Il numero di una statistica

di Puffardella
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Vanessa ***
Capitolo 2: *** Esordi ***
Capitolo 3: *** Cose non dette ***
Capitolo 4: *** L'attesa di una vita ***
Capitolo 5: *** Una lite furibonda ***
Capitolo 6: *** Il potere dell'amore ***
Capitolo 7: *** Mare in tempesta (prima parte) ***
Capitolo 8: *** Mare in tempesta (seconda parte) ***
Capitolo 9: *** In tre sotto le stelle ***
Capitolo 10: *** Un giorno infelice ***
Capitolo 11: *** Promesse vane ***
Capitolo 12: *** Una bicicletta nuova per Natale ***
Capitolo 13: *** Verità dolorose (prima parte) ***
Capitolo 14: *** Verità dolorose (parte seconda) ***
Capitolo 15: *** Finalmente l'alba ***



Capitolo 1
*** Vanessa ***


CAPITOLO 1



Non ricordo chi fu a passarmela, né in quanti eravamo quel giorno. Non ricordo se fosse estate o inverno. Autunno, credo, perché in quel periodo vivevo ancora al nord e quel giorno indossavo la mia mitica giacca mimetica di cotone, troppo leggera per l’inverno. Me lo ricordo perché dopo ci vomitai sopra e mia madre s’incazzò di brutto. Ricordo l’età, avevo tredici anni. E ricordo il posto, il parco dell’oratorio dietro casa. Qualcuno me la passò ed io me ne riempii i polmoni. Dissi: «Che cagata, è tutto qui?»
Arrivò subito dopo, la botta, la sensazione calda e rassicurante di essere in pace con il mondo. Iniziai ad avere una percezione amplificata delle cose che mi stavano intorno e sentii il cervello espandersi, lavorare a pieno regime. Bramai fare subito un altro giro, e poi un altro, e un altro ancora. Alla fine della serata mi ero fumato da solo due marie.
Prima di allora non avevo mai toccato nemmeno una sigaretta. Forse per quello bastò un tiro, uno solo, per riuscire a farmi un trip, un trip con una cazzo di tirata di spinello. O forse fu perché avevamo bevuto parecchio quel pomeriggio mentre giocavamo a calcio, io e i miei amici, io e Saverio: due tiri al pallone, un sorso di vodka, altri due tiri in porta, altro giro di vodka. Alla fine della partita potevamo contare più bottiglie vuote sul ciglio del campo sportivo dell’oratorio che gol. E forse fu a causa di quel cocktail che, dopo la mia ultima tirata, mi vomitai addosso.
Sono giorni che ci penso. Ci pensavo già da un po’, da prima che Vanessa bussasse alla mia porta, bagnata e sconvolta. Ci pensavo da prima della morte di Saverio, da prima che fosse seppellito nel cimitero di Cadelbosco. Forse ho iniziato a pensarci dal giorno in cui Vanessa venne a darmi la notizia che si sposava, che si sposava con Saverio. Sì, è da quel giorno che ho iniziato a pensare al preciso istante in cui ho mandato a puttane la mia vita.
La prima canna fu solo l’inizio di una lunga serie di sperimentazioni tossicologiche più o meno lecite, di sicuro devastanti, che hanno fatto di me la persona che sono diventato: un uomo solo, vuoto, infelice. Il giorno in cui ho saputo che la donna che amavo sarebbe diventata la donna di un altro, del mio migliore amico, è stato il giorno in cui ho preso determinazione di dare una svolta alla mia esistenza, di smettere di cazzeggiare.
È da un po’ quindi che mi chiedo cosa ne sarebbe stato delle nostre vite se io fossi stato un uomo migliore. Forse Vanessa avrebbe sposato me, e forse Saverio sarebbe ancora in vita.
Ma con i forse e con i se non si fa la storia.
Non tocco più droghe da oltre quattro anni, niente, nemmeno uno spinello, e anche se la mia salute, fisica e psichica, ne ha sicuramente beneficiato, le cose a cui tenevo di più, quelle le ho comunque perse.
No, non le cose: le persone.
E mentre sono qui che guardo Vanessa dormire sul divano del mio soggiorno mi chiedo che sarà ora di noi, se potrò in qualche modo pagare i miei debiti, chiudere definitivamente i conti con il passato, se sarò in grado di farmi perdonare.
È venuta a chiedermi aiuto Vanessa, stanotte. Ha bussato alla mia porta con insistenza, con rabbia. Non immaginavo fosse lei, non me lo aspettavo di sicuro. Ho aperto la porta e mi sono subito preso uno sganassone. Forte, violento, inaspettato. Ne ho presi tanti di schiaffoni, in vita mia. Di pugni poi un’infinità. Di quelli ne ho ricevuti e ne ho dati, ma per la miseria come fanno male gli schiaffi di una donna incazzata. I suoi me li ricordo tutti.
Il primo ceffone mi ha colto alla sprovvista, e anche il secondo. Il terzo l’ho bloccato a metà strada. Le ho afferrato il polso, e poi anche l’altro. Vanessa ha continuato a gridarmi contro istericamente, a chiedermi dove fossi finito, e perché non ero presente al funerale di suo marito, il mio amico, quello che amavo definire un fratello. Mi ha chiesto perché in due anni non mi fossi mai fatto vivo, perché non mi fossi mai interessato di sapere come stava, se avesse avuto o meno bisogno di qualcosa. Ha continuato a dimenarsi e a urlare, fra le lacrime. Io l’ho bloccata con le braccia, l’ho stretta forte; l’ho fatta piangere prima sul mio braccio, e poi sul mio petto. Ho aspettato che si calmasse e poi le ho chiesto di Nicolas, suo figlio, il mio figlioccio. Nicolas, a cui hanno dato il mio nome. Nicolas, la botta finale, la più dolorosa ma anche la più determinante per la mia lotta contro la dipendenza dalle droghe.
Nicolas ha quattro anni. Ho smesso di farmi poco prima che nascesse. Saverio voleva che gli facessi da padrino, Vanessa disse che lo avrebbe consentito solo se mi fossi dimostrato davvero degno, ed io volevo esserlo con tutto me stesso. Avrei voluto esserlo per lei prima di tutto, ma lei era una spiaggia troppo lontana, una fermata persa, ormai. Non sarei arrivato tardi anche per quel treno. Così è stato, gettai tutto nella tazza del cesso, e amen.
Ho dovuto ripeterglielo due volte mentre continuavo a stringerla, il mio naso fra i suoi capelli bagnati, le mie labbra sul suo orecchio: «Dov’è Nicolas, Vanni?»
Nicolas era in macchina che dormiva. Ho afferrato l’ombrello e sono andato a prenderlo. Non si è svegliato, non un lamento. L’ho adagiato sul mio letto, quello nella camera degli ospiti non ha le lenzuola. Gli ho tolto le scarpette, l’ho coperto, lui ha sospirato appena, si è girato sul fianco e ha continuato a dormire.
Non so quanto tempo io sia rimasto sulla soglia a osservarlo, a sentirlo respirare. Nicolas, Saverio in miniatura, biondo come il padre, bello come la madre. È cresciuto tantissimo in questi due anni. Quando sono tornato in soggiorno, Vanessa si era già addormentata sul divano. Ho preso un plaid dall’armadio e ho coperto anche lei.
Non fa freddo stanotte. Siamo in aprile, la gente ha già iniziato ad affollare le spiagge grazie alle temperature quasi estive, ma c’è stato un violento temporale poco fa, e non è riuscito a scaricare del tutto l’umidità presente nell’aria. Mentre coprivo Vanessa, lo ammetto, ho sentito il bisogno di qualcosa che mi aiutasse a calmare le emozioni, ed è una fortuna che io non tenga alcolici in casa, perché non lo so se sarei riuscito a resistere al forte impulso di farne uso.
Trovarmela di fronte è stato devastante. Sembrava una tigre, bella e fiera, come sempre. Si è addormentata prima che io potessi spiegarle, ma so già che dovremo affrontare il discorso, prima o poi. Sono tante le cose di cui mi devo giustificare, e ringrazio il cielo che sia crollata dal sonno, perché in questo momento non avrei la forza di farlo.
Oggi è così, domani si vedrà.

                                                        ***         
È stata la fragranza del caffè a svegliarmi, stamattina. Dolce, intensa, invitante. Vanessa ha già fatto la doccia e traffica nella mia cucina con indosso una mia maglietta. Ha indosso solo quella. Dio, che effetto mi fa…
Nicolas è seduto al tavolo e parla con la madre davanti a una tazza di latte. Per fortuna quello non manca mai, in casa mia. Pasta, pomodoro, parmigiano, caffè, zucchero, casse di acqua minerale e latte. Tutto il resto è superfluo.
Ha una parlantina spigliata, una dizione impeccabile per un bambino della sua età. Dondola con vivacità i piedi sotto la sedia, e mangia e ride contemporaneamente. Come Saverio. Mi godo questo momento un istante, prima di far notare la mia presenza. Nicolas tace e si volta, entrambi mi fissano.
«Buongiorno» rompo il ghiaccio io. Mi chiedo se sia possibile che il piccolo abbia qualche ricordo di me. Dal suo volto corrucciato e dal modo ostile in cui mi fissa direi di no.
«Buongiorno. Mi sono permessa di preparare la colazione…»
Vanessa sembra aver perso tutta la sua aggressività, con il risveglio.
Le sorrido. «Hai fatto bene» la rassicuro.
Mi siedo vicino al mio omonimo e gli spettino i capelli, ma non sono sicuro che abbia apprezzato.
«Come stai, campione?»
«Bene…»
«Il latte è ancora caldo, ne vuoi?» mi chiede Vanessa con un certo imbarazzo.
«Non ti disturbare, ci penso da me.»
«Nessun disturbo… E so già come ti piace: poco caffè e tanto zucchero. E tiepido, quasi freddo» ripassa la lezione, una lezione che conosce bene. Da quanto la conosco, Vanessa? Una vita. Ne abbiamo fatte di colazioni insieme…
Mentre versa il latte macchiato nella tazza, torno all’attacco con il piccolo Nicolas. «Allora, campione, lo sai chi sono io?»
Continua a fissarmi con quegli occhi enormi, espressivi, azzurri come quelli del padre. Ha smesso di agitare le gambe sotto la sedia. Tiene il cucchiaio in alto, in attesa di potersi dedicare nuovamente ai cereali nella tazza.
«Sei lo zio Nicolas.»
«Quindi, ti ricordi di me?»
Scuote la testa così forte che i lunghi capelli biondi gli frustano le guance paffute. «No, me lo ha detto la mamma come ti chiami.»
«Ah…» Lancio un’occhiata a Vanessa, che se la ride con la mia tazza di latte in mano. «E ti ha detto anche perché ti chiami come me?»
«Perché sei il migliore amico della mamma e del papà.»
Non sono tornato a guardare Vanessa, ma che abbia smesso di sorridere è ineluttabile, chiaro come questo giorno di sole. E ne comprendo il motivo.
«E lo sai che ti ho battezzato io?»
Il piccolo ci pensa un po’ su, poi annuisce.
«Allora siamo amici, giusto?»
Annuisce di nuovo, e ho l’impressione che per oggi mi dovrò accontentare. Forse anche per i prossimi dieci anni. Non credo che riuscirò ad ottenere manifestazioni di simpatia più forti di un cenno del capo e poche sillabe, nell’immediato. Sarà meglio rispettare i suoi tempi, senza forzature.
Vanessa mi porge la tazza e si siede al mio fianco. Com’è possibile che sia ancora così bella? Mi guarda ora con lo stesso cipiglio scontroso di quando la rividi dopo un sacco di tempo davanti al liceo scientifico Giovanelli, a Roma.
All’epoca aveva quattordici anni, e io diciassette. Mi ero trasferito da poco nella capitale, stanco di vivere con mia madre a Cadelbosco, ed ero al terzo anno di superiori. Quello era il primo che frequentavo in quel liceo, ma bazzicavo quel quartiere da una vita. Andavo regolarmente a stare da mio padre durante le vacanze estive e le festività, spesso nei fine settimana, perciò conoscevo già un gran mucchio di ragazzi. Io conoscevo loro, loro conoscevano me. Avevano chiaro in mente chi fossi e mi rispettavano. Inizialmente grazie alla notorietà di mio padre; in seguito, a quella che mi guadagnai a suon di risse e cazzate varie.
L’ingresso dell’istituto era gremito di ragazzi, in attesa che aprissero il portone. Ero già alla mia seconda canna e mi sganasciavo dalle risate con un gruppetto di amici. Avevamo preso di mira una ragazza di seconda, grassa e con l’apparecchio ai denti. Marina Congi, si chiamava. Si chiama ancora così, voglio sperare...
È venuta a trovarmi al locale due anni fa, appena aperto. Aveva saputo della mia nuova attività grazie a un giro di voci fra ex compagni di liceo. Ero dietro il bancone del bar a preparare cocktails perché, sebbene la discoteca sia mia, mi piace atteggiarmi a barman. Io non l’avevo riconosciuta, e come avrei potuto? Senza la ciccia e l’apparecchio: una strafiga, cazzo. Lei, invece, non si è fatta ingannare dalla mia recita. Non sono molto cambiato, in tanti anni. Soprattutto la stazza è rimasta pressoché la stessa.  A diciassette anni ero già alto un metro e ottantasei. Oggi sfioro il metro e novanta. Comunque, questa sconosciuta mi è venuta vicino e mi ha ringraziato. E quando le ho chiesto il perché, mi ha risposto che le avevo fatto perdere venti chili grazie agli insulti e alle lacrime che le avevo fatto versare durante il liceo. Io avrei detto “a causa di”, ma lei ha proprio detto “grazie a”, con tanto di virgolette figurative. Poi mi ha chiesto se avevo un po’ di neve da darle. Le ho detto che avevo chiuso con quella roba e che nel mio locale non permettevo che se ne facesse uso. Non penso mi abbai creduto, ma non ha insistito. A metà nottata mi ha chiesto di accompagnarla fuori. Voleva mostrarmi la sua riconoscenza per averle donato una nuova vita in un nuovo corpo. Voleva farlo in maniera concreta. Lo ha fatto sul cofano della sua auto, due volte. Ma ai tempi del liceo non mi sarebbe venuto duro nemmeno dopo uno striscio.
Io e i miei compagni ci stavamo andando giù pesante con gli sfottò, quindi, e più quella piangeva più noi caricavamo. Vanessa mi venne davanti con una sfrontatezza felina. Aveva delle piccole efelidi sulla fronte, ma su di lei anche i difetti diventavano pregi. Carnagione chiara e occhi verdi. E capelli mossi, lunghi, castani-ramati. Riesco ancora a ricordare il profumo dello shampoo che emanavano: mela verde. Mi guardò con disprezzo e mi disse: «Ci sei venuto dal nord a fare lo stronzo?»
La riconobbi solo grazie al fatto che era a conoscenza che provenivo dal settentrione.
«Vanessa Bonanni… Ma che sorpresa! Cazzo come ti sono cresciute le tette. Quanti anni hai, adesso?»
«Più di quanti ne dimostri tu, con quel cervello in pappa che ti ritrovi a furia di fumarti quella schifezza.»
«Anche io sono felice di rivederti. Vivi sempre nella villa di fianco a quella di mio padre?»
«Sì, perché?»
Schioccai la lingua e assunsi un’espressione dispiaciuta. «Peccato che sei ancora troppo piccola, per me. Ma fra qualche annetto, chissà...»
«E cosa ti fa pensare che mi abbasserei a stare con uno come te?»
Puntai le sue amiche che erano rimaste dietro di lei. Mandavano chiari segnali di ormoni in fibrillazione, con tutte quelle risatine che facevano e quelle occhiatine maliziose che lanciavano.
«Le tue amiche si abbasserebbero volentieri. In tutti i sensi» dissi, suscitando l’ilarità dei presenti.
«Bè, io non sono le mie amiche e non mi abbasserei a stare con te nemmeno se fossi l’ultimo idiota rimasto sulla terra!»
Facevo lo sbruffone, me ne rendo conto solo ora. Mi sentivo onnipotente, il figlio privilegiato di una casta privilegiata. E non parlo solo di posizione economica. Mia madre è un architetto affermato; mio padre, prima di morire, gestiva una discoteca, due ristoranti e una piscina, a Roma. I soldi non mi sono mai mancati, ma c’è una cosa a cui i ragazzi molto giovani danno più peso che al denaro, ed è l’aspetto fisico. Ed io ero un ragazzo molto corteggiato, bello e sfrontato. Non me la tiro, è così, punto. Piacevo, e ne ero consapevole. Anche oggi so di essere un uomo attraente ma maturando certe cose perdono di valore, si ridimensionano. Oggi preferisco essere apprezzato per ben altre qualità piuttosto che per il mio aspetto fisico. Ma a diciassette anni, più sei fico e più sei amato, invidiato, desiderato, rispettato. Niente conta di più a quell’età, e credevo di essere talmente irresistibile che nessuna, nemmeno lei, avrebbe avuto il coraggio di ignorarmi solo per una questione di orgoglio.
«E perché no?» le chiesi sogghignando.
Il modo in cui mi guardò allora, non l’ho mai scordato. Lo fece con ribrezzo.
«Guardati! Fai pena, Nicolas Costantini. Fumare questa porcheria alle otto di mattina!» disse, ed ebbe l’ardire di strapparmi dalle mani lo spinello e di gettarlo in un tombino.
Tutti fischiarono e la coprirono di insulti. Io, invece, la amai da quel giorno per quel gesto. Lei si voltò e raggiunse le sue amiche ancheggiando. Non per vanità, ma perché camminava a passo spedito, tanto era incazzata. Mi curvai di lato per osservarle il fondoschiena, ancora acerbo e già piuttosto promettente. Lei si passò una mano fra i capelli con un gesto brusco e si recò a confortare la povera ex miss cicciona Marina Congi. Continuai a fissarla tutto il tempo, fino a quando non aprirono il portone ed ebbe inizio la solita ressa, che è sempre la stessa, in tutte le scuole d’Italia. Vanessa mi passò di fianco, mi sfidò con gli occhi, io le lanciai un bacio e lei si lasciò trasportare dalla fiumana di studenti, scuotendo il capo indignata. Amai il suo coraggio e il suo temperamento passionale da subito, tanto che dissi a tutti: «Quella ragazza da oggi appartiene a me soltanto. E fatelo sapere in giro.»
Sono passati quattordici anni e stamani, negli occhi di Vanessa, leggo lo stesso sdegno di allora.

                                                        ***

Abbiamo fatto colazione e siamo scesi in spiaggia. Alla morte di mio padre ho ereditato un bel po’ di grana, locali a parte. Quelli li ho venduti. Con i soldi ereditati ho acquistato una casa in una delle isole dell’arcipelago toscano. In mezzo, fra il Lazio e l’Emilia Romagna. Ho cercato un punto d’incontro fra le mie due terre, un compromesso per sentirmi in qualche modo più vicino a casa, fallendo. In nessun luogo riesco più a sentirmi a casa, ormai. Ma la villa è uno spettacolo. La casa è stata fabbricata su una collina che sovrasta il mare. Dal soggiorno ho accesso alla terrazza in sassi che si affaccia sul Tirreno.
Passo più tempo in questa porzione di casa che in tutte le altre stanze. È diventato il mio rifugio, quando il tempo lo consente. Da qui, grazie a una scalinata a gradoni in pietra, si scende direttamente in spiaggia. Credo di aver guadagnato dei punti con Nicolas quando gli ho suggerito di andare sulla battigia a giocare con l’acqua. Lui ha gridato entusiasta, poi ha cercato il consenso negli occhi della madre, e ora eccoci qui, tutti e tre.
Nicolas è sulla riva che costruisce un castello di sabbia e, a occhio e croce, direi che da grande dovrà impegnarsi a fare altro. Ma ci si sta appassionando molto, e questo consente a me e a Vanessa di parlare.
Vanessa mi ha spiegato che non le è rimasto più niente. Saverio si era indebitato inseguendo un progetto folle, quello di gestire l’impianto di una pista di pattinaggio sul ghiaccio a Castelnovo Monti, a metà strada fra la pianura e la vetta del Passo del Cerreto, nell’appennino tosco-emiliano. Pista di pattinaggio e ristorante incluso. Tante volte avevo cercato di farlo ragionare, di farlo desistere, inutilmente. L’attività non è stata mai avviata. Dopo la sua morte, per pagare i debiti, Vanessa è stata costretta a vendere tutto. Ne è uscita pulita, ha liquidato tutte le banche in cui avevano acceso mutui, ha estinto ogni finanziamento, non deve più un centesimo a nessuno, solo che adesso non sa dove andare né cosa fare. Tornare a Roma dai suoi, non se la sente; approfittare della carità dei suoceri, non ci pensa proprio. Le ho detto che può fermarsi da me quanto vuole. La casa è grande, le camere sono tre, i bagni due, c’è spazio a sufficienza per due famiglie. E poi andiamo incontro alla stagione estiva, può considerarla una vacanza.
Gliel’ho detto senza staccare mai gli occhi di dosso da Nicolas, che inizia a dare segni di stanchezza di ingegnarsi fra torrioni che crollano e ponti che vengono regolarmente sommersi dall’acqua. Infatti, ora ha deciso di demolire la sua creazione. Polverizza un lato del castello con un piede, riottoso. Poi inizia a saltarci su con entrambi i piedi, e più salta più sembra soddisfatto e felice. Non posso che essere d’accordo con lui: non era un granché come castello. Ma c’è un’altra ragione se mi ostino a fingermi interessato alle improbabili capacità edili del mio figlioccio: non oso guardare negli occhi Vanessa.
Soprattutto ora, che mi sta fissando da oltre cinque minuti.
Sento il suo sguardo su di me, mi aggredisce come una condanna. Lo fa in silenzio, eppure riesco a sentire le domande che si sta ponendo, le stesse che mi ha fatto ieri, che le hanno roso l’anima da due anni a questa parte.
E infatti me lo chiede, all’improvviso: «Che fine avevi fatto, Nico? Perché ti sei nascosto su quest’isola?»
So che le devo delle spiegazioni, ma non ora. Ora è troppo presto, non ce la faccio, non sono pronto. Mi alzo, mi scrollo la sabbia di dosso e le dico, eludendo le sue domande, che ci penserò io a loro, adesso. Saverio avrebbe voluto così. Per questo mi aveva supplicato di fare da padrino al figlio. Mi prenderò cura di Nicolas e di lei. Glielo devo a Saverio.
Le dico questo, e mi avvio verso il mio figlioccio per impartirgli lezioni di architettura.

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Capitolo 2
*** Esordi ***


CAPITOLO 2
Mio padre è morto sei anni fa. Mi ha lasciato un cospicuo conto in banca e diversi locali distribuiti in tutta Roma. Me ne sono liberato, come sono stato contento di essermi liberato di lui. Mai avuto un bel rapporto, con quell’uomo.
I miei si lasciarono che avevo cinque anni. Ancora oggi mi chiedo come, due esseri così diversi, siano riusciti a resistere tanto a lungo.
Mia madre prese la laurea in architettura edile a Roma, e fu in quel periodo che conobbe mio padre. Si amarono molto, almeno i primi anni. Poi presero a odiarsi con la stessa intensità, e anche di più.
Io sono nato a Roma e ci sono rimasto per poco. Finito l’idilliaco amore, mia madre mi trascinò con lei in Emilia Romagna, nella sua terra. Diceva che Roma tirava su solo delinquenti e spacciatori. Peccato che la mia prima canna me la sia fumata nel parco dietro casa, paesino di quindicimila anime, tutte personcine per bene, rispettose delle leggi e dei precetti civili. Dal produttore al consumatore, tutto succedeva all’interno del parco parrocchiale. Nessuno si faceva domande sui tizi che ciondolavano tutto il giorno in quel posto. E se anche qualcuno se ne faceva, non gliene fregava un cazzo.
Lì mi sono rollato la prima canna, il primo striscio l’ho fatto a quattordici anni, dentro la discoteca di mio padre. Anzi, fu il suo regalo per la mia prima serata in una disco, una sorta di iniziazione. Di più, una specie di esame. Forse voleva valutarmi, capire di che pasta ero fatto: se stucchevole, precisino e moralista come mia madre, o cazzuto e con capacità imprenditoriali, come lui.
La disco si trovava a Campo dei Fiori. Aveva diverse sale, diversi generi musicali per soddisfare una clientela diversificata: Hi-NRG, house, techno. Mia madre a Reggio si rifiutava di mandarmi in un locale notturno e m’imponeva il coprifuoco a mezzanotte, orario di apertura dei giochi nelle disco. Ci pensò mio padre a fare da contrappeso, a dare equilibrio alla mia vita secondo i suoi criteri.
Era settembre, me lo ricordo bene. L’estate volgeva al termine, le scuole erano già iniziate, ma io dovevo ripetere di nuovo la terza media e potevo permettermi di prendermela comoda. Le disco avevano riaperto in quei giorni, dopo la pausa estiva. Mio padre mi portò con sé, fiero di questo figlio bello come il sole, alto, con un solo difetto: ancora troppo vergine. Vergine di disco, di figa, di vita.
Mi condusse all’interno. Fui aggredito dalla musica assordante e dagli effetti di luci che si abbassavano per poi riesploderti dentro gli occhi. Quel mix pompava addosso una carica adrenalinica incredibile.
Mi guardavo intorno, sorridendo come un fesso. Le ragazze mi fissavano affascinate, i ragazzi lo facevano con invidia. Conoscevano tutti mio padre, e si chiedevano chi fossi. Fui assegnato alle premurose cure di Masha, una ragazza dell’est che avrà avuto diciannove anni. Forse qualcosa in meno, di sicuro non di più. Quando non le toccava fare da balia agli ospiti come me, ballava sul cubo. Masha non me la ricordo molto bene, non il suo viso per lo meno. Le tette sì. Anche il fondoschiena. Mi portò in un privè, mi fece sedere, mi chiese quanti anni avessi. Il nome no. Mi chiamava principino, e poteva bastare.
Osservavo i suoi movimenti, flessuosi e conturbanti. Ero impietrito dall’eccitazione. Mio padre non mi aveva accennato a niente, ma io conoscevo il bastardo e il suo modo di agire, e sapevo già cosa stava per accadere. Masha sedette sulle mie gambe e tirò fuori dalle tette una bustina. Svuotò il contenuto sul tavolo, divise la polvere in quattro striscioline sottili dopo averla resa ancora più fine con colpetti secchi, ne aspirò due con un tubicino di carta e poi me lo passò, senza dirmi niente. Mi chinai e tirai su col naso la prima striscia. Stavo per farlo anche con la seconda ma lei mi fermò. Mi disse che era la prima volta, e che al momento poteva bastare.
L’effetto non fu immediato come mi ero aspettato. Avvenne dopo qualche istante. Poi tutto si fece più rapido, intorno a me e dentro di me. I pensieri iniziarono ad affluire veloci nella mente, ma potevo tenerli a bada. Non si ammucchiavano, non creavano confusione, semplicemente avevo acquisito la capacità di pensare più in fretta. Il cuore prese a pomparmi il sangue nelle vene con violenza, e per un attimo mi convinsi che il ritmo frenetico nella musica del locale provenisse in realtà dall’organo nel mio petto che batteva e sbatteva in modo folle. Mezz’ora dopo ebbi il permesso di sniffare anche la seconda striscia, e persi la verginità con Masha sopra il tavolino del privè, dentro il locale di mio padre, come suo regalo di benvenuto nella terra di nessuno che ti spinge a diventare nessuno.
Quando ci ripenso oggi, a quasi venti anni di distanza, mi viene una rabbia… Che razza di genitore è uno che ti spinge fra le braccia di un’esistenza così triste e vuota, come solo un drogato può vivere?
Ma, a essere obiettivi, era inevitabile che accadesse. Se non fosse successo lì sarebbe avvenuto per strada, magari al parco dell’oratorio, o nei bagni delle scuole, o in casa di qualche amico. Non do la colpa a lui se per anni sono stato schiavo della “sveltina bianca”. Ciò nonostante lui aveva degli obblighi morali verso di me. Ho perso la fiducia nelle sue qualità di genitore da allora. Persi la fiducia, la stima e, di conseguenza, il rispetto. Lui divenne per me solo uno da sfruttare, uno a cui chiedere soldi, la casa al mare in prestito dove organizzare qualche orgia o consumare scopate più intime, i biglietti per lo stadio, permessi per accedere a festini mondani. Divenne uno a cui chiedere la carta di credito per le  mie spese, niente di più.
È morto a sessantadue anni di cirrosi epatica. Chiaro, di che altro, sennò?
Non so perché io abbia iniziato a pensare a lui stanotte, mentre sono nel mio locale e servo cocktails ai miei clienti. Forse perché, per la prima volta, di lasciare casa per venire a lavorare non ne avevo voglia.
Vanessa e Nicolas sono ancora da me, anche se è passato un mese dal loro arrivo. Nicolas stava già dormendo quando sono uscito. Mi sono fermato sulla soglia della camera a guardarlo respirare, prima di decidermi a infilare l’uscio. Lo faccio ogni sera, ogni volta che lo metto a letto. Stasera lo guardavo respirare e mi sono chiesto che tipo di padre potrebbe essere uno come me. Se è vero che i figli sono destinati a ripetere in perpetuo gli errori dei genitori - come affermano le statistiche -, che fine farei fare a questo essere così piccolo, indifeso, che non arriva a lavarsi la faccia da solo e deve essere sollevato sul lavandino ogni volta? Se Vanessa decidesse di fermarsi da me e mi desse l’opportunità di aiutarla a seguirlo nella crescita, che adulto sarei in grado di plasmare? Che persona diventerebbe, per merito o a causa mia, questo bimbo che, davanti alle strisce pedonali, chiede la mano per attraversare perché sa di non poterlo fare da solo, di non esserne ancora in grado?
I primi giorni mi evitava, ma ora è a me che si affida quando dobbiamo oltrepassare la strada. Sento che mi stringe la mano con fiducia, sicuro che non lo metterei mai in situazioni pericolose e, anzi, gli farei da scudo nel caso in cui un pazzo decidesse di puntare su di noi.
Mio padre, sotto quella macchina, mi ci ha spinto.
Non voglio essere come lui, non voglio essere il numero di una statistica. Non lo permetterò. So di essere una persona migliore di lui.
Anche Vanessa me l’ha confermato. L’ha fatto quando è venuta da me anziché chiedere aiuto ai suoi. Mi dimostra la sua fiducia ogni volta che mi lascia in consegna suo figlio. Non lo avrebbe mai fatto, qualche anno fa. Vanessa, oggi, si fida di me perché sa che non tocco più nessun tipo di droghe.
Anni fa lo faceva in modo diverso. Mi concedeva la sua amicizia nonostante fossi sempre sballato, o quasi. Diceva che lo faceva perché vedeva del buono in me. Allora pensavo dipendesse dal mio fascino irresistibile, ma oggi propendo a credere che mi avesse adottato come un cucciolo smarrito bisognoso di cure. Fece di me il suo ideale, la sua missione: salvarmi la vita. Credo… Chissà, non l’ho mai capita del tutto.
Strano come una riflessione conduca ad un’altra, riempiendoti la mente di ricordi…

Un paio di mesi dopo il primo giorno di scuola al liceo Giovanelli, all’uscita Vanessa venne verso di me incazzata come una iena, tanto per cambiare. Ero sulla Yamaha 250, regalo del vecchio per i miei diciotto anni. Non li avevo ancora compiuti, ma il bastardo, i regali, era solito darmeli in anticipo. Non per bontà, ma perché non si ricordava mai la mia data di nascita. Ero sulla moto e mi stavo rollando una canna. In classe la professoressa di italiano ci marcava stretti e non ci consentiva l’uso del bagno per più di tre minuti. Se tardavamo a ripresentarci in classe, era capace di venire personalmente a prelevarci; entrava senza preavviso, e allora succedeva un gran casino, con lei che urlava e i ragazzi che si dileguavano, ciascuno nella propria aula. Più di una volta, il malcapitato beccato era stato obbligato a gettare tutto nel cesso per non essere colto in flagrante ed espulso dalla scuola.
Quel giorno avevamo avuto tre ore d’italiano, una tortura bestiale. Avevo bisogno di rilassarmi, e non aspettai di essere tornato a casa per il mio consueto appuntamento con la ganja. Lei si mise di fronte a me, e i miei compagni iniziarono subito a sfottermi.
«Che è ‘sta storia che vai dicendo in giro?»
«Che storia?»
«Vai dicendo in giro che sono la tua ragazza!»
Scoppiai in una risata, non tanto per quello che aveva detto ma per come lo aveva detto. Aveva le guance arrossate dallo sdegno, gli occhi lucidi e le labbra rosse, e si teneva i fianchi con le mani. Leccai il lato con la colla della cartina, chiusi la canna e le risposi con tutta calma, mentre me la accendevo: «Ti hanno informata male. Ho detto che devono starti alla larga perché sei roba mia, non che sei la mia ragazza. Sei ancora troppo piccola, te l’ho già detto.»
«Tu sei uno squinternato fuori di testa. Valerio ha paura anche solo di sedersi vicino a me, a causa tua!»
Drizzai la schiena, mi misi sull’attenti e la fissai serio. «E chi cazzo è Valerio?»
«Ma mi hai ascoltato?»
«Chiaro e tondo. E tu hai ascoltato me? Voglio sapere chi cazzo è Valerio. Un tuo compagno di classe, immagino!»
I miei amici pensarono stessi giocando con lei, che l’aria da innamorato geloso che avevo assunto fosse finta. Invece no, io mi ero incazzato sul serio.
«Ma chi ti credi di essere?»  
Restammo a fissarci a lungo, poi le passai il casco. «Salta su!», le dissi.
«Cosa?»
«Ti accompagno a casa.»
Sgranò gli occhi incredula. Pensai che mi avrebbe mandato a cagare, invece mi strappò il casco dalle mani.
«Tu vuoi portarmi a casa?»
«Perché no? Non devo fare un grande sforzo, abiti di fianco a me…»
«Bè, allora questa schifezza non te la fumi se vuoi che venga con te!» e mi sfilò dalle labbra la canna appena accesa, che andò a fare compagnia a quella che aveva già gettato mesi prima nel tombino.
Quella fu la prima volta che salì in moto con me. Mi piaceva il modo in cui si teneva stretta a me, il modo in cui faceva aderire il suo corpo al mio mentre mi piegavo in curva. Il più delle volte, con altri passeggeri, il peso dei corpi si sbilanciava provocando oscillazioni, ma non con lei.
Fermai la moto davanti al viale di casa sua. Scese, si sfilò il casco e si scosse i capelli per rimetterli in ordine. Sorrideva eccitata. Ero sicuro che la corsa in moto avrebbe fatto colpo su di lei. Da quel giorno iniziai a portarmi dietro due caschi per andare a scuola. E smisi di cannarmi in sua presenza. Tanto, se ci avessi provato, mi avrebbe sequestrato il fumo e lo avrebbe gettato via.

