Star Trek Destiny Vol. V: Eroi dello spazio

di Parmandil
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Golden Age ***
Capitolo 3: *** Iniziano i giochi ***
Capitolo 4: *** Terrore negli abissi ***
Capitolo 5: *** Sfida nei cieli ***
Capitolo 6: *** Ostaggi ***
Capitolo 7: *** La Fortezza del Destino ***
Capitolo 8: *** Arachnia ***
Capitolo 9: *** Game over ***
Capitolo 10: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Star Trek Destiny Vol. V:
Eroi dello spazio
 
 
LA DESTINY DOVEVA ESPLORARE IL MULTIVERSO,
MA QUALCOSA È ANDATO STORTO
E L’EQUIPAGGIO È STATO UCCISO.
ANNI DOPO, UNA BANDA DI CONTRABBANDIERI
HA ABBORDATO LA NAVE ALLA DERIVA,
VENENDO RISUCCHIATA NEL MULTIVERSO,
SENZA LE COORDINATE DI RITORNO.
AGLI AVVENTURIERI NON RESTA CHE
ESPLORARE UNA REALTÁ DOPO L’ALTRA,
IN CERCA D’INDIZI SULLA VIA DI CASA,
MENTRE CERCANO DI RISCOPRIRE IN LORO
QUELLO SPIRITO CHE CREÓ LA FEDERAZIONE...
 
 
-Prologo:
Data Stellare ignota
Luogo: Petra, capitale degli Uomini Lucertola
 
   Immaginate, se vi aggrada, un cosmo in bianco e nero, in cui la Terra e gli altri Mondi Incorporati sono costantemente insidiati dalle minacce dello spazio esterno. Tra orribili mostri alieni, crudeli robot e despoti galattici assetati di conquista, il fato dell’Umanità è appeso a un filo. È in tempi del genere che tutti chiamano a gran voce un eroe; e un eroe ha risposto! Capitan Proton, Difensore della Terra, è ancora una volta in missione per contrastare i malefici piani del dottor Chaotica. Ora la sua Nave a Razzo, il Rocketeer, ha viaggiato fino ai confini del cosmo, dove sul pianeta Petra l’antica stirpe degli Uomini Lucertola custodisce una reliquia dal grande potere. Dovesse cadere in mano ai biechi emissari di Chaotica, l’Umanità sarebbe condannata. È per questo che Buster Kincaid, il leale gregario di Proton, e l’affascinante segretaria Constance Goodheart si sono calati nella città sotterranea degli Uomini Lucertola; ma le cose non sono andate come previsto per il dinamico duo...
   Tum-tum-tum-tum!
   Il rullo dei tamburi, basso e ossessivo, echeggiava nell’intricata rete di spelonche. I guerrieri lucertola battevano le lance sugli scudi, tenendo il ritmo. La luce cruda delle torce e dei bracieri riverberava sui loro volti scagliosi e inespressivi. Al centro della grande caverna, due terrestri erano legati a un palo sacrificale: Buster Kincaid da un lato, Constance Goodheart dall’altro. Il leale gregario si guardava attorno, in cerca d’indizi sulla loro sorte. Al tempo stesso ruotava i polsi nel tentativo di liberarsi dai legacci, finora senza fortuna. Dietro di lui, la bionda ossigenata si dibatteva cercando a sua volta di sciogliersi.
   «Non temere, Constance, usciremo di qui! In fondo ne abbiamo viste di peggio. Ricordi quella volta che fosti agguantata dal Calamaro Demoniaco di Greyhawk II?» chiese Buster, tentando di rincuorare la compagna d’avventure. Constance non rispose, ma anche il silenzio era eloquente.
   «Okay, quella volta fu Proton a salvarti... come sempre» ammise Buster. «Ma ho imparato un sacco di cose da allora. Ci tirerò fuori dai guai, promesso!» assicurò l’avventuroso reporter. Dopo di che drizzò le spalle e si rivolse al Re degli Uomini Lucertola, che li osservava a poca distanza.
   «Vostra Maestà, tutto questo non è altro che uno spiacevole equivoco. Sono certo che possiamo trovare un accordo, se solo avrete la bontà di slegarci» disse, cercando di parlare con voce più profonda e sicura del normale.
   «Nessun equivoco!» rispose il Re Lucertola in tono cavernoso. «Siete venuti pretendendo la consegna della nostra reliquia più sacra, la Pietra della Terra» disse, accennando al manufatto posto su una colonnina. Era una pietra ovale, grande come un uovo di struzzo. Recava inciso il simbolo alchemico della Terra, un triangolo equilatero rovesciato e intersecato da una linea orizzontale. «Nella mia generosità vi ho offerto la possibilità di conquistarla, superando la Prova d’Iniziazione» proseguì il sovrano. «Ma tu, giovanotto, hai fallito! Ora la Madre Terra vuole che le siate sacrificati. Liberate la Creatura!» sentenziò, accompagnandosi con un gesto secco.
   Un clangore metallico alle spalle di Buster indicò che il cancello ferrigno in fondo alla caverna si stava aprendo. Il giovane cercò di voltarsi, per vedere quale orrore ne sarebbe sbucato; ma legato com’era non riusciva a torcersi abbastanza. Tuttavia udì un sibilo minaccioso, misto a un suono strisciante, come se pesanti spire scorressero sul terreno. Gli Uomini Lucertola, che lo vedevano bene, levarono le lance in un saluto quasi osannante. E Constance, che essendo legata schiena contro schiena a Buster aveva il mostro davanti a sé, lanciò uno strillo acuto e prolungato.
   «AAAAAAAHHHHH!».
   Dall’intensità del grido, l’avventuroso reporter dedusse che si trattava di una minaccia di prim’ordine. Raddoppiò gli sforzi per liberarsi, cercando convulsamente di sciogliersi i polsi, ma inutilmente; e i sibili erano sempre più vicini. «Accidenti, Capitan Proton, dove sei? Abbiamo bisogno di te!» esclamò, riconoscendo la gravità della situazione.
   «Eccomi, amici miei!» risuonò una voce più sicura e virile. Un uomo alto e scattante, con giacca di pelle e occhialoni di volo, sbucò da un cunicolo laterale, entrando nella piena luce delle torce. Una musichetta eroica accompagnò la sua entrata in scena. L’intrepido campione impugnava una pistola a raggi; un sorriso sicuro gli illuminava il volto e i lunghi capelli erano raccolti in una coda di cavallo. Al vederlo gli Uomini Lucertola indietreggiarono di un passo, sibilando allarmati, e gli puntarono contro una selva di lance; ma l’uomo non mostrò alcun timore. «Il giuoco è finito, altezza! Liberate i miei compagni!» ordinò, prendendo di mira il Re Lucertola.
   «Chi sei tu che osi profanare il mio santuario, interrompere il sacrificio e persino darmi ordini?!» chiese il sovrano, oltraggiato.
   «Capitan Proton, Uomo Spaziale di Prima Classe, Difensore della Terra, Flagello del Male Intergalattico!» si presentò l’eroe, accorciando le distanze. La sua pistola a raggi era sempre puntata contro il monarca.
   «Capitan Proton... impossibile! Avevo sentito che eri stato colpito da una cometa vagante!» obiettò il Re Lucertola.
   «E dopo l’impatto, la povera cometa si è disintegrata» confermò l’audace uomo dello spazio. «Mi spiace dovervi privare della vostra reliquia, ma qui non è più al sicuro. Vedete, il folle dottor Chaotica ha trovato un’antica mappa stellare che mostra dove si trovano le quattro Pietre degli Elementi. Se riuscisse a impadronirsene, potrebbe sfruttare il loro potere per distruggere la Terra e gli altri Mondi Incorporati. Voi stessi sareste in pericolo, perché Chaotica intende schiavizzare tutti i popoli del cosmo. Quindi è nel vostro interesse lasciarci prendere la Pietra per portarla sulla Terra, dove sarà vigilata dalla nostra flotta spaziale» spiegò.
   «Non ho alcuna garanzia che questo Chaotica voglia la nostra Pietra; finora gli unici giunti a reclamarla siete voi!» obiettò il Re Lucertola. «Pertanto vi sottoporrò alla suprema ordalia. Se riuscirete a sconfiggere la Creatura, avrete la Pietra. Altrimenti le vostre ossa spolpate decoreranno questa caverna!» avvertì.
   «Mi sta bene» ribatté Proton senza scomporsi. In due balzi fu accanto al palo sacrificale. Sempre impugnando la pistola a raggi con la mano destra, estrasse un coltellino svizzero con la sinistra e si affrettò a liberare i compagni dai legacci. In un attimo le corde tagliate caddero a terra. Buster e Constance fecero qualche passo, massaggiandosi i polsi indolenziti.
   «Appena in tempo, Capitano. Quasi cominciavo a disperare» borbottò il giovane.
   «La foresta delle piante carnivore mi ha rallentato» si giustificò Proton. «Ma eccoci di nuovo riuniti contro le minacce dello spazio esterno!». Si volse a fronteggiare la Creatura, sempre più vicina.
   Anche Buster si girò verso i sibili, e finalmente lo vide: un serpente gigante strisciava verso di loro! Le scaglie rilucevano, riflettendo i bagliori delle torce. La lingua forcuta guizzava tra le fauci e le zanne velenose non aspettavano che di richiudersi su di loro.
   «AAAAAAAHHHHH!» strillò di nuovo Constance, nascondendosi dietro al prode Capitano.
   «Hai ragione, mia cara, stavolta sarà dura» convenne Proton, pronto allo scontro.
   «Ehm, lo sarebbe meno se mi dessi un’arma» notò Buster, che era stato disarmato dagli Uomini Lucertola quando lo avevano catturato.
   «Mi spiace, non ho altre pistole a raggi» disse l’eroe dello spazio. Aprì il fuoco contro il serpente gigante, mirando alla gola. Il raggio laser balenò nell’aria, lasciandogli una chiazza scura sulle scaglie; ma non riuscì a perforarle. Il serpente s’inarcò, sibilando ancora più forte, come in segno di sfida. Aprì un cappuccio di pelle ai lati della testa, alla maniera dei cobra, che lo fece apparire ancor più grande e minaccioso.
   «È troppo corazzato, non ci resta che scappare!» gemette Buster, occhieggiando il tunnel laterale da cui era sbucato l’eroe.
   «No! Mai darsi per vinti, mai arrendersi!» obiettò Proton con decisione. Si guardò attorno, in cerca d’ispirazione, e finalmente la notò. La statua colossale di un guerriero lucertola sorreggeva la volta della caverna, a mo’ di cariatide. Impugnava un’enorme alabarda, dalla lama d’ossidiana perfettamente affilata. E il serpentone stava per passarci proprio sotto.
   Capitan Proton socchiuse gli occhi, calcolando distanza e tempi. Poi, con l’infallibile mira che lo aveva reso noto in tutto il cosmo, aprì il fuoco. Colpì il braccio della statua, tranciandolo di netto. Priva di sostegno, la gigantesca alabarda d’ossidiana cadde in avanti. Piombò sul serpente gigante e gli recise di netto la testa.
   Splat!
   La testa mozzata rotolò in avanti di qualche metro, arrestandosi proprio davanti a Proton, che vi posò sopra lo stivale in segno di trionfo. Estasiata, Constance Goodheart corse dall’eroe e lo abbracciò strettamente. A pochi passi, Buster Kincaid applaudì ammirato. «Complimenti, Capitano! Anche stavolta hai fatto centro; sei sempre il migliore» riconobbe.
   «Ordinaria amministrazione» sorrise Proton, staccandosi di dosso la segretaria con gentilezza ma con decisione. Dopo di che si rivolse al Re Lucertola, che aveva assistito alla scena. «Ebbene, io ho fatto la mia parte. Ora tocca a te rispettare i patti!» gli ricordò.
   Il sovrano stava per rispondere, ma fu prevenuto da una voce aspra, proveniente da dietro gli Uomini Lucertola: «Che scena sdolcinata!». I nativi si girarono di scatto, sorpresi dall’intrusione. Il movimento tra le loro file permise anche ai tre terrestri di vedere i nuovi arrivati.
   Capitan Proton fremette nel riconoscere le guardie di Chaotica, dai mantelli neri e i volti mascherati. A capo del drappello c’era nientemeno che Lonzak, braccio destro di Chaotica e capo delle sue armate. Era un omone grande e grosso, dal vocione tonante e la gestualità enfatica. Indossava un’uniforme tutta borchie, più cerimoniale che pratica, con un grande elmo conico a sormontargli la testa calva. «Sorpreso di vedermi, Proton? Di certo pensavi che fossi caduto nella fossa dei coccodrilli!» tuonò il vile marrano. «Invece sono sopravvissuto, aggrappandomi alla vendetta! Trema, terrestrucolo, perché la tua ora è giunta!» minacciò. Agguantò la Pietra della Terra, mentre con la mano libera sparò alla volta della caverna.
   Ci fu uno schianto e le pietre iniziarono a cadere, sempre più grosse e numerose. Lonzak e i suoi scherani si dileguarono nel tunnel da cui erano arrivati, che conduceva in superficie. Gli Uomini Lucertola sibilarono, fuggendo in altri condotti. Era questione d’attimi prima che la grotta crollasse del tutto.
   «EEEEEEEKKKKK!» strillò Constance, con un’intonazione diversa dalle precedenti.
   «Da questa parte, presto!» la esortò Proton, spingendola nella galleria da cui lui stesso era sbucato poco prima. In un attimo anche Buster gli fu accanto.
   «Ma non dovremmo salire?» chiese il giovane, notando che il condotto portava sempre più in profondità.
   «Non temere, seguimi!» insisté l’eroe, imboccando il tunnel. A Buster non restò che fidarsi; del resto il Capitano non lo aveva mai deluso. Lo seguì nel budello di pietra, mentre alle loro spalle la grande caverna collassava con un boato assordante.
 
   I tre terrestri corsero a perdifiato nella galleria, a stento illuminata da qualche torcia. Di lì a poco Buster cominciò a rallentare, credendosi ormai fuori pericolo; ma Proton lo afferrò per un braccio. «Non è ancora finita, guarda!» lo avvertì, indicando qualcosa alle loro spalle.
   Il giovane si voltò, trovandosi davanti una scena terrificante. Un macigno grossomodo sferico si era infilato nel tunnel e rotolava a gran velocità contro di loro. Se li avesse raggiunti, li avrebbe spappolati: non c’era anfratto in cui nascondersi.
   «EEEEEEEKKKKK!» gridò Constance Goodheart, giratasi a sua volta. La bionda ossigenata scattò in avanti, con uno sprint da centometrista. Proton e Buster dovettero mettercela tutta per starle dietro. Alle loro spalle, il fragore del macigno rotolante era sempre più forte. Buster osò guardarsi indietro, vedendolo vicinissimo. Il cuore gli scoppiava nel petto: sarebbero usciti in tempo?
   «Ci siamo quasi, un ultimo sforzo!» lo incoraggiò Proton.
   Voltosi di nuovo in avanti, il giovane vide la chiara luce del giorno in fondo al tunnel e sentì una corrente d’aria fresca sul viso. L’uscita era vicina, e con essa la salvezza!
   Con un ultimo sprint, i tre terrestri uscirono dalla galleria, gettandosi prontamente di lato. L’attimo dopo il pietrone sbucò a sua volta e passò loro accanto. Rotolò lungo il pendio alberato, schiacciando gli arbusti del sottobosco, fino a perdersi nella foresta.
   «Siamo salvi!» disse Proton, lievemente ansante. Si accostò a Constance, abbracciandola teneramente. «Hai avuto paura, amore mio?» chiese in tono protettivo. La segretaria annuì e ricambiò l’abbraccio, seppellendo il volto contro il suo petto. «Non temere, è tutto finito» la rassicurò il Capitano, carezzandole la chioma ossigenata.
   Buster Kincaid, che era crollato a terra esausto, si rialzò a sua volta e si guardò attorno. Erano entrati nella montagna di Petra da un lato e ne erano usciti dall’altro, il che spiegava il forte dislivello. Davanti a loro si stendeva l’intricata foresta che copriva gran parte del pianeta. «Saremo anche salvi, ma la missione è fallita. Abbiamo perso la Pietra» disse sconfortato.
   «Beh, non è così grave. Ci sono quattro Pietre, una per elemento. A noi basta prenderne una per impedire a Chaotica di sfruttare il loro potere» gli ricordò Proton. «La prossima volta andrà meglio, vedrai. Anche se...» s’interruppe, udendo un boato come di tuono. Osservò il cielo, schermandosi gli occhi dal sole. Una navicella, decollata dall’altro lato della montagna, schizzò verso le nuvole.
   «Saranno Lonzak e i suoi, con la Pietra della Terra» riconobbe Buster.
   «Già. Forse non è troppo tardi per intercettarli, prima che tornino al Pianeta X. Seguitemi, ho lasciato il Rocketeer in una radura qui vicino!» disse l’eroe, con rinnovato ottimismo. Senza perdere tempo guidò i compagni d’avventura attraverso la fitta selva.
 
   I terrestri si fecero strada nel sottobosco, camminando di buon passo. A un certo punto s’imbatterono in una pianta carnivora, che cercò di avviluppare Constance nelle liane simili a tentacoli, ma Capitan Proton reagì con l’usuale prontezza. Due raggi laser ben assestati convinsero la pianta a desistere e dettero all’affascinante segretaria un motivo in più per stimare il suo eroe. Infine il terzetto giunse alla radura in cui li attendeva la Nave a Razzo.
   Lo scafo argenteo del Rocketeer scintillava alla luce del sole. Era un vascello piccolo e agile, dalle linee minimaliste. Aveva forma a missile, sebbene atterrasse su un fianco. A prua spiccava il simbolo di Proton, una raggiera di fulmini. Più indietro sulla fiancata si aprivano alcuni oblò, così come il portello d’ingresso. A poppa lo scafo si affusolava e si estendevano quattro grandi alettoni per il volo atmosferico. Era la navicella più veloce del cosmo; e ora il miglior pilota del cosmo era ansioso di mettersi ai comandi.
   «Forza, bellezza! Si torna nell’etere, il nostro elemento!» disse Proton, sfiorando affettuosamente lo scafo prima d’entrare. Constance si affrettò a seguirlo. Per ultimo venne Buster, che sigillò il massiccio portello stagno.
   «Il nemico ha un grande vantaggio su di noi» notò il giovane, preoccupato.
   «Lo ridurremo attraversando la Cintura degli Asteroidi» promise Proton, già ai comandi.
   «Ma nessun vascello ha mai attraversato la Cintura!» s’inquietò l’avventuroso reporter.
   «Vuol dire che saremo i primi!» disse l’eroe, sicuro di sé. «Non temere, amico mio. Fa’ ciò che dico e ne usciremo senza un graffio. Razzi di decollo, avanti tutta!» disse, premendo alcuni grossi pulsanti luccicanti.
   Spinto dai razzi atomici, il Rocketeer s’innalzò in volo e prese quota, più rapido di un proiettile. La montagna di Petra e l’intricata foresta svanirono dietro di esso, quando s’innalzò oltre le nubi. In breve la Nave a Razzo fu nell’orbita del pianeta.
   «Pronto ad attivare il propulsore iper-atomico» disse Proton, concentrato sui comandi.
   «Ehi, capo... sei sicuro che Lonzak stia tornando al Pianeta X? Forse sta proseguendo direttamente verso la prossima Pietra, nel qual caso dovremmo fare altrettanto» notò Buster.
   «Giusto, dobbiamo tracciare la sua rotta» convenne l’audace Capitano. «Immagizzare! Cerca di rilevare la sua traccia atomica» ordinò.
   «Non c’è problema!» disse il giovane, rimboccandosi le maniche della camicia. Attivò l’Immagizzatore, ovvero lo schermo principale. Uno spicchio di pianeta apparve nell’angolo in basso a destra; per il resto si vedeva solo lo spazio trapunto di stelle. Buster maneggiò alcuni bottoni e levette, dopo di che controllò un manometro. «Ci siamo, ho una traccia atomica! Direzione 9-3-9, provvedo a immagizzare!».
   La traccia apparve sullo schermo, simile a un esile filo di fumo che si perdeva tra le stelle.
   «Avevi ragione, il furfante si dirige verso la prossima Pietra» constatò Proton. «Ebbene, faremo lo stesso! Possiamo ancora precederlo, se prendiamo la scorciatoia».
   «Intendi...» fece Buster, sentendo rizzarsi i peli sul collo.
   «Ebbene sì, passeremo accanto all’Occhio del Terrore» decise l’eroe.
   «Ma è un suicidio! Nessuno è mai sopravvissuto all’incontro con quel vortice senza fondo!» protestò il giovane.
   «Vuol dire che saremo i primi!» ribadì Proton, con l’immancabile ottimismo che lo caratterizzava. «Passeremo più vicini possibile, così che la spinta gravitazione ci dia l’accelerazione necessaria. Reggiti forte, amico mio. Anche tu, Constance cara» raccomandò. Abbassò una leva, attivando il propulsore iper-atomico, e subito il Rocketeer schizzò in avanti, verso la prossima avventura.
 
   Di lì a poco la Nave a Razzo giunse presso l’Occhio del Terrore. Era un grande vortice che bucava lo spazio, avvolto da gas incandescenti e frammenti d’asteroidi, attirati dalla sua irresistibile gravità. Il Rocketeer prese a vibrare sotto la tremenda sollecitazione, mentre Proton lo dirigeva ancora più vicino. Impaurita, Constance Goodheart si avvicinò all’eroe dello spazio e cercò di abbracciarlo, in cerca di conforto.
   «Non adesso cara, mi servono le mani libere» disse gentilmente Proton. «La forza del vortice è immane, non c’è spazio per il minimo errore. Buster, preparati ad attivare il propulsore iper-atomico al mio comando».
   «Conta su di me, Capitano» disse il leale gregario, le mani già sui comandi.
   Il Rocketeer tremò come mai prima d’ora, sospinto dalle correnti gravitazionali. Capitan Proton lo mantenne in rotta con suprema maestria, contrastando il vortice famelico. Una singola goccia di sudore comparve sulla sua fronte concentrata. «Ci siamo quasi... meno tre... due...» mormorò.
   THUD!
   L’impatto era avvenuto contro la fiancata. La paratia d’acciaio resistette senza deformarsi, ma il Rocketeer sbandò con violenza. I terrestri dovettero reggersi alle consolle per restare in piedi.
   «Cos’è successo?!» chiese Buster Kincaid, col cuore in gola.
   «Un asteroide ci ha colpiti a babordo» comprese Proton, verificando rotta e velocità. «Lo scafo è integro, ma abbiamo perso la rotta. Stiamo precipitando verso l’Occhio del Terrore, non posso impedirlo» disse, alzando gli occhi al vortice che ormai riempiva lo schermo.
   «Allora... siamo perduti?!» chiese il giovane, incredulo.
   «Non ancora. Se la fortuna ci assiste, passeremo indenni attraverso l’Occhio e usciremo dall’altra parte... ovunque sia» rivelò il prode Capitano. «È come passare dalla cruna di un ago; le piccole dimensioni del Rocketeer ci aiuteranno» aggiunse.
   «Grandioso... ma qualcuno è mai riuscito nell’impresa, prima di noi?» indagò l’avventuroso reporter.
   «Noi saremo i primi» disse ancora una volta Proton, lo sguardo fisso verso l’inconoscibile baratro davanti a loro. «Prendi nota, amico mio... stiamo per entrare negli annali dello spazio».
   Il Rocketeer vibrò sempre più forte, acquistando velocità man mano che si avvicinava al centro del mulinello. Mancava poco all’attraversamento della soglia... quella breccia nello spazio-tempo che fagocitava materia ed energia.
   «AAAAAAAHHHHH!» strillò Constance, sopraffatta dall’orrore.
   Tutto si oscurò, mentre una musica drammatica risuonava intorno agli eroi dello spazio. Tum-tum-tu-tuuuum! Infine si udì una voce squillante: «Riusciranno i nostri eroi a sopravvivere all’Occhio del Terrore e a sventare i piani del perfido dottor Chaotica? Lo scoprirete nelle prossime puntate delle Avventure di Capitan Proton!».
 
   Tornata la luce, sotto forma di una luminosità diffusa, i due uomini si trovarono soli in un vasto salone vuoto. Non c’era più traccia del Rocketeer, né dei gas e degli asteroidi circostanti; e nemmeno dell’Occhio del Terrore. Infatti la simulazione olografica era terminata e con essa anche la monocromia: i giocatori e i loro abiti avevano recuperato i colori. I due si trovavano al centro della sala; le superfici di un nero intenso erano rivestite dalla griglia esagonale dei proiettori olografici. Proprio davanti a loro si apriva l’unico ingresso, contraddistinto da un’imponente porta ad arco.
   «Beh, che te ne pare?» chiese il Capitano Rivera dell’USS Destiny, la nave federale dispersa nel Multiverso. L’Umano indossava ancora la tenuta da Capitan Proton che costituiva il suo costume di scena, e di cui ora si potevano apprezzare i colori.
   «Niente male, davvero» riconobbe Talyn, l’addetto a sensori e comunicazioni. Anche lui indossava il suo costume, ovvero gli abiti di Buster Kincaid, replicati prima d’iniziare il gioco. «Questa è stata una delle puntate migliori. Quando quel macigno ci è rotolato dietro nella galleria, ho davvero avuto paura» ammise.
   «I protocolli di sicurezza sono sempre attivi. Non abbiamo mai corso alcun rischio» assicurò il Capitano. «Anche se questo non mi ha impedito di prendermi una storta mentre correvo» ammise, massaggiandosi la caviglia gonfia e indolenzita.
   «Sì, ho notato che negli ultimi minuti zoppicava un po’, Capitano» disse il giovane El-Auriano, sempre attento ai dettagli. «È meglio se passa in infermeria, a farsi dare una controllata» suggerì.
   «Meglio di no. È imbarazzante farsi curare per un incidente sul ponte ologrammi» borbottò Rivera, ma Talyn intuì che c’era dell’altro. Forse il Capitano si vergognava di ammettere il suo hobby con la dottoressa Giely, l’unico medico di bordo.
   «Fossi in lei, mi farei visitare» insisté l’El-Auriano. «Sarebbe peggio se domani tutto l’equipaggio la vedesse zoppicare, no?».
   «Uhm, già» ammise Rivera controvoglia. Si diresse verso l’uscita, seguito dal giovane ufficiale. «Allora, dicevi che la puntata ti è piaciuta. Aspetta di vedere le prossime... si preannunciano degli episodi gustosi».
   «Niente spoiler, la prego!» rise il giovane. «Voglio riprendere dal cliffhanger senza sapere a cosa andiamo incontro. Mi chiedevo solo se potremmo apportare qualche modifica al personaggio di Constance».
   «Perché, cos’ha che non va?».
   «Ecco, strilla talmente forte che mi fa venire il mal di testa. Non dico di zittirla completamente, ma... non potremmo almeno levarle qualche decibel?» suggerì Talyn.
   «Si può fare» annuì Rivera. Il portone si aprì davanti ai due giocatori, permettendogli di lasciare il simulatore ambientale, tornando ai familiari corridoi della Destiny. A quell’ora serale c’erano pochi ufficiali in circolazione, e anche se qualcuno li avesse visti coi costumi di scena non ci avrebbe fatto caso. Travestirsi per giocare sul ponte ologrammi era prassi normale sulle navi della Flotta Stellare, e sebbene tutti loro fossero avventurieri, impadronitisi del vascello, avevano rapidamente adottato quello stile di vita.
   «Certo che la cosa migliore, per Constance, sarebbe non averla più come NPC» disse il Capitano. Come sanno tutti gli appassionati di realtà virtuale, un NPC – non player character – è un personaggio gestito dal computer e pertanto limitato alla programmazione di base.
   «Vuol farla interpretare da qualcuna dell’equipaggio?» s’interessò Talyn. «E chi ha in mente?» indagò. Sulla Destiny non c’erano molte donne disponibili a interpretare un ruolo così politicamente scorretto nella sua limitatezza retro-futuristica.
   «Uhm, ancora non lo so. Ci devo pensare...» borbottò Rivera, meditabondo. 
 

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Capitolo 2
*** Golden Age ***


-Capitolo 1: Golden Age
Data Stellare 2611.125
Luogo: USS Destiny
 
   La Destiny vagava senza meta nel Vuoto, il cosmo privo di stelle che era stato il suo principale rifugio da quand’era finita dispersa nel Multiverso. Era un periodo di stanca dopo i tristi fatti di Thalassa, quando gli avventurieri si erano imbattuti nel pianeta oscillante tra il Vuoto e il loro Universo, ma non erano riusciti ad approfittarne per tornare a casa. Peggio ancora, avevano dovuto aggredire selvaggiamente quel mondo ospitale per rubare tutto il dilitio. Era stata una scelta obbligata, dato che l’alternativa era restare bloccati senza energia nel Vuoto, il che equivaleva a una lenta morte. Ma anche così, gli avventurieri – e il Capitano in particolare – non riuscivano a scrollarsi di dosso la sensazione di aver esagerato. Tra l’altro, essendosi lasciati in malo modo con gli abitanti, non sapevano nemmeno se questi avrebbero parlato di loro alla Flotta Stellare. Tutto ciò aveva demoralizzato l’equipaggio, tanto che da parecchie settimane la Destiny non lasciava il Vuoto. Gli avventurieri preferivano girarsi i pollici su quell’astronave lussuosa piuttosto che rischiare la vita esplorando il Multiverso, nella flebile speranza di trovare la via di casa. Del resto molti di loro non desideravano nemmeno tornare, essendo ricercati nella Federazione. Così il tempo passava senza nuovi viaggi.
   I membri dell’equipaggio più attivi erano certamente gli ingegneri, dato che il loro capo Irvik stava approfittando della lunga sosta per effettuare una revisione generale dei sistemi di bordo. Stavano anche replicando nuovi robottini Exocomp, affinché li aiutassero nei lavori, e potenziavano quelli già esistenti dotandoli di nuovi strumenti e protocolli. Oltre agli ingegneri, gli unici a darsi un po’ da fare erano gli addetti alla sicurezza, che sotto la ferrea guida di Naskeel cercavano di diventare più professionali, in previsione di futuri scontri. Il resto dell’equipaggio aveva ben poco da fare e i risultati si vedevano. La sala ricreativa e quelle sportive erano sempre gremite, mentre i ponti ologrammi erano costantemente in uso. Il Capitano stesso era talmente assorbito dalle Avventure di Capitan Proton che ormai trascurava i suoi doveri. In plancia si vedeva più spesso la Comandante Losira, peraltro sempre più irrequieta a causa della situazione di stallo.
   Ma c’era un altro elemento assai attivo: Giely, l’unica superstite dell’equipaggio originale. La giovane Vorta era l’unico medico di bordo, se non si contava il Medico Olografico d’Emergenza recentemente acquisito su Thalassa. Pochi la vedevano, perché rifuggiva dagli incontri sociali e passava il tempo in infermeria, tutta presa da strani esperimenti. In effetti molti la consideravano lunatica. Così Rivera non fu stupito di trovarla in servizio, sebbene fosse ormai tarda sera.
   «Disturbo?» chiese l’Umano, indugiando sulla soglia.
   «Certo che no, Capitano! Dimmi, che posso fare per te?» chiese Giely, che fin dalla prima missione aveva raggiunto una certa confidenza con lui. Lasciò il microscopio e gli venne premurosamente incontro. Come tutti i Vorta aveva capelli corvini che contrastavano con la carnagione cerea, grandi orecchie zigrinate e occhi violetti che le davano un’aria ultraterrena. I capelli però non erano impomatati come quelli dei Vorta al servizio del Dominio, bensì lisci, dandole un’aria più fresca e simpatica.
   «Oh, non è nulla di che. Mi sono preso una banale storta» ammise Rivera. «Può occuparsene il Medico Olografico» suggerì, facendosi avanti con passo leggermente zoppicante.
   «L’MOE è occupato, gli ho dato da fare dei test molecolari» spiegò la dottoressa. «Ci penso io, stenditi pure sul lettino» lo invitò. Il suo sguardo indugiò sull’uniforme di Capitan Proton, ma per il momento non fece commenti.
   «Grazie» disse Rivera, sdraiandosi come indicato. «Posso chiederti come mai tu e l’MOE siete così indaffarati in questo periodo? Non mi pare che abbiamo emergenze mediche a bordo» notò.
   «Nessuna emergenza, infatti» confermò la Vorta, analizzandogli la caviglia gonfia. «Ma stiamo studiando a fondo la fisiologia degli Undine, analizzando i loro resti conservati dalla prima missione. Così, se mai dovessimo incontrarli di nuovo, saremo più preparati. E studiamo la bionave che ci hanno lasciato nell’hangar» aggiunse.
   «Ah, la bionave!» s’interessò Rivera, sfregandosi il mento irsuto. «Finora non siamo mai riusciti a farla funzionare».
   «Perché il sistema di guida reagisce solo al DNA degli Undine e alle loro onde cerebrali» annuì la dottoressa. «Ma finalmente sto aggirando l’ostacolo. Con l’aiuto di Irvik sono riuscita a entrare nel bio-processore. Lo stiamo riprogrammando affinché accetti ordini da noi. Tra poco potremo fare i primi voli di prova» rivelò.
   «Interessante» disse il Capitano, vedendo i vantaggi di padroneggiare quella formidabile tecnologia organica. «Tenetemi informato dei vostri progressi».
   «Veramente ti spedisco un rapporto completo ogni settimana. Non li hai mai letti?» si accigliò la Vorta.
   «Io... ehm... temo d’essermi un po’ distratto ultimamente» ammise l’Umano, imbarazzato. «Ma ti prometto che mi metterò in pari».
   «Distratto sul ponte ologrammi, suppongo» disse Giely, tornando a osservare la sua tenuta retro-futuristica. «Beh, è sempre meglio che startene chiuso nel tuo alloggio a tracannare tequila. Almeno nel simulatore ambientale resti sobrio e ti tieni in forma. È lì che ti sei procurato questa storta?» chiese, iniziando a curarlo con uno strumento che interveniva sui legamenti.
   «Sì, io e Talyn eravamo coinvolti in una scena d’azione» confermò Rivera.
   «Dev’essere un programma interessante, a giudicare da quanto ci giocate» commentò la Vorta. «Di che si tratta?».
   «Sono le Avventure di Capitan Proton. Ne hai mai sentito parlare?» indagò il Capitano, osservando attentamente la sua reazione.
   Giely s’interruppe un attimo per frugare nella memoria. «Direi di no» disse, riprendendo le cure. «Cos’è, una storia sugli albori della Flotta Stellare?».
   «Decisamente no» sorrise Rivera. «È un’opera di fantasia... il futuro visto con gli occhi del passato. Per la precisione s’ispira alla Golden Age della fantascienza terrestre, la prima metà del XX secolo».
   «Quindi... prima del vostro Primo Contatto?» chiese la Vorta, interdetta.
   «Prima che il primo essere umano lasciasse l’atmosfera terrestre» precisò il Capitano.
   «Caspita, ma allora è storia antica!» commentò Giely, spalancando gli occhioni violetti. «Perché scegliere un’opera così datata?».
   «È proprio questo il bello: all’epoca noi Umani non avevamo la minima idea di cosa ci fosse là fuori, quindi potevamo sfogare liberamente la fantasia!» spiegò Rivera. «E poi, quello che facciamo io e Talyn non è solo un gioco. Vedila come una ricerca sociologica sul XX secolo e sul suo immaginario!» suggerì, per non dare l’idea di sprecare il suo tempo in una ragazzata.
   «Caspita, non credevo che fosse un’esperienza così istruttiva!» esclamò la Vorta, sempre impressionabile e incline a bersi quello che le veniva propinato.
   «Eh già, ho pensato che fosse utile per il ragazzo» disse il Capitano, dandosi una certa importanza. «In effetti... uhm... potrebbe non essere l’unico a beneficiarne» disse, osservando Giely sotto una nuova luce. Giusto poco prima s’era chiesto chi mai, a bordo, potesse interpretare la beneamata Constance Goodheart. E ora la soluzione era lì davanti a lui, sotto forma dell’ingenua Vorta.
   «Ecco fatto, i legamenti sono a posto!» disse allegramente Giely, che si era persa le sue ultime parole. «Tieni la caviglia a riposo per almeno ventiquattr’ore» raccomandò, «dopo di che potrai tornare a correre e saltare sul ponte ologrammi». Lasciò il lettino, per riporre lo strumento medico in un armadietto.
   Rivera si raddrizzò e mise i piedi a terra, notando soddisfatto che non sentiva più alcun dolore. Alzatosi in piedi, indugiò brevemente. «Davvero pensi che il mio programma sia istruttivo?» indagò.
   «Ho detto così? Sì, credo di averlo detto» ricordò la Vorta, con la testa un po’ fra le nuvole. «Il fatto è che conosco a grandi linee la cultura umana così com’è ora, ma mi manca la prospettiva storica. Mi piacerebbe sapere come si è evoluta la vostra idea dell’esplorazione spaziale».
   «Muy bien!» approvò l’Umano, sentendo di averla agganciata. «Allora che ne diresti di unirti al gioco?» propose.
   «Vuoi che partecipi con te e Talyn?» si stupì Giely. «Credevo fosse un programma per due soli giocatori».
   «C’è l’opzione per interpretare un terzo personaggio... l’ultimo elemento della nostra squadra. Finora l’abbiamo tenuto come NPC, ma trovo che il gioco sarebbe più interessante se qualcuno lo interpretasse» spiegò Rivera. «È un personaggio femminile e credo che ti calzerebbe a pennello. Sempre che tu non voglia distrarti dal lavoro, s’intende» aggiunse doverosamente.
   «Oh, non sono così occupata da non potermi permettere distrazioni. Specie adesso che ho l’MOE ad aiutarmi» garantì la dottoressa. «Anzi, ora che ci penso un hobby del genere potrebbe farmi bene. Mi aiuterebbe a rilassare la mente, fra un esperimento e l’altro. Così unirei l’utile al dilettevole!» disse allegra.
   «Perfetto. Allora incontriamoci domani in sala ricreativa, subito dopo pranzo, per parlarne più a fondo» propose il Capitano. «Verrà anche Talyn, così ti daremo una panoramica del gioco e in particolare del tuo personaggio» disse, avviandosi all’uscita.
   «A domani, allora!» trillò Giely, emozionata. Da quand’era salita sulla Destiny, era la prima volta che qualcuno la invitava a giocare sul ponte ologrammi. Sentì che poteva essere l’inizio di qualcosa di unico.
 
   L’indomani, all’ora convenuta, Giely andò a cercare Rivera e Talyn in sala ricreativa. Li trovò già seduti a un tavolo, che discutevano animati sopra un d-pad. Non appena la vide, il Capitano si alzò e le offrì premurosamente una sedia. «Ah, eccoti qui! Accomodati, così parleremo del gioco. Sempre che tu sia ancora dell’idea di partecipare» chiarì.
   «Sono qui per questo» assicurò la Vorta, sorpresa e lusingata da quelle attenzioni. Si accomodò al tavolino. «Allora, ditemi tutto».
   «Per prima cosa, raccontaci che esperienze hai di olo-romanzi» disse Rivera, risedendosi.
   «Poco o nulla, temo» ammise Giely. «Quand’ero nel Dominio usavamo gli ologrammi solo per studio ed esercizio. Dopo essere passata alla Federazione mi è capitato di usarli per svago, ma mi sono limitata a vedere posti esotici e spettacoli. Qualche volta sono entrata in sala mentre erano in corso programmi altrui, ma non ho vere esperienze di recitazione» chiarì.
   «Non preoccuparti, il tuo ruolo non è impegnativo» disse Talyn, trattenendo a stento le risate.
   «Già, ma comunque il programma ha delle peculiarità che richiedono spiegazioni» disse Rivera, zittendolo con un’occhiataccia.
   La dottoressa notò che l’Umano aveva un atteggiamento ambiguo. Da un lato era palesemente desideroso di coinvolgerla nel gioco; dall’altro era anche reticente, come se temesse che il contenuto potesse deluderla. «Sono tutta orecchi, Capitano» disse, ironizzando sui suoi grandi padiglioni da Vorta.
   «Ecco, come ti ho accennato ieri sera, si tratta di fantascienza Golden Age» disse Rivera. «In pratica è il futuro come se lo immaginavano i terrestri d’inizio XX secolo, cioè prima ancora di avventurarsi nello spazio. È l’avvenire visto da una specie che ancora non sapeva se era sola oppure no nell’Universo».
   «Affascinante» commentò la dottoressa.
   «Naturalmente ci sono un sacco di cliché narrativi» proseguì il Capitano, come scusandosi anticipatamente. «Ma spero che apprezzerai l’atmosfera vintage. Ad esempio, tutta la vicenda si svolge in bianco e nero».
   «Questa, poi! E perché? I tuoi antenati erano forse daltonici?» si stupì Giely.
   «No di certo. Erano le trasmissioni e le registrazioni audiovisive a essere in bianco e nero, perché ancora non c’era la tecnologia per renderle a colori» chiarì l’Umano.
   «Caspita, com’erano primitivi!» si lasciò sfuggire la Vorta. «Ma forse è da qui che viene il fascino, giusto?» aggiunse, non volendo ferire il Capitano.
   «Sì, esatto! Vedo che stai entrando nello spirito della cosa!» approvò Rivera. «Dunque, veniamo alla storia in sé. Le avventure di Capitan Proton. Come dice il titolo, l’eroe è Capitan Proton, il Difensore della Terra».
   «Uomo Spaziale di Prima Classe, Flagello del Male Intergalattico, eccetera eccetera» fece Talyn in tono annoiato.
   «Fammi indovinare... lo interpreti tu» intuì Giely, accennando a Rivera. «E tu, invece?» chiese a Talyn.
   «Io sono Buster Kincaid, il suo fedele gregario» spiegò il giovane. «Beh, tecnicamente sarei un reporter, ma per qualche strano motivo passo tutto il tempo nello spazio ad aiutare Proton».
   «Insieme scorrazziamo sul Rocketeer, la Nave a Razzo, proteggendo la Terra e gli altri Mondi Incorporati dalle insidie dello spazio esterno» proseguì il Capitano.
   «Sembra appassionante» commentò la Vorta. «In fondo non è molto diverso da ciò che fanno gli ufficiali della Flotta Stellare. Ma io chi dovrei interpretare?».
   La domanda ebbe uno strano effetto su Rivera, che d’un tratto divenne nervoso. Anzi, Giely comprese che tutto il nervosismo trapelato finora dipendeva proprio dall’attesa di questa domanda specifica. «Ecco, tu saresti Constance Goodheart, la mia – ehm – segretaria» rispose il Capitano, guardando altrove.
   «Una segretaria? E che ci fa una segretaria nello spazio?» s’incuriosì Giely.
   «In teoria dovresti rimanere a terra, ma in pratica sei quella che i cattivi rapiscono tutte le volte. Sai, per mettere in moto la trama» spiegò Rivera.
   «Così io e lui ti recuperiamo – ogni volta – e strada facendo salviamo il cosmo» puntualizzò Talyn.
   «Beh, considerando che è la mia prima esperienza di recitazione, mi sta bene interpretare un ruolo semplice» acconsentì la Vorta. «Ma prima di cominciare l’avventura dovrei conoscere la trama, giusto? Voglio dire, ci saranno battute da recitare. Devo pur sapere cosa dire, scena per scena!» s’interessò.
   «Questo in realtà dipende molto da te» spiegò Rivera. «Certi giocatori si preparano puntigliosamente, memorizzando ogni linea di dialogo. Altri preferiscono cominciare il gioco senza sapere cosa li aspetta, e capire il da farsi in base all’evoluzione della storia. Sono stili differenti, non ce n’è uno migliore dell’altro. Certo che, per un giocatore alle prime armi, non guasterebbe avere un’idea di massima. Qui ad esempio ci sono le tue battute» disse, porgendole il d-pad.
   Giely lo prese e cominciò a leggere mentalmente, ma rimase ben presto interdetta. Dopo le prime righe scorse rapidamente l’elenco, mentre un cipiglio le incupiva il volto. «Qui c’è qualcosa che non va» commentò. «Tutte le mie battute sono cose come Aaaaaaahhhhh, Eeeeeeekkkkk, Iiiiiiihhhhh, Ooooooohhhhh, Uuuuuuuhhhhh! Non c’è una sola parola di senso compiuto. Aspetta, forse ho capito!» s’illuminò. «Il mio personaggio è muto, dico bene? Magari devo usare il linguaggio dei segni?».
   «Ehm, non proprio...» fece Rivera, sudando freddo.
   «No, aspetta, c’è una frase compiuta, proprio in fondo all’elenco!» notò Giely. Prese fiato prima di recitarla: «Oh, mio eroe!». Detto questo, guardò l’Umano con aria interrogativa.
   «Quel che il nostro baldo Capitano stenta a dirti è che nelle vecchie storie terrestri le damigelle in pericolo avevano poche o nessuna battuta» chiarì Talyn. «Ci si aspettava che fossero pollastre da salvare e nient’altro. I discorsi filosofici erano roba da uomini» disse, godendo nel mettere Rivera in difficoltà. Lui invece era fuori causa, essendo El-Auriano.
   «Senti, senti! E io pensavo che i Fondatori mi tenessero il guinzaglio stretto!» commentò la Vorta, sempre più critica. «E dimmi, chi è l’antagonista della storia?».
   «Oh, in effetti ce ne sono parecchi, anche se alcuni sono più ricorrenti» si riprese il Capitano. «L’arcinemico di Proton è indubbiamente il dottor Chaotica, un malvagio scienziato pazzo che aspira a dominare il cosmo. È acquartierato nella Fortezza del Destino, sul Pianeta X, dove ha inventato armi terrificanti come il Raggio della Morte. Ovviamente ha a sua disposizione un esercito di scherani, tra cui spiccano Lonzak, il capo delle guardie, e il Robot Satanico» spiegò, accostandosi a Giely per richiamare le immagini sul d-pad. Il Robot Satanico somigliava a un vecchio boiler cilindrico, a cui qualcuno avesse appiccicato braccia e gambe di stagnola. «È con loro che dovremo vedercela, in quest’avventura. Gli altri antagonisti sono elencati qui» aggiunse Rivera, accennando all’elenco sottostante.
   La Vorta si scostò un poco, per leggere da sola. «Vediamo: la Regina Arachnia del Popolo Ragno, una fattucchiera maliarda capace d’irretire chiunque con le sue pozioni. La Regina Fems delle Amazzoni Spaziali, che vuole imporre il matriarcato in tutta la Galassia. Malicia e Demonica, le Signore Gemelle del Male, che vagano per il cosmo sul loro disco volante, in cerca di nuove forme di dolore e piacere». Calò il d-pad e gli rifilò un’occhiata sorniona. «È una mia impressione, o più che alla fantascienza vintage tutto ciò somiglia a una perversa fantasia maschile?».
   «Una cosa non esclude l’altra!» ridacchiò Talyn, godendo nel vedere Rivera che avrebbe voluto sprofondare nel pavimento.
   «Suvvia, non sono cose da prendere seriamente. È solo un gioco, un passatempo!» si difese il Capitano, buttandola sul ridere. «A volte è bello immergersi in un mondo in cui buoni e cattivi si riconoscono subito e i problemi hanno una soluzione semplice».
   «Escapismo?» chiese Giely, ancora scettica.
   «Per così dire... ma non nel senso di un soldato che diserta dal dovere, quanto piuttosto di un prigioniero che riconquista la libertà» suggerì astutamente Rivera. «Comunque se non t’interessa me ne farò una ragione».
   «Oh no, m’interessa eccome! Amo sperimentare cose nuove!» disse inaspettatamente Giely. «Certi dettagli sono strani, ma non voglio giudicare prima di aver provato».
   Talyn sgranò gli occhi, sbalordito da come la Vorta riuscisse sempre a essere imprevedibile. Nel suo interesse onnivoro per le trovate delle altre specie, non distingueva fra alta e bassa qualità. Questo però capitava a fagiolo per Rivera, che approfittò subito dell’occasione. «Quindi sei dei nostri?» chiese, sulle spine.
   «Considerami arruolata... Capitan Proton» sorrise Giely.
   «Muy bien!» s’illuminò Rivera. «Dunque, ecco le specifiche sul tuo costume di scena» spiegò, richiamando i dati sul d-pad.
   La Vorta aggrottò di nuovo la fronte. «Oh, è più succinto di quanto mi aspettassi!» notò. «Perché mai una segretaria dovrebbe vestirsi così? Con l’addome scoperto e la gonna con spacco sembra più una ballerina da cabaret».
   «Fa parte dell’atmosfera, sai... lo spirito d’altri tempi!» spiegò Rivera, ricorrendo alla solita giustificazione. «Comunque non sei tenuta a travestirti. Se preferisci puoi venire così come sei».
   «Voi due però vi abbigliate da uomini dello spazio» notò Giely. «Sarebbe brutto se solo io non mi sforzassi d’entrare nella parte. E va bene, indosserò gli scarsi panni della tua segretaria. Ma non farti strane illusioni, Capitano!» ammonì. «Niente scene spinte».
   «Non mi permetterei mai. E poi le avventure di Capitan Proton sono family friendly» chiarì l’Umano.
   «Certo che non so se ho il fisico adatto al ruolo» sospirò la Vorta, osservando l’immagine del suo personaggio. Constance Goodheart era alta e giunonica, mentre lei era l’esatto opposto, bassa e mingherlina. Constance aveva lunghe chiome bionde; lei aveva corti capelli neri. «Beh, suppongo che il replicatore adatterà l’abito alla mia taglia. Quanto ai capelli, potrei indossare una parrucca» ragionò.
   «Non importa somigliare fisicamente ai personaggi» ribadì Rivera. «Io stesso non mi sono curato di tagliarmi i capelli per essere più simile a Proton. Ciò che conta è entrare nella parte e divertirsi».
 
   «... e ha detto che conta entrare nella parte e divertirsi» concluse Giely quella sera. Stava cenando con Losira e Shati, in sala mensa, e naturalmente la conversazione era caduta sull’esperienza in cui la Vorta stava per lanciarsi.
   «Beh, i ponti ologrammi servono a quello» commentò Shati. La Caitiana stava piluccando il suo filetto di merluzzo, intanto che ascoltava il resoconto.
   «Però mi ha anche spiegato che sarà un’esperienza istruttiva» ricordò Giely. «Mi aiuterà a capire come si è evoluta la visione umana dell’esplorazione spaziale. In un certo senso, sarà come studiare sociologia».
   «Sì, e anche biologia!» fece Shati, ridendo sotto le vibrisse.
   «È la giustificazione che mi aspettavo da Capitan Sciupafemmine» commentò Losira, che aveva a malapena toccato la sua insalata mista.
   La Vorta restò un po’ delusa da quelle reazioni sarcastiche. Smise di sgusciare le noci di kava che aveva nel piatto e si concentrò sulla conversazione. «State dicendo che potrebbe avere secondi fini?» chiese. «Eppure era così appassionato dalla storia! Sapeste quanto mi ha parlato della Nave a Razzo; pareva conoscerla meglio della Destiny. E ci teneva proprio ad avermi nella combriccola. Lì per lì ho accettato, perché mi sembrava un’esperienza nuova e interessante. Ma se devo interpretarla come uno strano corteggiamento, allora non posso che rifiutare. Voi siete più esperte di me in queste cose... che ne pensate?» chiese.
   Losira e Shati si scambiarono un’occhiata esitante. Fare battute era facile, ma ci voleva cautela nel dare consigli in materia di cuore. «Io passo» disse la Caitiana, e tornò a concentrarsi sul merluzzo.
   Con un sospiro, la Risiana capì che toccava a lei. «Bambina mia, le persone s’invitano sui ponti ologrammi per le ragioni più disparate. Lo fanno per divertimento, per liberarsi dallo stress, per ritrovare la propria autostima o semplicemente per stare con gli amici. In tutto questo, è ovvio che alcuni lo facciano anche per corteggiare. Ma in mancanza di segnali espliciti in tal senso, non credo che tu debba prenderlo come un segno d’interesse romantico. Non ci sono altri segnali, vero?» si affrettò a chiedere.
   Giely inclinò fortemente la testa, come facevano i Vorta quando riflettevano. «Direi proprio di no» ammise, tornando a raddrizzarsi.
   «Bene, in tal caso non penso che avrai fastidi» fece Losira. «Comunque tieni sempre a mente che è un passatempo, un’attività facoltativa. Nessuno, nemmeno il Capitano, può costringerti a farla contro il tuo volere. Se la trovi spassosa, buon per te. Se invece cominciasse a pesarti, o anche solo ad annoiarti, hai tutto il diritto di uscire in qualunque momento» chiarì.
   «Grazie del consiglio!» sorrise Giely, rincuorata. Riprese a mangiare, stavolta concentrandosi sulla ciotola di bacche rosse. «Domani pomeriggio parteciperò alla mia prima puntata. Vi farò sapere in serata com’è andata» promise.
   «Aspetto con ansia» fece Shati, ironica.
   A fine pasto, quando la Vorta ebbe salutato e se ne fu andata, le colleghe si soffermarono ancora qualche minuto. «Rivera e Giely... mah, non so se potrebbe funzionare. Lei non ha esperienza, lui ne ha fin troppa» mormorò Shati.
   «Staremo a vedere» fece Losira. «Su Risa abbiamo un detto: “Se son rose, fioriranno”».
   «E se fossero cardi?».
   «Non so... carderanno?».
 
   Quella sera stessa il Capitano era nel suo ufficio, a mettersi in pari coi rapporti di Giely, quando il cicalino dell’ingresso lo avvertì di una visita.
   «Avanti» disse Rivera, soffocando uno sbadiglio. Fu un po’ sorpreso nel vedere la faccia verdastra e scagliosa dell’Ingegnere Capo. Il Voth veniva raramente da lui, specie quand’era preso dalle revisioni. «Si accomodi, Irvik» lo accolse. «Che posso fare per lei?».
   Il sauro si fece avanti stranamente circospetto e aspettò che la porta si richiudesse alle sue spalle prima di prendere la parola. «In primo luogo devo informarla che abbiamo terminato la revisione dei sistemi. Le ho inviato il mio rapporto».
   «Ottimo lavoro. Appena avrò terminato di leggere questi referti medici guarderò anche quello» promise Rivera.
   «Non c’è molto da dire, in realtà. Tutti i sistemi della Destiny sono in piena efficienza. Abbiamo terminato di riparare le navette e potenziato gli Exocomp» riassunse Irvik. «Per quanto riguarda gli esperimenti con la bionave, è tutto nei rapporti medici che sta già leggendo».
   «Bene, allora. Deve dirmi altro?» chiese il Capitano, intuendo che quello era solo il preambolo. Se il Voth si era scomodato a venire di persona, doveva esserci una ragione.
   «Ecco, signore... posso parlare liberamente?» chiese l’Ingegnere Capo, con una strana gravità.
   «Non vorrei che parlasse altrimenti, Irvik» disse Rivera. «Se ci sono problemi, mi dica tutto».
   «Capitano, il vero motivo per cui in queste settimane io e i ragazzi dell’ingegneria abbiamo controllato ogni bullone e circuito della nave è che altrimenti non avremmo avuto nulla da fare» spiegò il Voth. «Mi riferisco al fatto che da troppo tempo, ormai, non esploriamo più il Multiverso. Alcuni sono persino convinti che non ci restino coordinate quantiche sulla lista, ma io che l’ho estratta dal computer so bene che non è così. Perciò devo chiederglielo: perché indugiamo nel Vuoto, invece di tentare altre coordinate?».
   «Immaginavo che prima o poi me l’avrebbe chiesto» sospirò il Capitano. «Vede, finora tutte le coordinate che abbiamo tentato ci hanno condotti in Universi strani e pericolosi. Abbiamo rischiato più volte la distruzione totale e alcuni dei nostri compagni sono morti. Ormai l’equipaggio non è più ansioso d’esplorare nuove realtà. Preferiscono rimanere al sicuro su questa bella nave, piuttosto che affrontare gli orrori del Multiverso; e come dargli torto?».
   «Ma non possiamo restare qui per sempre!» protestò Irvik, accennando all’oscurità senza stelle fuori dal finestrone. «Capisco il timore di nuove disgrazie, ma nessuno vuol tornare a casa?».
   «Molti di noi sono esuli, senza una casa e una famiglia ad attenderli» borbottò Rivera. «Questo vale anche per il sottoscritto. In effetti siamo quasi tutti ricercati nella Federazione. Se anche riuscissimo a tornare, ci attenderebbe più probabilmente il carcere che una ricompensa» confessò.
   «Capisco che ve la passate male, e mi dispiace» disse il Voth. «Ma la mia situazione è diversa. Io sono incensurato, ero sulla vostra nave solo come passeggero, e soprattutto ho una famiglia che mi aspetta. I miei figli non mi vedono da un anno e mezzo. Capisce che devo tornare da loro? Che padre sarei, se almeno non tentassi?!» chiese, con un’urgenza che sconfinava nella disperazione.
   Vedendo Irvik in quello stato, Rivera provò compassione. Al tempo stesso temette qualche atto inconsulto da parte sua, se non lo avesse accontentato. Forse il sauro avrebbe sabotato i sistemi di bordo, o forse avrebbe incitato alla rivolta quei colleghi che la pensavano come lui. In ogni caso, bisognava sbloccare la situazione; e non c’era che un modo.
   «Molto bene, signor Irvik, accolgo la sua richiesta» dichiarò il Capitano. «Oggi è tardi, ma le prometto che domani stesso ricominceremo a esplorare il Multiverso. A lei la scelta di quali coordinate quantiche tentare».
   «Grazie, Capitano!» disse il Voth, rincuorato. «Vedrà che non tutti i tentativi saranno così catastrofici. Per la legge delle probabilità, dev’esserci qualche Universo decente. E alla fine... chissà che non ritroviamo il nostro» sospirò.
   «Chissà!» convenne Rivera.
 
   La notizia che le esplorazioni sarebbero riprese si diffuse in un baleno sulla Destiny, destando un misto di speranze e timori. Quali che fossero le opinioni degli avventurieri, un risultato fu innegabile: scuoterli dal torpore. Tutti abbandonarono la mentalità “da vacanza” e ricordarono d’essere su un’astronave in missione.
   La mattina dopo, come annunciato, la Destiny dette piena energia al deflettore e lanciò l’impulso gravitonico, aprendo la fenditura verso un nuovo Universo. Prima di passare con l’astronave, gli avventurieri inviarono prudentemente una sonda con campioni biologici. Al suo ritorno li analizzarono per essere certi che non ci fosse nulla, nelle leggi fisiche di quel cosmo, di dannoso per i loro organismi. Non appena Giely segnalò l’okay, la Destiny avanzò a impulso, attraversando la breccia fra le realtà. Gli scudi erano alzati e le armi pronte, nel caso che li aspettasse un’accoglienza simile alle precedenti.
   Non appena il vascello fu dall’altra parte, gli ufficiali di plancia osservarono con ansia lo schermo. Il nero intenso dello spazio era punteggiato da una miriade di piccole luci remote. «Stelle! Da quant’era che non le vedevo!» si rallegrò Shati. «Ma saranno quelle della Via Lattea?».
   «Lo sapremo presto. Analisi sulle costellazioni, cerchiamo riscontri sulle mappe stellari» ordinò il Capitano.
   Trascorsero diversi minuti, nei quali Talyn e altri addetti fecero le comparazioni del caso. Infine l’El-Auriano parlò in tono sconfortato: «Non ho riscontri con le nostre mappe. Quasi certamente siamo in un altro cosmo».
   La tensione tra gli avventurieri diminuì, senza tuttavia svanire del tutto. C’era ancora troppo da capire su quello spazio così stranamente familiare. «Non hai rilevato mondi abitati, astronavi di passaggio, trasmissioni subspaziali...?» chiese Losira.
   «Non ancora, ma ci troviamo in una regione piuttosto povera di stelle» spiegò Talyn. «Qualche centinaio d’anni luce più avanti le cose migliorano. I sistemi stellari sono molto più fitti. Se andiamo lì, ci faremo un’idea più precisa di dove siamo finiti».
   «Andiamo, allora» approvò Rivera. «Shati, traccia la rotta; velocità 6. Talyn, tieni i sensori all’erta e avvertici alla prima novità».
   «A questa velocità raggiungeremo l’ammasso stellare in un paio di giorni» informò la timoniera, prima che la Destiny balzasse a cavitazione.
   «Allora rilassiamoci... per il momento» disse il Capitano, riadagiandosi contro lo schienale della poltroncina. Fu allora che gli tornò in mente la puntata di Capitan Proton fissata per quel pomeriggio. Da quando Irvik gli aveva chiesto di riprendere l’esplorazione del Multiverso, la faccenda gli era uscita di mente; ma ora tornò a rifletterci. Avevano appena raggiunto una realtà sconosciuta e potenzialmente pericolosa; forse era meglio concentrarsi su quella e rimandare il gioco a un momento più calmo. Già, ma se ricominciavano a visitare un Universo dopo l’altro, non avrebbero più avuto periodi calmi. Forse la cosa migliore era darsi una routine, come i veri ufficiali della Flotta Stellare, che affrontavano le missioni più ardue senza rinunciare poi a svagarsi.
   «Tra l’altro, se la ciurma mi vede tranquillo, questo contribuirà a mantenere la calma» ragionò Rivera. Un buon Capitano non deve forse infondere sicurezza al suo equipaggio? E quale modo migliore che mantenere la routine, incluso lo svago? Se poi fosse scoppiata un’emergenza, allora avrebbe reagito al meglio delle possibilità.
   Fu così che, al termine del turno, il Capitano decise di non trattenersi in plancia più del necessario. «A te il comando, Losira» disse lasciando la poltroncina. «Avvertimi se ci sono novità» raccomandò.
   «Ricordi il briefing sulla sicurezza di stasera» disse Naskeel, con la sua voce tradotta elettronicamente. Come tutti i Tholiani, l’Ufficiale Tattico era ossessionato dalla puntualità e non sopportava che qualcuno, fosse anche il Capitano, tardasse agli impegni.
   «Tranquillo, ho una memoria da elefante!» garantì Rivera, già diretto all’uscita.
   «Cos’è un elefante?» chiese Naskeel.
   A quella domanda il Capitano si bloccò e fece un sospiro. Quando parlava al Tholiano non poteva mai dare nulla per scontato. «Gli elefanti sono una specie originaria della Terra» spiegò con pazienza.
   L’Ufficiale Tattico ponderò brevemente la questione. «Strano, non ne avevo mai sentito parlare. Hanno un seggio nel Consiglio federale?» volle sapere.
   Rivera sgranò gli occhi, sempre più disarmato dall’alieno. «No, no. Si tratta di animali, non di esseri senzienti. Beh, a dire il vero sono piuttosto intelligenti... diciamo che sono semi-senzienti. Comunque non abbastanza da potersi occupare di politica. Vivono in alcune riserve naturali, perlopiù nel continente africano» spiegò.
   «Però hanno una memoria superiore alla sua, altrimenti perché usare quell’espressione?» insisté Naskeel.
   «Io... uhm... non so di preciso come sia la loro memoria» ammise il Capitano, sempre più in difficoltà. «In realtà non credo che superi quella umana; dopotutto noi dobbiamo memorizzare molte più cose. Se ho usato quell’espressione, è solo perché si tratta di una frase fatta».
   «Una frase fatta?».
   «Sì, una frase che si dice quando non si sa che altro dire».
   Naskeel ponderò di nuovo, prima di rialzare gli occhi sulfurei all’interlocutore. «Ah. E non sarebbe meglio tacere?» chiese.
   «Ora che l’ascolto sì, preferirei tacere» ammise Rivera.
   «Come vuole, Capitano» fece il Tholiano, e tornò a concentrarsi sulla consolle.
   Un po’ stranito da quello scambio di battute, Rivera lo lasciò al suo lavoro e si accostò invece a Talyn, ancora alla postazione sensori. «Ci vediamo tra poco sul ponte ologrammi?» chiese in tono disinvolto, così che gli altri sentissero.
   «Non vuole che resti ai sensori, signore?» si stupì il giovane.
   «Finché non ci sarà ragione di fare altrimenti, manterremo i nostri turni. Non occorre che tu faccia gli straordinari» assicurò il Capitano, sperando di far passare il giusto messaggio.
   «Allora... volentieri, signore» sorrise l’El-Auriano. In fondo anche a lui piaceva distrarsi e scaricare la tensione.
   Udendoli, Losira si accigliò, pensando che non era il momento migliore per indulgere in quelle distrazioni. Tuttavia non volle contraddire il Capitano davanti alla ciurma. In fondo sia lui che Talyn erano padroni del loro tempo libero.
   Lasciando la plancia, Rivera si disse che il suo comportamento era razionale. Mantenere la routine, alleviare la tensione, rassicurare l’equipaggio... erano tutte giustificazioni logiche. Ma non poté negare a se stesso che il vero motivo per cui intendeva continuare a giocare era un altro: aveva appena convinto Giely ad aggregarsi e non voleva darle il tempo di cambiare idea. 
 

