Teste di pesce

di Feles 85
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: la foresta ingannevole ***
Capitolo 2: *** La Sposa in Nero ***
Capitolo 3: *** Lo Strano Caso di Akira Tokugawa, parte 1 ***



Capitolo 1
*** Prologo: la foresta ingannevole ***


Doverosa premessa: sono un'attempata donna di trentasette anni, che recentemente si è riletta tutti gli albi di Ranma 1/2, ereditati dall’ adolescenza. Oltre ad avermi divertito come se non di più dell'epoca, mi è rimasto il gusto amaro della frustrazione. Perché Ranma non era propriamente un fumetto comico come invece era stato Lamù dove, sopratutto all'inizio, non c'era bisogno di un'eccessiva coerenza tra un episodio e l'altro e che era caratterizzato da personaggi dai tratti fortemente caricaturali, elementi tipici del genere comico-demenziale.
Sebbene in Ranma questi elementi ci siano, non hanno la stessa valenza che avevano nell'altra opera. Ranma, a mio avviso, rientra più nella commedia. Per questo il finale aperto, la volontà deliberata di non dare uno sviluppo consistente ai personaggi e alla trama, lascia molta insoddisfazione e, a volte, irritazione.
Ho perciò ripreso il topos del "post-matrimonio" e declinarlo con una patina pop, prendendo da un'opera pop come Kill Bill, dove i personaggi hanno una loro caricaturalità ma non si negano a un'evoluzione. 
Spero di divertirmi e divertire con questo esperimento che farò per riscaldare il muscolo della scrittura, atrofizzato da un po' di tempo.




 

Prologo

 

  



Stava correndo a perdifiato da tempo, mentre gocce di sudore gli ruscellavano giù per la casacca, appiccicandola alla schiena. La foresta pluviale dell’isola di Kume, a Okinawa, con la sua flora esplosiva, sembrava tramare contro la sua fretta, accerchiandolo arcigna e opprimente. 

Con balzi precisi e rapidi, planava da un ramo all’altro, tra una palma di ananas e le fronde delle  mangrovie, con l’aria che si scaldava mano a mano che il sole si avvicinava allo Zenit; la luce dell’astro diurno, tuttavia, non filtrava a sufficienza là sotto, mantenendo nella semioscurità il sottobosco di quella macchia.

 

Brutta cretina! Cretina! Per delle teste di pesce tu… cretina! 

 

Il flusso di ciò che potremmo definire pensieri, o meglio insulti, e il suo passo trafelato furono interrotti all’improvviso da un dettaglio che non era sfuggito al suo sguardo. Un’ananas, che penzolava obliqua da una palma, che qualche ora prima si era quasi staccata dall’albero a causa di un colpo del suo piede, si era ripresentata beffarda di fronte a lui. Per la terza volta 

 

“Oh, no… non ci credo!” imprecò esasperato, picchiando la fronte con la mano sinistra.

 

Aveva girato in tondo ripercorrendo la stessa strada per la terza volta, dovette convenire con se stesso con riluttanza. Sbuffando come un ippopotamo, frugò con la destra nella tasca laterale del grosso zaino da escursione che gli gravava sulla schiena sudata. La mappa, per l’ennesima volta, era di nuovo ben stesa e dipanata davanti a lui e al suo sguardo sempre più insofferente. Un pappagallo verde starnazzò sguaiato sopra la sua testa. 

 

Possibile che sia stordito come P-Chan? Come faccio a perdermi tra quattro mangrovie!? 

Cretina! 

 

Il tempio del Loto Bianco, la tana del vecchio canuto, “l’inconsolabile Pai Mei”, si sarebbe dovuto trovare proprio al centro del cerchio ossessivo che aveva tracciato quella mattina, girando a vuoto. Eppure non era stato in grado di trovarlo, né di percepire tracce di presenza umana nell’ombra tropicale della foresta. 

 

Dove sei… cretina! Dove si trova il tempio di quel vecchio pazzo? Cretina! Cretina! Cretina! 

 

“Dove ti nascondi, cretina? Vieni fuori, Akane! Sei un’immane Cretina!” urlò a squarciagola. 

 

L’unica risposta che ottenne fu lo strido sgraziato del pappagallo svolazzante sopra di lui, intento a schiarirsi la voce. Poi, il silenzio tornò a governare il bosco, infischiandosene di lui.

 

“C’è qualcosa che non torna… non è un posto ordinario…”,  continuò a rimuginare ad alta voce, mentre studiava di nuovo il tragitto segnato sulla mappa. 

 

All’improvviso sentì un boato violentissimo, che rimbombò ovunque tra la vegetazione, coprendo con il suo ferale rombo le grida degli uccelli spaventati, fiondati fuori dai loro nidi . 

Il cuore di Ranma aveva auto un guizzo di paura e, più rapido del pensiero, si era messo in posizione di guardia, mentre il fragore sordo veniva coperto da fischio più acuto e stridulo.

 

Ma cos… 

 

Cosa poteva essere quella potenza? Una tecnica marziale? L’aura dell’inconsolabile Pai-Mei? L’Oni che regnava in quella foresta stregata? Ranma acuì tutti i sensi, mantenendo la posizione di guardia.

 

Vieni anche tu a Okinawa! Prezzi imbattibili per chi vuole fare il tragitto low-cost Kume-Naha! Approfitta subito! Volo numero 667 in partenza!”

 

 

Poco mancò che Ranma volasse giù dal ramo su cui si era fermato, con un gocciolone immenso sulla nuca. 

Era appena partito un aereo, che in quel momento svettava nel blu brillante del cielo. Poteva vederlo rimpicciolirsi tra le foglie e le fronde.

 

“Ma… ma… siamo dietro il mini-aeroporto?! Alla faccia della foresta! Che posto balordo per un tempio!” 

 

Si guardò ancora intorno, sgomento, per poi rifocalizzare l’attenzione sulla mappa, con il gocciolone sulla fronte che ora aveva le dimensioni di un cocomero. In un angolo, a sinistra, con la matita c’era scritto “aeroporto di Kume— partenze e arrivi ogni quattro ore!.” 