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Capitolo 3
*** Cose non dette ***


La casa che ho acquistato coi soldi di mio padre è esattamente come desideravo fosse. L’ho voluta tutta su un piano. Centotrenta metri di casa su un unico piano. E per fortuna. Questo mi ripeto, mentre osservo Nicolas disteso vicino a me respirare piano. È una fortuna che non ci siano scale in casa, ora che c’è lui a scorrazzare per le stanze, soprattutto quando lo fa al buio, di notte.
Può capitare che si svegli all’improvviso, e allora si alza dal letto ed esce dalla sua camera per raggiungere quella della madre, che è dirimpetto alla sua. La mia, invece, chiude l’androne ed è in mezzo alle due.
Non era mai venuto nel mio letto prima di stanotte, per questo ho trattenuto il fiato quando la porta della mia camera si è aperta lentamente.
Da quando si sono stabiliti da me faccio fatica a prendere sonno. Resto immobile sul letto a fissare il soffitto con le mani dietro la testa, in ascolto di ogni rumore che proviene dal resto della casa, dalle altre stanze. In attesa che la porta si apra, che lei entri nella mia camera, che si infili nel mio letto, che si decida ad amarmi e a lasciarsi amare, a restituirmi ciò che mi appartiene, che mi è sempre appartenuto.
Saverio è morto da oltre due anni, ed io sono un uomo diverso, ormai, l’uomo che voleva diventassi. Perché si ostina a rimandare quel momento?
In fondo la risposta la so già. Non abbiamo ancora parlato, non le ho dato le spiegazioni che cerca, di cui ha bisogno. Ha smesso di farmi domande, mi conosce. Sa che anch’io, come il piccolo Nicolas, ho i miei tempi. Le parlerò quando sarà il caso, e il momento, di farlo. Ecco perché tutto è come sospeso tra di noi, com’è sempre stato, del resto. E comunque ci avevo sperato stanotte quando, come dicevo, la porta della mia camera si è aperta.
Nicolas è talmente piccolo che non l’ho visto arrivare subito. La sua presenza mi è stata evidente solo quando ha raggiunto un lato del letto e si è affacciato, triste.
«Ehi, campione, che ci fai in piedi?»
«Ho fatto un brutto sogno.»
«Vuoi dormire con me?»
Ha annuito, e quando gli ho sorriso e gli ho fatto cenno di salire sul letto, mi ha sorriso anche lui.
Che strana sensazione il suo corpo rannicchiato sul mio petto, le sue piccole mani paffute che mi toccano il viso. Nel buio, cerca un ciuffo di capelli da rigirarsi fra le dita. È un rito che fa con i capelli della madre, prima di addormentarsi. Stanotte lo sta facendo con i miei. Il mio cuore si riempie di una calda emozione paterna, ma dura poco. Penso che lì, vicino a lui, dovrebbe esserci Saverio adesso, e quest’idea mi atterrisce, mi toglie il fiato. Mi aggredisce un sentimento di rabbia, ora, che mi procura dolore. Cerco di non pensarci.
«Che hai sognato?», gli chiedo.
«Dei mostri che uscivano da sotto il letto e mi mangiavano le mani e i piedi.»
“Wow, farebbe paura anche a me un incubo così”, penso.
«Ah!», mi limito a rispondergli. Vorrei rassicurarlo, dirgli che i mostri non esistono, ma lo ritengo superfluo. Chissà quante volte se lo sarà sentito ripetere da Vanessa, o dai nonni. Se ha continuato a crederci, non sarà aggiungendo la mia voce al coro di voci già esistenti che smetterà di avere paura.
È da un po’ che è in silenzio, e ha smesso anche di torturarmi i capelli, perciò la sua voce mi coglie all’improvviso, e la sua affermazione mi colpisce come uno schiaffo in pieno viso, come quelli che Vanessa si ostina a darmi quando è incazzata, più o meno da quando la conosco.
«La mamma piange di nuovo…» dice questo, e dopo riprende ad attorcigliarsi la ciocca dei miei capelli fra le dita.
Mi concedo un attimo per elaborare la frase, la analizzo, faccio congetture. Piange davvero? Se sì, perché? Le manca Saverio? La vita che aveva prima di stare qui da me? La sua casa, le sue cose? Perché piange? Ha iniziato a cercarsi un lavoro, mi ha detto che questa comunità le piace, che su quest’isola si sente serena come da tanto non le accadeva. Ha già iscritto Nicolas all’asilo, inizierà ad andarci fra due mesi, i primi di settembre. Quando siamo andati a visitare la struttura era entusiasta, sembrava felice.
Di giorno finge serenità e la notte piange. Perché? Perché mi tiene nascosti i suoi turbamenti?
Qualcosa è cambiato, tra di noi. Non siamo più i ragazzi che eravamo, quando eravamo il rifugio l’uno dell’altra e passavamo notti intere sdraiati sul prato del giardino di casa sua a guardare le stelle, a chiacchierare.
Come quella notte, la notte di S. Lorenzo, la notte in cui ce ne stavamo distesi sull’erba, il naso all’insù, aspettando di  vedere passare una stella cadente.
«A che età hai iniziato a fumare erba?»
«Tredici anni.»   
«Ti sei mai fatto di eroina?»
«No.»
«LSD?»
«Sì.»
«Ecstasy?»
«Che domande…»
«Cocaina?»
«Ovvio.»  
«Perché?»
«Perché cosa?»
«Perché a diciotto anni hai più veleni in corpo che sangue?»
«E perché no?»
«No, Nico, dico sul serio. Perché?»
«Perché? Che cazzo ne so, perché… Mi va, ecco perché!»
Lei si era immusonita ed io avevo cercato di farla ridere, facendole il solletico.
«Basta, Nico, che se si svegliano i miei si arrabbiano. E poi non mi va di ridere.»
«Perché?»
«Quella roba ti ammazzerà, prima o poi.»
Scrollai le spalle ostentando indifferenza, e intanto me la godevo dentro. Mi piaceva che si preoccupasse per me.
«La morte non mi fa paura» feci il gradasso.
«Questo perché sei un’egoista di merda. Hai pensato alle persone che resterebbero a piangerti?»
«Chi, per esempio?»
«I tuoi genitori…»
«Sai che sollievo, per quei due. Finalmente sarebbero liberi di scordarsi il giorno in cui sono nato e di perdere tempo a cercarmi un regalo da inviarmi per posta. Certo, avrebbero un motivo in più per sbranarsi, incolpandosi a vicenda della mia morte. Te li immagini? “È colpa tua, pezzo di merda, tu gli hai fatto conoscere quella vita!” “Mia? Cazzo dici! Tuo figlio si è fatto la prima canna col consenso del parroco!”» Scoppiai a ridere, e lei si alzò furiosa.
«Hai fumato prima di venire qua, stasera?» mi chiese collerica. Allora tornai serio. Mi alzai anche io e le feci una carezza. «No, lo sai che non fumo quando vengo da te.»
«Tu non dovresti farlo mai, Nico!»
«Perché?»
«Te l’ho detto perché. Fai del male a chi ti vuole bene.»
«Parli di te?»
«Anche. Sì, che cavolo, parlo di me!»
Sorrisi. «Ti incazzi se dico in giro che sei la mia ragazza, e poi mi vieni a dire che piangi se mi succede qualcosa…»
Digrignò i denti, con ferocia. «Tu non capisci proprio niente, lo sai, Nicolas?» disse, e se ne tornò a casa, lasciandomi solo e confuso.
Come stanotte. Confuso. Però da ragazzi ce le concedevamo  occasioni di confronto. Spesso le nostre discussioni finivano in litigi, ma mai e poi mai ci saremmo nascosti un malumore, ancora meno finto un’allegria che non esisteva. Soprattutto lei.
                                                                                                                                          Ho aspettato con pazienza che Nicolas si riaddormentasse e sono andato a controllare. Mi sono fermato davanti alla porta della sua camera, ma non ho sentito nulla. Sono rimasto così, immobile, concentrato, per un sacco di tempo. Stavo per tornare in camera quando ho sentito un lamento, un debole sospiro appena percettibile. Allora ho appoggiato l’orecchio alla porta e li ho sentiti bene, i singhiozzi soffocati.
È stata istantanea, la reazione. Ho provato un senso di soffocamento, lo stomaco contorcersi. Mi sono accasciato sul pavimento, ho appoggiato le spalle alla parete e ho iniziato a piangere anch’io, con la testa fra le mani.
Mi chiedo se avrà mai il coraggio di parlarmene, di dirmi perché sta così male, o se anche questo è destinato ad aggiungersi alla lunga lista delle omissioni, delle spiegazioni non date, delle cose non dette, andando a rinvigorire i tormenti che ci portiamo dentro e che ci stanno spingendo in direzioni diverse, sempre più lontani.

Saverio era come un fratello, per me. Lo amavo come se lo fosse. Qualcuno era arrivato a ipotizzare che fossimo froci, Saverio ed io, tanto era forte il legame che ci univa. Lui era il mio mondo e il mio punto di riferimento quando ero a Reggio, così come lo era Vanessa quando mi trovavo a Roma.
Era il mio opposto. Io moro, lui biondo, io alto, lui nella media, io impulsivo, lui riflessivo. Io non seguivo nessun tipo di regole, mi gettavo in situazioni estreme senza riflettere, e mai e poi mai mi ponevo limiti. Se qualcuno, per esempio, mi offriva un acido, io lo mandavo giù senza farmi domande, e ancora meno problemi. Ma Saverio no. Lui voleva sapere che era quella roba, che effetto dava, quanto durava, che controindicazioni aveva. Io mi facevo la prima canna alle sette del mattino, lui solo il pomeriggio, e nemmeno sempre. Se per strada incontravamo una rissa, lui chiamava la polizia; io, invece, intervenivo subito, menando le mani a chi dei due contendenti mi stava più sui coglioni, che era sempre quello più forte.
Io non mi interessavo al mio futuro, lui sì. Per questo smise di fumare. Diceva che ritardava le sue facoltà mentali, che gli annebbiava i pensieri, che gli distorceva la percezione delle cose.
Iniziammo ad allontanarci, a prendere strade diverse, gradualmente. Lui prese quella della retta via, io quella della perdizione. Fu uno dei motivi che mi convinsero ad andare a vivere definitivamente a Roma. Saverio usciva sempre più di rado, col tempo aveva smesso di fumare, di chiedere quali effetti dava quel particolare fungo perché tanto non lo avrebbe più ingerito. Solo le ragazze continuavano a tenerci legati, in qualche modo. Si era stabilita tra di noi una sorta di gara sul numero di ragazze che ci portavamo a letto.
Saverio piaceva molto, alle ragazze. Sapeva ascoltarle, e lo faceva davvero. Io fingevo, lui no. Eravamo diversi anche in questo. Lui cercava un motivo per scoparsi una tipa, non si fermava alle apparenze, non si accontentava dell’esteriorità. Era costantemente alla ricerca di quella giusta d’amare, e siccome non riusciva a trovarla, se ne fotteva molte. Io non mi ponevo i suoi stessi problemi. Tutto quello che cercavo in una tipa si trovava nel suo mezzo. Non ero alla continua ricerca dell’amore perché quello, paradossalmente, era un sentimento che riservavo solo per Vanessa.
Io e Saverio continuammo a sentirci regolarmente, anche dopo che mi fui trasferito a Roma. Quasi ogni giorno. Gli parlavo spesso di Vanessa. Se la rideva quando gli raccontavo di quanto mi costasse la sua amicizia, in termini di fumo sprecato nei tombini. E se la rideva quando gli raccontavo degli schiaffoni che puntualmente mi mollava quando veniva scaricata da chi, per distrazione o per imprudenza, osava bazzicarle intorno in maniera troppo intima.
«Ma perché non la lasci vivere in pace le sue storie?»
«Io sono la sua storia. Punto.»
Rideva a crepapelle, quando glielo dicevo. Mai litigato, io e lui. Mai avuto un battibecco. Eravamo l’alfa e l’omega, il bianco e il nero, la notte e il giorno, e ciò nonostante ognuno rispettava le diversità dell’altro. Questo fino a che non si mise fra me e la donna della mia vita.
La prima e ultima volta che Saverio si beccò un cazzotto in faccia da me, fu il giorno in cui Vanessa venne a dirmi che si sarebbero sposati…
 
Eravamo andati a mangiare una pizza al centro, io e lei. Me lo disse a fine cena, arrivati al caffè. Non ricordo le esatte parole che le urlai contro, e non ho memoria delle sue.
«Perché? Perché no, dimmelo! Perché almeno per stavolta non provi a fare finta di essere felice, per me? La devi smettere di fare il pazzo ogni volta che qualcuno mi mostra un po’ di attenzioni! Che cosa vuoi da me, Nicolas?»
Solo questa frase mi ricordo. Ricordo che me la urlò fuori dal ristorante, dove mi precipitai appena mi ebbe dato la notizia. Faceva un freddo bestiale e la sagoma di Castel Santangelo si stagliava nel cielo senza stelle di quel 12 novembre.
«Che cosa vuoi, da me?»
Questa frase scatenò in me una valanga di emozioni incontrollabili. Mi voltai deciso verso di lei, non le diedi il tempo di aggiungere altro. La baciai. Con risentimento. Con odio. Con disperazione. E poi con sentimento, amore, passione. Lei, ecco cosa volevo. Da sempre. Lei era l’unica cosa che avesse mai avuto davvero valore ai miei occhi. Mi staccai sgomento e non osai dirle niente altro, né lo fece lei. Eravamo entrambi scossi. Salii sulla moto e lei mi seguì costernata. La accompagnai a casa, nel nostro quartiere, a Casal Palocco. Fermai la moto ma non mi voltai. Rimanemmo a lungo così, immobili, ciascuno immerso nei propri pensieri. Ad un certo punto le chiesi se lo amava. Non mi rispose subito, e scambiai il suo silenzio per indecisione. Ma poi mi disse, con un filo di voce, che sì, l’amava. Le chiesi perché.
«Perché lui si fa amare.»
Questo mi rispose. E mi infuriai di nuovo. «E che cazzo di risposta è?»
«L’unica che ti meriti.»
Scese dalla moto, si tolse il casco e me lo porse. Il casco le apparteneva, erano anni che lo teneva lei. Me lo restituì per farmi capire che non sarebbe salita mai più in moto con me. Glielo strappai dalle mani in malo modo e feci finta di non vedere le sue lacrime. Perché cazzo piangeva? Lei teneva il coltello dalla parte del manico, lei lo aveva affondato nella mia carne, e Cristo che male faceva.
Rimisi in moto, ma non tornai a casa. Arrivai ai confini della città, al casello, e mi immisi nella A1. Guidai per cinque ore di fila, senza concedermi nemmeno una sosta per andare a pisciare. Arrivai a Reggio Emilia all’alba, e quando arrivai a casa di Saverio mi attaccai al citofono. Uno a uno si affacciarono tutti: la madre di Saverio, il padre, la sorella… Si affacciò pure il vicino di casa. Tutti tranne lui. Lui scese direttamente. Si presentò davanti a me con gli occhi bassi, visibilmente in colpa. Io mi fidavo di lui. Sapeva cosa provavo per lei. Non dissi nulla, né gli diedi modo di dirmi nulla. Del resto non ero arrivato fin lì per parlare, e lui lo sapeva benissimo. Ero il suo migliore amico, come un fratello per lui. Gli diedi un pugno, uno solo, ma con tutta la rabbia e la forza di cui ero capace, che gli slogò la mascella. Cadde a terra e non osò rialzarsi. E fece bene, perché non so come sarebbe andata a finire. Girai i tacchi e me ne andai.
Nei mesi successivi mi rifiutai di parlare con entrambi, per un po’ smisero di cercarmi. Fu quello il periodo in cui cominciai a farmi le domande sui se e sui ma, a odiare la mia dipendenza, la mia fragilità. Mi ero illuso di essere l’unico padrone della mia vita, in realtà erano le droghe a dettare legge. Più cercavo di smettere, più sentivo la rabbia e l’angoscia invadermi l’anima. Diventai violento e irascibile. Si alternarono momenti in cui il mio fisico e la mia mente riuscivano ad avere il sopravvento sugli stupefacenti e a non farne uso per giorni interi, a momenti di disperazione estrema, di arrendevolezza. In uno di questi momenti di fragilità mi feci il primo viaggio. Primo e ultimo.
Come descrivere quell’esperienza? Gli effetti che hanno le droghe sulla nostra mente sono diversi per ciascuno di noi, cambiano in base all’individuo che ne fa uso. Posso descriverla così, citando una canzone che è diventata colonna sonora di una nota serie tv, the Boardwalk Empire: Straight Up And Down. La canzone procede a ritmo regolare fino ad un certo punto, verso la fine subisce un rallentamento, arriva quasi al collasso, e poi zac, una scheggia fra gli occhi, e il ritmo accelera, prende vigore, cresce d’intensità, infine subisce un arresto, accelera di nuovo, subisce un arresto, accelera, subisce un arresto, come le ondate di calore di un lentissimo orgasmo, ma amplificate, decine di volte più intense.
Mi ritrovai sulla panchina di un parco pubblico, la mano infilata nei pantaloni che si stringeva l’uccello. Com’ero arrivato fino a lì, in un giardino pubblico a Dragona, non lo ricordo e non lo verrò mai a sapere. Quello che so è che quella fu, credo, l’esperienza più devastante che io abbia mai fatto in assoluto. Non ho mai più voluto ripeterla.
Pochi mesi prima del matrimonio, Vanessa e Saverio vennero a trovarmi a casa mia, sulla Casilina. Mi supplicarono di perdonarli, di andare al loro matrimonio, di fargli da testimone. Saverio me lo chiese, Vanessa rimase in silenzio per quasi tutto il tempo, e soprattutto non mi guardò mai negli occhi. Acconsentii, mio malgrado.
Quando si congedarono li accompagnai alla porta, ma dopo che Vanessa ebbe messo piede sulla veranda del giardino, afferrai Saverio per un braccio e lo costrinsi a tornare dentro. Lo guardai negli occhi, duramente, e gli dissi queste parole: «Non farla piangere, non tradirla, non farle del male in nessun modo, perché giuro su Dio che il giorno che lo farai sarà anche il giorno che dovrai nasconderti da me! Sono stato chiaro?»
«Non succederà.»
Questo mi rispose.  Ora lui è morto, e Vanessa piange, soffre, sta male, e… e io con chi me la prendo, adesso? Gli avevo detto che, se le avesse fatto del male, avrebbe dovuto nascondersi da me.
Bè, direi che gli sta riuscendo più che bene…

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Capitolo 4
*** L'attesa di una vita ***


CAPITOLO 3 (parte prima)
Le giornate sono piene da quando ci sono loro a riempirle. Non pensavo che stare dietro ad un bambino fosse tanto faticoso. Un dispendio enorme di energie e di tempo. E vogliamo parlare dei sacrifici? Se prima avevo le mie abitudini e i miei orari, ora non più. Se ero abituato a svegliarmi alle tre di pomeriggio, ora non più. Se alzavo lo stereo a palla fino a notte tardi, ora non più. Prima ero io a decidere cosa guardare in televisione, ora devo tenere conto della tenera coscienza di Nico, oltre al fatto che la televisione ormai è suo monopolio.
Per non parlare delle donne. Sono solo un ricordo. Sono cinque mesi che non ne tocco una. L’ultima scopata me la sono fatta tre giorni prima che piombassero a casa mia. Però non tornerei indietro per niente al mondo.
La casa è un regno d’anarchia da quando c’è lui. Fogli e pastelli colorati sono sparsi ovunque. Ogni tanto lo rimprovero, gli dico di riordinare, i colori spariscono per qualche ora, poi tornano al loro posto, in giro per casa.
Qualche giorno fa mi ero alzato mezzo rincoglionito. Non è facile conciliare il mio lavoro con le sue esigenze, ma va all’asilo ora, e Vanessa ha iniziato un lavoro part time in un ufficio, quindi tocca a me portarlo quando lei ha il turno di mattina. Sono uscito dalla camera con gli occhi cisposi, e ho messo il piede sopra un pastello ben appuntito. Ho imprecato un po’, tenendomi il piede e saltellando come un canguro, e uno della mia stazza rannicchiato su se stesso che si fa un balletto in quel modo per tutta casa non può non essere una scena esilarante. Infatti lui era lì, nella sala, sdraiato a terra con i fogli e i colori davanti, che si stava facendo un mucchio di risate. Ho avuto la tentazione di rimproverarlo e di ribadirgli che i colori dovevano restare al loro posto, e il loro posto era nell’astuccio, non seminati ovunque, ma lui si è alzato con il foglio stretto in mano e me lo ha porto, sorridendo.
«Guarda, zio, l’ho fatto per te!» mi ha detto raggiante.
Sarei insincero se affermassi che Nicolas abbia doti artistiche, ma mi sono commosso davanti a quei tre stecchi col faccione che si tenevano per mano. Gli ho scompigliato i capelli e mi sono dimenticato dei pastelli a terra. Può infilarmeli anche nel letto dopo avergli fatto per bene la punta se continua a regalarmi disegni di quel genere e se, nel darmeli, mi sorride in quel modo.
 
Mi piacciono i sorrisi e le risatine di Nicolas, e perfino i suoi capricci che, per quanto fastidiosi, denotano un certo carattere. Sono convinto che la sua determinazione, se ben indirizzata, lo aiuterà a tenersi fuori dai casini, quando sarà un uomo. E adoro i mille perché che si pone e che ci pone, a Vanessa e a me, anche se molti dei suoi interrogativi restano senza risposte.
È incredibile di quante informazioni abbia bisogno un bambino per crescere, ed è frustrante per un adulto prendere atto della sua incapacità di riempire buona parte del vuoto che c’è in lui. A volte fa delle domande a cui non so rispondere, o non so come farlo, quali parole usare, perché riesca a comprendere il senso della spiegazione. Tipo: 
«Perché il cielo è blu?»
«A causa dei gas presenti nell’atmosfera.»
«E i gas sono blu?»
«No.»
«E allora perché il cielo è blu?»
«Ora che ci penso, sì, i gas sono blu.»
«Perché le cose hanno un nome?»
«Per poterle distinguere.»
«Sì, ma perché questo si chiama bicchiere anziché scarafaggio?»
«…»
«A che servono i soldi?»
«A comprare le cose.»
«E ce li hanno tutti?»
«Più o meno.»
«Che vuol dire più o meno?»
«Qualcuno ne ha un po’ di più, qualcun altro un po’ di meno.»
«Perché?»
«…»
«Ma chi ne ha di meno può comprare lo stesso tante cose?»
«No, Nicolas, chi ne ha di meno compra meno cose.»
«E tu hai tanti soldi?»
«Abbastanza.»
«E perché io e la mamma non ne abbiamo mai?»
«…»
 Ogni giorno, insomma, trova il modo di metterci in difficoltà con i questionari più assurdi. E ora, all’improvviso, mentre siamo tutti sul divano a guardare la tele, se ne esce così:
«Perché non mi ricordo quando sono nato?»
«Nessuno può.»
«Perché?»
«Perché appena nati ci preoccupiamo solo di imparare e ricordare le informazioni che ci servono per vivere, come mangiare, bere, piangere per farci sentire… Le più importanti, insomma.»
«Mio papà è un’informazione importante?»
Vanessa si è irrigidita, e anch’io.
«Certo che lo è.»
«E allora perché non me lo ricordo?»
«Perché eri troppo piccolo…»
«Ma hai detto che le cose importanti ce le ricordiamo subito…»
«…»
Mai dire cazzate ai bambini, prima o poi lo scoprono. E se lo scoprono si sentono ingannati. E se si sentono ingannati, si alzano dal divano senza dirti niente e se ne vanno a piangere in camera loro, sotto il letto.
Vanessa sta per alzarsi, ma la precedo. Il casino l’ho fatto io, ed io sono quello che deve riparare. “Chi rompe paga e i cocci sono i suoi”, questo recita il detto.
Busso alla porta, ma com’è ovvio non mi risponde. Allora la apro piano, entro in camera in punta di piedi e inizio a guardarmi intorno. Pensavo si fosse nascosto dentro l’armadio, ma poi l’ho sentito singhiozzare sotto il letto. Mi sono seduto sul pavimento e per un po’ non ho detto nulla.
«Tuo padre non te lo ricordi perché lo hai visto troppo poco, non perché non è importante. La nostra memoria ha bisogno di essere rinfrescata di continuo e a lungo perché possa essere in grado di fissare le immagini in maniera duratura. Nemmeno io mi ricordavo di te quando sei arrivato, non perché non sei importante per me, ma perché era tanto tempo che non ti vedevo…» Silenzio. «Ci sei campione?»  
«Sì…»
«Puoi uscire da lì sotto? Io ho provato a nascondermici qualche giorno fa ma sono rimasto incastrato, perciò non posso raggiungerti lì.»
Si affaccia appena e mi guarda con gli occhi lucidi e il viso paffuto bagnato dalle lacrime. «Perché ti nascondevi?»
«Eh… tua madre voleva suonarmele con la cucchiarella.» Ride, e la sua risata mi allarga il cuore. «Cucchiarella… E che è?»
«Il cucchiaio di legno. Non sei romano, te?»
Scuote la testa. «Sono reggiano, zio, lo sai…»
«Sei come me, un po’ e un po’.»
«Perché ti voleva picchiare, la mamma?»
«Mi era scappata una parolaccia…»
Lui ride ancora più forte. Come tutti i bambini, è attratto in maniera viscerale dalle parole scurrili. È il fatto che siano proibite a renderle interessanti. Esce dal letto e si siede al mio fianco.  
«Quale avevi detto?»
Nicolas ha un modo tutto suo di aggirare gli ostacoli. Visto che la parolaccia non può dirla, cerca di spingere un adulto a farlo.   
«Se la ridico tua madre riprende la cucchiarella e te l’ho detto, non posso nascondermi in nessun luogo. Sotto il letto, poi…»
«Dentro l’armadio?»
«Niente, nemmeno lì.»
«Ci hai già provato?»
«Decine di volte.»
Nicolas guarda l’armadio, poi guarda me sospettoso. «Sì che c’entri!»
E un attimo dopo sono chiuso nell’armadio, piegato come una banana, alla mercé di questo piccolo tiranno che si sta vendicando delle lacrime che gli ho fatto versare, facendosi un mucchio di risate alle mie spalle. Spinge la porta con entrambe le mani, ma non riesce a chiuderla perché l’angusto mobile non può contenere la mia mole ingombrante. Così, grazie al cielo, dopo un po’ si arrende. Esco e lo aiuto a mettersi il pigiama, dal momento che si è fatto tardi. Mentre si lascia infilare la maglia, capisco dal suo sguardo concentrato che sta per tornare all’attacco con una delle sue domande.
«Tu te lo ricordi il mio papà?»
Avrei preferito mi chiedesse altro. Non so, tipo: perché gli elefanti hanno la proboscide? O perché la merda puzza così tanto? Non avrei saputo che rispondergli, ma perlomeno non sarei stato costretto a mentirgli. Invece vuole che gli parli del padre, e che cosa dovrei dirgli? Era suo padre, non posso ferire la sua memoria, non sarebbe giusto.
«Sì» gli rispondo laconico.
«Era alto come te?»
«No.»
«Gli volevi bene?»
«Sì.»
«Mi dici com’era, così me lo ricordo anche io?»
Lo guardo a lungo. Lui gli somiglia dannatamente. Le caratteristiche somatiche, le smorfie che fa, le espressioni facciali, perfino l’andatura. Saverio in piccolo. Così mi viene un’idea. Apro l’armadio e lo metto davanti allo specchio che è incollato sul lato interno dell’anta.
«Lui era come te. Gli somigli molto. Quando hai paura di non ricordarti più il suo viso, guarda la tua immagine riflessa in uno specchio.»
Un adulto avrebbe pianto, io stesso ho voglia di farlo in questo momento, ma lui si sorride allo specchio, soddisfatto di quella pensata geniale; mi sorride, o meglio, il suo riflesso mi sorride, si gira e mi abbraccia. E il cuore inizia a battermi forte.
Nicolas è il mio sballo senza sballo. È capace di farmi provare emozioni più forti di quelle che mi davano le droghe, di qualsiasi genere. Spero solo di non diventare schiavo di una nuova dipendenza. Non oso pensare a come mi sentirei se non lo avessi più in casa con me.
Sospiro commosso e lo porto a letto. Gli rimbocco le coperte e gli do la buonanotte. E mentre mi dirigo verso l’uscio, ringrazio il cielo che non mi abbia chiesto che persona era, suo padre. Sono ancora troppo arrabbiato con Saverio, troppo con me stesso, per riuscire a nascondere il rancore e la delusione, anche a un bambino così piccolo.
Mi giro di nuovo verso di lui, lo guardo muoversi piano sotto il piumone, lo sento sospirare e mi decido a spegnere la luce. Chiudo lentamente la porta e solo a questo punto mi accorgo di Vanessa. Se ne sta acquattata nella penombra, con le spalle appoggiate alla parete vicino alla porta. Trema, e attraverso la debole luce della tele che proviene dalla sala posso vedere le lacrime rigarle le guance. Mi fa male, cazzo, vederla piangere così. Perché piange?
«Grazie…» sussurra.
«Di cosa?»
«Di tutto.»
Deglutisco e le faccio una carezza sul viso. Le asciugo una lacrima col pollice e lei chiude gli occhi sospirando.
Ho troppa voglia di lei, ora, delle sue labbra, di stringerla. Ho voglia di lei da troppo tempo, in realtà. Mi chino per baciarla e indugio un attimo. La guardo negli occhi perché voglio essere sicuro che anche lei lo desideri. Vanessa socchiude le labbra e si lascia baciare. Dio, come desideravo questo momento. La bacio a lungo, e ancora, e ancora, il desiderio cresce, sento che esploderò se non sarò presto dentro di lei. Vanessa lo sente che sono eccitato, lo sa che la desidero, e forse è proprio per questo che si blocca, smette di baciarmi, mi afferra le mani e fa cenno di no con la testa.
«Non posso… non così…» farfuglia. Ha la voce incrinata dall’emozione, ma il tono è determinato. So che non cambierà idea, ma non capisco perché.
«Così come?»
«Così… È ancora presto.»
«Presto in che senso? Presto, dici? Cazzo, è una vita che aspetto, una vita che aspetto di averti.»
«Lo sai cosa intendo, Nico...»
«No, non lo so!» ho quasi gridato, e subito me ne pento. Nicolas potrebbe svegliarsi, ammesso che stia dormendo. Vanessa mi penetra con gli occhi ed io rabbrividisco perché ora, invece, so cosa intendeva, so cosa sta per chiedermi. Non ha segreti per me, e nonostante lotti con tutte le mie forze, so che nemmeno io riesco ad averne con lei. Ecco perché non ce la faccio a sostenere il suo sguardo e abbasso gli occhi prima che mi faccia la domanda: «Perché non c’eri al funerale? Perché sei sparito per tutto quel tempo?»
Attende a lungo, ma quando si rende conto che nemmeno stavolta avrà le risposte che cerca, mi scarta e va a chiudersi in camera.

