eppure non ci fu nessun sorriso, nemmeno forzato. Ognuno di loro stava pensando alla propria morte, non una delle tante avvenute in quel limbo, ma quella che li aveva portati lì, a combattere per l’eternità. Sasha ricordava bene come, uno dopo l’altro, ciascuno di loro era stato lasciato indietro.
Non questa volta, si ripromise. 
-Ce ne andremo tutti da qui.- assicurò, ricoprendo nuovamente le vesti del comandante Shepard.
Nadine le appoggiò una mano sulla spalla – Ci affidiamo a te, Sasha. Non c’è più solo la nostra vita in gioco, questa volta sul piatto ci sono le nostre anime.-
Chiuse gli occhi e prese un respiro profondo, mentre le memorie del comandante Shepard tornavano in lei assieme a tutti i suoi dolori. Era stata creata per momenti come quello.
-Dario tu occupati di Jake. Voialtri …- li guardò uno ad uno, anime inquiete alla ricerca di pace - … sapete cosa dovete fare. Qualunque cosa accada rimanete uniti. Siamo una squadra, lo siamo sempre stati.-
Dopodiché non ci fu bisogno di dire altro.
Sventarono l’imboscata e fu sufficiente un occultamento tattico e un paio di granate adesive per togliere di torno il mezzo corazzato.
Scacciarono i varren coi lanciafiamme e passarono oltre il punto della frana con un buon margine di vantaggio.
Poi arrivò il momento del Divoratore.
In tante battaglie i suoi compagni non erano mai riusciti ad abbatterlo, ma Sasha possedeva qualcosa che loro, purtroppo, non avevano avuto modo di ottenere: la conoscenza. Questa volta Sasha sapeva esattamente contro chi combatteva e come sconfiggerlo.
I Krogan glielo avevano insegnato bene.

"Non farti impressionare dalla stazza o dalla ferocia. Non credere che siano invincibili." la voce di Wrex le risuonava nelle orecchie, calma.La prima volta, dopo Akuze, che si era trovata di nuovo a tu per tu con uno di quei mostri, il possente Krogan era rimasto al suo fianco e le aveva svelato il segreto meglio custodito della sua gente: distruggere i Divoratori. "Nulla in questa galassia è invincibile. C’è sempre un punto debole. I Divoratori sono ciechi, ma hanno un udito straordinario.  Vedi quei tagli, ai lati della bocca? Quelle membrane, che li rendono capaci di captare anche il battito frenetico del tuo cuore, sono  la loro forza più grande e la loro più profonda debolezza. Bastano delle munizioni disgregatrici, un fucile di precisione ed una buona mira per abbatterne uno."
Sasha gli aveva rivolto un’occhiata scettica "Se così fosse non ne rimarrebbe nemmeno uno sul tuo pianeta."
"Hai mai visto un Krogan con un fucile di precisione? Per i Krogan combattere i Divoratori è uno spettacolo, un’iniziazione. Se tutti sapessero quanto fosse facile abbatterli che gloria ci sarebbe nel farlo? I fucili di precisione sono per i codardi o per chi ha cose più importanti da fare che cercare la gloria." Wrex le aveva rivolto il suo sorriso tutto denti "Fai fuori quel coso in fretta e andiamo a mangiare, Shepard. Lasciamo la gloria ai giovani e agli sciocchi."

Mettetevi in cerchio!- urlò ai suoi soldati. – Abigale, attiva lo scudo biotico!-
La cupola blu li avvolse nell’esatto istante in cui il getto di veleno del Divoratore partiva dalle sue fauci. S’infranse contro lo scudo biotico che resse con un tremolio sinistro.
-Non resisterò ancora a lungo!-
Sasha sganciò il fucile di precisione e lo caricò con una munizione disgregatrice – Non sarà necessario. Quando te lo dico disattiva lo scudo.- prese attentamente la mira mentre il mostro si preparava a schiantarsi su di loro -ORA!-
Lo scudo si dissolse e Sasha premette il grilletto.
Per un terribile istante pensò di aver sbagliato la mira.
Il corpo del mostro oscillò e il verme lanciò un grido furibondo, nel contorcersi la coda colpì il fianco della Normandy con un tonfo che le fece gelare il sangue nelle vene. Poi, di colpo, il mostro si schiantò al suolo.
La terra tremò sotto i loro piedi e Nadine perse l’equilibrio cadendole addosso. Sasha la sostenne mentre la polvere si diradava mostrando le spoglie del mostro.
-Ce l’hai fatta.- sussurrò la donna, incredula – Finalmente è morto.-
Abigale mosse alcuni passi verso il corpo abbandonato nella sabbia, un’espressione attonita sul viso rotondo -Dunque è vero: possono morire.-
Sasha ricordò che lei era stata tra le prime vittime di Akuze. Non aveva mai visto i mostri cadere.
Osservandola avvicinarsi alla bestia ebbe un sussulto: un altro soldato prima di lei, dando per morto il mostro, aveva abbassato la guardia.
-Non ti avvicinare!- esclamò – Spostati dalla sua traiettoria!-
Il corpo vermiforme ebbe un sussulto e un getto di veleno si abbatté laddove ci sarebbe stata Abigale se lei non l’avesse avvisata.
Un razzo esplose sul fianco del Divoratore e, finalmente, le sue spire cessarono di muoversi.
Sasha rivolse un cenno di assenso ad Habib che gettò il lanciarazzi ormai scarico al suolo e andò ad accertarsi che Abigale non fosse ferita.
La biotica era spaventata, ma illesa, e si rialzò guardandola con occhi sgranati – Come facevi a sapere?-
Sasha strinse i denti, ricacciando le lacrime in gola – Lui è morto così.-
Non ci fu bisogno di dire altro o di fare nomi.
Abigale l’abbracciò – Per quello che vale, Cenerentola, io non ho mai pensato fosse colpa tua, o sua. Nessuno di noi lo ha mai pensato. – le stampò un bacio sulla guancia arruffandole i capelli – Siamo una squadra: si vince e si perde insieme.-
Sasha abbassò lo sguardo – Ma io non ho perso. Io sono sopravvissuta.-
Abigale le asciugò le guance – Il comandante Shepard è sopravvissuto. Tu sei rimasta laggiù, insieme a noi.- le diede una pacca sulla spalla – Ora basta rimuginare sul passato, lo abbiamo sconfitto. È tempo di lasciarcelo alle spalle.-
Sasha annuì con aria pensosa – Non cantiamo vittoria, c’è ancora un cannone planetario con cui fare i conti.-
C.J. le affiancò con aria sorniona – Ci hai detto che questa nave è capace di compiere meraviglie: che ne dici di mostrarcele?-
Se ne era quasi dimenticata. Sasha trattenne il respiro e sollevò lo sguardo: la Normandy SR1 era davanti a lei, in tutta la sua imponente bellezza. 
La punta delle ali appoggiava per terra, simile alle zampe di una cavalletta. Al suolo appariva goffa e sgraziata, sembrava impossibile pensare che potesse prendere il volo. Ma Sasha sapeva di che cosa quella nave era capace.
Si portò davanti al portellone di babordo, convinta di vedervi apparire Joker, poi si ricordò che quella nave non aveva più pilota né equipaggio. Vagava sola e alla deriva tra il tempo e lo spazio alla ricerca del suo posto nel mondo, proprio come il suo comandante.
-Come siete saliti l’ultima vo…?-
S’interruppe quando il portellone si aprì e il cuore le balzò in gola.
Sulla soglia comparve una figura in armatura completa, il volto coperto da un casco. Sasha strinse i pugni, indignata all’idea di un estraneo a bordo della sua nave, ma riuscì a tenere a freno la lingua. Non era nella posizione di fare la difficile. 
Il soldato rimase immobile per qualche istante, forse stupito alla vista del Divoratore morto, poi si ritirò all’interno mentre la scaletta scendeva a terra. Lo interpretarono come un invito.
A bordo della Normandy SR1 Sasha si ritrovò catapultata indietro nel tempo. Era tutto come l’aveva visto l’ultima volta eppure … non sentiva sua quella nave. Forse perché non era mai stata sua, non quanto la SR2. 
Senza Ida a darle una voce quella Normandy era stranamente silenziosa, il ponte di comando era troppo stretto e la mappa galattica aveva un’illuminazione mediocre.
In un istante capì che quello non era più il suo posto. 
-È una nave straordinaria.- Tiger si era fermato al suo fianco – Immagino sia stata questa la tua ricompensa per averci lasciato indietro.-
Sasha s’irrigidì e indicò un punto tra la cabina di pilotaggio e il portellone esterno – Là è dove sono stata catapultata nello spazio, mentre la Normandy esplodeva in mille pezzi. Siamo morte insieme io e lei. È molto più di una ricompensa, la Normandy è destino.-
Tiger fece un verso scettico – Eppure lei è qui, in questo limbo, da molto più tempo di te. Sembra che tu sia sopravvissuta anche al destino.- 
Appoggiò una mano sulla paratia della nave - La Normandy è stata ricostruita e così il suo comandante. Siamo state riportate in vita, migliorate e potenziate, per un unico scopo: vincere la guerra madre di tutte le guerre. E così è stato. Il soldato perfetto ha salvato la galassia a bordo della sua nave perfetta, mentre gli amici morivano, i pianeti bruciavano e gli ideali svanivano. – alzò lo sguardo per incrociare gli occhi castani di Tiger - Mi è stata data una seconda opportunità, è vero, ma tu baratteresti la tua morte per la mia vita?-
Fino a quel momento non le era mai successo di scorgere compassione nello sguardo di Tiger.
L’uomo sospirò, probabilmente pentito di aver dato inizio a quella conversazione – No, non la baratterei, ma non lo faresti nemmeno tu. È sempre stato questo il tuo destino. Tu sei il comandante Shepard.-
Sasha notò che il misterioso soldato che li aveva accolti, era comparso sulla soglia della cabina di pilotaggio e non nascondeva di star origliando la conversazione. Sotto il casco poteva sentire i suoi occhi fissi su di lei.
Sostenne quello sguardo che non poteva vedere – Mi domando se sarei potuta essere qualcosa di diverso.- sussurrò.
Tiger le diede una pacca sulla schiena. Era la massima espressione d’affetto che riusciva a dimostrare, ma fu più che sufficiente. Il perdono di Tiger era più di quanto avesse mai sognato di avere.
-Andiamo a vedere cosa stanno combinando. Prima ce ne andiamo da qui, meglio è.-
Raggiunsero la prua della nave; la sala comandi era molto più affollata di quanto non l’avesse mai vista, eppure, senza Joker seduto sulla sua poltrona consumata, le parve desolata.
Jin armeggiava con i comandi volo, mentre Habib tentava di capire il funzionamento del sistema di occultamento, il tutto sotto l’occhio vigile del silenzioso soldato.
Sasha gli lanciò un’occhiata diffidente prima di chinarsi sul computer di bordo.
-Sala macchine a rapporto.-
La voce di Diego sfrigolò nella radio – Qui sotto è uno spettacolo comandante. Il motore brilla come una piccola stella e trabocchiamo di combustibile. Questa nave ci porterà verso l’infinito e oltre.-
Sasha ridacchiò – Sembra che tu abbia visto troppi vecchi olofilm, Diego. Rimani concentrato, non siamo ancora al sicuro. Plancia chiudo.- si rivolse ai tre nella cabina con lei – Cosa succede dopo il decollo?-
Tiger allargò le braccia – Non lo so. Io non sono mai arrivato fino a questo punto.- 
Gli altri due avvamparono.
-Abbiamo ventitré minuti per decollare prima dell’arrivo di un altro Divoratore. Dopo otto minuti di volo, quando siamo tra i 30 e 35 km di altezza, veniamo abbattuti da un cannone interplanetario. – spiegò Habib con voce incolore.
-Attiva il sistema di occultamento.-
Habib scosse il capo – Ci sto provando. Il sistema non risponde, temo sia in avaria.-
Sasha sentì il cuore mancare un colpo – No.- mormorò – Questa nave non ha avarie.- fu sul punto di chiamare IDA, poi rammentò che sulla SR1 non c’era alcuna IA. Era sola.
-Davvero credevi sarebbe stato così facile, comandante Shepard?- la voce del soldato misterioso era distorta elettronicamente e tutti sobbalzarono a quel suono innaturale. Si erano dimenticati della sua presenza.
 – Questo posto è il parco divertimenti di qualcuno e tutti noi balliamo la sua danza, persino tu. Quando capirai che non puoi evitare l’inevitabile vieni da me. Mi trovi nella stiva.- si picchiettò il polso – Ma fai in fretta: il tempo scorre.-
Tutti sul ponte erano ammutoliti. Sasha lo guardò allontanarsi col cuore in gola. Stava sudando e le mani le tremavano.
-Spostati.- ordinò ad Habib con un filo di voce – Avvierò questo maledetto sistema!-
Ma per quanto si sforzasse non ci riuscì. Mancavano quindici minuti allo scadere del loro tempo sul pianeta quando si decise a scendere nella stiva.
-Avvia i motori e tieniti pronto al decollo.- ordinò a Jin -Tieni d’occhio il tempo, se tra dieci minuti non sono tornata fai decollare la nave.- 
-Sissignora.-

