La corsa del cacciatore

di Losiliel
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'imprevisto ***
Capitolo 2: *** A lezione ***
Capitolo 3: *** Una tranquilla serata in famiglia ***
Capitolo 4: *** Ancora a lezione ***
Capitolo 5: *** L'opinione della mamma ***
Capitolo 6: *** Una nuova conoscenza ***
Capitolo 7: *** Due chiacchiere col re ***
Capitolo 8: *** L'attesa ***
Capitolo 9: *** La gara di canoa ***
Capitolo 10: *** Errori ***
Capitolo 11: *** La Cacciatrice ***
Capitolo 12: *** Amici ***
Capitolo 13: *** Una cena fuori casa ***
Capitolo 14: *** La zuffa ***
Capitolo 15: *** Lezioni di ballo ***
Capitolo 16: *** Il piano ***
Capitolo 17: *** Un nome semplice ***
Capitolo 18: *** L'Oscuramento dello stagno ***
Capitolo 19: *** La gara di nuoto ***
Capitolo 20: *** Uno spettatore inatteso ***
Capitolo 21: *** L'addestramento ***
Capitolo 22: *** Il Lanciere ***
Capitolo 23: *** La variante Hellë ***
Capitolo 24: *** La Corsa del Cacciatore ***
Capitolo 25: *** Un nuovo incarico ***



Capitolo 1
*** L'imprevisto ***



1

L’imprevisto

(o quando il nuovo anno comincia con una nuova seccatura)


 

– No! – esclamò Morifinwë, e per rendere più chiaro il concetto picchiò il pugno sulla scrivania. I calamai tremarono e qualche foglio svolazzò a causa dello spostamento d’aria. – Non intendo rinunciare al mio insegnante di matematica.

Nessuno sembrò impressionato dal gesto, né dalla fermezza con cui aveva espresso il suo rifiuto.

Nella biblioteca, fin troppo affollata quel pomeriggio, continuò a regnare un silenzio indifferente, interrotto soltanto dal canto di un usignolo che entrava dalle finestre aperte sul giardino. Quel cinguettio allegro sembrava volersi prendere gioco di Morifinwë e delle sue pretese.

Tyelkormo, seduto in una nicchia presso l’ingresso, l’unico punto della biblioteca privo di scaffalature alle pareti, continuò a dondolarsi sulle gambe posteriori della sedia senza nemmeno perdere il ritmo. Camicia allacciata soltanto a metà, pantaloni che arrivavano poco sotto il ginocchio, con un piede nudo faceva perno contro il sostegno centrale di un tavolino rotondo, su cui erano appoggiati una brocca d’acqua e qualche bicchiere destinati a dare ristoro a chi si soffermava a lungo in compagnia dei libri. Quel giorno, contro tutte le regole, c’era anche un vassoio di biscotti: evidentemente il fratello non si era fatto mancare nulla per godersi lo spettacolo della sua sconfitta.

Sull’altro lato della sala, il piccolo Curufinwë sedeva a un tavolo presso una delle porte a vetri che si aprivano sul chiostro; due enormi cuscini gli permettevano a malapena di arrivare con la testa oltre il piano della scrivania, le sue gambe penzolavano nell’aria, immobili. La treccia gli cadeva in avanti da sopra una spalla e Morifinwë non poté fare a meno di notare, per la centesima volta, che il fratellino aveva già capelli più lunghi dei suoi e che, a differenza dei suoi, non sembravano avere nulla in contrario a farsi pettinare. Completamente immerso nella lettura di un tomo di dimensioni spropositate, il piccolo seguiva le parole col dito e sembrava deciso a ignorare qualsiasi altro oggetto presente nella stanza, animato o inanimato che fosse.

Makalaurë, che aveva portato la notizia alla quale lui aveva reagito con tanta veemenza, afferrò lo schienale di una sedia, la trascinò di fronte al tavolo a cui sedeva Morifinwë e ci si lasciò cadere sopra. Aveva l’aria di chi avrebbe voluto essere in qualsiasi altro posto, ma evidentemente i genitori avevano deciso che l’incarico di riferire al più indisponente dei loro figli la novità che l’avrebbe reso ancor più indisponente, dovesse toccare a lui. Segno che Russandol non era nei paraggi.

Makalaurë cercò di far passare uno sbuffo di insofferenza per un tentativo di allontanare una ciocca dei suoi lunghi capelli castani dal viso, si sistemò il nodo della sciarpa leggera che gli fasciava il collo e incrociò le mani davanti a sé.

– Perché devi sempre rendere tutto così difficile? – domandò.

– Perché altrimenti nessuno gli presterebbe attenzione – intervenne Tyelkormo dal suo angolo.

Morifinwë gli tirò addosso la prima cosa che gli capitò sottomano: una matita. Il fratello non si degnò nemmeno di inclinare la testa di lato; la punta gli sfiorò la tempia e si conficcò nella massa di capelli chiarissimi, che lui portava sempre sciolti, come la criniera di un cavallo reduce da una galoppata. Morifinwë sospettava che se li spettinasse di proposito.

Tyelkormo si sfilò la matita dai capelli e ringhiò con quel verso da felino inferocito che sapeva imitare così bene.

– Per favore, Tyelko, non ti ci mettere anche tu – disse Makalaurë senza neppure voltarsi a guardarlo.

Morifinwë represse l’impulso di saltare alla gola del fratello selvaggio e riportò la sua attenzione su Makalaurë. Era in corso una battaglia che non voleva perdere.

– Arsanarwë lavora in questa casa da sempre – disse, – ha insegnato prima a Russandol, poi a te e infine a Tyelko – si interruppe e rivolse uno sguardo sprezzante in direzione del fratello in questione, – o almeno ci ha provato.

Tyelkormo fece un mezzo inchino e piegò le labbra in un sorriso compiaciuto, come se avesse ricevuto un complimento e non un insulto.

– Non vedo perché, proprio adesso, dovrebbe smettere di fare il suo dovere – concluse Morifinwë.

– Il maestro Arsanarwë – lo corresse Makalaurë, – ha lavorato con noi per molti anni, è vero, ma ora ha deciso di andare a insegnare altrove.

– Altrove? – Morifinwë stentava a credere alle proprie orecchie. – Perché mai vorrebbe andare altrove uno che ha il privilegio di insegnare nella casa del principe Fëanáro? È risaputo che papà sceglie solo il meglio. Lavorare in casa nostra è il massimo onore a cui ogni persona possa ambire.

– Forse lui non la pensa così – intervenne di nuovo Tyelkormo, – il concetto ha mai sfiorato la tua testolina vuota?

– Tyelko! Per favore! – esclamò Makalaurë, prima di ritornare a rivolgersi a Morifinwë con appena un po’ più di calma: – Il maestro si trasferisce nella Piana Dorata, dove ha aperto una scuola sua.

– Una scuola? Nella Piana Dorata? – Morifinwë non poteva crederci. – Ma non ci sono che agricoltori e allevatori laggiù.

– Eru non voglia che gli allevatori imparino la matematica – commentò Tyelkormo, protendendosi in avanti per raggiungere il vassoio e lanciarsi in bocca un biscotto.

– Taci, Tyelko, o ti butto fuori! – questa volta Makalaurë non si curò di tenere sotto controllo la voce, e il potente suono emesso dalle sue corde vocali riverberò contro le pareti della grande sala. – E taci anche tu, accidenti – disse a Morifinwë. – È così difficile da capire? Il maestro Arsanarwë ha sposato una donna della Piana, lo sai anche tu, e ora che stanno per avere un bambino intende andare ad abitare presso i parenti di lei. Come potrebbe occuparsi di suo figlio se continuasse a vivere nel nostro palazzo?

– Potrebbe trasferirsi qui anche la famiglia, posto ce n’è! – obiettò Morifinwë. – Non sarebbe il primo dei nostri servitori che…

– Moryo – lo interruppe Makalaurë, – forse è proprio questo il punto: Arsanarwë vuole cambiare vita ora che sta per diventare padre. Vuole più autonomia.

Morifinwë decise di giocarsi la carta definitiva: – Ciò non toglie che papà è il figlio del re, e se gli ordinasse di restare, il maestro sarebbe costretto a restare.

Un tonfo dall’altro lato della sala attirò la loro attenzione. Curufinwë aveva chiuso il suo libro di colpo.

– È proprio per questo che non l’ha fatto – sentenziò il piccolo e, senza aggiungere altro, prese il pesante volume tra le braccia, saltò giù dalla sedia riuscendo miracolosamente a non ruzzolare sul pavimento, e si avviò all’uscita, borbottando tra i denti: – Stamattina non si può lavorare qui dentro.

Tyelkormo inclinò la sedia all’indietro e distese un braccio davanti alla porta per bloccargli l’accesso al corridoio.

– Non è permesso portare quel libro fuori dalla biblioteca – disse.

Curufinwë alzò appena la testa, come se guardare in faccia il fratello non valesse nemmeno la fatica di piegare il collo.

– A te non è permesso – precisò, con la sua vocetta sottile e petulante. Poi scansò il braccio di Tyelkormo e caracollò via sulle sue gambe corte, gravato dal peso del libro, con la treccia perfetta che ondeggiava al ritmo dei suoi passi.

Tyelkormo scrollò le spalle e tornò a dondolarsi sulla sedia. – Il piccolo ha ragione – disse, – papà non forzerebbe mai Arsanarwë a fare qualcosa contro la sua volontà.

– “Il piccolo ha ragione” – gli fece il verso Morifinwë. – E quando mai il piccolo non ha ragione, a sentire te?

Tra le tante cose che rendevano difficile la vita di Morifinwë, quella era una delle più insopportabili. Più ancora della scarsa considerazione che il fratello selvaggio aveva di lui, lo infastidiva il fatto che, da quando era nato Curufinwë, Tyelkormo riservava al piccolo attenzioni che a lui non aveva mai concesso. Non che lo trattasse con particolare riguardo, anzi, gli stava addosso in continuazione, lo contraddiceva, lo sfidava, ma quando si arrivava al dunque, prendeva sempre le sue difese. Cosa che con lui non aveva mai fatto.

– Sia come sia – Makalaurë sembrava deciso a riprendere il controllo della conversazione, – non vedo perché la cosa ti impensierisca tanto. Papà troverà per te un insegnante altrettanto bravo, l’hai detto tu stesso che sceglie sempre il meglio.

Morifinwë pensò di rispondere che non gli andava di abituarsi ai metodi di un nuovo maestro, perché l’avrebbero costretto a rallentare il ritmo di apprendimento che aveva raggiunto con Arsanarwë, e del quale andava molto fiero. Ma la scusa suonava debole persino alle sue orecchie: Morifinwë aveva molti problemi, ma di certo la matematica non era tra quelli.

Prese in considerazione l’idea di dire la verità, e cioè che a lui proprio non piaceva incontrare nuove persone. Tutto il processo di conoscersi, di farsi conoscere, di abituarsi l’uno all’altro, lo metteva a disagio, lo affaticava e spesso lo mandava in confusione, cosa per nulla auspicabile quando si dovevano capire concetti complessi come quelli che stavano affrontando lui e il maestro.

Ma ciò che maggiormente lo indisponeva era che Arsanarwë era stato l’insegnante del perfetto Russandol, dell’amabile Káno e anche dell’indomabile Tyelko, e nel corso della sua lunga carriera non aveva mai, mai una volta, espresso il desiderio di andarsene, mentre adesso che toccava a lui se ne veniva fuori con quella assurda decisione. E suo padre non glielo impediva!

Alla fine riuscì solo a dire: – Papà non doveva permetterglielo.

– Ci rinuncio! – esclamò Makalaurë. – Non so cos’altro dirti. La decisione è già stata presa, non serve a niente lamentarsi.

– Lamentarsi è nella sua natura – buttò lì Tyelkormo.

Morifinwë non riuscì più a trattenersi: – Nella tua invece c’è il fare lo…

L’insulto gli morì sulle labbra quando vide apparire sulla soglia, alle spalle di Tyelkormo, una figura alta e slanciata.

Tyelkormo si voltò di scatto, perse la presa sul tavolo, e per non cadere all’indietro si sbilanciò in avanti con un movimento convulso, rischiando di mandare all’aria la caraffa e i biscotti.

– Che succede? – chiese Russandol entrando nella stanza.

Il maggiore dei suoi fratelli doveva essere appena rientrato da qualche incarico ufficiale, perché indossava abiti elaborati che lo identificavano come appartenente alla casa reale. Il mantello verde scuro aveva ricami color rame che ben si intonavano con la fascetta di metallo che gli cingeva la fronte, ed era chiuso da una spilla che riproduceva la stella a otto punte della casa di Fëanáro.

Makalaurë emise un inequivocabile sospiro di sollievo. – Credevo rimanessi fuori fino a sera! – esclamò. Poi aggiunse, in risposta alla domanda del maggiore: – Gli stavo riferendo di Arsanarwë.

Russandol fece qualche passo nella stanza. Il suo sguardo andò da Makalaurë a Morifinwë, passò alla sedia dove fino a poco prima era stato seduto il piccolo, si soffermò sui cuscini ancora deformati dal peso del fratellino e subito si spostò alla scaffalatura dove c’era lo spazio vuoto lasciato dal libro che Curufinwë si era portato via; infine si rivolse a Tyelkormo che, pur non avendo ripreso a dondolarsi, aveva recuperato la sua espressione spavalda.

– Lasciaci, per favore – gli disse Russandol, e il fratello non se lo fece ripetere. Si alzò, prese con sé il vassoio, spazzò le briciole giù dal tavolo, rivolse a Morifinwë un ironico inchino e sgattaiolò fuori dalla porta.

Russandol parlò di nuovo: – Anche tu, Laurë.

Makalaurë annuì e si diresse all’uscita. Nel passare accanto al fratello maggiore gli sfiorò un braccio e l’altro, di rimando, gli afferrò per un istante il gomito, prima di lasciarlo andare per la sua strada. Era un gesto che facevano senza più accorgersene, Morifinwë l’aveva capito. I due fratelli maggiori avevano un rapporto esclusivo tra loro, maturato negli anni in cui erano stati gli unici. Makalaurë si affidava completamente al più grande, e l’altro ricambiava la fiducia donandogli un po’ della sua sicurezza. Accadeva costantemente, come dimostrava quel gesto inconscio.

Con un’abitudine affinata nel tempo, Morifinwë soppresse la fitta di gelosia che sempre lo prendeva quando era testimone del legame speciale che univa i due fratelli.

Russandol avanzò nella stanza e si sedette al posto di Makalaurë. Si levò la fascetta di rame dalla fronte, forse per suggerire che non era lì per imporre la sua decisione a causa del suo ruolo. Nel farlo, una ciocca di capelli sfuggì alla sua acconciatura, ma lui sembrò non farci caso. Il maggiore dei suoi fratelli era l’unico ad aver ereditato il colore ramato dei capelli dalla madre, sebbene l’incarnato fosse quello del padre: pallido e luminoso come marmo levigato. Proprio l’inverso di ciò che era toccato a Morifinwë, che aveva capelli neri come il carbone e la pelle del viso che sembrava non aver ancora deciso che strada prendere: disomogenea, con zigomi color mattone e il resto di una tonalità più chiara, che, per aggiungere il danno alla beffa, si arrossava alla minima fluttuazione del suo umore.

Proprio come stava accadendo in quel momento, sotto lo sguardo di quel fratello che gli era superiore per età, per intelligenza e per aspetto.

E per capacità di ascoltare e di comprendere, dovette ammettere Morifinwë quando l’altro, invece che esordire con un rimprovero, si dimostrò pronto al dialogo: – Dimmi tutto.

Morifinwë scosse la testa. – Che cosa vuoi che ti dica? – si arrese, – l’ho capito che non c’è niente che possa fare.

E in quell’istante capì anche che era quella la cosa che lo disturbava di più: il fatto che non potesse fare niente per far andare le cose come voleva lui.

Russandol sembrò pensarci su per un lungo momento, poi disse: – Forse c’è un modo per concludere il percorso che stai facendo col maestro Arsanarwë, se sei pronto a fare qualche sacrificio.

Morifinwë aggrottò le sopracciglia, sospettoso: “sacrificio” non era una parola che prometteva bene.

– Ti ascolto – concesse.

– Potremmo chiedergli se è disposto a insegnarti presso la sua nuova dimora – propose Russandol, – magari concentrando le lezioni in un unico pomeriggio a settimana, in modo che non vadano a interferire col suo lavoro alla scuola.

– Dovrei andare nella Piana Dorata? Io?

Morifinwë non si trovava bene fuori dal suo ambiente. E con “il suo ambiente” intendeva casa sua, dove tutti, sia i famigliari che le persone al servizio di suo padre, lo conoscevano e lo accettavano per come era, e non si curavano del fatto che parlasse poco, o che preferisse stare per conto suo, o delle altre stranezze che lo rendevano così diverso dai suoi fratelli.

Al di fuori, si sentiva osservato come un insetto sotto una lente di ingrandimento. Aveva l’impressione di essere giudicato in continuazione, per ogni cosa. Per i capelli che non volevano crescere, per l’abitudine a starsene in disparte, per la sua predilezione a vestire di scuro, per quel viso dal colore inconsueto.

Uscire, non solo da casa sua, ma perfino dalla sua città, scendere in pianura, addentrarsi in luoghi che non aveva mai frequentato, incontrare degli sconosciuti, tutto questo lo spaventava più di quanto volesse ammettere.

– Se per te non è troppo disagio – aggiunse Russandol, come se gli avesse letto nel pensiero.

– Niente affatto – si affrettò a rispondere Morifinwë, per nascondere la sua inadeguatezza.

Il fratello finse di credere alla sua bugia. Disse: – Vuoi che ne parli io a papà?

Morifinwë si morse un labbro e annuì.

Russandol esibì il suo sorriso quieto, quello di quando vedeva che le cose potevano sistemarsi e che lui poteva contribuire a far sì che ciò avvenisse.

– Lo faccio subito – disse, e si alzò.

Morifinwë rimase solo in biblioteca a morsicarsi le labbra e a chiedersi che fine avesse fatto tutta la sua determinazione. Gettò un’occhiata distratta al libro che aveva davanti a sé e ai fogli sparsi pieni di scarabocchi, non sapendo se augurarsi che il maestro Arsanarwë acconsentisse alla richiesta suggerita da Russandol oppure no.



 


NOTE

Quello che avete appena letto è il primo capitolo di una long ambientata in Aman che racconta di alcuni eventi significativi accaduti a Morifinwë durante la sua giovinezza. Nata come prologo di una storia di tutt’altro genere, è poi cresciuta e si è ampliata fino a rendersi indipendente. Il risultato? Una storia di crescita personale, adatta a chi ha voglia di passare qualche ora nella testa di un adolescente Valinoreano.

La storia è betata da Kanako91, che ringrazio con tutto il cuore. I suoi preziosi consigli mi hanno aiutata a renderla migliore e a darmi abbastanza fiducia da condividerla con chi vorrà leggerla.

L’aggiornamento avverrà ogni venerdì.

Grazie a chi ha letto e a chi vorrà seguirmi in questa avventura!

 

Nomi canonici, conversione Quenya - Sindarin
Morifinwë = Caranthir
Tyelkormo (qui chiamato anche Tyelko) = Celegorm
Curufinwë, Curvo = Curufin
Makalaurë (qui chiamato anche Laurë) = Maglor
Russandol = Maedhros

Personaggi di mia invenzione
Arsanarwë, il  maestro di matematica di Morifinwë e dei suoi fratelli maggiori. Il suo nome è composto da Ar- (brightest) e Sanar (thinker), perché è uno che sa far lavorare il cervello

Nomi di mia invenzione
Piana Dorata, l’ampia pianura che si estende a ovest di Túna, la collina su cui è costruita Tirion, e arriva fino alla regione dove sorgono Ezellohar e Valmar

Il concetto di settimana
Se qualcuno (pignolo come me) si stesse chiedendo se a Valinor esisteva il concetto di settimana, la risposta è sì. Si chiamava Lemnar ed era formata da 5 giorni (fonte: HoME vol. 5 - Etymologies)

 

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Capitolo 2
*** A lezione ***



2

A lezione

(o quando hai la conferma che la tua dote migliore è quella di collezionare brutte figure)


 

Quando Russandol, pochi giorni più tardi, lo avvertì che il maestro aveva acconsentito alla sua richiesta, Morifinwë aveva già fatto in tempo a rimpiangere la sua decisione almeno un centinaio di volte.

Più ci pensava, più gli venivano in mente cose che potevano andare male. A cominciare dal semplice, ma del tutto comprensibile, fatto che il maestro potesse essere seccato con lui perché erano stati stravolti i suoi piani, fino alla terribile visione di un gruppo di contadini sghignazzanti che lo prendevano in giro perché non conosceva le loro usanze.

E così si trovò, il pomeriggio della sua prima lezione, mentre cercava di imbrigliare i suoi capelli troppo corti e troppo crespi dentro qualcosa che potesse vagamente assomigliare a una coda, a chiedersi perché mai la sua fantasia fosse in grado di elaborare mille possibilità di umiliazione, ma non una singola scappatoia che gli permettesse di tornare sui suoi passi senza fare la figura del bambino capriccioso con Russandol e, di conseguenza, con suo padre.

A peggiorare il suo umore c’era il fatto che sarebbe arrivato in ritardo all’appuntamento, perché aveva impiegato troppo tempo a decidere quali fossero gli abiti più adatti alla Piana.

Morifinwë non voleva sembrare fuori posto vestendo troppo elegante, ma non voleva nemmeno passare inosservato o, peggio, essere preso per uno qualsiasi. Era uno dei figli del principe Fëanáro, dopotutto, un nipote del re, e il fatto che la gente lo riconoscesse lo faceva sentire importante, e quindi speciale.

Cosa fondamentale quando facevi di tutto per dimenticare che in realtà, speciale, non lo eri affatto.

Alla fine aveva optato per una camicia marrone scuro, un paio di pantaloni di una tonalità ancora più scura e una delle sue giacche più belle, con ricami bronzei su un tessuto rosso-bruno. Ai piedi, stivali di pelle nera che gli fasciavano il polpaccio.

Aveva appena finito di legarsi i capelli quando qualcuno bussò alla porta di camera sua. Morifinwë riconobbe i colpi discreti e sospirò: – Entra, mamma.

Sapeva perché sua madre era lì. E ne ebbe conferma quando la vide entrare con ancora addosso il lungo abito verde scuro che aveva indossato a pranzo, e con i capelli sciolti che le ricadevano sulla schiena in onde ramate. Era chiaro che Nerdanel non aveva previsto di tornare a lavorare la pietra quel pomeriggio.

La madre richiuse la porta dietro di sé, inarcò un sopracciglio davanti al disordine che regnava in camera sua, dove ogni superficie libera era ricoperta dai vestiti provati e scartati, ma non fece commenti in proposito e andò subito al punto.

– Sei sicuro che non vuoi che ti accompagni? – gli chiese, come aveva già fatto il giorno prima e quello prima ancora.

Morifinwë scosse la testa. Nonostante il pensiero di andare da solo gli facesse venir voglia di chiudersi in camera e restarci finché non avesse raggiunto la maggiore età, farsi accompagnare dalla mamma come fosse un moccioso sarebbe stato il modo perfetto per rovinare fin da subito la sua immagine.

– Solo per oggi – insistette Nerdanel, cominciando a sistemare i vestiti sparsi in giro.

– Non c’è bisogno – ribadì lui, – Russandol mi ha spiegato la strada.

La madre depose sul letto una camicia piegata e si fermò a guardarlo con più attenzione.

– Perché non li lasci sciolti? – disse, riferendosi chiaramente al pasticcio che aveva combinato con i capelli.

Morifinwë si sentì arrossire: – Perché sembro trasandato – borbottò.

Nerdanel sorrise con dolcezza. – Non sembri affatto trasandato – disse, – solo un pochino meno austero, che non guasta! E poi stai andando in una fattoria, non occorre essere così formale.

Ma gli si avvicinò comunque e con dita esperte riuscì a inserire nella sua coda spessa e corta anche le ciocche che lui aveva lasciato fuori.

Morifinwë la allontanò con un gesto della mano che non riuscì a far sembrare stizzito quanto avrebbe voluto.

– Fa molto più caldo nella Piana – disse ancora la madre, – non ti servirà una giacca.

Lui alzò gli occhi al cielo. – Mamma, così non mi aiuti, lo sai vero?

Nerdanel gli diede un bacio sulla fronte. Era all’altezza giusta per farlo senza doversi chinare né alzarsi sulle punte dei piedi. – Non hai bisogno di aiuto. Andrà tutto bene, Carnistir.

Morifinwë cercò di convincersi che fosse vero, si mise la borsa coi libri a tracolla e scappò dalla stanza prima di fare qualcosa di stupido, come accettare che la madre lo accompagnasse. Attraversò il giardino sul retro quasi di corsa, e rallentò soltanto quando giunse in vista delle scuderie.

Velmo lo aspettava accanto a un cavallo bruno, con la coda e la criniera nere come l’onice. Si chiamava Morvail, e apparteneva a Morifinwë da quando gli era stato dato il permesso di lasciare il cavallino piccolo e docile su cui aveva imparato a cavalcare.

– Buongiorno Morifinwë – lo salutò lo stalliere, alzando una mano infilata in un logoro guanto di pelle.

Alto e asciutto, Velmo aveva capelli lunghi ma rasati su un lato, un taglio che sembrava fatto apposta per mettere in evidenza un curioso gioiello che gli contornava l’orecchio sinistro dalla punta al lobo. L’uomo si chinò, offrendo a Morifinwë le mani intrecciate come supporto per aiutarlo a salire in groppa all’animale.

Nonostante fosse ancora lontano dal raggiungere la statura dei fratelli maggiori, Morifinwë non aveva problemi a salire a cavallo da solo, ma avere qualcuno che lo aiutava era un’altra di quelle cose che lo facevano sentire importante.

Lo stalliere aprì il cancello, ma prima che Morifinwë potesse lasciare la tenuta gli porse un pacchetto chiuso da un filo di corda.

– L’ha preparato Calwen per il maestro Arsanarwë – spiegò Velmo. Poi aggiunse: – Ti prego, digli che ci manca molto.

Morifinwë accettò il pacchetto con un cenno del capo e per la prima volta gli venne in mente che, per gli altri servitori di suo padre, il trasferimento del maestro aveva significato la perdita di un amico.

Poi oltrepassò il cancello e il pensiero fu subito scacciato dalla fastidiosa sensazione che lo prendeva sempre quando era costretto a lasciare casa sua. Come se lì fuori l’aria fosse più rarefatta e respirare diventasse difficile.

Non si trattava di vera e propria paura, era più la vaga consapevolezza di dover stare all’erta.

Eppure non c’era nulla che potesse essere una minaccia, né in città, né in tutta Valinor, né tanto meno nella piazzetta ombreggiata su cui dava l’entrata posteriore del palazzo di Fëanáro, a lui talmente famigliare che ne conosceva ogni albero, ogni aiuola, ogni vialetto di pietra levigata.

Morifinwë si fece forza e voltò a sinistra per imboccare la strada principale che dalla sommità di Túna scendeva verso ovest. La chiamavano Via delle Stelle, perché la pavimentazione di lastroni bianchi era decorata con polvere di pietre preziose, ma lui aveva visto le stelle solo una volta nella sua vita, e non se le ricordava abbastanza per dire se il nome fosse veritiero.

A quell’ora del pomeriggio era percorsa da più gente di quanta Morifinwë avesse previsto, e lui fu costretto a procedere piano, facendosi largo tra la folla. Ci mise un tempo che gli parve infinito per raggiungere l’arco che delimitava il confine di Tirion.

Qui esitò un istante, prima di affrontare la discesa. Da quell’altezza riusciva a scorgere tutta la Piana Dorata, coi suoi campi coltivati, i frutteti, le vigne e gli ampi pascoli verdi. Non gli fu difficile individuare la strada che avrebbe dovuto prendere: la grande Via Ezellohar, che tagliava a metà la pianura e che, se percorsa per intero, portava fino a Valmar.

Respirò a fondo, raddrizzò le spalle e con un leggero colpo di talloni incitò Morvail a proseguire. Non appena il terreno si fece pianeggiante, si lanciò al galoppo per recuperare il tempo perso in città.

Il fulgore di Laurelin si fece più intenso con l’avanzare nell’entroterra e Morifinwë presto si accorse che la brezza che tirava sempre in cima alla collina, lì, nella pianura, era completamente assente. Cominciò a sentire caldo e a rimpiangere di non aver dato retta a sua madre riguardo a rinunciare alla giacca.

Seguendo le indicazioni di Russandol, ignorò le molte strade che si dipartivano dalla principale finché non giunse a un grande incrocio agli angoli del quale si ergevano quattro statue.

Accaldato e col sudore che gli appiccicava addosso i vestiti, consapevole di aver accumulato un ritardo imperdonabile, non poté comunque fare a meno di fermarsi ad ammirarle. Avrebbe riconosciuto lo stile di sua madre tra tutti gli scultori di Aman: solo lei era capace di inserire quelli che all’apparenza potevano sembrare piccoli difetti, che invece di rovinare l’opera la rendevano più reale. Una sgualcitura sull’orlo della veste, una ciocca di capelli in disordine, ed ecco che la pietra si animava.

C’era aria di casa, tra quelle statue, e per un attimo Morifinwë si sentì meglio. Poi si trovò a rimpiangere di non aver voluto la madre con sé, e fu come ammettere una sconfitta.

– Mai che ne faccia una giusta – borbottò, tra i denti. Si asciugò la fronte con la manica, si tolse la giacca, se la legò in vita e prese la via di destra.

La strada superò un canale su un ponte di assi e imboccò un viale alberato, in fondo al quale Morifinwë vide finalmente la sua meta: una grande casa di legno a due piani, bassa e larga, col basamento di pietra grigia. Un ballatoio la percorreva per tutta la sua lunghezza, riparato da una tettoia coperta da gelsomino. Alla sinistra della casa un prato si estendeva a perdita d’occhio, mentre a destra la vista era chiusa da un frutteto.

Nel cortile antistante c’era un caotico andirivieni. Un uomo dalla carnagione scura conduceva due stalloni irrequieti in direzione del prato, una bambina con folti ricci castani inseguiva un cagnolino dalle zampe così corte che le orecchie toccavano terra, un gruppo di ragazzini giocava a rincorrersi mentre una donna con una cesta sulle spalle li chiamava, invano, e infine si rassegnava a prendere da sola la via del frutteto.

Morifinwë si fermò davanti ai tre scalini che portavano al ballatoio, di fronte a quella che sembrava essere l’entrata principale. Nessuno venne ad accoglierlo, nonostante fossero in molti ad averlo visto arrivare, e lui fu tentato ancora una volta di tornarsene a casa. Alla fine si decise a scendere da cavallo, ma nel farlo cercando di non rovinare il pacchetto datogli da Velmo, fece scivolare la giacca a terra. Imprecò sottovoce, la raccolse e quasi inciampò nei gradini mentre tentava di scuoterla dalla polvere.

Giunto di fronte alla porta, cercò invano di sistemarsi i capelli con una mano sola e bussò con più energia di quanto fosse necessario, irrimediabilmente irritato.

Dopo qualche istante venne ad aprirgli una donna. Aveva un viso severo, dai lineamenti decisi, e capelli scuri raccolti in trecce che le avvolgevano la testa come un copricapo. Vestiva un abito azzurro, disadorno e senza maniche, che le arrivava a metà polpaccio, e portava sandali di cuoio. Morifinwë aveva chiaramente sopravvalutato lo stile della Piana, se la moglie del maestro vestiva in modo così modesto.

Non che lui fosse messo meglio, ormai, con la camicia che gli si attaccava alla pelle per il sudore e la giacca impolverata ripiegata malamente su un braccio.

Infuriato col mondo e con sé stesso, desideroso di farla finita al più presto con tutta quella faccenda, disse brusco: – Sono Morifinwë, figlio del principe Fëanáro, e sono atteso da suo marito per la lezione di matematica.

Per un attimo la donna sembrò presa alla sprovvista, poi disse: – Il maestro pensava che non arrivassi più e ha raggiunto la moglie al maneggio, lo mando subito a chiamare.

Guardò in basso alla sua sinistra, e Morifinwë notò solo in quel momento che la bambina che aveva visto giocare col cane era in piedi accanto a lui e lo osservava da sotto in sù con due grandi occhi marroni. Sentì lo stupidissimo bisogno di sistemarsi i capelli.

– Lissi – disse la donna, distogliendo la piccola dalla sua contemplazione, – corri a chiamare Arsanarwë; digli che è arrivato il ragazzo che aspettava.

Morifinwë, che ormai aveva capito di aver fatto un errore grossolano ed era arrossito fino alla radice dei capelli, si offese nel sentirsi chiamare semplicemente “ragazzo”.

Così, quando la donna disse una parola incomprensibile, lunga e cantilenante, e gli porse una mano, lui pensò che volesse farsi consegnare il pacchetto di Velmo, e le rispose sgarbatamente: – Non è roba per te.

Per un istante si sentì in un territorio più familiare, dove i ruoli erano chiari, ma davanti allo sguardo impassibile della donna si rese conto di aver frainteso un’altra volta. Quel garbuglio di sillabe doveva essere stato il suo nome e quella mano tesa era stata offerta per essere stretta.

Troppo tardi. La donna riportò la mano lungo il fianco e disse: – Entra, ragazzino – con un tono non molto diverso da quello con cui si era rivolta alla bambina, e lo precedette in una stanza che si apriva proprio di fronte alla porta di ingresso.

Morifinwë si trovò in una cucina luminosa, arredata con mobili di legno chiaro dalle forme essenziali. Appoggiò la giacca allo schienale di una sedia e tenne stretto il pacchetto, non tanto perché non volesse abbandonarlo, ma perché così aveva un posto dove riporre le mani.

La donna andò presso il lavello di pietra, prese un bicchiere da una mensola e azionò la pompa dell’acqua. Nel farlo, gli voltò le spalle, e Morifinwë ebbe modo di osservarla più liberamente.

Spalle ampie, braccia asciutte su cui risaltavano muscoli ben definiti, pelle così chiara che sembrava rilucere. Non portava alcun ornamento, né una collana, né un anello, soltanto uno spesso bracciale di cuoio sul polso sinistro, il cui scopo non era di certo quello estetico. Aveva i movimenti precisi e sicuri di una persona matura, eppure, in qualche modo, i suoi gesti sembravano essere artificiosamente calibrati, come se la donna dovesse impegnarsi per tenere sotto controllo la propria forza.

Quando si girò, il movimento fu così rapido che lui fece appena in tempo a distogliere lo sguardo. Lei gli offrì il bicchiere d’acqua e lui lo bevve tutto d’un fiato, per placare l’arsura lasciatagli dal viaggio. Si sentì talmente bene che l’avrebbe persino ringraziata se proprio in quel momento non fosse tornata la bambina ad annunciare che il maestro lo attendeva nello studio.

– Vieni con me – disse la piccola, e si precipitò in corridoio senza controllare che lui la seguisse. Morifinwë non poté far altro che correrle dietro, con in mano ancora il suo pacchetto, la giacca dimenticata sulla sedia.

La stanza in cui lo attendeva Arsanarwë era ben diversa dallo studio del palazzo di Fëanáro in cui lui si era incontrato col maestro per tutto l’anno precedente; non sembrava nemmeno uno studio, a dirla tutta, ma una camera adattata allo scopo all’ultimo momento. Le librerie alle pareti, dello stesso legno chiaro dei mobili della cucina, non avevano nulla a che vedere col grande tavolo di mogano che dominava il centro della stanza. Un divano e un tavolino davano l’idea di essere stati spinti in un angolo per liberare spazio per l’improvvisata scrivania.

– Morifinwë! – esclamò Arsanarwë, sbucando da dietro quello che poteva essere un originale attaccapanni a forma di cavallo, o una statua equestre usata impropriamente per appenderci le giacche, – sono felice che tu ce l’abbia fatta.

Non molto più alto di Morifinwë e dal fisico appesantito, il maestro aveva una corporatura insolita per un Noldo, ma ciò che lo rendeva ancora più strano era il sorriso distratto che aveva sempre stampato in faccia e che gli conferiva un’aria piuttosto svampita. Chi lo incontrava per la prima volta stentava a credere che dietro quella apparente superficialità si celasse una delle menti teoriche più acute di tutto il loro popolo.

Nel ritrovare un volto conosciuto, Morifinwë si sentì subito meglio. Si scusò col maestro per il ritardo e gli consegnò il dono dei suoi vecchi colleghi.

– E questo cos’è? – chiese Arsanarwë, neanche a dirlo, sorridendo, e aprì il pacchetto di Velmo. Un dolce profumo si sprigionò nella stanza quando ne estrasse i panini con le scaglie di cioccolato che vi erano contenuti.

– Calwen, benedetta donna, quanto mi mancano i suoi dolci! – esclamò il maestro, – ha sempre avuto la fissazione che alle donne in attesa non dovesse mancare il cioccolato.

Si chinò su Morifinwë con aria da cospiratore e abbassò la voce: – Ti svelo un segreto: a mia moglie il cioccolato non piace.

Senza smettere di parlare andò a prendere un grosso libro da uno scaffale e lo appoggiò sul tavolo. – Poco male, è pieno di ragazzini qui. La famiglia di mia moglie è molto numerosa. Inoltre, se non ricordo male, sono i dolci preferiti di Elle.

Morifinwë si era perso al punto in cui la moglie non apprezzava il cioccolato. – Elle? – ripeté, confuso.

– Non vi siete presentati? – si stupì il maestro, – è lei che ti ha accolto in casa.

– La serva?

Il sempre gioviale Arsanarwë fece una cosa che Morifinwë non gli aveva mai visto fare: si accigliò.

– Elle lavora in questa casa da molto tempo – disse, – fa parte della famiglia.

Morifinwë non ebbe il tempo di ragionare su cosa avesse detto di sbagliato, perché il maestro, riacquistata la sua consueta leggerezza, disse: – Forza, cominciamo! Il tempo stringe e noi dobbiamo concentrare tutto quello che facevamo durante la settimana in un pomeriggio soltanto. Ti senti in grado di farcela?

Morifinwë non aveva problemi a dedicarsi allo studio, né ad apprendere nuovi concetti. Forse non era veloce come Russandol, né come prometteva di diventare il nuovo fratello copia-del-padre, ma superava di gran lunga il fratello selvaggio e se la cavava molto meglio del compositore. Si sedette di fronte al maestro e, grato di essere finalmente su un terreno a lui congeniale, ascoltò la lezione del giorno prendendo appunti e facendo le domande che ci si aspettava che facesse.

Verso metà pomeriggio, annunciata da un leggero bussare, entrò la piccola dai ricci castani a portare del tè. Quando vide i dolci sulla scrivania, chiese se ne poteva avere uno e il maestro gli disse che poteva prenderli anche tutti, se Morifinwë lo permetteva. Lui diede distrattamente il suo consenso, ma prima che la bimba scivolasse fuori dalla stanza col vassoio in mano, Morifinwë si sentì dire: – Se te ne avanza uno, potresti darlo alla… a Elle.

Sentì lo sguardo di apprezzamento del maestro su di lui e arrossì un poco. Ma Arsanarwë tornò al lavoro senza commentare e lo studio riprese senza altre interruzioni.

Nel cielo si mescolavano le luci quando il maestro finalmente annunciò che la lezione era terminata.

– Vedo con piacere che non hai lacune – commentò. – Hai fatto un buon lavoro, Morifinwë, in questi giorni in cui hai studiato da solo.

Morifinwë, come faceva tutte le volte che un maestro lo elogiava, si chiese se Arsanarwë avesse rivolto le stesse parole a tutti i suoi fratelli, o se fossero riservate a lui soltanto. Non riusciva a esserne orgoglioso, con questo dubbio.

Si alzò e ripose i suoi libri nella borsa.

– Vado da solo – disse, dopo qualche istante, vedendo che Arsanarwë, impegnato a scrivere il resoconto della lezione, non accennava a muoversi.

Il maestro lo salutò con un gesto della mano.

Morifinwë andò in cucina a recuperare la giacca. La trovò dove l’aveva lasciata, ma priva di pieghe e ripulita dalla polvere, sembrava appena tirata fuori dall’armadio. La stanza, ora immersa nella penombra, era deserta. Sul tavolo non c’era più il suo bicchiere, ma uno dei panini di Calwen, appoggiato su un piattino; evidentemente la piccola aveva ascoltato il suo consiglio. Morifinwë valutò che con Laurelin in procinto di sfiorire del tutto non avrebbe più sofferto il caldo, si infilò la giacca e si voltò per uscire.

Per poco non andò a sbattere contro la donna – Elle, si ricordò – che stava entrando.

Con lo sguardo fisso a terra, Morifinwë bofonchiò: – Grazie per la giacca.

Lei accennò al tavolo e a ciò che c’era sopra: – Grazie a te per il dolce, ragazzino.

Poi lo accompagnò in ingresso, gli tenne aperta la porta e attese che recuperasse il suo cavallo.

Lui balzò su Morvail, ringraziando tutti i Valar di esserci riuscito al primo colpo e di aver evitato l’ennesima figuraccia. Poi fuggì da quel luogo il più velocemente possibile.

Sulla strada di casa ebbe tutto il tempo per fare un bilancio della giornata.

In breve: aveva sbagliato vestiti, era arrivato in ritardo, si era presentato in una condizione pietosa, aveva scambiato una serva per la moglie del maestro, aveva fatto la figura del villano con la stessa serva, ed era riuscito nell’impossibile impresa di far accigliare Arsanarwë.

Ed era solo il primo giorno.

Morifinwë non osava pensare cosa sarebbe potuto accedere nelle settimane successive.

 

 

 


NOTE

Grazie a chi ha letto! ❤︎

Ho deciso di utilizzare i termini “uomo” e “donna” al posto di “elfo” e “elfa” perché mi piaceva di più come suonavano nel testo (dato che la storia è ambientata in un periodo in cui gli Uomini non esistevano ancora, ho pensato che non potesse creare fraintendimenti).

Nomi canonici, conversione Quenya - Sindarin
Morifinwë, Carnistir = Caranthir
Russandol = Maedhros
Makalaurë = Maglor
Fëanáro = Fëanor

Personaggi di mia invenzione
Velmo, il responsabile delle scuderie al palazzo di Fëanáro (già citato, insieme a Calwen, in Un’ultima cosa)
Calwen, la responsabile delle cucine al palazzo di Fëanáro
Morvail, il cavallo di Morifinwë, nome composto da morna (dark, black) e vailë (wind)
Arsanarwë, il maestro di matematica di Morifinwë

Nomi di mia invenzione
Piana Dorata, l’ampia pianura tra Tirion e Valmar
 

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Capitolo 3
*** Una tranquilla serata in famiglia ***


3

Una tranquilla serata in famiglia

(o quando avresti quasi preferito andare a letto senza cena)

 

 

La sera della prima lezione di Morifinwë alla fattoria, la famiglia cenò al gran completo. Non capitava più tanto di frequente che si ritrovassero tutti insieme, col padre che talvolta si assentava per dedicarsi ai suoi progetti fino a tardi, Makalaurë spesso impegnato in concerti in giro per il paese, e Tyelkormo quasi sempre dedito ai suoi vagabondaggi.

Ma quella sera la lunga tavola della sala da pranzo era apparecchiata per nove persone, perché a loro si erano aggiunti Erlindiel, futura sposa di Makalaurë, e l’immancabile Findekáno. Il figlio del fratellastro del padre, nonché grande amico di Russandol, ultimamente sembrava aver preso casa loro come seconda dimora.

Era da poco passata l’ora prima: i raggi di Telperion a inizio fioritura riuscivano a malapena a varcare le alte finestre che davano a occidente, e creavano pozze di luce sul pavimento di marmo alla loro base. Sottili catene argentee appese al soffitto portavano sulla tavola bulbi di cristallo sfaccettato nei quali vorticavano i vapori della sacra rugiada.

Bastava un’occhiata alla tavola per capire che il padre si trovava in un intervallo tra un’invenzione e l’altra, e che, incapace di stare lontano dal piacere della creazione per più di mezza giornata, si era dedicato alla cucina. Accanto alle pietanze che costituivano la loro cena quotidianamente, infatti, c’erano piatti in cui si riconosceva chiaramente la mano di Fëanáro: verdure ripiene dai colori insoliti disposte sul vassoio in geometrie precise, e patate affettate sottili come petali, spolverate da spezie profumate e infilate in cima a bacchette sottili come fossero fiori.

Morifinwë, seduto al suo solito posto tra Nerdanel e Tyelkormo, esitò a servirsi per non essere l’artefice della distruzione di quelle opere d’arte.

Alla sua sinistra, il fratello selvaggio non si fece lo stesso problema e cominciò a prendere con entusiasmo da ogni piatto, demolendo senza pensarci due volte le architetture del padre.

Nerdanel si affrettò a togliergli il vassoio dalle mani e a offrirlo a Erlindiel, seduta tra lei e Makalaurë, riuscendo nel contempo a lanciare a Tyelkormo un’occhiata che la diceva lunga sul comportamento più opportuno da adottare in presenza di ospiti.

Fu Makalaurë a prendere il vassoio e a servire la sua fidanzata, che lo gratificò di un sorriso che avrebbe fatto sciogliere il metallo senza bisogno di una fiamma.

Erlindiel era una fanciulla dal viso ovale e dai luminosi occhi castani, con fossette sulle guance che spuntavano ogni volta che sorrideva, il che accadeva spesso. Era stata per alcuni anni l’insegnante di musica di Morifinwë, quando era piccolo, e lui l’aveva adorata perché coi suoi modi sempre gentili e la sua infinita pazienza era riuscita a fargli piacere una materia che lo metteva a disagio come poche altre. Forse era per questa sua particolare simpatia che non aveva battuto ciglio quando suo fratello aveva annunciato il fidanzamento, anzi, ne era stato felice, anche se una parte di lui riteneva inappropriato che il secondogenito di Fëanáro si sposasse con qualcuno che non fosse a sua volta imparentato con una delle tre case regnanti.

Morifinwë distolse lo sguardo dalla coppia che si stava scambiando sorrisi complici e lo riportò sul resto della tavolata.

Di fronte alla mamma sedeva Fëanáro, con il piccolo Curufinwë da un lato e Russandol dall’altro; Findekáno chiudeva la fila. Loquace e disinvolto, il cugino sembrava trovarsi a suo agio in ogni situazione, una capacità che Morifinwë gli invidiava molto.

Forse a causa della presenza di Erlindiel, la serata procedeva insolitamente tranquilla, Tyelkormo non se n’era ancora uscito con qualche battuta fuori luogo e Findekáno, la cui parlantina aveva del proverbiale e al quale talvolta sfuggiva qualche frase a sproposito, era insolitamente silenzioso.

Morifinwë addentò un pezzo di pane e si chiese quanto sarebbe durato.

– Verrete a stare qui da noi dopo il matrimonio? – domandò il padre rivolgendosi alla coppia di fidanzati.

– Forse più avanti – rispose Makalaurë.

Morifinwë non poté fare a meno di notare la sicurezza con cui il fratello aveva risposto, pur sapendo che su quel punto lui e il padre non erano affatto d’accordo. Fëanáro avrebbe voluto che la famiglia restasse unita, ma Makalaurë aveva sempre rivendicato la sua autonomia, e quella sera non sembrava più intenzionato del solito a scendere a compromessi. Il secondogenito aveva una fiducia in sé stesso che talvolta sembrava superare persino quella di Russandol. Morifinwë si chiedeva spesso se fosse stato così da sempre, o se quando era più giovane anche Makalaurë si fosse sentito schiacciato dalle aspettative, come lo era lui.

– Per qualche anno abiteremo ad Alqualondë – spiegò Makalaurë, – dove Erlindiel è voce solista del coro di re Olwë – nel dir questo rivolse uno sguardo carico di orgoglio alla sua fidanzata. Poi tornò a dedicarsi alla sua verdura, come se non avesse altro da aggiungere.

Fëanáro accettò la risposta più serenamente di quanto Morifinwë si sarebbe aspettato e continuò a informarsi sui progetti dei suoi figli: – E tu, Turkafinwë, a cosa intendi dedicarti adesso che hai terminato il tuo percorso con Oromë?

Tyelkormo, che si stava ingozzando di patate, ci mise un tempo sorprendentemente veloce a deglutire e rispose, con prontezza: – Stavo pensando alla proposta del nonno, quell’incarico per mappare i territori a nord. – Poi spiegò, rivolgendosi a Erlindiel che negli ultimi anni aveva abitato lontano da Tirion: – Col problema della sovrappopolazione che comincia a farsi sentire qui in città, trovare nuove aree adatte all’urbanizzazione è una cosa che non si può più rimandare.

– È un incarico che richiede concetti di cartografia non da poco – osservò Fëanáro, con un accenno di scetticismo nella voce.

– Non sono mai stato uno da poco, papà – disse Tyelkormo con un sorriso che sconfinava nel ghigno, e riprese ad abbuffarsi come se niente fosse.

Il piccolo Curufinwë fece per dire la sua, ma fu interrotto dal padre che aveva posto l’attenzione su di lui.

– Tu di cosa ti stai occupando invece? – domandò Fëanáro al suo ultimogenito.

Morifinwë non poté fare a meno di notare di essere stato scavalcato.

– Ho cominciato il libro che mi hai consigliato – rispose il piccolo, illuminandosi tutto, – lo trovo interessante. Ne parlerò col maestro di storia alla mia prossima lezione.

– A proposito di lezioni – intervenne Nerdanel, – com’è andata alla fattoria, Carnistir?

A Morifinwë tornò in mente la serie di brutte figure collezionate quel pomeriggio e decise di stare sul vago. – È un po’ seccante dover andare così lontano… – cominciò.

– Dove abita il maestro, in cima al Taniquetil? – commentò Tyelkormo, sollevando appena lo sguardo dal piatto.

– … ma per il resto bene – concluse Morifinwë, ignorando il fratello.

Nel silenzio che seguì, capì che doveva dire qualcos’altro e se ne uscì con ciò che lo assillava di più da quando aveva saputo che il maestro si sarebbe trasferito: – Continuo a non capire come possa aver scelto di andare a insegnare tra gli agricoltori uno come Arsanarwë.

– Non è così strano – intervenne Findekáno, che era stato zitto fin troppo per le sue abitudini, – le persone a servizio, ormai, sono un retaggio del passato.

– Un che? – chiese Tyelkormo.

– Una cosa che si eredita dal passato, idiota – disse Curufinwë, ergendosi sulla sedia accanto a suo padre come se potesse arrivare al suo livello con un mero sforzo di volontà.

– Dove hai imparato quella parola? – gli domandò Nerdanel.

– Se uno è idiota, come altro dovrei chiamarlo? – rispose il piccolo.

– Intendevo “retaggio” – precisò la madre.

– L’avrà letta sul libro che ha trafugato dalla biblioteca – disse Tyelkormo.

– Quando avete finito – intervenne Fëanáro, non riuscendo a nascondere un certo divertimento, – Findekáno può andare avanti a esporci la sua visione della storia… o forse dovrei dire: la visione della storia del mio fratellastro – aggiunse, guadagnandosi un’occhiataccia da Nerdanel.

– I nostri servitori derivano dal periodo della Grande Marcia – riprese Findekáno, un po’ meno spavaldo. – Alcune persone erano più predisposte al comando e alla difesa degli altri…

– I Cacciatori, così venivano chiamati – interruppe Tyelkormo, dando prova di un’insospettabile conoscenza della storia.

– Sì, esatto – confermò Findekáno, prima di riprendere il filo del discorso: – Altre persone, invece, erano più adatte a mansioni di supporto. In pratica, queste ultime venivano difese, e in cambio si occupavano delle cose essenziali alla sopravvivenza di chi li proteggeva.

– Il punto è che adesso tutto ciò non è più necessario – concluse per lui Russandol. – Qui non c’è bisogno di protezione, non ci sono rischi per la vita né di altro genere, quindi i costumi stanno cambiando.

– Ma non è solo una questione di protezione – esclamò Morifinwë, – le persone al nostro servizio hanno l’opportunità di vivere in uno dei più bei palazzi della città, di lavorare per i più alti esponenti del nostro popolo. Perché mai dovrebbero preferire una… una fattoria?

– Forse perché vogliono essere liberi di fare solo quello che vogliono? – suggerì Tyelkormo, scandendo bene le parole perché non si perdesse il tono retorico della domanda.

– Nessuno è libero di fare solo quello che vuole – disse Russandol, e Findekáno gli rivolse uno sguardo accigliato, ma non fece commenti.

– No, forse hai ragione – borbottò Tyelkormo tra sé.

Poi scrollò le spalle e, partendo all’attacco di un altro vassoio di carne alla brace, cambiò completamente discorso e umore: – Allora, avete cominciato ad allenarvi per le gare di Minulvórë?

Makalaurë gli puntò addosso la forchetta con fare minaccioso. – Io no di certo! – esclamò, – la sera suonerò e voglio evitare di rompermi una mano, come l’ultima volta. Faccio ancora fatica a premere l’ultimo tasto del flauto.

– Come la fai lunga per un paio di dita rotte! Quando stavo con Oromë e cacciavamo il cinghiale…

– Tyelkormo, non serve che ci illustri nel dettaglio ogni frattura che ti sei procurato durante la tua interminabile adolescenza – disse Nerdanel, poi rivolse a Morifinwë uno sguardo che lo invitava a dire la sua.

Lui esitò.

Il ricordo del suo ultimo fallimento bruciava ancora, nonostante fosse passato quasi un anno: nella gara di nuoto aveva subito una vergognosa sconfitta da parte di suo cugino Angaráto, che non era molto più grande di lui.

Neanche gli avesse letto nel pensiero, Tyelkormo disse: – È l’ultima occasione che hai di battere quello sbruffone di Arafinwion, sai che l’anno prossimo verrà inserito nella categoria adulti.

E gli offrì il vassoio della carne, come se Morifinwë potesse continuare a mangiare dopo che era stato tirato in ballo l’argomento gare. Sentiva lo sguardo del padre su di lui e aveva lo stomaco chiuso perché sapeva di essere stato una delusione, l’unico dei suoi figli che non aveva portato a casa una vittoria.

– Lo so – ammise, guardando nel suo piatto vuoto, e sentì il bisogno di giustificarsi: – L’anno scorso sono partito male, e in più ero affaticato perché il giorno prima…

– Non andare sempre alla ricerca di scuse, Morifinwë – lo interruppe Fëanáro.

Morifinwë deglutì: – No, papà.

Poi aggiunse, sapendo che era ciò che il padre voleva sentire: – Non ho intenzione di ripetere gli stessi errori.

Ed era la verità, si era allenato duramente nelle ultime settimane; ogni volta che aveva potuto era sceso al lago e aveva nuotato fino allo sfinimento.

– Io parteciperò solo all’equitazione – disse Russandol, e Morifinwë capì che l’aveva fatto apposta per sviare l’attenzione da lui e gliene fu grato. – Non sono riuscito ad allenarmi molto e sono certo che finirei per fare brutta figura in altre discipline.

– Ne dubito – disse Makalaurë, a mezza voce.

– Tu, Findekáno, a cosa ti sei iscritto? – domandò Erlindiel.

Findekáno mise giù le posate e contò sulle dita: – Dunque. Equitazione – e lanciò uno sguardo a Russandol alla sua sinistra, – arrampicata, tuffi…

– Noto che hai accuratamente evitato le discipline in cui concorro io – intervenne Tyelkormo, che eccelleva nel tiro con l’arco, nella corsa e nella lotta.

– … e tiro con l’arco. Contro di te, sbruffone – concluse Findekáno.

Curufinwë si sporse oltre al padre per guardare il cugino seduto due posti dopo di lui. – Quella è una mia prerogativa – disse.

Findekáno inarcò un sopracciglio: – Il tiro con l’arco?

– Insultare mio fratello.

– Perché non partecipi anche tu, Atarinkë? – chiese Nerdanel, senz’altro per interrompere una lite nascente.

– Nella categoria “bambini”? – disse il piccolo, con una smorfia di disgusto sulle labbra.

– No, in quella “petulanti rompiscatole”, se solo ci fosse – non riuscì a trattenersi Morifinwë, – in quale altra categoria vorresti competere? Tu sei un bambino.

Findekáno rincarò la dose: – Se vuoi ti iscrivo alle gare a cui partecipa la mia sorellina.

Curufinwë non si lasciò intimidire: – Se vuoi dico a tutti cosa fai quando…

– Bene! – interruppe Nerdanel alzando una mano, – dichiaro chiuse le ostilità per stasera, non dimenticatevi che abbiamo ospiti – aggiunse, chiaramente riferendosi a Erlindiel.

– Grazie zia – fraintese di proposito Findekáno, – ma non occorre che mi difendi…

Russandol si girò verso di lui: – Mangia e taci, per una volta – lo rimproverò, ma con quel sorriso particolare, che saliva fino agli occhi, e che riservava solo al suo più caro amico.

Morifinwë sentì sua madre accanto a lui che allungava una gamba sotto il tavolo.

Fëanáro, di fronte a lei, ebbe un impercettibile sussulto e subito si rivolse a Erlindiel dicendo: – Sapete già dove alloggerete ad Alqualondë?

E la conversazione riprese su toni più miti, e in breve si frammentò in un chiacchiericcio tranquillo.

Morifinwë osservò Russandol che parlava a bassa voce con Findekáno, e suo padre, chinato verso Curufinwë che ascoltava il piccolo con attenzione, mentre Tyelkormo lo interrompeva con commenti più o meno ironici nel chiaro tentativo di infastidirlo, e sua madre, girata verso la coppia di fidanzati, che discuteva dei preparativi per le nozze.

Non per la prima volta, si chiese se avrebbe mai avuto un posto nella sua famiglia come sembravano averlo tutti gli altri.

 

 


NOTE

Grazie a chi ha letto!

La Grande Marcia (Great March), o Grande Viaggio (Great Journey), è il lungo viaggio che ha condotto gli Eldar dal luogo del Risveglio, nella Terra di Mezzo, fino in Aman.

Nomi canonici, conversione Quenya - Sindarin
Morifinwë, Carnistir = Caranthir
Findekáno = Fingon
Tyelkormo, Turkafinwë = Celegorm
Fëanáro = Fëanor
Curufinwë, Atarinkë = Curufin
Makalaurë, Kánafinwë = Maglor
Russandol = Maedhros
Angaráto = Angrod
Arafinwion = figlio di Arafinwë, cioè di Fingolfin

Personaggi di mia invenzione
Erlindiel, la fidanzata di Makalaurë. Nome composto da Er- (one, alone, single) e linda (singer), interpretabile come: “la fanciulla che canta da sola”
Arsanarwë, il maestro di matematica di Morifinwë

Nomi di mia invenzione
Minulvórë, la festa di fine estate, o della vendemmia. Si potrebbe tradurre come “primo autunno”, perché Ulvórë è il nome che ho dato a una stagione simile al nostro autunno (maggiori spiegazioni, per chi le vorrà, nel prossimo capitolo)

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Capitolo 4
*** Ancora a lezione ***


4

Ancora a lezione

(o quando ti devi sorbire consigli non richiesti da chi non ha alcun diritto di dartene)

 

 

La seconda volta che dovette andare a lezione dal maestro Arsanarwë alla fattoria, Morifinwë si preparò meglio.

Indossò abiti più semplici e più leggeri: una maglia color nocciola con maniche che arrivavano poco oltre il gomito, e dei pantaloni marrone scuro di tela sottile. Al posto degli stivali, mise basse scarpe di cuoio.

Prima di partire passò dalle cucine per vedere se ci fosse qualcosa di preparato per Arsanarwë. Non trovando nulla, recuperò dalla dispensa alcuni biscotti avanzati dalla colazione di quella mattina, li avvolse in un tovagliolo pulito e li portò con sé.

Si fece consegnare Morvail da Velmo, si assicurò di partire con un discreto anticipo e viaggiò senza esitazioni fino alla fattoria, riuscendo persino a godersi la cavalcata attraverso la Piana Dorata.

Si avvicinava Ulvórë, la stagione in cui Manwë richiama dal mare i venti carichi di umidità e addensa le nubi su Valinor, per dissetare il terreno esausto. La luce di Laurelin non si rifletteva più contro la volta celeste, ma veniva in parte assorbita dalle nuvole, così che l’aria sembrava più densa e opaca, e la natura si rivestiva di una patina sfumata, come se scivolasse sul confine tra sogno e realtà.

Era il segnale che presto sarebbero arrivate le piogge. Il più delle volte deboli e rade, piccole goccioline sospese nell’aria che catturavano la luce e la restituivano in bagliori frammentati, facendo apparire tutto come dietro un velo intessuto di minuscoli cristalli.

Ma di quando in quando le precipitazioni si facevano più fitte e insistenti, e allora nemmeno Laurelin nel pieno splendore riusciva coi suoi raggi a penetrarle completamente; forme e colori sparivano confondendosi gli uni con le altre, e i suoni erano coperti dallo scroscio dell’acqua, forte come quello di una cascata.

Morifinwë adorava la pioggia quando sferzava in quel modo, gli sembrava di essere solo al mondo, isolato da tutti e allo stesso tempo protetto, chiuso in un bozzolo in cui nulla avrebbe potuto toccarlo.

Ma quel momento era ancora da venire, e quel pomeriggio attraversò la pianura cavalcando in una nebbiolina iridescente che era soltanto una promessa.

Giunto alla fattoria lo accolse il solito via vai. Un carro carico di fieno lo incrociò per imboccare il viale alberato da cui lui proveniva. L’uomo alla guida lo salutò con un cenno della mano. I ragazzini che la settimana precedente giocavano a rincorrersi, questa volta si erano impossessati di due carriole e stavano facendo una gara. Due coppie si affrontavano, uno dentro la carriola, l’altro che lo spingeva a rotta di collo, mentre i restanti li incitavano e scommettevano sul risultato.

Morifinwë si tenne a distanza di sicurezza, lasciò Morvail presso il ballatoio con un po’ di apprensione per il destino dell’animale, salì i tre scalini e bussò alla porta.

Gli aprì la bambina coi ricci scuri di cui non ricordava il nome.

A quanto pareva, invece, lei il suo se lo ricordava benissimo, perché lo salutò con un sorriso smagliante: – Buongiorno Morifinwë, figlio di Fëanáro!

A quel punto Morifinwë si rese conto di due cose. Primo, che il suo nome, pronunciato per intero da quella vocetta allegra, suonava fuori posto invece che altisonante come avrebbe dovuto. E secondo, che la piccola non lo stava affatto invitando a entrare, anzi, per la precisione, stava saltellando da un piede all’altro tentando di sbirciargli dietro la schiena, dove lui teneva le mani.

Preso alla sprovvista, Morifinwë disse la prima cosa che gli venne in mente: – Puoi chiamarmi Moryo.

La piccola frenò per un attimo i suoi balzelli, raddrizzò le spalle, si fece seria e disse: – E tu puoi chiamarmi Lissi, anche se il mio vero nome è Intyalissë.

La sua compostezza, tuttavia, durò meno di un battito di ciglia. Lissi portò le braccia lungo i fianchi e prese a dondolarsi sui talloni. I suoi grandi occhi castani, nascosti in parte dalla massa di boccoli scuri, lo guardavano da sotto in su come fossero in attesa di qualcosa. Alla fine la piccola domandò: – Hai portato anche oggi i dolcetti?

Sollevato per aver finalmente capito a cosa mirava il suo strano comportamento, lui le porse il pacchettino di biscotti che fino a quel momento era rimasto nascosto. La bambina, contrariamente a quanto si era aspettato, ignorò i dolci e gli si gettò addosso, abbracciandolo. O meglio, data la sua statura, abbracciando le sue ginocchia.

Morifinwë si trovò su un terreno sconosciuto, non era abituato ad avere a che fare con bambini piccoli, eccezion fatta per Curufinwë, e di certo Curufinwë non si sarebbe mai sognato di fare una cosa del genere. Alzò le mani non sapendo se ricambiare l’abbraccio o togliersela di dosso il prima possibile.

Proprio in quel momento si udì una voce; era bassa e roca, come quella di chi è rimasto troppo a lungo in silenzio, e Morifinwë si stupì nel rendersi conto che la riconobbe all’istante: apparteneva a quella donna, Elle.

– Lissi, lascia andare il tuo nuovo amico, che Arsanarwë lo sta aspettando.

La bambina si sganciò dalle sue gambe e afferrò i biscotti con entrambe le mani: – Grazie mille, Moryo! – esclamò. Poi guardò il suo bottino con occhi voraci e scappò via.

A Morifinwë venne un sospetto. Le raccomandò: – Condividili con i tuoi amici!

– Forse! – gridò lei da sopra una spalla, e scomparve dietro una curva del corridoio.

Chiedendosi se non avesse fatto un errore a consegnare tutti biscotti alla piccola, e se qualcuno non lo avrebbe rimproverato per questo, Morifinwë tornò a rivolgersi a Elle e scoprì che lei lo stava guardando con attenzione. Si trattenne dal sistemarsi i capelli.

– Niente giacca, oggi – commentò la donna.

– Imparo in fretta – borbottò lui, accorgendosi con un certo fastidio di aver preso in prestito un’espressione del fratello minore.

Elle sollevò appena un angolo della bocca. – Vai – gli disse, – il maestro ti attende nello studio.

Lui non se lo fece ripetere, imboccò il corridoio nella direzione opposta a quella presa da Lissi, e si allontanò il più velocemente possibile.

La lezione fu molto più difficile della precedente; Morifinwë aveva fatto passare troppi giorni senza rivedere i concetti appresi e faticò a tenere il passo. Inoltre, la vista dei ragazzi che si sfidavano con le carriole aveva risvegliato in lui l’ansia per le gare imminenti, che gli impediva di concentrarsi a dovere.

A un tratto il maestro disse qualcosa e lui si accorse di aver perso il filo del discorso, incantato a fissare un pezzo di scrivania le cui venature gli ricordavano le increspature sull’acqua del lago che sarebbe stato il teatro della sua nuova sconfitta.

– Come?– domandò.

– Vedo che sei particolarmente interessato all’arredo – osservò Arsanarwë. – L’ambiente non è di tuo gradimento?

Morifinwë arrossì. – Chiedo scusa – disse.

– In effetti, bisogna ammettere che è ben diverso da dove facevamo lezione prima, nel palazzo di tuo padre – disse il maestro.

Morifinwë vide un pretesto per sviare l’attenzione da sé e lo colse al volo: – Posso chiederle perché ha deciso di lasciare l’impiego a casa nostra?

– Immagino ti sarai fatto un’idea.

Era sempre così con Arsanarwë: quando Morifinwë faceva una domanda, il maestro voleva che provasse prima a rispondere da solo.

– Vuole maggiore libertà? – tentò lui, ricordando le parole di Tyelkormo di qualche giorno prima.

– In parte – confermò il maestro. – Il motivo per cui ho deciso di farlo adesso, senza aspettare di aver concluso il mio impegno con te, è la gravidanza di mia moglie, che aspettavamo da tanto.

Arsanarwë sorrise, con lo sguardo più trasognato del solito, e aggiunse: – Voglio starle accanto il più possibile.

Morifinwë questo riusciva a capirlo, aveva visto suo padre diventare ansioso al limite dell’ossessione quando la mamma aspettava Curufinwë. A un certo punto aveva creduto che lei sarebbe scappata di casa pur di non averlo più intorno.

– Ma è una decisione che avrei preso lo stesso, presto o tardi – continuò il maestro, – e le ragioni sono diverse. C’è il desiderio di libertà, come dici tu, ma c’è anche la voglia di mettersi alla prova, di uscire dalla protezione e dalla sicurezza che mi dà la tua famiglia per vedere quanto valgo.

Arsanarwë allargò le braccia, come volesse comprendere tutto ciò che lo circondava: – Qui nella Piana ci sono ragazzi che non sono così desiderosi di imparare come sei tu, o come sono stati i tuoi fratelli, ma che hanno tutto da guadagnare nel conoscere qualche rudimento di matematica. Voglio vedere se sono in grado di insegnare anche a loro.

Morifinwë la trovò una cosa talmente assurda che volle accertarsi di aver capito: – Sta dicendo che lei ha voluto di proposito andarsene da un posto dove si trovava bene perché… perché si trovava troppo bene?

– Proprio così! – confermò il maestro. – Non si può rimanere per sempre fermi in un posto, Morifinwë, anche se quel posto è il migliore del mondo. Ogni meta raggiunta è il punto di partenza per un altro traguardo.

– Io mi accontenterei di raggiungerne anche uno solo, di traguardo – borbottò Morifinwë, tornando col pensiero alle gare.

Arsanarwë rise di gusto. – Andresti d’accordo con mia moglie! Quando comincio a fare questi discorsi, lei dice che viene fuori lo spirito di mio padre… e non è un complimento, te l’assicuro.

Si mise una mano aperta sul cuore nel gesto che, per tradizione, significava amore e rispetto per la persona di cui si stava parlando. – È stato un Cacciatore nella Grande Marcia, mio padre. Era nell’avanguardia di Oromë. Un temerario, mi hanno detto, oltremodo spericolato. È riuscito a vedere il mare prima di rimanere ucciso.

Morifinwë sapeva tutto della Grande Marcia: il maestro di storia gli aveva fatto studiare l’epopea Noldorin dal Risveglio ai giorni attuali. Ma accadeva di rado che diventasse argomento di conversazione tra la gente comune. I Nati all’Est, che vi avevano partecipato, non amavano ricordare i tempi bui, e per i nati in Aman, soprattutto quelli dalla seconda generazione in poi, era solo un racconto del passato, che poco aveva a che fare con la loro vita attuale.

Se qualcuno ne parlava, lo faceva accompagnando le parole con gesti scaramantici, per rendere grazie ai Valar di averli accolti in Aman, o per scacciare gli incubi, come si faceva alla Meren Tulusto, la Festa dell’Arrivo, quando si bruciavano nei falò i simboli delle antiche paure.

Arsanarwë invece ne aveva parlato con un’inconsueta serenità, come se accettare l’esistenza di un passato doloroso facesse parte della vita quotidiana. Sembrava che il tragico destino del padre non lo spingesse a maledire il vecchi tempi o a esaltare il presente, ma semplicemente ad ammirare il valore del genitore.

Morifinwë avrebbe voluto chiedergli altro a riguardo, ma Arsanarwë lo precedette.

– Cosa dici, ci siamo riposati abbastanza?

Lui annuì, e riuscì a farlo evitando di arrossire.

La lezione proseguì senza altre interruzioni se non l’arrivo del tè, che fu portato da un ragazzino che Morifinwë non aveva mai visto, e che indugiò a lungo con lo sguardo sul tavolo prima di andarsene con l’aria delusa.

Solo quando uscì dallo studio, Morifinwë si accorse di non aver più pensato alle gare.

Era già sulla porta d’ingresso in procinto di lasciare la fattoria, quando, senza motivo, tornò sui suoi passi e gettò uno sguardo in cucina.

Elle stava riponendo alcune stoviglie sugli scaffali e gli dava le spalle. Portava ancora lo stesso vestito azzurro che le lasciava scoperte le braccia, i capelli annodati in trecce raccolte sul capo, e lo strano bracciale al polso sinistro, una fascia di cuoio larga tre dita.

I suoi movimenti erano veloci e precisi, coordinati al punto che avrebbero potuto far pensare a una danza se non ci fosse stata, allo stesso tempo, quell’idea di potenza imbrigliata che rendeva il paragone decisamente incongruo.

– Hai bisogno di qualcosa, ragazzino?

Morifinwë sussultò. Era sicuro di non aver fatto alcun rumore e comunque, anche se l’avesse fatto, lei non avrebbe potuto capire che si trattava proprio di lui. Girava tanta gente per quella casa, e suoni di passi e di voci si udivano nei corridoi in ogni momento.

Prima che potesse inventarsi una giustificazione plausibile, Elle sì girò verso di lui e gliene fornì una: – Volevi qualcosa da bere prima di partire? Sembri affaticato dalla lezione.

Morifinwë annuì, lieto di non dover spiegare un comportamento che nemmeno lui riusciva a comprendere.

La donna prese una bottiglia da un mobile basso, una ghiacciaia a giudicare dallo spessore della porta e dalla folata di aria fredda che ne uscì. Mise in tavola due bicchieri e li riempì di un liquido ambrato.

Morifinwë la raggiunse e si sedettero uno di fronte all’altra all’estremità del tavolo più vicina alla finestra. Bevvero succo di mela ghiacciato mentre la condensa formava cerchi d’acqua alla base dei bicchieri.

Nessuno dei due disse nulla. La donna non sembrava intenzionata a iniziare una conversazione né, si rese conto con sollievo Morifinwë, sembrava aspettarsi che fosse lui a farlo. Un silenzio del tutto privo di imbarazzo li avvolse, quieto e rassicurante.

Le bianche tende alla finestra danzavano sospinte dalla brezza della sera. Fuori, il cielo coperto da nuvole piatte era una lastra su cui si mescolavano l’oro e l’argento. Era cominciata la dodicesima ora e la luce iniziava a essere insufficiente per raggiungere ogni angolo della cucina, ma Elle non si alzò per togliere il paralume dalla lampada che pendeva dal soffitto. Continuò invece a guardare il cielo che cambiava colore, mentre lui al contrario osservava la stanza che poco a poco scivolava nella penombra.