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Capitolo 5
*** Una lite furibonda ***


CAPITOLO 3 (seconda parte)


Era già successo di trovarci ad un passo dal fare l’amore. È stato nell’anno della maturità. Avevo diciannove anni, lei sedici. Avevamo litigato di brutto, e da qualche giorno ci parlavamo appena.
Da un po’ di tempo mi ero messo in testa di fare lo spacciatore. E non come i miei compagni, che lo facevano per procurarsi l’erba. No, il mio era semplicemente un bisogno. Avevo bisogno di provare emozioni forti, adrenaliniche.
Fumavo hascisc da sette anni, e pippavo coca da cinque. La inalavo più che altro, era più efficace e più veloce che tirarla su col naso. A lungo andare, comunque, qualsiasi fosse la modalità con cui l’assumevo, l’euforia iniziale aveva ceduto il passo ad un sentimento meno piacevole. Nel mio caso, almeno, è stato così. Conosco persone che fanno uso di stupefacenti da una vita e stanno in pace con Dio e con il resto del mondo, ma io mi ero assuefatto così tanto a quelle sostanze da non provare più soddisfazione, o quasi, nell’usarle. In compenso ero sempre irritato, alternavo stati di iperattività ad altri di stanchezza fisica. E mi sentivo fortemente depresso. Così cominciai a sentire il bisogno di stimoli nuovi.
Fu Fabio Cerullo, detto Pongo, a presentarmi al tizio. Inizialmente mi venne affidato poco fumo per un rodaggio di prova. Il mercato migliore per un ragazzo che è ancora studente è la scuola, ed è anche il più sicuro. Qualche volta, nelle scuole di Reggio, capitava che le guardie facessero irruzione con i cani cinofili. Eppure, il più delle volte, i ragazzi ne erano al corrente prima delle guardie stesse. Insomma,  non servivano a niente ma per lo meno le istituzioni davano una parvenza di interesse, fingevano di esserci.
Anche a Roma ho assistito a delle retate ma non venivano fatte per prevenzione, anche perché sarebbe impensabile con tutte le scuole che ci sono. Le guardie che a Roma facevano irruzione in una scuola lo facevano solo in seguito ad una soffiata, e di soffiate non è che ce ne fossero poi molte…
Quindi, la scuola è un campo fertile, dicevo, e anche sicuro. E non devi farti pubblicità: i ragazzi te la fanno al posto tuo.
Ero seduto al mio banco durante la pausa a dividere il fumo e ad avvolgere i pezzi ricavati nella carta d’alluminio quando un mio compagno, uno di quelli che frequentavo assiduamente, che noi chiamavamo Sorcio a causa del viso a punta e degli occhialetti rotondi che gli davano l’aspetto di un ratto, mi avvisò dell’arrivo di Vanessa.
«Cazzo, quella ora ti butta tutto nel cesso» se la rise il bastardo.
Non feci in tempo a sollevare gli occhi che Vanessa mi si scagliò addosso. Sollevò il banco con rabbia, facendo cadere i tocchi di fumo a terra.
«E che cazz…» stavo per dire, ma lei mi schiaffeggiò. Diverse volte, costringendomi al muro. Si formò una piccola folla intorno a noi. Il Sorcio si precipitò a terra e iniziò a raccogliere il fumo prima dell’arrivo dei professori, e Vanessa iniziò a colpire anche lui. Io non reagivo quando le venivano questi raptus violenti, ma il Sorcio non ero io. Si alzò incazzato e sollevò il braccio su di lei.
Brutta mossa. Pessima idea. Era stato a casa e si era perso la lezione, il giorno in cui la impartii? Gli era sfuggito un particolare di quanto andavo ripetendo da oltre due anni, e cioè: giù le mani dalla mia roba? E lei era ancora roba mia, nonostante non ci fosse mai stato niente tra di noi, nemmeno un bacio. Afferrai il sorcio per la gola e lo attaccai al muro.
Un altro motivo per cui lo chiamavamo Sorcio era la sua bassa statura, mentre io avevo ormai raggiunto il mio attuale metro e novanta. Insomma, lo sollevai così in alto che quello cominciò a sbattere i piedi sul muro. Cercava con entrambe le mani di liberarsi dalla stretta al collo, che esercitavo con una mano sola. Vanessa approfittò della mia distrazione, raccolse il fumo, aprì la finestra e gettò tutto di sotto. Per fortuna, quella finestra si affacciava sul cortile interno della scuola anziché sulla strada, sennò mi sarei trovato in grossi guai. Mollai il Sorcio, mi affacciai e intimai agli studenti che si erano avvicinati al fumo di non pensarci nemmeno, di non toccare niente.
«Vammi a riprendere quella roba. E muoviti, cazzo!» ordinai al Sorcio, spronandolo con un calcio. Quello brontolò qualcosa, ma ubbidì.
«Stronzo! Pezzo di merda! Bastardo!» gridava Vanessa, e mentre mi riempiva di improperi continuava a mollarmi ceffoni sulle braccia, sul petto, sulla schiena. Le afferrai i polsi.
«Basta, finiscila! Lo sai quanto costa quella roba, per la miseria?»
«Tu avevi promesso…»
«Cosa? Ti ho promesso che non la tocco davanti a te, ma, prima di tutto, questa non è la tua aula, secondo poi non me la stavo fumando, cazzo!»
Aveva il fiato corto e le guance del colore della porpora cardinalesca. I capelli le si erano rovesciati sul viso, le coprivano gli occhi. Le spostai una ciocca con la mano e glieli scoprii.
Gli occhi di Vanessa hanno un colore indefinibile. Cambia in base all’umore. Quando è felice sono di un verde chiaro, come i prati in primavera. Quando è triste diventano scuri e profondi, come laghi di montagna. Ma quando è incazzata assumono il colore dell’oro fuso. Non so come sia possibile, ma è così.
Le sorrisi, turbato. «Dio, come sei bella. Te l’ho mai detto che quando sei incazzata mi arrapi?»
Non sembrò gradire il complimento, perché si liberò e mi beccai un altro schiaffo.
«Tu non ci arrivi proprio, non è così?» mi urlò contro. Poi singhiozzò e se ne andò via.
All’uscita da scuola l’aspettai sopra la Honda 500. Era ancora arrabbiata, perché mi passò vicino e fece finta di non vedermi.
«Vanessa, sali!» le intimai. Lei mi ignorò e le sue amiche si dileguarono, saggiamente.
«Oh, dico a te! Sali!»
Continuò a camminare senza degnarmi di uno sguardo, e questo mi fece infuriare. Scesi dalla moto e la rincorsi. Ovviamente mi beccai un altro ceffone.
«E basta, cazzo, hai rotto i coglioni co’ sti ceffoni!» dissi, cercando di tenerla stretta per le braccia.
«Mollami, Nico, non ci vengo in moto con te. Io non voglio averci niente a che fare con uno spacciatore, hai capito?»
«Ssshh, che cazzo ti urli! Non c’è bisogno di farlo sapere a tutta Roma!» la rimproverai. Continuava ad agitarsi, e io iniziavo a perdere la pazienza.
«Sali, cazzo!»
«No! Liberati di quella robaccia e ne riparliamo!»
Strinsi i denti. «Sai che ti dico? Vaffanculo, Vanni! Vaffanculo, cazzo!»
Ero fuori di me. Odiavo quel suo modo di ricattarmi, quell’aria materna che assumeva nei miei confronti. Io volevo fare come mi pareva, e non avevo certo bisogno di un’altra madre. La allontanai da me con un gesto brusco, tanto che per poco non cadde a terra. Salii in moto e me ne andai furioso.
Per tutta la settimana ci ignorammo a vicenda. Poi il sabato sera me la ritrovai in discoteca, al Monkey. Lei non veniva mai nel locale dove andavo io. A dire il vero, difficilmente metteva piede in una discoteca. Ricordo ancora il modo in cui era vestita, perché mi salì il sangue agli occhi dalla gelosia. Sopra il jeans indossava una maglia scollata che le scopriva la schiena in maniera terribilmente audace. Era con alcune amiche, e sedettero qualche tavolo più in là rispetto a dove ero seduto io con i miei amici. Furono loro, a dire il vero, a farmi notare la sua presenza.
Era chiaro che fosse venuta lì per istigarmi. Lo si capiva dal fatto che faceva di tutto per attirare la mia attenzione e farmi incazzare. Sapeva che non la perdevo di vista, pronto ad andare a spaccare il muso a chiunque le si fosse avvicinato, e quando si diresse verso un gruppo di ragazzi che conoscevo di vista, sentii il sangue pulsarmi con violenza nelle vene. Continuai a guardarla con occhi pieni di odio. Quelli quasi non ci credettero quando Vanessa gli rivolse la parola. Era uno schianto. Sempre stata bellissima, anche da bambina, quando mi divertivo ad alzarle la gonna per guardarle le mutandine, nei mesi estivi in cui andavo a stare da mio padre.
Comunque, non riuscii a sentire le sue parole. La vidi indicare con la testa la canna che uno di loro aveva in bocca. Li vidi ridere come fessi e ammiccare fra di loro. Il tipo butterato con la canna, Pietro si chiamava - e se ci si chiama ancora adesso non è una cosa che mi interessi - le passò lo spinello. Mi dissi che non lo avrebbe fatto, non avrebbe osato. Invece lo fece. Si portò lo spinello alle labbra e mi rivolse una veloce occhiata. Non ebbe il tempo di battere ciglio che ero già lì. Avevo voglia di restituirle uno dei ceffoni che si divertiva a mollarmi di tanto in tanto, ma mi contenni. Le strappai la canna dalla bocca e la gettai sul pavimento. Quelli iniziarono a protestare, ma io nemmeno li sentivo.
«Che cazzo fai?»
«Voglio provarla!»
 «Cazzo dici?»
«Voglio provarla!»
Gli amici di Pietro, tutti pischelli poco furbi, si fecero aggressivi. Uno mi mise una mano sul braccio, ma non dovetti scomodarmi. Pietro, il più grande del gruppo, l’unico a conoscermi e a sapere che non andavo tanto per il sottile quando mi prudevano le mani, spinse il moccioso amico suo lontano, chiese scusa e se li portò via tutti.
«Perché?» le chiesi quando quelli si furono allontanati.
«Voglio capire cosa si prova. Cosa ci provi tu» mi disse.
Stetti a lungo a fissarla nel tentativo di leggerle dentro, di capire le sue motivazioni. L’idea di farla fumare, di condividere qualcos’altro con lei oltre alle chiacchiere, mi stuzzicò parecchio. Ecco perché l’afferrai per un braccio e la condussi fuori, dopo essermi fatto prestare l’auto da un amico.
Sedemmo sul sedile posteriore. Mentre preparavo la canna, sentivo il suo respiro farsi sempre più pesante. Presi una Marlboro e misi il tabacco su una cartina. Scaldai un tocco di fumo, lo sbriciolai sul tabacco, li mischiai con l’indice e il pollice, a lungo. Misi il filtro a un’estremità, leccai il bordo, la rollai e infine l’accesi. Aspirai a lungo e gliela passai. In realtà non credevo che l’avrebbe fumata davvero. Mi aspettavo un altro dei suoi sganassoni, piuttosto. Credevo mi stesse mettendo alla prova, che mi avrebbe coperto d’insulti per poi scendere incazzata dalla macchina. Invece aspirò. Tossì violentemente, ed io scoppiai a ridere.
 «Dio, brucia nei polmoni. Fa schifo!» si lamentò. Fece un altro tiro, e stavolta riuscì a tenere il fumo dentro. Stava per farne un altro, quando gliela tolsi dalle dita.
«Basta così! Io non fumo l’erba del giardino di casa, come i tuoi amichetti di poco fa…» la ammonii.
«Ma se non sento niente…» disse, sogghignando. Non le risposi, mi limitai a fissarla. Il sogghigno si allargò in una risata. «Oh, cazzo…>> disse mentre continuava a ridere, ed io con lei. Volle fare un altro tiro e glielo consentii, ma quando mi chiese di farne ancora un altro, mi opposi. Vederla in quello stato confusionale mi faceva sentire in colpa. Spensi la canna e la lasciai nel posacenere.
Vanessa rideva, rideva, non la smetteva più. Diceva di stare bene, che quella merda non le aveva fatto nessun effetto, ma lo diceva lentamente, con la voce impastata. Poi mi si mise a cavalcioni e mi baciò. Mi baciò ed io glielo lasciai fare. Aveva un buon sapore, e il suo odore mi inebriava. Si agitava mentre mi baciava famelica, e sbatteva continuamente la testa sul tettino dell’auto. Avevo il cuore in gola, sentivo dolore, tanto ero eccitato. Vanessa si strofinò su di me, ed io glielo lasciai fare, eccitato e turbato. Ero turbato perché sapevo che non era in lei, che se fosse stata lucida non saremmo mai arrivati a quel punto. Poi lei si portò le mie mani sul suo seno, ed io gemetti sconvolto. Non potevo lasciare che accadesse, non così. Ciò nonostante le strinsi i seni, sodi e gonfi. Fu quando iniziò a trafficare con la cintura dei miei pantaloni che la bloccai.
«No, Vanni, basta!»
«Dai, Nico, è tutto a posto. Ti desidero da morire. Tu no?»
«Sì…» e riprese a baciarmi «...ma non così. Ferma, ti prego… basta Vanni, cazzo, FERMA CAZZO!» Dovetti urlarle contro, perché non sarei riuscito a controllarmi ancora per molto, e se lo avessi lasciato succedere non me lo sarei mai perdonato. Io volevo che mi amasse spontaneamente, che avvenisse nel più naturale e istintivo dei modi. Non volevo approfittarmi di lei, e non lo feci. Me la tolsi di dosso spingendola con dolcezza di lato, e mi coprii il viso con le mani.
Vanessa era sconvolta. «Pensavo di piacerti» alitò dispiaciuta.
Risi con amarezza. Quella era una prova che non ci stava con la testa, che non era lucida. Non l’aveva sentita l’erezione, cazzo? Sì, che la desideravo, ma l’amavo anche, e non l’avrei trattata come trattavo le altre.
«Vanessa, ti desidero da stare male. Lo sai che è così.»
«Allora che hai? Non ho più quattordici anni. Ne ho quasi diciassette…»
Mi voltai e le feci una carezza. Diventò verde e si portò una mano sulla bocca.
«Devo…» “vomitare”, pensai per lei. Immediatamente mi allungai con il corpo per aprirle lo sportello. Si piegò, e mentre il suo corpo veniva scosso dai conati, uscii dalla macchina, ci girai intorno e mi accovacciai di fianco a lei. Le misi una mano sulla fronte per aiutarla a vomitare. E mi odiai infinitamente. Mi feci schifo. Mi maledissi. Che cosa avevo pensato di fare, farla diventare come me? Quando smise di vomitare, l’abbracciai forte. Era completamente andata. Non riusciva a stare sveglia. Andai ad avvisare il mio amico che mi appropriavo della macchina, e quando gli lanciai le chiavi dell’Honda smise di protestare.
Portai Vanessa da me. Le gettai dell’acqua fredda sul viso, provai a farle mangiare qualcosa, ma niente sembrava funzionare. Allora l’accompagnai in camera mia e la lasciai dormire. Il mattino dopo si svegliò presto, l’alba era appena spuntata. Io mi ero addormentato sulla poltroncina della scrivania che era in camera.
Dormii male, certo non per la posizione scomoda. Mi venne a svegliare, scuotendomi per le spalle. Aveva il viso dimesso ma sorrideva. Le portai una mano sulla guancia, lo feci con slancio. Ero stato in pena tutta la notte ed ero terribilmente mortificato.
«Perdonami, Vanni… Sono stato un coglione a permettertelo.»
«No, Nico, l’unica cogliona qui sono io. Pensavo che non avrei provato niente. Tutti mi dicevano che due tiri non ti fanno sentire niente…»
«Che cazzate. Dipende dal soggetto, e dalla roba che si fuma… Non avrei dovuto farti fumare. Mi sono preso un bello spavento…»
Lei allargò il sorriso. «E ti sta bene. Sono contenta che ti sia preoccupato per me. Ora sai quello che provo io.»
Aprii bocca per obiettare, ma rinunciai: sapevo che aveva ragione.
«Non lo farai mai più, vero?» la implorai.
Rise di gusto. «Non ci penso proprio. Ma tu liberati di quella roba, Nico. Non riesco a convincerti a non farne uso, ma non accetterò che tu ti metta anche a spacciarla…Ti prego, dimmi che la smetterai di vendere quella porcheria.»
Lo feci. Non subito, ma lo feci. Lo feci per lei, e la mia attività di spacciatore finì sul nascere. E oggi ne sono felice: il Sorcio è a Regina Coeli, e Pongo al campo santo, come molti altri dei miei amici...

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Capitolo 6
*** Il potere dell'amore ***


CAPITOLO 4
Il mattino dopo esserci scambiati il bacio davanti alla camera di Nicolas abbiamo fatto finta di niente e abbiamo proseguito la nostra strana convivenza come se nulla fosse accaduto, anche se non è facile. Ogni volta che le sto vicino vado in defibrillazione… Lei riesce a farmi sentire un eterno adolescente.
Le giornate filano via veloci fra il lavoro, l’asilo, il judo di Nicolas e tutto il resto. Siamo sereni, sembriamo quasi una famiglia vera. L’unica difficoltà oggettiva in casa è causata dal fatto che io e Nicolas portiamo lo stesso nome. Fino a che sono io a chiamare lui e viceversa, è ok. Il problema si presenta quando a chiamarci è Vanessa.
A volte cerco di capire, dal tono di voce che usa, chi dei due cerca, ma non è facile. Lei chiama un Nicolas e accorriamo entrambi, e se la ride. Capita anche che non accorriamo affatto, allora se la ride un po’ meno. Qualche volta le grido, dalla stanza dove mi trovo: «Chi dei due?» E allora sento che sbuffa rassegnata.
Sono con lui nella sua stanza, ora. È martedì, il ristorante è chiuso, così mi sto godendo la mia serata libera in casa. Sei mesi fa l’avrei passata diversamente. A casa forse, in un letto sicuro, da solo decisamente no! Ma va bene così. L’astinenza qualche volta mi pesa, ma posso farne a meno. Comunque, siamo sul tappeto della sua camera. Lo sto aiutando a rimettere i lego in ordine dentro il contenitore di plastica trasparente quando, per allungarmi sul pavimento a recuperare alcuni pezzi sotto il letto, urto maldestramente la scatola, e quelli si spargono nuovamente sul pavimento. Mi scappa un “merda” di cuore, e un attimo dopo Vanessa grida, indignata: «Nicolas!»
Noi due ci guardiamo, impensieriti.
«Ce l’ha con me o con te?» gli chiedo a bassa voce.
Lui mi indica, serio serio.
«Hai detto merda» mi spiega, ancora più a bassa voce di quanto non avessi parlato io.
«E merda è una parolaccia?»
Lui annuisce con fare grave. Mi viene voglia di abbracciarlo, giuro, per l’espressione solenne che ha fatto.
«E non dovevo dirla?»
«No, la mamma non vuole…»
«Allora mi sa che non dovevi ripeterla nemmeno tu» gli faccio notare divertito. Lui singhiozza e si porta una mano sulla bocca, preoccupato.
«Tranquillo, non glielo dico. Però non la diciamo più, giusto?»
Annuisce energicamente. Nicolas ha un modo tutto suo di comunicare con la gestualità, sia delle mani che del capo. Lo fa in maniera vigorosa, esagerata. Da bravo romano. Proprio in quel momento Vanessa si affaccia dalla porta, e quando vede che gran casino c’è sul pavimento, ci rimprovera con gli occhi. «Ma non dovevate mettere in ordine, voi due? Chi è stato a fare questo sfacelo?» chiede con le mani sui fianchi.
Nicolas mi indica in un nanosecondo. Il vigliacco lo fa senza avere il coraggio di guardarmi.
In questi giorni stavo giusto chiedendomi che mestiere potrebbe fare da grande. L’architetto è da escludersi, il muratore che Dio ce ne scampi. L’artista, poi… Ho a malincuore dovuto ridimensionare l’entusiasmo provato davanti al disegno con i tre stecchi che si tengono per mano perché, a quanto sembra, tutte le forme esistenti in natura Nicolas le riproduce sul foglio allo stesso modo. Insomma, quelle tre figure potrebbero essere benissimo tre alberi, e quelle che ho scambiato per braccia e mani intrecciate, dei rami.
Ma sarebbe un ottimo spione. Potrebbe farne una gran carriera. Poi però si fa perdonare, aggiungendo: «Non l’ha fatto apposta. È troppo lungo lo zio, mamma… Fa cadere le cose perché ci sbatte sempre.»
Lo guardo con sentimento. Ogni giorno che passa amo questo bambino sempre di più. Non m’importa che non abbia il mio sangue, nelle sue vene. Lo amo come se fosse figlio mio, a tutti gli effetti.
«Non lo picchierai con la cucchiarella, vero?» cerca di assicurarsi poi, guardando la madre supplichevole. Vanessa se la ride sotto i baffi, ma finge un’aria indignata.
«Questa, poi… Chi ti ha raccontato della cucchiarella?»
E lo spione torna a indicarmi, più velocemente di prima, aggiungendo: «Ha detto che qualche volta lo picchi con la cucchiarella.»
Una gran carriera di sicuro. CIA, Interpol, FBI, tutti i servizi segreti se lo contenderanno, questo qui. Vanessa mi lancia uno sguardo interrogativo ed io le sorrido imbarazzato, chiaramente in colpa. Lei si avvicina e prende Nicolas fra le braccia, e ammetto di essere un po’ invidioso, in questo momento. Mai che si sbagli il Nicolas da coccolare, una volta tanto.
«Ti ho mai picchiato con la cucchiarella, a te?» gli chiede, dopo avergli stampato un bacio sul collo che lo fa ridere di gusto.
«Noo» e ride ancora, soddisfatto dei baci che la madre continua a schioccargli sul collo.
«Allora non lo hai mai picchiato?» chiede poi.
«Un’infinità di volte, ma mai con la cucchiarella.»
«Lo hai picchiato perché dice le bugie?»
«Qualche volta…»
Anche io mi alzo, impennato. «Non gli mettere ‘ste idee in testa. No che non sono un bugiardo…»
«Cucchiarella, eh?» mi interrompe lei in tono accusatorio.
«Le tue mani sono più dure del legno, quando sei in…» mi lancia un’occhiataccia appena in tempo «… arrabbiata» rettifico prontamente.
«Te lo concedo.»
Nicolas è confuso. «Allora lo hai picchiato con la cucchiarella o no?» insiste a voler sapere. Può sembrare il puntiglio di un bambino capriccioso, invece non lo è. Per lui, come per tutti i bambini, immagino, è fondamentale sapere che le persone che si prendono cura di lui non gli mentono. Perderebbe la fiducia, altrimenti.
Vanessa lo guarda e, per amor mio, gli racconta una balla: «Ora che ci penso, qualche volta l’ho usata. Ma poi si è rotta e l’ho buttata via.»
Mette Nicolas sotto le coperte e gli fa una carezza, seguita attentamente dal mio sguardo ammirato. Ho sempre saputo che sarebbe stata una gran mamma. Comincio a credere che mi abbia usato per fare pratica, negli anni in cui mi è stata vicino nonostante tutti i casini che le ho combinato e le lacrime che le ho fatto versare. Se sono un uomo migliore, lo devo a lei. Magari è per questo motivo che ha messo al figlio il mio nome, per non interrompere una pratica già avviata.
«E tu hai mai picchiato la mamma?» torna a chiedere Nico, a bruciapelo.
Rabbrividisco a questa domanda, non so il perché. Probabilmente perché intuisco essere il preludio di altre domande, che porterebbero a ricordi dolorosi. Tuttavia rido sarcastico e rispondo: «Mai. Nessuno riuscirebbe a picchiare tua madre. E poi non si picchiano le donne.»
«E gli uomini?»
Vanessa mi lancia un’occhiatina nervosa. Psicologia con i bambini: zero. Sono una frana, mi metto sempre in situazioni senza via di fuga, con lui.
«Uomini?» ripeto. Cerco di prendere tempo perché spero che Vanessa mi venga incontro e mi cacci fuori dai guai anche stavolta. Lei, però, mi fissa in silenzio, in attesa che lo faccia da solo.
«Eh! Hai mai picchiato un uomo?» insiste Nicolas.
Che cazzo gli dico, ora? “Sì, Nico, un’infinità di volte. Bastava che uno mi lanciasse un’occhiata di troppo. Peggio se l’occhiata di troppo la lanciava a tua madre. Un paio di quelli li ho mandati in ospedale. E qualche volta le randellate le ho prese io. Non spesso. Ma quando sono arrivate, sono rimasto steso per un bel po’!”
Vanessa si è seduta sul bordo del letto e continua a fissarmi in silenzio. Non sorride più, ora, e nemmeno io.
«Qualche volta è successo. Non ne vado fiero, però. A volte si fanno delle grosse stupidate da ragazzi. Alzare le mani a qualcuno è sbagliato, sempre.»
«E la mamma può?»
«La mamma lo fa con amore, per aiutare a capire un errore. Uno scapaccione dato con amore non è mai sbagliato, e non fa mai male.»
Finalmente tace. Sembra soddisfatto. Vanessa gli stampa un ultimo bacio sulla fronte e gli rimbocca le coperte. Stiamo per uscire dalla stanza, quando il piccolo tiranno infierisce: «E a te, ti hanno mai picchiato?»
Arriva diretto allo stomaco, come uno dei tanti cazzotti che mi lasciarono sull’asfalto semi incosciente, quel giorno di fine marzo di tanti anni fa. L’anno in cui mi ero cimentato nel mestiere di spacciatore.
«Sì» rispondo.
«E ti hanno fatto molto male?»
Finalmente interviene Vanessa, e mette fine a questo supplizio. «Basta, tesoro, è tardi. E non sono domande da fare, queste.»
«Perché no?»
«Allora, cosa ti ho detto? È tardi! Buonanotte, tesoro.» Gli concede un ultimo bacio e, grazie al cielo, dopo un secondo siamo fuori da lì.
Vanessa va nel salotto e spegne la tele, io la seguo in silenzio. Mi rendo conto solo ora di non averla mai ringraziata.
Lei mi ha salvato, in tutti i sensi.
La osservo mentre chiude il portatile che teneva sulle gambe solo un attimo fa, quando era accoccolata sul divano. Lo faccio mentre deposita nell’acquaio la tazza vuota della camomilla che beve ogni sera prima di andare a letto, e mentre ripiega con cura il plaid che aveva sulle ginocchia. Sa che la sto fissando, ma evita accuratamente il mio sguardo. Certi ricordi le fanno ancora male, per questo mi ignora.
«Vanessa…»
«È tardi, vado a letto.»
A volte mi chiedo come siamo arrivati al punto di allontanarci così tanto, io e lei. Siamo due perfetti estranei che fingono di conoscersi. Nei momenti in cui mi perdo in simili riflessioni, la rabbia che nutro nei confronti di Saverio e che cerco costantemente di reprimere riesplode cieca. Lui me la portò via, lo fece sposandola. E anche adesso, nonostante sia morto, è sempre a causa sua se la sto perdendo di nuovo.
Solo l’dea mi angoscia, così, spinto da questa riflessione, le prendo le mani. Tremano, e sono fredde. Lei solleva gli occhi verde-lago-di-montagna su di me.
«Grazie. Non te l’ho mai detto. Tu mi hi salvato la vita.»
Lei sorride, ma c’è solo tristezza in quel sorriso. Fa un sospiro profondo. «Sarei voluta venire a trovarti in ospedale. E anche dopo, a casa, ma ero troppo arrabbiata con te.»
«Lo so. Ed è stato questo che mi ha salvato» le confesso. Segue una pausa di riflessione. Poi lei annuisce, e se ne va in camera.


Non furono le botte in sé a convincermi a smettere l’attività di spacciatore. In realtà quello era stato il motivo per cui avevo iniziato a farlo, per la carica di adrenalina che certe situazioni per forza di cose ti danno. Smisi perché Vanessa non potevo perderla.
Non venne mai a trovarmi durante la mia convalescenza. Mai. Sapevo che quello era il suo modo di urlarmi contro il suo disappunto. Ed era implicito, in quel tacito messaggio, che se non mi fossi dato una calmata, avrei potuto dire addio alla sua amicizia per sempre.
Avevo già deciso di lasciare perdere dopo che si era sentita male a causa dello spinello che le avevo fatto fumare, e quello che successe in seguito mi spinse a farlo definitivamente.                                                                                                                                                                              Quando le mie spiccate doti imprenditoriali nel ramo dello spaccio furono accertate, fui promosso di grado e passai dal fumo alla coca e agli oppiacei. E qui la piazza cambia, perché cambiano i clienti. L’erba la vendi agli studenti, la coca agli imprenditori, ai politici, ai padri e alle madri di famiglia, agli operai e anche ai poliziotti. E vabbè, qualche volta anche agli studenti. Anche a studenti molto giovani, purtroppo.
La piazza cambia e può assumere diverse forme: la discoteca e la piscina, i bar e i giardini, i cinema, casa tua e perché no, gli autobus. Ma c’è una cosa da tenere sempre presente, una regola da non infrangere mai: non uscire dai confini prestabiliti. Devi muoverti dentro lo spazio che ti viene assegnato.
Ecco perché non fui molto prudente, quel giorno.
Lei era, e secondo me non lo è più, la donna più bella che avessi mai visto. Alta, bionda, glaciale. Ghiaccio caldo. La conobbi in una discoteca sulla Portuense, dove io e alcuni dei miei amici andammo a ballare un sabato sera. Ci recammo al locale, ciascuno con la propria moto.
Il locale era molto in, in quegli anni, frequentato da gente per bene, tutti signorini.
Lei era seduta da sola al bancone del bar, e aveva un’aria terribilmente infelice. Ce la contendemmo, i miei amici ed io. Così, come spesso facevamo quando aprivamo certe sfide idiote, decidemmo che a turno uno di noi sarebbe andato a fare il cascamorto con lei. La sfida finì sul nascere. Non ricordo chi di noi andò per primo, ma ricordo che tornò indietro dopo averci scambiato due parole contate e aver parlottato un po’ col barman, e mi disse, preoccupato: «Quella ha già deciso, ma è meglio lasciarla perdere.»
Si era rivolto a me, quindi era chiaro che il prescelto fossi io. La ragazza mi lanciò uno sguardo languido, e i lombi cominciarono a pizzicarmi.
«Perché è meglio lasciarla perdere?» chiesi al mio amico, senza staccare gli occhi dalla stangona.
«È la donna di uno che conta, da queste parti.»
Non è che non avessi afferrato il messaggio, semplicemente me ne fregai. Anzi, mi diede un incentivo in più per provarci, con lei. Ero al massimo del mio delirio di onnipotenza in quel periodo, e credevo che niente potesse essermi negato. Mi alzai deciso e la raggiunsi.
«Posso offrirti qualcosa da bere?» le chiesi.
Lei mi guardò freddamente, con sufficienza, e quasi la mandai subito a cagare per quello sguardo sfrontato.
«Ti sembro una che si accontenta di un bicchierino di vodka?» disse sprezzante.
Meditai un minuto su quella risposta del cazzo. Il barman mi fissava serioso. Decisi che potevano andare entrambi a farsi fottere. Bella lo era da togliere il fiato, ma non ero ridotto alla fame da permettere a una dell’est di insultarmi così. In fin dei conti, il taglio era verticale anche nel suo caso.
Le donne hanno un vantaggio rispetto a noi uomini: non devono preoccuparsi di misure e resistenze. Devono solo aprire le gambe. E lì, le differenze non sono così marcate come lo sono per noi maschietti. Questo, per lo meno, era ciò che pensavo in quegli anni. Schioccai la lingua stizzito, e mi alzai.
«Tu sei il figlio di Corrado» aggiunse lei prima che mi fossi dileguato. Ancora una volta, la fama di mio padre mi precedeva e mi spianava la strada.
Adesso fu il mio turno di essere sprezzante. «E allora?»
«Mi sembrava di averti già visto in qualche altro locale.»
«Com’è piccolo il mondo» continuai con la linea del sarcasmo.
«Masha mi parlò tanto di te.»
Feci finta di non ricordarmi chi era Masha, ma come avrei potuto dimenticarmi la mia prima scopata? «Non me la ricordo» risposi quindi.
Stavo per girare i tacchi, ma quella si alzò e mi chiese, in tono suadente, se la portavo a ballare. Non lo avrei fatto se non fosse stato per lo sguardo di biasimo negli occhi del cazzo di barman. Avevo perso interesse per la moldava, ma non mi sarei mai tirato indietro davanti alla prospettiva di fare incazzare qualcuno, soprattutto se era uno che contava e c’era la possibilità di venire alle mani. Le afferrai con forza un braccio e la condussi al centro della pista.
Provate a immaginare due che si strofinano in maniera sensuale al suono di una base techno in mezzo a un casino di gente che sgomita e salta. Noi ci riuscimmo.
Fu brava a riconquistarsi le mie attenzioni. Mentre mi si strusciava addosso, prese a mordicchiarmi un orecchio. Le afferrai i capelli con una mano e la baciai quasi con brutalità. L’altra mano la tenevo sulle sue chiappe.
«Vuoi sapere cosa mi ha detto di te Masha?» mi sussurrò all’orecchio.
«Cosa?» chiesi, per poi tornare a infilarle la lingua in gola.
«Che sei giovane, ma ben dotato. È vero?»
«Questo lo devi scoprire da sola.»
Si staccò ansimando. «Ce l’hai un po’ di neve?»
«Tutta quella che vuoi.»
«Portami via da qui.»
Non me lo feci ripetere due volte. Prima di andarmene, i miei amici tentarono di persuadermi dall’idea di portarmela a letto, ma non ero uno su cui facevano presa le esortazioni, altrimenti avrei da tempo dato ascolto a quelle di Vanessa, o di Saverio, le uniche due persone al mondo di cui mi interessava davvero qualcosa.
Io volevo fermarmi in albergo, ma lei mi disse che casa sua era a due passi.
Ci sniffammo un bel po’ di coca e demmo inizio ai balli. Si fece prendere in tutti i modi possibili, e anche in quelli impossibili. All’alba, quando capii che non mi si sarebbe più drizzato, mi alzai senza dirle niente e mi rivestii. Guadagnai la porta e lei mi disse, serafica: «Mi lasci un po’ di coca?»
Pensai che se la fosse meritata, non avevo mai scopato così in vita mia. Le andai vicino, tornai a baciarla e le misi fra le gambe una bustina. Stavo per rialzarmi quando mi afferrò un braccio e mi guardò in maniera terribilmente seria, quasi addolorata. «Tu lo sai a chi appartengo, vero?»
Sorrisi strafottente. «No, e non me ne frega un cazzo.» Proprio così le risposi. I nomi erano solo dettagli inutili, per me. Lei, per esempio, non l’avrei rivista mai più, a cosa mi serviva chiederle il nome? E se anche mi fossi preoccupato di sapere il nome del tipo che se la sbatteva, come avrebbe potuto cambiarmi la vita? Sapevo che era uno che contava, mi bastava quello. Questo almeno era quello che pensavo prima che me le suonassero di santa ragione. I nomi, inutili dettagli. Bè, ora lo so, avrei dovuto prestare più attenzione a certi dettagli. Se, per esempio, mi fossi interessato di sapere che il tipo della tipa era Francesco Marola, detto Chesco, quello che controllava buona parte della zona sud di Roma, per intenderci, magari la troia me la sarei fatta lo stesso ma col cavolo che le avrei lasciato quella bustina. Eh sì, perché il caro Chesco, più che per una questione di corna, mi spezzò una gamba perché avevo avuto la faccia tosta di entrare nel suo quartiere con la mia roba.
Mi prelevarono all’Artica, un chioschetto a Ostia, tre giorni dopo, mentre salivo sulla moto per tornarmene a casa. Tre brutti ceffi in una Fiat Uno di merda. Mi condussero sulla Cristoforo dove il Chesco mi attendeva, acquattato in mezzo alla pineta.
«Allora, pivello, te la sei goduta la troia?» mi disse dopo avermi fatto pestare a modo, ma prima di farmi spezzare la gamba.
«Una donna di gran classe» ebbi l’ardire di rispondere. Chesco mi guardò con ferocia, e mi colpì anche più forte. Due denti saltarono via.
«Hai fegato, coglione. Non ti faccio fuori solo per rispetto di tuo padre, che invece sa come si conducono gli affari e sa stare al posto suo. Ma la prossima volta che vieni dalle mie parti e ti metti a distribuire caramelle a tutti, sei un cazzone morto. Hai capito, coglione? E prima di farti la donna degli altri, prova a pensare che effetto ti farebbe se io mi venissi a scopare la tua.»
Sorrisi come un idiota. «Non ce l’ho, la ragazza» asserii.
«Strano, mi avevano detto di sì. Veronica… Marina…»
«Vanessa» gli suggerì uno dei suoi ceffi.
«Vanessa… Lei. Dicono che sia un bocconcino niente male. Che dici, me la vado a trombare la tua non-ragazza?»
«Noo! Ti prego, no…»
«Ti prego? Ah, ma allora le conosci le buone maniere, eh coglione? Allora, la tua roba te la tieni a casa tua, da oggi in poi. Siamo intesi?»
«Tanto avevo già deciso di licenziarmi…»
«Ottima decisione. Uno che vuole mettersi in affari in questo campo deve essere orfano di madri, padri e fidanzatine, vere o presunte. I sentimentalismi non sono ammessi in questo business. Prendi me, per esempio. Mi hai fottuto la donna, ma mica ne faccio una questione di stato. A me basta che tieni lontano la tua roba dalla mia piazza. Il pisello invece puoi infilarlo dove credi. Anzi, sai che facciamo? Ora te la lascio qui a farti compagnia, la vacca, così puoi trombartela ancora, se ci riesci…»
Fece cenno a uno dei suoi energumeni e quello andò dritto alla BMW, aprì lo sportello, afferrò la moldava per i capelli e me la gettò addosso.
«Mi dispiace, non ha più denti, non so se è più in grado di fartelo un pompino.»
Un altro cenno, e mi spezzarono una gamba. Una sola, grazie al cielo, ma che dolore fottuto! Il dolore associato al rumore, questo è quello che si è impresso nella mia mente e mi costringe a non dimenticare mai quel momento. Il rumore secco dell’osso che va in frantumi… Mi si accappona la pelle ancora adesso, se ci penso. Urlai a lungo, poi svenni.
Per fortuna ci lasciarono sul ciglio della strada, sennò chissà come sarebbe finita. Qualcuno dal rientro da Torvaianica si accorse di noi. Chiamarono un’ambulanza, dove mi caricarono in stato di semi incoscienza.
All’ospedale mi riscontrarono fratture multiple alle costole, oltre a quella scomposta del ginocchio, ematomi ed escoriazioni varie e due denti saltati. Ovviamente non sporsi denuncia, e la moldava fece lo stesso. Lei era senza documenti e, si scoprì in seguito, anche senza permesso di soggiorno. Non mi interessai più a lei, non so che fine abbia fatto.
Restai in ospedale tre settimane. Vanessa non venne mai a trovarmi.
Lo fece Saverio, e ovviamente si infuriò come una iena quando vide in che stato ero. Lui urlava, io me la ridevo.
Urlavano tutti, in quei giorni. I medici in ospedale che mi davano dello scriteriato per aver ridotto così il mio corpo, i carabinieri che mi facevano pressioni per convincermi a sporgere denuncia, il mio migliore amico che mi rimproverava di essere stato un folle egoista, i miei vecchi che si insultavano, scaricandosi a vicenda le colpe del loro insuccesso in qualità di genitori. Perfino i professori vennero a trovarmi per urlare la loro indignazione, biasimandomi per le assenze che ero costretto a fare proprio nell’anno della maturità, a causa del mio sconsiderato modo di vivere.
Tutti volevano dire la loro, e a modo loro. Mi facevano venire il voltastomaco, con tutte quelle affettazioni. Fingevano di interessarsi al mio futuro, alla mia persona. Ma dov’erano, loro, quando la loro presenza avrebbe potuto fare la differenza? I ragazzi tagliano la roba in classe, la dividono in porzioni, se la custodiscono tranquillamente negli armadietti. La spacciano nei corridoi, nei bagni e davanti all’entrata delle scuole. E cazzo, non sto parlando di scuole americane! La cocaina la vendono al chirurgo e la regalano alla guardia per avere qualche favore in cambio. Tornano a casa imballati di soldi, cellulari nuovi, scarpe di marca, occhiali firmati. Ma nessuno fa loro domande, nessuno se ne pone. Tutto viene svolto alla luce del giorno, eppure nessuno si accorge di niente. Dove sono le istituzioni, quando c’è bisogno di loro? Insegnanti, medici, forze dell’ordine, genitori… Mi facevano tutti una gran pena. Pena e disgusto. Pena, disgusto e rabbia. Ed ero arrabbiato con Vanessa, l’unica che avrei voluto avere vicino in quel momento. Mi aveva avvisato. Me lo aveva detto. Mi aveva ammonito: “Cambia, o ti giochi la nostra amicizia”! Lei era l’unica che si interessava davvero a me. E il fatto che si teneva a distanza dimostrava che non lo faceva solo a parole, ma anche con i fatti.
Saverio restò un paio di giorni, poi dovette tornare a casa. Mia madre si fermò pochi giorni in più. Lei e mio padre, straordinariamente d’accordo, decisero che dovevo allontanarmi da Roma, una città che, secondo mia madre, cresceva solo delinquenti e spacciatori. Stabilirono di mandarmi in Inghilterra una volta presa la maturità, a laurearmi in qualche università britannica. E quando mia madre si tolse dalle palle, mio padre fu finalmente libero di dare sfogo alla sua collera.
«Di’, porco cazzo, ti sei rincretinito? Lo sai o no che quelli vanno in giro armati? Lo sai o no che potevano dare fuoco alla discoteca? O a uno dei ristoranti? Perché cazzo credi che ogni tanto va a fuoco un locale? E le macchine, quelle che incendiano per tutta Roma? Che cazzo pensavi fosse, un nuovo sport? Fammene un’altra così, pezzo di imbecille, e in casa mia non metti più piede! Mi sono spiegato, porco cazzo?»
Questo mi disse come discorso di benvenuto il giorno in cui uscii dall’ospedale e tornai a casa.
Non era preoccupato per me, ma per le sue stramaledette proprietà. E in cuor mio determinai di mandarlo presto a cagare, lui e tutti i suoi possedimenti. Mi dissi che mi sarei preso il tempo che mi serviva per rimettermi in sesto e per diplomarmi. Di andare in Inghilterra non ci pensavo proprio. Non sarei rimasto nemmeno a Roma, e comunque non avevo voglia di pensare al mio futuro nell’immediato. In quel momento avevo una faccenda più urgente a cui pensare, ed era Vanessa.
Uscito dall’ospedale, rimasi ancora diverso tempo convalescente a casa, prima di tornare a scuola. Non venne a trovarmi mai, nemmeno in quel periodo.
Al Giovanelli, il mio regno indiscusso, tutti mi trattarono quasi da eroe quando tornai a scuola. A furia di raccontarla a modo loro e di infarcire la verità con assolute cazzate, i ragazzi avevano distorto i fatti e si era venuta a creare una sorta di leggenda metropolitana.
All’entrata fui presto circondato da una moltitudine di studenti smaniosi di sentir narrare dall’eroe in persona tutta la vicenda. Volevano sapere cosa si provava a tenere testa a uno dei capi indiscussi di Roma. Volevano che descrivessi il dolore che avevo provato nel momento in cui mi era stata spezzata la gamba. Mi chiesero informazioni sulla ragazza che avevo cercato di salvare dalle grinfie dei papponi. Se era vero che ora me la tenevo a casa, per proteggerla. Mi rivolsero un concentrato di domande assurde e infantili che mi diedero il voltastomaco, un po’ come quelle a cui fui sottoposto dai giornalisti del cazzo, in ospedale. Urlai a tutti loro di togliersi dalle palle, e quando mi lasciarono respirare e la folla si diradò, potei finalmente vedere Vanessa. Ero furioso con lei per avermi ignorato in quel modo, e mi limitai a guardarla in cagnesco.
Mi ero aspettato una delle sue reazioni spropositate. Mi ero illuso che nel trovarmi di fronte, con ancora addosso i segni delle botte e claudicante, sarebbe rinsavita, si sarebbe gettata su di me come un treno in corsa e mi avrebbe mollato uno dei suoi ceffoni. Non lo fece, e mi procurò più dolore questo che tutto il resto, botte comprese.
Cercai di convincermi che si sarebbe presentata durante la pausa nella mia classe, ma non avvenne. Così mi decisi. Andai io da lei. Iniziai a correre giù per le scale fino al secondo piano dell’edificio, dove si trovavano le terze. Attraversai il corridoio con l’andatura veloce e zoppicante. Tenevo i pugni stretti e le mascelle serrate, e avevo il cuore che mi batteva a mille. E più procedevo, più la collera aumentava.
Entrai come una furia in classe, ma mi bloccai sulla porta. L’aula era semideserta, tutti erano in giro a oziare. Ma non lei. Lei era seduta al suo posto con la testa nascosta tra le braccia conserte. Singhiozzava, e nel vederla in quello stato tutta la mia rabbia evaporò, si dissolse nell’aria. Barbara, la sua amica più intima, mi venne incontro dal fondo del corridoio, belligerante.
«Sei contento? Piange tutti i giorni a causa tua!» mi disse. Non aspettò risposta. Entrò in classe mentre la campana suonava la ripresa delle lezioni. Vanessa sollevò il viso, si asciugò gli occhi, la sua amica le disse qualcosa all’orecchio e lei mi guardò. Ed io mi odiai per averle fatto del male.
«L’hai sentita la campanella, Costantini? Torna nella tua classe!» mi ordinò la professoressa Bianchini, quella di italiano che si atteggiava a carruba. Sarei voluto entrare, inginocchiarmi ai piedi di Vanessa e chiederle perdono. Avrei voluto gridarle il mio amore, riempirla di promesse, giurarle che avrei smesso di cazzeggiare, che sarei cambiato, diventato un altro, il ragazzo che desiderava fossi. Avrei voluto farlo, ora so che avrei dovuto. Ma non volevo ingannarla. Lei meritava un ragazzo migliore, uno che lo era naturalmente, senza costrizioni. Perché sottoporsi a un cambiamento coatto non significava essere, di fatto, una persona diversa, ma solo fingere di esserlo. Ed io non volevo fingere con lei.
Mi voltai addolorato e me ne andai.