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Capitolo 3
*** Iniziano i giochi ***


-Capitolo 2: Iniziano i giochi
 
   Uscito il Capitano, la plancia rimase a Losira, che voleva trattenersi per scoprire qualcosa su quel nuovo cosmo in cui erano capitati. La Risiana assistette all’avvicendamento dei turni Alfa e Beta, con il conseguente cambio di personale. Oltre a lei, l’unico a rimanere fu Naskeel, l’Ufficiale Tattico. Il Tholiano necessitava di pochissime ore di riposo e per quanto ne sapevano i colleghi non aveva hobby; né pareva stancarsi delle sue mansioni. Così non era insolito per lui fare lunghi turni in plancia.
   Di lì a poco l’addetto ai sensori del turno Beta, un Ferengi di nome Lum, rilevò qualcosa. «Ci stiamo avvicinando a un sistema stellare, Comandante. Una stella classe G3 e sei pianeti rocciosi» riferì.
   In circostanze normali Losira avrebbe ordinato di proseguire. Ma quello era il primo sistema stellare che incontravano in quell’Universo sconosciuto. Se lo studiavano, potevano farsi un’idea di com’erano organizzate le cose. In fondo era per questo che la Risiana si era trattenuta in plancia. «Scendiamo a velocità impulso e avviciniamoci» ordinò. «Scansione dell’intero sistema: cerchiamo segni di vita e in particolare di tecnologia».
   Detto fatto, la Destiny scese a velocità subluce e prese a esaminare i pianeti. Bastarono pochi minuti per avere i primi risultati. «C’è acqua su tutti i mondi, salvo il più interno. Segni di vita animale e vegetale solo sul quarto. Segni di tecnologia su nessuno» riferì l’addetto ai sensori. «Sembra un tipico sistema stellare disabitato, come ce ne sono tanti nella Via Lattea».
   «Uhm... avviciniamoci al quarto pianeta, quello con forme di vita. Voglio un’analisi più approfondita» disse Losira, sforzandosi di ragionare come un Comandante della Flotta Stellare. «In particolare voglio capire se la loro biochimica è simile alla nostra».
   «Sì, Comandante. Informo il Capitano di questi sviluppi?» chiese Lum.
   «Non ancora» decise la Risiana. «Prima terminiamo le scansioni orbitali, poi informeremo il Capitano e sarà lui a decidere se sbarcare» stabilì.
   La Destiny entrò nell’orbita del pianeta, che aveva tre continenti in gran parte coperti da foreste. Trascorsero parecchi minuti, in cui Lum e altri colleghi analizzarono la superficie. Losira li sentì parlottare in tono sempre più sorpreso e concitato.
   «Insomma, che succede?» chiese la Risiana a un certo punto.
   «Comandante, è molto strano» disse il Ferengi. «Mentre ci avvicinavamo al sistema ho analizzato lo spettro luminoso della stella ed era tutto normale. Adesso sto analizzando il pianeta... e non ci capisco niente. È come se fosse un ologramma!».
   «Che stai dicendo?» si stupì Losira. Lasciò la poltroncina del Capitano e gli venne accanto, per osservare lei stessa i dati sulla consolle. Non riuscì a interpretarli, tanto che dovette convocare Irvik, lo scienziato più esperto che avessero a bordo.
   Giunto prontamente, il Voth esaminò i dati raccolti e fece ulteriori scansioni. Anche lui apparve sempre più sorpreso – persino frastornato – da ciò che vedeva. Effettuò una diagnostica ai sensori, per assicurarsi che funzionassero correttamente. Quando ne ebbe conferma, mormorò un’imprecazione.
   «Allora, sa spiegarci?» chiese Losira, sempre più inquieta.
   «Beh, finora c’eravamo illusi che questo cosmo fosse come il nostro, ma evidentemente non è così» spiegò l’Ingegnere Capo. «Le particelle elementari sono diverse. Non ci sono quark, quindi niente protoni e neutroni; e mancano anche gli elettroni. Tutto sembra fatto di fotoni, che in qualche strano modo riescono ad aggregarsi per formare materia, simile all’olo-materia dei nostri ponti ologrammi. La differenza è che sul ponte ologrammi c’è una continua generazione di fotoni, e comunque vi sono campi di forza a confinarne la maggior parte. Qui invece non capisco come mai i fotoni restino legati assieme, invece di disperdersi. Dev’esserci qualche sottile differenza nelle leggi fisiche» ipotizzò. «Sta di fatto che questa materia è fatta di fotoni. E non solo la materia inorganica! Anche le forme di vita, piante e animali, sono di natura fotonica. È affascinante!».
   «Quindi se mai trovassimo esseri senzienti...» ragionò Losira.
   «Saranno fotonici anche loro» confermò Irvik. «Devo dire che è una scoperta sensazionale. I circoli scientifici dell’Autorità Voth ne sarebbero estasiati. Il Circolo dei Fisici, dei Chimici, dei Biologi... farebbero a gara per avermi, se tornassi con questa scoperta!» gongolò. «Dobbiamo assolutamente prelevare dei campioni, o non mi crederanno mai».
   «Non sappiamo neanche se questa roba sia stabile, nel nostro Universo. Non vorrei che ci esplodesse a bordo quando lasceremo questo... Spazio Fotonico» lo battezzò Losira.
   «Ah già, non ci avevo pensato» ammise il Voth. Il suo interesse si smorzò, pur senza spegnersi del tutto.
   «Signor Irvik, ritiene che la peculiare natura di questo spazio possa costituire un rischio per la sicurezza di bordo?» intervenne Naskeel, con la sua voce tradotta elettronicamente.
   «Beh, direi di no... anche se in effetti ne sappiamo poco» riconobbe l’Ingegnere Capo.
   «Riformulo la domanda. Ritiene che lo Spazio Fotonico possa influenzare l’olo-materia che noi abbiamo già a bordo?» chiese l’Ufficiale Tattico.
   «Come sarebbe, già a bordo? A cosa si...» cominciò il Voth, bloccandosi a metà frase.
   «Mi riferisco ai ponti ologrammi, che ultimamente sono sempre in funzione» precisò il Tholiano, col suo timbro metallico che non lasciava trapelare emozioni.
 
   Tornato nel suo alloggio, Rivera consumò un rapido pranzo e si cambiò d’abito, indossando ancora una volta i panni di Capitan Proton. Dopo di che si affrettò al ponte ologrammi, fischiettando mentre camminava. Giunse in contemporanea a Talyn, anche lui già pronto nei panni di Buster Kincaid. «Bene, manca solo Giely... sempre che venga» commentò l’El-Auriano.
   «Verrà, lo ha promesso» disse Rivera, scoprendosi inaspettatamente ansioso al riguardo. Se la Vorta gli avesse dato buca alla prima puntata, sarebbe stato un brutto colpo alla sua autostima.
   I due attesero per qualche minuto. Il Capitano spostava il peso da un piede all’altro, impaziente. L’uso del ponte ologrammi era regolamentato in base all’orario, per cui ogni minuto perso era un minuto di gioco in meno. Se perdevano troppo tempo, non sarebbero riusciti a terminare la puntata e avrebbero dovuto proseguire un altro giorno. Rivera stava per contattare la dottoressa quando un movimento di Talyn lo indusse ad alzare lo sguardo verso l’estremità del corridoio. Allora la vide, e spalancò gli occhi.
   Se non avesse saputo che era Giely, non l’avrebbe riconosciuta. La Vorta pareva una diva d’altri tempi, fasciata dal lungo abito arancione e con la fluente parrucca bionda che celava le orecchie aliene. Era proprio un filino, ancor più esile e delicata di quanto apparisse con l’uniforme medica. Camminava a passettini, non essendo a suo agio coi tacchi, ma era comunque uno schianto. «Ben arrivata, sei incantevole» l’accolse il Capitano, sinceramente ammirato.
   «Grazie» disse la dottoressa con un sorriso impacciato. «Scusate se vi ho fatti aspettare, ma ci ho messo un po’ a prepararmi. In particolare non capivo come indossare i reggicalze» disse col massimo candore.
   «Ehm-ehm!» tossicchiò Rivera, imbarazzato. «L’importante è che siamo tutti qui, pronti a divertirci. Vamos!». Impaziente di togliersi dal corridoio, dove tutti potevano vederli e immaginare chissà che, entrò nella sala ologrammi ancor prima di avviare la puntata. Talyn e Giely lo seguirono attraverso l’ingresso ad arco; il portone si richiuse alle loro spalle. Si trovarono nel salone scuro, appena rischiarato dalla griglia olografica esagonale che ricopriva soffitto, pareti e pavimento.
   «Dunque, come ti dicevo abbiamo già iniziato una storyline in più puntate, la Saga degli Elementi» spiegò il Capitano alla dottoressa. «Vuoi che ricominciamo daccapo, per gustartela dall’inizio alla fine?».
   «Oh no, non voglio farvi ripetere quel che avete già visto» rispose Giely.
   «Sicura? A noi non dispiace rigiocare l’ultimo episodio» garantì Rivera.
   «Sicurissima. Fatemi vedere il riassunto d’inizio puntata, mi basta quello» confermò la Vorta.
   «Come preferisci. Computer, attiva Le avventure di Capitan Proton, episodio 47, Terrore negli abissi!» ordinò il Capitano. Ci fu un lampo bianco, accompagnato da un ronzio, e per un attimo i tre giocatori ebbero una strana sensazione, simile a quella del teletrasporto.
 
   La domanda di Naskeel era ancora senza risposta quando ci fu un lampo luminoso. Losira si sfregò gli occhi, abbagliata. Quando tornò a vedere, si accorse con sconcerto che ogni cosa attorno a lei aveva perso i colori. Le superfici inanimate, ma anche i volti e i capelli dei colleghi: tutto era in bianco e nero, con le sfumature di grigio intermedie.
   «Non è possibile!» ansimò la Risiana. Si guardò le mani: anche la sua pelle era divenuta di un grigio molto chiaro.
   «Oh, questo è inaspettato» convenne Irvik, osservandosi a sua volta le estremità. Le scaglie verde scuro erano diventate di un grigio altrettanto scuro. Per un Voth, la perdita cromatica era particolarmente grave, dato che le loro scaglie trascoloravano per comunicare le emozioni.
   «Irvik, come lo spiega?!» esclamò Losira, ma in quella la Destiny ebbe un violento scossone. La Risiana dovette reggersi a una consolle per non cadere a terra. Anche dopo la prima scossa, l’astronave continuò a tremare paurosamente. Alzando gli occhi allo schermo, Losira restò di sasso: qualcosa di simile a un buco nero era apparso davanti a loro. C’erano gas e frammenti rocciosi che vorticavano per poi venire assorbiti al centro. «E quello cos’è?! Da dove spunta?!» strepitò la Risiana, sull’orlo della crisi nervosa.
   «Non so che dire, è apparso dal nulla!» disse il Voth, affiancando il Ferengi alla postazione sensori. «Stiamo venendo risucchiati dal pozzo gravitazionale...».
   «Come un buco nero?!» si allarmò la Comandante.
   «Direi più come un tunnel spaziale» corresse l’Ingegnere Capo. «Ma non ho idea di cosa ci sia dall’altra parte. E c’è di peggio: il tunnel è troppo stretto per la Destiny. Se ci attira, ci stritolerà come una lattina» avvertì.
   A quelle parole, Losira si riscosse. «Allarme Rosso! Timoniere, andiamo via di qui. Massima energia ai motori a impulso!» ordinò.
   Il timoniere non si fece pregare. Diresse la prua in direzione opposta al wormhole e partì a pieno impulso. La Destiny vibrò, presa tra le forze opposte che rischiavano di lacerarla. Alcuni piccoli asteroidi rimbalzarono sugli scudi, alzati da Naskeel. Poco alla volta divenne chiaro che si stavano allontanando dal vortice; le vibrazioni diminuirono e la navigazione si fece più stabile.
   «È fatta, siamo a distanza di sicurezza» confermò Irvik.
   Gli avventurieri tirarono un sospiro di sollievo. Losira si lasciò cadere sulla poltrona del Capitano e per un attimo chiuse gli occhi, sollevata. Quando li riaprì, era di nuovo concentrata. «Computer, cessato allarme. Timoniere, arresto totale» ordinò. «Non può essere un caso che quel tunnel spaziale sia apparso subito dopo il nostro scolorimento. Che nesso può esserci tra le due cose?» volle sapere.
   «Difficile dirlo, ne sappiamo ancora troppo poco su questo cosmo» ammise l’Ingegnere Capo. «Provo ad analizzare il tunnel, per vedere di capirci qualcosa».
   Ora che stava tornando la calma, Losira si chiese come mai il Capitano non fosse ancora rientrato in plancia per informarsi sulla situazione. Che fosse rimasto ferito nella baraonda? «Computer, localizza il Capitano Rivera» ordinò la Risiana, tamburellando impaziente sul bracciolo.
   «Il Capitano Rivera non è a bordo» rispose il computer, con la solita voce tranquilla.
   Sulla plancia scese il gelo. Losira in particolare sentì il sangue abbandonarle il volto. Non stava facendo una bella figura coi sottoposti. Era al comando da un’ora ed era riuscita a perdere il Capitano, perdere i colori e mettere la nave a rischio di stritolamento. Doveva esserci un legame fra questi eventi assurdi... ma quale?
   «Computer, dov’è andato il Capitano?» chiese la Risiana, sforzandosi di restare calma.
   «Risposta sconosciuta».
   «Ma come ha fatto a lasciare la nave?».
   «Risposta sconosciuta».
   Messa davanti al muro, Losira cercò di ricordare dov’era il Capitano e cosa stava facendo quand’era scomparso. La risposta le balenò subito in mente: era andato sul ponte ologrammi... e non da solo. «Computer, localizza Talyn e Giely» ordinò la Risiana, col batticuore.
   «Talyn e Giely non sono a bordo» fu la temuta risposta.
   La Comandante sentì un tuffo al cuore. Talyn era come un figlio per lei; non poteva neanche immaginare di perderlo. Al panico subentrò ben presto la rabbia generalizzata. «Frell, qualcuno mi dica che succede!» imprecò, scattando in piedi.
   «Se i nostri sono stati rapiti, potrebbero essere ancora nei paraggi» ipotizzò Irvik, sempre alla postazione sensori. «Cerco i loro segni vitali... sì, ho un riscontro! Ci sono tutti e tre!» s’illuminò.
   «Dove?!» chiese Losira, correndogli accanto.
   «Questo non le piacerà» borbottò il Voth, incupendosi. «Sono in una navicella che sta precipitando nel tunnel spaziale» disse, inquadrandola sullo schermo.
   La navicella spiccava contro il vortice gassoso. Aveva forma oblunga, a razzo, che si rastremava verso la poppa provvista di alettoni. Sulla fiancata erano allineati alcuni oblò e compariva uno strano simbolo, una raggiera di fulmini. Non c’erano gondole di curvatura visibili.
   «Però, che strano modello» commentò Irvik. «Non ho mai visto nulla di simile».
   «Io sì» mormorò la Risiana, sentendo le vertigini.
   «Dove? Quando?» si stupì il Voth.
   «Sul ponte ologrammi, settimane fa, quando il Capitano cercò di coinvolgermi nel suo stupido gioco. Quella è la Nave a Razzo di Capitan Proton» riconobbe Losira, senza staccare gli occhi dal Rocketeer miracolosamente divenuto realtà.
 
   Svanito il lampo, i tre giocatori si trovarono a bordo del Rocketeer, come previsto. Ogni cosa era in bianco e nero, inclusi loro stessi, grazie al filtro d’adeguamento cromatico di cui era dotato il programma. Giely si guardò attorno, osservando con interesse l’interno della navicella. L’abitacolo principale ospitava lo schermo, le consolle dei comandi e, nella parte posteriore, il complesso apparato del motore iper-atomico. Non c’erano computer nel senso moderno del termine; tutto era rigorosamente analogico. «Oh, è così... pittoresco» commentò la Vorta.
   «Cos’è stato quel lampo?» chiese Rivera sottovoce, accostandosi a Talyn.
   «Non saprei... forse un breve sovraccarico della griglia olografica» ipotizzò il giovane. «Comunque ora sembra tutto a posto» aggiunse, guardandosi attorno.
   «Okay, procediamo col gioco» sussurrò il Capitano, non volendo perdere altro tempo.
   In quella l’immagizzatore si attivò, mostrando il riassunto della puntata precedente. Giely ascoltò con interesse la voce narrante e osservò la carrellata d’immagini.
   «Capitan Proton affronta la più grande sfida della sua carriera! Il malvagio dottor Chaotica ha rinvenuto i resti di un’antica superarma, creata duemila secoli fa dai potenti Krell. Ora la sta ricostruendo nella sua fortezza, con l’intento di lanciare l’assalto finale contro la Terra».
   L’immagizzatore mostrò lo scienziato pazzo che dissotterrava una grossa valvola in mezzo al deserto, circondato dai suoi scagnozzi, e rovesciava il capo all’indietro, esibendosi in un perfetto esempio di risata malefica.
   «Ma a Chaotica mancano i componenti chiave: quattro mistiche pietre che racchiudono il potere degli elementi. I Krell le sparpagliarono per il cosmo, affidandole ai popoli che meglio potevano comprenderle e proteggerle. Tuttavia il despota spaziale ha scoperto anche la loro ubicazione, inviando i suoi biechi emissari a impadronirsene».
   Un rapido montaggio mostrò i fatti salienti. Gli Uomini Lucertola negavano la Pietra della Terra a Constance e Buster, cercando poi di sacrificarli. Proton uccideva il serpente gigante e liberava i compagni. Lo sghignazzante Lonzak s’impadroniva della Pietra e faceva crollare la caverna. Gli eroi decollavano col Rocketeer all’inseguimento dei ladri.
   «Il primo round si è inaspettatamente concluso con la vittoria delle Forze del Male, che fuggono con la prima Pietra! I coraggiosi eroi si lanciano all’inseguimento, ma precipitano incautamente nell’Occhio del Terrore. Riusciranno a sopravvivere per tornare alla riscossa?!».
   L’ultima scena mostrò il Rocketeer che precipitava sempre più rapido nel vortice spaziale. L’immagine si congelò mentre un grosso punto interrogativo appariva in sovrimpressione, riempiendo lo schermo.
   «Qualcosa mi dice che ce la faremo» ironizzò Giely. In quella però la navicella prese a scuotersi, mentre in sottofondo si udiva una musica drammatica.
   «Ce la faremo solo se ci mettiamo d’impegno! Queste puntate sono abbastanza complesse e si può fallire» avvertì Rivera, mettendosi ai comandi.
   «Siamo a cento chilometri dall’Occhio, in rapida diminuzione!» avvertì Talyn, mentre il Rocketeer tremava sempre più.
   «Sto dando massima energia al propulsore iper-atomico» disse Rivera, concentrato sui comandi. Spinse alcuni grossi pulsanti e infine tirò una leva. Sì udì un suono simile a quello di un vecchio aeroplano, che tuttavia svanì rapidamente.
   «È inutile, siamo troppo vicini al vortice! La sua potenza è immane, non abbiamo scampo!» gridò Talyn, entrato nella parte.
   «Ehm, senti un po’... la trama prevede che ci liberiamo?» sussurrò Giely, accostatasi a Rivera. Il Capitano infatti era il Game master, il giocatore più esperto della trama.
   «No, dobbiamo caderci per forza» rispose l’Umano. «Ma per goderci l’episodio dobbiamo comunque cercare d’evitarlo».
   «Oh, capisco». La Vorta si aggirò sulla plancia del Rocketeer, mentre i compagni si davano da fare, come se ne andasse realmente delle loro vite. A un certo punto si stancò di fare solo presenza e si schiarì la voce. «Ehm, come posso aiutarvi?» chiese.
   «Di solito in queste scene Constance strilla terrorizzata» rispose distrattamente Rivera.
   «E questo sarebbe d’aiuto?».
   «Certo, ci sprona a dare il meglio» rispose il Capitano, sempre occupato.
   «Ma guarda, non si finisce mai d’imparare» fece Giely. Osservò l’Occhio del Terrore sull’immagizzatore, provando a figurarsi che fosse un vero pericolo. Poi inspirò a fondo, riempiendosi i polmoni. Infine si esibì nella pregevole imitazione di un grido di terrore: «AAAAAAAHHHHH!».
 
   Sulla Destiny, gli avventurieri stavano ancora osservando l’impossibile scena del Rocketeer che precipitava nell’Occhio del Terrore quando Irvik si riscosse. «Forse ho capito che sta succedendo!» esclamò, attirando l’attenzione.
   «Beh, ce lo dica!» lo esortò Losira.
   «Questo Spazio Fotonico potrebbe essere di natura computazionale. In pratica l’intero Universo è come un immenso computer quantistico, capace d’elaborare i dati che gli vengono immessi e di materializzarli» spiegò il Voth. «Finora il programma si è svolto seguendo i suoi parametri base, cioè le leggi fisiche impostate subito dopo il Big Bang. Così ecco l’evoluzione fisica, chimica e infine biologica. Ma noi ci siamo introdotti da fuori, come un elemento estraneo. E non appena abbiamo acceso il ponte ologrammi... zac! Il nostro programma olografico ha riscritto la realtà stessa».
   «Ma... lei lo crede possibile?!» fece la Risiana, incredula.
   «Se non ci crede, trovi una spiegazione migliore per quello» disse l’Ingegnere Capo, indicando il Rocketeer che precipitava nell’Occhio del Terrore.
   Losira dovette ingoiare il rospo. Il contenuto dell’olo-romanzo si era materializzato davanti a loro; non potevano esserci altre spiegazioni. «Sta dicendo che, se questo Universo è un computer, noi siamo come un virus che l’ha infettato?» chiese con voce flebile.
   «Un’analogia calzante, sì» convenne Irvik. «Riscrittura della realtà... forse non è diverso da ciò che riescono a fare i Q nel nostro Universo».
   «Quindi per rimettere tutto a posto basta spegnere il programma?» chiese la Comandante.
   «Ehm, temo che non sia così semplice» rispose il Voth, armeggiando con una postazione ingegneristica. «Qui leggo che la sala ologrammi è già spenta. Pare che l’attivazione l’abbia mandata in sovraccarico... forse un effetto secondario dell’alterazione della realtà. Sta di fatto che non c’è un modo chiaro per annullare ciò che abbiamo fatto. Può anche darsi che l’alterazione sia definitiva» azzardò.
   A queste parole Losira si riscosse. Il Rocketeer precipitava sempre più rapido nel vortice e loro non potevano seguirlo. Restava poco tempo per salvare gli occupanti. «Teletrasportateli subito a bordo!» ordinò, scattando in piedi.
   «Impossibile, ci sono troppe interferenze gravimetriche» rispose l’addetto.
   «Allora usate il raggio traente!» insisté la Risiana.
   «Dovremmo avvicinarci troppo. Verremmo presi dal vortice e distrutti» avvertì un altro ufficiale.
   Losira si sentì mancare. A corto d’opzioni, guardò Irvik, rivolgendogli una muta richiesta di soccorso.
   «Se quello è un tunnel spaziale, come sembra, i nostri colleghi dovrebbero sopravvivere» ragionò il Voth. «Il problema è che saranno persi a grande distanza... senza nemmeno sapere che i pericoli sono reali, anziché simulati. Se agiranno con l’imprudenza di chi gioca sul ponte ologrammi...» lasciò in sospeso.
   «Dobbiamo almeno avvertirli. Lum, apri un canale!» ordinò Losira.
   «Non rispondono. Credo che non abbiano un ricevitore subspaziale, su quel catorcio» avvertì il Ferengi.
   «Allora... allora... invia un segnale radio!» disse la Risiana, disperata. «Prova tutte le frequenze. Informali della situazione, digli di stare lontani dai guai finché non li avremo rintracciati» raccomandò.
   «Trasmetto il messaggio» disse il Ferengi, armeggiando rapidamente coi comandi. «Spero che riescano a captarlo. Tra poco entreranno nel wormhole e perderemo i contatti».
 
   I tre giocatori erano concentrati nei loro ruoli, quando un nuovo segnale si attivò a bordo. La sua tonalità, diversa dalle altre, attirò subito la loro attenzione.
   Dit-dit-dit-dit-dit!
   «E questo cos’è?» chiese Giely, guardandosi attorno.
   «Si è attivata la telescrivente» riconobbe Rivera. «Strano, non era previsto che accadesse ora. Forse è un easter egg» ipotizzò. Lasciò il quadro comandi e si accostò alla telescrivente, posta su una colonnina e sormontata da una campana di vetro. Da una fessura stava uscendo il messaggio, stampato su una lunga striscia di carta. Il Capitano la prese fra le mani e lesse, man mano che usciva.
   «Attenzione siete in pericolo. Stop. Non vi trovate più sul ponte ologrammi. Stop. Siamo in un universo computazionale in cui tutto è composto da fotoni. Stop. La vostra simulazione ha sovrascritto la realtà come un virus informatico. Stop. Avete materializzato il Rocketeer e siete stati trasferiti a bordo. Stop. Stiamo per perdere i contatti. Stop. Mantenete la posizione e aspettate che vi rintracciamo. Stop. Non fate idiozie perché non ci sono più protocolli di sicurezza. Stop».
   Terminata la lettura, calò il silenzio.
   «È uno scherzo, vero?» sussurrò Talyn. «Qualche buontempone della sala macchine deve aver pensato che fosse divertente».
   «Non so... questa caduta nell’Occhio del Terrore sta già durando più del previsto» notò il Capitano, inquieto. «Computer, fine programma!» ordinò. Non accadde nulla. «Ho detto: COMPUTER, FINE PROGRAMMA!» gridò, senza miglior fortuna.
   «Computer, rendi visibile l’ingresso» disse Talyn, provando un diverso approccio. Ancora niente. I due si fissarono per qualche attimo, incerti.
   «Lì dentro c’è una porta d’accesso» ricordò Rivera, indicando un pannello sulla fiancata dell’astronave. Le porte d’accesso erano punti prefissati da cui si poteva accedere ai controlli ambientali del ponte ologrammi, senza spegnere l’intero programma. In caso di malfunzionamento, erano il modo più sicuro per venirne fuori. Il Capitano raggiunse a passo svelto il pannello e lo aprì, mettendo a nudo un intrico di cavi e resistenze, sempre in bianco e nero. Non c’era traccia della porta d’accesso, con i suoi controlli moderni.
   «Caramba!» imprecò Rivera, cominciando a sentire la pelle d’oca. Intanto il Rocketeer si scuoteva sempre più, segno che l’ingresso nell’Occhio del Terrore era imminente.
   «Guardate qui» disse Talyn, ai comandi dell’immagizzatore. Nella traballante inquadratura campeggiava la Destiny, ripresa dall’esterno e sempre più piccola per via della distanza.
   «Allora è vero...» mormorò il Capitano. Di colpo realizzò quant’era precaria la loro situazione, su quella navicella antidiluviana in balia di una forza cosmica. Se anche sopravvivevano al tunnel spaziale, perdere i contatti con la Destiny era la fine: difficilmente i colleghi li avrebbero rintracciati in quell’universo sconosciuto. Si concentrò di nuovo sui comandi, ma dovette arrendersi all’evidenza. Il Rocketeer precipitava sempre più rapido verso il wormhole, niente poteva fermarlo. Mancavano pochi attimi al passaggio. «Con tutti i programmi che abbiamo, dovevo scegliere proprio Capitan Proton...» borbottò, facendo la conta dei pericoli.
   «Beh, poteva andarci peggio» lo consolò Talyn. «Pensa se avessimo giocato a Hellraiser».
   «Non dirlo nemmeno!» lo zittì il Capitano, guardandosi attorno come se temesse di veder spuntare un Cenobita pronto a scorticarli.
   «Fatemi capire: ora che la fantasia è diventata realtà, i controlli di sicurezza non sono più attivi?» chiese Giely.
   «È probabile» ammise Rivera, scuro in volto.
   «Quindi ogni pericolo del tuo gioco può accopparci?».
   «Sì».
   La giovane Vorta tornò a fissare l’immagizzatore, dove campeggiava nuovamente l’Occhio del Terrore, sempre più vicino. E si esibì in uno strillo degno di Constance Goodheart: «AAAAAAAHHHHH!».
   L’attimo dopo il Rocketeer entrò nel tunnel spaziale e fu proiettato ad anni luce di distanza, nelle profondità del cosmo in bianco e nero di Capitan Proton.
 
   «Ecco, stanno entrando» disse il Ferengi.
   Gli avventurieri fissarono la drammatica scena sullo schermo. La Nave a Razzo precipitò al centro del vortice, svanendo alla vista con un breve lampo. Sulla plancia della Destiny calò un silenzio di tomba.
   «Lum, analisi a lungo raggio. Rilevi tracce del... del Rocketeer?» chiese Losira con una strana calma.
   «Nessuna, purtroppo. Devono essere finiti oltre il raggio dei sensori» rispose il Ferengi, sconsolato. «Con un intero Universo a disposizione, le probabilità di rintracciarli sono infinitesimali...» avvertì.
   «Ho afferrato l’enormità del problema» disse la Comandante, tornando a sedersi in poltrona. «Quel che tutti voi dovete afferrare è che non ce ne andremo senza prima aver ritrovato i dispersi» sentenziò. «Analisi a lungo raggio, voglio capire quanta parte del cosmo è stata trasformata. Confrontate le letture con le mappe di Capitan Proton che abbiamo in archivio. Quando ci saremo orientati, potremo cominciare le ricerche».
   «Potremmo anche leggere la trama dell’episodio, per capire dove li ha portati quel tunnel spaziale» suggerì Irvik.
   «Ottima idea» approvò Losira. «Ah, un’altra cosa: finché saremo in questo spazio assurdo, l’uso dei ponti ologrammi è severamente vietato. Non voglio che materializziamo altre balordaggini».
   «Mi accerterò che gli ingressi siano sigillati e le sale ologrammi siano lasciate senza energia» garantì Naskeel. «Certo che voi Organici avete una propensione innata per i problemi. Quando non ne avete, ve li create da soli» notò, alludendo alla situazione. E Losira non poté dargli torto.
 
   Il Rocketeer sfrecciò attraverso il tunnel spaziale, accelerato a una velocità che nessuna astronave poteva eguagliare. In breve fu sputato all’estremità opposta. I tre giocatori videro le stelle vorticare attorno a loro, finché Rivera rimise la navicella in assetto. Allora Talyn inquadrò l’Occhio del Terrore sull’immagizzatore, appena in tempo per vederlo svanire.
   «Perché è scomparso?» chiese Giely.
   «Aveva assolto la sua funzione narrativa» rispose il Capitano. «Sembra che le cose procedano secondo la trama prefissata» si rallegrò.
   «Ed è una buona notizia?» incalzò la Vorta.
   «È ottima!» confermò l’Umano. «Significa che se ci sforziamo anche noi di rispettare la trama potremmo uscirne tutti interi».
   «La musica cambierà quando incontreremo i personaggi» avvertì Talyn. «Se questo spazio è come un computer quantistico, allora entra in gioco il principio d’indeterminazione».
   «Che intendi?» chiese la dottoressa.
   «Beh, è come il libero arbitrio. Significa che azioni e reazioni dei personaggi non possono più essere previste» spiegò l’El-Auriano. «E anche se non avessimo un’indeterminazione in senso stretto, c’è pur sempre l’effetto farfalla. Vale a dire che ogni deviazione dalla trama, per quanto insignificante, creerà una differenza sempre più marcata nel corso del tempo».
   «Beh, ma noi non dobbiamo per forza giocare» obiettò Giely. «Il messaggio diceva di starcene lontani dai guai, aspettando che vengano a soccorrerci. Non dovremmo fare così?».
   «Non è così semplice. Quando la trama incalza, anche perdere tempo può costituire un pericolo» avvertì il Capitano, tornando ai comandi.
   «Sei il nostro Game master, l’unico che conosce già la trama» notò Talyn, affiancandolo. «Avanti, dicci che cosa ci aspetta ora».
   «Inquadra lo spazio davanti a noi e lo saprai» s’incupì Rivera, stringendo convulsamente i controlli di volo.
   Il giovane fece come indicato. L’immagizzatore mostrò una miriade di globi biancastri, che si lasciavano dietro lunghe scie, in rotta di collisione col Rocketeer.
   «Che cosa sono?» chiese Giely.
   «Comete Assassine» spiegò il Capitano, con la bocca secca. «Vengono per distruggerci».
   «Vengono da dove? Le comete hanno la coda solo quando si avvicinano alla loro stella. E poi come sarebbe, per distruggerci? Le comete non hanno una volontà!» obiettò la Vorta.
   «Queste ce l’hanno. Scoprirai che, nel cosmo di Capitan Proton, le cose sono diverse dal nostro. Reggetevi forte!» raccomandò l’Umano, facendo manovre spericolate per scansarle.
   Talyn e Giely si aggrapparono alle consolle, ma non c’era molto che potessero fare per aiutare Rivera. Le Comete Assassine sfrecciavano tutt’intorno a loro, così grandi e veloci che un impatto sarebbe stato catastrofico. Solo i riflessi del Capitano potevano salvarli. Una goccia di sudore apparve sulla sua fronte, mentre pilotava la navicella senza staccare gli occhi dall’immagizzatore. A un tratto il Rocketeer sobbalzò con violenza. Il pannello che avrebbe dovuto contenere la porta d’accesso esplose e ne uscì un denso fumo scuro.
   «Impatto sulla fiancata! La corazza ha retto, ma qualcosa non va coi razzi di manovra. Non rispondono come dovrebbero!» avvertì Rivera, sempre più in difficoltà nell’evitare collisioni.
   «Ci penso io!» disse Talyn, affrettandosi al pannello.
   Preoccupata da come si mettevano le cose, Giely lo seguì. Lo vide armeggiare con cavi, resistenze e valvole che parevano usciti da un museo. «Sai quello che fai?» chiese.
   «Ma certo, è facilissimo» assicurò l’El-Auriano. «Ogni volta che si guasta qualcosa a bordo, basta fare così!». Cavò una valvola bruciata, dandola in mano alla Vorta che la osservò perplessa. Poi incrociò un paio di cavi, legandoli con del nastro adesivo. Subito il fumo smise di uscire e i motori del Rocketeer ruggirono a piena potenza. La navicella balzò di lato, appena in tempo per sfuggire a una cometa particolarmente grossa, i cui crateri ricordavano un faccione ghignante.
   «È fatta, quella era l’ultima!» sospirò Rivera, vedendo lo spazio vuoto davanti a sé. Ridusse la velocità e impostò il pilota automatico. La goccia di sudore sulla sua fronte era scomparsa.
   «Complimenti, Capitano. Ci hai salvati» riconobbe Giely. «Ora che si fa?».
   «Beh, ricapitoliamo. Siamo nel cosmo di Capitan Proton, pieno d’avversari pronti a farci la pelle. Non ci sono controlli di sicurezza né vie d’uscita. Il wormhole ci ha portati oltre il raggio dei sensori della Destiny, per cui possiamo contare solo su noi stessi» riassunse stancamente l’Umano. «Per come la vedo io, abbiamo due opzioni. La prima è tenerci alla larga dai guai e attendere che la Destiny ci trovi, o al limite andare noi stessi a cercarla».
   «Io voto per questa» disse Giely, alzando prontamente la mano.
   «Ci sono controindicazioni» avvertì Rivera. «In primo luogo, questa navicella non è realmente progettata per lunghe permanenze a bordo. Ad esempio non abbiamo grandi scorte d’ossigeno, né di cibo e acqua. Quindi prima o poi dovremo atterrare da qualche parte. In secondo luogo... se perdiamo tempo, Chaotica riuscirà a radunare tutte le Pietre».
   «Ti preoccupi ancora di vincere questa partita?!» si meravigliò la Vorta.
   «Mi preoccupo di ciò che quel folle potrebbe fare con una superarma» puntualizzò il Capitano. «Non solo a noi, ma anche agli abitanti di questo cosmo».
   Cadde uno spiacevole silenzio, mentre i compagni d’avventura riflettevano sulle implicazioni. «Credi che questo spazio sia abitato?» chiese infine Giely.
   «Potrebbe esserlo, e in tal caso abbiamo una responsabilità. Non possiamo piazzarci un pazzo con una superarma e poi andarcene, lasciandogli campo libero» sospirò Rivera. «Il che ci porta alla seconda opzione: procedere con la partita e sconfiggere Chaotica. Se anche non lo eliminiamo del tutto, dovremmo almeno impedirgli di completare l’arma».
   «Approvo questo corso d’azione» disse Talyn, alzando la mano. «Abbiamo una responsabilità troppo grande, non possiamo lavarcene le mani».
   Il Capitano vide che, anche con due soli sottoposti, riusciva ad avere consigli diversi. Come al solito toccava a lui decidere il da farsi. «Ci servono più informazioni» stabilì. «Talyn, prova a sondare lo spazio circostante in cerca di mondi abitati».
   «Okay» fece il giovane, andando al quadro comandi. «Il tunnel spaziale deve averci portati a una certa distanza, perché qui le stelle sono molto più fitte» notò subito. «C’è del movimento in uno dei sistemi più vicini. Credo siano astronavi».
   «Andiamo a controllare. Traccio la rotta» disse Rivera. Era teso, ma anche stranamente sollevato dal fatto che almeno avessero una direzione. «Motore iper-atomico attivato!» disse, mentre il Rocketeer balzava a velocità iperluce.
 
   Poche ore dopo i tre avventurieri erano in piedi davanti all’immagizzatore, a osservare un funesto spettacolo. Ai margini del sistema stellare, presso un planetoide senza atmosfera, infuriava una battaglia tra flotte d’astronavi. Erano flotte più o meno equivalenti, per numero e anche per la stazza medio – piccola dei vascelli. Da un lato erano attestati i difensori, con navicelle dalla prua a testa di martello e il robusto apparato propulsore. Dall’altro arrivavano gli attaccanti: scure navi a forma di missile, con grandi alettoni posteriori. Talyn ne inquadrò una, zoomando sul simbolo impresso sulla fiancata. Era un blasone quadripartito: fulmini bianchi su fondo nero e neri su fondo bianco, alternati a stelle, anch’esse bianche sul nero e nere sul bianco.
   «Lo stemma di Chaotica» riconobbe Talyn. «Quel gaglioffo ha inviato la sua Forza Spaziale all’attacco».
   «Ma chi sta attaccando?» chiese Giely, osservando i difensori.
   «In teoria dovrebbe dare battaglia alla flotta terrestre, ma è chiaro che ha trovato un nuovo nemico. Una specie autoctona dello Spazio Fotonico, come temevo» borbottò Rivera, osservando lo scontro che entrava nel vivo. Un’astronave di Chaotica fu colpita su due lati ed esplose come un fuoco d’artificio. Ma anche un paio di vascelli difensori furono distrutti dal Raggio della Morte, l’arma simile a un fulmine di cui erano equipaggiati gli assalitori. A quella vista il Capitano fu preso dall’angoscia. Da quand’erano dispersi nel Multiverso si era sempre preoccupato che le realtà alternative mettessero a rischio il suo equipaggio, ma non aveva mai adeguatamente riflettuto sull’eventualità opposta: che fossero loro a danneggiare chi ci viveva, sia pure involontariamente.
   «Ehm, Capitano, non dovremmo intervenire?» chiese Talyn, a disagio.
   «Groan, penso proprio di sì» fece Rivera, mettendosi ai comandi. Proprio in quella la flotta assalitrice si disimpegnò. Una delle navi, tuttavia, prese di mira la superficie del planetoide. Il Raggio della Morte balenò come un fulmine nell’oscurità, colpendo una base a cupola – forse un avamposto scientifico – che sorgeva sulla superficie. Ci fu un lampo e l’installazione esplose, lasciando un cratere fumigante. A quel punto la Forza Spaziale di Chaotica accelerò il ritiro, lasciandosi dietro i difensori provati.
   «Capto una trasmissione radio» disse Talyn.
   «Immagizzare!» ordinò Rivera, che ormai non si faceva problemi a usare la terminologia di Capitan Proton.
   Sullo schermo circolare apparve il dottor Chaotica, che trasmetteva dalla sala del trono nella Fortezza del Destino; le sue astronavi non facevano che ritrasmettere il segnale. Il despota spaziale indossava una veste sontuosa, lunga fino a terra e impreziosita con ricami di fulmini. Aveva occhi cisposi, sormontati da grosse sopracciglia, scure come i baffi e la corta barba sul mento. Il cranio era avvolto da un’aderente guaina scura.
   «Cittadini della Quinta Dimensione, arrendetevi!» intimò Chaotica. «Questo attacco era solo per darvi un assaggio del mio potere. Il prossimo sarà molto più distruttivo! La vostra sola speranza di salvezza consiste nel riconoscere la mia suprema autorità. Coloro che si genufletteranno davanti a me, saranno risparmiati. Gli altri affronteranno un destino invero assai sgradevole, quali miei schiavi nelle miniere di Mercurio!» minacciò. «Avete tre giorni di tempo per rispondere. Ma vi avverto: non osate stringere alleanza con l’avventuriero detto Capitan Proton, o niente vi salverà dalla mia collera! Non credete alle sue promesse di salvezza, perché ben presto avrò un’arma di tale potenza che anche lui, come tutti, dovrà piegarsi al mio volere!». Ciò detto il despota spaziale si esibì nella sua risata malefica e troncò la comunicazione.
   «Fantastico, li ha già prevenuti contro di me!» commentò Rivera, che aveva sperato di contattare i nativi, se non altro per fare provviste. Sotto i suoi occhi la flotta di Chaotica lasciò il sistema, per il momento; ma sarebbe tornata allo scadere dell’ultimatum. E i difensori, già malconci, non sembravano in grado di opporre un’adeguata resistenza.
   «Questo sistema stellare è densamente popolato» avvertì Talyn. «Oltre al mondo natale degli alieni, ci sono altri due pianeti e parecchi satelliti colonizzati. Se Chaotica completasse la superarma e la rivolgesse contro questi mondi...» lasciò in sospeso.
   «Ma vi aspettate che quell’affare funzioni?» chiese Giely ai compagni. «Voglio dire, sfruttare il potere dei quattro elementi non è molto scientifico».
   «Se questo Spazio Fotonico è davvero di natura computazionale, e segue il nostro programma olografico, allora la superarma funzionerà, che sia scientifica o meno» avvertì l’El-Auriano.
   «Non deve accadere» disse Rivera con decisione. «In un certo senso abbiamo creato noi Chaotica; non possiamo permettergli di lanciarsi alla conquista del cosmo. L’unico modo per risolvere la situazione è affrontarlo e sconfiggerlo, recitando la parte dei nostri personaggi!». Si colpì il palmo aperto col pugno, provocando un sonoro schiocco.
   «Dovremo seguire il più possibile la trama, per limitare l’effetto farfalla» notò Talyn, visibilmente preoccupato.
   «Beh, non dovrebbe essere così difficile. Voglio dire, la trama non è congegnata per farci vincere?» chiese Giely.
   A quelle parole il Capitano le rivolse un’occhiata insolitamente grave. «Sì, la trama dovrebbe facilitarci la vittoria» ammise. «Ma c’è già stata una deviazione, dato che Chaotica ha sferrato un assalto a questo sistema anziché alla Terra. E c’è dell’altro. La trama originale prevede che, come al solito, Constance Goodheart sia rapita e condotta nella fortezza nemica. Ma io non voglio sottoporti a un tale rischio, ora che non ci sono protocolli di sicurezza» chiarì.
   «Quindi che hai in mente di fare?» chiese la Vorta.
   «Beh, non ci resta che correggere la trama» ammise il Capitano. «Quando sbarcheremo sui prossimi pianeti rimarrai al sicuro sul Rocketeer, lontano dall’azione, così che non ti capiti niente di male» stabilì.
   «Apprezzo l’interessamento per la mia incolumità» disse Giely, abbozzando un sorriso. «Ma non ho scordato quei discorsi sul principio d’indeterminazione e l’effetto farfalla. Se cerchi di proteggermi peggiorerai le cose, innescando un nuovo e imprevedibile corso degli eventi» avvertì.
   «Non lascerò che quel pazzo ti rapisca e cerchi di sacrificarti ad Arachnia!» esclamò Rivera, perdendo la calma. «Io ti ho coinvolta in tutto questo. L’unico modo che ho per rimediare è non farti correre più rischi del necessario».
   «D’accordo, starò attenta» cedette la dottoressa, accantonando i dubbi. «Allora, se ben ricordo siamo in corsa per recuperare le Pietre degli Elementi. Il nemico ha già preso la prima; dov’è la seconda?».
   «Lo vedrai a breve» disse il Capitano, recuperando un po’ del suo fanciullesco spirito d’avventura. «Traccio la rotta per Pontus, il mondo degli Uomini Pesce, custodi della Pietra dell’Acqua!». Le sue mani si mossero sicure sui comandi. Il motore iper-atomico del Rocketeer ruggì e la navicella schizzò verso la prossima tappa di quella strana avventura.
 
   Ad anni luce da lì, sul desertico Pianeta X, la Fortezza del Destino si ergeva su uno sperone roccioso. Le sue torri di metallo polito, con poche finestre, svettavano verso il cielo grigio. Nella sala del trono, il dottor Chaotica camminava nervosamente avanti e indietro. Da quando le costellazioni erano cambiate, le cose avevano preso una piega bizzarra. La Terra e gli altri Mondi Incorporati, da lui sommamente odiati, sembravano svaniti dal cosmo. Al loro posto erano apparsi nuovi mondi, anch’essi abitati. Solo il suo intelletto superiore gli aveva permesso di comprendere che il suo pianeta, e forse altri, erano stati attirati chissà come nella Quinta Dimensione. Ebbene, avrebbe imposto la sua autorità anche lì! E il modo migliore era proseguire la ricerca delle Pietre, così da completare l’antica superarma che lo avrebbe reso invincibile. Già, ma sarebbe riuscito a trovarle tutte, prima che quell’odioso Capitan Proton gli mettesse ancora una volta i bastoni tra le ruote?!
   Un gong accompagnò l’apertura del portone principale. Chaotica si volse giusto in tempo per assistere all’ingresso di Lonzak. «I miei omaggi, sire!» disse il capo delle guardie in tono cerimonioso. «Ti offro la Pietra della Terra, che ho tratto con grande periglio dagli abissi di Petra. L’ho soffiata proprio sotto il naso di Proton!» si vantò. S’inginocchiò davanti al suo signore, porgendogli la Pietra su un cuscino di velluto e aspettandosi grandi lodi.
   «Idiota!» disse inaspettatamente Chaotica. «Perché non hai proseguito verso la prossima tappa, come ti avevo ordinato, così da battere Proton sul tempo?».
   Lonzak spalancò gli occhi, confuso. «Mio signore, avrai osservato anche tu gli strani eventi degli ultimi giorni. Le stelle sono cambiate, le carte astrali non sono più affidabili...».
   «Certo, perché siamo stati attirati nella Quinta Dimensione!» annuì il despota, carezzandosi la barbetta. «Ho già inviato la mia flotta a dare una dimostrazione di forza al sistema più vicino. Ma tu devi ripartire subito, per recuperare le altre Pietre. Non possiamo permettere a Proton di anticiparci. Ricorda: basta una sola Pietra mancante per impedire il funzionamento dell’arma! Quindi riparti subito, e non tornare prima di aver radunato le altre» comandò.
   «Sì, mio signore!» fece il capo delle guardie, tutto compunto. Stava per ritirarsi, quando Chaotica lo fermò con un gesto imperioso.
   «Aspetta! L’importanza della missione, e le incognite di questo cosmo sconosciuto, richiedono di appellarci a tutte le nostre risorse» disse il despota. «Contatterò i nostri alleati, da Arachnia alle Signore del Male, affinché ostacolino Proton. E a te, mio fido Lonzak, affiderò il mio strumento più micidiale».
   Con gesto teatrale, Chaotica si rivolse alla sagoma squadrata che attendeva nell’ombra tra due colonne. «Vieni avanti, empia macchina! Ti ordino di reperire le Pietre degli Elementi e distruggere chiunque ci si opponga, a partire da Capitan Proton!» ordinò.
   Attivato dalle parole del suo costruttore, il Robot Satanico si fece avanti con passo dondolante, entrando nella piena luce. Il corpo cilindrico non aveva alcuna fisionomia; solo le braccia e le gambe telescopiche gli davano un’aria vagamente umanoide. «REPERIRE LE PIETRE... DISTRUGGERE CAPITAN PROTON!» ripeté con voce meccanica, dardeggiando minacciosamente le mani a tenaglia. 
 

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Capitolo 4
*** Terrore negli abissi ***


-Capitolo 3: Terrore negli abissi
 
   «I sensori avvertono che siamo prossimi alla destinazione» disse Talyn. «Allora, Game master, dicci cosa ci aspetta» esortò. In circostanze normali non avrebbe chiesto spoiler, ma ora che la fantasia innocua era divenuta la pericolosa realtà, era fondamentale saperne il più possibile su ciò che li attendeva, per evitare passi falsi.
   «Beh, non c’è molto da dire, in realtà» rispose il Capitano. «Questa puntata ricalca molto la precedente. In effetti tutti e quattro gli episodi in cui cerchiamo le Pietre si somigliano, a parte le ambientazioni. C’è sempre un enigma da risolvere o un mostro da sconfiggere per conquistare la Pietra» spiegò.
   «Ma nell’ultimo episodio abbiamo fallito» obiettò Talyn. «Stavolta andrà meglio?».
   «Sì, stavolta saremo vittoriosi e avremo la Pietra dell’Acqua» assicurò Rivera. «In seguito però il nemico s’impadronirà di quella dell’Aria. Infine noi prenderemo la Pietra del Fuoco. Due successi, due fallimenti».
   «E poi?» incalzò il giovane.
   Il Capitano si rabbuiò. «Durante l’ultima tappa, quando conquisteremo la Pietra del Fuoco, Constance sarà rapita dal Robot Satanico e consegnata a Chaotica nella sua fortezza» rivelò, guardando Giely con apprensione. «Dapprima lui sarà sul punto di sacrificarla, ma all’ultimo cambierà idea e ci contatterà, proponendo uno scambio. Dovremo consegnargli le due Pietre mancanti per riaverla sana e salva. Io però rifiuto di procedere in questo modo... non ti farò correre un rischio del genere!» si rivolse all’interessata.
   «Continua. Che cosa accade dopo?» chiese Giely.
   «Durante lo scambio, noi sostituiamo la Pietra del Fuoco con una replica priva di poteri, senza che Chaotica se ne accorga. Così, quando prova a far funzionare la superarma, quella esplode con tutta la fortezza» spiegò Rivera.
   «Così semplice?» si stupì la Vorta.
   «Sì, così semplice. Sai, questi cattivi della Golden Age erano piuttosto ingenui» confermò l’Umano.
   «Allora come pensi di arrivare a questo risultato senza che mi rapiscano?» domandò Giely.
   «Ciò che conta è sostituire una delle Pietre con una replica» ragionò il Capitano. «Se possibile lo faremo con quella dell’Aria, che secondo la trama dovrebbe cadere in mano nemica».
   «Potrebbe funzionare... sempre che Chaotica non scopra l’inganno, avendo più tempo per esaminarla» rifletté Talyn.
   «Mal che vada distruggeremo le Pietre d’Acqua e di Fuoco, così che nessuno possa mai completare la superarma» disse Rivera. «Certo, per far questo dovremo prima conquistarle. E una volta distrutte, non avremo più forza contrattuale se uno di noi fosse rapito» aggiunse, rivolgendo un’altra occhiata apprensiva a Giely. «Quindi la terremo come ultima opzione. Per adesso cerchiamo di conquistare la Pietra dell’Acqua, così ne avremo almeno una da scambiare o distruggere, a seconda di come evolverà la situazione» stabilì.
   «Intesi, Capitano» disse Talyn, sebbene in cuor suo temesse che la vittoria non sarebbe stata così facile.
   Tornato ai comandi, Rivera scese a velocità subluce. «Siamo nell’orbita di Pontus, immagizzare!» ordinò.
   Talyn inquadrò il pianeta sullo schermo. Si era aspettato un mondo oceanico, ma ciò che vide lo lasciò perplesso. Davanti a lui c’era una palla grigiastra, dalla superficie solida – come indicavano alcune crepe nel suolo – e con pochissime nubi. «Scusa la domanda stupida, Capitano... ma non dovrebbe esserci l’acqua?» chiese.
   «Infatti c’è» confermò Rivera con un sorriso enigmatico. «Ma non è detto che debba essere tutta allo stato liquido. Hai già visto mondi ghiacciati, no?».
   «Ah, ma certo!» fece l’El-Auriano. «Spero solo che abbiamo dei cappotti a bordo».
   «Niente cappotti; non ce ne sarà bisogno!» rispose il Capitano, emozionandosi man mano che l’avventura entrava nel vivo. «Scansiona la superficie, in cerca di una faccia scolpita nel ghiaccio».
   Talyn lo fece e in breve trovò quanto cercava. «Eccola, si trova presso l’equatore» disse, inquadrandola sull’immagizzatore. Era una collinetta scolpita in forma di un viso che guardava in alto, verso lo spazio. I tratti erano umanoidi, sebbene gli occhi fossero enormi e rotondi, il naso appena accennato e le orecchie del tutto assenti.
   «Dove il ghiaccio è più sottile... perfetto!» commentò Rivera. E senza alcuna esitazione diresse il Rocketeer in picchiata verso quel punto. La navicella tremò, mentre il suono di un aeroplano in caduta libera riempiva l’abitacolo.
   «Cento chilometri, in rapida diminuzione» avvertì Talyn. «Novanta... ottanta...».
   «Presumo che tu voglia infrangere la superficie ghiacciata per raggiungere l’oceano sottostante» disse Giely, accostandosi al Capitano. «Questa navicella è abbastanza solida?».
   «Temo proprio di no» disse l’Umano con calma surreale, mentre il ghiaccio si avvicinava sempre più. «Dovremo aprirci un varco col Raggio Distruttore. Vuoi pensarci tu?» propose.
   «Volentieri» fece la Vorta, lieta di avere finalmente qualcosa da fare. «Dove sono i comandi?».
   «Basta premere quel grosso pulsante sul pannello alle tue spalle» disse Rivera, concentrato sulla guida.
   «Meno cinquanta... quaranta...» lesse Talyn.
   Per quanto fossero assorbiti dalle loro mansioni, i due ebbero a un tratto lo stesso timore e si voltarono simultaneamente. «L’altro pannello!» esclamarono all’unisono.
   Giely si bloccò un attimo prima di premere il pulsantone. C’erano due pannelli verticali al centro dell’abitacolo e lei naturalmente si era rivolta a quello sbagliato. «Errata corrige» disse, recandosi a quello giusto. Premette senza indugio il bottone tondo e sporgente.
   Dall’antenna anteriore della Nave a Razzo scaturì un raggio simile a un fulmine, non diverso dall’arma di Chaotica. La saetta colpì la superficie congelata e la infranse, scagliando ovunque frammenti di ghiaccio. Attraverso lo squarcio così aperto apparve l’oceano sottostante, più scuro.
   «Reggetevi» consigliò Rivera, mirando l’apertura appena creata. Pochi attimi dopo il Rocketeer si tuffò in acqua, sollevando alti spruzzi. I tre nell’abitacolo dovettero aggrapparsi alle consolle per non essere sbalzati a terra. Il Capitano cabrò prontamente, raddrizzando la navicella, così che assumesse l’assetto di un sottomarino. Ora il Rocketeer navigava in avanti, pur continuando a calarsi nell’oceano.
   «Ta-daahh! Liscio come l’olio!» si vantò Rivera. «State bene, voi?» chiese, dando un’occhiata ai compagni.
   «Benone» annuì Talyn.
   Giely non rispose, ma aveva un’aria più infelice. Si aggirò nell’abitacolo, un po’ barcollante, tanto che doveva sempre reggersi a qualche apparecchio.
   «Ehi, come ti senti?» si preoccupò il Capitano.
   «Ho l’impressione che non siamo del tutto stabili» borbottò la Vorta, dondolandosi per combattere il rollio e il beccheggio della navigazione.
   «Sto usando l’astronave come se fosse un sottomarino; è inevitabile qualche oscillazione» si difese l’Umano. «Quando saremo più in profondità, con meno correnti, starai meglio».
   «Groan... cerca di fare in fretta, Capitan Proton. Ho appena scoperto che io e l’oceano non andiamo d’accordo» borbottò Giely, massaggiandosi le tempie. Barcollando da una consolle all’altra, tornò vicino ai controlli del Raggio Distruttore. «Senti un po’... che fa l’altro pulsante, quello che stavo per premere?» volle sapere.
   «Oh, quello è il pulsante dell’auto-esplosione» spiegò Rivera, usando il gergo tutto speciale di Capitan Proton.
   «Ed è identico a quello delle armi?!» protestò la Vorta.
   «Eh sì, bisogna farci attenzione» confermò il Capitano.
   Giely alzò gli occhi e si allontanò di qualche passo, sforzandosi di tenere tutto nello stomaco. Per diversi minuti viaggiarono in silenzio, mentre il chiarore che filtrava dall’alto, attraverso il ghiaccio, si affievoliva man mano che scendevano in profondità.
 
   «Stiamo calando nella zona abissale... le tenebre si chiudono su di noi!» avvertì Talyn.
   «Stiamo navigando alla cieca?» chiese Giely, ancor più pallida del solito, reggendosi malamente a uno degli apparecchi.
   «No, no, questo gioiellino ha tutti gli optional» la rassicurò Rivera, armeggiando coi comandi. «Anche i fari!». Così dicendo attivò due grossi riflettori anteriori, che proiettarono fasci di luce gemelli in avanti.
   Invece di rischiarare un ampio tratto di mare, i fasci luminosi si arrestarono contro qualcosa di grosso e vicino. Era un’enorme creatura dalla pelle viscida. Il suo immenso occhio fissò i nuovi arrivati; la pupilla illuminata si contrasse. Tutta la creatura si scosse, disturbata dall’improvviso bagliore. Allora gli avventurieri videro che possedeva un corpo affusolato, terminante in lunghi tentacoli pieni di ventose.
   «Oh no, il Calamaro Demoniaco!» gemette Talyn. «Non l’abbiamo già incontrato su Greyhawk II?».
   «In queste vecchie storie, i mostri erano spesso riciclati» spiegò Rivera. «Sai com’è, gli effetti speciali erano costosi...».
   «Okay, come lo sconfiggiamo stavolta?» chiese il giovane. Intanto il Calamaro Demoniaco stava già avviluppando i lunghi tentacoli pieni di ventose attorno allo scafo del Rocketeer. La sua stretta micidiale fece scricchiolare sinistramente le lamiere. Rivera dette energia ai motori, cercando di liberarsi, e tentò anche qualche manovra evasiva. Ma per quanto la navicella si scuotesse con violenza, rollando e beccheggiando, il mostro non la mollava. Il suo becco corneo riempì lo schermo, dardeggiando vicino allo scafo.
   «Groan... se non vi decidete a sparargli, io attivo l’auto-esplosione» boccheggiò Giely, sempre più nauseata dagli scossoni.
   «Sentito la signora? Voglio quel seppiolone servito su un piatto d’argento!» ordinò il Capitano.
   «Signorsì!» fece Talyn. Raggiunse i comandi del Raggio Distruttore e fece partire una potente scarica. Il fulmine elettrificò l’acqua per un’ampia area attorno al Rocketeer e riverberò sullo scafo della navicella, senza tuttavia nuocere agli occupanti. L’elettricità si trasmise al Calamaro Demoniaco: la carne gommosa sussultò, i tentacoli si aprirono, le ventose si scollarono.
   «Ah, siamo liberi!» esultò Rivera, dando piena energia ai motori. Il Rocketeer schizzò in avanti, a una velocità che nemmeno il Calamaro poteva eguagliare. Ben presto la creatura rimase indietro e scomparve nell’oscurità abissale. Ancora una volta gli avventurieri erano salvi. «Beh, non è stato emozionante?!» chiese il Capitano, dando un’occhiata ai compagni d’avventura.
   «Da morire» mormorò Giely, mezza svenuta dalla nausea, mentre Talyn le faceva vento. «Ci aspettano altri incontri del genere? Così, per sapere...».
   «Direi di no. Guardate, già si vedono le luci della città sommersa» disse l’Umano, indicando l’immagizzatore.
   Con un certo sforzo, la Vorta mise a fuoco la vista. C’erano davvero dei puntini luminosi che rischiaravano l’oscurità degli abissi. Erano disseminati sul fondale, e non a caso: formavano l’ossatura della città subacquea. Quando furono più vicini, divenne evidente che erano cupole trasparenti, rischiarate dall’interno. Erano interconnesse da una fitta rete di condotti, le strade di quello stupefacente insediamento.
   «Benvenuti alla città degli Uomini Pesce!» disse teatralmente il Capitano, mentre manovrava in modo da attraccare a una delle cupole esterne.
 