La stiva era proprio come la ricordava. Buia, stretta e ingombra. Garrus, Wrex ed Ash però non c’erano. 
Il misterioso passeggero della Normandy la stava aspettando, con la schiena appoggiata contro il Mako, le braccia conserte. 
-Tutto bene, comandante? – domandò Abigale, avvicinandosi -  Perché non siamo ancora partiti?-
-Il sistema di occultamento non funziona. Servirebbe Jake ma …-allargò le braccia.
-Come sta?-
-Stabile. Nadine si sta occupando di lui in infermeria. Credo che se la caverà.- 
-Almeno una buona notizia.-
Sasha notò C.J. e Diego che si affannavano davanti ad una paratia sigillata -Che succede?-
Abigale scrollò le spalle -Una parte della stiva è sigillata. È strano, le altre volte non era così.- 
Inevitabilmente si ritrovò a fissare la misteriosa figura che, indifferente, osservava i loro inutili sforzi.
-Chiama C.J. e Diego, andate a controllare i motori. Qui ci penso io.- 
-Ma …-
-Fai come ho detto.- le posò una mano sulla spalla -Fidati di me.-
Abigale esitò mentre il suo sguardo si spostava dal comandante al soldato sconosciuto, ma alla fine le obbedì.
Chiamò gli altri e se ne andarono.
Senza dire una parola, il soldato si avvicinò alla paratia sigillata, trafficò con il factotum e, lentamente, quella iniziò a sollevarsi svelando il contenuto della stiva di carico.
Sasha non fu sorpresa, anzi, si sentì quasi sollevata perché, come era già accaduto in passato, sapeva di trovarsi di fronte all’unica soluzione possibile.
Davanti ai suoi occhi c’era la bomba di Virmire. La bomba che aveva ucciso Ashley Williams.
Sentì la sua voce, ferma e decisa, come se fosse lì, al suo fianco: “ Non c’è onore nell’essere dei sopravvissuti, solo colpa. Azionare quella bomba, su Virmire, era la mia espiazione.”
E Sasha capì di trovarsi davanti, finalmente, alla sua redenzione. 
Lentamente si avvicinò a quella bomba rudimentale che, in un altro mondo, aveva reso Ash una martire. La accarezzò, come avrebbe fatto con la pelle di un amante.
-Sai quello che devi fare, comandante Shepard. Solo tu puoi salvarli. È la tua unica occasione. Questa volta loro sopravvivranno e tu morirai.-
La voce del soldato era chiara e limpida, non più distorta dal filtro del casco. Sasha rabbrividì: conosceva molto bene il suono di quella voce femminile. Aveva un accento diverso da quello che era abituata ad udire e suonava leggermente più roca, ma era inconfondibile.
In altre circostanze si sarebbe spaventata e avrebbe reagito con violenza: dopotutto quella donna era stata sua rivale. 
Ma adesso capiva che quella nave e quell’equipaggio erano destinati a quel soldato.
Erano la vita che non aveva mai potuto vivere.
Si voltò per guardarla negli occhi e darle un nome, ma una luce abbagliante l’accecò. Le ginocchia le cedettero e, mentre suo corpo a bordo della SR1 si accasciava in terra, come un droide che andava in cortocircuito, da un’altra parte, su un pianeta devastato dalla madre di tutte le guerre, qualcuno sollevava i resti straziati del comandante Shepard.
"È ancora viva!" urlò qualcuno da molto, molto, lontano " Serve un dottore!"
"No!" Tentò di urlare "No! Lasciatemi andare è questo il mio posto!"
Un violento colpo sul viso la strappò da quella visione straziante. Un altro ceffone le infiammò la guancia e Sasha aprì gli occhi.
Davanti a lei c’era se stessa.
Era invecchiata, constatò con una punta di sorpresa. Quelle rughe intorno agli occhi quando erano spuntate? E perché c’erano dei fili grigi tra i capelli rossi? E i suoi brillanti occhi verdi quando erano diventati così opachi?
-Non ci provare, comandante.- la ammonì il suo clone, infuriata -Non osare abbandonarli ancora.-
Shepard si mise seduta e fissò la bomba -Non vado da nessuna parte: io rimango qui, con questa vecchia amica.-
L’altra la sovrastava, era imponente, eppure appariva incredibilmente vulnerabile -Potrei … potrei farlo io. Dopotutto non è per questo che sono stata creata? Per sacrificarmi al posto tuo.-
-No.- il comandante sorrise ricordando una vecchia conversazione avuta con James Vega, prima della terribile battaglia finale  -No, tu sarai la mia centesima vita. – le tese una mano e, con occhi spalancati e di nuovo brillanti, l’altra l’afferrò.
- Loro non devono sapere che io sono rimasta con la bomba. Ho promesso che non li avrei più abbandonati e manterrò quella promessa perché tu sei me. Sei sempre stata me.-
Il clone distolse lo sguardo -Ma io non voglio essere il tuo fantasma, comandante.-
-E non lo sarai, sorella. Tu sei quello che vorrai essere. –
-Non se dovrò convincerli che sono te.-
-Non sono più la donna che conoscevano. Io sono Shepard e per loro sono un’estranea tanto quanto te. Ma tu non sei solo la mia pelle e le mie ossa. Non hai solamente la mia voce e la mia intelligenza. - l’attirò a sé e in quegli occhi verdi vide il riflesso di se stessa -Tu sei l’orfana cresciuta per le strade, senza casa né famiglia. Sei la reietta che cerca il suo posto nel mondo. Tu sei Sasha, questa è la tua nave e quei ragazzi sono il tuo equipaggio.- 
Finalmente ogni reticenza svanì dagli occhi dell’altra. La tirò in piedi e, di slancio, si abbracciarono, come sorelle.
-Forza.- mormorò il comandante quando si separarono -Non rimane molto tempo.-
Il portellone si aprì con un clangore sinistro e fecero scivolare la bomba lungo la rampa.
 Il caldo torrido del pianeta le fece boccheggiare e Sasha si accorse con un sussulto di terrore che il paesaggio era diverso da come lo ricordava. Quello non era il luogo indefinito in cui i suoi compagni erano rimasti intrappolati per infiniti cicli.  Quello era Akuze.
Nonostante il caldo che mozzava il respiro, il comandante si sentì gelare, come se una morsa ghiacciata le avesse afferrato il cuore.
Sentì la mano del suo clone, no, la sua gemella, posarsi sulla spalla – Nessuno ha detto che sarebbe stato facile.- 
Sotto i loro piedi la sabbia nera di quel pianeta maledetto tremò. Non rimaneva molto tempo.
-Non è mai facile.- ribatté a denti stretti, le dita che stringevano convulsamente il detonatore – Forza, dovete decollare. Se faccio esplodere la bomba troppo presto l’onda d’urto spazzerà via la Normandy.-
-Addio, comandante.-
Con il casco sottobraccio la donna s’inerpicò lungo la rampa.
-Aspetta!- Shepard si staccò la medaglietta dal collo e gliela lanciò, compiendo lo stesso gesto che Anderson aveva compiuto in un tempo orai svanito.
Ora, finalmente, capiva: era tempo di farsi da parte. Doveva lasciarli andare. La “33” e la Normandy SR1 erano perduti e mai più poteva ritrovarli. Non erano mai stati il suo destino.
-Porta loro la pace, comandante. Sono la tua squadra adesso. –
-No.- la corresse l’altra, alzando il viso con una fierezza che, finalmente, era solamente sua – Sono la mia famiglia. Tra le stelle troveremo il nostro posto nell’universo, te lo prometto.-
Sasha le sorrise, grata.
Una figura comparve in cima alla rampa. Il volto sbarbato di C.J. era confuso e le fissò come se credesse di essere ammattito. 
Una violenta scossa fece vacillare la Normandy rischiando di farlo cadere. Funzionò come uno schiaffo e, quando si riebbe, il giovane soldato decise che le due donne identiche che lo guardavano erano un quesito che poteva dirimere in un altro momento. 
In quel momento contava solo la bomba e la donna in piedi accanto ad essa. 
Non appena la guardò seppe che era la donna per cui era morto.
-Avevi promesso!- urlò con la voce rotta – Avevi promesso che non ci avresti abbandonato.-
-No.- replicò calma lei – Ho promesso che sarei rimasta.-
L’altra sé afferrò il ragazzo per un braccio e lo tirò dentro mentre il portellone pian piano si richiudeva.
Solo quando, con un tonfo sordo, il portellone si chiuse, Sasha osò abbassare lo sguardo.
C.J. l’aveva amata e, anche se per lei non era mai stato più che un fratello, si augurò che, in quella nuova vita riuscisse ad amarla nuovamente e ad essere ricambiato.
Con le lacrime agli occhi, osservò la Normandy sollevarsi in volo, elegante e fragile come una farfalla e non distolse lo sguardo finché non fu un puntino indistinguibile nel cielo grigio.
A quel punto la terra sotto di lei si aprì. Mentre precipitava tra le fauci spalancate del Divoratore, premette il pulsante e, finalmente, non fu più una sopravvissuta.

 

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Capitolo 7
*** Per sempre ***


Cadde per così tanto tempo che pensò lo avrebbe fatto per sempre.
Udì delle voci mentre precipitava in quel vuoto senza fondo. Qualcuno urlava, sentì dei singhiozzi e delle bestemmie. Sprazzi di luce le ferirono gli occhi. Stava accadendo qualcosa di spaventoso e terribile. 
Qualcosa che aveva pregato non succedesse mai più: da qualche parte, nell’infinto universo, la stavano riportando in vita.
Kaidan … pensò, disperata … lo hai promesso.
Ma Kaidan, forse, era morto.
La sua schiena impattò al suolo senza preavviso e si sentì mozzare il fiato.
Molto distante sentì l’eco di un macchinario che fischiava, voci concitate e poi … il gorgoglio di un ruscello e il cicaleccio degli insetti.
Alle narici le arrivò il profumo di erba e resina. 
Aprì gli occhi e fu abbagliata dalla luce del sole.
Il sollievo fu tale che scoppiò in lacrime.
Affondò le dita nell’erba umida, aggrappandosi alla morte come non aveva mai fatto con la vita.
Rimase a lungo distesa in quel prato, ad osservare le nuvole rincorrersi nel cielo, restia a proseguire il suo cammino di redenzione poiché adesso temeva che, una volta giunta alla fine, non ci sarebbe stato per lei alcun riposo.
Qualcosa la colpì sulla fronte e sussultò, rizzandosi a sedere. Si asciugò gli occhi e si guardò intorno, mentre l’istinto della guerriera prendeva il sopravvento. Non c’era nessuno.
Di nuovo qualcosa di piccolo e duro la colpì, questa volta tra le scapole. Frugò tra l’erba alla ricerca del proiettile e trovò una piccola ghianda. Con la coda degli occhi scorse un movimento tra gli alberi e scattò in piedi, accorgendosi, dalla leggerezza dei suoi movimenti, di non avere più indosso l’armatura. 
Indossava una camicia a scacchi e un paio di jeans con l’orlo sfilacciato che cadeva morbido sugli scarponi da montagna. 
Il paesaggio che la circondava era bello da togliere il fiato. Si trovava in una grande prateria, circondata dalle vette frastagliate di montagne sconosciute. Un ruscello gorgogliava placidamente tra l’erba alta e macchie di alberi salivano lungo i pendii che la circondavano. 
Si accorse di essere assetata e, per un attimo, dimenticò l’attacco delle ghiande e si precipitò al ruscello per bere ampie sorsate di acqua cristallina.
Questa volta la ghianda le colpì il dorso della mano.
-Chi sei? Fatti vedere!- gridò, rompendo la quiete di quel luogo.
Un’ombra si mosse tra gli alberi che delimitavano la radura, a est, e subito corse in quella direzione.
Si addentrò nel bosco, incurante dei rami che le sferzavano la faccia, guidata dal miraggio di una figura umana che si lasciava seguire senza farsi mai raggiungere.
Infine si trovò davanti ad incantevole laghetto dalle acque smeraldo. Lì si ergeva una semplice baita di pietra.
Quel luogo era molto simile, constatò con sorpresa, al rifugio di Ash.
Mentre elaborava quel pensiero la porta della baita si aprì in un silenzioso invito.
Sasha indugiò sulla soglia, come sull’orlo di un precipizio. Quando infine trovò il coraggio di entrare capì di aver tentennato per nulla. La baita era così piccola che le bastò uno sguardo per capire che era deserta, eppure c’erano occhi che la fissavano.
Lungo tutte le pareti erano appesi dei disegni tracciati con pezzi di carbone su fogli ingialliti.
Vide lo schizzo di una nave, inconfondibile nella sua forma affusolata, che fronteggiava la terribile sagoma di un Razziatore. In un altro la Cittadella veleggiava sopra il Big Ben, aperta come un fiore appena sbocciato.
E poi c’erano i volti. Tanti da sentirsi in soggezione. Alcuni erano appena abbozzati, altri così dettagliati da sembrare fotografie.
I volti di Ash e Jack si ripetevano spesso, come se l’artista non riuscisse a fare a meno di disegnarle. 
Ma, tra tutti, Sasha riconobbe il disegno più bello, così curato da sembrare reale, a cui erano stato aggiunto il rosso dei capelli e il verde degli occhi. Per un attimo pensò di trovarsi davanti a uno specchio, poi, con una punta di amarezza, realizzò di non essere mai stata tanto bella.
Lo sciabordio dell’acqua l’attirò fuori. Seduto su uno dei massi che puntellavano la riva, un uomo lanciava sassi nell’acqua.
Era di spalle, ma Sasha non ebbe difficoltà a riconoscerlo.
Sentì le gambe tremare: il suo ultimo ricordo risaliva al giorno in cui le era morto tra le braccia.
Si avvicinò con passo incerto, mordendosi le labbra per soffocare i singhiozzi.
Le larghe spalle erano strette in una giacca di pelle, i capelli erano corti, quasi rasati, e, accanto a sé aveva una bottiglia di vodka.
Non si voltò a guardarla nemmeno quando gli si sedette accanto.
Sbirciò il suo profilo, affilato come quello di un’aquila. La sua espressione era indecifrabile, ma la sua figura severa le trasmetteva un inaspettato stato di angoscia. 
-Alex …- sussurrò, non sapendo cos’altro dire.
Ciò che provava, la vergogna e la gioia, il sollievo e il terrore, la disperazione e la meraviglia, era così caotico e confuso da lasciarla stordita, incapace di riprendere il controllo delle sue emozioni.
Lui non si mosse.
-Alex …- ripeté, terrorizzata da quel silenzio. – Sono qui. Sono Sasha. Ti …- il cuore le martellava nel petto - … ti ricordi di me?-
Fu allora che lui la guardò.
Nell’azzurro di quegli occhi le parve di annegare.
-Ho sognato questo giorno, l’ho desiderato ardentemente, ma adesso …- una smorfia di dolore gli attraversò il viso – come posso gioire per la tua morte?-
E Sasha capì che ciò che aveva scambiato per rabbia era dolore.
Gli prese una mano, e a quel tocco entrambi sussultarono, come se una scarica elettrica li avesse attraversati e Sasha sgranò gli occhi quando vide ciò che lui era davvero.
In quel luogo, fuori dal tempo e dal mondo, le anime non appartenevano ad una vita solamente, condensavano in un’unica forma tutto ciò che erano state.
E quell’uomo non era solamente l’Alexander che aveva conosciuto, morto di una morte ingiusta su Akuze. Era il comandante Shepard che sarebbe diventato se il fato, quel fatale giorno di tanti anni prima, non avesse scelto di darle la possibilità di mostrare il suo valore.
Erano le due facce di una stessa medaglia che lì, dove non esistevano regole e il concetto di impossibile perdeva di senso, finalmente diventavano una.
Quando aveva incontrato il suo clone l’aveva chiamata sorella o gemella. Ma adesso era diverso.
Alex e Sasha erano molto più di una replica dei corpi: erano anime gemelle, nel senso più letterale del termine.
Loro erano il comandante Shepard.
Con un sussulto di orrore e di ammirazione, Sasha ripercorse la vita di quel comandante. Delle sue scelte a volte uguali, a volte completamente diverse dalla sua. Percepì con una punta di insensata gelosia l’amore travolgente che aveva provato per Jack e quello, più profondo e insondabile, per Ashley.
Poi vide la sua fine. E non riuscì a trattenere un grido strozzato quando vide ciò che aveva fatto e ciò che era diventato.
Tremò e allontanò la mano quando, finalmente, tutto fu chiaro.
-Tu …- sussurrò - … tu hai creato tutto questo.-
La figura di Alex s’increspò, come un riflesso nell’acqua e vide attraverso di lui la vastità di quell’universo di cui era dio e schiavo.
Scegliendo il controllo lui era diventato … altro e quello non era il luogo del suo riposo.
-Sì. – mormorò – L’ho costruito, pezzo dopo pezzo, da quando sono diventato … quello che sono. Ho vagato tra le dimensioni, scoprendo universi dove il flusso delle nostre esistenze proseguiva lungo binari diversi ma uguali. I nostri passi si sono talvolta sfiorati, spesso intrecciati, e poi, inevitabilmente divisi. Non esiste un mondo, nemmeno il più lontano e remoto, in cui siamo riusciti ad invecchiare insieme. Così l’ho creato. Ma speravo … speravo che la tua vita mortale potesse essere più lunga.-
-La mia vita mortale era solo una farsa. –
-Non sminuire in questo modo le persone che ti amano, quello straordinario equipaggio che ora piange la tua morte. Tu non sei mai stata il mio rimpiazzo. Tu sei Shepard, quanto lo sono io.-
Ricordò le parole dell’Intelligenza, quando, a bordo del Catalizzatore aveva fatto la sua scelta.
“Lui avrebbe scelto il Controllo.”
“Lui era un eroe” aveva risposto prima di sparare al cuore di quel mostro “Io sono un essere umano.”
Sospirò – Perché lo hai fatto?-
Lui abbassò lo sguardo – Perché non ho mai posseduto il tuo coraggio. Perché dopo aver sacrificato tutta la mia squadra su Akuze, non mi sembrava giusto sacrificare altri solo per poter riposare in pace. E così mi sono condannato a questo eterno tormento. Costretto ad esistere fino alla fine del tempo. –
Lei si coprì il viso con le mani -Alex … loro avrebbero capito. Nessuno ha mai preteso questo da noi. Questa galassia non ha mai meritato tanto.-
Le mani di lui le presero le sue, abbassandole così da poterla guardare – Non me ne pento. Ho potuto creare tutto questo, ho potuto rivedere te. Altrimenti sarei morto pensando di averti persa per sempre. Qui in questo crocevia tra i mondi ci siamo ritrovati.-
-A quale prezzo, Alex?-
-Qualunque sia il prezzo io sono disposto a pagarlo. È questo ciò che tu non hai mai capito: è sempre stata una mia libera scelta. Ciò che è accaduto nel nostro passato, i sacrifici compiuti, non sono stati una tua volontà, ma la mia. Io ho sempre scelto te. Io sceglierò sempre te, anche a costo di bruciare l’universo. –
Avrebbe dovuto dirgli che era folle, che non era ciò che voleva e altre idiozie perbeniste che, in fondo, reputava ridicole. Ma le era chiaro che, in quel luogo, esisteva solo la verità.
E la verità era che quelle parole la riempivano di smisurato orgoglio.
Era stata un’orfana rifiutata e scartata, poi un soldato con lo stigma della reietta ed infine l’eroe a cui non era concessa nemmeno la misericordia della morte. La galassia si era presa da lei tutto, dandole in cambio solo nuovo dolore. 
Di fronte all’abnegazione, totale e assoluta di Alex, finalmente scoprì il suo valore.
Non era la forza delle sue braccia o la scaltrezza della sua mente. Non era l’autorità o il grado sulla sua divisa. Non era il rispetto degli alieni o l’onore di essere il primo Spettro umano. 
Agli occhi di quell’uomo null’altro contava se non lei, spogliata di titoli e gradi, allontanata dall’aura di leggendario eroismo che la circondava, privata di quel nome che aveva cambiato la storia.
Alexander amava Sasha: non il comandante Shepard, solo Sasha.
Si mossero l’uno verso l’altra, guidati dalla medesima urgenza.
Le labbra si unirono, avide, in un bacio che sapeva di meraviglia. E per quanto fosse cosciente, in un angolo della sua mente, che nulla fosse reale, le parve di essere tornata finalmente alla vita.
Non la pallida imitazione cui Cerberus l’aveva costretta, ma vera vita, fatta di risate e sogni e magnifica spensieratezza.
I muscoli di Alex tremavano sotto le sue dita, la sua lingua era calda nella sua bocca, le guance ispide le graffiavano la pelle.
Non aveva idea di dove si trovasse, nel tempo e nello spazio, e non le interessava. Erano due amanti che infine si ritrovavano. Non importava come né quando.
Sdraiati nell’erba verde accanto al laghetto si amarono e, per la prima volta dal giorno del loro primo incontro, non ebbero altro pensiero che quello.