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Capitolo 7
*** Mare in tempesta (prima parte) ***


«Tu sei il fratello della mamma?»                   
Nicolas se ne esce così ogni volta, con delle domande improvvise.
Lo guardo dallo specchietto retrovisore. Si stropiccia un occhio a lungo, segno che ha sonno. O che è stanco.
Va volentieri a judo, ed è anche molto bravo. Saverio lo praticava. Lo ha fatto fino al giorno in cui si è sposato. Era cintura nera, ed era orgoglioso dei trofei con cui aveva riempito le mensole della sua camera. Nicolas ce l’ha nel sangue, l’attitudine alle arti marziali l’ha ereditata dal padre.
Nella hall della palestra hanno installato uno schermo sul quale è possibile seguire gli allenamenti dei bambini.
Prima delle feste di Natale, i genitori si accalcavano alla vetrata per ammirare i propri figli, e questo distraeva i piccoli atleti. Ora alla vetrata hanno messo una tenda, i bambini possono rimanere concentrati e nonni e genitori godersi lo spettacolo comodamente seduti. Spettacolo, è il termine azzeccato. Per me è stato uno spettacolo stasera vedere Nicolas, che arriva al metro per uno sputo ed è appena cintura bianca-gialla, atterrare uno più grande e più alto di lui, che se ne va in giro gongolando con la sua bella cinturina gialla-tinta-unita.
È agile e forte, molto per la sua età. Però lo sfianca parecchio. Pratica judo tre volte a settimana, e quelli sono i giorni in cui crolla dal sonno subito dopo cena. Spero anche prima oggi, se mai dovessi trovarmi in difficoltà, visto che sta ricominciando con le domande.
«No, Nicolas, io e la mamma siamo solo amici» rispondo con qualche perplessità.
«Allora sei il fratello di papà» insiste lui.
«Non nel vero senso della parola. Io e tuo padre siamo cresciuti insieme e gli volevo bene come a un fratello, ma non lo era veramente.»
Nico si prende una pausa, ma ormai lo conosco e so che è una finta tregua. Infatti, dopo un po’ torna all’attacco.
«Allora perché devo chiamarti zio?»
Adesso la pausa me la prendo io. Che gli devo rispondere? Devo ricordarmi di chiedere a Vanessa il manuale con le istruzioni per l’uso, perché non riesco mai a cavarmela con lui.
«Per formalità…» mi ritrovo a dirgli, ma la risposta che gli ho dato confonde perfino me.
«Ma ti devo chiamare per forza zio?»
«No, se non vuoi.»
«Io non voglio chiamarti zio…»
«Va bene. Allora chiamami solo Nicolas.»
Gli do un'altra sbirciatina, tanto per assicurarmi che la tempesta sia passata. Sta sbadigliando, ed io traggo un sospiro di sollievo.
Oggi, in strada, c’è un traffico della madonna. Sono le sette e ho fretta di arrivare a casa. È tutto il giorno che corro fra asilo, ristorante, rifornitori, colloqui per il nuovo dj da assumere al posto di quello che ho licenziato sabato scorso, judo e tutto il resto. Voglio arrivare a casa e farmi una doccia, mangiare e infilarmi a letto.
Ho già avvisato al locale che stasera dovranno fare a meno di me. Ho bisogno di riposo. Nicolas assorbe una quantità enorme di energie.
Vanessa ha iniziato a lavorare in ufficio a tempo pieno. Lavora al commerciale di un’azienda che progetta e costruisce macchinari per l’imbottigliamento di flaconi in plastica. Non la entusiasma particolarmente ma, orgogliosa com’è, non mi concederebbe mai di mantenerli, anche se sa perfettamente che i soldi non sono un problema per me. Il locale che ho comprato, che è una sorta di disco dinner, lo gestisco solo per non morire affogato dalla noia, perché, con i soldi che mi ha lasciato il bastardo, potrei tranquillamente vivere di rendita. Insomma, lei è impegnata tutto il giorno in ufficio, ora, ed io mi ritrovo a fare da papà, zio, nonno, e anche mamma.
«Vuoi bene alla mia mamma?»
Zac!, la domanda è a bruciapelo. Ora so di non avere scampo. Il gioco andrà facendosi sempre più duro, e sebbene sbadigli ormai continuamente, non si addormenterà prima di avermi sconfitto.
«Certo che le voglio bene.»
«E ti piace?»
«Sì, certo.»
«Tu e la mamma vi sposerete?»
Resto impietrito. «Perché dovremmo farlo?»
«Così posso chiamarti papà…»
Ora ho voglia di piangere, e una lacrima in effetti si affaccia sul bulbo oculare. Vorrei accostare, scendere, salire dietro, sedermi al suo fianco e abbracciarlo forte. Vorrei dirgli che può chiamarmi papà anche se io e sua madre non siamo sposati. Sarebbe così bello se mi chiamasse papà… Ancora meglio se Vanessa mi sposasse. Ma non è il caso di farsi prendere dai facili entusiasmi. Non credo che a Vanessa farebbe piacere se dessi a suo figlio il permesso di chiamarmi papà.
«Campione, non è così semplice…» gli rispondo invece con un magone del cazzo.
«Perché no?»
«Due persone devono sposarsi per amore, non per convenienza…»
«Ma tu hai detto che vuoi bene alla mamma.»
«Gliene voglio…»
«E non la vorresti sposare?»
Il semaforo è rosso, e io ringrazio il cielo che sia così. Non sono più concentrato, non sulla strada ormai. Ogni giorno con Nicolas è come affrontare un nuovo esame senza essere preparati. Sposerei Vanessa stasera stessa, se potessi. Avrei dovuto farlo al posto di Saverio. Lei sarebbe dovuta essere mia moglie, era destinata a me. Lo so io come lo sa lei. Ma quell’occasione l’ho persa, e non sembra volersi ripresentare nell’immediato. O meglio, non è l’occasione a non ripresentarsi. Le circostanze sono cambiate. Sono cambiate, e io non posso farci nulla, non al momento.
Una ragazza dentro una Punto dietro di noi ha iniziato a strombettare. Sembra incazzata. Il semaforo è verde e non ci resterà ancora a lungo. Ingrano la marcia e riparto. Casa mia è a pochi isolati, in fondo ad un viale alberato.
«Forse è lei che non sposerebbe me, Nicolas» gli dico con un filo di voce, parcheggiando.
«Chiediglielo. Magari, invece, ti vuole.»
Sospiro e scendo dalla macchina, apro lo sportello posteriore e inizio a trafficare con la cintura del seggiolino. «Campione, io non penso che…» inizio a dirgli.
«Vuoi che lo faccia io? Mamma mi dice sempre di sì quando le chiedo le cose con gentilezza…» questo mi sta dicendo, mentre lo prendo in braccio e lo metto sul marciapiede. Afferro lo zainetto e, nel frattempo, cerco di pensare in fretta al modo di togliermi dall’impiccio in cui mi ha messo per l’ennesima volta.
«Non è esattamente come chiedere un gelato, Nico!» rispondo. Ho usato un tono stizzito che ha sorpreso anche me. Vorrei solo convincerlo a demordere, una volta tanto. Ma lui mette il broncio e resta immobile, a fissarmi.
«Non mi vuoi?» bisbiglia, e ha le lacrime agli occhi mentre dice questa colossale cazzata. Non lo voglio? Cazzo, lo voglio eccome. Di più, vorrei che fosse mio figlio. Avrei voluto essere suo padre, quello biologico. Ma non lo sono, e ciò nonostante vorrei che mi chiamasse papà lo stesso. Cazzo, se lo vorrei. Me lo merito, no? In fondo è per lui se ho dato una svolta decisiva alla mia vita. Lo amo con la stessa profondità con la quale amo Vanessa.
No, non è vero: lo amo anche di più.
Mi accovaccio ai suoi piedi. «Che vuol dire, campione?»
«Non vuoi essere mio padre, per questo non vuoi sposare la mamma?»
Gli stringo con dolcezza una spalla. «Come puoi pensare una cosa del genere? Lo sai che non è vero.»
«Però non glielo chiederai!» esclama con rancore. Si toglie di dosso la mia mano con rabbia e inizia a correre su per i bassi e larghi gradoni che portano all’uscio di casa, dove Vanessa si era affacciata sorridendo e ha continuato a seguire la scena preoccupata. Nicolas corre dentro, ignorandola. Lei mi guarda con gli occhi spalancati, confusa, e quando le sono dinanzi mi chiede cosa è successo. Ma non mi va di parlargliene ora. In questo momento voglio solo farmi una fottuta doccia, mangiare qualcosa e spegnere il cervello. Non ho energie sufficienti per affrontare altro, adesso. Perciò scuoto la testa e le dico che ne parleremo. Più tardi, però.

 Dalla vetrata del salotto che porta in terrazza si scorge il mare. C’è bufera stanotte. Il vento ha iniziato a soffiare forte poco prima che ci mettessimo a tavola per la cena, che abbiamo consumato solo io e Vanessa, dal momento che Nicolas si è addormentato subito dopo il nostro rientro.
Il mare è in burrasca. I vetri sono doppi, eppure lo sento ringhiare furioso mentre dal vento viene sbattuto con forza sugli scogli e sulla battigia. Il cielo è incredibilmente limpido, di un nero liquirizia, e la debole luce di una quasi luna piena si aggiunge a quella fioca delle stelle che sfavillano su quel telo corvino.
Le onde spumeggiano e scintillano alla luce lunare.
Adoro le giornate di bufera. Se non fosse febbraio e non facesse così freddo, ora me ne starei in terrazza sul lettino di bambù e mi godrei lo spettacolo da lì. Ma ci sono due gradi sotto lo zero stanotte, e mi dovrò accontentare di farlo dal salotto.
D’inverno, i lettini che sono fuori li metto al riparo dentro casa, così ora mi trovo semisdraiato davanti alla vetrata con una tazza di tè caldo sulle gambe, assorto nei miei pensieri.
Vanessa ha finito da poco di trafficare in cucina. Lo sa che non c’è bisogno che si metta a riempire la lavastoviglie, che domani ci penserà la donna delle pulizie a riordinare, ma è più forte di lei. Ripete continuamente che il disordine è il primo dei mali. Dal disordine nasce il caos, e dove c’è caos c’è anarchia. E anarchia significa assenza di regole. Nicolas, dice, ha bisogno di essere guidato da sani principi e ragionevoli regole, perciò deve imparare a essere ordinato, e lei deve dargli l’esempio.
Qualche volta vorrei ricordarle che mia madre è come lei, tutta regole e cazzate varie, eppure non hanno fatto di me una persona migliore, ma ci rinuncio. Tanto mi risponderebbe che io sono un caso a parte, l’eccezione che conferma la regola.
Quando finisce di lucidare a specchio i fornelli, si prende il lettino e viene a sedersi al mio fianco, lei con la sua tazza di camomilla.
«Dio, che vista. Mette i brividi!» dice, ed io sorrido.
Siamo così uguali e così diversi, io e lei. Lei è un fuoco che ha paura di far divampare. Cerca costantemente di tenere la sua passionalità sotto controllo, a parte quando è incazzata con me e mi prende a ceffoni. Io, invece, ho bisogno di esternarla, l’adrenalina che ho nel corpo. E siccome sono fatto così, energia allo stato puro, adoro tutto ciò che è in movimento, che si lascia andare, senza remore. Del resto è grazie alla mia indole che non ho fatto uso di eroina da ragazzo, a parte quell’unica volta in cui mi ritrovai in un parco pubblico con la mano sull’uccello. L’eroina, a differenza della cocaina, rallenta i battiti cardiaci, a volte portando il cuore al collasso. E invece, a me, il cuore piace sentirlo pompare forte. Più va forte, più mi sento vivo e felice.
La musica riesce a darmi questa euforia. Ecco perché ho scelto di aprire una discoteca, nonostante non sia facile da gestire nel modo che voglio io. Non è facile perché in un club i ragazzi vengono a ballare ma soprattutto a stringere nuove amicizie. Giocano a fare i ribelli e gli anticonformisti, ma poi hanno bisogno di sentirsi sulla stessa lunghezza d’onda, di sentirsi parte integrante di una società, la loro, in cui rifugiarsi e riconoscersi. Perciò, se è di moda portare occhialoni tipo mosca, allora bisogna adeguarsi, anche se sul proprio viso fanno cagare. Se la moda dice che sei trendy solo con i jeans a tubo che fasciano i muscoli delle gambe in maniera così stretta da non consentire più al sangue di circolare, bisogna adeguarsi. E se la moda dice che il sabato sera si deve andare a ballare, ma che per farlo come si deve ti devi rincoglionire di ecstasy, anche se qualcuno ci finisce in coma o rischia di passare parte della serata piegato sulla tazza del cesso a vomitare, allora ti devi adeguare. Per questo molti ragazzi snobbano il mio locale.
Ma, considerato che i soldi non mi mancano e non mi sono lasciato solleticare le orecchie da chi mi dava del pazzo e mi incoraggiava a cambiare politica e lasciare che i clienti del mio locale sniffassero coca nei bagni o mandassero giù caramelline colorate, pian piano mi sono creato una clientela esclusiva.
Chi viene nel mio locale sa che la musica è in grado di pompare nel sangue la stessa adrenalina che i più deboli cercano nelle droghe. Vengono perché amano la musica e ballare, niente di più. Quando hanno bisogno di fare esperienze di altro genere, vanno a fare una capatina in qualche altro posto, ma quando vogliono divertirsi e desiderano farlo in maniera consapevole, è nel mio night che tornano, perché da me si sentono a casa, nel loro ambiente, circondati da persone che viaggiano sulla loro lunghezza d’onda e non su quella della maggioranza.
Qualche volta, però, può capitare che i miei collaboratori, coloro ai quali in pratica ho affidato la gestione del locale, vogliano fare di testa loro. Ecco perché sono stato costretto a licenziare il dj, sabato scorso, dopo che uno dei buttafuori ha dovuto soccorrere nei bagni una minorenne in stato confusionale, semisvenuta e seminuda. Quando mi ha messo al corrente mi sono incazzato come una belva. Ancora di più quando ho chiesto alla ragazza cosa avesse preso e chi glielo avesse dato. E il dj è finito disoccupato.
Vanessa si sistema il plaid sulle gambe, come una vecchietta. Una splendida, sensuale vecchietta di ventotto anni.
«Allora, com’è andato il colloquio con il tizio che verrà a fare baccano nel tuo locale?» mi chiede.
Sospiro. «È andata… Vedremo…»
Mi guarda perplessa e aggiungo una spiegazione breve quanto eloquente: «Non riuscivo a trovargli le pupille...»
«Ah… capito. Troppa luce?»
Ridiamo. Poi passa a chiedermi quello che più le sta a cuore. «Cosa è successo oggi tra te e il tuo omonimo?»
Speravo di poter passare il resto della serata a parlare di mare in tempesta e dj cannati, ma stavolta non posso evitare il discorso. E poi, in realtà, non voglio farlo. Mi brucia questo argomento, devo tirarlo fuori. Lo tirerò fuori, poi vada come deve andare.
«Nicolas mi ha chiesto se è obbligato a chiamarmi zio.»
Silenzio.
«E si è arrabbiato per questo?»
La guardo a lungo, intensamente. Dio, com’è bella con i capelli raccolti. Li ha attorcigliati e fermati dietro la testa con una matita appuntita. Le matite appuntite, in casa, non mancano di sicuro da un po’ di tempo. Gli occhi hanno ancora una tonalità verde chiara, segno che è tranquilla, al momento. Sospiro, e appoggio i piedi sul pavimento.
«Vuole chiamarmi papà. Pensa che se ti chiederò di sposarti… Vuole che ti chieda di sposarmi per potermi chiamare papà.»
Vanessa incassa il colpo. La vedo allargare la bocca, gli occhi cambiare colore, divenire più scuri. Annaspa in cerca di aria.
«E tu cosa gli hai risposto?»
«Cosa avrei dovuto rispondergli? Che non è così semplice.»
<> balbetta in preda all’agitazione.
Mi faccio di granito. Appoggio la tazza sul pavimento e incalzo, appena un pelino stizzito, ma con l’incazzatura in crescendo.
«Magari però non passa a me!» dico.
Lei increspa le sopracciglia. «E questo che vorrebbe dire?»
«Che a me non dispiacerebbe se mi chiamasse papà.»
Vanessa sbuffa incredula. «Oh, andiamo, è ridicolo!»
L’incazzatura ora è ai livelli di allarme. Ancora contenuta, ma sulla buona strada per straripare di brutto.
«Ridicolo? Trovi ridicolo che io possa amare tuo figlio al punto di desiderare crescerlo come se fosse il mio? O trovi ridicolo che Nicolas abbia bisogno di un padre e che riesca a vederlo in me? Che cos’è esattamente che trovi ridicolo, Vanni?»
Anche lei si è messa a sedere. Il plaid le è scivolato via dalle gambe, le sue ginocchia sfiorano le mie. Gli occhi cambiano ancora colore, si chiarificano, assumono il colore del miele.
«La gente ha già iniziato a parlare di noi, lo sai questo?» e qui non la lascio nemmeno finire. Balzo in piedi fuori di me, e lei mi segue di riflesso. Per un po’ parliamo nello stesso tempo, la mia voce si sovrappone alla sua e viceversa.
«La gente? Quale gente? Non me ne frega un cazzo della gente!»
«La gente, sì. Se questa è la comunità in cui voglio far crescere mio figlio, allora ho bisogno di essere credibile agli occhi di questa gente...»
«Cristo, ti senti quando parli? La gente ama farsi i cazzi degli altri, e puoi stare sicura che se non è per questo, troverà altro su cui spettegolare. Ammesso che ci sia qualcosa di cui spettegolare.»
«Infatti per il momento li ignoro, ma prova a essere obiettivo e a vedere la nostra situazione dal di fuori. Pensa se, dopo averti chiamato zio per un anno, cominciasse a chiamarti papà. Che dovrei raccontare alle maestre? Sapete, anche se può sembrarvi strano, con quell’uomo ci convivo ma siamo solo ottimi amici. La nostra è un’amicizia fuori dal comune, per questo ora abbiamo deciso, di comune accordo, che può chiamarlo papà…» e mentre è lì che si porta avanti da sola tutte le sue seghe mentali a cui ho smesso di prestare attenzione, glielo chiedo: «Sposami!»
Lei tace di colpo. Indietreggia un po’ e trattiene il respiro, come se l’avessi schiaffeggiata.
«Ti rendi conto… di quello che mi stai chiedendo? Vorresti che io ti sposassi solo per… ufficializzare una convivenza ed essere libero… di farti chiamare papà?» dice singhiozzando, sconvolta.
«No, Vanni, voglio che mi sposi perché ti amo, perché avrei dovuto chiedertelo anni fa, perché ti ho già perso una volta e non permetterò che accada di nuovo. Sposami perché voglio prendermi cura di voi. Sposami, perché anche tu mi ami…»
Le vado vicino e provo a prenderle un braccio, ma lei si scosta, evitando di guardarmi. Scuote il capo, incredula, e si volta verso la vetrata. Io le resto dietro, con il cuore che mi scoppia nel petto e il fiato corto, come se avessi corso per ore. Poi lei si gira di nuovo verso di me.
«Tutti quegli anni ad aspettare che tu mi dicessi che mi amavi… Ma in fondo lo so perché non lo hai mai fatto. Sapevi che non avrei mai accettato di essere la tua ragazza se tu non avessi smesso di farti tutta quella robaccia. Del resto tra di noi andava bene anche così. Funzionava perché non mentivi, non fingevi di essere diverso, non m’illudevi facendomi promesse che non potevi mantenere. E poi non te ne curavi nemmeno… Ti ricordi quella volta che feci irruzione in casa di tuo padre e ti trovai a letto con quella troia caffellatte?»
«Oh, per la miseria, Vanni, non sono più quello di una volta! Vedi donne nel mio letto? O mi hai più visto fatto?»
«Il punto è, Nicolas, che una volta sapevo chi eri. Non mi nascondevi mai nulla, non ti nascondevi. Eri sincero, anche se questo significava farmi del male, o farne a te stesso. Nonostante tutto, nonostante gli eccessi, la droga, tutte quelle donnacce che ti portavi a letto, mi fidavo di te perché sapevo chi eri. Ma adesso… chi sei adesso, Nicolas?»
I suoi occhi si sono riempiti di lacrime, ed io reprimo il forte impulso di abbracciarla. Non me lo permetterebbe mai, ora.
«Sono l’uomo che ti ama sopra ogni dire. L’ho sempre fatto. Aspettavo solo di essermi liberato da tutte le dipendenze per dirtelo, perché meritavi un uomo migliore di quello che ero. E ora che l’ho fatto, ora che sono diventato l’uomo che volevi, non ti vado a genio lo stesso.»
«Non è così…»
«E allora dimmi come cazzo è, perché non ci sto capendo più niente, Vanni!» grido, e subito me ne pento.
«Vorrei solo potermi fidare di te…»
«Tu puoi fidarti di me!» esclamo con slancio prendendole i gomiti. Trema, anche io lo sto facendo. Cerco il suo sguardo e mi gelo davanti ai suoi occhi di ghiaccio.
«Sei sicuro di questo fatto, Nicolas?» dice algida.
Si libera dalla mia presa e se ne va, lasciandomi solo.

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Capitolo 8
*** Mare in tempesta (seconda parte) ***


È notte fonda ormai. Il vento non ha smesso di soffiare con rabbia.
Fuori, una delle persiane del ripostiglio sbatte ripetutamente.
Fa un gran casino, e comincia a darmi sui nervi.
La luce della luna getta sulla parete della mia camera le ombre dei rami di un pino piegati dal vento. Si muovono e si agitano, si scontrano e si respingono, come se si trovassero impegnati in una danza furiosa.
Non riesco a prendere sonno, ma non è a causa della tempesta. Continuo a pensare all’episodio a cui si riferiva Vanessa un paio di ore fa. Continuo a pensarci perché non riesco a capire per quale motivo lo abbia tirato fuori…

Ero appena tornato dal mio esilio da Roma, durato due anni. Alla fine ci ero andato davvero in Inghilterra dopo la maturità, ma non per frequentare l’Università, come avrebbe voluto mia madre. Mi feci dare un bel po’ di grana da mio padre e me la spassai fino a che non finirono i soldi, e quelli finirono presto. La cocaina non dà assuefazione come l’eroina, ma la dipendenza è ugualmente forte. Non è il tuo fisico a chiedertene ancora, ma la tua mente. E siccome l’effetto dura poco, ne facevo uso più volte al giorno. Qualche volta me la iniettavo. Spesso fumavo il crack. Le discoteche in Inghilterra, soprattutto quelle a Londra, sono un vero paradiso in tal senso. E considerato che la discoteca era per eccellenza il mio ambiente naturale e mi piaceva usare le mani, riuscii a trovare un impiego come buttafuori in un locale londinese.
Ecco come passai i miei due anni in Inghilterra. Non presi una laurea, in Gran Bretagna, ma mi qualificai in un mestiere che mi calzava a pennello. Tornai in Italia per sottopormi a una serie di colloqui in locali prestigiosi. Chiesi a mio padre ospitalità per qualche giorno, giusto il tempo di riorganizzarmi, e la prima cosa che feci sceso dalla moto, una Suzuki 1300, fu andare a bussare alla porta di Vanessa. Non avevo più parlato con lei dal giorno del mio pestaggio. Avevo più volte tentato di chiamarla al telefono, ma non aveva mai voluto rispondere. Se la contattavo con l’inganno facendo chiamare qualcun altro al posto mio, appena sentiva la mia voce metteva giù.
Era luglio, faceva un caldo pazzesco. Mi ero fatto crescere i capelli, a Londra. Li porto tuttora così, lunghi fino alla base della nuca, e spettinati. Per questo la mamma di Vanessa quasi non mi riconobbe quando venne ad aprire. Ma dopo un attimo di incertezza esclamò felice il mio nome, e mi baciò su entrambe le guance.
Marisa Berlini-Bonanni: un gran pezzo di donna. Le ho sempre portato rispetto solo in virtù del fatto che era la madre della ragazza di cui continuavo ad essere follemente innamorato, anche se non sempre è stato facile resistere alla tentazione. Marisa faceva di tutto per istigarmi, e lo fece anche quel giorno. Comunque, m’informò che Vanessa non c’era. Si era diplomata con 90 su 100, e per festeggiare l’evento era partita per una vacanza a Ibiza con alcune amiche. Poi aggiunse, e lo fece perché sapeva che avrei reagito così -­­ lei la lezione l’aveva ascoltata e imparata a memoria -, che era andata in Spagna anche per cercare di distrarsi. Disse che si era messa con un bamboccio che l’aveva solo presa per il culo, che l’aveva fatta soffrire, che si era perfino permesso di schiaffeggiarla, e davanti ai suoi occhi per giunta.
Non so che faccia feci, so solo che chiesi il nome e il cognome del tizio, girai i tacchi e me ne andai senza aggiungere altro.
Sapevo che Vanessa si era frequentata con dei ragazzi, in quel periodo. Gli amici più fidati mi avevano tenuto informato. Non potevo certo pretendere che si mantenesse casta e pura per un amore platonico quale era il nostro, ma non potevo nemmeno tollerare che un coglione qualsiasi avesse osato alzarle le mani.
Andai a trovare Sorcio e mi feci dare informazioni sul tipo. Presto iniziò un giro di telefonate, e in breve qualcuno mi avvisò che il tizio che cercavo, di cui stranamente del nome ho perso memoria, si trovava all’Artica, il bar che frequentavo spesso e che si trovava a Ostia, appena fuori dalla Cristoforo. Lo stesso bar dove ero stato prelevato dalla banda del Chesco. Così, accompagnato dal Sorcio e da qualcun altro, mi diressi lì.
Massimo, il proprietario del bar, mi accolse con un sorriso a trentadue denti. In quel buco ci avevo speso più soldi io che tutta Ostia. Gli chiesi chi dei tipi seduti al tavolo fosse quello che cercavo io, e lui me lo indicò. Se la rideva con alcuni suoi amici, il frocio. Era uno di quei cazzoni che indossano il gilet di lana anche in estate.
«Ti dispiace se ci parlo?» gli chiesi.
Massimo sapeva bene cosa intendevo.
«Basta che non mi fai troppi danni, Nico.»
«Te li ho sempre ripagati, no?»
«Eh sì, ma la clientela che perdo, chi me la ripaga?»
«Massimo, ma quale clientela? Qui ci sta solo quel coglione, e con quello, il massimo del danno che ti posso fare, è che si cagherà sotto e ti toccherà ripulire un po’ di merda.»
«E vabbè» sospirò il barista.
Dissi ai miei amici di starne fuori, che non era una faccenda che riguardava loro. Mi avvicinai al tipo, e i suoi compari smisero di ciarlare. Le mani mi prudevano da morire. Lo analizzai per capire cosa ci avesse provato Vanessa.
Era insignificante.
L’idea che lui avesse potuto averla, che fosse stato dentro di lei, mi fece salire l’adrenalina al massimo.
«Tu lo sai chi sono io?» gli domandai con calma.
«No. Mi dovrebbe interessare?»
Un paio di quelli che stavano con lui abbassarono gli occhi. Li indicai con un cenno del capo. «Loro, però, lo sanno chi sono io…»
«E vabbè, ce lo sapranno pure, ma io non lo so chi sei. E se mi devi dire qualcosa è meglio che ti sbrighi, perché mi sto innervosendo.»
«Noi andiamo… Ci si vede…» dissero quelli che mi avevano riconosciuto, prima di dileguarsi, seguiti da tutti gli altri.
«E come ti parlo se resti seduto?» gli feci notare.
Quello si alzò facendo il gallo, ma le labbra gli tremavano.
«Forse non conosci me, ma sono sicuro che conosci la mia donna, Vanessa Bonanni.» 
Impallidì come un cadavere. «Sei Nicolas?»
«Ah, ora mi conosci…»
«Vanessa ed io ci siamo lasciati» si affrettò a giustificarsi il verme.
«Eh, lo so, me lo hanno detto. Ma, vedi, già è stato un errore, il tuo, esserti messo con la mia donna…»
«Ma mica me lo aveva detto, lei, che era la tua donna…»
«Perché lei è fatta così, se lo scorda di continuo. La gente che mi conosce e che conosce lei, però, lo sa senza bisogno di conferme da parte sua. O per lo meno dovrebbe saperlo. C’è sempre qualcuno che se lo dimentica… I coglioni se lo dimenticano. O fanno finta di non saperlo. Tutti gli altri, invece, lo sanno.» Mi voltai verso il barista. «Massimo, di chi è Vanessa?»
Quello sospirò rassegnato e annoiato. «Tua, Nico.»
Un gruppetto di ragazzi entrarono in quel momento. Un paio di quelli avevano frequentato il liceo con me. Appena mi riconobbero vennero a salutarmi. Ci stringemmo la mano, e ne approfittai per fare a uno di loro la stessa domanda.
«Tullio, ce lo sai chi è la mia donna? Ricordaglielo un po’ a ‘sto fricchettone…»
Tullio, che sapeva che per Vanessa ne avevo gonfiati un bel po’, rispose con un sorrisetto cattivo.
«Ah, ho capito. È uno di quelli che la lezione non l’ha imparata» e rise di gusto insieme all’altro mio ex compagno. Diede due buffetti sulle guance del tipo che era rimasto impietrito e confermò, con sarcasmo: «Vanessa. Ma com’è che t’era sfuggito? Dai, da oggi nun te lo scordi più!» Gli diede uno schiaffetto, ed entrambi si allontanarono sghignazzando.
«Però, vedi, non è per questo che sono un po’ incazzato con te… ma solo un po’, eh, tranquillo che non ti prendo a pugni… Solo che un uccellino mi ha detto che l’hai schiaffeggiata…»
«Te lo ha detto lei?»
«Lei non l’ho ancora vista, e poi non è il tipo. Lo sa come sono fatto. Sa che mi prudono le mani facilmente. No, me lo ha detto qualcun altro. Allora, l’hai schiaffeggiata o no?»
«Le ho solo restituito la sberla che mi aveva dato per prima.»
Per assurdo che possa sembrare, questo mi fece incazzare più dell’idea che se la fosse portata a letto. Sentii un’insana gelosia montarmi dentro.
«Se io le avessi restituito tutti gli schiaffi che mi ha dato non sarebbe più così graziosa. Non si picchia una donna, non lo sai?» e lo schiaffeggiai piano, per umiliarlo. «Fa male uno schiaffetto così?»
Il cagone fece cenno di no con la testa. Alzai la mano e lo colpii nuovamente sulla guancia, non troppo forte. Nonostante tutto, il naso iniziò a sanguinargli.
«E così ti ho fatto male? Perché il primo che ti ho dato, è come quello che ti ha dato lei. Il secondo, è come quello che le hai dato tu. Vuoi sentire come sono quelli che do io? Eh?» e lo colpii con forza. «Fa male così? Eh?» e gliene diedi un altro. Quello rovinò sul tavolo e iniziò a perdere sangue anche dalle labbra e dalle gengive. Lo risollevai in piedi e continuai a schiaffeggiarlo, accompagnato dalle risate dei ragazzi che si erano accalcati a vedere la scena. Massimo, però, venne a dirmi di smetterla. Si stavano avvicinando altre persone, e avevano dei bambini con loro. Lo rassicurai che la “chiacchierata” era finita. Spinsi il coglione su una sedia, e mi misi seduto di fronte a lui.
«Ecco ora cosa devi fare. Devi chiamare Vanessa e farle le tue scuse. Devi dirle che ti dispiace di averla schiaffeggiata. Oh, mi hai capito?» gli sibilai per non farmi udire dalla famigliola che era appena entrata. Lui annuì.
Non lo so se il tipo se la fece addosso o no, so solo che piangeva come un bambino quando me ne andai.
 
