Every breaking wave

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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** • Capitolo I ***
Capitolo 2: *** • Capitolo II ***
Capitolo 3: *** • Capitolo III ***
Capitolo 4: *** • Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** • Capitolo V ***
Capitolo 6: *** • Capitolo VI ***
Capitolo 7: *** • Capitolo VII ***
Capitolo 8: *** • Capitolo VIII ***
Capitolo 9: *** Capitolo IX ***



Capitolo 1
*** • Capitolo I ***





Every breaking wave



«Every breaking wave on the shore tells the next one there’ll be one more.»

  • Capitolo I


Nulla poteva paragonarsi ad un risveglio bucolico: gli uccellini che cantavano, il sole che infastidiva appena il volto del dormiente costringendolo ad aprire gli occhi, l’aria fresca che entrava nei polmoni ad ogni respiro – peccato che non si stesse svegliando così.
Duncan allungò la mano fino al comodino e afferrò di malagrazia il telefono che squillava all’impazzata. Sapeva con assoluta certezza che il giorno dopo un concerto non esistevano ragioni abbastanza valide da svegliarlo – a prescindere dall’orario.

«Dammi un valido motivo per non licenziarti.», sentenziò rivolto al suo agente, che non poté fare a meno di sbuffare contrariato.

«Perché, Duncan, anche questa volta mi toccherà tirarti fuori dai guai.»

«Non è un valido motivo.», gli rispose, e attaccò senza pensarci due volte, con la speranza di riuscire ad addormentarsi.

Tuttavia, come in effetti si aspettava, dopo pochi secondi il telefono riprese a squillare furiosamente; valutò per un instante l’ipotesi di rispondere, poi scosse la testa e lo lanciò direttamente dalla finestra, incurante delle possibili conseguenze – in fondo davvero non c’erano motivi per disturbarlo e magari, dopo una bella dormita, avrebbe anche valutato l’ipotesi di non sbarazzarsi del suo agente.

Era finalmente riuscito a trovare una posizione comoda, quando sentì bussare alla porta della sua camera d’albergo – doveva essere qualche sorta di buffonata, magari c’era una telecamera che riprendeva la sua irritazione per mancanza di sonno ed entro la fine della settimana sarebbe finito in qualcuno di quegli show preserali dove mostravano scherzi fatti alle celebrità.

«Che c’è?», domandò irritato rivolgendosi al cameriere.

«Mi scusi, signore», cominciò cautamente quello, «ma ci sarebbe un certo signor Smith che chiede con estrema urgenza di lei.»

Pensò di mandarlo al diavolo, o di far dire a John che andasse al diavolo o qualcosa del genere, ma doveva davvero esserci qualche sorta di problema – certo, nulla di tanto importante da svegliarlo, questo era ovvio.

«Sì, certo.», gli rispose con la voce ancora impastata di sonno, «Il tempo di vestirmi.», aggiunse, indicando i soli boxer con cui dormiva.

Cinque minuti e un caffè dopo, il suo agente stava ancora sbraitando cose incomprensibili dall’altro lato della cornetta – di tutto quel discorso, che certamente nella testa di qualcuno che aveva dormito più di tre ore aveva molto più senso, captò soltanto qualche parola: Ottawa Royal Palace, denuncia, distruzione, testa di cazzo, piranha e paparazzi, o qualcosa del genere.

«Quindi», borbottò non appena l’altro si fermò, «cosa dovrei fare, io

«Tornare a Toronto! Subito!», gli strillò in risposta.

Quello doveva essere uno scherzo, per forza. Nel pomeriggio sarebbe dovuto partire per qualche esotica località vacanziera dopo uno dei tour più lunghi che avesse mai fatto, pronto a godersi la bella vita e il meritato riposo. Non sarebbe tornato a Toronto nemmeno se l’avessero accusato di omicidio e minacciato di ributtarlo in gatta buia – figurarsi se l’avesse fatto per qualche denuncia ad opera di piranha, più o meno.

«Amico, non se ne parla.», scandì con precisione. «Sono sicuro che riuscirai a risolvere tutto, come sempre.», disse poi, cercando di sembrare quanto più ruffiano possibile.

Il suo – povero, ma mica tanto – agente aveva messo a tacere scandali ben peggiori senza necessitare la sua presenza – come quella volta che la sua ex disse in un’intervista che era incinta e che lui l’aveva lasciata per quel motivo, o quella volta in cui aveva fatto a botte con un paparazzo un po’ troppo insistente, o quella volta che era stato arrestato per possesso illecito di droga. Insomma, cosa poteva esserci di peggio del possesso illecito di droga?

«Certo che risolverò tutto, Duncan», gli rispose con stizza, «ma se non mostri almeno un po’ di interesse per la faccenda, cosa penseranno i tuoi fan? L’opinione pubblica ti farà a pezzi e…»

Era certo che i suoi fan – che lo apprezzavano soprattutto per le numerose infrazioni del codice civile – non lo avrebbero messo alla forca per qualche altra marachella, e l’opinione pubblica poteva anche mettersi in culo i pezzi in cui voleva ridurlo. Quindi decise di smettere di ascoltare e si dedicò alla brioche che era appena arrivata al tavolo, lanciando di tanto in tanto qualche occhiatina alla cameriera che si muoveva tra i tavoli – con un po’ di fortuna avrebbe ulteriormente addolcito la sua vacanza, a cui, chiaramente, non aveva ancora rinunciato.

Peccato che si fosse distratto un attimo di troppo: quando finalmente John Smith smise i blaterare, convinto di aver ormai la totale attenzione del suo cliente e gli chiese: «Quindi per te va bene?», ebbe la certezza che non avrebbe ricevuto un “no” come risposta – cosa che senz’altro sarebbe successa, se solo Duncan avesse ascoltato le sue parole. Però non lo aveva fatto e, certo che si richiedesse soltanto la sua autorizzazione a qualche mossa di tipo legale che gli avrebbe parato il di dietro, si limitò a grugnire un “sì”.

«Perfetto! Perfetto!» esclamò John, «C’è un aereo che parte tra mezz’ora, manderò un taxi per te. Entro le nove dovresti atterrare, giusto in tempo per incontrare il tuo avvocato. Sapevo che avresti capito!», disse infine, mantenendo il tono euforico usato un attimo prima.

Aereo? Atterrare? Avvocato? Doveva esserci un errore. «Senti, John, riguardo quello che ho detto prima…» tentò, ma era troppo tardi: aveva già attaccato. Il suo agente l’aveva fregato e non ci aveva pensato due volte. Adesso gli sarebbe toccato un lungo discorso con il primo avvocato da strapazzo che John fosse riuscito a trovare e soprattutto, gli sarebbe toccato partecipare ad ogni genere di talk show mai inserito nel palinsesto televisivo per discutere della sua innocenza – che poi, cos’è che aveva fatto?


***


La sveglia trillò e venne prontamente spenta.

«Gwen…», biascicò Courtney, combattendo il desiderio di chiudere le palpebre e riprendere a dormire, «quante volte ti ho detto di lasciarla squillare almeno un po’, prima di chiuderla? Così almeno mi sveglio…»

«Mai abbastanza.», sentenziò quasi brutalmente l’altra, riavvolgendosi tra le coperte.

Courtney aveva sempre saputo che mettere la sveglia vicino al letto di Gwen era stata una pessima idea – nel giro di tre anni ne aveva ricomprate come minimo dieci, ognuna delle quali era stata sistematicamente distrutta dalla violenza con cui l’amica la spegneva ogni mattina. Specie il lunedì. Soprattutto il lunedì.

«Che poi», borbottò, «non capisco perché anche tu non possa chiedere un giorno libero come tutti gli esseri umani.»

Courtney rise del suo commento e scosse la testa – non aveva un giorno libero perché non ne sentiva il bisogno. Necessitava di qualcosa che riempisse la sua vita, dopo aver messo fine numerosi flirt e una relazione altalenante con Scott che andava avanti da una decina di anni, e buttarsi completamente nel lavoro era l’unica cosa che l’aiutasse.


***


Lo studio legale Fleckman&Fleckman&Strauss&Cohen non era molto distante dal suo appartamento e soltanto un quarto d’ora dopo si ritrovò nell’ascensore che conduceva al ventiduesimo piano del grattacielo che ospitava la sua sede di lavoro – le era sempre piaciuta la tranquillità con cui riusciva a lavorare lì, l’ordine con cui erano disposte le scrivanie e la precisione con cui erano sistemati gli archivi. Le sembrava quasi che la pace che regnava lì potesse quasi trasferirsi nella sua vita privata.

Una voce la sottrasse ai suoi pensieri: «Courtney! Puntuale come sempre!», esclamò Edward Fleckman, invitandola ad entrare nel suo studio – i complimenti e il tono gentile non indicavano mai nulla di buono: c’era sicuramente qualche rogna che nessuno voleva e che lei avrebbe accettato per amor di patria. E di stipendio.

«Sai, oggi ti trovo in splendida forma! Stai andando in palestra?»

«No, Edward, sono troppo impegnata per andare anche in palestra…»

«Oh, ma certo! Sei sempre così dedita al lavoro, una vera ispirazione…»

Continuò a parlare a vanvera per un po’ e lei avrebbe davvero voluto sedersi a tavolino e lasciare che continuasse a commentare la sua professionalità o il modo impeccabile con cui era sempre vestita, ma si convinse di essere troppo matura per certe cose e preferì andare dritta al nocciolo della questione – inoltre sentiva dal modo in cui la guardava che stava per dirle qualcosa di scomodo.

«…hai tagliato i capelli?», domandò infine.

Quello era decisamente troppo.

«Fammi indovinare:», mormorò, massaggiandosi le tempie, «sono tutti molto, molto, molto impegnati e non c’è proprio nessuno che possa occuparsi di questo caso.»

«Quale caso?», chiese lui, cercando di sembrare quanto più innocente possibile, ma il suo patetico tentativo fu prontamente stroncato dall’occhiataccia che Courtney gli rivolse.

«Sì, okay, hai vinto.», ammise infine, alzando le mani. «Però davvero sei l’unica libera al momento.»

«Non sono libera», grugnì con stizza, «mi sto occupando del divorzio di Heather Wilson. E l’avvocato del signor Burromuerto è davvero un demonio. Bravissima, certo. Ma un demonio.» puntualizzò. «E poi, sono sicura che Lizzie sarà più che contenta di avere il suo primo caso per le mani!», commentò, soddisfatta di sé per essere riuscita a trovare tanto rapidamente una scappatoia.

«Ma non so se sia il caso…», balbettò Edward, cercando di uscire dall’angolo in cui lo aveva messo.

«Certo che lo è.» sentenziò sbrigativa, prendendo la sua valigetta e preparandosi a terminare la conversazione, «È intelligente, sveglia e ha appena terminato il tirocinio. Da qualche parte dovrà pur iniziare.»

Si alzò e varcò gloriosamente la porta – questa volta non sarebbe riuscito a convincerla. E poi, davvero, quella Emma che difendeva i diritti di Alejandro aveva affilato le armi ed era pronta a lasciare Heather in mutande, quando in realtà sarebbe dovuta essere lei a riservare quel trattamento ad Al, quindi tutte le sue energie dovevano essere indirizzate verso quel caso.

«Ma la pressione mediatica?», chiese Edward e lei si bloccò a metà strada – il suo primo caso a grande impatto mediatico era arrivato quando già aveva qualche anno di esperienza, eppure l’aveva quasi distrutta. Non avrebbe permesso che quella povera ragazza passasse quello che aveva passato lei. Fregata.

Emise un verso arrabbiato e ritornò sui suoi passi, maledicendo mentalmente quel suo eccesso di pietà – in fondo, avrebbe anche potuto lasciare che Lizzie se la sbrigasse da sola e che imparasse sin da subito a tenere a bada paparazzi e capricciose stelline dello spettacolo.

«Mi auguro almeno», ringhiò, «che sia qualcosa di semplice risoluzione.»

«Oh, sì, certo!» esclamò Fleckman, raggiante per la vittoria appena ottenuta. «Più o meno», sussurrò poi a mezza voce, pregando che lei non lo sentisse.

Così comincio a raccontarle di come ci fosse questa rockstar che aveva distrutto alcune tra le più lussuose camere dell’Ottawa Royal Palace e di come aveva poi lasciato l’albergo senza battere ciglio, incurante dei danni da diversi milioni che si era lasciato alle spalle e di quanti pezzi di antiquariato insostituibili fossero andati ormai persi – da vero appassionato di mobili antichi si dilungò sul prezzo effettivo di ogni singolo cassettone, sull’età di ogni singolo armadio, sul pregiatissimo legno di cui era fatto ogni singolo letto. Fu un racconto per lo più soporifero e quasi del tutto privo di attinenza al caso, cosa che invece divenne nel momento in cui raccontò dei toni furiosi e minacciosi con cui il direttore dell’hotel aveva chiamato l’agente della rockstar in questione non essendo riuscito in alcun modo a contattarla personalmente.

«Non potevano risolvere alla vecchia maniera? Sai, della serie “Io non ti denuncio, tu mi rimborsi per i danni e blablabla”.»

«Mi hanno detto che è stata una questione di principio.», le rispose bonariamente Edward, nascondendo un sorriso.

«Pft.», brontolò Courtney, «non ci sono principi che i soldi non possano vincere.»

«Dicono che non sia la prima volta che questo increscioso incidente si verifica.»

«Mh, recidivo. Che bello.», commentò ironicamente. «Che poi, ancora non mi hai detto chi sia il colpevole. Perché tanto mistero?»

Fleckman, chiaramente a disagio, si allentò il nodo della cravatta e si limitò a passarle il fascicolo, dove campeggiavano nome e cognome del turbolento musicista – Duncan Nelson.
“Oh”, pensò lei, “non esiste”.

«Tu!», esclamò furiosa, puntando il dito contro il suo interlocutore.

«Io…», le rispose, cercando di dissimulare la consapevolezza di quello che stava per accadere.

«Non se ne parla!», strillò, alzandosi in piedi per dare forza alla sua affermazione, «Non sprecherò un solo istante della mia vita per difendere quello scellerato!» ruggì, e in quel momento sembrava davvero una leonessa pronta a divorare chiunque le avesse dato torto.

Doveva essere uno scherzo, per forza. Nessun essere con un briciolo di sanità mentale le avrebbe mai affidato la difesa di Duncan – al massimo, sarebbe stata più che entusiasta di collaborare con gli avvocati dell’accusa. Edward non solo le aveva fatto perdere quasi mezz’ora per spiegarle i dettagli di un caso che non avrebbe mai – mai – accettato, ma le aveva anche, potenzialmente, rovinato la giornata.

«Andiamo, Courtney! Pensaci! Non ci sarà giornale che non parlerà di questo caso, e se dovessi vincerlo – cosa di cui sono sicuro – la tua fama aumenterebbe a dismisura! Non ti tenta nemmeno un po’, la gloria?»

Ovvio che la gloria la tentava – più di quanto le piacesse ammettere. Indubbiamente, sarebbe stata capace di sopportare l’idea di lavorare per quel cretino pur di raggiungere il suo obiettivo –, tuttavia, non voleva dimostrarsi così debole e facilmente manipolabile.

«Mettiamo il caso che accetti», disse con tono di sfida, «potrei avere una settimana in più di vacanze, quest’estate?»

«Sai che il numero di separazioni in estate incrementa spaventosamente?»

«Sì, lo so. Sai che Duncan ha baciato la mia migliore amica in mondovisione, umiliandomi in mondovisione

All’altro non rimase che una resa dignitosa: «E va bene.», sbuffò infine.

«Perfetto! E voglio anche il lunedì libero», aggiunse, ricordando la conversione avuta con Gwen poche ore prima.

«Sono sicuro che Lizzie sarà contentissima di avere questo caso.», affermò lui, cercando di farle capire che forse non era il caso di tirare troppo la corda – eppure bastò che la ragazza alzasse sarcasticamente un sopracciglio per ottenere anche quell’ulteriore concessione.

«Splendido!», esclamò, battendo le mani per sottolineare la contentezza. «Tra quanto dovrebbero arrivare?», chiese poi, ricordando dell’appuntamento che aveva alle undici.
Fleckman guardò pensieroso l’orologio e mormorò: «Dieci minuti, più o meno.»


***


Intrappolato tra un bambino capriccioso, incapace di stare fermo per più di due minuti e una vecchietta sorda che strillava alle hostess di ripetere più forte qualunque cosa stessero dicendo: quella appena trascorsa era stata decisamente una delle ore peggiori della sua vita – perché, ovviamente, con così poco preavviso John era riuscito a trovare dei posti liberi soltanto nella classe economica, costringendolo inoltre, per non essere riconosciuto, ad indossare un berretto che nascondeva sgraziatamente la cresta verde e degli occhiali da sole enormi e orrendi.

Inoltre, erano venuti a prenderlo con un’anonima utilitaria grigia – “per seminare i paparazzi in incognito”, avrebbe poi spiegato John, che non era stato molto contento della perplessità del suo cliente al momento dell’atterraggio. Quando lo aveva trovato all’uscita dell’aeroporto, aveva cominciato a strillare furioso delle cose assurde su vecchiette sorde e vacanze annullate – sembrava sull’orlo di una crisi di nervi – e sul fatto che non avesse effettivamente alcuna idea sul motivo della sua rapida convocazione.

Lungo il tragitto verso casa dovette sorbirsi di nuovo il racconto ascoltato con distrazione a prima mattina, restando comunque dell’opinione che non era poi qualcosa di così grave.

«Bah, che sarà mai! La festa è semplicemente degenerata, pagherò i danni e blablabla…»

Il karma aveva evidentemente un conto in sospeso con John Smith, che fu costretto – per l’ennesima volta in quella giornata – a spiegare la situazione.

«…quindi ho dovuto assumere un avvocato.», terminò, lanciando un’occhiata in tralice al suo cliente.

«Mh. Chi?», chiese con aria distratta.

«Non ne ho idea, ma lo studio è quello di Fleckman&Fleckman&Strauss&Cohen.», gli ripose.

Duncan sentì una strana – fastidiosa – sensazione alla bocca dello stomaco, che tuttavia non seppe riconoscere. Borbottò qualcosa sul fatto di aver già sentito quel nome e si risistemò a disagio sul sedile. La sensazione svanì e continuò tranquillo il viaggio.

Passarono l’ultima curva che li separava dalla destinazione – Duncan riusciva già a sentire il tepore della doccia che non aveva avuto il tempo di fare quella mattina – quando apparve di fronte ai loro occhi l’orribile immagine di decine di paparazzi riuniti in gruppo sotto l’ingresso di casa sua.

«Deve essere un incubo…», brontolò irritato, «Non avevi detto che c’era bisogno di non farlo sapere alla stampa?», ringhiò verso il suo agente.

L’altro aveva preso la saggia decisione di ignorarlo e di ordinare immediatamente all’autista di portarli nel suo appartamento fuori città.

«Sono trenta minuti di viaggio, John! Più altri cinquanta al ritorno! Non ho alcuna intenzione di restarmene ancora chiuso in questa scatola!», protestò Duncan, che già pensava di farsi strada a suon i calci e pugni fino all’ingresso – nessuno dei due stava pensavo che avrebbero fatto un ritardo colossale all’appuntamento con l’avvocato.


***


«Un’ora, Edward, un’ora! Sono in ritardo di un’ora! Oh, ma se pensa di potersi comportare così con me – con me! – si sbaglia di grosso!», sbraitò Courtney nell’ufficio del suo collega, «E tra poco dovrebbe pure arrivare Heather…», aggiunse sconsolata.

Nel momento in cui quello scemo avrebbe messo piede nel suo ufficio, gli avrebbe fatto a pezzi quella brutta cresta verde che non le era mai piaciuta, poi lo avrebbe preso a calci fino ad accompagnarlo alla finestra più vicina, dalla quale poi lo avrebbe spinto – non si può intentare causa contro un uomo morto. Era furiosa – furiosa era riduttivo, schiumava letteralmente di rabbia. Era quasi disposta a rinunciare a tutto: alla settimana in più di vacanze, al lunedì libero, alla gloria, a tutto, pur di liberarsi di quel caso.

Un atteggiamento del genere non era accettabile: poteva comportarsi da viziata stella del rock con chiunque volesse, ma non con lei – se Heather fosse arrivata prima di lui, cosa in cui sperava fortemente, lo avrebbe fatto aspettare e lo avrebbe lasciato con un palmo di naso. Se poi il suo colloquio con Heather si fosse protratto fino alla pausa pranzo, altra cosa in cui sperava fortemente, Duncan avrebbe dovuto attendere quasi tre ore. Così imparava ad arrivare in ritardo.

Riconobbe quella sensazione alla bocca dello stomaco che provava tutte le volte che la faceva arrabbiare e si impensierì. Non vedeva Duncan da quell’ultima, strampalata edizione del reality, aveva completamente chiuso con lui e sperava fosse una pagina della sua vita che non avrebbe mai dovuto rileggere – tuttavia, sembrava destinata a non potersi liberare di quell’essere in nessun modo.

Il povero Edward Fleckman, dal canto suo, non poteva fare altro che darle dei leggeri colpetti sulla spalla.

Erano le dieci e mezza, Heather sarebbe dovuta arrivare alle undici – in quel momento, però, contava sulla brutta abitudine di Heather ad arrivare con dieci minuti d’anticipo soltanto per il gusto d’accusare altri d’essere in ritardo.

Aveva lasciato l’ufficio di Edward – che aveva un’espressione più che sollevata all’idea di poter finalmente lavorare in pace – per raggiungere il proprio e adesso marciava incessantemente, lanciando continui sguardi all’orologio.

Dieci e trentacinque, undici meno venti, undici meno un quarto, undici meno dieci, undici meno cinque.

Sebbene si sentisse tradita da Heather, che aveva scelto il giorno sbagliato per rinunciare alle sue manie di protagonismo, era ormai convinta che Duncan avrebbe fatto un ritardo colossale – o, meglio ancora, per quel giorno non si sarebbe proprio presentato.

Non ebbe nemmeno il tempo di formulare quel pensiero che sentì le porte dell’ascensore che si aprivano. Lanciò rapidamente uno sguardo al soffitto e giunse le mani: «Ti prego», sussurrò a mezza voce, «ti prego, ti prego, ti prego, fa’ che sia Heather.»

Tuttavia, le sue preghiere vennero ignorate. Infatti, non sentì la voce trillante di Lizzie che accoglieva un’accigliata signora Wilson, bensì sentì Edward – traditore! – che accoglieva il signor Nelson e il signor Smith. Contemplò per un glorioso istante l’idea di chiudersi a chiave e lasciare il palazzo attraverso le scale antincendio, poi però pensò alla settimana di ferie in più, al lunedì libero e alla gloria e prese un respiro profondo – avrebbe mascherato l’indignazione e il desiderio di prenderlo a pugni, e avrebbe trovato un modo molto raffinato per fargli pagare quel primo affronto.

Sentendo che Edward blaterava ancora sulla sua estrema affidabilità, aprì appena la porta del proprio ufficio, così da poter sbirciare fuori: Duncan sarebbe potuto sembrare pressappoco identico al ragazzo che aveva conosciuto anni prima, se non fosse stato per quel cipiglio antipatico e scocciato che aveva stampato in volto – brutto scemo che non era altro. Non potendo rimandare ancora di molto quello spiacevole incontro, decise di tagliare la testa al toro e fare il primo passo: superò l’ingresso del suo ufficio e probabilmente si sarebbe diretta verso loro con la furia di una valchiria, se Edward non l’avesse chiamata con tanto entusiasmo.

«Courtney! Stavamo parlando proprio di te!», esclamò, avvicinandosi a lei e sospingendola con leggera insistenza e malcelata preoccupazione verso i suoi futuri clienti.

Lei gli lanciò un’occhiataccia e Duncan sollevò un sopracciglio in segno di disappunto – Courtney notò come stesse cercando di nascondere il desiderio di voltarsi e scappare nell’ascensore al solo pensiero della loro collaborazione potenzialmente disastrosa.

«Signori, permettetemi di presentarvi Courtney Barlow, il migliore avvocato che avremmo potuto offrirvi!»

Mentre Duncan accoglieva la presentazione con un grugnito, John Smith le strinse calorosamente la mano, aggiungendo: «Signorina Barlow, le parole del suo collega ci fanno ben sperare!»
Courtney non poté fare altro che sorridergli a disagio: «Il mio collega», affermò, lanciandogli un’altra occhiata in tralice, «deve ancora imparare a…», non riuscì a termine la frase, perché le porte dell’ascensore si aprirono e apparve Heather – non questo, pensò, non adesso!

Sperando di evitare che Duncan e Heather si accorgessero della reciproca presenza – e, soprattutto, sperando di impartire una lezione a quel delinquente –, si fiondò sulla ragazza.

«Heather!», esclamò, bloccando a visuale che l’altra aveva dell’ingresso – tuttavia, Heather era sempre stata più altra di lei, quindi il suo non sembrò altro che un patetico tentativo di nascondere qualcosa, cosa che, in effetti, era.

«Duncan?», chiese l’altra, alzando un sopracciglio.

«Courtney?», rispose invece lui, indicando Heather e chiedendo cosa ci facesse lì.

Non le restò che alzare gli occhi al cielo e borbottare che fosse davvero una cosa ridicola. Poi si rivolse a Duncan e al signor Smith mentre trascinava Heather verso il suo ufficio: «Mi dispiace, ma la signora Wilson…»

«Quasi signorina», proruppe ferocemente l’altra.

«Be’, la quasi signorina Wilson aveva un appuntamento alle undici ed è stata più che puntuale – cosa che non si può dire di voi – e dobbiamo discutere di cose importantissime per il nostro caso. Quindi vi toccherà attendere.»

Edward e Duncan esclamarono all’unisono: «Courtney!», il primo scandalizzato e il secondo palesemente irritato, mentre John Smith li seguì con un: «Signorina Barlow!», che sembrava più che altro una preghiera desolata.

Heather, dal canto suo, si fermò un istante sull’uscio dell’ufficio di Courtney e fece una linguaccia a tutti e tre.


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Note dell’Autrice:
Salve a tutti!
Se siete giunti fino alle note, spero davvero che il capitolo vi sia piaciuto!
Questa long-fic segna un po’ il mio ritorno nel fandom, dopo averlo abbandonato per più di due anni – quindi potrei essere parecchio arrugginita u.u
La storia, come già specificato nel capitolo, è ambientata all’incirca una decina d’anni dopo l’ultima edizione del reality – non ho specificato quale perché non si sa mai (e la speranza è l’ultima a morire), ma indicativamente si fa riferimento ad All-Stars.
Per alcune altre cose che potrebbero non essere chiare, non preoccupatevi, si spiegherà tutto nel corso dei capitoli!
Non credo di aver altro da aggiungere, se non che son abbastanza fiduciosa per questa storia e quindi credo di riuscire ad aggiornare ogni settimana (se mai qualcuno fosse interessato xD).
A presto!
Fede

(La canzone che ispira la storia è “Every breaking wave”, degli U2.)

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Capitolo 2
*** • Capitolo II ***



NdA: Salve a tutti! Prima di lasciarvi al capitolo, volevo sinceramente ringraziare coloro che hanno letto/recensito/messo tra le preferite/ricordate/seguite la mia storia, perché mi sono davvero sentita motivata a continuare a scrivere, e considerando che vengo da un periodo di crisi d’ispirazione, per me è stato importantissimo!
Fede ♥
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«Summer I was fearless.»
 
