Crema di latte e caffè amaro

di muffin12
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Salve a tutti!
 
Questa storia è la quarta e ultima parte di una serie scritta a due mani da me e LorasWeasley!

La serie si chiama Coffee Break ed è una caféAU e comprenderà:
 

​Auguro a tutti un felice Natale!

Buona lettura!


 

Crema di latte e caffè amaro
 
 
Il buongiorno si vede dal mattino.
 
Il mattino ha l’oro in bocca.
 
Sorridi alla vita e la vita ti sorriderà.
 
Erano frasi che Sakusa non aveva mai capito. Né accettato.
 
Sakusa aveva provato tantissime volte ad alzarsi dal letto ed essere positivo, anche troppe.
 
La sveglia suonava, lui apriva gli occhi e tentava con tutto sé stesso a non avere pensieri negativi, a rivolgersi al sole per il consueto e inutile buongiorno al mondo, a cercare di non innervosirsi per le nuvole grigio ferro che riempivano il cielo in stagioni a caso, evitando persino di imprecare contro le odiosissime tempeste estive che scoppiavano a tradimento.
 
Tuttavia, nonostante i suoi buoni propositi, le cose sarebbero rimaste miseramente statiche, senza accadimenti degni di nota positiva. Anzi, quelli erano i giorni giusti in cui chiunque – sua madre, suo nonno, Bokuto, il fottutissimo Motoya – avrebbe assunto come scopo della propria vita quello di rompergli i coglioni, come se non bastasse la pioggerellina fine che gli entrava nei vestiti nonostante l’ombrello.
 
L’errore era suo, alla fine.
 
Era lui che decideva coscientemente di rispondere alla chiamata di sua madre, sorridendo teneramente ascoltando la sua voce allegra un attimo prima che si trasformasse nel ringhio di un cane a tre teste chiedendogli, per l’ennesima volta, perché mai avesse scelto di andare a vivere da solo – cosa tristemente non vera - quando la loro casa aveva tre camere praticamente vuote, perché i suoi erano vizi, i soldi non cadevano dal cazzo di cielo e lei era stata sempre troppo permissiva verso di lui. Subito dopo veniva la rettifica: “Questa testardaggine l’hai presa dalla famiglia di tuo padre, sapevo che avrei dovuto cedere al biondino carino della classe accanto e non farmi abbind-!”
 
La chiamata terminava consigliandole un hobby e schiacciando il tasto di chiusura, mozzando in quel modo le sue filippiche fantasiose e guadagnandosi qualche ora di tranquillità. Dopo mezza giornata avrebbe ricevuto un messaggio passivo-aggressivo in cui sua madre sottolineava il proprio disappunto, condito comunque dalla promessa di umeboshi fatti in casa che avevano sempre il potere di riempirgli la bocca di saliva e rabbonirlo impunemente.
 
Era sempre lui che, invece, chiamava i suoi nonni, trovando la nonna costantemente impegnata tra le aiuole sempre piene di fiori bellissimi e il suo preziosissimo orto personale e il nonno – sordo e odiatore sano di apparecchi acustici – che faceva finta di capirlo per poi fargli ripetere la stessa frase per venti minuti di fila. Li adorava con tutto sé stesso, ma doveva imparare a cambiare l’orario della telefonata se non voleva arrivare in ritardo a lezioni, lavoro o allenamenti.
 
Sempre lui, inoltre, aveva scelto un lavoro pieno di casi da ospedale, più specificatamente da reparto psichiatrico. Persone che non avevano decenza e che non avevano voglia di combinare nulla che si mischiava a gente che, invece, era anche troppo entusiasta di lavorare, tanto da ignorare la sicurezza sul lavoro di base e decidere di arrampicarsi su delle maledette scatole per raggiungere il ripiano più alto degli scaffali del magazzino, ignorando totalmente la scala posta immediatamente accanto e facendo cadere qualunque cosa con un effetto domino che ancora sfidava i più grandi interrogativi dell’universo.
 
Soltanto Akaashi era riuscito a calmarlo abbastanza da riuscire a farlo rimanere nella stessa stanza con Bokuto senza tentare di ucciderlo, e non era nemmeno il suo turno di lavoro. Tuttavia, era diventato presto pensiero comune che la ferma decisione di Akaashi di essere la metà razionale – non sana di mente, quello no – della relazione che aveva deciso di intraprendere con Bokuto, lo innalzava di diritto a risolutore diretto dei problemi creati dal suo ragazzo.
 
E sempre e comunque lui aveva fatto l’errore più grande della sua vita, quello che avrebbe rimpianto nei secoli a venire, quello che lo faceva svegliare di notte sudato da far schifo e con il sangue gelido di terrore che vagava nelle vene:  vivere con Komori Motoya.
 
Suo cugino Komori Motoya. Il bastardissimo Komori Motoya.
 
Sarebbe stato tutto diverso se avesse preso un affitto da solo, esattamente come lo accusava sua madre. Nome singolo sul contratto di locazione, mobili scelti personalmente, pulizia impeccabile e un lavoro privo di malati mente. Perché anche quello era conseguenza di Motoya.
 
Ne avrebbe sicuramente giovato in sanità mentale e i suoi nervi non sarebbero stati perennemente logori. Li percepiva, invece, suicidarsi in piccoli scoppi ogni volta che Motoya cominciava a parlare – petto, orecchie, dita -, bastava una singola parola per essere assalito dalla voglia di prendere un cuscino e schiacciarselo su naso e bocca per raggiungere, finalmente, il buio tanto agognato.
 
Sarebbe stato un sogno.
 
Ma lui no!
 
Lui aveva dovuto pensare che la compagnia di Motoya sarebbe stata fondamentale.
 
Che la sua voglia di parlare in continuazione lo avrebbe liberato dal senso di solitudine e pazzia che talvolta lo assaliva, in special modo quando entravano insetti volanti/striscianti/camminanti dentro casa. Che con il suo aiuto avrebbe passato meno tempo a lucidare le posate spendendolo di più per sé stesso, che lo avrebbe spinto ad uscire, a socializzare per quanto possibile, ad attraversare il periodo universitario in modo più dinamico e meno oscuro.
 
Quante cazzate.
 
Motoya lo aveva spinto fuori di casa solamente per fuggire a gambe levate dalle sue ciarle inutili, dai suoi tentativi di flirtare con la lavatrice per convincerla ad azzeccare il lavaggio, dal cartone del latte riposto in frigorifero dopo averlo terminato e riempito, invece, di albumi crudi senza minimamente pensare di avvertirlo, dall’utilizzo specifico della tazza personale di Sakusa per scopi nefandi come trasportare girini pescati dal fiume vicino casa dei nonni in campagna per divertirsi ad analizzarne lo sviluppo.
 
Sakusa aveva già Motoya come animale domestico. Non ne voleva altri nella sua casa, era stato categorico.
 
Giroro il girino, comunque, era cresciuto sotto i loro occhi incuranti fino a mostrare un lieve accenno di zampe posteriori. La scoperta aveva scatenato il puro panico ed erano corsi al primo negozio di animali specializzato in anfibi per comprargli un dannato acquario ed informarsi sull’ambiente migliore per la sua crescita e la sua vita.
 
Era stato un giorno di umiliante sconfitta, quello. L’unica consolazione era stato costringere Motoya a tornare al fiume dai nonni per recuperare l’acqua e la vegetazione necessaria.
 
Di conseguenza, Sakusa non si aspettava nulla dalle mattine.
 
Come al solito, la sveglia avrebbe suonato – la suoneria da lui scelta, Fuck You di Lily Allen, sarebbe stata cambiata da Motoya con una particolarmente umiliante, come Surfin’ Bird dei The Trashman ad esempio, in uno scherzo che suo cugino faceva non perché lo trovasse divertente, capì immediatamente Sakusa, ma in un disperato tentativo di richiesta di essere picchiato a sangue -, lui avrebbe aperto gli occhi e la giornata avrebbe fatto automaticamente cagare. La scelta musicale impostata a tradimento da Motoya stava semplicemente a significare la quantità di schifo che avrebbe dovuto affrontare nelle ore successive.
 
Acqua calda che terminava a metà del risciacquo dallo shampoo durante la doccia, phon personale privo di diffusore per chissà quale astruso motivo, lavatrice avviata mentre consumava il suo tempo in bagno – spiegando così la scomparsa dell’acqua calda – e caffè terminato.
 
L’ultimo, se possibile, era la cosa che lo faceva infuriare maggiormente.
 
Perché la pulizia del proprio corpo provato era la base della sua vita, quello che lo mandava avanti nonostante tutto, ma il caffè era la linfa vitale necessaria per poter essere umano. E c’era una differenza abissale.
 
Poteva lavarsi a pezzi. Scomodamente, fastidiosamente, con un livello di furia tale da non poter essere descritto, ma comunque sarebbe stato soddisfacente. L’assenza di caffè nella loro cucina – e nelle sue vene -, invece, avrebbe significato l’Apocalisse.
 
Avrebbe potuto consumarne uno solamente una volta raggiunto il lavoro, avrebbe dovuto sentire prese in giro riguardo la sua – inesistente e decisamente appagante in quel modo – vita sessuale da parte di persone di cui non avrebbe voluto nemmeno conoscere il nome e di cui, invece, era a conoscenza anche l’indirizzo di casa – contro la sua volontà -, avrebbe dovuto rispondere a domande a cui non voleva dar seguito – già, avrebbe dovuto. Non era detto che sarebbe successo, ma aveva scoperto nella maniera peggiore che i silenzi non funzionavano né con Suna né con Kuroo, quindi decideva al momento la cattiveria da sibilare in base al proprio livello di irritazione.
 
Di conseguenza, una mattinata di tale portata lasciava una serie di tasselli liberi di posizionarsi male su una tavola d’esposizione già traballante di suo, fino alla completa realizzazione di quello che sarebbe stato un mosaico di merda.
 
Ma, a dispetto di tutto, quella giornata non iniziò così.
 
Quella mattina, Lily Allen invitò un idiota a guardare nella propria mente ristretta e Sakusa non riuscì a vedere nulla di più roseo di una giornata perfetta.
 
Komori dormiva ancora. Non avvertiva alcun suono molesto provenire dai meandri della casa, rumore inutile di padelle che sbattevano, raschiare di sedie sul pavimento, televisione accesa ad un volume odioso. Nulla.
 
Il bagno era libero, completamente nel pieno delle facoltà calorifere dell’acqua calda sanitaria e il diffusore era già posizionato nel becco del suo phon, in attesa solo di essere utilizzato.
 
Il latte era veramente latte, le uova erano decisamente al loro posto, il caffè riempiva un intero scaffale.
 
Preparò la propria colazione e terminò tutto con gusto. Prese il mangime personalizzato per pesci e diede da mangiare a Giroro. Riuscì anche ad accettare tranquillamente il suo guardarlo con quegli occhietti francamente inquietanti, dandogli dolcemente il buongiorno e non giudicando quella scusa di zampe posteriori che lo facevano sembrare un Muppet uscito male.
 
In uno sprazzo di buonismo, preparò un cappuccino anche a Motoya. Lo decorò con del cacao lasciando l’impronta di una piccola mano con il dito medio alzato, perché gentilezze del genere erano importanti.
 
L’autobus per andare al lavoro era vuoto. Nessun estraneo sudicio che lo spingeva, lo toccava, gli sbatteva contro ad ogni frenata, niente di niente. La mascherina sulla bocca mantenuta per semplice tranquillità.
 
Trovò addirittura Suna al bancone principale intento a pulire la macchina del caffè e il bollitore, la sala ancora completamente vuota per l’attesa dell’apertura.
 
Ecco, questo forse avrebbe dovuto allarmarlo almeno un minimo. Ma la striscia positiva aveva influenzato i suoi sensi ottimisticamente: non avrebbe potuto vedere un rinoceronte che caricava dall’altra parte del marciapiede puntandolo con cattiveria, figurarsi quello.
 
“Yo.” Salutò Suna alzando lo sguardo, le mani che lavoravano tra le macchine in modo certosino. “Sei in ritardo.”
 
Sakusa si accigliò, rimettendosi in piedi dopo essere passato sotto la serranda mezza abbassata. “Non lo sono.” Era sicuro di quello. Lily Allen sfanculava la gente ad un orario preciso, non si sarebbe mai sbagliato su cose del genere.
 
Suna alzò le spalle, lasciando perdere il bollitore per passare a tazze e bicchieri. “Come ti pare, puoi coprirmi per …” Guardò il cellulare e schioccò la lingua. “… un’oretta? Due? Un’ora e mezza. Dopo però, non ora.”
 
“No.” Sakusa lo sorpassò, l’umore che cominciava ad ingrigirsi. Era naturale: Suna che chiedeva favori era uno dei primi segnali dell’Apocalisse, l’avvertimento distratto di disastri di proporzioni epocali, l’inizio della fine. Suna non chiedeva favori, l’intero sistema di Suna era progettato per ricattare affinché potesse ottenere ciò che era sua precisa volontà senza impegnarsi in altro, spesso in modi più o meno legali ma comunque troppo imbarazzanti per poter avanzare denunce di vario genere.
 
Sakusa ancora ricordava la foto che Suna aveva scattato a tradimento quella volta che un suo riccio si era modellato nel sonno in posizione perpendicolare alla sua intera testa, sembrando in tutto e per tutto un Teletubbies incazzato con la sua antenna oscena. Non c’era stato verso né di abbassare la ciocca né di rubare il cellulare di Suna per fargli fare una fine orrenda, quindi l’esistenza di detta foto aleggiava sul suo capo come una nuvola particolarmente infame.
 
“Andiamo.” Suna prese biscotto con un tovagliolo e glielo porse con un sorriso poco raccomandabile. “Poco tempo, nemmeno ti accorgerai che non ci sarò.”
 
Poteva crederci. Suna aveva l’abitudine di togliersi il grembiule e sedersi nei tavoli dalle posizioni tattiche, dondolando sulla sedia e gustandosi i suoi colleghi che si facevano in quattro durante l’ora di punta. Se ne accorgevano sempre troppo tardi e, nel momento in cui alzava il sedere per dare una mano, faceva presente che il suo turno era sempre magicamente terminato.
 
Sakusa guardò il biscotto con espressione truce, ignorandolo per raggiungere il bancone. “Dove devi andare di così importante?”
 
“In cucina, in realtà. Passo un’ora con Kageyama e cerco di convincerlo a preparare meringhe italiane senza motivo.”
 
Sakusa aggrottò lo sopracciglia, non capendo. “Perché?”
 
“Sii sincero, da quando te ne frega qualcosa?” Lo vide sogghignare, inclinando la bocca di lato in un aspetto per niente rassicurante. Mise il biscotto tra i denti mordendolo incurante. “Allora? Mi copri o no?”
 
“No.” Decretò Sakusa, entrando nell’area dipendenti e appuntando mentalmente di segnare il dolce sul conto aperto di Suna.
 
Lo sentì ridacchiare mentre chiudeva la porta, lamentandosi senza nervo giusto per dare aria alla bocca e non gli diede troppo peso. Tolse la mascherina, sentendo nelle viscere di non averne bisogno quel giorno.
 
Suna avrebbe sicuramente trovato qualcun altro per sostituirlo durante quell’ora, ma almeno Sakusa avrebbe avuto a sicurezza di una mattinata tranquilla.
 
Già.
 
Tranquilla.
 
 

*

 
 
Il campanello d’entrata annunciò un nuovo cliente.
 
Inutilmente, capì Sakusa nel modo più duro. Si sarebbe annunciato tranquillamente da solo.
 
“Sunarin, grandissimo infame, ecco i tuoi appunti di merda e non rompere più i co …  oooh!” Sakusa alzò gli occhi insieme a metà locale, osservando con sguardo truce il primitivo che aveva deciso di dare spettacolo alle 8.26 di mattina.
 
Biondo troppo strano, base scura, faccia da schiaffi e nemmeno un accenno di imbarazzo. Lo guardava con occhi enormi andando su e giù per tutto il suo busto, ricominciando da capo ogni volta che si ritrovava bloccato dalla presenza del bancone. Se non ci fosse stato, Sakusa era sicuro che avrebbe scrutato qualsiasi cosa su cui fosse riuscito a poggiare gli occhi. Si irritò automaticamente. “Mi scusi?” Domandò quindi con tono seccato, alzando un sopracciglio in un muto invito dal farlo desistere dal continuare.
 
Sembrò funzionare. Il tizio rimase in silenzio.
 
Restò anche completamente immobile in mezzo all’ingresso e, seriamente, doveva togliersi di lì. Intralciava il passaggio. Decise che poteva essere un tantino meno aggressivo. “Posso esserle utile in qualche maniera?”
 
“Sì.” Uscì fuori gracchiato. Il tizio si schiarì la voce e la faccia da ebete assunse un’espressione di compiaciuta malizia, avvicinandosi al banco bar con passo baldanzoso spostando gli occhi sul suo petto come alla ricerca di qualcosa. Sakusa lo vide appoggiarsi al piano con aria strafottente, inclinandosi con un gomito in un modo che avrebbe dovuto essere affascinante. Non lo era. “Sì, potresti darmi un’informazione?”
 
Sakusa assottigliò lo palpebre ma annuì lentamente, già pentendosi. Quello allargò di più il suo ghigno. “Come ti chiami?”
 
Ed eccolo lì, il momento preciso in cui tutto andò in frantumi.
 
Una mattinata fantastica buttata letteralmente nel cesso per una domanda nemmeno troppo originale – e nemmeno schifosa, a dire il vero. Anonima. Normale. Piatta.
 
Non accettata.
 
La fulminea consapevolezza che pochi attimi prima il tizio stesse cercando la targhetta con il suo nome per quel motivo preciso lo portò ad imprecare internamente. “Signore, preferirei che non mi dia del tu.” Trattenne un sospiro nei suoi polmoni, perché aveva la chiara sensazione che sarebbe stato preso come una vittoria immeritata. “Vuole sapere altro?”
 
“Sai, è buffo.” Di nuovo, confidenza senza diritto. “Ti guardo e mi chiedo quanto sarebbero belli i nostri figli.”
 
Sbuffò, decidendo di cominciare a preparare il frappuccino ordinato dal tavolo in fondo unendo l’utile con il non dilettevole. “Pensiero sterile.”
 
Quello lo guardò sorpreso per un secondo. “Perché siamo due uomini?”
 
“Perché non la farei avvicinare abbastanza per testare la sua teoria.” Gli diede le spalle per caricare il monta latte e sentì un prurito in mezzo alle scapole. Scoccò un’occhiata al di sopra della sua spalla e sì, lo schifoso gli stava puntando il sedere. “Tra le altre cose.” Sibilò, girandosi e guardandolo malissimo.
 
