Gli ultimi di noi

di FiloRosso
(/viewuser.php?uid=1204044)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La tua storia ***
Capitolo 2: *** Caos ***
Capitolo 3: *** Corri e sopravvivi ***
Capitolo 4: *** Una ferita. ***
Capitolo 5: *** So che ci sei ***
Capitolo 6: *** Tutti abbiamo perso qualcuno ***
Capitolo 7: *** Rosa rossa ***
Capitolo 8: *** Come un uragano ***
Capitolo 9: *** Egoista ***
Capitolo 10: *** L'amore reca più male che bene ***
Capitolo 11: *** Proteggere ***



Capitolo 1
*** La tua storia ***


     Gli ultimi di noi.

 

La videocamera si accende inquadrando il mio volto. «Ricordi com’è iniziata? Chi eri all’epoca?».

Guardo al centro dell' obiettivo. Un puntino rosso continua ad illuminarsi ad intermittenza in attesa di una mia risposta.

«Tutto questo non ha senso.»

La ragazza che mi sta riprendendo abbassa la cinepresa e mi guarda perplessa.

«Cosa?».

Sto per alzarmi. Seduta sul tronco di una vecchia quercia abbattuta, con questa tipa che mi punta quell’affare addosso, inizio a sentirmi nuda. Ed è una sensazione che detesto.

«Tutto questo. La videocamera, te che vuoi che ti racconti per forza la mia storia. Che senso ha?»

Le vedo nascere una curva sulle labbra. «A qualcuno potrebbe interessare.»

Sta scherzando? Si è resa conto che quel “qualcuno” non c'è più?

Sono morti. Sono tutti morti.

Sbuffo sorridendo nervosamente. Sto per perdere le staffe.

«Non voglio raccontarti la mia cazzo di storia!», grido, «Voglio solo le mie armi!».

 Non freno i nervi, provo a muovermi per alzarmi e colpirla ma è proprio quando lo faccio che ricordo di essere legata. Questa stronza malfidata mi ha legato esattamente come si annoda un dannato cinghiale dopo una battuta di caccia.

Ho le caviglie strette da un lungo trancio di corda da pescatore e i polsi incollati da una fascetta di plastica. 

Non mi resta che scavare dentro me per cercare un po’ di autocontrollo.

Chiudo gli occhi per un istante e respiro.

Quando li riapro, sta mettendo via la cinepresa. L’espressione sul suo volto - per quanto sia da calci in bocca - sembra delusa. «Va bene.», dice sgranchendosi le braccia sulla testa mentre si alza da terra «Se non vuoi raccontarmi di te, allora resta pure lì.»

Si piega verso una tracolla dalla bocca spalancata, piena di qualsiasi cosa e la raccoglie.

«Dove credi di andare?! Slegami!» le ordino.

Non sembra sortire effetto il tono furioso della mia voce. Mi ignora.

«Sto parlando con te! Non puoi lasciarmi legata qui. Morirò!»

«Oh…Lo so.» Si sposta con due dita il ciuffo scuro della frangetta che le pizzica gli occhi. Dovrebbe accorciarsi i capelli: di questi tempi è un rischio avere intralci del genere sul viso.

«Dannazione!» inizia a stridermi la gola. Sto letteralmente urlando.

La mora, di riflesso, si tappa un orecchio con l’indice. «Vuoi abbassare la voce? Stai attirando compagnia indesiderata.»

I suoi occhi indugiano su qualcosa alle mie spalle. Ho un brivido lungo la spina dorsale. Se questa stronza mi farà morire oggi, spero di trasformarmi prima che mi ammazzi così da poterla divorare.

Con un’occhiata rapida mi volto indietro e poi torno a guardare lei «Non prendermi per il culo. Non c’è nessuno.»

Ridacchia, infilandosi la tracolla sulla testa. «Hai un’ultima occasione per raccontarmi la tua storia.»

C’è un momento di silenzio in cui a parlare sono solo i nostri occhi.

Mi fa male. Parlare di ciò che è successo, di come tutto è finito…è qualcosa che non faccio ormai da molto. Che non ho mai fatto.

Ma voglio che mi liberi e poi voglio anche ammazzarla, per avermi colpita alle spalle, per avermi legata e per un mucchio di altri motivi.

«Maledizione! Ok, avrai la tua storia.» Ringhio.

L’espressione soddisfatta che si pianta sul suo viso pallido mi fa venire voglia di torcerle il collo.

«Brava bambina.» Mi gira attorno e per un momento credo che voglia liberarmi i polsi. Non lo fa, ovviamente.

Mi sento afferrare per le spalle. Un attimo dopo il mio sedere strofina la superficie ruvida del tronco, dolorosamente.

Stringo i denti.

La mia pelle è abrasa. Non per il tronco: lo era già, prima di finire fra le mani malate di questa psicopatica.

«Ora si che sei dritta!» Esclama raggiante ad un millimetro dalla mia guancia. Ho l’impulso di tirarle una craniata. Quando ci provo lei si tira indietro con uno slancio veloce e ridacchia.

«Non così in fretta! Avrai tempo per picchiarmi, dopo aver raccontato la tua storia. Anche se sono certa che non lo farai.» 

Seguo attentamente ogni suo movimento con lo sguardo. Non si sa mai che possa fare qualcosa di stupido.

Contrariamente ad ogni mia previsione, però, impugna di nuovo la cinepresa e torna a sedersi sul terriccio umido.

«Il cielo sta imbrunendo» le faccio notare dato che entrambe -sono certa- sappiamo cosa voglia dire.

Lei guarda oltre la sua fronte per un istante, «Questo significa che hai poco tempo per parlare, fossi in te mi sbrigherei.», poi avvicina un occhio all' obiettivo.

                                                             

«Allora?...»

«Karina. Il mio nome è Karina.»

«Allora Karina, raccontami cosa ti è successo. Qual è la tua storia?»

Sento l’autoreverse della cinepresa gracchiare a vuoto ascoltando il mio silenzio un attimo prima di rispondere.

«Cosa vuoi sapere?»

Capelli corvini fa spallucce «Tutto. Com’è iniziata, chi eri, dov’eri il giorno che il mondo ha deciso di spegnersi…»

Senza il mio permesso, la mente viaggia a ritroso e sono di nuovo lì, in quell’ufficio ed è di nuovo Martedì mattina.

«Ero a lavoro quel giorno.»

«Che lavoro facevi?»

Chiudo per un istante gli occhi «Avevo appena iniziato un tirocinio presso uno studio di avvocati prestigiosi.»

La vedo abbozzare un sorriso sorpreso. «Wow, raccontami dell’ufficio, di quella mattina.» 

«Ecco…ero davanti all’ascensore pronta per salire all’ultimo piano dell’edificio…»

Scuote la testa. «No, parti dall’inizio. Parti da casa tua.»

Sento un groppo in gola.

Se mi blocco, però, questa stronza mi lascerà in pasto ai mastica-morte.

«Avevo finito di prepararmi dieci minuti prima del solito.» inizio, con non poca difficoltà. La voce mi trema leggermente. «Così decisi di uscire in anticipo da casa. Amavo essere puntuale e se si trattava di uscire prima per arrivare all’ufficio Ortega, Calligaris e Jones, amavo esserlo ancora di più…»

                                           

 

Incrociai le braccia al petto aspettando l’ascensore. Ero nervosa quella mattina e il fatto che stessi continuando ad intrecciare una delle mie ciocche castane al dito ne era la prova tangibile.

Non appena vidi le porte aprirsi, trattenni il respiro per un secondo. Entrata, pigiai subito il bottone per il pian terreno.

L’aver assecondato Meredith, la sera precedente, si era rivelata una pessima idea. Il dopo sbornia è letale.

Con la testa pesante e le gambe molli, mi mossi avvolta nell’elasticità della gonna a tubino blu verso la mia Seat. Un’auto anonima, economica. L’unica che quell’impiego semestrale mi aveva permesso di acquistare.

Nonostante fosse di un tremendo color verde pisello, adoravo quella macchina.

Era comoda, era mia. All’interno una foglia gialla in cartone pendeva dallo specchietto retrovisore rilasciando una gradevole fragranza floreale. Sui sedili posteriori erano sparsi svariati peluche. Un breve ricordo della mia infanzia, nonché il poco che ero riuscita a portare via da Boston, una volta arrivata a Los Angeles.

«Buongiorno, Dotty.» L'Orsacchiotto di peluche, con l’orecchio destro mozzato, mi fissava dal centro del sedile posteriore.

Me lo aveva regalato mia madre molti anni prima di quel momento e non me ne ero mai separata. Nemmeno una volta.

Da piccola, mi aveva accompagnata nelle notti più tristi: quelle delle grida, di mia madre in lacrime, di mio padre ubriaco e fuori di sé. Da adulta, mi ricordava che ce l’avevo fatta e potevo farcela ancora.

Inserii la chiave nel cruscotto e aspettai di potermi inserire nel traffico.

«Hai proprio un aspetto terribile, Karina…» Ferma al semaforo, ritagliai un momento per fissare il mio riflesso nello specchietto sopra la mia fronte.

Profonde occhiaie coperte da una spanna di correttore mi cerchiavano gli occhi verdi. Le sclere arrossate non la smettevano di ricordarmi quante poche ore avessi dormito e l’acidità di stomaco, quanti shottini avessi tracannato.

D'un tratto l’auto dietro di me fece squillare il clacson rumorosamente un paio di volte, facendomi ripiombare nella realtà.

Sussultando, pigiai sull’acceleratore.

Non potevo vedere chi c’era alla guida: immersa nel traffico e costretta a guardare avanti, anche concentrandomi, non sarei riuscita a scorgere il suo volto. Se avessi potuto, giuro, sarei scesa.

Con i nervi a fior di pelle, parcheggiai davanti al marciapiede di uno dei più grandi palazzi acquistati dallo studio Ortega,Calligaris e Jones. I tre più famosi avvocati di tutta la città, nonché, tre potenze economiche in carne ed ossa. Pareva un miracolo essere riuscita ad entrare nel loro ufficio con un banale stage e negli ultimi mesi stavo cercando di fare il possibile per rimanerci.

Scesi dall’auto.

L’ingresso del palazzo era preceduto da due uomini in divisa rossa. Una giacca che, chissà per quale motivo, mi ricordava quella dei domatori di leoni nei più grandi circhi americani.

Agguantai la mia borsa e la valigetta ventiquattrore chiudendo lo sportello alle mie spalle.

Qualcosa, però, mi attirò all’indietro, facendomi sbattere la schiena contro la carrozzeria.

Voltandomi notai che un lembo della mia giacca era rimasto intrappolato nello sportello dell’auto.

Trattenni un’imprecazione.

«Giornataccia?» Uno dei due uscieri abbozzò un sorriso.

«E’ sempre una giornataccia-» risposi a denti stretti,  stringendo con un braccio la ventiquattrore al petto e tirando il lembo della giacca, con forza, verso me. «-quando si esce da un dopo sbornia.».

Niente da fare, la giacca non ne voleva sapere di sfilarsi dallo sportello e così, con il braccio libero lasciai penzolare nel vuoto la cinta della borsa, mentre le dita corsero veloci alla maniglia della portiera.

Libera, finalmente, superai i due uomini che mi salutarono per la seconda volta con un cenno del capo.

«Buongiorno signorina, Stang., Lady C Alvarez l’attende al piano di sopra.» L’uomo di colore, in piedi dietro il bancone della Hall, si chiamava Mike.

Aveva circa quarantacinque anni, una moglie e almeno due figli.

Lavorava per Ortega e company da tutta una vita, con devozione e assoluta riconoscenza.

Un giorno mi aveva raccontato di come uno dei tre avvocati, Jones, vedendolo malconcio alla fermata dell’autobus lo aveva invitato a prendere un caffè.

Mike, il cui vero nome era un impronunciabile susseguirsi di vocali e consonanti mescolate a caso, si era chiesto sin da subito perché un uomo vestito di tutto punto e ricco da far schifo, avesse scelto di offrire un caffè proprio a lui. Lui che non aveva nulla da dargli in cambio, nulla, se non la parola “grazie”. Ma non era mai riuscito a darsi una risposta.

Così aveva deciso di assecondare Jones. Lo aveva seguito in caffetteria e avevano parlato del più e del meno.

Ad un certo punto Jones gli aveva chiesto: «Hai famiglia?», e quando Mike ammise di avere dei figli e una moglie che stava aspettando di arrivare in California dall’Africa Settentrionale, Jones non aveva perso tempo.

Il giorno dopo, Mike indossava la sua divisa verde. Molto simile a quella degli uscieri, ma in velluto e con tante piccole catenine dorate incrociate sul petto.

Sentendo la sua storia mi ero ripromessa che un giorno avrei conosciuto di persona Jones, perché pochi erano come lui al mondo d’oggi. Per il momento però, potevo avere a che fare solo con la sua figliastra Susanne C Alvarez, che tutto era fuorché di buon cuore.

«Ah, davvero?» Superai un gruppetto di liceali in visita guidata e mi avvicinai al bancone allungando a Mike il tesserino riconoscitivo. 

L’intero ingresso, dalle grandi mattonelle di marmo chiaro, era gremito di persone a quell’ora della mattina.

Scolaresche, avvocati pronti a dibattere una o più cause al secondo piano e giudici di tutte le età, - anche se il più giovane mi pareva avere gli stessi anni di Matusalemme.

Mike annuì, marcando un sorriso carico di compassione. Si sporse verso me e bisbigliò: «L’avverto signorina, questa mattina è di pessimo umore.»

«Non è una novità.», risposi fingendo un sorriso consapevole. In realtà, con Susanne non potevi mai sapere come sarebbe andata a finire la giornata. L’avevo vista licenziare personale anche solo per un “buongiorno” di troppo.

A seconda di come si alzava dal letto, agiva.

Tanto per rincarare la dose, aumentando il mio senso di angoscia, Mike mi guardò e aggiunse: «Be’ buona fortuna, l’inferno l’aspetta.». 

Disse anche che l’aveva sentita gridare dalla tromba delle scale, per poi veder correre via un tirocinante, di soli ventiquattro anni, in lacrime.

Mi chiesi quando sarebbe toccato a me: probabilmente quella mattina stessa.

Mi cercava, ed essere cercati da Susanne C Alvarez non prometteva mai nulla di buono.

Mi concessi il beneficio del dubbio, imboccando la serie di grandi mattonelle dal marmo avorio che mi avrebbe portata all’ennesima coppia di ascensori.

Il palazzo acquistato totalmente da Ortega, Calligaris e Jones, si divideva in quattro piani, cinque se si considerava anche il pian terreno.

Il mio ufficio si trovava all’ultimo piano: un’ampia stanza condivisa da almeno un centinaio di matricole del settore. Cento scrivanie, cento tastiere di computer scalpiccianti, brusio continuo, telefoni urlanti che non la smettevano di squillare per tutto il giorno. 

Se non avessi sacrificato quegli ultimi cinque anni della mia vita solo per avere la possibilità di varcare la soglia di quel posto, sarei scappata il primo giorno, probabilmente, dopo il primo quarto d’ora.

Ma ero lì. Ce l’avevo fatta e non avrei permesso a nessuna Susanne C Alvarez di uccidere i miei sogni.

«Stang, sei in ritardo.» Non ebbi il tempo materiale per varcare la linea immaginaria fra l’interno dell’ascensore ed il corridoio del mio piano che, come un rapace, Susanne si fiondò su di me, “artigliando la mia carotide” con le sue maledette unghie laccate di rosso.

Mi sventolò un plico di fogli spillati davanti al naso e disse: «Ci sei? Parlo con te.»

«Si, mi scusi.» Probabilmente il criceto nella mia testa aveva smesso di correre sulla sua ruota, perché il mio cervello aveva elaborato solo la parola ritardo. Ritardo? Ero in anticipo di almeno mezz’ora!

«Mi hanno riferito che mi stava cercando…» provai a dirle in tono mansueto. - Più che mansueto, direi cauto.

«Si, esattamente trenta minuti fa.» Susanne mi voltò le spalle implicando indirettamente di seguirla. Così affrettai il passo.

«Ma tu non c’eri.» Aggiunse con una punta di veleno nella voce.

«Ero imbottigliata nel traffico.» Mentii pur di darle ragione.

Non rispose, ma ero certa di averla sentita sbuffare.

«Be’, non perdiamo tempo adesso.» Superammo un paio di uffici. Dentro, avvocati in erba erano indaffarati a scartabellare fascicoli con le teste basse e i volti seri e nervosi. Era un classico avere a che fare con gente così, lì dentro e seppur io non fossi affatto di quello stampo, temevo che, da un giorno all’altro, sarei potuta diventare esattamente come loro.

«Quale settore hai scelto?» la domanda mi spiazzò.

«Quale settore?...»

Susanne ancheggiava sinuosamente a due passi da me, parlandomi senza mai voltare le spalle.

Potevo avvertire la sua autorità anche solo guardandola da lontano.

I suoi occhi, taglienti come lame, indugiavano fra l’interno di un ufficio e l’altro.

«Si. Quale settore? La tua facoltà ti avrà permesso di scegliere, no?»

«Ho scelto il civile.»

Sospirò una risatina e un attimo dopo, mi ritrovai ad incespicare sui miei stessi piedi vedendola svoltare l’angolo della parete di colpo.

«Sapevi che chi sceglie il civile, solitamente, fa parte di quella schiera di avvocati che prediligono le cause “leggere”?» era un modo carino per dirmi che non avevo voglia di fare nulla?

«Sinceramente, non lo sapevo.»

 Fra piante rampicanti, fotocopiatrici e porte in truciolato nasceva il famoso “quarto piano”, quello che all’epoca era definitivo dei disperati.

Eravamo per lo più matricole sotto il dominio incontrastato di lady C Alvarez. Il nostro compito era uno solo e tutt’altro che semplice: sbrigare le sue scartoffie e se possibile, risolvere i “casi” per cui veniva citata.

Ognuno di noi, a seconda della sua specializzazione, aveva un settore. Il più era numerato: così, tanto per ricordarci che tutti sono utili e nessuno indispensabile.

Ma a me, francamente, non interessava.

Volevo diventare qualcuno e ci sarei diventata lavorando lì, per quella donna.

Afferrò un mucchio di cartelline meticolosamente ordinate e mi informò che avrebbe aumentato la paga degli straordinari di Sean solo per avergliele fatte trovare sullo scaffale accanto alla bacheca degli orari, in quel modo, come se quello potesse fungere da monito per far diventare anche me estremamente precisa come lo era lui.

Non le risposi, limitandomi a scrutare le cartelline che aveva in mano, annuendo.

«Vediamo» ad un tratto si fermò accanto alla porta 345.

Non ricordo di che settore si trattasse, né che genere di futuri avvocati brulicasse l’interno, ma ricordo perfettamente di averla vista bussare e di aver detto ad uno di loro che quello sarebbe stato il materiale di lavoro per quella mattina. Avevo visto il tizio in giacca beige impallidire alla vista della mole di lavoro appena consegnata e avere quasi uno svenimento quando -con estrema schiettezza- Susanne lo informò che avrebbe voluto quel lavoro concluso entro la sera stessa. 

Poi era passata oltre, senza nemmeno aspettare che il giovane - sfortunato - avventore in legge le rispondesse. Nessun commento successivamente, quando tornammo a camminare. Continuò ad assegnare altro materiale ad altri cinque o sei settori dopo di quello. Più consegnava i “compiti a casa”, più scorgevo sul viso dei suoi dipendenti il desiderio di licenziarsi.

«Questo era l’ultimo, adesso tocca a te.» mi porse una cartellina nocciola, «Voglio che incontri queste persone per me.»

Lessi brevemente la piccola intestazione sulla cartellina e una fitta mi serrò lo stomaco. 

«E’ penale.» La informai «Non so se…».

Susanne mi rifilò un’occhiata in tralice «Non sai, se…cosa?»

Se ci riuscirò. Era quella la risposta, ma quando provai ad aprire bocca sentii lo stesso suono che faceva Merlino, il gatto dei miei nonni, quando vomitava palle di pelo.

«Nulla» mi affrettai a rispondere «Sarà fatto.»

 

                                                                  ॥

La mora ridacchia «Doveva essere proprio una stronza.»

Non riesco a non sorridere, anche se la curva che sta disegnando la mia bocca è intrisa di tristezza. «Tremendamente stronza.»

Ride ancora, «Mh, già. Comunque, scusa…Ti ho interrotta, continua…».

 

                                                                    ▶

 

Non smettevo di leggere l’ultima pagina del fascicolo che mi aveva consegnato Susanne, lì dove c'erano scritti esclusivamente i brevi dettagli non aggiornati del caso. Dovevo incontrare una famiglia il cui figlio,sotto effetto di stupefacenti, aveva rubato un' auto e successivamente si era schiantato contro una pattuglia di polizia in servizio. La questione era finita davanti ad un giudice ma non si era trovato un accordo nell’immediatezza, perciò, c’era stato un rinvio a giudizio. Nel frattempo il suo avvocato lo aveva praticamente “abbandonato” definendolo indifendibile e la sua famiglia aveva chiamato lo studio Ortega affinché fosse seguito da qualcun altro.

Peccato che quel qualcuno fossi proprio io, che ero poco più di un’assistente nel settore civile.

Volevo sbattere la testa contro il muro e più guardavo le lancette dell’orologio, più mi saliva un groppo alla gola.

                                        

                                                            

«Ehy, ma non stavi andando al patibolo! Era solo un incontro.»

Mi acciglio. «Sai cosa significa discutere legalmente di qualcosa che hai letto solo nelle enciclopedie universitarie per puro caso? Non avevo studiato diritto penale.»

La mora socchiude le palpebre e scuote la testa «Va bene, scusa. Prosegui.»

 

                                                              ▶

 

 Ad ogni modo, come dicevo, volevo spararmi esattamente su quella scrivania.

«Ehy…Che faccia sbattuta…» Quando sollevai lo sguardo Maggie, mia collega di studi in diritto civile, era davanti alla mia scrivania avvolta da un morbido tubino nero. Fra le mani un paio di fotocopie.  

Rispetto alla mia, quella mattina, per lei, il sole splendeva. I riccioli perfetti lasciavano scoperte le orecchie da cui pendevano due lunghi orecchini ai quali erano incastonati almeno venti Swarovski per uno.

La mia espressione stupita non si fece attendere: «Michael del terzo piano?» le domandai, indicando i due brillocchi enormi.

Mi sorrise, mostrando due file di denti perfettamente allineati di un bianco candido accecante.

«Questa mattina li ho trovati sulla mia scrivania con un bigliettino appoggiato sotto la scatolina.» Ne parlava come se avesse appena ricevuto una proposta di matrimonio. In quel momento, pensai che l’amore era stupendo: in grado di farti battere il cuore all’impazzata seppur lasciandoti con l’espressione inebetita tutto il giorno.

All’epoca speravo di potermi sentire come Maggie…

 

                                                                 

 

«E ora?»

Mi interrompe di nuovo ma questa volta la domanda mi fredda.

E ora?...

Mi inumidisco un labbro. «Ora…» Ora prego il contrario. Non voglio amare qualcuno mai più.

«non c’è più niente e nessuno da amare» le dico nella maniera più risoluta che conosco.

Mi guarda come se l’avessi delusa profondamente. 

«Non dire così…»

«No, tu non dire cazzate. Vuoi la mia storia? Lasciami continuare.» 

Abbassa il capo indugiando per un istante sull’obiettivo.

«Mi stavi parlando di Maggie…»

                                                          

 

                                       

Era al settimo cielo. Aspettava quell’appuntamento da settimane. Non perché non fossero mai usciti prima, o non avessero mai fatto altro, ma perché quello era il loro “primo vero appuntamento”.

«Sono al settimo cielo per te, Maggie» le sorrisi nel modo più caldo che conoscessi attirandomi la stessa curva delle labbra da lei.

«Comunque, non stavamo parlando di me…Hai una faccia sbattuta, che succede?» Si chinò alla mia altezza, poggiando i gomiti sulla scrivania e mi rifilò uno sguardo felino che mi fece avvampare le guance.

«N-Nulla, sul serio.» Sventolai entrambe le mani davanti a me.

Indugiò sul mio viso.

«Sono solamente uscita con un’amica e abbiamo bevuto troppo…Poi, questa mattina, lady stronza-C Alvarez mi ha affibbiato un caso della sezione penale e…sai come la penso sui casi “extracurriculari”». 

Maggie, notando una certa disperazione sul mio volto, non poté frenare una risata divertita.

«Almeno una volta al mese tocca a tutti-» mi diede una pacca sul braccio delicata come una carezza «questa volta è toccato a te.»

Afflosciai le spalle. Non era poi così incoraggiante sentire un velato: “Arrenditi. Sei fottuta”.

«Su Stang! Sei piena di risorse, ce la farai!» Maggie si allontanò dalla scrivania regalandomi un altro dei suoi sorrisi caldi. Tempo di vederla  raggiungere la stampante, mi resi conto che era già ora del mio incontro.

                                                                

 

«Parlami dell’incontro. Come si chiamavano le persone che dovevi conoscere?»

«Ervin, Alisha e Kael Brayton.»

«E sono ancora vive?»

Il cuore mi perde un battito. Posso avvertire il silenzio assordante nel mio petto per un lasso di tempo che mi spacca la cassa toracica.

«No. Non tutti.»

 

                                                             ▶

 

Ero ferma davanti al lavabo di porcellana dei bagni al secondo piano e guardandomi allo specchio continuavo a chiedermi: “Come?”

Come sarei riuscita ad incontrare quelle persone, disquisendo di qualcosa che non conoscevo come il diritto penale?

Meditai sul fatto che il fallimento non era contemplato, cercando disperatamente una soluzione. Nell’immediatezza, però, non mi veniva in mente nulla.

Dovevo affrontare quell’incontro, non c’era altra soluzione. Fissando i miei disperati occhi verdi, mi rassettai una ciocca di capelli dietro l’orecchio, respirai profondamente e sospirai un debole «Puoi farcela.».

 

                                                             ॥

 

«E poi? Cosa è successo?» 

Dice di chiamarsi Mel la stronza. Un nome di merda per la sua faccia di merda.

«Poi, qualcuno è entrato in bagno.»

Mi sto ancora chiedendo che senso abbia tutto questo.

 

                                                              ▶

 

Ero in ritardo. Un fottuto ritardo che poteva costarmi il posto, eppure, non riuscivo a scollare le mie dita dal bordo freddo della ceramica.

Suppongo che, prima di ora, la più grande forma di paura consistesse anche nel deludere qualcuno o se stessi.

Io detestavo sentirmi così vicina al fallimento. Lo detestavo così tanto che, il più delle volte, sopraffatta dal senso di sconfitta, scoppiavo in vere e proprie crisi di pianto. Proprio come in quel momento.

Poi, però, la porta del bagno si aprì. Era troppo tardi quando me ne accorsi.

Sentii gli occhi di qualcuno posarsi sulla mia guancia destra e per un momento ebbi l’impressione di sprofondare nella vergogna.

«Giornataccia?».

Mi voltai di scatto.

 

                                                           

Le spunta un tiepido e brevissimo sorriso «Era Kael?».

Sgrano gli occhi. Mi chiedo come possa averci azzeccato subito. Prima che possa chiederglielo, indica qualcosa sul mio petto.

«La medaglietta» dice.

Abbasso lo sguardo sul mio seno e la vedo lì, mentre scintilla colpita dalla luce.

«Era Kael», ammetto.

Non so cosa sto provando in questo istante. 

Malinconia? Rabbia? Dolore?

                                                            ▶

Gli occhi scuri che indugiavano sul mio viso non li conoscevo affatto.

La persona che si ostinava a restare ferma ad un passo da me, guardandomi come se mi fosse appena spuntata una seconda testa sulla spalla, non aveva affatto l’aspetto di un avvocato. Nemmeno di un inserviente, né di nessuno degli uscieri.

Indossava una T-shirt panna che aveva perso un paio di battaglie contro la lavatrice, pantaloni larghi e usurati e un paio di Adidas la cui fodera di gomma era logora. 

                                                                ॥

«Qual è il primo dettaglio che hai notato di lui? Non credo sia stato il suo abbigliamento.»

Schiudo le labbra e mi fermo a pensarci un attimo.

«I capelli», dico sincera, «Aveva i capelli scompigliati e lunghi sulle orecchie. Ricordo di aver pensato fra me e me “Ha passato decisamente una nottataccia”».

Rido appena.

«Ed era così?»

La curva sulle mie labbra sparisce in fretta «Si. Era così.»

                                                                ▶

 

Il mio cuore batteva all’impazzata e non perché lui fosse lì davanti a me, bensì, perché stavo piangendo come un’idiota e fra tutte le cose che potevano succedermi, quella era l’unica che non doveva capitarmi.

Annuii velocemente tornando a guardare il mio riflesso allo specchio. Strappai via un pezzetto di carta dall’apposito contenitore e mi asciugai velocemente le lacrime.

«Chiamarla “giornataccia” è un eufemismo», ammisi dando un tono sarcastico alla mia voce.

Il ragazzo si avvicinò al lavandino costringendomi a fare un passo di lato.

Aprì il getto d’acqua e si chinò a bere un paio di sorsi.

«Siamo sulla stessa barca», affermò in tono piatto.

Chiuse l’acqua e con il dorso della mano si asciugò la bocca, urtando appena il piccolo anello di metallo agganciato al labbro inferiore.

Lì per lì, onestamente non avevo ricollegato che lui fosse il figlio dei Brayton e quindi mi limitai a chiedergli «Giornataccia anche per te?»

                                                           

 

Resto in silenzio per un momento.

«A cosa stai pensando, Karina?».

Ho il magone allo stomaco.

«Io…non l’ho notato subito.» sussurro. Sento la gola serrarsi. 

«Cosa non hai notato?».

Sollevo lo sguardo.

«La tristezza nei suoi occhi, io non l’ho notata subito.».

Maledizione! Sapevo che rievocando questi ricordi, mi si sarebbe spaccato il cuore.

«Non fartene una colpa» Mel mi guarda dritta in faccia, «Non lo conoscevi all’epoca, vi eravate appena incrociati.»

«Si.» mormoro, «Ma il suo sguardo parlava chiaro e io non l’ho ascoltato.»

                                                              ▶

 

Abbozzò un sorriso sbieco. «Diciamo di si».

Si mosse verso la parete accanto alle cabine WC e appoggiandoci la schiena, si lasciò scivolare lungo di essa fino a sedersi per terra.

Sfilò il cellulare dalla tasca e sbloccò lo schermo.

Restai per qualche istante a fissarlo. 

«Ho la vaga sensazione che tu stia temporeggiando.»

Lui sollevò i suoi occhi castani su di me mordendosi il piercing.

«Cosa te lo fa pensare?»

Di primo acchitto non mi sembrava uno che avesse troppa voglia di chiacchierare.

«Be', sei seduto sul pavimento dei bagni di uno studio legale e continui a fissare lo schermo del tuo telefono senza pigiare alcun pulsante.»

A quel punto, la sua espressione mutò incupendosi velocemente.

«Sto aspettando un messaggio.»

Sospirò leggermente e tornò con lo sguardo, oltremodo serio, al display.

«E' un messaggio importante?» 

«Si.» disse passandosi una mano sul viso «Sto aspettando che la mia ragazza mi risponda.»

Pensai che concentrarmi su quel ragazzo e sul motivo per cui si ostinasse a fissare quel dannato telefono, potesse aiutarmi a distogliere l'attenzione precedentemente catalizzata sull' incontro con la famiglia Brayton.

«Avete litigato?»

Corrucciò la fronte.

«Non proprio».

 Di colpo, tagliando corto,  deviò la direzione del nostro discorso «Tu, invece? Sei appena stata scaricata dal tuo ragazzo?».

Quella domanda mi colse in contropiede.  

Corrucciai la fronte e risposi impettita: «No, niente affatto!».

In tutta risposta si limitò ad un’alzata di spalle prima di rispondere: «Allora perché piangevi?».

«E' solo un po' di agitazione. Ho un colloquio importante.» buttai il pezzo di carta nel cestino. Il ragazzo sospirò un mezzo sorriso che io interpretai come un modo per farsi beffa di me e imbarazzata, ricacciai qualcoasa per dileguarmi da quel bagno: «Comunque ora devo andare.» Raggiunsi la porta, voltandomi un attimo prima di sparirvi dietro «Spero che tu e la tua ragazza facciate pace.»

                                                           

«E sei uscita dal bagno.», fa una breve pausa, «Poi? Cosa è successo?»

Le sopracciglia mi scattano in un balzo mentre la mia mente ripercorre quel momento.  «Poi me lo sono ritrovato in ufficio, con i suoi genitori.»

                                                            

 

«Oh, eccola! Ben arrivata signorina Stang.» Luis Sanchez, l’avvocato dell’accusa, si sollevò dalla poltrona e mi tese una mano in segno di benvenuto.

Ci impiegai un po’ per spiegare al mio cervello che doveva ricambiare la stretta. I miei occhi erano incollati alle teste delle tre persone che mi erano sedute di spalle. Quando poi, una di quelle si voltò verso me, meditai sul fatto che il fato avesse deciso di giocare a racchettoni con me.

Lo stomaco si strinse e mi ci volle un po’ per controllare la vampata di calore che mi stava asfissiando.

Il ragazzo del bagno era lì che mi fissava sorridendo appena.

«Buongiorno a tutti» dissi, stringendo da prima la mano a Sanchez e poi ai tre clienti.

«Lei è l’avvocatessa Karina Stang. Si è offerta di difendere vostro figlio, al posto del collega MCkenzie.»

La signora Brayton mi guardò sorridendo gioiosamente «E’ un vero piacere incontrarla, signorina Stang.»

Mi accomodai a sedere accanto a lei «Anche per me lo è.» e tentai di mimare il sorriso più cordiale che potessi riuscire a disegnarmi sulle labbra.

Il signor Brayton, al contrario, se ne stava con le dita delle mani intrecciate sul ventre, l’aria snervata e un grosso cipiglio stampato in faccia, a guardare l’impaginato di fogli sparsi sulla scrivania.

Non sapevo che piega avessero preso i suoi pensieri ma, dalla sua espressione, non dovevano essere allegri.

Kael Brayton, come c’era scritto nell'intestazione della sua cartellina, controllò il cellulare per l’ennesima volta, finché non fu proprio sua madre, con una gomitata leggera, a farglielo riporre.

L'espressione angosciata sul suo viso sussurrava qualcosa fra le righe, qualcosa che avrei scoperto solo dopo.

«Allora, come anticipato» iniziò a parlare Sanchez «Siamo qui per definire i termini d’accordo riguardo il suo caso, Signor Brayton».

Si rivolse a Kael nella maniera più formale possibile «Come riportato dal suo fascicolo, Domenica notte, dopo aver consumato delle sostanze, ha rubato un'auto, giusto? Dopo di ché ha incidentato con la volante della polizia. L'agente di servizio riporta che farfugliavi parole come "sangue", "morta"...»

Kael lo scrutò in cagnesco. «Lunedì all’alba» lo corresse senza negare il resto.

«Lunedì all’alba» Sanchez cancellò velocemente una frase e scrisse “Lunedì all’alba” a penna.

«Dove ti trovavi prima di quel momento?»

«Eravamo a casa di un amico»

Di colpo sua madre intervenne: la voce bassa quasi come un sibilo, «Kael non mentire.»

Il ragazzo alzò gli occhi al cielo. «Eravamo sulla diciannovesima.»

Sanchez si passò una mano sulla barba appena fatta, grattandosela, «E cosa c’è sulla diciannovesima?»

«Una crack house.», ammise senza problema.

«Quindi eravate lì per assumere sostanze?».

Lo vidi annuire.

«E poi, cosa è successo?»

Notai che il ragazzo si stava massacrando una pellicina. Il piede destro che non la smetteva di tamburellare sul pavimento.

«Ci siamo fatti. Io e la mia ragazza.» affermò. Iniziavo a notare l’espressione sul suo viso inclinarsi pericolosamente verso qualcosa di molto più tetro.

«Eravate soli? C’era qualcuno con voi?»

Tre piccole rughette si disegnarono sulla sua fronte.

«Tom era con noi.»

«Tom è un tuo amico?» Sanchez scrisse velocemente frasi lunghe e in corsivo su un foglio candido.

«Si, è il mio migliore amico.» Un momento di silenzio piombò nella stanza, poco prima che Sanchez tornasse a chiedere: «Cosa è successo alla tua ragazza, a Tom e a te?».

A quel punto, le sclere degli occhi di Kael si arrossarono di colpo.

«Avevo perso i sensi. Quando mi sono svegliato, il materasso era vuoto. Ricordavo che entrambi fossero con me nella stanza ma, al mio risveglio, non c’era nessuno.» si schiarì la voce «Allora sono sceso al piano di sotto-» ma poi si interruppe bruscamente «Senta avvocato, non so cosa ho visto ok? Forse è stata solo la droga.»

L’agitazione che zampillava sulle sue corde vocali era palpabile.

Sua madre Alisha allungò una mano sfiorandogli il braccio «Va tutto bene, Kael.»

«No. No, che non va tutto bene!» Rispose lui, abbaiando «Janie è morta!»

A quel punto, una semplice diatriba fra forze dell’ordine e un ragazzo tossicodipendente era diventata una causa per omicidio.

Mi sentii sprofondare.

 

"Sto aspettando che la mia ragazza mi risponda."

 

"Avete litigato?"

 

"Non proprio".

 

«Morta?...» intervenni incredula «Che vuol dire morta?». Strabuzzai gli occhi, scrutando i Brayton dritti in faccia.

«Kael dice di aver visto la sua ragazza-» Sanchez rivolse a lui lo sguardo in attesa che gli imboccasse il termine esatto.

«Divorata» lo aiutò Kael.

«Mentre veniva divorata dal suo amico Tomas.»

Un senso opprimente di nausea mi attanagliò lo stomaco.

«Vorrei ricordarvi che l’unica persona sporca di sangue, al momento dello scontro con la vettura della polizia, era lei, signor Brayton.»

Guardai il ragazzo.

Aveva ucciso veramente la sua fidanzata, come sosteneva l’agente Clark Bennet nella dichiarazione che Sanchez mi stava allungando sulla scrivania, proprio in quel momento?

Continuai a leggere quelle righe battute alla tastiera un’infinità di volte.

Le parole “omicidio”, “sbranare”, “divorare” erano disseminate per tutto il foglio.

Iniziai a credere che fossi davanti ad un serial killer.

«Non sono stato io!»gridò Kael, scattando in piedi come una molla.

«Kael», Sanchez lasciò scivolare la penna dalle sue dita, «Hanno fatto un sopralluogo in quella casa. Non c’era nessun corpo.»

Ebbi l'impressione che il cielo gli fosse appena piovuto in testa.

Schiuse le labbra incredulo e fissò dritto in volto Sanchez, senza saper bene cosa rispondere.

«E del sangue?» domandai, «Qui dice :“il pavimento nella zona giorno era disseminato di macchie rosse, probabilmente classificabili come tracce ematiche”» citai leggendo.

«Probabilmente», ci tenne a sottolineare Sanchez ammiccando un sorrisetto compiaciuto.

«Era sangue!» Protestò il ragazzo.

Suo padre gli agguantò un braccio «Torna a sederti, Kael.» ma con uno strattone, lui si liberò dalla presa.

«Non dirmi quello che devo fare.»

Gli animi furenti della famiglia Brayton si stavano scaldando oltremodo.

Non c’era molto che potessi fare se non cercare di ribattere alle accuse dell’avvocato Sanchez. Accuse, che più spiegava, più prendevano una forma consistente.

Kael sarebbe finito in prigione, era quasi certo e forse, per aver ucciso la sua ragazza.

                                                                                           

«Quando avete finito il colloquio, hai parlato con lui?».

Chiudo gli occhi e mi balza davanti un flash: la sua schiena larga che volta i tacchi e se ne va lungo il corridoio. Cerco di ricordare.

L’ho affrontato?

«L’ho fermato un attimo prima che pigiasse il pulsante dell’ascensore.»

                                                              

 

«Kael! Kael, aspetta!».

Si voltò di scatto. Cinereo.

«Che vuoi?»

Rallentai nelle sue prossimità. «Non aspetti i tuoi genitori? Sono ancora lì dentro con Sanchez.»

Serrò la mascella: un muscolo guizzò appena sotto la sua pelle, quando il suo sguardo oltrepassò la mia spalla in direzione dell’ufficio.

«Tanto a che serve?» mi rispose seccamente, spostando le iridi scure su di me «Non saranno le suppliche di mia madre ad evitarmi la galera.»

L’ascensore spalancò la bocca, suonando.

«Forse lei non può, ma io sì. Lascia che ti aiuti.»

Adesso mi guardava più scuro in volto «Aiutarmi? Mi stanno incriminando per omicidio! Finirò davanti ad un giudice e sai che diranno? Che sono un tossico che ha ammazzato la sua ragazza perché era fatto!» I suoi occhi si assottigliarono in due fessure. Stillavano veleno. «Credi di potermi aiutare? O vuoi provarci solo per avere un encomio da questi quattro stronzi che ti hanno assunta?».

Mi sentivo offesa.

«Voglio aiutarti sul serio. Hanno detto che non c'era nessun corpo. Nessun corpo, uguale, nessun reato. Forse non riuscirò ad evitarti il riformatorio, ma la galera si. Lasciami provare.» dissi supplichevole.

Lanciò gli occhi al cielo sorridendo istericamente «Ma certo! Sarò il tuo "caso da manuale". Bene! Spero che almeno ti diano un aumento».

Non sarei riuscita a farlo calmare, non nei successivi trenta minuti ma volevo scoprire cosa gli era capitato. Qualcosa dentro me si ostinava a ripetere che non era un assassino.

Respirai a fondo, ignorando tutto ciò che mi aveva gridato addosso «Raccontami cosa ti è successo. Dall’inizio.»

Lo convinsi a seguirmi in un ufficio libero e dopo un po’ di fatica, si decise a parlare.

Disse di aver visto il suo migliore amico dilaniare a morsi la sua ragazza. Di essere scappato per strada e di aver rubato un’auto poco prima di schiantarsi contro la pattuglia di polizia che stava terminando la ronda notturna.

Mi raccontò delle sensazioni che aveva provato, del dolore. Ammise che amava la sua ragazza e che temeva di essere impazzito quando, tornando in quella crack house, non aveva trovato né lei né il suo migliore amico.

Aveva controllato il telefono diverse volte con la speranza di trovare una loro chiamata. Chiamata che non era mai arrivata.

Così, gli promisi che, se quella fosse stata la verità, avrei trovato un modo per evitargli il carcere. Affermai che gli credevo, che sapevo che non stava mentendo.

                                                             

«Siamo rimasti un’ora chiusi in quell’ufficio» ammetto. Non guardo Mel, ma la piastrina di ferro che stringo fra le dita «Io gli avevo ridato la speranza.».

Quando sollevo lo sguardo mi accorgo che è umido.

«Continua…Poi, cosa è successo?»

«Kael voleva trovare la sua ragazza ed io mi offrii di accompagnarlo.»

«Quindi siete usciti dall’edificio?»

Ho un tuffo al cuore. «Ci abbiamo provato.»

                                                                ▶

 

«Portami in quella crack house.» Dissi, guardandolo dritto negli occhi, «Portami lì. Voglio vedere con i miei occhi quello che hai visto tu.»

«Non c’è niente da vedere oltre al sangue.» Sembrò abbattuto.

«Anche il sangue va bene. Voglio solo capire cosa è successo. Magari qualcuno ha spostato il corpo della tua ragazza… Magari è stato lo stesso Tom a farlo.»

Kael strinse le labbra come se volesse soffocare qualcosa di doloroso che minacciava di sfuggirgli di bocca «Mi piacerebbe dirti che Tomas non farebbe mai del male a Janie, ma quello che ho visto è stato…».

Diceva di aver visto il suo migliore amico sbranare la sua ragazza.

Sbranare la sua ragazza…Era impossibile.

Guardai l’orologio agganciato alla parete sulle nostre teste. «Abbiamo un’ora. Portami lì.»

Mi sollevai di scatto dalla poltrona e lui fece lo stesso.

«Ne sei sicura? Sei sicura che venire con me non ti creerà problemi?».

No, probabilmente me ne avrebbe creati e come ma io avevo scelto di fare quel lavoro per aiutare le persone. Era stato quello il monito per diventare avvocatessa.

Scossi il capo: «Non me ne creerà.»

                                                                ॥

«A quel punto siamo scesi a pian terreno.» Dico. Non so se sono pronta a rievocare questa parte di ricordo.

«Cosa è successo a pian terreno?».

Freno i nervi e le lacrime che premono per uscire. «Li ho visti.»

                                                                                                  

L’ascensore suonò informandoci che eravamo appena arrivati a piano terra.

«La mia auto è parcheggiata proprio qui davanti.» lo informai, scrutandolo con un’occhiata rapida.

Le porte si aprirono. All'improvviso, ci ritrovammo alle spalle di un corposo capannello di persone che stava guardando qualcosa in direzione della porta d’ingresso.

In fondo alla massa di teste non potevo vedere granché, però sentivo chiaramente la voce di Mike tuonare nella Hall.

«Vi devo chiedere di restare dove siete!»

Kael mi guardò confuso. Io lo ero altrettanto.

«Cosa sta succedendo?», domandò.

«Non lo so.».

 A quel punto, provai ad avanzare.

Insinuandoci fra la folla che, tutto sembrava fuorché tranquilla, Kael ed io riuscimmo ad emergere dal raggruppamento.

Attorniati da un semicerchio di teste e cappotti, due ragazzi pallidi e sporchi di sangue se ne stavano con i denti digrignati, in piedi davanti all’ingresso.

Le mani tese e i muscoli contratti, le loro schiene rigide avevano preso una curva innaturale. Ad un tratto, mi parve di averli  sentiti ringhiare sommessamente.

«Che diavolo…»

Kael scattò un passo avanti.

«E’ Janie!» esclamò incredulo.

Jenie, la ragazza bionda, aveva addosso una specie di camicetta senza maniche abbastanza trasparente da permettere di intravedere un profondo solco sull’addome. Solco, dalla quale grondava, copioso, del sangue scuro.

Quello che ad occhi e croce doveva essere Tomas, invece,  aveva un morso esattamente sotto l’incavo del mento.

Non potevo credere ai miei occhi. 

Erano sotto effetto di qualcosa? Erano impazziti? L'unica certezza erano le loro ferite.

«Ora mi avvicino, ok?» disse Mike esitando. La ricetrasmittente stretta fra le dita d'una mano.

Gli occhi, dalle pupille enormi e dilatate, di Janie dondolavano nella sua direzione.

Poi, bastò un piccolo rumore. -La ricetrasmittente. Il suono metallico, che ricordavo di aver sentito un milione di volte, innescò qualcosa in quei due ragazzi.

Janie scattò verso Mike. Con un balzo felino intercettò la sua carotide e mordendola, tirò forte. La pelle, sul collo scuro dell'uomo, si strappò rumorosamente come carta. L'urlo di Mike fu atroce.

Di lì a poco, scoppiò il caos. Tomas si scaraventò contro il mucchio di persone come una bestia inferocita, ringhiando, emettendo suoni che solo un animale poteva produrre.

Kael era paralizzato. Le iridi scure non accennavano a staccarsi da quella che, una volta, era stata la sua ragazza.

«Kael, dobbiamo andarcene!» gridai. I suoi piedi erano piantati al suolo come se ci fossero stati chiodi a trattenerlo.

Cercai di tirarlo per un braccio e solo allora, mi accorsi che due piccole lacrime gli stavano scivolando lungo il viso.

Provai un enorme senso di pietà ma la paura ebbe la meglio.

«Maledizione Kael!».

                                                          ॥

«Immagino che siete riusciti a scappare dal piano terra.» Dice Mel aggiustando l'obiettivo della cinepresa. 

«Si, ma non verso l’uscita…» -non verso l’uscita.

                                                           ▶

 

Trascinai Kael su per le scale. La folla, che si era abbattuta come un uragano contro le porte degli ascensori, era andata incontro alla morte bramando salvezza. Quelli più esposti erano stati aggrediti da Tomas e Janie mentre chi era al centro dell’onda di persone terrorizzate aveva finito per essere calpestato, morendo tra atroci dolori.

Sbracciando fra la gente, ero - in qualche modo - riuscita a portarlo al primo piano.

Avevo il cuore in gola. Cosa avrei dovuto fare? Cosa stava succedendo?

Era tutto così assurdo.

«Erano loro? Erano la tua ragazza e il tuo amico?» 

Kael rallentò accasciandosi contro una parete. Il suo petto che si abbassava e alzava velocemente.

«Si», ammise.

«Non stavi mentendo.» 

I suoi occhi si imbatterono nei miei.

Adesso avevo la conferma: Kael non mentiva. Solamente, non sapevo che quello sarebbe stato, per noi, l'inizio della fine.

Ancora non conoscevo il morbo. Non sapevo nulla dei mangia-carne, degli urlanti e dei notturni. 

Era solo l’inizio e non avevamo la certezza che saremmo sopravvissuti.

                                                             

«Si è fatto buio.» Mel pigia un pulsante laterale alla telecamera. «Sarà meglio fare una pausa.»

Si solleva da terra e raccoglie la borsa.

«Ho finito. Questa è la mia storia, adesso lasciami andare!»

Mi guarda dall’alto in basso. «Hai ancora molto di cui parlare, Karina. Facciamo così: tu mi dai la tua storia ed io, in cambio, darò qualcosa a te.»

Scuoto il capo. Non c’è nulla che mi possa dare all’infuori delle mie armi.

«E cosa?»

Accenna un ghigno «Lo scoprirai presto.»

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Caos ***


                                     Caos.

 

  L’unico problema con la fine del mondo è che non la si potrà raccontare ai propri nipoti.

(Arnaud Cotrel)                     

           

                                                 2.

 

                                                ➽

 

Il mondo, all’imbrunire, fa paura.

Quando l’oscurità inghiottisce anche gli ultimi raggi di sole, la terra cambia. Loro si svegliano. Sono lì fuori, pronti a cacciare.

I miei occhi si stanno abituando ad essa: l’unico bagliore luminoso è quello di un raggio di luna che trapassa le fronde degli alberi.

La Jeep di Mel è parcheggiata fra due sequoie al centro di questo dannato bosco.

Mi maledico ancora una volta per aver deciso di correre in questa direzione.

Dovevo percorrere la nazionale. Ci sarebbero volute ore, magari giorni ma, alla fine, avrei raggiunto l’ovest.

 

«Non è molto comoda, lo so.» Mi dice, affrettandosi a riporre la tracolla e il fucile nel bagagliaio.

Almeno ha avuto premura di trascinare dentro la vettura prima me, benché di peso, che le sue armi o la telecamera. «Ma vedrai che passare una notte al sicuro renderà questa vecchia carretta il giaciglio migliore che potessi trovare.» La quinta portiera sbatte rumorosamente facendo oscillare l’abitacolo sul posto.

Mel gira attorno alla Jeep, apre lo sportello e si sistema accanto a me dalla parte del guidatore.

«Vivi qui dentro?» Sono incredula. Nessuno sceglierebbe mai di vivere in un’auto consapevole che i mangia-carne pullulano strade e boschi di notte.

Sorride quasi imbarazzata «Lo trovi strano…Lo so.», poi, si sporge verso i sedili posteriori. La sento frugare dentro qualcosa, forse uno scatolone.

«Se ti organizzi, riesci a sopravvivere anche all’esterno dei rifugi.» Afferma.

