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Autore: Zobeyde    04/03/2023    4 recensioni
Prequel de “Gli ultimi maghi”
Sono anni turbolenti per l’Europa: la Belle Époque sta per tramontare, sotto l'incombere di una guerra come non se n’erano mai viste, e nella millenaria città di Arcanta, dove la magia esiste e i suoi abitanti hanno da sempre vissuto al riparo dalla corruzione del mondo, c’è chi non può restare indifferente ai cambiamenti fuori dalle sue mura incantate:
Abigail Blackthorn, in fuga da una gabbia dorata per aiutare chi soffre nelle trincee, dove inaspettatamente troverà amore e dannazione.
Solomon Blake, cinico, ladro, machiavellico, determinato a rendere la magia grande come un tempo, fino al giorno in cui scoprirà che ogni cosa ha un prezzo.
Zora Sejdić, maga decaduta che ha fatto dello spiritismo la propria arma per la scalata al potere. Un’arma però che si rivelerà presto a doppio taglio…
Dal testo:
[…] Vede, ambasciatore, io non credo né negli dei, né negli uomini. Credo che ognuno di noi, presto o tardi, venga chiamato a giocare un ruolo in una partita ben più grande. Deve solo capire qual è il suo. […]
Genere: Angst, Fantasy, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Triangolo, Violenza
Capitoli:
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Ciao a tutti, cari vecchi e nuovi lettori!
Come anticipato, ho deciso di rimettere mano anche a "The White Crow", che ho deciso di rinominare "Vincoli Oscuri" poiché la storia avrà un respiro più corale stavolta!
Nel frattempo, vi beccate il prologo di quello che sarà il primo di tre atti: Antebellum, Parabellum e Dies Irae.
La storia è ambientata prima de "Gli Ultimi Maghi" e conterrà SPOILER sul seguito, del quale è consigliata la lettura, ma ho cercato di renderla fruibile anche come vicenda a sé.
Metto subito le mani avanti dicendo che è un FANTASY, con diversi riferimenti storici che però rientrano più nel genere dell'ucronia. Perciò, non prendetelo come un saggio con pretese di credibilità o di accuratezza, perché non è quello l'intento.
Passo e chiudo, vi auguro buona lettura! ^^














VINCOLI OSCURI










ATTO I 
ANTEBELLUM

 
 
 
«…Dunque, tu chi sei?
Una parte di quella forza
che eternamente vuole il Male
ed eternamente opera il Bene.»

GOETHE, Faust


 
 

PROLOGO

 
 
Ambasciata austriaca a San Pietroburgo
15 aprile 1914
ore 20:30


 
L’uomo dentro il baule non la finiva di agitarsi.
Era legato mani e piedi, con addosso solo reggicalze e mutande, e il bavaglio stretto gli impediva di emettere qualcosa di diverso da deboli mugolii. Eppure, continuava a opporre una fiera resistenza.
C’era da esserne ammirati: non era un comportamento che Solomon attribuiva spesso ai politici.
«Quelle corde non si allenteranno se continua a strattonarle, ambasciatore» cantilenò, abbastanza forte da superare i suoi guaiti. «Si procurerà solo dei brutti segni. Si rilassi, ha avuto una settimana piena! Ne approfitti per schiacciare un pisolino.»
In risposta, l’uomo iniziò a scalciare.
Solomon fece spallucce e continuò ad annodare il papillon davanti allo specchio; alla luce soffusa di una lampada Churchill, il riflesso restituì l’immagine di un uomo alto, pallido, di un'età indefinibile che oscillava fra i trenta e i quaranta, con folti ricci corvini e occhi azzurro intenso.  L’abito che indossava era di fattura eccellente, confezionato in uno storico laboratorio di Savile Row a Londra, e gli cadeva alla perfezione. Fu quasi una sofferenza dover dire addio al proprio aspetto, anche solo per poche ore.