Il tizio gli fece un sorriso storto, nemmeno un grammo di pentimento. “Potrei sorprenderti.”
 
“Ne dubito.” Sentì improvvisamente la mancanza della mascherina. Si maledisse per essersi fidato di sensazioni completamente sbagliate. “Se non ordina nulla può tranquillamente accomodarsi fuori dal locale.”
 
“Oooh, ma sono qui per ordinare.” Lo guardò, gli occhi socchiusi ed espressione compiaciuta che urlava diffidenza da lontano. “Cosa avete di buono?”
 
“C’è scritto nei menù.” Masticò Sakusa, prendendo un bicchiere grande con gesto brusco.
 
“E dove sono i menù?”
 
“Su ogni tavolo.” Sbatté il boccale sul piano e prese un respiro profondo. “La invito a sedersi e scegliere con calma, tra qualche minuto arriverà qualcuno per le ordinazioni.”
 
“Verrai tu?” Ammiccò quando lo chiese. A Sakusa prudettero le mani. “No, i miei tavoli sono tutti completi.”
 
Lo vide mettere entrambe le braccia sul bancone, incrociandole piano e piazzando quella faccia da schiaffi sull’avambraccio più esterno. “E non puoi fare un’eccezione per me?” No. Non lo pagavano abbastanza per avere a che fare con molestatori del genere di prima mattina.
 
“Seguiamo una rigida divisione delle mansioni e delle sezioni.” La cazzata del secolo dal momento che Hinata riforniva regolarmente il ragazzo di Kuroo di torta di mele e bevande infantili uscendo dalla cucina ed entrando direttamente in sala coperto di farina, mentre Akaashi si appropriava dei fornelli ogni volta che era il suo turno per il “rischio del giorno”. Sakusa di solito non mentiva, ma doveva essere sincero: se avesse funzionato non si sarebbe pentito di nulla, men che meno della propria integrità.
 
Seppe di aver fatto un errore enorme quando vide il tizio sogghignare e alzare le sopracciglia con sicurezza. “Vorrà dire che questo diventerà la nostra cosa.” 
 
Questo cosa?” Gli sfuggì in un attimo di debolezza mentale. Sapeva che se ne sarebbe pentito.
 
“Lo sai, questo.” Abbassò le palpebre su quegli occhi da idiota e si portò indietro i capelli. “Avremo il nostro vis à vis qua al bancone e cercherò ogni volta di capire come è possibile che tu sia quasi più attraente di me.”
 
Perfetto. Altro che mattinata, l’intera giornata era ormai interamente da buttare.
 
Sakusa digrignò i denti, sbuffando forte dal naso e ingoiando un’imprecazione che avrebbe incendiato la sua anima nera. “Il suo ruolo di cliente non prevede libertà di questo genere.” Sibilò, stringendo tanto forte il vetro del bicchiere da pensare che potesse rompersi in ogni momento. “Prego, scelga un tavolo e aspetti che qualcuno venga a servirla.”
 
“Lo farai tu?”
 
“Dannazione, sì se mi lascerai lavorare in pace!”
 
“Ah-ha!” Il tizio rise, pieno e sentito e Sakusa soffocò la voglia di lanciargli il bicchiere in faccia. “Sapevo che stavi immaginando il mio omicidio dentro quella testolina riccia!”
 
“Fidati, ho molta poca immaginazione e più intenzioni reali.” Uscì talmente terrificante che quasi non riconobbe la propria voce, ma quello rise solo di più, tenendosi la pancia e accomodandosi al tavolo all’angolo in fondo al locale, quello che dava piena vista al bancone.
 
Fu irritante operare con la sensazione costante di essere osservati.
 
Puliva dei bicchieri da gocce d’acqua insistenti e un brivido correva su per la spina dorsale. Cercava di decorare un cappuccino con il latte schiumato e all’improvviso prudeva qualcosa di irrisorio in modo molto aggressivo, come la fronte appena sopra sopracciglio o la zona del collo poco sotto l’orecchio. Tentava di sistemare tutte le preparazioni su un vassoio e un pizzicore lo attaccava proprio in mezzo alle scapole.
 
Non pago, ogni volta che alzava lo sguardo gli occhi di quel tizio erano fissi su di lui, ad osservare ogni mossa e a rispondere ad ogni suo aggrottamento di sopracciglia con un sorrisone storto e decisamente allusivo. Era a dir poco snervante.
 
Sperò che ignorarlo potesse funzionare e che, vedendo che Sakusa non aveva la minima intenzione di servirlo nel breve periodo, fosse spinto ad andarsene per mai più ritornare, ma quello si sistemò solo meglio sulla sedia – ancora, dannazione a Takeda-san e la sua mania di comodità cortese, davvero ragazzi, dobbiamo coccolare i clienti che lo spinse a decidere di acquistare poltroncine talmente comode da sembrare di star seduti su delle nuvole -  e lo invitava a prendersi il suo tempo con l’espressione più odiosa su cui Sakusa avesse mai poggiato gli occhi.
 
Fu con molto dispiacere che si rese conto della conclusione di tutte le proprie mansioni. Un affronto senza uguali, considerando che di solito sembravano appestargli la vita quando meno ne aveva bisogno.
 
Con la morte nel cuore e una stilla di istinto omicida che gli fioriva nel petto, prese tutto il necessario per un servizio al tavolo della massima professionalità.
 
“Belle gambe.” Il sorriso del tizio biondo chiedeva pugni, la sua uscita deplorevole confermava la sensazione. “È stato un piacere vederle andare in giro fino ad ora.”
 
“Persone sono state denunciate per molto meno.” Sibilò Sakusa afferrando meglio il block notes e impugnando stretto la penna. “Cosa vuoi?”
 
“Conoscere il tuo nome. È possibile?”
 
“Consiglierei di limitarti alle scelte scritte nel menù.” Le sue palpebre si strinsero nel momento in cui il sogghigno del tizio si allargò solo di più. “Cosa mi consigli allora?”
 
Sakusa odiava quella domanda, dal profondo del suo essere.
 
Non concepiva come qualcuno potesse fidarsi dei gusti di un emerito estraneo per qualsiasi cosa, dalla scelta dei pasti al dannato taglio di capelli: se avesse voluto qualcuno che riuscisse fregiarsi di tale potere,  avrebbe scelto di trascorrere un orrendo weekend a casa dei suoi genitori, passando lunghe e tediose ore ad ascoltare l’elenco interminabile di sua madre riguardo tutte le cose sbagliate che Sakusa stava facendo della sua vita secondo il suo modestissimo parere, il tutto contornato dalla risatina occasionale di suo padre e dal suo mugugno accondiscendente ogni volta che veniva interpellato.
 
“È tutto ottimo.” Borbottò quindi, sospirando per l’ennesima volta. “Chiudi gli occhi e punta una cosa a caso.”
 
Lo vide scrutare il menù con sguardo distratto e alzare le sopracciglia dopo aver scorso le righe, improvvisamente interessato a qualcosa. Sakusa sperò che l’incubo fosse finito. “Cos’è il ‘rischio del giorno’?” Si ritrovò ad imprecare sentitamente tra sé e sé. 
 
Ottimo, l’unica cosa su cui non doveva concentrarsi e, naturalmente, lo aveva fatto. Una spina nel fianco fino all’ultimo.
 
Strinse le labbra, schiacciando una fantasiosa maledizione tra i denti. “Non ti piacerà.” Gli assicurò secco, l’espressione più convincente di cui era capace stampata su tutto il viso. “Vai avanti.”
 
“C’è scritto in rosso ed è evidenziato tipo venti volte, ha la mia curiosità.”
 
“È l’avvertimento per i deboli di cuore.”
 
“Il mio cuore pompa una meraviglia.” Quello alzò gli occhi e lo occhieggiò da sotto le ciglia. “Ti guardo e ho quasi paura che riuscirai a sentirlo fino a lì.”
 
“Consiglio una visita cardiologica, allora.” Lo vide ridacchiare e mettere da parte il menù, sistemando i gomiti sul tavolo e poggiando il mento sulle mani unite. Le palpebre erano basse sugli occhi castani, supponenza mista a dispetto che lo portò a sperare di finire la giornata di lavoro in quel momento preciso e di materializzarsi nella sua casa possibilmente vuota. “Rischio del giorno, prego.”
 
Se c’era una cosa che Sakusa concepiva ancor meno del mettersi nelle mani di uno sconosciuto, era un salto nel buio.
 
Il rischio del giorno era quanto di più buio potesse esistere in quel locale e, a volte, ancora si trovava a cercare di far desistere le persone dal compiere quella determinata scelta - magari dopo una valutazione superficiale del cliente in oggetto e la conclusione immediata che, davvero, non gli sarebbe piaciuto quello che aveva programmato Kuroo per quel giorno.
 
Mentre alcuni andavano comunque avanti per la loro strada, ritrovandosi a fare colazione con krapfen farciti con ketchup o tramezzini ripieni di salmone e cannella accompagnati da centrifughe oscene – divertiti e a volte disgustati, ma non sempre in grado di terminare tutto. Tuttavia, la liberatoria che veniva presentata e firmata all’inizio era chiara: andava pagato comunque come punizione per le loro deprecabili decisioni. Sakusa si ritrovava a guardarli orripilato tentare di non vomitare, sperando uscissero in strada piuttosto che insozzare i servizi -, altri cedevano e si votavano alle classiche scelte in programma, confermando così la prima impressione e salvandosi da una mattinata ad amoreggiare con il water.
 
Non voleva passare le ore a disinfettare il bagno per una scelta fuori luogo: era stufo della stupidità del mondo.
 
“Perché prendere qualcosa di cui non conosci la natura?” Si ritrovò a domandare di getto, l’orrore di quella decisione talmente forte che non capì perché lo disse realmente ad alta voce. Il tizio lo guardò stupito. “C’è scritto solo ‘rischio del giorno’, evidenziato e segnato di rosso. Cosa ti porta a scegliere esattamente quello?”
 
“Sono ragionevolmente certo che non mi avvelenerete con candeggina o altro.” Sakusa scosse la testa scocciato, inspirando forte. Ovviamente non lo avrebbero intossicato con qualcosa di chimico, ma le combinazioni inventate in quella cucina avrebbero sterminato degli scarafaggi quando un’esplosione nucleare li avrebbe solo solleticati un po’.
 
Il tizio sembrò capire qualcosa. “Senti, cosa può succedere di male? Che non mi piaccia?” Lo vide alzare le spalle, buttandosi sullo schienale morbidamente. “Prenderò un’altra cosa, allora, pagherò comunque tutto. Ma voglio provarlo.”
 
“È qualcosa che può condizionarti la giornata.”
 
“È uno spuntino, nemmeno il primo che faccio.” Sorrise, compiaciuto per chissà che cosa. “Penso andrà bene.”
 
“Non sai in cosa consiste, non sai che ingredienti ci sono, non sai nulla di questa cosa.”
 
“Me lo spiegherai tu.” Ed ecco dove sbagliavano i più. Si fidavano delle spiegazioni.
 
Sakusa prese un foglio piegato da dentro il block notes, lo aprì e glielo mise davanti, insieme a una penna a sfera. Quello lo guardò come se gli fossero spuntate due teste. “Che ci devo fare?”
 
“Sono contrattualmente obbligato a farti firmare uno scarico delle responsabilità.” Gli spiegò asciutto, facendosi realmente occhieggiare stupito. “Il rischio del giorno è un’opportunità suicida per gustare un accostamento di cibo e bevande preparato ogni giorno da un dipendente diverso, scelto con frequenza randomica da una app maledetta e demoniaca.”
 
“Oh.” Mormorò solamente quello, il pensiero di leggere quanto scritto neanche a sfiorarlo. “E oggi è il turno di …?”
 
“Lo sappiamo solo noi, come sappiamo solo noi in cosa consiste questo rischio. In caso di allergie o intolleranze, hai firmato il foglio, quindi una volta terminato di mangiare puoi avviarti tranquillamente al cimitero.”
 
“Posso rimandarlo indietro?”
 
“Puoi.” Confermò lugubre. “Ma ti verrà comunque addebitato: sai a cosa vai incontro nel momento in cui firmi, è una tua completa responsabilità.”
 
Non capì perché quello lo guardò in quel modo: palpebre basse, sogghigno sfrontato e sopraciglia alte di sufficienza. Lo vide sospirare forte, prendendo la penna morbidamente e, mentre la punta scorreva libera sulla carta, soffiò con convinzione “Sai, ci sono metodi molto più veloci per sapere come mi chiamo.”, cosa che accese i nervi di Sakusa come un falò.
 
Quello schioccò la lingua, ammirando la propria firma senza aver letto nemmeno una parola della liberatoria, porgendogli foglio e penna con gesti fluidi e troppo sicuri. “Chiederlo, ad esempio. Ti assicuro che ti avrei dato ben più del mio nome.” Gli fece l’occhiolino e Sakusa gli strappò il documento di mano, lasciandolo con la penna a mezz’aria come un idiota. 
 
Non sopportava le persone come lui, così piene di sé e baldanzose.
 
Gli avrebbe fatto benissimo affrontare il turno di Kuroo o Bokuto, ma oltre che odioso era anche fortunato: Kageyama cuoceva croissant degni di questo nome, dal colore bruno glassato e la pasta fragrante e alveolata, burrosi e morbidi da sciogliersi sulla lingua. Quel giorno erano farciti di crema al caffè e venivano accompagnati da latte macchiato decorato con cacao e granella di nocciole.
 
Sakusa stesso ne aveva richiesto una porzione per sé, quella mattina. La crema non era particolarmente dolce e Kageyama aveva questa abilità di riuscire a dosare la giusta quantità di espresso in modo da rendere la farcitura decisa e corposa, ma non così pressante da disgustare né troppo blanda da non avere il tipico aroma torrefatto che ci si aspettava.
 
Quando portò l’ordine al tavolo, strabordante di risentimento per la costante ingiustizia presente nella sua vita, la voglia di mordere il croissant davanti la faccia soddisfatta del tizio fu quasi fisica. Non lo fece solamente perché aveva la sensazione che quel gesto avrebbe significato una vittoria immeritata in chissà quale modo contorto.
 
“Beh, non mi sembra di essere in pericolo di vita.” Sentì dire con supponenza, mentre lo guardava girare un cucchiaino nella schiuma di latte bollente.
 
“Con un po’ di fortuna può andarti una nocciolina di traverso.” Sibilò Sakusa con sguardo stretto.
 
“Mi auguro che tu capisca qualcosa della respirazione artificiale,” Si leccò le labbra e Sakusa seguì l’azione con troppa concentrazione. “perché se non sono le noccioline, sarai tu a rubarmi il fiato.”
 
“Spero tu faccia una fine dolorosissima.” E quello rise, per niente toccato dal suo ovvio odio e dalla sua faccia rossa di rabbia. Perché era rabbia, quella, o imbarazzo di seconda mano.
 
“Mi chiedo come farai quando non mi vedrai più, allora.”
 
“I clienti sono come il mal di stomaco.” Spiegò asciutto, sperando una volta di troppo che la mascherina gli comparisse davanti alla bocca come per magia. “Vanno e vengono.”
 
“E ritornano.” Gli fece di nuovo l’occhiolino e a Sakusa prudettero le mani dalla voglia di prenderlo a sberle. “Io tornerò di sicuro.”
 
“Per favore no.”
 
“A proposito, amo questo flirt caratteristico ma devo chiederti veramente una cosa.” Sakusa lo vide piegarsi, sparendo dietro il tavolo per rovistare nel suo zaino. Dopo un paio di secondi, si rialzò con un paio di quaderni spessi tra le sue mani, sbattendoli sul piano con un tonfo arrabbiato. “Suna Rintarou lavora veramente qui o mi ha detto una stronzata?”
 

 
*

 
 
Miya Atsumu.
 
Era quello che era stato firmato su quel foglio, quel giorno. Sakusa aveva faticato a capirlo con quella scrittura secca e troppo svolazzante, ma alla fine fu un’imprecazione di Suna a compiere la magia.
 
Perché, ovviamente, Suna lo aveva raggirato: fermamente deciso di non voler vedere il suo compagno di corso – “È già brutto doverci fare i lavori di gruppo insieme, risparmiamelo.” -, era fuggito in cucina ad infastidire Kageyama, lasciando Sakusa in balia di molestatori seriali nonostante avesse chiaramente dichiarato di non volerlo aiutare. 
 
Per sua sfortuna, Miya tornò di nuovo negli orari più vari, cercando di capire i turni di Sakusa e riuscendoci in meno di una settimana, con suo sommo orrore.
 
La sua venuta veniva annunciata ogni volta da una battuta di dubbio gusto e accompagnata dalla promessa che avrebbe riconosciuto il rischio del giorno di Sakusa nonostante la bassa probabilità. “Sicuramente sarà qualcosa di poco fantasioso.” Gli aveva confessato una volta senza nemmeno troppa colpa quando Sakusa dichiarò il suo sicuro fallimento, nonostante in un mese fosse riuscito ad indovinare gli autori di quasi tutti i rischi che gli si paravano davanti.
 
Il turno di Sakusa non era ancora pervenuto e gli andava benissimo così: Suna aveva dovuto lavorare il triplo con il sorteggio del suo nome avvenuto per quattro volte consecutive. Il karma era una cosa bellissima.
 
Tuttavia, non gli piaceva quell’accusa. “Sei assurdamente sexy ma giochi sul sicuro.” Miya ampliò il suo sorriso e Sakusa aggrottò le sopraciglia. “Sarà facilissimo.”
 
“Non gioco sul sicuro.” Non ci giocava sul serio. Non avrebbe scelto di vivere con Motoya, tra tutte le persone, se fosse stato realmente una persona che giocava sul sicuro. Né avrebbe avuto un girino domestico con tutte le zampe posteriori sviluppate e un’idea di quelle anteriori in procinto di spuntare minacciando la sua tranquillità. Non avrebbe nemmeno continuato a lavorare con Bokuto senza tentare di ucciderlo facendolo passare per un incidente, a dirla tutta.
 
“Beh, dimostralo allora.”
 
Era una trappola. Lo intuiva con tutto sé stesso: tutte le sue cellule urlavano di non dargli corda, di scappare, di girare su sé stesso e cominciare a correre, ma i piedi rimasero bloccati sul pavimento e la bocca cominciò ad andare da sola. “Non vedo perché.”
 