Per un momento vorrei essere un’altra persona, più coraggiosa. Da quando il mondo è diventato macerie non ho mai pensato, nemmeno una volta, di muovermi lontana da un gruppo. Dalla luce.

«Eccole.» Torna con la schiena dritta sul sedile. Stretti fra le mani due oggetti di forma conoidale probabilmente di plastica.

Ne rovescia uno a testa in giù e tocca un pulsante.

In un attimo, l’interno dell’abitacolo si illumina di un bagliore blu-violaceo elettrico.

«Lampade UV. Inutile che ti spieghi a cosa servano.» 

A far sì che quei mostri non si avvicinino all’auto.

A due mesi dallo scoppio del morbo, molti di loro sono mutati: hanno iniziato a perdere i capelli, la loro pelle si è assottigliata e i loro occhi sono diventati ciechi. 

La loro sensibilità agli ultravioletti, alla luce del sole, li rende molto più vulnerabili di giorno e molto più feroci di notte.

«Quando hai capito che servono i raggi UV per scacciarli?» le domando. Credo che ognuno di noi sopravvissuti abbia fatto questa scoperta in modo diverso.

«Mentre scappavo dalla Virginia. Ma quella è la mia storia e non siamo qui per ascoltare me.»

Già, lo avevo dimenticato: la stronza ha una fissa per me e per ciò che mi è accaduto.

Lancio gli occhi in una direzione qualsiasi purché lontana dal suo viso. «Giusto…»

Mel allunga le mani sul cruscotto e poggia le due lampade.

Non ha tirato fuori dalla borsa la videocamera, ragion per cui, sono portata a credere che non mi lascerà andare domani mattina.

Sospiro avvilita.

Credo di aver bisogno di mangiare e di dormire, anche se, tutto ciò che voglio è scappare da quest’auto e correre il più lontano possibile.

Voglio perdermi, così che nessuno possa ritrovarmi mai più.

“Cosa mi è successo?”

«A cosa pensi?» vedendomi perplessa aggiunge «E’ da un po’ che fissi il vano portaoggetti, non c’è niente lì dentro. Le tue armi sono nel bagagliaio assieme al mio fucile.»

Non so perché senta il dovere di mettere in chiaro che non ho la possibilità di poterle fare del male. Non ho intenzione di ucciderla. Non ancora per lo meno.

Credevo che volesse qualcosa di più serio di uno stupido racconto sul dramma che stiamo passando da quasi un anno. Invece no: lei vuole la mia storia e poi, probabilmente, mi lascerà libera.

Ha detto che ha qualcosa per me…

«Non mi lascerai andare domattina, vero?» abbasso lo sguardo sui miei polsi legati.

«No.» Sospira dal naso, sembra le coli «Ti lascerò andare quando finirai di raccontarmi la tua storia.».

Quando mi volto a guardarla, la trovo con gli occhi lontani da me e dall’interno della Jeep. Se ne sta lì a guardare il buio avvolgere il bosco. 

«Hai fame, Karina?», -chissà a cosa pensa…

Non voglio dirle di si ma il mio addome suggerisce la risposta al posto mio.

Il gorgoglio che emette il mio stomaco si attira una risatina divertita da parte di capelli corvini.

«Quand'è stata l’ultima volta che hai messo qualcosa sotto i denti?» Torna a sporgersi verso i sedili posteriori e allunga una mano in una direzione ben precisa. Un leggero scricchiolio, un piacevole rumore di carta stropicciata, arriva alle mie orecchie. Ho un fremito.

«Non lo ricordo. Due giorni fa, credo.» 

Quando riemerge dall’incavo fra i nostri sedili, stringe per mano una barretta al cioccolato ricoperta di arachidi.

Ho gli occhi spalancati come due uova all’occhio di bue.

Non vedevo quelle dannate, deliziose, barrette da mesi.

Seguendo il doloroso impulso della fame allungo entrambi i polsi, allacciati fra loro, verso il trofeo che Mel stringe fra le dita.

Stranamente non reagisce: lascia che le sfili la barretta dalle dita, come un avvoltoio, senza opporsi in alcun modo.

Ci impiego un attimo per strappare la carta ed addentare il cioccolato come una disperata.

«Dio» mugolo.

Sorride.

Mentre sto masticando con voracità, la mia mandibola inizia a rallentare.

«Qualcosa non va?» domanda, all’improvviso.

Fisso il cioccolato come se avessi qualcosa di viscido fra le mani.

«Che ci hai messo dentro?».

All’impatto con la mia domanda, sul suo viso si piazza un palmo di risentimento.

«Nulla.» Sento una punta di nervosismo nella voce. «Cristo! Ti ho dato del cibo e tu insinui che ci abbia messo del veleno?».

I nostri occhi si sfiorano per un momento, poco prima che distolga lo sguardo dal suo, imbarazzata.

Come può biasimarmi? Nessuno offrirebbe mai del cibo di questi tempi.

La vedo assottigliare le palpebre «Che ti hanno fatto per diventare così…malfidata?».

Per un momento ho l’impressione che i suoi occhi stiano disperatamente cercando di scavare dentro di me.

Stringo le labbra l’una contro l’altra: sono tentata di chiederle scusa. Mi sento una merda per averla accusata.

«Qualcuno in passato ha provato ad avvelenarmi.» Riesco a dire, poiché il mio orgoglio batte tutte le cose giuste da dire o da fare.

C’è un attimo di silenzio fra noi. Mel guarda nella mia stessa direzione, oltre il parabrezza.

«Non diventare come le persone che ti hanno ferita, Karina. Sii meglio di loro.»

Quella frase è un pugno allo stomaco. Mi fa pensare ad una persona in particolare: Kael.

Subito, però, una nube scura di consapevolezza e dolore si piazza al centro del mio petto. 

Il viso di Kael sparisce in fretta da davanti ai miei occhi.

«Le circostanze ti costringono a cambiare delle volte.» Le allungo la barretta verso il braccio, dandole due colpetti.

La guarda per un po’ poi decide di raccoglierla.

«Ho bisogno di dormire.» dico mentre mi rannicchio sul sedile voltandomi di spalle.

Forse mi sbaglio. Forse, esiste ancora del buono nelle persone.

Forse…La fine del mondo non ha spento la gentilezza nell’animo di alcuni di noi.

Del mio si. Da un bel po’.

                                                    ➽

Qualcosa urta la fiancata della Jeep facendola oscillare un paio di volte. Spalanco gli occhi di colpo. Quando mi sono addormentata?

«Tranquilla.»     

Sento la voce di Mel ma sono ancora confusa dal sonno e dallo spavento.

«Sono i mangia-carne?» le chiedo abbassando di qualche decibel il tono della mia voce.

«Notturni.»

Quando mi volto è seduta con una carabina da militare fra le cosce e fissa un punto oltre il cofano della sua vettura.

Quando ha preso il suo fucile? Perché non l’ho sentita scendere dall’auto?

«Perché hai il fucile con te?» 

«Iniziavo a sentire un discreto movimento intorno a noi.», Ammette. «Ho preferito premunirmi.»

E’ inevitabile che io sia frastornata dai dubbi e dalla paura in questo momento.

«Ti ho detto che puoi dormire tranquilla.» è tremendamente sicura quando parla «Ci sono io di guardia.»

Serro la mascella per trattenere i nervi. Non è un gioco!

«Io sono tranquilla solo quando mi proteggo da sola.»

Non ho idea di dove siamo adesso. Mel ha spostato la Jeep, è scesa, ha preso il suo fucile e tutto quanto lo ha fatto mentre dormivo.

Gli alberi hanno cambiato disposizione attorno alla vettura e ora, sento scorrere un ruscello a qualche metro da noi.

Ci sono troppi scricchiolii di foglie a rompere il silenzio della notte.

Mi sollevo come posso sul sedile: ci sono affondata dentro.

Aggrappandomi al cruscotto riesco a riemergere dal basso e a guardare fuori.

Ho una stretta alla pancia e il respiro resta incastrato fra le pareti della mia gola.

C’è una specie di mandria che si muove nell’oscurità.

Almeno una ventina di notturni brancola nel buio. Sono veloci, affamati.

Quando spalanco la bocca sto per urlare ma la mano di Mel scatta verso le mie labbra.

«Non farlo. Non gridare.» bisbiglia «Non ci faranno niente, abbiamo le torce, ricordi?».

Il battito del cuore è a mille e mi viene in mente di tutto; nonostante ciò, faccio come dice.

Li sento passarci accanto, urtando l’auto diverse volte, evitando il tettuccio e il parabrezza.

«Visto?» 

Sono esterrefatta. 

«Adesso fa come ti dico, riposati. Domani sarà una lunga giornata.»

Non so se riuscirò a dormire, ho paura. Una fottuta paura di morire. 


L’indomani, i primi raggi del sole mi irradiano fastidiosamente il viso.

Mi sveglio di soprassalto e credo ancora che i notturni ci stiano intorno.

Non ci sono e non c’è nemmeno Mel.

Guardo oltre il finestrino: le sue cose sono accantonate vicino a quello che sembra essere un piccolissimo falò rimediato. Appoggiata sopra ad un cerchio di pietre una griglia da barbecue.

C’è un barattolo fumante.

«Ti sei svegliata» lo sportello dal lato del guidatore si apre di colpo facendomi trasecolare.

«Cristo, Mel» borbotto.

Mi sorride raggiante.

I suoi occhi indugiano lungo le mie gambe.

«Dammi un momento.» Ad un tratto, sparisce dietro la Jeep per poi riapparire davanti al mio sportello.

Lo apre e tira fuori qualcosa dalla sua tasca.

Quando si china verso i miei piedi ho l’impulso di tirare indietro le gambe.

Prima che lo possa fare, afferra il mio polpaccio e con il pollice estrae una piccola lama dall’insenatura di quello che, ora, so essere un coltellino svizzero. La corda si tende contro la lama, sfilacciandosi all’estremità e infine, si rompe.

Non ha paura che le tiri un calcio e scappi via? 

Ed io perché non lo faccio? Perché non la colpisco?

«E’ ora della colazione! A pancia piena le storie vengono raccontate meglio.»

Chi è Mel?

Mi sollevo. Ho le gambe intorpidite e zoppico leggermente.

Il formicolio ai piedi è la cosa che, in questo momento, mi da più fastidio.

«Allora, abbiamo…Fagioli in scatola, caffè, orzo…» Ci sono almeno dieci barattoli diversi appoggiati fra l’erba. 

Come se li è procurati? 

Entrare da soli dentro qualsiasi locale, palazzo o casa in città è praticamente un suicidio.

Si gratta la nuca imbarazzata «Non sapevo cosa preferissi, così ho tirato fuori un po’ di tutto.»

Faccio una smorfia. «Qualsiasi cosa va bene.».

A che gioco sta giocando? Perché è gentile con me?

Mel si accuccia e raccoglie un barattolo leggendo l’etichetta «Caffè istantaneo» fa una breve pausa e vedo i suoi occhi scorrere sulle righe dell’etichetta «Duecento ml di acqua.»

Si guarda attorno. «Ho dell’acqua in bottiglia», afferma con risolutezza «Non saranno duecento ml, ma andranno bene lo stesso.»

Dopo aver recuperato l’acqua prende un tegamino di ferro e mischia la polvere di caffè al liquido. Aspettiamo che bolle e quando è pronto, dopo tanti mesi, riscopro un sapore che in passato amavo.

Socchiudo gli occhi: ho un barattolo fumante che sa di caffè fra le mani; è quasi uno spreco berlo.

«Come ti sei procurata tutta questa roba?» le chiedo.

Sta riordinando alcune piccole cassette. Ci sono scritti nomi, cognomi, soprannomi e luoghi. Ne ha a bizzeffe.

Chissà se quelle persone sono ancora vive?

«Un po’ di ingegno e molti, molti proiettili.»

«Dovresti insegnarmi come si fa.» Ammetto e faccio un sorso dal barattolo di latta.

Mel alza gli occhi verso me e sorride «Sei sopravvissuta fin’ora anche te…Non credo che ti servano dritte

«Già…» -come no.

Dopo una manciata di minuti finisco il mio caffè e Mel termina di sistemare la telecamera e le sue cassette. Ci spostiamo sulla riva del fiume. Ama le inquadrature da reportage televisivo sofisticato. Io le trovo inutili data la circostanza in cui ci troviamo.

Mi fa sedere su una roccia.

 Ancora non mi slega i polsi, «Sembro una prigioniera», e glielo faccio notare.

Si accomoda di fronte a me, «Ti ho liberato le caviglie, non è abbastanza?», e sistema l’obiettivo della telecamera.

«E poi, non punterò l’inquadratura sui tuoi polsi.»

Sospiro dalle narici. Un pugno di nervi mi sta facendo pulsare le meningi.

«Fatto. Possiamo iniziare.» afferma, di colpo, soddisfatta.

La fisso inespressiva.

L’autoreverse gracchia per alcuni istanti e il puntino rosso torna a brillare ad intermittenza.

«Dove eravamo rimaste?» -l’ufficio.

Mi tornano in mente gli occhi umidi di terrore che aveva Kael quel giorno.

«Siamo stati costretti a risalire al primo piano.», dico.

So che ben presto tornerò a provare quel maledetto dolore sordo al centro del petto.

                                             

                                               ▶

Kael respirava così velocemente da poter rischiare di svenire da un momento all’altro.

«Dobbiamo cercare aiuto.» mi chinai alla sua altezza. Sembrava perso in un limbo la cui uscita stava sparendo lentamente. «Kael!»

I suoi occhi si spostarono sul mio viso. Aveva persino annuito, eppure, non riusciva a muoversi. 

La paura lo aveva paralizzato ai piedi di quella parete. La montagna di persone in preda al terrore stava risalendo le scale: c’era rumore. I muri tremavano, esattamente come i corrimano lungo le gradinate.

Dovevamo spostarci da lì o ci avrebbero calpestati, nella migliore delle ipotesi.

«Cerca di alzarti» dissi tirandolo per un braccio. 

Non lo avrei lasciato lì: non ero così egoista. Non all’epoca.

Kael ci impiegò qualche istante ma, alla fine, riuscì a sollevarsi da terra.

 

“Avviso urgente. Tutto il personale all’interno dell’edificio è pregato di abbandonare il proprio ufficio all’istante, passando per le apposite uscite di emergenza. Ripeto, tutto il personale all’interno dell’edificio è pregato di abbandonare il proprio ufficio all’istante.”

 

Scoppiò il caos. Nessuno sapeva esattamente che direzione prendere. Kael ed io imboccammo a ritroso il corridoio verso il lato est del primo piano, mentre, come un’onda, tutti i miei colleghi ci correvano contro nella direzione opposta.

Ci venivano addosso come guizzi schiumosi contro la battigia. Camminare stava diventando difficile. Correre, impossibile.

Ad un tratto, qualcuno urtò il mio braccio destro. Subito dopo, una donna mi sfrecciò accanto colpendomi il sinistro.

Restai indietro.

«Kael!»

Non vedevo che volti spaventati. Terrore. 

Sentivo solo le grida.

In un attimo, mi ritrovai sola.

Mi voltai a destra e sinistra, scrutando gli occhi di tutti alla ricerca di quelli del ragazzo.

Ma erano tutti anonimi, sconosciuti.

Immersa, al centro di quella mandria di teste, continuavo a ricevere spinte, gomitate. Ad un tratto qualcuno mi colpì dritto al centro della schiena, per poi superarmi senza nemmeno voltarsi.

Il dolore mi esplose lungo la spina dorsale togliendomi il fiato. Caddi sulle ginocchia e fui costretta a ripararmi il viso con le braccia pur di non essere colpita dalle ginocchia o dai piedi dei miei colleghi.

“Devi correre”, ripeterselo non bastava.

Provai a sollevarmi.

«Karina!» 

Maggie piombò davanti a me come un fulmine a ciel sereno. Mi afferrò le spalle aiutandomi a tornare in piedi. Era terribilmente spaventata.

 «Dove stai andando? L’uscita è dalla parte opposta!».

Voleva che la seguissi ma io non potevo.

«Devo trovare Kael Brayton e la sua famiglia», dissi.

Mi scosse per le spalle «No, devi uscire da qui!».

Guardai oltre l’onda di persone, verso la direzione che aveva preso Kael. Era sparito. Forse era stato calpestato.

Tornai a guardare Maggie mimando un no sofferente.

«Uscirò da qui, te lo prometto.» affermai «Ma adesso devo trovarli.»

Una parte di me non si sarebbe mai sentita tranquilla e con la coscienza a posto sapendo che Kael stava cercando i suoi genitori mentre io lo avevo lasciato in balia di se stesso.

«Non dire cazzate, Karina! Lasciali perdere. Mettiti in salvo!»

Si dice che è proprio nei momenti peggiori che la vera essenza di noi salti fuori.

Maggie avrebbe veramente lasciato qualcuno indietro, in balia degli eventi, potendolo aiutare?

Non risposi. L’abbracciai e mi separai da lei nella frazione di un attimo.

«Karina!» gridò, ma ero già tornata ad immergermi nella folla.

                                                      ॥

«Perché sei tornata indietro? Maggie aveva ragione, dovevi lasciar perdere, potendo.» 

Mi mordo un labbro.

«Sapendo di poter aiutare qualcuno, chiunque esso sia, in una circostanza di estremo pericolo…Ti volteresti dall’altra parte?»

Mel abbozzò un sorrisetto vittorioso. «Adesso capisci perché io ho aiutato te?»

Schiudo le labbra. Voglio dire qualcosa ma non so esattamente cosa risponderle.

«Ti ho trovata che correvi come una pazza in questo bosco.»

«Mi hai colpita» le faccio notare.

«Eri spaventata, mi avresti sparato se fossi apparsa all’improvviso.» Ha ragione.

Temporeggia sul mio viso «Perché scappavi?»

Quella domanda è una cazzottata in pieno viso.

«Non ha importanza.» dico, sfuggendo al suo sguardo.

 

                             ▶

 

Il corridoio a ferro di cavallo, in quel momento, mi sembrava infinito. Raggiungere il lato est pareva un’impresa titanica. Lo divenne realmente quando il sangue incominciò ad imbrattare le pareti.

Chi era stato morso al pian terreno ci aveva impiegato poco più di sette minuti per trasformarsi in qualcosa che non era né umano, né animale.

Le grida che, dapprima, parevano un’eco lontano giù per la tromba delle scale, stavano risalendo verso il piano come un vaso che velocemente finisce per riempirsi d’acqua.

«Ma cosa?...» Un uomo mi superò per poi rallentare di colpo.

Mi voltai verso l’uscita intasata di schiene febbricitanti pronte a colpire chiunque, se solo ce ne fosse stato bisogno, pur di scappare.

-Gli infetti.

 Chi aveva scelto di correre nella direzione opposta alla mia, aveva scelto inconsapevolmente il suicidio.

«No-no-no» incespicai un paio di passi all’indietro.

                                               

                                             ॥

«Non dimenticherò mai quel momento. Il sangue. I loro occhi.» Ho uno spasmo.

Se socchiudo le palpebre ho l’atroce impressione di essere ancora bloccata in quel corridoio.

                                 

                                             ▶

 

Fra tutti gli occhi iniettati di sangue e con le pupille dilatate, ne riconobbi un paio all’istante.

Mike.

Il Mike che mi sorrideva sempre, che era sempre gentile con me, che mi aveva raccontato la sua storia, ora, stava strappando la faccia di una ragazzina a morsi.

Ringhiava gutturalmente, un suono che faceva accapponare la pelle.

Non era più Mike. Non era più umano.

Dovevo allontanarmi, subito.

Mi voltai pronta a correre di nuovo, quando, all’improvviso, un paio di occhi rossi apparve a meno di qualche metro da me.

In quel momento tutto ciò che avevo attorno si cristallizzò.

Rimasi paralizzata. Quell’abominio non si guardava attorno, aveva scelto la sua preda. Io ero la sua preda.

Feci un minuscolo ed impercettibile scatto di lato e fu allora che si lanciò in una corsa folle e scoordinata nella mia direzione.

Mille immagini mi attraversarono la mente, alternandosi rapide come in un album fotografico.

Amici, persone, sentimenti, momenti di ogni genere mi passavano davanti e mi sembrò di non poter fare più nulla. Smisi di respirare. Di lottare.

 

                                                    ॥

 

«Ma poi qualcuno ti ha aiutata…»

Mi trema il labbro inferiore. La costante lotta contro le lacrime che scalpitano per uscire mi sta sfinendo.

«Già…» mormoro penosamente con la voce rotta «Alla fine, non ero l’unica che aveva deciso di tornare indietro.»

 

                                                    ▶

Era ad una spanna da me, pronto a mordermi, sbattendo la mascella come un ossesso, quando, di colpo, qualcosa lo mandò contro la fotocopiatrice dietro le mie spalle.

Quello che una volta era un liceale finì per ruzzolare lungo la moquette un paio di volte grugnendo. 

Una mano mi strinse il polso e quando mi voltai di soprassalto «Kael» era lì.

Mi aveva cercata. 

                                                    ॥

 

«Ho pianto quando l’ho visto, sai? Credevo - anzi no, ero certa - che mi avesse abbandonata. Chiunque lo avrebbe fatto.»

Mel solleva lo sguardo dall’obiettivo «Gli hai mai chiesto perché è tornato indietro?»

Scuoto la testa.  «No, mai.»

                                                      ▶

 

Gli occhi mi si appannarono in fretta: un attimo prima avevo visto la mia vita spegnersi, quello dopo, lui mi aveva salvata.

«Dobbiamo trovare un posto sicuro», disse facendo del suo corpo uno scudo per il mio.

Riuscimmo, seppur con difficoltà, a raggiungere e svoltare l’angolo della prima metà di quel corridoio.

Ma il peggio doveva ancora arrivare. Scoprimmo che non c’era nessun’altra uscita.

L’ala est era intasata di persone impazzite che dilaniavano a zannate i miei colleghi.

E quando ebbero terminato di saccheggiare i loro corpi ormai vuoti, la massa caotica di persone fuori di senno si lanciò nella nostra direzione: non c’era più tempo per pensare.

Kael allungò una mano sulla maniglia di una porta e provò ad aprirla.

«Stanno arrivando!», gridai.

Provò ad abbatterla con un paio di spallate ma sembrava chiusa dall’interno.

A quel punto, si allontanò di un paio di passi e prendendo la rincorsa, colpì con tutta la forza la porta, in direzione della maniglia, con un piede.

Il ferro si staccò dallo scheletro di legno tonfando a terra e ci ritrovammo in un battito di ciglia all’interno di un ufficio vuoto.

Kael, senza perdere tempo, poggiò le mani sul bordo di una scrivania, «Aiutami», e insieme la trascinammo contro la porta.

La porta oscillò. Sentivo quei mostri abbattersi come pioggia contro di essa. Ebbi l'impressione che mi mancasse la terra sotto i piedi. Che cosa diavolo stava succedendo?

Le gambe molli non ressero il mio peso: caddi a sedere sulla moquette.

Il cuore che mi pulsava in gola, nelle meningi.

Solo dopo svariati minuti, quando il respiro tornò a placarsi dentro la mia gola, mi accorsi che la maglietta di Kael era sporca di sangue.

Notò che le mie palpebre spalancate lo stavano scrutando con terrore e abbassò lo sguardo al suo addome.

«Non è mio.», affermò.

Non chiesi di chi fosse, sapere che non era ferito mi sollevò nell’immediatezza.

                                                      ॥

 

«Perché hai deciso di fidarti?»

Mi fermo a rifletterci.

Alzo le spalle, realmente non so perché «Volevo fidarmi, avevo bisogno di sapere che in quel caos, non ero sola. Che non lo sarei stata.»

 

                                                      ▶

 

«I tuoi genitori?»

Kael era seduto con la schiena appoggiata contro uno dei due pannelli che fungevano da “piedi” della scrivania.

Continuava a rigirarsi una medaglietta fra le dita guardandola insistentemente.

«Loro sono al sicuro», disse, con il tono della voce che rasentava un sussurro. Poi aggiunse: «Ervin ha portato mia madre in un ufficio, un paio di piani sopra questo. Si sono chiusi lì dentro con altre persone.»

Mi sentii un po’ più tranquilla sapendo che Kael non avrebbe dovuto piangere la morte di sua madre o di suo padre.

Sospirai, stringendo le ginocchia contro il petto.

Poggiai il mento su di esse e strinsi forte le braccia attorno alle gambe.

«La tua famiglia?», mi chiese solo dopo svariati minuti di silenzio.

Scossi il capo «Sono a Boston, io vengo da lì.»

Kael accennò un sorriso breve «E’ una fortuna che non siano qui.»

«Già.» Lo era veramente.

Mia madre era l’unico affetto che mi restava e saperla in pericolo mi avrebbe divelto l’anima.

Ad un tratto qualcosa trillò. Riconobbi la suoneria di un cellulare. Era il suo.

Lo sfilò dalla tasca e quando i suoi occhi lessero il numero che era apparso sul display, rispose immediatamente.

«Mamma!», esclamò, «State bene? Ervin ti ha portata al sicuro?»

«Si. Siamo chiusi in un ufficio con degli avvocati. Tu? Sei al sicuro?»

Kael spostò lo sguardo su di me «Si, sono al sicuro.»

«Mi raccomando, resta nascosto.» La voce della donna iniziava ad inclinarsi. D’un tratto, la sentii piangere.

«Promettimelo.»

Gli occhi di Kael vacillarono all’interno della stanza. Una nube di tristezza li oscurò velocemente.

«Te lo prometto, mamma.»

Il microfono del cellulare gracchiò per un istante.

«Mi dispiace per come siano andate le cose. Mi dispiace di averti trascurato, di-» Un altro suono distorto.

«Mamma?»

«Perdonam-»

«Mamma! Mi senti?» La chiamata si interruppe di colpo e potei sentire solo un paio di bip dal vivavoce.

Kael fissò l’apparecchio per qualche istante, prima di passarsi una mano sul volto come a voler scacciare un pensiero fastidioso.

«La raggiungeremo», dissi.

Per un momento il nostro sguardo si incrociò.

Nei suoi occhi potevo leggere di tutto. Kael aveva paura, probabilmente, più di qualsiasi altra volta nella sua vita.

Annuì anche se non sembrava affatto convinto.

Effettivamente, non avevamo la benché minima idea di come saremmo riusciti a scappare da quel palazzo.

 

                                          ॥

Mi muovo sulla roccia: non riesco a star ferma.

Una parte di me scalpita di nuovo per scappare e questa volta posso farlo. Mel ha liberato i miei piedi. Ma c’è qualcosa che mi tiene imprigionata qui.

Sono i ricordi. E’ il passato.

«Hai bisogno di fare una pausa?», domanda di colpo.

«No, posso continuare.»

                                            ▶

 

«C’è una scala antincendio, qui fuori.» Sollevai lo sguardo sulla schiena di Kael leggermente sporta oltre il parapetto.

«Non credo sia sicura.» mormorai, anche se ero al limite delle idee e quella si proponeva come ultima chance. «Non fanno mai manutenzione in questo posto, quella scala è vecchia e arrugginita. Non reggerà il peso di entrambi.»

«E’ l’unico modo che abbiamo e se andrà male, almeno, ci avremo provato.».

La scala esterna era a ridosso della nostra finestra, uno spazio libero per ogni due rampe: una che scendeva verso il basso e l’altra che saliva. Parte della ringhiera si era arrugginita esattamente come i perni che la tenevano agganciata alla parete del palazzo. Ricordavo di aver sentito Susanne parlare al telefono con gli addetti alla manutenzione sottolineandone proprio la pericolosità.

Era un’idea malsana quella che stavamo avendo.

«Basterà lanciarsi li sopra», Kael mi raggiunse costringendomi a sollevarmi da terra. Agguantò il mio braccio e mi fece avvicinare alla finestra. Con la mano libera indicò lo spazio di ferro vuoto fra una gradinata e l'altra. Era quello il punto di atterraggio.

«Non so se ne sarò capace», mormorai rabbrividendo. Mi vedevo già con la testa spappolata sull’asfalto.

«Certo che ci riuscirai», il tono d’ovvietà nella sua voce mi fece credere, per un istante, che forse potevo veramente farcela. Certo, soffrivo terribilmente le altezze e quel dettaglio non aiutava, ma i rumori oltre la porta barricata stavano aumentando e mi spingevano sempre di più verso il vuoto oltre la finestra.

Kael poggiò una mano sul telaio di alluminio della finestra a scorrimento. Guardò in basso per un po’ «Saranno un paio di metri massimo», affermò «Intendo dalla finestra allo spazio libero della scala.»

Due metri. Non era una grande distanza da coprire, ma avrebbe retto quel rottame?

Di colpo, con uno slancio, lo vidi mettere un piede sul termosifone che precedeva il parapetto e issarsi su, un momento dopo.

Allungò anche l’altra mano verso il telaio così da potersi reggere sospeso nel vuoto.

 «Kael! Diamine, sta attento!» D’istinto gli afferrai un lembo della maglietta.

Si voltò e guardando in basso, mi sorrise: «Ehi, va tutto bene. Non mi sono ancora lanciato.»

Il cuore mi martellava in petto. 

Se quella scala non avesse retto e lui ci fosse morto sopra, sarei rimasta sola.

«Dovresti scendere, troveremo un altro modo», provai a dirgli.

Mi guardò per un lungo istante, prima di chinarsi sulle ginocchia. Allungando una mano e poggiandola sulla mia spalla, disse:«Ascolta, non c’è un altro modo.»

Non risposi, mentre faceva correre le dita lungo il mio braccio.

Tornò a sollevarsi senza che io potessi aggiungere nulla per dissuaderlo.

«Allora» disse con una certa risolutezza nel timbro della voce «Se cado e muoio, di a mia madre che la perdono.»

Sentivo lo stomaco aggrovigliarsi sempre di più.

Kael guardò in basso.

All’improvviso, lasciò andare la presa.

«Kael!»

Lo vidi planare verso il vuoto e sparire velocemente risucchiato dalla gravità.

Un tonfo ferruginoso fece oscillare lo scheletro della scala d’emergenza davanti alla finestra.

Mi sporsi oltre il parapetto di colpo.

Tornai a respirare solo quando incrociai i suoi occhi.

Kael mi sorrise vittorioso. Sembrava essere tutto intero.

Mi portai le mani alla fronte di riflesso. 

Ora toccava a me.

Ero un fascio di nervi con il cuore al galoppo.

Non avevo idea di quello che mi stesse passando per la testa in quel momento o di ciò che stavo per fare, ma presi un lungo respiro e mi arrampicai sul parapetto.

La sensazione di instabilità nelle gambe mi aveva costretta a piegarmi sulle ginocchia già un paio di volte.

«Non ce la faccio, Kael! E’ troppo alto.»

Kael, che intanto si era sollevato da terra, mi fissava dal basso continuando ad infondermi coraggio.

«Ce la puoi fare!»

La marea di sensazioni che mi serpeggiavano per tutto il corpo era tutt’altro che piacevole.

Se qualcuno, quella mattina, mi avesse avvertita che mi sarei ritrovata sul parapetto di una finestra pronta per buttarmi nel vuoto, gli sarei scoppiata a ridere in faccia e lo avrei chiamato pazzo.

Invece, ero esattamente lì, su quel dannato spazio di cemento a chiedermi se sarebbe andato tutto bene.

«No, Kael. Non posso.» Stavo per accovacciarmi di nuovo. -Mi sarei arresa. Qualcuno mi avrebbe cercata prima o poi, no?

«Ehi! Ehi! Non tornare dentro!»

La paura mi aveva assalita prendendosi ogni fibra del mio corpo.

«Stang!», gridò ancora.

Poi, accadde l’imprevisto.

La scrivania, che fungeva da barricata contro la porta, venne spinta via da qualcosa che premeva oltre di essa.

In un attimo, l’anta si spalancò lasciando invadere la stanza dalla morte.

Mi sollevai di colpo cercando di afferrare lo stipite della finestra. Inavvertitamente, però, la mano mi scivolò.

E poi non ci fu più nulla, né gli occhi rossi, né la paura. Serrai le palpebre.

Stavo cadendo nel vuoto attirata come un magnete dalla gravità. I pensieri sciamarono in fretta così come la paura. Ero arresa, svuotata. Qualcosa di morbido attutì la mia caduta.

Quando riaprii gli occhi, le braccia di Kael erano attorno alla mia vita. Mi voltai di scatto. Era tutto intero? Gli avevo rotto qualcosa? -Io mi ero rotta qualcosa?

«Te l’ho detto che ce l’avresti fatta», mimò un sorriso.

Stava bene. Certo, l’indomani si sarebbe sentito un po’ acciaccato e sicuramente anche io mi sarei sentita allo stesso modo, ma eravamo vivi e questo bastava.

                                                     ॥

 

«Grazie a quella scala», dico, «Siamo riusciti a raggiungere la finestra dell’ufficio dove si erano nascosti Alisha e gli altri.» 

Guardo i polsi arrossati dalla fascetta di plastica.

«Stavano bene?».

Mi mordo un labbro «Non tutti.»

                                                      ▶

Quando gli occhi di Alisha si posarono sullo spazio non più vuoto al centro della finestra, lessi dentro le sue iridi la parola speranza.

«Kael!», esclamò attorniando la nuca di suo figlio con entrambe le braccia. «Stai bene, grazie al cielo!».

Due piccole lacrime le si incastrarono fra le folte ciglia chiare.

Mi arrampicai sul parapetto e con cautela, misi prima una gamba e poi l’altra, al di là di esso.

L’interno dell’ufficio 456 era un disastro di scrivanie ribaltate, fogli sparsi, sangue e persone terrorizzate.

Alisha ed Ervin non erano gli unici che avevano trovato rifugio lì dentro.

Con loro, c’erano altri cinque avvocati fra cui Sanchez.

La sua espressione era il ritratto dello sgomento e del dolore. La camicia bianca, sotto la giacca scura, era macchiata di sangue, le sue mani erano sporche e da come aveva mugugnato di dolore, provando ad alzarsi, capii che doveva essersi slogato una caviglia.

«Luis» La prima cosa che mi venne in mente fu quella di accertarmi che non fosse stato morso. Avevo ancora impresso il ricordo di Mike che si era trasformato irreversibilmente in qualcosa di mostruoso. Temevo che altri, lì dentro, avrebbero fatto la sua stessa fine.

Sanchez sollevò lo sguardo dolorante verso me.

«Sei ferito?» 

Annuì indicandosi la gamba.

«Posso dare un’occhiata?» 

«Si.»

Sollevai l’orlo del pantalone nero e notai che non si era solo slogato la caviglia: se l’era spezzata.

Una frattura scomposta: l’osso era venuto fuori dalla carne lacerandola ed il sangue che gli stavo vedendo addosso veniva proprio da lì.

Ne aveva le mani intrise, la giacca, il viso.

Mi passai una mano sulla fronte.

Quello si che era un problema.

«Voi altri state tutti bene?» mi rivolsi alle altre quattro teste sedute accanto a Sanchez.

Li vidi annuire, qualcuno con più convinzione, qualcuno meno.

Mi sollevai. 

Alisha, Ervin e Kael erano in piedi accanto alla finestra.

I genitori di Kael erano sconvolti ma non sembravano feriti, solo terrorizzati.

«L’unico messo male sembra essere Sanchez», dissi avanzando verso i tre, indicandolo con il pollice alle mie spalle.

Ervin si strinse le braccia in petto: «Anche se riuscissimo a scappare da qui grazie a quella scala, non potremo portarlo con noi. Non riuscirebbe mai a saltare.»

Un piano della scala antincendio combaciava perfettamente con la finestra di quell’ufficio. Non c’erano più i due metri a dividerci dal ferro ma uno scarso. Quella gamba, conciata in quel modo, però, non avrebbe permesso all’avvocato di saltare comunque.

«Non possiamo lasciarlo qui, Ervin!», si affrettò a dire sua moglie bisbigliando.

Ervin aggrottò la fronte «Alisha, è messo male. Molto male.»

Stranamente Kael non parlava. Se ne stava appoggiato al bordo di una scrivania, a braccia conserte, fissando un punto cieco oltre l’orizzonte fuori dalla finestra.

«E’ una persona, Ervin!»

I toni accesi della discussione stavano arrivando alle orecchie degli altri presenti nella stanza e velocemente si creò scompiglio.

 «Ehi, non vorreste lasciarlo qui?!», un uomo sulla sessantina,vestito di grigio, si sollevò da terra. L’espressione cinerea e i pugni stretti.

Venne verso di noi a passi pesanti con fare minaccioso.

«Vi abbiamo indicato noi quest’ufficio!»

«Già! E’ vero!», commentò nervosamente un’altra voce in fondo alla stanza.

Scattai in avanti, opponendomi a lui, con le braccia sospese a mezz’aria «Signor Collins.», lo chiamai, leggendo il suo nome sulla targhetta agganciata alla giacca, «Nessuno lascerà nessun altro qui dentro.»

«Ho solo detto che non riuscirà a saltare dal parapetto.», proferì Ervin alzando di un tono la voce per farsi sentire da tutti.

L’uomo oltrepassò con lo sguardo la mia spalla, sfidando il padre di Kael con un’occhiata torva.

«Signor Collins, per favore», lo supplicai. La tensione era alle stelle. Se non eravamo morti per le creature oltre la barricata di sedie e tavoli, lo saremmo stati per mano di Collins o di Ervin o di chiunque altro in quella stanza.

Collins afflosciò le spalle.

Tornai a respirare solo quando lo vidi camminare a ritroso sulla moquette, verso la parete dalla quale era venuto.

Ma non aveva nessuna intenzione di lasciar cadere la cosa.

Si accomodò a sedere, appoggiò gli avambracci alle sue ginocchia e fissandoci tutti e quattro in cagnesco, disse: «Perché non avete controllato loro due?», indicando me e Kael con l’indice.

«Non sono feriti.» Si affrettò a rispondere Alisha facendo un passo avanti.

Un sopracciglio, folto e grigio, dell’uomo scattò in alto «E tu come fai a saperlo? Il ragazzo ha la maglia intrisa di sangue.»

Guardai Kael preoccupata. Mi aveva detto che il sangue non era suo, ma ora che quell’uomo stava insistendo per fargli alzare la maglietta, avevo l’impressione che l’espressione sul suo viso fosse atterrita.

«Non è mio», disse per la seconda volta.

«Collins ha ragione. Avanti! Solleva la maglietta!», Due avvocati si alzarono da terra e avanzarono verso di noi.

«Si! Solleva la maglietta!»

Kael indietreggiò, incuneandosi fra una scrivania e il parapetto della finestra.

«Non toccate mio figlio!»

«Altrimenti?».

A quel punto, Ervin scattò verso i due uomini, pronto per fare qualcosa, quando uno di loro lo colpì dritto sul naso con un pugno.

Alisha venne bloccata dall’unica altra donna presente nell’ufficio a parte me, ed io da Collins che, come un rapace, aveva atteso il momento giusto per agguantare le mie braccia.

«Kael!», gridò sua madre disperata.

«No! No!» Kael provò a divincolarsi ma fu inutile. Erano due contro uno. E lui…era ferito.

Il tipo più giovane lo placcò sbattendolo contro il piano di una scrivania per poi premere un braccio contro il suo collo. L’altro non perse tempo e agguantando il tessuto della T-shirt, gli scoprì il ventre.

Persi un battito.

Il sangue usciva in piccoli fiotti dalla sua carne. 

«Come immaginavo», commentò uno dei due con soddisfazione.

«Non è un morso», bofonchiò a fatica Kael, «Mi hanno ferito con un cutter.»

«Avete sentito? Non è un morso!», gridò Alisha.

Effettivamente, la lacerazione era lunga, lineare, come se qualcuno lo avesse ferito con qualcosa di acuminato.

Al suo aggressore non interessava. Era pronto a colpirlo, annebbiato dalla paura.

«Joseph non è un morso», esclamò Collins avvicinandosi a Kael. Gli occhi che indugiavano sul taglio. Joseph fermò il suo pugno a mezz’aria.

«Ad ogni modo, per sicurezza,  dovremmo controllare che nessuno oltre Sanchez e il ragazzo abbia addosso ferite.» Collins mi lasciò andare e così fece anche la donna che aveva bloccato Alisha.

Per un momento sembrava essere tornata la calma all’interno dell’ufficio.

«Sono d’accordo», disse Ervin risollevandosi da terra con il dorso della mano premuto contro il naso.

Poco dopo, sotto ordine di Ervin e Collins ci separammo in due schieramenti: gli uomini da una parte e le donne dall’altra. Alisha si offrì di controllare sia me e che Carmen, mentre gli uomini furono controllati da Ervin.

 

Ci sistemammo dietro un paio di scrivanie ed incominciammo a farci perquisire.

 

«Mi dispiace di averti fermata.», Carmen osservava le dita di Alisha muoversi sulla sua pelle alla ricerca di ferite.

«Lo hai fatto per paura.», indugiò sulla schiena della donna, c’era qualche abrasione, un paio di graffi nulla di preoccupante. 

«Ma non credo che tu abbia dei figli.»

«No, ma mi piacerebbe averli un giorno.», sorrise debolmente Carmen.

«Allora, sarà quel giorno che scoprirai cosa vuol dire temere per la loro vita.» Alisha si sollevò da terra; lo sguardo serio verso la donna. Le porse la camicetta a stampe floreali e rivolse l’attenzione a me.

Mi privai della giacca, della camicetta bianca e della gonna.

 

«Grazie per aver salvato mio figlio» 

Mi rannicchiai nelle spalle «Non sono stata io a salvare lui, bensì, il contrario.»

Senza Kael sarei morta.

Sentii Alisha sospirare un sorriso mentre mi sfiorava la pelle con la punta fredda delle dita «Sai, Kael è molto altruista.», ammise «E’ sempre stato pronto ad aiutare gli altri, finché…Non si è perso.»

Pensai al fascicolo. Era dipendente dalle droghe.

«E’ ancora così», proferii di getto, facendole affiorare un altro sorriso sulle labbra.

«Lo spero. E’ un bravo ragazzo, veramente.»

Alisha mi pizzicò delicatamente la spalla con i polpastrelli.

«Sei apposto. Ora tocca a me.»

Controllai il suo corpo, non era ferita e averne la certezza mi fece tirare un sospiro di sollievo. 

Ora, però, il problema era un altro…

«Lo sapevo!», gridò, carico di soddisfazione, Ervin «Avete accusato mio figlio di essere stato morso, e guarda un po’!».

Mi infilai velocemente la camicetta e la gonna rialzandomi da terra. Ci voltammo tutti in direzione del dito di Ervin puntato contro Crane: uno dei due uomini che aveva aggredito Kael.

Il giovane avvocato impallidì «No, non è come pensi.» bofonchiò indietreggiando con le mani avanti «Mi sono ferito cadendo.»

«Fammi vedere la ferita, Crane», ordinò Collins estremamente serio in volto.

Il ragazzo lo scrutò spaurito.

Mosse da paura e curiosità, ci avvicinammo anche Alisha ed io.

«Signor Collins, la supplico…deve credermi».

Purtroppo, lo squarcio che aveva sul polpaccio aveva una seghettatura sul contorno visibilmente ricollegabile ad un’arcata dentale.  

«E’ indubbiamente un morso», constatò Collins.

«Ma non è diventato come quelle persone lì fuori!» si intromise Carmen a favore del giovane collega.

«Non ancora, magari.», constatò Ervin.

Joseph aveva lo sguardo che trasudava odio. Era stato zitto fino ad allora; finché non aveva sentito il bisogno di esplodere: «Fottuto bastardo, sei stato morso e ce lo hai tenuto nascosto?», gridò sovrastando tutte le altre voci.

Kael, Alisha ed io eravamo impietriti. Cosa avrebbero fatto a Crane?

«Propongo di liberarci di lui», sentenziò quello che fino a pochi minuti prima lo aveva spalleggiato quando si era trattato di mettere Kael all’angolo.

Crane sgranò gli occhi, una goccia di sudore gli zampillò dal viso «Andiamo, amico…Sono io, Crane» proferì con la voce tremante «Ci conosciamo da un’eternità.»

Joseph lo scrutò con sprezzatura: «Ci conosciamo da un paio di anni e tu non sei mio amico.»

«Jo non puoi fare sul serio!» Carmen era disperata. Si piantò davanti a Joseph afferrando i suoi polsi e supplicandolo in lacrime. Non so se avesse avuto a che fare con Crane in precedenza, ma dal suo viso capii che l’idea di poterlo mandare a morire l’avrebbe ferita mortalmente.

«Preferisci che metta a rischio le nostre vite?».

Collins fissava il giovane avvocato ferito come se la risposta ad ogni suo dilemma fosse nascosta nel suo cranio.

Si inumidì le labbra e disse: «La vita di uno per la salvezza di tutti.»

Una frase breve che capitolava un’esistenza.

«Non potete farlo!», gridò Crane in lacrime.

Mi sembrava di impazzire. Anzi, tutti stavano impazzendo lì dentro.

«Credo che Collins abbia ragione», mormorò Ervin.

«Papà!» La voce di Kael raggiunse le mie orecchie strappando dalla mia mente ogni pensiero. Ervin faceva sul serio? «Sei impazzito? E’ un essere umano, cazzo!»

Forse stare chiusa lì, con quelle persone, si stava rivelando peggio del previsto.

Peggio di quello che c’era fuori.

«Propongo di aspettare.», Alisha fece un passo avanti rivolgendosi a tutti «Aspettiamo che si trasformi e poi penseremo a cosa fare.»

Joseph le rifilò un’occhiata all’arsenico «E se ci attacca? Come pensi di fermarlo?».

A quel punto, lo sguardo della donna parlava chiaro dicendo fra le righe: “Lo uccideremo, ecco come.”


Era appena nato dal nulla uno schieramento: chi era sano doveva stare al centro della stanza mentre chi era ferito o chi, come Crane, era stato morso doveva restare dietro una barricata di fortuna fatta di sedie e scrivanie accatastate. Kael era dall’altra parte della barricata di scrivanie con suo padre Ervin.

«Sei stato tu a ferirmi!», Protestò lo stesso, dichiarando più volte che non era quello il lato giusto della stanza per lui.

«Sei ferito, adesso. Perciò resterai lì.», rispose Joseph sdraiato al centro della stanza sulla moquette: braccia allacciate dietro la nuca, testa appoggiata sulla sua ventiquattrore.

Ervin sospirò amareggiato: se avesse potuto, avrebbe torto il collo a quell’uomo.

Guardai Kael. Il capo contro la parete, gli occhi socchiusi.

Probabilmente i suoi pensieri avevano incanalato una direzione oscura.

«Dobbiamo trovare un modo per portarci tutti in salvo», sentenziò Collins in piedi al centro della stanza.

Si guardò attorno rimbalzando da viso a viso.

«E’ chiaro che la scala lì fuori, oltre ad essere pericolante, non è praticabile per Sanchez. Perciò, qualcuno ha qualche idea?».

«Potremmo armarci.» Propose Carmen, spostando una ciocca castana dietro il suo orecchio.

Ervin lanciò gli occhi al cielo abbozzando un sorriso isterico «Armarci? E con cosa esattamente? Spillatrici e plichi di fogli?»

La ragazza lo guardò storto «No, stronzo. Romperemo i piedi alle sedie, spezzeremo le scrivanie e useremo i pezzi di legno come armi.» 

Le sopracciglia di Ervin scattarono verso l’altro per lo stupore «Wow, quanti film d’azione hai visto, per sparare stronzate simili?».

«Fate silenzio!» Collins fece un passo avanti: «Carmen non ha avuto una brutta idea, ma è rischioso avventurarsi lì fuori.»

Lo era sul serio. Pezzi di scrivania e piedi delle sedie fino a che punto ci avrebbero protetti?

Spostai lo sguardo angosciato verso Alisha. Non era d’accordo con quel piano.

«Io non vado lì fuori.» All’improvviso, Kael schiuse le palpebre. La sua voce non aveva una tonalità ben definita, era piatta, tranquilla.

«Il tuo parere non conta, dobbiamo agire tutti insieme. Gli unici che devono restare qui dentro finché non torniamo con i soccorsi sono Sanchez e Crane.»

Gli occhi scuri del ragazzo piombarono sul viso di Collins «Io non esco lì fuori.» disse ancora. Adesso era molto più serio.

Collins serrò le labbra per un istante, ma poi, i lineamenti del suo viso tornarono a rilassarsi. Socchiuse le palpebre e accennando un sorriso velenoso mormorò: «Va bene, ragazzo. Sei ferito dopotutto. Resta pure. Ma tua madre, tuo padre e quella ragazza verranno con noi.»

«Cosa?!», Alisha balzò in piedi «Non puoi costringerci! Ognuno di noi deve poter scegliere!»

Collins rifilò un’occhiata in tralice alla madre di Kael: «Ma l’unione fa la forza e voi siete la minoranza.»

Il sorrisetto sprezzante sulla sua faccia era odioso.

«Io parlo per la mia famiglia, non tu Collins.», protestò ancora la donna.

 All’improvviso, Ervin perse le staffe. Sorpassò la piccola barricata e si fiondò contro l’uomo, afferrandolo per il colletto.

Veloce, tanto che nessuno poté impedirgli di raggiungerlo.

«Ervin!», Alisha lo fissava scioccata. Conosceva suo marito, sapeva cosa era in grado di fare.

Ma Ervin, contro ogni previsione, mantenne la calma. - Più o meno.

«Chiunque voglia seguire Collins o Carmen, faccia pure» gridò rivolgendosi a tutti i presenti «Io e la mia famiglia troveremo un altro modo.»

Forse Ervin aveva atteso quel momento da quando si era ritrovato chiuso in quella stanza con loro, perché la sua espressione, seppur marcata di nervi, sembrava sollevata.

 

                                                  ॥

Scorgo l’espressione sul volto di Mel vacillare per un momento prima di chiedere: «Cosa è successo a Crane?Si è trasformato?»

Mi inumidisco le labbra «Ecco…Non proprio.»

 

                                                  ▶

«Ci vuole un’esca», sentenziò l’uomo dalla chioma grigia come il suo abito elegante.

«Un’esca?», Joseph non credeva alle sue orecchie.

«Proprio così, qualcuno che esca lì fuori e distragga quei mostri».

«E’ da pazzi!»

«E’ un suicidio!»

Mi ero accovacciata dietro una scrivania. Non volevo partecipare a quel piano suicida.

Avevo una vaga idea di quale piega avrebbe preso la situazione e non mi piaceva affatto.

Fra l’altro, cominciai a temere che, ben presto, quella fine sarebbe potuta toccare chiunque fra noi.

«Karina?» Sollevai gli occhi umidi di scatto, oltre la mia fronte. «Ti chiami Karina, giusto? Credo di averlo letto sul mio fascicolo quando ho richiesto un nuovo legale.»

Kael si accovacciò accanto a me piombando a sedere sulla moquette.

«Si.», ammisi.

Poggiò le mani per terra dietro la sua schiena.

«Non ti ho ancora ringraziato». Lo scrutai confusa. «Se non mi avessi trascinato via da quel pavimento, forse sarei morto a quest’ora.»

Scossi il capo accennando un sorriso tiepido, «Non sono io ad averti salvato, sei stato tu ad aver salvato me.»

Non l'avevo mai visto sorridere, intendo, sorridere per davvero.

Invece, in quel momento il suo sguardo si scaldò.

«Be’ ci tenevo a dirtelo» disse, facendo una breve pausa per ascoltare le voci alle sue spalle, «nel caso che quel fottuto pazzo ci usi come carne da macello.»