Il conte Friedrich von Szapáry[1] era un rispettabile diplomatico e l’incarico che era chiamato a svolgere a San Pietroburgo per l’Impero austro-ungarico era delicato, soprattutto nel clima turbolento che la Crisi Balcanica aveva gettato su tutta l’Europa.
Ma non era un uomo bello. Decisamente no.
A malincuore, Solomon agitò le dita e il suo aspetto iniziò a mutare: perse alcuni centimetri, il ventre si rilassò. Il pizzetto appuntito fu sostituito da un paio di spessi baffi, i tratti cesellati del volto si inflaccidirono e l’attaccatura dei capelli batté in ritirata sulla fronte.
Un semplice incantesimo di trasfigurazione, ma che avrebbe retto il tempo necessario per ciò che doveva fare.
«Non ha nulla da temere» dichiarò Solomon. «Nessuno noterà la sua assenza stasera.»
Dal primo cassetto della scrivania, tirò fuori una busta sigillata e la fece scivolare sotto la giacca.  Dopodiché, afferrò soprabito e bastone, indossò il cilindro e si apprestò a lasciare la sontuosa stanza da letto, ma prima si chinò sul grosso baule da viaggio in cui aveva lasciato il povero Szapáry.
«Ho studiato la parte alla perfezione» assicurò con un sorriso. «Non intendo coinvolgerla in nessun pasticcio internazionale.»
Il conte strabuzzò gli occhi e protestò sonoramente. Prima di abbassare il coperchio, Solomon aggiunse: «Oh, e mi assicurerò che anche la sua signora si diverta: sono un ottimo ballerino!»
 
L’ambasciata a quell’ora era deserta e silenziosa. Solomon incrociò solo qualche domestico mentre scendeva l’imponente scalinata di marmo che conduceva all’atrio; ad attenderlo trovò una donna impellicciata e con le mani affondate in un manicotto di zibellino. Edvige von Szapáry era più giovane del marito, e sarebbe stata abbastanza graziosa se non fosse per l’espressione di scontento perenne.
«Perché ci hai messo tanto?» lo accolse bruscamente. «La vettura è qui fuori da almeno mezz’ora!»
«Non riuscivo a trovare i gemelli, cara» replicò Solomon con voce affettuosa, modulata per risultare identica a quella del conte. «Sai quanto ci tengo: sono il tuo regalo di anniversario, ricordi?»
La linea dura delle sue labbra si ammorbidì di poco, e accettò il braccio che lui le offriva, a dimostrazione di quanto bene Solomon avesse indagato sul passato della coppia: sposati per amore e genitori di tre figli rimasti a Budapest, di cui la contessa sentiva una mancanza terribile. La morte del piccolo Vincent, avvenuta quell’anno a pochi giorni dalla nascita, aveva però gettato un’ombra su un matrimonio tutto sommato felice.
L’auto di rappresentanza sfilò per una Nevskij prospekt[2] illuminata da lampioni a elettricità – la moderna svet bez ognjá, “luce senza fuoco”, come la chiamavano i russi – ma presto si lasciò alle spalle gli sfarzosi palazzi, i teatri e i monumenti per inoltrarsi nella cupa taiga che abbracciava San Pietroburgo: la loro destinazione era il Palazzo di Caterina, residenza estiva degli zar, che quella sera avrebbe ospitato l’élite che reggeva in mano il destino dell’intero continente.
Un destino sempre più in bilico, stando ai titoli dei giornali: le tensioni che agitavano gli stati centrali si erano inasprite con la caduta dell’Impero ottomano e la successiva spartizione di quei territori da parte di Austria e Russia. Nel frattempo, nuovi stati erano sorti, altri erano scomparsi e in Serbia il malcontento dei nazionalisti non cessava di farsi sentire.