Nei giorni successivi feci il colloquio di lavoro e fui assunto in una discoteca sulla tiburtina, il Papaya.
Quel sabato me ne tornai a casa con una tipa rimorchiata al locale, una mulatta brasiliana. La portai a casa e successe quello che succedeva ogni volta: sesso e cocaina. Mi addormentai con quella sopra l’uccello, e mi svegliai allo stesso modo. Ci svegliammo insieme, in realtà, a causa delle grida di Vanessa.
La ragazza balzò a sedere e mi guardò terrorizzata. Io cercai di capire cosa stava succedendo. Era mia abitudine lasciare le chiavi di riserva sotto un vaso, l’ultimo sulla destra del porticato. Solo Vanessa ne era a conoscenza, ma non potevo credere fosse davvero lei.
«Chi è? La tua ragazza?» chiese la brasiliana allarmata, alzandosi. Io invece me la risi raggiante. Stavo per ricevere la solita razione di schiaffoni, e mi sentivo l’uomo più felice del mondo.
«Oh, me lo dici chi cazzo è?» ripeté quella, mentre saltellava su un piede nel tentativo di infilarsi i jeans. Vanessa spalancò la porta e si fermò sull’uscio. Aveva le guance colorate dall’indignazione.
Si era fatta più donna, più bella, ed io sentii di amarla più di prima. Si scagliò addosso alla mulatta e la riempì di improperi. Le lanciò addosso la sua roba e la spinse con forza fuori dalla camera, urlando.
«Tu!» disse poi indicandomi. Io ero rimasto seduto sul letto con un sorriso da ebete stampato in faccia. Lei caricò e m’investì. Mi riempì di schiaffi, con entrambe le mani.
«Come ti permetti… bastardo… maledetto… Come ti sei permesso di picchiare il mio ragazzo?» e mentre mi ripeteva a raffica le stesse cose mi colpiva sul viso, sulle spalle, sulla schiena. Le afferrai i polsi.
«E tu come ti sei permessa di schiaffeggiarlo? Lo sai che gli sganassoni sono una mia prerogativa. Devi riservarli solo a me, cazzo!»
Lo dissi con risentimento, ma la frase risultò essere così ridicola che iniziammo presto a riderci su, nostro malgrado. La spinsi sul letto e continuammo a ridere guardandoci negli occhi, sdraiati fianco a fianco.
«Stronzo… Io ti odio, lo sai?»
«Non è vero, lo so che mi ami» dissi.
Vanessa rotolò sul mio petto ed io l’abbracciai forte, emozionato ed eccitato.
«È venuto a chiedermi scusa…» sghignazzò lei. «Mi ha supplicato di fartelo sapere, che lo ha fatto...»
«E come sta?»
Scoppiò a ridere di gusto. «Aveva la faccia pesta!»
«Ma come cazzo ti è venuto in mente di stare con un pappamolle simile?» le chiesi, mettendo il naso fra i suoi capelli e aspirandone l’odore. Dio quanto mi era mancata la sua vicinanza. Lei si alzò e fece una smorfia disgustata.
«Puzzi come una troia! Perché non ti vai a togliere quell’odore di dosso e mi porti a fare un giro in moto?» propose, ed io non persi tempo. Andai a fare una doccia e, al mio ritorno, la cocaina che avevo lasciato sul comodino non c’era più. Due piotte di roba buttate nel cesso. La guardai rassegnato ma pensai che se quello era il prezzo della nostra riappacificazione era poca roba. Lei valeva molto di più…
Questo è ciò che accadde quel giorno. Non era la prima volta che mi beccava con un’altra donna, se è questo il motivo per cui ha rinvangato proprio quel ricordo.
E mentre sono qui che mi tormento con i soliti ma e con i soliti se, la porta della camera si apre piano. Mi alzo sui gomiti e resto in attesa, con il cuore in gola.
E stavolta non è Nicolas.
Il vento continua a ululare e a graffiare i vetri della finestra, ma non è il suo soffio a farmi accapponare la pelle. Sento i brividi scuotermi il corpo. Lei non dice nulla, mi si avvicina in silenzio, bella e irreale alla luce della luna. Ha i capelli sciolti, ora, e sento di desiderarla in maniera viscerale, oltre ogni comprensione.
Si ferma a un lato del letto. Io mi metto seduto, appoggio i piedi sul pavimento caldo. Ha lo sguardo intenso e lucido, anche se non riesco a vedere il colore dei suoi occhi alla debole luce della luna. Vanessa si mette fra le mie gambe senza dire nulla, ed io fremo perché ho capito già. Le metto le mani sui fianchi, lei sulle spalle. Si china e ci baciamo, ed io non riesco a credere che stia accadendo davvero. Ci baciamo, e fra i sospiri e i gemiti, il desiderio cresce, si fa quasi dolore. Vanessa si mette sopra di me, si muove piano, i suoi occhi dentro ai miei, i nostri sguardi vacui, annacquati. Iniziamo a baciarci con più passione; lei si muove più in fretta. Le tolgo la maglietta, la stacco da me e le sfilo le mutandine. I suoi seni sono sodi, pieni, i capezzoli scuri, turgidi. Li bacio, me ne riempio la bocca. Mi ubriaco dei suoi baci. Lei mi sfila i boxer, e mentre mi libero della maglia torna sopra di me. Si prende il mio membro eretto in mano e lo guida piano dentro di sé. Infine si lascia scivolare su di me, lentamente. Gemiamo entrambi quando sono completamente dentro di lei. Nessuna droga al mondo mi aveva fatto sentire emozioni più intense, dolci e violente allo stesso tempo.
Vanessa si muove veloce, ora, ma io la fermo, perché voglio che questo momento duri il più a lungo possibile. Lei mi guarda sconvolta, freme, ha voglia di riprendere a muoversi. Io la avvolgo con un braccio e la porto sotto di me. Le carezzo il viso mentre affondo dentro di lei lentamente ma con forza. Cerco ancora le sue labbra, i suoi occhi. Voglio che mi guardi, "Guardami tesoro, guardami Vanessa, perché voglio dirti che ti amo, e voglio farlo entrandoti nell’anima".
«Ti amo» le sussurro dando voce ai miei pensieri, e continuo a dirglielo mentre mi muovo sempre più in fretta, perché ora non posso più contenere la libido. Lei si stringe forte a me, le sue unghie nella mia carne. La sento emettere un gemito soffocato, sento il suo corpo vibrare, contrarsi e rilassarsi più volte, travolto dalle ondate di piacere. Mi lascio andare anch’io insieme a lei, mi lascio trasportare da un’estasi incredibile che mai, in vita mia, avevo provato. E dopo aver goduto di lei, e insieme a lei, mentre i nostri sensi cercano piano di tornare alla normalità, le accarezzo i capelli. Ho voglia di piangere, tanto mi sento felice. Lei, però, sta piangendo davvero.
«Perché?» le chiedo baciandole gli occhi. «Non devi piangere… Perché piangi? Ti prego, non farlo…»
«Hai idea di quanto ti ami?» mi dice accorata. Si stacca da me e si mette seduta.
Le accarezzo la schiena. Vorrei afferrarla, farla tornare distesa al mio fianco, abbracciarla con forza, distoglierla dal suo dolore, perché ho paura, lo so che devo aver paura di quello che sta per dirmi, perché se lo dirà l’avrò persa, e forse per sempre.
«Ti amo, Nicolas, ma devo potermi fidare di te…»
«Tu puoi, Vanessa! Fidati di me, ti supplico!»
Lei tace un attimo. Mi metto a sedere anch’io e le scosto i capelli dal viso.
«Tu mi hai sempre protetta. Anche quando non lo sapevo, tu continuavi a vegliare su di me… Come quella volta che tornasti dall’Inghilterra e picchiasti il mio ex…»
Chiudo gli occhi e trattengo il respiro. “Non dirlo, Vanessa ti prego, non farlo”, continuo a ripetere dentro di me.
«Se posso fidarmi davvero di te, dimmi perché non eri presente al funerale di Saverio...»
Mi copro il viso con le mani, affranto. Sento le lacrime scendermi calde sugli zigomi. Di nuovo, attende una risposta che non oso darle. Attende a lungo, con pazienza, mentre piange in silenzio.
«Come posso sposarti? Non posso farlo, non così… Avevo già visto una casa in questi giorni…»
«Oddio, ti prego no, Vanessa, non farlo. Non puoi farmi questo. Non portarmi via Nicolas…»
«La casa è in questa stessa via, ci vedremo comunque tutti i giorni…»
«Perché? Perché mi fai questo?» mormoro disperato. Piango ormai senza ritegno. Lei scuote piano la testa.
«No, Nicolas, la domanda giusta è: perché tu fai questo a noi» dice con infinita tristezza. Si alza lentamente, prende le sue cose e se ne va, fuori dalla mia camera.
Presto sarà fuori dalla mia casa. E dopo, forse, fuori dalla mia vita. E Nicolas con lei.

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Capitolo 9
*** In tre sotto le stelle ***


CAPITOLO 5

La via dove abito sembra infinita. Costeggia il litorale per diversi km. La “casa” dove Vanessa ha deciso di andare a vivere con Nicolas si trova a circa trecento metri dalla mia villa, subito dopo l’abitazione dei miei più prossimi vicini.
Sono qui, in questa topaia, che mi sto facendo il giro delle stanze con Vanessa, e non ho parole per descrivere la repulsione che provo. Repulsione per la casa, odio nei suoi confronti.
La cucina è unta, due dita di grasso rivestono tutte le piastrelle e i mobili; una chiazza di umidità si allarga in un angolo del soffitto. Il bagno poi è un ricettacolo di germi e di batteri, di quelli cazzuti, con le palle. La tazza del cesso è incrostata di calcare, la vasca ha perso il suo smalto, fra le fessure delle piastrelle prolifera di tutto. La sala da pranzo è esposta a nord e non arriva la luce. La camera dove, secondo Vanessa, dovrebbe dormire Nicolas, è uno sgabuzzino camuffato da stanza da letto.
Me lo immagino rinchiuso qui dentro, la notte, mentre si domanda che male ha fatto per essere stato messo in punizione nel ripostiglio. E con questa immagine di lui ne ho piene le palle, e decido che la visita può concludersi qui.
Mi giro verso Vanessa, tremo dalla rabbia, per la prima volta in vita mia ho voglia di colpirla.
«Tu non porterai Nicolas in questa fogna!»
La mia voce ha assunto un tono che io stesso fatico a riconoscere. Vanessa sembra mortificata. Lo è senz’altro, però non cede.
«Basterà dargli una bella ripulita…»
«No!» urlo fuori di me. «Di che stai parlando, Vanni? Guarda questo cazzo di posto! Andrebbe demolito e ricostruito di sana pianta!»
Ora sembra offesa. «Bè, è l’unica cosa che al momento posso permettermi!»
Sento il sangue salirmi in testa, lo sento pulsarmi nelle tempie e spingermi in fuori gli occhi.
«Tu non lo porterai in questa fogna!» le ripeto minaccioso fendendo l’aria con un dito, e mi precipito fuori, prima che alzi il braccio e la colpisca davvero.
Lei mi rincorre, sento i suoi passi veloci dietro di me. Mi chiama, grida il mio nome per farmi fermare, ma non voglio farlo. Potrei picchiarla oggi, so che potrei. Qualsiasi contrasto possa esserci tra di noi, qualsiasi incomprensione, acredine, rancore, dovremmo affrontarlo da persone mature, io e lei, senza far pagare lo scotto a Nicolas.
È questo che mi fa infuriare, l’idea che stia facendo tutto questo per farmi sentire un verme, per punirmi, per spingermi a parlare, a tirare fuori il tarlo che mi porto dentro, che mi sta dilaniando le carni e l’animo, giorno dopo giorno. Come può usare Nicolas e costringerlo a una vita umiliante per arrivare a ferire me?
«Si può sapere perché fai così ogni volta? Perché pretendi sempre che faccia a modo tuo? Non potresti sostenermi nelle mie scelte, una volta tanto, e aiutarmi ad affrontarle anziché inveirmi contro?» grida, raggiungendo il suo scopo. Perché quello che ha appena detto merita una risposta, e si merita che gliela urli in faccia. Mi giro e mi dirigo verso di lei con una foga tale che si spaventa. Si blocca e fa un passo indietro.
«L’ultima volta che ti ho lasciato fare come cazzo ti pareva hai sposato quella merda di tuo marito! E ora guarda come sei ridotta!»
Mi schiaffeggia. Lo so, non è la prima volta che lo fa, ma non lo aveva mai fatto con odio. Tutte le altre volte lo aveva fatto con amore perché si preoccupava per me, ma non questa volta. Gli schiaffi presi in precedenza mi riempivano di riconoscenza, non mi ferivano perché sapevo che erano il suo modo di dimostrarmi l’intensità del suo sentimento. Non procuravano dolore. Questo mi ha fatto male. Anche perché, fra tutti quelli ricevuti fino ad ora, è quello che merito di più.
«Saverio era il tuo migliore amico… Come hai potuto dire una cosa così cattiva?»
Già, come ho potuto? Vorrei tanto raccontarle un po’ di cose, adesso. Vorrei tirarle fuori, una volta per tutte. Ma in questo momento, di lei non me ne frega niente. M’importa solo di Nicolas. Le punto un dito contro, serro le mascelle, digrigno i denti.
«Tu non lo porterai in quella fogna, Vanni. Non te lo permetterò!»
Tengo il dito sollevato ancora un po’, poi spingo forte l’aria fuori dai polmoni e riprendo la mia corsa verso casa.
«È mio figlio, tu non puoi decidere al posto mio!» mi urla dietro istericamente. Mi fermo ancora, ma non le vado incontro stavolta. Mi fermo giusto il tempo di gridare, sarcastico.
«Già, Vanni, io non posso decidere per te. Tu preferisci far decidere la gente che sparla. Dici che ora avremo dato spettacolo di noi? Dici che glielo avremo dato, finalmente, un motivo per sparlare di noi alla gente? Direi di sì. E la vuoi sapere una cosa? Non me ne frega un cazzo, degli altri. A me interessa solo di voi due. E di Nicolas più che di te. Tu non puoi davvero desiderare fargli questo!» Scuoto la testa. «Non puoi…» concludo afflitto, e torno a correre verso casa.


                                                       ***

Cerco di rivivere ogni istante di quel fottuto giorno, quello in cui ho presentato Vanessa a Saverio. Ripercorro con la mente ogni ricordo che ho di quell’episodio. Riavvolgo il nastro della memoria avanti e indietro più volte per cercare di fermare l’immagine al preciso istante in cui i loro occhi si sono incrociati con intensità, nel momento in cui si sono scambiati un sorriso di complicità, quello in cui è scoccata la scintilla fra di loro.
Perché non mi ero mai accorto di niente? Non al principio, per lo meno. In seguito avevo iniziato a sospettare qualcosa, quando Saverio aveva preso a venire a Roma tutti i fine settimana, e sdraiati sul prato del giardino di Vanessa a parlare col naso incollato al cielo non eravamo più solo in due, ma in tre. Sì, dopo avevo cominciato a capire, ma all’inizio no.
L’inizio. Il giorno in cui si sono conosciuti. Un giorno di lutto, di lacrime e sofferenza.
Bel punto di partenza per un amore destinato a procurare dolore a tanta gente…
 
Mi trovavo a Reggio il giorno in cui ricevetti la telefonata di Vanessa.
Mi ero recato all’inaugurazione di un albergo che mia madre aveva progettato per conto di un’importante società imprenditoriale milanese, a Bologna. Mi fermai da lei qualche giorno, a Cadelbosco. Quella mattina, la mattina in cui ricevetti la telefonata, ero in macchina con Saverio. Avevamo da tempo organizzato una vacanza insieme, solo noi due, nelle spiagge della Sardegna. All’epoca, io e Saverio avevamo 24 anni, Vanessa 21. Saverio era un giovane manager e lavorava all’interno dell’azienda del padre. Vanessa lavorava in un call-center e frequentava l’università. Voleva prendere il dottorato in marketing turistico. Io approfittavo ancora della generosità dei miei. Il lavoro come buttafuori non era particolarmente redditizio. La paga che mi fruttava non bastava nemmeno a coprire i miei vizi, figuriamoci a mantenermi.
Ero con Saverio, quindi, in viaggio verso l’aeroporto di Bologna con la sua Audi. Saverio non amava le moto e non ne possedeva perciò, quando eravamo insieme, dovevamo spostarci in macchina.
Risposi alla chiamata con un largo sorriso. Le nostre vite erano state spinte in direzioni diverse ma continuavamo a vederci ogni volta che era possibile, e a sentirci con regolarità.
«Dolcezza, sei ancora in Grecia?» le chiesi allegramente. Lei singhiozzò, ed io mi gelai. Saverio notò la mia apprensione. Continuava a spostare lo sguardo dalla strada a me. Quando attaccai, dissi a Saverio di tornare indietro.
«Perché?»
«Devo andare a Roma» annunciai.
«Adesso?»
«Sì, Savi, mi dispiace.»
Lui scosse la testa, rassegnato. «Bah, non ti capisco proprio, Nico. Che le è successo, stavolta, alla tua bella?»
Guardai distrattamente il sole nascere, la mente già rivolta a Vanessa, il mio pensiero solo per lei.
«È morta la sua migliore amica, svolgono i funerali stamattina. Avevo il telefono staccato in questi giorni. Non è riuscita a rintracciarmi prima…»
«Scusa, non ho capito, era la sua migliore amica o la tua?»
«Savi, non puoi capire. Lei piange la sua amica ma è per me che si preoccupa…»
«Cazzo, Nico, non ci sto capendo niente. Che c’entri te con la morte di quella ragazza?»
Misi una mano sulla fronte, mi massaggiai le tempie.
«È morta di overdose…» alitai, ma Saverio si ostinava a non voler capire. La nostra vacanza stava andando in fumo, solo questo capiva.
«E quindi?»
«Ferma la macchina!» gli intimai fermamente. Volevo che la finisse di rompere, volevo essere già in viaggio verso Roma, da lei.
«Ti sei bevuto il cervello, Nico? Siamo in autostrada!»
«Ferma questa cazzo di macchina, per la miseria, Savi!»
«E va bene, cazzo, andiamo a Roma, va bene? Cazzo!... Ti ci porto io! La tua amica mi ha mandato a puttane la vacanza. Voglio vederla con i miei occhi la donna che ti ha fatto rincretinire così. Voglio proprio vederla, cazzo!»
La vide, e poi se la sposò.

 Barbara era per Vanessa ciò che Saverio era per me. Ecco perché era off-limits per me. Avevo un profondo rispetto per tutte le persone e le cose che ruotavano intorno alla sfera sentimentale di Vanessa.
Barbarella… Mi viene una tristezza, quando ci penso.
Non era certo la prima persona che conoscevo che moriva di overdose, solo che da lei non me lo sarei mai aspettato.
Era una bella ragazza, soprattutto intelligente. Voleva fare l’infermiera.
Aveva iniziato a bucarsi dopo il liceo. Io me n’ero accorto quasi subito; si grattava continuamente e dimagriva a vista d’occhio. Aveva smesso di uscire con Vanessa, nessuno la vedeva più in giro. Questo perché non frequentavano le zone giuste, quelle bazzicate dai tossici.
Un giorno mi recai a prendere un amico alla stazione Termini, a Roma. Lei era sul marciapiede fuori della stazione insieme a un altro paio di balordi. Appena mi vide si alzò e mi venne incontro. Tremava, era agitata, chiaramente in crisi di astinenza.
«Nico! Nico! Aspetta, Nico?»
«Barbara, che vuoi? Ho fretta!»
«Aspetta, Nico. Che c’hai qualche soldo? Dopo te li ridò. Devo prendere la metro ma ho perso il portafogli.»
La guardai con fastidio. «L’unica cosa che hai perso è il senno. Merda, guarda come ti sei ridotta!»
Puzzava, aveva i capelli untuosi e i vestiti sporchi. Era pelle e ossa, e aveva gli occhi infossati.
«E tu, allora? Vaffanculo, Nico, chi cazzo ti credi di essere?» cominciò a urlare, attirando l’attenzione della gente. «Credi di essere meglio di me? Eh? Tu sei come me, pezzo di merda!» e mi diede una spinta. Mi voltai e le afferrai un braccio.
«Io non mi sparo quella merda nelle vene, stronza!» le ringhiai contro, poi la gettai a terra con forza e mi allontanai veloce.
Avevo paura. Paura di leggerle negli occhi la fine che era destinata a fare, paura di vedere nello specchio del suo sguardo la fine che ero destinato a fare io, perché ci sono modi diversi di morire quando fai uso di sostanze stupefacenti. Puoi finire al cimitero per una dose tagliata male o per una dose eccessiva, e farla finita in un attimo. Sembra assurdo, eppure succede ancora. O puoi schiantarti addosso ad un albero, mentre guidi strafatto. O deperire lentamente, giorno dopo giorno, mentre perdi la stima delle persone intorno a te, dei tuoi colleghi e del tuo datore di lavoro, di tua moglie e dei tuoi figli, quando per pagarti il vizio porti la tua famiglia sull’orlo del collasso a causa dei debiti che hai contratto per un attimo di pace mentale, per sentirti onnipotente un’ora al giorno, o per farti un viaggio in un mondo che non esiste, che non può farti male perché in quel mondo tutto è pace, la gente si ama, perfino tu ami tutti, in quel mondo. Questa è la fine peggiore, la morte di cui avevo più paura.
Così, quando io e Saverio arrivammo al piccolo cimitero di Ostia Antica che la cerimonia volgeva al termine, quando vidi quanta sofferenza c’era nel volto degli ex compagni di scuola, della mamma e del papà di Barbarella, della sorella più piccola che si era accasciata al suolo e rifiutava di farsi aiutare a tornare in piedi, quando Vanessa si girò verso di me e mi lanciò quello sguardo profondo, turbato, addolorato, io mi sentii morire.
Lei si staccò dal resto del gruppo e si diresse verso di noi, Saverio e me. Il suo passo accelerò, lessi la rabbia nei suoi occhi, del colore dell’oro fuso. Saverio si irrigidì, interdetto dalla determinazione della sua andatura e dalla foga dipinta sul suo viso pallido. Vanessa m’investì come al suo solito e mi colpì con violenza. Io le presi il polso giusto in tempo per evitare un altro colpo, poi lei si gettò fra le mie braccia e pianse sul mio petto.
Ecco, quello fu il primo istante in cui Saverio posò il suo sguardo sulla donna della mia vita. Da quel primo contatto visivo furono gettate le basi, furono decisi i destini di noi tutti, Saverio, Vanessa, Nicolas e me.
Col senno di poi mi chiedo: se quel giorno Saverio non mi avesse accompagnato a Roma, cosa sarebbe accaduto?
Di una cosa sono sicuro: Vanessa non sarebbe comunque stata mia. Non ho mai fatto seriamente, con lei, perché volevo salvaguardarla prima di tutto da me stesso. Certo, avrei potuto fare un tentativo, cambiare vita, smettere con le droghe, gli eccessi, mettere insomma giudizio. La verità è che non m’impegnavo a fare cambiamenti perché in fondo non mi piacevo e ritenevo che anche senza dipendenze non sarei mai diventato l’uomo che meritava. Del resto facevo uso di droghe proprio per questo, per piacermi. Ma mi chiedo: se al posto di Saverio avesse incontrato un altro uomo? Ora, forse, sarebbe felicemente sposata. Vivrebbe in uno splendido appartamento ai Parioli, con un nugolo di bambini, un lavoro ben retribuito, un marito innamorato. Non sarebbe costretta ad andare a vivere in un tugurio, ora, e a trascinare con sé suo figlio.
Se, ma, chissà, forse… La verità, perché è ora che io la guardi in faccia, è che ho influito sulla vita di Vanessa più di quanto non voglia ammettere. È colpa mia se ora è infelice, è colpa mia se non le ho mai concesso di amarmi, ed è colpa mia se ancora oggi quest’opportunità le viene preclusa… Ma col tempo prenderò determinazione, le svelerò tutte le mie angosce, le confesserò tutti i miei peccati… forse… se… ma… chissà.

 

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Capitolo 10
*** Un giorno infelice ***


«No, no e no!» grida Nicolas fra i singhiozzi. È mezz’ora che è chiuso nell’armadio, e si rifiuta di uscire fuori.
La sua camera, quella che è stata sua fino ad oggi, è stata defraudata di ogni cosa. Giocattoli, indumenti, poster, la trapunta con l’immagine di Buzz Lightyear, il tappeto con quella di Saetta McQueen, la lampada comperata a Mirabilandia dove siamo stati in giugno per festeggiare i suoi quattro anni, tutto…
Mi guardo intorno per l’ennesima volta, sconfitto e addolorato. Chiudo gli occhi e inspiro. Ingoio aria amara, e mandando giù quella cerco di cacciare indietro le lacrime. Appoggio la fronte sull’anta del mobile.
«Campione, ti prego, esci da lì. Ti devo dire una cosa…»
Che cosa diamine potrei dirgli? Che sono un coglione patentato, che dovrei trovare la forza di mettere a posto le cose, che potrei farlo se solo non avessi il terrore di procurare alla madre altro dolore? Perché, anche se ora le sto facendo del male con il mio silenzio, è certo che gliene farei di più con la mia confessione.
«Perché… non posso… restare con te? Ti chiamo… zio… non ti chiamo più… papà…» singhiozza.
È successo quando gli abbiamo detto che si sarebbe trasferito nella nuova casa, a cui ho fatto fare dei lavori di ristrutturazione importanti, facendo abbassare sensibilmente l’affitto. Vanessa non voleva, ma non le avrei mai permesso di portarci a vivere Nicolas, diversamente. Quando glielo abbiamo comunicato, mi ha abbracciato. Continuava a ripetere che voleva stare con il papà: me. Vanessa ha provato a spiegargli con calma che avevano abusato abbastanza della mia ospitalità, ma che era arrivato il momento di andare a vivere nella loro casa. E poi, gli aveva precisato, io non ero suo padre. In quel momento l’ho odiata con tutte le mie forze.
E ora Nicolas si sente in colpa, pensa che si stiano trasferendo a causa del suo desiderio di adottarmi come padre.
Vanessa si affaccia. È agitata, vorrebbe intervenire in maniera invasiva, dargli uno scapaccione e tirarlo fuori da lì con la forza, ma la fermo con uno sguardo glaciale.
«Dagli ancora un minuto, Cristo!» le ringhio sottovoce. Lei sbuffa e se ne torna in salotto.
«Non è colpa tua, campione. Non devi nemmeno pensarla una cosa del genere!» cerco di convincerlo.
Lui continua a piangere, a singhiozzare, ed io non sono più in grado di sopportarlo, di sostenere questo dolore. Mi accascio sul pavimento, mi copro il viso con le mani e inizio a piangere anch’io. Tutto il mio corpo è scosso dai singhiozzi, lascio che la tensione esca fuori, mi libero dalla pressione che mi schiacciava col suo peso fino ad un attimo fa.

Non so quanto tempo sia trascorso dal momento in cui mi sono lasciato andare a quello in cui Nicolas, udendo la mia disperazione, è uscito dall’armadio e mi ha gettato le braccia al collo, so solo che alla fine tutto è andato come doveva andare ed io stanotte sono solo nella mia casa, nella mia stanza, nel mio letto.
Non ho più nessuno da attendere. Non ho più speranze alcune che la mia porta si apra, che si affacci Nicolas e mi chieda il permesso di addormentarsi vicino a me, o Vanessa, e mi chieda di amarla e di farlo come si deve, senza ombre a offuscare il nostro rapporto.
Sono solo, e fa un male boia.
Sono qui nel mio letto e stringo in mano una foto scattata diversi anni fa.
 
Quando se ne sono andati Vanessa e Nicolas, mi sono ritrovato a vagare per le stanze, svuotato fisicamente e mentalmente. Sono stato a lungo seduto sul pavimento della camera dove dormiva Nicolas, lì dove c’era il tappeto, lo stesso dove era solito sdraiarsi a pancia in giù per eseguire i suoi disegni. Ho trovato un pastello sotto il letto, un pastello verde, che è il suo colore preferito. Non aveva la punta, e mi sono guardato intorno in cerca di un temperino per poi dirmi che non era necessario fargliela: Nicolas non c’era.
Subito dopo mi sono detto che forse lo avrebbe cercato stasera, nella sua nuova casa. Se non lo avesse trovato si sarebbe intristito. Sono scattato in piedi, determinato a portarglielo, ma non avrei fatto altro che peggiorare la situazione rimandando il trauma della separazione, così ho desistito.
Con il pastello in mano mi sono recato nella stanza di Vanessa. Mi sono sdraiato sul suo letto, ho annusato il suo cuscino. Ho riempito i miei polmoni del suo odore, e una fitta di dolore mi ha pugnalato il costato per poi allargarsi in tutto il mio essere, in ogni singola parte di me. Allora ho tenuto premuto il cuscino sulla faccia, e ho pianto e gridato forte, fino a non avere più voce.
Quando la luce del pomeriggio si è affievolita, mi sono alzato. Ho aperto tutti gli sportelli e tutti i cassetti. E dentro uno di questi ho trovato un libro. Uno dei suoi autori preferiti, Francesco Abate.
L’ho sfogliato pensando a chissà quante volte le sue mani hanno fatto scorrere le dita su quelle righe, con amore e devozione. Vanessa dice sempre che le parole producono musicalità, quando sono messe in fila nel giusto modo. Però sono rare, vanno ricercate come tesori nascosti. Si trovano nei libri dei pochi scrittori che hanno questa dote: fare musica con la penna.
Adora leggere. Spesso veniva da me, con il libro in mano e un dito a tenere il segno, e mi leggeva un passo che aveva trovato particolarmente interessante, o una frase che l’aveva emozionata.
Ho fatto frusciare le pagine e ho scorto fra di esse una foto. L’ho tirata fuori, gli ho dato un’occhiata e ho stretto forte gli occhi, sconfortato. La foto ci ritraeva nel giorno del suo matrimonio, mentre la sollevavo fra le braccia e la facevo ridere…
Se si potesse fare un ingrandimento a quella foto, se si potesse zoomare sui miei occhi, si potrebbero vedere le pupille dilatate. Quella fu la prima e unica volta in cui feci uso di stupefacenti in sua presenza. Anzi, quella fu l’unica volta in cui, a chiedermi di farlo, fu proprio lei.
 
Vanessa fu battezzata nella chiesa di S. Maria di Regina Pacis, a Ostia, e in quella stessa chiesa ha voluto celebrare il suo matrimonio. Il giorno più infelice della mia vita.
La chiesa di mattoni rossi è stata costruita in una posizione sopraelevata, davanti alla sede della tredicesima circoscrizione. Si vede il mare, da lì.
Chiesa spettacolare, sposa bellissima.
Ero sui gradoni che si affacciano sulla chiesa e che portano ad essa, quando arrivò l’auto nuziale dalla strada laterale, fermandosi proprio davanti al suo ingresso. Sapevo che avrei dovuto essere già dentro in qualità di testimone dello sposo, al fianco di Saverio, ma ero troppo arrabbiato ancora, troppo infelice, e cominciavo a sentire la forte necessità di una sniffata. Avvertivo il crash e il mio umore era pessimo.
Quando la vidi scendere dall’auto nuziale, rimasi impietrito. Come se si fosse sentita chiamare dal mio sguardo, si voltò a fissarmi. Mi sorrise raggiante, ed io desiderai morire. Cercai di abbozzare un sorriso da restituirle, ma non devo esserci riuscito molto bene perché, mentre veniva spinta dentro la chiesa dalla madre, smise di sorridere e si voltò più volte verso di me, infelice.
M’isolai da tutto e da tutti. Avrei voluto essere altrove, lontano da lì. Al banchetto andò pure peggio. Avevo voglia di piangere e di gridare, trattai male tutti, fino ad arrivare all’estremo opposto. Quasi mi addormentai su uno dei tavolini del banchetto che avevano allestito all’esterno. Fu allora che Vanessa venne da me, incazzata come una belva. Mi afferrò per un braccio e mi portò all’interno, nella sala deserta del ristorante.
«Si può sapere che ti prende, oggi?»
La guardai irritato, con gli occhi arrossati. «Vediamo un po’… fa un caldo della miseria, la ragazza dei miei sogni si sposa... ah, già, ho una voglia fottuta di farmi uno striscio!»
«E fattelo, cazzo, così questa giornata me la lasci vivere in santa pace!»
Strabuzzai gli occhi, scioccato. Misi le dita fra i capelli, ne strinsi con rabbia le ciocche, sbuffai sarcastico e poi le dissi, con risentimento: «Sei stata anni interi a rompermi i coglioni, a dirmi che se mi facevo una tirata in presenza tua ero un uomo morto e oggi, nel giorno del tuo matrimonio, mi dai il permesso di farlo?»
Lei scosse la testa, addolorata, -non dimenticherò mai il suo sguardo- e mi rispose: «Bè, Nicolas, direi che ormai è tardi per insistere a convincerti di smettere…»
Disse questo, e se ne tornò fuori.
Me ne andai anch’io, a rimediare un po’ di neve. Me ne sniffai un bel po’ in macchina, prima di tornare indietro. Il resto lo misi in tasca, per sicurezza. Tornai alla festa trasformato, pieno di vigore. Ero sempre incazzato con Saverio, ma feci finta che tutto andava bene. Lo feci per Vanessa. Mi avvicinai a lei, la presi in braccio e qualcuno ci scattò quella foto. Non so chi, non ne ero a conoscenza. So solo che la sollevai in alto, dissi a Saverio che gliela portavo via, tutti risero, anche Vanessa.
Quando la rimisi a terra, le diedi un bacio sulla fronte e le dissi che speravo il meglio, per lei. Ho sperato il meglio per lei fino alla fine, anche quando era chiaro che Saverio non avrebbe potuto darle quella felicità che aveva così disperatamente cercato lontano da me.
Guardo la foto nella penombra, e sottovoce ripeto all’infinito una parola, una sola: «Perdonami.»