  • Capitolo II
 
«Era proprio necessario?», domandò Courtney a Heather, mentre la faceva accomodare sulla poltroncina di fronte alla sua.
L’altra emise un versetto di superiorità e cambiò argomento – quasi –: «Duncan? Davvero?», chiese, e con quel “davvero” Courtney pensò che le stesse implicitamente dicendo che fosse davvero caduta in basso – be’, lei era caduta in basso. Non disponibile però a cederle tanto facilmente la vittoria, le rispose per le rime: «Il divorzio? Di nuovo
Heather roteò gli occhi e tacque, segno che le aveva concesso il punto – Heather 1, Courtney 1.
Poi entrambe si guardarono e scoppiarono a ridere – Courtney abbandonò il suo posto dietro la scrivania e si sedette accanto a lei. Dopo tutto, si conoscevano da molto tempo, col passare degli anni la rivalità tra loro era scemata ed erano quasi diventate amiche. Quasi.
«Allora», cominciò Heather, ridendo sotto i baffi, «quali sono le cose importantissime per il nostro caso di cui dobbiamo discutere
«Dimmelo tu, quasi signorina Wilson!», disse Courtney scimmiottandola.
Avendo notato l’immediato incupimento di Heather, comprese che Alejandro doveva aver fatto qualcosa – qualcos’altro, s’intende. Sospirando, si alzò e le mise in braccio un cestino, passandole di volta in volta fogli inutilizzabili che venivano prontamente fatti a pezzetti.
«Quel viscido, subdolo, maledetto idiota! Lo sapevo, io, che sarebbe dovuto restare in quel robot, che sarebbe stato meglio per tutti – sarebbe stato meglio per me! – se non fosse mai riuscito ad uscire!».
Courtney non le rispose e si limitò a passarle un altro foglio – fortuna che la carta andava buttata proprio quel giorno.
«Ha provato a scusarsi, se sai cosa intendo. Un biglietto scritto distrattamente e una scatola di cioccolatini possono funzionare una volta – forse due, in caso di moglie particolarmente saggia e accondiscendente», qui il suo tono cambiò, tanto per far notare che lei era una moglie saggia e accondiscendente, «ma non tre!», sentenziò infine.
Altro foglio. «Questo è lo spirito!», commentò Courtney. Altro foglio.
In realtà, Courtney sapeva che non avrebbero divorziato nemmeno in quell’occasione – la prima volta, Alejandro l’aveva trascinata in tribunale accusandola di trascurarlo eccessivamente. La seconda, ci erano andati insieme eppure non avevano combinato nulla. Si chiedeva perché la terza dovesse essere quella buona.
«Quell’essere…», si fermò. Altro foglio. «Quell’essere me la pagherà cara, se crede di potermi trattare così! Oh, ma io gliela farò pagare, oppure non mi chiamo più Heather Wilson!»
«In realtà», cominciò Courtney titubante, «sarebbe Heather Burromuerto.»
«Mh.», sbuffò l’altra.
Male. Molto male. Iniziava sempre così.
«Heather…», la richiamò Courtney con tono di rimprovero.
«Sì?», le rispose acidamente.
«Non hai mangiato i cioccolatini, vero?», chiese con aria di minaccia.
«No!», disse immediatamente l’altra. Poi arrossì. «Forse.», si corresse, tentando di nascondere la propria colpevolezza. Courtney le lanciò un’occhiataccia. «Che c’è?», sbottò l’altra. «Sarà pure un viscido, subdolo, maledetto idiota, ma conosce bene i miei gusti.»
Ah, be’, ecco l’inizio della fine.
A quel punto avrebbe dovuto mandarla fuori a calci, chiamare il giudice e dirgli che la sua assistita ritirava la richiesta di separazione – ma era passata solo mezz’ora e aveva bisogno di trattenerla fino alle dodici e trenta. Un’ora intera. Represse il desiderio di passarsi una mano sul volto e provò a salvare il salvabile.
«Niente più cioccolatini!», affermò con decisione. Allo sguardo ironico di Heather, decise di passare alle maniere forti. «Secondo me te li ha mandati solo per poterti rinfacciare che sei ingrassata…», buttò lì, spiando con la coda dell’occhio la sua reazione.
Da lì in poi dovette semplicemente assistere a una crisi isterica di quelle forti: le passò tutti i fogli che le restavano, ascoltò cose irripetibili e si sentì quasi in colpa per quello che avrebbe dovuto passare Alejandro la prossima volta che avrebbe incontrato sua moglie.
«Oh, ma glieli manderò io i cioccolatini, al cianuro però!», pronunciando quella frase Heather strillò così forte che Edward Fleckman ebbe il coraggio di bussare e chiedere se andasse tutto bene.
«Oh», rispose Courtney piazzandosi di fronte allo spiraglio della porta appena aperta per impedirgli di scorgere quanto accedeva nella stanza, «niente che non si possa risolvere con un po’ di camomilla…»
«Perfetto, perfetto!», esclamò lui, cercando disperatamente di aprire un po’ di più la porta, «perché allora mentre io mi occupo della signora Wilson…» – fu interrotto da Heather, che sbraitò: «Quasi signorina!» – «Be’, sì, quello. Dicevo, mentre io mi occupo della situazione, perché tu non accogli finalmente i nostri clienti?»
Lei gli rivolse uno sguardo scocciato.
«Il signor Nelson minaccia di andare in un altro studio!», aggiunse sottovoce, come se fosse una cosa della gravità assoluta. Courtney si sporse oltre la spalla di Edward per guardare Duncan e lo sorprese a fissarla con espressione accigliata – il solo fatto che la fissasse, con qualunque espressione, la metteva a disagio – e gli rispose con una smorfia. Poi sfoderò un gran sorriso e disse a Fleckman: «Non lo farà.»
E gli chiuse la porta in faccia.
Nel frattempo Heather si era calmata e la guardò con curiosità, come se non riuscisse a capire cosa le stesse dando tanto fastidio – quando il suo volto si distese in un ghigno divertito, capì che aveva collegato tutto a Duncan.
«È quasi ora di pranzo.», disse a Courtney, «suppongo che dovrei andarmene per lasciarti lavorare…»
«Ma?»
«Ma chiaramente l’idea di dover parlare con Duncan ti scombussola e non sei psicologicamente pronta, in più l’idea di farlo aspettare ancora un’ora è così crudelmente deliziosa che non posso fare a meno di darti una mano!»
Si scambiarono un sorriso complice e attesero i cinque minuti che le separavano dalla pausa pranzo, poi presero i cappotti e uscirono.
«Finalmente!», ruggì Duncan, furioso. «Aspetto da un’ora e mezza che finiate di confabulare e strillare e qualunque altra cosa abbiate fatto lì dentro!» aggiunse, indicando la porta del suo ufficio per enfatizzare la propria affermazione – era proprio incazzato nero, che bellezza!
«Be’, quando finalmente ti riceverò nel mio studio, avrai aspettato due ore e mezza.»
Duncan la guardò confuso.
«I diritti sindacali, scemo!», esclamò Heather. Poi, vedendo che continuava a non recepire il messaggio, aggiunse con una smorfia: «La pausa pranzo.»
E Duncan capì – e si fece tutto rosso e cominciò a sbraitare che no, non ci sarebbe stata nessuna pausa pranzo perché lui quella mattina aveva a stento fatto colazione e aveva rinunciato alla sua vacanza e aggiunse qualcosa sulle vecchiette sorde. E poi riprese a fare scenate chiedendo dove fossero i suoi di diritti sindacali. Courtney fece spallucce e gli propose di andarli a cercare.
In quel momento John Smith ritenne che fosse il caso di proporre una soluzione pacificatrice: «E se andassimo a pranzo insieme?»
Heather accolse la sua idea con un’altra smorfia e un verso scocciato: «Certo», disse ironicamente, «pochi giorni fa ha aperto un ristorante thai all’angolo della strada.», intanto erano entrambe quasi in ascensore.
Duncan rabbrividì al solo pensiero e disse tra i denti al suo agente: «Non se ne parla.»
«Perfetto!», dichiarò Courtney, premendo il pulsante del piano terra.
«Ma…», protestò l’agente debolmente. Heather gli sorrise e gli fece l’occhiolino.
L’ultima cosa che le due videro prima che si chiudessero le ante fu John Smith diventare rosso come un peperone, poi si diedero il cinque.
 
***
 
«Non hai idea di quello che è successo, Gwen!», disse Courtney, quasi sottovoce per evitare di disturbare gli altri clienti del ristorante. Heather continuava a ridere sottecchi mentre sfogliava il menù.
Cominciò a raccontarle tutto quello che era successo quella mattina, dai ruffiani complimenti di Fleckman, alla settimana in più di vacanze, al lunedì libero e alla gloria, al ritardo di Duncan, a come lo avesse lasciato aspettare per un’ora e mezza o dueuna parte di lei desiderava fortemente di non trovarlo al ritorno. Un’altra però era consapevole che lui avesse preso sul personale la lunghissima attesa che gli aveva imposto e sapeva che probabilmente l’avrebbe trovato il mattino dopo se lo avesse lasciato aspettare tutta la notte.
«Be’», commentò Gwen dall’altro lato della cornetta, «è inaspettato. Potrebbero succedere delle cose divertenti!», aggiunse.
«Mh…», borbottò, «potrei appenderlo alla finestra e lasciarlo lì. Quello sarebbe divertente.»
Vide Heather voltarsi quasi completamente per evitare di riderle in faccia.
«Scusa un attimo, Gwen.», coprì il microfono per impedirle di sentire, e sussurrò stizzita all’altra: «Che ci trovi da ridere?»
Tutto ciò che ebbe in risposta fu un gesto della mano che sembrava voler scacciare via un moscerino – o le sue parole.
Alzò gli occhi al cielo e tornò a parlare con Gwen, che si dilungò con varie battutine – Courtney sapeva che si era resa conto della situazione, e che stava ironizzando semplicemente per non fargliela pesare inutilmente.
«Ah!», esclamò l’amica infine, «potresti mandare un messaggio a Trent, per invitarlo a cena stasera? Io lo farei, ma ho esaurito la promozione…»
«…e dato che è il tuo giorno libero non uscirai e non potrai riattivarla.», terminò al posto suo con un sorriso, poi chiese: «Chiamarlo no, eh?»
«Non vorrei disturbarlo, è così impegnato con le prove…», si giustificò in un sussurro.
Heather scosse la testa e sillabò la parola “approfittatrice”. Courtney la ignorò.
«Non preoccuparti, ci penso io.»
Si salutarono affettuosamente e terminarono la conversazione.
Per il resto del pranzo lei e Heather non toccarono più l’argomento Duncan, tantomeno quello Alejandro, limitando di molto il dialogo – finirono col parlare di smalti e rossetti, come due adolescenti.
 
***
 
Duncan, seduto sui comodi divani d’attesa all’ingresso dello studio legale, non trovava pace. Avrebbe dovuto andarsene, cercare un avvocato che volesse davvero aiutarlo e tirarlo fuori dai guai, e non accontentarsi di quella stronza psicopatica che probabilmente avrebbe preso accordi con l’accusa per assicurarsi che ricevesse la pena massima – che poi, avrebbe passato dentro un paio di mesi, al massimo.
Si sarebbe aspettato che desse di matto per l’irragionevole ritardo con cui si erano presentati – irragionevole, ma mica tanto – invece era già passata a sciocche ripicche infantili, appoggiata da Heather. Represse un brivido. Se quella schizzata gli avesse permesso di spiegarsi, di certo non avrebbe reagito così. Forse. Comunque aveva deciso che non gliel’avrebbe data vinta e non si sarebbe piegato al suo gioco. Se era convinta che avrebbe aspettato il suo ritorno come un cucciolo bastonato, be’, aveva sbagliato i suoi calcoli.
«Fleckman, quando finisce la pausa pranzo della paz… di Courtney?», gli chiese. Edward Fleckman, quello strano tipo che non aveva potuto accettare il caso pur avendo un sacco di tempo da perdere, si sporse dal suo ufficio e fece spallucce. «Possiamo chiamarla», propose. Duncan annuì e guardò di soppiatto John, che sonnecchiava su una delle poltroncine.
«Courtney? Sì, ciao. Senti, tra quando dovresti tornare? Tra mezz’ora? Bene!», fece segno a Duncan che cominciò a ridacchiare. «Come? Perché lo voglio sapere?», Fleckman fece una pausa e cominciò a guardarsi intorno in cerca di una scusa. «Sai, curiosità… non vorrei che i tuoi clienti aspettassero troppo…», altra pausa. Sguardo imbarazzato. «Il signor Nelson? No, non ha niente in mente…», altra pausa, durante la quale Duncan sentì soltanto urla sconnesse. «Sì, sì, ho capito, glielo dirò. Non c’è bisogno che strilli così!», ennesima pausa, altre urla sconnesse. «Certo che sono dalla tua parte!», Duncan rise, «No, Courtney, quello non era il signor Nelson che rideva. Va bene, sì, va bene. Ho detto che ho capito! Sì, a dopo, ciao.»
Quando quella telefonata terminò, Edward tentò di ricomporsi e di non sembrare una povera bestiolina maltratta.
«Courtney mi ha gentilmente chiesto di dirle che se non la troverà qui nell’esatto momento in cui tornerà dalla pausa pranzo la appenderà davvero alla finestra – aveva mai minacciato di appenderla alla finestra? – e la lascerà lì finché le sue mutande non cederanno e le faranno fare un imbarazzante e probabilmente mortale volo dal ventiduesimo piano. Ha anche aggiunto che nel fortunato caso in cui dovesse sopravvivere dovrà trovarsi un avvocato migliore di lei.»
Duncan rise sarcasticamente. «Ha detto proprio così?», chiese.
«Quasi.», rispose Fleckman.
Fece spallucce e disse di controllare di tanto in tanto il suo agente, e, nel caso in cui si fosse svegliato, di impedirgli di andarlo a cercare. Poi si voltò e se ne andò.
Ovviamente, sarebbe tornato prima che Courtney o John potessero anche solo sospettare della sua momentanea fuga – avrebbe cercato il McDonald’s più vicino, avrebbe fatto il bagno di folla salutato e ammirato dai suoi fan, avrebbe creato un po’ di problemi ai giornalisti e sarebbe tornato all’ovile felice e contento. E magari sarebbe riuscito a sopportare quella donna folle.
In quell’occasione, nonostante gli avvertimenti di John di non farsi scoprire da nessuno, non cercò nemmeno di nascondersi – così i primi fan lo riconobbero appena uscì dal palazzo, ma nessuno si chiese perché fosse lì. Poi il loro schiamazzo attirò quanta più gente possibile e si creò uno strano corteo che lo accompagnò fino alla sua destinazione.
Erano quelle le piccole gioie della vita – incontrare gente che ti venerava, divertirsi alle spalle del proprio agente, riuscire ad ingannare il proprio avvocato. Anche se avrebbe preferito di gran lunga un qualunque avvocato diverso da Courtney, nonostante quel Fleckman l’avesse dipinta come quanto di meglio si potesse trovare. Era sicuro che da quella collaborazione non sarebbe nato nulla di buono – era anche abbastanza sicuro che lo avrebbe costretto a vivere chiuso in casa, se mai fosse riuscito a tornarci, e che avrebbe trovato centinaia di modi diversi per fargli pesare la prigionia. Perciò si godeva quell’ultima mezz’ora di libertà, pur contando i minuti che passavano – perché non avrebbe mai concesso a Courtney l’opportunità di rinfacciargli qualcos’altro.
Sarebbe stato un braccio di ferro continuo con lei, già lo sapeva: lo avrebbe esasperato e lo avrebbe fatto impazzire con quella sua irritabilità e la mania di strillare – certe cose non sarebbero mai cambiate. Si chiese quante altre cose di lei non fossero cambiate in quegli anni e si rese conto che ormai erano meno che estranei – eppure non ci avevano messo molto a trattarsi con la confidenza che avevano un tempo. Per la prima volta in quella giornata, Duncan ebbe paura di quello che sarebbe potuto succedere durante quella collaborazione. Poi ignorò quella sensazione e si dedicò al suo triplo cheeseburger, mentre il locale si riempiva di curiosi e all’esterno si sentiva un vociare frastornante.
Poi sentì il rumore delle macchine fotografiche e capì che la situazione era diventata potenzialmente rischiosa: si guardò intorno cercando un’altra uscita, ma appena alzò gli occhi si ritrovò circondato da fan che lo osservavano e realizzò di essere stato fregato dal suo stesso gioco. In fondo, però, era abituato a gestire i paparazzi, quindi cosa sarebbe potuto andare storto?
 
***
 
Quell’idiota, quello stupido! Gli aveva detto che non avrebbe dovuto lasciare l’edificio – in realtà lo aveva minacciato di farsi trovare nello studio nel momento in cui lei fosse tornata, ma il succo era quello. Invece non solo era uscito, non solo aveva attirato l’attenzione di qualunque essere umano nell’isolato, non solo aveva fatto accorrere i paparazzi, ma le aveva anche rubato l’ascensore. Come se non bastasse, le aveva pure fatto una boccaccia. Gliele avrebbe cantate non appena lo avesse raggiunto e gliene avrebbe dette così tante che l’avrebbe ridotto in totale obbedienza fino alla fine di quel caso.
Quando mise piede nell’ingresso fu certa che tutti avessero percepito la sua ira – Edward si rintanò nel suo ufficio, Lizzie corse dietro la sua scrivania, John Smith scattò in piedi come un soldatino. Duncan invece le rivolse uno sguardo strafottente e fece spallucce.
«Tu!», esclamò, indicandolo e marciando verso lui come una valchiria. Lo afferrò per la collottola e lo trascinò nel suo ufficio buttandolo dentro con la malagrazia, mentre lui borbottava che fosse una reazione esagerata. Gli lanciò uno sguardo al vetriolo e si rivolse al suo agente. «Signor Smith! Qui. Adesso.»
Il poveretto si alzò e corse a sedersi su una delle poltrone di fronte alla scrivania di Courtney – almeno, pensò lei, qualcuno che ubbidiva c’era.
Dopo che si richiuse la porta alle spalle con un tonfo li guardò minacciosamente – se Duncan pensava di potersi comportare come quando erano adolescenti e lei era disposta a perdonargli tutto, be’, si sbagliava. Non avrebbe ceduto tanto facilmente, anzi, non avrebbe ceduto affatto.
Poi iniziò a parlare: «Considerando che fossi disposta a perdonare il vostro ritardo…», scandì lentamente per aggiungere maggiore pathos al discorso che stava prendendo forma nella sua mente, ma fu interrotta da Duncan.
«Cosa che non avresti fatto.», le rivolse un altro sorriso strafottente e lei dovette reprimere a tutti i costi il desiderio di ucciderlo a mani nude – o anche solo di schiaffeggiarlo –, perché mostrarsi tanto irritabile al primo incontro non avrebbe affatto giovato alla sua reputazione di super avvocato preciso e affidabile. Alzò gli occhi al cielo – per l’ennesima volta in quella allucinante giornata – e disse tra i denti qualcosa che suonò molto come “sì, va bene, come dici tu”.
«Ciò non toglie», riprese irritata dopo aver raggiunto il suo posto, «che l’essere uscito nonostante te l’avessi categoricamente vietato non sia stata una buona idea.»
Al che tra loro cominciò una violenta discussione su fatto che lei non fosse nessuno per dargli ordini e sul fatto che lui non dovesse in alcun modo mancare di rispetto alla sua autorità. Courtney sapeva che di lì a poco il litigio avrebbe assunto una dimensione leggermente violenta: entrambi si erano alzati e lei aveva aggirato la scrivania per fronteggiarlo. Cominciarono ad insultarsi incuranti dell’impotente spettatore che c’era alle loro spalle e, nel momento in cui Duncan le disse che non ricordava che fosse così acida, non riuscì a trattenere lo schiaffo che aveva già pronto da quella mattina. Quello fu il culmine del battibecco, dopo il quale lei tornò soddisfatta al suo posto e lui si risedette massaggiandosi la guancia arrossata.
«Pazza psicopatica.», le disse, riservandole un’occhiata terribile.
«Solo con te.», gli rispose, e stavolta fu il suo turno di sfoderare un sorriso insolente.
«Suppongo», intervenne John Smith, «che adesso possiamo finalmente dedicarci al caso per cui siamo qui.»
«Certo!», trillò Courtney sorridente. Duncan grugnì qualcosa sulla sua potenziale sete assassina, ma fu ignorato.
 
***
 
Quella sorta di interrogatorio le stava causando l’orticaria – per riuscire a curare al meglio la difesa di quello scemo, avrebbe dovuto conoscere ogni particolare dell’accaduto, se solo Duncan avesse conosciuto qualcuno.
«Te l’ho già detto!», esclamò lui di fronte alla sua pressante insistenza, «ero ubriaco: non mi ricordo nulla.»
Aveva sillabato l’ultima parola per chiarirle il concetto, ma lei non poté trattenere un verso di stizza – avrebbe dovuto schiaffeggiarlo ancora, e poi ancora, e ancora, e ancora fino a fargli tornare la memoria. O un briciolo di intelligenza.
«Tu spiegami:», cominciò minacciosamente lei, «come posso difenderti in tribunale, se non ho alcun tipo di materiale a cui aggrapparmi?»
«Be’, sei tu l’avvocato, princip…», gli aveva allungato un calcio sotto al tavolo e gli aveva rivolto uno sguardo furente. «Non terminare quella frase.», scandì lentamente. Duncan roteò gli occhi e provò ad appoggiare i piedi sulla scrivania – allora, pensò Courtney, questo non ha capito niente.
«Stammi bene a sentire, brutto scemo: non ho intenzione di perdere l’intero pomeriggio facendoti domande di cui non conosci la risposta.», si era alzata e in quel momento torreggiava inviperita su di lui, «Quindi, per domani mattina, voglio una lista completa di tutti i presenti a questa tua festa, con annesso numero di telefono.»
Nel momento in cui Duncan provò ad obiettare qualcosa gli tirò giù le gambe dal tavolo e gli pestò violentemente un piede. «Sono stata chiara?», ruggì. «Cristallina.», le rispose.
«Bene!», esclamò. «Allora ci vediamo domani.», cacciò fuori l’agenda e controllò gli appuntamenti del giorno dopo – appuntamenti che non esistevano, dato che l’unico caso che stava seguendo era quello di Heather.
«Si può fare alle undici.», sentenziò verso di loro.
«E io non ho diritto di controllare la mia agenda?», le chiese irritato.
«Tu non hai un’agenda.», affermò John seccato. Poi guardò Courtney: «Ci saremo.», asserì sbrigativo.
«Ora», disse Courtney alzandosi, «fuori
«Con piacere!», ringhiò Duncan.
«In realtà, abbiamo un altro problema.», dichiarò John.
Entrambi lo guardarono: Courtney aveva l’aria di qualcuno che stava davvero per commettere un omicidio a mani nude, mentre Duncan era più che altro confuso.
«Affacciatevi.», ordinò lui e i due ragazzi si sporsero lievemente dalla finestra – la folla che Duncan si era portato dietro era stata moltiplicata, si erano aggiunti altri fotografi e anche troupe televisive di show di gossip.
«Tu!», ululò Courtney arrabbiata. «Ti avevo detto che uscire sarebbe stata una pessima idea, ti avevo espressamente ordinato di restare qui e attendere il mio ritorno, ma, ovviamente, dovevi fare di testa tua! Imbecille!»
«Io?», strepitò Duncan in risposta. «Vuoi forse dire che è stata colpa mia? Tu mi hai fatto sprecare un’intera mattina soltanto per dispetto!»
«Se non aveste fatto un’ora e mezza di ritardo, facendomi aspettare inutilmente, tutto questo non sarebbe successo!»
«Ragazzi…», John tentò di interromperli, ma nessuno dei due ci fece caso.
«C’erano paparazzi ovunque! Non sono stato svegliato stamattina alle sei e mezza – sei e mezza! –, non ho sopportato il volo aereo più squallido mai visto e non ho rinunciato alla mia splendida vacanza soltanto per sentire i tuoi capricci!»
«Oh, poveretto!», esclamò ironicamente lei, «Be’, io dovrò passare i prossimi mesi difendendo una causa già persa – rimettendoci probabilmente tutta la mia credibilità – soltanto per i tuoi capricci, quindi direi che siamo pari!»
«Ragazzi…»
«Pari? Pari? Noi non saremo mai pari!», sbraitò Duncan.
«Oh, questo puoi ben dirlo!», gridò lei in risposta e gli assestò un altro schiaffo.
«Ragazzi!», tuonò John in tono di rimprovero. Ruggirono in coro: «Che c’è?» e poi si guardarono in cagnesco.
«Strillarvi contro non farà magicamente sparire tutta quella gente», indicò la finestra e fece una pausa, «mi farà soltanto venire il mal di testa.»
Courtney era già sull’orlo della crisi isterica, e non era trascorso nemmeno un giorno – avrebbe mandato la parcella del suo psicanalista a Duncan e Edward.
«Quindi, cosa dovremmo fare?», chiese Duncan, nervoso quasi quanto lei.
«Be’… insomma… considerando che adesso probabilmente anche la casa fuori città sarà sotto assedio… ci sarebbe una sola soluzione…», farfugliò John in risposta e poi guardò Courtney speranzoso.
Naturalmente lei aveva già capito dove il signor Smith voleva arrivare ed emise un gridolino di terrore. «Cosa? Non se ne parla, no, no e poi no!», esclamò agghiacciata – non avrebbe nascosto Duncan a casa sua nemmeno per tutto l’oro del mondo. «Il massimo che posso concedervi», disse in tono di superiorità, «è che si accampi qui.»
«Mi spiegate di cosa diamine state parlando?», chiese Duncan spazientito.
«Vedi, Duncan, nonostante i paparazzi non avrebbero dovuto sapere niente di questa storia, ma hanno scoperto tutto lo stesso, meno informazioni riusciranno ad ottenere meglio sarà per tutti. Capirai perciò che non se ne parla di uscire dall’ingresso principale, né tantomeno di tornare a casa…»
Il ragazzo borbottò un cenno d’assenso e il suo agente continuò.
«…e considerando che in qualsiasi albergo saresti facilmente rintracciabile, come ultima possibilità non resta che appellarci alla gentilezza della signorina Barlow e chiederle di ospitarti, almeno per i primi tempi.»
Duncan gli lasciò appena il tempo di terminare la frase e poi lo investì con una serie di improperi – gli disse che non sarebbe andato mai a vivere sotto lo stesso tetto di quella squinternata, che probabilmente lo avrebbe ucciso nel sonno o gli avrebbe avvelenato il cibo, che non avrebbe permesso di uscire per nessun motivo e tante altre cose che si confusero tra le sue urla.
Edward Fleckman, che stava sentendo tutto nell’ufficio acconto a quello di Courtney, ringraziò qualche divinità per la rogna che era riuscito a scampare.
«È inutile che fai la primadonna, tanto ho già rifiutato.», lo ammonì lei, possibilmente offesa dalle sue parole. Probabilmente Duncan avrebbe riempito di improperi anche lei, per averlo definito una primadonna, ma John parlò prima che potesse combinare altri danni.
«Signorina Barlow, ci pensi:», disse John, tentando un’ultima arringa, «lasciare Duncan in giro, permettergli di interagire con tutti quei giornalisti, è forse una saggia idea? In fondo è stata proprio lei a dire che questo era un caso perso in partenza e non credo sia il caso di buttarsi la zappa sui piedi, giusto? Se decidesse di ospitarlo, riuscirebbe a tenerlo sotto controllo molto più facilmente…»
Courtney sembrò pensarci e Duncan iniziò a sudare freddo – se avesse accettato, avrebbe trovato il modo di renderle la vita impossibile e le avrebbe fatto rimpiangere di aver ascoltato il suo agente. Tentò di dire qualcosa per scoraggiarla, ma ormai le si leggeva negli occhi che nulla di quello che avrebbe potuto dire l’avrebbe smossa dalla sua decisione – la possibilità di controllarlo e comandarlo a bacchetta era stata per lei più invitante di qualunque altra conseguenza.
«E va bene», sospirò – come se quanto stesse per succedere le costasse un’immane fatica –, «accetto.»
 
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Note dell’autrice: Salve (di nuovo)!
Spero davvero che questo capitolo vi sia piaciuto – nonostante siamo parecchio lontani dal trattare Duncan e Courtney come coppia! Tuttavia, dopo questo plot-twist della convivenza forzata ne succederanno delle belle, ve lo assicuro.
Per quanto riguardo il rapporto Heather/Courtney/Gwen, sebbene adesso sembri nebuloso e poco chiaro, ho intenzione di dedicare alcune paragrafi all’argomento, cosa che farò anche per delineare meglio i vari personaggi secondari ed OC che ho sparso per la storia. Inoltre, pur essendo la storia ambientata molto dopo l’adolescenza dei protagonisti– quindi quando ormai il reality è un capitolo chiuso per tutti loro – vorrei riuscire a includere quanti più personaggi possibili, anche solo con riferimenti, perciò già dal prossimo capitolo vi ritroverete bombardati di nomi messi quasi a caso.
E sicuramente adesso vi sarete annoiati a morte e avrete smesso di leggere, perciò vi lascio e vi do appuntamento a domenica prossima per il terzo capitolo!
A presto,
Fede

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Capitolo 3
*** • Capitolo III ***



NdA: lo so, lo so, sono in un ritardo mostruoso! Due settimane e un giorno di ritardo, ma spero almeno che il capitolo vi piaccia! Spiegherò tutto nelle note finali! E risponderò il prima possibile alle recensioni!
Come al solito ringrazio tutti coloro che hanno recensito/letto/seguito la mia storia!
Buona lettura,
Fede ♥
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«Every sailor knows that the sea is a friend made enemy.»
 
  • Capitolo III
 
«Se mi spezzo una gamba per colpa vostra…», iniziò a dire Courtney, ma fu interrotta da Duncan: «Sì, sì, non vogliamo sapere le cose terribili che ci farai…»
Lì sulle scale antincendio, Courtney si lamentava continuamente – “E se cado?”, “E se mi faccio male?”, “E se i paparazzi ci scoprono lo stesso?”. Duncan sapeva che lo stava facendo soltanto per esasperarlo, e ci stava davvero riuscendo: se avesse sentito anche una sola altra parola che non avesse avuto un tono entusiasta, l’avrebbe spinta e le avrebbe risparmiato i restanti dodici piani.
«Duncan, probabilmente non ti preoccupi della tua eventuale dipartita, perché nessuno sentirebbe la tua mancanza – ma io sono importante! Qui c’è un disperato bisogno di me.»
Appena terminò la frase Duncan allungò una gamba e le fece uno sgambetto, costringendola a aggrapparsi al corrimano per evitare di cadere.
«Duncan!», strillò, un po’ inviperita e parecchio terrorizzata.
«Sì?», le rispose, ignorando palesemente quanto aveva appena fatto. A Courtney non restò che emettere un verso di stizza e arrivare quanto prima possibile al parcheggio – borbottando continuamente su come avrebbe potuto ucciderlo nel sonno e avvelenargli il cibo, facendo avverare tutte le sue paranoie.
«Andiamo, principessa, un po’ d’animo! Mi avrai come ospite a cena – e poi a colazione, a pranzo e ancora a cena per chi sa quanto tempo
Si aspettava che gli rivolgesse un’occhiata in tralice, che lo spingesse a sua volta, che lo prendesse di nuovo a schiaffi, ma si limitò a sbattersi una mano sulla fronte e a scrivere freneticamente sul telefono, ripetendosi che Gwen l’avrebbe uccisa.
«Uh, ci sarà anche Gwen?», le chiese – la situazione stava diventando interessante.
«Certo che ci sarà anche Gwen.», ruggì in risposta. Duncan guardò John e mimò con le mani una papera che parlava, sillabando un “qua qua qua” per non essere sentito.
Courtney, ignara dello spettacolo alle sue spalle, marciava imperterrita, sbattendo i piedi sugli scalini e facendo risuonare un clangore metallico. Dal momento che non si era resa conto della presa in giro, rimase in silenzio per il restante tragitto, concedendosi un sospiro di sollievo una volta arrivata a terra.
«E adesso?», domandò Duncan.
Courtney gli fece cenno di tacere mentre cercava un punto di riferimento – il parcheggio era immenso, e visto da quella nuova prospettiva sembrava ancora più grande. Tuttavia, piuttosto che ammettere di fronte a Duncan di essersi persa in un luogo che conosceva, avrebbe preferito farsi tagliare la lingua, perciò cominciò a muoversi in qualche ignota direzione pregando che il duo alle sue spalle la seguisse senza fare troppe storie – anche se, dopo il sesto tentativo andato a vuoto, era quasi sul punto di crollare. Essendo in procinto di confessare la propria incapacità, quasi esplose dalla contentezza nel momento in cui riconobbe la sua auto.
«Adesso, Duncan, sarei più che felice di ficcarti nel bagagliaio e lasciarti lì. Nonostante ciò mi sento buona e quindi dovrete soltanto nascondervi tra il sedili anteriori e posteriori.»
Di certo non sarebbe riuscita ad evitare quella massa di giornalisti che assediavano l’ingresso se i due non avessero accettato di non farsi vedere da nessuno. Duncan protestò lievemente, ma considerando l’insistenza della ragazza decise di fare come voleva lei – non voleva nemmeno immaginare cosa sarebbe potuto succedere durante la loro convivenza forzata, gliene avrebbe fatte vedere di tutti i colori.
 