Le stelle erano diverse da come le ricordava. 
Non era il cielo che aveva contemplato da ragazza, quando saliva sul tetto di quell’edificio malconcio che aveva chiamato casa.
Non era nemmeno il cielo scuro e infinito contro cui aveva urlato tutto il suo dolore, su Akuze, stringendo tra le braccia il corpo straziato del suo unico amore.
E non c’era traccia, in quelle stelle così luminose, degli astri cangianti e talvolta velati che contemplava sdraiata sul suo letto a bordo della Normandy SR2. Era un cielo che non aveva mai visto, diverso da tutti quelli che conosceva.
-Quanto tempo, Alex?- domandò con un filo di voce – Quanto è passato dal giorno in cui hai scelto il controllo?-
Sentì le sue dita disegnarle il contorno del viso, come avevano disegnato il ritratto appeso nella casupola – Secondi, o forse millenni. Io non lo so. A volte sento ancora le mie dita bruciare mentre le stringo attorno alle barre di energia che mi hanno vaporizzato, altre volte non ricordo nemmeno cosa significhi avere un corpo. Immagino che il concetto di tempo sia relativo. – lo sentì sospirare – Io sono l’uomo che morì su Akuze, tra le tue braccia. E sono l’uomo che divenne comandante della Normandy, l’unico sciagurato superstite di un attacco di Divoratori, e che guidò il suo equipaggio di reietti in folli missioni per salvare la galassia dalla mietitura. E sono anche … molte altre vite. È come se … come se la mia anima fosse stata strappata in mille brandelli, sparpagliata tra i mondi e che qui, finalmente, si sia ricomposta.-
Sasha si accigliò, cercando dentro di sé la sensazione che lui descriveva. Ma non aveva altre memorie se non quelle che ricordava di aver vissuto – Io … io ricordo un’unica vita.-
Lui le posò un lieve bacio sulla guancia – Tu hai scelto la fine, mentre io ho scelto l’eternità. Non cercare risposte troppo grandi per entrambi.-
Si drizzò a sedere, guardandosi intorno – Come hai creato questo posto? E i nostri amici … li hai portati tu qui?-
Lui le accarezzò la schiena nuda – Non esattamente. Tu li hai portati qui. Io ho costruito questo … universo, ma era vuoto, prima che arrivassi tu. Sei stata tu a dargli un senso e a riempirlo. Lo hai trasformato in una specie di … anticamera.-
-Per cosa?-
-Per quello che c’è dopo. Io non posso saperlo. Non sono morto.-
-Non capisco.-
Lui si drizzò al suo fianco, posandole il capo sulla spalla – Un muratore costruisce un edificio: stende le fondamenta, alza i muri, posa il tetto e dipinge le pareti, ma non è altro che un ammasso di mattoni e calce. È la persona per cui è stato fatto che gli darà un senso e lo trasformerà in quello che vuole: un teatro, un ufficio, un tempio … una casa. Questo abbiamo fatto, tu ed io: abbiamo creato un luogo in cui ritrovare ciò che credevamo perduto. Tu avevi bisogno di rivedere quelle persone un’ultima volta, per congedarti, scusarti o fare ammenda, per queste le hai portate qui. Per poter riposare in pace.-
-E tu? Tu non vuoi incontrarli?-
Sentì la tensione percorrergli il corpo – No. Non sarei loro di conforto. Diventerei il loro peggiore rimpianto. Non mi hanno mai chiesto questo sacrificio, eppure l’ho fatto, perché credevo di non avere altra scelta. Non sarebbe giusto affliggere i loro ultimi istanti con la pena del mio eterno destino.-
-E allora perché io sono qui?-
Alzò gli occhi su di lei, così azzurri che ci si sarebbe potuta specchiare – Perché in un istante del mio eterno vagare ho desiderato qualcosa per me. Chiamalo egoismo o dolore o follia. Mentre mi struggevo per la mia eterna condizione, ho cercato tra i meandri delle mie infinite esistenze il più luminoso dei ricordi e mi è apparso il tuo viso.-
Il disegno, pensò Sasha, era l’unico con dei colori.
-E così, ebbro di felicità, ti ho chiamata a me, ma sapevo che, senza un mondo fisico cui ancorarti, non saresti stata che un’ombra di una vita sbiadita.- sorrise tristemente –Poiché è questo che fanno gli dèi: creano mondi per non essere più soli.-
Lo fissò, con una punta di timore – Tu sei … un dio?-
Lui ridacchiò – Che cos’è un dio? Io esisto, in ogni luogo e in ogni tempo. Ho memoria di tutte le vite che ho vissuto e di tutte le morti di cui sono morto. Sono eterno e onnisciente, ma non onnipotente. Posso giocare coi sogni e sussurrare parole nel vento o confondere le mie lacrime con la neve, ma ho distrutto le mie armi, i Razziatori, quando ho cominciato a bramare di usarli per poter tornare in quel mondo da cui sono irrimediabilmente disgiunto. Questo fa di me un dio?-
Sasha strinse le labbra – Questo fa di te un dannato.-
Alex l’attirò a sé, asciugandole lacrime che non si era accorta di aver versato – Ma io, ora, sono benedetto.-
-Rimarrò qui.- affermò, decisa – Con te, per sempre.-
-No, amor mio. Mai ti condannerei a questo. Il mio supplizio è sufficiente. Tu hai pagato abbastanza.-
-Ma io voglio restare! Non ti posso abbandonare.-
L’espressione di Alex s’intenerì, come di fronte a una bambina che non vuole che la sua infanzia abbia mai fine. Le accarezzò i capelli – Abbiamo parlato fin troppo di cose terribili.- si alzò e le porse la mano -Vieni. La cena è pronta e il vino versato. I massimi sistemi dell’universo possono aspettare. Il nostro destino può aspettare. Questa notte ti voglio solo amare.-
Lei si alzò e lo attirò a sé -Non solo questa notte, Alex. Promettimi che invecchieremo insieme.-
Negli occhi azzurri di Alex passò un lampo e Sasha intravide un minuscolo frammento di  ciò che lui era diventato: eterno, infinito, immortale. Per un istante, rapido come un battito del cuore, ne ebbe paura.
Poi lui la baciò e tutto fu dimenticato. 
Io sono tua, e tu sei mio
Per l’eternità.

Spalancò gli occhi, rantolando e sbavando, il petto che si sollevava frenetico, il battito del cuore impazzito nelle orecchie, incapace di muoversi, paralizzata e terrorizzata.
Qualcuno si chinò su di lei, una mano le accarezzò il viso e le tolse la maschera d’ossigeno che la soffocava. Udì parole indistinte e poi la luce artificiale che inondava la stanza.
Vide un soffitto di metallo.
Udì il ronzio dei macchinari.
Sentì l’odore dei disinfettanti.
E urlò, con tutto il fiato che le era rimasto. Urlò, maledicendo la galassia intera. 
Urlò il suo orrore per essere di nuovo viva.

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Capitolo 8
*** La lunga strada verso casa ***