A Solomon Blake non interessavano le beghe dei Mancanti: le loro guerre si somigliavano tutte. Da secoli, i nati senza magia sgomitavano per accaparrarsi più terre, più risorse, più porti.
Già. I Mancanti andavano matti per i porti.
Come tutti gli stregoni, in teoria, la lealtà di Solomon apparteneva esclusivamente ai Decani, la potente congrega che governava la città magica di Arcanta, da sempre estranea a qualsiasi allineamento politico.
Ed era proprio Arcanta il motivo per cui doveva imbucarsi a tutti i costi al Gran Palazzo: qualcosa di oscuro e antico era nascosto tra quelle mura, qualcosa che preoccupava i Decani molto più di potenziali guerre non-magiche all’orizzonte…
E Solomon doveva mettervi sopra le mani. Prima che lo facesse qualcun altro.
Per tutto il tragitto, Edvige restò funerea e silenziosa.
«Cosa ti affligge, cara?» le domandò gentilmente Solomon.
«Mi auguro che la nostra permanenza duri poco» replicò lei, muovendo appena le labbra. «Non mi piacciono questi russi: sono dei barbari, per non parlare della depravazione in cui è scivolata la corte negli ultimi anni!»
«A cosa ti riferisci?»
Lei rabbrividì. «Ci sarà anche lui stasera, non è così? Quell’orribile prete! Ho sentito storie sul suo conto da far rizzare i capelli. Non mi piace. Voglio tornare a casa, Frigyes, dai bambini!»
Solomon le sorrise, sotto i baffoni da tricheco del conte. «È solo un ballo, mia adorata. Non ci tratterremo più del dovuto.»
L’auto superò un’alta cancellata con la doppia aquila della casata Romanov e percorse un sentiero fiancheggiato da giardini alla francese che si perdevano nella notte; una lunga fila di automobili affollava il piazzale, sopra il quale si innalzava lo sfolgorante Gran Palazzo.
Lo chauffeur aprì la portiera per la contessa e la aiutò scendere.
«Be’» commentò lei. «Devo ammettere che è impressionante!»
Solomon gettò un’occhiata all’elaborata facciata bianca e turchese del palazzo, pieno di statue e stucchi dorati: lui, che era nato in Inghilterra e che di castelli ne aveva visti parecchi, lo trovò orrendamente pacchiano.
«Non avrei saputo scegliere aggettivo più appropriato.»
Ma gli saltò all’occhio qualcosa di più interessante: tutti gli accessi erano presidiati da guardie reali e cosacchi, la scorta personale dello zar armata fino ai denti. In più, non gli era sfuggita la presenza di cecchini appostati lungo i cornicioni del tetto. Come pensava: quel luogo, apparentemente signorile, era una fortezza.
Mentre si confondeva con gli altri invitati, Solomon colse un baluginio bianco e un frullo d’ali tra le fronde di un albero vicino: un grosso corvo, dalle piume candide come neve, stava seguendo ogni suo movimento e lo stregone ammiccò in sua direzione. Anche lui aveva preso precauzioni e se c’era da ballare, quella sera, avrebbero ballato.
All’ingresso, un maggiordomo chiese di vedere i loro inviti, e Solomon esibì prontamente quello appartenuto al conte Szapáry.
Senza obiezioni, fu concesso ai coniugi di entrare.
Corridoi dai soffitti altissimi e rivestiti di specchi formavano lo scenografico percorso fino alla sala da ballo, illuminata da file di lampadari di cristallo. Ovunque si guardasse si era sopraffatti dallo sfarzo e dalla luminosità delle migliaia di lampadine, degli smalti, dei gioielli e dell’argenteria di pregio.
Un paggio si offrì di prendere i loro soprabiti e la contessa Edvige si liberò della pelliccia; indossava un vestito blu notte e, adagiato fra le clavicole, scintillava uno zaffiro stupefacente, grosso come un uovo di gallina.
