Vincoli Oscuri

di Zobeyde
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Atto I - Antebellum ***
Capitolo 2: *** Un lavoro da gentiluomini ***
Capitolo 3: *** Mentite spoglie ***
Capitolo 4: *** Impacchetta i tuoi problemi ***
Capitolo 5: *** Tesori da custodire ***
Capitolo 6: *** Decaduti ***
Capitolo 7: *** Un posto nel mondo ***
Capitolo 8: *** L'Alfiere ***
Capitolo 9: *** Mlada Bosna ***
Capitolo 10: *** I soldati ***
Capitolo 11: *** L'umiliazione ***
Capitolo 12: *** L'invito ***
Capitolo 13: *** Carne da macello ***
Capitolo 14: *** Termini e condizioni ***
Capitolo 15: *** Lo scender è cosa agevole ***
Capitolo 16: *** Atto II- Parabellum ***
Capitolo 17: *** Le Nozze d'Acciaio - Prima parte ***
Capitolo 18: *** Le Nozze d'Acciaio - Seconda parte ***
Capitolo 19: *** Trasgressione ***
Capitolo 20: *** Conseguenze ***
Capitolo 21: *** L'avvertimento - Prima parte ***
Capitolo 22: *** L'avvertimento - Seconda parte ***
Capitolo 23: *** L'addio ***
Capitolo 24: *** l'istituto ***
Capitolo 25: *** I corvi ricordano ***
Capitolo 26: *** Acciaio e sangue - Prima parte ***
Capitolo 27: *** Acciaio e sangue -Seconda parte ***
Capitolo 28: *** Lettere dal fronte ***
Capitolo 29: *** Il potenziale umano ***
Capitolo 30: *** Il Vuoto - Prima parte ***
Capitolo 31: *** Il Vuoto - Seconda parte ***
Capitolo 32: *** L'inferno ***
Capitolo 33: *** Il Programma ***
Capitolo 34: *** Il fulmine ***



Capitolo 1
*** Atto I - Antebellum ***


Ciao a tutti, cari vecchi e nuovi lettori!
Come anticipato, ho deciso di rimettere mano anche a "The White Crow", che ho deciso di rinominare "Vincoli Oscuri" poiché la storia avrà un respiro più corale stavolta!
Nel frattempo, vi beccate il prologo di quello che sarà il primo di tre atti: Antebellum, Parabellum e Dies Irae.
La storia è ambientata prima de "Gli Ultimi Maghi" e conterrà SPOILER sul seguito, del quale è consigliata la lettura, ma ho cercato di renderla fruibile anche come vicenda a sé.
Metto subito le mani avanti dicendo che è un FANTASY, con diversi riferimenti storici che però rientrano più nel genere dell'ucronia. Perciò, non prendetelo come un saggio con pretese di credibilità o di accuratezza, perché non è quello l'intento.
Passo e chiudo, vi auguro buona lettura! ^^














VINCOLI OSCURI










ATTO I 
ANTEBELLUM

 
 
 
«…Dunque, tu chi sei?
Una parte di quella forza
che eternamente vuole il Male
ed eternamente opera il Bene.»

GOETHE, Faust


 
 

PROLOGO

 
 
Ambasciata austriaca a San Pietroburgo
15 aprile 1914
ore 20:30


 
L’uomo dentro il baule non la finiva di agitarsi.
Era legato mani e piedi, con addosso solo reggicalze e mutande, e il bavaglio stretto gli impediva di emettere qualcosa di diverso da deboli mugolii. Eppure, continuava a opporre una fiera resistenza.
C’era da esserne ammirati: non era un comportamento che Solomon attribuiva spesso ai politici.
«Quelle corde non si allenteranno se continua a strattonarle, ambasciatore» cantilenò, abbastanza forte da superare i suoi guaiti. «Si procurerà solo dei brutti segni. Si rilassi, ha avuto una settimana piena! Ne approfitti per schiacciare un pisolino.»
In risposta, l’uomo iniziò a scalciare.
Solomon fece spallucce e continuò ad annodare il papillon davanti allo specchio; alla luce soffusa di una lampada Churchill, il riflesso restituì l’immagine di un uomo alto, pallido, di un'età indefinibile che oscillava fra i trenta e i quaranta, con folti ricci corvini e occhi azzurro intenso.  L’abito che indossava era di fattura eccellente, confezionato in uno storico laboratorio di Savile Row a Londra, e gli cadeva alla perfezione. Fu quasi una sofferenza dover dire addio al proprio aspetto, anche solo per poche ore.
Il conte Friedrich von Szapáry[1] era un rispettabile diplomatico e l’incarico che era chiamato a svolgere a San Pietroburgo per l’Impero austro-ungarico era delicato, soprattutto nel clima turbolento che la Crisi Balcanica aveva gettato su tutta l’Europa.
Ma non era un uomo bello. Decisamente no.
A malincuore, Solomon agitò le dita e il suo aspetto iniziò a mutare: perse alcuni centimetri, il ventre si rilassò. Il pizzetto appuntito fu sostituito da un paio di spessi baffi, i tratti cesellati del volto si inflaccidirono e l’attaccatura dei capelli batté in ritirata sulla fronte.
Un semplice incantesimo di trasfigurazione, ma che avrebbe retto il tempo necessario per ciò che doveva fare.
«Non ha nulla da temere» dichiarò Solomon. «Nessuno noterà la sua assenza stasera.»
Dal primo cassetto della scrivania, tirò fuori una busta sigillata e la fece scivolare sotto la giacca.  Dopodiché, afferrò soprabito e bastone, indossò il cilindro e si apprestò a lasciare la sontuosa stanza da letto, ma prima si chinò sul grosso baule da viaggio in cui aveva lasciato il povero Szapáry.
«Ho studiato la parte alla perfezione» assicurò con un sorriso. «Non intendo coinvolgerla in nessun pasticcio internazionale.»
Il conte strabuzzò gli occhi e protestò sonoramente. Prima di abbassare il coperchio, Solomon aggiunse: «Oh, e mi assicurerò che anche la sua signora si diverta: sono un ottimo ballerino!»
 
L’ambasciata a quell’ora era deserta e silenziosa. Solomon incrociò solo qualche domestico mentre scendeva l’imponente scalinata di marmo che conduceva all’atrio; ad attenderlo trovò una donna impellicciata e con le mani affondate in un manicotto di zibellino. Edvige von Szapáry era più giovane del marito, e sarebbe stata abbastanza graziosa se non fosse per l’espressione di scontento perenne.
«Perché ci hai messo tanto?» lo accolse bruscamente. «La vettura è qui fuori da almeno mezz’ora!»
«Non riuscivo a trovare i gemelli, cara» replicò Solomon con voce affettuosa, modulata per risultare identica a quella del conte. «Sai quanto ci tengo: sono il tuo regalo di anniversario, ricordi?»
La linea dura delle sue labbra si ammorbidì di poco, e accettò il braccio che lui le offriva, a dimostrazione di quanto bene Solomon avesse indagato sul passato della coppia: sposati per amore e genitori di tre figli rimasti a Budapest, di cui la contessa sentiva una mancanza terribile. La morte del piccolo Vincent, avvenuta quell’anno a pochi giorni dalla nascita, aveva però gettato un’ombra su un matrimonio tutto sommato felice.
L’auto di rappresentanza sfilò per una Nevskij prospekt[2] illuminata da lampioni a elettricità – la moderna svet bez ognjá, “luce senza fuoco”, come la chiamavano i russi – ma presto si lasciò alle spalle gli sfarzosi palazzi, i teatri e i monumenti per inoltrarsi nella cupa taiga che abbracciava San Pietroburgo: la loro destinazione era il Palazzo di Caterina, residenza estiva degli zar, che quella sera avrebbe ospitato l’élite che reggeva in mano il destino dell’intero continente.
Un destino sempre più in bilico, stando ai titoli dei giornali: le tensioni che agitavano gli stati centrali si erano inasprite con la caduta dell’Impero ottomano e la successiva spartizione di quei territori da parte di Austria e Russia. Nel frattempo, nuovi stati erano sorti, altri erano scomparsi e in Serbia il malcontento dei nazionalisti non cessava di farsi sentire.
A Solomon Blake non interessavano le beghe dei Mancanti: le loro guerre si somigliavano tutte. Da secoli, i nati senza magia sgomitavano per accaparrarsi più terre, più risorse, più porti.
Già. I Mancanti andavano matti per i porti.
Come tutti gli stregoni, in teoria, la lealtà di Solomon apparteneva esclusivamente ai Decani, la potente congrega che governava la città magica di Arcanta, da sempre estranea a qualsiasi allineamento politico.
Ed era proprio Arcanta il motivo per cui doveva imbucarsi a tutti i costi al Gran Palazzo: qualcosa di oscuro e antico era nascosto tra quelle mura, qualcosa che preoccupava i Decani molto più di potenziali guerre non-magiche all’orizzonte…
E Solomon doveva mettervi sopra le mani. Prima che lo facesse qualcun altro.
Per tutto il tragitto, Edvige restò funerea e silenziosa.
«Cosa ti affligge, cara?» le domandò gentilmente Solomon.
«Mi auguro che la nostra permanenza duri poco» replicò lei, muovendo appena le labbra. «Non mi piacciono questi russi: sono dei barbari, per non parlare della depravazione in cui è scivolata la corte negli ultimi anni!»
«A cosa ti riferisci?»
Lei rabbrividì. «Ci sarà anche lui stasera, non è così? Quell’orribile prete! Ho sentito storie sul suo conto da far rizzare i capelli. Non mi piace. Voglio tornare a casa, Frigyes, dai bambini!»
Solomon le sorrise, sotto i baffoni da tricheco del conte. «È solo un ballo, mia adorata. Non ci tratterremo più del dovuto.»
L’auto superò un’alta cancellata con la doppia aquila della casata Romanov e percorse un sentiero fiancheggiato da giardini alla francese che si perdevano nella notte; una lunga fila di automobili affollava il piazzale, sopra il quale si innalzava lo sfolgorante Gran Palazzo.
Lo chauffeur aprì la portiera per la contessa e la aiutò scendere.
«Be’» commentò lei. «Devo ammettere che è impressionante!»
Solomon gettò un’occhiata all’elaborata facciata bianca e turchese del palazzo, pieno di statue e stucchi dorati: lui, che era nato in Inghilterra e che di castelli ne aveva visti parecchi, lo trovò orrendamente pacchiano.
«Non avrei saputo scegliere aggettivo più appropriato.»
Ma gli saltò all’occhio qualcosa di più interessante: tutti gli accessi erano presidiati da guardie reali e cosacchi, la scorta personale dello zar armata fino ai denti. In più, non gli era sfuggita la presenza di cecchini appostati lungo i cornicioni del tetto. Come pensava: quel luogo, apparentemente signorile, era una fortezza.
Mentre si confondeva con gli altri invitati, Solomon colse un baluginio bianco e un frullo d’ali tra le fronde di un albero vicino: un grosso corvo, dalle piume candide come neve, stava seguendo ogni suo movimento e lo stregone ammiccò in sua direzione. Anche lui aveva preso precauzioni e se c’era da ballare, quella sera, avrebbero ballato.
All’ingresso, un maggiordomo chiese di vedere i loro inviti, e Solomon esibì prontamente quello appartenuto al conte Szapáry.
Senza obiezioni, fu concesso ai coniugi di entrare.
Corridoi dai soffitti altissimi e rivestiti di specchi formavano lo scenografico percorso fino alla sala da ballo, illuminata da file di lampadari di cristallo. Ovunque si guardasse si era sopraffatti dallo sfarzo e dalla luminosità delle migliaia di lampadine, degli smalti, dei gioielli e dell’argenteria di pregio.
Un paggio si offrì di prendere i loro soprabiti e la contessa Edvige si liberò della pelliccia; indossava un vestito blu notte e, adagiato fra le clavicole, scintillava uno zaffiro stupefacente, grosso come un uovo di gallina.
Solomon non riuscì a impedire ai suoi occhi di indugiarvi con fare predatorio, guadagnandosi un’occhiata imbarazzata da parte della donna.
«Non fare quella faccia! Lo so che è un cimelio di famiglia…ma che sarà mai se lo indosso per una sera?»
Solomon rientrò alla svelta nella parte. «Trovo che ti stia divinamente, mia cara!»
Si immersero nella rumoreggiante moltitudine di ospiti che conversavano e ballavano: aristocratici, dignitari, politici e ufficiali di alto rango che esibivano uniformi cariche di medaglie. Solomon studiò attento il flusso della folla; la gente era convinta di aggirarsi in maniera casuale, ma c’era uno schema preciso nel modo in cui gli individui si muovevano, si cercavano e orbitavano intorno ai vertici del potere…
«Oh, eccolo lì!» trasalì all’improvviso Edvige. «L’uomo di cui ti parlavo, il prete! Lo vedi? Di persona è ancora più inquietante.»
In verità Solomon lo aveva adocchiato da un pezzo, anche perché era impossibile rimanerne indifferenti: lo starets[3] Grigorij Rasputin era un uomo imponente, vestito di nero, dalla lunga barba ispida e lo sguardo penetrante. Intorno gli vorticava un consistente mulinello di persone, quasi fosse al pari dei reali. E per lo più erano donne.
«Dicono sia entrato nelle grazie della zarina con l’inganno» sussurrò Edvige. «Che irretisca le signore per bene e le induca alla perversione!»
Già mi piace, sogghignò Solomon fra sé. «Non hai nulla da temere da quell’uomo, cara. Sono certo che è inoffensivo.»
Come se avesse captato la loro attenzione, il prete si girò a guardarli ed Edvige iniziò immediatamente una conversazione con una nobildonna ingioiellata. Solomon, al contrario, gli rivolse un breve cenno, a cui lui ricambiò, sollevando la sua coppa di champagne come per brindare.
In quel momento, le luci si abbassarono e gli sguardi degli invitati furono richiamati sulla doppia scalinata che conduceva al secondo piano.
Un gentiluomo e una donna si apprestavano a scendere, accolti dal silenzio generale; lui era bruno, alto e bello, lei indossava un abito la cui foggia non andava più di moda, formato da vari strati di pizzo nero, e un velo di tulle le nascondeva il viso, come una sposa.
Un fremito di sorpresa ed eccitazione serpeggiò per l’intero salone.
«Signore e signori» esordì il gentiluomo bruno, esibendosi in un profondo inchino. «Moy tsar, moy tsarina… è un onore essere stati accolti in questa magnifica dimora e in questo grande Paese.»
Il mormorio si fece insistente, e Solomon poté udire più volte la parola “bosniaci”, ma anche alcuni bisbigliare con sprezzo “zingari”.
«Per quelli tra voi che ancora non ci conoscono, il mio nome è Roman Vukčić Kosača, signore di Breznica e visconte di Sava» proseguì il giovane. «Ma non sono che un umile presentatore: la vera star è l’affascinante creatura che mi accompagna, la potente medium Madame Salomé. Conosciuta in tutto il mondo come “La Dama Velata”.»
Alla parola “medium” la folla iniziò ad agitarsi e i ventagli delle dame si aprirono di scatto, con un rumore simile a quello di decine di uccelli che si alzano in volo.
«Abbiamo viaggiato a lungo» disse il visconte. «Ospitati nelle più grandi corti europee, negli Stati Uniti, persino al cospetto dell’Imperatore della Cina! Dove Madame Salomé ha messo i propri doni al servizio di chi ne aveva bisogno. E, solo per stasera, ha deciso di esibirsi per voi.» I suoi scaltri occhi scuri indagarono la folla. «Chi di voi gentiluomini e gentildonne ha un conto in sospeso con l’aldilà? Chi desidera mettersi in contatto con un proprio caro? Con un fratello, magari, con una moglie o con un figlio perduto…»
Solomon sentì che il respiro della contessa Edvige si era fatto accelerato e la vide portarsi una mano al petto, su cui pendeva l’enorme zaffiro.
«Nessuno?» li incalzò il visconte. «Non avete nulla da temere: Madame Salomé ha il dono di poter entrare in contatto col mondo degli spiriti, ma lo ha sempre usato per donare sollievo alle persone e mai per operare il male. Allora, chi vorrebbe provare?»
Solomon vide gli ospiti scambiarsi occhiate tra lo scettico, il divertito, l’emozionato e anche il turbato. In tutto ciò, Madame Salomé non proferì parola e si limitò a restare immobile e incorporea sotto i vari strati di tessuto.
«Io…io vorrei…» cominciò esitante una giovane donna.
«Prego, mia cara, si faccia avanti.»
La giovane si guardò attorno imbarazzata, poi prese coraggio: «Io…ho perso la mia madre di recente e non ha potuto assistere alle mie nozze: vorrei, ecco…mi piacerebbe…»
Roman sorrise e si volse verso la Dama Velata. Lei annuì con un impercettibile movimento e allungò una mano guantata di pizzo. La giovane esitò, poi si avvicinò e prese la mano che la medium le porgeva.
Madame Salomé ispirò profondamente, risucchiando nella bocca il velo. Dopodiché, la sua testa ciondolò inerte come se si fosse assopita.
Un silenzio gravido di aspettative accompagnò l’esibizione. Poi, a un tratto, la Dama Velata sembrò riscuotersi.
«Tatiana» disse, con voce roca, vibrante. «Mia dolce, dolce Tatiana.»
La ragazza sussultò dallo stupore. «Come…come sa il mio nome?!»
«Perché ti ho messa al mondo, moy malen’kiy» replicò la medium, con quella strana voce sorda e ultraterrena. «Ricordo il tuo primo vagito, il tuo primo sorriso! La terribile febbre che ti colpì ad appena un mese e per cui temetti di perderti!»
Sconcertata, la ragazza emise una specie di singhiozzo.
«Madre! Madre mia, siete…siete proprio voi?»
Salomé buttò fuori un altro sospiro tremante e annuì.
«Sono tanto felice che tu abbia convolato a nozze…e il buon Vasilij sembra un uomo onesto: di sicuro renderà la tua vita meravigliosa.»
La ragazza scoppiò in lacrime e la folla si sciolse in uno scroscio di applausi estasiati. Solomon, invece, alzò gli occhi. A cosa mi tocca assistere!
Trovava incredibile la facilità con cui i Mancanti abboccassero a certi trucchi da due soldi. Ne aveva visti di tutti i colori, cartomanti, sensitivi, illusionisti, guaritori: capre agghindate di piume per convincere gli sprovveduti di saper volare.
E pensare che chi, come lui, quel potere lo possedeva realmente, lo aveva coltivato per anni con studio e pratica, era ancora costretto nascondersi nell’ombra come un ratto a causa della stupidità della gente…
Perché i Mancanti non si avvicinavano nemmeno a comprendere ciò che credevano di sentire e di vedere, e la magia – quella vera almeno – era una faccenda estremamente concreta e complessa: chi la padroneggiava poteva manipolare la materia in virtù del legame che aveva con essa, una corrispondenza profonda che attingeva direttamente al cuore del Tutto.
Ci furono moltissime richieste per la Dama Velata: un generale la pregò di poter parlare col suo primo amore, abbandonato per inseguire la carriera militare, e poi una vecchia nobildonna che desiderava scoprire se il defunto marito le fosse rimasto fedele. Persio lo zar Nicola sbalordì tutti con la richiesta di mettersi in contatto col padre, per domandargli se fosse soddisfatto del modo in cui stava governando la Russia.
E Madame Salomé li accontentava, eseguendo sempre il solito teatrino: entrava in trance, poi si riscuoteva e cominciava a parlare, con lingue, dialetti, persino intonazioni diverse. E le cose che diceva erano stupefacenti! Nomi, date, aneddoti della vita di ogni persona, ciascun dettaglio corrispondeva alla perfezione, come se li avesse conosciuti da tutta la vita. Presto, una folla acclamante e con gli occhi velati di pianto circondò la medium e a un tratto, la contessa Szapáry mormorò con voce strozzata: «Ci voglio provare anch’io.»
Solomon la guardò in tralice, adombrandosi. «No.»
«Perché no?» Lo sguardo di Edvige si accese. «L’hai vista, l’hai sentita! Lei è davvero in grado di contattare i defunti! Potrebbe essere l’unica occasione che abbiamo per parlare con nostro figlio, con Vincent…»
«No, invece. È solo una pagliacciata.»
«Perché devi sempre comportarti così?» scattò lei, inviperita. «Non puoi correre un rischio per una buona volta nella vita…?»
«Perché niente di ciò che quella donna potrà dire riporterà indietro tuo figlio» ribatté Solomon, duramente. «E i morti è meglio che restino tali.»
Lei lo fissò, sorpresa dal repentino cambio di atteggiamento. «Va bene, non intendevo…»
Lui scosse ancora la testa. «Vado a prendere una boccata d’aria.»
E si allontanò da lei, diretto a una delle porte finestre che davano sul parco.
Una volta fuori, inspirò l’aria fredda della notte, senza badare al fatto che probabilmente avrebbe dovuto indossare il soprabito.
Doveva darsi una regolata. Era lì per un motivo e nessuna ridicola pantomima mancante lo avrebbe rallentato o distratto.
Sollevò lo sguardo sulla volta stellata, come velluto nero trapunto di diamanti e per un momento, solo per un breve, sciocco istante, si concesse di tornare con la mente a quella notte di moltissimi anni fa, alla promessa fatta a Jonathan l’ultima volta che lo aveva visto…
La sua mano corse meccanicamente sotto la giacca e ne tirò fuori un orologio d’argento. Lo aprì, lo richiuse. Passò il pollice sulla trama di incisioni che ne decorava il coperchio e, a poco a poco, un senso di calma lo pervase…
In quel momento, qualcun altro si affacciò alla balconata, distogliendolo da quei pensieri.  Era quella medium, Madame Salomé.
Si era tolta il velo e Solomon pensò che fosse stato un oltraggio farglielo indossare: setosi capelli neri, pelle olivastra, occhi verde giada dal taglio felino. Quella donna era bella come un dipinto.
«Non ha da accendere, vero?» chiese in tono accattivante, aprendo un portasigarette in argento.
«Desolato, non fumo.»
«Certo che no.» Il sorriso della bella gitana si fece astuto, mentre estraeva una sigaretta. «E fa bene, mi creda: sbaglio o le sigarette hanno ucciso sia suo nonno che suo padre? Eppure, dal modo in cui le sue pupille si sono dilatate, deduco fosse un fumatore. E neanche troppo tempo fa.»
Solomon aggrottò la fronte. Poi, tirò controvoglia fuori dalla tasca un accendino. «Ha fatto le sue ricerche.»
«Gli spiriti mi parlano» rispose lei. Si avvicinò con la sigaretta tra le labbra in modo che lui gliel’accendesse, dopodiché aspirò una boccata. «Mi cercano, mi sussurrano segreti.»
«Scommetto che le sussurrano anche quali polli hanno il portafoglio più gonfio.»
«Lei non mi crede» disse lei, per nulla infastidita.  Sembrava, anzi, piuttosto divertita. «Non ha creduto neanche per un istante che facessi sul serio.»
«Io credo a ciò che vedo. E vedo che lei è maledettamente brava.»
«Così mi lusinga.»
«No, dico davvero» replicò Solomon. «Il velo e tutto il resto. Quella cosa che fa…quel sospiro, ha presente? Poco prima della trance. Ma mi dica una cosa: non prova nemmeno un po’ di rimorso nel vendere false speranze a quella povera gente? Molti di loro hanno sofferto per davvero.»
«Si sbaglia» ribatté lei, in una voluta di fumo. «Non vendo false speranze, offro pace agli animi tormentati. Spesso alla gente basta poco per dormire sogni tranquilli: un’ultima parola gentile, la possibilità di essere perdonati, di dire addio come si deve. Io mi limito a fare in modo che passino oltre.»
«Da buona samaritana.»
«Da persona che ha trovato il proprio scopo» obiettò la donna. «Immagino sia per questo che Dio mi ha donato questi poteri.»
«Ah» fece Solomon, sarcastico. «Una missione divina, dunque!»
«Almeno in Dio dovrà pur credere, ambasciatore.»
«Ho sentito dire che Dio è morto» replicò lui. «E che lo abbiano ucciso Karl Marx, Thomas Edison e il dottor Freud.»
«Tutti hanno bisogno di credere in qualcosa. Persino quelli come lei che pensano di sapere tutto.»
«Io ho sempre creduto solo in me stesso.»
Le labbra di lei si arricciarono appena. «La sua deve essere una vita piuttosto arida, ambasciatore. Eppure, percepisco che il suo cuore non è di pietra come vuole far credere: anche lei in passato ha cercato risposte al di fuori del razionale, pur di avere indietro qualcuno che amava…»
«Se spera di farmi vacillare tirando in ballo un figlio morto…»
«Non parlo di un figlio» mormorò lei, gli occhi verdissimi fissi nei suoi. In quelli di Solomon, non del conte. «Ma di un fratello, morto in giovane età.»
Solomon sentì qualcosa dentro di lui dare uno strattone e si irrigidì all’istante. Come era possibile? Come faceva quella donna a sapere...?
Ma in quel momento, l’accompagnatore di Madame Salomé, il visconte Roman, apparve in mezzo a loro.
«Mia cara, la zarina chiede con insistenza i tuoi servigi» le disse con voce di velluto. «Si tratta dello zarevič [4]. Ti senti abbastanza in forze per proseguire?»
Lei sospirò con enfasi. «Per stasera basta così, Roman. Sono piuttosto stanca e preferirei ritirarmi: le mie visioni potrebbero perdere accuratezza.»
«Certamente» replicò lui, premuroso. «Inviterò sua maestà a prendere appuntamento per un altro giorno.»
Si accorse della presenza di Solomon e la sua espressione si indurì. «Ho interrotto qualcosa?»
Madame Salomé sorrise. «Un’innocua chiacchierata: l’ambasciatore Szapáry mi stava spiegando perché secondo lui sarei una truffatrice.»
La mascella squadrata di Roman guizzò. «Piuttosto maleducato da parte sua offendere una signora con tali calunnie.»
«Credevo che la gente di spettacolo fosse aperta alle critiche costruttive» replicò Solomon. «Visconte… Vukčić, ha detto? Non mi pare di averla mai sentita nominare.»
«Faccio vita ritirata» ringhiò lui. «Di lei, invece, ho sentito parlare eccome, ambasciatore: è stato uno dei maggiori promotori dell’intervento armato degli austriaci in Bosnia! Giusto per rimanere in tema “critiche costruttive”, è fiero di aver sguinzagliato un esercito contro dei contadini indifesi…?»
«Roman» lo interruppe Salomé, con voce esausta. «Ti prego, non stasera. Ho mal di testa e vorrei coricarmi.»
Il visconte continuò a fissare torvo Solomon, ma disse: «Immagino che con uomini come lei non valga neanche la pena discutere. Le auguro una notte priva di incubi, ambasciatore.»
Offrì il braccio alla donna e gli voltò le spalle, ma prima di congedarsi, lei disse: «Sua moglie non sa che lo zaffiro che le ha regalato non è un cimelio di famiglia, vero?»
Solomon inarcò le sopracciglia. «Prego?»
«È un bottino di guerra» illustrò lei, di nuovo con quell’enigmatico sorriso sulle labbra. «Lo ha comprato da un mercenario a Costantinopoli: tipico di voi uomini pensare che una pietra luccicante possa lenire le sofferenze di una donna.»
Gli si avvicinò e aggiunse, in un sussurro: «Ma non le hanno detto che il gioiello fu maledetto molti secoli fa da una strega. Una di quelle vere, arrabbiate e potenti. Vede, ambasciatore, io non credo né negli dei, né negli uomini. Credo che ognuno di noi, presto o tardi, venga chiamato a giocare un ruolo in una partita ben più grande. Deve solo capire qual è il suo.»
E, assieme al suo accompagnatore, tornò a immergersi tra la folla.
Solomon restò immobile per un lungo istante e la guardò allontanarsi pensieroso. Decise che avrebbe indagato su quella donna in un secondo momento, di tornare anche lui alla festa e mettersi all’opera senza ulteriori perdite di tempo. Ma non appena ebbe messo piede nella sala, percepì una presenza incombente alle proprie spalle, assieme a una zaffata di abiti stantii, incenso e qualcos’altro di non proprio gradevole.
«Buonasera, conte.»
Era lo starets Rasputin, che lo fissava con la stessa voracità con cui un lupo punta un agnello.
«Buonasera a lei» replicò Solomon con un sorriso e un inchino. «Non credo che siamo stati ancora presentati…»
«Non è necessario» lo interruppe il monaco, con voce profonda, brusca e nasale. «Lei sa chi sono. E io presumo di sapere chi è lei. La vera domanda è: cos’è che cerca?»
«Come fa a sapere che cerco qualcosa?»
Il monaco si avvicinò e Solomon si sforzò di non arricciare il naso dal disgusto al suo fetore. «Tutti cercano qualcosa, ma in pochi osano spingersi oltre i propri limiti per ottenerla. Lei di quale genere di uomini fa parte?»
«Del genere a cui piace parlare chiaro» rispose Solomon, vagamente piccato. «Se ha qualcosa di interessante da mostrarmi, faccia in fretta. O la mia signora penserà che lei abbia indotto alla perversione anche me.»
Il monaco fece un cenno col capo alla sua destra, e solo allora Solomon notò la presenza di una porticina, camuffata a regola d’arte per confondersi coi ricchi decori barocchi della sala.
Il sorriso dello stregone si allargò. «Mi faccia strada, allora»
Il monaco scivolò tra la folla rumorosa come se all’improvviso fosse del tutto invisibile, e Solomon gli andò dietro, attirato dal pericolo come da una canzone.
Era la parte che preferiva del suo lavoro, che lo spronava a perdere tutto quel tempo dietro stupidi travestimenti e recite ogni volta che gli veniva assegnata una missione: il brivido della caccia.
Quella caccia, in particolare, prometteva di essere la cosa più eccitante che gli fosse capitata da molto tempo e aveva intenzione di assaporarla fino in fondo.
Perciò, quando il prete aprì il passaggio segreto e gli cedette il passo, contro ogni ragionevole buon senso, si gettò a capofitto verso l'ignoto .
 

[1] Friedrich von Szapáry: diplomatico di origine ungherese. Svolse un ruolo chiave durante la crisi di luglio del 1914.
[2] La Prospettiva Nevskij è la strada principale che attraversa San Pietroburgo.
[3]Starets: termine che si riferisce ai mistici cristiani ortodossi dotati di particolare carisma.
[4]Il principe ereditario Aleksej era malato di emofilia, condizione che rendeva i genitori estremamente protettivi e ansiosi nei suoi confronti.

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Capitolo 2
*** Un lavoro da gentiluomini ***



UN LAVORO DA GENTILUOMINI
 
 



Sweet dreams are made of this
Who am I to disagree?
I travel the world and the seven seas
Everybody's looking for something...


EurythmicsSweet Dreams
 




 
Il passaggio conduceva a una serie di corridoi di servizio e scalinate tortuose, che si diramavano in tutto il Gran Palazzo.
«Servono per raggiungere discretamente gli appartamenti privati» spiegò Rasputin, mentre lo guidava in quel labirinto; laggiù, in quello spazio angusto, il suo tanfo era asfissiante. «Dicono che Bartolomeo Rastrelli[1] li abbia realizzati ispirandosi a Versailles: il Re Sole li usava per far visita alle sue innumerevoli amanti.»
«Affascinante» commentò Solomon, più per educazione che per altro; non era molto interessato all’architettura, in quel momento. «E lei per cosa li utilizza?»
«Un po’ per diletto personale.» Il monaco sogghignò. «E un po’ per necessità: la corte pullula di serpenti, fa comodo avere delle vie di fuga.»
«Deduco non sia particolarmente amato da queste parti.»
«È il prezzo del potere» sospirò Rasputin. «La Russia sarebbe persa senza il suo zar, e lo zar sarebbe perso senza di me.»
«E ha mai seriamente temuto per la sua vita?»
«Almeno una volta a settimana» disse il monaco, in tutta calma. «Ma ho imparato a prendere le dovute precauzioni.»
«Del tipo?»
«Come si diventa immuni ai serpenti?» chiese lui, e quando Solomon scrollò le spalle, gli mostrò una schiera di denti gialli e storti e disse: «Col veleno, conte: una piccola dose ogni mattina, per temprare il corpo e lo spirito.»
«Ah» fece Solomon, stavolta con sincero interesse. «Molto astuto. Prenderò nota.» Chissà che non possa servire anche a me, un giorno.
Scesero una ripida scalinata e sbucarono nell’ennesimo corridoio, ma di punto in bianco, lo starets si fermò davanti a un anonimo muro di mattoni e sollevò una mano, dalle unghie lunghe e nere di sporcizia. Solomon lo osservò mentre vi tracciava dei segni, e improvvisamente, vide la parete ondeggiare di fronte ai suoi occhi come fumo e poi svanire, lasciando libero l’accesso a un altro corridoio nascosto; non più rischiarato da lampade ma da torce, che gettavano lugubri bagliori aranciati sulle pareti di roccia viva.
«Interessante» mormorò Solomon, che stava cominciando a trovare quella visita guidata un po’ noiosa. «Un’altra idea del buon Rastrelli?»
«Questo luogo è più antico» rispose il monaco, in tono grave. «Il palazzo sorge su uno dei primi insediamenti rus’[2] : questa era la tomba di un re veggente…»
«Va bene, va bene» tagliò corto Solomon, temendo un’altra digressione storica. «Possiamo proseguire per quel che mi riguarda.»
Entrarono. Il cunicolo si ramificava in una successione infinita di altre gallerie, tanto che presto Solomon perse il senso dell’orientamento; odoravano di pietra fredda e muffa, con sotto qualcosa di ferroso e marcescente.
All’improvviso, un suono agghiacciante simile a un ruggito echeggiò nelle gallerie, e la fiamma delle fiaccole tremò.
«Che diamine è stato?» chiese Solomon, gettandosi un’occhiata alle spalle.
«Solo il vento. Continui a camminare, ambasciatore, e occhio a dove mette i piedi.»
Emersero in una vasta sala rotonda, col soffitto a cupola sorretto da un cerchio di colonne; al centro, c’era un sarcofago rozzamente scolpito, attorno al quale si muovevano una dozzina di figure avvolte da mantelli di seta nera, coi cappucci tirati sopra la testa. Alcuni facevano oscillare degli incensieri d’argento, e una densa foschia violacea invadeva l’ambiente, rendendo l’aria, già di per sé stantia, soffocante.
Solomon mosse qualche passo sotto la cupola. «Dove siamo?»
«Lo chiamano Tempio dell’Origine» spiegò Rasputin. «Perché è qui che ogni cosa ha avuto inizio: prima della Fondazione di Arcanta, quando il Tutto e il Vuoto non erano entità separate, e la magia scorreva potente nella terra e nel sangue degli uomini.»
Solomon percepì le figure incappucciate scivolare come spettri alle sue spalle, bloccando l’unica via d’uscita. «E cosa fate di bello quaggiù per passare il tempo?»
Si vide strappare il bastone di mano.  Un istante dopo, delle fredde manette gli stringevano saldamente i polsi dietro la schiena.
«Quello che fanno i monaci» gli sussurrò all’orecchio Rasputin, e il suo alito putrescente gli rimescolò lo stomaco. «Preghiamo per l’avvento di un mondo migliore. E devo ammetterlo: è un onore che l’Arcistregone dell’Ovest in persona sia venuto a trovarci. Che ne dice, signor Blake? Non le sembra il momento di far cadere la maschera?»
 

Pochi minuti più tardi, Solomon aveva di nuovo il suo aspetto, era seduto su una sedia con le mani ancorate ai braccioli da ganci d’acciaio liscio come acqua, ed era attorniato da individui incappucciati e armati di daghe affilate.
«Acciaio alchemico» valutò, riconoscendo la lega anti-magia dalla formula segreta, che veniva fabbricata solo nei laboratori del Cerchio d’Oro, ad Arcanta. «Deve esservi costato un occhio della testa: so che non ne gira più molto, al Mercato Nero dell’Occulto.»
«Ho i miei contatti» replicò Rasputin, un ghigno beffardo ad arricciargli le labbra. «E lei ha i suoi, vedo. Come sapeva dove trovarci?»
«Che vuole che le dica? Con me le persone parlano» rispose Solomon, con un’alzata di spalle. «Il più delle volte non ho bisogno di ricorrere alla malia per convincerle. Un sorriso può aprire molte porte, certo…» Fece una smorfia, soffermandosi sulla dentatura marcia del monaco. «Una buona igiene orale aiuta.»
«Veniamo al punto» lo interruppe Rasputin, accigliandosi appena. «So che è qui per conto di Arcanta. Ma non troverà mai quel che cerca: questi tunnel si estendono per chilometri e solo i miei confratelli e io ne conosciamo l’esatta geografia.»
«Siete molto ben organizzati.»
«Il Tempio è qui da molto prima di Arcanta» disse Rasputin, asciutto. «Così come il potere che noi veneriamo. Il vero potere, quello che da secoli i suoi Decani hanno tacciato di eresia.»
«E cosa vi ha portato in cambio tutta questa venerazione?» domandò Solomon, amabile. «Sbaglio o nessuno di voi è ancora riuscito a ottenere i poteri che avete perso per colpa di Arcanta?»
Guardò gli incappucciati, schiere di maghi e streghe decaduti, nelle cui vene la magia si era inaridita da secoli. «Mm? Nessuno?»
«Non è così che funziona!» sbottò il monaco. «Non basta pregare il Vuoto perché conceda i propri doni: occorre completo abbandono…»
«E le orge» completò Solomon.
«Siamo fatti di carne» replicò Rasputin. «Gli Adoratori del Vuoto annegano negli abissi del piacere ed espiano i propri peccati attraverso il dolore e la preghiera. Così offriamo la nostra devozione al Potere Oscuro, nell’attesa che mandi tra noi colui che porterà il suo regno sulla terra. E restituisca ciò che ci è stato sottratto.»
«Perciò» riassunse Solomon. «Copulate, pregate e vi flagellate affinché arrivi un messia in grado di ridarvi la magia? E come lo riconoscerete? Porta, che so, una runa vichinga tatuata in mezzo alla fronte? Ha sei dita per mano, invece che cinque..?»
«Sarà il Libro Nero a rivelarci la sua identità» rispose il monaco, solenne. «Al momento opportuno. Ma non è di questo che dovrebbe preoccuparsi, signor Blake.»
Si curvò su di lui, per fissarlo dritto negli occhi. «Ciò che dovrebbe preoccuparla è: cosa dovremmo farne di lei? Ucciderla?»
Molti adepti espressero concitatamente il loro consenso.
«Sacrifichiamolo al Vuoto!» suggerì qualcuno, con enfasi. «Diamo a questo miscredente un assaggio del suo potere!»
«Io dico di mandare la sua testa ad Arcanta!» propose un altro, passando il pollice sul filo della sua lama. «Che sia da monito!»
Il monaco si accarezzò la barba. «L’idea è allettante. Ma riconosco che sarebbe uno spreco di sangue magico, puro e antico. Un uomo come lei, un Arcistregone, temuto e rispettato: per riavere il loro prezioso Corvo Bianco i Decani sarebbero disposti ad acconsentire a qualunque nostra richiesta.»
«È una possibilità» concesse Solomon. «Ma io ne ho una migliore, se vi va di ascoltarla.»
«Non si lasci ingannare, Gran Maestro» strillò una voce femminile da sotto un cappuccio. «Si ricordi con chi abbiamo a che fare: è il Corvo Bianco di Arcanta! Non ci si può fidare di lui!»
«Devo dare ragione alla signorina» disse Solomon. «Nemmeno io mi fiderei di me stesso. Ma se sapete come lavoro, saprete anche che non sono come i miei colleghi: non torturo la mente delle persone, né la suggestiono con delle illusioni. E di certo non rischio di rompermi un’unghia brandendo un’ascia arrugginita…»
Le sopracciglia del monaco quasi si toccarono. «Dove vuole arrivare?»
«A me piace fare affari» riprese Solomon, accavallando le gambe lunghe e magre. «Perciò, parliamo d’affari: non sono l’unico che Arcanta ha mandato a intrufolarsi a palazzo, stasera.»
Parecchi iniziarono a sussurrarsi cose da cappuccio a cappuccio.
«Vi propongo uno scambio» disse Solomon. «Voi mi liberate, io vi porto l’infiltrato di Arcanta, voi lo imprigionate, e poi chiedete il vostro riscatto ai Decani, se proprio ci tenete.»
Rasputin emise una risata bassa e priva di umorismo. «Venderebbe sul serio un suo collega, un amico, pur di avere salva la vita, signor Blake?»
«Questo è solo il primo punto dell’accordo» obiettò Solomon. «Il secondo è che mi facciate entrare.»
«Entrare dove?»
«In tutto questo.» Solomon roteò gli indici, visto che erano la sola cosa che riusciva a muovere. «Questa faccenda del Vuoto mi interessa e gradirei saperne di più.»
«Perché dovremmo volerla tra le nostre schiere?» chiese Rasputin, sprezzante. «Un servitore di Arcanta, un traditore della sua stessa razza.»
Il sorriso affabile svanì all’istante dal volto dello stregone. «Io non servo nessuno. Arcanta per me non significa niente e il titolo di Arcistregone è solo un trampolino per vette più gratificanti.»
Rasputin cominciò a camminargli intorno, le mani dietro la schiena. «Devo riconoscere che lei è un uomo interessante. Ma solo la fede rende un uomo qualunque un Adoratore. E lei ne è totalmente privo.»
«La fede servirà a poco per ciò che intendete realizzare» lo contraddisse Solomon. «Le opportunità vanno create.»
«Gran Maestro!» esclamò un adepto, scandalizzato. «Questa è blasfemia!»
«Io posso offrirvi un canale diretto per Arcanta» disse Solomon. «La possibilità di accedere ai suoi segreti.» Guardò lo starets, che aveva smesso di camminare e ora lo fissava con intensità. «Lei e io siamo fatti della stessa pasta, Gran Maestro: col suo carisma, è diventato uno degli uomini più influenti di tutta la Russia. Immagini cosa potrebbe fare con le conoscenze custodite alla Cittadella: il mondo sarebbe suo.»
«Mm» fece il monaco. «E lei che ci guadagnerebbe?»
«Mi basta una fetta della torta. La Gran Bretagna andrebbe più che bene.»
Seguì una gran baccano, voci che si sovrapponevano le une alle altre.  Rasputin sollevò la mano per metterle a tacere.
«Fratelli, ogni cosa accade per una ragione: forse, l’arrivo del signor Blake è il segno che stavamo aspettando.»
Con uno scatto, le tenaglie che bloccavano i polsi di Solomon si aprirono.
«Molte grazie.» Lo stregone si alzò in piedi, sistemandosi la giacca. «I miei affetti, se non vi dispiace.»
Titubante, un adepto gli restituì il bastone dall’impugnatura d’argento a forma di testa di corvo.
«E l’orologio» aggiunse Solomon. «Sono un tipo puntuale.»
L’adepto tirò fuori dal mantello l’orologio da taschino, e Solomon dovette nascondere la sua smania di riottenerlo. Nel momento in cui gli riscivolò nella tasca, si sentì immediatamente più leggero.
«Abbiamo un patto, signor Blake» disse Rasputin, tendendogli la mano. «Veda di non infrangerlo.»
Solomon rispose alla stretta, ma subito dopo avvertì la puntura di un ago affondargli nella spalla destra. Trasalì e si girò verso l’incappucciato che brandiva una siringa a mo’ di pugnale. «Che significa?»
«Una precauzione» rispose Rasputin, sorridendo maligno. «Veleno di serpente. Ci impiegherà qualche ora a fare effetto: torni qui con quanto promesso, Blake, e le somministrerò l’antidoto io stesso.»
Solomon si massaggiò la spalla indolenzita. «L’avevo detto, Gran Maestro: siamo fatti della stessa pasta.»
 

All’interno di una vasta e umida cantina, sotto le cucine del Gran Palazzo, una grossa lastra di pietra venne sbalzata via con una piccola esplosione; dal polverone, emerse un uomo alto, barbuto, dalle spalle larghe rese ancora più spesse dalla pelliccia che ornava il bavero del suo cappotto. L’uomo spazzò via la polvere con le grosse mani e si sistemò in testa un colbacco di astrakan nero, poi occhieggiò l’ambiente con fare guardingo.
Boris Sergeevič Volkov avanzò cauto fra le botti di vino stoccate nel locale sotterraneo, risalì una scalinata scivolosa per l’umidità e aprì una porta affacciata su uno spoglio corridoio di servizio. Una volta certo che la via fosse libera, si incamminò coi sensi vigili: sapeva che l’accesso al covo della setta degli Adoratori del Vuoto era laggiù, da qualche parte.
“Un branco di fanatici, il cui solo obiettivo è vedere il mondo bruciare” li aveva apostrofati l’Inquisitore Blackthorn, il Decano che gli aveva affidato l’incarico.
I Decaduti di solito preoccupavano la Cittadella quanto pulce preoccupa un branco di lupi: appartenevano ad antiche famiglie di maghi, che per orgoglio si erano rifiutati di far parte della comunità di Arcanta, della luminosa, nuova era della magia che i Decani avevano costruito per la loro gente. Ma le continue guerre dei Mancanti avevano rimodellato il mondo, e, a furia di abbattere città per costruirne di nuove, di scavare come talpe insaziabili alla ricerca di tesori, erano riusciti a far emergere un Male che per lungo tempo si pensava fosse stato debellato: il Codice Oscuro, ultima reliquia del culto del Vuoto, era stato rinvenuto in quello che era stato l’Impero persiano, divenuto poi romano, bizantino e ottomano. E infine, territorio conteso tra Russia e Austria.
L’Arcistregone del Nord setacciò corridoi tutti identici, col sottofondo della festa che si stava svolgendo nelle sale attigue. A un tratto, una sensazione di riconoscimento lo attraversò come una scossa elettrica, per la legge magica della Corrispondenza. Alzò una mano e in essa apparve una scure di energia rossa e vibrate. Boris ruotò su sé stesso, pronto a colpire il potenziale assalitore. Ma si bloccò a metà dell’atto. «Tu?!»
«Ciao, Bo» lo salutò Solomon allegramente. «Dalle dimensioni di quella scure, deduco tu sia molto felice di vedermi.»
Boris abbassò di poco l’arma. «In nome dei Fondatori, che ci fai qui?!»
«Mi conosci, non resisto a un bicchiere di kvas e ai baccanali satanici.»
Boris emise un basso ringhio e dissolse la scure. «Non dirmi che sei venuto a sapere della mia missione!»
«Quella di confiscare un grimorio di Magia Vuota e distruggerlo?» fece Solomon, rimuovendo un pelucco dalla giacca. «Ne so quanto basta.»
«Be’, vedi di starne fuori» intimò l’altro. «Il Nord è territorio di mia competenza, e i Decani hanno affidato l’incarico a me!»
«Va bene, non ti scaldare» Solomon alzò le mani in segno di pace. «Voglio solo offrirti il mio aiuto.»
Boris sollevò un sopracciglio. «Tu? Offrirmi aiuto?»
«È nell’interesse di entrambi che quel libro sparisca dalla circolazione» disse Solomon, serafico. «Prima che qualche squilibrato trovi il modo di servirsene.»
Boris continuava a essere profondamente scettico. «Tu non fai mai niente per niente.»
«Vedila così» sospirò l’altro. «La settimana scorsa ho portato a termine tutti gli incarichi che i Decani mi hanno affidato, e non so stare senza niente da fare. E poi, siamo tra gli stregoni più potenti di Arcanta: in due abbiamo più possibilità di successo, non credi?»
Boris continuò a squadrarlo con diffidenza. Poi, buttò fuori anche lui un sospiro: «D’accordo, hai il permesso di assistermi. Ma ti avverto: è un incarico della massima importanza e non ti permetterò di mettermi i bastoni tra le ruote!»
Solomon gli dedicò un sorriso smagliante. «Sarò un santerellino, promesso!»
Brontolando, l’Arcistregone del Nord lo precedette lungo il corridoio. Solomon sentiva pizzicare il punto in cui l’ago lo aveva trapassato e si accorse di avere i brividi: il veleno di Rasputin si stava aprendo rapidamente una strada verso gli organi vitali.
«Allora» disse, facendo finta di niente. «Come hai fatto a imbucarti?»
«Ho scavato una galleria fin sotto le cucine, dalla rete fognaria.»
«Questo spiega il tuo odore.»
Boris arrossì appena, sotto la folta barba. «E tu come sei entrato?»
«Dalla porta principale. Nei panni dell’ambasciatore ungherese.»
«E quello vero dov’è?»
«Nudo, dentro un baule, all’ambasciata.»
Boris era sconcertato. «Hai chiuso un diplomatico dentro un baule?! Blake! Lo sai che ci è proibito interagire direttamente coi Mancanti!»
Solomon sbuffò. «Gli ho rimosso la memoria, non sono un principiante. Al suo risveglio avrà solo un brutto mal di testa.»
L’Arcistregone del Nord scosse il capo. «Sai quel è il tuo problema, Blake? Sei maledettamente in gamba, ma scegli sempre la strada che metta in luce tutti i tuoi difetti anziché i pregi.»
«E da quando trovare la strada più facile sarebbe un difetto?»
«Sto parlando di seguire la strada giusta, non quella facile» disse Boris. «Di agire con onore. Alla Corte delle Lame è così che vogliamo essere ricordati.»
L’espressione di Solomon si indurì. Onore, certo. L’onore non lo aveva reso Arcistregone dell’Ovest, non lo aveva tirato fuori da un sacco di situazioni pericolose, così come in passato non lo aveva sottratto alle punizioni di suo padre. E di certo non aveva salvato Jonathan.
«Quando si viene ricordati, significa che si è morti» disse Solomon, seccamente. «E io intendo restare in circolazione per un bel po’. Perciò…»
Con un movimento impercettibile, ruotò il polso e contrasse le dita. «Spero non ce l’avrai troppo con me.»
Boris strabuzzò gli occhi. «Che stai facendo…?»
«Rallento il tuo battito cardiaco. Tranquillo, Bo, ti farai solo una dormitina.»
Boris mosse un passo verso di lui, incerto sulle gambe. «Grandissimo figlio di…»
E collassò lungo disteso ai suoi piedi.


«Sono ammirato» commentò Rasputin, quando Solomon ebbe rimesso piede nel Tempio dell’Origine, accompagnato dal corpo privo di sensi di Boris Volkov. «Niente meno che il celebre Lupo Grigio, il flagello del Nord.»
«Cercate di non strapazzarlo» disse Solomon, mentre alcuni adepti trascinavano via l’Arcistregone del Nord. «Dunque, il nostro accordo?»
Gli serviva l’antidoto. Si sforzava di non farlo trapelare, ma iniziava ad avere le vertigini e gocce di sudore freddo gli imperlavano la fronte…
Rasputin ridacchiò. «Abbiamo ancora un’ora prima che il veleno la uccida. E nel frattempo, la manterrà abbastanza debole da impedirle di sabotare il nostro rito.»
Solomon mascherò un attacco di tosse con una risata. «Ma potrei perdermi il gran finale.»
«Lo prenda come un atto di fede.»
Due iniziati entrarono reggendo per due aste un’elaborata cassa di legno rivestita d’oro. Solomon si fece attento. «È ciò che penso?»
Rasputin attese che i seguaci posassero a terra la cassa e vi passò sopra una mano. «Qui dentro è custodito il Codice Oscuro di Farabi» spiegò.  «“L’Alchimista Folle”, colui che iniziò il culto del Vuoto.»
Gli adepti si disposero in cerchio, continuando a spargere incenso, e presero a intonare una nenia in un antico dialetto greco. Rasputin, invece, alzò il coperchio della cassa. «E adesso, lo pregheremo affinché ci riveli l’identità del Prescelto che ci guiderà verso il Grande Cambiamento.»
Tirò fuori con cura un tomo delle dimensioni di una Bibbia, dalla rilegatura incastonata di pietre preziose. Mentre i fumi dell’incenso salivano in pigri vortici verso la cupola, lo starets aprì il libro e lo adagiò sul sarcofago. «Unitevi a me in preghiera! Che il potere del Vuoto scenda su di noi e ci riveli la via per la grandezza!»
Estrasse dalla tunica un kinjal[3] dall’impugnatura in oro. «Potere Oscuro, prendi dalle nostre mani questo sacrificio e donaci il sapere degli Antichi!»
E, con un movimento fluido, freddamente calcolato, il monaco recise la gola all’adepto alla sua destra. Solomon non riuscì a nascondere lo stupore e il disgusto, mentre guardava l’uomo sgozzato accasciarsi, rantolando, sopra il sarcofago, che fu presto interamente zuppo del suo sangue.
Seguirono diversi minuti di silenzio carico di attesa, in cui però, a parte la cessazione dei rumori provenienti dalla vittima sacrificale, non accadde assolutamente niente. Gli adepti si scambiarono occhiate perplesse.
«Ha letto le istruzioni del libro prima di usarlo, vero, Gran Maestro?» chiese Solomon.
Rasputin lo fulminò con un’occhiataccia. «Taci, Corvo Bianco! Cosa può saperne uno come te dei nostri…» Si interruppe, come distratto da un pensiero improvviso, e subito dopo impallidì. «Un momento…il corvo! Razza di idioti! Dov’è finito il suo…?»
Un’esplosione di luce bianca dissolse l’intera sala, seguita da un coro di ululati di sorpresa e dolore. Gli adepti si coprirono i volti con le mani, accecati, e iniziarono a urtarsi gli uni con gli altri, incespicando nei mantelli come lattanti.
Un grosso corvo albino apparve dal nulla in un turbine di piume bianche, e si tuffò su Rasputin, che brancolava menando fendenti col suo kinjal. L’uccello allargò gli artigli, gli graffiò la faccia, dopodiché strappò dal suo collo una sottile catena a cui era assicurata un’ampollina di vetro. Infine, volteggiò sotto la cupola, lasciandola cadere nella mano aperta di Solomon.
Lo stregone non perse tempo; sgusciò tra gli iniziati prima che potessero trafiggerlo con le loro daghe, ruotò il bastone e assestò un paio di colpi per metterli ko. Si liberò degli altri generando un turbine di vento così potente da sollevarli in aria e mandarli a sbattere con violenza contro le pareti. Infine, spiccò un salto verso il sarcofago e vi atterrò sopra in perfetto equilibrio, come un acrobata.
Rasputin era in ginocchio, schiumante di rabbia, con una mano sulla faccia e il sangue che gli colava fra le dita.
«Corvo Bianco!» sbraitò. «Danzerò sulla tua tomba!»
Si tirò su e, con un ringhio di belva, gli si avventò contro brandendo il kinjal; Solomon schivò il primo attacco, parò il secondo con l’asta dal bastone, impugnandolo come una spada. Il monaco compì un’agile piroetta su sé stesso, come un derviscio, pronto ad affondare la lama nel suo fianco. Solomon indietreggiò e, con una rotazione del polso, gli spezzò una gamba.
Rasputin digrignò i denti dal dolore, ma la smorfia si tramutò subito in un sogghigno, e tornò alla carica più agguerrito di prima.
Dannazione, pensò il mago, impressionato. È proprio vero che è duro da buttar giù questo qui!
Prima che potesse colpire ancora, Solomon sollevò una mano la catena di un incensiere d’argento si attorcigliò attorno all’impugnatura del coltello, strappandoglielo di mano. Approfittando della sorpresa del monaco, Solomon gli puntò contro il palmo e lo sbalzò dall’altra parte della stanza. Rasputin si schiantò con forza contro una colonna e questa volta restò a terra, gemendo e imprecando. Intanto, Solomon afferrò il Codice Oscuro e lo infilò in tasca
Il monaco lo fissò con odio, ansimando forte. «Crede di aver già vinto, signor Blake?»
«Non lo credo» replicò lo stregone. Agitò ancora le dita e la catena dell’incensiere lo avvolse stretto attorno alla colonna, immobilizzandolo. «L’ho appena fatto. Buona fortuna col suo Prescelto, Gran Maestro.»
E con un sibilo, usò il salto e svanì nel nulla, seguito dal corvo albino.
Riapparvero in una delle gallerie di roccia e Solomon estrasse l’orologio. «Sei in ritardo di quattro minuti e otto secondi, vecchio mio.»
Wiglaf gli si appollaiò sulla spalla, gracchiando piano.
«Che significa “ti eri perso”?» Solomon stappò l’ampollina, scolando l’antidoto tutto d’un fiato. «I demoni non si perdono. Ti stai impigrendo, ecco la verità. La prossima volta tu ti fai avvelenare e io preparo l’entrata ad effetto, e poi voglio vedere. Comunque, ho quel che mi serve. Possiamo tornarcene a casa…»
Wiglaf gli beccò il lobo dell’orecchio ed emise uno stridio.
«Mm? Sto dimenticando qualcosa? A che ti riferisci?»
Il corvo si alzò in volo, sbarrandogli la strada.
Solomon ridacchiò. «Oh, pensi sul serio che lo avrei lasciato qui? Stavo solo scherzando!»
Senza speranza, il Famiglio gli fece strada nel dedalo di cunicoli fino alle segrete.  Le celle, scavate nella roccia, si aprivano su un tunnel illuminato da fiaccole. Solomon si fermò di fronte a una porta di ferro dotata di una stretta fessura. Bastò un rapido movimento delle dita e la serratura scattò.
Alla debole luce, Boris Volkov era seduto sul pavimento sudicio, le caviglie incatenate e le mani bloccate da un manicotto d’acciaio. Sotto le spesse sopracciglia brune, i suoi occhi grigi lo trafissero come lame. «Sparisci, lurida serpe!»
«Sono venuto a liberarti, Bo. Non tenermi il broncio.»
L’Arcistregone del Nord diede uno strattone alle catene. «Non ho bisogno del tuo aiuto! Troverò da solo il modo di uscire di qui.»
«Entro la fine di questo secolo?»
«Almeno non dovrò aspettarmi un’altra pugnalata alle spalle!»
«Il solito permaloso» esalò Solomon, annoiato. «Adesso ti tolgo quell’affare, ma promettimi che farai il bravo lupacchiotto. Oppure ti metto la museruola.»
L’altro masticò una serie di imprecazioni in russo, mentre acconsentiva di buon grado a farsi rimuovere il dispositivo anti-magia da Solomon.
Lasciarono le segrete e, guidati da Wiglaf, percorsero a ritroso la galleria.
«Insomma, lo hai preso?» chiese rudemente Volkov, rompendo il suo ostinato silenzio. «Il Codice Oscuro. Sei riuscito a trovarlo?»
Solomon sfilò dalla tasca il prezioso tomo incastonato di gemme. «Tutto tuo. Lo vedi che in fondo non sono un alleato così pessimo?»
Lo stregone glielo strappò di mano. «Non dirmi che avevi previsto tutto!»
«Quasi tutto» rispose Solomon. «L’iniezione di veleno è stata un interessante colpo di scena.»
Boris esaminò il libro. «Se non altro, abbiamo portato a termine la missione.»
Si fermarono a un crocicchio. Lo stregone gettò a terra il Codice ed evocò la sua ascia di energia. Solomon fece un passetto indietro, mentre il Lupo Grigio sferrava un possente fendente, che ridusse in pochi istanti il tomo a un cumulo di cenere.
«È stato facile.»
«Già» disse Boris, corrugando la fronte. «Forse fin troppo...»
In quell’esatto istante, un possente e terribile ruggito scuotè le pareti di pietra, facendoli sobbalzare entrambi. Solomon rabbrividì: era lo stesso suono immondo che aveva sentito prima, quando era insieme a Rasputin.
«In nome dei Fondatori!» esclamò Boris. «Che cosa è stato..?»
La risposta non tardò ad arrivare. Con un cupo cigolio, una pesante grata di ferro arrugginito iniziò a sollevarsi, liberando l’accesso a una grossa galleria buia alla loro destra.
Dalle profondità, risalì qualcosa di gigantesco. Alto più di due metri, la pelle grigio-verde e le braccia grosse come tronchi d’albero. Caviglie e polsi erano stretti da bracciali di ferro, a cui erano attaccati pezzi di catene. Aveva indosso solo un perizoma di stracci, e brandiva un’immensa clava di legno. Sollevò la testa calva dalle orecchie a punta, e li guardò fisso coi suoi infossati occhi neri, infiammati di rabbia.
Boris era sbiancato. «Un orco!»
«Questo lo vedo» disse Solomon. «Come lo abbattiamo, Uomo del Nord?»
La creatura ruggì e sollevò la clava.
«CORRI!»
Era incredibilmente veloce. Solomon e Boris si diedero a una fuga disperata, imboccando gallerie a casaccio, mentre il suolo tremava sotto i passi della creatura e l’aria veniva spostata dai colpi dalla sua clava.
«Per tutti i demoni, siamo maghi!» esclamò Solomon, senza tuttavia frenare la corsa. «E siamo in due!»
«Quella cosa non la butti giù con gli incantesimi» ansimò l’altro. «Ha la pelle troppo spessa! Rimbalzerebbero dappertutto, vuoi che il Gran Palazzo ci crolli in testa?!»
L’orco era proprio dietro di loro. Solomon ne percepì l’odore nauseabondo e decise di improvvisare. Levò una mano contro il muro di pietra e contrasse le dita. Si generò un’esplosione di detriti, mentre la parete crollava aprendo una breccia. Solomon diede uno spintone a Boris, e si trovarono a ruzzolare su un lucido pavimento, all’interno di un immenso salone rivestito da smalti e intarsi rococò. Solomon tossì e strizzò gli occhi, abbagliato dalla luce elettrica dopo ore di oscurità. Erano tornati nel Gran Palazzo.
«Maledizione» fece Boris. «Ci sono delle persone qui!»
Solomon non fece in tempo a rispondere. Si sentì afferrare per la caviglia e sollevare in aria a testa all’ingiù, come se non pesasse niente. Si trovò faccia a faccia con l’orco, riflesso nei suoi occhi scintillanti come sassi di fiume.
La creatura spalancò la bocca ed emise un ruggito spaccatimpani, assieme a uno spruzzo di bava e un fetore da far girare la testa. Sì, decisamente Solomon non aveva previsto di finire così la serata…
«Blake!»
Percepì il sibilo dell’ascia di Boris, e vide lo stregone partire alla carica contro la creatura. L’orco gettò via l’Arcistregone dell’Ovest come una bambola, mandandolo a schiantarsi contro una parete con tale violenza da crepare l’intonaco.
Solomon si sollevò con fatica, scuotendo la testa per scacciare l’esplosione di punti luminosi che gli sfarfallavano davanti agli occhi. Nel frattempo, l’ascia di Boris disegnava strisce di energia rossa nell’aria, nel tentativo di tenere a distanza il mostro. Solomon riuscì a mettersi in piedi, sostenendosi alla parete, mentre Wiglaf compiva giri agitati sulla sua testa.
Pensa, dannazione, pensa!
Gettò uno sguardo alle finestre, rivestite da tende di broccato così spesse che a fonderle ci si poteva armare un esercito. Fece scattare la mano e a quel comando, una tenda si staccò in un vortice di stoffa e volteggiò fino a ricadere sopra la testa dell’orco, coprendogli la visuale. La creatura ringhiò di collera e agitò le braccione, nel tentativo di liberarsi.
Solomon intrecciò le dita, girandogli attorno, e la tenda avvolse il bestione, riducendolo a una gigantesca mummia. In poco tempo, perse l’equilibrio e si abbatté pesantemente al suolo, mugugnando e dibattendosi.
Ma il broccato non era abbastanza resistente, e presto cominciò a farlo a brandelli.
Solomon recuperò alla svelta il bastone, passò una mano lungo l’asta, tramutandola in una spada sottile. Nell’istante in cui l’orco riuscì a liberare la testa, lo stregone fu su di lui, la punta acuminata a pochi centimetri dai suoi occhi.
«Pensaci, ragazzone» disse, in tono di avvertimento. «Avrai la pelle dura, ma basta poco per trapassarti il cervello.»
L’orco lo fissò e, nei suoi occhi, a Solomon parve di vedere qualcosa, che si agitava sotto tutta quell’aggressività primitiva. Vide terrore. Vide perdita. E una lacerante sofferenza che gli procurò una strana fitta nel petto.
Abbassò la lama.
Boris iniziò a protestare, mentre permetteva alla creatura di alzarsi, ancora avvolta nel tendaggio come un senatore romano. Senza emettere neppure un suono, la guardarono tornare a rintanarsi nel buco che conduceva alle gallerie.
«Lo lasci andare?» disse l’Arcistregone del Nord, stupito. «Così?»
Solomon agitò lo spadino, che tornò un innocuo bastone di legno.
«È solo una povera creatura infelice. Hai visto quelle catene? Chissà per quanto tempo l’hanno tenuta rinchiusa là sotto.»
Boris lo stava fissando in un modo che lo mise a disagio. «Che c’è?»
«Ogni tanto riesci a stupirmi, Blake. Dopotutto, non sei il bastardo che tutti credono.»
Solomon si passò una mano sul completo, per far svanire la polvere e le tracce di bava di orco. «Non dirlo in giro. Mi rovineresti la reputazione.»
Percepirono un rumore di passi e ordini gridati in russo appena fuori le porte dalla sala.
«Le guardie dello zar» mormorò Boris. «Il baccano deve averle attirate. Che facciamo, adesso? Blake?»
Nessuna risposta.
Boris si guardò intorno: all’improvviso, era rimasto da solo.
Sputò un’imprecazione. «BLAKE!»
 

L’intero palazzo era in allarme, e squadre di cosacchi armati di fucili a ripetizione sciamavano lungo i corridoi. Il motivo di tale scompiglio, comprese Solomon, era la minaccia di un attacco terroristico ai danni dello zar. Mentre i due stregoni erano alle prese con l’orco, era arrivata una telefonata dall’ambasciata ungherese a San Pietroburgo: sembrava che un giovane domestico si fosse introdotto nella camera dell’ambasciatore Szapáry con l’intenzione di rubacchiare, e che avesse fortuitamente sentito dei rumori provenire da un baule. Il conte era stato immediatamente soccorso e il Gran Palazzo avvertito della presenza di un impostore, forse un sicario.
Peccato solo che il conte non fosse assolutamente in grado di descrivere che aspetto avesse il suo assalitore, come se lo avessero cancellato dalla sua memoria. Colpa dello shock, si convinsero tutti.
Solomon mantenne comunque il profilo basso mentre si aggirava per il palazzo, che le guardie dello zar stavano provvedendo a evacuare. Si sporse oltre un angolo per accertarsi che la via fosse libera, ma in quell’istante, sentì una voce familiare…
«Frigyes! Frigyes, dove sei?»
Era la moglie del conte Szapáry, Edvige, che correva come una pazza in cerca del marito. Solomon imprecò fra sé per il contrattempo, e assunse di nuovo l’aspetto dell’ambasciatore. «Amor mio, calmati! Sono qui, che succede?»
Lei gli gettò le braccia al collo. «Oh, grazie al cielo! Dicono che un pazzo omicida sia entrato nel palazzo! Le guardie non hanno voluto dirci di più, sospettano che abbia dei complici!»
«Va tutto bene, cara.» Solomon le diede delle pacche distratte, pensando a come togliersela dai piedi. «Perché non raggiungi gli altri…? Sono certo…»
Si udirono dei comandi e un frastuono di stivali in marcia.
Solomon non ci pensò due volte. Afferrò la contessa e la trascinò dietro l’angolo, tappandole la bocca con un bacio. La sentì diventare subito un pezzo di granito tra le sue braccia, ma attese che i soldati si allontanassero, e poi la lasciò andare. «Le mie scuse, madame.»
La contessa era paonazza e scapigliata. «Lei…lei non è mio marito!»
«Temo di no» replicò lui, riassumendo il proprio aspetto. «Ma sono certo che sia stato un piacere per lei quanto per me.»
Le fece un baciamano galante e, sotto gli occhi spalancati e sbalorditi della donna, saltò e svanì. Edvige invece si portò una mano al petto, respirando forte. E in quel momento, si rese conto di non avere più al collo il suo zaffiro.
 
Coperte e samovar di tè bollente furono distribuiti tra gli ospiti, raggruppati sul prato di fronte al Palazzo come un branco di pecore impaurite. Solomon scivolò agilmente tra la gente chiassosa e in cerca di spiegazioni che affollava il parco, e si allontanò inosservato verso gli alberi.
Al riparo da occhi indiscreti, estrasse da sotto la giacca un grosso libro tempestato di gemme: il povero Boris ci teneva così tanto a fare bella figura coi Decani, perché non accontentarlo? Avrebbe portato ad Arcanta la notizia del suo successo, avrebbe avuto gli applausi e la riconoscenza della Cittadella, assieme a una storia avventurosa da raccontare ai suoi allievi alla Corte delle Lame.
La serata, in fondo, si era rivelata proficua per tutti.
Solomon sorrise e intascò il libro. Poi, lanciò in aria il grosso zaffiro sottratto poco prima alla contessa, riafferrandolo al volo: sì, una serata decisamente proficua.
«È ora di tornare a casa, Wig» disse, percependo un battito d’ali sopra la testa. «Immagina la faccia di Lucy quando…»
Colse un movimento tra i cespugli. Solomon strinse l’impugnatura del bastone e si volse di scatto. «Chi c’è?»
Le siepi si mossero ancora. Poi, dall’ombra, emerse un bestione con la testa calva, la pelle grigio-verde cui la luna donava riflessi argentei.
Solomon aprì la bocca. «Ancora tu? Non ti è bastata la lezione?»
L’orco stringeva ancora in mano la sua clava e Solomon arretrò, pronto all’attacco. Ma la creatura non attaccò. Buttò invece la clava ai suoi piedi e poi si inginocchiò goffamente.
«Ehm» fece Solomon, perplesso. «Come dovrei interpretare questa cosa?»
«Mio nome è Valdar» biascicò la creatura, cogliendolo di sorpresa. Neanche si aspettava che sapesse parlare.
«Oh, molto piacere…»
«Sangue di Grendel scorre in mie vene» disse l’orco, con voce cavernosa. «Scandinavia mia casa. Uomini malvagi portato via Valdar con forza e reso lui cane da guardia. Valdar di nuovo libero ora.»
«E sono molto felice per te» replicò Solomon, educatamente. «Ma adesso devo proprio…»
«Valdar cercato di uccidere Stregone Blake.»
«Sì, be’.» Solomon occhieggiò i Mancanti riuniti nel parco. «Tranquillo, capita a tutti una giornata no.»
«Ma Stregone Blake risparmiato vita a Valdar» proseguì l’orco, con un tono che esprimeva la massima solennità. «Ora Valdar in debito. Servirà Stregone Blake fino alla morte.»
«Cosa!?» fece Solomon, sbalordito. «Suvvia, giovanotto, non c’è bisogno di essere così melodrammatici.»
«Valdar è guerriero d’onore» replicò l’orco, fieramente. «Ripagherà suo debito servendo Stregone Blake. O sua vita perderà valore.»
«Siete tutti fissati con questa storia dell’onore oggi!» sospirò il mago. «Senti, non per offenderti, ma non so proprio cosa farmene di un orco, va bene? Perciò, tornatene in Scandinavia e riprendi con la tua…vita o qualunque cosa tu facessi prima.»
Valdar ridusse gli occhi a fessure. «Valdar servirà Stregone Blake. O sua vita perderà valore.»
«Sì, questo l’hai già detto!»
Quello stupido bestione non sembrava deciso a spostarsi di un centimetro.
Solomon imprecò. Il parco pullulava di Mancanti e soldati armati fino ai denti, prima o poi qualcuno avrebbe fatto caso alla presenza di un orco rannicchiato in mezzo ai rododendri…
Infatti, presto sentì delle voci e vide delle lanterne luccicare nel buio, proprio in loro direzione.
«Maledizione!» disse Solomon, fra i denti. «So già che me ne pentirò.»
Fece un cenno a Wiglaf e il corvo volò in picchiata su di loro. Poi, in un vortice di piume bianche e luce, il demone portò tutti e tre lontano da lì.
 
 

[1]Bartolomeo Rastrelli: architetto russo di origine italiana.
 
[2]Antico popolo scandinavo che occupava l’attuale Russia occidentale.
 
[3]Pugnale tipico della Circassia (Caucaso). Spesso adottato dai cosacchi.
 
 

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Capitolo 3
*** Mentite spoglie ***



MENTITE SPOGLIE

 
 
Sarajevo, maggio 1914
 
La donna, conosciuta come “Dama Velata”, sedeva in poltrona accanto alla finestra, al terzo piano dell’elegante palazzina che lei e l’uomo che si faceva chiamare visconte Roman condividevano sulla Ferhadija; da quella postazione poteva ammirare l’intricato dedalo di vie tortuose e i chiassosi bazar d’impronta ottomana, affiancati da raffinate architetture Art Nouveau.
Era uno dei segni più evidenti dell’annessione all’Impero asburgico, che si era ripromesso di fare di Sarajevo una moderna città occidentale, dotandola di elettricità, tram e cattedrali, sorte accanto a moschee e madrase[1].
Un rumore di passi distolse la donna dalla contemplazione del variegato panorama urbano e il visconte Roman annunciò il suo arrivo in salotto col consueto: «Buongiorno, golubice moja[2]. Come ti senti, stamattina?»
«Dove sei stato?» scattò lei, decisa a mantenersi sulle sue. Sentiva l’odore del vino dall’altro capo della stanza. «È tutto il giorno che sei sparito!»
«Dovevo incontrare delle persone.» Lui sfilò maldestramente il cappotto e lo consegnò a una cameriera, che sparì in fretta dietro una porta a vetri. «Vecchi compagni di facoltà. Ah, ne sono arrivati altri!»
Eccolo che riprovava a cambiare argomento. Zora detestava quando si comportava così.  
Infastidita, lo osservò avvicinarsi al tavolo del soggiorno, invaso da giganteschi bouquet di fiori freschi accompagnati come al solito da una valanga di lettere e biglietti; ogni giorno ne arrivavano così tanti che i domestici non sapevano più dove metterli.
L’uomo aprì una busta e ne scorse rapidamente il contenuto. «“Alla straordinaria Madame Salomé, come umile ringraziamento per il conforto donatomi nei giorni più difficili. Per sempre vostro debitore, Adrik Nazyalensky, granduca di Udova”. Un granduca, hai sentito? Sembra che tutta l’aristocrazia russa ti veneri come una santa!» Molto soddisfatto, mise via il biglietto e ne esaminò un altro. «Chissà se ce n’è anche uno di quell’odioso ambasciatore ungherese, Szapáry.»
«Non sembra il genere di uomo che spedisce fiori alle donne» rispose Zora, con voce atona. «Sembra più il genere che manda a casa loro il fisco.»
«A me era parso parecchio impressionato» obiettò il visconte. «Come facevi a sapere del fratello morto? Non era nel suo fascicolo.»
Zora abbassò lo sguardo sul tavolino di fronte alla poltrona, dove aveva accuratamente disposto un ventaglio di vecchi tarocchi marsigliesi, consumati e sbiaditi.
Il tour russo li aveva risucchiati in un vertiginoso vortice di eventi, ma tra esibizioni, balli e cene, l’incontro con l’ambasciatore era sempre stato lì, in un angolo della mente di Zora: ormai le riusciva facile leggere le persone, poiché ogni cosa in loro, dal portamento, ai vestiti che indossavano, persino il modo in cui pettinavano i capelli raccontava una storia su chi erano, da dove provenivano e, soprattutto, che cosa li tormentava.
Quel conte Szapáry non faceva eccezione, così come la sua frigida e scialba moglie. Eppure, c’era qualcosa in lui che continuava a non tornare, come i pezzi di un ingranaggio che non volevano saperne di incastrarsi.
«L’ho intuito» rispose a Roman. «Quando sua moglie ha espresso il desiderio di parlare col figlio morto, lui ha avuto una reazione insolita, come se non fosse neanche figlio suo: da ciò ho dedotto che la sua scomparsa lo abbia lasciato alquanto indifferente. Ragiona come un nichilista, ma lo infastidisce avere a che fare con l’aldilà, quindi, ha comunque perso qualcuno di importante.»
Mentre parlava, fece scorrere i tarocchi tra le mani, guardandoli sovrapporsi fra loro come onde.
«Maneggiava in modo ossessivo un orologio» continuò. «Gli ho dato un’occhiata veloce, ma sembrava un vero pezzo da museo. Un cimelio di famiglia, probabilmente un regalo. Una donna gliene avrebbe comprato uno nuovo, perciò deve averlo ricevuto da un uomo, qualcuno che aveva con quell’oggetto un forte legame. Non il padre, dalle informazioni che mi hai passato, Szapáry ci parlava a malapena. Per esclusione, uno zio o un fratello.»
«E il fatto che è morto in giovane età?» chiese Roman.
Con un movimento fluido, lei dispose i tarocchi sul tavolino, formando un arco perfetto. «Ho tirato a indovinare. In genere le morti che colpiscono i giovani sono quelle che segnano di più, proprio perché inaspettate.»
«Sorprendente» commentò lui, colpito. «Sembra proprio che l’allieva abbia superato il maestro.»
Zora non fece commenti. Rivoltò invece una dopo l’altra le carte, interrogandone le figure. Le domande che poneva loro erano sempre le stesse da anni, e anche questa volta la risposta non variò: Sette di Bastoni, un amore travolgente e passionale. La Ruota della Fortuna, un cambiamento improvviso, spaventoso quanto eccitante. Il Re di Denari, bisogno di protezione, stabilità. Il Diavolo, pericolo in agguato. E infine, sempre lui, l’Appeso: un nodo di situazioni intricate ancora da svolgere.
Attraverso quelle carte, Zora ripercorreva la propria vita ancora e ancora, fin dal giorno in cui aveva incontrato il suo partner, ma ancora non riusciva a vedere più lontano di così. Dove l’avrebbe portata la strada che aveva deciso di intraprendere? Avrebbe trovato ciò che cercava? Ma soprattutto: era felice?
C’era stato un tempo in cui avrebbe affidato a quell’uomo la propria vita, e in un certo senso, era stato così: quell’affascinante visconte Roman Vukčić Kosača, dalle spalle larghe, i folti capelli neri che si arricciavano appena sopra il colletto della camicia e gli occhi di gemma altrettanto nera, nelle cui vene, però, non c’era neppure una goccia di sangue nobile e che non si chiamava neppure Roman.
Krsta Grabež, era quello il suo vero nome, ma anche lui aveva dovuto reinventarsi totalmente, proprio come aveva fatto Zora. D’altronde, il figlio di un umile pastore ortodosso di Pale[3] non sarebbe mai riuscito neanche a farli entrare a San Pietroburgo. Ma il visconte Roman Vukčić Kosača poteva farlo, questo e molto altro: con la promessa di un favore qua e uno là, erano riusciti a imbucarsi al Gran Palazzo, dopodiché, un’entrata in scena ad effetto, la fluente parlantina di Krsta, tipica di un ex studente di Legge e le doti teatrali di Zora avevano svolto il resto del lavoro, facendo dimenticare a tutti che i loro nomi non fossero sulla lista degli invitati.
Per lui, Zora aveva rivoluzionato il suo intero mondo, sulla base di semplici promesse…promesse che, a dirla tutta, Krsta aveva mantenuto: il giorno in cui si erano incontrati le aveva detto di aver lasciato l’Università di Belgrado dopo pochi mesi per lavorare in una tipografia a Sarajevo, e che la trovava bella come la Madonna di Antonello da Messina.
Zora all’epoca aveva diciotto anni, rubacchiava nei bazar coi suoi cugini per mettere qualcosa nello stomaco, e di questo Antonello da Messina non le fregava proprio niente, ma Krsta poi le aveva offerto il pranzo e aveva aggiunto che non le avrebbe mai più fatto patire la fame, che le avrebbe comprato una casa e dei bei vestiti, che l’avrebbe resa qualcuno…e lo aveva fatto, nel giro di soli quattro anni.
Le aveva affibbiato un nuovo nome – il suo sarebbe suonato troppo “islamico” nei raffinati salotti europei – e le aveva insegnato un’arte, quella di rubare i segreti delle persone con un semplice sguardo. E soprattutto, le aveva dato qualcosa che non avrebbe mai pensato di poter ottenere: il potere di decidere cosa fare della propria vita.
Senza Krsta, Zora sarebbe rimasta una piccola zingara affamata e non la proprietaria di un intero palazzo, con un cuoco, un autista e tre cameriere al suo servizio. Avrebbe sposato quell’idiota di suo cugino Zarif, oppure un allevatore col triplo dei suoi anni, avrebbe sfornato per lui un branco di marmocchi e sarebbe invecchiata prima del tempo. Invece, adesso era Madame Salomé, la Dama Velata, permeata di mistero e magia.
Lei e Krsta avevano costruito quell’impero di bugie insieme, mattone dopo mattone e…adesso, lui torceva quelle stesse bugie contro di lei, sparendo per intere giornate senza preoccuparsi di dirle dove fosse, con chi, e a che ora sarebbe tornato…
Sentì le sue mani posarsi sulle spalle e riuscì a trattenere a malapena un sussulto involontario. «Hai bisogno di un mazzo nuovo» disse lui, sbirciando i suoi tarocchi. «Che figura ci facciamo a presentare ai clienti quelle vecchie cartacce? Te ne procurerò uno illustrato da Alfons Mucha[4] in persona. Che ne pensi?»
«Penso che questo mazzo vada bene così com’è.» Zora raccolse gelosamente le carte e le infilò in fretta in un sacchetto di velluto nero. «E poi, lo sai che leggo solo per me stessa.»
«É un peccato» commentò lui, sospirando. «Farsi fare le carte non va più di moda come un tempo, ma c’è sempre qualcuno che dimostra interesse.»
«Non avevamo stabilito che avremmo selezionato la clientela?»
Krsta si allontanò, lasciandosi cadere sul sofà. «Bisogna scendere a compromessi ogni tanto, lo sai.»
Sì. Lo so molto bene. Stavolta fu Zora a deviare il discorso: «Che programmi abbiamo oggi?»
Lui tirò fuori dalla tasca l’agenda, gonfia all’inverosimile di appuntamenti, e la sfogliò. «La vedova di un banchiere prussiano, vive dall’altra parte della città. È inconsolabile! L’ho avvertita che siamo al completo fino ad agosto, ma è disposta a pagare il doppio della tariffa se ci presentiamo da lei per l’ora del tè.» Sogghignò tra sé, mentre giocherellava con la stilografica. «Scommetto che vuole sapere la combinazione del caveau del marito.»
Zora fece una smorfia. «Che altro?»
«Stasera una società esoterica ci ha chiesto di presenziare a un ciclo di incontri letterari intitolati Metaphysika. Ma io eviterei, considerando com’è andata l’ultima volta. Potrebbero esserci degli imbucati.»
Zora si trovò d’accordo: erano diventati molto prudenti riguardo quel genere di eventi, da quando, durante un’esibizione in un piccolo teatro a Parigi, un tizio tra il pubblico aveva iniziato a dimostrarsi molesto nel tentativo di smascherare il “trucco” dietro la sua performance, costringendo Krsta a chiamare la sicurezza e farlo sbattere fuori. Il mattino dopo, Le Figaro aveva raccontato che si trattava di un investigatore dell’occulto americano, un “cacciatore di medium”, come li chiamavano nell’ambiente. In genere si trattava di arroganti uomini di scienza, oppure di illusionisti con anni di escamotage alle spalle, che si vantavano di riuscire a svelare qualsiasi tipo di imbroglio.
Nonostante Zora e il suo manager negli anni avessero dimostrato di essere sempre un passo avanti a loro, non potevano permettersi di abbassare la guardia. Non ora che l’alta società russa li aveva notati, garantendo loro la protezione di un potente alleato, ma anche parecchi occhi indesiderati sempre puntati addosso.
«Vada per la vedova del banchiere, allora.»
La seduta si portò avanti come di consueto: una volta giunti alla villa della vedova von Archenholz, in cima a una collina appena fuori città, Krsta fece le dovute presentazioni e la padrona di casa li guidò in un salottino raccolto, dove venne servito del caffè nel tradizionale pentolino di rame. La vedova indossava ancora il lutto e si soffiava continuamente il naso con un fazzoletto ornato di pizzo. Quanta ostentazione! pensò Zora, ringraziando il velo di tulle che nascondeva la sua espressione. E dire che gli attori qui dovremmo essere noi!
Sedettero tutti insieme attorno a un tavolo rotondo, e Krsta chiese cortesemente di far spegnere le luci e chiudere le tende, in modo che la stanza fosse rischiarata unicamente da un candelabro a centro tavola. Perché gli spiriti, si sa, non amano agire sotto i riflettori.
Partirono col solito repertorio: Madame Salomé prese le mani della vedova tra le sue, si concesse qualche minuto per auto indursi in uno stato di trance, dopodiché cominciò a snocciolare qualche informazione intima sulla coppia, informazioni che Krsta aveva provveduto a raccogliere giorni prima in giro, da domestici e vicini pettegoli al mercato. Una volta ottenuta l’indiscussa fiducia della donna, Zora iniziò a parlarle come se su quella sedia fosse seduto il defunto marito, Hans. La vedova, ovviamente, ci cascò con tutte le scarpe e si profuse in una scenata a dir poco patetica, tra lacrime e singhiozzi, arricchiti di tanto in tanto da grida isteriche del tipo: «Perché! Perché mi hai abbandonata, amore mio?!»
Zora ormai ci aveva fatto il callo. La cosa positiva era che, coperta da tutti quelli strati di stoffa, in quei frangenti aveva la possibilità di diventare invisibile.
Per la gente lei non era niente, in fin dei conti, solo un ponte verso affetti perduti a cui continuavano a rimanere disperatamente aggrappati. Per questo Krsta le imponeva di portare sempre il velo, a ogni seduta: aumentava l’illusione che non fosse una persona in carne e ossa, ma un’entità astratta, inconsistente. Proprio come i fantasmi che faceva credere di poter evocare.
“Non prova nemmeno un po’ di rimorso nel vendere false speranze a quella povera gente?”  le aveva chiesto l’ambasciatore Szapáry, quella sera a San Pietroburgo. Zora aveva negato, in maniera civettuola e arrogante, come si mostrava sempre agli scettici come lui, come se le critiche facessero parte del gioco.
Ma anche quella, come tutto nella sua vita, era una menzogna. Soprattutto all’inizio, stava male sul serio per quelle persone distrutte dal dolore. Aveva visto uomini grandi e grossi andare in pezzi per essere sopravvissuti a un figlio, aveva vissuto il dolore in ogni sua stagione e sfumatura, da quello vero e intimo, a quello sfacciatamente studiato.
C’erano volte in cui sentiva il folle impulso di afferrare per le spalle chi si trovava di fronte, scuoterlo e urlare: “Brutto idiota, è tutto un raggiro, come fai a non rendertene conto? I morti non parlano!”. Ma riusciva sempre a metterlo a tacere: se quella gente era disposta a pagarli profumatamente per illudersi che i fantasmi esistessero, allora lei avrebbe dato loro i fantasmi.
Vista la cifra che la vedova aveva promesso, Krsta propose di arricchire la performance di Zora con qualche “extra”, come sempre quando si trattava di clienti facoltosi: levitazione di oggetti, porte che sbattono, candele che si spengono. E chissà, persino materializzazione di ectoplasma.
Ecco, quella era la parte difficile e Zora non mancò di farlo notare al socio pestandogli un piede da sotto il tavolo.
I primi tempi, quando ancora cercavano di farsi un nome offrendo sedute gratuite nelle fattorie dei dintorni, e sedevano in cucine sudice dove galline e maiali entravano e uscivano a loro piacimento, era Krsta a occuparsi di quel tipo di “effetti speciali”. Solitamente, portavano con loro un complice, un ragazzetto raccattato nei campi, a cui per pochi spiccioli veniva chiesto di bussare contro la parete, spostare oggetti approfittando della distrazione dei presenti, bisbigliare cose da dietro le porte.
Man mano che aumentava lo status sociale dei clienti, anche le loro performances richiedevano un certo grado di sofisticatezza, per cui presto dovettero abbandonare certi trucchi da fiera e ingegnarsi per escogitare altri sistemi. Si esercitavano per ore, studiando nei minimi dettagli il palcoscenico ideale: ed era stato durante una sessione di prove particolarmente frustrante, col fiato sul collo della stampa e delle autorità e alte aspettative della clientela sempre più esigente sulle spalle, nel pieno di un acceso litigio, che Zora aveva scoperto di saper, effettivamente, animare gli oggetti.
Era stato uno shock per lei quanto lo era stato per Krsta. Uno specchio affisso alla parete aveva tremato e poi era esploso in una pioggia di vetri mentre lei era lì che urlava contro il compagno, vomitandogli addosso rabbia, disillusione e paure per il guaio in cui l’aveva trascinata.
Purtroppo, si trattava di casi abbastanza sporadici e ancora adesso Zora non comprendeva come funzionasse: accadeva con maggiori probabilità quando si trovava in uno stato di forte stress o di rabbia. In quei momenti, avvertiva un urlo risalirle da dentro, come un richiamo animale, ma non sapeva da dove nascesse.
Col tempo, aveva cercato di addomesticare quell’animale, in modo da poterlo sfruttare al momento opportuno. Non sempre ci riusciva, motivo per cui preferiva evitare, ma, sull’onda del successo che stavano riscuotendo ultimamente, Krsta esigeva sempre più spesso che lei desse dimostrazioni più audaci. E infatti, era stato proprio grazie a quelle dimostrazioni che avevano potuto comprare un’automobile e la bella casa in cui vivevano.
Così, Zora chiuse gli occhi, si concentrò e, sentendo su di sé lo sguardo carico di aspettative della vedova e quello ansioso di Krsta, chiamò a raccolta quel richiamo misterioso, pregando con tutto il cuore che non la tradisse proprio in quel momento.
Vagò tra ricordi e sensazioni, ricercandovi qualcosa di utile, una scintilla che accendesse la miccia. Non fu una ricerca lunga. Bastava richiamare alla memoria i crampi intollerabili della fame. Le notti trascorse a battere i denti avvolta in una coperta di lana pruriginosa, sul retro di un carro. Gli sguardi lascivi dei vecchi ricconi col cilindro quando camminava per strada e le parole sussurrate tra le donne sul ciglio delle botteghe, sempre le stesse. Ladra. Zingara. Puttana. L’alito di vino che Krsta emanava quando si infilava nel loro letto agli orari più assurdi, biascicando scuse, cercando di rabbonirla con baci e carezze…
La scintilla divenne una fiamma e l’urlo selvaggio proruppe con forza al centro del suo petto, premendo per uscire.
Ci fu uno schianto secco, un rumore di vetri rotti e la vedova von Archenholz strillò.
Zora aprì gli occhi. Una porta aveva sbattuto, un vaso era andato in frantumi senza che nessuno l’avesse sfiorato e, anche quella volta, la loro reputazione era salva.
«Magnifica» commentò Krsta, seduto accanto a lei sui sedili posteriori dell’auto, mentre rientravano a casa. «Sei stata semplicemente magnifica! Accidenti, tesoro, dobbiamo farlo più spesso!»
«“Dobbiamo?”» ripeté lei, tamponandosi la narice con un fazzoletto, per frenare la copiosa fuoriuscita di sangue; succedeva sempre, ogni volta che usava quel “trucco”, ma di rado la gente se ne accorgeva, per via del velo. «Non mi sembra che tu abbia fatto granché.»
«Ehi, sorella, ricorda che io ci metto la faccia» disse lui, continuando a contare le banconote. «Se finora ci è andato tutto liscio come l’olio lo devi solo a me. Che saranno mai due gocce di sangue? Toh, ha pure smesso.»
Zora si volse verso il finestrino.
Erano appena rientrati a casa, che Krsta annunciò di dover uscire di nuovo.
«Dove devi andare?» chiese seccata Zora. «Fra poco si cena!»
«Mangio qualcosa fuori, non aspettarmi alzata.»
Afferrò di nuovo il soprabito e nel farlo, dalla tasca scivolò fuori una busta da lettere, che svolazzò per qualche istante prima di posarsi sul pavimento. Zora si chinò per raccoglierla. «Questa cos’è?»
«Oh, sarà uno di quei bigliettini che sono arrivati insieme ai fiori…»
Allungò una mano per prenderla, ma Zora si ritrasse. «Perché ce l’avevi tu?»
«Perché…non lo so, l’ho messa in tasca e basta! Sarò stato sovra pensiero…»
«La manda Aisha!» ringhiò Zora, scioccata e furente. «Perché non mi hai detto niente?»
«Golubice moja, tesoro mio, è ovvio che te l’avrei data! Mi è solo passato di mente…»
Zora decise che ne aveva abbastanza delle sue idiozie e pensò invece ad aprire la busta, le mani che già le tremavano.
Krsta si portò indietro i capelli con un sospiro. «Allora, cos’è che vuole?» chiese, in tono lamentoso. «Altri soldi? Uno di quei buzzurri dei tuoi cugini si è fatto arrestare per aver rubato una gallina…?»
Zora ebbe l’impressione che la voce di Krsta fosse coperta da un fischio prolungato, mentre fissava con occhi sgranati le poche righe scritte a penna, con la grafia sbilenca di sua sorella. Un velo di lacrime le offuscò la vista e una grossa goccia cadde sopra una parola, sciogliendone l’inchiostro.
Deglutì, ma la voce faticò ugualmente a uscire. «Devo tornare a casa»
«Cosa?» fece Krsta. «A Mostar?»
«Sì. Prendo l’auto, partirò stasera.»
«Sei impazzita!?» esclamò lui, sbalordito. «Dove vuoi andare a quest’ora? E poi, con tutti gli appuntamenti che abbiamo in agenda per domani…»
«Che si fottano gli appuntamenti!» lo interruppe lei, con forza. «Questo è più importante!»
«Ma perché? Sui può sapere che è successo?»
Lei sollevò gli occhi dalla lettera e li puntò dritti nei suoi. «Mia madre sta morendo.»


 

[1] Madrase: scuole musulmane.
[2] Golubice moja: “mia colomba” in serbo.
[3] Pale: cittadina a 17 km da Sarajevo
[4] Alfons Mucha: pittore, scultore e pubblicitario ceco

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Capitolo 4
*** Impacchetta i tuoi problemi ***



IMPACCHETTA I TUOI PROBLEMI

 
 
 
“Pack up your troubles in your old kitbag
And smile, smile, smile
While you’ve a lucifer to light your fag
Smile, boys, that’s the style…” [1]


 
 
La Panne, Fiandre occidentali.
Aprile 1915
 

Abigail mosse qualche timido passo verso il bagnasciuga, osservando le onde rincorrersi sospinte dal vento fino a infrangersi sulla riva. Non riusciva ancora ad abituarsi alla vista di tant’acqua tutta insieme, malgrado avesse trascorso le ultime ore a bordo di un traghetto; la traversata in sé era stata scomoda e per nulla entusiasmante, eccetto forse per l’apparizione di piccolo cacciatorpediniere che una ragazza di Manchester aveva scambiato per un sottomarino tedesco, gettando l’intero ponte nel panico.
Abigail si sgranchì la schiena e respirò profondamente, sentendo il sapore del sale posarsi sulla punta della lingua e il sole primaverile scaldarle il viso.   Dopo un attimo di esitazione, decise di togliere le scarpe: tirò su l’orlo del pesante vestito grigio e la sua pelle si ricoprì di brividi silenziosi quando affondò i piedi nella sabbia bagnata.
Ad Arcanta aveva visto molte cose straordinarie, sin da quando era bambina, ma nessuna illusione a opera degli incantatori della Corte dei Miraggi o innovazione degli ingegnosi alchimisti del Cerchio d’Oro era anche solo   paragonabile a quello che stava vivendo, ne era certa. Sorrise tra sé, mentre guardava i gabbiani sfrecciare in volo sulla sua testa riempiendo il cielo di stridii, e si sentì felice e grata come non lo era mai stata…
«Miss Thorn!» Un’imperiosa voce femminile la richiamò al presente. «Ha intenzione di rimanere lì ancora per molto? Le ricordo che siamo attesi con una certa urgenza.»
Abigail rinfilò di corsa le scarpe e risalì la spiaggia, affrettandosi a raggiungere Miss Wilkins e l’eterogeneo gruppo che l’aspettava accanto ai tre autocarri della Croce Rossa; nove giovani infermiere in fluenti mantelli viola, quattro medici in tenuta militare e tre studenti del London Hospital incontrati a Victoria Station, con cui si era imbarcata a Folkstone.
A eccezione di Abigail, nessuna delle infermiere di Norwich che avrebbero dovuto accompagnarla nella traversata si era presentata all’appello e l’organizzatrice era andata su tutte le furie. Ad Abigail si era stretto il cuore al pensiero di intraprendere quel viaggio senza Bessie e Charlotte, ma in fondo le aveva comprese: per delle ragazze di campagna non doveva essere facile lasciare la sicurezza del loro piccolo ospedale per affrontare i pericoli del fronte.
“Prometti che ci scriverai tutti i giorni” le aveva raccomandato Bessie il giorno della partenza, mentre Charlotte la stritolava in un abbraccio sulle scale della clinica in cui aveva trascorso gli ultimi sei mesi. “E che non correrai più rischi del necessario!”
Abigail era felice di poter dire di essere stata loro amica. Di ricordare con affetto e una punta di rimpianto le ore di studio durante l’apprendistato e le chiacchiere nei momenti di tranquillità. E persino il suo primo incarico importante, quando era stata selezionata per gestire un’epidemia di tifo ad Aldeby. Le avevano consegnato anche una medaglia ed era stato allora che il dottor Davenshaw, primario a Norwich, l’aveva notata:
“Quanti anni hai, Miss Thorn?” le aveva domandato al suo rientro, senza preamboli, dopo averla convocata nel suo ufficio.
“Diciannove appena compiuti, signore.”
“Sei giovane” aveva commentato lui. “Ma possiedi sangue freddo, e all’Inghilterra servono persone come te di questi tempi. Te la senti di raggiungere i nostri ragazzi al fronte, questa primavera?”
Abigail non chiedeva altro. Per quanto la riempisse di gioia prendersi cura della gente di Norwich sapeva di poter dare di più, e la prima linea sembrava il luogo dove fare davvero la differenza.
Sbarcati a Dunkerque, avevano superato il confine col Belgio attraversando strade pianeggianti costellate da villaggi e fattorie; al loro passaggio, la gente usciva dalle abitazioni agitando berretti e fazzoletti e gridava: «Vive les Anglais!», e in risposta alcune sue compagne urlavano, ridendo: «Vive les Belges et à bas les Allemands!»[2]. Avevano persino iniziato a cantare It’s a long way to Tipperary e l’atmosfera era così allegra che ad Abigail era quasi sembrato di essere in gita.
Ma il clima acquisì tonalità più serie quando giunsero a destinazione.
La Panne era stato per anni un piccolo villaggio di pescatori, povere case costruite in mezzo alle dune e frustate dal vento sul Mare del Nord; una schiera di villette disadorne si allineavano una dietro l’altra a ridosso della spiaggia, e tra loro svettava l’Oéan.
Un fremito d’eccitazione attraversò il retro del furgone e molte teste si sporsero per ammirarlo. Anche Abigail ne rimase impressionata, e anche un po’ intimidita; fino a non molto tempo prima, il Grand Hôtel de l’Océan doveva essere stato un’ambita meta per i turisti facoltosi, una struttura raffinata e imponente, affacciata sul mare. 
Ma poi era scoppiata la guerra, la Germania aveva invaso il Lussemburgo, il Belgio e la Francia nordorientale, e il numero dei feriti non faceva che aumentare, come la pressante necessità di organizzare le retrovie e accogliere i reduci in strutture adeguate. Così, col benestare della Corona belga, alla fine dello scorso anno era nato l’Ambulance de L’Océan[3], un ospedale attrezzato a poche miglia dalla linea del fronte.
Non appena gli autocarri si fermarono in piazza fu subito chiaro il cambiamento che la cittadina aveva subito in quei mesi; negozi e taverne erano chiusi, non c’era l’ombra di un turista e persino gli abitanti si aggiravano con aria cupa e spaesata. Molti edifici civili erano stati convertiti a strutture militari, depositi, alloggi, aree per le esercitazioni di tiro, e ovunque soldati avvolti in lunghi soprabiti blu scuro marciavano severi. Nessuna musica li accompagnava.
Un militare, con baffi biondi e lo sguardo malinconico ma gentile, aiutò le infermiere a scendere una dopo l’altra dal camion e Miss Wilkins batté le mani precedendole a grandi passi. «Su su! Svelte, signorine, non c’è tempo da perdere! Penserete a sistemarvi più tardi.»
Il drappello si accalcò dietro l’organizzatrice su per le scale dell’Océan e poi in un ampio atrio tutto maioliche tirate a lucido e vetrate che lasciavano entrare la luce del giorno a fiotti. Il comitato che trovarono a riceverle era formato da sole due persone: una ragazza poco più grande di Abigail e decisamente più alta, dai tratti delicati e belli, fasciata da un sobrio abito di cotone rigato con grembiule bianco e cuffia, e un uomo di mezza età in uniforme color cachi, che si sorreggeva a un bastone da passeggio.
«Benvenute a l’Ambulance de L’Ocean» esordì quest’ultimo, con un marcato accento francese. «Sono il dottor Depage, direttore e fondatore di questo ospedale. Inutile dirvi quanto sia grato per la vostra presenza, solo il Signore sa quanto è indispensabile il contributo di tutti in questi tragici momenti. Vi lascio adesso nelle ottime mani dell’infermiera Fanny Bouchard, vi mostrerà la struttura e i vostri alloggi. Con permesso.»
Dopo aver rivolto loro un breve inchino, il dottor Depage si accomiatò zoppicando leggermente e la bella infermiera prese la parola:
«Siete fortunate, le emergenze di oggi sono state quasi tutte gestite, ma non abituatevi a questa tranquillità.» I suoi occhi azzurri scrutavano i volti delle nuove arrivate con una certa alterigia. «Vi attendono giorni difficili. Da questa parte, per favore. E cercate di non rimanere indietro, detesto ripetermi.»
Fece un rapido dietrofront e s’incamminò con passo svelto lungo un corridoio. Le nove ragazze la seguirono senza indugio, bisbigliando eccitate.
«L’Ocèan vanta un vero e proprio primato» raccontò l’infermiera Bouchard. «Dispone di duecento posti letto, e contiamo di aggiungerne altri cento nei prossimi mesi. La moglie del dottor Depage è in visita negli Stati Uniti in cerca di fondi.»
Mentre parlava, sfilarono davanti a una serie di camere, uffici e sale operatorie attrezzate, da cui medici, infermieri e barellieri entravano e uscivano in un flusso continuo.
«La struttura possiede un sistema di riscaldamento centralizzato» proseguì la Bouchard. «In origine era destinato a un castello scozzese. Le attrezzature chirurgiche provengono invece direttamente da Londra.»
Parlava e camminava così velocemente che Abigail si ritrovò quasi a correre per non perdere neppure una parola. Si domandò se dovesse prendere appunti.
«A gennaio abbiamo iniziato a eseguire trasfusioni di sangue citrato e la sterilizzazione col metodo Carrel-Dakin» illustrò l’infermiera. «Il dottor Depage esige solo il meglio per il suo ospedale, per questo è dotato di cinque reparti, per trattare ogni emergenza in maniera specifica.»
Sostò brevemente in un corridoio. «Questo è il reparto di radiologia, uno dei nostri fiori all’occhiello.» Si concesse un lieve sorriso e guardò in direzione di Abigail, come a volerla impressionare. «Marie Curie in persona si è occupata del suo allestimento.»
«Ehm» fece Abigail, nervosa. «Chi?»
Qualcuna ridacchiò. L’infermiera Bouchard invece inarcò un sopracciglio e il suo sorrisetto sparì. «Ah, abbiamo una burlona qui. Presto avrai poco su cui scherzare.»
Visitarono altri reparti, specializzati in mandibole fratturate, ferite articolari, oftalmologia, protesi, riabilitazione...
«Di recente abbiamo adibito un intero padiglione per la gestione di traumi della pelle» aggiunse la Bouchard. «La maggior parte sono dovuti al gas: penetra le uniformi e vi assicuro che quel che c’è sotto non è un bello spettacolo. Mi auguro abbiate stomaci forti.»
«Accidenti!» borbottò una ragazza lentigginosa accanto ad Abigail. «Siamo appena arrivate e già sembra stia facendo di tutto per farci sloggiare!»
Sfortunatamente, la Bouchard la sentì. «Cerco di mettervi in guardia» disse con voce secca, fermandosi vicino una porta finestra che si affacciava su un porticato. «Sono all’Océan da quando ha aperto e ho visto più orrori qui di quanti ne abbia mai visti in tutta la mia vita. La maggior parte di voi non ha idea di cosa dovrà affrontare.» E nel dirlo, i suoi occhi indugiarono freddamente su Abigail. «Magari cercavate solo un diversivo dalla monotona vita di provincia, qualche eccitante aneddoto da raccontare alle amiche o una fuga prima di incastrarvi in un matrimonio. Ma non è quello che troverete qui. E non è questo il genere di donne che ci serve. Perciò, consiglio a tutte voi di valutare saggiamente le conseguenze delle vostre scelte: decreteranno il confine tra la vita e la morte per molti uomini valorosi.»
Il gruppo ammutolì, alcune chinarono il capo come alunne dopo una strigliata della maestra. In quell’istante, il silenzio fu spezzato dall’eco di spari ed esplosioni e le ragazze sussultarono. Oltre le vetrate, al di là di un’ondulata distesa di campi coltivati e boschi, nuvole grigie si addensavano all’orizzonte e il vento portò ai loro nasi un forte odore di fumo e polvere da sparo.
Fanny Bouchard restò impassibile. «Esattamente quello di cui parlavo: ci troviamo a soli dodici chilometri dalla trincea. Il che ci rende l’ospedale più vicino al campo di battaglia mai costruito.»
«Ma» squittì un’infermiera, impallidendo. «Questo non ci espone ai bombardamenti? Se un aereo nemico passasse sopra di noi…»
Gli occhi azzurri della Bouchard erano duri come il vetro. «Avete tutta la notte per decidere se restare o andarvene.» Senza alcuna parola di rassicurazione, tirò fuori una cartellina. «Ora vi chiamerò in ordine alfabetico e sarete smistate nei vostri alloggi: Abbott Eleonor…»
Più tardi, ricevettero tutte in dotazione un’uniforme standard, insieme a un tubetto di pastiglie di morfina. «Da tenere sempre a portata di mano» aveva detto la Bouchard, laconica, dopo averle distribuite. «Se ci invadono, l’ultima cosa che vorrete è finire nelle mani dei tedeschi vive.»
Il personale ospedaliero risiedeva in una ventina di villette a schiera, distribuite tutt’intorno all’ospedale: quando finalmente fu dato loro il permesso di rompere le righe, Abigail si mise in cerca del suo alloggio. Si trattava di una casetta carina, con un cortiletto in cui erano stati appesi dei panni ad asciugare. Bussò alla porta, ma solo al terzo o quarto tentativo finalmente venne ad aprirle una ragazza in vestaglia, con la testa piena di bigodini.
«Scusa!» disse, trattenendo uno sbadiglio. «Ho fatto il turno di notte e sono a pezzi! Sono Gwen, comunque. Gwen Barclay, vengo da Segale, nel Sussex.»
Si strinsero la mano. «Abigail Thorn di, ehm…Norwich. »
«Oh, grazie al cielo sei inglese!» esclamò Gwen, ridendo. «Vieni, ti mostro la tua stanza. Ma fa piano, Augusta e Henriette stanno dormendo, povere care!»
La aiutò a trascinare la valigia su per una rampa di scale coperte da moquette e le indicò la seconda porta a destra. «Tu starai qui. Goditela finché puoi!»
«É la seconda volta che me lo dicono oggi» ironizzò Abigail, ripensando all’accoglienza di Fanny Bouchard.
«Ah, mi crederai quando conoscerai la tua compagna di stanza» replicò Gwen. «Per fortuna stamattina è di turno, viene sempre e solo a dormire.»
La stanza era piccola ma pulita, ammobiliata in modo semplice: due lettini addossati alla parete, mobile per la toeletta con specchiera, armadio e scrittoio affacciato alla finestra.
«La mia stanza è proprio qui di fronte» spiegò Gwen, faticando a contenere gli sbadigli. «Bussa se ti serve qualcosa. Vorrei essere più ospitale ma ho avuto una nottataccia e non mi reggo davvero in piedi! Preparati pure qualcosa da mangiare in cucina, per la dispensa di solito utilizziamo delle etichette.»
«Ti ringrazio.»
Gwen la salutò e tornò in camera sua, lasciando Abigail sola a familiarizzare con l’ambiente. Sistemò le poche cose che aveva portato con sé, poi sedette qualche istante sul letto, facendo cigolare le molle del materasso.
Malgrado la stanchezza del viaggio iniziasse a farsi sentire, appesantendole le membra, era elettrizzata come il giorno in cui era scappata.
Stentava ancora a credere che fosse stato così semplice: lasciare la Cittadella senza farsi scoprire, intrufolarsi in un Meridiano diretto a Londra, e poi raggiungere Norwich e spacciarsi per una neodiplomata in cerca di impiego. Era stato semplice anche farsi degli amici, conquistare fiducia e stima contando solo sulla sua forza di spirito e sulle proprie capacità, e imparare a cavarsela da sola in quel mondo di cui conosceva ancora così poco. Anzi, era stato talmente facile abituarsi a quella nuova vita appena costruita, lontana da Arcanta, lontana dalla magia, che l’ipotesi che tutto potesse semplicemente finire la terrorizzava a morte. Era stato quello il suo incubo ricorrente negli ultimi mesi, non la guerra: che Lui potesse trovarla e che la riportasse a casa.
Esitò un momento, poi tirò da sotto il vestito una catenina a cui era agganciato un pesante medaglione d’oro, con sopra inciso un elaborato stemma: una spada spezzata circondata da rovi che si intrecciavano fino a comporre una sontuosa B.
Alzò la testa e incrociò il suo riflesso nella specchiera della toletta: un viso pallido e stretto, un arruffato taglio alla maschietta e occhi grandi, color nocciola, che facevano capolino sotto la frangetta castana…
"Hai gli stessi occhi di tua madre. Peccato tu abbia ereditato solo quelli…"
Abigail strizzò le palpebre, scosse con decisione il capo.
Respira si disse, sforzandosi di recuperare il controllo, di smettere di tremare. Conta fino a dieci. Tienilo fuori dalla testa.
Inspirò profondamente. Espirò. Quando riaprì gli occhi, era ancora nella sua modesta stanzetta a La Panne. Niente guardie. Niente tutori. Nessuno che le dicesse cosa fare della propria vita o come avrebbe dovuto essere.
Era sola, finalmente. E soprattutto, era libera.
 
Il giorno dopo trascorse confusamente; Abigail fu svegliata da un frenetico bussare quando il cielo oltre le tende era ancora buio.
«Vestiti!» disse la voce di Gwen da dietro la porta. «Hanno bisogno di noi, dobbiamo andare!»
Abigail buttò all’aria le coperte e indossò in fretta l’uniforme, annodando la cuffietta mentre scendeva a precipizio le scale.
Non erano neanche le tre del mattino e già l’ospedale pullulava di attività: durante la notte c’era stata una battaglia feroce a Ypres e gli autocarri dell’esercito andavano e venivano riversando nelle retrovie valanghe di feriti, col risultato che il pavimento a maioliche dell’atrio era pieno di impronte di fango e scivoloso di sangue. Ogni paziente era gravemente, se non mortalmente, ferito; teste fasciate alla meglio con sudice garze di fortuna, volti sfigurati dalle ustioni, arti piegati in posizioni innaturali. Gemiti e urla risuonavano in ogni reparto e chirurghi dai camici macchiati di sangue e barellieri col fiatone correvano da un corridoio all’altro senza sosta. Abigail, Gwen e altre coinquiline, Sarah, Augusta e Henrietta, si fecero largo nella calca: Abigail riconobbe le ragazze con cui era arrivata il giorno prima, pallidissime e con l’aria smarrita. Un paio di loro erano già in lacrime prima ancora di avvicinarsi ai feriti. Stette attenta ad ascoltare gli ordini urlati dai capireparto, ma molti di loro parlavano solo francese ed era difficile stargli dietro. Tutto accadeva talmente in fretta che Abigail non pensava, eseguiva e basta: volava da paziente a paziente, disinfettava ferite col cotone idrofobo, inseriva aghi ipodermici per le iniezioni, come le era già capitato innumerevoli volte a Norwich e ad Aldeby. Nel reparto di radiologia, le fu chiesto di tagliare le uniformi dei feriti che giacevano sulle barelle, ancora fumanti per l’esposizione al cloro. In molti casi, stoffa e carne avevano formato un tutt’uno ed era difficile capire con esattezza cosa le forbici stessero tagliando.
Qualche letto più in là, Fanny Bouchard stava assistendo un chirurgo alle prese con un ufficiale che aveva un buco nella parte posteriore del cranio, da cui sporgeva parte del cervello; la ragazza aveva le mani così insanguinate che sembrava indossasse guanti scarlatti, ma i suoi movimenti erano precisi e i suoi occhi attenti.
«Infirmière!» gridò un medico, chino su un giovane soldato con un’infezione in stato avanzato alla gamba destra, dalla caviglia al polpaccio. Fece un cenno frenetico alla ragazza lentigginosa con cui Abigail era sbarcata. «Vite, il faut amputer!»
Lei guardò Abigail, impaurita. «N-non lo capisco…»
«Dice che deve amputare» spiegò lei. «Sta andando in cancrena. Fagli un’iniezione di morfina e poi fissagli un laccio emostatico.»
La ragazza annuì, pallida come un lenzuolo e preparò la siringa. Ma il soldato soffriva come un animale ed era terrorizzato a morte: alla vista del seghetto, si dimenò con fura tale sulla barella che per poco non mollò un pugno in faccia al chirurgo, gridando: «La gamba no! Vi prego, vi scongiuro, non la gamba!»
«Infirmière!» incalzò il dottore. «Tenez-le tranquille, pour l'amour de Dieu![4]»
La ragazza con le lentiggini però era nel panico quanto il soldato e la sua mano tremava talmente forte che sembrava avesse le convulsioni. Provò ugualmente a praticare l’iniezione, ma mancò due volte la vena e alla terza spezzò l’ago.
«Merda!» gemette, sull’orlo delle lacrime. «M-mi dispiace, n-non ci riesco…!»
Bisognava fare in fretta. Non c’era tempo per correre da una parte all’altra alla ricerca disperata di un altro ago, non in mezzo a quel macello…
Abigail non ebbe scelta. Approfittò del fatto che i due portantini e il chirurgo fossero impegnati a tenere a bada le gambe del soldato mentre si preparavano a segare, e afferrò saldamente il suo polso, mentre con l’altra mano gli toccò la fronte. Inspirò a fondo, per trovare prima di tutto la calma in se stessa.
All’inizio, percepì solo un flebile sussurro. Erano mesi, dopotutto, che non lo cercava e per un attimo temette che non le avrebbe mai più parlato. E invece, il suo potere era ancora là, in attesa: lo sentì risvegliarsi, stiracchiarsi come un animale rimasto inattivo per troppo tempo e poi correre veloce da lei al primo richiamo, entusiasta. E con esso, arrivò un senso di sicurezza che in quei mesi le era mancato.
Dilatò i confini della propria mente, fino a toccare quella sofferente del soldato.
Va tutto bene, cercò di rassicurarlo. Sei al sicuro. Non sentirai nulla.
Percepì il terrore dell’uomo e il suo dolore investirla come un’onda, togliendole il respiro. Abigail si sentì vacillare, ma riuscì a mantenere la posizione. Temeva che l’incantesimo si spezzasse.
Resisti.
La sofferenza lasciò la mente del soldato, gli spasmi si acquietarono. Presto, l’uomo finì di dibattersi e i portantini riuscirono a mantenerlo sdraiato. Abigail continuò a tenerlo finché il chirurgo non ebbe completato l’operazione e solo quando Gwen si precipitò da loro con un’altra siringa di morfina, allentò la presa.
«É stabile!» disse la ragazza, rivolgendole un sorriso. Subito dopo, la sua espressione si adombrò. «Ehi, stai bene? Non hai una bella cera.»
«Sto bene» rispose Abigail, debolmente. «Solo un giramento di testa.»
«Allora prenditi un minuto, va bene? Qui finisco io.»
Avrebbe preferito rimanere, ma si rese conto che in quelle condizioni avrebbe potuto procurare molti più danni. Così, si allontanò il più in fretta possibile dalla sala operatoria, cercando di ignorare i conati che l’odore del sangue le procurava. Uscì sul porticato e sentì il sudore ghiacciarsi sulla pelle accaldata, facendola rabbrividire nella sua uniforme.
«Guarda come ti sei ridotta.»
Le si bloccò il respiro. No…!
Si girò di scatto. Lui era là, appena un’ombra in quella luce caliginosa, i freddi occhi azzurri colmi di disgusto mentre si posavano sulla sua uniforme imbrattata di sangue. «Tu, che hai nelle vene l’antico sangue di Avalon, sangue di re e di regine. E hai gettato via tutto per questo
Non è davvero qui, disse Abigail a se stessa, per calmare i battiti forsennati del suo cuore. È solo una Proiezione astrale. Non lasciarlo entrare.
«Va’ via.»
L’uomo arricciò le labbra in qualcosa che non era proprio un sorriso. «Sei ancora in tempo per renderti conto del madornale errore che hai fatto, bambina. Torna a casa, adesso, e faremo finta che non sia mai successo. Una monelleria, la liquideremo così.»
Lei strinse i pugni. «Non posso.»
«Ma certo che puoi. Cosa speri di trovare qua fuori? I Mancanti non conoscono che odio, e la loro breve vita è costellata da sofferenza e miseria.»
«E che genere di vita avrei avuto, ad Arcanta?» fece Abigail, faticando a contenere la collera. Forse, se non fosse stata così stanca e provata dalle ultime ore, sarebbe stato più facile respingerlo. «Che vita avrei avuto con te? Per tutti questi anni mi hai trattata come una prigioniera!»
«Ho solo cercato di proteggerti. Quale padre non lo farebbe?»
«Hai cercato di vendermi!» ringhiò lei. «So tutto degli accordi con i Lightwood! Vuoi farmi sposare col primogenito, senza neanche chiedere il mio parere!»
«I Lightwood sono una delle Rispettabili Trenta, Abigail» replicò l’uomo, asciutto. «E tu sei una Blackthorn: molte ragazze di Arcanta ucciderebbero per avere un’occasione simile…»
«Io non sono le altre ragazze!»
«Ma rimani figlia di un Decano!» disse suo padre, a denti stretti. «E non hai la minima idea del ridicolo di cui mi sto ricoprendo per colpa di questa tua bravata!»
«Tu non capisci.» Abigail scosse il capo, allontanandosi da lui. «Non hai mai voluto capire, papà. Non rimarrò reclusa in un palazzo mentre nel Mondo Esterno la gente muore e soffre. Potremmo fare così tanto per queste persone, potremmo salvare centinaia di vite! Se solo i Decani…»
«I Decani hanno protetto la nostra gente per secoli» ribatté freddamente Blackthorn. «E continueranno a farlo, finché i Mancanti non avranno ridotto questo mondo in cenere con le proprie mani. E da quel che vedo.» Si gettò un’occhiata alle spalle, mentre camion carichi di feriti continuavano a battere ininterrottamente le strade. «Sono già a buon punto.»
Abigail era stanca, addolorata e voleva solo crollare in un angolino e piangere. «Vattene via, papà.»
«Continua questo gioco infantile quanto vuoi, Abigail» disse lui, duramente. «Ma non puoi scappare da ciò che sei, nessuno può farlo. Quanto credi ci vorrà perché queste persone scoprano la verità e inizino a temerti..?»
«Ti ho detto di uscire dalla mia testa. ADESSO!»
La Proiezione si dissolse, portata via dal vento come fumo.
Di nuovo sola, Abigail soffocò un singhiozzo nel palmo della mano, e poco alla volta, si concesse un pianto silenzioso e liberatorio.
Al fronte, intanto, si continuava ancora a sparare, e l’aria limpida del mattino risuonava del cupo rombo dell’artiglieria, come il basso di un’orchestra.




 
 

[1]Pack Up Your Troubles”, canzone di marcia della Prima guerra mondiale, pubblicata nel 1915 a Londra.
[2]“Viva gli Inglesi” “Viva i Belgi e abbasso i Tedeschi!”
[3] l’Ambulance de L’Ocean è stato davvero un ospedale da campo belga della Prima guerra mondiale, aperto il 18 dicembre 1914 dal Dott. Antoine Depage nella località balneare di La Panne.
[4] «Tenetelo fermo, per l’amor di Dio!»