 

«Allora è deciso, Crane uscirà in corridoio distraendo le belve.», sentenziò Collins sbottonandosi la camicia. L’aria nella stanza era già satura da un po’, ma ora che l’avvocato sessantenne pareva aver preso il controllo dell’ufficio, immedesimandosi nella parte del “leader”, sembrava annaspare.

«Non funzionerà», si intromise Ervin quasi disinteressato.

Le braccia allacciate dietro la nuca, la schiena appoggiata alla scaffalatura agganciata alla parete.

«Lo armeremo e noi usciremo subito dopo di lui.», Carmen aveva cambiato del tutto opinione. Ora credeva in Collins e nella sua idea malata. La sua mente era annebbiata e plagiata dalla paura di morire e dalle parole di quell’uomo.

Collins sogghignò compiaciuto, accarezzandole la testa.

«Vedo che hai ben chiaro il da farsi», sibilò.

Crane non aveva più lacrime, le aveva piante tutte.

Era rimasto in disparte per tutto il tempo, accucciato dietro il mucchio di scrivanie che lo separavano dal centro della stanza. L’avevo visto piangere in silenzio, tirare fuori dalla tasca il suo cellulare, mandare un vocale a qualcuno, salutarlo. Poi, con il passare del tempo, cominciò a star male. Lo vidi portarsi una mano sul pantalone in direzione del morso. Sudava, la sua pelle era pallida. Quando sollevò il tessuto in direzione del polpaccio, la ferita sembrava trasudare pus. Attorno alla fila di denti che gli avevano trapassato la carne, si era espanso del rossore: le vene erano in rilievo e formavano tante piccole ramificazioni verso ogni direzione. 


                                                ॥

«Stava morendo», dico, «ne era consapevole.»

Abbatto lo sguardo. Il ricordo di Crane, di ciò che è accaduto dopo, mi torce le budella.

Mel scruta il mio volto dal piccolo schermo agganciato alla telecamera «Cosa è successo a Crane, dopo?».

Sospiro.

«Secondo te?» 

                                                 ▶

 

Ad un tratto, i suoi occhi si incrociarono con i miei. Credo che in quel momento lui stesso avesse realizzato che la sua esistenza era arrivata al capolinea. Ciò che non mi spiegavo, però,  era perché Mike si fosse trasformato in meno di sette minuti mentre lui aveva passato ore prima che la ferita degenerasse. Non mi rassegnavo all’idea che, in qualche modo, potesse sopravvivere.

Io non lo avevo fatto, non lui…

Ci fissammo per un lasso di tempo indefinito. Ad un tratto, mi sorrise tristemente, si passò una mano sul viso e prese un breve respiro. Quello che accadde dopo, successe in fretta.

Si sollevò da terra con le gambe tremanti, raggiunse la finestra alle sue spalle e fece scorrere l’anta.

Poi, davanti ai miei occhi, si issò sul parapetto sedendosi di spalle al vuoto e…

«Crane!», gridai.

Si voltarono tutti di scatto, ma era troppo tardi. Crane si era già lasciato cadere nel vuoto.

 

                                                  ॥

Serro la mascella.

Sento mille sensazioni orribili scorrermi nelle vene.

Potevo fermarlo? Dovevo, sicuramente.

Mel abbassa la cinepresa e mi lascia in balia dei pensieri per un po’. Apprezzo che sia discreta.

«Sentii solo il tonfo ferruginoso che fece quando atterrò sul tettuccio di un’auto e subito dopo, l’allarme. Non ho avuto il coraggio di affacciarmi come hanno fatto gli altri.»

                                                     ▶

 

«Oh, maledizione!». Il piano di Collins era saltato e nonostante un ragazzo di appena trent’anni si fosse tolto la vita, pur di non finire a fare l’esca, lui non aveva avuto nemmeno la decenza di tacere. Imprecò abbastanza volte da farmi irradiare le guance e irritare i nervi.

«Cristo! Hai appena costretto un ragazzo ad uccidersi e sei persino deluso che non si sia ammazzato per proteggerti il culo! Sei rivoltante!».

Alisha mi strinse delicatamente un braccio tentando di farmi tacere.

Ma io non volevo tacere. Io mi auguravo che il prossimo a fare quella fine fosse proprio lui. E la cosa peggiore, fu realizzare che, desiderando che anche Collins morisse, non ero poi così diversa da lui o dalla sua malvagità. 

Collins ammiccò un ghigno e sibilò: «Vuoi essere la prossima?»

Un brivido di angoscia mi percorse la spina dorsale. 

«Karina, no.» mormorò Alisha, quando notò nelle mie gambe uno scatto «Non farlo, è un uomo pericoloso.»

Sfidai Collins con lo sguardo e lui non esitò a ghignare sprezzante un’altra volta.

«Con o senza Crane, usciremo lo stesso.» Vidi i suoi occhi virare nella direzione di Luis.

Avevo già capito tutto.

“ No, questa volta no.” mi dissi.

La reazione mente-corpo fu istantanea, incontrollata. Mi liberai dalla presa di Alisha,

afferrai una pianta accantonata in un angolo del parapetto, e non appena Collins si voltò, lo raggiunsi, colpendolo alla nuca con tutta la forza.

L’uomo cadde sulle sue stesse gambe come se, di colpo, fossero diventate di gelatina, perdendo i sensi.

Ricordo che ebbi l’impressione di respirare realmente solo nell’attimo in cui lo vidi privo di sensi a terra.

«Sei impazzita?», Carmen gattonò verso di lui.

Strinsi la circonferenza del vaso sempre più forte. Sentivo scalpitare dentro di me la voglia di colpirlo ancora, di ferirlo mortalmente.

«Karina», ma poi la voce roca di Kael raggiunse i lobi delle mie orecchie. Lasciai andare il vaso che ruzzolò sulla moquette un paio di volte.

«Mi dispiace, non so cosa mi sia preso», mormorai in un filo di voce. Sollevai la testa, e andai in tilt quando i nostri occhi si incrociarono. Il suo sguardo vagò su di me.

Era imperscrutabile. Non avevo idea di cosa stesse pensando in quel momento, temevo solo che iniziasse a credere che avrei potuto fare del male a lui o ai suoi genitori.

Cosa avevo fatto? Ero un mostro.

«Hai fatto la cosa giusta.», proferì Ervin avvicinandosi a me, poggiandomi una mano sulla spalla.

Veramente? Perché io stentavo a credere che colpire un uomo alla testa fosse la cosa giusta.

Avevo l’impressione di essere stata corrotta. La paura di morire, il terrore, mi avevano plagiata.

Tremavo all’idea di poter essere impazzita come Collins o Carmen.

Temevo di poter fare qualcosa, qualsiasi altra cosa, di cui poi mi sarei pentita per tutta la vita.

 

                                               ॥

«Ho fatto una marea di cose di cui mi sono pentita.», ammetto.

«Tutti noi ne facciamo in continuazione, Karina. E’ colpa di questo mondo in rovina.» Non ha tutti i torti. Questo mondo ti porta a compiere gesti che ti segnano.

«Già…»

                                               ▶

 

Il terrore si impossessò di me come un virus.

Non ero più la stessa Karina di qualche ora prima.

Dentro me incominciò a scalpitare una sensazione orribile. In oltre, la testa mi esplodeva e la gola mi bruciava.

Incominciai a respirare a fatica.

«Karina», Kael allungò una mano verso me, ma mi scansai di colpo. Non doveva toccarmi, mi sentivo un abominio.

I suoi occhi indugiarono sul mio viso preoccupati.

«Va tutto bene?».

«E’ un attacco di panico», lo informò Ervin facendo un passo avanti verso suo figlio.

«Sto bene.», bofonchiai indietreggiando «Sto bene.»

Guardavo Collins privo di sensi e Carmen che gli passava una mano sulla fronte ripetutamente.

Quella era la prima volta in assoluto che le mie mani avevano ferito qualcuno. Prima di allora, non avevo torto un capello mai a nessuno.

E ciò che ero in grado di fare, messa sotto pressione, mi spaventava mortalmente.

 

«Non possiamo restare qui.» Alisha ci raggiunse. Si era avvicinata a Sanchez per assicurarsi che fosse ancora vigile.

«Quando Collins riprenderà i sensi cercherà di convincere Joseph e Carmen a farci fare da esche.»

C’era questa possibilità e man mano che passava il tempo stava diventando certezza tangibile.

Oltrepassai con lo sguardo, ancora spaurito, la spalla della donna. Carmen e Joseph erano seduti attorno a Collins, Sanchez ad un paio di metri di distanza gemeva di dolore. 

Dovevamo trovare il modo di salvare Sanchez e di separarci da quelle persone.


                                                      ॥

«Cosa avete deciso?».

Sposto lo sguardo verso i fili d’erba attorno alla punta dei miei stivali. 

«Non potevamo lasciare Sanchez in balia delle idee folli di Collins. Quell’uomo aveva plagiato Carmen e Joseph irrimediabilmente e non gli sarebbe costato molto convincerli a trascinare Luis fuori di lì. Perciò, decidemmo di provare a curare quella frattura.»

 

                                                  ▶

 

«La scala. E’ l’unica via di fuga sicura», affermò Ervin sporgendosi dalla finestra.

«Come facciamo con Sanchez?», domandai.

Quell’osso di fuori non lo avrebbe portato da nessuna parte. Inoltre, il dolore lancinante gli aveva alzato la temperatura corporea. La sua fronte imperlata di sudore, bolliva.

Gli passai la manica della mia giacca sul viso.

«Lasciatemi qui, prima o poi arriverà qualcuno a cercarmi.», mormorò rivolgendo lo sguardo arrossato a me.

«Sanchez, non sappiamo se qualcuno arriverà. Non possiamo rischiare di lasciarti qui, morirai.»

Luis era stato un buon collega, nonostante lavorasse per lo più come avvocato della controparte, mi aveva dato un mucchio di consigli all’inizio di quel tirocinio, era un po’ un mentore per me.

Sorrise debolmente. La sua mano sfiorò il dorso della mia «Sei una brava ragazza, Stang.»

Sentii accrescere in me la voglia di piangere.

Mi voltai verso Ervin «Trova un modo, ti supplico.»

Il padre di Kael si massaggiò il mento.

Poi, qualcosa gli balenò sul viso: un’idea.

Si mosse verso Sanchez, «Kael aiutami.», portandosi un braccio dell’uomo attorno alla nuca. Kael si spostò dalla parete in fretta e mimò i gesti di suo padre un attimo dopo.

Luis lanciò un grido di dolore per poi mordersi le sue stesse labbra, soffocandolo. Gli esseri oltre la porta lo avevano sentito. Sentimmo un tonfo e poi grattare convulsamente. 

Ervin mimò di far silenzio con un dito.

«Vedrai andrà tutto bene.» Cercai di consolarlo. C’era poco che potessi dire o fare in quel momento.

«Qualunque cosa tu voglia fare, non funzionerà.», commentò Joseph sporgendosi da una scrivania.

«Non ci abbiamo ancora provato, non possiamo saperlo.», dissi.

L’avvocato sbuffò facendo una smorfia.

«Siamo al sicuro qui dentro, perché non tornate a sedervi e basta?»

. Sapevamo di non essere al sicuro. Loro erano il problema.

«Cosa vuoi fare Ervin?», domandò Alisha, seguendo i movimenti di suo marito e di suo figlio attentamente.

«Dobbiamo sistemargli la caviglia», affermò l’uomo.

«E come?», chiesi. Aveva un osso esposto! Nessuna manovra avrebbe fatto tornare la gamba com’era. Sanchez andava operato e possibilmente non spostato da dov’era. 

Ervin e Kael lo accompagnarono verso una scrivania colma di plichi. Kael spostò i mucchi di fogli con un braccio e un attimo dopo, aiutò suo padre a issare sopra il piano Luis.

«Trova qualcosa di rigido», ordinò Ervin.

Ci guardammo tutti attorno.

I piedi di legno delle sedie potevano andare bene.

«Kael aiutami a spezzare uno di questi.» Mi raggiunse in fretta. Rivoltai la sedia da un lato e la trattenni, finché, dopo svariati colpi, Kael non riuscì con un calcio a spezzare uno dei quattro piedi.

«Bene», mormorò suo padre, «Mi serve qualcosa per legare la sua caviglia.»

Guardai la mia giacca a terra.

Non ci pensai due volte. Velocemente raccolsi un paio di forbici da un portapenne e afferrai una manica della giacca.

«Può andar bene?»

Ervin annuì, poi tornò a voltarsi verso Luis. «Sanchez, ascoltami-», mormorò, «adesso proverai dolore ma non dovrai - per nessun motivo -, gridare.» 

Luis annuì. La fronte che gli grondava copiosamente di sudore.

«Alisha, mantieni il piede della sedia accanto alla sua caviglia.», Ervin corse con le mani verso la manica della mia giacca. La fece passare sotto la caviglia e annodò con forza i due lembi attorno ad essa e al piede della sedia.

Luis sommesse un altro grido.

Il dolore era ammorbante.

«Sicuramente non potrà camminare, ma sentirà meno dolore quando lo sposteremo.»

Joseph ci arrivò alle spalle. Allungò lo sguardo sulla gamba di Luis e sogghignò divertito. «Non ce la farà.»

Ervin lo scrutò con la coda dell’occhio «E’ un peccato vero? Vi sto portando via un’altra esca.»

L’avvocato serrò le labbra per un istante, si voltò alle spalle e poi tornò a rivolgere lo sguardo verso Ervin.

«Ascolta, non ero d’accordo con l’idea di Collins, ok?»

Ervin si voltò nella sua direzione e sollevò il mento «A me pare di si.»

In quel momento, nessuno di noi si fidava delle parole di Joseph.

 «Dico sul serio.». 

Vidi Carmen sollevarsi dal pavimento e raggiungerci.

«Avevamo paura che Collins potesse farci del male», ammise, un attimo dopo.

Per qualche motivo, non mi fidavo affatto di quei due.

«Oh, avanti! Messi alle strette lo avreste fatto anche voi!», protestò l’uomo.

Un muscolo guizzò sulla mascella di Ervin. «Messi alle corde, noi non abbiamo ceduto.», lo rimbeccò.

«Ok. Ok.» Alisha si insinuò fra i due uomini «Tutti vogliamo salvarci. Se siete disposti a darci una mano con Sanchez, usciremo di qui entro poco.».

Carmen e Joseph si scambiarono uno sguardo d’intesa. Sguardo, che a me puzzava di bruciato.

«Perfetto, diteci cosa dobbiamo fare.»…

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Corri e sopravvivi ***


Corri e sopravvivi.

 

L’apocalisse la immagino come un blocco, un gorgo, un nodo

dove il tempo non riesce più a passare.

Fiumi, onde e nuvole si fermano,

il sangue scorre al contrario,

il domani si capovolge nel passato.

Al di là del mondo ci guarda l’eternità,

ma non riesce a salvarci.

 

                                                             3.

                                                  

«Ci siete?», Ervin sollevò Luis per una spalla e con un’occhiata ordinò a Joseph di afferrarlo per le gambe. Intanto Kael si metteva attorno alla nuca l’altro braccio dell’uomo ferito. 

«Noi siamo pronti», rispose Joseph, poi guardò alle sue spalle in direzione di Alisha, «E voi?».

La donna annuì.

Avevamo recuperato alcuni piedi di legno dalle sedie e un paio di forbici appuntite.

Seppur fosse poco, ci sentivamo armate fino ai denti.

«Ok, andate», proferì l’uomo. Velocemente, Alisha ed io scavalcammo il parapetto e con cautela poggiammo i piedi nello spazio libero della scala antincendio.

«Quando siete pronti, potete far passare Luis.»

Il tempo stringeva. Collins incominciava a mugugnare, si stava svegliando.

«Ervin, sei certo di volerlo lasciare qui?» Alisha fissò suo marito dritto in faccia, mentre quest’ultimo sollevava con tutte le forze la schiena di Luis sul parapetto aiutato da suo figlio.

«Ci penseremo una volta che Luis arriverà a terra», rispose e si voltò verso Carmen «Come vanno le cose lì?».

La ragazza fissava sgomenta la porta, come se da un momento all’altro potesse succedere l’irrimediabile.

«Stiamo facendo troppo chiasso, ci hanno sentiti.», strinse maggiormente la presa sul pezzo di legno che aveva fra le dita.

«Merda.» Ervin tornò a rivolgersi a sua moglie «Diamoci una mossa.»

Mentre lui e suo figlio facevano scorrere, a qualche centimetro di distanza dal cemento, il busto di Luis, Alisha ed io allungammo le mani sotto le sue spalle.

«Ok, Karina. Al mio tre.» Trassi un lungo respiro. «Uno. Due. Tre!» Con tutte le forze tirai l’uomo verso di me.

Kael saltò sul parapetto e poi oltre, sullo spazio libero della scala«Fate piano.». 

Attese che Joseph lasciasse i piedi dell’avvocato e afferrò una gamba. Un attimo dopo anche suo padre era sul parapetto e stringeva la gamba opposta.

Con estrema accortezza, molto lentamente, scavallarono il parapetto.

Fu il turno di Carmen e Joseph.

«Un momento, fermi.» Ordinò Ervin all’uomo sollevando un palmo a mezz’aria.

La scala scricchiolava leggermente ed ogni volta che qualcuno di noi si muoveva, anche di pochi millimetri, finivamo per tremare insieme ad essa.

Joseph si immobilizzò sul posto guardando in basso, oltre le piccole fessure nel ferro della grata sotto i nostri piedi,

«Sono decisamente più di due metri da questo piano. Se cadiamo…», deglutì.

«Non cadremo. Adesso taci e datti una mossa», ringhiò da dietro le sue spalle Carmen.

«Joseph afferra i piedi di Luis».

Jo aggrottò la fronte «In cinque per sollevare un uomo solo?»

«Fa come ti ho detto!»

Kael e suo padre lasciarono andare la presa sulle cosce di Luis per dedicarsi alle spalle al posto nostro.

«Carmen, Karina, Alisha, voglio che restiate davanti a noi. Siamo disarmati e con Luis per le mani non possiamo fare molto.»

Annuimmo all’unisono.

Potevamo farcela, o almeno così continuava a ripetersi ognuno di noi.

«Andiamo», proferì Alisha precedendo me e Carmen.

La seguimmo velocemente.

La scala era ripida e guardare di sotto metteva i brividi.

Dal terzo piano l’asfalto sotto di noi sembrava ancora più lontano di come lo ricordassi.

«Ci siete ragazze?»

Alisha ci camminava davanti. Le braccia larghe, una mano stretta attorno al piede di legno della sedia, l’altra sul corrimano di ferro.

«Si, qui dietro è tutto apposto.»

Guardai oltre la mia fronte: Kael e il resto del gruppo erano ad una rampa di distanza sopra le nostre teste.

Se la stavano cavando bene tutto sommato.

«A che piano siamo?», tentai di sporgermi dalla ringhiera ma una vertigine mi fece ritirare in fretta.

«Siamo quasi arrivate manca poco.», ci informò Alisha.

Dopo un’altra manciata di passi, finalmente incominciavo a vedere il marciapiede sotto di noi sempre più vicino.

Strinsi le dita sottili attorno all’impugnatura di un paio di forbici che tenevo allacciate alla vita da dentro la molla della gonna.

Ad un tratto, qualcuno degli uomini perse l’equilibrio.

La scala oscillò vertiginosamente per un istante. 

«Va tutto bene! Sono inciampato», ci informò Jo sporgendosi dalla ringhiera, abbozzando un sorriso imbarazzato.

Carmen fece una smorfia.

«Che buono a nulla…», distolse lo sguardo e seguitò alle spalle di Alisha.

A tanto così dal toccare terra, improvvisamente, una sgommata di pneumatici fece balzare indietro la madre di Kael. Un fragore di vetri rotti e ferro scricchiolante scoppiò attorno a noi. Un’auto si era schiantata esattamente contro l'ultima rampa della scala accartocciando un pezzo di ringhiera. In un battito di ciglia la scala si inclinò pericolosamente sbalzandoci tutti di lato.Una colonna di fumo, ora, oscurava quasi del tutto la nostra visuale. Non so come, ma mi ritrovai aggrappata con tutte le forze alla ringhiera: ero quasi sospesa nel vuoto.

Deglutii a fatica «State tutti bene?».

Non potevo muovermi, o non volevo. Temevo che spostando, anche solo la testa, quella dannata scala sarebbe piombata nel vuoto.

Ogni muscolo del mio corpo era contratto, duro.

«Si, credo», mormorò Carmen schiacciandosi contro uno dei gradini della scala, abbracciandolo come fosse un cuscino di piume.

«Alisha?».

La donna, che si era ritrovata miracolosamente a sedere su un gradino, continuava a fissare intensamente la voluta di fumo e il muso della vettura ad una spanna dai suoi piedi. 

«Alisha, stai bene?», chiesi ancora.

Esitò per un istante,«S-Si, sto bene.»

Mi convinsi a sollevare la testa. 

«Lì su?».

Ervin fece passare il viso attraverso la ringhiera «Siamo tutti interi.»

Si rivolse poi agli altri: «Avanti, cerchiamo di tornare in piedi». Il suo viso sparì dalla mia vista, un attimo dopo.

Potevo sentirli parlare due gradinate sopra di noi. Mi consolai per un istante.

Per fortuna nessuno era volato di sotto. 

«Da dove cazzo è spuntata quell’auto?»,ma adesso avevamo un altro grosso, - grossissimo -, problema.

Gli occhi di Carmen scavavano nella stessa direzione di quelli di Alisha.

Non ero sicura di voler sapere cosa stessero guardando.

Mi allontanai cautamente dalla ringhiera cercando di trovare stabilità nelle mie gambe.

Una volta arrivata ad una spanna dalla spalla di Alisha, si piazzò davanti ai miei occhi il peggio.

Dentro l’auto che aveva disastrosamente accartocciato l’ultima rampa di scale, c’era un occhi rossi. Un uomo sulla cinquantina, con il viso maciullato di morsi, che digrignava i denti graffiando l’aria.

Per fortuna, stretta al petto, aveva la cintura di sicurezza.

«Noi possiamo salire sul cofano, ma loro…», Carmen alzò lo sguardo oltre la sua testa. Era già un miracolo che Ervin e gli altri non fossero volati al di là della ringhiera quando la scala si era appesa da un lato; non sarebbero riusciti a trasportare Luis dall’altra parte, specie perché il parabrezza dell’auto era esploso e quella maledetta bestia riusciva a sporgersi fuori più del dovuto. Nonostante la cintura di sicurezza gli stesse praticamente seghettando la pelle in due non sentiva nulla. 

Lo scrutai rabbrividendo. Dal morso sulla sua guancia potevo vedere i suoi denti e pezzi di pelle dondolare attorno.

«Ci riusciremo, ok?», proferì Alisha con una certa sicurezza, ed una punta di nervosismo nella voce «Dobbiamo solo capire come.»

Mi chiesi se veramente ci saremmo riusciti.

                                                 ॥

«Avete trovato il modo? Ce l’avete fatta?», chiede Mel scrutando ogni piccola ed impercettibile smorfia sulle mie labbra.

«Si, alla fine, ma non come speravo.» 

«Che vuoi dire?»

I miei pensieri si inclinano sotto la durezza di quel ricordo.

«Che non credevo nessuno di noi capace di spingersi così tanto oltre.»

                                                   ▶

Quando Ervin e gli altri riuscirono a raggiungerci, la scala si appese maggiormente. Un sussulto del ferro ci fece rimbalzare verso il basso. Si sarebbero staccati anche gli ultimi perni, era questione di attimi.

«Merda», Kael guardò oltre le nostre schiene, in direzione dell’uomo dentro l’auto.

Era cosciente che salendo assieme a suo padre sul parabrezza, uno di loro, il più vicino al lato guidatore, sarebbe stato morso. L’unico modo per scavallare il cofano era passarci sopra uno alla volta.

«Ci faremo scivolare lungo il cofano», disse Ervin concentrando lo sguardo sul pezzo di ringhiera conficcato nella carrozzeria dell’auto.

Fra esso e il parabrezza esploso c’erano meno di trenta centimetri. Una persona alla volta sarebbe riuscita a passarvi in mezzo e a poggiare i piedi sull’asfalto, il problema sarebbe stato solo trascinare Luis senza provocargli altro dolore.

Quando l’urto aveva fatto piegare la scalinata, cadendo, Joseph gli era finito sulla caviglia ferita. Non ebbi il coraggio di constatare con i miei occhi come fosse ridotta ma da come ne stava parlando Ervin non doveva essere messa bene, anzi, la situazione era peggiorata. Luis aveva perso i sensi: ora era appeso fra le loro braccia come un sacco di patate con la testa penzoloni.

Mi accovacciai a sedere su un gradino, le mani a sorreggere la fronte.

«Karina, va tutto bene?» Sollevai lo sguardo verso Alisha, nonostante l’avessi davanti avevo l'impressione di non riuscire a vederla.

«Credo di sì.», mentii.

Mi sembrava di essere sprofondata all’inferno. Ero sprofondata all’inferno!

Stavo per tirare fuori una scusa e lasciarli proseguire senza di me. Avevo bisogno di calmarmi e magari di svegliarmi da quell’incubo, ma poi mi voltai verso Kael.

Lui aveva scelto di vivere. I suoi occhi, il suo cuore e la sua mente stavano lottando: non si sarebbe arreso, non così.

«Cosa state aspettando?», protestò Carmen.

Ervin, come un po’ tutti, la ignorò «Quando sei pronta, faremo un tentativo.» Per la prima volta, l’uomo che aveva mantenuto una certa compostezza fino a quel momento, mi aveva guardato comprensivo.

Annuii, sollevandomi dal gradino inclinato da un lato.

In quel momento, ebbi l’impressione che nessuno della famiglia Brayton avrebbe lasciato gli altri indietro, a meno che non fosse stato costretto. Dovevamo restare uniti, solo così ci saremmo salvati.

«Andrò prima io.», disse Alisha con determinazione.

La donna si tirò sui gomiti le maniche del suo cardigan blu e infilò il pezzo di legno della sedia nella tasca posteriore del jeans.

«Pronta?», domandò Carmen aiutandola a salire sul cofano dell’auto.

Annuì.

Quando la belva si accorse di lei, incominciò a graffiare la carrozzeria, sporgendosi dal sedile ripetutamente.

Alisha trattenne il respiro. Si accovacciò, aggrappandosi allo spazio di ringhiera conficcato nella carrozzeria, e scivolò oltre.

Sospirammo di gioia, non appena i suoi piedi planarono sull’asfalto.

«La prossima?»

Carmen ed io ci guardammo. 

«Vado io», disse spostando lo sguardo da me ad Ervin.

Con il pezzo di legno stretto fra le mani, salì sul cofano, si schiacciò contro la ringhiera e l’agirò prima con una gamba e poi con l’altra, poggiando i piedi negli spazi vuoti del ferro. Una volta sospesa a mezz’aria, con le braccia attorno al corrimano, si diede uno slancio e con un balzo raggiunse il marciapiede.

«Più semplice di come pensassi», mormorò scrollando le spalle.

«Non cantar vittoria», borbottò Joseph «Adesso viene la parte difficile.»

Mancava Luis e tutti noi.

Ervin si piegò sulle ginocchia adagiando Luis a terra. «Andate prima voi», disse rivolgendosi a me e suo figlio «Faremo scivolare Luis spingendolo dalle spalle e intanto voi, Alisha e Carmen, lo solleverete di peso prima dai piedi e poi per la schiena.»

Poteva funzione. Doveva funzionare.

Kael annuì.

«Avanti, proviamoci.» Non credetti alle mie orecchie quando pronunciai quella frase. Avevo ritrovato un confortevole senso di speranza e un pizzico di coraggio che non pensavo di avere. Non in quella circostanza. Forse, vedere Carmen e Alisha dall’altra parte della gabbia di ferro e fumo mi aveva dato un motivo per rialzarmi.

Mi avvicinai al fanale anteriore dell’auto. 

“Posso farcela. Posso farcela”.

Socchiusi le palpebre e con il cuore in gola afferrai la mano di Kael.

Mi aiutò a salire sul cofano che si abbassò leggermente sotto il mio peso.

Senza perdere di vista l’uomo furioso, imprigionato nell’auto, mi abbassai sulle ginocchia, afferrai la ringhiera e tenendomi a debita distanza, scivolai oltre i rottami fumanti.

Kael fece lo stesso e muovendosi agilmente non ebbe nemmeno bisogno di accovacciarsi a sedere.

«Pronti?», annuimmo. Adesso arrivava la parte più difficile.

Ervin protese le braccia in avanti spingendo la schiena di Luis sulla carrozzeria, direzionando le sue gambe verso la parte libera tra parabrezza e ringhiera.

Muovendoci in fretta, Alisha afferrò un polpaccio e Kael l’altro.

«Ok, ci siamo!»

Ero dietro di loro: non appena avessi visto le gambe di Luis raggiungere l’asfalto le avrei dovute sollevare. Dovevamo fare attenzione.

Ervin si sporse sempre più sul cofano dell’auto, continuando a muovere il corpo di Luis come un involucro inanimato.

Joseph, dietro di lui, fremeva dalla voglia di superare l’auto. Guardava la strada, oltre quella gabbia immaginaria creata dalla lamiera della vettura contro la gradinata, come se stesse aspettando il momento per correre lontano.

«Non potete fare più in fretta?», disse ad un certo punto sporgendosi oltre Ervin. Il padre di Kael si voltò e gli rifilò un’occhiata torva.

«Dacci una mano», ringhiò «invece di startene lì a braccia conserte.»

Jo sbuffò.

«E’ fatta. E’-»… Parlammo troppo presto. Il corpo di Luis pesava più di quanto nessuno di noi quattro si aspettasse.

Una volta che anche il busto fu fuori dal limite dell’auto perdemmo la presa.

Luis scivolò a terra ed io di ginocchia accanto a lui.

L’auto si sollevò di colpo. Un suono raccapricciante di pelle lacerata sovrastò tutto il resto.

Il braccio di Ervin venne afferrato dalle mani intrise di sangue del cinquantenne ormai non più umano.

La cintura gli era praticamente penetrata nella pelle e lui era con il mezzo busto fuori dal parabrezza. Per fortuna le gambe erano ancora bloccate contro il cruscotto.

«Ervin!»

Joseph afferrò le sue spalle cercando di trascinarlo verso sé, ma l’essere non aveva nessuna intenzione di lasciarlo andare, piuttosto gli avrebbe staccato il braccio per poi divorarlo come antipasto.

A quel punto, c’erano solo due cose da fare: lasciare Ervin lì o uccidere quell’uomo.

Il padre di Kael scelse la seconda.

«Karina, le forbici!», gridò.

Guardai l’impugnatura fare capolino dalla mia gonna, l’afferrai e gliele feci scorrere sul cofano dell’auto.

Ervin le raccolse e con un gesto rapido, colpì l’uomo alla gola.

Sbarrai gli occhi: non solo perché uno spruzzo di sangue mi schizzò addosso, ma perché quel mostro non era morto.

NON ERA MORTO.

Continuava a grugnire e a conficcare le unghie nella carne di Ervin.

Lo stesso era sgomento.

Se colpendoli anche in punti vitali non smettevano di “vivere”, come potevano essere tolti di mezzo?

Ci fu un momento di sconcerto generale.

Eravamo impietriti.

«Riprovaci Ervin!», gridò Joseph.

Il padre di Kael era palesemente confuso. Esitò un momento, allungando una mano verso l’impugnatura della forbice, ma non appena quella bestia se ne accorse provò ad addentarla.

Un enorme nodo mi chiuse la gola. Avevamo perso un’arma e se Ervin non avesse trovato un modo per sottrarsi alla presa di quel mostro, le cose sarebbero potute degenerare.

«Fate qualcosa!», gridò Alisha disperata.

Fu allora che, mosso da un impulso, Kael mise un piede sulla ruota dell’auto e con uno slancio salì sul cofano.

«Kael che vuoi fare?». Lo avevo visto lanciarsi da una finestra senza batter ciglio, era capace di tutto.

Kael fissò la creatura tirare il braccio di suo padre verso sé con ferocia. La pelle dell’uomo incominciava a ferirsi. Stava sanguinando. 

Allungò una mano verso la forbice ma la bestia tentò di morderlo, così optò per riprovarci un paio di volte, finché, le sue dita non toccarono i due anelli di metallo.

Tirò la forbice fuori dalla carotide dell’uomo e senza pensarci troppo lo colpì dritto dentro un’orbita.

Non so se lo avesse già fatto prima o se lo avesse visto fare da qualcuno, magari era stato solo un caso, fatto sta che l’uomo smise di grugnire.

In un attimo, la sua testa sprofondò accanto al braccio di Ervin.

 

                                                      ॥

«Credimi, ero impietrita. Kael aveva ucciso un uomo…»

Mel storce un labbro «Be’ non era più umano.»

«Già, ma all’epoca nessuno di noi sapeva cosa avessero quelle persone. Per quello che mi riguardava, potevano ancora essere curate.»

                                                               ▶

 

«L’hai ucciso…», un grido mi rimase incastrato nella gola mentre indietreggiavo alla vista del sangue e di quell’orbita lacerata.

«Non c’era altra soluzione», disse una voce nel gruppo, ignorai di chi fosse. Ero terrorizzata. L’idea che qualcuno fra noi fosse capace di un gesto simile mi prosciugò.

«Era una persona. Una essere umano…»

Di colpo, non volevo più avere niente a che fare con quelle persone. 

«Karina», Kael si sollevò dal parabrezza e mi rivolse lo sguardo più desolato che avessi mai visto.

Sollevai una mano a mezz’aria, volevo dire qualcosa, ma niente di ciò che stavo pensando era pronunciabile.

Indietreggiai di un altro passo. Più mi allontanavo da loro, più, per qualche motivo, iniziavo a sentirmi sicura.

«Karina, non farlo.» Alisha allungò una mano in direzione della mia agguantandola. Guardai le sue dita avvolte alle mie come se ci fosse qualcosa di terrificante sopra e risalii, con lo sguardo impietrito il braccio fino a scontrarmi con il suo viso.

«Non andartene, è pericoloso.», mi scongiurò.

Il mio sguardo vacillò da lei, al cadavere accanto ad Ervin a quello di Crane sul tettuccio di un’auto a pochi metri da noi.

Avverti un groppo in gola.

Tremai.

«Prima Crane, ora quell’uomo…Hai permesso a tuo figlio di ammazzare una persona! E’ la stessa identica cosa che avrebbe fatto Collins!»

Per un istante qualcosa oscurò l’espressione della donna che sottrasse velocemente gli occhi ai miei.

«Lo avrebbe morso», mormorò, «E’ mio marito, capisci?».

Adesso aveva gli occhi lucidi.

Strappai la mano dalla sua presa e indicai la testa dell’uomo con la forbice incastrata dentro la sua orbita, «Magari anche lui aveva una moglie!».

La cosa che al momento mi spaventava più di tutto era la possibilità che qualcuno di loro avesse potuto serbare la stessa fine per me o per chiunque altro del gruppo.

«Che cazzo le hai portate a fare quelle forbici, allora?!», All’improvviso, Carmen mi afferrò per le spalle costringendomi a guardarla. «Quell’animale avrebbe morso uno dei nostri, chiaro? Non abbiamo trascinato il nostro culo fino a qui per lasciarci dietro i nostri cadaveri.» Il suo sguardo, ora terribilmente cupo, si spostò sul cadavere: «E poi era già morto.»

                                                      

 

«Quindi quello è stato il vostro primo morto

Mi stringo l’attaccatura del naso con un paio di dita di entrambe le mani e sospiro: «Si. Il primo che ho visto uccidere da uno di noi.»

Mel si sposta la lunga coda nera dietro la schiena «Se non fosse stato Kael ad ammazzarlo, avresti avuto la stessa reazione?»

«Forse, non lo so. Sinceramente non so perché reagii in quel modo. Avevo portato un paio di forbici per difendermi…Credevo di essere pronta a ferire qualcuno.»

«Pensare di uccidere qualcuno è un conto, farlo è un’altra cosa…», commenta.

«Probabilmente è così.»

Resta un momento in silenzio fissando l’espressione del mio viso dal riquadro della telecamera «Raccontami cosa è successo dopo.»

Schiudo le labbra guardando un punto qualsiasi sulla riva del fiume accanto a me.«Abbiamo raggiunto la strada.»

 

                                                    ▶

 

Non era così che mi immaginavo il mondo fuori da quell’ufficio. Credevo che tutto ciò che ci era successo non aveva varcato l’uscita di quello studio, invece, il centro della città era uno scenario di guerra.

«Più in fretta!».

C’erano persone che correvano in tutte le direzioni. Qualcuno aveva appena fatto scoppiare una guerra civile, ed ora, non c’erano solo gli uomini con le pupille allargate ad aggredire i civili ma anche i civili stessi.

Bande, delinquenti ma anche donne e uomini di tutte le età stavano saccheggiando i negozi sparsi lungo la via e mettendo a soqquadro l’intera città.

Attorno a noi lo scenario era apocalittico.

«State giù!».

Distratta dal caos al centro della strada, improvvisamente, mi ritrovai premuta contro il cemento del marciapiede dalla mano di Kael. Una molotov volò ad una spanna dalla mia testa facendo scoppiare la vetrina di alimentari accanto a noi. Ad un tratto, non sentii più nulla all’infuori di un fischio ovattato e assordante al tempo stesso.

Una pioggia di vetri ci zampillò addosso trascinandosi dietro una folata di terrore che si piazzò esattamente al centro del mio petto.

«Karina.» 

«Karina!»

Era la fine del mondo?

Guardai oltre le panchine verdi, oltre la fila di alberi sul marciapiede: sangue, violenza, morte.

All’improvviso, due braccia mi cinsero il costato sollevandomi di peso.

Il mio sguardo schizzò sul profilo di Kael. Una scheggia gli aveva graffiato lo zigomo.

Mi domandai come fossi messa io. In quel momento era tutto così surreale che cominciai a temere che fossi già morta. -o lo speravo.

I miei piedi vennero costretti dalla prepotenza del ragazzo a rimettersi in moto.

Quando decise che fossi pronta, mi lasciò scivolare le mani lungo la schiena per poi afferrarmi un polso.

Il cuore rincominciò a pompare all’interno della cassa toracica dolorosamente.

Mi voltai alle spalle.

Era stato impossibile impedire alla caviglia di Luis di non spezzarsi ancora. Adesso quasi gli pendeva come fosse un arto in più sul suo corpo.

«Guardate!» Sentii l’eco lontano della voce di Carmen e quando la cercai con gli occhi, stava guardando qualcosa al di là del marciapiede. Sul suo viso era affiorato un sorriso speranzoso. «I militari! Loro ci aiuteranno!». 

Maschere antigas? 

Carmen corse verso il mezzo blindato fermo lungo la strada.

«Carmen!»

Vidi una donna indiana avere la stessa idea della nostra compagna e correre verso la milizia dall’altro lato della strada: con le mani sollevate si buttò sulle ginocchia in lacrime, chiedendo pietà nella sua lingua. Un colpo. Un altro. Un altro ancora.

Il sangue si raggruppò nelle mie vene.

I miei occhi corsero nella direzione di Carmen. Era vicina, troppo vicina.

Sollevò le mani oltre la sua testa, il piede della sedia le scivolò dalle dita «Sono sana! Non sparate.». Gli uomini con le maschere la scrutarono privi di coscienza. Sollevarono i fucili e glieli puntarono contro.

«Il mio amico è ferito, abbiamo bisogno di aiuto», continuò la ragazza accennando un altro passo.

«Resta ferma dove sei!», ordinò uno di loro.

«Ci serve aiuto!». Se solo Carmen avesse dato ascolto a quel militare e non avesse deciso di camminare verso di lui…

 Una raffica breve di spari ci fece correre le mani sulla testa.

Tutto ciò che mi era attorno vorticò pericolosamente.

Carmen cadde sulle ginocchia.

«L’hanno uccisa…Loro…» 

«Non fermatevi!», gridò forse Ervin alle nostre spalle.

Qualcuno mi trascinò via lungo il marciapiede. C’era un mucchio di gente dietro di noi. Gente terrorizzata, gente in balia della follia.

Evitai il corpo di un uomo riverso a terra, al centro della lingua d’asfalto, per puro caso. Ero distratta. Distratta dalle giacche verdi militari che stavano trivellando di colpi non solo gli uomini e le donne trasformati ma anche persone che all’apparenza erano normali.

Fu drammatico scoprire che non ci avrebbero aiutato nemmeno le persone che avevano garantito la nostra protezione.

«Quel Suv!».

Gli occhi di Alisha miravano ad una vettura accostata davanti ad un lampione con le portiere spalancate.

Veloci ci fiondammo su di essa.

Ervin ebbe la prontezza di abbassare i sedili posteriori spingendo Luis all’interno dell’auto aiutato da suo figlio.

Joseph fece velocemente il giro dell’auto e si sistemò alla guida.

Chiunque avesse abbandonato quella vettura, o era morto, oppure aveva deciso di correre a piedi, perché il quadro era ancora acceso e la chiave inserita nel cruscotto.

Il tlac degli sportelli mi fece perdere un battito per poi recuperarne tre.

Con una sterzata prepotente, Joseph si inserì sulla strada. Pigiò sull’acceleratore a tavoletta, lasciandosi alle spalle esplosioni, grida e colpi di carabina.

 

Rannicchiata dietro con gli altri guardai oltre il vetro posteriore della vettura.

Di quel passo, della città e dei civili non ne sarebbe rimasto molto.

«Quei militari…», mormorò Ervin guardando nella mia stessa direzione, «Sembra quasi che stiano facendo pulizia».

«Già», sospirò Alisha poggiando le dita contro il vetro.

Rabbrividii all’idea.

Se per fare pulizia Ervin intendeva sterminarci tutti indistintamente, significava che nessuno di noi era più al sicuro. Nemmeno se ci fossimo barricati in qualche casa.

Raccolsi le ginocchia con le braccia e ci affondai la fronte sopra.

L’irrefrenabile desiderio di piangere mi sopraffece. Le spalle mi tremolarono un paio di volte mentre cercavo di frenarmi.

Che ne sarebbe stato di noi?

Di me?

La certezza dell’incertezza mi colpì come una mano fredda dietro la schiena.

«Tutto bene? Ti fanno ancora male le orecchie?», Alisha, seduta a qualche spanna da me, distese leggermente una gamba sul rivestimento posteriore dell’auto.

Quando sollevai il viso temetti di essere una maschera di eyeliner colato, ne avevo una striscia sparsa sulle ginocchia.

«Le…orecchie?...», domandai confusa.

«Quando abbiamo raggiunto l’auto, ti ho vista coprirle con le mani per un momento.»

Non me ne ero nemmeno accorta.

«Adesso ci sento un po’ meglio», dissi.

Mi sorrise amorevole «Quella molotov ti è esplosa praticamente accanto.»

Non avevo avuto la percezione di quanto fosse vicina l’esplosione a me. Mi ero ritrovata a terra e le orecchie fischiavano quasi a voler esplodere.

«Già», dissi abbozzando un sorriso smorto, «penso di si.»

Alisha mi raccolse una ciocca di capelli portandola dietro il lobo del mio orecchio.

Sentii, un attimo dopo, le sue dita correre sulla mia guancia.

«Questi tagli passeranno», sussurrò. In un’altra circostanza sapere di avere il viso maciullato dai vetri mi avrebbe fatta saltare per aria dallo spavento. Allora, invece, non mi smosse nulla.

Non erano i vetri a preoccuparmi, né le ferite superficiali.

«Come sta Luis?», domandai ad Ervin.

Arricciò le labbra «Quella caviglia…Andrebbe operata.»

«Forse dovremmo fare una sosta all’ospedale.»

«Si, e magari farci visitare tutti», proferì Kael sollevandosi un lembo della maglietta sfiorando la ferita sul ventre.

L’ospedale non distava molto dal centro. Incanalata la superstrada sarebbe bastato imboccare il primo svincolo per ritrovarsi nei pressi del suo parcheggio.

avevamo già imboccato la statale, quando, ad un tratto, Kael guardò qualcosa nello specchietto retrovisore agganciato al suo sportello per poi dare una gomitata a Joseph indicandogli lo specchietto agganciato accanto alla sua fronte.

Gli occhi chiari di Joseph si scontrarono con il riflesso del vetro: c’era qualcuno dietro di noi ed era troppo vicino.

«Che diavolo succede?», mormorò un attimo prima di pigiare l’acceleratore.

Artigliammo parti a caso della vettura. 

«Jo, che ti prende?!»

C’era un taxi che procedeva a zig zag nel traffico. Non ci sarebbe stato nulla di strano se non fosse che, alla guida, c’era un tipo che si stava trasformando.

«Merda, ci verrà addosso di questo passo!».

Il taxi stava guadagnando strada e in un attimo si spostò contromano sull’altra carreggiata, avvicinandosi sempre di più.

Ci aveva quasi raggiunto ormai e per Joseph stava diventando difficile mantenere il controllo dell’auto a quella velocità.

Vidi l’uomo alla guida del taxi portarsi una mano alla testa e stringersi con violenza alcune ciocche di capelli. Sbattere le palpebre. Scuotere il capo. Soffriva?

Kael afferrò per un lato il sedile e si sporse con metà busto indietro. Lo sguardo alla vettura impazzita dietro di noi.

Di colpo lo vidi serrare le palpebre.

Il paraurti della nostra vettura venne tamponato facendoci finire con i palmi delle mani a terra.

Ervin finì contro Luis e Alisha si riprese per un pelo, aggrappata al poggiamano sulle nostre teste.

Joseph imboccò una strada secondaria che portava verso Manassas. Il taxi ci si affilò dietro accostandoci.

La testa dell’uomo alla guida del taxi fece uno scatto di lato, poi di nuovo. Una serie di dolorosi tick prima che le sue palpebre si spalancassero e restasse immobile per qualche istante.  “7…6…5…4…3…2…1.”

Il sangue mi defluì dal viso.

Di colpo, incominciò a  sbracciare verso il nulla. Furioso. Impazzito. Come se fosse appena «tornato in vita.»

Joseph sterzò all’improvviso verso l’uscita con il cartello Manassas scritto a caratteri cubitali.

Il taxi, questa volta, restò alle nostre spalle sulla sua corsia, sparendo dalla nostra vista velocemente.

Ce l’avevamo fatta. Eravamo riusciti a- «Oddio!» - strizzai gli occhi di colpo, stretta nella morsa del terrore.

Un’auto che marciava in senso contrario invase all’improvviso la nostra corsia schiantandosi contro di noi.

L’impatto fu assordante.

Il metallo si accartocciò e si squarciò con un lampo bianco che mi scaraventò di lato e poi mi ributtò indietro. L’auto vorticò su se stessa un paio di volte fermandosi solo quando raggiunse il guardrail dal lato opposto della corsia, facendo esplodere entrambi gli airbag.

Quando smisi di vedere gli alberi oltre i finestrini vorticarmi intorno, temetti che mi sarebbe venuto un infarto.

La centralina del Suv era impazzita, l’allarme strillava come un ossesso. C’era fumo e puzza di benzina dentro tutto l’abitacolo.

 

“Non svenire. Non svenire. Non...”.

 

All’improvviso, piombò il buio davanti ai miei occhi.

 

Tossii un paio di volte risollevandomi dalla moquette del portabagagli.

«Stai bene?», Ervin mi tese una mano. Dovevo aver perso i sensi. 

«Si, tu?»

Come ero arrivata a sbattere la schiena contro il portellone anteriore se ero seduta accanto allo sportello?

Alisha aveva gli occhi chiusi: un vistoso rivolo di sangue le scendeva da un sopracciglio. Luis era sveglio. Si lamentava ma nonostante ciò era ancora vivo.

«Cosa è successo?», Ervin si guardò intorno, l’aria ancora confusa.

Sentii mugugnare dai sedili anteriori.

Quando spostai lo sguardo verso di essi, Joseph era sparito. Il suo airbag era esploso ma lui non era più seduto al posto di guida, mentre Kael era compresso dall’airbag esploso dal suo lato del cruscotto.

Gattonai fino a raggiungerlo.

«Kael, Kael!», spostai l’airbag che si stava sgonfiando e tossii per la polvere biancastra che si stava sollevando.

«Stai bene?»

Lui appoggiò la schiena al sedile, battendo le palpebre più volte mentre annuiva. Aveva una guancia infarinata ma a parte una goccia di sangue dal naso pareva essere a posto.

Lo sportello dal lato di Joseph era aperto e potevo vedere l’altra vettura ferma per obliquo al centro della strada.

Il cofano era un ammasso di metallo contorto e accartocciato. Nel parabrezza c’era un buco grande quando un corpo.

Macchie di una sostanza rosso scuro coprivano la seghettatura del vetro rotto e chiazzavano il cofano.

Mi insinuai fra i due sedili anteriori e portai le gambe sul sedile al posto di guida. Girai la chiave e finalmente l’allarme smise di gridare.

Attorno a noi non c’era nessuno. Sapevo che quella strada non era molto frequentata, ma non pensavo che a quell’ora del pomeriggio fosse addirittura deserta.

Scesi dall’auto. Le gambe tremanti, il cuore in gola. 

Sull’asfalto c’era una lunga striscia di sangue che girava attorno al suv.

Esitando, mossi passi tremanti lungo di essa.

«Jo?».

L’auto che ci aveva urtato era vuota. Non c’erano corpi, non c’era nulla oltre il sangue.

Sentii un sospiro gutturale, «Jo, sei tu?.», e quando feci il giro dell’auto, dovetti correre con le mani alla bocca per trattenere un grido.

Il cuore perse un battito. Lo stomaco si strinse di colpo.

Gli occhi si appannarono in fretta.

Un braccio le cui ossa erano venute allo scoperto si allungava sull’addome di Joseph. Una testa maciullata di graffi e ricoperta di sangue ispezionava a morsi il suo ventre.

Frammenti di vetro erano conficcati nelle sue guance. Rivoli di sangue gli scorrevano sulla pelle pallida.

Come un animale con la sua preda, la donna che aveva aggredito Jo se lo era trascinato dietro il paraurti della nostra auto ed ora stava banchettando con il suo corpo, avidamente.

La testa mi diceva “scappa”, il corpo “non muoverti”. Non si era accorta di me. Troppo concentrata a divorare l’avvocato, ignorò l’ombra del mio corpo alle sue spalle, almeno finchè, muovendomi, la suola delle mie scarpe non sfregò l’asfalto.

La donna inumana sollevò di colpo il capo. 

Corsi verso la portiera dell’auto piombandoci dentro e chiudendomela dietro.

La sua testa maciullata comparve davanti al mio finestrino. Io scattai indietro, inghiottendo un grido. Un attimo dopo fui travolta dalla nausea. La faccia…Mio Dio la faccia di quella donna era ridotta un macello. Il labbro inferiore era attaccato a malapena e la testa era inclinata in una maniera innaturale. Un occhio le penzolava fuori dall’orbita. 

La poveraccia sarebbe dovuta essere morta, invece camminava ancora.

«Da dove è sbucata fuori?», Ervin si sporse dal vano posteriore.

«Credo fosse la donna alla guida dell’auto che ci ha tamponato», risposi.

L’indemoniata grattò il vetro ripetutamente.

«Joseph?». Mi voltai nella direzione di Kael e scossi il capo.

Una nube plumbea gli coprì il viso.

Carmen, Joseph, chi sarebbe stato il prossimo?

Probabilmente noi.

Poggiai i piedi sulla moquette tornando dritta a sedere. Allungai una mano verso la chiave agganciata al cruscotto e la girai un paio di volte.

