Le ciliegie di casa

di Angel_lilac
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PARTE I: la casa ***
Capitolo 2: *** PARTE II: la famiglia ***
Capitolo 3: *** Parte III: la vita ***



Capitolo 1
*** PARTE I: la casa ***


Ricordi quando nascondevi il tuo volto nella seta e non lasciavi che ammirassi le tue ciglia nere? Si direbbero identiche alle mie se i raggi del sole non avessero la tendenza ad accarezzarne le punte, creando un dolce riflesso biondo. Quando hai smesso di singhiozzare, temevo avessi perduto i sensi: ogni parte del tuo corpo aveva cessato di muoversi e i tuoi capelli avvolgevano il cuscino come se ci si volessero ancorare.
Nonostante non potessi vederlo, immaginavo il tuo volto contratto, con quelle rughe che ti si formano sul naso anche quando ridi. Qualche secondo di più e ci saresti annegata in quel cuscino, con le lacrime che avevano preso a scorrere tra le sue pieghe fino a depositarsi stremate sulle iniziali ricamate. Mamma ancora non te lo perdona: quella federa di seta era un regalo di nozze e tu lo sapevi, meglio di chiunque altro. Tu che ricordi ogni dettaglio di questa casa, dal modo in cui si increspano le onde nel quadro dello studio di papà alla data sul calendario del ripostiglio, le cui pagine non vengono sfogliate ormai da anni. Potresti camminare ad occhi chiusi tra questi corridoi e scommetto che non sfioreresti nemmeno una parete.
Improvvisamente avevi allontanato le guance fradice da quella federa perlata, ma ancora non volevi che incontrassi i tuoi occhi. Quando eravamo piccoli ed i nostri letti stavano paralleli nella stessa stanza, eri solita chiedermi il permesso per voltarmi di spalle, in modo che non mi offendessi se i nostri corpi non si specchiavano durante il sonno.
Io me ne stavo immobile, senza sapere come consolarti e con la preoccupazione per come avrebbe reagito mamma di fronte a quella federa martoriata. Seppure il suo affetto per quell’oggetto potesse sembrare incoerente, proveniva da suo cugino da parte della nonna, per qualche ragione la persona che le era più cara.
Avevamo messo piede in casa da pochi minuti e tu non avevi potuto gioire dei suoi profumi, gli stessi che io avevo sognato per tutto l’inverno. Non gioisci mai di niente. Piangi ricordando di quando eri leggera, così leggera che l’Ander avrebbe potuto portarti via, ma cosa è cambiato davvero? Vivi nella malinconia e respiri l’aria che hai accumulato nel passato. Respiri appena e il tuo cuore batte lento. Di questo passo finirai per soffocarti. 

Sei rimasta rannicchiata in quell’angolo per quasi tutto il pomeriggio e io ho cucinato una crostata con le ciliegie del giardino. Ti ho vista spiarmi dalla nostra stanza mentre sfornavo la torta e la tagliavo a fette, mentre sedevo sulla tua sedia in cucina. Ho sempre pensato che quella posizione offrisse la vista migliore: attraverso l’ampia vetrata si scorgeva la terrazza sulla quale mamma aveva lasciato arrampicare l’edera e, allontanando lo sguardo, quell’immenso frutteto le cui piante erano solite ondeggiare, spettinate dal gelido vento invernale o dai temporali d’Agosto. Avevo sempre provato gelosia per tuo posto a tavola, ma non avevo mai chiesto di scambiarlo perché tu amavi guardare le piante danzare.
Speravo ti saresti unita a me per degustare la crostata con una tisana di quelle che ti pizzicano la lingua ma ti accarezzano l’anima, come le definivi tu. Ma tu avevi gli occhi arrossati che cercavi di nascondere dietro ai capelli bruni, così sei tornata a tormentare il cuscino di seta ed io ti ho raggiunta quando il sole era già calato. Te ne stavi seduta al centro della stanza e facevi scivolare le dita sul pavimento, come se volessi raccogliere la polvere depositata da quando mamma era partita. Con i polpastrelli toccavi delicatamente ogni singolo tassello che componeva il mosaico al centro della stanza, assumendo espressioni così enigmatiche che sembravano dettate da sentimenti inconciliabili.  