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Capitolo 5
*** Tesori da custodire ***



TESORI DA CUSTODIRE

 
 

 
Da qualche parte nei dintorni di Frascati, Italia.
16 aprile 1914
 
 
Sulle rive di un piccolo lago nascosto da boschi di lecci e castagni, vi era una magnifica dimora eretta in tempi antichi da un papa non molto amato dal popolo.
Si trattava di un palazzo grandioso, con la facciata arricchita da eleganti arcate, torrette e cupole. L’interno non era meno sontuoso dell’esterno: pavimenti a scacchiera in basalto e breccia rosa, vetrate istoriate di Murano, volte affrescate su cui divinità greche a bordo di carri alati solcavano cieli ricchi di nuvole e figure allegoriche.
Una coppia di leoni di marmo faceva la guardia allo scalone monumentale che conduceva ai piani superiori, e a un susseguirsi di sale traboccanti di tesori da ogni dove: dipinti del Tintoretto, di Veronese e Caravaggio, splendidi bronzi salvati dal ventre dell’Egeo, guerrieri in terracotta rubati dalla tomba di un imperatore cinese. Appesa in un salottino, una Monna Lisa troppo bella per essere falsa accoglieva chiunque entrasse col suo sorriso enigmatico, da sopra un camino in pietra calcarea grande come un sepolcro.
Malgrado l’ora fosse tarda, una giovane donna sedeva allo scrittoio dentro una vasta biblioteca stipata di librerie fino al soffitto; lunghi capelli ramati le coprivano le spalle, e sfogliava una pila di carte con espressione corrucciata. Di tanto in tanto, scuoteva il capo con un sospiro, poi intingeva la penna nel calamaio e segnava correzioni qua e là, cercando di salvare il salvabile. Ma era inutile perderci la testa: quei test erano un disastro. Possibile che nessuno di quei ragazzini arroganti fosse ancora in grado di bilanciare correttamente una formula alchemica? E dire che, stando a quanto sostenevano con orgoglio i loro genitori, rappresentavano il futuro di Arcanta, una nuova generazione di maghi dal sangue purissimo pronta a scalare le vette della Cittadella e stupire il mondo coi loro prodigi.
A un tratto, un corvo completamente bianco fece irruzione accompagnato da uno stridio acuto e da un leggero fruscio di penne.
La ragazza alzò la testa e gli rivolse un enorme sorriso.
«Wiglaf!» esclamò, mentre il corvo gracchiava allegramente e svolazzava per la stanza. «È tornato? Da quale armadio?»
L’uccello fischiò e imboccò l’uscita, planando leggiadro lungo il corridoio. Lei scattò immediatamente in piedi e lo seguì di corsa.
Wiglaf si fermò in una sala dalle pareti rivestite da armi, spadoni vichinghi, ixwa africane, katane giapponesi e baionette risalenti alla Rivoluzione francese. Addossato contro un muro vi era un antico armadio di mogano intarsiato, che vibrava leggermente.
Il corvo si appollaiò sulla spalliera di una poltrona e la ragazza si fermò di fronte al guardaroba con le mani dietro la schiena. Nell’attesa, gettò un’occhiata allo specchio ovale affisso alla parete e lisciò le pieghe della gonna.
«Sono un disastro» mormorò in tono nervoso, mentre riavviava i capelli con le dita. «Se mi avessi avvisato un po’ prima!»
In quell’istante, le ante del guardaroba si spalancarono.
Il sorriso raggiante di lei svanì all’istante, quando si accorse che quel che stava venendo fuori non era assolutamente ciò che si aspettava.
Arretrò lentamente, gli occhi scuri fissi sull’energumeno dalla pelle grigio verdastra, la testa completamente calva e le zanne sporgenti che si stava trascinando goffamente fuori dall’armadio, piegandone le assi.
«Non fare un altro passo, bestia!»
La rossa sollevò di scattò le mani e le armi presenti nella stanza si staccarono dalle pareti, fluttuando nell’aria intorno a lei. Alla vista di tutte quelle lame affilate puntate contro di lui, il mostro emise un ringhio furioso e si preparò a sferrare un colpo con la sua enorme clava di legno…
«Un momento! Fermi, fermi!»
Qualcun altro saltò fuori dall’armadio, un allampanato uomo in smoking, che si mise tra la ragazza e la creatura con le braccia spalancate.
«Adesso vediamo di darci tutti una calmata, d’accordo?» disse Solomon Blake, con aria trafelata. «Forza, abbassate le armi!»
La ragazza lo fissò sbalordita. «Non dirmi che sta con te?!»
«Faremo le dovute presentazioni» replicò lui. «Per adesso, ti dispiace mettere via quelle armi? Lo stai innervosendo.»
Sempre più scioccata, lei agitò una mano e spade, lance e baionette tornarono quietamente a occupare i propri posti sulle pareti.
«Ti ringrazio» disse lo stregone. «Anche tu, giovanotto. Non c’è niente di cui aver paura, è un’amica.»
L’orco rispose con un grugnito scettico, ma abbassò la clava.
«Molto bene.» Solomon riprese fiato e cercò di ricomporsi. «Dunque, Valdar, ti presento la mia apprendista, Lucia. Lucia, lui…be’, lui è Valdar. Un orco, come avrai capito.»
«Potresti spiegarmi che sta succedendo?» domandò la maga, portandosi le mani ai fianchi. «Credevo fossi andato a rubare un grimorio e invece porti a casa un orco?!»
«Non era nei piani» ammise lo stregone, passandosi una mano fra i ricci corvini e spettinati. «Ma non mi ha dato molte alternative: per il momento resterà qui, finché non avrò capito cosa farne…»
«Stai scherzando, spero!»
«Dove altro vuoi che lo tenga? Non posso mica portarlo ad Arcanta!»
«Be’, allora avresti potuto lasciarlo dove lo hai trovato!»
«Valdar debito di sangue con Padron Blake» biascicò l’orco, gonfiando il petto gigantesco. «Valdar onorerà Padron Blake fino alla morte, così suo spirito sarà accolto nella gloria da Antenati…»
Esasperato, Solomon si schiaffeggiò la fronte con la mano. «Non ricominciare!»
Un istante dopo, da qualche parte al piano di sopra sbatté una porta e un paio di passi risuonarono sopra le loro teste.
I tre rimasero immobili e in silenzio.
«Aspettavamo altre visite?» chiese piano Lucia.
Solomon fece subito mente locale. «Che giorno è oggi?»
«Martedì.»
«Marte…oh, maledizione!»
«Solomon Blake!» chiamò una squillante voce maschile dal piano di sopra. «È inutile che fai finta di non esserci, vecchio stronzo!»
«Macon Ludmoore» mormorò Lucia, stupita. «Non mi avevi detto che sarebbe venuto.»
«In realtà un po’ ci speravo.» Solomon prese un profondo respiro. «Devo andare a riceverlo. Tu bada a lui, fa’ in modo che non combini danni.»
«Non vorrai mollarmi da sola con questo…coso?!»
«Valdar viene con Padron Blake» affermò l’orco.
«No, no! Non pensarci neanche!» sbottò Solomon e gli indicò con decisione un punto del pavimento. «Tu non ti muoverai di qui, mi sono spiegato? Resta. Qui. A cuccia!»
«Solomon» iniziò Lucia, tra i denti.
«Lu, ti prego, almeno tu dammi una mano!»
Sfoderò uno sguardo languido, da cane bastonato, sicuro che non gli avrebbe detto di no, e infatti Lucia cedette. «E va bene.»
Solomon sorrise e sgattaiolò via.  Un momento prima di lasciare la stanza, la chiamò con dolcezza: «Lucy, tesoro.»
Lei si volse subito a guardarlo, speranzosa. «Sì?»
Il sorriso malandrino di lui si allargò. «Non ti dispiace mettere su del tè, vero?»
Pochi istanti dopo, lo stregone spalancò le porte vetrate che conducevano alla sala della musica: tra pianoforti a coda, arpe e un’intera collezione di Stradivari, l’Arcistregone del Sud sedeva in una comoda poltrona di fronte al camino, un ometto coi capelli blu e la pelle color caramello, fasciato da una sgargiante tunica viola e oro.
«Ah, eccoti. Pensavo ti saresti finto morto anche questa volta.»
«Perdona l’attesa» gli sorrise Solomon, chiudendosi le porte alle spalle. «Stavo leggendo e mi sono appisolato.»
«In abito da sera?»
«La classe prima di tutto. Vuoi qualcosa da bere? Ho uno scotch invecchiato ottantasette anni.»
«No, grazie. Vengo proprio ora dalla Cittadella.»
«Motivo in più per farsi un drink.»
Senza aspettare risposta, Solomon si avvicinò alla vetrina dove conservava le sue bottiglie migliori.
«C’era anche Boris Volkov» riprese Macon, mentre lui era di spalle che trafficava coi bicchieri.
«Ah sì? E come se la passa il vecchio Bo?»
«Dimmelo tu. So che avete trascorso una seratina movimentata a San Pietroburgo.»
«Ed è venuto a lagnarsi con te perché ho cercato di soffiargli l’incarico» completò Solomon, annoiato. «Tipico.»
«Be’, non puoi biasimarlo: sono anni che fai il bullo con lui.»
«Io non faccio il bullo!»
«Sì che lo fai. E ti diverte pure parecchio.»
Solomon raggiunse la poltrona di fronte col suo doppio scotch in mano, ridacchiando. «Forse un pochino.»
«Posso almeno sapere che ci facevi lì?» chiese Macon, tamburellando le dita sui braccioli. «Ti comporti in modo strano ultimamente: voglio dire, sei sempre stato strano, ma almeno prima se c’era qualcosa che bolliva in pentola ero il primo a saperlo!»
«Dimmi di cosa vuoi parlare e ne parliamo» disse Solomon, facendo spallucce. Buttò giù un sorso di scotch. «Vuoi parlare di San Pietroburgo? Ero nei paraggi, ho sentito della missione di Boris e mi sono incuriosito.»
«Si è trattato solo di questo?»
«Ho dato un piccolo contributo per la sicurezza di Arcanta: sono un Arcistregone, è il mio lavoro.»
Gli occhi eterocromi di Macon, uno marrone e uno verde, si soffermarono su di lui con diffidenza, e Solomon aggiunse: «Siamo amici da quando avevamo sedici anni, Macon: sul serio hai smesso di fidarti di me?»
«Probabilmente sono rimasto l’unica persona al mondo che si fida ancora di te. Non è questo il punto.»
«E qual è il punto?»
In quell’istante, da qualche parte nel palazzo risuonarono dei tonfi e un frastuono di vetri rotti. A Solomon si strinse lo stomaco. L’orco…!
«Per tutti i demoni!» esclamò Macon. «Cosa è stato?»
«Cosa è stato cosa?»
«Non hai sentito?»
«Oh!» fece Solomon in tono leggero. «É solo Lucia. Le ho chiesto di prepararci un tè, a volte è un po’ maldestra. Dicevamo?»
«Il punto» riprese Macon. «É che sono preoccupato per te.»
«Non devi. Sto benone.»
«Bevi sempre molto, vedo.»
«Se non ricordo male tutte le migliori sbronze della mia vita le ho avute insieme a te.»
«Eravamo ragazzi. E non avevamo allievi a cui pensare.»
Quel branco di babbei viziati, pensò Solomon, rabbuiandosi un momento. Fece oscillare piano il bicchiere. «Quindi, pensi sia un pessimo insegnante?»
«Penso tu sia un ottimo insegnante» ribatté Macon. «E i tuoi allievi ti adorano, anche se li tratti come degli idioti. Per questo mi chiedo: qual è il tuo problema, Sol? Cosa ti manca? Ti sei barricato in questa specie di museo, e a parte per le lezioni e le missioni per il Decanato non esci mai.»
«Qui ho tutto quello che mi occorre» rispose Solomon, con voce incolore. «I miei libri, la mia arte, la mia magia. Non mi è mai piaciuto circondarmi di persone.»
«E pensi davvero che ciò che cerchi lo troverai nei libri?»
Di nuovo furono interrotti da una serie di rumori, porte che sbattevano, vibrazioni che percorrevano il pavimento. E stavolta, un sonoro ruggito riverberò per i corridoi, facendo saltare Macon in poltrona. «Oh, per i Fondatori! Lucia, cara, va tutto bene? Hai bisogno di aiuto?»
Pochi istanti dopo, le porte del salotto si aprirono da sole e Lucia comparve sulla soglia un po’ arruffata ma sorridente, con un vassoio che le fluttuava accanto. «Tutto sotto controllo!»
Solomon la osservò in ansia mentre, con un movimento delle dita, lei guidava teiera, tazzine e zuccheriera sul tavolino fra le loro poltrone.
«Grazie, cara» disse Macon, sorridendole. «Come stai? È tanto che non ti vedo! E figuriamoci se il tuo maestro si scuce la bocca con me!»
«Sto benissimo!» disse Lucia, ricambiando il sorriso. «In verità non c’è molto da raccontare, trascorro la maggior parte del tempo sui libri.»
«Be’, non dovresti.» Macon scoccò un’occhiata di rimprovero a Solomon, che alzò gli occhi al soffitto. «Sul serio, bambina mia, sei così giovane! Dovresti vedere il mondo, divertirti, farti degli amici! Non passare le tue giornate in questo mausoleo polveroso insieme al Conte Dracula!»
«Ma a me piace qui» ribatté Lucia, convinta. «C’è tanta pace e poi, studiare la magia è l’unica cosa che desidero.» I suoi occhi però indugiarono un istante su Solomon, che si era allontanato per versarsi un altro bicchiere.
«Capisco quanto sia importante per te» disse Macon dolcemente, ma il suo sguardo si velò di malinconia. «Dopo l’orrore che hai dovuto passare, povera cara…»
«Macon» lo avvertì Solomon, seccamente.
«Ehm, ma la cosa importante è che tu adesso sia felice!» concluse Macon vivace. Le fece segno di avvicinarsi e quando la ragazza fu a portata d’orecchio le bisbigliò: «Posso darti un piccolo consiglio, Lucy?»
«Ma certo che puoi.»
«Non eclissarti mai dietro qualcun altro. E non parlo solo del tuo potenziale come maga.»
Lucia arrossì leggermente. «Ma già lo faccio.»
«Me lo auguro.» Macon fece un cenno verso Solomon. «Sai, il problema di noi uomini è che spesso siamo troppo concentrati su noi stessi per accorgerci di cosa è importante finché non lo perdiamo…»
«Di che state parlando?» inquisì Solomon, tornando a sedersi.
«Di miopia. Un problema che affligge più gente di quanto si pensi.»
Lucia sghignazzò, ma Solomon non parve cogliere l’allusione.
«Be’, si è fatto tardi» disse a un certo punto l’Arcistregone del Sud, alzandosi in piedi. «Meglio che torni ad Arcanta a controllare le mie pesti!»
«Ci vediamo presto, Macon» disse Solomon, pronto ad accompagnarlo alla porta, ma Macon si rivolse a Lucia in tono allegro: «Darò una festicciola alla Corte dei Miraggi questo venerdì: perché non vieni? Magari puoi convincere questo topo di biblioteca a mollare i suoi benedetti libri per una sera…»
Il sorriso di Lucia vacillò. «Non credo che ai tuoi ospiti piacerà avere una Sanguemisto in giro.»
«Sciocchezze!» tuonò Macon. «Sei mia amica e mia ospite, e se a qualcuno non dovessi andare a genio sarà invitato educatamente ad andarsene!»
«Valuteremo» rispose Solomon, sbrigativo. «Grazie per la visita, Macon. Ci fa sempre piacere.»
Quando finalmente l’Arcistregone del Sud fu sparito in un armadio e rimasero soli, Solomon si lasciò sfuggire un profondo sospiro. «Anche questa è andata. Cos’era quel baccano poco fa? L’orco ti ha aggredita?»
Lei rise. «Ma no, ha solo fatto i capricci perché voleva raggiungerti a tutti i costi. É convinto di essere la tua guardia del corpo.»
«Grandioso» commentò Solomon, piattamente.
«Mi ha fatto un po’ tenerezza.»
«E cosa ne hai fatto alla fine?»
«L’ho addormentato: è in cucina che russa come un bambino.»
«Almeno per un po’ non darà problemi.»
Solomon sprofondò di nuovo in poltrona, massaggiandosi le tempie. «Mi dispiace di averti dato questo fastidio. Se non l’avessi portato con me a quest’ora la sua testa sarebbe appesa sul camino di qualche cacciatore di mostri Mancante…»
«Hai compiuto un bel gesto» replicò lei. «Non molti maghi si sarebbero preoccupati per la vita di un Dimenticato.»
«Inizio a capire perché. Allora, che hai deciso? Lo terrai qui finché non gli trovo una sistemazione?»
Lei incrociò le braccia. «Non mi lasci molta scelta, no? Sarebbe stato carino se me lo avessi chiesto prima, ma tanto tu fai sempre di testa tua.»
Solomon stette a osservarla mentre gli voltava le spalle per mettere a posto tazzine e teiera, osservò i lunghi capelli ramati ondeggiare come fiamme sulla sua schiena, e pensò che fosse bella e luminosa come una ninfa preraffaellita, come il giorno in cui l’aveva incontrata, malgrado gli austeri abiti monacali all’epoca facessero di tutto per soffocare la sua sensualità.
Lasciò la poltrona e le si avvicinò, fermandosi alle sue spalle. «Troverò il modo di farmi perdonare. Che ne pensi di un piccolo dono, come anticipo?»
Le sfiorò delicatamente le clavicole con le dita, provocandole un piccolo sussulto, e al suo collo apparve un grosso e scintillante zaffiro blu.
Lucia trattenne il respiro. «É bellissimo! Dove lo hai preso?»
«L’ho vinto onestamente a una scommessa. Ovvio.»
Lei si voltò a guardarlo e rise, un suono dolce e fresco come un ruscello di montagna.
«Allora?» chiese piano Solomon. «Perdonato?»
Lei rigirò la gemma tra le dita. «Be’, è uno zaffiro bello grosso.»
«Sì, lo è.»
«Ma anche quell’orco è bello grosso. Un grosso problema.»
«Che risolveremo in fretta, parola mia.»
Lucia sorrise soddisfatta e si ammirò in uno specchio, sollevando i capelli e studiandosi da varie angolazioni.
Solomon era sempre stato attratto dalla bellezza. L’aveva ricercata per anni nella natura, nell’arte, così come nella magia. La bellezza donava potere, e lui trovava affascinanti soprattutto i tesori nascosti, quelli difficili se non impossibili da trovare, quelli destinati a pochi audaci eletti.
A dispetto di ciò che pensava Macon, quel palazzo non era affatto un mausoleo: era uno scrigno, dove custodire tutto ciò che di bello, di prezioso e di buono c’era ancora nel mondo, prima che venisse corrotto dai suoi orrori.
Lucia non faceva eccezione. Eppure, non poté non domandarsi se quella vita fosse la scelta migliore per lei.
Quando l’aveva portata via con sé, quattro anni prima, lontano da quel miserabile villaggio pieno di gente crudele e bigotta, le aveva offerto un’alternativa: le aveva insegnato la via della magia, dato un luogo sicuro dove accrescere le sue conoscenze, dove esprimersi in libertà… ma avrebbe potuto esserci molto altro. Avrebbero potuto esserci viaggi e balli, e uno stuolo di giovanotti pronti a chiedere la sua mano…
«Forse Macon non ha tutti i torti.»
Lucia scostò lo sguardo dal suo riflesso e lo spostò su di lui. «Che intendi dire?»
«C’è tanto là fuori che vale la pena vedere» disse Solomon, rivolgendole un mezzo sorriso. «Potresti prenderti una vacanza una volta tanto, visitare qualche città. Parigi ti piacerebbe.»
Lucia lo fissò per un momento, in silenzio. Poi, tornò sui suoi passi e ridusse la distanza che li separava, lentamente. «Non c’è altro posto al mondo in cui vorrei essere.»
«Lo dici perché ne hai visti pochi.»
«Lo dico perché è ciò che penso» disse lei con forza, guardandolo dritto negli occhi, nonostante i diversi centimetri di statura in meno. «E penso anche un’altra cosa.»
Lo sguardo di lui indugiò sulla sua bocca. «Cosa?»
Erano distanti appena lo spazio di un respiro.
«Che se vuole sul serio che badi a quell’orco, signor Blake, dovrà impegnarsi di più per convincermi.»
Solomon la strinse a sé e la catturò in un lungo, avido bacio. La ragazza si alzò in punta di piedi, gli chiuse le braccia intorno al collo, attirandolo più vicino, e lui sentì il corpo di lei fremere e sciogliersi a contatto col suo. Si spostarono negli appartamenti privati, spogliandosi con urgenza crescente; Solomon le lasciò indosso soltanto lo zaffiro, una fulgida fiamma azzurra sulla sua pelle color latte.
 
 
La stanza era buia e calda, per via del piacere che vi si era consumato.
Insonnolita, Lucia si girò tra le fresche lenzuola di seta nera e cercò a tentoni il corpo del maestro, senza tuttavia stupirsi quando non lo trovò. La sua parte del letto si era raffreddata, segno che l’aveva lasciata da tempo.
Come al solito.
La ragazza scivolò fuori dalle lenzuola coperta solo dalla sua cascata di capelli rossi, e sollevò una mano per comandare all’armadio di aprirsi; fece scorrere le dita tra le molte vestaglie da uomo appese e ne scelse una blu notte, di velluto, che indossò mentre lasciava la stanza a piedi nudi.
Vagò per sale e corridoi deserti, tra sagome spettrali di statue e armature d’epoca, alla luce bluastra della luna che filtrava dalle finestre. Un brivido la attraversò e strinse a sé la vestaglia, meravigliosamente calda e soffice a contatto con la pelle. E impregnata del suo profumo, un abbraccio deciso e misterioso, che sapeva di cuoio, legno e aghi di pino.
I piedi la condussero automaticamente in biblioteca, perché ormai aveva imparato le sue abitudini. Infatti, lo trovò seduto alla scrivania, vestito e pronto a ripartire per Arcanta, mentre sfogliava un grosso tomo rivestito di gemme ai bagliori del fuoco che crepitava nel camino.
Sentendola entrare, lui alzò gli occhi dalle pagine per un breve istante, ma sufficiente per percorrerla da cima a fondo. «É una delle mie vestaglie.»
Lei sorrise e accarezzò Wiglaf, che sonnecchiava sul suo trespolo con la testa sotto l’ala: sapeva quanto lo infastidisse che qualcun altro indossasse i suoi vestiti, ma era sicura che la visione d’insieme fosse gradevole. «Può darsi.»
Solomon tornò a rivolgere la sua attenzione al libro.
Lucia gli si avvicinò, incuriosita e sbirciò oltre la sua spalla. «È proprio lui? Quello che stavi cercando? É il Libro Nero di Farabi?»
Solomon non rispose. Chiuse la preziosa copertina con un sospiro e si appoggiò contro lo schienale della poltrona. E poi, gettò con noncuranza il tomo nel camino.
La ragazza si lasciò sfuggire un’esalazione di sorpresa, mentre fissava le pagine arricciarsi e venire divorate rapidamente dalle fiamme. «Sei impazzito!? Perché l’hai fatto?»
«Perché quello non è il Libro Nero di Farabi» rispose Solomon, con voce piatta. «É un falso.»
Sbalordita, Lucia distolse gli occhi dal fuoco. «Ne sei proprio sicuro?»
«Una pallida imitazione, realizzata senza neanche troppo impegno» confermò Solomon. «La pergamena risale appena al Tredicesimo secolo, ed è scritto in avestico, mentre è risaputo che Farabi parlasse un dialetto persiano ben più antico. Quanto al contenuto ...ridicole filastrocche, roba da esoteristi di bassa lega.»
«Non sembri sorpreso» disse Lucia. «Lo sapevi già, non è così?»
«Lo sospettavo. Ma avevo bisogno di averne conferma.»
Lucia sospirò e incrociò le braccia. «Insomma, si è rivelato tutto inutile: se ignoriamo ancora dove si trova il Codice, siamo al punto di partenza.» 
«Oh, ma io so perfettamente dove si trova» replicò Solomon, i gomiti sui braccioli della poltrona e le dita congiunte. «É ad Arcanta.»
Lei gli indirizzò uno sguardo confuso. «Non ha senso: perché i Decani avrebbero mandato Boris Volkov a sbarazzarsi di qualcosa che hanno sempre posseduto?»
«Pura propaganda» rispose lui. «Volevano assicurarsi che tutti sapessero che il Codice è andato distrutto. Sia dentro che fuori le mura della Città.»
«Continuo a non capire.»
Solomon si alzò e prese a percorrere la biblioteca, avanti e indietro. «Il Codice Oscuro rappresenta un’arma a doppio taglio per i Decani: è la prova che uno dei Fondatori, il buon Farabi, si fosse divertito a pasticciare con le Arti Proibite. E contemporaneamente è uno dei manufatti magici più antichi, potenti e pericolosi al mondo.»
«Questo lo so» replicò Lucia, accigliata. «Ma se era importante tenerlo nascosto, perché all’improvviso si sono impegnati tanto per fingerne la distruzione? E in modo così eclatante!»
«Per dissuadere chiunque là fuori lo stia ancora cercando.»
Si fermò improvvisamente, le mani intrecciate dietro la schiena e lo sguardo fisso nelle fiamme del focolare. «C’è una profezia.»
Lucia corrugò la fronte. «Credevo che le profezie fossero roba da ciarlatani, o storie per bambini.»
«In tutte le storie c’è un fondo di verità. A San Pietroburgo, gli Adoratori del Vuoto sono convinti che sia in arrivo un messia, qualcuno in grado di riportare la Grande Magia nel mondo. In altre parole: un Plasmavuoto.»
L’espressione di Lucia era di puro scetticismo. «Assurdo, non si sente più parlare di Plasmavuoto da almeno mille anni.»
«Dall’epoca della Fondazione di Arcanta» precisò Solomon. «Nel Vecchio Mondo, i Plasmavuoto potevano scatenare forze che i maghi moderni possono solo sognarsi, forze che minerebbero la credibilità dei Decani e il controllo che esercitano sulla nostra razza. Per questo hanno fatto in modo che si estinguessero.»
«Ma se trovassi il modo di ricrearne uno…» 
«Arcanta sarebbe nostra. E con essa il mondo intero.»
Solomon riprese a camminare e raggiunse un tavolino su cui era adagiata un’antica scacchiera in alabastro.
«Però prima» fece Lucia, fissandolo attentamente. «Dovresti impossessarti del vero Codice. E questo è impossibile.»
Solomon sorrise, mentre afferrava dalla scacchiera la Torre Bianca e se la rigirava tra le dita. «Adoro quella parola: nella mia testa suona sempre come una sfida.»
«Questo colpo è troppo audace persino per te, Solomon» protestò Lucia, con ansia. «Nessun mago è mai riuscito a portare via qualcosa dalla Biblioteca della Cittadella senza autorizzazione!» 
«Io non sono come gli altri maghi.»
«Ma non sei nemmeno un dio.»
Lui si volse a guardarla, stagliato contro le braci ardenti, con una luce scaltra che brillava nei suoi occhi azzurri. «Non ancora.»

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Capitolo 6
*** Decaduti ***



DECADUTI

 
 
Čvava sero po tute
i kerava
jek sano ot mori
i taha jek jak kon kašta
vašu ti baro nebo
avi ker.

kon ovla so mutavla
kon ovla
ovla kon aščovi
me ğava palan ladi
me ğava
palan bura ot croiuti.[1]

 
Tratto da Khorakhané (a Forza di Essere Vento),
Fabrizio De André
 
 
Mostar, Bosnia.
Maggio 1914
 
 
Nel momento in cui scese dall’auto, Zora fu travolta da emozioni contrastanti.
Sotto un luminoso cielo primaverile, la campagna passava con naturalezza dal verde all’oro, con macchie rosso intenso laddove crescevano i papaveri, lungo il letto della Neretva; la cittadina si affacciava, con le casupole di pietra calcarea, le moschee e gli alti minareti, sulle sponde dirupate del fiume, collegate tra loro dal Ponte Vecchio. Quel paesaggio fiabesco la riportava all’infanzia, ad anni in cui il mondo non sembrava un posto troppo cattivo, e in cui persino rubare somigliava più a un gioco innocente che a una necessità.
Amir si era offerto di accompagnarla fino a destinazione, ma Zora aveva scelto di proposito di farlo parcheggiare a distanza dal campo: non avrebbe sopportato i commenti di Aisha sul fatto che adesso avesse addirittura un autista personale. “Sei così altolocata che ormai non posi un piede per terra senza che ti stendano un tappeto?” Cose del genere, insomma.
Camminò sotto il sole attraverso un sentiero che si snodava tra i campi, cuocendo nel cappotto color vinaccia che aveva indossato in fretta e furia quando aveva lasciato Sarajevo la notte prima, mollando sulla soglia di casa Krsta che continuava a darle della matta. Gli stivaletti col tacco erano inadatti a quel terreno accidentato e le stavano torturando i piedi, ma Zora resistette finché non giunse all’ansa della Neretva, dove sorgeva il ghetto: un piazzale polveroso, delimitato da baracche di legno, tende e carrozzoni sparsi qua e là, tra cui erano stati appesi panni ad asciugare.
Non è cambiato niente pensò, incerta se la cosa le facesse piacere o meno. Ragazzini chiassosi giocavano in cortili invasi dalle erbacce e donne col capo coperto sedevano sulle soglie di casa intrecciando ceste di vimini. Quanto agli uomini, c’era chi riparava la ruota di un carro, chi raggruppava greggi di pecore e chi, semplicemente, bighellonava appoggiato allo stipite di una porta, fumando la pipa e guardando storto qualunque volto nuovo si presentasse.
Come c’era da aspettarsi, il suo arrivo non passò inosservato; alcuni, nel riconoscerla, le rivolsero sorrisi e cenni di saluto, ma molti  – molte donne, soprattutto  – le riservarono sguardi diffidenti e pieni di freddezza.
«Ma guarda un po’ se non è la Piccola Zora Combinaguai!» tuonò una voce allegra e Zora vide venirle incontro un uomo sorridente, con un gran pancione rotondo e folti baffi neri, che conduceva per le briglie uno splendido baio di montagna.
La donna ricambiò all’istante il sorriso. «Zlatan, che piacere rivederti!»
Il vecchio allevatore di cavalli allargò le braccia per cingerla in una delle energiche strette che Zora ricordava bene, ma dopo aver lanciato un’occhiata al cappotto costoso di lei ci ripensò. «Perdonami, dimentico sempre che sei una gran dama adesso!»
Zora scosse la testa e lo abbracciò senza esitazione. «Sta’ un po’ zitto!»
Dopodiché accarezzò il muso del cavallo, felice di constatare anche lui si ricordasse di lei. «Vedo che Darko è in forma. É ancora goloso di lamponi come lo ricordo?»
«L’ho messo a dieta, inizia a prendere peso!» rispose Zlatan, battendogli una pacca affettuosa all’altezza del garrese. «Stiamo invecchiando entrambi, mi sa.»
«A me sembrate sempre due ragazzini.»
Il sorriso di lui perse un po’ di vivacità. «L’hai…l’hai già incontrata?»
Zora smise di sorridere. «No. Sii onesto con me: è tanto grave?»
Zlatan sospirò. «Faresti meglio a vederlo coi tuoi occhi, piccola. Chiede sempre di te, sai? Da giorni non dice altro che il tuo nome.»
Zora sentì la pelle d’oca danzarle lungo la schiena, ma si sforzò di mostrarsi calma. «Aisha è con lei?»
«Sempre. Non la lascia un attimo, sia di giorno e che di notte. Tua sorella è davvero una ragazza d’oro.»
Già. Pensò Zora tra sé, con una punta di amarezza. Aisha la santa.
Era sempre stata la preferita, da quando erano bambine: Aisha la figlia perfetta, ubbidiente e silenziosa, e adesso anche la moglie e la madre perfetta, che vive secondo le tradizioni del suo popolo e si prende cura della propria famiglia. Non come quell’altra, che ha disonorato le sue radici e se l’è svignata col primo sconosciuto senza essere neanche essere sposata…
Zora si impose di scacciare via quei pensieri infantili. Non era il momento di mettersi in competizione con sua sorella.
Lasciò che Zlatan l’accompagnasse alla capanna in cui lei e Aisha avevano trascorso l’infanzia. Le si strinse il cuore quando passarono davanti al carrozzone di suo padre, che lui stesso aveva dipinto e intagliato con amore, sognando di usarlo un giorno per portare la sua famiglia di fiera in fiera, di paese in paese.
“Noi siamo come il vento, Zora” le aveva detto una volta, mentre lo aiutava a verniciare gli elaborati decori a forma di fiori e piccoli uccelli. “Siamo nati liberi. Nessuno ha il diritto di tarparci le ali e tenerci incatenati a terra.”
Ormai, il carrozzone giaceva abbandonato in un angolo del cortile, sbiadito dal trascorrere degli anni e dalle intemperie. Nessuno aveva osato mettervi mano dal giorno della morte di Kosta Sejdić: portava sfortuna, dicevano gli anziani, proseguire il lavoro cominciato da un defunto.
Zora entrò in casa, buia, spoglia, piena di spifferi e cigolii. Notò una gallina che chiocciava impertinente sul tavolo della cucina e la scacciò all’istante con un grido.
«Sciò! Il tuo posto non è qui!»
«Non credevo saresti tornata sul serio.»
Zora si volse di scatto, e nella penombra scorse la folta chioma castana e il profilo adunco di Aisha, che la scrutava con le braccia incrociate.
Zora prese tra le mani la gallina starnazzante e la posò a terra. «Ehm, ciao.»
«Ciao a te, sorellina» replicò Aisha, e anche nella scarsa luce, Zora riconobbe il suo cipiglio da rimprovero.  «Ti sei fatta attendere come al solito.»
«Sono venuta prima che ho potuto» replicò Zora, facendo fatica a trovare le parole adatte. Non voleva ammettere che era colpa di quell’idiota di Krsta se non aveva letto prima il suo messaggio. «Ho avuto modo di leggere la posta solo ieri sera, sono rientrata da San Pietroburgo pochi giorni fa e…»
«Giusto. Dimenticavo che ormai hai un’agenda fitta di impegni.»
Zora strinse i pugni, ma incassò il colpo a testa alta. «Be’, ora sono qui, no?»
Aisha non commentò, ma il suo sguardo la percorse da cima a fondo. «Se vuoi darmi il cappotto, te lo metto in un posto dove non prende polvere.»
«Lo tengo addosso, grazie.»
Lei fece spallucce ed entrò in una stanza. «Vieni, vuole vederti.»
Zora la seguì, sentendo lo stomaco sprofondare.
In una piccola camera disadorna, Naditza Sejdić, giaceva a letto sotto una coperta di lana formata da tanti quadrati colorati cuciti assieme; su un tavolino vi erano una brocca e una scodella di minestra, e dentro un secchio pieno d’acqua erano state lasciate in ammollo delle bende.
«Stavo provando a farla mangiare» spiegò Aisha. «Ma è un’impresa: la febbre non vuole saperne di scendere.»
Zora si avvicinò al capezzale della madre, osservò il suo volto pallido e magro, coi capelli scuri e sudati incollati attorno alla fronte. «Mamma, mi senti? Sono io, Zora.»
Le palpebre della donna fremettero e subito dopo si schiusero. «Zora…»
«Sì!» Zora si inginocchiò e prese le mani di lei fra le sue. «Sono qui, sono tornata!»
Naditza emise un sospiro rauco. «Pensavo non ti avrei più vista.»
Zora sentì le lacrime invaderle gli occhi e strinse le mani della donna. Le sembravano così fragili. «Mama.»
Aisha borbottò: «D’accordo, io…vi lascio un momento da sole. Falla mangiare un po’, se riesci.»
E lasciò la stanza, ma non prima di essersi lanciata un’occhiata titubante alle spalle.
Zora prese ciotola e cucchiaio. «Che ne dici di provare a mandare giù un boccone, eh mamma? Così faremo contenta Aisha e le toglieremo quella brutta smorfia dalla faccia.»
Avvicinò alle labbra della donna il cucchiaio, ma lei lo allontanò con un gesto deciso. «Non adesso: ho bisogno di parlarti, Zora. Avrei voluto farlo prima, ma tu te ne sei andata…»
«Mi dispiace.» Zora si morse l’interno della guancia, sperando di riuscire a mandar giù il nodo alla gola. «Non volevo lasciarvi, ma io…io dovevo fare un tentativo, mamma! Dovevo provare a costruirmi una vita diversa da questa, non potevo più restare qui!»
Si aspettò che sua madre la accusasse di essere una figlia degenere, di essere una vergogna per la loro famiglia. E invece, le labbra screpolate di Naditza si distesero in un sorriso.
«Lo so, piccola mia» le disse con dolcezza. «Tu sei diversa da Aisha: hai sempre avuto un animo inquieto, come lo aveva tuo padre. Dimmi, hai ancora con te le carte di Baba[2] Khadija?»
Zora affondò la mano nella tasca del cappotto finché non trovò il sacchetto di velluto nero. «Non me ne separo mai.»
«E ti parlano ancora?»
Zora prese un momento prima di rispondere. «Non quanto vorrei.»
«Forse sei tu che hai smesso di ascoltarle.»
«O forse, Baba si sbagliava su di me» replicò Zora, con ironia. «Non sono come lei, non possiedo la Vista.»
«Non è la Vista ciò che conta» ribatté sua madre, guardandola negli occhi. «Ma la Volontà! È lì che risiede il Vero Potere...»
Tossì forte e Zora la aiutò a bere un sorso d’acqua. «D’accordo, d’accordo, vorrà dire che proverò a crederci di più.»
«Non è di questo che sto parlando, Zora.»
«E allora di cosa stiamo parlando, esattamente? Non so nemmeno perché hai voluto tirare in ballo i tarocchi proprio adesso…»
«C’è una cosa che Baba e io avremmo dovuto dirti da tempo» la interruppe Naditza, respirando con difficoltà. «Un segreto che riguarda la nostra famiglia.»
«Di quale segreto parli?»
«Guarda sotto il letto.»
Zora aggrottò la fronte, perplessa, ma fece come sua madre aveva chiesto: si chinò e sollevò le coperte. «C’è una specie di scatola.»
«Tirala fuori.»
Zora ubbidì. Era più pesante di quanto sembrasse, interamente rivestita di legno intagliato. «L’ha fatta papà» commentò, riconoscendo la sua mano nelle delicate decorazioni incise.
«Sì. Per favore, aprila.»
Zora sollevò il coperchio, ma rimase un po’ delusa: dopo tanta teatralità, tutto si sarebbe aspettata di trovare all’interno tranne che un libro, tra l’altro vecchio e malridotto, rivestito da logora pelle nera.
«Sai che cos’è?» chiese Naditza.
«Niente che valga la pena tenere nascosto, questo è sicuro.»
«É un grimorio, Zora.»
Lei incrociò il suo sguardo, le sopracciglia inarcate. «E sarebbe?»
«La più preziosa reliquia della nostra famiglia» spiegò Naditza. Ebbe un altro violento attacco di tosse e Zora, allarmata, le disse che non avrebbe dovuto sforzarsi. Ma non appena riuscì a trovare il fiato, sua madre continuò imperterrita: «Tramandata di generazione in generazione, di madre in figlia. Baba me lo donò al compimento dei miei sedici anni, ed era suo volere che al momento giusto io lo consegnassi a te.»
«A me?» ripeté Zora, stupita. «Non capisco, perché non ad Aisha? È lei la maggiore.»
«Aisha è una donna piena di qualità» mormorò Naditza. «Ma Baba riteneva che il potere non abbia mai messo radici in lei quanto in te
Zora rabbrividì a quelle parole. «Mamma, credo che ti si sia alzata la febbre. Stai delirando…»
«Non essere sciocca, Zora. Ora taci e ascoltami.»
«Ah, io sarei la sciocca? Sei tu che blateri storie assurde su streghe e libri di magia! Mi sembra di sentire Baba!»
«Baba non mentiva» ribatté Naditza con forza. «Le storie che vi raccontava da piccole erano vere! Discendiamo da un’antica stirpe di maghe, di veggenti e guaritrici: nel Vecchio Mondo, viaggiavamo di villaggio in villaggio con il nostro bagaglio di segreti. Le persone ci chiamavano Madri ed eravamo benvolute ovunque andassimo. Fino al giorno in cui gli Arcistregoni di Arcanta ci hanno derubate, rendendoci delle Decadute.»
Zora avvertì una bruca fitta allo stomaco. Era sciocco, lo sapeva benissimo, come lo era aver paura del buio. Ma la parola “Arcistregone” era associata a tutte le storie più spaventose che avesse sentito da bambina…
“Sono demoni” l’aveva avvertita più volte Baba, mentre lei e Aisha tremavano come conigli sotto le coperte, alla luce fioca di una lucerna. “Ladri e bugiardi, corrotti dal potere. Ovunque vadano portano miseria e dolore, ed è solo colpa loro se la magia sta abbandonando il nostro mondo!”
Magia…sua madre le stava seriamente parlando di questo?
Zora si era sempre ritenuta una donna sveglia e dotata di cervello. Un buon cervello, o almeno, così le aveva sempre detto Krsta. Di sicuro sapeva di essere abbastanza intelligente da discernere una fiaba dai fatti concreti, e sapeva anche bene che Baba era una donna anziana e superstiziosa, con una strana percezione di cosa fosse reale e cosa no…
Aveva messo su un’intera carriera basandosi su quanto suggestionabili potessero essere le persone, se portate al raggiungimento di un determinato stato emotivo. Aveva seguito seminari, letto libri scritti da uomini di scienza, affinché l’aiutassero a comprendere meglio il funzionamento delle menti umane. Eppure…eppure continuavano a esserci così tante cose che ancora non comprendeva. Come quei misteriosi incidenti che, in preda alla rabbia e alla paura, faceva accadere intorno a sé, e che le provocavano quegli strani sanguinamenti dal naso, per esempio…
«Poche di noi sono riuscite a conservare una minima parte di quell’antico potere, a costo di grandi sacrifici» concluse Naditza, faticosamente. «Baba è stata una di quelle maghe, e ora spetta a te, figlia mia, custodire il suo lascito!»
Zora guardò ancora una volta il libro che stringeva in mano, stordita da tutte quelle informazioni. «E cosa vuoi che ne faccia?»
«Leggi, studia, impara. È la tua eredità, Zora, il bene più prezioso che posso lasciarti. E forse, una volta che avrai scoperto quanto potenziale hai dentro di te, capirai che non hai bisogno di altro per essere libera.»
«Ma non so neanche da che parte iniziare!»
«Troverai il modo» gracchiò Naditza. «Non smettere mai di ascoltare le carte, loro ti guideranno. Il Tutto è in tumulto, Baba lo sapeva. Lei poteva ancora sentirlo scorrere intorno a noi: parlava di un cambiamento, del ritorno della Grande Magia nel mondo. Quando il momento arriverà, credeva che la nostra famiglia avrebbe avuto un ruolo importante da svolgere.»
Zora scosse la testa. Le sembrava tutto così assurdo. «Io non capisco! Quale ruolo? Di cosa stai…?»
Pochi istanti dopo, perse il controllo di quel che stava accadendo.
Il corpo di Naditza si irrigidì, i suoi occhi si rovesciarono all’indietro, le braccia e le gambe furono scosse da tremiti. Zora aveva urlato. Aveva afferrato le spalle di sua madre, aveva chiamato aiuto. Aisha era apparsa immediatamente al suo fianco, seguita a ruota dal marito Nazim e dai vicini.
Alcune anziane si coprirono la testa con pesanti veli neri, accesero delle candele e presero a recitare preghiere, mentre Zlatan teneva a distanza i figli di Aisha e gli altri bambini e cercava di distrarli da quel che stava succedendo in casa.
Zora ebbe l’impressione che tutto si stesse svolgendo troppo velocemente, che il tempo le sfuggisse dalle mani, come se stesse guardando la scena attraverso gli occhi di qualcun altro. Rimase pietrificata in un angolo della stanza, smarrita e impotente come un animale in trappola, mentre la crisi di sua madre raggiungeva il culmine e pochi istanti dopo il suo corpo si afflosciava inerte tra le braccia di Aisha e il silenzio piombava come un sudario su ogni cosa.
 
 
I funerali si svolsero il giorno seguente, secondo il rito musulmano.
Come da tradizione, un gruppo di donne si occupò della vestizione della defunta; Aisha fece indossare a Naditza il suo vestito preferito e provvide lei stessa a lavarle e acconciarle i capelli.
Zora preferì dedicarsi all’organizzazione della pomana[3], aiutata da Nazim, Zlatan e dai suoi cugini. Non era previsto che si trattenesse lì così a lungo, e appena le fu possibile, raggiunse Amir in città, dove aveva trovato alloggio, per avvisarlo di aspettare qualche altro giorno prima di riaccompagnarla Sarajevo.
Ne approfittò anche per telefonare a Krsta: percepì il suo sforzo nel dimostrarsi comprensivo della situazione, ma non mancò di ricordarle che a causa sua aveva dovuto annullare tutta una serie di appuntamenti importanti e di occasioni che probabilmente non si sarebbero mai più presentate. Zora richiese a se stessa un enorme autocontrollo per non sbattergli la cornetta in faccia.
Trascorse due giornate intere insieme alle sue zie, parlando poco e cucinando molto, preparando focacce e torte per il banchetto, osservando poi parenti e amici di famiglia che bevevano e brindavano, e infine stringendo mani e ricambiando abbracci. Ma dentro di sé si sentiva svuotata, un involucro che agiva soltanto perché mosso da basilari riflessi meccanici, costretta a rivivere ancora una volta l’incubo di quando era morto suo padre...
«Devo tornare a Sarajevo, Aisha.»
Aveva deciso di darle la notizia due giorni dopo il funerale, approfittando di un momento in cui erano sole in casa, a pulire e sistemare dopo che gli ultimi ospiti erano andati via.
Sua sorella non aveva risposto subito, concentrata com’era nel passare la scopa di saggina su ogni centimetro del pavimento.
«Aisha» riprovò Zora, senza più neanche la forza di alzare la voce. «Non posso restare, lo sai.»
«Potresti almeno permettere ai tuoi nipotini di riprendersi dalla morte della nonna» borbottò a quel punto Aisha, stizzita. «Prima di annunciare che dovranno dire addio per sempre anche alla zia.»
«Non sarà un addio…»
«Sì che lo sarà!» Aisha si voltò a guardarla, gli occhi accesi di furore. «A te non importa niente della famiglia, sei venuta fin qui solo per stare a posto con la coscienza!»
«Questo non è vero» ribatté Zora, ferita. «Sono venuta per aiutare! So quanto è stato difficile per te occuparti di tutto.»
«Difficile? Era mia madre! Ho fatto quel che andava fatto perché l’amavo! Ma cosa ne vuoi saperne tu del senso del dovere? Appena le cose si complicano sparisci, lo facevi anche quando eravamo piccole! Hai sempre cercato una scappatoia!»
«Quindi costruirmi una carriera per te sarebbe “cercare una scappatoia”?» chiese Zora, sentendo turbinare dentro di sé la collera. Sapeva già dove le avrebbe portate quel discorso. «Solo perché tu hai scelto di accontentarti non significa che debba farlo per forza anche io!»
«Carriera» ripeté Aisha, con una smorfia. «Non credere che non sappia cosa fai: inganni le persone, ti approfitti di loro per denaro. Tu e quello squallido individuo!»
«Be’, mi dispiace se non apprezzi la vita che conduco» sbottò Zora. «Ma è grazie ai soldi che vi spedisco ogni mese se i tuoi figli hanno tutti i giorni cibo in tavola.»
Aisha la fulminò con lo sguardo. «Se abbiamo di che vivere è solo perché Nazim lavora sodo. Non sappiamo che farcene della tua carità!»
«Già, lo stesso Nazim che rubava carbone dai treni merci per rivenderlo?»
«Non le fa più quelle cose» ribatté Aisha, arrossendo leggermente. «Lavora come carpentiere, adesso. Insieme a Zarif, che tu hai rifiutato!»
«Zarif aveva paura di fare il bagno!»
«Anche lui è diventato un uomo rispettabile, che si guadagna da vivere in modo onesto!» scattò Aisha. «Certo, non ha così tanti soldi da potersi permettere palazzi e automobili e vestiti costosi. Ma almeno non truffa gli altri spacciandosi per qualcuno che non è!»
Zora sollevò le mani. Ne aveva abbastanza. «Non sono venuta qui per litigare, Aisha, ma per condividere un momento doloroso con mia sorella. Ma a questo punto forse è meglio se continuiamo a scriverci.»
Aisha serrò la mascella, gli occhi velati di lacrime. «Bene.»
Sentendo un orribile macigno sul petto, Zora raccolse soprabito e borsa e si apprestò a lasciare la casa.
«Ti ha dato il grimorio alla fine, vero?»
Lei si fermò sulla soglia e tornò lentamente a voltarsi. «Tu…lo sapevi?»
«Certo che lo sapevo» replicò Aisha, con voce dura. «Lo ha custodito gelosamente per anni, sperando che un giorno sarebbe riuscita a dartelo. Lei e Baba hanno sempre riposto una fiducia cieca in te, così come papà: promettimi solo che almeno in questo non li deluderai.»
Zora sentì le lacrime premere in fondo alla gola e preferì non dire niente. Le dedicò solo un breve cenno del capo e poi uscì, stringendo al petto la borsa con dentro l’ultimo dono di sua madre.



 
 

[1] “Poserò la testa sulla tua spalla e farò un sogno di mare, e domani un fuoco di legna. Perché l'aria azzurra
diventi casa, chi sarà a raccontare chi sarà. Sarà chi rimane. Io seguirò questo migrare. Seguirò questa corrente di ali”
[2] “Nonna”
[3] Veglia funebre della tradizione Rom Khorakhané

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Capitolo 7
*** Un posto nel mondo ***


 


UN POSTO NEL MONDO

 
 
 
La Panne, maggio 1915
 
 
Nelle prime cinque settimane trascorse all’Ambulance de L’Océan, Abigail si meravigliò di quanto in fretta fosse riuscita ad abituarsi alla guerra.
I giorni venivano scanditi da ritmi serrati a partire dalle prime luci dell’alba, e se il numero dei feriti era particolarmente alto, doveva trattenersi in ambulatorio fino al mattino dopo, avendo riposato a malapena un paio d’ore.  Anche quando ne aveva la possibilità, era comunque difficile dormire bene, perché l’eco dei bombardamenti giù al fronte e il fragore dei camion che percorrevano le strade risuonava a qualsiasi ora: anche a distanza di miglia, Abigail poteva vedere in lontananza i razzi al magnesio che illuminavano la notte e sentire il crepitio di fucili e mitragliatrici come acqua su una stufa rovente.
Ma era riuscita ad abituarsi anche a questo.
Una volta a settimana, sua maestà la regina del Belgio veniva in visita vestita come una comune infermiera; parlava un po’ con i soldati, teneva discorsi di incoraggiamento, e talvolta assisteva il dottor Depage in sala operatoria.
«Esibizionista» l’aveva apostrofata Fanny Bouchard con asprezza. «Non sa neppure mettere una flebo: l’ennesima oca in cerca di attenzioni, proprio quel che ci serve!»
Malgrado la giovane età, Fanny era molto competente nel suo lavoro e girava voce che fosse stato Depage in persona a chiederle di trasferirsi all’Océan. Ma possedeva anche un carattere difficile da sopportare, in netto contrasto con la sua bellezza angelica: si comportava come se l’ospedale fosse di sua proprietà e dava in escandescenze per ogni minima cosa, soprattutto se a sbagliare erano le nuove arrivate. Una volta aveva umiliato una ragazza fino alle lacrime per come aveva rifatto un letto:
«È senza cuore» borbottò Gwen Barclay, mentre cercavano di consolare la poverina. «Con lei in giro, i soldati ci pregheranno di tornare in trincea!»
Non aveva ancora trovato un pretesto per prendersela con Abigail, il che era un sollievo, visto che il caso aveva voluto che fossero compagne di stanza. Fortunatamente però, Fanny trascorreva poco tempo con le coinquiline e quando rientrava la sera tardi era sempre troppo stanca per lamentarsi di qualcosa.  
Il più delle volte era Gwen ad affiancarla nel lavoro, e Abigail era felice della sua presenza; era una ragazza sveglia e volenterosa, e il suo senso dell’umorismo aiutava a stemperare anche i momenti più tesi.
La cura dei pazienti assorbiva ogni momento della giornata: la maggior parte dei feriti era messa così male da aver bisogno di più medicazioni al giorno. Abigail cambiava loro le bende, si assicurava di mantenere pulite piaghe e ustioni, li aiutava a nutrirsi e a lavarsi. Spesso i soldati la pregavano di scrivere a qualche famigliare lontano e alcuni, deliranti per il dolore o per effetto della morfina, la scambiavano per una fidanzata o una madre, la chiamavano Mary, Betty o Luise.
Erano giornate dure, era vero, ma anche gratificanti. Ad Arcanta, nessuno l’aveva mai fatta sentire importante per ciò che faceva: lei era una donna e, soprattutto, era la figlia di un Decano, e suo padre non aveva mai neanche ritenuto opportuno approfondire la sua istruzione magica:
“Non devi preoccuparti di certe cose” aveva liquidato in fretta la questione, quando Abigail aveva preteso di sapere come mai a lei non fosse concesso di tentare l’ammissione a una delle quattro Corti di Arcanta, le prestigiose accademie di magia gestite dagli Arcistregoni. “Non hai bisogno di metterti in mostra: sei mia figlia.  E un giorno, troverò un marito che continui a badare a te al mio posto.”
Così, Abigail era costretta a passare le sue giornate tra le mura della Cittadella, in compagnia di un’odiosa istitutrice che la bacchettava di continuo e la teneva impegnata nelle attività più inutili, come ricamare, esercitarsi nella danza e nel canto e a stare a tavola con la schiena dritta. Non le era permesso di accedere liberamente ai testi di magia della Biblioteca e qualsiasi lettura doveva prima essere autorizzata; non aveva mai posseduto dei veri amici, perché poteva frequentare solo ragazze del suo stesso rango, che sarebbero anche state simpatiche se avessero avuto qualche interesse al di fuori dei vestiti e del matrimonio.
Lasciava le sue stanze solo se accompagnata, o quando, di tanto in tanto, seguiva suo padre nelle cerimonie ufficiali. Anche in quelle occasioni, però, Abigail doveva limitarsi a sedere composta nel suo vestito tutto pizzi e volant, e ascoltare le conversazioni altrui come se non fosse presente.
L’unica ventata di aria fresca nella sua routine la portavano gli Arcistregoni; suo padre li invitava di tanto in tanto nei suoi alloggi privati, e Abigail assorbiva con avidità i racconti delle loro avventure nel Mondo Esterno. Il suo preferito era Solomon Blake, l’Arcistregone dell’Ovest a capo della Corte dei Sofisti: vestiva elegante e aveva maniere gentili, e le storie che raccontava erano sempre avvincenti e condite di ironia. E poi, a suo padre non piaceva neanche un po’, il che contribuiva a renderglielo simpatico.
“Libertino insolente” lo sentiva spesso brontolare, appena Blake se ne andava. “Bisogna stare attenti a quell’uomo. Gli altri Decani gli concedono troppa autonomia.”
Se c’era una cosa che Abigail aveva imparato su suo padre, era che non tollerava chi agiva di propria iniziativa. In quanto Inquisitore della Cittadella, Tibor Blackthorn era ossessionato dal controllare tutto e tutti, che si trattasse della sua unica figlia o della cittadinanza di Arcanta. “Protezione”, così la definiva.
Ma Abigail non aveva bisogno di sentirsi protetta. Aveva bisogno di sentirsi utile. Di dimostrare che anche lei era buona in qualcosa: non aveva letto molti libri di magia, era vero, e i suoi incantesimi erano dozzinali se paragonati a quelli dei giovani stregoni che avevano avuto la possibilità di studiare e fare pratica senza limitazioni. Ma nel periodo trascorso nel Mondo Esterno aveva lavorato sodo e compreso che, se ad Arcanta nessuno era stato disposto a credere in lei come maga, avrebbe fatto in modo di farsi valere in altro modo. Nella medicina, ad esempio.
E il suo impegno era stato ripagato: dottori e colleghe la trattavano con rispetto, e in mezzo a tanta sofferenza, un ringraziamento sussurrato da chi finalmente riusciva a provare un po’ di sollievo era per lei un’enorme conquista.
Per la prima volta in vita sua, Abigail aveva l’impressione aver trovato il proprio posto nel mondo, di valere come persona. E ne era felice.
 
 
Quella mattina, sulla cittadina di La Panne cadeva una pioggerellina sottile; erano le cinque del pomeriggio, e per la prima volta dopo settimane sembrava che si respirasse finalmente aria di tranquillità. In una saletta da tè appartenuta all’ex albergo era stata allestita una zona ricreativa per i pazienti in via di guarigione; almeno una sera alla settimana si organizzavano concerti e spettacoli, dato che alcuni soldati prima di arruolarsi erano stati musicisti, attori e poeti.
Alcune domestiche avevano servito caffè e crostate alla frutta, mentre i soldati convalescenti giocavano a carte o a dama e le malinconiche note di Keep the Home-Fires Burning venivano diffuse in tutto il reparto attraverso la tromba di un grammofono.  Abigail stava passando in rassegna le file di letti lungo le camerate per assicurarsi che i pazienti fossero tranquilli e avessero tutto il necessario, quando un ticchettio proveniente da una porta-finestra la fece voltare.
Dall’altra parte del vetro c’erano tre giovani soldati, e dalle insegne nere sulle controspalline delle loro uniformi Abigail intuì fossero caporali: due di loro gesticolavano per attirare la sua attenzione mentre reggevano il terzo tenendogli le braccia intorno alle proprie spalle. Potevano avere appena vent’anni.
Abigail si precipitò ad aprire. «Che succede? Avete bisogno di aiuto?»
«Un’emergenza, miss!» esclamò il primo soldato, biondo, col volto rotondo e abbronzato da contadino e uno spiccato accento gaelico. «Il nostro amico ha un disperato bisogno di aiuto. Possiamo farlo coricare da qualche parte?»
Abigail li scortò subito verso un letto. «È ferito?» domandò, con un cenno al giovane mezzo svenuto. «Dove lo hanno colpito?»
L’altro soldato, più alto, con le spalle larghe e i capelli rossicci, fece prima sdraiare il compagno, dopodiché rispose un po’ imbarazzato: «Ecco, in realtà penso abbia solo bisogno di farsi una dormita.»
Abigail esaminò il soldato allettato: in effetti sembrava illeso, ma dal modo in cui bofonchiava nel sonno e dall’odore che emanava intuì fosse semplicemente ubriaco fradicio. «Non mi sembra una vera emergenza.»
«Ci scusiamo immensamente, miss» disse il caporale biondo. «Pádraic è un bravo ragazzo, mi creda. Ha solo cercato di annegare i suoi dispiaceri…o di annegarsi lui stesso, non saprei dire.»
Abigail gettò un’occhiata in tralice a Pàdraic, che russava nella grossa. «Cosa gli è accaduto?»
«Stamattina era a posto» spiegò il soldato dai capelli rossi, con un’alzata di spalle. «Verso mezzogiorno è arrivato il camion della posta; era ansioso di ricevere la sua, ma quando ha aperto la busta è diventato bianco come un lenzuolo e ci ha chiesto di aiutarlo a trovare dell’alcol.»
«Tommy e io gliel’abbiamo detto che era una pessima idea» assicurò il biondo. «Ma Pàdraic ci ha letteralmente scongiurati: ha detto che avrebbe bevuto una tanica di kerosene!»
«Deve aver avuto notizie terribili.»
«Oh sì, miss! Terribili davvero! La sua fidanzata gli ha scritto che si sposerà i primi di giugno. Non con lui, ovviamente. Può immaginare come ci sia rimasto!»
Pàdraic biascicò qualcosa nel sonno e abbracciò stretto il suo cuscino, mentre si girava sul fianco.
«Povero diavolo» commentò il soldato biondo, grattandosi la testa sotto l’elmetto. «Le pene d’amore sono difficili da superare. Soprattutto quando si è lontani da casa per mesi.»
«Suppongo di sì» replicò incerta Abigail, che non aveva dimestichezza con faccende del genere: da che ricordasse, non aveva mai provato struggimento per qualcuno.
«Può restare qui per un po’?» chiese piano il soldato dai capelli rossi. «Se il comandante lo becca in queste condizioni lo sbatterà come minimo una settimana in prigione. Non ci va per niente leggero con noi. E non gli piacciono gli irlandesi.»
Abigail emise un sospiro, indecisa sul da farsi. «Mi dispiace, ma è contro il regolamento dell’ospedale…»
«Oh, miss, la prego!» disse il soldato biondo, congiungendo le mani. «Gli butti una coperta addosso e dica a tutti che ha la febbre! Tutt’al più, quando si sveglia può dargli un’aspirina.»
«Lo veniamo a prendere prima che qualcuno se ne accorga» promise l’altro soldato, e quando la guardò negli occhi, per qualche ragione ad Abigail si aggrovigliò lo stomaco. Era bello, si sorprese a pensare, e i suoi occhi avevano lo stesso colore del cielo un attimo prima del temporale. «Ha la mia parola, non vogliamo metterla nei guai!»
Lei tentennò ancora, ma quei due avevano un’aria talmente disperata che le venne da sorridere. «Un paio d’ore, non di più.»
«Oh, grazie, miss! Gliene siamo davvero grati!» esultò il soldato biondo. «E gliene sarà grato anche Pàdraic!»
«Non ne dubito» replicò Abigail, divertita.
«Potremmo sapere, se non siamo indiscreti, il nome della nostra salvatrice? Nel caso volessimo dedicarle una ballata! O preferisce un sonetto?»
Lei rise. «Abigail. Abigail Thorn.»
«Miss Abigail, saremo suoi debitori per la vita.» Il soldato biondo batté i tacchi degli stivali e si mise sull’attenti. «Caporali James Finnegan e Tom Doherty, nono battaglione dei Fucilieri Reali di Dublino. Per servirla!»
Abigail ne aveva sentito parlare, ma non le era ancora capitato di incontrare degli irlandesi a La Panne: si diceva che negli ultimi mesi fosse in atto un massiccio reclutamento di uomini che non spiccicavano una parola in inglese, provenienti dalle remote Isole Aran e dalle piovose province dell’Ulster.
Tom e James mantennero il flusso ininterrotto di ringraziamenti mentre lasciavano il compagno alle cure di Abigail, quando all’improvviso, dietro una fila di letti, apparve Fanny Bouchard.
«Oh no» bisbigliò Abigail. «Ve ne dovete andare, svelti! Prima che…»
Ma Fanny stava già marciando in loro direzione, come se possedesse un radar in grado di captare qualsiasi irregolarità. «Che succede qui?»
Abigail aveva già la scusa pronta: «Questo caporale ha avuto un giramento di testa, gli stavo controllando la pressione.»
Fanny occhieggiò scettica Tom e James, che sorrisero e annuirono con foga alle parole di Abigail. «È la verità, miss. È crollato a terra all’improvviso, forse un colpo di calore.»
«Un colpo di calore, eh?» Si avvicinò a Pàdraic prima che Abigail potesse impedirglielo. «A me sembra che questo idiota si sia solo attaccato alla bottiglia! Ehi, tu! Riesci a sentirmi? Forza, in piedi, in piedi!»
«Sia buona, miss…» tentò James, ma bastò l’occhiata fulminante di Fanny per farlo ammutolire. «Fareste meglio a tornarvene tutti e tre al vostro reggimento prima che chiami il dottor Depage, sono stata chiara? Adesso fuori di qui!»
Tom e James aiutarono Pàdraic, ancora mezzo stonato, a rimettersi in piedi e se lo caricarono in spalla mentre Fanny continuava a gridare loro contro. 
«Ma tu guarda in che razza di mani siamo!» commentò quando furono usciti. Poi fu il turno di Abigail: «Mi auguro che tu abbia una buona giustificazione, Thorn: non so se l’hai notato ma questo non è più un albergo!»
«Ma non stavano facendo niente di male…»
«Ah no? Avresti sottratto il ricovero a un vero ferito per permettere a quello scansafatiche di schiacciare un riposino? Non siamo qui per fare da balie!»
«Con tutto il rispetto» replicò Abigail a tono. «Ma dubito che quel ragazzo avrebbe messo a repentaglio la vita di qualcuno. E di letti ne abbiamo a sufficienza.»
Le sopracciglia bionde di Fanny si avvicinarono pericolosamente e la mascella cesellata guizzò. «Ma puoi star certa che metterà in discussione la tua permanenza in questo ospedale, Thorn. Farò una segnalazione e quest’iniziativa ti costerà una nota di demerito!»
C’era un sadico compiacimento nel modo in cui pronunciò quelle parole e Abigail fu certa che non vedesse l’ora di trovare un motivo per far finire anche lei nel suo mirino. Strinse nei pugni la stoffa della gonna mentre la guardava allontanarsi e ingoiò l’orgoglio, dopodiché tornò al suo lavoro.
 
Da quel giorno Fanny Bouchard si mise d’impegno per rendere la vita di Abigail un inferno. Era diventata la sua ombra, ma le riservava un trattamento diverso rispetto alle altre infermiere: non la sgridava mai apertamente, ma ogni sua azione, dalla tecnica con cui praticava iniezioni, al modo in cui rimuoveva i punti, era diventata oggetto di analisi e osservazioni pungenti, soprattutto se c’era il primario a portata di orecchio:
«Dottor Depage, non credo che miss Thorn stia svolgendo la procedura in maniera appropriata! Oh, mia cara, sei sicura di aver già ingessato una caviglia prima di oggi?»
Era chiaro come il sole quale fosse il suo intento: aveva capito che Abigail non era una dalla lacrima facile, ma sapeva quanto tenesse al lavoro all’Océan e per questo spingeva affinché lei stessa si mettesse in cattiva luce. “Ti sei fatta una nemica potente” sembrava le comunicassero i suoi occhi, dietro i sorrisi falsi che le rivolgeva.
Ma Abigail era intenzionata a non cadere nella sua trappola.
«Be’, miss Bouchard, magari può mostrarmi come si fa» rispondeva sempre in tono professionale, restituendole il sorriso. «Sono sempre pronta ad imparare da chi ha più esperienza!»
Ma doveva ammetterlo, reggere i ritmi di lavoro e allo stesso tempo sopportare quella guerra sotterranea era sfiancante.
Quella sera, Abigail rientrò nel suo alloggio stanca e demoralizzata dopo una giornata particolarmente pesante. Salì in camera sua, approfittando del fatto che Fanny era ancora in ospedale, e sedette accanto alla specchiera per rimuovere la cuffia e sciogliere i capelli; attorno ai suoi occhi si erano formati solchi profondi, a causa delle poche ore di sonno e la pelle del viso era tesa e screpolata.
«Non hai una bella cera, bambina mia.»
La ragazza sussultò, e nel riflesso scorse l’oscillante Proiezione di suo padre in un angolo, l’austera tunica nera da Decano che si confondeva nella penombra. Era solo questione di tempo: le barriere intorno alla sua mente erano state messe a dura prova nelle ultime settimane e Lui necessitava solo di una piccola breccia per insinuarsi e contattarla.
«Non ora, papà. Sono stanca.»
«Certo che lo sei» replicò lui, con un tono premuroso che la mise subito in guardia. Si fece avanti, e la debole luce della lampada catturò l’azzurro freddo dei suoi occhi e il chiarore dei capelli e della barba. «Quando è stata l’ultima volta che hai usato il tuo potere? Senza magia, un mago non è niente: negargliela è come togliere acqua a una pianta.»
«Ironico che sia proprio tu a dirlo» commentò lei, senza voltarsi. «Hai sempre detto che, come maga, mi trovavi mediocre.»
«Ed è questo il motivo per cui te ne sei andata? Vuoi punirmi?»
«Non voglio punirti, papà. Sto solo cercando la mia strada. E alla Cittadella non l’avrei mai trovata.»
Lui fece scattare la lingua. «Stai solo perdendo tempo quaggiù…ovunque tu sia.»
Abigail si sentì sollevata: per quanto suo padre fosse potente, una Proiezione astrale aveva dei limiti e non era in grado di vedere qualcos’altro al di fuori del suo campo visivo.
«Mostrami dove ti trovi» le intimò. «Lascia che ti riporti a casa, Abigail.»
«No» reagì lei, voltandosi a guardarlo. «Non tornerò ad Arcanta, non aspetterò in silenzio che altri decidano il mio futuro. Perché non provi ad avere fiducia in me? Ti dimostrerò che il Mondo Esterno non è perduto come credi: tu sei nato in Inghilterra, il paese che sto aiutando! So che non hai sempre odiato i Mancanti, quando la mamma era viva…»
Il volto di Blackthorn divenne di granito e Abigail capì di aver fatto un passo falso. «Tua madre commise l’errore di credere nei Mancanti e mi convinse a fare altrettanto. E sai bene come è andata a finire!»
«Se solo tu dessi loro un’altra occasione…»
«I Mancanti non meritano seconde occasioni!» abbaiò Blackthorn, gli occhi che sprizzavano furore. «Sono in grado solo di sbranarsi l’un l’altro come cani! E di certo non meritano che altro sangue magico sia versato a causa loro!»
Mosse un altro passo verso di lei, sovrastandola e Abigail si ritrasse, spaventata. Per un attimo, l’oscurità sembrò riempire l’intera stanza. «Mostrami dove sei, è un ordine!»
La ragazza si portò le mani alla testa, strizzò gli occhi. «Ho detto di NO!»
La stanchezza accumulata, la rabbia e la frustrazione la vinsero. Quell’energia nascosta dentro di lei risalì con impeto come un pianto, senza che riuscisse a metterle un freno, finché non trovò il modo di sgorgare fuori, portando con sé una sensazione di sollievo.
Si sprigionò nell’aria, ululò con ferocia nel vento, gonfiando il mare e creando e disfacendo le dune di sabbia lungo la costa. In cortile, i panni stesi furono sferzati con violenza e si dimenarono come se volessero fuggire. L’energia corse lungo i fili dell’alta tensione, attraverso le condutture fin dentro le moderne lampadine. Ogni fonte di luce nel raggio di chilometri brillò al massimo dell’intensità, negli ambulatori dell’Océan, nelle abitazioni civili, nelle trincee alleate e nemiche.
E poi, all’improvviso, la città sprofondò nel buio.
Abigail prese una grossa boccata d’aria, come se fosse emersa dalle profondità di un lago. L’oscurità la circondava. Setacciò impaurita la stanza, sforzandosi di vedere qualcosa al pallido chiarore della luna.
Era sola. Lui era andato via.
Si strinse le braccia al corpo, cercando di mettere fine ai tremori. Il potere le attraversava ancora le membra, lo sentiva scorrere sotto la pelle come un fiume bollente, insieme al senso di sicurezza che le donava.
Senza la magia, un mago non è niente.
Qualcuno busso alla porta.
«Abigail, va tutto bene?» Era Gwen. «Ti ho sentita urlare.»
Abigail si alzò e andò ad aprire. «Scusa, credo di aver avuto un incubo.»
Gwen annuì. Era in vestaglia, e la scrutava con preoccupazione alla luce di una candela. «Capisco. È saltata la corrente, hai visto? Chissà che è successo.»
«Già» fece Abigail, annuendo piano. «Forse un guasto.»
«Ehi, ti va di venire un po’ in camera di Hernietta e Augusta? Abbiamo acceso qualche candela. Se non sei troppo stanca, ovviamente.»
Abigail gettò un’occhiata all’angolo buio in cui era apparso prima suo padre, rabbrividendo al pensiero di trovarlo ancora là, che la osservava. Non si fidava a restare sola coi suoi pensieri quella notte. «Certo, vengo volentieri.»
Le ragazze erano tutte sedute sul pavimento, circondate da cuscini e candele, i capelli attorcigliati nei bigodini e i piedi nudi che sbucavano sotto le camicie da notte.
«Spero davvero che risolvano il problema in fretta» stava dicendo Augusta alle altre. «Secondo voi cosa è successo?»
«Credete sia opera dei tedeschi?» squittì Hernietta con ansia.
Gwen sospirò. «Dubito che qualsiasi cosa di negativo accada sia merito dei tedeschi, Etta: esiste ancora una cosa chiamata sfortuna.»
Abigail prese posto a gambe incrociate tra Gwen e Sarah, sforzandosi di nascondere il suo imbarazzo. Per colpa sua, in città doveva essersi diffuso il panico, forse si temeva sul serio un attacco da parte del nemico, e pregò con tutto il cuore che le delicate apparecchiature ospedaliere non avessero subito danni. Ancora una volta, contro la sua volontà, ripensò a suo padre: Quanto credi ci vorrà perché queste persone scoprano la verità e inizino a temerti..?”
Gwen si accorse del suo malumore e le diede una gomitata gentile. «Tranquilla, sono sicura che è tutto ok. E poi, nessuno di quei crucchi mi spaventa quanto Fanny Bouchard: se mandassero lei in prima linea, vinceremmo questa guerra in meno di una settimana!»
Le altre ridacchiarono e Augusta commentò: «Poveri crucchi, scapperebbero via a gambe levate! Altro che carri armati!»
Il pensiero strappò una risata anche ad Abigail.
Scoprì che Gwen era riuscita a sgraffignare dalle cucine dell’Océan una bottiglia di cognac, e presto, il vino e la buona compagnia riuscirono ad accantonare la fatica e i dispiaceri della giornata. Chiacchierarono del più e del meno, del lavoro, dei pazienti, delle loro vite prima di imbarcarsi:
«A Bristol non mi capitava mai di bere vino» raccontò Augusta, facendo oscillare il suo bicchiere. «Ma adesso che ho assaggiato quello francese, credo proprio che non riuscirò a bere altro: Paul dovrà farsene una ragione se intende ancora sposarmi!»
«Perciò, ti aspetterà all’altare quando la guerra sarà finita?» chiese Gwen, versandosi un altro bicchiere. «Romantico!»
«Ha fatto di tutto per convincermi a non partire: si è persino presentato al molo con l’anello di fidanzamento! Le ragazze che erano con me hanno detto che ero una pazza a rinunciare!»
«Almeno tu hai uno spasimante che ti aspetta» replicò Gwen, alzando gli occhi. «A Segale io ho solo una matrigna bisbetica, un orto e quattro galline. Odio la vita di provincia, ve lo giuro!»
«Se vuoi posso mettere una buona parola per te al Fountains Fever» propose Sarah. «Con gli affitti di Londra, una coinquilina mi farebbe comodo.»
«Oh, ucciderei per poter vivere a Londra!»
«Io ci sono nata e ti assicuro che non è così emozionante» ribatté Sarah. «I prezzi sono esorbitanti e c’è troppo smog.»
«E tu, Abigail?» domandò Henrietta. «Che facevi prima dell’Océan
«Ecco.» Quasi si strozzò col vino: temeva che sarebbe arrivato il suo turno. «Be’, ho fatto praticantato a Norwich per un anno e mi hanno subito assunta.»
«I tuoi sono di lì?» chiese Sarah, interessata.
«Ehm» tergiversò lei, mordendosi il labbro. «Non proprio…»
In quel momento, la porta si aprì e Fanny apparve sull’uscio, con indosso ancora l’uniforme e l’aria decisamente sfatta.
«Grazie a questo stupido blackout è stata un’impresa terminare l’operazione» annunciò, seccata «E meno male che dovremmo essere un ospedale all’avanguardia!»
Abigail si sentì rimordere la coscienza e tuffò il viso nel bicchiere. Era una fortuna che la Bouchard non sapesse leggere la mente. O almeno, ci sperava. L’ultima cosa che desiderava era darle un ulteriore motivo per odiarla…
«Che diavolo è questo?» chiese poi Fanny, indicando il loro salotto improvvisato.
«Un pigiama party!» replicò Gwen allegramente. «Ti inviteremmo a restare, Francesca, ma come vedi è richiesto un abbigliamento appropriato!»
Lei fece una smorfia. «Che stupidaggine! Sembrate un gruppo di scolarette.»
«Però abbiamo il vino» le fece notare Gwen, brandendo la bottiglia come un trofeo. «Sei proprio sicura di non volerti unire a noi?»
Fanny arricciò le labbra, in preda a una battaglia interiore dettata dall’orgoglio, ma poi lasciò andare un sospiro. «Magari solo un bicchiere. Mi serve proprio.»
Si sedette in mezzo a loro, restando tuttavia un po’ rigida. «Be’, che prevede questo pigiama party?»
«Abigail ci stava raccontando qualcosa della sua famiglia» rispose Sarah. «Di come è arrivata a Norwich e del suo misterioso passato!»
Lo sguardo di Fanny la sfiorò algido da sopra la spalla. «Ah, sì?»
«Non è una storia interessante» si affrettò a specificare lei, a disagio. «In realtà non è nemmeno una storia…»
«Eh dai, di sicuro non potrà essere peggio della mia vita tra ortaggi e galline!» la esortò Gwen ridendo.
Abigail non ne era sicura, ma preferì restare sul vago. «Per un po’ ho vissuto anche io in campagna: i miei possedevano dei terreni nel Northumberland…»
«Terreni?» ripeté Augusta. «Aspetta, non starai dicendo mica che i tuoi sono aristocratici o roba simile?»
«Ehm, qualcosa del genere» balbettò lei.
Sarah rise. «Accidenti, qui salta fuori che la nostra Abigail è imparentata con re Giorgio e ha pure un castello!»
«Non era proprio un castello» precisò Abigail, che avrebbe tanto voluto poter cambiare argomento. «E comunque non ci ho vissuto a lungo. A diciassette anni me ne sono andata.»
«Per finire qui?» domandò Fanny, le sopracciglia aggrottate. «Scherzi, spero.»
«No, non scherzo» replicò Abigail, in tono di sfida. «A casa non mi era permesso praticamente fare niente, le mie giornate si trascinavano vuote, senza uno scopo. Non avrei mai potuto continuare a vivere in quel posto con mio padre.»
«Be’, questa a me sembra decisamente una storia interessante!» esclamò Gwen, colpita. «L’infelice ereditiera che scappa alla vita di palazzo e dal padre tiranno per curare i soldati in trincea. Ci si potrebbe scrivere un romanzo!»
Fanny non sembrava per nulla d’accordo. «Insomma, il motivo per cui sei qui è fondamentalmente un capriccio.»
Abigail si rabbuiò. «Prego?»
«Mi sembra un comportamento da principessina viziata» disse Fanny, sdegnosa. «Di chi non ha mai avuto idea di cosa sia il mondo reale: non sei realmente qui perché ti importa di salvare vite. Cerchi solo approvazione.  Un modo per sentirti speciale.»
Abigail sentì subito il sangue ribollirle e sostenne il suo sguardo con forza. «Quello che cerco di fare è rendermi utile per la gente. Mi sono sentita impotente per tutta la vita, indifesa. Non voglio che altri subiscano lo stesso destino. E francamente, non mi interessa se questo a te sembra un capriccio.»
Nella stanza calò un silenzio teso. Fanny restò a fissarla a labbra strette, per quella che le parve un’eternità.
In quel momento, risuonò l’urlo di una sirena.
«Oddio!» strillò Henrietta, rovesciandosi addosso il vino. «È l’allarme!»
Le ragazze saltarono tutte in piedi e corsero ad affacciarsi alla finestra. Dalla posizione in cui si trovava la loro villetta, riuscivano ad avere uno scorcio della strada principale, dei blindati che sfrecciavano nella notte e dei soldati che correvano imbracciando i fucili e urlando ordini. La sirena intanto continuava a suonare, il lugubre lamento di una banshee delle colline.
«Che significa?» domandò Abigail. Era la prima volta che accadeva una cosa del genere.
«Ci attaccano» disse Fanny, scrutando torva il cielo. «È in arrivo un aereo. Tutte in cantina, forza!»
Si precipitarono giù per le scale a rotta di collo, illuminando i propri passi con la tremula luce delle candele. Fanny aprì una botola sul pavimento della cucina e una per volta scivolarono lungo una scaletta di legno in un ambiente cavernoso, che odorava di pietra fredda e di chiuso.
Si accucciarono in un angolo coi loro lumini stretti in mano. E attesero, immobili e in silenzio, nel loro piccolo cerchio di luce circondato da tenebre.
Si udì un boato in lontananza, seguito da un sibilo che cresceva di volume e intensità, fino a diventare il rombo di un treno in galleria. Le unghie di Gwen si conficcarono nel braccio di Abigail, e lei afferrò la sua mano, sentendo il battito del cuore che le pulsava nelle tempie.
«Restate calme!» sbottò Fanny, ma era chiaro che stesse facendo uno sforzo per impedire alla voce di tremare. «Siete donne britanniche, Cristo santo!»
Anche se non potevano vederlo, Abigail percepì che il Taube tedesco era proprio sopra di loro: il suo frastuono ormai copriva qualsiasi altro rumore.
Chiuse gli occhi, cercò dentro di sé il confortante richiamo del Tutto, rifugiandosi nel senso di protezione che solo la magia riusciva a darle. Ma non era abbastanza potente per lanciare un incantesimo in grado di difenderle. Per impedire alle bombe di cadere e a quel posto di crollare sulle loro teste...
Il frastuono si attenuò poco a poco, e l’aereo li sorvolò svanendo nella notte.
«Evidentemente, ha deciso di non sprecare munizioni» disse Fanny, con voce roca. «Se ne è andato.»
Ci volle un po’ perché anche le altre ritrovassero la voce. Henrietta deglutì e sussurrò una proposta: «Che… che ne direste di recitare una preghiera?»
Gwen, Sarah e Augusta furono d’accordo e congiunsero le mani, cominciando a intonarne una. Abigail non conosceva preghiere, e non aveva mai avuto bisogno di recitarne: i maghi non credevano nell’esistenza degli déi da più di mille anni, da quando la Fondazione di Arcanta aveva contribuito a razionalizzare le credenze del Vecchio Mondo. Dopotutto, se la loro razza era sopravvissuta nel corso dei secoli non era stato di certo grazie a loro.
Notò che anche Fanny era rimasta in silenzio, e quando Abigail incrociò il suo sguardo, si limitò a commentare: «Dio non verrà in nostro aiuto. Se gli importasse qualcosa di noi, non avrebbe permesso che questa guerra iniziasse.»
Per la prima volta da quando si conoscevano, Abigail si trovò d’accordo con lei.


 

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Capitolo 8
*** L'Alfiere ***


 


L’ALFIERE

 


 
 
Quattordici miglia a sud di Shrewsbury, Inghilterra
Maggio 1914
 
 
 
Solomon Blake alzò lo sguardo sul poderoso cancello di ferro battuto con un sospiro rassegnato.
Aveva piovuto da poco, il che non era insolito per il clima dello Shropshire; in quella remota regione al confine col Galles, tra valli nebbiose, boschi secolari e corsi d’acqua spumosa, i temporali e le schiarite si alternavano apparentemente senza alcuna logica. Nulla laggiù comunicava ospitalità e calore, a cominciare da Hurtgrove Hall, un imponente maniero stagliato contro il cielo color ardesia come un monito, in mezzo a una landa di brughiera grigia spazzata dal vento.
Casa dolce casa.
Solomon percorse un filare di alti pioppi, rimpiangendo di essere arrivato lì senza essersi fatto nemmeno un Gin Tonic: qualsiasi angolo su cui posava gli occhi faceva affiorare in lui ricordi spiacevoli, assieme a un senso di nausea che gli afferrava la gola a ogni passo. Emerse in un prato di cui nessuno aveva più cura da tempo, dove la gramigna cresceva incolta e i cespugli di bosso avevano assunto un aspetto selvaggio. All’ombra di due biancospini contorti, Solomon riconobbe i resti del vecchio pozzo, ridotto ormai a un cumulo di massi ed erbacce. Avvertì un nodo gelido formarsi sotto lo sterno e distolse in fretta lo sguardo, mentre saliva i gradini d’ingresso scavati dal tempo. Sì, la sobrietà in quel frangente era stata una pessima idea.
Nell’atrio, un anziano maggiordomo Mancante dall’aspetto curvo e malaticcio gli prese cappotto e bombetta, dopodiché, tra uno starnuto e l’altro, lo precedette attraverso i corridoi deserti, talmente bui e gelidi che sembrava fosse pieno inverno anziché primavera inoltrata.
«Questo posto peggiora di anno in anno» mormorò Solomon, gettando un’occhiata alle fitte ragnatele che avevano preso possesso degli angoli e allo strato di polvere che rivestiva le superfici. Non incrociarono nessun altro domestico, e un silenzio tombale accompagnò i loro passi. «Che fine hanno fatto tutti?»
«Licenziati, milord» gracchiò con voce nasale il maggiordomo. «L’ultimo è stato Reginald, il giardiniere: da alcuni anni a questa parte, il barone non gradisce avere gente intorno. Domando scusa.» Si soffiò energicamente il naso, emettendo un suono da tromba otturata. «Se mi è concesso, andarsene per molti è stata una liberazione.»
Solomon non se ne stupì. «Lui dov’è?»
«Nel suo studio.»
Lo condusse a una porta chiusa al secondo piano. Solomon congedò il servitore, consigliandogli di mettersi a letto e accendere una stufa, e il vecchio si dileguò senza farselo ripetere. Un po’ Solomon lo invidiò.
Oh, al diavolo!
Con discrezione, estrasse dalla tasca una fiaschetta e mandò giù due generosi sorsi di whisky. Sotto la spinta dell’alcol, prese coraggio e bussò col becco di corvo del suo bastone.
Dall’interno non giunse alcun invito, ma la porta si aprì da sola senza far rumore.
Anche lì regnava un gelo innaturale; le pareti erano tappezzate da boiserie scura, trofei di caccia e dipinti in chiaroscuro. Il più grande di tutti era affisso sul camino e raffigurava Merlino, capostipite dei Blake, con Excalibur in una mano e un grimorio nell’altra. Il suo sguardo torvo ed enigmatico aveva sempre messo a Solomon una certa inquietudine, come se potesse carpirgli ogni segreto anche dall’aldilà.
«Ti sei degnato di tornare.»
Alastor Blake sedeva alla scrivania di spalle alla finestra, una figura in controluce con la testa avvolta da una nube di fumo di sigaro. Il suo tanfo dolciastro rimescolò lo stomaco di Solomon, ma si costrinse lo stesso ad avanzare. «Ho ricevuto il tuo messaggio. Che succede?»
Lord Blake emise una risata spenta. «Non posso aver semplicemente voglia di vedere il mio unico figlio, dopo tutti questi anni? Ho saputo che le cose ti vanno piuttosto bene ad Arcanta, Arcistregone.»
«Non posso lamentarmi» replicò Solomon, con voce atona.
Lord Blake si alzò e fece lentamente il giro della scrivania, biascicando un’imprecazione: era invecchiato dall’ultima volta che si erano visti, il volto scavato ma ancora avvenente e i favoriti spolverati di grigio.  E soprattutto, adesso zoppicava.
«Che hai fatto alla gamba?» chiese Solomon. «Ti sei ferito?»
«Un graffio da niente» borbottò lui, appoggiandosi al ripiano della scrivania. «L’altro giorno ero a caccia nel bosco di Hurt, ci vive ancora un branco di magnifici ircocervi selvatici.»
Gli indicò con fierezza uno scudetto affisso proprio sopra l’entrata: vi torreggiava la testa di un animale gigantesco, a metà tra un caprone di montagna e un cervo dai maestosi palchi ramificati. «Si è difeso bene: sono creature orgogliose, combattive. Si meritava un posto d’onore nella mia collezione.»
«Congratulazioni» commentò Solomon, che non condivideva affatto il suo entusiasmo. «Non dovresti comunque trascurare la ferita, posso darle un’occhiata, se mi permetti…»
Alastor gli rise in faccia. «Te l’ho detto, è solo un graffio. Tu non hai mai avuto lo spirito del cacciatore.»
«Uccidere animali non mi ha mai attratto come passatempo.»
«Jonathan, invece, lui sì che era portato, un vero inglese!» gli parlò da sopra suo padre. «Una volta, pietrificò in volo un falco al primo colpo. Tu non riuscivi nemmeno a tirare il collo a una quaglia senza frignare come una femminuccia!»
Solomon lo ascoltò solo in parte, resosi conto della presenza di un’altra persona nella stanza: una servetta pressoché adolescente, con folti ricci rossi, seduta immobile su un sofà con un libro aperto abbandonato sul grembo e lo sguardo fisso davanti a sé, quasi stesse dormendo a occhi aperti. Oppure, pensò Solomon con ribrezzo, come se fosse sotto l’effetto di un incantesimo…
«Per tutti i demoni, che cosa le hai fatto?»
Suo padre sogghignò e dedicò alla ragazza una lenta occhiata soddisfatta. «Alla tua età non penso di doverti spiegare che un uomo ha bisogno di compagnia. Soprattutto dal momento che quella megera di tua madre ha fatto i bagagli. Sbaglio o anche tu hai una certa predilezione per le rosse, figliolo? Almeno sotto questo aspetto siamo simili.»
A Solomon salì un conato. Staccò gli occhi dalla servetta e li spostò invece sulla punta delle sue scarpe.
«E con quell’altra faccenda come procede?» domandò poi suo padre, sbuffando una nuvola di fumo. «L’hai trovato?»
«Non ancora, ma è questione di tempo» rispose Solomon, teso. «So dove si trova. Sto solo…escogitando un modo per arrivarci.»
«É alla Cittadella, non è così?» Alastor spense il sigaro in un posacenere di marmo. Lo stesso che, molti anni addietro, aveva usato per spezzargli il polso sinistro: era stato allora che Solomon era diventato ambidestro. «In tal caso non ci riuscirai mai.»
Colpito nell’orgoglio, lui trovò la forza di alzare la testa. «Mi sembra, padre, di aver ampiamente superato le tue aspettative su di me in questi anni.»
Lo vide scuotere piano la testa. «E dire che tu dovevi essere quello intelligente…»
«Troverò il modo» ribadì Solomon, seccamente. «Lo trovo sempre.»
Con un fruscio di fogli, Alastor tirò fuori da sotto un plico di carte un giornale ripiegato e glielo sventolò davanti. «Sai che cos’è questo?»
Ora Solomon iniziava seriamente ad arrabbiarsi. Tra quelle mura aveva sopportato ogni tipo di crudeltà e umiliazione, ma non tollerava di essere trattato come un idiota. «Una copia dell’Oraculum. Non pensavo leggessi ancora quella roba…»
«E sai anche cosa riporta l’articolo in prima pagina?»
«Il Primo Alchimista del Cerchio d’Oro si è quasi fatto saltare in aria durante un esperimento…e allora? Non vedo cosa c’entri questo con…»
«Sebastian Ascanór sta morendo» disse Alastor, mettendo da parte il giornale. «La formula che stava testando si è rivelata un acido talmente corrosivo da rendere inutile la magia curativa. Il Cerchio d’Oro non può salvarlo. Perciò, ora dovranno designare un successore.»
«Va bene» fece Solomon, con impazienza. «Gradirei che arrivassi al punto.»
«Il punto» rispose suo padre con lentezza, come se stesse spiegando a un bambino deficiente quanto fa due più due. «È che ci sarà una faida familiare: i due figli maggiori, Alvaro e Tristan, si sbraneranno come iene davanti a una carcassa per ottenere il posto del vecchio nel Decanato. È ciò per cui si preparano da tutta la vita. Peccato che siano due inetti.»
Fece schioccare la lingua, e nel mentre, lanciò un’occhiata sprezzante a Solomon, che gli fece bollire il sangue. «Quello che davvero ti dovrebbe interessare – ma è evidente che sei troppo stupido per arrivarci – è che conflitto per una famiglia potente come gli Ascanór significa instabilità. Per noi, invece, significa occasione
Malgrado avesse i nervi a fior di pelle, Solomon analizzò le informazioni ricevute con attenzione. «Il Bibliotecario della Cittadella è un Ascanór. Xavier Ascanór, il figlio mediano: un tipo schivo, dicono non metta mai il naso fuori dalla Biblioteca. Praticamente, un sociopatico.»
«Una fortezza» puntualizzò Alastor. «Privo di vizi, incorruttibile, diffidente ai limiti della paranoia. Se i Decani avessero lasciato le chiavi della Biblioteca a una macchina senz’anima, ci sarebbero più possibilità di aggirarla.»
«E allora che senso ha tutto questo?» chiese Solomon, in tono frustrato. «Se Xavier Ascanór è come sostieni inaccessibile, in che modo posso avvicinarlo?»
«C’è solo una cosa che per un Ascanór è più importante del potere» rispose Alastor. «Ed è l’onore della propria casata: furono tra i primi cittadini di Arcanta, una linea di sangue purissimo e una reputazione esemplare. Nel Decanato c’è sempre stato almeno un Ascanór da che si ricordi. Per loro è essenziale garantire il proseguimento della stirpe, specialmente in un tale clima di tensione.»
Solomon aveva un gran brutto presentimento. Si preparò alla bastonata che sarebbe arrivata a breve. «Dove vuoi arrivare, padre?»
«Sebastian Ascanór ha anche una figlia. Isabel Ascanór, la minore dei quattro, ancora zitella: genera con lei un erede e sarai a conti fatti un membro della famiglia. Più vicino di quanto chiunque potrà mai essere al Bibliotecario.»
Solomon lo fissò in silenzio, mentre metabolizzava il senso delle sue parole. «Tu…vuoi che mi sposi?»
«È anche arrivata l’ora, non credi? Non sei certo un ragazzino.»
«Io non ho nessuna intenzione di sposarmi!» sbottò Solomon, inalberandosi. «Con una perfetta sconosciuta, poi!»
«Credi forse che io abbia sposato quella spocchiosa di una Cavendish per amore?» reagì suo padre, con voce alta e rabbiosa. «Questa è l’occasione che aspettavamo per colpire Arcanta dritta al cuore, per avere la nostra vendetta! O hai dimenticato ciò che quell’immonda città ha fatto alla nostra famiglia? A Jonathan?»
«Non l’ho dimenticato!» rispose Solomon, furente. «Ti ho promesso che avrei ottenuto quel maledetto libro, ed è quello che farò! Ma non puoi incastrarmi in un matrimonio!»
Alastor Blake lo guardò, la bocca che si piegava in un sorriso sardonico. «Capisco» disse poi, lentamente. «Suppongo abbia a che fare con la mezzosangue che ti sei trovato in Italia.»
Solomon impietrì. «Non parlare di lei.»
«La tieni nascosta» sussurrò Alastor. «Il tuo piccolo sporco segreto…la spacci ancora per la tua assistente, non è così?»
«Smettila.»
«Quando non è altro che la tua puttana…»
La mano di Solomon partì da sola, chiusa in un pugno pronto a schiantarsi sulla mascella di suo padre. Nessuna premeditazione, nessuna logica, solo rabbia repressa e stupidità, e ad Alastor bastò muovere due dita per respingere il figlio e mandarlo a sbattere con violenza contro la parete.
Solomon si dimenò con furia, ma fu come se una mano invisibile lo avesse afferrato alla gola, mozzandogli il respiro.
«Lurido bastardo ingrato» sibilò suo padre, avanzando verso di lui con le dita serrate. «Pensi di essere intoccabile, adesso? Solo perché sei riuscito ad abbindolare quella massa di pecoroni ad Arcanta? Se sei arrivato dove sei adesso è solo grazie a me!»
La stretta aumentò di intensità, Solomon si portò le mani alla gola, calciando a vuoto, boccheggiando in cerca di aria.
«Io ti ho creato» ruggì Alastor Blake. «Ti ho aggiustato, quando eri solo un rottame senza poteri e senza valore!»
Lo lasciò andare con un gesto sdegnoso e Solomon si accasciò contro la tappezzeria, tossendo forte. Quando l’ombra di suo padre incombette su di lui, il suo primo riflesso fu ritrarsi come un animale ferito, come un topo in trappola, e se ne vergognò.
«Come pensavo» commentò Alastor, guardandolo con sufficienza. «Dopo tutti questi anni, sei ancora il ragazzino che piange in fondo al pozzo.»
Solomon si passò il dorso della mano sulla bocca, senza riuscire a guardarlo.
«Coraggio, figliolo.» La voce di Alastor si ammorbidì un poco. «Rimettiti in piedi: sei sempre il mio alfiere, dopotutto, rammenti?  Questa partita a scacchi non può essere vinta senza il tuo contributo. E presto, tuo fratello avrà finalmente giustizia.»
Solomon si tirò su, cercando di ricomporsi alla meglio. Suo padre si allontanò e tornò zoppicando alla scrivania.
«Gli Ascanór daranno un ballo questo sabato» annunciò poi in tono pratico, mettendo in ordine le sue carte. «Per il debutto in società della señorita Isabel: sarà un evento esclusivo, con un numero selezionato di ospiti, la maggior parte dei quali, ovviamente, suoi pretendenti. Confido troverai il modo di essere sulla lista.»
Solomon sistemò la giacca e annuì, in modo rigido. Quando finalmente gli fu concesso di lasciare quella stanza, dovette resistere all’impulso di mettersi a correre, e vagò per i corridoi vuoti come un’anima in pena finché non irruppe in biblioteca.
Si poggiò contro la porta chiusa, inspirò a pieni polmoni.
Calmati. Calmati. Calmati. Calmati.
Infilò una mano sotto la giacca e strinse forte l’orologio da taschino, poi chiuse gli occhi, inalò l’odore del legno, della carta stampata e della cera d’api e pian piano il suo respiro tornò a farsi regolare.
Di tutta Hurtgrove Hall, quello era il solo luogo di cui possedesse qualche ricordo sereno: da bambino aveva trascorso intere giornate sdraiato a pancia in giù su quel tappeto, sfogliando libri davanti al camino. Come tutti i maghi, suo padre riteneva che lo studio fosse un’attività sacra e non lo disturbava mai quando era in biblioteca, nemmeno se aveva da punirlo.
Ma stavolta non era di libri che sentiva il bisogno.
Raggiunse un mappamondo del XVI secolo, gli fece compire un pigro giro, poi cercò la levetta nascosta: con un clic, il globo si aprì lungo la linea dell’Equatore, rivelando la collezione di bottiglie pregiate di Lord Blake.
Grazie agli dèi negli anni le sue abitudini non erano cambiate.
Solomon riempì un bicchiere di brandy fino all’orlo, lo mandò giù tutto d’un fiato, sentendolo raschiare mentre scendeva lungo la gola indolenzita, e se ne versò subito un altro. E poi un altro ancora.
Sei ancora il ragazzino che piange in fondo al pozzo…
Un tenue rumore lo spinse a voltarsi.
C’era la servetta dai capelli rossi, ferma sulla soglia.
«Chiedo scusa, milord» mormorò, la voce roca e lo sguardo ancora un po’ offuscato. «Il padrone mi manda a chiedere se si fermerà per cena…»
Solomon mise giù la bottiglia. «Come ti chiami?»
«Io, milord?»
«Si, tu. Qual è il tuo nome?»
«Marianne, milord.»
Lui tirò fuori da una credenza piatti, posate e preziose coppe in oro e argento con impresso l’albero della casata Blake, li gettò sul tappeto, ignorando il fracasso che ne seguì. La ragazza lo osservò senza battere ciglio.
Quando fu sicuro di aver svuotato per bene la credenza, Solomon prese le estremità del tappeto e ne fece un fagotto.
«Marianne» disse in fretta, porgendolo alla ragazza. «Adesso voglio che tu mi ascolti molto attentamente.»
Le schioccò le dita davanti alla faccia, e lei sbatté le palpebre, di nuovo cosciente. «Chiama tutte le domestiche e dì loro che siete in partenza. Prendi questi, dividili con le altre, vendeteli e andate a Londra, ovunque volete. Ma per favore, per favore, Marianne, promettimi che lascerete Hurtgrove Hall oggi stesso. Mi hai capito?»
Lei fece lentamente segno di sì, e lo guardò mentre usciva a grandi passi, come se si fosse svegliata da uno strano sogno.
 
*
 
 
Lo sentì rientrare verso le due.
All’interno del grande e solitario palazzo sul lago, Lucia era accoccolata su un sofà in salotto, immersa nella lettura di un libro, quando un gran frastuono di ferraglia la fece sussultare.
«Oh, Valdar!» esclamò, gettando la testa all’indietro. «Per favore, puoi cercare di non distruggere questo posto per cinque minuti?»
Si tirò su, pronta a sorbirsi un’altra serie di proteste da parte dell’orco, profondamente offeso perché “Padron Blake” era di nuovo andato via senza portarlo con sé. Lui, che aveva giurato di difenderlo a costo della vita!
«Meglio se te ne fai una ragione» aveva sospirato Lucia, mentre l’orco era ancora lì che pestava i piedi e teneva il broncio come un enorme bambino zannuto. «È fatto così, va e viene quando vuole. Inutile che cerchi di stargli dietro…»
In verità, lei non ci aveva ancora rinunciato, e forse non ci avrebbe rinunciato mai. Magari era un errore illudersi che le cose tra loro sarebbero cambiate, che un giorno sarebbero finalmente riusciti a dare un nome a quello strano rapporto, che lui si sarebbe dichiarato …
Non le aveva mai promesso niente, era vero, ma Lucia sentiva ardere dentro di sé l’incrollabile certezza che tutto ciò che aveva vissuto fino a quel momento –  la solitudine, le privazioni, il dolore, e infine la scoperta del suo potere – l’avesse portata da lui. Che fosse stato il destino, o la stessa Provvidenza magari, che le avevano insegnato agiva spesso in modi misteriosi, a farli incontrare. Per costruire insieme un mondo nuovo e più giusto, in cui avrebbero potuto vivere il loro amore in libertà…
Perciò, avrebbe continuato ad aspettarlo, col cuore traboccante di gioia come la prima volta. E poi lo avrebbe guardato andare via ogni notte, come tutte le notti…
Seguendo il rumore, Lucia imboccò un corridoio, con Wiglaf che volava sopra di lei. Ma stavolta non era Valdar la causa di quel baccano.
«Solomon!»
Lo stregone era in ginocchiato sul pavimento e stava raccogliendo i pezzi di un’armatura da esposizione, contro cui evidentemente era andato a sbattere.
«Colpa mia, colpa mia» farfugliò, mentre cercava di assemblare uno schiniere con uno spallaccio. «Questi dannati cosi stanno sempre in mezzo ai piedi!»
Lucia si precipitò da lui e lo aiutò ad alzarsi. «Cosa ti è successo? Quanto hai bevuto?»
Lui mise su un’espressione corrucciata e prese a contare sulle dita di una mano, poi dell’altra. «Secondo te cosa viene dopo il sette..?»
«Meglio se ti stendi» disse Lucia, passandosi un suo braccio attorno alle spalle per aiutarlo a trascinarsi. «Lo sapevo che non era una buona idea tornare laggiù!»
Lo accompagnò in salotto e lo fece sdraiare sul sofà, sedendogli accanto.
«Allora» chiese poi, mentre lo osservava preoccupata. «Vuoi raccontarmi come è andata?»
«Oh, è andata benone» rispose lui, con voce impastata. Avvicinò l’indice e il pollice a pochi centimetri dal suo viso. «Sono stato tanto così dal tirargli un pugno in faccia, pensa!»
«Hai quasi tirato un pugno in faccia a tuo padre?!»
«E poi lui mi ha sbattuto contro un muro» borbottò Solomon, incupendosi di colpo. «Una tipica discussione tra gentiluomini inglesi, insomma.»
«Oh, Solomon» fece lei, addolorata. «Perché ci sei dovuto andare? Quell’uomo è orribile, dovresti dimenticarti di lui e basta…!»
«Ti ha insultata.»
Lei si interruppe, stupita. «Cosa?»
«Non doveva farlo. Non ne aveva il diritto. Non sa cosa significhi tu per…» La guardò negli occhi, con la spenta compostezza degli ubriachi. Alzò una mano e le sfiorò piano la guancia con la punta delle dita. «Non sa che io…»
Lucia posò la mano sulla sua. Il cuore le batteva furiosamente, come le ali di un uccellino in gabbia, carico di aspettativa. «Sì?»
Lui lasciò cadere la mano e anche le palpebre cedettero, e nel giro di pochi istanti, si mise a russare.
 
*

 
Quando si svegliò, gli sembrò di aver ingoiato per intero un topo morto.
I suoi occhi sfarfallarono e si strizzarono alla luce del mattino che irrompeva dalle finestre, poi si guardarono attorno disorientati. In qualche modo, era riuscito ad arrivare alla casa sul lago e qualcuno gli aveva messo addosso una coperta.
Girò la testa e vide Lucia che dormiva raggomitolata in poltrona come un gatto, ad appena un braccio di distanza da lui. Solomon rimase per un po’ a osservarla, ad ammirare gli splendidi riflessi infuocati che la luce del sole donava ai suoi capelli. E di colpo, le parole di suo padre risuonarono nella sua testa…
“Questa è l’occasione che aspettavamo per colpire Arcanta dritta al cuore, per avere la nostra vendetta! O hai dimenticato ciò che quell’immonda città ha fatto alla nostra famiglia? A Jonathan?”
A un tratto, Lucia si stiracchiò e Solomon distolse lo sguardo.
«Buongiorno» lo salutò lei con un sorriso. «Come stai?»
«Meglio» replicò lui, con una punta di imbarazzo. Si schiarì la gola. «Ho…dei ricordi un po’ confusi riguardo ieri notte.»
«Ti sei solo addormentato come un sasso. Dopo aver buttato giù mezzo esercito di armature» aggiunse Lucia, per sdrammatizzare. «Hai fame? Ti preparo un caffè?»
Solomon buttò all’aria le coperte. «Non ho tempo, devo tornare ad Arcanta.»
«Perché non rimani un altro po’?» propose lei, con slancio. «Hai passato una nottataccia, potresti…»
«Ho lezione, lo sai» replicò lui maldestramente, al che lei mise su un’espressione delusa.
Diglielo. Merita di sapere.
Ma come l’avrebbe presa? Come avrebbe fatto a spiegarle che il solo modo per riuscire a mettere le mani sul Codice Oscuro era che sposasse un’altra donna..?
«Ehm, Lu...»
Lei alzò la testa e lo guardò, in attesa. Solomon prese un respiro profondo.
Diglielo, forza.
«Ehm…bada…bada che quell’orco stia alla larga dalla biblioteca, chiaro? È piena di testi molto rari.»
«Certo» replicò lei. «Conta su di me.»
Sei un completo idiota.
Borbottando un “grazie”, lui si gettò il cappotto sulle spalle e uscì.

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Capitolo 9
*** Mlada Bosna ***


MLADA BOSNA


 
Sarajevo,
70 giorni prima dello scoppio della Guerra
 
 
 
Zora scoprì che, durante i giorni che lei aveva trascorso a Mostar, Krsta aveva trovato il modo di tenersi convenientemente impegnato.
La sera del suo rientro, trovò le finestre del palazzo tutte illuminate, e diverse auto parcheggiate nel vialetto. La musica alta risuonava anche all’esterno.
«Ma che cazzo…?»
Non appena ebbe messo piede nell’appartamento, si vide circondata da persone sconosciute, festose e visibilmente ubriache, che ballavano, ridevano e giocavano a rincorrersi per i corridoi come scolaretti.
Sbalordita, Zora allungò il collo e sgomitò tra la folla per trovare Krsta in mezzo a quel macello. Passò in rassegna stanze in cui regnava un disordine assurdo, e si fermò sullo stipite di un salotto invaso dal fumo di sigaretta, dove erano riuniti sette giovani uomini ben vestiti che bevevano e discutevano in maniera animata:
«Non possiamo più restare a guardare!» stava dicendo con voce alta e appassionata uno di loro. Si alzò in piedi brandendo il suo bicchiere, senza curarsi delle gocce di vino che stava schizzando sul tappeto costoso. «Gli Asburgo hanno preso le nostre terre, chi hanno obbligato a seguire le loro leggi, a costruire le loro chiese! E sapete di chi è la colpa? La colpa è della Bosnia, che gliel’ha sempre permesso! Ma noi siamo il futuro di questo paese, abbiamo il dovere di dire basta!»
Si levarono molte esclamazioni in suo favore e anche qualche applauso.
In mezzo a loro, Zora individuò Krsta, sprofondato in poltrona con un calice in mano.
«Ehm, ehm.»
Gli uomini interruppero all’istante la discussione e si voltarono a guardarla, meravigliati. Anche Krsta si girò e le dedicò un enorme sorriso. «Zora! Mia adorata, quando sei arrivata?»
«Proprio adesso» disse lei, secca. «Ti dispiace spiegarmi che sta succedendo?»
Krsta si alzò barcollando e le venne vicino. «Ho solo invitato qualche amico…»
Lei indirizzò uno sguardo di ghiaccio agli uomini accomodati in salotto, che la salutarono con timidi cenni del capo e sorrisi.
«Compagni di studi a Belgrado» spiegò Krsta, sempre sorridente. «Ti ho sicuramente parlato di loro, no? Di Gravrilo, Vladimir…?»
«No, non mi pare» fu la tagliente risposta di Zora. «Non voglio avere gente per casa, Krsta. Non dopo che mia madre…che mia madre è…»
Le lacrime la assalirono senza che riuscisse a impedirlo e girò la testa dall’altro lato. Quegli uomini la stavano ancora fissando. Avrebbe voluto urlare loro di smetterla, di levarsi dai piedi.
«Oh, povera cara.» Krsta la cinse tra le braccia, accarezzandole la schiena. «Ho solo pensato che un po’ di compagnia avrebbe potuto sollevarti il morale. Ma hai assolutamente ragione, è stato sciocco da parte mia. Manderò tutti a casa all’istante.»
«Grazie» mormorò lei, rigida nel suo abbraccio.
Gli ospiti furono invitati ad andarsene, e malgrado qualche protesta, nel giro di pochi minuti la casa tornò silenziosa.
«Ti chiedo ancora scusa, amore mio» le disse Krsta, dopo aver ordinato alle domestiche di rimettere tutto in ordine. «Vieni qui, parliamo un po’.»
Zora avrebbe preferito essere lasciata in pace, avere la possibilità di soffrire, piangere, elaborare il lutto in solitudine. Ma ultimamente, gli slanci di gentilezza da parte sua erano diventati più unici che rari, ed era troppo a pezzi per accendere discussioni. Così, decise di accantonare momentaneamente il disappunto e gli permise di sederle vicino sul sofà.
«Non ero pronta a lasciarla andare.» Sentiva la gola stretta in una morsa che lasciava uscire a stento il fiato e la voce. «La cosa peggiore è stata vederla così…così fragile, indifesa. Ovunque sia, spero che sia finalmente in pace. Che Allah l’abbia accolta come meritava.»
«Sono certo che è andata così» disse lui, e Zora fu sorpresa dal sentirgli pronunciare quelle parole in modo così partecipe. «Non l’ho conosciuta, ma se somigliava a te, si sarà sicuramente guadagnata il paradiso.»
Lei gli restituì un lieve sorriso, riconoscente e umido di lacrime. Probabilmente era merito del vino, ma in quel momento aveva  un disperato bisogno di essere ascoltata e consolata.
Finì per parlargli del funerale, dell’incontro con la carovana e coi parenti, di Aisha e del modo brusco in cui si erano separate, forse definitivamente stavolta. Le parole all’iniziano uscivano con fatica, dure e pesanti come macigni, ma più parlava, più tirarle fuori diventava semplice, e quando finalmente anche l’ultimo peso ebbe abbandonato il suo petto, Zora si sentì più leggera.
«Tua sorella non ti ha mai capita» commentò Krsta, alla fine. «Mi ha sempre dato l’impressione di una donna con una mente terribilmente ristretta.»
«Secondo lei ho voltato le spalle alla famiglia» disse Zora, con amarezza. «Alle mie radici e…agli insegnamenti di Baba…»
«Tu sei nata per brillare» disse Krsta, in tono convinto. «Una donna così bella, così di talento merita di avere il mondo ai propri piedi. Penso che lei sappia quanto potere hai e che ne sia invidiosa.»
«É mia sorella» replicò Zora ma, in fondo al cuore, una piccola voce meschina gli diede ragione. Ebbe un attimo di incertezza. «Mia…mia madre mi ha raccontato una storia, sai? È piuttosto assurda ma…spiegherebbe come riesco a far capitare quegli “incidenti” durante le nostre sedute spiritiche.»
Lui la guardò con perplessità e lei tirò fuori dalla borsa il vecchio libro malandato di sua madre.
«Ah» fece subito Krsta, storcendo la bocca. «Cara, sai che rispetto le nostre differenze culturali, ma vuoi sul serio che ci mettiamo a leggere il Corano..?»
«Non è il Corano» disse Zora. «È un grimorio.»
«Un che?»
Lei prese un bel respiro. «Una…raccolta conoscenze tramandate nella mia famiglia da generazioni. Dalle donne, in particolare.»
Gli porse il tomo rivestito di pelle nera e lui prese a sfogliarlo, le sopracciglia aggrottate. «“Ogni cosa su questa terra è intessuta nella trama del mondo. Più forte è la Volontà dell’Evocatore, più profondo è il legame col Tutto e la sua capacità di controllarlo…”» Alzò la testa e incrociò i suoi occhi, la bocca dischiusa. «Zora, ma questo…questo non sarà mica un libro di magia?!»
Lei avvertì le guance scaldarsi, e di colpo si sentì stupida e patetica.  «So cosa pensi: è follia. Va contro tutto ciò che sappiamo, contro ogni pensiero razionale. Ma la magia esiste, Krsta. Quella vera, non le baggianate esoteriche in cui credono i Massoni, e neanche l’illusionismo da palcoscenico. E la mia gente un tempo era in grado di praticarla.»
«Stai dicendo» fece lui, con voce sorda. «Che quegli incidenti che fai capitare sono incantesimi?»
«Manipolazioni» lo corresse lei. «Così le chiamava Baba: impartire la propria Volontà alla materia, sentire dentro di sé come ogni elemento, dentro e fuori, debba ricongiungersi, trovare il proprio posto.»
Il modo insistente con cui lui la guardava iniziava a metterla a disagio. Conosceva quello sguardo, lo scintillio rapace nelle sue pupille quando fiutava un’opportunità di guadagno. «E tu pensi…pensi che grazie a questo libro potresti replicare queste manipolazioni? Renderle più potenti?»
«Forse.» Zora tormentò tra le mani il fazzoletto che lui le aveva offerto. «È possibile, suppongo. Con un po’ di esercizio, magari…»
Krsta si passò una mano tra i capelli, onde nere e setose come ali di corvo. «Tutto questo è…incredibile.»
Si alzò in piedi, iniziò a camminare avanti e indietro per la stanza, continuando a voltare le pagine. Zora provò una fitta di gelosia nei confronti del libro e avrebbe voluto che lui glielo restituisse, ma non voleva guastare quel momento di ritrovata complicità. Le sembrava quasi di essere tornata agli inizi del loro rapporto, quando ancora non avevano un posto in cui stare ed erano costretti a vedersi in segreto, e restavano a parlare per ore seduti al tavolo più appartato di una locanda, escogitando modi fantasiosi per spennare i polli di turno finché l’oste non veniva a cacciarli. Quando tutto ciò che possedevano erano pochi soldi in tasca e tanta ambizione.
Si rese conto di quanto le mancasse quella vita, il brivido della novità, l’emozione di essere per la prima volta parte di qualcosa. Di non sentirsi più così dannatamente sola.
«C’è una cosa che non comprendo» disse Krsta a un tratto. «Perché questa storia è venuta fuori proprio adesso? E come mai nella tua famiglia hanno sempre vissuto come dei morti di fame se avevano la capacità di…che ne so, raddoppiare il denaro, vivere in eterno…?»
«Non è così che funziona» sospirò Zora. «La magia non può creare cose dal niente. E i maghi sono esseri mortali.»
«Va bene, va bene, ammettiamo che esistano dei limiti» ribatté lui, ragionando in fretta. «Mi sembra giusto, dopotutto: da quel che leggo, mi sembra che l’approccio sia simile a quello scientifico.»
«Diciamo di sì» convenne lei. «“Comprendere il mondo per trasformarlo”, è una delle basi del pensiero alchemico. Come anche “il simile riconosce il simile.”»
«Ma non hai risposto alla domanda» obiettò Krsta, fissandola. «Perché tua madre e tua nonna non hanno mai usato la magia per rendere la loro vita…be’, migliore?»
Zora si incupì. «Per quello che ne so, la magia un tempo era parte di questo mondo, e le persone in grado di praticarla erano molte di più. Ma a un certo punto, alcuni maghi hanno deciso di tenere il sapere per sé, per egoismo. E hanno iniziato a rubare ad altri maghi considerati indegni le loro conoscenze. Finché non ne hanno causato l’estinzione.»
«Ah, come gli austriaci con il popolo serbo!» esclamò Krsta con rabbia. «C’è sempre chi si sente in diritto di prevaricare sugli altri, di rubare le loro risorse. Anche tra i maghi, evidentemente.»
Zora annuì piano. «Evidentemente.»
Lui tornò a sedersi accanto a lei. «Sai cosa penso? Penso che tu debba onorare la memoria di tua madre e di tua nonna. Se hanno voluto che tu avessi questo grimorio, vuol dire che credevano nel tuo potenziale.»
«Pensi che dovrei studiare la magia?»
«Ma certo! Immagina cosa saresti in grado di fare! Potremmo dire finalmente addio ai trucchi da prestigiatori! Nessuno oserebbe mai più darci dei ciarlatani!»
Lei ci rifletté su. Voleva davvero sfruttare le conoscenze tramandate nei secoli tra la sua gente per far soldi? Cosa avrebbe pensato Aisha di lei? Che era una poco di buono, certo. Ma quello lo pensava già…
«Potrebbe…potrebbe essere un’idea.»
«E poi» continuò Krsta, sfoggiando uno dei suoi sorrisi smaglianti. «Se diventassi abbastanza potente, potresti fare un gran bene a tanta gente, non credi? Saresti l’angelo vendicatore della Bosnia, la sua protettrice!»
Lei non riuscì a trattenere un sorriso ironico. «Ecco, ora è decisamente il vino a parlare.»
«Non sono mai stato più sobrio di così, mia cara. Non vorresti mettere fine alle sofferenze del nostro paese? Pungolando i malvagi col tuo corno appuntito, magari…[1]»
«La Babaroga mangia i bambini.»
«Allora sceglierò per te solo quelli più grassottelli.»
Zora si mise a ridere. La prima risata genuina dopo tanto tempo.
«Krsta» disse poi, tornando un momento seria, quasi insicura. «Secondo te potrei davvero riuscirci? A diventare una vera maga, voglio dire.»
«Penso che tu possa fare tutto quello che vuoi, golubice moja.»
 
 
Cominciò a studiare il grimorio già dal giorno seguente.
Le ci volle più tempo di quanto pensasse anche solo per decifrare cosa ci fosse scritto, perché nel corso degli anni il libro aveva avuto decine, forse centinaia di proprietari: tante mani diverse avevano ricoperto fittamente quelle pagine giorno dopo giorno, mani che ormai erano polvere, ma che avrebbero per sempre lasciato il proprio segno.  E da quel momento in poi, Zora sarebbe diventata una di loro. Anche lei, forse, un giorno sarebbe diventata immortale.
Krsta si dimostrò inaspettatamente incoraggiante. La lasciava studiare tranquilla anche fino a tarda notte, disturbandola solo per portarle un caffè o qualcosa da mangiare. Tutto quello zelo avrebbe dovuto insospettirla, forse, ma il grimorio aveva completamente risucchiato l’attenzione di Zora: ci pensava di continuo, di giorno e di notte, anche quando non aveva l’opportunità di dedicarvisi. Occupava la sua mente quando lavorava, attorniata da clienti in lutto, o quando sedeva nei café letterari, e persino quando, a letto, Krsta era sopra di lei che ansimava di piacere e la mente di Zora era libera di volare altrove.
La affascinava leggere di come le sue antenate parlassero della magia, aveva l’impressione che, guardando il mondo attraverso i loro occhi, apparisse come un luogo molto più bello e complesso, un maestoso ingranaggio composto da migliaia e migliaia di piccole componenti che operano in perfetta armonia. Secondo un unico disegno.
Una sua omonima, una certa Zorya Polunochnaya, aveva scritto più di duecento anni prima un passo in cui paragonava la Terra a un golem plasmato dalle forze della natura; la magia permetteva al golem di respirare, di muoversi e di parlare, ma ciò che lo rendeva davvero vivo era la Volontà del mago. Era quello il segreto, ciò che rendeva possibile l'impossibile: la calma determinazione che solo chi ha compreso quale sia il proprio posto nel mondo può possedere. “…Perché, in fondo, non siamo forse noi tutte le cose?”
Così, una volta compreso come la magia agisse, Zora decise di iniziare a mettere la teoria in pratica.
In quei giorni ruppe un numero imprecisato di oggetti, per lo più specchi, vasi e bicchieri. La parte più difficile era mantenere saldo il controllo, tirare fuori quel potere che le scalpitava dentro e imbrigliarlo stretto affinché seguisse le sue direttive. Non era semplice, bastava perdere la concentrazione anche solo per un istante perché il potere la disarcionasse come un cavallo imbizzarrito e si mettesse a fare il diavolo a quattro.
Le domestiche erano spaventate dai rumori che sentivano echeggiare per tutta la casa agli orari più assurdi, e forse pensavano di aver sottovalutato cosa significasse lavorare per una donna in grado di parlare con gli spiriti e anche di scatenare la loro furia.
“Lei cammina al fianco del Diavolo, signora” le aveva sussurrato una mattina la più giovane, mentre serviva la colazione, guardandola come se lei stessa fosse uno spettro. “Ed è pericoloso stargli così vicino”.
Krsta riuscì a convincerle che il lavoro avesse messo a dura prova i loro nervi e concesse loro una settimana di vacanza: per evitare che la disturbassero, o più probabilmente, affinché spargessero la voce sui misteriosi fenomeni che avvenivano in quella casa per aumentare ancora di più la loro fama.
Nel frattempo, Zora non poté esimersi dagli impegni lavorativi, ma su suggerimento di Krsta decise di sfruttare le sedute spiritiche per esercitarsi: non aveva più bisogno dell’intervento del suo complice per fare in modo che i tavoli si muovessero da soli, o per far credere che gli spettri bussassero sulle pareti riccamente tappezzate dei salotti signorili. Osservava attentamente le reazioni dei clienti da sotto il suo velo di tulle, e ogni tanto sorrideva compiaciuta alle loro espressioni estasiate o sconvolte.
«Non esagerare» la rimproverò una volta Krsta, dopo che una loro cliente aveva avuto una crisi di pianto perché Zora aveva fatto cadere a terra l’urna funeraria del marito, divertendosi poi a far fluttuare le sue ceneri per la stanza. «Mancava poco che ci cacciasse senza aver pagato!»
Oltre alla telecinesi, Zora scoprì di avere una spiccata propensione per la preparazione di pozioni: il grimorio conteneva pagine e pagine di ricettari, combinazioni di ingredienti spesso abbastanza banali, facilmente reperibili dal droghiere o in erboristeria, ma che combinati nella giusta maniera e con le adeguate dosi, potevano restituire effetti strabilianti. Ad esempio, un determinato composto, sciolto nel tè, creava in chi lo beveva una potente allucinazione, visioni di angeli e demoni che si davano battaglia sul soffitto.
Fecero un sacco di ottimi affari in quel periodo, con grande soddisfazione di Krsta e con uno sforzo praticamente nullo da parte di Zora: in passato, dopo che usava il suo talento si sentiva stremata e assalita da terribili giramenti di testa e nausee. Ma adesso, più praticava la magia e più si sentiva bene, appagata e piena di energia. Forse era dovuto al fatto che ormai non aveva più paura di quel potere. O forse, come aveva scritto Zorya Polunochnaya, perché anche lei sentiva di aver finalmente trovato la propria voce, un ruolo nel grande ingranaggio che muoveva il mondo.