L’auto rombò e si spense: una, due, tre volte.

«Cazzo», afflosciai le spalle.

Non accennava a ripartire…

 

Bloccati ormai da ore dentro la vettura, notai che il cielo stava imbrunendo.

«Non è passato nessuno finora.», sospirò esausto Ervin schiacciando le spalle contro la carrozzeria. 

«Saranno andati tutti verso Auckland», commentò suo figlio annoiato, picchiettando l’indice sul vetro in direzione della bocca frastagliata di lembi di pelle della donna affamata di carne umana.

Voltai lo sguardo nella sua direzione, schiacciando la guancia contro il poggiatesta del sedile. 

«Lasciala in pace.», mormorai vedendo che insisteva nel aizzare la belva.

Lui mi scrutò impassibile.

Affondò la schiena nel sedile e sollevò il mento socchiudendo le palpebre.

«Non voglio morire qui dentro.»

Mi sarebbe piaciuto potergli dire che non sarebbe successo, che avremmo trovato un modo per scappare, ma non ne avevo la certezza. C’era un’alta probabilità che quella donna sarebbe riuscita ad entrare nella vettura, in qualche modo, e a quel punto per noi non ci sarebbe stato scampo.

Ma non potevamo gettare la spugna così.

Rivolsi le iridi all’auto ferma al centro della strada per obliquo.

I fari, seppur ridotti in frantumi erano accesi.

«Forse quell’auto può camminare», sussurrai.

Kael sollevò una palpebra e mi scrutò sottecchi «Come pensi di arrivarci?».

La donna dalla testa maciullata, girava attorno alla nostra vettura, come un caimano pronto a consumare il suo pasto.

Era un bel dilemma.

«Mi verrebbe da dire: “distraendola”, ma non è facile riuscirci.» Appoggiai le dita sulla portiera, guardando ovunque al di là del finestrino.

Il fatto che Jo non si fosse trasformato, mi faceva pensare che la donna non si era limitata a divorare il suo addome.

Ma era un bene avere una sola di quelle bestie fra i piedi.

Spostai lo sguardo verso Luis e gli altri. Erano distrutti e avevano inconsciamente chiuso gli occhi.

«Dormono.», constatò Kael, aggiungendo un attimo dopo «Anche se io e te riuscissimo a far partire quell’auto, loro…».

Scossi il capo scacciando il pensiero di loro tre divorati da quella donna.

«Sono contraria a lasciar morire le persone», dissi, «Ero contraria anche ad uccidere quell’uomo intrappolato nella sua auto, ma…Ho visto cosa fanno queste bestie se riescono a catturarti.»

Se chiudevo gli occhi potevo vedere il ventre di Joseph aperto, dilaniato.

«Perciò, si. Voglio ucciderla.»

Gli occhi scuri di Kael incrociarono i miei.

In quel momento non ebbi paura di potergli sembrare un mostro o una pazza. 

«Perché se non la uccidiamo», proseguii con la voce che mi tremava leggermente, «lei ucciderà noi, ed io voglio che nessun altro muoia.»

Di colpo, un braccio del ragazzo attorniò le mie spalle.

Mi ritrovai premuta contro il suo petto. Un calore indescrivibile mi travolse. Era la prima volta che provavo una sensazione del genere abbracciando qualcuno. Essere stretta da Mike o da mia madre probabilmente non era la stessa cosa.

Passò un istante e la sua mano scivolò sul mio polso. Il suo sguardo vacillò dalle mie labbra ai miei occhi «Solo se te la senti. Posso andare da solo, altrimenti.»

Scossi il capo. 

«Sono pronta.»

Kael tornò a muoversi sul sedile. Chiusi gli occhi, ispirando profondamente. Non era il momento di riflettere su me stessa o su quello che stessimo per fare. Non potevo rischiare di cambiare idea o di esitare nemmeno per un istante. C’erano tre vite nelle nostre mani.

Questa volta dovevo cavarmela da sola. Dovevo collaborare e se voleva dire mettere a repentaglio la mia vita, dovevo essere disposta a farlo.

Kael afferrò il paio di forbici, abbandonate ai piedi di Luis, dal vano posteriore dell’auto e incominciò a picchiettare sul vetro del finestrino accanto a sé.

La donna si avventò contro lo sportello graffiandolo convulsamente.

«Fa piano.», mi disse scrutando i miei movimenti con la coda dell’occhio.

Morire sul ciglio della strada assieme ad altre quattro persone aveva un non so che di romantico, ma non mi sembrava il miglior modo per andarsene.

Tirai la leva della maniglia leggermente, sperando di non far abbastanza rumore da sovrastare il ferro delle forbici sul vetro.

Una brezza fresca mi accarezzò il viso bollente quando misi prima un piede e poi l’altro sull’asfalto.

Kael aveva pensato brevemente a tutto: avrei raggiunto l’auto, l’avrei messa in moto e quando la donna si sarebbe accorta di me, l’avrei messa sotto.

Era tutto chiaro, dovevo solo far sì che quel piano funzionasse.

Quando la donna distolse gli occhi dal viso di Kael, lui colpì il vetro più forte.

Potevo sentire il ticchettio del ferro contro di esso anche se ero già abbastanza lontana.

Mi voltai per un solo istante. Il cuore perse un battito.

Kael non riusciva a mantenere concentrata la donna famelica che lo scrutava ringhiando e poi tornava a guardare la mia sagoma oltre il vetro del finestrino.

«Merda.»

A quel punto, accellerai fino a correre a perdifiato.

L’auto non mi sembrò più lontana come che in quel momento.

C’ero quasi.

C’ero…quasi.

Qualcosa si schiantò contro la mia schiena.

Caddi a terra ferendomi i palmi.

Quando mi voltai, la donna si risollevò in piedi, ostinata con un solo obiettivo in mente. Mi prese la caviglia quando scalciai di nuovo e tirò, trascinandomi verso sé. Il sangue le usciva dalla bocca a bolle e dall’orrendo buco che aveva in gola.

Io gridai colpendola selvaggiamente con il piede libero, con le mani.

«Karina!».

Una lacrima mi scivolò lungo il viso mentre cercavo di impedirle di addentarmi la caviglia.

Non volevo morire.

Ma proprio mentre stavo immaginando me morta al centro di quella strada…

Due braccia apparvero alte sulla sua testa e la forbice le si conficcò poco sopra la nuca.

Tossii un respiro. Un altro e poi piansi.

«Kael, Karina!», Ervin e Alisha erano scesi dall’auto prima ancora che io potessi accorgermi della loro presenza accanto al cadavere di Joseph.

La donna corse verso suo figlio stringendolo disperatamente a sé.

«Ci ha attaccati», si giustificò lui.

Omise che l’idea di scendere dalla vettura era stata nostra.

Ma suo padre non era stupido. Ci raggiunse scuro in volto.

L’espressione cinerea non prometteva nulla di buono.

«Volevi farti ammazzare!?», gridò afferrando suo figlio per la maglietta, «Rispondi!».

Kael spalancò le palpebre atterrito.

«Potevate morire!», urlò ancora, «E io non sono pronto a perdere un altro figlio.», prima di far capitolare la sua rabbia in un pugno di lacrime.

«Ervin», la voce calda di sua moglie gli sfiorò la nuca «lascialo andare.»

Le mani dell’uomo allentarono al presa sulla sua T-shirt.

Continuò a fissarlo per qualche istante. Disperato. Impaurito.

«E’ stata colpa mia.»

«Karina-», cercò di interrompermi il ragazzo.

Suo padre deviò lo sguardo su di me.

«Volevo raggiungere la berlina della donna per vedere se funziona ancora.», dissi.

L’uomo serrò la mascella per un secondo prima di sferrarmi un’occhiata velenosa «Non farti venire in mente altre idee stupide, ragazza.».

Abbassai lo sguardo alla testa penzoloni fra le mie ginocchia mordendomi un labbro.

Ervin ci superò e Alisha lo seguii.

Potevo sentirli parlare ma le parole erano incomprensibili, poco più che un sussurro lontano.

«Mi dispiace», mormorai. Kael allungò una mano verso me per aiutarmi a tornare in piedi.

Spostai il cadavere della donna da sopra le mie gambe e mi sollevai.

«Non hai nulla di cui dispiacerti, credimi. Non sono io che ho rischiato la vita per aiutarci», i suoi occhi vacillarono sulla sagoma di suo padre che ora era seduto al posto di guida della berlina bianca.

Una marcata smorfia di rabbia si disegnò sulla sua fronte.

«E’ stata una mia idea.», cercai di aggiungere.

Kael scosse il capo. «Non pensiamoci più.»

Dopo qualche tentativo, le nostre orecchie vennero raggiunte dal rombo dell’auto.

Il nostro sguardo volò su di essa.

«Parte!», Alisha si sporse dallo sportello. Sul viso un sorriso raggiante.

«Prendiamo Luis e andiamo via da questa strada maledetta.»

 

                                      

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Una ferita. ***


Una ferita.

“Le lacrime non sono espresse dal dolore, ma dalla sua storia.”

 

                                  4.

 

Raggiunto il parcheggio dell’ospedale, scoprimmo che l’intero stabile era stato assediato da quelle creature.

La milizia era intervenuta tempestivamente con autocarri e armi pesanti e stava trivellando di colpi chiunque si imbattesse sulla sua strada.

Dalle uscite laterali, scorsi un gruppo di caschetti verdi scortare una decina di uomini, fra medici e infermieri. 

«Dove li stanno portando?».

Mi sporsi un po’ di più oltre il limite del finestrino.

«Resta giù!», bisbigliò Ervin.

I militari aprirono una breccia al centro del capannello di belve inferocite e velocemente, fecero montare i superstiti su un autocarro abbastanza spazioso per ospitare tutti.

Una serie di colpi di carabina, molto più vicini, ci fece abbassare la testa di scatto.

«Non possiamo restare qui.», capitolò Ervin, «E’ troppo rischioso.»

«Ma Luis ha bisogno di essere visitato. Noi abbiamo bisogno di essere visitati!», bisbigliò Alisha con una punta di nervosismo misto alla paura che le pulsava nelle vene.

La fronte di Ervin si aggrottò di conseguenza «Non possiamo raggiungere lo stabile. Quelle creature sono dappertutto.».

Un altro sparo.

«…E non sono l’unico problema.», mormorò Kael mentre i suoi occhi cadevano sul corpo esanime di una donna in vestaglia da notte riversa sul brecciato.

Un marines le aveva sparato alle spalle e poi al centro della testa. Un vistoso foro sulla sua nuca ribolliva di grumi di sangue.

«Andiamocene», sospirò Ervin. Potevo scorgere nella sua espressione un moto di afflizione. Eravamo lì per uno scopo: salvare Luis; ma avevamo fallito.

Costretti ad abbandonare il parcheggio, Ervin imboccò nuovamente la statale in direzione di Manassas.

L’enorme quartiere, grande quasi come una città, aveva anche un piccolo centro medico. Non era il New General Hospital, ma poteva tornarci ugualmente utile.

Svoltò in F street.

 

La luna, trapuntata nel cielo nero, portava a malapena lo spiraglio di un lume sulla città.

Era fredda come la notte, come un sudario; frastagliava gli edifici sommersi nel buio.

Anche le stelle sembravano cieche quella notte.

All’intero quartiere era stata tolta l’elettricità.

Avevo l’impressione che si fosse svuotato, il silenzio era agghiacciante, rotto solamente da rantoli e grugniti nel buio. Non avevo mai visto la città spenta come allora.

«Che diavolo è successo?» mormorai a bocca aperta, guardando i palazzi vuoti scorrere oltre il vetro del mio finestrino.

«Non saprei proprio…», Ervin si sporse con il mento oltre lo sterzo, lo sguardo in alto.

«Sembra che non ci sia più nessuno.»

«Forse sono riusciti a scappare tutti.», me lo auguravo.

L’auto marciò a passo d’uomo al centro della strada.

Alcune vetture erano accartocciate ai bordi dei marciapiedi e contro le vetrine; i loro cofani fumavano ancora.

Qualcuno le aveva incendiate. 

Trattenni un singulto quando scorsi un corpo carbonizzato, con la testa fusa contro lo sterzo, dentro una berlina molto simile alla nostra.

«Saranno stati i militari…».

«Perché? Perché invece di aiutarci ci stanno uccidendo tutti?».

Avevo visto morire Carmen davanti ai miei occhi: lei non era infetta, stava bene; eppure quel marines l’aveva trivellata di colpi non curante del fatto che fosse una dannata persona.

Lo stomaco si strinse vertiginosamente. Prima o poi sarebbe toccato anche a noi, non saremo riusciti a nasconderci per sempre.

«Il centro medico?», domandai ad Ervin, sporgendomi fra i due sedili anteriori.

I suoi occhi vacillarono lungo l’altezza di un palazzo.

Un palazzo…ridotto ad un cumulo di macerie fumanti.

«Ce l’hai davanti…».

Volevo piangere, ma non ci riuscii.

«Merda!», tirai un pugno al sedile, «Merda. Merda!».

«Karina», la voce di Luis spazzò via la palla di rabbia dal mio stomaco, all’istante. Mi voltai verso il bagagliaio. Piegandomi sulle ginocchia, mi sporsi dai sedili posteriori guardando verso l’uomo sdraiato dentro di esso.

«Avete fatto il possibile. E’ già un miracolo che io sia uscito da quell’ufficio.», sorrise tristemente.

«Non è il possibile. C’è ancora qualcosa che possiamo fare!» Volevo salvarlo. Nessuno di noi doveva morire, non più.

Allungò le dita tremanti sulle mie agganciate alla sporgenza morbida dei sedili.

«Un osso sbriciolato non può guarire senza medicinali, senza essere operato. Ed anche se, per qualche strano motivo, dovesse guarire-», serrò per un istante la mascella per il dolore, «resterei comunque zoppo. Sarei d’intralcio.»

«D’intralcio?», mi balzarono in aria le sopracciglia per lo stupore, «Nessuna vita è d’intralcio!»

«Karina», Ervin spostò lo sguardo sullo specchietto retrovisore, «Luis ha ragione.»

Strinsi i denti. E i pugni…

«Allora, cosa dovremmo fare secondo te?!»

I nostri sguardi si incrociarono di colpo. Duri, furenti.

Ma quello di Ervin non era l’unico paio di occhi che avevo addosso. Anche Kael mi scrutava, girato verso i sedili posteriori.

Non disse nulla, ma capii che era d’accordo con suo padre.

Ad un tratto, una sensazione orrenda mi attraversò da parte a parte. Opprimente, dolorosa. Ammettere a me stessa come stavano le cose era più duro del previsto.

Con un labbro tremante, guardai oltre la mia fronte trattenendo un pugno di lacrime.

«Karina,»,Alisha si mosse sul sedile accanto a me: la sua voce dolce mi sfiorò una guancia, «non sempre possiamo aiutare gli altri. Non lo si poteva fare prima di tutto questo e non lo si può fare ora.»

Una piccola parte di me si diceva che Ervin e la sua famiglia avevano ragione. Non è possibile aiutare sempre gli altri, ed era vero in una situazione del genere.

Ma l’altra, quella più verace, più emotiva, più umana, gridava nella mia testa che non era così. Che ognuno di noi poteva essere la possibilità di sopravvivenza dell’altro. Non potevamo gettare la spugna, non così.

«Accosta.»

«Karina, per favore», la donna allungò una mano verso la mia. La ritrassi all’istante evitando il contatto e allontanai lo sguardo da lei.

«Accosta, ho detto.».

«Non farlo.», mi supplicò lei. Ma era inutile, l’avrei ignorata anche se mi avesse tirata per i capelli.

Come ci riuscivano? Come si sarebbero addormentati, consapevoli di aver deciso della sorte di qualcuno, in quel modo, senza batter ciglio?

Riflettendoci, lo avevano fatto anche con Collins.

Ervin fermò l’auto.

«Ervin! Vuoi veramente lasciarla andare? E’ pieno di quelle bestie lì fuori.», la voce di sua moglie trillò allarmata.

L’uomo ammonì lo sguardo, sottraendolo al riflesso dello specchietto retrovisore.

«Se non vuole restare, che vada.  Io non sono nessuno per costringerla a rimanere.».

«Non puoi permetterle di andarsene via così, papà!»

Scesi dall’auto interrompendo il flusso della loro voce solo quando decisi che, chiudermi lo sportello alle spalle, sarebbe stata l’idea migliore.

Feci il giro della vettura e pigiai il pulsante sullo sportellone anteriore, aprendo il portabagagli.

Gli occhi di Luis planarono su di me.

«Non ti arrendi proprio, eh?».

Accennai un sorriso privo d’espressività.

«Credi di poterti sollevare?» 

La pelle olivastra era pallida e madida di sudore. Potevo vederlo soffrire lontano un miglio.

«Posso provarci», facendo leva sulle braccia si portò a sedere.

Guardò la sua caviglia coperta dal pantalone e scosse lentamente il capo, avvilito «Non ce la farò, Karina. Non riuscirò a saltellare per la strada.»

Strinse i denti, quando una fitta di dolore gli raggiunse il petto risalendo da quel maledetto osso spezzato.

«Non ci hai ancora provato», dissi sedendomi accanto a lui sul bordo del bagagliaio.

Luis sospirò un sorriso.

«Avanti,», mi misi il suo braccio attorno alla nuca, «proviamoci.»

Quando si sollevò, il dolore gli fece emettere un suono dalla gola molto simile ad un guaito. «Calma, calma…Facciamo piano».

Ogni passo, per quanto fosse piccolo e breve, lo faceva soffrire terribilmente.

Mi chiesi se tutto ciò che stavo facendo non fosse un terribile errore. Trascinarlo verso le mie idee folli, ridotto in quello stato…Forse, ero solo una tremenda egoista.

«Non posso», bofonchiò a fatica, «il dolore è così forte che potrei avere un infarto da un momento all’altro.»

Mentre cercavo disperatamente di portarlo verso il centro del marciapiede, lì dove la luna illuminava ancora l’asfalto, incominciarono ad aggrovigliarsi nel mio petto sensazioni contrastanti.

Io stavo aiutando Luis, giusto? Lo stavo aiutando affinché non morisse come un cane, abbandonato in una berlina dal parabrezza distrutto. Allora, perché sentivo che quello che stavo facendo era sbagliato? Una parte di me continuava a ripetersi: “Non farlo. Torna in auto.” Avrei portato Luis lontano da quelle persone…per cosa? Per salvarlo? Per salvare il briciolo di umanità che credevo di avere?

Perché temevo di sprofondare esattamente come Ervin, piegandomi alla durezza degli eventi?

Mi voltai per un solo istante. Gli occhi di Ervin ci seguivano lungo la strada: freddi, impenetrabili. Voleva salvare la sua famiglia, avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di portarli in un posto sicuro, sani e salvi. Non era poi così diverso da ciò che stavo facendo io con Luis, solo che per riuscirci, a differenza mia, Ervin avrebbe dovuto sacrificare “il peso”.

«Devi», tirai su con il naso, «-provarci. Ti prego.». Le lacrime mi scorrevano lungo il viso pizzicando sulla pelle terribilmente.

Avevo la vista appannata, ciò nonostante, avrei continuato a camminare. Lo avrei portato da qualche parte e poi avrei cercato un modo per aiutarlo.

Avrei…

Ad un tratto, uno dei quattro sportelli si aprì e si richiuse in fretta.

«Karina, ripensaci.»

 Kael. Le braccia lente lungo i fianchi, lo sguardo avvilito.

«E’ inutile quello che stai facendo.»

«Sai cos’è inutile? Tentare di persuadermi. Se vuoi essermi veramente utile, vieni qui a darmi una mano.»

Kael si mosse: ma non per aiutarmi. Mi girò attorno e poi piantò i piedi sull’asfalto ad un palmo da me e Luis.

«Dove lo porterai, eh? Ti sei guardata in giro? C’è il nulla cosmico.», disse spalancando le braccia.

Ancora una volta, la vocetta più razionale dentro me diceva “ha ragione”.

«Che t’importa. Voi lo volete far morire in una cazzo di berlina!»

Provai ad avanzare ma il suo petto me lo impedì.

Rimbalzai un passo indietro sospirando. Cercai di trattenere la matassa di nervi che rischiava di esplodermi dentro nel peggiore dei modi.

Che ragione aveva per insistere?

Eravamo un peso, no? Luis lo era.

I nostri sguardi si incrociarono. Elettrici. 

«Ragazzi, non vorrei interrompervi ma…la mia dannata caviglia fa un male cane.», mormorò in preda agli spasmi Luis.

Spostai lo sguardo, da lui, nuovamente a Kael. «Sentito? Ora spostati.»

Il ragazzo serrò le labbra per un istante, poi mi rifilò un’occhiata tagliente. «Fa schifo la tua testardaggine.».

«Posso dire lo stesso della tua.», ribattei.

 Senza aggiungere altro, girò attorno a Luis e si portò il suo braccio libero attorno alla nuca.

Lo scrutai strabuzzando gli occhi. Che…diamine…stava facendo?

«Kael!», sua madre scese dall’auto di colpo. I suoi occhi lucidi avevano già previsto le intenzioni di suo figlio.

«Torna in macchina, Kael!», ordinò un attimo dopo suo padre sporgendosi dal finestrino.

Il ragazzo si voltò quanto possibile mentre avanzavamo lungo il marciapiede deserto in quel punto della strada. 

«Andate a casa, vi raggiungerò lì.»

A quel punto Ervin aprì di colpo la portiera e scese.

«Non azzardarti a fare un altro passo! Noi tre torneremo a casa insieme.»

Il ragazzo si irrigidì per un istante, poi ricacciò uno strano sorrisetto amareggiato, «Quando mi hai sbattuto in comunità, non dicevi lo stesso.»

Suo padre schiuse le labbra, poi, una nube e un pensiero doloroso gli oscurarono il viso. Rabbia. 

Risentimento.

Cosa gli era tornato alla memoria e perché potevo leggere tutte quelle emozioni sul suo volto?

«Alisha sali in macchina.»

Sua moglie gli rivolse un’occhiata incredula. 

«Fa come ti ho detto!».

 

                                                 ॥

«C’è qualcosa di omesso in tutto questo racconto. Perché suo padre non lo ha convinto a risalire? Insomma Kael era poco più che maggiorenne, e fuori il cielo pioveva sangue

Mel è più curiosa del solito. Non si limita solo a riprendermi con la telecamera, ma chiede, indaga. Non so se questo aspetto di lei mi snervi più dell’avere puntato quell’affare addosso.

«C’era qualcosa che Kael non aveva detto, né al suo precedente avvocato, né a me…»

 

                                                  ▶

 

Luis incominciava a diventare pesante. I nervi delle mie spalle, già rigidi per lo sforzo, cominciarono ad accavallarsi. Velocemente, si avviluppò dentro me tutto il peso di quel tragitto.

«Cazzo.»

Kael mi scrutò oltre il profilo dell’uomo.

«Che c’è?».

Scossi leggermente il capo, «Mi fa male la schiena.»

«Vuoi fermarti?». Onestamente, no. Non volevo fermarmi, volevo portare Sanchez al sicuro ma la mia schiena non era d’accordo.

«Solo un secondo.»

In lontananza potevo vedere ombre muoversi nel buio. Di tanto in tanto, sentivamo il fragore di ferraglia che veniva urtata e guaiti, lamenti. 

Non potevo vedere granché oltre ciò che non era illuminato dal bagliore latteo della luna, ma incominciavo a temere che quelle bestie fossero più vicine di quanto pensassimo.

«Concordo», respirò a fatica Luis.

Mirai ad una panchina, una delle poche non divelte dal cemento, e lo aiutammo a sedercisi sopra.

Quella caviglia era proprio un disastro. Più la scrutavo, più mi domandavo come facesse ancora il suo piede a stare attaccato al resto della gamba.

«Non ce la faremo a raggiungere il prossimo centro medico e la prima farmacia è ad un chilometro da qui.», constatò amaramente Kael sedendosi accanto all’uomo. Le dita allacciate tra loro, i gomiti sulle ginocchia.

Avevo sbagliato. Non avrei dovuto lasciarmi travolgere dalla rabbia. Ora, oltre a quella di Luis c’era in ballo anche la vita di Kael e la mia.

Scongiurai a me stessa di non piangere ancora. 

«E’ tutta colpa mia.».

Kael sollevò lo sguardo dal marciapiede a me «Non posso dirti che non è così», mormorò piatto, «ma non posso nemmeno dire che è solo colpa tua. Se mio padre non avesse gettato la spugna subito, ora, non ci troveremmo per strada immersi nel buio.»

«Lasciatemi qui», Ci interruppe Sanchez sospirando a fatica, «Ve l’ho già detto, avete fatto il possibile e poi…Sognavo di morire sotto un cielo stellato come questo.» Alzò lo sguardo oltre i lunghi palazzi mastodontici di Manassas, lì dove le stelle rilucevano come non le avevo mai viste prima.

«No.», frenai il fremito dei nervi . «Sono certa che un giorno accadrà, ma quel giorno non è oggi.»

Stavo guardando qualcosa nel buio, forse pensando a come tirarci fuori da quella situazione -decisamente di merda- quando l’interno di un locale si illuminò di colpo, per un istante.

«Lo avete visto?».

Kael e Luis guardarono nella mia stessa direzione.

A qualche metro da noi, sul lato opposto della strada, una serranda abbassata proteggeva quello che ad occhio e croce mi era sembrato essere un pub.

«La luce.»

Kael storse un labbro «Di quale luce parli?».

«Nemmeno io vedo nulla.»

Di nuovo, il bagliore giallo spezzò il buio sulla strada.

«Merda», Kael schizzò in piedi, «c’è una luce, sul serio!».

Raggiunsi velocemente la panchina e mi chinai verso la spalla di Luis. Kael mimò i miei gesti un attimo dopo.

«Forse c’è qualcuno che sta tentando di avviare i generatori di emergenza.»

Era l’ultima spiaggia. Se dentro quel pub ci fossero state quelle belve, probabilmente, ci saremmo trovati costretti a lasciarci morire o avremmo dovuto sacrificare Luis per salvarci.

Nessuna delle due ipotesi era valutabile dal mio canto.

Ci volle un po’ per attraversare la strada ma, dopo svariate soste, finalmente, raggiungemmo il locale.

«Aprite!», Kael colpì la serranda facendola tremare rumorosamente.

All’interno, dietro la barricata di sedie e tavoli, scorsi un uomo ed una donna.

Lei mosse una mano nella nostra direzione e dall’espressione che aveva mentre si rivolgeva a lui, forse, lo stava obbligando ad aprirci.

Lui, d’altro canto, non sembrava per niente convinto.

Non potevo sentirli, ma il battibecco sembrava acceso. 

«Oh, andiamo! Stronzi.», Kael afferrò uno spazio metallico sulla serranda scuotendola ancora.

«Kael. Kael!», guardai oltre il limite del muro, lungo la strada. Ombre si muovevano in lontananza e ringhi gutturali si avvicinavano pericolosamente.

«Stai facendo troppo rumore.».

Il ragazzo digrignò i denti incrociando lo sguardo dei due barricati all’interno del locale. Per un istante, temetti che potesse fare qualcosa di stupido. Invece, prima che potesse accadere qualsiasi altra cosa, la donna avanzò verso di noi a passo di marcia. Afferrò un paio di sedie e le rivoltò poggiandole a terra con cautela. Allontanò dalla porta un lungo tavolo dalla superficie di legno scuro ed intrisa d’olio, e allungò un braccio verso un pulsante sulla parete.

La serranda cominciò a sollevarsi davanti ai nostri occhi

 

«Grazie! Grazie, per averci aiutati.», dissi entrando.

Gli occhi dell’uomo giovane, di colore, in piedi davanti a noi, schizzarono dal viso di Luis al cielo. «Perfetto, è pure ferito!»

«Tu smettere di fare storie!», lo ammonì, con un marcato accento straniero, la ragazza dai capelli biondo cenere mentre si apprestava ad abbassare nuovamente la saracinesca.

L’uomo sospirò snervato dirigendosi verso il bancone, in ceramica panna, del locale «Be’ accomodatevi-», disse; il tono della voce intriso di sarcasmo. Indicò qualcosa sul pavimento dietro la fila di poltroncine dal rivestimento di velluto verde, «Loro sono Mitcha… Ron e quella-», il suo indice si spostò di qualche centimetro sul pavimento a scacchi panna e verdi, «E’ la signora Dorothy.»

Quando avanzai, i miei occhi planarono su l'orribile immagine di tre corpi riversi in tre grandi pozze di sangue, il cui cranio era stato ridotto a pezzi.

Trattenni un conato.

«Lui fare simpatico, ma non esserlo.» La ragazza, dall’aria risoluta, avanzò verso di noi. «Mio nome è Svetlana, lui è Raphael.»

Quello che si chiamava Raphael fece una smorfia, poi afferrò una bottiglia fra la moltitudine che aveva sugli scaffali alle spalle e versò un sorso in un bicchiere. «Sapete perché non mi piace avere ospiti feriti? Perché anche loro lo erano. Poi sono diventati…», arricciò un labbro come se qualcosa gli avesse rivoltato lo stomaco, «come quei cosi lì.»

Guardai i corpi. Li avevano uccisi loro?

A quel punto della giornata, dopo aver visto innumerevoli persone morire - fra cui Joseph da molto vicino - non sapevo se l’aver tolto la vita a quelle tre persone fosse stata una cosa sbagliata.

«Quindi, se muori diventi come loro?», girai attorno ad uno dei corpi: quello che Raphael aveva chiamato Mitcha.

Le pupille dilatate, la bocca spalancata come quella di un cane e il cervello che gli usciva da una profonda ferita sul cranio.

«Esatto», portò il bicchiere alle labbra e sorseggiò del Bourbon.

«Chi li ha uccisi?», domandò Kael, una volta che, con l’aiuto della ragazza, ebbe sistemato Luis su uno dei divanetti.

«Oh be’, si da il caso che la signorina qui presente», indicò la ragazza dagli occhi ghiaccio muovendo una mano e ammiccando un sorrisetto «è una killer professionista.»

Quella che aveva detto di chiamarsi Svetlana corrucciò la fronte «Se non avessi salvato tuo culo nero, tu a quest’ora finire come loro.», si accomodò su uno sgabello dalla seduta tonda e afferrò la bottiglia dalle sue mani rifilandogli un’occhiataccia torva. Tracannò un paio di sorsi e continuò a  scrutarlo, con la coda dell’occhio, dritto in faccia.

«Ok, devo ammettere che il tuo aiuto è stato provvidenziale», rispose lui allentandosi il colletto della camicia come se il caldo lo stesse asfissiando.

Guardai Kael e lui guardò me. Potevamo fidarci di quei due?

Quella ragazza aveva fatto fuori tre persone fra cui un’anziana donna…

La sua canottiera petrolio era ancora macchiata di sangue esattamente come i suoi jeans. Sotto le unghie lunghe e naturali potevo vedere piccole lunette di sangue raggruppato: si era sicuramente lavata le mani, ma quel dannato sangue era ancora lì, segno che ciò che ci avevano detto corrispondeva alla verità. 

Deglutii.

«Non ci fermeremo a lungo», dissi, allacciando le braccia sotto il petto «Vogliamo solo trovare qualche antibiotico per il nostro amico.»

Svetlana e Raphael si guardarono un istante. 

«Qui non ci sono antibiotici», proferì solerte lui, «Al massimo Bourbon scadente e birra che sa di urina di gatto.»

Le spalle della ragazza tremolarono. Stava ridendo?

«Be’…», mi schiarii la voce «Allora domani stesso, andremo via.»

Svetlana girò sullo sgabello e raggiunse con lo sguardo la sagoma di Luis a qualche metro dall’ingresso.

Lo indicò con l’indice della mano che stringeva la bottiglia di liquore e disse: «Lui non muovere, gamba messa troppo male.». Poi spostò lo sguardo su Kael e sulla T-shirt insanguinata «Anche lui messo male.»

Il ragazzo fece uno scatto impercettibile scuotendosi le mani davanti «Oh, nono. E’ solo un taglio superficiale.»

Gli occhi chiari di lei indugiarono per un momento sulla macchia.

Si lasciò scivolare dallo sgabello e raggiunse placida il ragazzo.

«Fa vedere me.»

Quando provò a sollevare la maglietta, Kael le spostò la mano di riflesso.

La fronte di lei si aggrottò vistosamente «Cosa nascondere?». Il tono della sua voce suonava minaccioso.

Temetti che potesse fargli qualcosa, così mi infilai fra loro.

«Dice la verità. Siamo scappati dallo studio legale dove presto-prestavo servizio e qualcuno lo ha ferito con un cutter.»

Gli occhi di lei si fecero affilati come lame.

 «Spero che tu dire verità.», sibilò, facendomi salire un brivido lungo la spina dorsale.

«Quindi sono due i feriti, anziché uno. Di bene in meglio!», commentò, di punto in banco e in maniera sarcastica, l’uomo in abito elegante dall’altra parte del bancone. Sollevò il bicchierino e scolò l’ultimo sorso alcolico tutto d’un fiato.

«Se qualcuno si trasformerà, come presumo accada, sappiate che non mi farò scrupoli a far esplodere le sue cervella.»

«Nessuno rischia di trasformarsi.», lo rimbeccai.

«Lui si.», l’indice di Raphael disegnò un cerchio immaginario attorno a Luis.

«No, se troviamo le medicine.»

Svetlana raggiunse Luis. Gli sollevò il tessuto del pantalone dalla caviglia e dovette trattenersi dal non sbottare in una risata cacofonica.

«Cos’hai da ridere?», la fulminò Kael.

Lei incurvò le labbra all’insù, «Mai vista gamba del genere, sembra uscita da frullatore. Tuo amico presto morirà. Oppure…».

Si risollevò raddrizzando la schiena e raggiunse una porta a soffietto sparendoci dietro.

«Oppure?» 

Quando tornò verso di noi stringeva fra le dita d'una mano un grosso coltello da carne, «Oppure, noi tagliare piede.». Il sorrisetto soddisfatto che aveva stampato in viso era agghiacciante.

«Cosa!?», spalancai gli occhi.

«Oh si, prevenire cancrena», annuì lei. L’espressione quasi ingenua.

«Non si operano così le persone!», protestai. Era assurdo. Lei era assurda!

Storse un labbro, annoiata «Cosa propone tua testolina di ragazzina?»

Non ero affatto una ragazzina e lei non era nemmeno troppo più grande di me.

Mi offesi.

Per un momento ci scambiammo uno sguardo inceneritore fino a che «Karina.», Kael non poggiò una mano sulla mia spalla invitandomi ad allontanarci di qualche passo. 

«Non ha tutti i torti. Certo, probabilmente, morirà lo stesso ma dobbiamo provare.», bisbigliò scrutando la ragazza con la coda dell’occhio.

«Oh, certo! E chi dovrebbe farlo, sentiamo?». Credevo di aver parlato abbastanza a bassa voce da non essermi fatta sentire, quando, una terza bocca intervenne nel discorso.

«Per questo non c’è problema. Alla Russa piace particolarmente infliggere dolore», Il commento dell’uomo di colore non piacque affatto alla ragazza.

Gli occhi di lei, infatti,  planarono su di lui come saette e un vistoso cipiglio si impadronì della sua espressione «Dopo staccato suo piede», indicò la caviglia di Luis, «stacco tue palle.» e poi qualcosa in basso dietro il bancone.

Raphael arricciò le labbra «Dalle tue parti l'umorismo è un optional, eh?».

Era chiaro che quei due si erano ritrovati insieme per caso e che non andassero affatto d’accordo, ma io non volevo finire in mezzo alle loro diatribe e non avrei permesso nemmeno a Kael o a Luis di finirci.

«Dateci un taglio voi due.», mi chinai verso la caviglia dell’avvocato, «Se devi tagliarla, fallo adesso che ha perso i sensi.»

Poggiai le mani a qualche centimetro dall’osso sporgente.

Svetlana annuì e velocemente sollevò la lama del coltellaccio da carne. Poi… «Aspetta!», gridai.

Le braccia della ragazza rimasero sospese a mezz’aria. Lo sguardo confuso.

«Lo hai mai fatto prima?», il sudore mi zampillò sulla schiena.

La vidi storcere un labbro e picchiettarsi il mento con l’indice e quando rispose «No. Mai.» con una discreta ovvietà nel timbro della voce, mi sentii morire.

«Ah. Perfetto.», deglutii a fatica tornando a guardare la caviglia sanguinolenta. Incominciavo già a vedermi senza un paio di dita, magari senza la mano intera.

«Tu pronta?».

Oh, ma certo…Prontissima!

Serrai le palpebre. «Vai.».

«A mio tre», fece una breve pausa che mi serrò il respiro nei polmoni, «Tre!».

Il rumore di pelle lacerata misto al grido disperato di Luis che, era rinvenuto di colpo, mi alzarono lo stomaco. «Cristo!» Aprì di colpo le palpebre per accertarmi che le mie dita fossero tutte al loro posto. C’erano.

«Avevi detto al tre!», le feci notare decisamente poco amichevolmente.

Le fece spallucce «Io detto tre.».

Sentii Raphael ridacchiarmi alle spalle, «Ve l’ho detto è una killer professionista.»


 

Mi portai le mani fra i capelli ricadendo a sedere sul pavimento.

Dovevo avere decisamente l’espressione da pazza.

Il piede di Luis era appoggiato sul divanetto e una pozza rossa lo circondava macchiando il velluto.

«Quella,»Raphael allungò un dito verso la gamba di Luis, «andrebbe cauterizzata.»

«Questo lo so anche io», ringhiai.

Con cosa diavolo potevamo cauterizzare una dannata caviglia priva del suo piede?

«In cucina di pub ci sono griglie da Hamburger.» Svetlana si accomodò a sedere accanto alla testa di Luis tirando fuori dalla tasca un pacchetto di sigarette con l’annesso accendino. Una volta estratta una stecchetta di tabacco dall’involucro, l’arse.

Mi feci scivolare i palmi delle mani sugli occhi mimando un’espressione disperata. Come potevamo fare ciò che medici avevano studiato per anni, con una griglia per Hamburger?

«Svegliatemi se questo è un sogno», piagnucolai sollevandomi da terra.

Svetlana accennò un sorriso trofio di sarcasmo, «Se questo è sogno, io sarei a Maldive con mucchio di soldi a bere su riva di mare.», scosse la testa lentamente, «Invece sono qui a tagliare piede di tuo amico, perciò questo non è sogno.»

Poi, tirò una lunga boccata di fumo e si avviò nuovamente verso la porta a soffietto, «Griglia è di qua.», tirò indietro l’anta che si richiuse come un ventaglio e ci fece cenno con il mento di portarlo dentro.

Luis perdeva e riacquistava i sensi ad intermittenza. Speravo con tutto il cuore che, l’indomani, non avrebbe ricordato nulla.

«Dammi una mano, Kael.»

Il ragazzo mi aiutò a portare nel cucinino l’avvocato.

Svetlana si affilò dietro noi tre, un attimo dopo, raggiungendo un armadietto accanto alle tre griglie per Hamburger. «Questa cassetta di pronto soccorso», mormorò sfilando il piccolo contenitore verde con la croce bianca stampata sopra. «C’è alcool per pulire piastra e garza per coprire ferita.»

Mi consolò constatare che, per lo meno, non sarebbe andata in setticemia la gamba.

Svetlana sfilò la bottiglietta del disinfettante e staccò un pezzo di carta dal rotolo accanto al frigorifero. Pulì la piastra e poi allungò una mano verso la manopola, accendendola.

«E’ merito di generatore d’emergenza», disse, guardando la piastra arroventarsi, «tutto quartiere senza luce.»

«Lo abbiamo notato appena arrivati.»

La ragazza si piegò verso la caviglia sanguinolenta di Luis e gli tirò su la gamba.

«Tenete dritto». Afferrò con due mani la caviglia e la pigiò contro la piastra. Luis rinvenne solo per gridare un’altra volta.

 

Quella non era una puntata di E.R Medici in prima linea, ma avevamo comunque “operato” e curato una persona.

Stentavo a crederci.

«E’ fatta?...», chiusi e aprii le palpebre un paio di volte incredula.

Svetlana sorrise mimando un sì.

Poco dopo, riportammo Luis nella sala principale.

Dopo averlo adagiato su un divanetto, Svetlana gli applicò una garza imbevuta di alcool e qualche altro intruglio trovato nella cassetta del pronto soccorso, poi, lo coprì con un soprabito che probabilmente qualcuno, fuggendo, aveva lasciato all’interno del locale.

Raphael si sporse oltre le mie spalle come un’ombra inquietante «Gli avete, veramente, cauterizzato un moncone con la piastra da hamburger?!». Quando lo guardai, stava sorridendo stupefatto.

«E’ merito di Svetlana», commentò Kael, appoggiato alla parete accanto alla porta barricata.

«Se vuoi, io curare anche ferita da cutter.», disse lei risollevandosi dalla seduta del divanetto.

Kael rabbrividì, e un leggero palmo d’imbarazzo gli scivolò sul viso «No, grazie. Sono a posto.»

 

Passai un paio di ore in solitaria. Luis dormiva e gli altri sembravano aver “fatto amicizia”.

Ad un tratto mi ritrovai a fissare i neon a forma di coniglietta da rivista +18 sparpagliati sulle pareti.

Fino a quella mattina, dentro quel locale c’era vita, c’erano persone. Immaginai di essere tornata indietro di qualche ora. Ero lì dentro, a bere del caffè. Ero un uomo, una donna, un bambino. Stavo leggendo un giornale, giocando alle slot, ci provavo con una cameriera.

Ero una persona e poi sono diventata un mostro.

La voce di Raphael spazzò via quel pensiero.

«Be’ che ne dite di mangiare qualcosa?», propose schioccando le mani.

Come faceva a pensare al cibo, quando c’erano tre corpi privi di vita sul pavimento e un uomo senza un piede sul divanetto di fronte a lui?

«Per me andare bene.», rispose Svetlana stiracchiandosi le braccia oltre la testa.

«Anche io ho fame». 

Guardai Kael attonita.

«Dio! Come diavolo riuscite a pensare al cibo? Ci sono dei corpi privi di vita qui!».

Gli occhi di tutti e tre planarono su di me, confusi.

Ero io quella stramba?

Sulle labbra di Svetlana si marcò un sorriso più delicato di quelli che le avevo visto fare fino a quel momento. «Ragazzina, se non avere fame, tu non mangiare. Qual è problema?», proferì con ovvietà, spalancando i palmi delle mani.

Assottigliai le palpebre. Non volevo ringhiarle contro, ma era inevitabile «Non si tratta del cibo. Si tratta del fatto che ci sono tre cadaveri!» 

Fu assurdo, in quella circostanza, cercare negli occhi di Kael un appoggio che non trovai.

Raphael si passò l’indice sotto il naso sospirando, fece un passo accanto a me e sporgendosi verso il lobo del mio orecchio, disse:«Vedi, ragazzina, loro non erano più umani. Noi-Svetlana non ha ucciso delle persone-» Stentavo a credere che dicesse sul serio. Ma si ascoltava? «-ha ucciso degli esseri che avevano già soppresso quelle persone.» Fece una breve pausa dandomi una leggera pacca sulla spalla «Fattene una ragione. Non è saltando un pasto che potrai farli tornare in vita.», poi mi superò.

Rabbrividii. La freddezza di quelle persone aveva un non so che di raggelante. Persino Kael incominciava a farmi paura.

                                    

 

Restai a sedere accanto a Luis mentre sentivo i tre chiacchierare, dall’interno del cucinino, vivacemente.

In quel momento, mi sembrò di essere fuori posto. Possibile che fossi l’unica sensibile alla vista di corpi con il cranio sfondato? Quelle persone avevano una famiglia, magari figli o mogli o nipoti nel caso della signora anziana.

Scrutai a lungo quei corpi, rimuginando proprio su come potesse essere stata la loro vita prima di diventare mostri.

Magari la signora Dorothy aveva dei nipoti.

«Due nipoti», fantasticai ad alta voce.

E questi due nipoti, forse, la stavano cercando.

Mi sollevai raggiungendo il suo corpo.

Il cardigan rosa, lungo fino a metà della gonna a pieghe, era macchiato di sangue in più punti. I capelli bianchi, diafani come la sua pelle rugosa, erano macchiati copiosamente di rosso. Sangue raggrumato le si era raggruppato attorno al profondo foro sulla fronte. Le usciva un pezzetto di cervello da lì.

Non avevo mai visto un cadavere -ridotto in quello stato- da così vicino. Certo, con Joseph era quasi successo, ma non così. Non…toccandolo.

Provai a girare il corpo. I muscoli sembravano essersi fatti di cemento. Quella donna minuta poteva pesare cento chili adesso.

Afferrai con entrambe le mani il suo busto e facendo leva con le gambe e rivoltai il corpo a pancia in sù. La sua camicia ormai impregnata di sangue si scollò rumorosamente dal pavimento. C’era la sua borsa sotto di lei. Come c’era finita?

Ipotizzai come poteva essere andata la colluttazione fra lei e Svetlana. Magari l’aveva agganciata ad un braccio quando era scoppiata la colluttazione.

Raccolsi la borsa e sfilai il suo portafogli.

«Che stai facendo?», la voce roca di Kael mi arrivò alle spalle. Sussultai.

«Volevo solo sapere il suo vero nome», risposi sfilando la carta d’identità da una delle fessure all’interno del borsellino.

Kael si accucciò sulle ginocchia accanto a me «E perché?»

Feci spallucce «Magari qualcuno la sta cercando.»

Lessi il nome sul piccolo ritaglio di plastica. 

«Gaeta Cooks»

Kael sospirò, «Non l’avrebbero lasciata sola se avessero tenuto veramente a lei.»

Lo scrutai sottecchi. No, non era così. Magari era successo tutto troppo in fretta, proprio come al centro di Las Vegas.

«Forse non hanno avuto tempo.»

Fece una smorfia sollevandosi.

Abbandonai la borsa e mi tirai sù.

«Dici così perché tuo padre ha lasciato che tu mi seguissi senza far niente?»

Kael mi dava le spalle: lo vidi irrigidire i muscoli della schiena sotto la sua T-shirt.

Si fermò sul posto ma non rispose.

«E’ così?», incalzai.

Scosse la testa e riprese a camminare.

Accanto al bancone c’era un’altra porta. Bianca, con un oblò al centro e un grande “Solo per il personale”  scritto caratteri cubitali sotto il bordo di vetro circolare.

Era lì che si stava dirigendo. Mi affilai dietro di lui.

«Dove stai andando?».

Lo sentii sospirare ancora, questa volta più marcatamente.

«A vedere cosa c’è qui sopra.»

La gradinata che si presentava davanti a noi era appena illuminata da un piccolo neon bianco e conduceva ad un piano rialzato.

«Vengo anche io».

«Non ho bisogno della scorta.», preferì settico.

«Non salgo per farti da scorta, ma per vedere cosa c’è di utile qui su.»

Lo superai sulle scale, impettita.

Il piano superiore era ampio. Non c’era molto all’infuori di un ascensore fuori uso e una porta di legno. Una pila di giornali era accantonata al muro a fianco alla porta e una pianta, sull’altro lato, stava avvizzendo.

«C’erano delle chiavi dentro un cassetto in cucina», disse Kael ispezionando la porta con lo sguardo.

«Dici che apriranno questa porta?»

«Forse», rispose con un’alzata di spalle.

Restammo un momento in silenzio.

Silenzio che compresi in fretta: «Ho capito, vado a prenderle...». 

Kael accennò un sorrisetto.

Pochi attimi dopo, riuscii a risalire con il paio di chiavi. Ero persino riuscita a non farmi notare da Svetlana e Raphael che nel frattempo avevano deciso di fare a gara, scommettendo qualcosa, su chi riuscisse a scolarsi più Bourbon dell’altro.

«Ecco le tue chiavi», gliele allungai davanti al naso, ma un attimo prima che le potesse afferrare le ritrassi, «Ah-Ah. Te le darò solo se rispondi alla mia domanda.»

Kael mi guardò confuso: «Domanda?...»

«Riguardo tuo padre.»

Alzò gli occhi al cielo il po’ che bastò per farmi avvertire il suo fastidio.

«Perché t’importa così tanto?»

Curvai l’angolo della bocca «Non lo so. Ma so che voglio saperlo.»

Kael si lasciò sfuggire un’espressione piatta e carica di nervi.

«Riguarda una cosa che è successa molto tempo fa, per colpa mia.» Ad un tratto, il suo sguardo era planato mille miglia da me e vagava per lo spazio fra ascensore, pianta avvizzita e porta.

«Di cosa si tratta?».

In quel momento su di noi era piombata un’aria pesantissima.

Sentivo che Kael stava per ricacciare una parte dolorosa del suo passato, glielo potevo leggere in faccia. 

Ad un certo punto ebbi voglia di ritrattare: non volevo più sapere; perché sapendo avrei rischiato di scoprire qualcosa di doloroso. 

«Senti, non ne voglio parlare», disse passandosi una mano fra i capelli, «E’ una cosa mia e tu non sei nessuno per obbligarmi a dover parlare.». Tremò. Impercettibilmente, quasi come se l'avessi solo immaginato.

«Forse è proprio perché non sono nessuno che puoi dirmela. Non sarei nessuno nemmeno per giudicarti.», sorrisi debolmente.

I suoi occhi fecero un piccolo scatto e qualcosa gli balenò nelle iridi scure.

Restai in attesa. Attesa, di qualsiasi risposta.

Non volevo obbligarlo, neanche se fossi morta per la curiosità, l’avrei fatto.

«E’ successo un paio di anni fa.», ammise deviando lo sguardo, «Dovevo andare ad una festa con Janie. Io e lei e basta.» Qualcosa nella sua voce, nel suo sguardo ombreggiato dalle ciglia, mi stava avvertendo già da un po’ che quel racconto avrebbe preso una piega tragica. «Ma mia sorella Sophie ha insistito per venire con noi. Io glielo avevo detto che non era sicuro, che io e Janie non eravamo gli accompagnatori ideali. Però lei ha insistito». Appoggiò la schiena alla porta «Così siamo andati a quella dannata festa tutti e tre.» fece una piccola pausa, sospirò e proseguì «Mentre lei era in giro per il locale, Janie ed io decidemmo di mandar giù qualcosa.»

«Droghe?»

Annuì.

«Più di qualcosa per la verità. Sai, non ricordo molto di quel momento, avevo la mente annebbiata, confusa. Ad un certo punto, ci vennero persino le allucinazioni. Non riuscivamo a riprenderci e non ritrovavo mia sorella. Così, nonostante il mio stato, la cercai per il locale.» Lo sguardo gli si inclinò maggiormente sotto quel ricordo «Quando la trovai era brilla, allegra. Non stava male. Ricordo però che mi disse di voler tornare a casa, che le girava la testa.» A quel punto, notai la sua espressione farsi più marcata, «Le ho detto di sì, che l’avremmo riportata.», fino a diventare disperata «Lei non aveva la patente, così mi misi alla guida io. Sapevo di non doverlo fare, che era uno sbaglio…» Deglutì un pugno di lacrime. Si rifiutava con tutto se stesso di piangere.

«A metà tragitto, non vidi un’auto tagliarmi la strada. Finimmo fuori corsia, contro una pianta. Vidi un fascio bianco di luce e nient’altro, c’era solo il frastuono del clacson a spezzare il silenzio.»

Feci un passo avanti verso di lui. Avevo voglia di abbracciarlo. Forse, la me interiore lo avrebbe incolpato successivamente, ma, per il momento, era solo un ragazzo che stava piangendo la morte di sua sorella.