 

“Come ha fatto quella scema ad allenarsi tutti questi mesi con il casino degli aerei ogni…”

“Mi cercavi, Ranma?”

 

Stavolta il giovane volò a picco giù dalla mangrovia con un gran tonfo.

Fischiettava a ritmo, avanzando con passo tranquillo, mentre il clangore dei secchi pieni d’acqua risuonava in entrambi all’unisono. Una figura esile si avvicinava, con le braccia, magre ma muscolose, che reggevano un bastone di bambù in bilico tra le spalle; i due secchi stracolmi dondolavano ai due lati. I capelli blu arrotolati in una grossa crocchia in cima alla testa, con due famigliari ciocche libere a ornarle il viso che dondolavano in armonia con i secchi, la fronte imperlata di sudore. I suoi inconfondibili occhi che lo fissavano con curiosità. Era tornata a smagrirsi da quando era ritornata in quel maledetto posto.

Con un colpo di reni si rimise in equilibrio e tornò in piedi, fronteggiando la ragazza che era comparsa all’improvviso dal nulla.


“Akane… d-da dove diavolo sei sbucata?! Ho perlustrato questo buco di fronda in fronda!”

 

Akane ammiccò le palpebre un paio di volte con perplessità. 


“Impossibile: ti avrei visto, dato che è tutta mattina che faccio avanti e indietro coi secchi. Questo posto non è molto grande”, rispose lei.

A quell’ultima considerazione, la rabbia riaffiorò nel petto di Ranma. Lo stava prendendo giro?

“Cretina! Ti burli di me?! Di’ la verità: ti sei nascosta e mi stavi spiando!” 

“Assolutamente, no! Ma ammetto di non aver avuto dubbi che fossi arrivato, quando ho sentito risuonare ‘cretina’ per tutto il bosco…” ribatté lei stringendo gli occhi. Era di certo irritata.

 

Ranma strinse gli occhi e si fece scudo sulla testa con i gomiti, aspettandosi un pugno, uno schiaffo, una gomitata. Ma non accadde nulla. Quando li riaprì, la trovò a fissarlo sempre con lo sguardo perplesso che continuava ad avere.

“Cosa c’è… non sei offesa?”

Lei, con un sospiro, gli girò le spalle.

 “Chi, io? Ci sono abituata… anzi, l’ho trovato… quasi divertente”, rispose scuotendo lievemente il capo. “Non trovare il tempio in questo boschetto fa abbastanza ridere, lo stesso vale per le tue urla, Ranma”, concluse la ragazza mordendosi il labbro.

 

Cos…

 

“Brutta stupida, ci tieni proprio a fare la superiore? È da quando sei ti sei rifatta viva che fai la sufficiente! Cos’è, sono gli insegnamenti di quel vecchio pazzo?”, urlò Ranma, con la rabbia che era riaffiorata come un geyser.

Il fragore dei secchi che rovinavano a terra, vuotandosi con uno scroscio muto dell’acqua che contenevano fu come un suono solo. 

“Non offendere così il Maestro!” ribatté Akane, voltandosi di scatto verso di lui con le mani libere. Il suo sguardo tradiva una lieve preoccupazione.

“Il Maestro di qua, il Maestro di là! Non dici altro! Non t’importa d’altro, ormai!”, sbraitò di rimando lui, agitando le braccia in modo convulso.

“Ranma, abbassa la voce!”, esclamò lei cercando di mettergli una mano davanti alla bocca. Gli occhi castani della ragazza erano sgranati e vagavano da una parte all’altra, tradendo timore.

Ma lui era ormai un fiume in piena: si scansò da lei e dai suoi tentativi di zittirlo.

“Me ne frego! Mi hai sentito, cariatide? Non ho paura di te! Vieni fuori, vecchio pazzo!”, proclamò Ranma a gran voce. 

Ma Akane, che in quei mesi aveva acquisito velocità, precisione e agilità, con un balzo in avanti lo agguantò per un braccio e riuscì a  schiaffargli la mano destra sul viso per tappargli bocca.

“Ranma, non ti rendi conto… ti strapperà un occhio a mani nude. Ne è perfettamente in grado! Taci, ti prego!”

La ragazza aveva proferito queste ultime rivelazioni più sommessamente, con un tremito quasi, continuando a guardarsi attorno con circospezione.

Questo cambio di atteggiamento congelò Ranma nella posizione in cui si trovavano, con il volto smagrito e affilato di Akane molto vicino al suo, i suoi bei tratti tirati e contriti dalla tensione, ormai malcelata, il respiro lieve lieve, come sospeso dall’ansia crescente.

“… o lo caverà a me”, concluse lei con un soffio.

Con queste parole, lo sguardo della giovane si era focalizzato sul suo. I due si fissarono con intensità per un istante sospeso, mentre il sole era finalmente giunto allo Zenit. Era scoccato il mezzodì intollerabile delle latitudini tropicali. L’aria si era fatta sempre più ferma e torrida e gocce di sudore stillavano copiose dalla pelle, rendendo umide le mani. Invisibili discorsi vennero fatti dai due in quell’innaturale silenzio.

“… Ranma, mi giuri che…”, sussurrò lei “che… che tu… tu…”

Lui annuì energicamente, mentre la mano di lei era ancora appoggiata con forza sulla sua bocca. Aveva capito: niente colpi di testa, niente urla, niente sfide impulsive. Con un altro sospiro, stavolta di sollievo, Akane fece debolmente scivolare via la mano dal suo volto e chiuse gli occhi.

Ranma non staccò il suo sguardo dalla sua figura, divenuta così esile, più alta e affusolata, con le magre braccia che sbucavano da una sdrucita canottiera nera. I seni si distinguevano meno in quella tenuta scura da allenamento, essendo divenuti meno prepotenti proprio a causa del drastico dimagrimento a cui Akane era andata incontro. Le ciocche libere che le circondavano il viso erano in quel momento appiccicate al suo collo a causa del sudore e dell’afa; erano lunghe. Erano tornate molto lunghe così come lo erano tornati i suoi capelli scuri, adesso mortificati e legati in quella crocchia in cima alla testa.