   Completata la procedura d’attracco, Rivera aprì il portello stagno del Rocketeer. Subito l’abitacolo fu inondato da un’aria salmastra, con uno spiccato odore di merluzzo.
   «Okay, cerchiamo di sbrigarcela alla svelta» disse il Capitano. Lui e Talyn si misero le pistole a raggi in fondina. Stavano per lasciare la navicella quando Giely si frappose tra loro e il portello.
   «Come ho detto, apprezzo la preoccupazione per la mia incolumità» disse la Vorta. «Ma stando alla trama, non è qui che sarò rapita. E non posso certo rimanere confinata per giorni interi su questa navicella minuscola. Quindi scenderò con voi... così magari mi passerà il mal di mare» disse in tono inappellabile.
   «D’accordo, ma cerchiamo di restare uniti» raccomandò il Capitano. Sbarcò per primo, seguito dai compagni. Superata la camera stagna, i tre sbucarono in un vasto salone, simile a una piazza pubblica, che riempiva la cupola. E trovarono la delegazione di Uomini Pesce ad attenderli.
   Erano umanoidi dal fisico slanciato, ricoperti di squame luccicanti e vestiti con aderenti tute argentee. I loro visi inespressivi somigliavano alla faccia scolpita in superficie nel ghiaccio. Gli occhi erano rotondi, enormi e sporgenti; non li chiudevano mai, essendo privi di palpebre. Avevano una sorta di naso piatto, ma anche delle branchie sul collo, a indicare un doppio sistema di respirazione, aereo e acquatico. Le grosse teste glabre erano sormontate da una cresta semitrasparente, probabile evoluzione della pinna dorsale. Tra loro c’erano delle guardie: le loro mani palmate impugnavano minacciosi tridenti.
   «Salve a voi! Veniamo in pace dalla Terra!» esordì Rivera, mostrando le palme vuote mentre si faceva avanti. Talyn e Giely lo imitarono, un passo dietro di lui. Non appena i tre visitatori si furono avvicinati, le guardie li attorniarono, chiudendoli in un cerchio di tridenti acuminati.
   «Benvenuti a Pontus, stranieri» li accolse il capo della delegazione. La sua voce era comprensibile, pur avendo un tono sommesso e uno strano accento. «Io sono il Primo Ministro Scorfanus. Perdonate l’accoglienza armata, ma da quando Chaotica minaccia il cosmo abbiamo dovuto innalzare le difese. Se volete ospitalità, dovete prima gettare le armi» spiegò.
   «Più che giusto» riconobbe Rivera, sperando di cavarsela con la diplomazia. Con gesto lento, prese la pistola a raggi per la canna e la consegnò a una delle guardie. Talyn lo osservò titubante, ma esortato da un cenno fece lo stesso. Quanto a Giely, non aveva armi e non fu nemmeno perquisita, dato che ben difficilmente poteva celare qualcosa nel suo abitino.
   «Molto bene, ora presentatevi» ordinò il Primo Ministro.
   «Sono Capitan Proton, Difensore della Terra e di tutti i mondi in difficoltà!» proclamò Rivera, godendosi il suo momento di gloria. Una delle costanti, nelle Avventure di Capitan Proton, era che tutti lo conoscevano, anche sui mondi più isolati. Alcuni lo ammiravano, altri lo detestavano; ma nessuno ignorava le sue gesta. E infatti...
   «Il nome di Proton è riverito presso la nostra gente» disse Scorfanus, inchinandosi profondamente.
   «Ci siamo anche noi, eh!» fece Talyn, mentre accanto a lui Giely salutava timidamente con la mano.
   «Ah, sì. Vi presento i miei fidi aiutanti, Buster Kincaid e Constance Goodheart» li presentò il Capitano.
   «Giovane Buster... signorina Goodheart...» fece l’Uomo Pesce, inchinandosi anche a loro. «Siete tutti nostri graditi ospiti». A quelle parole le guardie raddrizzarono i tridenti, mettendosi in posizione di riposo. Anche i civili si avvicinarono, per osservare i famosi eroi dello spazio.
   «Dunque, che cosa vi conduce al nostro remoto asilo?» chiese il Primo Ministro, affiancandosi ai visitatori.
   «Un grave pericolo, purtroppo» rispose il Capitano. «Il dottor Chaotica ha rinvenuto l’antica superarma dei Krell e sta radunando le Pietre degli Elementi. Quella della Terra è già caduta in mano sua e sono certo che presto verrà qui, con forze sufficienti a strapparvi quella dell’Acqua. Non occorre che vi dica cosa farà, nel malaugurato caso in cui dovesse conquistarle tutte».
   Queste parole suscitarono grande agitazione tra gli Uomini Pesce, che confabularono tra loro. Alcune guardie si allontanarono, forse per mettere la città in preallarme.
   «Infausta notizia!» disse Scorfanus. «Ma in fondo sapevamo che questo giorno sarebbe arrivato. Il cosmo non sarà mai al sicuro, finché Chaotica ordirà i suoi piani malefici».
   «Allora converrete che la Pietra non può restare qui» disse Rivera. «Affidatela a noi, e vi prometto che sarà difesa da tutte le forze dei Mondi Incorporati» garantì. Era una strana promessa, dato che i Mondi Incorporati non esistevano... ma lo scopo era pur sempre quello di proteggere gli innocenti, si disse l’Umano.
   «Abbiamo custodito la Pietra per duemila secoli; capirete che non possiamo cederla facilmente, nemmeno al leggendario Capitan Proton» disse il Primo Ministro, quasi scusandosi.
   Rivera fu tentato di dirgli che fino al giorno prima lui e il suo popolo non esistevano nemmeno, ma si trattenne. Rivelargli la verità sarebbe stato uno shock troppo grande. Probabilmente gli Uomini Pesce non gli avrebbero nemmeno creduto; in ogni caso si sarebbero indispettiti, rendendo la missione ancor più difficile. Così decise di attenersi al copione. «Che devo fare per meritare la Pietra?» chiese.
   «Superare una prova di coraggio e saggezza» rispose Scorfanus, levando l’indice affusolato. «Solo allora vi cederemo la nostra reliquia».
   «Abbiamo già sentito questo ritornello!» intervenne Talyn, spazientito. «Lo fecero gli Uomini Lucertola, custodi della prima Pietra. Ce la stavamo cavando – ehm – bene, finché arrivarono gli scagnozzi di Chaotica. Loro non accettano di sottoporsi alle prove! Prendono ciò che vogliono e distruggono il resto. Lo hanno fatto a Petra, approfittando della nostra distrazione, e lo faranno di nuovo qui, se perdiamo tempo» avvertì.
   «Solo perché gli sgherri di Chaotica non rispettano niente e nessuno, non significa che dobbiamo imitarli» obiettò severamente il Primo Ministro. «La prova avrà luogo domattina, secondo la legge. Nel frattempo sarete degnamente ospitati. Spero che apprezzerete la nostra cucina e gli alloggi che vi metteremo a disposizione».
   Sebbene condividesse i timori di Talyn circa il perdere tempo, Rivera comprese che doveva accettare. Altrimenti avrebbero deviato dal copione, creando una situazione imprevedibile, e questo non era ancora disposto a farlo. «Rispettiamo la vostra legge e vi ringraziamo per l’ospitalità, Primo Ministro» disse, sperando di non doversene pentire.
 
   Quella sera i tre avventurieri cenarono con gli Uomini Pesce. Di tutte le esperienze che avevano vissuto nel Multiverso, fu una delle più singolari. I padroni di casa avevano preparato una lunga tavola imbandita in una delle cupole più grandi. L’ambiente era decorato con perle e coralli, oltre che con conchiglie esotiche, talvolta enormi. C’era persino musica dal vivo: alcuni nativi suonavano degli strumenti ricavati dalle conchiglie, traendone una melodia tutto sommato gradevole.
   «Servitevi liberamente» invitò Scorfanus, accennando alle pietanze che ricoprivano la tavolata.
   «Sembra tutto delizioso» disse Talyn, che in realtà era piuttosto a disagio davanti a quegli strani cibi dall’aria viscida. Alcuni animaletti non erano nemmeno morti e infatti cercavano di strisciare o zampettare via dai piatti. «Posso chiedere di che si tratta?» domandò l’El-Auriano, servendosi con quello che pareva un lungo filetto.
   «Quello che hai preso, mio giovane ospite, è un filetto di serpe d’acqua» spiegò il Primo Ministro.
   «Ah». Il giovane smise di piluccarlo.
   «Quello invece, signorina Goodheart, è petto di pesce luna con salsa di oloturia, arrostito in conchiglia» proseguì Scorfanus, accennando a ciò che la Vorta aveva nel piatto.
   «Dev’essere una bontà» disse Giely, ma restò con la forchetta in mano, senza portarla alle labbra.
   «Tutto squisito» disse Rivera, l’unico degli ospiti che stesse effettivamente mangiando. «Mi passi la crema, Buster?».
   Talyn gliela passò, osservandola con sospetto.
   «Quella naturalmente è fatta con latte di capodoglia» spiegò l’anfitrione, al che gli ospiti si chiesero chi andasse a mungerle. «E quei deliziosi frutti che sta mangiando sono cetrioli di mare canditi».
   «Yum, eccellenti!» convenne Rivera, prendendone altri.
   Talyn e Giely si fissarono con aria afflitta. Per tutta la cena mangiarono lo stretto indispensabile, concentrandosi sui grandi piatti di pesce facilmente riconoscibile.
   «Ha mangiato così poco, signorina Goodheart... assaggi il dessert» la esortò Scorfanus verso la fine.
   Giely dette un’occhiata a Rivera, come per chiedergli se poteva rifiutare.
   «Sì, assaggialo, Constance» rincarò lui, con un’occhiata eloquente: «Non possiamo permetterci di offenderli».
   Un po’ titubante, la Vorta cominciò a servirsi. Dovette ammettere che il dessert non era poi così male, se s’ignorava la consistenza viscida e molliccia. Sorrise al Primo Ministro, cercando di dargli soddisfazione.
   «Sono lieto che le piaccia. È una nostra ricetta tradizionale: soufflé di polpi nati morti» spiegò lui, compiaciuto.
   A queste parole, la dottoressa arrovesciò gli occhi all’indietro e cadde svenuta, lasciando i compagni a balbettare spiegazioni improvvisate.
 
   Più tardi quella sera, Rivera si recò da Giely, che era salita su una balconata panoramica da cui poteva osservare buona parte della città subacquea. «Come stai?» si premurò il Capitano.
   «Meglio, grazie» disse la Vorta, ancora mascherata da Constance, con abito lungo e parrucca bionda. «Scusa per la sincope, non so che mi è preso».
   «No, sei tu che devi scusarmi per averti coinvolta in questo delirio» sospirò l’Umano, osservando gli Uomini Pesce che entravano e uscivano dalle cupole. «È solo che... speravo ti saresti divertita, come mi divertivo io» borbottò.
   A quelle parole Giely inclinò la testa, alla maniera dei Vorta. «Devo chiederti una cosa, Capitano, e ti prego di rispondere sinceramente» disse con insolita serietà.
   «Ma certo, se conosco la risposta» promise lui.
   «Perché mi hai coinvolta nel gioco?» chiese Giely, fissandolo attentamente.
   «Te l’ho detto, cercavo qualcuno che interpretasse Constance e speravo che lo trovassi divertente...» si giustificò Rivera.
   «Sì, ma perché chiederlo proprio a me?!» insisté la Vorta. «Insomma, vorrei capire se devo considerarla una forma di corteggiamento» chiarì.
   Cadde un breve silenzio. Il Capitano si appoggiò alla balaustra e fissò la città subacquea senza realmente vederla, tanto era assorto nei pensieri. «Non l’ho fatto con questo intento... almeno non consciamente» dichiarò infine.
   «Meglio così» disse Giely, sollevata. «Non ho familiarità coi rituali di corteggiamento. E comunque sarebbero inutili, dato che noi Vorta siamo privi di sessualità» si lasciò sfuggire.
   «Sì, mi hai accennato al fatto che vi riproducete solo per clonazione» annuì Rivera, ricordando le loro prime conversazioni. «Ma senti un po’... quando dici “privi” intendi proprio privi-privi?» s’incuriosì.
   «Non so che altra accezione dare al termine» rispose la dottoressa. Vedendo lo sguardo perplesso di Rivera, si sentì in dovere di chiarire due cosette. «Sia ben chiaro, non sono una bambola: ho tutte le parti giuste al posto giusto» spiegò. «Il fatto è che noi Vorta siamo privi di desiderio sessuale. E in ogni caso siamo sterili; le donne come me non hanno nemmeno il ciclo. I Fondatori ci hanno voluti così, affinché nulla ci distraesse dal servirli: né amore, né interessi di famiglia. Così la clonazione in vitro è l’unico modo per perpetuarci».
   «Beh, noi Umani siamo diversi» ribadì il Capitano, osservandola sotto una nuova luce. «A volte c’innamoriamo, anche senza volere o potere aver figli. E chissà che, viaggiando con noi, non impari qualcosa sull’argomento. Certo non parlo di nozioni libresche, come medico quelle le hai già tutte. Parlo di sperimentare in prima persona. Pensaci... magari scoprirai di poter provare cose inaspettate. Magari cose di tuo gradimento» insinuò, accostandosi.
   «Ne dubito. Noi Vorta non siamo fatti per l’amore» ribadì Giely, guardinga. Si chiese se tutto quel discorso fosse una contorta strategia dell’Umano per sedurla.
   «Voi Vorta non siete fatti per molte cose, ma tu hai sempre cercato di distinguerti dagli altri, di fare cose che nessuno di loro fa. Ne sei sempre andata orgogliosa» puntualizzò Rivera. «Perché solo in questo campo continui a comportarti come se fossi al servizio del Dominio?» indagò.
   «Perché... perché non mi sento pronta, okay? Non sono a mio agio e non credo che me la caverei bene!» rispose la Vorta, innervosita. Si poggiò alla balaustra, dando le spalle all’Umano per non guardarlo in faccia.
   «Scusa, non volevo metterti a disagio» disse il Capitano, indietreggiando. «È solo che, a mio parere, sei fantastica nel fare ciò che gli altri Vorta non fanno. E potresti osare ancora di più, quando ti sentirai pronta» suggerì.
   «Onestamente non ne ho una gran voglia» disse Giely, girandosi a mezzo. «Ho sempre avuto l’impressione che l’amore – chiamiamolo così – sia un gioco a perdere. Si perdono tempo ed energie che potrebbero essere impiegate meglio, che nessuno ci restituirà mai. E alla fine si resta con un cuore infranto, senza nemmeno sapere se e come si ha sbagliato. Non è così?!» esclamò, fissandolo con sguardo tagliente.
   Ripensando alle sue avventure – numerose, ma brevi e inconcludenti – Rivera non poté darle torto. «Sì, probabilmente hai visto giusto» ammise. «Suppongo che il vero amore sia come le Avventure di Capitan Proton: una bella fantasia che ci raccontiamo per scordare la triste realtà. Certo che, a volte, fantasia e realtà si mischiano stranamente...» mormorò, alludendo all’incredibile città aliena attorno a loro. Infine lasciò la balconata, scendendo al piano terra, così che la Vorta potesse restare in pace. Avevano tutti bisogno di riposo, in vista della prova che li attendeva l’indomani.
 
   Venne l’alba, anche se non c’erano variazioni di luminosità percepibili nella città subacquea. I tre avventurieri lasciarono i loro alloggi e s’incontrarono per la colazione, sempre a base di prodotti marini. Stavolta però anche Talyn e Giely si sforzarono di mangiare, sapendo che dovevano essere in forze per ciò che li aspettava. Infine alcuni Uomini Pesce muniti di tridenti li scortarono al luogo della tenzone.
   Era una delle cupole più grandi della città e al suo interno era organizzata come un vero e proprio stadio. Sull’orlo esterno correvano le tribune, divise in vari livelli, su cui era assiepata un’enorme folla. Probabilmente gran parte della popolazione era radunata lì, per assistere al cimento. Gli Uomini Pesce tuttavia erano calmi e di poche parole, così che non c’erano cori da stadio. Al centro si trovava l’arena: era coperta di sabbia e disseminata da strani crateri, nonché da grandi conchiglie bianche. La delimitava un muro, troppo alto e liscio per essere scalato. Non appena sbucò all’aperto, Rivera spinse lo sguardo in avanti, in cerca del suo oppositore. E lo vide, eccome!
   All’estremità opposta dell’arena c’era un granchio gigante, con l’esoscheletro incrostato di concrezioni marine. Non appena vide i nuovi arrivati dardeggiò minacciosamente le chele smisurate contro di loro. Come accade con certe specie di granchio, una delle chele – in questo caso la destra – era notevolmente più sviluppata dell’altra. Notando il suo robusto esoscheletro, il Capitano deglutì preoccupato. «Ehm, non dovremmo avere qualche arma? Le nostre pistole a raggi, magari?» chiese alle guardie.
   «Potete avere questi» rispose il caposquadra, piantando il tridente nella sabbia, per poi indietreggiare. Altri due sorveglianti lo imitarono.
   «Grandioso» mugugnò Rivera, impugnando il tridente del caposquadra. Le punte erano acuminate, ma difficilmente avrebbero perforato lo spesso esoscheletro del crostaceo. Inoltre il tridente era pesante, oltre che sbilanciato in avanti. Poteva essere impugnato, ma non certo lanciato come un giavellotto. Quindi per colpire il mostro bisognava arrivare a portata delle sue chele.
   «Udite, udite, popolo del Mare!» proclamò il Primo Ministro dalla sua tribuna, posta dietro al granchio. «Il leggendario Capitan Proton e i suoi fidi aiutanti sono qui per reclamare la Pietra dell’Acqua, non per se stessi, ma per nasconderla al perfido Chaotica. Essi tuttavia dovranno conquistarla alla maniera antica, vincendo questa prova di coraggio e saggezza. Che lo Spirito del Mare sia con tutti noi, in questo giorno di tenzone, e guidi la Pietra alla sua giusta collocazione!» auspicò.
   Gli Uomini Pesce applaudirono educatamente; poi il silenzio calò sulla vasta adunata. Toccava agli eroi dello spazio fare la prima mossa.
   «Allora, Capitano, come procediamo?» chiese Talyn, impugnando il suo tridente.
   «Beh, direi che dobbiamo usare questi per uccidere il granchione» rispose l’Umano, soppesando la sua arma.
   «Sì, ma come esattamente?» insisté l’El-Auriano.
   Rivera si grattò dietro l’orecchio, a disagio, e fece una penosa scena muta.
   «Non lo sai?!» esclamò il giovane. «Sei il Game master, dovesti sapere come superare gli ostacoli!».
   «Sono anche un giocatore; non ho voluto rovinarmi tutte le sorprese» si difese il Capitano. «Così non ho letto proprio tutti i dettagli. Tanto in caso di sconfitta avremmo rigiocato la partita...».
   «Già, peccato che non sia più possibile! Se quello ci becca, ci taglia in due!» fece Talyn, indicando il granchio che zampettava avanti e indietro, davanti a uno dei crateri.
   «Ho l’impressione che ci sia qualcosa in quell’avvallamento» disse Giely, che si era spostata a lato di qualche passo per osservare meglio. «Forse la Pietra è lì dentro».
   «Può darsi» disse Talyn, scrutando a sua volta. «In effetti il nostro amico branzino» disse alludendo al Primo Ministro «non ha mai detto che dobbiamo uccidere il bestione. Ha detto solo che dobbiamo conquistare la Pietra “con coraggio e saggezza”. Forse la saggezza consiste nel non uccidere il granchio, quando si può semplicemente aggirarlo. Se noi due lo distraiamo, tu potresti sgusciare fino al cratere...» suggerì.
   «È comunque un piano rischioso» borbottò Rivera. «Se non riusciamo a tenerlo distratto, quello ti ammazza al primo colpo» disse alla Vorta.
   «Non vedo alternative» sospirò Giely. «O uccidiamo la creatura, o la distraiamo. Armati solo di tridenti, non c’è modo di bloccarla...» disse, ma in quella fu distratta da un nuovo fenomeno. Uno dei crateri più vicini si era improvvisamente riempito d’acqua ribollente. Di lì a pochi secondi l’acqua schizzò verso l’alto, formando una colonna di parecchi metri. E ricadde come una doccia calda su tutta l’arena.
   «Un geyser» riconobbe il Capitano. «O piuttosto una fumarola sottomarina, visto che siamo in fondo al mare. Non può essere un caso se l’hanno inclusa nell’arena».
   «Quel getto d’acqua sembrava piuttosto violento» notò Talyn. «Mi chiedo che accadrebbe, se il granchione se lo beccasse in pancia...».
   Per qualche attimo i tre rimasero in silenzio.
   «Pensate anche voi quel che penso io?» chiese infine il giovane.
   «Se stai pensando a quant’è buffo un granchio rovesciato sul dorso, penso proprio di sì» rispose Rivera.
 
   I tre avventurieri si fecero avanti con cautela, sotto gli occhi attenti e vitrei degli Uomini Pesce. Rivera e Talyn impugnavano i tridenti, mentre Giely in quanto medico non brandiva armi. Di conseguenza la Vorta rimase più indietro, lasciando che fossero gli altri a stuzzicare il granchio.
   «Ehi, bestione! Da questa parte!» gridò Rivera, pungolando il crostaceo col tridente. Le punte acuminate scivolarono sull’esoscheletro spesso e duro senza nemmeno graffiarlo. In compenso il granchio si volse e menò un colpo con la chela destra, quella più grossa. Rivera si abbassò svelto, lasciando che dardeggiasse sopra di lui. Poi parò un secondo attacco, sferrato con la chela minore, usando l’asta del tridente. I suoi gomiti si piegarono un poco ed egli scivolò all’indietro sulla sabbia mentre assorbiva l’impatto, ma riuscì a reggersi in piedi. Il granchio aprì e richiuse le chele come fossero tenaglie, pronto a colpire di nuovo.
   «No, di qua!» gridò Talyn, cercando di distrarlo per dare al Capitano un po’ di respiro. Si pose di fianco al crostaceo e lo pungolò tra le zampe, cercando d’infilare il tridente nella giunzione dell’esoscheletro, per arrivare alla carne molle. Non arrecò danni visibili, ma la creatura sentì di certo l’intrusione, perché rispose ancor più prontamente. La sua chela ipertrofica scattò contro il giovane, che la evitò balzando in avanti e facendo una capriola, per poi rialzarsi con prontezza. Prima che il granchio reiterasse l’assalto, Talyn contrattaccò, puntando ai suoi piccoli occhi. Il tridente dardeggiò vicino agli occhietti, senza tuttavia colpirne nessuno.
   Mentre lo scontro entrava nel vivo, e il crostaceo era distratto dal duplice assalto, Giely scivolò silenziosamente alle sue spalle. Si era tolta le scarpe coi tacchi, così da poter correre più velocemente sulla sabbia. Badando a restare dietro al granchio, raggiunse l’orlo del cratere che questi aveva sorvegliato. Come sospettava, non era un altro geyser: sul fondo sabbioso c’era la Pietra dell’Acqua. Purtroppo non era l’unica! Il fondo del cratere era interamente cosparso di pietre identiche, per forma e dimensioni, a quella che cercava. Erano persino tutte incise col simbolo alchemico dell’acqua, un triangolo equilatero rivolto verso il basso. A colpo d’occhio, Giely valutò che fossero una cinquantina: troppe per portarle via tutte, considerando che la schermaglia era ancora in corso.
   «Allora?!» gridò Rivera, schivando a fatica l’ennesimo attacco.
   «Qui ci sono cinquanta pietre identiche! Non riconosco quella giusta!» gridò la Vorta, allontanandosi in tutta fretta. Mentre correva, quasi inciampò in una delle grosse conchiglie che erano disseminate un po’ ovunque. Si chiese se anche quelle avessero uno scopo.
   «Allora dovremo proprio ribaltarlo» disse il Capitano, detergendosi il sudore dalla fronte. Sulle prime era parsa una grande idea, ma ora che stava affrontando il mostro si avvide che non era facile da attuare. I geyser eruttavano a intervalli irregolari, e comunque tra un getto e l’altro passavano parecchi minuti. Quando finalmente un cratere ribolliva, c’erano sì e no trenta secondi prima che partisse il getto: pochi per attirarvi il granchio.
   Rivera non sapeva da quanto stessero lottando, ma di certo cominciava a sentire la stanchezza. I riflessi si appannavano, il corpo non rispondeva con la stessa scioltezza. E i risultati non si fecero attendere. Una chela gli urtò le gambe e, pur senza romperle, lo ribaltò a terra. L’Umano vide il mostro incombere su di lui, pronto a sferrare un colpo letale.
   «NO!» gridò Talyn, frapponendosi. Colpì con la forza della disperazione, riuscendo finalmente a spingere la punta centrale del tridente in una giunzione dell’esoscheletro. Il granchio sobbalzò, punto nella carne viva. Poi entrò in uno stato frenetico, con chele e zampe che si muovevano a velocità mai vista. Anche se non aveva un volto che mostrasse espressioni, era chiaramente arrabbiato. E il bersaglio era l’El-Auriano.
   «Devi prima prendermi, bello!» gridò il giovane. Adocchiato un cratere che ribolliva, vi corse più veloce che poteva, impugnando ancora il tridente. E il crostaceo lo seguì alla stessa velocità, dardeggiando le chele.
   Rimasto più indietro, e impossibilitato a correre così veloce dopo il colpo ricevuto, Rivera poté solo osservare. Vide il granchio sferrare un colpo con la chela ipertrofica e Talyn abbassarsi per evitarlo, senza nemmeno essersi girato. Come faceva a sapere che il colpo era in arrivo? In momenti come quello, l’Umano pensava davvero che l’El-Auriano avesse qualche risorsa ignota agli altri e forse a lui stesso. Una volta Losira aveva cercato di spiegarlo, dicendo che Talyn capiva istintivamente quando e come fare le cose.
   Giunto davanti al cratere ribollente, il giovane non rallentò la corsa, né cercò di aggirarlo. C’era un solo modo d’indurre il granchio a passarci sopra: doveva oltrepassarlo lui stesso. Sapendo di non poter saltare tanto in lungo, usò il tridente come un’asta, per darsi maggior impulso. Lo piantò nella sabbia, vicino all’orlo del cratere, e fece forza con le braccia. Proiettato in avanti, lasciò il tridente mentre superava d’un balzo l’acqua bollente, attraversando il vapore surriscaldato. Atterrò dall’altra parte, rotolò sulla sabbia e si rimise subito in piedi. Continuò a correre, ben consapevole d’essere rimasto disarmato. «Se mi raggiunge ora, sono spacciato» si disse.
   Inseguendo la sua preda con cieca irruenza, il crostaceo passò sopra al cratere, sciaguattando nell’acqua bollente. La spessa corazza lo proteggeva dal calore e del resto avrebbe impiegato pochi secondi a passare oltre. Ma quei pochi secondi gli furono fatali. Perché mentre si trovava a mollo nel geyser, quello eruttò con tale violenza da sollevare il suo corpo pesantissimo. Gli schizzi d’acqua bollente giunsero ovunque nell’arena e persino tra il pubblico, che rumoreggiò. Quando il vapore si fu diradato, tutti videro che il granchio gigante era accanto al cratere, rovesciato sul dorso. Era quasi buffo a vedersi: le zampette si agitavano frenetiche e le chele schioccavano in aria, ma il crostaceo non aveva modo di rimettersi dritto. Era troppo pesante e il suo esoscheletro incrostato aveva il dorso troppo piatto. A quella vista, uno strano silenzio calò sull’arena.
 
   Rivera osservò la folla taciturna, con la sensazione che la prova non fosse ancora terminata. Si affrettò da Talyn, con passo un po’ zoppicante e usando il tridente a mo’ di bastone. «Stai bene?» volle sapere.
   «A meraviglia. E tu, Capitano?» chiese il giovane.
   «Un po’ acciaccato, ma passerà» disse l’Umano, massaggiandosi una gamba. «Mi chiedo cosa stiano ancora aspettando quei branzini» disse, alludendo agli spettatori.
   «Aspettano che prendiamo la Pietra» rispose Giely. Se ne stava in piedi sull’orlo del cratere, lo sguardo fisso alla moltitudine di rocce identiche. «Quella giusta, intendo. Dobbiamo capire come riconoscerla fra le tante» precisò.
   «Oh, no» fece Rivera. Lui e Talyn raggiunsero la collega e ficcarono lo sguardo nel cratere, constatando il problema.  Il Capitano scese nell’avvallamento, per osservare le pietre più da vicino. Arrivò a tastarle e soppesarle, per capire se c’erano differenze. «Niente, anche il peso è identico» disse mentre risaliva. «Avete qualche idea?».
   «La mia sapienza termina qui» ironizzò Talyn, seduto sull’orlo del cratere.
   Giely non rispose subito, ma si guardò attorno. Se in quell’arena vi erano i geyser per sconfiggere il crostaceo, forse c’era qualcosa’altro che poteva aiutarli in quel frangente. Non ci volle molto perché il suo sguardo cadesse sulle conchiglie bianche. Erano simili a quelle che gli Uomini Pesce avevano suonato durante il banchetto della sera prima. La Vorta ne raccolse una, per esaminarla, e notò il foro all’estremità che permetteva di suonarla come uno strumento.
   «Hai trovato qualcosa?» chiese Talyn, vedendola assorta.
   «Forse» rispose la Vorta. Tornò presso il cratere e vi discese a sua volta. Preso un gran respiro, si portò la conchiglia alle labbra e vi soffiò a pieni polmoni, traendone un suono basso e prolungato. Allora vide che, tra tutte le pietre che l’attorniavano, una sola splendeva di bianco. La luce vorticava al suo interno, come un liquido. Il fenomeno durò solo quanto il suono della conchiglia; poi la pietra tornò grigia. Ma Giely l’aveva adocchiata e si recò subito a raccoglierla. Risalì all’esterno del cratere con la pietra sottobraccio, aiutata da Rivera che le porse la mano. Infine alzò la reliquia, mostrandola al pubblico; solo allora gli Uomini Pesce proruppero in applausi.
   «Ben fatto, eroi dello spazio! La Pietra dell’Acqua è ora affidata alla vostra custodia!» proclamò il Primo Ministro dall’alto della sua tribuna.
   I tre avventurieri, ancora nell’arena, si godettero il momento di trionfo. «Hai visto giusto con la musica» si congratulò Rivera. «Lo dicevo che te la saresti cavata a meraviglia in questo gioco» ammiccò.
   «Come se avessi alternativa! Se voglio tornare sulla Destiny, che è un tantino più confortevole del Rocketeer, dobbiamo arrivare in fondo» ribatté Giely, senza tuttavia trattenere il sorriso. «E poi c’è quella sciocchezzuola di fermare Chaotica...» gli ricordò.
   «Questo sarà facile, ora che abbiamo una Pietra» garantì Rivera, accennando al prezioso oggetto, ancora in mano a Giely. D’un tratto però la sua sicurezza svanì, trasformandosi in una smorfia d’orrore.
   Sorpresi, Talyn e Giely seguirono il suo sguardo, risalendo oltre le tribune, fino alla parete semitrasparente della cupola. Una minacciosa sagoma scura si stava delineando all’esterno. Qualcosa si avvicinava, e in fretta. Qualcosa di oblungo, come... una nave a razzo.
   Prima che gli avventurieri potessero reagire, lo scafo corazzato impattò contro la cupola, trapassandola. Ci fu uno schianto assordante e frammenti di cristallo schizzarono ovunque, ferendo la folla terrorizzata. Dopo i cocci venne l’acqua, sotto forma di un getto gelido e continuo, che s’incanalava tra lo squarcio nella cupola e lo scafo dell’astronave. Questa venne avanti, schiacciando una porzione delle tribune, e poi si arrestò col muso nella sabbia dell’arena. Scioccato, il Capitano riconobbe il blasone quadripartito, pieno di stelle e saette, impresso sullo scafo. Era l’emblema di Chaotica.
 
   «Le Forze del Male ci assalgono! Alle armi, alle armi!» tuonò Scorfanus, tra il fuggi-fuggi dei civili e le guardie che accorrevano.
   «E con cosa dovrei combattere, con questo?!» sbottò Rivera, brandendo il tridente. Le truppe di Chaotica non erano delle più pericolose, ma avevano pur sempre armi a raggi. Lui e Talyn non potevano affrontarle con quegli strumenti antidiluviani. Il Capitano guardò l’ingresso dell’arena, ma lo vide ancora chiuso. E il nemico stava arrivando.
   Un portellone si aprì sul fianco della nave a razzo, vomitando gli sgherri di Chaotica. Indossavano tute a calzamaglia, con grossi guanti e stivaloni, oltre a inutili mantelli scuri che erano solo d’intralcio. I loro volti erano nascosti dai passamontagna, mentre l’unica vera protezione erano gli elmi di latta. Somigliavano più che altro a bambinoni che si fossero malamente addobbati per Carnevale. Ma vedendoli estrarre le pistole a raggi, e sentendosi ronzare attorno i loro colpi, Rivera capì che era meglio filarsela. «Se solo avessi la pistola a raggi, o meglio ancora un phaser, stenderei quegli spaventapasseri in pochi secondi!» si disse. Così invece non restava che la fuga.
   «Di qua!» gridò il Capitano ai compagni, facendo segno di nascondersi con lui dietro al granchio rovesciato. Non potevano celarsi nei crateri, pur sempre colmi d’acqua bollente, né abbandonare l’arena, per cui quello era l’unico rifugio. Mentre correvano, i raggi nemici piovvero tutt’intorno a loro, senza mai colpirli. In decine di puntate, Rivera non aveva mai visto un soldato di Chaotica mettere un colpo a segno.
   «Ah, il grande Capitan Proton fugge davanti a me!» esultò Lonzak, uscendo tutto tronfio dall’astronave. Il capo delle guardie indossava la solita tenuta tutta borchie e orpelli, con l’enorme elmo conico. Impugnò la pistola a raggi e fece fuoco, mancando come al solito il bersaglio.
   Gli avventurieri si nascosero dietro al crostaceo rovesciato, badando a rimanere fuori dalla sua portata. Rivera e Talyn impugnavano ancora i tridenti, mentre Giely custodiva la Pietra. «Come si suppone che ne usciamo?!» sbuffò l’El-Auriano.
   «Qualcosa non va. Quegli spaventapasseri dovevano arrivare più tardi, dopo che gli Uomini Pesce ci avessero reso le pistole a raggi» ansimò Rivera. «Mi sa che ormai i tempi narrativi sono sballati».
   «Quindi che facciamo?!» insisté il giovane, ma il Capitano non sapeva cosa rispondere. Erano intrappolati in un’arena che si stava rapidamente allagando, senza valide armi per opporsi agli assalitori.
   «Mi senti, Proton? Sono qui per distruggerti!» tuonò Lonzak, la voce sempre più vicina. Stava per sbucare su un lato del loro nascondiglio. E con ogni probabilità una seconda squadra sarebbe giunta dall’altra parte, intrappolandoli nel mezzo.
   A quel punto Rivera esaurì l’ultimo briciolo di pazienza. Dopo essere sopravvissuto a vere minacce dello spazio, e persino d’altre dimensioni, non intendeva farsi spacciare da quel buffone di Lonzak con la sua banda di teppisti. Così, nell’attimo in cui il grassone entrò nel suo campo visivo, lo attaccò. Con un colpo di tridente gli sbalzò di mano la pistola a raggi e con un altro lo falciò all’altezza delle ginocchia, facendolo cadere malamente al suolo. Infine gli puntò il tridente alla gola. Tutto sotto gli occhi degli scagnozzi, che come da copione se ne stavano impalati.
   «Gettate le armi, o lo infilzo come un porco!» ordinò il Capitano, vedendo finalmente un modo per procurarsi qualche pistola a raggi.
   «Fate come dice» ansimò Lonzak, sorpreso da quel feroce attacco. L’assurdo elmo conico gli si era slacciato ed era rotolato via, scoprendogli il testone calvo. Con gli occhi strabuzzati e l’espressione impaurita, il capo delle guardie era alquanto buffo; ma Rivera non era in vena di risate.
   In quella un acuto strillo alle sue spalle – il grido di Giely – lo costrinse a voltarsi. Le truppe di Chaotica li avevano davvero accerchiati, ma sull’altro lato non c’erano i tirapiedi in calzamaglia. No, davanti a loro si stagliava la più terribile creazione di Chaotica, il Robot Satanico! L’automa cilindrico avanzò col suo passo dondolante, tendendo le braccia telescopiche e ripetendo meccanicamente le sue istruzioni: «REPERIRE LE PIETRE... DISTRUGGERE CAPITAN PROTON!». E il suo bersaglio più vicino era Giely, che custodiva ancora la Pietra dell’Acqua.
   La Vorta cercò d’arretrare, ma non aveva molto spazio, schiacciata com’era fra il robot e i compagni. Per un attimo incespicò, investita dal flusso d’acqua marina che sgorgava dalla falla nella cupola. Mischiandosi alla sabbia dell’arena, l’acqua stava creando una fanghiglia in cui era difficile muoversi. E mentre Giely era impantanata, il Robot Satanico la colpì rudemente con una mano a tenaglia, gettandola al suolo stordita. La Pietra dell’Acqua rotolò a terra, perdendosi nella melma.
   «NO!» gridò Rivera, ritirando il tridente con cui stava minacciando Lonzak. Sia lui che Talyn colpirono ripetutamente l’automa, ma i loro tridenti si spuntarono contro la sua corazza metallica.
   Per nulla infastidito dai colpi, il Robot Satanico si chinò con strana delicatezza a raccogliere Giely, ancora priva di sensi. Per un attimo stette immobile, reggendo la fanciulla svenuta tra le braccia meccaniche, in una perfetta posa da copertina. Poi si girò e tornò verso la nave a razzo, portando con sé il prezioso ostaggio. Con il suo gran peso e il baricentro basso, l’automa fendette l’acqua sempre più alta.
   «No, no!» gemette Rivera, arrancando per seguirlo, ma l’onda incalzante lo gettò all’indietro.
   «Dobbiamo andarcene, Capitano!» lo esortò Talyn, vedendo che la porta dell’arena si era finalmente spalancata, offrendo una via di fuga. Poiché il superiore non lo ascoltava, lo prese per un braccio e lo tirò indietro. «I nemici sono troppi, non possiamo affrontarli!» gli gridò nell’orecchio, cercando di farlo ragionare.
   Liberato dalla minaccia del tridente, Lonzak si rialzò goffamente, mentre altri sgherri giungevano a dargli manforte. I loro raggi balenarono attorno ai due avventurieri, rigorosamente senza colpirli.
   «La Pietra!» gemette Lonzak, rovistando affannosamente nel fango. Somigliava a un grande e lustro maiale che frugasse nel trogolo. Poi si rialzò, con aria di trionfo, ed ecco! La Pietra dell’Acqua era davvero in mano sua. «Hai visto, Proton? I buoni come te arrivano sempre ultimi!» si gloriò.
   «Lascia che ti metta le mani addosso, e vedrai quanto sono buono!» schiumò il Capitano, arrancando nell’acqua che ormai gli arrivava alla vita. Ma la forte corrente lo respinse e anche Talyn lo trascinò indietro, verso l’uscita, per proteggerlo. L’ultima immagine che Rivera ebbe dell’arena gli s’impresse nella memoria. Il Robot Satanico rientrava nella nave a razzo con Giely svenuta tra le braccia, molle come una bambola di pezza. Lonzak e i suoi scagnozzi a loro volta fendevano la corrente per rientrare nell’astronave. Alcuni tirapiedi furono trascinati via e sommersi, ma Lonzak con un grosso sforzo riuscì a issarsi, recando con sé la Pietra, e richiuse il portello senza curarsi di far risalire tutti i suoi sgherri. La nave a razzo riaccese subito i motori, cercando di disincagliarsi.
   In quella il portone dell’arena si richiuse, arginando l’inondazione. Rivera e Talyn si trovarono nell’anticamera, entrambi esausti, fradici e intirizziti. Avevano perso la Pietra dell’Acqua, contrariamente a quanto prometteva la trama. Ma soprattutto avevano perso Giely, dopo averla coinvolta in quel gioco sfuggito di mano; e questo non se lo sarebbero mai perdonati.
 
   «Che ne è dell’astronave nemica?!» chiese il Capitano, entrando di prepotenza nella sala del consiglio degli Uomini Pesce. Il Primo Ministro era lì, a confabulare con i suoi più stretti collaboratori.
   «Sfortunatamente sono riusciti a disincagliarsi» rispose Scorfanus, guardandolo con gli occhioni vitrei. «La nave a razzo è risalita in superficie, riuscendo a decollare. In questo momento sta lasciando l’atmosfera».
   «Beh, inseguitela!» esortò Rivera.
   «I nostri sottomarini non sono fatti per avventurarsi nello spazio» spiegò il Primo Ministro. «Dovrete inseguire i fuggitivi con la vostra navicella».
   «Potete prestarci alcuni armati, per equilibrare il prossimo scontro?».
   «Temo di no» rispose Scorfanus in tono fatalista. «Avete superato la prova, divenendo i nuovi custodi della Pietra. Dunque spetta a voi recuperarla. Noi non possiamo più interferire».
   «Bel modo di lavarsene le mani! Pregate che Chaotica non raduni tutte le Pietre, o ne pagherete anche voi le conseguenze!» disse il Capitano con asprezza.
   «Potete almeno renderci le pistole a raggi?» chiese Talyn, più diplomatico.
   «Certamente» annuì Scorfanus. Al suo gesto due guardie restituirono le armi ai loro proprietari. «Andate, con le nostre benedizioni. Possiate ritrovare la sacra Pietra... e la vostra compagna» augurò il Primo Ministro.
   «Al diavolo la Pietra» borbottò Rivera. Lui e Talyn lasciarono di corsa il salone, affrettandosi all’attracco del Rocketeer. La fedele nave a razzo era lì ad attenderli; gli Uomini Pesce l’avevano rifornita d’acqua potabile e viveri. Gli avventurieri partirono in tutta fretta, abbandonando per sempre la città subacquea e i suoi abitanti.
 
   Il Rocketeer emerse dall’oceano globale in corrispondenza di un grosso squarcio nella crosta ghiacciata, probabilmente lo stesso aperto dal nemico per passare. Il Capitano effettuò il decollo più rapido che avesse mai fatto, portando la navicella in orbita nel giro di pochissimi minuti. «Cerca la nave!» ordinò a Talyn.
   L’El-Auriano scannerizzò l’orbita, invano. «È inutile, se ne sono andati» disse a mezza voce.
   «Cornudos cabrones!» imprecò Rivera, dando un violento pugno sulla consolle. Poi si prese la testa fra le mani, imponendosi la calma. Proprio in quanto la situazione era critica, non doveva perdere il controllo. Doveva comportarsi come Capitan Proton, che era sempre padrone di sé, per quanto disperate fossero le circostanze.
   «Okay, pianifichiamo la prossima mossa» disse l’Umano. «Diamo per scontato che si è già manifestato il principio d’indeterminazione, per cui i personaggi non agiscono più secondo la trama. Tuttavia devono comunque seguire un filo logico nelle loro azioni. Chaotica vuol raccogliere le Pietre il prima possibile, quindi avrà ordinato a Lonzak di completare il giro, prima di tornare da lui. Vale a dire che se lo raggiungiamo in una delle due tappe rimanenti, potremmo recuperare Giely».
   «Dobbiamo anche pensare alle Pietre» gli ricordò Talyn. «A quest’ora dovevamo avere quella dell’Acqua, invece l’abbiamo persa. Se ci facciamo sfuggire anche le prossime, Chaotica completerà la superarma. E allora terrà in scacco interi pianeti».
   «Stai dicendo che dovremmo scordare Giely per concentrarci sulle Pietre?» si accigliò Rivera.
   «Beh, detto così è brutto, ma ragionando secondo logica... sai, il bene dei molti...» mormorò l’El-Auriano.
   «Non ho scordato la posta in gioco» garantì il Capitano. «L’ideale sarebbe riunirci alla Destiny, per contare sulle sue risorse. Ma se i nostri colleghi non si fanno vivi, non possiamo perdere tempo a cercarli. Quindi andremo subito a Borea, dove gli Uomini Falco custodiscono la Pietra dell’Aria. E stavolta non perderemo tempo in buffonate!» disse truce, mentre impostava le coordinate di destinazione. «C’impadroniremo subito della reliquia, che i falchetti lo vogliano o no. Poi la scambieremo con Giely, avendo cura di rifilare a Lonzak un’imitazione della Pietra. Infine distruggeremo quella vera, per accertarci che Chaotica non completi mai la superarma».
   «Detto così, fila liscio» commentò Talyn. «Certo che abbiamo già incontrato più colpi di scena del previsto...».
   «Perché ci siamo sforzati di seguire la trama, illudendoci che questo bastasse a sistemare tutto. Un errore che non ripeteremo. Se quei buffoni in calzamaglia hanno cominciato a pensare in modo creativo, noi non saremo da meno!» promise Rivera. Le sue mani corsero sul quadro comandi, attivando il motore iper-atomico. E il Rocketeer lasciò l’orbita del pianeta ghiacciato, diretto verso il mondo degli Uomini Falco.
 
   Furono le vibrazioni a svegliare Giely. Continue, fastidiose vibrazioni che le riverberavano nel cervello, interferendo col sonno.
   «Ooohhh...» gemette la Vorta, sfregandosi gli occhi. Per un attimo pensò di aver appena fatto il più bizzarro dei sogni: un’avventura in bianco e nero. Chissà cosa significava a livello inconscio. Poi aprì gli occhi, trovandosi di fronte il Robot Satanico e Lonzak coi suoi sgherri in calzamaglia, e capì che non se li era sognati. Si guardò affannosamente attorno, scoprendo d’essere nella carlinga – piuttosto spoglia – di una nave a razzo. Attraverso un oblò imbullonato si vedeva lo spazio: le stelle correvano, segno che l’astronave viaggiava a velocità iperluce. Ecco cos’erano quelle persistenti vibrazioni: il ruggito di un motore iper-atomico uscito da un programma olografico, e prima ancora da una rivista pulp.
   «Ben svegliata, Biancaneve!» sghignazzò Lonzak. «Sei contenta di vedere il tuo principe?» aggiunse, alludendo a se stesso.
   «Non conosco nessuna Biancaneve» mormorò la Vorta, ancora confusa. Cercò d’alzarsi, ma scoprì che l’avevano incatenata a un anello metallico infisso nella paratia.
   «Ah, allora sai parlare! Credevo che ti limitassi a strillare!» la derise il cattivone. «Tranquilla, qui nessuno oserà toccarti. Sua Maestà Chaotica, Dominatore del Cosmo, ti vuole per sacrificarti ad Arachnia. O forse per aggiungerti al suo harem, non so. Credo che nemmeno lui abbia ancora deciso» infierì. «Per il tuo bene, ti consiglio di portargli rispetto quando lo incontrerai. Sai, presto sarà davvero il padrone incontrastato del cosmo... non appena avrà ultimato la superarma e ridotto al silenzio voi Terrestri!».
   «Io non sono una...» cominciò Giely, bloccandosi a metà frase. Stava per dire “non sono una Terrestre”, ma sarebbe stato un grave errore. La sua sopravvivenza immediata dipendeva dal fatto che quei bischeri la credessero Constance Goodheart, Umana della Terra. Se scoprivano che non lo era...
   Istintivamente la Vorta si portò le mani ai capelli, per accertarsi che la fluente parrucca bionda fosse ancora al suo posto. Se i carcerieri avessero visto che aveva i capelli corti e neri, o peggio ancora se avessero notato le sue orecchie zigrinate, addio copertura! Fortunatamente la parrucca era in ordine.
   «Non sei cosa?» volle sapere Lonzak, divertito.
   «Io, ehm, non sarò a lungo vostra prigioniera. Capitan Proton verrà a salvarmi, come le altre volte!» sostenne Giely, provando a recitare il ruolo di Constance.
   «Ah, ah! Il tuo bellimbusto e il suo tirapiedi sono fuggiti senza nemmeno provare a salvarti. Forse non gli stai a cuore come credi!» rise l’omaccione.
   Quelle parole giunsero a bersaglio ancor più del previsto. Giely era svenuta prima d’assistere alle ultime fasi dello scontro, quindi non sapeva come fossero andate le cose. Era possibile che Rivera e Talyn fossero fuggiti senza cercare di salvarla? In fondo, ora che la Destiny aveva un Medico Olografico lei non era più così necessaria. Per la povera Vorta, che non era mai stata a cuore a nessuno, era fin troppo facile immaginare che gli avventurieri l’avessero abbandonata. Poi però ricordò l’ultima chiacchierata con Rivera, quando lui le aveva fatto intendere di valorizzarla eccome.
   «No, stai mentendo!» disse Giely, scacciando il sospetto. «Hai sempre temuto Proton. Anche oggi avevi paura, te l’ho visto negli occhi. Non saresti nemmeno riuscito a catturarmi, se non fosse stato per questo bidone dell’immondizia» disse, dando una manata sul Robot Satanico. Lo sentì rimbombare, come se fosse in gran parte vuoto.
   «Taci, insolente!» sbottò Lonzak. Fu sul punto di colpirla con un ceffone, ma si trattenne per timore della reazione di Chaotica, qualora la prigioniera gli fosse giunta in cattivo stato. «Comunque tutto questo non ha importanza. Presto il mio signore e io completeremo la superarma e ridurremo il tuo eroe in polvere spaziale!» minacciò.
   «Perché credi che stavolta ci riuscirete, quando vi ha già sconfitti tante volte?» chiese la Vorta, cercando di farsi svelare il loro piano.
   «Oh-oh, perché stavolta siamo in vantaggio!» gongolò il capo delle guardie. «Il tuo bellimbusto è da solo, come al solito, mentre noi siamo in molti. Qual è il senso di una Forza Spaziale, se poi non la si usa?» chiese retoricamente, indicando l’oblò.
   Giely vi si accostò, per quanto glielo permettevano le catene, e guardò fuori. C’erano altre due navi a razzo di Chaotica che viaggiavano in formazione con loro, e non era da escludere che ve ne fossero altre ancora sul lato opposto. Dunque Lonzak aveva forze sufficienti per recuperare contemporaneamente le ultime due Pietre, quella dell’Aria e del Fuoco. Il Rocketeer poteva raggiungerne solo una in tempo utile, e comunque sarebbe stato sopraffatto dalla potenza di fuoco nemica.
   Vedendo l’afflizione della prigioniera, Lonzak scoppiò in una risata malvagia e anche i suoi scagnozzi si unirono alla cagnara. Persino il Robot Satanico eruppe in un riso meccanico, misto a suoni elettronici. Giely si chiese se era mai possibile che quei fenomeni da baraccone riuscissero a prevalere, uccidendo i suoi compagni e devastando i popoli dello Spazio Fotonico. In quel momento d’angoscia, la Vorta fece una cosa che aveva appreso dagli Umani: decise di credere, contro ogni logica, che ci fosse una via di scampo. 

 

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Capitolo 5
*** Sfida nei cieli ***


-Capitolo 4: Sfida nei cieli
 
   Il pianeta Borea campeggiò sull’immagizzatore del Rocketeer, con le sue aspre catene montuose dalle cime innevate e le praterie spazzate dal vento. Aumentando la risoluzione dell’immagine, Talyn constatò che i radi alberi – dai tronchi nodosi e lo scarso fogliame – crescevano tutti piegati nella stessa direzione, a causa delle continue folate.
   «Dove scendiamo, Capitano?» chiese il giovane.
   «Questa è facile» rispose Rivera. «Cerca la montagna più alta del pianeta. È il santuario in cui gli Uomini Falco custodiscono la Pietra dell’Aria».
   Detto fatto, l’El-Auriano localizzò la montagna e indicò le coordinate all’Umano, che diresse il Rocketeer nell’atmosfera turbinosa. Ben presto s’immersero in alcune nubi d’alta quota, trovandosi come nella nebbia; la navicella tremava per le turbolenze atmosferiche.
   «Non mi piace... la visibilità continua a calare» mormorò il Capitano, gli occhi fissi all’immagizzatore. «Attivo i fari». I fasci di luce perforarono la foschia, rivelando una parete rocciosa proprio davanti a loro.
   «Cabra! Cabra!» gridò Talyn, vedendosi già spiaccicato.
   Senza perdere il sangue freddo, Rivera impresse una brusca cabrata al Rocketeer, risalendo la parete rocciosa per centinaia di metri, fino alla sommità. Qui, al di sopra delle nubi, il palazzo degli Uomini Falco scintillava argenteo alla luce del sole. Era una struttura aggraziata, ricca di torri slanciate e di piattaforme vertiginosamente sospese sul vuoto. Le mura esterne erano abbarbicate sul cocuzzolo della montagna; più giù le pareti rocciose scendevano precipiti, perdendosi nelle nubi. Aguzzando la vista, Talyn scorse dei volatili che si dirigevano verso di loro. «Occhio, pennuti a ore dodici» avvertì.
   «Ah ah, quelli non sono dei rapaci qualunque!» rise il Capitano, riducendo la velocità. «Sono i padroni di casa che ci vengono incontro».
   Man mano che si avvicinavano, Talyn poté constatare che il superiore aveva ragione. Erano proprio gli Uomini Falco, simili ad antichi guerrieri barbari, dal fisico possente e le folte chiome. Vestivano semplici corazze di cuoio, con pochi elementi metallici, forse per non appesantirsi troppo. Per la maggior parte erano a torso nudo, o con semplici dischi di metallo sospesi con cinghie a protezione del cuore, per non interferire col volo. Essi infatti si sostenevano in aria con le loro ali, che fuoriuscivano dalla schiena all’altezza delle scapole. Erano grandi e robuste ali, simili a quelle dei rapaci. Gli Uomini Falco le sbattevano lentamente, affidandosi al vento per planare su lunghi tratti, così da risparmiare le forze.
   «Che facciamo col comitato di benvenuto?» chiese Talyn, innervosito.
   «Ah, non c’è molto da fare. Riduco la velocità e cerco di non spiaccicarne nessuno» disse Rivera, azionando i comandi. Scese alla velocità minima, lasciando che gli Uomini Falco circondassero il Rocketeer su ambo i lati (e anche sopra e sotto). Così attorniato, si lasciò scortare verso la più grande piattaforma del palazzo, uno spiazzo circolare del tutto sgombro. E qui atterrò, mentre anche i padroni di casa si posavano con agilità, circondando la navicella.
   «Che tipi sono questi Uomini Falco?» chiese Talyn, preparandosi al confronto.
   «Oh, sono perlopiù brava gente. Forti, arditi, magari un po’ suscettibili. Attento a non dire qualcosa che potrebbe suonare offensivo, come sminuire le loro abilità o mettere in dubbio il loro coraggio» raccomandò il Capitano. Così dicendo lasciò i comandi, ma anziché recarsi al portello andò a frugare in un ripostiglio.
   «Ehm, che stai cercando?».
   «Questo!» fece Rivera, estraendo qualcosa d’ingombrante e voltandosi con aria teatrale per mostrarlo.
   Talyn sgranò gli occhi: davanti a lui c’era lo zaino a razzo di Capitan Proton, il più iconico dei suoi gadget. In parecchie avventure sul ponte ologrammi gli aveva permesso di salvare la giornata. Ma lì nello Spazio Fotonico, senza protocolli di sicurezza, il giovane rabbrividì. «Ti prego, dimmi che non hai intenzione di mettertelo in spalla e spiccare il volo. Otterresti solo di romperti la testa» avvertì.
   «Spero vivamente di non doverlo accendere» convenne Rivera, mentre lo indossava. «Ouch, è più pesante di come lo ricordavo. Dicevo, spero di non doverlo usare... ma devo mostrarlo agli Uomini Falco, per impressionarli. Se non vedono che posso volare come loro, non mi rispetteranno tanto da affidarmi la Pietra» spiegò.
   «E io, non devo impressionarli?» chiese Talyn, aiutandolo ad allacciare le cinghie.
   «Io sono Capitan Proton, tu sei...».
   «... solo Buster Kincaid. Okay, ho capito!» sbuffò il giovane. Indietreggiò di un passo e lo osservò, per sincerarsi che lo zaino fosse ben assicurato. «Allora, come li convinciamo a sganciare la Pietra?» chiese.
   «Con le buone o con le cattive!» ringhiò Rivera, che dalla perdita di Giely era diventato assai meno paziente. Si calò gli occhialoni da aviatore, impugnò la pistola a raggi – imitato da Talyn – e aprì il portello. I due uomini dello spazio si avventurarono all’esterno, sulla piattaforma d’atterraggio. Furono accolti da un ventaccio gelido, che tagliava la faccia e mozzava il fiato. Gli Uomini Falco erano schierati tutt’intorno a loro, immobili e silenziosi. Li tenevano sotto tiro con archi e frecce, pronti a scoccare a un ordine del loro leader.
   E il leader si fece avanti: era un giovane muscoloso con solo un accenno di barba, i capelli biondi e lo sguardo di ghiaccio. Come molti suoi guerrieri aveva un disco metallico sospeso con cinghie incrociate a protezione del petto; la sua arma era una spada ricurva. «Sono il principe Griffin, figlio di re Falcon!» si presentò con voce stentorea, per farsi udire sopra l’ululato del vento. «Chi siete e cosa vi porta qui?».
   «Sono Capitan Proton e questo è il mio amico Buster Kincaid» rispose Rivera. «Siamo qui perché la Pietra della Terra e quella dell’Acqua sono cadute in mano al dottor Chaotica. Dobbiamo prendere quella dell’Aria, finché siamo in tempo».
   «Avete già affrontato gli sgherri di Chaotica?» volle sapere Griffin.
   «Beh sì, entrambe le volte» ammise il Capitano.
   «Quindi vi siete fatti sfuggire già due Pietre, e ora volete che vi cediamo anche la terza!» obiettò il principe. «Cosa vi fa credere che stavolta avrete più fortuna?».
   «Le altre due Pietre sono state prese perché Chaotica sapeva dove cercarle!» obiettò Rivera. «Ora le sue truppe stanno arrivando qui. Se la trovano, vi schiacceranno per prenderla. Se invece ci permettete di portarla via e nasconderla...».
   «... ci schiacceranno comunque, per farsi dire dove si trova!» terminò Griffin. «O forse saremo noi a conciarli per le feste; nel qual caso è meglio che la Pietra resti qui!» aggiunse, suscitando il grido d’approvazione dei suoi uomini.
   «Principe, non abbiamo tempo di discutere!» disse Rivera, impaziente. Voleva conquistare la Pietra subito, prima che il nemico gli soffiasse anche quella; così l’avrebbe scambiata con Giely. Si guardò attorno, valutando la pericolosità degli Uomini Falco, e per un folle attimo pensò di farsi strada sparando fino alla reliquia. Certo, avrebbe dovuto accoppare parecchi di quei gallinacci; ma che importava? Non erano più reali dei personaggi su un ponte ologrammi... oppure sì? Ora che lo Spazio Fotonico gli aveva dato vita propria, forse andavano considerati come esseri senzienti, pensò l’Umano con un fremito. E comunque affrontarne così tanti era un grosso rischio, sia per lui che per Talyn. Dopo il primo colpo rischiavano di farsi crivellare di frecce. No, anche stavolta bisognava giocare secondo le regole. «Se c’è qualche prova da superare, per dimostrarci meritevoli di custodire la Pietra, siamo pronti a sostenerla» disse il Capitano, infoderando la pistola a raggi. «Però facciamolo subito, senza tergiversare!» raccomandò.
   «Se hai tanta fretta, Capitan Proton, ti accontento volentieri» disse il principe con un sorriso sinistro. «Venite, tu e il tuo aiutante. La prova avrà luogo nella Sala degli Anziani».
 
   Gli avventurieri furono disarmati e condotti all’interno del palazzo, dove almeno erano risparmiati dalle gelide folate di vento. Gli Uomini Falco li scortarono per lunghi corridoi; i loro passi sincronizzati risuonavano sul pavimento metallico.
   Giunsero infine nella Sala degli Anziani, imponente seppur spartana. Era illuminata da grandi finestroni ogivali, fortunatamente chiusi da vetrate. Le pareti erano adorne d’armi e strumenti di caccia. Su uno scranno sedeva il vecchio re Falcon, dalla testa canuta e le ali ormai inabili al volo. Accanto a lui vi era la sua figlia più giovane, la principessa Poiana. Li circondavano consiglieri e dignitari, assisi su seggi minori. Ma ciò che attirò l’attenzione degli avventurieri fu la Pietra dell’Aria, custodita in un’alcova della parete. Per la precisione l’alcova non era altro che la bocca di un mascherone di pietra, che fissava torvo i visitatori, come sfidandoli a prendere la reliquia.
   «Padre, ti presento Capitan Proton e Buster Kincaid, campioni della Terra, giunti qui per reclamare la Pietra dell’Aria!» annunciò Griffin. «Essi affermano inoltre che le forze di Chaotica potrebbero attaccarci in ogni momento, per lo stesso motivo».
   «Chaotica vuol derubarvi; io invece chiedo d’affrontare la prova per conquistare legittimamente la Pietra» precisò Rivera.
   «Il nome di Capitan Proton è conosciuto e stimato in tutto il cosmo!» disse il sovrano. «I nostri menestrelli cantano le tue imprese. Sii il benvenuto, Difensore della Terra! E benvenuto anche a te, giovane Buster».
   Talyn alzò gli occhi, stufo d’essere sempre visto come un’appendice del Capitano, ma non osò protestare. Con la vita di Giely in pericolo, non era il momento di badare all’orgoglio.
   «I miei rispetti, sire» disse Rivera. «Finora il tempo ha favorito Chaotica, per cui chiedo di sottopormi immediatamente alla prova».
   «Così sia!» annuì il re, alzandosi dallo scranno. «Sappi però che noi Uomini Falco non siamo come i nostri cugini d’altri mondi. Non ci nascondiamo dietro a mostri, come granchi o serpenti giganti. No, siamo solo noi a combattere le nostre battaglie! E quindi chi è il campione che si offre per disputarti la Pietra?!» chiese con voce stentorea, rivolgendosi ai suoi combattenti.
   «Io mi offro, padre!» rispose Griffin, prima che potesse farlo qualcun altro. Andò a rapidi passi davanti a lui e s’inginocchiò, con la spada sguainata volta a terra e l’espressione orgogliosa.
   «Come temevo» mormorò il vecchio re, per nulla contento. «Ebbene alzati, campione di Borea. Quanto a te, campione della Terra» si rivolse a Rivera «sappi che dovrete sostenere un duello mortale, sebbene il vincitore abbia facoltà di risparmiare lo sconfitto, se lo desidera».
   «Io non lo desidero!» annunciò subito Griffin, alzandosi per fronteggiare l’avversario. «Il tuo nome sarà anche famoso in tutto il cosmo, ma non ho alcuna simpatia per te, che vieni a reclamare la nostra sacra reliquia».
   «Io invece non ho mai udito di grandi gesta da parte tua» ribatté il Capitano. «Forse speri di metterti in mostra con questo duello. Ma non è coraggio, bensì orgoglio; specie nel momento in cui dovremmo allearci contro Chaotica» disse seccamente.
   «Non accetto lezioni da uno straniero!» sbottò il principe, sempre più incollerito. «Prendi le armi e battiamoci!» lo esortò. Sebbene brandisse già la sua spada ricurva, si fece consegnare anche una frusta, che per il momento tenne legata in cintura.
   «Sicuro di voler tenere quella mezza montagna sulla schiena?» bisbigliò Talyn all’orecchio di Rivera, alludendo allo zaino a razzo.
   Il Capitano ci rifletté un attimo. Lo zaino era davvero pesante, per cui in duello lo avrebbe gravemente impacciato. E non vedeva alcun vantaggio che compensasse l’intralcio. A che gli serviva spiccare un breve volo, se tanto doveva battersi all’interno di quel salone? Avrebbe solo rischiato di sfracellarsi contro il soffitto o le pareti. «Ma sì, al diavolo!» convenne, slacciandosi il pesante arnese. Ora che era più libero nei movimenti, prese una spada offertagli da un Uomo Falco. Accettò anche la frusta, per ora agganciandola in cintura come aveva fatto il suo avversario.
   «Campioni, recatevi al centro del salone. Tutti gli altri stiano indietro!» comandò il sovrano.
   Rivera si fece avanti, entrando in un cerchio tracciato sul pavimento che indicava l’arena di duello. Griffin fece lo stesso, con una smorfia sinistra. Gli altri presenti, compreso Talyn, seguirono l’ordine del re e si ritrassero lungo le pareti. L’arena circolare aveva pochi metri di diametro ed era chiaro che i contendenti non potevano uscirne, a pena d’essere decretati sconfitti.
   «Campioni, battetevi con onore. Che lo Spirito dell’Aria sia con voi, e ricompensi il vincitore!» augurò il sovrano.
   Alcuni Uomini Falco squillarono le trombe, segnalando l’inizio del duello. La principessa Poiana invece si accostò a uno strano congegno, simile a un argano, e tirò una leva. Si udì il suono d’ingranaggi che scattavano e subito l’arena s’inclinò pericolosamente, mentre il resto del pavimento rimaneva stabile. Rivera sobbalzò e dovette riposizionarsi prontamente per non cadere. Guardò in basso e vide una scena agghiacciante.
   La Sala degli Anziani era costruita al di sopra di un pozzo che scendeva a precipizio per centinaia di metri. L’arena di duello non era altro che il coperchio del pozzo, sorretto da un asse metallico centrale. Una volta sbloccato il meccanismo, il coperchio s’inclinava da un lato e dall’altro dell’asse, in base ai movimenti dei duellanti e quindi alla distribuzione del loro peso. Se si fossero sbilanciati troppo da una parte, c’era il rischio che il coperchio si ribaltasse del tutto, facendoli precipitare nell’inghiottitoio. Ed era qui che giovava avere un paio d’ali, come il principe Griffin, il cui ghigno era adesso più comprensibile.
   «Non vale! Il principe può volare, a differenza del Capitano!» protestò Talyn. «Ridategli lo zaino a razzo, per equilibrare lo scontro!». Cercò di prenderlo lui stesso, per passarglielo, ma due Uomini Falco lo bloccarono, incrociando le lance davanti a lui.
   «Il Capitano ha rinunciato al suo bizzarro surrogato di ali!» obiettò Griffin. «Per la legge, non può dotarsene dopo che le trombe hanno squillato!».
   «Questo è vero. Procedete col duello» decretò il re, tornando a sedersi sul suo scranno. L’attimo dopo Griffin partì all’attacco, martellando Rivera di colpi nel tentativo di farlo arretrare, così che la pedana s’inclinasse facendolo precipitare nel pozzo. Gli Uomini Falco incitarono il loro principe con alti schiamazzi, mentre solo Talyn si angosciava per la sorte del suo capitano e amico.
 