“Perché altrimenti avrei ragione.” E sapeva che ci doveva essere una risposta arguta da qualche parte, lì nei meandri oscuri del suo cervello negativo, lo sapeva perfettamente. Ma si ritrovò a ringraziare solo per la mascherina che gli copriva la bocca stretta e ad artigliare le dita sui fogli del block notes consumato. “Non hai ragione.” Borbottò a bassa voce.
 
Vide Miya cominciare a scavare nella tasca del suo pantalone e tirare fuori qualcosa nella sua mano. “Testa o croce?” Domandò sicuro, facendogli vedere la moneta nel suo palmo.
 
“Vuoi davvero basarti su quello?”
 
“Testa o croce?” Ripeté deciso e Sakusa fece un piccolo passo indietro, non capendo. “Ti stai appoggiando su un calcolo di probabilità di merda per cosa, esattamente?”
 
“Testa, casa mia. Croce casa tu- NO! NON METTERE IL SALE NEL CAFFÈ!”
 
Non capiva perché ogni volta che Miya si annunciava, con la sua classica battuta squallida e lo scampanellio insistente della porta, aveva sempre meno voglia di sbatterlo fuori dal locale.
 
A guardare meglio il quadro generale, non faceva una singola cosa giusta: si fermava al bancone quando gli era stato espressamente ordinato di scegliere un tavolo e rimanerci, cercava di farsi gli affari di Sakusa attraverso tentativi di flirt mal riusciti e innocenti chiacchierate riguardo cose che ovviamente non gli interessavano, ordinava il rischio del giorno abitualmente e riusciva ad indovinarne l’artefice con precisione ogni giorno più allarmante. E aveva fatto amicizia con Hinata.
 
Non era una cosa strana, Hinata faceva amicizia con chiunque, soprattutto nei luoghi più strani. Ma vedere la faccia di Miya rischiararsi quando lo scorgeva affacciarsi dalla cucina … non sapeva perché, ma gli dava fastidio. E quando era infastidito, non era del suo umore migliore. E quando non era del suo umore migliore …
 
“Che palle Kiyo! Hai detto che volevi la soba per cena, mangia questa fottutissima soba!”
 
Motoya aveva preparato la tavola con bicchieri spaiati e mille utensili tra posate e bacchette, la ciotola di soba davanti i loro posti solo in attesa di essere mangiata. E per una volta sembrava veramente invitante, con quel colore nocciola preso dal grano saraceno e il condimento a parte di cipollotto e wasabi, l’odore del mentsuyu che gli aveva colpito le narici appena varcata la porta di casa. L’alga nori che la decorava in striscioline sottili, poi, gli fece venire immediatamente l’acquolina in bocca, ma …
 
“È Zaru Soba.” Sibilò, inspirando forte e cercando di invocare pazienza.
 
Motoya batté gli occhi. “E quindi?”
 
“Siamo in inverno e quello è un piatto estivo.”
 
“Non c’è una legge.” Guardò suo cugino sedersi al tavolo e spezzare le bacchette con un suono secco. “Puoi mangiarlo quando ti pare.”
 
“Ma è Zaru Soba.” Forse ripetendolo più volte avrebbe capito. Non era ottimista in merito, ma c’era sempre una prima volta.
 
Ovviamente non fu quella. “So come si chiama, l’ho ordinata apposta.”
 
“Non potevi prendere qualcosa di più caldo?”
 
“Ma volevi soba e io volevo questa.” Gli fece l’occhiolino e cominciò a mischiare alga e soba con impegno irriguardevole. “Compromesso.”
 
Non quando fra poco nevica.” No, non ce la poteva fare. Sapeva che non avrebbe vinto alcun combattimento contro Motoya, non aveva nemmeno abbastanza pazienza per tentare. Sospirò, ma non era ancora finita. “Esiste lo Yakisoba, il Kake Soba, la Tempura Soba. Ti piace la tempura, perché non hai preso quella?”
 
“Perché volevo Zaru Soba.” Spiegò Motoya lentamente, perché evidentemente credeva che quello stupido tra i due fosse Sakusa. “Non mi sembra difficile Kiyo, siediti e mangia.”
 
Perché doveva affrontare quello ogni giorno?
 
Lavoro, casa, università, nulla si salvava dal mettergli davanti giornate oscene. Solo gli allenamenti avevano il potere di tranquillizzarlo: entrare nella palestra e cominciare a scaldarsi, allenarsi, giocare a pallavolo era l’unica cosa che lo faceva andare avanti. Pallavolo e Giroro, che girava in tondo in quell’acquario troppo piccolo con le sue gambine appena nate facendogli una pena immensa. Si premurò di comprargli presto una casa di dimensioni adeguate, pochi mesi e avrebbero avuto a che fare con una ranocchia completamente sviluppata.
 
“Sai, dovresti veramente riflettere sull’offerta che ti ho fatto.” Mormorò Motoya portando le bacchette piene di spaghetti alla bocca.
 
Sakusa aggrottò le sopracciglia, sedendosi al suo posto e occhieggiando malevolo la sua soba, cercando di capire quanto l’avrebbe rovinata scaldandola nel microonde. “Quale offerta?” Borbottò pensoso.
 
“L’offerta di lavoro.” Rispose suo cugino a bocca piena, facendogli fare una smorfia schifata. “Perché non vuoi lavorare con me? È bello preparare zucchero filato!”
 
“Non dovrebbero farti avvicinare allo zucchero.” Non voleva nemmeno sapere quanto ne assaggiasse Motoya per essere così caotico. Sfortunatamente, era consapevole che le sue energie non erano cambiate di una virgola da che lo aveva cominciato a frequentare, gli innocenti tempi quando era ancora piccolo, credulone e stupido, quindi la colpa non poteva essere solo dei dolci.
 
Motoya mise su un piccolo broncio. “Dovresti farlo tu, in realtà. Magari riesci a toglierti quell’atteggiamento scontroso.”  Mescolò un paio di volte la soba e ne prese un po’, intingendola nello tsuyu carico. “Il tuo lavoro è troppo lontano, potremmo stare insieme di più!”
 
“È esclusivamente per questo che l’ho scelto.” Il café di Takeda-san era posizionato nella parte della città diametralmente opposta al negozio di dolciumi dove Motoya veniva pagato per far danni. Non era nemmeno vicino alla sua università – quel lusso lo avevano Akaashi e Tsukishima -, ma i chilometri di lontananza da Motoya valevano tutti i viaggi che doveva fare per raggiungerlo.
 
Col senno di poi avrebbe dovuto rendersi conto dei personaggi che abitavano quel luogo infestato, ma era abituato ad essere deluso dal comportamento generale dell’universo, quindi non era veramente un problema.
 
Il problema reale, fino a quel momento, sembrava essere solo Miya.
 
Miya, che aveva deciso di passare il suo tempo libero a dargli il tormento.
 
Miya, che non faceva nulla per essere solo un cliente e gli impediva di lavorare liberamente richiamandolo al suo tavolo in continuazione.
 
Miya, che a volte sembrava davvero serio quando lo guardava lavorare dietro al bancone e, sempre più spesso, poteva vedergli negli occhi una sorta di delusione nel riconoscere il rischio del giorno come qualcosa prodotto da altri e non da Sakusa stesso. Come se tenesse veramente ad assaggiare una sua creazione e non volesse realmente prenderlo in giro.
 
Come poteva credergli? In fin dei conti, aveva preventivamente dichiarato la sua mancanza di creatività in materia e avrebbe goduto in modo indicibile nell’avere ragione.
 
A Sakusa non importava cosa pensasse. Se lo ripeté più volte mentre mescolava alghe e spaghetti e avvicinava il brodo al piatto per un condimento più ricco. Non gli importava cosa potesse pensare di lui, dei suoi accostamenti, delle sue scelte.
 
“Sai, ho assaggiato quel croissant che hai provato a fare stamattina.” Sakusa alzò gli occhi dal suo piatto, fulminando Motoya con un’occhiataccia. Motoya allargò il suo sorriso. “Non metterci la marmellata, è troppo dolce.”
 
“È una sfogliata.” Mugugnò contrariato. “E non mangiare le mie cose.” Aveva fatto delle prove per capire cosa potesse funzionare con quello che aveva in mente, ma ogni idea era rivolta ad estremi troppo netti per poter funzionare davvero: troppo o troppo poco dolce, nessuno dei due era adatto per quello che pensava.
 
“Come mai provi queste cose a casa?” Sakusa si rituffò a guardare la sua cena, riempiendosi la bocca con una porzione forse troppo grande. “È la prima volta che lo fai. Vuoi far colpo su qualcuno?”
 
No, decisamente. Stupido Motoya con le sue idee fuori dal mondo.
 
“La cucina del café è occupata.” Si limitò a rispondere dopo aver ingoiato, un malloppo in gola che non aveva intenzione di scendere nel breve periodo.
 
“Ma hai sempre detto che -”
 
“Hinata aveva le sue prove da fare e non c’era spazio per me.” Sperò fosse definitivo e sembrò intuirlo anche Motoya, che borbottò un “Fai come ti pare.” che non aveva nulla di raccomandabile.
 
Sakusa lo guardò prendere qualche grammo di wasabi con espressione concentrata e si ritrovò ad espirare lentamente, senza accorgersi di aver trattenuto il respiro.
 
Non doveva far colpo su nessuno, si disse mentre portava altra soba alla bocca. Quello era solo il suo lavoro.
 
 

*

 
 
“Buongiorno, Omi-kun! Lo sai che questa è la stagione degli amori per i molluschi bivalvi?”
 
Non lo sapeva e non gli interessava.
 
Anzi, ad essere del tutto onesti era sicurissimo che quella di Miya fosse una completa stronzata e che non sapesse nemmeno lui quando fosse la stagione degli amori dei molluschi bivalvi, quindi non gli diede retta e lo guardò male come di consueto. “Questo è il bancone del bar.” Gli ricordò malamente. “I tavoli sono da quella parte.”
 
“Sei sicuro che il tuo cuoricino coriaceo non abbia subito fremiti di fronte alla vista di questo ben di Dio?” Miya allargò il suo ghigno e alzò le sopracciglia con fare allusivo, ignorandolo deliberatamente e ammiccando in una muta richiesta di essere preso a pugni.
 
Sakusa soffocò l’impulso di alzare la mascherina che teneva sotto il mento fin sopra il naso, non sapeva se per la paura di germi influenzali invernali o per mettere una barriera a difenderlo da tutta quella stupidità traboccante. Forse un misto delle due, a pensarci bene, tuttavia si limitò a prendere l’alcool disinfettante e spruzzarlo sul piano del bar con cattiveria, spingendo Miya a spostare il braccio lì poggiato con urgenza. “Se non rispondi la prenderò come un’ammissione.”
 
“Hai appena paragonato il mio cuore a una vongola.” Gli ricordò asciutto, strofinando con una pezza pulita il bancone.
 
“Ho detto mollusco bivalve, nella mia testa era un’ostrica.” Non migliorava la situazione. Davvero, non lo faceva. “Un giorno aprirai quel bel guscio rattrappito e orrendo e scoprirò una perla lì dentro, ne sono sicuro.”
 
“Quale detestabile corpo estraneo dovrebbe scardinare le mie difese per fare una cosa del genere?” Il sogghigno di Miya si fece più lascivo e Sakusa si insultò da solo per l’assist non voluto. “Non aprire bocca, per cortesia.” Sibilò schifato e lo sentì ridere, prendendo un paio di bustine di zucchero sotto i suoi occhi giudicanti.
 
“Dicono che siano le lacrime dell’ostrica a dar vita alle perle.” Gli raccontò con voce morbida, giocherellando con la carta sottile dello zucchero stropicciandola tra le dita. “Lacrime e desideri. Il dolore è grande e l’ostrica piange, fino a formare qualcosa di meraviglioso.”
 
“Secernono una sostanza organica chiamata nacre, la usano per difendersi.” Commentò Sakusa tagliente, dando sfoggio del fiero risultato di ore e ore di cazzeggio totale per evitare di studiare qualcosa di noioso. “Si accumula sul corpo estraneo in milioni di stratificazioni e si forma così la perla.”
 
“Quindi lacrime e desideri.” Affermò Miya convinto e Sakusa non aveva abbastanza pazienza per mettersi a discutere su qualcosa di completamente inventato. “Potresti pensarne qualcuno, già che ci sei.”
 
“Ne ho parecchi, in realtà.” Borbottò duro. Tutti riferiti alla sua pace mentale.
 
“Beh, eccomi qui.” Mormorò Miya sornione. “Uno è esaudito, quali sono gli altri che esprimerai?”
 
Era fastidioso quel calore improvviso.
 
Sentiva le orecchie bollire e maledisse Tsukishima che si metteva a giocare con i riscaldamenti “Perché ho freddo, Sakusa-san, non lo faccio per hobby.” quando, letteralmente, gli unici momenti in cui decideva di muoversi e fare qualcosa di utile era l’attimo in cui c’era da dare il tormento a Hinata e Kageyama per letteralmente qualsiasi cosa.
 
Le dita erano gelate, però. Le avvertiva spingere fredde contro i palmi delle mani, strette forte a pugno, e non riusciva a capirne le motivazioni.
 
“Che c’è, stai pensando a quanto siano afrodisiache le ostriche?”
 
Sakusa batté le palpebre riprendendosi in un secondo, perché quello era un mito da sfatare e la sua anima da distruttore di sogni lo spinse a fare a pezzi anche quella palese bugia. “Non ci sono nessi scientifici sulle capacità afrodisiache delle ostriche.” Lo informò con soddisfazione, il campanello della porta che squillava ad annunciare nuovi clienti. Miya non si girò nemmeno, gli occhi ampi e fissi su di lui. “Ci si basa sul presupposto che contengano zinco, coinvolto nella produzione del testosterone. Tuttavia non ci sono dati sufficienti per confermarne gli effetti su virilità e resistenza sessuale.”
 
Vide Miya ingoiare pesantemente, gli occhi sulle sue labbra come se vomitasse oro. Sakusa aggrottò le sopracciglia. “Ci sei?” Domandò forse troppo bruscamente, ma bastò a fargli battere le palpebre come un gufo demente e mordere la bocca forte. “Ti senti bene?”
 
“Non mi arriva più il sangue al cervello.” Gracchiò e Sakusa lo guardò confuso. “Non pensavo di sentire parole sexy da te prima di qualche mese e, beh, non ero pronto.”
 
Sakusa inspirò profondamente, il calore alle tempie che diventava solo più fastidioso. “Sbrigati ad ordinare e vatti a sedere.” Sibilò malignamente e Miya sembrò riprendersi un po’. “Voglio il solito, mi sembra ovvio.” Mormorò con le guance appena rosee, decidendo per una volta di fare il cliente ed andare a sistemarsi nel suo tavolo personale, quello all’angolo in fondo con la piena vista del bancone bar.
 
Sakusa lo guardò allontanarsi dandogli le spalle e, forse solo in quel momento, comprese la pienezza dell’ordinazione.
 
Il solito.
 
Il rischio del giorno.
 
Espirò lentamente, la coscienza della richiesta che faceva lavorare la testa riempiendola di mille pensieri al secondo. Il peso del messaggio nella chat di gruppo di Takeda-san pesava come tonnellate di pietra, i kanji del suo nome sorteggiato che, per la prima volta, faceva sorgere riflessioni e angosce, tutte per le ragioni sbagliate.
 
Le dita delle mani continuavano ad essere gelate e a nulla valse aprirle e chiuderle per stimolare la circolazione.
 
Alzò la mascherina sulla bocca, cominciando ad armeggiare con la macchina del caffè con gesti consumati. L’odore di caffè lo avvolse immediatamente come una coperta ma, in quel momento, non riusciva a calmarlo come invece accadeva sempre.
 
Il vapore bollente lo accarezzava in anticipazione, l’aroma tostato lo colpiva di agitazione e l’essenza familiare non faceva nulla per tranquillizzarlo, per dargli una scossa, per fargli alzare la testa ed affrontare quello che, alla fine, era solo un cliente con il disinteresse che lo aveva sempre contraddistinto.
 
Il mento, invece, era basso. Le sopracciglia corrucciate di pensieri dubbiosi, il respiro profondo e duro, la libertà di inspirazione piena bloccata dallo schermo della mascherina, che in quel momento avvertiva come fastidio e ancora al tempo stesso.
 
Il cliente, in realtà, era quanto di più lontano dalla definizione di cliente potesse esserci.
 
Beffardo, imbarazzante, fastidioso. Lo aveva sfidato immediatamente e non gli consentiva di renderlo dimenticabile, piazzandosi dove non doveva con quel sogghigno odioso e spingendolo a farlo fallire.
 
Forse era quello il problema. Forse era dovuto a quello l’irrequietezza che stava provando nel posizionare il suo rischio – pensato, ricercato, ragionato – nel solito vassoio di tutti i giorni, prendendolo con mani sicure e fredde e cominciare a camminare verso di lui.
 
Lo aspettava, notò.
 
Lo aspettava sempre, anche quando aveva già il tavolo imbandito di qualsiasi diavoleria fosse prevista per quel giorno, attendendo la fine delle sue mansioni per richiamarlo e intontirlo con parole vuote e occhi troppo attenti.
 
Ma in quel momento era come se avvertisse qualcosa.
 
Era serio, a guardarlo con occhi accorti incappucciati da palpebre pesanti, seduto dritto con le guance ancora rosee per poco prima, quell’ammissione forse sfuggita ma che non aveva ripreso indietro.
 
Quando arrivò al tavolo lo vide mordere leggero il labbro inferiore e guardare da lui al vassoio trattenendo il respiro.
 
“Non c’è zucchero.” Informò Sakusa e si stupì di come la voce sembrasse naturale. Ferma, decisa, seccata, tutto il contrario dell’agitazione che avvertiva nei polmoni e del sangue che lasciava gli arti per concentrarsi in alto, a bollire le orecchie. “Non è previsto.”
 
“Va bene.” Lo disse piano, una pura constatazione. “Non mi farai firmare la liberatoria stavolta?”
 
Sakusa si bloccò.
 
Aveva completamente dimenticato lo scarico di responsabilità e questa fu la consapevolezza finale che qualcosa non stava andando come avrebbe dovuto: lui non faceva questi errori.
 
Non era normale tutta quella situazione, in realtà, anche se si trattava del classico servizio per cui era pagato e che compieva infinite volte nei suoi turni. C’era qualcosa di non detto, di non percepito ma sottilmente presente, atto a portargli mille pensieri inutili e a farlo sentire come se fosse sulla graticola.
 
“La puoi firmare più tardi, ormai conosci la procedura.” Si limitò a dire, servendo il rischio con calma apparente ed equilibrio forzato.
 
Leccò il labbro inferiore quando Miya abbassò gli occhi - ringraziò la mascherina per proteggerlo da quella debolezza.
 