Ho sacrificato la mia femminilità… non dovresti dispiacerti: non ne avevo molta prima. Non lo dicevi sempre anche tu?

… anche tu… anche tu… anche tu…

 

Quelle parole riecheggiarono nella mente di Ranma, e sembravano ancora volare nell’aria umida, mentre lo stomaco del ragazzo si contorse dolorosamente ma non per fame. L’oppressione di quell’orrida afa sembrava essergli penetrata dentro attraverso le narici, schiacciandogli il petto; si accorse subito che non era l’aria torrida a occludergli il respiro ma un disagio crescente. 

 

“… Mangiate sempre le… teste di pesce?”, azzardò a chiedere timidamente poi, non riuscendo a smettere di fissare le fattezze della sua fidanzata.

Lei annuì, seria e in silenzio, distogliendo lo sguardo dal giovane. In cuor suo non riusciva ancora a decidere se essere fiera di come apparisse in quel momento, con i frutti dei suoi sforzi, delle sue fatiche, dei suoi sacrifici ben in evidenza, o se essere imbarazzata da come il suo fidanzato non riuscisse a dissimulare e a non squadrarla con un cipiglio quasi morboso. 

Si chinò infine a raccogliere l’asta con i secchi, rassegnata a tornare indietro verso il pozzo per riempirli ancora una volta.

“Io… io devo riprendere l’allenamento, Ranma”, decretò infine “se hai bisogno del Maestro, focalizza lo sguardo dietro di te.”

Ranma non si voltò subito, non riuscendo a staccare il contatto visivo con la sagoma sottile di Akane che lentamente si allontanava a ritroso con i secchi vuoti, ma poi si decise. Si girò, e fisse  lo sguardo nel verde smeraldo della vegetazione senza mai sbattere le palpebre. E fu proprio quando le lacrime cominciavano a pizzicargli la cornea per lo sforzo, che vide finalmente una lunghissima scalinata di pietra.

 

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Capitolo 2
*** La Sposa in Nero ***


Premessa numero due: ringrazio innanzitutto chi mi ha lasciato un commento in questi giorni di “debutto” della fan fiction. 

Ringrazio dunque fenris, Giorgi_b, Meddy80 (sono felice di condividere con voi la mia età attempata ;) ) e a Valemtolavy per il commento breve. Grazie per avermi accolta in questa fandom! 

 

Il titolo del capitolo è identico al romanzo a cui Tarantino si ispirò per concepire Kill Bill, mentre “il matrimonio che non fu” è un po’ “il massacro dei due pini” di questa storia, un disastro che vede Akane vestita da sposa, esattamente come la Sposa, Beatrix Kiddo, di Kill Bill. Il quaderno di Akane è liberamente ispirato alla lista di Beatrix 

 

 

 

 



Circa 12 mesi prima a Nerima, estate 1989

 

 

La sposa in nero

 

 

 

Il vestito nuziale era ancora appeso lì, di fronte al suo armadio, sebbene fosse passata più di una settimana dal matrimonio. O meglio, dal non-matrimonio, o anche chiamato da Nabiki il matrimonio che non fu. 

La routine quotidiana aveva ripreso il suo corso come se non fosse successo niente, come se il dojo di casa Tendo fosse ancora agibile, come se lei stessa non fosse quasi morta in Cina… 

 

Era appena rientrata in camera e stava fissando quell’abito e, ancora, non riusciva a riprendersi dal senso di sbigottimento che la pervadeva. Sentiva la testa vuota, bianca, come se fosse convalescente dopo una brutta febbre. In tutti quei giorni aveva seguito le lezioni, chiacchierato con le compagne di scuola, condiviso i pasti famigliari sempre accompagnata da quella sensazione, con quell’ estraniazione che l’avvolgeva come un vaporoso sudario.

 

In quel momento si domandava se quel senso di sospensione non fosse per caso un tentativo di proteggerla, da parte della sua testa. Chissà quando sarebbe tornata a lambiccarsi il cervello, a tormentarsi e ad attendere qualcosa… in quei giorni non ne era proprio in grado, si ritrovava a constatare.

 

Anche quella sera, avrebbe voluto uscire ad allenarsi, a sudare via tutto quel groviglio di sentimenti ed emozioni annodate e represse, come aveva sempre fatto in passato; come desiderava farlo quando si soffermava a riflettere su quella condizione; e ciò era capitato ciclicamente, ogni giorno, da una settimana a quella parte. Solo che il dojo non era ancora utilizzabile: troppi danni erano stati fatti durante il matrimonio che non fu. Assi portanti spezzate giacevano ancora sul legno del pavimento, festoni strappati penzolavano lugubri dal soffitto; solo le vivande e tutti i resti deperibili del banchetto erano stati diligentemente asportati e puliti da Kasumi.

 

“Domani vengono gli operai a cominciare i lavori così, forse, tra pochi giorni potremo riutilizzarlo…”aveva detto suo padre quella mattina, guardando sconsolato il dojo.

 

Invidiava Ranma, che riusciva comunque a mantenere il ritmo dei suoi allenamenti quotidiani in qualsiasi situazione egli si trovasse. Approfittava delle voragini nel pavimento ligneo per aumentare la difficoltà degli esercizi, sfruttava le assi spezzate per restare in bilico in verticale con tre dita per lunghissimi quarti d’ora, e usava i festoni come fossero liane per planare da una parte all’altra della palestra, divertendosi come un bambino al Luna Park. Lei non ci riusciva: aveva maturato quasi un morboso attaccamento per la routine; avrebbe voluto — preteso!— che gli oggetti fossero ancora al loro posto, le assi ben salde sul soffitto, il pavimento ancora intatto, i festoni strappati nel pattume; voleva allenarsi alla stessa ora e nello stesso luogo, con lo stesso gi, per potersi sentire a suo agio e procedere con i suoi esercizi quotidiani. E in quella situazione proprio non ci riusciva.

