I misteri di Aberdeen

di scandros
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Giochi di Ombre ***
Capitolo 2: *** Gioco di ritratti ***



Capitolo 1
*** Giochi di Ombre ***


capitolo I

capitolo I

 

 

 

GIOCHI DI OMBRE

 

 

 

 

 

 

 

            La tormenta era oramai propria della notte. Come un canto lontano, aveva iniziato col suo lento echeggiare tra i rami degli alberi fino a risalire alle pendici della scogliera.

Al tramonto, il cremisi e l’oro di spauriti raggi invernali avevano lasciato il posto all’argento e all’avorio di plumbee nubi che si erano ammassate sotto la volta. Dal cielo minaccioso erano iniziati a cadere grossi e soffici fiocchi di neve e gli abitanti di Aberdeen si erano preparati ad una bufera, l’ennesimo consueto stormire di voci che avrebbe ridondato dalla spiaggia fino alla valle.

Alle dieci di sera, da nord un vento glaciale aveva cominciato a soffiare con un impeto tale che pareva esser sceso dai ghiacciai della fredda calotta fischiando, sibilando e spazzando le pendici boscose. A poco a poco, i fiocchi di neve si erano fatti sempre più piccoli e copiosi fino a divenire minuti, e come manciate di rena provenienti dalla landa costeggiante il mar del nord, avevano risuonato sospinti dal vento contro le finestre del castello.

 

            Dall'alto di una scogliera a nord della città, il castello pareva troneggiare il paesaggio come un fiero condottiero a difesa del suo popolo. Le sue torri si stagliavano al cielo come superbi gendarmi a difesa di un maniero incantato e dei suoi leggendari segreti.

Un fitto alone di mistero avvolgeva il castello e giorno per giorno, gli abitanti credevano sempre più che nella torre più a nord, tra le braccia del vento e del mare, trovava alloggio una mistica e triste principessa il cui pianto si confondeva con la risacca e il triste stormire.

 

 

            Un'antica leggenda narrava che sul finire del XIII secolo, il castello fosse abitato da una bellissima dama data in matrimonio di convenienza ad un nobile straniero, tanto avido quanto spietato. Ma costei era profondamente innamorata di un impavido pirata che per il solo udire il suo melodioso canto aveva più volte sfidato gli impeti di quelle onde che inesorabili e implacabili si inseguivano fin sopra la rena. Allorché il corpo senza vita del promesso sposo fu misteriosamente ritrovato, i sospetti caddero sul romantico pirata già apprezzato dagli abitanti del villaggio per la sua storia d’amore con la bella dama. Così, senza neppure attendere il giudizio di un tribunale, il pirata cadde in un’imboscata ordita dal padre della dama, venne catturato e giustiziato in piazza.

Alla dama innamorata non rimase che il suo corpo privo di vita ed una tomba sulla quale versare fiumi di lacrime e lasciarsi soffocare dal dolore.

 

 

Memori della leggenda, si sussurrava che nella notte tra la domenica e il lunedì, qualcuno scendesse dal castello avvolgendo il proprio aspetto nella cupa notte e si recasse al piccolo cimitero degli Heatrow.

I passi e i sospiri echeggiavano tra le ordinate croci del piccolo cimitero dietro la chiesa lambita dalla spiaggia, e qualcuno confessava di aver udito i melanconici lamenti dei due amanti accompagnati dal brusio del vento e dal profumo della marina.

 

 

 

 

 

 

            E quella notte, nel gelo di un'improvvisa bufera di fine inverno, la leggenda pareva ripetersi.  Qualcuno scese dalla torre che si affacciava sulla marina ai piedi della rupe percorrendo silenziosamente il cortile del castello, fino a raggiungere una porta di servizio di una rimessa attigua al muro di cinta.

 

L'ombra scura, velata di un lungo mantello, spostò le iridi a destra e manca con fare guardingo in cerca di una minima presenza che potesse in qualche modo ostacolare il suo cammino. Ma udì solo il sibilo del vento frusciare tra gli alberi del giardino e i torrioni del castello.

 Accertatasi di esser sola, l’inconsueta figura aprì la porta della stanza interna al cortile e la rinchiuse alle spalle silenziosamente. Con l'acuta vista di un felino, si destreggiò abilmente nel buio della rimessa avvicinandosi ad una vecchio mobile che spostò con forza, scoprendo un nudo muro di mattoni: si avvicinò alla parete e allungò le dita su un mattone sporgente premendolo verso l’interno. Dopo qualche istante di silenzio, s'udì l'eco stridulo di un vecchio ma efficiente ingranaggio che apriva un passaggio segreto.