« La mamma vuole cambiare il pavimento » avevi sussurrato senza staccare gli occhi da terra. Il vestito bianco che quella mattina aveva attirato gli sguardi di ogni passante, ora ti avvolgeva con dolcezza e ti faceva apparire ancora più misera. Hai parlato ancora sottovoce: « Dice che il parquet è più comodo da pulire e si intonerebbe con i mobili della cucina, quelli in legno di pino… ». Tenevi le ciglia basse, non riuscivi a staccare gli occhi dal mosaico che papà aveva voluto a tutti i costi dopo il suo viaggio a Ravenna. Io avevo cercato di tranquillizzarti, per quanto la tua preoccupazione non riuscisse a toccarmi. Di fatto non trovavo più parole da dirti, se non quelle che ti ripeto da anni e che probabilmente non fanno altro che intristirti ulteriormente. Così ho lasciato spazio al silenzio, finché non ho fatto per prenderti il braccio e tu hai cominciato a protestare: « Io non voglio andare da nessuna parte. Sto bene qua, dove sono ora. Non uscirò mai più da questa stanza! » Ti eri abbandonata sul pavimento e avevi puntato gli occhi sul soffitto pallido, ma il tuo sguardo era perso e so che pensavi a quando avevi cinque anni e quello stesso soffitto era dipinto di blu.
Ignorando ogni tuo lamento, avevo insistito per trascinarti fuori dalla stanza. La vista delle tue lacrime stava cominciando ad irritarmi e soprattutto volevo che assaggiassi la mia crostata di ciliegie. Tu avevi cominciato a urlare ed io, gridando ancora più forte, ti avevo detto che ti stavi comportando come una stupida. Allora tu mi avevi dato dell’insensibile e ti eri messa a lanciarmi addosso i tuoi libri con una forza che dovevi aver accumulato per tutto il pomeriggio. Ma dopo poco ti eri calmata ed avevi mangiato mezza fetta di crostata. Ti eri scusata con me ed insieme avevamo riattaccato le pagine dei libri con lo scotch ancora nello studio di papà. Per scusarti mi avevi regalato il libricino con la copertina porpora, quello con le poesie stampate in italico al centro delle pagine. L’ho riletto almeno una decina di volte. La mia preferita è quella a pagina 34.

Mamma era sparita per qualche settimana ed aveva voluto che ci prendessimo cura della casa, come ogni estate. Non aveva nemmeno aspettato il nostro arrivo, né ci aveva spiegato il motivo della sua assenza. Tu dicevi che non ti importava, che tanto non la vedevi da mesi e che da quando stavi da sola la tua vita era diventata decisamente più pacifica. Io sapevo che non era vero, perché alla lontananza non sai abituarti.
Al nostro passaggio in paese gruppi di anziane dalla tinta sbiadita avevano cominciato a sussurrare parole confuse ai margini della strada, delle quali avevo intuito che mamma fosse in qualche sorta di “viaggio artistico”. Non te lo dissi perché ogni sera ti sentivo mormorare una preghiera per papà davanti alla finestra, prima di infilarti nel letto. Io avevo smesso ormai da diversi anni: mamma mi aveva fatto odiare qualsiasi pratica religiosa con le sue costrizioni e quelle sue frasi insensate sull’amore incondizionato di cui solo Dio è capace. Anche tu mi avevi confessato di aver perso la fede da quando ti eri trasferita, ma al rientro a casa avevi ripreso ad incrociare le mani sul davanzale, convinta che le tue parole non si dissolvessero nell’aria. Dunque non ti dissi dove fosse mamma, o meglio con chi fosse perché temevo ti avrebbe sconvolta, ma lei non ebbe la stessa accortezza e, al suo ritorno, aveva portato in casa quell’uomo supponente dal volto schiacciato e dalle spalle larghe. 