 
Era già passato un mese da quando aveva iniziato a dedicarsi alla magia quando Krsta, rientrato a casa molto tardi, disse di avere una proposta da farle:
«Siediti, per favore» le disse, conducendola alla poltrona. Aveva bevuto, constatò subito lei, e appariva piuttosto agitato.
«Krsta, va tutto bene? Dove sei stato?»
«Ero con degli amici» borbottò lui, versandosi un bicchiere di rakija[2] da una delle bottiglie nella credenza. «Rivangavamo i tempi dell’università, sai, come si fa in certe occasioni. All’epoca eravamo così giovani, pieni di idee. Pensavamo di poter cambiare il mondo.»
Posò la bottiglia sul tavolo, mandò giù il contenuto del bicchiere tutto d’un fiato.
«E parlare dell’università ti ha ridotto così?» domandò Zora. Sentiva una strana inquietudine sfarfallarle nel petto.
«No, ma…il fatto è che sembra passato così tanto tempo da allora.» Krsta si passò una mano fra i capelli, arruffandoseli, e si versò dell’altra rakija con un gesto meccanico. «Ilić si è arruolato, lo sai? Come volontario, nell’esercito serbo. Ha combattuto durante la Seconda guerra balcanica. È un patriota, cazzo! E Vladimir, ha studiato in Svizzera, lì ha stretto legami coi socialisti russi…anche lui, arruolato come volontario.»
Un altro sorso andò giù e Krsta deglutì rumorosamente. «Ero lì ad ascoltare e.…e a un tratto mi sono detto: che cosa ho realizzato io? Cosa ho fatto per il mio Paese in tutti questi anni?»
Zora lo ascoltò con attenzione, domandandosi dove quel discorso li avrebbe portati.
«Ci sono cose che non ti ho detto sul mio passato» disse Krsta, dopo un momento. «Del periodo in cui ho lavorato alla tipografia. Lì c’era un tizio, Nedeljko, un ragazzo brillante, con idee rivoluzionarie. Insieme, stampavamo opuscoli anarchici e li distribuivamo sottobanco.»
«Krsta» sussurrò Zora, ma lui non aveva finito.
«Nella nostra mente era il piccolo contributo di due ragazzi qualunque per mantenere vivo lo spirito di questo paese, un modo per far sentire la nostra voce. Al contrario di me, Nedeljko, Vlad, Ilić, loro non hanno mai smesso di combattere.»
Krsta si voltò a guardarla e le rivolse un sorriso lento, stanco e allo stesso tempo ricolmo di speranza. «Dicono che c’è ancora un posto per me. Che mi vogliono coinvolgere in un grande progetto! Non si sono dimenticati delle mie idee e, anzi, ritengono che possa dare un valido contributo…»
«Un contributo per che cosa?» chiese Zora, con voce tesa.
Krsta le venne vicino, si inginocchiò, le prese le mani tra le sue. «Rendere la Bosnia libera dagli austriaci! Un grande paese, unito, indipendente! Per quanti anni abbiamo dovuto ingoiare i soprusi dei nostri oppressori? Per quanto tempo i nostri padri sono rimasti in silenzio mentre gli stranieri invadevano le nostre terre coi loro eserciti? Loro hanno deciso di restare a guardare. Ma noi…» Gli occhi gli brillavano di cocente entusiasmo mentre pronunciava quelle parole. «Noi siamo la Mlada Bosna[3], siamo l’avvenire! Se non facciamo qualcosa, chi lo farà, Zora? Chi fermerà gli oppressori?»
Lei aprì la bocca, sbalordita. «Krsta, io penso che tu abbia bevuto a sufficienza per stasera. Dormici su, è tardi…»
«No, sto parlando seriamente!» esclamò lui, afferrandola ora per le spalle. «Vederti così entusiasta per la magia mi ha fatto riflettere! Tu stai onorando le tue radici, ti stai ribellando a chi ha negato alla tua gente il potere! Arcanta ha tolto a chi non ha accettato il suo comando il sapere, come l’Austria ha tolto ai Popoli Balcani la possibilità di essere autonomi. Dicono di volerci portare la civiltà, il progresso e invece…invece ci hanno resi di loro proprietà!»
«Va bene» disse lei. «Ho capito, sei arrabbiato e vuoi fare la tua parte: ma in che modo? Cosa puoi fare tu per la Bosnia?»
«Io? Nulla, probabilmente.» Gli occhi di onice di Krsta si fissarono nei suoi, vivi e ardenti come non lo erano mai stati. «Ma insieme a te, noi possiamo salvare la Bosnia. Diventare degli eroi!»
Le si bloccò il respiro. «Che cosa stai dicendo? Krsta, non avrai mica parlato questi…a questi tuoi "amici" anarchici del fatto che sono una strega?!»
«Non essere sciocca!» sbottò lui, accigliandosi. «Sono intellettuali, l’ultima cosa che voglio è che mi prendano per un malato di mente! Però hanno visto con che abilità riusciamo a convincere la gente, come tu affascini gli altri! Pensaci, siamo partiti dal niente e siamo arrivati nelle case di uomini d’affari, aristocratici, persino alla corte dello zar! E se riuscissimo ad arrivare ancora più in alto, potremo addirittura tagliare la testa al drago. O almeno, bastonarlo a dovere.»
Zora decise che ne aveva abbastanza delle metafore. In realtà, l’intera discussione aveva acquisito una piega che non le piaceva per nulla. «E di che genere di drago stiamo parlando, in particolare?»
«Dell’erede al trono imperiale» sussurrò lui, facendosi più vicino. «L’arciduca Francesco Ferdinando.»
 
 
 
 
 

[1] Babaroga: spauracchio della tradizione serba, affine per alcuni aspetti alla Baba Yaga russa. Viene rappresentata come una vecchia con un corno sulla fronte.
[2] Rakija: superalcolico simile alla grappa, popolare nei Balcani.
[3] Mlada Bosna: Giovane Bosnia, un'associazione politico-rivoluzionaria il cui obiettivo era liberare la Bosnia ed Erzegovina dal dominio dell'Impero austro-ungarico e annetterla al regno di Serbia.

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Capitolo 10
*** I soldati ***



I SOLDATI

 

 
 
 
La Panne, maggio 1915
 
 
Una settimana dopo il passaggio del Taube tedesco, ci furono alcuni giorni di inconsueta calma. Certo, all’Ambulance de L’Océan c’era sempre un sacco di lavoro e i soldati continuavano ad arrivare, ma recavano per lo più di lievi ferite ed erano tipi piuttosto allegri; molti venivano da Londra, e il loro umorismo cockney[1] alleggeriva il morale a tutti, persino a Fanny Bouchard.
Approfittando del clima più disteso, Gwen propose ad Abigail di strappare un paio d’ore di permesso al loro caporeparto; così, una mattina, lasciarono nell’armadio le divise e vestirono i panni civili per fare una passeggiata in città.
Piazze e strade brulicavano di vita militare; s’imbatterono in truppe di Marines inglesi, che sollevavano i berretti in segno di saluto al loro passaggio, e anche in qualche altezzoso corazziere francese, dritto a cavallo col suo elmo lucente e il pennacchio rosso e nero.
In un accampamento separato rispetto alle altre unità, i soldati mori provenienti dalle colonie francesi in Nord Africa bevevano tè attorno ai loro bivacchi o badavano ai cavalli; ne avevano così tanto sentito parlare che Gwen insistette per passare lì davanti a tutti i costi e vederli coi propri occhi.
«Non sembrano dei selvaggi come dicono» commentò Gwen, impressionata dalle lunghe barbe nere e dalle fluenti vesti bianche.
«Come dicono chi, scusa?» chiese a quel punto Abigail.
«Be’, gli scienziati, immagino!»
Abigail aggrottò la fronte. La stupiva sempre che i Mancanti dessero così tanta importanza alle differenze tra popoli; ad Arcanta, nessun mago badava al colore della pelle o al paese di provenienza, tutti si consideravano Cittadini in egual misura, e da più di mille anni tra loro regnava la pace.
Se solo le persone comprendessero quanto li accomuna, invece che soffermarsi su cosa li renda diversi, rifletté. Forse non esisterebbero più guerre…
In questo, la sua razza aveva molto da insegnare ai Mancanti. Però, subito dopo pensò all’odio con cui suo padre parlava dei Senza Poteri, e al sentimento di paura che i Decani nel corso dei secoli avevano alimentato nei riguardi di tutto ciò che esisteva al di fuori dalle mura di Arcanta. E comprese che, in realtà, i maghi non erano affatto migliori come credevano di essere…
Camminando a braccetto, le due ragazze superarono le stalle, i magazzini e il municipio, che ospitava, oltre all’armeria e al quartier generale degli alti ranghi dell’esercito, anche le prigioni e un’area adibita alle esecuzioni pubbliche, che però, fortunatamente, non era mai stata utilizzata.
Si fermarono in una piccola locanda piena di militari rumorosi, non lontana dalla spiaggia; scelsero un tavolino appartato accanto alla finestra, da cui, oltre i vetri impolverati, si aveva una bella vista delle dune, e ordinarono caffè nero e waffles.
Per un attimo, mentre ascoltava l’allegro chiacchierio di Gwen e si godeva il suo dolce, Abigail riuscì ad accantonare il pensiero della guerra, dei feriti e la paura di suo padre in un angolo recondito della propria mente. Si chiese se, una volta finito il conflitto, quella sarebbe potuta diventare la normalità anche per lei, bearsi dei piccoli, semplici piaceri della vita. Dopotutto, le sembrava che anche in questo ci fosse un po’ di magia.
Più tardi, Gwen disse di voler passare dall’ufficio postale per spedire alcune lettere a casa, così Abigail si avviò sola verso la clinica.
Era una splendida giornata primaverile, calda e ventilata; perciò, pensò di tagliare per la spiaggia e camminare a piedi nudi sulla sabbia riscaldata dal sole, col sottofondo musicale della risacca. Un latrato di fucili proveniente da dietro un massiccio di dune segnalava che dei soldati erano impegnati nelle esercitazioni di tiro, e Abigail si tenne a debita distanza, ma, mentre era china sulle scarpe da annodare, sentì qualcuno chiamarla:
«Cosa fa tutta sola da queste parti, miss?»
Abigail si raddrizzò immediatamente e si voltò.
Due ufficiali inglesi di grado tenente erano comparsi da dietro una duna: uno era alto e baffuto, l’altro aveva una brutta cicatrice che correva lungo il lato destro della faccia, attraversandogli l’occhio, ed entrambi la stavano fissando in un modo che non le piaceva.
«Niente, passeggiavo» rispose Abigail, recisamente. «Buona giornata, signori.»
Diede loro le spalle e riprese in fretta il cammino, ma i due soldati la seguirono.
«Preferiremmo accompagnarla, se non le dispiace» si offrì quello con la cicatrice, affiancandola. «Potrebbero esserci dei malintenzionati, qui intorno.»
«Altroché» convenne l’altro, sorridendo mentre se la divorava con gli occhi. «Fortuna che l’abbiamo trovata prima noi!»
E, senza mezzi termini, le circondò le spalle con il braccio. Abigail avvampò fino alla punta dei capelli, sentendosi di colpo piccola e fragile come una piuma.
«G-grazie, ma non ce n’è bisogno…» Provò a sgattaiolare via, ma l’altro ufficiale le si piazzò davanti.
«Quanta fretta! Non ci ha neanche detto come si chiama. Un po’ maleducato da parte sua, vero George? Considerando che stiamo rischiando la pellaccia anche per lei!»
Abigail indietreggiò, il corpo attraversato da una scossa di paura. Era circondata da alte pareti di sabbia e giunchi spinosi, e i colpi di fucile in lontananza coprivano qualsiasi altro rumore. Se avesse urlato, qualcuno l’avrebbe sentita?
«Direi di sì» ridacchiò l’altro. «Ma tu guarda che musetto adorabile! È proprio una bambolina.»
La marcarono stretta, continuando a sogghignare. Abigail si impose di non cedere al panico e nascose una mano dietro la schiena. Le sarebbe bastato poco per togliersi dagli impicci. Una leggera torsione del polso e avrebbe spezzato loro una gamba. Uno schiocco di dita e si sarebbero piegati a terra in preda a conati di vomito…
O almeno, così c’era scritto sui libri di magia difensiva. Peccato che quel che le era sempre mancato fosse la pratica…
«P-per favore» balbettò, mentre chiamava a sé il potere, il cuore che le batteva fuori controllo. «Non costringetemi…!»
«Lasciatela stare!»
Una voce li fece voltare tutti e tre.
«Tu che cazzo vuoi?» reagì brusco quello con la cicatrice.
La voce apparteneva a un giovane sottoufficiale, che stava risalendo il sentiero tra le dune e, nel riconoscerlo, Abigail ebbe un tuffo al cuore. Era uno dei due caporali irlandesi che avevano accompagnato l’amico ubriaco alla clinica circa una settimana prima. Quello coi capelli rossi, Tom Doherty.
«Sembra che la signorina non gradisca la vostra compagnia» disse con freddezza il caporale. «Perché non tornate alle vostre faccende?»
I due ufficiali si scambiarono uno sguardo divertito.
«Ha la lingua lunga questo fotti-pecore!» commentò quello coi baffi, indicando le insegne che decoravano la sua uniforme. «Non serve che le ricordi chi comanda qui, vero caporale?»
«No, non serve.» Il mento di Tom Doherty si sollevò testardo, mentre stava coi piedi ben piantati di fronte ai due ufficiali. «Ma forse a voi due qualcuno deve ricordare che il nostro compito è proteggere le persone!»
L’espressione dell’ufficiale si indurì e la sua mano corse subito alla pistola. Abigail trattenne il respiro, pronta a intervenire.
«Bada a come parli, ragazzino!» gli intimò, avanzando minaccioso. «Non ci metto niente a sbattere il tuo brutto muso in cella per insubordinazione!»
«Allora dovrà sbattere in cella un bel po’ di brutti musi!» intervenne un'altra voce. Un folto gruppo di soldati accorse dalla spiaggia, imbracciando i fucili. Tra loro, vi erano anche James Finnegan e il compagno che si era ubriacato per un amore non corrisposto, Pàdraic.
«Adesso come la mettiamo, tenente?» lo sfidò James, mentre assieme agli altri fucilieri si schierava al fianco di Tom e Abigail. «Le assicuro che non è saggio mettersi contro un reggimento di irlandesi pazzi e incazzati.»
L’ufficiale baffuto evidentemente gli credeva sulla parola, perché abbassò l’arma.
«Zotici del cazzo!» ringhiò alla fine, sputando per terra. Fece un cenno al suo collega e insieme batterono in ritirata.
A quel punto, James si volse sorridente verso Abigail e le fece l’occhiolino. «Come va, miss? Gliel’avevo detto che siamo al suo servizio!»
Abigail era senza parole.  Guardò quel gruppo di ragazzi, tutti appena maggiorenni, che ora ridevano tra loro e commentavano entusiasti l’accaduto, come se aver tenuto testa a due superiori li avesse in qualche modo resi degli eroi:
«Avete visto che faccia hanno fatto? Se la stavano facendo sotto!»
«Ben gli sta, così ci pensano due volte a fare i gradassi!»
«Che vigliacchi, in due contro uno!»
La ragazza scosse piano la testa. Poi girò i tacchi e si allontanò.
«Miss, Abigail! Aspetti!»
Era Tom Doherty. Lo stomaco di Abigail fece una capriola, ma lei continuò a camminare guardando dritto di fronte a sé, mentre i passi di lui affondavano pesanti nella sabbia. «Sì?»
«Le chiedo scusa» ansimò il soldato, che non doveva trovare affatto pratico correre sulla spiaggia con indosso l’equipaggiamento militare e il fucile. «Non voglio importunarla, solo accertarmi che stia bene…»
«Sto bene.» Abigail aveva quasi raggiunto la strada asfaltata, quando si voltò a guardarlo con la sua espressione più severa. «Avevo la situazione sotto controllo, caporale, il suo intervento non era necessario. Si è solo messo in cattiva luce di fronte ai suoi superiori. Il che, se lo faccia dire, è stato piuttosto sciocco!»
«Avrei di sicuro trovato qualche altro modo per mettermi in cattiva luce» disse Tom. «Come portare Pàdraic ubriaco alla clinica. Volevo scusarmi con lei per l’accaduto. È stata gentile con noi, spero non sia finita nei pasticci per questo.»
Lei ripensò alle cattiverie subite da Fanny Bouchard nell’ultimo periodo: proprio come per i due ufficiali, anche a quella donna era servito solo un pretesto per renderle la vita difficile. E Abigail gliel’aveva offerto senza pensarci due volte.
«Abbiamo entrambi preso decisioni poco intelligenti, ultimamente.»
Sul volto pulito e imberbe del giovane si aprì un gran sorriso e, ancora una volta, Abigail si sentì pervadere da una sensazione strana, anche se non poteva definirla spiacevole; come se il suo corpo all’improvviso faticasse a risponderle.
«Voi irlandesi non piacete molto agli altri soldati» constatò.
«Non ci piacciamo molto neanche tra di noi, temo» ribatté lui con ironia, e quando Abigail lo guardò interrogativa, spiegò: «Nel mio Paese si combatte da anni, Cattolici contro Protestanti, Repubblicani contro Unionisti. Se c’è una cosa buona che la Guerra ha portato, è che ha costretto gli irlandesi a collaborare.»
Abigail ricordò di aver letto sui giornali delle rivolte scoppiate per le strade di Dublino e dei disordini iniziati dopo l’introduzione dell’Home Rule.[2] Ancora spargimenti di sangue tra membri della stessa specie, e sempre per lo stesso motivo: dimostrare di essere superiore all’altro…
«Quindi, è per questo che si è arruolato?» chiese Abigail. «Pensa che questa guerra sia giusta?»
«Penso che non esista una guerra giusta» rispose Tom, facendosi per un momento scuro in viso. «Ho visto il dolore che provoca, uomini cresciuti nello stesso quartiere che cercano di accoltellarsi a vicenda, intere famiglie divise... Però i prepotenti non mi sono mai piaciuti, e i tedeschi se la stanno prendendo con gente che non ha fatto loro nulla. E nemmeno questo è giusto.»
La risposta colpì Abigail, che si trovò a sorridere a sua volta. «Spero che nel suo Paese smettano di combattere, prima o poi.»
«Grazie. Lo spero anche io.»
Rimasero a guardarsi negli occhi per qualche istante, quando dalla cittadina giunse il disarmonico coro delle campane. Si era fatto mezzogiorno.
Abigail si riscosse. «Ehm, io… adesso dovrei tornare alla clinica.»
«Certo» replicò Tom, sommessamente. Batté i tacchi degli stivali e le rivolse un saluto militare. «I miei omaggi, miss. È stato bello parlarle.»
Fece dietrofront, ma mentre si allontanava, lei disse, ad alta voce. «Grazie, per poco fa, comunque.»
Il ragazzo si volse a guardarla, sorpreso.
«Non avevo bisogno di aiuto» si affrettò a precisare lei, arrossendo leggermente. «Ma l’ho comunque apprezzato.»
Tom le rivolse uno dei suoi sorrisi luminosi e un piccolo inchino, e si congedò.
 

Qualche giorno dopo, Abigail si trovava in lavanderia assieme a Gwen e ad alcune altre infermiere, intente a smacchiare e ricucire uniformi. Augusta stava raccontando alle amiche di come lei e il suo fidanzato, Paul, si erano conosciuti a Bristol, nel negozio di cappelli di famiglia dove lavorava:
«Era adorabilmente imbranato!» ricordò con nostalgia. «Ci ha messo un mese intero per trovare il coraggio di chiedermi di uscire: alla fine, suo cugino l’ha praticamente trascinato al negozio con una scusa per venire a parlarmi!»
«Sei fortunata» commentò Gwen. «Da dove vengo io, i ragazzi erano tutti dei buzzurri ubriaconi che allungavano le mani!»
Abigail si limitava ad ascoltare, cercando di impedire ai suoi pensieri di indugiare troppo a lungo su Tom Doherty. Ad Arcanta le era capitato di parlare con dei ragazzi, rampolli di famiglie importanti di Sanguepuro, ma il più delle volte erano talmente concentrati su loro stessi, sui loro traguardi negli studi e sulla carriera da intraprendere alla Cittadella, che più che delle vere conversazioni, somigliavano a dei monologhi: nessuno di loro sembrava particolarmente interessato a quello che lei aveva da dire…
A quel punto però, fu Fanny Bouchard a intervenire: «Anche la nostra Abigail ha un corteggiatore, lo sapevate?»
Le altre si voltarono in sua direzione e Abigail cascò letteralmente dalle nuvole: «Ehm, cosa..?»
«Ooh, davvero?!» esclamò Gwen, tutta eccitata. «Perché non ci hai detto niente? Chi è, lo conosciamo?»
Il volto di Abigail andò a fuoco. «Non ho nessun corteggiatore!»
«Ah, no?» fece Fanny, sorridendo con perfidia. «E che mi dici di quel bel tommy [3] coi capelli rossi che è venuto alla clinica qualche settimana fa? Ho sentito dire che vi siete dati appuntamento alla spiaggia, di recente.»
Abigail le scoccò un’occhiataccia. Come diamine faceva a saperlo? «Non so cosa tu abbia sentito, ma non c’è niente di vero.»
«Se lo dici tu.» Fanny scrollò le spalle. «Un vero peccato, se posso dirlo: è proprio carino. E poi si sa, quando gli uomini vanno in guerra, un po’ di compagnia femminile non può che far bene all’umore.» Il suo odioso sorrisetto si fece più ampio, mentre aggiungeva con malizia: «Se non sei interessata, mi offro volontaria io: chissà se è rosso anche sotto la cintura...»
La rabbia montò in Abigail in un baleno, tanto che quasi non si accorse di aver liberato il suo potere. Infatti, non riuscì a impedire che una delle lampadine appese sopra la testa di Fanny esplodesse, inondandola di pezzi di vetro. La ragazza urlò e si fece indietro con un balzo, mentre le altre infermiere accorrevano per rimuoverle le schegge dai capelli.
Spaventata, Abigail lasciò il bucato e corse via.
«Tu! Fermati!»
Fanny le venne dietro a grandi passi lungo il corridoio, facendo da parte inservienti e personale ospedaliero.
Abigail non ne poteva davvero più di lei. «Si può sapere che cosa vuoi da me? Perché continui a darmi il tormento?»
Fanny si fermò a circa un metro di distanza, le mani ai fianchi. «Voglio che tu sappia che non mi piaci neanche un po’, Thorn. E poi, che mi dica la verità su cosa ci fai qui all’Océan! Chi ti manda?»
«Come sarebbe a dire “chi mi manda”?» sbottò Abigail, innervosendosi. «Credi sul serio che sia una spia? Mi sono offerta volontaria come tutte voi! Il primario di Norwich mi ha notata e…»
«Mio padre conosce il dottor Davenshaw» la interruppe Fanny. «Erano compagni di studi: gli ho scritto perché facesse qualche ricerca sul tuo conto.»
Abigail la fissò, costernata. «Tu cosa?
«E a quanto pare, a Norwich nessuno sa niente di te» continuò Fanny. «Sei letteralmente saltata fuori dal nulla: nessuna referenza, nessun diploma, cosa sei un fantasma? Perché non esistono dossier su di te o sulla tua famiglia? E dov’è che hai studiato infermieristica?»
«Oh, non ci posso credere!»
«Chi sei in realtà?» domandò Fanny in tono inquisitorio, assottigliando lo sguardo. «Ti conviene dire la verità, Thorn: mio padre è Eugene Bouchard, un medico di fama internazionale, amico di Sua Maestà! Gli basta una parola per far saltare fuori tutti i tuoi maledetti scheletri nell’armadio!»
Abigail la fissò, senza riuscire a credere alle proprie orecchie. Perché le stava facendo questo? «Vuoi sapere la verità?» chiese poi, con rabbia. «Sono nata a Dalefern, ai piedi delle Pennine Hills: la mia famiglia possedeva terre e miniere laggiù, e sì, anche uno stemma nobiliare, se vuoi saperlo. Sono nata ricca, ma in una casa che somigliava più a una prigione. Mia madre è morta poco dopo la mia nascita, ho dovuto studiare di nascosto da mio padre, perché l’importante per lui era che mi sposassi in fretta e che sfornassi una nidiata di eredi. Sono scappata di casa, ho ricominciato da capo e la mia vita è iniziata a Norwich. C’è altro che vuoi sapere o ti basta?»
Fanny la fissò per un momento, l’espressione tesa. «È impossibile, non puoi venire da Dalefern.»
«Incredibile, vuoi contestare pure questo!?»
«Dalefern è un paese fantasma» mormorò Fanny, senza smettere di fissarla come se fosse un alieno. «Il terremoto del 1896, chiunque in Inghilterra conosce quel fatto di cronaca…non è sopravvissuto nessuno.»
«Infatti.» Abigail sollevò il mento, con sfida. «Io sono l’unica!»
E, senza aggiungere altro, le voltò le spalle e se ne andò il più velocemente possibile, prima che Fanny ritrovasse la voce e le ponesse altre domande, domande a cui non avrebbe saputo dare risposta.
Perché sì, il villaggio di Dalefern non esisteva più ormai da diciannove anni, inghiottito un giorno dalla terra, inaspettatamente, misteriosamente, e con esso tutti i suoi abitanti.
Ma quello che nessuno poteva sapere era che il responsabile di quell’evento era un mago: l’Inquisitore Tibor Blackthorn. Suo padre.


 
 
[1] Dialetto tipico della classe proletaria di Londra, in particolare della zona est.
[2] L'Home Rule fu un progetto per dare autonomia interna all’Irlanda, pur rimanendo sotto la protezione della Corona britannica. Nel 1912, il primo ministro Herbert Henry Asquith presentò il Terzo Home Rule Bill, approvato nel 1914 ma congelato a causa dello scoppio della Prima guerra mondiale.
[3] Gioco di parole: il termine tommies era usato per indicare i soldati semplici dell’esercito britannico. Durante la Prima guerra mondiale, i tedeschi chiamavano un ipotetico "Tommy" attraverso la terra di nessuno se volevano parlare con un soldato britannico.

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Capitolo 11
*** L'umiliazione ***


 


L’UMILIAZIONE

 
 
Arcanta, maggio 1914
 
 
 
Solomon sentiva che i postumi della sbornia non gli erano passati del tutto.
Un’emicrania martellante continuò a tormentarlo per il resto della mattinata, e di sicuro dover assistere a quella ridicola scenata non aiutava:
«È solo colpa tua!» continuava a strepitare Jorge, con voce abbastanza acuta da trapanare i timpani di Solomon. «Se mi stai appiccicato, è chiaro che mi deconcentro!»
«Non sapresti evocare qualcosa di decente neanche con tutto lo spazio del mondo» ribatté Cillian, furibondo. «Gesticoli come un dannato, ci mancava poco che mi cavassi un occhio!»
«Ripetilo e ti trasformo in un orologio a cucù…!»
«Che sarebbe comunque meno fastidioso di voi!» sbottò a quel punto Solomon, stringendosi la radice del naso.
I due allievi ammutolirono.
L’Arcistregone dell’Ovest staccò la schiena da una delle colonne del porticato che chiudeva il cortile e prese a camminare in mezzo ai suoi studenti, con Wiglaf sulla spalla.
Esaminò i risultati degli incantesimi appena eseguiti, mentre i sei adolescenti attendevano che esprimesse il suo verdetto: se ne stavano impettiti nelle redingote di velluto blu e ricami d’argento della Corte dei Sofisti, di fronte alla fila di zucche che avrebbero dovuto trasfigurare in cocchi da parata.
Peccato che la maggior parte somigliassero a poltiglie rigurgitate da un gatto. Tutte eccetto quella di Marco: la sua aveva direttamente preso fuoco.
«Approssimativo» decretò Solomon. «Dimmi, Jasper, pensi di aver fatto un lavoro accettabile?»
«Non lo so» fece il ragazzo, con un’alzata di spalle. «Forse sì, maestro.»
«Mm, quindi andresti a prendere una ragazza a bordo di questo coso? Tu sì che avrai successo.»
Jasper avvampò. «Ecco, era un incantesimo difficile…»
Gli altri ragazzi sghignazzarono.
«Fossi in voi avrei poco da ridere» li fulminò Solomon. «Tra due settimane sarete chiamati a esibirvi di fronte alla Città, per l’Anniversario della Fondazione: spero che non intendiate presentare questo scempio ai Decani. O peggio, ai vostri genitori.»
I sorrisi evaporarono all’istante dai loro volti, sostituiti da espressioni nervose.
«Gli occhi di tutta Arcanta sono puntati su di voi» li ammonì il maestro, duramente. «La Corte dei Miraggi stupirà tutti con le sue illusioni, gli allievi di Boris Volkov si presenteranno con le solite spacconate acrobatiche e le damigelle della Corte dei Sussurri…be’, a loro basta poco per far parlare di sé.»
A volte si domandava che male avesse fatto per meritarsi una classe del genere: Cilian Abernathy, Caleb Goldbring, Marco Ravenna, Jasper Montague, Jorge Santos e Stephen Marlowe appartenevano ad alcune delle più importanti famiglie di Arcanta, ed erano viziati, arroganti e litigiosi all’inverosimile. Solomon aveva fatto del suo meglio per trasmettere loro la passione per il sapere e affilarne le giovani menti, nella speranza che potessero cambiare la società, ma sembrava che non entrasse nulla in quelle teste vuote, più preoccupate di partecipare al prossimo evento mondano che di ottenere punteggi decenti ai test.
La verità era che non possedevano alcuna ambizione. Nessun estro creativo, nessuna personalità. In fondo, a che serviva? Avrebbero trascorso le loro esistenze tra party e divertimenti, sposato delle damine per bene, accuratamente selezionate dai genitori, che non avrebbero nemmeno amato, ma su cui avrebbero fatto pressione affinché sfornassero almeno un erede…
Solomon si massaggiò la tempia, chiedendo almeno al mal di testa un po’ di tregua. «Lucia, ti dispiace dare una dimostrazione?»
L’assistente, rimasta in disparte per tutta la lezione, lasciò la panca su cui era seduta a prendere appunti; era l’unica presenza femminile, e, sebbene fosse l’ultima arrivata, distanziava notevolmente gli allievi per età. Inoltre, non indossava l’uniforme della Corte dei Sofisti, ma una semplice veste nera su cui era cucita all’altezza del cuore una grande S scarlatta.  
S di Sanguemisto. In modo che chiunque ad Arcanta capisse subito cosa era e se ne tenesse alla larga.
Lucia si posizionò di fronte a una grossa zucca, mentre i sei ragazzi la scrutavano imbronciati. Disegnò un ampio cerchio con le braccia e le allargò, come un direttore d’orchestra che esegue una sinfonia. Guidata dai movimenti delle sue mani, la zucca tremò, poi iniziò a crescere in un vorticare di tralci e fogliame; in pochi istanti, si tramutò in un coupé barocco, ricoperto da delicate decorazioni vegetali e foglie d’oro.
Solomon annuì, sentendo finalmente nascere un moto d’orgoglio. «Grazie, Lucia. Un’esecuzione eccellente.»
Lei abbassò le braccia; la sua pelle splendeva dell’energia che l’uso della magia conferiva, mentre cercava di camuffare un sorriso di piacere.
Solomon estrasse l’orologio. Per quel giorno, ne aveva abbastanza. «Ci toccherà ripetere l’argomento Trasmutazione Vegetale. Di nuovo. Per la lezione di domani rileggete attentamente il capitolo dodici di Ars Magna. È tutto, levatevi dai piedi.»
Gli studenti infilarono i grimori nelle borse e lasciarono in fretta il cortile, brontolando.
Lucia affiancò il maestro. «Sono migliorati.»
«Spiritosa.»
«Almeno stavolta non è esploso niente.»
«Sono terribili» disse Solomon, disperato. «Tutti loro. Degli ottusi figli di papà. Esattamente come lo erano i genitori.»
«Non puoi fargliene una colpa se sono stati cresciuti così.»
«E il Decanato continua a trattarci come i suoi fenomeni da baraccone» sibilò lui, scuotendo la testa. «Trasformare zucche in carrozze! Seriamente? A che diamine serve?!»
Sospirò, e con un gesto distratto comandò a giacca, cappello e bastone, che aveva lasciato a fluttuare poco distante, di raggiungerlo. «Facciamo due passi, ho bisogno di prendere aria.»
La Corte dei Sofisti era un elegante palazzo in stile palladiano, composto da peristili e corridoi in marmo bianco abbelliti da statue; gli Arcistregoni dell’Ovest che si erano succeduti nei secoli avevano cercato di ispirarsi il più possibile alle accademie dell’Atene classica, culla delle arti, del pensiero filosofico e politico. Peccato che di tutto ciò non fosse rimasto proprio nulla, se non una ridicola caricatura…
“La vita è una commedia, Solomon” gli aveva detto una volta il suo maestro, Absalom Grey. “In cui tutti noi siamo chiamati a recitare una parte”.
La Corte si affacciava su una distesa di giardini all’italiana, un labirinto di siepi potate a forma di creature mitologiche, zampilli d’acqua e alberi che lasciavano risuonare dolci melodie ogni volta che il vento ne scuoteva il fogliame; gentiluomini imparruccati e dame passeggiavano scambiandosi battute e banalità, evitando qualunque argomento con un minimo di spessore.
C’era stato un tempo in cui anche Solomon si era lasciato sedurre dalla Città Nascosta, dai prodigi confezionati apposta per sbalordire e dallo stile di vita dei suoi abitanti, come se nessuna preoccupazione al mondo li affliggesse.
Ma l’illusione era sfumata in fretta, e ormai Solomon non riusciva a vedere altro che marciume attorno a sé, camuffato a regola d’arte da strati di vernice dorata, cipria e falsi sorrisi.
Una coppia sbucò da dietro una siepe tra enfatici scoppi di risa; Solomon sollevò il cappello in segno di saluto, a cui loro replicarono sfoggiando dentature innaturalmente bianche e perfette. «Che la Conoscenza le illumini il cammino, Arcistregone!»
Quando però notarono Lucia, le loro bocche truccate deviarono in una smorfia di disprezzo.  La ragazza si irrigidì, ma fece finta di niente.
Mentre riprendevano il cammino, a Solomon non sfuggì il commento che la donna stava rivolgendo al marito, senza preoccuparsi di essere sentita: «Che faccia tosta ad andarsene in giro così! È un insulto ai veri Cittadini: mi chiedo perché i Decani le permettano di restare.»
La rabbia prese subito il sopravvento. Il motivo in realtà lo conoscevano benissimo. E lo conoscevano anche Solomon e Lucia. Ma era un argomento ancora difficile da sbrogliare per entrambi e preferivano evitarlo.
«Mi dispiace» mormorò lui, dopo un momento. «Vorrei poterle cucire quella maledetta bocca.»
«Non fa niente» replicò Lucia. «Non mi importa cosa pensano.»
«Non sarà sempre così» affermò lo stregone. «Nel nuovo mondo che stiamo costruendo nessuno ti obbligherà a portare quella ridicola S. Non lo permetterò.»
«A proposito.» Lucia si volse a guardarlo. «Come va con il grimorio? Hai già escogitato qualcosa per rubarlo?»
«Ah» fece Solomon. «Ecco…diciamo di sì.»
Il viso di lei si illuminò di entusiasmo. «Ne ero sicura! Allora, come procediamo? Qual è il piano?»
«Lo sto perfezionando.» Ancora non era riuscito a trovare un buon momento per parlarle dei suoi progetti su Isabel Ascanor e non era sicuro di sapere da che parte cominciare. L’unica certezza era che non l’avrebbe presa con altrettanto entusiasmo.  «Stasera mi imbucherò a un ricevimento, cercherò di recuperare informazioni…»
«Interessante. Ci sarà anche lui? Il Bibliotecario?»
«Ci sarà…qualche membro della sua famiglia.»
«Oh» fece lei, sorpresa. «Va bene. Posso esserti utile in qualche modo?»
«Te lo farò sapere.»
Per l'amor del cielo, diglielo e basta! lo spronò una voce impaziente nella testa. Spiegale la situazione, è abbastanza intelligente da capire…!
Si accorse che Lucia lo stava fissando. «Cosa c’è?»
«È che sembri…inquieto.» La ragazza esitò. «È per quello che è successo tra te e tuo padre? Vuoi parlarne...?»
Sollevò una mano per sfiorargli il braccio, un gesto che, nella sua naturalezza, racchiudeva intimi sottintesi. Lui si scostò alla svelta; sulle rive di un laghetto vicino, due maghe addobbate con guardinfante e cappelli piumati li stavano osservando con curiosità, bisbigliandosi qualcosa da dietro i ventagli di pizzo.
La voce di suo padre tornò a ossessionarlo: “La tieni nascosta…il tuo piccolo sporco segreto…”
«Non c’è niente che non vada» rispose Solomon, con più freddezza di quanto avesse voluto. «E ti ho già spiegato che non possiamo permetterci atteggiamenti equivoci qui
«Lo so, cercavo solo…»
«Allora sta’ al tuo posto. Io sono l’Arcistregone e tu l’assistente. Tienilo a mente.»
Un’ombra di dolore le attraversò lo sguardo, e Solomon sentì rimordergli la coscienza. «Certo. Le chiedo scusa, maestro.»
Gli offrì una composta riverenza e tornò indietro verso la Corte.
Combattuto, Solomon la guardò andare via, mentre Wiglaf gli tirava i capelli col becco per esprimere la sua disapprovazione.
«Non ti ci mettere anche tu!» sbottò lo stregone. «Muoviamoci, abbiamo cose più importanti a cui pensare.»
 
Il ricevimento in onore della più giovane degli Ascanor si tenne al cigarral di famiglia, nell’anello più esterno della cinta muraria di Arcanta. La proprietà sorgeva in cima a una collina, isolata da ettari di vigneti, mandorli e albicocchi: di giorno vi batteva un feroce sole levantino, mentre dopo il tramonto scivolava in una profumata notte d'estate animata dal canto delle cicale.
Solomon arrivò sul far della sera, per studiare il terreno di caccia. Si appostò in cima al tetto di tegole in terracotta e osservò il variegato viavai di invitati. Come previsto, la tenuta era ben protetta: le mura merlate conferivano al luogo l’aspetto di una fortezza o di un monastero, e il servizio d’ordine era stato affidato ad allievi della Corte delle Lame.
Gli ospiti venivano fatti entrare da un grande portale ad arco, ma non prima di aver superato i controlli da parte delle guardie; i loro abiti erano intessuti di illusioni che cambiavano colore e trame a seconda della luce e tutti avevano i volti mascherati.
Ottimo, pensò Solomon.  Un ballo in maschera. Non potrei chiedere di meglio…
Ma nel momento in cui gli invitati varcavano la soglia, qualsiasi magia avessero gettato su di sé svaniva all’istante, scatenando non poche lamentele. L’arco doveva essere stato affatturato per annullare gli incantesimi.
Non è un problema si disse Solomon, fiducioso. Infilò una mano in tasca e schiuse le dita: la piccola creatura arrotolata sul palmo, una specie di lucertola nera dalle striature rosse, sollevò su di lui due lucidi occhietti assonnati.
«Ciao, piccolino» sogghignò lo stregone. «Presto tornerai nel Bestiario. Ma non prima di aver movimentato un po’ la serata.»
Rimise l’animaletto in tasca e saltò giù dal tetto, poi camminò disinvolto nella direzione opposta al palazzo, finendo a sbattere dritto contro qualcuno. «Sono tremendamente desolato!»
Il mago che aveva travolto - un panzuto uomo in smoking, capelli color zenzero e una maschera di porcellana a forma di coniglio - recuperò alla svelta l’equilibrio. «Non importa, non importa» borbottò. «Buona serata, Cittadino.»
«Buona serata a lei!»
Il mago-coniglio raddrizzò il cilindro sulla testa e se ne andò per la sua strada, canticchiando un allegro motivetto. Solomon lo seguì: la miccia era stata accesa, doveva solo aspettare il botto.
All’entrata, i guerrieri della Corte delle Lame chiesero al mago-coniglio di perquisirlo e l’invitato si prestò docilmente.
«Un momento» fece una delle guardie. «Che cos’ha qui?»
«Prego?» fece il mago.
La giovane guardia fece un gran balzo all’indietro, puntandogli contro la sua alabarda di energia. «Si allontani immediatamente con le mani in vista, Cittadino!»
«Cosa?» si meravigliò il mago-coniglio. «Ma perché? Non ho niente che non va! Ho ricevuto l’invito, guardi…!»
Nel momento in cui allungò la mano verso la giacca, qualcosa gli sgusciò fuori dalla tasca, si arrampicò sull’abito e gli risalì lungo la guancia.
Gli allievi della Corte delle Lame accorsero a circondare il mago. «Ha una Salamandra Incendiaria! Attenti! Può esplodere da un momento all’altro!»
Resosi conto di cosa gli era finito sulla faccia, il mago-coniglio lanciò uno strillo. «Toglietemela di dosso! Qualcuno me la tolga di dosso, maledizione!»
Solomon avrebbe voluto godersi il divertente siparietto, ma aveva impegni più urgenti. Fece apparire sul suo viso una maschera veneziana con piume nere e becco di corvo, dopodiché passò alle spalle delle guardie, troppo occupate a gestire il presunto attentatore per accorgersi di qualcosa. Così è davvero troppo facile.
La corte interna del cigarral scintillava di luci e risuonava della musica e dell’allegro vociare degli invitati. Le tavolate erano abbellite da composizioni di fiori e agrumi, e gli allievi della Corte dei Miraggi intrattenevano gli ospiti con le loro illusioni, popolando il cortile di ninfe danzanti, uccelli dal piumaggio variopinto e draghi che eruttavano fiamme dorate.
In mezzo al piazzale, torreggiava invece la gigantesca scultura di un toro d’oro massiccio, in onore delle radici iberiche degli Ascanor e del loro rinomato talento come alchimisti.
Solomon si aggirò tra la folla, annoiato; le conversazioni attorno a lui erano banali, l’intrattenimento mediocre. Si chiese cosa stesse facendo Lucia in quel momento. Forse era ancora in biblioteca? O magari si stava dedicando a una delle sue tele? Oppure stava cercando di insegnare le buone maniere a quell’orco…?
E soprattutto: era ancora arrabbiata con lui?
Si sforzò di non pensarci e versò un bicchiere di sangria, dopodiché si mise alla ricerca del vero motivo per cui era lì; non aveva la minima idea di che aspetto avesse questa Isabel Ascanor e il fatto che le dame fossero tutte travestite non aiutava. Speriamo almeno che non sia brutta…
All’improvviso, fu preso dall’ansia. Era davvero convinto di quel che stava facendo? Aveva conquistato un gran numero di donne in passato, sempre con l’obiettivo di ottenere qualcosa, un’informazione, il codice di sicurezza della cassaforte del marito, oppure l'accesso a una rapida via di fuga...
Si era sempre trattato di innocenti giochi di seduzione da cui nessuno usciva col cuore spezzato…ma mai in vita sua avrebbe pensato di dover convincere una donna ad amarlo.
È solo un mezzo per raggiugere un fine, ricordò a se stesso. Una volta ottenuto il Codice Oscuro, lei sarà libera di andare per la sua strada e tu per la tua.
Esaminò gli altri pretendenti: nessuno di loro era lì perché nutriva un reale interesse per Isabel Ascanor. Se non le avesse spezzato il cuore lui, lo avrebbe di certo fatto qualcun altro…
«Tu!» ruggì all'improvviso una voce familiare. «In nome dei Fondatori, come sei entrato?!»
Solomon riemerse bruscamente dai suoi pensieri. «Oh, ciao Bo. Accidenti, che eleganza!»
L’Arcistregone del Nord indossava un’uniforme bianca stirata di fresco, su cui luccicavano piccole gemme simili a cristalli di ghiaccio. Ma i suoi occhi erano pericolosamente socchiusi in due fessure.
«Non mi pare di aver visto il tuo nome sulla lista» ringhiò, afferrandolo per il braccio. «Forza, vieni con me!»
«E dai, Bo, non fare il guastafeste!»
«Con te in giro non si può stare tranquilli» borbottò Boris Volkov, mentre lo scortava verso l’uscita. «Qualunque cosa tu stia tramando, faresti meglio ad andartene!»
«Mi sto solo godendo la festa!» protestò Solomon. «Qual è il tuo problema..?»
Un istante dopo si bloccò: Boris non solo aveva indosso il capo di abbigliamento più elegante che possedeva, ma aveva anche lavato e pettinato i capelli. «Oooh!» realizzò. «Bo, non sarai mica un pretendente!?»
Un lieve rossore si diffuse sulle guance dello stregone. «Se così fosse?»
Solomon ridacchiò. «Nulla, solo non ti facevo un tipo romantico! E dimmi, come hai intenzione di conquistare il cuore della señorita Isabel?»
«Non sono affari tuoi!» abbaiò Boris. «Conosco Isabel Ascanor dall’infanzia, e non ti permetterò di rovinare questa serata, hai capito? Ora fuori dai piedi!»
Solomon però guardò oltre la sua spallona: un gruppo di stregoni aveva preso d’assalto una dama con indosso uno sfarzoso abito blu damascato e il capo coperto da un velo ricamato, che si sventolava con un ventaglio e sorrideva imbarazzata mentre sorseggiava champagne.
«Scusa, Bo» disse Solomon, facendolo da parte. «Ho appena visto qualcosa più interessante di te.»
«Aspetta! Che vorresti fare? Blake!»
Ma Solomon era già partito dritto verso il suo obiettivo. Si fece strada attraverso il cortile e afferrò la mano di Isabel Ascanor, rubandola ai suoi pretendenti e ignorando le loro proteste. Si va in scena.
«Perdoni la sfacciataggine» disse, tirandola a sé in un abbraccio così passionale e inaspettato che la donna boccheggiò. «Ma non riesco a rimanere indifferente di fronte a una bella donna in difficoltà.»
La señorita Isabel arrossì, sotto la mascherina blu e argento. «Per i Fondatori! Ma lei è proprio Solomon Blake!»
«Per servirla» confermò lui, sfoderando il suo sorriso migliore. «E, se me lo permette, per salvarla da questa noiosissima festa.»
Volteggiarono al centro del piazzale, così leggiadri da spingere gli altri ballerini a interrompere le loro danze per guardarli.
Solomon trascinò la dama in una rapida piroetta e la richiamò fra le sue braccia: «Che ne dice di mollare questi idioti e trovare un posto più appartato per parlare?» le sussurrò all’orecchio. «Potrei renderle la serata molto piacevole.»
Percepì chiaramente la combustione che aveva originato in lei, mentre rideva e farfugliava: «Be’…io…»
Ecco fatto. Era sua. Più semplice di quel che pensava…
A un tratto, lei si scostò ridacchiando come una ragazzina, e imboccò l’ingresso del palazzo. Un po’ infastidito, Solomon si costrinse ad assecondare i capricci di quella ragazzina viziata e la rincorse.
Seguendo le sue risatine, lo stregone capitò in un’anticamera dal mobilio di legno scuro e il pavimento in cotto, su cui si aprivano alcune porte. E adesso dove diamine è andata?
In fondo alla stanza, c'era una scrivania invasa da una pila di lettere così alta da nascondere in parte la giovane donna che vi era seduta dietro; era impegnata ad aprirle una per una, scorrerne il contenuto e poi ammucchiarle in una cesta, e non sembrò far caso all’arrivo di Solomon.
Lui si avvicinò. «Ha visto passare la señorita Isabel?»
«È andata un attimo alla toilette» rispose la donna, piccola e scura, con lucidi capelli neri raccolti in uno chignon e un paio di occhiali rotondi dalla montatura dorata. «Suppongo abbia esagerato con lo champagne. Quando torna riferirò che l’ha cercata, señor…?»
Solomon rimosse la maschera, ma lo sguardo di lei lo percorse distrattamente, senza riconoscerlo. La cosa lo meravigliò. «Solomon Blake. L’Arcistregone dell’Ovest, ha presente?»
«Ah» fece la donna. «Sembra più alto sui giornali.»
«Il segreto è farsi ritrarre di tre quarti e indossare cappotti lunghi» ammiccò lui. «Non le dispiace se attendo qui, vero? La señorita e io avevamo dei programmi.»
L’altra alzò le spalle. «Si accomodi pure, se ci tiene.»
«Grazie, credo proprio che lo farò.»
Approfittò dell’attesa per rimirarsi in uno specchio intarsiato; riavviò i capelli, sistemò il farfallino e nel frattempo domandò: «Non partecipa ai festeggiamenti?»
«Non gradisco molto le feste. Lei si sta divertendo?»
Solomon sbuffò. «È un mortorio. Pieno di fanfaroni addobbati che parlano del nulla assoluto.»
«E allora come mai ci è venuto?»
«Per cogliere la mia occasione.»
«Occasione?» domandò la donna, stavolta con un guizzo di curiosità. «Di che genere?»
Solomon si concesse un sorrisetto. «La vita ogni tanto ti offre su un piatto d’argento esattamente quel di cui hai bisogno, basta allungare una mano e prenderlo. Ed è quello che ho intenzione di fare stasera.»
Lei tacque per un momento. «E se ciò che vuole ottenere non fosse poi così semplice da raggiungere? E se l’avesse tratta in inganno?»
«Ho sufficiente dimestichezza con gli inganni da saperli riconoscere.»
La donna tornò alle sue lettere. «Se lo dice lei.»
Non diede segno di voler continuare la conversazione, così Solomon si sistemò a gambe accavallate su una chaise longue di velluto e attese. Trascorse un quarto d’ora, senza che nessuno entrasse o uscisse da quelle porte. Solomon tirò fuori l’orologio: stava iniziando a perdere la pazienza. «Ci vorrà ancora molto?»
«Gliel’ho detto: avrà esagerato con lo champagne.»
«Potrebbe andare a controllare.»
«Non sono la cameriera della señorita. Né la sua, signor Blake.»
La risposta lo colpì. In effetti, non aveva idea di chi potesse essere quella donna: vestiva in modo troppo semplice per essere un’invitata, ma al tempo stesso il suo fare rilassato indicava che fosse una frequentatrice abituale della casa. Inoltre, notò che sulla sua spalla era appollaiato un camaleonte meccanico, i cui sporgenti occhi di vetro saettavano in tutte le direzioni ronzando. Solomon non aveva mai visto un manufatto del genere. «Mi perdoni, di preciso, lei chi dovrebbe…?»
In quell’istante, una delle porte si aprì e la dama mascherata vestita di blu corse alla scrivania. «Oh, cugina! Mi sa che avevi ragione, non avrei dovuto bere così tanto! E tutto quel girare e volteggiare mi ha messo in subbuglio lo stomaco!»
«Ora va un po’ meglio?» domandò gentilmente la donna con il camaleonte.
«Oh, sì! La tua pozione è stata a dir poco miracolosa! Ma sei proprio sicura di voler rimanere qui tutta la sera? La festa non è poi così male! E non immaginerai mai con chi ho ballato…!»
Solo in quel momento si accorse della presenza di Solomon. «Ops…!»
Lo stregone le fissò senza capire. «Potrei sapere che sta succedendo? Señorita Isabel…»
La dama vestita di blu avvampò. «Mi dispiace señor, temo ci sia stato un malinteso: non sono chi pensa.»
Sconcertato, Solomon tornò a guardare la donna con il camaleonte. «Ma…che significa..?»
Lei sospirò. «Va tutto bene, Guadalupe. Spiego io la situazione al señor Blake. Almeno si toglierà dalla faccia quell’espressione da babbeo.»
La dama vestita di blu annuì e, dopo aver rivolto a entrambi una frettolosa riverenza, sgattaiolò via. Nella stanza piombò un silenzio teso.
«Non sia arrabbiato» disse la donna con il camaleonte, accennando un sorriso. «Guadalupe è la mia dama di compagnia: ho pensato che le avrebbe fatto piacere sentirsi la reginetta del ballo, per una sera.»
«Dunque ha architettato tutto lei» disse Solomon, freddamente. «Señorita Isabel.»
Il sorriso di lei acquisì una piega ironica. «Credevo avesse sufficiente dimestichezza con gli inganni.»
Il volto di Solomon impietrì. «Perché organizzare questa sceneggiata?»
«Semplice: per capire da chi tenermi alla larga» rispose Isabel, con candore spiazzante. «I miei fratelli hanno insistito perché scegliessi un marito al più presto, ma non hanno specificato in che modo dovessi farlo: sto semplicemente valutando le opzioni. Non sono un trofeo, né un’occasione da cogliere, señor Blake. Ed è bene che il mio futuro sposo lo sappia.»
Solomon si sentì sprofondare in un abisso di vergogna: era cascato nel tranello come l’ultimo dei novellini. «Perciò, devo dedurre che fosse un test.»
«Già. E lei non l’ha superato.»
Totalmente disarmato, Solomon provò a balbettare qualcosa, nel patetico tentativo di avere un’altra possibilità, ma Isabel gli batté una mano sulla spalla, con fare comprensivo:
«Non se la prenda, capita a tutti di prendere una cantonata, ogni tanto. Persino a uno come lei. Ma prego, si goda il resto della festa. Io qui ho ancora un mucchio di proposte di matrimonio da scartare.»
E si andò a sedere nuovamente alla scrivania, tornando a ignorarlo.
Umiliato come mai in vita sua, Solomon raccolse quel poco di dignità che gli era rimasta e lasciò la stanza senza una parola, premurandosi di sbattere con forza la porta.

 

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Capitolo 12
*** L'invito ***



L’INVITO

 
 
Sarajevo, giugno 1914.
30 giorni prima dello scoppio della Guerra
 
 
«Madame Salomé?» chiese ancora la voce, da una distanza lontanissima. «Va tutto bene? Riesce a sentirmi..?»
Zora batté le palpebre e si riscosse dal torpore. Con un leggero imbarazzo, si rese conto di essere rimasta a contemplare i residui in fondo alla tazzina da tè che aveva di fronte per quasi un minuto, immersa com’era nei suoi pensieri.
La cliente delle cinque, la bella moglie ventenne di un notaio, continuava a fissarla con gli occhioni cerulei sgranati, interpretando il suo improvviso mutismo come un cattivo presagio.
Zora si schiarì la gola. «Sì…dunque, dove eravamo?»
Afferrò la tazzina, la fece roteare e la capovolse sul piattino di porcellana, sforzandosi di ricordare quale fosse il quesito che le era stato rivolto. Qualcosa a proposito di una gravidanza, così le pareva…
«Ah!» esclamò, dopo aver esaminato per un tempo adeguato la melma umidiccia sul piattino. «I fondi formano un cerchio perfetto: è chiaro che è sei una donna molto amata. Distinguo anche con chiarezza una ghianda, qui: è simbolo di prosperità e salute. Non devi avere paura per il tuo bambino, nascerà forte e sano.»
La giovane si accarezzò la pancia, appena visibile sotto la voluminosa stoffa del tea gown[1], e sospirò di sollievo. «Oh, questa è…una notizia magnifica!»
«Vedo però anche dei tumulti all’orizzonte» riprese Zora, infondendo stavolta un velo di pathos nella voce. «Tra te e tuo marito: è risaputo che le gravidanze rendano gli uomini irritabili e ansiosi.»
La donna deglutì, prestandole la massima attenzione. «E cosa mi consiglia di fare, madame?»
Il trucco coi clienti era calibrare la giusta dose di buone e di cattive notizie: “Non spaventarli” l’aveva avvertita spesso Krsta. “Rassicurali in primo luogo su qualcosa a cui tengono in maniera particolare: sii il loro barlume di speranza nel buio dell’incertezza. E a quel punto, potrai tranquillamente macchiare il loro buon umore con qualche piccolo dubbio.”
Niente di drammatico. Un tarlo, più che una vera e propria preoccupazione, qualcosa su cui rimuginare nei giorni e nelle notti a venire: dopotutto, se il futuro riservasse solo rose e fiori, che motivo avrebbero di chiedere un altro appuntamento?
“Tu sei il narratore delle loro storie” diceva Krista. “Rendili bramosi di sapere come andranno a finire”.
Zora sorrise con fare premuroso e chiuse la mano della cliente tra le sue. «Le piccole difficoltà non fanno che temprare il vero amore, bambina. Ma, per stare sicura, ti sarà utile un talismano.»
Estrasse dalla borsetta un sacchetto di cotone contenente foglie di timo e chiodi di garofano, che si fece pagare a parte e, dopo averle raccomandato di posizionarlo sotto il cuscino del consorte alla prima notte di luna crescente, programmò il successivo incontro per la settimana prossima.
«E ricorda» concluse con enfasi, prima di uscire. «Abbi fiducia negli astri e loro vegliano sempre su di te!»
Lasciata l’abitazione del notaio, Zora si incamminò lungo un marciapiede affollato, mentre sul selciato sfrecciavano carrozze e automobili; a Sarajevo, passato, presente e futuro si mescolavano di continuo, dando vita a realtà in eterno divenire.
Non le capitava più molto spesso di attraversare la città a piedi. Camminare in mezzo alla folla faceva sentire Zora continuamente esposta al giudizio degli altri: anche prima che diventasse Madame Salomé la gente la guardava, vuoi per la sua bellezza, vuoi per i suoi tratti gitani. Le donne che un tempo stringevano saldamente le borsette al suo passaggio, ora le rivolgevano sorrisi gentili, e gli uomini si toglievano rispettosamente il cappello, anziché spogliarla con gli occhi finché non voltava l’angolo.
Ma anche adesso che acquistava i suoi abiti nelle boutique di lusso e viveva accanto a banchieri e avvocati, le sembrava che gli sguardi dei passanti potessero sondare la sua anima, leggervi tutta l’oscurità che vi dimorava e portare a galla ogni suo peccato…
“So chi sei in realtà” sembrava dicessero tacitamente. “Sei una bugiarda, un’impostora, una ladra.”
E adesso…adesso anche una cospiratrice.
Quel pensiero la ossessionava. Da quando Krsta aveva rivelato il suo coinvolgimento con la Mlada Bosna, da quando l’aveva messa a corrente dei suoi progetti, quel senso di disagio si era trasformato in un fardello insopportabile, che da giorni gravava sulle sue spalle.
Perché adesso non era più solo una piccola zingara che si spacciava per una signora per bene.  Era diventata complice di un anarchico.
Due gendarmi a cavallo le attraversarono la strada, i folti baffi con le punte all’insù secondo la moda asburgica. La studiarono per un lungo momento, dall’alto in basso, col cipiglio severo e arrogante dei militari.
Zora si pietrificò, come se fosse sul punto di essere giustiziata lì, sul marciapiede. Ma le guardie si limitarono a sfiorare le visiere in segno di saluto e trottarono via.
Zora lasciò andare il fiato bruscamente, il sangue che le pulsava nelle tempie. Il panico, tuttavia, non cessava a diminuire, le schiacciava il petto, rendendole faticoso respirare. Doveva togliersi dalla strada. Subito.
Superò in fretta i due isolati che la separavano da casa, e solo quando ebbe chiuso il portone alle proprie spalle, si sentì al sicuro...
«Zora, cara?»
…momentaneamente, al sicuro.
Lei prese un paio di profondi sospiri. «Sono qui.»
Krsta comparve sull’uscio del salotto, sorridente, in veste da camera. «Come è andata oggi? La moglie del notaio è rimasta soddisfatta dai tuoi responsi?»
«La rivedrò martedì» rispose Zora, lasciando il soprabito sull’attaccapanni. Si incamminò per il corridoio senza guardarlo, massaggiandosi la tempia. Le girava ancora la testa. «Sono stanca, credo che riposerò un po’ prima di cena.»
Krsta la fermò, trattenendola per il braccio. «E…hai pensato a quello che ci siamo detti l’altra sera? All’attentato…»
Zora sbarrò gli occhi. «Abbassa la voce! Aska e Sveta potrebbero sentirti!»
«Ho dato loro il giorno libero, possiamo parlare in tranquillità.»
«Io non ho niente da dirti» ribatté lei, secca. «È una pazzia! A furia di ubriacarti ti sei bevuto pure quel poco di cervello che hai!»
«Zora, non dirmi così…»
Lei si divincolò. «Conosci già la risposta: non ho alcuna intenzione di farmi fucilare per tradimento a causa tua! Quindi, meglio se smettiamo di parlarne e basta, mi sono spiegata?»
Krsta le rivolse uno sguardo contrito. «Non era mia intenzione turbarti, golubice moja. Ma ho dato la mia parola, la Giovane Bosnia ha bisogno del nostro contributo se vogliamo liberarci dell’oppressore…»
«Non mi interessano queste stronzate!» s’infuriò Zora. «Sono solo un branco di fanatici del cazzo! Vuoi davvero buttare via le nostre vite? Tutto quello che abbiamo costruito, per inseguire un ideale impossibile? È l’Impero, dannazione! Uccidere l’arciduca non risolverà proprio niente, mettitelo in testa!»
«E cosa dovremmo fare? Continuare a farci calpestare?»
«Krsta.» Zora inspirò profondamente, cercando di calmarsi, di infondere un briciolo di buon senso nella discussione. «Capisco che da giovane combattere per il tuo paese ti sembrasse una nobile causa. Ma ragiona: abbiamo una bella vita! Una bella casa, una condizione rispettabile! E se saltasse fuori il nostro coinvolgimento, perderemmo ogni cosa…!»
Un magone le afferrò la gola, lacrime di frustrazione si affacciarono nei suoi occhi e Krsta le prese il viso fra le mani, con gentilezza.
«Questo non succederà!» disse, posandole un bacio delicato sulle labbra. «Non permetterei mai che ti accadesse qualcosa, amore mio! Ho già pensato a tutto...»
«Krsta…»
«Sarà Gavrilo a occuparsi dell’arciduca» disse lui. «Tutto ciò che ci è stato chiesto di fare è creare le condizioni affinché possa avvicinarsi e piantargli una pallottola in mezzo alla fronte. Con i tuoi poteri puoi distrarre le guardie…»
«Ti prego, non…»
«E una volta compiuto ciò che va fatto, nessuno sospetterà di noi!» concluse Krsta, con entusiasmo. «Potremmo lasciare Sarajevo per un po’, far calmare le acque: ci ho già procurato dei passaporti per gli Stati Uniti, mentre l’Impero crollerà noi saremo già in viaggio, prendila come una vacanza romantica! E al nostro ritorno, la Serbia sarà di nuovo libera e unificata!»
«Io non voglio farlo.»
Lui si interruppe, fissandola negli occhi.
«Non lo farò» disse Zora, imponendo in quelle parole tutta la forza di cui era capace. «Non mi interessa cosa hai promesso a quella gente: non userò l’eredità della mia famiglia per assassinare un uomo, anche se rappresenta tutto ciò che disprezzi. Me ne chiamo fuori.»
Allontanò le sue mani e si diresse a passo deciso verso la sua stanza.
«Non hai scelta» disse Krsta, in tono calmo ma inflessibile.
«Ah, no? Staremo a vedere!»
Si chiuse in camera, sbattendo la porta. Raffiche di rabbia continuavano ad attraversarle il corpo mentre si aggirava febbrilmente per la stanza, tormentandosi le mani. Tutto ciò che desiderava era aprire il suo grimorio, reimmergersi nel suo mondo di magia, sentirsi nuovamente protetta, circondata dalla saggezza e dall’affetto delle sue ave, donne che non aveva mai conosciuto ma che sembravano comprenderla meglio di chiunque altro in quella casa, in quella città maledetta. Raggiunse lo scrittoio e aprì il primo cassetto…
Era vuoto.
Dov’è?!
Lo rivoltò completamente, guardò sotto il letto, in ogni borsa, valigia, armadio. Sparito.
Krsta comparve alle sue spalle, di nuovo con quella strana, inquietante espressione che esprimeva insieme dispiacere e autorità.
«Dov’è il mio grimorio?!» La rabbia si impadronì di lei, e i soprammobili nella stanza fremettero. «Come ti sei permesso di prenderlo?»
Colse un lampo di agitazione balenargli in viso, mentre teneva d’occhio gli oggetti contaminati dalla sua furia. «È al sicuro. Te lo restituirò una volta che avrai fatto quello che ti ho chiesto...»
Zora era allibita. «Tu osi ricattarmi?! Brutto figlio di…!»
Piombò su di lui come un urgano, tempestandogli il petto di pugni, continuando a ricoprirlo di grida e insulti. Lui l’afferrò per le spalle, una presa virile, d’acciaio, e per la prima volta da quando lo conosceva, Zora rimase scioccata nel sentirsi così vulnerabile tra le sue mani.
«Calmati, adesso.» Era un ordine. «Non c’è bisogno che ti comporti come un’isterica. Ti ho detto che riavrai il tuo grimorio, se farai esattamente quello che ti dico.»
Zora aveva iniziato a tremare, gli occhi pieni di lacrime. «Perché mi stai facendo questo?»
«Tu sei l’amore della mia vita» sussurrò lui. «Non ti metterei mai in pericolo, senza una buona ragione. Ma sono in ballo questioni più grandi di noi qui, Zora. La Giovane Bosnia ha alle spalle un’organizzazione molto più vasta: ci garantirà protezione, ma se perdiamo la sua fiducia, La Mano Nera non esiterà a stritolarci. Quindi, ecco che cosa faremo.»
La obbligò a sedersi sul letto, dove la donna rimase rigida, piegata su sé stessa e in preda all’angoscia.
Krsta si passò una mano fra i capelli e sospirò. «L’arciduca e sua moglie si recheranno in città entro la fine del mese. Sarà allora che agiremo.»
Zora deglutì, inerme di fronte ai fatti.
«Le spie della Mano Nera dicono che alloggeranno all’Hotel Bosna» continuò Krsta. «Che sarà, ovviamente, requisito per l’occasione. Visiteranno scuole, orfanotrofi e ospedali, ma si concederanno anche qualche vezzo mondano. L’arciduca è un uomo noioso, interessato solo alla guerra, ma la duchessa ha sangue boemo, ama l’arte e in particolare l’opera. La avvicinerai a teatro e, come ti ho insegnato, farai in modo che lei rimanga così stregata da chiedere un incontro privato.»
A Zora scappò una risata asciutta. «La fai un po’ troppo semplice! Forse dimentichi un piccolo dettaglio: sarà costantemente asserragliata dalle guardie! Ovunque andrà!»
Krsta sorrise con indulgenza, come si fa coi bambini. «Naturalmente, ma quale gentiluomo seguirebbe mai una signora alla toilette?»
«Tu sei pazzo.»
«Non dovrai far altro che essere te stessa» replicò Krsta, tranquillo. «Sfodera il solito repertorio, trova il suo nervo scoperto e colpisci: la coppia imperiale è piena di nemici a corte. In molti hanno visto il loro matrimonio come uno scandalo, per via della posizione sociale nettamente inferiore della duchessa. Immagina quante insicurezze debba covare per il futuro, poverina!»
Zora era inorridita. «È spregevole. Vuoi che sfrutti il dolore di una donna innamorata per toglierle tutto ciò che ha!»
A quel punto, le labbra di Krsta si piegarono in un breve sorriso, freddo e affilato come la lama di un coltello. «Non è quello che facciamo sempre?»
 
 
Le diede due settimane per prepararsi.
Le spie della Mano Nera avevano fornito loro tutti i dettagli sull’arrivo dell’arciduca e di sua moglie a Sarajevo: il 24 mattina erano partiti da Vienna separatamente, per incontrarsi alla stazione termale di Bad Ilidze, alle porte della città. La giornata sarebbe poi proseguita tra acquisti, incontri diplomatici e un’ispezione dell’erede al trono alle truppe bosniache.
«Ma stasera» concluse Krsta, mentre Zora passava in rassegna gli appunti che le aveva procurato. «Saranno ospiti alla prima di La sposa venduta di Smetana.»
Zora studiò attentamente il profilo della duchessa Sofia: cattolica fervente, intollerante verso qualsiasi altra professione religiosa, e compagna carissima al consorte, aveva visto il suo amor proprio offeso per via delle gelosie della corte. Una donna orgogliosa, insomma, ma allo stesso tempo fragile, bisognosa di approvazione e sì, anche di autentiche dimostrazioni di amicizia. Tutte carte che Madame Salomé avrebbe giocato a suo vantaggio.
Naturalmente, per Krsta fu facile procurarsi due biglietti per la prima teatrale, grazie alle pressoché infinite conoscenze di cui il visconte Roman Vukčić Kosača disponeva. Fu riservato loro un palchetto sulla sinistra, da cui si aveva un’ottima visuale della platea, con le sue file di poltrone oro e carminio. Il Teatro dell’Opera[2] risplendeva di marmo, ottoni e dorature, ed era illuminato da lampadari di cristallo e lampade a forma di lira sorrette da sculture in bronzo.
Zora e Krsta si accomodarono ai loro posti e lui le passò un binocolo dal manico in madreperla. «Eccoli, li vedi? Proprio di fronte a noi.»
Zora indirizzò lo sguardo sulla balconata d’onore, dove il futuro imperatore e la consorte sedevano attorniati da un drappello di soldati e valletti. Notò molti altri militari, appostati lungo le gallerie, a presidiare gli ingressi e dietro i tendaggi di velluto del proscenio, che tenevano d’occhio gli spettatori.
«Come ti sembra?» sussurrò Krsta.
Zora serrò la mascella. «Agitata. Continua a gettarsi occhiate intorno e a controllare che gioielli e vestito siano impeccabili…»
«Cosa ne possiamo dedurre?»
«Questa è una delle prime apparizioni pubbliche col marito» disse Zora, continuando a studiare con discrezione la coppia. «Ha molta pressione addosso, è evidente.» E non è la sola, avrebbe voluto aggiungere.
Krsta si sistemò comodo in poltrona e sfogliò distrattamente il libretto dello spettacolo. «Aspetta la conclusione del primo atto, poi assicurati che la sua vescica richieda un impellente salto al gabinetto.»
Zora non riuscì a nascondere una smorfia. «Non mi sono esercitata sufficientemente con le manipolazioni corporee, soprattutto a questa distanza; se mi avessi lasciato consultare il mio grimorio…»
Lui scosse la testa, ma il suo tono di voce rimase calmo: «Ti ho già detto un mucchio di volte che il tuo stupido libro è in buone mani. Ma ti conviene impegnarti, stasera, o potrebbe accidentalmente scivolare in un camino.»
Lei strinse le dita attorno all’impugnatura del binocolo, cercando di tenere sotto controllo i nervi, ma a un tratto le luci si attenuarono fino a spegnersi e l’orchestra diede inizio all’ouverture.
Mentre lo spettacolo procedeva, Zora non riusciva a pensare ad altro che a un modo per togliersi da quella situazione. Desiderava solo strangolare Krsta con le proprie mani, e sapeva che avrebbe dovuto denunciarlo subito alla polizia, rovinare lui e i suoi compari assassini, ma non aveva idea di dove potesse aver nascosto il grimorio o quali istruzioni avesse dato a chi lo custodiva. Se avesse commesso un passo falso, non l’avrebbe rivisto mai più, senza contare che lui avrebbe potuto tranquillamente trascinarla con sé verso il baratro se fosse saltato fuori il suo coinvolgimento in quella storia…
Era pur sempre la parola di un uomo contro quella di una donna.
Aisha aveva ragione, su tutta la linea. Krsta non era solo un viscido approfittatore, era pericoloso e lei gli aveva permesso di assumere il controllo sulla propria vita…
Dovevo restare a Mostar.
Avrebbe tanto voluto averle dato ascolto…
Sul finire della quinta scena, mentre il tenore concludeva il suo assolo, Krsta le diede un colpetto con la punta della scarpa. Era il segnale.
Zora deglutì, prese un momento per concentrarsi. Le tremavano le mani mentre ruotava lentamente il polso e muoveva le dita per evocare l’incantesimo.
Sbirciò prudentemente la balconata d’onore. La duchessa continuava a tenere gli occhi fissi sul palco, ma era sobbalzata improvvisamente, e a un certo punto chiamò l’attenzione del marito per bisbigliargli qualcosa all’orecchio. Lui aggrottò la fronte con stupore e annuì e, subito dopo, la donna scomparve oltre i tendaggi di velluto rosso, scortata da due guardie e una cameriera.
«È il momento» disse Krsta. «Vai.»
Zora lasciò il suo posto e sgusciò silenziosamente nella galleria buia.
Passò dal foyer, dove alcuni gentiluomini si stavano attardando a fumare il sigaro davanti allo scalone monumentale, e imboccò un corridoio pavimentato a parquet.
Come immaginava, l’intero piano su cui si trovavano le toilette era stato requisito per garantire privacy alla duchessa.
«Mi dispiace, signora, dovrà attendere qualche minuto» la informò una delle guardie poste a sorvegliare il corridoio.
«La prego, è piuttosto urgente.» Zora si passò una mano sull’addome, gonfiato a dovere grazie a un cuscino sotto il vestito. «Sono in attesa, non vede?»
Le due guardie si scambiarono uno sguardo imbarazzato. «D’accordo, ma faccia in fretta.»
Zora rivolse loro un sorriso riconoscente e s’intrufolò nella sala da bagno.
Si appostò in un’anticamera rivestita di legni pregiati, si liberò del cuscino abbandonandolo su un divanetto e attese che la duchessa terminasse.
Ci fu un rumore di acqua che scorre e subito dopo una porta si aprì e la duchessa fece la sua comparsa, seguita dalla sua cameriera personale; indossava un abito austero, abbottonato alla gola da un cammeo e da una lunga fila di bottoni. La sua espressione esprimeva algida compostezza.
Lanciò tuttavia uno sguardo incuriosito a Zora, che aveva tirato fuori i tarocchi e li stava disponendo ordinatamente accanto a lei sul sofà.
Era passato molto tempo da quando aveva consultato il mazzo appartenuto a sua nonna per il pubblico; il legame che aveva con quelle settantotto carte era troppo profondo, troppo personale per condividerlo con altri. E poi, utilizzarlo per truffare la gente era qualcosa che di sicuro Baba non avrebbe approvato…
Ma quel frangente era diverso. Non era solo una questione di denaro: era la vita di Zora a essere in gioco.
«Buonasera, altezza» disse, offrendole il suo sorriso più affascinante. «Mi auguro che la permanenza a Sarajevo proceda bene come era nelle sue speranze.»
Si era rivolta a lei in francese, perché ogni gentildonna dell’alta società aveva studiato francese. Krsta era stato inamovibile sul fatto che anche lei imparasse a parlare fluentemente quella lingua.
Sofia sbatté le palpebre. «Procede bene. Molte grazie, madame.»
E passò oltre, borbottando qualcosa in tedesco alla cameriera, qualcosa a proposito di quanto il servizio di sicurezza lasciasse a desiderare da quelle parti.
Zora disse: «Non incolpi i suoi uomini: è stato il destino a condurmi da lei.»
La duchessa tornò a voltarsi, meravigliata. «Di che sta parlando, di grazia?»
«Lei non mi conosce» disse Zora, accennando un rispettoso inchino. «Ma io conosco molte cose su di lei. Le carte me le hanno mostrate.»
«Ah!» fece la duchessa, sprezzante. «Si sbaglia, invece ho sentito molto parlare di lei: si fa chiamare “La Dama Velata” e convince la gente di poter parlare con gli spiriti.»
«Loro parlano attraverso di me» la corresse con gentilezza Zora. «Io rappresento solo un tramite.»
La duchessa storse la bocca. «Mi perdoni, madame, ma da buona cristiana non tollero questo genere di pratiche pagane. Le auguro una buona serata.»
«E se le dicessi che è stato proprio Dio a concedermi questo dono?»
La cosa parve stupire la duchessa. «Mi era parso di capire che fosse musulmana.»
«Sono stata educata in un collegio cattolico, a Roma» spiegò Zora. «È stato lì che ho sentito la voce degli Invisibili per la prima volta. Avevo solo dodici anni e da allora, essere un ponte col mondo dell’aldilà è diventata la mia personale missione.»
Sofia continuava a essere scettica. «Non mi dica.»
«Posso vedere il passato e il futuro» mormorò Zora, passando le dita sopra le carte. «Questo mazzo mi fu regalato dalla madre badessa, apparteneva a una monaca francese del diciassettesimo secolo, a sua volta colpita da visioni sin dalla tenera età. La badessa credeva che ci fosse un collegamento tra noi due.»
«Tutto molto affascinante» tagliò corto la duchessa. «Ma le ripeto che io non credo a certe cose.»
Zora non si arrese e sollevò una carta. «Due di Coppe: lei e suo marito avete un forte legame. Un desiderio covato per lungo tempo, in segreto, ostacolato da invidie e rivalità. La corte imperiale può rivelarsi un covo di serpenti, non è così?»
La duchessa arrossì. «Non è certo un segreto, potrebbe averlo letto ovunque!»
«Vedo che lo indossa ancora.»
Lei inarcò le sopracciglia: «Che cosa?»
«Il cammeo» rispose Zora, con un cenno al gioiello al collo della duchessa «Le è stato donato da suo marito al vostro secondo incontro: lei però lo rifiutò, apparteneva al tesoro imperiale e indossarlo in pubblico sarebbe stato scandaloso per una donna della sua estrazione. Ma lui insistette, voleva che sapesse sin da subito che aveva catturato il suo cuore. Che sarebbe stato suo per sempre.»
La duchessa sfiorò con le dita il cammeo e le sue labbra furono attraversate da un fremito. «Questo come fa a saperlo?»
Zora sorrise e scoprì una serie di carte: gli Amanti, il Sei di Spade, la Ruota della Fortuna e la Luna:
«Spesso, l’oggetto dei nostri desideri è ciò che ci regala al tempo stesso le maggiori gioie e i peggiori tormenti» commentò. «Dopo anni di clandestinità, di timori e speranze, voleva solo essere accolta e benvoluta dalla famiglia imperiale. Ma non è stato così. L’hanno da subito fatta sentire indesiderata, accusata di essere una bugiarda, un’approfittatrice. Qualsiasi cosa lei faccia per essere impeccabile, ai loro occhi non è mai abbastanza.»
Vide immediatamente l’effetto che le sue parole stavano producendo nella testa della donna, vide le sue pupille dilatarsi, il respiro farsi gravoso.
«Capisco cosa prova meglio di quanto crede» confessò Zora, guardandola intensamente negli occhi. «Ho dovuto lottare anche io per farmi strada nel mondo, per dimostrare alla gente che si è sempre sbagliata sul mio conto.»
La duchessa deglutì a vuoto, gettò un rapido sguardo alla porta, dove l’attendeva la sua scorta. Poi, tornò lentamente a fissare Zora. «Che altro dicono quelle sue carte?»
Con studiata lentezza, la medium sparpagliò i tarocchi sul divanetto. «Nemici dietro ogni angolo, parole velenose pronunciate da bocche sorridenti. Incubi, che disturbano i suoi sogni, paure che rovinano anche i momenti più felici. Litigi, grida, porte sbattute, lacrime da soffocare contro un cuscino, dolore represso per non suscitare ulteriori pettegolezzi…il potere è un fardello che nessuno vorrebbe portare, per un uomo così come per una donna. Ma questo suo marito spesso non sembra comprenderlo.»
La duchessa ormai pendeva dalle sue labbra. Silenziosamente, scivolò sul sofà accanto a lei. «Cos’altro?»
“Tu sei il narratore delle loro storie. Rendili bramosi di sapere come andranno a finire”.
«Vedo un gigante fragile, coi piedi d’argilla» continuò a raccontare Zora. «Vedo serpenti strisciare sotto il tappeto, mordere le sue caviglie. Vedo tumulti e malcontento, vedo il futuro bussare prepotentemente alla sua porta. Vedo sangue scorrere per le strade…»
La duchessa si portò una mano alla bocca, turbata. «Parla di tumulti? Di pericoli? Come? Quando?»
Zora sospirò, raggruppando le sue carte. «Questo non è chiaro.»
«Oh, per l’amor del cielo!» s
innervosì la duchessa. «Prima parla di serpenti e di sangue e poi si rifiuta di darmi spiegazioni! Non potrebbe essere un po’ più specifica?»
«Io interpreto solo ciò ce le carte vogliono mostrarmi» replicò umilmente Zora. «Non sta a me forzare la loro volontà. Sono sensibili all’energia emanata dalle persone che mi circondano: più forte è il loro legame con gli eventi che annunciano, più precise sono le mie visioni.»
La duchessa sembrava combattuta. «E se…se anche Franz fosse presente? Se leggesse le carte anche per lui, le visioni sarebbero più accurate?»
Nello stomaco di Zora si agitarono un misto di ansia e trionfo, ma la sua espressione rimase distaccata. «Potrebbero, sì.»
«Altezza» la chiamò la cameriera. «Dovremmo andare, suo marito…»
Lei la zittì con un brusco gesto della mano. «Domani pomeriggio diciamo…verso le sette, sarebbe disponibile per una lettura privata?»
Zora chinò la testa. «Solo al suo servizio, altezza.»
«Alloggiamo all’Hotel Bosna» concluse la duchessa, alzandosi e ricomponendosi in un atteggiamento formale. «La riceveremo nei nostri appartamenti. Non credo ci sia bisogno di invitarla alla massima discrezione.»
Zora annuì e si inchinò di nuovo. «Non mi permetterei mai di recare imbarazzo ai futuri imperatori.»
 

[1] tea gown: abito da tè, indossato dalle signore in epoca vittoriana unicamente tra le mura domestiche.
 
[2] Qui mi sono presa una libertà anacronistica: il Teatro Nazionale di Sarajevo è stato fondato in realtà solo nel 1921 e la sua attività artistica iniziò nel 1946, proprio con La sposa venduta di Bedřich Smetana.

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Capitolo 13
*** Carne da macello ***



CARNE DA MACELLO

 
 
 
La Panne, giugno 1915
 

Fanny Bouchard ignorava Abigail da più di una settimana.
Ogni volta che entrava in ambulatorio, sentiva i suoi occhi blu puntarla dall’altro capo della stanza, la gelida fiamma che irradiavano; ma dall’ultimo episodio, quando Abigail le aveva accidentalmente spaccato una lampadina in testa, sembrava che l’infermiera facesse di tutto per tenersi a distanza da lei.
Abigail non sapeva bene come questo la facesse sentire; se da un lato non avvertiva affatto la mancanza dei suoi commenti sarcastici e dei continui rimproveri, dall’altro la preoccupava che Fanny potesse aver capito che nascondeva un segreto. Che stesse facendo indagini sul suo passato e alimentando voci, magari ricollegandosi a ciò che era accaduto a Dalefern…
Non avrei dovuto dirglielo si rimproverava, sbirciandola mentre confabulava con le colleghe.
Forse si stava agitando eccessivamente: dopotutto, in che modo avrebbe potuto associare l’incidente dell’altro giorno con un tragico evento di almeno vent’anni prima e capire che appartenesse a una famiglia di maghi? Era stata sempre così attenta a non farsi vedere mentre esercitava la magia, a Norwich come a La Panne.  Non aveva ragioni di preoccuparsi di lei. Giusto?
«Qualunque cosa tu abbia fatto per spaventarla così» commentò Gwen un giorno. «Secondo me avresti dovuto farla molto tempo fa.»
«Vorrei solo sapere perché mi odia» sospirò invece Abigail, mentre cambiavano le lenzuola in uno dei reparti. «Non le ho fatto niente di male!»
«Quelle come lei non hanno bisogno di un motivo per essere stronze» replicò Gwen. «E quando uno se le trova davanti, di solito si comporta come con gli orsi: finge di essere morto finché non smettono di mordicchiarti le caviglie e perdono interesse. Mentre tu…»
«Io cosa?»
«Tu non lo fai» rispose Gwen, con semplicità. «Fingerti morta, intendo.  Per quanto lei ti punzecchi, non ti mostri mai impaurita. Credo sia questo che la fa infuriare così tanto: mio zio Herbert lo diceva sempre, mai guardare le belve feroci negli occhi. Si sentono sfidate.»
«Era un cacciatore?»
«No, organizzava mostre canine. Ma una volta è stato morso da un Cocker Spaniel» rispose lei, e ad Abigail sghignazzò in maniera così chiassosa da beccarsi un’occhiata di rimprovero da alcuni dottori.
«A ogni modo, trovo che non le faccia male abbassare un po’ la cresta» concluse Gwen. «E poi, cosa può farti di così tremendo? Spedirti a casa? Rischiamo di saltare tutti in aria da un momento all’altro qui, ti farebbe solo un favore.»
Non consci casa mia, avrebbe voluto replicare Abigail, ma si limitò a borbottare: «Mi sa che hai ragione tu.»
Su una cosa, di certo, non poteva darle torto: l’ostilità di Fanny era davvero l’ultimo dei problemi lì all’Océan.
Ogni giorno arrivavano soldati ridotti in condizioni pietose e con un bagaglio di traumi accumulati in trincea; gli incessanti ritiri e offensive decimavano interi plotoni. Impotenti, avevano visto amici morire tra atroci sofferenze, giaciuto accanto ai loro cadaveri nel fango, tormentati dai topi, dai parassiti, dal freddo e dalla pioggia.  Les gueules cassées, “facce rotte” erano ormai all’ordine del giorno, volti sfigurati dal gas e dalle malattie. Decine di loro non sarebbero mai più stati in grado di avere una vita normale, una famiglia, di tornare a lavorare. Persino di riuscire a guardarsi ancora allo specchio…
“Dovevate lasciarmi lì!” aveva sentito molti di loro piangere, quando il medico li avvertiva di aver fatto tutto ciò che la scienza medica del tempo permetteva. “A marcire in qualche fosso del cazzo! Meglio morto che ridotto così!”
Abigail si sentiva in costante lotta contro sé stessa. La magia avrebbe potuto compensare i limiti della medicina Mancante, salvare centinaia di vite, ma era complicato curare un’infezione in stato avanzato nel giro di pochi minuti senza destare domande. Faceva quel che poteva per alleviare la sofferenza dei malati quando non era sorvegliata dai medici, ma spesso si ritrovava a campare scuse poco credibili sui loro miglioramenti “prodigiosi”.
Certe volte avrebbe voluto mandare a monte la copertura e mostrare che sì, possedeva le capacità per aiutare seriamente quella gente. Cosa importava, in fondo, quali mezzi adoperava? Ma poi le tornavano in mente le storie che aveva sentito ad Arcanta, sulle terribili persecuzioni a cui la sua razza era andata incontro nel corso dei secoli: storie di processi per stregoneria, roghi, torture indicibili…
“I Mancanti non capiranno mai” l’aveva più volte messa in guardia suo padre. “Non sono in grado di accettare qualcosa che vada al di là della propria comprensione, per quanto si proclamino difensori del progresso e del libero pensiero. Avranno sempre paura della magia e odieranno chi la pratica”.
Ma dopo tre giorni di bombardamenti incessanti e con l’Océan che annaspava sotto l’ondata di emergenze, Abigail era stata costretta ad agire lo stesso, approfittando di ogni momento in cui veniva lasciata sola coi pazienti, alterando i ricordi di chi le girava intorno, se necessario.  
Era sicura di essere stata sufficientemente prudente, ma quando, una mattina, il dottor Depage la fece convocare, Abigail capì che la sua nuova vita sarebbe presto crollata come un castello di carte.
L’avevano scoperta, alla fine. Cosa le sarebbe accaduto? L’avrebbero cacciata? Fatta arrestare? Portata nel cortile delle esecuzioni al municipio e freddata così come accaduto alle sue antenate secoli fa…?
Con l’umore di una condannata al patibolo, la ragazza raggiunse l’ufficio del primario e bussò alla porta.
«Prego, è aperto.»
Abigail entrò. La stanza era rivestita da pannellature di rovere e scaffali colmi di libri di medicina e il dottor Depage sedeva dietro la scrivania, le dita incrociate sul ripiano ingombro di documenti.
«Chiuda la porta, se non le dispiace.»
Abigail ubbidì, sforzandosi di comportarsi in maniera meno colpevole possibile. «Dottor Depage, io…»
«So che è molto impegnata» la interruppe il medico, osservandola dietro le piccole lenti rotonde degli occhiali. «Ma preferirei risolvere la faccenda il prima possibile.»
Abigail deglutì, lo stomaco ridotto a un groviglio di tensione. «S-se posso, dottore, vorrei dirle che le cose che ha sentito su di me…»
Depage sfogliò un plico di carte. «Oh, ho sentito molte cose interessanti su di lei. Il dottor Stewart dice che qualsiasi paziente passi sotto le sue cure abbia un recupero a dir poco eccezionale.»
«Mi dispiace» squittì Abigail, disperata. «So che sembra assurdo, ma le assicuro che ho agito con le migliori intenzioni…!»
Le sopracciglia cespugliose di Depage si aggrondarono appena. «Ne sono certo. Perciò ho pensato fosse la persona più indicata per questo incarico.»
Abigail si congelò, presa in contropiede. «I-incarico?»
«È arrivato un telegramma questa mattina» disse Depage. «Da parte del generale Mackenzie, giù a Ypres: uno dei nostri ricognitori è precipitato la notte scorsa sulla cresta di Bellewaerde, quattro miglia a est dalla prima linea.»
Depage fece scivolare verso di lei una mappa, fittamente percorsa da un intreccio di linee. Abigail seguì la traiettoria indicata. «È terra di nessuno.»
«Secondo Mackenzie, William Draper è un asso dell’aviazione e ci sono buone probabilità che sia sopravvivendo all’impatto. Ma avrà, naturalmente, bisogno di cure immediate.»
Abigail alzò la testa di scatto. «Vogliono mandare laggiù qualcuno a recuperarlo, non è così?»
«E a soccorrerlo» completò Depage, annuendo. «È essenziale che il maggiore Draper non cada in mano ai tedeschi: la BEF[1] si sta organizzando da mesi per prendere quella maledetta collina. Draper è in possesso di informazioni preziosissime, che potrebbero mandare a monte l’intera operazione. E causare un indicibile numero di morti.»
Il cuore di Abigail iniziò a battere a un ritmo frenetico. «Come possiamo impedirlo?»
«Mackenzie ci ha chiesto di inviare un’equipe medica sul posto. Il problema è che a causa di questi continui attacchi abbiamo bisogno di tutti i nostri medici e paramedici qui, all’Océan
Un brivido le serpeggiò lungo la schiena. «Mi sta chiedendo di andare, signore?»
Lui trasse un profondo sospiro. «Vorrei non doverglielo chiedere, miss Thorn. Sarà accompagnata da una squadra di soldati scelti, e assisterà il dottor Martin. Parla solo francese, però mi hanno riferito che lei lo conosce molto bene.»
«Ehm, sì» mentì Abigail. In verità, l’Incanto di Babele era uno dei primi sortilegi che venivano insegnati ad Arcanta, in modo da poter comunicare con qualsiasi Cittadino a prescindere dalla provenienza. Ma si era rivelato utilissimo da quando era in Belgio.
«Non le nascondo che ho molte perplessità su questa missione.» proseguì Depage. «Non chiederei mai a una giovane donna di rischiare la vita in territorio nemico, se non fosse a repentaglio la…»
«Accetto.»
Depage la guardò.
«Parteciperò al recupero del maggiore Draper» disse Abigail, con voce più sicura. «È per questo che sono qui. Per fare la mia parte.»
Depage rimase per un lungo istante in silenzio. Poi, si schiarì la voce. «Questo le fa onore, miss Thorn. Però, mi sento in dovere di metterla in guardia su…»
In quell’istante, la porta dell’ufficio si spalancò.
«Che storia è questa!?» esclamò una voce tremendamente familiare. Quella di Fanny Bouchard.
Depage sospirò. «Miss Bouchard…»
«Miss Bouchard un corno!» sbottò l’infermiera, avanzando belligerante verso la scrivania. «Perché nessuno mi ha informata dell’operazione di recupero?»
«Perché ho già trovato una persona idonea.»
Fanny scagliò un’occhiata dardeggiante su Abigail. «Non vorrà mica mandarci lei!? È qui da pochi mesi, non ha esperienza!»
«Fanny…»
«Io opero all’Océan dalla sua fondazione! Ho gestito le peggiori emergenze di questo ospedale, compresa la battaglia dell’Yser…»
«Francesca!» disse Depage, alzando la voce. «Non intendo rivedere la mia decisione. Ho osservato l’operato di Miss Thorn nelle ultime settimane: ha talento e sangue freddo e grazie alle sue cure i pazienti sembrano riprendersi sorprendentemente in fretta…»
«Ah!» fece Fanny, sarcastica. «E non si è domandato come mai?»
A quelle parole, Abigail iniziò a sudare freddo.
«No, in tutta onestà» replicò Depage, asciutto. «La priorità, in questo momento, è salvare vite. Le sciocche rivalità passano in secondo piano.»
Fanny serrò le labbra, tradendo un’espressione ferita. «Credevo che apprezzasse il mio lavoro qui.»
«Ma certo che lo apprezzo.»
«E allora perché continua a rifiutarsi di darmi un’occasione!?»
«Perché ho fatto una promessa a tuo padre!» esclamò a quel punto Depage, battendo il pugno sul tavolo. «Gli ho giurato che se ti avesse permesso di lavorare qui, avrei fatto tutto in mio potere per non…» Si interruppe e scoccò uno sguardo incerto ad Abigail. «Mi perdoni, Miss Thorn, le chiedo di poter proseguire la conversazione con Miss Bouchard in privato. Fornirò al più presto tutte le informazioni necessarie. Può andare.»
Ad Abigail non sfuggì che il volto del medico si era fatto teso e imbarazzato, che evitava di guardarla negli occhi. Si congedò con un breve inchino e lasciò la stanza.
Una volta percorsa la prima scalinata, però, agitò le dita dando vita a una distorsione sonora che le permise di ascoltare cosa si stessero dicendo i due nell’ufficio anche a distanza:
«Non posso permettere che ti accada qualcosa, Fanny» stava borbottando Depage. «Eugene non me lo perdonerebbe mai! Era già contrario all’ida di lasciarti partire…»
«Tutti i miei fratelli sono al fronte!» ribatté Fanny, in un sibilo. «Rischiano la vita per il proprio Paese! E io invece? Perché non posso fare la mia parte come tutti gli altri?»
«Ci sono dei ruoli che una donna deve imparare ad accettare» replicò il medico. «Soprattutto se appartiene a una famiglia in vista come la tua. Ti è stato concesso di aderire al Voluntary Aid Detachmente solo a patto che rimanessi nelle retrovie, e finora hai svolto un lavoro eccellente qui. Ma questa missione è troppo rischiosa: fidati Fanny, lascia che vada chi non ha niente da perdere.»
Seguì un lungo silenzio. Abigail sentì venirle meno il respiro, il sangue che le batteva nelle tempie. Chi non ha niente da perdere…
«È per questo che ha scelto lei?» chiese Fanny, in un sussurro.
«Miss Thorn non ha famiglia» rispose Depage, amaramente. «Nessuno che la aspetti in Inghilterra. Me lo hai riferito tu, no? Ha perso tutto in quel terremoto...»
«E perciò sarebbe sacrificabile?» sbottò Fanny, e la furente indignazione della sua voce riempì inaspettatamente il cuore di Abigail di gratitudine. «Questo è inaudito! Perché la sua vita dovrebbe valere meno della mia!?»
«Un giorno capirai, Fanny. Quando avrai dei figli e ti preoccuperai per loro.» Il tono di Depage non ammetteva più alcuna replica. «Ora torna al tuo lavoro. E mi raccomando, niente di quello che ci siamo detti esca da questa stanza.»
 
 
Anche Abigail dovette mantenere la più rigida riservatezza riguardo la missione. A detta del dottor Depage, persino all’Océan avrebbero potuto esserci spie, e recuperare il maggiore Draper prima che la notizia giungesse ai tedeschi era solo questione di tempistiche.
Ma fu dura tenere per sé ciò che sapeva, soprattutto con Gwen e le altre coinquiline, fare a meno del loro sostegno, fingersi tranquilla quando la tormentava il pensiero che forse non le avrebbe riviste mai più…
Quanto a Fanny, anche lei faceva finta di nulla, ma più di una volta Abigail l’aveva sorpresa a fissarla, con l’aria di chi avrebbe voluto dire molte cose e si stesse trattenendo con difficoltà.
Depage ha ragione, cercò di autoconvincersi, mentre lasciava l’ospedale per raggiungere il luogo d’incontro con la squadra di recupero. È un bene che sia io ad andare.
Dopotutto, ragionò per farsi forza, la magia le avrebbe garantito una protezione più efficace rispetto al migliore dei fucilieri. E di salvare Draper, anche se le sue condizioni fossero state disperate.
Certo, era pronta ai rischi. Sarebbe stato più difficile non farsi smascherare, ma contava sul fatto di riuscire a confondere i suoi accompagnatori con la malia. Quello che non si aspettava però era che, una volta giunta alla camionetta che l’avrebbe portata oltre la linea, avrebbe trovato ad attenderla il caporale Tom Doherty e il suo fedele amico, James Finnegan, che chiacchieravano e fumavano.
«Miseriaccia!» gracchiò Finnegan appena la vide, rovesciando per terra gran parte del tabacco con cui stava rollando una sigaretta. «Non ci credo che stanno mandando sul serio un’infermiera laggiù!»
Abigail sistemò nervosamente la borsa porta-medicinali in spalla. «Se la preoccupa che possa svenire alla vista di un cadavere, caporale, le assicuro che ne ho visti a sufficienza.»
«Ah, non sono mica i morti a preoccuparmi, miss» replicò l’irlandese. «Ma quelli ancora in grado di sparare.»
Anche Tom Doherty la stava guardando, e ancora una volta, Abigail sentì strani brividi farle su e giù lungo la schiena, come tanti piccoli ragnetti. Dannazione, possibile che ogni volta che quell’uomo era nelle vicinanze il suo corpo dovesse avere reazioni inappropriate?
«Se hanno scelto lei, avranno sicuramente le loro buone ragioni» decretò, ma dalla sua espressione si capiva quanto poco fosse d’accordo. «Da questa parte, le presento il dottor Martin.»
Il medico francese era un ometto nervoso, con una faccia da topo e lo sguardo di chi è perennemente sul punto di vomitare. Si mostrò tuttavia sollevato alla vista di Abigail, con cui avrebbe condiviso l’enorme responsabilità di riportare Draper nelle retrovie tutto intero.
Presero posto sul retro del furgone, stipati tra altri quattro soldati irlandesi e i loro ingombranti equipaggiamenti. Abigail si ritrovò stretta tra i dottor Martin e Doherty, e non appena l’auto si mise in moto, percorrendo una strada sterrata, fu sballottolata ora addosso all’uno, ora all’altro. E nel frattempo, aveva la spiacevole sensazione di trovarsi sotto esame…
«Porta male trascinarsi dietro una donna» se ne uscì un soldato, con una vecchia ferita cucita alla bene e meglio che gli solcava metà della faccia. «A Mackenzie il cloro gli ha fritto il cervello. Ci rallenterà soltanto!»
Lei si inalberò all’istante, pronta a rimbeccarlo, ma Doherty la anticipò: «Ci rallenterà maggiormente che ognuno decida di testa propria, O’Connor. Tieni certe considerazioni per te.»
Abigail rimase colpita dal suo tono autoritario, ma lo fu di più quando un altro soldato, dall’aria sciupata e dismessa, che per l’età che dimostrava avrebbe potuto essere suo padre, commentò divertito: «Il nostro Tommy parla già come un perfetto ufficiale! O’Connor non ha tutti i torti, figliolo: questa ha le carte in regola per essere una missione suicida. E sei un ingenuo se pensi che Mackenzie non lo sappia.»
Tom Doherty si accigliò. «Di che parli, Regan?»
«Ancora non lo avete capito?» Il veterano misurò Doherty e Finnegan dall’alto in basso coi suoi occhi azzurro brillante, il ghigno che si allungava. «Credete che vi abbiano scelto per il vostro coraggio? Guardateci: una marmaglia di irlandesi capeggiati da due ragazzini che puzzano ancora di latte! E quanto a quel fottuto pilota…probabilmente è già bello che andato!»
Subito, un sentore di nervosismo si propagò nella camionetta e gli altri soldati si guardarono. Quanto al dottor Martin, sembrava spaesato e probabilmente era un bene che non capisse un acca di quel che stavano dicendo.
Abigail guardò Doherty, senza nascondere il suo stupore. «Quindi siete voi due al comando?»
«Non è la prima volta che ci inoltriamo in terre ostili» spiegò Doherty, fissando torvo Regan. «Abbiamo partecipato ad alcune operazioni di recupero: veicoli, armamenti, civili…»
«Eh già, non ci hanno promossi per i nostri bei faccini!» gli diede man forte Finnegan. «Dammi retta, Regan, faresti meglio a rimangiarti tutto.»
«Pensala come vuoi, biondino» sbuffò l’altro, con amara ironia. «Ma la verità è che qui siamo tutti carne da macello: rognosi e indesiderati, gente sacrificabile, di cui nessuno sentirà la mancanza.»
Abigail ripensò alle parole del dottor Depage e le si formò un nodo alla bocca dello stomaco: “Miss Thorn non ha famiglia, nessuno che la aspetti in Inghilterra …”
«Non abbia timore, miss» sussurrò Doherty, riscuotendola da quei pensieri «Siamo veloci e prudenti, e lavoriamo bene in squadra. Finché tiene gli occhi aperti e resta vicino a noi, sarà al sicuro.»
«Chi dice che abbia timore?»
Invece di indispettirsi, lui le offrì un sorriso. «No, certo che non ne ha.»
Il camion si inoltrò sempre più a est, e presto la distesa di campi ondulati su cui splendeva il caldo sole pomeridiano lasciò spazio a un boschetto di betulle grigie. Abigail era stupita che stessero procedendo così allo scoperto, ma col sole alle spalle, aveva spiegato Tom, difficilmente avrebbero attirato l’attenzione. A un certo punto, però, dovettero fermarsi.
«C’è un albero caduto che blocca la strada» li informò il conducente, al che Tom e James si scambiarono uno sguardo d’intesa con gli altri soldati e uscirono a controllare, imbracciando i fucili.
«Lei e il dottor Martin restate qui» ordinò Tom ad Abigail, prima di scendere. «Potrebbe essere un’imboscata.»
Abigail ubbidì, spiando da sotto la copertura impermeabile del furgone i movimenti dei soldati tra gli alberi. Le sue mani, tuttavia, erano pronte a scattare a qualsiasi avvisaglia di allarme.
«Sembra tranquillo» li informò James, quando tornò da loro. «Ma dovremo proseguire a piedi da qui in poi.»
Nascosero la vettura sotto una sporgenza di roccia intorno a cui crescevano fitti cespugli, e camminarono compatti attraverso la foresta, finché la luce lo permise. Al calar della sera, si accamparono in una radura, rinunciando tuttavia ad accendere un falò per non segnalare la loro posizione.
«Questi sono i momenti in cui il Dolan’s mi manca quasi più di mia madre» commentò James tristemente, scoperchiando la sua porzione di carne in scatola. «Ucciderei per una pinta di birra scura!»
Abigail si accontentò di qualche galletta, e intanto, si permise di sbirciare furtivamente Tom, che invece teneva lo sguardo fisso sul folto degli alberi, in allerta.
«Non può essere caduto lontano da qui» disse a un tratto, indicando qualcosa in alto. «Guardate quei rami, sono spezzati e bruciati. L’aereo deve averli colpiti, precipitando.»
Cercarono di riposare qualche ora prima che albeggiasse, organizzando turni di guardia; Abigail si accoccolò addosso allo zaino di James, ma, sebbene sentisse su di sé la stanchezza del viaggio, era troppo nervosa per concedersi una vera e propria dormita. Così, impiegò quelle ore per tessere incantesimi di protezione lungo il perimetro dell’accampamento.
Alle prime luci, erano già in viaggio. Percorsero una valle dove la strada si restringeva passando tra due colline che digradavano dolcemente e, come aveva previsto Tom, non ci volle molto prima che trovassero i resti del biplano; la parte anteriore si era parzialmente inabissata in una palude, l’elica sganciata, ed entrambe le ali erano spezzate. Grossi frammenti di lamiera erano sparpagliati dappertutto.
«È ridotto male» commentò O’Connor, esaminando il relitto. «Credete sul serio che quel povero diavolo sia ancora vivo?»
Nessuno pareva troppo ottimista, ma Tom e James decisero di setacciare ugualmente i dintorni. Diedero anche al dottor Martin una pistola, mentre raccomandarono ad Abigail di restare dove potevano vederla.
La ragazza eseguì gli ordini, però continuava ad avvertire una strana spinta dentro di sé, come se qualcosa stesse cercando di avvertirla che non fosse la strada giusta. Si fermò, chiuse gli occhi, e allargò i confini della propria mente, assecondando quella sensazione.
Sentiva il Tutto scorrerle intorno, vivo, vibrante di antiche energie. L’istinto la portò ad avvicinarsi a un albero, dove sentiva quel richiamo palpitare più forte, e posò il palmo sulla corteccia nodosa. Lasciò che la propria coscienza si intrecciasse con quella dei Molti che la circondavano, silenziosi spettatori degli eventi che si erano susseguiti in quella foresta.
Di indole, gli alberi non erano mai stati esseri particolarmente loquaci, e col passare dei secoli si erano sentiti troppo spesso ignorati e maltrattati dagli umani. Perciò, non era semplice convincerli a condividere i propri segreti…
«Credevo di averle detto di restare vicino a noi!»
Tom la raggiunse con espressione adirata. «Siamo già sulle tracce di un potenziale cadavere, non facciamo che diventino due!»
Abigail lo ignorò, percependo la sua voce solo come un’eco lontana. Quando, finalmente, riemerse dalle profondità di quel muto dialogo, spalancò gli occhi e sorrise. «So dov’è Draper!»
«Prego?»
«È vivo!» Lei si volse a guardare Tom, raggiante. «È riuscito a saltare giù prima dell’impatto. Non ha percorso molta strada, non riesce a camminare; perciò, dovremmo portarlo in barella…»
Tom la fissò a bocca aperta. «E come fa a sapere tutte queste cose?»
«Non è importante» disse lei sbrigativa, iniziando già a incamminarsi. «Per di qua! Ma dobbiamo fare in fretta.»
«Un momento, Abigail!»
Lo udì masticare un’imprecazione, ma chiamò lo stesso a raccolta gli altri soldati e le corse dietro. «Cosa le fa credere che si trovi da quella parte?»
«Lei come faceva a sapere dove fosse caduto l’aereo? Osservando gli alberi, no? È più o meno la stessa cosa: si fidi di loro.»
Esasperato, Tom alzò gli occhi al cielo. «Quindi gliel’hanno detto gli alberi!»
«Finora ho fatto tutto quello che mi è stato detto, le costa molto provare ad ascoltare me per una volta…?»
Un sibilo sottile, e un proiettile si conficcò nel tronco di un albero, a pochi centimetri dalla testa di Abigail.
«Giù!»
Tom si lanciò su di lei, poco prima che altri spari piovessero nella radura.
Caddero all’indietro e ruzzolarono lungo un ripido pendio e, quando atterrarono, Tom fece scudo ad Abigail col proprio corpo.
Improvvisamente, l’aria si riempì di comandi gridati in tedesco e del crepitio dei fucili. Abigail vide dei movimenti tra la vegetazione sopra di loro. «Ci stanno circondando.»
Mentre puntava il fucile verso l’orlo del fossato, Tom le disse: «Resti a terra e non faccia rumore.»
Poi, prima che lei potesse fermarlo, risalì il pendio e iniziò anche lui a sparare.
Nel panico, Abigail si tirò su per seguirlo, pronta a coprirgli le spalle con la magia, ma all’improvviso sentì due mani afferrarla da dietro e tirarla verso i cespugli.
Abigail lottò come una furia per liberarsi, ma si bloccò quando sentì una voce parlarle in inglese: «Dannazione, tu sei una di quelle pupe che non ascoltano, dico bene?»
La presa si allentò e Abigail si allontanò con uno scatto. «Lei è…?»
«Maggiore William Raymond Draper» L’uomo nascosto tra i cespugli abbozzò un sorriso che pareva più una smorfia. Aveva il volto coperto di graffi e lividi, foglie e rametti impigliati tra i capelli biondi. Una mano impugnava una pistola, l’altra reggeva con aria sofferente la gamba destra, piegata in maniera innaturale. «Asso della Royal Air Force…almeno, quando sono in forma.»
«Siamo venuti a cercarla, maggiore» disse Abigail, mentre gli spari continuavano a colpire la radura. «Ce la fa a camminare?»
«In queste condizioni, miss, non riuscirei neanche a strisciare.»
Lei esitò. Non aveva scelta. «Allora rimanga fermo.»
Stese una mano verso la gamba ferita, chiamando a sé il proprio potere. Il ricognitore era perplesso. «Che cosa sta?..»
«Stia zitto, per favore.»
Lui si irrigidì, mentre l’osso tornava al proprio posto e un’espressione sbalordita si dipingeva sul suo volto. «Quello…quello cosa è stato?»
Lei fece saettare in aria le dita. «Qualcosa che si è già scordato.»
Anche con la gamba del pilota risanata, restavano comunque in un mare di guai. Abigail si sporse oltre il nascondiglio, setacciando con ansia la boscaglia. Non vedeva più Tom da nessuna parte.
«Resti qui» intimò al ricognitore e dovette ricorrere alla malia per essere sicura che l’avrebbe ascoltata. Salì lungo il fianco della collina, i piedi che scivolavano sulle foglie cadute. Vide diversi soldati acquattati dietro gli alberi, che cercavano di prendere la mira e colpirsi a vicenda. C’erano già dei corpi riversi a faccia in giù, tra il fogliame…
Era la prima volta che assisteva a uno scontro a fuoco in prima persona.
Abigail deglutì e mosse le dita, riuscendo a deviare la traiettoria di un proiettile prima che sfiorasse l’orecchio di James Finnegan.
Individuò anche Tom, impegnato in un corpo a corpo con un soldato tedesco, che cercava di strappargli di mano il fucile.  Ma il tedesco era più grosso di lui e un certo punto, gli assestò un calcio che lo mandò tappeto. Il ragazzo cadde all’indietro, battendo forte la testa, e il peso dello zaino gli impedì di rialzarsi in tempo.
No!
Abigail sentì accendersi dentro di lei una scintilla di rabbia, così intensa e violenta da spaventarla. Sembrò riempirle la testa, accecandola, sommergendola.
Alzò entrambe le mani e strinse con forza i pugni.
Ci fu uno scricchiolio, seguito da uno schiocco secco, come un colpo di frusta, e subito dopo, un grosso albero si abbatté fragorosamente sulla radura.
Il soldato tedesco urlò, travolto in pieno dal tronco possente, mentre Tom riuscì a tirarsi fuori dalla traiettoria rotolando su un lato.
Abigail aveva il fiatone, le girava la testa. Respirando forte, Tom si issò sui gomiti e si girò a guardarla con occhi sgranati e increduli. E in quell’istante, lei seppe che lui aveva capito. Che aveva compreso che era stata opera sua…
L’impatto servì a disperdere i tedeschi, dando modo ai soldati irlandesi di uscire allo scoperto e passare al contrattacco, scaricando i loro fucili addosso ai nemici. Nel giro di pochi minuti riuscirono a costringerli a battere in ritirata.
«Il maggiore Draper è qua giù!» gridò Abigail. «Sta bene, è solo sotto shock!»
James Finegan, O’Connor e Regan si precipitarono giù per il pendio insieme al dottor Martin e recuperarono il ricognitore, ancora stordito per l’effetto della magia di Abigail.
«Lei è ferita?»
Tom le si era avvicinato.
Abigail si passò la manica su piccolo taglio che le mordeva la guancia. «Sto bene.»
«Mi ha salvato la vita.»
Lei avvertì una brusca fitta al petto ed evitò di guardarlo. «Lei crede?»
«Non so di preciso come ci è riuscita» disse lui, con voce roca. «Ma quello che ho visto…»
«C’era molta confusione» replicò lei, secca. «Non sa che cosa ha visto.»
Dopo un momento di esitazione, Tom annuì. «No, ha ragione. Non ne ho davvero idea.»
 

[1] BEF: British Expeditionary Force.

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Capitolo 14
*** Termini e condizioni ***


 


TERMINI E CONDIZIONI

 
Frascati, maggio 1914
 
 
Lucia capì al volo che qualcosa era andato storto: nessuno rientrava mai da una festa ad Arcanta finché non spuntava l’alba.
Dalla sua stanza udì chiaramente tutte le porte del palazzo sbattere contemporaneamente come se fosse passato un uragano, contagiate dal malumore del padrone di casa. E poi, aveva iniziato a suonare il violino: dalla violenza con cui stava aggredendo quelle povere corde, doveva essere infuriato.
Lucia aveva trascorso gran parte del pomeriggio a studiare, poi aveva dipinto un po’ sulla sponda del lago e cercato di educare Valdar al rispetto delle regole imposte da Solomon. L’orco si era dimostrato ragionevole oltre ogni aspettativa e desideroso di imparare più cose possibili sull’uomo a cui aveva giurato fedeltà eterna.
E poi, cosa del tutto inaspettata, adorava aiutare Lucia in cucina.
Certo, i suoi modi erano rudi e la sua dialettica carente, però iniziava a piacerle: sotto quella corazza verde-grigiastra, c’era una creatura ferita, alla ricerca di una casa e di uno scopo. Proprio come lo era stata lei.
A fine giornata, si era preparata per andare a dormire, ma non prima di aver spazzolato il fiume di capelli rossi, cresciuti fino a lambirle i fianchi. Ne andava molto fiera; erano capelli da regina, di quelli cantati dai poeti e in cui gli innamorati annegavano dolcemente. E pensare che c’era stato un tempo in cui aveva creduto di odiarli…
“La Vanità è il peggiore tra i peccati” le aveva ripetuto per anni la madre badessa, una donna spaventosa, con una faccia larga da rospo e mani pesanti come quelle di un fabbro. “Ci allontana dall’amore di Dio e ci avvicina al Diavolo.”
Perdere l’amore di Dio era stata la paura peggiore di Lucia sin da piccolissima. Sua madre non l’aveva amata, altrimenti non l’avrebbe scaricata sulla ruota degli esposti a pochi giorni dalla nascita. E neanche suo padre, chiunque fosse, doveva aver tenuto molto a lei, dal momento che non era mai venuto a cercarla, nemmeno per constatare se avesse ereditato da lui la magia.
Così, Lucia aveva sempre fatto del suo meglio per meritarsi l’amore di Dio, impegnandosi ogni giorno per essere la bambina più buona del convento.
Ma non era bastato. Anzi, era stato sufficiente un solo momento di debolezza per spazzare via anni di cieca devozione.
Lucia aveva ventiquattro anni allora, ma nessuna esperienza del mondo fuori le mura del convento. Una mattina, mentre era al pozzo, era stata avvicinata da un uomo molto diverso dagli zoticoni che aveva visto al villaggio: quell’uomo, invece, si esprimeva bene, sebbene con un leggero accento straniero, e i suoi occhi sembravano due frammenti di cielo. Si offrì di portare i pesanti secchi d’acqua per lei e la ragazza dovette reprimere un urlo quando, al suo comando, si sollevarono da soli e galleggiarono ubbidienti lungo la strada. L’uomo si presentò come l’Arcistregone dell’Ovest, e spiegò di essere alla ricerca di un tesoro nascosto proprio nel suo convento. E le disse anche che, se lo avesse aiutato a trovarlo, avrebbe esaudito qualunque suo desiderio.
Lucia conosceva bene i Vangeli e dopo un’iniziale fascinazione, nella sua testa era suonato un campanello d’allarme: il Diavolo poteva assumere molte forme, perché non quella di un elegante forestiero?
Ma Solomon Blake sapeva essere persuasivo e, sebbene ogni cosa in lui promettesse guai, Lucia se ne sentì voracemente attratta.
Così, acconsentì a dargli una mano. Fece alcune ricerche e scoprì che il tesoro, un banale libro di salmi, si trovava negli appartamenti della badessa. Aiutò Blake a introdurvisi, ma non appena mise le mani sul tomo, un abominio fatto di ombre si liberò da quelle pagine e li attaccò con una brutalità tale che persino lo stregone si trovò in difficoltà.
Era stato allora che Lucia aveva usato la magia per la prima volta, e la sensazione era stata inebriante; una furia bruciante le era esplosa nel petto, così impetuosa da travolgere la paura e tutto il resto, e aveva preso forma sgorgando dalle sue mani in un vortice di fiamme.
Il fuoco scacciò il demone ma, una volta passato il pericolo, Lucia si rese conto che Blake era sparito col libro, e che le sue consorelle avevano assistito a tutto.
“Dovevo sapere che in te c’era qualcosa di sbagliato!” aveva ruggito la badessa, puntando il dito accusatore contro di lei. “Strega!”
Strega. Era questo ciò che era? Una creatura malvagia, destinata all’Inferno?
Rendersene conto fu un trauma terribile. Almeno quanto lo era stato essere rinchiusa in prigione e dover assistere, attraverso le inferiate, alla costruzione di una pira nella piazza del villaggio. Quanto poi al momento del rogo, i suoi ricordi erano confusi, ma di tanto in tanto, nei suoi incubi, qualcosa riaffiorava in superficie …il fumo che le invadeva i polmoni… le urla inferocite della folla…e poi quel puzzo orribile, dolciastro e nauseante, della carne che bruciava…
Ma soprattutto, ricordava la luce: una luce gentile, che l’avvolgeva come un abbraccio, e la strappava dal dolore…
Dio mi ha perdonata ricordò di aver pensato. Alla fine, ha mandato un angelo a salvarmi…
Ma non era stato un angelo a salvarla. Era stato Solomon Blake.
Lucia posò la spazzola sul mobile da toeletta e guardò il proprio riflesso nello specchio, la donna che era diventata nei quattro anni in cui era stata allieva dell’Arcistregone dell’Ovest. Gli alchimisti di Arcanta avevano cancellato ogni segno esterno degli orrori che aveva subito, ma era stato grazie al suo maestro se era riuscita ad andare avanti. Perché Blake era un uomo difficile, caparbio, e talvolta appariva senza cuore, eppure, era diventato il suo faro nell’Oscurità: l’aveva resa la regina di quel palazzo, insegnato a non temere il suo potere, ma a comprenderlo e a dominarlo. Le aveva fatto scoprire la propria bellezza, e il piacere di essere desiderata. Ma, soprattutto, che non c’era nulla di sbagliato nell’essere egoisti ogni tanto.
Così andò al guardaroba e indossò uno dei suoi vestiti preferiti, sulla cui seta blu profondo splendevano migliaia di stelle in movimento.
Il giorno in cui lei e Solomon si erano trovati, Lucia era morta e poi rinata, per questo il suo cuore non sarebbe mai appartenuto a nessun altro. E prima o poi sarebbe riuscita a farglielo capire.
 