Morifinwë si lasciò permeare da quella pace e per un attimo, davanti a quell’estranea dal profilo severo che non richiedeva spiegazioni né parole di altro genere, provò la strana sensazione di essere diventato grande, di essere anche lui un adulto, come se si potesse crescere di dieci anni nell’arco di un pomeriggio.

– Mi piace questa luce – disse, e non riconobbe il suono della propria voce. Era più basso, più simile a quello dei suoi fratelli maggiori.

Elle tornò con lo sguardo di lui, e il suo viso austero e indecifrabile mostrò una punta di sorpresa.

– Al figlio dell’inventore della luce piace la penombra – disse.

Si riferiva a una delle numerosissime invenzioni di suo padre, una delle più famose, avvenuta molto tempo prima che Morifinwë nascesse: globi che imprigionavano la luce, e che ora facevano parte della vita quotidiana di qualsiasi Noldo, come dimostrava la lampada appesa in quella stessa cucina.

Era una constatazione innocente, ma colpiva dritto il punto debole di Morifinwë, e il fatto che lei non potesse saperlo non gli impedì di provare irritazione.

– Già – disse, – a quanto pare non c’è fine alle cose che mi rendono diverso da lui.

– Meglio così – commentò lei, per nulla intimidita dal suo tono seccato.

– Meglio così? – ribatté lui, – non dovrei voler assomigliare al più grande esponente del nostro popolo?

– Se cerchi di assomigliare a qualcuno – disse Elle, – non capirai mai chi sei davvero.

Morifinwë si alzò di scatto. La sedia grattò sul pavimento di legno con un rumore che gli ferì i timpani e che dissipò anche gli ultimi brandelli di quel momento di quiete.

Si ritrovò di nuovo ragazzino, insicuro, in un luogo ostile, davanti a una sconosciuta che aveva la pretesa di insegnargli come vivere la sua vita.

– Devo andare – disse, e attraversò la stanza con passi decisi. Lei si alzò a sua volta e lo seguì per un breve tratto. Non oltrepassò la soglia della cucina.

– Ragazzino – lo chiamò, quando lui aprì la porta d’ingresso per andarsene, – non è Fëanáro il più grande esponente del nostro popolo.

– Ah, no? – disse lui, esitando sulla soglia, – e chi sarebbe, allora?

– Il nostro re. Finwë.

Morifinwë pensò di sbatterle la porta in faccia. Invece chiese: – Con questo cosa vorresti dire?

– Finwë conosce la luce e l’oscurità. Fëanáro vede solo un lato delle cose.

Detto questo, la donna gli voltò le spalle e tornò alle sue faccende.

Morifinwë percorse la via del ritorno con un umore ben peggiore di quello del viaggio di andata.

La rabbia gli ribolliva dentro, mentre spronava Morvail al galoppo incurante dei molti viandanti che, a quell’ora, percorrevano la via Ezellohar per tornare alle proprie abitazioni e che erano costretti a scansarsi per far spazio alla sua corsa sfrenata.

Una lezione di vita da una serva, questo ancora gli mancava! Una contadina che si permetteva di chiamare suo padre e suo nonno senza attribuirgli il titolo che gli era dovuto, che osava fare osservazioni su Fëanáro!

“Vede solo un lato delle cose”, aveva detto. Che assurdità. Come poteva vedere solo un lato delle cose l’uomo che ragionava su diversi piani contemporaneamente e che era sempre un passo davanti a tutti? L’uomo che aveva viaggiato per l’intera Valinor e ne conosceva ogni recesso? Che era elogiato dagli stessi Valar per le sue creazioni, per l’abilità della sua mente e delle sue mani?

Morifinwë riuscì a calmarsi solo quando cominciò la salita di Túna. Allora si sentì in colpa per le persone che aveva spaventato lungo la via e per Morvail, che aveva costretto a quella stupida corsa.

Lasciò che l’animale facesse l’andatura che preferiva e gli accarezzò la nera criniera.

– Che sciocco sono, prendermela per le parole di una sconosciuta – mormorò tra sé. Poi si chinò sul collo di Morvail e gli sussurrò all’orecchio: – E tu non dir niente a Tyelko, che se no mi prende in giro fino al giorno in cui gli Alberi smettono di rifiorire. – Non l’avrebbe mai ammesso davanti a nessuno, ma aveva il forte sospetto che il fratello fosse in grado di comprendere il linguaggio degli animali.

Morvail nitrì quello che Morifinwë sperò fosse un assenso, e questo contribuì a placare la sua agitazione e a fargli recuperare il controllo di sé.

Ma quando giunse in città e volse lo sguardo alla cima della collina, dove si innalzava il Palazzo Reale e dove la luce della Mindon sfavillava sotto il cielo argenteo, si ricordò ciò che la donna aveva detto del nonno.

“Finwë conosce la luce e l’oscurità”.

Era evidente che si riferiva alle due fasi della sua vita, quella in Aman e quella in Endórë.

Morifinwë pensò alle buie e sconfinate terre dell’Est, e il pensiero gli riportò alla mente il padre di Arsanarwë, il coraggioso Cacciatore che era caduto nel tentativo di lasciare la sua terra, e le parole che il maestro aveva usato per descriverlo. Si soffermò a riflettere su come doveva essere stata la vita di quell’uomo: breve, sofferta, ma anche intensa e piena. Così diversa da quella che i Noldor conducevano ora.

E per la prima volta si chiese quanto di quella temerarietà doveva esserci stata anche in suo nonno a quei tempi. E quanta ce ne fosse ancora.

Quando alla fine rientrò in casa e andò a prepararsi per la cena, stava ancora cercando di far combaciare l’immagine di Finwë come lui lo conosceva, un uomo tranquillo al limite del noioso, con quella dell’indomito condottiero che doveva essere stato ai tempi della Grande Marcia.

 

 

 


NOTE

Grazie a chi ha letto!

Nomi canonici, conversione Quenya - Sindarin

Morifinwë, Moryo = Caranthir
Tyelkormo (qui chiamato anche Tyelko) = Celegorm
Curufinwë = Curufin
Fëanáro = Fëanor
Endórë = Terra di Mezzo

Personaggi di mia invenzione
Intyalissë detta Lissi, una bambina, figlia della sorella della moglie di Arsanarwë. Nome che deriva da Intyalë (imagination) col suffisso femminile -issë, che si può interpretare come: “la fanciulla dell’immaginazione”
Velmo, il responsabile delle scuderie del palazzo di Fëanáro
Arsanarwë, il maestro di matematica di Morifinwë

Nomi di mia invenzione
Ulvórë, una stagione intermedia tra il nostro autunno e un inverno mite, da Ulo (rain) e Vórëa (enduring, lasting), perché – banalmente – è un periodo in cui piove molto.
Meren Tulusto, la Festa dell’Arrivo, da Meren (feast, festival) e Tulusto (genitivo di Tulusta: advent, arrival), la più importante tra le ricorrenze Noldorin, quella che festeggia il loro arrivo in Aman.

Digressione del tutto superflua sulle stagioni in Aman
Per ideare le stagioni di Aman mi sono basata su ciò che segue.
Il Silmarillion dice che Yavanna ha stabilito epoche per la fioritura e il raccolto. Questo significa che dovevano esserci almeno due stagioni, corrispondenti – più o meno – alle nostre primavera ed estate. Ma se c’è una fioritura, deve esserci anche un periodo in cui le piante non sono in fiore e quindi uno in cui le piante, da rigogliose che erano, appassiscono, cioè una stagione corrispondente all’inverno e/o all’autunno.
Il Silmarillion dice anche che in Aman non esiste “mortifero inverno”, che può essere inteso come il fatto che non ci fossero inverni particolarmente rigidi (per dire, con temperature che scendevano sotto zero), oppure in senso più letterale, cioè che non esisteva proprio una stagione a cui attribuire quel nome.
Io, qui, ho seguito la seconda ipotesi, e ho diviso l’anno di Aman in sole tre stagioni:
Simil-primavera (Tuilë): quando le piante rifioriscono, spunta il nuovo raccolto
Simil-estate (Lairë): quando il raccolto è maturo, si miete e si vendemmia
Simil-autunno/inverno (Ulvórë): quando la terra riposa e viene nutrita dalle piogge, i campi sono spogli, alcuni alberi perdono le foglie.
Tuilë e Lairë sono i nomi Quenya di primavera ed estate usati a Imladris nella Terra di Mezzo (Il Signore degli Anelli - Appendice D), mentre per la stagione di quiete, che non trova una corrispondenza precisa con l’autunno e l’inverno, ho scelto un nome inventato da me.
 

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Capitolo 5
*** L'opinione della mamma ***


5

L'opinione della mamma

(o quando tuo fratello decide di rovinarti la vita più di quanto già non sia)

 

 

Il laboratorio di Nerdanel occupava l’intera ala sinistra del palazzo e si innalzava su entrambi i piani. Non c’era da stupirsi, quindi, che fosse dotato di diversi ingressi.

Quello principale si apriva su uno dei chiostri interni; era un portale ad arco affiancato da due nicchie in cui erano poste statue che raffiguravano la Valië Nessa mentre danzava. Perché sua madre avesse deciso di mettere proprio lei all’ingresso del luogo dove passava la maggior parte del suo tempo e dove creava l’arte che tutti ammiravano, Morifinwë non lo sapeva. Certo era che quelle due statue, con i veli che si attorcigliavano alle gambe della danzatrice e i capelli che le volteggiavano attorno al capo, esprimevano una leggiadria apparentemente impossibile per dei marmi e comunicavano una grande sensazione di libertà.

L’ingresso che dava sul retro dell’edificio, invece, era enorme e squadrato, chiuso da un portone di legno scorrevole. Da lì partiva un viale in terra battuta che percorreva il giardino a ridosso del confine e usciva dalla tenuta diretto a sud, verso le cave tra le montagne. Era da quel portone che passavano i carri che trasportavano i blocchi di pietra destinati a diventare opere d’arte.

Altre due porte collegavano il laboratorio con l’interno del palazzo, una al piano terra, vicino agli alloggi della servitù, e una al piano superiore, nei pressi delle camere da letto di Morifinwë e dei suoi fratelli. Quest’ultima, all’interno del laboratorio si apriva su un ballatoio che correva lungo tutte e quattro le pareti, e dal quale si scendeva fino al pavimento con una ripida scala di legno.

Da quell’altezza si poteva avere una visione completa dell’enorme stanza: la pedana centrale su cui si ergeva il blocco di pietra in lavorazione, la zona che ospitava la piccola fornace e l’occorrente per la fusione dei metalli, gli scaffali su cui erano riposti gli attrezzi per la scultura, il tavolo da disegno ingombro di fogli, matite, colori e pennelli. Qua e là, sul pavimento o su supporti appositi, c’erano pezzi in varie fasi di lavorazione disposti in quello che sua madre chiamava un “disordine ben organizzato”. Un lucernario rotondo che si apriva sul soffitto in corrispondenza della pedana e numerose finestre riuscivano a portare la luce in ogni angolo.

L’ingresso che dava sul ballatoio era quello che usava Morifinwë per accedere al laboratorio quando Nerdanel era al lavoro. Gli piaceva osservare cosa accadeva nella sala ancor prima di essere visto arrivare. O forse, più semplicemente, ci teneva a controllare che la madre fosse sola.

Era così da sempre.

Si ricordava ancora la prima volta che si era rifugiato lì, quando era solo un bambino.

Quel giorno di tanti anni prima, lui, suo padre e i suoi tre fratelli erano saliti fino al Palazzo Reale per partecipare a una merenda nel parco organizzata dal nonno per i suoi parenti e i suoi amici più stretti. Era un’occasione informale che si ripeteva con una certa frequenza, e alla quale erano invitati anche i bambini.

Per Morifinwë era stata la prima volta. Riservato e timido com’era, aveva passato gran parte del pomeriggio aggrappato alla mano di Russandol, che l’aveva portato con sé in giro per i giardini, chinandosi di quando in quando per indicargli qualcuno dei presenti e dirgli il loro nome. Tra la sfilza di uomini e donne dai vestiti colorati e dalle nere capigliature che chiacchieravano tra loro passeggiando per il parco, o si servivano alle tavole imbandite, a lui ne era rimasto impresso solo uno che, coi suoi capelli biondissimi, gli era sembrato una pedina bianca finita per sbaglio nella scatola delle nere. Incredulo, aveva ascoltato Russandol dire che si trattava di un loro zio.

Paziente come solo lui sapeva essere, il fratello aveva poi assecondato ogni sua richiesta. Quando Morifinwë aveva aveva avuto fame, Russandol aveva fatto apparire una gigantesca fetta di torta alla crema, quando aveva voluto andare a vedere da vicino la fontana, dominata da uno spaventoso animale di pietra che gettava acqua dalle fauci, Russandol ce l’aveva accompagnato senza mai abbandonare la sua mano, e quando Morifinwë aveva visto che non c’era niente di cui aver paura e ci aveva immerso le mani per giocare con i pesciolini bagnandosi le maniche della camicia nuova, il fratello non lo aveva rimproverato.

Infine Russandol l’aveva convinto ad affacciarsi alla balconata che dava a oriente per ammirare il panorama; gli aveva mostrato la Punta Scura, l’ombra a forma vagamente triangolare proiettata da Túna ai piedi della collina, e più avanti la Piana Calaciryana, la fascia di terra pianeggiante che si insinuava tra le montagne, e più in là ancora, debolissimo, il riverbero dei raggi di Laurelin sul mare.

Quando alla fine si era sentito sufficientemente a suo agio, Morifinwë si era sganciato dalla mano del fratello per andare alla ricerca degli altri bambini, che si erano dispersi nel parco per giocare indisturbati.

Si era inoltrato tra alberi e cespugli, e dopo un lungo girovagare ne aveva trovati due nei pressi di una quercia solitaria. Dal colore dei capelli non potevano che essere i figli di quello zio biondo di cui aveva appena scoperto l’esistenza.

Frenato dalla sua innata timidezza, Morifinwë si era accucciato dietro una siepe per osservarli di nascosto e capire che tipi fossero prima di racimolare il coraggio necessario per incontrarli.

Il più piccolo, pantaloncini corti e ginocchia sbucciate, era appeso a testa in giù a un ramo della quercia, mentre il più grande, camicia chiara macchiata di erba e di terra, gli sedeva sotto e faceva la punta a un ramoscello con un coltellino.

– Guardami, Ango, guardami! – gridava il minore mentre si dondolava.

L’altro, seduto con la schiena contro il tronco dell’albero e tutto concentrato sul suo lavoro, non sembrava particolarmente interessato alle acrobazie del fratello.

– Finirai per spaccarti la testa e papà darà la colpa a me – aveva commentato.

– Niente affatto – aveva risposto il primo, – la darà a Ingo, che aveva il compito sorvegliarci.

A quell’affermazione, quello che si chiamava Ango aveva scoperto i denti in un mezzo ghigno e si era degnato di alzare lo sguardo. – Dove hai imparato a farlo?

– L’ho visto fare una volta al figlio dello zio Fëanáro.

– Quale? Quello alto con i capelli rossi?

– No, quell’altro.

– Quello che ha cantato al compleanno del nonno?

– Nooo… quello che parla con gli animali!

– Il selvaggio – aveva confermato il maggiore, con una nota di ammirazione nella voce.

A quel punto, Morifinwë aveva deciso di uscire dal suo nascondiglio: i due fratelli gli sembravano simpatici e quel volteggio lo sapeva fare anche lui, Tyelko gliel’aveva insegnato qualche tempo prima (sotto giuramento che non l’avrebbe mai detto alla mamma) e ne conosceva anche tanti altri per cui l’avrebbero ammirato.

Ma proprio allora il più grande aveva detto: – Aiko, hai visto che ce n’è uno nuovo che avrà la tua età?

– Andiamo a conoscerlo? – con un balzo il piccolo era saltato giù dall’albero.

– Aspetta che abbia finito qui – aveva risposto il maggiore. – Tanto, a quanto ho visto, non ha niente di speciale… a parte una testa che sembra un cespuglio carbonizzato!

Il piccolo aveva riso, e Morifinwë era rimasto nascosto.

Era tornato alla radura e aveva passato il resto del pomeriggio a spaventare i pesci della fontana, consapevole degli sguardi di disapprovazione degli adulti che gli passavano accanto, e quando finalmente erano rientrati in casa, invece di chiudersi in camera sua, aveva percorso il corridoio fino in fondo e aveva, per la prima volta, aperto la porta che dava sul laboratorio.

Aveva trovato la mamma sola, china sul tavolo da disegno, i capelli raccolti in una crocchia sulla nuca e uno scialle ricamato sulle spalle. Nella sala regnava il silenzio e appena lui aveva messo piede sul ballatoio, facendo scricchiolare il pavimento di legno, Nerdanel aveva alzato lo sguardo. Non aveva detto nulla, ma l’aveva osservato con attenzione mentre scendeva le ripide scale.

Non sapendo bene cosa fare, Morifinwë aveva raggiunto una delle finestre e si era seduto nella nicchia che la ospitava, sul gradino alla sua base.

Nerdanel aveva fatto per alzarsi, ma lui aveva tirato le ginocchia al petto e le aveva circondate con le braccia. Allora lei era rimasta seduta, in attesa.

– Il figlio dello zio Arafinwë ha un coltellino – aveva detto allora Morifinwë, perché non aveva avuto il coraggio di dire quello che lo crucciava realmente. – E non è tanto più grande di me.

Nerdanel aveva emesso un sospiro che era per metà sollievo e per metà esasperazione. – Di nuovo con questa storia? Ne abbiamo già parlato, Carnistir. Sei ancora troppo piccolo.

– Tyelko mi ha detto che ha avuto il suo quando era anche più piccolo.

– Tyelkormo ti ha raccontato solo una parte della storia. Il suo l’aveva rubato dal laboratorio di tuo padre.

– Però papà gliel’ha lasciato tenere.

– Gliel’ha lasciato tenere dopo avergli negato per tre settimane la possibilità di uscire di casa da solo – aveva precisato la mamma. – Niente più vagabondaggi per il piccolo Tyelkormo finché non avesse imparato ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Concetto che tutti dovrebbero conoscere, a mio parere, ma soprattutto quelli che vogliono andare in giro con un coltello.

– Io lo so già che rubare è sbagliato, però non ho un coltello mio.

Morifinwë si era aggrappato ai particolari per non ammettere che la verità era un’altra: non gli interessava nulla di quello stupido coltello, era irritato per ciò che i cugini avevano detto di lui, e lo era così tanto perché in un angolino della sua testa anche lui pensava la stessa cosa. Tutti i suoi fratelli si distinguevano per qualcosa, mentre lui non aveva assolutamente niente di speciale.

A quel punto Nerdanel si era alzata ed era andata a sedersi accanto a lui, e Morifinwë si era lasciato prendere in braccio, perché si era stufato di congelarsi il sedere sulla pietra fredda e dura. Poi la mamma aveva cominciato a tempestarlo di bacini e sussurrargli cose buffe all’orecchio, e tutte le sue lamentele si erano trasformate in deboli mugugni e infine in risolini divertiti, e non aveva più pensato né ai cugini né al coltello.

Tuttavia, la volta seguente, quando si era rifugiato nel laboratorio perché il maestro di disegno gli aveva detto che era bravo “quasi come Nelyafinwë alla sua età”, aveva trovato sotto quella stessa finestra un coltellino con la lama ripiegata all’interno del manico di legno, sul quale era inciso il suo nome.

E la volta dopo ancora c’erano dei sassolini squadrati di varie dimensioni, simili a piccoli blocchi di pietra, perfetti per giocare alle costruzioni, e colori e pennelli per decorarli a suo piacimento.

E quando era diventato più grande, sotto quella finestra erano stati messi un tavolo e uno sgabello, perché lui potesse studiare lì, quando non gli andava di stare con gli altri in biblioteca o da solo nella sua stanza.

Ancora adesso che si reputava abbastanza cresciuto da non aver più bisogno del conforto della mamma, quando era esasperato perché il mondo non andava come voleva lui, o quando si sentiva schiacciato dalle aspettative o perseguitato dalla sfortuna, Morifinwë si rifugiava lì e terminava i suoi compiti, o disegnava, o dipingeva, o aiutava Nerdanel passandole gli attrezzi o sostituendola nei compiti più semplici e ripetitivi.

Non capitava più che andasse da lei a lamentarsi.

Ma quella sera, a non più di due settimane dal giorno delle fatidiche gare, Morifinwë aveva tutti i motivi per riprendere le vecchie abitudini, e fu con l’umore nero che spalancò la porta del laboratorio mandandola a sbattere contro il muro, e percorse a lunghi passi il ballatoio.

– Mi hanno messo alla canoa! – gridò, per sovrastare il rumore dello scalpello. Era furioso e, per sottolineare quanto lo fosse, picchiò con forza i piedi sui gradini mentre scendeva le scale. – È tutto l’anno che mi alleno per il nuoto e adesso mi hanno iscritto alla gara di canoa!

Nerdanel ripose il martelletto e lo scalpello nella cintura di cuoio che teneva in vita e si pulì le mani sul grembiule di tela.

– Come può essere successo? – domandò, con calma.

– Siamo troppi nella mia fascia di età a fare nuoto – spiegò lui, mentre raggiungeva la sua scrivania sotto la finestra, – Angaráto si è offerto di cambiare disciplina e passare alla canoa, e Tyelko ha spostato anche me. Crede che mi sia fissato contro di lui da quando mi ha battuto l’anno scorso.

Nerdanel inarcò un sopracciglio: – Non è così?

– No! – esclamò Morifinwë, prima di ricordarsi a chi stava parlando. – Cioè. Sì.

Si lasciò cadere sul suo sgabello.

– Ma non è questo il punto – continuò, – io volevo solo avere la mia rivincita per dimostrare a… – si morse un labbro.

– Sei molto bravo anche nella canoa, mi risulta – osservò la madre. – Tyelkormo deve aver pensato che hai buone possibilità di vincere se ti ha iscritto.

– Buone possibilità non sono la certezza – insistette lui, cocciuto. – Io mi ero allenato per il nuoto.

– Vincere non è fondamentale – disse Nerdanel.

– Papà la pensa diversamente – ribatté Morifinwë.

– Ma tu non sei come papà.

– Come tutti non smettono mai di farmi notare! – gridò lui, al culmine dell’esasperazione.

– Carnistir – disse Nerdanel con voce ferma, – non ha importanza il risultato.

Rieccoci con la solita solfa. Morifinwë quella frase l’aveva sentita talmente tante volte da sua madre, che avrebbe saputo dire parola per parola come andava a finire.

Infatti lei concluse: – L’importante è dare il meglio di sé ed essere soddisfatti di ciò che si riesce a raggiungere con le proprie forze.

– Oh, certo! Il risultato non ha importanza! – esclamò lui, – ma intanto Russa non sbaglia un colpo, Laurë è stimato da tutti, e pure Tyelko, a modo suo, porta onore alla famiglia.

– L’onore non è l’unica cosa che si può portare alla famiglia. E tu dai il tuo contributo come tutti gli altri, te lo assicuro.

Morifinwë sbuffò. Doveva aspettarselo che sarebbe finita così. La madre non avrebbe fatto altro che ripetergli le cose che gli aveva già detto migliaia di volte. Non avrebbe mai capito.

Nerdanel si tolse il grembiule e sciolse i capelli, come faceva quando decideva di prendersi una pausa dal lavoro, e Morifinwë si preparò a ricevere l’ennesima, noiosissima, inutile predica su quanto ogni persona fosse speciale a modo proprio.

Invece la madre venne a sedersi accanto a lui e si mise a parlare di tutt’altro: – Quando Tyelkormo aveva la tua età, molto prima che tu nascessi, si è messo in testa che non voleva più essere chiamato Turkafinwë. E voleva che nemmeno i suoi fratelli si facessero chiamare con i nomi che aveva dato loro tuo padre, ma soltanto Maitimo e Makalaurë.

Morifinwë fece una smorfia di incredulità. Quella sembrava una richiesta assurda anche per uno matto come Tyelkormo.

– Stava attraversando un periodo di ribellione verso tutti e tutto – spiegò la madre, – e all’epoca era molto più intrattabile di quanto sia ora.

– Stento a crederlo – commentò lui a mezza voce.

Nerdanel represse un sorriso e proseguì: – La cosa non impensierì Makalaurë più di tanto, ma Nelyafinwë non ha mai voluto farsi chiamare Maitimo da nessuno e non cambiò opinione solo perché lo pretendeva il fratello.

Morifinwë sapeva che Russandol non aveva nessun problema a farsi chiamare Maitimo dalla mamma, ma quella era, a onor del vero, l’unica eccezione.

– Litigavano in continuazione, finché un giorno Tyelkormo gli ha urlato addosso: “se non vuoi farti chiamare Maitimo non ti rivolgerò mai più la parola”. E Nelyafinwë ha scrollato le spalle e gli ha risposto che se ne sarebbe fatto una ragione.

– Impossibile – disse Morifinwë, e lo pensava davvero: Tyelkormo aveva un grandissimo rispetto per il primogenito. Tutti loro lo avevano. E inoltre Russandol non arrivava mai a uno scontro diretto.

– Tyelkormo all’epoca era più irascibile e Nelyafinwë era più rigido, e per lungo tempo non si parlarono – continuò la madre. – Ma un giorno, qualche anno dopo la tua nascita, Nelyafinwë stava giocando con te sul pavimento del salone, e tu ripetevi le parole che lui ti insegnava. A un tratto gli hai afferrato una ciocca di capelli, lui ha detto “russa” e tu hai cominciato a ripeterlo di continuo, allo sfinimento, mentre cercavi di arrampicarti su di lui fino a raggiungere il suo viso.

A Nerdanel venne da ridere al ricordo e Morifinwë arrossì un poco.

– In quel momento è rientrato Tyelkormo – riprese lei, – e invece di tirare dritto come faceva di solito, si è fermato sulla porta del salone, è rimasto a guardarvi per un po’ e alla fine ha detto: “ma guardatelo: il piccolo scalatore alla conquista della cima”. Tu hai pasticciato con le parole, è venuto fuori “Russandol”, e da allora quello è diventato il soprannome di Nelyafinwë.

– L’avete creato voi tre insieme – concluse la madre. – Tu l’hai inventato, Nelyafinwë non ha avuto niente da obiettare e Tyelkormo l’ha sancito. Da allora non ci sono stati più litigi tra loro… almeno per quanto riguarda i nomi con cui chiamarsi.

– Non lo sapevo – borbottò Morifinwë.

Nerdanel si riannodò i capelli e si alzò.

– Ognuno di voi porta qualcosa in famiglia, Carnistir – disse. – Tu quel giorno, senza saperlo, hai riportato l’armonia tra i tuoi fratelli e la serenità nella nostra casa.

Poi tornò alla pedana e si rimise il grembiule.

Morifinwë pensò che non avesse altro da dire, ma appena prima di riprendere il suo lavoro, lei aggiunse: – Cose che, a mio parere, sono più importanti dell’onore.

 

 

 

 


NOTE

Anch’io, come il piccolo Moryo, ho pasticciato con le parole mentre mi inventavo un’improbabilissima origine del soprannome con cui i famigliari chiamavano Nelyafinwë: Russandol (copper-top). Solo che io non ho la scusa dell'età ;-)

Grazie mille a chi sta seguendo la storia! E per chi vorrà continuare... a venerdì prossimo con un nuovo capitolo!

Nomi canonici, conversione Quenya - Sindarin
Morifinwë, Carnistir = Caranthir
Angaráto (qui chiamato Ango) = Angrod
Aikanáro (qui chiamato Aiko) = Aegnor
Ingoldo (qui chiamato Ingo) =  Finrod
Fëanáro = Fëanor
Arafinwë = Finarfin
Russandol (qui chiamato anche Russa), Nelyafinwë, Maitimo = Maedhros
Tyelkormo (qui chiamato anche Tyelko), Turkafinwë = Celegorm
Makalaurë (qui chiamato anche Laurë) = Maglor

Nomi di mia invenzione
Piana Calaciryana, stretta striscia di terra pianeggiante che si insinua nella breccia tra le Pelóri, compresa tra Túna e il mare
Punta Scura, zona subito a est di Túna, perennemente in ombra a causa della presenza della collina che scherma la luce diretta degli Alberi


 

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Capitolo 6
*** Una nuova conoscenza ***



6

Una nuova conoscenza

(o quando ti tocca subire l’assalto di una bambina inarrestabile)

 

Più proseguiva con le lezioni, meno diventava sgradevole andare alla fattoria. Per la sua terza visita, Morifinwë si procurò dei pasticcini alla crema.

Lissi lo aspettava sulla porta di ingresso già aperta. Indossava un abitino a fiori e aveva dei nastri nei capelli; sfogava la sua impazienza saltellando sulle punte dei piedi.

Questa volta lui mise tra sé e la bambina il pacchetto dei dolcetti per evitare di essere investito da un altro abbraccio imbarazzante, come chi sventola un pezzetto di carne davanti a una belva feroce nel tentativo di non essere sbranato. Ma lei lo ignorò e si strinse lo stesso alle sue ginocchia.

– Moryo! – strillò, – vieni a vedere i cavalli! È nato un nuovo puledro.

Morifinwë si divincolò, a disagio, e andò con lo sguardo alla ricerca di Elle, ma questa volta la donna non venne in suo soccorso.

C’era da aspettarselo. Dopo la sua sceneggiata dell’ultima volta, non poteva certo biasimarla se non voleva più aver niente a che fare con lui. Ci aveva ripensato durante la settimana, nei rari momenti in cui non era impegnato a preoccuparsi per le gare o a maledire Tyelkormo per il brutto tiro che gli aveva giocato, ed era arrivato ad ammettere che si era comportato da vero maleducato.

– Non posso far aspettare il maestro – disse, rivolto alla piccola. Poi, vista l’aria affranta della bambina, aggiunse: – Non vorrai mica che mi sgridi.

Lissi aggrottò le sopracciglia. – Lo zio non sgrida mai nessuno – commentò, perplessa.

Morifinwë approfittò della sua esitazione per aggirarla ed entrare in casa.

– Erano per me quelli? – gli giunse da dietro la voce della piccola, carica di aspettativa.

Morifinwë, che si era quasi dimenticato di avere in mano il pacchetto dei dolci, precisò: – Per te e anche per gli altri bambini.

E proprio in quel momento vide Elle che risaliva il corridoio nella loro direzione, alta e silenziosa, col suo vestito azzurro e i capelli raccolti. Il sollievo che provò lo colse talmente di sorpresa che si accorse di aver alzato una mano per salutarla solo quando lei gli restituì il saluto.

– Buongiorno, Elle – le disse.

– Morifinwë figlio di Fëanáro che saluta, quale evento! – disse lei, ma non c’era aria di rimprovero nella sua voce bassa e roca, né altro segnale che facesse pensare che fosse scontenta di vederlo. Anzi, per un attimo gli parve di scorgere l’ombra di un sorriso sul suo volto severo e fu sul punto di ricambiarlo.

Poi realizzò che, in effetti, tutte le volte che si erano incontrati non le aveva mai rivolto un saluto e si affrettò a cambiare discorso.

– Ho dei dolcetti per i bambini – disse, – ma forse è meglio che li lasci a te.

– No! – esclamò Lissi, mentre Elle prendeva il pacchetto che lui le stava porgendo.

– Sì, invece – disse la donna. – Ci penserò io a distribuirli. Equamente. – Si rivolse alla piccola: – Corri a chiamare gli altri.

Lissi fece una smorfia e uscì di casa.

– Non devi sentirti obbligato a portare qualcosa ogni volta che vieni – gli disse Elle.

– No, no… lo so – cominciò Morifinwë, e andò alla ricerca di qualcosa per giustificarsi, – è mia mamma che insiste.

Appena le parole gli uscirono di bocca, si rese conto di quanto sembrassero infantili. E false anche.

Elle finse educatamente di crederci: – Allora ringraziala molto da parte nostra.

– Lo farò – disse Morifinwë in automatico. – Ora vado – si affrettò ad aggiungere, e imboccò il corridoio in direzione dello studio.

Arsanarwë lo torturò per tutto il pomeriggio con domande sempre più difficili sugli argomenti di cui avevano discusso la lezione precedente, interrogandolo su come, secondo lui, si sarebbero potuti applicare tali concetti ai vari ambiti del sapere, e poi invitandolo a portare i ragionamenti su un piano più astratto e ad azzardare nuove teorie.

Fu una lezione interessante e faticosa, che ebbe il pregio di tenerlo lontano da pensieri spiacevoli, come le gare o Tyelkormo, ma talmente estenuante che quando il maestro lo lasciò libero di andare, Morifinwë stava seriamente prendendo in considerazione l’ipotesi di cambiare insegnante e tornare a lezioni più brevi e più frequenti.

Uscì dallo studio chiedendosi se Elle sarebbe stata così gentile da offrirgli ancora del succo di mela, quando fu vittima di un’imboscata di Lissi, che gli balzò addosso esclamando: – Adesso non hai più scuse! Devi venire a vedere il mio puledro!

– È già diventato il tuo? – chiese Morifinwë, mentre lanciava uno sguardo in direzione della cucina.

– Mamma mi ha detto che sarà tutto mio se riesco a prendermene cura. Tu hai un cavallo tutto tuo? – proseguì la bambina, prendendolo per mano e trascinandolo in zone della casa a lui sconosciute.

– Certo – rispose lui. Che razza di domanda era? Ogni figlio di Fëanáro aveva un cavallo proprio.

– E riesci a prendertene cura?

Morifinwë ci pensò su. Non si occupava lui di Morvail, per quel compito c’erano Velmo e i ragazzi che lavoravano alle scuderie.

– Certamente – mentì, mentre seguiva la piccola fuori da una porta sul retro in un cortile in terra battuta grande quanto il piazzale antistante la fattoria.

Laurelin cominciava a sfiorire e il cielo era coperto di nuvole basse e sfilacciate che ne attenuavano il riverbero. Sotto quella luce, il terreno assumeva i toni dell’ocra e la polvere smossa dal vento della sera si alzava qua e là in sbuffi dorati.

Sul lato sinistro del cortile, la terra battuta lasciava il posto a un prato che si estendeva a perdita d’occhio, coprendo morbidi declivi. Sembrava un mare d’erba incontaminato, ma guardando con attenzione si riuscivano a distinguere ampie aree recintate in cui i cavalli erano liberi di correre e brucare. All’orizzonte, una costruzione bassa e lunga rivelava la presenza delle scuderie.

Sulla destra il cortile era delimitato da una vigna dalle foglie scure e carica di pesanti grappoli viola, mentre il lato di fronte a loro era chiuso da un fienile sotto il cui portico alcune persone erano indaffarate in lavori che Morifinwë non ebbe il tempo di riconoscere, perché Lissi, tirandolo per la mano, si incamminò subito in direzione dei pascoli.

Morifinwë si lasciò condurre tra i recinti ed ebbe modo di vedere da vicino i cavalli. Erano davvero degli esemplari meravigliosi, che non avevano nulla da invidiare a quelli che risiedevano nelle scuderie di casa sua.

Giunti a metà strada tra il cortile e l’edificio verso cui erano diretti, furono sorpresi da una voce alle loro spalle

– Chi è il tuo amico, Lissi?

Morifinwë si voltò e vide un ragazzo più o meno della sua età avanzare verso di loro. Capelli che sfioravano le spalle, una camicia che aveva visto tempi migliori e pantaloni di tela che non arrivavano a coprire le caviglie, sembrava la versione maschile e più cresciuta di Lissi. Stessi ricci scuri, stessi occhi castani, luminosi.

Morifinwë si accorse che teneva ancora per mano la piccola e la lasciò immediatamente. Già che c’era, ne approfittò per sistemarsi la camicia e togliersi i capelli dal viso.

– Morifinwë, figlio di Fëanáro – si presentò.

Il ragazzo si avvicinò con un sorriso così sincero che lui, del tutto inaspettatamente, si trovò ad aggiungere: – Ma chiamami Moryo, che si fa prima.

– Piacere di conoscerti, Moryo – disse l’altro, e strinse la mano che Morifinwë  gli stava porgendo con una presa salda e ruvida, – io sono Káino, il fratello di Lissi.

– Káino? – ripeté lui, impegnato nell’infondere nella stretta di mano una sicurezza che non provava.

– Sarebbe Kainambárion, ma nessuno mi chiama così – precisò Káino, lasciando la presa. – Siamo i figli della sorella di Rowen.

Morifinwë ci mise un istante a ricordarsi che Rowen era la moglie del maestro.

– Lo sto portando a vedere il piccolino – si intromise Lissi, rimpossessandosi della mano di Morifinwë come se temesse di vederselo portar via dal fratello.

Káino abbozzò un finto inchino e li invitò con la mano a proseguire per la loro strada.

Non avevano fatto che pochi passi quando la voce del ragazzo li fece voltare di nuovo: – Lissi, dopo passa dal campo, che ti mostro cosa ho imparato e… Moryo… grazie per i pasticcini, erano fenomenali!

Lissi fece una smorfia contrariata, evidentemente condividere i dolci non era stato nei suoi piani, poi gli spiegò: – Káino sta imparando a montare a cavallo come i Nati all’Est, l’hai mai visto fare?

Morifinwë pensò all’unico Nato all’Est che conoscesse abbastanza bene da sapere come montava a cavallo, vale a dire il nonno, e fu certo che lo faceva esattamente come tutti gli altri. Credette di aver capito male e stava per chiedere chiarimenti alla piccola quando raggiunsero le scuderie.

Lissi lasciò la sua mano e si precipitò all’interno; Morifinwë, entrato subito dietro di lei, la vide correre per il corridoio centrale, tra i musi dei cavalli che si affacciavano curiosi fuori dalle loro celle.

La bambina si fermò davanti a una cella apparentemente vuota e si girò verso di lui, come fosse in attesa di qualcosa. Morifinwë buttò l’occhio oltre lo sportello e vide una giumenta adagiata sul pagliericcio, con accanto il suo piccolo accoccolato tra le zampe. La madre gli leccava il collo come volesse pettinargli quei pochi peli che sarebbero presto diventati una criniera.

Morifinwë si sentì tirare una manica e finalmente capì quello che voleva la piccola. Cauto come se stesse maneggiando un crogiolo pieno di metallo fuso, la afferrò sotto le ascelle e la sollevò, tenendola a debita distanza dal corpo. Ma Lissi gli gettò le braccia al collo, si agganciò con le gambe alla sua vita e, guadagnata una posizione sicura, cominciò a lanciare urletti di gioia e a dire: – È bellissimo, Moryo, non ti sembra bellissimo? È così bellissimo che lo chiamerò “Bellissimo”. Non ti sembra un bel nome?

Morifinwë la sentiva appena. Era troppo impegnato a domandarsi come poteva essersi cacciato in quella situazione, con in braccio la logorroica figlia di un’allevatrice che sicuramente gli stava sporcando tutta la camicia con le sue scarpette infangate, e che gli stava tirando i capelli nel tentativo di non scivolare dalle sue braccia.

E soprattutto, si stava domandando come mai tutto ciò non lo stesse minimamente infastidendo.

– Ehm… forse è meglio “Magnifico”? – si sentì dire.

– Hai ragione: Magnifico… lo chiamerò così! Andiamo subito a dirlo alla mamma!

– Rallenta, piccola – disse lui. – Se non vado subito a casa, sarò io che dovrò vedermela con mia mamma.

Lissi sembrò rimuginare sul principio noto a tutti i bambini di Arda che le mamme è meglio non farle arrabbiare, e fece un secco cenno affermativo con la testa facendo ondeggiare ricci e nastri.

– Prima però dobbiamo vedere Káino, tanto è sulla strada. A domani piccolino! – disse rivolta al puledro. Morifinwë lo interpretò come il segnale per rimetterla a terra, e insieme ritornarono all’aperto. Individuarono, poco distante, il campo in cui si trovava il ragazzo e ne scavalcarono la staccionata.

Káino cavalcava un animale pezzato di modeste dimensioni, con macchie color liquirizia su un manto bianco. Quando li vide arrivare andò loro incontro, saltò giù al volo e lasciò che il cavallo proseguisse la sua corsa.

– Quello è Haninkë – disse Lissi, indicando l’animale che si allontanava, – si chiama così perché zia Rowen l’ha regalato a Káino il giorno in cui sono nata io, che sono la sua sorellina…

– Va bene, Lis, glielo racconti un’altra volta – la interruppe Káino, che chiaramente non vedeva l’ora di mostrare ai suoi spettatori ciò che sapeva fare. Poi si allontanò di qualche passo e disse: – State a guardare!

Il ragazzo fischiò e Haninkë cominciò a trottare verso di loro. Morifinwë e Lissi, d’istinto, si tirarono indietro, mentre Káino, al contrario, gli corse incontro.

Quando si accorse che lo scontro tra il ragazzo e il cavallo sarebbe stato inevitabile, Morifinwë trattenne a stento un grido. Ma al momento dell’impatto, Káino allungò un braccio e colpì con la mano un punto appena sopra la spalla dell’animale. La potenza dell’urto fece alzare il ragazzo da terra che, invece di sfracellarsi al suolo, finì – chissà come – in groppa al destriero. Leggermente sbilanciato, Káino dovette afferrarsi per un attimo alla criniera per non scivolare. Haninkë continuò la sua corsa senza perdere un colpo e il ragazzo lanciò un ululato di gioia.

Nel vederlo allontanarsi Morifinwë si accorse di essere rimasto a bocca aperta. Non aveva mai visto nessuno fare una cosa del genere.

– Ma come ha fatto? – balbettò.

– Gli ha insegnato Elle – rispose Lissi.

Se prima Morifinwë era sbalordito, ora gli cadde letteralmente la mascella. – Chi?

– Elle – ripeté la piccola. Poi, per spiegarsi meglio, aggiunse: – La nostra Elle.

Lui trasse l’ovvia conclusione: – Elle è una Nata all’Est?

– Certo! – esclamò Lissi, come se fosse la cosa più scontata del mondo. Poi abbassò la voce e aggiunse: – Secondo me ha anche il tatuaggio del Cacciatore sotto il bracciale, non credi?

Quale tatuaggio? avrebbe voluto chiedere Morifinwë. Ma le parole non vennero fuori.

Stava pensando alla settimana precedente, quando lui e la donna avevano guardato insieme il cielo che si tingeva d’argento, e lui aveva avuto l’impressione di essere diventato adulto. Pensò alla strana sensazione di condivisione che aveva provato.

Gli venne da ridere all’assurdità della cosa. Quella donna aveva fatto la Grande Marcia, poteva avere l’età di suo nonno. Doveva avere l’età di suo nonno. Cosa mai avrebbero potuto condividere?

Lissi lo richiamò alla realtà: – Moryo? Ti sei incantato?

– No, ma ora devo proprio andare – rispose, ancora immerso nei suoi pensieri.

– Io rientro dopo, con Káino – la bambina indicò il fratello che stava tornando verso di loro, – voglio andare di nuovo a vedere Magnifico.

Káino li raggiunse e scese da cavallo: – Lasciami pure la zavorra, Moryo – disse, lanciando Lissi in groppa all’animale e risalendo dietro di lei.

Poi aggiunse: – Ho visto il tuo cavallo, laggiù nel piazzale. Magari uno di questi giorni andiamo a fare una corsa fin su al nord, conosco un sacco di bei posti.

– Volentieri – rispose Moryo, distrattamente, mentre i due già si allontanavano. Poi, all’ultimo, gridò: – Gran bel salto, comunque!

Káino sollevò un pugno nell’aria e partì al galoppo.

Morifinwë si diresse verso la fattoria, accodandosi ad altre persone che ritornavano a casa per la cena. Rientrò dall’ingresso posteriore, e quando passò davanti alla cucina la vide affollata di gente al lavoro attorno al tavolo e presso il forno. Elle era tra loro, indaffarata.

Si fermò un istante a guardarla, ma prima di essere notato passò oltre. Era confuso, e non capiva perché.

Non che la cosa fosse una novità, comunque. Da un anno a quella parte, gli capitava spesso di non riuscire a decifrare i suoi sentimenti. Le emozioni lo assalivano all’improvviso, quasi sempre contrastanti tra loro. Una sensazione tutt’altro che piacevole, che lo rendeva nervoso, e che aveva il problematico effetto collaterale di farlo litigare con la prima persona che gli capitava a tiro.

Ma quella sera, mentre cavalcava sulla via di casa accarezzando la folta criniera di Morvail, non c’era nessuno con cui prendersela e nella sua testa c’era soltanto una gran confusione.

C’era il ragazzo, Káino, e la sua incredibile acrobazia, e l’ammirazione sconfinata che Morifinwë aveva provato per lui. Ma insieme all’ammirazione, intrinsecamente legata ad essa, quasi indistinguibile come lo zucchero una volta sciolto nel tè, c’era un sentimento molto meno nobile che lui conosceva bene: l’invidia.

E poi c’era la piccola Lissi, e l’affetto che era nato per lei, imprevisto e improvviso, quando Morifinwë l’aveva tenuta in braccio: un esserino vibrante di gioia e di fiducia incondizionata. Ma anche l’affetto racchiudeva al suo interno qualcosa di terrificante, e in certa parte fastidioso, qualcosa legato all’impegno, alla responsabilità, al tradire le aspettative.

E infine c’era Elle.

Mentre risaliva le pendici di Túna sotto basse nuvole grigie che ne nascondevano la cima, Morifinwë non poteva fare a meno di ripensare a lei, e di valutare ogni singolo aspetto della donna alla luce di ciò che aveva scoperto sulle sue origini.

Ogni sua caratteristica assumeva un nuovo significato: il suo sguardo impassibile era quello di chi ha già visto tutto, il suo corpo atletico quello di chi ha dovuto sopravvivere in condizioni estreme, i suoi silenzi enigmatici quelli di chi custodisce un passato doloroso. Tutto questo lo affascinava e allo stesso tempo lo spaventava. Lo attraeva e lo teneva lontano.

Morifinwë si passò le mani sul viso, esasperato, e guardò il cielo sempre più coperto di nubi. Quando era più piccolo, la rabbia era rabbia, la gioia era gioia, la paura, paura. Le emozioni erano pure e semplici, non mescolate e confuse. Se essere adulti significava essere travolto dalle contraddizioni, non era sicuro di volerlo diventare tanto presto.

Alle porte di Tirion cominciarono a cadere le prime gocce. Morifinwë spinse Morvail al galoppo per andare incontro alla pioggia, come se l’acqua potesse sciacquare via anche i dubbi che macchiavano i suoi sentimenti.


 


NOTE

Grazie mille a chi è arrivato fin qui! E per chi vorrà continuare... a venerdì prossimo con un nuovo capitolo!

Nomi canonici, conversione Quenya - Sindarin
Morifinwë, Moryo = Caranthir
Tyelkormo = Celegorm
Fëanáro = Fëanor

Personaggi di mia invenzione
Arsanarwë, il maestro di matematica di Morifinwë
Velmo, il responsabile delle scuderie del palazzo di Fëanáro
Lissi, una bambina, nipote di Arsanarwë
Kainambárion detto Káino, un ragazzo dell’età di Morifinwë, fratello maggiore di Lissi. Nome composto da Kaina (done, actual, real) e Ambar (world), interpretabile come “colui che appartiene al mondo reale”. [Nota: “Káino” si pronuncia come “daino” ma con la k]
Rowen, la moglie di Arsanarwë, fondatrice della fattoria, allevatrice di cavalli. Il nome è un epessë (soprannome) che deriva da Rocco (horse) e Wendë (maiden) per la cui creazione devo ringraziare la mia beta. Grazie Kan!
Morvail, il cavallo di Morifinwë
Haninkë, il cavallo di Káino. Nome composto da Hanno (brother) col suffisso -inkë. Il suo significato è “fratellino”, da cui il riferimento alla “sorellina” fatto da Lissi
 

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Capitolo 7
*** Due chiacchiere col re ***



7

Due chiacchiere col re

(o quando pensavi di conoscere tuo nonno e scopri che non è proprio così)

 

 

La mattina seguente, quando Russandol lo venne a svegliare, Morifinwë era già in piedi.

Aveva passato la notte a rimuginare su ciò che Lissi gli aveva rivelato riguardo a Elle, e si era reso conto che c’erano molte cose che non sapeva sulla vita dei Nati all’Est. Aveva quindi deciso di rivolgere le sue domande a colui che meglio di tutti poteva dargli delle risposte.

– Vai su a palazzo, oggi? – chiese al fratello, che lo guardava dalla soglia di camera sua con aria stupita: Morifinwë di rado si alzava prima che qualcuno lo venisse a chiamare. Non che amasse oziare, ma non aveva mai particolarmente voglia di cominciare la giornata.

– Come ogni mattina, Moryo – rispose Russandol, – perché me lo chiedi?

– Vorrei venire con te, devo parlare col nonno – rispose lui. Poi aggiunse, incerto: – Credi che abbia del tempo per me?

Russandol sollevò le sopracciglia. – Credo che lo troverà volentieri, non capita spesso che ti fai vedere lassù.

– Sì… ehm – Morifinwë cercò di non prenderla come un rimprovero, – allora avvisami quando parti.

– Certo – rispose l’altro. – Stai scendendo? – aggiunse poi, accennando al fatto che fosse già vestito.

– Arrivo tra un attimo.

Russandol lo lasciò, chiudendosi dietro la porta. Morifinwë andò allo specchio. I suoi capelli stavano cominciando a diventare un problema serio. Tanto per cominciare, ci mettevano una vita a crescere; il piccolo Curufinwë riusciva già a farsi una treccia di tutto rispetto, mentre lui, che aveva già superato i quarant’anni, aveva capelli che gli arrivavano appena alle spalle. O, almeno, gli sarebbero arrivati alle spalle se avessero avuto il buonsenso di ricadere verso il basso, invece che puntare in ogni direzione.

Morifinwë se li legò nella solita coda, spessa e corta, poi si sistemò la camicia e terminò di allacciarsi gli stivali. Diede un ultimo sguardo al suo viso dagli zigomi arrossati. Sua madre gli aveva detto che, crescendo, il colore della sua pelle sarebbe diventato uniforme – era così che era accaduto anche a lei poco prima di raggiungere la maggiore età – ma evidentemente a quelle macchie color mattone importava poco di ciò che diceva sua madre. E comunque, di sicuro non gli si sarebbero schiariti gli occhi, che più che all’argento dei suoi fratelli, somigliavano al piombo quando veniva lasciato all’aria.

Morifinwë sbuffò e si staccò dallo specchio chiedendosi, non per la prima volta, perché mai fosse toccato a lui essere il ricettacolo di tutte le imperfezioni della famiglia. Poi prese la giacca, se la gettò su una spalla e scese al piano terra.

Quando arrivò in sala da pranzo, Russandol aveva già finito il suo tè, Curufinwë stava sbocconcellando un pezzettino di pane mentre sfogliava un libro aperto vicino al suo piatto, e Tyelkormo, di fronte a lui, si dondolava sulle gambe della sedia, apparentemente sazio.

Non c’era neanche bisogno di notare il posto vuoto di suo padre, con la tazza ancora capovolta sul piattino, per capire che era una di quelle giornate in cui Fëanáro aveva rinunciato alla colazione per uscire presto; bastava vedere Curvo che sbriciolava sul libro e Tyelko con addosso solo un indumento di biancheria che lui si ostinava a chiamare pigiama.

Morifinwë gli si sedette accanto e si versò il latte borbottando un saluto. Stava per domandare dove fosse Makalaurë, solitamente uno dei più mattinieri, quando il fratello in questione fece il suo ingresso in sala da pranzo.

– Sembri uno evaso da Mandos – disse Tyelkormo nel vederlo arrivare. In effetti, il secondogenito aveva un aspetto alquanto strapazzato: i capelli in disordine, la veste da notte allacciata storta e gli occhi ancora semichiusi.

– Se venissi fuori da Mandos avrei il mio corpo bello e nuovo, ignorante – biascicò Makalaurë, lasciandosi cadere sulla sedia di fianco a lui, dall’altra parte rispetto a Morifinwë.

– Infatti non ho detto “uscito”, ho detto “evaso” – precisò Tyelkormo, e fece una smorfia esagerata, occhi strabuzzati, lingua penzoloni, – mezzo elfo, mezzo spirito.

– Sempre meglio di un idiota intero – commentò Curufinwë senza alzare gli occhi dal libro.

Tyelkormo lo ignorò e continuò a guardare Makalaurë con fare sospettoso.

– Dove sei stato ieri notte? – gli chiese, e quando l’altro non rispose, gli diede di gomito: – Tu e Erlindiel avete deciso di accelerare i tempi?

– Il discorso deve proprio scendere a questi livelli? – si intromise il piccolo, e nessuno gli chiese come facesse a sapere di cosa stavano parlando.

– Normalmente sarei d’accordo con Curvo – disse Russandol, che era solito prendere le parti di Makalaurë, – ma oggi sono curioso… non mi avevi detto che non saresti rientrato stanotte.

Davanti alla richiesta del maggiore, Makalaurë cedette.

– Ero con lei – ammise, – ma non è assolutamente come pensate!

– Dopotutto ormai siete promessi, perché aspettare? – insistette Tyelkormo.

Morifinwë arrossì senza sapere il motivo. L’argomento lo incuriosiva e lo metteva a disagio allo stesso tempo. Con sua grande sorpresa, quella mattina prevalse la curiosità e si ritrovò a dire, tutto d’un fiato: – Dicono che quando due sono legati a quel modo, glielo si legge in faccia.

Poi si servì della crostata, per non sembrare troppo interessato alla cosa.

– Frottole – sentenziò Tyelkormo, e agitò una mano nell’aria, muovendo le dita, – sfido chiunque a incontrare per la prima volta una persona che non indossa anelli a dire se ha già…

– Bada a come ti esprimi – lo interruppe Russandol, accennando a Curufinwë.

– Se è già sposato – concluse Tyelkormo.

– E tu cosa ne sai? – domandò Morifinwë, anche se non era sicuro di voler sentire la risposta.

– Qualcosina la so – rispose prontamente il fratello selvaggio, poi ammiccò, – quando vuoi te la racconto.

Morifinwë si sentì arrossire e non capì se fosse perché desiderava a tutti i costi sapere, o perché desiderava a tutti i costi non sapere. Quella era un’altra cosa in cui era certo di essere da meno dei suoi fratelli maggiori: senza dubbio loro, alla sua età, avevano già avuto qualche esperienza con l’altro sesso, mentre lui non aveva mai nemmeno dato un bacio a una ragazza.

Tyelkormo sembrava già sul punto di illustrare le sue conquiste nei dettagli, quando il piccolo disse: – Approfittate a parlare così perché non c’è papà.

– Ovvio – gli rispose Tyelkormo, – ma vedo che la cosa non ti disturba, dal momento che sei ancora qui ad ascoltare.

Prima che il discorso potesse degenerare, Russandol prese in mano la situazione.

– Moryo – disse, – precedimi alle scuderie e dì a Velmo di preparare il mio cavallo. – Poi si rivolse al piccolo: – Curvo, riporta quel libro in camera tua prima che qualcuno si accorga che stai riempiendo di briciole un volume che non dovrebbe uscire dalla biblioteca.

Tyelkormo mise un braccio attorno alle spalle di Makalaurë. – Sì, fuori dai piedi, bambini, che i grandi devono parlare.

Fece in tempo a sfoggiare il suo sogghigno a trentadue denti, prima che Russandol affidasse un compito anche a lui.

– Tyelko, vai a vedere se la mamma ha bisogno d’aiuto, stamattina arriva un carico di alabastro da Araman.

– Eddai, Russa – si lagnò Tyelkormo, – lo so che anche tu sei curioso…

Morifinwë non seppe mai se le lamentele del fratello andarono a buon fine, perché fece come gli era stato chiesto e, con ancora in mano mezza fetta di torta, uscì di casa.

Attraversò il giardino con calma, dapprima rimuginando sulle parole di Tyelkormo e poi cercando di scacciare dalla testa le fantasie che esse suscitavano. Per quando giunse alle scuderie era quasi riuscito a convincersi che aveva problemi più pressanti da risolvere che non quello dell’assenza di ragazze nella sua vita.

Si fermò un istante davanti ai due lunghi capannoni di legno scuro, il tempo di finire la torta e pulirsi la bocca col dorso della mano, poi entrò nell’edificio di sinistra, dove venivano ospitati i cavalli che appartenevano ai membri della famiglia. La giumenta bianca di sua madre si affacciò dalla sua cella e lo salutò con un sonoro sbuffo delle narici. Morifinwë allungò una mano per accarezzarle il muso.

– È di buon umore, stamattina – commentò Velmo, che era sopraggiunto alle sue spalle.

– E quando non lo è? – disse lui.

Lo stalliere sorrise, come se il buonumore dell’animale contribuisse a migliorare il suo, e il suo curioso orecchino mandò bagliori dorati nella penombra dell’edificio. – Faccio subito preparare il tuo cavallo, Morifinwë. Non mi aspettavo che uscissi.

A quelle parole, a Morifinwë tornò in mente la conversazione avuta con la piccola Lissi il giorno precedente.

– Ti occupi tu di Morvail? – domandò.

– Io e i ragazzi che lavorano con me – rispose Velmo. – Questi animali hanno bisogno di molte attenzioni: devono poter brucare liberi nei prati, devono essere strigliati – diede una grattatina dietro alle orecchie della giumenta, – e coccolati. Alcuni si accontentano di fare una corsa nel parco, altri hanno bisogno di scatenarsi in campo aperto e allora li portiamo giù in pianura. Non riuscirei mai a occuparmene da solo – concluse.

– Per ogni cavallo voi fate tutto questo, tutti i giorni?

– In verità, non proprio per ognuno – disse lo stalliere. – Nelyafinwë viene qui ogni mattina sul nascere della sesta ora e si prende cura del suo personalmente; lo porta a correre fuori città e lo striglia quando rientra.

– Tutte le mattine? – domandò lui, incredulo. Russandol era il più occupato tra loro, era sorprendente che trovasse il tempo per dedicarsi anche a quello.

– Ma non è necessario che lo faccia anche tu – si affrettò a rassicurarlo Velmo, – altrimenti io cosa ci starei a fare qui?

Era esattamente quello che avrebbe detto anche Morifinwë fino a quel giorno: che cosa ci stavano a fare i servitori, se non per fare il lavoro che lui non aveva il tempo o la voglia di fare? Eppure, ora non gli sembrava più un concetto tanto scontato. E poi, evidentemente, qualcuno il tempo lo trovava, pensò Morifinwë vedendo arrivare Russandol.

Le sue riflessioni furono interrotte dall’arrivo di Morvail al seguito di un aiutante di Velmo, mentre lo stalliere in persona si occupò di portare al fratello il suo cavallo, che era d’indole impetuosa e tendeva a obbedire solo al padrone. Era un animale imponente, col manto bianco come le nevi del Taniquetil e occhi azzurri come i laghi di quelle sacre cime.

Russandol a cavallo, nel suo vestito di rappresentanza, con i capelli raccolti in una treccia lunghissima e il cerchietto di rame che gli cingeva la fronte, era uno spettacolo che suscitava in Morifinwë orgoglio misto a soggezione. E a un pizzico di invidia, se doveva dirla tutta.

Morifinwë scosse la testa e salì a cavallo senza attendere di essere aiutato. Velmo inarcò un sopracciglio davanti all’insolito comportamento, ma non fece commenti e andò ad aprire il cancello. Poi si spostò di lato per farli passare e li salutò con un cenno della mano.

Fu un viaggio breve: una salita dritta e nemmeno troppo ripida collegava la piazza alberata su cui dava l’ingresso posteriore della proprietà di Fëanáro alla Piazza Grande, dove sorgeva il Palazzo Reale.

Ogni volta che capitava lì, Morifinwë si chiedeva perché le avessero dato quel nome. La Piazza Grande non era affatto grande, o almeno non quanto altre piazze della città, come quella del mercato maggiore o quella dove sorgeva il palazzo di suo padre. Lastricata da pietre bianche e grigie, nel suo centro si apriva un’aiuola circolare in cui cresceva un albero del tutto simile a Telperion, sebbene fosse di minori dimensioni e non avesse il potere di emettere luce.

Sull’estremità nord-est della piazza incombeva il Palazzo Reale. Essendo uno dei primi edifici di prestigio costruiti a Tirion, ricalcava molto lo stile di Valmar, tutto torri, cupole e pinnacoli che si innalzavano gli uni sugli altri come fossero in gara per toccare il cielo per primi. La più alta tra le torri, che si stagliava dritta e sottile come la punta di una lancia dal centro del complesso, era la Mindon Eldaliéva, che con la sua sfavillante luce accendeva d’oro ogni venatura del marmo di cui era fatto il palazzo, e d’argento l’albero che cresceva nella piazza. Tra le torri e le cupole s’insinuava una moltitudine di giardini pensili, i cui fiori arricchivano l’edificio di colori.

Morifinwë e Russandol, lasciate le cavalcature a un servitore che era venuto ad accoglierli, entrarono da un ingresso secondario e, fatti pochi passi, il fratello gli disse: – A quest’ora il nonno è in giardino che termina la colazione.

Morifinwë capì che Russandol non l’avrebbe accompagnato e si morse un labbro.

L’altro notò la sua incertezza, ma non fece nulla per venire in suo aiuto: – È in fondo a quel corridoio – disse, indicando a destra, – non puoi sbagliare.

– E se è con la moglie? – chiese Morifinwë, mentre sentiva la tensione inumidirgli i palmi delle mani.

Caso unico tra gli Eldar, il nonno aveva ricevuto un permesso speciale dai Valar per contrarre un secondo matrimonio, quando la sua prima moglie, la madre di suo padre, aveva rinunciato alla vita e alla possibilità di reincarnarsi. Comprensibilmente, Fëanáro non aveva approvato la scelta, e a casa loro aleggiava il sottinteso che se la seconda moglie non si fosse messa di mezzo, Finwë non avrebbe formato una nuova famiglia e chissà, magari un giorno la nonna avrebbe cambiato idea e sarebbe tornata tra loro. Morifinwë non contemplava la possibilità che suo padre potesse sbagliarsi, tuttavia le poche volte che aveva incontrato la moglie del nonno non aveva trovato nulla che non andasse in lei, solo gentilezza nei confronti suoi e dei suoi fratelli. Questa duplicità, come tutte quelle che ultimamente popolavano la sua vita, lo rendeva nervoso.

– Se dama Indis è con lui, la saluti educatamente e chiedi se li puoi interrompere. Ti assicuro che non morde – disse Russandol.

Morifinwë non si mosse e il fratello ebbe pietà di lui.

– Ma a quest’ora lei non c’è, non preoccuparti, è già a dare disposizioni per la giornata – aggiunse.

Sperando che Russandol avesse ragione, Morifinwë percorse il corridoio accompagnato solo dal suono dei suoi passi che rimbombava sulle pareti. Arrivato alla fine si trovò davanti a una porta a vetri che dava su un giardino interno. La socchiuse.

Il nonno era solo, fortunatamente. Sedeva a un tavolino di metallo bianco proprio nel centro del cortile, sotto una cupola di glicine che era cresciuto tanto da nascondere la struttura che lo sorreggeva. I lunghi capelli neri, liscissimi, gli ricadevano sciolti sulle spalle, che erano coperte da un mantello blu scuro dai riflessi argentei. Non portava la corona, ma il suo aspetto regale non veniva in alcun modo sminuito dalla sua assenza.

– Signore? – azzardò Morifinwë.

Il nonno alzò la testa dalle carte che stava leggendo e il suo viso si illuminò.

– Morifinwë! – esclamò, – che bella sorpresa! – poi corrugò le sopracciglia e chiese: – È successo qualcosa?

Morifinwë si domandò se la supposizione del nonno derivasse dal fatto che lo andava a trovare così di rado che il solo essere lì risultava sospetto, o se gli avesse letto in faccia il disagio e l’avesse interpretato come preoccupazione.

– No, no – si affrettò a tranquillizzarlo, – volevo solo parlarti, se possibile.

– Ma certo, siediti – lo invitò il nonno, – serviti pure.

Lui si chiese per un attimo di cosa avrebbe dovuto servirsi. La colazione del nonno, paragonata a quella di casa sua, era a dir poco frugale; sul tavolo, accanto a fogli, penna e calamaio, c’erano solo poche fette di pane abbrustolito e una teiera.

Morifinwë si sedette sull’unica altra sedia e si rese conto che non aveva la minima idea di come cominciare il discorso. – Ho conosciuto una persona Nata all’Est – improvvisò, per prendere tempo.

– Non siamo poi così rari – sorrise Finwë.

– Sì, ma lei… voglio dire… questa persona è diversa da quelli che ho incontrato finora.

– In che modo? – domandò il nonno.

Morifinwë cercò le parole giuste e, non trovandole, la prese alla larga.

– Il maestro di storia – cominciò, – anche lui è un Nato all’Est, e mi parla della Terra di Mezzo come di un luogo oscuro, dove la lotta per la sopravvivenza impediva lo sviluppo della conoscenza e della cultura, per non parlare dell’arte… insomma privo di qualsiasi bellezza. Un luogo in cui nessun Noldo vorrebbe mai vivere.

– È un modo corretto di vedere le cose – confermò Finwë.

– Ma questa persona invece è come se fosse ancora legata alla vecchia terra, come non se volesse affatto dimenticarlo questo… ehm… luogo oscuro.

Finwë inclinò il capo e lo osservò con attenzione. – Qual è la tua domanda, Morifinwë? – chiese.

– Tu, nonno, cosa ne pensi? Sei più come il maestro, o più come lei?

Finwë restò in silenzio per qualche istante. Quando parlò, il tono della sua voce assomigliava di più a quello serio e deciso con cui teneva i suoi discorsi pubblici.

– I Noldor sono al sicuro qui – disse. – Abbiamo prosperato e continueremo a farlo, e il compito di un sovrano è quello di prendersi cura del suo popolo. D’altro canto, però, recidere completamente le proprie radici non è un bene. È importante ricordarci da dove veniamo, ed è per questo che sono state istituite festività come la Festa dell’Arrivo, la Meren Tulusto.

– Credevo fosse per celebrare i Valar che ci hanno salvato dalle tenebre – osservò Morifinwë.

– Anche – confermò il nonno. – Ma soprattutto per non dimenticare la fatica che abbiamo sopportato per arrivare fino a qui, e il sacrificio degli amici che sono caduti lungo la via, molti dei quali non sono più tornati tra noi e sopravvivono solo nei nostri ricordi. – Finwë si portò una mano aperta sul petto e sospirò, quasi tra sé: – E per ricordare quelli che abbiamo lasciato indietro, che possano aver trovato la felicità.

Le parole del nonno, e il suo gesto, fecero tornare in mente a Morifinwë ciò che gli aveva detto il maestro.

– Arsanarwë dice che suo padre è morto durante il viaggio.

Il nonno non disse nulla e Morifinwë si rese conto che era, di nuovo, in attesa di una domanda.

– Te lo ricordi? – aggiunse.

Finwë annuì: – Me li ricordo tutti.

– Com’era?

– Un bravo Cacciatore. Ma troppo impulsivo.

Morifinwë colse al volo l’opportunità di fare la domanda che, più di ogni altra, l’aveva condotto fin lì: – È vero che i Cacciatori avevano un tatuaggio sul polso?

Finwë sorrise, con l’aria trasognata di chi recupera un ricordo piacevole di cui aveva dimenticato l’esistenza.

– Alcuni dei Cacciatori di Oromë si facevano marchiare l’interno del polso con un simbolo che indicava l’arma in cui eccellevano – confermò. – Ma non tutti, solo quelli così bravi da non temere di fallire.

– Tu eri bravo?

– A quei tempi – disse Finwë, – non venivi seguito se non eri bravo a difendere gli altri.

Il nonno, a modo suo, gli aveva appena detto che era stato il migliore di tutti.

– Eppure tu non hai tatuaggi.

Finwë si rimboccò le maniche e fece ruotare i polsi per mostrare la sua pelle priva di qualsiasi segno.

– Chi si tatuava lo faceva per trarre coraggio da ciò che sapeva fare bene, e un po’ anche per mettersi in mostra. Io non avevo bisogno di nessuna delle due cose.

Detto questo prese la penna e la intinse nel calamaio, afferrò con delicatezza la mano di Morifinwë e gli disegnò sul polso una piccola parentesi: – Alcuni avevano l’arco.

Poi disegnò una freccia dalla punta molto piccola: – Altri la lancia.

Proseguì con una croce, che aveva un braccio più lungo degli altri: – Altri ancora il pugnale.

Cinque lineette che convergevano in un punto: – La lotta a mani nude.

Si fermò con la penna a mezz’aria. – Eru benedetto – esclamò, – non li ricordo tutti!

Morifinwë si chiese se Elle nascondesse davvero uno di quei simboli sotto il bracciale, come aveva suggerito Lissi. Si chiese se la donna fosse stata veramente una Cacciatrice al seguito di Oromë, e se il nonno si ricordasse anche di lei.

Si rese conto che aver ricevuto le risposte che gli interessavano non aveva affatto placato la sua curiosità, al contrario, aveva suscitato altre mille domande. Cercò di mettere ordine nei suoi pensieri per decidere quali porre per prime, ma proprio in quel momento una campana suonò l’ingresso nella seconda metà della settima ora.

Finwë sembrò riscuotersi dalle sue reminiscenze. Appoggiò la penna e disse: – Il mio tempo è scaduto, ahimè!

Si alzò e si scosse la veste, come per liberarla da briciole che non c’erano. – Ma vieni pure a trovarmi quando vuoi, Morifinwë, ti racconterò volentieri della mia terra e del viaggio che ci ha condotto nella tua.

Morifinwë rimase solo al tavolino a guardare il proprio polso macchiato di inchiostro, sempre più curioso di sapere se ci fosse qualcosa di simile sotto il bracciale di Elle, e sempre più consapevole di una cosa.

Che non avrebbe mai avuto il coraggio di chiederglielo.

 

 

 


NOTE

Grazie a chi è arrivato fin qui... e arrivederci a venerdì prossimo con un nuovo capitolo!

Sull’età di Morifinwë
A partire dall’assunzione che gli Elfi raggiungono la piena maturità del corpo a 50 anni (HoME vol. 10 - Laws and Customs among the Eldar), per poter fare un confronto tra le due specie durante gli anni dell’infanzia/giovinezza, ho considerato un fattore di conversione età umana - età elfica pari a 2,5 così da avere una corrispondenza tra un Uomo di 20 anni e un Elfo di 50.
Morifinwë, al tempo della nostra storia, ha 43 anni, che corrispondono a circa 17 anni umani.

Nomi canonici, conversione Quenya - Sindarin
Morifinwë, Moryo = Caranthir
Russandol, Nelyafinwë (qui chiamato anche Russa) = Maedhros
Tyelkormo (qui chiamato anche Tyelko) = Celegorm
Curufinwë, Curvo = Curufin
Makalaurë = Maglor
Fëanáro = Fëanor

Nomi di mia invenzione
Erlindiel, la fidanzata di Makalaurë
Velmo, il responsabile delle scuderie del palazzo di Fëanáro
Morvail, il cavallo di Morifinwë
Arsanarwë, il maestro di matematica di Morifinwë
Lissi, una bambina che abita alla fattoria, nipote di Arsanarwë
Meren Tulusto, la Festa dell’Arrivo, importante ricorrenza che festeggia l’arrivo dei Noldor in Aman

 

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Capitolo 8
*** L'attesa ***



8

L’attesa

(o quando mentire a te stesso si riconferma la tua dote migliore)


 

Morifinwë non riusciva a dormire. Era da più di un’ora che si rigirava nel letto in attesa che il sonno facesse la sua comparsa o, in alternativa, che quella notte interminabile finisse.

Il giorno dopo sarebbero cominciati i giochi di Minulvórë e la sua gara, quella di canoa, si sarebbe svolta subito dopo la cerimonia di apertura, in tarda mattinata.

Morifinwë sapeva che non ce l’avrebbe mai fatta a vincere.

Non che non fosse bravo nella disciplina, anzi, tutt’altro, la canoa era sempre stata uno dei suoi passatempi preferiti. Gli piaceva starsene da solo in mezzo al fiume, isolato da tutti, col fruscio dell’acqua che accarezzava la chiglia e il tonfo della pagaia che affondava tra i flutti. E quando gli capitava di gareggiare con Tyelkormo, che non era un gran vogatore e affrontava l’acqua con troppo impeto, ma suppliva alla mancanza di tecnica con la straordinaria forza dei suoi muscoli, non se la cavava per niente male.

Ma questo non bastava per vincere contro concorrenti che si erano preparati solo per quello, mentre lui, nel frattempo, si allenava a nuotare.

Cercò di divincolarsi dalle lenzuola che lo avviluppavano come volessero stritolarlo, e si trovò a valutare l’ipotesi di simulare una caduta dalle scale o qualcosa di simile per fingere di essersi fatto male ed evitare ciò che lo attendeva.

E con questo hai toccato il fondo, Carnistir.

Sicuramente nessuno dei suoi fratelli, alla vigilia di una gara, aveva mai pensato a cose del genere. Nemmeno Makalaurë, che non partecipava volentieri a competizioni atletiche, ma che quando non voleva farlo lo diceva chiaro in faccia a suo padre senza temerne il giudizio. Morifinwë si domandò, non per la prima volta, se il fratello avesse posseduto tutta quella sicurezza di sé anche quando aveva la sua età.