Solomon non riuscì a impedire ai suoi occhi di indugiarvi con fare predatorio, guadagnandosi un’occhiata imbarazzata da parte della donna.
«Non fare quella faccia! Lo so che è un cimelio di famiglia…ma che sarà mai se lo indosso per una sera?»
Solomon rientrò alla svelta nella parte. «Trovo che ti stia divinamente, mia cara!»
Si immersero nella rumoreggiante moltitudine di ospiti che conversavano e ballavano: aristocratici, dignitari, politici e ufficiali di alto rango che esibivano uniformi cariche di medaglie. Solomon studiò attento il flusso della folla; la gente era convinta di aggirarsi in maniera casuale, ma c’era uno schema preciso nel modo in cui gli individui si muovevano, si cercavano e orbitavano intorno ai vertici del potere…
«Oh, eccolo lì!» trasalì all’improvviso Edvige. «L’uomo di cui ti parlavo, il prete! Lo vedi? Di persona è ancora più inquietante.»
In verità Solomon lo aveva adocchiato da un pezzo, anche perché era impossibile rimanerne indifferenti: lo starets[3] Grigorij Rasputin era un uomo imponente, vestito di nero, dalla lunga barba ispida e lo sguardo penetrante. Intorno gli vorticava un consistente mulinello di persone, quasi fosse al pari dei reali. E per lo più erano donne.
«Dicono sia entrato nelle grazie della zarina con l’inganno» sussurrò Edvige. «Che irretisca le signore per bene e le induca alla perversione!»
Già mi piace, sogghignò Solomon fra sé. «Non hai nulla da temere da quell’uomo, cara. Sono certo che è inoffensivo.»
Come se avesse captato la loro attenzione, il prete si girò a guardarli ed Edvige iniziò immediatamente una conversazione con una nobildonna ingioiellata. Solomon, al contrario, gli rivolse un breve cenno, a cui lui ricambiò, sollevando la sua coppa di champagne come per brindare.
In quel momento, le luci si abbassarono e gli sguardi degli invitati furono richiamati sulla doppia scalinata che conduceva al secondo piano.
Un gentiluomo e una donna si apprestavano a scendere, accolti dal silenzio generale; lui era bruno, alto e bello, lei indossava un abito la cui foggia non andava più di moda, formato da vari strati di pizzo nero, e un velo di tulle le nascondeva il viso, come una sposa.
Un fremito di sorpresa ed eccitazione serpeggiò per l’intero salone.
«Signore e signori» esordì il gentiluomo bruno, esibendosi in un profondo inchino. «Moy tsar, moy tsarina… è un onore essere stati accolti in questa magnifica dimora e in questo grande Paese.»
Il mormorio si fece insistente, e Solomon poté udire più volte la parola “bosniaci”, ma anche alcuni bisbigliare con sprezzo “zingari”.
«Per quelli tra voi che ancora non ci conoscono, il mio nome è Roman Vukčić Kosača, signore di Breznica e visconte di Sava» proseguì il giovane. «Ma non sono che un umile presentatore: la vera star è l’affascinante creatura che mi accompagna, la potente medium Madame Salomé. Conosciuta in tutto il mondo come “La Dama Velata”.»
Alla parola “medium” la folla iniziò ad agitarsi e i ventagli delle dame si aprirono di scatto, con un rumore simile a quello di decine di uccelli che si alzano in volo.
«Abbiamo viaggiato a lungo» disse il visconte. «Ospitati nelle più grandi corti europee, negli Stati Uniti, persino al cospetto dell’Imperatore della Cina! Dove Madame Salomé ha messo i propri doni al servizio di chi ne aveva bisogno. E, solo per stasera, ha deciso di esibirsi per voi.» I suoi scaltri occhi scuri indagarono la folla. «Chi di voi gentiluomini e gentildonne ha un conto in sospeso con l’aldilà? Chi desidera mettersi in contatto con un proprio caro? Con un fratello, magari, con una moglie o con un figlio perduto…»
Solomon sentì che il respiro della contessa Edvige si era fatto accelerato e la vide portarsi una mano al petto, su cui pendeva l’enorme zaffiro.