*
 
Solomon davvero non riusciva a capire come potesse aver fallito.
L’unica cosa chiara, al momento, era che moriva dalla voglia di dare fuoco a qualcosa. Tuttavia, considerò che fosse un peccato rovinare quei bei mobili, alcuni risalenti al Quattordicesimo secolo. Comporre di solito lo aiutava a distendere i nervi, a concentrarsi su aspetti concreti come la respirazione, il coordinamento delle dita, il calcolo delle pause…
“Non se la prenda, capita a tutti di prendere una cantonata ogni tanto. Persino a uno come lei…”
Sbagliò una nota e l’archetto guaì sulle corde come un animale ferito.
«Maledizione!»
Solomon sprofondò in poltrona, ribollendo come una vecchia teiera, ma per quanto si sforzasse di non pensarci, il sorrisetto compiaciuto di Isabel Ascanor continuava a danzargli davanti agli occhi. Ma chi si credeva di essere quella donna per trattarlo in quel modo?!
Sentì bussare alla porta.
«Sol» chiamò la voce gentile di Lucia. «Va tutto bene? Posso entrare?»
Lui esitò, diviso come al solito tra il desiderio di averla accanto e quello di essere lasciato in pace. Alla fine, sventolò la mano e la porta si schiuse da sola.
«Scusa se ti ho svegliata» borbottò, pizzicando piano le corde. «Non mi ero accorto di che ore fossero.»
Lei si appollaiò sul bracciolo della poltrona. «Non è andata bene?»
«Un fiasco.» Solomon mise via il violino, che continuò a suonare da solo una lugubre melodia, e invece afferrò il bicchiere di whisky che aveva poggiato sul tavolino. «Mi sono bruciato gli Ascanor in un modo così…così stupido! A questo punto, ottenere il Codice Oscuro sarà impossibile!»
«Quel Bibliotecario è davvero così tremendo come dicono?»
Solomon si bloccò col bicchiere vicino alle labbra e l’espressione colpevole. Ovviamente, lei non sapeva nulla. «Diciamo che tutti in quella famiglia hanno qualcosa che non va.»
«Non fa niente se non sei riuscito ad avvicinarlo» lo rassicurò Lucia. «Non è la fine del mondo.»
«Ma è la fine del progetto.» Solomon fissò truce il fondo del bicchiere, come se quell’odiosa saputella di Isabel Ascanor si trovasse proprio lì. «Mi serve quel libro: il Vuoto è la chiave per rovesciare il Decanato!»
«Vorrà dire che escogiteremo qualcos’altro» ribatté Lucia, convinta. «Sei il mago più intelligente al mondo! Troverai una soluzione.»
Lo stregone le rivolse uno sguardo spento e sospirò. «Sì, lo so.»
Restò in silenzio qualche istante, poi aggiunse: «Le cose che ho detto stamattina, ad Arcanta…sai che non le penso.»
«È Arcanta» disse lei. «A nessuno è concesso di essere se stesso lì.»
«Vorrei che non fosse così.»
Lucia lasciò il bracciolo e si sedette invece sulle sue gambe. «Qui però non siamo ad Arcanta» disse, con voce bassa e morbida, accarezzandogli i capelli «Qui possiamo essere tutto ciò che vogliamo. Fare tutto ciò che vogliamo.»
Solomon sentì che la rabbia già lo stava abbandonando, sostituita da un altro tipo di adrenalina. Le circondò i fianchi col braccio, attirandola più vicino. «Ancora non capisco perché tu lo faccia.»
«Fare cosa?»
«Continuare a perdonarmele tutte.»
«Tu non ti perdoni mai» replicò Lucia. «Qualcuno deve pur farlo.»
Si chinò su di lui per baciarlo, ma Solomon la fermò. «C’è una cosa che non ti ho detto. Riguardo, ehm, questa sera.»
Lei sbatté le lunghe ciglia con fare interrogativo e lui cercò di convincere le parole a uscire, senza successo. Gli tornarono però in mente di nuovo le parole di Isabel Ascanor, la sua espressione arrogante mentre gli chiudeva in faccia tutte le porte della Cittadella con un semplice e categorico “NO”.
Almeno, non dovrò sposarmela io.
Di certo la colpa non poteva essere sua: lui non sbagliava mai. In ottantasette anni, nessuna donna era mai rimasta indifferente al suo fascino, perciò doveva essere quella Isabel ad avere qualche problema. Con una punta di perfidia, pensò che avrebbe trascorso il resto della vita circondata da gatti…
«Lascia stare» sorrise Solomon, scuotendo la testa. «Non è importante.»
 
Il mattino dopo, come tutte le mattine, si svegliò nel suo enorme letto a baldacchino da solo. I patti erano chiari e Lucia aveva imparato che era inutile insistere per dormire insieme: dopo il sesso, lei scivolava fuori dalle lenzuola, gli augurava buonanotte e se ne tornava in camera sua. Qualche volta, Solomon era stato tentato di fare uno strappo alla regola e chiederle di restare, scoprire che cosa si provasse ad aprire gli occhi e trovare qualcuno al proprio fianco. Ma riusciva a controllarsi quasi subito. Le cose tra loro avevano sempre funzionato a meraviglia così, non c’era ragione di complicarle. Erano già un ingranaggio perfettamente efficiente.
Con indosso solo i pantaloni di seta color vino del pigiama e un kimono, lo stregone percorse i corridoi del suo maniero, inondati dal caldo sole primaverile. In un salotto, raggiunse un dispositivo magico di sua invenzione, che ricordava vagamente un orologio a pendolo: sul quadrante era rappresentata solo la Corte dei Sofisti e un’unica lancetta ruotava piano. Un segnale acustico lo avrebbe avvisato se qualcuno si fosse presentato alla Corte, dandogli tutto il tempo raggiungere Arcanta per riceverlo senza destare domande sulla doppia vita che conduceva lì. Ma di recente lo aveva dotato di altre funzionalità.
Solomon tirò infatti una cordicella, attese pochi istanti, e, quando aprì lo sportellino di vetro, tirò fuori una copia dell’Oraculum, il giornale ufficiale di Arcanta, fresco di stampa.  Lo sfogliò mentre andava a sedersi sul divano, scorrendo le notizie principali. Sbirciò anche la sezione riservata al gossip, perché in fondo era curioso di scoprire se Isabel Ascanor avesse scelto un fesso da sposare. Non c’erano novità a riguardo e un po’ se ne rallegrò. Trovare qualcuno meglio di lui non sarebbe stato affatto semplice. Buona fortuna, tesoro…
Udì un pesante rumore di passi, e quando si fermarono, un’ombra lo sovrastò.  Alzò gli occhi e si trovò a tu per tu con Valdar; Lucia gli aveva fatto indossare una salopette di cotone grezzo, più dignitosa del perizoma sudicio con cui era arrivato. L’effetto finale era di avere a che fare con un macellaio saltato fuori da un incubo per farlo a fette.
«Serve qualcosa?» domandò, col tono più educato che gli riuscì.
«Valdar è in questa casa da un mese.»
«Lo so» replicò Solomon con stizza, pensando a tutte le cose che gli aveva già sfasciato. «È difficile ignorare la tua presenza.»
«Così Valdar voleva chiedere a Padron Blake quando potrà seguirlo in battaglia.»
Lo stregone si trattenne dal ridergli in faccia. «Seguirmi in battaglia? Giovanotto, credo che tu abbia frainteso la situazione.»
«Valdar grande guerriero» disse l’orco con fierezza. «Lui sconfitto possente Hurg di Valleombrosa a sedici anni, e poi guidato sua tribù contro invasori venuti dal mare. Sempre lui portato suoi orchi alla vittoria.»
«Hai un curriculum di tutto rispetto» commentò Solomon, che voleva solo tornare al suo giornale. «Ma il fatto è che qui non siamo in una “tribù”. E io lavoro da solo.»
Valdar corrugò la fronte sporgente. «Padron Blake combattuto al fianco di grosso mago russo contro Valdar.»
«Sì, ma tecnicamente lo stavo fregando. Quindi Boris non conta.»
L’orco parve deluso. «Allora, Padron Blake cosa vuole che Valdar faccia per onorare suo giuramento?»
Solomon alzò gli occhi al soffitto. «Non voglio che tu faccia proprio niente! Non hai alcun giuramento da onorare per quel che mi riguarda! E ti sarei grato se la smettessi di chiamarmi “Padron Blake”: sono inglese, non voglio essere associato ulteriormente allo schiavismo!»
Sperò che bastasse a chiudere la questione, ma l’orco continuava a restarsene lì impalato a fissarlo. «C’è altro?»
«Valdar preparato colazione per Padron Blake.»
Solomon lo fissò a bocca aperta. Questa non se l’aspettava. «Tu hai cucinato?»
«Lucia mostrato a Valdar dispensa. Lui sempre cucinato per sua fa...» Lasciò in sospeso la frase e poi concluse, con un velo di amarezza: «Per sua tribù.»
«Non mi pare di aver letto che gli orchi cucinassero.»
Valdar questa volta sembrò offendersi parecchio, perché snudò le zanne. «Orchi di Norvegia antica tradizione culinaria!»
«Ti credo, ti credo! Ma io non ho appetito la mattina. Al massimo bevo un caffè.»
«Ma Padron Blake bisogno di forze per affrontare suoi nemici!»
«Ti ho detto di non chiamarmi così!»
«E poi, Valdar preparato ruskjiak. È sua specialità...»
Solomon emise un altro sospiro. Tutto pur di levarselo di torno. «Va bene, hai vinto! Vediamo che cosa hai combinato!»
Lo seguì in sala da pranzo, dove scoprì che l’orco aveva anche provato ad apparecchiare, a modo suo. Solomon sedette senza troppa convinzione di fronte a un pasticcio con un coltello infilzato in cima, e da cui debordava una melma verdastra. Forse era suggestione, ma gli era sembrato che qualcosa si muovesse lì dentro. Deglutì, cercando di respingere la nausea. «Il tuo delizioso ruskjjak, suppongo…»
Si stava già pentendo amaramente della decisione, ma l’orco era proprio alle sue spalle, e gli sarebbe bastato un ceffone per spedirlo di testa nel muro di fronte. Così, Solomon estrasse il coltello, si armò di forchetta e, pregando di non vomitare, tagliò un minuscolo pezzettino, che portò con interminabile lentezza alla bocca..
Era…viscido. E tra i denti sentiva qualcosa di granuloso, che gli rilasciava progressivamente sulla lingua un fresco sapore di lime. La pasta poi era dolcissima e si scioglieva in bocca.
«Per tutti i demoni» mormorò, sbalordito. «È squisito!»
L’orco annuì con orgoglio. «È specialità di Valdar.»
Solomon era semplicemente folgorato. «Non posso credere che sto mangiando…ma con cosa è fatto? Ah, lascia stare, ho paura di scoprirlo!»
Mandò giù un altro boccone e questa volta lo assaporò con gusto. In quell’istante, però, dal salotto provenne il suono squillante di una sveglia. Solomon balzò subito in piedi, la bocca ancora piena. Mandò giù tutto in fretta. «È il segnale, devo tornare ad Arcanta: qualcuno è venuto a cercarmi alla Corte dei Sofisti.»
«Valdar viene con Padron Blake!» esclamò l’orco baldanzoso. «Così potrà guardare sue spalle.»
«No! Tu…tu hai un compito più importante qui» disse precipitosamente Solomon. «Fai la guardia al palazzo e proteggi Lucia a costo della vita. Che te ne pare? A me sembra proprio un lavoro da prode guerriero!»
Valdar emise un sospiro tetro. «Sì, padrone.»
 
Solomon raggiunse in un batter d’occhio la Corte dei Sofisti. Giunto al portone d’ingresso, si stampò in faccia un’espressione disinvolta e andò ad aprire. Ma avrebbe preferito non farlo…
«Buenos dias, signor Blake!» esordì allegramente la donna sull’uscio. «Spero di non averla disturbata. Permette una parola?»
La mascella di Solomon cedette dallo stupore. Isabel Ascanor indossava un sobrio tailleur grigio perla, con giacca a maniche strette sugli avambracci e larghe alle spalle, e un cappellino di paglia calzato davanti allo chignon.
Non era sola. La accompagnava un giovane scuro, dai lineamenti aggraziati e l’espressione annoiata, vestito come un damerino.
Visto che Solomon pareva aver smarrito la voce, fu lei a riprendere la parola: «Di solito questo è il momento in cui si viene invitati a entrare.»
«Che cosa ci fa qui?» chiese bruscamente Solomon. Si rese conto di averla ricevuta praticamente mezzo nudo e si allacciò in fretta il kimono, temendo di essere arrossito.
«Non si agiti, non sono qui per aggredirla» disse Isabel, divertita. «Voglio solo scambiare qualche parola. Ha intenzione di farci entrare? Si muore di caldo oggi!»
Solomon tenne aperta la porta, stringendosi addosso la vestaglia, e Isabel e il misterioso giovanotto entrarono.
«Mi sono sempre chiesta che aspetto avesse la sua Corte» commentò la maga, lo sguardo che si soffermava incuriosito sulle statue lungo le pareti e sulle alte volte affrescate. «Non sono molte le donne a cui è permesso entrare, dico bene…?»
Solomon chiuse la porta. «Le dispiace dirmi cosa…?»
«Oh, io prendo un tè, molte grazie! Con un po’ di limone. E tu, Eduardo? Gradisci qualcosa, mi querido
Il giovane scrollò le spalle con disinteresse. «Un tè andrà bene.»
Solomon iniziava seriamente a irritarsi, ma l’etichetta lo obbligava a comportarsi da buon padrone di casa. «Bene» disse tra i denti. «Da questa parte.»
Li guidò a una saletta appartata e li fece accomodare attorno a un tavolo di ciliegio. Li lasciò qualche minuto soli per correre a vestirsi e strada facendo, si imbatté in uno dei suoi allievi, Stephen, che bighellonava in giardino. Lo incaricò subito di servire il tè.
«Perché devo farlo io?» si lamentò lui. «È Lucia che si occupa di queste cose!» Ma bastò un’occhiataccia del maestro per metterlo in riga.
«Che ne direste di venire al motivo di questa visita?» chiese, una volta preso posto insieme ai suoi ospiti.
Isabel sorrise e bevve un sorso di tè. Era una donna abbastanza ordinaria, proprio come gli era parsa la sera prima; mora, non molto alta, dalla pelle color miele e il viso a forma di cuore. Tuttavia, nei suoi occhi nerissimi brillava un acume abbastanza potente da fargli prendere in considerazione di ascoltare ciò che aveva da dire.
«Le ho mentito l’altra sera» ammise, senza abbandonare il tono vivace. «Sapevo perfettamente chi fosse. E naturalmente, conosco la sua fama. C’è chi la dipinge come un gentiluomo, chi come la peggiore delle serpi. In quale dei due si identifica, signor Blake?»
«Magari in entrambi» rispose lui, accigliandosi. «Niente a questo mondo è mai o bianco o nero. E a me non interessa cosa pensa la gente.»
«Le interessa se può sfruttarlo per ottenere qualcosa» lo corresse Isabel, dimostrando ancora una volta una certa arguzia. «Il suo è un personaggio costruito a tavolino con il preciso scopo di piacere agli altri, non è così?»
«Dove vuole arrivare, señorita Isabel? Perché la avverto che la mia pazienza  ha un limite.»
Lei poggiò la tazza sul piattino e disse al giovane Eduardo: «Perché non vai a prendere una boccata d’aria, tesoro? Da quella parte ho visto un giardino incantevole.»
Il giovane mago non fece una piega, si inchinò e lasciò la stanza.
«A che razza di gioco contorto sta giocando?» sibilò Solomon, una volta rimasti soli. «Non ritiene di avermi umiliato a sufficienza? Ha vinto, mi ha smascherato! È proprio necessario infierire venendo qui a insultarmi, sbandierando il suo nuovo fidanzato …?»
Isabel si mise a ridere. «Eduardo è mio cugino. Gli ho solo chiesto di farmi da chaperon; i miei fratelli non mi avrebbero mai permesso di andare a trovare uno scapolo da sola. Soprattutto se lo scapolo in questione è lei. In effetti, se lo venissero a sapere, potrebbero ucciderla.»
Lo stregone la guardò, preso in contropiede. «La sua famiglia non sa che è qui?»
«Ovviamente no. Ma conto sulla discrezione di Eduardo: l’ho minacciato che, se spiffererà qualcosa, gli farò tornare quegli orribili brufoli che lo tormentavano quando aveva sedici anni!»
«Ah», fece Solomon con una smorfia. Non pensava che una donna potesse essere capace di un tale sadismo.
«Sono qui perché voglio proporle un affare» riprese Isabel, congiungendo le dita di fronte a sé. «Se le ricerche che ho svolto sono fondate, a lei piace fare affari.»
«Dipende da quel che ci posso guadagnare» replicò Solomon, ma doveva riconoscere che era sempre più curioso.
«Era quello che speravo di sentire.» Isabel tornò a sorridergli, poi rovistò nella borsetta e ne estrasse un piccolo rotolo di pergamena, che fece scivolare verso il suo lato del tavolo. Lui aprì il documento e ne lesse il contenuto. Giunto alla fine, tornò lentamente guardare la donna. «Questo è… un accordo matrimoniale.»
«Esattamente.»
«Perché me lo sta facendo leggere?»
«Perché voglio assicurarmi che lei sia informato sui termini e le condizioni prima di firmare.»
Solomon non sapeva che reazione dovesse avere. Se scoppiare a ridere o infuriarsi. «È uno scherzo!?»
«Ha detto che fa affari solo se può guadagnarci qualcosa» spiegò Isabel. «Ecco, è tutto scritto lì, nero su bianco: se mi sposa diventerà un membro della famiglia Ascanor, con tutti i vantaggi che questo comporta. Che poi è quello che voleva ottenere dall’inizio, giusto?»
Solomon era sbalordito.  Guardò il foglio, rilesse attentamente ogni singolo paragrafo, e poi tornò di nuovo a fissare la donna. «Pensavo non volesse nemmeno prendermi in considerazione!»
«Stavo valutando le opzioni.»
«Ma ha detto che non avevo superato il test!»
«Nessuno dei candidati lo ha superato» ribatté lei. «Non che nutrissi grandi speranze. Di solito le persone ci mettono un po’ a mostrarsi per come sono in realtà; lei invece si è dimostrato un uomo tronfio, permaloso e arrogante sin da subito. Almeno mi ha fatto risparmiare tempo.»
Solomon sentì di nuovo il sangue andargli al cervello. «Allora perché adesso vuole sposarmi?»
«Non fraintenda, non credo alla fiaba del matrimonio come idillio romantico, e so perfettamente che l'unico interesse che nutre per me è in realtà rivolto alla mia casata. Però mi trovo d’accordo con quello che ha detto ieri sera: potrebbe essere un’ottima occasione per entrambi.»
«Che intende dire?»
«Lei piace agli abitanti di Arcanta, signor Blake, sa come portarli dalla sua parte» spiegò la maga. «Per questo, al contrario, i Decani non la amano molto. E a me serve uno come lei per realizzare il mio obiettivo.»
«E sarebbe?»
«Voglio diventare alchimista» rispose Isabel, stavolta senza alcuna traccia di ironia. «Come sa, alle maghe è vietato entrare nel Cerchio d’Oro, persino a una Ascanor. Ma se mi sposassi, se riuscissi a emanciparmi dalla mia famiglia, potrei intraprendere la carriera con l’appoggio di mio marito. Fondare un mio laboratorio. E magari, una scuola aperta alle donne.»
A Solomon scappò una mezza risata. Di certo il senso dell’umorismo non le mancava. «Questa è pazzia. Se ne rende conto, vero?»
«Dicono che niente sia impossibile per lei» ribatté Isabel, guardandolo ora con un cipiglio ostinato. «Che non esista un’impresa talmente pericolosa o folle da scoraggiarla. O devo pensare che la gente esageri?»
Sembrava dannatamente convinta di ciò che diceva. E Solomon non era più sicuro di trovarla divertente. «Senta, lady Ascanor, non so che idee si sia fatta su di me, ma non ho intenzione di aderire a una squinternata crociata femminista contro il Cerchio d’Oro. Non sono l’uomo giusto.»
«Ha davvero così paura di mettersi contro i Decani?»
A quelle parole, una rabbia antica prese il sopravvento, e Solomon la sentì risalire così velocemente che scattò in piedi senza nemmeno rendersene conto, coi palmi premuti sul tavolo.
«Non ho paura di loro!» disse in un ringhio. «Ma so riconoscere una causa persa. Niente cambierà la testa dei Decani e nemmeno dei cittadini di Arcanta. A loro non interessano i diritti delle maghe!»
Ma Isabel non si lasciò intimidire, e gli piantò addosso uno sguardo altrettanto infuocato. «Quindi lei trova giusto che alle donne sia impedito di dedicarsi all’alchimia? Molte ragazze non vengono nemmeno adeguatamente istruite alla magia, e su quattro Corti solo quella delle Lame addestra maschi e femmine indistintamente!»
«Non le faccio io le regole.»
«Ma potrebbe aiutarmi a cambiarle!»
Solomon scosse la testa, e le restituì la pergamena. «Se le condizioni sono queste, mi vedo costretto a rifiutare la sua proposta.»
Isabel continuò a fissarlo torva, mentre riprendeva la pergamena. «Quando mio padre morirà – e secondo gli alchimisti è questione di poco – i miei fratelli avranno il pieno controllo sulla mia vita. Potranno darmi in sposa a chi vogliono loro, oppure segregarmi in una torre per l’eternità, se lo riterranno opportuno. Mio padre desidera ancora che sia io a decidere, ma il tempo a mia disposizione sta per scadere!»
«E cosa le fa pensare che io possa essere un marito migliore di altri?» chiese Solomon. «Come ha detto, ho una reputazione discutibile.»
«Non sarà il miglior uomo di Arcanta» convenne Isabel. «Ma non è neanche il peggiore. Piuttosto, direi che è nella media.»
«Nella media!?» Solomon si sentì oltraggiato come se gli avesse sputato addosso il peggiore degli insulti.
Isabel si strinse nelle spalle. «Però, speravo che almeno non si sarebbe spaventato all’idea di infrangere qualche regola. Devo averla sopravvalutata.  Scusi se le ho fatto perdere tempo.»
Si alzò, ficcò in borsa la pergamena e risistemò sulla testa cappellino di paglia. «Le auguro una buona giornata, signor Blake.»
Solomon la seguì con sguardo cupo mentre si dirigeva alla porta. Si sentiva scombussolato come se la stanza fosse stata colpita da un fulmine. Proprio adesso che si era rassegnato all’idea di dover rinunciare…quella donna si presentava lì e scombinava di nuovo le carte in tavola. Non era giusto. Non era... programmato!
Eppure, per qualche assurdo motivo, gli era appena stata data una seconda possibilità, ma per orgoglio se la stava lasciando sfuggire di nuovo. Gli sembrò di vederle, le porte della Cittadella che si chiudevano davanti a lui, precludendogli i suoi segreti. Stavolta, in maniera definitiva…
«Aspetti.»
Isabel si fermò, la maniglia stretta in pugno e si volse a guardarlo.
Lui lasciò andare un altro profondo sospiro. Stai per firmare la tua condanna, lo sai, vero?
«Mi faccia dare un’altra lettura a quel contratto.»

 

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Capitolo 15
*** Lo scender è cosa agevole ***



LO SCENDER È COSA AGEVOLE

 

 

 

Facilis descensus Averno: 
noctes atque dies patet atri ianua Ditis; 
sed revocare gradum superasque evadere ad auras, 
hoc opus, hic labor est
..1

Virgilio, Eneide, Libro VI (vv. 126-129)

 

 

 

Sarajevo, 28 giorni prima dello scoppio della Guerra
 

Quella mattina, poco prima di aprire gli occhi, Zora fece un sogno.
Si trovava su una barchetta a remi in mezzo a un lago attraversato da banchi di bruma lattiginosa. 
Non riusciva a vedere la riva da cui aveva mollato gli ormeggi, né dove fosse diretta. Non aveva punti di riferimento per orientarsi. Così, continuava lasciarsi trascinare dalla corrente, a immergere i remi nell'acqua, talmente piatta e grigia da ricordare la superficie di uno specchio, ma aveva l'impressione di non riuscire a muoversi, che i remi spostassero unicamente la nebbia in pigre volute. 
A un certo punto, le parve di udire le note di una fisarmonica, accompagnate da un canto popolare e dal tenue rumore di zoccoli, di ruote di legno che si trascinavano stanche sul selciato. Ebbe un tuffo al cuore, ma non riuscì a capire da dove provenisse quel suono.
«Papà?» chiamò, sforzandosi di scorgere qualcosa nella foschia. «Sei tu? Dove sei?»
Ma il canto risuonava sempre più lontano e malgrado Zora remasse con tutte le forze, non riusciva a seguirlo. Presto si attenuò fino a scomparire del tutto, inghiottito dalla nebbia...
«Papà! Aspetta!»
Si svegliò di soprassalto, gli occhi annegati di lacrime e un urlo che lottava per liberarsi dalla sua gola.


«Avresti dovuto indossare quello rosso.»
Zora si girò a guardare Krsta, che le sedeva accanto sui sedili posteriori dell'auto. «Prego?»
«Il vestito» spiegò lui, il viso poggiato sulla mano e lo sguardo rivolto oltre il finestrino. «Avresti dovuto indossare quello rosso. È molto più scenografico di questo. E poi, gli schizzi di sangue si notano meno.»
Un sorrisetto sadico gli increspò le labbra e lei strinse le mani in grembo. «Magari ho scelto il nero perché sono a lutto.»
«Per Francesco Ferdinando?»
«Per noi due.»
Krsta ridacchiò. «Come siamo melodrammatici! Andrà tutto liscio come l'olio, fidati.»
«Dove' il grimorio?» domandò ancora una volta Zora, logorata da quel ricatto. «Ce l'hai con te? Voglio vederlo.»
«Ma ti senti? Parli come se avessi preso tuo figlio in ostaggio! Lo riavrai questa sera stessa, va bene? Adesso pensa solo a impegnarti in quello che dobbiamo fare. È tutto nelle tue mani.»
«Certo» ironizzò lei. «Nessuna pressione.»
«Sei brava» replicò Krsta, in un tono che non lasciava dubbi sulla sua sincerità, stavolta. «La migliore sulla piazza. Riuscirai dove tanti hanno fallito e riscriverai la storia. Chi lo sa, fra qualche settimana, quando saremo al sicuro su un transatlantico in viaggio per i Caraibi e ripenseremo a questa faccenda, mi ringrazierai, perfino.»
Le offrì un sorriso e nel ricambiare il suo sguardo, Zora si accorse che il suo cuore era arido come steppa sferzata dal vento. Non c'era mai stato amore tra lei e Krsta, in fondo lo sapevano entrambi. Si era aggrappata a lui per sopravvivere, come un naufrago afferra il primo pezzo di legno galleggiante per non essere sopraffatto dalle onde.
Ed era stato facile, all'inizio, lasciarsi trascinare alla deriva da lui. Era stato anche divertente. Un'agevole discesa verso l'inferno...
Lui l'aveva usata, ingannata, e le era stato infedele innumerevoli volte. Ma ancora una volta, era l'istinto di sopravvivenza a tenerli insieme, la consapevolezza che se uno dei due affondava, avrebbe trascinato l'altro giù con sé.
Gli occhi stretti in fessure cariche di veleno, Zora sibilò qualcosa in romaní e si calò il velo di tulle sul viso. 
«E quello cos'era?»
«Ti ho fatto il malocchio. Consideralo il mio modo di ringraziarti.»
La risposta lo ammutolì. «Lo so che quella roba non esiste» borbottò poi, nervosamente. «È superstizione, non magia.»
«Dici?»
«Cazzo, Zora, mi augureresti sul serio la morte?!»
«La morte forse no» concesse lei. «Ma una calvizie precoce sì.»
Il cielo era ancora luminoso quando l'auto li condusse all'Hotel Bosna per l'incontro con l'arciduca e la duchessa Sofia; una stazione termale confortevole a pochi passi da Sarajevo, dotata di luce elettrica, bagni sulfurei, campi da tennis sull'erba e un poligono di tiro.
Il concierge li scortò personalmente attraverso sale arredate con lampade in stile ottomano, tappeti e artigianato di pregio. Giunti all'ascensore, però, informò che solo Madame Salomé aveva il permesso di accedere al piano della suite imperiale. Interdetta, Zora cercò lo sguardo di Krsta, che si limitò a sorridere con condiscendenza e annuire. 
L'avevano previsto, naturalmente. L'hotel pullulava di guardie e l'unico modo per avvicinarsi ai futuri imperatori era su specifico invito. Ma avevano trascorso la serata prima a elaborare un piano per permettere al sicario della Mano Nera di entrare e uccidere l'arciduca senza far cadere i sospetti su di loro...
“Ogni appartamento è provvisto di un montavivande” aveva appreso Krsta da un informatore che lavorava all'hotel. “Collegato direttamente alle cucine. Gavrilo passerà da lì, travestito da cuoco: tutto ciò che dovrai fare è trovare una scusa per rimanere sola con l'arciduca e sua moglie. A un certo punto, sarai sopraffatta dalla stanchezza e chiederai di far portare su qualcosa per ristorarti...”
“Si scatenerà il caos” aveva replicato però Zora, che proprio non riusciva a lasciarsi contagiare dal suo ottimismo. “E i primi a finire nel mirino saremo noi!”
“Vladimir isolerà le linee telefoniche e toglierà la corrente. Questo rallenterà la polizia, e la scorta imperiale sarà troppo occupata a proteggere la duchessa per mettersi a brancolare al buio per cercarci. Tranquilla, mia adorata: nel giro di un'ora tutto sarà finito.”
Un piano semplice, ma ben congegnato. Una volta fuori, una vettura li avrebbe portati direttamente in Croazia, dove li aspettava una nave diretta verso Malta. Nessun testimone, nessuno che avrebbe potuto collegarli all'assassinio.
Eppure, fu col terrore negli occhi e il sangue che le pulsava ferocemente nelle vene che Zora varcò l'ascensore foderato di velluto e guardò il volto di Krsta svanire alla chiusura delle porte. Adesso sì che si sentiva in trappola.
Il concierge percorse un lungo corridoio fino a una porta chiusa e, girata la chiave nella serratura, le cedette il passo. Zora entrò in un salotto carico di arredi, presidiato da due guardie armate di carabine, con al centro un tavolino cinese laccato di rosso. La duchessa Sofia sedeva su un sofà assieme al marito, torvo e austero nella sua uniforme militare. Lei gli teneva la mano e sussurrava al suo orecchio parole dolci, con un sorriso adorante sulle labbra. 
Si amano veramente pensò Zora, provando una fitta di tristezza e forse anche un po' d'invidia.
Appena si rese conto che non erano più soli, la duchessa si scostò dal marito e riassunse il tono formale del loro incontro a teatro la sera prima: «Ben ritrovata, Madame Salomé. Prego, si accomodi.»
Zora tirò le gonne in un'impeccabile riverenza e sedette al lato opposto del tavolino.
«Questa donna» disse l'arciduca,  studiando Zora dall'alto in basso. «Dice di avere informazioni per noi?»
«Madame Salomé ha accesso a un certo tipo di conoscenza, caro» spiegò pacata Sofia. «In un clima così incerto, può esserci utile un consulto da parte sua, non credi?»
L'arciduca fissò la medium, attento e guardingo, e lei sostenne quella valutazione impassibile, com'era abituata a fare. Alla fine, l'arciduca emise un suono dal profondo della gola.
«Molto bene» decretò, malvolentieri. «Ascoltiamo cosa ha da dire. L'importante è che non ci porti via troppo tempo: è quasi ora di cena, e ho un delizioso soufflé al formaggio che mi aspetta.»
Zora estrasse il mazzo di Marsigliesi dalla borsa.
«Sono molto belle» si complimentò la duchessa, osservando il movimento fluido delle carte mentre venivano mischiate. «Come tutte le cose antiche.»
«Grazie, altezza. Prego, sceglietene uno.»
Zora poggiò il mazzo a faccia in giù e lo tagliò in tre sezioni uguali. Sofia le scrutò pensierosa, ma fu l'arciduca a prendere la decisione, e indicò con fermezza quello centrale. Zora riunì le carte, tenendo il prescelto in cima. Dopodiché, spiegò i tarocchi a ventaglio di fronte a sé.
«Dunque?» domandò subito la duchessa. «Che cosa dicono?»
Zora prese tempo, come se la relazione tra gli Arcani non apparisse subito chiara. Allargò le carte sul tavolino cinese e, dopo averle esaminate per qualche altro istante, annunciò: «Sono desolata, altezze. C'è qualcosa che interferisce tra voi e le carte. Per questo mi è difficile interrogarle.»
«A cosa si riferisce?» 
La medium fece un cenno alle due guardie immobili come golem dietro la coppia imperiale. «È necessario che si venga a creare un legame intimo tra le carte, chi le interroga e la persona a cui il futuro appartiene. Qualunque altra presenza può disturbare gli equilibri ancestrali.»
L'arciduca e la duchessa si scambiarono uno sguardo perplesso.
«Questo è fuori discussione!» protestò lui, alterandosi. «Non manderò via la scorta!»
«Ma hai sentito? Disturbano gli equilibri ancestrali!»
«Non mi interessa, qualunque cosa voglia dire!»
«Franz» disse lei, prendendogli la mano tra le sue. «Ti prego. Per me è importante sapere cosa ci aspetta. Dopo tutto quello che abbiamo passato...»
Contrariato, l'arciduca borbottò qualcosa in tedesco sotto i baffi. Ma alla fine cedette: «E va bene. Voi due, aspettate qui fuori. È un ordine!»
Seppur sbalordite, le guardie scattarono sull'attenti e lasciarono immediatamente l'appartamento.
«Mi auguro che ora si possa proseguire» brontolò l'arciduca.
Zora tornò alle sue carte. 
«Portate entrambi sulle spalle un grosso fardello» disse. «Avete paura di deludere le aspettative, di regnare su un Paese che vi odia.»
«Come chiunque sia al potere» commentò l'arciduca.
«Invero» annuì Zora, accennando un sorriso. «Ma il sentimento tra voi è solido e sincero e vi aiuterà ad affrontare le insidie del trono.»
«Questo lo sappiamo già» si spazientì lui. «Non ha nient'altro che valga la pena rivelarci? Ha parlato a mia moglie di tumulti e pericoli. Quando e come accadrà?»
«Le carte non forniscono mai i tempi esatti. Posso però affermare che sarà imminente. Immediato, oserei dire.»
Con la coda dell'occhio, sbirciò l'orologio a pendolo addossato alla parete.
È il momento, si disse. Devi agire.
Cominciò a sventolarsi energicamente con la mano. «Io...chiedo scusa, ho paura di non sentirmi troppo bene. Fa molto caldo oggi e mi sento...sopraffatta dall'energia irradiata dalle carte.»
«Magari è quel ridicolo velo» suggerì sprezzante l'arciduca. 
«Corro ad aprire la finestra» propose la duchessa. «Vuole stendersi un minuto?»
«Mi basterà una bevanda zuccherata. Spero non sia troppo disturbo chiederle di farla portare su.»
«Ci mancherebbe.»
La duchessa raggiunse il piccolo montacarichi dorato incassato nel muro; dopo aver segnato qualcosa su un foglio di carta, chiuse lo sportellino e tirò una cordicella. «Sarà questione di pochi minuti.»
Zora ascoltò il rumore prodotto dagli ingranaggi in azione, mentre la cabina scendeva giù, verso le cucine. “Nel giro di un'ora tutto sarà finito”, aveva promesso Krsta.
«Nell'attesa» incalzò l'arciduca. «Potrebbe svelarci qualche altro dettaglio sui pericoli che strisciano sotto i nostri piedi, e che hanno tolto il sonno a mia moglie la scorsa notte?»
«Forse dovremmo lasciarla riposare» tentò Sofia, ma lo sguardo di Francesco Ferdinando era freddo e inflessibile. Quello di un uomo abituato a farsi obbedire.
«Ma certo» assentì Zora, cercando di non mostrarsi intimidita. «Andiamo pure avanti. Dicevo...»
L'arciduca pareva irrequieto. La duchessa apprensiva. Quanto a Zora, aveva la bocca asciutta e non riusciva più a mantenere la propria mente concentrata, distratta dal terrore di quel che presto sarebbe saltato fuori dal montavivande...
Sta per succedere. Sta per succedere davvero...
Nello sforzo di nascondere il tremore delle mani, una carta sfuggì dal mazzo, cadendo sul tappeto. «Scusate ancora...»
Si chinò per recuperarla, ma, quando la voltò, riuscì a stento a contenere un sussulto.
«Tutto bene, madame?» chiese la duchessa.
«Io...io sì, devo solo...»
Qualcosa dentro di lei aveva dato una sferzata non appena aveva posato gli occhi sulla figura rappresentata, era certa di non averlo immaginato.
Baba aveva da sempre sostenuto che le carte possedevano una voce, che di rado si lasciava udire da orecchie umane. Zora si era ormai rassegnata all'idea che nemmeno a lei avrebbero mai parlato, eppure, in quel momento, mentre fissava con orrore il Cinque di Denari, sentiva di non avere più alcun dubbio a riguardo. Perché quella carta non si riferiva al destino dell'arciduca e di sua moglie. Quella carta era per lei. Così come lo sarebbero stati in futuro perdita, solitudine e miseria, se avesse continuato per quella strada...
Si issò in piedi, inciampando nell'orlo del vestito e guardò l'arco formato da quelle settantotto carte, disposte come un monito sopra il tavolino cinese. Le carte della sua adorata Baba, per sempre sporcate di sangue...
«No» sussurrò, senza fiato. «No, non posso permetterlo...»
L'arciduca e sua moglie la stavano ancora fissando, indecisi su come interpretare quella reazione.
Zora gettò il velo dietro la testa. «Ascoltatemi, ora. Voi due siete in pericolo. Dovete lasciare Sarajevo stasera stessa, va bene? Fate venire subito qui le guardie!»
Le altezze imperiali rimasero immobili, a bocca aperta. Poi, l'arciduca scoppiò a ridere. «Be', finalmente! Per essere una che parla coi morti, iniziavo a trovarla noiosa, Madame Salomé!»
«Sto parlando seriamente, razza di borioso tricheco!» sbottò Zora, ormai sopraffatta dalla rabbia e dal terrore. «Lei è un uomo insopportabile, non mi meraviglia che mezzo continente voglia la sua testa! Ma questa donna, per qualche folle ragione, darebbe la vita per lei. Quindi, adesso chiamerà le sue guardie e farà in modo di portarla al sicuro fuori da qui!»
L'arciduca era esterrefatto. «Ma lei come si permette...!?»
«Sssh! Chiuda il becco!»
Stavolta lo aveva udito in maniera inequivocabile. Il montavivande era in azione.
Angosciata, Zora guardò Francesco Ferdinando e Sofia e poi, non vedendo alternative, allargò le braccia come un albatro che si appresta a spiccare il volo.
L'aria cambiò, tutti e tre lo percepirono. Una scarica improvvisa si propagò per la stanza, simile a una corrente d'aria, che gonfiò i tendaggi di velluto e fece ondeggiare i lampadari a ruota che scendevano dalle travi. Il tavolino cinese si ribaltò, le carte si sparpagliarono sulla moquette.
Zora lo aveva giù provato diverse volte, ogni volta che la rabbia rendeva incandescente il suo sangue, ogni volta che si sentiva delusa, umiliata, calpestata. Quel palpito. Quell'energia vivida, frizzante, che scaturiva da un luogo remoto dentro di lei. Ma questa volta, invece di resisterle, decise di andarle incontro...
«Ho detto» gridò, mentre l'elettricità vorticava tutt'attorno. «FUGGITE!»
Terrorizzato, l'arciduca strinse a sé Sofia, ma in quell'istante, la corrente saltò e tutto diventò buio. Come cieca, Zora si mosse a tentoni, prona sul pavimento. Le carte...dove sono le mie carte?
Percepì un cigolio e subito dopo lo scatto secco dello sportello del montavivande che si spalancava.

«Za Srbiju!2» ruggì una voce. 
Zora si gettò con tutte le sue forze contro lo sportello, sbattendolo in faccia all'uomo nel montavivande. Quello grugnì, ma riuscì lo stesso a liberarsi con un calcio. 
Era troppo buio per capire con esattezza cosa stesse accadendo. Ci furono degli spari, talmente vicini da perforarle i timpani. Un frastuono di vetri rotti. Poi, Zora fu colpita in pieno da una brusca spallata e finì per terra. «Puttana traditrice!»
Lei restò giù, con le braccia sopra la testa nel tentativo di farsi scudo, immobile e tremante. Tutto ciò che poteva fare era ascoltare il rumore di passi concitati, di spari e le grida che risuonavano lontane nell'oscurità...
All'improvviso, qualcuno le afferrò un braccio e Zora urlò.
«Calmati, cazzo! Sono io» ringhiò Krsta, tirandola su. «Qui è scoppiato il finimondo, l'attentato è fallito! Dobbiamo andarcene!»
«Le carte» gemette lei, lanciandosi di nuovo verso il pavimento. «Le carte di Baba, devo...»
«Non c'è tempo! Andiamo!»
La costrinse ad alzarsi in piedi, a mollare tutto e poi a correre, correre più veloce che poteva, trascinandola insieme a lui in un mare di ombre.


 

1 “Lo scender nell'Averno è cosa agevole: la porta di Dite è aperta notte e giorno; ma risalire i gradini e tornare a vedere il cielo, qui sta il difficile, qui la vera fatica.”

2“Per la Serbia!”


FINE PRIMO ATTO

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Capitolo 16
*** Atto II- Parabellum ***





ATTO II – PARABELLUM

 
 


 

«Tra il concepire un’impresa terribile

e il tradurla in un' azione c’è uno spazio

ch’è un sogno orribile, come un fantasma.

L’anima razionale e le passioni

in quel momento siedono a consulto

e tutto l’essere umano è in subbuglio

come un piccolo regno ch’è in rivolta.»

William Shakespeare, Giulio Cesare











 
 - PROLOGO - 

CACCIATORI E PREDE

 
 
 
https://www.youtube.com/watch?v=3tzE98pQH08&ab_channel=AnttiMartikainenMusic  
 
Che ad Hurtgrove Hall ci abitasse il Diavolo era cosa risaputa per gli abitanti di Hurtgrove Bridge.
Le stesse pietre su cui si ergeva erano impregnate di magia; in origine, furono adottate per innalzare una delle prime chiese di Britannia, all’epoca in cui i monaci sbarcarono sull’isola con la missione di convertirla al Nuovo Credo.

Leggenda narra che il potente druida Merlino la rase al suolo come monito per chiunque minacciasse gli antichi culti, e da allora nessuno osò più costruire chiese laggiù.
Venne però eretta una fortezza, nascosta da un fitto bosco di rovere, dove i discendenti di Merlino continuarono a custodire in segreto ciò che restava del Vecchio Mondo, mentre i Mancanti andavano avanti con le proprie vite.
Ma agli inizi dell'Ottocento, il signore di Hurtgrove Hall era Alastor Blake.
A differenza dei suoi predecessori, Lord Blake non si isolò dai Mancanti, al contrario: perché mai, pensava, un mago dovrebbe nascondersi come un coniglio spaventato nella propria tana?
Il mondo, secondo Blake, si divideva essenzialmente in due categorie: alcuni nascevano per essere cacciatori, altri per essere prede.
Un mago aveva il potere di far tremare la terra, di scatenare tempeste, di inondare i campi, o di farli inaridire. Non c’erano dubbi a riguardo: nel grande territorio di caccia del Creato, i maghi erano predatori naturali. E bisognava che i Mancanti lo ricordassero.
Divenne così padrone incontrastato di quelle terre e i Mancanti che le abitavano soggetti ai suoi capricci, poiché al Diavolo di Hurtgrove Hall sarebbe bastato un gesto per demolire le loro case e far marcire i loro raccolti.
La facilità con cui aveva asservito gli abitanti di Hurtgrove Bridge spinse Blake ad accarezzare l’idea che tutti i maghi dovessero riprendersi quanto era stato strappato loro nel corso della storia. E propose le proprie idee ai Decani di Arcanta, che, come i discendenti di Merlino, avevano messo sottochiave la magia, rifugiandosi tra le mura della loro città.
 “Pacifici”, si definivano loro. “Codardi”, li considerava Blake.
I Decani ascoltarono le proposte di Lord Blake, ma pensarono immediatamente che fosse un folle, un sanguinario. O peggio, un anarchico.
A poco a poco, lo isolarono dalla comunità magica, sperando che abbandonasse quelle ridicole idee. Invece, non fecero altro che aumentare il suo desiderio di rivalsa, e Lord Blake decise che, in un modo o nell’altro, avrebbe riconquistato il favore della Cittadella.
Poiché malgrado tutto era un uomo di grande fascino e carisma, riuscì a conquistare in fretta il cuore di Lavinia Cavendish, appartenente a una famiglia di maghi celebri per la prolificità delle loro donne; ad Arcanta nascevano infatti pochi bambini, e secondo gli alchimisti, nel giro di quattro o cinque generazioni i maghi avrebbero rischiato l’estinzione. Perciò, assicurare il proseguimento della stirpe magica era visto come segno di grande dedizione verso la Città.
Il Fato volle però che Lavinia desse al marito solamente due figli: Jonathan e Solomon, a distanza di due anni l’uno dall’altro.
La cosa deluse non poco Blake, che presto rivelò alla moglie il suo vero volto, di uomo vizioso, insensibile e crudele.  I rapporti tra loro si raffreddarono, poi si inasprirono, fino a tramutarsi in odio reciproco. Lavinia Cavendish si segregò in un’ala del palazzo, e poiché gli anni a Hurtgrove Hall avevano reso il suo cuore duro e pieno di rancore, con più interesse ad annegare i propri dispiaceri nel vino che ad occuparsi della prole, i bambini vennero affidati a una balia Mancante, che li accudì con amore, come fossero figli suoi.
A vederli, i fratellini Blake non avrebbero potuto essere più diversi; Jonathan era un po’ tarchiato, timido ma sempre sorridente, e possedeva i tratti armoniosi della madre e gli stessi capelli biondo cenere. Solomon al contrario, era schivo, taciturno e un po’ scorbutico, ma di tanto in tanto se ne usciva con osservazioni di una lucidità spiazzante, che lasciavano gli adulti spesso a corto di parole. Inoltre, era la copia in miniatura di suo padre, un insieme di linee dure e spigoli, con folti capelli nerissimi che facevano sembrare il suo volto ancora più pallido, e risaltavano l’azzurro dei suoi occhi come se sprizzassero pura elettricità.
Per i primi anni, Jonathan e Solomon crebbero insieme, consapevoli di avere solo l’un l’altra, e per questo uniti da un legame indissolubile. Si aggiravano per il maniero come folletti dispettosi, nascondendosi negli armadi o infilandosi di soppiatto in cucina per rubare qualche biscotto, e portavano un po’ di buonumore tra quelle tetre stanze; li si poteva sentire confabulare e ridere per ore, inventare buffi giochi e linguaggi che solo loro potevano comprendere, per tenere i grandi lontani dal loro mondo il più a lungo possibile. Ossia, finché Lord Blake non pretese di istruirli al loro debutto ad Arcanta.
Jonathan si dimostrò precoce rispetto alla media, stupendo suo padre con la sua capacità di controllo e la potenza dei primi incantesimi. Quanto a Solomon, al raggiungimento dei suoi sette anni ancora non riusciva a praticare la più elementare delle magie.
Per Lord Blake fu l’ennesimo motivo di vergogna: il suo secondogenito era un Latente, con un accentuato ritardo nello sviluppo della magia, e per questo la società magica lo avrebbe per sempre deriso e relegato ai margini.
Ciò rappresentò per il piccolo allo stesso tempo una condanna e una benedizione.
Suo padre lo considerava rotto in maniera irrecuperabile, qualcosa per cui non valeva la pena perdere tempo, perciò, mentre Alastor dedicava tutti i suoi sforzi nell’educazione di Jonathan, costringendolo a trascorrere le giornate chiuso in casa a studiare ed esercitarsi, Solomon veniva praticamente ignorato.
Aveva così la possibilità di passare molto tempo all’aria aperta, a giocare nei boschi e a esplorare.
Anche se il Tutto ancora non gli parlava, la natura per Solomon era affascinante quanto la magia, se non di più: trovava strabiliante come ogni elemento, dalla minuscola formica alla possente quercia, fosse perfettamente in sintonia con tutti gli altri, utile, come gli ingranaggi di una macchina complessa ed efficiente. 

Trascorreva ore a osservare la vita delle piccole creature della foresta, a studiarne i comportamenti e le caratteristiche, e in poco tempo, imparò a imitare il canto di qualsiasi uccello e le proprietà delle piante che le domestiche più anziane usavano per preparare rimedi curativi secondo antiche ricette.
Suo padre non approvava che trascorresse tutto quel tempo con la servitù Mancante, che al contrario dei suoi genitori lo riempiva di affetto e di premure, ma grazie a quella seconda famiglia Solomon riuscì ad avere un’infanzia felice anche senza magia: le cameriere giocavano sempre a nascondino con lui mentre riordinavano, i cuochi lo viziavano cucinandogli i suoi piatti preferiti e gli stallieri gli avevano insegnato a prendersi cura da solo del proprio cavallo.
Il suo migliore amico però era ancora Jonathan. Malgrado fosse molto impegnato, suo fratello trovava sempre tempo per lui, e quando Alastor gli concedeva tregua, portava Solomon a fare lunghe passeggiate, oppure a pescare. Perché Jonathan non era come suo padre, lui era gentile, e non lo aveva mai fatto sentire sbagliato e inutile:
“Tu non hai niente che non vada, Sol” diceva quando Alastor lo metteva alla prova, nella speranza che in lui si fosse risvegliato qualche talento, e puntualmente Solomon lo deludeva. “Prima o poi il Tutto parlerà anche a te.”
Solomon ci sperava con tutto il cuore, perché il suo più grande desiderio era seguire Jonathan ad Arcanta un giorno, stare per sempre insieme, lontani dal loro padre, tra feste e giochi. Ma quel giorno sembrava non arrivare mai.
Un paio di volte l’anno, Lord Blake trascinava i figli a caccia; per lui era un momento sacro, in cui gli uomini si liberavano delle catene imposte dalla società e tornavano alla loro vera natura. Di predatori o di prede.
Solitamente era Jonathan ad accompagnarlo, ma in quel 10 agosto Solomon avrebbe compiuto dieci anni e Alastor pretese che venisse anche lui, in modo da temprarne il carattere.
Si inoltrarono nella foresta di Hurt senza cani né armi, eppure Solomon riusciva a percepire la paura vibrare nell’aria intorno a loro; non c’erano ronzii e cinguettii tra gli alberi, o movimenti striscianti nel sottobosco. Era come se l’intera foresta stesse trattenendo il respiro, in attesa che il predatore più pericoloso di tutti andasse via…
“Non dovrebbe essere così.”
Alastor smise di camminare e si girò a guardare il figlio più piccolo, le sopracciglia aggrottate. “Che vorresti dire?”
“Ecco” Solomon deglutì a vuoto e cercò lo sguardo di suo fratello, la cui espressione era incuriosita, ma anche un po’ tesa. “Voglio solo dire che…che la foresta dovrebbe accoglierci come amici, non temerci.”
Suo padre sbottò a ridere. “Che idiozie vai farneticando!”
“Un tempo i maghi vivevano nelle foreste” ribatté però Solomon, che detestava far arrabbiare suo padre, ma altrettanto che gli venisse dato torto. “Merlino aveva il potere di parlare con gli animali e di trasformarsi lui stesso in lupo e in orso, per proteggerli dai cacciatori. E noi invece li uccidiamo senza motivo.”
Il sorriso sprezzante scivolò via dal volto di Alastor Blake, che fissò il bambino per un lungo istante. “Senti, senti” commentò poi, con voce strascinata. “Ne sai di cose sui maghi, per essere un inutile moccioso senza poteri!”
Solomon avvampò di vergogna e incassò la testa tra le spalle. Jonathan si affrettò a correre in sua difesa: “Sol non voleva essere irrispettoso, padre. È che ha iniziato a studiare la Storia della Magia, cercava solo di rendervi orgoglioso…”
Lord Blake emise un verso di sufficienza. “Non so che farmene di uno spocchioso saputello. Se passassi più tempo a esercitarti e meno col naso tra i libri o in compagnia di quella feccia Mancante, forse adesso mi saresti di qualche utilità.”
E riprese il tragitto, coi due figli che camminavano a testa china nella sua scia. Giunsero in una radura verde e luminosa, che profumava di aghi di pino e resina. Tra le grandi radici di una quercia, un coniglietto grigio era finito in una trappola ricavata con una rete di canapa e si dimenava nel tentativo di liberarsi.
Alastor si fermò di fronte alla creatura e scosse piano la testa. “I Mancanti usano metodi primitivi anche con prede così piccole!”
Dopodiché si rivolse a Solomon. “Be,’ che aspetti? Coraggio, piccolo druida senza poteri, libera questa bestiola come farebbe il buon Merlino.”
Solomon però lo guardò con diffidenza, da sotto il cespuglio di riccioli scuri. Non era da Alastor Blake cedere alla pietà.  “Davvero posso?”
“È il tuo compleanno” disse mellifluo suo padre. “E poi che ci dovrei fare? È ossuto e patetico proprio come te.”
Solomon allora raccolse un po’ di coraggio e si avvicinò alla trappola, aprì la rete e prese delicatamente il coniglietto tra le braccia, riempiendolo di carezze per tranquillizzarlo.
“Ora spezzagli il collo.”
Solomon alzò la testa di scatto, in preda all’orrore. “M-ma avevi detto che p-potevo liberarlo…”
“Infatti, lo hai liberato. Ora sbrigati a dargli una morte dignitosa.”
Solomon indietreggiò, continuando ad accarezzare la pelliccia soffice del coniglio. Sentiva il suo fragile corpicino tremare come una foglia, il suo cuore battere all’impazzata in preda alla paura, e gli occhi gli si riempirono presto di lacrime. “N-non posso…”
“Se non lo finisci tu lo farà qualcun altro” disse Lord Blake e nei suoi occhi azzurrissimi fremeva una luce gelida, spietata. “Un animale più grosso, un altro cacciatore. A questo mondo non c’è spazio per la compassione, Solomon. E puoi star certo che nessuno ne avrà per te.”
“Padre…” mormorò Jonathan, ma lo stregone lo zittì con un brusco cenno.  “Stanne fuori, Jon. Questa è una lezione per tuo fratello.”
Solomon si tenne a distanza, stringendo più forte il coniglio. “Per favore…”
“Ubbidisci!” ruggì Lord Blake. “Dimostrami una buona volta di che pasta sei fatto, dannazione!”
Prima che potesse avvicinarsi, Solomon spalancò le braccia e lasciò che il coniglio saltellasse via. Alastor sibilò un’imprecazione. “Lurido, piccolo bastardo…”
La sua mano scattò in aria, pronta a colpirlo, ma Jonathan si mise in mezzo. “Aspetta!” gridò, nascondendo Solomon dietro di sé: “Lo faccio io!”
Non diede a suo padre il tempo di ribattere; puntò con decisione il palmo aperto verso i cespugli, poi serrò con forza il pugno. Si udì un sottile guaito e poi un tonfo quando il piccolo corpo del coniglio toccò terra.
Solomon girò la testa dall’altra parte, senza più riuscire a trattenere i singhiozzi. Alastor, invece, fu così impressionato che ritrovò il sorriso. “Ottimo lavoro Jon, tu sì che ce l’hai nel sangue!”
Non rivolse la parola a Solomon per il resto della giornata e quando la sera rientrarono al maniero, lo spedì a letto senza cena, minacciando qualunque servo di arderlo vivo se avesse osato portargli del cibo.
Chiuso nella sua stanza, Solomon si sforzò caparbiamente di ignorare i morsi della fame sfogliando un atlante naturalistico illustrato, steso a pancia in giù sul letto, finché non fu ora di andare a dormire. 
Fu svegliato di soprassalto quando sentì bussare alla porta. All’inizio credette di averlo sognato, ma visto che il suono continuava si mise a sedere, gli occhi gonfi di sonno e i ricci arruffati. Oltre le tende il cielo era nero, segno che l’alba era ancora lontana.

“Sol, sei sveglio?” Era Jonathan.
Solomon scese dal letto con un balzo e corse ad aprire. “Che ci fai qui?”
“Sono venuto a salvarti, milord.” Anche se il corridoio fuori era buio, c’era un sorriso nella sua voce. “Ti va una gita?”
“A quest’ora!?”
“Perché no? E poi, non sei affamato?”
Lo stomaco di Solomon iniziò a rumoreggiare in segno di assenso e lui arrossì. “Finiremo in punizione…”
“Ma tu sei già in punizione. E poi, nostro padre ha detto che nessuno in questa casa può portarti da mangiare. In questa casa.” Ripeté, enfatizzando le ultime parole. “Saremo di ritorno prima che si svegli!”
Solomon scoppiò a ridere, ma suo fratello gli fece segno di abbassare la voce e vestirsi in fretta. Percorsero in punta di piedi la grande casa addormentata mano nella mano, come quando da piccoli passavano le giornate esplorando soffitte a caccia di polverosi fantasmi. Dalle cucine sgraffignarono un paio pesche mature e due grosse fette di torta al cioccolato, e una volta raggiunte le stalle, Jonathan aiutò Solomon a montare insieme a lui sul suo cavallo, dopodiché diede uno strattone alle briglie e partirono al galoppo.
Sfilarono veloci davanti ai cottage di pietra color miele di Hurtgrove Bridge, e poi cavalcarono in direzione sud attraverso la brughiera selvaggia, sotto un cielo blu profondo trapunto di stelle.
La loro destinazione era un castello diroccato, circondato dai resti di una cerchia muraria e adagiato sulle rive di un fiume che scintillava alla luce della luna.  Jonathan fece scendere Solomon dalla sella e lasciò libero il cavallo di abbeverarsi. “Conoscevi questo posto?”

Solomon scosse la testa, occhieggiando le alte torri merlate che emergevano lugubri e sbilenche dalle tenebre come scheletri.
“Nostro padre me lo ha mostrato alcuni giorni fa” spiegò Jonathan. “Lo chiamano Castello di Arth Fawr. Secondo la leggenda, è qui che Artù fondò Camelot”.
Solomon lo guardò con occhi sgranati. “Dici davvero?”
Jonathan aprì le mani e dai suoi palmi si sprigionò uno sciame di luci azzurrine, che guidò i loro passi tra le macerie ricoperte di muschio; sembrava di trovarsi in un enorme cimitero abbandonato.Si inoltrarono in cortili e antichi saloni, dove il pavimento di marmi preziosi era stato sostituito da tappeti di erba incolta, e gli arazzi da cespugli di edera rampicante.
“Sì, qui penso vada bene”.
Si fermarono in un giardino invaso dai detriti, ma nel cui mezzo era cresciuto un cespuglio di rose selvatiche. Sedettero a gambe incrociate sull’erba umida di brina, circondati da luci fluttuanti, e Jonathan tirò fuori dalla bisaccia una grossa fetta di torta per Solomon, che divorò in fretta.
“Mi dispiace per stamattina” disse Jonathan, mentre con un coltellino passava a sbucciare la frutta. “So quanto detesti la caccia. Però, manca ancora qualche ora alla mezzanotte, no? È ancora il tuo compleanno!”
Porse al fratellino la pesca sbucciata, ma quando vide che Solomon la fissava senza mangiarla chiese: “Cosa c’è, non ti piace?”
“Secondo te è come dice nostro padre? Io sono rotto?”
Jonathan esitò. “Ma no, che dici…”
“E allora perché non riesco a fare magie?”
“Perché forse non è ancora arrivato il momento. Non tutti gli alberi danno i frutti nella stessa stagione, sai?”
“E se non ci riuscissi mai?”
“Non sarebbe comunque la fine del mondo.”
“Lo sarebbe per papà.”
Jonathan storse la bocca. “Non è un uomo cattivo. Sono sicuro che ci vuole bene, a modo suo. È solo che…si preoccupa per il nostro futuro.”
Solomon emise un sospiro triste, rigirandosi la pesca tra le mani. Jonathan si alzò in piedi.  “Vieni, ti faccio vedere una cosa. Sono sicuro che ti piacerà!”
Decise di salire al secondo piano, ma poiché la scala era crollata, usò un incantesimo per far levitare lui e Solomon attraverso un buco nella pietra. Finirono in una sala enorme e col tetto scoperchiato, la cui volta era una porzione di cielo notturno. Ed esattamente al centro della sala, c’era una grande lastra di pietra sopraelevata, di forma circolare.
Solomon si avvicinò. “Ma…non sarà mica?”
Jonathan rise e fece il giro della lastra. “Tu che dici? Ti sembra abbastanza rotonda?”
 “Allora è tutto vero!”
“Certo che è vero. Re Artù sedeva coi suoi cavalieri proprio qui, in questa stanza.” Jonathan si issò sopra la tavola e vi si posizionò al centro. “E insieme a loro governava sui Mancanti, i maghi e le creature magiche. E tutto questo senza un briciolo di potere, lo sai?”
“Certo” borbottò Solomon. “Artù era un Mancante.”
“Ma fu in grado di costruire tutto questo!” Jonathan spalancò le braccia, indicando l’intera sala. “Anche senza la magia, riuscì a convincere maghi e Mancanti a non farsi più la guerra, a essere uniti! E anche tu un giorno compirai qualcosa di altrettanto grande, ne sono sicuro.”
“Però Artù aveva Merlino” obiettò Solomon, piano. “Senza di lui non sarebbe riuscito a diventare neppure re.”
“E allora? Hai sempre me, no?”
Solomon lo fissò in silenzio, il volto serio e gli occhi velati di tristezza. “Finché non andrai ad Arcanta.”
Jonathan aprì la bocca, ma rimase interdetto per un istante. Solomon sospirò ancora, poi si sedette sul bordo della Tavola, le gambe che scalciavano nel vuoto. Suo fratello lo affiancò. “Non cambierà nulla, lo sai.”
“Sì invece. Entrerai in una Corte e ti farai dei nuovi amici, amici più interessanti e potenti.” La sua voce si incrinò appena e Solomon scacciò via con rabbia le lacrime che già facevano capolino con il dorso della mano. “E ti dimenticherai di me.”
“Questo mai.”
“E se invece succede?”
“Tu sei mio fratello” disse Jonathan, con una tale intensità nello sguardo che Solomon se ne sentì schiacciato. “Sei il sangue del mio sangue, non ci sarà mai nessuno più importante di te.”
Visto che Solomon continuava a non sembrare troppo convinto, Jonathan tirò fuori dalla tasca del panciotto una lunga cordicella, con attaccato un orologio d’argento e glielo porse.
Il fratellino lo guardò, meravigliato. “Che stai facendo?”
“Voglio che lo tenga tu” disse Jonathan. Gli aprì la mano e pose l’orologio sul suo palmo. “Sai quanto ci sono affezionato. Te lo lascio finché non sarò entrato nella Corte delle Lame: un giorno diventerò un guerriero, come i cavalieri di re Artù, e allora verrò a prenderti e partiremo insieme per mille avventure.”
Solomon osservò l’orologio con attenzione; era più pesante di quanto si aspettasse, il metallo freddo ricoperto di eleganti fregi che componevano le iniziali J.I.B.
“Devi dargli la carica tutti i giorni” raccomandò Jonathan. “Altrimenti gli ingranaggi si rompono. Mi fido di te, Sol: promettimi che ne avrai cura fino al mio ritorno, va bene?”
Solomon guardò suo fratello negli occhi e finalmente, pian piano, tornò a sorridere. “Lo prometto.”
Jonathan gli arruffò affettuosamente i capelli, poi alzò lo sguardo verso la volta stellata ed esclamò: “Guarda!”
Anche Solomon alzò la testa e fece in tempo a scorgere, in mezzo al firmamento, una scia sottile e luminosa, fugace come un battito di ciglia. “L’ho vista!”
“Esprimi un desiderio, allora.”
Solomon non ebbe bisogno di pensarci su a lungo; chiuse gli occhi, si concentrò con tutto se stesso, la coda della meteora che ancora ardeva nel buio delle sue palpebre.


 

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Capitolo 17
*** Le Nozze d'Acciaio - Prima parte ***


LE NOZZE D’ACCIAIO
 - Prima Parte -

 
 
 
Dalla poltrona su cui era seduto, Solomon fissava le porte vetrate del salotto in attesa, chiudendo e aprendo il coperchio dell’orologio in modo compulsivo. Tic-tac. Tic-tac. Tic-tac. Di solito lo aiutava a calmarsi.
Tornato alla casa sul lago aveva trovato soltanto Valdar, chino sul tavolo della cucina a trafficare con padelle e barattoli dal dubbio contenuto; lo aveva lasciato fare, contento che almeno avesse trovato qualcosa con cui tenersi impegnato.
Lucia doveva aver trascorso l’intero pomeriggio nel bosco a dipingere, ma a breve sarebbe rientrata: fuori il cielo aveva iniziato a incupirsi, e le ombre della sera ad allungare le loro dita sulle colline.
Solomon aveva impiegato quel tempo per riordinare le idee e prepararsi un discorso convincente, e intanto continuava a ripensare alla conversazione con Isabel Ascanor avvenuta quella mattina ad Arcanta.
Avevano riletto ciascun termine del contratto insieme, prendendosi tutto il tempo per discuterli punto per punto…
 
  1. Le parti dichiarano, nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali, di voler ufficializzare la loro unione come marito e moglie.
  2. Qualsiasi coinvolgimento emotivo sarà escluso dal suddetto rapporto.
  3. Cionondimeno, le parti si impegnano per non recare danno e/o offesa di nessun tipo all’altro.
  4. Le parti si impegnano altresì a non ostacolarsi a vicenda nel conseguimento dei propri obiettivi.
  5. La natura dei suddetti obiettivi non sarà argomento di discussione.
  6. La sottoscritta riconosce il consorte come membro del proprio nucleo familiare, al pari dei congiunti di sesso maschile, e in quanto tale gli sarà permesso di usufruire del patrimonio magico della famiglia Ascanor secondo la Legge in vigore ad Arcanta.
  7. La sottoscritta acconsente inoltre di stabilire la propria residenza presso il domicilio del consorte, condividendone gli spazi.
 
E qui, Solomon aveva chiesto delucidazioni: “Di quali spazi stiamo parlando? Non è specificato.”
“Non pensavo fosse necessario.”
“La Corte dei Sofisti è un’accademia che gode di un certo prestigio, señorita Isabel, dove il silenzio e il raccoglimento sono essenziali per favorire la concentrazione dei miei studenti.”
Le sopracciglia di Isabel si erano trasformate in perfetti accenti circonflessi. “E ritiene che avermi intorno possa compromettere la loro concentrazione?”
“Dico solo che le donne tendono a chiacchierare molto” aveva spiegato allora Solomon, nel modo più garbato possibile. “A ficcare in naso dappertutto e a spostare cose. Pertanto, l’accesso alla biblioteca, alle aule e ai laboratori le è precluso. Come quello ai miei appartamenti privati, è chiaro.”
“Farebbe prima ad affiggere dei cartelli” aveva commentato lei, sarcastica
“Le fornirò una mappa. Così non può sbagliare.”
Esasperata, Isabel aveva alzato gli occhi. “Questo matrimonio ha lo scopo di rendermi indipendente, signor Blake. Non intendo chiedere il permesso di attraversare un corridoio. Acconsento a non interferire con le lezioni e rispetterò la sua privacy, ma le pretese sull’argomento finiscono qui.”
Costretto a rimangiarsi la risposta acida che aveva pronta sulla punta della lingua, lui si era limitato a sospirare. “Veniamo al prossimo punto.”
Era andata avanti così per ore, come un estenuante tiro alla fune. Solomon aveva dovuto chiedere a se stesso un grosso sforzo per risultare accomodante, lui che aveva sempre preso ogni decisione senza dare conto a nessuno: di solito erano gli altri a doversi adeguare al suo carattere e alle sue abitudini, mai il contrario.
E anche se lo esaltava l’idea di insinuarsi nel cuore della Cittadella, continuava a nutrire forte scetticismo su quell’unione, e soprattutto sull’entusiasmo con cui Isabel Ascanor parlava del progetto di rivoluzionare Arcanta, abbattendone le fondamenta patriarcali.
Quell’idea aveva dell’assurdo. Dal tramonto del Vecchio Mondo, erano sempre stati i maghi a conservare la conoscenza magica e la motivazione era semplice: le donne erano guidate dalle passioni, gli uomini dalla mente.
In molti ad Arcanta le definivano ancora streghe: creature imprevedibili, caotiche, pericolose. Così come la magia del Vecchio Mondo, finché la Cittadella non era stata in grado di imbrigliarla tramite la Legge. Da quel momento, il sapere tramandato in via orale era diventato parola scritta, ciò che un tempo appariva misterioso e inspiegabile era stato studiato, codificato, sottomesso.
Su queste basi si fondava la società di Arcanta, sulla vittoria della ragione sopra il caos dell’emotività e degli istinti: una certezza che faceva sentire i maghi protetti e sicuri di sé. Perciò, intestardirsi per aprire una scuola di alchimia per le donne e renderle di nuovo potenti quanto gli uomini non sarebbe stato visto di buon occhio…
Al termine della giornata, quando ritennero di aver chiarito ogni dubbio e messo i dovuti paletti, apposero le proprie firme in calce, dopodiché Isabel riavvolse il rotolo di pergamena e lo infilò nella borsetta.
“Non serve aggiungere che quanto ci siamo detti oggi è confidenziale” concluse. “Sottoporrò la decisione ai miei fratelli, ma dubito che avranno qualcosa da ridire: al momento sono più occupati a farsi la guerra. Sono certa che questo possa essere l’inizio di una proficua collaborazione.”
E si alzò, appuntandosi in testa il cappellino, pronta a congedarsi.
“Non penserà sul serio che sia fattibile, mi auguro.”
“A cosa si riferisce?”
“La scuola” disse Solomon. “Non gliela lasceranno mai aprire.”
Lei inclinò leggermente il capo, come un uccello curioso. “Non faccia l’errore di sottovalutarmi, signor Blake. Di solito lo fanno gli idioti e tutto sommato lei mi sembra un uomo intelligente.”
“Il Cerchio d’Oro si fonda su una tradizione millenaria” ribatté lui. “Ha da sempre avuto il monopolio sull’alchimia e non lo condividerà facilmente.”
“Non ho mai detto che sarebbe stato facile.”
“Intendo dire che è una mossa pericolosa.”
“Già si preoccupa per me? Che dolce!”
“Mi preoccupa che ci trascini entrambi in guai che non saprà gestire” disse Solomon in tono perentorio. “Ogni cosa ad Arcanta è rimasta perfettamente uguale dal giorno della sua Fondazione: i Decani comandano, gli alchimisti studiano e gli Arcistregoni eseguono. È una ruota che continuerà a girare nello stesso verso, e da cui le donne saranno per sempre escluse. Le conviene accettarlo.”
“Come ha fatto lei?” domandò Isabel, sprezzante.
“Se sono arrivato dove sono è stato grazie alla mia capacità di adattamento” disse Solomon. “Gli esseri umani non cambiano, mostrano solo la loro parte peggiore.”
“Capisco” fece Isabel, piano. Prese un istante per misurarlo, in silenzio, con un’espressione così adamantina e indecifrabile da far sorgere in lui uno strano turbamento. “Però mi trovo in disaccordo: ho fiducia che, se aiutate a comprendere i propri sbagli, le persone possono sempre sorprenderci. E che persino lei in fondo desideri solo fare la cosa giusta.”
Le porte del salotto si aprirono all’improvviso, riportando bruscamente Solomon nel presente.
«Oh, sei già qui!» fece Lucia, entrando. Indossava un vestito di cotone leggero che lasciava esposti i piedi scalzi, e sottobraccio reggeva una tela coperta da un panno; i capelli rossi erano raccolti in una treccia morbida in cui aveva infilato dei fiori, come una creatura silvestre. «Credevo avessi lezione tutto il giorno.»
«Ho dato ai ragazzi più tempo per prepararsi in vista degli esami» spiegò Solomon. «Non che mi aspetti chissà quali risultati.»
Si soffermò sulla tela coperta e chiese, incuriosito: «Lavori a qualcosa di nuovo?»
Il viso di lei diventò di una bella tonalità di rosa. «L’ho iniziato oggi, ma non puoi ancora vederlo! Conto di finirlo per il tuo compleanno.»
Lui abbozzò un sorriso, ma dentro di sé avvertì una sensazione spiacevole, come se qualcosa di disgustoso gli si fosse attorcigliato tra le costole. Poteva essere senso di colpa? Di qualunque cosa si trattasse, doveva liberarsene subito. Uno strappo veloce, prima che sciocchi ripensamenti potessero assalirlo.
Lucia mise da parte la tela. «Ti preparo la cena? Valdar può darmi una mano, conosce un’infinità di strane ricette!»
«No, io…devo prima parlarti di una cosa.»
Solomon riprese a tormentare l’orologio. Accavallò le gambe, poi le sciolse, incapace di stare fermo. Lucia se ne accorse. «Sicuro che vada tutto…?»
«Ho trovato il modo di rubare il Libro Nero.»
Lei ebbe un piccolo sussulto. «Davvero? E Come?»
«Sposerò Isabel Ascanor
«Cosa?»
«Io…sposerò Isabel Ascanor» ripeté lui, più lentamente. «È il solo modo per avvicinarmi al Bibliotecario.»
Lucia si bloccò. Stavolta aveva capito. «Cosa?» sussurrò ugualmente, mentre il sorriso svaniva dal suo volto.
«Sarà un matrimonio puramente di facciata» specificò lui in fretta. «Nessun coinvolgimento sentimentale, il contratto che ho firmato è molto chiaro…»
«Hai firmato un contratto?!» squittì lei, inorridita. «Senza dirmi nulla!»
«Ho dovuto prendere una decisione. Non c’era tempo per…»
Lucia afferrò lo schienale di una bergère imbottita, come se le gambe da sole non fossero più in grado di sorreggerla. «Ma…ma tu hai sempre detto che non credi nel matrimonio! Che non ti saresti mai…che i tuoi genitori si odiavano!»
«E continuo a non crederci» affermò Solomon. «Trovo sia la peggior forma di supplizio mai ideata. Ma gli Ascanor sono l’anima di Arcanta: grazie a loro controllerò la Cittadella sotto il naso dei Decani! E quando avrò il Libro Nero, libererò la nostra razza dal sistema corrotto e antiquato che la governa. È quello che vogliamo, no?»
Vide le lacrime affacciarsi nei suoi begli occhi, e quel senso di malessere gli si avvinghiò stretto attorno allo stomaco. «È quello che vogliamo.»
«Esatto! Pensa a cosa significherà per noi questa opportunità!»
«Cosa significherà per te» ribatté Lucia, con voce strozzata. «E di me, invece? Che cosa ne sarà?»
«Non cambierà assolutamente niente! Continuerò a dividermi tra questa casa e Arcanta, verrò a trovarti tutti i giorni, faremo…be’ quello che abbiamo sempre fatto. L’unica differenza è che dovrò mostrarmi con quella donna in pubblico, ogni tanto…»
«È bella?»
«Come?»
«Questa Isabel Ascanor» incalzò Lucia. «Voglio sapere se è bella.»
«È del tutto irrilevante» dichiarò Solomon, anche se non era propriamente vero: malgrado il carattere insopportabile, doveva riconoscere che nel complesso almeno era graziosa. «È solo la chiave che aprirà una porta. Sul serio ti importa il suo aspetto?»
«Sì, mi importa!» reagì Lucia con impeto. «Perché presumo che prima o poi il matrimonio andrà consumato! Cosa dice in proposito quel vostro contratto?»
«Se tutto va come deve andare, avrò fra le mani il Codice prima che il problema si presenti» disse Solomon. «Nel frattempo, dormiremo in appartamenti separati, limitandoci alle interazioni strettamente necessarie. Non la toccherò, se è questo che ti preoccupa.»
«Non è questo che mi preoccupa.»
«E cosa, allora?»
«Che succede se ti innamori di lei?»
Lui aggrottò la fronte. «Non sono in grado di provare quel genere di sentimenti, lo abbiamo già chiarito. E comunque, la decisione ormai è presa.»
Lucia non rispose. Passò la mano di taglio sotto gli occhi per asciugare le lacrime, dopodiché gli voltò le spalle e scivolò fuori dalla stanza senza far rumore, come un fantasma.
Solomon invece rimase dov’era, in preda a quelle scomode sensazioni che non era sicuro di comprendere. Gli balenò per la mente che forse avrebbe dovuto rincorrerla, dirle qualche parola gentile, cercare di farsi perdonare…
Ma perdonare di cosa, poi? Che aveva fatto di sbagliato? Era riuscito a trovare la soluzione al loro problema, no? E in fretta, anche.
Da quanto Lucia viveva in casa sua non le aveva mai fatto mancare nulla. L’aveva salvata da una vita di rinunce, resa in grado di compiere qualunque cosa. E nel mentre, avevano goduto i benefici di una relazione appagante e totalmente libera, e non c’era motivo per cui le cose dovessero cambiare dopo il matrimonio.
Lasciò andare un pesante sospiro e si girò verso Wiglaf, abbarbicato sul suo trespolo. «È andata piuttosto bene, no?»
In risposta, il corvo bianco nascose il becco sotto l’ala.
«Be’, quel che è fatto è fatto» borbottò lo stregone, rabbuiandosi. «Ho preso la decisione giusta. Ci dormirà su e vedrai che domani le passerà.»
 

Ma il giorno dopo non le passò. E nemmeno quello dopo ancora: per un’intera settimana Lucia si comportò come se lui fosse invisibile, rifiutandosi di rivolgergli la parola.
Solomon cercava di non dare troppo peso alla cosa, perché giudicava il suo atteggiamento esagerato e infantile, ma ogni volta che la vedeva sfrecciare da una stanza all’altra senza degnarlo nemmeno di uno sguardo, veniva tormentato da fastidiosi rimorsi. Aveva provato anche a parlarle, ma ormai lei trascorreva tutto il tempo barricata nelle proprie stanze o fuori a dipingere e faceva di tutto per stargli alla larga.
Decise che la cosa migliore fosse lasciarla stare per un po’. Anche perché, da quando il suo fidanzamento con Isabel Ascanor era stato annunciato, ad Arcanta non si parlava più di altro, col risultato che aveva costantemente i riflettori puntati addosso.
Scoprì che Isabel si era data un gran daffare per organizzare le nozze nel più breve tempo possibile, e Solomon poté dedurne che ormai mancasse veramente poco alla dipartita del Primo Alchimista. Il clima che si respirava ad Arcanta in quei giorni non avrebbe potuto essere più incandescente: da un lato, la morte di un pilastro della Cittadella, dall’altro il matrimonio di uno degli stregoni più chiacchierati della città.
Una vera manna dal cielo per la stampa. E infatti, una mattina, Solomon si era svegliato con la Corte dei Sofisti letteralmente assalita dai giornalisti, al punto che era dovuto ricorrere a un incantesimo respingente per tenerli a bada. In testa a tutti c’era ovviamente Seneca Honeyfoot, l’agguerrito redattore dell’Oraculum:
«Non desidera rilasciare nemmeno una dichiarazione piccola piccola, signor Blake?» aveva pigolato, mentre Solomon cercava di sbatterlo fuori e lui di infilare il suo faccione incipriato tra lo stipite e la porta. «Non tenga le nostre lettrici sulle spine! Da quanto tempo lei e la giovane Isabel avete una relazione? E perché tenerla nascosta finora? Forse la famiglia di lei era contraria? Ci dica di più!»
Malgrado l’interesse morboso dei giornali per quelle che già venivano definite "Nozze d'Acciaio" e le tensioni con Lucia, ci fu però un risvolto positivo: Solomon ebbe finalmente l’occasione di conoscere il Bibliotecario, Xavier Ascanor.
Adesso che erano ufficialmente fidanzati, Isabel aveva infatti deciso di portarlo alla Cittadella per presentarlo alla famiglia.
Il primo in cui si imbattettero fu Alvaro, che possedeva gli stessi lineamenti delicati e gli occhi color caffè dal taglio a mandorla della sorella. Si aggirava tronfio per quelle sale come fosse già il padrone della Cittadella, seguito ovunque da un gruppo di giovani maghi terribilmente rumorosi, ma concesse alla nuova coppia giusto il tempo di un frettoloso scambio di presentazioni e qualche frase di circostanza, poi buttò lì qualcosa a proposito di quanto si sentisse sollevato che sua sorella non sarebbe morta zitella e se ne andò per la sua strada.
L’altro fratello, Tristan, aveva modi più socievoli, ma era ugualmente irritante: lo raggiunsero per un tè nei suoi appartamenti, un mondo vellutato pieno di divanetti e cuscini, e passò tutto il tempo a parlar male del fratello e raccontare delle feste a cui aveva partecipato di recente.
Solomon si mostrò amichevole con entrambi, ma iniziava a farsi un’idea del perché Isabel volesse scappare a gambe levate dalla propria famiglia.
Poi fu il turno del futuro suocero. Aveva già avuto modo di incontrare il Primo Alchimista in passato, durante le cerimonie pubbliche e le assemblee del Decanato: il brillante don Sebastian Ascanor, inventore dell’acciaio alchemico e di molte altre sbalorditive innovazioni magiche.
Lo trovarono in un giardino a godersi il sole e l’aria fresca, seduto su una sedia a rotelle: una figura scarna, grigia e ricurva come un vecchio salice piangente. L’incidente in laboratorio aveva lasciato segni evidenti, portandogli via ciocche di capelli e metà del volto, in parte nascosto sotto una maschera d’oro. Lo accompagnava uno stregone alto e dall'espressione seria, con indosso il saio grigio da alchimista, il pizzetto e un sottile codino nero che gli scendeva lungo una spalla.
La metà sana della faccia di Sebastian Ascanor si illuminò quando vide arrivare Isabel e Solomon. «Siete qui, finalmente!»
«Adorato padre» lo salutò Isabel, prendendogli affettuosamente la mano. «Vorrei presentarti il mio futuro sposo, Solomon Blake. Spero che approverai la mia scelta e che avremo entrambi la tua benedizione.»
Sebastian fece segno a Solomon di avvicinarsi e commentò: «Ed ecco il nuovo elemento che viene ad amalgamarsi alla Stirpe d'Acciaio. Ho sentito molte storie su di lei, signor Blake. Alcune molto buone, altre meno.»
«Le suggerisco di credere alle seconde» replicò Solomon, ammiccante. «Sono sempre più attendibili.»
Sebastian ridacchiò. «Ottima risposta!»
Subito dopo però fu sconquassato da un attacco di tosse e sputacchiò un po’ di sangue. Preoccupata, Isabel si precipitò al suo fianco, mentre l’alchimista che lo accompagnava estrasse da una tasca una fiaschetta e lo obbligò a mandar giù un paio di sorsi.
Una volta che la crisi fu superata, Sebastian brontolò: «Ah, mio buon Melkisedek, a volte non so se ringraziarti o detestarti per il fatto che mi tieni ancora in vita.»
«Allora la prossima volta che prova a farsi esplodere, signore» replicò l’altro, riponendo la fiaschetta. «Le consiglio di metterci un po’ più di impegno.»
Il vecchio mago rise ancora, anche se sembrò costargli dolore.
«Melkisedek è uno dei mie allievi più promettenti» spiegò, tornando a rivolgersi a Solomon. «Ho sempre pensato che avrebbe fatto grandi cose al Cerchio d’Oro. E adesso… si ritrova a fare il badante a un relitto!»
«Cosa che sono onorato di fare» disse Melkisedek, con solenne convinzione.
«Vede, Blake, sono dell’idea che quel che seminiamo durante la vita prima o poi dia i suoi frutti» disse Sebastian. «Così è stato con l’alchimia e con le persone che mi sono vicine, come Melkisedek e la mia niña
Guardò Isabel, sorridendo orgoglioso. «Bel è un fiore raro… un po’ avventata, forse, ma ha passione e talento da vendere! Esigo solo il meglio per lei, sia chiaro: l’acciaio più resistente nasce solo unendo metalli di qualità.»
Solomon gli offrì un breve inchino. «Don Sebastian, sarebbe per me un grande onore. Farò del mio meglio per essere all’altezza del nome degli Ascanor…»
«Bah, il nome degli Ascanor!» gracchiò Sebastian. «Ci penseranno Alvaro e Tristan a portarlo avanti, sempre che non finiscano per accoltellarsi a vicenda per questa storia dell'eredità! Voglio bene ai miei ragazzi, ma a volte sono così sciocchi! No no, a me interessa solo che la mia niña abbia una vita piena e felice.»
«Ed è quello che avremo, padre.» Isabel si strinse al braccio di Solomon, sbattendo le ciglia come una cerbiatta innamorata, e lui le resse il gioco. «Non ti sembro già la donna più felice del mondo?»
«Siete una gioia per gli occhi» sospirò Sebastian, deliziato. «Molto bene, in tal caso, avete la mia benedizione!»
Lo lasciarono alla sua passeggiata in compagnia di Melkisedek, restando abbracciati finché non furono rientrati nella Cittadella.
«Se l’è bevuta» commentò Isabel, riprendendo a camminargli a debita distanza. «Almeno gli abbiamo sollevato un po’ il morale.»
«Sta veramente male come dicono.» Solomon le scoccò un’occhiata incerta. «Mi è dispiaciuto vederlo in quelle condizioni. È stato un grande genio.»
«Già. Dispiace anche a me» replicò lei, cupa in viso.
Per un po' camminarono in silenzio, lungo corridoi dai soffitti altissimi rivestiti da una pietra così bianca da ferire gli occhi. «Ora andiamo da Xavier, ma la avverto, non sarà altrettanto facile con lui: non gli sfugge mai niente.»
Solomon faticò a contenere l'eccitazione vorace che gli bruciava nel ventre. «Lo ha detto lei, no? Sono bravo a piacere alla gente.»
«Il problema, con Xavier, è che di solito è lui a non piacere alla gente» ribatté Isabel, fermandosi di fronte a una porta chiusa. «Se ne accorgerà.»


CONTINUA...


 
 
...ed eccoci arrivati al primo capitolo diviso a metà! Putroppo qui di cose da dire ce ne sono veramente tante e il rischio era quello di scrivere un papiro: posto oggi la prima parte relativa al fidanzamento di Isabel e Solomon, nella seconda succederanno un bel po' di cose succulente e spero di riuscire  completarla prima di andare in vacanza.
Colgo l'occasione per ringraziare di cuore tutti coloro che stanno seguendo e commentando questa storia, ma anche i lettori più timidi e silenziosi e quelli che l'hanno inserita in una lista. <3


 

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Capitolo 18
*** Le Nozze d'Acciaio - Seconda parte ***


 



LE NOZZE D’ACCIAIO
– Seconda parte –

 
 
Solomon conosceva molto bene la Biblioteca della Cittadella, senza ombra di dubbio il luogo più sacro di tutta Arcanta: posta in cima alla Torre a Spirale, custodiva la memoria della sua razza sin dagli albori, e vi si accedeva oltrepassando gigantesche porte di quercia scolpite in modo da rappresentare la copertina di un codice miniato. In seguito, si era ammessi a una sala da lettura immensa, dal pavimento in marmo colorato dalle complesse trame geometriche; i dodici piani che la componevano si attorcigliavano verso l’alto delimitati da balaustre in ottone, e la cupola di vetro permetteva alla luce del giorno di riversarsi a fiotti.
«Dovrebbe vedere la sua faccia in questo momento» mormorò Isabel, mentre passavano tra ordinate file di tavoli e panche; sopra le loro teste, i libri fluttuavano da una parte all'altra, diretti ai propri scaffali. «Sembra un bambino al parco giochi.»
L’ombra di un sorriso attraversò le labbra dello stregone. «È che a volte scordiamo quanto siamo fortunati a disporre liberamente di tutto questo.»
«Quanto i maghi sono fortunati, vorrà dire» puntualizzò lei. «Si guardi attorno: le sembra di vedere molte donne?»
In effetti, Solomon non si era mai soffermato sul fatto che i visitatori abituali della Biblioteca fossero per lo più uomini, fatta eccezione per qualche giovane allieva in uniforme militare della Corte delle Lame, alle prese con la preparazione degli esami.
«C’è ancora la convinzione che lo studio ci distragga da altre priorità» disse Isabel, con una smorfia. «Trovare un buon partito e diventare brave madri.»
«A lei però l’opportunità è stata data» obiettò Solomon.
«Grazie a mio padre. Alvaro e Tristan non hanno mai nutrito interesse per l’alchimia, ma con me poteva sbizzarrirsi: a sei anni mi portò a visitare il suo laboratorio e ci mancò poco che scolassi un’intera ampolla di mercurio. Lui ironizzò che molti famosi alchimisti erano soliti assaggiare i loro composti, ma mia madre non lo trovò altrettanto divertente.»
Superata la sala lettura, Isabel imboccò un corridoio disadorno dove Solomon non era mai stato, al termine del quale vi era un’unica porta chiusa.
«Non si aspetti un caldo benvenuto» anticipò Isabel, dopo aver bussato un paio di volte. «Xavier detesta essere disturbato mentre lavora. E oggi è giorno di inventario.»
La porta si aprì piano, cigolando controvoglia.
Da quando viveva ad Arcanta, Solomon credeva di averne viste di tutti i colori, e invece, entrando nell’ufficio del Bibliotecario, rimase a corto di parole: file di schedari riempivano le pareti fino ad altezze vertiginose, e proprio al centro, si muoveva ronzando un folle meccanismo tentacolare. Otto braccia snodate, simili a quelle di un ragno, ondeggiavano senza sosta aprendo e chiudendo cassetti, smistando documenti e timbrando fogli. Il tutto con una velocità e precisione a dir poco chirurgiche.
Ogni braccio era collegato a una poltrona girevole, posta alle spalle di una grossa scrivania, e sulla poltrona, sedeva un uomo dalla pelle olivastra, col naso adunco e un’arruffata zazzera di capelli corvini a cui serviva urgentemente una spuntata.
«Ciao, Xav» lo salutò Isabel.
Senza interrompere il movimento dei tentacoli, il mago alzò la testa dal registro che stava compilando e li guardò attraverso un sistema ottico formato da decine di lenti sovrapposte. «Oh. Sei tu. Sono occupato.»
«Sì, lo vedo» replicò Isabel. «Non ti ruberò molto tempo. Volevo solo presentarti il mio fidanzato, Solomon Blake. Vi siete già conosciuti?»
Xavier spostò il suo sguardo da mosca su Solomon. «No.»
Ribollendo dall’emozione, lui gli offrì subito un sorriso smagliante e una mano protesa. «È un vero onore conoscerla. Voglio che sappia quanto ammiri il suo lavoro…»
Xavier rispose con un mezzo grugnito e tornò alle sue tabelle.
Ancora una volta, Solomon non seppe cosa dire. «Ehm…»
Isabel sospirò. «Xavier, per favore.»
Il Bibliotecario grugnì di nuovo e decise malvolentieri di prestare loro la sua attenzione. «Lieto di conoscerla, signor Blake. C'è altro?»
«Sì, Xav. Ci sposeremo entro la fine del mese e sarebbe carino se cercassi di dimostrarti amichevole col tuo futuro cognato.»
«Perché, non lo sono stato?»
Per tutti i demoni, pensò Solomon. Questo tizio è più esasperante di me!
«Potreste frequentarvi, ogni tanto» propose Isabel. «Scommetto che vi trovereste bene: anche lui si farebbe murare in una stanza piena di libri.»
«Ah» fece Xavier. Le sue dita affusolate sollevarono due lenti rimuovibili, per osservarlo meglio. «Che genere di libri?»
Solomon scrollò le spalle. «Non ce n’è uno che prediligo. Da giovane ero appassionato di magia elementale, i miei riferimenti erano Bacon, Marsilio Ficino, Gian Battista della Porta… ma crescendo ho sviluppato interesse per le Arti Psioniche: alla fine del mio apprendistato alla Corte dei Sofisti ho esposto una tesi sulle energie sottili.»
«Allora ha letto DeCapel» disse Xavier.
«Invero» sorrise Solomon. «Trovo le sue teorie sulle potenzialità del cervello umano a dir poco…folgoranti!»
Xavier annuì brevemente. «Non ne dubito. Io l’ho sempre trovato un po’ divagante, e non concordo sulla visione della mente come “piano infinito”: a mio avviso è astratta e poco attendibile. Per questo preferisco Tyrrel.»
«Oh, ho letto il suo Architettura della Mente, molto interessante. Soprattutto per quel che riguarda le “stanze mentali”.»
Tagliata completamente fuori, Isabel passò lo sguardo dall’uno all’altro e commentò: «Sapete, inizio a pensare che dovreste sposarvi voi due.»
«Prego?» fece Xavier, distratto.
«Lascia perdere. Va bene fratellino, continua pure il tuo inventario. Ti faremo arrivare al più presto la convocazione per le nozze...»
«Perché?»
«Perché così non avrai scuse e sarai obbligato a uscire da questa benedetta torre!»
«Intendo dire: perché vuoi sposarti?» Il tono di voce di Xavier era rimasto invariato, ma stavolta i suoi occhi scuri, cerchiati da profonde occhiaie, sottoposero Solomon a un esame più accurato. «Hai sempre detto che le storie romantiche sono un’inutile perdita di tempo. E poi, da quanto tempo vi conoscete?»
Solomon sostenne il sorriso come una machera, ma doveva ammettere che Isabel aveva ragione: il modo freddo e impersonale con cui Xavier lo stava vivisezionando era dannatamente inquietante.
«Sai, Xav, nella vita si può sempre cambiare idea» replicò lei, tranquilla. «Nel mio caso, magari stavo solo aspettando di trovare la persona giusta!»
Xavier continuò a fissare Solomon con la fronte aggrottata, come fosse un’equazione algebrica che non voleva saperne di tornare. «Contenta tu.»
Solomon cercò di intervenire, ma il Bibliotecario lo batté sul tempo: «Anello B-60. Millecinque centoquattordici. A-21, G-84.»
«Ehm» fece Solomon, confuso. «Non credo di aver capito…»
«È dove può trovare la raccolta di grimori della nostra famiglia» spiegò Xavier, senza inflessione di tono. «Sarei ben lieto di mostrargliela, se le interessa. Abbiamo un’ampia sezione sulla magia psionica.»
Quel feroce languore nel ventre mandò Solomon a fuoco. Tenere a freno le emozioni si stava rivelando difficile. «Sarebbe…davvero splendido, molte grazie!»
La risposta di Xavier fu un altro brontolio indistinto, poi riposizionò le lenti caleidoscopiche al loro posto e riprese a ignorarli. Mentre il ronzio delle braccia meccaniche riempiva di nuovo la stanza, Isabel e Solomon lasciarono l’ufficio, chiudendosi la porta alle spalle.
«Le chiedo scusa» disse piano lei, una volta soli nel corridoio. «Mio fratello ha trascorso così tanto tempo tra i libri da aver dimenticato come ci si comporta con le persone. Alvaro e Tristan continuano a sostenere che abbia qualche rotella fuori posto…»
«Le dirò» replicò Solomon, mentre riprendevano insieme il cammino. «Finora è di gran lunga il mio preferito.»
Per la prima volta da quando si conoscevano, il volto di lei si distese in un vero sorriso. «Sì, anche il mio!»
«Quella diavoleria a otto braccia» domandò poi lui, genuinamente curioso. «Non avevo mai visto niente del genere prima…che cosa dovrebbe essere?»
«Oh, intende Doc Ock?»
«Doc…Ock?»
«“Doctor Octopus”» disse lei, ridacchiando. «Gliel’ho regalato per il suo compleanno. Lo so, è un nome un po’ sciocco, ma suonava divertente!»
«Aspetti un momento.» Solomon smise all’istante di camminare e la guardò con tanto d’occhi. «Non vorrà mica dire che lo ha costruito lei?»
«Già!» rispose Isabel, sorridendo orgogliosa. «Vede, tenere in ordine una collezione così monumentale come quella della Cittadella è un lavoraccio, anche con l’ausilio della magia! Xavier finirebbe per consumare un sacco di energie, ed è già tanto se si ricorda di mangiare e di dormire… perciò ho pensato che gli avrebbe fatto comodo una mano. In questo caso, più di una.»
«Ma…come ci è riuscita?» domandò Solomon, sconcertato. «Come funziona?»
«Be’, allora, ogni braccio risponde direttamente agli impulsi del suo cervello» spiegò Isabel, le guance che si andavano arrossando e lo sguardo che sprizzava eccitazione. «In questo modo reagiscono prontamente ai suoi processi mentali, anticipandoli in molti casi!»
«Cioè ha infuso la sua Volontà dentro un macchinario» concluse Solomon, lisciandosi il pizzetto; gli tornò in mente il piccolo camaleonte meccanico che le aveva visto sulla spalla al loro primo incontro. «Sbalorditivo. Ne ha realizzati altri?»
«Solo prototipi. Mi mancano lo spazio e le apparecchiature adatte. Ma quando avrò il mio laboratorio…» Ammiccò e si sfregò le mani, in modo allegramente cospiratorio. «Metterò in piedi una produzione su larga scala!»
«Freni l’entusiasmo» ribatté Solomon, accigliandosi. «Il Cerchio d’Oro ha abbandonato le sperimentazioni sulla tecnomanzia da tempo: il rischio era che i cittadini di Arcanta sviluppassero troppa curiosità verso la tecnologia del Mondo Esterno.»
«Ma potrebbe rivoluzionare il modo di fare magia!» insistette Isabel. «Pensi a cosa potremmo ottenere combinando le ultime scoperte dei Mancanti agli studi del Cerchio d’Oro sul moto perpetuo, o sulla combustione auto-rigenerativa…!»
«Otterremmo l’arresto immediato, ecco cosa» disse lui, categorico. «Arcanta è rimasta isolata per mille anni, nessun Decano le permetterà di mischiare la nostra tecnologia con quella Mancante. Sta già camminando sul filo del rasoio con questa storia della scuola femminile, eviti di farsi lo sgambetto da sola!»
Isabel gonfiò le guance, pronta a rispondergli per le rime. Poi però sembrò cambiare idea, inspirò a fondo e si calmò: «Forse ha ragione lei, sto correndo troppo. Prometto che agirò in maniera più cauta.»
Solomon arricciò le labbra; su questo aveva forti dubbi. «È già qualcosa.»
«Maaa ciò non significa che rinuncerò alle mie idee per paura dei Decani!» continuò poi lei con ostinazione, al che lui dovette sollevare di nuovo gli occhi al soffitto. «Riuscirò a far capire loro che non tutto quello che viene dal Mondo Esterno è sbagliato e che, anzi, abbiamo molto da imparare dai Mancanti…»
«Forse non ci siamo capiti…»
«Si fidi di me, Blake» replicò Isabel, con uno scintillio pericoloso negli occhi. «Non la metterò in cattiva luce. Porterò dei cambiamenti in questa città, ma un passo alla volta. E infatti, se vuole scusarmi, adesso ho delle nozze da organizzare!»
 
I preparativi andarono avanti per la settimana successiva, durante la quale Solomon scoprì che la famiglia Ascanor possedeva tutta una serie di tradizioni bizzarre in vista delle nozze; in primo luogo, allo sposo era assolutamente vietato vedere o parlare con la fidanzata. Inoltre, gli fu impedito di bere alcolici e mangiare carne e di indossare il nero fino al giorno del matrimonio – cosa per lui inaccettabile, visto che la maggior parte del suo guardaroba era di quel colore.  Ma il sacrificio peggiore fu trovarsi in balia dei cognati, Alvaro e Tristan, che erano ormai entrati apertamente in conflitto per il posto del padre nel Decanato; il loro obiettivo era accaparrarsi quanti più sostenitori, sia all’interno della Cittadella che della propria famiglia, e Solomon, in quanto membro acquisito, divenne presto anche lui oggetto di un’agguerrita contesa:
“Lasci perdere quel noioso di Alvaro!” esclamava sempre Tristan in tono bonario, non appena riusciva a stanarlo alla Corte dei Sofisti. “Venga con me, Solomon, oggi ho in programma di far visita ad alcuni amici, vedrà che ci divertiremo!”
E Solomon veniva trascinato in una girandola di eventi mondani, colazioni all’aperto, giochi di società e pettegolezzi da salotto. Tutte cose da cui, negli ultimi anni, si era premurato di stare alla larga.
Dal canto suo, Alvaro e la sua combriccola di seguaci trascorrevano le giornate girovagando come una banda di scalmanati per le strade di Arcanta, organizzando scommesse, e di tanto in tanto partecipando anche a duelli di magia, per poi concludere la nottata saltando da una locanda all’altra. A quel punto, Alvaro iniziava a brindare all’insuccesso del fratello nella scalata al potere, e a deridere i suoi modi affettati e le sue parrucche cotonate:
“Tristan è una scrofa da salotto addobbata a festa!” lo aveva sentito biascicare una sera, già parecchio ubriaco. “Non ha la stoffa per guidare questa famiglia, figuriamoci il Cerchio d’Oro! E poi, gli Ascanor sono diventati grandi grazie all’acciaio! È la forza ciò di cui questa città ha bisogno!”
Detto ciò, aveva sguainato una sottile spada, che portava sempre assicurata alla cintura, e si era messo ad agitarla contro un nemico invisibile per aizzare gli animi dei compagni.
Ovviamente, l’unico membro della famiglia con cui Solomon avrebbe voluto trascorrere del tempo, il Bibliotecario, non partecipava mai, barricato giorno e notte nella sua torre di libri. Solomon ormai non faceva che pensare a lui, alla monumentale raccolta della famiglia Ascanor e alla promessa che gli aveva fatto durante l’ultimo incontro: “Sarei ben lieto di mostrargliela, se le interessa…”
La sola idea bastava a infiammarlo. Era già vicinissimo al raggiungimento del suo obiettivo, tutto quel che doveva fare era stringere i denti ancora per un po’.
In tutto quel tempo, non ebbe praticamente mai l’occasione di far visita a Lucia. Soltanto la mattina delle nozze era riuscito a sgattaiolare in un armadio diretto alla casa sul lago alle prime luci dell’alba, ma lei stava ancora dormendo. Si era fermato di fronte alla porta della sua stanza, indeciso se svegliarla oppure no. E per dirle cosa, poi? “Vado, giuro eterno amore a un’altra donna e poi torno?” “Scusa se ho ferito i tuoi sentimenti?” “Sono il solito imbecille che per sistemare una cosa finisce per guastare tutto il resto?”
Non disse niente di tutto questo. Tirò un profondo sospiro, restò per qualche istante lì impalato in mezzo al corridoio in penombra, con la mano poggiata sulla porta, e poi se ne andò.
Come tutti gli eventi ufficiali, la cerimonia si tenne al cospetto dei Decani: i dieci vecchi stregoni, compreso Sebastian Ascanor in carrozzina accompagnato dal fido Melkisedek, sedevano sui loro scranni di pietra bianca e osservavano gli invitati che confluivano all’interno di un’ampia sala di marmo ottagonale dal soffitto affrescato.
Impeccabile nella sua redingote doppiopetto nera dai revers di seta, Solomon attese l’arrivo della sposa, impaziente di archiviare l’intera faccenda il prima possibile. Gettò un’occhiata all’imponente cupola che lo sovrastava, raffigurante il mito della Fondazione di Arcanta; Malachia, Farabi e Tolomeo, i Tre Fondatori, guidati nella valle da uno sciame di api e pronti a posare la prima pietra della Cittadella. Solomon indugiò in particolare su Farabi, riconoscibile grazie al ricco turbante, alla barba riccioluta e soprattutto al grosso libro tra le mani. Che tra non molto sarà mio.
Isabel fece la sua apparizione in sala scortata dalla madre, doña Madragana; indossava un abito di pizzo nero e sulla testa un velo ricamato trattenuto da pettini d’oro. Un bouquet di fiori d’arancio completava il vestiario, e altri boccioli dello stesso tipo erano intrecciati nei suoi capelli.
Solomon non sapeva bene cosa quella visione avrebbe dovuto suscitargli. Panico? Apatia? Rassegnazione? Stranamente, niente del genere. A dirla tutta, nel momento in cui Isabel gli si fermò accanto e catturò il suo sguardo dopo quella settimana estenuante, provò un'inaspettata sensazione di sollievo. Almeno, non era da solo in quella follia.
La cerimonia seguì l’iter canonico: uno dei Decani, Saggio Ezechiele, incaricato delle questioni civili, tenne un breve discorso di benvenuto, dopodiché si rivolse a Solomon e Isabel, lanciandosi in un’esposizione infinita sui doveri del matrimonio secondo la Legge, e solo alla fine chiese loro di tendere l'uno verso l'altra i polsi.
«Tu, Solomon Ulysses Edward Blake, Primo Evocatore della Corte dei Sofisti e Arcistregone dell’Ovest» disse solennemente. «E tu, Isabel Catalina Esmeralda Maria Carmela Ascanor.» Nel mentre, evocò un nastro di seta rossa, che si intrecciò da solo sulle mani degli sposi, unendole. «Da quest’oggi, la Città di Arcanta vi riconosce legittimamente come marito e moglie!»
Il nastro rosso si attorcigliò poi sui rispettivi anulari, tramutandosi in fedi nuziali d'oro, e la platea si sciolse in uno scroscio di applausi.
«Adesso potete scambiarvi un bacio, se lo desiderate» li informò il Decano.
Solomon e Isabel si lanciarono un'occhiata interdetta, poi lui si piegò in avanti e posò sulle sue labbra un bacio rapido e delicato.
«Cos’è questa roba?!» s’indignò Alvaro Ascanor, dalla prima fila. «E datevi un bacio come si deve, che diamine!»
Un ruggito di approvazione si levò in tutta la sala alle sue parole.  A quel punto, Isabel e Solomon si voltarono verso l’officiante, nella speranza che li dissuadesse. Invece, l’anziano mago si limitò a fare spallucce, come a dire “se proprio dovete”.
Messi alle corde, marito e moglie si guardarono.
«Lo faccia» ordinò lei, muovendo appena le labbra. «E cerchi di farlo sembrare convincente.»
Lui sospirò. «Come vuole.»
La guardò negli occhi senza imbarazzo, mentre faceva scorrere una mano lungo la sua schiena, poi la tirò a sé e la baciò come ci si aspetta che un uomo baci la donna che ha giurato di amare per tutta la vita. Un suono vibrante, simile a un respiro trattenuto troppo a lungo, corse per l’intera platea, mentre il bacio continuava e Isabel si aggrappava alle sue spalle per non perdere l’equilibrio. Aveva le labbra più morbide di quanto non credesse, piacevolmente umide e piene...
E poi si staccarono, accolti da un applauso così sonoro da far tremare le pareti ottagonali della sala.
Unendosi anche lui agli applausi, Solomon sussurrò a Isabel, con un ghigno sornione: «Era abbastanza convincente?»
In risposta, lei si schiarì la gola, le guance in fiamme come se avesse corso e un paio di ciocche nere che erano sfuggite alla sua acconciatura.
Il resto della giornata fu occupato da un sontuoso banchetto nel cigarral degli Ascanor, che si protrasse fino a sera: in giardino furono allestite lunghe tavolate imbandite, dove il vino e la sangria scorrevano a fiumi. Non mancarono danze ed esibizioni di magia, e tra un brindisi e l’altro, gli invitati diventavano via via sempre più chiassosi.
Solomon non interagì granché con nessuno. Rimase quasi tutto il tempo seduto al tavolo degli sposi, a scolare un drink dopo l’altro e guardare annoiato lo svolgersi della festa. A un tratto, captò lo sguardo di ghiaccio di suo padre, la serietà in persona in mezzo a una moltitudine di facce sorridenti, e si decise ad andare a parlarci.
Indossava una marsina nera in panno robusto e una parrucca antiquata, sotto cui sbucavano i favoriti grigi; l’unica concessione a tutta quell’austerità era il grosso rubino che gli faceva da fermacravatta. Come Solomon, anche lui si era tenuto per tutta la serata a debita distanza dal resto degli invitati, come se temesse di essere contagiato da un qualche strano morbo.
«Che miserabile spreco di talento magico» fu il suo commento, mentre guardava con malcelato disgusto gli allievi della Corte dei Miraggi, che davano sfoggio del loro miglior repertorio per intrattenere gli ospiti. «Esultano per quattro fuochi d'artificio come bambini. Ma tra non molto avranno poco di cui gioire.»
Spostò l'attenzione su Solomon. «Se non altro, almeno tu hai fatto buon uso di quanto appreso in questa squallida città.»
Solomon maneggiò con cautela il tiepido senso di soddisfazione che lo pervase a quelle parole; non era da Alastor Blake elargire lodi, ma quella pareva la cosa più simile all'approvazione che fosse in grado di esprimere.
«Te l'ho detto. Io trovo sempre il modo.»
Solo allora notò che suo padre si sorreggeva a un bastone da passeggio, e che, da come teneva piegata la gamba sinistra, sembrava che non riuscisse neanche a poggiare il piede a terra.
«Zoppichi ancora. Perché diamine non ti sei curato?»
«Mi sono curato. Occorre...più tempo del previsto perché la ferita si rimargini.»
«Dovevi farmela esaminare subito!» si arrabbiò Solomon. «Se i classici incantesimi di autorigenerazione non funzionano dobbiamo consultare al più presto un alchimista...»
«Non mi farò mettere le mani addosso da quegli spocchiosi topi da laboratorio!» ringhiò Alastor. «Guarirò da solo, coi miei tempi. Tu, piuttosto, pensa a mettere un erede dentro quella Ascanor e impossessati del Libro, così potremo chiudere questa storia.»
E se ne andò imprecando, con andatura claudicante.
Lo stomaco di Solomon sprofondò come se fosse stato pieno di sassi. Deglutì, si guardò attorno in quel mare di sconosciuti, che chissà chi aveva invitato, e l'arruffata chioma blu elettrico di Macon Ludmoore gli apparve in lontananza come un faro di salvezza.
«Spero che almeno tu ti stia divertendo» esalò, fermandosi al suo fianco. Macon però si guardava attorno con aria pensierosa, e allora domandò: «Tutto bene?»
«Sto cercando di ricordare quando è successo.»
«Quando è successo cosa?»
«Quando ho sbattuto la testa. Perché devo averla sbattuta davvero forte! O magari sono finito in un tunnel dimensionale e adesso mi trovo in un universo alternativo!» Macon si girò a guardare l’amico, con espressione incredula. «Tu che ti sposi? Seriamente?!»
«Non ci vedo nulla di così strano» borbottò Solomon. «Ho sempre ottantasette anni suonati, dovevo pur sistemarmi.»
«Sì, ma con Isabel Ascanor? Come, quando e soprattutto, perché?»
«Perché ha una famiglia antica e potente» replicò Solomon, con un’alzata di spalle. «Mi conosci, sono un inguaribile romantico.»
Macon scosse la testa. «Tutto questo è assurdo, persino per te!»
«Rilassati, so esattamente quel che sto facendo.»
«Sì, ma che mi dici di…lei?» chiese Macon, preoccupato. «Come l’ha presa?»
Si riferiva a Lucia, naturalmente.
Solomon prese un attimo prima di rispondere. «È una ragazza matura, ha capito che era la scelta giusta. Le serve solo un po’ di tempo per abituarsi all’idea.»
Lo sguardo carico di rimprovero di Macon gli procurò ancora una volta spiacevoli rimescolamenti nello stomaco. «Ho sempre pensato che tu fossi l’uomo più intelligente al mondo, Sol. Eppure, certe volte sembra che tu non capisca l’ovvio.»
Solomon aprì la bocca, alla ricerca di qualcosa da dire in sua difesa, ma la richiuse subito.
«Vado a cercarmi qualcosa da bere» sospirò Macon. «Qualcosa di molto forte.»
Cercando di respingere in tutti i modi il senso di colpa, Solomon tornò al tavolo degli sposi. Lungo il tragitto, puntò Xavier Ascanor, seduto ricurvo al suo posto col naso infilato in un libro, mentre la gente gli chiacchierava attorno, e pensò che fosse un buon momento per avvicinarlo. Ma quando guardò di nuovo verso il tavolo degli sposi, si accorse che la sedia di Isabel era vuota. Provò a rintracciarla tra la folla, ma sembrava essersi volatilizzata. Perplesso, decise che fosse il caso di andare a cercarla.
Lasciò le mura illuminate del cigarral e la musica frastornante alle sue spalle e s’immerse nella fresca oscurità argentata degli ulivi. Per un po’ si limitò a passeggiare senza meta, cullato dal frinire dei grilli, lieto di avere finalmente un po’ di tempo per sé e di non dover più fingere sorrisi, quando, all’improvviso, giunsero alle sue orecchie delle voci:
«Ne abbiamo già discusso» stava dicendo quella di Isabel. «Ho fatto la mia scelta, non posso più tornare indietro.»
«Ti scongiuro, Belle, ripensaci! Io ti sto offrendo il mio cuore, la mia eterna devozione, tutte cose che lui non potrà mai darti!»
Quella voce apparteneva senza dubbio a Boris Volkov. Solomon si immobilizzò, la bocca aperta come un pesce preso all’amo. Poi, decise di mandare alle ortiche qualsiasi scrupolo morale e si avvicinò di soppiatto per origliare la conversazione.
In effetti, bastò percorrere pochi passi per scorgere, al centro di una radura, la grossa figura irsuta di Boris Volkov, l’Arcistregone del Nord, e quella infinitamente più minuta di Isabel.
«Ti conosco da una vita intera, Belle.» Nella voce profonda di Boris vibrò una nota di sofferenza così intensa da colpirlo. «Ho visto chi sei veramente. Meriti di avere al tuo fianco qualcuno che sappia ascoltarti, che rispetti le tue idee, che ti sostenga, e quell’uomo non può essere Blake! Lui rappresenta tutto ciò che di sbagliato c’è in questa città, tutto ciò che tu disprezzi!»
«Lo so» mormorò Isabel. «E so anche che faresti qualunque cosa per rendermi felice. Ma non è quello che sto cercando in questo momento, Bo, non è ciò di cui ho bisogno. Perciò, ti prego di rispettare la mia scelta.»
Solomon vide le spesse spalle di Boris tremare sotto la luce della luna. Si avvicinò a Isabel di un altro passo, allungò le mani verso di lei. La donna le strinse gentilmente tra le sue e bisbigliò qualcos’altro a voce talmente bassa che Solomon non poté sentirla. Qualunque cosa gli avesse detto, parve convincerlo una volta per tutte, perché Boris lasciò andare le braccia lungo il corpo e poi si trascinò verso l’oscurità del bosco, a testa china.
Rimasta sola, Isabel prese un lungo sospiro e si sistemò l’acconciatura. «Venga fuori, Blake. Lo so che è lì.»
Colto in flagrante, lui valutò l’opzione di darsela a gambe, poi però decise di conservare un minimo di dignità e uscire allo scoperto. «Domando scusa, non l’ho più vista alla festa e…»
«Ha ascoltato tutto?»
«Quanto basta.»
Isabel sospirò ancora e guardò il cielo notturno attraverso le fronde degli ulivi.
«Quando entrai nella Corte delle Lame, Boris era da poco diventato Arcistregone» raccontò. «Diventammo subito amici: mi insegnò a combattere e fu tra i primi a cogliere in me un talento per l’alchimia. Si offrì di parlare con mio padre per convincerlo a farmi ammettere nel Cerchio d’Oro, senza riuscirci, ovviamente. E anche a distanza di anni, mi è sempre rimasto accanto, sostenendomi quando nessun altro era disposto a farlo.»
«È innamorato di lei» disse Solomon.
«Sì, penso che lo sia.»
Solomon la osservò con serietà per un lungo momento, poi disse: «Forse non ha tutti i torti, sa? Boris l’avrebbe resa felice. Perché non ha sposato lui? È pur sempre un Arcistregone, come me.»
«È difficile da spiegare.»
«Può provarci.»
«Non voglio farlo soffrire» rispose lei, con voce roca. «Gli voglio bene come a un fratello, ma non sopporterei l’idea che sia legato a me per tutta la vita anche se non potrò mai amarlo. Non sarebbe giusto.»
«E rifiutarlo le sembra il modo migliore per evitargli sofferenze?»
Lei si volse a guardarlo, gli occhi fiammeggianti. «Almeno in questo modo potrà andare avanti con la sua vita! Un giorno troverà una donna che possa amarlo come merita e sarà felice con lei. Gliel’ho detto alla firma del nostro contratto, signor Blake: non mi interessano le storie d’amore. Ho ben altri obiettivi da perseguire ed è il solo motivo per cui mi sono sposata oggi.»
Solomon fissò il punto tra gli alberi in cui Boris era scomparso, stupendosi di provare, da qualche parte dentro di sé, una fitta di sincero dispiacere. «E se Boris non volesse affatto andare avanti? Se non riuscisse a dimenticarla? Lo condannerebbe lo stesso a una vita di infelicità.»
«Suppongo allora che sia inevitabile» disse lei. «Sono le persone a cui teniamo quelle a cui facciamo più del male.»
I pensieri di Solomon tornarono a Lucia, alle lacrime che aveva versato a causa sua, e non rispose.

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Capitolo 19
*** Trasgressione ***


Ben ritrovati, cari lettori! Rientrata dalle ferie avevo una gran voglia di rimettermi a scrivere, spero che anche voi abbiate passato/stiate passando delle buonissime e rilassanti vacanze! ^^
N.B.: ho aggiunto una breve scena nel precedente capitolo, durante il matrimonio di Isa e Sol, che sarà piuttosto importante per gli sviluppi futuri; quindi, consiglio di recuperala 😉 detto ciò, vi auguro buon proseguimento!
 