Lui non sarebbe mai riuscito a contraddire il padre apertamente. Non era riuscito nemmeno a farsi valere su Tyelkormo – quel dannato impiccione – quando aveva fatto la bravata di spostare la sua iscrizione dalla gara di nuoto a quella di canoa, per permettergli di affrontare Angaráto che all’ultimo momento aveva cambiato disciplina.

Al pensiero del cugino, Morifinwë si liberò definitivamente delle lenzuola calciandole giù dal letto. Gli bruciava ancora la sconfitta dell’anno precedente, quando aveva deciso che avrebbe fatto ciò che nessuno dei suoi fratelli si era mai azzardato a fare: sfidare un Arafinwion nella sua disciplina d’eccellenza. Chissà che cosa gli era saltato in mente: quei biondini abitavano ad Alqualondë per la maggior parte dell’anno e l’acqua era il loro elemento.

Morifinwë aveva perso, ovviamente, e con un distacco tale che era riuscito a vedere il sorriso di Angaráto quando, dopo aver tagliato il traguardo, si era voltato per vedere dove fossero gli altri concorrenti. Per tutto l’anno aveva avuto davanti agli occhi quel ghigno borioso, mentre nuotava da una sponda all’altra del lago, coi muscoli che bruciavano, focalizzato sulla sua rivincita.

Che senso aveva, adesso, affrontarlo alla canoa?

Morifinwë serrò le palpebre per cercare di agevolare l’arrivo del sonno. Pessima idea. Dal buio emerse l’immagine del padre che augurava ai suoi figli buona fortuna, identica a come l’aveva vista nemmeno un’ora prima, al termine della cena.

– So che non avrò sorprese – aveva detto a Russandol, – a meno che non sia tu stesso a decidere che è arrivato il momento di far vincere qualcun altro.

– Non me lo perdonerebbe mai – aveva risposto il maggiore, perché sapeva chi era l’unico che avrebbe potuto eguagliarlo in una gara di equitazione.

Poi il padre si era rivolto a Tyelkormo: – E tu cerca di lasciare qualche trofeo anche per gli altri, non tutti hanno avuto la fortuna di avere un maestro come il tuo.

Ma si vedeva chiaramente che era orgoglioso di lui, e che sarebbe stato felicissimo se il suo figlio più forte avesse vinto tutte le competizioni alle quali aveva scelto di partecipare.

Infine era arrivato il turno di Morifinwë.

– Sono certo che non mi deluderai – aveva detto.

Per lui era stata come una pugnalata nel cuore, e quel che aveva fatto più male era stato vedere l’espressione sincera del padre. Non c’era l’ombra di un dubbio sul suo viso. Fëanáro era sicuro che Morifinwë avrebbe vinto.

Da quando era rientrato in camera non aveva fatto altro che rivedere quell’espressione, seguita da quella in cui si sarebbe trasformata se non avesse vinto la gara: delusione.

Non ce l’avrebbe fatta ad affrontare la delusione di suo padre. Un’altra volta.

Saltò giù dal letto, andò alla finestra e scostò le tende. Telperion doveva ancora raggiungere la massima fioritura, non era neanche mezzanotte. Doveva fare qualcosa altrimenti sarebbe esploso.

Uscì da camera sua, cercando di fare meno rumore possibile, e scese le scale diretto alle cucine per vedere se riusciva a prepararsi un infuso che l’avrebbe aiutato a prendere sonno. Come poteva sperare di dare il meglio di sé, se fosse arrivato già stanco al momento della partenza?

Mentre vagava per i bui corridoi del piano terra, con la testa china e i capelli negli occhi, andò a sbattere contro un muro ambulante che risultò essere l’ultima persona che avrebbe voluto incontrare.

– Ehi! – esclamò Tyelkormo, – dove stai andando a quest'ora?

– Scappo di casa – rispose Morifinwë, e nel dirlo si accorse che stava davvero valutando quella possibilità. Ma davanti allo sguardo stupefatto del fratello, aggiunse: – Dove vuoi che vada? A cercare qualcosa che mi aiuti a dormire.

– Sei preoccupato per la gara?

– E hai il coraggio di chiedermelo? – sbottò lui, – mi ci hai messo tu in questa situazione!

– Ancora? – sbuffò Tyelkormo, – ti ho detto mille volte che non ti avrei iscritto se non fossi sicuro che puoi vincere.

– Non è questo il punto! – esclamò Morifinwë, anche se era proprio quello, invece. – Il punto è che mi hai scavalcato. Non era una decisione che dovevi prendere tu.

Tyelkormo scrollò la testa. Nella fioca luce notturna, i suoi capelli chiari mandarono guizzi argentei. – Potevi sempre rinunciare se proprio non te la sentivi. Avevi tutto il tempo di ritirarti.

– E fare la figura del codardo? – Morifinwë ne aveva abbastanza, cercò di aggirare il fratello che, con la sua mole non indifferente, gli ostruiva il passaggio.

Tyelkormo gli afferrò un polso. – Senti – cominciò, con un tono condiscendente che fu come un raschietto sui nervi di Morifinwë, – so come voga Angaráto: spende tutto subito per distaccare gli avversari e fiaccargli il morale. Tu conserva le forze e non perdere la concentrazione, e non avrai problemi.

Morifinwë si liberò dalla presa con uno strattone. – Vuoi anche darmi consigli, adesso? Non intrometterti mai più nelle mie faccende – sibilò.

– E tu impara a fidarti di chi ti vuole bene – gli gridò dietro il fratello, – non sai quanto migliorerebbe la tua vita!

Morifinwë serrò i denti contro un’imprecazione e si incamminò lungo il corridoio a passo di marcia, coi pugni stretti. Nemmeno un infuso fatto da Irmo in persona gli avrebbe permesso di dormire nello stato in cui si trovava in quel momento. Aspettò che il fratello sparisse dalla sua vista, poi tornò in camera, si mise addosso i vestiti che aveva indossato il giorno prima, e uscì di casa.

Prese Morvail e imboccò la via che portava a sud, la più breve per uscire dalla città. Voleva starsene da solo, lontano da tutto e da tutti, e riuscire a non pensare più a nulla per il resto della notte.

Oppure voleva qualcos’altro, pensò, quando vide avvicinarsi la sagoma delle montagne e capì dove lo stava conducendo la sua corsa sfrenata.

La maggior parte delle competizioni si svolgeva a Valmar, presso la dimora di Tulkas, il Vala che aveva dato origine alla tradizione dei giochi, e che ogni anno inaugurava la manifestazione con uno scontro con uno sfidante che si offriva volontario per il bene dello spettacolo. Morifinwë si ricordava ancora la lotta a mani nude contro Oromë dell’anno precedente: pur essendo stato un combattimento finalizzato alla pura esibizione, i due si erano affrontati senza esclusione di colpi, in uno spettacolo affascinante e terribile che pochi sarebbero riusciti a dimenticare.

Per alcune discipline, tuttavia, erano necessari siti diversi. La gara di tuffi si teneva sulla scogliera, quella di arrampicata sulle pendici orientali del Taniquetil, e quella di canoa iniziava su una propaggine delle Pelóri a sud di Tirion e si concludeva in un tratto di fiume ampio e calmo che solcava la Piana Dorata.

Era lì che stava andando Morifinwë, con Morvail lanciato al galoppo e il vento fresco della notte che gli sferzava il viso e gli gonfiava la giacca. Aveva piovuto fino al giorno precedente e gli zoccoli affondavano nel fango con schiocchi bagnati e alzavano schizzi che colpivano i fianchi del destriero e i suoi stivali.

Morifinwë mantenne un’andatura sostenuta anche quando il terreno cominciò a salire e lui imboccò la via che affrontava il monte dal versante meno scosceso. Era prossima la mezzanotte e il cielo rifletteva i raggi di Telperion al massimo del suo splendore, la visibilità era ottima e la strada agevole, coi suoi tornanti ampi e la sua blanda pendenza.

Gli ci volle quasi mezz’ora per cominciare a sentire lo scroscio del torrente che si gettava nel bosco sull’altro versante, quello più ripido. Allora seppe di essere vicino alla meta e frenò la corsa di Morvail. Svoltò l’ultima curva e si trovò in una radura davanti a un piccolo bacino chiuso da una diga di tronchi.

Lo specchio d’acqua era una lastra trasparente sotto la cui superficie si intravedeva il guizzare dei pesci. Il canto incessante dei grilli saturava l’aria, sovrastato talvolta dal richiamo isolato di qualche uccello notturno. Morvail nitrì e scosse la testa. Morifinwë cercò di non interpretare il gesto come disapprovazione. Scese da cavallo e si strinse nella giacca troppo leggera per la temperatura di quelle altitudini. Cercò di placare il battito del proprio cuore respirando a fondo.

Perché si trovava lì?

Sulla riva del laghetto, un lungo telone rettangolare retto da pali di legno fungeva da rimessa per le canoe. Alcuni concorrenti la sera precedente avevano provveduto a portare la propria, ma chi non ne possedeva una o preferiva non rischiare di sfasciarla contro qualche roccia nella concitazione della gara, poteva usare una delle numerose fornite dagli organizzatori. Erano ottime imbarcazioni, fatte fare appositamente ad Alqualondë, costituite da un’ossatura di legno e da una chiglia formata da diversi strati di tela tesi e pressati tra loro, intrisi di una sostanza impermeabile e irrobustente, che li rendeva rigidi come legno, ma molto più leggeri.

Morifinwë era tra coloro che avevano fatto portare la propria. Era più vecchia, ma la conosceva bene e sapeva come reagiva ai suoi comandi. La individuò tra le altre e le si avvicinò con passo incerto. Fece scorrere la mano sul bordo e accarezzò il simbolo della sua casata impresso a fuoco sulla parte anteriore. Non ne trasse alcun conforto.

Con uno scatto stizzito alzò la testa e notò quella che, senz’ombra di dubbio, doveva essere l’imbarcazione di Angaráto: sul suo lato spiccava il profilo di un elegante cigno bianco.

Al solo vederla, il suo cuore riprese a battere all’impazzata e il suo stomaco si contrasse. Nella testa aveva solo le parole del padre che si ripetevano incessantemente.

“Sono certo che non mi deluderai”, tuonava la voce di Fëanáro. “Sono certo che non mi deluderai”. E Morifinwë non riuscì a pensare ad altro che allo sguardo deluso del genitore, quando avrebbe visto comparire sul traguardo la canoa col cigno invece che quella con la stella a otto punte.

Stai tranquillo, cercò di calmarsi. Tyelkormo è sicuro che ce la farai, e lui non si sbaglia mai quando si tratta di queste cose.

Ma se invece quella volta si fosse sbagliato? O se, peggio, il fratello avesse voluto giocargli un brutto scherzo, apposta per metterlo in ridicolo davanti al padre?

Morifinwë si rese conto che si stava rosicchiando le unghie e infilò le mani in tasca. Le sue dita incontrarono qualcosa di duro. Era il coltellino che gli aveva regalato la madre quando era piccolo, e che da allora portava sempre con sé. Il coltello gli riportò alla mente quel lontano pomeriggio nel parco del Palazzo Reale, quando era stato preso in giro da Angaráto, prima ancora di conoscerlo. In un attimo la sua frustrazione si riversò sul cugino, e si trasformò in desiderio di rivalsa.

Che era di gran lunga preferibile alla paura di deludere il padre.

Allora lo infiammò di proposito, pensando alla più recente sconfitta alla gara di nuoto e a quel sorriso arrogante, e si disse che era giunto il momento che quel presuntuoso venisse rimesso al suo posto. Che qualcuno doveva fargliela pagare per la sua insolenza, e che quel qualcuno sarebbe stato lui.

Era giusto così, si disse, mentre si avvicinava alla barca col cigno.

Era giusto così, si ripeté mentre la girava su un lato.

Era proprio per quello che Tyelkormo l’aveva iscritto alla canoa, si convinse, mentre affondava la lama del coltello in un punto in cui lo spesso strato di tela rigida si congiungeva col legno della struttura.

Un punto dove nessuno avrebbe notato il taglio. Una piccola, infima, incisione che avrebbe fatto entrare pochissima acqua, sufficiente però, alla lunga, per rallentare la navigazione. Un taglio che si sarebbe potuto facilmente scambiare per uno strappo dovuto a un contatto accidentale con le rocce nel tratto delle rapide, cosa abbastanza comune in un percorso come quello.

Morifinwë rimise a posto la canoa del cugino e si precipitò a casa, incitando un riluttante Morvail ad aggredire la discesa al galoppo. Era preda di un’assurda euforia, ubriaco di alibi, esaltato da una falsa speranza: quella che tutto sarebbe andato a finire bene.

Raggiunse camera sua senza nemmeno rendersene conto, come se si trovasse all’interno di un sogno di un altro, come se non fosse lui a dirigere le sue azioni. Credeva che l’eccitazione l’avrebbe fatto rimanere sveglio fino all’alba, invece crollò sul letto e si addormentò. Quando Russandol venne a chiamarlo per scendere a colazione, aveva ancora i vestiti addosso.

– Tutto bene? – domandò il fratello, quando lo vide in quello stato.

Davanti al suo sguardo, che esprimeva sincera preoccupazione, a Morifinwë cadde di colpo addosso tutto il peso del rimorso che la notte prima era riuscito a evitare, e si trovò sul punto di confessargli tutto e di chiedergli aiuto per risolvere il terribile guaio che aveva combinato.

Ma poi la vergogna lo assalì, davanti a quel fratello che sicuramente non aveva mai avuto niente da nascondere, così perfetto, nel corpo e nello spirito, da non sembrare neppure reale. Come avrebbe fatto Russandol a comprendere la sua colpa? Come avrebbe potuto non giudicarlo un codardo, disonesto, cattivo?

– Solo un po’ di tensione – mentì.

Russandol si schiarì la voce: – So di non essere la persona più adatta a fare questo discorso – cominciò, – ma corrispondere alle aspettative di papà…

– È difficile, lo so – tagliò corto Morifinwë, perché il tono comprensivo del fratello non faceva che peggiorare la situazione.

– Non è sempre la cosa giusta da fare – concluse l’altro.

Morifinwë scosse la testa e fuggì in corridoio; ancora un altro istante di quella conversazione e sarebbe crollato.

– Parlane con la mamma uno di questi giorni – insistette Russandol, alle sue spalle.

Ma Morifinwë era a distanza di sicurezza ormai, e la sua vigliaccheria era di nuovo imprigionata dalle solide catene dell’auto-convincimento. Riuscì a fare colazione fingendo che tutto andasse bene, e riuscì persino a tenersela nello stomaco durante la cerimonia di apertura dei giochi. Lo sforzo richiese un bel po’ di unghie piantate nei palmi delle mani e una concentrazione superiore a quella necessaria a seguire le più dure lezioni di Arsanarwë. In seguito non ricordò neppure un passaggio della straordinaria – così gli venne detto – esibizione di Tulkas e Eonwë che si sfidavano con la lancia nello scontro inaugurale.

Quando arrivò il momento di lasciare Valmar, salì sul carro che lo avrebbe condotto al sito della gara insieme agli altri partecipanti e si sedette in disparte. Nessuno vi fece caso, erano tutti nervosi e taciturni, col pensiero rivolto alle difficoltà che avrebbero incontrato. Il primo tratto del percorso sarebbe stato il più pericoloso: le rapide erano insidiose, le piogge dei giorni precedenti avevano gonfiato il fiume e, per quanto i concorrenti si fossero allenati, si poteva sempre commettere un errore di valutazione, o imbattersi in una roccia a filo dell’acqua, o essere sbalzato su una traiettoria imprevista da un capriccio del torrente.

Persino Angaráto era silenzioso. Morifinwë lo ricordava come un accentratore, sempre pronto alla battuta. Pur non avendo il fascino del fratello maggiore, l’Arafinwion compensava tale mancanza con la capacità di dire spiritosaggini al momento giusto e con un sorriso accattivante che risultava contagioso. Ma quel giorno anche lui se ne stava sulle sue, e Morifinwë, per un attimo, si chiese quali fossero le aspettative che gravavano sul cugino, che doveva confrontarsi con un fratello maggiore che di secondo nome faceva “Il Noldo”, come se fosse il prototipo della perfezione di ciò che poteva esprimere la loro stirpe.

Mentre indugiava su questi pensieri si accorse che Angaráto stava ricambiando il suo sguardo, con due occhi azzurri cupi come il mare all’orizzonte e penetranti come una lama. Morifinwë sigillò la mente ancor più di quanto non fosse abituato a fare, e voltò la testa per nascondere il rossore che cominciava a tingergli il viso. Tenne lo sguardo fisso sulla strada finché non arrivarono alla loro meta.

La radura che ospitava il laghetto era ben diversa da come era apparsa la notte precedente. Inondata dalla luce di Laurelin, era gremita di gente chiassosa che era venuta ad assistere alla partenza; i più audaci tra loro avrebbero cercato di seguire la competizione correndo lungo le sponde del torrente. Le voci dei giudici di gara che richiamavano all’ordine e le grida di incitazione degli spettatori si sovrastavano le une con le altre.

Dopo aver fatto l’appello, uno dei giudici invitò i concorrenti a stringersi la mano e a mettere in acqua le canoe. Con la coda dell’occhio, Morifinwë vide il suo rivale salire sull’imbarcazione col cigno senza dare alcun segno che ci fosse qualcosa che non andava. Come previsto, il taglio sulla chiglia era troppo piccolo per cominciare a dare problemi fin da subito.

Quando tutti si furono allineati, il giudice soffiò in un corno e la gara ebbe inizio.


 

 


NOTE

Grazie a chi ha letto! E appuntamento a venerdì prossimo per sapere come finirà la gara di Morifinwë.

Due parole sulle gare
In diversi punti della sua opera, Tolkien lascia intendere che gli Eldar si dedicassero a quelle che oggi noi chiameremmo competizioni sportive. Penso per esempio a quando, descrivendo Galadriel e la sua forza straordinaria, la definisce come una sfida per gli atleti Eldarin (“a match for […] the athletes of the Eldar”, HoME vol. 12 - The shibboleth of Fëanor).
È sulla base di ciò che segue, invece, che ho immaginato che in Aman, nelle manifestazioni sportive “patrocinate” dai Valar, Tulkas e la sua dimora avessero un ruolo importante: “[Tulkas] dwelt amidmost of Valmar. […] he loveth games and twanging of bows and boxing, wrestling, running and leaping […]. In its court men played and rivalled one another in doughty feats” (HoME vol. 1 - The coming of the Valar)

Nomi canonici, conversione Quenya - Sindarin
Morifinwë, Carnistir = Caranthir
Angaráto = Angrod
Arafinwion = figlio di Arafinwë, cioè di Fingolfin
Ingoldo (“Il Noldo”) = Finrod
Tyelkormo (qui chiamato anche Tyelko) = Celegorm
Fëanáro = Fëanor
Makalaurë = Maglor
Russandol, Nelyafinwë = Maedhros

Nomi di mia invenzione
Morvail, il cavallo di Morifinwë
Minulvórë, festa di fine estate o della vendemmia
Arsanarwë, il maestro di matematica di Morifinwë

 

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Capitolo 9
*** La gara di canoa ***


9

La gara di canoa

(o quando vorresti riavvolgere il tempo per poter rimediare ai tuoi errori)

 

 

Morifinwë piantò il ginocchio destro sul fondo della canoa e cominciò a remare.

La visibilità era perfetta. Dopo diversi giorni di piogge e di cielo coperto, quel mattino era limpido e tiepido, come se Manwë avesse spazzato via le nubi come favore personale a Tulkas nella giornata dedicata a lui e alle sue gare.

Morifinwë si concentrò sul primo ostacolo, lo vedeva avvicinarsi dritto davanti a sé: al limite del lago il bacino si restringeva e spuntavano rocce da una parte e dall’altra, con al centro una strettoia nel quale poteva passare solo una canoa alla volta.

Da lì in poi sarebbero cominciate le rapide, e nel torrente stretto e tortuoso che avrebbero dovuto affrontare, sorpassare un altro concorrente sarebbe stato impossibile, anche ammesso di essere abbastanza folli da provarci. La priorità, in quel tratto, sarebbe stata quella di non incagliarsi in qualche ansa o di non schiantarsi sulle rocce. Insomma, quella di restare vivi. Ma chi fosse riuscito ad arrivare integro in pianura e a sbucare per primo dal bosco, avrebbe avuto un notevole vantaggio nella gara di velocità conclusiva.

Puntare a raggiungere l’imbocco delle rapide per primi, però, non sempre era la strategia vincente, si rischiava di scontrarsi con altri concorrenti che miravano allo stesso obiettivo ed essere sbalzati sulle rocce che chiudevano il bacino. Un modo perfetto per finire la gara ancora prima di cominciarla.

Morifinwë si ricordò delle parole di Tyelkormo e lasciò che Angaráto lo precedesse. Sulla scia dell’Arafinwion si inserì un ragazzo alto e magro, con una canoa arancione. Lui si mise in coda. Una rapida occhiata alle sue spalle gli rivelò che gli altri concorrenti erano più distanziati.

Si concentrò sul gesto atletico: i muscoli rispondevano bene, il ginocchio era saldamente piantato a terra e il piede sinistro fisso nell’apposito scanso. L’interno della canoa era ancora asciutto e, per il momento, i punti di appoggio non rischiavano di perdere aderenza.

Vide lo smilzo che accelerava per cercare di raggiungere l’imboccatura prima di Angaráto; i due rimasero appaiati per qualche istante, ostacolandosi l’un l’altro. La loro corsa ne fu rallentata e Morifinwë guadagnò terreno, portandosi a ridosso dei primi.

Angaráto diede una spinta laterale che sbilanciò la canoa arancione e oltrepassò per primo la strettoia. Morifinwë l’aveva previsto e approfittò dello sbandamento del secondo per infilarsi subito dietro al cugino.

Il torrente, gonfio d’acqua a causa delle piogge dei giorni precedenti, si separava in diversi percorsi che si inoltravano nel bosco all’apparenza tutti ugualmente pericolosi. Morifinwë cercò di individuare a colpo d’occhio quello più favorevole: se ne vedevano solo due adatti alla navigazione. Angaráto prese quello di sinistra e lui si fiondò in quello di destra. Una macchia arancione nell’angolo della visuale gli disse che il ragazzo alle sue spalle aveva fatto la sua stessa scelta. Non perse tempo a guardare a che punto fossero gli altri partecipanti.

Alternando i colpi di pagaia da una parte e dall’altra Morifinwë si destreggiò tra le prime rocce, poi le rapide si fecero più scoscese, la canoa cominciò a procedere a salti e lui – riposto il remo ai suoi piedi – ne afferrò i bordi e la guidò bilanciando gli atterraggi col peso del proprio corpo.

Gli spruzzi d’acqua che gli arrivavano in faccia lo costringevano a sbattere di continuo le palpebre, e i lampi di luce che bucavano improvvisi la volta di fronde del bosco facevano il resto per ostacolargli la visuale.

Il percorso era più difficile di quanto si fosse aspettato ma, passati i primi istanti di paura, Morifinwë sentì crescere l’eccitazione e fu percorso in egual misura dalla gioia della sfida e dal brivido del pericolo incalzante.

Gli alberi si infittirono sempre più e il corso d’acqua si ridusse a un nastro lucido ribollente di schiuma largo quanto la sua canoa. Persino i giudici di gara e i pochi spettatori che correvano lungo le rive del torrente sembravano avere qualche difficoltà a procedere.

Lo smilzo non mollava, gli era dietro, lo riuscì a vedere bene quando il corso d’acqua fece una brusca curva a gomito, ma dalla sua espressione – tendini tesi sul collo, solchi verticali sulla fronte – Morifinwë capì che stava dando il massimo e che non avrebbe retto a lungo.

Davanti a lui il bosco si aprì quanto bastava per mostrargli il punto dove i due tratti del torrente tornavano a riunirsi in un unico corso. Vide Angaráto venirgli incontro da sinistra: la canoa del cugino non dava segni di cedimento.

Morifinwë imprecò per la tensione. Ma ancora di più per il sollievo.

Si sentiva imbattibile e voleva vincere la gara ad armi pari. Voleva che il suo sabotaggio non funzionasse. Voleva far finta che tutta quella storia non fosse mai accaduta.

E soprattutto, voleva arrivare per primo all’incrocio dei corsi d’acqua.

Angaráto lo vide, e Morifinwë lesse sul suo volto teso lo stesso bruciante desiderio. Nessuno dei due avrebbe ceduto, nessuno avrebbe lasciato il passo all’avversario, anche a costo di scontrarsi e buttar via l’intera gara.

Morifinwë diede un colpo di pagaia a destra, l’altro fece lo stesso dalla parte opposta.

Angaráto arrivava più veloce, ma lui proveniva da una posizione più elevata e aveva ancora un salto da sfruttare: se lo avesse eseguito al meglio sarebbe piombato proprio sull’incrocio e avrebbe imboccato il tratto finale del torrente per primo.

Il cugino capì cosa stava per accadere e accelerò. Nello stesso istante Morifinwë approfittò dell’ultimo dislivello e saltò. Lo fece con una precisione tale da stupire persino sé stesso, ancora prima di staccarsi del tutto dal pelo dell’acqua capì che non avrebbe fallito.

Il tempo si fermò, come volesse dargli la possibilità di godere appieno del suo trionfo, e lui riuscì a guardarsi indietro mentre era in volo.

Ciò che vide lo raggelò: Angaráto, distratto da qualcosa ai suoi piedi all’interno della barca, che distoglieva per un attimo l’attenzione dal fiume, e la canoa arancione del ragazzo che li seguiva che arrivava a tutta velocità a incrociare la traiettoria del cugino.

Morifinwë colpì la superficie dell’acqua e dovette tornare a guardare avanti per non perdere l’equilibrio e mantenersi al centro del torrente. Sentì uno schianto alle sue spalle e ancor prima di girarsi si figurò il terribile scontro tra le due imbarcazioni.

Invece no. Angaráto era riuscito a evitare l’impatto con la canoa arancione, ma aveva deviato troppo, e la spinta l’aveva sbalzato contro una roccia.

Lo smilzo, incolume, stava recuperando il controllo per partire all’inseguimento.

Morifinwë cercò di non pensare a nulla, se non a terminare bene la gara; l’altro ragazzo era un avversario di tutto rispetto e lui doveva rimanere concentrato. Arrivò al tratto pianeggiante senza forzare l’andatura, poi si riappropriò della pagaia e si lanciò a massima velocità. I muscoli cominciavano a bruciare e il ginocchio a terra lanciava fitte di dolore ogni volta che lui si piegava in avanti per dare un colpo di remo, ma sapeva di avere ancora forza sufficiente per mantenere lo stesso ritmo fino all’arrivo.

Sapeva di aver già vinto, e la cosa non gli dava alcuna gioia.

Intravedeva il festone rosso che tagliava il fiume e le rive macchiate dai colori della folla che attendeva il vincitore.

Osò un’occhiata alle sue spalle: aveva distanziato la canoa arancione e gli altri concorrenti erano un gruppo informe che si contendeva il terzo posto.

Oltrepassò il traguardo senza gioire, senza alzare le braccia al cielo o agitare il remo in aria. Sentiva gli applausi e le grida del pubblico che lo inneggiavano e non riuscì a esserne felice. Forse erano applausi che avrebbe potuto meritare, forse avrebbe potuto vincere anche senza barare. Ma la realtà era che non avrebbe mai potuto esserne certo.

Scorse tra la folla la rossa capigliatura di sua madre, e spostò lo sguardo sul padre che le era a fianco. Fëanáro sorrideva. Applaudiva.

Lasciò che la corrente lo conducesse più a valle, oltre la folla urlante che ora festeggiava il secondo arrivato, e poi il terzo, e via via tutti i concorrenti che giungevano alla meta. Dei dieci che erano partiti ne arrivarono solo sei; Angaráto non era tra loro. Una squadra si stava già muovendo per andare a recuperare i dispersi, Morifinwë riconobbe tra loro l’inconfondibile chioma biondo cenere di Tyelkormo.

Accostò a riva, saltò giù dalla canoa e la trascinò sulla sponda ghiaiosa. Si accorse che qualcuno lo stava aiutando, sollevò la testa e si trovò di fianco suo padre.

Sul viso di Fëanáro c’era un sorriso sincero che faceva male al cuore.

– Complimenti figliolo – esclamò, – mi hanno detto che hai fatto faville lassù: un salto come non se n’erano mai visti in questa categoria! Si sta già spargendo la voce.

Morifinwë si sentì raggelare, anche se i suoi muscoli bruciavano ancora per lo sforzo appena compiuto.

Cercò di scaldarsi al tono fiero del padre. Cercò di convincersi che avrebbe vinto ugualmente, che la sua malefatta non aveva influito sull’andamento della gara. Giurò a sé stesso che non l’avrebbe fatto mai più, che da quel momento in poi avrebbe sempre combattuto ad armi pari, se solo avesse potuto godere di quella vittoria e assaporare la sensazione di essere al centro dell’attenzione del padre.

Non ci riuscì.

O, comunque, non ci riuscì del tutto. Le parole di elogio colpivano troppo in profondità per non risultare, almeno un pochino, piacevoli da ascoltare.

– Ho avuto fortuna – borbottò, dimenticandosi che Fëanáro insegnava ai suoi figli a mostrare orgoglio per i traguardi raggiunti.

– Faremo tardi per vedere Nelyo – si inserì la mamma, appoggiando una mano sul braccio di Fëanáro. E poi, rivolta a lui: – Tu vieni con noi, Carnistir?

Morifinwë non volle guardarla in faccia per paura che gli leggesse in viso la verità. Qualcosa doveva già averla intuita, a giudicare dal suo comportamento insolitamente distaccato.

– Voglio rimanere a vedere se stanno tutti bene – disse, accennando col capo alla montagna.

– Allora a dopo – lo salutò il padre, afferrandogli le spalle un’ultima volta, – sono fiero di te!

Appena i suoi genitori si furono allontanati, Morifinwë si lasciò scivolare al suolo e si sedette sul terreno bagnato con la schiena contro la canoa. Non riusciva a guardare suo padre nemmeno di spalle, così girò la testa di lato. Si trovò con gli occhi proprio a livello dello stemma di Fëanáro impresso sulla chiglia. Affondò il viso tra le mani e imprecò sommessamente.

Basta fare il bambino, Carnistir! si disse. Quello che è fatto, è fatto. Impara la lezione, ma ora goditi il successo e l’apprezzamento di tuo padre. Non te lo sei forse meritato?

Per tutti i Valar, certo che se l’era meritato! Era tutta la vita che vedeva elogiati i suoi fratelli maggiori – perfino quel pazzo di Tyelkormo – e adesso che era diventato grande abbastanza da rendere fiero suo padre, che era il suo turno di ricevere elogi, ecco che compariva quel piccolo genio-replica che gli soffiava il posto! Aveva tutto il diritto di godere di quei fugaci momenti.

Eppure le sue mani non la smettevano di tremare, mentre cercava di ricacciare indietro stupide, infantili, lacrime di rabbia.

Rimase seduto a lungo, finché tutti gli spettatori e i concorrenti non si furono allontanati per andare ad assistere ad altre competizioni. Nessuno venne a disturbarlo, né a chiedergli il motivo per cui il vincitore della gara se ne stava tutto solo a ghiacciarsi le natiche invece che farsi portare in trionfo fino a Valmar. La sua fama di ragazzino introverso e scorbutico, in quel caso, giocò a suo favore.

Quando reputò di aver racimolato giustificazioni a sufficienza per placare il suo senso di colpa e poter affrontare di nuovo il padre, Morifinwë si alzò, ma fatti pochi passi la sua strada venne sbarrata da Tyelkormo.

Il fratello, col suo fisico massiccio e l’aria di chi non teme nessuno, incuteva soggezione anche quando era di buon umore. Quando era infuriato, si ricordò Morifinwë in quel momento, era qualcosa di terrorizzante.

– Sono stato a recuperare i ragazzi che non ce l’hanno fatta – disse.

Morifinwë deglutì a vuoto.

– Ti farà piacere sapere che Angaráto è incolume – continuò il fratello.

– Certo che mi fa… – cominciò lui.

Tyelkormo non lo fece finire: – Ho visto la sua barca, Moryo!

Morifinwë tentò di distogliere lo sguardo, ma i suoi occhi sembravano incatenati a quelli d’acciaio del fratello, che lo sovrastava di tutta una testa.

– Ha uno squarcio sul lato sinistro, dove ha colpito la roccia… e questo l’hanno visto tutti. Ma c’è qualcosa che è sfuggito persino ai giudici: un piccolo taglio sul fondo, vicino all’intelaiatura.

– Non capisco cosa… – iniziò Morifinwë.

Tyelkormo alzò la voce: – Dove sei stato stanotte?

– Mi hai visto, ero in cucina… – balbettò lui.

– Sono venuto a cercarti in camera tua, più tardi, per vedere se eri riuscito ad addormentarti, ma non c’eri.

– Ho fatto un giro in giardino…

– Non puoi mentirmi! – esclamò il fratello.

Morifinwë sentì una presenza al limite della sua percezione, come un leggero prurito tra la nuca e l’attaccatura del collo. D’istinto si affrettò a chiudere la mente e scoprì che era già sigillata al massimo delle sue possibilità.

Tyelkormo scoppiò in una risata fasulla. – Non sai schermarti abbastanza bene, piccolino. Sei un nodo di nervi incapace di mascherare le tue bugie! Mostrami quel coltellino che tieni sempre in tasca.

Morifinwë riuscì a staccare gli occhi dal viso del fratello e si guardò attorno, come un animale braccato che cerca l’ultima disperata via di fuga.

Almeno non c’era nessuno in vista, nessuno che stava ascoltando. Forse aveva ancora una speranza. Forse poteva far leva sulla compassione del fratello.

– Non lo dirai a papà, vero? – mormorò, con la voce che gli tremava.

– No, non lo dirò a papà – disse Tyelkormo, e Morifinwë non fece in tempo a tirare un sospiro di sollievo che l’altro concluse: – Perché glielo dirai tu.

Il fratello gli puntò l’indice sul petto: – Stasera non rovinare i festeggiamenti di tutti, ma domani, appena torni dalle tue lezioni alla fattoria, andrai a raccontargli cosa hai combinato.

Morifinwë chinò il capo. Per un attimo pensò di implorare il fratello, pensò di gettarsi ai suoi piedi e promettergli qualunque cosa, purché non lo costringesse a quello. Sentiva già le ginocchia che cedevano.

Ciò che lo fermò non fu un impeto di amor proprio, ma la consapevolezza che niente poteva smuovere Tyelkormo quando era di quell’umore.

–  Mi sono spiegato? – lo incalzò il fratello.

Lui annuì, e così facendo la sua testa scese ancora più in basso. Non la rialzò finché non sentì i passi di Tyelkormo che facevano scricchiolare la ghiaia mentre si allontanavano.


 

 


NOTE

Grazie a chi ha letto!

Nomi canonici, conversione Quenya - Sindarin
Morifinwë, Moryo, Carnistir = Caranthir
Tyelkormo (qui chiamato anche Tyelko) = Celegorm
Angaráto = Angrod
Arafinwion = figlio di Arafinwë, cioè di Fingolfin
Fëanáro = Fëanor
Nelyo = Maedhros

 

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Capitolo 10
*** Errori ***


10

Errori

(o quando pensi di aver toccato il fondo e non sei neanche a metà strada)

 

 

– Se non sei interessato a questo argomento, Morifinwë, proponine uno tu.

Nell’udire il suo nome, Morifinwë si riscosse dai suoi pensieri. Quasi si stupì di trovarsi seduto al tavolo dello studio, alla fattoria, davanti a un foglio su cui c’era scarabocchiato lo schema di un bilancio di forze. Quella sfera sul piano inclinato assomigliava incredibilmente alla sua testa che rotolava dopo essere stata staccata dal collo con un taglio netto.

Si sforzò di riportare l’attenzione sul maestro.

– Cosa? – domandò.

– È evidente che non sei in condizioni di seguire la lezione, oggi – disse Arsanarwë. – C’è qualcosa che non va? – aggiunse poi, in tono preoccupato.

Qualcosa che non andava? Era l’eufemismo dell’anno. Ancora poche ore e la sua vita sarebbe finita.

Appena tornato a casa avrebbe dovuto confessare al padre di aver sabotato la canoa di Angaráto per vincere la gara. Il solo pensiero gli bloccava il respiro nei polmoni. Non ce l’avrebbe mai fatta, nemmeno se l’avessero legato e trascinato di peso davanti al genitore. Tanto valeva lasciare che fosse Tyelkormo a dirglielo.

Sì, ecco, avrebbe fatto così: si sarebbe rintanato in camera sua finché suo padre, informato dal fratello, non fosse arrivato, infuriato come Tulkas alle porte di Utumno, a dirgli quanto era deluso da lui, l’unico tra i suoi figli che gettava disonore sulla famiglia.

Oppure, meglio ancora, non sarebbe rientrato affatto. Se ne sarebbe andato a nascondersi da qualche parte e avrebbe cominciato una nuova vita dove nessuno lo conosceva. Magari come allevatore di cavalli, o come contadino.

– Per oggi abbiamo finito – disse il maestro, ora in piedi accanto a lui. Gli mise una mano sulla spalla: – Vai a casa, Morifinwë.

Morifinwë si alzò a sua volta borbottando una scusa qualsiasi, raccolse le sue cose e uscì dallo studio a testa bassa. Percorse il corridoio a passo svelto, sperando di non incrociare nessuno, ed era quasi arrivato sano e salvo alla porta d’ingresso quando sentì una voce che lo chiamava.

– Ragazzino!

Eru benedetto, non lei! In quel momento, non sarebbe stato in grado di affrontare una discussione con la persona meno accondiscendente di tutta Arda.

Eppure si fermò, con la mano già sulla maniglia.

– Ragazzino? – ripeté Elle, questa volta con una nota di apprensione nella voce.

– Che vuoi? – la aggredì lui, – devo andare.

Ma non trovò la forza di aprire la porta.

– E dove vuoi andare, in quelle condizioni?

Morifinwë si accorse che aveva i denti conficcati nel labbro inferiore e gli occhi annebbiati di lacrime. Un battito di ciglia e sarebbe stata la fine.

Proprio allora, una voce acuta risalì dal corridoio.

– Moryo, sei tu?

Era Lissi, che lo cercava. Morifinwë doveva andarsene immediatamente, ma non riusciva a far leva su quella dannata maniglia.

Ci pensò Elle. Prima che la piccola facesse capolino in fondo al corridoio, aprì la porta e lo spinse fuori.

– Facciamo due passi – disse, e lo precedette in direzione del frutteto.

Morifinwë la seguì, non sapendo che altro fare, la sua volontà aveva dichiarato la resa totale.

Con lunghi passi silenziosi, la donna si inoltrò tra gli alberi bassi e allineati, ormai privi di frutti. In breve raggiunsero uno spiazzo dove un ciliegio s’innalzava sopra le altre chiome, carico di fogliame di un profondo verde scuro, che a tratti cominciava a ingiallire. Sotto l’albero c’era una panchina di pietra grigia, resa lucida dall’uso; la luce intensa del primo pomeriggio, facendosi strada tra le fronde, ne illuminava una metà. Elle spazzò via con la mano alcune foglie cadute e lo invitò a sedersi.

In lontananza la vocetta allegra di Lissi lo chiamò un altro paio di volte, poi si udì una porta che sbatteva, e infine il silenzio.

– Ne vuoi parlare? – domandò Elle.

Lui scosse la testa. Era riuscito a ricacciare indietro le lacrime, ed era quasi certo che se avesse aperto bocca avrebbe mandato in fumo il risultato di tanto sforzo.

La donna annuì e non disse più nulla.

La giornata sembrava aver ereditato il clima di quella precedente, non c’erano nubi a velare il cielo e i raggi di Laurelin accendevano caldi riflessi arancioni sulle foglie che cominciavano ad appassire. Un venticello tiepido le faceva ondeggiare e serpeggiava tra le poche già cadute. Uno scoiattolo scese da un tronco, si fermò un istante a guardarli e sfrecciò via. In lontananza si udivano le voci degli uomini che lavoravano nei campi, e più vicino, il cinguettio degli uccelli che andavano e venivano dai loro nidi.

Poco distante da lui, la donna era seduta nella zona in ombra della panchina, col suo vestito azzurro senza maniche, la solita treccia ad avvolgerle la testa e il bracciale di cuoio al polso. Restava immobile, con lo sguardo perennemente vigile ora rivolto davanti a sé, nella direzione in cui era scomparso lo scoiattolo. Sembrava essere sempre all’erta e, allo stesso tempo, estremamente calma, come se nulla di male potesse accaderle. Peccato che il suo stato d’animo non fosse trasmissibile per semplice contatto! Morifinwë fu tentato di prenderle una mano per verificarlo.

Per resistere a quella sciocca tentazione si alzò e fece qualche passo allontanandosi dalla panchina. Poi, colto da un impeto inaspettato, disse: – Ho fatto un errore. Enorme.

E adesso ne sto facendo un altro, a quanto pare, gli venne da pensare. Cosa gli saltava in mente di raccontare i fatti suoi a quella sconosciuta? Avrebbe fatto meglio ad andarsene subito, approfittando della poca calma riconquistata, oppure a rimanere in silenzio a godersi quegli ultimi istanti prima della fine, insieme a una persona che non pretendeva nulla da lui.

Invece cominciò a parlare, e le raccontò cosa aveva fatto, dall’inizio alla fine, senza omettere niente, senza nascondersi dietro le false giustificazioni che continuava a ripetere a sé stesso da quando aveva estratto di tasca il coltello due notti prima.

Alla fine si trovò vuoto, prosciugato. La gola secca, gli occhi asciutti. Trovò persino la forza di voltarsi per affrontare il giudizio di Elle. Adesso che aveva calpestato per bene la sua dignità sotto le suole degli stivali, gli era rimasto ben poco da perdere.

Elle si alzò e fece un passo verso di lui. Disse: – Era solo un gioco, e nessuno si è fatto male. La stai facendo più grande di quello che è.

Morifinwë avrebbe dovuto aspettarselo. Quella donna minimizzava sempre tutto.

– Tu non capisci… – provò a spiegarsi.

Ma Elle non gliene diede la possibilità: – Sii sincero, cos’è che ti angoscia per davvero?

Ma come, non era chiaro? – Mio padre mi ucciderà.

Lei scosse la testa: – Sai bene che non lo farà.

– Mi chiuderà in casa e non mi farà uscire fino alla fine dei tempi – insistette lui.

– Ma per favore! – sbuffò la donna.

– Morirò di vergogna – tentò ancora Morifinwë.

A questo, Elle non si degnò neanche di rispondere.

– E va bene! – gridò lui, alla fine. – Lo vuoi sapere davvero? Te lo dico! Non posso fare a meno di pensare che se sono andato lassù, l’altra notte, era proprio con l’intenzione di… – le parole gli si bloccarono in gola, ma lui le sputò fuori a forza, – con quella intenzione. Che non è stato un gesto stupido, commesso sotto l’impulso del momento, ma che volevo fare quello che ho fatto fin dall’inizio!

Morifinwë prese fiato e continuò, perché ormai fermarsi gli era impossibile: – E non è una cosa che si limita a ieri. Mi sento… mi sento esplodere! Non riesco più a capire perché faccio quello che faccio, non riesco a capire chi sono, chi dovrei essere. Non capisco cosa penso, cosa provo!

– Basta – lo interruppe lei, e nella sua voce bassa e roca si mescolavano determinazione e dolcezza in pari misura.

E lui davvero si fermò, col volto in fiamme per la rabbia e la vergogna.

– Sei un ragazzo che sta diventando grande, e che nel crescere commette errori, come tutti – riprese lei. – Sbagliare è l’unica via per imparare.

Morifinwë scosse il capo con forza: – Ma Russandol, e Tyelko, e Laurë…

– Ragazzino, io i tuoi fratelli non li conosco, ma ti posso assicurare che anche loro hanno passato tutto quello che stai passando tu, ognuno a modo proprio.

Chinò un poco la testa, per riuscire a catturare meglio il suo sguardo, e proseguì: – E ti dirò di più, gli errori che commetterai mentre cresci non saranno mai gravi come quelli che commettono gli adulti.

Prima che Morifinwë potesse ribattere, lei alzò una mano tra loro per zittirlo.

– Fermo! – disse, e le sue dita arrivarono quasi a sfiorargli le labbra, – non voglio sentire una parola sul tuo infallibile padre. Io ne ho viste più di tuo padre, e ti assicuro che è così.

Morifinwë guardò le foglie secche sul terreno che il vento faceva vorticare attorno ai suoi stivali.

– La fai così semplice – mormorò.

– Perché è semplice.

– Cosa devo fare, allora? – lo disse così, per disperazione, non certo perché si aspettava di ricevere una risposta.

Ma lei gliela diede lo stesso: – O vai da tuo padre e gli confessi quello che hai fatto, come vuole tuo fratello…

– O? – chiese lui, sperando in un’alternativa.

– O vai da tuo fratello, gli punti un coltello alla gola e gli dici che se solo osa fiatare lo uccidi nel sonno.

Morifinwë spalancò la bocca ed emise un suono strozzato. Si stupì nel capire che era una risata.

– Sto scherzando, ragazzino – confermò lei, con uno scintillio negli occhi.

Ma lui non ne era così sicuro. Lanciò un’occhiata al bracciale di cuoio e si chiese se sotto non ci fosse davvero il simbolo del pugnale, come glielo aveva illustrato il nonno. Per quanto l’ipotesi avesse un certo fascino, Morifinwë era arrivato alla conclusione che Elle non poteva essere stata una Cacciatrice. Tanto per cominciare, il maestro di storia gli aveva insegnato che le Cacciatrici donne erano rare, e poi, perché mai una Cacciatrice avrebbe dovuto fare la serva, a Valinor? Se quello che sosteneva Findekáno sull’origine della servitù era vero, Elle avrebbe dovuto appartenere alla nobiltà.

In ogni caso, la battuta aveva alleggerito l’atmosfera, e il pensiero di ciò che doveva aver passato quella donna – Cacciatrice o meno che fosse – nella sua vita nelle terre dell’Est, e durante il suo viaggio verso l’occidente, lo aiutò a ridimensionare i suoi problemi. Se non altro, affrontare suo padre non avrebbe causato la sua morte.

Nel silenzio che si prolungò, la voce di Lissi tornò a farsi sentire. Questa volta cercava Elle.

– Ora va’ – gli disse lei, – e non angosciarti. Tutto si risolverà, vedrai.

Lo accompagnò a recuperare Morvail e attese sotto il portico finché lui non montò a cavallo e si voltò per uscire dal piazzale.

 

 

– Mio padre è già rientrato? – domandò a Velmo, quando gli consegnò Morvail.

– Proprio poco fa – rispose lo stalliere.

Morifinwë trasse un respiro profondo e si avviò verso casa.

Per tutto il viaggio di ritorno non aveva fatto altro che pensare alle parole di Elle, per cercare di trarre coraggio dall’atteggiamento della donna, sempre così sicura di sé e di ciò che sosteneva. Continuò a ripetersi che tutto sarebbe andato bene fino al portone d’ingresso del palazzo, e poi ancora nel lungo corridoio che portava allo studio del padre. Trovò persino la forza di bussare e di fare qualche passo nella stanza quando venne invitato a entrare.

Ma quando Fëanáro sollevò lo sguardo dalle sue carte e sorrise con calore nel vederlo, tutto il suo finto coraggio lo abbandonò in un istante.

– Morifinwë! – lo accolse il padre, poi gli diede un’occhiata penetrante che lo percorse da capo a piedi, e domandò: – Hai avuto dei problemi alla fattoria?

Lui fece un debole tentativo di convincere la sua bocca a emettere un suono, anche un singolo monosillabo, ma quella non ne volle sapere.

Fëanáro si alzò allarmato e gli si avvicinò.

– Figliolo, che succede?

Quel tono apprensivo e quel nomignolo inconsueto, che in condizioni normali l’avrebbero reso immensamente felice perché significava che il padre si stava preoccupando per lui, lo colpirono come un pugno nello stomaco. Ogni fibra del suo corpo si preparò alla fuga, e la sola cosa che lo fermò fu la certezza che Tyelkormo fosse proprio dietro la porta, pronto a sbarrargli la strada.

Riuscì a tirar fuori la voce da una gola secca come l’interno di un forno. – Ti devo parlare della gara di ieri.

Suo padre era quanto di più lontano ci fosse da una persona lenta a capire, e all’istante dovette comprendere, se non proprio quello che Morifinwë stava per dirgli, che il problema non era qualcosa che suo figlio aveva subito, ma qualcosa che aveva commesso.

L’apprensione scomparve dal suo sguardo, sostituita da una completa attenzione. Lo slancio nel raggiungere il figlio rimase bloccato a metà. Si tenne a una distanza tale che Morifinwë non dovette alzare la testa per guardarlo in viso.

E in viso lo guardò per davvero. Dove riuscì a trovare il coraggio per farlo, non riuscì mai a capirlo, ma lo guardò dritto negli occhi e buttò fuori: – Ho vinto con l’inganno.

Ecco, era fatta.

Il macigno era stato sollevato dal suo cuore, ora non restava che sopravvivere alla frana che gli sarebbe caduta addosso.

– In che modo? – domandò Fëanáro, e Morifinwë non poté fare a meno di notare che la sua prima domanda non era stata: “perché?”.

Con l’espressione di chi non riesce a venire a capo di un enigma, suo padre aggiunse: – L’unico concorrente che avrebbe potuto impensierirti è andato a sbattere contro una roccia che gli ha distrutto la barca, l’hanno visto tutti.

– Sì – balbettò Morifinwë, – è andata così, ma io… io avevo sabotato la sua canoa.

Fëanáro rimase in silenzio per un lungo momento, come se faticasse a comprendere quelle poche parole. Poi disse: – Ti sei già scusato con tuo cugino?

– Io… no… cioè, lui non… – questo era uno scenario che Morifinwë non aveva neppure considerato, e nemmeno Tyelkormo, a quanto pareva. – Lui non se n’è neanche accorto, la sua canoa non aveva ancora iniziato a imbarcare acqua quando ha avuto l’incidente.

Fëanáro aggrottò le sopracciglia e fece la domanda che Morifinwë temeva di più.

– Quindi sei venuto a confessare ciò che hai fatto nonostante nessuno avesse sospettato nulla? Di tua spontanea volontà?

Lui deglutì a vuoto. Mentire era fuori discussione, se perfino Tyelkormo poteva capire quando diceva una bugia, figuriamoci suo padre.

– Tyelko mi ha… – riuscì a dire, prima che un nodo gli strozzasse la gola.

– Ho capito – sentenziò Fëanáro. Poi gli voltò le spalle e tornò alla scrivania.

– Da quello che vedo – proseguì, con voce piatta, – hai già imparato la lezione da solo. Non c’è bisogno di aggiungere altro. Non ne parleremo più. Puoi andare.

Morifinwë rimase immobile, lo sguardo fisso sul padre che era già ritornato alle sue faccende.

Si chiese cosa stesse aspettando ad andarsene, e si sorprese nello scoprire che stava aspettando la sfuriata. Che voleva la sfuriata. Voleva sentirsi dire quanto avesse sbagliato, quanto avesse deluso, quanto interessasse al padre ciò che lui faceva o non faceva.

Invece nulla. Congedato. Il principe Fëanáro aveva cose più importanti di cui occuparsi che non fossero il suo insignificante quarto figlio.

Un rumore nel corridoio lo riscosse dai suoi pensieri. Che ci stava a fare lì, a umiliarsi più di quanto non avesse già fatto, e in così tanti modi? Lasciò lo studio a passo spedito, incrociò Tyelkormo che veniva dalla direzione opposta e lo spinse via con tale forza da farlo finire contro il muro.

– Non dire una parola – lo prevenne. E ci aggiunse un insulto di quelli proibiti in casa, anche se sapeva che il padre l’avrebbe sentito. O forse proprio per quello.

Non stette a vedere come reagiva il fratello, fece le scale due gradini alla volta e corse in camera sua. Sbatté la porta con tutta la forza che riuscì a trovare, si lasciò cadere sul letto e diede libero sfogo a lacrime di rabbia.

 

 

 


NOTE

Grazie a chi sta seguendo la storia!

Nomi canonici, conversione Quenya - Sindarin
Morifinwë, Moryo = Caranthir
Russandol = Maedhros
Tyelkormo (qui chiamato anche Tyelko) = Celegorm
Makalaurë (qui chiamato Laurë) = Maglor
Fëanáro = Fëanor

Personaggi di mia invenzione
Arsanarwë, il maestro di matematica di Morifinwë
Lissi, una bambina che abita alla fattoria, nipote di Arsanarwë
Velmo, il responsabile delle scuderie del palazzo di Fëanáro
Morvail, il cavallo di Morifinwë

 

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Capitolo 11
*** La Cacciatrice ***



11

La Cacciatrice

(o quando scopri che, per una volta, puoi anche fare a meno dell’orgoglio)

 

 

Morifinwë non scese a cena quella sera e la mattina successiva raggiunse la sala da pranzo con calcolato ritardo, in modo da non incontrare il padre. Trovò però Tyelkormo, che stava ancora mangiando, e la mamma e Curufinwë immersi in una discussione che sembrava andare avanti da parecchio, a giudicare dal tono insofferente del piccolo, abituato a ottenere quello che voleva senza neanche fare la fatica di chiedere.

Quando lo videro arrivare la discussione si interruppe. Lui evitò di salutare, si sedette nel posto vuoto accanto a Nerdanel e si impossessò di una tazza.

– Ho sentito che… – cominciò il piccolo, ma Tyelkormo lo fulminò con uno sguardo che mise subito a tacere qualsiasi presa in giro avesse in mente, e la colazione proseguì nel silenzio più assoluto.

Quando Tyelkormo finì di mangiare si alzò e disse a Curufinwë: – Andiamo, genio, accompagnami fino alle scuderie.

– Cos’è, non ti ricordi la strada? – disse il piccolo, ma scese dalla sedia, salutò la madre e si affrettò per tenere il passo del fratello maggiore.

Solo quando i due lasciarono la sala da pranzo, lui trovò il coraggio di parlare.

– Papà ti ha detto che l’ho deluso per l’ennesima volta?

– Tuo padre non mi ha mai detto una cosa del genere in tutta la sua vita – rispose lei. – Ma se ti stai riferendo a quello che hai fatto alla gara, allora sì, me l’ha detto. E mi ha anche detto che ti sei pentito di averlo fatto.

– Quel deficiente di Tyelko si è messo in mezzo – si lamentò Morifinwë.

– Tyelkormo si è trovato in situazioni molto peggiori della tua, quando aveva la tua età – disse Nerdanel, – e ha imparato qual è la cosa migliore da fare.

– La cosa migliore per fare cosa? – chiese Morifinwë, – per affossare definitivamente quel poco di stima che papà poteva ancora avere di me?

– No, per non affossare quel poco di stima che tu puoi ancora avere di te.

Morifinwë rimase a metà di un boccone, cercando di decifrare ciò che gli era stato appena detto.

– Una bugia ne chiama un’altra – spiegò la madre, – e un’azione che non avremmo voluto commettere fa presto a giustificarne una successiva. Questo Tyelkormo lo sa per esperienza, e ha voluto interrompere il circolo sul nascere. Forse io avrei usato un metodo meno brutale, ma Tyelko resta pur sempre Tyelko, e non me la sento di dargli torto.

– Tu giustifichi sempre tutti – borbottò Morifinwë, e nel dirlo si rese conto di quanto questo gli fosse di enorme conforto.

– Già – confermò Nerdanel, poi aggiunse in tono più leggero, – cosa vuoi, anch’io ho i miei difetti.

– Vorrei che ce l’avesse papà, lo stesso difetto – disse lui.

– Fëanáro? Difetti? Quando mai? – Il sorriso della madre riuscì a essere dolce e sarcastico allo stesso tempo.

Morifinwë non riuscì a tenere il broncio. Sorrise a sua volta.

Nerdanel gli diede un leggero bacio sulla fronte. – Prenditi la mattina libera – disse, – ci penso io ad avvisare che salterai le lezioni.

Mentre finiva di fare colazione, Morifinwë notò che erano avanzati dei panini al cioccolato e decise dove sarebbe andato.

 

 

Trovò la fattoria molto più silenziosa di quanto non fosse di solito, quando vi si recava nel pomeriggio per le lezioni con Arsanarwë. Non c’erano bambini né ragazzini in giro, il viale che conduceva alla casa era sgombro, il piazzale davanti al portico deserto e quando bussò alla porta nessuno venne ad aprirgli.

Morifinwë rimase lì, col pacchetto dei dolci in mano, a sistemarsi dietro le orecchie i capelli che erano sfuggiti alla coda, e a chiedersi cosa gli fosse venuto in mente di andare in visita da qualcuno senza prima avvisare.

Stava per tornare sui suoi passi quando la porta venne aperta da un uomo alto, vestito di chiaro e con una lunga treccia d’argento che gli ricadeva su una spalla. Sotto il braccio aveva dei fogli arrotolati e sembrava quanto di più distante ci potesse essere da un contadino.

– Buongiorno – lo salutò treccia d’argento.

– Salve… ah… sono Morifinwë Fëanárion – disse lui, non sapendo bene come rivolgersi allo sconosciuto.

L’altro si illuminò: – Ah, sì, l’allievo – poi corrugò le sopracciglia sottili, – il maestro Arsanarwë, però, non c’è. Di mattina lavora alla scuola.

Ed ecco svelato il mistero dell’assenza dei bambini.

Morifinwë non trovò il coraggio di dire il vero motivo per cui era venuto. Strinse la presa sul pacchetto dei dolci e disse: – Ecco… allora ripasserò nel pomeriggio. Buona giornata.

Si voltò e sentì la porta richiudersi alle sue spalle. Non aveva fatto che pochi passi quando qualcuno la riaprì.

– Ragazzino!

Morifinwë riuscì a cancellare il sorriso che gli era affiorato alle labbra prima di girarsi nuovamente verso l’ingresso. Sulla soglia c’era Elle, col solito vestito azzurro e la treccia che le circondava il capo, ma la sua consueta calma era intaccata da una leggera increspatura delle sopracciglia.

Era quanto di più vicino a un’espressione preoccupata le avesse mai visto fare.

L’assurda idea che potesse essere preoccupata per lui gli balenò nella mente, e prima di potersi trattenere la espresse a voce alta: – Non eri poi così sicura che tutto si sarebbe risolto, a quanto pare.

Elle recuperò la sua compostezza e allargò le braccia per constatare l’ovvio. – Però avevo ragione.

Poi domandò: – Che ci fai qui?

– Volevo scusarmi con il maestro per il mio comportamento di ieri – rispose Morifinwë.

Era solo mezza verità e Elle lo capì all’istante. Incrociò le braccia e inclinò la testa di lato in attesa del resto.

– E va bene – disse lui, – volevo anche dirti che sono sopravvissuto, casomai ti stessi preoccupando… cosa che evidentemente stavi facendo – aggiunse, per recuperare un minimo di dignità.

– Più che altro – cominciò Elle, – non ero certa che ti avremmo più rivisto da queste parti.

Comprensibile. Persino lui aveva pensato che non avrebbe più avuto il coraggio di farsi rivedere dopo il pessimo spettacolo di sé che aveva dato il giorno precedente, sia col maestro che con lei.

E invece, eccolo lì. Per nulla preoccupato di difendere la sua reputazione.

– Il mio orgoglio deve essersi preso una vacanza – considerò, ad alta voce.

– Meglio così – disse lei.

Cadde il silenzio e durò abbastanza a lungo da permettere a Morifinwë di vedersi attraverso gli occhi della donna che gli stava di fronte: un ragazzino insicuro, bruttino e scarmigliato, con uno stupido pacchetto di dolcetti in mano, capitato a sproposito in un posto in cui non avrebbe dovuto essere. E che tra un attimo sarebbe stato invitato ad andarsene.

Invece la donna lo sorprese.

– Stavo andando a sistemare gli animali – disse, accennando a due grosse borse di tela appoggiate al muro vicino alla porta, – vuoi farmi compagnia? Poi potremmo condividere quello che hai portato.

Morifinwë pensò che badare agli animali non era certo un compito adatto a uno dei figli del principe Fëanáro e rispose, all’istante: – Volentieri.

Elle prese il sacchetto dei dolci e lo portò in casa, poi si caricò a tracolla le due borse e gli fece cenno di seguirla.

– Non teniamo molti animali – spiegò, incamminandosi, – per lo più alleviamo cavalli, e di quello si occupa la signora Rowen coi suoi uomini. Non ci metteremo molto.

– Non mi importa – disse Morifinwë, e si stupì nello scoprire che era vero. – Ho la mattina libera.

 

 

Fecero il giro della casa passando dal lato del frutteto. Attraversarono il cortile sul retro e raggiunsero il fienile, sotto il cui portico una donna dai capelli chiari e un uomo con una lunga cicatrice sul viso affilavano le lame di alcuni attrezzi. Poi proseguirono per i campi verso est, allontanandosi dalla fattoria nella direzione opposta all’area destinata ai cavalli. Il cielo era coperto da nuvole basse che promettevano pioggia e nell’aria aleggiava una debole foschia.

Elle camminava accanto a lui, alta e silenziosa. Ogni tanto Morifinwë ne sbirciava il profilo deciso, le braccia asciutte su cui risaltavano i muscoli definiti e il polso sinistro coperto dal bracciale di cuoio, ma per lo più teneva lo sguardo rivolto davanti a sé, sulla realtà che emergeva poco a poco dalla nebbia, i campi piatti e nudi, gli alberi quasi spogli e le basse siepi.

Il silenzio in presenza di Elle non lo metteva a disagio. La consapevolezza che non ci fosse bisogno di parlare, di trovare a tutti i costi un argomento di conversazione, gli infondeva serenità, proprio come era successo la sera in cui lei gli aveva offerto succo di mela ghiacciato dopo la lezione. E proprio come allora, Morifinwë sentì un’insolita pace farsi strada nel suo animo perennemente agitato. Una pace che difficilmente riusciva a provare, perfino a casa sua.

Il sentiero li condusse al luogo in cui sorgevano i ricoveri dei pochi animali di cui aveva parlato Elle: un pollaio, una conigliera e una bianca costruzione, bassa e lunga, dalla quale provenivano rari muggiti.

Elle aprì il cancelletto del pollaio e le galline uscirono tra schiamazzi e volare di piume, poi gli indicò un cesto di vimini che era appoggiato poco distante e gli disse: – Uova.

Morifinwë spalancò gli occhi. Una cosa era seguire la donna nei suoi compiti per farle compagnia, una completamente diversa era mettersi a fare il lavoro di un contadino. Si era forse dimenticata con chi aveva a che fare? Era il nipote del re, lui!

Ciononostante, afferrò il cesto ed entrò nel pollaio. Si affrettò a raccogliere le uova dai nidi incustoditi e a depositarle con cautela sul fondo del cesto. Quando uscì, vide che Elle aveva liberato anche i conigli, che adesso saltellavano nel prato dove si erano sparpagliate le galline. La donna riempì le mangiatoie con il contenuto delle borse, si fece consegnare il cesto delle uova e disse: – Ci manca solo il latte.

Morifinwë ebbe l’imbarazzante visione di sé stesso accucciato ai piedi di una mucca a chiedersi con terrore dove mettere le mani. Ma Elle non fece altro che raccogliere due grossi contenitori cilindrici appoggiati appena fuori dalla porta della stalla, agganciarli alle estremità di un palo e caricarseli sulle spalle.

Morifinwë realizzò con sollievo che la mungitura era stato compito di qualcun altro e ne ebbe la conferma quando Elle gridò: – Io vado, Faniel – e dall’interno dell’edificio una voce femminile le rispose, in tono allegro: – A domani, Elle! – e poco dopo, in tono ancora più allegro: – A domani, aiutante di Elle!

Morifinwë arrossì nel sentirsi chiamare così, tanto più che Elle stava portando tutto da sola: le borse vuote, il cesto delle uova e quella specie di bilanciere sulle spalle, che doveva pesare non poco. In quanto aiutante, non è che fosse granché d’aiuto.

Cercò di rimediare. – Vuoi una mano? – le chiese, accennando ai contenitori del latte.

– Sarei davvero messa male se avessi bisogno dell’aiuto di un ragazzino – disse lei, incamminandosi.

Lo disse senza cattiveria, col tono neutro di chi esprime un dato di fatto, ma Morifinwë si sentì insultato lo stesso. Come si permetteva di rifiutare il suo aiuto? Non era una cosa che concedeva a chiunque.

– Ehi! – le gridò, allungando il passo per rimanerle a fianco. Evidentemente i contenitori non erano pesanti come sembrava, perché Elle manteneva il ritmo sostenuto dell’andata senza dare segni di affaticamento. – Quando servivi i Cacciatori, laggiù all’Est, non avevi bisogno del loro aiuto per sopravvivere?

– Chi ti ha detto che servivo i Cacciatori? – domandò lei, senza fermarsi.

Morifinwë diede voce alle sue supposizioni, che col tempo erano maturate in certezze. – Ho pensato che, dato che sei una Nata all’Est e che sei al servizio della famiglia di Rowen…

– Io non servivo i Cacciatori – lo interruppe Elle, – ero una di loro.

Morifinwë si accorse di essere rimasto indietro di nuovo. A bocca aperta, per di più.

– Eri una Cacciatrice? – domandò, quando ebbe recuperato la voce. La raggiunse con una breve corsetta. – Allora è vero che hai un tatuaggio sotto quel bracciale!

Una ruga verticale comparve tra le sopracciglia della donna e le sue labbra assunsero una piega più severa del solito.

– Non ne voglio parlare – disse.

– Ma, non capisco – non riuscì a trattenersi lui, – se eri una Cacciatrice, come mai adesso sei…

– Una serva? – concluse Elle, e questa volta la sua voce lasciò trasparire una leggera nota di fastidio. – Ti sembra che ci sia bisogno di molta gente abile con le armi, qui in giro? Gente che vede al buio, che non dorme quasi mai, che espande le percezioni per tenere sotto controllo due leghe di territorio perché non ci sorprendano belve feroci? Io quello so fare, ragazzino.

Si fermò e lo guardò in faccia, come per accertarsi che le sue parole venissero comprese.

Ma Morifinwë continuava a non capire. Ribatté: – Cosa vuol dire? Puoi imparare a fare altro, ci sono mille cose che puoi fare. Qui in Aman si può fare tutto.

– E infatti ho imparato a prendermi cura degli animali e delle persone – rispose lei, di nuovo col tono piatto di chi constata l’evidenza.

– Ma… – ricominciò lui.

– Ti ho detto che non ne voglio parlare – tagliò corto la donna, – pensavo che tu fossi in grado di capirlo questo.

Morifinwë sentì l’enfasi posta su quel “tu” e pensò a ciò che aveva provato poco prima camminando accanto a lei: all’inconsueta pace e ai silenzi che confortavano invece che mettere a disagio. Per la prima volta si chiese se anche per lei non fosse lo stesso. Forse anche Elle apprezzava la compagnia di qualcuno con cui non doveva spiegarsi.

– Sì – le disse, – lo capisco. Scusa.

Elle ricominciò a camminare senza dire altro, e lui pensò di averla irrimediabilmente irritata e di aver rovinato quella che, fino a quel momento, era stata una piacevole mattinata. Ma poco dopo la vide piegare un angolo della bocca. “Che c’è?”, stava per chiederle, ma lei lo precedette e, sollevando il palo con attaccati i secchi per levarselo dalle spalle, disse: – Se proprio insisti, puoi portarlo tu.

 

 

Morifinwë arrivò alla fattoria madido di sudore, con la schiena a pezzi e le spalle che bruciavano, ma senza emettere un lamento. Quando Elle sganciò i contenitori dall’asta, lui si sentì così leggero che gli parve di sollevarsi da terra.

Consegnarono il latte all’uomo con la cicatrice, che aveva lasciato il fienile e ora li aspettava davanti all’ingresso. Nel farsi carico dei secchi, l’uomo lanciò a Morifinwë una lunga occhiata a metà tra il rispetto e la sorpresa.

Elle entrò in casa il tempo necessario a posare il cesto delle uova, e riapparve col sacchetto dei dolci e una bottiglia.

– Perché mi ha guardato così? – le chiese Morifinwë, mentre si incamminavano verso il frutteto.

– Chi?

– Cicatrice.

Elle inarcò un sopracciglio alla scelta del soprannome. – Perché non permetto mai a nessuno di fare le cose al posto mio – rispose.

– Ah, in questo caso – disse lui, massaggiandosi le spalle doloranti, – sono onorato che tu abbia fatto un’eccezione per me.

Elle incurvò appena le labbra, in quello che ormai Morifinwë sapeva essere la cosa più vicina a un sorriso che ci si potesse aspettare da lei, poi disse: – A quanto pare, anche il mio orgoglio si è preso una vacanza.

Arrivati alla panchina di pietra sotto il ciliegio, presero posto come il giorno precedente, lei nella zona più in ombra, lui alla debole luce di quel mattino uggioso.

Elle gli passò la bottiglia e Morifinwë bevve un lungo sorso. Era spremuta d’arancia, e pur non essendo la sua bibita preferita, aveva una tale sete che gli sembrò la cosa più buona che avesse mai bevuto.

Lei prese uno dei panini di Calwen, lo assaggiò e lo approvò con un mugugno soddisfatto. Finì di mangiarlo con calma prima di tornare a rivolgersi a lui.

– Tu non mangi, ragazzino? – gli chiese.

Invece di rispondere, Morifinwë disse: – Ho parlato a mio padre.

Gli uscì così, dal nulla, senza averne avuta l’intenzione.

Elle mise giù il secondo dolcetto, si pulì le mani una contro l’altra e gli dedicò tutta la sua attenzione.

Lui prese un respiro profondo e disse: – Gli ho detto quello che ho fatto. Che ho barato alla gara.

Poi scosse la testa e continuò: – Non credo che la cosa l’abbia sorpreso. Di sicuro non l’ha sconvolto. Almeno non tanto da distoglierlo dai suoi affari.

A ripensarci si sentiva ancora annodare lo stomaco. – Eru! Ho pensato di morire di vergogna prima, e di rabbia dopo. Non credevo che ce l’avrei fatta – concluse, e per la prima volta provò, insieme alla vergogna e alla rabbia, la soddisfazione per non essersi fatto bloccare dalle sue paure.

– Hai avuto coraggio – disse Elle, come se gli leggesse nel pensiero.

– No – disse lui, – ho avuto un fratello grosso due volte me che mi aspettava fuori per darmele di santa ragione se non l’avessi fatto.

Elle lo guardò per un lungo istante, con un sorriso trattenuto che le increspava le labbra. Poi fece una cosa che Morifinwë non le aveva mai visto fare: scoppiò a ridere.

I suoi occhi scintillarono dietro le palpebre socchiuse, come se avesse polvere di pietre preziose impigliata tra le ciglia. Le sue labbra scoprirono denti bianchissimi, e lui fece appena in tempo a notare che da un incisivo mancava un angolino, prima che lei si coprisse la bocca con una mano. Forse voleva nascondere quell’imperfezione, o forse voleva nascondere il fatto stesso che stava ridendo. Sembrava sorpresa della cosa almeno quanto lo era Morifinwë.

È bello vederti ridere, gli venne da dire, e si morse il labbro per non lasciarselo sfuggire.

– Sei il solito esagerato! – esclamò lei, interrompendo la contemplazione di Morifinwë e riportandolo all’argomento in questione.

– Lo dici perché non conosci Tyelko – ribatté lui, – è forte come un toro e largo come un armadio a due ante; non c’è niente che non gli riesca quando si tratta di muscoli.

– Se è così grosso mancherà in agilità – osservò lei.

– Macché, è bravo anche in quello! Una volta l’ho visto saltare…

Morifinwë si interruppe, colpito da una rivelazione improvvisa. In realtà, c’era una cosa che non aveva mai visto fare a Tyelkormo! E l’aveva vista fare proprio lì, alla fattoria, dal fratello di Lissi.

Un’idea folle gli balenò nella mente.

– Sei stata tu a insegnare a Káino a saltare sul cavallo al volo, vero? – disse.

Lei annuì, distratta, mentre tornava a occuparsi del suo dolce.

Morifinwë si vide volteggiare su Morvail davanti agli occhi stupiti e ammirati di Tyelkormo, s’immaginò il fratello che lo elogiava, che lo invidiava.

– Potresti insegnare anche a me? – chiese, cercando di mascherare l’impazienza.

Elle aveva ancora un luccichio divertito negli occhi, sebbene la sua espressione stesse rapidamente tornando quella impassibile di sempre.

Morifinwë lo considerò un buon segno e aggiunse: – Per favore?

– Non credo sia una buona idea – disse lei, ma non sembrava particolarmente convinta. Nè particolarmente interessata, a dire il vero, intenta com’era a gustarsi il suo dolce preferito.

– Ti porterò i secchi del latte ogni volta che vorrai – insistette lui, ignorando la sua schiena dolorante.

Elle scrollò le spalle e finì il panino in un sol boccone: – Non ne ho bisogno – bofonchiò.

– Ti pagherò in dolcetti al cioccolato! – la incalzò.