Durante il viaggio in treno ti avevo osservata per ore, mentre riempivi di parole i tuoi taccuini disordinati e, di tanto in tanto, gettavi lo sguardo fuori dal finestrino per scoprire che i palazzi che quasi si incrociavano con le rotaie avevano lasciato spazio a greggi di pecore dal pelo chiaro e dagli sguardi dolci. Io restavo nella trepidante attesa di leggere almeno una di quelle poesie e avrei voluto sfilarti il taccuino dalle mani mentre dormivi, ma tu lo custodivi così gelosamente anche nel sonno.
Quando le colline tra cui correva il treno avevano cominciato ad apparirmi familiari, tu ti eri appena svegliata e avevi gli occhi stanchi e quell’espressione disperata di chi soffre ogni attesa. Eppure mi avevi sorriso, come fai sempre quando, per imitazione o per pura generosità, copi il mio entusiasmo. In quel momento avevo pensato che ti avrebbe fatto bene tornare a casa per un po’, ma dopo che ti eri rinchiusa nello studio di papà a piangere per l’intero pomeriggio avevo cominciato a dubitarne.

Il secondo giorno ti eri svegliata che erano quasi le undici. Non so se dormissi davvero o se ti fossi nascosta tra le coperte per non dovermi aiutare a pulire la terrazza, un’abitudine che ti eri trascinata fin da quelle mattine della domenica in cui tentavi in ogni modo di saltare la messa. Avevi adottato quella strategia da quando avevi dieci anni e mamma non sapeva più dire quando stessi dormendo davvero. Io me ne accorgevo perché le tue ciglia tremavano appena quando ti fingevi addormentata e la tua bocca, socchiusa nel sonno, era forzatamente serrata durante le tue recite. E poi certe volte ti vedevo ridere, soprattutto quando mamma ci cascava e mi mandava in chiesa da solo, conciato come un piccolo uomo d’affari. Io odiavo scambiare un segno di pace con le mani di sconosciuti e fingevo di intonare i canti quando non c’era la tua voce angelica a coprire il mio lamento. Ma anche questo non te l’ho mai detto.  
Quella mattina non avevo nemmeno verificato che le tue ciglia fossero immobili o le tue labbra socchiuse. Volevo che restassi nel letto perché speravo ti avrebbe resa più allegra ed infatti al tuo risveglio sembravi sinceramente entusiasta di doverti occupare delle faccende domestiche. Avevamo percorso le scale di pietra ed eravamo scesi in giardino, dove gli alberi da frutto sorridevano, grazie alle piogge della scorsa settimana. Poi ti avevo lasciata da sola, con una ciotola di ceramica in mano e l’incarico di raccogliere i pomodori maturi dall’orto. Al mio ritorno, però, ti trovai abbandonata contro il tronco del ciliegio, con la ciotola vuota e le lacrime che riposavano sulle ciglia immobili. 

 

« Credo ci siano tante cose che mamma non ci ha detto » Te ne eri uscita con questa riflessione mentre fissavi la brocca del caffè, nell’attesa del suo borbottio. Mi aveva stupito. Forse perché ricordavo ancora quella bambina ingenua per cui il sorriso di mamma irraggiava il mondo. 

« Perché ha sempre mandato te a comprare le sigarette? » scherzai io, che non volevo iniziare discorsi seri e, inoltre, cercavo di non soffocare il buon umore con cui ti eri svegliata il terzo giorno. 

« Non le è mai piaciuto scendere in paese. Sai com’è, le piace fare la misteriosa, vuole a tutti i costi una vita interessante… ». Reagisti tu. Io la immaginai a bordo piscina di qualche hotel raffinato, con quell’uomo saccente seduto accanto a lei. La mia espressione si fece amara, ma tu non ci facesti caso.