«Quando ho ripreso i sensi, Janie mi stava scuotendo per una spalla. Continuava a ripetere che Sophie era morta, che dovevamo andarcene e che aveva chiamato i soccorsi.»

Gli tremò un labbro «Non me ne sono andato, te lo giuro. Non l’ho lasciata sola.» 

Mossa da un istinto che conoscevo molto bene, mi allungai verso di lui.

Non sapevo esattamente cosa stavo facendo, ma sentivo l’irrefrenabile bisogno di consolarlo e stringerlo a me. Forse, perché, quando ne avevo avuto bisogno io, non c’era stato nessuno per me.

Kael trattenne il respiro per un istante.

«Mi dispiace per quello che ti è successo», mormorai con un filo di voce.

Nel momento in cui avvertii le sue mani scivolare sulle mie scapole, capii che aveva appena deciso di potersi fidare di me. Non era più solo. 

«Merda», disse separandosi da me e passandosi il dorso della mano sotto l'occhio destro «Serviva Karina Stang per farmi finire quasi in lacrime.»

Risi.

«Be’ se può consolarti, non volevo farti mettere a piangere.»

Ammonì un sorriso seppur il suo viso sembrava rasserenato «Ti ringrazio per avermi fatto sfogare.» Lasciò cadere le braccia lungo i fianchi «Era da molto tempo che non lo facevo.»

«Qualche volta è fondamentale parlare.», ammisi.

Aprii il pugno e gli mostrai le chiavi.

«Ad ogni modo…Un patto è un patto. Ecco le tue chiavi.».

Le labbra di Kael si incurvarono all’insù per un istante.

«Entriamo?»

Annuii.

 

L’interno, di quello che sembrava un appartamento sul pub, era buio.

Le lampadine sembravano fulminate, esclusa quella di una piccola abat-jour appoggiata su un tavolino circolare di legno, accanto ad un divanetto.

C’era un fetore rivoltante, l’aria era irrespirabile.

«Mio Dio, cos’è questa puzza?».

Mi portai l’avambraccio sulla bocca.

Anche Kael si coprì il viso, infilando metà faccia nello scollo della T-shirt.

«Diamo un’occhiata.»

C’era un gran caos all’interno. Piatti rovesciati, libri sparsi. Attaccati sulle finestre, con dello scotch, fogli di quotidiani e giornali della zona.

Possibile che il proprietario di quell’appartamento avesse tentato di estromettersi al mondo? Perché io avevo esattamente quella sensazione.

«Che diavolo è successo qui dentro?», inciampai su della cianfrusaglia sparsa a terra.

Kael svoltò l’angolo e attraversò una piccola cucina a vista.

La catasta di piatti sporchi mi fece contare almeno sei pasti fra pranzi e cene: c’era muffa al posto dei residui di cibo e qualcosa si muoveva all’interno del lavandino. Lo scrutai con diffidenza. Sicuramente si trattava di topi.

Un improvviso disagio mi gocciolò lungo la schiena.

«Kael, forse dovremmo tornare di sotto.». proferii sporgendomi verso l’orlo dell’ultimo bancone, senza mai distogliere lo sguardo dal mucchio di stoviglie tremolanti all’interno del lavabo.

All’improvviso, qualcosa di peloso e nero si lanciò dal ripiano della cucina contro di me. Gridai combattendo fuorisamente.

Piccole zampette si incastrarono fra i miei capelli. Un secondo prima di morire d’infarto, mi strappai il topo dai capelli e lo gettai da qualche parte sul pavimento. L’orrida bestiaccia squittì mentre rimbalzava sul pavimento, e si infilò sotto il materasso all’ingresso come un razzo.

«Karina, tutto bene?». Quando mi voltai, Kael era apparso accanto alla parete della cucina.

Socchiusi le palpebre e pigiai le labbra l’una contro l’altra sforzandomi, un attimo dopo, di spiegare che avevo gridato come una pazza per colpa di un dannato topo.

Ridacchiò, ma durò poco.

«Devi venire di là, credo di aver capito da dove arriva il tanfo.»

Accanto alla fila di banconi, nella rinsacca del muro, una porta dava ad un bagno. Al seguito del ragazzo, avanzai verso essa. Kael aveva ragione: più ci avvicinavamo alla porta, più il tanfo si faceva forte. Un odore pungente di ammoniaca, sangue e morte ci stava facendo lacrimare gli occhi. Era insopportabile.

Il ragazzo allungò una mano verso la porta spostando l’anta. Si affacciò e… «Oh Cristo!». 

Un attimo dopo, lo vidi balzare indietro disgustato.

«Che c’è?».

Raggiunsi in fretta il bagno piombandoci dentro.

Solo allora capii perché Kael aveva avuto quella reazione.

C’era un uomo. Ed era morto.

Spalancai le palpebre ammorbata dall’immagine di quel corpo rannicchiato con la fronte contro la base del WC.

Le sue iridi erano gialle, smorte. La pelle grigia, avvizzita. Dalla bocca spalancata usciva un liquido giallastro che emanava un tanfo tremendo.

La terra mi tremò da sotto i piedi, ma l’istinto mi fece reagire.

C’erano mille motivi per cui non avrei dovuto avvicinarmi a quel corpo, ovviamente, li ignorai tutti.

«Mio Dio, l’aria qui è irrespirabile.» Avanzando, divenne difficile persino parlare senza che la gola bruciasse come se avessi deciso di tracannare un drink a base di acido.

Kael restò accanto alla porta. Gli occhi rivolti al corpo che, entrambi speravamo restasse esanime.

«Fa attenzione Karina.»

Cautamente avanzai lungo il mosaico di mattonelle azzurre, celesti e blu.

Quel liquido rivoltante era ovunque, come se l’uomo, prima di morire, lo avesse vomitato sulle pareti, sulla tavoletta del WC.

Feci una smorfia e serrai i denti temendo di poter rigettare qualsiasi cosa avessi nello stomaco anche io.

«Karina, che vuoi fare?», Kael strabuzzò gli occhi quando mi piegai verso il corpo.

Non ero interessata tanto al cadavere, in quel momento, quanto all'oggetto che aveva accanto alla gamba.

«C’è una siringa»lo informai, sfiorandola con la punta della scarpa.

Era una siringa certo, ma non ne avevo mai vista una fatta in quel modo.

Era di alluminio, grigia, con un grande disegno che le si avviluppava circolarmente sopra e la parola “Biohazard” scritta per esteso.

Qualsiasi liquido contenesse non c’era più.

Guardai il corpo dell’uomo.

«Che sia questa la causa della morte?», domandai più a me che a Kael.

Il ragazzo si convinse ad avanzare. Quando fu ad un passo dalle mie spalle, si sporse oltre la mia testa.

«Non credo, guarda la sua maglietta.» Indicò un punto sul torace piegato dell’uomo. C’era del sangue come se gli avessero sparato o dato semplicemente una coltellata. Che fosse la lama di un coltello o un proiettile, comunque, non gli aveva trapassato la schiena.

«Quindi lo hanno ucciso?»

 «Non lo so. Magari lo hanno accoltellato dopo che si è sparato in vena quella roba...»

Guardai la siringa e il simbolo marchiato sopra «Non credo che quella roba si venda in farmacia.»

«Già», rispose con ovvietà Kael.

Poteva trattarsi di qualunque cosa, ma qualcosa mi diceva che quell’uomo era morto prima della coltellata e a causa del liquido contenuto in quella siringa.

«Pensi che dovremmo portarla con noi?»

Sollevai lo sguardo confuso, oltre la mia fronte, cercando il viso di Kael, «Per poi?...Darla ai militari che hanno trivellato di colpi Carmen?»

Scrutai la sua espressione. La realtà dei fatti disturbava parecchio. Nessuno ci avrebbe aiutati, e portare con noi quella siringa, forse, ci avrebbe appiccicato un tiro al bersaglio dietro le spalle.

 

                                                    

 

«Siringhe di alluminio?», Gli occhi di Mel si spalancano di colpo.

Sedute attorno al falò provvisorio, mentre mangiamo fagioli e le parlo di quella scoperta, l’espressione sul suo viso sembra attonita.

«Si, non ti è mai capitato di trovarne alcune accanto a dei cadaveri?», le chiedo mentre lotto per tenere stretto fra le ginocchia il barattolo mentre con le mani legate stringo il cucchiaio.

Le sopracciglia di Mel fanno uno scatto impercettibile verso l’alto «No, mai. Tu ne hai viste altre?»

Ci penso per un istante. Dovrei dirle la verità? Mentire mi terrebbe al sicuro? Perché la sua espressione e la sua stessa voce sono cambiate così? Sembra allarmata.

Schiudo le labbra. Qualsiasi cosa le dica ora, se decidessi di fidarmi, potrebbe farmi ritrovare in un mare di guai. Ho questo presentimento e di solito non sbaglio mai.

«No», dico scuotendo il capo, «Solo quella volta.»

Mel sembra delusa. No, forse consolata.

Affloscia le spalle e sospira.

La scruto sottecchi lanciando, di tanto in tanto, lo sguardo all’interno del barattolo, «Mi stai dicendo la verità, Mel?»

I suoi occhi scattano verso il mio viso. Ha deglutito.

«Certo, perché dovrei mentirti? Siamo sulla stessa barca, ricordi? Il mondo è finito e noi sopravviviamo a mala pena.», abbozza un sorriso tirato.

Non le credo. Affatto.

 

                                                ▶

 

«Hai visto se i suoi documenti sono all’ingresso?». Chiesì a Kael mentre ero china con le mani all’interno di un borsone nero, sospetto.

«No, ma ho trovato questa.», attese di avere la mia attenzione prima di sventolarmi davanti una divisa mimetica con una piccola bandierina russa trapuntata su un taschino.

Schiusi le labbra. «Era un militare?»

Kael sollevò le sopracciglia aggrottando la fronte «Deduco di si, a meno che non avesse partecipato a qualche festa in maschera, questa è proprio una divisa.»

Gli rifilai un’occhiata che lo mandava direttamente a quel paese.

Sospirò, «Il borsone? Trovato niente?»

Scossi la testa «Un contenitore refrigerato, vuoto. Forse le siringhe venivano conservate lì dentro.»

Con cosa avevamo a che fare esattamente?

Mi accomodai sul bordo del letto all’ingresso. Lo sguardo perso sugli oggetti sparsi per il pavimento.

Perché un militare si sarebbe dovuto iniettare qualcosa di non sicuro, proprio quando la gente comincia a trasformarsi in bestie? Mi domandai, mentre i pensieri nella mia mente mi stavano trascinando verso mille rimuginamenti.

Kael adagiò la divisa accanto a me e si allacciò le braccia al petto.

«A cosa stai pensando?».

Avevo una gran confusione in testa. L’unica certezza che avevo, però, era quella di essermi imbattuta in qualcosa di molto più grande di noi.

«A più di una cosa sinceramente», ammisi passandomi le mani sul viso, «Sono certa che quest’uomo è morto per la sostanza che si è iniettato e non per la ferita sul petto.»

Solo che non sapevo cosa ci fosse in quella dannata sostanza.

 

“Quindi se muori, diventi come loro?”

“Esatto”

Le parole di Raphael mi tornarono alla mente come un pensiero sconnesso. 

Un pensiero sconnesso, che però aveva un senso.

Se fosse morto per la coltellata, ma non si fosse trasformato per via del liquido iniettato? Era plausibile.

 

«Yuri Yevgeniya». La voce di Kael spazzò il flusso dei miei pensieri di colpo. Non mi ero accorta nemmeno che si fosse mosso per la stanza.

«Come?». 

Lo trovai accanto ad una poltroncina, fra le mani una carta d’identità.

Me la mostrò con aria soddisfatta «E’ il suo nome.»

Attraversò la stanza e me la porse.

«Era Russo…Ma questo lo sapevamo già.», constatò ironicamente.

«Perché un Russo dovrebbe prestare servizio in America? E’ assurdo.»

Kael mimò un’espressione eloquente «Dimmi cosa non lo è, ultimamente.» Poi si accomodò accanto a me.

«Magari stava scappando ed è venuto qui per nascondersi.» I suoi occhi viaggiarono lungo i vetri coperti dai fogli di giornale, li indicò: «Spiegherebbe quelli.»

Arricciai le labbra «A me, quei vetri coperti fanno venire in mente solo una cosa.»

«Cosa?».

«Che gli dava fastidio la luce.». Mi sollevai dal letto, amareggiata. Ero abbattuta, confusa, irritata da tutto ciò che i miei occhi avevano visto quel giorno. Per di più, quello in cui ci trovavamo era un vicolo cieco.

Un vicolo cieco si, ma di quelli che nel buio nascondo mille atrocità.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** So che ci sei ***


So che ci sei.

 

                                              5.

 


 

Non ho risposto a Mel quando mi ha chiesto per quale motivo stessi scappando perché, in verità, io non sto scappando. Quando mi ha trovata non correvo come una disperata sfuggita da qualche rifugio attaccato dai mangia-carne. Non scappavo inseguita da qualcuno. Nessuno mi ha rubato le armi, né fatto del male lungo la strada.
Ho attraversato il bosco perché sto cercando qualcuno. Qualcuno che forse non è più qui.
La verità che Mel non sa è che io ho delle persone che mi aspettano. Le stesse che mi hanno salvato quando tutto è precipitato.
Quando Kael è...morto. Quando ha lasciato dietro sé solo una scia di sangue. E meritano di sapere che sono viva.
Ed è colpa di questa dannata ragazza perché, ad un certo punto, parlare del passato con lei mi ha fatto sentire libera. Libera di poter ricordare ad alta voce. Così sono rimasta e ho perso tempo. Tempo prezioso che nessuno può ridarmi indietro. Ma ora basta, devo togliere le tende o perderò di vista l'obiettivo. E'  l'unica occasione che ho.

«Devo andare in bagno.» E’ quasi il tramonto e mentre decido che della mia storia Mel non debba saperne più nulla, escogito anche un modo per tirarmi fuori da questa situazione.

«C’è una pianta lì.», Mel sta intagliando un ramo trovato per caso ai piedi di un albero con il suo coltellino svizzero.

Non alza nemmeno lo sguardo, è il suo indice che mi mostra la toilette.

«Puoi togliermi questo affare almeno per stavolta?», sollevo i polsi e le mostro la fascetta.

I suoi occhi mi rimbalzano addosso per un istante, «Te la caverai bene anche con quella.», poi torna a scalfire lo strato superficiale del ramo con la piccola lama.

Alzo gli occhi al cielo ma non protesto.

Non è il caso dato che sto per andarmene da questo bosco del cazzo.

Mi sollevo da terra e calpesto i fili d’erba fino a che non mi ritrovo il tronco robusto davanti.

Mi abbasso la zip del jeans e fingo di espellere i miei bisogni.

«Hai dei lassativi?», alzo un po’ il tono perché mi senta.

«Lassativi?».

«Si, hai presente quella roba che si prende per cagare? Sai com’è, ultimamente non sto seguendo una dieta molto equilibrata…»

«So cos’è un lassativo», mi risponde sbuffando impettita, «Adesso controllo.». 

Mi sporgo dal limite del tronco e la vedo raggiungere il bagagliaio della Jeep.

Lo apre e fruga dentro una delle quattro borse.

«Guttalax. Può andare?».

«Si.», rispondo fingendo un tono sollevato, «Mi passeresti anche dell’acqua?».

Mel sospira un paio di volte ad intervalli regolari con le mie richieste.

«Hai bisogno di altro?», la sua voce è molto più vicina. Sollevo lo sguardo ed è qui davanti a me con la pasticca stretta fra due dita e la bottiglietta nell’altra mano.

Nonostante sono con il culo all’aria, mantengo una certa sobrietà e resto nella parte. 

«Grazie a Dio!», proferisco solennemente allungando entrambi i palmi verso di lei.

Mel abbozza un sorrisetto e mi porge quanto le ho chiesto.

Quando si allontana, infilo la pasticca nel taschino del jeans, attendo il po’ che basta per darle l’impressione che la pillola abbia fatto effetto e poi riemergo dalla tana.

«Va meglio?»

Annuisco mentre le osservo la testa china su ciò che le sue mani stanno facendo.

«Senti…», inizio a dire. Mel alza lo sguardo lentamente. L’espressione esasperata. «Non è che hai con te…della roba

Aggrotta la fronte pallida, «Che intendi per roba?».

«Ma si dai, roba…Pasticche, ansiolitici…».

Ad un tratto si fa seria, «Intendi droga?».

«Indovinato.» Fingo un sorrisetto imbarazzato.

«Ti sembra la faccia di una che ha con sé della droga?»

«Be’ no a dire il vero. Ma hai-», sposto lo sguardo alla portiera del bagagliaio, «- una farmacia lì dentro.»

 Scuote la testa molto lentamente, «Non ti darò nulla. Devi restare vigile in caso ci attaccasse qualche mangia-carne.»

I mangiacarne saranno l’ultimo dei tuoi problemi se non mi lasci andare via, stronza.

«Giuro che non ne farò un abuso. Parola di lupetto!»

Le si schiudono le labbra, vuole dire qualcosa ma non lo fa. Mima un’espressione eloquente e torna ad intagliare il suo dannato pezzo di legno.

Sono disperata. Questa è una parte cruciale nel mio piano: se non avrò le pillole non potrò andarmene indisturbata. Un attimo..Sono disperata, giusto!

Mi butto alle sue ginocchia, implorando «Oh, andiamo…Il mondo è agli sgoccioli, sono così esausta. Si tratta solo di un aiutino», le mimo una grandezza ridotta disegnandola con le dita.

«Oh, dannazione! Nel tuo racconto hai omesso la parte dove, oltre a Kael, la tossica sei anche tu!».

Voglio torcerle il collo, ma stiro le labbra finché sulla mia bocca non si disegna un sorriso. Settico. Omicida.

«Be’ ci stavo per arrivare.», mormoro quasi fra i denti.

Si solleva e torna verso l’auto. Fruga nella borsa e mi porta un paio di pillole.

Le prendo rigirandole fra le dita. Sono bianche, rotonde, le ho già viste.

«Ossicodone. Ho solo quello, accontentati.», proferisce con un certo tono di stizza.

«Sono perfette.»

Le infilo in tasca spiegandole che le avrei assunte solo quando ci saremmo coricate e per il resto del tempo che intercorre fra l’ora X e quello che sta facendo, decido di dedicarmi all’esplorazione di ciò che ho intorno, con lo sguardo.

Devo ispezionare ogni centimetro di questo posto, anche se sono costretta a farlo senza muovermi da questa specie di accampamento posticcio. Perciò, mi arrangio come posso e scopro che accanto alla Jeep ci sono solo alberi, il fiume che ho alle spalle gira attorno ad essi, perciò non è quella la direzione che dovrò prendere. 

Guardo la vettura: è parcheggiata su un sentiero sterrato.

Mi sporgo ma non posso vedere da dove arriva quella strada. Sono certa, però, che Mel l’abbia imboccata a ritroso più volte. Ci sono segni di pneumatici ben tracciati sulla melma e sono inconfondibilmente suoi. E’ già stata qui, questa non è la prima volta che attraversa questo bosco.

«Domani andremo a cercare provviste», mi avverte all’improvviso, distraendomi dai miei pensieri. 

«Hai già un posto da ispezionare?»

«La vecchia Burning House.»

Una pista per Kart? Perché?

«Cosa speri di trovarci?», calcio i fili d’erba con la punta di un anfibio catalizzando tutta la mia attenzione su di essi.

«Qualcosa. Qualunque cosa.»

Faccio una smorfia «Sai che ci troverai? Dormienti che non saranno più tanto addormentati quando ci sentiranno entrare.»

Fa spallucce, «Li uccideremo.»

Oh be’, certo. 

«E scommetto che sarà una passeggiata.», forse ho marcato troppo il carico di sarcasmo nella voce. Sto per cambiare discorso o semplicemente per zittirmi, quando, Mel sembra sorridere divertita, «Una passeggiata» mi scimmiotta quasi sotto voce.

Aggrotto la fronte. Lei ed io abbiamo fatto scelte diverse. Io, a differenza sua, non vivo in un’auto esposta ad ogni sorta di pericolo. Si chiama amor proprio.

«E’ da tanto che non uccido un dormiente, - che non uccido un mangia carne -, veramente.» Le dico e mi scopro imbarazzata quando glielo confesso.

Mel solleva il viso nella mia direzione e per colpa di un raggio di sole strizza un occhio, «Non dirmi che te ne sei stata rintanata dentro qualche rifugio per tutto questo tempo.»

No. Si. Più o meno.

«Diciamo che sono uscita di rado», la raggiungo e mi siedo accanto a lei.

Devo darle la certezza di potersi fidare di me. Non voglio che il mio piano salti all’aria proprio ora.

Mel abbatte lo sguardo riportandolo alle sue dita. Lavorare quel ramo le ha arrossato i palmi e da come scuote la mano destra, ogni tanto, deduco che le sue dita siano indolenzite.

«Sei stata gentile a raccontarmi la tua storia, Karina.»

Afferma all’improvviso e mi sorprende, non pensavo che sentire la mia storia fosse così importante per lei.

«Be’ avevo altra scelta?».

Ridacchia.

«No, forse no. Ma potevi far si che io ti sparassi o potevi uccidermi in qualche modo, e non l’hai fatto.», questa volta, quando mi parla lo fa fissandomi negli occhi.

E non so per quale motivo quello sguardo fa sì che io sotterri il mio.

«Spero che tu non ti senta tenuta a chiedermi altro onestamente», abbozzo una risata breve anche io, tanto per sdrammatizzare la crudezza dei pensieri che ho in testa adesso.

C’è qualcosa nell’aspetto di Mel che non mi fa pensare a lei come una minaccia.

E’ esile, mingherlina, alcune volte, le espressioni del suo viso vengono marcate così poco da poterle scambiare per quelle di una bambina. Eppure, io l’ho vista atterrarmi con un colpo solo e legarmi come si lega un salame in un batter d’occhio.

Senza contare che, quando il mio racconto ha sfiorato l’argomento “siringa pericolosa”, il suo atteggiamento è cambiato drasticamente.

C’è qualcosa che lei ha omesso a me.

«Presto farà buio, che ne dici di cenare un po’ prima, all’aria aperta?».

Pare che il momento di agire sia stato anticipato.

«La trovo un’ottima idea.»

Quando sorride somiglia moltissimo ad una persona che ho visto molto tempo fa e di cui non ricordo il nome.

Probabile che io e lei ci siamo già conosciute?

Magari ha una sorella che le somiglia moltissimo.

«Vado a prendere un paio di barattoli di fagioli.», mi avverte.

Annuisco.

E’ il momento.

Appena si allontana, mi alzo. Raccolgo la bottiglietta d’acqua e la svito mimando di bere qualche sorso.

Ho bisogno di esserle di spalle per fare ciò che devo.

Mi volto e tiro fuori dalla tasca le tre pasticche. 

Non perdo tempo: le sbriciolo premendole tra le dita.

Attendo di vederla ancora china dentro il bagagliaio e verso la polvere all’interno della bottiglietta con cautela.

Intercetto il tappo e l’avvito.

Quando mi rendo conto che la prima parte del piano è filata liscia come l’olio, mi dico che non devo ancora cantar vittoria.

Raggiungo la sua bottiglietta accanto alla cinepresa e le scambio.

«Fagioli o lenticchie?», la vedo tornare entusiasta con due barattoli stretti fra le mani.

Li scuote accanto a sé e mi chiede di scegliere.

«Lenticchie, non vorrei soffocarti questa notte.»

Ride.

«Decisamente un’ottima scelta, allora.».

Dopo aver attizzato il fuoco e posato sopra la griglia i due barattoli, Mel torna a cercare qualcosa nel bagagliaio.

«Ti piace la birra?»

«Abbastanza.»

Trotterella fino al falò posticcio e mi stende una bottiglia di vetro marrone.

«Non è il massimo, ma di questi tempi è il meglio che si può reperire.»

Ho già visto quella marca di birra; proviene da un grosso mercato al centro di Sherviville. Un vecchio stadio è stato usato dai sopravvissuti come base di scambio. Ovvio, le persone che trafficano all’interno erano stronze in passato e lo sono tutt’ora, ma se si ha occhio per gli affari e si ha la tempra giusta si esce con un bel pugno di roba per mano. 

«La tendopoli», mormoro mandando giù un sorso.

«E’ l’unico posto ancora attivo. Tutte le altre basi di scambio sono state rase al suolo dai mangia carne.»

«Ma non è gente che ha paura quella dello stadio di Shelbyville, giusto?. Se sono ancora in piedi è perché hanno respinto ogni attacco.», ammetto.

«Oh, decisamente.»

Inizia a raccontarmi qualche episodio. Mi dice che un uomo che si fa chiamare el Gringo smercia parecchia roba in più rispetto agli altri. Grano, orzo, medicine, droghe ha un po’ di tutto, persino persone. Il suo giro è così vasto che, a dire di Mel, anche gli stessi sopravvissuti per lui sono merce di scambio.

Mi racconta che ha salvato una ragazza che era finita nelle sue mani.

«La faceva prostituire», ammette. «Non potevo starmene a guardare, dovevo fare qualcosa. Così l’ho rapita.»

Mi spiega che il posto più sicuro e vicino allo stadio di Shelbyville è Capen Hocks e che quella ragazza ora vive lì con altri sopravvissuti.

Capen Hocks è il mio rifugio e so di chi sta parlando.

Non so perché ma continuo ad aspettarmi un passo falso da Mel; qualcosa che mi dica “Karina hai ragione”. 

La sto per avvelenare o quanto meno, stordire per un bel po’ di tempo, perciò, ho bisogno di sapere che quella dannata ragazza pallida nasconde un terribile lato oscuro.

Mangiamo lenticchie e fagioli solo dopo un bel po’. Ci siamo perse in chiacchiere ed ora siamo costrette a mandar giù i bocconi quasi tutto d’un fiato. 

«La prossima volta, meno chiacchiere», sorride mentre si massaggia il ventre leggermente gonfio.

«Concordo», sto per esplodere. Se non fossi stata così affamata sarei morta per colpa di quel barattolo e della voracità con cui ho mandato giù il suo contenuto.

«Be’ un sorso d’acqua e poi andiamo a nanna.»

 

Mel afferra la bottiglietta.

Mantengo gli occhi fissi sull’etichetta: sto quasi per dirle di fermarsi quando se la porta alla bocca. Ma non lo faccio.

La guardo mentre beve, mi si stringe lo stomaco.

«Hai mai ferito qualcuno, Karina?»

La domanda mi spiazza.

«Ferito?...In che senso? Con le armi?».

«Anche.»

«Be’ si. Questo mondo ti cambia Mel. E’ inevitabile che prima o poi, ognuno di noi faccia del male.»

Accenna un sorriso tiepido e guarda all’interno della bottiglietta.

«E come ti sei sentita?»

Perché mi fa queste domande?

«Uno schifo. Ti senti sempre uno schifo quando fai del male.»

Dio, comincio a sentire i sensi di colpa tirarmi per i capelli.

«Non per tutti è così.», ad un tratto oscilla sul posto. E’ seduta ma fatica a tenere la schiena dritta.

Com’è possibile? Ha fatto solo un sorso! Forse due pillole di oxy erano troppe?

«Ci sono persone che scelgono di fare del male e non se ne pentono. E poi ci sono quelle che non vorrebbero ma sono pagate per farlo.», le palpebre le si fanno pesanti.

«…Mel?». L’ansia mi pizzica il viso.

Sto sudando a freddo.

Faccio uno scatto sulle mie stesse gambe quando la vedo oscillare ancora.

«Va tutto bene.», mormora.

«Non ne sarei così certa.», mi sollevo.

Merda, non so che fare. L’ho avvelenata?

«Sei così vicina…», i suoi occhi languidi si sollevano verso di me.

Respiro, pronta a risponderle qualcosa ma l’aria mi rimane incastrata nel petto.

Forse è stata la birra assieme a quel dannato mix di pasticche. Sto perdendo il controllo della situazione, non è da me.

Perché diavolo mi preoccupo per lei?

«Mel, forse è meglio se ti sdrai in auto.»

Solleva il mento e la testa le ciondola un paio di volte.

«Nah, sto bene.», mi scaccia con una mano.

Faccio un respiro profondo e mi chino verso di lei.

«Suonava come un consiglio ma non lo è. Adesso alzati, ti aiuto a tornare nella Jeep.»

Mel protesta. Anche quando tento di sollevarla per una spalla, prova a respingermi.

«Ho detto che sto bene!», grida ad un certo punto. La lascio andare di colpo. Tutta l’apprensione di un momento fa è sciamata per lasciar spazio alla voglia di torcerle il collo. Voglia che di rado mi è passata con lei durante questi giorni.

«Vuoi attirare tutto il mondo non morto qui? Abbassa quella cazzo di voce!», la rimprovero.

Mel  intanto si è sollevata. Fa un passo in avanti e due indietro finendo contro di me.

«Ti sei mai sentita confusa, Karina?», fa una piccola pausa «Intendo confusa su qualcosa che per te è stato sempre molto chiaro.»

E’ il discorso di un’ ubriaca o di qualcuna che è appena stata drogata pesantemente: sconnesso, senza logica.

«No, direi che ho avuto le idee sempre ben chiare.», le afferrò un braccio con entrambe le mani - per via di cose- costringendola in direzione della macchina.

Per un momento sembra arresa e cammina ma, poi, inavvertitamente, il suo braccio mi sguiscia via dalle mani e me la ritrovo ad un palmo dal naso.

Gli occhi leggermente arrossati.

«Sei fortunata allora», sospira ad un millimetro dalle mie labbra.

Mi immobilizzo.

Ma che diavolo le prende?

Sbatte le palpebre un paio di volte prima di oscillare pericolosamente di lato.

«Mel-Maledizione.», l’afferro di nuovo per il braccio.

«Sai, tu mi piaci Karina.», dice con una certa convinzione nella voce che mi lascia una cascata di dubbi addosso. «Se non fosse stato così, non ti avrei permesso di avvelenarmi l’acqua.»

Respiro profondamente, socchiudendo le palpebre.

E’ una doccia fredda quell’affermazione.

«Mi dispiace.», mi costa caro parlare e la mia voce è più roca del solito.

Mi sento uno schifo. Ma adesso c’è una domanda che mi tormenta: perché mi ha lasciata agire indisturbata?

«Non ti ho avvelenata, hai bevuto appena un sorso, non ti succederà nulla.»

Gli occhi scuri di Mel viaggiano sul mio viso risalendo dalle mie labbra fino alle mie iridi.

«Già…so anche questo.»

Penso di non aver mai provato un simile disagio. Non per una persona almeno.

Si infila una mano in tasca. Resto ferma: se ha intenzione di colpirmi, forse non reagirò. Me lo merito.

Estrae il coltellino svizzero. I suoi occhi non smettono nemmeno per un secondo di fissare i miei.

Mi afferra un polso.

«Ci rivedremo un giorno.»

Taglia la fascetta e di colpo, ho i polsi nuovamente liberi.

Sono incredula. Non credo che tutto questo sta accadendo sul serio.

Incespica un passo indietro sull’erba.

Ancora una volta ho l’istinto di allungare una mano ed afferrarla ma, questa volta, non lo faccio.

Ricaccia dalla tasca della sua giacca qualcosa e me la tira. «Spero che almeno avevi intenzione di lasciarmi una delle due lampade.»

Sono le chiavi della sua Jeep.

Atterrita dalla persona che sono diventata, quando apro il palmo e vedo il loro scintillio, sento un groppo in gola.

Realizzo però che non avrò una seconda occasione per svignarmela.

Perciò, mi muovo in fretta verso l’auto.

Mel torna a sedersi accanto al fuoco e lo fissa.

Sono un mostro o forse, non del tutto.

Apro il portellone dell’auto e ricaccio il suo fucile.

Frugo nella borsa dei medicinali e afferro un paio di flaconi. Antibiotici.

«Tieni» Quando torno accanto a lei, mi tengo a debita distanza e le lancio quelle poche cose assieme alla lampada Uv, sull’erba.

Mel solleva lo sguardo per un solo istante. Non ho idea di cosa le passi per la testa, il suo sguardo è imperscrutabile.

Vorrei dirle ancora che mi dispiace, ma lei non mi risponderebbe “ti perdono”. Perciò faccio dietro front verso l’auto.


                                                   ➽

Il rombo del motore spezza il silenzio della notte.

“Se la caverà”

“Se la deve cavare”

Premo l'acceleratore senza guardare nemmeno una volta i chilometri orari.

Sto sfrecciando al centro della strada sterrata, costernata da alberi, senza sapere esattamente dove sto andando.

«Dannazione!». La rabbia mi assale.

Questo mondo mi ha fatto diventare una persona pessima. La persona che non volevo diventare.

Sono come tutte quelle anime plagiate dalla morte che ho combattuto da quando il mondo è finito.

E’ imperdonabile.

Mi passo il dorso della mano sotto al naso. Sono una maschera di lacrime: le mie ciglia sono così imperlate e umide che quasi non vedo la strada. Nonostante gli abbaglianti siano spianati e fendono il buio illuminandolo a giorno, mi sento cieca.

Stringo una mano attorno allo sterzo.

Se chiudo gli occhi solo per un istante, il viso di Mel appare all’improvviso. E se ci riprovo, vedo quello di Svetlana. Sbatto le palpebre e appare Raphael, avanti così, fino a che i volti di tutte le persone che ho conosciuto non mi scorrono davanti come tante diapositive che lentamente prendono fuoco e, quando spariscono sbiciolandosi sotto la fiamma, l’unico volto che resta è quello di Kael. Ma non è più umano.

Sfioro la medaglietta dentro lo scollo della mia maglia.

Mi ostino a rievocare il suo viso alla ricerca di com’era quando l’ho conosciuto ma tutto quello che riesco a vedere è la sua faccia divisa a metà. Da una parte il vecchio Kael quello che ho amato, che non mi avrebbe mai abbandonata, dall’altra, quell’iride gialla, morta e le vene scure che si irradiano lungo la sua guancia.

Kael non esiste più.

E io non sono più la persona che tutti gli altri hanno conosciuto. Io non sono più quella Karina. Quella Karina è morta assieme a tutte le cose buone che ha provato a fare in passato. Insieme a Kael.

Allungo una mano verso lo stereo della Jeep. C’è una cassetta all’interno del mangianastri che spunta da una finestrella. Pigio il pulsante d’avvio e alzo il volume fino a che le casse non stridono leggermente sugli acuti.

“Quella Karina è morta.”

Premo l’anfibio a tavoletta sull’acceleratore.

Voglio farmi sentire.

Voglio che quelle bestie si accorgano di me.

Voglio che si accorga di me.

Ad un tratto…Eccole.

Scorgo nel buio gambe agili, pallide e con le vene in rilievo balzare da una corteccia all’altra. Respiro profondamente e rallento leggermente abbassando il finestrino. Il suono del brano che sta gridando dalle casse si propaga per tutto il bosco.

Attendo qualche secondo e quando le gambe nude, glabre e pallide si moltiplicano torno ad accelerare di colpo.

Ringhi gutturali si avviluppano l’uno sull’altro come un tetro richiamo di morte.

Quella Karina è «Morta!!!»

Afferro il freno a mano e lo tiro di colpo.

L’auto fa un mezzo giro su se stessa fermando la mia folle corsa.

Posso sentire quei mostri scalpitare nel buio.

Probabilmente arriveranno da qualsiasi direzione.

Sporgo un braccio verso i sedili posteriori. Recupero il mio fucile, il pugnale e la mia tracolla.

Afferro la lampada appoggiata sul cruscotto, l’accendo e l’infilo all’interno della borsa, lasciando che la sua cinta mi scorra fra i seni.

Spengo la musica e scendo dall’auto. I muscoli del mio corpo sono così tesi che quasi potrebbero esplodere come un elastico in tensione.

«Sono qui!», grido.

«Avanti! Vienimi a prendere!»

Gli abbaglianti della Jeep setacciano il bosco: loro sono ovunque.

Adesso posso vederli esitare per un attimo alla luce e correre nella mia direzione falciando il buio come grandine che cade rumorosa.

Sollevo il fucile e con il palmo della mano sblocco la sicura.

«Avanti!»

Una pioggia di colpi tuona nel silenzio della notte.

Vedo i notturni perire cadendo sulle loro ginocchia, uno ad uno; e quando i proiettili non bastano più e il fucile diventa muto, estraggo il pugnale.

Sferro il primo fendente nell’orbita di un notturno femmina.

Non mi fermo. La luce Uv che fa capolino leggermente dalla mia borsa, li stordisce rendendo più facile per me colpirli. Forse mi piace giocare facile, ma è l’unico modo perché lui capisca che io posso sconfiggerlo. Posso rendergli la fine che merita.

Colpisco alla cieca. Ormai non so più cosa sto facendo. C’è un tappeto di corpi davanti a me ma non mi fermerò fino a quando, anche l’ultimo notturno non perirà ai miei piedi.

«Vieni fuori!» grido ancora, «So che ci sei!»

Un glabro balza dalla corteccia di un albero. Lo vedo troppo tardi. Mi atterra battendo la mascella come un ossesso. Dalla sua bocca esce un liquido gelatinoso, pastoso e quando mi gocciola sulla pelle delle scapole le corrode.

Una piccola voluta di fumo si solleva da essa sparendo un attimo dopo, lasciando dietro sé solo l’ustione.

Sento i suoi artigli graffiarmi le spalle mentre con un avambraccio cerco di non farlo avvicinare alla mia giugulare.

Non sono qui per morire oggi. Il mio non era un gesto suicida, né quello di una martire.

Al mio gesto c’è un motivo.

Allungo una mano verso il pugnale. L’ho perso cadendo ma è rimbalzato a pochi centimetri dal mio braccio.

Il notturno, un maschio che è mutato da poco, spinge verso me furioso.

Sento le sue unghie ovunque. Persino quelle dei piedi mi stanno lacerando la pelle oltre il tessuto del jeans.

«Non morirò oggi. Hai capito?»

Al contatto con il manico del pugnale, la rapidità del gesto è fulminea.

Affondo la lama nel suo timpano e spingo. Un attimo dopo, il notturno non ringhia più. Mi piomba contro il petto con la testa penzoloni oltre la mia spalla.

Tossisco.

Una.

Due.

Tre volte, fino a che l’ultimo colpo di tosse non diventa un singulto.

Piangere è così liberatorio.

E non mi importa se sono sdraiata nel bel mezzo della notte, al centro di un semicerchio di notturni morti.

Non mi interessa se le mie narici bruciano per il loro tanfo o se la mia pelle sia abrasa, ferita, corrosa dal loro acido.

Sono viva solo grazie a questo. Mi sento viva, solo grazie a questo…

«So che ci sei…», mormoro in un filo di voce rotto.

Attorno a me, tutto è tornato ad essere opprimente. Soffocante.

Se trattengo il fiato sento solo il battito del mio cuore che lentamente torna placido.

Resto sdraiata al buio, immersa nel silenzio assordante, per un lasso di tempo incalcolabile. Ci resto, fino a che il corpo del notturno non inizia a pesarmi addosso e sono costretta a spostarlo di peso da me.

Nel farlo, mi ritrovo sollevata su un braccio e la medaglietta scivola dallo scollo della mia maglia.

Colpita dagli abbaglianti, la targhetta con il suo nome scintilla davanti ai miei occhi.

Nonostante tutto, c’è ancora un briciolo del passato dentro me e leggere il suo nome sul metallo riesce ancora a farmi scorrere brividi lungo la schiena.

Stringo la medaglietta nel palmo della mano.

Se solo ci fosse stato un modo per fermare lo scandire inesorabile di quei giorni. Se ci fosse stata la possibilità di impedire tutto quello che è successo.

Ma non c’è stata.  Mi dico più duramente.

Costringo le mie gambe a sollevarsi da terra e sussulto quando il tessuto della maglietta sfiora le piccole ustioni a forma di goccia sulle scapole.

Conto almeno trenta corpi, forse di più. Ancora non mi sento soddisfatta e so il perché.

Perché è tutta colpa sua. Perché lui mi ha fatta diventare così. Perché a terra, davanti a me non c’è chi sto cercando.

Chi li ha uccisi tutti.

Ispeziono i loro volti non più, nemmeno lontanamente, umani, alla ricerca di un paio di occhi. Non li trovo nemmeno questa volta.

Affondo i piedi nell’erba e avanzo fino a che, tra una gamba molle e un cranio perforato dalla lama del mio pugnale, non trovo il mio fucile.

Sposto con il palmo della mano una testa glabra e afferrando l’estremità metallica tiro via l’arma da sotto il suo corpo.

Ho fallito, ancora.

Di questo passo morirò prima di rendergli giustizia.



 

All’improvviso, un ramoscello si spezza nel buio.

Sta succedendo tutto troppo in fretta. Mi guardo intorno e mi vedo circondata da tronchi, erba, terriccio e corpi.

Di colpo, sento ogni tipo di emozione scorrere dentro le mie vene. Per un momento ho la testa in subbuglio ma poi un fremito mi scuote le ossa. E’ una sensazione strana, qualcosa che nasce dall’inconscio, dal profondo del mio cuore e non è la prima volta che la provo. Non sono sola. 

La confusione quasi subito lascia il posto alla certezza e al dolore. Ma anche alla gioia e per questo vorrei punirmi.

Resto immobile a fissare il manto scuro della notte che avvolge i tronchi. C’è un’ombra che si muove nel buio. Indistinta, quasi un tutt’uno con la coltre scura.



 

«Sapevo che eri qui.»

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Tutti abbiamo perso qualcuno ***


Tutti abbiamo perso qualcuno.

 

“I legami troppo forti ti rendono vulnerabile.”



 

                                         6.

 

◀◀

 

Mi voltai verso la porta a soffietto del cucinino. Raphael e Svetlana si erano addormentati. Lui aveva appoggiato la testa sul piano da lavoro in acciaio, lei era adagiata con la schiena contro il piede del suo sgabello.

Luis dormiva, o almeno speravo che stesse riposando. Senza antidolorifici difficilmente non avrebbe provato dolore.

«Cosa pensi di fare?», Kael si accomodò sulla poltroncina verde di fronte ai tre corpi. Allacciò le dita e poggiò i gomiti sulle sue ginocchia. Lo sguardo rivolto alle tre povere vittime della circostanza in cui ci eravamo ritrovati.

Guardai oltre le vetrate alle sue spalle. La strada brulicava di bocche affamate, uscire era rischioso. Ma restare...lo era anche di più. «Vorrei trovare un modo per portare Luis lontano da qui.»

I suoi occhi si sollevarono lentamente seguendo i miei movimenti.

«Credo che tu sia d’accordo con me sul fatto che qualsiasi cosa sia successa qui dentro è accaduta per colpa di quei due.», aggiunsi scavalcando il corpo dell'anziana.

Girai attorno al cadavere di Mitcha. Il viso rivolto verso terra. Tutto il suo sangue si era raggruppato in una pozza scura e circolare e ben definita sotto il suo petto.

Troppo sangue, non poteva essere fuoriuscito solamente dalla ferita sul cranio.

«Credi che quel militare abbia a che fare con la morte di queste tre persone?O che anche lui sia stato ucciso da Svetlana e il suo amico come questi tre?»

Mi chinai verso il cadavere «Non lo so.»

Il corpo di Mitcha pesava almeno venti chili in più di quello della donna anziana.

Girarlo a pancia in sù risultò più faticoso del previsto.

«Ah!», proferì disgustato Kael, facendo una smorfia e coprendosi il naso. «Che diavolo fai? Perché lo rivolti?»

I miei occhi ispezionarono il corpo. Volto, pancia e braccia erano cosparsi di sangue. Era quasi indistinguibile la sua pelle sotto il liquame rossastro, come lo era il colore della sua t-shirt.

All’improvviso,qualcosa mi balzò all’occhio. «Kael», richiamai perentoriamente la sua attenzione, «presto, vieni a vedere.»

 La stanza riluceva di un bagliore appena più chiaro del blu elettrico, ma nonostante fossimo quasi al buio, i miei occhi scavarono sulla pelle di Mitcha, sotto la sua maglietta, finché…«Cos’è…questo?»

Sulla pancia di Mitcha c’era un taglio. Due o tre centimetri, nulla di più. 

Un senso di soddisfazione mi attraversò velocemente seguito dall’angoscia di una consapevolezza lampante.

Kael si sollevò velocemente dal divanetto e mi raggiunse chinandosi su un ginocchio.

«E’ una coltellata.»

I miei occhi saettarono sul viso del ragazzo all’istante. 

«Ne sei certo?»

Kael mimò un’espressione eloquente e si sollevò la t-shirt nel punto dove era stato colpito con il cutter.

«Tu che ne dici?».

La sua ferita e quella di Mitcha avevano la stessa forma. Sottili, allungate, poco più di un piccolo squarcio.

Solo che quella di Mitcha si era rivelata fatale.

Non ero una profiler, ma c’era stato un tempo in cui serie come Law and Order erano state il mio pane quotidiano, e mi avevano insegnato molto. Ad esempio, sapevo perfettamente che una coltellata in piena pancia fa sì che chi la riceve ci impieghi ore per morire.  «E’ morto dissanguato.», dissi e scoprii che la voce mi tremava abbastanza da far capire a Kael quanto mi sconvolgesse quel dettaglio.

Ad un tratto, lui si sollevò da terra. Le sue Adidas logore attraversarono la pozza di sangue e le sue ginocchia tornarono a piegarsi solo quando fu davanti al corpo della signora anziana. 

«Scommetto che anche su di lei troveremo una coltellata», proferì un attimo dopo, scoprendole il ventre. Mi si strinse lo stomaco: era proprio lì. Una coltellata dritta al centro dello sterno.

La mia gola si inaridì. «Raphael ha detto che è stata Svetlana ad uccidere queste tre persone.» Quando le aveva uccise, però? Prima o dopo che si erano trasformate?

Anche il terzo corpo riportava la stessa piccola e breve ferita, ma con lui, chiunque fosse stato l’artefice, si era rivelato più clemente: lo aveva colpito alla carotide, regalandogli una morte più veloce.

Kael storse un labbro. Probabilmente i suoi pensieri avevano preso la stessa direzione dei miei.

«Qualsiasi cosa è successa qui dentro, non ci hanno raccontato la verità.»

Venni travolta dallo sciamare di sensazioni terrificanti che mi schiaffeggiarono il viso più e più volte.

Di colpo, divenni consapevole di qualcosa che mi faceva torcere le budella.

«Li hanno fatti trasformare ecco perché poi li hanno colpiti in testa..», proferii in preda al terrore. La vena sul collo di Kael si increspò vistosamente quando sollevandosi si mosse in fretta verso Luis.

«Dobbiamo andarcene.»

Capii che voleva sollevarlo, perciò mi mossi per raggiungerlo.

 

“Oh, be’ si da il caso che la signorina qui presente sia una killer professionista”

 

La voce di Raphael mi risuonava nella mente lasciandomi l’amaro in bocca.

 

“Anche loro erano feriti, e poi si sono trasformati”

 

 

«Sono stati loro…».

Avevo l’impressione che il mondo mi stesse crollando sotto i piedi. Eravamo finiti nella fossa del leone e la colpa era stata solo mia.

All’improvviso, lo scatto della sicura di una pistola ci fece immobilizzare all’istante.

Gli occhi di Kael si ingrandirono a tal punto che temetti che gli sarebbe esploso qualche capillare.

Esitando, ci voltammo lentamente alle spalle. Svetlana era in piedi al centro della porta che conduceva al cucinino. Stretta fra le mani una pistola puntata verso di noi. Lacrime copiose le scendevano lungo le guance e ci fu un attimo in cui fu costretta a passarsi il palmo della mano sulla pelle per scacciarle.

«Sei stata tu? Li hai fatti trasformare tu?».

Perché? Perché Svetlana aveva fatto una cosa del genere?

«Zitta.», ringhiò.

«Perché li hai uccisi?».

«Zitta ho detto!», sollevò la mano stretta attorno all’impugnatura della pistola e la puntò su di me.

Il sangue mi defluì, in un batter d’occhio, sotto i piedi.

«Ehi! Ehi! Abbassa quella cazzo di pistola.», Kael provò a superarmi ma la ragazza spostò la traiettoria dell’arma verso di lui immobilizzandolo sul posto.

Sollevai le mani tremanti davanti a me.

«Voi non potete capire.» proferì ingoiando un singhiozzo.

«Loro avrebbero ucciso mio fratello.»

 

“Perché un russo dovrebbe prestare servizio in America? E’ assurdo.”

Nella mia mente si avvilupparono un caleidoscopio di immagini. La siringa. Le iridi dell’uomo. La coltellata sul petto.

«Quel militare era tuo fratello?».

Le palpebre di Svetlana fecero uno scatto verso l’alto.

«Ho visto il corpo.», ammisi e spostai lo sguardo verso Kael, «Lo abbiamo visto entrambi.»

Le spalle della russa tremarono per colpa delle lacrime.

«Non volevo fare del male a nessuno.»

Mi si strinse il cuore.

«Lo hai fatto per difenderlo, non è così?»

Kael mi rifilò un’occhiata sottecchi.

Per un momento furono i nostri occhi a parlare. Ero certa di quello che stavo dicendo. Svetlana non poteva aver ucciso quelle persone per nessun altro motivo.

Io le credevo.

«Svetlana». Raphael apparve all’improvviso alle sue spalle. Lo sguardo atterrito rivolto all’arma che la ragazza stringeva fra le dita.

Svetlana balzò di lato e puntò la pistola verso l’uomo.

«Sei confusa e spaventata. Abbassa l’arma, ti prego. Nessuno vuole farti del male.», l’uomo avanzò lentamente con le mani ben in vista.

Lo sguardo smarrito della russa mi ricordava quello di un cucciolo spaurito.

«E’ colpa mia. Io li ho portati qui. Se avessi saputo che tutto sarebbe degenerato, non li avrei mai aiutati.», Ammise mantenendo lo sguardo sulla ragazza. Poi si rivolse a noi: «Svetlana non meritava quello che le è capitato. Non è una cattiva persona, ha solo perso l’unico affetto che le restava.».

Allungò una mano verso lei avanzando lentamente.

«Quel dannato Ron. Se non avesse scoperto l’appartamento al piano di sopra, a quest’ora non sarebbe morto.»

«Perché sono morti tutti e quattro?».

Raphael raggiunse con la punta della dita il ferro dell’arma.

«Perché quando le persone hanno paura fanno cose stupide.» 

Nonostante Svetlana avesse accolto quelle persone proteggendole da ciò che c’era all’esterno, loro le si erano rivoltate contro.

Quando avevano scoperto l’appartamento, quello a cui era stato affibbiato il nome Ron aveva cercato di accoltellare il militare credendo che fosse stato lui la causa di tutto.

«Hanno visto la sua divisa e non ci è voluto molto per collegare lui e lo stato in cui versava a quelle persone impazzite lì fuori.»

Ma Yuri non aveva colpa. Lui era una vittima esattamente come loro. Come noi.

«Svetlana ha cercato di spiegare che suo fratello era una vittima, che il governo aveva deciso per lui ma non le hanno creduto.»

C’era qualcosa di molto più grande dietro ed io l’avevo capito già da allora.

«Si è solo difesa.»

La mano di Raphael scivolò sulle dita di Svetlana strette attorno all’impugnatura dell’arma.

«Va tutto bene, nessuno ti farà più del male.», con la mano libera le avvolse le spalle, «Sei al sicuro, adesso.»

Trattenni l’aria quando la vidi abbandonarsi fra le braccia dell’uomo. La ragazza scoppiò a piangere singhiozzando.