Questo attirò la sua attenzione. – Certo che sei testardo, ragazzino.

Morifinwë raddrizzò le spalle e si batté un pugno sul petto.

– Puro Noldo – dichiarò.

La battuta le strappò un altro mezzo sorriso e una concessione: – Vedremo.

Morifinwë stava per aprire bocca di nuovo, quando lei si alzò e disse: – Ora devo tornare al lavoro. Grazie per la colazione.

La guardò allontanarsi, con i suoi movimenti calibrati che non sprecavano neanche un briciolo di energia e i suoi passi silenziosi, che non facevano rumore nemmeno sulle foglie secche.

Quando tornò ad abbassare lo sguardo, si accorse che si era portata via il resto dei dolci.

Morifinwë sorrise fra sé. Forse aveva qualche speranza di riuscire a convincerla.

 

 

 


NOTE

Grazie a chi ha letto!

Nomi canonici, conversione Quenya - Sindarin
Morifinwë, Moryo = Caranthir
Tyelkormo (qui chiamato anche Tyelko) = Celegorm
Curufinwë = Curufin
Fëanáro = Fëanor

Personaggi di mia invenzione
Arsanarwë, il maestro di matematica di Morifinwë
Rowen, la moglie di Arsanarwë, fondatrice della fattoria, allevatrice di cavalli
Faniel, una donna che lavora alla fattoria. Il suo nome è un epessë che viene da fana (white), a causa di un ciuffo di capelli chiarissimi che spicca tra sua capigliatura nera.
Calwen, la responsabile delle cucine al palazzo di Fëanáro
Lissi, una bambina cha abita alla fattoria, nipote di Arsanarwë
Káino, il fratello maggiore di Lissi

 

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Capitolo 12
*** Amici ***


12

Amici

(o quando decidi che la tua vita non può esaurirsi tra le mura di casa tua)

 

“Non ne parleremo più”, aveva detto il padre quando Morifinwë gli aveva confessato che aveva sabotato la canoa del cugino per vincere la gara. Ma sarebbe stato più corretto se avesse detto: “non parleremo più”.

All’apparenza, nulla sembrava cambiato da quella che Morifinwë dentro di sé definiva la serata peggiore della sua vita. Fëanáro continuava a consultarsi con Russandol, a informarsi sulle decisioni di Makalaurë, a sopportare i racconti di Tyelkormo, a dimostrare un enorme interesse per i progressi del piccolo Curvo, e un interesse molto più blando quando si trattava della vita del suo quartogenito.

Ma Morifinwë percepiva la tensione che si frapponeva tra lui e il genitore quando erano costretti a scambiarsi poche parole; in quelle occasioni aveva la chiara sensazione che il padre avrebbe fatto volentieri a meno di parlargli se le circostanze non l’avessero obbligato.

Con Tyelkormo le cose andavano anche peggio; da quella fatidica sera in cui l’aveva costretto a confessare ciò che aveva fatto, Morifinwë non voleva più averci niente a che fare. E considerato che i due fratelli maggiori era come se abitassero in un altro mondo, ognuno preso dai propri impegni, e che col piccolo non ci parlava neanche prima se poteva evitarlo, Morifinwë ebbe modo di scoprire che la solitudine tanto agognata, una volta ottenuta, non gli era gradita come credeva.

La porta di sua mamma era sempre aperta, metaforicamente e letteralmente; il laboratorio avrebbe potuto continuare a essere il suo rifugio, ma anche lì Morifinwë cominciava a sentirsi stretto, come chi cerca di infilarsi vestiti che non vanno più bene. La mamma finiva sempre per dirgli le stesse cose, e anche se il più delle volte erano parole di conforto, lui non le trovava più utili come quando era piccolo.

Non riuscendo a ottenere pace in casa propria, Morifinwë cominciò a frequentare sempre più spesso la fattoria, anche quando non era atteso dal maestro per le lezioni.

Nei pomeriggi in cui aveva poco da studiare, e in cui non gli venivano assegnati altri incarichi, sgattaiolava nelle cucine a rubare qualche dolcetto, saltava in groppa a Morvail, scendeva nella Piana e raggiungeva la casa di Arsanarwë e di sua moglie.

Káino lo accoglieva sempre con entusiasmo. Morifinwë poteva arrivare carico di dolci o a mani vuote, poteva essere in vena di scherzare o di umore nero, poteva aver voglia di divertirsi oppure essere alla ricerca solo di un posto dove rintanarsi per sfuggire alla sua famiglia, per il fratello di Lissi non faceva alcuna differenza. Il ragazzo era allegro per natura, estroverso, e soprattutto loquace: amava raccontare di sé, di ciò che faceva, di ciò che accadeva alla fattoria.

Fu dai suoi racconti che Morifinwë scoprì che era stata la sorella maggiore di Rowen, la madre di Káino e Lissi, ad avviare l’allevamento molto prima che i due fratelli nascessero, e che ora lei si occupava, insieme al marito, di viaggiare per tutto Aman alla ricerca di nuovi esemplari per far crescere la loro attività.

Káino non vedeva l’ora di essere abbastanza grande da poterli seguire. Aveva tutta l’intenzione di imparare il mestiere dei genitori e di lavorare al loro fianco una volta adulto, ma la madre era convinta che per fare una scelta consapevole bisognasse avere delle alternative e per questo ci teneva che frequentasse la scuola di Arsanarwë.

– Mamma dice che devo ampliare i miei interessi – sbuffava Káino quando Morifinwë lo trovava con la testa china sul foglio, seduto al tavolo della cucina, con le dita tutte sporche di inchiostro, a macchiare la pagina.

Per Morifinwë, affiancato fin da piccolo da maestri incaricati di dargli l’istruzione migliore, era quasi inconcepibile che qualcuno non fosse in grado di scrivere correttamente. Allora si sedeva accanto a lui e gli insegnava come tenere la penna, e gli dava consigli su come comporre le lettere nel modo più semplice e più elegante possibile.

Aiutare qualcuno nei compiti era una cosa del tutto nuova per Morifinwë, che non aveva mai potuto insegnare nulla al piccolo di casa. Scoprì che gli piaceva sentirsi utile, e ancor di più gli piaceva ricevere le immancabili lodi che le sue capacità suscitavano.

Ma la cosa più bella era quando Káino era libero dai compiti, e potevano dedicarsi ad attività ben più divertenti dello studio.

Allora, se il tempo lo permetteva, prendevano Morvail e Haninkë e galoppavano verso nord, tagliando per i campi, fino a raggiungere zone meno abitate, e s’immaginavano di essere i primi a mettere piede in quei luoghi e giocavano a fare gli esploratori di terre sconosciute. Quando trovavano il coraggio di addentrarsi nei fitti boschi alle pendici dei monti, dove la luce degli Alberi Sacri faticava a penetrare, fingevano di essere eroi della Grande Marcia nella terre dell’Est, dove non c’era altra luce che quella delle stelle. La finzione terminava immancabilmente quando si imbattevano per davvero in un animale feroce che, disturbato dalla loro presenza nel bosco, li cacciava dal suo territorio.

Un pomeriggio, dopo una rocambolesca fuga da un cinghiale decisamente poco amichevole, seduti a riprendere fiato presso un ruscello sul limitare del bosco, Káino disse: – Magari un giorno ci andremo davvero, io e te.

Morifinwë, col cuore che ancora batteva forte per la corsa e per lo spavento, domandò: – Dove?

– In Endórë.

Un brivido percorse la schiena di Morifinwë. Una cosa era immaginarsi di vivere avventure in terre sconosciute, un’altra era prendere in considerazione per davvero l’idea di ritornare da dove i loro nonni erano scappati.

– E come? – chiese.

– Con una nave. E come se no? – disse Káino, che sembrava averci pensato seriamente. – Torneremo nella terra dei nostri padri e vivremo grandi avventure. Sconfiggeremo belve che qui esistono solo negli incubi, ritroveremo i Quendi che sono rimasti laggiù e li ricondurremo in Aman con noi.

Il ragazzo si alzò in piedi, raggiante, e agitando le braccia nell’aria proseguì: – Scriveranno canzoni su di noi: “Kainambárion e Morifinwë alla riconquista della terra perduta”.

Morifinwë, suo malgrado, si fece catturare dalla visione. C’era solo una cosa che stonava in quel progetto.

– “Morifinwë e Kainambárion”, vorrai dire.

Il sorriso di Káino non vacillò nemmeno un istante: – Ti piacerebbe. Ma ce l’ho io il diritto di precedenza.

Morifinwë si alzò a sua volta: – E perché mai?

Il ragazzo indicò sé stesso: – Perché so cavalcare meglio di te.

– E io so fare meglio tutto il resto – ribatté pronto Morifinwë.

– Questo non lo sai fare – disse Káino, e in un istante gli fu addosso.

Non potevi essere stato fratello di Tyelkormo per quarant’anni senza aver imparato come reagire a un assalto improvviso. Morifinwë sfruttò lo slancio dell’altro per trascinarlo a terra con sé e guadagnare una posizione di vantaggio. Káino doveva aver avuto anche lui la sua dose di esperienza nella lotta corpo a corpo, perché si divincolò sgusciando dalla sua presa appena toccarono il suolo. Finirono a rotolarsi tra le foglie del sottobosco fino a quando un grugnito tra i cespugli non li fece scattare in piedi e correre a recuperare i loro cavalli.

Tutti i propositi di lasciare Valinor per andare alla ricerca di avventure nel continente oltremare evaporavano come acqua sul ferro rovente quando i due ragazzi, nel loro vagabondare, invece che dirigersi a nord, si spingevano verso ovest, fino ad arrivare in vista di Valmar. Allora si sdraiavano sul manto erboso di una collina nei pressi del Corollairë, a braccia aperte per godere del calore di Laurelin in pieno petto, così raro in quel periodo dell’anno, e ammiravano la città dalle molte campane, con le sue guglie e le sue torri, e i giardini dai fiori variopinti che non appassivano mai, nemmeno in pieno Ulvórë. La guardavano risplendere sotto la luce diretta dell’Albero d’oro, come una fiamma multicolore, e attendevano il rintocco delle campane che annunciava il passaggio all’ora successiva come il suono più dolce che mai avesse raggiunto le loro orecchie.

Quello era il cuore pulsante del loro regno, la fonte di potere che manteneva viva la loro terra, che la conservava rigogliosa e protetta. La terra a cui loro sentivano di appartenere.

Fu proprio tornando da Valmar che un tardo pomeriggio vennero colti da un acquazzone. Furono costretti a lasciare in tutta fretta la via Ezellohar e a rifugiarsi sotto un’imponente quercia poco distante dalla strada.

Morifinwë amava la pioggia: amava il suono che faceva mentre picchiava sul tetto di foglie, l’odore di terra bagnata che si liberava dal suolo, e la cortina scintillante che lo richiudeva in un bozzolo separato dal mondo. Ma Káino cominciò ben presto ad annoiarsi e prese a tirare calci ai sassi, a dondolarsi sui rami bassi, a rovistare nel terriccio bagnato alla ricerca di chissà cosa. Quando iniziò a tirargli addosso delle ghiande, Morifinwë capì che avrebbe dovuto inventarsi qualcosa per intrattenerlo.

– Passami un pezzo di legno – gli disse.

– Quale? – sbuffò Káino, guardando ai suoi piedi il terreno smosso.

– Uno qualsiasi, basta che non sia troppo umido.

Káino gliene lanciò uno grosso come un pugno, tondeggiante, con due bozzi in cima.

– Cosa vuoi farci?

Aveva ancora il volto imbronciato, ma dal suo tono Morifinwë capì di aver solleticato la sua curiosità. Si dipinse sul volto un’aria misteriosa e disse: – Una magia.

Poi accennò al pezzo di legno e aggiunse: – Cosa ti ricorda?

Káino disse: – Un coniglio col mal di pancia.

– E coniglio sia – decretò Morifinwë, e tirò fuori dalla tasca il suo coltellino.

Non l’aveva più toccato dal giorno della gara, sebbene continuasse a portarlo con sé, perché ogni volta che lo guardava era assalito dalla vergogna. Passò il pollice sulla lama per controllarne il filo e cominciò a lavorare.

Káino si accucciò accanto a lui e rimase a guardarlo, buono e zitto, smettendo di agitarsi, mentre lui dava forma al coniglietto. Il coltello da tasca non era uno strumento adatto a quel lavoro e il legno era troppo poco tenero, senza contare che Morifinwë non aveva gli attrezzi per levigarlo. Ne venne fuori un lavoro raffazzonato, solo vagamente somigliante a un coniglio, con le orecchie asimmetriche e il muso troppo spigoloso, ma Káino fischiò tra i denti in segno di ammirazione.

Morifinwë glielo consegnò, arrossendo appena.

– Davvero niente male, Fëanárion.

Era la prima volta che Káino lo chiamava con l’appellativo che lo legava al padre. Probabilmente immaginava che fosse stato lui a insegnargli a intagliare il legno. “Ho imparato dalla mamma” avrebbe voluto precisare Morifinwë, ma decise di godersi in silenzio il suo momento di gloria.

Káino si rigirò il coniglio tra le mani, ammirandolo da ogni lato, poi fece per restituirglielo.

Morifinwë scosse la testa e non lo volle indietro. Non era bravo con le parole, ma sperò che il significato fosse chiaro.

Káino, però, era uno che non stava mai zitto: – Sei un amico, Moryo – disse, solennemente.

E così, sotto il primo vero acquazzone della stagione, la nascita della loro amicizia fu sancita ad alta voce.

 

Quando Káino era indaffarato con altri incarichi, Morifinwë trascorreva il pomeriggio con la piccola Lissi, il più delle volte a giocare con il suo puledro, che cresceva a vista d’occhio, e con Morvail, che sembrava apprezzare i viaggi alla fattoria almeno quanto il suo padrone. Morifinwë non l’avrebbe mai ammesso, ma il tempo passato con Lissi e con i cavalli non era affatto noioso come voleva far credere a Káino quando fingeva di lamentarsi con lui.

Quando non c’erano né Lissi né il fratello, Morifinwë aveva la scusa per stare con Elle. Come era accaduto la mattina della sua improvvisata, la donna accettava di farsi accompagnare nelle sue faccende e permetteva a Morifinwë di darle una mano. Talvolta si dedicavano alla potatura della vite, rimasta spoglia dopo la vendemmia, oppure si occupavano di rastrellare le foglie nel frutteto, che si accumulavano sempre più numerose dopo ogni pioggia. Se Elle doveva fabbricare nuove gerle, lui la assisteva decorticando i rami di salice che lei intrecciava, se doveva riparare qualche strumento complesso, lui le passava gli attrezzi. Raramente Morifinwë rimaneva così a lungo da andare a recuperare la mungitura della sera, ma in quelle occasioni facevano a turno per portare i secchi del latte.

Elle non era come Káino o Lissi, che sprizzavano entusiasmo da tutti i pori appena lo vedevano arrivare. Il volto della donna era sempre impassibile, i suoi sorrisi rari, le sue parole centellinate. Eppure accettava la presenza di Morifinwë come se sapesse perfettamente quanto fossero importanti per lui quei momenti di quiete, di silenzi prolungati, di attività manuali ripetitive che lo distoglievano dai suoi pensieri. Pensieri che, ultimamente, erano più che mai un perenne rimuginare su errori passati e su un futuro a cui non riusciva a dare forma.

Ma c’era anche un motivo ben più concreto che lo spingeva a stare con Elle: più frequentava Káino, più desiderava imparare a montare a cavallo come lui, se non per impressionare Tyelkormo, almeno per non essere più costretto a sorbirsi le vanterie dell’amico. Káino gli aveva detto che non se la sentiva di insegnargli perché non era abbastanza bravo – anche se Morifinwë sospettava che lo facesse per non perdere la sua superiorità – e così, ogni volta che vedeva Elle, non perdeva mai l’occasione per ricordarle la sua mezza promessa.

E forse fu per la sua insistenza, o perché a un certo punto anche Káino si unì alla sua causa e cominciò ad assillarla come solo uno che non conosce il significato della parola tacere può fare, che la donna alla fine acconsentì.

Non troppo distante dal campo recintato dove venivano addestrati i cavalli, c’era una vasta area attrezzata per la corsa a ostacoli, e in un angolo riparato alla vista da alte siepi c’era un piccolo spiazzo quadrato con uno strano attrezzo nel centro. Si trattava di una specie di barilotto rivestito di cuoio, fissato orizzontalmente su due cavalletti di legno.

Elle ci portò Morifinwë per la prima volta un tardo pomeriggio di una giornata quasi tersa. Era da qualche giorno che non pioveva e il terreno era asciutto; un tempo inconsueto in pieno Ulvórë.

Káino era con loro e Morifinwë non sapeva se essere più contento perché aveva l’amico con sé, o più preoccupato perché, se avesse fatto una brutta figura, nel giro di un’ora l’avrebbe saputo tutta la fattoria. Il ragazzo aveva sul viso un’espressione spavalda che scomparve non appena Elle gli chiese di mostrare a Morifinwë cosa avrebbe dovuto fare.

Káino esitò un attimo, poi prese la rincorsa e giunto a un passo dall’attrezzo, caricò il peso sul piede destro per darsi lo slancio e saltò. Puntò la mano contro il lato del cilindro e ci finì sopra a cavalcioni.

Morifinwë ripercorse la scena nella sua mente: correre, battere il piede, puntare la mano e saltare. Niente di complicato. Si chiese per chi lo avessero preso, non era certo estraneo a gesti atletici di quel genere. Si domandò perché avessero dovuto cominciare con quello stupido barile di cuoio e non con un cavallo vero.

Senza attendere alcun segnale partì, deciso a mostrare che quella parte era superflua. Eseguì una rincorsa perfetta, si staccò dal terreno con ostentata eleganza… e atterrò a cavalcioni sull’attrezzo ricevendo un forte colpo in una zona molto delicata del corpo. Un lampo bianco gli attraversò la mente e un dolore acuto gli mozzò il respiro in gola, e fu un bene, perché se gli fosse uscito un fiato sarebbe stato molto probabilmente uno strillo imbarazzante.

Sentì la voce di Káino tra le risate: – Ehi, Moryo, così ti rovinerai l’attrezzatura ancora prima di cominciare a usarla!

Morifinwë si lasciò scivolare dal finto cavallo con un grugnito. Prese in prestito una delle smargiassate di Tyelkormo: – E chi ti dice che devo ancora cominciare?

– Da solo non conta – precisò Káino.

– Ragazzini – li sgridò Elle, con un tono secco che la diceva lunga su cosa ne pensava delle battute a sproposito. Poi si rivolse a Morifinwë.

– Per imparare è necessario prima di tutto guardare bene.

– Ma io ho guardato! – esclamò Morifinwë.

– Non abbastanza bene, a giudicare dal risultato – disse lei, senza scomporsi.

Poi aggiunse: – Faglielo rivedere, Káino, per favore.

Káino obbedì, e questa volta Morifinwë fece molta più attenzione. Notò che la mano del ragazzo non lasciava la superficie dell’attrezzo dopo l’impatto, ma che con essa Káino ammortizzava la discesa, cosa che faceva anche stringendo le gambe attorno al finto cavallo, e inclinandosi di poco verso l’indietro.

Elle gli chiese di esporle cosa aveva visto e lui glielo disse.

– Molto bene – approvò lei. – Ora cerca di farlo uguale.

Morifinwë ci riprovò ma, concentrato com’era sulla mano, la appoggiò troppo presto, venne sbilanciato e finì a terra, oltre l’ostacolo.

Káino questa volta non rise e Morifinwë si rialzò nel silenzio più assoluto, si scosse i vestiti dalla terra e ci ritentò. Poi lo fece ancora. E ancora. Senza lamentarsi più.

Káino li lasciò presto, forse si annoiava o forse aveva altri impegni, e qualche tempo prima del mescolarsi delle luci anche Elle dovette andarsene per dare una mano con la cena. Lui volle restare ancora. Determinato a rimediare alla sua figuraccia e a imparare al meglio, provò e riprovò finché non riuscì a eseguire il movimento esattamente come il suo amico.

E poi andò ancora avanti, perché aveva capito come migliorarlo.

Quando Elle tornò, lui le mostrò ciò che aveva scoperto: se uno aveva sufficiente forza sulle gambe, non doveva sbilanciarsi all’indietro in fase di atterraggio e il movimento era più pulito.

Elle lo guardò col suo viso impassibile.

– Notevole – disse. – Ma ora vai a casa, ragazzino, prima che Fëanáro mandi qualcuno a controllare che non ti abbiamo rapito.

Quella sera, a cena, Morifinwë riusciva a stento a stare seduto. Fondoschiena e cosce gli dolevano come se il cuscino della sedia fosse stato sostituito con dei sassi appuntiti, le gambe erano rigide come pali di legno, per non parlare dell’indolenzimento di ciò che aveva tra le gambe, che era ancora più preoccupante.

Curufinwë lo provocò, ma senza l’appoggio di Tyelkormo – che per una volta sembrava deciso a ignorare il piccolo – le sue battute ebbero vita breve.

Morifinwë rimase chiuso in sé stesso, mentre quel “notevole” riecheggiava nella sua testa e gli dava la forza di sopportare l’indifferenza del padre.

Nessuno gli chiese nulla riguardo al suo agitarsi sulla sedia o alle smorfie di dolore che ogni tanto gli sfuggivano, ma quando Morifinwë si ritirò nella sua stanza trovò sul comodino un barattolo di unguento. Accanto c’era un bigliettino con la calligrafia tondeggiante della madre: “due volte al giorno, massaggia bene i muscoli”.

 

 

 


NOTE

Grazie a chi è arrivato fin qui!

Nomi canonici, conversione Quenya - Sindarin
Morifinwë, Moryo = Caranthir
Russandol = Maedhros
Makalaurë = Maglor
Tyelkormo = Celegorm
Fëanáro = Fëanor
Curvo, Curufinwë = Curufin
Fëanárion = figlio di Fëanáro
Endórë = Terra di Mezzo
Quendi = il nome che originariamente gli Elfi diedero a sé stessi

Personaggi di mia invenzione
Arsanarwë, il maestro di matematica di Morifinwë
Rowen, la moglie di Arsanarwë, fondatrice della fattoria, allevatrice di cavalli
Lissi, una bambina cha abita alla fattoria, nipote di Arsanarwë
Káino (Kainambárion), un amico di Morifinwë, fratello maggiore di Lissi
Morvail, il cavallo di Morifinwë
Haninkë, il cavallo di Káino

Nomi di mia invenzione
Ulvórë, una stagione a metà tra l’autunno e un mite inverno

 

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Capitolo 13
*** Una cena fuori casa ***



13

Una cena fuori casa

(o quando ti sorprendi a fare cose che non pensavi di saper fare)


 

Ci volle quasi una settimana di ossa rotte sull’attrezzo a barilotto e un’altra boccetta di unguento a base di asëa della mamma, prima che a Morifinwë venisse concesso di provare il salto con Morvail.

Era un’altra giornata limpida, sebbene più in linea con la stagione, il terreno era bagnato e l’aria frizzante. Una di quelle giornate in cui anche nella Piana si poteva indossare giacca e stivali senza morire di caldo.

Non che Morifinwë avesse una giacca, ovviamente. Sapendo ciò che lo aspettava, indossava una casacca di morbida maglia chiusa in vita da una fascia e pantaloni larghi e comodi. Per quanto fosse impaziente di mettersi alla prova, non era sicuro di cosa sarebbe riuscito a fare, e ci mancava solo uno strappo sul cavallo dei pantaloni per unire al danno del fallimento la beffa del ridicolo.

Il posto scelto da Elle per completare il suo addestramento, un campo vicino al cortile dove tenevano gli animali, era decisamente più isolato rispetto a dove si era allenato col finto cavallo. Morifinwë ne fu sollevato perché significava che avrebbero evitato di attirare l’attenzione di eventuali curiosi.

A parte due, si capisce.

Lissi e Káino non si sarebbero persi lo spettacolo per niente al mondo. La bambina aveva tenuto per mano Morifinwë per tutta la strada fino al campo, trascinandoselo appresso, impaziente di vedere cosa avrebbe combinato il suo personale fornitore di dolcetti. Il fratello aveva già un mezzo ghigno stampato sul volto. Se fosse contento per Morifinwë, che finalmente arrivava a concludere l’addestramento, o se già pregustasse l’esibizione ridicola a cui avrebbe presto assistito, lui non poteva saperlo.

Elle estrasse dalla tasca del suo abito azzurro un gessetto e fece un cerchio sul manto scuro di Morvail proprio sopra la spalla destra dell’animale, poi gli mormorò poche parole che Morifinwë non comprese. Morvail rimase, ubbidiente, al limitare del campo, mentre loro avanzavano fino al centro.

Lissi gli lasciò la mano e andò col fratello a sedersi su una staccionata poco distante.

– All’inizio proverai da fermo – disse Elle, – devi prima imparare a colpire con precisione il punto che ho segnato sulla spalla di Morvail, ed è più facile se non siete entrambi in movimento.

Gli mostrò la posizione che doveva assumere: un piede poco più avanti dell’altro e il braccio destro disteso davanti a sé. Poi si mise alle sue spalle e gli afferrò il polso per correggere i particolari.

– La mano aperta – disse, e Morifinwë sentì il fiato che accompagnava le sue parole accarezzargli i capelli in cima alla testa. Non si era reso conto di quanto fosse vicina.

Così vicina che, nonostante fossero a contatto solo attraverso il polso, Morifinwë sentiva il corpo di lei che lo schermava dalla brezza fresca di quel tardo pomeriggio.

Si accorse di avere le mani sudate. E subito dopo si accorse che non aveva ancora fatto come gli era stato chiesto. Si affrettò ad aprire la mano e respirò a fondo per placare il battito del cuore che per qualche motivo aveva preso a correre a velocità doppia.

– Non aver paura – mormorò Elle al suo orecchio.

Ah, dunque era quello il motivo: la paura. Meglio così, la paura era una cosa che sapeva gestire. Non poteva essere peggio di quella volta che aveva dovuto affrontare suo padre per dirgli di aver barato alla gara, o di quando Tyelko…

– Resta concentrato – lo ammonì Elle. – Se sei sicuro di te, il cavallo lo capisce e si fida.

– Beh, questo allora risolve tutto – commentò lui.

Morifinwë sentì la mano della donna vibrare contro il suo polso e capì che Elle stava trattenendo una risata, come l’aveva vista fare diverse volte ultimamente, quando lui se ne usciva con qualche battuta sarcastica.

Il ricordo di quei preziosi momenti in cui era riuscito a scalfire la corazza di autocontrollo della donna mandò in frantumi l’ultimo residuo di concentrazione che gli restava.

Cosa gli stava succedendo? E cosa aveva a che fare la paura col calore che gli era nato nel petto e si stava diffondendo in tutto il corpo, facendogli perdere la presa sui suoi nervi?

Che disastro. Non era pronto. Avrebbe fatto una figura terribile. Peggio, sarebbe stato calpestato dagli zoccoli del suo stesso cavallo. Doveva tornare ad allenarsi sul barile per un’altra settimana. O per un anno intero.

Il fischio di Elle interruppe il circolo vizioso dei suoi pensieri e richiamò Morvail, che si mise ad avanzare verso di loro a un blando trotto.

Morifinwë non ebbe nemmeno il tempo di rendersi conto di ciò che stava succedendo, che il cavallo gli fu addosso e Elle disse: – Salta!

Lui obbedì, ancora frastornato, mentre lei faceva eseguire la corretta torsione al suo polso durante l’impatto e, con l’altra mano, gli sosteneva il fianco per dargli lo slancio che lui, senza la rincorsa, non poteva darsi da solo.

Morifinwë atterrò di pancia sul dorso dell’animale, con le braccia avvinghiate al suo collo e le cosce che gli stringevano spasmodicamente i fianchi. Mancava poco che gli afferrasse la criniera tra i denti per non scivolare. Una posizione decisamente poco dignitosa. Ma almeno era ancora vivo.

Lissi balzò giù dalla staccionata e applaudì entusiasta, tutta saltelli e riccioli svolazzanti.

Káino, com’era prevedibile, scoppiò in una fragorosa risata.

Elle, imperturbabile alle reazioni di entrambi, disse: – È un buon inizio. Cerca di non sbilanciarti troppo in avanti quando atterri su Morvail.

– Ma è veloce… – si lamentò lui, mentre riguadagnava la posizione eretta.

– Andrebbe più veloce un cavallo di marmo – commentò Káino, con le lacrime agli occhi.

Morifinwë gli rivolse un gestaccio. L’amico gli rispose mostrandogli la lingua.

– Ragazzini – arrivò, puntuale, il richiamo di Elle.

Morifinwë tornò nel centro del campo dove la donna lo stava aspettando per un secondo salto.

Elle lo assistette un altro paio di volte, in una delle quali lui scivolò davvero da Morvail, e se non finì sotto i suoi zoccoli fu solo per l’agilità di quel benedetto animale, non certo per la propria prontezza di riflessi. Non si era mai sentito così goffo in tutta la sua vita.

Poi la donna incaricò Káino di sostituirla, forse per farlo smettere di fare commenti a sproposito, e Morifinwë scoprì con immenso piacere che con l’aiuto del ragazzo le cose andavano decisamente meglio. Sebbene fosse meno efficace di Elle nel dargli la spinta per il salto, la vicinanza di Káino non gli provocava strani sintomi come l’accelerazione del battito cardiaco o la sudorazione alle mani, o altre assurde reazioni del corpo del tutto fuori luogo. E questo aiutava moltissimo, considerato che la probabilità di non spezzarsi l’osso del collo dipendeva dal perfetto controllo del proprio fisico.

Dopo quattro o cinque prove con l’aiuto dell’amico, Morifinwë era talmente migliorato che lo stesso Káino non riuscì a trovare alcun commento spiritoso da fargli, e che Elle lo reputò pronto per cimentarsi nella rincorsa.

Lui fu preso alla sprovvista. Diversi giorni di lavoro al finto cavallo gli avevano fatto supporre che per riuscire a imparare il movimento completo ci sarebbe voluto molto più tempo. Invece, senza nemmeno accorgersene, si trovò in mezzo al campo con Elle al suo fianco che gli ripeteva tutte le raccomandazioni del caso e Morvail che scalpitava, in lontananza, come se avesse capito che questa volta le cose sarebbero state diverse.

Persino Káino, che era tornato ad assistere dalla staccionata, aveva perso la sua baldanza. A un tratto gridò: – Elle, perché non fai come hai fatto con me?

– Con lui non serve – fu l’immediata risposta della donna.

Morifinwë la guardò sorpreso. Esisteva una scorciatoia di cui nessuno gli aveva parlato? – Come hai fatto con lui? – domandò.

– Non ha importanza – cominciò Elle, ma Káino, che non stava mai zitto, si puntò un dito sulla tempia e disse: – Condivisione del pensiero. Nessun ritardo nella comunicazione, sapevo quello che dovevo fare nell’istante stesso in cui dovevo farlo.

– Con Morifinwë non serve – ribadì Elle e una piccola parte di lui notò che non l’aveva chiamato “ragazzino”, ma con tutto il resto di sé stesso ringraziò Eru che non fosse necessaria una condivisione mentale. Per qualche motivo, il pensiero di dovere aprire la mente a quella donna lo terrorizzava.

Eppure non poté trattenersi dal chiedere: – Perché non serve?

Lei abbassò la voce, per farsi sentire da lui soltanto: – Imparare da soli porta a risultati migliori, se uno ha le capacità per farlo.

Morifinwë spalancò gli occhi. Era un complimento quello che aveva appena ricevuto, o era una mera constatazione della realtà?

– Tu credi davvero che possa farcela? – le chiese.

Elle non esitò neppure un attimo: – Non ti farei provare se non ne fossi convinta.

Poi si tirò indietro di qualche passo e fece un gesto in direzione di Morvail, che si mise in movimento.

– Non temere – disse a Morifinwë. E subito dopo aggiunse: – Corri!

E lui corse.

Non solo corse. Fece molto di più. Sorretto dalla fiducia incondizionata che la donna aveva dimostrato di riporre in lui, quando Morvail fu alla distanza corretta si staccò da terra, colpì la spalla dell’animale nel centro del cerchio bianco, impresse la giusta torsione al polso e volteggiò in groppa al cavallo con un movimento che, se proprio non si poteva definire aggraziato, andava molto, ma molto vicino a esserlo.

A Káino cadde la mascella e per la prima volta da quando Morifinwë lo conosceva restò senza parole.

Lissi si mise a fare capriole di gioia, evidentemente i suoi soliti saltelli non erano abbastanza per celebrare l’occasione.

Elle piegò le labbra nel suo impercettibile sorriso.

Lui alzò le braccia al cielo e sfogò la tensione con un urlo selvaggio.
 


 

Quella stessa sera, per la prima volta, la signora Rowen gli chiese di rimanere a cena alla fattoria. Mandò qualcuno a casa sua ad avvisare che non sarebbe rientrato e non volle sentire scuse per rifiutare il suo invito. Non che Morifinwë ci tenesse particolarmente a rifiutare, a dire il vero. Aveva opposto una debole resistenza più per un’innata abitudine alla riservatezza, che per un reale desiderio di tornare a cenare a casa.

Káino lo accompagnò a darsi una sciacquata e gli prestò una camicia pulita. Morifinwë fece due risvolti alle maniche per non far vedere che gli erano corte e lo seguì fuori dall’ingresso principale.

Quando vide ciò che li aspettava sotto il portico, si rese conto che non si trattava di una semplice cena in famiglia, o che il concetto di famiglia che avevano in quel luogo era più esteso di quello a cui era abituato.

La tavola, costituita da lunghe assi di legno appoggiate su cavalletti e coperte da teli colorati, ospitava non meno di trenta persone ed era completa di panche e di sedie tutte scompagnate tra loro, come se ogni commensale avesse portato la propria. Era apparecchiata con stoviglie di terracotta, vassoi di metallo colmi di cibo, e brocche di acqua e di vino.

Morifinwë fece scorrere lo sguardo per tutta la sua lunghezza alla ricerca di due posti liberi. Alle due estremità sedevano Arsanarwë e la moglie. Accanto al primo, Morifinwë riconobbe l’uomo dai capelli d’argento che aveva incontrato la mattina della sua visita fuori programma e che, ebbe modo di sapere poco dopo, era il maestro di storia e tradizioni della scuola dove insegnava Arsanarwë.

Alla destra di Rowen sedeva un uomo dai lineamenti duri e dai muscoli pronunciati che Morifinwë aveva sentito chiamare Hyarmo, e al suo fianco stavano due ragazzi poco più grandi di Káino, gemelli a giudicare da quanto si somigliavano. Avevano gli occhi di un grigio così scuro che si faticava a distinguere la pupilla, e lunghi capelli neri e lisci. Morifinwë e Káino si sedettero nei posti liberi di fronte a loro, accanto a Lissi.

Completavano la tavolata altre persone che Morifinwë aveva visto spesso alla fattoria, tra le quali riconobbe l’uomo con la cicatrice e la donna che lavorava sempre con lui. Mancavano invece i genitori di Lissi e Káino, che erano in viaggio per lavoro. Con una punta di rammarico, Morifinwë si accorse che anche Elle non avrebbe cenato con loro.

Rowen lo presentò ai commensali elencando tutti i loro nomi, e lui tentò di mandarli a memoria sapendo già che non ci sarebbe riuscito. Gli restarono in mente solo quelli dei gemelli, Arion e Huinion, ma in nessun modo sarebbe riuscito a ricordarsi chi fosse uno e chi l’altro. Morifinwë venne presentato soltanto come Moryo, e lui si stupì nel realizzare che non gli dispiaceva affatto che non venissero menzionati i nomi di suo padre e di suo nonno.

Dopo il ringraziamento di rito a Yavanna, ognuno cominciò a servirsi delle pietanze disposte in centro tavola. Morifinwë prese a caso dai vassoi che gli erano più vicini, cercando di non attirare troppo l’attenzione. Temeva il momento in cui sarebbe stato chiamato a partecipare alla conversazione, quando avrebbe dovuto sforzarsi di dare una buona immagine di sé. Sarebbe stato allora che tutti avrebbero capito che Morifinwë Fëanárion, nipote del re, era solo un ragazzino qualunque, privo di particolari qualità.

Per fortuna, la conversazione riguardava argomenti di interesse quotidiano, prettamente legati alla vita in fattoria – come era stato risolto un problema di canalizzazione, chi aveva fatto l’ultimo tentativo di domare uno stallone particolarmente recalcitrante – cosicché Morifinwë non ebbe difficoltà a restarne fuori senza fare la figura del maleducato.

Questo finché Káino, come suo solito, non se ne uscì del tutto a sproposito.

– Lo sapete che Moryo è bravissimo a intagliare il legno? Ha scolpito un coniglio solo con un coltellino da tasca.

Morifinwë deglutì il suo boccone, che all’improvviso aveva assunto la consistenza della pietra, e per un attimo temette che l’amico tirasse fuori la sua mediocre scultura da una tasca per mostrarla a tutti.

Quando vide che non accadeva nulla e che il silenzio si prolungava, balbettò: – Ehm… sì, ho imparato da piccolo… ma non è che sia molto bravo.

E attese, rassegnato, i commenti su come suo padre, il grande Fëanáro, capace di eccellere in ogni campo, trovasse persino il tempo di insegnare ai suoi numerosi figli l’arte della scultura. E poi, a seguire, sarebbe arrivata la solita trafila di domande sul primogenito del re: a cosa stava lavorando, come aveva fatto a trovare l’ispirazione per la tal opera, come era riuscito a eseguire la tal altra, e com’era vivere fianco a fianco con un genio…

Invece l’uomo con la cicatrice disse: – Ho visto i lavori di dama Nerdanel, laggiù al crocevia. Un’artista di grande talento. Immagino che ti abbia insegnato lei.

– Sì – fu tutto quello che riuscì a dire Morifinwë, quando si riebbe dalla sorpresa.

– Caspita! Lavori anche la pietra? – chiese uno dei gemelli, gli occhi accesi dalla curiosità, oppure, Morifinwë non osava crederlo, dall’ammirazione.

– Un pochino…

– La mia mamma ha detto che mi insegnerà a cavalcare quando torna, così il prossimo anno potrò andare con lei. – Questa era Lissi. – A te chi ti ha insegnato a cavalcare?

– Ehm… Velmo… è l’uomo che si occupa dei cavalli.

– Velmo? – esclamò l’altro gemello, – Velmo Ethlimbë?

– Non saprei – Morifinwë non conosceva il soprannome di Velmo, né sapeva se ne avesse uno, a dire il vero. Non si era mai preoccupato di conoscere a fondo i servitori di suo padre.

– Capelli rasati su un lato, un orecchino a forma di foglia…

– Sì, è lui.

– Per il grande Oromë, papà – esclamò il ragazzo, rivolto a Hyarmo – hai sentito? Velmo Ethlimbë.

A quanto pareva, nell’ambiente degli allevatori il loro stalliere era molto famoso, anche se Morifinwë non vedeva come la lancia citata nel suo soprannome potesse avere a che fare con l’addestramento dei cavalli. Aprì la bocca per chiedere spiegazioni ma qualcuno da fondo tavola lo precedette: – Avete molti cavalli lassù?

– Una quindicina.

– E da dove provengono? – chiese una donna di cui lui riconobbe la voce: era Faniel, l’amica di Elle che di solito si occupava della mungitura.

– Ehi, ehi, lasciatelo respirare – si intromise Káino in tono protettivo e poi, contraddicendosi subito, chiese: – E tu li puoi cavalcare tutti?

E così, sotto quella raffica di domande, Morifinwë non ebbe più il tempo materiale di preoccuparsi di quale immagine dare di sé e si trovò nel centro della conversazione senza nemmeno accorgersene.

Eppure, si rese conto man mano che le sue risposte si trasformavano da incerti monosillabi a frasi di senso compiuto, non provava il disagio che lo assillava quando era a cena con la sua famiglia. Non aveva la sensazione di essere sotto giudizio, a quella tavola, né quella di essere fuori posto, o di essere inadeguato.

Anzi, presto scoprì che se c’era qualcuno interessato a ciò che diceva, era capace di parlare a lungo e di esporre le sue idee con chiarezza.

Rowen gli chiese quali fossero i suoi progetti per il futuro e lui, con inaspettata sincerità, disse che sperava di andare a lavorare a palazzo col nonno, come aveva fatto Nelyafinwë prima di lui, dato che i due fratelli che stavano tra lui e il primogenito avevano preso altre strade.

Evitò di dire che non si sentiva all’altezza del maggiore dei suoi fratelli, ma Arsanarwë dovette intuire qualcosa perché lo rassicurò dicendogli che non nutriva dubbi sul fatto che ci sarebbe riuscito, considerate le capacità che dimostrava di avere quando lavoravano insieme.

Capelli d’argento gli domandò cosa ne pensasse del cambiamento nella lingua che stava lentamente prendendo piede tra i Noldor e che suo padre si ostinava a contrastare: – Il principe Fëanáro è un innovatore in molti campi – gli chiese, – perché in questo resta conservatore?

A quel punto Morifinwë si sentiva così sicuro di sé che riuscì perfino a fare una mezza battuta: – Mio padre è innovatore finché è lui che innova – disse, – quando le idee nuove hanno un’altra provenienza, fa più fatica.

Molti dei presenti sorrisero, ma lui, spaventato dalla propria audacia, si affrettò ad aggiungere: – In verità io condivido il suo pensiero. Rendere le cose più semplici spesso le svilisce – disse, con parole che erano del padre, – e semplificare una lingua significa perdere parte della nostra storia.

– Questo lo posso capire, Moryo – disse capelli d’argento, che l’aveva ascoltato con attenzione, come se la sua opinione fosse importante quanto quella di un adulto, – ma l’evoluzione di una lingua è imprescindibile dal progredire della storia di un popolo.

La conversazione fu interrotta da Káino che, forse stanco di quei discorsi seri, lo elogiò davanti a tutti per i progressi fatti quel pomeriggio nel saltare a cavallo al volo, facendolo arrossire per la prima volta in tutta la sera. Al sentire quelle parole, uno dei gemelli esordì: – Káino, perché non lo inviti all’Oscuramento dello stagno?

Ma prima che Morifinwë potesse chiedere di cosa si trattasse, Rowen si intromise: – Perché invece non vieni dopodomani, per la Meren Tulusto?

– Sì, Moryo, devi venire! – esclamò Lissi, e poi continuò, tutto d’un fiato: – È pieno di cose buonissime da mangiare, e il piazzale viene coperto da teli neri pieni di lucine e si suona e si balla e si gioca per tutta la notte, finché i teli vengono squarciati e si accendono i falò d’oro e d’argento e si bruciano i mostri!

E subito tutti fecero a gara per chiedergli di andare. Morifinwë ne fu lusingato, e intenerito anche, da come descrivevano una celebrazione che lui festeggiava tutti gli anni a palazzo tra gli sfarzi della corte ed effetti speciali creati da suo padre in persona.

Scoprì che non gli sarebbe dispiaciuto trascorrere la festa che celebrava l’arrivo dei Noldor in Aman in modo più modesto, tra i suoi nuovi amici.

Purtroppo non era possibile.

– Mi piacerebbe – disse, – ma devo stare con la mia famiglia.

Lissi cominciò a protestare, ma Rowen pose fine a ogni discussione andando a prendere il dolce: una crostata di mele larga come un tavolino, che in quanto a gusto non aveva niente da invidiare a quelle fatte da Calwen.

Mentre assaporava quell’ultima prelibatezza, Morifinwë si chiese da quanto tempo non si sentiva così a suo agio con degli sconosciuti. O con chiunque, in effetti. Forse da prima che nascesse Curufinwë.

Mancava solo una cosa perché tutto fosse perfetto, e forse fu proprio quell’inconsueta sicurezza in sé stesso, o un residuo dell’euforia causata dal successo del pomeriggio, che gli diedero il coraggio di fare la domanda che si teneva dentro da quando si era seduto a tavola.

– Perché Elle non cena con noi? – chiese, sottovoce, chinandosi verso Káino.

– È partita – rispose l’amico. – Ogni tanto va a trovare la sorella su ad Alqualondë.

Elle ha una sorella? avrebbe voluto chiedere Morifinwë, ma per qualche motivo non voleva far sapere a Káino che la donna non gliene aveva mai parlato. Disse invece: – A quest’ora?

A Elle non piaceva molto la luce, ma non sembrava un motivo sufficiente per mettersi in viaggio dopo una giornata di lavoro.

– In effetti di solito parte di mattina presto – disse Káino, – non so perché oggi abbia deciso così.

– Perché oggi doveva aiutare Moryo col salto al volo – s’intromise Lissi, col tono di chi spiega l’ovvio, – ne parlate da una settimana.

– Ma va là – la rimbeccò Káino, – Elle è un’adulta, mica rinvia i suoi impegni solo per stare dietro a Moryo – e prima di dare l’ultimo morso alla sua fetta di torta aggiunse: – Senza offesa, amico.

Lissi scrollò le spalle e puntò un dito sul piatto di Morifinwë.

– La finisci quella?

E lui, che stava ancora cercando di mettere ordine alle strane emozioni suscitate da quel breve scambio, non fu abbastanza veloce a rispondere.

Lissi interpretò il suo silenzio a proprio vantaggio, gli sfilò il piatto da sotto il naso e finì il suo dolce.
 

 

 

 


NOTE

E con questo capitolo abbiamo superato la metà! Grazie a chi sta ancora seguendo… siete in tant*! ❤︎ E per premiare la vostra costanza vi mostro chi potrebbe interpretare il mio giovane Moryo (attenzione, NON seguite il link se volete continuare a immaginarlo come preferite): qui.

Piccola precisazione
Con “condivisione del pensiero” intendo l’ósanwe – anche se la traduzione corretta sarebbe “comunicazione o scambio di pensiero” (communication or interchange of thought). Condizione necessaria affinché possa avvenire è che la mente di chi riceve il pensiero sia aperta (nessuno, in linea teorica, è in grado di forzare una mente ad aprirsi). Come avrete sicuramente intuito, di base, Moryo tiene la sua ben chiusa.

Nomi canonici, conversione Quenya - Sindarin
Morifinwë, Moryo = Caranthir
Nelyafinwë = Maedhros
Fëanáro = Fëanor
Asëa aranion (qui abbreviato in Asëa) = Athelas (come dice Aragorn ne Il ritorno del re - Le case di guarigione)

Personaggi di mia invenzione
Káino, un amico di Morifinwë
Morvail, il cavallo di Morifinwë
Lissi, la sorellina di Káino
Arsanarwë, il maestro di matematica di Morifinwë
Rowen, la moglie di Arsanarwë, fondatrice della fattoria, allevatrice di cavalli
Hyarmo, il braccio destro di Rowen alle scuderie. Hyarmo è il suo epessë, perché predilige l’uso della sinistra (Hyarma).
Arion, il figlio di Hyarmo, da Arië (daytime)
Huinion, il suo gemello, da Hui (night). Pur essendo gemelli, Huinion ci ha messo così tanto a nascere che Arion è nato prima del secondo mescolarsi delle luci e lui è nato dopo. E da questo strano fatto hanno preso i loro nomi.
Faniel, una donna che lavora alla fattoria
Velmo, il responsabile delle scuderie del palazzo di Fëanáro
Ethlimbë, soprannome di Velmo, interpretabile come “veloce con la lancia” da Ethë (spear) e Limbë (quick, swift)
Calwen, la responsabile delle cucine del palazzo di Fëanáro

Nomi di mia invenzione
Meren Tulusto, la Festa dell’Arrivo, importante ricorrenza che festeggia l’arrivo dei Noldor in Aman

 

 

[ Credits: Moryo nell’immagine linkata è un giovanissimo Miles McMillan leggermente ritoccato ]

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Capitolo 14
*** La zuffa ***



14

La zuffa

(o quando per rimediare a un errore combini l’ennesimo guaio)
 

 

Il salone delle feste era la stanza più grande del Palazzo Reale, persino più grande della sala del trono. A Morifinwë non capitava spesso di entrarci perché era riservato alle occasioni ufficiali, alle quali lui avrebbe potuto partecipare solo quando avesse raggiunto la maggiore età.

Ma il giorno della Meren Tulusto, la Festa dell’Arrivo, chiunque poteva accedervi, purché arrivasse abbastanza presto da trovare posto. E chi non trovava posto all’interno dei numerosi saloni messi a disposizione nel palazzo si sarebbe potuto divertire altrettanto, e forse anche di più, nel parco. Qui non avrebbe goduto dello spettacolo delle luci messo in scena dal principe Fëanáro in persona, ma avrebbe passeggiato lungo viali addobbati da scintillanti sfere di cristallo colorato, e si sarebbe affacciato a terrazze che davano sulla Piana Dorata per godere dello spettacolo del vero Telperion che raggiungeva la maturità, o a quelle che si affacciavano sulla Piana Calaciryana, punteggiata fino al mare dai falò della festa accesi dai suoi abitanti. E avrebbe avuto a disposizione molti angoli appartati, se preferiva starsene più tranquillo.

Il salone rimbombava di parole e di risate, e del tintinnio dei calici e delle posate d’argento contro i piatti di porcellana. Era gremito di gente che chiacchierava, scherzava e si serviva di cibo dai tavoli allineati lungo le pareti: niente cene formali per la Meren Tulusto.

Al soffitto erano appese centinaia di minuscole ampolle colme della rugiada di Telperion. Erano di diverse dimensioni ed erano disposte – almeno così avevano spiegato a Morifinwë – in modo da riprodurre le costellazioni che si potevano osservare nella Terra di Mezzo. Dalle alte vetrate entravano i deboli raggi dell’Albero della notte, ancora a inizio della sua fioritura. Presto sarebbero state coperte da pesanti arazzi che avrebbero fatto calare l’oscurità nella sala, prima del grande spettacolo finale.

Morifinwë si stava chiedendo cosa avesse organizzato il padre per il momento culminante della serata, quando tutti si sarebbero scambiati auguri, baci e abbracci, per celebrare ancora una volta l’inizio di una nuova era, priva di paura e di sofferenza, e ricca di luce e di promesse.

L’anno prima Fëanáro si era superato. Era riuscito a rivestire le due pareti più corte della sala, e il soffitto, con una fitta rete di canali trasparenti, di vetro talmente sottile da risultare invisibili. Sulle pareti i canali erano intrecciati tra loro e sagomati in modo da assumere la forma di un tronco d’albero. Man mano che si innalzavano da terra, si separavano in rami e quando arrivavano a rivestire il soffitto si suddividevano in migliaia di foglioline.

Allo scoccare dell’ora terza, esattamente a mezzanotte, le ampolle-costellazioni si erano spente, lasciando la sala nel buio più completo. Dopo qualche attimo, un fluido scintillante aveva cominciato a riempire dal basso i canali, come linfa che risale dalle radici per nutrire fino all’ultima foglia. Il liquido che riempiva la scultura di vetro che decorava la parete sud era rugiada di Telperion, quello della parete nord, rugiada di Laurelin. Morifinwë si era chiesto chi fosse stato a prendersi la briga di raccoglierle in una tale quantità, prima che cadessero a terra e si mescolassero.

Comunque fosse, ne era valsa la pena: assistere a quello straordinario spettacolo era stato come assistere alla nascita degli Alberi stessi, un evento che aveva preceduto di parecchie centinaia di anni l’arrivo degli Eldar nella terra di Aman. All’unisono si erano accesi prima il tronco, poi i rami più grossi, infine quelli più sottili, in ultimo le foglie. Queste avevano ricoperto il soffitto da una parete e dall’altra e si erano mescolate nel centro.

Luce abbagliante si era sprigionata nel salone e gli arazzi messi a copertura delle finestre, che fino a quel momento erano rimasti nell’ombra, si erano mostrati in tutto il loro splendore: quelle che, al buio, erano sembrate creature acquattate in un bosco oscuro, si erano rivelati cespugli carichi di bacche rosse e violette, le minacciose protuberanze sui tronchi degli alberi erano diventate uccelli dalle piume colorate, infine, al posto di ciò che erano sembrate dune di arido deserto erano apparse le onde del mare e la bianca spuma, e voli di gabbiani sotto un cielo terso. Alla fine, nemmeno un angolo del salone era rimasto in ombra e nemmeno una stella accesa nel cielo. La realtà si era trasformata a simboleggiare la nuova vita che cominciava nel nuovo mondo.

Quella sera, per quanto aguzzasse la vista, Morifinwë non scorgeva canali di vetro sulle pareti o sul soffitto della sala, ma d’altronde nemmeno se li aspettava perché il padre non ripeteva mai due volte lo stesso spettacolo. E dal momento che in casa non si lasciava sfuggire anticipazioni – o, almeno, non lo faceva davanti a lui – Morifinwë avrebbe dovuto attendere come tutti gli altri per scoprire cosa sarebbe accaduto.

– Arafinwioni in arrivo.

La voce di Tyelkormo, che gli era sopraggiunto alle spalle mentre era intento a scrutare il soffitto, lo fece sussultare. Da qualche tempo, Morifinwë aveva smesso di tenere il broncio al fratello e i loro rapporti erano tornati quelli di una volta: una via di mezzo tra l’indifferenza totale e la tolleranza reciproca. Come potesse essere successo, non riusciva a spiegarselo, visto che aveva promesso a sé stesso che non l’avrebbe mai perdonato, e di solito era un campione quando si trattava di ripicche. Colpa di Káino, probabilmente, che l’aveva contagiato col suo carattere sempre bendisposto verso tutti.

Morifinwë spostò l’attenzione sul fratello, che per l’occasione aveva abbandonato il suo stile minimale e vestiva un abito che poteva essere uscito dal guardaroba di Russandol tanto era elegante, pur non avendo rinunciato alla sua capigliatura disordinata.

Tyelkormo gli accennò col capo all’ingresso sulla parete di destra, da cui erano appena entrati i due figli di mezzo dello zio Arafinwë, insieme a Findekáno, che si stava già dileguando tra la folla dopo averli salutati con un breve abbraccio.

I due ragazzi, di altezza simile nonostante la differenza d’età e dai capelli biondi tipici di quel ramo della famiglia, indossavano le vesti morbide e multistrato caratteristiche della moda della costa, sulle tonalità dell’azzurro. Si sarebbero potuti scambiare per gemelli, non fosse stato per la chioma del più piccolo, i cui capelli gli stavano dritti in testa come una corona di spighe mature.

Morifinwë non aveva più parlato con Angaráto. Dal giorno della gara aveva abilmente evitato ogni occasione in cui avrebbe potuto incontrarlo, e anche quella sera si era rifugiato all’interno del palazzo proprio perché sapeva che il cugino avrebbe preferito stare all’aperto, dove normalmente si radunavano i ragazzi della loro età.

– Pensi che sospetti qualcosa? – domandò a Tyelkormo.

– Una cosa bisogna concedergliela a quei biondini: hanno cervello – rispose il fratello.

– Che sarebbe a dire “sì” – disse Morifinwë, cupo.

– Ci sono buone possibilità – confermò l’altro.

Lui ci pensò sopra: – Papà mi aveva chiesto se mi ero scusato.

– Scusarti sarebbe stata una buona idea se l’avessi fatto subito – commentò Tyelkormo dubbioso, – ora non saprei.

Angaráto disse qualcosa all’orecchio di Aikanáro, per sovrastare il rumore della folla, e cominciò a guardarsi intorno.

Morifinwë fece un passo indietro per ripararsi dietro le ampie spalle del fratello, e quando si rese conto di ciò che aveva fatto fu assalito dalla vergogna. Káino non si sarebbe mai nascosto, gli venne da pensare.

– Ti resta comunque un’alternativa – disse Tyelkormo, spostandosi leggermente per coprirlo meglio alla vista dei cugini, – la fuga.

Sì, scappare. Come aveva fatto tutte le volte che qualche occasione ufficiale lo aveva costretto a un incontro ravvicinato col cugino.

O come quella volta, da piccoli, nel parco, quando era rimasto rintanato tra i cespugli mentre gli altri lo prendevano in giro.

– Mi sono rotto di questa storia! – sbottò Morifinwë, – adesso vado e lo affronto.

– Cosa? – Tyelkormo si girò verso di lui così velocemente che il calice di vino che teneva in mano mandò schizzi da tutte le parti. – E cosa gli dirai?

– Gli chiedo scusa, maledizione! Cos’altro posso fare?

Lasciò Tyelkormo allibito a borbottare qualcosa come: “Cosa ti danno da mangiare a quella fattoria?” e si diresse a passo deciso verso i cugini. Quando Angaráto lo vide arrivare tirò la manica del fratello e uscì dal salone. Morifinwë li seguì, prima nel corridoio principale, poi in uno secondario meno frequentato.

– Vorrei parlarti – disse al maggiore.

– Che vuoi? Io non ho niente da dirti! – ribatté Angaráto in tono sostenuto, – credi che non mi sia accorto di cos’hai fatto?

– È proprio di questo che… – cominciò lui.

– Non hai sentito quello che ha detto? – si intromise il fratello più piccolo, che era il più impulsivo dei due, – come ti permetti di rivolgergli ancora la parola? Non sei nemmeno degno di guardarlo in faccia!

Morifinwë sentì la vergogna scaldargli il viso e strinse i pugni per non cedere alla rabbia.

– Volevo appunto… – ritentò.

– Fëanárion – intimò Angaráto, sforzandosi di tenere la voce bassa, – non una parola di più se non vuoi che spifferiamo tutto a tuo padre!

A Morifinwë venne quasi da ridere: – Mio padre sa già tutto, idiota.

– Ma certo, Ango – s’intromise il minore, – sarà stato lo stesso Fëanáro a dirgli di sabotare la tua barca. Lo sanno tutti che quelli non muovono un dito se non è il padre a dirgli cosa fare.

Morifinwë non ci vide più. Offendere lui andava bene, se lo meritava. Ma offendere suo padre? Come si permettevano quegli slavati imbecilli di un ramo minore della famiglia offendere il principe Fëanáro in persona?

Senza pensarci un attimo saltò addosso al più vicino: Angaráto.

Per un istante si domandò come c’era finito a fare a botte con uno a cui era intenzionato a chiedere scusa. Poi fu troppo impegnato a schivare i pugni del suo avversario e a tentare di mandare a segno i propri per pensare ad altro.

In breve finirono a terra, a tentare di afferrarsi e allo stesso tempo di sottrarsi alla presa dell’altro, a cercare di allontanarsi abbastanza da sferrare qualche colpo, ma non abbastanza da farsi sfuggire l’avversario. In un fugace momento di lucidità, Morifinwë pensò che non se la stava cavando troppo male; sebbene di qualche anno più piccolo di Angaráto la loro forza sembrava equivalere. Inoltre la correttezza – o la paura – impediva al minore di dare una mano al fratello.

Morifinwë si prese una ginocchiata nel fianco e rispose con un colpo di gomito tra le costole dell’Arafinwion. Non aveva voluto le scuse, il cugino? E allora che si prendesse le botte! In un modo o nell’altro Morifinwë non avrebbe più dovuto nascondersi. L’esaltazione scacciò la rabbia, annientò la paura; ogni pugno che dava o che prendeva lo faceva stare meglio.

Questo finché non sentì una voce severa che lo chiamava, alle sue spalle: – Morifinwë.

Morifinwë abbandonò all’istante la presa sul vestito di Angaráto e rimase col pugno a mezz’aria voltandosi verso suo padre. Angaráto, su cui la voce di Fëanáro aveva meno presa, ci mise un istante di più a fermarsi e arrivò con un diretto al sopracciglio che colse Morifinwë del tutto impreparato, facendolo gemere di dolore.

I due ragazzi si alzarono da terra, un po’ aggrappandosi l’un l’altro, un po’ spingendosi via, finché non furono in piedi. Morifinwë si trovò davanti al padre con la sua bella giacca rosso scuro a ricami dorati tutta sgualcita, e le trecce dentro cui la madre era riuscita a intrappolare i suoi capelli completamente sciolte, a giudicare dalle ciocche che gli cadevano davanti agli occhi.

Un rapido sguardo alle sue spalle gli confermò ciò che temeva: corridoio cieco, nessuna via di fuga. Un’occhiata di lato gli mostrò un Angaráto messo non molto meglio di lui: scarmigliato, con un taglio sul labbro e il collo del suo vestito celeste quasi completamente strappato. Mento alto e sguardo fiero, bisognava riconoscerglielo all’Arafinwion: riusciva a dissimulare il terrore con disinvoltura encomiabile. Se c’era una cosa che non veniva tollerata all’interno del palazzo, soprattutto nelle occasioni in cui c’erano ospiti, erano le zuffe tra ragazzini, che davano una pessima immagine della famiglia reale. Era forse l’unica cosa su cui suo padre e i suoi zii erano tassativamente d’accordo, e tutti i nipoti lo sapevano. Tremava persino Aikanáro, che non era direttamente coinvolto nella lite.

– Volete spiegarvi? – domandò Fëanáro, e la sua voce fu come una scheggia di ghiaccio che scende giù per la schiena.

Morifinwë non era arrivato all’età che aveva senza imparare che, quando un adulto faceva quella domanda, l’ultima cosa che voleva davvero erano spiegazioni. Angaráto, evidentemente, era dello stesso avviso, perché dissero quasi all’unisono:

– Papà, scusa, c’è stato un malinteso…

– Zio abbiamo sbagliato, perdonaci…

– Non accadrà più – ci mise del suo Aikanáro.

In quel momento, provvidenziale come un’aquila di Manwë, arrivò Tyelkormo a salvare la situazione: – Lascia stare, papà, li tengo d’occhio io.

Fëanáro, che quella sera era gravato dal tenere sotto controllo più cose di quanto facesse di solito, si lasciò convincere. Morifinwë non si faceva illusioni, sapeva che avrebbe dovuto rendere conto delle sue azioni al più tardi l’indomani. Per il momento, però, andava bene così: aveva assestato qualche bel pugno, se ne era presi un certo numero – e questo andava altrettanto bene, perché sapeva di meritarseli – e non sarebbe più dovuto andare alla ricerca di nascondigli quando gli fosse capitato di incontrare il cugino.

Il bilancio, tutto sommato, era positivo.

Non appena il padre se ne fu andato, Tyelkormo fece un cenno secco con la testa in direzione del corridoio principale; gli Arafinwioni colsero al volo l’invito, gli sfilarono davanti e svanirono dalla loro vista. Morifinwë sentì uno dei due mugugnare “non finisce qui”, ma era più che certo che invece la cosa si sarebbe chiusa quella sera.

Tyelkormo inarcò un sopracciglio: – Interessante questo modo di scusarsi. Me lo devo segnare.

– Lascia perdere – disse Morifinwë tastandosi il sopracciglio che, scoprì, stava sanguinando, – guarda come mi ha conciato.

– Anche lui non era messo tanto bene – osservò Tyelkormo, e se non era una nota di apprezzamento quella nella sua voce, Morifinwë non ne aveva mai sentita una.

– Me ne vado a casa – mugugnò, – avvisa tu gli altri.

– Vuoi che ti accompagni?

Questo era troppo, Tyelkormo che si preoccupava per lui?

– No, resta. Divertiti.

Il fratello gli lanciò un’ultima occhiata, poi gli voltò le spalle. – Contaci! – disse, con la sua solita spavalderia. E sparì nel corridoio.

Morifinwë fece la breve passeggiata fino a casa tamponandosi la ferita con un fazzoletto. Si sentiva stranamente bene, considerato che era appena uscito da una rissa con un ragazzo più grande che, per giunta, aveva tutti i motivi per volerlo vedere ridotto male.

Era pervaso da una scarica di energia che non lo abbandonò nemmeno quando si tolse i vestiti della festa e andò a lavarsi. Non se la sentiva proprio di prepararsi per la notte e chiudersi in camera sua.

Guardandosi allo specchio vide che la ferita aveva già smesso di sanguinare, anche se l’occhio si stava gonfiando e presto si sarebbe tinto di sfumature violacee. Si annodò i capelli umidi nella sua corta coda, scelse una delle poche camicie chiare che possedeva e un paio di pantaloni grigi, si rimise addosso gli stivali che aveva indossato per la festa e andò a recuperare Morvail.

Quando giunse in vista della fattoria si chiese come mai, per un motivo o per l’altro, finisse sempre per rifugiarsi lì.

Questa volta almeno era stato invitato.


 

 

 


NOTE

Grazie a chi ha letto!

Nomi canonici, conversione Quenya - Sindarin
Morifinwë = Caranthir
Fëanáro = Fëanor
Tyelkormo = Celegorm
Russandol = Maedhros
Arafinwioni = figli di Arafinwë, cioè di Finarfin
Findekáno = Fingon
Angaráto (qui chiamato anche Ango) = Angrod
Aikanáro = Aegnor

Personaggi di mia invenzione
Káino, un amico di Morifinwë
Morvail, il cavallo di Morifinwë

Nomi di mia invenzione
Piana Dorata, l’ampia pianura tra Tirion e Valmar
Piana Calaciryana, stretta striscia di terra pianeggiante tra Tirion e il mare

 

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Capitolo 15
*** Lezioni di ballo ***


15

Lezioni di ballo

(o quando non puoi fare a meno di trovare nuovi modi per renderti ridicolo)


 

Morifinwë era ancora sul viale d’accesso della fattoria quando alle sue orecchie giunse il suono allegro dei flauti e quello delle arpe che li accompagnavano. Quando bussò alla porta principale e nessuno venne ad aprirgli, girò attorno alla casa per accedere al piazzale sul retro e scoprire che i racconti di Lissi riguardo ai festeggiamenti della Meren Tulusto erano a dir poco sotto dimensionati.

Sembrava che tutta la Piana Dorata si fosse radunata a festeggiare alla fattoria di Rowen. Una folla eterogenea occupava ogni spazio disponibile del piazzale, dalla casa al fienile, dalla vigna al prato. Adulti, bambini, ragazzini di ogni età, alcuni vestiti con gli abiti semplici tipici della Piana, altri con abiti dai colori vivaci e dalle fogge inconsuete, facevano del loro meglio per godersi la festa più attesa dell’anno.

Su tutto il cortile era teso un enorme telone blu scuro, che oscurava il riverbero argentato delle notti Amaniane quasi completamente, tranne nei punti in cui era stato forato da piccoli buchi circolari per simulare il cielo stellato. La versione campagnola di ciò che a palazzo facevano con le ampolle di rugiada.

La musica proveniva dal lato ovest, quello che dava sui pascoli, dove era stato eretto un piccolo palco. Un’orchestra di cinque o sei elementi si stava esibendo in quel momento e, poco distante, altri aspettavano il loro turno con in mano gli strumenti. Appena sotto al palco partiva la pista da ballo, che si protendeva fino nel centro del piazzale: una pedana di legno scuro, levigata da anni e anni di passi di danza, ora affollata di gente che si scatenava sulle note di un brano particolarmente vivace.

Sotto il porticato del fienile tavoli carichi di cibo e di bevande si intravedevano appena, nascosti dalla massa di ospiti che si serviva con l’entusiasmo di chi non mangia da giorni. I tavolini disposti lungo il lato prospiciente alla vigna erano l’ambita meta di coloro che, agguantato il più possibile da mangiare e da bere, intendevano godersi la festa nel tranquillo ruolo di spettatori.

Sul lato sud, quello delimitato dai muri della casa, erano state allestite postazioni di gioco alle quali si accalcavano i più piccoli per sfidarsi a gare di tiro al bersaglio o di abilità di altro genere. In palio c’erano le tradizionali statuette di legno che raffiguravano i mostri del passato, destinate a essere bruciate prima della fine della festa. Ed ecco, infatti, poco distanti, i due cerchi di pietra nei quali era accumulata la legna per i falò che si sarebbero accesi allo scoccare della terza ora.

Morifinwë si fece largo tra la folla, con le orecchie che rimbombavano di musica, di voci e di risate, alla ricerca di qualche faccia nota.

Non passò molto che sentì la voce di Rowen innalzarsi sul frastuono.

– Moryo!

Lui fece appena in tempo a voltarsi nella sua direzione, che la moglie del maestro lo catturò in un abbraccio stritolante. Un’impresa non da poco, considerato il suo ingombrante pancione e il bicchiere che teneva in mano.

– Sono felice che tu ce l’abbia fatta! – esclamò Rowen, ma appena l’ebbe guardato bene in faccia spalancò gli occhi ed esclamò: – Eru santissimo, cosa ti è successo?

Morifinwë si ricordò solo in quel momento del taglio sul sopracciglio e del presumibile occhio nero e balbettò: – Ah, questo… non è niente. Sono andato a sbattere contro una porta.

Rowen lo guardò sospettosa, ma non fece in tempo a dir nulla perché proprio in quel momento sopraggiunse Káino a trascinarlo via.

L’amico lo condusse all’assalto del tavolo delle vivande, da cui riemersero con un piatto stracolmo di ogni prelibatezza, poi lo accompagnò sotto i tralci di vite, in un angolo nascosto dove altri ragazzi e ragazze della loro età avevano steso una coperta e radunato viveri che sembravano dover bastare per un anno intero.

Dopo essersi saziati a sufficienza e dopo che Morifinwë ebbe raccontato con dovizia di particolari – ma sorvolando sul motivo scatenante – la sua rissa a palazzo, Káino non volle sentir ragioni e se lo tirò dietro sulla pista da ballo. La danza non era in cima alla lista delle attività preferite di Morifinwë – implicava trovarsi troppo al centro dell’attenzione per i suoi gusti – ma in quella confusione presto si accorse che nessuno avrebbe fatto caso a lui, e che a fianco di Káino, che evidentemente non era stato costretto a prendere lezioni di ballo come parte della sua educazione di base, non era certo lui quello che rischiava di fare brutte figure.

Ciononostante, appena notò Arsanarwë che cercava di richiamare la sua attenzione dalla zona dei tavolini, ne approfittò per lasciare lo scatenato gruppo di giovani.

Il maestro stava parlando con un uomo dalla corporatura abbondante quasi quanto la sua, che teneva in mano un bicchiere di vino e che, a giudicare dagli occhi lucidi e dal rossore sulle guance, ne aveva già bevuti parecchi.

– Morifinwë! Che bella sorpresa – esclamò Arsanarwë quando fu a portata di voce.

– Sei uno dei figli del principe Fëanáro? – chiese l’uomo col bicchiere, in tono leggermente strascicato.

– Si, signore – confermò lui. Il suo nome, quando pronunciato per intero, non gli lasciava la possibilità dell’anonimato. – Sono un allievo del maestro Arsanarwë – aggiunse, per giustificare la sua presenza alla festa.

– Ah, il nostro Arsanarwë, qui – esclamò l’uomo, battendo con vigore una mano sulla spalla del maestro, – sta portando avanti un progetto importante.

Morifinwë ci mise un istante a capire di cosa stesse parlando: – Si riferisce alla nuova scuola? – azzardò.

– Sono così pochi i maestri disposti a insegnare fuori dalla città – confermò l’altro con entusiasmo, – ma per fortuna adesso i nostri ragazzi non dovranno più andare fino a Tirion per studiare.

Prese un generoso sorso di vino e continuò: – E questo è solo il primo passo. Lo vedi quell’uomo laggiù? – Morifinwë cercò di individuare a chi si riferiva, tra la folla, mentre schivava le gocce che traboccavano dal bicchiere del suo interlocutore. – È un guaritore. Ha aperto una piccola casa di guarigione presso la fattoria qui vicino… così la prossima volta che qualcuno si romperà un osso cadendo da cavallo non gli toccherà farsi trasportare su fino in città.

Morifinwë cominciò rimpiangere di aver lasciato la pista da ballo; se quell’uomo aveva la stessa indole del maestro sarebbe stato capace di tirare avanti per ore col suo monologo.

– Devi assolutamente ringraziare tuo padre da parte nostra.

– Mio padre? – Morifinwë riportò di colpo tutta la sua attenzione sull’uomo troppo loquace.

– È grazie a lui se tutto questo è stato possibile! – esclamò l’altro. – Ha sostenuto fin da subito le nostre richieste, e l’ha dimostrato incoraggiando Arsanarwë a fare la sua scelta. Il principe Fëanáro è un uomo dalla vista lunga.

E dai propositi molteplici, pensò Morifinwë.

– Lo farò sicuramente – disse ad alta voce, e cercò disperatamente qualcosa da aggiungere.

La voce di Lissi che lo reclamava fu la sua occasione per la fuga.

– Perdonatemi, devo andare – si scusò, – mi stanno chiamando.

– Ma certo, divertiti ragazzo! – disse Arsanarwë e, prima che il suo compagno potesse ripartire col suo panegirico, lo prese sottobraccio e lo condusse verso i tavoli dove erano attesi dai loro amici.

Lissi era chiaramente indispettita dall’essere stata tenuta all’oscuro della presenza di Morifinwë, così quando riuscì finalmente ad appropriarsi della sua mano gliela fece pagare facendosi accompagnare a una delle postazioni dei giochi di abilità, puntando il dito verso il premio più ambito, una specie di orso di legno con aculei sulle spalle grosso quanto un gattino, e ordinandogli in tono perentorio: “vinci quello, Moryo!”. Poi lo stette a guardare mentre lui, obbediente, cercava di centrare bersagli in movimento con palline di stoffa pressata. Fortuna che aveva una buona mira, o ci sarebbe rimasto tutta la sera.