***
 
«Be’, a questo punto, direi che posso anche andarmene.», sentenziò John e Courtney era sicura che Duncan avrebbe iniziato a piagnucolare a momenti.
«Ma, John, sei proprio sicuro che questo sia necessario? Insomma, adesso potrei anche tornare a casa, in fondo abbiamo evitato i giornalisti, no?», tentò il ragazzo, ma il suo agente gli diede  una pacca sulla spalla, gli sorrise sornione e si girò per chiamare un taxi.
«Cosa vi dice che non scapperò di qui?», disse ancora, al che Courtney lo afferrò per le orecchie e cominciò a trascinarlo nell’atrio del palazzo. «Ahia, ahia, ahia. Donna, non ho più sedici anni, potresti anche smetterla di trattarmi come ai vecchi tempi.»
«Infatti, Duncan», gli rispose seccata, «non hai sedici anni, ne hai quattro – quando va tutto bene
Sperava di essere riuscita a zittirlo, ma ovviamente lui trovava ogni volta un nuovo pretesto per parlare. «Abbiamo comunque un problema: tutte le mie cose sono a casa mia, quindi lì ci devo tornare per forza!»
Emise un verso di stizza e gli rivolse un’occhiataccia – praticamente non aveva fatto altro nelle ultime tre ore. «Smettila di comportarti come un bambino, John ha detto che ti farà avere l’indispensabile. Questa è una soluzione momentanea, quando le acque si saranno calmate sarò più che felice di sbatterti fuori da casa mia a calci nel sedere!»
Dopodiché arrivò l’ascensore e rimasero in silenzio mentre salivano i diversi piani – Courtney non sapeva se attribuire il silenzio di Duncan ad una tacita arresa, oppure alla tensione che si era creata tra loro.
Nel dubbio, avrebbe voluto dire qualcosa di acido o cattivo, giusto per testare la sua reazione, ma si rese conto che il suo comportamento in quella situazione non era stato affatto appropriato – arrivata alla soglia dei trent’anni, le era bastato rivederlo per riassumere l’atteggiamento di una ragazzina viziata e capricciosa. Sarebbe dovuta essere una donna affascinante e sicura di sé, matura e controllata, invece in quel momento dava l’idea di qualcuno che non era mai cresciuto. A malincuore, decise che da quel momento non avrebbe più assecondato Duncan, né tanto meno gli avrebbe dato filo da torcere: l’avrebbe semplicemente ignorato, e avrebbe collaborato con lui per amore di carriera. Era inutile perdersi in quel circolo vizioso dato dall’abitudine – battibeccavano perché era l’unico modo che conoscevano per comunicare, ma non era di certo il migliore.
«Gwen, sono tornata!», annunciò aprendo la porta, e l’amica la raggiunse mostrandole il vestito nero che stava indossando – lo stesso vestito nero che le aveva detto di non comprare l’ultima volta che erano andate a fare shopping insieme.
Arricciò un po’ il naso, poi aggiunse: «Sai che non mi piace.»
«Be’», le rispose, facendo una piroetta, «non deve piacere a te. Deve piacere a…», si fermò e si sporse oltre la spalla di Courtney, da cui compariva un cresta verde. «Duncan?», chiese, poi guardò Courtney interrogativamente.
«A me il vestito piace.», sentenziò il ragazzo, venendo completamente ignorato da Courtney e ricevendo un “Grazie” distratto da parte di Gwen.
Tra le due, intanto, aveva preso luogo un muto dialogo fatto perlopiù di smorfie e occhiate, al termine del quale Courtney, con voce stanca, mormorò: «È una lunga storia.»
«Io non vado da nessuna parte», commentò Gwen e si allungò un attimo in cucina a prendere una busta di popcorn, per poi buttarsi sul divano.
«Duncan, siediti da qualche parte.», gli ordinò Courtney e poi prese posto accanto all’amica, riprendendo il racconto delle sue peripezie da dove lo aveva interrotto all’ora di pranzo. Il ragazzo, stravaccato su una poltrona di fronte alle due, si proferiva ogni tanto in commenti volti a correggere il resoconto di Courtney – “Io non ho detto così”, “Io non ho fatto quella faccia”, “In realtà non mi ricordo niente. Lei proseguiva nel suo intento di ignorarlo, mentre Gwen si lasciava scappare un sorriso, ogni tanto.
«Quindi, dobbiamo tenercelo qui. Almeno per un paio di settimane.», terminò Courtney.
«Dai, poteva andarci peggio. Ti ricordi quando le campagne furono invase dalle cavallette e Scott si trasferì da noi per tutto l’inverno?»
«Come dimenticarlo?», le rispose sarcastica. Scott era davvero simpatico – e davvero innamorato di lei –, ma le sue abitudini rustiche non si incastravano perfettamente con il loro stile di vita metropolitano.
«E quando trovammo un topo e lui per ucciderlo si presentò con una mazza da baseball?», Gwen si girò verso Duncan e, tra le risate, aggiunse: «Distrusse quasi tutta la casa, ma non riuscì ad uccidere il topo. Quindi l’abbiamo adottato.», indicò una gabbietta poggiata su uno dei ripiani della libreria, «Lo abbiamo chiamato Alejandro. In realtà avrebbe dovuto chiamarsi Chris, ma Heather era all’epoca del suo primo divorzio», si fermò e guardò Courtney, «o secondo?». Courtney le rispose facendo cenno con la mano.
«Il primo, allora. Be’, in quel momento c’era tanto odio per Alejandro, che era un essere viscido e cattivo e blablabla, quindi lo abbiamo onorato dando al topo il suo nome.»
«E le tue lucertole?», domandò Duncan. Courtney lo guardò furente e gli fece capire di cambiare argomento – troppo tardi, ovviamente.
«Morte.», sentenziò, con un velo di malinconia. «Ne ho prese dell’altre, però: Angus e Vampira III.»
Duncan fu sul punto di chiedere cosa fosse successo alle seconde, di lucertole, ma capì che forse non era il caso di dilungarsi su quell’argomento. Gli fu tuttavia risparmiata la fatica di cercarne uno nuovo, poiché suonò il citofono.
«Aspettavate qualcuno?», chiese, incuriosito. Courtney continuò a ignorarlo e Gwen si avventò sul citofono, pertanto non ebbe alcuna risposta – risposta che si materializzò sotto forma di Trent. «Aspettavate qualcuno.», affermò in tono velatamente polemico, rispondendo alla sua domanda. Courtney fece finta di non aver sentito, Gwen era completamente assorbita dal nuovo arrivato.
«Ho portato il gelato!», esclamò quest’ultimo, che non aveva ancora visto Duncan – ma aveva notato l’espressione inviperita di Courtney. «Court, cos’è quella faccia?», si interruppe e poi aggiunse, come se avesse avuto un’illuminazione: «È tornato Scott?»
«Peggio.», gli rispose con irritazione la ragazza. Trent si girò verso Gwen e le sussurrò: «Fleckman ha ripreso a farle la corte?». La ragazza non poté trattenere una risata di fronte all’espressione seccata dell’amica, quindi rispose al fidanzato: «Peggio.»
Duncan, che aveva ascoltato la conversazione dal salottino dov’era seduto, si sentì lievemente offeso: «Io ci sento, eh!». Courtney praticamente scappò in cucina per non dover stare troppo a contatto con lui, e a Trent quasi venne un colpo. «Duncan? Davvero?», disse sconvolto, inconsapevole di ricalcare quanto Heather le aveva detto quella mattina. «È una questione prettamente lavorativa!», strillò Courtney furiosa dalla stanza vicina, «Gwen, muoviti! Sta per iniziare Caccia alle celebrità
Trent emise un verso disperato, e Duncan non poté davvero trattenersi: «Davvero guardate quella stronzata?». Gwen non rispose, limitandosi a indicare la cucina. «Da quando Chris ha cominciato a fare da spalla a Blaineley, è diventato divertentissimo – trova sempre un motivo per prenderlo in giro!», spiegò la ragazza. «E poi», aggiunse Courtney appena li vide, «ci sono sempre ospiti interessanti. Giusto l’altro giorno c’era Harold che raccontava la sua esperienza di meteora nel campo del beat box…»
«Sfigato!», esclamò Duncan tra le risate. Stava per aggiungere qualcos’altro, ma venne interrotto dalla voce squillante di Blaineley alla televisione.
“Allora, Chris, hai qualche scottante novità per i nostri spettatori, oltre al tuo cambio di parrucchino?”
Non è un parrucchino. Comunque – dato che almeno io faccio il mio lavoro –, sì. Il nostro inviato sul campo, Topher, ha pronto un succulento servizio su una rock star molto amata dal pubblico, che sembra però essere finita nei guai…”
“Regia, vai col servizio!”
Nel momento in cui avevano nominato la “rock star molto amata dal pubblico finita nei guai”, Courtney si era girata e aveva cominciato a guardarlo minacciosamente – non gli restò che sedersi e pregare che quel servizio finisse. In fretta.
Dopo un’interminabile introduzione riguardante la sua ascesa musicale e i più o meno numerosi scandali di cui era stato protagonista, arrivarono finalmente al punto in cui si annunciava che il direttore del Ottawa Royal Palace gli aveva fatto causa e che quindi sarebbe presto stato visto in tribunale.
“A riguardo, Duncan Nelson ha rilasciato la seguente dichiarazione…”
E partì il video – registrato dalle telecamere durante l’assedio all’ora pranzo – in cui affermava che in fondo era una questione di poco conto, che quel pallone gonfiato del direttore aveva esagerato e che dal canto suo non avrebbe rimesso piede in quella topaia da quattro soldi.
«Duncan…», sibilò Courtney furiosa, «cosa ho appena sentito?»
«Andiamo, Courtney, sono paparazzi, è quel che vogliono sentirsi dire…», tentò di risponderle.
«È quello che vogliono sentirsi dire?», strillò indemoniata. «Come posso riuscire a toglierti dai guai, se non fai altro che peggiorare la situazione? Questo filmato è andato in onda in diretta nazionale, pochi minuti e sarà sulla bocca di tutti, poche ore e raggiungerà le orecchie dell’avvocato dell’accusa!», fece una breve pausa e poi sillabò, mantenendo lo stesso tono irato: «Io ti uccido!»
Dopodiché allungò una mano verso Gwen, facendo segno di passarle qualcosa.
«Niente coltelli, Courtney, non voglio essere complice di un omicidio.», sentenziò, sgridando sottilmente l’amica.
«E io non voglio esserne testimone.», aggiunse Trent.
«E io non voglio esserne la vittima!», si accodò Duncan.
«Gwen…», la richiamò Courtney, indicando con la testa qualcosa alla sua destra.
«Oh, be’, in tal caso…», commentò l’altra, e si limitò a staccare il mattarello che avevano appeso in cucina come decorazione e glielo diede.
«Tu!», esclamò Courtney con un urlo belluino, e cominciò a rincorrerlo, brandendo come un’arma l’apparentemente innocente utensile da cucina. Duncan fu dunque costretto a una poco dignitosa ritirata in giro per un appartamento che nemmeno conosceva.
«Pizza?», chiese Trent alla sua fidanzata.
«Pizza.», gli rispose lei, rassegnata alle urla della coinquilina.
 
***
 
Steso nello scomodo divano letto del soggiorno, Duncan non poteva fare a meno di rimpiangere il suo splendido letto che lo aspettava in una casa in cui non avrebbe rimesso piede per un bel po’. Inoltre, data l’immane quantità di lividi che si stavano formando o che si erano già formati, non riusciva a trovare un posizione abbastanza comoda per addormentarsi – dopo averlo colpito più volte con quell’arnese infernale, Courtney gli aveva gentilmente concesso il suo perdono, se non altro perché un avvocato che malmenava il proprio cliente non si era mai visto.
Tuttavia, dopo aver concesso il proprio perdono, Courtney aveva seguitato ad ignorarlo, cercando di sembrare quanto più disinteressata possibile – anche ai tempi della loro relazione aveva l’abitudine di ignorarlo quando litigavano, per giorni e anche settimane, se necessario, ma nella freddezza con cui lo trattava c’era qualcosa di diverso.
Qualcosa che lui non sarebbe riuscito a spiegarsi, perché ormai non aveva alcuna idea di quanto le fosse successo negli anni in cui non si erano visti – aveva avuto una relazione fallimentare con Scott, ed era diventata un avvocato di successo. Fine. Niente che potesse aiutarlo a capire come maneggiarla, il che era davvero frustrante. Era sempre stata una ragazza “difficile”, criptica, impossibile da accontentare. Si chiese se non fosse il caso di cominciare a muoverle guerra come una volta, per quantificare quanto di lei era rimasto.
Poi si disse che non era il caso di sbattersi tanto per una pazza isterica – e si disse anche che era inaudito il modo in cui era stato trattato, il modo in cui il suo agente lo voleva costringere a vivere, separato dal lusso a cui ormai era abituato e dagli eccessi di cui non riusciva a fare a meno. Avrebbero dovuto capire che una celebrità del suo calibro – a cui era impossibile negare qualcosa – non avrebbe retto a lungo in un appartamento in cui perfino il topo Alejandro riceveva più attenzioni di lui.
Ma, dato che il suo agente, quando voleva, era anche più testardo e capriccioso del suo avvocato, avrebbe dovuto trovare un modo plateale e allo stesso tempo estremamente discreto per far giungere il messaggio a destinazione – e avrebbe piegato entrambi alla sua volontà, infine.
Intanto, però, quel letto restava il più scomodo che avesse mai provato.
 
***
 
Quel giorno non si mostrava essere migliore del precedente, per Courtney – oltre a dover sopportare l’idea di quel buzzurro in giro per casa sua, avrebbe dovuto interrogare un numero non meglio quantificato di persone che avevano la sua stessa intelligenza. Perfetto.
La serata non si era conclusa nel migliore dei modi, ma doveva ammettere che sarebbe potuta andare molto peggio – avrebbe dovuto, nell’ordine, rendere Gwen, Trent e Duncan, complice, testimone e vittima di un omicidio. E l’avrebbero meritato. Perché nessuno si sforzava di capirla? Era non solo costretta a lavorare per il suo ex, che l’aveva tradita con la sua migliore amica e umiliata in mondovisione, ma anche ad ospitarlo ed essere civile con lui.
Stava aspettando l’ascensore, quando, sentendo la serratura della porta della sua vicina scattare, tentò una rapida fuga per le scale – che dovette però interrompersi nel momento in cui le parlò.
«Courtney, cara!»
La signora Tobloskij era un’adorabile vecchietta, con una smodata passione per i gatti, una pessima vista, e un udito finissimo – e finiva sempre per lamentarsi del volume della loro televisione, talmente alto, secondo lei, da disturbare il suo sonno. Solo lei ci mancava.
«Sì?», disse, cercando di apparire quanto più accondiscendete possibile.
«Spero non abbiate adottato un altro topo! Sai, ieri, con tutta quella confusione, il piccolo Pimplebottom si è agitato moltissimo!»
Il piccolo Pimplebottom era un gatto di dimensioni gigantesche, il cui unico scopo nella vita era riuscire ad intrufolarsi in casa sua per mangiarsi Alejandro. Aveva perso il conto di tutte le volte che la signora Tobloskij era sopraggiunta gridando: «James August Peregrin Pimplebottom! Lascia stare quel topo!». Sperava vivamente che non accadesse di nuovo, specie con Duncan in giro, ma quel maledetto gattaccio già stava grattando contro la sua porta.
«Nessun nuovo topo, non vorremmo far agitare il piccolo Pimplebottom per nulla al mondo.», si sforzò di dire sorridendo. La signora Tobloskij stava evidentemente per chiedere qualcos’altro, ma, per sua fortuna, l’ascensore arrivò e la salvò da quell’improbabile interrogatorio.
 
***

«Altro che piccolo Pimplebottom!», sbraitò a telefono con Gwen, mentre entrava nel suo ufficio, «io le stermino l’allevamento di gatti se mi ritrovo quel coso peloso in giro per casa di nuovo!»
Gwen provò a ribattere che in fondo era una vecchietta inoffensiva, ma inutilmente. «Inoffensiva! Con quell’esercito pulcioso che si ritrova ho più paura di lei che di qualunque altro essere umano al mondo!»
John Smith, che la stava aspettando, nel vederla si alzò per salutarla, ma fu prontamente messo a tacere. «Cosa sta facendo quel troglodita?», chiese all’amica.
«Dorme.», rispose laconicamente l’altra. «Dorme?!», esclamò indignata. «Ancora? Invece di rendersi utile, dorme! Senti, fammi un favore, quando esci di casa, chiudilo dentro. Non voglio che apra a Pimplebottom quando riprenderà a graffiare la nostra povera porta. E, soprattutto, non voglio che esca!», le strillò. Poi le augurò una buona giornata e fulminò John con lo sguardo.
«Il suo cliente è un piantagrane. Un essere inutile. Andrebbe soppresso. Consuma l’aria che altra gente potrebbe respirare. Ma, soprattutto, ha potenzialmente distrutto qualunque accordo avrei potuto prendere basandomi sul suo inesistente pentimento!», disse irritata. Si era imposta di non gridare, per riuscire a mantenere un alone di professionalità, ma non poteva nascondere troppo a lungo la sua acredine.
«Certo, capisco.», disse John, desolato. Attese un istante prima di cominciare a parlare, per assicurarsi che Courtney non lo interrompesse. «Le ho portato una lista parziale dei presenti al momento del disastro, e inoltre è già qui la band di supporto di Duncan.»
Nel momento in cui terminò di parlare, due ragazzi alle sue spalle – che lei non aveva notato, presa com’era ad inveire contro Duncan – si alzarono e uno dei due le tese la mano.
«Miss Barlow», cominciò John con un tono ancora più desolato di quello usato un attimo prima, «le presento i “Vomitanti”»
 
***
 
«Ed è stato tipo boom
Quello che aveva davanti era un duo quanto mai improbabile e, soprattutto, incapace di esprimersi con un linguaggio che non le desse il mal di testa. Tutto quello che era riuscita a cavare da loro era stata una serie di boom, bang, splash, wow e altri suoni onomatopeici che lasciavano intendere che la festa era stata distruttiva. Grazie tante.
«Sì, certo.», commentò gelida.
«E poi siamo saliti sui letti ed è stato tipo tonf!, tonf!, tonf!»
«Sui… letti?», chiese, ormai disperata.
«Sì! È stato wow. E Duncan ha spaccato la sua chitarra! È stato tipo sbam! Fortissimo! Vero, Spud?»
Spud, che fino a quel momento non aveva pronunciato una sola parola, alzò lo sguardo e chiese: «Cosa?»
«Amico, la festa! Quella dopo il concerto di Ottawa!», esclamò quello che, se aveva capito bene, doveva essere Rock. Ci fu un lungo momento di imbarazzante silenzio, dopo il quale Spud si riebbe e disse con enfasi: «Aah, la festa! Quella tipo…», cominciò a far finta di suonare una chitarra, emettendo versi più o meno riconducibili al suono delle corde.
Avrebbe dovuto mollare tutto e partire per una vacanza. A meno di ventiquattro ore dell’inizio di quel caso aveva già voglia di mollare tutto – ma Courtney Barlow era una vincente, sempre e comunque. Quindi, avrebbe cavato di bocca a quei due scemi qualcosa di utile, avrebbe schiacciato completamente l’accusa e, con un po’ di fortuna, la parcella dello psicanalista non l’avrebbe lasciata a secco.

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Note dell’autrice: come ho già detto all’inizio di questo capitolo, sono in un ritardo mostruoso! Tuttavia, è stato per una causa maggiore di me – ossia, mio padre che prenota una vacanza a sorpresa e ci porta al mare, ma in realtà la casa era sul cucuzzolo di una montagna E NON C’ERA CONNESSIONE DI ALCUN TIPO! Uno shock, vi giuro. Comunque, siamo tornati giovedì scorso, quindi ho avuto appena il tempo di scrivere il capitolo e correggerlo, per poi pubblicarlo oggi!
Per quel che riguarda il capitolo stesso, ci sono alcuni avvenimenti che saranno importanti per lo sviluppo della storia (no, Pimplebottom non mangerà il topo Alejandro). Che poi, tanto per la cronaca imbarazzante, ho scoperto – dopo che mia sorella mi aveva costretto a mettere al gatto quel nome, che dovrebbe essere un personaggi di una delle sue saghe preferite –, che significa “sedere brufoloso”. Cioè. Ho appena chiamato un gatto James August Peregrin Sedere Brufoloso. Please, send help.
Comunque, nonostante ci abbia impiegato tre capitoli per descrivere più o meno ventiquattro ore, dal prossimo capitolo la narrazione dovrebbe velocizzarsi – più o meno. La convivenza di Duncan e Courtney e Gwen continuerà a fornirci scenette di banale comicità almeno per un altro po’ – poi c’è un plot twist che non vi potete nemmeno immaginare, ma che adorerete. Spero.
Per quanto riguarda i personaggi nominati in questo capitolo, be’, sono sicura che li conoscete tutti. Ho adorato scrivere la parte tra Chris e Blaineley (anche perché sono una grande estimatrice della ship), e non vi dico quanti problemi mi ha dato la scena tra Courtney, Rock e Spud (btw, spero di aver centrato la loro caratterizzazione, perché mentre scrivevo ho sacrificato tutti i miei principi di “autrice”).
Detto ciò, vi lascio perché vi ho ammorbato con delle note lunghissime e vi ringrazio se siete arrivati fin qua giù!
Alla settimana prossima,
Fede

P.s.: sto pensando di scrivere una one shot sul primo divorzio di Heather e Alejandro e conseguente adozione del topo, dite che potrebbe interessarvi?
P.p.s.: momento di pubblicità occulta – ma non troppo –, giusto perché mi piace abusare della pazienza delle persone :) La mia sorellina ha appena debuttato da “scrittrice”, nel fandom di Percy Jackson, quindi, se magari vi interessa e shippate Solangelo, potreste dare un’occhiata qui.

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Capitolo 4
*** • Capitolo IV ***



«Like every broken wave on the shore, this is as far as I could reach»
 
  • Capitolo IV
 
Courtney stava ancora cercando di contattare la maggior parte dei nomi presenti sulla lista che John le aveva procurato – considerando che un nome non era sufficiente per mettersi in contatto con qualcuno –, quando le arrivò una telefonata da parte di Gwen.
«Ehm, ciao, Courtney…»
«Gwen, che c’è?», ruggì al telefono, sbattendosi una mano in fronte – sperava davvero che qualunque cosa avesse spinto l’amica a chiamarla potesse essere risolta senza di lei.
«Ehm… sì, ecco… la signora Tobloskij ha appena chiamato al museo chiedendo di me.»
«Ah, davvero
«Sì, Court, davvero. Il problema è che io non posso muovermi, c’è un gruppo di americani alle dieci e mezza– ossia tra cinque minuti – e un gruppo di inglesi a mezzogiorno.»
«Be’, nemmeno io posso muovermi.»
«Ma il problema riguarda te!»
«E perché la signora Tobloskij avrebbe chiamato te
«Non aveva il tuo numero? Senti, non lo so. Ha detto che ha sentito degli strani e forti rumori provenienti da casa nostra e che ha chiamato la polizia – che però non può entrare per via della serratura blindata
«Duncan! Maledetto! Deve solo pregare che la notizia rimanga segreta quanto più a lungo possibile, altrimenti lo darò personalmente in pasto ai paparazzi.»
«Sì, certo, ne sono sicura. Gli americani sono arrivati, ti devo lasciare, magari ci vediamo per la pausa pranzo!»
«Gwen!», strillò contro la cornetta, ma fu inutile. Aveva già attaccato. Adesso le sarebbe toccato correre a casa, dire alla polizia che era stato tutto un grandissimo malinteso, che Duncan era soltanto un ospite turbolento e la signora Tobloskij una vecchietta facilmente impressionabile. Maledetti tutti e due. Ci sarebbe dovuto essere Duncan a fare la faticaccia che stava facendo lei, e non solo non la stava aiutando, ma le metteva pure i bastoni tra le ruote.
Nel momento in cui passò di fronte all’ufficio di Lizzie, ebbe un’illuminazione – un’idea così geniale che non sarebbe potuta venire a nessun altro.
«Lizzie, cara, ti disturbo?», le chiese, entrando.
«No, Courtney, affatto! Accomodati. C’è qualcosa che posso fare per te?»
Ecco, se c’era qualcosa che amava nel fatto che ogni anno arrivassero nuovi avvocati freschi di specializzazione, era il fatto che avrebbero fatto di tutto, pur di poter fare qualcosa.
«In effetti, sì. Ti andrebbe di darmi una mano con il caso Nelson? Ci sarebbero un paio di possibili testimoni da rintracciare – le carte sono sulla mia scrivania
Non le diede quasi nemmeno il tempo di terminare la frase che si alzò balbettando cose sul fatto che sarebbe stata felicissima e onorata di aiutarla e avrebbe fatto tutto il possibile e non l’avrebbe delusa per nessun motivo.
«Bene! Io devo correre a casa per un’emergenza, ma non dovrei metterci molto. Ci aggiorniamo tra un’oretta.»
 
***
 
«Sì, agente, le assicuro che è stato un malinteso», disse all’uomo in divisa mentre infilava le chiavi nella toppa della serratura.
«Sa, ieri è arrivato da Montréal un cugino della mia coinquilina, ed è un tipo un po’ sopra le righe…», spiegò, mentre lo conduceva nel salotto dove avrebbe dovuto trovarsi Duncan.
«Vede? È tutto a po…», non si preoccupò nemmeno di finire di pronunciare le ultime parole famose. Il salotto era messo sotto sopra e dal balcone si vedeva chiaramente un montacarichi.
«Duncan!», gridò e cominciò a sciorinare una serie di epiteti che avrebbero fatto arrossire un delinquente della peggior specie – ossia, per l’appunto, Duncan. «Cosa stai facendo, brutto idiota?»
«Donna, se strilli così mi fai venire il mal di testa!», esclamò in risposta, «E comunque, sto facendo sostituire il divano – la cosa più scomoda su cui le mie chiappe si siano mai posate!»
Il poliziotto, inerme spettatore della scena, stava chiaramente cercando di dire qualcosa, ma Courtney non gli badò nemmeno per un istante.
«Il mio divano! Era un regalo di mia madre! Come hai osato! Oh, ma vedrai, ti farò a pezzetti e ti darò in pasto al topo!», appena terminò quella frase, ci fu un attimo di silenzio nel quale si sentì Pimplebottom miagolare dall’ingresso.
«Fuori da casa mia! Fuori!», sbraitò rivolta al gatto, al che la signora Tobloskij – che stava indiscretamente assistendo a quello spettacolo – lo prese per la collottola e disse: «Courtney, cara, certo che ce ne andiamo! Se continui così non solo tu diventerai afona, ma io diventerò sorda!»
Nel momento in cui sentì la porta della casa della signora Tobloskij chiudersi, si rivolse all’agente e lo pregò gentilmente di lasciare l’appartamento, dato che – oltre la sua crisi di nervi incipiente – non avevano alcun tipo di problema. Il poliziotto tentò di dire qualcosa di molto simile a “quello mi sembra Duncan Nelson, sa, il cantante”, ma Courtney gli aveva già sbattuto la porta in faccia.
«La signora Tobloskij ha fatto bene a chiamare Gwen, altrimenti chi sa cosa avresti combinato!», esclamò, e cominciò a battere furiosamente un piede per terra.
«Cosa ti aspetti, delle scuse? Ho passato la notte peggiore della mia vita su quel divano, e considerando che ci dovrò passare molte altre notti, mi sembra assolutamente normale volerlo cambiare!»
«Assolutamente normale? Ma ti ascolti quando parli, o c’è solo aria nella tua testa? Stai parlando di fare cambiamenti in una casa che non ti appartiene, di cui sei ospite e da cui potrei cacciarti da un momento all’altro!». Notando il sorrisetto del ragazzo, riuscì a comprendere le sue intenzioni. «Oh, ma è questo che vuoi! Vuoi che ti cacci da qui, permettendoti di andare scodinzolando dal tuo agente per dirgli di come ti abbia maltrattato. Magari vorresti anche un altro avvocato. Bene, sappi che sarà l’ultima cosa che succederà!»
«Be’, tu vorresti teneri segregato in casa tua fino alla fine dei miei giorni, non ci vedo nulla di bello!»
«Non fino alla fine dei tuoi miseri giorni, Duncan. Soltanto fino alla fine del processo, e soltanto per evitare che tu combini danni come quello di ieri!», fece una pausa e, approfittando del fatto che il ragazzo non le aveva ancora risposto, riprese a parlare. «E, cortesemente, smettila di fare la vittima, perché non ne posso più. “Oh, povero Duncan, costretto a convivere con l’ex psicopatica”. Come se quello che hai fatto tu non avesse importanza.»
L’altro sembrò vivamente offeso. «Che significa “come se quello che hai fatto tu non avesse importanza”? Mi hanno trascinato in tribunale per una cosa da niente, che sarebbe potuta essere risolta in poche ore, volendo! Io non faccio la vittima, io sono la vittima!»
Courtney gli lanciò un’occhiata furente e aggiunse, piccata: «Io non stavo parlando del processo. Comunque, quella che tu consideri “una cosa da niente” è solo l’ultimo esempio della tua superficialità e della tua noncuranza. Non ti preoccupi mai di quello a cui potrebbero portare le tue azioni! Tu prima agisci e poi – se va storto qualcosa – rifletti su quello che hai fatto. Ma non potrai comportarti così per sempre! Dovrai pur crescere, ad un certo punto – non puoi continuare fare guai che altri dovranno risolvere.»
Duncan si passò una mano sulla faccia. «Non dirmi», scandì lentamente, «che ce l’hai ancora con me per la storia di Gwen! Courtney, sono passati più di dieci anni!»
Roteò gli occhi e non gli volle nemmeno rispondere. Certo che ce l’aveva ancora lui, e ne aveva tutto il diritto – non solo l’aveva umiliata in mondovisione, ma l’aveva separata per mesi dalla sua migliore amica, e quella era una cosa che non gli avrebbe mai perdonato. E poi, non era anche quello un esempio della sua superficialità? Non aveva prima agito, spinto dall’impulso, e poi aveva pensato – se mai l’aveva pensato – di aver ferito i suoi sentimenti? Scosse la testa e gli rivolse uno sguardo al vetriolo – Duncan era sempre stato una debolezza, per lei, ma era stata abbastanza brava da nasconderglielo.
«Adesso devo andare», spiegò, come se stesse parlando ad un lattante, «devo continuare a parlare con gente stupida, per salvare il tuo stupido culo dagli stupidi capricci del direttore dell’albergo. Sei in grado di restare buono e tranquillo – senza allarmare la signora Tobloskij – oppure devo chiamare una babysitter?»
Duncan le rispose con una smorfia. «Bene», continuò lei, «ci vediamo stasera. Se hai fame, c’è ancora un po’ di pizza nel forno, se ti annoi puoi vedere la televisione e se Pimplebottom graffia alla mia bellissima porta non devi aprire. Per nessun motivo.»
«Perché dovrei aprire a quel sacco di peli?», le chiese, quasi sconvolto dalla sua ossessione per il gatto. Courtney si morse un labbro e si impedì di risponde che Scott lo faceva sempre, quindi aveva bisogno di ripeterglielo spesso. Ma Duncan non era Scott e non era il suo fidanzato – con un po’ di fortuna, entro qualche settimana non sarebbe stato più nemmeno un suo coinquilino.
Il ragazzo però non aveva notato la sua esitazione e si era concentrato su un altro aspetto del suo discorso. «Se posso aprire a Pimplebottom, significa che non mi chiuderai a chiave?»
Courtney lo guardò sarcastica. «Solo per non aver altri problemi con la polizia.», poi aggiunse: «Io vado.», e si sbatté la porta alle spalle.
 