«Nessuno?» li incalzò il visconte. «Non avete nulla da temere: Madame Salomé ha il dono di poter entrare in contatto col mondo degli spiriti, ma lo ha sempre usato per donare sollievo alle persone e mai per operare il male. Allora, chi vorrebbe provare?»
Solomon vide gli ospiti scambiarsi occhiate tra lo scettico, il divertito, l’emozionato e anche il turbato. In tutto ciò, Madame Salomé non proferì parola e si limitò a restare immobile e incorporea sotto i vari strati di tessuto.
«Io…io vorrei…» cominciò esitante una giovane donna.
«Prego, mia cara, si faccia avanti.»
La giovane si guardò attorno imbarazzata, poi prese coraggio: «Io…ho perso la mia madre di recente e non ha potuto assistere alle mie nozze: vorrei, ecco…mi piacerebbe…»
Roman sorrise e si volse verso la Dama Velata. Lei annuì con un impercettibile movimento e allungò una mano guantata di pizzo. La giovane esitò, poi si avvicinò e prese la mano che la medium le porgeva.
Madame Salomé ispirò profondamente, risucchiando nella bocca il velo. Dopodiché, la sua testa ciondolò inerte come se si fosse assopita.
Un silenzio gravido di aspettative accompagnò l’esibizione. Poi, a un tratto, la Dama Velata sembrò riscuotersi.
«Tatiana» disse, con voce roca, vibrante. «Mia dolce, dolce Tatiana.»
La ragazza sussultò dallo stupore. «Come…come sa il mio nome?!»
«Perché ti ho messa al mondo, moy malen’kiy» replicò la medium, con quella strana voce sorda e ultraterrena. «Ricordo il tuo primo vagito, il tuo primo sorriso! La terribile febbre che ti colpì ad appena un mese e per cui temetti di perderti!»
Sconcertata, la ragazza emise una specie di singhiozzo.
«Madre! Madre mia, siete…siete proprio voi?»
Salomé buttò fuori un altro sospiro tremante e annuì.
«Sono tanto felice che tu abbia convolato a nozze…e il buon Vasilij sembra un uomo onesto: di sicuro renderà la tua vita meravigliosa.»
La ragazza scoppiò in lacrime e la folla si sciolse in uno scroscio di applausi estasiati. Solomon, invece, alzò gli occhi. A cosa mi tocca assistere!
Trovava incredibile la facilità con cui i Mancanti abboccassero a certi trucchi da due soldi. Ne aveva visti di tutti i colori, cartomanti, sensitivi, illusionisti, guaritori: capre agghindate di piume per convincere gli sprovveduti di saper volare.
E pensare che chi, come lui, quel potere lo possedeva realmente, lo aveva coltivato per anni con studio e pratica, era ancora costretto nascondersi nell’ombra come un ratto a causa della stupidità della gente…
Perché i Mancanti non si avvicinavano nemmeno a comprendere ciò che credevano di sentire e di vedere, e la magia – quella vera almeno – era una faccenda estremamente concreta e complessa: chi la padroneggiava poteva manipolare la materia in virtù del legame che aveva con essa, una corrispondenza profonda che attingeva direttamente al cuore del Tutto.
Ci furono moltissime richieste per la Dama Velata: un generale la pregò di poter parlare col suo primo amore, abbandonato per inseguire la carriera militare, e poi una vecchia nobildonna che desiderava scoprire se il defunto marito le fosse rimasto fedele. Persio lo zar Nicola sbalordì tutti con la richiesta di mettersi in contatto col padre, per domandargli se fosse soddisfatto del modo in cui stava governando la Russia.