Quando gli venne consegnato il premio, per poco non si ferì le dita tanto erano aguzzi gli aculei che uscivano dalla schiena dello strano animale. Esitò prima di consegnarlo alla piccola.

– Attenta che punge – la avvertì.

Lissi, con un sorriso che accecava, glielo sfilò di mano afferrandolo sapientemente per una zampa. – Certo che punge, ma quando bruceranno, queste spine manderanno scintille su fino al cielo!

Morifinwë stava per obiettare che barattare il rischio di ferirsi con le migliori scintille della festa forse non era uno scambio favorevole, ma poi si rese conto che solo un adulto avrebbe detto una cosa del genere e rise di sé stesso, contagiato dall’entusiasmo della piccola.

Sorvolando la folla con lo sguardo per rintracciare Káino, si accorse che non era ancora riuscito a incontrare Elle e si chiese se non fosse rimasta a festeggiare la Meren Tulusto con la sorella.

Lo domandò a Káino quando riuscì a raggiungerlo insieme a Lissi e al suo mostro pungidita.

– No, è rientrata ieri – disse Káino, mentre agitava una mano in direzione di una coppia di amici sulla pista da ballo, pronto a tornare nella mischia. – È che a Elle non piace molto la confusione.

– Lei non festeggia mai l’Arrivo – si intromise Lissi, poi si illuminò tutta ed esclamò: – Ma forse, se glielo chiede Moryo, cambia idea!

– Impossibile – tagliò corto Káino, – andiamo, Moryo.

– Se vuoi ti dico dove puoi trovarla – insistette la piccola, e senza attendere una risposta gli spiegò come raggiungere la sua camera.

Morifinwë si finse poco interessato, ma appena riuscì a svignarsela dal controllo dei due fratelli si intrufolò in casa. Trovò le scale per accedere al primo piano e arrivò senza intoppi alla porta indicata dalla bambina.

La trovò socchiusa.

Sbirciò dentro, ma la camera era immersa nell’oscurità e dal pertugio tra la porta e lo stipite si riusciva a intravedere ben poco. Rimase fermo nel corridoio silenzioso, mentre il desiderio di bussare e quello di andarsene lottavano dentro di lui.

Una voce roca proveniente dall’interno sbloccò la situazione: – O dentro o fuori, ragazzino.

Morifinwë osò spingere la porta e fare un passo nella stanza. Alla luce che entrava dal corridoio alle sue spalle riuscì a individuare la sagoma di Elle, seduta a gambe incrociate su un letto, e poco altro.

A quanto pareva, invece, lei ci vedeva benissimo perché chiese allarmata: – Cos’hai fatto all’occhio?

– Sono andato a sbattere contro una porta – rispose lui, sperando che la bugia la convincesse a lasciar perdere. Ovviamente non funzionò.

– Fammi vedere – disse Elle, alzandosi, e lo invitò a entrare con un cenno della mano.

– Vedere? – ribatté lui, – è una parola, qui dentro.

La donna sbuffò. – Non si può temere il buio, in una notte come questa – disse, – tra poco tutto il male del mondo verrà spazzato via dalla luce.

A Morifinwë sembrò di percepire una nota ironica nelle sue parole, che sparì del tutto quando lei aggiunse, con gentilezza: – Apri pure le tende.

Morifinwë avanzò con cautela fino alla finestra e scostò i pesanti tendaggi scuri. Lo investì la luce argentea della notte e la musica che fino a quel momento la spessa stoffa aveva smorzato: la camera dava infatti sul cortile della festa. Quando tornò a voltarsi, vide un ambiente più grande di quanto si era aspettato, ma spoglio e disadorno. Un armadio di modeste dimensioni, il letto su cui era stata seduta Elle e un tavolo erano gli unici arredi. Un quadro appeso sopra il letto ritraeva, con tratti semplici e colori sbiaditi, un grande fiume sotto un cielo punteggiato di stelle, barche e palafitte sulle sue acque.

Elle gli si avvicinò col suo muoversi preciso e silenzioso. Al posto del solito vestito, indossava pantaloni larghi e una camicia che si incrociava sul davanti, chiusa da lacci che facevano più volte il giro della vita. Il suo volto, incorniciato dalla pettinatura rigorosa, mostrava la consueta, quieta impassibilità. La donna osservò con attenzione l’occhio di Morifinwë e gli toccò delicatamente prima il sopracciglio, poi lo zigomo.

– Doveva avere un bel destro, quella porta – commentò. E dopo un attimo aggiunse: – Ti va di dirmi la verità?

Morifinwë pensò di insistere con la sua bugia, oppure di inventarsene una più efficace, ma per qualche incomprensibile motivo mentire a quella donna gli risultava impossibile.

– Ho fatto a botte – ammise, e alzò il mento di scatto, per affrontare a testa alta qualsiasi commento ne sarebbe derivato.

Elle si limitò a sollevare le sopracciglia. – È per questo che hai abbandonato i fasti del palazzo?

Morifinwë scrollò le spalle, lieto del cambio d’argomento.

– Non è male neanche qui – disse, e poi in un lampo d’ispirazione, aggiunse: – Perché non scendi a vedere?

– Non mi trovo bene con la gente – rispose lei, come se quello potesse chiudere il discorso.

Considerato che, con tutta Valinor disponibile, Elle aveva scelto di abitare in una fattoria dove vivevano almeno altre venti persone con le quali aveva, apparentemente, un ottimo rapporto, la scusa era a dir poco debole.

Morifinwë raccolse il suo coraggio e la provocò con le sue stesse parole: – Ti va di dirmi la verità?

Lei gli voltò le spalle e andò ad aprire l’armadio. – Ragazzino, la tua impertinenza finirà per procurarti dei guai – disse. Tornò con una boccetta di unguento e gli fece segno di spalmarselo sotto l’occhio.

– Aiuta a far sparire il livido e il gonfiore – spiegò, porgendoglielo.

Morifinwë fece come gli veniva detto. La pomata gli diede subito un leggero sollievo che lo distolse per un attimo dai suoi propositi. Ma quando lei andò a riporre la boccetta, lui tornò all’attacco: – Allora?

Elle richiuse le ante, e per un lungo momento non fece altro che tenerci le mani appoggiate sopra. Quando tornò a voltarsi verso di lui, Morifinwë si pentì all’istante di aver insistito.

Una ruga verticale tra le sopracciglia incrinava l’impassibilità del suo volto, e le palpebre abbassate riuscivano a malapena a nascondere un luccichio sospetto nei suoi occhi. Chiaramente, qualsiasi fosse il motivo per cui se ne stava rintanata al buio in camera sua durante una delle feste più attese dell’anno, era qualcosa che la faceva soffrire.

Morifinwë cercò un modo per rimediare al suo errore, ma si trovò del tutto impreparato davanti a quell’inaspettata dimostrazione di fragilità.

Elle tirò giù la manica della camicia fino a coprire per bene il bracciale che aveva al polso, un gesto che aveva tutta l’aria di essere inconsapevole, e parlò con voce così bassa che rischiò di confondersi con la musica che entrava dalla finestra.

– Questa festa mi ricorda le persone che ho perso.

Ripose le mani lungo i fianchi, tornò ad assumere un’espressione neutra e aggiunse a voce più alta: – Non ho bisogno di una giornata che mi ricordi chi ho perso, me lo ricordo già da sola a ogni rifiorire di Laurelin. Tutti i giorni che Eru fa cominciare in questa… benedetta terra annegata nella luce perpetua.

Morifinwë colse l’esitazione davanti all’aggettivo più usato per definire la sua terra natia e, improvvise, gli tornarono in mente le parole del nonno sulle persone lasciate lungo la via, e l’espressione addolorata di Finwë quando le aveva pronunciate, quel lontano giorno. Gli sovvennero domande che non si era mai posto: quanto poteva essere complicato adattarsi a una vita completamente diversa da quella a cui si era abituati? Quanto poteva essere difficile superare la perdita dei propri cari? Se l’avessero chiesto a lui, avrebbe risposto senza esitare: impossibile.

– Il mio compito era difenderli. Ho fallito – disse lei, seguendo, senza saperlo, la direzione che avevano preso i suoi pensieri.

E allora Morifinwë si rese conto che si trovava davanti a qualcosa di profondamente ingiusto. Ingiusto come nessun’altra ingiustizia in cui si era imbattuto da quando era nato. Più ingiusto del fatto che suo padre non lo degnava di alcuna considerazione, più ingiusto del fatto che lui veniva trattato diversamente dai suoi fratelli, più ingiusto di essere nato mediocre in una famiglia di eccellenze.

Elle aveva vissuto una vita di fatica e di sofferenze, dedicata a proteggere gli altri: era la persona che più si meritava al mondo un po’ di felicità. Eppure non riusciva a trovarla.

Pensò di nuovo al nonno, che aveva condotto il suo popolo fuori dall’oscurità e che ora lo governava dalla risplendente Tirion. Pensò che anche lui doveva aver patito tanti dolori, eppure adesso viveva felice in un grande palazzo contornato da figli e nipoti che lo amavano. Gli era stato persino concesso di formare una nuova famiglia quando la prima moglie aveva rinunciato alla vita.

Perché Elle non poteva essere felice?

Strinse i pugni, unghie conficcate nei palmi, ancora una volta incapace di reagire a quella sensazione di impotenza che ben conosceva, quella che lo assaliva quando non poteva far andare le cose come voleva lui. Era disarmato. Era costretto in un corpo troppo piccolo, imprigionato in una mente troppo limitata. Di certo Tyelkormo sarebbe riuscito a rallegrare Elle con le sue battute. Di certo Russandol sarebbe stato capace di confortarla con sagge parole. Makalaurë avrebbe lenito le sue sofferenze con la musica…

– Ragazzino – disse la donna, interrompendo il flusso dei suoi pensieri, – non volevo turbarti. Sono sicura che la festa è molto divertente, è solo che non fa per me.

– Perché no? – saltò su lui, deciso a fare del suo meglio pur sapendo di non essere all’altezza dei suoi fratelli. – Invece è proprio per te, tutto questo! Non capisci? I mostri che fuggono stanotte sono quelli che vi sono rimasti attaccati addosso. Questa festa è per te, è per voi Nati all’Est, che avete il diritto, più di tutti gli altri, di vivere nella gioia.

Elle scosse la testa: – Magari fosse così semplice.

Morifinwë non riuscì a fermarsi: – Tu sei forte, sei gentile, sei coraggiosa… nessuno più di te merita la felicità.

– Moryo. Basta.

Un ordine secco, che lo fece indietreggiare di un passo, come colpito da una forza invisibile. Gli si oppose con tutta la nuova determinazione che gli bruciava dentro. Raddrizzò le spalle e si piantò le mani sui fianchi. Dichiarò: – Non intendo andarmene da questa stanza senza di te.

– Sei la persona più testarda che abbia mai conosciuto! – esclamò Elle, alzando gli occhi al soffitto. Rimase così per un lungo momento, come se potesse trovare incisa sulle travi la ricetta per liberarsi di un ragazzino fastidioso. Alla fine disse: – E comunque, non saprei neanche cosa fare.

Morifinwë seppe di essere a un passo dalla vittoria e si sforzò di tenere sotto controllo il sorriso che minacciava di sfuggirgli. Allungò una mano in direzione della finestra e di tutto ciò che li attendeva là fuori: – Non hai che l’imbarazzo della scelta – la esortò, – ci sono giochi, cibo strepitoso, vino a fiumi… ma direi che l’attività che va per la maggiore è il ballo.

Elle si aggrappò a quell’ultimo appiglio: – Non so ballare – disse.

– A questo posso rimediare io – propose Morifinwë e, senza pensarci due volte, spostò il tavolo contro la parete. Poi si mise di fronte a Elle e fece un profondo inchino.

– Stai scherzando? – disse lei.

– Avanti – la invitò lui, porgendole la mano.

– Ma neanche per sogno – Elle incrociò le braccia sul petto.

– Allora ti sfido! – declamò Morifinwë, in tono solenne. – Mia signora, grande Cacciatrice, che vede al buio, che non dorme mai, che salta sui cavalli al galoppo e identifica un pericolo a mille leghe di distanza. Ti sfido a imparare quattro passi di danza da un ragazzino petulante che ha l’unico merito di essersi appena preso un pugno in faccia.

Elle scoppiò a ridere: – Per tutte le stelle del cielo, so che me ne pentirò.

E stava per dire qualcos’altro, senza dubbio una nuova obiezione, quando Morifinwë si portò un dito alle labbra per chiedere il silenzio. La musica si riappropriò della stanza e lui ne riconobbe il ritmo.

– Questa è facile – le disse, con entusiasmo.

Era un ballo con mosse codificate, in cui i partecipanti stavano uno di fianco all’altro, allineati in file. Lui soppresse la voce dentro di sé che gli stava urlando di smettere di rendersi ridicolo, contò il tempo delle battute, e cominciò la danza in modo speculare, perché lei potesse imparare più facilmente.

Elle non era fatta per ballare. Lei calibrava ogni movimento con precisione assoluta, non faceva un gesto che potesse consumare più energia del dovuto, esattamente l’inverso di ciò che era richiesto da quel tipo di balli, pensati proprio per dare libero sfogo all’energia. Ma allo stesso tempo, il controllo totale che aveva del suo corpo le permetteva di imparare i passi che Morifinwë le mostrava senza sbavature, e senza che fosse necessario ripeterglieli due volte.

Il ritmo si fece più vivace. Morifinwë, che ballava al contrario, inciampò nei suoi passi e lei lo imitò, enfatizzando il gesto. Lui sogghignò e continuò a sbagliare di proposito, e lei ad andare dietro ai suoi finti errori. Si inventarono a turno nuove mosse sempre più assurde e ben presto si trovarono a ridere insieme, mentre la musica aumentava il ritmo prima del gran finale.

Quando la canzone terminò, loro stavano ancora ridendo, e per poco non persero l’inizio del brano successivo.

– Questa è ancora più semplice – disse Morifinwë, cercando di ricomporsi, – non devi fare altro che lasciarti portare dal tuo compagno.

E prima di rendersi conto che il compagno in questione era lui, le prese una mano e se la appoggiò sulla spalla, le afferrò l’altra e le cinse il fianco. Poi la guidò nella danza.

O per lo meno ci provò. Perché eseguiti pochi passi Morifinwë cominciò a sentire la testa che gli girava. Forse era per quel poco vino che gli avevano fatto assaggiare i ragazzi, o per il ballo che richiedeva parecchie giravolte, o per le conseguenze del pugno che si era preso.

O forse non era la testa a girargli, ma gli strani pensieri che avevano cominciato a vorticare al suo interno: quella sera aveva fatto a botte nel Palazzo Reale e ora stava ballando con una donna molto più grande di lui, da solo nella sua stanza. Si sentì un vero ribelle. Si chiese cosa avrebbe fatto Tyelkormo, alla sua età, al posto suo, e solo allora si accorse che, nell’impeto della danza, aveva stretto la presa e adesso i loro corpi erano molto, molto più vicini di prima. Gli occhi di Morifinwë erano esattamente in linea con la gola di lei, bastava un niente per scendere con lo sguardo fino allo scollo della camicia.

Proprio in quel momento, Elle si fermò e fece un mezzo passo indietro, ripristinando la distanza tra loro.

– Va bene, va bene, penso di aver capito! – la sua voce roca era animata di allegria. – Sarà meglio scendere, ora, altrimenti ci perderemo tutta la festa.

Morifinwë aveva ancora una mano sul suo fianco e l’altra che le teneva le dita. Per un attimo pensò che non ci sarebbe stato un altro posto in tutta Arda dove avrebbe voluto essere tranne quello. C’era davvero una festa là fuori? Non se lo ricordava.

Alzò la testa per guardarla in viso e le cose peggiorarono. Gli occhi di Elle scintillavano sotto le ciglia scure e una treccia le ricadeva sulla spalla, sfuggita dalla sua acconciatura a corona. Sorrideva. E non si trattava di un angolo della bocca che si piegava ironico verso l’alto, ma di un sorriso pieno, completo di labbra dischiuse, dente scheggiato e gioia repressa.

Morifinwë cercò di pescare due parole di senso compiuto dal brodo in cui si era trasformato il suo cervello e l’impresa si rivelò impossibile.

Lei scivolò via dalle sue braccia e fece un altro passo indietro, apparentemente ignara del tumulto che lo squassava. Attendeva una risposta. Era meglio dargliela prima che si accorgesse che il suo cavaliere era vittima di un attacco di… cosa? Afasia improvvisa? Rimbecillimento acuto?

– Sì, scendiamo – fu tutto ciò che riuscì a tirare fuori Morifinwë, con voce impastata.

Elle riagganciò la treccia sfuggita alle altre e senza alcuna esitazione lo precedette alla porta. Lui la raggiunse dopo un istante, e dovette fare uno sforzo non da poco per evitare di prenderle la mano mentre scendevano le scale e uscivano nel piazzale dove era in corso la festa.

Rare volte Morifinwë si era sentito così orgoglioso di aver raggiunto un risultato, rifletté, mentre guardava Elle che veniva catturata dall’abbraccio di Rowen e che scambiava due parole con lei, che veniva invitata alle danze da capelli d’argento, che si serviva del vino, che tornava a ballare.

Elle-felice, o per lo meno Elle-che-cercava-di-essere-felice, era lo spettacolo migliore che l’intera festa potesse offrire. Sarebbe rimasto tutta la notte a guardarla se Káino gliel’avesse permesso e non l’avesse trascinato di qua e di là per fargli provare tutte le cose che, a sentir lui, si stava perdendo.

Ma allo scoccare della terza ora, quando Telperion raggiunse la piena maturità e il tendone si aprì sulle loro teste, e i due falò vennero accesi e tutti gridarono di gioia, e i bambini gettarono i mostri di legno nei fuochi alimentati con polveri che coloravano le fiamme d’oro e d’argento, Morifinwë sentì una presenza al suo fianco e scoprì che non aveva bisogno di voltarsi per capire chi fosse.

– Herenya-coi, Elle – disse, nell’augurio di rito, – e che tutti i mostri se ne vadano.

– Herenya-coi, Morifinwë – rispose lei.

I fuochi divampavano, scintille d’oro e d’argento venivano spruzzate nel cielo sereno e portate via dal vento leggero.

Morifinwë non distolse lo sguardo dalle fiamme. Sentiva la donna accanto a lui così vicina che gli sarebbe bastato distendere le dita per prenderle la mano.

Non lo fece.

Rimase a guardare i mostri di legno bruciare, pregando che anche quelli che abitavano nel cuore di Elle svanissero per sempre.





 


NOTE

Capitolo un po’ lunghetto, mi sono fatta prendere la mano… spero non vi siate annoiat* troppo! A chi ha resistito: grazie per aver letto ❤︎

Nomi canonici, conversione Quenya - Sindarin
Morifinwë, Moryo = Caranthir
Fëanáro = Fëanor
Tyelkormo = Celegorm
Russandol = Maedhros
Makalaurë = Maglor

Personaggi di mia invenzione
Arsanarwë, il maestro di matematica di Morifinwë
Rowen, la moglie di Arsanarwë, fondatrice della fattoria, allevatrice di cavalli
Káino, un amico di Morifinwë
Lissi, la sorellina di Káino
Capelli d’argento, il soprannome con cui Morifinwë chiama un collega di Arsanarwë

Nomi di mia invenzione
Meren Tulusto, la Festa dell’Arrivo, importante ricorrenza che festeggia l’arrivo dei Noldor in Aman
Herenya-coi, l’augurio di una vita prospera scambiato per tradizione alla Meren Tulusto. È composto da herenya (fortunate, blessed, wealthy, rich) e coi, abbreviazione di coivië (life).
Piana Dorata, ampia pianura tra Tirion e Valmar

A proposito di mostri bruciati etc
Ho spesso fatto riferimento al fatto che gli Elfi della Grande Marcia abbiano dovuto affrontare enormi pericoli e creature terribili. Metto qui tre dei tanti estratti su cui si basa questa assunzione.
1) Prima del risveglio degli Elfi nella Terra di Mezzo: “Melkor […] vegliava, e lavorava; e le creature malvagie da lui sedotte si aggiravano ovunque, e i boschi scuri e immersi nel sonno erano visitati da mostri e figure paurose” (Il Silmarillion, cap. 3, L’avvento degli Elfi)
2) Al risveglio degli Elfi, prima dell’arrivo di Oromë, “Melkor was on the watch, and his spies were many. And it is thought that lurking near his servants had led astray some of the Quendi that ventured afield, and they took them as captives in Utumno, and there enslaved them.” (HoME, vol 10, The Annals of Aman)
3) Dopo il risveglio degli Elfi, quando i Valar catturano Melkor e lo portano con loro in Aman, “many evil things yet lingered in Middle-earth that had fled away from the wrath of the Lords of the West, or lay hidden in the deeps of the earth.” (HoME, vol 10, The Annals of Aman)
Insomma, a quei tempi, la Terra di Mezzo non era proprio un posto sicuro per viverci.

La terza ora, impropriamente chiamata da me: “mezzanotte”
Un’altra cosa a cui faccio spesso riferimento è la suddivisione del giorno in ore a Valinor. Per chi fosse interessato, qui trovate un mio piccolo schema di riferimento, sulla base di ciò che viene detto nel Silmarillion.

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Capitolo 16
*** Il piano ***


 

16

Il piano

(o quando scopri che le cose andavano troppo bene per poter continuare)


 

Quella notte Morifinwë la sognò.

Erano in camera di Elle, come la sera prima. Le tende erano socchiuse e la stanza giaceva nell’oscurità quasi completa.

C’era anche la musica, proprio come la sera prima. Ma questa volta loro due erano sdraiati nel letto, lui su un fianco, appoggiato su un gomito, la guardava dall’alto; lei con la testa adagiata sul cuscino ricambiava lo sguardo. Morifinwë sentiva il suo corpo aderire a quello della donna, sentiva il calore di lei attraverso i vestiti, desiderava che non ci fossero.

– Sei diventato grande – diceva lei, e gli sfiorava il sopracciglio ferito.

Lui le afferrava la mano. Scendeva con una lenta carezza fino al bracciale. Prendeva i lacci tra le dita.

– Posso? – chiedeva, in un sussurro.

– Slega – diceva lei, e la sua voce era più roca del solito.

Morifinwë sapeva che era un sogno perché la sua mano non tremava mentre slacciava il bracciale e lo sfilava, con gli occhi incatenati a quelli scuri della donna.

Le sfiorava il polso e sotto le sue dita impazienti, curiose, la pelle di lei era in rilievo.

Morifinwë vi posava sopra lo sguardo, alla ricerca del tatuaggio.

Ma non era il disegno stilizzato di un’arma che marchiava il polso della donna.

Era una fila di lettere che formavano un nome.

Senza alcuna vergogna – perché come poteva averne se lei aveva detto: “sei diventato grande”? Se lei aveva detto: “slega”? Come poteva averne se sulla sua pelle era inciso quel nome?

Senza alcuna vergogna, Morifinwë si portava il polso di Elle alle labbra e vi faceva scorrere sopra la lingua.

E assaporava ogni singola lettera del proprio nome.



 

Si svegliò con un fascio di luce che lo colpiva in viso – doveva essere mattino inoltrato – e con un vago senso di disagio che la sua mente, ancora annebbiata dal sonno, non riusciva a spiegarsi. Di certo non doveva preoccuparsi di essere rimasto a letto troppo a lungo, i festeggiamenti della Meren Tulusto proseguivano anche il giorno successivo alla notte dei falò.

E che notte, era stata! Prima una scazzottata a palazzo, poi la festa alla fattoria, poi il ballo con Elle nella sua camera da letto…

Oh, Eru!

La sua camera da letto.

Il ricordo del sogno appena fatto riemerse dall’oblio potente e vivido come se gli fosse rimasto aggrappato appena dietro le palpebre. Un sogno sensuale, se proprio non lo si voleva definire erotico. Morifinwë arrossì violentemente, e una veloce occhiata sotto le lenzuola al suo pigiama macchiato gli confermò ciò che temeva.

Si tirò il cuscino sul viso e soffocò un lamento. Non era la prima volta che gli succedeva, ma era la prima volta che riusciva a ricordare con chiarezza cosa aveva sognato. E questo non gli piaceva. Non gli piaceva per niente. Perché di certo significava qualcosa, e lui non aveva nessuna voglia di scoprire cosa.

Ma il suo cervello si mise al lavoro per conto proprio alla ricerca di spiegazioni, ignorando le priorità che lui stava tentando di impartire a sé stesso, ossia: alzati, vai in bagno a lavarti, e cerca di evitare Tyelkormo nel tragitto tra le due cose.

Morifinwë si arrese al corso dei propri pensieri e cominciò ad analizzare la situazione con quel poco di razionalità di cui era ancora capace. Era evidente che provava qualcosa per quella donna, per quanto incomprensibile potesse sembrare. La sera prima aveva ballato con tante ragazze, ma nessuna di loro gli aveva fatto un effetto minimamente paragonabile a ciò che aveva provato quando aveva tenuto tra le braccia Elle nella loro strampalata lezione di ballo.

Doveva ammetterlo: il sogno non era altro che la conferma di qualcosa che già sapeva. Bisognava solo avere il coraggio di chiamare le cose col loro nome.

Già, ma quale?

Morifinwë provò con “attrazione”. Sembrava il termine giusto per definire ciò che provava per lei, anche se non riusciva proprio a capire perché mai dovesse provare attrazione per una donna adulta – molto adulta – dal volto severo – non quando rideva alle sue battute, però – dal carattere schivo – più che schivo, riservato – e che aveva l’aria di poterti spezzare in due con una mano sola, se avesse voluto.

Eppure il sogno era stato così reale – lui sdraiato nel suo letto, il sapore della sua pelle, il calore del suo corpo – e le conseguenze così… tangibili, che “attrazione” non sembrava abbastanza per descrivere un’esperienza di tale intensità.

Forse la parola più giusta era “desiderio”.

Provò a sussurrarlo per vedere che effetto faceva: – La desidero. – Un flusso di calore gli scese tra le gambe e il suo viso avvampò di vergogna. Morifinwë non conosceva molto di quella materia, ma una cosa la sapeva: era sbagliato desiderare una persona che non ricambiava il tuo desiderio, né mai l’avrebbe fatto.

Stai calmo! ordinò a sé stesso e a quella parte del suo corpo che non voleva saperne di sottostare alla ragione. Il desiderio si poteva tenere sotto controllo, non era più un bambino, maledizione! E subito una vocina dentro di lui gli suggerì che forse era proprio quello il punto: che non era più un bambino.

La zittì. Non era il momento di lasciarsi distrarre da voci inesistenti, soprattutto se avevano la spocchiosa cadenza di quella di suo fratello piccolo. Gli serviva un piano. Anzi, la soluzione era talmente chiara che non gli serviva neppure un piano: senza dubbio tutto questo… ardore improvviso… si sarebbe spento non appena avesse smesso di vederla. Doveva solo evitare di incontrarla ancora. Semplice. Pulito. Definitivo.

Allora perché si sentiva come se gli avessero dato fuoco al cuore senza prima prendersi la briga di strapparglielo dal petto? Perché il solo pensiero di non vederla più lo faceva sentire come se gli avessero attaccato una pietra al collo prima di buttarlo nelle profondità degli abissi?

E soprattutto, perché stava usando delle metafore – di dubbio gusto, per giunta – per tentare di dare un senso a una stupida, banalissima reazione involontaria del suo corpo?

Tutto questo non c’entrava affatto col desiderio.

La verità irruppe nella sua coscienza così all’improvviso che Morifinwë non ebbe il tempo di negarla.

Si era innamorato. Per la prima volta nella sua vita.

E la scoperta avrebbe anche potuto rallegrarlo se non si fosse portata dietro quel piccolo, terrificante particolare che rovinava tutto.

Si era innamorato di una serva che aveva l’età di suo nonno.

Affondò il viso nel cuscino e gemette per la terza volta da quando si era svegliato.

Perché, dannazione, perché finiva sempre per cacciarsi nelle situazioni più sbagliate?



 

Morifinwë tenne fede al suo piano.

Si limitò ad andare alla fattoria solo il giorno della settimana in cui aveva lezione col maestro, facendo attenzione ad arrivare puntualissimo e a scappare via non appena Arsanarwë lo congedava.

Elle non disse nulla riguardo alla diminuzione delle sue visite, così come non ne aveva commentato l’aumento. Le poche volte che si incrociavano lo salutava con un neutro: “Buongiorno, Morifinwë”, o con un cenno della mano.

Quello che c’era stato tra loro la sera della Meren Tulusto, di qualunque cosa si fosse trattato, sembrava aver avuto effetto solo su Morifinwë. E dopotutto perché avrebbe dovuto essere diversamente? Era lui il ragazzino in preda agli stimoli della crescita, vittima di pulsioni imbarazzanti e sentimenti fuori luogo. Lei era una donna adulta, matura ed equilibrata, che gli stimoli della crescita, se mai li aveva provati, se li era lasciati alle spalle in un altro mondo.

Káino e Lissi, come era prevedibile, ci rimasero molto male per la sua improvvisa scomparsa, ma lui si giustificò dicendo che era stato messo in punizione a causa della rissa a palazzo e, per placare le accese proteste dell’amico, gli promise anche che sarebbe andato con lui a quel misterioso evento chiamato l’Oscuramento dello stagno. Gli avevano detto che si sarebbe svolto alla fine di Ulvórë, e per allora Morifinwë aveva calcolato che sarebbe riuscito a sopprimere il suo inopportuno sentimento – giusto nel caso ci fosse andata anche Elle.

Il senso di colpa che provava per aver detto una bugia ai suoi amici riguardo alla punizione datagli dal padre scomparve quando la punizione divenne realtà. Col pretesto che Tyelkormo si stava preparando per il suo viaggio a nord per la mappatura dei territori poco esplorati, Morifinwë venne costretto a spulciare tutti i volumi di argomento geografico o naturalistico che poteva reperire in biblioteca, alla ricerca di eventuali vecchie mappe che potessero aiutare il fratello nell’impresa. E a copiarle.

E così, i lunghi e noiosi pomeriggi che si era immaginato di trascorrere da solo a crogiolarsi nell’autocommiserazione, si trasformarono in lunghi e noiosi pomeriggi trascorsi da solo col capo chino su un foglio e con una matita in mano, nel tentativo di riprodurre quanto più fedelmente mappe di territori di cui lui ignorava perfino l’esistenza.

L’unico svago che gli era rimasto era allenarsi con Morvail al salto al volo. Non voleva tornare da Káino, quando quel pasticcio fosse finito, avendo dimenticato tutto ciò che Elle gli aveva insegnato, e così continuava a esercitarsi nel giardino di casa, sul viale che conduceva al laboratorio della madre, che era sufficientemente ampio ma fuori dai percorsi più frequentati.

Ulvórë arrivò al suo apice e alla fattoria cominciarono gli ultimi preparativi per l’imminente nascita del primogenito di Arsanarwë. Tutta la casa era in subbuglio. A giudicare dal rumore che Morifinwë sentiva durante le lezioni, sembrava che al piano di sopra fosse in atto un trasloco per far posto a un’intera famiglia, invece cha a un singolo neonato. In parte era davvero così, perché per l’occasione sarebbero rientrati i genitori di Lissi e Káino con il loro seguito. I due fratelli non stavano più nella pelle, e tutto il reparto scuderie era impegnato a predisporre la sistemazione dei nuovi esemplari che la coppia avrebbe portato con sé.

Arsanarwë, quando si accorse che la situazione stava diventando troppo caotica e che nemmeno lui riusciva più a lavorare con la dovuta attenzione, sospese le lezioni.

Il che portò le visite di Morifinwë alla fattoria a zero.

Il suo piano aveva funzionato alla grande, si trovò a pensare ironicamente, mentre dava calci ai sassi sulla via Ezellohar rientrando a piedi dalla sua ultima lezione per metterci più tempo. Adesso non c’era più nemmeno quel singolo pomeriggio che gli fornisse un motivo per uscire di casa. Sorpreso dal proprio malumore, si chiese da quando il pensiero si doversene stare a casa propria fosse diventato un peso per lui.

Fortunatamente il peso gli venne presto levato dalle spalle. Quando Morifinwë terminò le fonti geografiche nella biblioteca di casa, infatti, il padre lo mandò a consultare anche quelle custodite nel Palazzo Reale.  Ormai a un passo dalla consunzione per noia, Morifinwë non fece neppure finta che l’incarico gli dispiacesse, e l’unica cosa che pretese fu di andarci la mattina presto per incontrare meno persone possibile.

A palazzo, le carte geografiche erano conservate in una stanza a cui si accedeva dalla biblioteca. Era un locale accogliente e spazioso, con paesaggi di Aman affrescati sulle pareti e con il soffitto costellato di piccole luci verdi e dorate, che richiamavano alla memoria lo scintillio delle foglie nei boschi presso Valmar. Le mappe erano riposte arrotolate in bassi scaffali contrassegnati da targhette in metallo. Su un tavolo di legno lucido nel centro della sala erano appoggiati piccoli animali in marmo usati per tenere distesi i fogli durante la lettura.

All’ora in cui arrivava Morifinwë la biblioteca era ancora deserta e lui la attraversava con passo veloce. Poche svolte tra gli scaffali, una piccola deviazione attorno a una maestosa arpa che, chissà per quale motivo, era riposta proprio in un luogo dove avrebbe dovuto regnare il silenzio, lo portavano dritto all’arco che separava il locale principale dal suo nuovo luogo di lavoro. Arrivato lì, riponeva con calma sul tavolo i suoi attrezzi: il foglio su cui disegnare, il blocco degli appunti, matite, squadre e compassi, poi andava alla ricerca delle carte che riguardavano le terre situate tra Valinor e Araman e si metteva all’opera.

Il più delle volte lavorava chino sul foglio, tutta l’attenzione focalizzata sulla perfezione del tratto, sul difficile compito di renderlo uguale a quello originale. Ma non di rado i luoghi sconosciuti che si componevano sotto le sue dita lo conducevano lontano sull’onda della fantasia, e allora Morifinwë si trovava a immaginarsi esploratore, e pensava con nostalgia a Káino e alle loro escursioni. I piccoli blocchi di marmo a forma di cavallo diventavano i loro destrieri e lui li faceva correre sulle mappe, come fossero Morvail e Haninkë che si sfidavano incitati dai loro cavalieri.

Quando dalla biblioteca cominciavano a provenire i rumori dei visitatori, Morifinwë capiva che presto qualcuno sarebbe arrivato a invadere anche il suo angolo privato e si preparava ad andarsene. Impacchettava le sue cose, riponeva le mappe e, inoltrandosi tra gli scaffali con la speranza di non incontrare nessuno, scivolava fuori dalla biblioteca e poi da palazzo.

A volte, invece, era il suono dell’arpa che arrivava fino a lui. Erano i giorni in cui suo cugino Findaráto veniva a suonare il prezioso strumento custodito nella biblioteca. Allora Morifinwë rimaneva ben nascosto nella sua stanza, sia perché non gli andava di aver a che fare con nessuno degli Arafinwioni dopo i pessimi trascorsi con Angaráto, sia perché, doveva ammettere, il cugino era un arpista eccezionale ed era un piacere lavorare avendo in sottofondo il suono della sua musica.

Una mattina, mentre si attardava oziosamente su una mappa di Tol Eressëa ai tempi in cui era abitata – cosa che non aveva nulla a che vedere con il suo incarico, ma che gli permetteva di fantasticare su lui e Káino esploratori di quelle terre abbandonate alla ricerca di antichi manufatti – fu sorpreso da strani suoni provenienti dall’arpa, del tutto diversi da quelli che era solito produrre l’Arafinwion.

La musica, sempre che si potesse definire tale quell’accozzaglia di note, era sorretta da un ritmo sostenuto, ripetitivo, quasi ossessivo nel suo perenne riproporsi sempre uguale, come se il suonatore pizzicasse le corde lunghe con instancabili dita d’acciaio. La melodia, sui toni più acuti, era invece discontinua, dava alcuni trilli sincopati e poi taceva a lungo, lasciando il posto al battito pulsante delle note basse.

Non era musica che poteva uscire dalle mani di Findaráto, quella.

Morifinwë osò mettere la testa fuori dalla stanza e fare qualche passo nella biblioteca. Allungò il collo per sbirciare da dietro uno scaffale e scoprire chi si permetteva di tormentare in quel modo lo strumento più antico e pregiato del palazzo.

Un uomo di spalle imbracciava l’arpa con tanta foga da avercela quasi in grembo. Le maniche arrotolate di una bianca camicia spiegazzata mettevano in mostra avambracci possenti con muscoli contratti nello sforzo. Non erano dita d’acciaio quelle che pizzicavano le corde, ma in senso figurato non poteva esserci paragone migliore: i tendini tesi, i movimenti così veloci che l’occhio faticava a seguirli, facevano pensare a un marchingegno meccanico piuttosto che a mani in carne e ossa. La testa del suonatore ondeggiava al ritmo della sua musica e una moltitudine di trecce nere si agitavano sulla sua schiena come serpenti in preda al delirio.

Morifinwë lo conosceva bene, quell’uomo. Findekáno frequentava casa sua da prima che lui nascesse.

Rimase incantato a guardarlo, mentre il suo orecchio si abituava all’aggressività del suono e, poco a poco, si lasciava conquistare da quella musica disturbante e da tutto ciò che essa, innegabilmente, comunicava.

Passione, irrequietezza, desiderio insoddisfatto.

Tutto ciò che da settimane Morifinwë stava cercando di sopprimere, quella musica lo riportava prepotentemente in superficie, lasciandolo esaltato e terrorizzato al tempo stesso.

Quando il brano terminò, senza preavviso, senza l’accenno di un calando, Morifinwë andò alla ricerca d’aria come uno che riemerge da una lunga apnea. Il respiro che prese rumoreggiò nel silenzio più totale.

Findekáno si voltò di scatto, la fronte imperlata di sudore, gli occhi ancora accesi dalla passione.

– Moryo – disse, riconoscendolo, – scusami, io stavo… ecco… di solito a quest’ora non c’è nessuno.

Morifinwë combatté contro il desiderio impellente di ritirarsi dietro lo scaffale. Non capiva bene a cosa avesse appena assistito, me era certo che si trattava di qualcosa di troppo personale perché l’artefice gradisse un testimone.

Non aveva mai visto Findekáno in quello stato. Il cugino, per come lo conosceva lui, era la personificazione stessa della spensieratezza e della disinvoltura, uno che, in quanto a battuta pronta, riusciva ad avere la meglio persino su Tyelkormo. Mentre ora, eccolo lì, spaesato e a corto di parole.

– Non mi hai disturbato – riuscì a dire Morifinwë, – e comunque me ne stavo andando.

– No, no, resta pure, io ho finito. – Findekáno ripose l’arpa sulla sua base con delicatezza, allungò una mano dietro di sé per recuperare la giacca che aveva abbandonato sullo schienale di una sedia, ma sembrò non trovare la forza di alzarsi dallo sgabello. Appoggiò la fronte sulla cassa dello strumento e mormorò: – Hai mai desiderato qualcosa al punto che ti sembra di impazzire, ma sai che non potrai mai averla?

Morifinwë rispose prima di rendersi conto che probabilmente Findekáno aveva dato voce, senza volerlo, a un pensiero privato.

– Sì – disse.

Ed era la verità. Quante cose avrebbe voluto, che non avrebbe mai potuto ottenere! Avrebbe voluto essere figlio unico, tanto per cominciare. Anzi, no, avrebbe voluto essere il migliore dei suoi fratelli. Avrebbe voluto ottenere, come la ricevevano gli altri, l’ammirazione da parte del padre. Oh, Eru benedetto! Era da quando aveva memoria che provava questo desiderio. E più di recente se n’era aggiunto uno nuovo, anch’esso destinato a rimanere irrealizzato e, considerato l’effetto che gli aveva fatto quella musica, ancora ben lontano dal venire soppresso.

– Mi dispiace – disse il cugino, come se condividessero lo stesso problema, anche se Morifinwë non aveva idea di cosa potesse tormentare lo spensierato Findekáno. E neppure aveva intenzione di chiederglielo. Ne aveva già abbastanza di suoi, di problemi, senza dover andare a indagare su quelli degli altri.

Ma forse avrebbe potuto imparare qualcosa di utile per risolvere la propria situazione.

– Come si tira avanti in questi casi? – domandò.

Findekáno si passò una manica sulla fronte per detergere il sudore e quando abbassò il braccio i tratti del suo viso erano più distesi.

– Ci si accontenta di quello che si può avere – rispose.

A Morifinwë non sembrò una grande rivelazione. – E questo basta?

– Non sempre – ammise Findekáno.

– E quando non basta, cosa fai? Torturi strumenti di pregio?

Il cugino sbuffò una mezza risata: – No, di solito mi sfogo con l’esercizio fisico. Corro, nuoto, mi arrampico. Faccio delle cretinate solenni per mettermi in pericolo di proposito… – si interruppe, lo sguardo vagamente allarmato. – Ma non dire a Nelyo che te l’ho detto, mi spella vivo se scopre che racconto queste cose al suo fratellino.

Morifinwë non ci pensava neanche a informare Russandol di quella conversazione. Tanto più che il migliore dei suoi fratelli non avrebbe mai potuto capire; di certo non aveva desideri irrealizzabili, lui.

Findekáno scese dallo sgabello infilandosi la giacca. – A volte mi chiedo se sono nato dalla parte giusta del mare – sospirò.

Morifinwë ebbe un leggero sussulto all’udire parole tanto blasfeme.

Parole che negavano, implicitamente, la riconoscenza dovuta ai Valar, che li avevano sottratti alle tenebre e accolti nella loro terra. Che sminuivano il sacrificio di coloro che avevano dato la vita per condurre alla salvezza i loro padri. Parole che rinnegavano tutto ciò che avevano insegnato loro fin da quando erano bambini: loro, gli Eldar di Aman, erano i benedetti, i fortunati, loro erano la civiltà. Gli altri, che Eru li proteggesse, erano infelici che brancolavano nell’oscurità, perduti per sempre.

Eppure, da qualche tempo Morifinwë aveva cominciato a capire che la realtà era più complicata, e un’affermazione come quella del cugino – si accorse – non suscitava più in lui lo sdegno che avrebbe provocato l’anno precedente.

– Chiedo scusa – disse Findekáno, forse temendo di aver esagerato. – Oggi non ne azzecco una. Tu come te la passi?

Morifinwë sospirò, sollevato. La conversazione tornava a essere una pura formalità. Presto si sarebbe conclusa.

– Al solito. Confuso, il più delle volte – rispose, già col pensiero alle sue mappe, mentre l’altro si dirigeva verso l’uscita. – Ma tutti dicono che quando sarò più grande cambierà.

– Questo è certo – confermò il cugino. E appena prima di sparire in corridoio aggiunse, con un ghigno ironico molto più in linea col Findekáno che lui conosceva, – quando sei più grande peggiora.


 

 

 


NOTE

Ce l’ho fatta! È stata un giornata complicata, ma alla fine ce l’ho fatta...
Grazie a chi ha letto, e a venerdì prossimo ❤︎

Nomi canonici, conversione Quenya - Sindarin
Morifinwë = Caranthir
Tyelkormo = Celegorm
Angaráto = Angrod
Findaráto = Finrod
Arafinwion = figlio di Arafinwë, cioè Finarfin
Findekáno = Fingon
Nelyo, Nelyafinwë, Russandol = Maedhros

Personaggi di mia invenzione
Arsanarwë, il maestro di matematica di Morifinwë
Káino, un amico di Morifinwë
Lissi, la sorellina di Káino
Morvail, il cavallo di Morifinwë
Haninkë, il cavallo di Káino

Nomi di mia invenzione
Meren Tulusto, la Festa dell’Arrivo, importante ricorrenza che festeggia l’arrivo dei Noldor in Aman
Ulvórë, una stagione intermedia tra il nostro autunno e un inverno mite

 

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Capitolo 17
*** Un nome semplice ***



17

Un nome semplice

(o quando decidi di seguire i discutibili consigli di un folle cugino)


 

Ulvórë volgeva al termine quando a casa di Fëanáro arrivò un messaggero che annunciava la nascita della figlia di Arsanarwë e di Rowen.

Morifinwë stava aiutando la madre a spostare alcuni blocchi semilavorati per far posto al carico di pietra che sarebbe arrivato con l’inizio della nuova stagione, quando Calwen irruppe nel laboratorio gridando: – È una bambina! È una bambina!

Né lui né Nerdanel chiesero a chi si stesse riferendo, era da giorni ormai che si aspettavano la buona notizia. La madre si portò una mano aperta sul cuore ed emise un sospiro che mescolava gioia, sollievo e anche un pizzico di malinconia. Poi domandò: – E Rowen come sta?

Calwen era tanto eccitata che le mancava il fiato: – Stanno entrambe bene, è andato tutto liscio!

– Le hanno già dato un nome? – volle sapere Nerdanel.

– Non lo so, benedette Valier, non lo so! Se fosse stato maschio, Arsanarwë avrebbe voluto chiamarlo come suo padre, ma visto che è una bambina

Calwen non si sarebbe mai stancata di ripeterlo. In casa di Fëanáro c’era sempre stata un’enorme carenza di figlie femmine, non solo nella famiglia del principe, ma anche tra la gente che lavorava per lui. Morifinwë pensò che se avesse portato a casa Lissi, tutti avrebbero fatto a gara per viziarla, al punto che la piccola non avrebbe più voluto andarsene. Si chiese perché non gli fosse mai venuto in mente prima.

– Nerdanel… ehm… signora, quando possiamo andare a trovarla? – domandò Calwen, che non riusciva a stare ferma e si lisciava il grembiule con mani ancora bianche di farina.

– Lasciamole qualche giorno per riprendersi prima di invadere casa sua – propose la madre.

Calwen si affrettò ad annuire: – Ma certo, ma certo, si capisce. Domani?

– Meglio dopodomani, così avremo il tempo di preparare qualcosa da portarle in dono.

La cuoca uscì facendo svolazzare il grembiule e borbottando qualcosa a proposito di una crema al cioccolato e nocciole.

Nerdanel strinse le braccia attorno alla vita come per cullare un bambino che non c’era. – Una femmina – sospirò.

Ma appena il suo sguardo cadde su Morifinwë, il suo volto si illuminò di un sorriso tenero: – Non che i miei maschietti non mi riempiano di soddisfazioni.

Morifinwë la vide avvicinarsi in preda a uno dei suoi momenti sdolcinati e temette di venire intrappolato in un abbraccio.

Lei interpretò correttamente il suo sguardo allarmato e, ritirandosi, sospirò: – Ma crescete troppo in fretta.

Nel vederla arretrare, lui ebbe un attimo di incertezza. Quando la madre era in attesa di Curvo, e non passava giorno senza che esprimesse il desiderio che il futuro nato fosse una bambina, Morifinwë era stato troppo piccolo per capire quanto avesse significato per lei. Ma adesso era più che mai in grado di comprendere cosa volesse dire avere dei desideri che non si riuscivano a far avverare.

Le andò incontro e si lasciò abbracciare. – Non così in fretta, mamma – disse, col viso che sfregava contro la stoffa ruvida del suo camice mentre lei lo stringeva forte a sé.

– Perché non ci accompagni anche tu alla fattoria? – chiese Nerdanel, quando lo lasciò libero. – Col fatto che Arsanarwë ha sospeso le lezioni è da molto tempo che non ci vai. Mi sembrava ti fossi fatto degli amici, laggiù.

Morifinwë scrollò le spalle in un finto disinteresse che non avrebbe ingannato nessuno, figuriamoci sua madre. La lontananza da Káino e da Lissi gli pesava più di quanto si fosse immaginato, e il suo desiderio di stare con Elle, sebbene fossero trascorse diverse settimane dall’ultima volta che l’aveva vista, non era calato neanche di una virgola. La donna gli mancava immensamente. Gli mancavano i suoi modi bruschi, i suoi silenzi confortevoli, i suoi mezzi sorrisi, le sue rare, preziosissime risate.

Gli capitava sempre più spesso di ripensare alle parole che Findekáno gli aveva detto quando l’aveva sorpreso suonare l’arpa con tanta disperata passione, e sebbene il metodo “accontentarsi di quello che si ha” sembrava non funzionare troppo bene – almeno a giudicare dai componimenti musicali del cugino – Morifinwë stava cominciando a prendere in considerazione l’idea di tentare. Ogni giorno che passava gli sembrava sempre più assurdo rinunciare alla compagnia di Elle solo per colpa della sua inopportuna infatuazione.

– Verrò volentieri – disse alla madre, sperando che la sua decisione non fosse un altro dei suoi errori catastrofici.
 


 

Come deciso da Nerdanel, il pomeriggio di due giorni dopo, Morifinwë, sua madre e Calwen partirono alla volta della fattoria.

Morifinwë in groppa a Morvail seguiva il calesse stracarico su cui viaggiavano le due donne. Era impressionante il numero di doni che i vecchi colleghi di Arsanarwë, che per tanti anni avevano lavorato al suo fianco a casa di Fëanáro, avevano messo insieme per l’arrivo della primogenita del loro amico. Il viaggio si preannunciava lento, e prima ancora di uscire dalla città Morifinwë aveva cominciato a rimuginare sulla sua decisione, proprio come aveva fatto quella mattina appena alzato, e tutto il giorno precedente.

Non che ci fosse molto su cui riflettere. Avendo deciso di accontentarsi di stare accanto a Elle e di reprimere altri sentimenti del tutto fuori luogo, c’era solo un modo di agire per come la vedeva lui: mentire.

Morifinwë non poteva certo definirsi il campione della menzogna, col viso che arrossiva a ogni minima fluttuazione del suo umore, e la disinvoltura nell’esprimersi paragonabile a quella di un bambino di dieci anni, ma quanto poteva essere difficile dire: “scusa se sono sparito, ho avuto molto da fare” senza inciampare nelle proprie parole?

E poi, quasi certamente, Elle non gli avrebbe chiesto nessuna spiegazione. Magari Lissi e Káino le avevano già raccontato la storia della punizione o, cosa ancora più probabile – anche se più dolorosa da accettare – lei non aveva neppure notato la sua assenza.

Insomma: non aveva nulla di cui preoccuparsi.

Eppure la sola idea di ricominciare a parlarle lo faceva morire di imbarazzo. Il pensiero di come si era risvegliato la mattina successiva alla Meren Tulusto lo faceva ancora arrossire fino alla radice dei capelli, e non poteva negare che fantasie come quella del suo sogno non tornassero a visitarlo di tanto in tanto, quando abbassava la guardia, appena prima di addormentarsi, nella solitudine di camera sua.

Inoltre c’era qualcosa che non gli tornava, un sospetto annidato in un angolo della sua mente che non riusciva a mettere a fuoco. Aveva come l’impressione di aver trascurato un particolare fondamentale.

Continuò a rimuginarci sopra fino a quando arrivarono alla fattoria, dove Arsanarwë, con la sua aria allegra e spensierata, li attendeva sulla porta d’ingresso agitando un braccio per salutarli.

Morifinwë diede una mano a scaricare tutti i doni e seguì le donne e il maestro fino a un salotto del primo piano. Morbidi tappeti sul pavimento di legno, quadri di paesaggi collinari alle pareti, un caminetto spento sulla cui mensola s’impennava un cavallo di bronzo. La forte luce delle prime ore del pomeriggio era schermata da tende arancioni che donavano una calda sfumatura all’ambiente.

Rowen sedeva in una poltrona con la piccola tra le braccia.

Morifinwë appoggiò i pacchetti su un tavolo già pieno di altre scatole, di dolci e di fiori, e rimase in disparte mentre la madre e Calwen si avvicinavano in adorazione della piccola.

Cosa ci fosse di così straordinario in un fagottino rosa dalla cui bocca uscivano gorgheggi incomprensibili e bollicine di saliva, Morifinwë non riusciva proprio a capirlo. E ancor meno capiva il motivo del nodo alla gola che lo prese quando sua madre si fece consegnare la neonata e la cullò tra le braccia con gli occhi lucidi e un sorriso malinconico.

Morifinwë si schiarì la gola e borbottò una scusa, poi lasciò la stanza per andare a cercare Káino. Aveva un disperato bisogno della sua parlantina inesauribile per essere distratto dalla confusione che aveva dentro. E magari dopo avrebbe avuto la lucidità sufficiente per affrontare anche Elle.

Si affrettò a girare l’angolo del corridoio che portava alla camera dell’amico, e venne quasi travolto da una montagna di biancheria pulita che viaggiava in senso opposto. Tunichette, bavaglini e altre pezze di stoffa che Morifinwë non vedeva in giro dai tempi in cui Curvo era neonato rischiarono di finire a terra quando Elle, che reggeva la pila, si scansò con un’agile mossa per evitare lo scontro.

– Ragazzino! – esclamò lei.

A trovarsela davanti così inaspettatamente, a Morifinwë sembrò quasi di sentire lo scatto a vuoto del suo cervello che si inceppava.

– Stavo cercando Káino – gli venne fuori, quando riuscì a recuperare l’uso della parola.

– È partito stamattina con Lissi e i genitori. Starà fuori un paio di giorni – disse lei. E aggiunse: – Ci resterà male a sapere che sei passato.

Nessuno disse altro e poco dopo la donna fece un cenno alla pila di biancheria che teneva tra le braccia, come a indicare che aveva molto da fare e che sarebbe stato gentile se si fosse tolto di torno per lasciarla passare.

Morifinwë decise di cogliere al volo l’invito ad andarsene, ma evidentemente il suo cervello non aveva ancora ripreso a funzionare a dovere perché quando aprì bocca disse, invece: – Vorrei parlarti.

Elle, con la sua consueta calma, acconsentì con un cenno del capo. – Lasciami appoggiare questa roba – disse.

Morifinwë la attese fuori da una stanza che riponesse il suo carico, poi la seguì giù dalle scale e fuori nel piazzale.

Morvail alzò il muso al loro passaggio, aspettandosi forse di andare ad allenarsi al salto, ma loro proseguirono verso il frutteto fino a quella che Morifinwë ormai chiamava la loro panchina. Gli alberi erano stati potati durante la sua assenza e i rami cominciavano a ricoprirsi di gemme. Con l’inizio di Tuilë sarebbero stati un tripudio di fiori.

Come sempre Elle si sedette sul lato più in ombra e lui occupò quello in piena luce. La pietra era calda e asciutta; ormai erano diversi giorni che non pioveva e la temperatura nella Piana stava risalendo rapidamente. Morifinwë allentò i lacci sul collo della camicia e invidiò Elle che indossava il suo solito vestito leggero senza maniche.

La donna lo guardava, in attesa. Non un tratto del suo viso mostrava se fosse curiosa, sorpresa, scocciata, o annoiata.

Lui sentì il cuore battergli forte contro le costole e fu costretto ad asciugarsi le mani sui pantaloni. Il silenzio si prolungò. Doveva dire qualcosa. Provò con la bugia che si era preparato, ma le parole non vollero venire fuori.

– Non c’è bisogno che tu mi dica niente, Morifinwë – intervenne Elle, forse per risparmiargli l’arresto cardiaco. Il suo cuore batteva talmente forte che dovevano sentirlo fino a Valmar.

– Lo so – disse lui. Ed era vero. Una delle cose che apprezzava dell’amicizia con Elle era proprio che non c’era mai bisogno di spiegazioni. Ognuno di loro aveva il diritto di tenere per sé le cose che non voleva condividere, senza paura di essere malgiudicato per il proprio desiderio di riservatezza.

Ma adesso, per colpa sua, le cose si erano tutte ingarbugliate e per quanto provasse a farsi venire in mente un’alternativa, per farle tornare com’erano non vedeva altra via che dirle la verità.

Cosa che, evidentemente, non era capace di fare.

Elle gli venne di nuovo in aiuto: – Vuoi cominciare raccontandomi perché sei sparito?

Dunque se n’era accorta.

Morifinwë annuì. Abbassò lo sguardo sulle sue mani, che teneva appoggiate sulle ginocchia, e mormorò: – È che non so come fare.

– C’entra col fatto che abbiamo ballato insieme? – suggerì Elle.

Morifinwë arrossì fino alla punta delle orecchie.

E in quel momento, tutto a un tratto, capì.

Lei sapeva.

Eccolo il particolare che gli era sfuggito per tutta la mattina! Elle era capace di percepire le vibrazioni di uno spirito a distanza di leghe, non avrebbe mai potuto non accorgersi del terremoto emotivo che aveva scosso Morifinwë mentre la teneva tra le braccia, durante il ballo in camera sua. Aveva ragione lei: non c’era bisogno di spiegazioni.

E non perché non le importassero, ma perché sapeva già tutto.

Se Morifinwë non fuggì dal frutteto in quell’esatto istante per non farsi mai più rivedere, fu solo perché i muscoli delle gambe non obbedirono all’ordine. In realtà, tutti i suoi muscoli si arresero e lui si afflosciò sulla panca, il capo chino, infossato tra le spalle curve.

– Il fatto è… – si interruppe e strinse i pugni, perché ancora non riusciva a trovare le parole per esprimersi. Infine sbottò: – Il fatto è che volevo che tu fossi mia amica e invece ho rovinato tutto! Sono solo uno stupido ragazzino che non sa tenere a bada i propri sentimenti. Sono sempre il solito: non so cosa fare, non so cosa voglio! Una parte di me vorrebbe che tutto tornasse come prima di quella sera. Un’altra invece vorrebbe… non lo so… di più…

Si accorse di ciò che gli era appena sfuggito di bocca e si morse il labbro per tacere. Tenne gli occhi fissi sulle sue mani, i pugni chiusi, le dita contratte. L’ultima cosa che voleva era affrontare l’espressione di rimprovero che avrebbe letto sul volto della donna.

Ma Elle, come al solito, lo sorprese. – Tenere a bada i propri sentimenti è un’impresa che riesce difficile persino agli adulti, non mi sorprende che tu non ne sia ancora capace – disse.

Morifinwë scosse la testa, per nulla confortato da quell’affermazione.

– Capita a tutti di provare attrazione per qualcuno mentre si diventa grandi – continuò lei, – non puoi certo incontrare la persona giusta al primo colpo.

Morifinwë pensò ai suoi fratelli maggiori. Di Russandol non avrebbe saputo dire, ma era noto che Makalaurë aveva frequentato altre ragazze prima di fidanzarsi con Erlindiel, e Tyelkormo, che non aveva ancora scelto una compagna, non faceva che vantarsi delle sue numerose conquiste.

Cominciò a sentirsi un po’ più sollevato. Sbirciò la donna seduta accanto a lui, per attingere alla sicurezza che si leggeva sul suo volto.

– Stai dicendo che mi passerà? – chiese.

– Ne sono certa – rispose lei, senza esitare.

Questo, se non alto, era confortante.

Perché un pensiero confortante lo facesse sentire male come se avesse mancato l’unica occasione della sua vita per essere felice, era qualcosa a cui non voleva pensare per il momento. Rimaneva ancora da risolvere il problema più importante, il vero motivo per cui era lì a umiliarsi oltre ogni sua previsione.

Morifinwë deglutì un paio di volte prima di trovare il coraggio di domandare: – Possiamo continuare a essere amici, nel frattempo?

Elle posò lo sguardo sulle sue mani ancora chiuse a pugno. – Sei sicuro che sia davvero quello che vuoi? – chiese.

– Sicurissimo! – esclamò Morifinwë, che cominciava a sentirsi di nuovo padrone, se non di sé stesso, almeno dei suoi muscoli. Le spalle si raddrizzarono, le dita mollarono la presa, il sangue riprese a circolare. Anche la sua lingua, alla fine, si sciolse.

– Ti prego Elle, ti prometto che non ti metterò mai più in situazioni del genere! Niente più balli in camera tua… ma cosa sto dicendo?… niente più balli in nessun luogo in tutta Valinor! Non voglio che per colpa mia roviniamo la nostra amicizia. E se non riuscissi a rimanere al mio posto, ti prometto che sparirò per davvero, non mi vedrai più per il resto della vita.

Almeno quest’ultima cosa non era difficile da promettere, un altro momento di imbarazzo come quello e si sarebbe guadagnato un viaggio di sola andata per Mandos. E a quel punto nessuno l’avrebbe mai più rivisto.

Lei rimase a lungo in silenzio, il suo viso più indecifrabile che mai.

Morifinwë pensò che neanche se l’avesse frequentata per mille anni sarebbe riuscito a capire cosa le passava per la testa quando si chiudeva in quel modo in sé stessa. Per un attimo fu distratto dall’idea di come sarebbe stato starle accanto, per davvero, per mille anni. Poi fu assalito dal dubbio che se lei ci metteva così tanto a rispondere era perché stava cercando un modo gentile per dirgli di no.

Ma alla fine lei disse: – Se è davvero quello che vuoi, io non ho niente in contrario.

Morifinwë ricominciò a respirare, e insieme all’aria dovette inalare una qualche sostanza intossicante perché l’euforia gli diede alla testa e fu assalito dall’impellente desiderio di baciarla, lì, su quella stessa panchina.

– Non mi sembra una buona idea – disse lei, – ho il forte sospetto che non sia il modo migliore di cominciare per uno che ha deciso di tenere sotto controllo i propri istinti.

Morifinwë si bloccò, agghiacciato. Doveva aver parlato ad alta voce o aver aperto la mente senza volerlo. Ma lei aveva le labbra piegate in una smorfia ironica e gli occhi che scintillavano divertiti.

Non era offesa. Non era indignata. Aveva scherzato.

Morifinwë scoppiò a ridere e, dopo un attimo, ebbe la bellissima visione di lei che si lasciava andare a un sorriso pieno, luminoso. Il sorriso che lui dentro di sé chiamava “dente scheggiato-occhi che brillano”. Il sorriso di quando era felice.

Eru, quanto le era mancata!

– Senza contare – riprese lei, – che tua madre sta venendo verso di noi proprio ora.

Morifinwë si sporse di lato e guadò alle spalle di Elle. Dalla panchina non si vedeva il piazzale davanti alla fattoria e men che meno sua madre, ma lui non dubitava che la donna avesse ragione. Si alzò e fece qualche passo oltre gli alberi che ostacolavano la visuale. Calwen e sua madre erano uscite dalla porta di casa, la prima era ferma presso il calesse, ma Nerdanel stava attraversando il piazzale in direzione del frutteto.

Quando lo vide, si fermò e agitò nell’aria una mano per farsi notare: – Carnistir, noi andiamo! Tu rimani?

– Sì – si affrettò a rispondere lui, – ci vediamo a casa!

Nerdanel fece un gesto per indicare che aveva capito e gli voltò le spalle per raggiungere Calwen al calesse.

– Carnistir? – domandò Elle quando tornarono a sedersi sulla panchina.

– È il mio amilessë – spiegò Morifinwë, e indicò la sua faccia e la carnagione disomogenea che tanto odiava.

– È un bel nome – disse lei. – Ha un suono aspro, ma allo stesso tempo armonioso. Ti si addice.

Morifinwë si sentì arrossire.

– Puoi… – balbettò, – puoi usarlo, se vuoi.

Poi, per nascondere l’imbarazzo, si affrettò a chiederle: – Anche tu hai un amilessë? – perché non sapeva se i Nati all’Est ne avessero uno. Il nonno, Morifinwë l’aveva sentito chiamare sempre e soltanto Finwë.

– Ho un unico nome – rispose lei, – ma lo ha scelto mia madre, quindi forse si può definire così.

– Ha un significato particolare? – domandò Morifinwë, prima di ricordarsi che la donna non parlava volentieri della sua vita passata.

Ma questo aspetto non sembrava metterla a disagio perché non esitò a rispondere: – Sono nata durante una pioggia di stelle…

Morifinwë spalancò gli occhi, pensando di aver capito male. Era noto a tutti che in Endórë potevano accadere catastrofi inimmaginabili, ma stelle che piovevano dal cielo sembrava davvero troppo.

In risposta al suo sguardo incredulo, Elle spiegò: – Nulla di spaventoso, non temere! Era uno spettacolo molto raro, ma stupefacente: nuove stelle sbocciavano sulla volta celeste, come sbocciano i fiori in Tuilë, e subito sfrecciavano nel cielo per spegnersi nel nulla alla velocità con cui erano apparse. Mia madre non l’aveva mai visto prima e volle chiamarmi con un nome che glielo ricordasse.

– “Elle”? – domandò Morifinwë, chiedendosi se per caso non gli sfuggisse il significato di qualche parola antica.

– Menèl-aktálaloth, nella lingua che parlavamo allora – rispose la donna. Poi aggiunse: – Qui suonerebbe come Hellërillantalóte.

Disse il suo nuovo nome accentando ogni sillaba, ammorbidendo la erre fino a farla quasi sparire, salendo e scendendo con grazia lungo le vocali.

All’improvviso Morifinwë si rese conto di averlo già sentito: la prima volta che era stato alla fattoria, quando lei lo aveva accolto in casa.

Quando Morifinwë non aveva capito che si stava presentando e l’aveva trattata con maleducazione.

Si sentì più stupido di quanto non si fosse ancora sentito quel pomeriggio, ed era davvero dir tanto. – Me l’avevi già detto, vero? – le chiese, anche se conosceva già la risposta.

– La prima volta che ci siamo visti – confermò lei.

– Che idiota sono stato – sussurrò Morifinwë, nascondendo il viso tra le mani. Si rivide come doveva averlo visto lei quel giorno: un ragazzino presuntuoso, intrattabile, maleducato.

Eppure, gli venne da pensare, forse lei aveva visto oltre. Forse, con la sua eccezionale capacità di percezione, aveva intuito il disagio di quel ragazzino impacciato, la sua timidezza, la sua paura di non essere capito, e gli aveva offerto come conforto le poche cose di cui disponeva quel pomeriggio: un bicchiere d’acqua fresca e il suo nome vero.

In effetti, Morifinwë non aveva mai sentito nessuno pronunciarlo per intero.

– Nessuno ti chiama mai così – constatò, ad alta voce.

Elle, o meglio, Hellë annuì: – Tutti mi chiamano Hellë, qui, e a me non dispiace.

Con “qui”, non era difficile capirlo, la donna non intendeva solo la fattoria, ma l’intera Valinor, il suo nuovo mondo.

– Un nome più semplice, per una terra più semplice – commentò Morifinwë.

– Proprio così – confermò lei.

Poi nessuno disse più nulla. Se ne stettero seduti in silenzio in ascolto di rumori lontani: il via vai della gente al lavoro, i garriti delle rondini che tornavano ai loro nidi, il ronzio degli insetti, il leggero scalpiccio degli scoiattoli che scendevano dagli alberi alla ricerca di cibo.

Morifinwë appoggiò le mani sulla panca dietro si sé e si inclinò all’indietro per liberare i muscoli dalla tensione. Rimase così, a godersi il pieno splendore di Laurelin sul viso. Adorava quel luogo, adorava stare accanto a Hellë, adorava quel silenzio condiviso.

Quando si udirono in lontananza le campane di Valmar che suonavano l’undicesima ora, Hellë disse: – Devo tornare al lavoro – ma non si mosse, come se stesse apprezzando quel momento almeno quanto lui.

Morifinwë, dal canto suo, non aveva nessuna voglia di tornare a casa.

– Posso aiutarti? – le chiese, e trattenne il respiro, perché se lei avesse detto sì, sarebbe stata la conferma che tutto era davvero tornato come una volta.

Hellë inarcò un sopracciglio: – A piegare la biancheria?

Morifinwë esitò, pensando alle migliaia di volte in cui sua madre gli aveva detto di ripiegare i vestiti dopo esserseli tolti, e ai cumuli spiegazzati che lui riusciva a produrre le rare volte che la ascoltava.

– Non è il mio forte – ammise, – ma come dice sempre mio padre: “per il minore come per il maggiore, quand’essi si apprestano a intraprendere un’opera nuova, è fondamentale cominciare dalle basi”.

– E questo cosa vorrebbe dire? – chiese Hellë.

– Che potrei cominciare coi bavaglini.

Hellë scosse la testa come davanti a una causa senza speranza, poi scoppiò a ridere. Niente labbra tirate nel tentativo di frenare l’allegria, niente mano davanti alla bocca per dissimulare il divertimento che provava. Rise di gusto, con gli occhi che scintillavano dietro le ciglia scure e il viso che si illuminava di vita, come se anni di sofferenza le scivolassero via dalle spalle.

– Dái, Fëanárion – disse alla fine, – che i bavaglini ti aspettano – e si alzò per tornare verso casa.

Mentre la seguiva sotto i rami punteggiati di germogli nell’aria che rinfrescava, due pensieri attraversarono la mente di Morifinwë.

Che, nell’esiguo elenco delle cose che riuscivano a farlo sentire orgoglioso di sé, far ridere quella donna stava rapidamente scalando il vertice della classifica.

E che, per quanto ne dicesse suo cugino Findekáno, accontentarsi di quello che si poteva avere non era poi così male.

 



 


NOTE

Grazie a chi ha letto! 

Amilessë è il nome attribuito a un figlio dalla madre

Nomi canonici, conversione Quenya - Sindarin
Morifinwë, Carnistir = Caranthir
Fëanáro = Fëanor
Findekáno = Fingon
Russandol = Maedhros
Makalaurë = Maglor
Tyelkormo = Celegorm
Endórë = Terra di Mezzo
Fëanárion = figlio di Fëanáro

Personaggi di mia invenzione
Calwen, la responsabile delle cucine del palazzo di Fëanáro
Káino, un amico di Morifinwë
Lissi, la sorellina di Káino
Arsanarwë, il maestro di matematica di Morifinwë
Rowen, la moglie di Arsanarwë, fondatrice della fattoria, allevatrice di cavalli
Erlindiel, la fidanzata di Makalaurë
Morvail, il cavallo di Morifinwë

Il nome di Elle… ops, di Hellë
Menèl-aktálaloth è il nome che Hellë ha ricevuto dalla madre alla nascita, nella Terra di Mezzo, ed è in Elfico Primitivo/Eldarin Comune, l’antica lingua parlata dagli Elfi durante la Grande Marcia. Viene da Menel (heaven, sky), Aklara (brilliant), Talat- (to collapse) e Lotho (flower), ed è interpretabile come: “cielo dai brillanti fiori cadenti”.
Hellërillantalotë è la sua poco raffinata traduzione in Quenya, ed è formato semplicemente dall’unione delle parole Hellë (sky), Ril (brilliant), Lanta (falling) e Lotë (flower).

Nomi di mia invenzione
Ulvórë, una stagione a metà tra l’autunno e un mite inverno

Nomi canonici usati non-canonicamente
Tuilë, la stagione paragonabile alla nostra primavera

 

 

 

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Capitolo 18
*** L'Oscuramento dello stagno ***



18

L’Oscuramento dello stagno

(o quando scopri che al mondo esistono realtà che non avevi immaginato)


 

Venne finalmente il giorno tanto atteso da Káino, quello in cui avrebbero partecipato al misterioso evento chiamato Oscuramento dello stagno.

Morifinwë non aveva ben capito di cosa si trattasse. L’amico gli aveva parlato di una specie di fiera organizzata e frequentata prevalentemente da Nati all’Est, dove accadevano cose straordinarie che non aveva voluto rivelargli per non rovinargli la sorpresa. Non sapendo che cosa aspettarsi, Morifinwë ai suoi genitori aveva detto soltanto che avrebbe fatto un’escursione di un paio di giorni con gli amici della fattoria, riservandosi la decisione di dire la verità solo quando avesse capito a cosa stava andando incontro.

Sapeva però che si svolgeva a sud, in una valle nelle profondità delle Pelóri, oltre il Sacro Monte Taniquetil, e che ci voleva quasi una giornata intera per arrivarci, motivo per cui Morifinwë, ciondolando dal sonno in groppa a Morvail, si presentò alla fattoria prima ancora che Laurelin schiudesse il primo fiore.

Nel piazzale lo aspettava un gruppo di persone già pronte per la partenza. Oltre a Káino, Arion e Huinion, c’erano anche cinque o sei adulti che Morifinwë aveva visto lavorare alla fattoria, tra cui Faniel, Cicatrice e lo stalliere, Hyarmo, il padre dei gemelli. Hellë non era tra loro e, sebbene lei lo avesse avvertito in anticipo della sua assenza, Morifinwë non poté fare a meno di provare una fitta di dispiacere.

I tre ragazzi vestivano tutti con pantaloni di morbida stoffa marrone scuro, larghi sulla gamba ma chiusi alla caviglia, e con un giubbino di pelle senza maniche aperto sul petto. Morifinwë, con la sua camicia ben allacciata e i pantaloni aderenti, si sentì fuori posto e avrebbe volentieri chiesto a Káino di prestargli qualcosa di suo, ma i viaggiatori avevano già cominciato a sistemarsi sui due carri che componevano la loro carovana.

Il primo, un carro adibito al trasporto di persone, con panche dai sedili ricoperti di cuscini e una tettoia di tela verde su cui spiccava l’immagine di un cavallo impennato, venne occupato dagli adulti. I ragazzi invece balzarono sul secondo, dalle sponde più alte, senza copertura e già stipato di casse e di bauli. Morifinwë e gli altri presero posto direttamente sul duro pavimento, o a cavalcioni di qualche cassa di legno, tutti convinti che sacrificare la comodità alla possibilità di non avere adulti tra i piedi fosse un compromesso più che accettabile.