***
 
Quando era tornata a lavoro, aveva con piacere scoperto che Lizzie era riuscita a procurarsi gran parte dei numeri di telefono – ebbe la tentazione di chiederle come avesse fatto, dato che lei in più di un’ora non aveva combinato niente, ma decise di desistere.
Aveva cominciato a fare chiamate quello stesso giorno, ottenendo, nel corso della settimana successiva, praticamente nulla: sembrava si fossero messi tutti d’accordo – chi ricordava pochi minuti, chi era completamente ubriaco, chi non sapeva nemmeno come ci era arrivato, in camera di Duncan. In poche parole, non aveva nulla.
E poi, per dimostrare cosa? Non c’era modo di provare che non fosse stato lui a fare quel macello, quindi in ogni caso avrebbe perso – se solo Duncan non fosse stato una grandissima testa di cazzo, a quel punto avrebbe soltanto dovuto occuparsi del divorzio di Heather. Invece stava lavorando continuamente, se non altro per passare a casa meno tempo possibile – dopo l’incidente del divano Duncan sembrava essersi calmato, tuttavia i suoi nervi ritenevano una saggia scelta stare quanto più lontano possibile da lui.
Nel momento in cui era costretta a rientrare, sperava sempre di trovarlo già addormentato, oppure camminava a passi talmente piccoli da sperare di non essere sentita – voleva evitare in ogni modo l’imbarazzo di una conversazione che non avrebbe portato da nessuna parte, perché lui era un cretino e aveva messo nei pasticci anche lei, e avrebbero sicuramente finito con il litigare e gli avrebbe lanciato contro qualche piatto, oppure una sedia, e Gwen sarebbe dovuta correre a prendere il kit di pronto soccorso e lei avrebbe dovuto trovare una scusa da rifilare alla signora Tobloskij il giorno dopo.
Il suo rapporto con Duncan, al di là delle gag ridicole d’ogni sera e ogni mattina – evitate come la peste –, non aveva preso nessuna piega diversa. Sembrava che le uniche reazioni che potesse suscitarle fossero la rabbia, o il nervosismo, l’offesa – non faceva altro che strillare scandalizzata e alzare gli occhi al cielo. Aveva temuto, nei primi tempi, che potessero risvegliarsi, tra le altre cose, gli antichi sentimenti, ma ciò non era accaduto – forse, perché ormai era talmente abituata alla sua altalenante relazione con Scott che si aspettava che il ragazzo potesse tornare da un momento all’altro.
Negli ultimi dieci anni, Duncan non c’era stato – non gliene faceva una colpa, ovviamente. Le loro strade, di questo ne era certa, si erano separate molto tempo prima della loro rottura. Erano troppo differenti, vedevano il mondo in maniera opposta, non condividevano nulla, eppure c’era stato un periodo in cui aveva amato quel ragazzo dalla creste verde conosciuto quasi per caso – lo aveva amato perché era giovane, e molto probabilmente più stupida di quanto lo fosse in quel momento, e l’aveva amato più per l’atto di ribellione che consisteva nell’amarlo che per Duncan stesso.
La sua mente vorticava talmente rapida in quei pensieri – Duncan, Scott, il processo – che non si rese nemmeno conto che qualcuno aveva bussato alla porta. «Ehm, Courtney? Qui c’è la quasi signorina Wilson che chiede di te.», le disse Lizzie e, tentando di nascondere un risata, fece entrare Heather.
«Quasi signorina Wilson? Mi piace, dovresti metterlo sui biglietti da visita.», affermò, non riuscendo proprio a trattenersi – era sollevata che di lì a pochi giorni sarebbero iniziate le sedute in tribunale per la separazione. Almeno c’era un caso che era parzialmente sicura di vincere.
«Il giorno più bello della mia vita», sentenziò l’altra in risposta, «sarà quello in cui mi libererò definitivamente da quel patetico, viscido verme!»
«Sì, certo.», le rispose, «È quello che hai detto anche l’ultima volta, e quella prima ancora. Praticamente, vivi nell’attesa di questo giorno e intanto fai di tutto perché non arrivi.», cercava di mantenersi seria, ma proprio non ci riusciva – l’ostinazione con cui Heather sosteneva la sua incrollabile opinione poteva essere ammirevole, se non fosse probabilmente data dalla sua mente che viaggiava troppo in fretta.
«Allora», domandò, «ci sono novità? Alejandro si è fatto sentire?»
Sentendo quelle parole, Heather divenne quasi paonazza. «Si è fatto sentire? Quel maniaco ha cercato di entrare in casa mia!»
«Che tecnicamente è anche sua…», aggiunse Courtney.
«Ma è intestata a me.», ribatté.
«Ma tu lo hai costretto a lasciare casa sua, perché tu non ti saresti mai abbassata a vivere da lui – e poi lo hai cacciato da casa tua
«Ciò non toglie che se avesse avuto bisogno di qualcosa avrebbe potuto chiamarmi come tutte le persone civili!»
«Mi permetto di dissentire.»
«Dissenti pure, ormai il problema l’ho risolto. Ho cambiato la serratura.»
Courtney fu terribilmente tentata dall’idea di sbattersi una mano in faccia – o di sbattere Heather fuori dal suo ufficio.
«Ti rendi conto di quello che stai facendo?», le chiese, quasi con un lamento.
«Certamente. Ora, vogliamo parlare della tua linea d’accusa, avvocato
Sospirò rassegnata. A quanto pare, Heather era pronta a portare avanti quella pagliacciata fino all’ultimo – almeno, fino a quando non le avrebbe messo le carte del divorzio sotto al naso.
«La mia linea d’accusa, quasi signorina Wilson», la vide arricciare il naso di fronte al soprannome nuovo di zecca, «si basa sulla tua testimonianza di un tentativo di adulterio.»
«Pft, chiamalo tentativo. È rimasto tale soltanto perché io, dall’alto della mia intelligenza e della mia onniscienza, ho trascinato il fedifrago recidivo…»
In quel momento Courtney si sentì in dovere di correggerla. «Heather, ti ricordò che è la prima volta che succede da quanto siete sposati.»
L’altra sbatté un piede per terra. «Ma tu da che parte stai
«Dalla tua, Heather. Solo che qui l’ultima cosa che mi manca è un’accusa di diffamazione, quindi cerca di controllarti.»
«Mh, come dici tu. In tal caso, se non avessi portato il plausibile fedifrago», fece una pausa e domandò sarcastica: «Va bene così?», non attese nemmeno l’assenso di Courtney e riprese a parlare, «Be’, se non l’avessi fatto da plausibile fedifrago il caro Alejandro sarebbe passato allo stato di fedifrago attuale. Come la mettiamo?»
Avrebbe tanto voluto risponderle che non era possibile volere il divorzio perché una ragazza a caso aveva flirtato con suo marito, che la sua accusa, a meno che non avesse trovato prove soddisfacenti, avrebbe retto addirittura peggio della difesa di Duncan. Quei due le avrebbero distrutto la carriera con i loro capricci.
«Che c’entra Duncan, adesso?»
«Chi ha nominato Duncan?», sbuffò Courtney, mettendo su la sua migliore smorfia schifata.
«Stavi sorridendo.»
«Non stavo sorridendo. Stavo pensando a una cosa che mi faceva ridere.»
Heather alzò un sopracciglio in segno di curiosità.
«Stavo pensando che tu e Duncan finirete per essere la mia rovina.»
«Un po’ come ai vecchi tempi.», affermò Heather e Courtney annuì.
«Però stavi pensando a Duncan, e stavi sorridendo.»
Courtney la guardò di traverso e la conversazione finì lì – non stava pensando a Duncan e non stava sorridendo.
 
***
 
La prima seduta in tribunale per stabilire il divorzio tra Heather e Alejandro era stata universalmente riconosciuta come un disastro: Heather, com’era prevedibile aveva dato di matto appena aveva visto il marito; quest’ultimo aveva perlopiù ignorato la moglie, ma il suo avvocato aveva preso nota degli epiteti non troppo gentili che gli aveva rivolto e aveva minacciato conseguenze; la maggior parte dei membri della giuria, dopo aver sentito la tesi che sosteneva l’accusa, per poco non si era messa a ridere – per fortuna, la difesa aveva una tesi ancora più ridicola della loro. Courtney sarebbe volentieri sprofondata – o avrebbe fatto sprofondare Heather, per impedirle di combinare altri pasticci – ma ormai era in ballo e doveva ballare.
In quei giorni Lizzie era riuscita a procurarsi diverse dichiarazioni dai presenti alla festa di Duncan, senza però ottenere buoni risultati – erano tutti ubriachi, tutti strafatti, e via dicendo. Insomma, nulla di diverso da quello che aveva ottenuto lei. Qualcuno nominava qualcun altro, e allora magari sapevano di dover rintracciare altra gente.
Il contributo di Duncan, in quel trambusto, era consistito nella promessa di fare il bravo, non dare problemi, e non aggravare ulteriormente la sua posizione – il direttore dell’Ottawa Royal Palace aveva sentito la sua dichiarazione in tv e aveva dato in escandescenza. Il suo avvocato – che per qualche sconosciuto miracolo non aveva la metà delle sue abilità – aveva assicurato che questa mancanza di riguardo sarebbe stata evidenziata in tribunale. A pochi giorni dall’inizio del processo, dopo due settimane dall’inizio del caso, Courtney non aveva guadagnato nulla – non un testimone chiave, non una singola pista con la quale smontare l’accusa. Solo una forte emicrania e dei nervi che sarebbero potuti saltare da un momento all’altro.
«Questo pasticcio», sbottò un giorno a cena, mentre in televisione c’era l’ennesimo servizio sulla vita sregolata del ragazzo, «è solo colpa tua e della tua superficialità.»
«Grazie, pr- Courtney, per averlo sottolineato. Io non ne avevo proprio idea.»
Gwen era a cena fuori con Trent – l’aveva abbandonata senza pensarci due volte, quell’arpia. Avrebbe potuto invitare Heather, ma il solo pensare a lei le faceva venire voglia di mollare tutto e salire sul primo volo per le Bahamas.
«Chiaramente, hai bisogno di qualcuno che te lo ricordi ogni giorno. Sappiamo quanto tu possa essere pericoloso.»
«Parli di me come se fossi un criminale incallito!», esclamò. Courtney notò del fastidio nella sua voce, ma lo ignorò completamente. Si limitò a rivolgergli uno sguardo che valse più di mille parole – di certo, valse di più di tutte le parole che aveva intenzione di dirgli, perché Duncan si alzò e prese la giacca.
Lei si alzò di rimando, allarmata. «Dove vai?», chiese a bruciapelo.
«A fare un giro. Lontano da te.»
Avrebbe voluto dirgli che no, lui non andava proprio da nessuna parte, perché non voleva affatto che facesse altri danni o le complicasse il caso ancora di più o facesse un bagno di folla – ma si sentiva in colpa per quello che aveva detto, quindi non riuscì a muovere nemmeno un muscolo.
«Non preoccuparti, principessa, cercherò di non fare danni irreparabili.», disse in tono di scherno – Courtney non riuscì a capire se le face più male la porta che sbatteva o la consapevolezza che in quel momento il pasticcio l’aveva combinato lei.
 
***
 
Quella ragazza lo avrebbe fatto ammattire e non in senso positivo – non come una volta, quando non aspettava altro che le sue provocazioni. Perché ormai quelle non erano più provocazioni: Courtney ci credeva davvero, che fosse capace di commettere crimini di ogni sorta – forse non lo credeva capace di uccidere, ma chi sa qual era l’opinione che si era fatta di lui.
Insomma, lo conosceva, anche bene, sapeva che c’erano cose che non avrebbe mai fatto – eppure, sembrava che fossero sconosciuti, o meno. Sembrava che l’unica idea che avesse di lui derivasse da qualche testata di gossip. Sembrava che di lui non le importasse niente. Forse era davvero così.
In fondo, voleva davvero che le importasse qualcosa? Sapere che lei fosse interessata a lui, dopo tutto quel tempo, avrebbe cambiato il loro rapporto? Probabilmente, no. Ma, almeno, avrebbe fatto bene al suo ego. Si appoggiò alla bellissima porta di Courtney e scivolò lentamente a terra – ovviamente, non sarebbe andato da nessuna parte, perché nemmeno lui voleva aggravare la situazione.
Dopo il primo dispetto del divano, non aveva avuto molto fortuna con il suo progetto di piegare agente e avvocato ai suoi capricci, soprattutto perché, nonostante vivesse nel suo stesso appartamento, nell’ultima settimana aveva visto Courtney più raramente di quanto non avesse visto John – il che era tutto dire, considerando che John si era fatto vedere appena tre volte dall’inizio del caso stesso. Doveva ammettere, però, che quell’idea si era rivelata un totale fallimento – l’istinto di provocare Courtney aveva preso il sopravvento e si era fatto scoprire, bruciando tutte le sue possibilità di indurla a sbatterlo fuori.
«Ehi, Courtney ti ha sbattuto fuori?», a dare parola al suo pensiero era stata Gwen, appena uscita dall’ascensore, un po’ alticcia e decisamente troppo sorridente.
«Magari…», commentò lui, spostandosi appena per farle posto quando capì che si stava sedendo accanto a lui.
«Uh, allora te ne sei andato tu?»
«Hai fatto centro, Sherlock!», le rispose canzonatorio.
«Courtney lo diceva sempre, che le tue battute erano banali, ma almeno lei trovava la forza di ridere.»
«Banali
Gwen fece intendere che era un discorso troppo lungo e articolato – un discorso, in pratica, che le andava di fare un altro giorno, da sobria, magari.
«E cos’altro diceva Courtney di me?»
Gwen aprì la bocca e poi la chiuse di colpo. «Stai cercando di approfittarti di una ragazza ubriaca.»
«Non sei ubriaca.», osservò ironicamente lui.
«Ma potrei diventarlo presto. O almeno, spero. Questa dovrebbe essere una di quelle occasioni in cui Court si fionda a stappare lo champagne.»
«Ti avviso che potrebbe non essere nell’umore adatto per lo champagne.»
«Ti avviso, Duncan, che tra un mese mi sposo. Courtney diventerà dell’umore adatto per lo champagne.»
Per poco non si strozzò con la saliva. Gwen si sposava – e entro un mese!
Poi si strozzò davvero con la saliva. Entro un mese Gwen non avrebbe più abitato con loro – ergo, non ci sarebbe stato nessuno a testimoniare eventuali soprusi, violenze e omicidi.
«Oh», commentò la ragazza entrando nel soggiorno, «Courtney non c’è.»
«Sai cosa, Gwen? Ho bisogno di qualcosa leggermente più forte dello champagne.»
«Hai ragione. Vada per il whisky, lo champagne può aspettare Courtney.»
Perfetto, pensò lui. Tra un mese Gwen si sarebbe sposata e lui sarebbe diventato un uomo morto.

 
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Note dell’autrice:
Salve a tutti! So di essere in un ritardo mostruoso, ma come penso sia evidente, l’inizio della scuola mi ha davvero massacrato – in questo momento dovrei star studiando sedici pagini di fisica e altrettante di filosofia (se mi volete bene, uccidetemi)!
Mi spiace che abbiate dovuto aspettare tanto per un capitolo che è per lo più di transizione, tuttavia io mi sono divertita un casino a scriverlo e spero anche voi a leggerlo. Ho cercato di analizzare soprattutto il rapporto tra Duncan e Courtney – paragonando la relazione di un tempo a quella attuale. Nel tempo dovrebbe evolversi sempre più e – be’, è una commedia romantica, sappiamo tutti come andrà a finire. Per quanto riguarda il divorzio tra Heather e Alejandro, mi ero resa conto che non avevo ancora chiarito perché stavano divorziando, quindi ho pensato di inserire la scena in cui ne parlavano per chiarire la cosa! E sì, Gwen si sposa e Duncan è un uomo morto – anche se ho intenzione di movimentare ulteriormente la situazione prima della fine (che è ancora lontana)!
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, e spero di riuscire ad aggiornare il prima possibile, anche se, per via degli impegni, non prometto niente!
Sempre vostra,
Fede

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Capitolo 5
*** • Capitolo V ***



«It’s hard to listen while you preach.»
 
  • Capitolo V
 
Quando Courtney entrò in cucina, la mattina dopo il litigio con Duncan, di certo non si sarebbe aspettata di trovare quello che aveva effettivamente trovato.
Prima di tutto, non pensava che sarebbe rientrato, se non nei giorni successivi; poi, di certo non pensava che ci sarebbe stata anche Gwen – era convinta che avrebbe dormito da Trent – e, soprattutto, non pensava che si sarebbero ubriacati – insieme –, ma quella era decisamente puzza di alcool – considerando che Gwen beveva poco o nulla, doveva esserci davvero un serio motivo per aver svuotato una delle sue bottiglie di whisky.
Si aggirò sospettosamente tra le sedie, cercando di portare un briciolo d’ordine – almeno quanto bastava per riuscire a fare colazione. Fu soltanto quando cercò di svegliare Gwen che lo notò. L’anello. Proprio quel tipo di anello. Gwen si sarebbe sposata! Non riuscì a trattenere un urletto di gioia al solo pensiero – e poi dovette trattenere un verso di indignazione al pensiero che Duncan l’aveva saputo prima di lei.
Puntò un dito contro la spalla dell’amica. «Gwen, svegliati…», sussurrò, sperando che il buzzurro che dormiva sul divano non avrebbe sentito nulla per almeno un paio d’ore.
«Gwen…», ritentò, scuotendola con maggior forza.
«Altri cinque minuti, mamma…», bofonchiò in risposta Gwen, girando la testa dall’altro lato.
«Gwen!», esclamò, girandosi immediatamente verso Duncan, timorosa che potesse svegliarsi.
La ragazza si risvegliò completamente e scattò sulla sedia.
«Courtney, sì, che c’è?», chiese, ancora intontita e con il tono di un soldatino.
«Nulla, che vuoi che ci sia. Entro in cucina un martedì mattina e trovo la mia migliore amica ubriaca, con il mio peggior nemico – altrettanto ubriaco.»
«Pensavo che il tuo peggior nemico fosse l’avvocato di Alejandro…», ribatté l’altra, con la voce ancora impastata di sonno.
«Vado a momenti.», affermò e poi scoppiò a ridere. «Allora…», cominciò con aria distratta, «c’è qualcosa che vuoi dirmi?»
Gwen non sembrò capire a cosa alludesse e cominciò a guardarsi intorno disorientata.
«Qualcosa da dirti? No, non ho niente da dirti… Aspetta!», esclamò, e Courtney sorrise aspettandosi un epico racconto romantico. «Hai detto che oggi è martedì?», chiese, andando quasi nel panico.
«Sì, Gwen, martedì, il giorno dopo lunedì.»
«Martedì, martedì…», cominciò a ripetere l’altra, vagando nella stanza alla ricerca della sua agenda, «Martedì c’è un gruppo di giapponesi alle otto! Courtney, che ora è?», le chiese, cominciando a precipitarsi in camera sua per cambiarsi.
«Le sette e mezza!», le strillò dalla cucina. Duncan cominciò a grugnire infastidito – già che era sul punto di uscire, poteva anche strillare un altro po’.
«Gwen! Sei sicura di non dovermi dire nient’altro?», le gridò.
L’altra entrò nella stanza saltellando su un piede, nel tentativo di infilarsi uno stivale. «Sì? No? Non lo so… È tutto molto confuso in questo momento… Mi passi la sciarpa?», indicò la sciarpa rossa che aveva lasciato sulla sedia. Courtney gliela lanciò e Gwen, sul punto di indossarla, emise un verso di disappunto.
«Accidenti! Uno dei fili si è incastrato nell’anello!», armeggiò ancora un po’ nel tentativo di liberare la sciarpa, quando finalmente il suo volto si illuminò. La guardò esaltata e la raggiunse per abbracciarla. «Trent mi ha chiesto di sposarlo! MI HA CHIESTO DI SPOSARLO!», ripeté ancora, saltellando per la cucina.
Dal salotto si levò un lamento: «Si può sapere cosa avete da starnazzare voi oche a prima mattina?», disse Duncan, lanciando un cuscino che andò ad abbattersi contro la schiena di Gwen.
In quel momento Courtney si ricordò della telefonata ricevuta la sera precedente da John Smith, che le chiedeva se fosse opportuno lasciar partecipare Duncan al talk show “A caccia di celebrità”, dove era stato invitato per discutere dell’imminente processo.
«Io scappo!», annunciò Gwen, varcando la soglia di casa, «Ti raggiungo per la pausa pranzo e ti racconto tutto!» aggiunse, facendole un cenno con la mano. Courtney sorrise indulgente e afferrò la sua tazza di tè, raggiungendo il salotto e accasciandosi sul divano.
«Dobbiamo parlare.», sentenziò, con il viso rivolto verso il fondo della tazza – la breve e distruttiva conversazione che avevano avuto la sera prima l’aveva tormentata ininterrottamente, non era riuscita a pensare ad altro finché non aveva chiuso gli occhi. Per quando altro tempo avrebbe potuto ignorarlo – cercando di provare agli altri e a se stessa che non era più la stessa Courtney di prima –, o odiarlo apertamente – dimostrando soltanto che nel corso di dieci anni era cambiato davvero poco, di lei –, o cercare di indispettirlo – bruciando sul colpo le sue carte e il desiderio di avere la sua attenzione.
Ma la voleva davvero, la sua attenzione? Oppure era unicamente uno stupido capriccio, l’ombra semisvanita di quello che una volta era stata con lui? Non lo sapeva ed era terrorizzata dall’idea di scoprirlo – non ci sarebbe ricascata in alcun modo, le ci erano voluti anni per liberarsi completamente di lui e adesso che ci era finalmente riuscita, avrebbe fatto qualunque cosa per proteggersi.
Per cui, no: non voleva davvero la sua attenzione, era l’abitudine che parlava per lei – adesso si sarebbe comportata come la persona matura che era, avrebbe smesso di ignorarlo, odiarlo apertamente o indispettirlo e avrebbe collaborato sul serio. Presto si sarebbe sbarazzata di lui e sarebbe stata al sicuro.
«Abbiamo ancora qualcosa da dirci?», le chiese sarcastico, scacciando con i piedi il plaid che aveva distrattamente usato come coperta.
Avremo sempre qualcosa da dirci, pensò Courtney con rammarico. Eppure sapeva che non l’avrebbe mai capito – mai, davvero, oppure soltanto attraverso i suoi occhi, con le interpretazioni. Si risvegliò da quei pensieri e prese le redini della situazione – e di se stessa.
«Mi ha chiamato il tuo agente.», annunciò, arricciando il naso al pensiero di quello che stava per succedere.
«Ma non mi dire…», borbottò Duncan, contrariato, «E dunque, cosa volete da me, stavolta
Stava per fargli notare che non avevano mai chiesto grandi sacrifici, dall’inizio del processo, tuttavia evitò un’altra inutile discussione.
«Sei stato invitato a partecipare come ospite d’eccezione ad una puntata speciale di: “Caccia alla celebrità”, completamente dedicata al tuo processo.»
 
***
 
«Se credete davvero che parteciperò, siete completamente ammattiti!», affermò deciso, ignorando ogni tentativo di Courtney di provare a spiegargli che forse sarebbe stata una buona idea – come se potesse esserlo davvero. «Non ci andrò mai, se non da cadavere!», aggiunse, capendo che la ragazza difficilmente avrebbe desistito dall’intento di convincerlo.
«Mi offro volontaria per compiere l’omicidio», gli rispose, alzando la mano.
Duncan sbuffò e cercò di alzarsi – Courtney, abbandonata la tazza sul tavolino, lo strattonò finché non ritornò a sedersi.
«Se solo mi lasciassi finire di parlare, sono sicura che cambieresti idea!», esclamò, quasi urlandogli contro. Duncan avrebbe voluto tanto legarle un fazzoletto intorno alla bocca e lasciarla lì a starnazzare fin quando non sarebbe tornata Gwen, ma non aveva fazzoletti a portata di mano – e, soprattutto, non aveva nulla da fare. Sebbene si fosse lamentato di tutti i sacrifici che il suo avvocato e il suo agente gli avevano imposto dall’inizio di quell’epopea, in realtà trascorreva giornate intere chiuso in casa, in compagnia di sinistri squittii e squallidi programmi televisivi.
A conti fatti, forse voleva che Courtney lo convincesse. Forse no.
«Va bene!», le disse esasperato, «Parla! E cerca di essere persuasiva.», aggiunse, facendole l’occhiolino. Courtney alzò gli occhi al cielo e borbottò contrariata: «Sono un avvocato, Duncan. Essere persuasiva è il mio lavoro!»
Quella fu l’ultima cosa che ascoltò davvero, dopodiché Courtney si lanciò in un’arringa appassionata – lo dedusse dal tono, chiaramente inferocito – sulla necessità della sua presenza in quel programma, per convincere almeno l’opinione pubblica che lui era anche solo minimamente interessato a quello che stava succedendo. Poi si addormentò e fu risvegliato dalla spiacevole sensazione di essere bagnato – la prima cosa che riuscì a mettere a fuoco fu una tazza di tè rovesciata, probabilmente sulla sua testa.
«A questo punto», strepitò Courtney, con la smorfia più indignata che era riuscita a mettere su, «non importa cosa dirò, o – soprattutto – cosa dirai tu, farai direttamente quello che ti ordino, senza commenti, senza lamenti, senza sabotaggi o sciocchezze simili!»
Per un istante ebbe la sensazione che sarebbe scattato in piedi e avrebbe fatto il saluto militare, poi riprese controllo di sé e le regalò un sonoro sbuffo. Lei si girò oltraggiata: «Ho detto: “senza lamenti”», scandì, poi scomparve in cucina.
Sentì rumori confusi per un paio di minuti, poi si decise e raggiungerla – se non fosse stata sempre così maledettamente irascibile e scontrosa, forse si sarebbe perfino scusato.
«Allora», iniziò, cercando di non lamentarsi, «cosa dovrei fare, una volta lì?»
Vide chiaramente il volto di Courtney contrarsi per mascherare l’espressione di vittoria e non poté trattenere una risatina – che però si tramutò in un ghigno cupo quando realizzò che certe cose non sarebbero mai cambiate.
«Be’, rispondere alle domande di Chris e Blaineley, evitare le frecciatine di Chris e Blaineley, schivare le trappole sapientemente preparate di Chris e Blaineley – insomma, cose così.», spiegò, come se effettivamente fosse un’impresa di poco conto e facile risoluzione.
«Insomma», la scimmiottò Duncan, «proprio una passeggiata.»
«Più un percorso a ostacoli, direi…»
«Taci donna, prima che cambi idea e decida di licenziarti!», le rispose, al che ei gli si avvicinò e gli puntò un tacco sul piede – al quel punto, avrebbe voluto davvero dire: “sei licenziata!” e si sarebbe riempito di gioia, ma tutto ciò che uscì dalla sua bocca su un indistinto lamento di dolori sparsi.
«Mi sembrava di aver detto senza lamenti!», esclamò piccata, al che afferrò le chiavi di casa e si affrettò ad uscire. «Tra un po’ ti chiamerà John, vi organizzerete sull’ingaggio e altre piccolezze del genere. Stasera io e Gwen saremo da Trent a goderci lo spettacolo, mi raccomando, non deludere le nostre aspettative!», gli disse, trattenendo a stento le risate.
Avrebbe tanto voluto ucciderla – o peggio, licenziarla – ma restò lì impalato, per poi trascinarsi sul divano e rimuginare sulle proprie sventure – per esempio, avere un’ex come avvocato. Poco dopo arrivò la chiamata di John e si rese conto che le sue sventure erano ben altre – ad esempio, un agente completamente incapace di organizzare il suo spostamento da quella sottospecie di alloggio agli studi televisivi senza incappare in decine di paparazzi lungo la strada.
«Il punto», gli spiegò John qualche ora più tardi, «non è la calca sotto casa – grazie al cielo, non hanno ancora capito dove sei –, ma è l’eventuale e più che plausibile possibilità che ti seguano da a qui. Cosa che va evitata assolutamente.»
«Sono d’accordo.», rispose, «Quindi immagino che tu abbia qualche strabiliante idea per seminare i giornalisti e proteggere me.»
Si stupì quando John cominciò ad annuire convinto, per poi sbattersi la mano contro la faccia quando notò che si era reso conto di ciò che stava facendo e aveva scosso il capo. Più volte. Duncan emise un verso sconsolato e si accasciò sul divano in maniera non molto diversamente da Courtney.
«Be’», iniziò John, «potresti sempre fare un tratto a piedi…»
«A piedi?», chiese Duncan, incredulo, «come le persone normali
«Sì, Duncan, come le persone normali. Non sei uno speciale fiocco di neve – e se anche lo fossi, questo non ti darebbe diritto di non camminare. Al massimo ti garantirebbe un congelatore come portantina. Vuoi essere portato agli studi televisivi in un congelatore?»
Aveva smesso di ascoltare dopo le prime, e, udendo distrattamente solo l’ultima parte del discorso, si preoccupò vivamente per le sue preziose corde vocali.
«No», affermò, rabbrividendo al solo pensiero, «niente congelatore.»
«Bene, allora ti lasceremo non molto lontano dagli studi e continuerai per una serie di vicoletti paralleli alla strada principale. Courtney è stata così gentile da lasciarmi un’alternativa di percorso.», gli disse allegro, mentre gli porgeva una mappa con alcune stradine sottolineate in rosso.
Courtney, certo. A chi altri sarebbe potuta venire l’idea di sminuirlo dalla sua condizione di rock star e costringerlo a camminare per arrivare agli studi televisivi? Oh, ma non lo avrebbe certo permesso, Duncan Nelson non si sarebbe presentato lì come un qualunque altro essere umano. Oh, no.
«Se stai pensando di chiamare il tuo autista e farti venire a prendere per un ingresso da star, sappi che ti lasceremo davanti a una stradina a senso unico. Che va nella direzione opposta a quella in cui tu dovresti muoverti.», lo avvisò John, sorridendo sornione.
«Fammi indovinare:», Duncan strascicò laconicamente le parole, «Courtney l’aveva già previsto.»
John annuì ed emise un sospiro ammirato. «Sai», butto lì, guardandolo di sottecchi, «credo che dovrei convincerla a lavorare con me. Saresti molto, molto più facile da controllare.»
 