Senza guardarsi alle spalle, si accovacciò sulle gambe e procedendo a carponi varcò lo stretto tunnel illuminandolo con una torcia a pile. La fioca luce si distese prima sulle fredde e umide pareti per poi lambire i gradini di una scala che discendeva verso il basso. Percorse con sicurezza la lunga scalinata resa viscida dall'umidità e dalla salsedine e si ritrovò di fronte ad un bivio imboccando la retta via senza alcuna esitazione. Man mano che la scala si snodava verso il basso, la temperatura all’interno del tunnel segreto calava sensibilmente

 

Alla fine della scalinata, si ritrovò di fronte ad un’altra parete  priva di cunicoli e uscite, e com’era già avvenuto, premette contro un mattone sporgente che aprì una nuova uscita velata da una fitta vegetazione.

Arrestò il passo  rabbrividendo per il freddo pungente. Non nevicava più ma l'aria era estremamente pungente. Oltre le siepi, maestoso e scuro s'apriva il mare. Si portò le mani al volto freddo consapevole della rigida temperatura. Si strinse nel mantello sentendo l'alito gelido della marina sovrastata dalla tormenta invernale. Qualche lampione lungo la costa lampeggiava fievolmente la notte fonda. Le nuvole incedevano velocemente in cielo sospinte dal vento creando tetre ombre sulle onde che si inseguivano tra spauriti bagliori di una luna argentata.

L'ombra si incamminò verso un cancello malmesso e visibilmente corroso dalla salsedine. Lo aprì e quel movimento fu accompagnato da un lento stridulo. Senza arrestare il passo, sicura del suo incedere giunse dinanzi una lapide e rimase ferma per qualche istante. Accompagnata dagli echi della notte, si inginocchiò dinanzi la tomba e giunse le mani in preghiera.

L'iscrizione sulla lastra di marmo riportava il nome di Alexandra Reynolds Heatrow, contessa di Aberdeen, la sua data di nascita e quella di morte.

 

…e come nell’antica leggenda, l'ombra era scesa nella cupa notte per pregare per la persona cara oramai perduta.

 

 

 

            Un tuono echeggiò nella tormenta ed un lampo illuminò il cielo bianco. Il fragore fu tale che timorosa d'esser scoperta, l'ombra drizzò in piedi per andar via. Il vento sibilava sempre più forte tra le fronde degli alberi del cimitero. Le alte cime degli abeti si piegavano al suo ridondante ululare, avvolte dalle gelide folate. S'udiva solo l'echeggiare della tormenta e lo strepito dei tuoni squarciare la volta. Con lo sguardo assorto verso la lapide, sentì un’improvvisa presa sul braccio e sussultò a quel contatto inatteso. Il sangue si ghiacciò nelle vene e per un attimo temette che il cuore potesse arrestare il suo battito all’inatteso contatto.

Con un gesto rapido dettato più dal timore che dal coraggio, tentò di liberarsi dalla stretta morsa. Anche il minimo sibilo sembrava esser soffocato in gola. Indietreggiò impaurita cadendo malamente sul terreno freddo. Il vento nemico sospinse il cappuccio del mantello sulle spalle rivelando il volto celato dalle ombre della notte.

-          Aspetta! non voglio farti del male. Voglio solo parlarti! – strepitò la voce cercando di stabilire un primo contatto. Vide quell’ombra indietreggiare e celermente levarsi in piedi. Senza attendere oltre, si risistemò il cappuccio sul capo e iniziò la corsa verso il cancello, verso quella via di fuga tanto agognata.

-          Aspettaaaaaaaaa! Ahhhh – berciò lasciando che il suo grido di dolore volasse nell’aria. Un ferro malmesso del cancelletto gli lacerò i pantaloni. Avvertì qualcosa di acuminato fendere in profondità la coscia e un bruciore imminente accompagnato dall’odore ferroso del sangue che sgorgava.