   Per Rivera fu una delle prove più ardue che avesse mai affrontato. Il duello in sé era già abbastanza difficile, dato che il principe era un eccellente spadaccino, agile e sempre in movimento. Ma quella pedana che s’inclinava ad ogni passo, minacciando di sbalzarlo nel vuoto, era un vero incubo. Il Capitano doveva preoccuparsi più di quella che dell’avversario, a detrimento della sua tecnica di scherma. Ogni volta che era spinto troppo indietro, e sentiva la pedana inclinarsi, doveva sgusciare di lato per farla tornare orizzontale. Così facendo però si scopriva, e infatti ogni volta la lama di Griffin gli dardeggiava a un soffio dal petto, dalla gola, dal volto. Il principe, dal canto suo, pareva molto più allenato in quella tipologia di duello equilibrista. E in ogni caso aveva le ali a sostenerlo, se la situazione gli fosse sfuggita di mano. Così se la rideva, stuzzicando il Capitano a beneficio del pubblico piuttosto che cercare seriamente di ucciderlo.
   «Ebbene, questo è il meglio che sai fare? Mi sa che la tua nomea è immeritata, Proton! L’ultimo dei miei soldati saprebbe fare meglio di te!» lo derise il principe.
   Borbottando imprecazioni, Rivera piegò le ginocchia nel tentativo di mantenere un baricentro basso, migliorando il suo equilibrio. Una sciabolata gli sfiorò la spalla, lacerando la giacca da aviatore e arrivando a graffiarlo. Per fortuna il taglio non era profondo e quindi non comprometteva i suoi movimenti; ma era pur sempre doloroso. Gli Uomini Falco strepitarono e Griffin fece un ghigno ancora più sfrontato.
   In quel momento terribile, il Capitano ripensò al suo addestramento d’Accademia, quando si allenava duramente per entrare nella sezione Sicurezza della Flotta Stellare. Le lezioni comprendevano anche un corso di scherma con le vibro-lame, sia per migliorare l’agilità e i riflessi in generale, sia perché il progresso nei campi di dispersione rendeva sempre più facile bloccare i phaser. In quegli anni era stato uno dei migliori spadaccini d’Accademia; ora quell’abilità poteva davvero salvargli la vita. Eseguì qualche finta, per sbilanciare l’avversario; poi portò avanti il suo attacco. Sbalzò la lama di mano a Griffin, facendola cadere ad alcuni metri, presso l’orlo della piattaforma inclinata. Prima che il principe potesse tuffarsi in avanti per riafferrarla, la spada scivolò oltre l’orlo e cadde nel pozzo. Nemmeno l’Uomo Falco poteva sperare di riprenderla, e infatti non ci provò nemmeno. Dagli astanti salì un «Oooohhhh!» meravigliato e Talyn fece un sospiro di sollievo.
   «Allora, ti arrendi?!» chiese Rivera, puntando la spada al petto dell’avversario. Sebbene questi avesse il disco metallico a protezione del cuore, non era difficile assestare un colpo mortale alla gola o al ventre.
   «No!» gridò il principe, impugnando la frusta. Scoccò un colpo, avvolgendola attorno alla lama del Capitano, e tirò con forza, tanto da strappargliela di mano. Anche questa spada cadde presso l’orlo della piattaforma e scivolò fatalmente, perdendosi nell’inghiottitoio. E così anche a Rivera non restò che impugnare la frusta.
   Il Capitano si morse il labbro, preoccupato. Le fruste erano certo meno letali delle spade, ma lo scontro poteva ancora essere brutale; e c’era sempre il rischio di cadere nel pozzo. «Tutto questo non è necessario» disse, cominciando a sentire la stanchezza. «Mentre noi ci azzuffiamo, il nemico sta arrivando...».
   «Allora muori, così potrò occuparmene!» ringhiò Griffin, tornando all’attacco. Sferrò una serie di feroci frustate, colpendo più volte Rivera, tanto da lacerargli la giacca. Poi gli avvolse la frusta attorno a una caviglia, con l’idea di tirare forte per ribaltarlo e farlo rotolare verso la morte. Ma il Capitano anticipò la mossa, schiacciandogli la frusta a terra con l’altro piede. In tal modo fu l’Uomo Falco a sbilanciarsi, incespicando in avanti. E l’Umano ne approfittò, balzandogli addosso.
   Il duello divenne un incontro di lotta, nel quale Griffin non ebbe il tempo di reagire. In pochi attimi Rivera lo sbatté al suolo, gli scivolò alle spalle e lo schiacciò a terra, puntandogli un ginocchio contro la schiena. Poi gli avvolse spietatamente la frusta attorno alla gola e cominciò a strangolarlo. «Adesso ti arrendi?!» gli gridò nell’orecchio.
   «Mai!» rantolò il principe, cercando convulsamente di liberarsi. Provò a rialzarsi, o almeno a scivolare di lato, ma il Capitano lo teneva ben schiacciato al suolo. Si portò una mano alla gola, cercando di allentare la stretta, ma Rivera gli aveva annodato la frusta attorno al collo e la serrava sempre più, con tutte le sue forze. Le ali dell’Uomo Falco fremettero, ma era troppo indebolito per spiccare il volo. Gli occhi spiccavano sul volto congestionato come se dovessero schizzare fuori dalle orbite; dalla bocca gli colò un filo di saliva. Tentò di dire qualcosa, ma dalle sue labbra uscì un gorgoglio indistinto. Le ultime forze vennero meno ed egli si abbandonò al suolo, esamine.
   Tutti gli sguardi erano puntati sul Capitano, per vedere se sarebbe andato fino in fondo. E in effetti, inferocito com’era, Rivera ne fu tentato. Ma poi si chiese cos’avrebbe detto a Giely, se fosse riuscito a salvarla. Certo la Vorta non avrebbe apprezzato di sapere che aveva ucciso qualcun altro per liberarla, sia pure un personaggio scaturito dall’olo-programma. Così allentò la presa e sciolse la frusta dal collo del principe. Si rialzò, levandosi il sudore dalla fronte, e fissò il vecchio re Falcon. «Tuo figlio è ancora vivo; lo risparmio» ansimò.
   «Lui ti ha provocato; e ti avrebbe certamente ucciso, se avesse prevalso. È nel tuo diritto fare lo stesso» gli ricordò il sovrano, con voce grave.
   «Non voglio uccidere nessuno di voi, quali che siano le provocazioni. Né voglio addolorare te, che sei suo padre» mise in chiaro Rivera.
   A queste parole il vecchio re chinò il capo riconoscente. Le trombe squillarono nuovamente, segnalando la fine del duello. La principessa Poiana, anch’essa grata, azionò altre leve, che rimisero la piattaforma in posizione orizzontale e la stabilizzarono. Allora Rivera uscì dall’arena, accolto festosamente da Talyn, mentre le guardie correvano dal loro principe per cercare di rianimarlo.
   «Ora possiamo avere la Pietra?» chiese il Capitano, ancora provato dallo scontro, tanto che Talyn dovette sostenerlo.
   «È vostra... se riuscirete a prenderla» rispose il re, sibillino.
   «Come sarebbe? C’è qualche intralcio?!» chiese Rivera di malagrazia.
   «Hai già dimostrato forza, abilità e onore. Ora devi dimostrare anche saggezza, rispondendo a un enigma» spiegò il sovrano. «Se lo farai correttamente, potrai prendere la Pietra. In caso contrario, dovrai sacrificare la tua carne».
   «Sarebbe a dire?» fece Rivera, fissandolo stralunato.
   «Sarebbe a dire che l’idolo di pietra chiuderà la bocca, tranciandoti la mano!» boccheggiò Griffin, che si stava riprendendo. «Quindi pensaci bene» aggiunse, interrompendosi per tossire.
   «Groan, di bene in meglio!» brontolò il Capitano, accostandosi all’inquietante mascherone di pietra scolpito nella parete. Solo allora notò quanto fossero affilate le sue zanne; parevano una tagliola. La Pietra dell’Aria era lì nella sua bocca, a portata di mano. Somigliava molto alle altre: di forma ovale, abbastanza piccola da essere impugnata. Sulla sua superficie liscia era inciso il simbolo alchemico dell’aria: un triangolo equilatero rivolto verso l’alto e intersecato da una linea orizzontale. «Allora, qual è l’enigma?» chiese Rivera.
   Con sua somma sorpresa, fu il mascherone a rispondergli, muovendo meccanicamente la bocca mentre le pupille si fissavano su di lui. «Chi è nato prima, l’uovo o il falco?» chiese con un vocione rimbombante. Poi tornò immobile come prima; si stentava a credere che avesse parlato. Ma la domanda aleggiava ancora nell’aria; e il Capitano conosceva il prezzo del fallimento.
   «Devo pensarci» disse a mezza voce, rivolto agli Uomini Falco.
   «Prenditi tutto il tempo che vuoi» acconsentì il re. «Tuttavia non puoi lasciare questa sala senza prima rispondere... e verificare la bontà della risposta» avvertì.
   Rivera camminò nervosamente avanti e indietro, torcendosi la mano sinistra – quella che avrebbe rischiato – come se già la sentisse staccarsi. Non che fosse privo d’idee, anzi! La risposta scientifica era ovviamente l’uovo, dato che l’evoluzione procede per mutazioni genetiche che si manifestano dapprima negli embrioni. Ma aveva la netta sensazione che quel mascherone non ragionasse secondo criteri scientifici. La risposta doveva essere d’ordine più filosofico.
   Vedendo l’esitazione del Capitano, Talyn decise d’anticiparlo, giocandosi il tutto per tutto. «La risposta è che un cerchio non ha origine!» disse ad alta voce, per accertarsi d’essere udito. Prima che Rivera potesse reagire, ficcò lui stesso la mano nella bocca dell’idolo. Le sue dita si strinsero convulsamente attorno alla Pietra. Per un attimo il giovane temette che l’idolo serrasse la bocca, tranciandogli la mano; ma non accadde nulla del genere. Il mascherone restò immobile e l’El-Auriano, con le gambe molli di paura, ritirò in fretta la mano. La Pietra dell’Aria era nel suo palmo, all’apparenza innocua.
   «Che t’è saltato in mente, razza d’incosciente?! Poteva staccarti la mano!» protestò Rivera, dandogli uno scappellotto.
   «Poteva staccarla anche a te. Ho pensato che eri il meno sacrificabile, Capitan Proton» confessò il giovane a mezza voce.
   «Non pensare mai più una cosa del genere!» si raccomandò il Capitano, fissandolo con serietà. «E poi, se ti accadesse qualcosa, dovrei renderne conto a Losira. Preferirei perdere una mano piuttosto che affrontarla» disse, cercando di sdrammatizzare.
   Recuperata la calma, l’Umano si rivolse a re Falcon e alla sua corte. «Signori, io e il mio amico abbiamo superato tutte le vostre prove. Abbiamo meritato la Pietra, sì o no?!» volle sapere.
   «Non vale... dovevi superarle da solo... senza farti aiutare...» disse il principe Griffin, con voce roca. Era ancora a terra dopo la sconfitta.
   «Io non mi batto mai da solo, principe. Anzi, lascia che te lo dica: Capitan Proton non avrebbe combinato granché, senza Buster Kincaid» dichiarò Rivera, dando una pacca sulla spalla al suo giovane amico. Talyn sorrise, sentendosi finalmente apprezzato.
   «Le prove sono state superate lealmente. Capitan Proton e Buster Kincaid sono i nuovi custodi della Pietra, a pari merito. Ho parlato!» dichiarò re Falcon, battendo al suolo lo scettro. E nessuno, nemmeno il principe, osò contraddirlo.
 
   Conquistare la Pietra dell’Aria fu un primo, decisivo successo; ma gli avventurieri sapevano che il loro compito era appena iniziato. Così passarono il resto della giornata a fare piani di battaglia con gli Uomini Falco, in previsione dell’arrivo degli sgherri di Chaotica. La speranza di Rivera era costringerli a rilasciare Giely in cambio della Pietra dell’Aria e al tempo stesso ingannarli, rifilando loro una copia. Ma bisognava anche prepararsi all’eventualità peggiore: che il nemico non accettasse lo scambio o che intuisse l’imbroglio, nel qual caso ci sarebbe stata battaglia.
   «Se arriveremo allo scontro, è probabile che le truppe di Chaotica attacchino questo castello, se non altro perché è un facile bersaglio» avvertì Rivera. «Siete guerrieri rinomati, ma loro hanno un’astronave da guerra. Significa che saranno dentro uno scafo corazzato e vi colpiranno con armi a raggi. Avete armi migliori di queste?» chiese, accennando ad archi e frecce degli Uomini Falco.
   «Abbiamo delle pistole a raggi, sì» annuì il principe Griffin, che si era già rimesso dalla batosta. «Di solito non le usiamo, in quanto le troviamo poco onorevoli» precisò.
   «Stavolta affronterete un nemico che se ne infischia dell’onore, perciò vi occorre ogni risorsa» chiarì il Capitano.
   «E il vostro famoso Rocketeer? Non lo porterete in battaglia?» chiese Griffin.
   «Certamente. Sfrutteremo la nostra maggior manovrabilità per sgusciare tra le montagne, colpendoli col Raggio Distruttore. Ma il vostro contributo sarà essenziale per conquistare l’astronave nemica anziché distruggerla» rispose Rivera.
   «E perché vorresti impadronirtene? Solo per salvare la tua cara segretaria?» si accigliò il principe.
   In effetti era proprio così, pensò cupamente il Capitano. Intendeva salvare Giely a ogni costo, e se lo scambio fosse fallito allora avrebbe dato battaglia. Ma non poteva chiedere agli Uomini Falco di lanciarsi in un assalto costoso, in termini di vite, solo per quello. Gli serviva un’altra giustificazione. «Se cattureremo un’astronave di Chaotica, potremo usarla per infiltrarci nella sua Fortezza del Destino e chiudere i conti una volta per tutte. Non è qualcosa per cui vale la pena rischiare?» ragionò.
   «Suppongo di sì» ammise Griffin. «E va bene, Capitan Proton: se le trattative fallissero, combatteremo al tuo fianco. Useremo le nostre montagne per avvantaggiarci, come hai proposto. Tu attirerai l’astronave nemica in questa gola e noi l’attaccheremo ai lati» disse, indicando il luogo su una cartina. «Con un po’ di fortuna la costringeremo a un atterraggio d’emergenza nella vallata. Allora potremo attaccare in forze ed espugnarla. Sarai con noi?».
   «Parteciperò all’assalto» promise il Capitano.
   «E io?» chiese Talyn.
   «Tu resterai sul Rocketeer, per accertarti che l’astronave nemica non riparta sul più bello» stabilì Rivera, non volendo coinvolgerlo nell’assalto. «Se la vedrai riattivare i motori, colpiscila col Raggio Distruttore. Possibilmente senza arrostire anche noi» pregò.
   «Questo sarà difficile, se sarete nel mezzo» pensò il giovane, senza tuttavia dire niente. Le battaglie normali erano già abbastanza imprevedibili. Ma una battaglia condotta nello Spazio Fotonico, coi personaggi delle Avventure di Capitan Proton, prometteva d’essere un pandemonio indescrivibile. Talyn sperò ardentemente che portassero a termine lo scambio, evitando il combattimento. Ma qualcosa, nel profondo, gli sussurrava che non sarebbe stato così.
 
   L’astronave di Chaotica giunse la mattina dopo. Si portò in orbita, al di sopra del castello degli Uomini Falco, e trasmise il suo ultimatum.
   «Messaggio dall’astronave, solo audio» disse Talyn. Lui e Rivera erano tornati sul Rocketeer e si tenevano pronti al decollo.
   «Sentiamo» ordinò il Capitano.
   «Nave da guerra Tyrannic al popolo di Borea. Ci rivolgiamo a voi in nome di Chaotica, Dominatore del Cosmo!» disse una voce stentorea. «Avete un’ora per consegnarci la Pietra dell’Aria, dopo di che bombarderemo il vostro castello. Non tentate inganni, o la nostra vendetta sarà implacabile!» minacciò.
   Era il momento di rispondere, si disse Rivera. Prese il grosso microfono e lo regolò, storcendo il volto quando ne uscì uno sgradevole fischio elettronico. Aperto il canale, parlò con voce alta e chiara: «Qui è Capitan Proton che vi risponde. È inutile che ve la prendiate con gli Uomini Falco, dal momento che la Pietra è già in mano mia. Quindi tratterete con me».
   «Nessuna trattativa! Consegnaci la Pietra, altrimenti...».
   «Altrimenti cosa? Distruggerete il Rocketeer e la Pietra al suo interno? Chaotica non sarà contento!» obiettò Rivera. «C’è un solo modo in cui potete averla, ed è accettando uno scambio. Restituiteci Constance Goodheart e avrete ciò che volete».
   «Questo non è possibile» rispose freddamente l’interlocutore.
   «Come sarebbe? Perché no?!» si scaldò il Capitano. Avrebbe capito se non volevano liberarla, ma perché non potevano? «Forse si sono accorti che non è Umana, e allora l’hanno...» pensò con orrore. No, non avrebbe creduto alla sua morte; non prima di vedere i resti.
   «Questa non è una trattativa!» ribadì l’avversario, senza sciogliere il dubbio. «Consegnaci la Pietra o rassegnati all’inevitabile distruzione!».
   «Non mi sono mai rassegnato all’inevitabile» ribatté il Capitano. «Se vuoi il gingillo, vieni a prenderlo!».
   «Non chiedo di meglio» rispose l’interlocutore, e chiuse il canale.
   «Il Tyrannic scende nell’atmosfera» avvertì Talyn, ma vide che Rivera stava già decollando. «Ehm, sono certo che Giely sta bene...» cercò di rincuorarlo.
   «Lo sapremo presto» borbottò il Capitano, duro in volto. «Proton a Uomini Falco, la trattativa è morta sul nascere per l’ostinazione del nemico. Quindi non ci resta che la battaglia. Prendete posizione, e che la fortuna aiuti gli audaci».
 
   Mentre il Rocketeer decollava, gli Uomini Falco lasciarono la fortezza in uno stormo compatto. Erano centinaia, tutti muniti di pistole a raggi. Guidati dal loro principe, scesero in picchiata lungo le pareti a strapiombo della montagna e scomparvero tra le nebbie sottostanti. Andavano ad appostarsi sul luogo dell’imboscata, o così sperò Rivera, che ancora non sapeva se fidarsi di Griffin.
   «Forza, facciamo la nostra parte» disse il Capitano. Ora che la sua apprensione per la sorte di Giely s’era acutizzata, era ancor più determinato ad andare fino in fondo. Volò sul pelo della nebbia, facendo slalom tra le vette innevate per attirare il Tyrannic lontano dal castello.
   «Ci sono addosso!» avvertì Talyn, rilevando l’astronave nemica che piombava dall’alto. Il Raggio della Morte balenò come un fulmine, infrangendo una vicina vetta. Roccia e ghiaccio franarono con un frastuono enorme. Alcuni macigni caddero sul dorso del Rocketeer, facendolo rimbombare paurosamente, ma lo scafo d’acciaio resistette. Più pericoloso fu il conseguente sbandamento della navicella. Solo i riflessi fulminei di Rivera gli permisero di aggiustare la rotta, prima che la loro temeraria impresa finisse in uno schianto contro la successiva montagna. Il Rocketeer sfiorò la superficie innevata e riprese il suo slalom, mentre il Tyrannic gli si metteva in coda, sparando a tutto spiano.
   All’apparenza la nave di Chaotica era in vantaggio, dato che i fuggitivi non avevano armi a poppa e quindi non potevano rispondere ai suoi colpi. La realtà era più complessa. Il Tyrannic era molto più grosso del Rocketeer e di conseguenza più difficile da manovrare in quegli spazi angusti. Più volte la navicella di Proton sgusciò agilmente tra una rupe e l’altra, mentre il vascello inseguitore urtò le pareti rocciose, tanto che lo scafo ne fu ammaccato. Eppure gli inseguitori non demordevano. Spararono più volte col Raggio della Morte e in un paio d’occasioni presero di striscio il Rocketeer, annerendo lo scafo senza tuttavia perforarlo.
   La pericolosa gimcana portò le astronavi nella gola prescelta per l’agguato. Era una lunga valle scavata da un torrente, con i pendii alti e scoscesi. Appena giunto Rivera dette piena energia al Rocketeer, facendolo schizzare in avanti. Poco più indietro, il Tyrannic giunse coi motori che sbuffavano come ciminiere per lo sforzo eccessivo a cui erano sottoposti. Non appena fu nel canalone, la trappola scattò. Dalla sommità delle pareti rocciose fecero capolino centinaia di Uomini Falco, appostati come cecchini.
   «Fuoco!» ordinò Griffin, sparando lui stesso per primo. I suoi armati lo imitarono prontamente, serrando il Tyrannic in una gragnola di colpi. Centinaia di raggi laser tempestarono lo scafo su ambo i lati, infrangendo alcuni oblò. Uno dei motori, ripetutamente colpito, emise una breve fiammata. Eppure l’astronave proseguì il suo folle inseguimento, finché si lasciò alle spalle gli Uomini Falco. Questi spiccarono il volo, mettendo a segno ancora qualche colpo, ma in breve furono distanziati.
   «Capitano, il piano non ha funzionato! Ci stanno ancora alle costole!» avvertì Talyn.
   «Lo farò funzionare io!» ringhiò Rivera, vedendo avvicinarsi la resa dei conti. «Spara al mio ordine!».
   Con una manovra più azzardata d’ogni altra, che fece gemere la navicella come una creatura torturata, il Capitano eseguì un giro completo attorno a una rupe, sfiorandone la superficie innevata. Mentre il Rocketeer faceva questo, il Tyrannic passò oltre, lanciato a tutta velocità. Così, quando la navicella tornò a sfrecciare lungo la vallata, si trovò in coda al nemico.
   «Fuoco!» gridò Rivera.
   Talyn premette il pulsante, scatenando il Raggio Distruttore a piena potenza contro il motore già danneggiato del Tyrannic. Il raggio simile a un fulmine colpì lo scafo e lo squarciò. Ci fu un lampo, seguito da un boato e da una pioggia di schegge che tamburellarono come grandine contro la prua del Rocketeer. Il Tyrannic sbandò, vomitando fuoco e fumo dalla falla nel motore, tanto che Rivera dovette salire di quota per non perdere la visibilità. Da quella posizione soprelevata, lui e Talyn assistettero all’epilogo della corsa.
   Lo sbandamento del Tyrannic lo portò a urtare la parete rocciosa, danneggiando ulteriormente lo scafo. Allora l’astronave ridusse la velocità e si abbassò, tentando un atterraggio d’emergenza nel fondovalle. Le piastre ventrali dello scafo urtarono i macigni irregolari, ammaccandosi e sprizzando scintille. Con una strisciata assordante, che lo danneggiò al punto da renderlo irrecuperabile, il Tyrannic rallentò sino a fermarsi del tutto. Lo scafo surriscaldato si arrestò un poco di traverso, fumigando per il contatto con le fredde acque del torrente. Allora nella vallata calò un silenzio teso; l’inseguimento era finito, ma la vera battaglia doveva ancora iniziare.
 
   Vedendo che il Tyrannic era abbattuto, Rivera passò alla fase successiva del piano. Scese di quota e fece posare il Rocketeer dietro alcune rocce, così da non essere sotto tiro. Impugnata la pistola a raggi, si diresse verso il portello.
   «Sicuro di non volermi con te? Ho già partecipato a scontri armati» gli ricordò Talyn.
   «Lo so, ma voglio che almeno uno di noi resti qui, nel caso ci fossero imprevisti» confermò il Capitano. «Tienimi la nave in caldo, tornerò presto» promise. Dopo di che aprì il portello e balzò all’esterno, con la pistola in pugno. L’incessante vento di Borea, che ululava nella valle, gli dette un freddo benvenuto. Gli Uomini Falco erano già in vista, dato che avevano seguito le astronavi sulle ali del vento, e presto gli atterrarono attorno in gran numero. «Due di voi sul Rocketeer, per aiutare Buster. Gli altri con me!» ordinò l’Umano ai suoi bizzarri alleati.
   Accolti gli Uomini Falco sulla navicella, Talyn richiuse il portello e si recò ai comandi. Non aveva la stessa familiarità di Rivera nel pilotare il Rocketeer, ma riuscì comunque a farlo innalzare senza troppi scossoni. Dopo di che prese a pattugliare il cielo, badando un po’ che non arrivassero rinforzi nemici e un po’ che il Tyrannic stesso non riuscisse a decollare. Osservando la nave abbattuta, tuttavia, si convinse che ciò non sarebbe accaduto: i danni erano troppo gravi.
   Nel frattempo si era acceso lo scontro attorno al relitto. Gli Uomini Falco calavano a ondate, cercando di raggiungerlo, e anche Rivera correva sul suolo accidentato, riparandosi dietro ai macigni mentre cercava di avvicinarsi. Rintanati dentro lo scafo, gli sgherri di Chaotica si difendevano sparando attraverso gli oblò infranti. A un certo punto aprirono delle vere e proprie feritoie, predisposte allo scopo, e spararono anche attraverso quelle. Gli attaccanti risposero aprendo il fuoco a loro volta.
   In un attimo il Tyrannic si trovò al centro di una fitta gragnola. I difensori erano circondati e inferiori di numero, ma lo scafo gli offriva ancora un’ottima protezione. Per contro, gli Uomini Falco erano più numerosi e attaccavano da tutte le direzioni, ma avevano lo svantaggio d’essere in campo aperto. Non pochi di loro furono colpiti e abbattuti. A terra, Rivera li osservò con angoscia. Erano finiti i tempi in cui le raffazzonate truppe di Chaotica non riuscivano a mettere a segno un colpo. Quella ormai era la realtà, e con tante truppe coinvolte era inevitabile che alcuni colpi andassero a segno, provocando morti e feriti.
   «Un motivo in più per finirla in fretta» si disse il Capitano, prendendo la mira. Colpì un avversario attraverso l’oblò, provocando un temporaneo punto cieco nelle difese nemiche. Ne approfittò per uscire allo scoperto e superare di corsa l’ultimo tratto, aiutato dal fitto fuoco di copertura degli Uomini Falco. Giunse a ridosso dello scafo, tutto chiazzato dai colpi, che tuttavia non avevano energia sufficiente a perforarlo. Vedendo alcuni avversari sporgersi dalle feritoie sopra di lui, Rivera li freddò, creando un nuovo punto cieco nelle difese. Alcuni Uomini Falco ne approfittarono per raggiungerlo, mentre gli altri mantenevano il fuoco di copertura.
   «Ben fatto, Proton. Siamo con te!» dichiarò Griffin, posandosi accanto all’Umano.
   «Dobbiamo sfondare l’ingresso» disse il Capitano. «Una volta dentro, il nemico potrebbe farsi scudo con Constance. In tal caso lasciatemi trattare la sua liberazione» raccomandò.
   «Devi amarla proprio tanto!» commentò il principe. «E sia, faremo come vuoi».
   L’Umano restò interdetto a quelle parole. Giely gli stava certamente a cuore e avrebbe fatto di tutto per salvarla, se non altro perché era stato lui a metterla involontariamente in pericolo. Ma poteva dire di amarla? Su questo era ancora confuso, anche perché c’erano molte cose di lei che non afferrava. E anche se l’avesse amata, non era forse inutile? La Vorta aveva messo in chiaro che non poteva né voleva ricambiare... anche se a ben vedere non era stata così convincente. Forse anche lei era combattuta...
   Il Capitano scosse la testa, rimandando questi pensieri a un momento più tranquillo. Per ora doveva pensare a salvarla e basta. «Bene, puoi aprirci la strada?» chiese a Griffin.
   «Non aspettavo altro!» garantì il principe. Prese una mina, che fino ad allora aveva tenuto agganciata in cintura, e la pose davanti al portello del Tyrannic. La regolò per appena trenta secondi, affrettandosi poi a tornare dai compagni. Tutti si coprirono le orecchie, in attesa dell’esplosione. E l’esplosione venne, così violenta da abbattere il portello. Gli sgherri di Chaotica, appostati dall’altra parte, furono spazzati via e l’interno dell’astronave fu invaso dal fumo.
   «Ora!» gridò Rivera. Lui e Griffin guidarono l’assalto, entrando in testa a un manipolo di Uomini Falco. Approfittando del panico e dello smarrimento che dilagavano tra gli avversari, li abbatterono uno dopo l’altro, facendosi strada nell’astronave. Anche alcuni dei loro furono colpiti, senza che questo fermasse l’assalto. Stavano guadagnando rapidamente terreno, ma ciò accresceva la tensione di Rivera anziché placarla. Perché gli avversari non si facevano scudo con Giely? Dove la nascondevano? Possibile che l’avessero... no, rifiutava di crederlo.
   Reso spericolato dall’ansia crescente, Rivera conquistò un vano dopo l’altro, risalendo l’astronave fino alla cabina posta a prua. Qui centrò il capitano, riconoscibile dall’uniforme sgargiante e l’elmo da ussaro, mentre gli Uomini Falco abbattevano gli ufficiali. Quando gli ultimi raggi si furono spenti, calò un silenzio spettrale.
   Ansante e sudato, il Capitano si guardò attorno. Non c’era traccia di Lonzak, né del Robot Satanico; e soprattutto non c’era traccia di Giely. In preda più al panico che alla collera, Rivera agguantò per il bavero il capitano nemico, che respirava ancora. «Dov’è Constance Goodheart?!» gridò, infilandogli la canna della pistola a raggi su per il naso.
   «Zei un illuso, Cabidan Brodon» rispose l’avversario con voce nasale, per via della canna ficcata nella narice. «Credevi che Chaotica avesse inviado una zola nave in cerca delle Biedre? Ce ne sono molde, invece!».
   «Quante? Dove?!» intimò Rivera. Gli tolse la canna dal naso, affinché parlasse in modo più comprensibile, ma continuò a puntargli la pistola in faccia.
   «In questo momento uno dei nostri vascelli sta recuperando la Pietra del Fuoco su Flegra. Quei primitivi Uomini Salamandra che la custodiscono non potranno opporsi!» si vantò il capitano del Tyrannic. «E un’altra nave sta recapitando a Chaotica la Pietra dell’Acqua, oltre alla tua adorata segretaria. Dopotutto c’è un sacrificio da portare a termine!» disse, rallegrandosi nel vedere l’espressione atterrita di Rivera.
   L’Umano ragionò in fretta. Ora capiva perché l’avversario aveva rifiutato le trattative: non avendo Giely con sé, non poteva organizzare alcuno scambio. E anche ora che lo avevano sconfitto, la situazione restava critica. Nella trama originale, Chaotica avrebbe rinunciato a sacrificare Constance solo per scambiarla con le due Pietre mancanti, quelle dell’Acqua e del Fuoco. Ma nella versione attuale, l’unica Pietra che gli mancava era quella dell’Aria; una ragione in più per difenderla a ogni costo.
   «Rassegnati, Proton! Stavolta sei sconfitto!» si vantò il capitano del Tyrannic, ma poi s’irrigidì per una fitta di dolore. La sua ferita era grave, forse mortale.
   «Nessuno potrà dirci sconfitti, finché respiriamo!» dichiarò Griffin, cercando di confortare l’alleato umano.
   «Oh, ma voi non respirerete ancora per molto!» avvertì l’avversario, con un sorriso diabolico. «Un Capitano come me deve sempre affondare con la sua nave... e il tempo sta per scadere... tic-toc!» rise, ma in quella uno spasmo gli irrigidì il volto. Il suo cuore aveva ceduto. Rivera lo mollò, lasciando che si accasciasse a terra. Mille pensieri gli affollavano la mente, ma uno era più urgente degli altri.
   «Che intendeva quell’invasato?» chiese Griffin.
   «Deve aver attivato l’auto-esplosione prima che entrassimo!» disse il Capitano, affrettandosi all’uscita. «O dopo» si corresse, trovandola sbarrata. Era l’unico passaggio per lasciare la cabina, ed era chiuso da un pesante portone blindato. Con l’aiuto degli Uomini Falco all’esterno potevano sfondarlo, ma quasi certamente sarebbe occorso più tempo di quello che gli restava.
   «Puoi disattivare il comando?» chiese subito il principe.
   «Vediamo... sì, mi sembra di ricordare come si fa. Era nell’episodio 22» mormorò Rivera, spremendosi le meningi.
   «Che cosa?».
   «Niente, non badarci» fece il Capitano. Ci mancava solo che il suo unico alleato scoprisse d’essere nato dal suo gioco. L’Umano si precipitò a un pannello sulla parete e lo staccò, mettendo a nudo un intrico di cavi elettrici. Deposto il pannello, estrasse un coltellino svizzero che aveva in tasca e si dedicò ai fili. Se avesse tagliato quelli giusti, la sequenza autodistruttiva si sarebbe disinnescata. Ma era passato parecchio da quando aveva giocato quell’episodio e non era certo di ricordarsi la giusta sequenza. «Mannaggia... se almeno vedessi i colori...» borbottò, esasperato dall’uniforme tonalità grigia dei cavi.
   «Ehm, non per metterti fretta, ma qui vedo un conto alla rovescia» disse Griffin, che stava esaminando la consolle principale. Piccoli dischi numerati ruotavano, indicando il tempo rimanente prima dell’esplosione.
   «Quanto ci resta?» chiese Rivera, mentre tagliava il primo filo.
   «Venti secondi... diciannove...» contò l’Uomo Falco.
   «Caramba!» imprecò l’Umano, cercando d’affrettarsi. Tagliò un secondo filo, ma si bloccò incerto sul terzo. Era quello che stringeva tra le mani o quello, del tutto simile, che passava lì accanto? La differenza non era da poco: tagliando quello giusto avrebbe impedito l’esplosione, tagliando quell’altro l’avrebbe affrettata.
   «Quindici secondi... sbrigati, Terrestre!» lo esortò il principe.
   «Oh, al diavolo!» sbottò Rivera, tagliando il secondo filo con gesto rapido. Per un attimo si aspettò l’esplosione... invece non accadde nulla. «Sì!» esultò, alzando le braccia.
   «Aspetta a gioire, il conteggio continua» avvertì Griffin.
   «Come?! No, è impossibile!» protestò il Capitano. Si precipitò alla consolle, solo per constatare che l’Uomo Falco aveva ragione. Il conto alla rovescia era ancora in corso e restavano meno di dieci secondi.
   «Taglia un altro filo!» suggerì Griffin.
   «Credi che li tagli a casaccio? Il minimo errore ci farà esplodere!» obiettò Rivera.
   «E che ci aspetta di meglio?!» rimbeccò il principe, accennando ai cilindretti. Mancavano solo cinque secondi... quattro...
   «Mi spiace amico, è finita!» gemette il Capitano, rattrappendosi in attesa dell’esplosione. Passarono i secondi: uno, due, tre, quattro, cinque...
   «Beh?» fece Rivera, osando riaprire un occhio per guardarsi attorno. L’astronave era ancora tutta d’un pezzo, così come loro.
   «Gli spiriti ci hanno graziati, amico: guarda!» si rallegrò Griffin, indicando i cilindretti scorrevoli. Il conto alla rovescia si era arrestato all’ultimo secondo.
   «Ah, già... queste cose si fermano sempre all’ultimo» ricordò l’Umano, grattandosi il mento ispido. Era uno degli espedienti narrativi delle Avventure di Capitan Proton, per accrescere il pathos. Allora forse certi cliché erano ancora validi. Rivera lo sperò ardentemente, perché questo li avrebbe aiutati nelle difficili sfide che ancora li attendevano.
   «Beh, poteva andare peggio» borbottò il Capitano, misurando a grandi passi la cabina, mentre gli Uomini Falco s’ingegnavano per sbloccare la porta. «Abbiamo abbattuto questa nave, anche se temo che sia troppo danneggiata per rimetterla in volo. E cosa più importante, abbiamo protetto la Pietra dell’Aria, con cui potremo salvare Constance. L’opzione dello scambio è ancora valida, anche se dovremo proporlo a Chaotica in persona...» ragionò.
   «Aspetta a fare progetti, amico mio» disse Griffin, che stava osservando l’esterno attraverso un oblò. «Abbiamo un nuovo problema: la tua navicella è sotto attacco» avvertì, indicando un ampio disco scuro che stava eclissando il sole.
 
   Distrattosi brevemente a osservare il Tyrannic abbattuto, Talyn si riscosse nel vedere che la luce veniva meno. Regolò l’immagizzatore per inquadrare il cielo; ciò che vide gli gelò il sangue nelle vene. Un enorme disco volante, più grande del Rocketeer e persino del Tyrannic, calava dall’alto oscurando la luce solare. Il suo scafo era nero e privo di contrassegni, ma l’El-Auriano lo riconobbe ugualmente.
   «Sono rinforzi di Chaotica?» chiese un Uomo Falco.
   «No, molto peggio» mormorò Talyn, mettendo mano ai controlli di volo. «Dobbiamo metterci fuori tiro, prima che...».
   Il giovane non ebbe il tempo di terminare. Un Raggio della Morte balenò dal globo centrale del disco volante e stavolta il Rocketeer fu preso in pieno. La navicella ne fu squassata; alcune consolle esplosero sprizzando fumo e scintille. Talyn dovette balzare indietro per non essere ustionato e il Rocketeer s’inclinò a tal punto da farlo capitombolare. Squillò un allarme, simile a una sirena antiaerea, mentre il fumo invadeva la cabina. Il giovane cercò di rialzarsi, ma dall’estrema inclinazione del pavimento e dall’improvviso senso di leggerezza comprese che stavano precipitando. Non era proprio una caduta libera, ma indubbiamente perdevano quota. Guardò l’immagizzatore e ne ebbe conferma: stavano cadendo sulle affilate rocce sottostanti. Anche se il Rocketeer non fosse esploso all’impatto, e non si fosse accartocciato come una scatoletta, l’urto sarebbe stato abbastanza violento da ucciderli.
   «Puoi arrestare la caduta?» chiese un Uomo Falco, trascinandosi verso di lui.
   «Non c’è tempo!» rispose Talyn. Dalla velocità con cui il fondovalle gli veniva incontro, valutò che restassero pochi secondi all’impatto. Che fine ingloriosa per un giovane avventuriero dello spazio... morire in un gioco olografico in cui s’era lasciato coinvolgere. Non aveva neppure il tempo d’indossare lo zaino a razzo e gettarsi fuoribordo, per tentare un atterraggio di fortuna. L’inclinazione dello scafo trascinava lui e gli Uomini Falco in un angolo tra il pavimento e la parete opposta rispetto al portello. Erano finiti, a meno che...
   Centinaia di metri più in alto, uno sportellino si aprì sullo scafo liscio del disco volante. Da lì fu sparato un arpione magnetico, collegato a un cavo ultraresistente, dritto contro la navicella che precipitava. Il Rocketeer sussultò quando l’arpione lo colpì. Talyn vide la paratia deformarsi, senza tuttavia che si aprissero falle. La caduta rallentò bruscamente, schiacciando gli occupanti nell’angolo; infine cessò del tutto.
   Rialzandosi a fatica, l’El-Auriano cercò di raccapezzarsi. La navicella era così inclinata che ora lui e gli Uomini Falco camminavano su una delle paratie laterali, quella opposta al punto di contatto dell’arpione. Le consolle di comando si trovavano su quella che, dalla loro prospettiva, era diventata una parete e quindi erano fuori portata. Non che raggiungerle servisse a molto: con danni così gravi quasi tutti i sistemi erano offline. Sarebbero servite ore di lavoro per rimettere in sesto la navicella, sempre che fosse possibile. Talyn mosse qualche passo, incerto sul da farsi, ma fu nuovamente gettato a terra quando il Rocketeer prese a oscillare come un pendolo.
   «E adesso che succede?!» protestò uno degli Uomini Falco, stanco d’essere sbatacchiato.
   «Ci hanno presi come un pesce all’amo e ora ci tirano su» comprese Talyn. Come al solito aveva ragione. A terra, Rivera e gli altri videro il disco volante che riavvolgeva il cavo, così da issare il Rocketeer. Gli Uomini Falco si levarono in volo, per fornire aiuto, ma il Raggio della Morte balenò contro di loro e dovettero ritirarsi prima di finire arrostiti. Finché il disco si librava a mezz’aria, più in alto delle vette, non c’era modo d’avvicinarsi senza fare da bersaglio. E gli Uomini Falco avevano già subito troppe perdite contro il Tyrannic per lanciarsi all’assalto contro un vascello sconosciuto, ma all’apparenza ancor più letale.
   A bordo del Rocketeer, che continuava a oscillare, Talyn alzò gli occhi al portello che dal suo punto di vista pareva collocato sul soffitto. Era ancora sigillato e si trovava troppo in alto per raggiungerlo. Del resto, anche se fosse riuscito ad aprirlo, c’era pur sempre il problema di trovarsi sospesi a chilometri dal suolo. «Ce la fate a portarmi fuori, e poi ad accompagnarmi fino a terra?» chiese ai due Uomini Falco.
   «Potremmo planare, tenendoti fra noi» rispose uno di loro. «Ma non se quel disco ci spara addosso! Si può sapere a chi appartiene? E perché ce l’hanno con noi?».
   Prima che Talyn potesse rispondere si udì uno schianto secco, seguito da un fischio continuo e sibilante. Il giovane si guardò attorno, allarmato. Quello schianto non prometteva nulla di buono; gli ricordava il suono di un portello stagno che salta, oppure di un proiettile che perfora lo scafo. La cabina era ancora invasa dal fumo delle consolle esplose, ma guardando verso l’alto il giovane intravide ciò che temeva: qualcosa aveva davvero trapassato lo scafo. Pareva una sorta di dardo metallico; il sibilo veniva da lì. All’El-Auriano bastò un attimo per comprendere di che si trattava.
   «Gas!».
   Era proprio del gas quello che veniva immesso nell’abitacolo del Rocketeer, producendo quel fischio insistente. Già, ma che tipo di gas? Era difficile dire se fosse incolore, dato che l’aria era già intorbidita dal fumo, e Talyn non ne riconobbe l’odore. Si guardò freneticamente attorno, ma non c’erano maschere antigas nella navicella. D’un tratto la testa prese a girargli e la nave, già di per sé ondeggiante, parve vorticare ancora più forte. Un malessere, una stanchezza spossante s’impadronì di lui. Era certamente l’effetto del gas, si disse il giovane, mentre le ginocchia gli cedevano. A conferma dei suoi sospetti, anche i due Uomini Falco vacillarono e si accasciarono sul pavimento. Stavano tutti morendo avvelenati?
   «No» si disse Talyn, aggrappandosi all’ultima speranza. «Non ci avrebbero arpionati, se avevano intenzione di ucciderci. A meno che... non vogliano tenere la nave integra solo per prendersi quella» ragionò, osservando la Pietra dell’Aria che era rotolata in un angolo. Quella pietra, conquistata con fatica e pericolo, era l’unica speranza che avevano di salvare Giely. Se permettevano al nemico di soffiargliela, era la fine.
   Sempre più debole e intontito, Talyn arrancò verso la Pietra, trascinandosi sulle ginocchia. Doveva gettarla fuoribordo, così che precipitasse nel vuoto, perdendosi in qualche anfratto roccioso. Certo, così non avrebbero potuto scambiarla con Giely... ma almeno Chaotica non avrebbe completato la superarma. Il giovane afferrò il manufatto, ma guardando il portello sospeso sulla sua testa capì che non sarebbe arrivato ad aprirlo. Gli Uomini Falco erano già privi di sensi... come canarini in una miniera, si disse ironicamente. Ora anche lui stava perdendo conoscenza. Si sarebbe mai risvegliato? E se sì, in che condizioni? Perché se aveva riconosciuto il disco volante – e gli pareva proprio di riconoscerlo – non lo aspettava niente di buono. L’attimo dopo l’El-Auriano si accasciò sul pavimento, privo di sensi, con la Pietra dell’Aria ancora stretta nel pugno.
 
   Uscito dal relitto del Tyrannic, ma impossibilitato a reagire contro il disco volante, il Capitano assisté impotente all’ultimo atto del dramma. Dopo aver arpionato il Rocketeer, tenendolo sospeso sotto di sé, il disco lanciò un secondo cavo che perforò lo scafo. Poi prese a ritirarli entrambi, col risultato che il Rocketeer fu issato, finché le due astronavi giunsero praticamente a contatto.
   «I portelli sono aperti, qualcosa si muove tra gli scafi» notò Griffin, con la sua vista acuta. «Credo che stiano imbarcando i nostri» aggiunse a malincuore.
   «E la Pietra dell’Aria» disse cupamente Rivera. «Proprio non puoi far niente?».
   «Mi spiace, Capitano, ma non lancerò i miei allo sbaraglio contro quell’astronave così armata» rispose il principe.
   «Allora è finita» disse l’Umano con voce spenta. In un colpo solo aveva perso tutto: Talyn, la Pietra dell’Aria (e con essa Giely), il Rocketeer. E la perdita della navicella gli impediva di tentare qualsiasi ulteriore salvataggio. Era bloccato su quel mondo inclemente, assieme agli Uomini Falco; non certo il modo in cui pensava di terminare i suoi giorni!
   Sotto gli occhi afflitti del Capitano, il disco volante ritirò il secondo arpione dallo scafo del Rocketeer. Poi allentò il primo cavo, tornando a far dondolare la navicella sotto di sé. Infine rilasciò del tutto il cavo, lasciando che il Rocketeer precipitasse. La navicella cadde con curiosa lentezza, o così parve a Rivera che la osservava; ma era la sua percezione ad essere rallentata dall’orrore. Il Rocketeer attraversò la foschia e colpì il versante di una montagna. La vetta era innevata e questo attutì la caduta, tanto che la navicella non esplose e non si accartocciò nemmeno. Quel che fece fu rotolare lungo il pendio, provocando una valanga. Fatto un breve tratto, tuttavia, il Rocketeer s’incastrò tra alcune rocce. E lì rimase, precariamente in bilico sul precipizio. La neve smossa continuò a cadere, con un suono ovattato, perdendosi nei crepacci tra le montagne.
   In tutto questo il disco volante continuò ad aleggiare a mezz’aria, come se gli occupanti volessero godersi il loro trionfo. Lo sportello dell’arpione sul suo lato inferiore si richiuse, rendendo nuovamente uniforme lo scafo. Infine, quando il Rocketeer smise di muoversi e anche la valanga fu esaurita, il disco sfrecciò verso l’alto, rapido com’era apparso. In pochi attimi divenne un puntino nero che si perdeva nel cielo; infine svanì del tutto alla vista. Era tornato nello spazio, dove il Capitano non poteva più seguirlo.
   A quella vista Rivera crollò in ginocchio, senza curarsi degli Uomini Falco attorno a lui. Per lunghi momenti restò in silenzio, come assorto nei suoi pensieri. Poi, senza preavviso, buttò la testa all’indietro e lanciò un grido prolungato, che echeggiò tra le vette innevate. Gli echi si rincorsero e poco alla volta si spensero; allora restò solo il vento a ululare tra le cime impervie e i profondi crepacci.
 
   Chiusa in una piccola cella sulla nave a razzo, Giely temeva d’impazzire. Dopo il rapimento, Lonzak l’aveva trasferita su un altro vascello della sua flottiglia, che la riportasse al Pianeta X. Il grassone infatti voleva recapitarla subito a Chaotica, assieme alla Pietra dell’Acqua, mentre lui andava su Flegra a prendere quella del Fuoco. Al momento della separazione, Lonzak aveva ordinato al Robot Satanico di restare a sorvegliarla. Evidentemente non si fidava troppo delle sue sgangherate truppe. Così l’automa era rimasto di guardia davanti alla cella di Giely e periodicamente le forniva i pasti. La Vorta aveva provato a usare una serie di sillogismi logici per indurlo a liberarla, ma inutilmente. Ogni volta che pareva sul punto di convincersi, il robot tornava a ripetere meccanicamente le sue ultime istruzioni: «CONSEGNARE CONSTANCE A CHAOTICA!».
   Più volte Giely era stata sul punto di levarsi la parrucca e rivelare che non era Constance, ma si era sempre trattenuta. Un ostaggio senza valore, si ripeteva, era ancor più a rischio di uno con una certa importanza. Così restò in attesa, pur non sapendo che avrebbe fatto, una volta al cospetto di Chaotica. Evidentemente avrebbe dovuto improvvisare. Ora le dispiaceva di non aver studiato più a fondo le Avventure di Capitan Proton; qualche conoscenza in più dell’avversario le avrebbe fatto comodo!
   D’un tratto la Vorta percepì una decelerazione. Si alzò, accostandosi all’oblò della cella, e vide che l’astronave era scesa a velocità subluce. Davanti a lei spiccava, grigio, il dominio di Chaotica: il Pianeta X! La nave a razzo calò nell’atmosfera, permettendo a Giely d’osservare la superficie desolata. Era un deserto roccioso, punteggiato da pochi specchi d’acqua, forse laghi salati. Nel mondo fittizio del ponte ologrammi poteva anche andar bene, ma ora che esisteva per davvero, sorgevano dei problemi pratici. Ad esempio come faceva Chaotica a sfamare le sue truppe in quel clima proibitivo per l’agricoltura? Se avesse avuto i replicatori, forse... ma nel cosmo di Capitan Proton i replicatori non esistevano. Riflettendoci, la dottoressa comprese che il despota era obbligato a invadere i mondi più vicini, per conquistare le loro risorse alimentari. Ecco perché aveva minacciato gli alieni fotonici ancor prima di completare la superarma che gli avrebbe enormemente facilitato la vittoria.
   La nave a razzo atterrò e finalmente Giely fu tratta dalla sua cella. Il Robot Satanico era sempre lì a sorvegliarla; in una mano a tenaglia stringeva la Pietra dell’Acqua. Era la seconda Pietra che Chaotica otteneva, tanto che la Vorta si scoprì in ansia al pensiero che anche le altre cadessero in sua mano.
   «CONSEGNARE CONSTANCE A CHAOTICA!» ripeté l’automa, ponendosi alle spalle della prigioniera.
   «Ho capito, lattina ambulante!» fece la dottoressa, mettendosi in cammino. Le guardie di Chaotica l’attorniarono, impedendole la fuga.
   Il bizzarro corteo scese dalla nave a razzo; allora Giely vide la Fortezza del Destino. Era arroccata su un’altura, tanto che bisognava superare un ponte levatoio per accedervi. La fortezza in sé era un’accozzaglia di torri metalliche, alcune squadrate, altre cilindriche; il torrione principale era sormontato da un’antenna. Alla Vorta, che aveva visto le fortezze del Dominio e quelle federali, il castello di Chaotica non fece molta impressione. Tuttavia vi entrava da prigioniera e questo non la rendeva certo tranquilla. In effetti più si avvicinava e più sentì crescere l’ansia. Era già stata prigioniera in passato; esserlo di nuovo le riusciva intollerabile. Almeno stavolta i suoi carcerieri non erano delle cime; chissà che non riuscisse a lavorarseli...
   Scortata dal robot e dalle guardie, Giely percorse la strada in salita che portava alla rocca. Il ponte levatoio si abbassò davanti a loro, scricchiolando sinistramente. La Vorta alzò gli occhi alle pareti metalliche a strapiombo, chiedendosi come ne sarebbe uscita. Poi, sospinta dal Robot Satanico, varcò l’ingresso.
 
   Il dottor Chaotica era nella sala del trono, assorbito dai suoi piani malvagi, quando il rimbombo del gong lo avvertì della visita. Il despota si rassettò la veste lunga fino ai piedi e sedette sullo scranno prima di ordinare l’apertura del portone. Il primo a entrare fu il Robot Satanico, recando la Pietra dell’Acqua.
   «MIO SIGNORE – ECCO LA SECONDA PIETRA» disse l’automa, porgendo il prezioso manufatto.
   «Vittoria!» esultò Chaotica, alzandosi dal trono. «Lo sapevo che quel maledetto Proton non poteva fermarmi! Due sfide, due successi!». Si affrettò verso l’automa, afferrando la Pietra dell’Acqua che questi gli porgeva. Se la rigirò più volte fra le mani, esaminandola con una lente d’ingrandimento per accertarsi che fosse autentica.
   «Sì, è quella vera... ben fatto, macchina senz’anima!» si congratulò il despota. «Ora siamo a metà dell’opera, e il meglio deve ancora venire! Ma dimmi, che ne è di Proton?».
   «PROTON È FUGGITO» ammise il Robot Satanico.
   «Maledetto! Ma presto lo distruggerò!» inveì Chaotica.
   «ABBIAMO UNA PRIGIONIERA – CONSTANCE GOODHEART DELLA TERRA» aggiunse l’automa, girandosi parzialmente. Al suo gesto le guardie entrarono a loro volta, spintonando Giely nella sala del trono. Poi si allinearono lungo le pareti, con le braccia incrociate dietro la schiena. La Vorta si guardò attorno, osservando spaesata l’ambiente pacchiano. Il suo sguardo si appuntò infine su Chaotica, che la osservava con maligno compiacimento.
   «Bene, bene... abbiamo un’ospite di riguardo!» ghignò il despota. «Lieto di rivederti, signorina Goodheart. Devo dire che sei ancora più bella dell’ultima volta che ti ho fatta rapire! Sono tentato di tenerti per me, quando tutto questo sarà finito».
   «Il rapimento non è il metodo più indicato per iniziare un rapporto. Ha mai pensato d’iscriversi a un sito d’incontri?» suggerì Giely.
   «Non so che dici, mia cara, ma adoro come lo dici!» sghignazzò Chaotica, accostandosi. «Come vedi, il tuo intrepido Capitan Proton ha fallito di nuovo. Non solo non è riuscito a proteggerti, ma ha anche perso la seconda Pietra. Sono sempre più vicino a completare l’arma che ridurrà i miei avversari a polvere spaziale!» esultò, indicando teatralmente l’ordigno.
   Era una scura macchina di forma piramidale, fatta per raccogliere l’energia proveniente dai quattro angoli, concentrarla al vertice e spararla verso l’alto. Una delle Pietre, quella della Terra, era già al suo posto. Il folle scienziato sistemò anche la Pietra dell’Acqua, badando a inserirla nel giusto alloggiamento, contrassegnato dal simbolo dell’elemento. Poi indietreggiò di qualche passo, fregandosi le mani per la soddisfazione. «Quando la superarma sarà completa, signorina Goodheart, avrai un posto in prima fila per assistere al mio trionfo. Ma non è per questo che t’ho fatta catturare» rivelò.
   «Spero non sia per ragioni passionali. Il suo cuore non è tutto per Arachnia?» ricordò Giely. Il suo sguardo corse alla colonnina accanto al trono. Lì, su un cuscino trapunto, era posata una fialetta. Quando le aveva illustrato il gioco, il Capitano le aveva spiegato che quella fiala era un dono di Arachnia, la Regina del Popolo Ragno, di cui il despota era follemente invaghito. Conteneva una delle sue irresistibili pozioni, un concentrato di feromoni: ogni volta che Chaotica l’annusava, cadeva sotto l’incantesimo amoroso della Regina.
   «Oh, Arachnia! Se solo si degnasse di ricambiare il mio affetto!» lamentò il despota, levando le braccia con enfasi. «Ma in effetti non ti ho fatta rapire per rimpiazzarla, stolta terrestre. No, tu sei solo la pedina di un gioco più grande!» proclamò.
   «Quale gioco... sire?» chiese Giely, con aria innocente. Il Capitano le aveva detto che Chaotica adorava spiegare dettagliatamente i suoi piani malvagi agli eroi, quando li catturava. Monologo finale, così si chiamava; era un ottimo modo per scoprire come sconfiggerlo. Essendo un megalomane, inoltre, Chaotica adorava essere chiamato sire o maestà. Appellarsi al suo ego era il modo migliore per indurlo a parlare.
   «Davvero non lo immagini, terrestrucola?» fece il despota, guardandola con sufficienza. «Ora che sei qui, il tuo caro Proton verrà certamente a salvarti, come fa sempre. Ma stavolta io e le mie truppe saremo pronti a riceverlo! Gli tenderemo un’imboscata da cui neanche lui potrà salvarsi. Non cogli la sottile ironia? Tutti hanno un punto debole... e quello di Proton sei tu. L’amore che ti porta sarà la sua rovina!» ghignò.
   Giely restò interdetta. Rivera sarebbe davvero venuto a salvarla, interrompendo la ricerca delle Pietre? Forse sì... ma ciò non significava che l’amasse. Dopotutto avrebbe salvato anche altri, al suo posto; era fatto così. «Ti sbagli, il Capitano non è innamorato di me» si lasciò sfuggire.
   Colto alla sprovvista, Chaotica la osservò perplesso, carezzandosi la barbetta. Gradualmente il ghigno mefistofelico riapparve sul suo viso. «I tuoi infantili tentativi d’ingannarmi sono inutili, mia cara. Dopo tutto ciò che Proton ha fatto per te, è evidente che ti ama» sostenne.
   Giely ripensò al passato, non quello fittizio del gioco, bensì quello reale delle loro vite, cercando di capire come stessero le cose. In effetti Rivera le era stato vicino nei momenti peggiori; più vicino di chiunque altro. E ultimamente aveva fatto dei discorsi ambigui, che potevano essere interpretati come dichiarazioni d’amore. «Non importa se lui mi ama... io non posso ricambiarlo» mormorò rassegnata.
   «Ha-ha, sei sempre più divertente!» rise Chaotica. «Ma risparmiati la commedia. Non puoi negare quel che c’è tra voi; e a riprova di ciò il Capitano sarà presto qui. Allora vi sacrificherò entrambi ad Arachnia, gettandovi nell’abisso infuocato che si trova sotto questa fortezza! Quello sarà il mio pegno d’amore per la Regina, che l’indurrà finalmente a ricambiarmi. Come vedi, sono anch’io un sentimentale!» ironizzò.
   Col morale a terra, Giely tornò a guardarsi attorno, alla disperata ricerca di una scappatoia. Notò di nuovo la fialetta coi feromoni di Arachnia, ma non se la sentì di tentare quella strada. Non era una seduttrice, e in ogni caso Chaotica non sembrava disposto a scordare la Regina dei Ragni in suo favore. «Fossi in te, aspetterei a cantar vittoria» disse la Vorta, cercando di vincere almeno la discussione. «Finora Proton ti ha sempre sgominato, a dispetto dei tuoi piani cervellotici».
   «Con quanta passione lo difendi!» rise Chaotica. «Bene, staremo a vedere. Nel frattempo avrai l’onore di assistere alla partenza della mia flotta».
   «Partenza per dove?» s’inquietò Giely. Ricordò le sue riflessioni sull’urgenza che Chaotica aveva di sfamare le sue truppe; e ricordò pure l’ultimatum che aveva già scagliato contro gli alieni fotonici.
   «Per la conquista, mia cara!» confermò il despota. «Avevo radunato le mie navi per l’attacco alla Terra, ma ora la Quinta Dimensione è là fuori, che aspetta solo d’essere irreggimentata. A pochi anni luce da qui c’è un mondo fertile; sarà il mio primo feudo in questo nuovo cosmo. Ammira la mia potenza!» disse, attivando uno schermo parietale simile all’immagizzatore del Rocketeer.
   Sullo schermo apparve lo spazio punteggiato di stelle, e nello spazio sfrecciarono le navi a razzo di Chaotica. Erano decine, in serrata formazione d’assalto; e indubbiamente erano tutte equipaggiate col Raggio della Morte. Fino a qualche giorno prima Giely non le avrebbe trovate così minacciose, ma dopo aver visto i danni che una sola aveva inflitto alla città sottomarina di Pontus, si chiese cos’avrebbe fatto quella flotta agli alieni fotonici.
   «Come vedi, piccola ingenua, l’ora del mio trionfo si avvicina!» disse Chaotica, tornando a sedersi sullo scranno. «Prima sottometterò quel mondo fertile, garantendo i rifornimenti alle mie truppe. Poi avrò l’immenso piacere di schiacciare Proton, usandoti come esca. Infine, una volta completata la superarma Krell, sarò il dominatore assoluto della Quinta Dimensione, con Arachnia al mio fianco. Così finalmente saremo noi ad avere il lieto fine! MUA-AH-AH-AH-AHHH!».
   Il despota rovesciò la testa all’indietro mentre la sua risata malefica echeggiava nella sala del trono, stranamente amplificata; degno accompagnamento per la flotta da guerra che si lanciava all’assalto. 
 