***
 
Se qualcuno gli avesse mai detto che dopo la sua terrificante esperienza con lo scellerato conduttore, Duncan si sarebbe buttato volontariamente tra le grinfie di Chris McLean, sarebbe stato più che entusiasta di indicare al tale qualcuno la clinica di ricovero più vicina. Eppure era davanti all’enorme studio televisivo della Cbc – che aveva ovviamente raggiunto a piedi.
La sua apparizione televisiva era stata quasi del tutto improvvisata, non era stata annunciata da nessuna parte perché, citando John – che a sua volta probabilmente citava Chris – doveva essere una sorpresa per lo speciale live mensile dello show. Duncan si chiese distrattamente quanto sarebbe stato soddisfacente far volare il parrucchino del conduttore di fronte a milioni di spettatori e si apprestò ad entrare nell’edificio. Fu però bloccato dei due buttafuori, che gli chiesero di mostrare il pass e un documento di riconoscimento.
«Cosa significa che ho bisogno del pass? E quale documento di riconoscimento? La mia faccia è l’unico documento di riconoscimento di cui avete bisogno!», sbraitò fuori di sé. Non aveva certo trascorso anni lavorando sulla immagine e accrescendo la sua fama solo per non essere riconosciuto da due gorilla a caso. Ormai usava la carta d’identità solo per gli spostamenti aerei e non avrebbe nemmeno saputo dire dove l’aveva lasciata. Per quanto riguardava il pass, beh, lui era stato invitato, avevano bisogno di lui per portare avanti lo show, quindi tanto valeva farlo entrare direttamente.
Uno dei due bestioni grugnì sfottendolo che se era davvero chi diceva di essere, sarebbe passato davanti all’ingresso principale con la macchina, gli avrebbero chiesto un documento – che lui chiaramente non aveva – e solo allora gli avrebbero dato il pass. Dato che sentiva di aver già perso abbastanza tempo con quello che per lui non era altri che un impostore, lo afferrò per un braccio e lo spinse sgraziatamente verso l’ingresso.
Tra una protesta e l’altra Duncan realizzò che Courtney probabilmente sapeva che non l’avrebbero mai fatto passare direttamente, e proprio per questo aveva segnato un percorso di strade secondarie che lo aveva condotto fuori dai cancelli dello studio. Sentì l’umiliazione ribollirgli nelle vene – se Courtney pensava di potersi approfittare della mitezza con cui aveva ceduto una sola volta, si sbagliava di grosso. L’avrebbe fatta pentire di quello stupido giochetto, forse una vendetta per l’alterco della serata prima, o molto più probabilmente una mossa calcolata per affermare la sua supremazia nel loro momentaneo rapporto.
«Il giorno in cui mi libererò di lei non verrà mai abbastanza in fretta», mormorò tra sé mentre prendeva il suo nuovo telefono – che John Smith si era preoccupato di fargli avere, dopo la sfortunata fine del precedente – per chiamare il suo agente e lamentarsi vivamente di quella piccola screanzata che aveva come avvocato, quando vide una chiamata in corso da un numero sconosciuto.
“Duncan, vecchio mio!”, esclamò una voce fin troppo familiare. Non rispose immediatamente, non volendo sprecare fiato per l’uomo dall’altra parte della cornetta. “Il tuo agente è stato così gentile da darmi il tuo numero, nel caso dovessi decidere di disertare il nostro piccolo spettacolo”, aggiunse subito dopo.
Duncan sputò tra i denti qualcosa che suonò come “scommetto che è stata un’idea di Courtney”, ma se l’altro lo sentì, non si sforzò di farglielo notare. “A questo punto potrei anche prendere in considerazione l’idea di disertare, considerando che i vostri gorilla mi hanno sbattuto fuori”, commentò, cercando di nascondere la sensazione di umiliazione.
“Sì, sì, quei cari ragazzi mi hanno riferito l’accaduto, perciò ti sto chiamando. Il mio assistente, Topher, sta venendo da con il tuo pass e le mie più sentite scuse.” Chris chiuse la chiamata senza dare altre spiegazioni. Duncan scoprì pochi minuti dopo, davanti ad un mortificato damerino che aveva l’impressione di aver già visto da qualche parte, che le più sentite scuse di Chris consistevano nell’esortarlo a muovere il culo perché la diretta sarebbe cominciata in meno di un’ora. Dopo essere passato davanti ai buttafuori e aver allegramente alzato loro un dito medio, fu costretto a passare attraverso parrucchiere e truccatrici che avevo l’aria di essere sul punto di scoppiare – sullo sfondo, si sentivano i leggiadri lamenti di Blaineley, che stava accusando tutti della loro incapacità.
«Allora Duncan», esordì Chris, ammiccando leggermente alla telecamera davanti a lui, dopo che Blaineley – che era finalmente riuscita a trovare qualcuno che nascondesse sapientemente le sue numerose imperfezioni – aveva accolto gli spettatori e annunciato il superospite segreto del mese, «Questa volta sembri esserti davvero messo nei pasticci!»
Rispondere alle domande di Chris e Blaineley, evitare le frecciatine di Chris e Blaineley, schivare le trappole sapientemente preparate di Chris e Blaineley. Le parole di Courtney gli suonarono in testa come un avvertimento, e lui, indeciso su quale delle tre opzioni seguire, si limitò ad un neutrale: «Mh, sembra proprio di sì»
«Dicci Duncan, è vero quello che ci hanno riferito i nostri informatori, che non ricordi assolutamente nulla di quello che è successo?», domandò leziosamente Blaineley.
«Beh, sì, ammetto che quella notte non ero particolarmente in me», cominciò con un ghigno, e poi ebbe un’illuminazione: «Altrimenti suppongo che nulla di tutto questo sarebbe successo», aggiunse. In realtà sapeva di aver detto una palla colossale, ma il suo obiettivo era quello di propagandare la sua innocenza e ci sarebbe riuscito a tutti i costi. Gli urletti di qualche fan e l’applauso del pubblico gli suggerirono che aveva fatto centro.
«Così maturo, così responsabile!», esclamò Chris fintamente commosso, mettendo a tacere gli applausi. «Nonostante le apparenze, sappiamo che in fondo sei un bravo ragazzo!», affermò poi teatralmente.
«E altre scottanti informazioni ci rivelano che il tuo avvocato non è altri che Courtney Barlow, la tua storica ex, che dopo essersi lasciata alle spalle la carriera televisiva è indubbiamente una donna di successo!» disse Blaineley confidenzialmente alla telecamera.
Trappola, trappola, questa è indubbiamente una trappola! Riusciva a sentire la ragazza strepitare da qualche parte nella sua testa, ma in realtà era così arrabbiato con lei con non poteva importargliene di meno.
«Sì, Blaineley, quella piccola principessa viziata si sta effettivamente occupando della mia difesa, anche se, detto tra noi», borbottò, imitando il tono confidenziale della conduttrice, «non penso che sarà all’altezza. È troppo ossessionata dalla vendetta contro di me per riuscire a difendermi degnamente! Non avete idea», continuò, sapendo che questo era esattamente il motivo per cui l’avevano invitato, «di quanti dispetti mi abbia fatto da quando è stata assunta! Mi ha fatto aspettare tre ore al nostro primo incontro, mi ha schiaffeggiato ripetutamente, colpito con un mattarello nel momento in cui è stata costretta ad ospitarmi e perfino chiuso a chiave in casa sua!», fece una pausa drammatica, per assicurarsi l’attenzione di tutti i presenti e di ogni telecamera, per poi finire il suo tragico racconto, «Non importa quale sarà la sentenza del giudice, sento che così sto già espiando la mia colpa!»
 
***
 
Dall’altro lato dello schermo, seduta al fianco di Gwen – che probabilmente in quel momento temeva per la sua incolumità – Courtney tremava dalla rabbia. Non era possibile, ci doveva essere un errore, non aveva sentito quello che aveva sentito. E invece, lo scoscio di applausi al termine dell’arringa del suo demoniaco cliente e gli incoraggiamenti disperati delle sue fan le confermarono che sì, lei aveva sentito quello che aveva sentito.
Il suo primo istinto fu quello di lanciarsi in un lunghissimo elenco delle torture fisiche e spirituali a cui avrebbe sottoposto Duncan, in modo che rimpiangesse quelle sciocche angherie con cui l’aveva umiliata in diretta nazionale, di nuovo – quindi trascorse quasi tutta la pausa pubblicità chiamata da Chris per urlare contro Gwen e Trent, che l’ascoltarono impassibili e forse un po’ preoccupati per la sua stabilità mentale. Il suo secondo istinto fu invece quello di chiamare John Smith e dirgli che lei dava le dimissioni, che quell’imbecille si sarebbe potuto anche difendere da solo, viste le sue doti istrioniche – tuttavia, un’azione del genere non avrebbe fatto altro che confermare pubblicamente le accuse di Duncan, che aveva già leso abbastanza alla sua immagine. Il suo terzo istinto, quello che poi effettivamente seguì, fu quello di chiamare Heather – cosa di cui sapeva si sarebbe pentita, perché l’altra non le avrebbe mai dato il suo aiuto senza almeno un po’ deriderla dell’accaduto.
Infatti, appena Heather rispose, non si sentirono altro che le sue risate. “Oddio”, disse, quando riuscì a calmarsi, “se continua a parlare così qualcuno sarà costretto a denunciarti per abusi domestici”. Courtney non nascose la smorfia di fastidio, che non fece altro che distorcere i suoi lineamenti già imbruttiti dalla rabbia. “Come mi vendico?”, le rispose invece, decisa a non perdere tempo e a muoversi il più in fretta possibile.
«Courtney…», cercò di richiamarla Gwen – probabilmente per farle notare che un’altra vendetta non avrebbe risolto nulla e che forse (forse) era il caso di cominciare a comportarsi da persona adulta dopo esserselo ripromessa per così tanto tempo senza mai riuscirci – ma un pronto intervento di Trent la convinse a desistere.
Courtney non era sicura che affidarsi completamente alle mani di Heather sarebbe stata una buona idea – in realtà, era sicura che non lo fosse – ma il suo infantile desiderio di piegare Duncan aveva come sempre avuto la meglio. Si sentiva tradita, umiliata e non sapeva come sarebbe riuscita a guardare in faccia uno qualsiasi dei suoi futuri clienti – sempre che ce ne fossero stati – dopo le parole accusatrici del ragazzo.
“Suppongo che il nostro obiettivo sia quello di vederlo strisciare”, borbottò quasi tra sé e sé Heather, e Courtney si ritrovò ad annuire convinta contro il telefono. “Beh, nonostante sia certa che fare il gradasso davanti a tutti l’abbia divertito, credo che non ci metterà molto a realizzare che alla fine dovrà pur sempre rincasare da te, quindi avrà già la sua buona dose di guai.”, la ragazza si fermò per riflettere, poi riprese: “Fa’ la vittima, mostrati terribilmente ferita dal suo comportamento, digli che ti aspettavi di più da lui e poi ignoralo. E fallo seriamente”, concluse seria.
Courtney si sentì quasi scoppiare. “Mostrarmi ferita? IO? Per cosa, dargli la suprema soddisfazione di avermi sconfitto? Spero tu stia scherzando!”, sbraitò sconvolta. Insomma, l’aveva chiamata per riuscire a frantumare quel pezzo di merda che adesso stava continuando a ingiuriarla in televisione, non per farsi mortificare ulteriormente.
“Ascoltami, sciocca. Non fare finta di sapere qualcosa su come vendicarsi di qualcuno, considerando che la tua idea di ripicca è nella maggior parte dei casi per via fisica o legale, il che è molto primitivo, se proprio lo vuoi sapere. Quell’idiota si aspetta che tu sia furiosa, perché è esattamente il tipo di reazione che voleva ottenere; naturalmente, se ti mostrerai delusa, lo spiazzerai e lui non saprà come comportarsi, ma la soluzione più ovvia – dato che dovete comunque lavorare insieme – sarà quella si strisciare come il verme che è fino a quando non gli concederai la grazia. È tutto chiaro o hai bisogno di uno schema?”. Non sapeva effettivamente come reagire di fronte alla spiegazione della ragazza: doveva riconoscere che aveva ragione, e che forse i suoi metodi non erano molto efficienti – benché la soddisfacessero ugualmente –, ma l’idea di vittimizzarsi di fronte agli occhi impietosi di Duncan continuava a non piacerle.
Capendo i tentennamenti che la stavano attraversando, Heather non ebbe altra scelta che giocarsi la sua ultima carta per convincerla: “C’è sempre un’altra soluzione”. A quelle parole Courtney quasi si illuminò. “Seducilo, fallo innamorare di te e poi scaricalo allegramente”. Sentendo il silenzio dell’altra, sorrise. “Devo dedurre che la mia seconda idea ti piaccia di più?”
“Ma insomma!”, esplose Courtney, mentre Gwen la guardava con aria interrogativa, “Per quale tipo di sgualdrina mi hai preso?”, sibilò – a quelle parole, Trent non poté trattenere una risata – Non vorrei sedurre quel maledetto troglodita nemmeno se mi pagassero il suo peso in oro!”.
A quel punto, decise che non le restava altro che seguire il primo suggerimento della quasi signorina Wilson e capire come si sarebbe comportato quel viscido essere che continuava a sciorinare aneddoti più o meno veritieri sul loro rapporto davanti a milioni di spettatori.
«Gwen, ti dispiace restare qui stanotte? Sento che è una cosa che devo fare da sola.», affermò convinta. “Di’ pure che non vuoi testimoni per la tua scena madre!”, sbuffò Heather, prima che Courtney chiudesse di scatto la comunicazione. L’avrebbe ringraziata tra qualche giorno, quando avrebbe avuto un incontro con Alejandro e il suo avvocato per cercare un accordo sul divorzio.
«Figurati se le dispiace restare qui stanotte!», disse Trent con un sorriso malizioso, avvolgendo Gwen in un abbraccio. «Bene, allora io vado.», annunciò, come se stesse partendo per la guerra, lanciando un’ultima occhiata ai ragazzi che già sembravano aver dimentico che lei era ancora con loro. Fece finta di reprimere un conato di vomito guardandoli e guadagnando un paio di sorrisi.
Si chiuse la porta alle spalle e chiamò un taxi per farsi portare a casa. Quella sarebbe stata una lunga notte.
 
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Note dell’autrice:
Salve a tutti! Riprendo questa storia dopo averla abbandonata per più di due anni (cosa di cui non vado propriamente fiera) con l’obiettivo (spero) di riuscire a portarla a termine. Questo capitolo – un po’ come il precedente – è di passaggio per i prossimi, ma spero comunque che non vi abbia annoiato!
Ci sono un paio di precisazioni che vorrei fare, prima di lasciarvi:
  • Credo di aver sfiorato l’OOC Gwen, dipingendola così entusiasta per la proposta di Trent, tuttavia ho pensato che trattandosi del suo matrimonio, ci potesse anche stare.
  • La Cbc è la Canadian Broadcasting Company, che esiste effettivamente anche se non ho fatto ulteriori ricerche su una sua seda a Toronto (anche se suppongo ci possa essere).
  • Il secondo suggerimento di Heather sulla vendetta di Courtney doveva in realtà essere un primo leitmotiv per il loro riavvicinamento, poi ho sentito puzza di cliché e ho cambiato idea.
Penso di aver detto tutto e spero di essere in grado di aggiornare con il prossimo capitolo tra una/due settimane.
A presto!
Fede ♥

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Capitolo 6
*** • Capitolo VI ***


NdA: grazie di cuore a tutti quelli che hanno recensito/letto/seguito la mia storia, questo supporto significa davvero molto per me e mi spinge a voler continuare a scrivere!
Buona lettura,
Fede

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«Every shipwrecked soul knows what it is to live without intimacy»
 
  • Capitolo VI
Forse aspettarlo da sola non era stata una buona idea, forse avrebbe dovuto permettere a Gwen di tornare a casa con lei. Non riusciva a calmarsi mentre saltava da una stanza all’altra fremente di rabbia, indecisa su cosa dire, ma sicura che al momento le parole non le sarebbero mancate. Forse avrebbe dovuto fare una lista, così non avrebbe mancato nessuno dei motivi per cui era furiosa con Duncan – punto numero uno: averle quasi distrutto la carriera; punto numero due: averlo fatto in diretta nazionale; punto numero tre: avere la faccia tosta di essere tornato in casa sua dopo i precedenti punti. Cercò un foglio per potersi appuntare tutto, ma la mano le tremava e non riusciva a scrivere nulla.
Forse dovrei ammazzarlo, pensò tra sé, così finalmente smetterà di fare danni.
Respirò a lungo più volte, tentando di regolare i suoi battiti. Forse doveva chiamare Gwen e dirle di precipitarsi da lei, forse non era troppo tardi per fa-. La sua cascata di pensieri si fermò nel momento in cui sentì il campanello bussare – una piccola parte del suo cervello, mentre si apprestava ad aprire la porta, ebbe appena il tempo di pensare: “Bene, si va in scena”, prima che una valanga di insulti investisse il ragazzo che aveva appena messo piede nell’atrio.
«TU!», ululò, lasciando esplodere il ribrezzo che si era tenuta dentro a stento nei minuti precedenti, «Brutto idiota decerebrato! Hai idea di quello che hai fatto? Sei un essere viscido, incurante, insensibile! Non puoi non avere idea di quello che hai fatto!», continuò, inserendo qui e lì qualche insulto. Il ghigno che si formò sul volto del ragazzo dovette farle capire che stava deviando eccessivamente dal piano che aveva elaborato Heather, così decise di abbassare i toni, pregando qualche divinità della recitazione di farla apparire il più credibile possibile – era un avvocato, maledizione, se non sapeva recitare lei allora chi doveva riuscirci?
Nascose il volto dalla vista del ragazzo, per darsi il tempo di cambiare espressione e magari di buttare giù qualche lacrima. «Io…», singhiozzò, con appena un filo di voce, come se le urla di poco prima non le appartenessero davvero – o, cosa più vera, come se l’avessero stancata – «Io mi aspettavo di più da te, Duncan».
Capì di aver fatto centro quando vide il ghigno del ragazzo smaterializzarsi e si complimentò mentalmente con l’amica – Duncan sembrava effettivamente disorientato, come se non avesse idea di quello che stava succedendo, di dove avesse sbagliato per farla reagire così, o meglio, perché lei stesse reagendo così. Decise di approfittare del momento di smarrimento per rincarare la dose.
«Io non credevo che mi odiassi in quel modo, sono consapevole che non abbiamo mai avuto un buon rapporto – non sono certo una sciocca –», precisò tra le lacrime, «ma speravo che almeno potessimo provare ad avere una relazione civile», accentuò la delusione su quella parola, «anche ignorandoci o facendoci dispetti. Invece…»
Era pronta a darsi alla sua scena madre, un susseguirsi di rimpianti e ferite sulle offese arrecate in diretta nazionale, ma all’ultimo decise di sfruttare la sua innata abilità di piangere a comando e scoppiò in un oceano di lacrime, scappando in camera sua e lasciando Duncan con una faccia costernata e odiosamente confusa.
Chiuse con un tonfo la porta e vi si accasciò contro, facendo piccoli respiri per fermare le lacrime – forse sfogarsi così le aveva fatto bene, ma le guancie le scottavano per l’umiliazione di essersi mostrata così debole ad una persona a cui non poteva importare meno di lei.
Ulteriore prova del menefreghismo della suddetta persona era la sua mancata reazione: nulla, se non un’espressione poco dispiaciuta aveva lasciato intendere un suo possibile rimorso. Forse Heather aveva sbagliato, forse non c’era differenza, per lui, tra le sue urla e le sue lacrime.
Come se ci fosse mai stata.
Courtney sapeva benissimo di starsi comportando come un’adolescente – peggio dell’adolescente che era stata – ma ormai non riusciva più a fermarsi. Non tollerava l’indifferenza di Duncan, il nodo alla bocca dello stomaco che la stava accompagnando da settimane e che riusciva a stento ad ignorare – la sensazione di essere sempre tradita, ogni volta che le rivolgeva la parola o la guardava o respirava la sua stessa aria. Un coltello che andava sempre più a fondo, sempre più spesso. Ed era davvero una cosa ridicola.
Erano passati anni e le sue azioni non facevano altro che dimostrare che in fondo non l’aveva mai perdonato, che le sensazioni e i ricordi di quel periodo a volte tornavano a vivere in lei come se fossero appena trascorsi – si era sforzata di seppellirli, ci era riuscita, aveva nascosto tutto sotto la sua brillante carriera e la sua insoddisfacente relazione con Scott e si era allegramente trascinata in questo guaio, lavorare per Duncan, vivere con Duncan, soffrire a causa di Duncan come se non ne fosse affetta per nulla. Adesso però ne era affetta, sentiva il bisogno di quelle attenzioni che era convinta di non volere – no, non era più interessata a Duncan, almeno romanticamente. Di questo ne era certa. Tuttavia in quel momento desiderava le scuse del ragazzo, forse non solo per gli avvenimenti di quella sera.
Avrebbe voluto saperlo seduto dall’altra parte della porta, indeciso su cosa dirle, in attesa di qualche suo segnale. Voleva sentire l’esitazione nella sua voce e vedere il pentimento nelle sue azioni – voleva che Duncan fosse affetto da lei. Forse solo allora avrebbe trovato un po’ di pace e la forza necessaria per lasciarselo alle spalle.
Era stata una pessima idea, accettare quel caso – avrebbe dovuto lasciare Edward a bollire nel maledetto calderone dei casi difficili da gestire. Era stata una pessima idea, ospitarlo a casa sua – avrebbe dovuto darlo in pasto ai paparazzi. Era stata una pessima idea, chiedere aiuto a Heather – avrebbe dovuto ignorarlo e convivere con la consapevolezza che lui non si sarebbe mai pentito.
Eppure era stata un animale istintivo, compiendo scelte che sul momento le sembravano le migliori, ma che in ultima analisi non erano state in grado di mantenerla al sicuro.

 
***

In quel momento, Duncan aveva un’unica certezza: Courtney non poteva essere seria.
Doveva trattarsi di qualche sorta di scusa per farlo sentire in colpa – doveva sapere che non ci sarebbe mai riuscita se si fosse semplicemente mostrata innervosita. Probabilmente, era tutta una messa in scena.
Eppure non riusciva a fare a meno di pensare che forse – forse – quella volta aveva esagerato. L’aveva accusata di cose non eccessivamente gravi, e soprattutto vere, ma l’aveva dipinta come un demone torturatore di fronte a milioni di persone e sapeva quanto la ragazza tenesse alla sua immagine pubblica – sapeva quanto fosse importante per il suo lavoro.
Dannazione, proprio perché lo sapeva, aveva deciso di giocarsi quella carta. E allora perché sentiva il bisogno, se non di scusarsi, almeno di motivare il suo comportamento? In fondo, era scoppiato in quel modo perché Courtney gli aveva giocato un altro colpo basso, incurante delle conseguenze; cosa credeva, che avrebbe potuto continuare a stuzzicarlo in quel modo impunemente? Non aveva lasciato correre su altri dispetti, prendendosi più o meno piccole rivincite, quindi perché avrebbe dovuto permetterle di umiliarlo senza pagare?
Perché avrebbe dovuto reagire in quel modo? Cosa si aspettava da lui? Credeva davvero che il loro rapporto sarebbe potuto tornare ad essere civile? – quando mai lo era stato?
Per un istante fu invaso dal terrore che i sentimenti della ragazza si fossero risvegliati nel corso di quella strana convivenza che avevano portato avanti – no, si disse, scrollando le spalle, non è possibile. Spesso dubitava dell’esistenza stessa dei sentimenti di Courtney per lui. Non era stato altro che un capriccio del momento, la reazione stessa della ragazza dopo la loro rottura non aveva fatto altro che confermarglielo – era stato il giocattolo che le avevano strappato di mano, i dieci minuti di ribellione che si era goduta prima di consacrarsi alla vita monotona a cui era predestinata.
In ogni caso, stava percorrendo il corridoio che separava l’atrio, in cui era rimasto imbambolato come uno sciocco dopo lo sfogo di Courtney, dalla sua stanza. Fissò per un po' la porta, indeciso se bussare o palesare in altro modo la sua presenza oppure girare i tacchi e lasciarla alla sua autocommiserazione – si stava davvero auto commiserando in quel momento? Non riusciva ad escludere la possibilità che fosse una trappola per costringerlo a prostrarsi ai suoi piedi implorando perdono. Doveva essere una trappola, per forza. Non c’era altra spiegazione logica.
Quindi voltò le spalle alla porta e si allontanò lentamente, sperando che Courtney non sentisse i suoi passi. Aveva appena passato metà corridoio quando le sue orecchie furono letteralmente invase dai singhiozzi – doveva essere una trappola. Altro che Chris e Blaineley, che l’avevano quasi lasciato in pace dopo aver ottenuto il succulento e dettagliato racconto del suo rapporto con la ragazza, erano le sue trappole, quelle che doveva evitare a tutti i costi.
Invece decise di cascarci con tutti i piedi – non aveva davvero riflettuto, quando l’aveva sentita aveva girato i tacchi ed era tornato istintivamente sui suoi passi. Aveva bussato e, senza attendere risposte di alcun tipo, aveva sospirato: «Courtney… dai, smettila, sai benissimo che non volevo essere cattivo».
Era chiaramente una bugia, ma in quel momento i singhiozzi si interruppero e poteva quasi vederla, mentre contraeva la faccia nell’espressione più offesa che potesse riuscirle. Courtney aprì la porta di scatto e sembrava avere l’intenzione di urlare qualcosa di molto tagliente e decisamente poco educato, ma tutto quello che le uscì dalle labbra fu un singulto biascicato.
Non era quello che si aspettava, non doveva comportarsi così – doveva strillargli contro che era un idiota, che l’avrebbe mandato in galera e che avrebbe buttato la chiave. Doveva ricordargli che era un essere ignobile e doveva ritenersi fortunato ad averla come avvocato. Non doveva sembrare così vulnerabile, non doveva farlo sentire una merda per averle dato la lezione che si meritava e che si era cercata.
Se c’era una colpa, lì, era di Courtney, non sua. Non l’avrebbe lasciata vincere, non avrebbe ceduto al suo infimo giochetto – perché, cercò di convincersi, non era altro che l’ennesima trappola.
«Te la sei cercata», disse, sperando che suonasse come un sibilo antipatico piuttosto che come una fiacca giustificazione. «Non hai fatto altro che remarmi contro da quando ci siamo incontrati! Lavori per me, o contro di me?», le chiese, alzando la voce. Ignorò lo sguardo accusatore della ragazza ed emise uno sbuffo esasperato. «Non puoi fare questo. Non puoi mettere su uno spettacolo del genere nella speranza che strisci ai tuoi piedi, perché non lo farò!», concluse, calcando sulle ultime parole.
Courtney soffiò nella sua direzione. «Uno spettacolo? È questo quello che pensi?», strepitò. «credi davvero che io abbia finto tutto soltanto per ottenere le tue stupide scuse? Non me ne faccio niente, delle tue scuse! Non possono cancellare quello che hai fatto e di certo non possono ripararlo! Forse è stato un errore permetterti di tornare e di certo è stato un errore confessarti che mi aspettavo di meglio da te!», terminò, e stava per chiudergli la porta in faccia quando Duncan le afferrò il braccio.
«Aspetta! Io…», iniziò, dopo un momento di esitazione, «…non volevo. Scusa.», ammise, la voce appena udibile. Non voleva davvero scusarsi, pensò dopo un istante, voleva soltanto che Courtney smettesse di avere quella faccia da cucciolo bastonato. La vide fare una smorfia non meglio identificata e chinare il capo.
«…mh, okay. Se lo credi davvero…» bofonchiò Courtney. Poi gli disse che era davvero molto stanca e aveva davvero mal di testa e si chiuse in camera sua. Di nuovo.
Duncan avrebbe voluto dirle che no, lui non credeva davvero di essersi pentito, ma lei non gli aveva dato il tempo di ribattere nulla, nemmeno di chiederle cosa diamine le fosse successo. Scrollò le spalle e andò a buttarsi sul divano – cercò di ignorare la fastidiosa sensazione che il topo Alejandro, dall’alto della sua gabbietta sulla libreria, lo stesse guardando male.