« E si rifiuta di leggere le mie poesie, sin da quando ho iniziato a scriverle. Si inventa sempre qualche scusa… »

« Credo che più gente meriti di leggere le tue poesie » ti interruppi io  « In paese dicono che sei fredda, che cammini con gli occhi che scorrono sulle pietre dei palazzi e parli solo con la tabaccaia in piazza. » Cercai di evitare l’argomento “mamma”.

« Non mi importa quello che pensano. E, dopotutto, è solo la verità »

« Non sanno niente di te. »

Tu avevi scrollato le spalle e poi versato finalmente il caffè in due tazze. 

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Capitolo 2
*** PARTE II: la famiglia ***


Era sempre stata una casa di cose non dette, in cui regnava il silenzio. Ogni parola fuori dall’ordinario tacere, riecheggiava tra quelle pareti per giorni e giorni, si insediava nelle nostre menti e ci turbava l’animo. Ma in una casa di silenzi cosa rimane da pensare, a cosa si aggrappa la memoria? Gesti, sguardi, l’odore di incenso che si propagava dallo studio di papà, altrettanto silenzioso e insidioso. Lui, sigillato in quella stanza, la porta serrata e tu che lo spiavi dalla serratura con fare innocente. Sogghignavi e poi sparivi di corsa verso il cortile ed io rimuginavo su quell’immagine che probabilmente le tue pupille ingenue avevano già rimosso: papà seduto sulla poltrona di cuoio che aveva accomodato di fronte allo scrivania, con gli occhi così fissi sui fogli da scordarsi delle promesse accumulate, delle illusioni perpetuate. Ma tu ridevi e non ti importava. Non eri superficiale, con il tempo hai dimostrato il contrario. Eppure ci sono troppe cose che non capisci e non vuoi capire. Perché mamma faceva sempre quell'espressione corrucciata ogni volta che ti vedeva far scivolare le tue infantili poesie sotto la porta di papà? Perché non rispondeva al tuo sguardo con un sorriso, come un invito, un’espressione di approvazione? Tu sai cosa volevano dire quelle rughe sulla fronte di mamma. Il tuo tormento ricade sul perché. Perché non poteva essere diversamente? E perché ti sei ostinata per così tanto tempo a conservare un ricordo ingannevole di loro, di noi?
L’unico momento in cui non percepivo il silenzio assordante che regnava nella casa erano le sere d’estate, quando i nostri pasti erano accompagnati dal canto delle cicale e dal tintinnare dei bicchieri e in cui avrei giurato che mamma e papà si fossero scambiati un sorriso. Ma eravamo tutti consapevoli che quell’atmosfera illusoria si sarebbe spenta negli ultimi giorni di settembre e il freddo avrebbe cominciato a regnare nei nostri sguardi per i prossimi mesi. Ma tu sputavi distratta i semi dell’anguria nel posacenere di papà e sorridevi divertita quando lui te lo faceva notare con uno sguardo severo. Io e te sedevamo così vicini da sfiorarci, sulla panchina di vimini che avevamo abbinato al tavolo da pranzo da quando le nostre sedie erano marcite al sole. La pelle s’incollava a causa del caldo e le frequenti gite al lago ci increspavano i capelli. Mamma era sempre costretta a tagliarceli almeno di tre centimetri alla fine di ogni estate e io mi ribellavo ogni volta perché mi piaceva quando i boccoli mi cadevano sotto le sopracciglia. Papà, invece, odiava andare al lago. Diceva che si sentiva inutile, disteso sulla roccia come un’ameba. 

L’inverno non è mai stato pietoso nei tuoi confronti: il gelo crea solchi tra le tue dita, le gambe si assottigliano e le labbra si fanno una superficie rugosa. Non saprei dire se sia ancora così: negli ultimi anni ho conosciuto solo le tue gote arrossate, le cosce piene e gli occhi luminosi. Agosto ti è gentile, si prende cura di te con un’attenzione materna. 
La terza giornata l’avevamo passata a farci scottare dal sole, sdraiati su un telo in mezzo al giardino. Tu mi leggevi De brevitae vitae ad alta voce, mentre io riposavo gli occhi. A fine lettura, avevi detto che Seneca sembrava conoscere nel profondo la tua paura di trascinarti nell’esistenza e che ora ti sentivi ancora più arida di prima. 