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Capitolo 6
*** Ostaggi ***


-Capitolo 5: Ostaggi
 
   Seduta sulla poltrona di comando della Destiny, Losira si sorreggeva stancamente il capo con una mano, mentre con l’altra reggeva il d-pad, scorrendo il testo man mano che lo leggeva. Erano giorni che lei e l’equipaggio cercavano di localizzare il Rocketeer, ma stentavano a orientarsi in quello Spazio Fotonico, dove i mondi creati dal programma di Capitan Proton si erano mischiati a quelli preesistenti. E col passare del tempo i loro dubbi erano solo aumentati. Come potevano essere sicuri che i dispersi seguissero la rotta prevista dal programma? E in tal caso, avrebbero visitato i pianeti in quell’ordine o in un altro? Che fare se non si riusciva a incontrarli? Del resto, che certezza avevano che i dispersi proseguissero la caccia alle Pietre? Non era più razionale cercare di riunirsi, prima di affrontare Chaotica?
   A fronte di questi dubbi, Losira aveva preso una decisione drastica. Aveva deciso, per il momento, d’interrompere la ricerca, seguendo invece un’altra traccia. Anche la Destiny, infatti, aveva captato l’ultimatum lanciato da Chaotica contro i nativi dello Spazio Fotonico. C’era un’intera civiltà che rischiava d’essere distrutta, se non l’aiutavano immediatamente. Considerato che Chaotica e la sua flotta erano scaturiti dal loro programma olografico, erano responsabili di ciò che poteva accadere; aiutare i nativi a difendersi era il minimo che potessero fare. E fortunatamente sapevano anche dove cercarli, avendo tracciato il segnale inviato dalla flotta di Chaotica, quand’era giunta ai margini del loro sistema stellare.
   Strada facendo, Losira continuava a studiare le Avventure di Capitan Proton: i personaggi, i popoli e le trame. Tutto poteva tornare utile per capire cosa stessero combinando i dispersi, e anche per prevedere le mosse del nemico. Per la verità, la Risiana non trovava la lettura granché interessante. I personaggi le parevano stereotipati, le trame prevedibili e ripetitive. Però cominciava a capire certe cose degli Umani che fino ad allora le erano sfuggite. Quel desiderio d’esplorare l’ignoto, quella perenne ambivalenza tra meraviglia e timore... e più di tutto la volontà di mettersi alla prova. Decisamente gli Umani non erano fatti per starsene tranquilli sul loro mondo, si disse la Risiana mentre leggeva dell’incontro tra Capitan Proton e le Formiche Succhia-Cervello. No, gli Umani avevano bisogno di problemi da risolvere, al punto che se non ne avevano sottomano, allora andavano a cercarseli.
   «Siamo arrivati al sistema, scendo a velocità impulso» avvertì Shati, distogliendo Losira dalla lettura.
   «Attivare l’occultamento» ordinò la Risiana per precauzione. Ci mancava solo che fossero attaccati da qualche diavoleria uscita dal programma.
   «Occultamento attivato» confermò Naskeel, mentre uscivano dal tunnel di cavitazione. E di colpo si trovarono davanti a una battaglia spaziale in piena regola. Da un lato c’erano le navi a razzo di Chaotica, armate coi Raggi della Morte; dall’altro i difensori, con piccole astronavi dalla testa a martello e armi simili ai phaser. Le due flotte parevano equivalenti, tanto che era difficile stabilire chi stesse vincendo.
   «L’ultimatum di Chaotica è scaduto, evidentemente senza che gli alieni si arrendessero» constatò Naskeel. «Ora i nativi cercano di tenere gli aggressori lontani dal loro pianeta». In quella una delle loro navicelle esplose, indebolendo un’ala dello schieramento.
   «Crede che la flotta di Chaotica possa vincere?» chiese Losira.
   «Non è da escludere, dato che i difensori non sono né più numerosi, né più avanzati tecnologicamente. Deve trattarsi di una specie che sta muovendo i primi passi nello spazio» rispose il Tholiano. «L’ala destra del loro fronte è compromessa, potrebbero cedere» aggiunse, seguendo l’evoluzione dello scontro.
   «Comandante, non possiamo permetterlo!» intervenne Shati. «Se il fronte cede, un intero popolo sarà schiavizzato. Non saremo della Flotta Stellare, ma non possiamo lavarcene le mani!».
   «Suppongo di no» sospirò Losira, vedendo confermato il suo timore. «Allarme Rosso! Rinforziamo quell’ala dello schieramento e vediamo di sfoltire la flotta di Chaotica» ordinò.
   Con i motori a impulso che ruggivano a piena potenza, la Destiny disattivò l’occultamento e si tuffò nella mischia, sparando col suo vasto arsenale. L’effetto fu dirompente, perché la nave federale surclassava le altre sia come dimensioni che come potenza di fuoco. I suoi raggi phaser e anti-polaronici lacerarono i vascelli di Chaotica, talvolta passandoli da parte a parte; i siluri quantici li fecero esplodere come fuochi d’artificio. Colti alla sprovvista da quel furioso assalto, gli aggressori dovettero riorganizzarsi in fretta. Rinunciarono al tentativo di sfondamento e concentrarono il fuoco sulla Destiny, risparmiando le navi aliene. Raggi simili a fulmini tempestarono gli scudi dell’astronave federale.
   «Rapporto» disse Losira, tamburellando nervosamente le dita sul bracciolo della poltroncina.
   «Quei raggi hanno una potenza limitata, gli scudi reggono» garantì Naskeel.
   «Continua a colpire le navi a razzo. Dobbiamo metterle in rotta» ordinò la Risiana. Era la prima volta in vita sua che si trovava a dare ordini del genere e non lo faceva con leggerezza. Ma era indispensabile dare una sonora lezione a Chaotica. Non che avrebbe imparato... i cattivi della Golden Age non lo facevano mai. L’importante era demolire la sua capacità offensiva, così che non minacciasse altri mondi indifesi.
   Vedendo che le sorti della battaglia si ribaltavano, anche gli alieni fotonici ripresero animo. Il loro schieramento si ricompattò attorno alla Destiny ed essi tornarono all’attacco. Concentrarono il fuoco sulle navi a razzo già danneggiate, distruggendone un buon numero. Sull’orlo del disastro, la flotta di Chaotica fece l’unica cosa che le restava: fuggì. Le navi a razzo fecero dietrofront e balzarono a velocità iperluce, prima che la strana alleanza le demolisse tutte. In pochi attimi lo spazio davanti alla Destiny restò vuoto, salvo per i resti contorti degli scafi esplosi.
   «Yu-huuu!» esclamò Shati, gasata dalla vittoria.
   «Siamo indenni, mentre la flotta nemica è in rotta» disse Naskeel, più professionale. «Un terzo delle loro navi è stato distrutto e molte delle rimanenti sono danneggiate. Se c’è un minimo di logica nella loro condotta, torneranno al Pianeta X per riparare i danni e difenderlo da un eventuale contrattacco».
   «Ci conto» disse Losira con un sorriso sinistro. «Ha lanciato i tracciatori, vero?».
   «Affermativo» rispose il Tholiano. Durante la battaglia non si era limitato a scagliare i siluri quantici. Approfittando del caos che distraeva i nemici aveva lanciato anche dei mini-segnalatori subspaziali, che aderivano magneticamente agli scafi nemici. Così, ovunque si fosse ritirata la flotta, loro lo avrebbero saputo. E se, com’era probabile, fosse tornata al Pianeta X, loro avrebbero localizzato il quartier generale nemico.
   «Rilevo il segnale dei tracciatori» confermò Luv, l’addetto ai sensori. «Ce ne sono tredici funzionanti. Indicano che la flotta nemica si mantiene compatta. Penso proprio che ci guideranno al Pianeta X».
   «Traccio la rotta d’inseguimento?» chiese Shati, le mani già sui comandi.
   «No, ferma!» la bloccò Losira. «Anche se abbiamo ottenuto una vittoria, non è il momento di lanciarci in attacchi avventati. Stavo leggendo le Avventure di Capitan Proton e ho visto che Chaotica ha spesso degli assi nella manica. Prima d’attaccare la sua fortezza, voglio farmi degli alleati. È il momento della diplomazia» disse, accennando alla flotta degli alieni fotonici.
   Ora che la battaglia era terminata, gli alieni si erano ricompattati a una certa distanza dalla Destiny, sempre proteggendo il loro pianeta. Malgrado l’aiuto ricevuto, questo non significava automaticamente che ora fossero amici. Tuttavia la loro flotta era seriamente danneggiata e avevano visto la potenza di fuoco della Destiny. Se avevano un minimo di buonsenso, non avrebbero attaccato senza provocazione.
   «Ci chiamano, solo audio» riferì Luv.
   «Apri un canale» ordinò Losira, mettendosi più comoda sulla poltroncina.
   «Sono l’Ammiraglio Preon, comandante in capo delle forze armate di Solara» giunse la voce dell’alieno, resa comprensibile dal traduttore universale. «A nome del mio popolo, vi ringrazio per l’intervento provvidenziale. Tuttavia devo chiedervi d’identificarvi e d’informarci sulle ragioni del vostro arrivo» aggiunse.
   Losira aveva già riflettuto su cosa raccontare, in caso di trattative, per cui ebbe la risposta pronta. «Sono la Comandante Losira dell’USS Destiny, della Federazione Unita dei Pianeti. Posso assicurarvi che veniamo in pace. In effetti siamo qui per un incidente e non vogliamo trattenerci più del necessario».
   «Da dove provenite esattamente? La vostra astronave è diversa da ogni altro vascello a noi noto» ammise il Solarano.
   «È una lunga storia. Avete familiarità col concetto di universi paralleli, realtà alternative?» chiese la Risiana.
   «I nostri scienziati hanno teorizzato questa possibilità, ma finora ci mancavano prove» rispose cautamente l’Ammiraglio.
   «Beh, siamo noi la prova. Noi e anche quella flotta che abbiamo respinto» chiarì Losira.
   «Venite dallo stesso universo? Vi conoscete già?» indagò il Solarano.
   Losira fu tentata di dirgli la verità, ma si trattenne. Ammettere che quella flotta nemica era una loro creazione, sia pure involontaria, avrebbe scatenato reazioni d’incredulità o anche d’ostilità nei Solarani. Era meglio andare sul sicuro e raccontare una versione dei fatti che non li mettesse in cattiva luce. «Il dottor Chaotica e i suoi seguaci sono nostri acerrimi nemici» dichiarò, cercando di suonare convincente. «Li avevamo quasi sconfitti, ma uno strano fenomeno ci ha trasferiti tutti nel vostro cosmo. Crediamo si tratti di un’interfase di spazio, cioè una temporanea sovrapposizione tra le due realtà» disse. Le interfasi erano vere, per quanto rare, quindi potevano servire come scusa.
   «Continui» disse l’Ammiraglio.
   «Sulle prime ci siamo trovati disorientati e abbiamo evitato i contatti» disse la Risiana. «Invece Chaotica deve averla vista come un’opportunità di riscatto e così vi ha assaliti. Avete fatto bene a non cedere al suo ultimatum, perché vi avrebbe fatti schiavi. Ora la sua flotta è decimata e se tornerà al suo mondo potremo localizzarlo, grazie ai tracciatori che abbiamo agganciato agli scafi».
   «Ingegnoso» riconobbe il Solarano. «Come intendete procedere?».
   «Urge un attacco contro la fortezza di Chaotica, prima che il nemico possa riorganizzarsi» rispose Losira. «Abbiamo un’astronave potente, come avete visto, ma ci piacerebbe avere il vostro supporto. Dopotutto è anche nel vostro interesse eliminare questa minaccia. Se noi ci ritirassimo, penso che attacchereste comunque il covo di Chaotica, non è così?».
   «Dopo quest’aggressione, non possiamo permettergli di riarmarsi per tornare a minacciarci» convenne l’Ammiraglio. «Dunque ci propone un’alleanza. Si tratta di una decisione politica; dovrò discuterne coi capi del mio governo».
   «Devo chiedervi di fare in fretta. Siamo ansiosi di chiudere i conti con Chaotica, per cui ci occorre una risposta al più presto» avvertì Losira. «E c’è un’altra faccenda» aggiunse, più a disagio.
   «Sarebbe?».
   «Nel suo ultimatum, Chaotica accennava a un certo Capitan Proton...».
   «Sì, lo ricordo. Per caso è uno dei vostri?».
   «Proprio così. Sfortunatamente risulta disperso su una navicella, il Rocketeer, assieme ad altri due nostri ufficiali, Buster Kincaid e Constance Goodheart» rivelò la Risiana, presumendo che continuassero a usare i nomi fittizi. «Siamo determinati a fare tutto il possibile per salvarli. Perciò vi chiedo se li avete incontrati, o se almeno ne avete notizia. Qualunque informazione ci sarà preziosa».
   «Spiacente, ma non so nulla di questi individui» disse il Solarano.
   «Se veniste a saperne qualcosa, c’informerete?» chiese Losira, sulle spine. Aveva esitato a parlare dei dispersi con quegli alieni appena conosciuti, perché significava ammettere una debolezza e quindi rendersi ricattabili. Per quanto ne sapeva, potevano essere proprio i Solarani ad averli catturati. Ma era un rischio che andava corso. Se i Solarani erano innocenti, li avrebbero aiutati a ritrovarli. E se invece erano colpevoli, avrebbero attribuito tanto valore agli ostaggi da non ucciderli per nulla.
   «Sì, avete la mia parola che qualunque informazione sui vostri simili vi sarà prontamente comunicata» promise l’Ammiraglio. «È il minimo che possiamo fare, dopo il vostro aiuto. Ora devo lasciarvi, per conferire col mio governo su questi sviluppi».
   «Lo faccia, nel frattempo manterremo la posizione» disse la Risiana. «Spero che questo sia l’inizio di una proficua alleanza contro il nostro nemico comune. Destiny, chiudo».
   Per qualche momento vi fu silenzio, poi Naskeel prese la parola. «Forse è stata incauta a menzionare i dispersi» notò.
   «È un rischio calcolato» sospirò Losira. «Così almeno non rischiano di finire nel fuoco incrociato. E poi ci servono alleati. Da quando ci siamo smarriti nel Multiverso, questa è la prima volta che abbiamo l’opportunità di farcene».
   «Hai agito come un vero Comandante della Flotta Stellare» la rincuorò Shati, che approvava la sua decisione.
   «Già, speriamo che non abbia a pentirmene» pensò Losira, riadagiandosi contro lo schienale della poltroncina. Era in pena per i dispersi e in particolare per Talyn. Si chiese dov’era in quel momento, se stava bene oppure no. Se fosse stato in pericolo, mentre lei perdeva tempo a tessere improbabili alleanze, non se lo sarebbe mai perdonato.
 
   Mentre riacquistava gradualmente i sensi, lottando contro il torpore indotto dal gas, Talyn cercò di rammentare cos’era successo. Gli ultimi ricordi gli tornarono a sprazzi. L’arrivo a Borea, l’incontro con gli Uomini Falco, il piano azzardato per abbattere il Tyrannic. E poi il folle inseguimento tra le vette, l’arrivo del disco volante e infine l’attacco col gas. Era stato fortunato che si trattasse di gas soporifero, anziché letale. Sempre che essere imprigionato da loro potesse dirsi fortuna...
   «Gasp!» boccheggiò l’El-Auriano, spalancando gli occhi. Si accorse d’essere steso su uno scomodo lettino metallico, così che i suoi occhi fissavano il soffitto. Provò ad alzarsi, ma scoprì d’essere immobilizzato: polsi e caviglie erano in ceppi, agganciati direttamente al lettino.
   «Ben svegliato, tesoro!» trillò una voce femminile che conosceva fin troppo bene. «Hai fatto bei sogni? Dormivi come un pupo!».
   «Groan, ho la sensazione che l’incubo sia appena iniziato» borbottò il giovane.
   «E hai ragione! Sei nostro prigioniero, il che significa che soffrirai più di quanto qualunque Terrestre abbia mai sofferto!» minacciò una seconda voce, simile alla prima ma più aggressiva. Una mano dalle unghie nere, ad artiglio, tirò una leva e il lettino si sollevò, costringendo Talyn a mettersi in piedi, pur essendo ancora in ceppi. Allora l’El-Auriano vide bene coloro che lo avevano catturato.
   Malicia e Demonica, le Signore Gemelle del Male, lo osservavano fianco a fianco. Erano due dark lady dagli appariscenti costumi neri e argento, coi tacchi vertiginosi che facevano risuonare ogni passo, gli svolazzanti mantelli scuri e gli esagerati copricapi biforcuti che non servivano a niente. I loro abiti erano identici, fino all’ultimo dettaglio. E identico era anche il loro aspetto fisico, dai lunghi capelli neri raccolti in acconciature estrose fino agli occhi scuri, che fissavano famelici il prigioniero.
   «Malicia, Demonica! Quanto tempo!» le salutò il giovane. «Non ce l’avrete ancora con me per quando ho liberato i vostri schiavi dal controllo delle Formiche Succhia-Cervello, vero?».
   «Certo che no, tesoro» rispose una delle Signore del Male. «Anzi, ti siamo quasi grate. Ci hai dato l’occasione di rimpiazzarli con servitori più affidabili» disse, accennando a qualcosa dietro di sé. Le gemelle si scostarono per mostrare alcuni robot di forma tronco-conica, alti un metro e mezzo, che si muovevano su piccole ruote. In sommità avevano una cupola su cui spiccava un occhio elettronico maligno. A metà altezza presentavano sottili arti, simili a quelli degli insetti, che terminavano con tenaglie, ventose e altri bizzarri strumenti.
   «STERMINARE! STERMINARE!» disse uno di loro con voce meccanica, dirigendosi verso Talyn.
   «No, fermo!» lo bloccò una delle gemelle, con un gesto imperioso. «Ci serve vivo, per il momento».
   Il robot si fermò a un soffio dal prigioniero e poi arretrò lentamente, si sarebbe detto con riluttanza.
   «Grazie, Demonica. Lo sapevo che in fondo hai un cuore d’oro» disse Talyn.
   «Io sono Malicia; Demonica è lei» disse la Signora del Male, accennando alla gemella.
   «Fa lo stesso» disse l’El-Auriano, facendo spallucce. «Allora, che prevede il programma?».
   «Tanto per cominciare, ci occuperemo di questa» disse Demonica, traendo da chissà dove la Pietra dell’Aria. «Sappiamo che Chaotica la sta cercando spasmodicamente. Eravamo pronte a distruggere il suo vascello per arrivarci prima noi, ma per fortuna ci avete pensato voi eroi a fare il lavoro sporco!» ridacchiò.
   «E ora che l’avete, cosa contate di farci?» chiese il giovane. «Quella pietra, da sola, non ha alcun potere. Dovreste radunarle tutte, ma ciò significa far guerra a Chaotica».
   «Non abbiamo alcun interesse a contendergli questi ciottoli» ribatté inaspettatamente Demonica. Palleggiò la Pietra, gettandola in alto e riacciuffandola al volo. «Quindi gliela venderemo in cambio di un lauto compenso. Una delle sue invenzioni, magari».
   «Sì, ad esempio la Sonda Cerebrale!» disse Malicia, saltellando tutta eccitata. «Così potremo riprendere da dove ci eravamo interrotti, tesoro» si rivolse a Talyn.
   «Uhm, sicure che vi convenga lo scambio?» chiese l’El-Auriano, squadrando l’una e l’altra. «Se avrà tutte le Pietre, Chaotica sarà in grado di distruggere interi mondi».
   «Far esplodere i pianeti è noioso!» affermò Demonica. «Noi preferiamo governarli, e il modo migliore è controllare i pensieri degli abitanti» disse, facendosi più vicina e insinuante. «Con la Sonda Cerebrale potremo farlo con tutti voi Terrestri. Scivoleremo nei vostri pensieri, più inafferrabili di un sogno, e prima che ve ne rendiate conto vi avremo tutti ai nostri piedi, ah-ah-ah-ah!» rise, fiera della sua perfidia.
   «E non temete che, se completerà la superarma, Chaotica la collaudi proprio contro il vostro disco volante?» insisté Talyn.
   «Bah! Sarebbe un bersaglio troppo piccolo, sfuggente e lontano» sostenne Demonica. «E poi non credo che, anche con questa Pietra, riuscirà a completare l’arma. C’è sempre qualcosa che lo sconfigge all’ultimo momento».
   «Intendi Capitan Proton? Lo avrete risparmiato, spero» disse il giovane, sapendo che era la sua unica speranza di salvezza. Quelli della Destiny avevano più mezzi, certo, ma non sapevano nemmeno che fosse stato rapito.
   «Oh, lo abbiamo risparmiato eccome, il tuo eroe!» disse Demonica con una smorfia. «Temo però che sia rimasto appiedato, dopo che il vostro catorcio s’è sfasciato contro il fianco della montagna. Che peccato... per un asso dei cieli è triste restare bloccato a terra! Ah-ah-ah-ah!». Lei e la sorella si esibirono in una risata sincronizzata.
   Talyn si morse il labbro, cercando d’immaginare in che modo il Capitano potesse ribaltare la situazione. Se il Rocketeer era andato, difficilmente avrebbe trovato altre astronavi su Borea. Forse poteva inviare un segnale di soccorso alla Destiny? Erano tutte elucubrazioni senza prove; l’unica certezza era che lui si trovava ostaggio di quelle svitate.
   «Oh, adesso sei triste anche tu?» chiese Malicia, accostandosi. «Non lo sarai a lungo, tesoro. Non appena avremo concluso lo scambio, proverai la Sonda Cerebrale. Allora sarai felicissimo di stare con noi!» promise, solleticandogli il mento.
   «Sarai il nostro burattino!» infierì Demonica.
   «Il nostro schiavo!» rincarò Malicia.
   «Lo sapevo che dovevo leggere le clausole scritte in piccolo, prima di firmare per lo spazio» ironizzò Talyn.
   «Fa’ pure lo spiritoso, sono le tue ultime battute» avvertì Demonica. «Ti terremo in cella finché non avremo concluso l’affare; poi ci sarà da divertirsi. E non tentare la fuga, altrimenti...» schioccò le dita.
   «STERMINARE! STERMINARE!» gli ricordò uno dei robot a forma di bidone, schioccando le tenaglie.
   «Uff, detesto il lunedì mattina» sbuffò Talyn, mentre le Forze del Male stringevano il cerchio attorno a lui.
 
   Su Borea, il Capitano era rimasto a fissare il cielo anche dopo che il disco volante era svanito alla vista. Il vento lo frustava, ma l’Umano era così annientato da non avvertire nemmeno il freddo. Sembrava intenzionato a restare così, fino a trasformarsi in una statua di ghiaccio. Fu il principe Griffin a intervenire per riscuoterlo.
   «Questo non è il momento di cedere allo sconforto, Capitan Proton. Ora più che mai il cosmo ha bisogno di te!» disse l’Uomo Falco, posandogli fraternamente una mano sulla spalla.
   «Bisogno di me?» si riscosse Rivera. «E io che ho da offrire? Sono un Capitano senza astronave e senza equipaggio!» inveì, scostandosi.
   «La sorte ti è stata ostile» ammise Griffin. «Ma è in momenti come questo che inizia la riscossa! Hai scordato il tuo motto? Mai darsi per vinti, mai arrendersi!» citò.
   «Bah! Queste sono le frasi motivazionali che trovi nei Biscotti della Fortuna!» sbottò il Capitano. «La realtà è più complessa e spesso i furfanti la fanno franca. Mi sono illuso che stavolta fosse diverso e guarda che ho ottenuto! Constance è ostaggio di Chaotica, mentre Buster è in balia di quelle due strappone! Io ho perso tre Pietre su quattro e non ho neppure un’astronave con cui cercare l’ultima. Che riscossa dovrei avere, eh?!».
   Per un attimo l’Umano fu sul punto di confessare che non era nemmeno Proton, che il vero Proton non era mai esistito, che era tutta una fantasia. La fantasia infantile e ridicola di chi si atteggiava a eroe, pur sapendo bene di non esserlo. Si trattenne solo perché gli Uomini Falco non gli avrebbero creduto e, pur nella sventura, non voleva essere creduto pazzo dai suoi anfitrioni.
   Impressionato dallo sfogo, il principe tacque per lunghi momenti. Quando infine parlò, c’era un’inedita solennità in lui. «Sono cresciuto sentendo narrare le tue gesta, Capitano. Quando sei giunto tra noi, credevo che fossero esagerate. A ben vedere, forse ero solo invidioso» confessò. «Ma poi ho appreso a rispettarti, sia nell’arena che nel campo di battaglia. Oggi ti ho visto compiere acrobazie inimitabili tra le vette e conquistare un vascello nemico. Mi hai persino salvato la vita, disinnescando l’auto-esplosione. Sei all’altezza della tua leggenda, Capitan Proton! Io e il mio popolo siamo in debito con te, pertanto ti aiuteremo nella riscossa».
   Rivera ascoltò quell’elogio con vago interesse, pur chiedendosi quanto fosse attendibile l’opinione di un personaggio fittizio. Ma poteva ancora dirsi fittizio? Ormai la storia correva su binari del tutto nuovi; pensieri e discorsi dei personaggi non erano più determinati dal programma. Dunque nel breve tempo trascorso su Borea s’era guadagnato almeno il rispetto degli Uomini Falco; era meglio di niente. Comunque Griffin stava sprecando il fiato: gli ostacoli pratici erano insormontabili.
   «Bel tentativo, ma hai scordato che non ho più un’astronave?» notò l’Umano, accennando al punto in cui era precipitato il Rocketeer. Dal fondovalle potevano intravedere il relitto, precariamente posato sul ciglio di un precipizio.
   «La tua navicella è ancora tutta d’un pezzo; forse il danno non è irreparabile» ragionò il principe, scrutandola con i suoi occhi di falco. «Io e i miei compagni ti porteremo lassù e ti aiuteremo nelle riparazioni. Se necessario sfrutteremo il Tyrannic per reperire i pezzi di ricambio. E se riusciremo a farla volare di nuovo, verrò con te, per aiutarti nella tua cerca» promise, portandosi una mano al cuore per enfatizzare il giuramento.
   Rivera esitò. Era un tentativo disperato, ma che aveva di meglio da fare? Star lì a commiserarsi non lo avrebbe aiutato a salvare i suoi compagni, né a fermare Chaotica. Dunque avrebbe tentato, se non altro per mettersi il cuore in pace e poter dire a se stesso che le aveva provate tutte. Del resto, se tutti – amici e nemici – si aspettavano che lui fosse Capitan Proton... ebbene, chi era per deluderli? «E va bene, saliamo a dare un’occhiata» disse, calandosi gli occhialoni da aviatore.
 
   Legata a una delle colonne ai lati del trono, Giely ascoltava Chaotica che, camminando avanti e indietro nel salone, teneva un monologo pomposo e megalomane. Ogni tanto il despota si girava verso di lei, come aspettandosi un incoraggiamento; allora la Vorta annuiva e faceva qualche commento generico. Tanto bastava perché Chaotica si sentisse spronato a riprendere il discorso. Sarebbe stato buffo, si disse la dottoressa, se solo non l’avessero legata come un salame. Quando le guardie l’avevano tratta dalle Segrete del Dolore, per riportarla nella sala del trono, aveva temuto il peggio. Temeva che la trappola contro il Capitano stesse per scattare e lei ne fosse l’esca, come minacciato da Chaotica. Invece il despota voleva interrogarla sulle difese terrestri, cosa di cui lei non sapeva assolutamente nulla. Così aveva fatto leva sul suo ego per indurlo a lanciarsi in un monologo, dimenticando il motivo per cui l’aveva convocata.
   «… indi per cui, tutti i Terrestri si piegheranno al mio volere!» concluse il folle scienziato. Si girò di scatto e si accostò a Giely, che tornò a preoccuparsi. Se Chaotica riprendeva l’interrogatorio, non sapeva più che inventarsi per celare la sua ignoranza. In quella però si udì il gong che annunciava le visite.
   «Chi osa disturbarmi mentre lavoro?!» sbottò il despota.
   Il portone si spalancò e il Robot Satanico entrò col suo passo dondolante. «VOSTRA MAESTÁ – LE SIGNORE DEL MALE SONO QUI PER PROPORVI UN ACCORDO» disse con la sua voce meccanica.
   «Un accordo? Introducile!» ordinò Chaotica, affrettandosi al trono. Le avrebbe ricevute assiso sul suo scranno, come si confaceva al Dominatore del Cosmo. Dal suo angolino, Giely allungò il collo, decisa a non perdersi una parola dell’incontro.
   «LE SIGNORE DEL MALE» annunciò il Robot Satanico, accennando all’entrata. Le gemelle fecero il loro ingresso teatrale, coi tacchi che risuonavano sul pavimento e i mantelli svolazzanti, scortate dai loro automi.
   «Malicia, Demonica! A cosa devo il nefasto piacere?» chiese Chaotica, unendo le punte delle dita in una strana posa riflessiva.
   «Siamo qui per affari, maestà!» rispose Demonica, la più decisa delle due. «Conosciamo la tua ossessione: radunare le Pietre degli Elementi per completare la superarma Krell».
   «Sì, e come vedete sono già a buon punto!» si vantò Chaotica, accennando all’ordigno. «Le Pietre della Terra e dell’Acqua sono già in mano mia. Presto avrò quella dell’Aria e...».
   «Al tempo!» fece Demonica. «La vittoria non sarà facile come speri. T’informo che Capitan Proton ha abbattuto il Tyrannic, la tua nave ammiraglia, attirandola in un’imboscata su Borea».
   «Maledetto!» inveì il despota, levando rabbiosamente le mani. «Ma voi come lo sapete?».
   «Noi eravamo lì, maestà!» ridacchiò Malicia. «Non come tu, che resti qui a trastullarti!» insinuò, dando un’occhiata alla prigioniera legata.
   «Siamo giunte tardi per salvare il Tyrannic, ma giusto in tempo per vendicarlo. Abbiamo abbattuto il Rocketeer!» si vantò Demonica.
   A quelle parole Giely si sentì sprofondare. Se le Signore del Male avevano ragione, Rivera e Talyn erano morti. Il solo pensiero l’angosciò a un livello indescrivibile; era come se qualcuno le serrasse la gola, impedendole di respirare. No, non voleva crederci... non senza una conferma.
   «Lo avete abbattuto?! Che ne è di Proton?» chiese Chaotica, altrettanto interessato, sia pure per ragioni opposte.
   «In quel momento era sbarcato a terra, per espugnare il Tyrannic» ammise Demonica, perdendo un po’ di sicurezza.
   «Dunque è ancora vivo!» si adombrò Chaotica, mentre Giely riprese animo.
   «Comunque è rimasto bloccato su Borea, senza un vascello» sostenne Demonica, ritrovando la grinta.
   «E la Pietra dell’Aria?» incalzò il despota, innervosito.
   «Qui viene il bello... la Pietra ce l’abbiamo noi!» trillò Malicia.
   «È questo l’affare che siamo venute a proporti. Cosa sei disposto a darci, in cambio del pezzo mancante della tua superarma?» chiese Demonica.
   «Le ricchezze non mi mancano, ma conoscendovi credo che abbiate già deciso la contropartita» disse Chaotica, carezzandosi la corta barba. «Parlate, dunque».
   «Vogliamo quella!» trillò Malicia, indicando una strana apparecchiatura posta accanto al lettino da tortura. Da una base munita di rotelle s’innalzava un palo di sostegno alto quanto una persona e terminante in una forcella. La forcella reggeva uno strumento conico e direzionabile, simile a un’arma, non fosse per la lucetta posta in punta.
   «Come immaginavo, avete scelto la più subdola e geniale delle mie invenzioni!» ghignò Chaotica. «La vedi, signorina Goodheart?» si rivolse alla prigioniera. «Quella è la culla della persuasione... la Sonda Cerebrale! Pensavo di usarla per interrogarti, ma con Proton fuori gioco non ne avrò bisogno. Del resto non credo che tu abbia molte informazioni di valore, in quella testolina vuota!» infierì.
   Giely si adombrò, chiedendosi se anche quell’apparecchio funzionasse. Forse sì... finora le tecnologie scaturite dall’olo-programma avevano sempre funzionato. Era lieta di non doverlo scoprire a sue spese, ma la inquietava il fatto che Chaotica si avvicinasse a completare la superarma.
   «Dunque l’affare è fatto?» chiese Demonica, sempre concentrata sullo scienziato folle.
   «Sarà fatto dopo che mi avrete mostrato la Pietra, e io ne avrò verificata l’autenticità!» ammonì Chaotica.
   «Credi che potremmo ingannarti? Come osi! Dopo tutte le volte che ti abbiamo prestato aiuto!» insorse Malicia, più ferita che adirata.
   «È inutile che tu mi tenga il broncio, mia cara» ribatté Chaotica. «Le nostre collaborazioni sono sempre state improntate all’utilitarismo; e non sono mancati gli scontri. In definitiva non vi devo nulla, né sono tenuto a fidarmi di voi».
   «Sei senza cuore!» accusò Demonica. «È questo che mi piace di te...» aggiunse subito dopo, sbattendo le lunghe ciglia.
   «Risparmia le lusinghe; la mia passione arde solo per Arachnia» le ricordò il despota. Il suo sguardo indugiò sulla fiala che la Regina dei Ragni gli aveva donato. Chaotica la considerava un pegno d’amore, senza accorgersi di quanto l’intruglio lo influenzasse ogni volta che lo annusava.
   «E dov’è Arachnia, adesso? Siamo noi, non la tua ragnetta, a offrirti la Pietra dell’Aria!» esclamò Malicia. Schioccò le dita, al che uno dei suoi robot si fece avanti. Uno sportellino si aprì sul suo rivestimento metallico, rivelando il manufatto.
   A quella vista Chaotica si alzò dal trono, gli occhi accesi di bramosia. Si avvicinò a passo svelto ed esaminò la Pietra come aveva fatto con le altre. Il robot però non gli permise di estrarla dall’alloggiamento, prima che l’affare fosse concluso. «È autentica!» riconobbe il despota.
   «Ne dubitavi? Non cercare d’estrarla a forza, perché l’automa la frantumerà piuttosto che rilasciarla» ammonì Demonica. «Se la vuoi, concludiamo l’affare».
   «Ebbene, concludiamolo!» acconsentì Chaotica. «Prendete la Sonda Cerebrale, è tutta vostra».
   A quelle parole i restanti automi delle Signore del Male staccarono la Sonda dal suo alimentatore e la portarono via, grazie alla base munita di rotelline.
   «La Pietra, ora!» disse Chaotica, tendendo la mano con gesto autoritario.
   «Lasciala, numero 6» ordinò Demonica all’automa. Questi obbedì, permettendo al despota di estrarla del tutto dall’alloggiamento.
   «È un piacere fare affari con voi!» disse lo scienziato folle, collocando la Pietra dell’Aria al suo posto, nel basamento della superarma. «Presto sarò il dominatore assoluto della Quinta Dimensione. Il primo mondo sta già per cadere sotto il mio dominio... sarà la testa di ponte per le prossime conquiste...» gongolò, perso nei suoi piani.
   In quella però il gong dell’ingresso suonò di nuovo e una guardia di Chaotica entrò precipitosamente, senza nemmeno aspettare il permesso. «Mio signore, una terribile notizia!» ansimò, prostrandosi fino a terra.
   «Come osi interrompermi in questo momento di somma importanza?!» s’infuriò il despota. Già detestava avere brutte notizie; ma riceverle davanti alle Signore del Male minava la sua credibilità.
   «Maestà, la vostra flotta... quella inviata contro Solara...» ansimò il messaggero.
   «Ebbene, che ha fatto?» incalzò Chaotica.
   «Stava per prevalere, quando i nativi sono stati soccorsi da un vascello sconosciuto. Un’immensa, potentissima astronave che ha devastato la vostra flotta! Un terzo delle navi sono state distrutte e le rimanenti stanno tornando qui» rivelò la guardia.
   A questa notizia Chaotica lanciò un grido inarticolato. Dette un calcio al povero messaggero, rovesciandolo a terra, e poi si aggirò per il salone, fuori di sé per la rabbia e la frustrazione. «Maledetti... maledetti! Una sola nave, dici? E a chi appartiene? Chi ha osato tanto? Parla!» ringhiò.
   «Era un’astronave ignota, di un modello mai visto prima» disse la guardia, rialzandosi tutta tremante.
   «Forse sono altri nativi della Quinta Dimensione» suggerì Malicia.
   «Nel qual caso ti suggerisco di difendere questa fortezza, prima di lanciare nuovi assalti avventati» aggiunse Demonica.
   «Voglio vederli!» ringhiò Chaotica, recandosi a una consolle. Armeggiò con i comandi, collegandosi con la sua flotta malmessa che stava rientrando, e si fece inviare le registrazioni fatte durante la battaglia. L’immagizzatore entrò in funzione, mostrando i momenti salienti dello scontro. Fu così che tutti videro la Destiny entrare in scena giusto in tempo per ribaltare l’esito; ma solo Giely la riconobbe. La Vorta fu rincuorata nel vedere che i suoi colleghi erano all’opera. Il suo sollievo però svanì quando si rese conto che con ogni probabilità la Destiny avrebbe attaccato la Fortezza del Destino... senza sapere che lei vi era imprigionata! C’era il rischio che il palazzo le crollasse in testa, se Chaotica non si arrendeva.
   «Così è questa la nave che osa sfidarmi!» borbottò il despota, ancora agitato. Si rivolse ai suoi scherani: «Appena la flotta sarà tornata, voglio che si schieri a difesa di questa fortezza. Sollevate lo Scudo di Lampi, massima energia al Raggio della Morte! Le nostre difese devono essere impenetrabili!».
   «Beh, vedo che sei molto impegnato, quindi noi togliamo il disturbo!» disse Demonica, dirigendosi verso l’uscita assieme alla gemella.
   «Aspettate!» le rincorse Chaotica. «Se unite il vostro vascello ai miei, saremo invincibili!» propose.
   A queste parole le gemelle si girarono con movenze perfettamente sincronizzate e speculari. «Perché dovremmo rischiare la nostra astronave contro un nemico che tu hai attirato?» chiese Malicia.
   «Le nostre collaborazioni sono sempre state improntate all’utilitarismo. Noi non ti dobbiamo nulla!» aggiunse Demonica, echeggiando le precedenti parole di Chaotica. Le Signore del Male risero all’unisono e lasciarono il salone, seguite dagli automi con la Sonda Cerebrale. Sarebbero tornate di gran carriera sul loro disco volante, lasciando il Pianeta X prima che fosse assediato.
   Umiliato, e anche impaurito per la difficile battaglia che si prospettava, Chaotica tornò verso il trono. A un tratto si fermò e si girò lentamente verso Giely, fissandola con occhi ardenti. «Si direbbe che tu non mi sia più utile, nemmeno come esca» sibilò. «Ho ben altri nemici che il tuo Capitano. Tuttavia ti terrò in vita, nel caso che Proton riesca in qualche modo a lasciare Borea. Prega che ciò avvenga il più tardi possibile!». Al suo cenno il Robot Satanico si fece avanti, slegando la prigioniera, solo per riportarla nelle Segrete del Dolore.
 
   Chiuso in una cella sorvegliata da due automi, Talyn sedeva con la schiena contro la parete. Il giovane si girava i pollici e fischiettava uno strano motivetto, cercando di non pensare a cosa l’attendeva. Se solo tutto attorno a lui non fosse stato così grigio! Quella monocromia gli ricordava in ogni momento di trovarsi in una trappola che s’era creato da solo, giocando sul ponte ologrammi. E questo gli rendeva particolarmente difficile accettarlo. Se l’avessero catturato dei veri nemici, se ne sarebbe fatto una ragione. Ma essere rapito dalle Signore del Male uscite dalle Avventure di Capitan Proton era imbarazzante. L’El-Auriano fischiettò più forte, come per scacciare la tensione. Non ricordava dove avesse udito quella melodia o chi gliela avesse insegnata; aveva la sensazione che fosse sempre stata nella sua testa. Forse era una ninna nanna che sua madre gli cantava da piccolo; ma essendo rimasto orfano in tenera età non ne era sicuro.
   «Senti, senti, come pigola il nostro ostaggio! Forse la gabbia gli sta stretta!» disse la voce familiare di Demonica.
   «Sarai lieto di sapere che siamo qui per tirarti fuori, tesoro. Il nostro affare con Chaotica è andato a meraviglia!» aggiunse Malicia.
   Talyn alzò lo sguardo, notando le gemelle che si pavoneggiavano davanti all’ingresso. Pensò brevemente a una risposta salace, ma poi cambiò idea e continuò semplicemente a fischiettare.
   «Beh, hai perso la lingua?! Hai sentito che abbiamo detto?» chiese Demonica, più rude.
   «Abbiamo la Sonda Mentale, e indovina su chi vogliamo provarla?» trillò Malicia, mandandogli un bacio a distanza.
   Il giovane continuò deliberatamente a fischiettare, ignorandole. Qualunque cosa accadesse, non voleva dar loro la soddisfazione di vederlo intimorito. E intimorito lo era davvero, non solo per il fatto che quelle squinternate avessero la Sonda, ma anche perché grazie a loro Chaotica aveva ottenuto la terza Pietra.
   «Ti faremo smettere noi di fischiare! Portatelo fuori!» ordinò Demonica agli automi, premendo il comando d’apertura dell’ingresso.
   Le sbarre cilindriche rientrarono nella parete, liberando il passaggio. I due automi entrarono, uno dopo l’altro, e circondarono l’El-Auriano. Uno gli dette una lieve scossa elettrica per costringerlo ad alzarsi. «STERMINARE BUSTER?» chiese alle padrone.
   «Non ancora... solo se continuerà a fare il discolo!» disse Demonica, con un sorriso sadico.
   A questo punto il giovane uscì finalmente dalla cella. «Spero che questo trabiccolo volante si stia allontanando a tutta birra dal Pianeta X. Perché non mi stupirei se Chaotica ci prendesse a bersaglio, appena completata la superarma» ribadì.
   «Tranquillo, tesoro. Presto quel despota da operetta avrà altro a cui pensare!» assicurò Malicia.
   «Ad esempio?» chiese Talyn, assetato d’informazioni.
   «Ad esempio ai nemici che gli hanno già decimato la flotta e ora potrebbero attaccare la sua fortezza per esigere vendetta!» disse Demonica, eccitata al pensiero della strage.
   «Eh sì, avrebbe dovuto pensarci, prima di attaccare i nativi della Quinta Dimensione. La sua fretta potrebbe costargli il trono, e anche la vita» convenne Malicia. Scambiò con la gemella un’occhiata fatalista, che si trasformò in un sorriso perfido.
   «Peggio per lui... e buon per noi. Lo osserveremo a debita distanza, per farci un’idea delle capacità dei nativi. Così potremo agire con più criterio» rivelò Demonica, sempre più sinistra. «E ora basta parlare. È tempo di strillare!» disse, avviandosi lungo il corridoio, col mantello scuro che le svolazzava dietro. Schioccò le dita per indicare agli automi a seguirla, scortando il prigioniero. A Talyn non restò che muoversi.
   «Non temere, tesoro. Non farà così male... credo» gli bisbigliò Malicia, che chiudeva il corteo.
   Giunsero nel salone degli interrogatori in cui Talyn s’era svegliato dopo la sua cattura. L’El-Auriano notò subito la nuova apparecchiatura posta accanto al lettino. La riconobbe: era davvero la Sonda Cerebrale, che aveva visto negli episodi precedenti.
   «Sul lettino, svelto!» ordinò Demonica, impaziente di usarla.
   Marcato stretto dai robot, Talyn non poteva fuggire. Ma pensò che forse aveva ancora un margine d’azione. Non c’erano che tre passi da compiere: sabotare la Sonda, appartarsi con le Signore del Male in modo che non avessero gli automi a portata di mano e infine sopraffarle, possibilmente senza ucciderle. Ma se era facile stabilire cosa fare, il difficile era il come; non gli restava che improvvisare. «Suvvia, belle signore! Pensate davvero che sia necessario sottopormi a quell’arnese, col rischio di danneggiarmi la mente?» chiese, accostandosi alla Sonda. La osservò bene, cercando la sua alimentazione, e finalmente vide un cavo che si dipartiva dalla base per correre lungo il pavimento, fino alla parete.
   «Certo che sì! Sei l’aiutante di Proton, non lo tradiresti mai spontaneamente!» fece Demonica, in tono acido.
   «Già, l’aiutante di Proton! Sempre e solo quello! Un gregario, una spalla!» fece il giovane, fingendosi esasperato. «L’ho aiutato per anni, correndo tutti i suoi rischi, eppure non sono mai uscito dalla sua ombra. Ci resterò per sempre, se non colgo l’occasione. E l’occasione siete voi. Perché prosciugarmi il cervello, quando potete averlo com’è ora?» chiese. Mentre parlava ebbe l’accortezza di girare attorno al lettino, in modo da frapporlo fra sé e le Signore del Male. Abbassò lo sguardo solo per un istante, assicurandosi che il cavo d’alimentazione corresse vicino ai suoi piedi.
   Le malefiche gemelle si scambiarono uno sguardo scettico. «Vuoi convincerci che tradiresti non solo Proton, ma tutta la Terra?! Che ci aiuteresti nel condurre i nostri perfidi piani?!» chiese Demonica.
   «Perché no? Sono sempre stato affascinato dalla vostra... sagace scelleratezza» ammiccò Talyn. Con un calcio piccolo, ma deciso, colpì il cavo facendolo staccare dalla Sonda. Prese com’erano dal suo discorso, le Signore del Male non se ne accorsero.
   «Però, che cavaliere! Perché non ce lo teniamo così?» propose Malicia, guardando speranzosa la gemella.
   «Perché lui è uno dei buoni, quindi non possiamo fidarci!» ribatté Demonica. «Quando sarà cattivo come noi, allora sì che ci divertiremo! Sul lettino, ora!». Gli si avventò contro, buttandolo sul lettino con una spinta.
   Talyn avrebbe potuto opporre resistenza, ma i robot sarebbero certamente venuti ad aiutare la loro padrona e contro di loro aveva poche speranze. Quindi lasciò che le malefiche gemelle lo immobilizzassero. Certo che, nel vedere la Sonda Cerebrale puntata contro la sua testa, sudò freddo.
   «Ha ha, ora comincia la festa!» ridacchiò Demonica. «Tra pochi istanti il raggio psionico annullerà la tua volontà, rendendoti nostro schiavo. Non ti muovere e non cercare di resistere, o soffrirai più del necessario» raccomandò, le mani già sul tasto d’accensione.
   «Ti tengo fermo io, tesoro» si premurò Malicia. Postasi dietro la testata del lettino, prese la testa di Talyn tra le mani e la tenne immobile. «Quando vuoi, sorella!».
   «Tre, due, uno... contatto!» esclamò Demonica, premendo il tasto. Poiché la Sonda era senza energia, non accadde nulla. Non un ronzio, non un bagliore luminoso.
   «Beh? È normale che faccia così?» chiese Malicia, un po’ delusa. Lasciò andare Talyn e si accostò all’apparecchio, per esaminarlo più da vicino.
   «No, per tutte le stelle nere!» imprecò Demonica. In preda alla stizza premette più volte il tasto, senza miglior esito. «Quel pallone gonfiato di Chaotica ci ha imbrogliate, rifilandoci una Sonda difettosa! Dovevamo testarla, prima di cedergli la Pietra!» si rimproverò.
   «Povere noi, ora che faremo?!» si disperò Malicia, sul punto di scoppiare in lacrime.
   «Uhm, suppongo che ci sia il modo di ripararla...» borbottò Demonica, aprendo uno sportellino per guardarci dentro. La gemella si unì all’indagine, guardando con ansia sopra la sua spalla.
   Sul lettino, dov’era ancora immobilizzato, Talyn sperò ardentemente che nessuna delle due si accorgesse del banale motivo, ovvero il cavo d’alimentazione staccato. Del resto, uno dei cliché più ricorrenti delle Avventure di Capitan Proton era che le donne – buone o cattive – non ne capivano un’acca di elettronica e ingegneria. Con un po’ di fortuna, lo sciovinismo della Golden Age gli avrebbe salvato il cervello.
   «Ah, non capisco! Eppure sembra tutto in ordine!» borbottò Demonica, cominciando a cavare dei pezzi che probabilmente non sarebbe stata in grado di riposizionare correttamente.
   «Vedete? È il destino manifesto che io non debba essere psionizzato!» ne approfittò Talyn. «Ve l’ho detto che sono già dalla vostra! Sono stanco d’essere Buster Kincaid... d’ora in poi sarò Capitan Kincaid! Saremo il Temibile Trio!» propose.
   «Ha ragione, sorella! Lasciamo stare la Sonda e teniamocelo così com’è!» approvò Malicia.
   «Bah! Se quest’affare non funziona, non abbiamo scelta!» borbottò Demonica, sbattendo lo sportellino. Fissò Talyn di sbieco e poi scattò verso di lui, così da sussurrargli all’orecchio. «Oggi hai avuto fortuna, giovane scricciolo, ma ti terrò d’occhio. Ti sorveglierò da vicino... molto da vicino!» disse con aria famelica.
   «Non chiedo di meglio» ribatté l’El-Auriano, che non vedeva l’ora di passare alla prossima fase del piano: quella in cui le metteva KO e conquistava l’astronave.
   «Yu-huuu!» trillò Malicia, cominciando a liberarlo dai ceppi che gli serravano braccia e gambe.
   «Ma davvero?» fece Demonica, osservandolo con malcelato interesse. «In tal caso ti avverto che io e mia sorella facciamo tutto assieme. Ma proprio tutto-tutto!» chiarì, mordicchiandosi il labbro.
   «Wow» s’impensierì Talyn, che avrebbe preferito affrontarle una alla volta. Si alzò a sedere sul lettino, massaggiandosi rapidamente braccia e gambe, per riattivare la circolazione. «Spero che almeno vi teniate alla larga da quei guardoni» disse, accennando ai robot coi loro occhi elettronici.
   «Vieni, abbiamo un giaciglio più comodo... e più appartato» convenne Demonica, invitandolo con l’indice a seguirla.
   Il giovane balzò in piedi e, vedendo Malicia accanto a sé, la prese galantemente a braccetto. Quando furono accanto a Demonica, prese anche lei col braccio libero. Le Signore del Male sghignazzarono, sempre più eccitate, mentre lui paradossalmente sentiva crescere l’ansia. Ancora non sapeva come metterle fuori combattimento. Avrebbe tanto voluto essere un Vulcaniano, per padroneggiare la Presa al Collo; ma non lo era. Come El-Auriano ogni tanto aveva qualche percezione, o gli sembrava d’averla; ma quando si arrivava allo scontro diretto non aveva assi nella manica. Se anche fosse riuscito a stordire una delle gemelle, all’altra bastava un grido per chiamare i robot e farlo secco.
   «STERMINARE BUSTER?» tornò a chiedere uno degli automi, accostandosi al trio.
   «Neanche per sogno!» fece Malicia, stringendosi più forte a lui.
   «Restate qui in attesa, fino a nuovo ordine» comandò Demonica.
   I robot s’immobilizzarono lì dov’erano, mentre Talyn e le gemelle lasciavano la camera degli interrogatori, diretti a un più confortevole alloggio. Intanto il disco volante sfrecciava nello spazio, ad anni luce di distanza dalla Destiny e da qualunque mondo abitato...
 
   Il Capitano Rivera si pulì le mani dall’olio di motore che le macchiava e arretrò di qualche passo, osservando il risultato dei suoi sforzi. Dopo giorni d’incessanti riparazioni, in cui gli Uomini Falco gli avevano fornito un aiuto prezioso, il Rocketeer pareva tutt’altra cosa rispetto al relitto che era dopo la battaglia. Certo, il suo scafo era ancora annerito dal Raggio della Morte e ammaccato dall’impatto contro il fianco della montagna. Tuttavia gli oblò frantumati erano stati sostituiti, la porta deformata si chiudeva di nuovo e l’alettone storto era stato raddrizzato. I sistemi interni avevano subito un accurato controllo, dal supporto vitale alla propulsione, dalle comunicazioni alle armi. Tutti i guasti erano stati riparati, cannibalizzando il Tyrannic – che giaceva ancora nella vallata – per ottenere i ricambi necessari. In un cosmo reale questo giochetto non sarebbe stato possibile, perché ogni fazione aveva la sua tecnologia, con componenti uniche e insostituibili. Un’astronave del Dominio, ad esempio, ben difficilmente poteva offrire ricambi per un vascello federale, e viceversa. Ma nel cosmo di Capitan Proton la tecnologia era sostanzialmente la stessa ovunque. Così, mentre il Tyrannic giaceva mezzo smontato a fondovalle, il Rocketeer era pronto a volare di nuovo... o almeno era ciò che l’Umano sperava. In effetti non c’era che un modo per scoprire se ce l’avrebbe fatta.
   Recatosi sul ciglio del burrone, il Capitano guardò di sotto. Siccome aveva gli occhi chiusi per le vertigini, non vide nulla. Riprovò imponendosi di tenere gli occhi aperti, e stavolta ebbe migliori risultati. La parete rocciosa scendeva a strapiombo per quasi un chilometro, terminando in un ammasso caotico di rocce affilate come lame. Il Rocketeer giaceva ancora sul ciglio del burrone, sebbene gli Uomini Falco lo avessero trascinato un po’ indietro, e malgrado le riparazioni non sarebbe riuscito a decollare da terra. Non restava che la mossa più rischiosa: spingerlo giù e approfittare della caduta per prendere il volo. Se la mossa falliva, Rivera non avrebbe avuto tempo di mettersi in salvo; e un impatto a quella velocità contro le rocce significava morte certa.
   «È un bel salto» commentò il principe Griffin, affiancandosi a lui e seguendo il suo sguardo giù nell’abisso. «Non sei costretto a farlo. Possiamo attendere i soccorsi di cui mi parlavi, quella grande astronave...».
   «Se la Destiny non è ancora arrivata, potrebbe esserle successo qualcosa. O forse è solo trattenuta altrove» sospirò Rivera. «In ogni caso non possiamo più attendere. Ogni istante che passa affretta la vittoria di Chaotica. Devo tornare nello spazio, prima che sia troppo tardi».
   «Già» convenne l’Uomo Falco, fissando il suolo. «Però potrei incaricare qualcuno dei miei del decollo...» mormorò.
   «Non pensarci nemmeno!» obiettò il Capitano. «È la mia nave; non chiederò a qualcuno dei tuoi di rischiare la vita al mio posto per farla volare».
   «È la risposta che mi aspettavo da Capitan Proton» ammise il principe con un mezzo sorriso. «Molto bene, allora partiamo».
   «Allora parto io» puntualizzò Rivera.
   «Ti serve un copilota, specialmente per eseguire una manovra così azzardata. E del resto ho già promesso di seguirti in questa missione» gli ricordò Griffin.
   «Se non voglio rischiare la vita dei tuoi uomini, a maggior ragione non voglio rischiare la tua. Borea ha bisogno del suo principe» si oppose l’Umano.
   «Mia sorella Poiana è pronta a subentrarmi, se mi dovesse succedere qualcosa» rispose Griffin. «Devi sapere che quando noi Uomini Falco facciamo una promessa, vi teniamo fede a ogni costo. Io verrò con te» disse in tono inappellabile.
   «Così sia» si arrese il Capitano. Supponendo che riuscissero a decollare senza sfracellarsi, in fondo era lieto di non dover partire da solo per quella missione disperata. Se aveva ottenuto risultati così mediocri quand’era con Talyn e Giely, cosa poteva sperare d’ottenere da solo? Almeno l’Uomo Falco era un combattente esperto, ed essendo scaturito dal programma era più adatto ad affrontare le insidie della missione. Confortato da quel pensiero, Rivera rientrò nel Rocketeer, facendo un ultimo check-up dei sistemi. Intanto Griffin si congedò dai suoi parenti e da tutta la sua gente, che si era radunata sulla montagna e sulle cime circostanti. L’Umano aveva appena finito i controlli quando l’Uomo Falco entrò nella navicella. Il portello riparato cigolò, chiudendosi a fatica sotto l’energica spinta di Griffin. Rivera sperò che fosse ancora a tenuta stagna; era una delle cose che avrebbero appurato presto.
   L’Umano e l’Uomo Falco si misero ai comandi, sedendo sulle poltroncine che avevano recuperato dal Tyrannic. Era una piccola comodità che Rivera s’era voluto prendere, dato che in precedenza non c’erano sedili e bisognava stare in piedi per pilotare la navicella. «Pronto?» chiese il Capitano, seduto alla postazione del pilota.
   «Pronto» confermò il principe, che lo affiancava come copilota.
   «Allora... partenza» disse Rivera, attivando il propulsore. Il cuore gli batteva a mille e la goccia di sudore era tornata a imperlargli la fronte. Le fiamme eruppero dagli ugelli posteriori e il Rocketeer scattò in avanti, stridendo sgradevolmente contro il suolo roccioso. S’inclinò oltre il ciglio del burrone, facendo franare alcune rocce miste a neve, e cadde di sotto. Gli Uomini Falco appostati tutt’attorno lanciarono alte grida, come per incitare la navicella a spiccare il volo.
   Sul Rocketeer, Rivera e Griffin provarono la perdita di peso che accompagna la caduta libera. Avendo avuto l’accortezza di fissare i sedili al pavimento, tuttavia, restarono ai loro posti. L’immagizzatore davanti a loro mostrava ora il fondo del crepaccio, che si avvicinava a paurosa velocità.
   «Cabra!» gridò il principe, dando energia ai propulsori.
   «Cosa credi che stia facendo?!» rimbeccò il Capitano, tirando la cloche con tutte le sue forze. La navicella attorno a loro vibrava per lo sforzo; l’abitacolo era invaso dall’inconfondibile suono di un aereo che precipita. Mancavano pochi secondi allo schianto fatale. «Eh no, non può finire così...» si disse Rivera, con un occhio all’altimetro e l’altro ai comandi.
   Il Rocketeer tossicchiò, cercando di carburare; all’ultimo momento il brontolio divenne un ruggito. La navicella cabrò, acquisendo l’assetto – e quindi la traiettoria – orizzontale. Concentrato sui comandi, Rivera sorvolò le taglienti rocce in fondo al crepaccio, facendo lo slalom tra le più alte. Appena possibile cabrò di nuovo, riuscendo finalmente a innalzare la navicella. Bastarono pochi attimi per risalire l’abisso. Il sole riverberò sullo scafo argenteo del Rocketeer mentre questo s’innalzava oltre le vette innevate, tra le acclamazioni degli Uomini Falco. Al Capitano parve di sentire, per qualche attimo, una musichetta trionfante. Si passò la mano sulla fronte, appurando che la goccia di sudore era nuovamente sparita.
   «Complimenti, Capitan Proton! Ce l’hai fatta ancora una volta!» si congratulò Griffin, dandogli una calorosa pacca sulla spalla.
   «Ero molto motivato» ammise Rivera, ancora col batticuore. Era lieto che fossero tutti in bianco e nero, perché così era più difficile per il principe notare quanto lui fosse impallidito.
   Le tenui nubi svanirono, man mano che il Rocketeer le superava in altitudine, finché il cielo divenne nero e punteggiato di stelle. La navicella smise di vibrare, ora che non c’era più atmosfera. Erano tornati nello spazio, in orbita attorno al pianeta. Appena poté, il Capitano lasciò i comandi e andò a ispezionare il portello stagno. Constatò con sollievo che non c’erano perdite d’aria. Il Rocketeer reggeva; non restava che decidere la rotta.
   «Bene... andiamo a Flegra, suppongo» disse Griffin.
   Rivera aggrottò la fronte. Per tutta la durata delle riparazioni aveva rimuginato su cosa fare nel caso che fossero riusciti a partire. Il suo primo impulso era lo stesso del principe, ma ragionandoci a fondo era giunto a una conclusione diversa. «No, amico mio. Non andremo dagli Uomini Salamandra» dichiarò, tornando a sedersi sulla poltroncina.
   «Ma come?!» si stupì il principe. «È lì che si trova l’ultima Pietra, quella del Fuoco. Se vogliamo impedire a Chaotica di completare la superarma, è l’ultima speranza che ci resta!».
   «Flegra è lontano e le navi di Chaotica hanno troppo vantaggio su di noi» obiettò Rivera. «Ricordi cos’ha detto il capitano del Tyrannic? Mentre loro venivano qui, altre navi erano in viaggio per Flegra. A quest’ora Lonzak potrebbe già essersi impadronito dell’ultima Pietra».
   «Se la metti così... ma allora che intendi fare?» chiese l’Uomo Falco.
   Il Capitano non rispose subito. Non voleva ammettere che, più ancora di sconfiggere Chaotica, gli premeva salvare Giely e Talyn. E dove potevano essere al momento? Beh, Giely era senz’altro prigioniera nella Fortezza del Destino, come prevedeva la trama originale. E la sua vita era in pericolo, se Chaotica intendeva davvero sacrificarla ad Arachnia. Quanto a Talyn, era più difficile localizzarlo. Le Signore del Male potevano averlo portato ovunque e ormai era tardi per tracciare la rotta del loro disco volante. Ma era possibile che le gemelle avessero venduto la Pietra dell’Aria a Chaotica, e in tal caso forse gli avevano ceduto anche il prigioniero. Dunque sul Pianeta X c’era sicuramente Giely e forse anche Talyn. Per Rivera era l’unica traccia da seguire; doveva solo giustificarsi col principe.
   «Non ci resta che stanare l’avversario nel cuore del suo regno» disse il Capitano. «Andremo sul Pianeta X e c’introdurremo di nascosto nella Fortezza del Destino. È lì che Chaotica sta assemblando la superarma. La distruggeremo, o al limite sottrarremo le Pietre per renderla inservibile».
   «Una missione temeraria, Capitan Proton» riconobbe Griffin. «È degna della tua leggenda! Ma tu parli d’introdurci di nascosto, e a ragione, perché non possiamo sfidare l’intera Forza Spaziale del nemico. Conosci una via per farlo?».
   «Sì, esiste un cunicolo sotterraneo che ci permetterà d’intrufolarci nella Fortezza» confermò l’Umano. «L’ho già usato in passato, dovrebbe essere sicuro».
   «Bene, vedo che hai pensato a tutto!».
   Rivera fu sollevato che l’altro non sollevasse obiezioni, ma dopo una breve esitazione decise di vuotare il sacco. «Devi sapere che c’è un altro motivo per introdurci in quella fortezza. La mia cara Constance vi è tenuta prigioniera e anche Buster potrebbe essere finito lì. Se li troveremo, sono intenzionato a salvarli» chiarì. Non voleva che, all’ultimo momento, lui e Griffin si trovassero divisi sulle priorità.
   «Già, anche la tua lealtà nei loro confronti è leggendaria» ricordò l’Uomo Falco. «So che farai di tutto per salvarli e ti garantisco il mio appoggio. Certo che, se dovessimo decidere tra loro e la distruzione dell’arma... tu mi capisci... ne va del destino d’interi popoli...» aggiunse.
   «Sì, il bene dei molti travalica quello dei pochi!» disse seccamente l’Umano, ricordando l’antica massima vulcaniana. «Ma io non mi rassegno. Troveremo il modo di fare entrambe le cose».
   «Sì, ma se dovessimo scegliere...».
   «Le faremo entrambe, ho detto!» s’incaponì il Capitano.
   Il principe lo fissò con i suoi penetranti occhi grifagni, combattuto tra l’ammirazione per la sua lealtà e la preoccupazione per le scelte a cui poteva condurli. «Molto bene, Capitan Proton. Traccia la rotta e io ti seguirò» disse infine.
   Augurandosi di non avere problemi anche da lui, Rivera tornò a concentrarsi sui comandi. Fortunatamente conosceva le coordinate del Pianeta X, avendole memorizzate negli episodi precedenti. In particolare, nell’episodio 18 – La sposa di Chaotica – si era già introdotto nella Fortezza del Destino per salvare Constance, all’epoca ancora un personaggio olografico. Si augurò di farcela anche stavolta, servendosi della stessa galleria segreta. Ciò che più lo inquietava era che prima di trovarsi catapultato in quell’avventura non aveva letto nel dettaglio la trama degli ultimi episodi, non essendo ancora così avanti nel gioco. Quindi non sapeva se nel frattempo Chaotica avesse potenziato le difese. La via d’accesso alla Fortezza poteva non essere più così sicura; forse era persino sigillata. Tuttavia il Capitano decise di non dirlo a Griffin. Il principe sembrava già abbastanza impensierito; non voleva indurlo a dubitare ulteriormente di lui.
   Con quei pensieri che gli ronzavano in testa, Rivera diresse il Rocketeer fuori dall’orbita di Borea, puntandolo verso lo spazio aperto. Inserì le coordinate del Pianeta X e attivò il motore iper-atomico. Il reattore ruggì alle sue spalle, anche se dopo tutti i colpi subiti gli servì più del solito per arrivare a pieno regime. La navicella vibrò tanto da preoccupare il Capitano; tuttavia non squillarono allarmi e in breve le vibrazioni cessarono. Il Rocketeer balzò a velocità iperluce, diretto all’ultima e più pericolosa tappa di quell’incredibile avventura in bianco e nero. 
 