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Capitolo 11
*** Promesse vane ***


CAPITOLO 6

«Scommette che indovino qual è il suo bimbo?»
Mi volto verso la voce che mi ha fatto questa domanda e sorrido. La tipa è una rossa tutta curve davvero molto graziosa. Ha le fossette alle guance e deliziose lentiggini sul naso.
«Dubito che lei possa riuscirci...» le rispondo.
«Mi faccia fare un tentativo, almeno…» insiste la rossa.
«E va bene, allora, vediamo quale di quei marmocchi mi affibbia.»  
Lei indica sullo schermo un asparago in Kimono e cintura bianca-gialla e dice, sicura di sé: «Quello lì!»
Aguzzo la vista e osservo lo spilungone rovinare a terra, atterrato da un moccioso che è la metà della sua statura. Rido di gusto, com’era tanto che non mi capitava di fare.
«Mi vede così impedito?» obietto, mentre i bambini fanno il saluto e si preparano a uscire.
Lei ride a sua volta. Ha una bella risata, fresca e cristallina, e due file di denti bianchissimi.
«No, non è per quello, ma un uomo alto come lei non può che avere un figlio altrettanto alto» spiega.
Nicolas arriva in questo momento. Mi corre incontro sorridendo, sprizza gioia da tutti i pori.
«Mi hai visto, hai visto come sono stato bravo?» dice tutto eccitato.
Gli spettino i capelli, come faccio di solito. «Come sempre, campione!» gli rispondo.
La rossa spalanca gli occhi, incredula. «Lui è suo figlio? Questo bimbo è un portento! È nato per fare judo!» esclama esterrefatta.
«Lo so, ha preso dal padre.»
«Lei pratica judo?»
«Io? Vuole scherzare? No no, io non sono tagliato per le arti marziali.»
«Ah... Quindi lei non è il padre…»
A quel punto Nicolas mi afferra la mano, le rivolge uno sguardo ostile e le dice, belligerante: «Sì, che è mio padre!»
È chiaro: è geloso. Sarà meglio non trattenersi a lungo.
«Ci si vede, allora» cerco di sganciarmi dalla tipa.
«Bè, io non vengo poi così spesso, nemmeno lei è mia figlia. Io sono solo la zia» si affretta a specificare mentre stringe una bambina per le spalle, ed io lo so cosa vuol dire. Vuol dire che ha una gran voglia di farmi entrare nel suo letto. Di farmi entrare in tutti i sensi. Ma sospiro mio malgrado e faccio spallucce.
«Chissà. Il mondo è piccolo» dico, e mi allontano.
 
Quante battute ci siamo scambiate, io e la rossa di cui non so nemmeno il nome a causa della scarsità di parole pronunciate? Ebbene, Nicolas deve aver captato nell’aria livelli ormonali oltre alla norma, perché in palestra ha messo il broncio e lo ha tenuto per tutto il tragitto. Nemmeno mi saluta quando scende dalla macchina. Corre verso casa, si attacca al campanello, e quando Vanessa si decide ad aprire, infila la porta e sparisce in camera sua. Lei mi guarda perplessa, io scuoto la testa.
«Non chiedermi niente. A volte penso di aver bisogno del libretto  delle istruzioni per capirci qualcosa, con lui» mi giustifico passandole lo zainetto.
«Bè, ma deve pur essere successo qualcosa...»
«Ma ti dico di no. Mi ha visto parlare con una tipa e si è arrabbiato…»
Vanessa boccheggia indignata, e la sua reazione mi coglie di sorpresa. Insomma, da ragazzini non si sarebbe mai sognata di incazzarsi per le mie avventure erotiche, e ora che non ha proprio nessun motivo di essere gelosa ha deciso di provare.
«Perché diavolo mi guardi in quel modo? Con la tipa avrò scambiato sì e no quattro frasi di circostanza, nemmeno so come si chiama…»
Lei stringe le labbra. «Guarda che non me ne frega niente, sei libero di fare il cascamorto con chi ti pare!»
«Cascamor… ? Senti, me ne vado prima di arrivare a livelli di incazzatura insostenibili.»
«Ecco, bravo!» fa lei, e mentre me ne torno verso la macchina, sento che sbatte la porta con violenza. Quando fa così, mi fa venire una rabbia…
Salgo in macchina e parto, facendo stridere le ruote sull’asfalto.


Non è stato facile tornare ad abituarmi al silenzio della mia casa.
Sono passati cinque mesi da quando Vanessa si è trasferita portandosi dietro Nicolas. Sette da quando abbiamo fatto l’amore. Solo a ripensare a quel giorno vengo sopraffatto da una moltitudine di sentimenti fortissimi.
Quante donne ho avuto, nella mia vita? Tante. Troppe. Ma se anziché chiedermi con quante donne ho fatto sesso mi chiedessi con quante ho fatto l’amore, la risposta è ovvia. E non so fino a che punto io sia contento che sia accaduto.
Ora che ho provato la gioia e la soddisfazione di un rapporto intimo così intenso, scevro da ogni malizia e volgarità, temo di non voler provare altro.
Per questo stanotte ho detto di no a Sandra. No alla donna più arrapante che mi si sia strofinata addosso negli ultimi anni. Sandra, la rossa, quella per cui Nicolas si è rifiutato di rivolgermi la parola per oltre due giorni, quella per cui Vanessa fa la sostenuta ancora oggi. E la cosa mi fa infuriare. Insomma, non è che non ne avessi avuto voglia, ma mentre quella mi si sfregava addosso, mentre la baciavo, continuavo a fare confronti, a pensare al sapore delle labbra di Vanessa, al calore del suo corpo, all’odore della sua pelle. E piano piano il desiderio è sfumato, e il pisello si è sgonfiato come un palloncino bucato.
 
Era in discoteca stanotte, Sandra. Quando mi ha visto dietro il bancone è venuta a salutarmi. Pensava facessi il barman, ed io gliel’ho lasciato credere. Ma poi lo ha saputo. Ha saputo che il bar e tutto quello che gli sta intorno è roba mia. Allora è tornata al bancone, mi ha sorriso con malizia e mi ha fatto sapere che qualcuno l’aveva messa al corrente di una notizia.
«Davvero? Quale?»
«Mi hanno detto... che balli da Dio. Ed io muoio dalla curiosità di vedere se è vero.»
Non ha detto altro. Si è diretta verso la pista, approfittando di un pezzo non troppo ritmato, e ha iniziato a muoversi in maniera sensuale. Ballava e m’invitava con lo sguardo a seguirla.
«Capo, quella è roba che scotta…» mi fa Michael, il barman titolare, quello a cui cerco sempre di fregare il mestiere.
Io la guardo a lungo, indeciso. Poi sono i miei lombi a decidere per me. La raggiungo, le metto una mano sulla schiena, molto vicino alla curva del sedere, e me la stringo addosso.
Mentre balliamo in quel modo, appiccicati come sardine in una scatola di alluminio, Sandra mi morde le labbra ed io le infilo la lingua nella bocca, in cerca della sua. A un certo punto mi chiede di portarla a casa, subito. Mi viene in mente Vanessa e sono tentato di dirgli di no. Invece le dico solo: «Fammi prendere la giacca.»
Appena entriamo in casa riprendiamo le danze da dove le avevamo lasciate. E per un po’ va bene, tutto funziona com’è giusto che sia, solo che io continuo ad avere l’immagine di Vanessa davanti agli occhi, del suo corpo nudo su di me, della fretta che aveva di amarmi e di farsi amare, e ho capito di non volerlo fare. Questo non è il corpo che desidero addosso, né queste le labbra che bramo sulle mie. Mi stacco da lei con tatto, le chiedo scusa e le dico che non posso. Non posso, tutto qui. Lei mi guarda come fossi matto, poi capisce e mi chiede se è così bella la donna che amo al punto dal farmi rinunciare al piacere di passare la notte con lei. Le rispondo di sì, scuoto la testa, le chiedo nuovamente scusa e infilo la porta, come un ladro.

E ora sono qui, parcheggiato davanti a casa di Vanessa. Mi tremano le mani e il cuore mi batte come un folle, perché in questo momento ho voglia di lei da stare male, voglia di affrontare insieme a lei la mia disperazione.
Qui, mentre sono al buio e le finestre delle case intorno non hanno ancora aperto gli occhi, e le strade illuminate dalla luce giallognola dei lampioni sono deserte, qui, nella solitudine completa della mia esistenza, continuo a cercare di mettere ordine ai pensieri.
Ho davanti a me questo collage di ricordi da catalogare e mettere nella giusta sequenza, questo puzzle da terminare, e posso procedere solo scartando i pezzi che ora non mi servono, interessandomi al momento solo a quelli della cornice, perché è partendo da lì che è possibile farsi un’idea del quadro e, pezzo dopo pezzo, con pazienza, completarlo. Parto perciò dall’ultimo ricordo che ho lasciato in sospeso.
 
Dopo il matrimonio di Vanessa, dopo la frase che mi aveva detto circa l’occasione che avevo perso di trovarmi a quel fottuto matrimonio come il festeggiato anziché nei panni del testimone incazzato, cominciai a darmi una calmata. Iniziai a fare meno uso di cocaina, dai tre-quattro grammi quotidiani passai a una sniffata al giorno, per poi farmi un tiro ogni tanto. La cocaina non dà dipendenza fisica, solo mentale, e le crisi di astinenza non procurano dolori al corpo. Tuttavia, smettere di farne uso è tutt’altro che facile, e averne ridotto sensibilmente la quantità fu per me una conquista.
Di hascisc quello sì, ne fumavo ancora parecchio. E di tanto in tanto mi facevo un trip. Non ero più ai livelli di una volta, ma non ne ero nemmeno del tutto fuori. Come un coglione cercavo di convincermi che ero padrone di me stesso, che ero io a decidere quando farmi uno striscio o fumare una canna. Poi, però, bastava la vista di un po’ di bicarbonato o di zucchero a velo, a far crollare questa convinzione. E quando alla vista di polveri bianche la voglia di un po’ di pace mentale si faceva pressante, allora diventavo impaziente, e la coca me la sparavo dritto in vena: faceva effetto prima.
Insomma, non succedeva più tutti i giorni, però succedeva.
Un anno dopo il matrimonio, mio padre si decise a crepare. Vanessa e Saverio vennero a Roma per i funerali. Ricordo che mentre la bara veniva calata in terra, Vanessa mi afferrò la mano ed io gliela strinsi forte.
«Come ti senti?» mi chiese preoccupata.
Guardai la bara scendere verso il fondo della fossa. Osservai mia madre che cercava di confortare la sorella di mio padre, una zia che quasi non conoscevo. Intorno a me udivo i lamenti soffocati delle persone che erano venute a piangerlo. Mi feci una panoramica di tutti loro e li odiai, sistematicamente. Odiai la loro ipocrisia, e risposi, con disarmante sincerità: «Sollevato. Libero.»
Mio padre mi aveva lasciato tutte le sue proprietà: discoteca, ristoranti, la piscina, tutte le case e le macchine. Avrei tenuto solo la casa a Casal Palocco. Di tutto il resto non sapevo che farmene.
«Scherzi?» esclamò Saverio scioccato quando li misi al corrente delle mie decisioni.
Eravamo in casa mia, sulla Casilina, casa che avrei venduto insieme alle altre cose, ora che non mi serviva più.
«Venditi la piscina, la discoteca. Ma perché i ristoranti? Sono già avviati, e vanno alla grande…»
«Non voglio tenere niente che sia appartenuto a quell’uomo» risposi asciutto.
«Però la villa a Casal Palocco te la tieni…»
C’era una punta di biasimo, in quella considerazione. Guardai Vanessa. Lei tratteneva il fiato, e aveva gli occhi lucidi.
«Quella non apparteneva a lui. È sempre appartenuta a me» risposi infelice. Vanessa sbatté le palpebre un paio di volte, e poi abbassò gli occhi. Aveva capito cosa intendevo, con quella affermazione. E il suo imbarazzo non passò inosservato. Saverio, infatti, quasi a volersi vendicare dell’amore che continuavo a provare per lei e che non cercavo nemmeno di tenere nascosto, annunciò serafico, in maniera inopportuna: «Vanessa ed io avremo un bambino…»
Ci misi un po’ a elaborare quella dichiarazione. E arrivai all’amara conclusione che dovevo a tutti gli effetti rassegnarmi. Fu una notizia stravolgente, mi colpì con la stessa ferocia di un pugno allo stomaco. Non so perché, ma mi tornò alla mente il rumore dell’osso della gamba che andava in frantumi, e mi mancò il respiro.
«È vero?» chiesi a Vanessa quando mi fui ripreso dallo shock.
Lei sorrise e annuì.
«Wow, non so che dire… È una notizia fantastica!»
Andai ad abbracciare Saverio, sinceramente felice per lui. Certo, non lo ero per me, ma lui era pur sempre il mio migliore amico, e di sicuro non era a causa sua se avevo perso Vanessa. Lui mi mise una mano sulla spalla, e mi disse piano: «Vorremmo che facessi da padrino al bambino.»
Non potevo credere che lo avesse detto davvero. Mi voltai verso Vanessa per chiederle conferma.
Lei fece un cenno di assenso col capo, però poi aggiunse, seria: «Ma solo se smetterai del tutto di farti quelle merde. Dico sul serio, Nico. Desidero che sia tu a battezzare mio figlio, ma solo se ne sarai davvero in grado. Lo sai che fare il padrino comporta una grande responsabilità. Il padrino s’impegna a prendersi cura del figlioccio, nel caso in cui i genitori venissero a mancare…»
Saverio si toccò le palle, ridendo. «Possiamo cambiare discorso?» fece, in tono scherzoso.
Ma Vanessa non sorrideva. Mi penetrò con gli occhi - sguardo lago di montagna e oro fuso insieme - e ribadì glaciale: «No, che non possiamo. Diventa una persona responsabile, Nico. Almeno per mio figlio…»
Ed io capii subito il senso della frase. La frase intera era: “Non hai mai voluto cambiare per me, mi hai lasciato andare, mi hai costretta a cercare l’amore fra le braccia di un altro uomo. Ora, se ci tieni un po’ a me, se davvero vuoi che ti dia un’altra opportunità, diventa quella persona per mio figlio, per il figlio che avrebbe potuto essere il tuo”. Questo mi aveva detto in realtà Vanessa.
«Ti prometto che lo farò. Sarò pronto, per quando nascerà» le promisi.
Fu Saverio a interrompere il momento d’intimità che si venne a creare tra me e lei. Un momento fatto di sguardi d’intesa, di energia pura, dove il tuo corpo emana segnali e li trasmette al corpo della persona che desideri e viceversa, produce e secerne sostanze chimiche, alchimistiche, odori percepibili solo dagli interessati.
Saverio se la rise, prese dal frigo una bottiglia di vodka e propose un brindisi. Che rifiutai. Basta con l’alcol, basta con il fumo e la coca, basta funghi occasionali. Gettai tutto quello che avevo in casa nella tazza del cesso quella sera stessa , dopo che se ne furono andati.
Non voglio fare lo sbruffone e dire che sia stato facile, perché mentirei. Soprattutto quando mi trovavo in compagnia di vecchi amici, e quelli facevano passare la canna e me la ritrovavo fra le dita. La guardavo con desiderio e nostalgia, sospiravo, e la cedevo a quello che mi stava di fianco. Fu per questo che decisi di dare un taglio netto anche alle mie vecchie compagnie. Insomma, ce la misi davvero tutta.
Mi dissi però che un po’ di coca in casa avrei dovuto tenerla, tanto per testare la mia determinazione. Che idea del cazzo. Ne feci uso dopo tre mesi che avevo smesso. Avevo avuto un battibecco con mia madre, la quale mi rimproverava di essere un inetto, uno che non si decideva a dare una svolta alla propria vita, uno che temporeggiava senza concludere niente di buono. E mise il coltello nella piaga perché era davvero così che mi sentivo, che mi ero sempre sentito: un inadeguato. Solo la cocaina riusciva a regalarmi l’illusione che fossi qualcuno, uno cazzuto, un dio onnipotente. Me la iniettai, e quando l’effetto terminò - e ci mise davvero poco -, mi odiai più di prima. Cominciai a urlare, a mandare in frantumi piatti, vetri, spaccai sedie, vasi, scatenai un putiferio che mi costò caro, in termini di energie fisiche e di soldi. Avevo fallito, e non riuscivo a perdonarmelo. Soprattutto venne meno in me la sicurezza di potercela fare.
Desiderai morire, e fu allora che mi venne in mente quella cazzo di idea malsana. Sì, fu allora che decisi di mettere in atto quella che, secondo il mio modo squinternato di ragionare, era un’idea geniale, un piano perfetto.
Mi procurai della stricnina e ne riempii una bustina, mischiandola ad altre sostanze. La misi nell’armadietto dei medicinali, con una di coca. Se mi fosse tornata la tentazione di farne uso avrei potuto beccare quella sbagliata e restarci secco. Una sorta di roulette russa, insomma. Mi dissi che, se avessi ceduto di nuovo alla voce allettante della Bianca Signora, allora sarebbe stato meglio morire…
 
Ed è a questo punto che interrompo l’afflusso dei pensieri, e guardo il mio riflesso nello specchietto retrovisore. Lo sconforto che leggo nei miei occhi mi atterrisce, e il coraggio di bussare alla porta di Vanessa, che avevo avuto un attimo fa, svanisce di colpo. Apro la bocca e lascio uscire un lamento soffocato; un unico lento, tremolante sospiro.
Non sono ancora pronto, non ancora. Metto in moto e mi avvio verso casa, mentre il sole si solleva piano sopra parte dell’emisfero, facendo suonare sveglie e segnando il ciclo di un nuovo giorno, infondendo all’umanità che si accinge ad aprire gli occhi la speranza che questo che sta nascendo sarà un giorno migliore, quello decisivo, l’inizio di una nuova vita. Mi faccio questa riflessione mentre mi butto di peso sul letto con la morte nel cuore e, a differenza del resto del genere umano che sta per affacciarsi fiducioso a questo nuovo giorno, metto a dormire i buoni propositi di una nuova vita, li metto a nanna insieme a me.
Oggi è ancora così. Domani si vedrà.

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Capitolo 12
*** Una bicicletta nuova per Natale ***


Stamattina Vanessa mi ha chiamato per dirmi di non andare a prendere Nicolas a scuola, oggi pomeriggio. Quando le ho chiesto perché mi ha risposto che si era presa il pomeriggio libero e che ci avrebbe pensato lei. Per questo, quando il campanello ha suonato e mi sono ritrovato Nicolas davanti, mi sono affacciato a cercare la madre.
«Ehi, campione, che ci fai qui?» lo accolgo con un sorriso a trentadue denti, contento di trovarmelo di fronte. Lui solleva il foglio che ha nella mano e me lo porge.
«Ti ho fatto un disegno…»
«Un disegno? Davvero?»
Siedo sui talloni davanti a lui e gli do un’occhiata.
Ok, è confermato, non diventerà mai un’artista. Non del genere che piace a me, per lo meno. Forse un Picasso, o uno di quelli che per decifrarli hai bisogno di un interprete, che a sua volta non è altro che un coglione che si atteggia a critico e che in realtà non ha la competenza di dare senso a quelle macchie di colore sulla tela -perché nessuno può - ma solo la capacità di ubriacare le persone con le chiacchiere, di convincerle che quella tela nata per sbaglio sia in realtà un’opera d’arte. Insomma, sono qui che mi rigiro il foglio fra le mani, e non so che dire perché non capisco cosa abbia disegnato.
«Bello… ed è un caaa…»
«Un cavallo!» mi precede per fortuna, perché io avrei detto un cane.
«E questo sei tu che cerchi di salire» aggiunge poi salvandomi da un’altra figuraccia, perché a me, il tipo con la gamba alzata, fa più che altro pensare a uno intento a pisciare. Saranno anche brutti, ma ogni disegno che mi regala è una chicca che custodisco gelosamente. Li ho raccolti tutti dentro una cartellina che tengo su un ripiano dell’armadio in camera mia. Perciò lo abbraccio forte, sinceramente riconoscente, e gli scompiglio la zazzera bionda mentre torno dritto sulla schiena.
«Dov’è tua madre, campione?» gli chiedo poi, tornando a sbirciare per la strada.
«È al lavoro» risponde candidamente. E io sento tutti i muscoli facciali rilassarsi e cedere, come cera riscaldata.
«Che vuol dire, al lavoro? Con chi sei venuto?»
Lui si fa piccolo, e mi guarda mortificato. «Sei arrabbiato con me?»
«Certo che no, campione, solo che non ho capito come sei arrivato fin qui. Con chi eri?»
«La signora Melita. Lei è a casa, ma a me non andava di restare con lei.»
La collera è un sentimento devastante. E veloce. Ci mette un attimo a raggiungere il cervello e a mettere in circolo l’adrenalina nel sangue. Cerco di contenerla per amore di Nicolas, perché non voglio che si spaventi o si senta in colpa.
«Ok, campione, vieni dentro. Sai cosa ci facciamo, adesso? Un bel frullato con le banane, che ne pensi?»
«E con le fragole?»
«E con le fragole, ammesso che ne siano rimaste. Dai, andiamo a controllare.»
Mi prendo del tempo per capire cosa diavolo sia potuto succedere, prima di agire. Così, mentre il frullatore è in funzione e Nicolas è sullo sgabello della cucina, quello lungo dove adora sedersi perché dice che lo fa sentire alto come me, che se la ride felice di essere in mia compagnia, io analizzo la situazione.
Punto primo: Vanessa mi ha mentito. Non è a casa dal lavoro.
Punto due: ha preferito affidare Nicolas a un’estranea piuttosto che a me, e non riesco a immaginare per quale motivo.
Punto tre: Melita, chi cazzo è? Una sconosciuta che non è stata in grado di controllare un bambino nemmeno per due ore.
Perciò, nella lista delle persone e delle circostanze per cui sono incazzato, Melita al momento è al primo posto. Non so ancora perché Vanessa mi abbia ingannato, e nell’attesa di avere spiegazioni direttamente da lei sono disposto a concederle il beneficio del dubbio, ma Melita… Per la miseria, quale persona sana di mente lascia che un bambino se ne vada in giro da solo? E ammesso che non lo sappia, a quale altra attività era impegnata mentre Nicolas sgattaiolava fuori dalla porta e si faceva indisturbato i trecento metri che separano la sua casa dalla mia? Perciò, mentre verso il frullato dentro i tumbler alti, quelli azzurri presi al McDonald’s, sono giunto ad una conclusione: prima faccio tremare questa cazzo di Melita, poi penserò a Vanessa.
Dopo aver bevuto il frullato, lascio Nico davanti alla tele a godersi il suo spettacolo preferito, la Melevisione, in compagnia d’improbabili folletti. Mi dirigo fuori, in terrazza, da dove posso urlare a perdifiato e continuare a controllare Nico attraverso i vetri. Compongo il numero di casa di Vanessa e attendo.
Uno, due, tre, sette squilli. Quasi inizio a credere che la tipa non mi risponderà. Magari si è accorta della scomparsa del bambino che le è stato affidato, e ora è in strada in preda al panico, che versa lacrime di coccodrillo. Invece, all’ottavo squillo, risponde con voce angelica: «Pronto?»
Impreco a denti stetti, incazzato come una iena, perché è chiaro che Melita, chiunque sia, non si è ancora accorta del fuggitivo. E dal vociare in sottofondo è altrettanto chiaro che la tipa se ne sta tranquillamente davanti alla tele.
«Lei è la signora Melita?» le chiedo, cercando di contenere lo sdegno.
«Ss… sì. Ma chi è scusi?»
«Sono il patrigno di Nicolas. Volevo parlare con mio figlio» e mentre lo dico mi impettisco. Vanessa può andare tranquillamente a farsi fottere in questo momento: Nicolas è mio figlio perché me lo merito. Sono suo padre, ne sono all’altezza più di quanto lei non lo sia come madre. Io non lo avrei mai lasciato in mano ad una Melita qualunque!
«Può passarmelo,  gentilmente?»
«Oh, sì, il signor Nicolas. Il piccolo è in camera che disegna. Attenda che glielo vado a chiamare…»
“In camera un cazzo. A parte che quello è un ripostiglio, brutta testa di cazzo, e poi vallo a cercare in quel fottuto ripostiglio, ora”, mi dico stringendo un pugno.
Sento Melita che lo chiama, dapprima con calma, poi con stupore, infine con sgomento e terrore. E a questo punto metto giù. Perché è giusto che la tipa tremi di paura, che si faccia prendere dall’angoscia, dai sensi di colpa. Si merita il battito cardiaco accelerato e il dispiacere di non essere stata all’altezza del compito affidatole. E quando tornerà al telefono e troverà la conversazione interrotta, sicuramente penserà a una strana coincidenza, per poi arrivare a sospettare, chissà, a un rapimento. Mi gongolo del panico che sono riuscito a creare nell’animo di Melita, e torno da Nicolas.
«Hai già fatto i compiti campione?»
Annuisce in quel suo modo di fare, deciso. «Li ho fatti all’asilo.»
«Quale lettera avete imparato, oggi?»
«Vuoi che te la disegno?»
Sorrido. «Semmai che me la scrivi…»
Si alza entusiasta e corre a prendere i fogli e le matite colorate che sono dentro un secchiello vuoto di yogurt da un litro, sul ripiano inferiore del mobile basso della tele. E mentre è piegato sul foglio a tracciare la lettera D con una concentrazione tale da strapparmi una risata, squilla il cellulare. È Vanessa.
«Molto bene, campione.»
«Lo vuoi un altro disegno?»
«Sicuro!» dico mentre apro la porta a vetri e torno sulla terrazza. Rispondo incazzato.
«Nicolas è da te?» mi chiede subito lei, con la voce strozzata dall’angoscia.
«Tu che ne dici? Come accidenti ti è venuto in mente?»
«È con te?» torna a ripetere, fra l’incredulo e lo scorato.
«Sì, cazzo, è qui. E quell’idiota a cui lo avevi affidato nemmeno si era accorta che era uscito…»
Vorrei riempirla di insulti, vorrei farle provare dolore, umiliarla, vorrei… che smettesse di piangere, ora. Singhiozza convulsamente, e tutta la mia rabbia evapora, cede il posto alla tenerezza. E ora vorrei solo tenerla forte fra le braccia e chiederle perdono, perché ormai si è cronicizzato in me il senso di colpa. Quando piange, è sempre a causa mia.
«Calmati, ok? È da me, ed è tutto ok» cerco di confortarla. E lei si lascia convincere, ma solo dopo aver dato sfogo alle lacrime.
Appena arriva concordiamo che Nicolas ha bisogno di una sgridata, un piccolo rimprovero, perché comprenda la gravità dell’azione che ha compiuto oggi. Avrebbe potuto finire sotto una macchina, o in mano a qualche debosciato. Perché è inutile che ci raccontiamo la balla che certe cose non accadono più. Accadono eccome, quando meno te lo aspetti.
«Hai capito, tesoro?» gli chiede infine Vanessa, mentre lo guarda negli occhi. Voce affettuosa, sguardo severo. Ecco come si fa. E mi sento uno stupido, ora, ad aver potuto anche solo pensare che lei non sia una brava madre. Lo è, delle migliori. Ciò non toglie che mi debba delle spiegazioni. Così, quando Nicolas annuisce e ci assicura che non si allontanerà più dalle persone a cui viene affidato, io e lei ci trasferiamo in terrazza.
«Mi avevi detto che badavi tu a Nicolas, oggi pomeriggio!» parto subito in quarta. Non tento nemmeno di mascherare il risentimento che provo.
Sguardo oro-sciolto, lei è più incazzata di me.
«Bè, sai, ho pensato che magari potevi avere in mente altri programmi…» ringhia.
Increspo le sopracciglia. «Ma di che diavolo parli?»
«Della tua amichetta, quella con cui ti frizionavi in discoteca sabato notte.»
Lascio uscire l’aria, sbalordito. Sono sicuro di aver fatto una faccia da fesso. La realtà è che non so come prenderla, questa cosa. Sono combattuto fra il desiderio di giustificarmi e la voglia di dirle di farsi i cazzi suoi. È lei che non mi vuole nel suo letto, no? Lei che mi ha chiuso fuori dalla sua esistenza. Cosa si aspetta che faccia, che viva come un asceta per tutta la vita?
«Chi ti ha detto una cosa del genere?» le chiedo invece.
«Una collega di lavoro che ti ha visto. Che ti credevi? Viviamo su uno scoglio immerso in una pozzanghera, su quest’isola non ci sono più di settemila persone, tutti conoscono tutti e sanno i fatti di tutti…»
«Non ci posso credere… Tu hai inventato la balla di oggi per farmela pagare!» esclamo indignato.
Lei stringe le labbra ma tace. E siccome il detto insegna che chi tace acconsente…
«Ti rendi conto, cazzo? Tu… tu mi fai proprio incazzare, qualche volta. Se la cosa ti dava sui nervi perché non me ne hai parlato, invece di prendere decisioni che danneggiano Nicolas più di tutti?»
«Nicolas che c’entra? È stato un caso quello che è successo oggi…»
«Smettila di far finta di non capire. Non parlavo solo della negligenza della tua baby sitter, ma del fatto che gli hai precluso la possibilità di stare in mia compagnia, quando sai perfettamente quanto sia importante per lui.»
«Bè, non lo so se mi fa piacere che passi ancora tanto tempo con te!»
«Coosaa?»
Sono fuori di me, ora. E come spesso accade quando litighiamo, ci mettiamo a vociare insieme, alzando ognuno il tono della voce per prevaricare sull’altro.
«Non provartici nemmeno a dirlo, Vanni, non farlo.»
«Ah, non dovrei dirlo?»
«Cazzo, ti ho avvisato.»
«Chi mi dice che tu non riceva strane visite mentre sei con mio figlio?»
«La mia vita privata riguarda solo me, e non sono così incosciente da fare coglionate mentre sono con Nicolas.»
«Nicolas è un bambino intelligente, le capisce certe situazioni.»
«T’inventi un mucchio di balle, sei solo gelosa, ecco cosa sei!»
«Va bene, ok, è così, sono gelosa, ok?»
Taccio. Ho il fiatone. Per l’agitazione e per lo stupore. L’ha detto seriamente o in tono sarcastico?
«Sono gelosa, è vero. Non la sopporto, l’idea di te con un’altra donna» ribadisce.
Mi cheto, e lo fa anche lei.
«Non hai motivo di esserlo, Vanni. Fra me e quella non c’è stato niente» le assicuro mentre cerco di afferrarle un braccio, che impedisce con un gesto brusco.
«Bè, non è quello che mi hanno raccontato!»
«Oh, andiamo, ancora con la paranoia delle chiacchiere della gente…»
Mi guarda torva, con le mani sui fianchi.
«Ok, lo ammetto, ci siamo baciati. E forse strofinati, un po’… Ma quando siamo arrivati al punto, non ho voluto. Lui, non ha voluto» preciso, lanciando un’occhiata verso il mio basso ventre.
«Ma per favore… E da quando in qua soffri di simili disfunzioni?» ride sarcastica. È ovvio che non mi crede.
«E da quando in qua sei gelosa di altre donne?» le rigiro la domanda.
«Lo sono sempre stata…»
«Non me lo avevi mai detto…»
«Che differenza avrebbe fatto?»
Ci siamo calmati entrambi. Avverto forte la tensione sensuale fra di noi, in questo momento. 
Mi avvicino, e finalmente si fa afferrare un braccio.
«E cosa cambia ora?»
«Cambia, perché ora c’è una speranza per noi, Nicolas…» dice con sentimento.
Ha ragione, ora tra di noi potrebbe accadere. C’è solo un’ultima barriera da abbattere, un unico angolo da smussare, e sappiamo entrambi qual è.
Non lo farò oggi, non sono ancora disposto a parlarle, ma posso almeno fare in modo che si fidi di me riguardo alla rossa.
Credimi, Vanessa, non c’è stato niente di più di un flirt con quella. E tu sai che non ti mentirei mai…»
Ed è vero. Sono tipo da nasconderle, le verità scomode, non da alterarle. Nemmeno quando facevo uso di coca mentivo.
La porta a vetri scorrevole si apre all’improvviso e noi sobbalziamo, come colti in flagrante a fare chissà che cosa.
Nicolas ci fissa preoccupato.
«Non siete più arrabbiati?» ci chiede.
Io e Vanessa ci lanciamo uno sguardo d’intesa, e scuotiamo il capo nello stesso momento.
«No, non lo siamo più. Vieni qua, campione» e lo sollevo in aria, mentre ride felice.
Mi mette la sua mano sul viso -dio quanto lo amo quando lo fa- e mi chiede, con occhi speranzosi: «Allora domani posso stare con te, papà?»
Trattengo il respiro e guardo la madre nello stesso modo in cui lui ha guardato me. Mi ha chiamato papà, e tremo all’idea che possa rimproverarlo di nuovo. Ma lei si limita a sorridere, e annuisce.
«Certo che puoi, campione!» dico, e me lo carico sulle spalle. E ride, io rido, siamo felici come due bambini a cui è stata concessa la doppia porzione di gelato, un giro in più sulle giostre, promesso una bicicletta nuova per Natale… o una nuova famiglia.