Lui è abituato ad allenarsi ovunque, in montagna, in città, a scuola, in situazioni incredibili… io, invece…

 

L’aveva visto intento a provare delle proiezioni in giardino giusto poco prima di salire in camera, con movimenti rapidi, tecnici e precisi, dondolando sulle gambe e facendo fluire le mani nei vari kata. E, anche se la ragazza avrebbe voluto assistere agli esercizi che il giovane stava eseguendo con la consueta maestria, non se l’era sentita di rimanere lì con lui. Così come non se la sentiva di indugiare troppo a stare in sua compagnia da sola, nemmeno durante il tragitto casa-scuola che percorrevano insieme la mattina.

Il ragazzo, dal canto suo, sembrava continuare a fare le cose di sempre; solo una cosa non gli riusciva, ossia provocarla con le sue proverbiali prese in giro. E non ci riusciva perché la giovane non gli stava dando modo di interagire con lei in modo naturale, rivolgendogli la parola in poche occasioni e per poco tempo. 

 

Akane non gli stava tenendo il broncio, come invece altre volte era accaduto. Proprio non le riusciva facile parlare con Ranma in quei giorni. 

Dovrei allenarmi, accidenti a me! Non resisto più!

Perché non scendeva le scale di legno per chiedere al fidanzato di darle una mano con gli allenamenti? Aveva provato ad uscire dalla porta, aveva provato a preparare il suo karategi sopra il suo lettino per decidersi a scendere e chiedere a Ranma di aiutarla. Ma tutte le volte desisteva e rinunciava. 

Sì, per farmi dire che gli faccio perdere tempo…

Sospirò rimettendosi a sedere sul letto. Rialzò gli occhi verso l’abito nuziale che beffardo la sfidava in silenzio. Il ticchettio dell’orologio a muro accompagnava implacabile quegli attimi di sospensione. Perché non l’aveva aveva ancora riposto in soffitta quell’arnese? Perché la sua apatia la costringeva a guardare tutti i giorni quel mostro bianco di pizzo e tulle che si faceva beffe di lei e nel frattempo si riempiva di polvere?

Doveva riprendere ad allenarsi, assolutamente, pensò in quel momento, o diventerò pazza. Ed ecco che sentì una lontana voce famigliare irrompere nell’ingresso di casa, giù per le scale. Era tornato suo padre!

Assecondando un improvviso impulso, si lanciò fuori dalla porta e affacciò il suo grazioso visetto dalla balaustra delle scale. Stava per chiamare suo padre, stava per chiedergli di allenarsi con lei. Ma poi si ricordò di essere molto arrabbiata con lui, di serbargli un sordo rancore, molto più che con Ranma per il tranello malefico in cui l’avevano coinvolta in quel maledetto matrimonio che non fu… lei doveva tenergli il broncio! L’aveva anche scritto in rosso sulla pagina di un quaderno nuovo, la mattina del giorno precedente:

 

Tenere il broncio a papà — deve capire che stavolta l’ha fatta grossa!—

Sbuffò per l’ennesima volta, mettendosi una mano in fronte.

E poi, mio padre mi ha già insegnato tutto… non può farmi migliorare…    

Già, ma chi, a parte Ranma, avrebbe potuto farla migliorare nelle arti marziali? Forse Ryoga, se non fosse sparito di nuovo. La vecchia Obaba avrebbe potuto, sì, ma lei non si sarebbe mai sognata di chiederle una cosa del genere. Chi rimaneva? Forse Happosai, il vecchio maestro di suo padre, del signor Saotome, di Ranma…

Fu allora che dal giardino sottostante si sentì un urlo, un tonfo, l’inconfondibile scroscio d’acqua causato da un tuffo. Ranma era finito nel laghetto per l’ennesima volta.

“Vecchio porco, lasciami allenare in pace! Ti spacco la faccia!”, strepitò furiosa un’acuta voce femminile.

“Ranma, vieni qui e indossa questo zuccherino per il tuo maestro!”, rispose l’inconfondibile gracchio del vecchio Happosai.

“Metti via quel coso, pervertito maledetto! Togliti di dosso, aaaaaahhhh! Schifoso!”

Seguirono tonfi e colpi, il fracasso di un oggetto di vetro che finiva in frantumi e ancora urla.

Akane si mise la mano sugli occhi, con un gocciolone immenso che le calava sulla fronte. Come le era anche solo venuto in mente che quel vecchio rospo depravato potesse aiutarla sul serio con gli allenamenti?

Dèi, devo essere davvero disperata…

Scosse la testa e, reprimendo un brivido d’inquietudine alla sola idea di allenarsi con quel vecchio maniaco, tornò in camera più nervosa che mai. Ed eccolo, ancora lì, maligno e malizioso, quello stupido vestito da sposa. Un moto di stizza le si mosse dallo stomaco.

“Quanto sei frivolo… mi chiedo come mi sia venuto in mente di indossarti”, disse tra sé, mentre si sedeva di nuovo sul letto.

Prese il quaderno che aveva inaugurato il giorno prima, che giaceva ancora semiaperto lì sul comodino, per poi aprirlo. Con il pennarello rosso scrisse:

Diventare più forte — trovare un buon maestro— no Happosai, no Obaba e sopratutto no Ranma!

Doveva diventare più forte, a tutti i costi. Doveva farlo per poter scongiurare la rovina del dojo, di cui non sopportava la vista in quello squallore. Doveva farlo per esserne una degna erede e farla vedere a suo padre. Doveva farlo per emanciparsi dai salvataggi di Ranma, dall’ essere il  punto debole del giovane guerriero, il lato tenero dove colpirlo; sopratutto, doveva emanciparsi dal fatto che lui sembrasse aprirsi a lei solo in quanto vittima, per poi tornare a far finta di niente una volta scampato il pericolo. Doveva farlo per rendere la pariglia a certa gente, che troppo si era approfittata della sua inferiorità fisica, del suo essere tutto sommato una ragazza ordinaria, e aveva permesso a quel disastro del matrimonio che non fu di realizzarsi…

Sono stufa di essere ordinaria in mezzo a gente non ordinaria…

Annuì da sola con convinzione. Finalmente quella scivolosa apatia si stava incrinando e stava di nuovo facendo fluire i suoi pensieri; sopratutto, fu lieta di vedere che stava di nuovo facendo progetti.Dell’Università, a conti fatti, non le interessava, così come le interessava sempre meno far parte della caotica vita da giapponese moderno; del resto, quegli anni bizzarri e avventurosi, seppur estenuanti, le avevano decisamente tolto l’appetito per una vita normale e borghese. 