La quarta mattina ci alzammo prima dell’alba, per poterla ammirare dalla Spiaggia degli ulivi. Osservavo la superficie del lago incresparsi mentre sprofondavi al suo interno e il riflesso limpido delle montagne si dissolveva in macchie dai toni verdastri. Dopo ogni tuffo dal pontile dismesso, rimanevi sospesa per qualche secondo tra il fondale e la superficie, assaporando quel silenzio onirico che solo quella distesa d’acqua custodisce. Un silenzio che non è assenza, ma segretezza, un rituale sacro che non vuole esaurirsi. Se il lago volesse parlare, confesserebbe a te i suoi segreti, te li sussurrerebbe alle orecchie mentre ti dondoli leggera, con gli occhi puntati verso il cielo.

« Poi c’è a chi non piace l’odore del lago » te ne eri uscita una volta, mentre sedavamo a riva e le onde ci solleticavano le ginocchia.

« Non è che sia particolarmente piacevole » avevo risposto io, storcendo il naso.

« Ma perché si tende ad associarlo alla melma depositata sulla riva » replicasti indicando delle rocce ricoperte dal verde più intenso che avessi mai visto « Ma è quello stesso odore che percepisci quando stai nuotando e l’acqua ti accarezza la faccia, ti penetra la pelle, si infila nel naso, nella bocca. »

Negli ultimi anni, seppure l’acqua acre continua ad inzuppare i nostri ricci scuri ogni estate, mamma non li ha più accorciati. I miei capelli cadono ormai leggeri sulle spalle e tu li tieni spesso legati in una lunga treccia, il cui fiocco coincide con l’altezza della vita. 
 

« Quando l’hai scritta? » tra i fogli che avevi accumulato sul tavolo del giardino, uno solo aveva assecondato il ballo offerto dal vento, ma non feci in tempo a raccoglierlo che tu me lo strappasti dalle mani.

« Questa mattina » risposi secca.

« Di cosa parla? » Tu avevi reagito con uno sguardo quasi annoiato, poi ti eri assicurata i tuoi fogli sotto il peso di un melograno e il tuo tono si era fatto forzatamente teatrale: « di quando gli sguardi diventano freddi e i baci sempre più rari ».

Avevamo riso entrambi. «È una storia vera?» Avevo sempre sperato che mi raccontassi di più della tua vita in città.

« È la storia di tutti. » Improvvisamente eri tornata seria e capii che avresti voluto chiudere la conversazione, ma era da quando avevo finito di spazzare il viale di ingresso che cercavo disperatamente di distrarmi fino all’ora di pranzo. 

« Non tutti diventano freddi con il tempo » replicai allora.

« Ma qualcuno nella nostra vita lo farà. E allora non faremo altro che ricordare il tempo in cui eravamo così pieni…» Mi pentii di aver insistito, dal momento che il tuo tono drammatico cominciava a darmi sui nervi. 

« Pensi che mamma non ti voglia più bene? E nemmeno io?»

« È solo che forse ci abbiamo fatto l’abitudine e non gioiamo più del nostro amore reciproco »

« È inutile angosciarsi troppo per qualcosa che è andato e non tornerà » conclusi io. Tu non dissi nulla.   « Come l’hai intitolata? »

« Non l’ho ancora deciso. »

« Posso leggerla? »

« No, non è finita »

« Allora perché l’hai messa da parte? »

« Perché non voglio più pensarci. Non hai di meglio da fare? »
 

Il buio più totale invita alla confessione. Tutto ciò che ci tenevamo dentro durante la giornata, ce lo sussurravamo la notte e ci addormentavamo con le parole ancora sospese nella stanza. Ma non ne parliamo mai io e te, di papà. Almeno, non più. Eppure quella sera tu mormorasti qualcosa di inaspettato.