Cittadella 2218

Sasha Shepard sedeva alla finestra della sua stanza d’ospedale. Il suo ultimo ricordo della Cittadella era quello di una città devastata. I corpi, ridotti a osceni esperimenti dei Razziatori, ammassati nei condotti, le luci intermittenti, i detriti per le strade, gli edifici sventrati, l’odore nauseabondo di carne in decomposizione e sangue rappreso.
Era certa che non ci sarebbe mai stato modo di riparare a tale scempio ma, come tutte le cose che appartengono al mondo dei vivi, anche la Cittadella aveva trovato il modo di continuare ad esistere. Profondamente mutata, per sempre diversa, ripopolata e ricostruita: non era più la Cittadella devastata dai Razziatori e i loro servi, ma non era nemmeno più il crocevia dei mondi per cui Sasha aveva vissuto, combattuto ed infine dato la vita. Quella Cittadella era morta assieme a tutti i suoi abitanti.
Era la Cittadella del comandante Bailey e della dottoressa Michel, delle sbronze al Purgatory e dell’odore di sudore e polvere da sparo che impregnava l’Armax Arsenal. Era la Cittadella del Presidium con i suoi ciliegi fioriti, sotto cui consiglieri e ambasciatori passeggiavano con aria di importanza. Era la cittadella degli agglomerati dove potevi comprare rottami da un Quarian in pellegrinaggio o mangiarti un piatto di Ramen cucinato nel chiosco di un Volus in sovrappeso. Era la Cittadella del molo D-24 dove la Normandy andava a riposarsi, coi motori fumanti e la corazza graffiata, dopo essere sopravvissuta all’ennesima missione.
La furia dei Razziatori aveva spazzato via ogni cosa, i ciliegi e i consiglieri, il chiosco del Ramen e il Volus che lo cucinava. Chiunque fosse stato sulla Cittadella quando Cerberus l’aveva consegnata ai Razziatori era morto. Non era fuggito nessuno, non i consiglieri, non Bailey e i soldati dell’SSC, non la dottoressa Michel e i suoi pazienti, non i rifugiati ai moli e nemmeno i soldati in licenza che si svagavano al Purgatory.
Erano morti a milioni.
La Cittadella continuava ad esistere, ma per Shepard non era più niente, solo la copia sbiadita di un luogo che aveva amato.
Si guardò le mani, erano vecchie. Lei era vecchia.
Erano passati trentadue anni dall’attacco dei Razziatori alla loro galassia. Erano trentadue anni che la Cittadella veleggiava nel cielo di Londra. L’universo intero era cambiato e lei … lei non lo riconosceva più.
Quei trentadue anni li aveva passati in coma, in uno stato che i medici non avevano saputo spiegare. “Sospesa” era la parola che avevano usato per descrivere la condizione in cui era stata. Le parti di lei che Cerberus aveva ricostruito si erano disattivate con la morte dei Razziatori, ma non esisteva macchina che gli organici non fossero in grado di riparare e così il suo cuore era stato riavviato, i polmoni rimessi in funzione, fegato e reni sostituiti e migliorati. L’unico organo che si era rifiutato di rimettersi in moto era stato il cervello. Per trent’anni, mentre il corpo invecchiava e la vita scorreva, lei era rimasta lontana, sospesa tra il mondo dei vivi e quello dei morti.
In epoche antiche il suo corpo sarebbe collassato e la morte sarebbe giunta che i medici lo volessero o no. Ma aveva avuto la sfortuna di vivere in un’epoca di meraviglie scientifiche e se la galassia voleva tenere in vita una persona, allora quella persona sarebbe vissuta, che la natura lo volesse oppure no.
Era stata una scelta politica, perché lei era il comandante Shepard e l’universo doveva aggrapparsi alla certezza che ci sarebbe sempre stata finché la galassia non avesse più avuto bisogno di lei. E così persino la Morte si era fatta da parte di fronte al dogma del Bene Superiore.
E mentre i popoli ricostruivano i loro mondi e le loro vite, confortati dalla certezza che la salvatrice di tutti vegliasse ancora su di loro, lei si trascinava, immortale come un faraone mummificato nella sua piramide, finché non era diventata leggenda e quel corpo attaccato alle macchine era stato dimenticato. Un feticcio che nessuno aveva il coraggio di liberare.
Infine, quando tutti si erano dimenticati di lei, il comandante Shepard si era svegliato. Una giovane donna nel corpo di una vecchia, una guerriera in un mondo in pace, una sopravvissuta che non aveva vissuto.
Si era addormentata alla fine del mondo e si era risvegliata in una galassia che non riconosceva più.
Lei era leggenda e non c’era posto per lei in quell’universo che la venerava ma non la voleva.
I nuovi governanti della galassia non sapevano che farsene di Shepard e Shepard non sapeva che farsene di loro.
La galassia non era più la sua casa.
Quando avevano trovato il suo corpo, sepolto tra le macerie della Cittadella, animato da un flebile soffio di vita, i superstiti alla mietitura erano così spaventati e sperduti da essersi aggrappati a quel minuscolo frammento di vita come naufraghi ad una zattera.
Se il comandante Shepard era riuscito a sopravvivere alla fine dei tempi, allora anche il resto della galassia poteva farlo. Di questo si erano convinti.
E, lentamente, cocciutamente, la galassia aveva ricominciato a vivere e quando quella zattera, cui si erano disperatamente aggrappati, era arrivata a riva, aveva cessato ogni utilità.
Mentre la vita riprendeva il suo corso, il comandante Shepard, salvatrice dell’universo, languiva, abbandonata e dimenticata, in un letto d’ospedale, incapace di vivere, incapace di morire. Qualcuno avrebbe dovuto trovare il coraggio di staccarle la spina. C’erano stati grandi dibattiti, all’inizio, manifestazioni e campagne politiche. C’erano persone che reputavano mostruoso il suo destino e chiedevano che le venisse concessa la grazia dell’eterno riposo. Ma era solo facile retorica. Non c’era nessuno, in tutto l’universo, che voleva passare alla storia come la persona che avesse infine ucciso il comandante Shepard.
C’erano stati sempre meno dibattiti, gli aggiornamenti sulle sue condizioni da un giorno all’altro smisero di essere trasmessi, il suo nome smise di comparire nei notiziari e cominciò a popolare le lezioni di storia.
E, alla fine, smise di essere una persona e divenne un ricordo, una leggenda.
Udì un sussurro all’orecchio, come un’eco lontana …eterno, infinito, immortale … noi siamo questo.
Rabbrividì. Aveva chiesto l’immortalità, ma in un altro luogo, accanto ad un altro uomo. Aveva espresso il desiderio di invecchiare con lui … ed era stata beffata.
La porta della camera si aprì e un bell’uomo, coi capelli brizzolati e la divisa da ammiraglio, comparve sulla porta. Gli occhi scuri erano stanchi e il viso, ancora bello, mostrava i segni di una vita non sempre felice.
-Ciao, Kaidan. - lo salutò con quella sua nuova voce arrocchita che non riconosceva – Sei venuto a farmi fare la mia passeggiata? -
-Sai che non sei obbligata. -
Scrollò le spalle – Hai ragione, potrei rimanere ferma qui, ad accumulare un po’ di polvere, come tutte le cose vecchie e dimenticate.-
-Tu non sei dimenticata.-
-Ma sono vecchia.- tentò un sorriso.
Kaidan si guardò le mani nodose -Lo siamo tutti.-
Sasha represse un grido di frustrazione e tornò a guardare fuori dalla finestra. Invecchiare non era piacevole, ma per lei era stato rapido come un respiro. Uno sparo, un’esplosione, ricordi confusi di amici ritrovati, un bacio sulle rive di un lago montano e poi … poi si era svegliata ed era una vecchia inchiodata su un letto.
Kaidan non disse altro. Aveva imparato a conoscere i suoi cambi d’umore e sapeva quando era meglio tacere. Spinse la sedia a rotelle fuori dalla porta e poi nell’ascensore.
Avevano provato a darle delle gambe nuove. Avevano tentato tutte le tecniche passate e moderne, ma in verità non c’era nulla che non andasse nelle sue gambe o nella spina dorsale. Le lesioni erano state curate, i traumi riparati, non aveva malattie, eppure le sue gambe non si muovevano. Era imbullonata su quella sedia e non c’era nulla che l’avrebbe convinta ad alzarsi. L’avevano strappata alla morte, ma non potevano costringerla a vivere. Non c’era niente in quel nuovo mondo che valesse lo sforzo di alzarsi da quella sedia.
Perlomeno non fino a quel momento.
-Mi dispiace.- le disse Kaidan. Lo diceva sempre. Non c’era giorno che non si presentasse alla sua porta e non c’era giorno che non le dicesse quelle parole.
Le porte dell’ascensore si aprirono e Kaidan la spinse sulla terrazza, ad osservare un lago finto illuminato da un sole finto.
Odiava quel posto. Quel lago le era sconosciuto, quel cielo le era sconosciuto e tutte le persone che lo abitavano le erano sconosciute.
Kaidan era l’unica persona con cui Shepard interagisse. Le piaceva ripetersi che quell’isolamento forzato fosse una sua scelta, che fosse lei a decidere di essere sola. Ma in quella galassia, che le dedicava statue, le intitolava stazioni spaziali e costruiva musei in suo onore, non era rimasto più nessuno a cui importasse che lei fosse viva.
-Avevi promesso, Kaidan, che mi avresti lasciato morire. -
Non era giusto rinfacciarglielo, sapeva che ci aveva provato, ma una parte egoista e meschina di sé aveva sperato che lui facesse di tutto per onorare quel giuramento, anche l’impossibile. Dopotutto non era quello che aveva sempre fatto lei?
- Eravamo dall’altra parte della galassia, precipitati su un pianeta dimenticato. Ci abbiamo messo dieci anni per tornare. Credevamo fossi morta. Hackett ci disse che eri morta pochi giorni dopo averti ritrovata alla Cittadella. I potenziamenti che Cerberus ti aveva installato con il progetto Lazarus erano collassati e, in assenza di IA, nessuno era stato in grado di ripararli. Ci confidò, in assoluto segreto, che la storia della tua sopravvivenza era una montatura, costruita ad arte, per dare speranza alla galassia, per convincere le persone che si poteva sopravvivere anche alla fine del mondo che conoscevamo.  – la voce di Kaidan tradiva la rabbia e il dolore per quel tradimento, quell’orrida menzogna – Hackett era tutto quello che ci rimaneva. L’unica persona di cui potessimo fidarci. Avevamo perso IDA, Anderson, il Consiglio, persino l’Uomo Misterioso. Avevamo perso te. In chi potevamo credere se non in lui? -
Sasha si asciugò rapidamente la guancia con il dorso della mano.
Kaidan le aveva già raccontato quella storia, ma ogni volta che la sentiva il buco che aveva nel petto al posto del cuore diventava un po’ più grande.
Ma d’altronde non era stato proprio Hackett mentre lei agonizzava, sconfitta, accanto al corpo senza vita di Anderson, a chiederle un ultimo sforzo, un ultimo, impossibile, sacrificio?
Fai qualcosa Shepard. Fai qualcosa.
Non era stato forse lui, in gran segreto, a mandarla nel sistema Bahak, per poi lasciarla affrontare la corte marziale dopo che aveva dovuto scegliere tra lo sterminio di un’intera galassia e quello di un singolo sistema?
L’aveva usata. Aveva continuato ad usarla.
Che cos’era lei, la sua misera piccola vita, se non uno strumento al servizio della galassia?
Mi dispiace per te, Hackett, che ti sia capitata questa Shepard. In un altro universo, in un’altra vita, lui ti avrebbe reso le cose un po’ più facili. Io non sono mai stata così altruista. Non ho sacrificato tutto ciò che sono in nome di un bene superiore. Non me ne starò qui a marcire.
-Quando lo hai saputo, Kaidan? Quando hai saputo che ero ancora viva?-
-Hackett me lo ha confessato sul letto di morte. Credo che alla fine si sia pentito di quello che ti ha fatto. Ma non avevo idea di dove fossi. Sapevo solo che eri intrappolata da qualche parte in attesa che io tenessi fede alla mia promessa. Ti ho cercata Sasha. Ti ho cercata per liberarti, ma non sono mai stato abbastanza intelligente o influente per portare a compimento una missione come questa. Se avessi coinvolto il resto dell’equipaggio: Liara, Garrus, Miranda, Wrex … probabilmente saremmo riusciti a trovarti. Ma non ho potuto. Loro se ne erano fatti una ragione, erano andati avanti in qualche modo, capisci? Come avrei potuto spiegargli che ti stavo cercando solo per … solo per …– la voce di Kaidan si ruppe e lei cercò la sua mano. Lui la strinse subito, non appena sentì il tocco delle sue dita.
 - Era la mia missione, Shepard, la mia promessa, e io non sono riuscito a …-
-Shh … va tutto bene Kaidan. Va tutto bene.-
-Mi dispiace.- ripeté, come un disco rotto.
-Lo so.-
Lo attirò a sé, abbracciandolo e baciandogli la testa. Sapeva che era sincero, che se avesse potuto avrebbe mantenuto la sua promessa. Non era lui a dover essere biasimato.
Sasha ricordava il suo ritorno alla vita. Non era stato un semplice risvegliarsi, era stata rianimata. Ai medici che si erano occupati di lei erano stati dati degli ordini semplici, ma precisi: non lasciate che muoia.
Dopo trent’anni di coma si poteva credere che una persona avesse il diritto di morire, che, nonostante gli ordini, potesse sperare in un po’ di compassione. Invece, mentre lei si abbandonava tra le braccia familiari del suo più grande amore e accoglieva la morte come una vecchia amica, quegli sconosciuti in camice bianco l’avevano trascinata via, scaraventandola di nuovo nel mondo dei vivi.
Non aveva nemmeno tentato di chiedere loro perché. Non avrebbe sopportato una risposta banale ad un quesito tanto profondo.
Quando aveva smesso di maledirli, si era limitata a chiedere se Kaidan Alenko fosse ancora vivo e se potesse incontrarlo.
Non aveva più proferito parola finché lui non era arrivato a portarla via dalla base segreta in cui aveva trascorso gli ultimi trent’anni.
Ma il suo calvario certo non era finito. La sua mente era in bilico, oscillava tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Ciò che aveva appreso durante i suoi trent’anni di stasi si confondeva con ciò che era stata nei suoi trent’anni di vita.
Aveva fatto ordine lentamente nella sua testa, suddividendo i ricordi della vita reale dai frammenti di memorie del suo soggiorno nell’anticamera tra la vita e la morte. Erano ricordi disordinati, pochi attimi, brevi immagini che le si svolgevano davanti come scene di un film: la Normandy SR1 posata come una falena sulla terra nera di Akuze, Thane Krios che osservava un mare dai colori del tramonto, Mordin Solus che raccoglieva conchiglie cantando un motivo stonato, una donna coi capelli rossi in piedi tra gli ulivi, Ashley Williams seduta davanti al fuoco e poi … poi c’erano i ricordi di lui. Sentiva il suo sapore sulle labbra, la voce roca, le guance ruvide, la presa salda delle sue mani, l’odore dei suoi capelli …
Kaidan si separò da lei e si sentì in colpa come una moglie fedifraga.
Era una sensazione ingiusta e ne era consapevole. Non c’era niente di sbagliato nei suoi sentimenti nei confronti di entrambi. In diversi momenti della sua vita quei due uomini erano stati il suo punto fermo nell’universo.
Li aveva amati, li amava e li avrebbe amati per sempre.
-Com’è stato dirlo agli altri? - domandò a Kaidan quando ritrovò la voce.
Il resto dell’equipaggio era stato ignaro della sua sopravvivenza fino a pochi mesi prima. Per quasi un anno, finché non si era ripresa psicologicamente e fisicamente, Kaidan era stata l’unica persona del suo passato a sapere che fosse ancora viva.
-Orribile. - ammise lui evitando il suo sguardo– È stato come riaprire una scatola piena di orrori. Il tempo trascorso sulla Normandy è stato il più bello della nostra vita, ma senza IDA e senza di te la Normandy era diventata come una casa vuota e piena di spettri. Quando eravamo dispersi le cose non andavano così male: ci aggrappavamo alla convinzione che una volta ritornati nel mondo conosciuto avremmo trovato il modo di aggiustare le cose. Ci dicevamo che IDA poteva essere riattivata e che tu …-sospirò -… non hanno mai saputo della promessa che mi hai strappato. Erano certi che tu saresti sopravvissuta, come hai sempre fatto. Io sapevo che erano speranze egoistiche, che tu saresti stara più felice se fossi morta, ma la convinzione che tutto potesse essere come prima era la sola cosa che ci teneva in vita. Così ho fatto finta di niente, fingendo di credere anch’io a quelle pie illusioni. – Kaidan si passò una mano tra i capelli grigi – Dieci anni sono lunghi, Shepard. E quando li passi ad inseguire un miraggio, scoprire che le tue certezze non erano altro che fantasie, ti riduce in mille pezzi. Quello che trovammo al nostro ritorno fu una galassia aliena. Tutto quello che conoscevamo era svanito. I nostri mondi erano irriconoscibili. Le persone che conoscevamo, quelle ancora vive, ci avevano seppellito, pianto e dimenticato. Per un po’ ci siamo aggrappati alla Normandy come i naufraghi si aggrappano al relitto di una nave. Ma non avevamo più uno scopo o una ragione di esistere. Eravamo un fenomeno da baraccone che vagava nello spazio. Così alla fine, l’uno dopo l’altro ce ne siamo andati, cercando di rifarci una vita. Io e Jack abbiamo aperto la nostra scuola per biotici, Tali è diventata l’ambasciatrice Quarian, Garrus è tornato su Palaven e Liara ha ricostruito la sua rete di spie rintanandosi nell’ombra. -
-E Jeff? -
La voce di Kaidan si fece aspra – È rimasto sulla Normandy a scorrazzare turisti che vogliono provare l’ebrezza di solcare i cieli sulla nave che ha salvato la galassia. -
Sasha aveva la bocca secca -Non avrei voluto questa fine per voi. -
-Sei sempre stata tu il nostro centro di gravità, comandante. Senza di te ci siamo dispersi …-
-…come foglie nel vento. Sì, ho già sentito questa frase. Me lo disse Jeff dopo la mia prima resurrezione. L’ho sempre detestata. -
Kaidan fece un sorrisetto – Se tu perdessi l’abitudine di morire e risorgere forse eviteresti di sentire sempre le stesse lagne. -
-Perché pensi sia così smaniosa di restare morta? Sono stufa delle lagne. -
Lui ridacchiò e le spostò una ciocca di capelli che le era caduta davanti agli occhi. Non fu abbastanza veloce e la cicca grigia dondolò per un attimo davanti agli occhi di Sasha, lasciandola amareggiata. Rimpiangeva i suoi splendidi capelli rossi.
-Verranno? - domandò a Kaidan con un filo di voce.
Lui la fissò inebetito, come se gli stesse chiedendo se l’acqua era bagnata – Che domande fai, Sasha? Certo che verranno. -
Gli porse una mano – Allora aiutami ad alzarmi, ammiraglio. Non andrò incontro al mio equipaggio seduta su una sedia, come un’inferma. Meritano un comandante che li guardi negli occhi. -
-Ma … le tue gambe … i medici dicono …-
-Le mie gambe funzionano benissimo. – Sasha si tirò su a fatica. Aveva recitato bene il ruolo dell’inferma, ma le sue gambe erano state leste a riprendersi, come la sua testa. Fingere di essere più impotente di quanto non fosse aveva tenuto gli scocciatori a distanza. L’universo non sapeva che farsene di una vecchia gloria decrepita e a lei andava benissimo così. – Fare la storpia mi ha risparmiato un sacco di scocciature. - spiegò ad un incredulo Kaidan – Nessuno vuole una vecchia in carrozzina alle proprie serate di gala o ai comizi politici. Non è glamour. -
Prese Alenko sottobraccio e lo sospinse verso gli ascensori – Andiamo, ammiraglio. Torniamo a casa. –
  