***
 
«È stata l’idea peggiore del secolo! Non avevi idee così tragiche da quando abbiamo pedinato Alejandro! Insomma, l’ho colto di sorpresa, e alla fine si è scusato, ma ne è davvero valsa la pena? Insomma Heather, volevo che si scusasse, volevo che si interessasse a me! Non può essere una cosa normale, no?», Courtney continuò a blaterare sui dettagli dello scontro della sera precedente con Duncan, aggiungendo ogni tanto alcuni dei timori che si erano risvegliati in lei ieri.
Heather non la stava davvero ascoltando, o almeno le dava questa impressione. Mancavano pochi minuti all’incontro con Alejandro e il suo avvocato demoniaco e a quanto pare non riusciva a distoglierla in nessun modo dall’evento imminente.
«Heather, ho appena detto che hai avuto l’idea peggiore del secolo! Ho anche detto che ho dei sentimenti confusi verso Duncan – credo. Non hai intenzione di commentare? Niente? Battutina acida?», tentò, indecisa su come porsi nei confronti della ragazza – quando si trattava di Alejandro, Heather mostrava sempre una vulnerabilità che la preoccupava.
«Courtney, tu credi che io non sia capace di amare?»
Indietreggiò sorpresa di fronte a quella domanda – lei e Gwen scherzavano sempre su come Heather non avesse un cuore, e se pure l’avesse avuto, sarebbe stato di pietra – e rimase in silenzio, sperando che l’altra le desse ulteriori spiegazioni.
«Insomma, sai, con tutta questa faccenda del divorzio, e il fatto che io e Alejandro non riusciamo mai a far funzionare il nostro rapporto abbastanza a lungo, e questa è già la terza volta che finiamo in un aula di tribunale e mi chiedo se sia davvero il divorzio la scelta giusta, oppure non sia altro che un capriccio o la più cruda prova del fatto che non riesca nemmeno ad amare mio marito e…»
«Oh, Heather!», esclamò Courtney, che stava per lanciarsi in una filippica riguardo la sua capacità di amare quando vide le porte dell’ascensore alle spalle dell’amica aprirsi. Si spinse verso di lei, «ricorda che ti ha mandato i cioccolatini solo per rinfacciarti di essere ingrassata», sussurrò. Vide con soddisfazione il corpo di Heather irrigidirsi e il suo volto affilarsi – se c’era un momento per mostrarsi debole e dubbiosa, non era di certo questo.
«Courtney, cara, sei splendida come sempre!»
Alejandro avanzò a passo sicuro verso di loro, per poi baciarle galantemente la mano – quei trucchetti aveva da tempo smesso di avere effetto, ma facevano comunque parte del personaggio che Alejandro aveva costruito.
«Permettimi di presentarti il mio nuovo avvocato, la signorina Emma Mills», annunciò, volgendo lo sguardo verso la donna che lo seguiva, che prontamente le strinse la mano. Courtney aveva un’opinione troppo alta delle sue capacità per potersi sentire minacciata dalla presenza dell’avvocato della controparte, eppure la stava osservando con sospetto.
«Molto piacere», affermò, benché poco convinta. «Avvocato Mills, la mia assistita, la signorina Wilson», proseguì indicando Heather, e in sottofondo sentì la risata secca di Edward – la quasi signorina Wilson era diventata una specie di barzelletta.
Heather non degnò l’avvocato di uno sguardo e si avviò a passo deciso verso lo studio di Courtney.
Sarebbe stato un lungo incontro.
Stava per chiudersi la porta alle spalle quando Lizzie le fece segno di avvicinarsi.
«Mi ha chiamato uno dei membri della band di supporto del signor Nelson, dice di essersi ricordato di qualche altro nome, ma che preferirebbe parlarne in privato», le comunicò, un po’ incerta della strana richiesta – nessuno dei due ragazzi sembrava avere anche solo un minimo concetto di tatto, quindi la cosa le parve quanto meno dubbia. Scrollò le spalle e le disse di fissare un appuntamento nel pomeriggio; se fosse riuscita a sopravvivere ad Heather, Alejandro e il suo avvocato, forse sarebbe riuscita a dare una svolta al caso di Duncan – magari sarebbe anche riuscita a costruire una blanda difesa.
Quando entrò nel suo ufficio non si stupì di vedere Heather ignorare prontamente qualunque cosa le stesse dicendo l’avvocato di Alejandro, che intanto fissava le spalle della quasi ex moglie con un sorriso sornione.
«Allora», esordì, sovrastando la voce dell’avvocato Mills, «spero che entro oggi riusciremo a trovare un accordo pacifico per permettervi finalmente di divorziare». Courtney non l’avrebbe mai ammesso, ma portare a termine il divorzio di Heather sarebbe probabilmente stato il più grande traguardo della sua carriera – se non altro per la quantità di precedenti fallimentari.
Heather sbuffò infastidita dal suo commento, il sorriso di Alejandro si aprì ancora di più.
Mills iniziò a spiegare: «Stavo appunto informando la signora Burromuerto» - Heather ringhiò - «che a prescindere da quanto verrà concordato oggi, il mio assistito ha comunque intenzione di citarla per calunnie.»
Courtney avrebbe voluto urlare. Sapeva che Heather avrebbe dovuto tenera la bocca chiusa durante la prima seduta in tribunale, ma non avrebbe mai immaginato che Alejandro volesse giocare quella carta contro di lei. Doveva inventarsi qualcosa, e anche alla svelta.
«Suppongo che il signor Burromuerto non abbia intenzione di cambiare idea, nemmeno di fronte all’evidenza che abbia cercato di avvelenare sua moglie?»
La scatola di cioccolatini inviata come segno di pace si sarebbe rivelata un’arma contro di lui – doveva soltanto mandare qualcuno a procurarsene un’altra dal contenuto dubbio. Prima che Heather potesse chiederle cosa diamine stesse facendo – a parte evitarle un altro pietoso ingresso in tribunale – e che gli altri potessero obiettare, si voltò verso Alejandro. «Signor Burromuerto, lei è a conoscenza delle allergie alimentari di sua moglie?»
Preso in contropiede, Alejandro annuì brevemente, nonostante il suo avvocato stesse chiaramente per dirgli di tacere. «Bene», proseguì Courtney, «allora può spiegarmi perché ha mandato una scatola di cioccolatini ripieni di marmellata di fragole a sua moglie?»
Vide Alejandro strabuzzare gli occhi, il suo avvocato prontamente dire che non avevano alcun tipo di prova e Heather affermare che si sarebbe assicurata di portare le prove di fronte a qualunque giudice – Courtney si sarebbe dovuta procurare delle prove non esattamente oneste, ma almeno poteva dire arginare quella prima crisi. Che divorzio ridicolo. La prossima volta non avrebbe aiutato Heather nemmeno per tutti i soldi del mondo.

 
***

Duncan aveva trascorso l’intero giorno in solitudine, rimuginando sugli avvenimenti della sera precedente. Si era scusato con Courtney. Appena la ragazza sarebbe tornata avrebbe fatto bene a chiarire che non aveva alcuna intenzione di scusarsi, e che non doveva assolutamente considerare una vittoria l’avvenimento della sera precedente. Anzi, avrebbe fatto meglio a considerare la gloriosa intervista che aveva concesso a Chris e Blaineley come la più grande sconfitta che era mai riuscito ad infliggerle.
Certo, si sarebbe sentito in colpa – non voleva sentirsi in colpa – ma non gliel’avrebbe mai mostrato. Tra qualche mese tutta quella storia sarebbe finita e con un po’ di fortuna si sarebbe liberato finalmente di lei – non riusciva a credere che potesse essersi aspettata di più, che potesse essersi aspettata una qualsiasi cosa da lui. Come se potesse darle quello che voleva.
Che poi, cos’era che voleva? Che si limitasse a seguire i suoi ordini come un soldatino? Che si interessasse al loro rapporto lavorativo? Che si preoccupasse di lei al di fuori del suddetto rapporto lavorativo? Eliminò sul colpo l’ultima opzione. Courtney era sempre stata chiara sul chiudere la loro relazione – e lui non aveva mai obiettato nulla. Si erano ignorati per dieci anni perché ormai non avevano più nulla da spartire, non provavano più niente e non potevano interessarsi di meno l’uno dell’altra. Courtney l’aveva odiato, l’aveva ignorato e l’aveva eliminato dalla sua vita – lui poteva tranquillamente dire di aver fatto lo stesso. E adesso bastavano poche settimane di vicinanza per riempire un burrone profondo dieci anni? Se anche lei avesse voluto, Duncan non voleva nemmeno provarci.
Immerso nei suoi ragionamenti com’era, non si era nemmeno accorto del rientro della ragazza che stava attualmente occupando i suoi pensieri. Courtney fece finta di non averlo nemmeno visto – sapeva benissimo che lui era lì – e svanì nel corridoio.
«Dobbiamo parlare», gli annunciò una volta tornata, mentre si dirigeva in cucina. Ma anche no, avrebbe voluto dirle, perché con la testa piena di teorie e supposizioni, l’unica cosa che mancava era che gli demolisse definitivamente il cervello dandogli altro materiale su cui arrovellarsi. Tuttavia, si limitò a seguirla, vedendola prendere una scatola dalla credenza e buttare giù una pillola. «È stata una lunga giornata, il mal di testa mi sta uccidendo», fu la risposta all’occhiata che le rivolse. «La prossima volta che ti cerchi una band di supporto, assicurati che conoscano le basi della grammatica», aggiunse con un verso frustrato.
«Ah, vedo che hai conosciuto i Vomitanti!», commentò con un ghigno. Aveva saputo poco delle indagini che stava svolgendo, e si era chiesto spesso se i ragazzi avessero già fatto una comparsa – avrebbe voluto assistere alla scena, ma forse Courtney si sarebbe limitata a picchiarlo. «Sono dei bravi ragazzi, solo un po’ fuori di testa», aggiunse, sperando di giustificare qualunque comportamento avessero avuto.
«Detto da te, deve essere quasi un complimento», grugnì Courtney. «Però devo ammettere che potrebbero essermi stati utili, una volta riuscita a decifrare quello che dicevano.»
Duncan ascoltò con relativa attenzione il più che dettagliato racconto del colloquio del pomeriggio, limitandosi ad osservare l’espressione della ragazza. Non sembrava portargli rancore per quanto successo il giorno prima – forse era troppo stanca per concentrarsi su una sciocchezza simile –, eppure c’era qualcosa di freddo e sbrigativo nel tono con cui gli stava parlando, come se non vedesse l’ora di finire e scappare di nuovo. Si chiese cosa le stesse davvero passando per la testa e represse con un brivido l’intenzione di domandarglielo – non doveva in nessun modo farsi coinvolgere da lei. Archiviato il caso gli avrebbe dato il benservito e non avrebbe più voluto saperne nulla, di lui.
«Duncan!», lo richiamò stizzita, «Mi stai ascoltando?»
«Uhm, sì, ecco, io…», esitò per un instante, poi scosse la testa, «Certo che ti sto ascoltando!», esclamò, riuscendo anche a sembrare offeso per una supposizione del genere. Courtney gli rivolse un’espressione dubbiosa, facendolo sentire come un insetto che era indecisa se calpestare o meno – quindi, prima di essere travolto dagli insulti della ragazza, si affrettò a confessare.
«No», sbuffò, scocciato per essere stato colto in flagrante, «Stavo pensando a…» - a quanto vorrei capire cosa ti sia successo ieri - «ad altro», tagliò corto infine.
«Hai mai sentito parlare di Berlin Milton?», gli chiese, apparentemente ignorando il focolaio di pensieri che lo stava tenendo occupato. Sulle prime Duncan non capiva dove volesse andare a parare. Vide Courtney portarsi le mani alle tempie e cominciare a massaggiarle – a quanto pare, quella era una delle cause del suo mal di testa.
«Ne sei proprio sicuro? Fai uno sforzo, per favore», gli chiese, con un tono che sarebbe dovuto essere un ruggito ma che assomigliava molto di più ad una supplica biascicata. Duncan cercò davvero di farsi venire in mente qualcosa, ma non aveva idea di dove Courtney avesse tirato fuori quel nome. Quando capì che non le avrebbe dato ulteriore risposta, si sedette e cominciò a parlargli lentamente – probabilmente più per il mal di testa che per permettergli di comprendere le sue parole.
«Berlin Milton è una ragazza.», lo informò, riservandogli poi un’occhiata che non seppe interpretare, «Più precisamente, è la figlia del proprietario dell’Ottawa Royal Palace.», aggiunse. «E, secondo quanto ricordano quei due scellerati che ti porti appresso, quella ragazza – che è la figlia del proprietario dell’Ottawa Royal Palace, il cui direttore, che è un suo sottoposto, ti ha citato in causa – era con te a quella dannatissima festa.»
Duncan stava per precisare che lui non ricordava assolutamente niente di quella sera, ma Courtney, il cui tono andava inasprendosi, gli fece cenno di tacere. «Non solo», ringhiò, «era con te durante la festa, ma sembra che ad un certo punto siate spariti – insieme – mentre l’orda che ti accompagnava si dedicava alla metodica distruzione di pezzi di antiquariato di cui preferirei non dover ricordare tutti i dettagli!», concluse, con un tono molto più irritato e sicuro di sé di quello che aveva quando aveva iniziato a parlare.
Duncan ebbe appena il tempo di assorbire le informazioni ricevute, quando il risultato delle elucubrazioni precedenti non si attardò a scivolargli da bocca.
«Principessa, sei gelosa?»
 
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Note dell’autrice:
come reagirà Courtney a questa provocazione? È davvero gelosa, o solo seccata per tutti i problemi di lavoro che sta vivendo? (hint: probabilmente la seconda)
Sono contenta di essere riuscita completare questo capitolo e spero di riuscire a pubblicare il secondo entro la fine del mese (che sarà anche il giro di boa della storia, considerando che ho previsto 14 capitoli)!
Non sono sicura di averlo già specificato, ma Emma, avvocato di Alejandro, è un prestito da Missione Cosmo Ridicola, così come i Vomitanti (Rock e Spud) e credo che compariranno altri personaggi prima di raggiungere la conclusione. Berlin Milton potrebbe essere un riferimento a Paris Hilton (così come lo era London Tipton in Zack&Cody) e di certo non sarà l’ultima volta che la vedrete.
A presto,
Fede ♥

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Capitolo 7
*** • Capitolo VII ***


NdA: sono finalmente tornata! Il fatto che questa storia sia in corso da quattro anni e non sia ancora riuscita a finirla è un po’ imbarazzante, ma ultimamente ho ripreso a scrivere in maniera più frequente e quindi spero di poter pubblicare nuovi capitoli nei prossimi mesi! Vorrei comunque ringraziare quando hanno recensito, o comunque anche solo letto questa in attesa di nuovi capitoli! Pensare che ci sia qualcuno che voglia leggerli mi dà sempre motivazione per proseguire!
Buona lettura!
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«Like every fallen leaf on the breeze.»
 
  • Capitolo VII
 
Courtney rimase immobile, sconcertata dalle parole di Duncan. No, si disse, ovviamente non sono gelosa. Il fastidio che provava alla bocca dello stomaco era semplicemente dovuto alla delusione – l’ennesima – provata quando aveva ormai capito che l’uomo che le stava davanti non era altro che una versione leggermente più adulta del ragazzo che si era lasciata alle spalle – ossia, aveva semplicemente più anni.

«No, Duncan!», strepitò, la sua voce sembrava quella di un’oca starnazzante, «Ovviamente non sono gelosa.», affermò, ricomponendosi. «Non. Sono. Gelosa.» scandì, per sottolineare definitivamente la sua presa di posizione. Non lo sono mai stata, avrebbe voluto aggiungere, ma avrebbero saputo entrambi che si trattava di una bugia. Courtney si vantava di essere una persona responsabile e dal sangue freddo, ma in realtà era tristemente consapevole di essere una creatura impulsiva e infantile – questo non la fermava dal fare del suo meglio per nasconderlo.

Lo sguardo che Duncan le rivolse sembrava suggerire che lui non le credeva affatto, ma lei lo ignorò e cercò di tornare all’argomento principale. «Hai capito quello che ti ho detto finora, vero?», chiese accigliata. L’altro annuì brevemente.

«Bene, allora capirai anche che se riuscissi a convincere questa benedetta ragazza a testimoniare che lei aveva in qualche modo acconsentito al macello che hai combinato, le mie possibilità di parare il tuo culo e salvare la mia faccia aumenterebbero sensibilmente.», spiegò.

Doveva ammettere che benché le recenti scoperti l’avessero indubbiamente infastidita, sapere che c’era una via di scampo a portata di mano l’aveva completamente risollevata. Forse Duncan non le avrebbe rovinato la carriera con la sua stupidità e forse sarebbe riuscita a liberarsi di lui in tempi molto più brevi di quelli a cui aveva inizialmente aspirato. Represse l’istinto di mettere il broncio al quel pensiero e rivolse uno sguardo interrogativo al ragazzo, aspettandosi un commento da lui.

«C’è un solo problema…», le spiegò, stranamente imbarazzato. Courtney alzò un sopracciglio e si preparò al peggio, ormai rassegnata all’idea che nulla in quella situazione le sarebbe stato offerto su un piatto d’argento. Duncan si grattò il collo a disagio, indeciso se proseguire – probabilmente per non farla arrabbiare. Alla fine lo sguardo che gli lanciò dovette convincerlo, perché le disse: «Non mi ricordo nulla, di quella sera. Non ho idea di chi sia questa ragazza. Non saprei nemmeno come contattarla – e non è che muoia dalla voglia di farlo», concluse.

Courtney si passò una mano sul volto lentamente, cercando di cancellare l’espressione distorta dalla rabbia che sapeva di aver in quel momento. Duncan non è poteva essere serio. Non c’era nessun motivo per cui non dovesse voler almeno provare. Ne avrebbero beneficiato tutti – ne avrebbe beneficiato lei e questo era abbastanza per costringerlo.

«Senti», iniziò, pregando di sembrare più persuasiva che disperata, «perché non ci pensi, almeno un po’? Potrebbe essere almeno un punto di partenza – e sarebbe anche il caso che tu incominciassi ad interessarti della tua stessa difesa, dopo tutto quello che sto facendo per te!», terminò, la voce un’ottava più alta di quando aveva iniziato. Sospirò rumorosamente e si allontanò dal ragazzo, sperando che avendo del tempo per rifletterci, alla fine si sarebbe convinto.

In oltre, non poteva davvero continuare a fare tutto da sola: in qualità di damigella d’onore della sposa, doveva aiutare Gwen con il suo matrimonio, e in qualità di avvocato della quasi signorina Wilson, doveva procurarsi quelle benedette prove e sperare che né Alejandro né il suo avvocato decidessero di discuterne davanti alla corte – quello sì che le avrebbe distrutto la carriera.
 

***
 

Effettivamente, Duncan ammise, Courtney non ha tutti i torti. Non aveva mosso un dito per aiutarla a difenderlo – ad essere onesto, molto spesso non aveva fatto altro che peggiorare la situazione. Era forse il caso che iniziasse a darsi da fare, per dimostrarle almeno un briciolo di gratitudine? Si sentiva strano, il desiderio di aiutarla era quasi assurdo come i suoi sensi di colpa – che non erano davvero tali, si ricordò – eppure, in ogni caso, non aveva niente di meglio da fare che almeno tentare.

Si trascinò a passi pesanti nel corridoio e arrivò alla sua porta – per la seconda volta in ventiquattro ore – e alla fine decise di non bussare. Qualunque cosa avesse intenzione di dirle, poteva aspettare la mattina: non le avrebbe dato la soddisfazione di vederlo scodinzolare davanti alla sua porta chiusa due notti di seguito.

Avere a che fare con Courtney era diverso da come se l’era aspettato: non peggio, decisamente non meglio, semplicemente diverso. Si trovava praticamente a vivere con un’estranea, che a volte ancora di comportava come la ragazzina di cui era stato innamorato, altre volte non era che un irriconoscibile riflesso di quello che era stata. C’erano momenti in cui avrebbe voluto sapere cosa le fosse accaduto, mentre il burrone che li separava diventava sempre più profondo – il pensiero di Courtney non l’aveva sfiorato per anni, e adesso era l’unica cosa che riusciva a pensare.

Il mattino seguente, quando si svegliò, Courtney era miracolosamente ancora a casa. Decise che se doveva fare una mossa – e sentiva il bisogno fisico di fare una mossa, di fare qualcosa pur di smettere di pensare –, doveva farla adesso.

«Courtney.», la chiamò. Lei si girò stizzita, mescolando aggressivamente il suo caffè e iniziando a battere furiosamente un piede – se il buongiorno si vedeva dal mattino, quella sarebbe stata una lunga giornata.

«Vorrei che mi dicessi», iniziò cautamente, «cosa devo fare per aiutarti.»

Courtney lo fissò guardinga, chiaramente indecisa tra il cedere e farsi aiutare – cosa che lei stessa aveva chiesto, maledizione! – e il mantenere il suo orgoglio e la possibilità di rinfacciargli di essere inutile. Stava finalmente per aprire bocca quando le squillò il telefono.

“Gwen? Si, ciao, dimmi.”

“Sì, certo, so che devo spedire gli inviti.”

“Sì, sì, lo so che oggi dobbiamo scegliere i vestiti per le damigelle.”

“Sì, non ti preoccupare, mi assicurerò che la zia Christabel sia fatta sedere il più lontano possibile.”

“Sì- certo- okay- sì- va bene, ciao.”

Tutto quello che le uscì di bocca fu un grugnito spazientito. Lo guardò con aria irritata e poi disse: «Se mai ti dovessero chiedere di fare la damigella, di’ di no.»

Duncan dovette trattenere una risata e lo sguardo affilato di Courtney si ammorbidì per un istante.

«Vuoi essermi d’aiuto? Allora», iniziò, frugando nella borsa, «questi sono gli inviti per il matrimonio di Gwen.», spiegò, porgendogli un pacchetto. «Mettiti un cappello e un paio di occhiali da sole e valli a imbucare. Cerca di capire come contattare quella benedetta ragazza. Uh, è trovami dei cioccolatini ripieni di marmellata di fragole. devono essere assolutamente di questa marca.», specificò, scribacchiando il nome su un pezzo di carta. «Cerca di non farti vedere mentre lo fai, è fondamentale. La mia carriera – che tu hai già minato abbastanza – dipende da questo.»

Gli rivolse un sorriso che era più isterico che altro e marciò verso la porta.

Duncan rimase immobile con il pacchetto tra le mani e decise che non c’era altra soluzione che fare come gli era stato detto – magari sarebbe riuscito a ricucire lo strappo precedente. Cercò di camuffarsi come meglio poteva: in fondo ne era perfettamente capace, ma perché mai avrebbe dovuto rinunciare alla folla di fan adoranti che si riunivano intorno a lui ogni volta che metteva piede fuori casa?

La prima parte era facilissima: si recò alle poste di Toronto e si assicurò che gli inviti fossero consegnati rapidamente – forse una o due persone l’avevano riconosciuto, di certo un paio l’avevano guardato malissimo. La seconda parte era leggermente più complessa e pertanto decise di affidarla all’unica persona che sapeva sarebbe riuscita a portare a termine l’incarico – l’unico ed inimitabile, John Smith. La terza parte fu semplice come la prima e davvero non capiva come fare quelle sciocche commissioni sarebbe stato d’aiuto a Courtney ma il suo obiettivo era quello di mantenerla tranquilla e contenta per cui andava benissimo così.

L’esser stato così rapido ed efficiente gli lasciava tempo per un’ultima missione, della massima delicatezza e di cui Courtney non sarebbe mai dovuta venire a conoscenza: c’era una sola persona che sarebbe riuscita a rispondere alle sue domande e ai suoi dubbi su Courtney e che forse gli avrebbe permesso di riprendere il controllo del loro rapporto.

La Galleria Nazionale di Toronto era a tre fermate di metropolitana dall’appartamento delle ragazze: un edificio imponente, pieno di roba inutile che non interessava davvero a nessuno, e sempre strapieno di turisti. Duncan li osservò per un po’ mentre attendevano pazientemente di poter entrare, sorseggiando la sua birra.

«Non dovresti iniziare a bere così presto.», lo riprese Gwen mentre ordivano un caffè doppio.

«Tu non dovresti assumere troppa caffeina.»

«Tu non hai a che fare con i turisti americani.»

«E tu non hai a che fare con Courtney.»

Gwen gli rivolse un’occhiata ironica prima di sedersi accanto a lui. Duncan non si aspettava davvero che accettasse di vederlo, soprattutto non per parlargli di Courtney. Quando glielo disse, lei sorrise.

«Se riusciste a trovare un punto di incontro, la sua vita si faciliterebbe – e riuscirebbe ad organizzare il mio matrimonio con molta più tranquillità.»
 

***
 

“Gwen, che significa che non riuscirai a venire?”

“Courtney, perdonami, mi hanno bloccato all’ultimo al museo con un gruppo che Karen non è riuscita a smaltire. Non preoccuparti, ho chiamato qualcuno che ti sarà di supporto!”

“Ma non posso scegliere io i vestiti delle tue damigelle! Rimanda l’appuntamento e basta!”

“Oddio, devo andare! Ricordati che è alle cinque e mezza!”

Courtney mandò un paio di sonore bestemmie all’altro capo della cornetta, che le rispose con un laconico tu tu tu tu. Avrebbe voluto urlare: a causa di Heather aveva dovuto sbrigare un sacco di scartoffie e lei e l’avvocato di Alejandro era state impegnate in un tango telefonico di quasi un’ora. Avrebbe ucciso Gwen, questo era poco ma sicuro: da un paio di giorni non faceva altro che abbandonarla con Duncan per stare con Trent, dormire a casa di Trent, andare a cena con Trent e per lavorare, ovviamente.

Fissò astiosa l’orologio che segnava in quel momento le cinque: lei a quell’appuntamento non ci voleva andare. Era stato un suggerimento della madre di Gwen, prenotare in una boutique specializzata – e a lei andava pure bene, ma cosa sarebbe successo se alle altre damigelle non fossero piaciuti i vestiti? Se non fossero piaciuti a Gwen? Emise un verso di sconforto e abbandonò riluttante il suo ufficio, sperando di trovare parcheggio in tempo.

Il negozio era riconoscibile da almeno un chilometro di distanza, con quell’esterno bianchissimo e le vetrine illuminate e coperte di fiori. Courtney c’era già stata per scegliere l’abito di Gwen il pomeriggio prima, ma di certo non le faceva piacere l’idea di doverci tornare – da sola, per di più, visto che la fantomatica sostituta di Gwen ancora non si vedeva. Visto che erano già passati alcuni minuti, Courtney decise che era stanca di aspettare e chiunque dovesse raggiungerla avrebbe potuto tranquillamente farlo ad appuntamento in corso.

Fu accolta da uno stuolo di commesse starnazzanti, impeccabili nei loro abiti rosa confetto, che cominciarono a tempestarla di domande sul tipo di evento, sui colori scelti, sui gusti della sposa per cercare di offrirle la soluzione migliore. Si accasciò esasperata su un divanetto e iniziò a sciorinare informazioni, annuendo o meno a seconda delle proposte. Si era anche quasi rassegnata all’idea di dover provare un paio di abiti, almeno per capire come le potessero stare, quando fu distratta da un paio di gridolini.

«Signor Nelson, siamo onorati della sua presenza! È qui per un lieto evento? Ha intenzione di convolare a nozze? Ah, ha appuntamento con la signorina?»

«Sì, sì, sono qui per i vestiti delle damigelle, ma sappiate che non ho nessuna intenzione di convolare a nozze, men che meno con quella ferocissima fanciulla!»

La ferocissima fanciulla, il cui sangue si era gelato nel momento in cui era riuscita a fare due più due, aveva intenzione di scatenare tutta la sua indole selvaggia e dare fuoco al cavallo di Troia che Gwen – come una novella Ulisse – le aveva appena regalato.

Consapevole di non poter fare una scenata, dovendo portare a termine la sua missione, si avvicinò sorridendo al ragazzo.

«Tu», sussurrò con il tono più stizzito di cui era capace, «che cosa ci fai qui?»

Duncan sembrò gongolare per un istante, prima di spiegarle che aveva incontrato Gwen per caso, mentre cercava di aiutarla ad organizzare il suo matrimonio, e che quest’ultima, resasi conto di non poter raggiungerla nel pomeriggio, aveva pensato che sarebbe stata un’idea deliziosa se avessero scelto gli abiti insieme.

Tutta la storia ovviamente le puzzava di marcio, perché non era plausibile in nessuno modo che Duncan avesse incontrato Gwen per caso, né tantomeno che l’amica usasse espressioni quali “idea deliziosa”, ma dato che Duncan non sembrava intenzionato a combinare guai, e dato che già si era dimostrato quantomeno utile, decise di lasciar correre.

«Allora, cosa avevi in mente?», le domandò, iniziando a rovistare tra i modelli appesi alle stampelle.

«Non ho nulla in mente! Ti sembro il tipo di persona che pensa ai vestiti da damigella?», rispose indignata.

«Dio, donna, tu sei negata per queste cose. Facciamo così, provati questo.», disse, allungandole un abito di pizzo azzurro polvere.

Courtney sentiva la sua sete di sangue aumentare ad ogni secondo. Chi si credeva di essere per dirle che era negata? Come osava quel troglodita che di certo indossava lo stesso paio di mutande da quattro giorni, accusarla di non essere in grado di scegliere dei maledetti abiti? Non ci voleva assolutamente nulla! Avrebbe scelto il primo abito che le capitava a tiro e avrebbe chiuso la questione.

«Courtney, cazzo, era una battuta. Rilassati.», le suggerì, sfoggiando uno sguardo che non sapeva se definire davvero pentito. «E poi», aggiunse, «io sono stato all’ultima settimana della moda di New York, mentre tu probabilmente stavi pulendo escrementi di topo.»

Courtney avrebbe tanto voluto commentare che pulire gli escrementi di topo era un’attività estremamente più piacevole che stare con lui, ma una delle commesse la batté sul tempo, complimentandosi sorpresa del fatto che Duncan avesse scelto uno dei colori più in voga della stagione.

Il ragazzo, fin troppo compiaciuto, le rivolse uno sguardo vittorioso e Courtney pensò che forse, alla fine, giusto per non rovinare il matrimonio di Gwen, poteva anche affidarsi a Duncan – così almeno avrebbe avuto qualcuno da incolpare se i vestiti non fossero piaciuti a nessuno.

«Stai pensando di affibbiarmi tutta la colpa se i vestiti non dovessero piacere, vero? Ce l’hai scritto in faccia.», la accusò. Courtney emise un verso di scherno. «Vai a provartelo.», le ripeté il ragazzo, scortandola personalmente al camerino. Quando Courtney si chiuse la porta alle spalle, lo sentì esclamare: «Ti aspetto qui fuori! Mi raccomando, voglio una sfilata degna di questo nome!»

Courtney iniziò a massaggiarsi le tempie. Avrebbe dovuto essere arrabbiata. Avrebbe dovuto tirargli contro una scarpa. Avrebbe dovuto lanciare un’imprecazione. Di certo non sarebbe dovuta scoppiare a ridere – ma era così stanca, stanca di sentire sempre quel peso sullo stomaco, stanca di vivere con la consapevolezza di potersi liberare di quel peso se solo si fosse lasciata andare. Duncan non era più il suo fidanzato, adesso erano insieme per caso, presto non lo sarebbero più stati – Duncan non poteva più ferirla davvero.

Forse avrebbe dovuto divertirsi, sfruttare il tempo che avevano insieme per dimostrarsi – per dimostrargli – che era davvero diversa, che non era più una ragazzina, che non era più capace di tirare fuori il peggio da lei.

Quando dopo pochi minuti uscì dal camerino, accentuando volutamente una camminata goffissima, si sentiva molto più leggera. Fece addirittura la linguaccia a Duncan, che si teneva la pancia dalle risate.

«Oddio, oddio, è orribile. Ti sta malissimo.», riuscì a dirle tra i singhiozzi. Forse dopotutto l’avrebbe ucciso. «Quello», continuò, indicando il vestito che effettivamente non era nemmeno un modello adatto a lei, «non è affatto il tuo colore.»

Poi si alzò e le fece cenno di seguirlo: la rispedì in camerino con almeno una decina di abiti da provare, ma sembravano uno più brutto dell’altro.