E Madame Salomé li accontentava, eseguendo sempre il solito teatrino: entrava in trance, poi si riscuoteva e cominciava a parlare, con lingue, dialetti, persino intonazioni diverse. E le cose che diceva erano stupefacenti! Nomi, date, aneddoti della vita di ogni persona, ciascun dettaglio corrispondeva alla perfezione, come se li avesse conosciuti da tutta la vita. Presto, una folla acclamante e con gli occhi velati di pianto circondò la medium e a un tratto, la contessa Szapáry mormorò con voce strozzata: «Ci voglio provare anch’io.»
Solomon la guardò in tralice, adombrandosi. «No.»
«Perché no?» Lo sguardo di Edvige si accese. «L’hai vista, l’hai sentita! Lei è davvero in grado di contattare i defunti! Potrebbe essere l’unica occasione che abbiamo per parlare con nostro figlio, con Vincent…»
«No, invece. È solo una pagliacciata.»
«Perché devi sempre comportarti così?» scattò lei, inviperita. «Non puoi correre un rischio per una buona volta nella vita…?»
«Perché niente di ciò che quella donna potrà dire riporterà indietro tuo figlio» ribatté Solomon, duramente. «E i morti è meglio che restino tali.»
Lei lo fissò, sorpresa dal repentino cambio di atteggiamento. «Va bene, non intendevo…»
Lui scosse ancora la testa. «Vado a prendere una boccata d’aria.»
E si allontanò da lei, diretto a una delle porte finestre che davano sul parco.
Una volta fuori, inspirò l’aria fredda della notte, senza badare al fatto che probabilmente avrebbe dovuto indossare il soprabito.
Doveva darsi una regolata. Era lì per un motivo e nessuna ridicola pantomima mancante lo avrebbe rallentato o distratto.
Sollevò lo sguardo sulla volta stellata, come velluto nero trapunto di diamanti e per un momento, solo per un breve, sciocco istante, si concesse di tornare con la mente a quella notte di moltissimi anni fa, alla promessa fatta a Jonathan l’ultima volta che lo aveva visto…
La sua mano corse meccanicamente sotto la giacca e ne tirò fuori un orologio d’argento. Lo aprì, lo richiuse. Passò il pollice sulla trama di incisioni che ne decorava il coperchio e, a poco a poco, un senso di calma lo pervase…
In quel momento, qualcun altro si affacciò alla balconata, distogliendolo da quei pensieri.  Era quella medium, Madame Salomé.
Si era tolta il velo e Solomon pensò che fosse stato un oltraggio farglielo indossare: setosi capelli neri, pelle olivastra, occhi verde giada dal taglio felino. Quella donna era bella come un dipinto.
«Non ha da accendere, vero?» chiese in tono accattivante, aprendo un portasigarette in argento.
«Desolato, non fumo.»
«Certo che no.» Il sorriso della bella gitana si fece astuto, mentre estraeva una sigaretta. «E fa bene, mi creda: sbaglio o le sigarette hanno ucciso sia suo nonno che suo padre? Eppure, dal modo in cui le sue pupille si sono dilatate, deduco fosse un fumatore. E neanche troppo tempo fa.»
Solomon aggrottò la fronte. Poi, tirò controvoglia fuori dalla tasca un accendino. «Ha fatto le sue ricerche.»
«Gli spiriti mi parlano» rispose lei. Si avvicinò con la sigaretta tra le labbra in modo che lui gliel’accendesse, dopodiché aspirò una boccata. «Mi cercano, mi sussurrano segreti.»
«Scommetto che le sussurrano anche quali polli hanno il portafoglio più gonfio.»
«Lei non mi crede» disse lei, per nulla infastidita.  Sembrava, anzi, piuttosto divertita. «Non ha creduto neanche per un istante che facessi sul serio.»
«Io credo a ciò che vedo. E vedo che lei è maledettamente brava.»
«Così mi lusinga.»