Caffè nero profondo, scuro come la morte e altrettanto saporito ad attendere in una tazzina in vetro brillante, i bordi appannati dal calore eccessivo che si sprigionava in rivoli di fumo tostato, che saliva sinuoso e si perdeva tra i mille odori del café. Subito accanto, sfoglia intrecciata in nastri arzigogolati, alta e burrosa, a nascondere latte in crema di una dolcezza delicata, il sentore di vaniglia che ci si poteva aspettare abbandonato in favore della pienezza familiare del latte puro, il grasso zuccherino che foderava il palato e assicurava la certezza di volerne ancora.
 
Si chiese se anche Miya avrebbe provato le sue stesse sensazioni, lo stesso picco di stupita sorpresa quando aveva assaggiato il prodotto finito lì, nella sua cucina, tra il lavello pieno di stoviglie sporche e il forno bollente per la cottura ultimata. Si chiese se gli sarebbe piaciuto come era successo a lui o lo avrebbe rimandato indietro, un connubio che non incontrava i suoi gusti. Si chiese se potesse riuscire a capire che si trattava del suo rischio e se l’accenno di delusione che sentiva nel petto ad un papabile rifiuto sarebbe rimasto tra i suoi polmoni o si sarebbe volatilizzato.
 
Pensò che, alla fine, non gli interessava veramente, che Miya non aveva alcuna voce in quel capitolo personale, che sicuramente si sarebbe liberato di lui e sarebbe stato finalmente tranquillo.
 
Scoprì sconfitto che erano tutte cazzate.
 
Lo guardò prendere la tazzina e portarla alle labbra, soffiando piano senza staccare gli occhi dai suoi e prendendo un piccolo sorso. Lo vide afferrare il dolce e morderlo vorace – bocca grande e schegge di sfoglia a volare ovunque, cadendo sul piattino e sul tavolo. Uno sbuffo di crema bianca sopra la bocca, a farlo deglutire con forza e spingerlo a premere le labbra tra loro fino a farsi male.
 
Continuava a guardarlo masticare e leccare frammenti dorati, punta di lingua rosa e bocca rossa di calore e altro.
 
Sorseggiò altro caffè, assaporandolo meglio, mischiando l’amaro puro della sua essenza con la dolcezza calda del latte in crema e sorrise.
 
Non in modo scanzonato. Non con cenni allusivi.
 
Sakusa batté le palpebre, guardando il sorriso più sincero che gli avesse mai rivolto intento ad incendiargli lo stomaco e terrorizzare l’animo.
 
“Eccoti qui, alla fine.”
 
 
 

 


 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2

 
Sakusa non era felice di quella situazione.
 
Sapeva che era stupido anche solo far sorgere pensieri del genere - come se poi lo decidesse lui e non si presentassero sfacciatamente nella sua mente, spuntando malevoli e bastardi come Motoya in mutande alle proprie spalle durante una conferenza telematica con il suo professore più stronzo - ma era scocciato dal contesto generale, e da Miya nel particolare, ed era perfettamente consapevole che si trattava solo di uno spreco di tempo, energie e neuroni. Soprattutto neuroni.
 
Tuttavia esserne consapevoli non migliorava nulla, nella maniera più assoluta. Al contrario, quella situazione lo rendeva solo più incattivito verso il mondo.
 
Perché sentire l’odiosissimo campanello della porta trillare oscenamente e ritrovarsi ad alzare gli occhi di scatto con un fremito di anticipazione - come era successo, maledizione a lui, ogni volta che era entrato un qualsiasi cliente, acquisendo uno sgradito e rivoltante strato di delusione nel suo demoniaco petto cavo (parole di Motoya) alla vista di ogni estraneo pagante che toccava il profano pavimento del café - solo per riuscire a concedersi di rilassare le spalle tese da ore alla semplice vista di familiari capelli biondi e di un sogghigno compiaciuto, aveva il potere di fargli odiare sé stesso come mai prima.
 
Era da deboli ritrovarsi a dover aspettare un paio di occhi brillanti di malizia che facevano cose strane al suo petto, che rendevano i polmoni balbettanti di aria rarefatta e doloranti di aspettativa trattenuta, castano caldo coperto da palpebre pesanti e sfacciate che avrebbe voluto oscurare, coprire dalla sua vista e allontanarsene quanto più velocemente possibile.
 
Era da falliti attendere il momento in cui avrebbe potuto poggiare di nuovo gli occhi su quei capelli dal colore discutibile – quel giorno spettinati, vivaci, come se avesse passato le dita più volte tra quelle ciocche stupide e li avesse solo sistemati peggio, consapevole forse che Sakusa avrebbe stretto le mani a pugno costringendo le dita nella loro stessa morsa ferrea pur di non toccarli, l’istinto di raddrizzare qualcosa di storto soffocato da pura volontà e traballante abnegazione.
 
Era da pazzi accorgersi che il pensiero a volte si allontanava fino ad arrivare a lui, ritrovare a domandarsi smarrito se tutte le sue parole, tutti i suoi tentativi di qualcosa, fossero davvero la solita presa in giro o si trattasse realmente di mani protese in attesa di una risposta seria, pazienti e fiduciose, imbarazzandosi subito dopo per quelle riflessioni vergognose e pensando che niente avrebbe potuto essere meglio del proprio tanto agognato equilibrio, della propria stabilità emotiva, della propria sicurezza personale e mentale.
 
Vederlo lì davanti la porta d’entrata, fermo a ricambiare il suo sguardo con espressione lieta lo aveva spinto ad odiarlo ed odiarsi, sentendo le sopracciglia aggrottarsi di riflesso e le spalle un attimo prima libere – quando lo aveva scorto –, subito racchiuse e strette in avanti, uno scudo spontaneo che si attivava autonomamente e avanzava barriere invisibili col solo scopo di porre distanze.
 
Soltanto in un secondo momento notò un viso particolarmente simile a quello che infestava il suo animo. Capelli diversi, faccia mezza addormentata e mezza infastidita, lineamenti spiccicati, un vago disinteresse per il mondo quando l’altro era pronto a conoscerne ogni angolo per il solo gusto di prendersi gioco di tutto. Vestito, inoltre, in un contestabilissimo pigiama.
 
Sakusa guardò velocemente i piedi di quello che, ovviamente, era il gemello di Miya, constatando con sollievo che aveva almeno deciso di indossare le scarpe.
 
La scoperta di quel secondo Miya gli aveva fatto sbocciare dal nulla un’irritazione improvvisa, andando ad alimentare quel disagio interiore che lo aveva accompagnato da quando fu il suo turno per il rischio del giorno.
 
Perché se poteva tranquillamente capire il motivo per cui non conoscesse l’esistenza di un gemello – riconoscendo in parti uguali il suo completo disinteresse in materia e, al tempo stesso, la sua assoluta mancanza di volontà di approfondire il loro rapporto più di quello che sarebbe dovuto esistere tra cliente e cameriere, cercando di soffocare senza successo i tentativi di conversazione di cui si era trovato vittima e ritrovandosi per quello, in quel momento, a detestarsi senza alcun motivo logico -, non capiva come mai Miya non avesse proferito altra parola su qualcosa che, a quanto proclamava a gran voce, aspettava da quando era entrato la prima volta nel café.
 
Sakusa si era preparato a battute di dubbio gusto sulla scelta degli accostamenti, aveva immaginato qualsiasi sbeffeggio potesse decidere di rivolgergli, confidava in critiche più o meno originali ma decisamente spietate, accompagnate da sorrisi derisori e parole salate, graffi nascosti, brucianti, ma non così importanti da portarlo a scoprirsi senza vergogna.
 
Non fu pronto per un sorriso caldo e per parole che lo agitarono in un modo che non si sarebbe mai aspettato.
 
Eccoti qui, alla fine
 
C’era stato affetto in quella voce. Incomprensibile, insensato, accecante affetto.
 
C’era stato anche altro che non riusciva a decifrare e, ad essere sincero, non pensava potesse riuscire a capire di cosa si trattasse.
 
L’unica cosa che aveva avvertito immediatamente, e che gli aveva agitato le membra rimestandole senza delicatezza, era che si era sentito nudo di fronte a quella frase, spogliato di ogni barriera fisica davanti ad occhi castani dorati, da cui gocciolava qualcosa che non poteva comprendere.
 
Miya non aveva detto altro.
 
Aveva consumato il suo ordine – raccogliendo ogni singola briciola di sfoglia, non lasciando nemmeno un goccio di caffè -, aveva firmato postumo una liberatoria oramai legalmente inefficace pagando quanto dovuto, lo aveva guardato con gli stessi occhi pieni di cose e lo aveva salutato, promettendo solo di ritornare.
 
Sakusa ne fu furioso.
 
Non una parola in più, non una smorfia rivelatrice, niente di niente e, nonostante stesse bollendo di stizza malamente repressa e sarebbe stato decisamente intelligente non farlo innervosire più del dovuto, Bokuto aveva scelto proprio quel giorno per portare il suo cane zuppo di pioggia nella zona dipendenti, facendolo scrollare di acqua e fango dappertutto concedendogli così di spargere sozzume immorale in giro come se fosse casa sua.
 
Non ci aveva visto più.
 
Si era sfogato con più acrimonia del dovuto contro la volontà inerme di Bokuto, spingendolo a fuggire a gambe levate dalla sua ira traboccante per rifugiarsi tra le braccia – virtuali, optando per una disperata chiamata rapida – di un Akaashi oberato di impegni universitari, mentre Sakusa aveva cercato disinfettare l’intero spogliatoio prima di capire che sarebbe stato inutile se non avesse sistemato a monte l’artefice di quel Pollock fangoso e schifoso.
 
Si armò quindi di tantissima pazienza, afferrò il guinzaglio di Neve e la portò nella prima toeletta per animali disponibile per una ripulita fuori programma, intestando il pagamento a nome di Bokuto e arrivando, con molto stupore, a trarre una sorta di conforto appagante nel profumo del pelo appena pulito di Neve – calore e shampoo fresco, una punta di pino che lo intrigava e che lo faceva sorridere d’istinto - e nei tentativi falliti di baci salivosi ogni qualvolta si ritrovava troppo vicino al suo raggio di azione.
 
Neve lo aveva aiutato a calmarsi, con una semplicità tutta canina e decisamente accettata, ma l’irritazione continuava sobbollire sottopelle e nemmeno discutere con suo cugino aveva dato i risultati sperati: paradossalmente, provò un attaccamento morboso a Giroro e capì che solo gli animali riuscivano a non spingerlo a fare una strage.
 
Il pazientissimo Giroro, con le sue zampine anteriori quasi del tutto sviluppate e i suoi occhioni vaghi di chi si stava accorgendo del mondo per la prima volta, si era meritato un acquario più grande che gli permettesse di sognare ore di nuoto e ore di respiro con i suoi piccoli polmoni anfibi, concedendogli così di iniziare la sua vita da rana e passare le sue giornate in acqua o sulla terraferma a piacimento. Sakusa non era mai stato più felice di fare un regalo a qualcuno prima che Giroro entrasse nella sua vita. Se acquistò anche un cuscino grande in memory foam da posizionare nella sala dipendenti per Neve era semplicemente perché quella cucciolona aveva già la sventura di avere Bokuto come padrone, si meritava decisamente il meglio e Sakusa glielo avrebbe dato senza batter ciglio.
 
Gli animali – a debita distanza o con un vetro a separarli da lui – avevano un pregio che gli umani non riuscivano nemmeno a tentare di emulare: erano onesti. E Sakusa apprezzava l’onestà con tutto sé stesso.
 
Miya non era stato onesto.
 
Miya aveva passato settimane ad assillarlo con quella sfida unilaterale – bugia –, settimane ad indovinare creatori di rischi lamentando che non fossero i suoi, settimane a promettere che avrebbe riconosciuto la sua mano – la sua testa, il suo sé – con la sicurezza di chi non aveva mai sbagliato in vita sua, per cosa poi?
 
Effettivamente lo aveva fatto, ragionò Sakusa arrabbiandosi ulteriormente, osservandolo bloccarsi a pochi passi dall’entrata seguito a ruota da suo fratello, che si guardava in giro come se non avesse mai visto un café in vita sua. Lo aveva fatto, aveva indovinato e poi più niente. Non sapeva se gli fosse piaciuto – che importava alla fine? -, non sapeva se si fosse aspettato altro – non erano suoi problemi -, non sapeva se avesse cambiato idea su di lui – non lo faceva certo per quello, non gli interessava nulla di quello che pensava.
 
Ma guardarlo agitarsi per le parole del suo gemello, dividersi da lui urlandogli di occupare il suo posto abituale, cominciare a camminare verso Sakusa con passo baldanzoso … gli fece montare una rabbia che lo spinse ad afferrare il contenitore del sale d’istinto.
 
“Eccomi! Scusa per il ritardo, è da molto che aspetti?” Lo disse con un sorriso per nulla raccomandabile, che gli saliva laterale su per il viso ed era accompagnato dai soliti occhi scanzonati anche troppo sicuri.
 
Sakusa notò con la coda dell’occhio Suna passargli dietro nella classica tenuta di camicia bianca e grembiule verde che indossavano tutti i dipendenti – e che per una volta non era sparita chissà dove, segno che forse avrebbe realmente lavorato -, fare un gestaccio osceno a Miya – prontamente ricambiato – e armarsi di block notes per servire l’altro Miya, quello già seduto al tavolo e che sembrava ad un secondo dall’addormentarsi sulla sedia.
 
Sakusa vide Miya seguire con gli occhi il suo compagno di corso, una smorfia schifata che gli comparve improvvisamente sulla faccia. “Dici che mi devo preoccupare?” Domandò a mezza bocca, guardando di sfuggita la mano di Sakusa sul barattolo sbagliato. “Perché prendi il sale? Ancora non ho detto nulla!”
 
“C’è tempo.” Lo avvertì semplicemente stringendo le dita sul coperchio. “Puoi aspettare al tavolo con tuo fratello.”
 
“E perché mai?” Lo derise spalmandosi sul bancone. “Come fai a sapere che è mio fratello?” Sakusa lo guardò malissimo. Miya ebbe la decenza di imbarazzarsi. “Voglio dire, potrebbe essere un clone.”
 
“Spero che la scienza non arrivi mai a tanto.” Sospirò di nuovo, sentendo caos di pentolame caduto e improperi di Kageyama contro Hinata provenire dalla cucina. Non aveva la pazienza per qualunque cosa fosse successa, non quando cercava di trovarne un briciolo con la persona che aveva davanti. “Sai già cosa ordinare?” Gli domandò seccato. “Non assicuro che arriverà a breve.”
 
“Come se volessi andarmene presto.” Ammiccò con fare spavaldo e Sakusa sentì le orecchie arrossarsi automaticamente. Merda. “Rischio a parte, cosa consigli? Samu ha deciso che ha fame per quaranta persone, dagli quello che ti pare.”
 
Si ritrovò a battere le palpebre, confuso da quella richiesta. “Vuoi ancora il rischio?” Domandò, perché non aveva alcun senso: aveva vinto, aveva assaggiato la creazione di Sakusa e ne aveva indovinato l’artefice, cosa voleva ancora?
 
Miya però sembrò stupito da quella domanda. “Sì.” Mormorò confuso, le sopracciglia leggermente corrucciate. “È un problema?”
 
Sì, era un problema. Perché il rischio del giorno, con la probabilità di un’assegnazione cattiva al 63,33%, destinava la giornata di chiunque letteralmente nel water, quindi qual era lo scopo di quella cocciutaggine? “Sai qual era il mio rischio.” Sputò incattivito. “Puoi smetterla.”
 
“Ma io voglio conoscerti di più.” Spiegò mordendosi la bocca, l’intenzione completamente differente da come l’aveva avuta fino a quel momento. Se prima tentava di essere accattivante, provando a farlo cadere nella sua insulsa rete di moine e battute d’abbordaggio al limite dell’umana decenza, in quella situazione sembrava quasi … imbarazzato. Rosa leggero sulle guance a mischiarsi con la pelle naturalmente abbronzata, gli occhi grandi a cercare una reazione che forse non riusciva a trovare.
 
Ma non poteva farlo, non poteva sapere dove cercare, perché Sakusa era rimasto impietrito di fronte a quell’ammissione naturale. Lui stesso in primis non avrebbe capito dove puntare l’attenzione, perché ne fu talmente stupito da non sapere cosa dire.
 
Fu una fortuna che Miya spostò gli occhi al tavolo in cui Suna e suo fratello stavano chiacchierando, sibilando un “Merda.” sentito e  un “Continuiamo fra poco.” che gli fece sperare che non accadesse mai, che succedesse in quel momento, che lo lasciasse in pace e non lo facesse in egual misura.
 
Lo seguì camminare con passo aggressivo fino al suo posto preferito, argomentare con parole che non riusciva a capire ed espirò, il respiro che non sapeva di aver trattenuto.
 
La rabbia era evaporata, scoprì con panico. Completamente annullata, spazzata via da un qualcosa che sembrava troppo una promessa per poterlo far stare tranquillo.
 
Alzò di nuovo gli occhi e incontrò quelli di Suna, furbi e calcolatori. Sogghignava, lo stronzo.
 
Sakusa incattivì il suo sguardo e lo invitò ad andarsene a quel paese con un gesto ben preciso.
 
 
*
 
 
Era ipnotico guardare Suna destreggiarsi con la cottura.
 
Malgrado la conoscenza comune, alimentata comunque dal diretto interessato non facendo assolutamente nulla per guadagnarsi effettivamente lo stipendio, Suna era capace di immergersi nel mondo dei dolci in modo assolutamente incantevole: era lui che proponeva idee bizzarre riguardo il cabaret di paste e pasticcini che ogni sabato Hinata e Kageyama organizzavano per la settimana successiva, discutendo con loro riguardo abbinamenti di gusto e consistenze più o meno cremose come il più consumato dei maître pâtissiers, armandosi addirittura di vari social per riuscire a visualizzare l’idea di fondo che stava intendendo; sempre lui aveva avuto l’idea di utilizzare Osamu – senza alcun doppio fine aveva assicurato con un’espressione astuta che urlava decisamente il contrario – assegnandogli il ruolo di assaggiatore ufficiale – e cestino dell’immondizia ufficioso – per avere un parere esterno obiettivo e professionale. Sempre lui, inoltre, decideva che il gioco non valeva la tanto agognata candela sforzandosi il minimo necessario per produrre un rischio che corrispondesse al creatore nel modo più adeguato possibile.
 
O quando, invece, ne valesse anche troppa.
 