«Di’ la verità», ruggì dal camerino, «stai scegliendo apposta quelli che mi staranno peggio!»

Lo sentì ridacchiare. Avrebbe dovuto arrabbiarsi.

«Dai, prova questo.»

Dato che si era abituata ad uscire ed entrare dagli abiti automaticamente, si rese conto che di quello che le aveva passato soltanto quando uscì dal camerino e si guardò allo specchio.

«Duncan! Ma è nero!», esclamò inorridita.

«Complimenti per l’acutezza, Court.»

«Le damigelle non possono vestire di nero ad un matrimonio!»

«Devo obiettare, il lato gotico di Gwen apprezzerà enormemente. E poi almeno questo ti sta bene! Ti fa proprio un cul-»

«Non. Finire. Quella. Frase»

«-o da paura! Wow, davvero, sono sorpreso. Ahia!», si lamentò massaggiandosi lo stomaco, dove l’aveva appena colpito.

«Io vado a cambiarmi.», gli annunciò. Poi lo fissò minacciosa. «Chiedi aiuto alle commesse e spicciatevi a trovare l’abito perfetto. Ne va del matrimonio della mia migliore amica nonché della mia sanità mentale!»

Venti minuti, due vestiti e un giro di chiacchere inutili dopo, poteva finalmente abbandonare quella trappola mortale soddisfatta. Forse non era la fine del mondo, permettere a Duncan di essere stupido – di essere se stesso. Se solo non avessero sfoderato i coltelli nel momento in cui si erano rivisti, se si fossero dati la possibilità di parlare, avrebbe capito entrambi che non c’era più niente di cui avere paura, che a meno che non lo volessero non sarebbero tornati gli sciocchi di un tempo. Quello non era più il Duncan di cui era stata innamorata e non sarebbe mai stato di nuovo un Duncan di cui innamorarsi – non c’era più niente di cui avere paura.

«Ahh, sono stanchissima!», dichiarò, sprofondando sul sedile anteriore. «Allora, lo vuoi questo passaggio? Comunque devi tornare a casa mia.»
 

***
 
Era terrificante, vedere Courtney in quel modo: tutta sorrisi e cortesie e decisamente troppo allegra per essere considerata normale – aveva perfino salutato la signora Tobloskij con una serie di convenevoli assolutamente inutili. La vecchiaccia però non sembrava sorpresa, e non lo sembrava nemmeno Gwen, quando rincasando le aveva rivolto un sorriso a trentadue denti.

Poi le aveva detto: «Potrei ucciderti.»

Ma Gwen continua a parlarle rilassata, lui continuava a fissarle esterrefatto. Non aveva mai visto Courtney così, e quest’immagine così tranquilla della ragazza gli era ancora più sconosciuta di quella ferita di qualche giorno prima.

Che fosse tutta una trappola per ingannarlo? Che fosse soltanto un modo per disorientarlo?

Non riusciva proprio a lasciarsi il sospetto e le elucubrazioni alle spalle. Nemmeno tutte le informazioni che aveva ricevuto durante la mattina lo avevano aiutato: erano per lo più avvenimenti, piccoli pezzi di un puzzle che adesso toccava a lui comporre. Ma lui odiava i puzzle – e di certo odiava Courtney.

Okay, forse (forse) non la odiava, ma di certo sentiva di avere dei sentimenti negativi nei suoi confronti. Avrebbe dovuto batture tutti i suoi ragionamenti all’aria e abbandonare il caso, così non gli sarebbe rimasto altro che aspettare pazientemente la conclusione del loro rapporto lavorativo e chiudere per sembrare ogni contatto con lei.

Certo gli sarebbe mancato dover trovare nuovi modi per stuzzicarla, o farla propriamente imbestialire – magari gli sarebbe anche mancato dormire su un divano scomodo a cui ormai il suo corpo si era abituato, e gli sarebbero mancati gli squittii notturni di quel benedetto topo. Oppure no. Oppure di lì a un anno non si sarebbe nemmeno ricordato di che colore era, quell’orrendo divano, o di come fosse brutto, quel topo – non avrebbe ricordato la risata di Courtney quando Gwen faceva una battuta, non avrebbe ricordato il sapore disgustoso della pizza d’asporto che continuavano ad ordinare perché il ragazzo delle consegne era carino. Magari non ci teneva davvero, a tutto questo, e sarebbe stato di nuovo un troglodita privo di sentimenti.

«Duncan? Duncan?», Courtney gli sventolò una mano davanti al volto, «Idiota, mi stai almeno ascoltando? Ti ho chiesto dove hai messo i cioccolatini!»

Si riscosse immediatamente. «Sono dietro di te, idiota.»

Courtney emise un gridolino elettrizzato. «Perfetto! Non dovrebbe nemmeno essere necessario esibirli come prova in tribunale, il che sarebbe effettivamente un problema, basterà soltanto bluffare ancora un po’ con quel maledetto avvocato e almeno potrò far ritirare la denuncia per calunnia.»

La guardò interrogativo e Gwen si affrettò a spiegargli le dinamiche dell’ultimo divorzio di Heather.

«Il terzo? Mi stai dicendo che hanno già divorziato due volte e che hanno avuto la brillante idea di risposarsi entrambe le volte? Proprio due geni del male.»

«Ma magari avessero divorziato!», sbottò Courtney contrariata. «Mesi di duro lavoro per trovare un accordo, e alla fine si tirano sempre indietro. Sembra organizzato per farmi uscire di testa. Non troppo diversamente da te.»

«Ma almeno io sono carino!», protestò.

Courtney contrasse la faccia in una smorfia e poi si avviò verso la libreria per cacciare un fascicoletto.

«Questo è tutto quello che sono riuscita a ricavare dai testimoni.», annunciò, quasi tirandoglielo contro. «Se Gwen sarà così gentile da farci un caffè, direi che potremmo vagliarlo nel corso della serata e magari – visto che ultimamente ti senti così collaborativo – potresti anche sforzarti di darmi una tua versione dei fatti.»

Gwen, che era molto più intelligente e rapida di lui, era corsa a fare il caffè per poi spiegare che andava a dormire, visto che aveva un forte mal di testa – anche se era molto più probabile che lo volesse evitare, in quel modo, il forte mal di testa.

La prospettiva di passare ore sottoposto a quello stillicidio non lo entusiasmava: Courtney non avrebbe perso occasione per rinfacciargli che era un idiota, che la sua vita sarebbe stata molto più semplice se lui non fosse stato un idiota, che lei sarebbe stata molto più felice se la sua vita fosse molto più semplice e se lui non fosse un idiota.

Invece, dopo essersi scolata fino all’ultimo goccio di caffè e aver riempito di insulti più o meno tutte le persone di cui aveva letto le testimonianze – “questi erano così stupidi, questi puzzano, questi non riuscivano a metter insieme due frasi nemmeno per sbaglio, queste erano delle oche, Dio, Duncan, ma che razza di gente frequenti?” –, non solo sembrava di ottimo umore, ma addirittura ben disposta nei suoi confronti.

Non sapeva bene se fosse dovuto alla sua improvvisa collaborazione, al fatto che avesse effettivamente scelto degli abiti perfetti per le damigelle, oppure al fatto che si sentiva in colpa per come l’aveva trattato fino a quel momento, fatto stava che quella Courtney gli piaceva molto più di quella che si era ritrovato davanti dall’inizio delle sue disavventure giuridiche – cioè, non gli piaceva in quel senso, non nel senso che si sarebbe potuto innamorare di lei, perché lui non si sarebbe mai innamorato di lei, non di nuovo almeno, perché poteva essere stupido, questo glielo concedeva, ma di certo non era un masochista.

O no?

«Duncan, per amor del cielo, si può sapere dove hai lasciato la testa? È la terza volta che ti faccio la stessa domanda: cosa hai a dirmi su quella nefasta serata?»

La verità, che per qualche motivo non le aveva ancora detto, era che negli ultimi tempi – dopo essersi enormemente sforzato e aver usato quasi tutta la sua materia grigia, quindi poteva anche essere grata del suo impegno – aveva avuto dei ricordi, sebbene confusi, dell’accaduto.

Quindi iniziò a raccontarle quello che gli veniva in mente, dal piccolo gruppo di fan del backstage che dopo il concerto o aveva avvicinato, o di come fosse effettivamente molto ubriaco, del fatto effettivamente si ricordava che ci fosse una ragazza – e sì, si stava attivando per cercare di contattarla – fino a quando poi era diventato così stordito che c’era soltanto un sacco di rumore nella sua testa.

Courtney l’aveva ascoltato attentamente, aveva trascritto quasi ogni singola parola che gli era uscita di bocca, aveva rapidamente rielaborato tutto per farlo coincidere con le versioni degli altri testimoni e gli aveva spiegato come avrebbe proceduto la difesa con un’energia e una passione tali che a lui non restò altro che fissarla imbambolato.
 
 
 
 
 
 

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NdA: nonostante manchino ancora sette capitoli da qui alla fine della storia, direi che ormai la trama è tutta in discesa (circa). Spero che il cambio di sentimenti dei protagonisti non risulti affrettato, considerando che stavo già preparando un po’ di terreno, e che invece non vediate l’ora di scoprire come vivranno questo conflitto interiore! Nel caso ve lo stiate chiedendo, no, Gwen non era davvero impegnata, ha solo mandato Duncan sperando in una riconciliazione (inizialmente nell’ultimo pov di Duncan era inserita una scena in cui si spiegava quello che era effettivamente successo, però poi l’ho tagliata perché non molto inerente al resto del contesto). Duncan che ne sa di moda più di Courtney all’inizio mi sembrava una forzatura, poi ho pensato che lei è sempre con la testa nella scrivania, mentre lui è una rockstar, quindi forse sarei riuscita a far funzionare tutto.
Alla prossima, Fede ♥

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Capitolo 8
*** • Capitolo VIII ***


NdA: salve! Finalmente torno ad aggiornare! Il mio rapporto con questa fic, nel corso degli anni, è stato decisamente costellato da alti e bassi – il solo fatto che mi ci sono voluti quasi quattro anni per produrre otto capitoli è abbastanza vergognoso. Ma sento che questa è la volta buona che riesco a finirla. Il prossimo capitolo dovrebbe uscire per la fine di maggio. Vorrei ringraziare di cuore tutti colori che mi hanno lasciato una recensione, so di averlo detto molte volte, ma è estremamente stimolante sapere di non scrivere solo per me stessa, ma anche per quanti si sono appassionati alla mia storia!
Buona lettura ♥

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«And every gambler knows that to lose is what you’re really there for.»
 
 
  • Capitolo VIII
 
 
Duncan Nelson era un uomo disperato. Cioè, non necessariamente disperato, perché nel caso peggiore avrebbe potuto permettersi il miglior psicanalista della nazione, ma comunque un uomo provato. Ecco, Duncan Nelson era un uomo provato.

Il problema era pensare. Cioè, non proprio l’atto in sé, del pensiero, a cui come essere umano non avrebbe comunque potuto sottrarsi, ma era l’oggetto dei suoi pensieri. Il problema era Courtney. O meglio, il problema era pensare a Courtney, attività che ormai occupava il sessanta per cento delle sue giornate – gli faceva piacere pensare che il restante quaranta per cento fosse occupato da azioni assolutamente necessarie quali dormire, mangiare, pisciare e scolarsi tutte le lattine di birra a cui aveva accesso.

In realtà non voleva pensare a Courtney, di questo ne era sicuro. Ma era anche tristemente sicuro del fatto che nelle ultime settimane non fosse riuscito a combinare molto altro: da ben prima della sua chiacchierata con Gwen – che aveva sortito un effetto opposto a quello sperato – non faceva altro che arrovellarsi il cervello su quella ragazza e sul perché si stesse arrovellando il cervello su di lei.

La soluzione era in realtà lineare, tant’è che perfino lui l’aveva suo malgrado capito, ma preferiva comunque ignorarla e sforzarsi di trovare di un motivo secondario. Voleva convincersi di star analizzando la situazione per sferrare poi qualche tipo di attacco – non aveva ancora ben chiaro che tipo di attacco, né tantomeno perché avrebbe dovuto attaccarla, ma era così. Certamente era così.

L’aspetto peggiore era che anche Gwen sembrava aver trovato la soluzione, per cui ogni tanto ammiccava in maniera complice quando li lasciava soli: Courtney era convinta che fosse un loro modo per torturarla ulteriormente, e Duncan non poteva essere più che d’accordo, anche se quello torturato a conti fatti era lui.

Si era innamorato di Courtney? Sì.

Era disposto ad ammetterlo, anche solo nei suoi pensieri? Assolutamente no.

Per cui continuava a guardarla imbambolato, come in quel momento, mentre lei gli spiegava puntigliosamente tutti gli appunti della sua agenda, motivi per i quali lui avrebbe dovuto collaborare con la non più tirocinante Lizzie per risentire alcune testimonianze che non erano chiarissime o risultavano discrepanti.

«Duncan? Ti prego dimmi che hai capito qualcosa di quello che ti ho detto!»

«Sabato devi andare dalla sarta a ritirare il vestito, martedì alle sei devi essere dall’estetista, l’addio al nubilato di Gwen è venerdì per cui migrerò da Trent – onestamente avrei preferito fare da badante alla vecchietta qui affianco – e la parrucchiera sarà qui alle sette all’alba del grande giorno. Ah, il mio appuntamento con la tua segretaria è giovedì alle due e mezza.»

Aveva risposto senza neanche rifletterci, sciorinando la serie di informazioni che aveva appresso pendendo dalle sue labbra e forse era stato fin troppo incauto, perché adesso Courtney lo guardava come se gli fosse spuntata una seconda testa.

«Ho… detto qualcosa di sbagliato?», le chiese, pregando che la sua seconda testa e l’espressione sconvolta di Courtney sparissero al più presto.

«No- be’, sì- Lizzie non è la mia segretaria, ma-. Mi stavi davvero ascoltando?»

Certo che la stava ascoltando. Non faceva altro che ascoltarla: aveva pazientemente sopportato tutti i commenti alle notizie del telegiornale, aveva quasi origliato le noiosissime chiamate con sua madre, aveva definitivamente origliato le molto meno noiose conversazioni con Heather, che dimostrava di aver ampliato notevolmente la sua conoscenza sulla tortura. L’aveva sentita anche borbottare nel sonno, ma onestamente erano più un miscuglio di mugolii che parole vere e proprie, per cui non poteva contare come ascoltare.

Questo però ovviamente non gliel’avrebbe detto, perché lui non era innamorato di lei e quindi non c’era bisogno di indulgere nella questione un istante di più.

E qualunque divinità governasse il karma doveva essere d’accordo con lui, perché l’arrivo di una Gwen assonnata e stropicciata, ma estatica come lo poteva essere qualunque futura sposa, gli risparmiò l’atrocità di doverle davvero rispondere.

«Ehi, Courtney, alla fine hai chiesto ad Edward se potev- se poteva lasciarti venerdì prossimo libero?»

Courtney aveva iniziato a gesticolare violentemente, tentando di camuffare il tutto con un improvviso colpo di tosse e Gwen aveva evidentemente appena cambiato argomento. Duncan cercò di cogliere qualche indizio sul perché ci fosse qualcosa che Courtney chiaramente non voleva fargli sapere, ma dopo aver mandato giù una tazza di caffè Gwen si chiuse in bagno – senza nemmeno alludere al fatto che li stava lasciando soli! – e Courtney aveva rapidamente chiuso agende e recuperato documenti per dirigersi fulminea verso la porta.

Probabilmente Duncan avrebbe trascorso il resto della giornata interrogandosi su quel nuovo mistero – sì, era annoiato, sì, era colpa della noia se aveva iniziato a trovare Courtney interessante, sì, non vedeva l’ora che quel processo finisse per riappropriarsi della sua ben più elettrizzante vita – se l’arrivo di John non l’avesse salvato.

John Smith, suo agente da più di tre anni, era effettivamente un dono dal cielo. Duncan sapeva perfettamente riconoscere i momenti in cui la sua vita colava a picco da quanto fosse contento dell’esistenza del suo agente, che si prendeva tutte le rogne e gli permetteva – di solito – una vita in cui le sue azioni non avevano alcun tipo di conseguenze.

Dopo essere entrato, esordendo su come tutte le testate scandalistiche non stessero facendo altro che parlare di lui – Courtney se ne era profusamente lamentata un paio di giorni prima, se chiudeva gli occhi poteva ancora sentirla sbraitare –, gli annunciò che era il caso di iniziare a pensare al prossimo album – e soprattutto al prossimo tour, il tour era fondamentale per cercare di raddrizzare la sua immagine.

«John, non diciamo cazzate: i miei fan non hanno bisogno che la mia immagine venga “raddrizzata”, semmai dopo tutto questo trambusto mi toccherà dare scandalo per due mesi di fila pur di non perdere popolarità!», protestò, conoscendo perfettamente il suo target.

John scosse la mano, come a voler cancellare tutto quello che aveva appena detto: «Non hai idea della pubblicità che ti ha fatto questa situazione. Ormai tutto il Canada conosce il tuo nome, non c’è un singolo talk show che non abbia almeno un segmento riguardante il caso. Sulle piattaforme di streaming i tuoi singoli hanno subito un’impennata di ascolti che la tua etichetta non si sarebbe aspettata nemmeno in cinque anni: devi pensare che il tuo target è cambiato, si è ampliato e non a tutti piace l’immagine di “cattivo ragazzo a tutti i costi”.»

Duncan sbuffò contrariato. Lui non era un cattivo ragazzo, almeno non a tutti i costi. Sapeva però che se una direttiva veniva dai piani alti, era difficile ignorarla senza conseguenze.

«Inoltre», aggiunse molto contrariato, «sono riuscito a contattare quella benedetta ragazza, come mi avevi chiesto: attualmente è in Europa, la sua segretaria non ha la minima idea di quando rientrerà in Canada, ma ho lasciato il mio numero e chiesto di contattarmi non appena fosse possibile. Ti toccherà dire alla povera Courtney di riorganizzare la sua strategia.»

Povera Courtney. Pff.
 

 
***

 
La povera Courtney stava passando un brutto quarto d’ora. Un terribile quarto d’ora. Probabilmente il quarto d’ora peggiore della sua vita da quando Scott le aveva praticamente distrutto casa nel tentativo di uccidere Alejandro.

Non si sarebbe mai aspettata un tradimento del genere: questo era un voltafaccia allo stato puro.

«Eddie», piagnucolò, cercando di sembrare allo stesso tempo minacciosa, «non puoi farmi questo.»

Edward Fleckman, che conosceva da più anni di quanti le piaceva ammettere e che avrebbe dovuto essere suo amico, la guardava serenissimo, come se non l’avesse appena presa metaforicamente a calci.

«Courtney, carissima.», le rispose, e Courtney seppe che le sarebbe pure toccata un’arringa difensiva per giustificare lo scempio che aveva appena permesso accadesse. «Non credere che ti abbia detto no per pura cattiveria. Siamo nel ventunesimo secolo, abbiamo sdoganato la parità dei sessi – circa -», aggiunse, vedendola alzare gli occhi al cielo, «e mi sembra assolutamente inadeguato che una donna così forte e sicura di sé debba ricorrere a certi mezzucci per non fare la figura della zitella!»

«Non ho mai detto che avrei fatto la figura della zitella!», protestò livida. «Vorrei solo evitare che la damigella d’onore attirasse l’attenzione più per l’assenza di un accompagnatore che per altro!», specificò, trascinando nelle sue parole l’ombra del piagnucolio precedente.

Che cosa ridicola.

Non aveva dato peso alla questione finché Heather non aveva annunciato che si sarebbe presentata senza accompagnatore, per dimostrare che si era finalmente sbarazzata di suo marito e che non aveva bisogno di un uomo per sentirsi realizzata. Ora, sia be chiaro, nemmeno Courtney aveva mai avuto bisogno di uomo per sentirsi realizzata – questo era il motivo per cui aveva troncato la relazione con Scott quasi a cuor leggero, dopo anni di alti e bassi – ma semplicemente- semplicemente- semplicemente non voleva fare la figura della zitella.

Ecco, l’aveva ammesso.

E Edward, che era praticamente la sua ultima speranza, un’ancora di salvezza, le aveva detto che la domenica del matrimonio di Gwen voleva partecipare ad una conferenza a Montréal e non ci avrebbe rinunciato nemmeno per tutto l’oro del mondo – figuriamoci per lei.

Adesso le toccava tornare a casa, sconfitta, e ammettere che sarebbe stata sola al matrimonio della sua migliore amica, che avrebbe fatto la figura della zitella, della donna in carriera che nessuno avrebbe mai amato e alla fine, in fondo, era giusto così. Perché lei forse non era ancora una vecchia zitella, ma di certo si sentiva una persona che aveva sacrificato la possibilità di una relazione per amore della ben più soddisfacente carriera.

La carriera non l’avrebbe mai tradita, non avrebbe mai avuto ripensamenti sul loro rapporto, non sarebbe scomparsa per mesi per poi presentarsi alla porta di casa sua con un mazzo di fiori e delle scuse a cui non credeva nessuno. La sua carriera era lì per ricordarle il suo valore di avvocato e per permetterle di raggiungere fama e successo.

Certo, pensò leggermente infastidita, per colpa della sua carriera adesso stava convivendo con Duncan.

Duncan che in quel momento stava sonoramente russando sul suo divano, circondato da pacchi di patatine vuoti e lattine di birra – e, ecco, se ci fosse stato qualcuno che amasse Duncan, forse quella persona avrebbe trovato la scena quanto meno adorabile. In fondo poteva essere considerato adorabile. Oltre che disgustoso. Assolutamente disgustoso.

«Duncan!», strepitò, lasciando cadere la sua borsa con un tonfo. Lui rotolò giù dal divano prima di scattare in piedi, borbottando qualcosa che assomigliava molto a “Ti prego, John, altri cinque minuti”.

«Ah, Courtney, sei tu.», notò con disappunto. Si avviò verso il tavolo della cucina e le passò una serie di note che John Smith aveva lasciato per lei.

«Ti prego, dimmi che sono buone notizie. Se dovessi ricevere anche solo un’altra cattiva notizia potrei tirar giù questo palazzo a forza di imprecazioni.», spiegò sconsolata.

Duncan fermò il braccio a mezz’aria e ritirò i fogli.

«Questi è meglio se li leggi domani, allora.»

Sbuffò esasperata e si lasciò cadere sul divano, stando attenta ad evitare le briciole.

«Pulisci questo disastro e fammi un riassunto di quello che dovrei sapere.»

Duncan roteò gli occhi e iniziò a raccogliere il disastro ai suoi piedi, spiegandole come la sua speranza di una via diretta alla vittoria fosse attualmente in vacanza in Europa e non si aveva la minima idea di quando sarebbe tornata.

Se non fosse stata una donna forte e indipendente – giusto per vederla come Edward – probabilmente sarebbe scoppiata a piangere. In realtà era da un po’ che aveva voglia di piangere e forse le avrebbe fatto anche bene, sfogarsi così. Sicuramente le avrebbe fatto bene, sfogarsi. Forse doveva piangere davvero.

Quando iniziò a singhiozzare, Duncan sospirò rumorosamente. Avrebbe voluto urlargli contro, dicendogli che tutto quel pasticcio era colpa sua – verissimo – e che quindi non aveva alcun diritto di sospirare.

Ma. Ma sapeva perfettamente che avere a che fare con lei e i suoi isterismi e le sue ripicche non doveva essere stata una passeggiata, perciò restò in silenzio e aspettò che lui le dicesse qualcosa.

Invece Duncan girò le spalle e andò in cucina. Non che fosse poi così lontano: riusciva ancora a distinguere chiaramente la sua figura e a sentire perfettamente tutti i rumori che stava facendo; quando tornò, pochi minuti dopo, aveva in mano un bicchiere d’acqua e una pila di fazzoletti. Sprofondò sul divano, accanto a lei, e per un attimo ebbe il terrificante istinto di buttarsi tra le sue braccia e piangere ancor più forte.

Era proprio patetica. Sbuffò infastidita dal suo stesso comportamento – da quando le andava bene mostrarsi così debole di fronte ad una persona che avrebbe dovuto essere un completo estraneo, con cui avrebbe dovuto avere un semplice rapporto lavorativo? Da quando le andava bene accettare la pietà di Duncan?

Tentò di alzarsi, ma Duncan le posò una mano sulla spalla e si accertò che restasse seduta.

«Bevi.», le disse, piazzandole il bicchiere in mano. «E non pensare che vederti così mi faccia piacere.», aggiunse, notando come stesse effettivamente esitando nell’accettare quelle sue attenzioni.

Courtney non riuscì a trattenere un moto di rabbia. «Smettila di fare così!», gli ordinò, scattando in piedi. «Smettila di comportanti come se di me ti importasse qualcosa!», gridò, preparandosi a barricarsi in camera sua.

«Ma di te m’importa!», sbottò Duncan, alzandosi a sua volta.

Courtney crollò sul divano, mentre Duncan iniziò a camminare avanti e dietro per il minuscolo soggiorno. 

«Duncan…», lo chiamò stancamente, mentre sorseggiava la sua acqua. Lui si fermò e sembrava molto indeciso, molto confuso e forse addirittura più stanco di quanto non lo fosse lei; si grattò la nuca, indugiò qualche altro secondo e poi si decise a parlare.
 

 
***

 
«Non è come-», come pensi, avrebbe voluto dirle, ma a cosa stava pensando Courtney in quel momento? Non aveva idea del perché avesse iniziato a piangere e di certo non aveva idea del perché in quel momento stesse ferma e zitta e lo stesse guardando come se si aspettasse che calasse la spada di Damocle sulla sua testa. Avrebbe dovuto sbraitare. Se c’era una cosa che lo rassicurava, era sentire Courtney sbraitare – perché quella Courtney gli era familiare, sapeva come gestirla e soprattutto gli confermava che non aveva davvero fatto nulla di irreparabile.

«Non è come sembra.», si decise infine.

Courtney rise appena.

«E com’è che sembra?», gli domandò, fissando ostinatamente il bordo del suo bicchiere.

Guardami, avrebbe voluto chiederle. Guardami e leggimi in faccia quello che non ho le palle di dire.

Invece Courtney non lo stava guardando.

«Sembra che io sia innamorato di te.», cacciò fuori.

«E non lo sei?», gli rispose caustica.

«No.»

Courtney sembrò tirare un sospirò di sollievo.

«Bene.», commentò, alzandosi.

«Bene.», concordò Duncan, e doveva davvero sembrare un idiota colossale, lì in piedi mentre annuiva con vigore ad una delle più grandi panzane che fosse mai stato in grado di produrre.

«Allora io vado a dormire.», gli annunciò, urtandolo appena mentre si allontanava.

Forse avrebbe dovuto fermarla. Avrebbe dovuto fermarla e ammettere la verità. Ma quale verità? Che era innamorato di lei? Che non voleva essere innamorato di lei? Che non aveva nemmeno la faccia tosta di ammetterlo?

Restò in silenzio, fissando il punto del corridoio in cui Courtney si era infilata scomparendo alla sua vista.
 

 
***

 
«Sei un codardo.», affermò Gwen dopo che ebbe finito di raccontarle lo scambio di qualche ora prima con Courtney. «Sei un codardo, sei un idiota e sei un disastro ambulante.»

Duncan, che si era rivolto a lei un in moto di disperazione, sperando di cavarsi fuori da quella storia facilmente e facendo meno danni possibili, non poté fare altro che annuire pazientemente. Dopo tutti quegli insulti, forse, Gwen sarebbe stata di grande aiuto.

«Come speri di risolvere una situazione del genere?», lo accusò poi.

«Speravo che me lo dicessi tu.», brontolò in risposta.

Gwen gli rivolse uno sguardo che lo fece sentire come un lattante – piccolo e stupido.

«Speravo che me lo dicessi tu.», lo scimmiottò in risposta. «Cosa ti sembro, la fata madrina?»

«Magari la fata turchin-», tentò, ma Gwen gli tirò un pugno nello stomaco.

«Ascoltami, Duncan. È molto importante che tu capisca quello che ti dico. Sei un adulto, giusto?»

Duncan annuì.

«E sai comportarti come un adulto?»

Duncan esitò, poi riprese ad annuire.

«E cosa fanno gli adulti in questi casi?»

Duncan continuò ad annuire. Gwen gli tirò un altro pugno.

«Gli adulti parlano in questi casi! Non si fanno i dispetti come i sedicenni!», sbottò contro di lui.

«Facciamo una cosa:», gli propose. «Domani mattina parlerai con Courtney e le dirai che vuoi una seconda? Terza?», lo guardò dubbiosa, contando sulle dita, «Un’altra possibilità. E dille anche che vorresti accompagnarla al mio matrimonio, già che ci sei.»
 

 
***

 
Chiedile un’altra possibilità e accompagnala al matrimonio di Gwen.

Chiedile un’altra possibilità e accompagnala al matrimonio di Gwen.

Chiedile un’altra possibilità e accompagnala al matrimonio di Gwen.

Quanto poteva essere difficile?

Forse più del previsto. Era sicuro di volergliela chiedere, un’altra possibilità? Era sicuro di volerla in primo luogo? Si trattava probabilmente della più grande stronzata che avesse mai fatto. Certo, magari le cose avrebbero potuto funzionare, per una volta, ma non era sicuro di riuscire a sopportare il momento in cui tutto sarebbe andato a rotoli – perché sarebbe andato a rotoli, lo sapeva, era solo questione di tempo prima che lui compisse un passo falso o che Courtney svalvolasse come suo solito.

Forse era meglio starsi zitto. O magari si sarebbe pentito anche di non aver parlato. Com’era possibile che ogni volta che sperava che Gwen risolvesse i suoi problemi, finisse solo per peggiorarli? Erano adulti, certo, e avevano esaurito il loro arsenale di dispetti, sicuro, ma non erano capaci di comunicare come due persone normali. Non tra di loro, almeno.

Forse avrebbe potuto soltanto proporsi di accompagnarla al matrimonio di Gwen e vedere com’era la situazione. Se avesse accettato, tanto per dirne una. Se fossero riusciti a starsi accanto amichevolmente in un contesto esterno rispetto alle quattro mura a cui ormai si erano abituati. Senza pensare al fatto che entro una settimana non ci sarebbe stata più Gwen a mediare i loro litigi e i loro musi lunghi.

, pensò, magari dovrei solo chiederle se l’andrebbe che l’accompagnassi. Avrebbe potuto misurare la sua reazione, magari capirci un po’ di più, trovare un momento migliore per parlarle e-

«Dio, Duncan, sei così rumoroso quando pensi.», lo riprese Courtney, appena sveglia.