 

 

Il fiato era sempre più corto e il suo ansimare ritmava inseguito dal cuore. Il sangue aveva ripreso a fluire veloce e lo sentiva come un torrente in piena che celermente si snodava sotto pelle. Il vento sferzava la sagoma scura come una frusta, ma nel timore della cattura, continuò a correre incessantemente fino a che non cadde sulla fredda rena ostacolata da rami secchi trascinati dalla tempesta. Si voltò sgomenta e impaurita sentendo la vicinanza dello straniero.

Erano di nuovo uno vicino all’altro. Avvertiva il suo fiato, il respiro reso affannoso dalla corsa, poteva distinguerne l’ombra imponente ergersi accanto alla sua.

 

Un fulmine cadde in mare illuminando i tratti del dolorante volto dello sconosciuto. Il frastuono del tuono coprì il suo grido di dolore. Accasciandosi leggermente, lasciò che le mani lambissero la ferita cercando di attenuare il dolore e l’emorragia. Il viso era una maschera contrita di timore e sofferenza che ne offuscavano i tratti gentili e piacevoli.

-          Aiutami! ti prego...- sibilò chinandosi sulla sabbia. Le forze lo stavano palesemente abbandonando e in pochi attimi, senza il necessario soccorso, avrebbero dato luogo ad una sicura perdita dei sensi.

L'ombra avvertì quasi il sudore freddo che imperlava la fronte dello sconosciuto e il suo dolore profondo. Arrestò il passo come colpita da quella sua evidente vulnerabilità: erano a pochi passi l'uno dall'altro. Un altro lampo illuminò l'oscurità e il volto angustiato dello straniero.

Non mentiva. Gli indumenti erano palesemente lacerati e parve poter avvertire l'odore acre del sangue profondere dalla lacerazione.

Non poteva fermarsi. Non in quel momento. Qualcuno avrebbe potuto notare la sua presenza. E poi cosa sarebbe successo se qualcuno avesse visto la sua ombra aggirarsi sulla spiaggia? Non quella notte.

E se quell’incontro inatteso fosse stato un segno del destino? Non era mai accaduta una cosa simile. Qualcuno, in quel preciso momento, su una landa battuta da una tormenta invernale, implorava disperato il suo aiuto.

Un tuono squarciò il buio dividendo il cielo in due. L'ombra parve stagliarsi in tutta la sua autoritaria grandezza nel buio. Lo sconosciuto lo rimirava con gli occhi annebbiati dalla sabbia e dal dolore. Ma nell'eco della tormenta parve udire ancora il suo lamento. Si avvicinò ancora. Lo guardava mentre in preda al dolore si contorceva in lancinanti fitte. Non era una trappola. Non era lì per un adescamento.

E anche se lo fosse stato? Qualsiasi cosa avesse fatto quella notte, andar via o prestare soccorso all’insolito ferito, la sua vita sarebbe cambiata.

Senza pensarci ancora,  lasciò che le sue gambe si flettessero e si inginocchiassero accanto al corpo tormentato dell’uomo. Lo sconosciuto si accorse della sua presenza e quasi a voler ringraziare l’ombra di quel suo insperato aiuto, si voltò per delinearne i tratti del volto e ringraziarla con un sorriso timidamente accennato sulle labbra.

L’ombra allungò la mano verso il volto dell’uomo e puntò il dito sulle sue labbra invitandolo al silenzio. Il cappuccio basso del mantello ne copriva il volto al punto tale da non rendere identificabili i lineamenti del viso ma il ferito ebbe come l’impressione che quel primo tocco gli avesse donato un benefico sollievo. Strappò un lembo del suo mantello e strinse la striscia ben sopra la ferita per arrestarne l'emorragia. Non avrebbe potuto fare di più. Lo guardò con espressione risoluta. Il cielo si illuminò e lo sconosciuto ne distinse meglio il volto.

I suoi occhi si sgranarono come se avesse veduto un fantasma! Sentì il cuore balzargli in gola e la voce morire sul nascere. Il battito aumentò il suo ritmo vistosamente e accusò delle fitte in petto tanto dolenti quanto la ferita alla gamba.

Una voce in lontananza li destò. Ultimata la fasciatura, l'ombra gli tese la mano e lo aiutò ad alzarsi. Senza attendere alcun commento, lo prese sottobraccio e ansimanti procedettero pesantemente verso la boscaglia al limite della spiaggia che celava il passaggio segreto.