Sakusa, quindi, aveva dovuto servire a Miya – quello biondo e rumoroso – una busta di patatine gusto classico e un succo di frutta alla pera che era rimasto nello stock originario in magazzino per un periodo indecifrabile di tempo – aveva controllato se fosse scaduto, prima: non gli piaceva gente che insozzava il bagno che era costretto ad utilizzare anche lui.
 
Ne fu abbastanza soddisfatto, anche solo per vederla come una fantasiosa punizione per la deprecabile scelta di vita di Miya di continuare ad seccargli l’esistenza ordinando rischi tutte le volte, avendo comunque il buon gusto di servire l’ordine rimanendo con la faccia completamente inespressiva.
 
In quel momento, però, lui, Kageyama e Miya erano fermi al bancone del bar, osservando un Suna dallo sguardo concentrato armeggiare in cucina tra spatole e fornelli, roteando per chissà quale motivo una pentola piena di zucchero apparentemente senza sentire il bisogno di fare altro.
 
“Non capisco.” Borbottò Miya sgranocchiando rumorosamente una patatina, gli occhi fissi sulla figura di Suna come se fosse uno strano animale misterioso. “Se questo che ho io è il suo rischio del giorno, cosa sta facendo esattamente?”
 
Sakusa spostò lo sguardo da Suna – che era passato a scaldare un qualcosa di liquido bianco che sperava fosse latte o panna – a Miya, l’occhio decisamente giudicante. “Mi sembra ovvio.” Sospirò piano, facendo un impercettibile cenno di saluto a Tsukishima entrato nel café in quel momento preciso, guardandolo togliersi le cuffie con sguardo tagliente.
 
“Perché è in cucina?” Lo sentì domandare secco, il tono giudicante accompagnato dalla sistemazione degli occhiali sul viso. L’espressione disgustata rendeva tutto molto evocativo. “Non sapevo nemmeno sapesse dov’era.”
 
“Devo controllare il forno.” Borbottò invece Kageyama cercando di occhieggiare eventuali sbuffi di fumo rivelatori. Era infastidito dall’avere il suo regno occupata e Sakusa poteva simpatizzare. “Devo tirare fuori i croissant.”
 
Tsukishima sbuffò. “È concentrato, non si accorgerebbe nemmeno se smontassi la cucina con lui dentro.”
 
“Vi sento.” Mormorò piano Suna, aggiungendo a filo il liquido caldo nella pentola dello zucchero.
 
“Perché hai cacciato Tobio-kun?” Domandò Miya aggressivo, la voce alta che riempiva il locale in modo spiacevole. “Voglio il suo rischio del giorno, il tuo è una fregatura!”
 
“Miya-san, non è il mio turno oggi.” Si limitò a dire Kageyama, varcando di soppiatto la porta della cucina per controllare lo stato dei suoi dolci.
 
“Non è giusto, questa roba non è accettabile!”
 
“Hai firmato, lo è.” Suna cominciò a mescolare cauto con un mestolo, l’odore dolce dello zucchero sciolto attenuato da quello grasso e familiare della panna calda. “Chissà per quanto devo girare questa roba.”
 
“Cosa sta facendo di preciso?” Borbottò Tsukishima sotto il ringhio di Miya.
 
“Il suo rischio del giorno personale.” Sakusa decise di averne abbastanza dello spettacolo e si voltò, scrutando Miya sotto sopracciglia aggrottate. “Esistono dei tavoli.” Gli ricordò malamente.
 
“Con sedie molto comode, vero, ma non avrei lo spettacolo.”
 
“È Suna che fa cose.” Gli ricordò seccato ma Miya lo guardò dall’alto al basso con un sorriso laterale e Tsukishima se ne andò via con un verso disgustato, lasciando Sakusa con la voglia di uccidere tutti. “Sei vergognoso.”
 
“E tu illegale, ma non mi sto lamentando.” Sorseggiò del succo dalla cannuccia e Sakusa assolutamente non fissò quelle labbra porsi in avanti come per un bacio. Non lo fece. Aveva standard. “Scommetto 2000 yen che fra poco mi manderai via.”
 
“Vinceresti facile, cerco di mandarti via da quando sei entrato la prima volta.” Inspirò forte, perché il risucchio balbettante della bevanda era odioso. “Per cosa ti dovrei cacciare?”
 
Miya non rispose. Prese qualcosa dalla tasca del giubbotto – una sottospecie di scatola incartata, così simile alla confezione del burro che Sakusa non capì del tutto cosa stesse guardando -, arraffò una generosa manciata di caramelle dal barattolo sempre aperto sul bancone e cominciò a camminare all’indietro verso il suo tavolo preferito, sogghignando soddisfatto ed esclamando “Chi mi ama mi segua! E porti un coltello!”.
 
Sakusa si limitò a considerarlo per un breve secondo per poi spostare lo sguardo su Suna meritandosi così un “Omiii …” lamentoso che fece finta di non sentire. Fu solo dopo ventitré volte che sentì storpiare il suo nome in modo ogni volta più irritante che maledisse Suna per averlo spifferato a Miya tempo addietro,  impugnando un coltello aggressivamente per raggiungerlo a passo di carica. Fortunatamente i clienti veri erano abituati a tutto ciò. “Abbassa la voce, disturbi la gente perbene.” Sibilò facendo scivolare la posata sul tavolo, occhieggiando quello che avrebbe dovuto essere burro e che invece, con quell’odore di pulito e profumo, si rivelò essere … “Sapone? Perché diavolo hai del sapone?”
 
“Per fare delle caramelle.” Spiegò Miya divertito, scartando il dolcetto effettivo e ficcandoselo in bocca, cominciando a tagliare il sapone. “Vuoi aiutarmi?”
 
“No.” Lo vide alzare le spalle incurante e formare un cubetto, arrotondandone le punte con dita esperte. Sakusa rimase quasi incantato nell’osservare i polpastrelli che passavano sicuri su lati netti, ammorbidendo la pasta saponata con il calore naturale del corpo e modellandola in modo particolarmente simile alla caramella originaria. C’era odore forte di lavanda e igienico tutto intorno e il chiarore pastoso della mattonella gli faceva prudere le dita per la voglia di toccarla. Arricciò il naso, cercando di darsi una svegliata. “Non capisco bene a cosa servano.”
 
“Samu è particolarmente idiota in questo periodo.” Miya si limitò a spiegare quello, accompagnando tutto da un cenno della testa verso la cucina e Sakusa, con suo sommo orrore, comprese fin troppo bene.
 
Suna era ancora lontano dal raggiungere i veri maestri di quella situazione – Kuroo era stato semplicemente imbarazzante, soprattutto quando il suo iroso amico basso lo raggiunse per deriderlo dell’esperimento con il “cocktail”, ma Bokuto era arrivato ad adottare un cane. Sakusa non comprese bene se per Akaashi, per ottenere la sua bramosa attenzione con metodi curiosi o per chissà quale altro dannato motivo, ma ora si ritrovava una cucciolona di grandi dimensioni che tentava di assalirlo per riempirlo di baci a turni alterni -, ma doveva dire che si stava impegnando tantissimo per non essere da meno in quanto a disperazione.
 
Suna, con molto buonsenso, aveva studiato l’animale puntato e aveva deciso che il cibo sarebbe stata la strada migliore. Era consapevole che le parole sarebbero state ancora meglio, non si poteva certo dire che Suna non fosse una persona che analizzava qualsiasi lato di quella strana medaglia accartocciata, ma sarebbe stato meno umiliante ingozzare il Miya poco assillante di materiale edibile e sperare che questo parlasse al posto suo. Il rischio personale che stava tentando di progettare ne era la prova.
 
“Sei sicuro di non volerti sedere?” La domanda arrivò leggera, apparentemente porta senza particolare interesse. Ma lo sguardo di Miya era basso, notò Sakusa, puntato sul lavoro tra le sue mani, le dita che lisciavano un angolo con troppa pressione e lo appiattivano malamente. Lo vide passare il cubetto di sapone tra i palmi, arrotondandolo e schiacciandolo per ricominciare da capo, la pelle rosa dorato sporca di schegge bianche. “Non devi toccare nulla se non vuoi.”
 
Bastava anche solo parlare, questo sembrò intendere. Solo passare tempo insieme.
 
Al di fuori dei ruoli coperti – cameriere e cliente come nelle rom-com più squallide mai girate esistenti -, al di là di barriere fisiche delineate – il bancone del bar, ancora sicura per le sue difese, concreta traccia di tentativi insinuanti e parole viscose, che lasciavano ogni volta in egual modo tracce di fastidio imbarazzato e appagamento inopportuno –, al di là di qualsiasi cosa ci fosse stata fino a quel momento.
 
Potevano essere tentativi di dispetto, frasi fuori luogo mirate ad esperimenti confusi e sogghigno sghembo che prendeva in giro il mondo. Il continuo di un rapporto che Sakusa si sforzava di mantenere a senso unico, qualcosa che non avrebbe dovuto attecchire, i presupposti forse fertili ma prontamente avvelenati da atteggiamenti urticanti ed inquinanti.
 
Oppure era altro. Erano frasi, conoscenza, vicinanza.
 
Era qualcosa a cui non voleva nemmeno pensare, perché prendere consapevolezza di quell’opportunità faceva volare cose nel suo addome e annerire i pensieri al tempo stesso, perché Miya si presentava libero e sicuro e sembrava promettere cose che Sakusa non aveva mai sperato in nessuno, da cui era sempre scappato per motivi molto precisi e in cui, in quel momento, era rimasto impigliato senza riuscire a liberarsi, nonostante i tentavi agitati e corrosivi.
 
Lo vide alzare gli occhi, scrutandolo da sotto le palpebre di solito cadenti e guardandolo rassegnato e speranzoso insieme, confuso sull’attesa di una sua risposta, certo di un rifiuto.
 
Voleva darglielo.
 
Dirgli secco di no, sibilargli scontrosamente che era il suo orario di lavoro, informarlo che Suna in cucina avrebbe avuto la capacità di terminare le scorte di tutto il magazzino per far capire qualcosa al suo stupido gemello idiota, dargli le spalle senza proferire parola e allontanarsi più velocemente che poteva, sperare che la roba nel suo addome morisse nel più breve tempo possibile.
 
Non seppe nemmeno lui perché, invece, guardò quel rosa tenue sul ponte del suo naso e disse “Non ho i guanti.”
 
Inutile, forse. Senza senso, nonostante per lui lo avesse.
 
Perché avere dei guanti avrebbe significato aiutarlo nel suo scherzo. Si sarebbe sporcato le mani – figurativamente e così tanto letteralmente, mani sempre pulite che si abbassavano a gesti a cui non avrebbe mai pensato se non fosse stato per il piacere di lui -, avrebbe sentito le sue difese scricchiolare, colpite da una conversazione facile, per Dio, sempre così facile, fatta di prese in giro e risposte acide, di sorrisi nascosti da cocciutaggine e mascherine accanto a quelli ampi e belli, tutti denti e lingua veloce.
 
Si sarebbe sbottonato più di quanto avrebbe dovuto in quel momento, ma non era così sicuro potesse essere una cosa negativa. Non davanti a quella bocca leggermente aperta di muto stupore e gli occhi brillanti di sole e speranza. “Li ho io!” Miya li prese dalla tasca del giubbotto, perfettamente sigillati nella loro confezione, in attesa solo che Sakusa li aprisse. “Ho notato che sei attento all’igiene, profumi sempre di pulito e disinfettante e … beh …” Si indicò la bocca, roteando il dito attorno alle labbra a mimare la mascherina che indossava in quel momento.
 
Il respiro gli si fermò. Un calore inspiegabile gli si allargò nel torace e l’addome era pieno di vita, numerosa, che sbatteva nelle pareti e lo faceva stare bene, male, non capiva.
 
E il corpo si mosse da solo, sedendosi al tavolo e prendendo la busta con i guanti che Miya gli porgeva, le labbra lucide stirate su denti bianchi e un tenue contatto tra le mani, così leggero che Sakusa pensò di esserselo immaginato. Ma bruciava, lì sulla punta delle dita, bruciava come se fosse acido.
 
Miya cominciò a parlare raccontando della sua giornata, di Osamu che sembrava essere stupido in un modo in cui non lo aveva mai visto, degli allenamenti di pallavolo che lo attendevano il pomeriggio e che non poteva saperlo, ma lo avrebbero portato ad una partita contro la squadra di Sakusa stesso soltanto tra due settimane.
 
Sakusa aveva ascoltato quello che gli aveva raccontato in tutto quel tempo e aveva taciuto, non raccontandosi, non concedendo nulla e per la prima volta pensò che avrebbe voluto dire di più, sapere di più. Solo loro due.
 
Il proprio numero di cellulare risuonava nella sua mente. I pensieri snocciolavano cifre in gruppi sentendoli trasportati sulla punta della lingua, la bocca aperta in una decisione di cui forse si sarebbe pentito.
 
 
*
 
 
Da: sconosciuto
 
Ciao stronzo bugiardo. Dov’è che ci si iscrive al tuo fan club?
 
 
Sakusa si asciugò il sudore, guardando sullo schermo del proprio cellulare il messaggio arrivato appena cinque minuti prima, riconoscendo il mittente quasi immediatamente. Sogghignò appena.
 
L’allenamento quella si era concluso in modo relativamente equilibrato, gli extra che si imponeva terminati con la soddisfacente stanchezza che avvolgeva le sue membra e il classico pizzicore dei muscoli che risuonava come un’eco lontano, avvertendolo della loro sicura e rassicurante presenza l’indomani mattina.
 
Far parte della squadra di pallavolo, impegnandosi con tutto sé stesso nonostante la mole di studio e il lavoro al limite della sanità mentale, era un sacrificio che non avvertiva nemmeno più di tanto. Non quando la sua vera passione era una delle poche cose che riuscivano a farlo rimanere ancorato alla realtà, convincendolo che se c’era qualcosa di così rotondo e liberatorio al mondo, in fondo, l’omicidio colposo non era una cosa da dover prendere realmente in considerazione. Sarebbe stato tentato, veramente tentato, ma avrebbe afferrato il coltello solo nel momento in cui la pallavolo sarebbe stata introdotta in tutte le carceri, non un secondo prima.
 
Scoprire che Miya la pensava esattamente come lui lo aveva sorpreso – parole sue in cui Sakusa rimase piacevolmente in silenzio, stupito e in parte curioso di sapere dove potesse andare a parare.
 
Lo sconosciuto, quindi, era stato identificato con relativa facilità. Modificò il nome del contatto e si sedette sulla panca, sistemando l’asciugamano sulle spalle.
 
 
A: Miya A.
 
Si chiama omissione, non bugia
 
Da: Miya A.
 
Fottiti bastardo, vi faremo il culo alla partita
 
A: Miya A.
 
Non piagnucolare, è di cattivo gusto
 
Da: Miya A.
 
Non posso credere che mi hai fatto passate 45 minuti a spiegare le regole della pallavolo
 
 
Sakusa rise, perché rimanere seri durante quella parte di conversazione era stato quasi doloroso.
 
Era così facile ridere con Miya quando nessuno poteva riuscire a vederlo, libero dalla mascherina e sciolto di sudore e fatica piacevole. Né Miya, che non lo aveva mai visto fare più di una smorfia, né altri, pronti a giudicare o ad arrivare a cose che lui non aveva mai nemmeno preso in considerazione fino a qualche ora prima.
 
 
A: Miya A.
 
Non posso credere io come ti sei inventato che i setter sono Dio. Non ti vergogni?
 
ew
 
Da: Miya A.
 
I setter SONO Dio
 
potrei perdonare questa blasfemia solo se mi fai tesoriere del suo fan club personale
 
A: Miya A.
 
Impegna il tempo migliorando nelle ricezioni
 
ho visto il video della vostra ultima partita
 
che problemi hai?
 
Da: Miya A.
 
Non puoi parlare di me quando i tuoi sono polsi amovibili
 
sono pezzi di Lego? Li ruoti e li stacchi come ti pare?
 
A: Miya A.
 
Lo capirai meglio quando faranno punto per le tue ricezioni schifose
 
sempre se sarai capace di vedere la palla
 
Da: Miya A.
 
Sei chiacchierone in chat
 
Mi piace
 
 
“Perché sorridi?”
 
Sakusa alzò gli occhi su Komori, il sorriso congelato e l’espressione di impaurita sorpresa di chi era stato appena beccato con le mani nel barattolo di umeboshi che sarebbe dovuto andare in regalo alla nonna.
 
Komori, che lo conosceva meglio di come si conosceva lui stesso, allargò le palpebre e quasi sprizzò polvere di stelle da tutti i pori, da quant’era eccitato. “È quel ragazzo? Hai il suo numero? Fammi vedere che ti ha scritto.”
 
Sakusa si portò il cellulare al petto, allontanandosi istintivamente per sfuggire alla presenza ficcanaso di suo cugino sudato da far schifo e corrucciando le sopracciglia severamente. “Fatti gli affari tuoi.” Sibilò spostandosi di un posto sulla panca. Komori si sedette accanto a lui ridacchiando e allungando il collo per sbirciare. “Quale ragazzo?”
 
“Quello dei tuoi esperimenti pazzi in cucina.” Baka. Non lo disse, ma sembrava urlarlo con tutto il suo corpo d’anguilla. “Gli è piaciuta la brioche?”
 
Non era una brioche.” Sibilò Sakusa mettendo al sicuro il cellulare. “Era una sfoglia intrecciata con crema di latte. E non era per un ragazzo.”
 
“Ki-chan, non ti sei mai sbattuto così tanto per nessuna di quelle tue bombe a orologeria che vi siete inventati in quel café.” C’erano così tante cose sbagliate in quella frase che Sakusa non sapeva da dove cominciare a correggere, ma fu il tono condiscendente a portarlo a guardarlo malissimo. “Non cercare di fregare il tuo cuginetto preferito, come si chiama?”
 
“Non sei il mio cugino preferito.” Era la sorella maggiore di Komori la cugina preferita di Sakusa. Appena un centesimo sotto c’era la sorella minore di Komori, ma non Komori. Mai Komori. “E cosa ti fa essere così sicuro?”
 
“Me lo dice la tua faccia acida.” Cinguettò Komori raddrizzando le gambe e cominciando a dondolarle. “E le tue orecchie. Stanno andando a fuoco.”
 
“Non hai una doccia da fare?” Gli uscì come un sibilo terrificante, ma Komori ridacchiò e prese le sue cose, cominciando a camminare verso le docce. “Farò il bravo e ti lascerò raffreddare, me lo dirai mentre torniamo a casa.” Gli sorrise ampio e luminoso e gli fece venire i brividi. “Insieme.”
 