Completavano la carovana quattro cavalli delle scuderie di Rowen. La moglie del maestro li aveva legati personalmente a corde agganciate al carro dei ragazzi, spendendo molto tempo ad accarezzarli e a vezzeggiarli con parole sussurrate, come se li stesse salutando per l’ultima volta. Li lasciò soltanto quando Faniel, che si era messa al posto di guida, fece muovere il carro per seguire quello degli adulti.

Era il primo mescolarsi delle luci quando lasciarono la fattoria e, invece di dirigersi a sud per tornare sulla via Ezellohar, imboccarono una strada secondaria che tagliava la campagna puntando dritta verso il mare e che, se non avesse deviato lungo il tragitto, avrebbe superato Túna passando a nord della collina.

Morifinwë stava per chiedere a Káino il motivo di quella scelta, che avrebbe allungato il loro viaggio non di poco, quando si accorse che, man mano che avanzavano lungo la via, dalle fattorie che oltrepassavano uscivano carri o singole persone a cavallo che andavano a unirsi a loro. Qualcuno arrivò anche a piedi, e venne fatto accomodare sul carro degli adulti.

Morifinwë guardò affascinato l’allungarsi della loro carovana per tutto il tempo che ci misero ad arrivare all’altezza di Tirion. Poi, una volta oltrepassata la collina, i carri voltarono a sud inoltrandosi nella Punta Scura e la sua attenzione fu completamente attratta da quel luogo a lui sconosciuto.

La zona sotto le pendici orientali di Túna era perennemente coperta dall’ombra della collina stessa. Vista dall’alto, per esempio dai giardini del Palazzo Reale come era solito vederla Morifinwë, aveva l’aspetto di un triangolo nero che, come la punta di una freccia, indicava la direzione del mare o delle terre al di là di esso. Il nome che le avevano dato – Punta Scura, appunto – era dunque appropriato, e l’idea che se n’era fatto Morifinwë era di un luogo deserto, buio e misterioso, dal quale la gente si teneva lontana.

Un’idea completamente sbagliata, scoprì Morifinwë passandoci attraverso.

Tanto per cominciare non era del tutto buio. I raggi diretti degli Alberi erano schermati dalla collina, ma vi giungeva comunque la luce diffusa e quella della Mindon che brillava in cima a Tirion. Il luogo era dunque perennemente ombreggiato, ma molto meno oscuro del fitto dei boschi in cui talvolta Morifinwë si inoltrava con Káino. E di sicuro non era disabitato. Ai lati della strada che stavano percorrendo sorgevano basse case di legno scuro, che si accalcavano l’una sull’altra quanto più si arrampicavano sulle pendici. Tra queste, strette viuzze in terra battuta e pochi arbusti dalle larghe foglie pallide, quasi traslucide.

Morifinwë si chiese se gli abitanti della Punta Scura avessero scelto di proposito di risiedere in un luogo così inospitale, o se la sovrappopolazione di cui parlava Tyelkormo avesse costretto le persone che volevano vivere in prossimità della città a sistemarsi anche in posti come quelli. Fino a poco tempo prima avrebbe ritenuto più probabile la seconda ipotesi, ma ora gli venne da pensare che Hellë, con la sua predilezione per l’ombra e la sua quieta rassegnazione ad accettare ciò che la vita le offriva, avrebbe potuto trovarsi bene lì.

Prestò attenzione ai pochi abitanti che incrociarono la loro strada e notò che la maggior parte di loro aveva le caratteristiche dei Nati all’Est che aveva imparato a riconoscere frequentando Hellë. Carnagione pallidissima, occhi particolarmente luminosi, capelli neri, lucidi e brillanti come l’inchiostro prima di asciugarsi.

– Da qui nessuno si unisce alla carovana? – chiese Morifinwë.

Káino, mezzo appisolato a cavalcioni di un baule, si stropicciò gli occhi e biascicò: – Sono già partiti nei giorni scorsi per allestire la valle. Qui nella Punta sono quasi tutti Nati all’Est – aggiunse, confermando i suoi sospetti.

Quando uscirono dalla zona in ombra, Laurelin era ormai in piena fioritura e la sua luce intensa e improvvisa ferì gli occhi di Morifinwë e sembrò risvegliare dal torpore anche Arion e Huinion, che cominciarono a chiacchierare tra loro nel gergo tipico dei gemelli, che gli altri faticavano a capire. Faniel incitò i cavalli ad aumentare l’andatura per star dietro al carro degli adulti che, appena uscito dal centro abitato, aveva cominciato a percorrere la Piana Calaciryana verso sud a velocità sostenuta.

Qui il panorama era molto più gradevole. La pianura era punteggiata da piccole costruzioni di pietra grigia circondate da orti e frutteti, e intervallata da colline sulle cui pendici si arrampicavano dritti e ordinati i filari delle vigne.

Káino, dopo un paio di sbadigli scardina-mascella, prese ad agitarsi sulla sua cassa come quando era costretto a stare seduto al tavolo a fare i compiti. Morifinwë capì che si stava annoiando e cominciò a domandarsi se ci fosse in giro un pezzo di legno per tirar fuori un altro coniglio, ma proprio in quel momento Arion e Huinion intonarono una canzonetta spiritosa e in breve il suo amico si unì a loro. Alla prima ne seguì una seconda e poi una terza. Le rime si fecero più spinte e le risate spezzarono sempre più spesso il canto. Morifinwë diede il proprio contributo e Faniel si girò ogni tanto per mettere un freno alla loro esuberanza, ma senza troppa convinzione, almeno a giudicare dal sorriso trattenuto che le piegava le labbra.

Fu così che cominciarono a inoltrarsi tra le montagne e presto giunsero in vista del maestoso Taniquetil. Il Monte Sacro incombeva su di loro più alto di tutte le vette circostanti, con le sue cime innevate che si perdevano tra le nuvole. Da lassù, avevano insegnato a Morifinwë fin da quando era piccolo, Manwë comunicava con Ilúvatar stesso e, per mezzo delle sue fedeli aquile, vegliava su tutta Arda. Mentre aggiravano la montagna, le canzonette dei ragazzi si spensero in un rispettoso silenzio, che venne interrotto quasi subito quando una limpida voce proveniente dal primo carro intonò un inno dedicato al Signore di Arda e alla sua sposa. A quel segnale, tutta la carovana rispose unendosi al canto, un carro dopo l’altro, fino all’ultimo. L’inno si elevò, sospinto da decine e decine di voci, e riecheggiò nella valle con un trasporto tale che Morifinwë ebbe la certezza che riuscissero a sentirlo persino Manwë e Varda dall’alto di Ilmarin.

Il canto si spense quando si lasciarono il Monte alle spalle e si infilarono in uno stretto pertugio tra le rocce, che diventò sempre più stretto via via che avanzarono. Poco a poco le pareti si innalzarono alla loro destra e alla loro sinistra al punto che la luce non fu sufficiente a illuminare il loro cammino e su ogni carro venne issata una lampada per facilitare la marcia. Su tutta la carovana calò il silenzio, perfino i ragazzi tennero a freno le voci.

Procedettero lentamente, a quel modo, per un tempo che a Morifinwë parve durare un’ora intera – anche se, senza la luce per orientarsi, non avrebbe saputo dirlo con certezza – coi ragazzi che si aggrappavano alle sponde del carro per non essere sballottati qua e là dagli scossoni causati dal terreno irto di sassi, e Faniel che sussurrava incitamenti ai cavalli per indurli ad avanzare.

D’un tratto, Morifinwë si accorse che la luce stava riprendendo possesso del sentiero, sebbene fosse di una tonalità inattesa, molto simile a quella del primo mescolarsi. I conducenti dei carri, allora, riposero le lampade e si mossero più speditamente sulla via che si allargava.

Infine, dopo un’ultima svolta del sentiero, la strada si aprì di colpo su un’ampia vallata luminosissima. Morifinwë si protese in avanti, accanto a Faniel, e vide sotto di loro un conca profonda circondata dalle vette frastagliate delle montagne. Sul versante opposto al loro, una cascata si gettava in un torrente che, giunto in pianura, alimentava un piccolo lago. Boschetti di conifere ricoprivano le pendici, mentre il fondovalle era erboso e punteggiato da strutture chiaramente di fattura elfica che, da quella distanza, Morifinwë non riusciva a identificare.

Anche perché la sua attenzione era interamente attratta da ciò che c’era nel centro della valle: un’enorme polla di forma ovale che riluceva di liquido scintillante: la fonte di tutta la luce che inondava la valle. Morifinwë sbatté più volte le palpebre per abituarsi all’accecante bagliore.

Si trattava di un Lago Lucente.

Un bacino riempito dalla rugiada di Laurelin e di Telperion unite insieme, che donava alla valle una luce della tonalità del primo mescolarsi, ma mille e mille volte più intensa. Morifinwë ne aveva visti diversi, ma mai così estesi né così palesemente modificati da mano elfica. Tutto attorno al Lago, infatti, c’era una specie di cornice rettangolare, e sui due lati corti di quello strano artefatto erano ammassate quelle che a lui parvero assi di legno, talmente lunghe da dover essere state ricavate da tronchi interi.

Molte domande gli si affacciarono alla mente, ma proprio in quel momento la carovana riprese a muoversi e cominciò una lenta discesa lungo stretti tornanti, e Morifinwë tornò a sedersi sulla sua cassa a guardare stupefatto ciò che li attendeva nella valle farsi via via più definito.

Il sito sembrava una specie di enorme mercato. C’erano bancarelle su cui erano ammassate merci di ogni genere, e recinti per gli animali, e aree pavimentate di legno, allestite con panche e tavolate, fuochi e forni, come piccole taverne. In una zona più periferica c’erano quelle che sembravano arene per competizioni atletiche.

E poi c’era la gente. Un’infinità di uomini, donne, ragazzi dai vestiti più disparati. Alcuni variopinti e dalle fogge strane, altri più sobri, quasi minimali, fatti di pelle e di cuoio, e inserti di pelliccia. Molti adulti indossavano dei completi verdi e bruni, tutti uguali tra loro. L’elevato numero di chiome scure indicava che la grande maggioranza delle persone era Noldorin, ma ogni tanto si vedeva anche qualche argentea chioma Falmarin.

– Sono tutti Nati all’Est? – domandò Morifinwë.

– Quasi tutti – rispose Káino, – ma ci sono anche i loro figli nati in Aman, – l’amico si batté una mano sul petto, orgoglioso delle sue origini. Poi aggiunse, forse per tranquillizzare Morifinwë: – E anche nipoti, si capisce.

Morifinwë era talmente preso dall’osservare che non si accorse che il loro sentiero era arrivato alla fine, e che l’accesso alla valle era regolamentato da un uomo e una donna vestiti di scuro e con i capelli raccolti in un nodo in cima alla testa. Quando fu il loro turno, Káino gli mise una mano sulla spalla e disse: – È con noi. Atleta. Quaranta.

L’uomo lanciò un’occhiata strana ai suoi vestiti ma non fece commenti e gli consegnò un ciondolo di legno rettangolare, dipinto di giallo, appeso a un cordino di cuoio.

Appena ogni ragazzo ebbe al collo il suo contrassegno, Hyarmo, il padre dei gemelli, si alzò in piedi sul carro che li precedeva e, facendosi sentire sul frastuono che risuonava nella valle, gridò: – Noi ci mettiamo laggiù!

Indicò un padiglione che sembrava uguale a tutti gli altri: merci di vario genere esposte su banchi e rastrelliere, panche in parte già occupate da uomini e donne dai capelli scuri.

Morifinwë ebbe la conferma che il tanto decantato Oscuramento dello stagno non era altro che un grande mercato e con una punta di delusione, si chiese se avrebbero dovuto seguire gli adulti per dare una mano a scaricare.

Ma i ragazzi interpretarono le parole di Hyarmo come il permesso per allontanarsi, balzarono giù dal carro e si diressero a passo svelto verso il centro della valle, e Morifinwë, preso alla sprovvista, cercò di non farsi lasciare indietro.

Huinion, che era il primo della fila, gridò da sopra a una spalla: – Siamo arrivati appena in tempo!

A conferma delle sue parole, si iniziò a sentire un rumore profondo e ritmato, come quello di enormi tamburi o di mazze battute contro tronchi cavi.

– Cominciano! – gridò Arion. – Andiamo, forza!

I gemelli si misero a correre facendosi largo tra la folla fino a un’alta impalcatura di legno, si arrampicarono fino a metà della sua altezza e rimasero lì abbarbicati. Lui e Káino li seguirono, fermandosi poco sotto.

Il suono dei tamburi cominciò a crescere in potenza e Morifinwë se lo sentì riverberare nella cassa toracica. All’inizio gli diede fastidio, come se qualcuno gli bussasse con forza sullo sterno per riuscire a entrare, ma poi sentì il battito del suo cuore che si adeguava al ritmo dei colpi e, sbirciando Káino e i gemelli, ebbe la certezza che la stessa cosa stesse accadendo anche ai suoi amici, e per estensione a tutti i presenti. Come se tutti, in quella valle, stessero condividendo un unico cuore. Si aggrappò con più forza ai pali di legno della torretta e guardò giù verso la sorgente di luce.

Da quell’altezza il Lago Lucente era in piena vista, così come la cornice artificiale che lo circondava. I lati lunghi di quel gigantesco rettangolo erano due binari su cui, in quel momento, molti uomini stavano facendo scorrere le assi ammassate alle due estremità verso il centro. Procedendo in quel modo, ben presto tutto il Lago sarebbe stato coperto da un pavimento di legno.

In quel momento, con un brivido d’orrore, Morifinwë capì che lo “stagno” che sarebbe stato “oscurato” era niente meno che lo stesso Lago Lucente, la fonte della sacra luce disposta in quel luogo da Varda in persona.

Al suono dei tamburi, ora assordante, si aggiunse quello dei corni e di strani strumenti a fiato simili a uova di terracotta forate – flauti globulari, li avrebbe chiamati Káino in seguito – e quello di migliaia di piedi che scandivano il tempo pestando con forza sul terreno.

Le assi continuarono a essere spostate verso il centro del Lago; ormai già metà della sua superficie era ricoperta e la visibilità nella valle era notevolmente diminuita. Le montagne che circondavano la conca erano ridotte a grigie sagome che si stagliavano contro un cielo sempre più scuro.

Il frastuono crebbe di intensità finché l’ultima asse fu posizionata nel centro del Lago per completare la copertura, poi tutto cessò. Strumenti e piedi tacquero in un colpo solo. Il silenzio assoluto calò sulla valle nell’istante esatto in cui la conca precipitò nell’oscurità più completa.

Morifinwë non riusciva a scorgere nemmeno il volto di Káino, aggrappato con lui sulla torretta. Sentì che l’amico lo tirava per una manica e gli bisbigliava: – Guarda in alto.

Lui fece come gli veniva detto e dapprima non vide nient’altro che il cielo spento sopra di loro, come se qualcuno avesse calato sugli Alberi un enorme cappuccio nero. Poi, a poco a poco, accadde una cosa sorprendente. Mentre gli ultimi vapori di rugiada lucente venivano dispersi dalla brezza notturna e il cielo si faceva sempre più scuro, su di esso apparve qualcosa che Morifinwë aveva visto solo un’altra volta nella sua vita, quando era molto più piccolo, durante un viaggio fatto con la sua famiglia prima che nascesse Curufinwë.

Le stelle.

Lontane, piccole, deboli… ma meravigliose. Come schegge di diamante disseminate su un velo di seta nera. Come petali di Telperion sparsi sulla superficie di un oscuro lago sotterraneo.

Morifinwë rimase senza fiato.

Sotto la volta celeste così trasfigurata, il mondo diventò mille volte più vasto, come se tutta Arda galleggiasse nell’infinito.

Intorno a lui, nel silenzio più sacro, iniziò un canto. Niente tamburi né altri strumenti, solo voci che intonavano un inno in una lingua antica e sconosciuta. Molte parole ricordavano il Quenya, ma erano intrecciate tra loro e pronunciate in modo così diverso da come si usava in Valinor da non essere riconoscibili. Eppure, per qualche motivo, Morifinwë non ebbe difficoltà a capire di cosa parlasse il canto: di un lago in una terra lontana, del risveglio dei Primogeniti, di un grande guerriero venuto dall’ovest, messaggero di speranza.

E delle stelle, ovviamente. Forgiate dalle mani di Varda la Sublime, prime testimoni dell’arrivo in Arda dei loro antenati.

Morifinwë non riusciva a staccare gli occhi dalla volta celeste, pervaso da un fascino irresistibile verso quella moltitudine di minuscole luci e da un senso di appartenenza a un popolo che andava oltre l’essere Noldo, oltre l’essere nipote del re, e che risaliva agli albori della loro specie. Si chiese se lì, in quella valle, in quel momento, ci fossero anche degli Inconcepiti.

E poi, così com’era cominciato, il canto terminò. Migliaia di voci tacquero tutte insieme, e dopo un istante di silenzio la valle fu pervasa dal brusio eccitato di chi si risveglia da un sogno condiviso, che presto si trasformò in un chiacchiericcio indistinto, e infine in una generale confusione.

Con un balzo, i gemelli furono a terra. Káino, con un sorriso cha andava da un orecchio all’altro, lo incitò a scendere: – Dai, Moryo, andiamo! – e fece per seguirli, ma Morifinwë era aggrappato ai pali di legno con tanta forza che le dita gli dolevano.

– Non si vede niente – disse, tanto per dire qualcosa, per segnalare che era ancora vivo dopo aver provato una delle sensazioni più forti che avesse mai sperimentato in vita sua. Le vertigini che gli facevano tremare le ginocchia non erano dovute all’altezza dell’impalcatura su cui era appeso. Era come se il mondo si fosse improvvisamente dilatato nello spazio e nel tempo, e lui avesse perso tutti i suoi punti di riferimento.

Káino rise: – Dimenticavo che è la tua prima volta! Dopo un po’ ti abitui e torni a vederci bene, intanto ti guido io.

Morifinwë cercò di ribattere che il problema andava ben oltre quello della vista, ma non trovò le parole. Non poté far altro che fidarsi dell’amico. Si calò giù dalla torretta, con molta cautela, un piede alla volta.

Káino gli prese la mano e lui si lasciò condurre tra la gente che affollava la valle.



 

 


NOTE

Originariamente questo capitolo faceva tutt’uno con quello che segue, ma poi mi sono resa conto che diventava troppo lungo e l’ho spezzato. Rileggendolo ora, mi sono accorta che c’è troppa descrizione e poca azione… chiedo scusa, vi assicuro che il prossimo sarà più scoppiettante!
 

Inconcepiti (o Concepiti-da-Eru): termine con cui venivano chiamati i Primi Elfi, creati da Eru stesso, che si risvegliarono nella Terra di Mezzo (HoME vol. XI - Quendi and Eldar).

Lago Lucente: Tolkien dice: “le rugiade di Telperion e la pioggia che cadeva da Laurelin, Varda le conservava in grandi tinozze simili a laghi lucenti, che per tutta la terra dei Valar erano come sorgente di acqua e di luce” (Il Silmarillion, cap 1, L’inizio dei giorni). Io queste “tinozze” me le immagino incassate nel terreno, indistinguibili da veri e propri laghi, se non per il fatto che emettono luce.

Nomi canonici, conversione Quenya - Sindarin
Morifinwë = Caranthir
Tyelkormo = Celegorm
Curufinwë = Curufin

Personaggi di mia invenzione
Káino, il migliore amico di Morifinwë
Rowen, fondatrice della fattoria, allevatrice di cavalli
Faniel, una donna che lavora alla fattoria
Cicatrice, soprannome con cui Morifinwë chiama un uomo che lavora alla fattoria
Hyarmo, il braccio destro di Rowen, padre dei gemelli
Arion, uno dei due figli di Hyarmo
Huinion, il suo gemello
Morvail, il cavallo di Morifinwë

Nomi di mia invenzione
Punta Scura, la zona sotto le pendici orientali di Túna, perennemente all’ombra della collina stessa
Piana Calaciryana, stretta striscia di terra pianeggiante tra Tirion e il mare

 

 

 

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Capitolo 19
*** La gara di nuoto ***


 

19

La gara di nuoto

(o quando essere ingannato ha dei risvolti positivi)


 

Morifinwë e Káino seguivano i gemelli che si facevano largo tra la gente che riempiva la valle dell’Oscuramento con la determinazione di chi ha bene in mente dove vuole andare e la velocità di chi intende arrivarci il prima possibile.

O meglio, Káino seguiva i gemelli, mentre lui, che ci vedeva ancora troppo poco per andare in giro da solo, veniva trascinato dall’amico in una pericolosa gincana tra le bancarelle di un mercato che, per grandezza e per affollamento, avrebbe fatto concorrenza a quello della piazza principale di Tirion.

Quando finalmente ne uscirono, Morifinwë cominciava a vederci meglio; come aveva previsto Káino, i suoi occhi si stavano poco a poco abituando al buio. Si guardò attorno e scoprì che si trovavano in una delle zone che più lo avevano incuriosito quando aveva guardato la valle dall’alto: quella in cui si concentravano le varie arene.

Alla loro sinistra c’era un campo per il tiro con l’arco, a destra una pista per gare di corsa e proprio di fronte a loro un circuito per le corse dei cavalli, la meta di Arion e Huinion. Più avanti Morifinwë riusciva a distinguere le sponde di un lago.

L’area era frequentata esclusivamente da ragazzi e ragazze, tutti con al collo ciondoli di legno come quelli che avevano consegnato a lui al suo ingresso nella valle, anche se di diversi colori. Ne vide di gialli, come il suo e quello di Káino, di azzurri, come quello dei gemelli, e di verdi, al collo di bambini che sembravano appena poco più grandi di Curufinwë.

Káino volle fermarsi presso il campo dove gareggiavano al tiro con l’arco, così Morifinwë ebbe modo di farsi un’idea di come fossero organizzate le competizioni. Gli atleti, arco alla mano e faretra sulle spalle, avevano tutti il ciondolo dello stesso colore ed erano tutti vestiti in modo simile a Káino e ai gemelli: un giubbino di pelle senza maniche per i ragazzi, un pettorale fissato con lacci che si incrociavano sulla schiena per le ragazze, pantaloni larghi chiusi alla caviglia per entrambi.

Accanto a Káino e Morifinwë, contro la staccionata che delimitava il campo di gara, molti giovani acclamavano questo o quell’altro concorrente, mentre nel campo, insieme agli atleti, c’era un esiguo gruppo di adulti che Morifinwë identificò come i giudici. Questi indossavano una veste scura, verde e marrone, e tenevano i capelli legati in un nodo in cima alla testa. I loro volti attenti e severi gli ricordarono Hellë, e Morifinwë rimpianse, non per la prima volta, di non poter condividere con lei quell’esperienza.

Per scacciare la malinconia tornò a concentrarsi sugli atleti, e non fu un’impresa difficile, perché erano tutti di una bravura impressionante. Morifinwë aveva un fratello che eccelleva nel tiro con l’arco e un cugino forse ancora più bravo, ma loro erano adulti e si allenavano da prima che Morifinwë nascesse, mentre i concorrenti di quella gara erano più o meno della sua età e pur non raggiungendo i livelli di Tyelkormo e di Findekáno, di sicuro non avrebbero sfigurato in una competizione con loro.

Al termine della gara, uno dei giudici, dopo aver consultato gli altri, assegnò la vittoria a una ragazza alta con una lunga treccia scura, e le incise una singola tacca sul ciondolo che portava al collo.

Morifinwë avrebbe voluto assistere anche alla premiazione del secondo e del terzo classificato ma Káino, che come suo solito non era capace di stare fermo troppo a lungo, lo esortò a muoversi.

Passarono così di postazione in postazione, sgomitando tra gli spettatori, per assistere a gare di corsa, di salto, di lancio e molte altre, fino ad arrivare al laghetto, dove si svolgevano competizioni di tuffi, di nuoto e – così sembrò a Morifinwë – di chi riusciva a stare più a lungo sott’acqua.

D’un tratto si accorse di vederci troppo bene e azzardò un’occhiata verso il cielo, pensando di trovare le stelle raddoppiate di numero o di intensità. Invece fu stupito di trovarlo molto meno scuro di prima, con le stelle che si intravedevano appena.

– È quasi mezzanotte – gli spiegò Káino, seguendo la direzione del suo sguardo, – Telperion è al suo massimo splendore, il cielo è più chiaro e le stelle si vedono meno. Ma aspetta che arrivi la quinta ora, vedrai che spettacolo!

Morifinwë capì che sarebbero stati in piedi tutta la notte e, sebbene non avesse neanche un briciolo di sonno, si chiese come avrebbero trascorso le seguenti due ore.

La risposta arrivò immediata, con una decisione di Káino che lo lasciò a bocca aperta.

– Io provo con la corsa – disse l’amico, – vieni a farmi da supporto.

Morifinwë pensò di aver capito male, ma Káino tornò davvero fino al campo della corsa e si presentò alla giudice prima ancora che lui riuscisse a raggiungerlo. Disse il suo nome e la donna, nel tipico abito bruno e verde, lo segnò su un foglio appuntato su una tavoletta di legno e gli indicò la linea di partenza.

La pista era un anello delimitato da una staccionata, all’esterno del quale capannelli di ragazze e ragazzi chiacchieravano tra loro in attesa dell’inizio della gara. Morifinwë si mise un po’ in disparte, sperando che nessuno venisse a parlare con lui. Era in un ambiente completamente estraneo, di cui non conosceva le regole, e per quanto tutto fosse molto eccitante, era proprio il tipo di situazione che lui aveva sempre cercato di evitare. Adesso che Káino non era più con lui, sentiva l’ansia che saliva ad afferrargli lo stomaco.

Non ci volle molto per raggiungere il numero massimo di partecipanti, e la gara cominciò. Morifinwë vide Káino scattare assieme ad altri nove concorrenti, tutti con il ciondolo giallo come il suo. Sulle prime pensò che si trattasse di una gara di velocità, perché tutti diedero subito il massimo non risparmiando le forze. Solo quando passarono sul traguardo e non accennarono a rallentare capì che si era sbagliato: era una gara di resistenza. Káino era in terza posizione, ma stava conducendo una lenta rimonta sul secondo.

Al terzo giro il gruppo si sfilacciò. Káino rimase incollato ai primi due e Morifinwë provò un sentimento d’orgoglio per il suo amico, che era di corporatura più minuta rispetto a loro. Quando gli passò davanti non poté fare a meno di gridare: – Vai Káino! Ce la puoi fare!

– Sei col piccoletto? – chiese una voce accanto a lui.

Morifinwë si pentì subito di aver gridato e di aver attirato così l’attenzione di qualcuno. Chi aveva parlato era un ragazzo poco più alto di lui, con i capelli dritti e scuri tagliati pari all’altezza delle spalle e occhi che in quell’oscurità sembravano neri. Accanto a lui c’era una ragazza snella con una lunghissima coda di cavallo grigia-argento e occhi chiari dal taglio allungato.

Morifinwë annuì e tornò a concentrarsi sulla corsa sperando che si allontanassero senza insistere. Speranza vana, perché la ragazza esclamò: – Ma io lo conosco! Sta con i gemelli che vincono sempre la gara di equitazione con quegli splendidi cavalli.

Lo sconosciuto annuì: – Ah, sì… Daino, mi pare.

– Káino – lo corresse Morifinwë, pentendosi immediatamente di aver perso un’altra occasione per stare zitto.

– E tu chi saresti? – lo apostrofò il ragazzo.

– Moryo – disse lui, senza porgere la mano. Fare il maleducato di proposito era il suo modo preferito per evitare di farsi avvicinare dalla gente. A volte era meglio quello della fatica che faceva per riuscire a farsi accettare.

– Moryo? E da dove arrivi? – domandò l’altro, con altrettanta freddezza.

– Non essere scortese, Torondo! – lo interruppe la ragazza, prima di rivolgersi a Morifinwë e tendergli la mano, – lui è Torondo, della Piana Calaciryana e io sono Malagàl – scosse la testa per agitare la coda di cavallo prima di aggiungere: – Di Alqualondë.

– Moryo di Tirion – disse lui, e si decise a stringere la mano alla ragazza. Un istante dopo anche Torondo chinò il capo in una specie di saluto.

Poi Malagàl gridò: – Ecco che ripassano! – e tutti tornarono a interessarsi alla gara.

Káino si era quasi affiancato al secondo concorrente, mentre il resto del gruppo era ormai distaccato. Questa volta la prima a gridare fu la ragazza: – Forza Káino!

Morifinwë si unì subito a lei e si sorprese nel sentire la voce di Torondo sovrastare quella di entrambi. I tre fecero a gara a chi gridava più forte – Káino! Káino! – e le loro urla emersero tra quelle della folla. Káino passò davanti a loro, sfoderò un ghigno e trovò la forza di accelerare ancora.

– Ha grinta il piccoletto! – disse Torondo. Morifinwë fu sul punto di trovarlo simpatico, ma poi l’altro aggiunse: – E tu, per cosa gareggi?

Colto alla sprovvista, Morifinwë esitò quel tanto che bastava perché il ragazzo capisse che quello non era il posto suo.

– Prima volta qui? – chiese, infatti.

Morifinwë annuì controvoglia.

– Nessuno ti ha detto che sei obbligato a partecipare almeno a una gara? – chiese il ragazzo. Prese tra le dita il proprio ciondolo, giallo come quello di Morifinwë, su cui erano incise due tacche.

– Ti controllano all’uscita, e se il tuo tassello non segna che hai partecipato a qualcosa, è un disonore.

Morifinwë buttò l’occhio su quello di Malagàl, che in quel momento si era allontanata per parlare con un’altra ragazza. Il suo ciondolo era azzurro e su di esso spiccava la singola incisione del vincitore.

– Io… – Morifinwë cercò di pensare in fretta. Quei ragazzi sembravano tutti molto allenati e per di più lui ci vedeva ancora poco, ma mostrarsi indeciso non avrebbe fatto altro che aumentare la scarsa opinione che Torondo sembrava già avere di lui e, inoltre, avrebbe messo in cattiva luce Káino che l’aveva portato con sé.

– Nuoto – buttò fuori, a testa alta.

Almeno in quella disciplina la visibilità contava poco, pensò. E con tutto l’allenamento che aveva fatto per le gare di Minulvórë, poteva ritenersi discretamente preparato.

In quel momento, qualcuno gridò: – Il gran finale!

Tutto il pubblico si accalcò contro la balaustra che lo separava dalla pista e così fecero anche loro tre.

I corridori stavano arrivando al traguardo. Káino combatteva per il secondo posto, dato che il primo concorrente aveva ormai accumulato un distacco irrecuperabile.

Come fossero una persona sola, Morifinwë, Torondo e Malagàl si misero a scandire il suo nome, e non si fermarono finché il ragazzo non tagliò il traguardo.

Káino vinse la sua personale battaglia e il giudice lo premiò incidendo due segni verticali sul suo tassello.

Inciampando nei suoi passi per la stanchezza, tra gli applausi del pubblico che scemavano, Káino caracollò verso Morifinwë con le braccia alzate e un sorriso che andava da un orecchio all’altro.

– Inchinati davanti a Káino il Grande, amico mio! – ansimò, a corto di fiato.

Morifinwë alzò le braccia per battere i palmi contro quelli dell’amico.

Káino si rivolse ai due ragazzi: – Grazie per il sostegno! – Poi il suo entusiasmo venne meno, le gambe gli cedettero e, aggrappato a un braccio di Morifinwë, esalò: – Vi prego, fatemi bere qualcosa.

Poco distante, dietro un banco sorretto da due botti, una donna dai folti capelli ricci distribuiva acqua in bicchieri di terracotta. Káino ne tracannò diversi prima di adocchiare le coppe di vetro in cui veniva servito il vino. Notando la direzione del suo sguardo la riccia lo avvisò: – Solo per i grandi.

Malagàl mostrò il suo ciondolo azzurro, che evidentemente la identificava come tale, e ottenne una coppa di liquido giallo paglierino per festeggiare il successo di Káino, che passò di mano in mano.

Ma quando venne il turno di Morifinwë, Torondo esclamò: – Ora andiamo a sostenere Moryo nella gara di nuoto.

Káino gli lanciò uno sguardo sorpreso, ma disse solo: – Andiamo! – e, prendendogli di mano la coppa, buttò giù il resto del vino in un solo sorso.



 

I quattro si diressero al lago. Il cielo era sempre più buio, le stelle più vivide, e la temperatura era leggermente calata, ma Morifinwë ci vedeva sempre meglio e l’eccitazione gli stava dando la carica. Una parte di lui si chiedeva come poteva esserci finito in una situazione come quella, che sembrava la quintessenza dei suoi incubi peggiori, ma un’altra sentiva crescere il brivido della sfida, e l’esaltazione tipica di quando ti arrischi sulla sottile linea che separa la possibilità di mostrare il tuo valore dalla disfatta completa.

Káino aveva avuto coraggio nel mettersi in gioco con la corsa e lui non voleva essere da meno. E poi, si ripeteva di continuo Morifinwë, suo padre non era lì a guardarlo e dunque non aveva nulla da temere in caso di sconfitta.

Sulla riva del lago il giudice, coi capelli annodati e l’abito scuro, prendeva il nome dei concorrenti. Morifinwë si registrò come Moryo di Tirion e venne messo in un gruppo di atleti ad attendere che finisse la gara in corso. Gli altri concorrenti si spogliarono, i ragazzi rimasero con addosso soltanto dei pantaloncini attillati, le ragazze con anche una canotta aderente. Lui si rese conto solo allora di non avere l’abbigliamento adatto al nuoto e si tolse la camicia e gli stivali, consapevole che avrebbe attirato l’attenzione di tutti. Ma gli altri, scoprì, erano molto più interessati alla gara in corso che al suo aspetto, e così anche lui rivolse lo sguardo al lago senza più preoccuparsi.

Stavano gareggiando dei bambini. Ogni tanto, quando emergevano per prendere fiato, Morifinwë vedeva i loro visi dai lineamenti arrotondati tesi in smorfie di concentrazione, e il ciondolo verde al loro collo. Erano a circa metà strada tra due pontili che determinavano il percorso di gara. Su quello di sinistra c’erano le postazioni di partenza e il giudice che aveva dato inizio alla competizione, riconoscibile perché teneva in mano un piccolo gong. Su quello di destra, i concorrenti erano attesi dal giudice che avrebbe dichiarato l’ordine di arrivo e li avrebbe premiati incidendo le corrispondenti tacche sui loro ciondoli.

Sulla riva si ammassava il pubblico, accalcato, qualcuno già coi piedi nell’acqua pur di guadagnarsi una posizione favorevole. Morifinwë intravide Káino, Torondo e Malagàl che si facevano largo per raggiungere la prima fila.

Finalmente lui e gli altri concorrenti vennero chiamati ai posti di partenza, e Morifinwë camminò incerto sulle assi scivolose e instabili del pontile. L’acqua ai due lati era nera; nulla si rifletteva in essa, né i ragazzi che camminavano sulla passerella, né le stelle che brillavano sempre più vivide nel cielo.

Morifinwë sentì il cuore che cominciava a correre, e un brivido, che non era interamente dovuto alla brezza gelida che tirava in mezzo al lago, gli fece accapponare la pelle delle braccia e del torso.

Cercò di fare qualche respiro profondo per calmarsi, si disse ancora una volta che comunque sarebbe finita non avrebbe deluso nessuno, si sciolse e si legò i capelli almeno cinque volte mentre teneva gli occhi fissi sull’acqua gelida e nera.

A un tratto, senza che nessuno dicesse “Pronti”, o “In posizione”, come si usava nelle gare a cui era solito partecipare, suonò il gong, segnale della partenza.

Morifinwë, colto alla sprovvista, si tuffò per ultimo, scomposto e senza aver inalato abbastanza aria. L’acqua lo sommerse, il freddo lo aggredì e lui non vide più nulla. Tutto l’allenamento fatto la stagione precedente, però, dovette contare qualcosa perché il suo corpo reagì in automatico: fornì la spinta propulsiva prima ancora che lui si riprendesse dall’impatto, e cominciò a nuotare sott’acqua, alla cieca, ma – grazie a Ulmo – nella direzione giusta.

Quando riemerse si trovò proprio al fianco dell’ultimo concorrente. Tra la sua vista ancora imperfetta e gli schizzi d’acqua negli occhi, non riusciva a distinguere con chiarezza il pontile d’arrivo, ma stimò di essere più o meno a un quarto del percorso. Strinse i denti, deciso a dare il meglio di sé. Cominciò a nuotare come sapeva: braccia, gambe, spalle, tutto prese a funzionare in perfetta sincronia, spinto da una forza di volontà che raramente si ricordava di aver provato.

Niente riuscì a distogliere la sua attenzione, né le sagome degli avversari che gli slittavano di fianco quando rimanevano indietro, né le urla di incitamento del pubblico che sovrastavano il rumore di braccia e gambe che percuotevano l’acqua. Quando alla fine toccò con la mano il pontile dell’arrivo, si stupì nel vedere alla sua destra e alla sua sinistra solo altri due concorrenti.

Si arrampicò sulla piattaforma di legno scivoloso, tremando per il freddo e per la fatica, ma soddisfatto di sé come non gli era mai capitato.

L’ultima gara alla quale aveva partecipato aveva imbrogliato pur di vincere, con un risultato che avrebbe preferito venisse cancellato dalla sua memoria. Quella prima ancora si era arreso a metà quando aveva capito che non ce l’avrebbe mai fatta a raggiungere il primo. Ma adesso, tra estranei, in un lago ghiacciato, senza quasi vedere a una bracciata di distanza e partendo svantaggiato, non si era dato per vinto e aveva combattuto fino alla fine. Era arrivato soltanto terzo, ma per la prima volta stava sperimentando quello che sua madre tentava di fargli capire da sempre: il risultato non era importante.

Aspettò intirizzito, insieme ai due che l’avevano preceduto, l’arrivo degli altri concorrenti, cercando con lo sguardo tra la folla scatenata sulla riva Káino e i suoi nuovi amici. Al momento della premiazione ricevette le tre tacche sul suo ciondolo e gli applausi del pubblico quando gli atleti sfilarono lungo il pontile per raggiungere la costa.

Káino gli corse incontro e lo abbracciò, fradicio com’era. Torondo e Malagàl gli diedero delle pacche sulle spalle.

– Moryo! – esclamò Káino, – lo sapevo che ti saresti fatto onore!

– Mai vista una rimonta del genere – disse Torondo, sinceramente ammirato. Poi aggiunse: – Non avrei mai creduto che avresti gareggiato.

– Non mi avevi detto che era obbligatorio? – chiese lui.

Il sorriso obliquo sul viso del ragazzo gli fece capire di essere stato vittima di uno scherzo. Considerato come erano andate le cose, Morifinwë decise che non gli importava.

Ma Káino guardò Torondo con sospetto e disse: – Come obbligatorio?

Fortunatamente Malagàl li interruppe. – Meglio se vai a riprendere la tua camicia prima chi ti congeli – disse a Morifinwë, che aveva cominciato a battere i denti per il freddo.

Káino sembrò rendersi conto della condizione di Morifinwë soltanto in quel momento ed esclamò, preoccupato: – Torniamo al carro e cerchiamo dei vestiti di ricambio, non puoi andare in giro così.

Malagàl propose: – Ci vediamo dopo alla Corsa del Cacciatore?

– Contaci! – esclamò Káino e, lanciando un’ultima occhiataccia a Torondo, come per assicurarsi che non osasse più fare scherzi al suo amico, prese Morifinwë per mano e si incamminò tra la folla.

Morifinwë lo lasciò fare, anche se non aveva più alcun problema di vista.



 

Davanti a uno stupefatto Morifinwë, il cui senso dell’orientamento aveva dichiarato la resa nell’istante stesso in cui l’oscurità era calata sulla valle e le stelle erano apparse nel cielo, Káino riuscì a ritrovare il posto dove Hyarmo e gli altri loro compagni si erano accampati.

Fosse stato per lui avrebbero vagato per tutta la notte. Ai suoi occhi tutti i padiglioni si assomigliavano: tavoli e panche su cui le persone si accalcavano gomito a gomito; aree attrezzate a cucine con griglie su cui sfrigolava la carne e chioschi di bevande in cui il vino veniva servito a fiumi; suonatori, ballerini, acrobati e saltimbanchi a occupare ogni spazio libero.

Al padiglione davanti al quale si fermò Káino si accedeva passando sotto un’architrave su cui era appesa l’insegna di un cavallo bianco in campo verde e, a ulteriore riprova che fosse quello giusto, in un recinto poco oltre pascolavano, riconoscibilissimi, gli animali di Rowen.

Hyarmo, Faniel, Cicatrice e gli altri della fattoria sedevano a un tavolo con un gruppo di persone che avevano viaggiato con loro. Piatti vuoti e vassoi con avanzi di cibo, e un numero decisamente elevato di bottiglie, indicavano che il banchetto andava avanti da tempo. Arion e Huinion, impossibili da non notare, erano in piedi sulla panca che tenevano banco raccontando del loro successo alla gara di equitazione, mostrando con orgoglio la loro singola tacca sul ciondolo azzurro.

Quando Morifinwë e Káino fecero il loro ingresso nello spiazzo, i gemelli, dalla loro posizione privilegiata li individuarono subito.

– Ehilà, Moryo! – gridò Arion, – sei scivolato nel lago?

Morifinwë fece una smorfia e alzò il ciondolo con le tre tacche.

Alcuni dei commensali scoppiarono a ridere, altri applaudirono, altri simularono un inchino.

Anche Káino mostrò il suo.

Una donna che Morifinwë non conosceva alzò in alto il bicchiere e gridò: – Primi, secondi e terzi… si fanno valere i ragazzi della Piana!

Brindisi si levarono dalla tavolata, altri applausi e qualche fischio.

Morifinwë, nipote del re, figlio del principe Fëanáro, la stessa persona che all’inizio della stagione era inorridita al pensiero di dover trascorrere anche solo un’ora alla settimana tra gli allevatori, si sentì così orgoglioso di essere scambiato per uno della Piana che rischiò di arrossire.

– E non dimentichiamo i cavalli della scuderia Rowen! – aggiunse Huinion, levando il bicchiere in direzione del padre.

Mentre voci si congratulavano con Hyarmo, Moryo e Káino si diressero al carro su cui avevano viaggiato, che sostava vicino al recinto dei cavalli. In uno dei bauli che non erano stati scaricati Káino trovò dei vestiti asciutti per Morifinwë: pantaloni chiusi alla caviglia e un giubbino senza maniche che non gli stesse troppo largo. Così alla fine anche lui ebbe la sua divisa da atleta.

– Oh, Moryo, adesso sei proprio uno di noi! – disse Huinion quando li vide tornare, – fammi vedere come te la cavi con questo – e gli allungò un bicchiere di vino.

– Dategli qualcosa da magiare, piuttosto – disse Faniel, – staranno morendo di fame.

E così i commensali si strinsero ancora di più sulle panche, fecero posto ai due nuovi arrivati e cominciarono a passargli i vassoi su cui restava ancora qualcosa. Morifinwë e Káino si abbuffarono finché i gemelli decisero di andare a sfoggiare la loro vittoria in giro per la fiera, e loro pensarono bene di accodarsi.

Dopo fu tutto un festeggiare, un passare da zone dove si ballava a quelle dove si beveva, a quelle dove si gareggiava e si scommetteva sui vincitori. A un certo punto ritrovarono Torondo e Malagàl che si unirono a loro, con grande gioia dei gemelli che fecero a gara per far colpo sulla ragazza.

Infine, quando la notte cominciò a volgere al termine, quando in un altro mondo Telperion sfioriva nell’ora che precede il secondo mescolarsi e la sua luce più fioca illuminava a stento le terre imperiture, il cielo sopra di loro tornò ad annerirsi completamente e le stelle risplendettero come gemme di fuoco.

Il suono di un corno tagliò l’aria, imperioso come un segnale che non deve essere ignorato.

Káino urlò: – La Corsa del Cacciatore!

E questa volta Morifinwë non si fece trascinare, ma corse a fianco dei suoi amici verso il centro della valle.







 


NOTE

Grazie a chi ha letto!

Nel caso siate in dubbio se lasciare commenti negativi, sappiate che sono aperta alle critiche, le trovo utili (in questo – e in quasi nient’altro – la penso come Hellë: per imparare, non si può far altro che sbagliare).
Nel caso siate in dubbio se lasciare commenti positivi, sappiate che adoro l’intera gamma: dai lunghi sproloqui che toccano ogni punto, fino alla manciata di lettere premute a caso seguita da un numero a piacere di punti esclamativi.
Nel caso in cui non abbiate alcun dubbio, perché la vita vi concede già poco tempo libero per leggere, figuriamoci quello per elaborare un commento che vi soddisfi – come succede spesso anche a me – sono onorata che, tra le tante storie a disposizione, abbiate scelto di seguire anche la mia! ❤︎
 

Nomi canonici, conversione Quenya - Sindarin
Morifinwë = Caranthir
Tyelkormo = Celegorm
Findekáno = Fingon
Fëanáro = Fëanor

Personaggi di mia invenzione
Káino, il migliore amico di Morifinwë
Arion, un ragazzo che abita alla fattoria, amico di Morifinwë
Huinion, il suo gemello
Torondo, un ragazzo Noldorin della Piana Calaciryana. Il suo è un amilessë che viene da Torna (hard) e Ondo (stone), ed è riferito al fatto che il suo destino sarà fare il costruttore
Malagàl, una ragazza Falmarin di Alqualondë. Il suo è un epessë che viene da Mála (loving, in lingua Telerin) e Galla (tree, in lingua Telerin), e si riferisce al fatto che ama trascorrere il tempo nell’entroterra, dove, a differenza di Alqualondë, ci sono boschi e foreste – oppure dove arriva la luce degli Alberi (che ad Alqualondë non arriva)
Faniel, una donna che lavora alla fattoria
Cicatrice, soprannome con cui Morifinwë chiama un uomo che lavora alla fattoria
Hyarmo, il braccio destro di Rowen, padre dei gemelli
Rowen, la fondatrice della fattoria, allevatrice di cavalli

Nomi di mia invenzione
Minulvórë, festa di fine estate o della vendemmia
Piana Calaciryana, la stretta striscia di terra pianeggiante tra Tirion e il mare
Piana (qui intesa come Piana Dorata), l’ampia pianura tra Tirion e Valmar

Le ore a Valinor
Per chi non ricordasse come è suddiviso il giorno in ore a Valinor, qui è dove c’è il mio piccolo schema di riferimento.

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Capitolo 20
*** Uno spettatore inatteso ***



20

Uno spettatore inatteso

(o quando prendi una decisione che potrebbe rivelarsi la peggiore della tua vita)


 

Proprio nel centro della valle, sul pavimento di assi che copriva il Lago Lucente – o lo stagno, come lo chiamava Káino con un termine che a Morifinwë suonava quasi blasfemo – era stata allestita quella che all’apparenza sembrava una pista per cavalli. Solide balaustre di legno facevano da sponde a un percorso a tratti rettilineo e a tratti sinuoso, che da uno dei due lati corti della piattaforma andava fino all’altro.

Il circuito partiva dritto e largo abbastanza da farci passare due carri affiancati. Poco oltre la metà si restringeva, faceva tre curve strette come tornanti e terminava in una grande area semicircolare. Alla fine del percorso, appena fuori dalla pavimentazione che ricopriva il Lago, era stato piantato un palo di legno con attaccato qualcosa di simile a un bersaglio per il tiro con l’arco.

Ai lati della pista si innalzavano due gradinate, già completamente occupate da uomini e donne adulti, seduti spalla contro spalla in ordinate file. Il pubblico dei giovani invece si ammassava a ridosso delle balaustre che delimitavano il circuito, o si arrangiava con soluzioni più originali, come avevano fatto Morifinwë e i suoi amici, che erano tornati ad arrampicarsi sulla torretta su cui avevano assistito alla chiusura del Lago. Arion, Huinion e Malagàl un po’ più in alto, lui, Káino e Torondo appena sotto.

In attesa dell’arrivo dei concorrenti, Morifinwë si concentrò sulla gente che occupava le gradinate, attirato da un piccolo gruppo di persone al centro di quella di sinistra. Queste spiccavano tra la folla perché indossavano tutte un mantello verde scuro col cappuccio che gli copriva il capo. Sulle panche accanto a loro gli altri spettatori avevano lasciato un piccolo spazio, come volessero mantenere una rispettosa distanza.

Morifinwë aggrottò le sopracciglia. C’era qualcosa che gli sfuggiva in quel gruppo di incappucciati, come un particolare che non riusciva a mettere a fuoco.

Una gomitata di Káino richiamò bruscamente la sua attenzione.

– Ecco i Cavalieri! – disse l’amico indicandogli un punto, non molto distante dalla loro torretta, dove il pubblico rumoreggiava, si spintonava e infine si apriva per lasciare passare qualcuno.

Nel varco così formatosi, apparvero i dieci concorrenti della Corsa del Cacciatore che avevano superato le selezioni per potersi esibire nella gara più prestigiosa della serata: ragazzi e ragazze che avanzavano a cavallo tra le urla e i fischi dei più giovani e un pacato applauso del pubblico adulto.

Quando passarono sotto la loro torretta, Morifinwë notò che il ciondolo colorato che portavano al collo, invece di essere rettangolare, aveva la forma di un cavallo impennato. Erano quasi tutti azzurri, a indicare la fascia d’età dei gemelli e di Malagàl, tranne un paio gialli come il suo.

Ma non erano di certo i ciondoli che saltavano all’occhio guardando la sfilata dei concorrenti. Questi infatti, invece di indossare la tipica divisa da atleta, sembrava avessero fatto a gara per chi riusciva a inventarsi l’aspetto più originale e appariscente.

C’era chi aveva le braccia e il collo ricoperti di gioielli, al punto che si sentiva il loro tintinnio anche dalla cima della torre su cui stava Morifinwë, chi aveva intrecciato nei capelli e nella criniera del suo cavallo grandi perline colorate, e c’era persino un ragazzo che aveva il viso completamente pitturato di verde e di nero, come se indossasse una maschera.

L’ultimo della fila vinceva il titolo del più originale e, dovette ammettere Morifinwë, anche del più affascinante. Il ragazzo aveva raccolto le sue spesse trecce castane in cima alla testa in due strutture a punta simili a corna, e aveva le spalle e la parte superiore della schiena ricoperte da una folta pelliccia scura. Il resto del costume, dell’esatto colore dei suoi capelli, gli aderiva al corpo come una seconda pelle e metteva in evidenza il fisico asciutto e muscoloso. Somigliava a una creatura per metà umana e per metà animale.

Al suo passaggio, Káino si agitò così tanto che Morifinwë temette per la stabilità dell’impalcatura.

– Quello è Nordacil – esclamò l’amico, – il campione in carica. Sono tre anni che nessuno riesce a batterlo.

Un boato si alzò dalle file dei ragazzi quando il concorrente dalle trecce simili a corna raggiunse la pista. Piedi picchiati per terra, mani che applaudivano, voci che scandivano il suo nome: – Nor-da-cil, Nor-da-cil!

Il ragazzo concesse al pubblico un brevissimo sorriso e un cenno di saluto, prima di riassumere un’espressione seria e concentrata e andare ad allinearsi con gli altri concorrenti all’inizio del circuito.

A quel punto uno dei gemelli, da sopra di lui, esclamò: – Arrivano i Lancieri!

Morifinwë, allertato dal grido, notò che c’era del movimento a metà della pista, sul lato destro, prima delle tre curve finali. Dieci persone si stavano disponendo su un’unica fila in un punto dove la balaustra che delimitava il percorso si interrompeva per un breve tratto.

A differenza dei ragazzi a cavallo, questi indossavano la sobria divisa dell’atleta, ma guardandoli con più attenzione, Morifinwë si accorse che ciascuno di loro aveva un particolare che lo associava a uno dei cavalieri: un grappolo di perline in un ciuffo di capelli, un bracciale d’oro al polso, una pennellata nera e verde su una spalla nuda. La donna associata a Nordacil aveva polsiere e cavigliere di pelliccia. Ognuno di loro impugnava una lancia di legno scuro dalla punta dorata e, quando la innalzarono al cielo, le urla e gli applausi del pubblico si fecero sentire più forti.

Nel vedere le lance dalle punte aguzze, impugnate da quelli che, senz’ombra di dubbio, non erano ragazzi – tanto è vero che non avevano al collo alcun ciondolo colorato – Morifinwë sentì sorgere in sé una certa apprensione.

– In cosa consiste la gara? – chiese a Káino, come aveva già fatto altre mille volte da quando si erano appostati sulla torretta, senza ricevere in risposta niente di più di un frustrante: “aspetta e vedrai”.

Questa volta, però, l’amico rispose. – I Cavalieri saltano sul cavallo in corsa – disse, – percorrono il rettilineo, afferrano al volo la lancia che gli viene tirata dal compagno, fanno la tripla curva, escono nello slargo finale e tirano al bersaglio.

Morifinwë si girò verso di lui tanto in fretta che per poco non scivolò dall’impalcatura.

– Stai scherzando – disse, cercando sul viso di Káino gli indizi della presa in giro.

Káino sogghignò compiaciuto.

– Niente affatto – disse. – È la Corsa del Cacciatore.

Indicò gli incappucciati sulla gradinata di sinistra: – Li vedi gli Anziani? – disse, – nemmeno loro vogliono perdersi questo spettacolo.

Nel tornare a guardarli, Morifinwë notò che il mantello che indossavano non era disadorno come gli era sembrato a una prima occhiata, ma ricamato con simboli elaborati, quasi invisibili alla luce delle stelle, ed ebbe di nuovo la sensazione che qualcosa gli sfuggisse.

– La Corsa del Cacciatore – ripeté soprappensiero. – Che razza di nome è?

– Si ispirano a quello che facevano i Cacciatori all’Est – intervenne Torondo, – quando anche il più breve istante di esitazione faceva la differenza tra la vita e la morte. – Il tono di voce del ragazzo si fece ancora più enfatico: – Il Cacciatore poteva trovarsi appiedato e disarmato davanti all’assalto di una belva inferocita, o di qualche altro mostro, e doveva agire istantaneamente e in totale sincronia coi suoi compagni…

La sua spiegazione si interruppe di colpo, e così fece anche il rumoreggiare della valle, quando i giudici di gara entrarono in campo. Quattro di loro si disposero agli angoli della pista, mentre un quinto salì su una pedana posta a metà circuito. Poi, con una voce squillante che in quanto a potenza avrebbe fatto concorrenza a quella di Makalaurë, inaugurò la Corsa.

– Nell’Oscuramento di Ulvórë dell’anno 339 dal Risveglio – declamò, – ho l’onore di presentarvi il primo concorrente della Corsa del Cacciatore: Angandil, Noldo della Piana Calaciryana.

Tutti si lanciarono in ovazioni del ragazzo dal volto dipinto; dal pubblico dei giovani si innalzarono i suoni di tamburi improvvisati e i trilli degli strumenti di terracotta che chiamavano flauti globulari.

Angandil scese da cavallo, lo lasciò all’inizio del percorso e avanzò di una trentina di passi lungo il rettilineo. Si fermò in corrispondenza di una stella incisa sul pavimento che prima Morifinwë non aveva notato, e si voltò verso l’animale. A quel punto la folla, che aveva già ridotto il suo entusiasmo iniziale a un brusio di fondo, ammutolì.

Morifinwë si aspettava un segnale di partenza del giudice, ma Angandil fece due respiri profondi, chinò il capo per un istante, e quando lo rialzò il suo cavallo partì al galoppo verso di lui.

Il ragazzo scattò verso l’animale che gli veniva incontro e vi salì al volo come aveva imparato a fare anche Morifinwë – o come avrebbe dovuto imparare a fare, visto che il movimento del ragazzo fu nettamente più veloce e più pulito di quello dei suoi migliori salti.

Appena atterrato sul dorso del cavallo, Angandil affrontò il rettilineo deviando verso destra per avvicinarsi alla postazione dei Lancieri. Alzò il braccio e a quel segnale il suo compagno con la lancia entrò nel circuito, fece tre passi di rincorsa e tirò l’arma, che finì nella mano destra del Cavaliere come se fosse stata attirata da un laccio invisibile.

Angandil imboccò la prima curva con la lancia ben salda in mano, invertì la direzione per entrare nella seconda, poi nella terza, e non appena uscì nello spiazzo finale, scagliò l’arma contro il bersaglio e lo colpì a meno di una spanna dal centro.

Grida, applausi, fischi, tamburi e trilli esplosero e accompagnarono il Cavaliere finché andò a recuperare la sua lancia dal bersaglio, e poi ancora mentre girava attorno alla pista e faceva salire sul cavallo dietro di sé il suo Lanciere, perché ricevesse anche lui la giusta dose di ovazioni.

Morifinwë era rimasto a bocca aperta e stava per elogiare Angandil come fosse un eroe del vecchio mondo, quando i suoi amici cominciarono a commentare la prova.

– Ha tirato troppo presto al bersaglio – disse Arion, abbarbicato sulla torretta poco sopra di lui.

– Il cavallo ha perso un po’ di aderenza sulle curve – osservò Huinion al suo fianco.

– Perché ha forzato l’andatura per compensare la lancia che è arrivata in ritardo – concluse Malagàl.

Allora Morifinwë capì che la prestazione del ragazzo non era stata priva di difetti. Ascoltando le analisi degli amici riuscì a farsi un’idea su come veniva attribuito il punteggio, e scoprì che teneva conto della pulizia del gesto atletico, del tempo impiegato per colpire il bersaglio, di quanto vicino al centro si conficcava la lancia, e anche della profondità a cui arrivava. Insomma, bisognava essere molto veloci, molto precisi, e molto forti.

I commenti dei ragazzi furono messi a tacere dalla presentazione della seconda concorrente, la ragazza con le perline nei capelli. Morifinwë assistette con più consapevolezza a questa nuova prova e al termine fu in grado di commentarne la riuscita insieme ai suoi amici.

E così la gara proseguì.

Dal momento che gli atleti erano chiamati a esibirsi nell’ordine inverso con cui si erano qualificati nelle eliminatorie, ogni concorrente superava il precedente in destrezza e le corse divennero sempre più spettacolari e sempre meglio eseguite.

Alla fine giunse il turno del campione in carica.

– Nordacil, Noldo della Punta Scura! – annunciò il giudice dalla sua pedana e la folla di giovani esplose in un boato assordante, e anche l’applauso degli adulti fu più sentito e più duraturo.

Se Morifinwë pensava di aver già visto tutto quello che poteva vedere in fatto di agilità e destrezza, scoprì che si sbagliava alla grande.

Nordacil salì a cavallo così velocemente che i suoi occhi non riuscirono a seguirne il movimento; percorse tutto il rettilineo al galoppo senza preoccuparsi della lancia, che infatti non arrivò. Solo quando stava per imboccare la prima curva la sua compagna tirò, forte e precisa come nessun Lanciere prima di lei.

Per un terribile istante Morifinwë credette che l’arma avrebbe trapassato la schiena del Cavaliere, ma nel momento stesso in cui il suo cavallo scartò a sinistra per entrare in curva, il ragazzo assecondò il movimento piegandosi dallo stesso lato, la lancia gli passò sopra la spalla destra, così vicina da sfiorare la pelliccia che la ricopriva, e lui la afferrò senza neppure vederla arrivare.

Più tardi Morifinwë avrebbe scoperto di aver assistito alla famosa “variante Nordacil”, mossa che permetteva al Cavaliere di afferrare la lancia senza la minima deviazione dalla traiettoria ideale, e quindi senza dover perdere tempo sul rettilineo.  Lì per lì, invece, ebbe appena il tempo di rendersi conto di ciò che era successo, perché il campione affrontò le due curve restanti a una velocità sbalorditiva, e prima ancora di uscire del tutto dall’ultima curva, con una rotazione del corpo degna di un contorsionista, scagliò la lancia contro il bersaglio.

Centro perfetto.

Anche uno spettatore inesperto come Morifinwë era in grado di capire che Nordacil aveva fatto il miglior salto, il miglior tempo e il miglior centro della serata.

E infatti, dopo che lui e il suo Lanciere ebbero ricevuto le acclamazioni del pubblico, i cinque giudici si riunirono per un breve consulto prima di chiamare gli atleti presso la pedana per la premiazione, e dichiarare Nordacil di nuovo campione.

Mentre il ragazzo dalle trecce ricurve riceveva l’ambitissima singola tacca sul suo tassello azzurro a forma di cavallo, persino il pubblico di adulti sulle gradinate si alzò ad applaudire.

Anche quelli che Káino aveva definito gli Anziani, e che fino a quel momento erano rimasti a capo chino a confabulare e avevano applaudito poco o niente alle esibizioni dei vari atleti, si alzarono in piedi a omaggiare il vincitore.

Fu allora che Morifinwë capì che cosa gli era sfuggito.

C’era un uomo, tra loro, voltato di spalle perché impegnato in una conversazione col suo vicino. Quando si alzò, il cappuccio gli scivolò sulla schiena mettendo in mostra una lunga treccia scura che Morifinwë conosceva bene. E quando l’uomo si voltò verso la pista, il suo inconfondibile profilo fugò ogni dubbio.

Tra gli Anziani dei Nati all’Est, all’Oscuramento dello stagno, c’era il principe Fëanáro.

Il cuore di Morifinwë si fermò. Il calore abbandonò il suo corpo e si portò via l’eccitazione per lo spettacolo al quale aveva appena assistito e la leggera ebbrezza data dal poco vino che aveva bevuto.

Improvvisamente lucido, il suo primo istinto fu quello di scappare, di scendere dalla torretta con un balzo e nascondersi tra la folla, per paura di essere visto.

E non sapeva nemmeno perché avesse paura. Tecnicamente non aveva mentito: era fuori con Káino. E il luogo dove si trovava non era precluso a nessuno, meno che mai al nipote del Nato all’Est più importante di tutti.

– Cosa ci fa qui mio padre? – chiese, sforzandosi di tenere la voce ferma e le mani chiuse sui pali di legno dell’impalcatura per non scivolare giù.

– Chi? – domandò Káino, prima di guardare nella direzione fissata da Morifinwë, – Ah, il principe Fëanáro… e dove dovrebbe essere se non con gli Anziani?

– Intendevo cosa ci fa qui, all’Oscuramento.

– Sarà venuto a vedere la Corsa – rispose Káino, come se fosse la cosa più ovvia del mondo, – hai mai visto nessuno come Nordacil?

Assistere a una gara, suo padre? Che sciocchezza! Fëanáro non si interessava di stupidaggini del genere. Era già tanto se andava a vedere quelle dei suoi figli, e lo faceva soltanto per verificare che facessero una bella figura.

Eppure eccolo lì, che applaudiva insieme al resto del pubblico e guardava Nordacil e gli altri concorrenti, se non con interesse, di certo con attenzione.

Cosa avrebbe dato Morifinwë per essere al posto anche solo dell’ultimo di quei ragazzi!

Per un attimo lasciò libera la fantasia e si immaginò la sorpresa e l’orgoglio sul volto del padre nel riconoscere uno dei suoi figli tra i dieci campioni applauditi da tutta la valle e dagli Anziani della comunità dei Nati all’Est.

Di sicuro nessuno dei suoi fratelli si era mai cimentato in quella impresa. Non Tyelkormo, che se ne sarebbe vantato in lungo e in largo, né Makalaurë, che era del tutto disinteressato alle competizioni atletiche, e quasi certamente nemmeno Russandol, che non aveva tempo da perdere con faccende di così poca importanza.

Morifinwë s’immaginò di essere lì, al posto di Angandil, l’ultimo arrivato – non di Nordacil, perché anche la sua fantasia più sfrenata aveva un limite – e di stare davanti al padre a fare ciò che nessuno dei suoi fratelli aveva mai fatto prima.

Durò solo un istante.

Faceva male lasciare libera l’immaginazione, perché poi bisognava tornare alla realtà delle cose, dove niente del genere poteva accadere, dove lui sarebbe stato sempre l’ultimo tra i suoi fratelli.

E proprio mentre quella innegabile verità spazzava via i suoi sogni di gloria, con la coda dell’occhio vide Torondo, alla sua sinistra, che si sporgeva pericolosamente per acclamare Nordacil a pieni polmoni, e sopra di lui Malagàl e i gemelli che facevano altrettanto.

E improvvisamente si rese conto di dove fosse. Lontanissimo da casa. Con gente che conosceva appena. Sotto una volta stellata che faceva apparire il mondo piccolo come la punta di uno spillo. In breve: in quello che lui, fino al giorno prima, non avrebbe esitato a definire un incubo.

Eppure, in quell’incubo, Morifinwë non si era tirato indietro. Si era messo in gioco.

Portò una mano al petto e trovò il ciondolo con le tre tacche che lo testimoniava.

Sì, l’aveva fatto davvero. E poteva farlo ancora.

La decisione che prese fu tanto improvvisa quanto irrevocabile. Non si era mai sentito così determinato in vita sua. Era come se tutti i dubbi e le incertezze che lo avevano accompagnato negli ultimi anni fossero spariti, evaporati insieme alla rugiada degli Alberi Sacri che era stata dispersa dal vento a inizio serata, o sigillati per sempre sotto le assi che ricoprivano il Lago.

Káino gli aveva detto che l’Oscuramento avveniva due volte l’anno. Uno alla fine di Ulvórë e uno a metà di Lairë.

Morifinwë giurò a sé stesso che all’Oscuramento di Lairë di quell’anno avrebbe partecipato alla Corsa del Cacciatore, e sarebbe riuscito ad arrivare tra quei dieci ragazzi che ricevevano l’applauso del principe Fëanáro.

Più ci pensava, più gli sembrava possibile.

Certo, avrebbe dovuto lavorare duro, avrebbe dovuto dedicarci tutto il suo tempo libero. Ma in fondo una parte del lavoro era già fatta. Sapeva già saltare a cavallo con un’abilità solo di poco inferiore a quello dei ragazzi che aveva appena visto esibirsi (escluso Nordacil, si capisce), e in quanto a cavalcare non se la cavava affatto male. Per quanto riguardava il resto della prova, invece, quello che comportava saper usare una lancia… beh, per quello avrebbe dovuto chiedere l’aiuto di qualcuno.

Un sorriso gli comparve sul volto al pensiero di chi avrebbe dovuto coinvolgere.

Quando scese dalla torretta per seguire i ragazzi che si accodavano al corteo dei festeggiamenti, stava ancora sorridendo.



 

Il viaggio di ritorno sembrò molto più lungo di quello di andata. Forse perché Morifinwë bruciava dall’impazienza di arrivare, o forse perché fu di gran lunga più scomodo.

Il carro delle merci era talmente pieno che non c’era posto per tutti i ragazzi, perché alle casse che lo occupavano all’andata se n’erano aggiunte quasi altrettante.

Arion e Huinion si unirono al padre sul carro degli adulti, mentre lui e Káino si ritagliarono un posticino sull’estremità del pianale, con le gambe che penzolavano nel vuoto, quasi sepolti da casse e bauli. Proprio davanti a loro cominciava la fila dei cavalli che era andata a sostituire i quattro di Rowen.

Káino aveva la testa che gli ciondolava e appena entrarono nella forra buia che dalla valle del Lago Lucente portava a Taniquetil, cominciò a sbadigliare.

Morifinwë invece non aveva sonno, anzi era pieno di domande. Ne prese una a caso tra le mille che gli affollavano la mente e la rivolse all’amico: – Perché gli adulti non assistono alle gare?

Káino represse uno sbadiglio: – A sentire Hyarmo, le gare sono cose da bambini. Le organizzano solo perché così gli adulti possono parlare dei loro affari senza averci tra i piedi.

Poi abbassò la voce e si chinò sull’orecchio di Morifinwë, anche se nessuno avrebbe potuto sentirli: – In realtà non è così. Dicono che Oromë alleni dei ragazzi come Cacciatori anche ai giorni nostri, così come faceva coi Nati all’Est durante la Grande Marcia.

– Certo – disse Morifinwë, – mio fratello…

Káino sollevò la testa di scatto, improvvisamente sveglio.

– Mio fratello – riprese Morifinwë, e si rese conto che l’ultima cosa di cui voleva parlare in quel momento era Tyelkormo, – mi ha detto che è così – concluse.

– È un grande onore per un Nato all’Est avere un figlio al seguito di Oromë – continuò Káino. – E sai dove li scelgono i ragazzi che vengono mandati da lui?

Fece una pausa a effetto.

– All’Oscuramento – concluse, – tra i vincitori delle gare.

E poi aggiunse, come se stesse esponendo la prova inoppugnabile della sua teoria: – Se no perché i giudici ti chiedono il nome?

Morifinwë aveva sentito mille volte i racconti di Tyelkormo sui suoi primi anni di addestramento, e sulle difficoltà che aveva incontrato dovendo competere con ragazzi che erano preparati a quello fin dalla nascita. Allora gli era sembrato impossibile che suo fratello, così forte, agile e veloce, potesse aver incontrato qualcuno che gli avesse dato filo da torcere, ma dopo aver visto le gare di quella sera non gli sembrava più tanto strano.

Il pensiero delle gare gli fece venire in mente un’altra domanda.

– Come hanno fatto i gemelli ad arrivare entrambi primi nella gara di equitazione?

Káino sbadigliò per l’ennesima volta e fece vari tentativi di appoggiare la testa a un grosso baule dietro di loro, alla ricerca di una posizione comoda.

– Si aspettano – rispose. – Sono quasi sempre loro due i primi… i cavalli di Rowen sono imbattibili… ma chi precede l’altro rallenta finché non passano insieme sul traguardo.

– Non capisco – disse Morifinwë, che non avrebbe mai rinunciato a una vittoria piena per condividerla, tanto per dirne uno a caso, con Tyelkormo.

– Nemmeno io – confermò Káino. La testa alla fine gli crollò sulla spalla di Morifinwë. – Tu sei come un fratello per me, Moryo, ma se credi che ti aspetterei in una gara dove sto vincendo, stai fresco – biascicò, prima di chiudere gli occhi.

– Mi ci manca solo un altro fratello – borbottò Morifinwë. Ma passò lo stesso un braccio attorno alla vita dell’amico per evitare che, nel sonno, con tutti quegli scossoni scivolasse giù dal carro.
 


 

Rientrarono alla fattoria che era quasi il crepuscolo, proprio mentre stava cominciando il secondo mescolarsi delle luci. Erano stati via due giorni interi e Morifinwë non aveva chiuso occhio per tutto il tempo, eppure non aveva sonno. Il pensiero della decisione presa lo teneva sveglio, insieme al desiderio di cominciare quanto prima a prepararsi, e all’ansia di mettersi in gioco e di scoprire cosa sarebbe stato capace di fare.

Era certo che Hellë avrebbe potuto aiutarlo. Dopotutto, chi meglio di una ex-Cacciatrice poteva prepararlo per una gara il cui nome era la Corsa del Cacciatore?

Non era, però, altrettanto sicuro che lei avrebbe voluto aiutarlo. Non si poteva mai prevedere la reazione della donna, quando si parlava di cose che le ricordavano il suo passato.

Il carro su cui viaggiavano Morifinwë e Káino entrò nel piazzale e si girò per favorire il distacco dei nuovi cavalli e lo scarico delle merci. Un nutrito gruppo di persone attendeva il loro arrivo: Rowen e i suoi aiutanti, molti bambini tra cui una saltellante Lissi, e persino Arsanarwë che, appoggiato alla balaustra del ballatoio, osservava da lontano col suo sorriso svagato.

Lo sguardo di Morifinwë andò dritto alla ricerca di un vestito azzurro e una chioma di trecce raccolte. Individuò Hellë a metà strada tra la carovana e la fattoria, e quando vide che anche lei sembrava stesse cercando qualcuno sui carri, il suo cervello chiaramente stremato per la mancanza di sonno gli suggerì che quel qualcuno poteva essere lui. Saltò giù dal carro e le corse incontro. Avrebbe voluto abbracciarla, tanto era felice di rivederla.

Si rese conto di quello che stava facendo solo quando fu a un passo da lei, e Hellë alzò le mani coi palmi rivolti in avanti per tenerlo a distanza.

– Carnistir.

Disse il suo nome come un’ammonizione a riprendere il controllo di sé.

O forse lo disse come un saluto, perché sfoggiava uno dei suoi mezzi sorrisi e lo guardava in un modo che a lui parve tutto nuovo, come se lo vedesse per la prima volta. Ci mise un attimo per capire che doveva essere per i vestiti che indossava, e per il ciondolo giallo che aveva al collo, che testimoniava che aveva partecipato all’Oscuramento non solo come spettatore.

– Presumo che ti sia divertito – disse infatti Hellë.

Morifinwë si accorse che non aveva ancora detto nulla. Di tutte le cose che facevano a gara per uscirgli di bocca, tra cui: “mi sei mancata” era la meno compromettente, riuscì all’ultimo a deviare su quella più importante: – Hellë, ho preso una decisione!

La donna fece una smorfia: – Com’è che ho paura che coinvolgerà anche me?

Morifinwë abbassò la voce, per non farsi sentire da chi gli stava intorno. – Voglio gareggiare nella Corsa del Cacciatore – disse.

Hellë sbatté le palpebre un paio di volte.

– Hai deciso di puntare in alto – commentò.

Morifinwë giudicò un ottimo segnale il fatto che non si fosse messa a ridere, e si colpì il petto con un pugno. – Puro Noldo – disse.