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Capitolo 7
*** La Fortezza del Destino ***


-Capitolo 6: La Fortezza del Destino
 
   Dopo giorni in cui la flotta di Solara si era limitata a riparare i danni e a pattugliare il proprio mondo, qualcosa finalmente si mosse. Un’astronave lasciò lo schieramento, avvicinandosi alla Destiny.
   «Ci chiamano, sempre e solo audio» disse Luv.
   «Finalmente! Sentiamoli» ordinò Losira, che era sul punto di lasciare il sistema per riprendere la ricerca dei dispersi.
   «Destiny, qui è l’Ammiraglio Preon. Sono lieto di poter riprendere la trattativa con voi» giunse la voce dell’alieno.
   «È un piacere anche per me, ma devo comunicarle che per noi il tempo è prezioso» avvertì Losira. «Siamo impazienti di chiudere i conti con Chaotica e riprendere la ricerca dei dispersi. Ha riferito la nostra offerta al suo governo?».
   «L’ho fatto» assicurò l’Ammiraglio. «Dovete comprendere che non siamo abituati a lanciare operazioni militari assieme ad alieni, tantomeno appena conosciuti. Ma le circostanze eccezionali hanno smosso i nostri leader. Pertanto sono autorizzato a coordinarmi con voi, per lanciare un contrattacco al pianeta nemico».
   «Il Pianeta X» corresse automaticamente Losira.
   «Pianeta X?» fece il Solarano, un po’ sorpreso. «Molto bene, siamo pronti ad attaccarlo. Naturalmente ci occorrono le coordinate, oltre alle informazioni in vostro possesso sulle sue difese» precisò.
   A queste parole la Comandante s’incupì. «Vi trasmetteremo ciò che sappiamo, ma voglio chiarire una cosa. Non pensate di prendere le nostre informazioni e poi ritirare la collaborazione per fare di testa vostra. Avete preso un impegno militare e ci aspettiamo che lo onoriate. Fare altrimenti sarebbe... imprudente» avvertì. Non c’era bisogno di ricordargli quanto la Destiny surclassasse le loro astronavi.
   «Non dovete temere alcuna scorrettezza da parte nostra. Noi Solarani siamo di parola» rispose l’Ammiraglio.
   Augurandosi che fosse vero, Losira fece un cenno d’assenso a Luv. L’addetto alle comunicazioni trasmise le coordinate del Pianeta X, ottenute dai tracciatori, oltre a una panoramica sul pianeta e le sue difese, basata sulle informazioni dell’olo-programma. I dati erano stati alterati da Irvik, per dare l’impressione che fossero vere riprese fatte da sonde-spia.
   «Avete i nostri dati, ma devo avvertirvi che non sono del tutto aggiornati» si cautelò Losira. «Da quando si trova nel vostro cosmo, il nemico può aver potenziato le difese. Comunque non dovrebbe aver avuto il tempo d’apportare grossi cambiamenti». Si chiese se parlargli anche della superarma Krell, ma per il momento decise di tacere. Se li spaventava troppo, c’era il rischio che i Solarani si tirassero indietro.
   «Lo credo anch’io» convenne l’Ammiraglio. «I vostri dati sono apprezzati. Uhm... qui leggo che sembra esserci un’unica vera fortezza sul pianeta. Non ci sono città, non c’è una popolazione...?» si stupì.
   «Niente del genere. Vede, Chaotica si definisce Dominatore del Cosmo, ma in realtà è solo un esaltato a cui resta uno scarso seguito. Consideratelo alla stregua di un signore della guerra con la sua banda armata» rispose Losira, sperando che il Solarano se la bevesse.
   «In tal caso l’operazione sarà più facile del previsto. Se il pianeta è deserto non dovremo preoccuparci dei danni collaterali» disse l’Ammiraglio. «Siamo pronti a partire domani stesso. Considerata la distanza, impiegheremo tre giorni ad arrivare» rivelò.
   «Noi possiamo arrivarci in un giorno solo» disse la Risiana, approfittandone per rimarcare la superiorità della Destiny. «Porterò la mia nave in avanscoperta, per verificare l’effettiva situazione».
   «Questo non metterà in allarme il nemico?» obiettò il Solarano.
   «Possiamo occultarci per non essere rilevati» spiegò Losira. «Se non riscontreremo problemi, aspetteremo la vostra flotta; allora potremo attaccare congiuntamente. Voi colpirete da fuori, mentre noi usciremo dall’occultamento alle spalle della flotta nemica, schiacciandola nel mezzo. Che ne dice?».
   «Mi sembra un piano eccellente» approvò l’Ammiraglio. «A quel punto potremo bombardare la fortezza direttamente dall’orbita. Uhm, qui leggo che è protetta da uno... Scudo di Lampi?».
   «Un campo di forza, sì» corresse Losira, maledicendo la terminologia del programma. «Ma con le nostre potenze di fuoco combinate, non resisterà a lungo» garantì.
   «Molto bene, allora ci vedremo tra quattro giorni presso il Pianeta X, per chiudere i conti con quei criminali. Ammiraglio Preon, chiudo».
   Terminata la conversazione, vi fu un breve silenzio. Infine fu Shati a prendere la parola. «Hai deciso d’andarci pesante, con Chaotica e i suoi» mormorò. Se il piano d’attacco fosse andato a buon fine, li avrebbero sterminati.
   «Che altro possiamo fare?» ribatté la Comandante. «Non possiamo lasciarli andare in giro ad attaccare pianeti, né restare a sorvegliarli per sempre. Del resto il conflitto tra Chaotica e i Solarani è inevitabile. Stiamo semplicemente aiutando questi ultimi a finirlo più in fretta e con meno perdite. Ricordate che Chaotica e i suoi sono personaggi olografici, non veri individui» disse, rivolta a tutti i presenti.
   «Sarà...» fece la Caitiana. Il dibattito sulla natura degli ologrammi era di vecchia data e ancora ben lungi dal giungere a un esito condiviso.
   «Ora traccia la rotta per il Pianeta X, massima velocità» ordinò Losira, decisa a non perdere altro tempo.
   «Rotta tracciata, entriamo in cavitazione» disse Shati, manovrando i comandi. La Destiny aprì il tunnel di cavitazione e vi si tuffò, abbandonando il sistema di Solara. Nessuno degli avventurieri si soffermò a riflettere sull’eventualità che i dispersi si trovassero proprio nel luogo che stavano per mettere a ferro e fuoco.
 
   Il Pianeta X campeggiò sull’immagizzatore del Rocketeer. Il Capitano lo aveva visto tante altre volte, ma gli fece un certo effetto sapere che stavolta esisteva realmente, in tutta la sua mole planetaria. Era il tipico mondo desertico della fantascienza Golden Age, ispirato a Marte. Dunque non c’erano oceani e le sole caratteristiche fisiche evidenti erano montagne e valli, oltre a un certo numero di crateri. Sapendo il pericolo a cui andavano incontro, Rivera ebbe l’accortezza di scendere a velocità subluce a una certa distanza dal pianeta. E la sua prudenza gli salvò la vita, perché l’immagizzatore gli mostrò la flotta di Chaotica schierata in formazione difensiva. Decine d’astronavi a razzo erano raggruppate in orbita geostazionaria.
   «Guarda, il nemico ha radunato la sua Forza Spaziale!» notò Griffin, indicando le navi sempre più riconoscibili man mano che si avvicinavano. «Sembra che voglia difendere la sua fortezza».
   Analizzata la flotta, Rivera scoprì che c’erano ben 47 navi, pari a due terzi della Forza Spaziale di Chaotica. Dov’era il resto? In quella il Capitano notò le chiazze nere che segnavano gli scafi. «Uhm, sembrano reduci da una battaglia. A giudicare dalle loro condizioni, direi che hanno trovato pane per i loro denti» notò. Forse le navi mancanti erano state distrutte, si augurò.
   «Chiunque sia stato, potrebbe rivelarsi un valido alleato» commentò Griffin.
   «A maggior ragione se è stata la Destiny» rifletté il Capitano, osservando gli scafi butterati. Ma da un semplice esame visivo non poteva averne la certezza. E comunque non sapeva dove fosse la Destiny in quel momento, né aveva il tempo di cercarla. Giely si trovava prigioniera nella Fortezza del Destino e Chaotica poteva ucciderla in ogni momento. Se volevano salvarla, dovevano agire subito.
   Presa questa decisione, Rivera invertì la rotta. «Mi allontano per non farci rilevare da quelle navi» spiegò all’Uomo Falco. «Dobbiamo avvicinarci non visti».
   «Come conti di fare?» chiese il principe.
   «Ci avvicineremo sul lato opposto del pianeta, scendendo rapidi come una meteora, e poi voleremo raso terra per ingannare i radar nemici» rispose il Capitano. Aveva già fatto qualcosa del genere in una puntata precedente, ma stavolta non c’erano protocolli di sicurezza. Inoltre l’operazione avrebbe richiesto molto più tempo rispetto al gioco, in cui i tempi narrativi erano tipicamente accorciati. Più tempo significava più cose che potevano andare storte.
   «L’hai mai fatto prima?» chiese Griffin, un po’ in apprensione.
   «Sì... anche se allora il Rocketeer era in perfetto stato» ammise Rivera. Ora che l’aveva riparato alla meno peggio, sarebbe stato altrettanto performante? Al solito, non c’era che un modo per scoprirlo...
   «Se c’è un pilota nel cosmo che può riuscirci, quello sei tu» lo incoraggiò l’Uomo Falco.
   «Grazie della fiducia» mormorò l’Umano, ricordando che il suo punteggio all’Accademia era nella media. «Beh, non è mai tardi per migliorare» si disse, compiendo un ampio giro attorno al pianeta.
 
   La prima parte del piano si svolse senza intoppi. Approfittando anche delle piccole dimensioni, il Rocketeer si avvicinò sul lato notturno del pianeta senza essere rilevato. Il Capitano teneva d’occhio il radar, sempre temendo di veder apparire la flotta nemica; invece la navicella raggiunse indisturbata gli strati più alti dell’atmosfera. Fu allora che le cose si complicarono, perché bisognava scendere senza dare nell’occhio e il modo migliore era fingersi una meteora. Sarebbe stata una mossa temeraria anche col Rocketeer in perfette condizioni; nel suo stato precario era quasi una follia.
   Alla fine Rivera scelse una soluzione di compromesso. Entrò nell’atmosfera con un angolo più elevato rispetto a una discesa regolare, ma inferiore alla maggior parte delle meteore. E soprattutto moderò la velocità, per non sottoporre lo scafo a un eccessivo stress termico. Anche così il Rocketeer vibrò considerevolmente, certo più di quanto avrebbe fatto in condizioni ottimali. In un paio d’occasioni Rivera temette di perdere il controllo, ma riuscì sempre a evitare la catastrofe. Guardando gli oblò, vide che stavano scendendo in una scia di plasma surriscaldato, proprio come una stella cadente. Beh, lui aveva un unico desiderio: salvare gli ostaggi.
   L’immagizzatore mostrò il suolo roccioso, scuro poiché era notte, sempre più vicino. I dettagli della superficie – rocce e crepacci – acquistavano nitidezza man mano che la navicella proseguiva la sua caduta controllata. Il Capitano fissò l’altimetro, in rapida diminuzione. Tremila metri... duemilacinquecento... duemila... millecinquecento... mille...
   «Ora» si disse, iniziando a cabrare. I comandi risposero più lentamente del solito. La navicella, sommariamente riparata, era ancora riottosa. «Eddai bella, non deludermi ora...» mormorò l’Umano, guardando di nuovo l’altimetro. Settecento metri... seicento... cinquecento... chissà perché il suo piano non gli sembrava più così furbo...
   Con un brontolio dei razzi di manovra, spinti al limite, il Rocketeer riuscì finalmente a cabrare. Sorvolò il deserto roccioso a poche centinaia di metri, facendo rotolare i sassi e provocando un sonoro bang supersonico. Fortunatamente non viveva nessuno, su quell’emisfero, che potesse sentirlo. L’unico rischio era che dalla fortezza o dalla flotta rilevassero la navicella; da qui la necessità di volare raso terra.
   «Meglio di un falco pellegrino» si congratulò Griffin.
   «Aspetta a festeggiare... è un lungo volo da qui alla Fortezza del Destino» avvertì Rivera, sempre concentrato sui comandi. Ed era un volo da condurre rasoterra, in una notte senza luna – il Pianeta X non ne aveva – con scarsissima visibilità. Se avessero urtato una roccia, a quella velocità e con i danni già riportati, sarebbe stata la fine. Dunque il Capitano non poteva distrarsi neanche per un secondo. Avrebbe continuato quel pericoloso volo per ore, finché fossero giunti a destinazione. Solo allora si sarebbe concesso un breve riposo, prima di cominciare il salvataggio vero e proprio.
 
   Il sole arroventava le torri argentee della Fortezza del Destino. A terra, l’aria era così torrida che la roccaforte pareva ergersi sopra nebbie tremolanti. I due intrusi la osservarono nascosti dietro alcune rocce; il Capitano usò un binocolo per carpire qualche dettaglio in più. «Uhm... sembra tutto come lo ricordavo. Sorveglianza minima, solo un paio di guardie davanti al ponte levatoio» commentò.
   «Ma noi non useremo l’ingresso principale» ricordò Griffin.
   «No, infatti. La galleria sbuca da questa parte» disse Rivera, accennando alla loro sinistra. «Si tratta di una vecchia miniera, scavata dagli schiavi di Chaotica e ora abbandonata. Non dovrebbe essere sorvegliata, ma... non si sa mai. Stiamo attenti alle trappole e teniamoci pronti a combattere!» raccomandò. Ripose il binocolo e al suo postò impugnò la pistola a raggi, imitato dal principe. Quanto allo zaino a razzo, Rivera decise di non portarlo con sé. Quell’arnese era troppo pesante, tanto più che la loro missione li avrebbe condotti in spazi chiusi, dove non c’era l’opportunità di usarlo.
   Prima di allontanarsi il Capitano dette un’ultima occhiata al Rocketeer. La fedele navicella era riuscita a portarli sani e salvi fin lì, atterrando senza troppi problemi. Rivera l’aveva posata dietro quegli affioramenti rocciosi, in modo che non fosse direttamente visibile dalla fortezza nemica. Certo che se Chaotica avesse inviato delle squadre in perlustrazione l’avrebbero trovata. Ed era ancora più probabile che le sue astronavi in orbita la individuassero. Ma non c’era modo d’evitare questo rischio. Non potevano atterrare troppo lontano, o avrebbero impiegato giorni a raggiungere la Fortezza e altri giorni per tornare al Rocketeer una volta liberati gli ostaggi. No, per avere una speranza di riuscire dovevano fare tutto in fretta; il che comportava di atterrare nelle immediate vicinanze.
   «Tutto a posto?» chiese Griffin, notando la preoccupazione con cui Rivera osservava la sua navicella.
   «Sì... spero solo di ritrovarla in ordine quando torneremo qui» mormorò il Capitano con la bocca secca. «Anzi, spero proprio di ritrovarla» aggiunse fra sé. Per quanto fosse inferiore alla più scomoda navetta della Destiny, ormai c’era affezionato. E soprattutto era il loro mezzo per lasciare il pianeta a missione conclusa.
   «Devo chiedertelo: credi che ripartirà? Su Borea abbiamo dovuto spingerla giù dal dirupo per farla decollare» ricordò il principe.
   «Strada facendo ho fatto qualche calcolo» spiegò Rivera. «Dovrebbe riuscire a decollare, con un ampio spazio per prendere velocità. In cima alla vetta di spazio non ce n’era, ma qui abbiamo il deserto. Dovrebbe farcela» ripeté, con una punta d’apprensione. L’unica alternativa era rubare una navicella di Chaotica, il che avrebbe notevolmente complicato la missione.
   «Allora fai strada, Capitano» lo esortò Griffin.
   Muovendosi con cautela, i due lasciarono il nascondiglio di rocce e si diressero alla fortezza, sempre cercando di ripararsi dietro gli affioramenti. Più si avvicinavano, più il percorso diventava un labirinto di rocce accidentate. Rivera faceva strada, cercando di riconoscere il percorso già usato in precedenza. Ma non era facile orientarsi, anche perché quell’ambiente ricordava maledettamente le miniere di Mercurio, visitate in un altro episodio. «Se solo gli sceneggiatori non avessero così poca fantasia!» si disse l’Umano, sforzandosi di ritrovare la via. Lui e Griffin procedettero con le pistole in pugno e i sensi all’erta. A ogni minimo suono si fermavano, pronti al peggio. Solo quand’erano certi che si fosse trattato di un falso allarme osavano ripartire. In tal modo procedevano lentamente, ma minimizzavano il rischio di cadere in un’imboscata.
   Giunsero finalmente alla base dell’altura su cui era arroccata la Fortezza del Destino. Una galleria si apriva nella roccia, disegnando un arco perfetto. Una galleria non sorvegliata e priva d’illuminazione.
   «Ci siamo» disse Rivera, lieto che la memoria non lo avesse tradito. «Questo ci porterà nei sotterranei della Fortezza. Una volta lì, le Segrete del Dolore non sono lontane».
   «E dopo aver liberato i tuoi compagni, saliremo ai piani superiori per distruggere la superarma» ricordò Griffin. Strinse con forza la sua pistola a raggi, mentre alzava lo sguardo verso le torri svettanti della fortezza.
   «Uhm, sì» mugugnò il Capitano. Non avrebbe voluto coinvolgere Giely in un attacco così temerario, ma non aveva scelta, se voleva contare sulla collaborazione del principe. Varcò l’ingresso della galleria, con la pistola in pugno e il passo deciso. Una corrente d’aria fresca lo investì, gelandogli il sudore sulla fronte, e i suoi occhi abituati all’abbagliante luce esterna si trovarono di colpo immersi nella cieca oscurità.
 
   Ora che si trovavano nella fortezza nemica, i due avventurieri procedettero ancora più cauti. Quando i loro occhi si furono abituati al buio, constatarono di trovarsi in una miniera abbandonata. Le gallerie avevano pareti rozzamente sbozzate a colpi di piccone e molte diramazioni terminavano in vicoli ciechi. Qua e là c’erano ancora carrelli metallici e strumenti abbandonati. Trovata una scala a chiocciola, gli intrusi salirono di livello, sbucando in un nuovo corridoio. Questo aveva pareti molto più rifinite e non pareva in stato d’abbandono, infatti era ben illuminato. Cosa più importante, una serie di porte blindate s’aprivano a intervalli regolari su ambo le pareti.
   «Siamo nelle Segrete del Dolore» sussurrò Rivera al compagno d’avventura. «Occhi aperti, gli ostaggi dovrebbero essere in una di queste celle».
   I due percorsero il corridoio, sbirciando nelle celle attraverso gli sportellini passa-vivande che si aprivano nelle porte. Rivera controllava un lato, Griffin l’altro. Il Capitano vide alcuni strani alieni prigionieri, appartenenti all’universo narrativo di Capitan Proton. Non si azzardò a liberarli, temendo che la loro fuga disordinata attirasse le guardie. La segretezza infatti era ancora il miglior alleato. A ogni cella scartata la sua ansia cresceva, ma l’Umano non voleva darsi per vinto prima di aver setacciato tutte le segrete.
   Giunti in fondo al corridoio senza aver trovato gli ostaggi, i due si guardarono e fecero dietrofront, tornando rapidamente al punto in cui erano sbucati dalla scala. Passati oltre, presero a esaminare le celle anche dall’altra parte. Continuarono a scartarle finché giunsero all’estremità opposta. Non restava che un’ultima cella da controllare, la cui porta si apriva proprio nella parete di fondo. Era un portone ancor più solido degli altri, segno che si trattava di una prigione di massima sicurezza. Con il cuore in gola, Rivera sbirciò attraverso lo sportellino. Vide una cella molto più grande delle altre, sebbene altrettanto spoglia. Una sagoma umanoide giaceva avvoltolata in una coperta, presso la parete opposta. Sebbene gli desse le spalle, quei capelli biondi erano inconfondibili. Erano i capelli di Constance... vale a dire la parrucca di Giely. Anche l’abito, per quanto seminascosto dalla coperta, pareva quello.
   «Ehi, sono io! Svegliati!» le bisbigliò il Capitano, ma non ottenne risposta. La chiamò ancora, a voce più alta, senza miglior esito. Dal giaciglio non veniva alcun movimento.
   «Forse è sfinita dalle privazioni» suggerì Griffin.
   Rivera si disse che doveva essere così, ma non riuscì a tacitare i timori ancor peggiori che lo tormentavano. Era possibile che il dottor Chaotica l’avesse torturata per ottenere informazioni sulla Terra, che lei ovviamente non poteva dargli. Se era così, forse il despota aveva scambiato la sua ignoranza per resistenza e si era incollerito, prolungando la tortura. Di certo l’immobilità di Giely non era un buon segno.
   «Okay, io entro. Tu sorveglia il corridoio» disse l’Umano all’Uomo Falco. Regolò la pistola a raggi e sparò alla serratura, facendola saltare. Sperò che il suono non attirasse le guardie; in ogni caso doveva sbrigarsi. Spalancò la porta con una spallata e si precipitò al capezzale della Vorta, sperando di riuscire a rianimarla. Altrimenti l’avrebbe portata in spalla; del resto non poteva pesare molto, minuta com’era.
   «Sono qui, Giely. Non temere, sono venuto a salvar...». Le parole gli morirono in gola mentre girava il corpo riverso. Perché quella davanti a lui non era la Vorta, ma solo un manichino con un abito e una parrucca simili ai suoi. E questo significava che erano caduti in trappola.
 
   Passato il primo attimo d’orrore, il Capitano udì un suono sordo e raschiante alle sue spalle. A questo seguì il grido di Griffin: «Esci subito!».
   Giratosi di scatto, Rivera vide un secondo portone blindato che scendeva a sigillare l’ingresso. Questo era più massiccio del primo, tanto che probabilmente nemmeno la sua pistola a raggi lo avrebbe aperto. L’Umano corse in avanti, con l’idea di tuffarsi e rotolare sul pavimento prima che l’ingresso fosse del tutto sigillato. Ma non fu abbastanza svelto. Prima ancora che potesse tuffarsi in avanti, il portone si chiuse con un rimbombo, lasciandolo al buio.
   «Caramba!» imprecò Rivera, fermandosi prima di sbatterci contro. Per fortuna almeno l’oscurità durò poco, perché Griffin aprì dall’esterno lo spioncino, facendo entrare un fascio di luce.
   «Siamo caduti in trappola come novellini» borbottò il Capitano. Osservando il portone blindato dal suo lato, non vide alcuna serratura. E non c’erano nemmeno cardini, perché la lastra era calata dall’alto, scorrendo in una nicchia delle pareti. Dunque nessun punto debole da colpire; evidentemente l’apertura e la chiusura erano controllate altrove, forse da Chaotica in persona. L’Umano provò ugualmente a sparare un colpo, ma la spessa corazza non sembrò risentirne.
   «Ti aiuto a uscire, magari qui fuori c’è un comando» disse il principe, esaminando le pareti circostanti.
   Rivera si disse che non poteva essere così facile, nemmeno nelle Avventure di Capitan Proton. In quella, osservando attraverso lo spioncino, vide un nuovo pericolo. «Attento, dietro di te!» avvertì il principe. Le guardie di Chaotica erano apparse nel corridoio, scendendo dalla stessa scala con cui loro erano saliti, e venivano avanti con le armi in pugno. Dalla prontezza del loro arrivo era chiaro che se ne stavano appostate a poca distanza. Rivera comprese che probabilmente era stato lui a far scattare l’allarme, entrando nella cella. Almeno non erano rimasti entrambi intrappolati; ma Griffin si trovava in una posizione pericolosamente esposta, in fondo al corridoio.
   «Arrendetevi, in nome di Chaotica!» gridò il caposquadra.
   Per tutta risposta l’Uomo Falco gli sparò, stordendolo. Poi regolò in fretta la sua arma e colpì una delle celle laterali, distruggendone la serratura. Corse a rifugiarsi all’interno, per non fare da bersaglio nel corridoio, mentre i colpi delle guardie gli piovevano attorno, scheggiando le pareti. Di lì a un attimo tornò a sporgersi dal suo nascondiglio per rispondere al fuoco. Era una situazione di stallo, ma il principe non poteva resistere all’infinito. Rivera avrebbe voluto aiutarlo, ma era ancora intrappolato nella cella principale, con uno spioncino così piccolo che non riusciva a guardare e sparare nello stesso momento. E di lì a un attimo ebbe ben altro a cui pensare.
   Tutto cominciò con un boato proveniente dall’alto, tanto che il Capitano temette un crollo. Alzando gli occhi, vide che il soffitto era tutto d’un pezzo; eppure aveva qualcosa di strano. Era difficile a dirsi con certezza, nella semioscurità, ma gli pareva che fosse sempre più... vicino. Lo fissò a lungo, per avere conferma del suo sospetto. Il cupo rimbombo era sempre lì, segno che i meccanismi continuavano a muoversi. Con il passare dei secondi, il terribile dubbio divenne un’agghiacciante certezza: il soffitto si stava davvero abbassando. Quella cella non era altro che una gigantesca pressa. E non era finita.
   Ora che il soffitto era tanto calato, Rivera lo vide costellato da un’infinità di piccoli fori, molto vicini tra loro. A cosa potevano servire? Rimproverandosi per non aver letto fino in fondo le specifiche della Fortezza, quando ancora poteva, il Capitano pensò alle storie d’avventura del primo Novecento terrestre, per farsi venire qualche idea. A un tratto gliene balenò una in mente. Tornò a guardare in alto e vide concretizzarsi il suo timore. Dai fori che costellavano il soffitto stavano uscendo degli spuntoni metallici, tanto acuminati da penetrare come chiodi nella carne. Erano così numerosi e ravvicinati fra loro che l’Umano non aveva alcuna speranza d’evitarli.
   «Chaotica non vuol farmi diventare una sottiletta, ma un puntaspilli» si disse Rivera, sentendo accapponarsi la pelle. Maledisse il sadismo di quei cattivi vecchio stile, sempre in cerca della vendetta più efferata. Dalla velocità con cui il soffitto calava, l’Umano valutò che gli restava meno di un minuto prima di rimanere infilzato. Sparò ancora alla porta, senza tuttavia riuscire a forzarla. La sua unica speranza era che Griffin gli aprisse da fuori. Peccato che fosse il momento peggiore per distrarre il principe, impegnato nella sparatoria contro le guardie...
   Maledicendosi per ciò che stava facendo, il Capitano corse all’uscio e gridò attraverso lo spioncino: «Mi senti, amico?! Devi farmi uscire subito, se non vuoi che diventi un fachiro!».
   «Sono piuttosto occupato, al momento!» rimbeccò l’Uomo Falco, impegnato in un fitto scontro a fuoco con le guardie. Ne aveva già colpite parecchie, che giacevano stordite sul pavimento, ma altre continuavano ad arrivare. Per quanto la loro mira fosse scadente, non poteva certo ignorarle.
   «Lo so, ma è urgente! Vedi una leva, un pulsante o qualche altro comando sui muri?!» chiese Rivera, sempre più agitato. Poiché la risposta tardava a giungere, indietreggiò di qualche passo e sparò all’impazzata contro la porta, cercando di forzarla. Ogni colpo provocava una pioggia di scintille, ma per il momento la lastra metallica reggeva. Alzando rapidamente gli occhi, il Capitano vide le lame avventarsi su di lui. Si chinò, poi s’inginocchiò, infine si stese sul pavimento nell’estremo tentativo di rimandare l’inevitabile. Gli spuntoni, ora del tutto estroflessi, erano quasi su di lui. L’Umano digrignò i denti, aspettando di sentirli perforare la sua carne. Stranamente non pensò a quei pochi parenti che gli restavano nella Federazione e nemmeno all’equipaggio della Destiny. L’unico volto che balenò nella sua mente, quasi inaspettato, fu quello di Giely. L’idea di non poterla rivedere, di non poterla salvare, lo amareggiò più della morte stessa. Ah, se solo le cose fossero andate diversamente...! Se fosse stato più sincero, con se stesso e con lei, finché c’era tempo...!
   In quella si udì un cigolio più acuto e il portone si sollevò, lasciando passare una lama di luce rasoterra. Il Capitano non perse tempo: rotolò al suolo, uscendo dalla camera degli orrori un istante prima che gli spuntoni lo inchiodassero al pavimento. Così facendo urtò le gambe di Griffin, che era appostato all’esterno. Il principe vacillò, perdendo la presa sul portone. Rivera sentì lo spostamento d’aria quando questo si richiuse di schianto a un soffio dalla sua testa. Alzò gli occhi e si accorse con stupore che l’Uomo Falco era riuscito, da solo, a sollevare la pesantissima lastra metallica. Con quello sforzo sovrumano gli aveva salvato la vita... a rischio della propria, perché aveva dovuto dare le spalle ai nemici. Quei nemici che ora si erano nuovamente accalcati nel corridoio e lo prendevano di mira.
   Rivera non fece nemmeno in tempo ad avvertirlo, cosa del resto inutile, in quanto Griffin sapeva a cosa andava incontro. Un raggio lo colpì all’ala destra, un altro alla sinistra. Il terzo lo centrò proprio in mezzo alle scapole. L’Uomo Falco si accasciò con un gemito, tra le braccia dell’Umano che lo afferrò e lo depose al suolo. Pur avendo ancora la sua pistola a raggi, il Capitano non la impugnò nemmeno. A che scopo proseguire la sparatoria? Poteva abbattere qualche altra guardia, ma era pur sempre bloccato in un corridoio senza uscita. Alla fine lo avrebbero sopraffatto col numero. Perciò ignorò le guardie, che si avvicinavano cautamente con le armi spianate, e si concentrò invece sul principe. Questi era ancora vivo, ma era chiaro che non ne aveva per molto. Il sangue gli sgorgava dalle ferite, il suo respiro era affannoso, il volto madido di sudore freddo.
   «Mi spiace, amico. È tutta colpa mia... non avrei dovuto trascinarti qui» mormorò Rivera, affranto. Fino ad allora si era sempre ripetuto che quelli non erano veri individui, ma personaggi usciti da un gioco; ora però non riusciva più a vederli in questi termini.
   «Conoscevo i rischi» disse Griffin con voce roca. «Combatti per salvare tutti noi, era giusto che ti aiutassi. E anche se ora devo lasciarti, il tuo compito non è terminato, Capitan Proton».
   «Già, senti... a questo proposito, devi sapere che...» fece l’Umano, intenzionato a dirgli la verità sul suo conto.
   «No, lascia stare!» fece il principe, con un sussulto d’energia. «Quali che siano i tuoi dubbi, non è il momento di arrendersi. Il destino del cosmo dipende da te. Se vuoi che il mio sacrificio non sia vano, allora concludi la missione. Distruggi la superarma... sconfiggi Chaotica... salvaci!» esortò, fissandolo con sguardo accorato.
   L’Umano avrebbe voluto promettere, almeno per confortarlo, ma come poteva mentre le guardie lo circondavano tenendolo sotto tiro? Capitan Proton riusciva sempre a ribaltare la situazione, ma solo perché era un personaggio di fantasia. Poteva contare su una plot armor inattaccabile, vale a dire che gli sceneggiatori non lo avrebbero mai lasciato morire, e neanche fallire la missione. Rivera invece era un povero disgraziato in carne e ossa, perseguitato dalla malasorte. Aveva fallito come Capitan Proton, proprio come sentiva di aver fallito come Capitano della Destiny, e prima ancora come ufficiale della Flotta Stellare. E se coi precedenti fallimenti era riuscito a salvare almeno la pellaccia, stavolta era proprio spacciato...
   «Prometti!» rantolò Griffin, con uno sguardo di pura supplica.
   «Lo prometto» annuì il Capitano, giusto per dargli pace. Una bugia in più che differenza faceva, ormai?
   L’Uomo Falco sorrise confortato, malgrado la sofferenza. «Ora posso rendere il mio spirito all’Aria» disse, e spirò. Il suo capo si reclinò e il suo corpo giacque inanimato tra le braccia dell’Umano, che lo adagiò sul pavimento. Inebetito dal dolore, Rivera si accorse a stento che le guardie lo disarmavano.
   «In piedi, intruso! Sarà il grande Chaotica, Dominatore del Cosmo, a decidere la tua sorte!» disse una di loro.
   «Ci mancava solo questo» si disse il Capitano, alzandosi lentamente. Essere condotto innanzi a quel pallone gonfiato – che tuttavia era stato abbastanza furbo da sconfiggerlo! – e ascoltare il suo monologo finale prima d’essere giustiziato in qualche modo efferato e macchinoso. Un degno finale per la sua vita! Già s’immaginava la sua lapide: CAPITAN PROTON – DIFENSORE DELLA TERRA – GIUSTIZIATO DA CHAOTICA DOMINATORE DEL COSMO.
   Con questi pensieri, Rivera si lasciò condurre via dalle guardie. Fece in tempo a notare il Robot Satanico, anche lui sopraggiunto, che sollevava il corpo di Griffin per portarlo via dalle segrete. Poi lui e le guardie imboccarono la scala che portava ai piani superiori della Fortezza, dove il dottor Chaotica lo attendeva per gloriarsi della propria vittoria.
 
   Uscita dal tunnel di cavitazione già occultata, la Destiny si avvicinò al Pianeta X. «Eccolo qui, proprio come nel programma» commentò Losira, che se l’era già studiato durante il viaggio. «Analisi sensoriale completa, voglio vedere le sue difese» ordinò.
   «La flotta è in orbita geostazionaria sopra la Fortezza» disse Lum, inquadrando il nugolo di navi a razzo. Molte di esse presentavano ancora gli scafi segnati dalla precedente battaglia. «Sono 47 astronavi in tutto, alcune piuttosto danneggiate. Con l’aiuto dei Solarani non avremo problemi a distruggerle» affermò il Ferengi.
   «Sempre che i Solarani arrivino puntuali» precisò Naskeel, che come tutti i Tholiani ci teneva alle tempistiche.
   «Non attaccheremo senza di loro» stabilì Losira. Non aveva forgiato quell’alleanza solo per lanciarsi in un assalto avventato. «Che mi dite della Fortezza?».
   «Eccola» disse Lum, inquadrandola sullo schermo. «È protetta dallo Scudo di Lampi, vale a dire un campo di forza a cupola». Mentre parlava il computer evidenziò l’area coperta. Visto dall’alto, era un cerchio che avvolgeva completamente la Fortezza e l’altura su cui s’innalzava. «Uhm, è piuttosto resistente; dev’essere alimentato da un generatore sotterraneo» notò il Ferengi.
   «Possiamo perforarlo?» chiese Losira.
   «Coi phaser o i raggi anti-polaronici servirebbe un’ora» rispose Naskeel. «Ma coi siluri quantici basteranno un paio di salve. La distruzione sarà totale».
   «Beh, come dice Capitan Proton... il crimine non paga» commentò Losira. Era piuttosto ironica, considerando che loro stessi si erano dedicati ad affari poco leciti, prima di smarrirsi nel Multiverso. «C’è altro di cui dovremmo occuparci? Avamposti, bunker, batterie terra-aria?» chiese, non volendo tralasciare nulla.
   «Analizzo l’area circostante» disse Lum.
   «Una minaccia da considerare è la superarma Krell» disse Naskeel. «Se il database del programma è corretto, si tratta di un ordigno capace di disintegrare interi pianeti. Una tale potenza di fuoco distruggerebbe anche la Destiny, e in un singolo colpo».
   «Posto che funzioni, e che l’abbiano completata» commentò Shati.
   «Vuole scommetterci le nostre vite?» chiese il Tholiano, sempre rivolto a Losira.
   «Se Chaotica avesse completato quell’arma, l’avrebbe già usata contro Solara. O almeno avrebbe minacciato di usarla. Quel buffone non può rinunciare a pavoneggiarsi» ragionò la Comandante.
   «Probabile, ma ne siamo certi?» insisté Naskeel. «Dopo la sconfitta che gli abbiamo inflitto potrebbe essersi fatto più cauto, tanto da non rivelare tutto il suo potenziale d’attacco».
   Losira soppesò quelle parole, a disagio. «Può darsi» ammise infine. «C’è modo di stabilire se la superarma sia completa?».
   «Sfortunatamente i nostri sensori non penetrano lo... Scudo di Lampi. E nemmeno il teletrasporto» rispose il Tholiano.
   «Quindi che dovremmo fare, infiltrarci per dare un’occhiata?» fece la Risiana, irrequieta. Considerando che avevano già dei dispersi, non le andava di rischiare altri ufficiali.
   «Comandante, c’è una complicazione» avvertì Lum, che aveva terminato le analisi. «Guardi che ho trovato, ad appena due chilometri dalla Fortezza!». Evidenziò sullo schermo una sagoma ovoidale, nascosta dietro ad alcune rocce, così da non essere direttamente visibile dalla roccaforte.
   «Una nave a razzo atterrata?» riconobbe Losira, aggrottando un poco la fronte.
   «Sì, e non una qualunque» confermò l’addetto ai sensori. «Quello è il Rocketeer!».
   La Risiana spalancò gli occhi e per un attimo restò senza parole. Gli altri ufficiali rimasero muti, in attesa della tempesta che puntualmente venne. «Di tutti i posti dello Spazio Fotonico... proprio lì?!» fece Losira. «Che t’è saltato in testa, Capitano?!».
   «Forse ha deciso di andare fino in fondo con la trama» si azzardò Shati.
   «Come no, in tre contro tutta la guarnigione e la flotta!» sbottò Losira, stentando a credere che Rivera avesse coinvolto gli altri due in una follia del genere. «Non può credere davvero che funzioni. Perché non s’è tenuto alla larga?!».
   «Forse non ha avuto scelta» ragionò la timoniera. «Se Constance, cioè Giely, è stata rapita come accade sempre nel gioco, lui e Talyn saranno andati a salvarla».
   «C’è anche un’altra possibilità» intervenne Naskeel. «Forse il Capitano ha motivo di credere che il nemico abbia completato la superarma, o sia prossimo a completarla. E di conseguenza ha tentato d’infiltrarsi nella Fortezza per distruggerla».
   «Che dicono i sensori? C’è qualcuno sul Rocketeer?» chiese Losira, notando che il vascello si trovava fuori dallo Scudo di Lampi. Se gli occupanti erano ancora lì, li avrebbero immediatamente teletrasportati.
   «Nessun segno vitale» rispose Lum. «Saranno già nella Fortezza, dove non possiamo captarli».
   «Beh, allora dobbiamo tirarli fuori, prima che arrivino i Solarani e distruggano tutto» borbottò Losira, osservando costernata la roccaforte. Gli alieni fotonici le erano parsi così decisi a vendicarsi che non era sicura di riuscire a trattenerli dall’assalto, anche se gli avesse esposto il problema. Che ironia... la stessa alleanza che si era affannata a forgiare ora la spaventava più di tutto il resto!
   «Come conta d’estrarli senza rivelare la nostra presenza, cosa che ci toglierebbe il vantaggio della sorpresa e sarebbe percepito dai Solarani come un tradimento?» chiese Naskeel.
   «Io... devo pensarci» mormorò Losira, sprofondando nella poltroncina.
 
   Scortato dalle guardie, che gli avevano legato le mani dietro la schiena, il Capitano giunse nella sala del trono di Chaotica. L’aveva già vista nelle precedenti puntate, per cui non fu affatto colpito dal suo sfarzo kitsch. I suoi occhi andarono subito al trono, dove Chaotica lo attendeva in una posa arrogante, con una gamba accavallata in modo da mostrargli la suola della scarpa, come a calpestarlo simbolicamente. Sulla faccia del despota era stampato il ghigno mefistofelico di trionfo.
   «Cosa vedo! Il Difensore della Terra che non difende nemmeno se stesso. L’uomo dello spazio che viene sconfitto per terra, per mare e nei cieli. Il Flagello del Male che giunge in catene e s’inginocchia davanti a me, implorando pietà!» lo accolse Chaotica. Al suo cenno le guardie cercarono di costringere il prigioniero a inginocchiarsi, per avverare l’ultima affermazione. Lui rispose dando un calcio negli stinchi all’uomo più vicino e costringendolo a indietreggiare, saltellando sull’altro piede. Altre due guardie tuttavia lo afferrarono rudemente e, insieme, riuscirono a piegarlo sino a farlo cadere in ginocchio. Rivera tuttavia non si umiliò a chiedere pietà, ben sapendo che non ne avrebbe avuta. Restò in silenzio, fissando l’avversario con disprezzo.
   «Vedo che sei sprezzante fino all’ultimo!» constatò Chaotica, divertito. «Forse t’illudi ancora di trovare scampo, come altre volte in passato. In tal caso devo dissipare la tua infantile illusione. Stavolta ho pianificato ogni dettaglio, previsto ogni possibile contromossa. Nessuno può impedirmi di assurgere a incontrastato Dominatore del Cosmo. Ammira il frutto del mio ingegno! Per la prima volta da duemila secoli, la superarma Krell è pronta a colpire!» esclamò, indicando teatralmente l’ordigno.
   Rivera si rialzò e osservò lo strano congegno piramidale, riconoscendo le Pietre che aveva perso negli scontri precedenti. Dalla sua angolazione riusciva a vederne due, quella dell’Acqua e dell’Aria. Dunque il suo timore si era avverato: le Signore del Male avevano ceduto il loro bottino allo scienziato folle, in cambio di chissà cosa. E il Capitano sapeva, pur non vedendola, che anche la Pietra della Terra era lì, sul lato opposto della piramide. Dunque Chaotica aveva radunato le prime tre. Ma allungando il collo, Rivera notò che l’alloggiamento dell’ultima Pietra, quella del Fuoco, era ancora vuoto. Si trattava della prima buona notizia, dacché era sbarcato sul Pianeta X.
   «Aspetta a cantare vittoria, ti manca ancora la Pietra del Fuoco» notò il Capitano, per vedere la reazione di Chaotica e indurlo a rivelare i suoi piani.
   «A questo rimedierò presto!» rispose il despota, incapace di trattenersi. «A quest’ora il fedele Lonzak l’avrà già sottratta agli insulsi Uomini Salamandra. Mi aspetto che torni da un momento all’altro. In effetti, se non ti uccido subito è solo perché voglio vedere la tua espressione di sconfitta, quando la superarma sarà finalmente completa!» minacciò, godendosi la sua aria già piuttosto affranta. «Oh, se anche i tuoi stolti aiutanti potessero vederti, capirebbero quant’era mal riposta la loro fiducia. Ma almeno una può farlo... e lo farà! Saluta la tua cara Constance, rubacuori da strapazzo!».
   Così dicendo il folle scienziato premette un bottone nascosto tra i fregi che ornavano il bracciolo del suo trono. Si udì un rimbombo simile a quello del soffitto-trappola della cella. Stavolta però fu un’intera parete del salone ad aprirsi come una cortina teatrale, rivelando un’altra stanza. Questa era dominata da un pozzo, dal quale salivano vapori sulfurei. Pur trovandosi a una considerevole distanza, Rivera avvertì l’ondata di calore e sentì l’odore acre del fumo. Allora si sentì tremare fin nel midollo, ricordando l’ultimo atto dell’avventura: Chaotica avrebbe cercato di sacrificare Constance, gettandola in un abisso di lava incandescente.
   Il Capitano osservò il nuovo salone, invaso dal fumo, e finalmente vide Giely. Era ancora travestita da Constance, con tanto di parrucca bionda, segno che Chaotica non aveva scoperto il suo segreto neanche quando aveva preparato l’inganno nelle segrete. Per il momento la Vorta era legata a una colonna, e già così tossiva per le esalazioni vulcaniche. Ma sospese sul pozzo c’erano alcune robuste corde, fissate al soffitto. Rivera comprese che ben presto Giely si sarebbe trovata appesa su quell’abisso infernale, in attesa dell’esecuzione. E anche lui, con ogni probabilità, sarebbe andato incontro alla stessa sorte. I loro sguardi s’incontrarono e ciascuno lesse l’afflizione negli occhi dell’altro.
   Il dottor Chaotica lasciò il trono e si avvicinò al Capitano, per gustarsi la sua espressione piena d’orrore. «Adesso m’implori di risparmiarti, maledetto Terrestre? No? Nemmeno di risparmiare lei?!» gli sibilò all’orecchio, più velenoso di un aspide.
   A quelle parole Rivera cercò di avventarsi contro il despota. Aveva ancora le mani legate dietro la schiena, ma si sarebbe accontentato di dargli una testata in faccia per spegnere quel ghigno diabolico. Non gli riuscì, perché le guardie lo tennero immobilizzato. Una gli assestò un pugno al diaframma, facendolo di nuovo cadere in ginocchio, boccheggiante. Con gli occhi appannati, l’Umano tornò a guardare la Vorta prigioniera. Solo allora si rese pienamente conto di un fatto tutt’altro che marginale: Giely era sola, non c’era traccia di Talyn. Del resto anche Chaotica, poco prima, aveva implicitamente ammesso di avere solo lei in ostaggio.
   «Che ne è di Buster?!» boccheggiò il Capitano, sempre usando il nome fittizio del giovane. Lanciandosi in quel salvataggio aveva sperato di trovarlo lì, ma ora al contrario si augurava che fosse altrove.
   «Il tuo stolto tirapiedi? E lo chiedi a me?» chiese Chaotica, con sincero stupore. «Dunque hai smarrito anche lui... l’ennesimo fallimento da aggiungere alla tua lista!» infierì. D’un tratto tornò a sorridere, come chi ha appena risolto un piccolo mistero. «Ma forse conosco la sorte del giovane Buster. Quando le Signore del Male mi hanno ceduto la Pietra dell’Aria, in cambio hanno voluto la mia Sonda Cerebrale. Parevano così ansiose di usarla... ora so chi è stata la loro prima vittima!».
   Quello fu un altro duro colpo per il Capitano. Se le Signore del Male avevano condizionato Talyn, forse il giovane non sarebbe mai tornato com’era, neppure se fossero riusciti a trarlo in salvo. «Come lo spiegherò a Losira?! Sempre che riesca a uscire da qui...» si disse l’Umano, più avvilito che mai.
   «Bene, vedo che cominci a comprendere l’entità del tuo fallimento!» gongolò Chaotica, fregandosi le mani dalla soddisfazione. «E non ho ancora finito. Sappi che, non appena la superarma sarà completata, sacrificherò te e Constance ad Arachnia, gettandovi in quel baratro infuocato!» disse, indicando il pozzo. «Così finalmente anche la regina arderà d’amore per me. Nel frattempo, ecco un assaggio di quel che vi aspetta!».
   Il folle scienziato batté le mani e subito il Robot Satanico entrò nella sala del trono, reggendo il corpo senza vita di Griffin. «Ecco un altro che ha pensato stoltamente di sfidarmi, nella mia stessa reggia!» commentò Chaotica. «Guarda dove l’hai condotto, Proton. Guarda dove conduci coloro che credono in te, e dove finirai tu stesso! Giù!» ordinò, rivolto all’automa.
   Con il suo passo dondolante, il Robot Satanico percorse il salone e giunse sull’orlo del pozzo, circoscritto da un parapetto. Sollevò il corpo di Griffin oltre la balaustra di metallo, tenendolo brevemente sospeso sul vuoto, e infine lo lasciò andare. Le spoglie dell’Uomo Falco caddero ingloriosamente nell’abisso di lava, dove furono consumate. A quella vista Rivera stentò a trattenere le lacrime, non solo per la sorte dell’amico, ma anche al pensiero che Giely potesse esservi gettata a sua volta.
   «So cosa stai pensando, Proton» proseguì Chaotica, implacabile. «Pensi che in qualche modo riuscirai ancora a liberarti, a liberare Constance e a fuggire con lei, come hai sempre fatto. Ma stavolta no, mio sprovveduto Capitano. Stavolta non avrai alcuna astronave con cui fuggire. Credi che la mia flotta in orbita non abbia rilevato il tuo ridicolo catorcio? Credi che i miei Raggi della Morte non lo tengano sotto tiro, dal preciso momento in cui è atterrato? Potevo disintegrarlo fin da subito, ma ho preferito attendere il momento migliore. Quello in cui lo avresti veduto assieme a me».
   Così dicendo il despota si recò in un angolo della sala del trono, pieno di consolle e strumenti elettronici. Armeggiò brevemente con i comandi, attivando l’immagizzatore. Lo schermo sfarfallò un attimo, come un antiquato televisore. Poi l’immagine si stabilizzò: era un’inquadratura dall’alto del Rocketeer atterrato. Era certamente trasmessa da uno dei vascelli di Chaotica, in orbita sopra di loro. Rivera trattenne il fiato, consapevole di ciò che stava per accadere.
   «Devo ammettere che questo tuo talento mi ha colpito, Proton» riconobbe il despota. «Le Signore del Male mi avevano assicurato che la tua navicella era irrecuperabile; invece sei riuscito a ripararla, arrivando fin qui. Ebbene, è tempo che le vanterie delle gemelle diventino realtà! Rottamerò la tua nave, come sognavo da gran tempo!». Così dicendo impugnò un enorme microfono e lo attivò, provocando un fischio sgradevolissimo.
   «Chaotica a flotta, distruggete il Rocketeer! Fuoco a volontà!» ordinò il folle scienziato, sputacchiando per l’emozione. Poi restò a osservare, quasi incredulo della sua vittoria. Anche Rivera osservò, suo malgrado, e sentì morire l’ultima scintilla di speranza.
   Un Raggio della Morte colpì il Rocketeer, facendo sprizzare fiamme dai motori. Un secondo e un terzo fulmine scoccarono, infliggendo danni ancora più gravi. Infine la fedele navicella esplose in una gran fiammata, scagliando ovunque frammenti metallici contorti. Al suo posto rimase un cratere fumigante, cosparso di detriti. Di lì a pochi secondi giunse il boato, perfettamente udibile attraverso la finestra del salone. La Fortezza del Destino vibrò appena per il lieve terremoto provocato dall’esplosione.
   Era fatta, si disse il Capitano. Con il Rocketeer distrutto, lui e Giely non avevano speranza di lasciare il Pianeta X, anche se fossero riusciti a liberarsi. Non che questa fosse un’eventualità realistica, circondati com’erano dai nemici. In ogni caso erano spacciati. E se Chaotica riusciva a completare la superarma, allora sarebbe divenuto davvero il Dominatore del Cosmo. Avrebbe distrutto interi mondi... e anche la Destiny, se questa si fosse messa in mezzo.
   «Tutto è bene quel che finisce bene!» citò Chaotica, applaudendo a se stesso. «Ora non mi resta che aspettare il ritorno di Lonzak con la Pietra del Fuoco. Ho detto che non vi avrei sacrificati prima di allora, e intendo rispettare la parola» aggiunse, passando lo sguardo da Rivera a Giely, e poi di nuovo al Capitano. «Ma nulla m’impedisce di divertirmi nel frattempo. Vi darò un altro assaggio di ciò che vi aspetta. Appendeteli sopra il pozzo, e legateli ben stretti, così che non cadano anzitempo!» ordinò ai suoi scagnozzi. Infine tornò al trono e vi si assise, per gustare sino in fondo la sua vendetta.
 
   Sulla Destiny, Losira stava ancora fissando il Rocketeer, chiedendosi come procedere, quando vide un lampo balenare contro la navicella. Poi un altro, e un altro ancora. Al terzo colpo il Rocketeer si disintegrò in un’esplosione abbagliante, lasciando solo un cratere pieno di rottami incandescenti.
   A quella vista la Risiana balzò in piedi, scioccata. «Rapporto!» ordinò, sebbene fosse fin troppo evidente cos’era accaduto.
   «La flotta di Chaotica ha aperto il fuoco contro il Rocketeer» confermò Naskeel.
   «Così di botto, senza provocazione?» chiese Losira.
   «Forse la sua presenza era già una provocazione sufficiente» ribatté il Tholiano.
   «Ma avevi detto che non c’erano segni vitali a bordo, vero?» chiese con ansia la Comandante, rivolta a Lum.
   «E lo confermo» disse il Ferengi, ricontrollando le letture. «Se sono vivi, i nostri devono trovarsi nella Fortezza».
   «Forse Chaotica ha distrutto il Rocketeer dopo averli scoperti» suggerì Shati.
   «La flotta che fa?» chiese Losira, temendo che avesse scovato anche loro.
   «Niente, resta in orbita geostazionaria» disse Lum, allentando leggermente la tensione. Comunque era chiaro a tutti che la distruzione del Rocketeer non andava presa sottogamba. Significava che i dispersi, se erano vivi, non avevano più modo di lasciare il pianeta con le loro forze. Dunque la missione di soccorso, se prima era consigliabile, ora diveniva assolutamente indispensabile. Ed era ancora più urgente, perché se Chaotica aveva scoperto gli intrusi, poteva giustiziarli in ogni momento.
   «Comandante, come entriamo in quella fortezza?» incalzò Shati.
   «Un attacco frontale è fuori questione, il nemico si farebbe scudo con gli ostaggi» sospirò Losira. «Non ci resta che un’infiltrazione. Dobbiamo capire qual è il punto debole di Chaotica e...». Così dicendo si bloccò, colta da un’idea luminosa. Aveva studiato il profilo di Chaotica e si era accorta che in effetti il despota aveva un punto debole. Curiosamente era lo stesso di Capitan Proton: l’amore. Anche il Dominatore del Cosmo, infatti, spasimava per una donna...
   «Ci sono, ora so cosa fare» disse la Risiana. Le sue labbra s’incresparono in un sorriso sardonico mentre osservava la Fortezza del Destino, pianificando la prossima mossa.
 
   Sospeso sopra l’abisso infuocato, Rivera tossì per il fumo acre che ne emanava. Sentiva il calore salire dalle profondità della terra, facendolo sudare come in una sauna. La sua posizione, poi, era particolarmente scomoda: le guardie di Chaotica lo avevano appeso per le braccia, con la corda che faceva più giri attorno ai polsi ed era fissata con un complicato nodo. Se avesse cercato di scioglierla per liberarsi, sarebbe certamente caduto nel pozzo. Così non gli restava che starsene immobile, cercando di non dondolare troppo. Le braccia gli dolevano, dovendo sostenere tutto il peso del corpo, e questo sarebbe solo peggiorato col passare delle ore. Ma il peggio era che Giely si trovava nella stessa condizione, appesa proprio davanti a lui. Così ciascuno dei due vedeva la propria disperazione riflessa nel volto dell’altro, senza poterlo aiutare in alcun modo. Almeno non erano imbavagliati, ed erano così vicini da potersi parlare senza che gli aguzzini sentissero; ma il Capitano non era in vena di discorsi.
   Fu Giely, inaspettatamente, a rompere il silenzio. «Perché sei venuto qui senza il supporto della Destiny?» chiese.
   «Non avevo tempo di cercarla. Temevo che questi buffoni ti facessero del male» rispose Rivera.
   «Sei stato incauto» notò la Vorta. «E comunque non avresti dovuto rischiare per me. Tu sei il Capitano, la Destiny non deve perderti».
   «Beh, sai, non ho fatto queste valutazioni!» rimbeccò l’Umano. «Ho provato a salvarti perché mi stai a cuore. Il fatto è che non sono stato del tutto sincero con te, quando mi hai chiesto se ti amavo. Credo che non fossi ancora pronto ad ammetterlo, ma... visto che potremmo morire da un momento all’altro, è il momento di vuotare il sacco. Ebbene sì, ti amo. E quando si ama una persona si cerca di proteggerla, anche se non è la mossa più astuta».
   Gli occhi violetti di Giely si spalancarono per la sorpresa, ma poi si fecero tristi e anche piuttosto arrabbiati. «Ah, no!» protestò la Vorta. «Non puoi uscire di punto in bianco con un discorso del genere!».
   «Ma è la verità. Avrei voluto capirlo prima, dirtelo prima...».
   «So cosa stai cercando, Capitan Sciupafemmine!» disse la dottoressa, scuotendo la testa. «Nella miglior tradizione della Golden Age, vuoi una donna che sia “nata sexy ieri”: abbastanza adulta da essere disponibile, abbastanza ingenua da cadere fra le tue braccia. E cosa c’è di meglio della Vorta emersa dalla vasca di gestazione? Ma non sono sprovveduta fino a questo punto. Ti ho già spiegato che noi Vorta non siamo fatti per amare, quindi anche volendo non potrei ricambiarti. Ti rispetto come Capitano, ma non desidero alcun coinvolgimento emotivo con te. E questa è la mia ultima parola!» disse con decisione. I suoi occhi tuttavia bruciavano, come per un tormento inespresso.
   Rivera distolse lo sguardo, addolorato. Da quando le Avventure di Capitan Proton si erano fatte realtà, non ne aveva imbroccata una giusta. Si era fatto soffiare le Pietre una dopo l’altra, aveva lasciato che i suoi compagni fossero rapiti, infine s’era fatto catturare lui stesso in quel maldestro tentativo di salvataggio. In quell’ora, che poteva essere l’ultima, era stato sincero con la Vorta; ma la sua risposta sferzante lo aveva umiliato. E non vedeva alcuna via d’uscita, alcun modo per ribaltare la situazione. Anche il motto del suo personaggio – Mai darsi per vinti, mai arrendersi! – gli suonava beffardo.
   Vedendolo così avvilito, Giely si pentì della sua risposta. In fondo il Capitano era venuto lì nell’estremo tentativo di salvarla, pur sapendo benissimo cosa rischiava. E lei, in cambio, aveva saputo rifilargli solo accuse e recriminazioni. Per un attimo la Vorta si figurò la scena a parti invertite. Se il Capitano fosse stato catturato, e lei avesse cercato di salvarlo, e lui le avesse risposto in quel tono, come si sarebbe sentita? Come un cencio, comprese. A quel pensiero desiderò ritrattare quanto detto, ma in quella Chaotica si fece avanti, rivolgendosi agli ostaggi.
   «Prima di distruggere il Rocketeer avevo inviato una squadra a perquisirlo, così da avere un trofeo da esporre» disse lo scienziato folle. «Guardate un po’ che mi hanno portato! Non potevo chiedere di meglio!» si gloriò, mostrando un oggetto fin troppo familiare. Tra i fumi che salivano dal magma, Rivera riconobbe lo zaino a razzo di Proton. Il maledetto zaino a razzo che non aveva mai avuto modo di usare quando gli avrebbe fatto comodo.
   «Questo cimelio sarà il pezzo forte della mia collezione» infierì Chaotica. «Voi dove mi suggerite di metterlo?».
   Rivera glielo disse, nei termini più volgari.
   Per un attimo il despota rimase sbalordito, ma tosto il ghigno tornò sul suo viso. «Capitan Proton, mi deludi veramente! E io che ti credevo una persona a modo! Beh, pazienza, deciderò da solo. Credo che starà molto bene qui, al posto d’onore!» stabilì, osservando un tratto di parete sgombra accanto al trono, sull’altro lato rispetto al gong. Presa la decisione, chiamò il Robot Satanico e gli fece appendere lo zaino alla parete, agganciandolo a un chiodo, come un bizzarro trofeo di caccia.
   «Sì, perfetto!» approvò Chaotica, dopo essere arretrato di qualche passo per osservarlo da lontano. «Tutti coloro che verranno a rendermi omaggio vedranno che ho sconfitto il loro astro, il loro idolo, il grande Capitan Proton!».
   In quella una delle consolle in fondo al salone si attivò, emettendo un prolungato fischio.
   «Che c’è?!» chiese Chaotica, un po’ seccato d’essere stato interrotto nelle sue vanterie.
   «Un’astronave si sta avvicinando, Vostra Maestà» rispose uno dei tirapiedi, esaminando le letture del radar. «Modello sconosciuto».
   «Alieni della Quinta Dimensione, certamente!» disse il despota, che già si aspettava un contrattacco da parte loro. «Avvisa la flotta, voglio che distruggano quel vascello appena arriva a distanza di tiro» ordinò.
   «Aspettate, Altezza, riceviamo una trasmissione dall’astronave» disse lo scagnozzo. «È la Regina Arachnia! Chiede d’essere ricevuta per sancire l’alleanza e offrirvi un dono regale» rivelò.
   A quelle parole, gli occhi di Chaotica si accesero di bramosia. «Arachnia! Oh, lo sapevo che non mi avresti ignorato per sempre! Alfine sei giunta, nell’ora del mio trionfo, per essere mia alleata... e mia sposa!» disse, come se la Regina dei Ragni fosse già lì davanti a lui. «Beh, che aspetti? Invitala ad atterrare. Abbassa il ponte levatoio, manda le mie guardie a riceverla per scortarla qui. E segnala alla mia flotta di lasciarla passare» ordinò impaziente al sottoposto. «Questo è un giorno memorabile... ha visto la sconfitta di Proton e presto vedrà la sposa di Chaotica! MUA-AH-AH-AH-AHHH!» esultò il despota, mentre la sua risata di trionfo echeggiava in ogni angolo della sala del trono. 
 