Kaidan era un po’ preoccupato. Non era stato del tutto sincero con Shepard: aveva richiamato i vecchi compagni alla Cittadella, aveva preso in prestito la Normandy e il suo pilota dalla compagnia turistica che l’aveva acquistata (d’altronde non potevano certo dire di no a un ammiraglio dell’Alleanza, eroe di guerra ed ex Spettro) e aveva preso una licenza che si sarebbe potuta benissimo trasformare in un prepensionamento. Tuttavia, non aveva detto a nessuno perché.
Ovviamente non ai suoi superiori, ma nemmeno a Jeff e al resto dell’equipaggio.
In verità nessuno di loro sapeva che Shepard fosse ancora viva.
Non aveva mai trovato il modo e, soprattutto, il coraggio di comunicare quella sconvolgente notizia al resto dell’equipaggio.
Quando il raggio della Cittadella li aveva colpiti, la Normandy era finita in un sistema ai margini della galassia, precipitata in un angolo sperduto di un pianeta sconosciuto.
Il lutto li aveva travolti con la stessa, devastante, potenza del raggio della Cittadella.
Avevano perso Anderson. Avevano perso IDA. Avevano perso il Comandante Shepard.
Per alcuni di loro quelle perdite erano state troppo.
Jeff era stato il primo a crollare. Senza la Normandy da pilotare, senza IDA al suo fianco, senza il comandante a sostenerlo, aveva perso ogni desiderio di vivere. Liara non aveva resistito molto di più. Rendersi conto che, questa volta, Shepard non poteva essere riportata in vita l’aveva mandata letteralmente al tappeto.
Kaidan sarebbe crollato con loro se non si fosse aggrappato alla certezza che, tra tutte quelle persone straordinarie, Sasha avesse scelto lui per un motivo ben preciso: era in grado di sopportare la sua morte. Era in grado di farsene una ragione.
Sasha Shepard era finalmente in pace e lui doveva prendersi cura delle cose più preziose che avesse al mondo: il suo equipaggio e la sua nave.
IDA non c’era più. Shepard non c’era più. Ma loro, l’equipaggio più coraggioso che la galassia avesse mai visto, erano ancora vivi.
Così si era rimboccato le maniche, aveva inghiottito le lacrime, e aveva costretto sé stesso e gli altri a mettersi al lavoro seguendo una scaletta ben precisa di priorità: scoprire dov’erano finiti, rimettere in sesto la nave e trovare un modo per tornare a casa.
Gli ci erano volute settimane per realizzare il primo punto e capire su che pianeta fossero precipitati: Zorya, nella frontiera di Ismar.
Non era un pianeta sconosciuto, ma un pianeta giardino di colonizzazione umana. Erano atterrati in un’area disabitata ma, una vola riparata una navetta, avevano raggiunto il più vicino centro abitato.
Il pianeta non era sfuggito ai Razziatori e la città era poco più di un cumulo di macerie fumanti. Non avevano trovato nessuno, né vivo né morto, e avevano dovuto arrangiarsi, come sempre. Tutti i sistemi di comunicazione del pianeta erano fuori uso, ma fortunatamente c’era cibo, acqua, carburante e risorse in abbondanza. In una base abbandonata dei Sole Blu avevano trovato tutto il necessario per riparare la Normandy. Tuttavia, la nave versava in condizioni critiche.
IDA non era stata solo l’IA della nave. Ne era stata l’anima. Era fusa con la Normandy come una mente umana con il corpo. Erano inscindibili e imprescindibili. Senza la sua mente la Normandy era come una persona in coma: apparentemente intatta, ma spezzata nel profondo.
L’equipaggio di Shepard era composto dalle menti più brillanti della galassia, eppure avevano dovuto lavorare giorno e notte, per settimane, per ripristinare la rete elettrica della nave. E le settimane erano diventati mesi prima che riuscissero a rimettere in funzione il supporto vitale, i radar, i computer di bordo ed infine lo straordinario nucleo motore.
Era stato Jeff a trovare la soluzione: avevano ricostruito il codice di Cerberus con cui IDA era stata vincolata quando era stata installata sulla Normandy. Avevano faticosamente e meticolosamente isolato ogni singolo software presente sulla nave, resettandolo e sostituendone le componenti, ricostruendo da zero le parti più compromesse dalla presenza dell’IA oppure eliminandole del tutto. Il sistema di comunicazione interno, attraverso il quale la voce sensuale di IDA raggiungeva ogni angolo della nave, era stato completamente smantellato. Non tentarono nemmeno di ripristinarlo. Avrebbero comunicato tramite le piccole radio nei caschi o nelle tute. Udire lo sfrigolio del comunicatore e non sentire la voce calma di IDA fare qualche battuta o intromettersi in una conversazione, sarebbe stato troppo doloroso da sopportare, specialmente per Jeff.
Il loro pilota viveva di stimolanti, birra scadente e software da programmare. Si era chiuso in un mutismo preoccupante, interrotto solo da qualche colorita imprecazione quando il lavoro era più complicato del previsto. In circostanze normali tutti si sarebbero fatti in quattro per cercare di sostenerlo, ma nessuno degli altri era messo meglio. Erano logorati dal lutto, dalla stanchezza e dall’impotenza. Erano smaniosi di tornare nella civiltà, ma anche terrorizzati da quello che avrebbero potuto trovarci. Segretamente tutti speravano di tornare a casa e scoprire che IDA poteva essere riattivata e il comandante di nuovo resuscitato.
Solo Kaidan conosceva l’amara verità: questa volta le loro perdite sarebbero state irreversibili.
Lo aveva promesso a Shepard.
Sasha Shepard aveva il diritto di riposare in pace e Kaidan sapeva che si era permessa quel lusso solo perché credeva che lui potesse prendersi cura della Normandy e del suo equipaggio anche senza di lei.
Si era tolta quel fardello dalle spalle e lo aveva passato a lui.
Finalmente capiva ciò che Shepard aveva fatto per loro in tutti quegli anni: era rimasta in piedi mentre il peso della galassia crollava sulle sue spalle.
Lei era stata Atlante ed ora toccava a lui sostituirla, almeno in parte.
Non si era gravato del peso di una galassia intera, quel peso non l’avrebbe mai sopportato, ma poteva sorreggere la Normandy, poteva sorreggere l’equipaggio. In fondo, dell’intero universo, erano sempre stati la sola cosa davvero importante.
Aveva trovato in Garrus e Javik due straordinari sostegni.
I Turian erano un popolo militare, conoscevano il dovere e la perdita meglio di qualsiasi altra specie della galassia. Il vittimismo e i sentimentalismi erano debolezze che quella specie dura e inflessibile non si era mai potuta concedere.
Garrus aveva pianto il suo comandante. Aveva pianto IDA. Aveva pianto il pianeta, il popolo e la famiglia di cui non conosceva il destino. Si era concesso un singolo giorno di lutto e poi, come un albero piegato dal vento di una tempesta ormai passata, si era rialzato. Un po’ curvo, forse, ma saldo.
Javik … lui era un autentico mistero. Kaidan si era convinto, in quei mesi passati a combattere i Razziatori insieme, che di quei compagni e di quella galassia, gli importasse ben poco. In lui non albergava altro che uno smisurato, inestinguibile, desiderio di vendetta. E come poteva essere diversamente? Era l’unico sopravvissuto di una specie estinta migliaia di anni prima. Aveva perduto ogni cosa tranne l’odio. Kaidan non credeva che avrebbe mai potuto provare affetto, o anche solo simpatia, per la Normandy e il suo equipaggio. Si sbagliava. Nel suo modo supponente, irritante e saccente, Javik aveva iniziato a guardarli come compagni e quando Shepard era morta, il dispiacere nei suoi occhi alieni era stato sorprendentemente profondo.
Javik, l’inaccessibile, arido Prothean, votato solo alla vendetta, si era affezionato all’equipaggio della Normandy e al suo comandante, tanto da considerare la sconfitta dei Razziatori come una misera consolazione se paragonata al dolore della perdita.
Lo scopo della sua esistenza si era consumato nelle fiamme rosse della Cittadella. Con i Razziatori finalmente distrutti, Javik aveva realizzato la sua vendetta e nulla, apparentemente, lo tratteneva in una galassia che gli era aliene. Ma invece di abbandonare la Normandy per cercare una morte solitaria, aveva deposto la sua corazza di fredda indifferenza e si era rimboccato le maniche, dimostrando a tutti che la vita non è solo uno scopo. Non è una missione da compiere o un obiettivo da raggiungere.
La vita è solo vita e il suo senso è nelle piccole cose. Nel sole che riscalda la pelle. Nel vento che s’insinua sotto gli abiti. Nel sapore di un frutto appena raccolto. Nel profumo della pioggia. Nella mano di un amico sulla spalla.
Non era stato facile, né immediato, né indolore, ma, infine, il suo esempio li aveva salvati, l’uno dopo l’altro.
La serena consapevolezza di Javik li aveva guidati, come i pellegrini verso un luogo sacro.
Quando finalmente la Normandy era stata in grado di volare, il suo equipaggio era lì, pronto a librarsi in volo insieme a lei.
Il viaggio era stato estenuante.
Dopo due anni, trascorsi a rimettere in sesto la nave, si erano illusi che il peggio fosse passato. Solo quando si erano imbattuti nei resti del portale galattico avevano capito che il viaggio di ritorno sarebbe stato un’autentica odissea.
E, come Ulisse, si erano smarriti, tra le infinite pieghe dell’universo. Una piccola scintilla di luce dispersa nell’oscurità. Innumerevoli volte erano stati sul punto di spegnersi, ma si erano fatti forza l’un l’altro, sostenendosi quando qualsiasi altro equipaggio si sarebbe saltato alla gola.
Otto anni, tanto era stato lungo il loro viaggio di ritorno: otto, lunghissimi anni.
L’arrivo sulla Terra era stato traumatico. Scoprire ciò che la galassia stava diventando lo era stato ancora di più. Non c’era nulla di terribile ad aspettarli. Nessuna desolazione, nessun’apocalisse, solo un universo diverso. La vita aveva proseguito il suo corso, anche senza di loro.
E quel santuario che avevano innalzato a quella vita che avevano scoperto di amare nel loro placido esilio, era crollato come un castello di sabbia investito dalla schiuma del mare. Con la civiltà avevano trovato anche i suoi fardelli: lutti, colpe, responsabilità.
Shepard non era risorta.
IDA non poteva essere riattivata.
La Normandy era una nave obsoleta e loro non erano più un equipaggio.
Senza Shepard non erano niente.
Ci siamo dispersi come foglie nel vento.
Ognuno era partito per la sua strada e tutti quegli anni passati a bordo della Normandy si erano trasformati nel ricordo di un’altra vita.
Erano rimasti in contatto, chi più chi meno. Kaidan aveva cercato di trattenere il filo sottile che ancora li legava, ma ogni anno che passava quel filo si assottigliava sempre di più. E poi … poi Hackett gli aveva svelato il suo terribile segreto.
Shepard era ancora viva, in coma, ma viva, intrappolata dall’egoismo di una galassia troppo vigliacca per privarsi del suo eroe più fulgido.
Più e più volte Kaidan si era trovato col datapad acceso, pronto ad aprire una comunicazione con Tali, Garrus o Liara, pronto a scaricare sulle loro spalle un po’ di quel terribile fardello, ma non era stato in grado di trovare le parole con cui cominciare quella conversazione. Cosa c’era da dire? Come poteva gravarli della terribile consapevolezza che la donna che avevano amato più di ogni altro giaceva incosciente su un letto d’ospedale, derubata del suo giusto riposo.
Si erano fatti una ragione della sua morte e non gli era parso giusto privarli di quel briciolo di serenità. Non se lo meritavano.
Così aveva mantenuto il segreto, arrovellandosi per trovare un modo di mantenere anche la sua promessa.
Altri anni erano trascorsi, inutili, mentre dava fondo a tutte le sue risorse per trovare il luogo in cui lei giaceva.
Forse, se avesse interpellato l’Ombra, sarebbe arrivato in tempo. Forse il suo desiderio di risparmiare a Liara il dolore della verità aveva permesso che Shepard soffrisse l’agonia di un’altra resurrezione.
Ma quel che era fatto non poteva essere disfatto.
Non aveva trovato Shepard in tempo. Quando finalmente aveva localizzato la base segreta in cui era rinchiusa, lei si era già risvegliata. Furibonda e disperata, in preda al delirio, eppure ancora abbastanza lucida da chiedere di lui.
Lo aveva maledetto e lui sapeva di meritare il suo biasimo. Gli aveva affidato la sua morte ed aveva fallito.
Col tempo Shepard lo aveva perdonato, ma Kaidan non poteva nascondere la vergogna per quel terribile fallimento.
-Smettila. – la voce di Shepard, imperiosa, lo fece sobbalzare. L’astroauto su cui viaggiavano aveva il pilota automatico e Kaidan aveva lasciato che la mente divagasse mentre fissava con occhi vuoti le luci della Cittadella che sfrecciavano fuori dal finestrino.
-Non sto facendo niente. -
-Ti stai colpevolizzando. –
Aveva la bocca secca – Non capisco di cosa tu stia parlando. –
-Quell’espressione, Kaidan, la conosco bene. Non hai idea di quante volte l’ho vista nello specchio. –
Kaidan le lanciò un’occhiata obliqua – Dunque dovresti anche sapere che non posso smettere di sentirmi in colpa. –
-Tu hai fatto del tuo meglio, Kaidan. A volte non è sufficiente. Dovremmo imparare a farcene una ragione. A volte si fallisce e basta. -
- A quelli come noi, Shepard, non è concesso il lusso di fallire. –
- Ma lo facciamo lo stesso. E forse, se non trasformassimo quei fallimenti nella nostra ossessione, non sarebbero nemmeno così insormontabili. –
Si concesse un mezzo sorriso sarcastico – Non mi sembravi così comprensiva quando mi maledicevi per non aver impedito la tua resurrezione. –
Lei ricambiò la smorfia – Adesso chi è quello che colpevolizza una vecchia? -
Rise – Smettila con questa storia della vecchia. Abbiamo poco più di sessant’anni, per gli standard di questa galassia siamo ancora dei ragazzini. -
-Lo standard di questa galassia è lasciare che poche persone si assumano la responsabilità di tenerla in vita, invecchiando prima del tempo, cosicché tutti gli altri possano crogiolarsi nell’illusione di essere eterni. –
L’astroauto si posò delicatamente nell’area parcheggio di uno dei tanti spazioporti della Cittadella. La Normandy sarebbe atterrata lì: non più nell’hangar D-24, quello era stato spazzato via, ma in uno dei tanti, anonimi, porti turistici. Come una nave qualunque.
-Sai …- mormorò Kaidan mentre le portiere si sollevavano - … anche a costo di invecchiare prima del tempo e fare i conti giornalmente con una brutta gastrite, non farei mai a cambio. -
-Non ti seguo. –
-Sto dicendo che, nonostante tutto, credo che ne sia valsa la pena e, se dovessi tornare indietro, sceglierei di nuovo questa vita, con tutti i suoi dolori. –
Il comandante non disse nulla. Scese dall’astroauto e si avviò verso i moli, con la schiena dritta e il passo deciso. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare che fino a poche ore prima si faceva spingere su una sedia a rotelle.
Quando la raggiunse era appoggiata alla balaustra che dava sulle piattaforme d’attracco, intenta ad osservare il via vai di navi spaziali.
-Loro non sanno niente, non è così? –
Non dovette chiedere maggiore chiarezza. Sapeva bene a cosa si riferisse.
-Ho perso il sonno cercando le parole per spiegare tutto questo. Mi sono arrovellato così tanto che alla fine il giorno è arrivato e io non ho ancora idea di come spiegarlo. –
Shepard sospirò – Non saprei nemmeno io come farlo. Che cosa gli hai detto per convincerli a venire? -
-Solo che c’era un’ultima missione per la Normandy e il suo equipaggio. Ho detto loro che quando fossero arrivati avrebbero capito. -
-Capisco. Immagino che, dopotutto, erano le sole parole necess … oh! -
La Normandy era entrata nello spazioporto, così bella da far impallidire tutte le altre navi.
Shepard la fissava a bocca aperta, come un cieco che vede la luce per la prima volta.
Non poteva biasimarla. La Normandy SR-2 era ancora uno spettacolo mozzafiato.
Kaidan notò che molti si fermavano a guardarla, rapiti, mentre  attraccava con la delicatezza di una farfalla che si posa su uno stelo d’erba.
Non aspettò che i motori si spegnessero o qualcuno venisse loro incontro. Prese Shepard per mano e la condusse, quasi correndo, fin davanti al portellone.
Quando si aprì con un fruscio delicato come seta sulla pelle, sentì la mano di Shepard rilassarsi e le sue dita avvolgersi attorno alle sue.
-Dopo tutto questo tempo, Kaidan … siamo di nuovo a casa.-
Lui guardò prima la nave e poi il suo comandante. C’era una nuova luce negli occhi verdi di Sasha ed ora che il suo viso si era rasserenato non appariva per niente diversa dalla giovane donna che aveva comandato quella nave. Sasha Shepard era esattamente come l’aveva vista l’ultima volta a bordo della Normandy: fiera, invincibile e bellissima.
-Sì.- disse senza staccare gli occhi dal suo comandante –Questa è di nuovo la nostra casa.-