Comprese con chiarezza che il dojo era il suo punto fermo, il suo cardine assiale, l’eredità dei suoi antenati, il suo onore. Il dojo e…

Ranma?…

Te la faccio vedere, caro mio… ti mostro che sono all’altezza del dojo e che so esserti alla pari…

Chiuse il quaderno e lo ripose nel cassetto del comodino affianco al letto; aveva deciso che sarebbe scesa a spaparanzarsi davanti alla tv, magari riguardandosi le vecchie VHS di “Kung fu”, quelle con David Carradine, le preferite di papà! L’indomani si sarebbe impegnata per trovare una scuola, un dojo, un club di arti marziali dove imparare tecniche nuove.

Mentre si apprestava ad uscire, le sembrò che dalle pieghe del bianco abito nuziale, ormai un sudario di polvere, provenisse una risatina.

“Tanto non sei carina, ragazza mia… diventerai ancora più un maschiaccio sgraziato! Come lo sei stata quel giorno nonostante tu mi abbia indossato…”

“Taci tu! Sei patetico! Sappi che la prossima volta indosserò un kimono!”, urlò la ragazza nell’ombra della sua stanza. Senza indugiare aprì il cassetto e si mise a frugare nervosamente tra miriadi di oggetti, cercando qualcosa che trovò prima del previsto. Trionfante si voltò a fronteggiare ancora quel maledetto, lezioso, vaporoso, patetico abito…

“Te la faccio vedere io! Sì! Ecco!”

Toc toc, qualcuno picchietta lievemente alla sua porta con una nocca sola.

“Che fai, Akane, parli da sola?”

Oddio…

Era Ranma.

Per poco Akane non volò con la faccia sul pavimento. 

“Chi io? N-no, no…”, rispose lei. Il gocciolone sulla sua fronte era ricomparso. 

Sto diventando matta…

Vieni giù? Kasumi dice che è quasi pronto.”

“S-sì, solo un attimo e arrivo”, rispose lei con un angolo della bocca che pulsava istericamente.

Un fascio di luce esplose fulmineo nella penombra crepuscolare in cui era avvolta Akane: Ranma aveva aperto la porta facendo irrompere in quella camera la luminosità elettrica del corridoio. Per poco la ragazza non aveva avuto una sincope.

“Perché stai al buio da sola? Parli ai fantasmi?” la provocò il giovane, simpatico come sempre. 

“Perché entri senza chiedere il permesso?”rispose lei fiondandosi di corsa fuori dalla camera e anticipandolo sulle scale.

“Ehi, aspetta dove corri? Aspettami, dai!”, lo sentì protestare dietro di lei. Ma Akane era già sparita, in direttissima verso la sala da pranzo.

Ranma sentì allora uno strano odore, dolciastro ma con un alcunché di amaro, decisamente alto e chimico, provenire dalla camera di Akane, così entrò soprappensiero come per verificare cosa potesse emanare un simile olezzo.  E lì si trovò di fronte l’abito nuziale — quell’abito! — con un’immensa macchia nera a inquinare il suo candore. Una bomboletta spray rotolava sul pavimento verso il suo piede.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

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Capitolo 3
*** Lo Strano Caso di Akira Tokugawa, parte 1 ***


Chiedo scusa per il ritardo nella pubblicazione di questi capitoli, ma dovevo progettare per bene il tempo del racconto, prendendo ispirazione dalla struttura non lineare che Tarantino ha dato a molte sue opere più celebri, come Pulp Fiction e Kill Bill Volume 1 (e che in questa fan fiction vuole essere un punto di riferimento sotto molti punti vista, sia come cross-over che spunto per citazioni. Ringrazio per la pazienza.

 

 

 

Lo strano caso di Akira Tokugawa, parte 1

 

 

 

 

 

Le dita impattarono violentemente contro il pannello di quercia. Un acuto dolore si propagò fitto per tutta la sua mano destra, mentre un fiotto di sangue sgorgò dalle sue unghie, ormai lacerate. Trattenne a stento un singulto nella gola; non poteva sopportare il fallimento e attese un istante, chinando la testa contro il petto, col cuore che sembrò rimbombarle sfrenato contro le costole. Sapeva che sarebbe arrivato…

 

“Stolta pupattola nipponica!”, inveì aspra la voce del Maestro. Il colpo del suo bastone bussò in modo poco gentile sulla testa dell’ allieva.

“Ahi!”, si lasciò sfuggire Akane, spostando le mano sana da quella ferita al bernoccolo che le stava crescendo sulla nuca.

“Si può sapere dove si trova la tua testa, oggi? Che hai? Ieri non facevi questi errori madornali!”, sottolineò candido Pai Mei.

La ragazza si contrasse ancora di più in se stessa per reprimere un brivido che le era scorso lungo la schiena.

Si era distratta.

 

Ranma… 

 

E ciò era accaduto mentre eseguiva l’esercizio. L’esercizio degli esercizi, come lo chiamava il canuto e dispotico Maestro; l’esercizio che prevedeva la disintegrazione del duro legno ad opera delle sue dita sottili, dopo aver felicemente superato la stessa prova con le sue nocche, più decise e allenate delle dita. 

Non era stato facile, poiché Akane, in passato, era stata sì in grado di disintegrare pietre e pannelli di legno con le sue nude mani, ma non avrebbe saputo farlo a una distanza ravvicinata… E il Maestro aveva preteso che la distanza tra la dura materia dei pannelli e la sua tenera mano fosse sottile come un foglio di carta. 

 

“È il legno che deve temere il tuo pugno, sciocca!”