« Ti ricordi la lettera? » I tuoi occhi iniziarono a scorrere dal mio letto al muro dietro di me, fino allo scaffale su cui ora non si era accumulato altro che polvere.   

Quando ancora non superavamo il metro e venti di altezza, mamma e papà avevano l’abitudine di usare le mensole più alte della nostra camera per tenerci oggetti, fogli, fotografie. Ricordo che un giorno tu salisti a piedi nudi sul mio letto e prendesti la prima cosa che ti era capitata tra le mani. Era una lettera, scritta da papà è datata 24 giugno 1981. Sembrava la pagina strappata da un diario con entusiasmo frenetico e dimenticata con altrettanta velocità. 

Oggi ho incontrato la ragazza più bella del mondo, nel mio posto preferito: il vigneto dietro casa del nonno. All’inizio mi guardava spaesata e io ricambiavo: entrambi ci chiedevamo su chi avesse superato il confine del proprio terreno. I suoi genitori hanno il vigneto che accanto a quello del nonno, ma le foglie di vite si sfiorano o si intrecciano tra di loro, per cui è difficile determinare il confine tra i due. Ci abbiamo riso sopra e io ho ammesso di essere il colpevole (in realtà lei aveva superato di una fila il nostro vigneto). Abbiamo parlato tanto, finché la mamma non mi ha ha urlato “Francesco, la cena è pronta”. Mi sono vergognato tanto, soprattutto perché le avevo appena detto che il mio nome era Ettore. Non so perché l’ho fatto, ma Francesco è un nome che non fa per me, ne sono sicuro. Le ho detto che era solo uno scherzo di mia madre, ma se ci vedremo ancora dovrò dirglielo. Non vedo l’ora che sia domani! 

Sul retro del foglio era disegnato un cuore, con un tratto così leggero che non poteva appartenere alla stessa persona che aveva scritto la lettera, così avevamo immaginato che fosse stata mamma. Dovevano essersi accorti che avevamo toccato la scatola, perché il giorno seguente trovammo la mensola vuota e così è rimasta fino ad oggi. 


Il silenzio che durante il giorno soffocava ogni cosa, strisciava via dalle mura durante il sonno. Tu dormivi ed avevi l’aspetto di un angelo: c’era un breve momento della notte in cui il tuo letto nell’angolo della stanza catturava la luce della luna che, filtrata dalla grande vetrata, tramutava in un blu pallido e ti faceva apparire come sospesa. Quell’immagine è così chiara nella mia mente perché ogni notte, quando la luna faceva ingresso nella stanza, le piaceva svegliarmi. E mi costringeva all’ascolto di tutti quei gracili rumori che strisciano sul pavimento della casa o vi si arrampicano tra le mura. Suoni biascicati, insicuri, ritmici, stonati si infilavano nelle mie orecchie e mi rubavano il sonno, finché le tue lenzuola non restituivano quel pallore bluastro alla sorgente e venivano nuovamente inglobate nell'ombra. Tu eri ignara di questo momento onirico che la notte mi costringeva a vivere e sembravi persino sorridere in quel tuo sonno ininterrotto. Nonostante il buio fosse stato ripristinato, io faticavo ogni volta a riaddormentarmi, per cui avevo cominciato ad immaginare che il letto ondeggiasse a ritmo del mio cuore, come una zattera in un mare tranquillo. Col tempo, quel movimento si è fatto sempre più vero. Lo sentivo, tutto intorno a me. Avanti e indietro, al ritmo del mio cuore. Lo sento ancora, ogni sera e ormai non potrei evitarlo, neanche se volessi.

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Capitolo 3
*** Parte III: la vita ***


Così passarono due settimane e quattro giorni. Quando mi stavo ormai abituando a dividere le mie giornate con un viso gemello, il caschetto rossastro e la pelle olivastra di mamma ricomparvero sul cancello di casa, accompagnate da un volto piatto, in cui si incastravano due occhi minuscoli e antipatici.Per qualche ragione, il mio cuore prese a battere in maniera incontrollata e tu, che seduta al tavolo della cucina non potevi scorgere il loro ingresso, sembrava avessi percepito i miei battiti.