«Perdere qualcuno a cui tieni è la parte meno difficile», mormorò Raphael rivolgendo lo sguardo a noi, «Quella più difficile è togliere la vita a qualcuno che ami solo per regalargli una morte degna.»

Persi un battito.

Guardando Svetlana in lacrime, disperata, immersa nel dolore, capii cosa aveva fatto ma non riuscivo a spiegarmi come ci fosse riuscita. Dove aveva trovato la forza di impugnare un coltello e regalare una fine degna a suo fratello?

Doveva sentirsi morta dentro.

La mia testa scattò verso Kael. Lo vidi rilassare le braccia e procedere verso la ragazza.

Raphael lo scrutò confuso.

«Anche io ho…Tolto la vita ad una persona che per me era tutta la mia vita», ammise, «So cosa significa.».

Appoggiò una mano sulla sua spalla, «Ma ha ragione Raphael, sei al sicuro adesso.»

L’uomo sorrise tiepidamente poggiando la fronte contro la tempia della ragazza.

Mi avvicinai.

I miei ricordi precedenti a quando il mondo aveva cominciato a spegnersi non erano altro che spezzoni di momenti confusi e nebulosi. Famiglia era una parola così strana. Tanto per cominciare non ero certa di averne mai avuta una per davvero. Ero stata adottata dagli Stang quando avevo poco più di sette anni. Ero stata con il mio vero padre o con la mia vera madre prima di allora? Boh. E se i miei genitori lo sapevano non me ne avevano mai parlato.

La mia vita iniziava nel momento in cui avevo messo piede a casa Stang e i ricordi finivano al giorno in cui mio padre aveva spinto mia madre dalle scale facendola piombare in coma. 

Perciò, si. Io sapevo cosa significava perdere qualcuno con l’unica differenza che di persone ne avevo perse quattro e di queste, solo una teneva veramente a me; ed ora era in coma dall’altra parte del paese e molto probabilmente non l’avrei più rivista.

«Ci siamo noi con te»

Ma forse, queste persone potevano diventare la mia nuova famiglia. Un posto sicuro. Almeno così mi auguravo.

 

«-e da questo momento, ci proteggeremo a vicenda.»

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Rosa rossa ***


    Rosa rossa.

 

                                           7.

 

◀◀

 

«Ah, la brezza mattutina», proferì, con quattro palmi di sarcasmo nella voce, Raphael, sbucando dalla cucina del locale con una lattina di aranciata stretta fra le dita.

Attraversò la stanza principale del pub, scavalcò il corpo di Mitcha e si accomodò a sedere accanto al jukebox.

Dopo sette giorni, lo stato di decomposizione dei corpi era avanzato inesorabilmente. L’aria si era fatta irrespirabile.

«Dovremmo spostare quei cadaveri.», dissi, scivolando a sedere sulla mia stessa gamba, di fronte a lui. Stretto fra le dita d'una mano un bicchiere colmo di Coca Cola.

Raphael mandò giù un paio di sorsi e mi scrutò oltre il bordo metallico della lattina.

«Sono d’accordo. Ci prenderemo qualcosa respirando i loro gas.»

La possibilità di raccogliere qualche malattia era esigua rispetto allo stato in cui versavano le nostre narici.

«Ne hai parlato con gli altri?», mi chiese poggiando la lattina sulla superficie liscia.

«No.»

«Dovremmo escogitare un modo per sbarazzarcene», sollevò lo sguardo oltre la sua stessa fronte, «e per sbarazzarci anche del fratello di Svetlana.»

«Ho visto che c’è una seconda porta in cucina. Da su un giardinetto privato, potremo seppellirlo lì.»

Raphael annuì mentre il suo sguardo viaggiava sulla lunghezza rossa del tavolo.

«Potremmo, sì. Ma chi salirà li su?».

Anche se erano passati poco più di sei giorni, avevo iniziato a conoscere Raphael. Lui non era uno a cui piaceva sporcarsi le mani. Non lo aveva fatto quando Svetlana era stata aggredita da quelle persone e per nulla al mondo lo avrebbe fatto ora, mettendo le mani sui loro cadaveri.

«Immagino…non tu.»

Sogghignò. «Sei perspicace, ragazzina.».

Feci una smorfia scacciandola dal mio viso nell’esatto istante in cui Kael ci raggiunse.

«Dio, più passano i giorni, più va peggio.», brontolò scrutando i corpi che avevamo coperto con alcuni teli trovati in un ripostiglio della cucina.

«Raphael ed io pensavamo di sbarazzarcene. Solo che, a quanto pare, qualcuno non vuole darci una mano.», rifilai un’occhiataccia al moro che ricambiò con una smorfia.

«Sentite. Ero un uomo d’affari prima di tutto questo-», trillò, «-io non sposto cadaveri, io maneggio soldi.»

Non credevo alle mie orecchie.

«Maneggiavi.», lo corressi.

«Non importa». Kael si accomodò a sedere accanto a me. Si passò una mano sul viso scacciando il sonno, «Lo faremo noi.». Mi scrutò con un’occhiata piatta.

Noi? Sul serio?

«Noi…Chi, esattamente?».

«Io e te. Svetlana e lui penseranno al tuo amico avvocato nel frattempo.».

Raphael scioccò le mani «E’ un’ ottima idea, ragazzo.»

Lo guardai storto. Lui ghignò e un attimo dopo si sollevò dal tavolo.

«Noi? Fai sul serio?».

Kael sbadigliò.

«Lui non avrebbe mai toccato quei corpi. E onestamente, penso che non li abbia toccati nemmeno da vivi, perciò, c’era da aspettarselo che sarebbe toccato a noi due.»

Lui sostenne il mio sguardo per qualche secondo, «Prima iniziamo e prima finiremo.».


Mi ci volle qualche attimo per mettere in moto le gambe.

«Come fai a restare impassibile?».

Poco dopo ero ferma davanti ai tre cadaveri fissandoli senza avere il coraggio di scoprirli e sapere come erano ridotti sotto quei teli.

«Impassibile?».

«Si. Insomma, ti sei procurato dei guanti e stai per sollevare dei cadaveri…»

«Stiamo - per sollevare dei cadaveri.», mi corresse.

«Stiamo.», lo scimmiottai tra i denti, lanciando gli occhi al cielo.

Il problema cadaveri andava affrontato subito, ma non senza qualcosa per spostarli dal locale.

«Che ne pensi di quella?», esordii all’improvviso indicando qualcosa oltre la vetrata.

Kael, confuso, seguì la direzione del mio indice e si guardò alle spalle.

«Sembra una pedana mobile.»

«Serve a trasportare le bevande, potremmo usarla per i corpi.»

Era una genialata, peccato che la pedana fosse stata abbandonata dall’altra parte della strada davanti ad un negozio di fiori. Non sapevamo se all’interno ci fosse o meno qualcuno e ci-MI sembrò azzardato uscire.

«Che diavolo fai?!», gracchiai quando mi accorsi che stava spostando le sedie della barricata.

«L’hai detto tu, possiamo usarla per trasportare i corpi.», mormorò con ovvietà.

«Si, ok…ma…».

Kael era più testardo di quello che potevo credere.

Se gli si dava l’input niente e nessuno lo poteva fermare.

«Almeno prendi un’arma.» Troppo tardi, era già per strada.

Oh, maledizione!

Corsi in cucina e quando spostai rumorosamente il soffietto Raphael, Svetlana e Luis - che stava seduto su uno sgabello pronto a farsi medicare - si voltarono di colpo sbigottiti.

«Karina? Tutto bene? Che succede?».

Aprii di scatto un cassetto e tirai fuori un coltello dalla lama lunga almeno dieci centimetri «Kael è uscito.»

«Come uscito?», l’espressione di Raphael era mutata in meno di un istante da perplessa a preoccupata.

«Si, è uscito perché tu hai deciso di non aiutarci!».

Ero un fascio di nervi e non feci nulla per evitare di scaricarglieli addosso.

Raphael ammonì lo sguardo ma non sembrava ferito, piuttosto, era offeso. Sbuffò dalle narici e tornò a voltarsi verso la caviglia di Luis.

Svetlana lo scrutò per un istante ma non disse nulla.

Tutto inutile. Non sarei stata io a fargli cambiare idea. Tra l’altro, non era nemmeno il momento.

Corsi alla porta. Afferrai lo stipite e mi sporsi con la testa.

Il cielo era metallico, di un grigio intensamente acceso, quasi accecante. Per strada non si sentiva volare una mosca.

Ero sola? Lo speravo.

Cercai Kael e lo vidi entrare dentro la porta a vetri del negozio la cui insegna riportava il nome Fiori e Bijoux scritto il corsivo.

Merda!

Presi un bel respiro e corsi verso l’altro capo del marciapiede.

Arrivata davanti alla porta, la spostai con cautela. Quello che avevo davanti era un grande magazzino con una scelta di piante talmente vasta che ebbi la sensazione che tutto quel verde mi stesse inghiottendo.

«Kael?», bisbigliai.

Sentii spostarsi qualcosa sul retro.

Avevo il cuore in gola.

Perché diavolo gli era venuto in mente di uscire così?

«Kael!», questa volta, anche se bisbigliando, gridai.

Più tardi mi ripromisi che gli avrei torto il collo per quello che mi stava costringendo a fare.

Sorpassai lentamente i primi due metri del negozio costeggiati da una parete con tante piante grasse che sporgevano da cassettini di legno ad essa agganciati.

Incominciavo ad intravedere lo spazio vuoto di una porta aperta e dentro il buio di una stanza senza finestre. Kael si era infilato lì dentro?

Il bancone alla mia sinistra aveva ancora penne e fiocchetti per impacchettare sparsi qua e là sulla sua superficie. Una grossa macchia di sangue graffiava il marmo marrone e nero fino al pavimento.  Non mi sentivo al sicuro e quel sangue poteva significare tante cose.

Di colpo, qualcosa cadde tonfando rumorosamente. Sussultai trattenendo un grido e strinsi entrambe le mani attorno al manico del mio coltello.

«Kael, esci da lì. Per favore…», lo supplicai. 

Qualcosa avanzò verso di me dalla bocca spalancata della porta, veloce. Più veloce.

Trattenni il respiro.

«Ho trovato queste.»

Il cuore fece tre balzi prima che la paura ruzzolasse giù lungo le mie gambe.

«Cristo, Kael», sospirai abbassando l’arma. Appoggiai una mano sul bancone. Le gambe quasi mi cedevano.

Con un sorriso luminoso, Kael poggiò sul marmo marrone tre grosse pale per scavare «Che ti prende?»

«Che mi prende?!», cercai di calmarmi subito, «Sei uscito da solo! E’ pericoloso.»

Inarcò un sopracciglio e mi sorrise sornione «Ti sei preoccupata per me?»

Ora che me lo chiedeva così gli stavo per rispondere con un odioso no.

«Certo. Potevi incontrare quelle bestie.» Mi spostai dal bancone, infilai il coltello sotto l’elastico della gonna e mi allacciai le braccia in petto, «Non potevi aspettarmi?»

Il suo sorriso svanì,  lasciando il posto ad un’espressione annoiata.

«La prossima volta lo farò, mamma…»

Mimai una smorfia antipatica.

«Cos’è che hai trovato?», cercai di cambiare discorso perché saremmo finiti sicuramente a battibeccare.

«Un magazzino e il retro di un magazzino… colmi di roba. Persino un’auto.», tornò raggiante.

Mi mossi verso l’uscio del magazzino. C’era un tanfo opprimente anche lì, ma forse il naso di Kael si era così assuefatto all’odore della morte che lo aveva ignorato.

«Hai controllato che non ci sia nessuno?»

«Non mi sembra di aver visto niente di strano, questo posto è deserto come il resto della città.»

Prese un paio di forbici e le accostò ai manici delle pale sul bancone.

«La cosa non mi rassicura.»

Kael alzò un sopracciglio. «Non ti ho mica detto di venire con me. Se hai paura torna al pub.»

Aprii la bocca per protestare ma mi fermai. Non lo avrei lasciato solo lì dentro, anche se la proposta si presentava più allettante del previsto.

Prima di superarmi e tornare dentro al magazzino, si fermò ad un passo da me: «Dovrai fidarti di me se decidi di seguirmi lì dentro.»

Scoppiai a ridere e le sue sopracciglia fecero uno scatto. «Fidarmi? Dopo che sei corso fuori dal pub senza portarti dietro un’arma? Ti sei fatto di crack, per caso?»

I suoi occhi brillarono di…divertimento?

«Perché ne hai?»

«Non posso credere che tu me l'abbia chiesto.»

Alzò il mento «Come immaginavo…Ad ogni modo ho altri piani per oggi.»

Appoggiò i palmi sullo stipite della porta e sporse il naso all’interno.

«Che genere di piani?».

I suoi occhi oltrepassarono la file di scaffali metallici che arrivavano fino al soffitto, e si fiondarono lì dove un’altra porta spalancata ci mostrava, illuminata dalla luce albina del cielo nuvolo, una Jeep nocciola.

«Deflorarti sui sedili posteriori di-», indicò la vettura, «-quella.»

Sollevai un pugno pronta per colpirlo. Ero certa di essere diventata paonazza.

«Ehi, Ehi. Stavo scherzando», ridacchiò. «Santarellina.»

Arrossii per la seconda volta perché mi sentivo veramente una santarellina. Una santarellina che, all’idea di essere deflorata sui sedili posteriori di un’auto, avvampava di calore. 

Deglutii un pugno di nervi.

Kael allungò una mano verso la mia e l’agguantò. Non seppi perché lo avesse fatto, ma tutti i pensieri sciamarono all’istante. La rabbia no. Quella difficilmente si sarebbe allontanata da me.

«Mollami la mano.»

Emise un lungo respiro. «Senti, mi dis…» Inspirò a fondo e ci riprovò. «Mi dispia…».

Lui sembrò sforzarsi oltremodo, le labbra contratte. 

«Oh, ma fammi il favore. Non sei capace di dire: Mi dispiace?».

«No.»

Alzai gli occhi al cielo.

«Non darti nemmeno la pena di provare se non lo pensi davvero.»

Sembrò pensarci e una piccola espressione divertita gli solleticò il viso.

«Affare fatto.»

Sospirai scuotendo la testa.

«Allora, qual è il tuo piano?»

Gli occhi di Kael ispezionarono ciò che avevamo davanti.

Scaffali con piante avvizzite e non, attrezzi da giardinaggio, un paio di pompe per l’acqua da cinque metri e vasi di ogni dimensione. Per non parlare, poi, di tutte quelle cose stipate così in alto sulle nostre teste da sembrarci irraggiungibili.

Poi c’era la Jeep.

«Prendiamo ciò che ci serve e carichiamo tutto sulla Jeep.»

Più facile a dirsi che a farsi. Ma sicuramente Kael non mi avrebbe fatto tornare indietro a mani vuote o senza quella dannata auto.

Mi morsi le labbra soppesando le opzioni.

Non saremmo riusciti a portarci dietro tutta quella roba a piedi, ma una buona parte si. Il problema principale era solo attraversare il magazzino al buio e comunque l’idea dell’auto era buona, ma non sapevamo se si sarebbe accesa o se qualcuno l’avesse lasciata lì di proposito.

Kael sospirò. «Senti, ti rendi conto che non posso farti fare niente che tu non voglia, vero?».

Lo guardai. «Cosa vuoi dire?».

Alzò una spalla «Che non sei costretta a seguirmi, ma penso che ripeterlo non serva.»

«Sei immune al mio potere persuasivo, perciò mi vedo costretta a farlo.» feci spallucce e all’unisono varcammo la soglia buia del magazzino.

Sorrise appena. «Se mi segui è perché vuoi farlo.»

Irritata, cercai di liberare la mano con uno strattone. La strinse di più. 

«Si può sapere perché diavolo non mi lasci andare?».

Kael spostò lo sguardo oltre un paio di ripiani mentre percorrevamo cautamente lo spazio fra le scaffalature.

«Per lo stesso motivo che ti spinge a seguirmi ovunque vada.»

Un lampo mi illuminò gli occhi.

«Io non ti seguo!»

Spostò lo sguardo su di me e mimò un’espressione eloquente.

«Devo elencarti tutte le volte che ti ho detto di non starmi fra i piedi?».

«Ok, vuoi la verità? Sono qui per te. Si, hai sentito bene. E non chiedermi perché, molto probabilmente è solo per salvarti il culo e non lasciarti morire per la tua stupidità.»

Un sorrisetto gli balenò sulle labbra.

«No, non farti strane idee.»,mi affrettai ad aggiungere. Quasi mi veniva da ridere.

«Hai chiaramente detto che sei qui per me…», il ghigno sornione che gli si era vistosamente marcato sulle labbra mi fece gonfiare una vena sulle tempie.

«So perfettamente cosa ho detto.»

Il mio cuore iniziò a battere al quadruplo della velocità. Mi ero appena resa conto di avergli dato un’impressione per un’altra.

«Non farti stupidi film in testa. Voglio solo che resti vivo.»

Kael annuì facendo una smorfia buffa e spostò nuovamente lo sguardo.

Il mio, invece, cadde sulle nostre mani intrecciate. Un gradevole calore mi era risalito lungo il braccio e… mi piaceva. Proprio non mi fidavo di quella sensazione. «E… non hai motivo per tenermi per mano. Non scappo.»

«Se avessi paura?», cinguettò.

Aggrottai la fronte. «Dacci un taglio.»

Passarono alcuni secondi e mi lasciò andare. Alzò le spalle e si solleticò il mento. «Come vuoi, ma se più tardi ti viene voglia di tenermi la mano, ti arrangi.»

«Non credo che sarà un problema.»

Kael infilò le mani nelle tasche del jeans e si dondolò sui talloni «Contenta? Possiamo proseguire adesso?».

«Certo che si.», borbottai.

Mi rivolse un sorriso particolarmente allegro mostrando due fossette che non avevo mai visto prima.

Distolsi lo sguardo e avanzai. 

«Cosa vuoi prendere esattamente?».

«Corde. Forbici. Pale, rastrelli. Tutto quello che ci può servire.»

Mano a mano che avanzavo, il tanfo si faceva sempre più pungente. Cercando di capire da dove provenisse, persi di vista Kael.

«Ehi, c’è una porta qui.» Non so come, ma era arrivato dall’altro capo del magazzino senza che io potessi accorgermene.

Possibile che non potevo lasciarlo un secondo senza che provasse a fare qualcosa di stupido?

«Kael! Maledizione.».

Fissai le ante appena visibili al buio.

Cosa c’era dietro quella porta? Avevo l’impressione che il tanfo pungente provenisse proprio da lì.

«Chissà cosa c’è qui dietro?», domandò più a se stesso che a me, mentre apriva con una spallata le doppie porte basculanti.

«Non fare rumore!» Afferrai un battente prima che sbattesse e l’accompagnai finché non si chiuse.

Scale. L'aria gelida e satura di marcio risaliva proprio da lì.

Scendendole, Kael si guardò alle spalle «Tranquilla, non c’è nessuno.»

Lo seguii aggrappandomi al corrimano con le dita sudaticce. Avevo la sensazione che mi si stesse formando un peso sullo stomaco. «Non puoi saperlo.»

«Anche se ci fosse una di quelle bestie-», guardò il manico del coltello spuntarmi dalla gonna e poi di nuovo me «saremo pronti, no?».

Sospirai.

«Non è un gioco, Kael.»

Si fermò di colpo e mi guardò negli occhi. «Dillo di nuovo.»

«Cosa?», replicai, sconcertata.

«Il mio nome.»

«Kael…?»

Le fossette ricomparvero. «Ultimamente lo pronunci in maniera diversa. Ho deciso che mi piace quando lo dici.»

Non riuscii a distogliere lo sguardo. «C’è almeno una volta, durante la giornata, dove ti risparmi di sparare cazzate?». Feci una piccola pausa. «Ah, no. Perché quando non dici cazzate le fai.» Aggrottai la fronte «Che farò questa mattina? Ma si! Mi infilerò in un magazzino che puzza di ratti morti trascinandomi dietro la povera stronza di Karina!»

«Non c’è bisogno di essere sarcastici.»

«Non lo sono. Volevo farti capire che non sempre rischiare la vita seguendo i propri impulsi… è un bene

«E’ la tua opinione.», per un momento si rabbuiò.

E io mi freddai di conseguenza.

I suoi occhi scavarono dentro le mie iridi: aspettavo che dicesse qualcosa e sapevo anche cosa.

«Se non fossi-»

«Non farlo.», lo fermai. «So cosa vuoi dire.»

Se non fosse tornato indietro a salvarmi e se non mi avesse seguita a Manassas, adesso sarebbe con i suoi genitori. Era vero. Ma non volevo sentirlo dire ad alta voce perché era la spiegazione al motivo per cui mi ostinavo a seguirlo ovunque. Per riconoscenza, per timore che potesse capitargli qualcosa, per il senso di colpa. Kael non mi era nemmeno troppo simpatico, ma quello che aveva fatto per me…andava ben oltre ciò che potevo pensare di lui.

Ghignò «Ti farebbe sentire in colpa per come mi tratti, vero?».

Sbuffai, «Nemmeno un po’», e lo superai lungo la tromba delle scale.

«E adesso muoviti. Qui dentro ci puzza.».

Kael si limitò a rispondermi con una delle sue risate roche e profonde.

Una rapida, soddisfacente, visione di me che gli facevo scendere le scale a calci mi passò davanti agli occhi, proprio sentendo quel suono. Ma mi trattenni.

Il sotterraneo dell’edificio era vecchio e le scale rivelavano in pieno la sua età. Vecchi muri di mattoni si sgretolavano in una polvere rossastra e bianca che copriva i gradini. Ci fermammo davanti ad una porta grigia e arrugginita con un cartello che diceva: Accesso consentito solo ai dipendenti.

Kael mi guardò. Arrivati in quel punto, il tanfo era ormai asfissiante. Avrei potuto vomitare se lui avesse aperto la porta.

Allungò una mano verso la leva rossa sulla porta e pigiò.

Mi coprii la bocca di riflesso.

«Mio Dio…». Da una piccola fessura in alto sulla parete, fluiva un raggio di luce che fendeva il buio cadendo su quella che era, esattamente, una montagna di corpi.

«Wow…Adesso capisco la puzza…». C’erano almeno dieci cadaveri ammassati l’uno sull’altro, sventrati o senza testa. Quelli che la testa ancora l’avevano attaccata alle spalle presentavano un grosso e vistoso foro di proiettile sulle tempie.

«Non avvicinarti», cercai di allungare una mano verso Kael ma la manica della sua T-shirt mi scivolò dalle dita.

Infilò i piedi fra i corpi ed io mi ritrovai costretta a seguirlo, imprecando silenziosamente, in mezzo a quel marasma di carne in putrefazione e odore di zolfo che mi stava alzando lo stomaco.

«Credi che siano stati mangiati?»

Kael spostò il corpo di una donna «Quasi sicuramente.»

«Pensi che chi ha fatto questo, sia ancora qui dentro?»

Il sotterraneo era più grande di quanto non potessimo vedere con la poca luce che filtrava dalla finestrella sulla nostra testa.

Se c’era qualcuno, poteva essere nascosto ovunque.

«Spero proprio di no», fece una smorfia e lasciò andare la spalla della donna.

Grossi mobiletti di metallo pieni di Dio sa cosa ingombravano tutte le pareti del magazzino, allungandosi anche là dove sembrava nascere un corridoio più stretto.

La luce riflessa sui corpi venne oscurata un paio di volte da qualche pianta piegata dal vento e le ombre disegnarono immagini sinistre attorno a noi.

«Andiamo via, Kael.», lo supplicai, ma mi ignorò.

Lo vidi chinarsi verso qualcosa. Ad un tratto, sollevò, per la canna, un fucile.

«Ecco il perché dei buchi in testa.»

Mi si inaridì la gola. «Si sono sparati…?»

«Meglio morire prima, che diventare come quelle belve.»

Già, aveva ragione. Tutti speravamo che una volta morsi qualcuno ci impedisse di trasformarci in quelle orrende creature.

Mi stavo avvicinando a lui quando…Ad un tratto, sentii scalpicciare sopra la mia testa.

Passi veloci, brevi, ovattati. Alzai lo sguardo all’istante.

Notai che sopra di me c’era un grosso tubo per il condotto dell’aria di forma rettangolare che partiva dall’ala caldaie, in fondo al corridoio, e terminava dove ci trovavamo noi.

«Hai sentito?»

Il cuore mi prese a pulsare nella carotide.

«Sentito cosa?».

Kael restò immobile cercando di captare suoni nel silenzio.

«Passi o qualcosa del genere.»

Storse un labbro, «Saranno topi. Non mi sorprenderebbe.»

Tornò a frugare fra ciò che era sparso a terra.

Di nuovo, zampettarono altri passi veloci dentro al tubo. Un balzo. Un fragore in lontananza.

E poi qualcosa ringhiò.

Io mi bloccai, impietrita.

Una sagoma velocissima saettò dietro gli scaffali facendo cadere un paio di vasi di ghisa.

«Kael…Cos’era quello?», mi tremò la voce.

Le palpebre del ragazzo si spalancarono come due fari.

«Non credo sia un topo e se lo è…E’ un topo molto grosso.»

Piccoli sbuffi d’aria tagliavano il silenzio.

Potevo sentire le unghie scalpicciare sul metallo dei mobiletti di ferro, ma non riuscivo a vedere che un’ombra informe scrutarci dall’alto.

Arretrai di un passo portando velocemente le mie dita all’impugnatura del coltello.

Qualunque cosa fosse, era troppo veloce perché io capissi subito di cosa si trattasse.

Ogni muscolo nel mio corpo si contrasse dolorosamente.

Immobilizzati sul posto, avevamo la sensazione di essere braccati.

Guardai Kael. La fronte leggermente imperlata di sudore, l’espressione seria, sgomenta. I suoi occhi fissavano un punto nel buio.

All’improvviso, qualcosa scattò da esso ringhiando come avrebbe fatto una lince.

Mi schiacciai contro la parete oltre il fascio di luce e Kael arretrò nella stessa direzione.

L’ombra, non più tanto informe, era accovacciata nella penombra e ringhiava gutturalmente.

Notai che si teneva a debita distanza dalla riga dritta del bagliore che penetrava dalla finestrella. Ma non notai solo questo…

Kael sollevò il fucile «E’ una bambina…»mormorai quasi dentro di me. La sicura del fucile scattò. «E’ una bambina, Kael!» Afferrai la canna abbassandola.

Non potevo vederla chiaramente, ma quando provò ad artigliare l’aria, il bagliore riflesse una piccola cascata di capelli biondi e sporchi di sangue.

Occhi neri, denti incrostati della medesima melassa sanguinolenta e un profondo morso sul collo.

Mi si strinse il cuore. Ringhiava, ma i versi che emetteva mi ricordavano quelli di un gattino che soffiava di paura.

Lasciai scivolare via dal fucile le dita. 

«Chissà da quanto è qui sotto…».

Mi separai dalla parete. Gli occhi alla testolina della piccola.

«Cosa vuoi fare?», Kael sembrava atterrito.

Avanzai, mi fermai e colpii rumorosamente il pavimento.

La bambina fece uno scatto indietro e poi gattonò di nuovo in avanti ringhiando.

Non superava mai il fascio di luce: voleva, ma si bloccava all’istante. E quando il bagliore la raggiungeva sembrava non vederci più. Fissava il pavimento confusa.

«La luce.», dissi. «Credo che il fatto che abbiano le pupille dilatate significhi che sono fotofobici o ciechi.»

Kael spostò lo sguardo da me alla bambina che continuava a graffiare l’aria e la osservò abbastanza a lungo per sentirsi esattamente come mi sentivo io.

«Non possiamo lasciarla così.»

L’idea di uccidere una bambina mi faceva sentire rivoltante, ma il pensiero di liberarla da quella condanna a lungo termine riusciva in qualche modo a consolarmi.

L’unico problema stava nel farlo.

«Credi di riuscire a…» mi tremò la voce.

Kael, seppur tristemente, annuì.

Sfilai il coltello dalla gonna e glielo porsi. «Farà meno rumore di quello.», indicai il fucile.

Raccolse la lama e accostò contro la parete il fucile.

«Quando entrerò nel fascio di luce, l’afferrerò e tu la colpirai. Chiaro?»

«Si.»

Presi un gran respiro, chiusi gli occhi per un secondo e svuotai la mente dal turbinio di pensieri che ci stavano ronzando dentro.

“Ok.” Spalancai gli occhi di scatto e camminai verso la luce.

La bambina seguì la mia ombra all’interno di essa ma era spaesata e la vidi digrignare i denti confusamente.

Artigliò l’aria. Una, due, tre volte. Mi chinai verso il pavimento sedendomi a terra. Alla quarta artigliata, con un gesto fulmineo, le afferrai il braccio e la tirai verso di me.

La piccola grugnì, gridò e scalciò come un’ossessa.

La immobilizzai stringendole i polsi, premendo la sua  schiena contro il mio petto e tenendo il mio collo e le mie braccia a debita distanza dalla sua bocca.

Kael avanzò verso me, impugnò il coltello e si accovacciò sulle ginocchia.

Strinsi il corpicino esile della bimba ancora più forte. 

«E’ finita. E’...finita…» Quando sentii la lama conficcarsi nell’orecchio della bambina, serrai le palpebre.

Smise di scalciare.

Senza che potessi far nulla per impedirlo, una lacrima mi vorticò giù per il viso.

La testolina bionda ricadde penzoloni sulle mie ginocchia e un piccolo fiotto del suo sangue le macchiò.

Affondai il viso nella sua camicetta logora nascondendo le lacrime. Non sapevo distinguere ciò che stavo provando. Sapevo solo di sentirmi uno schifo. Quello che ci affliggeva faceva schifo.

Madre natura aveva ricacciato il peggio di sé ed io non ero pronta a tutta la bruttura e la crudezza che ci aveva riservato.

Voltai il corpo minuto della bambina e avvolsi le sue scapole con il mio avambraccio.

Kael mi sfiorò una spalla. «Ho bisogno di un minuto.»

Ammonì lo sguardo e si sollevò da terra.

Sfiorai la guancia pallida della bambina e la immaginai chiusa dentro quel sotterraneo con i suoi genitori, mentre il mondo crollava e la gente moriva. Aveva avuto paura?

Dov’erano i suoi genitori adesso? Guardai il manto di corpi attorno a me: erano lì?

Passai l’indice sulle palpebre della piccola abbassandole.

Aveva un’espressione angelica.

Ad un tratto, mi si strinse lo stomaco. Pensai ad Alisha. Era lontana chilometri da noi e ignorava il fatto che suo figlio fosse ancora vivo. Mi immedesimai in lei per un attimo e mi parve di sentire il cuore frantumarsi in mille pezzi.

«C’è un giardinetto pubblico qui dietro.», la voce mesta e roca di Kael mi arrivò alle spalle. «Potremmo seppellirla lì e poi tornare dagli altri.»

Annuii marcando il sorriso più triste che fossi riuscita a fare…

Il fruscio delle rotelle del montavivande ronzò spezzando il silenzio.

Il cielo, ora, sembrava più ombreggiato di prima o forse era solo il mio umore che contribuiva a farmelo apparire in quel modo.

Kael spostò con il palmo della mano un’anta del cancello di metallo che costernava un parco giochi.

«Che ne dici?», mi guardò.

Mantenni gli occhi sulle altalene vuote, sulla casetta a forma di elefante e sulla piccola giostra a forma di unicorno.

«E’ perfetto.», mormorai appena.

Lasciò andare il manico del montavivande e raccolse da sopra la pedana una pala.

Avanzò verso lo spazio al centro del giardinetto, si fermò a qualche metro dalla giostra a forma di unicorno, e cominciò a scavare.

Quando la buca fu abbastanza profonda, presi in braccio il cadavere della piccola sollevandola dalla pedana, stringendola a me come se fosse ancora viva…come se l’avessi ancora potuta proteggere.

Arrivata ai piedi della buca, adagiai il suo corpo all’interno: la pioggia di terra le inondò il viso mentre Kael la ricopriva.

 

Spostai lo sguardo alla strada, perché sentivo le lacrime pizzicarmi la gola, e nel farlo, notai una rosa. Rossa. Meravigliosa. Era l’unica, sbucata fuori accanto ad una siepe. Nonostante tutto quel grigiore, quel verde spento, quella città morta troppo velocemente, lei riluceva con prepotenza, ostinata a vivere anche se il mondo era intriso di sangue e morte. Era forte. Era viva. Era stupenda.

Decisi di raccoglierla e quando la buca fu colma fino all’orlo ce l’appoggiai sopra con tutte le radici.

Kael si avvicinò a me e mi accarezzò una spalla. Gli sorrisi debolmente.

 

 Non so per quanto tempo restammo lì, fermi, a fissare la terra ma sentivo che entrambi ne avevamo bisogno.



 

  


Ma lei era di quel mondo dove le più belle cose

hanno il peggior destino,

E rosa, lei ha vissuto quel che vivono le rose

Lo spazio d’un mattino

(Francois de Malherbe)

 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Come un uragano ***


  Come un uragano.    (1)             

 

                                            8.

 ◀◀

Sul palco , le gambe metalliche dello sgabello occupato da Kael grattarono il pavimento con un rumore stridulo.

«Cosa siamo venuti a fare qui? Dovremmo tornare alla Jeep.», affondai in una delle tante poltroncine della platea, le braccia lente sulle gambe e lo sguardo distratto rivolto in direzione Kael. Attorno a me, oltre la platea e la mia testa, giravano attorno i loggioni con i loro archi e le colonne e i tendaggi di velluto. Ebbi la sensazione di vedermeli vorticare contro e perciò riportai lo sguardo in basso.

«Non finché quel brutto broncio non sparirà dalla tua faccia.»

Non era di certo portandomi a rovistare l’interno di un vecchio teatro che il mio umore sarebbe migliorato.

Tutt’altro.

Mi passai una mano sul volto sommettendo una risatina irritata. 

«Perché ho l’impressione che questa sia l’ennesima delle tue idee bislacche?»

Kael mimò un sorrisetto e senza rispondere fece scivolare via da un grosso pianoforte nero il telo che lo copriva.

Una nube di polvere si sollevò come l’esplosione di una bomba per tutto il palco.

«Carino», proferii sarcastica, «Sai suonarlo?».

Kael si accigliò e storse un labbro. «No, onestamente.»

Allungai le braccia sulle poltroncine accanto a me e le poggiai su entrambi gli schienali.

Un’espressione pensosa occupò il suo viso. Si tamburellò l’indice sul mento e poi scacciò qualunque cosa avesse pensato. Che diavolo aveva in mente?

Si mosse lungo il palco e il legno scricchiolò appena. Con un gesto svelto, spostò il tendaggio alle sue spalle e sparì dietro il fondale.

Sospirai gettando la testa all’indietro sullo schienale.

«Kael…Ci hai provato. Apprezzo che ti sia preoccupato per me, ma è ora di andare. Sul serio.».

All’improvviso dagli interfoni agganciati agli angoli del palco esplose un brano. Sollevai la testa di scatto.

La musica cambiò da pop a rock e cambiò ancora finché le casse non si zittirono per un istante, poi suonarono le prime note e…

Oh- Santa Madre di Dio.

Per un istante non riuscii a muovermi. Spalancai le palpebre e molto probabilmente anche le labbra si allargarono a dismisura.

Kael aveva addosso una specie di soprabito leopardato e un grosso - enorme - boa di piume fucsia avvolto al collo. In testa, un cappello da cowboy bianco con tante piccole fibbie argento che gli giravano attorno - di un trash unico.

Risi.

Sulle note di Good Night Moon, scese la breve gradinata che divideva palco e platea, serpeggiando fra le poltrone.

«Giuro che se ti avvicini con quell’affare ti do un pugno.»

Mimò un’espressione sorniona e ridacchiò. Quando sollevò le sopracciglia un paio di volte, in una maniera terrificantemente accattivante, per poco non lanciai un gridolino di terrore. Che poi, non era affatto terrore. Mi stavo divertendo, sul serio.

Se non fossi stata così orgogliosa, avrei sghignazzato come una iena.

Arrivò quasi nella mia prossimità ed io sollevai le gambe sulla seduta puntandoci i piedi. Si piantò davanti a me di colpo.

Abbozzai un sorrisetto divertito e provai ad allontanarlo con il palmo della mano «No… Non farlo.», ridacchiai.

«Oh invece si…», si sfilò il boa e lo fece passare dietro la mia nuca, poi mi afferrò le mani costringendomi a sollevarmi.

«Sei veramente…un idiota.» Non riuscivo a trattenermi dal ridere. Tutto quello che stavamo facendo era ridicolo.

Avevamo problemi più grandi a cui pensare, dovevamo…

Mi fece piroettare sul posto e mi ritrovai a fissare la porta d’ingresso. Le sue braccia avvolgevano le mie e fra tutte le cose che potevano attirare la mia attenzione, in quel momento, l’unica che lo fece fu il suo petto premuto contro la mia schiena.

Una parte di me voleva schizzare via lontano un miglio e mezzo da lui, l’altra - quella stupida che amava pensare cose stupide - invece, sentiva le guance bollire e caldo. Tanto, troppo, caldo.

«Un’idiota che ti fa ridere, però.», bisbigliò al mio orecchio.

Alzai gli occhi al cielo e inevitabilmente sorrisi «Touché.»

Le sue dita scivolarono nella mia mano. Mi fece voltare di nuovo. Stavamo ondeggiando. Kael mi poggiò gli avambracci sulle spalle e fissò i miei occhi verdi.

«Ti dona quell’affare», indicai il soprabito scandaloso che indossava pur di deconcentrare il mio sguardo dal suo viso.

Kael abbasso lo sguardo su se stesso e sorrise.

«Anche a te quel boa di piume.», risi.

Fino a quel momento, nessuno aveva avuto così tanta premura per me e per il mio umore.

Non avevo idea del perché Kael se ne preoccupasse tanto, ma…gliene ero grata. Vedere quella bambina morta, e tutti quei cadaveri…No, non ce l’avrei fatta da sola a scacciare quella visione dalla mia testa.

«La prossima volta, il balletto me lo aspetto da te.», ammiccò un ghigno.

Sollevai un sopracciglio e le labbra si incurvarono all’insù «Non succederà, Kael. Lo sai perfettamente.»

Ridacchiò.

«Mai dire mai.»

Ci fu una piccola pausa, ma avevo sempre odiato i silenzi, per cui ripresi a parlare quasi subito. «Credo di non aver mai conosciuto uno così, nel tuo genere. Cioè-», diedi uno schicchero al colletto del soprabito, «-ti sei infilato questo affare e hai fatto quel balletto per…».

«Per toglierti il muso chilometrico che portavi. Dovresti ringraziarmi.»

Dovevo, effettivamente.

Presi un profondo respiro e quando se ne accorse ridacchiò.

«Difficile, eh? Dire grazie, intendo.»

Mi accigliai per un istante «Un po’ come per te dire: Mi dispiace.»

Sorrise e questa volta guardarlo mi inebetì. Dio, aveva un sorriso proprio bello. NO. Schiacciai le labbra perché non potevo concentrarmi su null’altro che non fossero quei pensieri stupidi e avevo bisogno di pensare ad altro.

 «Già…».

Stavo per dire qualcosa, non ricordo esattamente cosa, ma un attimo prima di aprire bocca, il fragore di un tuono ci fece trasecolare.

Un lampo illuminò a giorno l’interno del teatro e il fascio di luce ci avvolse di colpo.

La porta si era spalancata e le ante sbattevano ripetutamente contro le pareti.

Fummo travolti dal vento.

«Ma che cazzo…» Quello non era un semplice acquazzone ma «Una tromba d’aria!». 

Kael si mosse in fretta. Corse verso la porta del teatro ed io scattai dietro di lui.

Facevamo un passo avanti e due indietro: vento e pioggia continuavano ad abbattersi su di noi invadendo l’ingresso.

Mi portai un braccio oltre la fronte. L’acqua che ci schizzava violentemente addosso ci punzecchiava gli occhi costringendoci a chiuderli.

«Dobbiamo raggiungere le porte.», disse.

Una robetta da niente, in pratica.

E ovviamente, quando le cose devono capitolare di male in peggio, il problema si moltiplica per quattro.

 Acqua e vento passarono al secondo posto sul podio dei grattacapi da risolvere.

Il fragore del tuono aveva richiamato uno sciame di belve che, agitate, si erano riversate in strada. La luce le aveva confuse velocemente e notai che si “guardavano” intorno come se avessero perso l’orientamento.

Mi chiesi da dove cavolo erano spuntate fuori: ma lo feci un attimo più tardi perché prima…

Mi lanciai in avanti, le scarpe che scivolavano sul pavimento bagnato mentre Kael si fiondava sull’anta della porta.

In quel brevissimo lasso di tempo, un nanosecondo appena, i miei occhi si incrociarono con quelli di una delle sagome, affamate di carne umana, ferma al centro della strada.

Tutto, attorno a me, rallentò per poi tornare dinamico con una ferocia inaudita. Loro ci avevano sentiti. La belva spostò la testa di lato, nella nostra direzione, e come un onda un ululato terrificante si levò dalla strada, sovrastando lo zampillio della pioggia. Scattò e un attimo dopo decine di piedi correvano nella nostra direzione.

Mi ripresi per miracolo un attimo prima di finire a terra, scaraventandomi di peso contro l’anta e afferrai il battente.

Kael spinse, con le gambe contratte e le braccia tese, l’anta verso la bocca della porta ed io, con molta più difficoltà, feci lo stesso.

La serratura fece un suono secco e poi…tutti quei corpi si abbatterono addosso alle ante facendoci fare un balzo all’ indietro.

La porta tremò e un paio di volte si piegò verso l’interno.

Ero sgomenta e non riuscivo a distogliere lo sguardo dai battenti e dagli spigoli che di tanto in tanto facevano filtrare la luce dall’esterno.

«Reggerà», mormorò Kael passandosi le mani sul viso. Il petto che gli si alzava ed abbassava velocemente.

Avevo il cuore in gola.

Volevo gridare, imprecare, rompere qualcosa, ma non feci nulla di tutto ciò.

Me la sarei presa con Kael, ma onestamente ero troppo stordita dalla paura per dire o fare qualsiasi cosa.

Impietrita aspettai che il mio cuore si calmasse prima di allentare i muscoli.

Kael spostò, di sottecchi, lo sguardo verso me «Non volevo…».

Portarmi qui? Farci rischiare la vita?

Non importava, era successo.

Scossi la testa lentamente, esausta «No, non dire niente.»

Mi allontanai dalla porta e da lui.

Non avevo idea di quale reazione potesse ricacciare il mio inconscio. Per quello che ne sapevo, avrei potuto dare di matto o peggio.

Considerai che starmene lontana da Kael per un po’, avrebbe disinnescato il detonatore dei miei nervi. Così, sorpassai la platea, salii sul palco e mi infilai dietro il tendaggio rosso.

 

Dietro il fondale, apparì un’ampia stanza dalle mattonelle bianche e grandi. Affilati uno accanto all’altro scorgevo almeno quattro tavoli da toeletta con tanto di specchio. Il dietro le quinte del teatro era moderno, nulla a che vedere con i drappi e i tendaggi della sala principale. Attrezzatura, costumi, un paio di camerini e una vera e propria stazione suono in fondo alla stanza erano stati abbandonati lì intonsi.

C’erano un paio di Fomex accantonate ad una parete. 

Afferrai il piedistallo di una delle due lampade e piegandomi cercai l’interruttore.

Con mia grande - grandissima - fortuna scoprii che qualcuno le aveva collegate ad un piccolo alimentatore portatile e nessuno le aveva mai accese perché quest’ultimo era tronfio di carica fino all’orlo.

Le sistemai in modo da far luce per tutta la stanza e le accesi.

Il bagliore giallo naturale inondò le pareti bianche in un secondo.

Sospirai.

Che stavo facendo lì? Perché avevo seguito Kael? Che idea assurda.

Continuai a ripetere bugie a me stessa per un po’, fino a che non mandai al diavolo il mio orgoglio e decisi che, si cazzo! Mi aveva tirata su il morale e seppur fosse uno stronzo e agisse sempre d’impulso, sin dalla prima volta, mi aveva salvata in mille modi diversi.

Forse, alla fine della storia, la vera stronza ero io.

Rabbrividii stringendomi nelle spalle. Ero zuppa e questo, per un momento, infilò un’imprecazione fra i miei pensieri.

Oltre ad attrezzatura e roba per il make up avevo notato dei costumi. Uno in particolare aveva un’enorme gonna a balze rosa e bianche. Forse poteva andare bene lo stesso…

Ma poi, mi immaginai correre per strada vestita da Elisabetta II e be’, il pensiero capitolò lì.

Lasciai andare la plastica che copriva l’abito e cercai altro.

I camerini avevano lunghe tende bianche a fungergli da porta. Le fissai. Magari ne avrei potuta utilizzare una come coperta. Storsi un labbro e spostai lo sguardo dal tendaggio agli abiti di scena. E dagli abiti di scena al tendaggio.

Perché entrambe le opzioni mi sembravano così assurde?

Un brivido mi incurvò la schiena.

Non andava bene. Stavo congelando.

Sollevai un braccio verso la tenda e la spostai con forza sperando che il braccio metallico agganciato alle due estremità si separasse dai ganci e cadesse a terra. Non lo fece, ovviamente.

Borbottai qualcosa ma poi, i miei occhi caddero sul riflesso nello specchio agganciato di fronte a me.

Alcune ciocche di capelli si erano incollate alla fronte per via della pioggia. Le macchie di sangue sulla mia camicetta fradicia, allargandosi, avevano creato ampi cerchi irregolari che sprigionavano aloni giallastri oltre il loro bordo.

Anche la gonna era messa male e zuppa si era incollata alle mie gambe. La pelle incominciava a prudermi.

Si, dovevo decisamente calarmi nei panni di Elisabetta II o sarei morta di freddo e dermatite.

Stavo per muovermi verso la serie di grucce quando…«Sembra che se ne siano andati», Kael apparve dall’altro capo della stanza.

Lo sguardo compunto, quasi colpevole.

«Non muoverò un passo finché non smetterà di piovere.», dissi con una certa stizza nel tono di voce.

Kael sospirò dal naso e per un po’ - un bel po’ - restò a debita distanza.

Scese un silenzio imbarazzante fra noi, rotto solo dallo scrosciare della pioggia sui vetri delle finestre.

Onestamente, non sapevo cosa dire. 

Non potevo dargli colpa di un bel cavolo di niente. C’era un motivo se mi aveva portata lì: lo aveva fatto per tirarmi su il morale. Nessuno lo avrebbe fatto.

«Ho sbagliato.», disse cogliendomi alla sprovvista, «Non dovevo trascinarti qui.».

Presi un respiro e chiusi gli occhi per un momento, «No. No, tu hai fatto bene invece.»

Lasciai perdere i vestiti e mi voltai nella sua direzione.

«Non sarei riuscita a riprendermi dopo…quello che abbiamo visto.», mi passai una mano sulla nuca. Stavo dicendo la verità, ma il disagio che mi procurava ammetterla era palpabile e se non avessi mantenuto il controllo avrei finito per balbettare frasi sconnesse.

Altro silenzio.

Odiavo i silenzi.

«Lasciamoci tutta questa storia alle spalle, ok?», capitolai dando un altro tono alla mia voce.

Non avevo idea di cosa stesse pensando Kael in quel momento ma sembrava veramente dispiaciuto.

«Kael?», richiamai la sua attenzione. Sollevò lo sguardo verso me. «Allora?».

«Si,si. Va bene.» Farfugliò.

Non indagai oltre. Non me la sentii o semplicemente temetti che facendolo lo avrei messo in difficoltà.

Non sempre cosa si pensa va detto.

«Bene.», sospirai.

Tornai a guardare gli abiti di scena poiché l’ennesimo brivido mi aveva scosso persino le budella.

Sentii Kael arrivarmi alle spalle lentamente.

«Monalisa o Elisabetta II?», sfilai dalla pila di grucce i due abiti trattenendoli per un lembo delle gonne e voltai lo sguardo verso di lui.

«Sei fradicia», mormorò con la voce stranamente troppo avvilita. Continuava a sentirsi in colpa e non lo stava nascondendo affatto.

 «Lo sei anche tu.», gli feci notare. «Quindi? Quale?», sventolai le gonne per distrarlo.

Sommesse un sorriso.

Poi allungò le braccia verso le grucce ed incominciò a spostarle.

«Tieni», mi porse un abito da Zar. Un lungo cappotto di daino imbottito, una stola di pelo e un abito stretto lungo fino alle ginocchia. «Questo è meglio.»

Lasciai andare le due gonne e afferrai la gruccia dalle mani di Kael.

«E tu?» gettai un’occhiata rapida fra i vestiti incelofanati «Non c’è un altro Zar? Magari uomo…».

Scosse la testa, «Questo andrà bene.»

Trovò un paio di pantaloni nocciola con le bretelle rosse e una camicia a quadri azzurra e bianca.

«Un…boscaiolo?», sbuffai una risatina «Ti dona, sai?»

Rise. «Che stronza. Sai, ripensandoci, Elisabetta II andava bene.», Cercò di rubarmi la gruccia dalle mani. Con uno scatto fulmineo la portai lontano, con il braccio, dietro le mie spalle.

Kael si fermò per un pelo, un attimo prima che il nostro viso si scontrasse.

Mi respirò sulle labbra e per un lasso di tempo incalcolabile mantenne i suoi occhi nei miei.

Trattenni il respiro… 

 

                                                   ➽

Rallento in prossimità della palizzata di tronchi e travi di legno.

Il cancello si apre lentamente e pigio, quel po’ che basta, l'acceleratore per avanzare all’interno dello spiazzo d’erba.

Capen Hocks è gia in movimento.

Sono le prime luci dell’alba ma trovo gli stallieri con le briglie in mano pronti a raggiungere il recinto dei cavalli. Un paio di guardie sono di vedetta sulla torretta accanto all’ingresso. E poi ci sono le massaie e qualche uomo che con vanghe e carriole si dirige verso i campi coltivati in fondo al ranch.

Joel, Callum ed Antony sono davanti alla porta d’ingresso dell’edificio principale, ma non si sono accorti di me. Li vedo parlare con un uomo, forse uno dei nuovi. 

Spengo il motore e scendo. 

«Karina.» Lorey, un uomo tracagnotto con la testa priva di capelli, mi raggiunge. Sotto i folti baffi bianchi nasconde un’espressione preoccupata.

«Dove sei stata? Eravamo tutti in pensiero.»

Lo guardo senza vederlo realmente. Lo supero e raggiungo il portabagagli.

«Ero a cercare provviste.», Apro la portiera, tiro fuori il fucile e mi porto la sua cinta sulla spalla. Poi mi avvicino uno dei borsoni, sporgendomi all’interno del bagagliaio, e lo raccolgo.

Lorey mi affianca e afferra le altre due sacche.

«M.C. dice che vuole parlarti. Il fatto che tu sia uscita senza permesso e con le sue armi lo ha fatto andare su tutte le furie.». Chiudo l’anta posteriore dell’auto e il mio sguardo incontra quello di Lorey.

«Di ad M.C. che vada al diavolo, ok?» faccio una smorfia e tiro dritto. Lorey resta attonito dietro di me ma non aggiunge altro, né mi segue. Per fortuna. Lo sento parlare con una delle massaie: l’avverte che le due borse sono mie. La donna le prende e si dirige verso il mio alloggio.