Lei inarcò un sopracciglio: – E che cosa ti fa pensare che riuscirai nell’impresa?

– Il fatto che me lo insegnerai tu! – rispose prontamente Morifinwë.

Questa volta lei trattenne a malapena una risata. – Ragazzino, la tua impertinenza finirà per procurarti dei guai – disse.

Era una frase che gli ripeteva spesso, ma Morifinwë si ricordò di quando gliel’aveva detta per la prima volta, la sera del ballo in camera sua. Arrossì e il suo entusiasmo venne meno. Abbassò lo sguardo sul bracciale di cuoio della donna e chiese, incerto: – Me lo puoi insegnare tu, vero?

Hellë dovette capire quanto fosse importante per lui quella richiesta perché, tornata subito seria, disse: – Sì, Moryo. La ritengo una sciocca gara dal nome pretenzioso, ma se sei disposto a imparare, te lo posso insegnare io.

– Grazie! – esclamò Morifinwë sollevato, e provò di nuovo, impellente come non mai, il desiderio di abbracciarla, – non sai quanto…

– Ora vai – lo interruppe Hellë, – devo aiutare a scaricare – e come a conferma di ciò arrivò la voce di Faniel che la chiamava dal carro.

Morifinwë la guardò allontanarsi col suo incedere sicuro e silenzioso.

Non sai quanto mi sei mancata, concluse, in silenzio.

La vide esitare un attimo, come se avesse colto il suo pensiero. Ma forse fu solo un inganno della sua mente esausta.

 

 



 


NOTE

Grazie a chi è arrivato fin qui!

01.
Secondo il mio headcanon, la comunità dei Noldor Nati all’Est, pur adeguandosi al calendario Valinoreano e alla concezione della durata degli anni adottata dai Valar in Aman, faceva partire il conto degli anni dal Risveglio dei Primogeniti, avvenuto nel 1050 degli Anni degli Alberi (Y.T.). Essendo la storia ambientata nel 1389 Y.T., ecco spiegato perché il giudice di gara sostiene che sono nel 339.

02.
Nelle mie ricerche per accertarmi che i nomi da me inventati non fossero già stati usati da altri autori, ho trovato un Angandil nella storia Angandil’s strange evening di Huinare. Dato che si trattava di un craban (corvo) di Saruman, ho deciso che non poteva in alcun modo essere confuso con un Noldo di Aman e l’ho lasciato come nome per uno dei concorrenti. Il sito sul quale ho trovato la storia nel 2019 (quando ho cominciato a scrivere LCDC) non è più raggiungibile, quindi non posso lasciarvi il link diretto, e mi dispiace perché era una breve storia molto carina.

03.
Per chi fosse interessato, qui c’è la pianta del circuito nel quale si corre la Corsa del Cacciatore.

04.
I Laghi Lucenti sono bacini in cui vengono conservate la pioggia di Laurelin e la rugiada di Telperion perché siano sorgenti di luce dove i raggi degli Alberi Sacri faticano ad arrivare

05.
Chi ha letto altre mie storie, avrà forse notato alcuni riferimenti ad esse disseminati lungo tutto il racconto. Qui, per esempio, si accenna al passato di Tyelkormo con Oromë, al quale di faceva riferimento anche in Spiriti Affini. Il Findekáno che abbiamo incrociato nel capitolo 3 e nel capitolo 16 è quello di Tenn’Ambar-metta e di Un esperimento mal riuscito, racconto dove viene citata anche Erlindiel (anche se non per nome). Non è affatto necessario aver letto le altre mie storie per orientarsi in questa, ma se foste curiosi, andare a spulciare la raccolta Los Tales

 

Nomi canonici, conversione Quenya - Sindarin
Morifinwë, Carnistir = Caranthir
Makalaurë = Maglor
Fëanáro = Fëanor
Russandol = Maedhros
Tyelkormo = Celegorm

Personaggi di mia invenzione
Káino, il migliore amico di Morifinwë
Arion, un ragazzo che abita alla fattoria, amico di Morifinwë
Huinion, il suo gemello
Torondo, un ragazzo della Piana Calaciryana
Malagàl, una ragazza di Alqualondë
Angandil, un concorrente della Corsa del Cacciatore. Il suo nome viene da Anga (iron) e -ndil (suffisso per friend).
Nordacil, il campione indiscusso della Corsa del Cacciatore. Il suo nome (o, meglio, il suo epessë) viene da Norië (race, running) e -dacil (il suffisso per victor, winner)
Rowen, la fondatrice della fattoria, allevatrice di cavalli
Lissi, la sorellina di Káino
Arsanarwë, il maestro di matematica di Morifinwë, marito di Rowen
Faniel, una donna che lavora alla fattoria

Nomi di mia invenzione
Ulvórë, una stagione a metà tra l’autunno e un mite inverno
Piana Calaciryana, stretta striscia di terra pianeggiante tra Tirion e il mare
Punta Scura, la zona sotto le pendici orientali di Túna, perennemente all’ombra della collina stessa

Nomi canonici usati non-canonicamente
Lairë, la stagione paragonabile alla nostra estate

 

 

 

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Capitolo 21
*** L'addestramento ***


 

21

L’addestramento

(o quando, per la prima volta, decidi di metterti in gioco sul serio)

 

 

Hellë aveva accettato di allenare Morifinwë per la Corsa del Cacciatore solo a patto che Rowen, la padrona della fattoria presso la quale lei prestava servizio, ne fosse informata.

Morifinwë aveva temuto che la moglie del maestro avrebbe rifiutato o, peggio, avrebbe acconsentito solo dopo aver riferito ai suoi genitori la folle idea che si era messo in testa. Ma Rowen non aveva fatto nulla di tutto ciò; non soltanto aveva dato il suo consenso, ma aveva anche provveduto a far allestire, in uno dei campi a nord della fattoria, una pista di allenamento quasi identica a quella in cui si correva la gara.

L’unica differenza era che il circuito non era delimitato da pannelli di legno, ma da balle di fieno, in modo tale che se – o meglio, quando – Morifinwë avesse preso male una curva e ci fosse andato a sbattere, lui e Morvail non avrebbero rischiato di farsi troppo male. Per il resto riproduceva l’originale in tutto e per tutto: l’ampio rettilineo iniziale, la tripla curva, e lo slargo finale al limite del quale, sul tronco di un albero alto e isolato, era stato appeso il bersaglio per la lancia. C’era perfino il tratto aperto a metà del rettilineo da cui avrebbero dovuto entrare i Lancieri, e il segno a forma di stella su cui doveva mettersi il Cavaliere all’inizio della gara.

Quando Morifinwë lo vide per la prima volta e immaginò il lavoro di chi si era impegnato per allestirlo fu percorso da un brivido. All’improvviso tutto gli apparve molto più reale di quanto non fosse nei suoi sogni di gloria, e per un attimo l’impresa che aveva deciso di affrontare gli sembrò impossibile. Anche Káino, che quel primo giorno di allenamento era con lui, restò insolitamente zitto a contemplare l’opera, mentre gli lanciava di sottecchi sguardi dubbiosi.

La sensazione di essersi cacciato in una situazione che andava oltre le sue capacità si intensificò quando raggiunsero Hellë all’inizio del circuito. La donna, che al posto del suo consueto abito azzurro indossava larghi pantaloni scuri e una blusa senza maniche, aveva un’espressione ancora più seria del solito, e senza perdere tempo in saluti gli disse subito ciò che doveva fare: – Per prima cosa riprenderai a esercitarti nel salto al volo.

Ancora? fu sul punto di ribattere Morifinwë, che non vedeva perché dovesse perdere tempo prezioso sull’unica cosa che sapeva già fare. Ma si trattenne perché le aveva promesso che sarebbe stato disposto a imparare da lei e, se iniziava col lamentarsi, Hellë era capace di interrompere tutto ancora prima di cominciare.

La donna dovette intuire il suo disappunto, perché aggiunse: – Devi imparare a previsualizzare, ed è più facile se ti eserciti con un movimento che sai già fare.

A pre-cosa? Morifinwë si morse la lingua per non ribattere.

La previsualizzazione, gli spiegò Hellë, consisteva nell’immaginarsi ogni dettaglio del gesto atletico prima di compierlo. Ogni minimo particolare si doveva prima vivere nella propria testa, perché solo in quel modo il corpo sarebbe stato preparato a ciò che stava per accadere e si sarebbe affidato al controllo della mente senza alcuna esitazione.

Nel caso del salto al volo si doveva immaginare, o meglio, sentire la risposta del terreno sotto i piedi durante la corsa, la resistenza opposta dalla spalla di Morvail contro la mano quando si arrivava all’impatto, il manto che scivolava sotto le dita durante la corretta torsione del polso, la giusta contrazione dei muscoli delle cosce per atterrare in perfetto equilibrio.

Era un lavoro estenuante, sia fisicamente che mentalmente, ma che dava risultati che non tardarono a farsi vedere; già dai primi allenamenti la fluidità con cui saltava su Morvail incrementò visibilmente. Káino stesso rimase sbalordito, ma Hellë mise subito in guardia Morifinwë dal lasciarsi trasportare dall’entusiasmo.

– Stai lavorando su qualcosa che conosci bene – disse, – le difficoltà arriveranno dopo.

Indispettito perché non gli venivano riconosciuti i suoi progressi e fiaccato dalla fatica di parecchi pomeriggi ininterrotti di allenamento, quando Hellë gli disse che la fase successiva dell’addestramento sarebbe stata imparare a cavalcare, Morifinwë non riuscì a trattenersi dal reagire.

– So cavalcare da quando ho l’età di Lissi – disse, indicando la bambina che quel giorno aveva accompagnato il fratello al campo. Lei e Káino, seduti su una coperta nel prato, divoravano i panini al cioccolato che lui aveva portato per Hellë.

– Ti sai spostare da un posto all’altro a cavallo – precisò la donna, – non vuol dire saper cavalcare.

Morifinwë cercò con lo sguardo l’aiuto di Káino, ma l’amico fece su e giù con la testa e, senza prendersi la briga di deglutire, biascicò: – Dalle retta, Moryo, sa quello che dice.

Lissi confermò: – Hellë sa sempre quello che dice.

– Se hai finito di fare i capricci, ragazzino – li interruppe la donna, – possiamo procedere.

Morifinwë arrossì. Hellë non lo chiamava più ragazzino da un pezzo. Lo chiamava Moryo, come facevano tutti alla fattoria, e qualche memorabile volta, quando erano soli, lo chiamava Carnistir. ‘Ragazzino’ sapeva di retrocessione.

– Sì, scusa – borbottò, – sono pronto.

Anche cavalcare, scoprì presto Morifinwë, se fatto come lo intendeva Hellë era un lavoro che riguardava soprattutto la mente.

Non che lui non usasse comandi mentali. Quando, da piccolo, aveva preso lezioni di equitazione, Velmo gli aveva insegnato come inviare col pensiero i brevi ordini che accompagnavano i movimenti necessari per governare il cavallo. Ma Hellë gli insegnò qualcosa che andava molto oltre. Gli spiegò come entrare in una tale connessione con l’animale, che il cavallo e il cavaliere diventavano un’unica cosa, come se le zampe del cavallo fossero un’appendice del corpo del cavaliere, e la mente del cavaliere un’estensione di quella del cavallo.

Era un’esperienza esaltante, che sembrava entusiasmare Movail quanto lui, anzi sembrava quasi che l’animale non avesse aspettato altro, tanto che Morifinwë si chiese se Velmo e i ragazzi delle scuderie di suo padre, quando si occupavano di lui e lo portavano a correre fuori città, non utilizzassero lo stesso metodo.

Arrivarono a un livello di connessione così elevato che quando Morifinwë, fermo al centro del campo, faceva esercizio di previsualizzazione, Morvail, che aspettava all’inizio del circuito, sembrava fare altrettanto: batteva lo zoccolo sul terreno quando lui si figurava la partenza, scuoteva il collo di lato quando Morifinwë immaginava l’impatto, s’impennava leggermente nella fase di atterraggio.

Quando vide quella scena, Káino scoppiò a ridere: – Per tutti i Valar, scommetto che questo non lo fa nemmeno il cavallo di Nordacil!

Hellë, ovviamente, ebbe una reazione molto più pacata.

– Tu e Morvail siete alleati, ora – disse. Poi aggiunse uno dei sui rari complimenti: – Avete lavorato bene.

Morifinwë chinò il capo e Morvail, accanto a lui, fece altrettanto.
 


 

Per il tempo in cui le ultime piogge di Ulvórë lasciarono il posto alle tiepide brezze di Tuilë, Hellë decise che Morifinwë poteva cominciare a esercitarsi con la lancia.

Tra il successo della tecnica di previsualizzazione e lo straordinario miglioramento nel cavalcare, Morifinwë aveva conquistato tanta fiducia in sé stesso che affrontò il nuovo compito con la spavalderia di chi è convinto di riuscirci al primo tentativo.

Non ci andò molto distante. Hellë era così precisa nel lancio che per lui imparare ad afferrare l’arma al volo, prima da terra e poi da cavallo, fu questione di pochi giorni. Lo stesso accadde per il tiro al bersaglio. Morifinwë aveva una buona mira, che divenne ancora migliore quando fu supportata dalla previsualizzazione e dai consigli di Hellë.

Allora cominciò a credere che l’impresa fosse davvero alla sua portata e la sua impazienza crebbe. Sentiva il tempo a sua disposizione scivolargli via come sabbia tra le dita, e fremeva per cominciare a provare tutta la Corsa insieme, dall’inizio alla fine, e non le singole mosse separatamente, come aveva fatto fino a quel momento.

Ma quando finalmente Hellë esaudì il suo desiderio, fu la catastrofe.

Se saltava bene a cavallo, veniva colto impreparato dall’arrivo della lancia che gli sfuggiva di mano; se riusciva ad afferrare la lancia, conduceva Morvail lontano dall’imboccatura della prima curva e perdeva tempo per correggere la traiettoria; se arrivava a sbucare nel tratto finale senza essere scivolato da cavallo, si trovava così sbilanciato che tirava l’arma tra i rami dell’albero invece che al bersaglio.

– Stasera quaglia per cena! – gridava Káino quando la lancia finiva dritta nella siepe spaventando i suoi abitanti che s’innalzavano in volo.

– Se fosse una gara a chi rotola meglio, arriveresti primo per distacco! – diceva, quando Morifinwë cadeva da cavallo e cercava di allontanarsi il più velocemente possibile dagli zoccoli di Morvail.

Lo diceva per alleggerire l’atmosfera, e per spronarlo a impegnarsi sempre di più.

Ma i giorni in cui tutto andava per il verso storto e Morifinwë imprecava tra i denti, sull’orlo delle lacrime per la frustrazione, allora Káino gli diceva: – Non mollare, amico. – Oppure: – Stai andando sempre meglio, fidati.

In uno dei suoi pomeriggi peggiori, in cui non era riuscito ad arrivare in fondo neanche una volta, Hellë gli disse: – Carnistir, non arrenderti.

Fu in quel momento che, con una certa sorpresa, Morifinwë si rese conto che non ci pensava affatto ad arrendersi. Poteva sentirsi frustrato per la mancanza di progressi, in ansia per l’avvicinarsi della gara, terrorizzato dalla figuraccia che avrebbe potuto fare davanti al padre, ma il pensiero di poter abbandonare non lo sfiorava nemmeno.

Non ricordava di essersi mai sentito così deciso su qualcosa. Anche quando non era al campo, mentre studiava o seguiva le lezioni di Arsanarwë e degli altri suoi insegnanti, parte dei suoi pensieri erano costantemente rivolti al suo addestramento.

Era come se non ci fosse più posto per i dubbi nella sua testa, come se tutte le incertezze che lo avevano assillato nell’ultimo periodo fossero sparite o, perlomeno, si fossero ridotte a un sottofondo indistinto.

Per la prima volta nella sua vita si sentiva sicuro di sé.
 


 

Il lato positivo della tecnica di previsualizzazione era che si poteva continuare a esercitarsi anche quando non si era al campo di allenamento. Quello negativo, invece, era che ogni volta che venivi sorpreso con lo sguardo perso nel vuoto a borbottare “sinistra-destra-sinistra” o “afferra-carica-tira” diventava sempre più difficile inventarsi una scusa per giustificare il proprio comportamento.

Morifinwë non doveva rischiare di far trapelare il suo segreto. Se anche solo un accenno di ciò che aveva deciso di fare fosse arrivato al padre, sarebbe stato il disastro. Niente aspettative, niente delusioni, era la parola d’ordine. Se non fosse riuscito a prepararsi a dovere, non avrebbe partecipato alla gara, e tutto sarebbe finito lì.

Per questo a casa non aveva detto niente su dove era stato quella fatidica notte con Káino, lasciando intendere che l’aveva passata alla fattoria.

Neppure il padre, dal canto suo, aveva fatto alcun accenno all’Oscuramento. Non aveva detto di aver riconosciuto il suo quarto figlio alla manifestazione, e neppure di esserci stato lui stesso.

Morifinwë dapprima ne fu sollevato, ma poi cominciò a domandarsene il motivo e in breve fu roso dalla curiosità. Fëanàro era solito condividere le sue opinioni sul resto del mondo con grande passione, e il fatto che non avesse nulla da dire su un evento come l’Oscuramento suonava sospetto. A meno che, ovviamente, non ne parlasse perché era una cosa così scontata che non era degna di interesse, e che fosse Morifinwë l’unico della famiglia a non saperne nulla. Non sarebbe stata la prima volta.

Comunque stessero le cose, c’erano almeno due persone che dovevano conoscere la verità: Russandol e la mamma. E dato che con lei riusciva a parlare più facilmente che col fratello maggiore, Morifinwë un pomeriggio si decise a fare qualcosa che non faceva più da molto tempo: percorse il corridoio del primo piano fino in fondo e oltrepassò la porta che dava sul laboratorio.

L’ambiente era insolitamente silenzioso: niente colpi di martello, né il raschiare della lima sulla pietra. L’unico rumore era il lieve ticchettio della pioggerella sottile contro i lucernari, colpo di coda di una stagione terminata già da un pezzo.

Nerdanel, in piedi sulla pedana centrale, dipingeva la sua ultima scultura: un uomo molto giovane colto nell’atto di trasformarsi in un’aquila. Semi accucciato come fosse pronto a spiccare il volo, aveva il petto in parte coperto da piume e, al posto delle braccia, ali pronte a dispiegarsi. Il viso affilato aveva qualcosa del rapace difficile da definire, forse gli occhi troppo distanziati, o il naso adunco.

Morifinwë scese la scala che dal ballatoio portava a terra e si fermò poco distante dalla pedana per ammirare l’ennesimo capolavoro della madre, mentre rifletteva su come introdurre l’argomento senza farle capire che aveva, di fatto, mentito su dove era stato in quei due giorni con Káino.

Alla fine smise di mordicchiarsi il labbro inferiore ed esordì con un neutro: – Buongiorno mamma.

– Carnistir – lo accolse lei con entusiasmo, – sei venuto ad aiutarmi? Prendi pure un pennello.

– Ehm… veramente no – disse Morifinwë, che in quel momento non aveva mani abbastanza ferme per quel genere di lavoro, – sono passato solo per vedere se avevo lasciato qui dei vecchi appunti.

E si avviò verso la sua scrivania, nella nicchia sotto la finestra. Ma il suo tavolo, oltre a essere privo di appunti che potessero giustificare la sua bugia, quel pomeriggio aveva assunto la funzione di tavolino da tè. Le sue poche cose erano state spostate di lato per far posto a una teiera e a una tazzina di ceramica.

Morifinwë la riempì e fece il gesto di offrirla alla madre, ma lei scosse il capo e continuò il suo lavoro. Lui ne bevve qualche sorso per darsi coraggio, poi prese un profondo respiro, cercò di impostare quanto più possibile la voce all’indifferenza e cominciò: – Ho sentito parlare di un evento chiamato Oscuramento dello stagno.

– E? – lo invitò ad andare avanti la madre, mentre mescolava il rosso e l’ocra sulla tavolozza.

– E volevo sapere se tu ne sai qualcosa.

– È una fiera organizzata dai Nati all’Est tra le Pelóri del sud – rispose Nerdanel, e dopo una breve pausa domandò: – Come ti è sembrata?

Morifinwë arrossì. Non era mai stato un campione di sottigliezza, ma questa volta doveva aver battuto un primato. Se non altro adesso non c’erano più motivi per girarci intorno.

– Lo sapevi che c’era anche papà? – chiese, ignorando la domanda che gli era stata rivolta.

– Ma certo – rispose la madre, senza interrompere il suo lavoro.

Come volevasi dimostrare: tutti sapevano tranne lui.

– E ci va sempre? – domandò.

– Da quando è nata, molti anni fa – Nerdanel passò il pennello sugli zigomi affilati del mutaforma, – è stato uno dei promotori dell’evento, in effetti.

Morifinwë ci pensò su qualche istante, ma non trovò un singolo motivo per cui il padre dovesse interessarsi a una cosa come l’Oscuramento. Alla fine si arrese: – Ma perché ci va?

– È un’occasione per tenere i contatti con una comunità che partecipa poco alla vita cittadina – rispose la madre, poi appoggiò la tavolozza e il pennello sul treppiede accanto alla statua e gli dedicò tutta la sua attenzione.

– Si tratta di gente che non si è del tutto integrata nella società Valinoreana – spiegò, –  e che da diversi anni a questa parte sta dando voce alla propria insoddisfazione, portando avanti un recupero delle antiche tradizioni che comprende anche la festa dell’Oscuramento.

Nerdanel si pulì le mani in uno straccio umido e continuò: – Finwë la giudica una cosa positiva: incanalare l’insoddisfazione di una parte del popolo in qualcosa di gestibile è meglio che ignorarla, o peggio, reprimerla, ma la presenza del re in persona a un evento del genere sarebbe troppo vistosa: non tutti condividono questo desiderio di ritorno alle radici. E così Fëanáro partecipa al posto suo.

Considerato che suo padre non aveva mai un unico scopo, rifletté Morifinwë, doveva esserci anche altro dietro a quella scelta, ma prima che potesse indagare, Nerdanel disse: – Ora che ho risposto alle tue domande, ti dispiacerebbe rispondere alla mia?

E lui non trovò più scuse per rifiutare. Anzi, scoprì che non vedeva l’ora di raccontare alla madre la straordinaria nottata che aveva vissuto.

– È stata… strana – cominciò, faticando a tirare fuori le parole giuste per esprimere l’infinita gamma di emozioni che aveva provato. – È molto diversa dalle nostre celebrazioni. Voglio dire, tanto per cominciare avviene sotto le stelle. Ah, mamma, non mi ricordavo che fossero così, le stelle! Un cielo nero, infinito, perforato da diamanti, bello da togliere il fiato. E spaventoso. E il pensiero che loro sono sempre lì, anche se a noi non è concesso di vederle, ti schiaccia e ti eleva allo stesso tempo…

Preso dal suo racconto, Morifinwë non si interruppe quando Calwen entrò con un vassoio di biscotti e una seconda tazza e andò ad appoggiarli sul tavolo accanto alla teiera.

– Per non parlare del canto! Non capivo una parola eppure mi sembrava di comprendere tutto, come se ce l’avessi già dentro di me e lo avessi solo dimenticato. È stato come tornare a giorni che non ho mai vissuto, tutto era permeato da una profondissima nostalgia…

– Per carità, Morifinwë, non starai mica parlando di quei fanatici! – lo interruppe Calwen. – Nostalgia? E di che cosa si dovrebbe avere nostalgia?

Poi chiuse la bocca di scatto e guardò Nerdanel, come per assicurarsi di avere il permesso di continuare.

La madre assentì con un cenno del capo, così Calwen aprì le braccia in un gesto di incredulità e diede libero sfogo ai suoi pensieri.

– Come si fa ad avere nostalgia di un posto dove ogni giorno si rischiava di perdere la vita, o andare incontro a un destino ancora peggiore? – esclamò. – Dai retta a me, chi ha nostalgia è perché ha la memoria corta! – si batté una mano sul petto, – mia madre si sveglia ogni notte, tormentata dagli incubi, credendo di essere ancora in quella terra malvagia. Quando sua sorella è stata portata via, lei era così vicina che è riuscita a vedere l’ombra che l’ha strappata dal suo giaciglio.

Gli occhi di Calwen erano lucidi e sul suo viso si alternavano l’angoscia e il tentativo di reprimerla. Disse ancora qualche parola a bassa voce, quasi tra sé: – Non l’ha più rivista da allora. Se fosse stata uccisa, adesso sarebbe qui… Námo non trattiene a lungo gli spiriti dei fanciulli… e invece…

Poi, così com’era esploso, il suo sfogo si placò.

– Scusatemi – disse, a capo chino, le mani che lisciavano inesistenti pieghe del grembiule, – non volevo rovinare il vostro pomeriggio.

– Ma di cosa ti scusi, Calwen? – disse Nerdanel scendendo dalla pedana per abbracciare la donna, – siamo noi piuttosto che ci dobbiamo scusare per averti risvegliato brutti ricordi – e da sopra la spalla di Calwen lanciò un’occhiata eloquente a Morifinwë.

Lui si bloccò. Se c’era una cosa che non era capace di fare era dare conforto; quando si trattava di consolare qualcuno era completamente perduto.

– Ehm… – cominciò, – sono davvero spettacolari questi biscotti.

Le due donne si sciolsero dall’abbraccio e lo guardarono con la stessa aria esasperata. Però la sua battuta doveva aver funzionato, perché Calwen si asciugò le lacrime con la manica e tornò a sorridere.

– Benedetti i Valar che mi hanno concesso di vivere in questa terra – esclamò, – e in questa casa – aggiunse, con una gentile carezza sulla guancia di Morifinwë. Poi si diresse alla porta, sospirando.

Quando fu uscita, Nerdanel andò a sedersi accanto a lui e si servì del tè.

– La maggior parte dei Nati all’Est la pensa come la madre di Calwen – disse. – Ricordano com’è stato vivere laggiù, e ancor di più ricordano il lungo viaggio per venirne fuori. Eppure, anche tra loro, c’è chi pensa che così come la loro vita è cambiata una volta, passando dall’oscurità alla luce, potrà cambiare ancora, indipendentemente dal loro volere, e sebbene amino la terra in cui vivono, si tengono pronti.

– Come quelli che mandano i figli a farli addestrare da Oromë – intervenne Morifinwë.

La madre annuì. –  Altri ancora, pur apprezzando la vita in Aman, ritengono che non sia giusto abbandonare le proprie radici. Non vogliono dimenticare cose che una volta erano abili a fare, né tantomeno i loro canti e le loro celebrazioni. Infine ci sono quelli che non sono riusciti ad ambientarsi per niente, e anche se sono molto pochi, non significa che si debba ignorare la loro voce, anzi il contrario.

Morifinwë guardò le foglioline di tè sul fondo della tazza riflettendo sulla complessità della società in cui viveva, che fino ad allora gli era sembrata priva di spigoli.

– Una volta ho chiesto al nonno cose ne pensasse lui – disse.

– Finwë? Mi stupisce che ti abbia risposto.

– In effetti, a pensarci bene, non l’ha fatto – disse lui, ripensando alla conversazione col re avvenuta a inizio Ulvórë.

– Finwë è il re di tutti i Noldor – spiegò Nerdanel, – su certi argomenti non può permettersi di prendere posizioni categoriche.

– Ma tu cosa credi che pensi?

La madre bevve un sorso di tè prima di rispondere. – Finwë ha perso molto. Ha dovuto abbandonare un caro amico all’Est, e la cosa lo ha ferito più di quanto noi possiamo immaginare. Questa terra gli ha dato una moglie, alla quale ha dovuto dire addio dopo averla molto amata. La nuova famiglia ha contribuito a lenire il suo dolore, ma la sua scelta di risposarsi ha generato nuovi tipi di conflitti. Credo sia una persona molto combattuta.

– Il nonno? – domandò Morifinwë, pensando all’inamovibile Finwë e chiedendosi se non avesse perso il filo del discorso e sua madre stesse in realtà parlando di un’altra persona. – Ma…

Nerdanel alzò gli occhi al cielo. – A quante domande dovrò ancora rispondere prima di avere il mio racconto? – chiese, mentre gli riempiva la tazza e spingeva tra loro il vassoio dei biscotti.

– Forza – lo esortò, – adesso raccontami tutto. Sai quanto mi piacciono le nuove avventure.

E lui raccontò. Le parlò della paura di quando era calata l’oscurità, e dell’eccitazione condivisa da tutti i presenti all’apparire delle stelle. Le descrisse la gara di nuoto e le disse di come il terzo posto lo avesse riempito di soddisfazione più di quanto avessero mai fatto risultati migliori in altre gare. Le raccontò dei suoi nuovi amici, di Malagàl e di Torondo e di come avesse superato la sua iniziale diffidenza nei loro confronti grazie alla presenza di Káino, il suo amico spigliato e disinvolto, che lui tanto ammirava. Le fece persino vedere il ciondolo giallo con sopra le tre tacche, nemmeno fosse ancora un bambino che voleva mettersi in mostra con la mamma.

Per ultimo, le parlò della Corsa del Cacciatore, sforzandosi di essere vago e di non far trasparire tutto quello che significava per lui.

Alla fine il vassoio di biscotti era stato spazzolato e la teiera era vuota. Dal sorriso soddisfatto che le curvava le labbra, Nerdanel sembrava sazia di dolcetti e di racconti. Ma quando appoggiò la tazza sul piattino aveva una scintilla inquisitoria nello sguardo. Puntò il cucchiaino contro Morifinwë e disse: – Tu stai macchinando qualcosa, Carnistir.

Morifinwë temette che stesse pensando a qualcosa di illecito, tipo sabotare una canoa.

– Mamma, io… – cominciò, e mancò poco che gli svelasse anche il suo progetto di partecipare alla Corsa. Riuscì a trattenersi all’ultimo. – È qualcosa che vorrei fare da solo – concluse.

La madre si nascose il viso tra le mani e da dietro le dita la sua voce uscì tra l’esasperato e il divertito: – Dimmi almeno che non coinvolgerà un figlio di Arafinwë!





 


NOTE

Grazie a chi ha letto!

Venerdì prossimo ho un impegno che mi porterà via tutta la giornata, quindi non sarò in grado di aggiornare. Se riesco ad organizzarmi (sento già le risate in sottofondo) anticiperò a giovedì, altrimenti mi tocca rimandare a sabato.

Volete sapere che aspetto ha nella mia testa Hellë? Se la risposta è sì, eccola qui!

Nomi canonici, conversione Quenya - Sindarin
Morifinwë, Moryo, Carnistir = Caranthir
Fëanáro = Fëanor
Arafinwë = Finarfin

Personaggi di mia invenzione
Rowen, la fondatrice della fattoria, allevatrice di cavalli
Morvail, il cavallo di Morifinwë
Káino, il migliore amico di Morifinwë
Lissi, la sorellina di Káino
Velmo, il responsabile delle scuderie del palazzo di Fëanáro
Calwen, la responsabile delle cucine del palazzo di Fëanáro
Malagàl, un’amica di Morifinwë
Torondo, un amico di Morifinwë

Nomi di mia invenzione
Ulvórë, una stagione intermedia tra il nostro autunno e un inverno mite

Nomi canonici usati non-canonicamente
Tuilë, la stagione paragonabile alla nostra primavera

 

[ Nella foto del link, Hellë è interpretata da una giovane Hilary Swank con le orecchia a punta ]

 

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Capitolo 22
*** Il Lanciere ***



22

Il Lanciere

(o quando ti rassegni a coinvolgere tuo fratello, anche se è l’ultima cosa che vorresti fare)



 

– Bisognerà trovare qualcuno che ti faccia da Lanciere – disse Hellë.

Erano al termine di una sessione di allenamento piuttosto impegnativa, nella quale Morifinwë aveva rischiato di scivolare da cavallo almeno due volte, e in una spaventosa occasione il suo tiro maldestro invece di centrare il bersaglio aveva quasi colpito uno dei gatti che sonnecchiavano nei pressi del campo. Perfino Káino, a un certo punto, si era stancato di assistere ai suoi insuccessi e li aveva lasciati.

Con l’umore a terra, Morifinwë stava premiando la costanza di Morvail offrendogli una mela dal suo palmo, quando Hellë se ne uscì con l’affermazione che gli rovinò definitivamente la giornata.

– Non sarai tu? – esclamò lui, talmente preso di sorpresa che la mela gli cadde di mano. Morvail emise un contrariato sbuffo dalle narici, e si chinò a rovistare col muso tra l’erba alla ricerca del frutto.

Morifinwë ripensò ai Lancieri che aveva visto all’Oscuramento. Sebbene non li avesse osservati troppo da vicino, era più che sicuro che non fossero stati dei ragazzi: nessun giovane avrebbe potuto avere una tale padronanza della lancia da riuscire a fare ciò facevano senza mettere a repentaglio la vita del Cavaliere.

– Non credevo che ci fosse un limite di età – disse.

– Non c’è, infatti – confermò Hellë. – È che io non intendo farlo.

– Perché? – Morifinwë cercò di dominare il panico crescente. Come avrebbe fatto a cavarsela se il Lanciere fosse stato un pivellino come lui, o anche un discreto atleta, che però non avrebbe mai potuto eguagliare la precisione straordinaria della ex-Cacciatrice?

Hellë recuperò la mela da terra e la diede a Morvail accarezzandogli il muso.

– Perché io non frequento l’Oscuramento – rispose, con la sua solita calma. – Non l’ho mai fatto e non voglio cominciare a farlo adesso. Preferisco evitare di incontrare vecchie conoscenze, se posso farne a meno.

Morifinwë tornò col pensiero alla sera della Meren Tulusto, quando la donna si era lasciata sfuggire amare parole di rimpianto per non essere stata in grado di proteggere i suoi compagni durante la Grande Marcia, e la tristezza di quel ricordo lo ferì più dell’angosciante consapevolezza che non avrebbe mai trovato nessuno in grado di tirare una lancia con la precisione di Hellë.

Lei dovette fraintendere la sua espressione afflitta.

– Non ti preoccupare – gli disse, – vedrai che qualcuno lo troviamo. Non hai detto di avere un fratello che eccelle nelle prove di destrezza fisica?

Morifinwë per poco non si diede una manata in fronte. Tyelkormo! Come aveva fatto a non pensarci da solo?

Forse perché l’ultima cosa che voleva era coinvolgere il fratello nei suoi affari, rischiando di diventare il bersaglio delle sue prese in giro, cosa che avrebbe polverizzato quel poco di fiducia in sé stesso che si stava costruendo con tanta fatica.

O forse perché averlo accanto, nel suo glorioso splendore atletico, non avrebbe fatto altro che evidenziare le mancanze di Morifinwë, minacciando di incrinare – sempre lì si tornava – la sua fragile autostima.

Oppure era qualcosa che affondava ancora più in profondità, alla radice stessa delle sue insicurezze: non voleva sapere come avrebbe reagito Hellë davanti a un Fëanárion di prima scelta. Pura e semplice gelosia, insomma.

Morifinwë si passò una mano tra i capelli troppo corti e lanciò un sguardo veloce al suo corpo basso e magro.

– Anch’io preferisco evitare le vecchie conoscenze, se posso farne a meno – borbottò.

Hellë, come di consueto, minimizzò le sue preoccupazioni con un’affermazione impossibile da negare: – Non può essere peggio che chiedere a Káino.



 

Quella sera, sulla via di casa, Morifinwë cercò di elencare tutte le alternative possibili rispetto ad andare a chiedere aiuto a Tyelkormo e scoprì, con grande rammarico, che non ce n’erano.

Lasciare che ci pensasse Hellë a trovargli qualcuno significava affidarsi a uno sconosciuto, cosa che, nonostante il recente miglioramento in termini di apertura verso gli altri, la sua timidezza non gli permetteva ancora di fare.

Chiedere a Káino era impensabile. Il ragazzo non era uno capace di mettersi d’impegno al punto da riuscire a imparare così tanto in così poco tempo. E comunque Morifinwë non voleva metterlo nelle condizioni di dover condividere l’eventuale sconfitta con lui. Se avesse fallito, non avrebbe trascinato il suo migliore amico nel baratro dell’umiliazione.

Così dopo cena prese il coraggio a due mani, uscì da camera sua e marciò deciso fino a quella di Tyelkormo. Non fece in tempo a bussare che la porta si spalancò, aperta dall’interno dal fratello sbagliato.

– Curvo! – si sorprese Morifinwë, – cosa ci fai qui a quest’ora?

– Potrei dire lo stesso di te – rispose il fratellino, – levati dai piedi.

Il piccolo, ancora vestito di tutto punto con la sua treccia nera e lucida che gli ricadeva dietro la schiena, gli girò attorno e si incamminò lungo il corridoio senza voltarsi indietro.

Morifinwë sbirciò nella stanza. Tyelkormo sedeva sul letto, accanto al quale c’era una sedia vuota.

– Ma cosa…? – domandò.

– Entra e chiudi – disse Tyelkormo, alzandosi per andare a riporre la sedia presso la scrivania vicino alla finestra.

Le tende erano aperte e lasciavano passare la tenue luce della sera. Il silenzio, che a quell’ora regnava in tutta la casa, era interrotto solo dal frinire dei grilli che veniva dal giardino e da qualche latrato lontano.

Morifinwë sentì la vecchia e ben conosciuta fitta di gelosia che provava quando era testimone del rapporto speciale che legava tra loro gli altri fratelli, prima quello tra Russa e Laurë e, da quando era nato il piccolo, anche quello tra Tyelko e Curvo.

Senza riuscire a mascherare la sua irritazione, domandò: – Cosa voleva il genio in miniatura?

Tyelkormo scrollò le spalle. – Niente di particolare. A volte, se ha avuto una brutta giornata, viene a darmi il tormento. Credo lo faccia stare meglio.

– Una brutta giornata? – saltò su Morifinwë, – come può aver avuto una brutta giornata, lui? Papà gli ha detto “bravo” solo nove volte invece di dieci? Il maestro si è scordato di dirgli: “non vedevo uno come te dai tempi di Nelyafinwë?” Ah, no, forse a cena gli hanno servito un piatto in cui i piselli sono entrati in contatto con la carne…

– Vedo che anche qualcun altro ha avuto una brutta giornata – lo interruppe Tyelkormo, – sei venuto a darmi il tormento anche tu?

– No – disse Morifinwë, rendendosi conto che se voleva aiuto era partito con il piede sbagliato. – Scusa – aggiunse, per andare sul sicuro. Poi ci ripensò: – Ma perché non va da papà, se ha bisogno di qualcosa?

– Moryo, dove hai abitato in questi ultimi dieci anni? – chiese Tyelkormo, – se c’è una cosa che quel bambino non farà mai è chiedere aiuto a papà e rischiare che la sua immagine ne venga sminuita.

Per un attimo Morifinwë si sentì molto solidale col piccolo, poi constatò: – La sua immagine non verrebbe sminuita nemmeno se desse fuoco al palazzo con noi dentro.

Tyelkormo sbuffò. – Sei qui per parlare di lui?

Morifinwë tacque e si guardò attorno, non sapendo da dove cominciare. La stanza di suo fratello era grande quanto la sua, ma decisamente più vuota. Nessuno degli interessi di Tyelkormo era cosa che si potesse chiudere in una camera. Libri e quaderni li aveva abbandonati appena aveva finito di ricevere ciò che sua madre chiamava “l’educazione base” e suo padre “il minimo indispensabile per essere chiamati Noldo”. Niente strumenti musicali, niente grandi armadi per contenere vestiti di rappresentanza necessari per gli incarichi ufficiali a corte. Sulla scrivania, un coltello da caccia a cui stava rifacendo l’impugnatura di pelle, un blocco da disegno con la copertina di cuoio, e qualche impennaggio di freccia.

Tyelkormo gli indicò la sedia e tornò a sedersi sul letto.

– Hai avuto ancora problemi con Angaráto? – gli chiese.

– Cosa? – domandò Morifinwë colto di sorpresa. Dal giorno della rissa, lui e Tyelkormo non erano più tornati sull’argomento. – No, no – lo rassicurò.

Ma il pensiero dell’Arafinwion gli riportò alla memoria ciò che aveva fatto alla gara di canoa, e questo non fece che aumentare il suo disagio. Tutto il discorso che si era preparato per convincere il fratello a dargli una mano evaporò dalla sua mente.

Ignorò la sedia e cominciò a passeggiare per la stanza.

– Devo continuare a fare domande finché non indovino? – chiese Tyelkormo. – Sai, penso che una doppia razione di problematici fratelli minori in una sola sera vada oltre le mie capacità di sopportazione. Perché non andate a scocciare Russandol, tanto per cambiare?

Per tutta risposta, Morifinwë si fermò di colpo davanti al fratello e buttò fuori: – Voglio partecipare alla Corsa del Cacciatore.

A parte interrompere la sua tirata, Tyelkormo non diede altro cenno di aver compreso le sue parole, così lui specificò: – Sono stato all’Oscuramento dello stagno, e voglio partecipare alla Corsa del…

– Frena, frena – lo interruppe il fratello, – ho capito quello che hai detto. Mi sto solo domandando se non ti abbia dato di volta il cervello.

– Lo sapevo! – Morifinwë alzò le mani in un gesto a metà tra la rassegnazione e l’invito al fratello di andarsene anticipatamente a Mandos, e si diresse alla porta. – Non ti faccio perdere altro tempo.

Ma prima che potesse mettere mano alla maniglia Tyelkormo lo richiamò.

– Carnistir, aspetta – disse, e subito aggiunse: – Scusami, è stata una serata pesante.

Sentire Tyelkormo che si scusava era un evento così raro che Morifinwë pensò di avere ancora una possibilità di convincerlo. Tornò indietro, prese posto sulla sedia e prima che potessero subentrare altri ripensamenti, suoi o del fratello, gli disse di essere stato all’Oscuramento e di aver visto la Corsa. Gli raccontò di quanto fosse stato bravo Nordacil e di come tutto il pubblico l’avesse acclamato.

– C’era papà ad assistere – disse, alla fine.

Tyelkormo restò qualche istante in silenzio, poi domandò: – È ancora per la storia della canoa, vero?

– La canoa non c’entra nulla – disse Morifinwë, e si chiese se fosse davvero così. – Vorrei solo che papà…

Si interruppe. Come c’era finito a parlare di quelle cose con Tyelkormo? Non era quello il discorso che si era preparato.

– Vorresti che papà fosse orgoglioso di te – concluse per lui il fratello. – Lo capisco, ma…

– Vorrei che papà si accorgesse che esisto.

Ecco, l’aveva detto. Sentì il calore salirgli al viso, ma alzò il mento e serrò la mascella, per affrontare qualsiasi cosa stesse per uscire dalla bocca del fratello.

Ma Tyelkormo non fece commenti. Andò alla finestra e si sedette sul davanzale; diceva sempre che gli riusciva difficile pensare quando era chiuso tra quattro mura. Alle sue spalle il cielo rifletteva bagliori argentei, un vento leggero agitava i suoi capelli chiari.

– Non per tentare di farti desistere – disse poi, – ma cosa ti fa pensare che non otterresti l’effetto opposto, e sto parlando, ovviamente, di una figuraccia epocale, degna di essere immortalata in una delle canzonette che tanto piacciono a Findekáno? – Tyelkormo scosse la testa, – insomma, Moryo, la Corsa del Cacciatore è la gara più impegnativa tra tutte quelle dell’Oscuramento. Tanto per cominciare bisogna saper saltare su un cavallo in corsa…

– Quello lo so già fare.

– Poi devi afferrare al volo una… Cosa, scusa?

– Sono settimane che mi sto allenando. So saltare sul cavallo, riesco quasi sempre ad afferrare la lancia, e il più delle volte sono in grado anche di colpire il bersaglio. Mi manca solo qualcuno che mi faccia da Lanciere.

– Ti stai allenando da settimane? – Tyelkormo scandì le parole come se avesse dimenticato come si mette insieme una frase. – E io che credevo andassi a bighellonare col tuo nuovo amico. Per tutti i Valar, l’hai proprio presa sul serio.

E il fratello, poco ma sicuro, doveva saperne qualcosa riguardo al prendere sul serio un allenamento. Quando era poco più giovane di Morifinwë aveva dovuto affrontare una dura selezione per essere ammesso al seguito di Oromë ed essere addestrato come Cacciatore. Molti ragazzi e ragazze che avevano affrontato la selezione con lui erano figli di Nati all’Est che si preparavano da sempre per quel momento. Alla fine, come non mancava mai di ricordare a tutti, era risultato il migliore del suo anno ed era stato allenato da Oromë in persona.

Era la cosa di cui suo fratello andava più fiero.

Morifinwë pensò di aver trovato l’esca giusta: l’Oscuramento era letteralmente pieno di Nati all’Est.

– Suvvia Tyelko – lo esortò, – non dirmi che non ti piacerebbe esibirti davanti a un pubblico di quel genere.

L’altro si girò a mezzo verso l’esterno e lasciò vagare lo sguardo sul giardino sotto di lui. Inspirò profondamente l’aria della sera, borbottando qualcosa a proposito di un disastro annunciato e del pentirsene per tutta la vita.

Quando finì di contrattare con sé stesso, e Morifinwë notò che ci mise un tempo sorprendentemente breve, Tyelkormo batté le mani, si sfregò i palmi e balzò giù dal davanzale.

– Bene! – esclamò, – dopotutto sei venuto dalla persona giusta. Nessuno lancia come me, sia per forza che per precisione! Ti ho mai raccontato di quella volta…

Morifinwë lo lasciò parlare e sorrise tra sé. Aveva l’impressione che presto suo fratello avrebbe dovuto ridimensionare l’alta opinione che aveva delle proprie capacità.



 

Il pomeriggio successivo Tyelkormo lo accompagnò al campo di prova.

Invece di prendere la via Ezellohar come faceva Morifinwë quando andava alla fattoria, tagliarono la pianura in diagonale per raggiungere l’area di allenamento da nord. Tyelkormo diceva sempre che preferiva viaggiare lontano dalle strade più battute, “immerso nella natura selvaggia”, per usare le sue parole. Non che ci fosse alcunché di selvaggio nei campi coltivati e nelle distese d’erba della Piana Dorata.

Un’altra cosa a cui bisognava abituarsi, quando si viaggiava con Tyelkormo, era la presenza di animali che puntualmente si mettevano al suo seguito non appena si lasciava la città. Quel pomeriggio si erano uniti a loro due cagnolini a chiazze bianche e nere che correvano tra le zampe dei loro cavalli, mentre in alto nel cielo un falco tracciava cerchi sopra le loro teste, lanciando di quando in quando un richiamo acuto.

Tuilë, la stagione della rinascita, era giunta all’apice. I prati erano ricoperti da un folto manto di morbida erba che pareva essere bagnato dalle rugiade del Corollairë stesso, tanto splendente era il suo verde. Boccioli bianchi e rosa rivestivano i rami degli alberi nei frutteti, e i germogli spuntavano nei campi coltivati come perle di smeraldo sulla terra bruna.

L’aria era così tersa che Morifinwë individuò il campo di allenamento quando erano ancora a un miglio di distanza. L’albero solitario a cui era appeso il bersaglio emergeva dal profilo dei covoni che delimitavano il lungo rettilineo e la doppia curva finale.

Non ci volle molto che riuscì a distinguere anche Hellë. Si era procurata una decina di lance e le stava piantando nel terreno a metà del percorso. Dava loro le spalle, ma Morifinwë sapeva che doveva essersi accorta della loro presenza già da un pezzo. Non per la prima volta, provò una profonda soddisfazione nel pensare che quella donna, che nessuno avrebbe mai potuto cogliere di sorpresa, dotata di capacità straordinarie e di enorme esperienza, spendeva il suo tempo per dedicarsi a lui e al suo addestramento.

Morifinwë guardò il fratello. Non voleva perdersi la prima reazione di Tyelkormo alla vista della sua istruttrice. Di proposito non gli aveva detto niente di lei: né che era una Nata all’Est, né che era stata una Cacciatrice, e neppure che era una donna.

Ma con enorme sorpresa scoprì che Tyelkormo non stava affatto guardando Hellë: stava fissando lui con aria sbalordita.

– Che c’è? – domandò, passandosi una mano tra i capelli, immaginando che la cavalcata li avesse resi un disastro peggio del solito.

– Stai sorridendo – osservò il fratello.

Morifinwë si accorse che era così. – E allora?

– E allora? – ripeté Tyelkormo, – l’ultima volta che ti ho visto sorridere ti tenevo ancora in braccio.

Morifinwë non seppe cosa ribattere, e finì che arrivarono al campo senza più parlare.

I cagnolini con cui avevano viaggiato raggiunsero Hellë per primi, le saltellarono attorno scodinzolando, si presero una buona dose di carezze e si lanciarono di corsa in campo aperto. Quando loro smontarono da cavallo, erano già fuori vista.

Senza attendere di essere presentato, Tyelkormo offrì la mano alla donna con la sua consueta disinvoltura.

Morifinwë rimpianse di non aver preparato Hellë all’incontro col fratello selvaggio e si rassegnò, mortificato, ad ascoltare una delle sue battute di spirito, tipo: “Sono qui per salvare la situazione” o, peggio, “Ho sentito che avete bisogno di qualcuno che sappia maneggiare una lancia”.

Ma non appena le loro mani si toccarono Tyelkormo rimase come bloccato, e dalla sua bocca semiaperta non provenne alcun suono. I suoi occhi si strinsero per un attimo, poi si spalancarono e caddero sul bracciale di Hellë.

La donna mantenne la sua espressione neutra, anche se Morifinwë notò il leggero tremolio delle palpebre di quando era intenta a estendere le percezioni.

– Sei uno dei ragazzi di Oromë – disse lei, stringendo la mano al fratello.

Tyelkormo si riscosse e tornò a guardarla in viso.

Erano alti quasi uguali e sebbene Tyelkormo fosse notevolmente più robusto, a vederli lì, uno di fronte all’altra, Morifinwë ebbe la strana impressione che in qualche modo si somigliassero. Eppure non potevano essere più diversi: lui con quella massa di capelli chiarissimi arruffati dalla cavalcata e quel viso che mostrava in tempo reale tutto ciò che gli passava per la testa. Lei austera, scura, imperscrutabile.

– Lo sono stato, signora – disse il fratello chinando leggermente il capo. Morifinwë non lo aveva mai visto esprimere tanto rispetto per qualcuno.

– Mi chiamo Hellë – si presentò lei, – non c’è bisogno del “signora”.

– Ma… – Tyelkormo esitò, e lui capì che quello che aveva scambiato per rispetto era qualcosa di più. Era soggezione. – Ma sei una Cacciatrice dell’Est – concluse.

– Lo sono stata – disse lei.

Il fratello si aprì in un sorriso dolce, quasi imbarazzato, del tutto diverso dal suo tipico ghigno da seduttore, ma forse, proprio per questo, ancora più affascinante.

– Io sono Tyelkormo – disse, – il fratello di Moryo.

E io sono quello venuto male, pensò Morifinwë.

Dire che accanto a quei due si sentiva fuori posto non rendeva nemmeno lontanamente l’idea dello spaventoso senso di inadeguatezza che stava provando. Si chiese, per la centesima volta, se non avesse fatto male ad aver coinvolto il fratello.

A peggiorare le cose Hellë, terminate le presentazioni, non perse tempo a salutarlo e lo indirizzò verso l’inizio del percorso come se volesse toglierselo di torno il prima possibile, con una casuale spintarella sulla schiena.

Solo che Hellë – e lui avrebbe dovuto ricordarselo – non faceva mai niente di casuale. Infatti, mentre Morifinwë si incamminava al suo posto maledicendo le sue mancanze, sé stesso, il destino e pure il fratello, lei si chinò sulla sua spalla e sussurrò: – Non tutto l’oro brilla, Carnistir.

Poi, come se niente fosse, come se non avesse detto le esatte parole che Morifinwë aveva bisogno di sentirsi dire, come se non avesse piantato nel suo cuore la certezza di essere apprezzato, aggiunse a voce più alta: – Forza, Moryo, vai in posizione.

Morifinwë fece come gli veniva detto. Cercò di liberare la mente da tutto ciò che non riguardava la Corsa, prese dei lunghi respiri per regolarizzare il battito del cuore, e visualizzò nella sua testa ogni singolo movimento che si apprestava a compiere, come gli era stato insegnato. Fece un paio di salti al volo su Morvail per riscaldarsi, poi prese il suo posto all’interno del circuito per provare l’intera gara.

Fu Hellë a effettuare il primo lancio, per mostrare a Tyelkormo come si aspettava che venisse eseguito, e Morifinwë rischiò di schiantarsi contro il covone che delimitava la prima curva pur di non perdersi l’espressione sbalordita del fratello davanti all’incontestabile abilità della ex-Cacciatrice.

In seguito, la donna si limitò a dare a Tyelkormo consigli su come calibrare la forza in modo che la lancia arrivasse tra le mani di Morifinwë con la giusta precisione e con la velocità ottimale. Troppo veloce, e lui non sarebbe riuscito ad afferrarla, troppo lenta e lui sarebbe stato costretto a imboccare la doppia curva in ritardo. Una spanna più a destra, e l’arma sarebbe stata fuori dalla sua portata, una spanna più a sinistra, e gli avrebbe trafitto la spalla.

Fortunatamente Tyelkormo era davvero l’abile atleta che si vantava di essere e, dopo un’ora di lavoro sotto la supervisione di Hellë, cominciò a lanciare in modo quasi indistinguibile da lei. Considerato che dall’abilità del fratello dipendeva il suo successo, se non addirittura la sua vita, Morifinwë ne fu molto sollevato.

Ma ciò che lo rese ancora più felice, e che lo fece bruciare di orgoglio di sé, fu vedere la sorpresa e l’ammirazione sul volto di Tyelkormo quando si rese conto che Morifinwë sapeva davvero saltare su un cavallo in corsa, e che il più delle volte riusciva ad afferrare la lancia senza lasciarsela sfuggire, a infilare le due curve senza scivolare da cavallo, e a tirare al bersaglio senza mancare il tabellone.

Considerato tutto, fu un pomeriggio proficuo. Non cadde nemmeno una volta e in una singola memorabile occasione colpì il bersaglio esattamente nel centro. Un risultato eccellente, dovuto forse al fatto che quel giorno non era lui quello sotto giudizio, quello su cui si concentrava tutta l’attenzione di Hellë, e non era quindi gravato del carico delle aspettative.

O forse c’entravano quelle parole sussurrate, che tanto significavano per la sua fiducia in sé stesso. Non tutto l’oro brilla, Carnistir.

Quando le campane suonarono undici rintocchi, Hellë dichiarò finito l’allenamento. Morifinwë sapeva che a quell’ora i suoi compiti la richiamavano alla fattoria, e infatti la donna non si dilungò in saluti.

Strinse la mano a Tyelkormo: – Ottimo lavoro, Lanciere.

– È stato un onore – rispose il fratello.

A lui disse: – A domani, Carnistir.

Poi voltò loro le spalle e andò a recuperare le lance, prima di imboccare il sentiero che riportava alla fattoria.



 

Morifinwë e Tyelkormo ripresero la strada che avevano fatto all’andata, ma decisero di fare il primo tratto a piedi per far riposare Morvail e perché nessuno dei due aveva fretta di rientrare tra le mura di casa. Fatti pochi passi, il falco ricomparve sulle loro teste e i cagnolini sbucarono da chissà dove per scodinzolare al loro seguito.

Tyelkormo era insolitamente silenzioso e, cosa ancora più strana, continuava a lanciargli occhiate di traverso, cercando di non farsi notare.

– Sputa il rospo – gli disse Morifinwë, quando fu stufo di essere scrutato come se gli fossero cresciute due teste.

– Ti ha chiamato Carnistir.

– Grazie tante. È il mio nome.

Tyelkormo fece una smorfia: – E quante persone, al di fuori della famiglia, conoscono il tuo amilessë?

Morifinwë cominciò a contare. E finì subito.

– Nessuno – ammise.

Dopo un breve silenzio, Tyelkormo sentenziò: – Hai una cotta per lei.

Morifinwë non disse nulla, ma fu come se avesse risposto.

– Lei lo sa? – insistette il fratello.

Lui fece un cenno affermativo con la testa. Poi uno negativo.

– Più o meno – disse. – Sa che sono attratto da lei, non le ho parlato di… – cercò la parola giusta. Gliene venne soltanto una: – innamoramento, o roba del genere. L’ho trovato meno complicato.

Si preparò a sopportare le prese in giro del fratello su quanto fosse patetico innamorarsi di una donna come quella, sbagliata per lui sotto tanti di quei punti di vista che si faceva fatica a elencarli.

Ma l’altro disse: – E lei come ha reagito?

– Ha detto che mi passerà. Che sono solo un ragazzino, basta aspettare e col tempo passerà.

Tyelkormo lo guardò incuriosito. – E funziona? Aspettare? – Sembrava sinceramente interessato alla risposta.

– Neanche un po’ – rispose lui. – Si riesce a tenere a bada l’attrazione, il più delle volte, ma il sentimento è un’altra cosa.

– Lo sospettavo. Che intenzioni hai?

Morifinwë non rispose, c’era un limite a ciò che voleva condividere col fratello riguardo la sua vita privata e l’aveva già sorpassato da un pezzo. E comunque, non avrebbe saputo come rispondere nemmeno se avesse voluto.

– Ho intenzione di partecipare a quella gara – disse, per chiudere il discorso, – e di evitare di essere immortalato in una delle canzonette di Findekáno.

Tyelkormo scrollò le spalle e scoppiò a ridere. Era impressionante la velocità con cui riusciva a cambiare umore.

Dopo qualche istante iniziò a canticchiare:

Il torneo ha un gusto amaro
per il figlio di Fëanáro
che arrivando impreparato
picchia duro sul selciato.
Che dolore, il Cavaliere!
Ce l’ha dritto nel…

– Deficiente – lo interruppe lui, ma siccome il buonumore di Tyelkormo era contagioso, intonò:

Un Lanciere che fa orrore
fa sbagliare anche il migliore

Tyelkormo rise ancora e ribatté:

Un Lanciere col mio aspetto
tutte le fanciulle si porta a letto

Morifinwë contò le sillabe. – Troppo lungo – obiettò.

– Sì, me l’hanno detto in molte – confermò Tyelkormo.

Lui scosse la testa ma non poté fare a meno di sorridere alla battuta.

Col mescolarsi delle luci si sollevò una brezza leggera, che portò con sé il profumo degli alberi in fiore. Il grido del falco tagliò l’aria un’ultima volta, poi il rapace svanì all’orizzonte. Era tempo di rientrare anche per loro. Morifinwë si accucciò a salutare i due cagnolini e Tyelkormo ne approfittò per scompigliargli i capelli. Lui gli allontanò la mano senza troppa convinzione.

Poi montarono a cavallo e si lanciarono al galoppo verso casa.



 

 


NOTE

Grazie a chi ha letto!

Nomi canonici, conversione Quenya - Sindarin
Morifinwë, Moryo, Carnistir = Caranthir
Curvo, Curufinwë = Curufin
Tyelkormo (qui chiamato anche Tyelko) = Celegorm
Russandol (qui chiamato anche Russa) = Maedhros
Makalaurë (qui chiamato Laurë) = Maglor
Angaráto = Angrod
Arafinwion = figlio di Arafinwë, cioè di Finarfin
Fëanáro = Fëanor
Findekáno = Fingon

Personaggi di mia invenzione
Káino, il migliore amico di Morifinwë
Morvail, il cavallo di Morifinwë

Nomi di mia invenzione
Via Ezellohar, principale strada di collegamento tra Tirion e Valmar
Piana Dorata, ampia pianura tra Tirion e Valmar

Nomi canonici usati non-canonicamente
Tuilë, la stagione paragonabile alla nostra primavera



 

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Capitolo 23
*** La variante Hellë ***



23

La variante Hellë

(o quando vai a un passo dal rovinare tutto, ma proprio tutto)


 

A inizio Lairë, la stagione del raccolto, quando i pascoli si tinsero di un verde più carico e i rami si curvarono sotto il peso dei primi frutti, quando nella Piana Dorata le tiepide brezze lasciarono il posto a una soffocante aria immota e il ronzio degli insetti divenne un sottofondo incessante, Morifinwë, approfittando del fatto che le lezioni con i suoi insegnanti erano sospese, cominciò ad allenarsi anche di mattina.

Hellë, che con l’arrivo della bella stagione era ancora più impegnata nelle attività della fattoria e non poteva dedicare a Morifinwë più tempo di quanto già facesse, incaricò Tyelkormo di prendere il suo posto. Il fratello accettò con entusiasmo, dimostrando così che anche lui sentiva il bisogno di esercitarsi nel ruolo di Lanciere, nonostante non perdesse occasione per negarlo.

Anche Káino, finalmente libero dalla scuola, prese l’abitudine di frequentare il campo di mattina, forse perché aveva la possibilità di assistere alla gara così come si sarebbe svolta il giorno dell’Oscuramento, o forse perché con Tyelkormo c’erano più occasioni per scherzare e divertirsi rispetto a quando a dirigere l’allenamento era l’ex-Cacciatrice.

E così, di mattina Morifinwë provava la Corsa senza la tensione di essere sotto giudizio, in un clima rilassato e disteso, talvolta persino divertente, mentre di pomeriggio si perfezionava, senza alcuna distrazione, sotto l’occhio vigile di Hellë che, con l’avvicinarsi della gara, diventava sempre più severa ed esigente.

Per Morifinwë era la situazione ideale.

E continuò a esserlo finché non cominciò ad accorgersi che, nonostante l’intensificarsi dei suoi sforzi e l’aumento delle ore dedicate a esercitarsi, non stava più migliorando. I suoi progressi si erano fermati, era arrivato al suo massimo.

E il suo massimo non bastava.

Il giorno in cui se ne rese conto, fu quello in cui rischiò di perdere tutto.

Si avvicinava il secondo mescolarsi delle luci, e lui e Hellë si preparavano a lasciare il campo di allenamento. Era stato un pomeriggio particolarmente buono, in cui Morifinwë era riuscito diverse volte a eseguire l’intera Corsa in modo quasi perfetto. Ma questo, lungi dal rallegrarlo, l’aveva messo di fronte alla dura realtà: la sua “perfezione” poteva forse permettergli di non sfigurare tra gli altri concorrenti, ma era lontanissima da quella del campione in carica.

– Siamo realistici, non ce la farò mai! – esclamò, estraendo la lancia dal centro del bersaglio, – anche se riuscissi a eseguire tutto alla perfezione, non potrei mai farlo più velocemente di Nordacil.

Doveva guardare in faccia la realtà: sapeva saltare su Morvail in modo quasi impeccabile, sapeva afferrare la lancia al momento giusto (complice il fatto che sia Hellë che Tyelkormo erano dei lanciatori eccezionali), sapeva cavalcare speditamente tra le curve senza sbavature e riusciva, il più delle volte, a colpire il bersaglio nel centro. Si era persino allenato con un velo traforato davanti agli occhi, per simulare il fatto che avrebbe dovuto gareggiare alla fioca luce delle stelle.

Ma se ripensava alla gara di Nordacil – e non era difficile, visto che ce l’aveva impressa nella memoria come se vi avesse assistito il giorno precedente – si rendeva conto di non avere alcuna speranza. La mossa chiamata “variante Nordacil”, che permetteva al campione in carica di afferrare la lancia senza deviare dal percorso più diretto e di tirare al bersaglio appena entrato nello slargo finale, faceva guadagnare al ragazzo un vantaggio che Morifinwë non sarebbe mai riuscito a colmare.

– Credevo non ti importasse vincere – disse Hellë, incamminandosi al suo fianco verso la fattoria, – ma solo arrivare tra i finalisti per esibirti davanti a tuo padre e fare una buona impressione. Per questo risultato, ciò che sai fare è sufficiente.

Era vero. Partecipare senza fare una brutta figura era stato il suo obiettivo quando aveva cominciato ad allenarsi. Eppure, adesso che era riuscito ad arrivare fin lì, Morifinwë scoprì che non gli bastava più.

– Hai lavorato molto bene – continuò la donna, – hai un Lanciere perfetto, hai un cavallo che percepisce ogni tua minima esitazione e vi si adegua, hai un’ottima mira. Riuscirai a gareggiare con onore davanti a tuo padre.

– Lo so, lo so! – esclamò Morifinwë, al colmo dell’esasperazione. – Hai ragione. È solo che vorrei, per una volta soltanto, essere il migliore di tutti.

– Essere il migliore di tutti non è questa gran cosa – commentò lei, con voce piatta.

Forse la ex-Cacciatrice parlava per esperienza personale, ma per Morifinwë le cose stavano diversamente.

– Può darsi – ribatté, – ma mi piacerebbe scoprirlo da solo.

Hellë si fermò. Le sue labbra si tesero in una piega più severa del solito. Il suo sguardo assorto passò da Morifinwë a Morvail, percorse l’intero circuito e si arrestò su un punto lontano, forse il bersaglio, forse qualcosa di ancora più distante che vedeva lei sola. Rimase in silenzio tanto a lungo che Morifinwë cominciò a pensare che si fosse persa nei suoi antichi ricordi. Alla fine disse: – Un modo ci sarebbe.

Diede due colpetti a mano aperta sul collo di Morvail, che tornò al punto di partenza, e indicò a Morifinwë la postazione dei Lancieri.

– Vai laggiù – gli disse, senz’altre spiegazioni, – e quando ti dico tira, tira.

Poi tornò al centro del campo.

Morifinwë non ebbe nemmeno il tempo di rendersi conto che quella sarebbe stata la prima volta che avrebbe visto Hellë eseguire l’intero percorso. Appena la donna giunse in posizione, Morvail cominciò a galoppare verso di lei, con un’andatura molto superiore a quella che teneva quando si allenava con Morifinwë.

In un balzo Hellë gli fu in groppa.

– Tira! – gridò, e lui obbedì. Non fu un tiro molto preciso, ma lei si portò sulla traiettoria esatta per prendere al volo la lancia.

Poi successe l’incredibile.

Hellë entrò nella prima curva richiamando i piedi sotto di sé e si accucciò sul dorso del cavallo. Morvail scartò a sinistra per entrare nella seconda curva e lei, senza perdere l’equilibrio, ruotò il corpo a destra, in direzione della parte finale del circuito. Appoggiò un ginocchio sulla schiena di Morvail. caricò il braccio della lancia e tirò. Da dentro la curva.

Quando uscì nello slargo finale, la lancia aveva già colpito il bersaglio da un pezzo. Neanche a dirlo: nel centro.

Hellë proseguì per recuperare la lancia e tornò da Morifinwë. Scese da cavallo e congedò Morvail con una carezza sul collo.

Lui era rimasto senza parole davanti a quell’esibizione straordinaria.

E anche parecchio irritato, a dirla tutta. Furioso, quasi. Per quale assurdo motivo Hellë aveva voluto mandare in pezzi le poche certezze che gli rimanevano, mostrandogli una cosa che lui non sarebbe mai riuscito a fare, nemmeno se si fosse allenato cent’anni?

Ma la donna era chiaramente di un altro parere, perché cominciò a spiegagli ciò che avrebbe dovuto fare come se fosse stata una lezione normale.

– Se riesci a lanciare mentre sei ancora in curva, anche se non sarai veloce come Nordacil, potrai recuperare abbastanza tempo per tentare di batterlo – gli disse. – E l’unico modo per lanciare con sufficiente forza da così lontano, è mettersi di traverso sul cavallo, col corpo rivolto al bersaglio.

Si batté una mano sul petto e mimò il gesto di lanciare dritto davanti a sé.

– Stai scherzando, vero? – le chiese Morifinwë, trattenendosi a stento dal gridare.

– Lo so che è difficile – cominciò lei, e l’impercettibile ruga che le comparve tra le sopracciglia gli disse che la donna non capiva il motivo della sua reazione, e questo lo fece infuriare ancora di più.

– Difficile? – urlò Morifinwë, – è dannatamente impossibile!

Gettò via la lancia che lei gli aveva riconsegnato. – Non riuscirò mai a fare quello che hai fatto tu! Ma come puoi pensare che io possa… Oh, maledizione, non capisco nemmeno perché tu abbia voluto mostrarmelo.

– Perché hai detto che vuoi vincere – cominciò lei, – e questa è l’unica possibilità che hai. Non riuscirai a diventare più veloce nel poco tempo che ti rimane, ma puoi provare un metodo diverso.

Hellë gli si avvicinò e gli mise una mano su una spalla. Il contatto prese Morifinwë così di sorpresa che per un istante dimenticò la sua rabbia.

– Carnistir, non ha senso rinunciare prima ancora di aver provato.

Morifinwë chinò il capo. Nel sentirla così vicina, alta e sicura, si sentì piccolo e si vergognò del suo stupido sfogo infantile. Annuì.

– Fammelo rivedere – borbottò. – Però più piano.

Lei lo accontentò e ripeté il tutto più volte, commentando i vari passaggi ad alta voce perché lui potesse comprenderli meglio e memorizzarli. Morifinwë osservò con attenzione ogni movimento e lo ripeté nella mente come quando faceva gli esercizi di previsualizzazione. Alla fine si sentì abbastanza sicuro, o abbastanza folle, da provare.

Hellë gli fece le ultime raccomandazioni e si portò alla postazione dei Lancieri.

Morifinwë diede il via alla corsa cercando di ignorare il cuore che gli martellava contro le costole. Balzò a cavallo e mancò poco che si facesse sfuggire la lancia, aveva le mani che tremavano leggermente e i palmi sudati.

All’ingresso in curva Morvail rallentò l’andatura, come se sapesse che il suo cavaliere aveva bisogno di più stabilità. E probabilmente lo sapeva davvero, dato il profondo legame che li univa in quel momento. Morifinwë raccolse le gambe sotto di sé e si accucciò sul suo dorso. Imboccò la seconda curva. Ma nel passaggio dalla posizione accucciata a quella inginocchiata di traverso, un piede gli restò incastrato a metà della rotazione e lo fece scivolare.

Cadde da cavallo, urtò la parete di paglia che delimitava il circuito e venne sbalzato fuori dalla pista. Non ebbe la prontezza di riflessi di mollare la lancia, e quando colpì il suolo l’impugnatura dell’asta gli finì nel fianco. Con la faccia a terra, sentì il terreno tremare sotto gli zoccoli di Morvail che terminava la corsa da solo.

Cercò di tirarsi su e si accorse che qualcuno lo stava già aiutando.

Hellë si era precipitata accanto a lui. Le sue mani forti lo tirarono su di peso da terra e lo fecero sdraiare sulla schiena. – Non muoverti – gli disse. Gli sollevò la camicia e gli passò le dita sulle costole, dove era stato colpito dal legno, premendo leggermente. Lui sibilò a denti stretti.

– Niente di rotto – constatò la donna, con voce colma di apprensione, quasi irriconoscibile, – solo una botta.

Infuriato per l’insuccesso e l’umiliazione, Morifinwë si trovò con la camicia arrotolata sul petto e le mani di lei sulla pelle nuda. Il desiderio, che pensava di aver tenuto sotto controllo, riemerse come se non fosse passato un solo istante dalla sera in cui l’aveva tenuta tra le braccia, mescolato con la vergogna per l’inadeguatezza del suo fisico. E questo lo fece arrabbiare ancor più del suo fallimento.

– Non ci riuscirò mai! – gridò, e con un gesto stizzito allontanò le mani di Hellë, si rimise a posto la camicia e si tirò a sedere.

– Tutto si può imparare, Morifinwë – disse lei, con fermezza. – Sono solo movimenti del tuo corpo, e il tuo corpo lo puoi dominare con questa – aggiunse, battendosi un indice contro la fronte.

– Tu la fai facile! – gridò lui di rimando. – Tu fai sempre tutto facile, ma quanto tempo hai avuto per imparare a fare quello che sai fare?

Davanti alla sua ostinazione anche l’impassibilità di Hellë cominciò a venire meno. – Non avevo neanche la tua età quando siamo partiti per la Grande Marcia – disse, – e nel giro di pochi anni avevo imparato tutto quello che so.

– Lo vedi? – esclamò lui. – Parli di anni! Anni solo per diventare un’esperta di…

Morifinwë andò con lo sguardo al bracciale di cuoio che le copriva il polso, un bersaglio come un altro su cui dirigere la sua rabbia.

– Cos’è? – domandò, indicandolo, – è la lancia, vero? Lanci meglio di Tyelkormo, deve essere quella la tua specialità.

Hellë serrò le labbra e gli offrì il polso.

– Avanti, slega – gli disse.

Morifinwë esitò, col respiro bloccato in gola, le dita già sui lacci. Un vecchio sogno legava quel gesto a qualcosa di intimo, qualcosa che non lo avrebbe aiutato a reprimere il desiderio che era appena tornato a farsi sentire.

La curiosità lottò contro la paura.

Morifinwë conosceva bene quello stato d’animo: sentimenti contrastanti che lo laceravano tirandolo dai due lati. Era lo stato d’animo che precedeva le decisioni sbagliate.

– Slega! – ripeté lei, che non poteva sapere la direzione che avevano preso i suoi pensieri.

Non trovando una scusa per rifiutarsi di fare ciò che gli veniva ordinato, Morifinwë allentò i lacci e fece risalire il bracciale lungo l’avambraccio, scoprendole il polso.