 

TRASGRESSIONE

 
 
 
“Where are your legs that used to run
When you went for to carry a gun
Indeed your dancing days are done
Oh Johnny, I hardly knew ye.” [1]
 
 
La Panne, giugno 1915
 
 
Al loro rientro, Tom Doherty e il suo plotone furono acclamati come degli eroi; non appena il blindato ebbe raggiunto la piazza principale della cittadina, una piccola folla corse per salutarli e aiutarli a caricare il Maggiore Draper su una barella diretta agli ambulatori dell’Océan.
Tom, James e i loro compagni, invece, furono abbracciati, ricevettero pacche e calate amichevoli dietro la nuca, tra applausi e fischi, sia da parte dei propri connazionali che di molti soldati inglesi. Persino un paio di ufficiali vennero a congratularsi di persona per come avevano svolto l’operazione di recupero, limitandosi però a una formale stretta di mano.
Nessuno di loro sembrò ricordarsi della presenza di Abigail e del dottor Martin, che scivolarono silenziosamente giù dal furgone, osservando i soldati in festa che si allontanavano.
«Non ne faccia un dramma» disse il medico militare, con un piccolo sospiro. «Sono loro gli “uomini d’azione”. E noi quelli con un sacco di libri in testa, che stanno dietro le quinte e li ricuciono all’occorrenza. Il mondo va così.»
Le posò una mano sulla spalla, delicatamente, timidamente: «Ottimo lavoro, comunque. È stato un privilegio collaborare con lei, mademoiselle Thorn.»
Abigail mormorò un ringraziamento, mentre lui si accomiatava. Prima di tornare all’Océan, la ragazza si voltò un’ultima volta verso il chiassoso drappello, giusto in tempo per vedere Tom Doherty che allungava il collo sopra tutti quegli elmetti in ricerca di qualcuno.
Si guardarono. Lui le sorrise.
Dannazione!
Percepì che le guance le si stavano già imporporando, e si affrettò a raggiungere l’ospedale.
Nell’atrio, inalò il pungente odore di disinfettante e candeggina, abbastanza forte da coprire quello stagnante del sangue, anche se non del tutto. Ogni cosa era esattamente come l’aveva lasciata: medici in camice bianco che camminavano per i corridoi esaminando cartelle cliniche; infermiere in uniforme che facevano avanti e indietro trasportando coperte, cibo e brocche d’acqua; due soldati con la testa fasciata chiacchieravano in un corridoio, uno dei due sorretto da un paio di stampelle e con un moncherino al posto della gamba.
«Santiddio! Sei qui!»
Abigail si girò di scatto.
Era Gwen, che le veniva incontro correndo, le braccia spalancate e gli occhi lucidi, per stritolarla poi in un abbraccio mozzafiato.
Stordita, Abigail vide che dietro di lei c’erano anche Henrietta, Sarah, Augusta, tutte molto pallide e preoccupate. E, incredibile ma vero…Fanny!
«Sei una grandissima stronza!» strillò Gwen. «Come hai potuto andartene via così? Senza dirci niente!? Quando ho saputo dov’eri sono quasi morta di crepacuore!»
«M-mi dispiace» fu tutto ciò che riuscì a balbettare Abigail. «Ho promesso…era un’operazione top secret…il generale Mackenzie…»
«In culo il generale Mackenzie!» sbottò Gwen, col suo formidabile accento del Sussex. «E in culo anche il dottor Depage! Quell’incosciente! Gettare una ragazza in pasto a quegli assatanati mangia crauti!»
«Il dottor Depage ha agito nel modo che ha ritenuto più giusto per servire il suo Paese» intervenne piano Fanny, rimasta in disparte con le braccia strette al petto e gli occhi bassi. «Come tutti noi.»
Con riluttanza, Gwen lasciò andare Abigail.
«Stai bene?» le chiese poi, in un evidente sforzo di reprimere la collera e l’apprensione. «Hai l’aria distrutta. Chiamo qualcuno che ti visiti?»
«Non è stata proprio una scampagnata della domenica» ammise Abigail, provando a sorriderle. «Ma sto bene, non preoccupatevi.»
«Ti serve comunque una bella dormita» insistette Augusta. «Torna a casa e riposa. Ci racconterai dopo.»
Abigail decise di seguire il consiglio; tutto ciò che desiderava era gettarsi finalmente su un vero materasso e lasciarsi alle spalle le ultime ore.
Tornò alla villetta che condivideva con le altre infermiere, fece un bagno, poi tirò le tende della sua stanza e si mise a letto. Ma anche quando chiuse gli occhi, nella mente continuarono a turbinare senza sosta le immagini della battaglia nella foresta, l’eco degli spari, le urla dei soldati, Tom Doherty che veniva sopraffatto dall’energumeno tedesco…e poi lo scricchiolio dei rami e l’albero che si abbatteva con forza nella radura…l’inebriante senso di libertà e potere che solo la magia riusciva a donarle…e, infine, i bellissimi occhi grigi di Tom che la fissavano confusi, riconoscenti e anche…intimoriti?
“Quanto credi ci vorrà perché queste persone scoprano la verità e inizino a temerti...?”
Quasi non si accorse del lieve stridio dei vecchi cardini della porta.
«Thorn» bisbigliò una voce nella penombra. «Sei sveglia?»
Abigail si tirò subito a sedere. «Fanny?»
La sentì muoversi nella piccola stanza, e poi il cigolio delle molle quando andò a sedersi sul letto.  Restò in silenzio per un po’ e Abigail, perplessa, attese.
«Non doveva toccare a te» disse infine, con voce nervosa. «Il dottor Depage, lui…ci sarei dovuta andare io, maledizione! Ho provato a convincerlo! Ho più esperienza di te, ho più…»
«Hai una famiglia che ti aspetta a casa» replicò Abigail. «Lo so, vi ho sentiti.»
Fanny tacque per un momento. «So cosa pensi…»
«Credevo non t’importasse quello che la gente pensa di te.»
«Infatti» replicò lei, brusca. «Sono brava nel mio lavoro, diamine, lo sanno tutti! Perciò non voglio che si sparga la voce che… che Fanny Bouchard è la cocca del dottor Depage, il fiorellino delicato da proteggere a tutti i costi per non spezzare il cuore del suo papà! Se sono venuta fin qui è solo per fare la mia parte, cazzo.»
«Non ho mai dubitato di questo» rispose Abigail con sincerità. «Ma posso capire la scelta del dottor Depage. Va bene così, l’abbiamo scampata tutti, alla fine.»
Fanny esitò. «Avete…incontrato dei tedeschi?»
«Una piccola divisione in avanscoperta. Ci hanno teso un’imboscata.»
Lei aspirò l’aria tra i denti. «Cristo…»
«Ma il caporale Doherty aveva la situazione sotto controllo» assicurò Abigail, in fretta. «Nessuno è stato ferito, Draper aveva solo una caviglia slogata…»
«Sei stata coraggiosa.»
Le sopracciglia di Abigail scattarono in su. Forse era colpa della stanchezza, ma la conversazione stava prendendo una piega a dir poco surreale: mai avrebbe pensato che dalle labbra di Fanny Bouchard potesse venir fuori qualcosa di simile a un complimento.
«Sì, be’» borbottò poi Fanny, maldestramente. «Ti sei fiondata laggiù senza battere ciglio, insieme a… ammettiamolo, a dei mocciosi che a malapena sanno imbracciare un fucile! Nessuno con un briciolo di sale in zucca avrebbe accettato…»
«Oh. Molte grazie.»
«Ma è per questo che siamo qui, no?» gracchiò Fanny. «Tutto questo è stupido. La guerra. Quei ragazzi gettati in un fossato pieno di fango a morire…quando dovrebbero, che so, essere all’università, aiutare i genitori nei campi, o magari fare la corte a qualche cameriera in un pub…» Prese un profondo respiro, e si forzò a confessare: «Ho due fratelli al fronte. Charles e Michael. Charles aveva appena compiuto diciott’anni quando si è arruolato volontario. Mio padre non voleva assolutamente…ma loro mica potevano fare la figura dei polli, no? Con un padre Obiettore, che si rifiuta di combattere per il proprio Paese… Hanno discusso un sacco per questo. Michael si è pure preso uno schiaffo. Ma alla fine, sono partiti lo stesso…»
«E tu hai cercato di raggiungerli» disse Abigail.
Fanny proruppe in una risata dolorosamente triste. «Be’, qualcuno doveva assicurarsi che non si facessero ammazzare, no? Ma sai come funziona: sei una donna, tutto ciò che puoi fare è assistere come infermiera. Anche se spesso ne sai di più degli stessi chirurghi!»
Abigail restò in silenzio, riflettendo sulle sue parole. Quante volte era accaduto anche a lei? “Si limiti a fare quello che le viene detto, infermiera”. Un ritornello che le era stato ripetuto continuamente, in ogni ospedale in cui aveva prestato servizio, mentre fissava impotente i pazienti contorcersi dal dolore nei loro letti, per mali che i Mancanti non erano in grado di curare adeguatamente…
«Scrissi un fiume di lettere al dottor Depage» continuò Fanny. «E lui rassicurò mio padre che l’Océan è un posto sicuro, che qui avrei potuto dare una mano senza rischiare troppo, a differenza di molti ospedali da campo. Solo così riuscimmo a convincerlo.»
«Perché mi stai raccontando queste cose?» domandò Abigail. «Non capisco, credevo di non piacerti per niente.»
La risposta di Fanny la lasciò di stucco: «Non è che non mi piaci. È solo che…mi fa rabbia che tu sia riuscita così in fretta laddove io ho sempre fallito.»
«E in cosa? Qui tutti ti tengono in altissima considerazione, a cominciare dal dottor Depage!»
«Tu ti sei ribellata alla tua famiglia» mormorò Fanny. «Sei venuta fin qui, da sola, senza nessuno che ti coprisse le spalle, o che si senta in dovere di proteggerti. Ti sei fatta valere in base alle tue abilità. È quello che ho sempre desiderato anche io.»
Abigail ripensò a suo padre, al terrore che lui trovasse il modo di scovarla e riportarla ad Arcanta. A quanto si fosse sentita incapace per gran parte della propria vita, nella magia come in tutto il resto. «Chi ti dice che sia stato così semplice?»
«Non dico che lo sia stato, ma…»
«Ho lottato per conquistarmi una fetta di libertà» ribatté Abigail. «Da dove provengo, alle donne non viene data alcuna fiducia, nessuno è disposto a credere che ci sia altro in loro a parte un utero per procreare.»
Fanny rimase spiazzata. «Non volevo dire…»
«Mi dispiace che i tuoi fratelli stiano rischiando la vita» disse Abigail, guardando il suo profilo elegante, da statua greca, stagliato al tenue chiarore che filtrava dalle tende. «E mi dispiace che continui a sentire di non star facendo abbastanza. Ma fidati: lo stai facendo. Sei qui, no? Stai aiutando un sacco di gente, è questo che conta. E se cercassi di essere meno orribile con le altre infermiere, capiresti anche di non essere sola come pensi.»
Stavolta fu Fanny a guardarla a bocca aperta. «Thorn…»
«“Blackthorn”» la corresse lei, dopo una breve incertezza. «Il mio nome è Abigail Morgana Blackthorn. Mio padre continua a cercarmi. Vuole riportarmi a casa, con la forza se lo riterrà necessario. Se lo conoscessi, non mi riterresti poi così tanto fortunata. Ma hai ragione, ho raccontato un mucchio di balle per ottenere il posto al Norwich e anche per venire qui. Ma non mi pento della decisione. Puoi anche fare rapporto a Depage, a questo punto. E, se dovesse mandarmi via, troverò un altro modo per rendermi utile.»
Fanny continuò a tacere. Alla fine, prese un grosso respiro. «Non dirò niente a Depage. Qualunque sia il tuo vero nome o la tua provenienza…sei una risorsa preziosa per questo ospedale.»
Abigail si sentì pervadere da un inatteso calore a quelle parole, ma riuscì a rimanere impassibile. «Ti ringrazio.»
Fanny si alzò in piedi, stirò le pieghe della gonna e si avvicinò alla porta. «Ora ti lascio riposare. E…Abigail?»
«Sì?»
Un altro silenzio. «Sono contenta che tu sia tornata sana e salva.»
 
 
«Fanny Bouchard ti ha chiesto scusa!?» esclamò Gwen il giorno dopo, guardandola come se le avesse detto di aver trovato un elefante rosa nella vasca da bagno. «No, è impossibile. Di sicuro non era lei!»
«Sono abbastanza sicura che fosse lei» replicò Abigail, divertita.  «Di una cosa bisogna darle atto: riesce sempre a essere imprevedibile.»
Era un mattino ventilato, con poche nuvole che si rincorrevano veloci nel cielo, e le due infermiere camminavano a braccetto per La Panne. La voce del trionfante ritorno del maggiore Draper nelle retrovie si era sparsa a gran velocità lungo tutta la linea del fronte occidentale, contribuendo a sollevare di molto il morale di soldati, civili e personale ospedaliero. Il generale Mackenzie era certo che, grazie alle informazioni ottenute dal ricognitore, avrebbero presto messo in scacco i tedeschi, e la regina Elisabetta del Belgio, informata dell’accaduto, aveva insistito perché l’Océan si attivasse per distribuire tra le truppe ceste di dolci fatti in casa.
Ovviamente, Fanny Bouchard aveva avuto da ridire: “La gente in trincea continua a crepare in mezzo ai ratti, ma ehi! Quaggiù serviamo macarons e crostate ai lamponi!” Ma malgrado il suo innato cinismo, anche lei era sembrata a tutti meno scontrosa del solito, ultimamente.
Così, quel giorno si potevano vedere dappertutto gruppetti di infermiere che sfilavano per le strade della cittadina balneare, con le braccia cariche di doni. I soldati furono molto contenti di ricevere quelle visite, alcuni fin troppo; infatti, un paio di loro aveva domandato a Gwen e Abigail, sfacciatamente: «Signorine, siete mica comprese anche voi nel pacchetto?»
Quel sottile filo di speranza e ottimismo che serpeggiava tra i ranghi però era un vero balsamo per l’anima. Ovunque Abigail guardasse, c’erano volti sorridenti, scoppi di risa e battute scambiate con accenti diversi.
«Lì ci sono i tuoi amici irlandesi» disse a un certo punto Gwen, le labbra già tirate in un sorrisetto. «Passiamo a salutarli? Così mi presenti questo tuo affascinante caporale senza macchia e senza paura!»
Sforzandosi di nascondere la timidezza, Abigail la seguì fino alla caserma. Furono accolte con tutti gli onori: Pàdraic, O’Connor e persino il burbero Regan corsero loro incontro con esclamazioni di giubilo, per poi frugare avidamente nelle ceste a caccia di dolci.
«Profuma come quelli che preparava mia mamma!» commentò commosso Pàdraic, annusando un muffin alle noci come fosse un bouquet di fiori freschi. «Gesù, quanto mi mancano queste cose!»
«Miss Abigail!»
James Finnegan si precipitò sgomitando nella calca e mise un braccio attorno alle spalle della ragazza, annunciando a tutta la compagnia: «Signori, pregate di sposarvi una pupa tosta come Abigail Thorn un giorno! Ma mi raccomando: il primo che fa il cafone con lei si troverà le cinque dita della mia mano tatuate sul grugno!»
Dopodiché, James la strinse in un abbraccio caloroso, come fossero ormai amici fraterni, e sventolò la mano per richiamare l’attenzione di qualcuno: «Ehi, Tommy! TOMMY! Guarda un po’ chi è venuto a trovarci!»
Posato come sempre, Tom Doherty offrì alle due infermiere un piccolo, rispettoso inchino. Ad Abigail sembrò che stesse evitando di proposito di guardarla negli occhi, mentre prendeva il cestino dalle sue mani tremanti. «Siete state molto gentili.»
Gwen diede all’amica una gomitata complice. «Era il minimo. Dopo aver ascoltato il resoconto delle vostre eroiche gesta dovevo assolutamente conoscervi di persona!»
«Be’, allora perché non cogliamo l’occasione di conoscerci ancora meglio» disse baldanzoso James, riproponendo lo stesso gesto d’intesa di Gwen, ma verso Tom. «Vi va di tornare qui in caserma questa sera? Diciamo…per le otto? Organizziamo una festicciola. Niente di scandaloso, si capisce.»
«Oh, ma noi siamo impavide donne inglesi!» civettò Gwen. «Le cose scandalose ci piacciono!» E ad Abigail venne una gran voglia di sotterrare la testa da qualche parte.
«No, sul serio» borbottò Tom, anche lui piuttosto in imbarazzo. «Solo musica, cibo e balli. Non girerà alcol, né alcun tipo di sostanze strane, parola mia…»
«Cielo, dipinta così non sembra granché come festa!» si intromise una voce.
Con grande meraviglia, videro spuntare in mezzo a loro Fanny, anche lei con un cesto carico di doni sottobraccio. «Be’, che sono quelle facce?» Estrasse una bottiglia di prosecco e la agitò. «Se proprio bisogna festeggiare facciamolo come si deve o non facciamolo proprio, no?»
«Ti stai sul serio autoinvitando?» le chiese stupefatta Gwen.
«Cerco di salvarvi da questo disastro di serata. Dovresti ringraziarmi, contadinotta.»
Tom stava per ribattere, ma James le rivolse un sorriso entusiasta: «Sono perfettamente d’accordo! E già che ci siamo, mi prenoto per il primo ballo!»
«Adesso non ti allargare, biondino» lo mise al suo posto Fanny. «Certi privilegi bisogna guadagnarseli.»
Gwen si avvicinò ad Abigail. «Io te l’avevo detto: secondo me è sua sorella gemella! Non può essere la Fanny che conosciamo!»
Lei ridacchiò. «A me questa versione finora non dispiace.»
«E comunque, alle otto cenano i nonnetti e i bambini» concluse Fanny, sollevando altezzosamente per aria il nasino perfetto. «Facciamo almeno alle dieci. Il che significa che non dovrete aspettarci prima delle undici.»
E se ne andò via ancheggiando, ben consapevole dello sbigottimento che aveva lasciato sui volti di tutti.
James esalò un sospiro estasiato. «I nostri figli saranno bellissimi!»
«Quella donna è crudele» bofonchiò Pàdraic.
«Crudeli e bellissimi, allora» replicò James, tutto pimpante. «D’accordo uomini, rompete le righe! Ci si vede stasera!»
 

Alcune ore più tardi, Abigail fu messa di fronte a un problema che fino a un giorno prima non le sarebbe mai passato per la testa: non aveva nulla da indossare.
Il suo guardaroba ad Arcanta traboccava di vestiti meravigliosi; velluti, pizzi e sete fresche come acqua di sorgente, impreziositi da illusioni che donavano loro sfumature stupefacenti, e che avevano il solo scopo di far impallidire d’invidia le altre ragazze.
Al momento della fuga dalla Cittadella, non aveva pensato di portarne con sé nemmeno uno, sicura che non ci sarebbe stata occasione di indossarli, e che l’avrebbero solamente appesantita. Ma quella sera, mentre era in sottoveste e scorreva i pochi, semplici indumenti che occupavano il suo armadio – camicie, golfini e qualche gonna – rimpianse di non avere nulla di carino da mettere.
«Non farai sul serio?»
Fanny apparve sulla soglia della loro stanza avvolta solo da un asciugamano, i capelli appena lavati che le gocciolavano sulle spalle; probabilmente, pensò Abigail sconfortata, sarebbe stata divina anche con addosso una rete da pesca. Fanny fissò il vestito di lana marrone che Abigail stava abbottonando davanti alla specchiera e fece scoccare la lingua. «Non pensarci neanche. Tu quell’obbrobrio non lo metti!»
«Ma è l’unico che ho.»
«Scansati» disse bruscamente, mentre andava ad aprire il suo baule. «Ti presto io qualcosa di decente.»
Abigail la guardò, stupefatta, mentre estraeva un vestito di lino azzurro cielo, talmente delicato che, quando lo prese, quasi temette che le si sarebbe potuto sgretolare tra le dita. «È splendido.»
Fanny sbuffò. «Uno straccetto, non potevo occupare troppo spazio. Ma una signorina dell’alta società deve avere l’abito adatto a ogni occasione.»
«Anche in guerra?» domandò Abigail, scettica.
«La guerra è pur sempre un’occasione.»
La aiutò a indossare il vestito e a sistemare i capelli e, guardandosi allo specchio, Abigail riuscì dopo mesi a non vergognarsi di quello che il riflesso le restituiva.
Più tardi, insieme alle altre infermiere, lasciarono la villetta e si incamminarono compatte nell’oscurità delle notti senza luna delle zone di guerra, appena rotta da qualche lampadina.
Attente a non farsi beccare dalle ronde di pattuglia, percorsero le stradine deserte e raggiunsero in punta di piedi la caserma, trovandola però silenziosa.
«Psss! Per di qua!»
Qualcuno sventolò una lanterna nel buio e, seguendone la scia, le ragazze voltarono un angolo e imbucarono un vicolo fino a un’umile locanda a ridosso della spiaggia, da cui provenivano musica e risate. Ad esse, si aggiungeva il ruggito della risacca, e Abigail distinse poco distante il luccichio del mare nelle tenebre.
All’interno, l’atmosfera era calda e familiare: dietro un vecchio bancone di legno, un locandiere attempato riempiva fino all’orlo bicchieri di birra chiara e schiumosa, e i tavoli erano affollati di soldati, molti già palesemente brilli, che brindavano e ridevano. Alcuni di loro avevano sostituito i fucili con violini, flauti e tamburelli, diffondendo un allegro motivo folk.
Le ragazze rimasero qualche istante sull’uscio, timide e indecise, quando l’allegra voce di James Finnegan si levò dall’altro capo della stanza: «Adesso sì che si inizia a ragionare! Unitevi a noi, donzelle!» Sollevò il boccale alla loro salute, schizzando birra dappertutto.
Gwen ridacchiò e, imitata dalle altre, si liberò dello scialle e andò a sedersi in mezzo ai ragazzi. All’inizio, Abigail si limitò a guardarli prendersi in giro, raccontare aneddoti divertenti delle loro vite passate, cantare sguaiati, felice di essere semplicemente lì, in compagnia di quell’allegra e trasgressiva combriccola, ad ascoltare melodie e storie che sapevano di casa, di spensieratezza e di pace.
Si vide comparire accanto Tom, anche lui un po’ accaldato, che le fece scorrere furtivamente davanti una mezza pinta. «Al maggiore Draper, allora.»
Lei gli rivolse un piccolo sorriso e portò il boccale alla bocca; non era abituata a bere alcol, e le era capitato di rado di assaggiare la birra. Non era nemmeno sicura che quel sapore così amaro le piacesse, però era piacevolmente fresca, e già al secondo sorso sentì la testa farsi più leggera e il sorriso affiorarle sulle labbra con maggiore facilità.
Come aveva promesso quella mattina, James si fiondò presto da Fanny: «Un ultimo assaggio di beatitudine prima che il Tristo Mietitore ci porti tutti via con sé, madamigella?»
«Non c’è bisogno di essere così drammatici» la buttò lì Fanny, storcendo le narici. «Pestami un piede e ti faccio un occhio nero.»
Vuotò tutto d’un fiato il suo bicchiere e acconsentì ad afferrare la mano di James, e poco dopo, eccoli a danzare in mezzo ai tavoli, mentre i commilitoni li incoraggiavano fischiando e battendo le mani.
«Questa la racconterà per settimane» commentò Tom, guardandoli divertito. Dopo un po’, si sporse verso Abigail e disse, pianissimo: «Potremmo, ehm…»
Lei si fece andare un po’ di birra di traverso.
«Voglio dire» borbottò Tom, diventando molto rosso in faccia. «Se le va…»
Abigail mise giù il boccale, tossicchiando. «Sì. Perché no?»
Cercò in tutti i modi di ignorare il ghignetto trionfante di Gwen, impegnata a chiacchierare con Pàdraic, mentre seguiva Tom nello spazio riservato ai ballerini. Lui le appoggiò in modo un po’ maldestro una mano sul fianco, e con l’altra strinse quella libera di Abigail. «È, ehm, passato un po’ di tempo dall’ultima volta…»
Lei sorrise. «Non si preoccupi, caporale. Segua me stavolta.»
Le tornarono in mente gli unici balli a cui aveva partecipato, ad Arcanta, dove la musica era eseguita in modo impeccabile da strumenti incantati con la magia, dove tutto luccicava artificiosamente, e dame e gentiluomini addobbati come al carnevale di Venezia piroettavano secondo schemi prestabiliti. Dove ogni sguardo, ogni sorriso era perfettamente calcolato e nascondeva sempre un’allusione, un secondo fine. Tom era goffo, e la sua mano sudata. Mentre giravano, urtavano di tanto in tanto un’altra coppia di ballerini, oppure lo spigolo di un tavolo, e allora i loro sguardi si intrecciavano e scoppiavano a ridere come bambini. Abigail non avrebbe mai voluto smettere.
Travolsero un soldato che aveva appena poggiato sul bancone un bicchierino di whisky, spargendone il contenuto sul bancone. Abigail ruotò un dito istintivamente, e raddrizzò il bicchiere senza sfiorarlo, facendolo tornare pieno sul bancone. Se Tom aveva notato qualcosa, non lo diede a vedere.
«Però» commentò James, passando loro accanto, stretto a Fanny. «È veloce sulle gambe, miss!»
«Non solo sulle gambe» puntualizzò lei, lasciandosi sfuggire un imbarazzante singhiozzo. Sì, la birra stava decisamente facendo effetto.
A un certo punto, dovettero interrompere quel matto volteggiare, perché iniziava a girarle la testa. Tom propose di prendere un po’ d’aria.
La brezza salmastra accarezzò il volto madido di Abigail, quando uscirono sulla spiaggia. Davanti ai suoi occhi, si spiegava un unico fondale nero e uniforme, e solo il rumoreggiare delle onde lasciava intuire in che direzione fosse il mare.
Per un po’, si limitarono a passeggiare in silenzio, di colpo nuovamente troppo timidi e impacciati.
All’improvviso, Tom alzò la testa e commentò: «In Irlanda le stelle avevano un aspetto diverso. La Cintura di Orione di solito non è in quella posizione in questo periodo dell’anno, è un po’ più a sud…»
Lei si volse a guardarlo, perplessa, e lui spiegò: «Mio nonno è stato un marinaio, mi ha insegnato a orientarmi guardando il cielo.»
«Per questo è riuscito a guidarci così bene nel bosco.»
«Ho imparato a familiarizzare con le stelle di qui» rispose lui. «In un certo senso sono le stesse…eppure non lo sono. È strano da spiegare.»
«Le manca molto l’Irlanda?»
Tom sospirò. «Ho vissuto a Limerick tutta la vita, non ho conosciuto molto altro. Però sì, mi manca.»
Abigail si chinò per raccogliere una manciata di sabbia, e lasciò che i granelli scorressero tra le sue dita. «Nemmeno io sono stata in molti posti eccetto casa mia.»
«E a lei manca?» chiese Tom. «Casa sua?»
Abigail cercò di immaginarsi nella sua stanza, alla Cittadella. Strano, ci aveva trascorso così tanto tempo, eppure le risultava difficile ricordarne i dettagli: di che colore erano le pareti? Bianche? Oppure avorio? E la finestra? Si trovava accanto al letto o di fronte? «Non particolarmente. Una parte di me non l’ha mai considerata davvero casa. C’è stato un altro posto, in passato…ma ero troppo piccola per ricordarlo. So solo che sono stata felice lì…» Quando mia madre era viva, e mio padre non si era ancora trasformato in un carceriere…
All’improvviso, desiderò cambiare argomento. «Mi racconti qualcosa di Limerick.»
Tom aggrottò la fronte, frugando tra i suoi ricordi. Era assurdamente bello quando assumeva quell’espressione, pensò Abigail, incapace di staccargli gli occhi di dosso. Che fosse ancora colpa della birra?
«Non so se si possa definire una bella città» iniziò a raccontare Tom. «È grande, questo sì, e suppongo anche che sia antica: ci sono un mucchio di rovine in giro, resti di fortezze. Ho sentito dire che le hanno costruite i Vichinghi.» Le sue orecchie si arrossarono. «Le chiedo scusa, non sono un esperto di storia.»
«Non importa» replicò Abigail, con dolcezza. «Vada avanti.»
«Ci sono anche un sacco di chiese» proseguì Tom. «Un po’ troppe, forse. Io sono nato a Irishtown, il quartiere operaio. Si trova sulla riva meridionale del fiume, vicino al mercato del latte.»
«È un bel posto?»
Lui emise un suono nasale. «Be’… è un posto. Casermoni in mattoni, ciminiere, fuliggine. Non so se ho reso l’idea. Però il Dolan’s è ad appena un isolato da casa mia, ed è probabilmente il pub migliore della contea! Io e James ci andavamo tutte le sere, dopo la fabbrica.»
«Siete amici da tanto tempo, allora.»
«Da sempre» rispose Tom, con un certo orgoglio. «Cresciuti nella stessa strada, pestati dalli stessi bulli.» Ridacchiò tra sé. «Rifiutati dalle stesse ragazze!»
Anche Abigail rise.
«Abbiamo fatto praticamente tutto insieme» aggiunse lui, e un velo di malinconia offuscò per un attimo il suo sguardo. «Anche l’arruolamento nell’esercito.»
Abigail tacque. Tom sospirò nuovamente. «La decisione fu mia. James mi seguì a ruota. Diamine, quell’idiota mi avrebbe seguito ovunque! Se gli avessi detto che volevo gettarmi giù dalla scogliera di Moher, lui avrebbe già iniziato a prendere la rincorsa!»
Smise di camminare, le mani infilate in tasca. «Se non fosse stato per me, adesso sarebbe seduto al Dolan’s a scolarsi una Guinness, e non a rischiare la vita…»
«Non deve sentirsi in colpa» disse piano Abigail. «Se ha deciso di venire con lei, è perché ha ritenuto che fosse la cosa giusta.»
Tom storse la bocca. «La prima volta che abbiamo parlato, mi ha chiesto perché mi fossi arruolato. Si ricorda?»
«Sì.»
«C’era questo tizio, a Irishtown» disse Tom. «Si chiamava Billy Dunn. Non era una bella persona.» Nei suoi occhi balenò una scintilla di rabbia. «Non c’era negoziante nella mia strada a cui non chiedesse il pizzo. Avevano tutti paura di lui e della sua banda. Presto toccò anche alla drogheria di mio padre: un giorno, tornai da scuola e vidi quel farabutto che aveva preso il mio vecchio per la giacca e gli puntava un coltello alla gola. “O mi paghi subito, oppure stacco un orecchio al tuo moccioso.”»
Abigail era agghiacciata. Temeva di sapere già come quel racconto si sarebbe concluso…
«Qualche anno dopo, il bastardo ci riprovò» disse Tom. «Io però non ero più un bambino. E non ero da solo. Insieme a James e qualche amico, riuscimmo a cacciarlo dal negozio e gli demmo una lezione.» Si interruppe, stringendo i pugni lungo il corpo. «Quella stessa notte, il negozio di mio padre saltò in aria.»
Abigail emise un gemito. Lui tirò su col naso e diede un calcio a un cumulo di sabbia. «Ero ancora così impotente, allora. Non volevo più sentirmi così. Non potevo più restare a guardare mentre gente come Billy Dunn si comporta come se il mondo fosse suo. Perciò mi sono arruolato. Mi era sembrato un buon modo per fare la differenza, per una volta. Anche se non ne sono più tanto sicuro…»
«Ha fatto la differenza per me.»
Tom la guardò. Abigail prese coraggio. «Nel bosco… si è gettato su di me senza esitazione mentre i tedeschi sparavano. Sono stata sciocca a non averla ascoltata, ad agire di mia iniziativa. Se non ci fosse stato lei, sarei morta. Le devo la vita.»
Lui la fissò a lungo, con quel suo sguardo serio e tormentato. «E io devo la mia a lei, miss Abigail.»
Le venne più vicino. Abigail entrò in tensione. «Non so di cosa parla…»
«L’albero» disse Tom, senza smettere di guardarla. «So che è stata lei, in qualche modo, a farlo cadere sul tedesco.»
Lei provò a ridere, nervosamente. «Non vedo come avrei potuto…»
«Nella mia strada, viveva un’anziana signora» disse Tom. «Una vedova, Mrs Kyteler. Tutti pensavano fosse un po’ matta: ogni sera, lasciava un piattino di panna sul davanzale della finestra per i folletti, e sapeva sempre se qualcuno era in procinto di morire, perché giorni prima glielo aveva detto una banshee. James ha sempre avuto un po’ paura di lei. Pensa sia una strega.»
Abigail sentì il sangue farsi di ghiaccio a quelle parole. Cercò di riprendere fiato, col cuore in gola. «E…lo è davvero?»
Tom scrollò le spalle. «Non ne ho idea. A me regalava sempre dolcetti. E una volta, quando le chiesi se per lei la magia fosse reale, mi disse: “Solo perché uno smette di credere a una cosa, non significa che essa smetta di esistere.”»
Abigail non si mosse. Il suo cuore stava battendo troppo in fretta.
«Non posso dire di comprendere ciò che ho visto nella foresta» mormorò lui. «Ma ho sempre saputo che, se mai avessi incontrato la magia sulla mia strada, l’avrei riconosciuta subito. Perché in fondo non ho mai smesso di crederci.»
Abigail sapeva che avrebbe dovuto essere terrorizzata all’idea di essere stata scoperta. Sapeva che la soluzione più saggia era sbrigarsi a cancellargli la memoria e scappare.
Ma tutto ciò che riusciva a pensare, mentre guardava Tom ridurre ulteriormente la distanza che li separava, era che moriva dal desiderio che lui la baciasse. Lì, su quella spiaggia notturna, in riva al mare, come in uno di quei libri sdolcinati che aveva letto in passato…
Sì.  Sembrava proprio un luogo adatto per ricevere il suo primo bacio.
Mentre quei pensieri sciocchi e disordinati le gremivano la testa, Tom tese una mano e le toccò i capelli…
Abigail chiuse gli occhi, il suo corpo si rilassò. Avvertì il fiato caldo di lui sulle labbra e automaticamente le dischiuse....
Risate. Qualcuno che cantava sguaiatamente un allegro motivetto.
Tom si separò da lei e Abigail spalancò gli occhi con un sussulto. Un gruppo di soldati ubriachi passò lì vicino barcollando, gli stivali che affondavano nella sabbia.
«Tommy!» gridò uno di loro, riconoscendolo. «Che ci fai laggiù? Non sei mica con qualcuno?»
Imbarazzatissimo, il giovane si schiarì la voce. «Ehm, veramente…»
Ma nel momento in cui si voltò di nuovo verso Abigail, si accorse che accanto a lui non c’era più nessuno.
 

[1]  canzone tradizionale irlandese che si esprime contro la guerra e contro il reclutamento militare.
https://www.youtube.com/watch?v=OkpiwHo0Po0&ab_channel=TheIrishRovers

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Capitolo 20
*** Conseguenze ***


 

CONSEGUENZE

 
 
Sarajevo, 28 giugno 1914
 
 
Zora teneva gli occhi puntati sulla strada, seduta su quella scomoda sedia di fronte alla finestra da almeno quattro ore.
A ogni rintocco della vecchia pendola affissa sopra il focolare, sentiva i nervi tendersi fino allo spasimo, e ormai sarebbe bastato davvero poco per farla saltare.
Oltre i vetri sudici, il sentiero che attraversava il bosco, unico collegamento tra il villaggio più vicino e il casolare che occupava, era sempre più avvolto dal buio.
«Dove sei…?» mormorò la donna, stritolando tra le mani un fazzoletto. «Dove cazzo sei finito, Krsta…?»
Nelle ultime ore aveva patito le pene dell’inferno, ma niente era paragonabile a quell’attesa logorante.
Immediatamente dopo il fallito attentato, c’era stata la fuga rocambolesca attraverso la lavanderia dell’Hotel Bosna, immerso nell’oscurità più fitta, gremito di guardie pronte a puntare il fucile contro chiunque, e di ospiti che correvano da una parte all’altra in accappatoio e ciabatte, mentre la voce si diffondeva rapidamente, e con essa anche il panico. Qualcuno si era introdotto nell’hotel sotto il naso della sorveglianza. Qualcuno aveva minacciato la vita dell’arciduca d’Austria.
Zora e Krsta erano riusciti a scappare per miracolo, nascondendosi nel bagagliaio di una delle carrozze messe a noleggio dalla struttura; dopo aver corrotto un cocchiere, si erano fatti trasportare fuori dal parco prima che l’albergo venisse messo sotto sequestro dalla polizia.
Ma non era sicuro tornare a casa, a Sarajevo; perciò, dopo aver raggiunto Banja Ilidža ed essersi procurati un carretto e un ronzino, avevano lasciato la città nel cuore della notte, travestiti da contadini.
«Conosco un posto» l’aveva rassicurata Krsta, mentre procedevano, sobbalzando lungo una stradina di campagna buia e piena di buche. «Appena fuori Pale: ci venivo l’estate coi miei nonni.»
Così, erano finiti in quella catapecchia di legno nella foresta, in cui nessuno metteva piede da almeno una decina d’anni, senza corrente elettrica, senza vestiti e senza cibo. E soprattutto, senza un piano.
La notte passò lentamente, senza che nessuno dei due riuscisse a chiudere occhio. Appena sorto il sole, Krsta decise di recarsi in paese da solo, per rendersi conto della situazione e fare provviste.
«Non avrai intenzione di mollarmi qui!?» aveva strillato allora Zora, ormai sull’orlo di una crisi.
«In due attireremo maggiormente l’attenzione» era stata la risposta di lui; dopodiché, aveva tirato fuori un vecchio pastrano malconcio da un armadio, e una scatola di latta dentro cui era nascosta una pistola. «E tu sei molto più riconoscibile di me. Vado e torno, promesso.»
«Krsta, non azzardarti!»
Lui, ovviamente, non le aveva dato retta, e adesso eccola lì Zora, seduta da ore su quella maledetta sedia a mangiarsi il fegato in preda all’ansia.
“Vado e torno”, le aveva detto. E allora, perché diamine ci stava mettendo tanto? Pale distava appena dieci minuti dal casolare! Era successo qualcosa? Lo avevano riconosciuto? Arrestato? Ucciso? Oppure, ipotesi peggiore – ma anche, si ritrovò a pensare atterrita Zora, più plausibile – aveva tagliato la corda senza di lei?
Il sole era ormai tramontato, quando riconobbe lo scalpito degli zoccoli lungo il sentiero.
Zora scattò in piedi come una molla, mentre il carretto di Krsta si fermava di fronte alla capanna. Lei si precipitò alla porta, e nel momento in cui veniva aperta, ringhiò: «Perché cazzo ci hai…!?»
«È morto.»
Zora interruppe la sfuriata. «Cosa? Chi..?»
«L’arciduca» rispose Krsta, piano. «Questa mattina, a Sarajevo.»
Zora si accorse che stringeva in mano un giornale. «Ma…ma non siamo stati noi!»
Krsta aggrottò la fronte. «È ovvio che non siamo stati noi, Zora! È stato Gavrilo Princip. Leggi, è tutto scritto qui.»
Lei afferrò il giornale con entrambe le mani e si diresse verso l’unica fonte di luce, una lanterna a gas sul tavolo della cucina.
La notizia, naturalmente, occupava l’intera prima pagina: subito dopo il fallito attentato al Bosna Hotel, Francesco Ferdinando e Sophia erano stati condotti nella residenza del governatore a Sarajevo, al sicuro.
Princip li aveva seguiti, ma due suoi complici si trovavano già in città. La mattina, l’arciduca aveva insistito a tutti i costi per far visita a un membro della sua scorta personale, un giovane ufficiale rimasto ferito la notte prima – Quel testone! Non poté fare a meno di pensare Zora, esasperata – ma lungo il tragitto verso l’ospedale, gli uomini di Princip avevano piazzato delle bombe.
La decappottabile su cui viaggiavano l’arciduca e sua moglie era riuscita a schivarle, ma aveva dovuto compiere una deviazione imprevista, e anziché procedere per il lungofiume, si era ficcata in una stradina.
Lì era appostato Princip, nascosto tra la folla accorsa per via delle esplosioni. Aveva sparato due volte, colpendoli a bruciapelo: l’arciduca alla giugulare e la duchessa all’addome. Erano morti nel giro di un’ora.
«Gli attentatori sono stati arrestati» aggiunse Krsta. «Le capsule di cianuro che avrebbero dovuto ingerire erano vecchie e non hanno fatto effetto. Li staranno interrogando, a quest’ora.»
A Zora tremavano le gambe. Sentì il bisogno di lasciarsi scivolare su una sedia. «È fatta» sussurrò, alzando la testa verso Krsta. «Che cosa succederà adesso?»
«Non ne ho idea.» Lui prese a muoversi nervosamente nella stanza. Zora lo osservò, confusa, far scorrere le dita tra i capelli, masticando un’imprecazione dietro l’altra. «Si può sapere che ti prende? Era quello che volevi, no? Che quell’uomo venisse ammazzato…»
«No, Zora!» sbottò Krsta. «Quello che volevo era che la Mano Nera sapesse che noi due abbiamo contribuito ad ammazzare quell’uomo! E adesso, invece…siamo solo i responsabili di un fallimento!»
«Che importanza ha? Ormai siamo invischiati in questa storia! Quanto tempo ci vorrà prima che i nostri nomi saltino fuori?»
Krsta passò una mano sopra il volto pallido, sudato, segnato dalle occhiaie. «Non capisci…tu non capisci, cazzo, non capisci!»
«Krsta, piantala, così mi spaventi!»
«Noi dovevamo avere un ruolo cruciale nello scoppio della rivoluzione» disse l’uomo, poggiando i pugni contro il tavolo e fissandola da sotto una ciocca scomposta di capelli. «Dovevamo essere degli eroi! Solo questo ci avrebbe garantito protezione! Ma adesso...adesso ai loro occhi siamo completamente inutili!»
Zora cercò di deglutire. Le vene che correvano lungo le tempie sembravano sul punto di esplodere. «Che significa?»
«Ho preso contatti con un membro dell’organizzazione, poco fa» rispose lui, con voce roca. «Nedeljko, ti ricordi? Lavoravamo insieme alla copisteria, è stato lui a tirarmi dentro. Avevamo stabilito di incontrarci a Pale una volta compiuto il fatto, per discutere del dopo…»
«E…» incalzò Zora.
«Non ci sarà nessun “dopo”.» Gli occhi scuri di Krsta erano velati di lacrime, la voce incrinata. «Per la Mano Nera non siamo mai esistiti.»
Zora era allibita. «M-ma» si trovò a balbettare, disperatamente. «La nave? Quella che ci aspetta al porto di Dubrovnik, che ci deve portare a Malta e…e poi in America…?»
«Zora, mi hai sentito oppure no? Non c’è nessuna nave! Ho scongiurato Nedeljko di darci una mano a lasciare il Paese, ma ha detto chiaro e tondo che siamo già fortunati a essere stati lasciati in vita!»
Zora continuava a guardarlo, ma era come se il suo cervello cercasse di rigettare quelle parole. «Tu mi stai dicendo» disse lentamente. «Che siamo bloccati in un Paese che presto vorrà le nostre teste?!»
Krsta non rispose. Si accasciò sulla sedia di fronte alla sua, lo sguardo fisso sul tavolo.
Zora imprecò. Prese la testa tra le mani, sforzandosi di fare ordine tra i pensieri, di restare lucida. Si rifiutava di accettare che non ci fosse una via d’uscita.
«D’accordo, ragioniamo.» Infilò i capelli dietro le orecchie e congiunse le mani di fronte a sé. «Possiamo ancora comprare quel passaggio, giusto? Telefona a Zeman! Quante volte ci ha tirati fuori dai guai con la legge?»
Krsta continuò a guardare il tavolo, in silenzio; sembrava particolarmente interessato alle nervature del legno.
«Ehi!» Zora lo scuoté con decisione per il braccio. «Non è il momento di lasciarsi andare! Dobbiamo contattare Zeman, è l’unico che ci può aiutare! Appena ci manda i soldi, prendiamo quella fottuta nave e facciamo perdere le nostre tracce!»
«Non possiamo.»
«Ma che cazzo dici? Perché no!? Se la polizia avesse già avuto i nostri nomi, a quest’ora si sarebbero precipitati a Pale dai tuoi genitori, no? Non sanno ancora chi siamo, possiamo lasciare il Paese…»
«Non possiamo» ripeté Krsta, la voce appena un sussurro. «Non senza soldi.»
Zora lo fissò attentamente. «Spiegati meglio.»
Krsta si stropicciò gli occhi. «Diciamo che potrei…potrei aver contratto un paio di debiti qua e là, negli ultimi anni.»
Zora era una statua di sale. «Debiti…?»
La sua mente fu attraversata da una serie di flash… loro due ospiti in salotti esclusivi… Krsta seduto a vari tavoli da gioco, attorniato da tizi in frac che fumavano il sigaro, mentre lei si lasciava corteggiare da una piccola folla di ammiratori, con un bicchiere di champagne sempre pieno in mano…
Lo aveva fatto i suoi occhi. E lei non aveva mai voluto vederlo.
«Le cameriere» sussurrò Zora, investita dalle vertigini. Tutt’a un tratto, le sembrava che la stanza oscillasse, che non ci fosse più abbastanza aria. «Non hai dato loro dei giorni liberi perché non ficcassero il naso…le hai licenziate perché non potevamo più pagarle! E Aisha? Dicevi sempre che lei ti chiedeva soldi! Era una bugia?»
«Lo so, lo so, avrei dovuto dirtelo» la anticipò lui, sollevando appena le mani, come per proteggersi. «Ma contavo di risolvere tutto prima che te ne accorgessi! Nedeljko mi aveva assicurato…»
Zora si sentiva svuotata. «Non ci credo.»
«Se fosse andato tutto secondo i pieni, a quest’ora…»
«Patriottismo un paio di palle!» esplose lei. «Ti hanno promesso dei soldi! È solo per questo che ci hai trascinati in questo incubo!?»
«La Mano Nera avrebbe saldato tutti i nostri debiti…»
Zora scattò in piedi. Si diresse decisa verso una credenza e tirò fuori un paio di piatti.
«Zora» cominciò Krsta. «Golubice moja…»
La donna si girò come una furia e gli scagliò contro un piatto dopo l’altro.
«Tesoro!» Krsta cercò di schivarli con un paio di goffi saltelli, lasciando che si infrangessero sulla parete alle spalle. «Ti stai comportando come una pazza!»
«Una pazza!?» urlò lei, fuori di sé. «Tu…inutile…TESTA DI CAZZO!»
«Troveremo un modo per uscirne» promise lui, alzando le braccia per proteggersi dalla pioggia di cocci. «Abbiamo ancora molti amici…alleati potenti, no? Lasciami fare qualche telefonata…»
«Oh, ma certo!» esclamò lei, estraendo un altro piatto. «Ottima idea! Perché non chiami il nostro vecchio amico, lo zar Nicola! Sono certa che l’imperatore di tutte le Russie correrà in aiuto di una zingara e del figlio idiota di un predicatore!»
Sollevò il piatto, pronta a lanciarlo, ma Krsta disse: «Hai ragione, hai perfettamente ragione! E mi dispiace, va bene? Ma ero sicuro che avrebbe funzionato, che con la tua magia…»
Zora abbassò il piatto. «Rivoglio il mio grimorio.»
Raggiunse Krsta con un paio di ampie falcate, i pugni stretti. Lui si ritrasse d’impulso. «Ridammelo immediatamente, hai capito? Dopodiché voglio che tu sparisca per sempre dalla mia vita!»
Krsta deglutì, rumorosamente. «Io non ce l’ho.»
Ormai Zora sprizzava scintille dagli occhi. «Hai detto che era al sicuro!»
«L’ho… dato a Nedeljko» confessò Krsta, con voce sottile e patetica. «Capiscimi, voleva una prova della nostra lealtà, e per te quel libro vale più di casa nostra…»
Di tutte le orribili verità che aveva scoperto quel giorno, fu quella la peggiore. Fu quella a mandarla in pezzi.
“È la tua eredità, Zora, il bene più prezioso che posso lasciarti.”
Il grimorio di sua madre. Le carte di Baba. Ogni legame con le proprie origini, con la propria casa, era stato per sempre spazzato via.
Dovevo ascoltare Aisha…
Le lacrime che fino a quel momento era riuscita a trattenere affiorarono in un pianto silenzioso.
«Tesoro…» fece Krsta.
Lei gli tirò uno schiaffo.
«Zora… adesso smettila…»
«Bastardo!» strillò lei, tempestandogli il petto di pugni. «Mi hai ingannata! Mi hai usata!»
«Ti ho detto di smetterla.»
Krsta la afferrò per i polsi, saldamente. «Ti credi migliore di me?» sibilò con fare aggressivo, a pochi centimetri dalla sua faccia. «Puoi anche addossarmi tutte le colpe, ma la verità è che se ti trovi in questa situazione la responsabilità è anche tua.»
«Mia!?» gemette Zora. «Con che faccia tosta…?»
«Sì, Zora. TUA. Ti faceva comodo avermi al tuo fianco, quando costruivo pezzo dopo pezzo la nostra scalata al successo, vero? Quando imbrogliavo gli ingenui e i disperati per te? Quando tutto filava liscio e i soldi entravano a volontà? Quando ero io a fare il lavoro sporco?»
Lei continuò a fissarlo, incredula e disgustata. «Come osi…»
«Tu sei una truffatrice senza scrupoli, esattamente come lo sono io» disse Krsta. «La nostra vita è una roulette russa: e sono sempre stato io quello che ci ha tenuti lontani dalla strada e dalla galera! A essere proprio onesti, sei tu ad aver usato me, puttana del cazzo!»
E la spinse via, mandandola a sbattere con violenza contro il bordo del tavolo. A Zora si spezzò il fiato. Si rimise faticosamente in piedi, il fianco dolorante, voltandosi a guardarlo. «Che cosa stai facendo?»
Krsta raccolse il pastrano logoro e se lo gettò sulle spalle.
«Dove stai andando?!»
L’uomo aprì la porta, lanciandole un’occhiata gelida. «Cavatela da sola d’ora in avanti.»
«Aspetta!»
La porta sbatté con forza tale da far tremare l’intera capanna.
Zora non riusciva a muoversi, sola in quella stanza buia e con un livido che le si stava già formando laddove aveva battuto. Non appena riuscì a riscuotersi, corse fuori per vedere il carretto allontanarsi nella boscaglia…
«KRSTA!»
Ma lui non si voltò, e presto, il cigolio delle ruote si perse nella notte.  
 

Passarono tre giorni prima che si arrischiasse a lasciare la capanna nel bosco.
Nessuno si era avvicinato al suo nascondiglio, il che voleva dire due cose: la polizia non si era ancora messa sulle sue tracce, oppure Krsta era riuscito a non farsi beccare. Perché era certa che, nel caso in cui lo avessero arrestato e interrogato, avrebbe fatto immediatamente il suo nome, accusandola persino di averlo obbligato ad aiutarla a compiere l’attentato.
Lo maledisse con tutte le sue forze, ma aveva bisogno di restare concentrata. Le serviva un piano, e in fretta anche.
Tornare a Sarajevo era impensabile, l’unica soluzione era tentare di fuggire all’estero, in attesa che le acque si fossero calmate, come stabilito all’inizio. Ma Krsta aveva ragione: se era davvero sul lastrico, non avrebbe mai potuto permettersi un posto su una nave, certo non coi pochi soldi che aveva con sé. E se avesse provato a contattare lo studio legale di Zemen? Magari poteva chiedergli un prestito…ma chi le assicurava che la polizia non fosse già arrivata a lui? Che il governo non avesse già requisito il suo conto in banca, la casa e tutto il resto?
E che fare, allora? Tornare da Aisha? Implorare disperatamente il suo aiuto?
Il solo pensiero di coinvolgere sua sorella e la loro comunità in quel macello la ripugnava. Come se essere zingari non bastasse a renderli agli occhi della società parassiti e potenziali tagliagole, ci mancava che venissero accusati di aver partecipato all’omicidio dell’imperatore! I militari avrebbero smantellato il loro campo in un attimo, trascinato tutti in galera, ai lavori forzati o al patibolo…
No. Poteva contare solo su se stessa ora.
Così, aveva raccolto le poche provviste che Krsta le aveva lasciato e, alle prime luci, si era incamminata nel bosco, sperando di riuscire a raggiungere Pale prima di sera.
Era un mattino di sole, tiepido, il cielo azzurro striato da qualche nube sfilacciata sopra le colline all’orizzonte. Orientarsi nella foresta non era affatto semplice, così Zora provò a fare affidamento sulla voce del Tutto, anche se aveva appena imparato a comprenderne il linguaggio.
Ti prego, si ritrovò a scongiurare, rivolta a una qualsiasi entità invisibile attorno a lei. Non abbandonarmi anche tu!
Malgrado la paura e la fretta, si lasciò guidare dall’istinto, da quel lieve mormorio che di tanto in tanto le sembrava di percepire nello stormire del vento tra le foglie.
Miracolosamente, riuscì ad arrivare sulla via maestra nel primo pomeriggio. Un contadino al rientro dai campi le offrì un passaggio sul suo carretto e la lasciò nella piazza del villaggio.
Un’edicola esibiva giornali freschi di stampa con le ultime novità sull’omicidio dell’arciduca e sulle indagini in corso. Zora resistette alla tentazione di sfogliarne avidamente uno, ma bastò dare un’occhiata ai titoli per rendersi conto che se ne sarebbe parlato ancora a lungo.
Aveva avuto l’accortezza di indossare l’hijab e si incamminò tra i passanti col volto quasi interamente coperto, cercando di comportarsi in maniera più disinvolta possibile, per non attirare l’attenzione.
Dalle conversazioni che aveva avuto modo di origliare per strada, scoprì che le guardie asburgiche stavano battendo ogni cittadina alla ricerca degli altri congiurati; con un tuffo al cuore, Zora pensò che, se quei due idioti di Krsta e del suo amico, Nedeljko, erano stati visti a confabulare a Pale, non ci avrebbero messo molto a risalire a lei…
Passò la notte in una piccola locanda sotto falso nome, e il mattino seguente rimediò un passaggio in diligenza per Mostar, che, purtroppo, era la città più vicina e la sola nel giro di chilometri dotata di stazione ferroviaria.
Il viaggio sembrò durare un’eternità.
La carrozza procedette lungo strade sterrate e piene di polvere, ed era affollata di contadini puzzolenti e donne che facevano saltare in braccio marmocchi urlanti.  Decisamente, la bella vita condotta negli ultimi anni aveva reso Zora insofferente verso la plebaglia, ma bisognava accontentarsi. Perciò, cercò almeno di riposare, schiacciata contro lo sportello e col suo fagotto stretto a sé, ma la scomodità e la paura la tennero sveglia e in allerta per la maggior parte del tempo.
Alla stazione di Mostar, come c’era da aspettarsi, iniziarono i problemi: c’erano militari e poliziotti ovunque, che facevano domande, perquisivano bagagli.
Scesa dalla diligenza, Zora si guardò attorno, sentendo crescere il panico. La circondavano varie tipologie di viaggiatori: uomini d’affari occidentali, borghesi accompagnati da signore con cappelli piumati e facchini carichi di bauli e valigie, ma anche uomini in turbante indaffarati a caricare i loro fagotti, e donne che trascinavano per mano i figli, rimproverandoli per essersi allontanati.
Pensò che una donna che viaggiava da sola, con soldi sufficienti per attraversare il confine, non sarebbe passata inosservata; così, dopo un’attenta valutazione del campionario umano a sua disposizione, Zora si avvicinò a una famigliola composta da padre, madre e figlioletta di appena due anni, seduti su una panchina in attesa del proprio treno.
Zora passò alle spalle di due gendarmi intenti a riempire di domande un povero malcapitato, sudando freddo sotto l’hijab.
Sta’ calma, cercò di imporsi. Andrà tutto bene.
Nessuno la fermò, così Zora procedette a passo sicuro ma discreto verso la famigliola.
«Fratello» disse. «Posso chiedere dove siete diretti?»
L’uomo, che stava facendo saltellare la bambina sulle ginocchia, alzò il capo e la guardò. Aveva un volto scarno ma gentile, barba ricciuta e mani forti, piene di calli e piccoli tagli. Zora si soffermò sulle sue scarpe, semplici ma di ottima fattura. Un artigiano. Forse un calzolaio...
«Ragusa» le rispose. «Dai miei genitori.»
«Splendido! Avrei bisogno di un favore...»
Raccontò di essere una vedova in viaggio per raggiungere uno zio sulla costa.
«Vuoi unirti alla nostra famiglia?» domandò l’uomo, scambiandosi uno sguardo incerto con la moglie.
«Se per voi non è un grosso fastidio» disse Zora, speranzosa. «Sembrate brave persone e sai, non è sicuro di questi tempi girare sole…c’è certa gente in giro!»
I due soppesarono la richiesta.
«Davvero» insistette Zora, il cuore che batteva all’impazzata. «Dio ripaga sempre chi è misericordioso!»
Pescò da sotto il mantello un rotolo di banconote, molte di più di quante ne servissero per il biglietto, e glielo passò. Lui s'infilò i soldi in tasca. «Ma certo. Aspetta qui.»
«Che Allah ti benedica, grazie!»
L’uomo lasciò la bambina alla moglie, si alzò ed entrò in stazione.
Zora attese, gettandosi occhiate guardinghe in giro. La bambina, intanto, la studiava incuriosita con suoi occhi enormi e scuri, succhiandosi il pollice. Zora si sforzò di ignorarla.
Cazzo, e datti una mossa! pensò con frustrazione, fissando l’entrata della stazione.
Un nodo di paura e tensione le stringeva lo stomaco, la sua bocca era completamente asciutta. Si sarebbe permessa di tirare un sospiro di sollievo solamente quando quel benedetto treno avesse superato il confine.
Dopodiché, per lei ci sarebbe stata una nuova vita, una nuova identità. E forse… chi lo sa, magari anche la vera felicità, una volta gettato quell’orrore alle proprie spalle.
Poco dopo, l’uomo con cui aveva parlato tornò.
«Tutto a posto» disse a Zora. «Il treno è appena arrivato, saliamo tutti insieme. Se vi fanno domande, dirò che sei mia cugina. Il tuo nome?»
Zora, ovviamente, gli diede uno falso.
«Lo terrò a mente» replicò lui. «Sta’ vicina a noi.»
Zora si sarebbe gettata ai suoi piedi per la gratitudine.
In coda assieme al gruppo di viaggiatori, Zora si affrettò dietro l’uomo e sua moglie, che reggeva in braccio la figlioletta, fino ai binari. Affacciati ai finestrini, poteva vedere decine di visi e mani schiacciati contro i vetri, gente che si salutava e si scambiava addii.
Addio, Aisha, pensò Zora dentro di sé, con una fitta di dolore. Spero che un giorno potrai perdonarmi…
«Signora» disse improvvisamente una voce autoritaria. «Si metta qui da parte, per cortesia.»
Zora lo ignorò e fece per salire sul treno, ma una mano la afferrò per la spalla.
Si sentì svenire. Lentamente, girò il capo e fissò il soldato che aveva parlato. Aveva un volto giovane, stanchi occhi celesti e folti baffi gialli. In altre circostanze, lo avrebbe trovato anche bello.
«P-perché?» farfugliò, in un disperato tentativo di perdere tempo.
«Perché vorremmo farle alcune domande. Venga con me.»
«M-ma» gracchiò Zora. «Devo raggiungere mio cucino…il treno sta per partire…»
Alle spalle del soldato, individuò l’uomo con cui avrebbe dovuto viaggiare che parlava con un’altra guardia, indicando verso di lei. 
Quel figlio di…
«Come si chiama?» disse il soldato che l’aveva fermata.
Zora balbettò il nome falso.
«Ha con sé un documento che può confermarlo?»
Lei disse di averlo perso. Naturalmente, lui non se la bevve.
«Le dispiace rimuovere il velo?»
Zora capì che sarebbe stato inutile protestare. Continuò a fissarlo inebetita, paralizzata, uno sciame di vespe che le ronzava con furia dentro la testa.
Non appena le sue mani tremanti ebbero abbassato l’hijab, il soldato annuì, come se avesse ricevuto conferma a qualcosa che sapeva già. Si scambiò un cenno d’intesa col collega, dopodiché si rivolse di nuovo verso Zora: «Madame Sejdić, la dichiaro in arresto con l’accusa di cospirazione e tentato omicidio.»
No.
Questa volta il Tutto non si palesò a lei attraverso un sussurro. Fu un grido selvaggio, disperato, che le attraversò il corpo, facendole tremare le ossa.
Zora allargò le braccia e un turbine di vento si gonfiò ai suoi piedi, investendo chiunque le si trovasse vicino. La guardia fu sbalzata all’indietro con un’esclamazione, la fila di viaggiatori si disperse gridando.
Scappa, Zora. Adesso o mai più.
Si mise a correre, gettando da parte chiunque le intralciasse la strada, appesantita e ingolfata dal lungo mantello e dagli strati dell’hijab.
Era quello che sapeva fare meglio: scappare, sopravvivere, a qualunque costo.
Zora la ladra. Zora l’impostora. Zora l’assassina.
Un animale braccato, che mostra i denti e morde e graffia fino alla fine.
Ma la sua fuga non durò a lungo.
Le si gettarono addosso prima che raggiungesse l’uscita della stazione, sbucando apparentemente dal nulla. Zora si vide sbattere con violenza sul marciapiede, senza più neppure il fiato per urlare, mentre decine di gambe la circondavano e qualcuno le immobilizzava le mani dietro la schiena.
«Lasciatemi!» sbraitò, dibattendosi. «Io non c’entro niente! Non ho ucciso nessuno! Mi hanno incastrata!»
Mentre due uomini la sollevavano di peso da terra e la conducevano verso una camionetta, Zora si voltò a guardare la folla sbalordita; scorse l’uomo che l’aveva tradita, insieme a sua moglie e sua figlia.
La bambina sorrise, e la salutò allegramente con la manina.


 

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Capitolo 21
*** L'avvertimento - Prima parte ***


 


L’AVVERTIMENTO
– Prima parte –

 
 
Arcanta, luglio 1914
 
 
 
A un mese dal matrimonio, Solomon si stupì che la sua vita non avesse subito drastici cambiamenti; come da accordi, i momenti che trascorreva con sua moglie si riducevano agli occasionali riti di famiglia, ma, a parte ciò, ciascuno era libero di gestire il proprio tempo in autonomia. E Solomon era ben intenzionato a sfruttare il suo per portarsi avanti col piano, cogliendo ogni pretesto per stare incollato al Bibliotecario.
Xavier Ascanor era un mago fuori dal comune, forse la persona più enigmatica che avesse mai incontrato in vita sua, ma era anche uno che manteneva le promesse, e fu lieto di accompagnarlo a visitare la Biblioteca tutte le volte che desiderava, trovando in Solomon un eccellente interlocutore:
«I miei antenati lasciarono la Spagna durante il Califfato di Cordova» gli raccontò una volta, con la sua voce fredda e monotona, mentre passeggiavano tra alte scaffalature e vetrine; la collezione degli Ascanor era maestosa, e non comprendeva solo libri, bensì armi, invenzioni brevettate, ricettari di pozioni, e persino opere di scultura e pittura realizzate con la magia. «Fummo tra le prime famiglie di maghi a trasferirsi ad Arcanta, al tramonto del Vecchio Mondo: arricchimmo la Cittadella con il nostro patrimonio, coi traguardi raggiunti nell’ambito della matematica e dell’alchimia, frutto del connubio con la fiorente cultura araba.»
«Molto interessante» commentò educatamente Solomon, che però faticava a nascondere la sua impazienza. In altre circostanze avrebbe trovato tutto ciò affascinante, ma al momento gli importava solo di scoprire dove fosse il Libro Nero. E in nessuna di quelle teche sembrava esserci qualcosa che avesse vagamente a che fare con il Vuoto.
Decise di deviare il discorso, per velocizzare un po’ le cose: «Il Vecchio Mondo è un argomento ancora dibattuto: i Decani lo considerano un’epoca oscura, da non ricordare. Ma a conti fatti, rappresenta la culla della nostra civiltà. Lei cosa ne pensa?»
Xavier spinse gli occhiali sulla cima del naso. «Sono uno studioso, signor Blake, non un politico: trovo che impedire agli uomini di perseguire la conoscenza sia da ottusi.»
Solomon sorrise con malizia. «Speriamo che l’Inquisitore Blackthorn non sia acquattato dietro un angolo a origliare!»
«Perché dovrebbe farlo?»
«Cosa?»
«Acquattarsi dietro un angolo. È un comportamento che non gli ho mai visto assumere.»
«Era così, per dire…»
«E poi, il Decanato si riunisce ogni giovedì alle undici in punto nella Sala del Consiglio» concluse Xavier, serissimo. «L’inquisitore sarà sicuramente lì, non è mai in ritardo.»
Il sorriso di Solomon venne meno. «Lo so. Era una battuta.»
«Oh» fece Xavier. «Domando scusa. Non avevo colto.»
«Non importa. Quindi, diceva che gli Ascanor hanno portato ad Arcanta le conoscenze del Vecchio Mondo, giusto? Ed è tutto conservato qui?»
«Sostanzialmente, sì.»
«Mi sorprende» insistette Solomon, determinato a non mollare l’osso. «Che il Decanato abbia fatto una tale concessione alla sua famiglia senza tagliare fuori qualcosa. Sanno essere molto selettivi.»
Ancora una volta, l’espressione di Xavier non tradì alcuna emozione. Iniziava a dargli un po’ sui nervi. «Come le dicevo, il nostro patrimonio è tutto qui.»
«Intendo che magari, certi manufatti non fossero proprio in linea con la Legge, e siano stati spostati in un settore meno esposto…dopotutto, quale antica famiglia non ha i propri segreti?»
Stavolta, dietro la superficie immobile di quelle iridi nere, guizzò una scintilla di sospetto. «Sono spiacente, signor Blake, adesso devo proprio lasciarla. A momenti riceverò gli studenti di Macon Ludmoore per una visita guidata.»
«Ma certo» disse Solomon. «Allora torno un’altra volta!»
«Mi troverà qui.» Il Bibliotecario gli offrì un rigido inchino e poi si dileguò nello spazio buio tra due librerie.
 

Ben presto, anche a Solomon toccò tener fede alla parola data, quella di aiutare sua moglie ad aprire la scuola di alchimia. Inutile cercare di dissuaderla, ancor meno di spaventarla: Isabel era fermamente decisa ad andare avanti per la propria strada come un ariete alla carica.
Così, Solomon dovette chiedere udienza al “Triumvirato”, ossia ai Decani Clodio, Vitruvio e Rabirio: senza il loro lasciapassare, nessuno poteva intraprendere alcun tipo di attività ad Arcanta, che fosse l’apertura di un negozio o l’abbellimento di un palazzo.
Si trattava di tre stregoni vecchissimi, con lunghe barbe bianche e le ossa che sporgevano da sotto la pelle giallognola e sottile come cartapecora; se ne stavano appollaiati dietro una massiccia scrivania, in un ufficio polveroso, stipato di schedari e rotoli di pergamena, e nel quale aleggiava un odore di muffa che ricordava sgradevolmente quello delle cripte. Solomon trovava assurdo che il futuro della sua specie fosse ancora nelle grinfie di quei cadaveri ambulanti.
«E così» gracchiò il Decano Vitruvio, dopo aver esaurito i convenevoli e invitato Solomon e Isabel a prendere posto su due poltroncine. «I novelli sposi hanno un progetto da sottoporre alla nostra attenzione.»
«Esatto!» rispose Isabel con un sorriso vivace, ed estrasse una tela arrotolata da un cilindro che portava a tracolla. La spiegò sulla scrivania, sotto i lunghi nasi adunchi dei Decani. Vitruvio strinse gli occhietti cisposi. «Cosa dovrebbe essere?»
«Una fucina» spiegò Isabel. «Di idee e invenzioni! Un luogo in cui donne e uomini possano incontrarsi, discutere, sperimentare! Proprio come avviene oggigiorno nelle università Mancanti…»
Alla parola “Mancanti”, le facce rugose dei Decani si rattrappirono per lo sdegno. Ecco, lo sapevo sospirò mentalmente Solomon, preparandosi al peggio.
«Mancanti?» borbottò Saggio Rabirio. «Perché dovremmo portare ad Arcanta qualcosa proveniente dal Mondo Esterno, signora Blake?»
«È contrario alle nostre leggi» aggiunse Vitruvio, mentre Clodio, che era mezzo sordo, si limitava a fissarli con aria spaesata e un corno d’ottone infilato in un orecchio. «I Mancanti sono barbari, l’ultima cosa che vogliamo è che le loro idee malsane influenzino i giovani maghi per bene!»
«So che potrà sembrare strano all’inizio» disse Isabel. «Ma sono sicura che, una volta abituati all’idea, i maghi comprenderanno la necessità di abbattere le barriere di genere, i pregiudizi e gli antiquati schemi di pensiero!»
Rabirio e Vitruvio si scambiarono uno sguardo diffidente.
«Quello che la mia adorabile signora vuole dire» intervenne Solomon, con voce melliflua. «È che speriamo di stimolare i cittadini a riflettere.»
«Io…sì, esatto!» Isabel guardò il marito, sorpresa che le stesse dando manforte. «Assolutamente sì: riflettere! Su come poter cambiare in meglio la società magica! Ed è per questo che ho deciso di aprire…»
«… un museo!» completò Solomon.
Sia Isabel che i Decani lo fissarono, a bocca aperta.
«Un museo» ripeté Solomon, annuendo. «Sulla primitiva e rozza tecnologia Mancante. Dalla ruota all’aratro, dalla macchina a vapore a quegli adorabili giocattolini volanti …»
«No!» protestò Isabel. «Non era questo che volevo dire…!»
«Sì, ma a quale scopo?» domandò Vitruvio. «Perché i cittadini di Arcanta avrebbero bisogno di un posto del genere?»
«Già» fece Isabel, indispettita. «Vorrei proprio saperlo anch’io!»
«Per dimostrare quanto ridicole siano le invenzioni Mancanti in confronto ai traguardi raggiunti dalla magia» rispose Solomon. «E ricordare l’enorme privilegio di vivere ad Arcanta.»
Il Decano parve tranquillizzato da quelle parole. Isabel decisamente meno.
Rabirio si tirò la lunga barba, dubbioso. «È un concetto insolito, signor Blake.»
«Oh, non voglio prendermene il merito!» sorrise Solomon, affabilmente. «L’idea è di mia moglie. Le donne sono delle sognatrici, sapete! Sarà lei a dirigere il museo, dopotutto, ha un sacco di tempo libero…»
Nascosta dalla gonna voluminosa, Isabel gli tirò un calcio.
Solomon continuò a parlare di come quel progetto avrebbe aumentato la popolarità della Cittadella, ignorando volutamente i tentativi di intervento da parte di Isabel. Al termine della contrattazione, strinse la mano ai tre Decani, strappando loro la promessa che ci avrebbero riflettuto su.
«È andata bene» disse, una volta lasciato l’ufficio. «Anzi, oserei dire che è praticamente fatta.»
«Fatta?» esplose Isabel, su tutte le furie. «L’accordo prevedeva che lei mi aiutasse a convincere i Decani, non che li ingannasse!»
«L’accordo prevedeva che aprisse quel suo laboratorio» ricordò Solomon. «E lo aprirà. La storia del museo garantirà una solida copertura, in modo che il Cerchio d’Oro la lasci in pace.»
«Perciò mi toccherà agire lo stesso di nascosto!» brontolò Isabel. «Come ho sempre fatto! Se solo avesse lasciato parlare me…»
«Credeva che sbandierando le sue idee di emancipazione le avrebbero steso il tappeto rosso?» chiese Solomon, inarcando il sopracciglio. «Talvolta, tenere un profilo basso è l’unico modo per ottenere ciò che si vuole.»
«Lo trovo un ragionamento da codardi.»
Stavolta fu Solomon a inalberarsi. «Ha chiesto lei il mio aiuto. Potrà trovare i miei metodi eticamente discutibili, ma si sono rivelati più efficaci dei suoi.»
Isabel storse la bocca, decisa a non dargliela vinta. «La vita non è una partita a poker: non si può sempre barare.»
«Può darsi» replicò lui con sussiego, tenendole aperta la porta. «Io però finora non ho mai perso.»
 

L’autorizzazione del Triumvirato fu rilasciata nel giro di un paio di giorni; a Isabel venne concesso un piccolo locale, affacciato su una stradina anonima e poco frequentata, ma malgrado l’attività fosse stata aperta a nome di Solomon, lo stregone vi mise piede per la prima volta a lavori ultimati.
L’insegna, dipinta in oro sulla vetrina, recitava Museo della Scienza: Cronache di un Mondo Senza Magia, e qualche simpaticone l’aveva già imbrattata con illusioni di bocche sogghignanti, che sfottevano e facevano le pernacchie a chiunque si avvicinasse. Solomon ne cancellò la maggior parte e poi entrò, accompagnato dal suono di un cicalino.
Nel locale regnava una discreta confusione, tra cumuli segatura e casse ancora da disimballare, ma Isabel aveva già allestito alcune macchine volanti di Leonardo da Vinci, che Solomon aveva “preso in prestito” a Milano: uccelli meccanici, dirigibili, biciclette alate, che pendevano dal soffitto come gigantesche libellule.
«Oh, signor Blake!»
Isabel sbucò sorridente da dietro un modellino di treno a vapore, reggendo sottobraccio uno scafandro. «La stavo aspettando! Venga, venga a vedere!»
Sprigionando euforia da tutti i pori, se lo prese a braccetto e lo trascinò per le sale espositive: «Da questa parte c’è la Sezione Comunicazioni, dove studieremo il funzionamento del telefono e come perfezionarlo con la magia, magari abolendo l’uso dei fili! Mentre lì ho predisposto un intero reparto sugli strumenti musicali! E qui…oh, qui c’è il pezzo forte!»
Si fermò davanti a una sfera d’acciaio che emetteva scariche elettriche e bagliori azzurrini. «Non è meravigliosa?»
«Sarebbe?» domandò Solomon.
«Non ne ho assolutamente idea!» rise lei. «Ma è così bella che starei ore a fissarla! E poi guardi qui!» Mise le mani sui lati della sfera, e i suoi capelli neri presero a fluttuare verso l’alto, sprizzando scintille. «Fa un po’ il solletico! Ci provi, è divertente!»
«Ha visto le illusioni che hanno gettato sulla vetrina?»
Isabel staccò le mani dal congegno, e i suoi capelli si afflosciarono. «Una semplice bravata.»
«Ma che potrebbe anticipare qualcos’altro» disse Solomon. «Il Triumvirato le ha concesso il museo, ma la strada è ancora lunga: dovrà persuadere i maghi a credere nel progetto, tenere a bada gli oppositori. E soprattutto, spingere qualche studentessa a presentarsi alle sue lezioni.»
«È solo questione di tempo» affermò Isabel, convinta. «La gente si incuriosirà, spargerà la voce, e presto questo posto pullulerà di menti brillanti pronte a cambiare il mondo!»
Mentre parlava, i suoi occhi rilucevano di uno splendore ardente, come se avesse un incendio dentro; Solomon non credeva di aver mai conosciuto nessuno in grado di conferire una tale passione in ciò che faceva, di sicuro non ad Arcanta. E, malgrado non fossero d’accordo su molte cose, scoprì che iniziava a nutrire nei suoi confronti una sincera ammirazione.
Si sentì comunque in dovere di metterla in guardia: «Mi dia retta, non deve sottovalutare…»
Si bloccò. Qualcosa aveva messo improvvisamente i suoi sensi in allerta, come una scossa sottopelle. «Resti qui. Torno subito.»
Accigliato, uscì in strada ed estese i confini della sua mente per connetterla a quella di Wiglaf, il suo famiglio, che aveva lasciato libero di svolazzare lì in giro. Dovevo immaginarlo.
Seguendo le indicazioni fornite dal corvo bianco, s’infilò in un vicolo sul retro del museo e lì, intento a sbirciare da una finestrella, trovò un giovane mago con indosso una tunica grigia con un sole d’oro ricamato dietro la schiena. Pochi istanti dopo, Solomon tornò dentro, tirando l’intruso per il cappuccio. «Abbiamo visite.»
Isabel, che stava cercando di annullare le illusioni sulla vetrina, lo guardò stupefatta sbattere il ragazzo sul bancone all’ingresso. «Che sta facendo? Chi è questo ragazzo?»
Solomon gli puntò contro la testa di corvo sull’impugnatura del suo bastone. «Una recluta del Cerchio d’Oro. Mandato qui a ficcanasare, ho indovinato?»
Il ragazzo deglutì, emettendo un suono strozzato. Poteva avere circa ventidue anni, ed era sicuramente fresco di ammissione; gli irsuti capelli argentei e il naso a punta lo facevano somigliare curiosamente a un riccio. «M-mi dispiace, signori Blake, non era mia intenzione! Mi è stato solo detto di passare di qua per un controllo…»
«Un controllo, eh?» inquisì Solomon. «E perché il Cerchio d’Oro dovrebbe essere interessato a questo museo?»
Visto che il ragazzo-riccio continuava a balbettare frasi sconnesse, Solomon gli spinse il becco del bastone sotto il mento. «Ti conviene parlare. Non mi piacciono gli impiccioni e non tollero che qualcuno importuni mia moglie.»
«Blake» lo riprese Isabel. «Lasci andare questo poveretto, tutto quello che può aver visto è un cantiere!»
«Infatti!» squittì il ragazzo-riccio. «Non ho visto né sentito niente, parola mia!»
«Ma non hai risposto alla domanda» disse Solomon, l’aura magica che crepitava minacciosa. «Che cosa vuole il Cerchio d’Oro? Perché ci sta tenendo d’occhio? Se non vuoti il sacco trasformerò i tuoi occhi in scarafaggi …»
«No! No, la prego!»
«Qui nessuno trasformerà nessuno!» esclamò Isabel, portandosi le mani ai fianchi. «Solomon Blake, lo lasci andare ho detto!»
Sbuffando, Solomon permise al giovane alchimista di raddrizzarsi, e si andò ad accomodare su un divanetto, continuando però a guardarlo male.
«Come ti chiami, caro?» gli chiese gentilmente Isabel.
«Ehm, Mortimer, signora. Mortimer Fletcher.»
«Non temere, Mortimer, nessuno qui ti torcerà un capello. Però ora ho bisogno che tu mi dica la verità.»
Mortimer esitò: «Ecco, al Cerchio d’Oro sono convinti che stiate tramando qualcosa: conoscono l’ossessione di lady Isabel per l’alchimia e non si fidano per niente del signor Blake. Credono che questa storia del museo sia una montatura. Un modo per farci concorrenza.»
Solomon indirizzò uno sguardo obliquo a Isabel. «Che le dicevo?»
«Ma non hai visto niente di tutto questo» tagliò corto lei, tranquilla. «Torna pure al Cerchio d’Oro e riferisci ai tuoi maestri che non hanno nulla di cui preoccuparsi: tutto ciò che troveranno qui sono cianfrusaglie senza valore.»
Senza farselo ripetere, Mortimer schizzò fuori dal museo, facendo scampanellare il cicalino.
«Deve stare più attenta» disse Solomon, una volta sicuro che fossero soli. «Il Cerchio d’Oro può renderle la vita molto difficile.»
«Non è con le minacce che mi guadagnerò il rispetto di questa città.»
«Allora tanto vale che chiuda bottega oggi stesso» la rimbrottò lui, severamente. «Ad Arcanta nessuno può mostrarsi debole: la schiacceranno se non dà prova di possedere artigli più affilati!»
«Non è ciò che voglio trasmettere alle mie allieve» affermò Isabel. «Insegnerò loro che una donna può farsi valere da sola, con la forza delle proprie idee.»
Solomon proruppe in una risata aspra. «Quali allieve? Le ragazze avranno troppa paura di incorrere nell’ira del Decanato e delle proprie famiglie per…»
In quell’istante, il cicalino suonò ancora.
«È permesso?» chiese una voce educata. «Ho sentito che siete aperti.»
Isabel e Solomon interruppero la discussione e si voltarono verso l’entrata, a cui si erano appena affacciate tre giovani maghe dall’aria eccitata.
«Vorremmo visitare il museo» spiegò una di loro, togliendo il cappellino. «Ne abbiamo sentito così tanto parlare e…è vero che lei è un’alchimista, signora Blake?»
«E che vuole insegnare l’alchimia alle donne?» aggiunse un’altra, speranzosa.
Solomon restò impalato a fissare le tre ragazze, senza riuscire a credere ai propri occhi. Isabel, invece, si aprì in un sorriso radioso. «Ma certo! Prego, signorine, da questa parte! Abbiamo molto di cui discutere!»
Faticando a contenere l’emozione, Isabel indicò loro la strada, ma prima di seguirle si rivolse nuovamente a Solomon: «Grazie per i consigli, marito, ma non ha nulla da temere: da qui in poi, ce la caveremo da sole!»
 
 
Quella sera, Solomon riuscì a tornare alla casa sul lago dopo due settimane di assenza.  Valdar si precipitò a salutarlo, e cercò di convincerlo ad assaggiare degli stuzzichini di sua invenzione, che, da quel che Solomon era riuscito a capire, prevedevano l’impiego di lumache vive. Declinò educatamente l’offerta e si mise invece in cerca di Lucia.
La trovò in salotto, rannicchiata sul sofà nella classica posizione che assumeva quando leggeva, col libro aperto poggiato sulle gambe. Solomon tolse la giacca, sciolse il nodo alla cravatta e poi si lasciò cadere vicino ai suoi piedi, passandosi stancamente le mani sugli occhi e poi fra i capelli.
«La vita coniugale è più impegnativa del previsto?» lo punzecchiò la ragazza, restando sulle sue.
«Non ne hai idea» esalò lui, massaggiando le tempie. «Quella donna…mi sfinisce!»
Lucia fece una smorfia. «Immagino.»
«Intendo dire che è così cocciuta! Sembra che provi gusto a fare l’esatto opposto di quello che dico! E poi questa storia del laboratorio! Mi porterà un sacco di guai, come se non avessi già abbastanza pensieri per la testa!»
Terminato lo sfogo, Solomon girò la testa sulla spalliera e si mise a guardarla. «Che cosa leggi?»
«Ti interessa sul serio?»
«Sono sempre serio quando si tratta di libri.»
Lucia sospirò. «Me lo hai portato da uno dei tuoi ultimi viaggi, dall’Inghilterra. Si intitola “Peter e Wendy”.»
Solomon poggiò la guancia sul palmo della mano, un sorriso a fior di labbra. «Di che parla? Ti sta piacendo?»
«Abbastanza. Parla di un ragazzo che si rifiuta di crescere.»
Il sorriso di lui si allargò. «Sembra interessante. Dimmi di più.»
«Pur di non assumersi responsabilità, il ragazzo volò su un’isola lontanissima» raccontò Lucia. «Dove non esistevano adulti, né regole. E Peter Pan visse lì per anni, da solo, convinto di avere tutto ciò che gli serviva. Ma un giorno, stanco della solitudine, decise di tornare nel nostro mondo e, volando vicino una casa, gli capitò di ascoltare una ragazza che raccontava fiabe ai suoi fratellini.»
«La nostra Wendy» disse Solomon, dimostrandole che era attento.
«Anche Peter desiderava avere una Wendy che gli raccontasse fiabe tutte le sere, così decise di portarla con sé sull’isola. Per un po’, Peter e Wendy vissero felici …»
«…Ma?» chiese Solomon.
Lei scagliò su di lui uno sguardo colmo di rimprovero. «Wendy capì che non si poteva rimanere bambini per sempre, e iniziò a desiderare che un bacio fosse qualcosa più di un semplice ditale. Ma Peter era terrorizzato all’idea di far evolvere la loro relazione.»
«E cosa ha fatto Wendy, alla fine?»
Lucia chiuse il libro con un colpo secco. «Si è stancata di aspettarlo ed è ritornata a casa sua!»
Il sorriso di Solomon acquisì una piega colpevole. «Pensi che io sia come Peter? Che abbia paura di crescere?»
«Penso che dovresti preoccuparti di quello che provano le persone intorno a te.» Un lieve tremore le increspò la voce. «Prima di ferirle.»
«Mi dispiace.»
Lucia aggrondò la fronte, scettica.
«Dico davvero» mormorò Solomon. «Avrei dovuto parlarne prima con te, della storia del matrimonio e di tutto il resto.»
«Sì, avresti dovuto.»
«Mi perdoni?»
Lei emise una specie di risata triste. «Anche se lo facessi, cosa cambierebbe? Rimani comunque sposato con quella donna.»
«Ma adesso sono qui, no?» replicò lui, con prudenza. «Sono tornato per te. Perché mi manchi.»
«Ti prego, smettila.»
«Di fare cosa?»
«Di dire certe cose. Di guardarmi in quel modo…perché tanto so già come andrà a finire. Mi convincerai a darti un’altra occasione, come sempre.» Lucia lasciò andare un sospiro dal profondo del suo cuore, pieno di rabbia e di struggimento. «Perché tu saresti in grado di convincermi a fare qualunque cosa, e lo sai!»
Solomon subì il colpo, senza neanche provare a difendersi. Cambiò posizione, poggiando i gomiti sulle ginocchia e abbassando lo sguardo sulle proprie mani.
«So di non essere il genere d’uomo che vorresti che fossi» ammise, dopo un attimo. «E so anche che, dopo tutti questi anni, meritavi più di quello che ti ho dato.»
Lucia tacque, ma lui sentiva l’intensità del suo sguardo bruciargli addosso.
«Ma ho una missione da compiere» riprese Solomon. «Una missione a cui ho dedicato la mia intera vita. E ora che sono arrivato così vicino al traguardo, non posso fermarmi.»
Lucia continuò a tacere.
«Non pretendo che tu capisca» mormorò Solomon. «Ma per me questo ha la priorità assoluta. Io devo sconfiggere la Cittadella, distruggere tutto quello che rappresenta. Devo farlo per la nostra gente, per il bene della magia.» Prese una pausa, in lotta contro quel dolore antico e lacerante, che lo corrodeva ancora da dentro dopo tutti quegli anni. «Devo farlo per Jonathan.»
Sentì Lucia spostarsi, scivolare verso di lui dall’estremità del divano dove era accucciata.
Per un po’ rimasero seduti vicini, in silenzio. Poi, lei sussurrò: «D’accordo.»
Solomon alzò lo sguardo.
«Fai ciò che devi» disse Lucia, molto piano. «Io ti seguirò.»



CONTINUA...

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Capitolo 22
*** L'avvertimento - Seconda parte ***


 

L’AVVERTIMENTO
– Seconda parte –

 
 
 
Un sole rovente inondava le pietre del cigarral degli Ascanor, appena fuori Arcanta. Solomon non avrebbe potuto essere più fuori luogo, rigorosamente vestito di nero, con redingote, gilet e cilindro; sebbene fosse circondato da montagne altissime, un’illusione rendeva il clima talmente torrido che alla fine aveva dovuto rinunciare almeno alla giacca, rimanendo in maniche di camicia.
Raggiunse il prato sul retro del palazzo, dove si tenevano i pranzi di famiglia, rituale sacro per gli Ascanor, che si ripeteva immancabilmente almeno una volta alla settimana. Seduti all’ombra di un pergolato, attorno a una tavola imbandita con frutta e antipasti, trovò la famiglia al completo: don Sebastian in carrozzina, più magro e malato che mai, col fido assistente Melkisedek pronto a sopperire a qualsiasi suo bisogno; i cognati, Tristan e Alvaro, che sorseggiavano vino guardandosi in cagnesco; Xavier, immerso nella lettura di un libro e isolato da tutti. E poi, sua moglie…impegnata in un combattimento.
Niente gonna, crinolina e merletti, Isabel indossava una blusa di cotone con le maniche ampie e un paio di pantaloni, i capelli neri stretti in una treccia che frustava l’aria, e due sciabole di energia verde che splendevano nelle sue mani.
Perplesso, Solomon si fermò ad assistere. I suoi avversari erano tre individui senza volto, che si muovevano un po’ a scatti, coperti interamente di metallo lucente. Automi.
I fantocci meccanici erano dotati di quattro paia di braccia, ciascuna terminante con cesoie affilate, e Isabel schivava e parava i loro assalti con agilità, compiendo capriole ed evoluzioni. A un tratto, sferrò una sciabolata dal basso, squarciando il torace del primo automa, poi ruotò su se stessa e recise il braccio del secondo. Infine, decapitò il terzo, e la sua testa a forma d’uovo ruzzolò nell’erba fino a raggiungere le scarpe di Solomon.
La famiglia dimostrò il suo apprezzamento battendo le mani.
«Brava, niña!» gracchiò Sebastian. «Una dimostrazione notevole!»
Isabel si esibì in un piccolo inchino, dopodiché si rivolse a Solomon: «Buongiorno, mi amor! Sei un po’ in ritardo oggi, ma ti perdoniamo!»
Lo raggiunse per scoccargli un bacio sulla guancia, ma colse l’occasione per bisbigliare: «Che fine avevi fatto? Non sapevo più cosa inventarmi!»
«Ho avuto un piccolo contrattempo» borbottò lui, vago. Lucia aveva preteso che si facesse perdonare trascorrendo qualche giorno con lei al lago, ed escogitato alcuni fantasiosi stratagemmi per trattenerlo a letto per l’intera mattinata, facendogli perdere la cognizione del tempo
Per fortuna, l’umore di Isabel era particolarmente buono da quando aveva aperto il suo laboratorio, e decise di sorvolare: «D’accordo, l’importante è che tu sia qui.»
«Dovresti dedicarti ad attività più consone a una signora, Belle» la rimproverò Tristan quando ebbero entrambi preso posto a tavola. «Soprattutto adesso che sei sposata!»
«Lo dici solo perché è da quando eravamo studenti che nostra sorella ti metteva al tappeto» sogghignò Alvaro, ruotando pigramente il dito sopra il calice per far turbinare il vino al suo interno.
«Deduco siate tutti stati allievi di Boris Volkov» disse Solomon.
Alvaro fece l’occhiolino a Isabel: «Belle era la migliore. Anche se… il fatto che Volkov avesse un debole per lei immagino non conti…»
Isabel gli tirò un acino d’uva. «Chiudi il becco, idiota!»
«Gli Ascanor sono sempre stati eccelsi armaioli» spiegò Sebastian, pacato. «Fu un mio antenato a realizzare le armature dei Guardiani Silenti, poco dopo la Fondazione, e la maggior parte delle armi utilizzate dalla Corte delle Lame sono di mia creazione. Non a caso, il motto della nostra famiglia è “Acciaio e Sangue”.»
«“Acciaio e Sangue”» ripetettero i figli, in coro.
«Per noi duellare è un’arte, esattamente come l’alchimia» aggiunse Alvaro, con arroganza. «Be’, per tutti eccetto che per Xavier. Ma in effetti, non è ancora chiaro quale sia il suo vero talento.»
L’interessato non rispose alla provocazione, ma Solomon colse la sferzata di ghiaccio che i suoi occhi mandarono all’indirizzo del fratello.
«Alvaro» disse Sebastian, sospirando. «Lascia in pace Xav, come Bibliotecario sta svolgendo un lavoro eccellente.»
«Quanto può essere difficile fare la guardia a dei libri? La cosa più rischiosa che può succedergli è tagliarsi con la carta!»
«Gira voce che anche i Blake abbiano un passato legato alle armi» intervenne a quel punto Melkisedek.  «Non fu Merlino di Britannia a forgiare la più celebre spada mai realizzata, Excalibur?»
«…con la Magia Vuota.»
Tutti si volsero sorpresi verso Xavier, che ora puntava Solomon da dietro le spesse lenti degli occhiali. «Merlino è stato uno dei Plasmavuoto più potenti mai esistiti. Almeno, questo è ciò che vuole la leggenda.»
Nel sentir tirare in ballo quella storia Solomon s’irrigidì, ma cercò di non darlo a vedere. «E di una leggenda si tratta, per l’appunto.»
«Una spada in grado di donare gloria a chi ritiene puro di cuore!» completò Sebastian, emozionato. «E dannazione a chi reputa indegno! Un vero miracolo dell’alchimia!»
«Un miracolo illegale» specificò Melkisedek, tagliente.
«Ai tempi di Merlino la magia non era ancora sottoposta al controllo della Legge» replicò Sebastian con leggerezza. «Il confine tra prodigio e abominio era molto labile. Merlino fu senza dubbio un grande mago, tuttora ricordato come il “Forgiatore di Re”»
«Ciò non toglie che la spada dovrebbe essere registrata e posta sotto la tutela del Decanato» insistette Melkisedek. «Come tutto ciò che deriva dal Vecchio Mondo»
Solomon sostenne lo sguardo severo dell’alchimista con un sorriso affabile. «Excalibur è al sicuro ad Hurtgrove Hall da prima della Fondazione di Arcanta, ma non c’è ragione di preoccuparsene: nessuno si è mai azzardato a impugnarla dalla morte del suo ultimo possessore.»
«Lei non ci ha mai provato?» domandò Alvaro.
«Non sono mai stato un appassionato di armi. E poi, dubito che potesse essere destinata a uno come me.»
Il cognato sembrò deluso. «Quindi è vero quel che si dice sulla Corte dei Sofisti: di fronte all’azione, trovate sempre il modo di defilarvi.»
«I miei studenti imparano ad affinare altri talenti» rispose Solomon, con una punta di freddezza. «La dialettica, per esempio.»
«Mmh, una buona parlantina non può sempre tirarvi fuori dagli impicci. Non se l’avversario evoca una scure.»
«Un buono stratega ha già vinto prima ancora di mettere piede sul campo» disse Solomon. «È questo il problema della Corte delle Lame: non vi insegnano ad usare la testa. Ci sono solo troppi muscoli e poco cervello.»
«Questo non è vero.» A quel punto, fu Isabel a prendere la parola. «Boris ci ha aiutati a comprendere l’importanza del lavoro di squadra, del conservare intatto il proprio onore. E a non lasciare mai indietro un compagno.»
Solomon emise un verso di sufficienza. «Oh, allora mi correggo: muscoli, poco cervello ma, in compenso, un sacco di favolette!»
Sebastian ridacchiò. «La proverbiale rivalità tra Corte delle Lame e Corte dei Sofisti esiste ancora, vedo!»
«Mettimi alla prova, allora» disse Isabel, guardando Solomon. «Ti dimostrerò che alla Corte delle Lame c’è molto più di quello che credi.»
In altre circostanze, forse, lui avrebbe trovato più saggio declinare, ma l’orgoglio gli proibiva di dargliela vinta. «Come vuoi, moglie.»
«Papà!» gemette Tristan. «Sono marito e moglie, non sta bene! Dì qualcosa!»
Sebastian però sembrava trovare l’idea elettrizzante. «Lasciamoli fare! Non c’è niente di meglio che un duello per rafforzare una coppia!»
Isabel e Solomon si fronteggiarono in mezzo al prato, e lei evocò le sue due scimitarre di energia. «A te la scelta dell’arma, marito.»
Lui fece roteare il bastone da passeggio nella mano sinistra. «Già scelta.»
«Fai sul serio?»
«Finora non mi ha mai deluso.»
Isabel sfregò una scimitarra contro l’altra. «Allora, in guardia!»
E, con uno scatto fulmineo, gli fu addosso. Sferrò una pioggia di fendenti, spostandosi agile sulle gambe, colpendo con grinta e precisione. Solomon non parava, non assaltava, si limitava a schivare e a girarle intorno.
«Credevo di aver dato il via!» lo provocò lei. «Quando pensi di iniziare?»
Compì una piroetta a destra, pronta a colpirlo sul fianco. Solo all’ultimo, Solomon alzò il bastone e bloccò la lama di energia, trovandosi a un soffio dal volto di lei. «Io ho iniziato.»
Impressionata, Isabel fissò l’asta del bastone, che non aveva subito nemmeno un graffio. «Di che materiale è fatto?»
«Acciaio alchemico ed ebano del Madagascar» rispose lui. «Resistente a qualsiasi attacco magico. E in grado di spaccare a metà il cranio di un orso.»
Con uno slancio, si separarono di nuovo.
«Non male per un damerino» commentò lei, un po’ a corto di fiato ma sorridente. «Però apprezzerei se iniziassimo a fare sul serio.»
«Sono d’accordo. Boris ti avrà pur insegnato qualcos’altro, a parte le coreografie di danza.»
Isabel recuperò la posizione. «Ora ti faccio vedere!»
Attaccò ancora, mirando alla testa. Solomon si spostò di lato, percependo l’energia della lama ronzare quando tagliò di netto l’aria. Era brava. Di gran lunga sopra la media rispetto agli allievi di Boris. Chissà se sa anche improvvisare…
Continuò a giocare così con Isabel, sfidandola a esibirsi negli schemi d’attacco più complicati che conosceva, e a rielaborarli di volta in volta pur di metterlo in difficoltà. L’eccitazione della lotta prese il sopravvento, così come il divertimento e Solomon presto dimenticò tutto il resto: esisteva solo quella danza feroce, in cui i loro corpi si sfioravano e poi si dividevano, come spirali di fumo nel vento.
A un tratto, Isabel compì una finta e si accinse ad attaccare dal basso. Solomon allora le fece uno sgambetto, e la spinse sul fianco con l’impugnatura del bastone, non troppo forte, ma abbastanza da farle perdere l’equilibrio. Isabel piombò a terra con un piccolo strillo, e quando guardò in su, lui aveva già tramutato il bastone in uno stiletto, la punta della lama posata sul suo zigomo. «Sei morta» constatò, con somma calma.
«Però così non è leale!»
«Un avversario che mira a ucciderti non giocherà mai pulito.» Solomon le offrì una mano per aiutarla ad alzarsi. «Ma alla Corte delle Lame non insegnano nemmeno questo.»
Isabel lo fissò con occhi sgranati, ma invece di arrabbiarsi, si mise a ridere. «Mi sa che è vero!»
«Che sta succedendo qui!?»
Solomon l’aveva appena tirata a sé, che una voce imperiosa li costrinse a voltarsi. Era doña Madragana, la moglie di Sebastian; la fasciava un severo abito nero col collo alto, e stava risalendo il prato reggendo tra le braccia un mazzo di fiori freschi. Era esile e olivastra come Isabel, e le sopracciglia nere e arcuate le conferivano un’aria di sfida, che catturava e intimidiva insieme.
«Isabel!» la redarguì. «Per i Fondatori, ti ho detto un milione di volte che non sopporto di vederti fare a botte!»
«Calmati, madre, ci stavamo solo esercitando…»
«Per non parlare del tuo abbigliamento!» Madragana indicò i pantaloni della figlia e simulò uno svenimento. «Tuo marito non può vederti in questo stato indecoroso!»
Sbuffando, Isabel agitò le dita e trasformò gli indumenti maschili in un vorticare di seta azzurro polvere. «Signorsì, signora!»
Madragana scagliò un’occhiata bieca pure al genero, che provò ad accattivarsela con uno dei suoi sorrisi canaglieschi, ma senza successo. «Il pranzo è servito, vi prego di non dare ulteriore spettacolo!»
E trottò verso casa, col guardinfante che sobbalzava a ogni suo passo. Mentre tornavano dal resto della famiglia, Isabel affiancò il marito: «Due ore alla settimana. Facciamo venerdì?»
«Facciamo cosa?»
«Lezione di duello. Voglio imparare qualche trucco.»
Lui si volse a guardarla, meravigliato, e Isabel precisò: «Continuo a non condividere i tuoi metodi. Però un paio di dritte possono farmi comodo. Ci stai?»
Solomon sorrise, cercando di non mostrarsi troppo compiaciuto. «Venerdì andrà bene.»
Il pranzo si portò avanti come al solito, tra gli incessanti battibecchi di Tristan e Alvaro, i silenzi funerei di Xavier e i tentativi di Sebastian di far andare tutti d’accordo, mentre le varie portate fluttuavano avanti e indietro per la tavola, sformati, zuppe di pesce, contorni. Per tutto il tempo, Solomon ebbe la sgradevole impressione che doña Madragana lo stesse sottoponendo a un attento e silenzioso esame; per fortuna, come centro tavola era stato posto un monumentale vaso di peonie rosse profumatissime, che lui usò per schermarsi dalle sue occhiatacce, ma, arrivati al dessert, fu proprio la matrona a prendere le redini del discorso: «Isabel, mi querida, ormai sono passati ben due mesi dal matrimonio.»
«Già due mesi!» fece Sebastian, gioviale. «Il tempo è proprio volato, non vi sembra?»
«Eppure ti dedichi ancora ad attività poco consone a una donna sposata» proseguì Madragana, ignorando il marito. «Ne devo dedurre che tu non sia ancora incinta.»
Di fianco a Isabel, Solomon si mandò di traverso il vino. Ecco, se lo sentiva che prima o poi l’argomento sarebbe saltato fuori…
Nel silenzio pieno di aspettativa che seguì, Isabel fissò il volto di sua madre, accigliata. «Non ti sfugge proprio niente.»
«Sono solo preoccupata» replicò Madragana. «A quest’ora dovresti già essere in attesa. Forse è il caso di farti visitare da un alchimista, per assicurarsi che sia tutto a posto…»
«È tutto a posto, grazie dell’interessamento.»
«Anche in camera da letto?»
Le guance di Isabel avvamparono in maniera repentina. «Questi non sono affari tuoi! Sono solo presa da cose più importanti…»
«Mm, come quel tuo famoso museo?»
«Sì, esattamente!»
Il volto di doña Madragana si indurì. «Tutti noi abbiamo dei doveri verso Arcanta, Belle: Xavier è il Bibliotecario, Tristan o Alvaro erediteranno il titolo di tuo padre, e tu dovrai assicurare la successione della nostra stirpe. Non vorrei doverti ricordare che un matrimonio non consumato è nullo agli occhi della Legge.»
Solomon percepì chiaramente l’aura di sua moglie sprizzare scintille di collera, e si affrettò a correre ai ripari: «Temo che Belle non si stia sentendo molto bene, colpa del caldo! La accompagno un attimo di là a rinfrescarsi.»
Dopodiché afferrò per il braccio Isabel e la trascinò dentro casa.
Scelse una stanza a caso, poi chiuse la porta e la isolò con la magia. «Abbiamo un problema.»
«Già» borbottò Isabel. «Ma non credevo che si sarebbe presentato così presto.»
Lui si passò una mano tra i capelli, innervosito dall’ennesimo inconveniente. Non aveva ancora fatto grossi passi in avanti con Xavier, e questa storia dell’erede proprio non ci voleva. «D’accordo, pensiamo a come guadagnare tempo: potrei dire di aver contratto una maledizione durante uno dei miei viaggi, e che sarò costretto alla quarantena per almeno un paio di mesi…»
«Non se la berranno.»
«So essere convincente.»
Isabel sospirò. «Non conosci mia madre: è un segugio. Intuirà che qualcosa in questo matrimonio non quadra, se non l’ha già intuito!»
Solomon si appoggiò di schiena contro la porta, le braccia incrociate. «Allora cosa proponi di fare?»
«Forse dovremmo toglierci il pensiero e basta.»
«Cioè?»
«Diamogli questo benedetto erede. Facciamoli tutti contenti, almeno per un po’ ci lasceranno in pace.»
Solomon la fissò, indeciso se prenderla sul serio o meno. «Questo però non era nel contratto.»
A lei quasi scappò da ridere. «Be’, scusa tanto, pensavo fosse implicito! Pattuiamo un paio di incontri al mese e ...»
«Non funzionerà.»
Isabel si spazientì. «Nemmeno a me l’idea entusiasma, va bene? Ma abbiamo gli occhi di tutti puntati addosso!»
«Non posso farlo» decretò lui, distogliendo per un momento lo sguardo. «Dobbiamo trovare un’altra soluzione.»
Stavolta fu lei a scrutarlo con sospetto. «C’è qualcosa che non mi hai detto, per caso?»
«È che sono troppo impegnato» farfugliò lui, messo alle corde. «Tra i miei allievi, e le missioni e…»
«Hai un’altra donna?»
«Cosa? Certo che no!»
«Mhmm» fece Isabel, continuando a putargli addosso quello sguardo acuto che non gli piaceva per nulla. «Se non è una lei, allora deve essere un lui.»
«Prego!?»
«Be’ spiegherebbe molte cose.» Isabel alzò le spalle con filosofia. «Per esempio, come mai passi così tanto tempo con mio fratello…»
«Oh, per tutti i demoni!» sbottò Solomon. «Sei completamente fuori strada!»
«Non è un uomo?»
«No! Nel modo più assoluto!»
«Allora è una donna.»
«Sì!» ruggì Solomon, rendendosi conto troppo tardi di essere cascato nella trappola. «Maledizione!»
Isabel ridacchiò.
«Adesso che lo sai, che hai intenzione di fare?» domandò lui, nervosamente.
«Io? Niente. In effetti, non c’era alcuna clausola che ci impedisse di avere altre relazioni.»
Solomon però era guardingo. «Quindi, lo terrai per te?»
«Non ho motivo di sbandierarlo ai quattro venti» disse Isabel. «A patto che tu però onori i doveri che hai verso di me.»
«Te lo ripeto, non posso» disse Solomon. «Finora ho rispettato i termini dell’accordo, ti ho aiutata col laboratorio…»
«E se capiranno che questo matrimonio è una farsa sarà stato tutto inutile!» protestò Isabel. «Convinceranno i Decani ad annullarlo! Mi porteranno via il museo! Proprio ora che ho tre allieve…»
«Mi dispiace» replicò Solomon. «Voglio aiutarti, sul serio, ma non in questo modo.»
«Perché la ami?»
Lui si bloccò, colto alla sprovvista. «Io…non lo so.»
«In che senso non lo sai?»
«Nel senso che…non ci ho mai pensato» disse Solomon, sempre più in difficoltà. «So solo che non voglio farla soffrire.»
Nello sguardo di lei colse un misto di curiosità e circospezione. «Perché mi guardi così adesso?»
«Perché non pensavo ne fossi capace.»
«Di avere un’amante?»
«Di essere leale.»
Inaspettatamente, scoprì che la cosa lo feriva. «Che razza di uomo credevi che fossi?»
«Non riesco ancora a capirlo» ammise lei, lentamente. «Nemmeno io voglio che qualcuno soffra. Però hai preso un impegno con me, e lei lo deve accettare. Parlaci, questa faccenda va risolta.»
Detto ciò, ruppe l’incantesimo di isolamento e uscì dalla stanza, lasciandolo con l’ennesima gatta da pelare.
 
Trascorsero alcuni giorni, durante i quali Solomon si arrovellò il cervello su come tirarsi fuori da quella situazione. L’ideale era che Xavier finalmente cedesse e gli rivelasse il nascondiglio del Libro Nero, ma suo padre aveva ragione, quel tipo era una cassaforte di cui Solomon non riusciva a trovare la combinazione. Sentiva di essere a tanto così dal raggiungere il suo obiettivo, non poteva permettersi di mandare tutto a monte proprio adesso…
Con Lucia, d’altra parte, le cose sembravano tornate come prima, e l’ultima cosa che lui voleva era doverle dare l’ennesima delusione. Cercò di immaginarsi una serie di sue ipotetiche reazioni alla notizia che presto o tardi avrebbe dovuto condividere il letto con un’altra donna…e non riusciva a figurarsi una versione in cui lei non dava fuoco a qualcosa. In più, dal giorno del duello continuava a balenargli a tradimento nella mente l’immagine di Isabel in abiti maschili, le sue gambe snelle fasciate solo dalla pelle aderente dei pantaloni, e ogni volta questo provocava in lui uno strano scombussolamento, che contribuiva a confondergli ancora di più le idee…
Non vedendo vie d’uscita, decise che per il momento si sarebbe concentrato solo sul lavoro; l’anno accademico stava per concludersi e quel giorno aveva deciso di sottoporre i suoi studenti a un test, anche se, dalle loro espressioni, era evidente che nessuno di loro avesse aperto un libro nell’ultimo periodo.
«Avete due ore a partire da adesso» disse Solomon, mentre Lucia passava tra le file di banchi per distribuire i questionari. Quando raggiunse il maestro alla cattedra, lei gli fece scivolare un biglietto in tasca, dopodiché andò a sedersi alla sua postazione.
Appena gli studenti iniziarono a scrivere, lui si girò per sbirciare il contenuto: Laboratorio n 2. Tra dieci minuti.
Incrociò lo sguardo dell’assistente, che gli sorrideva furtivamente annodandosi una ciocca di capelli rossi intorno al dito.
Sospirò, affranto. Per quanto ancora pensi di andare avanti così? Diglielo! Hai visto come è andata l’ultima volta che le hai tenuto nascosto qualcosa!
A un certo punto, Lucia lasciò l’aula, facendogli segno di seguirla.
«Mi sto allontanando qualche minuto» disse Solomon alla classe. «Wiglaf rimane di guardia: se becca qualcuno di voi a copiare verrà trasformato all’istante in un piattino da tè!»
Attraversò il corridoio e aprì la porta del laboratorio, e nell’esatto istante in cui si richiuse, si ritrovò un paio di braccia attorno al collo.
«Mi sei mancato» sussurrò Lucia sulle sue labbra. E poi lo baciò, senza dargli tempo di reagire, facendogli dimenticare per un attimo tutti i bei discorsi che si era preparato.
«Senti» tentò lui. «Ti devo aggiornare su un paio di cose…»
In risposta, lei lo afferrò per la cravatta e lo trascinò ridendo verso un tavolo da lavoro.
«È piuttosto urgente, in verità.»
«Anche questo lo è.»
«Lu, sul serio, devo…»
Un improvviso bussare li fece trasalire entrambi.
«Ricomponiti» disse Solomon, sistemandosi anche lui alla meglio.
«Maestro» disse una voce, che riconobbe come quella di Jasper. «Mi dispiace disturbarla, ma deve venire di là un attimo.»
Scocciato, Solomon aprì la porta del laboratorio di qualche centimetro. «Spero che ci sia un’ottima ragione per aver interrotto il test, Jasper! Come minimo deve essere esplosa una bomba!»
Solo a quel punto Solomon si accorse Jasper era accompagnato da un giovanotto dalla pelle olivastra e l’espressione pigra. Eduardo, il cugino di Isabel che le aveva fatto da chaperon alla firma del contratto.
«Qualcosa del genere, signore» rispose incerto Jasper. «Il museo di sua moglie è appena saltato in aria.»
 
Una piccola folla era già accorsa davanti al Museo della Scienza. La potenza dell’esplosione aveva ridotto la vetrina a un cumulo di frammenti luccicanti e l’interno era invaso da detriti che fumavano ancora. Preoccupato, Solomon si fece strada tra i membri della famiglia Ascanor, che parlavano gli uni sopra gli altri con agitazione.
«Quando è successo?» domandò subito. «Isabel dov'è? Sta bene?»
«È sul retro, si sta accertando che quei suoi marchingegni non abbiano subito danni» disse Tristan, tamponandosi il volto con un fazzoletto di seta. «Me lo sentivo io che non era affatto una buona idea aprire questo posto!Fortuna che non ci fosse nessuno dentro.»
«Sarà stata colpa di quelle diavolerie Mancanti» affermò Alvaro, scuotendo la testa. «Ho sempre pensato che non fossero per niente sicure!»
C’era anche Xavier, che non partecipava alla discussione ma osservava le superfici del locale annerite dalla cenere. «L’esplosione non è stata provocata dai macchinari Mancanti. Ma dalla magia.»
Tutti si voltarono a guardarlo. Il Bibliotecario passò un dito sullo strato di fuliggine che incrostava la parete, osservandosi attentamente i polpastrelli. «Dubito si sia trattato di un incidente: qualcuno voleva che questo posto bruciasse.»
«Assurdo!» starnazzò Tristan. «Chi può aver osato mancare così di rispetto alla nostra famiglia!?»
«Troverò il colpevole!» ringhiò Alvaro, sguainando subito la spada. «In quanto futuro Primo Alchimista del Cerchio d’Oro è mio dovere far luce su questa storia.»
«Questa è proprio bella» polemizzò Tristan. «Nostro padre non è ancora morto, non hai nessun diritto di assumerti questo compito!»
«Ah, quindi sarai tu a fare giustizia? Allora siamo a posto!»
«Di sicuro non lascerò che tu ti prenda tutti i meriti!»
«Volete darci un taglio?» esclamò Solomon, con rabbia. «Qui non si tratta di voi due, ma di vostra sorella! Qualcuno ha messo a rischio la sua vita, e vi preoccupate solo della vostra stupida corsa al potere!»
I due cognati ammutolirono, fissandolo sbigottiti. Anche Xavier lo guardò, colpito. «Occorrerà un esame accurato dei residui chimici. Il Cerchio d’Oro dovrà essere allertato.»
«Puoi occupartene tu?» chiese Solomon.
Il Bibliotecario annuì e lasciò con discrezione il museo. Non appena fu uscito però, altre tre figure si affacciarono alla porta scardinata. «Cielo, che disastro! Cosa è accaduto qui?»
Erano le tre allieve di Isabel, Veronica, Merope e Corvina, coi loro libri e i grimori sottobraccio. Gli sguardi angosciati delle giovani maghe percorsero il museo distrutto. «Ma…che cosa significa?»
«Significa che per oggi il Museo è chiuso» disse Solomon. «Mi dispiace, ragazze. Vi faremo sapere quando sarà di nuovo sicuro.»
La loro espressione era talmente delusa che Solomon si sentì sinceramente mortificato. Quelle ragazze credevano sul serio nelle idee di Isabel,e vedevano in quel posto un’opportunità di riscatto. Chissà che duro colpo doveva essere stato per lei...
Sotto lo sguardo scioccato di Alvaro e Tristan, lo stregone annunciò: «Finché Xavier non torna non c’è niente che possiamo fare qui. Tornatevene tutti a casa, io devo parlare con mia moglie.» E sparì sul retro.
La trovò seduta su una sedia al centro di una sala espositiva, circondata da cumuli di cenere e ferraglia ammaccata. Gli dava le spalle, reggendo tra le mani un telescopio di bronzo con le lenti scheggiate.
«Ho appena saputo» disse Solomon, in tono cauto. «Tu stai bene?»
Lei tirò su col naso e annuì, senza girarsi.
«Non è messo poi così male» commentò ancora lui, in un maldestro tentativo di stemperare la gravità della situazione. «Basterà dare una pulita. E poi, scommetto che riusciresti a riparare la maggior parte di questi aggeggi in un batter d'occhio...»
«Non si tratta di questo.»
Solomon si interruppe.
«Sapevo che non sarebbe stato facile» mormorò lei, con voce roca. «Ero preparata. Però credevo... speravo che a un certo punto la gente avrebbe capito cosa stavo cercando di fare. Che avrebbe apprezzato...»
Strofinò il naso col dorso della mano, facendo di tutto per trattenere le lacrime. «Ma ho fallito. Ho sbagliato tutto dall'inizio. Arcanta odia questo museo. Odia tutto quello che riguarda i Mancanti e odia il fatto che una donna cerchi di insegnare loro ad apprezzarli. Avevi ragione tu, dovevo lasciar perdere…»
Solomon ascoltò in silenzio. Era la prima volta che appariva così...così fragile. Come se la fiamma splendente che l'aveva sempre contraddistinta, che animava ogni sua parola, si fosse improvvisamente spenta. Fu allora che un istinto poco familiare sorse prepotentemente dentro di lui, quello di abbracciarla, di dirle che sarebbe andato tutto bene. Riuscì a reprimerlo con una certa difficoltà, e invece disse: «Be’ non vorrai mica darti per vinta così.»
Solo allora lei si decise a guardarlo, gli occhi lucidi.
«Hai solo subito una battuta d’arresto» aggiunse lui, convinto. «Ma dopo tutti quei bei discorsi, non posso credere che basti così poco per fermarti!»
«Ero convinta che mi avresti detto di rinunciare.»
«Chiunque abbia voluto togliere di mezzo il museo lo ha fatto perché teme ciò che puoi scatenare nella gente» disse Solomon. «Hanno voluto darti una dimostrazione di forza. Ma noi dobbiamo dimostrare di essere più forti.»
«“Noi”?»
Lui la guardò con intensità. «Sei mia moglie, se colpiscono te colpiscono anche me. E chi mi conosce sa che non sono tipo da porgere l’altra guancia.»
Isabel sbatté le palpebre, incredula. «Ti ringrazio.» Poi deglutì a vuoto, e si asciugò le guance. «Quindi, cosa facciamo adesso?»
Solomon lasciò vagare lo sguardo per la sala in macerie. «Tu rimetti in sesto questo posto, al resto penso io. Troverò chi è stato. E, hai la mia parola, non gliela farò passare liscia.»

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Capitolo 23
*** L'addio ***


 


L’ADDIO

 




La Panne, luglio 1915
 
La serata trascorsa in quella locanda sulla spiaggia aveva fatto scoprire ad Abigail alcune cose fondamentali.
La prima era quanto le mancasse la pace. Se le prime settimane a La Panne erano fluite via rapidamente, lasciandosi dietro una vaga impressione di lavoro costante, fretta e stanchezza, a quattro mesi dal suo arrivo, cominciava ad avvertire il peso di quella vita. E con quel peso sul cuore continuava a svolgere le sue mansioni, ad accudire con pazienza i suoi soldati, a lavarli, a medicare le loro piaghe, a somministrare a chi non riusciva a nutrirsi da solo cucchiaiate di zuppa insipida, sforzandosi di apparire sempre positiva.
“Sei un eroe” ripeteva a ognuno di loro di continuo, come le era stato detto di fare, come se questo potesse in qualche modo alleviarne le sofferenze. “Il tuo Paese è grato per ciò che stai facendo qui.”
Ma erano parole vuote, in cui non riusciva più a credere nemmeno lei. Al Regno Unito importava realmente di quei ragazzi? Seriamente chi aveva deciso di iniziare quella guerra aveva a cuore il loro sacrificio? La maggior parte degli uomini mandati a morire era appena maggiorenne. Avrebbero mai riavuto indietro quegli anni preziosi? La loro vita sarebbe mai tornata come prima? Sarebbero riusciti a tornare a ballare, a sedere con gli amici di fronte a una birra in un pub, a sorridere, a essere felici dopo ciò che avevano fatto e visto?
Abigail non riusciva a trovare una risposta. La verità era che il desiderio di fare la cosa giusta, di rendersi utile, quello stesso desiderio che l’aveva spinta prima a lasciare Arcanta e poi ad attraversare la Manica, per gettarsi anima e corpo in quel lavoro, ormai non le bastava più.
E la colpa era di Tom Doherty.
Si ritrovava a pensare a lui di continuo, anche nei momenti in cui non avrebbe dovuto farlo, in cui le priorità avrebbero dovuto essere altre. Veniva divorata da pensieri e desideri nuovi, a cui non osava dare voce, sogni a occhi aperti di una vita diversa, senza più sangue incrostato sotto le unghie, senza l’eco di pianti e spari e aerei da guerra carichi di bombe…
Una vita all’insegna della gioia e della sicurezza. E questi pensieri egoisti la faceva sentire in colpa, sciocca e arrabbiata. Con se stessa e con quell’uomo che aveva gettato scompiglio nella sua testa e nel suo cuore.
Si era convinta che i maghi di Arcanta stessero sprecando le proprie vite e i propri doni, di essere migliore di loro. Eppure, non riusciva a fare a meno di pensare che doveva esserci dell’altro, che la vita fuori da quella gabbia dorata non potesse ridursi solo a paura, miseria e dolore…
La gente intorno a te muore e tu ti trastulli con queste sciocche fantasie, si rimproverava in quei momenti. E solo perché un ragazzo che a malapena conosci ha provato a baciarti!
In teoria avrebbero dovuto essere ben altre le sue preoccupazioni riguardo Doherty. Abigail aveva già usato la magia in sua presenza ben due volte, e ormai lui aveva capito che in lei c’era qualcosa di insolito. Non che la cosa sembrasse spaventarlo, anzi, dalle sue parole era emersa una genuina curiosità, e una parte di Abigail era felice di poter finalmente essere se stessa con qualcuno. E poi, anche se fosse andato in giro a darle della strega, chi mai gli avrebbe creduto? Nessuno aveva tempo per le credenze popolari laggiù, dove le minacce erano molto più concrete, come quella di finire mitragliato dal nemico, o di contrarre un’infezione mortale, o che un aereo decidesse di sganciare una bomba proprio sulle loro teste. Quello sì che faceva paura, quello sì che era reale. Non certo la magia.
Ma doveva essere prudente. Per questo e per combattere quelle nuove, frastornanti emozioni, fece di tutto per mantenersi impegnata, prendendosi carico anche del lavoro delle colleghe. E la cosa non passò inosservata.
«Ti vuoi dare una calmata?» sbottò un giovedì mattina Fanny, dopo che Abigail aveva domandato per la quarta volta se a qualcuno servisse una mano coi pazienti, o se avessero delle bende da farle bollire, delle uniformi da rammendare, qualunque cosa. «Santo cielo, sei più fastidiosa del normale!»
«Voglio solo aiutare» borbottò lei, forse un po’ troppo sulla difensiva.
«Puoi aiutare se ci lasci lavorare in santa pace» rispose Fanny. Tagliò coi denti il filo con cui stava finendo di cucire i punti sull’addome di un soldato, che si erano riaperti durante la notte. «Si può sapere che hai ultimamente?»
Abigail sigillò le labbra, ma non riuscì a impedire al rossore delle sue guance di tradirla. Visto che Fanny continuava a fissarla, in attesa, lei disse: «Ho solo certi …pensieri per la testa che vorrei far tacere, ecco.»
Fanny aggrottò la fronte. «Nulla di grave, spero.»
La risposta morì sulle labbra di Abigail. Dall’altra parte dello stanzone era appena apparso Tom Doherty, con in mano un mazzo di fiori.
«Oh, no…!»
Mentre Fanny si girava per scoprire cosa l’avesse sconvolta, Abigail si tuffò dietro la tenda-separé di un paziente.
«Ehi, che modi!» si lamentò lui, schermandosi dalla luce con la mano. «Stavo dormendo!»
«Perdonami» bisbigliò lei, mortificata.
Fanny scoppiò a ridere. «Rilassati, a quanto pare i fiori non sono per te!»
La maga si azzardò a dare una timida sbirciata. Effettivamente, Tom aveva sistemato i fiori in un vaso accanto al letto di un soldato con la gamba fratturata, per poi fermarsi a scambiare qualche chiacchiera con lui.
«Ah» fece, Abigail sentendosi molto stupida.
Fanny rise di nuovo con gusto. «Oh, Thorn, questa te la rinfaccerò in eterno!»
Morendo di vergogna, lei si convinse a uscire allo scoperto.
«Deduco che l’appuntamento dell’altra sera sia stato un disastro.»
«Nient’affatto» sospirò lei, per poi puntualizzare, imbarazzata: «E comunque, non era un appuntamento!»
«No, certo.»
«Ti ricordo che siamo in guerra.»
«Sì, lo so.»
«E che abbiamo un compito molto delicato da svolgere.»
«Ci mancherebbe.»
«Piantala, parlo seriamente!»
Fanny scosse la testa e tornò a girarsi per vedere che stava facendo Tom. «Toh, sembra stia cercando qualcuno! Chissà chi sarà mai?»
Salutato il soldato, Tom prese a camminare per il reparto gettandosi occhiate incerte in giro.
«Dovresti andare a parlarci» suggerì Fanny, che aveva l’aria di divertirsi un mondo. «Digli che non ti interessa e amen. O forse no. Insomma, avrà già il morale a terra per ovvi motivi, poveraccio.»
Abigail fu tentata di sparire di nuovo dietro la tenda, ma poi Tom venne avvicinato da Gwen, che lo salutò amichevolmente. Li vide confabulare, poi lui tirò fuori qualcosa dalla tasca e lo consegnò alla ragazza. Un istante dopo, se ne stava già andando via.
«Mhm» fece Fanny, bramosa. «Qui le cose iniziano a farsi interessanti!»
Abigail voleva solo che stesse zitta.
Gwen, intanto, si era avvicinata a loro. «È passato il tuo amico» disse, rivolta ad Abigail. «Mi ha chiesto di salutarti.»
Ma perché avevano tutte quel sorrisetto sornione stampato in faccia mentre le parlavano?
«E mi ha chiesto anche di darti questo» aggiunse Gwen, rovistando sotto il grembiule.
«Un anello!» esclamò Fanny.
Non si trattava di un anello, ovviamente. Ma di un biglietto ripiegato.
Fanny sbuffò. «Banale.»
Titubante, Abigail prese il biglietto e lo dispiegò.
«Be’?» chiese Gwen, allungando il collo. «Che c’è scritto?»
Lei strinse a sé il biglietto. «Niente. Solo saluti.»
«Sì, e io sono la zarina Aleksandra!» disse Fanny, esasperata.
Abigail si morse il labbro. «Vuole incontrarmi. Questo pomeriggio, alla spiaggia. Ma non credo che ci andrò…»
«Perché no!?» esclamarono le altre in coro.
«Perché sono oberata di lavoro» rispose Abigail, compita. «Non posso permettermi un’assenza ingiustificata…»
«Be’ ovviamente ti copriamo noi» obiettò Gwen, alzando le sopracciglia. «Ma non credo sia questo il problema.»
«Magari ha solo l’alito cattivo» la buttò lì Fanny.
La stavano guardando con una tale insistenza che Abigail dovette cedere. «Ci sono degli…aspetti di me che non credo lui capirebbe.»
«Sei fidanzata?» chiese Fanny.
«No.»
«Sei una fuorilegge? Una spia? Hai ammazzato qualcuno?»
«Certo che no!»
«E allora?» disse Fanny. «A volte sembra che tu venga da un altro pianeta, ma per il resto sei piuttosto decente.»
«Io penso che tu sia assolutamente deliziosa» affermò Gwen. «E che Tom si merita un’occasione!»
«Sì, lo penso anche io!» s’intromise una quarta voce. Le ragazze si girarono sorprese verso il soldato a cui Fanny stava mettendo i punti. Il ragazzo arrossì. «Scusate, credevo voleste anche il mio parere.»
«Quindi che hai deciso?» domandò Fanny, tornando ad Abigail. «Ci andrai?»
La maga era combattuta. «Non lo so, forse è meglio che qualunque cosa ci sia tra noi finisca qui e basta.»
«Ah, quindi c’è qualcosa!» esclamò Gwen, con aria furba.
«E non venire a raccontarci che l’altra sera avete solo parlato» le diede manforte Fanny. «Perché non siamo nate ieri.»
«A proposito» disse Gwen, scoccandole un’occhiata. «Ancora non ci hai detto com’è andata a te la serata. Che avete combinato poi tu e quel Finnegan?»
Fanny si strinse nelle spalle. «Una semplice chiacchierata. Anche suo padre è un Obiettore, hanno avuto un brutto litigio prima che lui partisse. Mi ha anche confidato che quando tornerà in Irlanda vorrebbe studiare medicina. È un bravo ragazzo.»
«Dobbiamo crederci? Sembrava che non riuscisse a staccarti gli occhi di dosso» ribatté Gwen.
Fanny raccolse i suoi strumenti e le bende da disinfettare. «Io non ho un appuntamento clandestino per questo pomeriggio. Appuntamento a cui dovresti presentarti» concluse, guardando Abigail dritta negli occhi. «Da queste parti è raro che accada qualcosa di bello. Nessun momento va sprecato.»
 