Quando Komori entrò nella zona doccia, Sakusa si spogliò velocemente di tutti i vestiti sudati, si riempì di deodorante e prese la sofferta e dolorosa decisione di lavarsi a casa, che avrebbe raggiunto assolutamente da solo.
 
Quando si ritrovò alla fermata dell’autobus, tuttavia, si permise di riprendere il cellulare. C’erano una ventina di notifiche, in cui si alternavano prese in giro mirate a richieste quasi disinteressate del perché non rispondesse.
 
Sorrise sotto la mascherina. Un sorriso piccolo e patetico che già odiava con tutto sé stesso ma che non riusciva a fermare in alcun modo.
 
 
A: Miya A.
 
Sono uscito ora dalla palestra, non rompere
 
Da: Miya A.
 
E lui parla! Credevo stessi facendo piangere qualcuno da qualche parte
 
A: Miya A.
 
Non c’è nessuno abbastanza importante da avere la mia attenzione
 
Da: Miya A.
 
Piano Omi, mi sa di confessione questa
 
non vorrei uscissi dal personaggio
 
mi piace quello che vedo di solito ;)
 
 
Strinse le dita sul cellulare, il sorriso smontato a favore di un broncio truce.
 
Afferrò meglio la presa per digitare risposte al vetriolo, quando il telefono gli vibrò in mano.
 
 
Da: Miya A.
 
Sunarin alla fine ha usato il caramello salato
 
e ha scelto il mocaccino
 
che perdente
 
 
Sakusa aggrottò le sopracciglia. Miya aveva gli allenamenti come lui e aveva lasciato il café che Suna ancora stava cercando di capire se il frappuccino fosse una scelta sensata per la sua dichiarazione indiretta. L’unico modo in cui poteva venire a sapere della decisione finale poteva semplicemente venire dall’oggetto di tutto quello spreco di ingredienti.
 
 
A: Miya A.
 
Sei arrivato a casa tua?
 
 
Attese qualche secondo, poi sbuffò. La risposta non immediata lo indispettì enormemente, quindi afferrò il cellulare a due mani cominciando a digitare con rabbia repressa.
 
 
A: Miya A.
 
Rispondi al cazzo di messaggio, te l’ha detto tuo fratello?
 
Finirà questo spettacolo inutile o dovrà mangiare a scrocco per il resto della sua vita?
 
Miya, cazzo
 
Metterò tre chili di sale nel tuo caffè la prossima volta
 
Mi sono stufato di essere ripreso perché costringo Suna a lavorare quando tuo fratello arriva
 
Percepisce il mio stesso stipendio, non voglio lavorare al posto suo
 
MIYA!
 
Da: Miya A.
 
Omi, non indovinerai mai cosa è appena successo
 
Samu ha acceso i neuroni
 
sta correndo da Suna
 
 
*
 
 
Sakusa non credeva, in tutta sincerità, che dopo sarebbe stato addirittura peggio.
 
I giorni erano passati con la lentezza di chi si era reso conto con estremo stupore delle proprie debolezze e ogni secondo scandiva, inesorabile, il momento in cui avrebbe preso una decisione riguardo cosa fare. Scappare o ignorare tutto, ovviamente, perché era impensabile che Sakusa facesse realmente qualcosa a riguardo: stava bene con sé stesso, viveva perfettamente con le proprie abitudini – rotte troppo spesso per via di cugini tentacolari ma comunque riprese a forza con lenze tirate -, non aveva bisogno di nessuno che si intromettesse nella sua vita organizzata. Men che meno un falso cliente, falso ammaliatore, vero rompicoglioni. 
 
E se a volte si ritrovava a leggere un messaggio da parte sua e gli scappava un sorriso, era solo perché l’inverno stava lentamente lasciando il posto ai primi timidi accenni di polline nell’aria liberi di infastidirlo. La mascherina sulla sua bocca aveva aumentato le ore di lavoro passando dall’utilizzo per virus influenzali all’aggiunta della protezione verso quei bastardi spermatozoi vegetali e, cosa più importante, il sorriso sorgeva naturale mentre vedeva Giroro incamminarsi fieramente nella sua adulta vita da rana – piccola coda a parte –, ergendosi sulla sua spiaggia personale e guardando tutti con occhio critico e giudicante non appena se ne presentava l’occasione. Motoya si lamentava a voce alta e lamentosa della somiglianza con Sakusa, Sakusa ne era silenziosamente orgoglioso.
 
Quindi non era assolutamente perché trovasse Miya divertente in modo particolare. Nemmeno perché aveva segnato il primo punto della partita con un ace particolarmente ben fatto di cui addirittura Sakusa aveva fatto fatica a seguirne la traiettoria, tanto era potente – fortunatamente per lui, il loro libero si era preso carico di quell’onere e gli aveva risparmiato una figuraccia che, ne era sicuro, Miya si sarebbe segnato per i secoli a venire. Né perché avrebbe tanto voluto capire se, al di fuori di café e cellulare, quello stare bene anche solo nel parlare sarebbe rimasto, se si fosse riuscito realmente a sbloccare con lui come nessuno, men che meno Sakusa, aveva mai sperato, se la voglia di rivederlo era basata sulla pura curiosità di tutte quelle riflessioni o il bisogno di toccarlo era vero, profondo, reale come a volte sentiva dentro sé stesso.
 
Non era per tutte quelle cose, assolutamente. Quelle erano solo considerazioni a tradimento del suo cervello affaticato, era pronto a qualunque idea stramba gli sarebbe sorta in testa in quel periodo.
 
Nulla, però, lo aveva preparato alla creazione dell’essere mitologico per eccellenza.
 
Metà buco nero e metà rompicoglioni, assorbiva pazienza e cibo con la stessa velocità con cui dannava l’esistenza di chi gli stava intorno, ti giudicava dall’alto della propria vita sentimentale come se per risolverla non ci fosse voluto l’intervento e i commenti di metà staff del café e del fratello di una metà di detta creatura. Soprattutto del fratello di detta metà creatura.
 
“Sono schifosi.” Mormorò Miya dal bancone del bar, giocando con quello che Sakusa, arrivato in quel momento, sperava non fosse schiuma di latte e cappuccino caldo. “Guardali, non hanno decenza.”
 
“Tuo fratello è quasi venuto su una sedia solo per aver mangiato un dolce.” Informò Kuroo accanto a lui e sì, constatò Sakusa indignato, stava accadendo esattamente quello che pensava.
 
“Quale sedia?” Il tono allarmato di Miya fu stranamente comico, ma Sakusa non era in vena di ridere. Era concentrato sulle occhiaie che facevano capolino sotto gli occhi di Miya, scure e per nulla rassicuranti. Avrebbe voluto chiedergli come mai non stesse dormendo, ma il locale doveva essere rimesso in riga e sembrava che nessuno volesse prendere in mano le redini della situazione.
 
“Tu non dovresti stare là.” Sibilò quindi sgarbatamente, guardando male Kuroo che gli sogghignò in faccia con la solita espressione scarsamente raccomandabile. Era così poco professionale e potenzialmente pericoloso far entrare i non addetti nelle zone a loro negate, non capiva cosa ci fosse di difficile da comprendere. “È un cliente, deve sedersi al fottuto tavolo.”
 
“Ciao Omi-kun!” Miya non lo prese minimamente in considerazione, come se stesse aspettando l’inizio del suo turno solo per dannargli l’esistenza. Sakusa spostò lo sguardo malevolo da Kuroo a lui, aggrottando le sopracciglia guardando meglio la sua espressione stanca ma in quel momento divertita. Strinse i denti, perché non sapeva se voleva davvero sgridarlo e la cosa lo distruggeva internamente. “Guarda, ho disegnato un cazzo!”
 
“È bravo.” Si complimentò Kuroo sinceramente impressionato.
 
“Chissà perché non avevo dubbi.” Sakusa si sistemò meglio la mascherina sul naso, sorpassando il bancone per entrare nell’area dipendenti. “Vatti a sedere e non rompere niente.” Gli ordinò sgarbatamente.
 
“Ti aspetto qua! Porta un po’ di zucchero, ti sento acido oggi!” E la risata ragliate di Kuroo accompagnò il digrignare dei suoi denti fino alla stanza del personale.
 
L’ultima cosa di cui aveva bisogno in quel momento era di essere circondato dalla totalità delle persone da cui voleva rimanere alla larga, la necessità di una giornata tranquilla quasi fisica: era stanco di tenere le barriere alzate.
 
Le sue difese stavano mostrando i primi segni di sverniciatura, gli sforzi dello sfondamento costante che si mostravano con abbozzature e consumo, la fatica di farli rimanere al loro posto sempre più evidente.
 
Non sapeva da dove sarebbe venuta la provocazione: avrebbe potuto essere da Miya, che cercava di sorpassare il suo scudo con la costanza di chi sapeva di trovare qualcosa di agognato se solo ci fosse riuscito; avrebbe potuto essere il suo degno gemello e l’escrescenza a forma di Suna che dimorava sul suo fianco – sulla sedia accanto in realtà, l’intenzione di rendersi utile al mondo felicemente mandata a quel paese -, con battute sparate a tradimento o prese in giro di cui non capiva l’utilità; o, ancora, Kuroo con i suoi sguardi troppo saputi, Bokuto con domande innocenti che gli facevano accendere i nervi come lampadine, Tsukishima che si limitava a fissare e schernire.
 
Solo Akaashi lo lasciava in pace. Forse perché non lavoravano mai nello stesso turno ma si incontravano a volte di sfuggita nel cambio, informandosi sull’andamento della giornata e il grado di concentrazione dei colleghi, oppure perché trovavano l’uno nell’altro una sorta di valvola di sfogo, appagati che ci fosse almeno qualcuno che pensava che quel café, per pagare il loro stipendio, dovesse effettivamente funzionare e non essere lasciato andare per inerzia.
 
Ma Bokuto doveva avere avuto influenze negativissime perché, quando varcò la porta della sala del personale, Akaashi alzò lo sguardo stupito dal grembiule della divisa che stava piegando e gli disse “Sakusa-kun, credevo rimanessi a parlare con Atsumu-kun.” in modo del tutto inatteso e senza senso.
 
Sakusa non rispose nemmeno, troppo occupato a corrugare la fronte per quell’idea così fuori dal mondo. Akaashi continuò “Deve correre via, è venuto prima qui per vederti.”
 
“Ha fatto male.” Non era un suo problema come passasse il tempo, non concepiva tutta quella mancanza di buonsenso se aveva un impegno preciso. “Perché Suna è qui?” Chiese infastidito. Suna quel giorno non aveva turni, ne era sicurissimo. “E perché Bokuto manca?” E perché Kuroo ancora non era evaporato lasciando il suo posto a Tsukishima, soprattutto, ma pensava che troppe domande avrebbero dato il via a considerazioni che non voleva realmente affrontare.
 
“Bokuto-san è in magazzino.” Sakusa sentì il gelo del terrore vagargli nelle vene. Dovette avere scritto in faccia la sua paura, perché Akaashi sistemò il grembiule nella borsa e si sbrigò a rettificare “Sta prendendo una cassa di latte per Hinata-kun. Solo quello.” Latte. Il latte era posizionato nello stock a terra, ringraziando tutte le scelte intelligenti di quel mondo e di altri universi, non nell’ultimo piano della dispensa in attesa solo di volare via creando caos imperituro.
 
Un minimo tranquillizzato Sakusa si prodigò a cambiarsi, tentando di non dare troppa attenzione allo sguardo concentrato di Akaashi. Ma la pazienza era una virtù che conosceva, ma che riusciva a mettere in pratica solo in alcune occasioni. “Akaashi-kun, c’è qualcosa di cui dovrei essere informato?”
 
“Sei più tollerante.” Non era una parola che Sakusa avrebbe associato alla propria persona. Scrutò Akaashi confuso. “Non hai distrutto Hinata-kun quando ha di nuovo fatto cadere la cassetta del pronto soccorso nella glassa, …”
 
“Stava per piangere.” Ricordò lugubre. E Miya aveva deciso che Sakusa aveva bisogno di un tè verde per calmare i nervi, facendolo sedere nel suo posto preferito e rispondendo a tono a tutti gli insulti che erano usciti dalla sua bocca irosa. Da lì Miya aveva capito che la cosa della pulizia e della sicurezza sanitaria non era proprio una presa in giro ed era stato enormemente più attento, con sommo stupore di Sakusa.
 
“… hai portato Neve dal toelettatore, …”
 
“Bokuto mi deve ancora i soldi.” Ma il pelo di Neve era stato profumato e libero da tracce di fango e pioggia, Sakusa era riuscito anche ad accarezzarla mentre sonnecchiava felicemente.
 
“… non hai detto nulla di quello che è successo tra Osamu-kun e Suna-kun nel magazzino.”
 
Quello era nuovo. “Perché, che è successo?”
 
Akaashi sembrò capire al volo di aver fatto un passo falso, perché si sbrigò a dire “Oh nulla, Kageyama-kun non trovava lo zucchero.” a cui Sakusa non credette nemmeno per un secondo. Lo vide comunque indossare il giubbotto con gesti svelti. “Comunque sei meno rigido da quando parli con lui. Ti fa bene.”
 
“Hai scelto di stare con Bokuto.” Gli ricordò lugubre. “Hai perso ogni credibilità.” Akaashi rispose con una risata sincera che fece fermare Sakusa dal togliersi il cappotto, bloccandolo a metà braccia completamente stupito da quella reazione.
 
Akaashi era diverso, notò.
 
Akaashi era felice. Felice come forse non lo aveva mai visto, sicuramente di più di quando si erano incontrati quella prima volta, secoli fa, quando Takeda-san lo aveva accompagnato al locale per conoscerli.
 
Sembrava tranquillo, allora, serio. Sakusa pensò subito di aver trovato un collega finalmente in grado di aiutarlo a mandare avanti quel branco di gatti che era il café e la sua valutazione non risultò sbagliata.
 
Akaashi era l’unico su cui poteva effettivamente contare quando la situazione toccava picchi di psichedelica irrealtà, quando prima poteva basarsi solo su uno scontroso Tsukishima astutamente messo all’angolo e, quando era in vena di aiutare, Kuroo.
 
Inizialmente pensava che il suo interessamento a Bokuto – perché era stato chiaro come il sole a mezzogiorno. Benché Bokuto fosse stato rumoroso, pasticcione, caotico nel suo tentativo di avvicinarsi delicatamente ad Akaashi, Akaashi era cotto quanto se non di più. – sarebbe stato deleterio per la sua salute mentale. Aveva ragione, ovviamente, nessuno normale avrebbe accettato i tentativi di corteggiamento di Bokuto, che nella più rosea delle ipotesi se ne andava in giro a servire la gente sanguinando come nei macelli meno raccomandabili dell’universo, ma Bokuto lo rendeva libero.
 
Sembrava essersi tolto un peso enorme, sembrava pronto a spiccare il volo e il rosa sulle guance che compariva quando Bokuto gli sorrideva, gli portava una cioccolata calda o, semplicemente, parlava con lui era qualcosa che Sakusa si ritrovava ad ammirare, incantato ed in parte invidioso.
 
Sì, era stato difficile da ammettere, ma era arrivato alla sofferta conclusione che, di Akaashi, invidiava enormemente la capacità di essersi liberato da quell’oppressione che lo faceva andare giù, che non gli faceva assaporare appieno tutto quello che aveva intorno.
 
Sakusa riconosceva questa mancanza, la avvertiva ogni giorno. Era per questo che aveva scelto di convivere con Motoya, sua ancora di salvezza in quel mondo a lui così ostico. Motoya c’era sempre stato e non aveva la presunzione di credere che ci sarebbe stato sempre, ma sapeva con tutto sé stesso non l’avrebbe mai lasciato completamente solo, che avrebbe continuato ad infastidirlo anche da lontano e gli avrebbe lasciato il brivido di un’armonia che il suo essere non gli avrebbe concesso.
 
Aveva provato paura nel ritrovare le stesse sensazioni con Miya.
 
Le sue battute d’abbordaggio semplicemente squallide, i suoi tentativi di conversazione, la sua cocciutaggine nel dargli il tormento. Lo aveva fatto sentire vivo e non volerlo riconoscere era stato solo una conseguenza naturale.
 
“Ci vediamo domani, Sakusa-kun.” Lo salutò Akaashi uscendo dalla sala dipendenti. “Passo un attimo da Bokuto-san se non ti dispiace.” E chiuse la porta alle sue spalle, lasciandolo con il cappotto mezzo sfilato a tentare di capire cosa stesse succedendo nel suo cervello e in quello di tutti gli altri.
 
Quando uscì, Kuroo aveva lasciato il posto ad uno Tsukishima con le cuffie alle orecchie a preparare chissà cosa con la macchina del caffè, mentre Bokuto passava tra i tavoli con il grembiule verde già macchiato di quello che Sakusa sperava fosse cioccolata, ridendo e scontrandosi con le sedie che sporgevano troppo dal loro posto.
 
Suna era sparito, come anche Miya.
 
Il suo gemello, invece, era stato abbandonato al tavolo all’angolo a masticare qualcosa e lo guardava con le palpebre basse su occhi giudicanti, facendogli salire i nervi. Sembrava volesse qualcosa da lui, ma Sakusa non era intenzionato ad avvicinarsi a meno che non fosse stato costretto.
 
“Kenma vuole ordinare! Ha chiesto di te!” Lo informò Bokuto con troppa energia e Sakusa aggrottò le sopracciglia, non capendo a chi si stesse riferendo. “Il ragazzo di Kuroo-san.” Si limitò a spiegare a mezza bocca Tsukishima, troppo concentrato a decorare il cappuccino con quello che Sakusa sperava non fosse un pene.
 
“Vai a servirlo, allora.” Bofonchiò incurante verso Bokuto, controllando la cassa velocemente.
 
“Non vuole che mi avvicini, dice che urlo e sanguino troppo spesso.” Come aveva fatto Kuroo a trovarsi una persona con così cervello? Nemmeno Akaashi era riuscito a resistere a Bokuto e Akaashi era notoriamente intelligente, secondo lo standard comune. Forse era il momento di rivalutare questi fottuti standard, Sakusa stava cominciando a mettere in dubbio più di una persona in quel periodo.
 
Guardò Tsukishima, che rispose semplicemente facendogli vedere il bricco del latte montato e con un “Devo disegnare un cuore.” che, Sakusa ne era sicuro, non gli avrebbe preso più di cinque secondi scarsi.
 
Sakusa guardò verso la sala e imprecò mentalmente. Il ragazzo di Kuroo era seduto accanto al Miya stronzo.
 
Merda.
 