« Cosa sta succedendo? » 

Io restai in silenzio per un attimo, mentre studiavo i movimenti di quell’individuo. La camicia gli si incollava alla pelle a causa del caldo, il primo e il quarto bottone slacciati, ed indossava dei mocassini che mi davano l’impressione di volersi sfilare dai suoi piedi in qualsiasi momento. Dietro di sé trascinava una valigia di un colore appariscente ed attraverso i finestrini della sua auto mi sembrava di intravedere un mucchio di sculture di legno, forse souvenir del loro viaggio. 
Mi voltai. Il tuo sguardo era rimasto in attesa di una risposta. 
« Mamma è tornata » dissi solo. Ma a te non bastava, così mi raggiunsi di corsa alla finestra. Sicuramente mi aspettavo un’espressione diversa da quella che si dipinse sul tuo volto, ma comunque non poteva significare nulla di positivo. Dopo pochi secondi mamma entrò in casa saltellante e corse ad avvolgerci in un abbraccio impacciato. Poi ci presentò quell’uomo, o meglio mi presentò, perché sembrava ostinata a non incontrare i tuoi occhi mentre diceva con certo entusiasmo: « Lui è Bruno, è un collezionista. Ci siamo incontrati all’asta del museo, quella in memoria del papà »
Io gli strinsi la mano, ma non potevo celare un’espressione diffidente. Eppure sembrava che lui non volesse disturbarsi troppo a notarlo.  
Mamma cominciò ad elencare il suo programma per la cena e ad inviarci in spedizioni in paese per recuperare l’indispensabile. Io ero quasi entusiasta di allontanarmi immediatamente da loro e tu non volevi parlare, così ascoltammo in silenzio il rumore della ghiaia sotto ai nostri piedi, finché non arrivammo in piazza. Una volta tornati si era già fatta sera e mamma ci aspettava impaziente con le pentole già sui fornelli. L’uomo non faceva altro che riportare dibattiti di suoi “colleghi” sui temi più roventi che circondano l’arte contemporanea, ma è così facile ammaliare con parole altrui. Fu la cena più insopportabile della mia vita. 

Lui è un collezionista di oggetti vuoti, non di arte o almeno ho la sensazione che le opere perdano la loro aurea quando varcano la soglia della sua galleria. Non conosce l’insoddisfazione, l’indagine, il contatto, non conosce lo struggimento, il fugace orgoglio. Lui conosce solo gli applausi, i flash della stampa e gli aggiudicato alle aste. Non credo si nasconda alcun criterio dietro alle proprie collezioni, forse solo una forma di horror vacui che lo costringe a riempire ogni margine del suo archivio. 
Ma tu sei sempre stata cortese con gli sconosciuti e forse il tuo interesse nei suoi confronti era davvero genuino. Infatti, annoiato dalla conversazione sterile che stavamo intrattenendo ormai da troppo tempo, l’uomo si era voltato per chiedere con finta gentilezza di parlargli di te. Si intendeva fosse alla ricerca di una storia più interessante della mia. Ma tu non sapevi come soddisfarlo e rimasi in attesa della sua arrogante replica al tuo sguardo imbarazzato: « A volte ciò che gli altri dicono di noi è più verosimile rispetto a come ci piace descriverci… ».
Io alzai gli occhi al cielo e tu approfittasti del momento in cui mamma  andò a recuperare altro vino per rispondere con voce dolce « Mamma dice che sono fuori dal mondo e che non capisce quando intendo davvero le sciocchezze che dico. Ma mio papà diceva che somiglio ad un angelo con ali come neve e pelle di porcellana ». Lui sorrise e mosse gli occhi nella mia direzione, così velocemente da non riconoscere il mio sguardo irritato. Al suo sguardo inquisitore, tu risposi: « Mi vuole bene » 

« Tutto qui? » fece lui. 