Sentiva lo sguardo dello straniero scrutarla profondamente, ma in quel preciso istante, più di ogni altro, non poteva permettersi leggerezze di alcun genere. Facendo leva su una forza sconosciuta e sul desiderio di mettersi al riparo, incedette a passo lesto sulla rena umida fino a raggiungere i primi alberi alle pendici della scogliera sulla quale maestoso troneggiava il castello.

Appoggiò il ferito contro un albero dall’ampio tronco e velocemente aprì il varco dal quale soleva uscire. Lo riprese sottobraccio e non appena furono all’interno, lo richiuse alle sue spalle.

Il silenzio delle gelide mura era paradossalmente assordante. Il gocciolio discontinuo di acque salmastre sui mattoni echeggiava tetro nelle piccole polle sul pavimento.  Lo sconosciuto fu percorso da un brivido di timore. Udì alcuni passi muoversi sul pavimento sicuri. Il suo compagno di avventura si stava prodigando per illuminare l’ambiente. Dopo pochi istanti, accese la torcia badando bene a tenerla  bassa nel tentativo di occultare il proprio volto. Afferrando la torcia per una mano e il braccio del ferito con l’altra, cominciarono a salire pesantemente i gradini fino a giungere al ballatoio che conduceva al bivio.

 

 

L’ombra saliva ansimante ogni gradino appesantita dal corpo dello sconosciuto. Il cuore batteva martellante in petto, ma non poteva soffermarsi a cercare di comprendere il motivo di quello stato d’animo e non poteva assolutamente comunicare il suo stato di agitazione al ferito. Non avrebbe dovuto farlo.

Alcune domande parvero improvvisamente balenare nella sua mente: perché si trovava in quel luogo e a quell’ ora? Perché pareva conoscere la sua identità nonostante continuasse a tacere?

Senza soffermarsi a cercare le risposte a quanto accaduto e a quel che sarebbe successo, continuò nell’ardua salita. Poteva avvertire l’ansante respiro dello straniero che faticava visibilmente in quell’incedere. Ad ogni gradino, udiva un suo lento gemito e sapeva di non poter far nulla per alleviare il dolore rivenente dalla ferita. Pareva quasi poter lambire con le dita la fronte madida di sudore o vedere i suoi occhi stringersi in due sottili fessure annebbiate dal dolore.

L’aveva condotto all’interno del passaggio segreto, spinto dalle voci incalzanti che si rincorrevano lungo l’arenile, per proteggere la propria identità e quella dello straniero. Era ferito e non avrebbe potuto lasciarlo in quello stato sulla landa sabbiosa. La luce del fulmine aveva illuminato il suo volto e ne aveva letto sofferenza e ardore, ma non ira o efferatezza.

Oramai non poteva più tirarsi indietro, e soprattutto non poteva lasciarlo nel passaggio che conduceva all'interno del castello. Non quella notte. Non in quello stato.

Il ferito arrestò il passo in preda alla stanchezza.

-          Aspetta! Il dolore è troppo forte. Non riesco a camminare! – sibilò digrignando i denti ad una fitta lancinante. Si appoggiò ad una parete facendo leva sulla gamba sana. Chinò il capo cercando di recuperare una parte delle forze e il fiato che oramai scarseggiava. - Aiutami ti prego...ahh...! – stridulò sempre più rantolante. - Dove mi stai portando?...non voglio farti del male...ahh...perchè non mi parli...- sussurrò con la poca voce rimasta.

Lo sconosciuto, celato dallo scuro mantello, aveva il capo chino sul petto e il cappuccio ne celava qualsiasi tratto. Per una piccola, insignificante frazione di secondo, un fulmine ne aveva illuminato il viso e lo straniero aveva sgranato gli occhi a quella visione. Appiattito contro la parete, continuava a guardarlo nella fievole luce della torcia che aveva acceso. Vide il suo braccio protendersi in segno d’aiuto. Il cuore gli saltò in gola. La nebbia parve diradarsi dagli occhi e la fioca illuminazione sembrò marcare leggermente quei tratti nascosti.

Desiderava sapere cose che non poteva dirgli, segreti che non poteva svelargli. Senza insistere, nel timore di essere braccato, le sue dita raggiunsero quelle dell'ombra e gli si fece vicino. Avrebbe accettato il suo aiuto. In fondo, l'aveva fatto fino a pochi istanti prima. Sapeva che non gli avrebbe fatto del male. Lo stava proteggendo ed era grato per questo. I loro corpi si fecero più vicini e lo sconosciuto sentì il braccio dell’ombra passare sotto il suo braccio e allungarsi sulla schiena. Avvertì il respiro posato e regolare e ringraziò il cielo di aver trovato in quello strano incontro un sicuro aiuto per la salvezza.