Sospirando, prese il block notes e si avvicinò velocemente. Prima avrebbe fatto, prima avrebbe potuto continuare a ignorare tutti. “Sai che Kuroo è andato via poco fa?” domandò per il solo gusto di informarlo. Quello alzò gli occhi dalla consolle su cui stava perdendo diottrie, a giudicare dall’espressione spiritata. “Quindi?” Alitò solamente, mettendo in pausa con una smorfia.
 
Sakusa non capì. “Oggi aveva il turno di mattina.”
 
“Non sono qui per lui.” E lo vide rischiararsi improvvisamente, gli occhi verso la porta della cucina e un piccolo sorriso che gli fioriva sul volto. Sakusa si girò per pura curiosità e guardò un Hinata con uno sbuffo di crema al pistacchio sulla guancia che si sbracciava salutando Kozume Kenma come se stesse partendo per l’America a bordo di qualche nave titanica.
 
Venne naturale chiedersi se non fosse Hinata il vero ragazzo del tizio, ma Sakusa decise con molto buonsenso che non erano affari suoi. “Sei pronto per ordinare?”
 
“Hinata sa già tutto.” Sentì i suoi nervi suicidarsi. Li avvertiva scoppiare uno per uno e non aveva abbastanza pazienza per sopportare il lento decadimento del suo sistema nervoso. Prese un lungo respiro, tentando di calmarsi. “Perché sono qui, allora?”
 
Kenma indicò con un pollice il tavolo accanto, rituffandosi con il naso nella sua consolle e Sakusa imprecò di nuovo. Osamu lo guardava con un sogghigno che conosceva bene su un altro viso tanto simile a quello e che non sopportava su nessuna delle due facce. “Sakusa-kun, buon pomeriggio.” Strascicò lento e morbido, quella parlata naturale che gli faceva venire voglia di artigliare qualcosa e strapparla per il nervoso. “Ti vedo bene.”
 
“Vedo che tu e Suna siete riusciti a staccarvi.” Mormorò cupo. “Ora il neurone è diviso. Immagino il dolore.”
 
“C’è altra roba sana, non preoccuparti.” Non lo faceva. Avrebbe preferito che fosse ancora appiccicato al fianco di Suna molto lontano da lì, ma la vita non era mai carina con lui. “Volevo solo chiederti quando ti deciderai ad accettare di uscire con Tsumu.”
 
“Non accadrà mai.” Lo sbuffo di risata da parte di Kenma lo indispettì, ma non ruppe il contatto visivo con Miya. “C’è bisogno di altro?”
 
“So che può sembrare stupido, e lo è non fraintendere.” Cominciò Miya strofinandosi le mani. “So anche che è un idiota, davvero lo capisco. E non è capace di parlare, voglio dire, lo sai meglio di me, ha mai detto qualcosa di sensato da quando ti conosce?”
 
“C’è un punto?” Si ritrovò a sibilare e Miya batté gli occhi, stupito. “No, Dio no, non c’è un punto.” Guardò verso Kenma, che ricambiò lo sguardo incuriosito. “Tu hai un punto?”
 
“Miya.” Avvertì Sakusa e Kenma abbassò il mento nel colletto della sua felpa, nascondendo la bocca e alzando gli occhi come se il gioco tra le sue mani non fosse minimamente interessante rispetto quello che stava accadendo.
 
“Sai che una volta ha studiato di notte al parco circondato dai cani randagi? È tornato con la faccia congestionata e moccio impiastricciato ovunque, era terrorizzato.” Miya ridacchiò esilarato, facendosi guardare malissimo da Sakusa e con stupito orrore da Kenma. “E una volta ha quasi mangiato fango per scommessa.” Soffocò un risolino, gli occhi lontani nei ricordi umilianti. “Non era fango. Se ne è accorto giusto in tempo.”
 
“Se vuoi sdebitarti per averti fatto svegliare, non lo stai facendo bene.” Mormorò Kenma tornando al suo gioco e Miya scattò come un bambino colto con le mani nel sacco. “Tu che ne sai?”
 
“Lo sanno tutti.” Lo informò Sakusa con un sospiro e lo vide prendere almeno tre gradazioni di rosso sul collo. Nh, interessante. “Non chiamarmi più per stronzate.”
 
Si girò, dandogli le spalle e cominciando ad allontanarsi quando sentì “Ha un esame tra tre giorni.”. La voce di Miya era leggermente agitata, in quel momento, come se non volesse che Sakusa se ne andasse. “È venuto qui ogni volta nonostante dovesse studiare e sta passando le notti in bianco a causa tua.”
 
Eccole le occhiaie che aveva visto, allora. Il viso leggermente più pallido, la stanchezza visibile nei lineamenti. Strinse le labbra, scuotendo leggermente la testa. “Non gliel’ho chiesto io.”
 
“Sì, ma lo fa comunque. Ed è così nervoso che sono a un passo dal ficcarlo nella lavatrice.”
 
“Fallo, allora.” Miya lo guardò con quelle palpebre cadenti, sospirò e scosse la testa in diniego. Prese un tovagliolo dal tavolo e una penna dallo zaino, scrivendo qualcosa velocemente. “Tieni questo, ha preso la pessima abitudine di non cenare.” Piegò il tovagliolo e glielo porse, attenendo che lo prendesse. Sakusa strinse gli occhi. “Non lo tocco.”
 
“Non rompere, è pulito, l’ho preso ora.”
 
“Non mi interessa.”
 
“Ok, io lo metto qua.” Lo poggiò ringhiando sul tavolo, il tonfo della sua mano che segnava il punto della frase. “Non capisco cosa ci trovi in te a volte, sei odioso.”
 
“Potrei dire la stessa cosa.”
 
“Ma non mi faccio del male da solo, almeno.” Sakusa lo vide alzarsi, infilare il cappotto e prendere lo zaino con movimento fluido. “Quando il tuo orgoglio te lo permetterà, prendilo.”
 
“Non è orgoglio.” Mormorò Sakusa guardandolo andare via. Kenma si limitò a scrutarlo velocemente prima di sbuffare di naso e riportare l’attenzione sul suo gioco.
 
Sakusa scrutò il tovagliolo piegato, i bordi troppo leggeri alzati da una brezza inesistente e l’inchiostro visibile anche dopo strati velati, sbiadito dal bianco pallido della carta.
 
Lo scampanellio avvertì dell’uscita di Miya e Sakusa strinse le mani a pugno, le labbra strette dietro la mascherina e gli occhi che osservavano il tovagliolo scivolare leggermente per il lieve spostamento d’aria.
 
Il suo non era orgoglio. Lo aveva capito tempo prima, quando lo stupore di una fiducia inattesa aveva portato qualcuno a metterlo alla prova con caffè e crema di latte, sfidandolo ad aprirsi e promettendo di riconoscerlo sempre.
 
L’orgoglio non aveva giocato per niente quella volta, pensò afferrando il tovagliolo sotto gli occhi troppo attenti di Kenma e riponendolo svelto nella tasca dei pantaloni, ritornando al lavoro con falcata decisa.
 
Non era entrato minimamente in partita.
 
Fu solo opera della codardia.
 
 
*
 
 
Quando tornò a casa quella sera, il tovagliolo accartocciato nei pantaloni sembrava pesare quanto un macigno.
 
Lo sentiva spingere giù malgrado la struttura volatile e il peso praticamente assente, lo percepiva gonfio nella sua tasca come se avesse rubato un macigno di dimensioni industriali piuttosto che un fazzoletto sottile che nemmeno riusciva ad assolvere al suo dovere adeguatamente, lo avvertiva scomodo contro la sua coscia, pieno di aspettative soffocate e bollente di urgenza ignorata, una presenza caotica e abbondante malgrado l’assoluta assenza della sua struttura.
 
Non gli diede l’attenzione che richiedeva con così urgenza.
 
Continuò ad ignorarlo per tutto il tragitto, scomodo lì sulla coscia a bollire e sussurrargli insensatezze come un Horcrux del più infido livello, la voce di Miya Osamu a insultarlo che diventava solo più odiosa ad ogni passo.
 
Motoya non lo aveva aspettato per cenare, notò appena varcata la porta di casa, ma non gli importava. Sakusa sentì con una stretta alla gola odore di cucinato  e di detergente nell’aria. Con un’occhiata veloce verso la cucina, scoprì il piano cottura pulito da poco e un biglietto sullo sportello del microonde che lo avvertiva del suo piatto in caldo e protetto al suo interno.
 
Ringraziò per la presenza della mascherina, perché quelle gentilezze erano sempre inaspettate nonostante fossero all’ordine del giorno per l’uno come che per l’altro. “Oh, avevi detto che facevi più tardi.” Esclamò Motoya alzando gli occhi dal quaderno su cui stava studiando. “Ti avevo messo un biglietto. Mi è dispiaciuto non mangiare insieme, ma fra un po’ ho una videochiamata con il gruppo di studio.”
 
“Non importa, hai fatto bene.” Perché decidere di sistemare la cucina insieme ad Hinata, controllare Bokuto e Tsukishima mentre erano occupati con l’inventario del magazzino, riordinare la sala erano solo scuse per uscire il più tardi possibile, scappare da quello che lo aspettava. Avrebbe ucciso così la voglia di leggere quella dannata salvietta e avrebbe avuto un ottimo motivo per non prendere decisioni che avrebbero cambiato la sua vita nel breve periodo.
 
Aveva avuto comunque il buonsenso di avvertire Motoya. “Ti ho portato qualcosa, comunque.” Alzò un sacchetto e lo poggiò sul tavolo davanti suo cugino, cominciando ad avviarsi verso la cucina.
 
“Uh?” Motoya sorrise tutto denti, buttando la matita chissà dove alzandosi dalla sedia facendola stridere sul pavimento, avventandosi sul cibo come se non mangiasse da sei anni. Sakusa fece una smorfia contrariata. “È al cioccolato? Dimmi che è al cioccolato, ne ho bisogno fisico, potrei morire se non è al cioccolato.”
 
“Sono cookies.” Lo informò sentendo i suoi gorgoglii di apprezzamento. “E una manciata di caramelle frizzanti, so che ti piace quello schifo.”
 
Motoya si bloccò, le mani ad aprire la busta ferme dall’afferrare qualsiasi dolce. “Che hai combinato?” Domandò cauto, gli occhi che andavano da lui all’interno del sacchetto. “Devi farti perdonare per qualcosa che non so?”
 
“Non dire stronzate, ti porto sempre qualcosa.” E se quel giorno voleva soltanto ringraziarlo tacitamente per averlo sopportato tutto quel tempo, beh, Motoya non doveva saperlo.
 
Sembrò intuire comunque qualcosa, perché sorrise e scavò nella busta con rinnovato entusiasmo. “Vedi, è per momenti come questi che sono contento di avvertirti quando sostituisco roba con albumi crudi.”
 
“Dovresti farlo a prescindere.” Lo sentì ridacchiare e Sakusa prese all’istante la decisione di cui si sarebbe pentito per il resto della sua vita.
 
Strinse le palpebre, immobile lì davanti il microonde senza far nulla di utile, il respiro fermo nella gola a bruciare e spingerlo a parlare. Aprì la bocca e, dopo qualche secondo, “Forse dopo esco.”
 
Ecco. Lo aveva fatto.
 
Lo aveva fatto e già si stava dannando l’esistenza.
 
Era uscito forzato, nemmeno un sussurro, a voce talmente bassa che nessuno avrebbe potuto sentirlo. Mezza bocca aperta appena, velocemente, le corde vocali non vibrarono nemmeno. Ma, a dispetto di tutto, Motoya lo sentì comunque. Perché non era umano. “Eh?” Domandò stupito, continuando a cercare nel sacchetto. “E perché?”
 
“Perché sì.” Borbottò evitando di guardarlo.
 
“E dove dovresti andare?”
 
Sakusa si imbronciò, non sapendo come rispondere se non con “Non sono affari tuoi.”
 
Ovviamente Motoya non fu colpito da quell’uscita nemmeno troppo intelligente e continuò con mira micidiale. “Vai a trovare il tuo ragazzo? Quello del croissant?”
 
“Era una sfoglia intrecciata.” Ripeté più scocciato del normale, aprendo lo sportello del microonde per controllare la cena e richiudendolo per scaldarla. “E non è il mio ragazzo.”
 
“Per ora, no?” Schiacciò i tasti del timer con molta più forza del necessario, spingendo come se volesse sfondarli. Si girò e trovò Motoya a guardarlo e sorridere, le caramelle in una mano e un biscotto nell’altra. Non era un’espressione derisoria, ma lo urtò comunque. “Vuoi farlo diventare il tuo ragazzo. Mi sta bene.”
 
Aveva senso contestarlo ancora?
 
In tutta sincerità, e solo nella privacy della sua mente, poteva ammettere che Miya gli piaceva.
 
Gli piaceva la sua testardaggine, il suo puntare diretto ad un obiettivo, affondare le fauci e non lasciarlo andare per nessuna ragione al mondo. Gli piaceva parlare con lui, anche se solo per prenderlo in giro e sentirlo guaire dall’affronto. Gli piacevano i messaggi, che spaziavano da meme di dubbia morale e video di animali divertenti a vaneggiamenti per partite ufficiali in televisione.
 
Gli piaceva che non lo trattasse come se fosse di vetro ma rispettasse comunque i suoi spazi. Gli piacevano le discussioni su cui non era detto che l’avrebbe avuta vinta Sakusa, un punto di vista completamente nuovo che non pensava di riuscire a tollerare, ma che a volte entrava nella sua mente e i suoi ragionamenti prendevano pieghe che non aveva previsto.
 
Gli piaceva il suo aspetto, inutile girarci attorno. Colori caldi e esotici a decorare un corpo su cui aveva più volte lasciato lo sguardo, maledicendosi un secondo dopo.
 
Sospirò, perché era stufo di fuggire. “Non dovrebbe.” Mormorò quasi dispiaciuto. Motoya e Miya sarebbero stati una minaccia alla pari di Bokuto e Kuroo – c’era un motivo se il loro turno in comune coincideva con la presenza solo di Akaashi e quel motivo era un’esplosione di frappé di dimensioni industriali tuttigusti+1, gusto creato per omaggiare le gelatine di Harry Potter. Sakusa non aveva voluto averci nulla a che fare.
 
“Perché no?” Continuò Motoya.
 
“Perché è odioso.” Ma l’insulto non aveva il nervo che aveva inteso. Era più uno sbuffo morbido, una considerazione sussurrata e Motoya alzò le sopracciglia, stupito. “Mi ha dato il tormento per mesi.”
 
“Non mi sembra ti sia dispiaciuto troppo.” Sakusa gli scoccò un’occhiataccia, ma Motoya aveva la bocca troppo piena di pasta frolla per poter essere preso sul serio. “Voglio dire, stai andando da lui.”
 
“Non sto andando da lui.”
 
“Stai uscendo, ok.” Motoya prese un respiro profondo e quasi Sakusa sperò si strozzasse con le briciole. “Di sera. Da solo. In mezzo alla settimana, quando domattina hai il turno di lavoro. Per andare dove, se permetti?”
 
A quello non aveva una risposta precisa.
 
Principalmente perché ancora non aveva deciso effettivamente se farlo: come suo cugino diceva giustamente, per una volta nella vita, era sera, era tardi, era solo e non era una giornata adatta. Avrebbe dovuto affrontare letture per la lezione del primo pomeriggio dell’indomani, avrebbe dovuto dormire e recuperare le energie per un turno sicuramente massacrante, avrebbe dovuto mantenersi sano e in forma per gli allenamenti della sera successiva, che si sarebbero protratti fino a tardi e che puntavano a formarli per il torneo in corso. Avrebbe dovuto tutto quello.
 
Ma non riusciva a togliersi dalla testa le occhiaie di Miya.
 
Non riusciva a smettere di pensare alla sua pelle leggermente tirata, pastosa, così diversa da quella dorata di leggera abbronzatura naturale e fresca di chi si è sempre preso gioco del mondo. Il pensiero che non avesse riposato o, comunque, che lo avesse fatto da schifo non riusciva ad abbandonarlo.
 
Lo aveva raggiunto durante i suoi turni e non era andato via fino a che non lo avesse fatto anche Sakusa, il pomeriggio appena passato l’unica eccezione per poterlo vedere fino a chissà quando. Un sacrificio che Sakusa non avrebbe mai fatto, sicuramente non per un estraneo in una caffetteria. Non per Sakusa stesso, che in quei mesi era stato solo difficile, a voler essere generosi, minaccioso, antipatico.
 
Ti aspetto qua
 
Lo aveva promesso, ma era già andato via quando Sakusa era stato pronto a cominciare il servizio, l’esame imminente che sicuramente non lo lasciava tranquillo. Nonostante tutto aveva scelto di arrivare prima per poterlo incrociare, scambiarsi qualche parola, ricordargli che lui c’era.
 
Porta un po’ di zucchero, ti sento acido oggi
 
Mise lentamente la mano in tasca, afferrando il tovagliolo stropicciato e tirandolo fuori quasi con difficoltà, aprendolo con un sospiro rassegnato. Dentro, in una grafia se possibile ancora peggiore di quella del Miya che gli invadeva il cervello, c’era un indirizzo.
 
Non era vicino al café, notò con una punta di stupore. Non lo era affatto.
 
Sakusa non avrebbe minimamente pensato che fosse stata una scelta, quella dei Miya. Che, tra tutti i locali a loro disposizione, ci fosse stato qualcosa che li avesse convinti a rintanarsi sempre tra quelle sedie dalla seduta paradisiaca e cibi a volte a malapena commestibili. Qualcosa o qualcuno.
 
Sentì qualcosa nel petto, al solo pensiero che potesse essere lui. Miya lo aveva perseguitato, lo aveva voluto conoscere, lo cercava in continuazione. Una firma nel buio e la fiducia in qualcosa che non dipendeva da nessuno, se non dalla pura e cieca fortuna.
 
Bagnò il labbro inferiore, sentendo il bisogno di un contatto familiare che lo potesse scuotere appena. “Mi puoi dire almeno come si chiama?” Domandò Motoya e per una volta non cercò di combatterlo.
 
“Miya.” Mormorò piano, il tovagliolo stretto nel pugno e il campanello del microonde che avvertiva dello scadere del timer. Guardò lo sportello, battendo le palpebre come se si fosse svegliato in quel momento e cominciando a pensare velocemente. “Miya Atsumu.”
 
Era fortunato ad avere Motoya. Non lo giudicava, non lo prendeva in giro o, almeno, sapeva quando farlo.
 