 

Dopo molte fatiche e molti dolori, infine, il legno aveva avuto paura del suo pugno. Ora doveva imparare a temere le sue affusolate dita di ragazza.

 

Ranma…? Si sarà scontrato col Maestro?Starà bene?

 

Non riusciva che a formulare questo pensiero da quando era tornata a riempire i secchi d’acqua, quella stessa e strana mattina. Dopo averlo incontrato, si era pentita di aver rivelato al fidanzato il trucco per accedere all’ashram. Era ancora troppo sorpresa e stordita di averlo visto lì, per pensare al piccolo particolare che Ranma non sapeva proprio come interagire in modo corretto con Pai Mei; lei stessa aveva dovuto ingoiare grossi rospi insieme al suo orgoglio, per seguire il consiglio che Beatrix gli aveva dato sull’irascibile Maestro… 

 

Con il sudore che le infradiciava tiepido la frangia e la radice dei capelli, si guardò ancora intorno cercando di capire, di cogliere. C’era stato un duello impari? C’era stato un civile confronto tra i due? Si erano incontrati? Ranma era tornato indietro? Cosa voleva esattamente Ranma da Pai Mei? 

 

Vuole… reclamarmi?

 

In un attimo, ancora una volta, la sudata atarassia che si era costruita in quei mesi, il gravoso stoicismo che aveva conquistato erano evaporati. Era bastata la sua voce, che quella mattina aveva echeggiato furibonda nella macchia vegetale inveendo il nome di lei, a turbarla.

 

“Akane, cretina, dove sei nascosta?

Cretina… cretina… cretina…”

 

Solo pochi mesi prima, con un’uscita del genere, Ranma si sarebbe guadagnato una pioggia di noci di cocco in testa dalla prima palma disponibile, con un “Cosa mi dici, brutto deficiente?”come rinforzo del concetto. Mentre quella mattina…

 

Dov’è?

 

Akane guardò di nuovo il Maestro, facendo attenzione a non fissarlo in faccia e dissimulando l’apprensione che le stava lievitando dentro. Se Ranma quella mattina si fosse fatto vivo, Pai Mei le avrebbe detto qualcosa? L’avrebbe incalzata, insultata, minacciata per aver permesso a un estraneo di giungere al tempio? Era un’incognita a cui non sapeva rispondere. Poteva solo stringere in una morsa il suo stomaco e continuare a dissimulare sicurezza. 

Pai Mei fece scorrere le sue rugose dita sulla lunga e canuta barba che che gli pendeva dal mento, con un gesto secco e sprezzante. Lo faceva sempre quando rifletteva e la cosa la turbò ancora di più. 

Oddio, Ranma, dove sei?

 

Akane sapeva che Ranma non sarebbe stato in grado di battere Pai Mei. Nessuno se non un rishi [1] avrebbe avuto la forza di essere alla pari e battere il millenario sacerdote del Loto Bianco. Nemmeno Obaba, con i suoi miseri trecento anni, avrebbe avuto scampo contro il letale stile Tigre-Gru del Maestro. E, sopratutto, nessuno sarebbe stato in grado di superare l’estrema suscettibilità del canuto saggio, che aveva addirittura avuto la faccia di bronzo di fare rimostranze a Parashurama [2] in persona! 

 

“Bah!”, grugnì sprezzante Pai Mei, distogliendola ancora dai suoi pensieri concitati.

 

Il Maestro poi, con uno schiocco di dita e uno sbuffo supponente, fece ancora fluttuare la sua barba sottile, per poi girarle le spalle e andare a veloci passettini verso la rastrelliera di legno, carica di spade e giavellotti di varia misura.

 

“Bah!”, ribadì bisbetico il vecchio. 

“Vedi adesso di sfiorare almeno la decenza con l’esercizio della spada! E dopo sai che devi preparare le teste di pesce… hai preso anche l’acqua di mare?”

“S-sì, Maestro…”, rispose Akane, mentre un gocciolone immenso di perplessità le stava calando sulla fronte.

 

Sono sicura che se Ranma vivesse mille anni diventerebbe così…

 

A quel pensiero dovette mordersi la lingua con forza per non farsi sfuggire una risatina isterica e ciò le riuscì con uno sforzo considerevole; non sarebbe stata capita dal Maestro, che ora l’aspettava arcigno di fianco alla rastrelliera. 

 

“Be’?” la incitò spazientito battendo un piede per terra, mentre la luce del pomeriggio ne dorava la candida tunica, lo stretto e niveo chignon arrotolato sul venerando capo e le sue tentacolari sopracciglia, bianche anche loro. Tutto era un po’ meno bianco nel Loto Bianco, alla luce del meriggio… 

 

Non devo agitarmi… sarà tornato indietro… 

 

Si disse tra sé la ragazza mentre, scuotendo la testa, si avvicinava al venerabile bisbetico.

Ed ecco il vegliardo librarsi in aria come una libellula, con la sottile spada stretta nella destra, e la mano sinistra in posizione a mo’ di zampa di mantide religiosa. 

 

Un soffio di vento ravvivò l’aria ferma e opprimente del corto pomeriggio tropicale, mentre il sole arrossava le fronde lussureggianti delle mangrovie e delle palme, mentre il canneto di bambù si fletteva docile a quella brezza inaspettata. Il silenzioso tempio di pietra grigia sembrò rianimarsi alla luce ambrata del crepuscolo e in lontananza si poteva sentire la risacca del mare.

 

Akane prese a sua volta la spada con la sinistra, provocando un grugnito di disapprovazione da parte del Maestro. 

“Ma… ma… la destra mi fa ancora male…”, provò a dire la ragazza, ricevendo un muto sguardo sprezzante dal canuto vegliardo, il quale non ebbe nemmeno bisogno di verbalizzare cosa ne pensava in merito: lei avrebbe comunque usato la mano scorticata che aveva usato contro i pannelli di legno.

Rassegnata, la giovane strinse i denti e prese l’elsa della spada con la destra e si mise in guardia con la seconda mano. 

 

Ma Ranma…?