La borsa piena di medicinali pesa come un cadavere, ma non me ne curo perché ora ho ben altro a cui pensare.

«…Karina…». Joel mi ha sentita avanzare sul pavimento in cotto della veranda e si è girato di colpo.

Quando i suoi occhi azzurri si scontrano con i miei, io mi sento mortalmente in colpa e lui terribilmente sollevato di vedermi viva.

Lascio cadere la borsa a terra.

Mi corre incontro e le sue braccia cingono le mie spalle nell’abbraccio più disperato che potesse darmi. Scorgo, oltre la sua schiena, gli sguardi stizziti di Callum e suo fratello.

Vorrei dirgli di non rompere i coglioni, ma saranno furiosi come M.C. e non mi meraviglia affatto.

«Dio, non sai quanto mi hai fatto preoccupare», il suo pollice mi accarezza una guancia. 

«Perdonami.» Non so se lui riesce a vedere il manto di finzione che ho sulle spalle, e la maschera che mi sono calata sul viso.

Non lo so e forse nemmeno mi interessa.

Joel infila le dita fra i miei capelli e mi regala un bacio umido che mi stringe lo stomaco per un momento.

Gli passo i palmi delle mani dietro la schiena e quando prova ad allontanare le labbra da me, le inseguo disperatamente.

Le agguanto e continuo a baciarlo ancora per un po’.

«Dove sei stata?», mi chiede. Ha la voce arrochita e il respiro affannato.

«Volevo solo cercare provviste.», dico ammonendo lo sguardo, «Ho sentito che da Villedor stanno arrivando sopravvissuti. Alla radio tuo padre ha detto che qualcuno poteva venire qui, così, sono uscita a cercare qualcosa che potesse servirci.»

Joel mi accarezza il viso con entrambi i palmi. Ha l’aria preoccupatissima e allo stesso tempo felice «Non devi pensare tu a queste cose. Devi solo restare qui al sicuro. Cercheremo noi provviste.»

L’afflizione che gli leggo negli occhi è un cazzotto in pieno stomaco.

Capisco che l’ho fatto preoccupare oltremodo e mi sento una vile. Ma non potevo fare altrimenti.

«Sono viva e sono tornata. Non andrò da nessuna parte.», gli sorrido.

Sta per dirmi qualcosa di dolce quando Callum lo affianca urtando la sua spalla.

Mi fissa aggrottando la fronte. «Il fucile.», dice perentoriamente allungando una mano.

Mi sfilo la cinta del fucile dalla spalla e glielo porgo sostenendo il suo sguardo che, in questo momento, non è solo torvo ma nero di rabbia.

«Cos’hai qui?», suo fratello Antony tira un calcio alla borsa di Mel e mi gira attorno.

«Aprila e lo scoprirai.», lo sfido sprezzante, incrociando le braccia al petto.

Antony si china, guarda la borsa, sfiora la cerniera e poi torna a guardare me «Prega Dio che sia qualcosa di utile. M.C. non te la farà passare liscia.»

Non mi scompongo.

«Avanti. Aprila.»

Quando lo fa le sue palpebre si spalancano come le ali di una farfalla.

«Cristo Santo! Sono medicine queste?»

Ghigno soddisfatta. Anche Joel non crede ai suoi occhi.

Mi guarda allibito e chiede dove io le abbia prese.

«In un vecchio locale di Manassas, lì nessuno ha toccat-», mi blocco.

«Nessuno ha toccato…cosa?». Chiede Callum storcendo un labbro.

«Vuoi dire che c’è altra roba, lì?», Antony è già su di giri.

Scuoto le mani avanti a me e faccio un passo avanti.

«No. I militari hanno bruciato tutto il primo giorno di epidemia. Non c’è più niente lì.».

«Scusa un attimo-», Antony si solleva da terra e mi fissa come se sapesse benissimo che sto nascondendo qualcosa, «Tu sei andata lì. Come facevi a sapere che avresti trovato queste?»

Apro e chiudo la bocca incamerando solo aria. Devo inventarmi qualcosa, alla svelta.

«Perché…», pensa Karina. Pensa,«ce le ho messe io in quel locale, un anno fa.»

I polmoni si dilatano di nuovo come se avessi imparato a respirare solo in questo momento.

Callum ed Antony si guardano come per chiedersi se fidarsi o meno poi guardano Joel.

«Se ha detto che le ha messe lei, lì…perché non crederle?».

dice spalancando braccia e palmi della mani.

«Sei di parte. E’ la tua ragazza.», proferisce Callum raccogliendo la borsa da terra.

«Io mi fido di lei. Dovreste provare a fidarvi anche voi.»

Dice alzando il tono della voce quando Callum e suo fratello sono già a qualche metro da noi. Stanno camminando verso l’ufficio di M.C. con la borsa, il ché mi dice che a breve sarò convocata anche io lì dentro.

Li osservo sparire dietro la porta e poi torno a guardare Joel. I suoi occhi brillano di un bagliore strano. Furente.

«Non puoi obbligarli.», gli poggio una mano sulla spalla, «Sono l’ultima arrivata e se ben ricordi, sono anche l’unica sopravvissuta del mio gruppo. E’ normale che non si fidino di me.»

Joel abbatte lo sguardo. Lo vedo soffrire in silenzio i suoi pensieri.

«Non sei una cattiva persona, Karina. Lo dovrebbero capire.»

E’ il secondo pugno allo stomaco.

«Lo capiranno…», mormoro.

 

Dopo una mezz’ora, nessuno mi è venuto a chiamare. M.C., probabilmente, ha deciso di rimandare la ramanzina a qualche ora più tardi di adesso. Meglio così.

Sono nella dependance del ranch di Joel. Questa specie di casetta di tronchi che fa molto baita di montagna è sua e suo padre gliel’ha lasciata anche dopo che il mondo è finito senza obbligarlo ad ospitarci nessuno.

Nessuno a parte me.

Lascio gli anfibi sul pavimento e raggiungo il letto.

Mi sdraio sul materasso. E’ morbido più di quanto non lo ricordassi.

«Dio, che bello…», mugugno lasciandomi avvolgere dalle piume della coperta imbottita.

Joel sorride.

«Sai», sale con un ginocchio sul materasso e scavalca il mio ventre con l’altra gamba. «Sei mancata molto anche a lui, e a me.»

I suoi occhi sono di un azzurro fumoso magnetico.

«E tu a me.» Mimo un sorriso ma credo che sia più una smorfia per la bugia che ho appena detto.

Amo Joel. L’ho amato fino a tre giorni fa, ma ora…Se ci penso mi si blocca l’aria in petto.

Allora, mi concentro sulle sue labbra. Ci passo l’indice sopra.

«Mi sei mancata così tanto. Credevo che non ti avrei più rivista…», sussurra abbassando la testa verso di me. 

Mi bacia. Un brivido mi ruzzola lungo la schiena.

Le sue parole mi scuotono nel profondo: sono confusa, atterrita. Nella testa ho il caos più totale.

«Cosa cerchi? Cosa vuoi Karina?» solleva di pochissimo il viso da me.

«Te.», rispondo d’istinto. Ma so che non è vero. Anzi lo è. E’ solo che non riesco a togliermi dalla mente il Blue Moon e Kael e quei maledetti ricordi. E’ vivo?

Scivolo con la schiena più su, lungo il materasso. Joel mi sbottona il jeans e lo fa scivolare lungo le mie cosce. Risale e mi sfila l’intimo.

«Spogliati», gli ordino e quando lo dico la mia voce è più affannata di come la immagino.

Lo vedo togliersi la T-shirt. Il suo addome si flette e poi torna a rilassarsi. Lo scruto come un leone scruterebbe una gazzella ferita. Afferro la catenella che gli pende fra i pettorali e lo tiro a me.

Continua a baciarmi. Prima sulle labbra, poi sul collo e mi tocca il seno con una mano mentre sento che con l’altra libera la borchia della sua cinta.

Forse ho bisogno di questo. Perché quando sono con Joel, Kael sparisce per un istante dalla mia testa.

Mi solleva la maglia fino alle clavicole e si abbassa con le labbra verso la mia pelle nuda.

Istintivamente inarco la schiena e gli sento lasciarsi sfuggire un brontolio sommesso.

Una scarica elettrica mi passa attraverso e contrae ogni mio muscolo. Stringo le gambe per un attimo e poi ribalto la situazione.

Lo costringo a sedersi di lato e gli scavallo le gambe sedendomi sulle sue cosce.

Joel mi guarda dritto negli occhi e una scintilla gli illumina le iridi cerulee. La voglia. 

Lo bacio di nuovo. Senza fretta, più intensamente.

E’ devastante…

Gli infilo le dita fra i capelli biondi e mi sollevo il po’ che basta per sentirlo dentro di me.

Ma quando mi rendo conto che sono io a spingere, che sono io a continuare anche se non voglio, e sono sempre io che mi lascio sfuggire una lacrima nascondendo la fronte nell’incavo della sua clavicola, realizzo che tutta la voglia che ho di lui nasce da un’unico e solo paio di occhi che non mi lascia in pace.

Io lo odio. Io odio Kael.

Ad un tratto Joel mi ferma.

Non so esattamente se ha parlato o se mi ha solo stretto i fianchi, ma non mi muovo più. Ho smesso di ansimare, di spingere.

«Va tutto bene?». Non può vedere il mio viso e questo mi consola.

«Si.», dico.

Mi rendo conto che sono avvinghiata alle sue spalle in un modo che vuol dire chiaramente “non permettere che lui mi porti via da te”.

Lo stringo così forte che penso sia stato proprio questo il motivo per cui si è fermato.

Ho l’affanno.

«Mi dispiace, Joel.» respiro contro il suo petto, «Sul serio.».

Sento i muscoli delle sue braccia sciogliersi. Le sue mani mi scivolano sulla schiena e i suoi occhi sul viso.

Ha lo sguardo deluso. Io l’ho deluso.

«A cosa stai pensando?».

Sento il cuore accelerare.

«A niente. Sono stati solo due giorni difficili.».

Mi fa passare una mano lungo un braccio e agguanta il mio polso all’improvviso quando nota i segni della fascetta di plastica.

«Cosa sono questi?», mi solleva di scatto entrambi i polsi.

Ho gli occhi umidi più di prima. Sposto lo sguardo altrove e cerco di inventarmi l’ennesima scusa.

«Niente.», ma non mi viene nulla in mente. Se gli dirò di Mel, sono certa che metterà su una squadra di ricerca e quella ragazza non lo merita.

«Niente?», alza leggermente la voce.

Ho un sussulto.

«Ti assicuro che non devi preoccuparti.», la voce non mi esce più acuta di un sussurro.

Si irrigidisce e poi mi sposta con irruenza. Lo scavallo e mi accovaccio sul materasso. Afferro l’intimo e me lo infilo in fretta.

Si è appena alzato e si sta risalendo i pantaloni.

E’ furioso. Lo conosco. So perfettamente che quando è in quello stato si zittisce e rimugina prima di esplodere.

E’ tutto l’opposto di Kael.

Perché penso ancora a lui? E' morto. Morto!

«Hai rubato delle armi. Sei sparita per due giorni senza nemmeno dirci dov’eri diretta», dice infilando la cinta nella borchia, «Torni e scopro che qualcuno ti ha aggredita, probabilmente. Ma questo non è il lato peggiore.», si abbassa, raccoglie la t-shirt e se la infila sulla testa. Quando si volta, il suo sguardo cinereo mi schiaffeggia in pieno viso, «Sei stata a Manassas.»

Sento marcare il nome di quel quartiere con una punta di disprezzo nella voce.

«Eri lì per lui?».

A quel punto sollevo lo sguardo verso di lui. Vorrei dirgli di no ma non posso.

Schiudo le labbra.

«Lo sapevo…», sorride mesto.

«Non è come pensi!», mi fiondo verso di lui e gli afferro un braccio.

Posso leggere qualsiasi emozione nei suoi occhi.

«E com’è?», si passa una mano sul viso per scacciare la rabbia, «Stai rincorrendo un fantasma da un anno, Karina. Kael è morto. C’eravamo tutti quando è successo.».

Mi feriscono quelle parole.

E non vorrei ammetterlo proprio a lui.

Mi si contrae l’addome.

«Kael si è sacrificato per noi. Era tuo amico!», dico con rabbia.

«Era anche la persona che amavi, eppure, guardaci! Guardati!», mi arriva ad un palmo dal naso. E’ la prima volta che mi grida addosso.

Non trattengo le lacrime ma mi impongo di non singhiozzare, di non chiudere gli occhi. Voglio piangere in silenzio e voglio fissarlo dritto in faccia.

Ci stiamo ferendo entrambi a suon di colpi bassi.

Non dovevo ricordargli che Kael è stato un suo amico. Ma lui non doveva gridarmi quella frase addosso.

«Che vorresti dire?».

Scuote la testa e fa per raggiungere la porta.

Lo strattono costringendolo a restare nella stanza.

«Rispondi!».

Sospira e solleva il mento.

«Quante volte se n’è andato? Quante volte ti ha lasciato sola? Tante. Troppe. E tu, adesso, stai uccidendo qualcosa di bello per un fantasma. Per qualcuno che non ti ha mai amata veramente.»

Non capisco più nulla.

La mia mano reagisce prima del mio cervello.

Gli do uno schiaffo e il fragore suona per la stanza mortificando entrambi. Specialmente me. Perché non trovo il senso a questa reazione. Cosa mi ha fatto impazzire? La parte dove Kael non mi ama? O quella dove mando tutto a puttane per lui, senza avere la certezza che sia vivo?

O perché mi sono messa insieme al suo migliore amico dopo che…

«Joel, io…»

Mi guarda in una maniera indecifrabile che mi fa venire voglia di sotterrarmi.

Apre la porta e se la sbatte dietro.

Scoppio.

Mi porto un pugno alla bocca, vorrei colpirmi ma sarebbe inutile. Così lascio che siano le lacrime a trascinarsi via tutto quello che provo.

 

Perché deve succedere proprio ora?

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Egoista ***


“Ciò che abbiamo fatto per noi stessi muore con noi. Ciò che abbiamo fatto per gli altri dura per sempre.”

 

              

                                                            9.

Egoista.
 

 ➽

 

La verità è che non ho avuto il coraggio di passare per Manassas. Se non avessi incontrato Mel non avrei riportato quei medicinali e la Jeep. Non avrei neanche avuto una scusa per motivare la mia fuga nella notte.

Da quando Kael è morto non ho avuto né più modo, né coraggio per tornare in quel posto.

Il Blue Moon, ogni volta che chiudo gli occhi lo riesco a vedere con le sue insegne led, il videopoker, le slot…e con Raphael, Svetlana, Kael e Sanchez.

Poco prima di dormire, mi maledico perché se potessi restare ad occhi aperti, se potessi impedire ai ricordi di “svegliarsi” lo farei. Pagherei per poterlo fare.

Se solo riuscissi a dimenticare. Sto ferendo Joel nel modo più crudele che conosca.

Lui mi ama. E’ passato ormai un anno da quella notte e per mesi interi lui è stato al mio fianco. C’era lui quando piangevo disperata per aver perso il mio gruppo. C’era stato lui anche quando, gridando, gli dicevo di starmi lontano e non è andato via nemmeno quando gli avevo confessato di non aver dimenticato Kael.

Sembra passata un’eternità, dannazione.

Lo scandire del tempo è così mutevole ora.

Un anno o un giorno potrebbero avere la stessa durata e in un attimo può cambiare tutto. Imprevedibilmente, inesorabilmente, come quella notte.

«Permesso?»

Qualcuno bussa violentemente contro la porta della baita.

Mi sollevo di scatto dal materasso.

«Avanti.»

La porta si apre: è M.C.

Callum è dietro di lui ma l’uomo non gli permette di entrare. Si chiude la porta alle spalle e avanza all’interno della stanza raggiungendo la vecchia scrivania di Frassino.

Scosta la sedia e ci scivola a sedere sopra. Il  fucile stretto in una mano.

«Se sei qui per chiedermi il motivo per cui sono uscita di notte…E’ tempo perso.»

Gli dico sopprimendo lo sguardo.

«No, non sono qui per questo.»

Mi sorprende la sua risposta e sono costretta a guardarlo in volto con la speranza di percepire il motivo della sua visita.

«E allora cosa vuoi?»

L’uomo mi scruta in tralice. Mi osserva, mi studia. Cosa vuole?

«Sono qui perché voglio che tu prenda il posto di Joel nelle spedizioni.»

Spalanco gli occhi incredula.

«Cosa?»

«Hai capito bene. Mio nipote è troppo coinvolto da te. Non è lucido e rischio di perderlo durante le ricognizioni. Non c’è tempo per provare sentimenti, ho bisogno di una milizia. Di persone pronte anche a morire e tu…Bè, tu preferisci stare lì fuori che chiusa qui dentro, sbaglio?»

Sono confusa e atterrita dalla proposta. 

«Sei stata fuori dal Ranch molto più di Joel. Lui è qui da quando tutto questo è iniziato e anche se è un ottimo tiratore, non è pronto per uscire lì fuori.»

«Cosa ti fa pensare che io lo sia?»

M.C. si infila una mano nella tasca posteriore del jeans e tira fuori un blocchetto di pelle nera grande come il palmo della mia mano.

Lo apre e me lo porge.

Quando ce l’ho stretto tra le dita leggo una serie di numeri, coordinate, parole di cui ignoro il significato e un simbolo.

Ho un flash: la siringa trovata nell’appartamento del Blue Moon, il fratello di Svetlana, la milizia.

Perdo un battito.

«Non eri a Manassas, vero?»

Deglutisco.

«Non ho mentito, ero lì.»

M.C. sbuffa una smorfia e sospira «A chi hai sottratto quelle borse?»

Il tono della sua voce si fa più deciso.

«Le ho trovate.» Mento.

«Di chi sono quelle borse?», tuona.

Ho uno spasmo che mi fa oscillare sulle molle a bordo del letto.

M.C. mi fissa negli occhi per diversi istanti.

Se nomino Mel le daranno la caccia, non posso permetterlo. Qualcosa mi dice che lei è collegata a ciò che è successo qui poco più di un anno fa. Mel sa qualcosa su quella siringa, sa qualcosa sulla notte qui al Ranch.

«Un militare.», dico.

«Un militare?», sembra non crederci.«Hanno battuto ritirata molti mesi fa. Alcuni aerei del governo hanno recuperato le cellule sopravvissute. Quindi, dimmi…Come posso credere che sia stato lasciato un militare qui a morire?»

Nella mia testa c’è un gran caos in questo momento. Ho la sensazione di avere tutte le risposte ma non riesco a formulare un pensiero logico.

Mel. Mel è un militare?

Sono perfettamente certa di averla già incontrata in passato, ma non riesco a collegare la sua faccia da nessuna parte.

«Non lo so.» mi alzo di scatto «Io non lo so. Era per strada e c’erano alcuni notturni che l’avevano circondato-» Mentre parlo, davanti ai miei occhi tornano le teste glabre dei notturni nel bosco. I loro corpi trivellati, io che li uccido. «ne ho approfittato.»

L’uomo resta in silenzio per un lasso di tempo che mi sembra lungo un’eternità.

«Voglio sperare che questa sia la verità.» Si alza dalla sedia senza mai distogliere lo sguardo feroce da me.

Lo scruto attonita.

«Credi che io faccia parte del governo?»

Alla mia domanda un leggero ghigno gli alberga sulle labbra.

«Mi auguro di no…Sarei costretto ad ucciderti.»

Avanza verso la porta e ruota la maniglia.

«Partirai domani sera. C’è un baratto in atto e tu sarai la contrattatrice, eri un avvocato, dico bene?.»

«Non sono mai stata brava a contrattare.»

«Allora prega che vada tutto per il meglio.»

 

Non appena vedo la porta chiudersi alle spalle di M.C. torno a respirare.

Crollo nuovamente a sedere sul materasso: ho la testa confusa, il cuore impazzito e l’unica cosa che vorrei fare è sparire.

“Mio nipote è troppo coinvolto”.

Ho fatto un disastro con Joel.

Dovrei sparire dalla sua vita, dovrebbe dimenticarmi.

Mi tornano in mente i suoi occhi e lo sguardo che aveva quando mi ha vista tornare a Capen Hocks.

Lo sto facendo soffrire.

Sto ancora pensando a Joel quando il mio sguardo si imbatte nel piccolo blocchetto nero.

Mel.

Lo afferro e sfoglio le pagine.

Non ho idea del significato dei numeri che sto leggendo ma so che hanno a che fare con ciò che è successo al mondo intero.

Mel sa qualcosa. 

All’impatto con quel pensiero mi rendo conto che ho fatto un errore madornale lasciandola in quel bosco. Ora potrebbe essere morta e con lei tutto ciò che sa su queste coordinate e sul morbo.

«Merda!»

Tiro il blocchetto contro la parete.

Devo uscire da questa stanza, mi sta soffocando.

Infilo velocemente gli anfibi e apro la porta. 

Fuori dalla baita trovo Lorey. E’ seduto su una vecchia sedia a dondolo e sta fumando.

«Mi stai controllando?»

L’uomo solleva la testa e mi lancia uno sguardo allegro da oltre la sua fronte.

«Ordini del capo.»

Sospiro. «Deve essere una bella seccatura.»

Lo supero e mi siedo sui gradini dell’ingresso.

Lorey mi allunga la sigaretta.

Scruto le sue dita e poi nuovamente lui.

«Non mi va più.», ammette.

La raccolgo e faccio un paio di boccate, la seconda mi fa tossire appena.

E’ scesa la notte. Il falò al centro dell’accampamento si sta spegnendo. Credo che abbiano bruciato spazzatura e forse qualche notturno ucciso a pochi metri dalla staccionata principale. Alcuni uomini rastrellano la terra contenendo la cenere, altri raccolgono ciò che resta della cena condivisa in comunità all’aperto.

Donne e bambini hanno il coprifuoco anticipato, regola di M.C. e per questo sono già nelle loro tende.

Questo posto è cambiato impercettibilmente dopo quella notte in cui più di metà dei sopravvissuti è stata sterminata dai notturni, eppure, a me sembra totalmente diverso. Vuoto.

Dopo un bel po’ di silenzio, mentre i miei occhi vagano lontani, oltre il bagliore del falò e quello delle luci led, Lorey spezza il silenzio «Se continui di questo passo, farai morire di infarto quel povero ragazzo.»

L’affermazione mi spiazza.

Sposto, confusa,  lo sguardo verso l’uomo.

«In questo modo?»

«Scappando.» afferma «Joel ti ama, si preoccupa per te e tu continui a scappare da lui.»

Perdo un battito.

Non ho voglia di parlare dell’argomento.

Non so esattamente cosa rispondere. Lorey ha ragione. Quest’uomo ha maledettamente ragione. 

Resto zitta, ammonita dalle sue parole, anche se mi sta parlando esattamente come farebbe un padre.

«Continuare a cercare disperatamente Kael non lo riporterà indietro, Karina.»

Ho il magone allo stomaco e una lacrima si sgancia dalle ciglia. Cerco di nascondere il viso come posso.

«Smettere di farlo mi porterà via anche gli ultimi ricordi che ho di lui.» dico in un sussurro.

Lorey si volta del tutto verso me e mi scruta apprensivo.

«Non è vero. I ricordi che hai con Kael sono dentro di te e nessuno può strapparteli, né Joel, né i notturni. Lui resterà per sempre dentro il tuo cuore, ma devi andare avanti Karina perché ti sta ammazzando quello che stai facendo.»

Stringo le mani attorno alle mie cosce tanto da farmi diventare le nocche bianche.

Sono scossa da fremiti continui, è la prima volta che trattengo a fatica le lacrime.

«Non riesco-» provo a dire, ma la voce è rotta e difficilmente riesco a finire la frase «a darmi pace. Per me lui è ancora lì fuori che vaga in mezzo ad altri notturni ed io devo dargli la grazia. Lui merita di essere sepolto, Lorey. Lo merita.»

Mi fissa per un momento.

«No, sai benissimo che non lo cerchi per questo motivo.»

Un altro pugno nello stomaco.

«Credi che sia ancora vivo ma, Karina, nessuno sopravvive a quello che è successo a Kael. Continui a sperare che lui sia lì fuori, ma per quanto mi riguarda non c’è più nessun Kael lì fuori.»

La rabbia mi monta dentro.

«Se fosse successo a tua moglie? Se avessi perso la tua cazzo di moglie e l’avessi vista divorata dai notturni e l’indomani non avessi trovato il suo corpo…Anche tu, Lorey, staresti facendo la stessa cosa!»

Balzo in piedi.

Sono pietosa: il volto coperto dalle lacrime, il corpo che trema.

«Ho trovato solo la sua medaglietta», la sfioro «e questo per me è un segno. E’ stato lui a lasciarmela.»

Lorey sospira avvilito «Non è stato lui. Molto probabilmente è l’unica cosa che quei notturni non hanno digerito.»

L’idea mi alza lo stomaco.

«Stronzate!»

«Smettila, Karina. Non sprecare ciò che ti resta rincorrendo qualcuno che non c’è più. Vivi il presente, vivi quello che ti ha regalato.»

Mi torna in mente il bosco. L’esatto momento in cui ho sentito il ramo spezzarsi sotto il peso di qualcuno e quell’ombra che mi osservava nel buio.

Ho pensato subito che fosse lui.

Ho bisogno di credere che sia lui.

«Non posso permettermelo.» Abbasso il capo.

«Perché?», Lorey si solleva dalla sedia a dondolo e mi afferra delicatamente le spalle, «Perché continui a punirti in questo modo? Perché pensi di non poterti permettere un po’ di serenità?»

Lo guardo dritto in faccia.

«Perché lui è morto per colpa mia, per salvare me!»

Le sue spalle si afflosciano, atterrisce lo sguardo e sospira «Pensi che lui si sia sacrificato per vederti vivere quello che ti resta così? Con questo tormento interiore?»

Non lo so. Anzi lo so: no. Lui non vorrebbe questo.

Non si è sacrificato per vedermi soffrire, ma per vedermi vivere.

«Kael ti amava ecco perché ti ha permesso di vivere. E adesso Joel ti ama e non puoi permetterti di averlo sulla coscienza.»

«Non sono certa dei sentimenti che provo per Joel, forse lo sto prendendo in giro.» Non ho il coraggio di pronunciarmi guardando negli occhi Lorey.

«O non credi  sia giusto amare un’altro uomo?»

Mi sento minuscola.

«Non stai ferendo nessuno, credi che Kael non avrebbe fatto lo stesso?»

Probabilmente si.

«Questo mondo è troppo vicino alla fine per potersi preoccupare dei sentimenti di chi è morto, Karina. Vivi, perché potresti non avere un’altra occasione.»

Non ho mai sentito parole più vere e anche se il mio cuore è ferito e sanguina e la mia testa è confusa e persa, so che Lorey ha ragione.

Dovrei vivere per giustizia di chi me lo ha permesso. Dovrei dimostrare che il suo sacrificio non è stato vano, che non è morto per nulla. Che tutti loro non sono morti per nulla.

Il legno sotto i nostri piedi scricchiola appena. Lorey si volta di colpo e io seguo con lo sguardo la direzione dei suoi occhi.

Alle sue spalle c’è Joel. Ha l’aria affranta e il viso stanco.

«Dovresti andare da lui.», mi sussurra l’uomo lasciandomi andare le spalle, poi si allontana, raggiungendo il falò.

Mi faccio coraggio e raggiungo Joel che resta fermo, anche quando lo abbraccio senza dire una parola. Solo dopo un momento di esitazione ricambia la stretta.

«Mi dispiace, Joel. Io…»

«Non devi spiegarmi nulla.», mi interrompe «L’ho capito che sarò sempre il secondo e…mi va bene così se non può essere altrimenti.»

Mi feriscono le sue parole perché non corrispondono alla totale verità. Lui non è il secondo, lui è lui. Il fatto è che io sono bloccata, vorrei amarlo e ricambiarlo come merita ma forse non sono pronta.

Non sono pronta a lasciar andare la speranza di trovare Kael.

Sono un’egoista schifosa.

«Non è così, Joel. Mi serve solo del tempo.»

Sollevo lo sguardo e incrocio i suoi occhi cerulei. 

«Non sei obbligata ad amarmi ma almeno non farti ammazzare.»

Sono attonita. Mi dispiace per averlo fatto soffrire.

«Non dire così, sai che provo qualcosa per te.»

Annuisce piano «Ma non è uguale a ciò che provo io per te, per questo…Forse è meglio finirla qui.»

Mi spiazza.

«M.C. ha ragione, sono troppo coinvolto, rischio di perdere di vista il vero obiettivo che è quello di mantenere in vita queste persone. Perciò preferisco che tu-»

«Che io cosa? Che me ne vada?»

Sospira un sorriso «Non ho intenzione di chiedertelo perché so che sei brava a farlo. No, preferisco prendere le mie cose e trasferirmi da Callum. Resta pure nella baita per il tempo che ti serve, so che domani partirai per la spedizione.»

Non so cosa rispondere, sta succedendo tutto troppo velocemente.

Voglio poter ribattere qualcosa, voglio…

Sollevo una mano, non so bene cosa sto facendo, forse voglio accarezzargli il viso, ma Joel si separa da me e smette di guardarmi.

«Buonanotte Karina.»

Lo vedo entrare dentro la baita e riuscire con un borsone attimi dopo, le sue armi sono agganciate ad esso. Mi sorpassa. Il volto chino.

Sto perdendo tutto per inseguire un fantasma.

Joel ha ragione.

 

 

◀◀


I palmi mi bruciavano ancora a causa di tutta la forza che avevo impiegato per bloccare i battenti della porta principale del teatro ma, tutto sommato, poteva andare peggio. Io e Kael eravamo salvi. Malgrado tutto, un’ora dopo, però, eravamo ancora lì, nella sala audio, a fissare il soffitto senza avere la minima idea di come uscire da quel teatro e il divario di silenzio fra noi incominciava ad essere insopportabile, così lo interruppi.

«Pensi che casa tua sia un posto sicuro?»

Kael piegò la testa sul pavimento, scrutandomi oltre la sua fronte.

«Non lo so, spero di si.»

«E’ tanto lontana da Manassas?»

«Abbastanza da farmi pensare che quelle belve non l’abbiano raggiunta.»

Sapevamo entrambi che molto probabilmente di casa sua non c’era rimasto molto, ma l’illusione che potesse essere un posto sicuro, in un certo senso, tornò a darci speranza.

Era passata una settimana. Sette giorni in cui avevo visto di tutto e non ero certa di riuscire a sopportare altro.

Di una cosa ero certa però, di lì in avanti le cose sarebbero solo potute peggiorare.

«Vuoi venirci?»

Mi domandò, accorgendosi del mio silenzio.

Non mi stava guardando più. Era tornato a giocherellare con le sue stesse dita e mantenne lo sguardo fisso su di loro per un bel po’.

«Vorrei tornare a casa mia, ma prima ancora, vorrei arrivare dall’altra parte del paese…Mia madre è in un ospedale e non ho idea di come stia.», ammetto.

A quel punto Kael sospirò pesantemente, si tirò su a sedere dandomi le spalle e tornò a parlare «Non vorrei essere pessimista ma…Hai visto com'era ridotto il New General Hospital…».

Ebbi un tuffo al cuore. «Non voglio nemmeno pensarci.», mi affrettai a rispondere.

«Non vuoi, ma devi.»

Francamente la sua crudezza incominciava a darmi fastidio.

Avevo l’impressione che la mia natura di donna speranzosa lo irritasse e di conseguenza si costringeva a ponderare modi per contraddirmi, ferendomi.

«So perfettamente che c’è una grande, grandissima, probabilità che mia madre sia già morta, ma come ti ho detto, mi rifiuto di pensarci.», lo aggredii.

Kael si voltò. Adesso non mi dava più le spalle, si era voltato con mezzo busto nella mia direzione poiché mi aveva sentita balzare in piedi.

Ero furiosa e non glielo nascosi.

«Non volevo farti innervosire», proferì compunto «vorrei solo che incominciassi ad essere pronta.»

«Pronta per cosa? Per vedere la gente morire davanti ai miei occhi senza che io possa fare nulla? No, non lo sarò mai.»

«Allora non sopravviverai.», capitolò sollevandosi da terra.

In quel momento, i metri che ci stavano dividendo mi sembravano sin troppo pochi. Non volevo più ascoltare le sue parole, volevo solo uscire da quel posto e tornare a casa mia, lontano da tutto e tutti. 

«Che ne pensi di questa?», all’improvviso il suo tono cambiò. Come se non avessimo mai avuto la conversazione precedente e non mi avesse fatto saltare i nervi, Kael si avvicinò ad una finestra e me la indicò con il pollice.

«Questa…cosa? La finestra?»

«La tettoia.» rispose mimando un’espressione eloquente.

«Credi veramente che mi arrampicherò lì sopra?»

«A meno che tu non voglia restare qui dentro.», fece spallucce.

«Credi quello che ti pare, non salirò su quella tettoia. Chi ti garantisce che regga il nostro peso?»

«Nessuno, ma suppongo che lo scoprirò una volta salito lì sopra.»

Scostò l’anta della finestra in men che non si dica.

Perché era così impulsivo in tutto ciò che decideva di fare!

«Ok-Ok, aspetta…Fermati un momento.», mi affrettai a dire, sollevando i palmi delle mani.

«Finora nessuno si è fatto male, giusto? Non pensi che dovremmo rifletterci un attimino prima di rischiare di fare un volo di tre metri nel vuoto? Fra l’altro sta piovendo ancora, quelle tegole saranno scivolosissime.»

Kael mi fissò dritta in faccia, poi, all’improvviso, scoppiò a ridacchiare.

«Sei proprio una codarda.»

Aggrottai la fronte «Solo perché non amo rischiare l’osso del collo non significa che sia necessariamente una codarda.»

Mi sentii offesa.

Come si permetteva?

«Ok», Kael poggiò entrambe le mani sulle mie spalle «Andrò solo io, se tutto va bene e la tettoia regge allora salirai anche tu.»

Mi scrollai di dosso le sue mani e rimasi ferma a fissare quel dannato tetto.

«Affare fatto?»,incalzò lui, sporgendo il viso nella mia direzione.

Mi morsicai l’interno della guancia, incerta sul dafarsi.

«No, saliremo insieme», decisi d’impulso alla fine.

Tanto, anche se fosse morto solo lui, di me cosa ne sarebbe stato?

Cercai di mantenere un’espressione impassibile mentre Kael scavalcava il cornicione della finestra mettendosi a cavalcioni su di esso.

Gli avrei voluto urlare di fare attenzione in più occasioni, ma mi costrinsi a tacere.

La tettoia era sotto di noi, ad almeno un metro di distanza dalla finestra. Non era esattamente un salto nel vuoto, ma se solo osavo sporgermi con lo sguardo oltre di essa, avevo l’impressione che l’asfalto fosse lontano chilometri.

Mi ritrassi, colpa del senso di vertigine.

«Non cadrai.»

Kael mi sfiorò alla base della schiena per invitarmi a scavalcare il cornicione esattamente come aveva fatto lui, e il peso della sua mano mi bruciò la pelle attraverso la camicetta umida che mi ero costretta ad indossare di nuovo.

Di certo non potevo andarmene in giro vestita da Zar. Fra l’altro quel soprabito era veramente ingombrante.

Caldo, ma ingombrante.

Ad un tratto, ero seduta con una gamba penzoloni nel vuoto, sul cornicione e attorno a me il tempo sembrava scorrere più veloce del solito.

Dovevo scavallare anche l’altra gamba ma non riuscivo a muovere un muscolo.

«Sei pronta?»

«Ho scelta?»

Riuscii a sentire per un solo istante i suoi occhi su di me, che studiavano ogni mia reazione.

Le sue labbra si assottigliarono, guardò di sotto e poi tornò a guardare me.

Ci stavamo mettendo un’eternità solo per balzare su una tettoia ad un metro dalla nostra finestra e la colpa era soltanto mia.

Forse aveva ragione, non sarei mai riuscita a sopravvivere di quel passo. Non avevo la tempra per sopportare tutto quello che ci stava succedendo, anche se si trattava solo di dover balzare giù di un metro.

Esitai ancora e ancora e ancora.

«Non ce la faccio.» esplosi. «Non posso farlo, ok?»

«Si che puoi!»

«No Kael, dico sul serio.»

Non riuscivo a stare ferma, se avessi potuto sarei balzata per aria. Lottai per tornare dentro ma Kael, testardo com’era, mi afferrò da prima per le spalle «Karina. Karina, ascoltami.», e poi, lasciò scivolare entrambe le mani sulle mie. «Se molli ora, resteremo bloccati qui dentro»

«Non tu. Tu puoi andare, puoi saltare da questa tettoia e arrampicarti dove cazzo ti pare, ma io no. Io non posso.»

L’agitazione che mi pulsava nelle vene mi annebbiò i pensieri.

La paura aveva preso il sopravvento e non si trattava del fatto che dovessi  saltare da quella finestra, bensì di tutto ciò che ci stava aspettando fuori: i mangia-carne, le persone che stavano morendo, il semplice futuro che palesemente era stato messo alla prova più che mai.

«Ok.» Sospirò di getto «Allora non andremo da nessuna parte.»

Un velo di afflizione gli oscurò il viso.

Inclinò la testa all’indietro e l’appoggiò contro lo  stipite della finestra alle sue spalle.

«Ho detto che puoi andare. Non devi restare con me per forza!»

Schiuse una palpebra «E averti sulla coscienza? No grazie.»

Stranamente stava sorridendo. 

All’istante mi resi conto che lo stavo rallentando. Che ogni volta, cercavo di sabotare tutte le idee che aveva per metterci al sicuro.

Mossa dal senso di colpa, mi lanciai nel vuoto senza che Kael se ne accorgesse.

«Karina.»

Ero senza fiato. Mi ero lanciata sulla tettoia ed anche se ero caduta maldestramente su un fianco, essa aveva retto: ero viva.

Frastornata sollevai lo sguardo verso di lui.

«Non voglio essere la causa della nostra dipartita. Non voglio che per colpa mia tu ti senta obbligato a restare in pericolo.»

Uno strano sfarfallio prese vita nel mio petto. Ero sincera, più che mai.

Un sorriso compiaciuto apparve sul suo viso e durò un istante prima che si lasciasse cadere a qualche passo da me.

Si appoggiò alle tegole per sollevarsi.

Ero quasi sul punto di ringraziarlo per non avermi fatto arrendere alla paura, quando tornò a parlare spazzando via tutto «Ti ho mentito.»

Restai attonita per un momento.

«Non sarei rimasto a morire con te, ma era l’unico modo per spingerti a lanciarti.»

Non sapevo esattamente quali e quante sensazioni stessi provando, non era nemmeno più rabbia o astio, ero spiazzata e basta.

I nostri occhi si incontrarono e non riuscii a decifrare nulla di ciò che stesse pensando. Mi sorpassò e si sporse oltre la tettoia.

«C’è un balcone qui sotto.»

Con cautela mi sporsi anche io, sdraiandomi sulle tegole e afferrando il bordo del piccolo tetto saldamente.

Effettivamente c’era un balcone ed era molto più vicino a noi di ciò che sembrava. 

«E’ chiaro che dovremmo saltare.», disse con ovvietà.

«Lo so.», oltremodo infastidita mi obbligai a non guardarlo.

Un attimo dopo, però, lui era ancora accanto a me. 

«Sei arrabbiata.», mi disse con grande tranquillità.

«Puoi ben dirlo. Non mi piaci per niente.»

Lui ridacchiò. «Invece a me piace che cerchi di essere sincera.»

Gli lanciai un’occhiata sospettosa. «Non sto cercando di fare proprio niente: io sono sincera, a differenza tua.»

Kael si esibì in un sorriso smagliante «E’ una bugia. Una parte di te mi trova simpatico.»

Mi sollevai. «Non sono io quella che mente adesso.»

Scavallai una gamba senza pensare realmente a come mi sarei dovuta far calare dalla tettoia, quando lui, imperterrito, allungò una mano e mi afferrò il braccio, tirandomi indietro proprio mentre una tegola si stava per staccare da sotto la mia gamba.

«Occhio» mormorò. «Dubito che l’interno del tuo corpo sia carino quanto l’esterno.»

Di colpo mi resi conto di essergli estremamente vicina.

La mia mano si strinse sul suo petto. Come ci era finita lì? Non lo sapevo ma a quel punto tre erano le cose a cui stavo pensando: la pioggia, il fatto che fossi stata ad un passo dallo spalmarmi a terra come nutella su una fetta di pane e al mio sguardo posato sulla sua bocca.

Vicina. Troppo vicina.

Il mezzo sorriso di Kael si fece più definito.

Mi riscossi in fretta, divincolandomi dalla presa.

La risatina che mormorò mi fece rizzare i peli dietro la nuca.

Kael mi porse entrambe le mani. Non sapevo esattamente come ci avrebbe fatto scendere da quella tettoia ma per qualche strano motivo, avevo deciso di fidarmi.

«Sai, avresti potuto ringraziarmi per averti salvato la vita poco fa.»

«Non mi hai salvato la vita, avevo tutto sotto controllo.»

«Certo…»

Rimasi in silenzio per un secondo mentre, tenuta saldamente da lui, sporgevo metà del mio corpo nel vuoto, sorretta dai soli piedi serrati contro il bordo della tettoia.

«Se ti dico grazie, ci dai un taglio?»

«Si.»

«Grazie.»

«Ho mentito.»

Kael si abbassò quanto bastava per far sì che i miei piedi e le mie gambe fossero in direzione del balcone.

«Possiamo concentrarci sul fatto che sono penzoloni nel vuoto?», gracchiai.

Una fossetta gli si materializzò accanto alla bocca.

«Ora devi dondolarti e quando sei pronta, ti lascerò andare.»

Facile a dirsi, un po’ meno a farsi.

Dopo un paio di giri sull’altalena, finalmente ordinai lui di lasciarmi andare.

Il volo che feci mi costò caro. Ricaddi su un ginocchio, per fortuna la tettoia non era molto alta rispetto al balcone, ma temevo ugualmente di essermi rotta qualcosa.

Agilmente, Kael si aggrappò ad essa e bastò poco perché balzasse al centro del balcone. Anche lui ricadendo si fece male ad una caviglia però.

«Tutto ok?», chiese a me, serrando una palpebra mentre ponderava un modo per nascondere il dolore.

«Credo di sì e tu?»

Annuì. Ovviamente mentiva.

«Ti sei storto la caviglia.», la indicai. «Non mentirmi quando ti chiedo se ti sei fatto male.»

Kael si appoggiò al pavimento di mattonelle chiare respirando affannosamente. Inclinò nuovamente la testa «Scusa mamma.»

Alzai gli occhi al cielo.

«Puoi camminare?»

«Si, credo di si.»

Non mi disse mai quanto gli facesse male quella caviglia. Mi portò lontana dal teatro e tornammo a prendere la Jeep. Mi salvò per l’ennesima volta. A quel punto non avevo idea del perché lo avesse fatto innumerevoli volte; francamente nessuna delle cose che faceva aveva un senso reale, ma gli dovevo la vita.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** L'amore reca più male che bene ***


 

“L’amore reca più male che bene”

 

10.


 


 

E’ notte fonda e non riesco a chiudere occhio. Alcune pattuglie sono ai lati dell’ingresso principale del Ranch, posso vederle dalla finestra della baita, appostate sulle torrette di vedetta che M.C. ha ordinato di far costruire subito dopo l’attacco dei notturni un anno fa.

I fari squarciano il buio girando su loro stessi e le luci led chiodate su ogni lato della palizzata ci restituiscono una sensazione di sicurezza che ben poche volte si riesce a provare di questi tempi.

Capen Hocks, ora, sembra uno dei pochi posti sicuri in cui provare a sistemare i cocci di una vita che non tornerà mai come prima. 

Eppure, io mi sento rinchiusa in una gabbia, costantemente in pericolo. 

M.C. gestisce questo posto come meglio può: procacciando cibo, formando eserciti di giovani pronti a difendere la sua città in miniatura; si preoccupa soprattutto dei bambini e delle donne. E’ una brava persona nonostante sia un uomo burbero e se io non fossi presa così tanto dalla mia disperata ricerca, forse, lui mi aiuterebbe.

Ruoto su un fianco e le molle del materasso ballano appena.

Nella mia testa, un caleidoscopio di pensieri si proietta in ogni direzione.

Penso a Kael, a questo posto, a quella notte in cui tutto è capitolato per la seconda volta.

Il blocchetto nero è ancora sul pavimento.

«Mel…»

Chi è quella ragazza? 

«Hai ancora molto di cui parlare, Karina. Facciamo così: tu mi dai la tua storia ed io in cambio darò qualcosa a te.»

Mi tornano in mente le sue parole.

Cosa mai potrebbe darmi in cambio della mia storia e perché è così importante che io gliela racconti? Dannazione!

Schiaccio il viso sul cuscino e ci affondo dentro.

La cinepresa.

La Jeep di Mel è stata sequestrata da M.C. e molto probabilmente si trova nella rimessa dei cavalli.

Devo trovare quell’auto, dentro potrebbe esserci qualsiasi cosa.

Poi rifletto: sicuramente M.C. l’ha fatta controllare.

Sono certa che l’abbia svuotata.

Un leggero sentore di angoscia mi stringe lo stomaco. 

E se Mel avesse portato con sé documenti che riguardano il Morbo?

Torno a guardare il blocchetto.

Quel dannato simbolo sta per contagio biologico e l’ho visto una miriade di volte nei film ma, questa volta è vero, tutto vero. Che sia un militare?

Sposto lo sguardo al soffitto con le travi di legno.

“In cambio darò qualcosa a te”.

«Cosa dovevi darmi, Mel?».

Perseguitata da questa domanda, socchiudo gli occhi.


 

Ore dopo, un pugno pesante contro la porta mi sveglia di soprassalto.

«Karina, è l’alba!»

Sento la voce di Callum provenire dall’altra parte della lastra lignea.

Non è mai corso buon sangue fra di noi. Sin dall’inizio, dalla prima volta che Kael ed io siamo arrivati in questo posto, Callum si è mostrato astioso nei nostri confronti. Lui non ci voleva qui e ha sempre dichiarato di vederci come un peso più che come sopravvissuti.

Questo perché, molto probabilmente, suo padre, M.C. considerava Kael molto più pronto alla fine del mondo rispetto a lui e suo fratello gemello.

«Ho quasi fatto.», mi affretto a dire alzandomi.

Si gela. L’inverno è alle porte e sono pochi i giorni in cui l’aria mite scalda la terra nelle ore diurne.

Stringendomi nelle braccia, cerco con lo sguardo le mie cose.

C’è un comò stipato accanto ad una parete della baita. Dentro poche cose.

Apro il cassetto e afferro un maglione pesante, una T-shirt, un paio di jeans.

Indosso il tutto e mi infilo le scarpe.

«Ce ne hai messo di tempo.».

Quando apro la porta, Callum è davanti a me.

La pelle ambrata, gli occhi chiari.

«Anche tu con me?»

Annuisce.

Callum ha un’espressione baldanzosa che lo caratterizza. Credo sia una specie di sorrisetto furbo che ai miei occhi lo rende particolarmente antipatico.

Per non parlare della sua arroganza.

Mi tende un borsone scuro e un fucile che mi affretto a raccogliere.

«Andremo a cavallo.», proferisce rigido. «Sai andare a cavallo?»

Onestamente questa è la prima volta ma non intendo diglielo.

«Si», mento.

«Bene perché dovrai starmi al passo, non intendo farti da scorta.»

«Non ce ne sarà bisogno.»

Callum sta per scendere i pochi gradini che ci separano dall’ampio spiazzo d’erba quando, si gira e mi fissa dritto in faccia.

I suoi occhi stillano veleno «Solo perché mio padre ti crede pronta non significa che tu lo sia realmente.»

Resto in silenzio.

Non ho intenzione di accapigliarmi con questo stronzo. Lo sorpasso precedendolo e mi dirigo verso i cancelli principali.

Ci sono diversi uomini e qualcuno ha già messo le briglie  al proprio cavallo.

Vedo M.C. parlare con uno di loro, sembra stia dando direttive.

«Qualsiasi cosa succeda lì fuori, ricordatevi che questo sacrificio è per un motivo ben più grande delle vostre stesse vite.», dice.

Non mi piace quello che sento.

E’ come se stesse chiedendo ai suoi uomini di rinunciare alla loro vita per tenere il suo culo al sicuro.

Mantengo lo sguardo su di lui.

Non l’ho mai visto uscire da questo posto, nemmeno una volta. Quando i notturni ci hanno attaccato, lui è sparito dal Ranch assieme a Callum e suo fratello. A dirla tutta, credo che anche Joel fosse con loro, ma forse mi sbaglio.

Ho dimenticato quella notte. Ricordo solo le urla, il prato cosparso di sangue e i colpi di fucile.

E Kael. Quella parte, purtroppo, non sono riuscita a farla sparire dalla mia testa.

«Scappa, Karina!»

Se mi concentro, posso vedere gli artigli di tutti quei notturni conficcarsi nella sua carne e le loro fauci spalancarsi e mordere il suo collo.

Posso…

«Mi hai sentito, Karina?», la voce profonda e severa di M.C. mi riscuote da quell’incubo ad occhi aperti.

«Cosa?»

Aggrotta leggermente la fronte «Ho detto di fare attenzione. Lo stadio è un posto pericoloso e pullula di persone altrettanto pericolose.»

«Già…Lo stadio.» Avevo dimenticato l’obiettivo di questa spedizione.

«Dovrete procurare tutto ciò che ho scritto sulla lista che ho dato a mio figlio Callum. Sarà lui a dirvi cosa prendere una volta lì.»

Annuiamo.

Siamo in quattro ad uscire quest’oggi ed oltre Callum, non conosco nessuno.

C’è un uomo che dice di chiamarsi Gregory e ammette di avere quarant’anni, mentre l’altro, Carlos, dice di averne pochi di meno.

Sono già stati lì fuori. A differenza della maggior parte di persone che vivono qui al Ranch e ci vivevano anche prima di tutto questo, loro vengono dal centro di Los Angeles proprio come me.

«E’ tutto pronto.» Afferma un giovane, rivolgendosi ad M.C.

«Perfetto», l’uomo fa cenno alle due sentinelle di azionare la leva dei cancelli.

Lentamente la bocca del Ranch si spalanca davanti ai miei occhi.

«Ecco i vostri cavalli.» Una ragazza mi porge la briglia, non mi ero quasi accorta della sua presenza.

«Grazie.»

Incespicando leggermente, riesco a montare sulla sella.

Callum sperona il suo animale con i punteruoli agganciati ai suoi stivali e mi precede.

Lo imito e anche se, agganciate alle mie Converse, non ho alcuno sperone, l’animale comprende subito il comando e parte al galoppo in fretta.

Pochi metri dopo, per qualche ragione, mi volto a guardare il Ranch.

I cancelli si stanno chiudendo. Ho un flash.

Kael sta tirando la leva per chiudere gli stessi cancelli con tutte le sue forze, nonostante sia stato morso innumerevoli volte e quelle bestie non lo lascino andare. Dietro le sue spalle, fiamme altissime si levano su nel cielo squarciando il buio.

Uno spasmo mi contorce le budella.

Schiocco la briglia e il cavallo comincia a correre.

Voglio scappare da quel ricordo.

Vorrei che Kael non fosse mai arrivato al Ranch.