Ripresero a salire la scalinata alternando i passi sui gradini fino ad un pianerottolo che conduceva ad un bivio. L’ombra illuminò la strada da seguire con la torcia e  tese nuovamente la mano allo sconosciuto. 

Lo sentiva quasi amico e, nell'aiutarlo si sentì appagato di un sentimento che da tempo non provava. Diversamente da quanto accaduto prima, presero a scendere lungo la scalinata che si snodava in un tornante di gradini. La temperatura sembrava più rigida e lo sconosciuto comprese soltanto che stavano incedendo in una direzione differente da quella donde erano provenuti. Alla fine della cordonata arrivarono su un pianerottolo e sentirono lo scricchioli di foglie secche sotto le suole delle scarpe. Ebbe la conferma che si trovavano da tutt’altra parte della marina.

Avvertirono aghi di pini e resina sotto i calzari e l’eco del vento spirare dalle fessure del passaggio segreto. Non ebbe neanche il tempo di comprendere come, ma ad un preciso comando manuale, la parete si mosse e si ritrovarono entrambi immersi in una fitta boscaglia.

Il vento stormiva tra le fronde accompagnando fitti fiocchi bianchi che parevan danzare come polline nell’aria primaverile. Senza perdere altro tempo, ripersero il cammino percorrendo affannosamente un sentiero che discendeva ripido. L'ombra sembrava conoscere quei luoghi a menadito. Ogni suo passo si moveva alla perfezione in quel labirinto di siepi e vegetazione mosse dalle intemperie. Gli alberi parevan aver assunto forme grottesche e i rami muoversi al ritmare incalzante del vento.

Alla fine del sentiero, dietro una pallida nebbia che ancora gli offuscava le iridi, intravide una capanna. Le luci erano spente, ma il camino fumava ancora. Nel suo silenzio, gelido quanto l’aria di quella notte, l'ombra salì velocemente i gradini della veranda esterna e sgombrò una panca da dei rami secchi che qualcuno aveva lasciato incustoditi.

Quand’ebbe terminato raggiunse lo sconosciuto e prendendolo nuovamente sottobraccio lo aiutò a salire i pochi scalini di legno e lo fece sedere sulla panca ghiacciata dalla rigida temperatura.

            - Hai intenzione di lasciarmi qui? - gli chiese senza ricevere alcuna risposta di rimando, - aspetta...dobbiamo parlare... io ti ho cerc...ahh...non andare via...- sibilò con le poche forze che gli erano rimaste. A qualche passo di distanza da lui, gli puntò la torcia sul volto sofferente. Adesso poteva guardarlo bene.

La sofferenza pareva aver accentuato il biancore della sua carnagione che aveva assunto una tonalità quasi eterea. Non aveva, tuttavia, celato in alcun modo i tratti aristocratici che ne delineavano il bel viso. Il timbro della voce, dolce e pacato, tradiva un accento differente dal suo ma il suo inglese era fluente e ben pronunziato. Gli parve una figura strettamente familiare.

Bussò insistentemente alla porta fin quando non vide accendersi una luce oltre i vetri della finestra.  Lestamente si dileguò nell'oscurità senza che lo sconosciuto avesse modo di poter ringraziare per l’aiuto.

Di lontano, nascosta dall’ampio tronco di un albero, vide un anziano uomo protendere un braccio e una lanterna verso l’esterno. La timida luce della lampada ad olio illuminò l’ombra dello sconosciuto malamente riverso sulla panca. L’anziano strinse la coperta verso il petto cercando di proteggersi dal freddo pungente. Avvicinò la lampada a quella strana sagoma illuminandone il corpo e comprendendo la gravità della situazione.

-          O mio Dio! – esclamò posando la lanterna sul pavimento di legno e incedendo a passo lesto verso l’uomo.

-          Mi senti ragazzo? – gli chiese affannato e preoccupato.

-          La…gamba! Sono ferito! – rantolò certo che in quella voce impastata di dolore, l’anziano aveva compreso le sue effettive condizioni. Senza nascondere la maschera di stupore, l’anziano allungò le braccia verso il giovane e lo indusse a farsi aiutare.