 

A quel pensiero scosse energicamente la tesa, in quei mesi fattasi più pesante a causa della sua lunga chioma ritrovata; i suoi capelli, il suo ex-voto. 

 

Ora basta… Devo concentrarmi.

 

Scosse  ancora una volta la testa e fissò il suo sguardo, ora serio e concentrato sulla bianca figura del vecchio; per un lungo istante, gli occhietti neri di Pai Mei la scrutarono attenti sotto quelle cespugliose sopracciglia bianche.

 

“Attaccami, ragazzina!”, proclamò infine il vecchio maestro. 

 

 

*

 

Un anno prima, Nerima, anno 1989, circa un mese dopo “il Matrimonio che non fu”

 

 

 

“Pronto, qui parla la famiglia Tendo”, bofonchiò assonnata la voce di Ranma. 

Nessuna voce rispose a quell’appello, ma con i suoi sensi acuiti, il ragazzo potè giurare di aver udito due sospiri brevi e ravvicinati. 

“Allora? Si può sapere chi sta chiamando? È quasi mezzanotte!”, brontolò ancora.

“… A-abita lì Akira Tokugawa?”, disse, flebile e timida, una giovane voce di ragazza.

“Eh?” 

 

Ancora?

 

“Scusa, questa è la palestra Tendo! Non c’è nessun Akira Tokugawa! E, ora, se permetti io torno a dormire!”, abbaiò Ranma, evidentemente irritato.

“Eh, no! Non riattacchi! L’ho visto, oggi! È entrato lì! Me lo passi!”, ululò stridula la voce femminile, in piena isteria, tanto da rimbombare da dentro la cornetta. Dalle scale, Ranma potè vedere la testolina castana di Nabiki che, in silenzio, stava gesticolando con aria interrogativa, come a dire “Ma chi è?”.

“Abbassa la voce, oca, che mi stai assordando! Qui non esiste nessun Akira Tokugawa! La dovete finire con questa storia!”, ribadì Ranma seccato. 

 

Intanto Nabiki era scesa e si era accostata con aria divertita al cognatino, che stava evidentemente perdendo le staffe.

“Non è vero! Voi mi nascondete l’amore della mia vitaaaaaaaa! Oggi l’ho pedinato apposta! È entrato a casa vostra! Dalla porta principale, per giuntaaaaaa!Aaaaaaaah!” strepitò furiosa la vocina.

“Basta con questi scherzi, brutte galline! La dovete smettere di molestare la gente a tutte le ore del giorno! E poi chi è che porta un nome come “Tokugawa”, eh?! Ragazzine ignoranti!”, sentenziò secco il giovane, per poi sbattere violentemente la cornetta sul telefono.

 

“Ranma, occhio che il telefono costa. Così lo rompi”, commentò sardonica Nabiki. “Ma dimmi…”, aggiunse con una punta di divertimento, “Un’altra ragazzina che cerca questo fantomatico Akira Tokugawa?”

“Sì… come se oggi non ne avessimo già avute abbastanza di queste matte!”, rispose Ranma, guardando le montagne di mazzi di fiori, orsacchiotti giganti rosa, letterine zuccherose piene di stickers e disegni di cuoricini, accatastate nella penombra dell’atrio. Tutta mercanzia dedicata al fantomatico “Akira Tokugawa”.

“Di’ un po’, Ranma, sei arrabbiato perché non cercano te?”, intervenne un’altra voce femminile. Il ragazzo si girò di scatto, giusto per vedere la fidanzata scendere le scale con un lieve sguardo ironico stampato sul volto. Ranma di colpo ammutolì. 

 

Akane!

 

Avrebbe voluto rispondere per le rime ad Akane, come era sempre stato solito fare, ma qualcosa lo trattenne anche quella volta. Stava succedendo sempre più spesso, sopratutto dopo il matrimonio che non fu…

 

Scema, le avrebbe voluto dire, ma nemmeno quel classico insulto venne formulato dalla sua bocca, di solito molto insolente.

 

Nel frattempo la giovane stava raggiungendo il fidanzato e la sorella nell’atrio con passi strascicati, dove stavano il telefono, le scarpe e recentemente quella massa sdolcinata di trofei dedicati a un ragazzo misterioso. I suoi capelli bluastri erano raccolti ai lati della testa in due mozziconi di codini. 

 

“Hai visto, sorellina? Ci sono frotte di ragazze che vengono qui e non per il tuo fidanzato! È un evento di portata cosmica”, rise Nabiki. 

“Be’, queste almeno sembrano donne più normali… non hanno ancora assediato il portone con un ariete o… spaccato la palestra”, aggiunse Akane, calcando il tono sulle ultime due parole.

“Sono moleste… oggi mi hanno fatto un agguato lanciandomi una marea di scatole di caramelle urlando come pazze “Akiraaaa”, Akiraaaaa, dove nascondete Akiraaaaa?”, sbottò Ranma, facendo il verso a una sgraziata parodia femminile. Stava forse mascherando il disagio?

“Se domani tornano, vedranno, quelle cornacchie…”, concluse.

“Chissà com’è questo Akira Tokugawa…”, domandò Nabiki, fingendo di rimuginare tra sé. “Dev’essere un personaggio discreto… a proposito, Akane, ti stai facendo ricrescere i capelli? Era una vita che non ti vedevo con i codini!”

 

Eh? Akane si sta…

 

Ranma si sforzò di alzare lo sguardo verso la sua fidanzata. Era vero: i capelli ora le arrivavano a metà del collo, tanto che riuscivano a stare raccolti in quei due codini scuri che spiccavano sul suo incarnato bianco e sul suo pigiama giallo.

Un secondo moto di disagio gli eruppe dallo stomaco. Cosa stava succedendo?

 

… facendo crescere i capelli? Perché…

 

“Uh? S-sì… niente di che”, scosse la testa la sorella minore, simulando noncuranza.

“Davvero! Non avevi più smesso di tagliarli… e a te crescono sempre in fretta!”, aggiunse la mezzana allungando una mano verso uno dei codini della sorella minore. “Magari facessero così anche i mei che sono troppo sottili”.