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Capitolo 8
*** Arachnia ***


-Capitolo 7: Arachnia
 
   La Fortezza del Destino era in subbuglio per l’inaspettato arrivo di Arachnia, finalmente giunta per sancire l’alleanza con Chaotica, e forse addirittura per accettare le sue reiterate proposte di nozze. Il ponte levatoio fu abbassato, le guardie si schierarono a corteo. Non appena la Regina dei Ragni atterrò con la sua navicella, l’accolsero per scortarla nella sala del trono. Qui Chaotica l’attendeva, più ringalluzzito che mai. Aveva tenuto aperta la parete scorrevole, così che i prigionieri appesi sopra il pozzo dei sacrifici potessero assistere al suo trionfo. Il folle scienziato si accertò d’essere in ordine, prima di ricevere la sua amata.
   Finalmente, con squilli di trombe e il rintocco del gong, il portone si spalancò, permettendo al corteo di fare il suo ingresso. Curiosamente il primo a entrare non fu una persona, e nemmeno un essere vivente. Era un robot fluttuante, di forma ovale, non più grande di un’anguria. Il suo guscio metallico era dipinto con un motivo che ricordava una ragnatela.
   «Be-beep!» fece il robottino, esaminando l’ambiente con i suoi sensori. Chaotica inarcò un sopracciglio, non riconoscendolo. Furono i prigionieri invece a riconoscerlo, malgrado fosse stato frettolosamente ridipinto. Quello era di certo uno degli Exocomp, i robot riparatutto che corredavano la Destiny, fornendo un prezioso aiuto agli ingegneri. E con ogni probabilità si trattava di Ottoperotto, come avevano soprannominato l’Exocomp 64, il più intraprendente del gruppo, quello con la personalità più spiccata.
   «Beh, e tu cosa sei?» chiese Chaotica, incuriosito dallo strano apparecchio.
   «Io essere araldo di Arachnia, be-beep! Io annunciare mia grande regina!» dichiarò il robottino, con voce elettronica eppure stranamente orgogliosa, facendosi avanti. Le guardie di Chaotica lo tennero d’occhio, ma non osarono interferire con un servitore di Arachnia.
   «Ebbene, introducila!» lo esortò il despota, impaziente di vedere la sua amata.
   A quelle parole l’Exocomp prese quota e alzò il volume, trasformandosi in una sorta d’altoparlante. «AMMIRATE E DISPERATEVI!» proclamò. «ECCO A VOI ARACHNIA, REGINA DEL POPOLO RAGNO!».
   E Arachnia fece il suo ingresso regale, incedendo a lenti passi mentre si guardava attorno con aria vagamente annoiata. I prigionieri la osservarono... e videro ciò che la presenza di Ottoperotto già suggeriva. Arachnia non era altri che Losira, in una delle sue interpretazioni più riuscite. Rivera l’aveva già vista travestirsi per mettere a segno delle truffe, ma questo era il ruolo della sua vita.
   Il look di Losira era una via di mezzo tra Crudelia DeMon e Morticia Addams. L’abito era di un nero intenso, con maniche svasate e un enorme colletto a ragnatela che le incorniciava la testa. Anche la chioma era corvina, con una sola ciocca bianca e un fermacapelli a forma di ragno. Gli occhi erano enfatizzati da un trucco fin troppo scuro, mentre le mani avevano unghie ad artiglio, nere e lunghissime. Il vestito era corredato inoltre di uno strascico semitrasparente, simile a una ragnatela. Dietro alla finta regina veniva nientedimeno che... Shati! La Caitiana era abbigliata come una sorta d’ancella egizia e reggeva una cassetta metallica decorata, forse contenente un dono. Aveva l’aria di chi vorrebbe essere in qualunque altro posto. Rivera immaginò che Losira l’avesse voluta con sé per contare, in caso di necessità, sulla loro one woman army.
   «Mia regina, sei più bella di quanto ti abbia mai vista!» l’accolse Chaotica, venendole incontro. «Sapevo che alfine avresti risposto al mio appello; noi siamo destinati a regnare assieme!». Così dicendo s’inginocchiò davanti a lei, prese la mano che gli veniva offerta e la baciò galantemente. La cavalleria fu un poco guastata dal fatto che poi il despota continuò a tempestarla di baci, risalendo progressivamente lungo il braccio.
   «Come potrei resistere al tuo... magnetismo?» chiese retoricamente Losira, lasciandolo fare. «Le notizie delle tue imprese corrono in tutto il cosmo. So che hai quasi completato la superarma Krell, sconfiggendo ripetutamente Capitan Proton. Dunque quale momento migliore per mostrarti il mio favore, potente Dominatore del Cosmo? Non potevo tardare un solo istante... sono partita così in fretta da anticipare la mia flotta di navi-ragno» disse, per giustificare d’essere arrivata solo col Centurion, la navicella personale del Capitano.
   «Non dolerti, mia adorata!» la rassicurò Chaotica, smettendo finalmente di sbaciucchiarla. Si rialzò, accompagnando le sue parole con un gesto enfatico. «Il tuo arrivo è come una ventata inebriante; l’aria stessa che si respira vibra della tua bellezza! Ah, vedo che hai anche dei nuovi servitori» notò.
   «Sì, questo è il mio araldo meccanico» annuì Losira, accennando all’Exocomp. «Si tratta di una macchina senz’anima, totalmente fedele, come il tuo Robot Satanico». A quelle parole Ottoperotto si avvicinò all’automa cilindrico, con un «Be-beep!» meno amichevole del solito. I due si fronteggiarono, come scrutandosi, sebbene nessuno avesse occhi veri e propri.
   «E questa schiavetta è Shati, una donna-gatto del remoto pianeta Ferasa» proseguì Losira. «Era una piccola selvaggia, prima che la domassi. Non è vero, Shati?» fece in tono aristocratico.
   «Miao» borbottò la Caitiana, mantenendo un atteggiamento sottomesso. Ma i suoi occhi gialli e felini avevano uno sguardo assassino. Rivera poté solo sperare che, al momento opportuno, la sua furia si scatenasse contro gli avversari.
   «Molto graziosi, tutti e due!» ridacchiò Chaotica. «Ma dimmi, posso contare sul fatto che le tue navi-ragno ci raggiungano a breve? Temo d’essere venuto a conflitto con alcuni barbari della Quinta Dimensione, che hanno osato rifiutare la mia autorità...».
   «Hanno respinto la tua Forza Spaziale?» chiese Losira, con aria rammaricata. In realtà se la rideva fra sé, sapendo d’essere stata proprio lei a farli vincere, gettando la Destiny in battaglia.
   «Uhm, solo grazie a un aiuto indebito» borbottò il despota. «Una potente e misteriosa astronave, che potrebbe aiutarli ancora. Ma se unirai la tua flotta alla mia, saremo invincibili!» promise.
   «Le mie navi-ragno giungeranno entro un paio di giorni» promise la Risiana, sapendo che quello in realtà era il tempo previsto per l’arrivo dei Solarani. «Certo che, se la tua superarma fosse completa, non avresti nemmeno bisogno delle astronavi...».
   «La mia arma sarà presto ultimata! Ammira tu stessa!» disse Chaotica, indicando teatralmente l’ordigno piramidale.
   «Oh, sembra davvero formidabile...» fece Losira, avvicinandosi per esaminarla. Prese a girarci attorno, contando le Pietre incastonate negli angoli, per verificare quanto mancava al completamento.
   «La più letale del cosmo!» confermò il folle scienziato, sempre più inorgoglito. «Giacque sepolta per duemila secoli sotto le sabbie di un remoto pianeta, prima che io la riportassi alla luce. Col mio genio l’ho riparata, e presto il fedele Lonzak mi consegnerà l’ultima Pietra, quella del Fuoco».
   A quelle parole Losira increspò le labbra, pronta a far scattare la trappola. «E se ti dicessi che la tua ricerca è finita? Che non devi aspettare Lonzak, perché la Pietra del Fuoco è già qui?» disse a sorpresa.
   A quelle parole Chaotica trasalì, e non solo lui. Anche Giely e Rivera, sempre appesi sopra al pozzo sacrificale, sgranarono gli occhi. «Qui? E dove?!» chiese il folle scienziato, guardandosi attorno come se fosse nascosta.
   Al gesto di Losira, che la invitò con un dito, Shati si fece avanti e s’inginocchiò, offrendo la scatola metallica.
   «Ti avevo promesso un dono, maestà» spiegò la Risiana. «Un modo per dimostrarti tutto il mio amore e la mia devozione. E quale modo migliore che permetterti di completare l’arma? Sono già stata a Flegra e ho sottratto la Pietra del Fuoco agli Uomini Salamandra. Ora la offro a te, Dominatore del Cosmo!» disse solennemente, alzando il coperchio della cassetta.
   Chaotica si precipitò in avanti, trascinato dalla bramosia, e tuffò le mani nella scatola. Rivera si era quasi aspettato che dentro ci fosse una tagliola, o qualche altra trappola che l’avrebbe messo fuori combattimento. Invece il despota estrasse l’ultima Pietra e se la rigirò tra le mani, ammirandola. Somigliava alle altre, se non per il fatto che recava inciso il simbolo alchemico del fuoco: un triangolo equilatero con la punta verso l’alto. «Sì! Arachnia, sei davvero degna d’essere chiamata mia regina e dividere il trono con me! Ora nessuno potrà fermarci!» esultò il folle scienziato.
   «Ma è impazzita?!» bisbigliò Giely a Rivera.
   «Dev’esserci una spiegazione» borbottò il Capitano. «Forse si tratta di un falso. Glielo avrà dato per conquistare del tutto la sua fiducia e fargli interrompere la ricerca della vera Pietra».
   «Ah, bene!» si rincuorò la Vorta.
   «Bene un corno, invece!» obiettò Rivera. «Ricordi la trama? Se Chaotica inserisce una Pietra falsa tra quelle vere, e poi tenta di usare la superarma, quella si sovraccaricherà fino a esplodere. E sarà un’esplosione tale da disintegrare questa fortezza!».
   Giely restò a bocca aperta. «Ma allora, Losira...».
   «O non ha letto la trama fino in fondo, o conta di farci uscire da qui prima che Chaotica provi a usare l’arma» dedusse il Capitano. «Spero nella seconda ipotesi, per quanto sia rischiosa. Perché se è vera la prima, allora Losira non si rende conto che ci sta condannando tutti».
 
   Fatte queste considerazioni, Rivera tornò a osservare ciò che accadeva nel salone. Chaotica aveva già collocato la falsa Pietra al suo posto, così che la superarma appariva completa. «Magnifica!» gongolò il despota, osservandola. «Quando i Solarani saranno qui, distruggerò i loro vascelli uno per uno. Poi prenderò di mira il loro pianeta... allora sì che dovranno arrendersi a me! Voglio dire, a noi!» si corresse, prendendo a braccetto Losira.
   «Allora non ci resta che aspettare, sire» commentò la falsa regina.
   «Aspettare? Non posso aspettare... devi essere mia sposa oggi stesso!» affermò Chaotica, tentando di baciarla, stavolta sulla bocca.
   «Non precipitiamo le cose» disse Losira, sciogliendosi dall’abbraccio e sfuggendo alle avances con notevole agilità. «Dobbiamo aspettare l’arrivo della mia flotta, così i miei sudditi potranno renderti omaggio e assistere alla cerimonia nuziale» argomentò, per prendere tempo. Mentre parlava passò accanto al trono e con nonchalance ghermì la boccetta di feromoni, su cui aveva messo gli occhi fin dal suo ingresso. La nascose in un taschino interno di una delle sue maniche svasate, per averla pronta al momento del bisogno, sebbene Chaotica sembrasse già abbastanza incantato.
   «Sì, giusto» borbottò il despota, ricomponendosi. «Ma nell’attesa c’è qualcosa che intendo fare. Devi sapere che, dopo mille battaglie, ho finalmente sconfitto Capitan Proton! Prima ho rapito la sua insulsa segretaria e poi, quando ha cercato di salvarla, ho catturato anche lui. Guardali! Non ti delizia vederli alla mia mercé?» chiese, guidando l’ospite verso il pozzo dei sacrifici.
   Losira aveva già notato il pozzo, ma non si era resa conto dei due prigionieri che vi erano appesi, seminascosti tra le esalazioni sulfuree. Ora che li vide, e li riconobbe, quasi si smascherò per lo sgomento. Immaginava di trovarli prigionieri, ma aveva pensato che fossero rinchiusi nelle Segrete del Dolore. Vederli appesi in quel modo barbaro fu un brutto colpo, anche perché non sapeva come farli scendere. Risalì le corde con lo sguardo, notando che ciascuna era collegata a una carrucola, e da lì correva lungo il soffitto e poi la parete, terminando in un verricello con manovella. Le carrucole stesse, tuttavia, erano fissate a un meccanismo scorrevole del soffitto. Doveva essere così che le guardie avevano sospeso i prigionieri sul pozzo, dopo averli legati, e sempre così si poteva trarli in salvo. Losira sperò di non doverci nemmeno provare: il suo piano era semplicemente arrivare ai controlli dello Scudo di Lampi e disattivarlo, così che la Destiny potesse teletrasportarli tutti in salvo. Ma un’altra cosa le saltò all’occhio, ovvero l’assenza di Talyn.
   «Oh, sono... deliziata, sì» mormorò la Risiana. «Mi chiedo solo dove sia il terzo componente della loro combriccola».
   «Buster Kincaid? Non temere, quel giovane stolto non è mai stato una minaccia» assicurò Chaotica.
   «Sì, ma dopo tutti i fastidi che ci ha dato vorrei proprio sapere che ne è stato di lui» insisté Losira, con un tremito nella voce. Se gli era accaduto il peggio, al diavolo la recita: avrebbe ficcato le unghie negli occhi di Chaotica.
   «Credo che le Signore del Male lo abbiano tenuto con loro» rivelò il folle scienziato. «Sai, in cambio della Pietra dell’Aria hanno voluto la mia Sonda Cerebrale... puoi immaginare su chi l’abbiano testata!» ridacchiò.
   Nel sentir ciò, Losira restò di sasso. Se quelle svitate gli avevano danneggiato la mente, non avrebbe mai perdonato il Capitano per averlo coinvolto. Ma come poteva accertarsene, se non sapeva nemmeno dove cominciare le ricerche? Doveva sbarazzarsi al più presto di Chaotica, per occuparsi di quest’altro problema.
   «È tutto a posto, mia diletta?» chiese Chaotica, notando il suo shock.
   «Certamente, sire» rispose la Risiana, recuperando l’autocontrollo. Riuscì persino a sorridere, il sorriso più falso della sua vita. «Mi chiedevo solo cosa vuoi fare con Proton e la sua... segretaria».
   «Ah, se potessi gli riserverei mille morti!» inveì il despota. «Ma credo di aver trovato la più adatta: li sacrificherò a te, mia diletta. Li getterò in quel baratro infuocato, come pegno del mio amore inestinguibile!» delirò. Così dicendo si diresse verso i verricelli, con l’idea di srotolare le corde, calando sempre più le vittime nel pozzo incandescente.
   «Aspetta!» lo rincorse Losira. «Se vuoi che il tuo trionfo resti scolpito nella memoria di tutti, devi giustiziarli durante le nostre nozze. Pazienta solo un giorno o due, mio adorato, e avrai il matrimonio con contorno di vendetta!» suggerì.
   «Oh, Arachnia, mi chiedi di rimandare le due cose che mi danno più gioia!» obiettò Chaotica. «E se invece di rimandare l’esecuzione affrettassimo le nozze?» propose.
   «Suvvia, ti ho appena donato l’ultima Pietra, oltre a tutto il mio cuore. Tutto ciò che chiedo in cambio è di sposarci non appena arriveranno i miei sudditi, tra un giorno o due. Non ho dunque tanta grazia da meritare un favore così piccolo?» chiese Losira, abbracciando il cattivone. Al tempo stesso estrasse la boccetta dalla manica e svitò il tappo, lasciando che i feromoni compissero la loro magia.
   L’effetto su Chaotica fu immediato e impressionante. Le sue pupille si dilatarono, il respiro si fece affannoso, la voce gutturale. «Oh, mia adorata, sai quanto ti amo! Non c’è favore che ti rifiuterei. Se questo è tutto ciò che chiedi, ebbene lo avrai! Nel frattempo quei patetici Terrestri resteranno lì appesi, come ulteriore punizione. Così, quando finalmente li getterò nella lava, sarà una liberazione anche per loro!» stabilì. Ciò detto riprese a tempestarla di baci, stavolta sul collo. Losira dovette appellarsi a tutto il suo autocontrollo per non opporsi; comunque ne approfittò per richiudere la boccetta e farla nuovamente sparire nella manica.
   Rivera, che aveva seguito tutta la discussione sulla loro sorte, tirò un sospiro di sollievo, sebbene le braccia gli dolessero a tal punto da dare l’impressione di doversi staccare da un momento all’alto. Ormai aveva capito il piano di Losira, abbassare lo Scudo di Lampi per consentire alla Destiny di trarli in salvo col teletrasporto. Restava da vedere se la Risiana sarebbe riuscita ad arrivare ai comandi, con Chaotica sempre così appiccicato.
   In quella, allungando lo sguardo, il Capitano notò che Shati – dimenticata da tutti – era già accanto al quadro comandi e lo osservava con attenzione. Ecco il piano! Losira doveva solo distrarre Chaotica, mentre Shati avrebbe disattivato lo scudo. La Caitiana però non si era ancora mossa. Forse non veniva a capo di quei comandi così antiquati e temeva di attirare l’attenzione, se avesse premuto quelli sbagliati. Osservando ancor meglio, Rivera vide un altro problema. Per quanto Chaotica fosse distratto, c’erano ancora le guardie allineate lungo le pareti; e c’era il Robot Satanico che sostava proprio accanto a Shati. La Caitiana non osava muoversi, sapendo che non sarebbe passata inosservata. Era una situazione di stallo.
   «Forse per liberarci dovranno attendere la notte... ma povere le nostre braccia!» si disse il Capitano. Era preoccupato soprattutto per Giely, che gli pareva molto sofferente. La Vorta era semisvenuta per il calore e le esalazioni sulfuree, tanto che se ne stava col capo reclinato. La sua parrucca bionda era leggermente fuori posto e anche volendo non sarebbe riuscita a sistemarsela, appesa com’era per le braccia. Se la parrucca cadeva, e Chaotica o uno dei suoi scagnozzi lo notava, erano spacciati.
 
   In quel momento, analoghe considerazioni passavano per la mente di Losira. Distrarre Chaotica non bastava, avrebbe dovuto svuotare la sala del trono; ma come? Anche se loro si fossero appartati, e le guardie si fossero ritirate dalla sala vuota, temeva che il Robot Satanico rimanesse lì in mancanza di ordini specifici. Ascoltò distrattamente Chaotica che, terminata la disgustosa raffica di baci, le mostrava il suo anello nuziale e le spiegava che meraviglioso trono avrebbe affiancato al suo. Ogni tanto la Risiana annuiva, e se proprio voleva esagerare gli solleticava la barbetta, una cosa che apparentemente lo mandava in visibilio. Intanto continuava a fare e disfare piani, cercando il modo migliore di procedere.
   Fu allora che il gong dell’ingresso risuonò di nuovo. Infastidito dal rintocco, Chaotica interruppe il vaniloquio e si rivolse alle guardie: «Beh, che succede? Avevo ordinato di non essere disturbato!».
   Prima ancora che qualcuno rispondesse, il portone si aprì. Una figura massiccia, dall’abito appariscente e il grosso elmo pieno di borchie, varcò l’ingresso. «Ave Chaotica, Dominatore del Cosmo!» salutò Lonzak, entrando con preoccupante sicurezza. «Giungo ora dalla remota Flegra, dove con sprezzo del pericolo ho sottratto la Pietra del Fuoco ai miserabili Uomini Salamandra. Prendila, mio signore, così che la superarma Krell sia finalmente completa!» proclamò. S’inginocchiò, porgendo un cuscino con la mano destra, e con la sinistra levò il panno che lo ricopriva. Allora tutti videro la Pietra del Fuoco – la vera Pietra – che vi era posata.
 
   Ci fu un lungo, gelido silenzio. Le guardie allineate lungo le pareti fissavano il vuoto davanti a loro, mentre Chaotica fissava la seconda Pietra, incapace di dare un senso a ciò che vedeva. Il sorriso compiaciuto di Lonzak si spense davanti a quella reazione inattesa. «Mio signore, non siete contento? Ho ciò che volevate, l’ultima Pietra mancante...» si azzardò a dire.
   «Taci, grosso idiota! Come puoi offrirmi la Pietra del Fuoco? Quella è già in mio possesso. Guarda!» gridò il despota, indicando la superarma.
   Incredulo, Lonzak si rialzò e girò attorno all’ordigno piramidale. Allora vide che anche il quarto angolo ospitava una pietra, del tutto simile a quella che aveva lui. I suoi grossi occhi si sgranarono dallo stupore, mentre guardava alternativamente i due manufatti. «Mio signore, ti hanno ingannato. Questa Pietra che hai già non può essere quella vera... io ho quella vera!» balbettò.
   «Come osi accusarmi, schiavo?!» strillò subito Losira. «Io sono stata su Flegra prima di te e ho preso la Pietra del Fuoco. Tu sei giunto dopo; evidentemente gli Uomini Salamandra ti hanno ingannato con un falso!» disse, per stornare i sospetti da sé.
   «Questo è impossibile, regina. Quando sono arrivato io la cripta era intatta, il suolo coperto di cenere vulcanica non mostrava impronte. Nessuno può avermi anticipato!» si difese Lonzak.
   «Mi stai forse dando della bugiarda?!» fece la Risiana, tendendo una mano unghiuta verso di lui, come se volesse strappargli la lingua.
   «Io... io... ebbene sì, vi accuso!» ribatté Lonzak, inaspettatamente determinato a non cedere.
   «Come ti permetti di accusare la mia promessa sposa?! Dovrei gettarti nel pozzo sacrificale seduta stante!» minacciò Chaotica.
   «Controllate voi stesso, sire. Mettete a confronto le due Pietre» insisté il capo delle guardie, tornando a porgere la sua. «Se sono identiche, fate una prova. Usate l’arma prima con una, poi con l’altra Pietra, e vedrete con quale funziona. Non vi occorre nemmeno un bersaglio, basta un tiro di prova contro lo spazio aperto» suggerì.
   Il despota tamburellò il piede contro il pavimento, combattuto. «Non metterei mai in dubbio la parola della mia sposa, ma una verifica metterebbe a tacere ogni voce...» borbottò, più che altro a se stesso.
   Udendo questo Losira si sentì accapponare la pelle. Se Chaotica avesse fatto come si proponeva, l’avrebbe certamente smascherata. Peggio ancora: se avesse iniziato i test con la Pietra fasulla, quella già inserita nell’arma, ecco che l’ordigno sarebbe esploso, uccidendoli tutti. «Non puoi farlo!» esclamò.
   «Perché no, di grazia?» volle sapere il folle scienziato.
   «Perché... perché se provi a usare la Pietra sbagliata, l’arma esploderà» confessò la Risiana, non riuscendo a immaginare un’altra scusa. Ma comprese subito che avrebbe fatto meglio a tacere. Era stato un gravissimo errore informare il despota di un fatto così importante. Anche Rivera se ne rese conto, e alzò gli occhi al soffitto, prevedendo le conseguenze.
   «Davvero? E tu come lo sai?» mormorò Chaotica, osservandola sotto una nuova luce mentre si carezzava la corta barba.
   «È una leggenda che si tramanda sul mio mondo» improvvisò Losira, sempre più in difficoltà.
   «Una leggenda, eh? Beh, come spesso accade, potrebbe avere un fondo di verità» ragionò il despota, parlando lentamente. «Ma poiché ti credo, quando dici d’essere giunta a Flegra per prima e aver preso la vera Pietra, ecco che farò una prova con quella che hai portato tu. Del resto prima o poi dovrei usarla, per annientare i nemici della Quinta Dimensione. Così proverò, davanti ai miei stolti servitori» disse fulminando Lonzak con un’occhiataccia «che il tuo amore è sincero e la tua parola non va messa in discussione. Non la trovi una perfetta soluzione?».
   La Risiana tentennò, per nulla confortata. «Intendi farla subito, questa prova?» chiese con un filo di voce.
   «Certo, così taciterò subito le calunnie contro di te» confermò Chaotica. «Sempre che di calunnie si tratti... e non dell’infame realtà!» aggiunse, mentre una scintilla di sospetto si accendeva nei suoi occhi.
   «Potrei mai ingannarti?» chiese sfacciatamente Losira.
   «No, se ti è cara la vita!» minacciò il despota. Girò sui tacchi e si recò rapidamente alle consolle in fondo al salone. Armeggiò con i comandi, aprendo una sezione del soffitto, come un grande abbaino. L’apertura si trovava proprio sopra la superarma, o ad essere esatti, l’arma era stata posta sotto l’apertura. Così poteva sparare verso l’alto, colpendo un qualunque bersaglio in orbita, senza danneggiare il soffitto.
   «Ora vedremo come stanno le cose» disse Chaotica, accostandosi all’ordigno. Il sospetto cresceva in lui, rendendolo sempre più maniacale. «Se sei stata sincera, come credo e spero, l’arma sparerà. Se invece hai cercato d’ingannarmi... ebbene, periremo insieme nell’esplosione! Uniti nella vita o nella morte!» disse, premendo alcuni geroglifici sulla superficie piramidale. Il congegno prese a ronzare sempre più forte, caricandosi prima di rilasciare il colpo. Era questione di momenti.
   Losira aveva sperato che Chaotica stesse bluffando, ma vedendolo all’opera capì che non era così. Quel folle era davvero capace di rischiare la sua vita, e quelle di tutti gli altri, solo per togliersi il sospetto. La Risiana sentì la tensione in lei tendersi, tendersi... fino a spezzarsi. «Fermo! La pietra è falsa!» confessò.
   Chaotica premette immediatamente un simbolo presso il vertice della piramide, interrompendo il caricamento dell’energia. Il ronzio, ormai quasi ultrasonico, prese a scemare, fino a spegnersi del tutto. Erano salvi, per il momento. O per meglio dire: Chaotica e i suoi scagnozzi erano salvi. Ma per la finta regina e il suo piccolo corteo, i guai erano appena iniziati.
 
   Per la seconda volta la sala del trono piombò nel silenzio; ma se il primo era d’imbarazzo, questo era carico di una minaccia letale. Il dottor Chaotica contemplò la sua promessa sposa con aria tradita. Si poteva quasi vedere la collera che ribolliva in lui, come l’acqua dentro una pentola, pronta a tracimare. «Mai prima d’ora avevo offerto la mia vita e il mio regno a una dama» mormorò con voce bassa e ringhiosa. «E mai più lo farò, perché la ricompensa per l’amore è il tradimento. Arachnia, potevi dominare il cosmo assieme a me; invece subirai la mia vendetta!» minacciò.
   «Puah! Davvero pensavi che potessi amare un tiranno squilibrato come te?!» ribatté Losira. «Mi fai ribrezzo solo a vederti! Tu non sai cos’è l’amore, mi vuoi solo come trofeo. Per te sono come quello!» disse, indicando lo zaino a razzo di Proton appeso al muro.
   «Ma sei stata tu a venir qui, promettendo amore e portando inganno! Tu mi hai dato la falsa Pietra, sperando che in tal modo mi sarei distrutto!» obiettò Chaotica. «Perché, perché l’hai fatto? E perché volevi rimandare l’esecuzione di Proton? Devo credere che sei in combutta con lui?!».
   «Tu non hai la minima idea di cosa sta succedendo» ribatté la Risiana. «Se ti dicessi che io non sono Arachnia, e neanche Proton e Constance sono quelli che sembrano? Che siamo degli avventurieri che hanno solo assunto le loro identità?».
   «Ohibò, e perché vi sareste presi tanta briga?» chiese il despota, mostrando di non credere a una parola.
   «Perché in realtà niente di tutto questo è reale! È solo una dannata simulazione sfuggita di mano!» proruppe Losira. «Tutti voi siete fasulli, siete fatti al computer! Anche tu, “dominatore del cosmo”, non sei che un personaggio animato da un programma!».
   «Assurdo! Io sono vero e pertanto dovete esserlo anche voi. La tua ridicola scusa non ti salverà, Arachnia» avvertì il folle scienziato, avvicinandosi con aria minacciosa.
   La Risiana indietreggiò, ma urtò contro il parapetto del pozzo sacrificale e dovette fermarsi. Per la prima volta fu tanto vicina da poterci guardare dentro. Vide la lava ribollente sul fondo e fu attanagliata dal panico. «Che hai in mente di fare, gettarmi di sotto?» mormorò.
   «Non subito, no» rispose Chaotica col suo ghigno più sinistro. «Almeno, non prima di aver consumato la nostra prima notte di nozze! Ma stavolta non aspettarti anelli nuziali, né cerimonie. Baderò solo all’essenziale!». Detto questo si avventò su di lei, con violenza, ma dovette subito indietreggiare, tastandosi la guancia graffiata. Quattro graffi, lunghi e profondi, gli solcavano la gota da un’estremità all’altra, grondando sangue; e il sangue gocciolava anche dalle unghie appuntite di Losira.
   «La pagherai, maledetta!» ringhiò il despota, cercando di tamponare l’emorragia con un lembo della sua manica. «Lonzak, vieni qui!».
   «Sì, mio signore?» fece il grassone, precipitandosi come un cane dal padrone.
   «Tu hai smascherato questa traditrice, portandomi la vera Pietra, e tu la punirai» stabilì Chaotica. «Appendila con gli altri prigionieri, i suoi complici! Poi, quando saranno tutti sospesi sul pozzo, abbassali lentamente. Mi raccomando, con lentezza! Voglio sentire le loro urla di dolore, le loro suppliche di pietà, mentre il calore si fa sempre più insopportabile!».
   «Con piacere, altezza!» ghignò Lonzak, sadico quanto il suo padrone.
   Losira si guardò attorno, cercando di localizzare Shati per chiederle aiuto. Ma vide che anche la Caitiana era nei guai: le guardie la circondavano e il Robot Satanico l’aveva agguantata con le braccia meccaniche. Solo Ottoperotto non era in vista; gli sgherri di Chaotica parevano averlo dimenticato, o forse non lo consideravano una minaccia.
   «Ehi, Capitano... in queste storie i cattivi non vincono mai, vero?» chiese la Comandante all’indirizzo del superiore.
   «Mai» confermò Rivera. «Quando sembra tutto perduto, c’è sempre un colpo di scena che ribalta la situazione. Però non credo che siamo più vincolati a queste regole» avvertì.
   «Cribbio, non potevi usare il ponte ologrammi per andare in spiaggia o in discoteca, come fanno tutti?!» protestò Losira, mentre Lonzak si avvicinava per legarla.
   E fu allora che giunse il colpo di scena.
 
   Dapprima squillò un allarme, lungo e prolungato, del tutto simile a una sirena antiaerea. Poi la Fortezza del Destino prese a tremare, dalle fondamenta fino ai torrioni.
   «E adesso che succede?!» strepitò Chaotica.
   «ATTACCO ORBITALE» rispose il Robot Satanico. «I SOLARANI SONO ARRIVATI – CI STANNO BOMBARDANDO – LA SUPERNAVE SCONOSCIUTA È CON LORO».
   Il despota passò dalla sorpresa all’orrore alla velocità della luce. Non aveva scordato come la Destiny avesse già decimato la sua Forza Spaziale. Dimenticando temporaneamente gli ostaggi, si precipitò alle consolle, per constatare con i suoi occhi la situazione.
   Era tutto vero: la flotta dei Solarani era arrivata, lanciandosi in un furioso assalto contro le navi a razzo. A quel punto anche la Destiny era uscita dall’occultamento, gettandosi in battaglia. La nave federale si trovava in una posizione assai vantaggiosa, dietro lo schieramento di Chaotica, cioè tra questo e il pianeta, in un’orbita più bassa. Ciò le permetteva di colpire i vascelli nemici a poppa, dov’erano meno difesi. Questi, inoltre, avevano le armi concentrate a prua e quindi non riuscivano neppure a rispondere al fuoco. Parecchie navi a razzo furono distrutte nei primi momenti, senza aver fatto in tempo a reagire. Altre riuscirono a girarsi precipitosamente e risposero al fuoco. Anche così, la flotta di Chaotica rimaneva schiacciata tra i Solarani e la Destiny, preda del fuoco incrociato.
   «Questo era parte del piano?» chiese Rivera a Losira.
   «Per niente. I Solarani sono in anticipo, dovevano arrivare domani» rispose la Risiana. «Per allora contavo di avervi già liberati».
   «Chi hai lasciato al comando della Destiny?» chiese ancora il Capitano, temendo che fosse Naskeel. Non si era mai fidato completamente del Tholiano, infatti non gli aveva mai lasciato il comando nelle rare occasioni in cui sia lui che Losira si erano assentati dalla nave.
   «A Irvik» lo rassicurò la Comandante. Evidentemente nel momento in cui i Solarani si erano lanciati all’assalto persino il pacifico Voth si era persuaso a combattere.
   Nel frattempo Chaotica stava osservando sull’immagizzatore l’andamento della battaglia. Vedendo che perdeva le sue navi come se fossero mosche, il despota andò su tutte le furie. «Maledetti! Credono di distruggermi, con questo attacco a tradimento! Invece sarò io ad annientarli!» inveì. «La superarma Krell è completa, e quale occasione migliore per testarla?!».
   Così dicendo corse affannosamente presso l’ordigno. Stava per attivarlo, quando ricordò che la Pietra del Fuoco era ancora quella fasulla; e ormai conosceva il pericolo. «Via!» borbottò, strappando il manufatto dal suo alloggiamento. Lo gettò lontano, con disprezzo, e al suo posto inserì la vera Pietra, quella recapitata da Lonzak.
   «Adesso mi diverto!» disse il folle scienziato, premendo i geroglifici per attivare l’ordigno piramidale. La superarma ronzò sempre più forte, finché il fischio divenne ultrasonico. Allora le quattro Pietre presero a brillare dall’interno, anche quella del Fuoco, a conferma della sua autenticità. «Oh, se mi diverto!» ripeté Chaotica. Aveva già collegato la superarma alle sue consolle, in modo da poter mirare più agevolmente. E il bersaglio che inquadrò sull’immagizzatore era la più grande, nonché la più vicina, tra le astronavi nemiche: la Destiny
 

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Capitolo 9
*** Game over ***


-Capitolo 8: Game over
 
   La Battaglia del Pianeta X, come fu detta in seguito, era entrata nel vivo. Nell’orbita, la flotta di Solara e la Destiny avevano preso le navi a razzo di Chaotica nel fuoco incrociato e le distruggevano metodicamente. Frammenti delle astronavi distrutte precipitavano sul pianeta, rigando il cielo come stelle cadenti. Alcuni raggi arrivavano fino alla Fortezza del Destino, venendo tuttavia parati dal suo Scudo di Lampi; gli attaccanti dovevano demolire la flotta prima di concentrarsi su quel bersaglio. Il Centurion, che aveva portato Losira alla Fortezza, decollò e lasciò il pianeta, in quanto i piloti vedevano avvicinarsi il bombardamento e volevano essere ben lontani per allora. Per quanti si trovavano prigionieri nella Fortezza, il teletrasporto era l’unica speranza, a patto che riuscissero a disattivare lo scudo; cosa che erano ancora ben lontani dal fare.
   Nella sala del trono, Chaotica stava caricando la sua superarma, col proposito di distruggere la Destiny. Era così concentrato sui comandi da aver quasi dimenticato i prigionieri; ma Lonzak non se li era scordati. Il capo delle guardie aveva l’ordine di appendere Arachnia – ovvero Losira – sopra il pozzo dei sacrifici, con gli altri ostaggi, e aveva tutte le intenzioni di farlo.
   «Preparati a un bel viaggetto all’Inferno, ingannatrice!» disse il grassone, agguantandola per legarla. La Risiana si dibatté, ma sapeva che non l’avrebbe spuntata. Allora ricorse al suo ultimo trucco. Cavò la boccetta di feromoni dalla manica e la svuotò interamente addosso all’avversario, approfittando della breve colluttazione. Poteva solo sperare che avessero lo stesso effetto già sperimentato su Chaotica.
   E l’effetto ci fu, eccome! I movimenti di Lonzak rallentarono, i suoi occhi si fecero sfocati. «Arachnia... oh, regina... quanto mi dispiace che debba finire così...» mormorò.
   «Non deve finire per forza, sai?» fece la Risiana, tentatrice. «Non era destino che fossi di Chaotica, ma potrei essere tua, se solo mi liberassi!».
   «Quanto vorrei... ma non posso!» fece il grassone, quasi piangendo per il dispiacere. «Sua Maestà mi ha ordinato di sottoporti al supplizio».
   «E se gli disobbedissi, per una volta?».
   «Supplizierebbe me!».
   «Non se ci alleiamo per scalzarlo!» suggerì Losira, dando fondo alle sue capacità persuasive. «Finora ti avevo sempre sottovalutato, lo ammetto. Ma quando ti ho visto tenermi testa, ho capito che finalmente avevo trovato il mio eguale. I giorni di Chaotica sono agli sgoccioli... e morto un re, se ne fa un altro. Pensaci: puoi essere tu, il Dominatore del Cosmo! Lonzak Primo, l’Inarrestabile! E io sarò con te, sempre!» gli bisbigliò all’orecchio, mentre si strusciava contro di lui.
   «Non posso, proprio non posso!» frignò Lonzak. Che fosse per fedeltà a Chaotica, o per timore della punizione, nemmeno l’overdose di feromoni bastava a farlo ribellare. Però lo teneva bloccato, impedendogli di procedere a legarla.
   A pochi metri da loro, Rivera osservava la scena senza poter intervenire. Il Capitano era ancora sospeso sopra il pozzo sacrificale, sudato e mezzo asfissiato, con le braccia che gli dolevano in modo atroce. Se solo avesse potuto liberarsi, per contribuire in qualche modo alla battaglia...
   «Be-beep?». Il pigolio elettronico veniva da sopra di lui. Alzando il viso per quanto possibile, Rivera intravide Ottoperotto – ancora verniciato col motivo a ragnatela – che fluttuava accanto alla corda. Non rischiava mica di precipitare nella lava, lui.
   «Ti dispiace darmi una mano?!» fece l’Umano, ormai allo stremo. «Voglio dire, liberami. Ma senza farmi cadere!» precisò, temendo che l’ordine fosse eseguito alla lettera.
   «Be-beep!» assicurò il robottino, nel tono di un «certo, come no, sta’ tranquillo che ci penso io!». Schizzò presso il verricello, sul lato opposto del pozzo rispetto a dov’erano Lonzak e Losira. Qui, sfruttando il replicatore incorporato sul muso, il robot riparatutto si dotò di un nuovo strumento, simile a una tenaglia. Con quella azionò i comandi, attirando verso di sé la fune a cui era appeso Rivera, finché il Capitano ebbe di nuovo il pavimento sotto ai piedi. Poi l’Exocomp afferrò la manovella, sempre con la tenaglia, e prese a girarla, così da far calare il prigioniero.
   Per la prima volta da ore, i piedi di Rivera toccarono il suolo. Per l’Umano fu un enorme sollievo non trovarsi più appeso per le braccia. Il dolore muscolare diminuì, pur senza svanire del tutto, ed egli barcollò, cercando di riprendere l’equilibrio. Abbassò le braccia, così che il sangue tornasse a irrorarle, ma aveva ancora i polsi legati.
   «Be-beep!» fece Ottoperotto, convertendo la tenaglia in una corta vibro-lama. Con quella tagliò la fune, liberando anche le mani al Capitano.
   «Ben fatto!» si congratulò Rivera, massaggiandosi rapidamente le braccia per riattivare la circolazione e far passare l’intorpidimento. Guardando oltre il pozzo, notò che Losira stava ancora trattenendo Lonzak. Mentre il grassone gli rivolgeva le spalle, e quindi non poteva accorgersi della sua liberazione, la Risiana era nella posizione giusta per vederlo, e anzi l’aveva certamente notato. I loro occhi s’incontrarono per un attimo, scambiandosi uno sguardo d’intesa; poi ciascuno tornò al lavoro. Losira tornò a incantare Lonzak, riuscendo a togliergli l’elmo per carezzargli il testone calvo. Intanto Rivera sganciò dal verricello la fune a cui era stato appeso, tirandola a sé fino a sfilarla del tutto dalla carrucola. Quando l’ebbe tutta tra le mani, la riannodò rapidamente in modo da formare un lazo.
   Ringraziando la sua passione per il ponte ologrammi, e in particolare le volte in cui aveva giocato al cowboy, il Capitano fece roteare il lazo sopra la sua testa. Lo lanciò al di sopra del pozzo... e centrò il bersaglio. Il bersaglio era il testone calvo di Lonzak, che d’un tratto si trovò con un cappio attorno al collo.
   «Ehi, ma che succede?!» fece il grassone, riscuotendosi. Le sue mani corsero istintivamente al cappio, per cercare di allentarlo.
   «Succede che, ripensandoci, neanche tu sei il mio tipo» disse Losira, con un sorriso perfido. Gli strappò la pistola a raggi dalla cintura e arretrò precipitosamente.
   Fu allora che il Capitano puntò un piede contro il parapetto del pozzo e tirò a sé la fune con tutte le sue forze. Lonzak cercò di afferrare Losira mentre questa gli sfuggiva, ma fu tirato all’indietro e ghermì solo l’aria. Urtò la balaustra del pozzo con la schiena, emettendo un lamento soffocato: «Ghak!». Il cappio lo soffocava sempre più ed egli cercò disperatamente di allentarlo, per tornare a respirare. Ma Rivera aveva altri piani.
   «Mi spiace, ma è la guerra» disse il Capitano, continuando a tirare strenuamente, puntando entrambi i piedi contro il parapetto per esercitare ancora più forza.
   Tirato così vigorosamente all’indietro, Lonzak perse l’equilibrio e si ribaltò oltre la balaustra. Cadde nel pozzo sacrificale, rimbalzando più volte contro la parete concava mentre lanciava il suo ultimo grido. E sprofondò nella lava incandescente che lo finì.
   Rivera, dal canto suo, mollò immediatamente la fune per non essere trascinato con lui. Cadde a terra, si rialzò e corse da Losira, che gli diede la pistola a raggi sottratta al grassone. I due non persero tempo a complimentarsi e non poterono nemmeno liberare Giely, ancora precariamente sospesa sul pozzo. Davanti a loro avevano un buon numero di guardie, allertate dall’ultimo grido di Lonzak. Anche il dottor Chaotica, sul punto di aprire il fuoco con la superarma, si girò e li vide liberi.
   «UCCIDETE PROTON!» gridò il despota, con quanto fiato aveva in gola. Poi tornò a mirare la Destiny, deciso a sottrargli ogni via di fuga.
 
   Da quando era entrata in quella sala, mascherata come ancella di Arachnia, Shati aveva atteso il momento propizio per entrare in azione. Ora che il Capitano s’era liberato e le guardie correvano ad affrontarlo, la Caitiana sentì che era il momento d’agire. Si contorse con la sua agilità felina, sfuggendo alla presa d’acciaio del Robot Satanico.
   «ARRENDITI, DONNA-GATTO, O SARAI DISTRUTTA!» tuonò l’automa, cercando di riacciuffarla. Ma era troppo lento e goffo per la Caitiana, che in due balzi fu già lontana. Vedendo che la superarma stava per sparare – e che la Destiny era inquadrata come bersaglio – Shati vi si gettò contro con tutte le sue forze. L’urto fu così violento che l’ordigno piramidale si rovesciò su un fianco, proprio nel momento in cui apriva il fuoco.
   Un raggio d’energia bianca, intensissima, scaturì dalla cima della piramide e partì verso l’alto. Mancò la Destiny di un soffio, disintegrando invece una delle navi a razzo di Chaotica che si trovavano più avanti. Poiché l’arma si stava ribaltando, il raggio distruttore disegnò una sciabolata nello spazio. Colpì il soffitto della Fortezza, poi la parete dietro il trono di Chaotica, tagliando l’acciaio come se fosse burro. Il palazzo fu praticamente tagliato in due e il trono stesso venne liquefatto. Alcuni elementi del soffitto caddero, travolgendo un paio di guardie. Solo allora il raggio s’interruppe e la superarma giacque ribaltata su un fianco. Poteva sparare ancora, ma prima bisognava rialzarla, o avrebbe ulteriormente danneggiato la Fortezza. E considerato il suo peso, non era facile raddrizzarla. Solo un uomo in forze, o meglio ancora il Robot Satanico, ci sarebbero riusciti.
   «Ooops, spero che il tuo palazzo sia assicurato contro gli incidenti!» infierì Shati all’indirizzo di Chaotica, che era rimasto a bocca aperta. Senza perdere altro tempo, la Caitiana si gettò nella mischia per aiutare il Capitano. Prese la pistola a raggi di una guardia che era stata travolta dalle macerie e si nascose dietro una colonna, ingaggiando la sparatoria con quelle che restavano.
   Chaotica sputacchiò, pazzo di collera, prima di riuscire a dare un ordine intellegibile. «Robot, raddrizza l’arma!» comandò. Era deciso a usarla di nuovo, e stavolta si sarebbe accertato di non mancare il bersaglio.
   «RADDRIZZARE L’ARMA!» ripeté il Robot Satanico, accostandosi all’ordigno, con le braccia meccaniche già protese. Ma dovette fermarsi quando un altro robot gli sbarrò il passo.
   «Be-beep! Vietato passare!» avvertì Ottoperotto, fronteggiando coraggiosamente il collega più grosso.
   «ORDINE NON RICONOSCIUTO» ribatté l’automa cilindrico. «VATTENE, MICROBO, O SARAI DISTRUTTO!».
   «Ottoperotto non scappa, be-beep!» lo sfidò il robottino. «Ottoperotto aggiusta e Ottoperotto guasta. Ottoperotto disattiva collega grosso e primitivo!» minacciò. Così dicendo gli fluttuò davanti, ondeggiando a mezz’aria per non farsi afferrare, come un grosso calabrone. Le sue lucette sfarfallavano a un ritmo combattivo, come una danza di guerra.
   «Come sarebbe, primitivo?!» s’indignò Chaotica, che assisteva alla scena. «Quello l’ho costruito io, è il mio capolavoro del male. Mi senti, macchina senz’anima? Obbedisci al tuo padrone, schiaccia quella mosca!» ordinò.
   «DISTRUGGERE OTTOPEROTTO!» confermò il Robot Satanico. Si avventò sull’Exocomp, cercando di afferrarlo per poi stritolarlo, ma le sue mani a tenaglia scivolarono sul guscio ovoidale del robottino. Questo prese a spostarsi agilmente, cambiando altezza, direzione e velocità ogni pochi secondi. I suoi movimenti erano così rapidi e imprevedibili che l’altro automa, più lento e goffo, non riusciva mai ad agguantarlo.
   «Rottamare il Robot Satanico, be-beep!» disse Ottoperotto in tono bellicoso. A ciò fece seguire uno squillo di tromba, riprodotto col suo sintetizzatore vocale. Attivato il replicatore anteriore, prese a materializzare una serie di strumenti con cui attaccare. Non erano altro che gli attrezzi comunemente usati dagli Exocomp per le loro riparazioni ingegneristiche, perché i robottini non erano in grado di produrre armi. Al tempo stesso analizzò il Robot Satanico, in cerca di un punto debole.
   Dapprima Ottoperotto colpì l’avversario con scosse elettriche ad alto voltaggio, ma si avvide che i fulmini crepitavano sul suo rivestimento senza danneggiare i circuiti all’interno. Allora creò un saldatore e si mise a colpire con quello, mirando alle giunture degli arti. Colpì più volte, provocando piogge di scintille e lasciando piccole lesioni sul rivestimento del Robot Satanico. Ma non era abbastanza per recidergli gli arti, o anche solo per metterli fuori uso. Il robottino provò con una piccola sega circolare, infliggendo qualche danno in più, ma ancora non bastava. Nel frattempo continuava senza sosta a schivare gli attacchi nemici, ronzando attorno e sopra al Robot Satanico, disegnando intricati arabeschi nell’aria, sempre fuori portata. La capacità di volare lo avvantaggiava, così come il suo guscio liscio che non offriva appigli. Il suo cervellino positronico calcolava migliaia di schemi d’attacco al secondo, scegliendo il più efficiente e valutando l’efficacia di ogni nuovo assalto per migliorare le successive stime. Per contro, i primitivi circuiti del Robot Satanico non gli garantivano una capacità di calcolo e d’apprendimento così elevata. I suoi attacchi erano prevedibili e ripetitivi.
   «DISTRUGGERE OTTOPEROTTO! DISTRUGGERE, DISTRUGGERE!» ripeté l’automa cilindrico, surriscaldato dallo sforzo. I suoi movimenti divennero più rapidi, ma anche erratici.
   L’Exocomp calcolò che era il momento giusto per l’attacco finale. Riconvertì in energia la sega circolare e al suo posto materializzò una piccola vibro-lama, come quella che aveva usato per slegare il Capitano. A forza di analizzare l’avversario, i suoi sensori ne avevano individuato il punto debole; fu lì che concentrò l’attacco. Dapprima gli colpì lo sportello anteriore, facendo saltare il meccanismo di chiusura. I bruschi movimenti dell’automa spalancarono lo sportello. Allora Ottoperotto, muovendosi alla massima velocità, sferrò nuovi affondi. Colpì il Robot Satanico nella sua elettronica interna, tagliando cavi, bruciando resistenze, scassando fusibili. Infine trafisse una grossa valvola e la strappò dal suo alloggiamento.
   Il Robot Satanico emise un fischio agonizzante, mentre una pioggia di scintille scaturiva dal suo sportello aperto, seguita da un acre fumo nero. Scariche elettriche, provenienti dall’interno, percorsero il suo rivestimento. Con un mesto «BZZZT!» finale, l’automa si piegò in avanti e rimase inerte. Le sue braccia telescopiche si srotolarono per il loro stesso peso, fino a toccare il pavimento. E così rimase: immobile, disattivato. Morto.
 
   Vittorioso, Ottoperotto emise un nuovo squillo di tromba. «Robot Satanico rottamato!» si vantò, ronzandogli sopra in cerchio. Infine lo urtò con abbastanza forza da farlo cadere a terra, dove restò inerte.
   «Dannato sgorbio volante, la pagherai anche tu!» minacciò Chaotica, ma dovette arretrare quando vide l’Exocomp che gli veniva contro, sfoggiando di nuovo il fulminatore elettrico. Il folle scienziato si nascose dietro un paio di guardie e scivolò lungo la parete, allontanandosi.
   Osservando la battaglia, Chaotica vide che i suoi nemici stavano prendendo il sopravvento. Proton e Shati erano armati di pistole a raggi e colpivano una guardia dopo l’altra, mentre non c’era verso che quei buoni a nulla centrassero loro. Il Capitano, in particolare, si era posto dietro la superarma rovesciata e quindi le guardie non osavano neanche sparargli, per timore di guastare definitivamente l’ordigno. Ogni pochi attimi si udiva un «Urgh!» e un altro tirapiedi si abbatteva sul pavimento. Anche Arachnia aveva preso l’arma di un caduto e partecipava alla sparatoria, seppure senza esporsi quanto i colleghi. Ottoperotto aleggiava sopra tutto e tutti, inafferrabile; ogni tanto scendeva a dare la scossa a qualche malcapitato scagnozzo. Nello spazio, poi, i Solarani e quell’altra nave avevano ormai demolito la sua Forza Spaziale e da un momento all’altro avrebbero rivolto le armi contro la sua Fortezza. Tutto il suo regno si stava disfacendo attorno a lui, e non aveva nemmeno un posto sicuro in cui scappare.
   «Arrenditi, Chaotica! Il tuo potere sta crollando!» tuonò il Capitano, tra grida ed esplosioni. «Se ti arrendi ora avrai salva la vita, ma se ti ostini allora non la scamperai!».
   «No, non può finire così! Maledetto Proton, non mi arrenderò mai!» ringhiò Chaotica, pensando a come poteva fare del male ai suoi avversari. C’era almeno uno di loro che fosse ancora in posizione vulnerabile? Sì, notò il despota con sommo gaudio. Constance Goodheart, l’inutile segretaria, era ancora appesa sopra il pozzo dei sacrifici. Presi com’erano dalla sparatoria, i colleghi non avevano avuto la possibilità di liberarla. Bene, lui glielo avrebbe impedito definitivamente.
   Scivolando lungo le pareti, il folle scienziato si avvicinò al verricello cui era appesa la vita dell’ostaggio. Estrasse un sottile pugnale, una sorta di stiletto, che teneva nascosto nella manica. Intendeva recidere la corda, per far precipitare Constance nella lava ribollente. Così alla fine l’avrebbe sacrificata, anche se non certo ad Arachnia, si disse, storcendo il viso in una smorfia ironica. No, l’avrebbe sacrificata alla vendetta, alla sua eterna lotta contro Proton; e stavolta nemmeno l’eroe dello spazio l’avrebbe salvata.
 
   Nella sua scomoda posizione, Giely aveva un solo vantaggio: una buona visuale di ciò che accadeva nella sala del trono. Se in precedenza il calore e le esalazioni sulfuree l’avevano stordita, ora il frastuono della battaglia l’aveva ridestata, ed ella non si perdeva un solo dettaglio dello scontro. In particolare non le era sfuggito il disperato coraggio del Capitano nell’affrontare Lonzak e le guardie. Il suo cuore palpitava ogni volta che Rivera si gettava allo scoperto per guadagnare terreno, o che un colpo gli cadeva vicino. Udendolo intimare la resa a Chaotica, la Vorta si mordicchiò il labbro, rendendosi conto di quanto valesse l’Umano.
   D’un tratto però la dottoressa vide il despota avvicinarsi con la lama in pugno e intuì le sue intenzioni. Si guardò freneticamente attorno, ma nessuno dei colleghi era tanto vicino da poterla aiutare.
   «Addio per sempre, Constance Goodheart della Terra!» fece il despota, levando il pugnale per tagliare la fune.
   «Io non mi chiamo Constance e non vengo dalla Terra!» rivendicò Giely, scrollando il capo. La parrucca bionda, già fuori posto, si staccò del tutto e cadde nel pozzo vulcanico, scomparendo in una fiammata. Ora i corti capelli neri della Vorta erano ben visibili; come lo erano le sue orecchie zigrinate.
   A quella vista Chaotica restò paralizzato dallo stupore. Ovviamente non aveva mai visto un Vorta in vita sua, né sapeva cosa fossero. «Tu non sei Constance!» fu tutto ciò che riuscì a dire.
   «Ben svegliato! È un’ora che te lo diciamo, scimunito!» lo canzonò Giely.
   «Chiunque tu sia, è chiaro che il Capitano ti ama» ragionò il folle scienziato, suscitando inavvertitamente un brivido nella Vorta. «Quindi mi prenderò la mia vendetta!» decise, avventandosi col pugnale contro la corda.
   A quella vista Giely lanciò un acuto strillo, degno di Constance Goodheart, attirando l’attenzione di Rivera. Il Capitano vide Chaotica sul punto di colpire e reagì d’istinto, fulmineo. Sparò al despota, centrandolo nella schiena.
   Per un attimo Chaotica restò paralizzato, con un’espressione di dolore e stupore sul volto. Poi cadde in avanti, faccia a terra. Ma nel far questo, con le ultime energie, menò una pugnalata che tagliò quasi del tutto la corda. Restò una manciata di fibre a reggere il peso della Vorta. E per quanto fosse un peso lieve, quelle poche fibre presero subito a sfilacciarsi.
   «La corda sta per cedere!» gridò Giely, sperando che qualcuno dei colleghi la salvasse in tempo. Ma guardandosi attorno, vide che erano tutti alle prese con le ultime guardie. Losira, Shati, persino Ottoperotto erano in mezzo alla gragnola e non potevano uscire allo scoperto per soccorrerla. Angosciata, la dottoressa tornò a cercare il Capitano con lo sguardo. L’ultima volta lo aveva visto ripararsi dietro alla superarma rovesciata, ma ora non c’era più. Lo cercò disperatamente, ma dalla sua posizione non riusciva a vedere cosa accadeva alle estremità del salone. Così non vide l’Umano che staccava un trofeo appeso accanto al trono semidistrutto di Chaotica. Non lo vide indossare lo zaino metallico, né assicurarsi le cinghie sul petto.
   Un suono di lacerazione riportò l’attenzione di Giely sulla corda. Le ultime fibre si stavano strappando, era questione di attimi. Ah, se quand’era fuggita dal Dominio avesse saputo che andava incontro a questa sorte! Magari sarebbe rimasta lì dov’era. Anni a inseguire un sogno di libertà... di realizzazione personale... a cos’erano serviti, se doveva morire come una schiava sacrificata?
   Con un ultimo crepitio, la corda si strappò del tutto. La Vorta precipitò nel pozzo di lava ribollente, lanciando un ultimo grido disperato. Come al rallentatore, vide il soffitto allontanarsi e gli orli del pozzo chiudersi su di lei, mentre i fumi roventi l’avvolgevano. Ma in quell’attimo due forti braccia l’afferrarono, sostenendole una le spalle e l’altra le ginocchia, interrompendo la caduta.
   «Niente paura, t’ho presa!» disse una voce familiare.
   Esterrefatta, col cuore che batteva all’impazzata, la Vorta si sciolse le mani dai resti della fune e si afferrò strettamente al suo salvatore. Alzò gli occhi su di lui – i loro volti erano a un soffio – e si vide riflessa negli occhialoni da aviatore di Capitan Proton. Abbracciandolo, gli tastò dietro la schiena e sentì lo zaino metallico, il cui frastuono peraltro le riempiva le orecchie. Dunque il Capitano aveva spiccato il volo con lo zaino a razzo, salvandola da morte certa. Allora le sorse spontanea alle labbra quella che, in fondo, era la sua unica battuta come Constance Goodheart: «Oh, mio eroe!».
   «Reggiti forte piccola, ti porto via da qui!» promise il Capitano, dando piena energia allo zaino a razzo. Dopo aver galleggiato a mezz’aria, i due partirono dritti sparati verso l’alto. Giely temette che si schiantassero contro il soffitto, ma Rivera si diresse verso un quadrato di cielo libero. Era l’apertura che, ironicamente, Chaotica aveva spalancato nel tentativo di usare la superarma. La Vorta non sapeva come facesse l’Umano a dirigere la traiettoria di volo, ma evidentemente in qualche modo ci riusciva; forse c’entravano i movimenti della testa. Fatto sta che i due infilarono dritti il passaggio, emergendo all’esterno – e al di sopra – della Fortezza del Destino. Guardando sotto di sé, Giely vide con una prospettiva vertiginosa le torri che s’innalzavano dal corpo principale dell’edificio. Una caduta da quell’altezza era fatale; poteva solo augurarsi che lo zaino a razzo avesse abbastanza carburante da farli atterrare.
   «Ora dove andiamo?!» chiese, urlando per farsi sentire sopra il rombo del razzo e il fischio del vento.
   «Atterreremo a distanza di sicurezza, così potrai teletrasportarti sulla Destiny» rispose Rivera.
   «E tu?».
   «Io devo tornare indietro, non posso abbandonare Losira e Shati» spiegò il Capitano, che le aveva lasciate nel bel mezzo di una sparatoria. «Non temere, abbasseremo lo scudo e ci salveremo tutti...».
   In quella però la luce del sole venne meno. Un’enorme ombra coprì i due fuggitivi e l’intera Fortezza, risalendo lungo le sue torri argentee.
   «E adesso che... oh, no!» gemette Rivera, guardando verso l’alto. Anche Giely alzò lo sguardo e si avvide che l’ombra era gettata da un colossale disco volante. Il suo scafo, liscio e scuro, era senza contrassegni.
   «E quello cos’è?!» chiese la Vorta.
   «Il vascello delle Signore del Male» rivelò il Capitano. «Hanno rapito il povero Talyn, e sa il Cielo che gli hanno fatto!». Ridusse la potenza del razzo, così che galleggiassero a mezz’aria senza muoversi troppo; temeva infatti che tentare la fuga invogliasse le gemelle ad aprire il fuoco.
   In quella qualcosa si mosse sullo scafo inferiore del disco volante. Una piastra si abbassò, girando su un cardine e sostenuta da due pistoni idraulici ai lati. In tal modo si aprì un ingresso, con la piastra dello scafo che faceva da pedana d’atterraggio. Di norma ciò accadeva solo quando il disco era atterrato e ben saldo al suolo. Stavolta però lo avevano fatto ancora in volo, una mossa insolita. Era un invito inconfondibile, e infatti di lì a un attimo si udì una voce al megafono: «CAPITANO, DEVI ENTRARE SUBITO!».
   «Che facciamo?» chiese Giely, spaventata.
   «C’è poco da fare» rispose cupamente Rivera. «Se tentiamo la fuga, le Signore del Male ci abbatteranno col Raggio della Morte. Non ci resta che fare come dicono, e cercare di affrontarle una volta dentro».
   «Okay, sono con te» annuì la Vorta, sempre stringendosi con tutte le forze per non cadere.
   Presa la decisione, l’Umano ridette piena energia al razzo. Lui e Giely presero sempre più quota, avvicinandosi al disco volante. Il Capitano mirò all’ingresso, sperando che avessero abbastanza propellente per arrivarci. L’autonomia dello zaino era limitata e loro erano in volo ormai da parecchio. L’apertura era sempre più vicina, ma lo zaino cominciava a sputacchiare, a corto di carburante...
   «Appena arriviamo, afferrati a uno dei pistoni laterali» consigliò Rivera alla sua “passeggera”. «Ecco, ora!».
   Con un ultimo sforzo, lo zaino li portò fino all’orlo della pedana d’atterraggio. Il Capitano si afferrò subito a uno dei pistoni che ne regolavano l’apertura e anche Giely fece lo stesso, staccandosi da lui. Restarono avvinghiati al pilastrino metallico con tutte le loro forze, mentre il vento li frastornava, ululando nelle orecchie.
   «Reggiti!» gridò Rivera, sentendo che il disco volante stava già riprendendo quota.
   Il portello prese a richiudersi; i pistoni s’accorciavano richiamando la pedana verso l’alto. I due fuggitivi si trovarono su una superficie sempre più inclinata verso l’interno del vascello. Prima che si chiudesse del tutto dovettero lasciare il pistone, per poi scivolare lungo il piano inclinato, atterrando malamente all’interno. Ci fu un sibilo d’aria, seguito da uno scatto metallico, mentre la piastra tornava a sigillarsi.
   «Stai bene?» chiese per prima cosa il Capitano.
   «Io... credo di sì» mormorò la Vorta, cercando di raccapezzarsi. «Grazie per avermi salvata. Aspetta, ti aiuto» disse, vedendo che l’Umano cercava di slacciarsi le cinghie dello zaino, ormai a secco.
   Slacciato frettolosamente, lo zaino surriscaldato cadde a terra con un clangore metallico, fumando ancora dai razzetti. I due malcapitati si rialzarono, doloranti; ma non era finita. Il Capitano impugnò la pistola a raggi e si guardò attorno, pronto a tutto. Al tempo stesso fece da scudo a Giely, che non aveva armi.
   «Ah, che bella immagine! Siete proprio da copertina!» disse una voce familiare, accompagnandosi con un breve applauso. Una figura umanoide venne avanti, uscendo dalla penombra del corridoio per sbucare nella piena luce della camera d’imbarco.
   Era Talyn.
   «Sei vivo!» lo salutò Giely, che non lo vedeva da quand’erano tra gli Uomini Pesce.
   «Sì, ma... sei ancora dei nostri? Non ti hanno fatto il lavaggio del cervello?» chiese Rivera con sospetto, tenendolo sotto tiro.
   L’El-Auriano, che era disarmato, non alzò nemmeno le mani. «Se le gemelle avessero fatto come volevano, non sarei qui ad aiutarvi. La loro idea era di osservare la battaglia da lontano, come fosse uno spettacolo. Ma hanno abbassato la guardia, ed ecco che mi sono impadronito dell’astronave» disse sbrigativamente.
   «Come? La Sonda Cerebrale...».
   «È di là, nella camera degli interrogatori. L’ho sabotata prima che potessero usarla» spiegò Talyn, additando dietro di sé. «Quanto ai robot, non fanno niente senza un ordine esplicito delle loro padrone, per cui non mi hanno ostacolato».
   «Uhm, e le Signore del Male dove sono? Non le avrai mica accoppate?!» volle sapere il Capitano, ancora sospettoso.
   «Ma no, scherzi? Sono legate, nei loro – ehm – alloggi» spiegò il giovane, arrossendo leggermente.
   «Non in cella?».
   «Non ho ancora potuto trasferirle. Sai, finché ero solo temevo che si liberassero» si giustificò Talyn.
   «Okay, ti aiuterò io. Dove sono le loro stanze?» chiese il Capitano.
   «Di là» fece l’El-Auriano, indicando un corridoio laterale. «Però, senti... è meglio che me ne occupi io, con calma, quando la battaglia sarà finita» aggiunse imbarazzato.
   «Perché?» fece Rivera, troppo trafelato per capire le allusioni.
   «Ecco... diciamo che al momento non sono troppo vestite» chiarì Talyn. «E siccome ho già visto tutto quello che c’era da vedere, ecco... forse saranno meno imbarazzate se le slego io».
   Il Capitano tacque per qualche momento, mentre i suoi neuroni facevano finalmente contatto. Adesso capiva in che modo il giovanotto si era trovato in condizione di legare le gemelle, nella loro camera da letto, senza che si opponessero, se non quand’era troppo tardi. «Per stavolta non ti chiederò alcun rapporto missione, Guardiamarina» ironizzò.
   «Grazie, Capitano» fece Talyn, sollevato.
   «Bene, dobbiamo ancora chiudere i conti con Chaotica!» disse il Capitano, tornando alle faccende più pressanti. «Andiamo in plancia, devo controllare come vanno le cose laggiù».
 