 
Quando Abigail raggiunse la spiaggia, nel tardo pomeriggio, la marea era alta e il mare molto mosso. La ragazza avanzò sulla sabbia arroventata dalla giornata di sole che si apprestava a finire. Tom era già là, in piedi vicino un albero spoglio e sbiancato dalla salsedine, nella sua uniforme cachi. Guardava l’oceano, con quella sua aria concentrata e solenne che Abigail aveva sempre trovato dolorosamente attraente.
Si fermò a qualche metro da lui. «Voleva vedermi, caporale?»
Lui si volse. I raggi del sole al tramonto donavano una sfumatura bronzea ai suoi capelli, e gli accendevano gli occhi di un calmo fuoco verdazzurro.
«Sono venuto a cercarti stamattina. E anche ieri. Ma dicevano tutti che eri impegnata.»
Abigail s’impettì. «Ed è così. Ho dozzine di pazienti da accudire, se non se ne è accorto, molti dei quali suoi amici. Quindi, qualunque cosa voglia dirmi, la prego di fare in fretta.»
Lui restò interdetto per un momento. Poi, accennò un sorriso sghembo. «Quindi ho avuto l’impressione giusta: mi stai evitando.»
«Non ti…non la sto evitando!»
«È per quello che ho detto l’altra sera?» domandò Tom, piano. «Mi dispiace se ti ho turbata. Qualunque cosa tu stia nascondendo, è giusto che la tenga per te. Ma se avrai voglia di condividerla, io ti ascolto…»
Perché? Perché doveva essere così…così dolce e gentile e comprensivo? Sarebbe stato più semplice trattarlo con freddezza se fosse stato uno stronzo!
«Io non sto nascondendo nulla» replicò Abigail, riuscendo a far tremare la sua voce solo un pochino. «Cos’è che doveva dirmi di così urgente?»
Tom la guardò. L’oceano lanciava spruzzi di luce spumeggiante sopra gli scogli vicini, in un rumoreggiare pigro e cadenzato, che si univa agli scherzi del vento salmastro e impertinente. «Domani parto per la prima linea.»
Abigail sperò con tutto il cuore di aver capito male. «La…prima linea.»
«Il generale Mackenzie mi ha promosso tenente dopo il recupero del pilota» spiegò Tom. «Mi ha anche affidato una piccola unità, raggiungeremo il Secondo Devonshire per preparare l’attacco. Conta di prendere la collina di Bellewaerde entro l’inverno.»
Abigail guardava le sue labbra muoversi, ma c’era un frastuono assordante nella sua testa, che superava persino il fragore delle onde.  «E…e tu hai accettato?» fu tutto ciò che riuscì a dire.
Lui aggrottò la fronte. «È un grande onore, non potevo rifiutare.»
«Un onore?»
S’immaginò Tom aggrappato al suo fucile, in quell’orribile fosso avvolto dal filo spinato, ad appena diciotto miglia di distanza da lei… lo vide battere i denti per il gelo, sotto la pioggia e la neve, in attesa di essere mietuto dalle bombe e dai gas velenosi…
Cosa poteva esserci di onorevole in tutto questo?
«Mi sono arruolato per fare la mia parte» disse Tom. «Mackenzie è fiducioso, pensa che con le informazioni di Draper potremmo riuscire a infliggere un duro colpo ai tedeschi, magari costringerli a ritirarsi, dare una svolta decisiva alla guerra…»
Ad Abigail scappò una risata aspra. «Ritirarsi? Perché forse riuscirete a prendere una maledetta collina? Non posso credere che siate così stupidi!»
«Bisogna fare un tentativo, Mackenzie dice…»
«Non mi interessa cosa dice Mackenzie!» gridò Abigail. «Era disposto a mandare sei ragazzini, un medico e un’infermiera in Terra di Nessuno pur sapendo benissimo che era un suicidio! Credi che gli importi qualcosa di te? O dei tuoi uomini..?»
«James ha accettato di andare» disse Tom, con la massima serietà. «Se lui va, devo seguirlo.»
Abigail sentiva il sangue pulsare furiosamente. Strinse forte le labbra, s’impose di non cedere alle lacrime. «Perché stai dicendo queste cose proprio a me?»
«Non lo so, pensavo solo che dovessi saperlo. Perché siamo amici…»
«Io non sono sua amica, tenente» disse Abigail, gelida. «Né voglio diventarlo!»
Lui tacque, scrutandola con una tale rovente intensità che Abigail si sentì andare a fuoco. «Va bene, le chiedo scusa» disse infine. «Abbia cura di lei, miss Abigail.»
Le voltò le spalle e si allontanò lungo la spiaggia.
Abigail aveva il respiro pesante come dopo una corsa. «Tom…»
Non poteva lasciarlo andare. Non poteva.
Mosse un primo passo incerto, poi un altro. Subito dopo, si ritrovò a correre come se avesse le ali ai piedi.
Lo raggiunse prima di quanto aveva calcolato. Tom si voltò, ma lei non gli diede tempo di dire nulla, e lo tirò a sé in un bacio disperato. Lui le chiuse il viso tra le mani, delicatamente, come se fosse qualcosa di fragile e prezioso. Le sue labbra erano calde e avevano il sapore del sale.
Abigail si staccò con riluttanza. «Devi tornare. Torna, hai capito?»
«Tornerò» promise lui, asciugandole le lacrime col pollice.
Si chinò per baciarla ancora, ma Abigail si divincolò dal suo abbraccio e scappò via.
 
Le faceva male il cuore. Le sembrava di impazzire.
Ritornò all’Océan senza fiato, evitando di incrociare le sue amiche. Aveva bisogno di rimettersi al lavoro. Solo questo, sentire di star facendo qualcosa di buono per qualcuno.
Andò ai bagni, si sciacquò il viso, si soffiò il naso. Non poteva farsi vedere col cuore a pezzi dai soldati. Le infermiere dovevano dimostrarsi forti in qualunque occasione. Erano state mandate lì in qualità di angeli custodi, per guidare quegli uomini nella loro missione. E proprio come gli angeli dovevano essere spietate se necessario.
Annodò la cuffia mentre si avvicinava al letto di uno dei suoi pazienti. Il nome riportato sulla sua cartella clinica era Rasquinet, ma la grafia frettolosa dei medici lo faceva somigliare a “Ragtime”. Perciò, ormai per tutti era Ragtime.
Aveva ventitré anni ed era entrato all’Océan in condizioni pietose, con ustioni gravissime e fratture multiple alla colonna vertebrale e alla testa, in seguito all'esposione di una mina. I medici lo avevano tenuto sotto cloroformio per giorni, mentre discutevano sul modo migliore per salvarlo.
Abigail gli misurò la temperatura, controllò le condizioni delle sue fasciature e che la flebo scendesse regolarmente.
Non puoi salvarli tutti. Era stata una delle prime cose che aveva dovuto imparare ad accettare da quando lavorava all’Océan. Di tutti i soldati che venivano scaricati da loro, solo una parte sarebbe sopravvissuta. Molti erano troppo malconci, o erano stati ricoverati troppo tardi.
Di nuovo, la sua mente creò un’immagine che Abigail rifiutava di accettare, quella di Tom sdraiato sul letto al posto di Ragtime, il volto irriconoscibile per via delle ferite, gli stupendi occhi grigio-verdi iniettati di sangue…
«Il cuore tenero è sempre stato il tuo più grande pregio e la tua condanna, bambina.»
Ad Abigail venne quasi un colpo. Ragtime la stava fissando con una luce diversa nell’unico occhio, fredda e controllata. Si era anche rizzato a sedere, cosa che non avrebbe dovuto poter fare. Come non avrebbe dovuto poter parlare.
«R-Ragtime?» sussurrò lei.
«Per i Fondatori, ovviamente no!» fece il soldato, le labbra gonfie piegate in una smorfia. «Questo idiota ha un trauma al lobo frontale sinistro.»
Abigail non credeva alle proprie orecchie. Indietreggiò, inorridita. «Papà!?»
Il soldato piegò la testa di lato, e il suo collo emise uno schiocco agghiacciante. «Piuttosto macabro, lo so. Ma era l’unico modo per costringerti a parlare con me.»
«Esci immediatamente dal corpo di quest’uomo!» sibilò Abigail, dopo essersi assicurata che nessuno fosse nelle vicinanze. «Non puoi usare i Mancanti come pupazzi da ventriloquo! E poi, ci sono delle ottime ragioni se mi rifiuto di parlare con te!»
«Sai bene che io e te sopravviveremo a tutti in questo posto» le ricordò l’Inquisitore Blackthorn, attraverso la bocca di Ragtime. «Tanto vale che la piantiamo con questa ridicola sceneggiata: non potrai tenermi il broncio per tutta la vita!»
Abigail era allibita. «Io non ti sto tenendo il broncio. Non ho cinque anni.»
Blackthorn sistemò il corpo di Ragtime in modo da star comodo tra i cuscini. «Va bene. Parliamo di cose serie, allora. Chi è il ragazzo?»
Abigail deglutì. «Non so di chi parli.»
«Il ragazzo» ringhiò suo padre, scandendo ogni sillaba. «Il sudicio Mancante che ti ha messo le mani addosso sulla spiaggia!»
Abigail sentì il sangue defluirle dal volto. «Tu... eri lì?»
«Sono settimane che provo ad abbattere le tue barriere mentali» confessò suo padre. «Per vedere ciò che vedi tu e capire dove accidenti ti sei cacciata. Ci sono momenti in cui la tua Volontà vacilla e riesco ad aprirmi delle crepe. E in questi giorni hai lasciato che se ne creassero molte.»
«Smettila di spiarmi!» sbottò Abigail. «Quello che faccio qui non deve interessarti!»
«Voglio che quel Mancante stia lontano da te» stabilì Blackthorn, guardandola duramente attraverso Ragtime. «E che qualsiasi ridicola fantasia romantica tu abbia nella testa svanisca. Mi sono spiegato, Abigail?»
«Tu non hai nessun diritto di dirmi cosa fare o cosa provare!»
«Il mio è un avvertimento» disse Blackthorn e l’occhio sporgente di Ragtime scintillò in un modo che non piacque ad Abigail. «Non permetterò che il nostro sangue venga inquinato dalla feccia Mancante. Dimenticati di lui o…»
«…o cosa?» lo sfidò Abigail
Ragtime scrollò le spalle. «I Mancanti sono creature così fragili, e in una guerra si può morire in mille modi. Un fucile che si inceppa, un proiettile che cambia traiettoria all’improvviso…»
La rabbia esplose nel petto di Abigail, così feroce da stordirla.  Afferrò da una ciotola un bisturi, brandendolo a mo’ di pugnale. «Sta’ zitto!»
«Lui non è degno di te, bambina mia. Questo mondo non è degno di te. Torna ad Arcanta e dimentica questo dolore inutile che ti stai infliggendo. Quel Mancante è spacciato. Tutti lo sono.»
«Ti ho detto di smetterla!»
«Thorn!»
La tenda-séparé si scostò, rivelando il volto scioccato di Fanny. «Ma che hai da strillare? C'è gente che riposa!»
Abigail si voltò di scatto verso il letto. Suo padre aveva abbandonato il corpo del soldato, di nuovo immerso nel sonno profondo dato dagli antidolorifici. Nascose il bisturi dietro la schiena. «Oh, sì, io…mi dispiace.»
L’espressione di Fanny si fece preoccupata. «Ehi, sicuro che vada tutto bene? Hai una faccia…»
«Ma certo» rispose lei, cercando di sorriderle. «Va tutto bene, tranquilla!»
E si allontanò in fretta, prima che notasse il tremore delle sue mani.

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Capitolo 24
*** l'istituto ***


 


L’ISTITUTO

 
 

 
Sarajevo, 3 luglio 1914


Nelle ore successive all’arresto, Zora venne condotta alla stazione di polizia di Sarajevo, sotto una leggera pioggerellina estiva; le furono confiscati tutti i suoi oggetti personali, scattate alcune foto segnaletiche, e, infine, venne rinchiusa in manette dentro una stanzetta squallida, provvista solo di un tavolo e di tre sedie. L’avevano fatta sedere di fronte a due poliziotti, che avevano iniziato a tempestarla di domande. Il primo, un bosniaco tozzo, scuro e baffuto, le si era rivolto con gentilezza, chiedendole solo di confermare le sue generalità, nome completo, data e lugo di nascita, domicilio. Ma il vero interrogatorio era stato svolto dal collega, un biondissimo e gelido austriaco: in che rapporti era con Krsta Grabež? Dove si trovava il suo complice in quel momento? Quanto ne sapeva lei della Mlada Bosna? Era vicina alla loro causa? Aveva conosciuto in maniera diretta altri membri dell’organizzazione? Aveva mai parlato con Gavrilo Princip? E con un certo Tankošić? Ma, soprattutto, cosa ci faceva la sera del 27 giugno all’Hotel Bosna, nella suite di Francesco Ferdinando e di sua moglie?
Zora si rifiutò di rispondere, barricandosi dietro un silenzio caparbio. Allora era tornato all’attacco il primo poliziotto, quello gentile: «Vogliamo solo accertarci di aver preso le persone giuste, madame. Sarebbe in grado di identificare i membri dell’organizzazione?»
Ancora una volta, Zora non fiatò. Le uniche parole che uscirono dalle sue labbra erano sempre le stesse: «Chiamate Josef Zeman, dello studio legale Zeman. Parlerò solo con lui.»
La tennero lì dentro per almeno cinque ore, dopodiché, appurato che non sarebbero riusciti a cavare un ragno dal buco, la spedirono in una grande cella comune.
Zora trascorse la notte lì, senza chiudere occhio e senza abbassare la guardia nemmeno per un istante, circondata dalla peggior feccia della città, prostitute, ubriache e balorde, che pestavano i piedi come scimmie e urlavano ingiurie contro le guardie. Zora, invece, faceva finta di non esistere, seduta all’estremità di una panca, tesa e guardinga, stringendosi addosso il suo elegante cappotto color vinaccia, unico avere che fosse riuscita a portare con sé. Si sforzava in tutti i modi di non cedere alla disperazione, di mostrarsi calma e forte, e di ignorare il tanfo di corpi non lavati e il baccano della gentaglia intorno a lei. E intanto, nella sua mente stordita, continuava a tuonare disperatamente sempre la stessa domanda: che diamine ci faccio io qui?
Malgrado da quando era arrivata non avesse rivolto la parola a nessuno, evitando persino di incrociare lo sguardo delle altre detenute, ben presto le scivolò vicino una ragazza coi capelli corti e arruffati e il volto pesantemente truccato per mascherarne la giovanissima età. Prese a esaminarla da cima a fondo, con insistenza.
«Che sciccheria di cappotto, principessa. Me lo fai provare?»
Zora le scagliò un’occhiata di ghiaccio e serrò le labbra.
«E dai, non fare la stronza!» biascicò l’altra. «Vorrei proprio sapere a chi l’hai data per fartelo regalare.»
Allungò una mano per afferrarle il braccio. Zora entrò in tensione, ma un riflesso più intimo e primitivo scattò in lei prima che potesse fermarlo; tutto il nervosismo che aveva accumulato nelle ultime ore scaturì in una scossa elettrica, e la ragazza si ritrasse con un guaito.
«Toccami di nuovo» le ringhiò Zora. «E ti spezzo quella mano del cazzo!»
La prostituta sputò sulle sue carpe e borbottò un rabbioso e inconfondibile: «Puttana!»
In quel momento, la porta della cella si aprì. «Sejdić, Zora.»
Zora balzò in piedi e tirò dritto fino all’uscita, dove la aspettava un secondino. Soltanto quando le sbarre si furono richiuse alle sue spalle, urlò alla prostituta: «E comunque, il cappotto me lo sono comprato! Coi miei soldi!»
«Fossi in te me le terrei buone» le disse la guardia, scortandola lungo un corridoio. «Sanno essere peggio dei maschi.»
Zora non rispose e continuò a camminare.
Il secondino sbuffò. «Ah, dimenticavo: tu non parli. D’accordo, vediamo se questo ti aiuta a sciogliere la lingua.»
Zora iniziò a sudare freddo.
La riportò nella stanzetta dell’interrogatorio, vuota stavolta. La fece sedere al solito tavolo di fronte alle due sedie e poi uscì, lasciandola sola e ammanettata, a domandarsi con ansia cosa avrebbero escogitato per indurla a confessare.
La porta si spalancò all’improvviso. «Zora, buon Dio!» esclamò una voce, una voce rauca e meravigliosamente familiare.
La donna non riuscì a trattenere un gemito di sollievo. «Josef…!»
Josef Zeman era in piedi sull’uscio, con un ombrello in una mano e la sua ventiquattrore di pelle nell’altra, il soprabito coperto di goccioline di pioggia. «Sono corso qui appena ho saputo. Stai bene?»
Zora scoppiò a piangere senza ritegno, come una bambina.
Zeman mollò tutto su una sedia e corse da lei per abbracciarla, ma quando la donna si alzò per fare altrettanto, si ricordò tristemente di avere ancora le mani bloccate dalle manette.
«Povera, cara» commentò Zeman, addolorato. Tirò fuori un fazzoletto dalla tasca e glielo offrì. «Che situazione spiacevole! Davvero spiacevole!»
Alto, magro, coi capelli pettinati con cura per mascherare una calvizie incipiente e gli occhialetti dalla montatura dorata, Zeman era l’avvocato di Zora e Krsta dall’esordio della loro carriera; aveva frequentato l’università di Belgrado assieme a Krsta, ma contrariamente a quest’ultimo si era laureato con il massimo dei voti. I due erano rimasti comunque in ottimi rapporti, al punto che Zeman si era lasciato convincere a curare gli affari legali della coppia di imbroglioni.
Era a lui che si rivolgevano ogni volta che un cliente insoddisfatto faceva loro causa, o quando la stampa li attaccava, o quando ancora Krsta alzava il gomito e si ritrovata coinvolto in qualche zuffa.
Zeman li aveva, insomma, tenuti lontani dai guai per anni, anche quando la situazione sembrava senza via d’uscita: bastava un colpo di telefono e l’avvocato si precipitava da loro come un angelo custode, con la sua ventiquattrore piena di documenti e la soluzione a ogni problema. E Zora si augurava con tutto il cuore che potesse salvarla anche questa volta…
«Quanto è grave, Jo?» gli chiese immediatamente, mentre l’uomo toglieva il cappello e si sedeva di fronte a lei.
«Be’, non ti mentirò, mia cara, è una gran brutta storia» borbottò lui. «Ma, ovviamente, dipende da cosa hanno su di te. Che gli hai detto?»
«Niente!» rispose Zora, scuotendo la testa con foga. «Bocca cucita con chiunque, come mi hai sempre detto tu!»
«Ottimo, brava. Ora, faresti meglio a raccontarmi tutto dall’inizio.»
E, finalmente, Zora parlò. Vomitò tutto fuori, da quando Krsta era tornato a casa loro ubriaco e le aveva annunciato di aver ricevuto quel maledetto incarico da certi suoi “amici”. Gli raccontò di come lui l’aveva ricattata, obbligandola ad avvicinare la duchessa Sophia a teatro con la lettura delle carte, di come poi era riuscita a ottenere l’invito all’Hotel Bosna, e del primo, fallimentare tentativo di omicidio. E, infine, raccontò di come Krsta l’aveva piantata in asso in quella catapecchia nel bosco senza un soldo, per poi dileguarsi chissà dove.
«Quel bastardo mi ha incastrata, Jo!» singhiozzò alla fine, stropicciando il fazzoletto tra le mani. «Io non ho niente a che fare con questa storia! Devi tirarmi fuori di qui!»
«Certo, cara, ti credo» disse lui, dandole delle piccole pacche sui dorsi delle mani. «Ma ho paura che non sarà semplice: è morto un membro della famiglia imperiale, tesoro, non è una cosa da poco! Li hai letti i giornali? Vienna ha minacciato di invadere la Serbia, la chiamano “la resa dei conti definitiva” …e c’è chi parla del possibile coinvolgimento della Germania. Questa storia non finirà tanto presto.»
Zora tirò rumorosamente su col naso, sentendo che era in arrivo un’altra crisi di pianto. Quei discorsi per lei non avevano il minimo senso. Niente di ciò che le stava accadendo aveva senso. «Ma io sono innocente!»
«Lo so, Zora…ma, voglio dire, Madame Salomé era , all’Hotel Bosna! Ti hanno riconosciuta tutti.»
«Ho solo fatto le carte, non ho cercato di far fuori nessuno!»
«L’unico modo per dimostrarlo è trovare Krsta» disse Zeman. Aprì la valigetta ed estrasse un taccuino e una stilografica. «Hai idea di dove possa essere andato? Da qualche parente o amico...? Ti ha menzionato forse un posto…?»
«Immagino che abbiano già provato dai suoi genitori, a Pale.»
«È il primo posto dove sono andati.»
Zora scosse sconsolatamente il capo. «Conosci Krsta, lui agisce e basta! E io vengo a sapere cosa ha combinato quando ormai ci sono dentro. L’unico nome che ho è quello di un certo Nedeljko…»
Zeman sospirò. «Sì, sanno già tutto di Nedeljko Čabrinović. L’hanno arrestato e interrogato giorni fa. È stato proprio lui a fare il nome tuo e di Krsta. Qualcun altro? Potremmo avere un vantaggio in tribunale se consegniamo il resto dei congiurati.»
Malgrado la stanchezza e il terrore le rendessero difficile restare lucida, Zora si spremette le meningi, cercando di riportare a galla le conversazioni avute nell’ultimo periodo con Krsta, tutte le sue chiacchiere confusionarie. «C’era quel…come si chiamava? Vladimir…Vladimir, sì!»
«Vladimir Gaćinović , intendi?»
«Sì! Proprio lui. Me lo sono ritrovato a casa una sera, assieme a quel Princip.»
«È emigrato in Svizzera il mese scorso.»
Zora emise un sibilo frustrato. «D’accordo, aspetta c’erano anche…Popović, e poi Čubrilović, sì! Krsta li ha nominati spesso! Erano compagni di università…»
Zeman segnò qualcosa sul taccuino. «Čubrilović è già in arresto, ma Popović, magari… Sì, potrei partire da lui. In fondo, è meglio di niente.»
Una mano decisa batté sulla porta.
Zeman ripose taccuino e penna nella valigetta. «Abbiamo terminato il tempo a nostra disposizione. Porta pazienza, farò il possibile per risolvere la cosa.»
Prima che si alzasse, Zora gli afferrò le mani. «Jo, ti prego! Non sono una criminale, se resto qui io impazzisco!»
«Farò il possibile» ripeté lui, accennando un sorriso che avrebbe dovuto essere rassicurante. A Zora, invece, sembrò solo compassionevole. La stava già dando per spacciata? «Abbi cura di te, tesoro.»
Zora farfugliò qualche altra supplica, ma una guardia si affacciò alla porta e scortò fuori l’avvocato. Poco dopo vennero a recuperarla per riportarla in cella.
Quando rimise piede nel maleodorante stanzone pieno di sconosciute volgari e chiassose, Zora realizzò di essere una donna finita. Finiti gli imbrogli, finite le scappatoie. Finite le cene a più portate, le serate di gala, finiti gli agi e la sfacciata fortuna. Stavolta, Madame Salomé non sarebbe riuscita a farla franca.
Nella migliore delle ipotesi, sarebbe marcita in gattabuia. Nella peggiore, non avrebbe mai più dovuto preoccuparsi di vivere tra fame e stenti…
Si installò sul limite della panca dove aveva trascorso l’ultima notte, lo sguardo assente e le mani abbandonate in grembo.
«Come è andata, principessa?» cantilenò una voce dall’altro capo della stanza. «Il principe azzurro non è venuto a salvarti?»
Era la giovane prostituta che le aveva sputato sulle scarpe. La ragazza sorrise con cattiveria, poi si passò un dito sulla gola sudicia, a imitare la lama di un coltello.
 
 
Non ebbe più notizie da Zeman per un’intera settimana.
Gli interrogatori continuarono incessanti, ma Zora restò fermamente decisa a non spezzare il silenzio. Nemmeno quando le fu assegnato un avvocato d’ufficio, visto che il suo pareva irrintracciabile. Sebbene il legale le avesse garantito un appoggio imparziale, per Zora la sua presenza era irrilevante. Zeman era il migliore. Zeman era l’unico in grado di aiutarla, e se anche lui aveva gettato la spugna, significava non c’era più speranza per lei.
La informarono che il primo processo si sarebbe tenuto i primi di settembre, dopodiché, sarebbe stata trasferita nel carcere di Terezín, dove avrebbe scontato una pena di almeno dieci anni.
Dieci anni.
Considerando la vita che conducevano in genere i detenuti, tra epidemie di tubercolosi, violenze e condizioni igieniche ai limiti dell’umano, avrebbe finito i suoi giorni lì.
La routine degli interrogatori e dei pasti era spezzata solo dalle baruffe tra detenute, che si saltavano addosso come animali alla più stupida provocazione, costringendo spesso le guardie a irrompere per ristabilire l’ordine, con docce fredde o percosse, se necessario. Zora faceva di tutto per confondersi con le pareti della cella, calibrando ogni sillaba con estrema prudenza. Sentiva il potere scalpitarle dentro, e una parte di lei bruciava dalla voglia di sprigionarlo in tutta la sua furia. Avrebbe potuto istigare una rissa, farsi scortare in isolamento, provocare nella guardia un attacco di diarrea e fuggire, sbaragliando chiunque avesse cercato di fermarla.
Ma ogni volta che provava a rendere concreti quei pensieri, c’era sempre qualcosa che la tratteneva. Qualcosa che le svuotava i polmoni di tutta l’aria, che provocava un’impennata folle del battito cardiaco, che la paralizzava lì dov’era e ricopriva la sua pelle di sudori ghiacciati.
E quel qualcosa si chiamava paura.
Un terrore cieco si impadroniva di lei quando i passi delle guardie si avvicinavano alla cella, ogni volta che una detenuta la fissava storto, o mentre sedeva di fronte ai suoi interrogatori e leggeva il freddo disprezzo nei loro sguardi, soffocando qualsiasi desiderio di ribellione.
Krsta l’aveva ingannata e usata. Ma era sempre stata la paura ad addomesticarla.
Zeman riapparve dopo dieci giorni.
Zora fu convocata per l’ennesima volta nella stanzetta degli interrogatori, ma ad attenderla trovò il suo avvocato.
La porta fu chiusa con uno schianto e la chiave girò nella serratura, dopodiché, per un lungo momento, tra i due regnò un silenzio tombale.
«Ci ho messo più del previsto, lo so» esordì lui, con aria colpevole.
Zora gli sarebbe volentieri saltata alla gola, ma tutto ciò che disse fu: «Ce l’hai una sigaretta?»
Zeman frugò nelle tasche finché non trovò un pacchetto. Lei, nel frattempo, aveva già preso posto, e lasciò che fosse lui ad accendergliela, come ai tempi in cui si sentiva potente come Cleopatra, e guardava agli uomini come adoranti servitori.
Zora succhiò lentamente una boccata, e le sembrò di essere finalmente tornata a respirare.
«Allora» disse, soffiando via il fumo e lasciando cadere la cenere per terra. «Sei tornato con qualcosa per le mani? Perché, in caso contrario, potevi risparmiarti il viaggio. Non so che farmene del tuo dispiacere.»
«In verità, qualcosa ce l’ho» disse lui, piano.
Zora lo fissò, mentre il fumo si librava in pigre volute. «Dalla tua espressione, immagino tu stia per darmi una notizia buona e una notizia cattiva.»
«Da quale vuoi cominciare?»
Zora fece un altro tiro ed espirò dalle narici. «Fanculo, cosa può esserci peggio di questo?»
«Krsta è morto.»
Il respiro di lei inciampò. Ci volle qualche istante prima che riuscisse di nuovo a trovare la voce. «Come?»
«Annegato. Dei pastori hanno trovato il suo corpo sulle rive del fiume Unna, vicino Bosanski Novi, al confine con la Croazia. È un tratto insidioso, con rapide e mulinelli. E se si prova a guadarlo di notte…»
«Sì, Krsta sarebbe così stupido da provarci.»
Zora provò a sondare le proprie emozioni riguardo quella notizia. L’uomo con cui aveva condiviso quattro anni della sua vita, tra alti e bassi, tra menzogne e piccole vittorie, che le aveva donato la salvezza e poi l’aveva rovinata, non c’era più. Era morto, finito. Scomparso per sempre.
Se l’era cercata, questo era sicuro. Ma come la faceva sentire la cosa? Triste? Felice?
Proprio come quando lo aveva guardato negli occhi, prima dell’attentato al Bosna Hotel, non trovò niente nel suo cuore, se non desolazione.
«A questo punto, temo che non sia rimasto più nessuno a testimoniare in tuo favore» decretò Zemen, tristemente. «Dagli interrogatori ai congiurati è spuntato più volte il nome tuo e di Krsta, gli incontri a casa vostra. Sei a tutti gli effetti complice dell’assassinio dell’arciduca.»
Zora guardò la sigaretta che veniva mangiata lentamente dal fuoco. «In poche parole, sono fottuta.»
«Non del tutto» disse Zeman. «E qui veniamo alla seconda notizia.»
«Non hai detto che è quella buona.»
«Questo sta a te valutarlo.»
L’avvocato aprì la sua valigetta magica, quella che di solito conteneva sempre un trucco per tirarla fuori dagli impicci. Stavolta, tirò fuori un plico di documenti, che fece scivolare sul tavolo verso di lei.
Perplessa, Zora avvicinò i fogli e li esaminò. «Gellert Insistute. Che roba è?»
«Un centro di ricerca sull’eugenetica. È stato fondato a inizio secolo, a qualche miglio dalla cittadina tedesca di Schraplau.»
Zora alzò gli occhi dalle carte. «Di che accidenti stai parlando?»
«Be’, non sono un esperto» ammise Zeman, spingendo gli occhialini in cima al naso. «Ma da quel che ho capito, al Gellert si studia il patrimonio genetico delle persone, allo scopo di eliminare i mali che affliggono la società: demenza, omosessualità, isteria, cose così.»
«Cioè è un cazzo di manicomio.»
«Nei manicomi si curano le persone malate» la corresse lui. «Il Gellert invece cerca un modo per impedire che la gente si ammali, selezionando un campionario di individui idonei alla sperimentazione. E accettano soltanto adesioni volontarie.»
Zora arricciò le labbra. Ancora non riusciva a vedere la differenza coi manicomi. Anche lì, da quel che aveva sentito, spacciavano la maggior parte delle iscrizioni per “volontarie”. «Perché me ne stai parlando?»
«Qualche giorno fa ho ricevuto una telefonata del direttore, il dottor Volmer» spiegò Zeman. «Ha saputo delle tue disavventure dai giornali, e ha presentato la richiesta di farti entrare nel progetto.»
«Io non ho intenzione di farmi internare in manicomio!»
«Non è un manicomio.»
«Chiamalo come cazzo ti pare!» sbottò Zora, innervosendosi. «È assurdo! Mi stai dicendo che l’unico modo per evitarmi dieci anni di carcere è spacciarmi per una malata di mente?»
«Il dottor Volmer non pensa che tu sia una malata di mente» replicò Zeman, paziente. «Vede in te un interessante caso di studio. Segue la tua carriera da anni, ha assistito addirittura ad alcune performance di Madame Salomé. Tu parli con gli spiriti, prevedi il futuro. Desidera solo comprendere come fai.»
Lei gli rise in faccia. «Infatti, non lo faccio. Cazzo, Jo, è tutta una montatura e lo sai benissimo!»
«Lo sappiamo tu ed io» disse l’avvocato, guardandola fisso. «E lo sapeva Krsta. Ma le altre persone? Ho trascorso quattro anni a convincere i polli che spennavate che quel che facevate era reale, che tu sei una medium e non un’impostora. E anche questo Volmer pare che ci creda!»
Zora spense la sigaretta, schiacciandola contro il ripiano del tavolo. «Sono indagata per omicidio, Josef. Pensi che le autorità austriache mi lascerebbero partire per una vacanza perché c’è una specie di Frankenstein interessato allo spiritismo?»
«È qui che arriva il bello!» Zeman rovistò ancora una volta nella sua valigetta da prestigiatore, ed estrasse l’ennesimo documento. «Il dottor Volmer ha stilato un profilo clinico su di te, in base alle informazioni reperite negli anni. Secondo lui, potresti essere affetta da una rara forma di nevrosi, che porta l’individuo…» E qui sistemò gli occhiali e iniziò a leggere direttamente quel che era riportato sul documento. «“A dissociarsi temporaneamente dalla realtà, vedere e sentire cose che nessun altro percepisce, sviluppare personalità multiple, che ne governerebbero a turno il pensiero e le azioni.”»
Furente, Zora digrignò i denti. «Io non ho niente di tutto questo! Non sono pazza!»
«Certo che non lo sei! Ma, ragiona, se convincessimo il giudice che le tue azioni sono state causate da un attacco di nevrosi…non avrebbe alcun motivo per incarcerarti! Non eri in te quando hai attentato alla vita dell’arciduca!»
Zora poggiò la schiena alla sedia e incrociò le braccia, ribollendo di collera. «E basterebbe la parola di questo dottor Volmer a spacciarmi per una visionaria?»
«Una squadra di medici sta analizzando il profilo redatto dal dottor Volmer, proprio mentre ne stiamo parlando» disse Zeman. «Il suo nome gode di grande rispetto nella comunità scientifica. Se dovessero ritenerlo valido, saresti trasferita immediatamente nel suo istituto, in modo da analizzare accuratamente il tuo caso. Significa che in poco tempo saresti fuori di qui!»
Zora però continuava a essere profondamente scettica. «Dalla padella nella brace.»
«Te l’ho detto, il Gellert non è un centro di detenzione, né un ospedale» ribadì l’avvocato. «È più simile a un’università! Avresti una stanza tutta tua, cibo, letture. Passeresti le giornate passeggiando nel parco, e ogni tanto ti verrà chiesto di parlare con uno dei loro strizza cervelli, o di guardare…che ne so, delle figure astratte disegnate, e dirai se ci vedi un cigno o un corpo smembrato. Il tutto senza guardie, né manette, né sbarre alle finestre. Andiamo, Zora, sarebbe davvero così terribile?»
Lei soppesò la cosa. Quella faccenda non la convinceva per niente. Già il solo fatto che questo presunto dottor Volmer la tenesse sott’occhio da anni la turbava, ma che si fosse addirittura permesso di redigere un profilo psicologico su di lei…
Zora era stata tante cose nella sua vita, una ladra, una bugiarda, un’approfittatrice. Non ne andava fiera, questo no, ma sapeva che, se aveva fatto ciò che aveva fatto, era stato solo perché era ben intenzionata a sopravvivere. Con ogni mezzo.
«Se firmo» disse, la voce che tremava. «Se accetto di farmi rinchiudere…che succederà dopo? Per quanto resterò lì?»
«Il tempo sufficiente perché le acque si calmino» rispose Zeman. «L’Impero sta attraversando una crisi, ha gli alleati sul collo e una ribellione in corso. Presto, gli Asburgo avranno troppe rogne a cui badare per preoccuparsi di cosa è accaduto a quel branco di disperati responsabili della morte dell’arciduca. In fondo, non era un uomo così amato, anche nella sua stessa famiglia.»
«Quindi, sarebbe per poco?»
Zeman rimosse gli occhiali e li pulì con l’orlo della giacca. «Zora, guardiamo in faccia la realtà: non hai speranze di uscire pulita dopo il processo, e ti aspettano dieci anni di carcere duro. Conosco bene Terezín, buona parte dei detenuti muore prima di aver scontato metà della pena. Già per un criminale con la scorza dura sarebbero dieci anni d’inferno. Ma un fiore delicato come te…non sopravvivrebbe all’inverno.»
Zora deglutì con fatica. Aveva la gola prosciugata.
Zeman le avvicinò i documenti e la penna.
«Dagli almeno un’occhiata» la incoraggiò, con voce gentile. «C’è scritto tutto, ogni singola clausola. Come ho detto, al Gellert accettano solamente adesioni volontarie e ci tengono alla trasparenza.»
Zora si morse il labbro e fissò il muro di parole stampate sulla carta, nero su bianco. Solo nella prima riga c’erano una dozzina di termini medici sconosciuti e assurdamente lunghi. Non si considerava un’illetterata e nemmeno una sprovveduta, ma avrebbe potuto rileggere quel documento cento volte e non sarebbe riuscita a capire nemmeno la metà di ciò che vi era scritto. E avevano pure il coraggio di chiamarla “trasparenza”!
«Dopo ciò che hai fatto, tornare indietro è impossibile» sospirò Zeman. «Devi solo decidere in che direzione vuoi andare.»
Zora prese tempo.  Sfogliò il blocco di carte, almeno quaranta pagine di cazzate mediche senza senso.
Ancora una volta, si trovava di fronte a un bivio, come quando aveva incontrato Krsta. Anche lui l’aveva spesso posta davanti a una scelta: una vita di povertà e sacrifici, seppur onesta, da un lato, menzogne, ricchezza e potere dall’altro.
La strada ripida o quella in discesa? Integrità o guadagno? Per Zora non c’erano mai stati dubbi a riguardo.
Eppure, perché in quel momento esitava? Forse perché, in cuor suo, aveva capito che qualcosa non andava? Che Zeman forse non le aveva raccontato tutta la verità…?
Hai sempre scelto la via più facile, e ti ha portata qui. E se, per una volta, scegliessi quella più dura? E se, per una volta, riuscissi a essere coraggiosa?
Ma eccola che ritornava.
La paura.
Il gelo paralizzante di chi si trova sull’orlo dell’abisso e non ha neanche la forza di guardare verso il basso. Era così che Zora si era sempre sentita. Troppo impaurita per fare la cosa giusta.
E, ancora una volta, come tutte le volte, lasciò che la paura avesse la meglio.
Rimosse il tappo alla penna. «Dove devo firmare?»

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Capitolo 25
*** I corvi ricordano ***



I CORVI RICORDANO

 
 
Tre primavere trascorsero in fretta ad Hurtgrove Hall, dove il tempo sembrava non passare mai, e portarono con sé l’infanzia di Jonathan e Solomon Blake.
Lord Alastor insistette perché il figlio maggiore, ormai quindicenne, lasciasse perdere definitivamente i giochi e si dedicasse alla magia con assiduità:
“Fra un anno esatto, ti presenterai al cospetto degli Arcistregoni di Arcanta” aveva stabilito. “E farai in modo che uno di loro ti scelga come allievo. Il fallimento non è un’opzione.”
L’addestramento di Jonathan si intensificò, sotto l’attenta supervisione del padre. Gli unici intermezzi venivano offerti dai ricevimenti organizzati dalla madre, incaricata dal marito di orchestrare un matrimonio vantaggioso per il primogenito, che gli spianasse la strada una volta ad Arcanta.
Erano praticamente gli unici momenti che lady Blake trascorreva coi propri figli da sobria. E non si trattava di momenti piacevoli…
«Quasi la preferisco quando è chiusa nelle sue stanze a bere» bisbigliò Solomon un giorno, seduto accanto al fratello in salotto e costretto ad assistere all’ennesima, patetica recita della madre. Lavinia aveva invitato per un tè pomeridiano una sua cugina, lady Keating, appartenente a un’illustre famiglia di maghi, e la figlia Miranda, una ragazza scialba, almeno cinque anni più vecchia di Jonathan.
Mentre le due dame chiocciavano tra torte e pasticcini, Miranda sedeva rigida sul sofà di fronte ai fratelli Blake, sorseggiando dalla sua tazzina in maniera meccanica; era alta e secca come un manico di scopa, di un pallore giallognolo, enfatizzato dalla tonalità rosa petalo del vestito. Da quando era arrivata, non aveva sorriso nemmeno una volta.
“Somiglia a un cavallo” era stato il primo commento di Solomon.
Imbarazzato, Jonathan gli aveva tirato una gomitata. “Chiudi il becco! Se nostra madre ti sente…”
“Un cavallo molto grazioso” si era corretto Solomon, le labbra piegate in un sorriso perfido. “Da parata. Guarda, le hanno messo pure le piume in testa!”
“Sei un idiota.”
“Magari è simpatica. Sì, ha proprio l’aria di una che fa sganasciare dal ridere. Ti conviene non lasciartela scappare!”
Jonathan l’aveva fissato truce. “Quando arriverà il tuo turno ne riparliamo!”
“Col cavolo che mi sposo.”
“Non sta a te deciderlo, e lo sai.”
Solomon aveva guardato il fratello, con un sorrisino storto. “Io sono lo storpio di casa Blake, l’inutile Senza Poteri. Madre non riuscirà a trovarmi una maga da sposare, per quanto disperata. L’onore è tutto tuo!”
«Jon, caro.» Lavinia interruppe la conversazione con lady Keating per rivolgere a Jonathan un sorriso così tirato da risultare minaccioso. Si era resa presentabile adottando un mix di belletto e magia per acquisire un colorito sano e l’aria fresca e riposata, ma le sue mani tremavano per l’astinenza da alcol. «Perché non porti la dolce Miranda a visitare il giardino? È una così bella giornata! Sarà un’occasione per conoscervi…»
«Sì, Jonny caro» le fece il verso Solomon, sogghignando. «Già che ci sei, dalle anche una spazzolata e uno zuccherino.»
«…E tuo fratello sarà felice di farvi da accompagnatore» aggiunse Lavinia, fulminando Solomon con lo sguardo. Davanti all’espressione agghiacciata di lui, Jonathan si tuffò nella tazzina per affogare una risata.
Fu un vero martirio. Solomon trascorse il pomeriggio camminando cinque passi dietro Jonathan e Miranda, mentre passeggiavano a braccetto tra le aiuole in fiore. L’unico aspetto positivo era che avrebbe avuto parecchio materiale con cui prendere in giro il fratello, visto che aveva modo di origliare i suoi goffi tentativi di conversazione.
Quando le signore Keating lasciarono Hurtgrove Hall, e Lavinia riuscì a strappare loro la promessa di un successivo incontro, i due ragazzi furono finalmente liberi.
«La prossima volta, io mi do malato!» annunciò Solomon, guardandole andar via dalla cima delle scale d’ingresso.
«I maghi non si ammalano» gli ricordò Jonathan.
«Ma io non sono un mago. Ehi, ti va una cavalcata? Vediamo chi arriva prima al Vallo di Offa! Abbiamo ancora qualche ora prima che faccia buio.»
Jonathan sospirò. «Devo studiare. Padre mi starà già aspettando in biblioteca.»
«Ma stai sempre a studiare!»
«Per lui è importante» replicò Jonathan, mestamente. «Devo essere il migliore quando sarò ad Arcanta. O non verrò scelto.»
Imbronciato, Solomon affondò le mani nelle tasche e calciò via un sassolino. «Certo. Lo so. Divertiti.»
«Ci rifaremo, Sol, promesso…» tentò Jonathan, ma suo fratello si stava già allontanando a grandi passi. 
 
L’autunno passò, soffiato via dai violenti temporali di novembre.
Una sera, la famiglia Blake era riunita nella sala da pranzo, immersa in una penombra sepolcrale a stento dissipata dai candelabri che, fluttuando sopra la tavola, depositavano sull’argenteria deboli riflessi dorati. Oltre le vetrate il vento gemeva forte, come una bestia agonizzante.
La servitù Mancante aveva appena servito la cena, per poi lasciare con discrezione la stanza, quando lord Alastor fece un annuncio: la settimana successiva, lui e Jonathan sarebbero partiti per il Long Mynd, un altopiano di brughiere impervie nel sud della Contea.
«Saremo di ritorno in primavera» decretò, nell’attonito silenzio. «Una volta che Jon avrà completato il suo addestramento. Ho già predisposto tutto, ci stabiliremo nel bwthyn di famiglia e avremo viveri a sufficienza.»
«È proprio necessario?» domandò Lavinia, da un’estremità del lungo tavolo. I suoi occhi apparivano come al solito offuscati dai numerosi calici di vino, ma c’era un furore nuovo nel modo in cui stava fissando il marito. «L’inverno è alle porte, e lassù il tempo è imprevedibile.»
«Siamo maghi» ribatté Alastor, continuando a tagliare la sua bistecca. «Per noi niente è imprevedibile. E poi» aggiunse, scagliando uno sguardo bieco su Solomon. «Qui Jon ha troppe distrazioni.»
«Ma è soltanto un ragazzo!» protestò la madre.
«Nostro figlio presto affronterà Arcanta» ringhiò lo stregone. «Ha bisogno di temprarsi, di imparare cosa significa sopravvivere. Io lo trasformerò in un vero predatore.»
«O in un mostro» sibilò Lavinia, disgustata. «Proprio come te!»
Per tutto il tempo, l’interessato stette seduto in mezzo al padre e alla madre senza dire una parola, con lo sguardo fisso sulla sua zuppa. Sembrava fosse sul punto di vomitarci dentro. Solomon, che gli era di fronte, cercò di attirare la sua attenzione dandogli dei colpetti con la scarpa, o facendo le boccacce per strappargli un sorriso, ma Jonathan non ebbe alcuna reazione. Era come se fosse da tutt’altra parte.
«E comunque, la decisione è presa» concluse Alastor Blake, portando alle labbra un calice intarsiato. «Quando avrò finito con lui, niente al mondo sarà in grado di spezzarlo.»
 
Partirono al sorgere dell’alba.
Nessuno si era preso la briga di svegliare Solomon, ma tanto lui non aveva chiuso occhio. Si precipitò in pigiama giù per le scale e raggiunse correndo Jonathan e suo padre, che si apprestavano a montare a cavallo.
«Gli darò la carica tutti i giorni!» esclamò, riprendendo fiato. «L’orologio. Come ti avevo promesso.»
Jonathan si era limitato ad annuire, pallido e serio.
«È ora di andare» disse Alastor, dando uno strattone alle briglie. «Muoviti, Jon!»
Solomon guardò impotente suo fratello. Avrebbe voluto dirgli così tante cose, ma tutto quello che riuscì a borbottare fu: «Fai attenzione.»
«Anche tu» replicò l’altro, facendo voltare il cavallo. «Ciao, fratellino.»
 
I mesi invernali si trascinarono lenti e solitari per Solomon.
Jonathan gli mancava terribilmente, ma almeno l’assenza di suo padre aveva reso meno soffocante l’atmosfera in casa; a Natale, sua madre acconsentì che ogni sala venisse addobbata con ghirlande di agrifoglio, e dalle cucine proveniva tutte le mattine un delizioso profumo di mele al forno e marzapane. Di tanto in tanto, per i corridoi si sentiva persino qualche cameriera cantare.
Quando copiose nevicate cominciarono a cadere su Hurtgrove Hall, Solomon dovette rinunciare all’esplorazione dei boschi e accontentarsi della compagnia dei libri; adesso la biblioteca era a sua disposizione, e lui ne approfittò per imparare più cose poteva sulla magia. Approfondì la filosofia che c’era dietro al Tutto, l’intimo legame che esisteva tra un mago e il Creato, restandone affascinato. Lesse le vite dei grandi stregoni del passato, da Rabbi Law, il creatore del Golem di Praga, al saggio Salomone, da cui lui prendeva nome, che aveva imprigionato con l’astuzia il potente demone Asmodeo…
Gli sembrava così ingiusto che la magia offrisse ai maghi così tante possibilità, e che a lui fossero ancora precluse.
“Anche tu un giorno compirai qualcosa di altrettanto grande” gli aveva detto una volta Jonathan. “Ne sono sicuro!”
Quando non si dedicava alla lettura, Solomon cercava disperatamente dei modi per ammazzare il tempo, per esempio col violino, ma aveva già imparato a eseguire alla perfezione le opere di Paganini e di Beethoven in un paio di settimane; il suo cervello fuori dal comune macinava informazioni a una tale velocità che finiva per perdere interesse facilmente. Niente era mai abbastanza stimolante. Niente eccetto la magia, ovvio. E questo non faceva che aumentare la sua frustrazione…
Forse la sua disabilità non gli sarebbe pesata tanto se almeno avesse avuto qualcuno con cui parlare, tipo un amico. I domestici Mancanti, crescendo, gli sembravano sempre più noiosi e mediocri, e sua madre non aveva mai molto da dirgli. Ma anche se fosse stata più loquace, non avrebbe comunque colmato il vuoto intellettuale di Solomon. Sentiva il bisogno di confrontarsi con menti che fossero alla sua altezza, che vedessero il mondo come lo vedeva lui. La sua vita era un pendolo che oscillava tra l’insoddisfazione e il tedio, fino al giorno in cui qualcosa, finalmente, riuscì a dargli una sferzata.
Una volta tanto ad Hurtgrove Hall c’era il sole, ma Solomon vi aveva preferito la rassicurante semioscurità della biblioteca. Una domestica era riuscita a convincerlo almeno ad aprire la finestra e lasciar entrare luce e aria fresca, e, a un certo punto, il ragazzo si accorse che due corvi neri si erano posati sul davanzale. Solomon stette a osservarli per un po’, mentre gracchiavano e si azzuffavano tra loro, contendendosi qualcosa che uno dei due aveva nel becco. Si ricordò di avere un libro sull’argomento, e lo cercò tra quelli accatastati sulla scrivania.
«Dal latino “corvus”, uccello appartenente alla specie dei corvidi» lesse ad alta voce, per i suoi litigiosi ospiti. «I corvi sono uccelli diurni e prevalentemente solitari… vi capisco, neanche a me piace avere i miei simili intorno. In genere, sono stupidi.»
Bevve un sorso di tè dalla tazza che aveva lasciato a ghiacciarsi sulla scrivania, e voltò pagina: «I corvi sono longevi, rigidamente monogami, e dotati di una spiccata intelligenza. Sono in grado di imparare ciò che viene loro insegnato, di riconoscere le facce, e spingere altri animali a compiere lavori per il proprio tornaconto.»
Guardò i pennuti, sforzandosi di capire per cosa, esattamente, stessero litigando. Forse un lombrico.
«Senza offesa, ma a me voi due non sembrate proprio dei geni.»
Improvvisamente, le cornacchie si separarono e volarono via, spaventate da qualcosa, e un’ombra atterrò con grazia sul davanzale; un corvo molto più grosso, la cui apertura alare sfiorava il metro. Ma la cosa stupefacente era il suo piumaggio, bianco come neve appena caduta.
Solomon mise via la tazza. Era di gran lunga l’animale più strano, inquietante e allo stesso tempo maestoso che avesse mai visto.
Il corvo albino zampettò avanti e indietro, esaminando il bottino abbandonato dagli altri due. Lo spinse via, emettendo un gracchio sdegnoso, poi girò il capo e i suoi occhietti, neri e vispi, si conficcarono in quelli di Solomon. Per qualche motivo, lui si dimenticò di respirare.
Il corvo gracchiò ancora, e puntò il becco adunco verso qualcosa alla sua destra. Il ragazzo si girò: stava indicando il sandwich che la domestica gli aveva lasciato per merenda. «Oh. Vuoi questo?»
Il corvo annuì, con un frullare eccitato di piume.
Solomon tirò fuori dal sandwich un pezzetto di prosciutto.  Con movimenti cauti, lo adagiò sul davanzale, poi compì un rispettoso passo indietro. Dopo un momento, il corvo saltellò verso il prosciutto e lo catturò nel becco affilato, mandandolo giù avidamente. Dopo molte settimane, Solomon ritrovò il sorriso. «Ti piace? Ne vuoi ancora?»
Si girò per staccare un altro pezzetto di sandwich, ma, quando tornò alla finestra, il corvo bianco non c’era più.
«Prego, eh» brontolò, deluso. «Non c’è di che!»
Decisamente, quell’uccello non conosceva le buone maniere. Solomon gli lasciò un altro po’ di prosciutto, nel caso ci ripensasse, poi chiuse la finestra e tornò ai suoi libri.
Il mattino seguente, quando entrò in biblioteca, notò uno scintillio ammiccare dalla finestra. Aprì le ante e trovò, invece del prosciutto, un ditale di metallo.  Stupefatto, Solomon corse a recuperare il suo libro sui corvi.
«Ben nota è l’abitudine di questi uccelli di impossessarsi di oggetti luccicanti» lesse. «I corvi ricordano chi è gentile con loro. E anche chi fa loro del male. In alcuni casi, dimostrano gratitudine verso l’uomo portandogli in cambio dei doni.»
Rise tra sé. «Mi sbagliavo, conosci eccome le buone maniere!»
Da allora, continuarono a scambiarsi piccoli regali.
Solomon condivideva con lui il suo cibo e, poche ore dopo, al suo posto, trovava sempre qualche sorpresa: bottoni, pietre colorate, spille da balia. Era diventato un vero e proprio rituale, un modo per Solomon di allontanare la nostalgia di Jonathan e sentirsi un po’ meno solo.
Una sera volle fare un esperimento: a cena rubò un cucchiaino d’argento dalla tavola senza che sua madre se ne accorgesse, e corse alla finestra della sua stanza per lasciarlo sul davanzale. Il mattino dopo, come immaginava, era sparito.
Quel che invece non si aspettava era che, per diversi giorni, il corvo bianco smise di fargli visita, al punto che Solomon si convinse che, forse, non sarebbe mai più tornato.
E poi, all’improvviso, riapparve: Solomon non riuscì a credere ai propri occhi quando trovò, sul davanzale, una tiara incastonata di zaffiri e diamanti. Lo stesso giorno, apprese dai domestici che i giornali non parlavano d’altro che del misterioso furto di gioielli dalla Torre di Londra. Tra i monili trafugati, figurava la coroncina di zaffiri preferita della regina Vittoria.
 
«Tu non sei un corvo come gli altri, vero?»
Erano i primi di marzo, e l’inverno stava pian piano allentando la sua morsa su Hurtgrove Hall. Solomon si trovava come al solito in biblioteca, con un libro aperto davanti a sé. Il corvo bianco gli teneva compagnia, rimpinzandosi allegramente dalla scodella di frutta che gli aveva lasciato.
Solomon lo guardò divertito, e tornò al suo libro: il poema epico Beowulf. Era arrivato al punto in cui l’eroe era partito alla ricerca del drago di Götaland; tra i suoi compagni più fidati veniva ricordato Wiglaf, colui che recise la gola della temibile bestia e strappò il tesoro dalle sue grinfie.
«Wiglaf» sussurrò Solomon. «Il Cacciatore di Tesori.»
Rivolse al corvo albino un sorriso. «Direi che come nome ti si addice!»
In quell’istate, la porta della biblioteca si spalancò, e una giovane cameriera esclamò felice: «Jonathan è tornato!»
Solomon mollò il libro e si catapultò fuori.
Una piccola folla si era raccolta per dare il benvenuto ad Alastor Blake e suo figlio. Solomon si fece largo con difficoltà. «Jon!»
Lo vide smontare da cavallo e seguire il padre fino all’ingresso, a testa china, avvolto nel pesante mantello da viaggio.
«Jon, sono qui!» gridò Solomon, sbracciandosi per attirare la sua attenzione.
Suo fratello superò la schiera di domestici, tutti inchini e riverenze, ed entrò in casa senza degnare Solomon di uno sguardo.
La cosa lo scioccò. “Forse è stanco” pensò tra sé, per stemperare la delusione.
Ma anche a cena Jonathan evitò di rivolgergli la parola, mantenendo le palpebre risolutamente abbassate sulla sua minestra; avvicinava ogni cucchiaiata alle labbra con lentezza, come se trovasse ripugnante inghiottire del cibo. Solomon continuò a fissarlo senza riuscire quasi più a riconoscerlo. Era dimagrito un sacco, e tra i capelli castani erano spuntate delle ciocche grigie.
“Ma cosa ti è successo?” avrebbe voluto urlargli.
Qualunque cosa avesse, durò nei giorni a venire. Jonathan passava ormai tutto il tempo barricato nella sua stanza, e anche nei rari momenti in cui metteva il naso fuori, sembrava facesse di tutto per evitare Solomon. Il fratello minore era sempre più confuso e spaventato da quel nuovo atteggiamento. Non riusciva a capire cosa gli avesse fatto per indurlo a comportarsi così. Invano, aveva cercato di costringerlo a parlargli, bussando incessantemente alla sua porta.
«Jon, ti prego apri!» lo supplicava. «Ti va una partita a scacchi? Facciamo tutto quello che vuoi!»
Ma la risposta seccata che proveniva dall’interno era sempre la stessa: «Vattene, Solomon! Devo studiare!»
Amareggiato, lui finiva per lasciar perdere e tornarsene in camera sua, dove almeno aveva la compagnia del corvo bianco.
Una mattina però, mentre era sdraiato sul letto a fissare il soffitto, pensando a Jonathan e sul suo strano comportamento, Wiglaf fece una cosa che non aveva mai fatto prima: lasciò la sua postazione sul davanzale ed entrò, appollaiandosi sulla testiera del letto. Solomon si mise seduto. «Oh, ciao.»
Il corvo albino inclinò la testa, guardandolo con curiosità.
«Non sono in vena di cercare tesori oggi» disse Solomon, rattristato. «Più tardi ti porto qualcosa da mangiare, va bene?»
Wiglaf emise un tenue stridio, e compì un salto fino al suo ginocchio. Solomon non sapeva come interpretare quel gesto: era la prima volta che accorciava le distanze tra loro. Qualunque cosa significasse, se ne sentì commosso.
«Grazie» mormorò. «Lo so che tu ci sei sempre.»
Allungò una mano per accarezzargli la testa. E fu come se qualcuno lo avesse spinto di prepotenza fuori dal proprio corpo, lanciandolo nel vuoto.
Improvvisamente, si trovò in aria, privo di peso. Guardò in basso e provò ad urlare, quando vide Hurtgrove Hall dall’alto allontanarsi sempre di più. Ma dalla sua bocca non usciva neppure un suono.
Stava volando. Stava realmente volando! Lottando contro la confusione e il terrore, gettò un'occhiata alle sue braccia spalancate e si accorse che non erano più braccia, ma ali ricoperte di piume bianche, che vibravano sotto la spinta del vento. Le ali di Wiglaf.
Il corvo planò sui campi ondulati e i pascoli gremiti di pecore, e poi ancora più lontano, verso la costa, dove onde ornate di spuma si rincorrevano sbuffando, e il vento gli ruggiva nelle orecchie…
Quando Solomon tornò in sé, si rese conto di non aver mai lasciato la sua stanza, di essere sdraiato sul letto, gli occhi pieni di lacrime e un sorriso enorme in faccia.
Per la prima volta nella sua vita, aveva avuto un assaggio di magia. Di vera magia, potente e antica quanto il tempo. Ed era stato inebriante.
«Avevo ragione!» esalò. «Non sei un semplice corvo…tu sei un Famiglio!»
Aveva letto moltissimo sull’argomento. I Famigli costituivano le emanazioni più pure del Tutto, creature ancestrali, nate dalla magia. E quando sceglievano un mago, quel legame era destinato a durare per l’eternità.
Tremando ancora dalla testa ai piedi, Solomon corse a cercare Jonathan.
Bussò energicamente alla sua porta, ma una cameriera lo informò che era stato tutto il giorno a caccia con lord Alastor e che erano appena rientrati.
Allora Solomon scese le scale a rotta di collo e vide suo fratello nell’atrio, mentre lasciava al maggiordomo il soprabito. «Jon! Vieni, presto, devo farti vedere una cosa!»
Il ragazzo gli concesse appena un’occhiata. «Adesso non posso. Devo studiare.»
«Ma è successa una cosa incredibile!» insistette Solomon, elettrizzato. «Devi vederlo! Solo un minuto, per favore!»
Jonathan si allontanò sbuffando, e quando Solomon provò a trattenerlo per il braccio, si divincolò con uno strattone. «Non ho tempo da perdere dietro alle tue sciocchezze, lo vuoi capire o no?!»
Solomon lo guardò, ferito. «Si può sapere che ti ho fatto? Perché ti comporti così?»
«Perché devo prepararmi per Arcanta!» esplose Jonathan, gli occhi accesi di rabbia e contornati da profonde occhiaie. Sembrava esausto. «Nostro padre conta su di me e io non posso deluderlo! Ma tu che vuoi saperne? Non sei neanche un vero mago!»
La delusione di Solomon divenne collera. «Almeno non sono stupido come te! Se fossi così in gamba non avresti bisogno di studiare tanto!»
Jonathan si limitò a scuotere la testa e gli voltò le spalle.
Solomon sapeva che una reazione da parte sua avrebbe solo peggiorato la situazione, ma non riuscì a trattenersi, ad impedire alla sua mano di lanciarsi di nuovo verso il fratello. «E guardami quando ti parlo!»
Non lo raggiunse mai.
Un dolore folgorante gli attraversò il braccio, come una scarica elettrica. Solomon gridò e finì a terra, col respiro mozzo. Sconvolto, alzò gli occhi su Jonathan, che si era voltato con espressione altrettanto sbalordita. Era la prima volta che usava i suoi poteri contro di lui.
«Sol» sussurrò Jonathan, anche lui senza fiato. «M-mi dispiace…»
Un magone gli afferrò la gola, le lacrime gli velarono la vista, ma Solomon si rifiutò di mostrargliele. Si tirò su, reggendosi il braccio dolorante, e poi corse via.
 
Non uscì dalla sua stanza per giorni.
Inutili i tentativi della servitù di convincerlo a scendere per la cena, o di distrarlo proponendogli qualche gioco. Per qualche assurda ragione, suo fratello, il suo migliore amico, adesso lo odiava. Perché alla fine, anche lui aveva capito era solo un inutile storpio, un ingranaggio rotto e senza valore.
Giunse il momento della partenza di Jonathan per Arcanta. Quella mattina, una domestica bussò alla porta e disse: «Sol, tesoro, Jonathan sta andando via. Non vuoi venire a salutarlo?»
Lui si seppellì ostinatamente sotto le coperte. «No!»
«Ma ha chiesto di te» riprovò la ragazza. «Starà via a lungo. Forse anni.»
«Non mi interessa!» sbottò Solomon, furente. «Può andare al diavolo!»
 La sentì sospirare e poi i suoi passi che si allontanavano.
Trascorsero forse dieci minuti, in cui Solomon lottò con tutte le sue forze contro l’orgoglio che gli imponeva di restare chiuso in camera. Ma alla fine, l’amore per suo fratello ebbe la meglio, e il ragazzo si precipitò al guardaroba del terzo piano, dove sapeva essere apparso il portale per Arcanta. «Jon! Sono qui, sono…»
Trovò la stanza vuota. Era troppo tardi.
Disperato, Solomon spalancò lo stesso le ante dell’armadio, ma tutto ciò che vide furono vecchi vestiti dall’odore di naftalina.
 
Passò un anno, e in tutto quel tempo Jonathan non gli scrisse nemmeno una volta. L’unico a cui dava sue notizie era Alastor, che di tanto in tanto, a colazione, leggeva con orgoglio le lettere del figlio spuntate dalle fiamme del camino: «Jon è entrato alla Corte delle Lame! Dice anche che l’Arcistregone del Nord, Fenrir Sigurðsson, lo ha già preso sotto la sua ala. Sapevo che quel ragazzo si sarebbe distinto!»
Solomon ascoltava senza fare commenti, giocherellando col cibo. Ma dentro di lui, il rancore e la nostalgia maceravano incessantemente, tramutandosi a momenti in odio.
Alastor non faceva che decantare i successi del figlio prediletto, di come tutti laggiù lo apprezzassero per il suo talento nella magia, delle amicizie che aveva stretto coi rampolli delle famiglie più potenti di Arcanta.
«Grazie a tuo fratello, il nome della nostra famiglia verrà riscattato!» ruggiva trionfante, gli occhi azzurri ardenti di bramosia. «Presto, i Blake avranno il posto che spetta loro ad Arcanta. Di questo passo, potrebbe diventare Arcistregone. Se non addirittura Decano!»
«Perché no? Facciamolo pure santo» borbottava allora Solomon, ma Alastor di rado prestava attenzione a quel che aveva da dire.
Qualche volta, era tentato di rompere il silenzio e scrivere lui a Jonathan, se non altro per rinfacciarli il suo pessimo comportamento. Per dirgli che lo considerava un perfetto idiota, e che anche i nuovi amici che si era fatto ad Arcanta dovevano essere degli idioti! Chissà, magari sarebbe riuscito a farlo arrabbiare tanto da spingerlo a tornare, anche solo per tirargli un pugno. Ma ancora una volta, l’orgoglio gli proibiva di essere lui a compiere il primo passo.
Nel frattempo, trascorse un’altra estate e Solomon compì quattordici anni.  Non era ancora capace di fare neanche una magia, ma in compenso sapeva a memoria tutti i libri di suo padre: con quel sapere, avrebbe fatto apparire il più potente dei maghi ignorante quanto un caprone, almeno nella teoria.
L’unico conforto era l’amicizia di Wiglaf, che ormai lo seguiva dappertutto come un segugio fedele. Solomon aveva letto che i maghi di Arcanta avevano rinunciato ad addomesticare i demoni da secoli, per distaccarsi dalle primitive tradizioni del Vecchio Mondo; perciò, il fatto di averne uno tutto per sé in qualche modo leniva la convinzione di essere inferiore agli altri. Lo rendeva, anzi, speciale. Proprio come re Salomone, che aveva imbrigliato il potere di Asmodeo.
Ma per quanto la prospettiva di asservire un demone al suo controllo fosse attraente, lo ripugnava il pensiero di rinchiudere Wiglaf in una gabbia. Lui rappresentava l’essenza della magia e delle forze della natura, e meritava di essere libero.
«Non sai quanto ti invidio» gli disse un giorno, mentre camminava per il bosco e guardava il corvo svolazzare attraverso il merletto di rami. «Tu puoi volare, fare magie, andare dove vuoi, essere chi vuoi. Io, invece, marcirò per sempre in questo posto.»
La foresta di Hurt era stranamente calma quella mattina. Solomon si immerse sempre di più nel suo abbraccio immobile, accompagnato solo dallo scricchiolio delle scarpe sulle foglie secche. All'improvviso, gli sembrò che ci fosse troppo silenzio, e uno strano turbamento gli scivolò lungo la schiena, facendolo rabbrividire.
«Wiglaf» chiamò, non riuscendo più a scorgere la sagoma bianca del corvo tra i rami. Continuò a camminare, nonostante il senso di inquietudine non accennasse a diminuire.  Era come se qualcosa in lui stesse cercando di convincerlo a tornare sui suoi passi, ma quando a un tratto sollevò lo sguardo e lo vide, comprese che era tardi. Ancora una volta, troppo tardi.
Penzolava nel vuoto, appeso al ramo di una grossa quercia. Il vento lo faceva muovere appena. La corda legata attorno alla gola gli aveva dilaniato la pelle, e la testa era piegata in modo innaturale. Ciuffi scomposti di capelli castani fluttuavano davanti al suo viso esangue, violaceo, e gli occhi erano fissi su qualcosa che non avrebbero mai più potuto vedere.
Solomon sentì l’orrore montare come un urlo senza voce.
Jonathan.
Era paralizzato, conficcato nel terreno. Il suo cuore non avrebbe dovuto fare quel rumore…
Jonathan.
Un rantolo fuoriuscì di scatto dalla sua bocca. Non appena riuscì a ordinare alle gambe di muoversi, si voltò e corse via, più veloce di quanto avesse mai corso. Corse in mezzo agli alberi, urtando rami e inciampando nelle radici, finché non fu senza fiato. A quel punto, si accasciò contro un tronco, il petto che si alzava e si abbassava ad ansimi corti e rapidi.
Non lo hai visto. Non era reale. Jonathan è ad Arcanta e sta bene.
Rivide i segni del cappio sulla sua gola. I suoi occhi vitrei, aperti sul nulla assoluto. Le labbra livide. Dal suo stadio di decomposizione, doveva essere rimasto lassù per giorni…
Solomon si sforzò di respirare, ma non ci riusciva. C’era davvero troppa luce intorno a lui. Troppa luce e sempre meno aria. Il suo petto era serrato come un pugno…
Jonathan.
Si frugò nelle tasche, continuando a invocare disperatamente ossigeno. Le sue dita si chiusero attorno a qualcosa di solido e freddo. L’orologio di Jonathan.
“Devi dargli la carica tutti i giorni. Altrimenti gli ingranaggi si rompono. Mi fido di te, Sol. Promettimi che ne avrai cura fino al mio ritorno, va bene?”
Solomon sollevò il coperchio d'argento, le dita intorpidite. Non gli aveva dato la carica. Perché non gli aveva dato la carica quel giorno?
«Mi dispiace» singhiozzò, mentre girava la rotellina. «Mi dispiace. Jon. Ti prego perdonami…»
Ti prego. Ti prego, torna.
Fissò le lancette che riprendevano piano a ruotare, si focalizzò sul loro ticchettio ritmato, isolandosi da tutto il resto. Tic. Tac. Tic. Tac. Cercò di adeguare i respiri a quel suono. E, lentamente, la morsa gelida sul suo petto si allentò.
Un frullo d’ali. Piume delicate che gli sfioravano la guancia.
Wiglaf era di nuovo lì, aggrappato alla sua spalla, ancora una volta al suo fianco. 
Partecipe silenzioso del suo dolore.

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Capitolo 26
*** Acciaio e sangue - Prima parte ***


 

 
ACCIAIO E SANGUE
– Prima parte –

 
 
 
«Se continuano di questo passo, il laboratorio resterà chiuso per settimane» si lamentò Isabel. «Inizio a pensare che lo facciano a posta!»
Costretto a rimanere in disparte insieme a lei, Solomon nutriva lo stesso sospetto.
Dopo l’esplosione, il Cerchio d’Oro aveva mandato i suoi alchimisti per un sopraluogo, e da due giorni stavano ispezionando il museo con lentezza snervante.
«Non mi piace che tocchino le mie cose» borbottò ancora Isabel, fissando due alchimisti che giravano attorno a una macchina da scrivere, discutendo se fosse il caso di smontarla.
«Li terrò d’occhio» disse Solomon. Le aveva promesso che avrebbe fatto chiarezza su quanto accaduto, ma finché quegli avvoltoi in tuniche grigie erano lì a ficcanasare, aveva le mani legate. «Raccogli quello che ti serve e dì alle tue allieve che possono raggiungerti alla Corte dei Sofisti.»
Isabel non nascose il suo stupore. «Stai dicendo sul serio? Vuoi che faccia lezione lì?»
«Ci sono aule a sufficienza. Sarete più al sicuro che altrove, vi prego solo di non far saltare in aria niente.»
«D’accordo» sospirò lei. «Fammi sapere se scopri qualcosa.»
Non appena ebbe lasciato il museo, Solomon decise che aveva pazientato a sufficienza. Scivolò alle spalle di un alchimista, intento a grattare la patina annerita via dal muro. «Allora, come procede? Scoperto qualcosa di interessante?»
L’alchimista si girò, gli occhi diffidenti dietro le lenti a fondo di bottiglia. «È ancora presto per dirlo. Occorrono esami più approfonditi.»
«Ma avete avuto due giorni interi» replicò Solomon, gentilmente. «Mia moglie vorrebbe tornare al lavoro.»
«Queste sono le procedure» disse asciutto l’alchimista. «Per la sicurezza dei Cittadini e della signora Blake, il museo rimarrà chiuso finché il Cerchio d’Oro non lo riterrà agibile.»
Veramente comodo. «E quanto tempo ci vorrà?»
«Dipende da quel che salta fuori dagli esami preliminari, ma se dovessi sbilanciarmi, direi dai due ai sei mesi. Dopodiché, il Decanato dovrà aprire un’inchiesta, e nel frattempo il museo passerà sotto la custodia dell’Inquisitore Blackthorn…»
…il che significa che non riaprirà mai, assodò Solomon. «Magari si velocizzerebbero un po’ le cose se condivideste quanto appreso finora. Sono l’Arcistregone dell’Ovest: ottenere risposte è la mia specialità.»
«Desolato, signor Blake, ma è competenza del Cerchio d’Oro» rispose altezzoso l’alchimista. «Stavolta deve starne fuori.»
Indispettito, Solomon lo lasciò perdere e tentò altrove. Ma nessuno di quegli odiosi ratti da laboratorio sembrava intenzionato a collaborare, e al suo arrivo, cucivano le bocche stringendo a sé i propri appunti.
La sua pazienza stava raggiungendo il limite. Riattraversò la sala espositiva in cui aveva trovato Isabel due giorni prima, nella speranza di mettere gli occhi su qualcosa che agli altri era sfuggito, quando una voce gridò: «Non passi di lì, signor Blake! Abbiamo gettato un Incanto Rivelatore!»
Solomon rimase in bilico con la scarpa sollevata, mentre un alchimista si precipitava da lui: era giovane, coi capelli argentei un po’ ispidi e il naso a punta come quello di un riccio.
«Salve, Mortimer.»
Il giovane alchimista si bloccò, l’espressione nervosa. Di certo si stava ricordando di quando Solomon aveva minacciato di trasformargli gli occhi in scarafaggi. «Ehm, salve, signor Blake. Mi dispiace per quanto è successo.»
«Sì, sono sicuro che abbiate tutti il cuore spezzato» commentò l’altro. «Cosa hai detto prima? Incanto Rivelatore?»
«Permette di risalire agli incantesimi lanciati in un luogo» spiegò il ragazzo. «Dal più recente al più vecchio.»
Solomon guardò con più attenzione il pavimento, dove un reticolo di energia vibrava appena sopra le mattonelle. «E quale incantesimo ha provocato l’esplosione? Siete riusciti a scoprirlo?»
Mortimer si morse il labbro. «Ecco, si tratta di informazioni riservate…»
«Il Cerchio d’Oro ti ha mandato a spiare me e mia moglie» gli rammentò Solomon, freddamente. «Allora, non vi facevate troppi scrupoli sulla privacy.»
Il ragazzo arrossì. «Ha ragione, mi scusi. Stavolta però noi non c’entriamo niente!»
«Mi risulta un po’ difficile crederti sulla parola.»
«Il Cerchio d’Oro non metterebbe mai in pericolo i Cittadini di Arcanta!» squittì Mortimer, indignato. «E poi, il padre della signora Blake è ancora il Primo Alchimista. Sospetta sul serio che dietro ci sia lui?»
Solomon dovette convenire che era improbabile; il vecchio Sebastian stravedeva per sua figlia. «Non sto incolpando nessuno, voglio solo vederci chiaro. Certo, se almeno mi deste qualcosa da cui partire!»
«Vorrei poterla aiutare, davvero» fece Mortimer, e quando Solomon lo guardò dubbioso, aggiunse: «Be’, lei mi terrorizza un po’, però lady Isabel è stata gentile con me. Se può rassicurarla, le dica che l’intenzione dell’attentatore non era farle del male; l’esplosione è avvenuta intorno alle 02:00, chiunque l’abbia provocata si è assicurato che non vi fosse in giro nessuno.»
«Come pensavo» disse Solomon. «Era un avvertimento.»
«Stiamo procedendo a rilento» disse ancora Mortimer. «Perché l’Incanto Rivelatore ci sta mettendo più del previsto a ricostruire le dinamiche: è probabile che l’attentatore abbia usato una distorsione, in modo da nascondere le sue tracce. È stata una mossa astuta. Molto raffinata.»
Questo escludeva che ci fosse lo zampino di quegli imbecilli di Alvaro e Tristan. Il mago in questione non era uno sprovveduto.
«E poi, ci sarebbe anche la questione del polline che non si spiega.»
Solomon mise da parte i suoi ragionamenti. «Quale polline?»
«Abbiamo trovato residui di polline tra i detriti» spiegò Mortimer. «In questo momento gli erboristi lo stanno analizzando. Ma è davvero strano, insomma, che ci fa sul luogo di un’esplosione...?»
«Fletcher!»
Un alchimista anziano marciò verso di loro, la tunica grigia svolazzante. «Che gli stai dicendo? Questo è contrario alle procedure!»
Mortimer si fece piccolo piccolo. «Cercavo solo di rassicurare, è in pensiero per sua moglie…»
L’alchimista anziano continuò la sua strigliata sul povero Mortimer, e Solomon ne approfittò per dare un’ultima occhiata in giro. Stava per arrendersi, quando uno scintillio, appena visibile sotto uno strato di cenere, catturò i suoi occhi di ladro consumato.
Con fare disinvolto, lasciò cadere a terra il bastone. «Oh, che sbadato!»
Si chinò per raccoglierlo, e nel mentre estrasse un fazzoletto, che usò per afferrare il misterioso oggetto. Lo intascò rapidamente, mentre l’alchimista anziano abbaiava contro di lui: «E lei, signor Blake, farebbe meglio a non intralciarci! Dica a sua moglie di stare tranquilla. E di trovarsi passatempi meno pericolosi, già che c’è!»
«Certo.» Solomon gli offrì un sorriso. «Siamo profondamente grati al Cerchio d’Oro per l’aiuto. Continuate pure!»
Solo quando fu in strada, lontano da occhi indiscreti, estrasse il fazzoletto e ne esaminò il contenuto. Un bottone. Un semplicissimo bottone d’argento, senza particolari segni distintivi. Sarebbe potuto appartenere benissimo a un uomo come a una donna.
Lo stregone storse la bocca, deluso. Meglio di niente.
Qualcosa però gli diceva che quel bottone era un indizio prezioso, doveva solo capire come servirsene. Ma decise che ci avrebbe pensato in un secondo momento: la sua prossima tappa erano le serre della Cittadella.
 
Appena arrivato sul posto, un profumo viscoso sfiorò il viso di Solomon come una carezza. Il sole colava attraverso le vetrate del giardino artificiale, che ospitava ogni varietà di piante magiche conosciute: dalle più comuni, mandragora, aconito, asfodelo, alle più rare ed eccentriche, come la Taluma Labirintica o l’Anaclea Voluptatis. Sentì persino due erboristi discutere sulla possibilità di trapiantare un pericoloso esemplare noto come “Anthea Ingannatrice” dalle Americhe.
Più avanti, Solomon individuò la figura olivastra e allampanata di Melkisedek, l’allievo e protetto di Sebastian Ascanor. Era seduto a un banco da lavoro, chino su dei campioni di linfa.
«Signor Blake» lo accolse, la voce piatta e nasale. «Neanche le domando come ha fatto a superare i controlli. Cosa la porta qui?»
«Cercavo un dono per mia moglie» rispose Solomon, cordiale. «Magari una bella orchidea. Dopo quello che è accaduto al suo museo, è inconsolabile.»
«Posso immaginarlo.»
«Certo, la consolerebbe di più sapere chi è il colpevole» rincarò Solomon. «Ma cavare qualcosa a voi alchimisti è sempre un’impresa.»
«Se il Cerchio d’Oro non avesse custodito i propri segreti nei secoli, a quest’ora non esisterebbe» ribatté Melkisedek, tranquillo. «Ma le assicuro che le indagini sono in ottime mani.»
«Lei è un alchimista specializzato in botanica.»
«Corretto.»
«Il Cerchio d’Oro ritiene che dietro l’attentato ci sia un albero piromane?»
Melkisedek sogghignò, divertito. «Non escluderei niente.»
Fece per tornare all’opera, ma Solomon non aveva finito: «Sa, non sono ancora riuscito a inquadrarla: lavora con don Sebastian da anni e, tra tutti i suoi allievi, è l’unico a essere trattato come un membro della famiglia.»
«Don Sebastian è stato generoso con me.»
«Mi chiedo come mai.»
Melkisedek gli indirizzò uno sguardo obliquo. «Perché nessuno lo era mai stato prima. I miei genitori si sono sbarazzati di me appena nato: sono cresciuto tra le mura del Formatorio e, senza una famiglia a guardarmi le spalle, sarei rimasto lì a marcire. Ma don Sebastian ha visto in me del potenziale. Mi ha offerto la migliore istruzione possibile, un posto al Cerchio d’Oro e la sua amicizia. Gli sarò debitore a vita.»
«Quindi è per questo che si prende cura di lui.»
«Il problema degli alchimisti geniali» disse Melkisedek, con voce grave. «È che non accettano che vengano posti limiti alla loro curiosità. Sebastian morirà presto, e le mie pozioni sono l’unica cosa che può alleviare le sue sofferenze.»
«Molto toccante» commentò Solomon, monocorde. «Ma, a costo di apparire indelicato, continua a esserci un aspetto che non mi torna.»
«E sarebbe?»
«Per quale motivo non è lei il successore di Sebastian? Perché è evidente che Alvaro e Tristan siano inadatti a ricoprire il ruolo. Mentre lei ha tutte le carte in regola per essere un ottimo Primo Alchimista.»
«Questo lo so molto bene.» Il volto di Melkisedek si inasprì. «Ma so anche che deve esserci sempre un Ascanor nel Decanato.»
«Alla Cittadella hanno tradizioni piuttosto antiquate.»
«Non si tratta di una tradizione» replicò Melkisedek, solennemente. «Ma di una necessità. Lei è in famiglia da poco, non può capire.»
Forse, ma a me questo sembra un ottimo movente, pensò Solomon, provando un fremito di eccitazione, quella del segugio che fiuta la preda. «So che è stato rinvenuto del polline sulla scena del crimine. E non ho potuto fare a meno di notare che qui ce n’è a volontà
Gli occhi di Melkisedek mandarono uno scintillio ironico. «Si esprime proprio come un vero detective. È questo che sta facendo? Gioca a guardia e ladri?»
Solomon si strinse nelle spalle. «Ho un debole per i rompicapo.»
«E allora, che aspetta?» chiese Melkisedek, in tono di sfida. «Mi ponga la domanda.»
«Dove si trovava lunedì sera, intorno alle 02:00?»
«Al capezzale di don Ascanor» rispose l’altro, senza esitazione. «Ha avuto una delle sue crisi, ma la pozione che assume regolarmente era finita. Ne ho preparata dell’altra, ma avevo poco tempo e non potevo venire qui alle serre. Quindi, ho chiesto a doña Madragana di raccogliere le erbe che mi occorrevano dal suo orto personale. Sono rimasto al cigarral tutta la notte, chieda pure in giro.»
Per quanto lo infastidisse, Solomon non riuscì a trovare niente da ribattere, e sentì l’entusiasmo defluire. «Lo farò, grazie per la collaborazione.»
«Quando vuole.»
Era pronto a congedarsi, quando Melkisedk disse: «Curioso che abbia pensato proprio alle orchidee, come dono per sua moglie.»
«Perché?»
Gli occhi di Melkisedek erano neri e immobili come stagni. «Sono piante parassita, belle quanto ingannevoli e spietate. Vivono sfruttando altre specie, assorbendo ciò che serve alla loro sopravvivenza. E in molti casi, causando la morte dell’organismo ospite.»
Solomon socchiuse gli occhi. «Le piace parlare per metafore.»
«Se preferisce, parlerò apertamente» disse Melkisedek. «Gli Ascanor sono una famiglia complicata, è vero, ma hanno accolto lei e me a braccia aperte. E Isabel è la degna erede di suo padre: è generosa, saggia, brillante, e un giorno Arcanta riconoscerà i suoi meriti. Non tradisca la sua fiducia, o se ne pentirà.»
 
Quella sera, Solomon fece ritorno al palazzo sul lago a mani vuote: Melkisedek aveva un alibi di ferro, e dubitava sempre di più che il Cerchio d’Oro potesse aver agito in maniera tanto plateale. Così, decise di concentrarsi sul misterioso bottone.
Si considerava un alchimista discreto, e aveva predisposto un laboratorio piccolo ma ben fornito. Dopo aver mescolato un po’ di questo e un po’ di quello, Solomon lasciò cadere un minuscolo quantitativo di pozione sul bottone, che aveva posizionato su un vetrino, e infine osservò la reazione al microscopio.
Non aveva mentito a Melkisedek: era sempre andato matto per gli enigmi. Nel corso della sua lunga vita, aveva imparato ad affinare le sue innate abilità deduttive. Occorreva tenere gli occhi aperti e la mente lucida, e la soluzione sarebbe presto venuta a galla. Anni fa, ne aveva discusso a lungo con un gentiluomo scozzese, in un piccolo pub di Edimburgo:
“Elementare, mio caro signore” aveva illustrato Solomon. “Una volta eliminato l’impossibile, ciò che resta, per quanto improbabile, deve essere la verità.”
A quel sir Conan Doyle l’aforisma era piaciuto parecchio.
Preso com’era, Solomon non si accorse che la porta del laboratorio si era aperta. «Quando sei tornato?» domandò la voce di Lucia.
«Un’oretta fa.»
Lei si sedette sul tavolo. «È vero che hanno cercato di far fuori tua moglie?»
«A quanto pare, la faccenda è più complicata di così.»
Lucia emise un verso beffardo. «Be’, da come la descrivi, sembra insopportabile. Non mi meraviglia che si sia fatta dei nemici!»
Lui la ignorò, concentrato sul microscopio. Lucia prese a giocherellare con una ciocca di capelli. «Quindi, ti sei messo in testa di trovare il colpevole? Non ti sembra una perdita di tempo? C’è ancora la questione del Bibliotecario e del Libro Nero, da risolvere…»
«Non reagisce» mormorò Solomon, fra sé. «Perché non reagisce..?»
«Cosa?»
Lui buttò fuori un sospiro. «Il composto non rileva tracce organiche. Forse il proprietario del bottone indossava dei guanti. O ha usato una qualche protezione magica. Ingegnoso! Dovrò tentare un’altra strada…»
Sotto lo sguardo perplesso di Lucia, lui riprese a trafficare con gli ingredienti. La ragazza stette a osservarlo per un po’, poi si stiracchiò e scosse i lunghi capelli rossi. «Pensavo di fare un bagno caldo. Ti unisci a me?»
«Mhm?» fece lui, distrattamente.
«Ho detto» disse la ragazza, spazientendosi. «Che pensavo di fare…»
«Puoi avvisare Valdar che mangerò qualcosa qui?» la interruppe Solomon, senza sospendere quello che stava facendo. «E già che ci sei, prepara del tè.»
Gli occhi di lei lampeggiarono in modo pericoloso. «Preparatelo da solo!»
Saltò giù dal tavolo e lo mollò lì. Solomon non si accorse di niente, neppure quando, uscendo, lei ordinò alle porte di sbattere con tutta la violenza possibile. Dal suo trespolo, Wiglaf emise uno stridio di rimprovero, ma lo stregone guardava fisso di fronte a sé, le dita giunte e gli ingranaggi del cervello al lavoro.
«Mi serve un piccolo aiuto» appurò infine, malvolentieri. «E l’unica persona che può darmelo è l’ultima a cui desidero chiederlo.»
 
Il mattino dopo, Solomon si trovava di fronte alla maestosa pagoda dai tetti d’oro che ospitava la Corte dei Sussurri. Inspirò profondamente, augurandosi di non aver avuto una pessima idea, e tirò il lungo cordone rosso che penzolava accanto all’ingresso.
Pochi istati dopo, le grandi porte cremisi si spalancarono, rivelando una donna alta e sinuosa, con indosso un abito di seta verde dalla scollatura profonda e con le braccia fasciate da lunghi guanti. I suoi capelli erano di un color miele denso e sensuale, gli occhi dorati e dalle pupille verticali come quelli di un gatto.
«Ma guarda» disse, con voce suadente. «Il mio mascalzone preferito è tornato. A cosa devo il piacere?»
«Alla necessità, temo. Ho un problema a cui non riesco a venire a capo.»
«Solomon Blake che mette da parte l’orgoglio e chiede aiuto?» Gli occhi felini di Una Duval scintillarono. «Interessante. Al momento sono piuttosto occupata, ma un po’ di tempo per te lo trovo sempre. Prego, accomodati.»
L’interno era scarsamente illuminato, gli ambienti divisi da pareti di carta di riso, e ovunque aleggiava un delicato profumo di zenzero. Non c’era nessuno.
«Ho mandato le ragazze a sbrigare delle commissioni» spiegò Una. «Per un paio d’ore nessuno ci disturberà.»
Solomon però scorse un’ombra muoversi dietro un paravento di bambù e seta grezza. Un’ombra inconfondibilmente maschile. «Hai un ospite?»
«Un ospite che gradisce mantenere l’anonimato.»
Lui però non trattenne la curiosità e sbirciò dietro i tendaggi, riconoscendo, appeso a un attaccapanni, una pesante tunica di velluto nero. «Ma è un Decano?!»
Una gli artigliò il colletto della giacca e lo tirò via. «Tieni il becco fuori dai miei affari, Corvo Bianco.»
«Qualcuno qui ha deciso di puntare in alto.»
L’Arcistrega dell’Est gli restituì un sorriso sardonico. «Senti chi parla. Cos’è questa storia che una Ascanor ti ha messo la fede al dito?»
«In un certo senso è per questo che sono qui.»
Lo condusse in una sala rivestita da pannellature di legno. Solomon si accomodò su un divano, mentre la padrona di casa chiudeva le porte a scorrimento. «Bevi il solito?»
Non attese risposta, e passò ad armeggiare nella vetrina degli alcolici. Era una delle cose che più gli piaceva di quella donna: non faceva mai troppe domande. Non che ne avesse bisogno, la maggior parte delle volte…
Una Duval era l’unica maga nella storia di Arcanta ad aver ricoperto la carica di Arcistrega dell’Est, la sola di cui ogni stregone con un minimo di sale in zucca provava rispettoso timore, persino il Decanato. Ed era dovuto solo in parte al suo particolare talento, più unico che raro nella loro razza: quello di scrutatrice.
Una volta aveva detto a Solomon di avere sangue sidhe, ma era difficile distinguere la verità, quando si trattava di Una, e in quanto a teatralità aveva molto da insegnargli. La stessa Corte dei Sussurri era un enorme palcoscenico: di facciata, educava le giovani maghe a essere mogli e madri perfette, in realtà addestrava abili spie, e Solomon era convinto che Una Duval avesse ormai occhi e orecchie in ogni casa di Arcanta, anche senza i suoi poteri psichici.
La maga gli allungò un bicchiere di scotch liscio e sedette con grazia sulla poltrona di fronte. «Allora, di che si tratta?»
«Di quello che è successo al museo di mia moglie. Voglio scoprire chi si sta divertendo alle nostre spalle.»
«Ti sei proprio calato nella parte del maritino premuroso.»
«Il Cerchio d’Oro però è piuttosto ingombrante» disse Solomon. «E come sai, mi piace fare le cose a modo mio.»
«Hai qualche indizio?»
Solomon tirò fuori il fazzoletto con dentro il bottone. «Vorrei partire da questo.»
Una prese il fazzoletto dalla sua mano e lo aprì. «Non è granché.»
«La chiave per risolvere un enigma non è mai la più scontata.»
Una sospirò. «Avevo quasi dimenticato quanto ti piacciono le frasi ad effetto.»
«Un tempo lo trovavi affascinante.»
«Un tempo non parlavamo molto.»
«Probabilmente è per questo che non ha funzionato.»
«No, tesoro. Non ha funzionato perché tu hai cercato di derubarmi» lo corresse Una, con voce di velluto. «Quella notte a Hong Kong, rammenti? Mi hai scopata e poi sei sgattaiolato via con la Pergamena di Yinglong. Mi ci erano voluti mesi per trovarla e non è stato carino.»
Sì, Solomon lo rammentava. Era accaduto diversi anni fa, dopo essere diventato Arcistregone.  Non andava fiero di quel periodo della sua vita; alla fine, Arcanta era riuscita a corromperlo, tanto da fargli accantonare per un po’ persino la sua missione, sull’onda del successo; c’erano state tante feste, tante donne, e altrettanti scandali. Ma poi, era arrivata Lucia, così dolce e angelica da fargli provare vergogna per l’uomo che era stato. Si può dire che, grazie a lei, avesse quasi messo la testa a posto.
«Rammento anche che poi mi hai quasi fatto uscire il cervello dalle orecchie» disse Solomon, azzardando un sorriso. «Direi che siamo pari.»
Una scrollò la testa bionda e tornò al bottone. «Credi che appartenga al responsabile?»
«Io non sono riuscito a cavarci niente. Ma se tu lo scrutassi…»
«Sai come funziona lo scrutamento indiretto» rispose Una, sfilandosi un guanto. «Non potrò rivelarti la sua identità. Soltanto cosa gli passava per la testa l’ultima volta che lo ha toccato.»
«Potrebbe comunque rivelarsi utile.»
Lei annuì, poi mise la mano nuda sopra il bottone. Solomon si sporse sulla poltrona. «Allora?»
«Sei sempre così impaziente» ammiccò Una, maliziosa. «Era sul polsino di una giacca, non riesco però a distinguere se maschile o femminile… ed è stato a lungo tormentato, probabilmente è per questo che il proprietario lo ha perso. Sento che era nervoso. E combattuto. Sì, questo posso sentirlo molto chiaramente.»
Solomon aggrottò la fronte. «Era combattuto su cosa? Sul fatto di voler far esplodere o no il museo?»
«Oh, no. Su quello era fermamente convinto. Ma è… complicato. Come se il gesto fosse stato dettato da un intreccio di sentimenti molto forti e contraddittori. Rabbia, rimorso, ma anche amore.»
La cosa lo lasciò di stucco. «Amore, hai detto?»
«Oh, sì. Un amore intenso, che non si ferma di fronte a niente.»
Lui si rabbuiò. Non era la risposta che sperava di ottenere. «Non ha il minimo senso!»
«Tu non sei mai stato a tuo agio coi sentimenti, Sol» commentò Una, restituendogli il bottone. «Spesso non li capisci. E sappiamo quanto detesti non capire le cose.»
«Detesto non capire le cose importanti» puntualizzò lui, bevendo un sorso di scotch.
Una lo fissò per un momento, incuriosita. «Perché ti importa tanto di trovare chi ha distrutto il museo?»
«Perché è un affronto alla mia persona. E come tale, va punito.»
Una però stava scuotendo la testa, sempre con quel sorrisetto sulle labbra. «Non mentirmi, sono più brava di te in questo gioco. È in ballo qualcosa di più dell’orgoglio, altrimenti, non saresti venuto da me.»
Lui fece ondeggiare il bicchiere. «Ho fatto una promessa.»
«A Isabel Ascanor?» incalzò Una. «Oh, ecco cos’è: lei ti piace!»
«L’ho sposata.»
«Hai capito cosa intendo.»
I suoi occhi dorati lo scrutarono intensamente, e Solomon non riuscì a sostenerli per molto. Così come non riuscì a impedire ai suoi pensieri di tornare su Isabel, seduta sola in mezzo al suo laboratorio distrutto, senza più quella luce dirompente ad animarla…
«È una donna tenace» ammise. «E ha il mio rispetto per questo.»
La risposta sembrò soddisfarla. «In tal caso, ti auguro di venirne a capo. Ora, se vuoi scusarmi, ho un impegno in sospeso.»
Lo accompagnò alla porta, ma prima di tornare dentro disse: «Ci siamo divertiti in passato, io e te. Magari, la prossima volta possiamo rievocare i vecchi tempi non solo a parole.»
«Ho una moglie» le ricordò lui, infilando il cappello.
«Oh, non sono mica gelosa.» Una gli fece l’occhiolino. «L’invito è aperto anche a lei.»
 
Nei giorni successivi, Solomon continuò a rimuginare su quanto appreso da Una. Rabbia e amore…significava che chiunque fosse il responsabile conosceva Isabel, forse le era stato, e continuava a esserle, molto vicino. E questo la esponeva a un rischio maggiore del previsto.
Solomon avrebbe voluto approfondire la cosa, ma non poteva ignorare completamente i suoi obblighi di capo della Corte dei Sofisti, per quanto noiosi. Né tanto meno le lezioni.
Aveva concesso a Isabel un’aula spaziosa, che le lasciò arredare come voleva, e dove ogni mattina accoglieva le sue allieve, Veronica, Merope e Corvina. Immaginò che le signorine avessero concordato con l’ingegnante una giustificazione credibile per presentarsi alla Corte dei Sofisti senza scandalizzare le loro famiglie, visto che si trattava sempre di un istituto maschile.
«Ehi, ma ci sono delle ragazze!» esclamò eccitato Jasper, quando lui e gli altri studenti scoprirono che avrebbero avuto compagnia. Da allora ogni scusa era buona per cercare di attaccare bottone, e Solomon era costretto a tirarli via per le orecchie e riportarli a lezione. «Datevi un contegno, siete gentiluomini o scimmie in calore?»
Ma un paio di volte anche lui si era appostato davanti all’aula di sua moglie, curioso di vederla all’opera; una mattina, sbirciando dalla porta socchiusa, aveva visto le ragazze sedute a terra su dei cuscini, mentre Isabel, nella penombra, mostrava loro delle diapositive in bianco e nero: «… la scienza è coraggio, è rivoluzione! Ci sprona ad abbattere le barriere, il pregiudizio, e a impegnarci ogni giorno per essere la versione migliore di noi stessi!»
Era tornata quella di un tempo, un vulcano di idee e ottimismo; un sorriso raggiante e contagioso le splendeva in viso, accompagnando ogni sua parola e, mentre la stava ad ascoltare, anche Solomon si ritrovò, inconsapevolmente, a sorridere.
Qualche giorno dopo però, fu il suo turno di trovarsi sotto esame.  
Con la sua classe aveva da poco affrontato l’argomento della Trasfigurazione umana, nella speranza che potesse rivelarsi più fruttuosa di quella vegetale.
«Per un mago è essenziale apprendere l’arte del trasformismo» esordì, camminando di fronte alla schiera di allievi, ciascuno posizionato davanti a uno specchio. «E sarà enormemente utile nel caso doveste agire in incognito…»
Si interruppe, quando udì la porta dell’aula schiudersi.
«Chiedo scusa!» fece Isabel, con alcuni libri sottobraccio. «Cercavo la biblioteca, ma credo di essermi persa di nuovo…oh, state imparando la Trasfigurazione? Io la prima volta che provai mi feci spuntare un paio di enormi baffi!»
I ragazzi ridacchiarono, ma furono subito scoraggiati da un’occhiataccia di Solomon. «Affascinante.»
«Ti dispiace se assisto?» chiese Isabel. Prima che lui potesse obiettare, si andò a sedere all’ultimo banco in fondo all’aula. «Starò ferma e in silenzio quaggiù, non ti accorgerai nemmeno che ci sono!»
Lui sospirò. «Come vuoi.»
E si rivolse di nuovo ai suoi allievi, minacciandoli silenziosamente di non fargli fare figuracce. «Chi di voi sa dirmi quali aspetti bisogna sempre considerare quando ci si trasfigura in qualcun altro?»
Seguì un lungo e sconfortante silenzio, interrotto solo da un colpetto di tosse da parte di Marco.  Solomon non aveva più neppure la forza di arrabbiarsi. «Non tutti insieme, mi raccomando.»
Alle sue spalle, si udì un forte stridio e Solomon si voltò: Isabel aveva trascinato la sedia dall’altra parte dell’aula. «Scusate! È che da questa parte si vede meglio, sei troppo alto rispetto a me!»
«L’altezza» disse Stephan, timidamente. «Ehm, bisogna sempre valutare l’altezza e il peso. È più semplice trasfigurarsi in qualcuno che abbia una struttura corporea simile alla nostra.»
«E poi, possiamo modificare solo l’aspetto esteriore» aggiunse Jorge. «Non la sostanza: si può, per esempio, ringiovanire un viso cancellandone le rughe, ma non ridurre gli anni di una persona. E si può ridare un aspetto sano a un cadavere, ma non riportarlo in vita.»
Solomon scoccò un’occhiata in tralice a Isabel, che sorrideva con innocenza. «Bene. Vediamo come ve la cavate con la pratica.»
Tutto sommato, non fu il disastro che aveva prospettato. Certo, Jorge sbagliò completamente tonalità di capelli, facendoseli diventare verdi anziché biondi, e l’incantesimo di Marco quasi colpì in pieno Solomon. Ma alla fine della lezione, se non altro, tutti erano riusciti a trasfigurarsi in qualcuno di diverso da loro.
«Per la lezione di domani, esercitatevi ancora sulla focalizzazione» disse Solomon, sfogliando il manuale. «E ripetete bene da pagina 114 a pagina…»
Dovette interrompersi un’altra volta, quando si accorse che, dal fondo dell’aula, Isabel stava applaudendo.
«Che c’è? Sono stati bravi, dai!» disse allegramente, di fronte alla sua espressione stupefatta. «Ottimo lavoro, ragazzi! Di questo passo diventerete degli eccellenti trasformisti!»
I sei ragazzi sorrisero, scambiandosi sguardi soddisfatti, e lasciarono l’aula congratulandosi a vicenda per l’esercizio appena svolto. Isabel, invece, si avvicinò a Solomon. «Scusa, per prima. Ho solo pensato che servisse loro un po’ di motivazione.»
«Possono fare di meglio» ribatté Solomon, in tono polemico. «Non voglio che si cullino, sono già abbastanza svogliati.»
«Be’, forse non si impegnano perché pensano che per te non farebbe differenza» suggerì Isabel. «Ho visto il modo in cui ti guardano: li terrorizzi.»
«Io non li terrorizzo!» protestò lui, anche se era la seconda persona che glielo faceva notare, nell'arco di pochi giorni. «Cerco solo di disciplinarli.»
«Sono ragazzini» ribatté Isabel, gentile. «Con un sacco di aspettative sulle spalle. E vedono in te un punto di riferimento: se sei il primo a non credere che ce la faranno, come possono convincersene? Prova a metterti nei loro panni.»
Lo sguardo di Solomon fu attraversato da una nube temporalesca. «Nei loro panni? A me nessuno ha mai detto “bravo, campione!”, e sono diventato lo stesso Arcistregone. Il mondo che affronteranno fuori da queste mura è ingiusto, spesso crudele.»
«E in che modo potranno cambiarlo, se non mostriamo loro che esiste una via diversa?»
Solomon aprì la bocca ma, con sua enorme sorpresa, non trovò argomenti validi con cui controbattere, e la cosa lo irritò. «Comunque, questa è la mia Corte! Decido io come educare i miei studenti!»
Isabel trattenne con difficoltà una risata.
«Che ho detto di così divertente?!»
«Niente! È che…è difficile prenderti sul serio, con quel sopracciglio giallo!»
Sbalordito, lui si portò immediatamente una mano sopra l’occhio. Doveva essere stato l’incantesimo di Marco.
«È l’altro» disse Isabel, divertita. «Aspetta, faccio io.»
Tutto in lui andò in allarme, e dovette frenare l’impulso di ritirarsi, mentre la mano di lei si accostava gentilmente al suo viso. Nel momento in cui le sue dita lo sfiorarono, si sentì attraversare da strani brividi, malgrado non facesse freddo. «Ecco fatto, come nuovo.»
«Molte grazie» replicò lui, ancora un po’ rigido. «A ogni modo, volevo informarti che sono sulle tracce dell’attentatore: ho ragione di credere che potrebbe nascondersi tra le persone che ti sono più vicine. Lo so che sai badare a te stessa, ma tieni gli occhi aperti.»
La cosa parve turbarla. «Va bene, lo farò.» Subito dopo, emise un sospiro triste. «È tutto così assurdo! Vorrei solo poter tornare nel mio laboratorio.»
«E ci tornerai» assicurò Solomon. «Te l’ho promesso.»
Isabel accennò un sorriso. «Sì, lo so. Ora ti lascio alle tue cose, ti ho fatto innervosire abbastanza per oggi!»
Dopodiché raccolse l’orlo della gonna e si diresse verso l’uscita, ma prima che lasciasse l’aula, Solomon borbottò: «Allora, ci vediamo venerdì.»
Isabel si voltò, confusa. «Venerdì?»
«Le lezioni di duello. Mi avevi chiesto di darti qualche suggerimento.»
«Ooh! È vero!» Isabel si passò una mano sulla fronte. «Perdonami, me ne ero completamente dimenticata! Con la faccenda del museo e il resto… ma questo venerdì ho promesso alle ragazze che le avrei portate in visita all’Arboreto del Parnaso. Non ti dispiace se rimandiamo alla settimana prossima, vero?»
«Ah» fece lui, interdetto. «No, certo. Nessun problema. Alla settimana prossima, allora.»
Isabel gli sorrise un’ultima volta e poi uscì, chiudendosi la porta alle spalle. E Solomon rimase da solo, in quell’aula deserta e silenziosa, alle prese con un tumulto interiore; come un vuoto, che si allargava sempre più nel suo stomaco…
Non era una sensazione del tutto nuova, a pensarci bene. L’aveva già provata diverse volte, in passato, la solitudine…solo che, ormai, si era convinto di essere diventato abbastanza bravo a sfuggirle. A scansarsi appena un attimo prima che lo acchiappasse, spesso con l’aiuto di un bicchiere di whisky. Ma talvolta eccola lì, che saltava fuori a tradimento, colpendolo con una forza annichilente.
Scosse la testa, sforzandosi di tornare in sé. Dare troppo peso alle emozioni non era un atteggiamento molto inglese. E poi, c’era ancora la questione del bottone, da sbrogliare.
Rabbia e amore…
Forse era giunto il momento di far visita a un vecchio amico, tra le nevi perenni della Corte delle Lame.
 


CONTINUA...

 

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Capitolo 27
*** Acciaio e sangue -Seconda parte ***


 


ACCIAIO E SANGUE
– Seconda parte –

 
 
 
Le porte della Corte delle Lame si spalancarono lentamente, senza emettere nemmeno un cigolio. Sul timpano erano incise quattro semplici parole: sii la tua arma.
Parole antiche. Forse un tantino pretenziose, e di certo ormai superate. Un po’ come la mentalità dei vari Arcistregoni del Nord che si erano succeduti nei secoli, ciascuno identico al precedente.
La stessa sede dell’accademia sembrava appartenere a un altro tempo: un castello aspro e massiccio, scolpito nella pietra viva.
Solomon si ritrovò in un ampio cortile, con le mura che scintillavano di ghiaccio; un incantesimo gettato in tempi remoti manteneva all’interno della fortezza un inverno perenne, poiché gli Arcistregoni del Nord erano sempre stati dell’idea che niente temprasse più del freddo.
Il cortile era affollato di ragazzi e ragazze, abbigliati tutti allo stesso modo, con sobrie uniformi nere orlate di pelliccia argentea. Solomon si fermò a osservare un gruppo di studenti raccolti in cerchio; un ragazzo e una ragazza sui sedici anni si fronteggiavano nel mezzo, brandendo lunghe aste di legno. Boris Volkov camminava loro intorno, avvolto nel suo pastrano di pelliccia e col colbacco di astrakan piantato in testa, e di tanto in tanto esprimeva giudizi e suggerimenti:
«Fletti le ginocchia, Olaf…bene così, Astrid, ma non dimenticare di tenere la punta del bastone sempre all’altezza degli occhi.»
Il ragazzo si lanciò in avanti e sferrò un attacco, ma la ragazza riuscì a compiere un rapido scarto laterale; si piegò sul ginocchio, e colpì il ragazzo dietro ai polpacci, facendogli perdere l’equilibrio e mandandolo al tappeto.
Boris annuì. «Eccellenti riflessi, Astrid.»
Con un movimento aggraziato, l’allieva recuperò la posizione piazzando il bastone lungo il fianco, e offrì un inchino al maestro, assieme a un enorme sorriso. Gli altri studenti applaudirono ammirati.
«Non prendertela, Olaf» disse Boris, tendendo una mano al ragazzo e aiutandolo a rimettersi in piedi. «Anche cadere è un utile allenamento: solo così impariamo a rialzarci.»
Olaf sorrise, dopodiché strinse la mano alla sua avversaria, complimentandosi con lei.
La scena provocò in Solomon reazioni contrastanti; una parte di lui trovava ridicole e antiquate le tecniche di combattimento propinate in quel posto, ma non poté non riconoscere i meriti di Boris come insegnante. Sapeva come farsi ascoltare e, malgrado potesse apparire burbero nell’aspetto, aveva sempre una parola gentile per tutti. E i suoi allievi lo rispettavano per questo, era evidente.
Solomon ripensò alla sua di classe, al modo in cui i suoi allievi lo guardavano, e questo generò in lui un moto d’invidia. Ma ripensò anche a quello che gli aveva detto Isabel il giorno prima…
“Li terrorizzi. Se sei il primo a non credere che ce la faranno, come possono convincersene?”
Li terrorizzo. Il primo insegnante di Solomon era stato suo padre, e sì, sin da bambino aveva imparato ad avere terrore di lui. Dei suoi improvvisi scatti d’ira. Delle sue punizioni. Delle parole piene di disprezzo che gli rivolgeva. E dei suoi occhi, profondi e gelidi, che si posavano su di lui a ogni fallimento, come se un figlio come Solomon fosse la peggior disgrazia che potesse capitare a qualcuno …
«Che ci fai qui, Blake?»
L’Arcistregone del Nord si era accorto della sua presenza, e ora lui e i suoi allievi lo stavano fissando, con un misto di stupore e sospetto.
Solomon seppellì quelle riflessioni in un luogo buio e recondito dentro di sé, schermandosi come al solito dietro la maschera dell’ironia. «Salute a te, Bo. Desolato di aver interrotto un così bel quadretto.»
Boris aggrottò la fronte. «Per oggi basta allenamenti, ragazzi, preparatevi per la cena. Vi raggiungo nella Sala della Guerra.»
«“La Sala della Guerra”» ripeté Solomon con solennità, mentre i ragazzi rientravano nel castello. «Che nome altisonante! Lo sanno che tutto quello che stai insegnando loro servirà a ben poco nella vita reale, vero? Non ci sono guerre da combattere ad Arcanta da almeno mille anni.»
«Quello che la Corte delle Lame cerca di insegnare non si limita al combattimento» ribatté Boris, accigliato. «Voglio che i miei studenti imparino ad affrontare le avversità con lo spirito del guerriero; con coraggio, ma sempre nel rispetto dell’altro. E di sé stessi.»
Solomon piegò le labbra in un ghigno. «Che belle parole. Ma prive di significato, temo: Arcanta non è la città adatta in cui coltivare i buoni sentimenti.»
«E cosa dovrei insegnargli? A essere come lo Sciacallo d’Argento?» chiese Boris. «Che si divertiva ad aizzare i suoi studenti gli uni contro gli altri, pur di elemosinare le sue grazie?»
«Io non ho mai elemosinato niente» replicò Solomon, asciutto, e per un attimo la maschera che indossava s’incrinò. «Absalom Grey sapeva come gira il mondo, e mi ha mostrato com’è realmente: un luogo spietato, dove sopravvive il più scaltro, non il più meritevole.»
«E Jonathan? Pensi che non fosse abbastanza meritevole?» disse Boris, guardandolo dritto negli occhi. «Ho conosciuto tuo fratello, ci siamo allenati insieme proprio qui, in questo cortile; era un ottimo mago ed era onesto.»
Il ghigno di Solomon scomparve. «Se fosse stato più furbo e meno onesto, non ci avrebbe lasciato la pelle. Comunque, non sono qui per rivangare il passato. Per quel che mi riguarda è morto e sepolto.»
Boris lo scrutò in profondità, come se stesse cercando di leggere qualcosa dentro di lui, qualcosa che Solomon era ben intenzionato a non mostrare. Alla fine, scosse la testa con un sospiro rassegnato e disse: «E allora di cosa vuoi parlare?»
«Speravo potessi aiutarmi a far luce su un piccolo mistero» rispose Solomon. «Non so se sei al corrente dell’incidente nel museo di Isabel.»
«Certo che ne sono al corrente» rispose Boris, incupendosi. «Quando è venuta a raccontarmelo, ho subito capito che la cosa l’aveva sconvolta più di quanto volesse mostrare. Quel posto significa tutto per lei.»
Stavolta, Solomon non riuscì a impedire allo stupore di affiorare sul suo volto.
Per quale motivo Isabel si era rivolta a Boris? Solomon le aveva già garantito che avrebbe risolto lui la faccenda! Era pur sempre suo marito, no? Non gli sembrava affatto corretto che coinvolgesse qualcun altro!
La cosa non avrebbe dovuto sorprenderlo, in realtà. Boris era stato il maestro di Isabel, e sapeva che la loro era una conoscenza di vecchia data. Malgrado ciò, la gelosia lo trafisse come una stoccata, violenta e improvvisa.
«Mi sono offerto di fornirle protezione, finché il colpevole non verrà catturato» stava intanto raccontando Boris. «Ma avrai imparato quanto possa rivelarsi testarda.»
Solomon lottò contro quel nuovo, inatteso turbamento, ma quando provò a eliminarlo, scoprì che non ci riusciva, e continuò a tormentarlo come una scheggia di legno sottopelle. «Grazie per l’offerta, ma sono perfettamente in grado di proteggere mia moglie. Infatti, ho già dei sospettati.»
Boris proruppe in una risata rauca. «Buona fortuna. Chiunque ad Arcanta non vedeva di buon occhio quel museo, ciascuno per un motivo diverso.»
«E tu, invece?»
«Io cosa?»
«Tu cosa pensavi a riguardo?»
La domanda sembrò confonderlo. «Che le avrebbe portato un sacco di problemi, come infatti è successo. Ma conosco Isabel e so quanto è determinata: qualunque cosa avessi detto per dissuaderla, non avrebbe sortito effetto.» Scrollò le possenti spalle, e il vento increspò la pelliccia sul bavero del suo cappotto. «E poi, la rendeva felice. Era davvero convinta di potercela fare, così io ho creduto in lei.»
«Nella donna che ti ha rifiutato?»
Boris lo guardò storto. Aveva capito dove voleva arrivare.
«Assurdo pensare a quante cose folli la gente faccia per amore» proseguì Solomon, mellifluo. «Soprattutto quando non viene corrisposto. Deve averti fatto molto male renderti conto che non sarebbe mai stata tua. Così tanto da spingerti, magari, a desiderare di ferirla con la stessa forza…»
«Per i Fondatori, non posso credere che tu stia dicendo sul serio!» ruggì Boris, oltraggiato. «Non farei mai nulla contro Isabel! Tengo veramente a lei, non come te, che ti sei introdotto nella sua famiglia per puro arrivismo!»
«Be’, se non hai nulla da nascondere, non ti dispiacerà dirmi dove ti trovavi al momento dell’esplosione.»
«Nella Sala della Guerra, coi miei studenti!» ringhiò Boris, il volto a chiazze rosse per l’indignazione e la rabbia. «Per la Lunga Veglia, come ogni notte di luna piena!»
«La Lunga che..?»
«È una tradizione della Corte delle Lame» spiegò Boris, infervorato. «Affonda le proprie radici nella cultura norrena; ci priviamo del sonno per un’intera notte, in modo da risvegliare il berserker assopito in ogni guerriero…»
«D’accordo, non mi interessa» lo interruppe Solomon, annoiato. Lo sdegno di Boris però gli sembrava sufficientemente credibile. Come pure il desiderio di prendere Solomon a pugni. Ma se non era stato lui, allora chi?
Amore e rabbia…dannazione, era convito di essere sulla buona strada!
«Molto bene, in tal caso tolgo il disturbo» disse alla fine, assorto nei suoi pensieri. «È stata una piacevole chiacchierata.»
Boris digrignò i denti. «Non penserai di cavartela così!? Prima vieni qui, mi insulti con le tue sporche accuse…!»
«Scusa, Bo, ma ho questioni più urgenti da risolvere. Se ti sei offeso, scrivimi una lettera di lamentele…»
Ma lo stregone non aveva finito con lui, e gli si piazzò davanti con fare bellicoso. «Non ho bisogno di scriverti un bel niente. Posso dirti quello che penso proprio qui, guardandoti in faccia!»
«Bene, allora fallo. Basta che sia una cosa veloce.»
«Credi di essere migliore di chiunque» disse Boris, gli occhi color ardesia fissi in quelli blu di Solomon. «Lo hai sempre pensato, da quando eri solo un ragazzino ferito e arrabbiato, che si isolava da tutti: anche allora trattavi gli altri come feccia. E sei troppo arrogante per renderti conto che incarni tutto ciò che di marcio questa città abbia prodotto da quando è stata fondata!»
Solomon lo ascoltò, sforzandosi di dominare la collera che aveva preso a turbinargli nello stomaco. «Può darsi. E malgrado tutto, lei ha scelto me.»
«E lo rimpiangerà per tutta la vita» esclamò Boris, con rabbia. «Meritava di meglio che ritrovarsi intrappolata con un sociopatico bipolare!»
«Un sociopatico narcisista» lo corresse Solomon. «C’è una bella differenza. Se vuoi insultarmi, almeno informati.»
Boris assunse una smorfia di disprezzo. «Perché stai facendo tutto questo? A te non importa di lei. Non ti importa di nessuno. È questa la differenza tra me e te, Blake: io non ho mai desiderato possedere Isabel, ma vederla realizzata e felice. Questo significa amare.»
Solomon tacque per un lungo momento. Poi, si accostò all’Arcistregone del Nord, quel tanto che bastava per sussurrargli: «Lascia che condivida con te una piccola lezione che questa città mi ha insegnato: l’amore rende deboli. E chi pensa il contrario ha vita breve.»
Boris sgranò gli occhi, ma prima che potesse ribattere, Solomon sparì, portato via da una folata di vento invernale.
 