Liara T’Soni non sapeva cosa aspettarsi dall’improvvisa convocazione di Kaidan.
Non sentiva l’ammiraglio da … cinque o sei anni, forse di più. Non riusciva a ricordare l’ultima volta in cui si erano parlati, né perché avessero smesso di farlo. Non c’era un vero motivo, semplicemente non avevano più avuto nulla da dirsi.
Con gli altri era successa più o meno la stessa cosa. Tali era stata l’unica con cui avesse mantenuto qualche contatto e anche con lei le chiamate erano diventate sempre più rare e le occasioni di vedersi quasi inesistenti.
La cosa veramente triste era che soltanto dopo aver ricevuto la chiamata di Kaidan si era accorta di quanto fosse rimasta sola: non aveva nessuno da salutare, nessuno a cui dire che sarebbe partita, nessuno che la implorasse di rimanere.
C’era solo la sua base dell’Ombra, ma Glifo sarebbe stato in grado di gestirla in sua assenza e se non fosse più tornata … beh alla fine qualcuno si sarebbe accorto che qualcosa non andava e … scrollò le spalle: in verità non le interessava per niente.
Per un po’ essere l’Ombra l’aveva soddisfatta, di sicuro riempiva le sue giornate. Aveva anche iniziato una relazione con Feron. Aveva accarezzato l’idea di costruirsi una famiglia, magari su Thessia o su Ilium o persino su Tutchanka, adesso che era diventato un luogo di cultura e bellezza. Ma non erano stati che vaghi pensieri, sottili come veli di nebbia. Pian piano aveva lasciato che quei pallidi desideri svanissero, che il suo affetto per Feron appassisse e che ogni legame con i viventi si facesse sempre più flebile.
Quando Feron l’aveva lasciata a stento se ne era accorta. Un giorno si era svegliata e non l’aveva più trovato. Non aveva nemmeno fatto finta di cercarlo. Andava bene così.
Era diventata apatica e vuota, guidata solo dall’abitudine.
Sapeva di essere morta nel momento stesso in cui aveva capito che Shepard non sarebbe più tornata, che non ci sarebbero più state risate nella mensa della Normandy, nessun briefing in piena notte con Tali che sorseggiava cioccolata calda appollaiata sul bancone delle armi, nessuna partita a carte con James e Kaidan nell’osservatorio, nessuna discussione filosofica con Ida.
La Normandy e il suo equipaggio avevano cessato di esistere assieme al loro comandante. E lei era morta con loro.
Non l’aveva capito subito. Era stato un decadimento lento, un silenzioso avvizzimento.
Nonostante fosse un’Asari e per natura fosse destinata a vivere migliaia di anni, Liara era invecchiata.
Era stanca.
Stanca di quella galassia che non riconosceva. Stanca di rimuginare su un passato che non poteva più riavere. Stanca di piangere un’amica che non era riuscita a salvare.
Il messaggio di Kaidan, per quanto criptico, era stato come un lampo di luce in una notte polare.
Vi si era aggrappata con un ardore che non credeva più di possedere e si era sorpresa a fantasticare su missioni spaziali e nuovi pianeti da esplorare. In un attimo aveva dismesso i panni della vecchia e rivestito quelli della giovane Asari che era.
Risalire sulla Normandy era stato come ritornare nella propria casa d’infanzia. Sapeva che a bordo di quella nave avevano vissuto momenti terribili, eppure non riusciva a fare a meno di desiderare di poter tornare a quei giorni.
Dagli oblò della Normandy avevano visto un sistema esplodere, Thessia invasa dai Razziatori, la Terra e Palaven in fiamme, eppure nulla poteva scalfire l’adamantina certezza di aver passato proprio lì, tra quelle grigie paratie, i momenti più felici della sua intera esistenza.
Non importava quanto orribile potesse essere la galassia là fuori: quando eri a bordo della Normandy non esisteva problema insolubile o tragedia insormontabile. Quando eri a bordo della Normandy eri invincibile.
Non appena era salita a bordo aveva capito che non esisteva altro luogo per lei, in cui vivere e morire.
Rivedere Jeff seduto al suo solito posto, sentire i borbotti di Garrus che si affaccendava presso il cannone principale, ascoltare Tali canticchiare mentre trafficava con il motore, assistere ai quotidiani battibecchi tra Jack e Miranda mentre James tentava invano di mediare e Wrex sorseggiava un barile di birra Batarian con palese divertimento, l’aveva fatta tornare indietro nel tempo, quando la vita era così difficile e lei così felice.
Anche senza Shepard, anche senza Ida, la Normandy era il solo luogo nella galassia in cui si sentisse in pace.
Qualunque cosa fosse successa, promise a sé stessa che non l’avrebbe più lasciata.
L’acqua nel suo bicchiere oscillò, schizzandole la mano, mentre la nave usciva dalla velocità iperluce.
Pochi minuti dopo Jeff annunciava nell’interfono che la nave stava per attraccare alla Cittadella.
-Kaidan mi ha appena mandato un messaggio. - disse – Vuole che lo aspettiamo in mensa. -
Liara svuotò il suo bicchiere, si sistemò la giacca e uscì dalla sua cabina per andare in mensa. Li trovò già tutti radunati.
Tutti loro, nonostante gli obiettivi raggiunti, i titoli conquistati, i riconoscimenti ottenuti, non avevano altro posto al mondo che non fosse la Normandy. Che gli piacesse o no quella era la loro casa e la loro famiglia.
Nell’interno universo le sole persone cui importasse qualcosa di loro si trovavano lì, su quella nave: Garrus, Tali, Jeff, Wrex, Jack, Miranda e James, oltre a Kaidan, naturalmente,
La convocazione di Kaidan era stata concisa ma inequivocabile: Ci aspetta un ultimo viaggio a bordo della Normandy. Potrebbe essere un viaggio di sola andata. Per ora non riesco a dirvi altro. Vediamoci alla Cittadella tra una settimana esatta, lì capirete tutto e deciderete se partire con noi o continuare la vostra vita.
Per quel che la riguardava la decisione era già presa e sapeva che per gli altri, probabilmente, valeva lo stesso.
Nessuna di quelle persone aveva una vita all’infuri di quelle paratie. Chi ce l’aveva non era lì.
Jacob aveva la sua famiglia, Grunt la sua squadra, di Kasumi si era persa ogni traccia, Samantha e Steve si erano rifatti una vita.
Gli altri, Samara, Zaeed e Javik, erano morti, qualcuno prima, qualcuno dopo.
Il tintinnio di un bicchiere che rotolava per terra risuonò come uno sparo nel silenzio che li avvolgeva. Tutti si voltarono verso il rumore, ma era solo Tali che aveva fatto uno dei suoi disastri.
-Scusate. - bofonchiò goffamente mentre raccoglieva i cocci.
Garrus fece schioccare la mandibola – Non insegnano la delicatezza agli ambasciatori Quarian?-
-Sì, è la stessa scuola che insegna la simpatia ai generali Turian e a quanto pare fa schifo. -
James sogghignò – Eri un pollo trent’anni fa Vakarian e un pollo sei rimasto. -
-Uno che a se ne va in giro con quei tatuaggi e quei capelli dovrebbe avere la decenza di starsene zitto. Sembri un tacchino che ha abusato di steroidi. -
-Ah! - approvò Wrex, battendo un pugno sul tavolo – Ecco cosa mi ricordava! -
Continuarono a battibeccare, col sorriso sulle labbra, e Liara sentì le spalle rilassarsi e il groppo che le serrava la gola sciogliersi. Era come immergersi in una vasca d’acqua calda dopo una giornata sfiancante.
Tali l’affiancò passandole un braccio sottile attorno alla vita – Mi era mancato tutto questo. -
Sorrise, appoggiando la testa sulla spalla di Tali, sentendo la malinconia che l’aveva afflitta per tutti quegli anni evaporare.
Il sibilo dell’ascensore ebbe l’effetto di una sirena dall’arme. Si zittirono tutti e si voltarono per accogliere Kaidan.
Ma l’ammiraglio Alenko non era solo.
Con lui c’era una donna esile, non molto alta, con i capelli grigi raccolti in una crocchia. Il suo viso era scavato, come se fosse reduce da una lunga malattia, ma irradiava una serenità profonda, inattaccabile.
Gli occhi verdi, grandi e lucenti, brillavano di pura gioia.
Il tempo e la sofferenza avevano segnato il viso dai tratti delicati, ma la sua bellezza non era stata scalfita. Era ancora fiera e decisa. Era ancora Shepard.
-Cristo santo, Shepard! - esclamò Jack facendo un passo avanti, inebetita – Tu sei morta!-
-Mi sembra di avere un déjà-vu. - bofonchiò Jeff, interdetto.
-Non sei l’unico, credimi. – replicò Shepard e il suono della sua voce fece vacillare Liara.
Se Tali non fosse stata al suo fianco, a sorreggerla, probabilmente sarebbe crollata in ginocchio, come un fedele di fronte ad un’apparizione divina.
-La morte si ostina a ricacciarmi indietro. Sembra che non voglia saperne niente di me. -
Miranda incrociò le braccia al petto e la squadrò da capo a piedi – Chiunque sia stato non ha fatto un bel lavoro. Io ti avrei dato qualche anno in meno. -
Le labbra di Shepard s’incurvarono maligne – Mi spiace dirtelo, ma è sempre il tuo di lavoro. I segaossa dell’Alleanza hanno solo dato un’aggiustatina al buon vecchio corpo che mi hai dato tu, signorina Lawson.-
-Signora.- precisò Miranda – Non farti ingannare dal mio bell’aspetto. Gli anni e i mariti sono passati anche per me.-
-Poveri mariti. -
Calò uno strano silenzio, carico di tensione. Tutti fissavano Shepard chiedendosi quale inganno potesse esserci dietro. Lei non poteva essere viva, l’avevano … l’avevano cosa? Nessuno l’aveva vista morire, né avevano visto il suo corpo.
Avevano solo la parola di Hackett.
Liara fissò Kaidan che evitava di guardarli con aria colpevole e poi riportò lo sguardo su Shepard.
Gli occhi verdi del comandante incontrarono i suoi, vivi e vibranti come quelli di un gatto selvatico.
-Comandante Shepard …- mormorò, staccandosi da Tali e facendo un passo avanti – Sei … sei davvero tu? -
Una strana espressione si dipinse sul viso della donna, un misto di malinconia e fierezza -Potrei mai essere qualcosa di diverso? -
Liara non ebbe più alcun dubbio. Quella era una risposta da Shepard. Quelli erano gli occhi di Sasha.
Le buttò le braccia al collo, scoppiando in lacrime.
-Per la Dea, comandante … - il resto della frase si perse in un balbettio indistinto.
Le braccia di Shepard si strinsero intorno a lei, nel primo vero abbraccio che riceveva da … nemmeno sapeva quanto.
-Mi siete mancati così tanto. - sussurrò Shepard con voce tremante. Sembrava sorpresa da quell’affermazione, come se non l’avesse davvero realizzato fino a quel momento.
Fu come schiacciare il tasto play sul telecomando. Il tempo ricominciò a scorrere e le persone nella sala ripresero a vivere.
La prima ad arrivare fu Tali. Si avvinghiò a loro come una scimmietta, piccola e tremante, scossa da risate miste a singhiozzi.
La stazza di Wrex le fece vacillare quando lui le sollevò tutte tra le possenti braccia.
Sentì gli altri ridere e fare battute, ma quando i suoi occhi si posarono su Jeff si accorse che fissava Kaidan in cagnesco, come se l’ammiraglio fosse responsabile di qualche crimine atroce.
-Tu lo sapevi Alenko? Sapevi che Shepard era viva e non hai detto niente? -
-Jeff … - tentò Garrus, ma Shepard si sciolse dall’abbraccio e si affiancò a Kaidan.
-Gli ho chiesto io di non dire niente. - a Liara non sfuggì la sorpresa subito nascosta che affiorò sul viso di Kaidan – Come avrebbe potuto spiegare l’inspiegabile? Era meglio che lo vedeste con i vostri occhi, non gli avreste mai creduto altrimenti. -
-Trentadue anni, Shepard. Per trentadue anni abbiamo pensato che fossi morta. -
Jeff era quello che aveva accusato il passare del tempo peggio di tutti. La sua malattia ne aveva incurvato la schiena e la zoppia era diventata tanto invasiva da impedirgli di camminare per più di qualche metro. Le mani erano gonfie e deformi, ma quando sedeva in plancia era ancora il miglior pilota vivente.
Shepard si passò una mano sul viso – Sono rimasta in coma per trent’anni, Jeff e gli ultimi due li ho passati a rimettere insieme quello che restava della mia sanità mentale. Kaidan ha saputo che ero viva solo due anni fa.-
Si guardarono l’un l’altro, sbalorditi.
-Com’è possibile che non siamo mai stati informati? - domandò James – Hackett …-
- Hackett ha mentito. - intervenne Kaidan – Ci disse che la notizia della sopravvivenza di Shepard era solo propaganda, un meschino trucco per dare speranza alla galassia. Ma ad essere ingannati fummo noi. Hackett mi confessò tutto sul letto di morte. -
Liara si accigliò – L’ammiraglio è morto quasi dieci anni fa.-
Kaidan lanciò a Shepard un’occhiata colpevole – Tanto ci ho messo a trovarla. -
Liara sentì la rabbia montarle dentro -Perché non mi hai detto niente, con le mie risorse saremmo … - di fronte allo sguardo bruciante di Kaidan si zittì.
Non l’aveva coinvolta perché lei avrebbe fatto di tutto per riportare Shepard in vita, come in passato, ma Shepard non aveva mai fatto mistero di quanto quella resurrezione le fosse costata. Una resurrezione era un fardello terribile da portare, ma due …
-Non siamo qui per parlare di questo.- intervenne Shepard, decisa – Kaidan non ha fatto altro che rispettare la mia volontà. In tutti questi anni, da quando ha saputo che ero viva, lui mi ha protetto. Non c’è altro da dire.-
E con quell’affermazione il discorso era chiuso.
-E allora perché siamo qui, Shepard? – intervenne Jack, sulla difensiva – Perché, dopo tutto questo tempo, ci hai cercati?-
Il comandante andò a sedersi al tavolo della mensa. Sembrava molto stanca, ma anche … in pace. Liara non l’aveva mai vista così serena. Era come se avesse trovato le risposte a tutti i quesiti del mondo.
-Questo argomento va affrontato con un po’ di alcol. È rimasto ancora del buon Gin su questa nave?-
Quando i bicchieri furono pieni e tutti loro seduti, Shepard bevve un lungo sorso, schioccò le labbra e li guardò, uno ad uno, gli occhi verdi vibranti di eccitazione.
-Sono qui perché siete ciò che di più caro ho in questo universo. Siete la mia famiglia, la mia casa …- guardò Kaidan - … il mio amore. Siete le sole persone viventi che posso portare con me in questo mio ultimo viaggio. E voi, voi perché siete qui?-
Calò uno strano silenzio, fatto di occhiate furtive, bicchieri spostati e mani che non sapevano dove posarsi.
Alla fine, fu Garrus a trovare la voce – Siamo qui per il tuo stesso motivo, comandante. -
-Tu sei un generale, un eroe di guerra, uno stimato consigliere del governo di Palaven e so che hai rifiutato un posto nel nuovo Consiglio galattico. Mi stai dicendo che rinunceresti a tutto per …- Shepard allargò le braccia, includendo tutti loro e la Normandy - … questo?-
-Senza esitare. Questi ultimi trent’anni sono stati i più deprimenti e solitari della mia vita.- la voce di Garrus era ferma, ma l’azzurro dei suoi occhi era velato di lacrime – Questo è l’unico luogo in cui io sia mai stato felice e voi le uniche persone che abbia mai amato davvero.-
Tali si sporse a stringere la mano del Turian – Lo stesso vale per me, comandante. Rannoch è un luogo magico, amo la mia gente e sono orgogliosa di esserne l’ambasciatrice, ma è qui il mio posto e voi siete la mia famiglia. Voi siete il mio popolo. –
Uno dopo l’altro tutti si dissero d’accordo, anche Liara. Solo Wrex rimase silenzioso.
Shepard lo guardò di sottecchi – Wrex, tu hai una moglie, dei figli, un clan di cui essere orgoglioso … sei sicuro di voler affrontare questo viaggio con noi? Nessuno ti biasimerà se sceglierai Bakara e i Krogan invece di …-
Urdnot Wrex era diventato più grosso e più arcigno. Nuove cicatrici si erano aggiunte alle vecchie, da qualche parte in quei trent’anni aveva perso un occhio, era vecchio, ma non così vecchio da pensare ad un dignitoso ritiro prima della fine.
Come le Asari, i Krogan vivevano per migliaia di anni. Wrex ne aveva molti più di Liara, ma molti meno della maggior parte dei Krogan anziani. Tra tutti era sicuramente quello che aveva più da perdere.
 – Bakara ed io non siamo mai stati davvero una coppia. La nostra unione era solo politica: io il braccio e lei la mente. – si strinse nelle grosse spalle – Ero un guerriero, Shepard, una Krogan di guerra in un mondo in guerra. Ora siamo in pace e per quanto io ne sia felice, so anche che per me non c’è più posto. È da tanti anni ormai che al clan e ai Krogan io non servo più. Ho dei figli, certo, ma noi Krogan non siamo sentimentali come voi umani. Non sono più dei cuccioli, sanno badare a loro stessi. Hanno Bakara, hanno gli Urdont, per loro io sono solo un vecchio brontolone noioso. No, Shepard, non ci sono affetti per me tra i Krogan. Il mio clan è raccolto qui, su questa nave. E ovunque andrà io lo seguirò. Solo mi chiedo dove vuoi andare a parare.-
-Se raccontassi una storia assurda, ma così assurda da sembrare frutto di una mente stravolta, tu ci crederesti?
Wrex scoppiò in una risata tonante – Dopo tutto quelle che ti ho visto fare, Shepard, se tu affermassi con assoluta certezza che i Krogan sputano fuoco, ti crederei. -
Shepard sollevò le sopracciglia – Non lo fanno?-
Qualcuno sorrise, ma erano tutti troppo tesi per lasciarsi andare all’ironia. Era una faccenda maledettamente seria.
Il comandante bevve un altro sorso e sospirò.
-Pochi di voi sanno chi ero prima di essere Shepard. Ho fatto in modo che il mio passato venisse seppellito per bene.- gli occhi di Shepard incontrarono i suoi. Liara era la sola, assieme a Kaidan, a saperne qualcosa. Eppure quel qualcosa era molto poco, nonostante la sua abilità nello spionaggio. La storia di Shepard era stata occultata in maniera scrupolosa.
-Prima di essere il comandante Shepard non ero nessuno: solo un’orfana terrestre, figlia di una prostituta e di un soldato dell’alleanza abbattuto durante la guerra del primo contatto. Sono cresciuta in un bordello, mi sono fatta le ossa in una squallida banda. Detestavo gli alieni e tutto ciò che c’era oltre il cupo cielo sopra la mia testa.- si guardò le mani, forse vergognandosi di chi era stata.
-Credevo che il male venisse dallo spazio e quando mi sono resa conto che, invece, ci stavo annegando dentro era già troppo tardi.-
Raccontò loro di come era stata tradita da chi aveva creduto amico. Raccontò loro della sua prima morte.
La morte dell’orfana e la nascita del soldato.
Completamente sola in un universo in cui l’anonimato significava morte, Sasha si era rifugiata tra le braccia bramose dell’Alleanza.
Era diventata il soldato perfetto.
Smise di esserlo quando fallì la sua prima missione e fu allora che trovò, finalmente, il suo posto nell’universo. La squadra “33” l’accolse per ciò che era: un essere umano, capace di fallire e provare pietà. Un essere umano che meritava di essere salvato.