«Non sto pensando.», le rispose indispettito.

Gli adulti non si fanno i dispetti. Gli adulti non si fanno i dispetti.

«Infatti tu non sai pensare.», lo assecondò Courtney. «Ma se sapessi farlo, saresti fastidiosamente rumoroso.»

Se chiudeva gli occhi, Duncan riusciva a vedere lo sguardo pieno di rimprovero di Gwen.

Doveva parlare.

«Riguardo ieri sera…», iniziò titubante, ma Courtney lo fermò prontamente.

«Non ti preoccupare.», gli annunciò agguerrita. «So che può sembrare una fase negativa, per noi, ma ne usciremo.», concluse.

Duncan la fissò come se le fosse uscita un’altra testa. Che avesse già capito che le aveva mentito? Che provava qualcosa per lei? Che fosse addirittura disposta a ricominciare senza prima costringerlo all’umiliante prova di strisciare proclamando i suoi sentimenti?

«Che c’è?», gli chiese, guardandolo a sua volta come se gli fosse spuntato un terzo occhio. «La mia brillante difesa non poteva basarsi certo su una sola, labile coincidenza. Mi inventerò qualcos’altro e ti tirerò fuori dai pasticci.»

Eh?

Eh?

«Eh?», le rispose, confuso. Non stavano parlando della stessa cosa, questo era certo. Ovviamente, Courtney aveva pensato che stesse mettendo in dubbio le sue capacità e si era prontamente difesa. Forse non sarebbero mai riusciti a capirsi. Per questo doveva parlare.

«No, in realtà io volevo chiederti un’altra cosa.», le disse, pregando di essere abbastanza rapido e coinciso da farle arrivare il messaggio in modo meno confuso possibile. «Volevo chiederti se-», iniziò e poi si fermò per guardarla e aveva un’adorabile espressione da ebete, come se stesse a malapena seguendo le sue parole. «Volevo chiederti se potevo accompagnarti al matrimonio di Gwen.»

 
***

 
«Volevo chiederti se potevo accompagnarti al matrimonio di Gwen. Perché, sai, alla fine ha invitato anche me e io proprio non conosco nessuno, quindi speravo che potessi farmi compagnia, ecco.»

Courtney percepiva l’arrivo di un forte mal di testa. In realtà, era almeno dalla sera precedente che riusciva a sentire una terribile pressione nella zona frontale e almeno adesso sapeva dare un nome, un cognome e anche un volto, al suo incipiente mal di testa.

Duncan semplicemente non poteva uscirsene con frasi del genere. Non dopo averle sbattuto in faccia che non era innamorato di lei, non dopo che aveva fatto pace con se stessa e il suo essere una donna single e indipendente. Non dopo che aveva origliato mezza conversazione con Gwen, la sera prima, in cui la sua migliore amica gli suggeriva di parlare – per dirle cosa? – e di fungere da accompagnatore.

Non era una buona idea, se lo sentiva nelle ossa: come quando Gwen comprava una vaschetta di gelato troppo grande, ma la finivano comunque in una sola serata, come quando Scott le aveva chiesto di riprovarci, un’ultima volta, e lei gli aveva detto sì, come quando Edward aveva iniziato a prometterle un aumento e il lunedì libero e aveva accettato quel benedetto caso.

Non era una buona idea e avrebbe dovuto dirgli di no. Immediatamente. Avrebbe dovuto gettargli un metaforico secchio di acqua gelida in testa e dirgli che era un buzzurro e un idiota e che non avrebbe dovuto giocare con i suoi sentimenti e poi inventarsi una scusa ancora più idiota di lui per farle un favore. Che lei non gli aveva neanche chiesto, per inciso. Perché era una donna forte e indipendente.

Ma anche lei aveva diritto a sentirsi insicura, no? Anche lei aveva diritto a darsi una seconda possibilità. A provare sentimenti che fossero diversi dall’odio e l’autocommiserazione. Aveva il diritto di accettare, di farsi del male e di guardarsi allo specchio ripetendosi: “Te l’avevo detto.”

Sbuffò, per fingersi almeno un po’ scocciata della situazione: non avrebbe finto di avere un accompagnatore, per quando l’idea potesse essere allettante e non avrebbe rifiutato. Non era una buona idea, certo, ma forse era troppo presto per deciderlo.

«Sì, Duncan.», gli disse. «Va bene.», aggiunse, più per se stessa, per abituarsi all’idea. «Puoi accompagnarmi al matrimonio di Gwen. Come amico.», specificò, sentendosi ancora ferita dalle sue parole della sera precedente – perché ci aveva sperato, per un solo momento, ci aveva sperato e ancora non accettava il modo in cui aveva frantumato le sue speranze.

«Come amico, certo.», concordò lui.

«Bene.»

«Bene.»

Non andava bene per niente.






 

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Capitolo 9
*** Capitolo IX ***


NdA: *lancia il capitolo come se fosse una bomba sul punto di esplodere e se ne va*
 


 

The sea knows where are the rocks, but drowning is no sin.

 
  • Capitolo IX

 

Il fatidico giorno delle nozze era finalmente arrivato. La settimana appena passata, rifletté Courtney, era stata a dir poco infernale: tutte quelle cose da fare non le avevano lasciato il tempo di pensare a niente. O meglio, quasi a niente: l’unico, costante, martellante e terrificante pensiero che infestava la sua mente non era altro che- Duncan.

Duncan che il pomeriggio prima era sparito, borbottando qualcosa sul fatto di mostrare a Trent come davvero ci si potesse divertire a Toronto. Duncan che una settimana fa aveva confermato che no, non è innamorato di lei. Qualunque cosa Courtney doveva aver capito era chiaramente frutto di un fraintendimento, della sua stanchezza, della proiezione su Duncan di sentimenti che avrebbe voluto che provasse.

Perché, be’, okay che non aveva avuto molto tempo per pensare, ma una cosa in questa settimana l’aveva capita - ha capito che era effettivamente, irrimediabilmente ancora innamorata di Duncan. O forse non «ancora« nel senso che non è mai uscita dalla sua cotta adolescenziale. No, peggio. Decisamente peggio. Si è innamorata di nuovo di Duncan, ci è cascata con tutti e due piedi, come una scoccia, si è innamorata di questo Duncan che somigliava a quello di dieci anni fa ma che in realtà era, sotto molti aspetti, addirittura peggiorato - e a lei piaceva lo stesso.

Forse perché le impediva di annoiarsi. La tiepida relazione con Scott, per quanto rassicurante, non era mai stata appagante, o divertente, o anche solo snervante. Okay, forse snervante sì, ma non in senso buono. Non le era mai piaciuto, litigare con Scott - la faceva sentire in colpa perché in fondo Scott, poverino, l’amava tanto. Ma Duncan di certo non l’avrebbe amata più di quanto avrebbe potuto amarlo lei, e a dover essere brutalmente onesti, allo stato attuale delle cose Duncan non l’amava affatto, per cui poteva tranquillamente tornare a casa e urlargli contro per averle finito la birra, per aver passato tutta la giornata sul divano, per combinare soltanto casini e, segretamente, per non amarla.

E, insomma, non che gli ultimi mesi fossero stati i migliori della sua vita. Erano stati stressanti, era provata sotto ogni punto di vista, aveva il cuore spezzato, la sua migliore amica stava per lasciare la casa che avevano condiviso per tanti anni, eppure- eppure non si sentiva stanca, almeno non quanto era curiosa di quello che sarebbe successo in futuro. Era come andare con le montagne russe, quando si trovava in alto era sempre in attesa della caduta, ma quando era in basso poteva almeno aspettare la salita mozzafiato.

La parrucchiera era arrivata con mezz’ora di ritardo. Gwen l’aveva trascorsa dormendo beatamente, e Courtney non aveva dubbi che l’amica fosse riconoscente per qualunque contrattempo le stesse regalando altri 30 minuti di sonno. Il fotografo ci aveva messo invece un’intera ora in più del previsto, e quando era arrivato al loro appartamento, tirato a lucido per l’occasione, Courtney gli aveva fatto una lavata di capo che dubitava avrebbe facilmente dimenticato. Erano terribilmente in ritardo sulla bellissima tabella di marcia che Courtney aveva organizzato al secondo, per assicurarsi che tutto filasse liscio e loro arrivassero all’altare esattamente quando dovevano, ossio all’incirca 20 minuti dopo l’arrivo di Trent e di tutti gli invitati, che di certo non volevano perdersi l’ingresso della sposa.

«Courtney, se non ti calmi invece che in chiesa mi toccherà portarti all’ospedale!», minacciò Gwen, affrettandosi a scendere le scale del palazzo, mentre il fotografo le suggerisce di salire di un paio di gradini per ottenere la luce ideale.

«Non se ne parla proprio!», borbottò Courtney, fuori di sé. «Sai quanto dista l’ospedale più vicino?», chiese, serissima. «Faremo un ritardo catastrofico, dovresti spostare il matrimonio a domani!» 

Qualunque altra maledizione stesse per lanciare su Gwen, sul fotografo e su chiunque le capitasse a tiro fu prontamente zittita da Duncan, appena arrivato, in ovvio ritardo, come in fondo erano tutti quel giorno- ma non potevano, per una volta, attenersi al suo bellissimo programma?

«Ehi, bellissime!», salutò, preceduto da un fischio di apprezzamento.

«Dici?», gli strillò in risposta Gwen, dalla cima delle scale, lisciandosi dubbiosamente il vestito.

Courtney cominciò a massaggiarsi con forza le tempie — il fotografo, si doveva dire, era stato, fino a quel momento, un totale incompetente. Dopo il ritardo spaventoso aveva fatto una serie di scatti che proprio non rendevano giustizia alla sposa e Gwen aveva minacciato di richiamare all’ordine parrucchiera e truccatrice e di mandare al diavolo la sua preziosa scaletta. Con qualche parola di conforto e una manciata di complimenti sinceri, per quanto potessero risultare forzati, Courtney era riuscita ad evitare il peggio, ma ovviamente tutto ciò non poteva competere con la fastidiosa spontaneità di Duncan.

«Giornata faticosa, eh?», le chiese, poggiandole una mano sulla spalla scoperta. 

Il suo primo istinto non fu, come avrebbe invece immaginato, quello di spostarsi: Courtney lasciò che quella vicinanza si prolungasse mentre svuotava completamente la mente e la riempiva di tutte le cavolate che le stava dicendo Duncan, qualcosa sugli amici di Trent che erano proprio degli sfigati, avresti dovuto vedere la loro idea di divertimento, ti giuro, se non ci fossi stato io-

E poi si riscosse, improvvisamente, e si allontanò come se si fosse appena scottata — e forse era successo davvero, insomma, come le veniva in mente di concedergli tanta intimità, non era neanche amici, loro, non erano niente, Duncan era lì per accompagnarla perché gliel’aveva chiesto Gwen e Courtney era disposta a lasciarglielo fare per non sentirsi sola e disperata come in effetti era. Niente di più, niente di meno. E alla fine di quella giornata, rifletté con un moto di malinconia stizzita, le sarebbe convenuto suggerire a Duncan di trovarsi un alloggio altrove — senza la pacifica mediazione di Gwen aveva paura di cosa gli avrebbe fatto e ancor di più, di cosa gli avrebbe lasciato fare.


***

 

«Ohi, Court-», si avvicinò, sedendosi al posto vuoto accanto a lei, «non sei in fila per il bouquet?»

Duncan non aveva alcun secondo fine mentre le faceva quell’innocente domanda. In fondo, decine di invitate da strapazzo, cugine di ogni età, colleghe, erano tutte intorno a Gwen, che stava per compiere l’ultimo gesto di rito che avrebbe finalmente messo una conclusione a quella lunghissima serata.

Non gli erano mai piaciuti, i matrimoni. Troppa gente che non era davvero disposta a fare confusione, tutti vestiti in ghingheri, con completi che stavano sempre troppo stretti a prescindere dalla taglia che si provava — tipo quello che aveva addosso in quel momento, che aveva scelto Courtney per lui, con un patetico papillon verde scuro che doveva abbinarsi al suo vestito e finiva per cozzare con il verde brillante della sua cresta e che lo stava lentamente soffocando.

Non gli erano mai piaciuti i matrimoni, ma gli piaceva Courtney abbastanza da fare uno sforzo e farseli andar giù. Era stato, lo doveva ammettere, e non perché stava parlando di se stesso, un accompagnatore provetto: l’aveva scortata in chiesa, non avessa emesso un solo lamento nel corso della funzione — che avrebbe richiesto comunque più lamenti di quanti sarebbe stato in grado di produrre da solo —, le aveva fatto compagnia durante il noiosissimo pranzo, aveva ballato con lei quando era stato necessario, aveva pure evitato di pestarle i piedi quindi bravo, Duncan. Bravissimo. Ottimo lavoro.

Se solo non le avesse detto meno di una settimana fa che lui, effettivamente, non era interessato a lei e non provava alcun sentimento per lei, questo sarebbe stato il momento migliore per prendere tutti quei sentimenti che lui, a conti fatti, provava eccome e offrirglieli su un piatto d’argento. Solo che lui era uno stupido e adesso sedeva accanto a lei, senza sapere che fare se non rivolgerle stupide domande la cui risposta, in fondo, non gli interessava.

C’era una sola domanda, la cui risposta aveva effettivamente a cuore, ed era se fosse disposta a prendere quel casino che era la loro relazione e farne qualcosa che potesse, per una volta, funzionare.

«No, Duncan.», lo lapidò, con una forza nelle sue parole che per un attimo il ragazzo temette che gli stesse leggendo il pensiero e stesse rispondendo alla ben più recondita domanda che non aveva il coraggio di farle. 

«Non ho intenzione di dare spettacolo nel tentativo di prendere un mazzo di fiori.», aggiunse. Fece una pausa di qualche istante, poi si lasciò sfuggire un risolino che sembrava più isterico che genuinamente divertito: «Non che abbia qualcuno da sposare, io

«Dai, non fare la drammatica!», esclamò, dandole un colpetto sulla spalla. «Che ne sai, la persona giusta potrebbe arrivare all’improvviso.»

La persona giusta potrebbe essere già arrivata, avrebbe voluto dirle. La persona giusta potrebbe essere proprio di fronte a te, ma tu sei troppo occupata per capirlo. 

«Magari la persona giusta non esiste.», sbuffò, scettica.

Lo stava guardando con un’aria di sfida che lo invitava a provarle il contrario. Adesso c’era nei suoi occhi un guizzo divertito, come se avesse abbandonato l’autocommiserazione di qualche istante prima per la ben più interessante impresa di battibeccare con lui. Dai, Duncan, sembrava dirgli, dimostra che mi sbaglio.

«Oppure tu non la sai riconoscere.», ribatté, quasi sovrappensiero, realizzando con un attimo di ritardo che stava parlando ad alta voce. 

Avrebbe voluto rigiocarsi la carta del non è come sembra, ma anche solo provarci sarebbe equivalso a confermare che sì, era proprio come sembrava. E cioè sembrava, cosa che effettivamente era, che stesse accusando Courtney di non capire che in fondo era proprio lui, la persona giusta. 

Courtney piegò la testa di lato, lo studiò per qualche istante, mentre tutto quello che lui riusciva a fare era fissare un punto davanti a lui con aria vagamente afflitta. Il fatto che questo punto fosse esattamente la piega del collo della ragazza, e che l’afflizione di Duncan derivasse dal non poterci fare nulla, con quel collo, costituiva quasi una storia a sé.

«C’è qualcosa che vorresti dirmi, Duncan?», chiese, scandendo lentamente ogni parola, avvicinandosi piano al suo volto quasi per non spaventarlo, lasciando intendere che se c’era un momento per chiarire le cose, be’, era quello.

Duncan esitò. C’erano un sacco di cose che voleva dirle, tipo che con quel vestito stava benissimo, che se lo sarebbe sognato per diverse notti, che piuttosto che sognare lei e il vestito avrebbe preferito farci qualcos’altro — tipo farlo sparire e farle capire che non avrebbe avuto importanza, per quanto a lungo avrebbe cercato: non sarebbe mai riuscita a trovare qualcuno che l’amava come lui.

Stava giusto per aprire la bocca per dirle tutte queste belle cose, quando con la coda dell’occhio vide qualcosa che schizzava verso di lui a tutta velocità. D’istinto, senza pensarci — perché se ci avesse pensato con il cazzo che l’avrebbe fatto — allungò una mano per pararsi il volto e la cosa gli cadde placidamente sulle gambe. Ci fu un attimo di tombale silenzio, intorno a loro, per tutto il ristorante e poi- poi Gwen cominciò a ridere. 

Non era esattamente la delicata risatina che ci si aspettasse da una novella sposa — oh, proprio no. Si trattava piuttosto di uno sguaiato latrato e Duncan, che iniziava a nutrire dubbi su cosa gli fosse appena piombato in grembo, ma che non aveva ancora avuto il coraggio di controllare, si voltò soltanto per guardarla scivolare a terra mentre si teneva la pancia per le risate. Trent, che aveva assistito impotente alla scena, cercava di mascherare la sua risata con vaghi e assolutamente poco credibili colpetti di tosse.

«Be’, Duncan, chi l’avrebbe detto, che tra tutti noi sarebbe toccato proprio a te.», lo scimmiottò Heather, affacciandosi oltre la sua spalla. 

Duncan portò lentamente lo sguardo su Courtney, che era diventata paonazza nel tentativo di non ridere e poi finalmente giù.

Il bouquet. 

Aveva preso il bouquet. 

 

***

 

Gwen non aveva voluto indietro il suo bouquet per fare un altro tiro — tra una risata e l’altra aveva detto a Duncan che ormai era andata così, che chiaramente era un segno del destino e lo aveva trovato talmente divertente che non avrebbe voluto cambiarlo per niente al mondo.

«Arrenditi, Duncan.« gli aveva poi ordinato con aria solenne. «Il bouquet ti ha scelto.«

A quel punto Duncan non aveva potuto portare altre proteste ed era rimasto con quel mazzo di fiori in mano fino alla fine della festa, che si era protratta a lungo nel corso della notte. Courtney, oltre alle risate mal nascoste, non aveva detto molto, a riguardo — aveva annuito con aria grave mentre Gwen gli diceva di accettare e basta, ma suppose che si trattasse soltanto dell’ennesima presa in giro a sue spese. 

Il tragitto in macchina lo avevano passato in religioso silenzio: prima di chiudere la portiera, Courtney aveva detto qualcosa sull’essere troppo stanca per qualunque tipo di conversazione, si era sfilata le scarpe e si era addormentata prima che lui riuscisse a mettere in moto. Tutto quel silenzio, seppur non desiderato, gli aveva dato modo di pensare alla sua prossima mossa: dando per scontato che la serata fosse chiusa lì, la prima cosa che avrebbe dovuto fare, domani mattina, sarebbe stata quella di parlare. Era arrivato il momento di confessare i suoi sentimenti e pregare che Courtney non li rispedisse al mittente. 

Era da diversi giorni che la ragazza era diventata di un umore strano, indecifrabile: umorale lo era sempre stata, ma Duncan era sempre stato convinto di sapere leggere i suoi cambiamenti. Adesso però c’era qualcosa di criptico nel modo in cui si comportava che metteva all’erta tutti i suoi sensi e gli suggeriva che in quel momento qualunque errore sarebbe stato fatale.

«Sai cosa penso?», disse Courtney, scendendo dall’auto mentre cercava di infilarsi si nuovo i sandali. «Che sarebbe stato ancora più divertente se il bouquet avesse beccato Heather. Le dò qualche mese prima che torni di nuovo con Alejandro.»

«Che ne sai, magari tra qualche mese Alejandro me lo sposo io.» obiettò Duncan, riuscendo a strapparle una risata. Le offrì la sua giacca per il tragitto dal parcheggio all’ingresso del condominio e Courtney l’accettò senza un commento. 

Continuarono a camminare in silenzio, affiancandosi, godendosi l’aria fresca della sera e l’innaturale silenzio della città a notte fonda. 

«Dovremmo trovare un vaso per questi fiori.», commentò Courtney, guardando con aria nostalgica il bouquet di Gwen. «Non posso credere che si sia davvero sposata.»

«Cosa volevi, che restasse qui per sempre?», le domandò, mentre si avvicinava al lavandino per riempire d'acqua il vaso di cristallo che gli aveva passato - con ogni probabilità, uno dei tanti ninnoli che le ha regalato di sua madre. 

Courtney scrollò le spalle. 

«Non è che volessi che restasse qui per sempre. È solo che- non saprei. Forse non mi aspettavo che se ne andasse così presto.» 

«Ne parli come se fosse morta.»

«Be', dicono che il matrimonio sia la tomba dell'amore. Magari lo è anche dell'amicizia?» borbottò, sistemando il vado con i fiori su una mensola in soggiorno. «Ecco qui, Alejandro-» disse, rivolta al topo che la guardava placidamente dalla gabbietta, «adesso l'ambiente è più colorato.»

Duncan guardò i fiori con aria scettica. 

«Bene, adesso è proprio il caso di andare. È stata una lunga giornata e-» 

«Courtney, aspetta.»

La ragazza, che lo aveva appena superato, si bloccò improvvisamente, trattenendo il respiro. Duncan le circondò un polso e l'attirò a sé — al diavolo il suo piano di aspettare fino alla mattina, non poteva aspettare, non poteva lasciare che passasse anche solo un altro minuto senza che Courtney sapesse cosa provava, cosa era in grado di suscitare in lui. 

«Cosa stai-»

Si sporse verso di lei, che aveva ancora il solito piglio accigliato di quando c’era qualcosa che non riusciva a capire — un’espressione che con il passare del tempo aveva imparato a conoscere e ad amare. Liberò il polso dalla stretta e le sue dita risalirono lungo il braccio scoperto, fino alla curva della spalla. Le sorresse la nuca e la guardò per un indefinito, interminabile istante negli occhi.

Quando la baciò, la bocca di Courtney era già socchiusa per accoglierlo. 

Duncan emise un verso strozzato. Si era aspettato che protestasse, che si staccasse da lui inviperita, che almeno tentasse di spintonarlo via — invece si aggrappata a lui, alle sue spalle, per attirarlo più vicino. Vincolata tra le sue braccia, si era completamente sciolta. Spinse la lingua tra le sue labbra, guadagnandosi un verso quasi sollevato da parte della ragazza. Le piegò il collo per approfondire il bacio, esplorò la sua bocca con lentezza per cercare di assaporare ogni secondo — in fin dei conti, non aveva idea di quando quel meraviglioso, silenzioso incantesimo si sarebbe potuto spezzare. 

«Duncan-», soffiò Courtney, separandosi da lui per riprendere fiato. «cosa significa questo?»

«Significa-», iniziò, fermandosi per baciarle l’angolo della bocca, «mio brillante avvocato-», continuò, lasciando una scia umida di baci lungo la mandibola, «che mi sono deciso a confessare la verità.», terminò, avventandosi sul suo collo, dove sapeva che era stata più sensibile-

Succhiò la pelle sottile, ancora e ancora, finché non cominciarono a spuntare chiazze rossastre alla base del collo. Leccò i punti offesi, sentendo Courtney gemere e contorcersi contro di lui, spingendo con urgenza i fianchi verso i suoi. 

«E quale sarebbe, la verità?», ansimò mentre cercava di riprendere fiato, appena prima che l’assedio della sua bocca di spostasse più giù per inseguire la scollatura del vestito, lasciandole soltanto immagine cose avrebbe volute se non ci fosse stata quell’inutile pezzo di stoffa a separarli. 

«Che è esattamente come sembra.», ammise, sollevando il viso per fronteggiarla. «Che mi piaci, che ti amo, che in questo momento ti voglio più di quanto abbia mai desiderato qualunque altra cosa al mondo.», si portò la mano di Courtney al petto, per farle sentire il suo cuore che batteva all’impazzata — a mente fredda si sarebbe dato del coglione, per una tale dimostrazione di debolezza, ma adesso non poteva fregargliene di meno. 

«Mi sono innamorato di te un’altra volta, e se questo fa di me uno stupido, allora-»

«Oh, Duncan, tu sei sempre stupido!», strepitò Courtney, gettandogli le braccia al collo e riprendendo a baciarlo.

 

***

 

Stavano disseminando vestiti per tutto il corridoio. Courtney sapeva che il giorno dopo si sarebbe pentita di aver lasciato il suo bellissimo abito nuovo sul pavimento polveroso, ma adesso non c’era molto altro che avesse importanza se non Duncan, le mani di Duncan che scorrevano rapide sul suo corpo per sbarazzarsi di ogni indumento che stesse indossando e la bocca di Duncan, vorace contro la sua, che la baciava fino a toglierle il respiro. 

Quando, per la terza volta, si ritrovò intrappolata tra il muro e le braccia di Duncan, cominciò a pensare che forse al letto non ci sarebbero proprio arrivati. 

«Duncan!», cominciò, nel tentativo di riprenderlo. «Ah! Duncan-», gemette, quando il ragazzo le liberò un seno dalla coppa e lo coprì con una mano, affondando le dita nella carne morbida, stringendone il capezzolo tra le dita. Quando poi scese con la bocca, per leccarlo e succhiarlo, Courtney non poté fare altro che arpionargli la nuca e tenerlo fermo lì per godersi le sue attenzioni, sentendosi sempre più bagnata.

Arrivare in camera da letto da lì in poi fu un’impresa molto meno sexy di come se l’era figurata: Duncan la sollevò e lei gli strinse le gambe intorno ai fianchi, cercando un disperato sollievo nello strusciarsi impudicamente contro la sua erezione ancora coperta dai pantaloni — da lì in poi Duncan imprecò, quasi inciampando tra i suoi piedi, e le fece sbattere una spalla contro la porta socchiusa del bagno, poi tirò un’altra imprecazione quando il suo alluce si scontrò contro il comodino di Gwen e poi la fece atterrare con poca grazia sul materasso del suo letto. 

Tornò a posizionarsi tra le sue gambe, fece scorrere le mani lungo le sue cosce per arrivare ai fianchi, afferrando l’elastico del suo slip e tirandolo giù. Courtney se ne sbarazzò con un calcio e Duncan si piegò su di lei, facendo scorrere le mani lungo il suo interno coscia, sempre più giù, finché non arrivò alla sua intimità — quando inserì il primo dito, Courtney ruotò i fianchi verso la sua mano, supplicando di avere qualcosa di più, inseguendo disperatamente il piacere che le davano i suoi tocchi, mentre le studiava il viso con una tale intensità, cercando di capire cosa quello che stava facendo la portasse a gemere più forte.  

«Courtney-», soffiò, risalendo lungo il suo corpo per baciarla, «non penso che potrò resistere ancora a lungo.»

Lei rise, soffocando a stento i mugolii. «Penso che dovresti fare qualcosa a riguardo, allora.»

Duncan annuì contro la sua bocca. Courtney non poté fare a meno di lamentarsi nel momento in cui si staccò da lei per slacciarsi i pantaloni e tirarli giù in un unico movimento con i boxer. Nonostante la sua frastornante eccitazione, Courtney si rese rapidamente conto che mancava qualcosa.

«Duncan-»

«Mhh

«Duncan, non pensi che-»

«Sì, Court, ovviamente hai ragione tu.», commentò, sistemandosi tra le sue gambe.

«Duncan!»

Sentendola chiaramente irritata, il ragazzo si fermò.

«Courtney, tesoro, sono sicurissimo che qualunque cosa tu debba dirmi sia della massima importanza, ma non potresti aspettare ancora dieci minuti?»

Courtney assottigliò lo sguardo.

«Pensi di durare così poco?»

«Ehi!», protestò il ragazzo, lasciando andare le sue gambe, che caddero a penzoloni sul materasso.

«Non è questo il punto!», sbottò poi. «Duncan, sei un idiota! Il preservativo!»

«Ah.»

«Già!», aggiunse, per buona misura. 

«Courtney-», iniziò lui, afferrandole una caviglia e portandosela sulla spalla, passando a baciare il polpaccio, stringere tra i denti la pelle morbida dietro al ginocchio, dilungandosi tra le sue cosce, «io non ho preservativi con me, adesso.»

Courtney sibilò irritata — o almeno, avrebbe voluto sembrare irritata, ma Duncan stava facendo una cosa irripetibile con la lingua e più che un sibilo le uscì un ansimo soffocato. 

«Be’, neanche io ho dei preservativi, quindi — ah — a meno che tu non voglia correre il rischio di avere un piccolo Duncan — ahh — forse dovremmo fermarci.»

«Non se ne parla.»

Courtney stese un braccio per affondare la mano tra i capelli di Duncan, spingendosi contro la sua bocca con un ritmo che la potesse finalmente soddisfare. 

«Cerca sotto il comodino di Gwen.», propose infine. «Di solito tiene lì i preservativi.»

«Non vorrai mica- okay, va bene, va bene, vado!», si arrese Duncan, dopo essere stato colpito da uno sguardo in tralice. 

Da lì in poi non ci fu altro che Duncan, Duncan che la baciava come fosse l’unico ossigeno di cui aveva bisogno, Duncan che scivolava dentro di lei come se non avesse mai fatto altro, Duncan che la stringeva sé e nascondeva il viso contro il suo collo. Fare l’amore con lui le veniva facile come respirare — era una scoperta terrificante, sentire come gli ultimi dieci anni sparivano nel nulla e lei tornava ad essere una ragazzina di sedici anni alle prese con il suo primo amore, tenero, romantico, appassionato. 

Come se non ci fosse mai stato altro che lui, altro che loro, così strettamente intrecciati da non saperne distinguere l’inizio e la fine. E Courtney, che non aveva ancora avuto modo di chiarire i suoi sentimenti, che non aveva ancora dato voce al suo tumulto interiore, poteva solo sperare che il modo disperato con cui si stava aggrappando a lui potesse essere sufficiente per fargli capire quello che davvero provava. 

 

 



Note della terrorista dell’autrice: uhm. Chi non muore si rivede, suppongo. Questo capitolo, di cui avevo scritto soltanto l’incipit anni fa, ha visto finalmente la luce dopo giorni tumultuosi grazie all’edizione n. 13 del cow-t indetto da Lande di Fandom (che per fortuna mi costringe a tornare su vecchi lavori quasi abbandonati)(con il prompt "un'altra volta). Non ho molto da commentare, se non che come al solito spero che non sia l’ultima volta che sentirete nuove da parte mia (anche se lo dico tutte le volte che aggiorno). Un bacio, un abbraccio e un buffetto sulla guancia a tutti i lettori che hanno resistito così a lungo per l’aggiornamento, se ancora ce ne sono! 

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