Mi sfioro il collo e tiro la medaglietta in modo che la piastrina di metallo dondoli appena sotto le mie dita. Quando passo il pollice sul suo nome, avverto un fremito di malinconia. Vorrei poterla strappare dal mio collo e buttarla fra i cespugli che scorrono veloci accanto a me, perché sono furiosa nei confronti di Kael. Non doveva abbandonarmi. Non doveva sacrificarsi: lui doveva restare qui con me.

Ma non ho il coraggio di farlo, di gettarla, e perciò la ricaccio dentro il giubbotto.

«Più veloci, dobbiamo arrivare allo stadio prima del calar del sole!», ordina Callum con un tono di voce abbastanza forte perché tutti e tre possiamo sentirlo.

E’ lui a capo di questa spedizione e anche se l’idea mi fa accapponare la pelle dai nervi, non posso far altro che obbedirgli.

 

Dopo qualche chilometro battuto al galoppo decidiamo di rallentare. I cavalli non sono stanchi, ma il viaggio di ritorno sarà più frenetico e non possiamo rischiare di rimanere a piedi.

«Propongo di fermarci al Preston Lake Park». Gregory tira verso sé la briglia e il cavallo rallenta lentamente.

«No, è una zona troppo esposta.». Callum fa fare un mezzo giro su se stesso al suo cavallo, fino a che non arriva ad un passo da noi altri.

«Io non la trovo una cattiva idea», dico, «-lì c’è un piccolo laghetto artificiale, gli animali potrebbero rifocillarsi, mentre noi…».

«Ho detto di no.» Lo sguardo austero di Callum mi passa da parte a parte.

Di riflesso resto in silenzio.

«Presto sopraggiungerà la notte, non possiamo rischiare di trovarci per strada quando il buio ci inghiottirà.».

«Sono d’accordo con Callum», interviene Carlos.

«Come non detto», mormoro appena. Callum deve avermi sentito perché mi lancia uno sguardo arido. «Come hai detto?»

Sostengo il suo sguardo «Niente. Non ho detto niente.»

Colpisco all’istante la coscia dell’animale che, dapprima nitrisce sollevandosi sulle zampe posteriori e poi riparte al galoppo senza esitare.

 

Dopo circa un’ora, il Ranch è ormai lontano come i prati sterrati e il vuoto cosmico che lo circonda. Inizio ad intravedere il profilo di un edificio a due piani. Una libreria abbandonata che conosco bene e che ricordo fosse situata molto più lontano. Evidentemente, nell’ansia di raggiungere la città prima del calar del sole, dobbiamo aver battuto parecchia strada senza accorgercene.

«Siamo vicini a Glendale.», afferma Callum spaginando una cartina geografica. Sul retro del foglio, scritto caratteri cubitali: “Los Angeles”.

Ci sono stata. Ero piccola, ma lo ricordo come fosse ieri.

Mia madre mi aveva portata lì molti anni prima di ammalarsi e di finire in coma, chiusa in una clinica.

Amava i libri e leggere, specie se doveva farlo per me.

«Lo stadio è a pochi isolati da qui.», Conclude, chiudendo la cartina.

Ha un’espressione strana sul viso, non sono certa che sia convinto di ciò che dice. 

Quando torniamo in marcia, me ne accerto «Sei sicuro che la strada sia questa?»

Glendale non esiste più. Il grande vialone costernato di vetrine, ristoranti e sale Bowling  ora è solo un cumulo di macerie informe. Carcasse di auto, muri con scritte che inneggiano alla morte e corpi che ormai sono più che putrefatti, oltre a tanta, tantissima, erba alta che spunta fra le auto abbandonate in coda al centro dell’asfalto.  Poi ci sono i loro grugniti gutturali: lontani, nascosti nel buio, in attesa che la notte scenda per poter tornare a caccia in quelle che, ora, sono le LORO strade e non più le nostre.

«Certo che sono sicuro, ho la cartina con me!», protesta stizzito.

Guardo dritto a me, oltre la mia fronte. Il tramonto, con le sue venature biancastre estese in una profonda distesa arancio, sta quasi per sparire. E’ tardi e anche Callum lo sa.

Lo scorgo con la coda dell’occhio: ha la fronte imperlata di sudore e guarda in ogni direzione mentre ci guida a passo lento tra le traverse e gli incroci di Glendale.

Carlos e Gregory ci seguono in silenzio ma, sono certa che siano titubanti quanto me.

Mentre procediamo lenti, un rumore fra l’erba ci fa impugnare i fucili d’istinto. C’è un attimo di raggelo generale e tutti restiamo ammutoliti a fissare i ciuffi d’erba che si muovono. Non c’è vento, perciò ci deve essere per forza qualcosa nascosto lì dietro.

Deglutisco. Qualsiasi cosa sia è vicina. Troppo vicina.

Un movimento brusco e uno dei cavalli nitrisce, all’improvviso.

Zoccoli scuri battono l’asfalto e lunghe zampe nocciola, saltellano spaventate fra le auto: un capriolo.

Quasi mi scoppia il petto.

«Cazzo…»

Callum sbotta in una risata nervosa «Solo un capriolo!»

«Che spavento», commenta Gregory mentre mette giù l’arma.

Abbiamo, indubbiamente, i nervi a fior di pelle.

 

                                               ****

 

Dopo esserci ritrovati per l’ennesima volta al centro di una strada anonima, sbotto.

«E’ la strada sbagliata! Callum devi darmi retta, torniamo indietro.»

Frettolosamente, tira fuori la cartina «No, non è possibile, lo stadio è proprio qui!» e mi indica un punto con l’indice.

Costringo il mio cavallo ad avvicinarsi all’animale di Callum e gli strappo la cartina dalle mani.

«Sesta Avenue.», dico, «Questa è una traversa della Sesta Avenue.»

Lo vedo impallidire e poi i suoi lineamenti tornano duri, rabbiosi.

«Ok, ascoltatemi», dice, rivolgendosi a Gregory e Carlos che nel frattempo si erano allontanati leggermente da noi, «Abbiamo imboccato una traversa, torniamo indietro. Lo stadio è vicino.»

I due annuiscono anche se leggo nelle loro espressioni una punta di stizza.

Quando fanno dietrofront, Callum si rivolge a me di nuovo: «Non dirglielo.»

«Cosa?»

«Che ho letto male quella dannata cartina, penseranno che non sono in grado di guidare questa spedizione e sai benissimo il panico cosa riesce a scaturire.»

Resto impassibile e annuisco.

Non voglio spalleggiare Callum, non lo sopporto, ma ha ragione.

Il panico genera caos e il caos, in una situazione come la nostra, sta per morte certa.

 

Il silenzio agghiacciante che ci accompagna verso lo stadio si trascina al seguito il freddo dell'inverno che è alle porte.

Stretta nelle mie stesse braccia, fatico a tenere le mani attorno alla briglia del cavallo. Quando respiro, piccole volute bianche si dissipano dalle mie labbra arrossate e screpolate. Non riesco a smettere di tremare ma devo, perché, pochi attimi dopo, vedo lo stadio: è qui, davanti ai miei occhi.

Un uomo imbraccia un fucile e fa capolino da una cabina rimediata, fatta di pezzi di copertone e metallo. Ci fa cenno di scendere dai cavalli e ordina di mostrare le mani.

«Da dove venite?»

«Capen Hocks»

Il tipo tracagnotto mi ricorda uno a cui deve piacere parecchio la birra. Ha una profonda ferita che gli solca la guancia sinistra, una folta barba nera e un cappellino blu dei Dodgers a coprirgli la testa.

Occhi scuri e minacciosi con cui sonda ogni nostra espressione.

Fa una smorfia compiaciuta «Temerari…E’ quasi notte.».

Callum sembra spazientito, socchiude per un istante le palpebre, sospira, e poi  torna a sostenere lo sguardo dell’uomo «Siamo qui per trattare. Dicci dove possiamo trovare El Gringo.»

«El…». Cogliendoci tutti alla sprovvista, l’uomo scoppia in una risata sguaiata quasi quanto quella di una iena. «Nessuno incontra El Gringo di persona, a meno che non si tratti della sua merce.»

Ho un brivido. Quindi è vero, El Gringo possiede una tratta di esseri umani!

Le palpebre mi scattano senza che io lo voglia e l’uomo se ne accorge all’istante. Fa un passo verso me, lo sguardo viscido. «Molto probabilmente, però, voi avete merce di scambio.»

E’ rivoltante il modo in cui mi guarda e quello con cui mi sfiora una mano portandosela accanto alle labbra.

Sto per tirargli un pugno quando, Gregory afferra di colpo il suo polso: «Lei non è merce di scambio.». Per un momento i due si lanciano un’occhiata all’arsenico «E’ la nostra contrattatrice.»

L’espressione sulla faccia di cappello dei Dodgers si fa terribilmente sorpresa, incredula.

 «Una donna?…Sarà divertente.» sibila venefico, recuperando il polso.

Il ghigno perfido sulla sua bocca non accenna a sparire.

Si volta e ci fa cenno di seguirlo verso la cabina. «Sapete come funziona?».

«E’ la prima volta che…», Callum esita per un momento.

Non è pronto, suo padre ha ragione.

«No, non lo sappiamo.», dico.

Il figlio di M.C. ed io ci scambiamo uno sguardo rapido. So che mi sta fulminando, sento i suoi occhi sulla mia guancia ma, al momento, non mi interessa. Stiamo perdendo tempo prezioso.

«Per prima cosa, i vostri cavalli…», il viscido allunga una mano verso la briglia che stringo fra le mie dita.

Gliela porgo e così fanno anche gli altri.

«…E le armi.»

«Nessuno di noi ti lascerà i fucili.» Callum fa un passo in avanti. Lo vedo irrigidirsi per i nervi.

Le labbra dell’uomo a guardia dello stadio si stirano notevolmente. Schiocca la lingua al palato e mimando un sorrisetto sfottente dice: «Allora nessuno di voi entrerà.»

«Dannazione Callum, lasciamogli le armi e chiudiamo questa storia.», proferisce Carlos fra i denti.

Siamo tutti tesi come le corde d'un violino.

Callum sospira arrendevole, «Ecco a te le armi.», e poggia il suo fucile nella fessura della cabina, poi invita noi a fare lo stesso.

L’uomo con il cappello dei Dodgers ci indica la strada con un movimento plateale del braccio e un inchino beffeggiatorio.

«Lo voglio morto.», ringhia Gregory fra i denti, mentre lo sorpassiamo imboccando l’ingresso laterale dell’ Eagles Stadium.

«A suo tempo, Greg.».


 

Il breve tunnel che separa il cuore dello stadio dall’esterno è coperto da un enorme telo e un secondo uomo fa da usciere spostandolo di volta in volta.

Tocca a noi. Quando ci libera l’ingresso, il bagliore accecante dei fari mi piomba sugli occhi e di riflesso li serro.

«Che cos’è questo posto?», mormora Callum incredulo.

Sbatto un paio di volte le palpebre per abituarmi a tutta quella luce e un'immensa tendopoli si materializza lentamente davanti a me.

Non posso crederci.

Ci sono bancarelle di ogni tipo. Vedo donne di ogni etnia barattare polli per barattoli di legumi, uomini scambiare proiettili per armi semiautomatiche, e tanti, tantissimi sopravvissuti.

Ho l’impressione di trovarmi in un campo pieno di cicale tanto è alto il vociare.

Non riesco a trattenere un sorriso.

«Non posso crederci…Non può essere vero…». Sembro una bambina al Luna Park. Non ho mai visto tanta gente e tutta insieme da quando il mondo è finito.

Gregory, che mi cammina accanto, accenna un breve sorriso divertito.

E’ da così tanto tempo che non vediamo detersivi e prodotti per lavarsi o Phon per i capelli.

Ho voglia di fiondarmi sulle bancarelle e barattare qualsiasi cosa.

«Non siamo venuti qui per divertirci, questo non è un momento ricreativo.» Ci canzona Callum bruscamente. Lo vedo guardingo indagare con gli occhi: questo posto non lo convince affatto.

«Mio padre mi ha lasciato questa lista di medicinali, sembra che Caroline, la figlia di una delle ultime  sopravvissute arrivate al Ranch la settimana scorsa, sia malata.»

«Sappiamo cos’ha?», gli domando.

«Febbre alta e fiato corto.»

Mi porge la lista.

«Noi ci procureremo provviste, tu pensa alle medicine.», comanda.

«Perché devo andare da sola?»

Callum mi fredda con lo sguardo ceruleo.

«Fa come ti dico.»

Non obietto. Vorrei spaccargli la faccia, ma so che il compito che abbiamo è molto più importante di Callum e del suo caratteraccio.

Rimasta sola, sommersa dalla moltitudine di bancarelle e sopravvissuti, mi addentro verso il fulcro pulsante del “mercato”.

«Scorte di proiettili!», grida qualcuno, «E’ un affare! Una scatola intera di proiettili sedici millimetri per soli sei pacchi di carne essiccata!»

«Bottiglie d’acqua!», grida un’altra donna. «Non vorrete far bere ai vostri piccoli acqua piovana! Avanti!»

Sono confusa, tutte quelle voci mi stordiscono. 

Guardo in ogni direzione alla ricerca di qualcuno che smerci medicinali ma sembrano merce rara.

Ad un tratto, una gabbia sospesa a mezz’aria e trattenuta da lunghe corde di cui non scorgo l’intera lunghezza, attira la mia attenzione. C’è una ragazza dentro: è terrorizzata. 

Qualcuno la sta barattando pochi metri sotto di lei e una folla di uomini sembra giocare al rialzo pur di accaparrarsi la preda. Una rabbia pulsante mi fa ribollire il sangue.

«Ehy! Ehy, tu!», cerco di raggiungere la sagoma di spalle che sta maneggiando un paio di blister contenenti medicinali.

Senza accorgermene, di punto in bianco, mi ritrovo al centro di un fiume umano: vengo spintonata in ogni direzione e annaspo un paio di volte.

Merda!

Mi becco un paio di gomitate in un fianco e una, la seconda, mi toglie quasi il fiato. 

Se non riemergo dalla corrente finirò schiacciata.

Sta succedendo tutto troppo velocemente: ho il cuore in gola per la paura.

Sembra che nessuno si sia accorto di me e nonostante stia gridando non incrocio nemmeno uno sguardo.

Mi manca l’aria.

Morirò.

Nel momento in cui lo penso, tutti quei volti diventano pallidi. Teste glabre, occhi senza iride, denti pronti a dilaniare la carne.

«Lasciatemi! Lasciatemi!...», grido. 

Qualcuno mi spinge lontano, rifilandomi un’occhiata torva.

Un momento prima sento le gambe molli come gelatina e troppo deboli per sostenere il mio peso, quello dopo, sono così rigida che potrei perdere i sensi e restare comunque in piedi.

Che mi sta succedendo?

Improvvisamente, una mano ruvida mi circonda il polso strappandomi alla folla.

Per un attimo, uno soltanto, il flash distorto della testa riccioluta di Kael si piazza davanti a me e mi sembra di vedere i suoi occhi scuri. Poi sparisce di colpo.

Capelli biondi, occhi chiari é «Joel?».

«E’ tutto ok, adesso.»

Mi tiene stretta, premuta contro il suo petto. Sembra che le persone non lo sfiorino nemmeno. 

Cosa sta succedendo?

«Stavi avendo un attacco di panico.», mi dice. La voce ridotta ad un sussurro, pacata e amorevole.

«Come sei arrivato qui? M.C. ha detto che non dovevi lasciare il Ranch.»

«Ero preoccupato per te.»

Ho uno spasmo.

Anche se stretta fra le sue braccia mi sento più al sicuro che mai in questo momento, so che lui non dovrebbe essere qui e che ha rischiato di farsi ammazzare per raggiungermi.

«E’ notte,», mi separo da lui bruscamente, «-potevi farti ammazzare!».

I suoi occhi profondi e fumosi mi penetrano fino ad accarezzarmi il cuore «Non è successo, perciò non preoccuparti.»

Perché diavolo fai tutto questo per me, Jo?

Ho il magone allo stomaco. E’ tutto sbagliato, questo è sbagliato.

Rischio di trascinare Joel chissà in quale disastro se non ci do un taglio. Lui è troppo preso, prova molto più di quanto non provi io per lui e questo lo farà ammazzare un giorno o l’altro.

«Sei un irresponsabile!», il vociare è troppo convulso perciò grido, «E’ pericoloso girare di notte, lo sai!-» e poi esplodo battendogli un pugno sul petto. «Non posso perdere anche te! Non posso!».

Jo fa uno scatto con le braccia, così veloce da risultarmi impercettibile. Mi stringe come non ha mai fatto prima ed io, non curante di ciò che sto creando in lui, mi lascio andare alle lacrime.

E’ vero, non posso perdere Joel: ho già perso una persona che amavo e amo tutt’ora, perdere anche lui mi devasterebbe.

«Promettimi che non uscirai più di notte.», mormoro fra i singhiozzi. Sono pietosa, sto solo aumentando le sue aspettative.

Mima di no con la testa.

Non so quanto tempo resto abbracciata a lui, ma quando ci separiamo mi pizzicano gli occhi e la sua giacca di camoscio è umida vicino alla spalla.

«Cosa ti ha mandato a cercare, mio zio?»

«Medicinali.»

Mi passo il dorso della mano sotto l’occhio che mi prude di più e scaccio una lacrima.

«Ti do una mano a cercarli.»

Annuisco. Sto provando a sorridere ma ora che lui è qui, mi rendo conto che la paura di quello che può succedere è aumentata a dismisura.

Stiamo attraversando lo stadio girando fra le bancarelle, quando Joel aggrotta la fronte e improvvisamente, la sua espressione cambia.

«Perché eri da sola?», mi domanda.

«Ordini di Callum.». Calcio un sasso che rimbalza un paio di volte, ruzzolando poi, sotto una bancarella.

Adesso so cosa sta pensando: finita la missione, sicuramente, vorrà avere un tu per tu con suo cugino.

«Callum non c’entra, Jo. Lui vuole dare dimostrazione di essere all’altezza.» Le mie parole attirano la sua attenzione. «E’ colpa di M.C., gli ha sempre fatto pesare la questione dell’essere pronto al mondo qui fuori.»

«Lo so.» E’ terribilmente serio in volto.

«Gli ho detto mille volte che deve allentare la presa con Callum. E’ terrorizzato.»

Non riesco a mettere nella stessa frase “Callum” e “terrore” ma molto probabilmente, Jo ha ragione.

«Ciò che continuo a non capire è il motivo per cui tu, unica donna, sia stata mandata da sola a barattare medicinali.»

Faccio spallucce «Che importa?»

L’espressione di Joel è un misto di pensieri e parolacce che vorrebbe dire.

Sospiro e provo a sorridere: «L'ho fatto sfigurare per ben due volte oggi-», ammetto, «prima, quando ci ha fatto sbagliare strada per arrivare qui e dopo, con la guardia di questo posto.»

Il viso di Joel si rilassa appena da potergli permettere di sorridere «Se lo hai fatto, c’era un motivo.».

Sto per dire qualcosa ma la direbbe anche M.C. e perciò ingoio le parole stando zitta per qualche minuto.

«Quelle non ti sembrano medicine?».

Noto una bancarella più piccola. C’è un uomo che assomiglia molto ad un Marines dietro il tavolo posticcio ricco di scatoline bianche e boccette di plastica scura.

«Credo proprio di si.»

Joel ed io ci avviciniamo svelti e guardiamo meglio cosa c’è di esposto.

«Medicine?»

L’uomo annuisce.

«Quanto vuoi per quella?»

«Amoxicillina?»

«Si.»

«Una scatola di proiettili.»

«Ci avete fatto lasciare le armi fuori.», gli fa notare il biondo.

«Le armi, non i proiettili.»

Deduco subito che sono proprio loro la nuova moneta di scambio.

«No, non hai capito. La guardia lì fuori mi ha fatto lasciare tutto ciò che avevo nello zaino, proiettili compresi!»

Il venditore ambulante resta impassibile.

Lo vedo mimare un’alzata di spalle e guardare altrove un secondo dopo.

«Dannazione, mi stai ascoltando?»

I muscoli delle gambe di Joel si irrigidiscono, è pronto a sferrare un pugno a quel Marines se deve.

«Jo.», gli poso il palmo della mano al centro del petto «Jo! Lascia perdere.»

Joel guarda l’uomo poi guarda me confuso.

«Non credo che ci darà quello che vogliamo senza proiettili e francamente, non ci tengo a farmi buttar fuori senza Callum e gli altri.»

Joel deve concentrarsi parecchio per riuscire a prendere aria e allontanarsi dalla bancarella.

«A che gioco stanno giocando qui dentro?», protesta.

«Non lo so, ma mi sembra tutto molto strano.»

Dodgers ci ha fatto lasciare praticamente tutto fuori e siamo disarmati, senza neanche le poche provviste che M.C. ci ha dato per il viaggio.

«Dobbiamo cercare Callum e gli altri.», dico con una certa sicurezza.

«Saranno qui da qualche parte», Joel cerca di guardare oltre le teste parlanti dei sopravvissuti, ma cercare gli altri in questo marasma è come cercare un ago in un pagliaio.

«Vieni.»

La sua mano scivola nella mia e mi invita ad attraversare una lingua di terriccio non più coperta dall’erba sintetica, in direzione di una costruzione di legno.

Sembra un chiosco, c’è anche un’insegna dipinta a mano. 

«Magari qui dentro potremo chiedere informazioni-», mi spiega «quando sono arrivato, alcuni tizi le stavano chiedendo al barista.»

Afferro il battente posticcio di una fatiscente lastra di legno che funge da porta e proprio mentre alcune campanelle tintinnano sulla mia testa, da un interfono dello stadio, viene dettato qualcosa.

«Avviso per tutti i sopravvissuti ed acquirenti-», riconosco la voce, è quella del viscido. Sembra divertito mentre parla e il suo tono di voce lo fa sembrare fuori di testa più di quanto non lo sia già. «-le porte dello stadio si sono appena chiuse, perciò, chi è dentro è dentro e chi è fuori…Bè, ormai non c’è più.» gloglotta una risata «Per chiunque volesse un comodo posto letto, nella baracca 802 Austyn regala dolci sogni su veri materassi, affrettatevi!».

Joel ed io ci guardiamo atterriti. 

«Cosa? E’ uno scherzo?».

«Non credo proprio.» Ora lo vedo, è preoccupato.

«Ascolta Karina, dobbiamo trovare gli altri e uscire in qualche modo, questo posto non mi piace per niente.»

«Io non azzarderei nulla, al posto vostro.» La terza voce fra di noi appare all’improvviso da dietro la porta posticcia. Ci voltiamo.

E’ un uomo anziano a parlare: abito elegante di colore nero, capelli lunghi sulle spalle, bianchi e sporchi.

«Chi diavolo sei?», gli domanda Joel bruscamente.

«Joel!», spalanco le palpebre. Dobbiamo cercare di non dare nell’occhio e rispondere in maniera aggressiva non è esattamente il modo migliore per non finire nei guai.

«Già-» guarda di nuovo l’uomo «scusa.»

L’anziano sghignazza e tossisce contemporaneamente.

«Sono Austyn».

L’Austyn dell’interfono.

«L’affitta camere?»

Annuisce.

E’ strano che si rivolga solo a Joel, ma cerco di non dargli importanza.

«Se proverete a scappare, spegneranno le luci UV che si riflettono sulla strada.»

Alzo lo sguardo e le vedo dentro e fuori dall’edificio.

«Qui dentro siete al sicuro, per lo meno, se non decidete di cercare guai. Sapete, le facce nuove, qui dentro, non piacciono a nessuno.» Ci fa l’occhiolino.

Jo aggrotta la fronte «Immagino quindi, che per non averne dovremmo alloggiare da te.»

Ride di nuovo.

«Si, ma siccome mi sembrate due persone a posto-» ci invita a seguirlo, con il gesto di una mano, dentro la baracca «vi affitterò una stanza gratis.»

Quello che vedo quando entro è il bancone di un bar, un paio di sgabelli e diverse bottiglie senza etichetta con liquidi di colori diversi.

«Affitta camere e barista…Però! Quello che fa un’apocalisse non lo fa una vita intera.»

Austyn mi guarda e sorride mostrando un fila di denti gialli.

«Sono tempi duri, ci si reinventa.»

Seguiamo l’anziano dietro una seconda porta. Noto che trascina una gamba e si caracolla a fatica. E’ magro, emaciato e ad occhi e croce anche ubriaco fradicio.

«Dobbiamo per forza?», bisbiglio all’orecchio di Jo.

«Dammi solo un po’ di tempo per capire come muoverci.»

La baracca è abbastanza grande da ospitare tre stanze da letto. Una è libera, mentre dalle altre si sente di tutto e non sono suoni o rumori piacevoli.

Austyn sorride quasi imbarazzato «Non sono insonorizzate, ma mi adopererò per migliorarle.»

Piega una maniglia intagliata nel legno e ci indica una torcia ad olio.

«E’ già pronta, vi basterà un accendino.»

Per fortuna ne ho uno, cappello dei Dodgers non se l’è tenuto.

«Grazie Austyn.», gli dico.

Lui piega il capo per un attimo e abbozza un altro sorriso sdentato.

Joel raggiunge velocemente la torcia e gli porgo l’accendino.

Non c’è nulla nella stanza se non una vecchia rete cigolante, un materasso logoro e una cassapanca accanto ad esso.

Schiaccio le labbra tra di loro, vorrei commentare tutto questo ma non mi escono le parole.

«Non è sicuramente Capen Hocks.», mormora Jo mimando un sorriso stentato. Affonda a sedere dalla sua parte di letto e si toglie la giacca.

«Quel posto mi ha viziata.».

Faccio lo stesso e abbandono il piumino sul pavimento, poi ci sdraiamo entrambi.

Per un momento restiamo tutti e due in silenzio a fissare il soffitto. Ho mille pensieri per la testa e per la prima volta mi rendo conto che non sto pensando al passato.

«Mi è mancato condividere il letto con te.», dice quasi sottovoce, all’improvviso.

«Anche a me, ma resto dell’idea che hai ragione Jo, è meglio stare lontani per un po’.»

Non ho il coraggio di voltarmi e scoprire che espressione ha il suo viso. Lo sento sospirare sommessamente.

Ci sarebbero così tante cose da dire, da chiarire, ma proprio non riesco a parlare. Qualsiasi pensiero adesso è sconnesso.

Joel allunga una mano verso la mia testa e infila le dita fra i miei capelli, giocherellandoci.

Non riesco a chiedergli di smettere.

«Lo rifarei altre mille volte…Venirti a cercare, intendo.»

Solo adesso, ruoto su un fianco e lo guardo.

«Non voglio che tu venga a cercarmi.»

«Lo so.»

E’ così triste. 

Se solo non fossi così disperata.

«Continuo a ferirti nonostante tu faccia qualsiasi cosa per me.», ho un groppo in gola, «Perché lo fai? Perché ti fai del male?»

Incrocia il suo sguardo al mio «Perché sento che è la cosa giusta da fare», fa una piccola pausa e poi riprende «Credi che non sappia che usciti da questo posto, tu prenderai il tuo cavallo per tornare chissà dove?».

Sento gli occhi pizzicarmi perché è proprio ciò che ho pensato di fare in segreto.

Fa spallucce «So come sei, so quello che ti passa per la testa e so che c’è quel fantasma che ti perseguita. Ormai l’ho capito.»

Ruota su un fianco anche lui ed ora il nostro viso è a un palmo di distanza «Ma questo non mi impedisce di amarti lo stesso, anche se tu non ami me.»

Con il cuore a mille, faccio l’errore più stupido che posso commettere in un momento come questo: lo bacio.

Ed è il bacio più disperato che io gli abbia mai dato.

Uno di quei baci che grida “aiutami” ma che lo grida alla persona sbagliata.

Senza tradire le emozioni, gli salgo cavalcioni sopra.

Lui si tira leggermente su con la schiena e la sua mano mi scivola lungo la spina dorsale risalendola fino ad intrecciare le dita fra i capelli.

Ho un sussulto di piacere quando mi bacia scendendo lungo il collo.

C’è meno rabbia, meno tensione adesso ed è bellissimo sedergli in grembo quando il nome di Kael non esce dalle nostre bocche.

«Non sei costretto a farlo se pensi che questo peggiorerà le cose.», mormoro contro la sua bocca.

«Credo sia un po’ troppo tardi per pensare a questo.»

Mi viene da sorridere: una curva spontanea delle labbra che non comando.

Non mi sto chiedendo perché sia io a sfilargli il maglione e sia sempre io a chiedergli di fare lo stesso con ciò che indosso. Non voglio pensare.

Se questa è la fine del mondo, se ho già perso chi amo, voglio mettere il cervello in off e vivere ogni singolo istante che mi resta.

Rimango a fissarlo per un secondo: il torace allenato e tutte le cicatrici che questo inferno in terra gli ha inferto.

Ha un ciondolo legato con una corda di caucciù. Una pietra celeste come i suoi occhi.

«Era di tua madre?»

Annuisce.

«Non sei l’unica che non riesce a separarsi dai fantasmi», indica la piastrina con il nome di Kael.

Per un istante, mi vergogno. Non voglio che quello che sta per succedere sia impresso nella sua mente insieme allo scintillio di questa medaglietta.

Respiro affondo e infilo le dita fra la pelle e la catenina di acciaio. Me la sfilo.

Le palpebre di Joel si spalancano inavvertitamente.

Non riesco a dirgli che lo faccio per lui, per correttezza e perché c’è una parte di me che lo ama, davvero.

L’abbandono sul materasso e torno a baciarlo.

Mi sfilo i pochi indumenti che ancora indosso e scopro che la sensazione di essere nudi, il contatto della nostra pelle, suscita in me mille emozioni diverse e contrastanti.

Mi solleva leggermente e mi sento riempire quando mi abbassa su di sé.

Tengo gli occhi socchiusi e muovo lentamente i fianchi, cercando di alleviare la pressione. Non è di certo la prima volta che ho un rapporto con qualcuno, eppure, ogni volta ho l’impressione che sia la prima.

Emette un gemito di piacere e si scusa, mi promette di lasciarmi un po’ di tempo per abituarmi. Non so quanto tempo passa, ma poi ricomincio a muovere i fianchi. Più mi muovo più il fastidio si allevia e con esso il timore e il senso di colpa. Joel mi tira più vicina a sé. Gli poso una mano sul petto e continuo a muovermi così.

Tengo gli occhi aperti per poter continuare a guardarlo; ha la fronte imperlata di sudore.

Vederlo così, con il labbro stretto fra i denti, gli occhi fissi sul mio viso tanto che sento il suo sguardo bruciarmi addosso, è travolgente.

«Sei tutto per me. Non posso perderti», dice, mentre gli bacio il collo e la spalla. Ha la pelle salata, umida, perfetta. 

Mi si stringe lo stomaco e tradendo i miei pensieri, aumento la velocità.

Joel non è uno stupido, si accorge subito del mio disagio.

Mi costringo a non piangere: è già successo dopo essere tornata dal bosco.

Non voglio separarmi da lui e non voglio rovinare questo momento.

Infilo le dita dietro la sua schiena, conficcando le unghie nella pelle delle sue scapole. Jo geme ancora e mi accarezza la schiena.

Che sto facendo?

Sappiamo entrambi come andrà a finire: io non resterò al suo fianco.

Magari non fuggirò a cavallo uscita da questo posto, ma di sicuro lo farò dopo aver raggiunto la Jeep di Mel.

Devo ispezionare quell’auto, assolutamente.

I nostri gemiti si intrecciano ai nostri corpi mentre raggiungiamo il culmine insieme.

Non ora, Karina. Scaccio violentemente il pensiero.

Joel si lascia ricadere all’indietro sul materasso e io con lui.

«Fa attenzione, Karina.», ha il respiro affannato.

Vorrei potergli dire di non preoccuparsi ma sarebbe superfluo.

«Non posso assicurarti che sopravviverò, ma combatterò perché questo accada.»

Lo sento irrigidirsi per un solo istante anche se continua ad accarezzarmi la testa intrecciando le dita ai fili scuri dei miei capelli.

Gli appoggio la testa sul petto e sento rallentare progressivamente il battito del cuore.

Ci addormentiamo così, ignorando se l’indomani ci saremmo rivisti.



































 

 











 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Proteggere ***


“Proteggere è istintivo, è più che amare ; proteggere è il superlativo assoluto della presenza.

Ma non è per tutti e non è da tutti.”

11.

 

Chi sei Mel? Cosa vuoi darmi in cambio della mia storia?

Ti ho lasciata in quel bosco…Io ti ho lasciata in quel maledetto bosco!

Sarai sicuramente già morta ed io non saprò mai cosa avevi per me. 

Sono una stupida. Una stupida!

Spalanco gli occhi. Ho il cuore a mille e quella terribile sensazione di quando ci si è appena resi conto di aver sbagliato tutto irrimediabilmente mi opprime. Nella mia testa brulicano mille pensieri. E’ un vortice, mi da la nausea.

Ho lasciato Mel da sola, senza un mezzo, alla mercé di quelle belve. Cerco di raccogliere i pensieri. So cosa devo fare una volta uscita da qui e non si tratta di Kael, non devo cercare lui, non subito per lo meno. Devo tornare in quel bosco. 

Trovare quella ragazza è la questione principale ma prima ancora, devo perquisire la sua Jeep. Sono certa che il simbolo sul blocchetto e quello che troverò all’interno della sua vettura mi faranno venire a capo di tutta questa storia. 

E’ già sorta l’alba. Ho il corpo indolenzito e la cervicale a pezzi, per questo ci metto qualche momento prima di riuscire a sciogliere i muscoli delle spalle e sollevare la schiena dal materasso. Joel dorme ancora. 

Dentro di me, ogni fibra del mio corpo è elettrica. Sono sovraccarica ma adesso devo concentrarmi sulla missione. Qualcosa mi dice che trovare il resto del gruppo e uscire da questo posto non sarà una passeggiata.

«Jo?», provo a scuoterlo, «Jo, svegliati.».

Lui mugugna appena e scuote un braccio.

«Dobbiamo cercare gli altri, Joel.», dico più decisa.

A quel punto si volta, ha gli occhi impastati dal sonno. Si passa una mano sul viso e impreca qualcosa fra i denti.

«Buongiorno bell’addormentato.», gli sorrido.

«Per un momento ho creduto di essere ancora al Ranch.»

Ammonisco lo sguardo per un istante: sarebbe bello, si.

«Ma siamo qui-» mi sgranchisco le braccia «-perciò, diamoci una mossa.».

La sua espressione è talmente impenetrabile che decido di non chiedermi a cosa stia pensando. Molto probabilmente, preferisco non saperlo. Mi fissa ancora per un istante, poi, finalmente, ricambia il mio sorriso con uno appena accennato.

Vorrei baciarlo come ero solita fare ogni mattina prima che fuggissi dal Ranch. Non lo faccio ovviamente.

Jo ed io abbiamo deciso di allontanarci per il nostro bene, perché sappiamo perfettamente che stare vicini, prima o poi, ci farà ammazzare. Lui lo sa. Io lo so.

«Ok…», sospira, «E’ il momento di andare.»

Raccolte le poche cose che cappello dei Dodgers ci ha permesso di portare all’interno dello stadio, usciamo dalla stanza.

L’aria è satura di polvere che aleggia attorno a noi e al bancone logoro della baracca.

Lingue di luce penetrano dagli spiragli nel legno e mi danno la certezza che sia giorno inoltrato.

«Siete svegli!»

Austyn è dietro il bancone, gomiti premuti contro il legno, aria meschina stampata in volto.

«Quindi…Siamo apposto con il pagamento?», domanda Jo esitando appena.

Austyn annuisce solerte socchiudendo le palpebre «Ma certo! Vi ho dato la mia parola.».

«Perfetto.»

Ce ne stiamo per andare.

Jo mi sfiora la schiena con il braccio invitandomi verso l’uscita, ma proprio mentre sono ad un passo da essa, Austyn si muove di scatto.

Come se qualcosa lo turbasse terribilmente si affretta a dire: «Oh, vi prego…Non andate via così, senza nemmeno aver consumato la colazione!».

Con un gesto nobile della mano ci indica due tazze fumanti di quello che lui stesso dice di essere «caffè.».

Caffè. Mi sembra una vita fa che lo stavo sorseggiando seduta al bar durante la pausa pranzo.

Guardo Jo, sono smaniosa. Lo voglio bere anche se so con certezza che non sarà mai buono come quello di un tempo.

«Non mi convince.», mormora lui. Non ho idea del perché abbia la costante percezione di pericolo in tutto ciò che ci circonda. E’ una peculiarità che caratterizza il suo modo di essere che, per carità, ci ha aiutati in svariate occasioni, ma spesso mi innervosisce.

«E’ solo caffè.», provo a fargli notare.

Lo scruta un momento.

«Se fosse avvelenato?» mi chiede a bassa voce.

Aggrotto la fronte «Avvelenato.».

«Si, avvelenato!».

«…Ti prego…».

Scuoto la testa e mentre lo faccio, mi sto già dirigendo verso il bancone.

«Karina!», prova a fermarmi.

«Sei sempre così esagerato.» Mi siedo su uno sgabello e fisso Jo aspettando che mi segua.

«Allora?».

Sospira arrendevole.

«Ok,ok.»

Il primo sorso mi contrae lo stomaco, è forte. Poi, riscopro un sapore che non provavo da tempo. Quasi mi commuovo.

«Buono?». Mi ero praticamente scordata di Austyn. 

Annuisco.

«Non bevevo del caffè da…»

«Quando tutto questo è iniziato?»

«Già.» Per un momento, l’espressione malvagia che la mia testa evoca sul volto del vecchio Austyn sparisce, lasciando spazio a quella di un uomo stanco e solo. Accenna un sorriso disteso.

«Ho una figlia.» dice di getto mentre impugna un barattolo di latta e ci passa una pezza dentro, «ti somiglia molto, sai?».

«Ora dov’è?». 

Joel mi tira un colpetto con il gomito. Lo guardo e lui fa cenno con il mento verso qualcosa oltre le spalle di Austyn. Una foto, qualche rosario attorno. Una ragazza castana come me che sorride impugnando un mazzo di fiori.

Merda. Sua figlia.

«No, no, tranquillo caro. Prima non ne parlavo spesso, ma ora è quasi come se parlarne mi facesse bene. Ho l’impressione che quando nomino la mia Carmilla lei appaia qui, accanto a me.»

E’ un momento così triste.

Il viso di quest’uomo è triste.

«Era una ragazza che amava la vita e le persone, tanto da decidere di intraprendere gli studi di medicina. Voleva aiutare il prossimo, salvare quante più vite possibile.» fa una breve pausa «Purtroppo però, proprio la sua passione me l’ha portata via.» 

Capisco subito che sua figlia era fra i primi aiuti mandati per contenere il morbo quando non si sapeva ancora a cosa stavamo andando incontro.

Allungo una mano verso le sue rugose . «Mi dispiace così tanto.».

Austyn mi lancia un’occhiata lasciva che mi fa capire che sta soffrendo ma allo stesso tempo ho la percezione che provi repulsione per questo momento.

Mi confonde.

Fissa le mie dita intensamente ma poi allontana le sue mani da me.

«E’ così triste che delle giovani vite vengano spezzate ingiustamente.».

Fa un passo indietro e abbassa lo sguardo. Colpevole. Di cosa però?

«Voi siete una coppia meravigliosa, ed è un peccato…Veramente.»

Sposto, esitante, lo sguardo verso Joel. E’ confuso quanto me.

Poi, all’improvviso, la porta di legno alle nostre spalle si spalanca. Sento armare un paio di fucili. Il ferro tintinna: qualcuno ce li sta puntando contro.

«Ecco dove vi nascondevate!», dice una voce alle nostre spalle «Ottimo lavoro, Austyn.»

 

                                                ******

 

Un ronzio mi spacca la testa. Qualcuno mi colpisce in faccia ma è tutto proiettato a rallentatore.

Rimbalzo contro la terra arida dello stadio. Il sole è alto nel cielo ma io non posso che vedere la terra mista a sabbia che mi riempie le narici. Legata con i polsi serrati dietro la schiena, stento a rendermi conto della situazione.

Un attimo prima ero nella baracca di Austyn, quello dopo, qualcuno mi colpisce ripetutamente all’addome, al volto e mi lega senza che io possa opporre resistenza.

Joel viene spinto al suolo accanto a me. Un rivolo di sangue gli gronda sul viso. Ha il sopracciglio spaccato e un labbro gonfio.

Lo hanno picchiato esattamente come hanno picchiato me.

«Jo», tossisco sabbia.

«Sei ferita?», mi chiede ansimando.

Non lo so, non riesco a vedere granché del mio corpo.

«Sto bene.», dico. 

Sento passi provenire da un punto non troppo lontano oltre la mia testa e brusio alle mie spalle, poi qualcuno mi afferra per la nuca e mi solleva la testa. E’ cappello dei Dodgers.

Ha un sorriso diabolico e mentre mi parla un rivolo di saliva gli zampilla dalle labbra.

«Siete riusciti a far scomodare El Gringo, dovete essere persone speciali.», sibila venefico prima di schiantarmi al suolo nuovamente.

Effettivamente dice la verità. Vedo sei uomini venirci incontro: maschera antigas a coprirgli il volto, fucili alla mano e lunghi soprabiti scuri.

Il settimo uomo cammina un passo indietro, ha l’andatura più sicura rispetto agli altri.

E’ El Gringo, ne sono certa.

«Chi è a capo di Capen Hoks, dovrebbe sapere che qui non commerciamo con chi non si sottomette a El Gringo.» dice qualcuno fra i sei; lo sento ma non riesco ad ascoltare. Il mio sguardo è catalizzato alla settima figura. Dietro quella maschera antigas so, per certo, che sta fissando proprio me.

«M.C. non vi ha detto quanti ne sono morti venendo qui?Voi e il vostro stupido Ranch…», sghignazza un altro.

«Lasciateci andare!», grida in un impeto di rabbia Joel. Lo vedo dimenarsi nella sabbia impotente e vorrei dirgli di stare in silenzio, spiegandogli che non serve a nulla ciò che sta dicendo. Questi uomini non ci lasceranno andare. Loro ci uccideranno.

«Lasciateci andare.», gli fa il verso quella che sembra una donna, poi ride.

«Adesso fate silenzio!».

La settima sagoma fa un passo avanti e come le acque del Mar Rosso, tutti si dividono facendosi da parte.

C’è un momento di silenzio raggelante. La figura continua a fissarmi, ho il cuore a mille. 

«Portate gli altri tre.», El Gringo si rivolge ai suoi senza distogliere lo sguardo da me. Un paio di uomini mascherati si muovono in fretta e dopo poco, da dietro una balaustra vedo sbucare i volti tumefatti di Callum, Carlos e Gregory. Sono legati, sporchi di sangue e qualcosa mi fa pensare che li abbiano costretti a restare svegli tutta la notte. Le guardie li trascinano verso di noi e poi li lasciano andare bruscamente.

Gregory cade sulle ginocchia, accanto. Tossisce un paio di volte e penso che sia sangue quello che vedo schizzare sulla sabbia. Respira a fatica ma riesce a dirmi: «Ci ammazzeranno e M.C. lo sapeva.».

Perdo un battito.

«Non potete ammazzarci!» Grida Carlos all’improvviso, tornando a stenti in piedi. «Se lo farete, M.C. manderà altri uomini per vendicarci. C’è suo figlio con noi e suo nipote, pensate che chiuderà un occhio?».

El Gringo sposta lo sguardo da me a lui per una frazione di secondo. Basta un cenno, un secondo che spacca il tempo: uno dei suoi uomini solleva il fucile. Parte un colpo. 

Carlos cade su se stesso esanime.

Voglio gridare ma sono paralizzata, tutti lo siamo.

«M.C. sapeva perfettamente che mandandovi qui sareste morti.», ammette lui, poi si volta verso la folla, spalanca le braccia, guarda i suoi uomini e tutte le persone che si sono radunate alle nostre spalle per assistere a questo martirio. «Chi si oppone alla forza di questo posto, deve essere consapevole che andrà incontro a morte certa.»

Drizza la schiena, scruta il suo gregge.

«E’ chiaro?».

«Si!», gridano tutti.

«A morte gli oppositori!».

«Uccideteli!».

Scene così  non si vedono dai tempi dell’olocausto.

El Gringo è un dittatore e  tutte queste persone sono state plagiate da lui e dal suo gioco di potere basato sulla paura.

«M.C. ha fatto una scelta.», prosegue El Gringo «Ha scelto di confinarsi lontano da qui, invece di lasciarvi alla mia protezione. Ha giurato che il suo Ranch e le persone che vi abitano sarebbero state al sicuro e guarda…», ci scruta uno ad uno, «Siete qui a pregare medicinali e munizioni.»

Fa un altro passo verso di noi «Quando M.C. ha lasciato questo posto, dopo il nostro primo incontro, gli ho giurato che se si fosse rifatto vivo lo avrei ucciso e così…Ha mandato voi.».

Non voglio credere alle sue parole. Se le cose sono andate veramente così, M.C. è un uomo terribilmente egoista e codardo.

«Ero certo che prima o poi qualcuno del Ranch si sarebbe fatto vivo. Con le poche provviste che avevate, avrei scommesso un paio di mesi…Ma devo dire che siete stati oculati nello spartirvi le poche risorse che avevate. I miei complimenti.». El Gringo ci raggiunge lentamente.

Guarda il corpo di Carlos da dietro la sua maschera antigas.

«Non manderei mai i miei uomini a morire se so che succederà con certezza. Vivi o lotta perché questo accada.»

Quando mormora l’ultima frase ho uno spasmo. Quel motto è del Ranch: El Gringo conosce M.C. molto di più di quanto noi non sappiamo, ne sono certa.

«Ad ogni modo,» fa un passo di lato e ci cammina attorno. «Oggi morirete, anche voi quattro.»

Scuta Callum e Joel, non si sofferma abbastanza su Gregory e poi eccolo nuovamente davanti a me.

«Ma c’è una cosa che mi ha sorpreso del vostro arrivo qui e sei proprio tu…Karina.»

All’improvviso tutto attorno a me si ferma.

Non ci sono più sopravvissuti o guardie e niente più brusio.

Sa il mio nome.

Sa il mio fottuto nome.

«Chi sei?».

Non so se sta sogghignando o se è impassibile alla mia domanda. Non so chi c’è sotto quella maschera.

«Dopo tutto questo tempo, sei ancora viva…Il che è sorprendente.»

«Chi sei, ho detto!»

Quando grido mi preme di scatto il piede sulla testa.

«Non sei nella posizione per poter pretendere un bel niente, nemmeno risposte.», ringhia.

«Lasciala stare!».

Joel si è rialzato e incespica verso di noi.

«Non lo farei fossi in te…» sento mormorare l’uomo che mi preme la testa contro la terra, e poi il suo braccio sbuca da sotto il soprabito scuro e lungo quasi come un mantello. Ha una pistola stretta fra le dita e la punta contro Joel.

«NO!», mi dimeno.

El Gringo abbassa la sicura, la pistola è pronta per sparare.

«Sei così impaziente di morire, Joel?».

Jo si immobilizza sul posto, è scioccato quanto me.

«Ci avete lasciati morire la notte in cui il Ranch è stato invaso. Tu e tuo zio siete spariti, lasciando decine di persone in balia di quei mostri.» Il braccio di El Gringo trema appena sotto il racconto di quel ricordo «Ho visto bambini appena nati dilaniati a morzi e donne gridare in lacrime mentre i loro figli venivano divorati e voi…Voi siete spariti!». 

Il suo braccio disegna un arco immaginario che termina nella mia direzione.

«Ma lei è ancora viva, eppure era lì, in mezzo a quelle bestie. Ed è impressionante.», sembra sorridere follemente mentre parla,  c’è quasi dell’eccitazione nella sua voce.

«Ma forse, non è un caso che lei sia viva. Magari era con te, Joel.»

Singhiozzo, perché mentre quest’uomo parla, quella notte mi ritorna alla mente come un pugno nello stomaco.

«Sono viva-», dico a fatica «perché qualcuno ha sacrificato la sua vita per me, ma non è grazie a Joel.».

Il piede sulla mia testa si fa meno pesante.

«Non ero con lui e Callum quando i mangia-carne hanno invaso il Ranch. Io…Li ho persi di vista, non ho idea di dove M.C. gli avesse ordinato di nascondersi.»

«Stai mentendo!».

«NO. Ti sto dicendo la verità.», mi toglie il piede di dosso. 

«Se sono viva è perché-» tremo mentre con i gomiti mi sollevo da terra «Kael ha aperto i cancelli.»

Vedo le spalle della sagoma con la maschera antigas drizzarsi e irrigidirsi nello stesso momento. 

«E’ impossibile, i cancelli erano invasi da quelle bestie.»

«Hai ragione, è vero, erano invasi. E’ per questo che-» Non voglio ricordare. Non voglio ricordare. Non voglio…

«Kael ha fatto da scudo lasciando che quelle bestie attaccassero lui e non me e quei pochi altri che erano riusciti ad arrivare davanti alle palizzate.»

Non riesco a non piangere a dirotto, in silenzio.

«E’ morto», ho la voce rotta, «- per salvare le persone che era riuscito a scortare fino all’ingresso del Ranch.»

Mi porto una mano sulla bocca perché non voglio dire ad alta voce quello che sto per dire. «E mi manca. Mi manca da morire.».

Inaspettatamente, El gringo si china verso di me. Non riesco a trattenermi sto per scoppiare in un pianto liberatorio.

«Quindi no! Non ero con Joel né con Callum ma non è colpa loro se M.C. gli ha permesso di fuggire. E’ stato il suo modo di proteggere la famiglia. Chiunque lo avrebbe fatto. Ognuno di noi, quella notte, ha provato a salvare chi aveva a cuore.» Mi arrampico sulle mie stesse ginocchia per sollevarmi da terra. 

«Eri lì anche tu, dopotutto e sei ancora vivo. Dov’eri? Come hai fatto a sopravvivere?»

«Mi stai sfidando?».

Non gli rispondo.

«Chi ti ha protetto?»

«Sta zitta. Sta zitta!» Impugna l’arma, «Sono vivo perché sono stato furbo.», e con la canna della pistola si preme ripetutamente la testa.

«Chi si è sacrificato per te?».

«Nessuno.»

«Stai mentendo. Chi è?»

«Nessuno!»

«Dimmi chi si è sacrificato per te!»

Lo vedo portarsi entrambi i palmi sul viso e premere con forza; premere come a sopprimere un ricordo e il dolore.

«Andate via! Tutti!», ordina a chi c’è intorno a noi.

«Capo, cosa ne facciamo di loro?».

«Ho detto sparite!».

Nessuno più fiata. Il capannello di persone attorno a noi si dissipa in fretta e le guardie trascinano via Joel e gli altri in men che non si dica. 

Una volta rimasti soli, io sono ancora in attesa di una risposta.

«Tu eri lì quella notte e qualcuno ti ha permesso di impugnare quell’arma oggi. Chi è?!».

Sono di pietra, non ho intenzione di cedere. Oggi non moriranno altre persone.

L’uomo esala un lamento di dolore.

«La donna che amavo.», ammette, «Se sono vivo è perché lei si è sacrificata per me.»

Respiro e lo fa anche lui come se avesse vomitato un grosso peso.

«Abbiamo fatto tutto il possibile quella notte.», mormoro.

«No, altrimenti loro sarebbero ancora qui.»

Lentamente le sue mani scivolano dietro la sua nuca. Separa la chiusura della maschera e se la scende via dal volto.

Non posso credere ai miei occhi.

 

«Svetlana sarebbe ancora qui.»

 




 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=4012504