“Ma tu non li hai mai voluti lunghi… sul serio, Nabiki, niente di che… Mi è passata la voglia di averli corti, tutto qui”, concluse Akane leggermente infastidita da quell’insistenza.

“Non è che anche tu ti stai facendo bella per questo Akira Tokugawa, sorellina?”, incalzò la sorella maggiore con un sorriso furbo stampato sulle labbra.

A quelle parole, Akane rimase in silenzio per un istante per scoppiare a ridere, mentre Ranma volò a picco per terra con le mani a guisa di corna.

 

Se sapessi, sorellona, chi è “Akira Tokugawa”…

 

“Nabiki, Akane può anche farsi crescere i capelli ma rimarrà sempre un maschiaccio sgraziat…”, proruppe Ranma, interrompendosi proprio sul più bello di quello che era il suo repertorio. Poi, alzò d’istinto le mani a coprirsi il testa a mo’ di difesa, aspettandosi un cazzotto da un momento all’altro. Un pugno che però non arrivò.

“Sgraziato, e poi? Non hai ancora finito mi pare!”gli ringhiò di rimando Akane, accigliata.

 

Il ragazzo ammiccò le palpebre un paio di volte, incredulo: non lo aveva aggredito. Un terzo moto di disagio gli salì, ancora una volta, dal petto.

 

Tutto qui? Forse potevo fare di meglio…

 

“Dai, continua, cosa stavi per dire? Che non sono abbastanza sensuale per interessare questo fantomatico bellimbusto, ho ragione?”, lo incalzò sarcastica la fidanzata, imitandogli la voce quando pronunciò “Bellimbusto”.

 

Incredibile, pensò lui. Era dal matrimonio che non fu che non avevano ripreso ancora  a parlare come prima — a battibeccare come prima!—  e dovevano ricominciare proprio così, a causa di un tale dal cognome improbabile? Con disappunto, Ranma osservò che a all’ultima invettiva di Akane il suo mordente, che poco prima aveva ritrovato per un istante, si era di nuovo spento.  

 

“Forse dovremmo staccare il telefono… non vorrei che qualche invasata decidesse di chiamare alle due di notte”, concluse Nabiki mentre, sbadigliando, stava lentamente riguadagnando le scale e il piano di sopra. 

Akane fissò un istante il telefono, in silenzio. “Sì”, commentò poi, alzando la cornetta e lasciandola pigolare al lato dell’apparecchio. 

 

“Buonanotte, Ranma”, sospirò infine Akane, mentre seguiva le orme della sorella maggiore su per le scale. 

Ranma non rispose. Continuava a fissare i due codini che ondeggiavano ai lati della testa della ragazza, mentre lei guadagnava lenta il secondo piano. Un senso di inquietudine stava lievitando nel petto del giovane.

 

I capelli di Akane…  

 

Mi piaci di più con i capelli corti… corti… corti… 

 

Con il corpo pesante, dieci volte più pesante di quando si era precipitato al telefono, si avviò a sua volta verso il piano di sopra. 

 

I capelli… il vestito da sposa macchiato di nero…

 

L’aveva scoperto lui, quel disastro: il bell’abito nuziale annerito in modo brutale con uno spray di vernice nera. Aveva provato sgomento, quando lo aveva scoperto. Sgomento, poi rabbia, tanto che avrebbe voluto far la spia con Soun Tendo, il suo quasi suocero, sull’ orribile scoperta, su come sua figlia avesse devastato un abito tanto costoso, tanto prezioso… Poi era subentrata l’amarezza e allora si era tappato la bocca, ripromettendosi di affrontare Akane, non appena avrebbe trovato il momento propizio.

 

Solo che quel momento non era ancora arrivato, dopo un mese. Lei era diventata sempre più elusiva, rifletté Ranma. Dopo la scuola, Akane aveva preso a sparire, andandosene chissà dove in giro per la città, fino all’ ora di cena, e non si sapeva di preciso dove andasse. Poi rincasava sempre trafelata, con il volto arrossato e i capelli scarmigliati.

 

I capelli di Akane…

 

Era giunto nella sua camera, con il suo bravo futon che lo attendeva paziente, e ancora non  era riuscito a uscire da quel labirinto di pensieri a cui adesso faceva capo questo nome: Akira Tokugawa. Tokugawa… chi era il fesso che poteva credere a uno che usava il nome del famoso Shogun? 

 

Solo delle povere cretine, vero, Akane?

Akane, ma tu…

 

No, non sapeva se questo fantomatico dongiovanni avesse davvero a che fare con le ultime stranezze di Akane. Con i suoi capelli che, di nuovo, crescevano…

Il cuore gli batté violento nel petto. La reazione della fidanzata, poco prima, era stata così tranquilla rispetto al solito… Aveva addirittura riso della faccenda e quella vipera di Nabiki glielo aveva fatto notare, a gesti… gli aveva sbattuto davanti al naso le nuove bizzarrie di Akane, quelle che lui si ostinava a non voler vedere. 

 

Basta! Domani scoprirò dove va Akane di pomeriggio! Scoprirò se c’entra questo Ak… no… 

AKira Tokugawa… Akira… non sarà che… ma no…

 

 Con un proposito nuovo, si distese sul suo giaciglio, mentre il panda lì accanto ebbe un gorgoglìo nel sonno: stava russando come una locomotiva in marcia. 

 

“Sì, farò così”, sussurrò a se stesso. Poi chiuse gli occhi, sperando che il sonno giungesse presto.

Così non fu.

 

 

*

 

 

1] Rishi: nome sanscrito dei saggi, poeti e asceti, praticanti il “tapas” dello Yoga, nell’antica India, che grazie alle loro pratiche raggiungevano poteri straordinari e potevano vivere molto più a lungo di un uomo comune.

 

2] Parashurama è uno degli avatara del Dio Vishnu che ha allenato molti eroi e di cui si dice che permanga tuttora sulla terra, aspettando di poter allenare Kalki, l’ultimo avatara di Vishnu.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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