   Shati era ancora impegnata nella sparatoria quando un boato attirò la sua attenzione. La Caitiana si girò appena in tempo per vedere il Capitano, con lo zaino a razzo, che s’involava per l’apertura sul soffitto, tenendo Giely tra le braccia. Allora la timoniera uscì dal riparo e in due balzi fu accanto a Losira, per darle manforte. «Hai visto? Gli ostaggi hanno preso il volo!» commentò, continuando a sparare.
   «Già, speriamo che sappiano anche atterrare» fece Losira, che per tutto lo scontro si era tenuta piuttosto defilata. Il fatto era che il costume da Arachnia la impacciava terribilmente, sebbene si fosse strappata lo strascico per non restare impigliata.
   «Oh, se la caveranno come al solito. Congratulazioni Comandante, missione compiuta!» fece Shati, eliminando un’altra guardia in calzamaglia.
   «Già, peccato che ci siamo rimaste noi qui!» notò la Risiana. Si sporse a sua volta, colpendo l’ennesima guardia. Le rimanenti, prese dal panico, si diedero a una fuga disordinata.
   «Beh, ve ne andate già?! Bah, non ci sono più gli scagnozzi di una volta!» protestò Shati, che si stava divertendo troppo.
   «Sta’ attenta a non esporti. Non hai un’altra coda da perdere» l’ammonì Losira, riferendosi al fatto che poco tempo prima la Caitiana aveva perso la sua coda felina in una sparatoria. Shati annuì, imbronciata, e aspettò che Ottoperotto scansionasse la sala del trono, confermando che non restavano avversari in piedi. Solo allora le avventuriere uscirono allo scoperto.
   «Oh, vediamo di abbassare quel dannato scudo!» fece la Caitiana, affrettandosi alle consolle. Fortunatamente erano ancora integre, malgrado il resto del salone fosse semidistrutto. Mentre Shati cercava di venire a capo dei comandi, Losira si accostò alla superarma Krell rovesciata. La Caitiana la vide trafficarci attorno, ma non si soffermò a chiederle cosa stesse facendo. Finalmente trovò i controlli dello Scudo di Lampi e lo disattivò. Se sulla Destiny rispettavano il piano, le avrebbero teletrasportate subito.
   «Fatto! Ci sei, Comandante?» chiese Shati.
   «Sono pronta» confermò Losira, irrigidendosi nella posizione che facilitava il teletrasporto.
   «Be-beep!» pigolò Ottoperotto, venendole accanto. La sua vernice era graffiata in più punti, ma nel complesso l’Exocomp non aveva riportato danni.
   «Arachnia, noooo!» gridò il dottor Chaotica, riavendosi dallo stordimento. Tese una mano verso di lei, mentre cercava di rialzarsi. Ma in quella Losira, Shati e Ottoperotto svanirono nei bagliori del teletrasporto, lasciandolo ammutolito.
 
   «Rapporto!» ordinò Losira, passando dalla sala teletrasporto all’attigua plancia della Destiny. Era ancora paludata con l’eccentrico abito di Arachnia, ma i colleghi non ci fecero caso, avendola già vista prima che partisse in missione.
   «Bentornata, Comandante» la salutò Irvik, cedendole la poltrona. «Allora, sono andate bene le nozze?».
   «Temo che io e Chaotica le passeremo in bianco» ironizzò Losira, accomodandosi. «Rapporto, ho detto».
   «Tutte le navi a razzo sono state distrutte» riferì Naskeel. «I Solarani volevano bombardare la Fortezza, ma li abbiamo persuasi ad aspettare».
   «E c’è dell’altro» aggiunse Irvik. «È arrivato un disco volante con una bella sorpresa. Aprire un canale».
   Un po’ perplessa, Losira notò la sagoma discoidale che stava risalendo dall’atmosfera del Pianeta X. Prima che potesse chiedere spiegazioni, il canale fu stabilito. E fu con immensa gioia che la Risiana vide apparire Talyn, in compagnia di Rivera e Giely.
   «Capitan Kincaid a Destiny, ho recuperato gli ostaggi di Chaotica e sono pronto a rientrare! Ho anche catturato le Signore del Male e distrutto la loro Sonda Cerebrale. Mettiamo un po’ di distanza tra noi e la Fortezza del Destino, prima che comincino i fuochi d’artificio!» disse il giovane, gasatissimo.
   Per un attimo Losira restò interdetta da quel linguaggio, poi non riuscì a trattenersi. «Razza di scavezzacollo! Smetti di parlare in codice e torna qui, prima che venga a prenderti per la collottola!» ordinò, quasi ridendo per il sollievo di vederlo sano e salvo.
   «Arrivo, Mamma Orsa» la prese in giro Talyn, e chiuse il canale.
   «Il ragazzo ha ragione, dobbiamo decidere cosa fare con la Fortezza» notò Irvik. «I Solarani premono per bombardarla. Non so se possiamo avallarlo... in fondo ormai Chaotica è sconfitto...» rimuginò.
   «Se le cose vanno come prevedo, non avremo neanche bisogno di bombardare» disse Losira con un sorriso sadico, rigirandosi una piccola pietra ovoidale tra le mani.
 
   Ancora dolorante per il colpo alla schiena, il dottor Chaotica si rimise faticosamente in piedi. Si aggirò per la sala del trono semidistrutta, stentando a credere a ciò che vedeva. Il Robot Satanico era a terra, disattivato. Le sue guardie erano morte o stordite o fuggite. La sua bella fortezza era devastata e la sua Forza Spaziale era distrutta fino all’ultima nave. Non poteva sperare di ricostruire la sua potenza, dopo una simile batosta. I suoi sogni di gloria erano ridotti in cenere, a causa di Proton... e di Arachnia! Ormai non gli restava che un ultimo desiderio, la vendetta. E vedendo la superarma Krell con le quattro Pietre incastonate, il despota si disse che poteva ancora prendersela.
   Con un grosso sforzo, Chaotica riuscì a raddrizzare l’ordigno piramidale, assicurandosi che fosse posto sotto l’apertura nel soffitto. Premette i geroglifici sulla sua superficie, innescando la sequenza d’accensione. Poi si recò alle consolle, ancora funzionanti. L’immagizzatore era pieno d’interferenze, ma il folle scienziato riuscì a inquadrare le astronavi in orbita. Riconobbe i vascelli solarani e, più stranamente, il disco volante delle Signore del Male. Ma lui non aveva occhi che per la misteriosa astronave a cui doveva la sconfitta. In qualche modo doveva essere collegata a Proton, se lo sentiva. Così la prese di mira. Poi, mentre il fischio di carica della superarma si faceva sempre più acuto, non resistette alla tentazione di un’ulteriore rivalsa. Prese il microfono e contattò l’astronave.
   «Chaotica a Proton, rispondi! Lo so che sei lì!» ringhiò.
   E il Capitano gli rispose, essendosi già teletrasportato a bordo. «Qui è il Capitano Rivera, dell’USS Destiny» si presentò, abbandonando la recita.
   «Non prenderti gioco di me, Proton!» strepitò Chaotica. «Avrei dovuto immaginare che quell’astronave è tua. Sempre, sempre ti frapponi tra me e la vittoria! Anche nella Quinta Dimensione ti sei alleato coi miei nemici. Sei persino riuscito a corrompere Arachnia, inducendola a tradirmi!».
   «Come no, è stato lui a corrompermi. Certo che sei sempre più sveglio!» lo sfotté Losira, ma il despota la ignorò, tanto era concentrato sull’avversario.
   «Maledetto Proton, hai vinto di nuovo! Ma bada a te, la mia vendetta sarà terribile!» inveì il folle scienziato.
   «Certo, domani è un altro giorno e bla bla bla» tagliò corto Rivera.
   «Chi ha parlato di domani?» fece Chaotica, con un ghigno diabolico. «La mia superarma è carica e tra un attimo vi ridurrà tutti a polvere spaziale!» minacciò.
   «Non ti conviene provarci. Anzi, ti ordino di arrenderti, o stavolta non te la caverai!» intimò il Capitano, che aveva le sue ragioni per non temere più l’arma.
   «Ti riferisci al fatto che i tuoi alleati mi bombarderanno? E che me ne importa?!» sbottò Chaotica, al colmo della furia. «Anche dal cuore dell’Inferno, io ti trafiggo! Nel nome dell’odio, sputo il mio ultimo respiro su di te!» ruggì, rievocando le immortali parole del Capitano Achab, mentre la superarma raggiungeva il picco d’energia.
   Fu allora che una nota discordante rovinò l’armonia delle quattro Pietre. Chaotica si volse di scatto e vide che mentre tre di esse brillavano come la prima volta, una era rimasta opaca. La Pietra inerte era, guarda caso, quella del Fuoco.
   «Cercavi questa?» chiese Losira in tono innocente, estraendo la vera Pietra dall’enorme manica svasata. «Temo di averla sostituita di nuovo con quella falsa, mentre facevi il bell’addormentato. Niente di personale, sai... è solo lavoro» spiegò. Accanto a lei, il Capitano – già informato della sostituzione – fissò Chaotica con commiserazione.
   «Arachnia... NOOOOOOO!» gridò il despota, levando le mani al soffitto. Era troppo tardi per spegnere l’arma; troppo tardi per impedire che l’energia delle prime tre Pietre, non bilanciata dalla quarta, detonasse rovinosamente. E così avvenne: la superarma esplose con indicibile violenza, obliterando Chaotica con tutta la sua Fortezza e le sue truppe. La rupe stessa fu disintegrata, assieme a un ampio tratto del deserto circostante.
   Dall’orbita gli avventurieri videro un lampo accecante, seguito da un’immane colonna di fuoco e fumo che giunta nella stratosfera si allargò in forma di fungo. I venti d’alta quota trascinarono le ceneri, ricoprendo in breve tempo l’intero pianeta sotto una cappa nerastra. Sotto di essa, nel luogo dell’esplosione, i sensori mostrarono un immenso cratere, colmo di lava ribollente. Rocce semiliquefatte d’ogni misura furono scagliate a enorme distanza. Alcune ricaddero come una pioggia di meteore sull’intero emisfero; altre furono scagliate in orbita, tanto che le astronavi dovettero allontanarsi a distanza di sicurezza. Nei giorni successivi il Pianeta X, ora nero come la pece, vide formarsi attorno a sé un anello di detriti rocciosi, tutto ciò che restava di Chaotica e delle sue mire dispotiche.
   «Beh, direi che questo è il game over» commentò il Capitano.
   «E adesso che succederà?» s’inquietò Talyn. «Voglio dire, ormai sappiamo che lo Spazio Fotonico è di natura computazionale e ha processato la nostra avventura olografica, trasformandola in realtà. Ma ora che la partita è finita...» lasciò in sospeso.
   Gli avventurieri non tardarono a scoprirlo. Da un attimo all’altro ogni cosa, attorno a loro, riacquistò i colori. Pianeti e astronavi, oggetti e abiti, i loro stessi corpi ripresero le tinte naturali. Ora che il gioco era finito, non vivevano più in un cosmo monocromatico. Ma il Pianeta X c’era ancora, e così pure il disco volante. Persino la Pietra del Fuoco, ora di colore rosso, era ancora in mano a Losira.
   «Finalmente! Non ne potevo più di vivere in bianco e nero!» commentò la Risiana, ancora nei pittoreschi abiti di Arachnia.
   «Beh, è già qualcosa» commentò Rivera. Passò lo sguardo sui colleghi che avevano condiviso quell’incredibile avventura, sincerandosi che stessero bene: Losira, Shati, Talyn e per ultima Giely. Si soffermò sulla Vorta, che sembrava la più provata del gruppo. Avrebbe voluto dirle qualcosa, ma la vide svicolare dalla plancia e imboccare l’uscita prima che potesse fermarla. Allora si rassegnò a parlarle solo quando lei fosse stata pronta.
 
   L’indomani il Capitano convocò una riunione in sala tattica. La Destiny era ancora nei pressi del Pianeta X, così come la flotta dei Solarani, impegnati nelle riparazioni. Il disco volante era presidiato da una squadra della Sicurezza, mentre le Signore del Male – rimesse in sesto – erano state trasferite nelle prigioni della Destiny. Ma c’era ancora molto da fare e da decidere.
   «Bene, eccoci di nuovo qui» esordì Rivera, quando furono riuniti attorno al tavolo. «Tra tutte le nostre avventure, questa è stata la più...» e qui esitò per un tempo imbarazzante «... surreale» disse infine. «Considerando che tutto è nato dal mio programma, non posso che fare mea culpa» sospirò.
   «Nessuno avrebbe potuto prevederlo, Capitano» lo consolò Irvik. «Io stesso, con la mia non poca conoscenza in fisica quantistica, non avevo la minima idea che sarebbe accaduto».
   «L’importante è che abbiamo distrutto il nemico» disse Naskeel, sempre dritto al sodo.
   «Abbiamo salvato un intero popolo, i Solarani; ecco l’importante» puntualizzò Shati.
   «Beh, questo non sarebbe stato possibile senza ciascuno di voi» disse il Capitano, passando lo sguardo su tutta la tavolata. «Se quest’avventura mi ha insegnato qualcosa, è che le grandi imprese non sono opera di un singolo eroe come Proton, ma di un lavoro di squadra. E io, per fortuna, ne ho una ottima» riconobbe. «Ora, penso che converrete di non attardarci troppo in questo spazio. Tuttavia ci sono ancora delle questioni da risolvere, prima di riprendere il viaggio nel Multiverso. Punto numero uno: i Solarani. Tu, Losira, hai condotto le trattative con loro. Quanto li conosci esattamente?».
   «Pochissimo, in realtà» ammise la Comandante. «Abbiamo parlato poche volte, sempre solo tramite audio. Non conosciamo nemmeno il loro aspetto fisico. Ma perché lo chiedi, Capitano? Cos’hai in mente?».
   «Ecco, ho fatto qualche ricerca nel database e ho visto che la Flotta Stellare ha già contattato i nativi di questo spazio» spiegò Rivera. «Accadde nel 2375, quando alcuni di loro aprirono delle brecce interdimensionali che li portarono sull’USS Voyager. Pare che fossero esploratori, spinti dal puro gusto di conoscere nuove forme di vita. Tuttavia emersero proprio sul ponte ologrammi della Voyager... dove guarda caso era in corso il programma di Capitan Proton... e in quanto esseri fotonici lo scambiarono per la realtà. Così gli ufficiali della Voyager dovettero aiutarli a sconfiggere Chaotica; solo allora gli alieni si calmarono tanto da richiudere le brecce».
   «Perché ci racconti questo?» chiese Losira.
   «Perché quegli alieni conoscevano le coordinate del nostro Universo!» si entusiasmò il Capitano. «Furono loro a venire da noi, non il contrario! Ed è probabile che dopo il contatto le abbiano conservate. Quindi, se riuscissimo a farcele dire, potremmo finalmente tornare a casa».
   Un mormorio percorse la tavolata, ma Losira lo tacitò. «Un momento, Capitano. I Solarani che abbiamo incontrato non sono lo stesso popolo d’esploratori che contattarono la Voyager. Anche nello Spazio Fotonico ci sono specie distinte, proprio come nel nostro. E dubito che condividano conoscenze così importanti».
   «Sì, ma se descrivessimo ai Solarani quelli che cerchiamo noi, forse saprebbero darci indicazioni su dove trovarli...» insisté Rivera.
   «Possiamo provare, ma sono pessimista al riguardo» intervenne Irvik. «Vede, il fatto di spostarci in una realtà parallela non altera le nostre coordinate assolute. Eravamo nel Quadrante Alfa quando abbiamo abbandonato il nostro Universo, e se ora dovessimo tornarci saremmo ancora nel Quadrante Alfa. Non alle stesse identiche coordinate di prima, certo. In tutto questo tempo ci siamo spostati parecchio, e gli spostamenti si rifletterebbero sulle nostre coordinate d’arrivo. A occhio e croce direi che abbiamo percorso un migliaio d’anni luce, anche se non sempre in linea retta. Ma gli alieni che contattarono la Voyager lo fecero mentre questa era dispersa nel Quadrante Delta, ad almeno 60.000 anni luce dalla Federazione. Il che significa che anche nello Spazio Fotonico, dove siamo ora, vivono a 60.000 anni luce da qui. Troppi, perché i Solarani – che sono agli esordi dell’esplorazione – possano conoscerli. E non possiamo neanche cercarli da soli, perché 60.000 anni luce sono troppi e la destinazione è troppo vaga. Ci troveremmo a vagare per anni in questo cosmo, con scarsissime probabilità d’incrociarli».
   Il Capitano si sentì uno sciocco per non averci pensato subito. Si chiese se il pessimismo di Irvik era giustificato, e concluse di sì. Il Voth era, tra tutti loro, quello più ossessionato dal pensiero di tornare, dato che aveva moglie e figli. Se persino lui aveva gettato la spugna su questo tentativo, significava che era davvero impraticabile.
   «E va bene, niente coordinate» sospirò Rivera. «Ma forse potremo farci dare qualche informazione su questo cosmo. Magari combineremo uno scambio, un baratto. Tentar non nuoce, prima di ripartire». Era coerente con la sua politica del cercare più informazioni possibili sul Multiverso, nella speranza di cederle alla Flotta Stellare in cambio dell’amnistia, se mai fossero riusciti a tornare.
   «Vedrò cosa posso fare» promise Losira.
   «Okay, ora passiamo a discutere dell’elefante nella stanza» disse il Capitano.
   «Quale elefante?» insorse subito Naskeel, guardandosi prudentemente attorno. «Ho fatto ricerche, dopo la prima volta che li ha nominati, e le posso assicurare che non ci sono pachidermi su questa nave».
   «È un’altra frase fatta» sospirò Rivera. «Significa che dobbiamo affrontare l’argomento più evidente, del quale tuttavia nessuno ha voglia di parlare».
   «Ah. E gli elefanti che c’entrano?» chiese il Tholiano.
   «Niente, va bene? Non c’entrano assolutamente nulla! Quindi smettiamo di parlarne!» tagliò corto l’Umano.
   «Veramente è lei che continua a nominarli, ma... come vuole, Capitano» acconsentì l’Ufficiale Tattico.
   Rivera si massaggiò la fronte, cercando di riprendere il filo del discorso. «Dicevo che, sebbene l’avventura olografica sia tecnicamente finita, gli effetti su questo spazio si fanno ancora sentire. Abbiamo recuperato i colori, ma il Pianeta X è sempre là fuori. C’è ancora il disco volante e abbiamo le Signore del Male in cella. E non credo di sbagliare se affermo che là fuori ci sono ancora i pianeti con gli Uomini Pesce, gli Uomini Falco e compagnia bella. Santo Cielo, altro che interferire con gli abitanti... noi abbiamo creato interi popoli e culture! Che ne sarà di loro dopo che ce ne saremo andati? Entreranno in conflitto coi Solarani e gli altri nativi dello Spazio Fotonico?».
   «La soluzione è semplice: dobbiamo trovare i popoli creati dal programma e distruggerli» propose Naskeel.
   «Sei impazzito? Sarebbe un genocidio!» insorse Giely. «Quale che sia la loro origine, ormai quei popoli esistono, hanno vita propria!».
   «Non so... sono pur sempre usciti dal computer» notò Irvik. «Dovremmo lasciarli andare per la loro strada, col rischio che facciano danni?».
   «Ah, non c’è alternativa, a meno che vogliamo sterminarli!» ribatté Talyn, che avendoci passato del tempo assieme tendeva a vederli come veri individui. La discussione si animò; ognuno aveva la propria idea al riguardo.
   «Va bene, conveniamo almeno sul fatto che è una decisione difficile!» esclamò Losira, cercando di riportare l’ordine. «In fondo non è altro che l’eterno dilemma su cosa sia una “persona” e quindi su chi debba godere dei diritti fondamentali. E poiché siamo tutti parte di una catena di comando... la decisione è tua, Capitano» disse, sbolognandogli la patata bollente.
   Scese un silenzio teso. Vedendo che tutti lo fissavano, Rivera si prese deliberatamente del tempo prima di rispondere. «Partiamo da un dato di fatto: al pari di voi, io non so se quegli esseri usciti dal programma vadano considerate persone con dei diritti, oppure no» esordì. «Però una cosa la so per certo: la nostra opinione di cosa sia una persona cambia col tempo. L’idea che abbiamo oggi è diversa da quella che avevamo in passato, e in futuro la penseremo ancora diversamente. Quando dico “noi”, beninteso, mi riferisco all’opinione prevalente nella nostra società. Quindi l’argomento è mutevole, in perenne evoluzione, o se non vi piace questa parola, in perenne cambiamento. La morte, invece, è definitiva. Quindi uccidere qualcuno perché non lo si considera una persona significa imporre una decisione definitiva a quello che è un dibattito in continuo divenire. E io credo che nessuno, ma proprio nessuno, debba arrogarsi una tale autorità».
   Detto questo, il Capitano respirò a fondo e riprese. «Perciò, quando non si sa cosa sia giusto fare, io credo che si debba dare ascolto alla voce più misericordiosa. È meglio lasciarli vivere, per poi scoprire che in realtà non erano persone, piuttosto che ucciderli per poi magari scoprire che lo erano. Se volete, è lo stesso principio che regola il sistema giuridico: meglio lasciare impunito un colpevole, piuttosto che punire un innocente. Per questo motivo, stabilisco che tutti gli individui e i popoli scaturiti dal programma siano risparmiati. Lasciamoli vivere a modo loro, sui loro mondi. Del resto nessuno di loro possiede astronavi, e certo passerà molto tempo prima che riescano a costruirne, se mai lo faranno. Fino ad allora non saranno una minaccia per i nativi dello Spazio Fotonico. Se mai torneremo alla Federazione, spiegheremo anche questa faccenda; e allora saranno le autorità federali a decidere».
   Questo discorso parve così giusto che nessuno tra gli ufficiali, nemmeno Naskeel, ebbe nulla da obiettare. Giely in particolare rivolse al Capitano un sorriso di gratitudine. Era la prima volta che lo faceva, da quand’erano tornati a bordo. Rivera ne fu confortato e sperò che la Vorta non ce l’avesse con lui per quella disavventura. Tuttavia quando, al termine della riunione, gli ufficiali lasciarono la sala tattica, la dottoressa se ne fuggì di nuovo in infermeria, senza che lui potesse parlarle a quattr’occhi. Così il Capitano si rassegnò ad aspettare ancora, prima di affrontare la situazione fra loro.
 
   Malicia e Demonica si aggiravano avanti e indietro per la cella, come due tigri in gabbia. L’umiliazione della sconfitta bruciava forte e non avevano su chi sfogarsi, così bisticciavano tra loro, accusandosi reciprocamente. L’oggetto dello scaricabarile era, manco a dirlo, Buster Kincaid, ovvero Talyn.
   «Sei tu che hai insistito per prenderlo a bordo!» accusò Demonica per la centesima volta.
   «Non mi pare che la cosa ti dispiacesse! E comunque ho voluto la Sonda Cerebrale apposta per controllarlo!» ribatté Malicia.
   «Sì, la Sonda che poi non hai nemmeno saputo usare!».
   «Eravamo lì tutte e due, e nemmeno tu hai saputo sistemarla!».
   «Dovevamo tenere Buster in cella finché non avessimo risolto il problema. Ma tu come al solito non hai voluto aspettare!».
   «Senti chi parla, ma se non gli staccavi gli occhi di dosso! E poi sei stata tu a ordinare ai robot di non intervenire fino a nuovo ordine!».
   «Ah sì, e chi ha deciso che quel giochetto coi nodi fosse una cosa intelligente?!».
   «E chi teneva l’attrezzatura già pronta nel comodino?! Ha usato le tue corde e manette per immobilizzarci!».
   A quell’accusa, Demonica non ci vide più. Si scagliò a testa bassa contro la sorella, rovesciandola all’indietro sulla branda. Le gemelle rotolarono una sull’altra, scambiandosi insulti e schiaffi. Leggermente in svantaggio, sotto la foga dell’assalto, Malicia afferrò il cuscino per difendersi. Allora Demonica si disimpegnò e prese l’altro, dalla sua branda, per non essere da meno. Con quell’arma improvvisata tornò all’attacco. Seguì una serrata lotta di cuscini tra le due gemelle, sempre più inviperite. Si colpirono con tutte le loro forze, ma i cuscini erano talmente imbottiti che non potevano farsi male.
   «Allora, ti arrendi?!» fece Malicia.
   «Mai! Posso andare avanti fino a sera!» ribatté Demonica.
   Fu allora che un applauso interruppe la baruffa. Le gemelle, stremate e scarmigliate, si fermarono e si volsero verso la parete trasparente. Solo allora si accorsero che la battaglia di cuscini aveva avuto un pubblico. Il Capitano Rivera era lì, ad applaudire, mentre accanto a lui c’era Talyn, più contenuto. Avevano rinunciato ai loro costumi da Proton e Buster, tornando agli abiti consueti, cioè delle uniformi paramilitari con l’aggiunta dei comunicatori della Flotta Stellare.
   «Scusate, belle signore» disse il Capitano, smettendo di battere le mani. «Anche se resterei volentieri a guardarvi fino a sera, temo di dovervi interrompere. Dobbiamo parlare del vostro futuro».
   «Bah, quale futuro? Ci assicurerai alla giustizia, come al solito!» brontolò Malicia.
   «Ma attento, nessuna prigione può trattenerci! Domani è un altro giorno, e noi torneremo, più potenti di prima!» minacciò Demonica.
   Rivera sospirò sconfortato davanti a quel campionario di frasi fatte. Si era chiesto a lungo se provare a spiegare come stavano realmente le cose, o se mantenere la finzione narrativa in cui erano immerse. Alla fine, sia pure controvoglia, aveva optato per la seconda opzione. Le Signore del Male non avrebbero mai accettato l’idea d’essere scaturite da una storia di fantasia. Non gli avrebbero creduto, e questo avrebbe ulteriormente ostacolato il dialogo. Quindi non restava che adattarsi alla loro mentalità, fermo restando che era lui a stabilirne la sorte.
   «Temo che stavolta le cose andranno diversamente» avvertì il Capitano. «Ricordate che siamo ancora nella Quinta Dimensione. Qui non ci sono la Terra e gli altri Mondi Incorporati».
   «Che stai dicendo? Che hai in mente di farci?» si accigliò Demonica.
   «Non vorrai mica farci fuori, vero? Sono troppo giovane per morire!» squittì Malicia, spaventata.
   «Figurati! Capitan Proton è troppo buono per uccidere a sangue freddo, dico bene?» fece Demonica, lanciandogli un’occhiata di sfida.
   «Suppongo di sì» ammise Rivera. «Ma non posso nemmeno rimettervi in libertà come se niente fosse. E di certo non posso riconsegnarvi il vostro disco volante e l’esercito di robot, o chissà che combinerete appena ce ne andremo». Dovendo mantenere la finzione, tacque il problema principale: non poteva nemmeno tenerle in cella sulla Destiny, o si sarebbero dissolte non appena lasciato lo Spazio Fotonico. O almeno questa era l’opinione di Irvik, il più esperto in fisica quantistica. Per lo stesso motivo non potevano portarsi dietro il disco volante. Tutto ciò che era scaturito dal programma di Capitan Proton doveva restare nello Spazio Fotonico, o si sarebbe destabilizzato.
   «E allora che farai?» tornò a chiedere Malicia.
   «Beh, per quanto riguarda il vostro vascello, la scelta è semplice» disse il Capitano, recandosi alla consolle della sala di guardia. Inserì alcuni comandi, accendendo un oloschermo direttamente nella parete trasparente della cella. In tal modo potevano osservarlo sia lui da fuori, sia le prigioniere all’interno. L’inquadratura mostrava il disco volante che si librava nello spazio aperto.
   «Capitano a plancia, avete evacuato il disco?» chiese Rivera, premendosi il comunicatore.
   «Affermativo, siamo pronti» rispose Losira.
   «Allora... fuoco» ordinò il Capitano.
   Sotto gli sguardi inorriditi delle gemelle, la Destiny sparò ripetutamente contro il disco volante, che aveva gli scudi abbassati ed era del tutto indifeso. I primi colpi, messi a segno coi phaser e i raggi anti-polaronici, aprirono una breccia nello scafo inferiore. Allora Naskeel scagliò un’intera raffica di siluri quantici, indirizzandoli nello squarcio. I siluri, splendenti di luce azzurra, sparirono all’interno della breccia. L’attimo dopo l’intero disco volante fu annientato da un’immane esplosione, con un’onda d’urto a forma d’anello che si allargò nello spazio. Svanite le ultime fiammate, non restarono che minuscoli detriti in dispersione. Allora Rivera disattivò l’oloschermo.
   Le Signore del Male erano rimase ammutolite, con gli occhi sbarrati e la bocca aperta. Non riuscivano a capacitarsi di ciò che avevano visto. La prima a riprendersi fu Malicia. «E tu saresti uno dei buoni?!» chiese, prossima alle lacrime.
   «Ringraziate che lo sia, o lo avrei fatto con voi dentro!» ribatté duramente Rivera. «Ora devo decidere che fare con voi. Come dicevo non posso deferirvi alla giustizia ordinaria, né rimettervi in libertà su un pianeta qualunque, e nemmeno tenervi sulla mia nave. A conti fatti, non c’è che una strada».
   Le gemelle si abbracciarono, temendo il peggio.
   «Fortunatamente qui nella... Quinta Dimensione ci sono alcuni pianeti i cui abitanti conoscono i vostri trascorsi» spiegò Rivera. «Parlo dei mondi che custodivano le quattro Pietre. Credo che il più adatto a ospitarvi sia Borea, dove l’ambiente non è così proibitivo e gli abitanti sono più umanoidi».
   «Gli Uomini Falco? Bleah! Sono allergica alle penne!» protestò Demonica.
   «Dovrai farteli andar bene, perché non ho altra scelta che lasciarvi lì» avvertì il Capitano. «Spiegherò agli Uomini Falco che non siete responsabili per la morte del principe Griffin, così sarete a piede libero, che è più di quanto meritate. Ma gli chiederò anche di tenervi d’occhio, nel caso vi tornasse voglia di delinquere. Del resto non ci sono molti posti dove andare, fuori dalla cittadella. E non ci sono astronavi, quindi non potrete scorrazzare per lo spazio facendo danni. Vi suggerisco di mettere la testa a posto e approfittare di quest’occasione per ricominciare. Altrimenti tornerete in cella, e quelle degli Uomini Falco sono decisamente più scomode di questa» avvertì.
   «Allora è così che finisce? Noi bloccate con quei gallinacci e voialtri a spassarvela tra le stelle?!» fece Malicia, col labbro tremulo per il dispiacere.
   «La nostra vita è tutt’altro che una festa. Anche noi siamo bloccati nella... Quinta Dimensione e chissà se riusciremo mai a tornare a casa» ribatté il Capitano, incupendosi. «Questo è tutto, belle signore. Godetevi gli ultimi giorni sulla mia nave. Capitano a plancia, rotta per Borea!».
   «Sì, signore» gli rispose Shati. Di lì a poco una leggera vibrazione dell’astronave indicò che erano balzati nel tunnel di cavitazione quantica.
   «Beh, io torno in plancia» disse Rivera a Talyn, che fino ad allora aveva fatto scena muta. Dal suo tono si capiva il sottinteso: «Se vuoi parlare con le prigioniere, questo è il momento. Nessuno v’interromperà».
   L’Umano lasciò la sala di guardia, e solo allora l’El-Auriano si fece avanti, fronteggiando le gemelle.
   «Oh, guarda! Mi chiedevo se avresti avuto il fegato di farti rivedere!» commentò Demonica in tono acido.
   «Il Capitano ci avrà anche distrutto la nave, ma tu ci hai spezzato il cuore!» rincarò Malicia.
   «È un rischio che vi siete assunte, quando mi avete sequestrato e avete fatto affari con quel folle di Chaotica» ribatté Talyn.
   «Che ti aspettavi? Siamo le Signore del Male... se ogni tanto non facciamo le cattive ragazze, che ci stiamo a fare?» obiettò Demonica.
   «Questa è una domanda che dovreste farvi seriamente» notò l’El-Auriano. «Magari è il momento di smettere d’essere le Signore del Male e diventare persone un po’ più... complete ed equilibrate. Altrimenti finirete come Chaotica» avvertì.
   «Senti chi parla! Tu imbrogli e diventi un eroe, noi imbrogliamo e diventiamo le cattive. Non mi sembra giusto!» affermò Demonica.
   «Voi imbrogliate per il vostro tornaconto, o persino per il gusto di farlo. Io l’ho fatto per andare a salvare i miei amici» puntualizzò Talyn. «Comunque non ho mai preteso d’essere un eroe, e infatti non mi aspetta alcuna ricompensa. Avete sentito il Capitano: questa nave è diretta verso l’ignoto e chissà se ce la caveremo».
   «Preferiresti rimanere con noi, tesoro?» lo provocò Malicia, in tono seducente, nell’estremo tentativo di ripicca prima di finire in esilio.
   «Se le circostanze fossero diverse, sarei tentato» ammise il giovane, osservando le gemelle con rimpianto. «Ma le circostanze non sono diverse, purtroppo. Addio, Malicia. Addio, Demonica». Detto questo si girò e lasciò la sala di guardia, senza voltarsi indietro.
 
   Come stabilito, la Destiny si recò a Borea per scaricarvi le Signore del Male. Il Capitano si trattenne a lungo con re Falcon e la principessa Poiana, per spiegare nel dettaglio com’erano andate le cose sul Pianeta X. Quando risalì a bordo, si limitò a dire che gli Uomini Falco avevano accettato di accogliere le Signore del Male e vigilare su di loro.
   «Bene, anche questa è fatta» commentò Irvik. «Adesso possiamo lasciare lo Spazio Fotonico?».
   «Non ancora. Prima dobbiamo tornare a Solara per sistemare gli ultimi dettagli» spiegò Rivera, memore dei suoi progetti.
   Fu così che la Destiny fece ritorno al pianeta che aveva salvato. Losira tornò a trattare con l’Ammiraglio Preon e altre autorità, nel tentativo di ottenere qualche informazione in più su quella regione di spazio.
   Alla successiva riunione tattica, la Risiana si mostrò più animata del solito. «Ho delle buone notizie, una volta tanto. I Solarani ci sono riconoscenti per l’aiuto che gli abbiamo dato, sia per proteggere il loro pianeta, sia per sconfiggere Chaotica. Tanto riconoscenti che ci hanno trasmesso il loro intero database spaziale!» rivelò. «Sono teraquad di dati; da soli avremmo impiegato mesi, forse anni a raccogliere così tante informazioni. E non è tutto! Si sono offerti di rifornirci, se ci mancasse qualcosa».
   «Vorrei averli incontrati quand’eravamo a corto di dilitio» commentò Rivera, malinconico. «Beh, signor Irvik, questo è il suo settore. Ci dica di cosa abbiamo bisogno».
   «Mah, a dire il vero, attualmente non ci manca nulla» rispose l’Ingegnere Capo, quasi vergognandosi della sua efficienza. «Abbiamo sia il dilitio che il deuterio, quindi niente problemi energetici. E tutto il resto possiamo fabbricarcelo quando occorre, coi replicatori».
   «Mi sta dicendo che, per una volta che possiamo esprimere un desiderio, non abbiamo nulla da chiedere?» fece il Capitano, incredulo.
   «Se non ci sono necessità più urgenti, ce l’ho io un’idea» fece Losira, fregandosi le mani per la soddisfazione.
 
   «Ma come hai fatto?» chiese Rivera l’indomani, contemplando il carico che i Solarani avevano consegnato alla Destiny in segno di gratitudine. La stiva numero 1 era stracolma di lingotti di gold pressed latinum, il metallo più prezioso nella Federazione, l’equivalente moderno dell’oro. Essendo uno dei pochi elementi che valevano più dell’energia che si spendeva per replicarli, non poteva essere prodotto artificialmente, poiché l’operazione sarebbe stata in perdita. Perciò il suo valore sul mercato era enorme, secondo solo a quello del dilitio. Un quintale di latinum era già più di quanto avessero guadagnato in anni di traffici. Con una tonnellata avrebbero potuto comprare un’altra astronave, e ne sarebbe avanzato per tutti. Ma lì davanti a loro c’erano centinaia di tonnellate di lingotti, tutti purissimi; le loro cataste salivano fin quasi al soffitto. E la stiva numero 2 era ugualmente ingombra. Ce n’era tanto da svalutare l’intero mercato federale, se lo avessero venduto tutto in una volta. I Ferengi dell’equipaggio vagavano come in trance, lustrandosi gli occhi con quello splendore dorato e balbettando parole incoerenti. Alcuni lucidavano i lingotti, altri cadevano in silenziosa adorazione. Per loro, quello era il Paradiso... o ad essere esatti, la Tesoreria Divina.
   «Oh, è stato facile» rispose disinvoltamente Losira. «A quanto pare, in questo Universo il latinum è più comune di quanto lo sia il ferro nel nostro. E di conseguenza vale ancor meno. I Solarani lo usano come materiale di costruzione a basso costo. Quando gli ho chiesto un carico di latinum, si sono sorpresi che ci accontentassimo di così poco. Hanno detto che, se mai ripasseremo da qui, saranno felici di riempirci di nuovo le stive».
   «Sia lode grandissima ai Solarani!» mormorò Lum. Come tutti i Ferengi, anche lui vagava in stato confusionale, abbacinato dallo splendore. «Siano essi benedetti!».
   «Congratulazioni, ottimo lavoro» approvò Rivera, più controllato ma comunque d’ottimo umore. «Se mai torneremo a casa, saremo tutti sistemati per la vita».
   «Già, se torneremo!» sbuffò la Risiana. «Non ne posso più di girovagare tra gli Universi. Dimmi la verità, credi che ce la faremo?».
   «Beh, la lista di coordinate quantiche si assottiglia» rispose il Capitano. «Presto potremmo essere a casa».
   «O potremmo scoprire che il nostro Universo non è tra quelli» ricordò Losira.
   «Beh, in quel caso almeno moriremo ricchi!» scherzò l’Umano, accennando alle pile di preziosi lingotti.
   «Speriamo piuttosto di vivere ricchi, nel nostro Universo o in uno che gli somigli» corresse la Risiana. Con questo augurio i due lasciarono la stiva di carico e tornarono in plancia, pronti alla prossima avventura.
 
   «Addio, Ammiraglio Preon. È stato un onore e un piacere collaborare con voi» disse il Capitano nel momento in cui la Destiny lasciò l’orbita di Solara.
   «L’onore è stato nostro, Capitan Proton. Lei e i suoi ufficiali avete salvato il nostro mondo, e chissà quanti altri» rispose l’Ammiraglio. «Se mai tornerete da queste parti, sappiate che qui avete un porto sicuro. La vostra fama corre già da un pianeta all’altro: presto molti popoli conosceranno le gesta di Capitan Proton e del suo equipaggio!».
   «Arrivederci, allora. Destiny, chiudo» disse Rivera.
   Per qualche secondo vi fu silenzio in plancia, poi Losira non poté trattenersi. «Le gesta di Capitan Proton, eh?! Suppongo che questa gente non saprà mai il tuo vero nome. Come non saprà molte altre cose!».
   «Sarebbe inopportuno spiegargliele ora» confermò il Capitano, con l’espressione di un angioletto.
   «Quindi, se mai torneremo qui, dovremo continuare a chiamarti Proton e a recitare la pantomima».
   «Mi sa proprio di sì».
   «Bah! Fortuna che stavolta abbiamo avuto il tornaconto. Tutto quel latinum... se solo riusciamo a tornare a casa, col cavolo che ci rivedono in questo cosmo strampalato!» commentò la Risiana.
   La Destiny si allontanò sempre più da Solara, puntando verso lo spazio aperto. All’ordine del Capitano, gli ingegneri avviarono la sequenza per aprire una nuova breccia interdimensionale. Il deflettore lanciò l’impulso gravitonico, squarciando il velo tra le realtà. Invece di ripassare per il Vuoto, l’universo senza stelle in cui solitamente si rifugiavano, stavolta gli avventurieri puntarono direttamente verso le prossime coordinate quantiche. Aperta la breccia, inviarono come al solito una sonda con campioni biologici, per accertarsi che il nuovo cosmo non fosse nocivo alla vita. Verificato che non c’erano pericoli, passarono con tutta l’astronave. Allora la Pietra del Fuoco – che Losira teneva ancora con sé – svanì in un lampo, a conferma che tutte le cose uscite dal programma di Capitan Proton non potevano esistere fuori dallo Spazio Fotonico.
   «Peccato, avrei voluto tenerla come souvenir» commentò la Risiana. Tuttavia non stette a pensarci più di tanto. Il nuovo Universo in cui si trovavano reclamava tutta la sua attenzione.
   Adesso che erano dall’altra parte, gli avventurieri si trovarono con la nave immersa in una densa zuppa gassosa. Gas incandescenti dai colori caldi vorticavano in tutte le direzioni. «Analisi sensoriale. Siamo incappati in una nebulosa, giusto?» chiese il Capitano.
   «Se è così, dev’essere enorme» rispose Talyn, tornato alla postazione sensori e comunicazioni. «Si estende per decine di anni luce in tutte le direzioni. I sensori non riescono a individuare la fine».
   «Uhm, non ci sono molte nebulose così grandi nel Quadrante Alfa» ragionò Rivera. «Potremmo essere ancora nella Nebulosa del Toro, come quando siamo partiti. O forse nella Nebulosa Mutara, che non è troppo lontana».
   «Ho seri dubbi» disse l’El-Auriano. «Questa nebulosa è troppo densa e calda per essere quella del Toro... e probabilmente anche per essere la Mutara. Tra l’altro rilevo che è composta solo da elementi leggeri, idrogeno ed elio. Le loro proporzioni...». Il giovane si accigliò, proseguendo le analisi.
   «Sì? Cos’hanno le loro proporzioni?» s’interessò il Capitano.
   «Sono le stesse che si ritiene ci fossero nel nostro Universo subito dopo il Big Bang» spiegò Talyn. «La mia ipotesi è che siamo finiti in un cosmo molto giovane – tre, quattrocentomila anni al massimo – quindi ancora caldo e denso. Un cosmo in cui devono ancora accendersi le prime stelle».
   «Affascinante» commentò Rivera, cercando di mascherare la delusione per l’ennesimo buco nell’acqua. «Raccoglieremo dati per qualche giorno, prima di passare al prossimo» stabilì.
   Erano passati pochi minuti quando si udì la voce di Irvik, stranamente agitata. «Stiva 1 a plancia, abbiamo un problema» disse il Voth.
   «Qui plancia, che genere di problema?» chiese il Capitano, esasperato. Possibile che la sua vita fosse una continua successione di crisi? Che non riuscisse ad avere un attimo di calma, prima che i nuovi universi gli giocassero qualche tiro mancino?
   «Oh, nulla di pericoloso per la nave e l’equipaggio, credo» rispose l’Ingegnere Capo. «C’è solo un piccolo contrattempo: tutto il latinum è scomparso».
 
   «E questo come lo spiega, Irvik?» chiese Rivera, osservando la stiva mezza svuotata. Tutto ciò che conteneva in precedenza era ancora lì, dai container coi pezzi di ricambio ai fusti di deuterio. Solo il latinum che avevano ricevuto dai Solarani si era volatilizzato, fino all’ultimo lingotto. Tutto il latinum, solo il latinum. I Ferengi piangevano come bambini, o vagavano qua e là, troppo intontiti per spiccicare parola. Il Capitano stesso non si capacitava dell’accaduto. Lui stesso aveva visto coi suoi occhi la stiva ricolma di lingotti dorati, poche ore prima. I suoi ufficiali, che lo avevano seguito, erano increduli quanto lui. Soprattutto Losira, che su quel tesoro ci faceva affidamento e ora si sentiva derubata.
   «Beh, posso solo formulare un’ipotesi, per quanto azzardata» disse prudentemente l’Ingegnere Capo.
   «L’ascolto!» fece il Capitano con impazienza.
   «Questo latinum veniva dallo Spazio Fotonico e quindi la sua struttura atomica era composta da fotoni, anziché da quark ed elettroni come la nostra» spiegò il Voth.
   «Sì, e quindi?» incalzò Rivera, poco incline ad ascoltare spiegazioni prolisse.
   «Beh, evidentemente non sono solo le creazioni del programma di Capitan Proton a destabilizzarsi, quando lasciano lo Spazio Fotonico. Quanto accaduto dimostra che tutta la materia originaria di quello spazio si converte in fotoni, non appena lo abbandona. Perbacco, che fenomeno interessante! Penso che scriverò un articolo al riguardo» commentò Irvik. L’Ingegnere Capo, infatti, aveva l’abitudine di annotarsi ogni scoperta curiosa, nella speranza di poterle pubblicare una volta tornati.
   Il Capitano rimase immobile come una statua. «Mi sta dicendo che quelle tonnellate di latinum, che ci avrebbero smodatamente arricchiti, sono svanite in un lampo?» mormorò.
   «Eh sì, purtroppo» confermò il Voth. «Non se la prenda, Capitano. Non c’era alcun modo di portarcele dietro. Nessun campo di contenimento le avrebbe protette, e comunque non avremmo potuto smerciarle. Piuttosto ringrazi che la detonazione non sia stata più violenta».
   «Ah, devo pure essere contento!».
   «Beh, sa come si dice... meglio ridere che piangere...» fece Irvik, imbarazzato per non aver previsto il fenomeno.
   A queste parole Losira gli diede le spalle e lasciò la stiva, borbottando imprecazioni. Nessuno si sentì di fermarla. Erano tutti troppo giù di corda per quella fortuna che, ancora una volta, gli sfuggiva di mano.
   «Ma sì, meglio riderci sopra!» sospirò Rivera, per non dare di matto anche lui. «Tonnellate di latinum svanite da un momento all’altro... come l’oro dei lepricani. Sì, sarà divertente da raccontare; certo più di quanto lo è stato viverlo».
   «Signore, chi sono i lepricani?» s’incuriosì Naskeel, che aveva seguito il Capitano nell’ispezione della stiva.
   «Eh? Oh, sono i folletti irlandesi» spiegò Rivera, sovrappensiero. «Piccoli omini anziani, con la barbetta a punta, sempre vestiti di verde. Secondo la tradizione, amano tirare brutti scherzi. In particolare si dice che possiedano molto oro, o una sostanza simile, e che lo facciano trovare agli Umani, solo per ridere a crepapelle quando l’oro fatato scompare di lì a poco».
   Il Tholiano ruminò queste parole. «Ecco un’altra specie senziente nativa della Terra di cui non sapevo nulla. È molto strano; dovrò fare una ricerca approfondita sull’argomento» si promise. «Ciò che più mi sfugge è l’espressione “oro fatato”. Che cosa significa?».
   A queste parole il Capitano scoppiò a ridere. «Non significa niente, non esiste l’oro fatato! Come non sono mai esistiti i lepricani. Sono solo storie, leggende, folklore! Insomma, sono personaggi di fantasia!».
   Stavolta Naskeel rifletté ancora più a lungo. «Non riesco a capire perché voi Umani abbiate sempre il bisogno d’inventare creature inesistenti e ricamarci sopra delle storie» commentò infine.
   «Per sentirci meno soli, suppongo» rispose Rivera. «Fortunatamente abbiamo scoperto che l’Universo – anzi, il Multiverso – è più strano, ricco e affascinante di quanto avessimo immaginato. Da quando viaggiamo tra le stelle, non siamo più soli» commentò, osservando con affetto i suoi ufficiali.
   «Però giocate ancora sui ponti ologrammi» insisté il Tholiano.
   «Di tanto in tanto» ammise l’Umano. «Solo quando ci sentiamo annoiati». 
 

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Capitolo 10
*** Epilogo ***


-Epilogo:
Data Stellare 2611.142
Luogo: USS Destiny
 
   Ora che era tornata al sicuro sulla Destiny, Giely aveva ripreso il suo lavoro senza perdere tempo. Chiusa nel suo ufficio, nel settore più riposto dell’infermeria, la Vorta proseguiva il meticoloso studio della tecnologia organica degli Undine. Al momento stava esaminando i dati sull’interfaccia neurale della bionave, in cerca della giusta combinazione chimica che le avrebbe permesso di sbloccare i comandi. Tuttavia aveva difficoltà a concentrarsi. Le memorie dell’ultima avventura erano troppo vivide, specialmente ciò che le aveva detto Rivera quand’erano prigionieri di Chaotica. C’era come un turbine di pensieri e sensazioni nuove che si agitavano in lei, e non sapeva se si sarebbero placati.
   La dottoressa stava ancora cercando di concentrarsi quando il cicalino dell’ingresso la costrinse ad abbandonare la lettura. «Avanti» disse, alzando gli occhi dall’oloschermo.
   Guarda caso, fu proprio il Capitano a entrare. «Ciao» esordì, un po’ imbarazzato. «Volevo solo sapere come stai. Da quando siamo tornati a bordo non ho avuto modo di chiedertelo».
   «Sto bene, grazie» rispose la Vorta, senza particolare emozione.
   «Mi fa piacere» disse Rivera, indugiando sulla soglia. «Vedo che ti sei già rimessa al lavoro. Non sei obbligata a farlo... voglio dire, puoi prenderti qualche giorno di riposo» suggerì.
   «Per fare cosa? Giocare con te sul ponte ologrammi?» chiese Giely, con una punta di sarcasmo.
   «Colpito e affondato» ammise l’Umano. «Non credo che ti proporrò mai più nulla del genere. Beh, in ogni caso riguardati. E scusami ancora per quello che ti ho fatto passare. Ci vediamo» borbottò, e fece per lasciare l’ufficio.
   Per un attimo la Vorta restò a guardarlo. Poi, trascinata da un impulso irresistibile, si alzò di scatto. «Aspetta!» esclamò.
   «Sì?» fece il Capitano, voltandosi.
   «Io... ho bisogno di sapere una cosa» mormorò la dottoressa. Aggirò la scrivania, avvicinandosi a Rivera. «Quel che mi hai detto quand’eravamo appesi su quel pozzo... è vero? Sei innamorato di me? O erano solo parole dettate dall’emozione del momento?» chiese, scrutandolo attentamente.
   L’Umano si prese lunghi attimi per rispondere, ma quando lo fece non c’era esitazione in lui. «Ti ho detto la verità, anche se mi ci è voluto fin troppo per rendermene conto. Sì, ti amo da impazzire. Ma dato che mi hai già risposto, non solleverò più l’argomento. Il nostro rapporto resterà professionale, se è ciò che vuoi» promise, sebbene gli piangesse il cuore.
   «Io... potrei essere stata troppo dura» mormorò Giely, fissando il pavimento. «Sei venuto a salvarmi, rischiando la tua vita, e il massimo che ho saputo fare è stato accusarti. Ma quando poi sono precipitata nell’abisso, è come se tutta la vita mi fosse passata davanti... e l’ho trovata vuota. Se fossi morta allora, sarebbe stata un’esistenza sprecata. Invece mi hai salvata, dandomi un’altra occasione, e quindi... quindi vorrei essere del tutto sincera con te» disse, deglutendo. Tutto in lei tradiva il nervosismo: dondolava il peso da un piede all’altro, si tormentava una ciocca di capelli e fissava qualunque cosa tranne l’interlocutore che aveva davanti.
   «Ti ascolto» garantì Rivera, attento alle sue parole come anche ai suoi gesti.
   «Io... insomma, ci sono alcune cose di me che vorrei spiegarti. Cose che non ho mai detto a nessuno. Povera me, non trovo nemmeno le parole adatte a dirlo. Non so se riuscirò a trovarle. È tutto così nuovo e strano» mormorò la Vorta.
   «Io ti ho parlato a cuore aperto; ti chiedo solo di fare lo stesso, se te la senti» disse gentilmente l’Umano.
   «Ecco... devi sapere che per tutta la vita ho sempre avvertito un vuoto dentro di me» confessò Giely. «Quando servivo il Dominio, credevo che fosse la mancanza di libertà, di prospettive diverse da quelle che altri mi avevano prefissato. Così mi appassionai ai racconti sulla Federazione, a tal punto da fuggire. Abbandonai per sempre il Dominio e ottenni la cittadinanza federale. Però scoprii che quel vuoto nell’animo c’era ancora, anzi, in un certo senso era peggiorato. Ero lontana anni luce dalla mia gente, da tutto ciò che avevo conosciuto fino ad allora. Avevo tradito i miei simili, al punto che non mi avrebbero mai riaccolta. Mi sentivo persino... egoista ad avere abbandonato coloro che mi avevano dato la vita e l’istruzione, spezzando la mia linea genetica per capriccio».
   «Non credo che sia egoismo né capriccio aver sete di libertà» mormorò Rivera. «Ma continua, ti prego».
   La Vorta fece un gran respiro e riprese. «Cercai di sdebitarmi con la società che mi aveva accolta, proseguendo gli studi di medicina e iniziando a esercitare la professione. Speravo che curare gli altri mi avrebbe in qualche modo assolta. Invece continuavo a sentirmi isolata da tutto e da tutti. Ovunque fossi, qualunque cosa facessi, mi pareva d’essere un’estranea capitata lì per caso. Così, quando seppi della Destiny – una nave che avrebbe esplorato il Multiverso – inoltrai la mia candidatura. Speravo che... mah, non so nemmeno io che cosa sperassi di trovare esattamente. Credo che cercassi una sorta d’illuminazione sulla vita, o di rivelazione sul mio posto nel mondo. Povera me, sembro così sciocca a dirlo!» confessò, rattrappendosi per la vergogna.
   «Non c’è niente di sciocco» disse però Rivera. «Quella che mi hai detto è la cosa più... umana che abbia mai sentito, se mi passi il termine. Tutti, prima o poi, ci chiediamo quale sia il nostro posto nel mondo e se non dovremmo fare altro, essere qualcos’altro. Credo che gran parte di chi si arruola nella Flotta Stellare lo faccia per questo».
   Un po’ rincuorata, Giely fece un breve sorriso, che tuttavia non cancellò il suo nervosismo, e riprese. «Beh, come sai, le cose non andarono come previsto. La missione fallì, gli Undine uccisero l’equipaggio e mi catturarono. Poco ci mancò che mi facessero impazzire. Poi siete arrivati voi avventurieri e ci siamo liberati, ma solo al costo di perderci nel Multiverso. È da allora che cerco di rimettere assieme i cocci della mia vita, di dare un senso a tutto. Il lavoro mi distrae, ma... non mi basta» rivelò, accennando all’oloschermo della scrivania, fitto di dati. «Continuo a sentire quel vuoto, a desiderare qualcosa di più. E mi sento egoista per il fatto che non riesco ad accontentarmi, come farebbe qualunque altro Vorta. Mi sembra d’essere un’ingrata, dopo tutto quel che ho già ricevuto, e questo mi fa stare ancora peggio!». La sua voce s’incrinò e la dottoressa, che già fissava il pavimento, girò il viso per nascondere le lacrime che le rigavano le guance.
   «Le persone egoiste e ingrate non si pongono minimamente il problema d’esserlo. Danno per scontato di avere diritto a prendersi tutto ciò che vogliono, senza lasciare niente agli altri. Tu non sei così. E non lo dico per consolarti o per compiacerti; lo dico perché ci credo fermamente» dichiarò Rivera.
   Giely tirò su col naso e cercò di asciugarsi le guance. «A furia di pensarci, negli ultimi tempi ho cominciato a credere che a mancarmi non sia tanto la libertà, quanto... quanto...» mormorò, senza riuscire a terminare il discorso.
   «L’amore?» indovinò il Capitano.
   «Sì, ecco» annuì vigorosamente la dottoressa. «Però noi Vorta non siamo fatti per amare. Io non ho mai amato e non sono mai stata amata in vita mia. Non so nemmeno come si faccia a tenere in piedi una relazione. Però so che è un campo minato, che si può restare feriti in tutti i modi possibili. Ci vuol niente perché l’amore si dissolva come una bolla di sapone, lasciando solo amarezza e delusione e un senso d’inadeguatezza. Questo l’ho ben visto! E così non ho mai fatto la prima mossa, per timore d’essere rifiutata, o peggio ancora d’essere accolta e poi rifiutata. E nessuno ha mai fatto la prima mossa con me, prima... che la facessi tu» confessò. «Sei il primo che mi abbia detto seriamente d’amarmi, e non immagini quanto la cosa mi terrorizzi. Perché se non amo posso sempre illudermi che l’amore esista, mentre se amo e poi la cosa va male, avrò la certezza che è solo una favola e che niente colmerà mai il mio vuoto. Ecco perché, quando ti sei dichiarato, ho dovuto per forza rispondere di no. Ora penserai che sono una creatura patetica... forse una psicopatica...» disse, tormentandosi la ciocca fin quasi a strapparsela.
   «Non penso niente del genere» disse però Rivera. «Penso solo che tu abbia un disperato bisogno d’amore; ma sei stata già profondamente ferita dalla vita, e quindi temi di subire altre ferite. Questo lo capisco, del resto anch’io ho passato i miei guai. I miei genitori furono uccisi nella Guerra Civile e io stesso fui schiavo per tre anni, prima della liberazione. Poi, quando finalmente ero nella Flotta Stellare e le cose sembravano indirizzarsi al meglio, un assurdo incidente con l’armeria mi fece espellere. Così dovetti cercare impiego presso i mercanti indipendenti, solo per trovarmi incastrato con questa banda di ricercati. Tutte le mie speranze, i miei progetti di vita si sono ridotti in cenere. E quando infine sono diventato Capitano, ci siamo smarriti nel Multiverso; vale a dire che i vantaggi del comando sono annullati e resta solo la responsabilità di riportare tutti a casa. Diamine, mi sono ridotto a giocare a Capitan Proton sul ponte ologrammi perché solo lì avevo la certezza del lieto fine! Come vedi, anch’io vivo nel costante terrore d’essere inadeguato» sospirò. «Suppongo che l’unica differenza sia il modo in cui ho reagito».
   «Ti riferisci alle tue innumerevoli conquiste amorose?» chiese Giely con una strana occhiata, tra il critico e il divertito.
   «Oh, beh... si fa quel che si può...» borbottò Rivera, imbarazzato. «Comunque, se vuoi sapere la verità, le mie relazioni sono state brevi. Ti confesso... e non l’ho mai detto a nessuno... che sono sempre stato mollato, mai il contrario».
   «E questo non ha distrutto la tua fiducia nell’amore?» chiese la Vorta.
   «Mah, forse più in me stesso che non nell’amore in sé» ammise Rivera. «La mia ultima storia è finita nel peggiore dei modi, al punto che stavo per rassegnarmi. Solo in questi ultimi giorni, dopo averti messa in pericolo col mio stupido gioco, ho compreso quanto mi stai a cuore. Non mi perdonerò mai per averti quasi fatta uccidere da quei buffoni in calzamaglia».
   «Non mi hai messa volontariamente in pericolo, però sei giunto volontariamente in mio soccorso. È questo che conta» disse la dottoressa, con un breve sorriso. «Non ti porto rancore, anzi! Ti ricambierei, se... se ne fossi capace» disse, tornando a intristirsi. Cercò di tornare alla scrivania, per riprendere il lavoro.
   «Aspetta, questa ho bisogno di capirla!» disse Rivera, inseguendola. «Al di là dei timori, provi anche tu qualcosa? Non parlo di un generico bisogno d’amore, ma di quello indirizzato precisamente a una persona. Io ti ho dichiarato il mio. Tu mi ricambi oppure no?» insisté.
   Giely si bloccò. Muovendosi lentamente e a scatti, lottando contro se stessa, tornò a girarsi verso Rivera e alzò gli occhi violetti su di lui. «Io provo... qualcosa di profondo per te» disse con immensa fatica. «Non so se sia amore, perché non ho mai conosciuto l’amore prima. Però quando sono con te mi sento più viva e... quel vuoto che mi ha attanagliata per tutta la vita scompare» rivelò. Il suo viso, solitamente di un pallore cadaverico, si tinse improvvisamente di un vivo rossore.
   «Beh, dalle mie parti questo si chiama amore» sorrise il Capitano. Con gesto lento, per non agitarla, le carezzò un lato della testa. Giely chiuse gli occhi e lo lasciò fare, ma solo finché col suo gesto le scostò i capelli, mettendo in vista l’orecchio zigrinato da Vorta. Allora la dottoressa s’irrigidì e cercò di coprirlo con le ciocche, palesando la propria insicurezza.
   «Ehi, ehi!» fece l’Umano, abbracciandola. «Non devi vergognarti di ciò che sei. Caramba, vorrei che tu ti volessi bene quanto te ne voglio io, e ti accettassi come ti accetto io. Vedi, quando si ama una persona la si accetta così com’è, senza cercare di stravolgerla. Altrimenti non si amerebbe quella persona, ma qualcos’altro. Io ti amo così come sei, ti accetto così come sei» ribadì.
   «Anche con le mie buffe orecchie da Vorta?» sussurrò Giely, mentre altre lacrime le bagnavano il volto; ma queste non erano di dolore.
   «Certo, anche con le tue orecchie da Vorta e gli occhioni da Vorta!» confermò Rivera. Sentendola rilassarsi tra le sue braccia, si azzardò a fare un gesto più intimo. Le prese il viso tra le mani, asciugandole le lacrime. Giely continuò a lasciarlo fare. Poco alla volta si calmò, arrivando a ricambiare l’abbraccio, dapprima con esitazione, poi con forza sorprendente.
   «Allora, te la senti di provare?» chiese l’Umano.
   «Me la sento, sì!» confermò la Vorta, annuendo vigorosamente. Sarà stata la sua immaginazione, ma le pareva di sentire gli antichi cromosomi dei Vorta, disattivati ma mai espunti dal DNA, che si riattivavano. Ormoni mai prodotti prima le invasero il flusso sanguigno, riempiendola di desiderio, tanto che le sue pupille si dilatarono. «Ma se non funziona...?» aggiunse, ancora minata dal terrore dell’inadeguatezza e del rifiuto.
   «Se non funziona ci comporteremo da persone adulte e responsabili, lasciandoci senza rancori e recriminazioni. Ma spero davvero che funzioni» disse il Capitano, continuando a carezzarla.
   «Io pure» ammise Giely, le guance accalorate. «E ora baciami, Capitan Proton... i cattivi sono sconfitti e Constance è qui con te...» sussurrò in tono seducente. Quando le loro labbra si toccarono, pensò che era valsa la pena di sopportare quella disavventura, in cambio di ciò che aveva ottenuto: l’occasione d’essere la prima Vorta ad amare dopo migliaia di anni.
 
 
FINE

 

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