Strano come certe emozioni rievochino i ricordi. L’euforia che ho provato stasera, quando Vanessa mi ha detto di essere gelosa e di sperare ancora in un futuro per noi, mi ha riportato indietro nel tempo, a quel giro in moto sulla Via del Mare che facemmo insieme.
 Ero appena rientrato da un corso di base sui fondamenti di contabilità. Avevo già in programma di aprire un locale tutto mio, e desideravo addentrarmi in quest’avventura in maniera consapevole e responsabile, quindi avevo preso a frequentare tutti i corsi che potevano aiutarmi in tal senso, oltre che ovviamente affidarmi ad uno studio legale.
Ebbi giusto il tempo di farmi una doccia e di vestirmi, quando Vanessa suonò il campanello. Non sapevo fosse a Roma, e nel vederla mi lasciai sfuggire un’esclamazione di gioia.
Ai suoi piedi, Nicolas dormiva beato dentro l’ovetto. Avrebbe compiuto un anno di lì a pochi giorni.
Ci abbracciammo forte, ero così felice di rivederla.
Era in ottima forma. Aveva tagliato i capelli e li aveva schiariti un po’. Aveva un aspetto più maturo. Il gonfiore della gravidanza, che conservava ancora nel periodo in cui era stato battezzato Nicolas, aveva lasciato il posto a una tonicità di muscoli che avrebbe potuto tranquillamente fare invidia a una teenager. Si vedeva chiaramente grazie alla moda dei jeans a vita bassa e alle magliettine succinte, così disegnate per scoprire il ventre. E quello di Vanessa era tornato piatto come la pianura padana, dove si era trasferita da quando si era sposata.
La feci entrare e le preparai un caffè, che io avevo ripreso a bere da poco allungato con molto latte a causa della caffeina. Mettemmo l’ovetto sul tavolo ed io restai a lungo a fissare Nicolas, incantato.
Com’era diverso dall’ultima volta che lo avevo tenuto in braccio, nella chiesa di S. Patrizio a Cadelbosco. Capelli e sopracciglia si erano infoltiti. Erano biondi come quelli di Saverio. Eppure i lineamenti avevano la morbidezza della madre.
«Di’ la verità, lo hai disegnato e hai consegnato il progetto al Capo perché te lo facesse uguale? Com’è possibile che sia così bello?» le chiesi, scherzoso.
«Che vorresti dire, che sono brutta?»
«Tu sei sempre stata uno schianto, anche con il pancione. È a Saverio che mi riferivo…»
Nicolas dormiva ancora, eppure, quando avvicinai il mio dito alla sua manina, la aprì e la richiuse con forza sul mio indice. Provai una sensazione meravigliosa. È così anche oggi. Quando Nico mi tocca, quando le sue piccole mani sono sul mio viso o stringono le mie, m’invade un sentimento paterno così forte da farmi venire voglia di piangere. Forse perché, in quel semplice contatto, avverto implicitamente la necessità di ogni bambino di sentirsi amato e protetto. O forse perché non ho mai avuto quel tipo di legame, con mio padre. Non ho memoria di nessun tipo di manifestazione d’amore da parte sua, non un gesto d’affetto, nemmeno un timido tentativo. Invece avrei voluto. All’improvviso Vanessa mi venne vicino e mi diede un bacio sulla guancia. La guardai piacevolmente sorpreso.
«Come mai questo slancio?» volli sapere.
«Sono orgogliosa di te!»
Non servirono altre parole. Sapevo che si riferiva al fatto che ero totalmente lucido, sobrio, perfettamente in me.
«Che moto hai, adesso?» mi chiese poi.
Io mi gonfiai come un pavone. «Una Harley Davidson» dissi entusiasta, convinto che avrei fatto colpo.
E fu così.
Il tempo di lasciare Nicolas a Marisa, la mamma di Vanessa, ed eravamo in strada, il rombo della Harley nelle orecchie, il vento che faceva svolazzare i nostri indumenti, il suo corpo premuto contro il mio.
Mi sentivo euforico. Felice. Anche se per poco, anche se per quel breve attimo, era di nuovo con me, ed era di nuovo la mia donna.
La portai a Ostia, sul lungomare, e ci fermammo sul piazzale della Cristoforo Colombo che si affaccia sul mare, dove ci sedemmo sui bordi della fontana a chiacchierare.
Lei inspirò a fondo l’aria salmastra. Era fine aprile, e l’estate era arrivata parecchio in anticipo, come succede sempre a Roma.
«Dio, quanto mi manca casa. Come hai fatto a vivere tanto tempo in quella landa desolata che è la pianura padana?» disse.
«Non dovresti parlare così della terra che hai adottato per scelta. Anche perché è dove crescerà tuo figlio» la rimproverai con affetto.
Lei si fece pensierosa, e a me venne il sospetto che fosse infelice. Aggrottai le sopracciglia.
«Dov’è Saverio?» le chiesi sospettoso.
«Perché quel tono?»
«Quale tono?»
«Quello… ti conosco troppo bene.»
Non c’era traccia di umorismo nella sua voce, piuttosto sembrava allarmata, e questo mi insospettì ancora di più. Lei sapeva, lo sapeva bene, che non avrei tollerato di vederla soffrire e che avrei reagito in maniera spropositata, anche se si fosse trattato di prendere a schiaffi il mio migliore amico.
Mi feci di marmo e le risposi, serio: «Anch’io ti conosco troppo bene, e qualcosa mi dice che non sei felice.»
Mi guardò a lungo, poi scoppiò a ridere e mi spettinò i capelli. «Non cambierai mai, vero? Dai, andiamo, torniamo a casa. Voglio tornare dal mio cucciolo» disse, e non mi consentì repliche.
M’informò solo, mentre raggiungevamo la moto, che Saverio non c’era. Era rimasto a casa. Si era messo in testa di mettersi in affari, di aprire una pista di pattinaggio con tanto di ristorante all’interno dell’impianto stesso. Un progetto ambizioso, troppo, anche per un tipo sveglio come lui. Soprattutto perché non aveva risorse necessarie per poterlo affrontare. Perciò era sempre stanco, irascibile, incostante. Vanessa si sforzò di farmi credere che era tutto ok, che tutto era sotto controllo. Per qualche motivo non le credetti del tutto. Però non volli insistere, né mettermi a fare il bacchettone. Spinsi la moto al massimo, perché sapevo che Vanessa amava la velocità. La eccitava, la rendeva felice. E questa era l’unica cosa che davvero aveva importanza per me: che lei lo fosse.

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Capitolo 13
*** Verità dolorose (prima parte) ***


CAPITOLO 7
 Se è vero che dopo la tempesta c’è sempre il sereno, è vero anche il contrario.
Dopo la fase “C’è ancora speranza”, siamo passati al “È tutta colpa tua se non ho ancora una famiglia perciò stammi lontano dai coglioni che ti odio.”
Da un po’ di tempo, Vanessa è più suscettibile del solito. Dipende dal fatto che Nicolas cresce a vista d’occhio e non ha ancora un fratellino. Non ne avevamo mai discusso, prima di stasera, ma lo avevo già capito da me. L’ho intuito da come si sofferma a guardare i neonati delle donne al supermercato, da come riesce sempre a trovare il pretesto di toccarli, dal modo in cui sorride, con nostalgia e tristezza.
Ogni volta che è chinata sulla navicella della carrozzina di qualche neomamma ad ammirare in estasi il pargolo all’interno, le si forma un fumetto sopra la testa. E nel fumetto leggo sempre la stessa scritta: “Beata lei, che donna fortunata! Non avrò mai la possibilità di dare un fratellino a Nicolas! Se solo il coglione qui vicino a me si decidesse a dare una svolta alla nostra vita…” Poi si solleva e mi guarda con occhi supplichevoli. Per farmela infine pagare appena ci troviamo lontani dal raggio d’azione del bebè con relativo effetto sedativo, dal quale lei a quel punto non è più influenzata. Allora diventa musona, scorbutica, odiosa.
È quanto è successo oggi.
Nel pomeriggio siamo andati in un centro commerciale a comprare un costume di Halloween da fare indossare a Nicolas per l’ormai tradizionale scherzetto o dolcetto, visto che siamo a fine ottobre. Nicolas era sulle mie spalle, adora sentirsi più in alto di me.
Vanessa era lì che dagli stand tirava sistematicamente fuori gli abiti e ce li mostrava a turno, uno per uno.
Nicolas ha storto il naso a tutta la collezione di orsi e tigrotti pelosissimi, che fanno sudare al solo vederli, ed io l’ho sostenuto per ogni smorfia con relativo “bleah” che ha fatto, porgendogli il palmo della mano su cui batteva “il cinque”, ridendo ogni volta. Questa complicità tra di noi ha cominciato a entusiasmarlo più dell’acquisto dell’abito stesso, e ha iniziato a bocciarli tutti senza nemmeno prenderli in considerazione. A un certo punto, Vanessa si è messa le mani sui fianchi, nella sua classica posa da combattimento, e mentre io esclamavo un “Oh-oh!” per far intendere al mio socio che eravamo nei guai, lei ci ha rimproverati, in tono divertito.
«Oh, dico a voi due, la fate finita? O avete deciso di rimanerci a vita, in questo negozio?»
È stato in quel momento che la tipa ha esclamato giuliva il suo nome, facendole spostare l’attenzione da noi a lei.
«Ciaaoo, Rita (ma potrebbe essere stato benissimo un Silvia, non me lo ricordo il suo nome), come stai?... Oddio, che bello, ma è un tesoro...»
E già, perché la cazzo di Rita, che potrebbe anche chiamarsi Silvia, non poteva non venire all’ipermercato senza portarsi dietro l’erede appena nato. E siccome è fresca di parto, si trova ancora nello stadio “Ammirate, prego, che gioiello di bimbo ho fatto!” Quindi è solo naturale che abbia mostrato con orgoglio il frutto del suo amore.
Istintivamente anch’io mi sono affacciato, e sebbene possa comprendere l’idilliaco stato d’animo in cui si trovi, non ho potuto condividere la stessa opinione che Vanessa ha espresso sul bimbo. Era tutto raggrinzito, il corpo ricoperto di una compatta peluria nera. Ergo: era proprio bruttino.
Nicolas, che si era sporto anche lui per dare un’occhiata, mi ha alitato nell’orecchio, molto a bassa voce: «Ma è già mascherato per Halloween?»
Ho sogghignato mio malgrado e gli ho mostrato nuovamente il palmo, che ha prontamente battuto con una risatina perfida. Perché su Nicolas si può dire una cosa senza ombra di dubbi: è piccolo, ma sa essere un grande. Un gran bastardo, per essere precisi.
Comunque, mentre io e lui ci stavamo facendo un mucchio di risate sulle spalle della povera scimmietta pelosa, Vanessa e Sara-Mara-Rita, o come diavolo si chiama, avevano intrapreso una fitta conversazione di cui non ero interessato e da cui estrapolavo solo lo stretto necessario, tanto per non dare l’impressione dell’idiota col sorriso da fesso sulle labbra che annuisce senza aver capito una minchia di cosa si stia parlando. Ma quando la tipa senza nome ha fatto quella specifica domanda, allora la mia concentrazione è stata totale.
«E voi, pensate di averne un altro?»
Ho guardato Vanessa, più che altro per valutare la sua reazione. Ha sorriso malinconica, e poi ha risposto: «Non credo…»
Ma la tipa non si è arresa. Ha chiesto direttamente a Nicolas il suo parere: «Tu non lo vorresti un fratellino?»
Nico non ha emesso alcun suono, ma dal modo in cui l’ho sentito agitarsi sopra le mie spalle ho capito che stesse annuendo.
«Bè, lui lo vuole, bisogna proprio che vi decidiate a farglielo, un fratellino» ci ha incoraggiati, e poi ha fatto una risatina allegra.
Vanessa ha sostituito l’espressione malinconica con una di disappunto.
«Lui non è mio marito...» ha precisato infastidita.
Francesca-Maria-Vattelapesca si è fatta seria pure lei. «Oh! Mi dispiace. Che peccato… Bè, ci si vede.»
Ha abbracciato nuovamente Vanessa, mi ha teso la mano che io, per vendicarmi, ho stretto più del dovuto, e mentre si allontanava ho pensato con perfidia che, uscendo dal centro commerciale, sarebbe tornata allo zoo, da dove deve aver preso la scimmia che si porta dietro e che spaccia per figlio suo.
Vanessa è rimasta a osservarla dirigersi verso il reparto degli omogeneizzati. L’ha seguita con lo sguardo fino a che quella non è sparita, inghiottita dalla calca di gente. Dopodiché ha abbassato gli occhi sul costume da Peter Pan che stringeva fra le mani. Il vestito lo guardava ma non l’aveva a fuoco, ed io ho desiderato conoscere i pensieri che la stavano tormentando. Infine ha rimesso la gruccia col costume sullo stand con un gesto brusco, e senza dire una parola ha guadagnato l’uscita.
Nicolas ha iniziato a fare capricci quando si è reso conto che non avrebbe avuto il suo vestito oggi. Ho cercato di rassicurarlo, gli ho promesso che ci andremo lunedì, io e lui, ma è andato peggiorando. Piangeva copiosamente quando abbiamo raggiunto la macchina. L’ho messo sul seggiolino e ho cercato di allacciargli la cintura, mentre si dimenava e singhiozzava.
«Nico, ad Halloween mancano ancora otto giorni, c’è tempo, piccolo, hai capito? Lunedì andremo insieme a cercarne uno, e avrai il tuo vestito. Ti ho fatto una promessa, no? E lo sai che le promesse le mantengo sempre…» gli ho ribadito mentre cercavo di inserire la linguetta della cintura nella fibbia di chiusura, senza riuscirci.
Vanessa mi ha spinto con rabbia lontano dal seggiolino. Le sue dita si sono mosse con agilità e in un gesto solo, rapido e preciso, ha fermato la cintura alla fibbia.
«Nico, basta! Se anziché fare lo sciocco e perdere tempo ti fossi deciso prima, a quest’ora avresti il vestito in macchina con te!» lo ha ammonito aspramente.
Sono salito in macchina senza dire nulla, anche se avrei voluto schiaffeggiarla, tanto ero arrabbiato. Riversava su Nicolas la sua frustrazione, e non riuscivo a sopportarlo.
Nicolas ha continuato a singhiozzare per tutti e venti i minuti di strada, ma senza più piangere. Singhiozzava a causa delle lacrime già versate. Vanessa, invece, è rimasta tutto il tempo a fissare il paesaggio dal finestrino laterale, con l’intento di chiudermi fuori dai suoi pensieri.
Appena siamo arrivati a casa, Nicolas è andato a rinchiudersi in camera, nella “camera-ripostiglio”, come fa di solito quando è arrabbiato. Vanessa ha preso a muoversi per la sala, nervosamente, come un leone in gabbia, e ha iniziato a compiere azioni senza senso. Ha buttato le giacche sul divano, ha sollevato gli avvolgibili delle finestre, ha ripreso le giacche e le ha appese sull’appendiabiti, ha abbassato nuovamente gli avvolgibili, e tutto questo mentre brontolava frasi incomprensibili.
«Si può sapere che accidenti ti prende?» le ho detto.
Si è fermata di scatto. Sembrava non aspettasse altro. Voleva litigare. Ne aveva bisogno per stemperare la rabbia, per fare uscire un po’ di pressione dalla valvola di sfogo.
«Tu gliele dai tutte vinte!» ha sibilato, con gli occhi oro-fuso che le schizzavano dalle orbite.
«Ma di che parli, Vanessa? Lo sappiamo entrambi che non è per Nicolas che sei andata giù di testa!»
«Ah, davvero? E da quando in qua capisci qualcosa di me, Nicolas?»
«Infatti no, non ti capisco, ma so che cosa ti ha fatto infuriare.»
«No, che non lo sai!»
«Tu dici? Lo vedo come ti fermi a guardare i bambini che trovi nel tuo cammino. Lo so che desideri averne un altro, uno che faccia compagnia a Nicolas.»
«Bravo, e ora che lo hai detto puoi anche toglierti dalle palle!»
Le ho afferrato un braccio. «No, cazzo, non me ne vado. Perché non ne posso più. Sono stanco di essere trattato così da te!»
«Tu… sei stanco di essere trattato…» Non ha finito la frase. Ha iniziato a ridere istericamente.
«Sai bene di che parlo. Ogni volta che ti fermi a fare una carezza a un moccioso dentro una carrozzina poi te la prendi con me. E quando sei arrabbiata con me, te la sfoghi con Nicolas. Basta, Vanessa, dacci un taglio!»
Lei si è fatta paonazza e ha strabuzzato gli occhi. «Tu non capisci proprio niente, lo sai, Nicolas? Io ho voglia di farmi una famiglia! Ho voglia di dare un padre a mio figlio, di dargli un fratellino, di essere amata, e coccolata, e riscaldata… Ho bisogno del sostegno di un uomo, della sua complicità, dei suoi consigli, dei suoi rimproveri… Io ho diritto di farmi una cazzo di famiglia! Vado per i trenta e sono stanca di aspettare, Nicolas! Sono stanca di aspettarti!»
Ha iniziato a piangere a metà frase, procurandomi dolore, ma anche fastidio.
«Allora sposami! Sposami, Vanessa!» l’ho implorata.  
«No!» mi ha gridato contro. Si è liberata dalla stretta e si è allontanata da me.
«E allora non ti permettere più di usarmi come capro espiatorio per le  tue frustrazioni. Non incolpare me se stai invecchiando zitella. Non sono io quello che non ti vuole!» le ho detto con risentimento, avviandomi verso l’uscio.
«Bravo, scappa. È quello che sai fare meglio, no?»
Ho chiuso gli occhi, ho fatto scorrere le dita fra i capelli e mi sono voltato nuovamente verso di lei.
«Tu insisti a voler conoscere risposte a interrogativi che non ti riguardano. Credi che amare qualcuno significhi necessariamente renderlo partecipe del proprio dolore?»
«Significa renderlo consapevole, per lo meno. E quindi sì, è giusto renderlo partecipe.»
«No, se non è necessario per lui conoscerle, certe verità. Se non è necessario, e, soprattutto, se queste verità gli procurerebbero dolore…» mi sono avvicinato, e l’ho guardata dritto negli occhi, intensamente «… se ti procurerebbero dolore… Qualsiasi cosa io mi porto dentro, è meglio per te non conoscerla, Vanni. Tutto ciò che devi sapere, che ti serve di sapere, è che io ti amo sopra ogni cosa. Che darei la mia vita per te. E che tutto ciò che desidero è vederti felice. Io ho bisogno di te, e di Nicolas… Ho bisogno di voi, siete l’unica famiglia che abbia mai voluto…»
Il mio sguardo si è fatto implorante. Siamo stati a lungo in silenzio, a riflettere. Ma poi lei ha emesso un sospiro e, con un filo di voce, mi ha detto: «Io ho bisogno di sapere…»
E a quel punto ho sentito tutto il mio essere infrangersi, farsi in mille pezzi. Ho chiuso gli occhi, ho ingoiato le lacrime, ho scosso la testa, mi sono voltato e sono andato via…

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Capitolo 14
*** Verità dolorose (parte seconda) ***


Avevo capito che c’era qualcosa turbava Vanessa quando era scesa a Roma senza Saverio. E diversi mesi dopo, a Natale, ebbi l’opportunità di verificare di persona.

La neve era caduta abbondante in tutta l’Emilia Romagna, e ricopriva ogni cosa con il suo soffice manto bianco. Il cielo rosa del crepuscolo ne minacciava altra, ed ero incollato al vetro della finestra, eccitato come un moccioso.
La neve ha sempre avuto un’attrattiva molto forte, su di me. Andavo spesso a sciare, quando avevo tutto il tempo del mondo e a pagarmi le vacanze erano i miei. Mi recavo in montagna solo in inverno. In estate la montagna offre panorami spettacolari e relax totale, ma tutto è fermo, troppo statico per il mio modo di essere. Io amo le cose in movimento. La neve che cade, si muove. Sciare è movimento. Le uniche volte che vado in montagna senza neve è per fare arrampicate.
Comunque, ero affacciato alla finestra con Nicolas in braccio che cercava di infilarmi una mano in bocca. Quando si fu stancato di quell’insano esercizio, iniziò a interessarsi ai capelli. Si era preso una folta ciocca fra le dita e la stringeva forte. Ogni tanto la tirava, e qualche volta riusciva a strapparmene un po’.
Era la vigilia di Natale, e Saverio e Vanessa mi avevano invitato a passare quella serata con loro. C’erano anche la mamma e il papà di Vanessa, e la sorella di Saverio con il marito, freschi sposi e molto presto anche genitori. Eravamo tutti lì, mancava solo Saverio. Io ero appena arrivato, non lo avevo ancora veduto.
Nicolas diede un’altra tiratina ai capelli ed io mi lasciai sfuggire un “ahi” che fece morire dal ridere Vanessa, intenta ad apparecchiare la tavola.
«C’è poco da ridere, hai un despota per figlio» scherzai.
«È il suo modo di dirti che devi tagliarti i capelli» disse lei. Marisa venne in mia difesa. «Lasciala perdere, tesoro. Sei bellissimo così. Anzi, direi che ti stanno benissimo, in questo modo.»
Le sorrisi riconoscente. «Ecco una donna che ha buon gusto!» esclamai, e Vanessa mi tirò una delle palle natalizie con le quali stava decorando la tavola.
Risi, poi guardai l’ora. Si stava facendo tardi, ma di Saverio nemmeno l’ombra. Lo feci notare a Vanessa, ma lei fece spallucce.
«Arriva da Castelnovo Monti, dagli tempo. Le strade potrebbero essere ghiacciate» rispose.
Arrivò davvero tardissimo. Salutò tutti nervosamente. Sembrava agitato, soprattutto con me. Continuava a evitare il mio sguardo, ed io sentivo che c’era qualcosa che lo tormentava, che cercava di nascondermi. Ci rivolgemmo pochissime parole di circostanza, e non era da lui. Non era il Saverio che conoscevo. Perfino Nicolas fu snobbato dal padre, e Vanessa dovette accontentarsi di un veloce bacio sulla guancia. Rimase nervoso e taciturno per tutta la serata. A un certo punto, qualcuno gli chiese se stava continuando a fare l’aerosol, visto che continuava ad essere raffreddato. Quella frase mi mise addosso una strana inquietudine. Ricordo che sollevai la testa dal piatto e lo fissai intensamente. Non so perché non ci avessi fatto caso prima. Forse perché era il periodo dei raffreddori e delle soffiate di naso. Ma Saverio non si soffiava il naso. Non aveva catarro da espellere. Aveva solo la sensazione che gli colasse qualcosa, e tirava su di continuo. Lui sorrise nervosamente e si giustificò dicendo che non aveva avuto il tempo per l’aerosol, in quei giorni. La sorella, allora, lo invitò per lo meno a soffiarselo, il naso, perché non era educato quel continuo tirare su.
Non riuscivo a smettere di guardarlo in faccia. E lui lo sapeva. Lo sapeva che lo stavo controllando. Sapeva a cosa stavo rimuginando. A un certo punto chiese scusa, si alzò e se ne andò in bagno.
Ne uscì dopo dieci minuti, totalmente trasformato. Iniziò a ridere e a scherzare con tutti, straparlava, faceva il gradasso.
Io guardai Vanessa, atterrito. Cercai nei suoi occhi la conferma alla mia terribile intuizione. In realtà avevo un fottuto bisogno che la smentisse, ma lei teneva gli occhi bassi. Li alzava solo quando intavolava una conversazione con qualcuno, evitando accuratamente di incrociare il mio sguardo. Allora mi alzai con un pretesto, non ricordo quale, e mi avvicinai a lui per guardargli le pupille. Le aveva dilatate. Lui era troppo fatto per rendersi conto di essere stato scoperto, o per preoccuparsene. Continuava a ridere, a parlare, diceva un sacco di cazzate, raccontava di storie assurde accadute alla pista di pattinaggio, e balle di ogni tipo. Era diventato la star della serata, faceva ridere tutti, tutti pendevano dalle sue labbra. Era una divinità, onnipotente, così si sentiva, ed io conoscevo bene quella sensazione, quell’illusione effimera che ti fa credere di essere migliore della piccola persona mediocre che sei in realtà.
Sentii le lacrime bruciarmi gli occhi. Mi guardai intorno, li guardai in faccia, tutti loro. Continuavano a essere felici, a trovarlo spassoso Saverio, con tutte quelle chiacchiere che faceva, e non si accorgevano, non volevano rendersi conto di ciò che stava accadendo davvero.
Mi alzai di scatto, le mani sul tavolo, e chiesi a Saverio di accompagnarmi in cantina di sotto a prendere del vino, visto che era finito. Tutti ammutolirono. Lui aggrottò le sopracciglia e contestò, sarcastico: «Ma se non lo bevi più il vino» e rise.
«Ma voi lo bevete, ed è finito. Allora, mi accompagni o no?»
«Nico, conosci la casa meglio della tua, lo sai dov’è la cantina.»
Aveva ragione. Quella casa gliel’avevano donata i nonni. Una casa all’inizio della strada di campagna, non propriamente in paese, ma nemmeno troppo isolata. Ci andavamo spesso da ragazzi, soprattutto con delle ragazze, o quando volevamo spararci un acido. Ciò nonostante ribadii, cercando di mantenere un tono rilassato, che erano anni che non ci mettevo piede, e chi se lo ricordava dov’erano gli interruttori della luce? Lui sbuffò annoiato ma mi accontentò. Vanessa mi guardò con apprensione, ed io le lanciai una veloce occhiata di biasimo. Avrebbe dovuto dirmelo.
Scendemmo la stretta scala che, da una porta del corridoio all’entrata, portava alla cantina. Appena Saverio ebbe acceso la luce, chiusi la porta alle nostre spalle, lo afferrai per il bavero della camicia e lo inchiodai al muro. Lo battei più volte con rabbia addosso alla parete, ringhiandogli addosso che era un pezzo di merda. Iniziò a supplicarmi, a chiedermi scusa, m’implorò di non colpirlo in faccia. Si sarebbe visto. Lo avrebbero visto tutti, e cosa avrebbe dovuto raccontare ai suoi ospiti, dopo?
«La verità, brutto pezzo di merda!» urlai scaraventandolo addosso agli scaffali. Le bottiglie traballarono, qualcuna si rovesciò andando in frantumi. Lui cadde a terra e si ferì le mani con i vetri. Io lo risollevai con rabbia, lo costrinsi nuovamente al muro. Gli infilai le mani nelle tasche dei jeans e tirai fuori la bustina di coca. La guardai con ribrezzo, guardai lui con odio.
«Perché? Perché, cazzo? Tu questa merda non l’hai mai toccata. Avevi smesso perfino di fumare l’erba. Bastardo maledetto!» Stavo per colpirlo, ma lui si protesse il viso con le braccia e tornò a implorarmi di non colpirlo sul viso. Il suo bambino non doveva saperlo. Vanessa non doveva saperlo…
«Lei lo sa già!» gli urlai contro. Ero fuori di me, ma aveva ragione, non potevo. Non in quella circostanza. Mi limitai a farlo nuovamente impattare contro il muro. Gli misi una mano sul collo. Non volevo certo ucciderlo, solo farlo spaventare, aiutarlo a rinsavire. E avevo bisogno di sfogare la rabbia, in qualche modo.
«Lei non mi ha voluto per colpa di questa merda. Credeva che tu fossi diverso. Ti ha dato un figlio perché si fidava di te. Hai capito, stronzo? Lei si fidava di te!»
Piangevo, ora, e anche lui. Lo lasciai andare. Sfogai la mia ira colpendo la parete più volte. Sollevai mobili, urlai la mia frustrazione. E quando mi fui calmato, tornai a guardarlo addolorato. Saverio si era lasciato cadere sul pavimento, le mani sulla testa. Io cercai di mettere ordine ai pensieri, di rimetterli in riga.
Ripensai al giorno in cui aveva trovato le due bustine che tenevo nell’armadietto del bagno, insieme ai medicinali.
Era stato dopo il battesimo, più di un anno prima. Erano scesi a Roma, lui e Vanessa, per stare un po’ con Marisa. Si era tagliato a un dito, e cercava dei cerotti. Aveva trovato le bustine e mi aveva chiesto, preoccupato, cosa significasse. Avevo sorriso e gli avevo detto di stare tranquillo. Erano lì solo per testare il mio selfcontrol, per ricordarmi che ero all’altezza. Se erano ancora lì, voleva dire che non ne avevo fatto uso. Mi guardai bene dal dirgli della stricnina, si sarebbe preoccupato.
A quell’epoca non ne faceva ancora uso, garantito.
«Quando hai iniziato?» gli chiesi.
«Non è come pensi, Nico. Ne prendo un po’ ogni tanto…»
Sentii nuovamente affacciarsi la collera.
«Mi prendi per il culo? Eri in pieno down quando sei arrivato, questo significa che ti era appena finito l’effetto della precedente. Te ne sei fatta una poco fa, in tasca ne avevi dell’altra, e mi vieni a dire che te la pippi ogni tanto? È con me che stai parlando, testa di cazzo!» gridai nuovamente, sferrando un calcio ad un mobile molto vicino a lui.
«Ma si può sapere cosa cazzo ti ha preso? Perché? Non l’hai mai toccata in vita tua, mi hai inveito contro per degli anni per farmi smettere… Ti sei fottuto la donna della mia vita, pezzo di merda!»
«Lei non mi ama…» disse sconfortato.
Mi si gelò il sangue nelle vene. Trattenni il respiro, sorpreso e sollevato da quell’affermazione. Sollevato, sì, perché in fondo lo speravo, non avevo mai smesso di sperare che lei avrebbe potuto lasciarlo un giorno, che sarebbe diventata la mia donna, mia moglie.
«Volevo essere migliore per lei. La pista di pattinaggio è un disastro. Il ristorante non ha ancora aperto. Non immagini nemmeno quanti permessi, che montagna di carte ci vogliono, perché si decidano a darti l’ok. Sono rovinato, ho un insoluto con le banche di… non so più quanti mesi arretrati. L’agenzia che si stava interessando a farmi ottenere le licenze necessarie per l’apertura del locale si rifiuta di mandare avanti le pratiche. Vogliono essere liquidati, e io non ho più un cazzo di euro. Non ho entrate, e come faccio ad averne se non mi danno il permesso di esercitare? Ho solo debiti, cazzo! Avevo bisogno di qualcosa che mi desse la forza di affrontare tutto questo… Ora non riesco più a smettere.»
«Perché non sei venuto da me?»
«Perché non mi andava di sentirti dire “te lo avevo detto”, con quel tono da saccente che assumi ogni volta nei miei confronti…»
Restammo a lungo in silenzio.
«A quanto ammontano i tuoi debiti?»
«Non lo so… circa settemila euro…»
Meditai a lungo, cercando la soluzione migliore, quella che lo avrebbe davvero aiutato.
«Pagherò io i tuoi conti» dissi poi.
Lui mi guardò con riconoscenza. Si mise in piedi, sollevato. «Nico, mi salveresti la vita…»
Lo guardai con freddezza e con disprezzo. «Pensi che lo faccia per te? Non me ne frega un cazzo, di te! Io mi preoccupo solo per Vanessa, e per Nicolas. Tu non li meriti… Hai detto che volevi essere migliore per lei? Allora ascoltami bene, Saverio, perché la prossima volta non ci saranno ospiti a salvarti il culo. Da adesso in poi ti darai da fare. Se vedi che l’impresa in cui ti sei barcamenato è al di sopra delle tue capacità, mollala. Vendi tutto. Torna a fare il manager, o l’operaio, o il facchino, perché a Vanessa dei soldi non è mai fregato un cazzo. Lei vuole solo un marito lucido, vicino. Non uno che si addormenta mentre gli parla, o che le racconti un mucchio di stronzate. Vuoi essere migliore per lei? Vuoi davvero meritartela? Smetti di farti quella roba! Giuro su Dio che ti ammazzo con le mie mani, se non lo fai. Mi sono spiegato?»…
 
S’interrompe qui, il ricordo di quel giorno. Lo squillo del telefonino sul comodino mi costringe con prepotenza alla realtà. Guardo l’ora: le undici e venticinque. È quasi mezzogiorno ed io non sono riuscito a chiudere occhio nemmeno un po’. Non dormo più da quando Vanessa ed io abbiamo per l’ennesima volta discusso, dopo l’incontro con la mamma della scimmietta pelosa avvenuto due settimane fa. Non dormo più, ma chi mi conosce lo sa che la mattina generalmente è quello che faccio, dal momento che di notte non posso, a causa del mio lavoro. Perciò afferro il cellulare stizzito e controllo il display.
È l’asilo di Nicolas.
Mi precipito a rispondere in preda al terrore.
«Pronto?»
«Il signor Nicolas Costantini?»
«Sì, sono io.»
«Buongiorno, signor Costantini, mi dispiace doverla disturbare ma stamani è avvenuto un fatto increscioso e non siamo riusciti a contattare la mamma di Nicolas…»
«Come sta Nicolas?» mi affretto a chiedere.
«Lui sta bene, ma sarebbe opportuno parlare con la mamma. Pensa di riuscire a contattarla, in qualche modo?»



 
Vanessa esce dal complesso scolastico con passo deciso. È furiosa con il figlio, e con me. Del resto anch’io sono incazzato con lei. Con lei e con le fottute maestre. Si è messa in testa di ritirare Nicolas da judo. Le maestre le hanno detto che a Nicolas ci vuole una punizione esemplare, e lei ritiene che non mandarlo più a judo sia la cosa più giusta da fare.
«Non lo farai, Vanessa. No che non lo farai!» le inveisco contro appena usciamo.
Lei si ferma in mezzo al vialetto d’accesso che conduce all’entrata. Mi guarda duramente e sbraita, con la mano tesa verso la scuola: «Ha atterrato un bambino con una mossa di judo, Nicolas!»
«Facciamogli una ramanzina. Togliamogli la televisione per un mese, il gelato per una vita, i pastelli colorati, se necessario, ma non il judo. Il judo è disciplina, lo aiuterà a gestire la rabbia, a controllare certi istinti, crescendo!»
«Oh, per la miseria, smettila di difenderlo sempre…»
«Non lo sto difendendo…»
«A no? Hai aperto una polemica con le maestre. Hai voluto sapere perché Nicolas ha reagito così, qual è stata l’istigazione che lo ha provocato!»
«E cosa c’è di sbagliato, in questo?»
«Tutto, cavolo! Non ha importanza il modo in cui è stato provocato, non doveva farlo! Non doveva picchiare quel bambino. E tu invece ti sei atteggiato all’avvocato difensore…»
«Non è vero, e lo sai bene. Io non ho giustificato Nicolas. Ho solo detto che forse anche l’altro bambino andrebbe disciplinato. Anzi, senza il forse. Ci sono prepotenze e prepotenze, e quelle verbali sono le più odiose. E quel cazzo di bambino gli ha dato del bastardo e dell’orfano di padre!»
«E quindi? Picchiamolo giù duro, no?»
«Perdio, ma mi ascolti quando parlo? Ti ho appena detto che non sono contento che Nicolas abbia picchiato il suo compagno, ma se fossi io il padre di quel moccioso, una sberla gliela rifilerei di sicuro…»
Lei rotea gli occhi, indignata. «Sei tu quello che non si ascolta quando parla. Se il mondo non fa a modo tuo, allora prendiamolo a schiaffi e a pugni, non è così?»
«Sono cambiato. Lo sai bene, cazzo, che non sono più quello di una volta!» ribatto mentre cerco di tenere il suo passo. Vanessa si avvicina alla sua auto, mette una mano sulla maniglia, apre lo sportello e prima di salire in macchina si volta di nuovo a guardarmi con aria di sfida.
«Dici davvero? Pensi sul serio di essere cambiato?»
«Sì, e lo sai bene!»
Annuisce. I fori del naso le si sono allargati. «Bene. Meglio così. Perché è ora che tu lo sappia…»
Mi sento mancare. Lo stomaco si contrae e le gambe diventano molli. «Cosa?» farfuglio.
«Mi vedo con un uomo…» mi rovescia addosso con risentimento. Non aspetta una mia risposta, non attende nemmeno di vedere la reazione che quelle parole mi procurano.
Sale in macchina e se ne va.

Non so quanto io sia rimasto immobile, in mezzo al parcheggio, incapace di muovere un singolo muscolo. So solo che a un certo punto ho alzato gli occhi al cielo. E le ho viste. Le nuvole. Soffici, spumeggianti. Bianche. E dopo tanto tempo mi è venuta una voglia pazzesca. La voglia di sballare, di alterare il mio stato psicofisico, di fuggire dalla realtà, da quello che mi stava accadendo.
Ecco perché, appena ho messo piede in casa, sono subito andato nell’armadietto dei medicinali in bagno. È stato un gesto istintivo, rievocativo, null’altro. Le bustine non ci sono più da prima che mi fossi trasferito su quest’isola.
Sbatto lo sportello con rabbia e mi guardo allo specchio. Ho gli occhi cerchiati, il volto stanco. Quella persona è un estraneo, non è il Nicolas che conosco. Di sicuro non è quello che preferisco. Rabbrividisco. L’altro Nicolas, il dio onnipotente, quello che non sentiva mai dolore, qualche volta mi manca. Apro il rubinetto dell’acqua e ci infilo sotto la testa, nel tentativo di tornare in me, di lavare via la voglia di coca. Quando torno a guardarmi nello specchio lo faccio con una nuova luce negli occhi. Devo riuscire a far fronte a questa nuova situazione, gestire il dolore, costruirmi una nuova identità. Lo devo fare per Nicolas, perché Vanessa potrà anche rifarsi una vita senza di me, permettere a un altro uomo di entrarle nel letto, nel cuore se lo desidera, se ci riesce, ma non le consentirò di portarmi via Nicolas. Io sono suo padre, nessuno lo amerà più di me, nessuno dovrà mai azzardarsi a mettersi fra me e lui. Ecco perché sento il bisogno di andare da lei, ora. Perché è bene che lo sappia, che avvisi l’uomo da cui si fa scopare.
Prendo la giacca e mi faccio correndo i trecento metri che ci separano. Mi attacco al campanello, prendo a calci la sua porta. Nicolas non c’è, è ancora a scuola, posso comportarmi in maniera incivile una volta tanto. Posso urlarle contro, prenderla a parolacce senza dover abbassare la voce, ed è quello che faccio non appena mi apre, perché l’odio che nutro nei suoi confronti ora è pari all’amore che provo per lei. Anzi, è molto più forte, decisamente più devastante.
«Tagliami fuori dalla tua esistenza, se devi, ma non permetterti di tagliarmi fuori da quella di Nicolas. Posso sopportare di perdere te, ma non di perdere lui. Non lo dividerò con nessuno, sono stato chiaro?» le dico davanti all’uscio, puntandole un dito con fare minaccioso.
Lei non batte ciglio. Mi risponde, infelice, che non è mai stata sua intenzione farlo.
«Ma se succederà, Nicolas, sarai stato tu a volerlo» aggiunge infine, prima di chiudermi la porta in faccia.
E con quel gesto mi ha sbattuto fuori dalla sua vita.
Definitivamente.