Il bersaglio di sughero pendeva instabile alla parete del salotto, tra librerie e quadri a olio. Ogni volta che il coltello dall’impugnatura d’argento veniva scagliato, centrava con precisione chirurgica l’obiettivo, infilzando un ritaglio dell’Oraculum ridotto a brandelli, ma che mostrava ancora l’immagine parzialmente animata della Cittadella.
Solomon sedeva scomposto in poltrona, una gamba accavallata sul bracciolo e la vestaglia aperta sul pigiama. Imbronciato, sollevò la mano e comandò al coltello di staccarsi e ritornare in suo possesso, per poter essere lanciato da capo.
Non riusciva a capacitarsi di essere ancora al punto di partenza. Come era possibile? Cosa aveva trascurato? Si trovava sul serio di fronte un avversario così abile, tanto da lasciarlo ancora lì, a brancolare nel buio?
Qualcuno bussò alla porta. «Padron Blake» borbottò la cavernosa voce di Valdar. «Cena è pronta.»
«Non ho fame» replicò lo stregone, facendo ruotare il coltello tra le dita. «Come vedi sono piuttosto impegnato.»
Valdar passò lo sguardo sul bersaglio e poi di nuovo su Solomon. «Padrone sta bene?»
«A meraviglia. Pugnalare a morte la Cittadella mi aiuta a pensare.»
«Se lo dice il padrone.»
Solomon lanciò di nuovo il coltello e attese che ritornasse nella sua mano, poi si girò a guardarlo. «Per pura curiosità, cosa avresti preparato?»
«Stufato di ratto selvatico» rispose fiero Valdar. «Con contorno di alghe palustri e uova di rospo.»
Lo stregone storse la bocca. «Suona disgustoso. D’accordo, magari solo un boccone.»
Infilzò il pugnale nel bracciolo della poltrona e seguì l’orco in sala da pranzo. Sulla tavola sembrava fosse stato ricreato un campo di battaglia, rallegrato senza molto successo da un vaso pieno di fiori morti.
Solomon scosse mestamente il capo. «Hai davvero bisogno di un corso accelerato su come apparecchiare.»
«Lucia iniziato a insegnare a Valdar» rispose l’orco, grattandosi la testa calva. «Ma lei passato ultimi giorni in camera sua. Sembra triste.»
Solomon sospirò. «È arrabbiata, non triste. Le parlerò, appena avrò risolto la faccenda dell’attentatore. Un problema alla volta.»
Compì un giro del tavolo, esaminando l’accozzaglia di posate e stoviglie. «Così non va decisamente bene. Allora.» Prese in mano una forchetta d’oro e la mostrò all’orco. «Questa è una forchetta e il suo posto è qui, a sinistra del piatto. Mentre il posto dei cucchiai è a destra. Mi segui fin qui?»
«Forchetta a sinistra, cucchiaio a destra. Valdar ha capito.»
«Ottimo, ragazzo. Adesso passiamo ai tovaglioli…»
«Padron Blake come ha imparato tutte queste cose?»
Solomon posizionò con cura la forchetta da dessert sopra il piatto da portata. «Da bambino non avevo molti amici» confessò, dopo una breve esitazione. «Ma ho trascorso un sacco di tempo coi domestici. E tu, invece? Chi ti ha insegnato a cucinare?»
L’orco arricciò il labbro superiore, mostrando un largo sorriso zannuto. «Moglie di Valdar, Pomona.»
Solomon sollevò la testa di scatto, sbalordito. «Aspetta…tu sei sposato?!»
Il sorriso di Valdar si curvò in maniera strana. «Pomona era una delle orchesse più coraggiose di tribù. Una volta, noi era accampati tra le montagne e finito scorte di cibo. Valdar andò a caccia, ma riuscì a catturare solo un paio di conigli. Pomona intanto trovato muschi e radici, e insegnato a Valdar e suoi guerrieri come preparare un delizioso stufato, che saziò tutti noi. Lei salvato nostre vite.»
«Per tutti i demoni, perché non mi hai detto che hai una moglie?» si stupì Solomon. «Ti avrei riportato da lei in un baleno! Sai dove si trova in questo momento? Se mi dai qualche indicazione, posso spedirti lì con un incantesimo…»
«Padron Blake gentile» disse Valdar, sempre con quello strano sorriso triste. «Ma sarebbe inutile.»
«Oh, suvvia! Probabilmente ti beccherai un sano rimprovero per essere sparito per mesi senza dare notizie, ma sono sicuro che sarà contenta di rivederti…»
«Pomona è morta.»
Quelle parole sortirono l’effetto di un pugno nello stomaco. «Io…mi dispiace» fu tutto ciò che Solomon riuscì a farfugliare. «Come…? Quando…?»
Valdar raccolse un fiore appassito dal vaso a centro tavola e lo osservò per un istante, a testa china. «Quando uomini malvagi trovato villaggio di Valdar, lui era in missione contro tribù nemica. Lasciato soli donne e bambini. Una volta tornato, Valdar trovato villaggio distrutto dal fuoco.» La sua voce possente si spezzò, e strinse il gambo del fiore tra le enormi dita. «Pomona difeso nostra gente con coraggio, ma sua ascia non abbastanza contro fucili umani. Loro non avuto pietà, nemmeno per cuccioli. Anche piccolo Daltar morto. Aveva appena tre primavere.»
Solomon restò lì, impalato a un capo del tavolo, con una forchetta da dessert in mano. Per la prima volta dopo molto tempo, non sapeva cosa dire.
Valdar adagiò delicatamente il fiore su un piatto. «Uomini venuti in villaggio di Valdar per uno scopo. Loro in cerca di cane da guardia. Quando Valdar si gettò su di loro con tutta sua furia, loro capito che Valdar cane da guardia più feroce di tutti. E deciso di catturarlo.»
«Avresti dovuto dirmelo» disse Solomon, con voce bassa e colma di gelida rabbia. «Non avrei avuto pietà per nessuno di loro.»
«Padron Blake grande mago, questo Valdar lo sa» disse l’orco. «Ma Valdar sa anche che morte di uomini malvagi non potergli ridare sua famiglia.»
Una mano gelida si chiuse attorno al cuore di Solomon. Valdar aveva ragione. I morti sarebbero sempre restati tali, anche qualora la sete di vendetta fosse stata saziata... ma nessun carnefice meritava di restare impunito. Nessuno. «Non posso restituirti ciò che hai perso» convenne. «Ma punire i responsabili, questo sì. Hai la mia parola.»
Valdar inchinò il capo. «Grazie, Padrone.»
Solomon prese un respiro profondo, ma il gelo lasciato dalla storia dell’orco nel suo petto non accennò a svanire. «Sai che ti dico? Penseremo più tardi a sistemare la tavola. Vieni, c’è una cosa che voglio mostrarti.»
Guidò Valdar verso l’ala del palazzo dove si trovavano i suoi appartamenti privati, che fino a quel momento gli aveva precluso. Infatti, quando si trovò sulla soglia della camera padronale, Valdar esitò. «Padron Blake…»
«Entra, giovanotto. Per questa volta hai il mio permesso.»
E l’orco entrò, guardandosi attorno con educata curiosità.  Le pareti di legno scuro erano in gran parte occupate da librerie, ma lo spazio sugli scaffali era stato esaurito ormai da tempo; infatti, c’erano così tante pile di volumi in giro che la stanza stessa sembrava fatta di libri. Sopra l’enorme letto a baldacchino dai tendaggi di velluto, il soffitto a volta era blu lapislazzuli, solcato da costellazioni in madreperla; un vasto assortimento di candele circondava uno scrittoio, dove Wiglaf dormiva sopra un teschio umano, accanto a una raccolta completa di opere di Edgar Allan Poe, tutte autografate. Ma Solomon si diresse a passo sicuro verso l’altro capo della stanza e aprì due porte d’ebano dalle maniglie a forma di falci di luna. L’orco si avvicinò timidamente.
Le porte davano su un’enorme cabina armadio, anche se ricordava più l’atelier di uno stilista, rivestita da specchiere e piena di manichini con indosso abiti confezionati con le stoffe più pregiate.  Solomon sogghignò, sfregandosi le mani. «Diamoci da fare!»
Valdar rimase a osservarlo, mentre lo stregone apriva ante e cassetti e ne tirava fuori foulard, cravatte e camicie di seta. «Mhm questo no, quest’altro neppure, e questo…cielo, decisamente no! Ah-ah! Trovato!»
Tornò dall’orco, reggendo un metro a nastro e un rotolo di lana marrone, dalla rigatura a lisca di pesce. «Tweed, ecco ciò di cui abbiamo bisogno!»
«Bisogno per cosa?» domandò l’orco.
«Per confezionare il tuo abito» rispose Solomon. Poggiò la stoffa su un manichino e tese tra le mani il metro, passando poi a prendere le misure di Valdar. Un po’ imbarazzato, l’orco lo lasciò fare. «Vestiti di Valdar non vanno bene?»
«Giovanotto, se intendi essere al mio servizio, dovrai avere l’aspetto di un gentiluomo. Perfetto, ora resta assolutamente immobile.»
Con uno schiocco di dita, lo stregone comandò alla stoffa di sollevarsi in aria e fluttuare attorno all’orco. Memore di quando Solomon aveva usato lo stesso trucco per immobilizzarlo, con le tende di broccato del Palazzo di Caterina, Valdar s’irrigidì. «Padrone…»
«Ci vorrà solo un momento. Braccia e gambe divaricate, per favore.»
La stoffa si avvolse attorno alle grosse braccia, al torace e all’addome prominente dell’orco, per poi passare a fasciargli le gambe. Un altro schiocco di dita, e ago, filo e forbici schizzarono fuori da un cassetto. Valdar mantenne pazientemente la posizione di una stella marina, mentre l’abito prendeva forma. Infine, Solomon arretrò di un passo, per studiare il risultato. «Non c’è male. Tu che dici?»
Fece ruotare una specchiera e l’orco contemplò il proprio riflesso a bocca aperta. «Valdar è…»
«Elegante, lo so.»
«Come Padron Blake?»
Lo stregone scrollò le spalle. «Be’, ci possiamo lavorare.»
Valdar si esaminò da varie angolazioni, con aria soddisfatta. «Grazie, padrone. Questa sarà nuova armatura per Valdar.»
«Figurati» borbottò Solomon. «Allora, il mio sformato di ratto? Creare abiti mi mette appetito.»
Tornati insieme nella sala da pranzo, Valdar gli lasciò davanti un piatto fumante su cui Solomon era ben intenzionato a non indagare, ma quando fece per andarsene, lo stregone disse: «Magari, ti andrebbe di farmi compagnia.»
L’orco se ne stupì. «Padrone troppo gentile.»
«Forza.» Solomon ruotò il dito e la sedia alla sua destra si spostò. «Mi hai messo addosso una certa curiosità sul tuo popolo.»
Valdar si sedette sgraziatamente. Solomon gli augurò buon appetito e iniziò a tagliare il suo ratto stufato. Ma a quel punto, completamente a caso, l’orco afferrò i fiori dal centrotavola e se li cacciò in bocca.
«E ora che cosa stai facendo?!»
Valdar mandò giù il boccone, i gambi mozzati in pugno. «Valdar mangia.»
«I fiori non si mangiano!» ribatté Solomon, allibito. «Sono lì per decorazione! Non per…»
Le parole gli morirono sulle labbra, mentre veniva attraversato da un pensiero folle, improvviso, come un fulmine a ciel sereno.
«I fiori» disse, con un filo di voce. «Il polline…amore e rabbia…ma certo! Oh, che idiota che sono! Come ho fatto a non arrivarci subito?!»
Solomon scattò in piedi, il volto illuminato da un sorriso estatico. «Devo andare!»
«Ma la cena…» obiettò Valdar.
«Mettimela in caldo, la mangio più tardi» disse frettolosamente Solomon, correndo ad afferrare il cappotto. «Anzi, prepara anche un po’ di quel tuo ruskjjak, dobbiamo festeggiare! Oh, Valdar, sei un genio! Ti darei un bacio su quella tua zucca pelata!»
L’orco lo guardò mentre recuperava bastone e cilindro e poi si fiondava in un armadio, senza badare al fatto che indossasse ancora il pigiama sotto al cappotto. Se prima nutriva qualche dubbio a riguardo, adesso Valdar ne era sicuro.  Solomon Blake era matto da legare.
 
«Vorrei proprio sapere che ha che non va quell’uomo» commentò Alvaro Ascanor, trattenendo uno sbadiglio. «Qualcuno ha idea del perché ci abbia fatti venire tutti qui? A quest’ora indecente, poi?»
«Suppongo tu abbia dovuto rinunciare a impegni improrogabili» lo punzecchiò il fratello, Tristan. «Una rissa? O eri a ubriacarti in qualche taverna?»
«E tu, fratellino? Hai dovuto interrompere il tuo rituale di bellezza serale?»
«Niños, por favor» li riprese doña Madragana, facendosi aria con un ventaglio di pizzo. «Va bene tutto, ma svegliare il vostro povero padre nel cuore della notte è una mancanza di rispetto!» Scoccò un’occhiata fulminante alla figlia più giovane. «Mi auguro che tuo marito abbia delle buone motivazioni.»
Seduta su un divano barocco, accanto a un indifferente Xavier, Isabel sospirò. «Le ha di sicuro, madre.»
«Non mi è mai piaciuto» disse Madragana, continuando a sventolarsi. «È un insolente. Ci metterei la mano sul fuoco che il vero obiettivo di chi ha attaccato il tuo museo fosse lui! E non dire che non ti avevo avvertito!»
«Madre, non ricominciare…»
«Te lo avevo detto io che era un rischio! Ma tu quando mai hai ascoltato le parole della tu pobre mamá…?»
Isabel era pronta a risponderle per le rime, quando le porte del salone si spalancarono.
«Buonasera a tutti» esordì Solomon Blake. «Signori, signore…chiedo scusa per l’orario.»
«Venga al punto, Blake!» sbottò Alvaro. «Che sta succedendo?»
Lo stregone sorrise. «Succede che credo di avere degli interessanti sviluppi riguardo il misterioso incidente al museo.»
Isabel si sporse in avanti, e fissò suo marito con tanto d’occhi. «Davvero? Hai scoperto chi è stato?»
La bramosia dipinta sul suo volto era qualcosa di impagabile. Solomon gongolò tra sé. «Oh, sì. L’ho scoperto.»
«E come mai non è andato subito a denunciarlo?» domandò Melkisedek, seduto ritto come una sfinge al fianco di Sebastian, che sonnecchiava in carrozzina. «Il Decanato deve essere messo al corrente per primo! Sono le procedure.»
«Ogni cosa a suo tempo» replicò Solomon. «Pensavo che avreste tutti tratto un sospiro di sollievo nel sapere che Isabel non sia più in pericolo.»
«Oh, per i Fondatori!» esalò Alvaro. «Ci dica chi è stato! Così potrò andare a tagliargli la gola io stesso!»
«Non ce ne sarà bisogno» replicò Solomon. «Perché il colpevole è proprio qui, in questa stanza.»
All’affermazione, calò il silenzio. Solomon si godette la sensazione di avere i riflettori puntati addosso, e fece una piccola, studiata pausa.
«Inaudito!» esclamò Tristan. «Sta insinuando che si tratti di un membro della famiglia?»
«Non lo sto insinuando. Lo so per certo.»
Solomon si interruppe, volgendo gli occhi sugli ascoltatori, tutti più o meno con la stessa espressione: di aspettativa, rabbia e preoccupazione insieme. Be’, tutti eccetto Xavier. Lui, come al solito, sembrava incapace di esprimere la benché minima emozione.
«Vi posso assicurare che sono arrivato a questa conclusione dopo aver vagliato tutte le ipotesi possibili» riprese Solomon. «La soluzione più ovvia era che le accuse cadessero sul Cerchio d’Oro, esattamente come era nelle speranze dell’attentatore.»
Solomon guardò Melkisedek, che ricambiava il suo sguardo con forza, le braccia incrociate e il naso aquilino che svettava verso l’alto.
«Le motivazioni, infatti, c’erano tutte» disse Solomon. «A nessun alchimista andava a genio che una donna potesse rivaleggiare con la Cittadella, ma avrebbe di sicuro trovato metodi più sottili per indurla a retrocedere. Il che mi ha però spinto a pensare: forse, l’attentatore non temeva che il laboratorio avesse successo. Forse, temeva che potesse fallire.»
«Sta parlando a vanvera» borbottò Alvaro. «Belle, tuo marito è pazzo!»
Isabel non gli rispose, totalmente presa dal discorso di Solomon.
«La persona dietro l’attentato non desiderava fare del male a Isabel» continuò lo stregone, accigliandosi. «Desiderava, invece, proteggerla. Da ciò che avrebbe scatenato. Dall’odio della gente. Dalla delusione di vedere il proprio sogno infrangersi.» Lo stregone compì un mezzo giro su se stesso, e stavolta i suoi occhi si soffermarono su una persona in particolare. «Proprio come è accaduto a lei in passato. Non è vero, doña Madragana?»
Gli Ascanor trattennero il fiato. Il movimento del ventaglio della dama si interruppe, e suoi occhi scuri e fieri trafissero quelli di Solomon. «Come, prego!?»
Isabel guardò Solomon e poi sua madre, esterrefatta. «Màma…?»
«Anche lei è stata a suo tempo un’eccellente alchimista» disse Solomon, fissando la donna con intensità. «Però ha scelto di piegarsi alle convenzioni di una società che schiaccia qualsiasi aspirazione femminile. Si è sposata, ha avuto dei figli, e ha messo da parte la sua… particolare predisposizione per gli esplosivi.»
Doña Madragana chiuse il ventaglio di scatto. «Ma che bravo, señor Blake» disse, gli occhi ridotti a due schegge. «Ha fatto le sue ricerche.»
Isabel era sconvolta. «No! Non può essere!»
«E infatti non lo è!» ribatté Madragana, seccata. «Non ha le prove!»
«Invece le ho» disse Solomon. «So che al momento dell’esplosione si trovava qui al cigarral.»
«A vegliare su mio marito!»
«Non proprio. Era Melkisedek a vegliare su Sebastian. Lei, invece, si trovava nel suo orto, è esatto?»
«A raccogliere erbe! Per la sua pozione!»
«Vero, ma non è rimasta certo lì tutta la notte» disse Solomon. «Le serviva un alibi, perciò ha fatto in modo di svuotare l’ampolla con la pozione di suo marito prima del tempo, in modo che Melkisedek dovesse prepararne altra. Ma era troppo occupato per accorgersi che lei intanto aveva lasciato il palazzo.»
Madragana allargò le narici, furente. «Non può dimostrarlo.»
«Ma posso dimostrare che sulla scena del crimine c’era del polline» ribatté Solomon, tranquillo. «Polline di peonia rossa, ho indovinato? Come quelle che ha raccolto l’ultima volta che abbiamo pranzato tutti insieme, per il suo centrotavola.»
Si volse in direzione di Melkisedek, che per una volta parve sorpreso. «È corretto. Il polline apparteneva a delle peonie.»
«Con la gonna ancora impregnata di polline, si è poi introdotta nel museo» continuò Solomon. «E lo ha distrutto. Poi ha dovuto solo aspettare che il Cerchio d’Oro finisse il lavoro. Del resto, chi meglio della moglie di un Decano sa quando sia lenta la burocrazia di Arcanta? Il museo sarebbe rimasto chiuso il tempo sufficiente perché sua figlia si convincesse a lasciar perdere il suo progetto. Prima che qualcun altro la fermasse.» E su quelle parole, Solomon estrasse teatralmente dalla tasca il piccolo bottone d’argento, identico a quelli che ornavano la giacca di velluto della donna. «Rabbia e amore.»
Isabel guardò sua madre con occhi enormi, pieni di lacrime. L’arroganza di Madragana parve vacillare. «Niña…ti posso spiegare.»
«Come hai potuto?» gridò Isabel. «Tu, mi madre! Perché non hai creduto semplicemente in me per una volta?»
«Perché questa città non è pronta ad accettare le tue idee, Belle! Cercavo solo di proteggerti…!»
Madragana allungò una mano verso la sua, ma la ragazza si allontanò bruscamente.
«Belle!» gemette la donna. «Piccola, ti prego, cerca di capirmi…!»
Isabel si premette una mano sul petto, e trasse un profondo sospiro tremante. «Mi serve aria.»
E lasciò la stanza, passando accanto a Solomon senza neanche guardarlo.
La cosa lo lasciò interdetto. Cosa si era aspettato? Aveva appena rivelato che sua madre le aveva distrutto la cosa a cui teneva più al mondo…pensava che lo avrebbe nominato suo eroe?
Nella stanza, intanto, si era creato il caos, tutti parlavano gli uni sugli altri, increduli e disorientati. Madragana piangeva silenziosamente, il viso tra le mani.
Bel lavoro, genio, disse una vocina nella testa di Solomon. Guarda cosa hai combinato!
Erano tutti troppo presi dal piccolo dramma che aveva scatenato per accorgersi di lui. Così, Solomon uscì in cerca di Isabel.
La trovò seduta per terra, sul prato sul retro del cigarral, sotto il chiarore argenteo della luna. Solomon l’affiancò. «Posso sedermi?»
Lei annuì, impercettibilmente.
Per un po’ rimasero seduti vicini sull’erba, col sottofondo musicale dei grilli.
«Mi dispiace» disse lui, infine. «Ero convinto che ti avrebbe fatto piacere.»
«Piacere non è la parola che avrei scelto.»
«Non intendevo…» Solomon si sforzò di trovare qualcosa di adatto da dire. Proprio lui, che aveva sempre fatto delle parole uno strumento e un'arma, adesso era in difficoltà. «Cercavo di mettere le cose a posto. Tua madre ha sbagliato, ma sono convinto che desiderasse fare il tuo bene.»
Isabel scosse la testa. «Il mio bene? Ai suoi occhi sono sempre stata sbagliata. Troppo esuberante, troppo cocciuta...»
«Noto una certa somiglianza» commentò Solomon. «Spesso le persone a cui teniamo sono quelle che facciamo soffrire maggiormente. Lo hai detto tu.»
Isabel si strinse le ginocchia al petto. «Desideravo solo che la gente apprezzasse il mio lavoro, che ne vedesse l’utilità. Non è tanto la distruzione del museo in sé ad avermi fatto male. È sapere che nessuno creda in me.»
«Io ci credo.»
Lei si voltò a guardarlo, stupita.
«Insomma, inizio a crederci» ribadì lui, un po’ in imbarazzo. «Così come ci credono le tue allieve. E ci crederà sempre più gente, un po’ alla volta. Se siamo noi i primi a non aver fiducia, come potranno farlo gli altri? Anche tua madre prima o poi capirà, e sarà orgogliosa della donna che ha cresciuto.»
Isabel tacque per un lungo momento. Poi, lentamente, tese la mano e la posò su quella di Solomon. «Grazie di averlo detto» disse piano, guardandolo negli occhi, e un piccolo sorriso fece capolino sulle sue labbra. «E per avermi aiutata.»
Solomon acconsentì a quel contatto, sorprendendosi di quello che scatenò dentro di lui. Di come fu improvviso, semplice e allo stesso tempo potente. Somigliava alla rabbia, e ne condivideva la voracità, quella di un incendio che divampa in una foresta. Ma rabbia non era. E non era paragonabile a nient’altro avesse mai sentito prima d’ora…
La cosa lo terrorizzò. Fu quasi grato quando, dopo qualche istante, lei ritrasse la mano.
«Meglio che torni dentro» disse Isabel, passandosi una mano sotto gli occhi per asciugare le lacrime. «E cerchi di risolvere questo macello.»
Si sollevò in piedi, spazzolò le pieghe della gonna. «Per favore» disse, prima di tornare verso il palazzo. «Potresti solo non…ecco…»
«Non…non dirò nulla» balbettò Solomon, ancora scombussolato. «Resterà tra noi.»
Lei gli rivolse un altro sorriso, umido di lacrime, ma luminoso. «A venerdì, allora.»
L'espressione di lui doveva essere completamente persa, perché Isabel ridacchiò. «Per la lezione di duello. Come vedi, stavolta non me ne sono dimenticata!»

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Capitolo 28
*** Lettere dal fronte ***



LETTERE DAL FRONTE

 
 
La Panne, 1915
 
Abigail imprecò, mentre, seduta allo scrittoio nella sua stanza, sbrogliava i fili di spago che stava intrecciando, rabbuiandosi al pensiero di dover ricominciare daccapo. Proprio non riusciva a restare concentrata, quella mattina. Era sempre stato il suo più grande problema, sin da quando aveva imparato i rudimenti della magia: concentrazione e focalizzazione. Suo padre non faceva che ripeterglielo…
«Forza» disse a se stessa, in tono risoluto. «Ci puoi riuscire. Ci devi riuscire!»
La più grande nemica della magia era la fretta, anche questo le era stato ripetuto innumerevoli volte. Fretta di imparare, di veder sbocciare i risultati prima del tempo. Ma nessun incantesimo poteva essere eseguito senza una padronanza profonda della materia, senza conoscere in maniera chiara i fenomeni e le metamorfosi che si volevano innescare. E una tale conoscenza si acquisiva solo con anni di studio e pratica.
Ma Abigail non aveva tempo. Non aveva mai eseguito nulla di simile in vita sua, e non poteva permettersi di studiare approfonditamente i sortilegi protettivi in un giorno. Doveva farsi bastare quel poco che sapeva e la propria Volontà.
Così, aggrottò la fronte e riprese ad attorcigliare i filamenti di cotone tra loro, unendo all’intreccio una sottile ciocca dei suoi capelli; ricordava bene la prima volta che aveva sentito parlare di quel tipo di magia, che ad Arcanta veniva considerato grossolano e antiquato, un retaggio del Vecchio Mondo, e che oggigiorno sopravviveva in alcune zone dell’Africa e dei Caraibi. Era stato un giovanissimo Solomon Blake a parlargliene, al rientro da quelle terre esotiche e lontane, mentre faceva rapporto a suo padre sulla sua ultima missione ad Haiti. Missione che, stando al suo racconto, aveva coinvolto trecentosessanta cannoni, una nave piena di pirati e un console francese trasformato in caprone. Malgrado il successo, suo padre all’epoca era andato su tutte le furie a causa del modo rocambolesco con cui l’Arcistregone dell’Ovest aveva portato a termine l’incarico. E fu proprio il ricordo di Tibor Blackthorn, dell’ira che aveva manifestato quel giorno di fronte a chi aveva trasgredito le sue regole, a infonderle la determinazione che le serviva. Non gli avrebbe permesso di fare del male a Tom, né di minacciarla.
Quando ebbe terminato, Abigail lasciò di corsa la casetta che condivideva con le altre infermiere a La Panne, diretta alla caserma. Il piazzale era gremito di soldati che si apprestavano a partire, e la ragazza dovette farsi strada sgomitando. «Permesso, vi prego…devo passare!»
Miracolosamente, riuscì a individuare, in quell’insieme confuso di uniformi, zaini, elmetti ammaccati e fumo di sigaretta, un gruppo di volti familiari.
«Miss Abigail!» la accolse sorridendo James Finnegan; anche lui, come Pàdraic, Regan e O’Connor, stava issando provviste e armamenti su un camion. James intuì al volo che Abigail stesse cercando qualcuno in particolare, e il suo sorriso si attenuò un poco: «Mi spiace, miss, Tommy è andato avanti con la prima unità. Sono partiti all’alba.»
Ad Abigail si spezzò il respiro. Era arrivata tardi.
«Non gli sono mai piaciuti gli addii» spiegò il ragazzo. «Però, gli dirò che è venuta a salutarlo. Ne sarà felice.»
Abigail strinse il grossolano bracciale di filamenti di cotone e capelli, lottando contro il magone che le era salito in gola. «Grazie…speravo potessi anche dargli questo.»
Gli porse il braccialetto, sentendosi mortalmente in colpa per non aver messo in conto di farne uno anche per James o per gli altri ragazzi, e respinse dentro di sé il pensiero che forse quella era l’ultima volta che li vedeva.
James prese il bracciale e lo infilò in tasca senza fare domande. «Glielo darò appena lo vedo. E… Abigail?»
La ragazza lo guardò, e James le dedicò uno dei suoi sorrisi aperti e contagiosi. «Non stia in pena per lui. Ci siamo noi a guardargli le spalle! Glielo riporterò sano e salvo, parola mia.»
Con le lacrime agli occhi, Abigail lo abbracciò, grata e commossa dalla sua amicizia. «Ti ringrazio, James» sussurrò, contro la sua divisa. «Fa’ attenzione. Tutti voi.»
Lui ricambiò la stretta, poi le rivolse un ultimo inchino e montò dietro ai compagni sul furgone.
 
Abigail rientrò all’Ambulance de L’Océan con gli occhi che le pizzicavano e il cuore colmo di tristezza. Fece davvero del suo meglio per ricomporsi e concentrarsi sui pazienti da accudire, ma quando incrociò lo sguardo di Gwen, sopra la cartella clinica che stava esaminando, e quando poi lei le corse incontro, riuscì a non scoppiare a piangere con immensa difficoltà.
«Sono andati?»
Abigail fece un secco cenno con la testa. «Lo so che non possiamo salvarli tutti…»
«Lo so che lo sai. Ma è comunque uno schifo.»
Le permise di cingerla in un breve abbraccio, dopodiché si asciugò gli occhi e tornò al lavoro.
 
Trascorse una settimana. Poi ne trascorsero due.
Le giornate all’Océan continuavano a svolgersi all’insegna della monotonia, ma i pensieri di Abigail valicavano di continuo quelle mura sicure, notte e giorno, per spingersi oltre i boschi verdi e dorati, fino alla prima linea.
Dall’Océan il fronte appariva solo come una macchia fuligginosa sull’orizzonte, nient’altro che una linea segnata su una mappa, e la sua presenza si faceva avvertire tramite il latrato dei fucili e l’odore di polvere da sparo portato dal vento. Abigail sapeva che nella trincea i soldati morivano di continuo, certo, lo aveva visto. Ma era sempre stato qualcosa di distante, quasi come se quell’orrore stesse avvenendo in un altro Paese, e non a una manciata di miglia da lei. Mai come in quei giorni era stata così consapevole di cosa significasse avere la Guerra a due passi, e, se prima di conoscere Tom si era sentita addolorata per la sorte toccata a quegli uomini, solo adesso comprendeva realmente cosa si provasse a vivere nella paura.
«È non sapere la cosa peggiore» era riuscita a confessare una volta a Gwen, spezzando il silenzio che si era autoimposta sull’argomento dalla partenza di Tom. «La mia mente immagina gli scenari più orribili. Vorrei solo essere sicura che stia bene.»
E poi, un giorno, come se qualcuno avesse udito ed esaudito le sue preghiere, iniziarono finalmente ad arrivare le lettere. Una volta alla settimana, una camionetta raggiungeva La Panne, e un incaricato si premurava di fare in modo che la posta dei soldati fosse spedita alle loro famiglie, in patria. E, tra le missive che avrebbero oltrepassato la Manica, ce n’era sempre una anche per Abigail.
La prima volta Gwen era entrata urlando in ambulatorio mentre Abigail e Fanny stavano girando un soldato mutilato sul fianco. Ovviamente, Fanny non l’aveva presa per niente bene.
«Ma gliela manda Tom!» aveva strillato Gwen, saltellando sul posto. «Che ti avevo detto, amica mia? Devi solo avere fede!»
Malgrado la curiosità, le due lasciarono ad Abigail un po’ di privacy, mentre la ragazza apriva con trepidazione la busta e ne estraeva un foglio sgualcito e macchiato di fango.
Il contenuto era breve, neanche mezza pagina, scritta con una grafia infantile e frettolosa:
 
Cara Abigail,
spero che questa lettera ti raggiunga nel più breve tempo possibile. È difficile trovare un momento per scrivere, qui. C’è sempre così tanto lavoro, e sembra che i tedeschi non dormano mai.
Io sto bene, e anche James, Pàdraic e gli altri. Ti mandano i loro saluti e sperano che anche voi ragazze stiate tutte bene.
Scrivimi al più presto, se puoi. Ti penso ogni giorno.

Tuo, Tom
 
 
 Solo poche righe, ma bastarono a colmare il cuore Abigail di calore.
“Ti penso ogni giorno”.
Accoccolata in un angolino appartato, lei abbandonò la testa contro la parete con un sospiro, e sollevò lo sguardo verso il cielo azzurro oltre i vetri della finestra, stringendosi la lettera al petto.
 
 
Le lettere non giungevano mai in maniera regolare. Per quindici giorni di fila o più capitava che non arrivasse niente, e questo bastava a riaccendere nuovamente in Abigail la paura che fosse capitato qualcosa di terribile. Prestava sempre estrema attenzione alle notizie che giungevano all’Océan, origliando le conversazioni dei medici e degli ufficiali e facendo mille domande ai soldati ricoverati.
Ma ogni volta che una lettera nuova arrivava, Abigail si sentiva impazzire dalla gioia. Se non aveva modo di leggerla subito, si costringeva a portare pazienza fino a che non era da sola in camera sua. Le sue amiche spesso insistevano affinché leggesse il contenuto anche a loro, almeno finché Fanny non le obbligava a lasciarla in pace.
 
Cara Abigail,
La forte pioggia degli ultimi giorni ha quasi allagato la trincea e ho avuto il serio terrore che il mio quaderno fosse andato distrutto. Per fortuna non era ridotto troppo male.
Pàdraic però si è preso il raffreddore. Sono un po’ preoccupato, mi auguro che non peggiori. Teniamo tutti duro e ci guardiamo le spalle a vicenda. E poi, ho il tuo amuleto a proteggermi, perciò non ho paura. Tu come stai? Lavori tanto? Fanny si sta comportando bene? Non vedo l’ora di avere tue notizie. Ti scriverò un’altra lettera al più presto.
 
con affetto, Tom
 
Abigail rileggeva quelle lettere così tante volte al giorno da averle imparate a memoria. Ormai erano la prima cosa a cui pensava appena sveglia, un motivo per aspettare con trepidazione la settimana successiva.
 
Cara Abigail,
ieri notte ti ho sognata. Camminavamo insieme per le strade di Limerick e ti mostravo tutti i miei posti preferiti. Quando la guerra sarà finita, mi piacerebbe portartici per davvero. E magari, se lo vorrai, presentarti la mia famiglia. Piaceresti un sacco a mia madre. E poi ti porterei a visitare la brughiera, e le scogliere. Non credo ci sia cosa al mondo che mi renderebbe più felice.
Scrivimi presto.
 
Con affetto, Tom
 
 
E Abigail gli scriveva ogni giorno, cercando di essere sempre vivace, di raccontargli qualcosa di allegro, degli alberi in fiore nel frutteto dell’ospedale, dei battibecchi tra Gwen e Fanny, dei miglioramenti dei suoi pazienti. Ma la logorava che lui fosse così vicino e allo stesso tempo così distante.
Intanto, l’estate passò, così velocemente che Abigail se ne rese conto quasi per caso, quando ormai il fogliame aveva iniziato a invadere le strade di La Panne e la pioggia a cadere tutti i giorni.
 
Cara Abigail,
Le ultime battaglie hanno fatto tanti morti, ma sia io che i miei compagni ne siamo usciti incolumi. So che hanno portato all’Océan uno dei nostri, Dominic O’Shea, per un trauma alla testa. Lo hai visto? Sai se sta bene?
Piove in continuazione e quando non stiamo di guardia passiamo le giornate ad aggottare l’acqua e il fango in pentole e padelle e cercare di tenere all’asciutto le provviste.
Pàdraic ha una gran brutta tosse, a turno gli prestiamo le nostre casacche e gli facciamo bere whiskey per tenerlo al caldo. Quando il generale non c’è ci mettiamo a cantare le sue canzoni preferite. Se non altro, almeno ora è un po’ più allegro. James invece mi ha detto di aver fatto amicizia con un topo. Ce ne sono parecchi che scorrazzano per la trincea. Poveracci, anche loro devono essere spaventati e affamati quanto noi!
 
 
Cara Abigail,
siamo stati sotto attacco per tre giorni di fila. Ci sono stati momenti in cui ho avuto seriamente paura, soprattutto quando una granata è caduta vicinissima alla nostra base. Non mi sono fatto niente, e nemmeno James, che era con me, ma un paio dei nostri sono rimasti bloccati sotto ai detriti e per un attimo abbiamo temuto il peggio. Siamo riusciti a tirarli fuori appena in tempo, grazie a Dio.
Il temporale ha interrotto le operazioni, ma ci aspettiamo che si riprenda a sparare da un momento all’altro. L’attesa è tremenda.  Ce ne stiamo tutti qui, con gli stivali immersi nel fango, sotto la pioggia, ad aspettare che il nemico faccia qualcosa.
Li sentiamo parlare, urlare in quella loro lingua incomprensibile, qualche volta ridere. Ogni tanto qualcuno si rivolge a noi: “Hei, Tommy! How are you?” ci chiedono. Per loro ci chiamiamo tutti “Tommy”.
Mi chiedo sempre come si stia dall’altra parte. Anche i crucchi non osano alzare la testa per paura di essere beccati dai nostri cecchini? Pure loro sussultano al minimo rumore, aspettandosi che un obice d’artiglieria gli cada in testa? Ci penso spesso. Certo, li odio con tutto il cuore quando uccidono i nostri. E se sparissero tutti, finalmente potremo tornarcene a casa. Ma in fondo, si trovano nella nostra identica situazione. Patiscono il freddo e la fame, proprio come noi. Hanno nostalgia delle loro famiglie, proprio come noi. E di certo anche loro hanno pianto almeno un amico caduto per mano nostra.
Perdonami, so che non dovrei avere questi pensieri. È stata una lunga giornata. Aspetto le tue lettere con impazienza. Non puoi immaginare quanto mi faccia bene leggerle.
 
Per tutto il mese di ottobre, le lettere arrivarono sporadiche, ma in compenso, all’Océan si riversò una valanga di feriti in gravissime condizioni.
«Carri armati» era riuscito a biascicare un soldato francese, la faccia per metà carbonizzata. «Ci sono venuti addosso coi carri armati!» 
Allarmata, Abigail aveva pregato Fanny di carpire informazioni dal dottor Depage, scoprendo che un forte bombardamento si era abbattuto su un avamposto stanziato nel bosco di Cuisineres.
«Sono sicura che lui sta bene» aveva provato a rassicurarla Fanny, accorgendosi di quanto la notizia avesse scosso Abigail. «Non perdere la testa. Appena riesco a sapere qualcosa di più te lo faccio sapere, d’accordo?»
Abigail sapeva che in fondo aveva ragione, ma dentro di lei non riusciva a darsi pace. Doveva vedere Tom, assicurarsi che fosse vivo e in salute.
Ha l’amuleto. Non gli succederà niente di male.
Ma se la sua magia non fosse stata sufficientemente potente? Se avesse perso il braccialetto, o se si fosse rotto…?
C’era un solo modo per scoprirlo.
Quando un’altra settimana passò senza notizie da parte di Tom, Abigail si convinse ad agire.
Il Piano Astrale era un territorio insidioso in cui avventurarsi anche per i maghi esperti, figuriamoci per una dilettante come lei. Aveva letto che si trattava di una dimensione intermedia, tra Tutto e Vuoto, in cui l’Anima poteva viaggiare separata dalla Carne in luoghi in cui tempo e spazio erano concetti relativi, determinati dalle emozioni. E in cui bastava davvero poco per smarrirsi.
Ma da quando aveva lasciato Arcanta, Abigail era stata in grado di fare molte cose che prima aveva creduto impossibili. Perciò, non si sarebbe lasciata scoraggiare.
Cominciò ad esercitarsi in ogni momento libero, soprattutto di notte, quando non c’era il rischio di essere interrotta o guardata con perplessità dalle altre persone. Non appena Fanny si addormentava, restava sdraiata nel letto, con gli occhi chiusi, per diversi minuti, nel buio della stanza, osservando i pensieri scorrere a briglia sciolta nella propria mente. Pensava a Tom, al loro bacio sulla spiaggia. Oppure vedeva sé stessa abbracciata a lui mentre danzavano in una locanda simile a quella dove erano stati l’ultima volta, ma senza uniformi militari. E certe volte, si immaginava in una piccola chiesa di campagna, un velo bianco calato sul viso, e il sorriso negli occhi di Tom mentre stringeva le sue mani.
Le prime volte non ottenne nessun risultato, eccetto un vago senso di vertigine. Aveva sentito dire che i giovani allievi ad Arcanta erano soliti far uso di erbe allucinogene per aiutarsi nei primi viaggi, o almeno questa era la scusa che andava per la maggiore.
Infine, dopo svariati tentativi, cominciò a viaggiare, anche se per brevi distanze. Un attimo prima era in camera sua, chiudeva gli occhi e la sua mente la trasportava dolcemente al piano di sotto, in cucina, seduta al tavolo accanto a Henrietta, che sbadigliava e spalmava il burro sul suo pane tostato, totalmente ignara della sua presenza. Continuò a provare e a riprovare, accrescendo sempre di più la distanza dei suoi viaggi. Dall’ospedale alla piazza, dalla sua stanza alla spiaggia, e poi alle porte del villaggio.
Con pazienza e determinazione, riuscì a spingersi sempre più al di là dei propri limiti, finché non si sentì pronta per il grande salto.
Scelse una sera di fine ottobre.
Il cielo era plumbeo, il freddo pungente, e gli alberi quasi del tutto spogli, coi rami che ondeggiavano piano nel vento. Abigail chiuse a chiave la porta della sua stanza, si sdraiò sul letto. Contemplò il soffitto per alcuni istanti, necessari per permettere al suo corpo e alla sua mente di rilassarsi, prima di mollare gli ormeggi che la tenevano ancorata al piano della materia.
Il processo fu come sempre graduale. Si sentì sollevare e poi iniziò a salire oltre il soffitto, oltre il tetto. Era una sensazione elettrizzante e al tempo stesso spaventosa. Guardò sotto di sé e riconobbe il proprio corpo immobile e pallido, disteso sulla trapunta, con le braccia strette al petto come se fosse morta.
Un istante dopo era in piedi, circondata da alte pareti di terra, come quelle di una tomba: una trincea profonda, malamente illuminata da qualche lanterna a gas e rinforzata da sacchi di sabbia e dal filo spinato. Intorno a lei, soldati cupi e sporchi mangiavano dalle gavette, fumavano o sedevano nei loro buchi aggrappati ai propri fucili. Abigail avanzò nel fango, lungo il fossato che sembrava snodarsi all’infinito, urtando di tanto in tanto qualcuno nell’angusto spazio, ma nessuno sembrò far caso a lei. Chiamò il nome di Tom, o almeno credette di averlo fatto, perché dalla sua bocca non uscì nessun suono. E poi, all’improvviso, lo vide! Accucciato sotto una tettoia, intento a scrivere qualcosa su un quadernino logoro con una minuscola matita stemperata. Abigail trattenne il fiato. Era pallido. Molto pallido. Ombre scure si estendevano sotto i suoi occhi e le guance erano incavate. Abigail gli si avvicinò titubante. «Tom…»
Lui non era in grado di percepire la sua presenza, ovviamente, e continuò a scrivere. Una lettera per lei? La prima dopo settimane….
La ragazza gli si sedette accanto. Notò che al polso portava ancora il suo braccialetto e la cosa la rincuorò.
«Vorrei che potessi sentirmi» sussurrò. «Vorrei che sapessi che sono qui con te.»
Avvertiva il bisogno disperato di toccarlo, di dirgli quanto le era mancato. Ma non poteva fare niente di tutto questo. Così, si limitò a stargli vicina, ad ascoltare il suo respiro. E poi, delicatamente, posò la testa sulla sua spalla.
«Ti avevo avvertita.»
Abigail sollevò la testa di scatto.
Una figura alta la sovrastava, ammantata di velluto nero. Suo padre.
La ragazza si tirò subito in piedi. «Cosa ci fai…come puoi essere qui!?»
«Stai viaggiando in astrale» disse l’Inquisitore Blackthorn, con un lampo di ammirazione nello sguardo. «I miei complimenti, bambina. Avevo sottovalutato il tuo talento.»
Abigail impallidì. Rivolse uno sguardo spaventato verso Tom, il quale ancora una volta non parve essersi accorto di nulla.
«Non può vederci, né sentirci» disse suo padre. «Ma io posso vedere lui. E posso anche vedere te, finalmente.»
Lei ebbe un tuffo al cuore. «Come?»
Blackthorn sorrise. E poi, l’afferrò con forza per il polso.
Abigail urlò. Il buio l’avvolse, portando con sé una sensazione di soffocamento. Quando la mente di Abigail si ricongiunse di nuovo ai sensi, Tom era scomparso, così come la trincea e i soldati sporchi di fango, e lei era tornata in camera sua, a La Panne, con suo padre ancora aggrappato al suo braccio.
«Che cosa..?» boccheggiò la ragazza.
La stanza era come lei l’aveva lasciata e il suo corpo continuava a giacere sul letto. Ma vide anche il vero Tibor Blackthorn che incombeva su di lei, la mano posata sulla sua fronte e gli occhi chiusi. Era davvero lì? Era reale?
Confusa e infuriata, Abigail si divincolò dalla stretta. «Che cosa mi stai facendo?»
«Viaggiare in astrale non è un incantesimo da poco» disse la Proiezione di Blackthorn. «Non puoi chiedere alla tua Volontà un simile sforzo senza allentare le difese intorno alla tua mente. E così, mi hai lasciato aperta una porta.»
«No…!»
«Ti ho trovata» disse suo padre con un ghigno di trionfo. «Ed è ora che ti riporti a casa. Forza, svegliati.»
«No!» urlò Abigail, strattonando il braccio. «Lasciami, non puoi farlo!»
«Piantala di fare storie, qui non hai più nulla da fare!» Blackthorn aumentò la presa. «Dimenticati di queste persone, di questo orrore e di quel ragazzo. Discuteremo della tua punizione una volta alla Cittadella.»
Lacrime di frustrazione salirono agli occhi di Abigail. Non poteva essere davvero finita. Non era giusto.
Sentì la rabbia accendersi dentro di lei, infiammare il mondo con violente pennellate di rosso, e le pareti della stanza furono scosse da una forte vibrazione. Blackthorn se ne accorse, e dalla sua espressione Abigail intuì che avesse una gran fretta di andarsene da lì.
Ma certo. Erano ancora nel Piano Astrale. E per quanto suo padre fosse potente, laggiù le leggi della magia non avevano significato. Contava solo la potenza delle emozioni. Erano loro a plasmare la realtà.
«La mia punizione?» ringhiò Abigail, mentre la stanza continuava a tremare e una ragnatela di crepe si diramava lungo i muri. «Io non ho fatto niente di cui debba pentirmi. Al contrario di te!»
Blackthorn la guardò con durezza. «Smettila subito.»
«No!» si ribellò Abigail. «Non prima di averti fatto capire il motivo per cui me ne sono andata. Il motivo per cui mi rifiuto di diventare come te!»
Il soffitto della stanza crollò, il mondo si dissolse in un vortice confuso di colori e ombre. Blackthorn continuò a tenerla stretta, mentre la realtà si disfaceva e si rimescolava, e le loro menti venivano trasportate lontano, molto lontano da La Panne. Adesso erano all’aperto, sotto un azzurro cielo estivo, in mezzo a un viottolo di campagna che scendeva ripido lungo il fianco di una collina. Davanti a loro si estendeva una valle con un piccolo villaggio annidato sul fondo, tra due irte colline.
«Lo riconosci?» disse Abigail. Suo padre socchiuse gli occhi, come se la luce del giorno lo abbagliasse. «Dalefern. Come fai a conoscere questo posto?»
«Ho fatto delle ricerche» rispose Abigail, accigliata. «Sul terremoto del 15 giugno 1896. C’eri anche tu, quel giorno. Siamo in un tuo ricordo.»
Blackthorn scosse la testa. Adesso, più che arrabbiato sembrava nervoso. «Non dovevi portarci qui. Non voglio che tu lo veda.»
«Invece devo» ribatté Abigail, con forza. «E devi anche tu!»
Una detonazione risuonò dal fondo della valle, spezzando il silenzio. Una nuvola di fumo si levò da quella che un tempo era stata l’entrata di una miniera di carbone, ai piedi di una delle Pennine Hills.  Blackthorn si irrigidì e nei suoi occhi gelidi si agitò qualcosa di simile al terrore.
Alle loro spalle si alzò un grido. «Elain!»
Si volsero di scatto, percependo un forsennato scalpitare di zoccoli. Un uomo a cavallo stava risalendo il sentiero al galoppo, col panico dipinto in faccia. Abigail stentò a riconoscerlo, all’inizio: era suo padre, diversi anni più giovane, per la prima volta senza la tunica nera da Decano, ma con indosso abiti Mancanti, come un qualunque gentiluomo di campagna.
Vide la versione più giovane di Blackthorn smontare da cavallo in preda all’angoscia e fermarsi proprio accanto a lei, lo sguardo rivolto alla nube di polvere che aleggiava sulla miniera di Dalefern. «No!»
Il Blackthorn del presente serrò la mascella, il suo respiro si fece accelerato.
«No!» continuò a ripetere la sua versione del passato. Si portò le mani ai capelli, gemendo di disperazione. «Perché? Perché lo hai fatto!?»
«Glielo avevo detto» mormorò il Blackthorn del presente, gli occhi colmi di rimpianto. «L’avevo avvertita che era pericoloso. Ma tua madre…lei era testarda proprio come te.»
Abigail lo fissò. «Voleva salvare delle vite. Quegli uomini, nella miniera…»
«Erano Mancanti» disse suo padre, tra i denti. «Erano inferiori! E a causa della loro stupidità, della loro ingordigia… lei è morta!»
«Elaine Blackthorn era un’eroina» ribatté Abigail, con voce roca. «Lei sapeva che il nostro potere poteva essere usato per fare del bene, per aiutare chi non è in grado di farlo da solo. Ed è quello che sto cercando di fare anche io, papà! Un tempo lo capivi, la mamma ti aveva insegnato ad apprezzare i Mancanti, con i loro limiti e le loro imperfezioni, e tu eri felice quando vivevi qui in mezzo a loro! Quelle persone nella miniera erano tuoi dipendenti e tuoi amici!»
Rivolse lo sguardo sul Blackthorn del passato, crollato sulle ginocchia, che piangeva e si disperava, sorprendendosi di quanto le facesse male vederlo in quello stato.
E poi, il dolore di suo padre si tramutò in altro, qualcosa di più oscuro, di più feroce. Abigail riuscì quasi a percepirlo.
Il tempo cambiò in fretta, il vento prese a scuotere con violenza le chiome degli alberi. Tibor Blackthorn del passato urlò contro il cielo ora denso di nuvole, riversando verso Dalefern tutta la sua rabbia, tutta la sua disperazione e il suo odio. E quell’odio penetrò nella terra, facendola tremare, e un boato assordante echeggiò per le colline.
«Maledetti!» gridò contro la valle. «Che siate maledetti tutti!»
Le case di Dalefern presero a crollare l’una dopo l’altra, all’improvviso, e Abigail non poté fare nulla per impedirlo. Sentiva le grida degli abitanti venire schiacciate dal ruggito della terra, dal fragore degli edifici che andavano in pezzi. Una nube nera si alzò verso il cielo e, quando si diradò, del villaggio non erano rimasti che cumuli di detriti.
«Adesso basta.»
Blacktorn del presente le riafferrò la mano, costringendola a voltarsi. «Vuoi davvero proteggere queste persone? Gli assassini di tua madre? Preferisci loro a me e alla tua gente?»
La luce folle nei suoi occhi la spaventò. «I Mancanti non sono tutti assassini! Non puoi punirli, non è giusto!»
«Ma posso punire te!» ruggì Blackthorn, fuori di sé. «Impara a vivere come una di loro, visto che li ami tanto! Non meriti i doni con cui sei nata! E non meriti di essere mia figlia!»
Sollevò una mano, come se volesse colpirla.
Ma non la colpì. Le lasciò andare la mano e calò il braccio verso il basso, come se stesse tagliando l’aria tra di loro. Abigail si sentì andare in pezzi e tornò bruscamente nel suo corpo con un sussulto gelido.
«Abigail!» Qualcuno la stava scuotendo con forza. «Cristo santo, svegliati! Apri gli occhi!»
Abigail inghiottì un’enorme boccata d’aria e spalancò gli occhi. Fanny e Gwen erano sopra di lei, pallide e impaurite. La porta della stanza era spalancata.
Quando provò a parlare, la voce venne fuori a fatica. «C-che è successo?»
«Avevi le convulsioni!» esclamò Fanny. La lasciò andare con cautela. «Sembrava un attacco epilettico e non ti svegliavi! Che cosa stavi facendo? Come ti è venuto in mente di chiuderti a chiave!? Se Gwen non avesse forzato la serratura ti avremmo trovata morta!»
Abigail si tirò a sedere, stringendosi la braccia al corpo, il cuore che martellava nel petto. Sentiva ancora il gelido dolore dell’incantesimo di suo padre che l’attraversava come una lama, anche se era integra e senza segni. Rabbrividì.
«Come stai?» chiese Gwen, preoccupata. «Forse è il caso che ti faccia visitare…Abigail, mi senti? Stai ancora tremando!»
Lei non rispose. Si sentiva strana, come svuotata. «Qualcosa non va…»

Il panico la afferrò, mentre si sforzava di acquisire lucidità. Perdita. Cos’era quel terribile senso di perdita che le toglieva il respiro, che le seccava la gola? 
«Abigail» tentò ancora Fanny, risoluta. «È evidente che non stai bene. Ti porto dal dottor Depage, lui saprà cosa fare…»
Fece per aiutarla ad alzarsi, ma Abigail la spinse via. «No, niente dottori…scusate, devo…devo provare una cosa…!»
Sgusciò in mezzo alle altre ragazze che erano rimaste in attesa sull’uscio e corse giù per le scale, ignorando le proteste di Fanny e Gwen.
Lasciò la villetta e corse a perdifiato per le strade buie e piene di pozzanghere del paese, fermandosi solo quando udì il rumore della risacca.
La sabbia era umida e dura sotto le sue suole.
«D’accordo» disse tra sé, sollevando le mani. «D’accordo…»
Impose al proprio cuore di calmarsi, si costrinse a concentrarsi sull’incantesimo da evocare.  Luce, ordinò, unendo le mani a coppa.
Non accadde niente.
«No.» Un gemito le risalì dal profondo del cuore. «Ti prego, ti prego, no…!»
Provò di nuovo, tendendosi fino allo spasimo verso la fonte del suo potere, alla ricerca disperata del familiare richiamo del Tutto. Ma il Tutto non avrebbe più risposto al suo richiamo, così come la magia.
Questa era la sua punizione.


 

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Capitolo 29
*** Il potenziale umano ***


IL POTENZIALE UMANO

 
 
 
“I’ll wait in this place, where the sun never shines
Wait in this place, where the shadows run from themselves…”

 
White Room - Cream
 


 
Da qualche parte nella Bassa Sassonia,
10 luglio 1914
 
 
Zora infilò una sigaretta tra le labbra e si volse con aria indolente verso l’energumeno alla sua destra. «Hai da accendere?»
La guardia austriaca sollevò appena il sopracciglio. Era un uomo gigantesco, col volto inespressivo intagliato nell’acciaio e capelli folti e dorati. Sarebbe stato in grado di spezzare Zora come un rametto, eppure nel suo sguardo balenò un’incertezza quasi timida, mentre interrogava silenziosamente il collega.
La donna sospirò. «Giuro che non mi darò fuoco!»
Era da quando aveva messo piede giù da quel maledetto treno che moriva dalla voglia di fumare. Aveva resistito stoicamente per tutto il tragitto in auto dalla stazione di Lipsia fino a Schraplau, ma adesso davvero non ne poteva più. A quei due idioti che l’avevano scortata fin lì dal carcere di Sarajevo conveniva tirar fuori dall’uniforme inamidata una scatola di fiammiferi. E subito, cazzo.
L’altra guardia si limitò a una disinteressata alzata di spalle, e il colosso estrasse dalla tasca un acciarino. «Meglio che ci pensi io.»
Zora roteò gli occhi ma non fece obiezioni, e lasciò che lui le accendesse la sigaretta. Poi fece un lungo tiro e la trattenne tra due dita, le mani ridicolamente sollevate a causa delle manette. Esalò il fumo dal naso. «D’accordo, possiamo andare.»
S’incamminarono lungo un sentiero costeggiato da pioppi, in un afoso pomeriggio rallegrato dal brusio di mille cicale. Tutt’attorno, un’infinita distesa di boschi verdi e quieti campi di orzo dorato, puntellati di tanto in tanto da villaggi dalle casette variopinte. Sembrava di essere finiti dentro un dipinto.
L’incanto si spezzò quando, in fondo al vialetto ricoperto di ghiaia, apparve finalmente l’edificio.
Zora avvertì qualcosa di freddo strisciarle lungo la spina dorsale; malgrado fosse riuscita a mantenere un atteggiamento spavaldo, aveva avuto lo stomaco annodato per tutto il viaggio al pensiero di cosa avrebbe trovato una volta giunta a destinazione. Si era aspettata un castellaccio da brivido arroccato sulla cima di un’impervia montagna, in pieno stile Frankenstein, e invece, il Gellert Institute si presentò come un elegante complesso in stile neogotico, tutto torrette e ampie vetrate, e con un’intera facciata coperta di glicine appena sbocciato, il cui profumo inebriante invadeva l’aria.
Le guardie la scortarono fino all’atrio, fresco e dominato da un abbagliante candore immacolato, su cui si affacciavano diverse porte dipinte di azzurro; anche lì aleggiava un profumo di fiori e resina, assieme a un vago sentore di disinfettante.
Una giovane infermiera con le guance rosa e rotonde e una grande cornetta bianca in testa venne incontro ai nuovi venuti, facendo risuonare gli zoccoli di legno sul pavimento a maioliche.
«Goedemorgen!» li salutò cordialmente. «Benvenuta, signora Sejdić, la stavamo aspettando!»
«Per te sono Madame Salomé» replicò gelida Zora, soffiandole un getto di fumo in faccia. «Una delle mie personalità multiple, a quanto pare.»
L’infermiera tossì e sventolò una mano. «Ehm, al Gellert è vietato fumare.»
«Perché non l’hai detto subito, Heidi?» Zora lasciò cadere la sigaretta sul pavimento tirato a lucido e la spense sotto la scarpa. «Meglio?»
Invece di indispettirsi, l’infermiera si mise a ridere. «Ah, il dottor Volmer mi aveva avvisata che le persone famose sanno essere parecchio eccentriche! Il mio nome è Inga. Mi segua, prego, le mostro la proprietà.»
La gigantesca guardia che accompagnava Zora però si schiarì la voce. «Questa donna è sotto la tutela del governo austriaco» disse, guardando duramente l’infermiera. «Si tratta di una pericolosa criminale, durante la sua permanenza al Gellert dovrà essere tenuta sotto stretta sorveglianza. Sono questi gli accordi col tribunale, veda di ricordarlo!»
«E lei veda di ricordare, caro signore, che il Gellert non è un penitenziario» intervenne una voce profonda e pacata. «E che la signora Sejdic…o Madame Salomé, se preferisce, non è nostra prigioniera. Quelle manette pertanto non sono necessarie.»
La voce apparteneva a un allampanato uomo di mezza età in camice bianco, con arguti occhi cerulei che scintillavano dietro gli occhialini pince-nez dalla montatura dorata.
«Sono il dottor August Volmer» si presentò, rivolgendo un inchino a Zora. «Il direttore di questo istituto. È un privilegio poterla conoscere di persona, Madame, dopo aver sentito così tanto parlare di lei.»
Zora offrì un sorrisetto ironico alla sua scorta. «Sentito? Così si parla a una signora.»
Il dottor Volmer stese la mano verso le guardie, accigliandosi un momento. «Allora, le togliete voi le manette o devo provvedere io?»
Brontolando, il gigante austriaco estrasse una piccola chiave e liberò Zora.
«Molto bene» approvò Volmer. «Ora, se vuole seguirmi, Madame.»
La invitò con un gesto cortese e Zora non se lo fece ripetere, ma prima di trotterellargli dietro, mandato un bacio volante ai suoi ex aguzzini. Per un attimo, riuscì quasi a illudersi di averla fatta franca.
Il dottor Volmer e Inga la guidarono prima lungo un corridoio su cui si apriva una successione interminabile di porte azzurre, e poi di nuovo all’esterno, attraverso un dedalo di giardini all’italiana ben curati. Lungo il cammino, Zora vide uomini e donne di diverse età, tutti accumunati dall’abbigliamento informale – qualcuno era persino in ciabatte e accappatoio – e dalle espressioni rilassate; erano intenti a passeggiare, chiacchierare, oppure seduti all’ombra a leggere.
«Non c’è distinzione tra aree maschili e femminili qui?» domandò con stupore.
«Come ho detto, il Gellert non è un centro di detenzione» rispose pazientemente il dottor Volmer, camminando tra le aiuole in fiore con le mani dietro la schiena. «Crediamo che uomini e donne possano esprimersi al meglio solo quando smettono di sentirsi oppressi. La nostra missione consiste proprio in questo: aiutare il genere umano a raggiungere il pieno potenziale.»
«Perciò diceva sul serio, prima?» domandò Zora, senza riuscire a nascondere il suo scetticismo. «Non le importa che sia accusata di omicidio?»
Il dottor Volmer rise bonariamente. «Ad essere onesti, non lo trovo utile ai fini delle mie ricerche. Sempre che lei non provi a uccidermi. Ha intenzione di farlo, mia cara?»
Zora lo fissò, incredula. La stava prendendo in giro? «Direi di no.»
«Questa è davvero un’ottima notizia!» Quel tizio possedeva un senso dell’umorismo davvero strano. Zora si chiese se i tedeschi fossero tutti così, o se fosse una prerogativa degli scienziati. «Vede, io sono dell’idea che esercitare un ferreo controllo sia controproducente ai fini rieducativi. Molto meglio lasciare agli individui piena autonomia: sarà la loro natura a determinare che strada prenderanno. Lei crede nell’evoluzione?»
Zora scrollò le spalle. «Non saprei. Di certo non è la prima cosa a cui penso appena sveglia.»
«Io trovo che sia un concetto affascinante» sospirò Volmer. «Pensi a quanta strada abbiamo fatto in un tempo relativamente breve! Ieri ci arrampicavamo sugli alberi e ci spaventavamo alla vista del fuoco, e oggi pilotiamo aerei, alziamo grattacieli e governiamo l’energia elettrica! E questo senza che nessuno dall’alto ci abbia dato istruzioni! Nel Macbeth Shakespeare diceva: io oso fare tutto ciò che è dignitoso per un uomo. Chi fa di più, non lo è.»
Zora credeva di aver afferrato a malapena la metà di ciò che quell’uomo stava blaterando. Ma aveva domande più impellenti: «Perché mi ha fatta venire qui? Cosa vuole da me?»
«Pensavo che il signor Zeman fosse stato chiaro a riguardo.» Volmer si fermò, e guardò Zora dritto negli occhi. «Desidero studiare il suo comportamento. Comprendere in che modo riesce a interagire con l’aldilà e se questa sua dote abbia presupposti scientifici. Ho dedicato la mia carriera a indagare le dinamiche dell’evoluzione, e se riuscissi a scoprire come mai determinati soggetti riescono a spingersi oltre i limiti dell’umano, un domani queste stesse persone potrebbero rappresentare una nuova alba per il genere umano. Il prossimo stadio dell’evoluzione.»
A Zora scappò una mezza risata. «Quindi, secondo lei, io sarei una specie di… prototipo avanzato?»
«Charles Darwin sosteneva che in natura sono le eccezioni a determinare il corso dell’evoluzione» disse Volmer, convinto. «Gli esemplari che sviluppano caratteristiche per adattarsi meglio al loro ambiente, o per anticiparne i cambiamenti. Conosce la storia della Biston betularia
«Non so neanche che roba sia.»
«È una specie di farfalla» spiegò Volmer, gentilmente. «Ne esistono due tipologie: una bianca e una nera. Prima della Rivoluzione Industriale, le più diffuse erano quelle bianche, poiché si mimetizzavano più facilmente con l’ambiente in cui vivevano. Ma quando la cenere delle fabbriche iniziò a cospargere i tronchi delle betulle, indovini quale divenne la specie dominante?»
Zora trattenne a stento uno sbadiglio. «Quella nera?»
«Precisamente!»
«Continuo a non vedere il collegamento tra le farfalle e il mio parlare con i morti.»
«In entrambi i casi, sembra che la natura vi abbia dotati di strumenti utili a distinguervi dalla massa» disse Volmer, tornado a sorriderle. «Lei è speciale, Madame Salomé, proprio come la betularia nera. E chissà, un domani, quando questo mondo non conoscerà altro che oscurità, quelli come lei potrebbero essere gli unici a portare un po’ di luce.»
E su quelle fatidiche parole, la lasciò alle cure di Inga, invitandola a prendersi tutto il tempo che le occorreva per ambientarsi.
L’infermiera la accompagnò per il resto della visita: la portò a vedere i vivai, in cui signore con indosso grembiuli e ampi cappelli di paglia si dedicavano al giardinaggio, e poi un prato dove alcune persone erano intente a dipingere il paesaggio di fronte a una fila di cavalletti. C’erano poi campi da tennis e da bocce, e persino una piscina coperta...
«E questo sarebbe un istituto di ricerca?» domandò Zora, tra il diffidente e il meravigliato. «Sembra più un albergo.»
Inga ridacchiò. «Ce lo dicono in molti! Il dottor Volmer e la dottoressa Sanders spingono i nostri ospiti a dedicarsi a diverse attività: sono convinti che l’arte, così come l’esercizio fisico e intellettuale, stimoli la mente e acceleri il suo potenziamento.»
«Già, la storia del potenziale umano» commentò Zora, seguendo con lo sguardo un gruppo di ospiti in tenuta sportiva che correva tra gli alberi. «Chi è questa dottoressa Sanders?»
«Oh, una vera luminare! Il dottor Volmer l’ha incontrata durante un convegno a Boston, e ne è rimasto subito folgorato! È stata lei a portare gli studi sull’eugenetica qui dagli Stati Uniti!»
Zora non disse nulla, continuando a gettarsi attorno occhiate dense di sospetto. Le sembrava tutto troppo bello per essere vero.
«D’accordo, dov’è la fregatura?»
Di fronte all’espressione quietamente perplessa di Inga, Zora sbottò: «Oh, non fare la svampita con me! Cosa c’è sotto? Com’è che fino a una settimana fa ero condannata all’ergastolo, e adesso sono finita in questa specie di oasi felice guidata da scienziati fricchettoni?»
«Non so di cosa stia parlando, Madame» rispose educatamente l’infermiera. «Ma posso comprendere la sua perplessità. Molti hanno avuto la stessa reazione, appena arrivati. Sarà perché ciò che il dottor Volmer e la dottoressa Sanders stanno cercando di fare al Gellert non ha precedenti nella storia. Di sicuro ha molte domande…»
«Cazzo, ci puoi scommettere!»
«E le garantisco che avrà tutte le risposte che cerca» assicurò Inga. «So che ne ha passate tante, ma stia tranquilla: il Gellert è un posto sicuro, in cui viene garantito a uomini e donne il rispetto che meritano.»
Zora serrò la mascella. Rispetto? Era stata ricattata, tradita, umiliata e imprigionata. Nessuno aveva avuto il benché minimo rispetto per lei, e adesso, in quello sperduto angolo di mondo, volevano farle credere che l’avrebbero trattata diversamente? E per quale motivo, poi? Cosa aveva fatto esattamente per meritarselo?
Il sole si eclissò all’improvviso dietro le nuvole, e un vento rasoterra spazzò il prato, facendola rabbrividire.
Non sono che un’impostora, ripeté Zora a se stessa, mentre una sensazione di gelo le scendeva fin dentro le ossa. Non parlo coi morti e non prevedo il futuro. Sono solo una disperata come tanti, e quando questa gente se ne renderà conto mi sbatterà fuori di qui a calci nel culo. E addio a tutte quelle belle storie sulle farfalle, sul potenziale umano e sull’evoluzione!
Krsta aveva avuto torto su tante cose, ma su una di sicuro non sbagliava: si era andata a cercare ogni singola disgrazia che le era capitata, e non era neanche lontanamente furba come credeva di essere. Ma non voleva pensare a Krsta, non lì, non adesso…
Inga la guardò con compassione. «Mia cara, perché non riposa qualche ora? Il viaggio deve essere stato così lungo! Da questa parte, le mostro la sua stanza.»
Zora si sforzò di allontanare quei foschi pensieri e le andò dietro.
Mentre tornavano verso l’Istituto, scorse un uomo seduto sotto un melo con le gambe incrociate e gli occhi chiusi, come in meditazione. Portava i lunghi capelli neri legati in un codino ed era a torso nudo, così Zora poté vedere chiaramente il complesso arabesco di tatuaggi neri che gli decorava la pelle color bronzo, serpeggiando lungo le braccia robuste, il petto ampio e la schiena, in un groviglio senza fine di spire e tentacoli.  Non credeva di aver mai visto altrove segni del genere.
Quando gli passarono davanti, l’uomo sollevò le palpebre e fissò Zora attraverso le folte ciglia, con una tale sfacciata insistenza da farle provare un brivido di imbarazzo, oltre a una strana, inspiegabile sensazione di familiarità. Distolse subito lo sguardo, e si affrettò a raggiungere Inga nell’atrio.
 
Dormì più a lungo di quanto si aspettasse, ma nessuno si preoccupò di venire a svegliarla.
Andando a letto la sera prima si era dimenticata di chiudere le tende, e dalla finestra entrava la luce del sole e il cinguettio degli uccelli. Considerò l’idea di alzarsi e accostarle, per poi coricarsi di nuovo, ma non trovò l’energia. E poi, dopo notti trascorse su una dura branda traballante, dentro una cella sovraffollata e col terrore di chiudere gli occhi, non le dispiaceva godersi finalmente un vero letto.
Si alzò con tutta la calma del mondo, si stiracchiò, fece scivolare i piedi nelle babbucce bordate di pelo allineate accanto al letto, e infilò una vestaglia di seta che qualcuno aveva pensato bene di farle trovare appesa nell’armadio, assieme a un nuovo assortimento di vestiti, forse un po’ troppo sobri per i suoi gusti, ma piacevolmente soffici e profumati di pulito.
Ritrovò anche il suo cappotto di velluto color vinaccia, ormai malandato dopo le disavventure che avevano condiviso. Zora lo accarezzò con affetto e nostalgia; forse l’istituto disponeva anche di una tintoria, dove avrebbero potuto renderlo come nuovo. E magari, col tempo, anche lei sarebbe riuscita a lasciarsi tutto l’orrore alle spalle, e tornare come nuova.
La stanza che le avevano affidato aveva le pareti dipinte di una rilassante tonalità di azzurro, ed era arredata in modo semplice e funzionale, ma la cosa che l’aveva subito attirata era stata la grande vasca accanto alla finestra; quando fu finalmente immersa nell’acqua calda, Zora si sentì rinascere, e approfittò di quel momento di beatitudine fino in fondo. Dopotutto, avrebbe anche potuto iniziare ad abituarsi a quello strano posto.
Dopo il bagno, acconciò i lunghi capelli in una treccia, dopodiché indossò un comodo abito da giorno color guscio d’uovo e uscì in corridoio, su cui erano affacciate altre camere dalle porte azzurre identiche alla sua. Una quindicina di ospiti insonnoliti stavano lasciando le proprie stanze, e Zora, non sapendo dove altro andare, li seguì al pianterreno, fino a un grande refettorio; una profusione di torte, marmellate, focacce, affettati, formaggi e frutta fresca era stata messa a disposizione sul buffet, e gli ospiti si servivano da soli per poi prendere posto attorno ai tavoli, dove si erano già formati dei gruppetti.
Zora non conosceva nessuno, e non aveva la benché minima intenzione di stringere nuove amicizie. Così, riempì il suo piatto con tutto ciò che poté e cercò un posto appartato dove consumare la colazione in santa pace.
«Perdonami, mademoiselle» disse una vocina, e subito dopo Zora si sentì sfiorare il braccio. Si ritrasse all’istante, ormai avvezza a mantenere con chiunque l’atteggiamento difensivo. Ma ad avvicinarla era stata una minuscola e graziosa ragazza con i capelli biondi, tagliati alla maschietta.
«Non volevo spaventarti.» Pronunciava ogni parola con la r moscia, ed emettendo una specie di ronzio, come se fosse sul punto di mettersi a cantare. I suoi occhi grigi, rotondi e spalancati, le conferivano un’espressione di perenne sorpresa. «È solo che…tu possiedi un’aura così luminosa!»
«Prego?» fece Zora, le sopracciglia inarcate.
«C’è luce, tutt’intorno a te» disse ancora la ragazza, facendo un ampio gesto con la mano. «È calda, e vibra di potere. Gli omini verdi me lo avevano detto che qui avrei incontrato persone straordinarie!»
«Gli omini verdi.» Zora pensò subito che quella povera ragazza dovesse essere completamente tocca.
«Ma sì!» annuì la ragazza, sentendosi incoraggiata. «Quelli che vivono nel Giardino! Mi hanno detto anche che tu li avresti aiutati!»
«Certo» disse Zora. «Ehm, puoi scusarmi un momento? Credo che di là mi stiano chiamando.»
E la mollò lì, fingendo di aver riconosciuto qualcuno tra la folla.
Trovò un tavolo miracolosamente libero e lo occupò, augurandosi che nessun altro provasse ad approcciarla. “Non è un manicomio”, aveva detto Zeman. Se mai lo avesse rivisto, si ripromise di prenderlo a sberle!
Stava per addentare un muffin al cioccolato coperto di glassa, nonché l’ultimo rimasto, quando una voce roca alle sue spalle disse: «Non te lo consiglio.»
Eccone un altro. Scocciata, Zora si voltò.
Era l’uomo coi tatuaggi che aveva visto sul prato il giorno prima. Stavolta aveva avuto almeno la decenza di indossare una camicia, ma gli strani segni neri sul suo corpo erano comunque visibili sotto la stoffa leggera.
Zora si accigliò. «E perché mai?»
«Perché è così che ci drogano.»
Il cuore di Zora prese a girare come una trottola. «C-ci drogano?»
L’uomo annuì, l’espressione grave. Le strappò di mano il dolcetto. «Ho visto gli infermieri iniettarci qualcosa dentro con delle siringhe. Suppongo che serva a tenerci tranquilli. Soprattutto i nuovi arrivati. Secondo te, per quale motivo lo avrebbero lasciato lì in bella mostra, se non per far sì che fossi proprio tu a prenderlo? Voglio dire, guardalo, sembra delizioso.»
Zora si sentì pervadere dall’angoscia al solo pensiero, ma, un momento dopo, l’uomo scoppiò a ridere. «Dovresti vedere la tua faccia!»
Tirò un grosso morso al muffin, assaporandolo voluttuosamente. «Sì, è davvero delizioso come sembra!»
Zora era costernata. «Mi hai detto una balla!?»
«Certo. Era l’ultimo rimasto, non potevo mica cedertelo.»
Girò la sedia di fronte alla sua e vi si sedette a cavalcioni, senza aspettare un invito. «Come ti chiami, nuova arrivata?»
Lei strinse gli occhi come un gatto pronto a balzare. «Non sono cazzi tuoi.»
Raccolse il suo piatto e se ne andò, borbottando un insulto romanì: qualcosa che poteva essere tradotto pressappoco con “coglione”.
«Na hinias purino, phen.»
Zora si bloccò, e il piatto quasi le scivolò dalle mani. Lentamente, tornò a voltarsi. «Sei rom?»
L’uomo sorrise, scoprendo una fila di denti bianchissimi, e la invitò con un cenno a sedersi. Il suo volto dai tratti scolpiti e gli occhi nerissimi, leggermente a mandorla, non lasciavano molti dubbi sulle sue origini. Zora non era mai stata particolarmente sensibile al fascino maschile, eppure dovette ammettere che quell’uomo non ne era privo.
Riluttante, riprese posto di fronte a lui.
«Mi chiamo Dagon» si presentò l’uomo, porgendole la mano. «Mentre tu sei quella famosa medium, no? Mi sembrava di aver visto la tua faccia su qualche giornale.»
«Sono Zora» rispose lei, e dopo una piccola esitazione rispose alla stretta. «Zora Sejdić. Vengo da Mostar.»
«Una khorakhané» fece Dagon, annuendo. «Ne ho conosciuti alcuni, passando dalle tue parti. Bel posticino, per quelli a cui piace la vita yerli, da sedentari. Io ho sempre avuto difficoltà a mettere radici. Sono nato in Kosovo, ma non l’ho mai considerato “casa”.»
«Mio padre era come te» mormorò Zora. «Un musicista itinerante. Ma non guadagnava molto, così, quando siamo nate io e mia sorella, la famiglia ha ritenuto opportuno fermarsi.»
Dagon annuì di nuovo. «Sono in molti a preferirlo, di questi tempi. E dimmi, com’è che una come te è finita quaggiù?»
«Potrei farti la stessa domanda.»
Dagon non rispose subito. Terminò prima il suo dolcetto, leccandosi una per una le dita. «Diciamo che non ho avuto molta scelta.»
«Pensavo che qui accettassero soltanto volontari.»
«Chi ha detto che non lo sono?» L’angolo della bocca di Dagon disegnò un sorrisetto impertinente. «Per tirare avanti prima facevo due cose: vendevo tappeti e predicevo il futuro. Spesso prevedevo a qualcuno che presto sarebbe stato derubato. E puoi star certa che ci azzeccavo sempre.»
La battuta divertì Zora, ma non volle darglielo a vedere. «Provo a indovinare: hai “predetto il futuro” alla persona sbagliata?»
«Già. Non so se sei mai finita in un campo di lavoro. No, a giudicare da quelle mani.»
Zora fu attraversata da un brivido, al pensiero del destino che le sarebbe toccato, se fosse finita davvero a Tezerìn. «Ci sono andata molto vicina.»
«Buon per te, allora. Ti assicuro che spaccare pietre tutto il santo giorno con una catena alla caviglia non è affatto un’esperienza piacevole.»
«Perciò» disse Zora. «Il dottor Volmer ha graziato anche te.»
Dagon giocherellò con le molliche sul tavolo. «Di norma non mi fido dei gaggi. Ma sai come si dice: nasti sa gianen…»
Non si può sapere tutto. Zora si gettò una rapida occhiata attorno, poi tornò a guardarlo. «Non sono riuscita ancora a inquadrare questo posto. Tu che ne pensi? Di Volmer e di quella dottoressa americana?»
«Penso che lui sia completamente rincitrullito. Non fa che raccontare di uccelli e insetti, come se fregasse qualcosa a qualcuno» rispose Dagon, facendo spallucce. «Lei, invece, è piuttosto interessante, ma l’ho incontrata solo due volte. Al primo colloquio mi ha chiesto di raccontarle qualcosa di me, al secondo di leggerle la mano.»
«Sì, ma che idea ti sei fatto?» incalzò Zora, sporgendosi sul tavolo. «Ci si può fidare o no di questa gente?»
«La vera domanda è: per quanto loro si fideranno di noi?»
Di fronte all’espressione interdetta di lei, Dagon rise: «Andiamo, sorellina: guardati attorno, credi che qualcuno qui abbia davvero qualcosa di speciale? Quello lì.» Indicò un tizio pelato col pizzetto che si stava servendo delle grosse fette di ananas. «Sostiene di avere una rara patologia che lo rende immune al dolore; eppure, l’altro giorno l’ho sentito bestemmiare in turco dopo aver urato il mignolo a uno spigolo. E la signora col cappello a piume? Dice che la Vergine Maria le appare ogni giovedì mattina intorno alle cinque, e che si fanno sempre delle gran chiacchierate!»
«In pratica» assodò Zora. «Qui siamo tutti imbroglioni.»
«Altroché, sorellina.»
«Pure la tipa che vede le auree?» Zora fece un cenno discreto alla maschietta che l’aveva avvicinata poco prima, e che adesso stava descrivendo minuziosamente l’aura di una coppia di anziani seduti due tavoli dietro. «Sembra si sia proprio calata nella parte.»
«Chi, Colette? Mhmm» Dagon si grattò il mento. «Sai, non sono così sicuro che reciti. Ho sentito che è la figlia di un taglialegna basco, e che si è smarrita per giorni nella Foresta d’Iraty. Quando l’hanno trovata, era in stato di profondo shock, e direi che lo è ancora. Ma non reagisce mai bene quando qualcuno le chiede che cosa abbia visto.»
Zora si ritrovò a provare pena per lei, ripensando alle assurdità che le aveva sentito farfugliare, di omini verdi che vivevano nei giardini.
All’improvviso, qualcuno batté le mani, e Zora riconobbe l’infermiera Inga, che sorrideva sull’uscio del refettorio.
«Buongiorno a tutti!» esordì col solito tono vivace. «Spero che abbiate tutti dormito bene e che la colazione sia di vostro gradimento. Madame Salomé» disse poi, voltandosi verso Zora, che si ritrovò improvvisamente dozzine di occhi puntati addosso. «Per favore, mi segua. Tutti gli altri possono cominciare le proprie attività giornaliere!»
Zora si irrigidì. «Dove vuole portarmi?»
«Rilassati» disse Dagon, rubando dal suo piatto un altro dolcetto. «Probabilmente è solo la Sanders che vuole scambiare due chiacchiere.»
Zora non aveva affatto voglia di dover rispondere alle domande di quella donna. Prese un profondo respiro. «Tu hai risposto con sincerità alle domande che ti ha fatto?»
Dagon ridacchiò. «Se lo avessi fatto, non sarei qui a rimpinzarmi, ti pare?»
E se ne andò, fischiettando come chi non ha la minima preoccupazione al mondo.
Zora deglutì e seguì a malincuore l’infermiera.
Venne condotta attraverso una serie di corridoi all’apparenza tutti uguali, che le provocarono una sgradevole sensazione di smarrimento. Quanto mai poteva essere grande quel posto? Su entrambi i lati sfilavano altre porte azzurre, eccetto per una che si trovava in fondo a un corridoio buio sulla sinistra. Inga svoltò a destra, ma Zora si fermò per sbirciare, e vide due uomini in camice bianco emergere da una grande doppia porta verniciata di rosso scarlatto. Le rivolsero una breve occhiata e poi se ne andarono, bisbigliando tra loro.
Per qualche ragione, la cosa la turbò. «Cosa c’è dietro quella porta?»
«Quale, Madame?»
«Quella rossa.»
Inga sorrise. «Solo l’archivio. Da questa parte, mi segua.»
Si fermò di fronte all’ennesima porta azzurra e busso.
«Avanti» disse una voce educata.
Inga le cedette il passo, e Zora entrò in un banale studio medico, con le pareti coperte di librerie. Dietro una scrivania era seduta una donna piuttosto giovane, con indosso una camicetta col collo alto e coi capelli castani raccolti in uno chignon ordinato.  Appena la vide, rimosse gli occhiali rotondi e le rivolse un sorriso sfolgorante. «Prego, my darling, accomodati pure!»
Zora si sedette sulla poltroncina di fronte, facendo del suo meglio per non apparire terrorizzata.  A parte per il pavimento su cui poggiava i piedi, il resto dell’universo le sembrava un gigantesco punto interrogativo.
«Sono la dottoressa Sanders» si presentò la donna. «Ma puoi chiamarmi Olivia. Io do sempre del tu ai miei ospiti, spero che la cosa non ti infastidisca.»
«Credo di no.»
«Very well.» La dottoressa prese a sfogliare le pagine fissate su un portadocumenti. Zora avrebbe tanto voluto sapere quali fesserie avevano scritto sul suo conto.
«Dimmi, Zora, a che età sono iniziate pressappoco le tue visioni?» domandò a un tratto, senza preamboli.
Lei restò spiazzata. «Ecco, ehm, non saprei. Otto, forse nove anni.»
La dottoressa lo appuntò. «Conosci casi analoghi al tuo in famiglia?»
«Mia nonna» rispose Zora, pentendosene però subito dopo. «La mia Baba…lei era in grado di vedere cose. Di leggere le persone. O almeno, così sosteneva.»
«È stata lei a insegnarti?»
«Diciamo di sì. Ci ha provato anche con mia sorella, ma…ecco, secondo lei Aisha non possiede il dono.»
Era una mezza verità, in fondo. Krsta le aveva sempre detto che il segreto per risultare convincenti era saper calibrare la giusta dose di sincerità e menzogne. «Credo che mia sorella non me lo abbia mai perdonato.»
La dottoressa appuntò anche questo.
«Very well» ripeté. «Ora mostrami le mani, please
Interdetta, Zora sollevò le braccia e rivolse i palmi verso l’esterno. La dottoressa li studiò con occhio clinico, poi si chinò per scrivere qualcos’altro. «Perfect» disse infine, rivolgendole un altro sorriso. «Ci vediamo domani.»
«Cosa?» fece Zora, sorpresa. «Abbiamo già finito?»
«Per il momento. Il dottor Volmer aveva ragione su di te: sei un interessante caso di studio! Forse il più interessante, finora.»
Zora non riusciva davvero a capire da cosa lo avesse dedotto. Non l’aveva nemmeno messa alla prova. «Allora, posso andare?»
«Certainly!»
Frastornata, Zora si alzò dalla poltrona e si avviò verso la porta, ma prima di lasciare lo studio, disse: «Non mi ha chiesto nulla dell’attentato all’Hotel Bosna. Né delle accuse di omicidio. Davvero, io non capisco: che cosa l’ha spinta a volermi salvare a tutti i costi? Cosa ci guadagna?»
La dottoressa Sanders sollevò la testa e la guardò, con uno scintillio negli occhi. «La certezza che ho sempre avuto ragione.»



 

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Capitolo 30
*** Il Vuoto - Prima parte ***


 


 IL VUOTO
– Prima parte –

 

 
The patron saint of heartache
Can’t see the world is falling
My world is falling down

 
-Byronic man, Cradle of Filth & Ville Valo

 
 


Come Solomon aveva previsto, il coinvolgimento di doña Madragana nell’attentato al museo non ebbe effetti particolarmente gravi sugli Ascanor. Alvaro e Tristan convinsero il Decanato di aver risolto la cosa in famiglia, e i dieci saggi stregoni, che non avevano mai nutrito reale interesse per le sorti di quella buffonata di museo sulla scienza, non fecero una piega nel mettere da parte l’intera faccenda.
L’unica conseguenza davvero significativa fu l’inaspettata partenza della matrona degli Ascanor, insieme al marito malato:
«So che ne discutevano da tempo» aveva spiegato Melkisedek, quando i figli pretesero di sapere da lui che fine avessero fatto i genitori, visto che al cigarral nessuno li vedeva da giorni. «Sebastian voleva rivedere la Spagna prima di morire, e vostra madre ha espresso il desiderio di trascorrere insieme a lui gli ultimi momenti, lontano da Arcanta.»
«Toccante» era stato l’aspro commento di Isabel alla notizia. «E tipico della mamma, direi: perché affrontare le conseguenze delle proprie azioni, quando si può optare per un’elegante uscita di scena?»
Alvaro e Tristan l’avevano persuasa a riappacificarsi con la madre, alla fine, ma Isabel covava ancora parecchio risentimento per quanto accaduto. Se non altro, però, il Cerchio d’Oro era stato costretto ad approvare la riapertura del museo, il che aveva contribuito a tirarle su il morale nei giorni a venire.
«Le ragazze sono al settimo cielo!» esclamò raggiante, dopo aver raggiunto Solomon nell’armeria della Corte dei Sofisti venerdì mattina, per la loro prima lezione di difesa. «E i tuoi studenti sono stati così carini a offrirsi di riportare tutte le mie attrezzature al museo!» (Solomon di questo era sicuro, visto che aveva minacciato di trasformarli tutti in fenicotteri se si fossero sottratti)
«Visto? Non tutti i mali vengono per nuocere» approvò lui, sorridendo. «Hai più avuto notizie di tua madre?»
L’entusiasmo di Isabel si smorzò un po’. «Mi ha scritto che lei e papà si sono trasferiti in un castello fuori Toledo. Dice che è un posto incantevole, con vigneti, mulini a vento, campi di girasole…» Mentre parlava, aveva iniziato a camminare per la stanza, passando in rassegna la varietà di armi affisse alle pareti di acciaio spazzolato, spade, daghe, alabarde, fruste, mazze e archi. «Almeno, papà potrà godersi quel poco che gli rimane in un paradiso autentico, e non in mezzo alle illusioni.»
«E tu?» chiese Solomon, con prudenza. «Tu come stai?»
La risposta di Isabel fu una risata fiacca. «Come credi che stia? Mia madre ha preferito autoimporsi l’esilio nel Mondo Esterno piuttosto che vedermi gestire un laboratorio di alchimia!»
«Forse lo ha fatto per lasciarti spazio» replicò Solomon.
«Forse» concesse lei. «O forse è solo troppo vigliacca per ammettere i propri errori.»
«Lo siamo tutti a volte.»
Isabel sganciò una grossa ascia dalla parete, facendola poi ruotare con maestria, e Solomon intuì che aveva fretta di cambiare argomento. Oppure di sfogarsi con la violenza bruta. Oppure, perché no, entrambe le cose.
«Be’, iniziamo la lezione? Io ho già scelto la mia arma.»
Lo stregone scosse la testa e la affiancò. «E hai già commesso il primo errore: mai dare per scontato che l’arma più grossa faccia più danni.»
«Ti assicuro che un colpo di questa ne fa eccome di danni. Boris dice…»
«Boris ha delle evidenti carenze da compensare» replicò Solomon, prendendo l’arma dalle sue mani e riponendola al proprio posto. «Se gli piacciono così tanto le grosse asce.»
Avvampando, Isabel cercò di mascherare l’imbarazzo con un colpetto di tosse. «Tu quale arma avresti scelto?»
«Io ne avrei già un paio addosso. Ma il mio avversario se ne accorgerebbe quando è troppo tardi.»
Ruotò il polso in un unico, sciolto scatto, e sotto l’orlo della manica scintillò una lama d’argento, sottile come uno spillo.
«Oh» fece Isabel, colpita. «Quel che si dice “avere un asso nella manica”.»
Solomon estrasse lo stilo. «Un movimento rapido e silenzioso per una morte rapida e silenziosa. E poi, si abbina ai gemelli.»
«Certo» replicò lei, ironica. «Essere eleganti è prioritario in un duello.»
«Accortezza e moda hanno più cose in comune di quanto si pensi» disse Solomon. «Entrambe si basano sul compiere le scelte appropriate. Per esempio…»
Prima che lei potesse protestare, si avvicinò per infilare lo spillo d’argento nel suo chignon. Solo poi si ricordò di cosa gli aveva acceso dentro l’ultima volta che aveva accorciato le distanze tra loro. Rispetto all’altra sera, fortunatamente, niente fuochi d’artificio, solo un leggero formicolio lungo la spina dorsale. «Ecco, così dovrebbe svolgere il suo lavoro.»
Isabel si tastò l’acconciatura. «Vuoi che lo tenga io?»
«Ne possiedo a volontà. Ben nascosti, nei punti più impensabili.»
«Lo devo prendere come un regalo?»
«Ero indeciso tra questo e un collier di diamanti» sorrise lui. «Ma ho pensato che le armi letali ti donassero di più.»
Finalmente, riuscì a strapparle una vera risata. «Bello sapere che un uomo che ho incontrato pochi mesi fa conosca i miei gusti meglio della mia famiglia.»
«È raro che le famiglie ci conoscano per davvero» replicò Solomon, e dopo un momento aggiunse: «Spesso è meglio che sia così. Meno mostriamo di noi, minore è il rischio che le persone che abbiamo intorno ci feriscano.»
Isabel lo guardò, il divertimento che svaniva lentamente dal suo viso. «È per questo che hai deciso di tenere lontano tuo padre? A parte quella volta al matrimonio, non mi pare di averlo mai visto ad Arcanta.»
«È un cocciuto aristocratico di campagna» rispose Solomon. «Arcanta è troppo caotica per i suoi standard. E poi, qui non avrebbe niente a cui dare la caccia, a parte i dodo...»
«Ho sentito delle storie sul suo conto.»
«Che tipo di storie?»
Isabel si strinse nelle spalle. «Mio padre diceva che i Blake hanno sempre avuto difficoltà a integrarsi nella società magica, malgrado vantassero un’antica discendenza. Divergenze di opinioni con il Decanato, almeno secondo lui.»
«Chiamiamole così» rispose Solomon, evasivo. «Mio padre ha sempre avuto le proprie idee riguardo la magia. E sottostare a regole imposte da altri non gli è mai andato a genio.»
«Nemmeno a te» intuì Isabel. «Anche se sei più bravo di lui a fingere.»
Lui aggrottò le sopracciglia, e Isabel disse: «Me ne sono accorta, sai? Anche quando facevi tutti quei discorsi sullo stare al proprio posto, sull’importanza di mantenere il profilo basso… hai dovuto imparare a scendere a compromessi, ma ti costa sempre farlo. Riesco a leggertelo negli occhi, ogni volta che nomini il Decanato: vedo la rabbia che ti brucia dentro.»
Solomon contrasse impercettibilmente la mascella. L’acume di quella donna spesso lo preoccupava. «È così. Ho dovuto imparare l’arte del compromesso, della pazienza, e che il non agire spesso è la via più efficace per innescare il cambiamento.»
«Allora avevo ragione io» disse Isabel, con l’accenno di un sorriso. «Anche tu vuoi che le cose cambino in questa città. Solo, mi piacerebbe comprendere le tue motivazioni.»
«Hai visto di cosa è stata capace Arcanta col tuo laboratorio. Non ti basta come motivazione?»
«Quella del laboratorio era la mia battaglia» obiettò Isabel. «E ti sono grata per avermi sostenuta. Ma quali sono i tuoi obiettivi, Solomon? Tu per cosa combatti?»
La domanda lo spiazzò. Ci aveva riflettuto a lungo, ci aveva riflettuto per anni, domandandosi se la strada che aveva scelto di seguire fosse quella giusta, se tutto ciò che aveva costruito – reputazione, conoscenze, potere – avrebbe prima o poi saziato la fame vorace che lo inseguiva da sempre, ovunque andasse, qualunque traguardo raggiungesse, o se almeno le avrebbe dato un qualche sollievo. Per cosa lottava? Quale motivazione lo aveva spinto scalare le vette di quella società che così tanto disprezzava?
«Molto tempo fa, una persona a me molto cara subì un torto a causa di questa città. E io giurai che non avrei avuto pace finché non avessi trovato il modo di dargli giustizia.»
«Di chi si trattava?»
«Di mio fratello.»
«Non sapevo che ne avessi uno.»
Ecco, adesso avrebbe fatto comodo a Solomon un buon pretesto per cambiare argomento. O per sguainare un’ascia.
«Ti va di bere qualcosa?» propose invece, senza riflettere. «Un Martini, magari?»
«Ecco» fece Isabel, colta alla sprovvista. «Sono solo le nove del mattino...»
«Oh, sono certo che da qualche parte nel mondo sia un ottimo momento per un Martini.»
Perplessa, Isabel si fece guidare verso un salotto adiacente all’armeria. «Ehm, e la lezione?»
«Hai imparato a sufficienza per oggi» disse Solomon con la massima nonchalance, facendo scorrere un pannello di legno tra due librerie e rivelando l’armadietto dei liquori. Proprio come le armi, anche quelli erano ben nascosti nei posti più impensabili della Corte dei Sofisti.  «È il momento della ricreazione!»
Malgrado dovesse trovare la situazione alquanto insolita, Isabel decise di assecondarlo e si accomodò sul bordo di un sofà. Solomon, intanto, miscelò tre quarti di gin e un quarto di vermouth dry, e filtrò il tutto in due bicchieri a coppa. «Se c’è una cosa che questa città mi ha insegnato» disse. «È che vivere alla grande è sempre la miglior forma di vendetta.»
«Vendetta verso chi?»
«Ah, be’» Solomon alzò le spalle, mentre tornava da lei coi due bicchieri pieni fino all’orlo. «Verso chiunque. Anche le madri invadenti, se lo desideri.»
Isabel si sforzò di non ridere, ma anche questa volta, non ci riuscì. Afferrò il drink che lui le porgeva e si schiarì la gola. «Allora, propongo di brindare a loro.»
Solomon prese posto accanto a lei. «Ai genitori.»
«A tutte le decisioni pessime che abbiamo preso e che prenderemo nel disperato tentativo di renderli orgogliosi di noi.»
«Ovviamente, senza mai riuscirci.»
Fecero tintinnare i bicchieri, dopodiché Solomon tracannò il suo Martini in pochi sorsi, mentre Isabel si bagnò appena le labbra.
Mentre sentiva la piacevole ondata di calore data dall’alcol che entrava in circolo, Solomon pensò a quanto fosse strano stare così in compagnia di sua moglie, senza pressioni o obblighi sociali, e senza sentire su di sé lo sguardo gravido di aspettative della gente. Solo un uomo e una donna che parlano e bevono insieme, per il semplice gusto di farlo. Di nuovo, gli tornarono in mente le sensazioni provate qualche sera prima, quando erano seduti vicini sul prato davanti al cigarral e lei lo aveva preso per mano. Ricordò quanto si era sentito vulnerabile e smarrito, come un bambino gettato di forza e senza preavviso nel frastornante caos del mondo. 
Anche adesso erano molto vicini, e, per di più, completamente soli in quell’enorme accademia deserta, ma Isabel sembrava piuttosto a suo agio; la sua postura aveva perso rigidità e giocherellava con l’oliva del suo drink con un sorriso sereno a fior di labbra.
Il solo pensiero che non ci fosse niente a separarli avrebbe dovuto spingerlo a correre via a gambe levate. E invece, tutto ciò che Solomon continuava a pensare era: potrei avvicinarmi un po’ di più. E vedere che succede…
«Sai, ho pensato molto a noi due ultimamente » disse Isabel. «E mi piacerebbe farti una proposta.»
Solomon drizzò le antenne. «Davvero?»
«Be’, sì» disse Isabel. «Dopo tutto quello che hai fatto per restituirmi il museo. E ti sei persino offerto di condividere i tuoi spazi per permettermi di continuare le lezioni. Niente di tutto questo era nel contratto.»
Con molta discrezione, Solomon scivolò verso il suo lato del sofà, il braccio libero dal drink che già si allungava sullo schienale. «Be’, come ho detto, era mio dovere.»
«Perciò, arrivati a questo punto» mormorò Isabel, guardandolo dritto negli occhi. «Ho pensato che magari potremmo…»
«Mhmm?»
«…provare a essere amici!»
«Ah.»
La fitta di delusione che quelle cinque lettere gli inflissero fece quasi male fisicamente. Il suo braccio batté subito in ritirata.
«Be’, perché no?» proseguì Isabel, tutta sorridente. «Siamo una bella squadra! E poi, senza più mia madre tra i piedi, non dovremo più neanche preoccuparci della faccenda dell’erede! È un bel sollievo, non credi?»
«Certo» fece lui, a denti stretti.
«Visto? Ero sicura che alla fine saremmo andati d’accordo!» gioì lei. «Ora è meglio che corra ad aprire il laboratorio, le mie allieve saranno già dietro la porta!»
Si alzò e lasciò il Martini ancora pieno sul tavolino. «Grazie per la chiacchierata e il drink. Magari alla prossima lezione potremmo iniziare con qualcosa di pratico, che ne dici?»
«Perfetto» borbottò Solomon, non trovando nient’altro da aggiungere. All’improvviso, si sentiva molto patetico. «A venerdì prossimo, allora.»
Non appena Isabel ebbe imboccato l’uscita, valutò seriamente di scolarsi anche l’altro drink, ma all’ultimo momento lei tornò indietro. «Oh, stavo quasi per dimenticarmene!»
Solomon si ricompose alla svelta. «Sì?»
«Xavier mi ha detto che vorrebbe parlarti» rispose Isabel. «Lo so, è sembrato assurdo anche a me, solitamente l’ultima cosa che vuole è parlare con le persone. Non voglio spaventarti, ma credo proprio che tu gli piaccia! Ti aspetta in Biblioteca, dopo l’orario di chiusura.»
 
Quella sera, Solomon si presentò all’appuntamento puntuale come un orologio svizzero. Attraversò le gallerie concentriche della Biblioteca, stranamente deserte e illuminate solo da una tenue scia di luci, sforzandosi di non tradire l’eccitazione che gli fermentava nello stomaco per ciò che il Bibliotecario aveva da dirgli.
Xavier lo attendeva fuori dal suo ufficio, immobile in mezzo al corridoio come un iceberg, e con la solita fredda indifferenza nello sguardo.
«Grazie di aver risposto al mio invito, signor Blake. Stavo per effettuare un ultimo controllo delle collezioni prima di chiudere. Le andrebbe di accompagnarmi?»
Senza aspettare risposta, aprì una porta sulla destra e gli cedette il passo.
Entrarono in una sala lunga e stretta, più buia rispetto al corridoio, con librerie illuminate dall’interno, in modo che libri e manufatti esposti risplendessero di un soffuso bagliore dorato. Il perimetro della sala era percorso da lunghe teche di vetro, nelle quali preziosi libri miniati sembravano galleggiare sospesi nel vuoto.
«Sembra tutto in ordine» commentò Solomon. «Anche se, personalmente, darei una spolverata ogni tanto.»
«Quel che è custodito in queste sale non ha bisogno di particolari cure» rispose Xavier. «Questi oggetti, questi libri…hanno assolto ai loro doveri molti secoli fa. Ormai sono alla stregua di ossa in un reliquiario.»
Solomon lo guardò, meravigliato. «Ma rappresentano la memoria della sua famiglia. La storia della nostra razza. Credevo che il compito del Bibliotecario fosse difendere la conoscenza.»
Xavier trasse un respiro profondo, malinconico, cosa che prima di allora Solomon non gli aveva mai visto fare. «Conoscenza…ne parla come se fosse ancora qualcosa di cui prendersi cura, qualcosa di vivo. In passato lo era, quando la magia veniva trasmessa da mago a mago tramite la parola, ed era ancora qualcosa di arcano, pulsante, in continua evoluzione. Ma adesso.» Xavier fece un ampio gesto con il braccio, indicando le teche. «Tutto quel che rimane sono solo pagine ingiallite alla mercè di polvere e insetti. Forse, dopotutto, i miei fratelli hanno ragione sul fatto che la mia professione sia ormai inutile.»
«Io non la penso così» disse Solomon.
«Lo so» replicò l’altro con dolcezza, il riflesso degli occhiali che scintillava nella penombra. «Lei e io siamo molto simili, signor Blake. Ammetto che all’inizio non l’avevo compreso, come non avevo compreso perché mai Isabel l’avesse scelta: quando ci siamo conosciuti, non ho visto niente di particolare in lei. O meglio, niente che la distinguesse dalla maggioranza dei maghi di Arcanta: ambizione, vanità, brama di potere. Tutte cose già viste.»
«E cosa è cambiato da allora?»
«Ho visto quello che ha fatto per mia sorella» rispose Xavier. «Il modo in cui si è schierato non solo contro il Cerchio d’Oro, ma contro gli stessi Ascanor, per permetterle di aprire il suo museo. E questo mi ha colpito. Non pensavo che in questa città esistessero ancora maghi disposti a correre dei rischi.»
Solomon tacque. Xavier riprese a camminare.
«Isabel è sempre stata gentile con me» disse, mentre superavano insieme la sala espositiva. «Tra tutti i miei parenti, lei è la sola a non avermi mai guardato come se avessi qualcosa che non va. Probabilmente, un uomo come lei, potente e ammirato, non può comprendere cosa significhi sentirsi rotti, sbagliati.»
«Mi creda» replicò Solomon, grave. «Lo comprendo molto bene, invece.»
Qualcosa di simile a un sorriso increspò le labbra del Bibliotecario. «In tal caso, credo che apprezzerà ciò che sto per mostrarle.»
Attraversarono un altro paio di gallerie, dopodiché Xavier condusse Solomon in un’ampia sala circolare, dove non erano mai stati prima. Non sembrava nemmeno più di essere alla Cittadella: i muri laggiù non erano di marmo bianco e liscio come la maggior parte degli ambienti, ma di roccia porosa e grigia, e al posto delle calde luci magiche fluttuanti vi erano delle torce, che gettavano lungo le pareti sinistri bagliori blu ghiaccio. Il pavimento era completamente nero e lucido, come la superficie di un lago, attraversato da strani segni a rilievo, protuberanze simili a vecchie cicatrici.
«Dove siamo?» chiese Solomon, e la sua voce gli suonò diversa, più acuta del normale. Quel posto gli trasmetteva sensazioni sgradevoli, come se tutt’a un tratto fossero lontanissimi da Arcanta, da tutto ciò che aveva sempre considerato certo e sicuro.
Xavier attraversò la sala e si fermò alla sua estremità. «In un luogo a cui nessun mago ha accesso da molti secoli, nemmeno i Decani.»
Uno strano nervosismo iniziava a impadronirsi di Solomon. Si schiarì la gola. «E perché ha deciso di mostrarmelo?»
«Perché lei è uno dei pochi in grado di comprendere l’importanza di ciò che è custodito quaggiù» rispose Xavier. «Una volta mi chiese cosa pensassi del Vecchio Mondo, se fosse giusto o meno tramandarne il sapere. E io risposi che niente dovrebbe essere precluso alla conoscenza di un mago.»
«Lo ricordo.»
«Anche i Decani in passato erano dello stesso avviso» disse Xavier. «Perciò, scelsero di salvare alcuni testi che oggi definiremmo “proibiti”, a patto che ci fosse sempre qualcuno pronto a vigilare su di loro. Un compito che nei secoli è stato svolto egregiamente dalla mia famiglia.»
Su quelle parole, estrasse da una tasca della tunica un sottile pugnale, rigirandoselo poi tra le lunghe dita.
Solomon si tese. «Che significa?»
«Vede, signor Blake, c’è un motivo per cui nel Decanato c’è sempre stato un Ascanor» disse Xavier, la voce bassa e calma. «Ed è racchiuso nel nostro motto: noi siamo l’essenza di Arcanta, siamo l’Acciaio…»
Si tirò su la manica e premette la lama affilata sull’avambraccio.
«…e siamo il Sangue.»
Ci fu un lampo d’argento e uno schizzo scarlatto. Un paio di gocce scure colarono sul pavimento, depositandovi pozze scintillanti.
Quel che accadde dopo fu un mezzo shock per Solomon.
La stanza fu attraversata da un profondo scossone, che fece ondeggiare la fiamma delle torce. Poi, un suono simile a un lamento animale risalì vibrando dal basso, crescendo di intensità fino a diventare un fragore assordante, che gli fece drizzare i capelli.
La strana pietra nera del pavimento iniziò a liquefarsi, i disegni a rilievo a contorcersi. Agghiacciato, Solomon arretrò fino a urtare la schiena contro la parete di roccia.
Il pavimento ormai stava ribollendo come magma, e a un tratto, da quella melma, si sollevarono uno dopo l’altro lunghi e viscidi tentacoli neri.
«Xavier!» gridò Solomon, setacciando quella mostruosa foresta-piovra in movimento alla ricerca del Bibliotecario.
«Mantenga la calma, Blake. È totalmente al sicuro.»
A conferma di quelle parole, Xavier emerse tra i tentacoli ondeggianti con passo deciso.
«Non le farà niente» disse, sollevando una mano per accarezzare una propaggine. Quella si arricciò e poi si sciolse al suo tocco, come la coda di un gatto. «A dispetto delle apparenze, Rebecca è del tutto innocua.»
«Rebecca!?»
«Sì, è una lei» confermò Xavier, facendogli poi segno di seguirlo. «Da questa parte.»
Riluttante, Solomon si staccò dalla parete e s’immerse tra i tentacoli, stando bene attento a non farsi toccare. Al centro di quello che poco prima era un normale pavimento, adesso si era aperta un’enorme voragine buia.
Solomon si avvicinò cauto e sbirciò oltre il bordo, trattenendo un brivido. Un gelo sotterraneo emergeva dal basso, portando in superficie un odore di rocce fredde, muffa e qualcos’altro di meno naturale. Un’infinita successione di gradini storti e bianchi sprofondava nelle viscere della fossa, fino a perdersi nell’oscurità.
Xavier riapparve al fianco di Solomon, munito di torcia. «Stia attento a dove mette i piedi.»
E iniziò a scendere, con la disinvoltura di chi si reca nella propria cantina a recuperare una bottiglia di vino. Solomon prese un ultimo profondo respiro, sforzandosi di dominare il panico, e gli andò dietro.
«La tua, ehm, amica» gracchiò, cercando di non perdere l’equilibrio. Pensò che fosse meglio sostenersi toccando la parete, e si aspettò di avvertire sotto il palmo il freddo della nuda roccia. Con sua enorme sorpresa invece, era calda e soffice come stoffa. «Rebecca…non ci darà problemi mentre siamo quaggiù, vero?»
«Non ne avrebbe motivo» rispose Xavier. «A meno che non si senta minacciata. Perciò, fossi in lei cercherei di comportarmi da ospite rispettoso.»
Solomon non riusciva a capacitarsi che stesse accadendo davvero. Per anni aveva esplorato la Torre a Spirale in lungo e in largo, e in particolare la Biblioteca, deciso a svelarne tutti i segreti. Ma questo…questo andava ben al di là della sua comprensione. Eppure, allo stesso tempo era come se una parte di lui ne avesse sempre percepito la presenza, sotto le fondamenta della Cittadella, come un qualcosa di indicibile nascosto sotto un letto.
«Siamo arrivati.»
Davanti a loro si estendevano file e file di scaffali, bianchi e ludici come ossa, che si susseguivano all’infinito nell’oscurità. E, incatenati ad essi con pesanti lucchetti di acciaio alchemico, riposavano centinaia di libri. Libri antichi, dalle pagine corrose dal tempo, chiuse tra pezzi di cuoio marcio.
Una biblioteca nella biblioteca.
Lo spazio tra gli scaffali era totalmente nero e informe, ma Solomon aveva la sensazione che in quell’abisso palpitasse qualcosa di… vivo.
«Questo posto» sussurrò, faticando a dar voce a un pensiero tanto assurdo. «Siamo dentro Rebecca…questa è una Biblioteca Vivente!»
Gli era capitato di leggere qualcosa in proposito, su come fossero in voga ai tempi in cui il Nuovo Credo si era imposto sul Vecchio, e i Mancanti perseguitavano chi praticava la magia e i culti pagani, appiccando fuoco ad accademie e biblioteche.
Xavier si voltò a guardarlo, reggendo la torcia all’altezza degli occhi. Quel bagliore gelido conferiva una sfumatura lugubre alla sua pelle.
«L’ultima rimasta al mondo» rispose, con solennità. «Rebecca è qui dal giorno in cui Arcanta fu fondata, ben prima della Cittadella stessa. I Fondatori ritennero che non ci fosse modo più sicuro per contenere un potere tanto oscuro.»
Gettò uno sguardo attorno a sé, pregno d’orgoglio. «Fu Farabi il primo a prendersene cura» spiegò, spingendo gli occhiali in cima al naso aquilino. «Nutrendola negli anni col proprio sangue. E da allora Rebecca riconosce solo ed esclusivamente il sangue della sua discendenza. Il sangue della famiglia Ascanor.»
Sempre più sbalordito, Solomon studiò da vicino le scaffalature che attraversavano la galleria. Un coro di misteriosi sussurri gli strisciò a tradimento dentro la testa, facendogli accapponare la pelle, e lo stregone si ritrasse. Era solo suggestione, oppure…? «Sono grimori di Magia Vuota!»
«Farabi era dell’idea che tutto il sapere magico andasse tutelato» disse Xavier. «Che solo perché non comprendiamo qualcosa non significa che non possieda valore. Si dedicò assiduamente a trovare in queste pagine le risposte ai suoi innumerevoli interrogativi. A differenza di Malachia e Tolomeo, continuava a sostenere che Arcanta fosse solo il principio, che un giorno i maghi sarebbero tornati abbastanza potenti da rivendicare il posto che spetta loro nel Mondo Esterno. Ma presto gli altri Fondatori iniziarono a nutrire dubbi sulla sua sanità mentale. Finché non si convinsero che il Vuoto lo avesse corrotto. E che fosse più sicuro bandirne il ricordo.»
«E hanno deciso di rinchiuderlo quaggiù» concluse Solomon. «Ma non ha senso, perché non liberarsi di questi testi, se erano considerati così pericolosi?»
«Perché il potere del Vuoto non può essere semplicemente distrutto» rispose Xavier. «Non per mezzo della magia comune. L’unica soluzione era fare in modo che fosse inaccessibile ai più.»
Solomon deglutì con difficoltà. Sentiva nella bocca un sapore amaro. «E per quale motivo hai deciso di mostrarlo proprio a me?»
Xavier gli si avvicinò, lo sguardo fermo. «Ho pensato che dovesse sapere a cosa è andato incontro, il giorno in cui ha sposato mia sorella. Che un mago come lei, dotato di un intelletto fuori dal comune, avrebbe compreso più di chiunque l’importanza della nostra missione. Un giorno, quando io non ci sarò più, Arcanta avrà bisogno che un nuovo Bibliotecario porti avanti il mio lavoro. E quel qualcuno potrebbe essere il figlio di mia sorella. In altre parole, signor Blake: benvenuto in famiglia.»
E gli diede una pacca sul braccio, così brusca e inaspettata che Solomon sussultò.
«Se per lei va bene, proseguirei la visita» disse poi Xavier, con tutta la calma del mondo. «Abbiamo ancora qualche minuto, prima che Rebecca torni a dormire.»
E riprese il cammino, del tutto inconsapevole della bomba che aveva appena sganciato.
Solomon sentiva il cuore che pulsava ferocemente contro il pomo d'Adamo. Attese che Xavier fosse abbastanza lontano, dopodiché tornò a guardare i libri in catene. Uno in particolare attirò la sua attenzione, e, non appena gli occhi di Solomon vi si posarono, non ebbe dubbi che si trattava proprio di quel che aveva sempre cercato. La fine di un viaggio iniziato molti e molti anni fa.
All’apparenza non aveva nulla di speciale, solo un logoro involucro di pelle nera e unta, cosparso di incrostazioni simili a verruche, o alle bolle in una pozza di catrame. Ma quelle pagine trasudavano della malvagità delle cose antiche e dimenticate, che languivano nel buio da secoli. Coscienze che non si assopivano, livori che non trovavano pace…
Solomon protese una mano verso le catene che lo avviluppavano, ma qualcosa lo trattenne. Un’immagine gli si impiantò di forza nella mente, per quanto indesiderata. L’immagine di lui e Isabel seduti su un prato bagnato dalla luna, la mano di lei che lo sfiorava, il suo sorriso luminoso, la dolcezza con cui il suo nome scivolava fuori da quelle labbra, e lo faceva sentire in grado di compiere qualunque cosa...
Quali sono i tuoi obiettivi, Solomon? Tu per cosa combatti?
 
 
Lucia sapeva sempre quando lui rientrava a casa, anche agli orari più impensabili.
Quando la presenza di Solomon riecheggiava in quelle vaste sale silenziose aveva il potere di colorarle all’improvviso di calore e di vita.  E anche Lucia si era sempre sentita così, pervasa da un'energia tutta nuova ogni volta che lui tornava, persino in quell’ultimo periodo in cui si era rifiutata di parlargli. Ma per quanto fosse in collera, non riusciva a impedire al proprio cuore di impazzire di gioia al solo pensiero di averlo vicino.
Aveva cercato di tenersi impegnata il più possibile, di gettarsi anima e corpo negli studi per non pensare a quanto lui l’avesse fatta soffrire ultimamente. Non aveva intenzione di passare le sue giornate a struggersi come una ragazzina, sicura che tanto non sarebbe comunque servito a niente, così aveva approfittato di quelle settimane di solitudine per cimentarsi negli incantesimi e nelle pozioni più difficili. E infatti era ancora lì, nel suo laboratorio, a trafficare con ampolle e provette, circondata dal vapore dei calderoni, quando percepì la sua presenza sulla porta.
«Bentornato» lo apostrofò, sperando di suonare più indifferente che ostile. «Non ho avuto tempo di cucinare niente, ma magari Valdar è ancora sveglio.»
Lui non disse nulla, e continuò a osservarla da lontano, appoggiato allo stipite con le braccia conserte.
Lucia sospirò, con un velo di esasperazione. «Senti, se hai intenzione di scusarti, cerca di fare in fretta. Queste pozioni vanno controllate costantemente, altrimenti gli ingredienti non si amalgamano…»
«Lascia perdere quella robaccia. Ti ho portato qualcosa di più stimolante.»
Finalmente, Lucia si convinse a guardarlo, stupita dall’eccitazione a stento trattenuta che vibrava nella sua voce. «Di cosa stai parlando?»
Solomon Blake le rivolse un sorriso feroce e impetuoso come un tuono, gli occhi azzurri che brillavano in un modo che solitamente non prometteva nulla di buono. Con un gesto teatrale, le mostrò qualcosa che teneva nascosto sotto la giacca. Un libro dall’aria malconcia, rivestito di sudicia pelle nera.
«È arrivato il momento di giocare sul serio.»

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Capitolo 31
*** Il Vuoto - Seconda parte ***



 

IL VUOTO
– Seconda parte –

 
 
Si misero all’opera la notte stessa.
Fu subito chiaro che quello che avevano tra le mani non fosse un libro come gli altri: le pagine che lo formavano non possedevano la consistenza della carta, né della pergamena. Erano scure, lisce e morbide al tatto, rivestite da un arabesco di disegni stampati con una tecnica che ricordava il tatuaggio.
«Sembra di toccare pelle umana» commentò Lucia, reprimendo un brivido. «Ma non può esserlo davvero, giusto?»
«Non lo escluderei» replicò Solomon. «Nel Vecchio Mondo, la magia era spesso veicolata attraverso il corpo dei maghi: tessuti, denti e ossa costituivano potenti amplificatori. Oh, non fare la schizzinosa» sogghignò poi, di fronte alla smorfia disgustata dell’assistente. «Le cattedrali Mancanti traboccano di reliquie strappate a presunti “santi”. Francamente, non ho mai compreso come mai i loro prodigi vengano considerati sacri, e invece i nostri degli abomini.»
«La differenza sta nel sacrificio» rispose Lucia, nient’affatto divertita. «I martiri sacrificano loro stessi per amore di Dio e degli uomini: il dolore patito si sublima in Grazia, è questo che rende possibili i loro miracoli. Ma la magia dei maghi… è innata, gratuita. Non nasce dalla sofferenza.»
C’era un’ardente convinzione in quelle parole, una fede che, malgrado tutto, non si era estinta.  Solomon smise all’istante di sorridere.
«“La magia non nasce dalla sofferenza”» ripeté, piano. «Su questo potrei dissentire.»
Nei giorni successivi, si dedicarono al grimorio senza sosta, passando a decodificarne il contenuto. Come era noto, Farabi parlava un dialetto arabo ormai estinto, che Solomon aveva trascorso anni a studiare, ma non era la lingua il vero ostacolo. Quel testo era diverso da qualsiasi almanacco di magia avesse mai consultato: non c’erano capitoli o paragrafi, non c’erano istruzioni da seguire, solo un’infinita successione di simboli, non identificabili con alcun sistema alfabetico-linguistico a lui conosciuto. Impossibile stabilire persino se fossero parole o figure. Solomon era sicuro che nascondessero un qualche significato, ma per quanto si sforzasse, non riusciva a trovare una chiave di lettura adeguata.
Nel frattempo, cercava di condurre la sua vita ad Arcanta come se nulla fosse cambiato. Era sempre molto prudente, ma anche sicuro che Xavier non avesse informato nessuno della loro visitina a Rebecca, e che fosse del tutto ignaro del furto che aveva subito. Del resto, Solomon lo aveva premeditato meticolosamente e, se non aveva commesso errori, persino il Bibliotecario non avrebbe mai scoperto che aveva sostituito il Libro Nero con un falso molto credibile. E anche nell’eventualità in cui avesse iniziato a nutrire qualche sospetto, sarebbe stato comunque troppo tardi.
La cosa difficile, in realtà, era non lasciar trapelare la sua smania di mollare gli inutili doveri da Arcistregone e gettarsi a capofitto sul grimorio, che ormai aveva preso possesso suoi pensieri. Ma non del tutto: gli unici momenti in cui riusciva a mettere da parte l’ossessione per il Vuoto erano quelli che trascorreva insieme a Isabel.
Come da accordi, si incontravano una volta alla settimana per le lezioni di duello, e Solomon aspettava che arrivasse il venerdì con la stessa impazienza con cui anelava ai suoi studi.  Da quando aveva riaperto il laboratorio, sua moglie era molto impegnata, perché le vicende che l’avevano vista protagonista, l’attentato e poi la spiazzante rivelazione che dietro tutto ci fosse proprio un membro della Casa Ascanor, avevano acceso un sorprendente interesse da parte della comunità magica verso quel piccolo Museo della Scienza e della Tecnica Mancante:
«Ormai ho dozzine di visitatori al giorno!» gli aveva raccontato Isabel, dopo essere arrivata in ritardo e trafelata alla Corte dei Sofisti. «Non faccio in tempo ad aprire le porte che una folla si riversa dentro!»
Oltre ai visitatori curiosi, erano arrivate anche nuove iscrizioni ai suoi corsi di alchimia, da parte sia di ragazze che di donne sposate:
«È come se fosse esplosa una bomba!» ne rideva Isabel. «Letteralmente! Ed è tutto merito di mia madre! Ah, se sapesse che enorme aiuto mi ha dato senza volerlo, le verrebbero i capelli bianchi!»
Qualche volta lo aveva invitato a partecipare alle sue lezioni, e sebbene spesso Solomon si sentisse fuori luogo – specialmente quando sorprendeva alcune ragazze a fissarlo, bisbigliarsi cose all’orecchio e sghignazzare – gli argomenti che Isabel trattava erano originali e interessanti: solitamente, prendeva in esame prototipi di tecnologia Mancante, e ciascuna allieva suggeriva come potenziarne l’utilizzo tramite la magia, dando vita a un dibattito vivace che rendeva piacevoli quelle evasioni.  L’entusiasmo di Isabel, poi, era in grado di contagiare chiunque le stesse accanto, e persino Solomon non riusciva a restarne immune; malgrado facesse del suo meglio per mantenere un certo distacco, quando era con lei gli sorgevano pensieri nuovi, interrogativi che prima di allora non lo avevano neppure sfiorato…
“Quali sono i tuoi obiettivi, Solomon?” Per molto tempo non aveva avuto dubbi: diventare il più potete, vendicare Jonathan, distruggere il Decanato…
…E poi?
Già. E poi? Cosa avrebbe fatto una volta raggiunti i traguardi che si era prefissato? Come avrebbe riempito la sua vita? Si sarebbe mai sentito completo, appagato? Felice, addirittura?
Non che ci avesse mai creduto sul serio, alla felicità: l’aveva sempre vista come un palliativo, una bugia che gli uomini raccontavano a loro stessi nel patetico tentativo di rendere sopportabile una vita costellata di sofferenza.
Ma quando era insieme a Isabel, quando ascoltava i suoi discorsi carichi di speranza, sembrava che fosse davvero un qualcosa alla portata di chiunque…
Si imponeva di non rimuginarci troppo a lungo. Forse perché, nel profondo, lo angosciava il pensiero che per lui non ci sarebbe stato mai nulla di tutto questo. Che alla fine del suo viaggio, avrebbe trovato soltanto desolazione e oscurità.
 