-La mia squadra.- mormorò Shepard con un filo di voce -La mia “33”. Loro erano tutto ciò che avevo sempre cercato, le persone migliori che avessi mai incontrato, i compagni più straordinari che avessi mai potuto immaginare. Mi accolsero come se mi conoscessero da sempre. Tra di loro c’era un giovane tenente, bello da togliere il respiro …- sorrise tra sé e sé, quasi con timidezza – Lui era l’incarnazione dell’eroe: leale, coraggioso, inarrestabile. Mi insegnò che quando sei sul campo di battaglia, quando tutta l’esistenza si riduce al tempo presente, il più grande conforto per un soldato non sono le armi o le corazze, ma gli amici. Noi non combattiamo per un’ideale, un pianeta o un popolo, ma per il compagno alla nostra destra e per il compagno alla nostra sinistra. Di tutte le lezioni che ho appreso nella mia vita, mai nessuna mi è apparsa più giusta di questa. Ho guardato mondi bruciare senza quasi battere ciglio, ma la perdita di un compagno …- le si spezzò la voce e dovette bere un altro sorso - … quello è un dolore che non va mai via.-
-Chi era quell’uomo, comandante?- domandò Jack con un filo di voce.
Shepard sollevò lo sguardo su di lei e, se non fosse stato assurdo, Liara avrebbe potuto giurare di aver visto un lampo di gelosia attraversarle gli occhi verdi.
-Si chiamava Alexander Andrej Shepard.-
Jack sussultò, come se qualcuno le avesse lanciato una secchiata d’acqua gelida in viso.
Nessun altro ebbe una simile reazione. Liara pensò solo che fosse strano che non avesse mai sentito parlare di lui. Dopotutto non era un nome che passasse inosservato.
Il comandante giocherellò con l’anello, che, da sempre, portava appeso al collo infilato nella catenina della piastrina di riconoscimento.
Continuò il suo racconto come voce sempre più lieve. Rivelò loro che lei e il suo Shepard si sarebbero dovuti sposare, lasciandosi l’Alleanza e la vita da soldato alle spalle. Ma il suo sciocco orgoglio si mise di traverso. Lei, l’orfana senza nome e senza famiglia, desiderava essere celebrata. Desiderava l’immortalità della fama.
Furono il suo cieco egoismo e la sua smisurata ambizione a condurre la “33” su Akuze, il pianeta che li avrebbe uccisi tutti. Tutti, tranne lei.
Quella fu la sua seconda morte. Fu la morte del soldato e la nascita dell’eroe.
Alexander, col suo ultimo respiro, le chiese di vivere al posto suo. E fu ciò che fece. Nel suo nome, nel nome di Shepard, divenne il comandante destinato a portare sulle spalle il sacco con tutti i dolori del mondo.
Tornò ad essere il soldato perfetto, l’N7 infallibile, il comandante irreprensibile. Poi arrivò la Normandy.
- Non mi sarei mai aspettata di trovare … beh di trovare voi. Voi mi avete ricordato che, in fondo, questa esistenza non è poi così male. Sulla Normandy la vita è tornata ad essere bella. –
- Eppure, non hai esitato. - bofonchiò James – Quando è arrivato il momento di rinunciare alla vita, di rinunciare a noi, sei corsa incontro alla morte senza battere ciglio. -
Shepard giocherellò col bicchiere – Ti sbagli. Nel mio ultimo istante di vita ho scelto … ho scelto la mia felicità a scapito di quella di molti altri nella galassia. Nel cuore della Cittadella ho trovato ciò che non potevo sacrificare in nome di un bene superiore: la mia mortalità. -
James la guardò confuso e lanciò un’occhiata agli altri che sembravano altrettanto smarriti – Non ti seguo, Lola.-
- A Londra, quando sono entrata nel raggio della Cittadella, dopo che l’Uomo Misterioso aveva ucciso Anderson e io avevo ucciso lui, dopo che aprii i bracci, fui portata in un altro luogo. Un luogo fuori dal tempo e dallo spazio, nel regno dell’Intelligenza. Aveva l’aspetto di un bimbo che sulla Terra non ero riuscita a salvare. Mi parlò delle sue origini, del suo scopo, del motivo per cui aveva creato i Razziatori: portare ordine nel caos, domare la galassia, renderla un luogo di pace. Come tutti anche lei, alla fine, aveva fallito. E lì, nel cuore del suo regno, sola e senza nessuno a proteggerla, tentò di portarmi dalla sua parte. Mi offrì tre scelte.- Shepard fissava un punto lontano, come se fosse ancora in quel luogo fuori dal tempo, chiamata a decidere le sorti di un universo intero.
Liara si sentì schiacciare al solo pensiero di una responsabilità tanto grande. Un altro, al posto di Shepard, sarebbe crollato.
- Sintesi, Controllo e Distruzione. L’intelligenza, ovviamente, voleva che scegliessi la Sintesi. Organici e sintetici si sarebbero fusi in un’unica entità. Creature perfette e immortali, finalmente in pace … finalmente sue schiave. – la voce di Shepard si fece di pietra - A quella scelta avrei preferito l’estinzione. -
-Sarebbe stato così terribile? - mormorò Jeff, parlando forse per la prima volta. Era stato insolitamente silenzioso … ma da quando Ida era morta lui era stato sempre silenzioso. La sua pungente ironia e il suo costante cicaleccio si erano spenti insieme all’Intelligenza Artificiale della Normandy. Con lei era morto anche lui.
- Avrei cambiato la natura della galassia per sempre, Jeff. Avrei imposto a tutti gli esseri viventi di questo mondo una mutazione irreversibile ed assolutamente arbitraria. -
-Chissà perché sono certo che alla fine la tua scelta sia stata irreversibile ed assolutamente arbitraria. -
Shepard inspirò a fondo – Sì, lo è stata. Se avessi scelto il Controllo avrei preso il posto dell’Intelligenza. I Razziatori avrebbero obbedito ai miei ordini. Avrei fermato la guerra senza sacrificare nessuno. Sarei diventata un Dio. - il tremito nella sua voce, così inusuale, tradiva un dolore insormontabile – Invece scelsi di distruggerli tutti: ogni forma di vita sintetica, ogni intelligenza artificiale, ogni macchina capace di calcolo o pensiero. Scelsi di riportare la galassia all’età della pietra. Scelsi la morte dei Razziatori, dei Geth, e di Ida. Scelsi di morire io stessa perché ero ormai più macchina che uomo. -
Quelle parole li sprofondarono in un silenzio attonito.
Liara boccheggiò: Shepard aveva scelto l’estinzione di tutti i sintetici. Aveva rinunciato alla possibilità di prendere il controllo dei Razziatori. Aveva gettato al vento milioni di anni di conoscenza. Aveva lasciato che la galassia sprofondasse in un medioevo tecnologico.
Jeff fu il primo a riscuotersi: era paonazzo – Tu … tu avresti potuto salvarla e invece … tu l’hai uccisa! -
Anche Tali scattò, alzandosi e gesticolando – Dopo tutto quello che avevi fatto per salvarli, Shepard, dopo i sacrifici che ci hai costretto a compiere, alla fine hai lasciato che i Geth morissero? Hai idea di cosa avremmo potuto fare con il loro aiuto? Milioni di persone sono morte perché le tecnologie che avrebbero potuto salvarle sono andate distrutte! -
Miranda scuoteva la testa – Potevi essere un Dio Shep.-
-Bella scelta di merda, comandante. - sibilò Jack.
Garrus, Kaidan e Wrex tacevano, le espressioni serie, gli occhi duri. Laddove tutti gli altri si mostravano sconvolti loro … loro capivano.
Il comandante picchiò il pugno sul tavolo e si alzò, le guance in fiamme, gli occhi dilatati, così terrificante che il silenzio calò immediato – Sì, avrei potuto salvare Ida. Avrei potuto salvare i Geth. Avrei potuto salvare la fottuta galassia per altre cento, mille volte. E ancora e ancora e ancora e ancora …- tremava, di rabbia e paura - … avrei potuto continuare a fare il mio dovere di eroe per sempre. Potevo essere eterna, infinita, immortale. Un essere fatto di puro pensiero, condannata all’eternità, separata dalla vita e dalla morte. Voi avreste vissuto le vostre vite, sareste invecchiati e morti ed io sarei rimasta, finché la follia non mi avesse consumata e anche allora non avrei avuto il permesso morire.– Shepard strinse le mani a pugno –C’ero io in quella cazzo di stazione ed è a me che quella maledetta cosa ha chiesto di scegliere. Non lo ha chiesto a te, Jeff e nemmeno a te Tali. Lo ha chiesto a me. Ed io ho scelto. Per una volta ho scelto ciò che era meglio per me. Non per voi. Non per la galassia. Non per il fottuto bene superiore. Solo per me. Ed io ho scelto la pace dell’eterno riposo. Credevo di essermelo meritato, cazzo. Ho dato a questa galassia tutto quello che avevo, ma la morte, quella almeno volevo tenermela per me. Naturalmente era una pia illusione. Al comandante Shepard sembra non sia concesso il lusso di morire in santa pace. –
Questa volta nessuno osò infrangere quel silenzio. Si guardarono l’un l’altro, mortificati. Erano sempre stati così dannatamente egoisti? Così concentrati sui propri problemi da non rendersi conto che anche Shepard, in fondo, era umana?
Sì, Liara credeva di sì.
Quando aveva rubato il suo corpo ai Collettori, consegnandolo a Cerberus perché la facesse risorgere, non si era minimamente preoccupata del trauma che avrebbe procurato a Shepard. Aveva dato per scontato che lei avrebbe potuto sopportarlo.
Non si era nemmeno chiesta se Shepard desiderasse tornare in vita: ovvio che sì. Doveva farlo, perché altrimenti come sarebbe sopravvissuta la galassia? Come sarebbero sopravvissuti tutti senza il comandante Shepard? Come sarebbe sopravvissuta lei, Liara T'Soni?
La colpa le serrò la gola come la mano di un gigante e si ritrovò in piedi, con le braccia intorno a Shepard.
La tenne stretta finché il comandante non superò la sorpresa e ricambiò, esitante, l’abbraccio dell’archeologa.
-Mi dispiace così tanto, Shepard. Mi dispiace che tu abbia dovuto affrontare tutto questo da sola. Nessuno ha il diritto di biasimarti. Non c’è nulla che valga un sacrificio così grande come quello che ti è stato chiesto, nemmeno la galassia intera.-
-Grazie, Liara.- mormorò contro la sua spalla.
Tali si lasciò cadere sulla sedia – Perdonami, Shepard. Siamo solo degli egoisti che ti accusano di esserlo stata a tua volta. Ma Liara ha ragione: nulla vale un tale sacrificio e credo che nessuno sarebbe disposto a compierlo, per niente e nessuno. Io non lo farei.-
Liara guardò Jeff, che si era rattrappito su se stesso, pallido e sconvolto – No …- lo sentì borbottare - … non lo farei nemmeno io.-
Shepard si separò da lei, stringendole il braccio con gratitudine – E se vi dicessi che qualcuno lo ha fatto?-
La fissarono come fosse ammattita.
-Ma cosa dici, Shep?-
Il comandante si passò un mano sul viso stanco – Se vi dicessi che in un universo parallelo al nostro esiste un comandante Shepard che ha scelto il Controllo?-
Il silenzio calò sulla stanza come una coltre di fumo. L’enormità di ciò che Shepard stava dicendo era così inconcepibile da essere quasi … quasi plausibile.
-Un universo parallelo al nostro …?- balbettò Liara.
Shepard la guardò con uno scintillio malizioso negli occhi verdi – Vorresti dirmi che non esistono studi e teorie in proposito, dottoressa T’Soni? Che i Prothean non hanno elaborato alcuna teoria? -
-Certo che esistono. Tutte le specie, presto o tardi, hanno sentito l’esigenza di teorizzare il multiverso ma…- Liara scrollò le spalle - … il confine tra scienza e fantascienza è molto labile quando si parla di questo. -
-Anche i Razziatori erano considerati mera fantascienza finché non sono arrivati a bussare alla nostra porta. -
Mai come in quel momento Liara sentì la mancanza di Ida.
-Piano piano …- intervenne James alzando le mani – Stiamo davvero parlando di multiverso? Quello dei vecchi Olofilm con i supereroi?-
-No, James, non stiamo parlando di questo. - sibilò Liara.
Shepard inarcò un sopracciglio – Ne sei sicura Liara? -
Cominciava a innervosirsi – Certo che ne sono sicura! Se anche esistessero piani di esistenza separati ma speculari al nostro, non c’è modo che questi si intersechino tra di loro. Sul piano teorico possiamo anche ammettere l’esistenza di realtà parallele, ma non potremo mai, in nessun modo, entrarne in contatto. -
Shepard annuì – Questo è vero. A meno che non esista qualcosa in grado di trascendere le dimensioni. –
Liara scosse il capo – Non esiste nulla del genere. -
-Invece sì.- intervenne Tali con un filo di voce – Il pensiero, la mente, l’intelligenza … i Geth erano in grado di viaggiare attraverso le dimensioni, più veloci della luce, indifferenti alle leggi della materia poiché essi non erano materia, loro erano solo …-
-Loro erano solo pensiero ... o calcolo se vogliamo essere più pratici e meno romantici. I Geth erano in grado di trascendere le dimensioni perché erano capaci di padroneggiare i principi quantistici che ne regolano il flusso. - annuì Shepard  - Ascoltate, so che sembrerà folle ed incomprensibile, ma dovete fidarvi di me. Mentre ero in coma mi sono ritrovata in un luogo fuori dal tempo, una specie di anticamera, un luogo di attesa, molto simile nel concetto al posto dove l'Intelligenza mi diede le sue tre scelte. Lì ho ritrovato molti vecchi amici. Ho vagato tra i mondi o, se volete essere meno romantici, tra i flussi di coscienza finché non ho trovato lui, il mio Alex, il mio Shepard. - si rigirò l’anello tra le dita – Lui era l’Alex delle mie memorie, il ragazzo tenace ed idealista che ho amato ed abbandonato, l’uomo che su Akuze morì per salvarmi. Ma era anche … altro. Era il comandante Shepard di un universo in cui, su Akuze, fui io a morire. Era il comandante Alexander Andrej Shepard che su Virmire salvò Ashley invece di Kaidan. Il comandante che decise di sacrificare il primo Consiglio invece di salvarlo. Il comandante che scelse il Controllo invece della Distruzione. -  alzò lo sguardo e lo fissò su Jack – Tu più di tutti, Jack, dovresti ricordarti di lui. È il comandante che ti ha amato e poi ti ha spezzato il cuore. -
Jack incrociò e le braccia al petto e sostenne lo sguardo - Stai delirando Shepard, io non … non …- la voce le si spezzò, per un attimo i suoi grandi occhi scuri parvero velarsi. Quando tornarono a fuoco l’arroganza lasciò il posto alla confusione e a qualcosa di spaventosamente simile al dolore - … io …- trasse un respiro tremulo e si tastò il collo come se cercasse qualcosa. Le sue dita si chiusero sul niente e Jack chiuse gli occhi- … che cos’è lui adesso? - sussurrò.
Il viso di Shepard si contrasse – Qualcosa di molto simile a un dio. Quando Alexander ha scelto il controllo ha ottenuto una conoscenza infinita, non solo del suo universo, ma di tutto ciò che esiste, su tutti i piani di realtà. Lui è …- scosse il capo alla ricerca di parole che forse non ancora state inventate - … lui è tutte le vite che ha vissuto, tutte le morti di cui è morto, tutti gli amori che ha avuto, tutti i dolori che ha sopportato. Lui è infinito. Ed è …- sorrise - … è fatto della stessa materia di cui sono fatti i sogni. –
Miranda si agitò, a disagio – Tu dici che è un dio, Shep. Ma una divinità non dovrebbe possedere emozioni umane, non dovrebbe avere memoria di una vita che gli è stata strappata. Se ciò che dici è reale, la condizione in cui si trova è …- il bel viso si contrasse in una smorfia di dolore - … è una maledizione. –
-Lo è, Miranda, lo è.- le labbra di Shepard tremarono – Per sfuggire alla tentazione di diventare un dio onnipotente, capace di piegare gli universi al suo volere, ha disattivato i Razziatori rescindendo ogni legame con la realtà terrena. Lui non è in grado di manipolare i destini degli universi. Non può distruggere né salvare, può solo osservare e viaggiare attraverso i mondi alla ricerca di un modo di riunirsi a chi ha amato. -
-E lo ha trovato quel modo? - domandò Jeff, alzando la testa, speranzoso.
- Io … io credo di sì. Mi ha detto … mi ha detto che durante il suo eterno vagare ha desiderato qualcosa per sé. E tra le sue infinite esistenze lui … lui si è ricordato di me. - un rossore inusuale le colorò le guance – Quel luogo indefinito tra la vita e la morte in cui sono rimasta per tutti questi anni, lo ha creato lui. Mi disse che ero stata io a riempirlo, tirandoci dentro le persone che avevo amato, ma in realtà credo che sia stata opera di entrambi. L’incontro tra le nostre realtà, seppur empirico, ha creato una sorta di singolarità, un polo di attrazione per coloro che abbiamo amato e perduto. - sospirò guardando i loro visi increduli – So che è follia, ma …-
-Io ti credo, Sasha. - disse Kaidan, deciso. – Voglio crederti. Voglio credere in un universo in cui Ash ha avuto una possibilità e voglio credere che esista un luogo in cui possiamo ritrovarci, noi tutti e coloro che abbiamo perduto. Ovunque tu voglia andare io ti seguirò. -
-In quel luogo, Shepard, lei c’era? – la voce di Joker era poco più che un bisbiglio, un desiderio sussurrato a denti stretti.
Shepard si alzò, fece il giro del tavolo e si inginocchiò davanti al pilota. Gli prese le mani deformi tra le sue – Ho visto Ida, Jeff. Lei è … è tutto quello che sognava di essere e molto di più. – la sua espressione era serena mentre si voltava a guardarli – I nostri amici sono là. Stanno aspettando la Normandy e il suo equipaggio. Alex mi ha tracciato una rotta. Sarà un viaggio di sola andata, verso l’ignoto. Moriremo e poi … poi saremo …-
-Saremo puro pensiero …- sussurrò Jeff, gli occhi che brillavano – Io e la Normandy siamo con te, comandante. -
-Wow …- Miranda sollevò le mani - … non stiamo correndo un po’ troppo, mi sembra una follia, io non sono sicura che …-
-Parla per te, cheerleader. – Jack si alzò e incrociò le braccia al petto con aria decisa – Io ci sto, comandante. Non importa cosa io diventi in questo universo, certi fantasmi ti seguono ovunque. Se esiste un luogo in cui non possono seguirmi credo proprio che sia quello che tu hai appena descritto. –
James annuì, pensieroso – Qui viviamo in pace, ma non abbiamo pace. Se c’è anche una sola possibilità di trovare un luogo in cui si possa scendere a patti con il passato e farcene una ragione, allora credo che valga la pena tentare di trovarlo, quale che sia il prezzo. -
Wrex si batté un pugno sul petto – Chissà, magari troveremo davvero un universo in cui i krogan sputano fuoco. E se anche scoprissimo che là fuori c’è solo l’oblio della morte, beh cosa c’è di meglio, per un vecchio krogan come me, che perdersi tra le stelle? -
-Non ti perderai, Wrex.- replicò Shepard con un sorriso sghembo - Promesso. Garrus … sei stato molto silenzioso … anche tu, come Miranda, pensi che io sia pazza? -
Gli occhi azzurri di Garrus scintillarono mentre il Turian faceva schioccare le mandibole – Certo che sei pazza Shepard, ma questo non mi impedirà di seguirti. Non c’è Shepard senza Vakarian, ricordi? -
Shepard sembrava sul punto di scoppiare in lacrime per l’emozione, ma si trattenne – Tali, Liara … -
Liara sentì la piccola mano di Tali afferrare la sua, la strinse forte, dandole il suo pieno appoggio.
-Credi che rinunceremmo a una tale avventura, comandante? - esclamò la Quarian con voce squillante.
-Credi che rinunceremmo a voi? - rincarò Liara abbracciando i compagni con lo sguardo – Siete la nostra famiglia. La Normandy è la nostra casa. -
Tali saltellò sul posto -C’era un vecchio olofilm che diceva … verso l’infinito …-
-E oltre. - concluse Miranda alzando gli occhi al cielo – Siete una banda di matti e finiremo tutti all’inferno. Ma fintanto che siamo insieme …- strizzò l’occhio a Jack - … allora anche l’inferno sarà divertente. -
Il viso di Shepard si aprì in un sorriso così raggiante da illuminare la stanza – Dunque che cosa stiamo aspettando? Mettiamo in moto questa bellezza e andiamo a scoprire cosa c’è là fuori.–