I tuoi occhi mi sorrisero: « Quando eravamo bambini ha legato insieme i nostri polsi con una manica ritagliata da una camicia di papà, perché temeva potessi sfuggirgli. Ma ora non lo ammetterebbe mai » Al tuo sorriso ricambiai con finto imbarazzato.


Ed è tutto qui quello che il futuro ha in serbo per noi, per te. Sguardi imbruttiti, imbarazzati in spazi desolanti, di fronte ad occhi desolati. Ma a te piace ancora sorridere e fingo che a tratti non mi dia sui nervi. Non puoi trattenere il futuro in una mattonella di lapislazzuli. E non puoi sradicare la cultura. Questo lo sai bene, anche se il spazio di mondo da cui ti lasci accudire nei mesi estivi te ne dà l’illusione. È facile adagiarsi alla vita quando la pelle brucia ed l’acqua ti solletica i piedi.
Ma la mia pietà non ti è più sufficiente, e seppure hai imparato ad incontrare occhi non compassionevoli ancor non li sai affrontare. Non puoi più concederti il lusso di sguardi silenziosi, non puoi pretendere di poter racchiudere te stessa in un timido sorriso. E allo stesso tempo, prego che non diventi una di quelle persone che passano le giornate a limare se stesse e diventano affilate e dimenticano la dolcezza. 
D’estate ti scordi dei meccanismi che articolano il mondo, dimentichi di essere diventata grande, che dopo verrà l’inverno e tornerai a gelarti i piedi su quel freddo pavimento in città. Dimenticherai che esistano certe sensazioni e ti consolerai nell’indifferenza. Non ti mancherò io, ci sentiremo a malapena. E non ti mancherà il profumo del lago, perché d’inverno ha un'atmosfera triste e preferisci starne lontana. 
Persino io ti sto perdendo di vista. Ci sono riflessi di te che non so più decifrare. Ed è inutile tendermi la mano quando posso solo strisciare tra la mia frustrazione ed immobile disillusione. Abito un piccolo spazio, una fissa dimora, ho smesso di barcollare ancora tempo fa. E questa è la differenza tra me e te. 
So che se quella sera ti avessi sputato tutte queste parole in faccia avresti passato il viaggio in treno nel mutismo più radicale e forse avresti avuto anche un po’ pietà di me e delle mie convinzioni. Ma nonostante i quattro calici di vino mi avessero turbato l’animo, ebbi la decenza di non provocare lo stesso effetto in te.

Ed il mattino successivo, dietro al tuo sguardo che si posava delicato sulle colline, sentivo la tua fatica nell’accettare il volgersi dell'illusione in cui avevi vissuto da ormai due settimane. Una volta arrivati alla stazione ci saremmo salutati, tu mi avresti lasciato un foglio con trascritte le poesie che avevo cercato di sbirciare durante il periodo trascorso insieme, raccomandandomi, come ogni anno, di leggerle una volta lontani. E solo alla conclusione di questa parentesi avrei saputo decifrare tra quelle righe tutti quei tuoi sguardi enigmatici che per giorni e giorni mi avevano dato irrequietezza. Tutto tornava al proprio posto, ogni anno, col volgersi dell’estate e mentre ci avviavamo a binari diversi nell’attesa di un secondo treno, sapevamo entrambi che non avremmo sentito le nostre voci per mesi, nonostante un tempo correvamo per il giardino con i polsi legati da una striscia di lino. 
Eppure in questo cambiamento che tanto ti tormenta, appariamo ottusamente abitudinari, i nostri gesti ripetitivi, le nostre scelte strade già percorse. E un giorno vorrei che imparassi ad accettare la nostra incredibile banalità, anche se queste mura ci fanno pensare diversamente. Certe volte, quando il vento mi solletica la pelle e mi sussurra nelle orecchie, mi illudo ancora che lo faccia solo con me. E altre volte ancora ho la sensazione che tutto esaurisca il proprio senso in quel piccolo spazio in cui finisce l’asfalto e comincia la melma.

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