«No, dico davvero» replicò Solomon. «Il velo e tutto il resto. Quella cosa che fa…quel sospiro, ha presente? Poco prima della trance. Ma mi dica una cosa: non prova nemmeno un po’ di rimorso nel vendere false speranze a quella povera gente? Molti di loro hanno sofferto per davvero.»
«Si sbaglia» ribatté lei, in una voluta di fumo. «Non vendo false speranze, offro pace agli animi tormentati. Spesso alla gente basta poco per dormire sogni tranquilli: un’ultima parola gentile, la possibilità di essere perdonati, di dire addio come si deve. Io mi limito a fare in modo che passino oltre.»
«Da buona samaritana.»
«Da persona che ha trovato il proprio scopo» obiettò la donna. «Immagino sia per questo che Dio mi ha donato questi poteri.»
«Ah» fece Solomon, sarcastico. «Una missione divina, dunque!»
«Almeno in Dio dovrà pur credere, ambasciatore.»
«Ho sentito dire che Dio è morto» replicò lui. «E che lo abbiano ucciso Karl Marx, Thomas Edison e il dottor Freud.»
«Tutti hanno bisogno di credere in qualcosa. Persino quelli come lei che pensano di sapere tutto.»
«Io ho sempre creduto solo in me stesso.»
Le labbra di lei si arricciarono appena. «La sua deve essere una vita piuttosto arida, ambasciatore. Eppure, percepisco che il suo cuore non è di pietra come vuole far credere: anche lei in passato ha cercato risposte al di fuori del razionale, pur di avere indietro qualcuno che amava…»
«Se spera di farmi vacillare tirando in ballo un figlio morto…»
«Non parlo di un figlio» mormorò lei, gli occhi verdissimi fissi nei suoi. In quelli di Solomon, non del conte. «Ma di un fratello, morto in giovane età.»
Solomon sentì qualcosa dentro di lui dare uno strattone e si irrigidì all’istante. Come era possibile? Come faceva quella donna a sapere...?
Ma in quel momento, l’accompagnatore di Madame Salomé, il visconte Roman, apparve in mezzo a loro.
«Mia cara, la zarina chiede con insistenza i tuoi servigi» le disse con voce di velluto. «Si tratta dello zarevič [4]. Ti senti abbastanza in forze per proseguire?»
Lei sospirò con enfasi. «Per stasera basta così, Roman. Sono piuttosto stanca e preferirei ritirarmi: le mie visioni potrebbero perdere accuratezza.»
«Certamente» replicò lui, premuroso. «Inviterò sua maestà a prendere appuntamento per un altro giorno.»
Si accorse della presenza di Solomon e la sua espressione si indurì. «Ho interrotto qualcosa?»
Madame Salomé sorrise. «Un’innocua chiacchierata: l’ambasciatore Szapáry mi stava spiegando perché secondo lui sarei una truffatrice.»
La mascella squadrata di Roman guizzò. «Piuttosto maleducato da parte sua offendere una signora con tali calunnie.»
«Credevo che la gente di spettacolo fosse aperta alle critiche costruttive» replicò Solomon. «Visconte… Vukčić, ha detto? Non mi pare di averla mai sentita nominare.»
«Faccio vita ritirata» ringhiò lui. «Di lei, invece, ho sentito parlare eccome, ambasciatore: è stato uno dei maggiori promotori dell’intervento armato degli austriaci in Bosnia! Giusto per rimanere in tema “critiche costruttive”, è fiero di aver sguinzagliato un esercito contro dei contadini indifesi…?»
«Roman» lo interruppe Salomé, con voce esausta. «Ti prego, non stasera. Ho mal di testa e vorrei coricarmi.»
Il visconte continuò a fissare torvo Solomon, ma disse: «Immagino che con uomini come lei non valga neanche la pena discutere. Le auguro una notte priva di incubi, ambasciatore.»