Là fuori c’era un buco nero. Era così grande da far tremare le vene nei polsi.
Era un luogo oscuro, fatto di nulla e incubi. Eppure, quando lo videro, nessuno dei coraggiosi eroi a bordo della Normandy esitò.
Erano sul bordo dell’abisso e quell’abisso li chiamava, attirandoli a sé come il canto di una sirena. Non avrebbero potuto rinunciare al salto nemmeno se l’avessero voluto.
Erano dove dovevano essere, dove il destino aveva voluto che fossero.
Erano tutti accalcati nella cabina di pilotaggio, come turisti su una ruota panoramica. Fissavano il buco nero che li avrebbe annientati e in esso vedevano ciò che Shepard aveva loro promesso: la pace dell’eterno riposo.
Non si lasciavano alle spalle niente e nessuno. Tutti coloro che li avrebbero mai pianti erano lì, spalla a spalla, compagni di infinite battaglie, custodi di terribili segreti, appigli di spaventose cadute.
-Siete pronti?- sussurrò il comandante Shepard, gli occhi verdi spalancati sull’oscurità.
-Con te, Shepard. - rispose Kaidan – Fino alla fine.-
Quelle parole furono ripetute, in sussurri simili a preghiere.
-Portaci a casa, Jeff.- comandò Shepard con voce decisa.
Lui chiuse gli occhi e azionò i comandi – Sì, comandante. –
 

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