Non c’era il suo nome, lì sotto, come c’era stato nel suo sogno.

Ma nemmeno c’era il simbolo della lancia che si era aspettato di trovare.

Sulla pelle liscia e pallida della donna spiccava una lunga fila di sottili simboli neri che le circondavano il polso come fosse un secondo bracciale, fatto d’inchiostro invece che di cuoio.

C’era la lancia. E il coltello. E l’arco. La mano aperta. E tanti, tanti altri che Morifinwë non sapeva riconoscere.

– Com’è possibile? – mormorò, con lo sguardo fisso sul polso di Hellë.

E prima che lei potesse rispondere, a Morifinwë fu chiaro il motivo che aveva spinto la donna a mostrarglieli: se in pochi anni lei aveva imparato a eccellere in tutte quelle discipline, di certo lui sarebbe stato in grado di imparare quattro banali movimenti nelle poche settimane che gli restavano prima della gara.

Ma capì anche molto di più.

Capì perché li teneva nascosti.

Tornò a quella sera, la sera del ballo, la sera in cui lei gli aveva confessato di non essere riuscita a difendere chi amava. La vide come doveva essere stata nei tempi antichi: una Cacciatrice straordinaria, e straordinariamente sicura di sé – se era vero ciò che il nonno gli aveva detto a proposito di chi si faceva tatuare – magari un po’ spaccona, come Tyelkormo, che aveva dovuto imparare nel più duro dei modi che anche lei poteva fallire.

Morifinwë non poteva immaginare in quale occasione le sue incredibili capacità l’avessero tradita, ma sapeva che, quando era successo, il disastro era stato insanabile, e la vergogna e il rimorso insostenibili. Perché la donna li provava ancora adesso, dopo centinaia di anni. Adesso che viveva un’altra vita in un mondo nuovo.

E lui riusciva a sentirli, come se li stesse provando sulla sua pelle.

Morifinwë sfiorò con il pollice la fila di simboli. C’era intimità in quel tocco. Ma non quella del suo sogno, fisica, carnale. Era qualcosa di molto più profondo. Era un’intimità di pensiero, un grado di comprensione che lui non aveva mai sperimentato con nessuno.

La sentì tremare ed ebbe il coraggio rialzare lo sguardo.

Hellë aveva gli occhi chiusi, ciglia nere macchiavano il candore della sua pelle come cicatrici mai rimarginate a dovere. Il volto immobile, non un suono usciva dalle sue labbra socchiuse. Non un respiro.

Tramite il legame di spiriti che stavano condividendo, Morifinwë percepì chiaramente quanto lei fosse stata presa alla sprovvista da ciò che stava accadendo.

Hellë gli aveva permesso di vedere i suoi tatuaggi per incoraggiarlo, per dimostrargli che ogni traguardo si può raggiungere, che ogni gesto atletico si può imparare e che non bisogna mai perdersi d’animo.

Invece si era trovata a mostrare cose di sé che non era pronta a condividere. Inadeguatezza, rimorso, senso di colpa. Disperazione.

Morifinwë voleva dirle parole di conforto. Voleva dirle che la vita andava avanti, che tutto si poteva superare, che aveva già pagato abbastanza per i suoi errori. Voleva dirle che si sarebbe preso cura lui di lei, che renderla felice sarebbe diventato il suo scopo nella vita. Fu preso dall’irresistibile impulso di portare il suo polso alle labbra, per suggellare la promessa, per dimostrarle la sua devozione.

Era un desiderio fisico, ma non solo; era un’unione di spiriti quella che bramava. C’era un canale tra le loro menti che nessuno dei due aveva avuto l’intenzione di aprire, ma che aspettava solo di essere attraversato.

– Carnistir – mormorò lei, e Morifinwë se lo sentì riverberare in ogni particella del proprio corpo.

– Carnistir. Ti prego.

Lui si sforzò di aprire la mano per lasciarle andare il polso, e allo stesso tempo di chiudere la mente. Non aveva mai dovuto fare niente di così difficile.

Ma doveva riuscirci. Hellë aveva detto soltanto “ti prego”, ma lui aveva sentito anche quello che veniva dopo: Ti prego, non costringermi ad allontanarti.

Le aveva fatto una promessa tanto tempo prima, sulla loro panchina nel frutteto. Le aveva assicurato che non l’avrebbe mai messa a disagio con i suoi sentimenti inopportuni. Le aveva giurato che se non fosse riuscito a dominarsi si sarebbe allontanato da solo.

Doveva tenervi fede, altrimenti avrebbe rovinato tutto.

Con enorme fatica rimise il bracciale sul polso e con dita malferme annodò i lacci. Poi, con uno sforzo ancora maggiore, si ritirò in sé stesso e chiuse la mente.

– Perdonami – disse. – Non accadrà più.

Si alzò in piedi. Una fitta al fianco, regalo della caduta, spezzò il movimento in due.

Lei non provò ad aiutarlo. Si alzò a sua volta e fece un passo indietro. Il viso era di nuovo una maschera di compostezza. Lo sguardo, imperscrutabile.

– Non hai niente di cui scusarti – disse, – è stata colpa mia. Volevo solo mostrarti che ce la puoi fare, così come ce l’ho fatta io molti anni fa. – Un’esitazione, poi: – Non immaginavo fino a che punto…

– Ho capito – la interruppe Morifinwë, che non voleva sentirsi dire quanto fosse patetica la sua stupida cotta adolescenziale. – E hai ragione, come sempre. Posso imparare.

Si scosse di dosso la terra, respirò a fondo per verificare lo stato delle sue costole. – A lamentarmi perdo solo tempo.

Richiamò Morvail e lo condusse all’inizio del circuito.

Non poteva rinunciare. Non dopo quello che era appena successo.

C’era un solo motivo per cui la persona più riservata di tutta Arda si era aperta a quel modo con lui, rischiando di mostrare cose di sé che teneva sepolte con cura nel profondo del cuore, ed era perché lui potesse raggiungere l’obiettivo a cui tanto teneva.

Hellë si era messa in gioco per lui, gli aveva dato tutto quello che poteva, e anche di più.

Non l’avrebbe delusa.



 

Quando, una decina di giorni dopo, Tyelkormo vide per la prima volta Morifinwë tirare al bersaglio da dentro la curva semi inginocchiato sul dorso del cavallo, per poco non si strozzò con un boccone della mela che stava mangiando. Se il piccolo Curvo si fosse messo a declamare in versi le lodi dell’ozio davanti al padre, il fratello non avrebbe avuto un’espressione più sorpresa.

– Che Mandos mi prenda! – tossì, lanciando ciò che rimaneva della sua mela in direzione di Káino e correndo incontro a Morifinwë. Káino schivò il torsolo e fece altrettanto.

I due si complimentarono con lui e con Morvail, pacche sulle spalle per il Cavaliere, carezze dietro le orecchie per il cavallo, parole d’elogio per entrambi.

– La chiameranno “Variante Moryo” – esclamò Káino, entusiasta.

– Se mi riesce – disse Morifinwë, – se no la chiameranno “Buffonata Del Secolo”.

– Hai abbastanza tempo per perfezionarti – lo incoraggiò Tyelkormo, e lo sorprese aggiungendo: – E poi ci sono qui io per aiutarti.

Non diceva tanto per dire. Da quel giorno Tyelkormo lo prese sotto la sua ala e non lo mollò più. Gli insegnò esercizi per migliorare la mira, per rinforzare i muscoli delle braccia, per affinare il suo equilibrio. Cambiò persino la sua dieta, facendogli mangiare molta più carne di quanta lui fosse abituato, e togliendogli tutti i dolci.

Káino, da parte sua, cominciò a non perdersi più neanche un allenamento al campo, né di mattina, né di pomeriggio, e a tenere statistiche quotidiane sui suoi risultati, incidendo tacche sulla staccionata dalla quale assisteva. Segni verticali se Morifinwë riusciva a portare a termine il percorso, orizzontali se cadeva durante il cambio di posizione, o colpiva il bersaglio troppo lontano dal centro.

La vigilia della gara, Káino gli comunicò che la variante Hellë gli riusciva ben nove volte su dieci, ponendo una marcata enfasi sul “ben”. Morifinwë non dubitava dei suoi conti, ma la loro interpretazione ottimistica non lo convinceva; per come la vedeva lui, “solo” nove volte su dieci suonava più corretto.

Quella notte Morifinwë dormì alla fattoria su una branda accanto al letto di Káino. L’indomani sarebbero dovuti partire al rifiorire di Laurelin, e Rowen li aveva fatti cenare prima e andare a letto presto.

Inutile dire che Morifinwë era lontano dal sonno quanto Endórë dalle sponde di Aman. Sdraiato nel letto, ascoltava i rumori della casa giungere attutiti da dietro la porta chiusa: i passi di chi si preparava per la notte, i tintinnii delle stoviglie che venivano riposte. Sentiva il respiro regolare di Káino che dormiva accanto a lui, e intanto si rigirava tra le lenzuola col pensiero che continuava a tornare a un’altra vigilia, quella in cui aveva ceduto alle sue paure ed era andato a sabotare la canoa di Angaráto. Capì di essere di nuovo alla ricerca di una scappatoia.

Questa volta, però, non era solo.

Si mise a sedere e allungò una gamba per dare un colpetto al letto dell’amico.

– Káino – chiamò, sottovoce.

– Mmh? – bofonchiò l’altro, stropicciandosi gli occhi e girandosi verso di lui.

– Come pensi che andrà? – chiese Morifinwë.

Káino si puntellò su un gomito e il suo sguardo si fece più attento.

– Onestamente? – disse. – Sei due volte meglio di Angandil anche se non fai la variante. Arriverai di sicuro tra i primi cinque.

– Non sto parlando di classifica – disse Morifinwë. La canzonetta di Tyelkormo non smetteva di risuonargli nella testa. Lo scenario che dipingeva lo terrorizzava.

– E se… – riprese, – e se mi faccio prendere dal panico e cado di fronte agli Anziani e a tutto il pubblico dell’Oscuramento, e a mio padre? Non avrei più il coraggio di farmi vedere in giro, né di tornare a casa.

– In quel caso dovremo procurarci una barca – disse Káino.

– Una barca? – esclamò Morifinwë.

– Per andarcene in Endórë – confermò l’amico con un sogghigno, – “Kainambárion e Morifinwë alla riconquista della terra perduta”, ricordi?

Morifinwë sorrise, suo malgrado.

– Ma vedrai che non succede – concluse l’altro, e si lasciò ricadere sul materasso.

Morifinwë restò a guardarlo per un lungo momento.

Il ragazzo sdraiato nel letto accanto al suo, con le palpebre chiuse dal sonno e ancora l’ombra di un sorriso sulle labbra, credeva in lui incondizionatamente. E questo era un pensiero confortante.

Ma ce n’era uno ancora più confortante, e a quello si aggrappò Morifinwë: anche se lui avesse perso la gara facendo una figura vergognosa, Káino non l’avrebbe mai abbandonato, né gli avrebbe negato la sua stima e la sua amicizia.

Con quel pensiero in testa si ridistese nella branda, si avvolse nelle lenzuola e chiuse gli occhi.

Morifinwë e Kainambárion – borbottò.

E si addormentò.

 


 


NOTE

Grazie a chi continua a seguire la mia storia, e un grazie particolare a chi me l’ha fatto sapere! ❤︎ Rispetto la riservatezza di chi legge sopra ogni cosa, ma sono anche troppo curiosa di sapere chi, al ventitreesimo capitolo, ancora non si è stancat* di Moryo e dei suoi amici ;-)

Nomi canonici, conversione Quenya - Sindarin
Morifinwë, Moryo, Carnistir = Caranthir
Tyelkormo = Celegorm
Curvo = Curufin
Angaráto = Angrod
Endórë = Terra di Mezzo

Personaggi di mia invenzione
Káino (diminutivo di Kainambárion), il migliore amico di Morifinwë
Morvail, il cavallo di Morifinwë
Nordacil, il campione in carica della Corsa del Cacciatore
Rowen, la fondatrice della fattoria, allevatrice di cavalli
Angandil, un concorrente della Corsa del Cacciatore

Nomi di mia invenzione
Piana Dorata, ampia pianura tra Tirion e Valmar

Nomi canonici usati non-canonicamente
Lairë, la stagione paragonabile alla nostra estate
 

Per chi fosse interessato, qui c’è la pianta del circuito con segnato il punto da cui lancia Morifinwë quando esegue la Variante Hellë.

 

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Capitolo 24
*** La Corsa del Cacciatore ***



24

La Corsa del Cacciatore

(o quando, finalmente, riesci a non farti sopraffare dalle tue paure)


 

L’Oscuramento dello stagno di Lairë era molto, molto più frequentato di quello di Ulvórë.

Morifinwë non se n’era accorto prima perché aveva passato tutta la sera nell’area riservata alle selezioni per la finale della Corsa del Cacciatore, dove non erano ammessi spettatori.

Ma ora, ai margini del Lago Lucente chiuso dal pavimento di legno e già allestito per la gara, notò che le due gradinate ai lati della pista si innalzavano ben più alte di come se le ricordava, e che il numero di spettatori radunatosi per assistere alla competizione era quasi il doppio della volta precedente.

Morifinwë si passò le mani sui pantaloni e liberò dai denti il labbro inferiore. Káino gli strinse un braccio quel tanto che bastava per ricordargli che non era solo, poi lo lasciò andare.

I due erano appena fuori dal circuito, nei pressi della pedana su cui presto sarebbe salito il giudice per dare inizio alla gara più attesa di tutta la serata. Con loro c’era un nutrito gruppetto di sostenitori. Torondo e Malagàl, coi quali erano rimasti in buoni rapporti dopo l’ultima edizione dell’Oscuramento, non vedevano l’ora di scatenarsi per incitare il loro nuovo amico. Arion e Huinion avevano rinunciato al consueto posto sulla torretta per stare accanto a Morifinwë e prendersi cura di Morvail, che si trovava tra loro accudito e vezzeggiato. E infine, ovviamente, c’era Tyelkormo, il suo Lanciere.

Per una volta il fratello aveva fatto lo sforzo di adeguare il suo abbigliamento a ciò che richiedeva la circostanza. Indossava la divisa dell’atleta – pantaloni chiusi alla caviglia e un gubbino senza maniche – e aveva imprigionato la sua voluminosa chioma in una lunga treccia, stretta e senza un capello fuori posto, molto simile a quella del loro fratello minore (talmente simile, in effetti, che Morifinwë si era chiesto se non gliel’avesse fatta lo stesso Curvo). Serio e concentrato come lui non l’aveva mai visto, Tyelkormo alle gare di selezione era stato in assoluto il Lanciere migliore di tutti.

Morifinwë riprese a torturarsi il labbro inferiore e risalì con lo sguardo l’affollata gradinata di sinistra finché non trovò, al centro, il gruppo degli Anziani. Voleva individuare il padre, ma la sua attenzione fu attratta da due alte figure avvolte in mantelli bianchi dai bordi d’argento, che spiccavano tra tutti gli altri vestiti di scuro.

Káino seguì il suo sguardo ed esclamò: – Ecco spiegato il perché di tutta questa folla! Ci sono due Rilasciati, oggi.

– Erano diversi anni che non se ne vedevano – disse Malagàl, – ormai molti hanno perso le speranze di ricongiungersi con i loro vecchi compagni caduti.

“Solo alcuni tornano tra noi”, gli aveva detto una volta il nonno parlando degli amici rimasti uccisi in Endórë, e quando Morifinwë aveva chiesto spiegazioni al suo insegnante di storia sul perché questo accadesse, aveva ricevuto in risposta solo vaghe ipotesi. La vista dei due biancovestiti, invece che rallegrarlo, gli apparve come un infausto presagio.

Ci pensò Tyelkormo a scacciare il malumore, a modo suo. – Occupiamoci di quelli che devono ancora cadere, per adesso – tagliò corto il fratello, piantando la lancia a terra a due dita dallo stivale di Morifinwë, e aggiunse con un sogghigno, – almeno finché restano tali.

Poi, in un istante, tornò serio e gli chiese: – Allora, cosa intendi fare?

Nonostante il brusco cambio di argomento, era chiaro a cosa si stesse riferendo.

Morifinwë aveva passato la selezione per arrivare tra i dieci finalisti senza dover ricorrere alla variante Hellë. Non aveva vinto tutte le gare, ma i suoi risultati erano stati più che sufficienti per fargli ottenere il diritto di gareggiare davanti al pubblico, agli Anziani e, cosa più importante, a suo padre.

Poteva farsi bastare quello. Avrebbe fatto una gara di tutto rispetto e non sarebbe nemmeno arrivato ultimo: alcuni degli altri nove concorrenti li aveva già battuti nelle prove eliminatorie.

Oppure poteva eseguire la variante Hellë per la prima volta e tentare di strappare il titolo di campione a Nordacil, che nelle gare di qualificazione aveva sconfitto tutti i suoi avversari. Il rischio era altissimo: l’acrobazia gli riusciva solo nove volte su dieci, e quando non riusciva il risultato era, invariabilmente, la caduta da cavallo, con la seria possibilità di farsi male e la certezza assoluta di fare la figura dell’idiota davanti a tutti.

Da quando aveva ottenuto il ciondolo a forma di cavallo che lo indicava come finalista, Tyelkormo aveva cercato in tutti i modi di convincerlo che non era il caso di sfidare la sorte. “Solo aver ricevuto questo” gli aveva detto riferendosi al ciondolo, “è un grande onore”. E più tardi aveva insistito: “con alcuni di loro te la puoi giocare, finiresti sicuramente tra i primi cinque”, confermando, senza saperlo, il pronostico di Káino.

Eppure, se adesso il fratello se ne veniva fuori con quella domanda, voleva dire che anche lui non era così convinto di rinunciare alla grande impresa. Evidentemente, quanto più si avvicinava il momento della gara, tanto più la sua parte competitiva aveva la meglio su quella guidata dalla ragione. E Morifinwë lo capiva, perché provava la stessa cosa. Erano nipoti di Finwë, dopotutto; non era nella loro natura rimanere in disparte. Tantomeno accontentarsi.

Tyelkormo lo prese per le spalle e lo guardò dritto negli occhi.

– Moryo – gli disse, – se vuoi farlo, non ti fermerò.

E dopo una breve esitazione aggiunse: – So che non conta molto quello che penso io, e che non è il mio apprezzamento quello che stai cercando, ma sappi che, qualunque cosa accada, sono fiero di te.

Morifinwë sbatté le palpebre più volte per allontanare un fastidioso pizzicore dagli occhi. Si schiarì la gola. – Conta molto invece – disse.

– Moryo! – li interruppe uno dei gemelli, – arriva il giudice.

Tyelkormo lo lasciò andare.

– Concentrato, ora – disse il fratello. Gli puntò un dito sulla fronte: – Tutto avviene prima qui dentro. – E poi sparì, diretto al punto di ritrovo dei Lancieri.

Quando il giudice salì sulla pedana anche Morifinwë si decise a muoversi. Ricevette qualche frase di incoraggiamento da Káino e dagli altri ragazzi, Malagàl gli baciò una guancia, Arion gli consegnò Morvail e lui raggiunse gli altri concorrenti all’inizio del circuito.

La sua qualificazione lo poneva come quartultimo; dopo di lui avrebbero corso un ragazzo della Piana Calaciryana dal mento appuntito e dalla pelle dipinta di bianco, e una ragazza con piume colorate tra i capelli, che montava un cavallo simile a Haninkë, piccolo e veloce.

Ultimo, come era prevedibile, Nordacil, il campione in carica, sguardo assorto nella sua affascinante tenuta mezzo uomo e mezzo animale.

Morifinwë azzardò un’ultima occhiata alla gradinata degli Anziani. Chissà se suo padre l’aveva già riconosciuto. Hellë gli aveva dato una versione della divisa dell’atleta tutta nera, ed era riuscita a legargli i capelli in un unico nodo in cima alla testa con lacci anch’essi neri, radunando in minuscole trecce anche quelli che normalmente sfuggivano alla coda. La sua carnagione particolare, che spiccava tra le altre più chiare, completava il tutto per tener fede al nome con cui avevano cominciato a chiamarlo durante le selezioni: Moryo lo Scuro.

– La Corsa del Cacciatore! Nell’Oscuramento di Lairë dell’anno…

La voce del giudice lo colse di sorpresa. Era il momento di sgomberare la mente da ogni pensiero, di rivivere l’intera gara nella sua testa nei minimi dettagli, come gli aveva insegnato Hellë.

Hellë.

Quanto avrebbe voluto che fosse stata lì con lui.

Quella mattina, prima di partire, era stato persino sul punto di chiederglielo, ma grazie a Eru era riuscito a trattenersi. Non sapeva cosa sarebbe stato peggio: ricevere un rifiuto o costringerla a partecipare all’Oscuramento contro la sua volontà.

Però le aveva chiesto un parere sincero sulla scelta di applicare la variante.

– Voglio la verità – le aveva detto.

– Puoi piazzarti dignitosamente, hai imparato molto bene – aveva risposto lei, – oppure puoi tentare di vincere. Il rischio è alto e la scelta è tua.

– Tu cosa faresti al posto mio?

– La scelta è tua – aveva ripetuto lei, e poi aveva aggiunto, col suo mezzo sorriso, – è questo che significa diventare grandi, Carnistir.

Il grido di esultanza della folla che applaudiva alla prestazione del primo concorrente riportò Morifinwë alla realtà. Doveva smettere di pensare a Hellë e concentrarsi sugli esercizi di visualizzazione.

Lanciò un’ultima occhiata alla zona dove sostavano i Lancieri per accertarsi che Tyelkormo fosse in posizione, e qualcosa sullo sfondo attrasse la sua attenzione.

Ai piedi della gradinata di destra, in prima fila stretta tra la folla, c’era una donna con un mantello azzurro sbiadito e il volto celato dal cappuccio. Si faceva notare perché era l’unica calma tra il pubblico che le si accalcava intorno, e sembrava stesse guardando proprio nella sua direzione.

Morifinwë si passò una mano sulla faccia, doveva visualizzare la gara, non sognare a occhi aperti. Ma quando tornò a guardare, la donna era ancora lì e aveva portato una mano aperta sul cuore.

Al suo polso c’era un inconfondibile bracciale di cuoio.

Morifinwë sbatté più volte le palpebre per liberarsi dell’allucinazione. Ma non era un’allucinazione: Hellë era davvero lì.

Era lì, all’Oscuramento dello stagno, nonostante i suoi timori di ritrovare vecchie conoscenze, nonostante la sua paura di risvegliare dolorosi ricordi.

Era lì per lui.

Morifinwë si portò la mano sul cuore a sua volta per farle sapere che l’aveva riconosciuta e per comunicarle quanto le fosse grato della sua presenza. Ma era un gesto che non bastava per esprimere tutta la sua riconoscenza.

Ce n’era uno migliore.

Non tutto l’oro brilla, gli aveva detto una volta Hellë per rassicurarlo.

Ma forse era giunto il momento che quell’oro cominciasse a brillare.

Morifinwë chiuse gli occhi e visualizzò l’intera gara, completa di variante. La decisione era presa.

Quando il giudice chiamò il suo nome, lui era pronto.

– Il prossimo concorrente – annunciò l’uomo con voce possente dalla sua pedana, riportando il silenzio nella valle, – Moryo di Tirion.

Morifinwë lasciò Morvail all’inizio del percorso e raggiunse il punto contrassegnato dalla stella sul pavimento. Quando il silenzio fu assoluto entrò in contatto col cavallo ed entrambi cominciarono a muoversi.

E la gara ebbe inizio.

Morifinwë corse, come aveva fatto altre mille volte dal vero e nella sua testa.

Eseguì un balzo perfetto, atterrò sul dorso di Morvail e affrontò il rettilineo. Al momento giusto sollevò il braccio destro e percepì dallo spostamento d’aria la lancia in arrivo. Il tiro precisissimo di Tyelkormo gliela depose in mano e lui non dovette far altro che chiudere le dita sull’asta.

Morvail imboccò la prima curva, lui gli appoggiò la mano libera sul collo e raccolse le gambe sotto di sé. Accucciato, col braccio che teneva la lancia in alto sopra la testa, affrontò la seconda curva.

Morvail quasi s’impennò nel cambio di direzione, Morifinwë ruotò di mezzo giro a destra, dritto verso il bersaglio, fece scivolare un ginocchio sul suo dorso, mantenne l’altro fisso contro il punto da centrare e lanciò.

Non vide il risultato del suo tiro, impegnato com’era a restare in equilibrio su Morvail mentre invertiva la marcia per gettarsi nell’ultimo tratto del circuito, quello in cui di solito i concorrenti prendono la mira per lanciare.

Fece perno con la mano sul collo di Morvail e con un volteggio riportò le gambe da un lato e dall’altro del cavallo, gli strinse i fianchi con le ginocchia e si fermò davanti al bersaglio per ammirare il suo operato: centro perfetto.

Poi si voltò.

Il pubblico su entrambe le gradinate era in piedi, nel silenzio più totale. Per un attimo nessuno si mosse, come dovessero ancora decidere se credere o no a ciò che avevano visto. Morifinwë fece in tempo a sentire il sudore che gli si freddava addosso.

Poi una voce dalla folla gridò: – Moryo lo Scuro!

E tutto d’un colpo si scatenò il putiferio. Tamburi, applausi, piedi battuti per terra, strilli dei flauti globulari usati come fischietti, fecero tremare il suolo e vibrare l’aria, eppure non riuscirono a sovrastare il suono di centinaia voci che scandivano il suo nome.

“Mo-ryo! Mo-ryo! Mo-ryo!”

Nemmeno la visione più audace generata dalla sua fantasia più sfrenata si avvicinava a ciò che stava accadendo in quel momento.

Non c’era una sola persona in tutta la valle che non avesse gli occhi puntati su di lui, ma a Morifinwë importava soltanto di due. Una applaudiva tra gli Anziani, alta e fiera nel suo mantello di pregiate stoffe scure. L’altra stava immobile, ai piedi della gradinata opposta, celata da un mantello molto più modesto.

Morifinwë si ricordò che erano ancora nel bel mezzo della gara. Andò a recuperare la lancia dal bersaglio e condusse Morvail al trotto fino alla postazione dei Lancieri. Tyelkormo balzò sul cavallo dietro di lui con un salto che avrebbe fatto invidia a molti dei concorrenti e che diede nuova linfa all’applauso del pubblico.

La folla esplose in un ruggito finale quando Morifinwë alzò la lancia al cielo in segno di esultanza, e i due Fëanárioni tornarono insieme alla partenza.

Il concorrente successivo, il bianco ragazzo della Piana Calaciryana, fu chiamato con un po’ di ritardo perché le urla del pubblico tardarono a placarsi. Forse scoraggiato dalla prestazione irraggiungibile di chi l’aveva preceduto, salì male e arrivò sbilanciato ad afferrare la lancia, anche se poi il suo tiro si rivelò preciso. Fece meglio la ragazza con il cavallino veloce, che eseguì il percorso in un tempo brevissimo e riuscì a colpire il bersaglio quasi nel centro.

Infine toccò a Nordacil. La prestazione del campione fu identica a quella che Morifinwë aveva già visto la prima volta, e a quelle che gli avevano permesso di qualificarsi come primo concorrente in tutte le gare eliminatorie. Veloce. Precisa. Senza una sbavatura.

Ma non bastò. Non c’era bisogno di aspettare la decisione del giudice per capire chi fosse il vincitore.

Morifinwë ne ebbe la conferma quando Nordacil, tornato a inizio circuito con il suo Lanciere al seguito, si fermò davanti a lui e con un movimento rapido ed elegante fece ruotare la sua lancia e gli offrì l’impugnatura con l’accenno di un inchino.

Morifinwë restò così sbalordito che ci volle un colpo di gomito di Tyelkormo per farlo smuovere. Accettò l’arma e ricambiò l’inchino – il gesto fu accolto dall’ennesima ovazione del pubblico – ma prima che riuscisse a trovare qualcosa da dire, i concorrenti vennero chiamati per la premiazione.

Il giudice confermò la vittoria di Morifinwë e incise la singola tacca sul suo ciondolo giallo. Nordacil dovette accontentarsi della seconda posizione.

Appena libero dalle formalità – strette di mano e complimenti reciproci tra i concorrenti e ringraziamenti ai giudici – Morifinwë tornò a concentrarsi su ciò che più lo interessava.

Tra la gradinata di sinistra, su cui suo padre applaudiva in piedi con tutti gli altri, compresi gli Anziani e i due Rilasciati, e quella di destra, ai piedi della quale aveva visto Hellë, non ebbe dubbi su dove dirigersi per primo.

Solo che lei non c’era più.

Morifinwë soffocò un’imprecazione. – Torno subito – disse al fratello, consegnandogli le due lance e lasciando Morvail alle sue cure, e si precipitò lungo il viale che si allontanava dal Lago Lucente.

Hellë era alta, era l’unica a capo coperto, e viaggiava in direzione opposta alla folla che cercava di avvicinarsi ai concorrenti per festeggiare con loro. Non gli fu difficile individuarla.

– Hellë! – gridò Morifinwë quando la vide.

La donna si voltò di scatto e il cappuccio le scivolò sulle spalle. Dalla sua espressione non si potevano intuire le sue intenzioni e Morifinwë pregò che non decidesse di andarsene; tra le persone che li separavano, la distanza che c’era tra loro e la velocità alla quale sapeva muoversi la ex-Cacciatrice, lui non sarebbe mai stato in grado di starle dietro.

– Hellë, aspetta! – la implorò, sgomitando tra la gente.

E lei aspettò.

Quando Morifinwë riuscì a raggiungerla, fu lei a parlare per prima.

– Carnistir – gli disse, – sei stato impeccabile.

Morifinwë sentì il viso avvampare e fu preso dall’impellente desiderio di abbracciarla, di stringerla a sé, di dirle che non c’era una singola cosa al mondo che fosse più importante di lei nella sua vita.

La folla li costringeva vicini, uno di fronte all’altra. A Morifinwë sarebbe bastata una leggera flessione del gomito, un impercettibile movimento del polso per riuscire a sfiorarle le dita. Strinse i pugni per evitare che le sue mani lo tradissero.

Mossa inutile, perché, del tutto inaspettatamente, furono i suoi piedi a tradirlo. Si misero sulle punte, lo portarono all’altezza giusta e, prima che potesse rendersi conto di ciò che stava per fare, Morifinwë sfiorò le labbra di Hellë con le proprie.

Fu breve, troppo breve per essere definito un bacio. Ma fu abbastanza per mandargli un brivido lungo tutto il corpo e polverizzare ogni sua residua capacità di ragionamento.

Hellë sembrava confusa quanto lui. Sul viso aveva un’espressione che Morifinwë non avrebbe saputo decifrare nemmeno se il suo cervello avesse funzionato a pieno ritmo, e di sicuro non era mai stato più lontano dal farlo.

Però una cosa era certa: non era la faccia di chi sta meditando l’omicidio del malcapitato che gli sta di fronte. Sembrava più un’espressione sorpresa, come se dovesse capire lei stessa ciò che stava provando.

Se era così, Morifinwë era più che intenzionato a farglielo capire immediatamente. Si portò di nuovo sulle punte dei piedi per ripetere l’esperimento, ma questa volta lei frenò il suo slancio mettendogli due dita sulle labbra.

– Eravamo d’accordo che non fosse una buona idea – disse, tenendolo a distanza.

Forse il Morifinwë di qualche tempo prima si sarebbe ritirato, arrossendo fino alla radice dei capelli, umiliato per il rifiuto, sopraffatto dalla vergogna per ciò che aveva fatto. Il ragazzo che teneva troppo al suo aspetto, che invidiava i fratelli, che si preoccupava in continuazione del giudizio degli altri, sarebbe fuggito a gambe levate per non farsi mai più vedere.

Ma questo Morifinwë, che vinceva la Corsa del Cacciatore, che stava come un pari tra i figli dei Nati all’Est, che veniva acclamato all’Oscuramento dello stagno e riceveva gli applausi del padre, non era un tipo che scappava. Prese la mano che gli copriva le labbra con estrema delicatezza e ne baciò il dorso, poi disse: – Perché?

Hellë rispose, a bassa voce: – Ci sono molti motivi, e li conosci anche tu.

Morifinwë ripensò alla conversazione che avevano avuto quel lontano giorno nel frutteto, quando lui le aveva confessato ciò che provava: – Pensi che sia troppo giovane per essere sicuro dei miei sentimenti?

Gli sembrava ragionevole che Hellë lo pensasse. Lui stesso faceva fatica a capire quello che provava in quel momento, era come se qualcuno gli avesse sostituito la testa con una bolla d’aria nella quale i suoi pensieri rimbalzavano l’uno contro l’altro.

Lei lo guardò a lungo prima di rispondere, come se davvero potesse scrutare nel profondo del suo cuore per verificare la sincerità dei suoi sentimenti.

– No – ammise, alla fine. – No, non credo questo.

– Bene – disse Morifinwë, – perché se è vero, come dicono, che gli Eldar scelgono il loro compagno per la vita, io ho già fatto la mia scelta.

Si tolse dal collo il ciondolo su cui spiccava la singola tacca del vincitore e lo appoggiò sul palmo della mano che aveva appena baciato.

– Questo appartiene a te – aggiunse.

Poi chiuse le dita di lei sul simbolo della loro vittoria, e la lasciò andare.

Hellë non si mosse. Non un respiro. Non un battito di ciglia. I suoi occhi erano grigi cristalli indecifrabili. Eppure, dietro quello sguardo impassibile, Morifinwë fu certo di percepire, intrappolato a stento dalla sua ferrea forza di volontà, un vortice di emozioni.

Per un attimo desiderò aprire un varco mentale come quello che li aveva uniti quando lei gli aveva permesso di guardare sotto il suo bracciale, e farsi catturare da quel vortice. Desiderò capire, con tutto sé stesso. Desiderò conoscere, amare.

Poi sentì qualcuno che gli toccava una spalla e la voce di Tyelkormo che lo raggiungeva da dietro, impaziente.

– Andiamo, Moryo. Non facciamo aspettare papà.

Hellë si schiarì la gola e disse: – Vai, Carnistir.

Morifinwë annuì.

Quello che gli importava di dire – e che in un’altra occasione non avrebbe mai avuto il coraggio di dire – era stato detto. Per tutto il resto ci sarebbe stato tempo il giorno dopo. E quello dopo. E quello dopo ancora.

– A domani, Hellë – la salutò, e si lasciò trascinare via da Tyelkormo tra la gente in festa.



 

Le gradinate si stavano svuotando. Gli addetti stavano cominciando a smantellare l’allestimento, le assi che coprivano il Lago presto sarebbero state rimosse per ridare luce alla valle. Fëanáro era nei pressi della pedana del giudice di gara. Accanto a lui, gli Anziani: uomini e donne dai volti chiari e luminosi, i tratti austeri, i lunghi capelli corvini. Dei due Rilasciati non c’era traccia; forse, ora che erano tornati in vita, non volevano rinunciare nemmeno per un istante alla compagnia dei  loro cari, da cui erano stati separati per moltissimi anni.

– Morifinwë, vieni – lo accolse il padre, quando lui fu a portata di voce, – è stata una sorpresa trovarti qui – e lanciò a Tyelkormo un’occhiata che riassumeva quanto a Fëanáro piacessero le sorprese.

Morifinwë, ancora un po’ frastornato per gli eventi incredibili di cui era stato protagonista, non seppe come interpretare quell’affermazione. Il padre parve accorgersene e precisò immediatamente: – Una sorpresa tutt’altro che spiacevole. Ti sei fatto valere questa notte!

Fëanáro gli mise una mano su una spalla e si rivolse agli Anziani, presentandolo: – Questo è mio figlio, Morifinwë.

Morifinwë sentì una fitta di gioia trapassargli il cuore.

Questo è mio figlio. Aveva mai sentito parole più belle?

– Morifinwë – continuò il padre, – sei al cospetto di alcuni tra i più antichi esponenti del nostro popolo, nati in Endórë, le cui coraggiose gesta ci hanno permesso di raggiungere la terra in cui viviamo.

Lui fece l’inchino richiesto dalla circostanza e i cinque risposero con un cenno del capo.

Poi una donna dal viso affilato e dai penetranti occhi grigi abbandonò le formalità e disse: – Una prestazione straordinaria, complimenti!

– Un cambio di posizione davvero difficile da padroneggiare – commentò l’uomo al suo fianco, talmente somigliante a lei che doveva essere suo fratello.

Morifinwë pensò che “padroneggiare” non era il termine che meglio descriveva un successo che si presentava solo nove volte su dieci, ma si guardò bene dal correggerlo e chinò il capo davanti a quei complimenti.

– In effetti, ho conosciuto poche persone in grado di fare una cosa del genere – riprese la donna, – te l’ha insegnato Finwë?

– Ricordo ancora quando gli chiedesti di insegnarti a salire al volo a cavallo – si intromise una terza persona rivolgendosi a Fëanáro e appoggiando una mano sulla sua spalla – quanti anni avevi, nemmeno venti?

Morifinwë guardò l’uomo che si permetteva un gesto così familiare con il padre. Era il più alto di tutti e aveva capelli così lunghi che se non fossero stati parzialmente raccolti in un complicato nodo in cima alla testa avrebbero sfiorato il suolo. Alla debole luce che illuminava la valle, i suoi occhi apparivano scuri come l’abisso, eppure in quella profondità insondabile s’intravedevano remote scintille, come se le costellazioni di un cielo sconosciuto si fossero impresse nelle sue pupille.

Morifinwë fu certo di trovarsi davanti a un Inconcepito, ma quella realizzazione passò in secondo piano rispetto a una, per lui, ancor più sconvolgente.

– Il nonno ti ha insegnato a salire a cavallo al volo? – domandò, rivolto al padre.

Fëanáro annuì. – Prima che – esitò solo per un attimo, – venisse distratto da altri avvenimenti.

Poi la sua attenzione si spostò su qualcosa alle spalle di Morifinwë.

– A quanto pare, ti stiamo sottraendo ai tuoi amici – disse.

Morifinwë lanciò uno sguardo dietro di sé. Ora che le transenne erano state rimosse, Káino, Arion e Huinion, seguiti a breve distanza da Torondo e Malagàl, avanzavano incerti nella loro direzione.

– Vai pure a festeggiare – disse il padre, – parleremo domani, a casa.

Morifinwë non se lo fece ripetere e si congedò con un inchino dall’assemblea degli Anziani, desideroso di raggiungere i suoi amici, mentre il padre prendeva per un attimo in disparte Tyelkormo per dirgli: – Non credo ci sia bisogno di ripeterti cose che ti avrà già detto tua madre.

– “Riportalo a casa intero e non farlo bere troppo?” – citò il fratello, – no, papà, non ce n’è bisogno.



 

Quella notte, Morifinwë tornò a casa tutto intero, ma in quanto alla seconda raccomandazione ci fu qualche intoppo. Vincere la Corsa del Cacciatore – scoprì – era qualcosa che ti procurava un immediato successo di amici e amiche che volevano sapere tutto di te, di come vivevi, di chi ti aveva addestrato, e per ottenere informazioni erano decisi a fare il giro di tutti i chioschi di bevande alcoliche della vallata. A quanto pareva, veniva chiuso un occhio sulla regola dell’età del bevitore quando si trattava dei vincitori della Corsa del Cacciatore.

Strette di mano, baci e abbracci si fecero più numerosi e più decisi man mano che la notte avanzava; molte ragazze e – gli sembrò di ricordare in seguito – anche qualche ragazzo lo trascinarono a ballare, e fu quasi certo che Malagál lo baciò sul serio a un certo punto della serata.

Káino non la smetteva più di raccontare per filo e per segno ogni fase del suo allenamento, talvolta elogiando le doti di Morifinwë al punto che lui si ritrovava ad arrossire, talaltra soffermandosi sulle cadute più imbarazzanti per suscitare le risate del pubblico.

A Morifinwë sembrava di vivere in un sogno, non riusciva a credere che fosse davvero successo ciò che l’evidenza dei fatti testimoniava. In una sola sera aveva vinto la gara più prestigiosa dell’Oscuramento, era stato elogiato da suo padre, si era dichiarato alla donna che amava e aveva dato il suo primo bacio.

Quando Tyelkormo se lo caricò sul cavallo davanti a sé, ciondolante di sonno e stordito dal troppo vino e dall’eccesso di felicità, sentì le braccia forti del fratello che lo circondavano e la sua voce che diceva: – Dormi, piccolo, ti riporto a casa.

Pensò di ribattere che non era piccolo. Non più.

Invece si lasciò andare contro il solido torace del fratello e prima di cadere nel sonno mormorò parole che non aveva mai pronunciato.

– Grazie Tyelko. Grazie di tutto.






 


NOTE

Grazie a chi ha letto!
Anche la nostra lunga corsa è quasi finita... il prossimo capitolo sarà l’ultimo!

 

01.
Ciò che sostiene Moryo riguardo al fatto che gli Elfi si innamorano una sola volta nella vita è un’esagerazione adolescenziale di quanto detto in LaCE: “the Eldar do not err lightly in such choice”, dove la “choice” è la scelta del coniuge. Come possa sostenere una cosa del genere il nipote di Finwë, è un mistero.

02.
I Laghi Lucenti sono bacini in cui vengono conservate la pioggia di Laurelin e la rugiada di Telperion perché siano sorgenti di luce dove i raggi degli Alberi Sacri faticano ad arrivare.

Nomi canonici, conversione Quenya - Sindarin
Morifinwë, Carnistir = Caranthir
Tyelkormo (qui chiamato anche Tyelko) = Celegorm
Curufinwë, Curvo = Curufin
Fëanáro = Fëanor
Endórë = Terra di Mezzo

Personaggi di mia invenzione
Káino, il migliore amico di Morifinwë
Morvail, il cavallo di Morifinwë
Arion, il figlio del responsabile delle scuderie di Rowen
Huinion, il suo gemello
Torondo, un amico di Morifinwë della Piana Calaciryana
Malagàl, una amica di Morifinwë di Alqualondë
Nordacil, il campione indiscusso della Corsa del Cacciatore
Haninkë, il cavallo di Káino

Nomi di mia invenzione
Ulvórë, una stagione a metà tra l’autunno e un mite inverno
Piana Calaciryana, stretta striscia di terra pianeggiante tra Tirion e il mare

Nomi canonici usati non-canonicamente
Lairë, la stagione paragonabile alla nostra estate

 

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Capitolo 25
*** Un nuovo incarico ***



25

Un nuovo incarico

(o quando scopri che diventare adulti ha più di un significato)


 

Morifinwë si svegliò con la bocca impastata, la testa annebbiata e il vago ricordo di un sogno meraviglioso.

Un sogno in cui aveva partecipato alla Corsa del Cacciatore e aveva vinto, in cui suo padre l’aveva applaudito e la folla aveva inneggiato il suo nome.

Ci mise più di qualche istante a rendersi conto che non era stato un sogno. Aveva veramente vinto la gara più prestigiosa dell’Oscuramento! Aveva davvero sentito suo padre pronunciare quelle parole meravigliose: questo è mio figlio.

Morifinwë si sedette di scatto sul letto, colpito da un pensiero ancor più sconvolgente. Aveva baciato Hellë! Le aveva dichiarato i suoi sentimenti in modo inequivocabile.

Cosa gli era saltato in mente? Non le aveva forse promesso che non l’avrebbe più importunata con la sua imbarazzante cotta da ragazzino immaturo? Non le aveva forse promesso che se ne sarebbe rimasto al suo posto? Come poteva essere passato dal “rimanere al suo posto” a baciarla davanti ad almeno cento persone nel giro di una sola sera?

Hellë non l’avrebbe mai perdonato.

Eppure.

Eppure lei era andata all’Oscuramento per vederlo gareggiare. Aveva messo da parte la sua avversione per la festa organizzata dai Nati all’Est, aveva combattuto il timore di risvegliare antichi ricordi, messo a tacere il suo orgoglio, soppresso le sue paure. L’aveva fatto per stargli accanto, per dargli il suo sostegno nel momento più importante della sua vita.

Tutto questo poteva significare una cosa sola: Hellë teneva a lui. Teneva molto a lui. La sera precedente si erano dovuti separare in fretta, ma forse, in quello stesso momento, lei lo stava aspettando alla fattoria per dirgli quanto.

Morifinwë allontanò le coperte e si preparò ad alzarsi. Scoprì che Tyelkormo gli aveva tolto gli stivali la sera precedente, ma non i vestiti, che ora gli si appiccicavano addosso tutti spiegazzati. Lacci e forcine avevano dichiarato la resa e i capelli gli ricadevano in disordine sulla fronte e sulle spalle.

Qualcuno bussò alla porta. Il rumore gli procurò una leggera fitta alla testa e un vago senso di nausea.

Senza attendere una risposta, Nerdanel entrò portando un vassoio con un bicchiere d’acqua, qualche biscotto, una fetta di torta. La madre doveva avere un impegno fuori casa quel giorno, perché indossava un abito lungo e voluminoso e tra i capelli portava pettini d’oro e di smeraldo.

– Il tempo della colazione è andato, ma ti ho salvato qualcosa – disse.

Appoggiò il vassoio sul comodino e si sedette sul letto accanto a lui, raccogliendo l’ampia gonna attorno alle gambe.

– Devo farti i complimenti per ieri sera, a quanto pare – disse.

Morifinwë abbassò lo sguardo. – Non volevo nascondertelo, ma avevo paura che papà sarebbe venuto a saperlo.

– L’avevo intuito, Carnistir – disse lei in tono comprensivo, e poi aggiunse,  – e comunque ho fatto parlare Tyelkormo.

– Quel traditore! – esclamò lui.

– Non biasimarlo, so essere molto convincente – disse la madre. Poi lo guardò meglio: – Anche se evidentemente non si è attenuto a tutte le mie direttive.

Gli porse il bicchiere: – Meglio se annacqui un po’ quell’alcol.

Lui lo prese malvolentieri, il suo stomaco non sembrava propenso ad accogliere nulla, ma appena cominciò a bere scoprì di essere molto assetato. Quand’ebbe finito, lo appoggiò sul vassoio e tentò di intuire l’umore della madre dalla sua espressione. Non sembrava essersela presa per la sua omissione, ma volle esserne sicuro.

– Sei dispiaciuta? – le chiese.

– Sono dispiaciuta di non essere stata lì a vederti – disse lei, e gli diede un leggero bacio sulla guancia, – ma ti farai perdonare raccontandomi tutto per filo e per segno quando rientrerò stasera – concluse, e fece per alzarsi.

Morifinwë le posò una mano sul polso per fermarla. Se davvero Hellë lo stava aspettando, e più ci pensava più ne era convinto, certe cose era meglio saperle subito.

– Mamma… volevo chiederti – esitò, si morse un labbro, esitò di nuovo, poi disse tutto d’un fiato: – Credi che sia troppo giovane per prendermi un impegno con qualcuno?

Nerdanel si mise più comoda. – Ti dispiacerebbe essere più specifico?

– Un impegno sentimentale – disse Morifinwë. – Ho conosciuto una persona.

– Ieri?

– Lo scorso Ulvórë, in realtà.

Nerdanel lo osservò con più attenzione. – È una cosa seria, allora.

– Vorrei che lo fosse – cominciò Morifinwë, – ma… secondo te sono troppo giovane per una cosa del genere?

– Tuo padre e io eravamo due ragazzi quando ci siamo conosciuti e ci siamo innamorati – disse Nerdanel, e sorrise al ricordo.

– Ecco… – Morifinwë non riusciva a trovare le parole giuste, – il punto è che non è una ragazza.

– Oh! – disse Nerdanel, ma la sua sorpresa, se di sorpresa si trattava, non durò più di un attimo, – e lui ricambia il tuo interesse?

– Cosa? – esclamò Morifinwë, chiedendosi dove le andasse a pescare, sua madre, certe idee. – No, no… non è un “lui” – si affrettò a precisare. Poi prese un profondo respiro e disse: – È una donna adulta. Molto adulta. È una Nata all’Est.

Nerdanel non si dimostrò più sorpresa di prima: – In questo caso, lei ricambia il tuo interesse?

Morifinwë rimase un instante senza parole. Ogni tanto si dimenticava chi era sua madre. Quella che aveva sposato suo padre, tanto per dirne una.

– Non lo so – rispose, – mi ha detto che sono giovane e che avremmo potuto rimanere amici finché non avessi avuto ben chiari i miei sentimenti.

In realtà, Hellë gli aveva detto che sarebbero potuti rimanere amici finché l’infatuazione non gli fosse passata, ma alla luce degli ultimi avvenimenti Morifinwë pensò che piegare un pochino la realtà a suo favore non fosse poi così sbagliato.

– Un discorso molto ragionevole – approvò la madre.

– Già – Morifinwë incurvò le spalle, – forse dovrei dedurne che ha poco a che fare con l’innamoramento.

– Non necessariamente – osservò Nerdanel, – essere ragionevoli ed essere innamorati non si escludono a vicenda.

– Cosa dovrei fare, allora? – chiese lui.

Nerdanel gli ribaltò la domanda: – Tu cosa vorresti fare?

Vorrei sposarla oggi stesso, fu sul punto di rispondere. Vorrei vederla felice, anzi, di più, vorrei essere io l’artefice della sua felicità. Vorrei farle capire che la sua vita può essere meravigliosa, che tutti i dolori del passato possono essere cancellati, che può fare quello che vuole, ridere quanto le pare, e vorrei essere io quello che la fa ridere. E poi vorrei baciarla ancora, e meglio, e più a lungo.

No, forse questi dettagli era il caso di tenerseli per sé.

– Vorrei che potessimo rimanere amici finché non sarò abbastanza grande per chiederle di sposarmi – rispose, arrossendo un poco.

– Anche questo mi sembra ragionevole – disse la madre.

Morifinwë la conosceva abbastanza da capire che aveva qualcos’altro da aggiungere.

– Il tuo tono presuppone un “ma” – le disse.

Nerdanel annuì. – Ma non dimenticare che la donna di cui sei innamorato è una persona proprio come lo sei tu, con passioni, aspirazioni e desideri propri, esattamente come li hai tu. E i suoi sentimenti valgono quanto i tuoi. Se lei rifiuta la tua offerta, per quanto possa essere doloroso per te, devi rispettare la sua decisione.

– Dici così perché credi che rifiuterà?

– Tu sei un ragazzo meraviglioso, Carnistir, ma una donna adulta, che ha vissuto molti anni e fatto esperienze che noi fatichiamo persino a immaginare, se ha deciso di non avere un compagno può avere molti motivi che la spingono a non apprezzare il corteggiamento di qualcuno, a prescindere dal fatto che sia un uomo o un ragazzo.

Morifinwë ci pensò su. Tenersi a distanza in caso di un rifiuto non sembrava una cosa molto difficile da promettere, soprattutto quando il rifiuto appariva come una possibilità molto remota.

– Se sarà così, rispetterò la sua scelta – disse, – e mi farò da parte.

– Bene – approvò Nerdanel.

– E se invece accettasse… – Morifinwë arrossì. Come l’aveva chiamato la madre? – … il mio corteggiamento?

– Allora sarò felice di conoscerla.

La risposta immediata e sincera della madre gli ricordò che il problema non era lei. Non era mai stato lei.

– Papà non approverebbe mai – disse.

– Non è detto – ribatté Nerdanel, e poi aggiunse con un sorriso a fior di labbra, – e comunque, sarebbe un problema se non lo facesse?

Che domanda! Era tutta la vita che faceva le sue scelte sperando che il padre le approvasse. O che non faceva le sue scelte per paura che il padre le disapprovasse.

Eppure, in quel momento, con ancora in testa l’eco del suo nome scandito dalla folla, e quelle parole – Questo è mio figlio – incise nel suo cuore, scoprì che la risposta a quella domanda non era più la stessa.

– No, non credo sarebbe un problema – rispose. E poi disse, con maggiore decisione: – Sono pronto ad affrontare mio padre.

– Molto bene – disse Nerdanel, alzandosi, – perché ti vuole vedere nel suo studio appena sarai pronto a scendere.



 

Era la prima volta che entrava nello studio di suo padre senza provare l’assurda – o, nella terribile occasione della gara di canoa, reale – sensazione di aver fatto qualcosa di cui avrebbe dovuto scusarsi. Niente stomaco contratto mentre bussava alla sua porta e attendeva di essere ricevuto. Solo una leggera apprensione, che gli faceva correre il cuore un po’ più in fretta del normale, e una buona dose di insofferenza, perché i suoi piani per raggiungere Hellë il prima possibile avevano incontrato un ostacolo.

Un ostacolo che non si poteva scavalcare.

Fëanáro sedeva alla scrivania chino sulle sue carte. Le finestre incassate negli spessi muri del palazzo erano spalancate sul chiosco, e lasciavano entrare la luce del mattino e la gradevole brezza che lambiva la cima di Túna anche nella stagione più calda.

– Morifinwë – esordì Fëanáro, quando lui fece qualche passo dentro lo studio, – vieni, accomodati.

Davanti alla scrivania c’era una sedia già pronta per lui. Mentre Morifinwë prendeva posto, il padre, che non amava perdere tempo, cominciò.

– Mi ha sorpreso trovarti all’Oscuramento ieri sera, e mi ha sorpreso ancor di più la tua prova eccezionale; non tanto per l’eccellente risultato, ma perché presuppone una capacità di applicarsi con tenacia per raggiungere uno scopo di cui ancora non ti ritenevo capace. Sotto questo aspetto, ti avevo sottovalutato, ti chiedo scusa.

Morifinwë temette che aprir bocca avrebbe rotto l’incantesimo, quindi restò in silenzio.

– Mi fa anche piacere che tu ti sia riavvicinato a tuo fratello – continuò Fëanáro.

Lui pensò a tutto l’aiuto che aveva avuto da Tyelkormo dopo che aveva deciso di smettere di ritenerlo responsabile per il disastro della gara di canoa, e ai bei momenti trascorsi con lui durante gli allenamenti. – Sì, credo di aver capito le sue intenzioni.

Il padre annuì: – Turkafinwë si è trovato più volte in quel genere di situazioni quando era più giovane, e ha imparato cosa è meglio fare.

Erano più o meno le stesse parole che aveva detto la mamma.

– Ho imparato molto anch’io, ultimamente – ammise Morifinwë.

– Lo vedo – disse Fëanáro. E lo scrutò in silenzio per qualche istante.

Sotto quello sguardo penetrante Morifinwë si era sempre sentito valutato, giudicato ed etichettato. Adesso invece si sentiva, se non proprio compreso, almeno accettato.

Era una sensazione nuova e piacevole, ma allo stesso tempo imbarazzante, come se il prezzo per essere – finalmente – capito fosse quello di farsi scrutare nel profondo dell’animo, di mostrarsi per come si era veramente.

Morifinwë fu lieto quando il padre distolse l’attenzione da lui e, appoggiando le mani aperte sul piano della scrivania com’era sua abitudine quando esponeva concetti che voleva fossero ben recepiti, tornò a parlare col suo tono professionale.

– Ho notato che ti sei fatto molti amici nella comunità dei Nati all’Est, e sono certo che il tuo nome circolerà nell’ambiente ancora a lungo, soprattutto se intendi ripetere l’impresa nelle prossime edizioni dell’Oscuramento.

Morifinwë si fece più attento. Era certo che il padre volesse arrivare da qualche parte con quell’introduzione insolitamente lunga per lui, ma non riusciva a capire dove.

– Come certamente avrai capito – continuò Fëanáro, – io sono il collegamento tra il re e i membri più importanti della comunità dei Nati all’Est, quelli che loro chiamano gli Anziani. Ma i miei impegni sono sempre più numerosi e non so per quanto ancora riuscirò a farlo. Mi domandavo se non ti interesserebbe prendere il mio posto, un giorno. Potresti cominciare col venire con me quando io e il nonno ci troviamo per discutere di questi affari, per imparare come gestire le cose. Se te la senti.

Morifinwë dovette ripetersi più volte nella testa le parole del padre, per assicurarsi di averle sentite davvero. Gli era appena stato offerto un incarico ufficiale? E di grande importanza, per giunta. A lui?

– Papà, io – Morifinwë non sapeva cosa dire. Cosa avrebbe dovuto rispondere? Senza dubbio c’era qualcuno più adatto. – Nelyo… – cominciò.

– Nelyafinwë ha già molti incarichi – lo interruppe subito Fëanáro, – sarà più che felice di non doversi assumere anche questo.

– Ma io – balbettò di nuovo Morifinwë. Non poteva essere vero. Andare a lavorare a fianco del nonno era uno dei suoi desideri che diventava realtà, e molto più presto di quanto avrebbe ritenuto possibile, – ma tu… tu ti fideresti di me?

– Sono convinto che faresti un ottimo lavoro – disse il padre, senz’alcuna esitazione.

Morifinwë deglutì un paio di volte prima di riuscire a rispondere: – Grazie, papà.

Fëanáro annuì con un impercettibile cenno del capo, quello che faceva quando le cose andavano come lui aveva previsto. – Allora siamo d’accordo – disse. – A dopo, Morifinwë.

Poi tirò fuori dal cassetto un foglio bianco, lo lisciò davanti a sé e intinse la penna nel calamaio. Il colloquio era finito.

Morifinwë si alzò su gambe leggermente instabili e uscì dalla stanza, chiudendo la porta dietro di sé.

Appena fuori dallo studio, appoggiato con la schiena alla parete del corridoio, c’era Tyelkormo. Braccia incrociate sul petto e il sogghigno di chi la sa lunga. Non si sforzava neppure di far finta di essere passato di lì per caso.

– Allora? – gli chiese il fratello. – Come ti senti?

Difficile dirlo. C’erano mille sensazioni che lottavano dentro di lui. Si sentiva esaltato, perché per la prima volta nella sua vita le cose andavano come voleva lui, e onorato, per la possibilità che gli era stata data, e confuso, perché tutto era accaduto troppo velocemente, e dubbioso, perché non sapeva se aveva le capacità richieste dal compito che lo aspettava. E per di più, aveva lo strano presentimento di aver fatto parte, inconsapevolmente, di una delle numerose macchinazioni del padre.

C’era una sola parola che poteva riassumere tutto questo.

– Terrorizzato – rispose.

Tyelkormo scoppiò a ridere.

– Benvenuto nel mondo degli adulti – gli disse, accompagnando le sinistre parole con una vigorosa pacca sulla spalla.



 

Morifinwë era così felice che la strada per arrivare alla fattoria gli sembrò di farla volando invece che in groppa a Morvail.

Non vedeva l’ora di raccontare tutto a Hellë. Un incarico a palazzo, come Russandol! Finalmente anche lui avrebbe potuto dimostrare le sue doti, al pari degli altri fratelli! Nel giro di pochi anni, quelli che gli mancavano per raggiungere la maggiore età, avrebbe avuto una posizione di tutto rispetto sia tra le alte cariche di Tirion che nella comunità dei Nati all’Est, e allora avrebbe chiesto a Hellë di diventare sua moglie e lei avrebbe detto di sì e la sua vita sarebbe stata perfetta.

Dopotutto, lei era stata al suo fianco durante la gara. Gli aveva detto: “Sei stato impeccabile”. Gli aveva detto che non pensava che fosse troppo giovane per prendersi un impegno. Aveva accettato il suo ciondolo. E, cosa più importante, non gli aveva spezzato il collo quando lui le aveva dato quel timido bacio impacciato.

Come in un esercizio di previsualizzazione, mentre galoppava entusiasta verso la fattoria, si ripetevano nella sua testa le immagini di cosa sarebbe accaduto di lì a poco: Hellë avrebbe aperto la porta, lui l’avrebbe presa per mano, accompagnata alla loro panchina, le avrebbe detto ciò che provava per lei in modo molto, molto meno pasticciato di come aveva fatto la notte prima, e l’avrebbe convinta a dargli una possibilità.

Quando arrivò nel piazzale davanti alla fattoria, saltò giù da Morvail prima ancora che lui si fermasse, superò con un balzo i pochi scalini che conducevano all’ingresso e bussò alla porta.

Come se fosse stato atteso, la porta si spalancò all’istante.

Ma sulla soglia non comparve la persona che lui si aspettava.

– Moryo! – esclamò Lissi saltandogli in braccio. – Moryo, sei un campione! Káino mi ha raccontato tutto! Voglio farlo anch’io quando sarò grande, con Magnifico. Me lo insegnerai tu, vero?

Senza aspettare una risposta, che evidentemente dava per scontata, la piccola si divincolò dalle sue braccia e gridò: – Káino! Káino, è arrivato Moryo!

E scappò alla ricerca del fratello.

Al suo posto apparve Rowen, che teneva in braccio la figlia.

– Moryo, che piacere vederti ancora tutto intero – disse, e riuscì ad abbracciarlo col braccio libero, – complimenti per la vittoria.

Tornata a reggere per bene la piccola, proseguì: – Dovevi vederti con Arsanarwë per programmare le lezioni del prossimo anno?

– Veramente volevo vedere Hellë – disse Morifinwë, trattenendosi a stento dal girarle attorno e correre in cucina.

– Hellë?

– Sì. È nei campi? – chiese, vedendo che Rowen non lo invitava a entrare. E gettò comunque un’occhiata in casa oltre le spalle della donna.

Rowen corrugò le sopracciglia. – Hellë ha lasciato la fattoria – disse. – Non lo sapevi? La sorella le ha chiesto aiuto per gestire una nuova attività, e Hellë ha deciso di trasferirsi da lei.

Un pugno di Tyelkormo dritto nello stomaco avrebbe fatto meno male.

– Quando? – chiese Morifinwë, quando riuscì a riprendere fiato.

– L’altra mattina, subito dopo che voi siete partiti per l’Oscuramento.

– No, intendevo dire, quando l’ha deciso?

– Diverse settimane fa – rispose Rowen, sempre più perplessa, – pensavo che lo sapessi.

Quel giorno! L’aveva deciso quel giorno, Morifinwë ne era certo. Quando lui aveva provato per la prima volta la variante ed era caduto da cavallo. Quando era stato così poco accorto da lasciar trapelare i suoi sentimenti più profondi. Quando non aveva tenuto fede alla promessa che le aveva fatto.

“Dove?” fu sul punto di gridare. “Dove è andata? Dove vive la sorella? Come posso raggiungerla?”

Ma poi si ricordò di ciò che gli aveva detto sua madre solo poche ore prima: bisogna saper accettare il rifiuto, bisogna rispettare le decisioni dell’altro.

Morifinwë vide crollare le sue illusioni come un castello di sabbia spazzato dall’onda del mare. La realtà gli si parò davanti dolorosa e innegabile: Hellë non lo stava aspettando.

E perché avrebbe dovuto farlo? Come poteva una donna adulta, una Nata all’Est, una Cacciatrice – una delle migliori – ricambiare i sentimenti di un ragazzino nato ieri, che non era nemmeno in grado di tenere a bada i propri istinti, né di tener fede alle promesse che faceva.

Quanto era stato stupido a pensarlo! La sua sciocca infatuazione gli aveva fatto interpretare male tutti i segnali. Hellë non era andata all’Oscuramento per stargli accanto, ci era andata per dirgli addio.

Non se ne stava forse andando via di corsa dopo la gara, prima che lui la fermasse? E non l’aveva forse respinto quando aveva cercato di baciarla la seconda volta? Il fatto che fosse abbastanza gentile da non allontanarlo sgarbatamente, non significava che avesse apprezzato il suo gesto. Come aveva fatto a non capirlo?

Si rese conto che era diverso tempo che non diceva nulla e che Rowen lo stava guardando sempre più preoccupata.

– Moryo, c’è qualcosa che non va?

Morifinwë sentì gli occhi che gli bruciavano. Tentò di rispondere qualcosa, ma aveva un nodo in gola che non andava né su né giù.

Alla fine scappò.

Prese Morvail e si precipitò lungo il viale, senza sapere dove andare.

Una parte di lui si immaginava di mettersi sulle tracce di Hellë, di trovarla e implorarla di perdonarlo, di prometterle che non avrebbe mai più sbagliato, che non si sarebbe mai più lasciato sfuggire ciò che provava, né il desiderio, né l’amore, niente di niente. Avrebbe chiuso tutto dentro di sé pur di poter passare ancora del tempo con lei, di vederla ridere alle sue battute, di trascorrere in silenzio il pomeriggio sulla loro panchina, di poter aspettare insieme, fianco a fianco, l’arrivo della luce nella prossima Meren Tulusto. E in tutte quelle successive.

Ma un’altra parte di lui – una parte che fino a poco tempo prima non sapeva di possedere – gli diceva che se lei se n’era andata era proprio perché tutte quelle cose non le voleva più condividere con lui, e che la cosa giusta da fare era rispettare la sua scelta.

In quell’ultimo anno Morifinwë aveva imparato molte cose, ma la più importante di tutte era che non esistevano soltanto i suoi desideri, e che quelli degli altri contavano tanto quanto i propri.

E che a volte, come dimostravano la mamma e quel matto di suo cugino… a volte i desideri non si avverano mai.

Senza rendersene conto, imboccò la strada che conduceva al campo dove si era allenato fino al giorno prima. Già da lontano vide che il circuito era stato smantellato, il luogo era deserto, non c’era altro che il prato, i solchi scavati dagli zoccoli di Morvail, e un albero solitario.

Morifinwë scese da cavallo e avanzò sotto le sue fronde. Sul tronco qualcosa attrasse la sua attenzione: al chiodo dove era stato appeso il bersaglio c’era agganciato un piccolo oggetto. Morifinwë prese un rametto spezzato da terra, si alzò sulle punte dei piedi e lo usò per farselo cadere tra le mani. Era il bracciale di Hellë.

Se lo rigirò tra le dita.

L’esterno era come se lo ricordava, con i ricami arzigogolati, i lacci neri. All’interno la pelle era più morbida e più scura, ma nel centro c’era una scritta che doveva essere stata incisa da poco, perché spiccava chiara sullo sfondo.

Era una singola parola. Carnistir.

E quello era un addio, non c’era bisogno di un grande sforzo di interpretazione per capirlo. Era l’ultimo saluto della ex-Cacciatrice: un bracciale in cambio di un ciondolo e tutto quello che c’era stato, o che non c’era stato, finiva lì.

Morifinwë si portò il bracciale alle labbra e chiuse gli occhi.

Devi lasciarla andare, si disse.

Si appellò a quella parte di sé che aveva appena imparato a conoscere. Quella che gli diceva che la volontà degli altri andava rispettata. Che lui non era più il centro del suo mondo.

Devi lasciarla andare, si ripeté.

Pensò alle cose che aveva guadagnato in quell’ultimo anno: la fiducia in sé stesso, l’ammirazione del padre, l’incarico a palazzo che desiderava da sempre. E poi ancora: nuovi amici e un modo diverso di vivere il rapporto con i fratelli, o almeno con uno di loro. Il rispetto di molti.

Era un lungo elenco. Cercò di convincersi che valeva il prezzo che l’aveva pagato.

Si infilò il bracciale al polso e strinse i lacci con decisione.

Devi lasciarla andare.

Cercò la forza per voltarsi, per tornare sui suoi passi e andare avanti con la sua vita senza di lei.

Per un attimo ebbe paura di non farcela.

Poi dalle sue spalle giunse un rumore di zoccoli al galoppo, uno che lui conosceva bene.

Nascondersi sarebbe stato impossibile, e comunque Morifinwë aveva bisogno di essere trovato o non si sarebbe mai più mosso da quel prato. Si passò una mano sugli occhi e si voltò.

Káino scese al volo da Haninkë e gli corse incontro. Sul viso un’espressione che lui non ebbe il tempo di decifrare perché l’amico lo raggiunse in due balzi e lo abbracciò. Una stretta forte, ruvida, irruente. Lo abbracciò come uno che voleva strappargli di dosso la tristezza per farsene carico. Lo abbracciò come uno che sapeva ciò di cui Morifinwë aveva bisogno.

Poi, come se niente fosse, lo lasciò andare e tornato il Káino di sempre esclamò: – Andiamo, campione, non credere che perché hai vinto una garetta da niente puoi avere la meglio su di me!

E con un balzo fu di nuovo a cavallo.

Morifinwë fece segno a Morvail di avvicinarsi, rincuorato da quell’abbraccio più di quanto si aspettasse. Saltò al volo sul suo dorso e si mise sulla scia dell’amico che aveva preso per i campi in direzione di Valmar. Avrebbe dovuto impegnarsi se voleva raggiungerlo.

Incitò Morvail e l’animale reagì con estrema prontezza, come se anche lui non vedesse l’ora di scrollarsi di dosso l’umore nero del suo padrone.

Il vento gli asciugò le lacrime dal viso e a Morifinwë sembrò di ricominciare a respirare. Un nuovo anno lo aspettava, ricco di prospettive. Un prestigioso incarico a fianco del padre e del nonno. Nuovi successi alla Corsa, se si fosse allenato ancora e meglio. E lui aveva tutta l’intenzione di farlo.

Era pronto. Si sentiva attirato dal suo futuro come mai lo era stato.

E allo stesso tempo soffriva come mai avrebbe creduto possibile, perché la persona di cui si era innamorato non avrebbe fatto parte di quel futuro.

Davanti a lui Káino superò il canale che delimitava il campo con un salto perfetto sottolineato dal suo inconfondibile urlo di gioia. Morifinwë sentì le labbra piegarsi in un sorriso e non esitò a seguirlo. Nell’atterrare sull’altra sponda, il laccio che teneva i suoi capelli si allentò e lui scosse la testa per liberarsene del tutto.

Mentre la terra sfrecciava sotto gli zoccoli di Morvail e il fulgore di Laurelin in piena fioritura pennellava d’oro le spighe mature, Morifinwë riuscì a pensare a una cosa sola.

Diventare grandi era una faccenda complicata.

E costava caro.

 


 

 

LA CORSA DEL CACCIATORE

—   FINE   —

 




 


NOTE

FINITO! (Per ora)
Vi è piaciuto? Vi ha divertito? Vi ha interessato? Oppure vi ha annoiato, e avete resistito fin qui solo perché speravate in qualcosa che poi non è mai arrivato? Quanto mi piacerebbe saperlo! Ma, come Moryo ci insegna, i desideri non sempre si avverano, quindi taglio corto e passo a cose più importanti.

Innanzitutto, i ringraziamenti.

Ringrazio voi che avete letto la storia fino alla fine. Ringrazio chi mi ha dato fiducia, chi ha creduto nella mia storia, che si è lasciato conquistare dalle vicende di uno tra i meno popolari tra i figli di Fëanor (a giudicare dal numero delle fanfic che girano su di lui). Grazie per avermi tenuto compagnia in questi sei emozionanti mesi.

Un ringraziamento particolare va a Melianar e a AdhoMu, che hanno recensito la storia durante la pubblicazione. Quando ero con l’acqua alla gola in quei venerdì particolarmente densi di impegni, o quando rileggendo il capitolo prima di metterlo online non lo trovavo buono come volevo, mi è bastato pensare alle vostre recensioni per tenere a bada l’ansia e ritrovare l’entusiasmo. Vi devo molto. Grazie ragazze.
E come dimenticare Navicellaspazialerotta che, con i suoi telegrafici messaggi, ha seguito Moryo e i suoi amici dal primo all’ultimo capitolo? Grazie Navi.

Ultima in elenco, ma prima per importanza, è la persona senza la quale questa storia non sarebbe mai uscita dal mio computer: la mia beta Kanako91. I suoi consigli hanno reso la storia migliore e il suo incoraggiamento mi ha dato abbastanza fiducia da decidere di condividerla. Grazie di cuore Kan, per tutto.

Ed ora ecco la risposta alla domanda che tutti vi state facendo: sì, ci sarà un seguito!
Sarà una storia dai toni più cupi, perché racconterà di come Morifinwë, ormai adulto, dovrà vedersela con i malcontenti che serpeggiano tra i Noldor, con le incomprensioni in famiglia e con la sua atipica storia d’amore (sì, proprio quella a cui state pensando). È già quasi completamente scritta, ma ho imparato che per me la revisione è la parte più lunga e difficile della scrittura, e che gli imprevisti sono sempre in agguato, quindi non voglio fare previsioni che sarei costretta a disattendere.

Nel frattempo vi saluto.
Herenya-coi, dear readers, e che i vostri desideri si avverino ❤︎

Losiliel

 


Ooops... quasi dimenticavo le note di fine capitolo:

Nomi canonici, conversione Quenya - Sindarin
Morifinwë, Carnistir = Caranthir
Tyelkormo, Turkafinwë = Celegorm
Fëanáro = Fëanor
Nelyafinwë, Nelyo, Russandol = Maedhros

Personaggi di mia invenzione
Káino, il migliore amico di Morifinwë
Lissi, la sorellina di Káino
Rowen, la fondatrice della fattoria, allevatrice di cavalli
Arsanarwë, il maestro di matematica di Morifinwë, marito di Rowen
Morvail, il cavallo di Morifinwë
Haninkë, il cavallo di Káino

Nomi di mia invenzione
Ulvórë, una stagione a metà tra l’autunno e un mite inverno
Meren Tulusto, la Festa dell’Arrivo, importante ricorrenza che festeggia l’arrivo dei Noldor in Aman

E se volete vedere un’altra volta il “mio” giovane Moryo e la “mia” Hellë, eccoli qui.
[ Un giovanissimo Miles McMillan nei panni di Moryo, e una giovane Hilary Swank nei panni di Hellë ]

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