«Sei arrabbiato con me?»
Nicolas mi guarda con i suoi occhi azzurri mentre riempio le tazze di cioccolata calda. Sospiro, e gli metto la sua sotto il naso.
«Non sono arrabbiato con te, solo un po’ deluso. Mi sembrava di essere stato chiaro quando ti avevo detto che alzare le mani a qualcuno per farsi giustizia è una cosa da stupidi. Da stupidi e da deboli…»
Ha le guance arrossate, e gli occhi lucidi. «Quello mi ha detto che non devo chiamarti papà, perché non sei il mio vero papà. Mi ha detto che se non vivi in casa con me è perché non sei il mio papà…» si giustifica in un lamento.
Un bel ceffone in pieno viso, ecco qual è il pensiero che mi si formula nella mente subito dopo la confessione accorata di Nicolas. Mi è comparsa davanti agli occhi questa immagine di me che vado a parlare con il padre del piccolo bastardo e gli dico, dopo averlo schiaffeggiato: “Vede, così si fa! Ora smuova il culo e vada a insegnare un po’ di educazione a suo figlio.”
Sono cambiato, questo ho detto a Vanessa, ma in fondo non è vero: sono sempre lo stesso. È solo per amore di Nicolas che non do sfogo ai miei istinti naturali, ora.
Mi accovaccio ai suoi piedi. Lui se ne sta sul suo sgabello preferito con gli occhi bassi, ferito e umiliato.
«Guardami, campione.»
Aspetto che lo faccia.
«Quello che dicono gli altri sono parole vuote, senza valore. Non devi dargli importanza, soprattutto quando non sono vere. Noi non viviamo sotto lo stesso tetto, ed io non sono il tuo vero papà, ma ti amo come se lo fossi. Di sicuro ti amo più di quanto non siano capaci di fare molti papà naturali. Ecco perché puoi chiamarmi papà. Sì, è così, l’amore che nutro per te mi dà questo diritto, il diritto alla paternità. Perciò, per la miseria, sono tuo padre. Lo sono, e tu sei mio figlio. Mi hai capito, campione?»
Tira su col naso, annuisce con decisione. Sto per rialzarmi quando mi getta le braccia al collo e mi abbraccia. Mi coglie alla sprovvista, resto un attimo interdetto. Lo stringo forte a me, mi sollevo in piedi mentre continuo a tenerlo stretto fra le mie braccia.
Ho voglia di chiedergli scusa, è solo colpa mia. Colpa mia se ho perso definitivamente l’ultimo treno verso la spiaggia dei nostri sogni, facendo perdere quella fermata anche a lui. Colpa mia se è ingiuriato a scuola, colpa mia se sua madre ha deciso di rifarsi una vita, se ha smesso di crederci, di aspettarmi, colpa mia se non avrà mai l’opportunità di entrare nella mia stanza, la domenica mattina, e saltarmi addosso mentre sono ancora a letto, per chiedermi di portarlo al parco.
«Ti voglio bene, papà!» singhiozza, ed io lo stringo ancora di più.
«Io ci sarò sempre, per te. Sempre…» gli bisbiglio all’orecchio, mentre i suoi capelli si bagnano delle mie lacrime. «Hai capito, campione? Nessuno ci dividerà. Non ha importanza se non viviamo sotto lo stesso tetto. Qualsiasi cosa tu abbia bisogno, in qualsiasi momento, io ci sarò… Hai capito, Nicolas?»
Gli afferro il viso e lo costringo a guardarmi negli occhi. Lui annuisce di nuovo. Provo a sfumare la tensione abbozzando un sorriso. Gli asciugo le lacrime dagli occhi con il dorso della mano, lui fa lo stesso con me. Gli scompiglio i riccioli biondi e lo rimetto sullo sgabello.
La cioccolata non è più calda ormai, ma tanto mi è passata la voglia di berla. È passata a tutti e due.

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Capitolo 15
*** Finalmente l'alba ***


Sono dieci minuti buoni che Michael mi sta fissando.
Michael è il barman che lavora nel mio locale. Ed è anche un buon amico. L’unico di cui mi fidi ciecamente.
Sono quasi tre anni che lavora per me, da quando in teoria ho aperto il locale. Ho cambiato diversi dj, lo stesso vale per i buttafuori e per tutto il personale in generale, ma lui è con me fin dal primo giorno. Mi dà una mano a controllare che i clienti non esagerino con l’alcol.
Anche l’alcol è una droga, e dà dipendenza. Smettere di bere può essere più difficile che liberarsi da altre sostanze, però è legale.
Non sono un’ipocrita e non sopporto i falsi moralisti, perciò non farò finta di esserlo. Penso che ognuno sia libero di fare della propria vita quello che vuole, e avvelenarsi come crede, anche se ci sarebbe molto da dilungarsi sulla definizione di “propria vita”. Chi fa uso di sostanze stupefacenti non fa del male solo a se stesso, ma anche alle persone che lo amano. Io ne so qualcosa. E, comunque, come dicevo, ognuno è libero di agire come meglio crede. Io ho fatto la mia scelta anni fa, la scelta di tornare padrone di me stesso. Gli altri facciano le loro, ma se decidono di intossicarsi, devono farlo in un’altra discoteca.
Se trovo qualcuno sballato nel mio locale, lo sbatto fuori a calci nel culo. Se non è in grado di farsi accompagnare da qualcuno, gli chiamo un taxi e lo mando via con quello. Un paio di volte me ne sono fatto carico personalmente.
Mi approfitto del fatto che la legge sia dalla mia parte, e non permetto lo spaccio nel mio locale, come invece permetteva mio padre e molti, troppi gestori di discoteche. Ma non posso non vendere alcolici. Li vendo, ma sono molto intransigente anche in questo caso. Così come non ci penso due volte ad allontanare dal mio locale uno sballato, agisco allo stesso modo con chi è chiaramente ubriaco, quelle rare volte che qualcuno riesce a sfuggire al mio controllo e beve qualche bicchierino di troppo. Michael mi dà una mano in tal senso. Ha quarant’anni, ed è un tipo davvero singolare. La sua personalità trasuda determinazione, incute soggezione, ma è di una bontà d’animo senza eguali, genuina.
Sua figlia è un’eroinomane. Lei l’eroina non se la spara in vena, la fuma. I ragazzi di oggi hanno paura delle siringhe. Esce ed entra di continuo da qualche comunità. Un anno fa dovettero ricoverarla d’urgenza. Aveva preso un cocktail di droghe micidiale, ecstasy-cocaina-eroina. Dovettero rianimarla, e anche se ce l’ha fatta, il suo cervello ha subito danni permanenti. Ora soffre di crisi depressive. Ha difficoltà a formulare frasi di senso compiuto ed è apatica, sembra non essere più interessata a niente.
Silvia, così si chiama, ha solo diciannove anni. Diciannove anni, e la sua vita è già finita.
Michael mi raccontò del suo calvario poco dopo esserci conosciuti, prima che Silvia rischiasse di morire. Me ne parlò perché aveva capito di me, del mio passato di tossicodipendente. Chi ci è stato dentro, direttamente o indirettamente, sa riconoscere i segnali. Riusciamo a leggere le sofferenze e i traumi che gli stupefacenti ci hanno appiccicato addosso. I segni ce li portiamo sulla pelle, ancora più in profondità, nella nostra carne. Ci riconosciamo fra di noi, riconosciamo i nostri simili al fiuto, come fanno gli animali. Mi parlò di Silvia, ed io gli parlai di me.
Lui si chiede spesso dove ha sbagliato, si danna con i soliti quesiti, con i se e con i ma con cui io stesso continuo ad arrovellarmi il cervello.
Io non lo so se avrebbe potuto o no essere più attento, se dare alla figlia più attenzioni avrebbe davvero potuto aiutarla a resistere alle pressioni della società, ad opporsi al bisogno di evadere, di nascondere i propri difetti dietro una maschera. Quello che so, è che io Silvia la invidio. Se uno potesse scegliersi i genitori, se io avessi avuto la possibilità di scegliermi il padre, lui è quello che avrei voluto al mio fianco.
Lo avrei indicato e avrei detto al Capo: - Quello lì, dammi quello. Sì, quell’uomo con la faccia che sembra scolpita nella pietra, quell’uomo rozzo e cafone. Quello senza un soldo, senza il conto in banca e con un mutuo sulla casa che non riuscirà ad estinguere nemmeno campando due vite. Voglio proprio lui, anche se ha il pianto facile. Sarà pure un lagnone, e chissà che casini combinerà con la mia vita, ma quanta tenerezza, dentro di lui. Quanto amore. Quanta devozione. Ma sì, dammi quello. Magari diventerò lo stesso un poco di buono, un tossico debole e infelice, distruggerò la mia vita e quella di chi mi sta vicino, ma di una cosa sono certo: che se questa cosa dovesse accadere, non sarà stato lui ad accompagnarmi all’appuntamento con la mia sorte, quel giorno. Piuttosto sono sicuro che, se questo dovesse avvenire, lo ritroverò al mio fianco, a piangere e a lottare insieme a me.-
Questo è l’uomo che da dieci minuti mi fissa con sospetto.
Sono più distratto del solito, oggi. Più assente.
«Capo, che hai stanotte?» mi grida all’orecchio ad un certo punto per rendersi udibile in mezzo al frastuono. Non riusciva più a contenere la domanda che da troppo teneva sulla punta della lingua.
«Eh? Come, scusa?»
«Ecco, appunto. Ti ho chiesto cos’hai? Sembri uno a cui hanno appena diagnosticato un male incurabile.»
Sospiro.
«Sono preoccupato per Nicolas. È un bambino terribilmente sensibile. Mi chiedo come farà ad accettare un altro uomo in giro per casa, se Vanessa decidesse di fare sul serio con il tipo che sta frequentando…»
«Tutte balle!» dice, ed io lo guardo di sbieco. «I bambini hanno uno spirito di adattabilità invidiabile. Se ne farà una ragione. Piuttosto è a te che brucia la cosa…» continua.
L’idea che Nicolas possa imparare a convivere con un altro uomo mi fa venire un attacco di ulcera.
«Qualche volta mi piacerebbe che tu fossi più condiscendente, lo sai? Che mi dicessi quello che desidero sentirmi dire, piuttosto che quello di cui ho obiettivamente bisogno…»
Ride, il bastardo, mentre inizia a shakerare non so cosa.
Il cellulare nei pantaloni vibra. È tardi, sono le due. Per questo, credo, mi si accappona la pelle. O forse perché me lo sentivo. Sentivo che sarebbe successo qualcosa.
È Vanessa. Guardo stravolto Michael, che smette di sorridere a sua volta. Mi dirigo verso il mio ufficio, non sentirei un cazzo con la musica a palla. Rispondo con il cuore in gola, e quando la sento piangere mi sento mancare.
«Nicolas, ti prego, vieni subito. Non riesco a trovare Nico da nessuna parte…»
Afferro la giacca e le chiavi e mi precipito verso l’uscita. Michael mi fissa ansioso, ma non ho tempo di spiegargli, ora. In un secondo sono fuori.
«Hai già chiamato la polizia?» le chiedo mentre disinserisco l’allarme e faccio scattare l’apertura automatica agli sportelli.
«No… ti prego corri… aiutami a trovarlo… Oh mio Dio…» e la sento piangere accorata, un lungo continuo singhiozzo.
«Lo troveremo. Vanessa, ti prego non piangere. Amore, ti prego…» farfuglio, ma lei ha già messo giù.
Vanessa è fuori, sotto il porticato della casa dove vive, con indosso solo una felpa e dei pantaloncini. È seduta sul gradino e ha la testa fra le mani. Il suo corpo è scosso dai singhiozzi. Appena mi vede si alza e si butta fra le mie braccia.
«Dove lo hai cercato?»
«Ovunque, dentro casa e fuori.»
«Sei andata a vedere a casa mia?»
«Sì, non c’è…»
«Ok, senti, sono sicuro che si sia nascosto da qualche parte nel cortile di casa mia. Perciò ora torniamo lì. E se non lo troviamo chiamiamo la polizia, ok?»
Lei annuisce, mentre fa il pieno d’aria. Saliamo in macchina, che fermo davanti casa con uno stridore di ruote appena cinque secondi dopo. Scendiamo come due pazzi, e iniziamo a chiamarlo.
È buio pesto, perciò mi precipito in casa e accendo tutte le luci, interne ed esterne. Torno fuor e faccio il giro della casa, possibile solo per i tre quarti; controllo in ogni anfratto, in ogni cespuglio, e quando sono già col telefono in mano per chiamare la polizia, sento un rumore provenire dalle rigogliose piante di gelsomino che ho fatto piantare a ridosso del muro orientale che mi separa dalla proprietà del vicino. Mi precipito a controllare, m’inginocchio, le gambe e le braccia che tremano ormai in maniera incontrollata, e lui è lì, che dorme rannicchiato su se stesso. Lo prendo tra le braccia con un singhiozzo, cercando di non svegliarlo. Anche Vanessa ci raggiunge, e lo bacia, lo accarezza. Io lascio che me lo prenda dalle braccia e se lo stringa fra le sue, perché è la madre e comprendo in quale stato d’animo si trovi.
Nicolas è intirizzito. Ha addosso solo il pigiama e fa freddo stanotte.
«Portiamolo al caldo, Vanessa...» la esorto.
Lui apre gli occhi in quel momento, fa una carezza alla madre. «Non ti arrabbiare, mammina… Non ti arrabbiare…»
«Non sono arrabbiata, tesoro. Però non farlo più, ti prego, mai più…»
Entriamo, richiudo la porta alle nostre spalle. Vanessa si siede sul divano con Nicolas in braccio, ed io corro a prendere un paio di plaid. Mi inginocchio ai loro piedi, gli carezzo i capelli. Tremo ancora a causa dello spavento. Ho l’adrenalina a mille.  
«Perché lo hai fatto?» gli chiede lei, mentre lo guarda con amore.
«Ho fatto un brutto sogno… Volevo dormire con papà… non ti arrabbiare, mammina…»
«Non sono arrabbiata…» lo tranquillizza lei per l’ennesima volta, e prende a piangere più forte.




 
Vanessa è di là con Nicolas, nella sua vecchia stanza. Nico questa notte dormirà da me. È quasi un’ora che Vanessa è chiusa in camera con il figlio. Dormiva già quando lo ha messo a letto, ma è chiaro che non riesce a staccarsene.
Le ho detto di restare, non vuole. Sono le quattro, non ha senso che torni a casa, ma non insisterò. Per fortuna domani è domenica, tutti potremo riposare un bel po’.
Quello che è successo stanotte mi ha sconvolto. Non riesco ancora a calmarmi. Sono sul divano con la testa fra le mani, atterrito, confuso, svuotato. Ho provato a bere una camomilla, ma non è servito a niente.
Vanessa sbuca dall’androne che dà accesso alle camere. Avanza verso di me, illuminata dalla fioca luce dell’abatjour che è sopra al tavolino addossato a una parete della sala. Si muove piano, stancamente. Ora che mi è vicino a sufficienza posso vedere i segni della sofferenza sul suo bel viso. Gli occhi sono cerchiati, gonfi, spenti, i capelli spettinati. Cammina curva su se stessa, piegata, spezzata dalla furia degli eventi che si sono abbattuti su di lei in questi giorni, in questi anni. Io mi alzo e le faccio una carezza sul viso. Lei mi fissa in silenzio, a lungo.
«Non posso più andare avanti così… Non posso… Forse dovrei trasferirmi in un’altra città…»
Chiudo gli occhi. Il dolore è acuto, mi toglie il respiro. «Vanessa, ti prego…» inizio a dirle.
«Lui lo farà di nuovo, Nicolas. Verrà da te ogni volta che ne sentirà il bisogno. Continuerà a farlo, fino a che abitiamo così vicini…»
«Ma come farai con lui… con il lavoro, la scuola…»
«Mi farò aiutare dai miei. Forse dovrei tornare a casa…»
«A Roma?» ho quasi gridato, non dalla rabbia, ma dal terrore.
«Non è così lontano…»
«Io non posso stare senza di voi!» dico angosciato.
Lei si fa di granito. Quest’affermazione sembra ferirla, perché inasprisce l’espressione del viso.
«Dimmelo, allora…» m’incita in un rantolo.
Il mio torace si solleva e si abbassa vistosamente, a causa dell’enorme quantità d’aria che sto iniziando ad immagazzinare. Non rispondo nulla. Lei piega le labbra in una smorfia amara. Alza il braccio e mi colpisce con forza.
«Dillo!» torna a ripetere.
Di nuovo non rispondo. So che se non troverò la forza di farlo adesso li avrò persi entrambi per sempre, ma le parole restano ancorate in qualche parte remota del mio cuore e della mia mente. Mi colpisce nuovamente, con più vigore, e ancora, e ancora, e mentre mi schiaffeggia continua ad esortarmi a parlare. Sta di nuovo piangendo, ed io con lei. Mi piego di fronte alla sua furia, mi lascio cadere sul pavimento, lascio che mi colpisca, non provo nemmeno a difendermi, a coprirmi, in questo momento vorrei solo non essere qui. Vorrei essere al posto di Saverio, dove sarebbe giusto che mi trovassi.
Quando esaurisce tutte le energie si siede sul divano e finisce di sfogare la sua frustrazione con le lacrime. Poi, in silenzio, si alza e si avvia piano verso l’uscita, sconfitta.
Non posso permettere che se ne vada. Non posso perderla di nuovo. Così mi decido ad affrontare i miei demoni.  Non ho più nulla da perdere comunque, oramai.
«Volevo farla finita…» inizio debolmente. Lei si blocca e si volta di nuovo verso di me.
«Avevo deciso che mi sarei ucciso, se non fossi stato in grado di mantenere fede alla promessa che ti avevo fatto, che avrei smesso di farmi, che sarei stato pronto per quando sarebbe nato Nicolas… Mi procurai della stricnina, la mischiai con un po’ di bicarbonato e con un po’ di coca, e la misi in una bustina. La riposi nell’armadietto dei medicinali in bagno, con una di coca…»
Mi concedo un minuto, prima di continuare col mio doloroso racconto.
«Saverio venne da me la sera prima di morire… Venne a chiedermi dei soldi, di nuovo, ma stavolta mi rifiutai di darglieli. Era di nuovo fatto... Litigammo di brutto, gli dissi che doveva parlartene, che dovevi sapere chi era diventato. Gli dissi che se non lo avesse fatto lui, lo avrei fatto io. Per questo, quando mi chiamasti il giorno dopo… Eri sconvolta. Credevo che lo avesse fatto davvero, che si fosse deciso a farsi aiutare raccontandoti tutto… Invece…»
Caccio fuori l’aria dai polmoni, affranto. Lei è immobile. Non oso guardarla negli occhi, ma lo so che è sconvolta, che ha paura di ciò che sto per rivelarle.
«Venni a prenderti all’aeroporto di Fiumicino, ricordi? E stetti vicino a te, tutto il giorno. Ti accompagnai per l’identificazione… Tu piangesti sulla mia spalla, ed io cercai di confortarti. Saverio era stato ritrovato in quello squallido albergo, ed era morto di overdose… L’autopsia avrebbe chiarito e approfondito ogni cosa… Ma a me bastò per farmi gelare il sangue nelle vene quando me lo dicesti, perché in quel momento mi venne in mente un sospetto atroce… Avevo un bisogno disperato di andare a verificare, ma non potevo lasciarti sola. Così restai con te, non ti abbandonai mai, per tutto il giorno. Ti accompagnai in questura, dove fosti sentita dal commissario, che cercò di risalire agli ultimi movimenti di Saverio dalle informazioni che gli desti. Non ti lasciai nemmeno quando crollasti dal sonno, sfinita. Il giorno dopo, però… la mattina… ti lasciai che dormivi. Io non potevo aspettare, dovevo andare a controllare…»
Vanessa è di fronte a me, adesso. Gli occhi spalancati, una mano sulla bocca.
Il dolore straziante, lo stesso che provai quel giorno, il giorno in cui aprii l’armadietto e feci la terribile scoperta, mi toglie il respiro, mi comprime il diaframma con forza. Ma devo finire il racconto adesso, devo trovare il coraggio e la forza di farlo.
«Le bustine… non c’erano più…»
Vanessa si lascia cadere in ginocchio ai miei piedi. Mi sforzo di alzare gli occhi su di lei. I suoi occhi hanno un colore indefinibile, il suo volto è una maschera inespressiva, ed io non riesco a capire quali sentimenti stiano attraversando il suo cuore, in questo momento.
Torno a raccontare, guardandola dritta negli occhi: «Mi recai subito in questura. Parlai con il commissario e gli spiegai tutto… della visita di Saverio, del litigio che avevamo avuto, della droga… Saverio è morto a causa mia…» ho spinto fuori queste ultime parole con fatica, in un lamento.
Vanessa mi afferra il viso con le mani, è scioccata.
«Perché non me ne hai mai parlato?» sussurra, ma non trovo le parole adatte, né la volontà di risponderle nulla.
«Cosa ti disse il commissario?»
«Disse che era meglio lasciare perdere, meglio non procedere con la denuncia. Disse che non potevo essere ritenuto responsabile, io non gliel’avevo nemmeno regalata, me l’aveva sottratta a mia insaputa. Mi disse di non parlarne troppo in giro, di dimenticarmi della faccenda... di non sentirmi in colpa per quanto era successo…»
Silenziose lacrime tornano a scendermi sugli zigomi.
«Ti sei tenuto dentro tutto questo dolore per tutto questo tempo… Ma il commissario aveva ragione, Nicolas… aveva ragione… Non puoi sentirti in colpa per questo… Saverio non è morto a causa tua… Guardami, ti prego… il commissario aveva ragione…» mi ripete dolcemente.
Un sentimento di repulsione mi aggredisce le viscere. Le afferro con forza uno dei polsi che tiene sollevato all’altezza del mio volto.
«No, non è vero!» dico risoluto.
«Sì, invece…»
«No!» grido. Sospiro pesantemente. «Credi che sia per questo che non ho avuto il coraggio di venire al funerale?» sibilo sprezzante. «Credi che sia stato solo per questo? Non fu solo per questo! Vuoi sapere la verità, tutta la maledetta verità?» le chiedo afferrandole anche l’altro polso. La vedo vacillare, titubante. Poi alita un sì appena udibile.
«La verità è che io desideravo morisse. Io l’ho maledetto in cuor mio ogni singolo giorno da quando mi dicesti che vi sareste sposati. L’ho odiato, volevo vederlo soffrire... Poi  ho smesso di sballare, e più prendevo atto del mio cambiamento più mi rendevo conto che ti avevo perso per sbaglio, perché io potevo essere l’uomo che desideravi, che meritavi. Io diventavo l’uomo che meritavi, mentre lui si trasformava in quello da cui eri fuggita. Mi sentii defraudato, ingannato. E lo odiai per questo. Volevo che morisse, che si togliesse di mezzo definitivamente, per pareggiare i conti, rimettere tutto a posto, restituire alle cose il giusto ordine! E quando è successo davvero… Saverio era come un fratello, per me! Come ho potuto provare tanto odio nei suoi confronti? E per questo ho odiato anche te. Ti ho odiata, perché eri riuscita a farmi provare un simile sentimento. Così me ne sono andato senza dirti niente, e ti sono stato lontano. Ecco, ora lo sai, ora sai cosa mi porto dentro, da tre anni a questa parte…»
Lei porta una mano sul mio viso. «Io ti capisco…» asserisce con un filo di voce.
«No che non puoi!» la biasimo.
Scuote la testa, infinitamente infelice. Emette un gemito, straziata dal dolore.
«Sì, invece, perché è esattamente lo stesso peso che mi porto dentro io. Anche io desideravo che mi lasciasse libera, libera di rimediare all’errore di avere sposato un uomo che in fondo non ho mai amato. Anche io qualche volta ho desiderato che morisse. Volevo dirtelo, ma me ne vergognavo così tanto. Anche io ho dovuto fare i conti con la mia coscienza, Nicolas…» conclude, addolorata.
La guardo scioccato. Lentamente sento la tensione sciogliersi, i muscoli rilassarsi. La sua confessione mi ha fatto sentire meglio, in qualche modo. Mi permette di analizzare la mia situazione dal di fuori. Lo faccio mentre analizzo la sua, e discolpo me mentre discolpo lei. Se capisco che non può farsene una colpa, allora devo essere obiettivo e riconoscere che non posso colpevolizzare nemmeno me stesso.
Io non sono onnipotente, sono solo un uomo, imperfetto e corruttibile. L’odio è un sentimento devastante, ma è pur sempre un sentimento umano. L’odio è una prerogativa dell’uomo. Un animale non odia, tutte le azioni che compie sono dettate dall’istinto. Solo l’uomo è capace di odiare. Prima o poi tutti si abbandonano a questo sentimento. Ma se quell’uomo riesce a tenere l’odio sotto controllo, allora è sulla buona strada per essere una brava persona, un individuo migliore.
Posso aver desiderato la morte di Saverio, ma di sicuro non l’avrei mai ucciso. Anzi, avevo cercato di aiutarlo in tutti i modi. Più volte lo avevo esortato a far parte di un centro di recupero. Più volte avevo pagato i suoi debiti, con la speranza che si liberasse dalle pressioni che amplificavano la sua voglia di sballo.
Guardo Vanessa con amore e riconoscenza, e mi balena improvvisa l’idea che lei sia in realtà un dono del cielo. Lei è il mio angelo custode. Mi aveva già salvato dalle mie debolezze e dalle mie dipendenze, e ora mi sta salvando di nuovo dalle mie afflizioni, dal dolore e dai rimorsi che mi hanno tormentato in questi tre lunghi anni. Lei continua a piangere, sconfortata, e capisco che, ora più che mai, ha bisogno di me. Che abbiamo bisogno, l’uno dell’altra. L’abbraccio forte e restiamo così, ammassati sul pavimento della sala, non so per quanto tempo. So solo che il sole sta nascendo. Il nuovo giorno invade lentamente la sala, filtra timidamente dalla vetrata, ci sorprende una fra le braccia dell’altro, scossi da lacrime di dolore e di felicità. Perché ora che finalmente abbiamo avuto il coraggio di svelare i nostri più intimi segreti, ora che nulla grava più sul nostro cuore e che abbiamo fatto chiarezza, non proviamo più risentimento verso noi stessi. Ed è per questo che posso finalmente seppellire Saverio, il mio migliore amico, mio fratello, una volta per tutte, e guardare avanti, al nostro futuro. Questo giorno nasce insieme alla speranza. Di più, quella speranza si è fatta certezza, oggi. Vanessa mi appartiene, Nicolas mi appartiene, ed io appartengo loro. Non permetterò mai più a me stesso, alle mie debolezze, di perderli. Non creerò mai più condizioni che possano renderlo possibile. Sono l’uomo che avrei dovuto essere tanto tempo fa - lo sono grazie a lei e per lei - e resterò quell’uomo.
«Ti amo, Vanessa. Non posso vivere senza di te. Non posso… Sposami» le chiedo.
Lei mi accarezza il viso e mi risponde, con un sorriso: «Perché c’hai messo così tanto?»





 
È una splendida giornata di marzo, fresca e assolata. Sono trascorsi quattro mesi da quando ho chiesto a Vanessa di sposarmi. Da quando gliel’ho chiesto l’ultima volta.
Sono successe un bel po’ di cose da novembre. La prima è che i pastelli appuntiti sparsi ovunque sono tornati sullo scenario di casa da quello stesso giorno. Non dimenticherò mai il momento in cui Nicolas ha preso atto della sua nuova realtà familiare.
Quel giorno, dopo esserci abbandonati al pianto, ho preso Vanessa fra le braccia e l’ho portata in camera, sul mio letto. Sul nostro letto. E dopo esserci amati ci siamo addormentati.
Io non so come facciano i bambini a sentirle, certe cose. Magari è solo Nicolas che ha questo potere.
Comunque, quella mattina si è svegliato con quella consapevolezza nel cuore. Si è alzato dal suo letto, è venuto a infilarsi nel nostro e si è nuovamente addormentato, fra di noi. Non ha fatto domande, non ha chiesto conferme. Lo sapeva già. Lui ha aperto gli occhi quella mattina e lo sapeva già. Sapeva che ci avrebbe trovati entrambi nella camera che fino al giorno prima era stata solo mia. Non è andato in giro per la casa a cercarci. Non si è affacciato nella stanza dove dormiva Vanessa prima. È entrato nella mia camera, mi ha scavalcato, si è fatto spazio fra me e Vanessa, si è rannicchiato sul mio petto, ha preso una ciocca dei miei capelli e si è riaddormentato. Tutto qui.
È come se avesse ripreso a vivere dal giorno in cui era stato costretto a lasciare la mia casa, come se il tempo trascorso fra i due periodi fosse stata una parentesi irrilevante, uno di quei brutti sogni che lo costringono a volte a cercare conforto fra le mie braccia, la notte. Un incubo più lungo del solito, ma da cui si era finalmente risvegliato.
Il mese successivo siamo andati sulla tomba di Saverio, al cimitero di Cadelbosco. Lo abbiamo fatto insieme, Vanessa ed io, e insieme gli abbiamo chiesto perdono, anche se so che non ce n’era bisogno.
Ovunque si trovi, Saverio sa quanto lo amavo e sa che, se fosse stato ancora in vita, avrei fatto di tutto per aiutarlo a tornare in sé. Sa che nonostante tutto, nonostante il mio amore per Vanessa e la consapevolezza che, in fondo, noi due eravamo destinati ad appartenerci, non mi sarei mai sognato di prendere il suo posto, che non avrei mai fatto nulla per farlo accadere. E che lo abbia fatto adesso non può che renderlo felice. Amava Vanessa, amava suo figlio, sa che me ne prenderò cura.
Perfino i genitori di Saverio ci hanno dato la loro benedizione e ci hanno raccomandato di essere felici, perché Saverio, ci hanno assicurato, è ciò che avrebbe desiderato per entrambi.
Per anni mi sono chiesto cosa farci con i soldi che mi ha lasciato mio padre. Quei soldi mi pesano sulla coscienza come un macigno. Non provengono da traffici illeciti, sebbene si praticassero nel suo locale con il suo beneplacito. Non era un trafficante di droga, né uno spacciatore. Solo un uomo con un losco, e per questo redditizio, senso degli affari, e si sa, solo chi è spregiudicato ha successo. Ad ogni modo, qualunque sia il suo grado di colpevolezza nei confronti della società, non è per questo che mi pesa il suo denaro. Ricoprirmi di soldi è sempre stato il suo modo di sopperire all’incapacità di darmi qualcosa di cui avevo sicuramente più bisogno: il suo amore. Quindi, dopo essermi consultato con Vanessa, abbiamo deciso di donarne una buona fetta ai centri di recupero per tossicodipendenti.
Oggi è un bel giorno in tutti i sensi. Mi sento felice. Guardo la mia immagine riflessa allo specchio. Sono dentro questo elegante gessato di cotone grigio, la camicia bianca, il colletto aperto, niente cravatta per l’amor del cielo. I capelli castani scuri mi arrivano quasi alle spalle. Mi piace portarli un po’ spettinati, senza porcherie ad appesantirli. Mi sistemo i polsini. Mi sento bello come un angelo. Onnipotente come un dio. Niente coca, è l’amore a darmi questa sensazione.
Guardo Nico che mi esamina raggiante seduto sul letto. Lui è il mio critico più spietato, il più sincero.
«Allora, che ne dici, campione?»
Mi mostra il palmo della mano, vuole che gli batta il cinque. Significa che è soddisfatto del mio aspetto.
Michael si affaccia in quel momento. «Allora, ma ti vuoi dare una mossa? È la prima volta che lo sposo arriva all’altare dopo la sposa!» mi rimprovera con affetto.
«Altare? Non è che tua moglie sbaglia destinazione e porta Vanessa in chiesa?»
«Ah, ah, che ridere. Sbrigati, che il sindaco ha appena chiamato. Ha detto che sebbene ti atteggi a celebrità non lo sei, e lui ha cose più urgenti da sbrigare che aspettare uno sposo capriccioso! E muovi il culo, dai!» e se ne va.
Guardo di riflesso Nicolas per vedere che reazione ha avuto su di lui la parolaccia che è appena scappata al mio scontroso barman, che oggi mi farà da testimone. Ha una mano sulla bocca e gli occhi spalancati, e sembra scandalizzato.
«Ha detto culo…» dice a bassa voce.
«E non doveva dirlo?»
Lui scuote la testa. «È una parolaccia, mamma non vuole che si dice…»
«Allora mi sa che non dovevi dirla nemmeno tu, o sbaglio campione?»
Lui singhiozza preoccupato. Io sorrido divertito, ma cerco anche di mantenere un certo equilibrato sdegno.
«Facciamo così: non lo dico alla mamma, però da oggi non la diciamo più, ok?»
Nico si affretta ad annuire. Io lo sollevo sulle mie spalle.
«E poi, Nicolas, nemmeno papà vuole che dici parolacce. Intesi?»
Torna ad annuire energicamente, come al solito, e mi stringe le braccia al collo.
Non teme l’altezza, Nicolas. Qualche giorno fa gli ho chiesto come facesse a non aver paura di trovarsi lì sopra. Quando ero piccolo, non permettevo mai a nessuno di mettermi a cavalluccio sulle spalle. Ne ero terrorizzato. Lui mi ha risposto che si fida di me, perché sa che lo tengo stretto e che non lo farei mai cadere.
Ha ragione.
Io non lo so che sarà delle nostre vite, ora, che strada prenderà mio figlio, i miei figli, se avrò la fortuna di averne altri. Non lo so se sarò in grado di stargli vicino durante la crescita. Non so se riuscirò a competere con le loro amicizie, le mode collettive, non so se sarò in grado di frenare le loro turbolenze adolescenziali, di lenire i loro dispiaceri, aiutarli a comprendere i primi turbamenti. Non so se riuscirò a indirizzarli nella giusta direzione, se sarò in grado di persuaderli a non ripetere i miei stessi errori, ad aiutarli a non cedere alle pressioni e alle lusinghe degli spacciatori di menzogne.
Però posso dire con assoluta certezza che ce la metterò tutta, perché questo avvenga. Perché degli errori di mio padre io ne ho fatto tesoro, e non intendo ripeterli.
Io non sarò il numero di una statistica, e se esiste davvero un circolo vizioso… bè, quello si è concluso con me.

   
FINE  

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