«Non stiamo facendo progressi.»
Era notte fonda. Stagliato in maniche di camicia di fronte a un’enorme lavagna coperta di abbinamenti tra simboli e parole, Solomon sentiva un’emicrania in arrivo, e una gran voglia di prendere a pugni qualcosa.
Erano trascorse quattro settimane. Quattro intere ed estenuanti settimane, e ancora i segreti del Libro Nero sembravano del tutto inaccessibili.
«Non ha senso» sussurrò, fissando scoraggiato quei segni alieni, perso in un labirinto da cui per la prima volta non riusciva a trovare una via di fuga. «Dove sono gli incantesimi? Dove è il potere? In questo dannato libro non c’è niente, a parte gli scarabocchi di un pazzo!»
Chiuse con veemenza la copertina del grimorio, che giaceva sulla scrivania dietro cui Lucia era seduta tra pagine di appunti. La ragazza sollevò su di lui uno sguardo di rimprovero. «Stiamo facendo del nostro meglio.»
«Non è abbastanza!» ribatté Solomon. Prese a camminare per la stanza, incapace di stare fermo; il fatto di essere così vicino alla soluzione e allo stesso tempo così cieco da non riuscire a scorgerla lo stava facendo diventare matto. «Prima o poi Xavier Ascanor scoprirà che l’ho ingannato, e se per allora non avrò in pugno il Decanato, tutto quello per cui ho lavorato andrà in fumo!»
«Questo non accadrà» disse Lucia. «Ogni serratura ha una chiave, lo dici sempre. Devi solo capire come ragionava Farabi, e quando sarai entrato nella sua testa, riuscirai a entrare anche nel suo lavoro.»
Solomon non sapeva se scoppiare a ridere o mettersi a urlare. Si rifiutava di ammetterlo, ma dentro di sé sapeva di essere stato sconfitto. Ciò che Farabi aveva creato era troppo vasto, troppo complesso, oltre le sue capacità. Con che coraggio sarebbe tornato da suo padre? Riusciva già a sentire la sua voce, colma di disprezzo e derisione:
“Dopo tutti questi anni, resti il ragazzino che piange in fondo al pozzo. Inutile che provi a dimostrarmi il contrario…”
«Non puoi continuare così» gli disse Lucia, preoccupata. «Quando è stata l’ultima volta che hai dormito? Valdar dice che a malapena tocchi cibo. Riposa qualche ora, domattina tutto sembrerà diverso.»
Lui infilò le mani fra i capelli, già parecchio arruffati. Non aveva tutti i torti, ultimamente si sentiva un morto che cammina. «D’accordo, ci proverò.»
Si lasciò convincere a bere una pozione che lo aiutasse a calmare i nervi e a coricarsi un paio d’ore, cadendo in pochi attimi in un sonno profondo.
Lucia, invece, tornò allo scrittoio e riaprì il grimorio con rispettosa cautela, mentre dal sofà giungeva il lieve russare del maestro. «A noi due, ora.»
Per la prima volta da quando era giunto in quella casa, erano solo lei e il Libro. Solomon ne era terribilmente geloso, al punto che, quando non ci si poteva dedicare di persona, lo riponeva in una teca magica che solo lui era in grado di aprire.  Lucia amava molti aspetti del maestro, ma la sua fissazione di tenere tutto sotto controllo spesso la soffocava.
Inoltre, negli anni aveva sentito rafforzarsi il desiderio di essere più di una semplice assistente. Di dimostrargli che ormai era una maga capace tanto quanto lui. E, soprattutto, che avesse ancora bisogno di lei.
Da quando aveva sposato quella donna, Solomon si era fatto distratto, assente, Lucia se ne era accorta. E non solo dal fatto che trascorreva sempre più tempo ad Arcanta, oppure che si fosse impegnato tanto per aprire il laboratorio della moglie; d’altronde, non era la prima volta che si intestardiva ossessivamente su qualcosa. Ma Lucia lo conosceva abbastanza da intuire che c’era dell’altro, per quanto lui continuasse a negarlo: un sentimento ancora acerbo, di cui forse non era del tutto consapevole, ma che faceva nascere in lei il terrore di dover rinunciare a lui per sempre...
Si sforzò di non pensarci, e si concentrò invece sul Codice, cercando di immaginare quali pensieri avessero attraversato la mente del suo creatore. Per Solomon, quell’insieme di ghirigori inventati indicava che Farabi avesse perso la testa, ma, osservandoli con attenzione, Lucia aveva l’impressione di cogliervi un qualcosa di sorprendentemente familiare. Come una melodia udita soltanto una volta molto tempo addietro, ma capace di lasciare un ricordo indelebile.
Forse, Farabi non era affatto pazzo. Forse, era semplicemente in grado di vedere cose che alla maggior parte delle persone sfuggivano. A Lucia era stato insegnato che il mondo fosse ricco di segnali, e che Dio comunicasse con gli uomini in modi sempre difficili da interpretare. Eppure, sin da bambina, era convinta di riuscire a sentire la sua presenza, una consapevolezza che le aveva dato conforto, che l’aveva fatta sentire meno sola. Anche dopo aver scoperto la sua natura magica, questo non era cambiato.
Gettò uno sguardo al maestro; nonostante la pozione, i muscoli continuavano a essere tesi, le rughe sulla fronte marcate, a indicare che il suo cervello fosse all’opera anche nel sonno. Era l’uomo più brillante che avesse mai conosciuto, ma c’erano così tante cose che non riusciva a capire. Se gli avesse rivelato di avere ancora fede, di certo l’avrebbe derisa. O le avrebbe dato della pazza, proprio come Farabi. Da molti considerato un genio, da altri un visionario. Ma chi era stato davvero il Padre degli Alchimisti?
Un uomo ferito, rifletté Lucia, con tristezza. Alla ricerca come tutti del suo miracolo.
E se fosse questo il disegno che Dio aveva in serbo per lei? Renderla l’artefice di un cambiamento, di un'era in cui tutti avrebbero avuto accesso ai miracoli. Quel pensiero le infuse una forza tutta nuova.
Quando posò la penna, l’alba aveva iniziato a rischiarare le vette delle colline, e intorno a lei erano sparse pile di fogli fittamente scritti.
Lucia si alzò, prese tra le braccia il grimorio e raggiunse la lavagna. Con un semplice gesto, cancellò ciò che Solomon vi aveva steso nelle ultime settimane, sicura che lo avrebbe fatto infuriare.  Dopodiché, afferrò un pezzo di gesso e iniziò a scrivere.
 
Al risveglio, Solomon ebbe l’impressione di essere ancora più stanco di quando si era addormentato.
«Che ore sono?» Si passò una mano sulla faccia, mentre cercava di tirarsi su. Dalla luce che entrava dalle finestre, intuì che fosse quasi mezzogiorno. «Avresti dovuto svegliarmi…un momento, chi ha toccato la mia lavagna?!»
«Sono stata io» gli rispose Lucia, lo sguardo affaticato di chi ha passato una notte insonne. «Tanto eri arrivato a un punto morto.»
Lui trattenne un’imprecazione. «Magnifico! Ora mi toccherà ricominciare daccapo! Sei stata davvero di grande aiuto…!»
«Non serve, l’ho decifrato.»
«Te l’ho detto un milione di volte che detesto quando…aspetta, che hai detto?»
«Ho decifrato il grimorio» ripeté lei, piccata. «Ecco, ti faccio vedere.»
Sbalordito, Solomon la guardò mentre sfogliava con confidenza il Libro e ne piegava le pagine, sovrapponendo i simboli fino a ottenere nuove immagini: metamorfosi, figure nude immerse in strane vasche piene di liquido nero, e poi schiere di creature demoniache con ali da pipistrello e tratti scimmieschi.
«Come facevi a saperlo?»
Lei alzò le spalle. «Mi sono ricordata ciò che hai detto una volta sul Vecchio Mondo: gli stregoni trasmettevano il sapere magico in via orale, no? Tramite parabole, indovinelli.»
«Me lo ricordo, ma…»
«Osservando queste figure, mi sono chiesta: e se fosse per caso una specie di gioco? Se Farabi stesse sfidando i suoi successori ad andare oltre le apparenze? Un’immagine da sola dice poco, ma se le uniamo, risultano l’una concatenata all’altra! Lo vedi? Questo qui è un rituale!» 
Solomon strofinò la fronte con la punta delle dita.
«Ammetto che ha senso.» Si sentì un idiota per non esserci arrivato. Non aveva assolutamente considerato l’eventualità che quei pastrocchi deliranti nascondessero qualcosa di più profondo, legato ad una sfera diversa da quella della pura erudizione. Che fosse necessario fare affidamento su qualcosa di irrazionale come la fantasia.
«Ehm, bene.» Si schiarì la voce, mettendo da parte l’imbarazzo. «Ottimo lavoro. Almeno, ora abbiamo qualcosa da cui partire…»
«C’è un problema» obiettò lei. «Il rituale dà istruzioni su come dar vita a un Plasmavuoto, come avevi previsto.»
Solomon attese il “ma” che sarebbe presto arrivato. Lucia sospirò. «Ma, se provassi a metterlo in atto, non sopravvivresti.»
«Spiegati meglio.»
«Il Vuoto esige che ci sia sempre uno scambio» rispose lei. «Maggiore è il valore di ciò che gli si chiede, più alto è il tributo da offrire.»
«Sono pronto a pagarlo» affermò Solomon. «Qualunque sia il prezzo.»
«Anche se fosse la tua vita?» Lucia indicò una sequenza di scene: un corpo umano diviso a metà, una di esse dilaniata da quelle orride creature scimmiesche. «Trasformarti in un Plasmavuoto significherebbe porre fine alla tua esistenza per ottenerne un’altra, ma non è detto che questo avvenga. Potresti morire e basta. Se non subito, nel giro di pochi anni. Mesi, forse.»
A quelle parole, lui sentì il suolo frantumarsi sotto i piedi.
«No.» Scosse la testa con forza, rifiutandosi di accettarlo. «Impossibile, devi aver interpetrato male. Ricominciamo dall’inizio…»
«Non ho interpretato male. Solomon, devi rinunciare.»
«Non dopo aver fatto tutta questa strada!» sbottò lui, furente e deluso. «Ci siamo quasi, Lu, devo fare un tentativo! Non mi tirerò indietro proprio adesso per paura…»
«Tu non puoi diventare un Plasmavuoto» ribadì Lucia, guardandolo dritto negli occhi. «Ma io sì.»
Solomon si interruppe bruscamente. «Come sarebbe a dire, tu sì?»
«Sono una Sanguemisto. In me risiede già una doppia natura, una magica e una umana. Basterà sacrificare al Vuoto una delle due.»
«Non se ne parla» dichiarò lo stregone, con fermezza. «Non ti metterò in pericolo sulla base di pure supposizioni. Se uno dei due dovrà sacrificarsi, è giusto che sia io: sono più vecchio, ho più esperienza.»
«Il tuo antenato, Merlino, era un Plasmavuoto e un Sanguemisto!» protestò Lucia, caparbia. «Proprio come Farabi! Come fai a non vedere il collegamento?»
«Nel Vecchio Mondo quasi tutti i maghi erano Sanguemisto!» ribatté Solomon, accigliato. «Non c’erano leggi che negassero alla nostra razza di mescolarsi coi Mancanti…»
«E se fosse proprio per questo che i Decani l’hanno proibito? Per impedire che ci fossero altri Plasmavuoto? Io potrei essere l’ultima Sanguemisto rimasta al mondo.» La voce di Lucia tremò leggermente, mentre pronunciava le successive parole: «E sono certa che alla Cittadella si sarebbero già sbarazzati di me, se non fossi nata sterile.»
Sulla stanza gravò un silenzio doloroso. Per anni, avevano tacitamente stabilito di non toccare l’argomento; quando Solomon l’aveva salvata dal linciaggio, Lucia era ridotta in fin di vita, al punto che lui aveva minacciato di mettere a ferro e fuoco il Cerchio d’Oro se non avesse accettato di guarirla. Alla fine, dopo aver sollevato un gran trambusto, era riuscito a strappare ai Decani l’autorizzazione, a patto che però la Sanguemisto fosse immediatamente rispedita nel Mondo Esterno:
“Arcanta è il simbolo dell’odio dei Mancanti verso la magia” aveva tuonato l’Inquisitore Blackthorn, di fronte al concilio riunito. “Permettere che una sola goccia del loro sangue infetti la nostra razza sarebbe un insulto alla memoria dei nostri antenati!”
E poi, era arrivato il responso degli alchimisti: la ragazza non avrebbe mai sporcato Arcanta con una discendenza meticcia.
Gli anni erano passati, Lucia aveva recuperato le forze, ma il trauma era rimasto, una ferita invisibile che ancora le causava sofferenza. Solo una volta Solomon aveva provato a confrontarsi con lei, dopo la prima notte passata insieme:
“Non serve” gli aveva risposto recisamente, mentre si rivestiva. “Se fossi rimasta in convento, avrei comunque rinunciato alla maternità. E poi, tu non hai intenzione di sposarmi, no?”
Solomon guardò la sua assistente con espressione ferma. «Anche nell’eventualità in cui avessi ragione, non rischierai la vita per vincere una mia battaglia. Non posso permetterlo.»
«Una tua battaglia?» Un lampo d’ira balenò negli occhi di Lucia. «Il mondo non gira intorno a te, Solomon. Credi di essere l’unico con un conto in sospeso con Arcanta? Per anni sono stata respinta e umiliata dagli abitanti di quella città, costretta a portare quella dannata “S” sul petto. Ci siamo dentro insieme, è stato così sin dal principio.»
Gli venne vicino, reggendo il grimorio aperto. Solomon lo prese dalle sue mani, mentre dentro di lui tutto era in lotta; da una parte, l’esaltazione di avere ancora una possibilità, dall’altra il rimorso per ciò che sarebbe costato a Lucia, la paura di perderla…
«Questo è il mio destino, adesso lo so» gli disse lei, l’espressione dura, splendente nella luce del mattino. «Se la Cittadella dovrà bruciare, che sia una Sanguemisto ad appiccare l’incendio.»
Combattuto, lui distolse lo sguardo. “Quali sono i tuoi obiettivi, Solomon?”
Giustizia, ruggì una voce da un luogo oscuro, nel profondo del suo essere. Per Jonathan. Per la magia. E…anche per me.
«D’accordo» decise, infine, buttando fuori un lugo sospiro. «Facciamo a modo tuo.»
 
Stando alle traduzioni di Lucia, per ottenere i poteri di un Plasmavuoto era necessario mettere in atto un rito basato su una serie di passaggi:
«Per prima cosa occorre effettuare delle purificazioni» spiegò lei, passando in rassegna i suoi appunti. «L’adepto dovrà digiunare per un intero mese, bere e dormire lo stretto necessario e astenersi dai rapporti sessuali. Questa fase viene chiamata “Rinuncia”.»
Solomon le stette accanto giorno e notte, pronto a intervenire se la situazione fosse diventata pericolosa. Non aveva idea di come questo supplizio potesse donarle nuovi poteri, a lui sembrava che servisse soltanto a indebolirla…
«Non sei costretta a continuare» le ripeteva ogni giorno, ma Lucia, troppo esausta anche solo per parlare, gli faceva semplicemente segno di tacere e lasciarla riposare.
Le successive fasi comprendevano l’allestimento di un altare, una serie di invocazioni, un tributo di sangue (non era specificata la quantità, perciò Lucia si limitò a pungersi un dito) e, infine, un passaggio chiamato “Ascensione”.
«Il Vuoto reclamerà ciò che gli è stato promesso» gli spiegò Lucia, molto dimagrita e provata. «E l’adepto dovrà sancire il patto donandosi a lui completamente.»
Si trattava, in pratica, di raggiungere uno stato di trance, indotto dalla somministrazione di un qualche allucinogeno.
«Potrei assumere della belladonna» propose Lucia, sdraiata sul pavimento del salotto e circondata da candele, mentre Solomon era impegnato a tracciarle intorno un articolato cerchio magico, identico a quello riportato sul grimorio. «Sapevi che nel Rinascimento le dame la usavano per rendere i loro occhi più luminosi?»
«Niente belladonna» decretò Solomon. «Se sbagliassimo dosaggio ti ucciderebbe. Dovrei avere della Cannabis, da qualche parte…»
Le labbra di lei si piegarono in un sorrisetto. «Da quando fai uso di droghe, signor Blake?»
«È capitato rarissime volte. Per scopi puramente accademici.»
«Mi piacerebbe proprio sapere quali.»
«Sta’ zitta.» Solomon le si inginocchiò accanto, mentre apriva un barattolo. «Basteranno poche foglie.»
Lei allungò una mano, ma lui esitò. «Siamo ancora in tempo per fermarci, non sappiamo cosa può accadere…»
In risposta, Lucia gli strappò il barattolo. «E se non proviamo non lo sapremo mai.»
Lasciarono scorrere i minuti, in attesa che la droga facesse effetto. Quando, lentamente, Lucia abbassò le palpebre e il suo corpo si rilassò, Solomon estrasse l’orologio per tenerle sotto controllo il battito, lottando contro l’ansia che gli annodava lo stomaco. Passarono almeno venti minuti, poi mezz’ora. E non accadde assolutamente nulla.
«Avremo sbagliato qualcosa» borbottò lui. «Forse è meglio che sia andata così. Tu stai bene, vero? Lucia?»
Lei continuò a giacere con gli occhi chiusi.
«Ehi.» Solomon prese a scuoterla, ma la ragazza non voleva saperne di svegliarsi.  «Non è divertente!» s’infuriò lui. «Avanti, svegliati!»
Le diede dei buffetti sulle guance, la scrollò per le spalle. Quando neppure questo sortì effetto, Solomon iniziò ad andare nel panico. «Lucia, svegliati! Maledizione!»
La testa di lei ciondolò inerte da un lato. Un rivolo di sangue le colò dalla narice.
Angosciato, Solomon accostò l’orecchio al suo petto. Non sentiva più il cuore. «No, no, NO! Ti prego, svegliati! Lucia!»
Non poteva star accadendo per davvero. Il Vuoto non gliel’avrebbe portata via così, non lo avrebbe permesso!
Cercando di non perdere la testa, Solomon sfregò i palmi delle mani, finché non sentì crepitare una scintilla di elettricità, ma prima che provasse a rianimarla, la ragazza spalancò gli occhi con un grido strozzato.
«Per i Fondatori!» esclamò Solomon, la morsa di paura che si allentava. «Stai bene? Che cosa è successo? Dov’eri, cosa hai visto?»
La aiutò a mettersi seduta, mentre lei riprendeva fiato, il petto che si alzava e si abbassava furiosamente.
«Ho visto il nulla» gemette. «Tutto intorno a me era buio, e freddo, e io ero così…così sola! Ho provato a urlare, ci ho provato con tutte le forze, ma non c’era nessuno che potesse sentirmi, nemmeno tu mi sentivi. Ho creduto di essere morta!» Un singhiozzò inghiottì il resto delle sue parole e Solomon, non sapendo in che altro modo calmarla, se la prese tra le braccia.
«Va tutto bene» disse, accarezzandole i capelli. Tremava ancora come una foglia. «Non ci proveremo più, te lo prometto.»
Lucia si aggrappò forte a lui, continuando a singhiozzare contro la sua spalla. «L’ho sentito, Solomon. Era insieme a me, intorno a me!»
«Di chi stai parlando?»
«Non lo so» sussurrò lei, scostandosi appena per guardarlo, e Solomon lesse nei suoi occhi uno sconfinato e indicibile terrore. «So solo che c’era qualcosa, nel buio. Qualcosa che mi inseguiva, che cercava di afferrarmi…»
«Qualunque cosa fosse non ci è riuscita» ribatté lui. «Sei a casa, al sicuro. Ora mangia qualcosa e cerca di riposare. Hai passato un periodo difficile.»
Lucia si lasciò portare in camera sua e si mise a letto. Solomon rimase insieme a lei finché non fu tranquilla, poi chiamò Valdar e gli chiese di cucinarle qualcosa. Una volta solo, rifletté su quanto accaduto, senza riuscire a darsi pace.
Dovrei fermarmi.
Valutò seriamente quell’opzione. Forse, semplicemente, il potere del Vuoto non era nel suo destino… avrebbe potuto restituire quel grimorio maledetto, dimenticarsi della sua vendetta, provare a farsi bastare ciò che già possedeva…
Neppure la magia era nel tuo destino, tornò prepotentemente all’attacco quella voce dentro la sua testa. E guarda dove sei adesso!
Non poteva negarlo, odiava il pensiero di arrendersi, proprio a un passo dalla méta. Ma ciò con cui aveva a che fare era diverso da qualunque cosa avesse mai sperimentato. E una parte di lui ne aveva paura.
Quei pensieri lo accompagnarono per giorni, anche ad Arcanta. E la cosa non passò inosservata…
«Mi passeresti quella chiave inglese laggiù?»
Solomon si accorse che Isabel si stava rivolgendo a lui solo quando vide la sua mano sventolare a un palmo dal suo naso.
Lo stregone si riscosse. «Perdonami. Che stavamo dicendo?»
Per un attimo, si era dimenticato di averla raggiunta nel suo laboratorio. Il museo era chiuso, e Isabel era sdraiata sotto un’automobile mezza smontata: indossava una tuta da meccanico imbrattata di grasso e fuliggine, e i capelli erano raccolti in modo disordinato in cima alla testa. Solomon era sempre stato germofobico, e la visione di lei in quello stato selvatico avrebbe dovuto dargli immensamente fastidio. Invece, scoprì che non gli dispiaceva affatto…
Basterebbe strapparle via i vestiti, e il problema sarebbe risolto…
«Dicevo che mi serve la chiave inglese» sospirò lei, togliendosi i guanti. «Non importa, la prendo da sola.»
Si mise rovistare nella cassetta degli attrezzi, e ne approfittò per scrutarlo da vicino, mettendolo in agitazione. «Che stai, ehm, cercando?»
«Il problema. Perché è evidente che tu ne abbia uno. Perciò sputa il famiglio: di che si tratta?»
«I Decani mi hanno affidato una nuova missione, tutto qui.»
«Di già?» Lei si fece ancora più sospettosa. «Sei sparito per più di un mese: nemmeno i tuoi allievi sapevano che fine avessi fatto. E poi, riappari all’improvviso come se niente fosse.»
Solomon mantenne un'espressione imperturbabile, com'era abituato a fare in ogni circostanza. «Sono l’Arcistregone dell’Ovest: i Decani comandano, io eseguo.»
Ovviamente, Isabel non se la bevve. «Xavier mi ha detto che ti ha fatto conoscere Rebecca.»
Per un istante, la sicurezza di lui vacillò, ma riuscì a non tradirsi. «Non avrebbe dovuto?»
Isabel incrociò le braccia, poggiandosi al tavolo da lavoro, e lo guardò con intensità. «Ascolta, Solomon, i patti erano chiari: non ho intenzione di ficcare il naso nei tuoi affari, e so che non ti sei avvicinato a mio fratello perché ti sta simpatico. Sono solo…preoccupata, ecco. Qualunque cosa tu stia facendo, cerca di stare attento. D'accordo?»
Una sensazione calda e piacevole gli si spense nel petto, ma Solomon si affrettò a spostare la conversazione altrove. «Ti ringrazio, ma non occorre. Va tutto a meraviglia. Allora, questa carretta? Proviamo a farla ripartire?»
 
I sospetti di Isabel gli fecero comprendere che fosse il caso di muoversi in maniera più cauta, da lì in avanti. Non poteva permettersi di mandare a monte la copertura, perciò, decise di rimanere ad Arcanta qualche giorno, il tempo di far calmare un po’ le acque.
Riprese a tenere lezione, si fece vedere a un paio di feste, acconsentì persino a trascorrere qualche pomeriggio in compagnia dei cognati. I suoi pensieri tornavano però spesso a Lucia, al senso di colpa per averla lasciata praticamente sola dopo l’esperienza che aveva vissuto.
Inviò delle lettere alla casa sul lago, per accertarsi che stesse bene, ma le sue risposte erano sempre brevi e ricolme di gelo, a indicare che, questa volta, non sarebbe stato facile per lui farsi perdonare.
O almeno, così credette fino a quella notte.
Dopo aver congedato i suoi studenti, si era ritirato come da abitudine nei suoi appartamenti alla Corte dei Sofisti, per leggere un po’ prima di andare a letto.
Uno strano scricchiolio, proveniente da una posizione indistinta della stanza, lo costrinse ad alzare gli occhi dalle pagine del libro.
«Chi c’è?»
Gli rispose solo il silenzio. La camera padronale appariva come al solito, lussuosa e confortevole; eppure, un presentimento sgradevole strisciò in lui, mentre scrutava le ombre gettate dalle braci del camino. La mano corse al suo bastone, poggiato di fianco al letto.
Lo scricchiolio si fece sentire di nuovo, stavolta più intenso.
Solomon si alzò e percorse la stanza, guardingo. I suoi occhi incrociarono quelli del proprio riflesso, in una grande specchiera psiche.
Lo scricchiolio proveniva da lì.
In allerta, Solomon si avvicinò, notando che il vetro vibrava leggermente.  E poi, nel bel mezzo della specchiera, emerse un naso.
Lui trasalì dalla sorpresa e fece un balzo all’indietro. «Ma che diavolo…!?»
Il naso venne avanti, seguito subito dopo da un’arcata sopraccigliare, una fronte, una bocca, un mento. Sospeso nello specchio, il volto guardò verso Solomon con un sorriso raggiante. «Ha funzionato!»
Lui si ritrovò a boccheggiare. «L-Lucia!?»
Il suo ginocchio affiorò dal vetro, e la ragazza emerse dallo specchio come se uscisse da una vasca da bagno, con indosso solo una sottoveste di seta. Inciampò nella cornice e scoppiò a ridere, scostando i capelli rossi che le erano piovuti davanti al viso. «Ce l’ho fatta! Sono giorni che mi esercito, ma non ero mai riuscita ad andare così lontano!»
«Cosa?» domandò Solomon, faticando a credere a quello che aveva appena visto. «Aspetta, arrivi dalla casa sul lago?»
«Esatto! Stavo pensando a te, quando ho sentito come una voce chiamarmi, dall'altra parte dello specchio in camera mia, ed eccomi qui!»
Attraversamento catottrico. L’arte di creare un ponte tra gli specchi, tra Tutto e Vuoto, in modo da percorrere distanze immense in pochi istanti. Solomon ricordava di aver letto qualcosa a riguardo, molti anni fa, ma non l’aveva mai visto praticare da nessun mago…
«Ti ha fatto male?» domandò poi, apprensivo. La esaminò da capo a piedi, come per accertarsi che fosse tutta intera. In realtà, sembrava tornata in ottima forma, gli occhi vispi e lucenti, e ogni traccia di stanchezza svanita dal suo viso.«Da quand’è che ci riesci?»
«Mhmm? Non saprei, da qualche giorno!» Non riusciva a stare ferma un attimo, e continuava a sorridere e a saltellare, in preda a un'energia incontenibile. «Non vedevo l’ora di mostrartelo! Oh, e ho imparato a fare un sacco di altre cose! Guarda!»
Sollevò le mani, e lui vide qualcosa di nero addensarsi nei suoi palmi, formare volute come inchiostro nell’acqua. «Hai visto? Non sono bellissimi? E posso fargli fare tutto quello che voglio!»
Gettò il braccio di lato, con noncuranza, e un filamento d'ombra si scagliò contro un vaso come una frusta, mandandolo in frantumi.
Solomon non sapeva cosa pensare. «D’accordo, adesso fermiamoci un attimo e ragioniamo. Queste tue nuove…capacità, sono iniziate dopo il rito di Ascensione?»
Lei emise una risata argentina. «Mhmm, forse!»
«Allora ha funzionato» mormorò lo stregone, la mente che lavorava in fretta. «Attraversamento catottrico, ombromanzia…sono poteri da Plasmavuoto.»
«Hai visto? Te l’avevo detto che dovevi avere fiducia in me!»
Senza smettere di sorridere, Lucia gli prese le mani come se volesse iniziare una danza.
«Va bene, ho visto. Adesso però calmati, per favore» insistette lui. «Non sappiamo ancora con cosa abbiamo a che fare, potrebbero esserci effetti collaterali che non vanno trascurati. Facciamo qualche test, ti va? Per precauzione…»
«Sol, smettila di preoccuparti! Ti sembro malata? Guardami, sto benone!»
Gli si fece più vicina, accarezzò il suo petto. «E, a dirla tutta, credo di non essermi mai sentita meglio in vita mia.»
E lo baciò, come non lo aveva mai baciato prima. In modo sicuro e potente. Autoritario.
«Lu, aspetta» tentò lui, senza fiato. «Non qui alla Corte...»
Ma Lucia ignorò qualsiasi protesta e riprese a baciarlo con avidità, come se volesse divorarlo, stringendogli il labbro inferiore tra i denti, mentre iniziava a rimuovergli i vestiti. Pensare con lucidità tutt’a un tratto era diventato faticoso, e Solomon non poté fare altro che lasciarsi andare; Lucia lo spinse sul letto, gli si mise sopra e iniziò a cavalcarlo, finché i suoi sospiri non divennero gemiti, poi urla, e a quel punto lui perse ogni controllo. Nella frenesia del momento, fu solo vagamente consapevole della strana polvere nera che il corpo di lei spargeva a ogni movimento, come fumo che si dissipava nel buio.
Quando finalmente vennero, sciogliendosi tra spasmi di piacere, l'intera stanza tremò: lo specchio si incrinò e diversi libri caddero dagli scaffali. Nessuno si sarebbe preso la briga di raccoglierli fino al mattino dopo.

 

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Capitolo 32
*** L'inferno ***




L’INFERNO

 

 
 
«Un solitario impulso di gioia
mi spinse a questo tumulto tra le nuvole:
ho soppesato, valutato tutto,
gli anni futuri solo fiato disperso,
fiato disperso gli anni alle spalle
in equilibrio con questa vita, questa morte.»
 
Un aviatore irlandese prevede la sua morte,
William Butler Yeats, 1919.
 
 
 
La Panne, 1915
 
«Adesso, miss Thorn» disse il dottor Depage, posizionando un lungo imbuto di legno sul petto di Abigail e porgendo l’orecchio all’altra estremità. «Faccia un bel respiro.»
La ragazza obbedì con pazienza, sentendo su di sé lo sguardo ansioso di Fanny.
Depage completò la visita, pose ad Abigail le consuete domande (assumeva abbastanza acqua, frutta, legumi? Quante ore dormiva? Era a conoscenza di casi di schizofrenia in famiglia?), e infine, tornò alla sua scrivania. «In tutta franchezza, lei mi sembra sana come un pesce, miss Thorn.»
«È quello che sto cercando di dire a tutti!» replicò la ragazza, guardando Fanny di traverso. «Sto bene, sono solo un po’ stressata.»
«Aspettiamo l’esito delle analisi per stabilirlo» ribatté Fanny, cocciuta come sempre. «Dottore, lei non l’ha vista, aveva le convulsioni! Forse è il caso di farle una radiografia…»
«Ho solo avuto un incubo» tagliò corto Abigail. «Stiamo perdendo tempo prezioso, che potrei usare per prendermi cura di chi ne ha davvero bisogno!»
Fanny e Depage si scambiarono un’occhiata, e il primario dell’Océan scrollò le spalle. «Se se la sente di tornare al suo lavoro, non posso certo impedirglielo. Le raccomando però di non trascurare la sua salute, miss Thorn, e di non affaticarsi più del necessario.»
Finalmente libera di andare, Abigail lasciò lo studio in tutta fretta.
Fanny la seguì a ruota. «Abigail, aspetta!»
«Che c’è?» scattò lei, bruscamente. «Si può sapere di quanti altri pareri hai bisogno?»
Rughe di disappunto incresparono la fronte di Fanny. «Ti ricordo che questo è un ospedale. Se qualcuno dimostra sintomi allarmanti è nostro dovere intervenire…»
«Io non ho niente che non vada!» sbottò Abigail, la rabbia che montava rapidamente. «E ti sarei grata se la smettessi di impicciarti della mia vita!»
La sua reazione stupì l’infermiera, che rimase a guardarla, interdetta. «Sono preoccupata per te. Ieri sembravi sconvolta…»
«Ho detto che sto bene!» esplose Abigail. «Quindi, piantala di starmi addosso e lasciami lavorare!»
Per la prima volta, Fanny non trovò nessuna risposta caustica da rivolgerle. Rimase lì ferma a fissarla, in un modo compassionevole che Abigail detestò, quasi quanto detestava essersi rivolta a lei così. Ma in quel momento, non le importava di aver ferito una persona che cercava di esserle vicina. In quel momento, più che mai, sentiva il bisogno di stare sola col suo dolore.
Perché, malgrado i traguardi raggiunti dall’Océan, i Mancanti non sarebbero mai stati in grado di comprendere la natura del male che l’affliggeva, tanto meno di alleviarlo.
Nessuno laggiù poteva sapere che lei era spezzata. Che assieme alla magia, suo padre le aveva strappato via quanto aveva di più prezioso. La sua identità. La sua stessa anima. E niente sarebbe mai riuscito a colmare quel vuoto che Abigail sentiva nel profondo, che appesantiva ogni suo passo, che le rendeva difficile persino respirare, come se al mondo non ci fosse più abbastanza aria, come se di colpo fosse invecchiata di almeno cent’anni.
Il lavoro era la sola cosa in grado di tenerla a galla, e non avrebbe permesso a nessuno di portarle via anche questo, nemmeno alle sue amiche, nemmeno se credevano di farlo per il suo bene. Perciò, nei giorni a venire, Abigail si sforzò di nascondere a chiunque la sua debolezza, l’affanno costante, il tremore delle mani ogni volta che le sue dita si stringevano intorno a un bisturi, le lacrime di frustrazione che sovente le salivano agli occhi. L’inappetenza e l’insonnia, la consapevolezza di non poter più fare la differenza laddove la scienza doveva riconoscere i propri limiti.
Ma la tortura peggiore di tutte, più del senso di mancanza e della spossatezza che le piombava nelle ossa al più banale sforzo, era il silenzio da parte di Tom.
Nessuna lettera giunse a La Panne dall’ultimo viaggio in astrale che Abigail avrebbe compiuto nella sua vita, nessuna notizia dal fronte occidentale. I fucili tacevano, e solo i corvi spezzavano di tanto in tanto il silenzio gravido di tensione che era calato in quei giorni sulla cittadina belga.
Molti avevano interpretato quella tregua come un segno positivo, ma i soldati più anziani non erano dello stesso avviso, e la definivano “la calma prima della tempesta”.
E quando la tempesta si abbatté su di loro, violenta e inattesa come un monsone estivo, sembrò annunciare la Fine del Mondo.
Cominciò durante la notte, quando all’Océan arrivarono più di centosettanta soldati, feriti o moribondi, una situazione che non si vedeva dall’ultima battaglia di Ypres: i letti a disposizione si esaurirono in fretta, tant’è che lungo i corridoi furono allestiti giacigli d’emergenza, che ostacolavano la corsa frenetica di dottori e paramedici.
Nessuno si era preso la briga di avvisarli, né di riferire quale fosse la provenienza di quegli uomini, o cosa li avesse ridotti in quello stato.  Gli ufficiali erano irascibili e si rifiutavano di lasciar trapelare informazioni, ma circolava la voce che l’esercito tedesco avesse improvvisamente deciso di abbandonare un settore del fronte che da mesi il colonnello Mackenzie sperava di conquistare. Col proposito di gettare scompiglio tra i nemici in ritirata e aprire un varco nelle linee, Mackenzie aveva dato ordine di attaccare. Fu un errore madornale.
«Era una trappola» rantolò un soldato a cui Abigail e Gwen stavano prestando soccorso, sputando sangue; lo stomaco gli era fuoriuscito da uno squarcio sull’addome, ed era rimasto in quelle condizioni per due giorni. Quasi sicuramente non avrebbe superato la notte. «Eravamo accampati ai piedi di una collina…e ci sono arrivati addosso all’improvviso. Erano dappertutto!»
«Di che Battaglione facevi parte?» domandò immediatamente Abigail, assalita dal panico.
«Del Secondo Devonshire, signora.»
Il cervello di lei andò in panne.
“Raggiungeremo il Secondo Devonshire per preparare l’attacco. Il colonnello Mackenzie conta di prendere la collina di Bellewaerde entro l’inverno…”
Le parole di Tom risuonarono nella sua mente stordita e il terrore le esplose nel petto. «Hai notizie di uno squadrone irlandese? È capeggiato dal capitano Doherty! Tom Doherty! Ha partecipato all’attacco? Sai se lo hanno portato qui?»
«Infermiera» intervenne con voce ferma il chirurgo, spingendola da parte. «Non adesso, dobbiamo operare.»
«La prego!» gemette Abigail, sgomitando per non perdere di vista il soldato, prima che venisse portato via. «Tom Doherty! Qualcuno lo conosce?»
«Abigail» disse piano Gwen, posandole una mano sulla spalla. «Calmati, se è qui lo troveremo, sono sicura che sta…»
Abigail se la scrollò di dosso, senza darle il tempo di dire altro. Dimenticò tutto il resto e si mise a correre all’impazzata, facendosi strada con fatica in quel mare di corpi dilaniati, barelle e letti di fortuna, in un mondo di dolore e morte, gridando il nome di Tom, di James, di chiunque potesse accendere in lei un barlume di speranza.
Fa che non sia troppo tardi, ti prego, fa che non sia troppo tardi…
Non sapeva neanche chi o cosa stesse pregando, ma lo fece con tutte le sue forze.
«Signorina» le venne finalmente in aiuto un portantino, vedendola così disperata. «Ho sentito che sta cercando gli irlandesi. Laggiù ne ho visti un paio, forse conoscono il suo amico.»
Abigail accolse la notizia come un miracolo, ringraziò l’uomo e si precipitò nella direzione indicata.
Quando irruppe nella camerata gremita di feriti, individuò all’istante Pàdraic, con una benda insanguinata attorno alla testa, a coprirgli l’occhio destro. Con lui c’erano anche O’Connor, Regan e alcuni dei loro compagni, coperti di terra e sangue, riuniti intorno a un letto con le teste chine.
La stanza oscillò davanti agli occhi di Abigail. No…
La piccola folla si aprì silenziosamente per cederle il passo. Fanny era piegata sul letto, intenta a praticare un energico massaggio cardiaco.
«Forza!» la sentì gridare, la voce corrosa dalla fatica, dalla rabbia e dall’angoscia. «Non puoi arrenderti, soldato! Combatti! Combatti! Te lo ordino!»
Abigail si avvicinò lentamente, respirando appena. Ti prego, ti prego, no…
A un tratto, Fanny emise un grido lancinante e crollò sulle ginocchia. L’algida e sprezzante Fanny Bouchard, inscalfibile come il diamante…
Abigail trovò il coraggio di guardare il corpo che giaceva sul letto, e il cuore le balzò nel petto.
Era James Finnegan.
Chiunque avrebbe stentato a riconoscerlo: la sua pelle era nera e dilaniata, e il fuoco gli aveva divorato tutti i capelli, lasciando il cranio esposto e ricoperto di croste rosse. I vestiti si erano fusi nella carne. Ma gli occhi erano spalancati, privi di ciglia, fissi verso l’alto come due piccole perle screziate di azzurro.
«Non è giusto» continuava a singhiozzare Fanny, il volto sepolto tra le braccia. «Potevo salvarlo…dovevo salvarlo…!»
No, pensò Abigail, il cuore che le si torceva tra le costole. Io avrei potuto salvarlo, se avessi avuto ancora la magia…
Guardò gli altri soldati, le lacrime che solcavano lo strato di sporcizia sui loro volti mentre si toglievano gli elmetti. Eoghan O’Neill si avvicinò a James, gli chiuse gli occhi con la mano e mormorò una preghiera.
La mente di Abigail era in caduta libera. Barcollò verso Fanny, si lasciò cadere al suo fianco e, senza pensarci un istante di più, l’abbracciò.
Per un lungo, doloroso momento, nessuno parlò. Poi, Pàdraic passò la manica sudicia sull’occhio e tirò su col naso: «Tommy non lo sa ancora. Qualcuno dovrà dirglielo.»
Ancora stretta a Fanny, Abigail alzò la testa. Il volto del soldato danzava oltre un velo di lacrime. «Tom è qui? Sta bene?»
«Lo stanno operando» rispose un soldato di nome Kennedy. «Dicono abbia un pezzo di ferro infilato nella gamba. Ma si riprenderà.»
Abigail lasciò andare pesantemente il respiro, come se il pugno attorno al proprio cuore si fosse finalmente dischiuso.
Pàdraic deglutì, di nuovo sull’orlo delle lacrime. «È vivo grazie a James. I tedeschi ci avevano circondati, hanno piazzato mine in tutto il bosco, e non avevamo vie di fuga…»
«Ci siamo trovati in mezzo al fottuto inferno» aggiunse O’Connor, dato che Pàdraic non ce la faceva a continuare. «Mackenzie era morto, il Secondo Devonshire disperso…non avevamo ordini, nessuna idea di cosa fare. Poi, Tom e James hanno aperto il fuoco contro un gruppo di tedeschi, per coprirci le spalle. Quei due pazzi.»
«Ma James ha visto la mina prima di Tom» proseguì Regan con voce rauca, le braccia serrate e lo sguardo cupo. «Non ci ha pensato un attimo: si è lanciato su di lui e lo ha spinto via prima che esplodesse. Era un eroe, cazzo.»
Sì, James lo era davvero. Il più coraggioso e leale amico che si potesse desiderare. Abigail pensò all’ultima volta in cui lo aveva visto, alla promessa che le aveva fatto poco prima della partenza…
“Glielo riporterò sano e salvo, miss. Parola mia.”
Tutto ha un prezzo. Era una lezione che ogni mago prima o poi doveva imparare. Nel Creato esistevano equilibri inviolabili, nella natura così come nella magia: prendere da un lato significava togliere dall’altro…e se fosse stato proprio questo il motivo per cui James era morto? Per il suo egoismo? Perché Abigail aveva desiderato con tutta la sua Volontà di maga che l’uomo che amava vivesse...?
Lottò per tenere lontani quei pensieri terribili, e si rivolse invece ai sopravvissuti: «Anche voi avete bisogno di cure. Forza, venite con noi.»
 
Seguirono giornate e notti caotiche, in uno stato di emergenza costante. Abigail si domandò se Mackenzie fosse morto con la consapevolezza della tragedia che aveva causato, pur di ottenere a tutti i costi la vittoria. I Mancanti e le loro misere ossessioni, terre, potere, denaro. I Decani su una cosa non sbagliavano: dopo secoli di guerre insulse, il sangue umano continuava a scorrere a fiumi, eppure i Mancanti sembravano incapaci di imparare dai propri errori.
Tom rimase sotto i ferri per due giorni, e per i successivi fu tenuto sotto stretta osservazione. Abigail andava da lui ogni volta che poteva, trovandolo incosciente a causa dei sedativi. Gli era stato diagnosticato un trauma cranico. Metà del suo volto era nascosto da fitte bende. Ma soprattutto, aveva riportato gravi lesioni alle gambe, forse permanenti…
«Gli abbiamo rimosso sedici schegge di bomba dalla gamba sinistra» l’aveva messa al corrente il chirurgo. «Nella migliore delle previsioni, rimarrà storpio.»
Abigail ottenne il permesso di accudirlo personalmente, giorno e notte, durante la sua lenta ripresa. Non era neppure sicura che lui la riconoscesse: non le parlava, inghiottiva con fatica acqua e cucchiaiate di brodo che Abigail lo induceva ad assimilare, la osservava con occhi spenti mentre gli spalmava un unguento sulle piaghe, o cambiava le fasciature, rispondendo con cenni e brevi parole alle domande dei medici. Non ebbe reazioni particolari neppure quando i suoi compagni vennero a trovarlo, o quando O’Connor riuscì a dirgli cosa fosse accaduto a James. Persino di fronte a quella notizia, Tom si limitò ad ascoltare le parole di cordoglio che loro pronunciavano come se la sua mente fosse altrove, chiuso in un silenzio impenetrabile.
Migliorò a poco a poco. Dapprima, riprese a sbocconcellare cibi solidi, poi acconsentì a partecipare alle sedute di fisioterapia. Qualche volta, si lasciò convincere da Pàdraic a farsi spingere in sedia a rotelle in giardino, o fino alla spiaggia.
Abigail non gli fece pressioni, non gli mise fretta. Il fatto che fosse vivo era già un dono immenso, e sapeva che le ferite che aveva riportato erano molto più profonde di quelle visibili in superficie.
«Ti ricordi chi sono?» osò domandargli una mattina, dopo averlo aiutato a radersi.
Tom incrociò il suo sguardo. I limpidi occhi color della pioggia erano belli come Abigail li ricordava, ma le parvero al tempo stesso così lontani e freddi. Diede comunque segno di voler ascoltare quel che aveva da dire e porse l’orecchio destro, l’unico funzionante.
«Mi chiamo Abigail» disse lei, reprimendo un magone. «Abigail Thorn. Ci siamo conosciuti in questo ospedale, ho partecipato con te e James al recupero del maggiore Draper. Mi hai scritto tutti i giorni, mentre eri là…»
«Mi ricordo di te.»
Il cuore di Abigail piroettò.
«Mi hai salvato la vita» disse Tom, sempre con quell’espressione distante. «Quando eravamo nella foresta.»
«Sì!» esclamò Abigail, sentendosi sciogliere dalla gioia. «Sì, eravamo lì insieme, e…!»
«Avresti potuto salvare anche James.»
Lei si interruppe, l’entusiasmo che si spegneva. «Io…»
«Tu sai fare cose straordinarie» mormorò lui. «Miracoli che vanno oltre la mia comprensione.»
Le si seccò la gola. «I-io…»
«Allora, perché non hai fatto niente?» pretese di sapere Tom. I suoi occhi adesso scavavano in quelli di Abigail, in cerca di risposte che lei non poteva dargli . «Perché non lo hai riportato da me? Ti sarebbe bastato poco, come quando hai fatto cadere quell’albero…»
«Mi dispiace» farfugliò Abigail, senza sapere cosa dire. «Non potevo...»
Vide la collera infiammare il suo sguardo. «Perché no? Cos’è, esiste una specie di…lezione divina che noi mortali dobbiamo imparare? Tutto questo… l’orrore che stiamo vivendo, non ti sembra abbastanza?»
«Non è così.» Abigail si sentiva vicina alle lacrime. «Ti giuro che avrei tanto voluto…»
La bocca del giovane si torse in una smorfia.
«Tom» sussurrò Abigail, implorante. «Ti prego, credimi, avrei fatto di tutto per salvare James…»
«Sono stanco» la fermò lui, gelido. «Voglio riposare. Per favore, va’ via.»
E si coricò sul fianco, dandole le spalle.
Abigail non riusciva più a parlare. Non era nemmeno sicura di stare ancora respirando. Si alzò, le gambe pesanti come macigni, e lasciò in silenzio la stanza.
 
Passarono alcune settimane, durante le quali Abigail non ebbe il coraggio di farsi vedere da Tom. Chiese a Gwen di prendersi cura di lui al suo posto, malgrado la distruggesse il pensiero di non potergli stare accanto, che lui adesso la odiasse…
“Quanto credi ci vorrà perché queste persone scoprano la verità e inizino a temerti...?”
Da quando aveva lasciato Arcanta, Abigail si era convinta che il mondo dei Mancanti fosse il posto giusto per lei, con le sue luci e le sue ombre: tra loro aveva conosciuto la bellezza e l’orrore di una vita senza illusioni, al punto da convincersi di non aver bisogno della magia per sentirsi completa…
E allora, perché adesso che sono esattamente come loro, mi sento così sola?
«Ti va di uscire po’ stasera?» le propose una sera Gwen, dopo essere passata dalla sua stanza.
Abigail era sdraiata sotto le coperte con la luce spenta, senza tuttavia riuscire a chiudere occhio; da quando aveva perduto i poteri, e dalla morte di James, era già tanto se dormiva per due o tre ore di fila. «Non ne ho molta voglia.»
«Dai» insistette Gwen, sedendole accanto. «Ci farà bene distrarci: solo qualche ora al pub sulla spiaggia. Lo ha proposto Fanny!»
Abigail la sbirciò da sotto la coperta. «Davvero?»
«Altroché! E ha anche aggiunto che, se non fossi riuscita a convincerti, ti avrebbe trascinato con un fucile puntato alla testa. Io faccio ancora fatica a capire quando è seria o scherza, non so tu!»
A quel punto, Abigail si mise a ridere, o almeno così credette: non le capitava più molto spesso, e temeva di aver dimenticato che suono avesse la sua risata.
«Meglio non metterla alla prova, allora.»
Convinse il suo corpo a lasciare il letto e a vestirsi con immensa fatica, e per tutto il tragitto attraverso il paese, Gwen fece davvero del suo meglio per tenere su il morale alla compagnia.
Ma quando alla fine raggiunsero il pub, Abigail capì che le era stata tesa una trappola; seduti attorno a un tavolo trovò Pàdraic, O’Connor, e tutti gli altri. Compreso Tom.
Le ragazze presero posto di fronte ai soldati, e Abigail, stretta tra Fanny e Gwen, fece di tutto per evitare di incrociare lo sguardo del capitano, curvo e taciturno, affiancato da una stampella; sembrava che la fisioterapia stesse iniziando a dare buoni risultati, dato che l’ultima volta che lo aveva visto era ancora in carrozzina. Forse, se avesse continuato così, un giorno sarebbe tornato a camminare…
Per buona parte della serata, l’atmosfera fu tutto fuorché allegra, nonostante i tentativi di Gwen e Pàdraic di rompere il ghiaccio con qualche aneddoto buffo capitato di recente, tipo quando i dottori avevano convinto Pàdraic a indossare una benda nera per coprire il foro che aveva al posto dell’occhio («“Pensaci, figliolo”, mi hanno detto. “Puoi sempre spacciarti per un pirata: le ragazze si getteranno ai tuoi piedi!”»).
L’oste offrì a tutti un giro di birre, in onore del loro coraggio, e a quel punto, O’Neill si tirò maldestramente in piedi, schiarì la voce e alzò il boccale: «A Jamie» disse, guardando i compagni con occhi lucidi. «Che il suo ricordo non svanisca. E la sua audacia sia da esempio per tutti noi.»
Una muta approvazione accompagnò le sue parole, mentre i bicchieri si sollevavano in memoria del giovane soldato. Seguì un altro lungo e tetro silenzio, dopodiché, lo sguardo fisso sulla sua birra, Kennedy iniziò a borbottare: «“Oh well, who wouldn’t be a sailor lad a 'Sailin' on the main. To gain the goodwill of his captain’s good name…”[1]»
«Kenny» grugnì O’Connor, massaggiandosi stancamente la tempia. «Piantala, non è un buon momento per mettersi a cantare!»
«Io invece credo che a James avrebbe fatto piacere» intervenne Pàdraic. «Adorava quella canzone.»
«Sono d’accordo» aggiunse Fanny, con voce roca. «E poi, non gli sarebbe andato giù di vederci con questi musi lunghi davanti a una birra!»
O’Connor fece per ribattere, ma inaspettatamente, anche il vecchio Regan iniziò a canticchiare, con la sua voce burbera e profonda, battendo il pugno sul tavolo: «He came ashore one evening for to be! And that was the beginning of my own true love and me! And it’s home, boys home!»
«Home I’d like to be!» canto Pàdraic, guardando gli altri con un sorriso incoraggiante. «Home for a while, in my own country! »
«Where the oak and the ash and the bonny rowan tree!» si unì anche Gwen. «Are all a-growing green in the old country!»
A poco a poco, anche gli altri soldati iniziarono a cantare, e sul loro esempio, dai tavoli vicini si levarono fischi e applausi, finché tutti si misero a battere mani e piedi a tempo:
 
«And it’s home, boys home!
Home I’d like to be! Home for a while, in my own country!
Where the oak and the ash and the bonny rowan tree!
Are all a-growing green in the old country!»

 
Abigail però non riusciva a trovare dentro di sé la forza per unirsi al coro, e continuava a fissare Tom, la sua mascella contratta e il dolore dipinto sul suo volto. Non si meravigliò quando, a un certo punto, lui afferrò la stampella e si issò faticosamente in piedi, zoppicando verso l’uscita.
Lo seguì senza esitazione.
Lo raggiunse sul retro della locanda, su quella stessa spiaggia dove, mesi prima, si erano scambiati il loro bacio di addio. Le sembrava trascorsa un’eternità.
«Non ho ancora scritto a sua madre» disse lui all’improvviso, rivolto al mare. «So che devo essere io a darle la notizia…ma non so da che parte cominciare.»
Abigail si fermò a qualche passo da lui, sentendo il cuore saltarle in gola.
«Non fanno che parlarmi tutti di coraggio» disse Tom, trattenendo un brivido. «Dicono che James era un eroe. Che io sono un eroe. Ma la verità è che da quando se ne è andato ho paura persino ad addormentarmi. Siamo sempre stati noi due, e adesso che non c’è più, mi sento così perso, così … così…»
Lacrime salate scivolarono lungo le guance di Abigail. «Incompleto.»
Tom si volse a guardarla.
«Come se ti fosse stato portato via un pezzo di te» disse lei. «Come se ti fossi rotto e non riuscissi più a tornare come prima. Lo so. Lo capisco…»
Allargò le braccia, i palmi rivolti verso di lui come in cerca di aiuto.
«L’ho perso» confessò, la voce che usciva a fatica. «Ho perso il mio potere. Me lo hanno portato via e ora…non so più chi sono.»
Tom tacque, continuando a fissarla.
«Hai ragione, avrei potuto salvarlo» sussurrò lei, senza più fiato. «Avrei potuto salvare tante altre vite. Chiedo scusa.»
Dentro di lei, qualcosa cedette. Per il dolore, per la disperazione e il rimpianto...

«Scusa.»
Sentì i passi di Tom che si trascinavano lenti nella sabbia.
«Scusa» balbettò Abigail, incapace di dire altro. «Scu…»
Un istante dopo le braccia di lui la circondarono, stringendola al suo petto. Odorava di cenere e di sale. Le baciò le palpebre, le guance bagnate e poi imprigionò le sue labbra con le proprie.
Abigail affondò il viso nella sua spalla, continuando a scusarsi e a scusarsi ancora; con James, con la sua magia perduta, con il mondo intero, in un pianto disordinato.



 

[1] La canzone ha origine da una marcia patriottica della Prima Guerra Mondiale; la versione cantata qui, invece, è quella rivisitata dai The Dubliners nel 1979.

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Capitolo 33
*** Il Programma ***



IL PROGRAMMA

 
 
Gellert Institute, Bassa Sassonia.
luglio 1914
 
 
Come le accadeva ormai ogni mattina da quando era arrivata all’Istituto, Zora si svegliò con un brutto mal di testa e con un sapore amaro sulla lingua, lasciato dal vivido ricordo del sogno appena fatto. Sempre lo stesso, tutte le notti…
Si trovava in mezzo a un sentiero di campagna, ferma a un crocicchio. Alla sua destra, in cima a una collina, una fattoria bianca con un granaio verniciato di rosso. Non ricordava di aver mai visto quel luogo, prima di allora.
Mentre era lì, in mezzo alla strada, un corvo nero si sollevò gracchiando dal campo, e subito dopo, il vento alzò un muro brumoso di polvere nera e fitta, che oscurò il giorno. Il buio avvolse ogni cosa, vorticante e in tumultuoso movimento come fumo, da cui all’improvviso emerse una sagoma.
Zora non riusciva a vederlo bene, ma sembrava un ragazzo appena adolescente, vestito di scuro. I suoi capelli erano di un bel rosso acceso, gli occhi completamente neri. A ogni suo passo il grano marciva, lasciando alle sue spalle solo un’infinita distesa nera e inaridita...
Zora continuava a pensare e a ripensare al sogno durante tutto il giorno, finché i dettagli pian piano non perdevano nitidezza. Quel luogo era reale? E chi era il ragazzo? Cosa mai poteva significare? Aveva letto un mucchio di testi sull’interpretazione dei sogni – lei stessa si era cimentata nelle letture più fantasiose, pur di soddisfare i clienti – ma non riusciva a cogliere nessun riferimento simbolico.
Così come i suoi pensieri, anche le giornate al Gellert Institute erano ripetitive; ogni mattina Zora si alzava, indossava uno degli abiti che chissà chi aveva scelto per lei, e scendeva in refettorio con gli altri ospiti, evitando per quanto possibile di iniziare conversazioni: la dottoressa Sanders non la fece più chiamare dalla loro ultima, breve conversazione, ma in compenso il dottor Volmer passava da lei tutti i giorni, uscendosene di tanto in tanto con qualche aneddoto noiosissimo sul regno animale che giustificasse le sue teorie sull’evoluzione. E poi c’era Colette, la ragazzina col cervello bacato che continuava a farfugliare di auree e minuscoli esseri verdi che solo lei era in grado di vedere. Zora non sapeva se fosse dovuto al suo status di nuova arrivata, ma sembrava che Colette avesse maturato uno strano interesse per lei, più che per chiunque altro: appena la vedeva, le correva sorridente incontro dicendo cose senza senso del tipo: «Che bell’azzurro brillante hai intorno stamattina!» oppure «Attenta, i tuoi pensieri stanno svolazzando dappertutto! Oh, ecco! Forse riesco a riacciuffarne qualcuno!» E poi si metteva a saltare per la stanza, battendo le mani come a caccia di zanzare invisibili.
Zora provava pena per la sua condizione, ma trovava sempre mille scuse per levarsela di torno. Quando non era Colette a darle il tormento, ci pensava l’infermiera Inga, sempre con quel sorriso giulivo stampato in faccia e sempre pronta a proporle un’attività diversa da svolgere:
«Che ne dice di cimentarsi nella pittura all’aria aperta quest’oggi, Madame? O potrebbe dedicarsi al giardinaggio! È una così bella giornata!»
Zora non aveva mai coltivato alcun interesse, eccetto escogitare modi per imbrogliare la gente, così, approfittava di ogni momento di distrazione di Inga per sgattaiolare via prima che le propinasse qualcosa da fare, soprattutto se in gruppo.
Il buon umore di quella donna le dava sui nervi, così come il clima naif che si respirava al Gellert. Eppure, sembravano tutti così sereni lì. Perché lei non ci riusciva?
Non c’erano muri di contenimento, al Gellert, né graticole di filo spinato. Chiunque era libero di andare dove voleva. Malgrado ciò, Zora continuava a sentirsi un uccello in gabbia.
Non mi fido di questo posto. E non mi fido di queste persone.
E allora perché, semplicemente, non tagliava la corda? Nessun guardiano la teneva d’occhio, e di certo il dottor Volmer, mingherlino com’era, non avrebbe rappresentato un grosso ostacolo. E se anche avesse cercato di trattenerla, Zora avrebbe potuto far ricorso ai pochi incantesimi che sapeva praticare, ma che le avrebbero comunque garantito un utile escamotage.
E dove potrei andare? Non ho più niente, né una casa, né una patria, nessuno che voglia avere a che fare con me…
La verità era che Zora si era costruita la sua prigione con le proprie mani. E niente e nessuno sarebbe stato in grado di abbatterla.
«Stai sempre col muso appeso tu?»
Zora scostò dalle labbra la sigaretta e soffiò via il fumo, dicendo addio al piccolo momento di solitudine che era riuscita a ritagliarsi. «E tu, sempre a impicciarti dei cazzi altrui, Dagon?»
Ridacchiando, l’uomo poggiò la schiena contro il muro imbiancato dello spogliatoio sul retro del campetto da tennis, dove Zora si era nascosta da Inga. «Come hai rimediato le sigarette? Agli ospiti è vietato fumare.»
Aveva pronunciato la parola “ospiti” con una vena di ironia, poiché il dottor Volmer e la dottoressa Sanders evitavano di rivolgersi a loro chiamandoli pazienti. Perché il Gellert non era certo un manicomio, nossignore, come le ripetevano di continuo.
«Ho convinto un inserviente a passarmi un pacchetto ogni mattina» rispose lei, lasciando cadere con nonchalance la cenere in un’aiuola. «In cambio, io gli mostro le caviglie. È un tipo di poche pretese.»
«Sei una che sa come prendere gli uomini.»
Zora rise, con amarezza. «Se lo avessi saputo, mi sarei evitata un sacco di guai!»
«Me ne dai una?» chiese lui, suadente. «Ti mostro qualsiasi parte del corpo tu voglia.»
Lei sospirò e gli passò il pacchetto. «Per essere chiari» aggiunse seccamente, mentre lui sfilava una sigaretta. «Non verrò a letto con te. Con gli uomini ho chiuso.»
«Questo è un vero peccato.» Dagon estrasse dalla tasca dei pantaloni un fiammifero e lo accese sfregandolo contro il muro. «Quel bastardo deve averti proprio spezzato il cuore, eh?»
«Mi ha rovinata.»
Dagon restò in ascolto, la sigaretta accesa che pendeva da un angolo della bocca.
«Ma ha avuto quel che si meritava» concluse lei, in tono di avvertimento. «Perciò, fossi in te mi terrei alla larga.»
«Le donne pericolose mi sono sempre piaciute.»
«Quale parte di “non verrò a letto con te” non è chiara?»
«D’accordo, d’accordo!» Dagon ridacchiò ancora, le mani sollevate in segno di pace. «Dico solo che hai carattere. Finalmente, qualcuno che non abbia il cervello lobotomizzato!»
«”Questo non è un manicomio”» cantilenò Zora, facendo il verso a Volmer. «“E io non sono uno scienziato pazzo con l’ossessione per gli invertebrati!”»
Dagon emise una risata bassa e rauca. «Scommetto che il primo giorno ti ha paragonata a una mantide religiosa, o che so io.»
«Mi ha paragonata a una farfalla. Perché è un vero gentiluomo.»
«Di me invece ha detto che gli ricordo una cimice carabiniere» replicò Dagon. «Per via dei tatuaggi: secondo lui, anche io li adotto per scoraggiare i predatori ad avvicinarsi.»
Gli occhi di Zora si soffermarono ancora una volta sui misteriosi segni neri che gli avvolgevano gli avambracci, ben visibili a causa delle maniche arrotolate. «Ed è la verità? Ti sei riempito di quella roba per sembrare più cattivo?»
«Li ho sin da bambino. Come tutti nella mia famiglia.»
«Da dove vengo io, quando nasce un bambino gli si regala un sonaglio.»
«È una tradizione antica.» Il sorriso canagliesco di Dagon sfumò in un’espressione più seria. «Legata a un culto altrettanto antico, che in pochi ricordano.»
Zora lo fissò attentamente, turbata ma allo stesso tempo incuriosita. «Insomma, facevi parte di una setta.»
«Non era una setta.»
«Un fantomatico culto segreto, bambini marchiati…a me sembra proprio la descrizione di una setta.»
Dagon scosse piano la testa. «Ci sono cose che tu non puoi capire.»
Zora era sul punto di ribattere, ma la sua attenzione si spostò su qualcun altro, che si aggirava sul prato di fronte a loro. «Oh, cazzo. C’è Colette.»
La ragazzina saltellava tra gli alberi del parco canticchiando a labbra chiuse un motivetto infantile.  Nella posizione in cui si trovavano, nascosti da fitte siepi fiorite, lei non poteva vederli, ma a un certo punto, Colette si fermò e guardare fisso in alto, attraverso le fronde di una quercia, come rapita da qualcosa.
«Secondo te che sta facendo?»
Dagon fece spallucce. «Avrà visto uno scoiattolo. O magari, uno di quei suoi amichetti immaginari.»
Zora stette per un po’ a osservarla, e qualche istante dopo, vide comparire il dottor Volmer. Lo scienziato si fermò al fianco della ragazzina, le mani intrecciate dietro la schiena e le disse qualcosa che Zora non riuscì a sentire. Qualunque cosa fosse, però, ebbe un effetto a dir poco sconcertante su Colette; serrò i pugni, batté i piedi per terra e iniziò a strillare contro il dottor Volmer.
La scena gettò addosso a Zora un senso di inquietudine. «È normale che faccia così?»
Volmer non si scompose, ma fece un cenno discreto con la mano, e qualcun altro risalì il prato, dritto verso Colette; due uomini in camice bianco, che afferrarono la ragazzina per i polsi e la trascinarono via, mentre lei continuava a strillare e a dimenarsi.
«Che fanno?» fece Zora, in allarme. «Dove la portano?»
«Non ne ho idea. Forse ha una specie di crisi: te l’ho detto, quella non ha tutte le rotelle a posto.»
«Ma le stanno facendo male» protestò Zora. «Qualunque cosa abbia, non dovrebbero trascinarla in quel modo!»
«Che hai intenzione di fare? Zora, maledizione, aspetta!»
Prima che Dagon potesse fermarla, lei partì a passo deciso verso Volmer.
«Ehi!»
Lo scienziato si girò a guardarla, sorridente. «Oh, guten morgen, Madame Salomé! Inga la cerca..!»
«Che cosa ha fatto a Colette?» volle sapere Zora, faticando a contenere l’agitazione che le ribolliva dentro. «Perché permette che le mettano le mani addosso?»
Volmer sospirò, con aria triste. «Non è stato un bello spettacolo da vedere, lo capisco. La dolce Colette soffre di una grave forma di isteria. Spesso dimentica di assumere i farmaci, e viene colta da nevrosi violente. Per questo sono venuto a cercarla, per assicurarmi che non facesse del male a se stessa e agli altri ospiti.»
«Ma stava bene prima che arrivasse lei!»
«Si agita molto facilmente» spiegò Volmer, con voce paterna. «La sua mente è fragile, basta poco per turbarla, anche una parola fraintesa…»
Zora non si bevve neppure una parola. «Mi piacerebbe proprio sapere che cosa esattamente abbia “frainteso”.»
«Eccoti, finalmente!»
Dagon apparve al fianco di Zora e le passò il braccio attorno alle spalle. «Ma come, non ti sei ancora cambiata? Stiamo aspettando te per cominciare la partita!»
Lei si divincolò, irritata. «Che cazzo stai facendo?»
«Oh, ma piantala!» fece Dagon, con una risata bonaria e assolutamente fasulla. «È tutto il giorno che ripeti di volerci stracciare a cricket!»
«Signor Carcosa!» Volmer si rallegrò. «Vedo che grazie a lei Madame ha deciso di integrarsi nella nostra famiglia! La dottoressa Sanders ne sarà felice! A proposito, Madame: mi ha chiesto di riferirle che vorrebbe conversare un altro po’ con lei, questo pomeriggio.»
Qualsiasi obiezione evaporò dalla mente di Zora. «Perché?»
«Oh, suppongo abbia trovato molto stimolante la vostra ultima chiacchierata! L’appuntamento è fissato per le 16:00 in punto, le raccomando di non tardare! E ora, la lascio pure a divertirsi col cricket!»
Si accomiatò poi con un inchino tutto svolazzi e riattraversò il prato, fischiettando.
Dagon la lasciò andare. «Devi stare più attenta. Volmer non è svampito come sembra.»
Zora lo fissò in tralice. «Quindi non sono paranoica: nemmeno tu ti fidi di lui!»
«Io non mi fido di nessuno.» Dagon la guardò negli occhi, intensamente. «Ma ne ho passate troppe, e non intendo finire di nuovo nel buco merdoso da cui sono scampato. E sono sicuro che neppure tu lo vuoi: perciò, riga dritto e cerca di non attirare l’attenzione.»
Zora represse un brivido. «Secondo te che cosa faranno a Colette?»
«Forse la sederanno. Forse le faranno l’elettroshock. Non mi riguarda.»
La porta rossa. Zora ripensò agli uomini in camice bianco che aveva visto uscire di lì giorni prima. Erano gli stessi che avevano portato via Colette, non c’erano dubbi. 
«E quindi, che cosa farai?» domandò a Dagon, con voce tagliente. «Continuerai a fingere che ti interessino stronzate come il cricket purché ti lascino in pace?»
«Esattamente» rispose lui, l’espressione dura. «E ti conviene farlo anche tu, se non vuoi guai.»
 
Zora attese l’incontro con la Sanders con i nervi tesi come corde di violino.
Se Dagon aveva ragione e la cosa migliore fosse mantenere il profilo basso, allora doveva preoccuparsi se la scienziata era così interessata a lei?
Di norma le riusciva facile leggere le persone, cogliere le loro intenzioni come se fossero dipinte loro in faccia. Ma lì sembrava tutto così dannatamente nebuloso. Cosa ci facevano davvero lei e gli altri ospiti al Gellert? In cosa consistevano esattamente gli studi del dottor Volmer e della Sanders? Da quando era lì, Zora non era mai stata sottoposta ad alcun esame.
Finora…
«Accomodati, darling!» La Sanders la accolse con un sorriso radioso, non appena ebbe varcato la soglia del suo ufficio. «Grazie per essere venuta.»
Stavolta non si trovava dietro la scrivania, ma comodamente seduta in una poltroncina, di fronte a un tavolino e a una seconda poltrona vuota.  Ad attenderla c’erano anche una tozza teiera di ferro posata su un fornelletto e due tazzine di ceramica prive di manico.
Zora sedette in poltrona, esibendosi nella sua imitazione più convincente di una persona a proprio agio. «Il dottor Volmer dice che vuole parlare ancora un po’ con me.»
«Of course! Ma ti prego, chiamami Olivia e dammi del tu! Questa è una semplice chiacchierata tra amiche.»
«Domando scusa» disse Zora, accennando un sorriso. «Mi è difficile aprirmi con le persone. Chi nasce con capacità come le mie tende ad essere schivo.»
La Sanders annuì, sorridendole con indulgenza. Se anche la sua era tutta una recita, Zora dovette riconoscere di trovarsi di fronte un’attrice esperta tanto quanto lei.
«Lo comprendo molto bene.» La scienziata prese la teiera e riempì le tazzine con del tè verde fumante, per poi riporla sul fornelletto. «Sai, nemmeno io ho avuto una vita facile: sono cresciuta in una piccola comunità dell’Ohio, molto chiusa, povera e religiosa. Mentre le mie compagne di scuola parlavano di bei vestiti, balli e ragazzi, a me era concesso di uscire di casa solo per frequentare la parrocchia. Non potevo possedere libri, concedermi qualche piccola vanità, e anche solo nominare la parola “progresso” era un sacrilegio. Ho odiato quel posto con tutta me stessa.»
Zora ascoltò il racconto, domandandosi dove volesse andare a parare.
«Mio zio Hugh però vide del potenziale in me» continuò la dottoressa. «Lui se ne era andato di casa da ragazzo, aveva frequentato l’università, viaggiato per tutto il Paese. Mi disse che un cervello come il mio era sprecato in Ohio. E mi propose di andare in California insieme a lui.
Mi iscrissi all’università, spronata da mio zio. Non è stato facile, ho dovuto mangiare fango, subire umiliazioni, lottare in un mondo dominato da uomini come un animale nella giungla. E nel frattempo, ho messo a punto il Programma e convinto il dottor Volmer a darmi una mano per realizzarlo: il nostro obiettivo è rendere l’umanità migliore grazie al progresso, alla ragione e all’eugenetica.»
Sollevò a due mani una tazza, soffiandoci delicatamente sopra, e invitò Zora a fare lo stesso. Lei eseguì, ma aspettò che fosse la Sanders a bere per prima, e solo allora decise che fosse sicuro portarla alle labbra. Si rivelò un comunissimo tè verde, che sapeva di erba.
«Spero di non averti annoiata con questa storia.» La Sanders allontanò la tazzina e studiò Zora con interesse, lo stesso con cui si guarda una tigre allo zoo. O con cui una tigre guarda i visitatori. «Voglio solo che tu sappia che qui al Gellert nessuno ti giudica per le scelte che hai compiuto. È nell’indole di qualsiasi creatura lottare con ogni mezzo pur di sopravvivere, soprattutto per chi come noi non ha ricevuto molti doni dalla vita. E non sai quanto sia grata a te e a tutti i nostri ospiti per la possibilità che ci offrite di indagare da vicino le vostre capacità!»
Zora chinò il capo con umiltà. «E io lo sono a voi per avermi accolta.»
Il sorriso della donna si allargò impercettibilmente e bevve un altro sorso di tè.
«Nel tuo fascicolo ho letto che hai predetto il destino di molte personalità illustri» riattaccò subito dopo la scienziata. «Uomini d’affari, letterati, politici…persino uno zar!»
«Gente tormentata» rispose Zora, attenta alla scelta delle parole. «A cui ho cercato di offrire conforto.»
«In molte interviste hai dichiarato di agire per conto di Dio» replicò serafica la Sanders. «Sei di fede musulmana, giusto?»
Prima di rispondere, Zora elencò mentalmente tutti i dogmi del Corano che aveva infranto nella sua vita, a partire dal divieto di assumere alcolici. Sul suo fascicolo doveva esserci scritto anche questo. «Mi considero più un tipo spirituale che religioso.»
«Ma ritieni che sia stato Dio a conferirti questi doni.»
«Ritengo che tutto accada per una ragione.»
«Anche il tuo arresto?»
Zora si irrigidì. «Come?»
«Non fraintendermi, non intendevo risultare irriguardosa» puntualizzò la Sanders, gentilmente. «Trovo solo curioso che una persona con le tue capacità non sia riuscita a prevedere la sua sorte in tempo.»
Aveva toccato un nervo scoperto, e Zora sentì che la sua maschera di compostezza iniziava a creparsi. «Non è così che funziona.»
«E allora come funziona?»
«Pensavo fosse compito vostro scoprirlo.»
«Ti andrebbe di provarci con me?»
Zora mise giù la sua tazzina e la fissò, interdetta. «Vuole…vuoi che predica qualcosa su di te?»
«Oh, come on!» cinguettò la donna, con una strizzatina d’occhio. «Non mi aspetto una lettura accurata: just among us, una cosa tra amiche.»
Ancora con questa storia! pensò Zora, scaldandosi. Non siamo amiche, stronza fanatica del cazzo. E questo tè fa schifo!
Le dedicò ugualmente un sorriso tirato. «Perché no.»
La Sanders vuotò la sua tazza e la fece scivolare verso Zora. «Puoi cominciare da questa.»
Zora prese la tazzina tra le mani sudaticce, e la fece oscillare lentamente, per poi capovolgerla sul piattino. Gli occhi della Sanders erano puntati su di lei, come due fanali.
«Vedo che sei una donna ambiziosa» cominciò Zora. «Che detesta trovarsi nel torto.»
Scrutò la Sanders di sottecchi, concentrandosi per cogliere qualche indizio nel suo aspetto che la aiutasse a continuare la premonizione. Si era sempre trattato di questo, di leggere le persone, non gli oggetti. Ma l’impressione di Zora fu di trovarsi di fronte a una parete bianca: niente gioielli. Trucco quasi inesistente. Vestiti sobri e assolutamente anonimi. Mani curate senza sfociare nell’ossessività. La postura era perfettamente rilassata, e un sorriso placido quanto indecifrabile aleggiava sulle sue labbra.
Stessa cosa il suo ufficio: solo sterili libri di medicina, muri immacolati, nemmeno un ricordo, una foto, un qualsiasi oggetto personale o legame affettivo.
«Allora?»
«Ecco.» Zora deglutì, sentendo che la sua voce stava perdendo sicurezza. Tornò a spostare l’attenzione sulla poltiglia umidiccia sopra al piattino. «A volte mi ci vuole un po’ per interpretare i fondi. Gli spiriti stasera non parlano chiaramente.»
«Mhmm» fece la Sanders. «Interessante. Magari quello che serve ai tuoi spiriti è solo un piccolo aiuto.»
Zora aggrottò la fronte, confusa. Senza smettere di sorridere, la scienziata si alzò, diretta alla scrivania. Estrasse da sotto la camicetta una minuscola chiave, che usò per aprire il primo cassetto, da cui tirò fuori qualcosa.
«Che ne dici di provare con queste?»
E lasciò sopra il tavolino un mazzo di carte, vecchie e consumate.
Nel riconoscerle, Zora riuscì a trattenere a malapena un sussulto. «Dove le hai prese?»
«Questo non ha importanza. Prosegui la lettura.»
Zora continuò a fissarla, attenta e guardinga.  Aveva così tante domande, e allo stesso tempo si sentiva sgradevolmente esposta.
Cercò di ricomporsi alla meglio. «Molto bene.»
Prese in mano le carte, sforzandosi di contenere la commozione che la pervase al solo tocco. Le carte di Baba. La sua eredità. Fu come aver trovato finalmente un pezzo di sé che credeva di aver perduto per sempre.
Mescolò il mazzo, come aveva fatto innumerevoli volte, e dispose cinque carte coperte di fronte a sé. Sollevò la prima, partendo da destra.
«Ti porti dietro un peso» disse. «Un male al cuore. Cose che hai perduto. Un amore non corrisposto, sbagliato, immorale, che ti ha spezzata. Ma qualcosa è in arrivo, qualcosa che hai atteso da tutta la vita: una grande verità che ti sarà svelata.»
Gli occhi impassibili della donna sfavillarono, avidi. «Quando accadrà?»
«Presto» disse Zora, stavolta senza esitazione. «Il destino è già in moto, ma il prezzo che pagherai per ottenerla sarà alto. Sei ancora in tempo per rinunciare.»
La Sanders non fece commenti. Osservò le carte, poi di nuovo Zora. «Continua.»
Zora mise un’altra carta sul tavolo. «Il passato ti ossessiona, ma per sfuggirgli riponi fiducia verso il futuro. Credi ciecamente in ciò che stai portando avanti e sai che niente potrà fermarti. Eccetto la paura.» Zora alzò lo sguardo, scrutando gli occhi impassibili della scienziata. «Sei brava a fingerlo, ma l’ignoto ti spaventa. Perché non sai se sarai abbastanza forte da affrontarlo.»
Lo sguardo della Sanders si era fatto improvvisamente freddo. «Può bastare» sentenziò. «Sei libera di andare, adesso. Dirò al dottor Volmer di riferirti quando avverrà la prossima fase del Programma.»
Prima che Zora potesse muoversi, la scienziata riunì le carte e ricompose il mazzo, per poi infilarselo in tasca.
«Che stai facendo?» Zora guardò fisso la donna, la rabbia che le bruciava in fondo alla gola. «Sono le mie carte!»
«No, non lo sono» rispose la scienziata, con tutta la calma del mondo, ma ancora con quel gelo impalpabile nello sguardo. «Appartengono al Gellert. Ai nostri ospiti non è consentito possedere oggetti personali, dovresti saperlo.»
«Che cosa!?»
«Era nel contratto che hai firmato.»
Zora impallidì. «No, non è vero. Zeman me l’avrebbe detto!»
«Deve essergli sfuggito.»
La Sanders tornò alla scrivania e chiuse a chiave il mazzo nel cassetto. Zora a quel punto scattò in piedi, pronta ad avventarsi su quell’arpia e strappare via i tarocchi dalle sue grinfie, ma in quell’istante la porta dello studio si aprì, rivelando i due uomini in camice bianco di quella mattina.
Zora serrò i pugni, sentendo montare il panico. «Che significa?!»
«Significa che il tempo a nostra disposizione è scaduto» disse la Sanders. Prese posto alla scrivania, mettendo in ordine le sue carte. «Verrai accompagnata alla tua stanza. See you soon, darling

 
 *

Dagon Carcosa era steso sul suo letto e fissava le ombre proiettate dai rami di un albero, sul soffitto della stanza che gli avevano assegnato al Gellert.
Non dormiva. Ormai da diverso tempo, era raro che riuscisse a concedersi sonni tranquilli. Il katorga siberiano non era stato una passeggiata, eppure, il lavoro senza sosta a -20 gradi, le percosse, la fame, la sete e il vento gelato che ti prendeva a schiaffi fino a scorticarti la pelle erano quello che erano, una tortura alla luce del sole, che non si nascondeva dietro falsi sorrisi.
Ma il Gellert…gli metteva i brividi, cazzo. E il pericolo di venire sgozzato nel sonno lì non era meno reale di quanto non lo fosse nel campo di prigionia…
Come spesso accadeva, nelle notti come quella in cui non poteva trovare conforto nel sonno, la sua mente riportò a galla altri ricordi, più antichi, di una vita libera e raminga, in cui credeva che nessuno sarebbe mai riuscito a mettergli addosso delle catene.
Ed ecco che di colpo era lì, nella sua carovana, seduto sul retro del carro condotto da suo padre, a dividersi spicchi d’arancia con i fratellini. Si rivide assieme al suo clan attorno al fuoco, ad ascoltare i racconti degli anziani, le rughe sui loro volti accentuate di bagliori delle fiamme e l’intreccio di tatuaggi neri che percorreva le loro membra scarne. Raccontavano storie di un mondo antico, un mondo perduto, in cui i miracoli erano all’ordine del giorno. In cui i loro antenati erano in grado di fare cose straordinarie, di far crescere gli alberi nel giro di una notte cantando, cambiare il corso dei fiumi con un semplice gesto, e rinascere dalle proprie ceneri come fenici…
Un mondo lontano e dimenticato, di cui l’unica traccia erano i simboli tracciati sul suo corpo: una costellazione di stelle morte, una mappa verso luoghi irraggiungibili, intessuta attraverso le ere dalla sua stirpe.
“La carne e l’inchiostro rendano immortale ciò che i ricordi non possono custodire” dicevano gli anziani, prima di incidere il corpo di un nuovo membro della comunità. Perché i ricordi erano facili da rubare. Molto più di quanto si pensi.
Dagon non lo aveva creduto possibile fino al giorno in cui quell’uomo non era arrivato nel loro accampamento.
Aveva dieci anni, allora. Ma il ricordo del fuoco, delle grida dei loro guerrieri lanciati all’attacco, del sangue che macchiava la neve, era marchiato nella sua mente e lo sarebbe stato per sempre. Così come l’immagine di suo padre e quell’uomo che duellavano in mezzo alla tormenta, tra violente raffiche di vento e ghiaccio. Il lampo rosso che accendeva la notte e il corpo di suo padre che piombava a terra. Ma soprattutto, ricordava l’espressione dell’uomo nel momento in cui si era reso conto che lui era lì, che aveva assistito a tutto.
Li rivedeva ogni notte, gli occhi grigi di quel colosso avvolto da un manto di pelliccia, che si sgranavano dallo stupore e dal senso di colpa, alla vista di un ragazzino in lacrime inginocchiato sul cadavere del padre.
“Mi dispiace” erano state le sue ultime parole, mentre l’ascia di energia rossa che stringeva ne pugno si dissolveva. “Ho fatto ciò che dovevo. Se un giorno vorrai reclamare la tua vendetta, sarò pronto a riceverti.”
Il Flagello del Nord.
Il Lupo Grigio.
Boris Volkov, l’Arcistregone del Nord, mandato da Arcanta per rubare al suo popolo la magia e ogni suo ricordo…
Ma io non dimentico si disse Dagon, gli occhi fissi sulle ombre ramificate che lo sovrastavano. Quel giorno è arrivato. Sono pronto a reclamare la mia vendetta…
 O almeno, lo sarebbe stato se non fosse costretto in quel manicomio del cazzo…
Un paio di colpi decisi alla porta lo distolsero da quei pensieri.
Dagon si alzò, ma sapeva chi fosse prima ancora di aprire la porta, e non si preoccupò di indossare la camicia.
«Buonasera, bellezza» disse, le labbra già atteggiate in un ghigno sornione. Si poggiò contro lo stipite e incrociò le braccia. «Che ci fai qui a quest’ora? Hai forse cambiato idea? Sulle parti del corpo che potrei mostrarti…»
«Piantala di fare il cazzone» lo mise al suo posto Zora, ma nella sua voce lui colse una certa urgenza. «Non sono qui per quello.»
Lui inarcò le sopracciglia, incuriosito. «E per cosa?»
«Eri un buon ladro prima di finire al Gellert?»
«Se fossi stato un buon ladro, non mi troverei al Gellert.»
«Fa niente, mi accontenterò» tagliò corto la bella medium, lo sguardo che sprizzava furia. «La Sanders ha i miei tarocchi. E tu mi aiuterai a riprendermeli.»

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Capitolo 34
*** Il fulmine ***


IL FULMINE

 
 
“Despite all my rage,
 I am still just a rat in a cage…”
https://www.youtube.com/watch?v=8-r-V0uK4u0
 
 


 A tre giorni dal ritrovamento del corpo di Jonathan Blake, ad Hurtgrove Hall regnava un silenzio di piombo. Tende nere erano state affisse a tutte le finestre, e i domestici continuavano le loro attività quasi senza far rumore, le teste chine e gli occhi rossi di pianto.
Lavinia Blake era barricata nella sua stanza, e si rifiutava di mangiare. Alastor Blake passava le giornate nel suo studio.
Anche Solomon trascorreva tutto il tempo da solo. Vagava per la proprietà ignorato da tutti, con l’unica compagnia del suo corvo albino; parlava poco, mangiava appena, e dormiva anche meno.
Ciononostante, non era ancora riuscito a piangere. Nemmeno durante il rito funebre, di fronte alla disperazione di sua madre, che urlava e si tirava i capelli fino a strapparseli davanti al cairn di pietre bianche eretto in cima alla collina.
Solomon osservava tutto ciò come se lo vedesse a distanza, come se non fosse davvero lì, galleggiando dentro e fuori lo stato di coscienza; era come in una bolla, a malapena consapevole di ciò che gli stava accadendo attorno.
Quando se ne era accorta, Lavinia era barcollata verso di lui e gli aveva tirato uno schiaffo, gridandogli in faccia che era un piccolo mostro senza cuore. Ma neppure il dolore alla guancia aveva smosso in lui qualcosa.
 
Una sera, Lord Blake lo fece convocare nel suo studio.
Solomon apri la porta lentamente; era entrato poche volte in quella stanza, e non ne conservava ricordi piacevoli, visto che ne usciva quasi sempre malconcio. Ma dentro la sua bolla, nulla era in grado di scalfirlo, neanche il terrore verso suo padre.
La stanza era cupa, fredda e zeppa di teste di animali impagliati, e il ritratto dell’antenato Merlino lo scrutava con severità dalla sua maestosa cornice.
Stagliato contro la finestra con le mani strette dietro la schiena, Alastor Blake restò in silenzio a lungo, e infine disse: «Tuo fratello è stato assassinato.»
Il cuore di Solomon prese a galoppare, ma il suo sguardo rimase fermo. «Da chi?»
Alastor si volse, e afferrò dalla scrivania uno strano giornale, nelle cui vignette animate dalla magia le persone si muovevano e gesticolavano.
«Da Arcanta» disse, colmo di disprezzo. «Quell’infida città lo ha masticato e sputato. Dopo anni di dedizione, dopo tutti i sacrifici che abbiamo fatto per dimostrarci degni, per essere accettati…ha infangato per sempre il nome della nostra famiglia!»
Solomon non era ancora sicuro di capire, ma poi suo padre gettò il giornale sul pavimento, proprio ai suoi piedi. Il ragazzo lo raccolse e lesse l’articolo riportato in prima pagina: qualcosa a proposito di una Disputa, un torneo di magia organizzato dai Decani per intrattenere la cittadinanza. I partecipanti erano i migliori allievi delle quattro Corti di Arcanta, e tra loro vi era anche Jonathan.
«Jon è stato sfidato» ringhiò Alastor. «Da un rampollo della Corte dei Sofisti, Cassian Scrope. Non ha potuto rifiutarsi; si è battuto con onore, come gli ho insegnato, ma quel vile lo ha umiliato di fronte a tutta la città, raggirandolo con degli sporchi trucchi!»
Alastor batté con forza il pugno sopra la scrivania, e Solomon sussultò di riflesso, senza tuttavia staccare gli occhi dalle pagine.

Cassian Scrope, allievo della Corte dei Sofisti. Eccolo là, che sorrideva tronfio ai giornalisti nella sua preziosa redingote blu e argento, accanto all’Arcistregone dell’Ovest in persona.
Lo Sciacallo d’Argento. Absalon Grey.
«Nessuno ha avuto compassione per lui» stava intanto sbraitando Alastor, che adesso aveva il fiato corto, e le iridi azzurre che sprizzavano scintille. «Nessuno, neppure i Decani. Lo hanno deriso, reso uno zimbello…e il mio prezioso ragazzo, il mio erede…ha preferito la morte a una vita di vergona.»
Solomon tacque, continuando a fissare l’Arcistregone dell’Ovest e il suo sorriso spavaldo. E di colpo, quella bolla di apatia in cui era rimasto chiuso per giorni, esplose, e un odio più forte di qualsiasi cosa avesse mai provato in vita sua si riversò come un’onda dentro di lui.
Tornò a incrociare lo sguardo pieno di furia di suo padre.
«Tutti in quella città sono falsi, spregevoli e corrotti» concluse Alastor. «Non meritano ciò che è stato donato loro. Non meritano di governarci tutti e non meritano di essere chiamati maghi! E tu…»
Lo stregone puntò il dito contro il suo unico figlio e i suoi occhi lo inchiodarono sul posto. «Tu sarai la loro rovina, lo giuro su tutto ciò che è sacro. Vendicherai tuo fratello e la nostra famiglia.»
«E come?» domandò Solomon. «Non so neanche fare magie…»
«Imparerai.» Non era una richiesta, non era un incoraggiamento. Era un ordine. «Ti tirerò fuori il potere, fosse l’ultima cosa che faccio.»
 
Così, l’addestramento di Solomon Blake ebbe inizio.
Ogni mattina, suo padre andava personalmente a tirarlo giù dal letto prima che sorgesse l’alba, dandogli a malapena il tempo di mangiare qualcosa, per poi tenerlo chiuso nel suo studio a eseguire esercizi di resistenza di cui il ragazzo il più delle volte non comprendeva l’utilità, come restare immobile per ore in posizioni scomodissime, o riprodurre centinaia di volte gli stessi movimenti con le mani.
«La magia non è altro che la capacità di un mago di piegare il Tutto al suo volere» non faceva che ripetergli. «E per farlo è necessario possedere una Volontà forte, temprarla.»
Ma c’erano volte in cui Alastor irrompeva in camera del figlio a notte fonda e lo trascinava sul prato di fronte al maniero per metterlo alla prova, anche se fuori infuriava un temporale; solitamente quel tipo di test consisteva nel lanciargli contro vari tipi di incantesimi, in attesa che un qualche istinto assopito dentro di lui si risvegliasse e reagisse. Ma non accadeva mai niente di tutto questo, e il ragazzo non poteva fare altro che subire scosse elettriche, vedersi piovere addosso sassi, o essere scagliato come una bambola a vari metri di distanza. Il solo risultato era che nel giro di un paio di mesi, Solomon era riuscito a collezionare un numero impressionante di fratture alle ossa.
Ma non c’era tempo per leccarsi le ferite, né per piangersi addosso o per riprendere fiato…
«Rialzati!» gli ordinava Alastor, mentre il ragazzo si rimetteva faticosamente in piedi, scivolando nel fango gelido, sotto la pioggia battente. «Inutile storpio! Dimostra di essere degno del nome che porti!»
E Solomon si rialzava tutte le volte, malgrado i lividi e i muscoli doloranti, malgrado gli insulti e le umiliazioni, senza mai lamentarsi; il ricordo di Cassian Scrope e di Absalom Gray, che ricevevano gli applausi di Arcanta, incuranti di aver causato la morte di Jonathan, teneva viva dentro di lui la fiamma dell’odio, che suo padre alimentava giorno dopo giorno.
Intanto, i mesi passavano, ma la magia del Tutto non venne in aiuto del ragazzo neppure una volta. Così, Alastor iniziò a sperimentare metodi più drastici; ogni due settimane, calava il figlio dentro il vecchio pozzo ormai inutilizzato da decenni, e lo lasciava laggiù a marcire per tre giorni e tre notti. Solo, al buio e al freddo, tra umide pareti di pietra, Solomon restava rannicchiato sul fondo a battere i denti e a fissare l’apertura lassù in alto, in attesa che un domestico calasse limitate razioni di cibo e acqua.
«Padre!» Le sue urla echeggiavano inascoltate nell’angusto cunicolo. «Vi prego, fatemi uscire! Ho freddo!»
«Sei un mago» gli aveva risposto solo una volta Alastor. «Se hai freddo, trova il modo di scaldarti!»
E Solomon provava e riprovava, eseguendo con le dita intirizzite gli schemi che suo padre gli aveva insegnato, sforzandosi di mettere in pratica le nozioni di teoria magica che aveva letto sui libri. Ma la filosofia gli sembrava di poca utilità quando i morsi della fame e il freddo e la paura erano intollerabili. Allora il ragazzo si rassegnava ad aspettare che quella tortura volgesse al termine, fissando le lancette dell’orologio appartenuto a Jonathan rincorrersi lentamente mentre scandivano secondi e minuti.
L’unico conforto in quei momenti era Wiglaf, che lasciava cadere coperte e tozzi di pane dentro al pozzo, e poi si appollaiava sulla sua spalla beccandogli affettuosamente le guance.
Lavinia Blake non interveniva mai per porre fine a quel supplizio; usciva dalle sue stanze unicamente per presenziare alla cena, ma per tutto il tempo restava in silenzio ad ascoltare i vaneggiamenti del marito, scollando vino e sghignazzando da sola come una bambina. Di tanto in tanto organizzava delle festicciole nella sua ala del palazzo, ma Alastor era troppo concentrato sulla sua vendetta per curarsene. Dalla sua camera, Solomon udiva la musica e le risate protrarsi fino al mattino dopo, e quando scendeva di sotto per la colazione, trovava sua madre che russava ubriaca fradicia sulle scale, i capelli e i vestiti in disordine e il trucco sfatto. Una sera, Lavinia raccontò sprezzante di essere andata a letto con diversi uomini nell’ultimo periodo, ma suo marito reagì con la solida, gelida indifferenza.
Andò avanti così per mesi, finché una mattina, al risveglio, Solomon trovò nell’atrio di casa una dozzina di valigie e grossi bauli.
«Madre, stai partendo?» chiese, avvicinandosi alla donna, intenta ad allacciare il mantello da viaggio. Una piccola speranza si accese dentro di lui, quella che sua madre avesse deciso di portarlo lontano da quel posto, e ricominciare una nuova vita insieme.
Lavinia si volse a guardarlo, il volto rubicondo e gli occhi luccicanti, e gli rivolse un tiepido sorriso. Poi si chinò per accarezzargli una guancia.
«Sei identico a tuo padre» sussurrò. «E diventerai un bastardo proprio come lui.»
Un gelo paralizzante scivolò dentro le ossa di Solomon, ma dalla sua bocca non uscì neppure un suono. Lavinia invece si alzò, ordinò ai bagagli di sollevarsi in aria e lasciò Hurtgrove Hall senza guardarsi indietro. Quella fu l’ultima volta che Solomon la vide.
Un anno passò, e l’addestramento proseguì senza miglioramenti. Stremato da quei ritmi pressanti, il ragazzo, ormai quindicenne, non conosceva altro che dolore e solitudine, mitigati dalla presenza costante del suo Famiglio. Finché un giorno, di punto in bianco, anche il corvo albino sparì.
Preoccupatissimo, Solomon lo cercò per ore, chiamando il suo nome tra gli alberi del bosco di Hurt, scrutando le biforcazioni dei rami disseccati dal freddo, setacciando tutti i suoi nascondigli preferiti, soffitte, grondaie e sottotetti zeppi di pipistrelli e ragnatele.
«Smettila di perdere tempo» lo rimproverò suo padre, dopo averlo fatto convocare nel suo studio per i consueti esercizi. «È uno stupido pennuto. Sarà migrato per l’inverno.»
«I corvi non migrano» ribatté caparbio il ragazzo. «E Wiglaf non se ne andrebbe mai senza salutarmi. Gli è accaduto qualcosa, lo sento.»
Alastor emise una risata di scherno. «Magari si è solo stufato di inseguire un moccioso senza poteri. I demoni sono creature dalle facoltà illimitate: non tollerano la debolezza.»
Solomon serrò i pugni, sentendo montare la rabbia. «Io non sono debole.»
«Ah, no?» fece Alastor. Tirò fuori da un cassetto della scrivania un tagliacarte in argento e lo gettò ai suoi piedi. «Allora avanti, tiramelo contro senza toccarlo.»
Le unghie conficcate nei palmi, Solomon fissò la lama con tutto l’odio di cui era in grado. Il coltello tremò appena, ma rimase ben saldo sulle assi del pavimento. Alastor fece una smorfia e tornò alle sue carte. «Come pensavo.»
 
I giorni passarono, ma di Wiglaf ancora nessun segno. La sua assenza pesava sul cuore di Solomon come un macigno, e rendeva ancora più tetre le sue giornate. Ogni sera lasciava avanzi di cibo e piccoli oggetti luccicanti sul davanzale della finestra, pregando silenziosamente di non trovarli più al mattino. E puntualmente, rimaneva deluso.
Adesso, era davvero solo. Jonathan, sua madre, e infine Wiglaf, tutti coloro a cui aveva tenuto alla fine lo avevano abbandonato. E la sola cosa che gli dava la forza di tirare avanti, ormai, come un faro nell’oscurità, era la vendetta…
Quella mattina, Alastor gli ordinò di raggiungerlo nel querceto.
Solomon lo trovò ai piedi di un possente albero che sorgeva solitario in mezzo a una radura. In mano reggeva una gabbia di acciaio liscio come acqua. E nella gabbia, era rinchiuso Wiglaf.
«Lo hai trovato!» esclamò Solomon con sollievo, ma subito dopo un pensiero terribile lo attraversò; quella gabbia era fatta di acciaio alchemico, il solo materiale in grado di neutralizzare la magia, persino quella dei demoni.
«L’hai tenuto lì per tutto il tempo» realizzò. «Fallo uscire! Detesta stare rinchiuso!»
Alastor sorrise. «Se ci tieni così tanto, allora costringimi. Hai innumerevoli strumenti a tua disposizione: puoi ammaliarmi, colpirmi, farmi contorcere a terra in preda ai dolori più atroci.»
Solomon aveva la bocca secca. «Non posso…non ci riesco…»
«Lo so» disse Alastor, controllato. «Per questo, sarai alla mercè di chiunque. Ogni mago o Mancante potrà fare di te quello che vuole, avere il controllo sulla tua vita e su quella delle persone a te care.»
Abbassò lo sguardo sulla gabbia. «Proprio in questo modo.»
Serrò il pugno e Wiglaf emise un grido sofferente.
Solomon andò nel panico. «Smettila, gli fai male!»
Ma Alastor non si fermò. Continuò a torcere le dita, e il corvo a sbattere le ali e a dimenarsi tra le sbarre in preda al dolore.
«Basta!» urlò Solomon, impotente, disperato. «Ti prego! Lui non c’entra niente, non è giusto! Punisci me!»
«La vita è ingiusta» ruggì Alastor, sovrastando le grida del corvo. «Non c’è spazio per i deboli e gli storpi: perciò, tira fuori gli artigli, o finirai i tuoi giorni da preda!»
Wiglaf gemette e si raggomitolò sul fondo della gabbia, un cumulo di piume penne bianche percorse da fremiti.
Solomon urlò così forte da lacerarsi la gola. Nessuno sarebbe corso in suo aiuto. Nessuno lo avrebbe più difeso. Jonathan era morto. Sua madre se ne era andata. Doveva salvarsi da solo, ma non ne era in grado, nonostante avesse trascorso gli ultimi anni a convincersi di essere più in gamba della maggior parte dei maghi. Suo padre aveva sempre avuto ragione: era difettoso, vulnerabile e solo, e Arcanta e il mondo intero lo avrebbero schiacciato.
Quel pensiero avrebbe dovuto spezzarlo totalmente, indurlo a crollare in ginocchio e a supplicare pietà. E invece, fece crescere in lui la rabbia. Una rabbia pura e coente, urla e scalcia come un animale selvatico. Era stata la rabbia a dargli la forza necessaria in quei mesi, a spingerlo a rialzarsi dopo ogni caduta. La rabbia era tutto ciò che gli era rimasto, un’antica alleata che non lo avrebbe mai abbandonato.
No, lui non avrebbe pianto. Non avrebbe supplicato.
Solomon strinse con forza i pugni, sentendo quella rabbia incandescente scorrere in ogni parte di sé, accendergli un fuoco dentro. Ma sentì anche qualcos’altro, una vibrazione elettrica che risaliva dal basso e si spandeva nell’aria, rendendola più calda. Percepì il tempo cambiare, la luce diminuire di intensità e un cupo ruggito trasportato dal vento. In pochi attimi, il cielo si era riempito di grosse nuvole scure.
Un altro tuono, molto più vicino, spinse Alastor ad alzare la testa. Solomon vide qualcosa di diverso nel suo sguardo, la sua bocca schiudersi lentamente dallo stupore. Poi, il mondo divenne bianco.
Solomon chiuse le palpebre, mentre una luce improvvisa e intensa gli esplodeva davanti agli occhi. Sembrò riempirgli la testa, sommergerlo totalmente. Quando il fulmine cadde, sentì l’elettricità trasmettersi dall’aria alla terra, una scia blu e sensuale che scivolava di goccia in goccia, venendo giù con la pioggia.
La sua mano parve muoversi da sola, si protese verso l’alto come se potesse afferrare quell’energia, imbrigliarla e farla sua.
Io sono il fulmine. Il fulmine è in me.
Veloce come era arrivato, l’istante passò, l’elettricità si disperse.
Solomon riaprì gli occhi e vide che la maestosa quercia era stata squarciata a metà, una ferita nera da cui fuoriuscivano volute di fumo.
Alastor era come pietrificato, gli occhi fissi su quello stupefacente spettacolo. Si girò a guardare suo figlio, senza fiato e scosso da brividi, mentre la furia pian piano lo abbandonava, lasciando il posto a una profonda stanchezza. Un torrente di sangue sgorgava dalla narice, gocciolandogli sulle labbra. Ma l’energia del fulmine crepitava ancora nelle sue iridi azzurre.
«Bene» disse Alastor Blake, con un breve cenno. «Finalmente qualcosa su cui lavorare.»
 
 L’addestramento si intensificò, ma se prima Alastor lo costringeva a esercitarsi a orari prestabiliti, ormai coglieva ogni momento per metterlo alla prova.
All'inizio Solomon riusciva a eseguire solo incantesimi basilari: spegnere una candela col pensiero, o al contrario ravvivarla; spostare piccoli oggetti. Passarono diverse settimane prima che il ragazzo imparasse ad allacciarsi gli stivali unicamente guardandoli.
Su finire dell’inverno, Alastor decise di portarlo qualche giorno sulla costa, e lì Solomon trascorreva le sue giornate su una barchetta in mezzo al mare, ad esercitarsi nel controllo dei venti, e ad acquietare le onde per non schiantarsi sulla scogliera.
 Gli incantesimi di guarigione erano i più difficili da eseguire, ma anche quelli che gli davano maggiore soddisfazione: suo padre gli incideva i polpastrelli con un coltello, uno dopo l'altro, mentre Solomon digrignava i denti e inghiottiva il dolore. Una volta acquistata la calma necessaria si concentrava sui tagli finché le gocce di sangue non iniziavano a scorrere al contrario su per la mano, e i lembi di pelle a riunirsi.
Quando fu in grado di farlo a tutte e dieci le dita in un colpo solo, Alastor gli lasciò il coltello, dicendogli di continuare con altre parti del corpo a suo piacimento.
Solomon prese l’abitudine di mutilarsi tutti i giorni, e man mano che i suoi poteri si rafforzavano, scopriva il piacere di superare i propri limiti; osservava il palmo in cui aveva infilzato il coltello, e mentre il foro si rimpiccioliva fino a scomparire, e percepiva ogni cellula, fibra nervosa e muscolo combaciare, si sentiva potente, indistruttibile. Amava quella sensazione.
 
«A maggio si terrà la Selezione» annunciò una sera suo padre, senza alzare gli occhi dal giornale aperto sulla sua scrivania. «Gli Arcistregoni di Arcanta apriranno le porte delle loro accademie a un numero ristretto di allievi.»
«Come se non sapessero già chi scegliere» ribatté Solomon, seduto di fronte a lui con le braccia incrociate. «È una farsa, i posti saranno assegnati ai rampolli delle famiglie più in vista.»
«Ovviamente. Ma tu troverai il modo di farti notare.»
«Non sono abbastanza bravo.»
«Questo non ha importanza» disse Alastor. «Tu hai una motivazione che gli altri non hanno. Entrerai nella Corte dei Sofisti, costi quel che costi.»
Solomon si accigliò. «Nel covo degli assassini di Jon? Piuttosto la morte!»
«Lo Sciacallo d’Argento è il miglior truffatore di Arcanta» replicò suo padre. «Dovrai apprendere il più possibile da lui, se vogliamo distruggere la città dall’interno.»
«Non a questo prezzo.»
Alastor strinse gli occhi. «Decido io qual è il prezzo. Tu limitati a eseguire gli ordini.»
Solomon sostenne il suo sguardo con cipiglio di sfida, premendo le mani sul tavolo. I fogli di giornale si sollevarono e si piegarono in forme elaborate; piramidi, barchette, uccelli dalle ali fruscianti.
Irritato, Alastor afferrò un pesante posacenere di marmo e glielo sbatté sulla mano sinistra, così forte da spezzargli il polso. Gli origami si sfaldarono all’istante.
«Dovresti tornare a esercitarti» riprese con calma, lisciando le ultime pieghe sulla carta. «Manchi ancora di controllo.»
Solomon contrasse la mascella, lottò per non svenire dal dolore. Quando suo padre lo congedò con un gesto distratto, lasciò la stanza senza emettere neppure un lamento, tenendo stretto il polso ferito. Gli ci volle quasi un’ora per riassemblare tutti i frammenti di osso.
 
Nelle settimane che precedettero la partenza, Solomon si preparò al suo debutto imparando a menadito leggi, titoli e nomi importanti.  Con l’avvicinarsi del grande giorno, sentiva macerare in lui emozioni contrastanti; il timore di fallire, di scontentare suo padre. Ma anche una segreta eccitazione per ciò che lo aspettava.
Non era mai stato ad Arcanta, ma aveva letto tutto su di lei, su come, più di mille anni prima, i tre Fondatori avessero eretto una grandiosa città dove custodire il sapere magico, che dopo la distruzione della Biblioteca di Alessandria aveva rischiato di scomparire.
Da allora, i Decani si erano impegnati per razionalizzare la conoscenza del Vecchio Mondo, donando agli stregoni una Legge con cui vivere in armonia e bandire tutto ciò che di oscuro c’era nella magia. E per farlo, nel corso dei secoli aveva fatto affidamento sui Quattro Arcistregoni: i più potenti, i più fedeli e i più letali, soldati al servizio di Arcanta e pronti a difenderla da qualunque minaccia esterna.
Al momento dei saluti, suo padre non fu di molte parole. Tutto ciò che disse, davanti al guardaroba incantato che lo avrebbe condotto ad Arcanta, fu: “Vedi di non deludermi.”

Solomon s’infilò nel guardaroba, stupendosi di trovare, dietro la schiera di vecchi vestiti, una lussuosa cabina foderata di velluto. Una porta dorata si chiuse scorrendo, e Solomon sedette rigido su una panca imbottita, domandandosi con ansia crescente cosa il destino avesse in serbo per lui.  Accarezzò Wiglaf per infondersi coraggio, e il corvo ricambiò mordicchiandogli il lobo dell’orecchio.
Le porte del Meridiano si spalancarono improvvisamente, e Solomon fu travolto da un’orgia di sensazioni nuove e disorientanti; una voce sconosciuta avvisò che si trovava nell’Arboreto del Parnaso, un’oasi lussureggiante popolata da piante esotiche e fiori variopinti. Solomon mosse i suoi primi passi incerti in quel nuovo mondo, venendo subito dopo investito da una folla rumorosa di dame e gentiluomini magnificamente vestiti, con anelli a ogni dito e pietre preziose infilate nelle parrucche, sui cappelli e nelle barbe. Per Solomon avrebbero potuto essere tutti re e regine, e lo fecero sentire infinitamente provinciale e fuori moda, nella sua antiquata redingote di panno nero.
Seguendo il flusso di persone, si ritrovò in una specie di stazione ferroviaria, priva di rotaie; i colori erano troppo vivaci, i profumi talmente forti da nausearlo, le voci e le risate si sovrapponevano le une alle altre in una sinfonia di accenti e inflessioni diverse. Dopo tutti quegli anni trascorsi nell’opprimente solitudine di Hurtgrove Hall, quel caleidoscopio sfolgorante gli tolse il respiro. Temette di avere un attacco di panico…
Mantieni la calma si impose, sistemando il colletto della redingote. Sei un mago, adesso.
In fondo, per quale ragione avrebbe dovuto sentirsi inferiore o intimidito dagli altri? Era diventato un ottimo stregone, e lo avrebbe dimostrato a tutti.
Le dita strette attorno all’orologio di Jonathan, raddrizzò la schiena e avanzò deciso in quel mare di sconosciuti festosi, tra turbinii di stoffe luccicanti e cappelli piumati. Si accorse che molti stavano osservando con curiosità Wiglaf, e in effetti non gli parve di vedere altri Famigli in giro. Ma all’improvviso, la sua attenzione fu catturata da una creatura enorme, che atterrò proprio di fronte al marciapiede di imbarco trasportando tra gli artigli una grossa carrozza. Solomon inghiottì bruscamente il fiato, e sulla sua spalla, Wiglaf sventolò freneticamente le ali.
Era un drago. Un vero drago, come quelli raffigurati sui libri di fiabe, il dorso irto di aculei e le squame verdastre. Ma il suo aspetto era tutt’altro che spaventoso, e si limitò ad aspettare pazientemente che tutti i viaggiatori fossero saliti in carrozza, prima di spalancare le immense ali e spiccare il volo. Sorvolò Arcanta, i cui tetti d’oro e le torri d’avorio scintillavano al sole come gioielli. Solomon osservò rapito il paesaggio, finché il drago atterrò in una grande piazza gremita di gente, al cospetto di un edificio a torre talmente alto che la sua sommità si perdeva tra le nuvole.
Solomon non conosceva nessuno, e non aveva la più pallida idea di dove dovesse andare. Per un po’ stette lì impalato a osservare il via vai di persone, e a un certo punto, qualcuno batté una mano sulla sua spalla.
«Ciao», disse una voce roca e amichevole. «Sei qui per la Selezione?»
Solomon si volse, e il suo sguardo percorse lo sconosciuto da cima a fondo; un ragazzo robusto come un armadio, con crespi capelli neri e il naso leggermente adunco. Malgrado l’altezza e la stazza considerevoli, doveva avere la sua stessa età.
«Sono Boris» esordì, allungandogli una mano. «Boris Volkov, ma tutti mi chiamano Bo. Tu, invece?»
Solomon fissò le sue dita tozze come salsicciotti e le unghie mangiucchiate, e non si mosse. «Solomon Blake.»
«Prima volta ad Arcanta, Solomon?» domandò con entusiasmo il ragazzo. «Deve essere la prima volta, te lo si legge in faccia! Anche io sono un Esterno, sono venuto in visita solo tre volte con mio zio Igor. La mia famiglia vive in Siberia. Sei mai stato in Siberia?»
Solomon sbatte piano le palpebre. «Mai avuto il piacere.»
Il ragazzo di nome Boris scoppiò a ridere. «Be’, fa molto freddo e c’è un sacco di neve. E di renne! Tu invece da dove vieni? Quello che hai sulla spalla è un corvo ammaestrato?»
Solomon trasse un profondo respiro. Quel tipo parlava troppo per i suoi gusti, ma in compenso sembrava saperne molto più di lui su come funzionavano le cose laggiù. Avrebbe potuto tornargli utile. «Senti, devo incontrare l’Arcistregone dell’Ovest, Absalom Grey. Sai dove si trova?»
«Oh» fece Boris, sorpreso. «Be’, non qui alla Cittadella, ovviamente. È alla Corte dei Sofisti.»
«Bene. Come ci arrivo?»
Boris ridacchiò. «Non funziona così, non puoi semplicemente presentarti alla porta di un Arcistregone! Saranno loro a cercarci.»
Solomon si spazientì. «E quando?»
Boris scrollò le spalle. «Quando ne avranno voglia. Noi per il momento staremo tutti nel Formatorio. Sto andando lì anche io, se vuoi ti accompagno!»
Solomon acconsentì di buon grado, e lasciò che il ragazzo gli facesse da guida. Boris Volkov non smise un istante di parlare, al punto che Solomon si domandò se ogni tanto respirasse.
Seguirono un sentiero di ghiaia delimitato da siepi che girava dietro la Cittadella, fino a una biforcazione: la stradina a destra si inoltrava in un vasto parco, oltrepassando un prato ondulato e una sfilza di grandi serre con i vetri appannati dalla condensa.
«Di là si va al Cerchio d’Oro» spiegò Boris. «Ma l’accesso è consentito solo agli alchimisti.»
Prese il sentiero di sinistra ed entrarono in un gruppo di alberi, abbastanza folti da sembrare un piccolo bosco. Quando le fronde si diradarono, spuntò un edificio chiaro sovrastato da cupolette dorate; nel giardino, bambini e ragazzi vestiti di bianco si divertivano a far levitare cubi di legno colorato, oppure a passarsi una palla senza toccarla. Il tutto sotto lo sguardo attento di un gruppo di maghi adulti dalle tuniche grigie.
«Tutti i maghi passano dal Formatorio» raccontò Boris. «Quelli nati ad Arcanta vengono mandati qui dalle famiglie appena iniziano a manifestare i propri poteri, e sono formati dai Pedagoghi della Cittadella.»
Solomon osservò la folla di ragazzetti privilegiati alle prese coi loro primi incantesimi, ripensando alla sua infanzia senza magia e alle parole di suo padre:
“Non meritano ciò che è stato donato loro”.
Cercò di restare concentrato sulla prossima mossa. «E agli Esterni che succede?»
«Be’, quelli che hanno già avuto un primo addestramento possono seguire i corsi propedeutici alla Selezione» rispose Boris. «Ti viene data la possibilità di scegliere che disciplina perfezionare, in base alla Corte in cui vorresti entrare.»
Solomon si sforzò di tenere a bada l’impazienza. Gli pareva un percorso inutilmente lungo. «Vorrà dire che inizierò subito.»
«Sembri avere le idee molto chiare» commentò Boris. «Sei proprio sicuro di voler entrare nella Corte dei Sofisti? Non ha una gran bella fama. Potresti tentare l’ammissione a quella delle Lame, Fenrir Sigurdsson è un ottimo insegnante. Mio zio Igor è stato suo allievo ed è diventato un valoroso guerriero...»
Solomon lo fulminò con lo sguardo, sentendo riaccendersi in lui una scintilla di rabbia. Anche Jonathan lo era, e guarda che fine ha fatto…
Quel Boris doveva essere fatto della stessa pasta di suo fratello: un animo gentile, pronto ad aiutare chi era in difficoltà. L’esatto opposto di cosa Solomon sarebbe dovuto diventare, se voleva far strada laggiù.
«Grazie del consiglio» disse, con freddezza. «Ma non me ne frega niente di tuo zio Igor. Da qui in avanti me la caverò da solo.»
«Oh» fece l’altro, deluso. «Ehm… va bene, come preferisci. Allora, in bocca al lupo per la Selezione.»
Gli offrì un’altra stretta di mano, più insicura stavolta, ma Solomon lo scansò senza una parola ed entrò nell’edificio.
Passò al Formatorio due settimane, durante le quali dovette seguire noiosissime lezioni tenute da maghi di discutibile talento, e su argomenti che già padroneggiava. Così, Solomon ne approfittò per studiare invece i suoi potenziali rivali, analizzandone i punti di forza e le debolezze, in modo da poterle sfruttare a suo vantaggio al momento opportuno. Individuò subito un paio di giovani maghi abbastanza promettenti da dargli filo da torcere in un’eventuale competizione: uno di loro era Macon Ludmoore, particolarmente portato per le illusioni. Solomon era cascato più di una volta negli scherzi che lui e i suoi amici tendevano a chiunque e in qualsiasi momento, dandogli degli ottimi motivi per vendicarsi. Ma capì subito che sarebbe stato controproducente farselo nemico: era sveglio e molto popolare, sempre circondato da un drappello di maghi altrettanto abili, il che lo rendeva un bersaglio difficile. No, uno così era meglio averlo dalla sua parte.
E poi, c’era Ezra Ashdown.
Schivo e preciso, trascorreva tutto il tempo col naso ficcato nei libri e raggiungeva sempre il punteggio più alto nei test. Nessuno lo aveva in gran simpatia, ma con un cervello come il suo avrebbe potuto suscitare l’interesse di Absalom Grey. Solomon decise che andava eliminato.
Il giorno della Selezione, i Pedagoghi chiamarono uno alla volta gli aspiranti candidati alle Quattro Corti, per un breve colloquio a tu per tu con gli Arcistregoni.
Ezra Ashdown sarebbe stato convocato prima di lui. A colazione, Solomon fece in modo di versare “accidentalmente” una qualche goccia di una pozione a base di aconito nel suo tè, e poco prima che fosse chiamato il suo nome, vide Ezra sfrecciare come un razzo verso i bagni con un colorito verdastro in faccia. L’intossicazione non sarebbe stata letale, ma lo avrebbe trattenuto sul gabinetto il tempo sufficiente per estrometterlo dai giochi.
Solomon si alzò e procedette sicuro verso l’aula, incontro al suo destino.
Absalom Grey sedeva con le gambe accavallate dietro una scrivania, sorseggiando una tazza di tè; un uomo di età indefinibile, asciutto ed elegante, vestito con un completo bianco, giacca stretta e code fino al ginocchio. La sua pelle era olivastra, i capelli un manto di seta argentea, e i baffi sottili e dalle punte ruotate all’insù. Di fianco alla scrivania, era posato un sottile bastone nero dall’impugnatura d’argento a forma di sciacallo, e poco distante riposava acciambellato un bel levriero dal manto grigio chiaro.
«Tu non sei Ezra Ashdown.»
Solomon prese posto sulla sedia di fronte, e guardò il mago senza timidezza. «No, infatti. Il mio nome è Solomon Blake, e credo di avere le carte in regola per essere ammesso alla sua Corte.»
Gli occhi dorati dell’Arcistregone dell’Ovest luccicarono, pieni di malizia. «Davvero? E in base a che cosa lo credi?»
«Sono intelligente e ambizioso» rispose Solomon. «Tutte qualità che alla Corte dei Sofisti vengono apprezzate.»
«Anche Ezra Ashdown è intelligente» replicò Absalom Grey, tranquillo. «Il più intelligente del vostro anno, almeno, stando ai suoi voti.»
«I voti dicono poco sull’intelligenza» fu la pronta risposta di Solomon. «Un mago intelligente avrebbe riconosciuto un tè avvelenato dall’odore.»
Il sorrisetto dell’Arcistregone si allargò. «Hai avvelenato il tè del giovane Ezra, Solomon?»
«Potrebbe averlo fatto chiunque. Le serre degli alchimisti sono a due passi.»
«Questo ti costerebbe l’espulsione dal Formatorio, lo sai giovanotto?»
Solomon fece spallucce. «Non era comunque mia intenzione restarci più a lungo del necessario.»
Invece di rimproverarlo, Absalom Grey posò delicatamente la tazzina, e si rivolse sogghignando al levriero: «Tipetto alquanto sfacciato, eh, Ozymandias?»
Il levriero sollevò il muso appuntito, sbadigliò in faccia a Solomon e tornò a sonnecchiare.
«Blake…» mormorò poi Absalom. «Ho già sentito questo nome. Sbaglio o un altro Blake si presentò qui esattamente un anno fa? Jonathan, mi pare si chiamasse.»
Solomon stavolta dovette sforzarsi per non mostrare il ribollire delle sue emozioni. «Era mio fratello.»
«Era?»
«È morto.»
«Oh.» Absalom si portò nuovamente la tazzina alle labbra. «Le mie condoglianze.»
Solomon inspirò profondamente. Non doveva cedere proprio ora. «Grazie, signore.»
«Se non ricordo male, entrò a far parte della Corte delle Lame» proseguì Grey, amabile. «Come mai tu hai deciso di presentarti a me?»
«Io e mio fratello siamo molto diversi. Lui aveva le sue idee sulla magia. E su come fosse giusto utilizzarla.»
«Mhmm e quali sarebbero le tue idee in proposito?»
«Jonathan credeva che un mago avesse il dovere di mettere i propri poteri al servizio degli altri» spiegò Solomon. «Io, che un mago non sia tenuto ad avere alcun tipo di dovere.»
Seguì un lungo silenzio, durante il quale Absalom Grey studiò il ragazzo con un misto di divertimento e curiosità. «Visione interessante. Ma poco in linea con la politica dei Decani: il rispetto della Legge è un dovere sacro ad Arcanta. E dunque, lo è anche per gli Arcistregoni.»
«Ma alla Corte dei Sofisti nessuna verità è assoluta» replicò Solomon. «Lei manipola la verità, come gli illusionisti della Corte dei Miraggi manipolano le percezioni: dunque, cosa importa quello che penso, se convinco gli altri del contrario?»
La risposta gli era piaciuta, di questo Solomon era sicuro: malgrado l’aspetto da gentiluomo, ormai sapeva riconoscere un predatore quando ce lo aveva davanti. Tuttavia, lo stregone non espresse alcun commento, se non un educato: «Grazie per il tuo tempo, Solomon. Puoi andare.»
Tre giorni dopo, ricevette la lettera di ammissione alla Corte dei Sofisti.


 


 

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