Non lo fece nemmeno quando gli scappò. “Devo fare una cosa, prima di uscire.” Si limitò a sparargli un sorriso luminoso quanto il sole, arraffare i dolci che gli aveva portato e sputacchiare a bocca piena “Domani voglio conoscere mio cognato.” che gli fece intendere di aver capito anche più di Sakusa stesso e chissà da quanto tempo. Sparì comunque nella sua camera, augurandogli la buonanotte e pregandolo di aggiornarlo di ogni decisione. “Sarà un dolore dire alla zia che sei morto per un bel culo.”
 
“Non mi ucciderà.” Borbottò Sakusa controllando assorto lo stato della dispensa. “E smettila di essere sgradevole.”
 
“Potresti comunque farlo tu, hai bisogno di un alibi.” Fu la scintillante risposta, poi si eclissò a studiare con il suo gruppo in videochiamata.
 
Giroro per tutto quel tempo lo aveva giudicato dal suo acquario, lo sguardo vacuo ma severo insieme che lo rendeva tanto orgoglioso. Quella sera non tanto. “Non mangia come dovrebbe.” Fu costretto a sottolineare, chiedendosi con una parte di mente perché dovesse giustificarsi con una rana in un acquario. Affettò il pane e lo mise a tostare nel forno, la luce accesa per un facile controllo. “Ha deciso di stare uno schifo per una stronzata, mi sento in colpa.”
 
Giroro provò a spostarsi dal suo posto per poi ritornare al punto iniziale. Gonfiò l’addome velocemente e Sakusa si indispettì. “Pensa agli affari tuoi.” Sibilò secco.
 
Giroro sembrò quasi aggrottare i suoi inespressivi occhi anfibi ed emise il suo primo gracidio offeso, una sorta di vaffanculo batrace prima di farsi una nuotata nell’acqua.
 
Sakusa non aveva tempo per anfibi irritabili, ma Giroro faceva parte di quella famiglia e quella famiglia comprendeva Motoya, quindi corse a farsi perdonare con il suo cibo preferito prima che lo prendesse come esempio facesse qualcosa di schifoso, come vomitare per dispetto mosche e larve, sempre se le rane potessero vomitare. Non voleva realmente scoprirlo.
 
Tornò in cucina, lavandosi mille volte le mani prima di aprire il frigorifero e cercare di capire cosa potesse mettere insieme, tirando fuori ingredienti e utensili per dar vita a qualcosa di cui ancora non aveva visualizzato l’idea.
 
La cena nel microonde completamente dimenticata.
 
 
*
 
 
L’indirizzo scritto sul tovagliolo, malgrado la grafia atroce, sembrò indicare un luogo realmente esistente.
 
Aveva nutrito dei seri dubbi in merito: da Miya Osamu si aspettava qualunque cosa, di Suna aveva imparato a diffidare relativamente presto e l’avere fiducia nelle persone non era mai stata la qualità più brillante del suo spettro emotivo.
 
Ma davanti a Sakusa c’era effettivamente un condominio, circondato da palazzine simili tra loro e vari negozi più o meno chiusi che formavano un quartiere di tutto rispetto.
 
Il portone era aperto, notò con disappunto. Non avrebbe dovuto, la sicurezza era una cosa importante e pensare che estranei potessero mettersi a passeggiare per delle scale condominiali gli faceva venire i brividi. Il fatto che, in quel momento, l’estraneo in questione fosse lui non lo colpì più di tanto.
 
Miya era stato molto preciso con le sue indicazioni: riuscì a raggiungere con facilità il piano lì scritto e una porta che non poteva essere che dei gemelli. Sperava che l’appartamento non fosse in affitto o che, al massimo, lo avessero già preso in quel modo perché il rivestimento in legno rovinato con lunghe strisce più chiare, segni di contusioni di vario genere, graffi e due adesivi di volpi ghignanti attaccati allo stipite gli fecero prevedere caparre trattenute per danni comprovati.
 
Bussò, perché l’orario non era dei migliori per il campanello e la gente perbene a quell’ora era già nel letto. Sentì un fracasso bestiale provenire all’interno dell’appartamento, qualche imprecazione fantasiosa che non riuscì ad essere schermata e la porta si aprì, rivelando un Miya non nei suoi giorni migliori.
 
Indossava una tuta che avrebbe potuto tranquillamente passare da pigiama, se non fosse stata scucita là dove i polsini si ancoravano alle maniche. Larga, comoda e per niente lo stile ricercato che aveva sfoggiato in tutti quei mesi, che lo aveva colpito ogni volta come un pugno in pancia e che, a sapere di quella sua abitudine, il colpo era diventato più tenue, morbido, svolazzi leggeri che vagavano distratti e che solleticavano con cura.
 
Gli occhi erano stati arrabbiati, inizialmente. Indispettiti dal bussare improvviso, irritati da un fuori programma magari arrivato nel momento di massima concentrazione, ma non appena lo vide si spalancarono e le occhiaie si fecero più evidenti, lì nella penombra dell’ingresso. Erano affaticati di stanchezza e secchi per le troppe ore sui libri. Il castano dei suoi occhi, però, brillò come sempre e Sakusa si ritrovò a trattenere il respiro di riflesso. “Omi?” Alitò dopo un attimo di stasi, battendo le palpebre velocemente e cominciando a muoversi sul posto, agitazione e nervosismo che non riuscivano a mascherare un felice stupore. “Che ci fai qui?”
 
I capelli erano stravolti, notò Sakusa forse un secondo troppo tardi. Le ciocche sparate in tutte le direzioni sicuramente da mani agitate, che continuavano a passarci con dita e palmi pieni non volendo saperne di fermarsi, sporcandoli ogni volta un po’ di più.
 
Lo vide strofinarsi la faccia e portarsi dietro la frangia in un’unica passata, facendo solo un lavoro peggiore di piega e pulizia. La mano andò ad ammansire la maglia, allungandola per i fianchi e cercando di appianare i classici rigonfiamenti di pieghe, non facendo nulla per migliorare la situazione.
 
Ma non ce ne era bisogno, pensò Sakusa poggiando a terra la busta che teneva in mano.
 
Non ce n’era bisogno perché, cazzo, forse per la prima volta riuscì a vederlo completamente.
 
E gli piacque. Gli piacque davvero.
 
Gli piacque talmente tanto che non gli diede nemmeno tempo di riallineare i pensieri.
 
Allungò una mano e lo prese per la maglia, una manciata piena e importante che lo aiutò a tirarselo addosso, dritto sulle proprie labbra.
 
Se le era aspettate secche, asciutte, angoli innaturali leggermente induriti dalla disidratazione.
 
Non pensava potessero invece essere così morbide, così soffici. Le vedeva spesso stirate in sogghigni e sorrisi laterali, schioccando per dispetto e infamia e ingabbiate dalla presa di canini e incisivi e mai aveva creduto che avrebbe voluto morirci sopra, che avrebbe voluto averne di più, che sarebbero state umide forse di saliva, ma profumate di caffè tostato e zucchero sciolto, andandogli alla testa in un secondo e bloccandogli il cervello senza alcun tipo di ritorno.
 
Non si rese conto della presa sui propri fianchi finché non sentì una morsa premere forte, bloccandogli tutti i movimenti se non quello di una tirata in avanti, ad incontrare un corpo fremente e immobile insieme, teso, come se avesse paura di fare un passo più falso di quello che si era concesso. Sentiva le sue dita affondare nel tessuto dei propri pantaloni con così tanta intensità che gli sembrò di saggiare i polpastrelli sulla propria pelle, sentiva la presa tremare leggermente e immaginò l’impronta di quelle mani l’indomani, quando si sarebbe vestito per il lavoro e le avrebbe trovate spiccare scure in una distesa chiara, il passaggio di una prova da cui non poteva fuggire.
 
Mugugnò leggermente al pensiero, spingendo verso di Miya e sentendolo respirare dal naso, sbuffo balbettante e caldo e tostato di caffè forte.
 
Non voleva staccarsi, scoprì quando si decise ad aprire gli occhi. Voleva continuare a guardarlo così vicino, a vedere lentiggini sbiadite sul ponte del naso, perse nell’abbronzatura naturale della sua pelle. Voleva continuare a vedere le sue palpebre strizzate, le ciglia unite strette a curvarsi verso l’alto e l’umidità nelle pieghe sottili, tremanti, incredule. Voleva continuare a sentirlo vicino, lo voleva davvero, ma fu Miya ad allontanarsi leggermente, non facendo altro che spostarsi di un centimetro e socchiudere leggermente gli occhi, le mani sui suoi fianchi che artigliarono solo di più. “Wow.” Sussurrò solo e Sakusa non gli credette.
 
Miya nella sua vita aveva avuto sicuramente baci migliori di un misero contatto di labbra. Pesanti, umidi, lascivi, passionali. Il semplice toccarsi non avrebbe dovuto farlo agire in quel modo, voce sfiatata e presa ferrea, come se avesse paura che potesse fuggire da un momento all’altro o si rivelasse solo qualcosa di immaginario. “Wow.” Ripeté di nuovo e passò la lingua sulle labbra, non in modo ammiccante ma come se cercasse qualcosa lì sulla sua bocca. Gli occhi brillarono e Sakusa pensò che dovette averlo trovato. “Sei buono.”  
 
Il suo sapore, capì Sakusa sentendo le orecchie andare in fiamme. Cercava il suo sapore.
 
“Ce ne hai messo di tempo.” Uscì soffice, carezzevole, ma Sakusa avvertì il compiacimento nel tono e fu sollevato di trovare qualcosa di conosciuto in tutta quella situazione. “Sfinimento.” Disse solamente e Miya ridacchiò, spostandolo di lato ad appoggiarlo sulla porta ancora aperta.
 
“Mi hai fatto penare mesi.” Sakusa lo baciò di nuovo perché doveva stare zitto, perché non poteva imbarazzarlo in quel modo, perché il suo lato caustico ne stava risentendo e sarebbe stato umiliante giocare con armi impari. “Non sei prevedibile come credevo inizialmente.” Si avvicinò a baciarlo e fu felice di vedere che glielo permise.
 
Stavolta lo sentì muoversi. Una mano sulla spalla, il bacino contro il suo, le mani di Miya che risalivano fin sui fianchi e rimanevano lì, piccole contrazioni di dita ad ogni tocco di lingua accidentale, pressione più urgente ad ogni incastro di labbra, sospiri liberi quando Sakusa si permise di succhiare leggermente, cercando di capire se il suo sapore fosse quello che avvertiva in superficie o l’altro, quello più profondo, quello che sentiva ad ogni inspirazione dura e corpi che si facevano più vicini, tentati di superare la barriera ma ancora timorosi di ogni cosa.
 
Non riuscì a scoprirlo.
 
Ci fu uno schiarirsi di voce – interno, estraneo, invasivo, diverso – che portò Sakusa a spalancare gli occhi di puro terrore e Miya ad imprecare oscenamente contro la sua bocca, ringhiando un “Sunarin, levati dal cazzo.” che portò Sakusa a pensare che, davvero, non si meritava tutto quello nella sua vita.
 
Ma nonostante la sua convinzione di essere nel giusto, Suna rimaneva lì come una proiezione di cattivo gusto, all’entrata di una stanza a succhiare un chuupet con suoni osceni mentre li riprendeva con il cellulare. “Sono contento di tutto questo, davvero, ma la porta è ancora aperta.” Sogghignò mentre lo diceva. E non era amabile, tutt’altro.
 
Miya lo guardò malissimo. “Puoi andartene affanculo a casa tua? Non voglio più studiare con te.”
 
“Con piacere, Samu mi aspetta.” Doveva aver preparato lo zaino molto prima di quel momento, perché lo prese da dietro il muro con fare sciolto e cominciò a camminare verso di loro, dando una pacca al sedere di Miya mentre usciva dall’appartamento. “Vedi di non fare tardi domani.” Mormorò scattando una foto velocemente e superandoli.
 
“Arrivo quando cazzo mi pare.”
 
“Parlavo con Sakusa.” E si ritrovò a sbloccarsi dallo stato di congelamento improvviso, battendo le palpebre e guardandolo ridacchiare malignamente. “Domani hai il turno di mattina.”
 
“Anche tu.” Ricordò corrucciando le sopracciglia, la voce dura di chi non accettava tutta quella confidenza. Ovviamente a Suna rimbalzò addosso. “E non hai più permessi disponibili.”
 
“Quindi scopa di meno e dormi di più, stronzo.” Si intromise Miya facendo scoppiare a ridere Suna, che se ne andò salutando con una mano e attaccandosi immediatamente al cellulare, sicuramente sbrigandosi a raccontare tutto al suo ragazzo. Miya si sbrigò a chiudere la porta, la mano costantemente sul suo fianco come se non si fidasse a lasciarlo libero, come se potesse scomparire se solo non avesse più alcun contatto su di lui.
 
E per la prima volta, Sakusa capì che non erano stupidaggini. Che i dispetti erano stati convinzioni esistite solo nella sua testa, che le domande che gli aveva rivolto erano di vero interessamento e non pensate solo per infastidirlo, che la sua voglia di conoscerlo era reale.
 
“Non mi stai prendendo in giro, vero?” Sentì domandare piano e Sakusa si girò a guardarlo confuso. La presa si intensificò ma Miya non incontrò il suo sguardo. Rimase dritto, sul rivestimento della porta d’entrata, un appiglio a qualcosa che Sakusa non capiva. “Non ti ha pagato Samu per farmi uno scherzo, vero? Perché non credo che sarei in grado di sopportarlo.”
 
“Ti sembro una persona che bacia per soldi?” Miya prese un respiro forte e Sakusa gli passò la busta, tentando di dire qualcosa senza doverlo fare davvero. “È per te.”
 
Lo vide guardare il sacchetto e non capire. Non lo prese, si limitò a guardarlo e si ritrovò a sospirare. “So che non mangi bene e che hai passato il tuo tempo al café invece di studiare, come invece avresti dovuto fare.”
 
“Chi te lo ha detto?” Uscì minaccioso, ma non verso di lui. Sakusa sorrise leggermente. “E so pure che non stai dormendo.”
 
“Sei venuto qui solo per non avermi sulla coscienza?”
 
“Sono venuto qui perché mi hai dato il tormento per mesi e spero che non sia tu quello che mi sta prendendo in giro, Atsumu.” Era uscito d’impulso, ma per una volta era la pura verità. “E ti ho portato qualcosa da mangiare.” Strinse le labbra e sentì il calore sulle guance. “Da mangiare insieme.”
 
Perché il terrore dell’ignoto rimaneva. La fiducia verso terzi continuava a zoppicare. Il buttarsi nel buio continuava ad essere paralizzante, ma Miya gli suggeriva ogni volta che il brivido che lo prendeva era totalizzante e enfatico, che la paura di cadere era solo uno scoglio, che se avresse rischiato forse avrebbe trovato quello che pensava di non volere mai, sbagliando per partito preso.
 
Miya lo guardò, gli occhi ampi e la bocca leggermente aperta e il respiro trattenuto. “È la prima volta che mi chiami per nome.” Mormorò lasciandolo andare, prendendo la busta meccanicamente. Sorrise, inclinando la bocca lateralmente. “Mi piace detto da te. È sexy.”
 
“È un nome.” Ed era sexy, ma non sarebbe mai uscito da lui. “E penso che sia quello a cui puntavi.”
 
“Faceva tutto parte del piano.” Lo informò facendogli l’occhiolino e godendo delle sue guance calde. “Io ti corteggio, tu mi respingi, poi ti bacio e tu ci stai.”
 
“Ti sei perso qualcosa negli ultimi passaggi.” Sentiva il sangue invadergli la faccia e l’espressione compiaciuta di Miya confermava tutta la sensazione. “Sì, beh, eri talmente pazzo di me che hai sbaragliato tutto.”
 
“Cibo.” Sibilò truce, facendolo ridere. “Ho portato cibo.”
 
“E tè?” Domandò guardando nella busta. Sakusa scosse la testa. “Camomilla, hai bisogno di dormire e tirare fuori il caffè dal tuo sistema.” Club sandwich e camomilla. Gusti forti e sensazione soffice.
 
Non aveva pensato a nulla quando aveva cominciato a cucinare, si era limitato a puntare ad un pieno di forze e stimoli rilassanti. Non era caffè e sfoglia con crema di latte, ma a conti fatti non era solo quello l’abbinamento che lo rappresentava. Voleva farglieli conoscere tutti, con i suoi tempi e con i suoi ritmi.
 
Miya sembrò capirlo, perché sorrise ampio e bello. Non commentò, però. Non ce ne era bisogno. “Omi, ho passato un pomeriggio a studiare con Suna, solo il caffè mi ha fatto andare avanti e non era minimamente buono come quello che fai tu.” Lo vide stringere le labbra continuando a sorridere, guardandolo acuto come sempre. “Vorrei baciarti di nuovo ma non penso che riuscirò a fermarmi.”
 
Sakusa non voleva che si fermasse.
 
Era ancora fermo lì, con il giubbotto addosso in un corridoio stretto a guardarlo come non si era mai concesso di fare, cercando di capire  come riuscire a convincerlo a farlo riposare e passare il tempo insieme. “Come sei messo con l’esame?” Domandò quindi, togliendosi il cappotto e fingendo di non sentire gli occhi di Miya scivolare su di lui.
 
“Bene.” Rispose subito, la compiacenza ben presente nella voce. “Gli ultimi argomenti sono pronti e devo solo ripassare in modo approfondito.”
 
“Allora mangiamo.” Ordinò secco, facendolo ridere. “Poi possiamo fare quello che vuoi.”
 
“Sapevo che non saresti riuscito a resistermi.”
 
“Sarebbe stato semplice se …” Non fossi così. Era quello che avrebbe dovuto dire, ma Miya allungò il collo e la lingua entrò per la prima volta, piano e leggera, una carezza appena che lo preparava per dopo, domani, futuro.
 
Non sarebbero andati troppo oltre, di quello era sicuro. Ci sarebbero stati baci, tocchi, carezze, ma l’urgenza della vicinanza in quel modo che aveva sempre combattuto avrebbe superato quell’attrazione che non faceva distogliere lo sguardo, che li spingeva a cercarsi, che non li lasciava liberi di pensare.
 
“Allora, bel ragazzo.” Miya lo sussurrò sulle sue labbra, il fantasma della sua lingua che gli faceva trattenere il respiro e gli faceva avere voglia di assaggiarla di più. “Hai programmi per il resto della tua vita?”
 
 
 
_______________________
 
 
Salve a tutti!
 
Eccoci alla fine della storia e della serie!
 
Auguro a tutti un anno fantastico, pieno di felicità e cose bellissime!
 
Grazie mille a tutti, auguri di buon anno!!!
 
 
 

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