Offrì il braccio alla donna e gli voltò le spalle, ma prima di congedarsi, lei disse: «Sua moglie non sa che lo zaffiro che le ha regalato non è un cimelio di famiglia, vero?»
Solomon inarcò le sopracciglia. «Prego?»
«È un bottino di guerra» illustrò lei, di nuovo con quell’enigmatico sorriso sulle labbra. «Lo ha comprato da un mercenario a Costantinopoli: tipico di voi uomini pensare che una pietra luccicante possa lenire le sofferenze di una donna.»
Gli si avvicinò e aggiunse, in un sussurro: «Ma non le hanno detto che il gioiello fu maledetto molti secoli fa da una strega. Una di quelle vere, arrabbiate e potenti. Vede, ambasciatore, io non credo né negli dei, né negli uomini. Credo che ognuno di noi, presto o tardi, venga chiamato a giocare un ruolo in una partita ben più grande. Deve solo capire qual è il suo.»
E, assieme al suo accompagnatore, tornò a immergersi tra la folla.
Solomon restò immobile per un lungo istante e la guardò allontanarsi pensieroso. Decise che avrebbe indagato su quella donna in un secondo momento, di tornare anche lui alla festa e mettersi all’opera senza ulteriori perdite di tempo. Ma non appena ebbe messo piede nella sala, percepì una presenza incombente alle proprie spalle, assieme a una zaffata di abiti stantii, incenso e qualcos’altro di non proprio gradevole.
«Buonasera, conte.»
Era lo starets Rasputin, che lo fissava con la stessa voracità con cui un lupo punta un agnello.
«Buonasera a lei» replicò Solomon con un sorriso e un inchino. «Non credo che siamo stati ancora presentati…»
«Non è necessario» lo interruppe il monaco, con voce profonda, brusca e nasale. «Lei sa chi sono. E io presumo di sapere chi è lei. La vera domanda è: cos’è che cerca?»
«Come fa a sapere che cerco qualcosa?»
Il monaco si avvicinò e Solomon si sforzò di non arricciare il naso dal disgusto al suo fetore. «Tutti cercano qualcosa, ma in pochi osano spingersi oltre i propri limiti per ottenerla. Lei di quale genere di uomini fa parte?»
«Del genere a cui piace parlare chiaro» rispose Solomon, vagamente piccato. «Se ha qualcosa di interessante da mostrarmi, faccia in fretta. O la mia signora penserà che lei abbia indotto alla perversione anche me.»
Il monaco fece un cenno col capo alla sua destra, e solo allora Solomon notò la presenza di una porticina, camuffata a regola d’arte per confondersi coi ricchi decori barocchi della sala.
Il sorriso dello stregone si allargò. «Mi faccia strada, allora»
Il monaco scivolò tra la folla rumorosa come se all’improvviso fosse del tutto invisibile, e Solomon gli andò dietro, attirato dal pericolo come da una canzone.
Era la parte che preferiva del suo lavoro, che lo spronava a perdere tutto quel tempo dietro stupidi travestimenti e recite ogni volta che gli veniva assegnata una missione: il brivido della caccia.
Quella caccia, in particolare, prometteva di essere la cosa più eccitante che gli fosse capitata da molto tempo e aveva intenzione di assaporarla fino in fondo.
Perciò, quando il prete aprì il passaggio segreto e gli cedette il passo, contro ogni ragionevole buon senso, si gettò a capofitto verso l'ignoto .
 

[1] Friedrich von Szapáry: diplomatico di origine ungherese. Svolse un ruolo chiave durante la crisi di luglio del 1914.
[2] La Prospettiva Nevskij è la strada principale che attraversa San Pietroburgo.
[3]Starets: termine che si riferisce ai mistici cristiani ortodossi dotati di particolare carisma.
[4]Il principe ereditario Aleksej era malato di emofilia, condizione che rendeva i genitori estremamente protettivi e ansiosi nei suoi confronti.
  
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