-          Forza..entriamo in casa e vediamo cos’è accaduto! – aggiunse in tono bonario e confortante.

 

Avvolta nel tetro buio e nel brusio della notte, l’ombra sapeva che il vecchio frate avrebbe sicuramente aiutato lo straniero  a ritrovare la retta via. Di più, non avrebbe potuto fare.

 

Senza indugiare oltre, corse verso il passaggio e risalì fino al castello in preda ad emozioni che non ricordava aver mai avvertito prima di allora. Non sapeva quanto tempo fosse trascorso, di certo più del dovuto. Nel cuore, il timore di non fare in tempo a risalire i passaggi fino alle sue stanze era tale che il palpito risultava assordante.

Con affanno giunse nella rimessa e constatando che la scena era immutata: tutto era come l'aveva lasciato. Tirò un sospiro di sollievo recuperando parte di quella sicurezza che momentaneamente era venuta meno. Silenziosamente, risalì fino alle sue stanze accertandosi che occhi indiscreti non fossero presenti sulla medesima scena.

Entrò nella camera richiudendosi la porta alle spalle senza farla sbattere. Aveva una vista da felino, ma la luce soffusa del fuoco quasi spento nel camino, consentì di distinguere meglio ogni linea. Agendo sempre con la massima discrezione, sistemò gli abiti in un baule indossando quelli più comodi della notte e si avvicinò alla finestra. Dall’alto della torre, rimirò il mare in tempesta desiderando di potersi immergere in quelle acque scure per placare la sua vita. Una sconfinata mestizia prese il sopravvento nell'ombra che, volgendo il suo ultimo pensiero allo sconosciuto, ravvivò il fuoco nel camino e si infilò sotto le coperte. Guardò il pendolo sopra il camino e si rese conto di essere perfettamente in orario. Aveva anticipato la sua uscita per potersi intrattenere qualche attimo in più, ma l'incontro con lo sconosciuto aveva cambiato tutti i programmi.

Nel silenzio rintronante di quelle mura, udì dei passi farsi sempre più vicini, fino a giungere oltre la porta. L'uscio si schiuse e qualcuno entrò. Procedette fino all’alcova entro cui l’ombra era coricata supina. Scostò leggermente le coperte e controllò che dormisse.

Soddisfatto dell’esito di quella visita, si tirò indietro e si richiuse la porta alle spalle. L'ombra tremò. Il Aveva davvero rischiato, ma in cuor suo sapeva che ne era valsa la pena. I suoi occhi si chiusero nell'incertezza del presente e nel dubbio del domani.

 

 

 

 

Salve a tutti…beh, sebbene non neofita di EFP, sicuramente nuova della sezione originali. Fino ad ora mi sono cimentata (ad esclusione di una one piece original) in fanfiction ispirate a CT (Captain Tsubasa), ma qualche giorno fa ho riscoperto un vecchio floppy con questa storia mai terminata.

Ho pensato quindi, di rivisitarla e di pubblicarla sul sito.

 

Non biasimatemi se i particolari non sono ancora stati svelati. Ogni nodo verrà al pettine a tempo debito. Spero che questa mia storia vi sia gradita e vi auguro buona lettura.

Grazie a tutti. Scandros

 

 

 

L’ultimo ballo - L’onda dell’amore – Gocce di Memoria – The power of Love-  Amar Haciendo El amor – Sweet Christmas – Tradimento d’amore – Orchidea Selvaggia – Pavel, dolce come la neve

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Capitolo 2
*** Gioco di ritratti ***


capitolo II

capitolo II

 

 

 

GIOCO DI RITRATTI

 

 

 

 

 

            I timidi raggi del sole spiavano al nuovo giorno tra le feritoie delle persiane. Tenui colori sfumavano sul pavimento antico intingendolo come la tavolozza di un pittore. Il vento del nord aveva spazzato via le ultime nuvole della notte e un terso cielo azzurro aveva preso il posto della plumbea e tempestosa volta del giorno prima. La governante bussò alla porta annunciandosi e incedendo lentamente  fino al letto.

-          Buongiorno duchessina. Come va questa mattina? Ha visto che tempo bizzarro? Stanotte la tormenta, e questa mattina il sole splende in cielo. Comprendo bene che é poco più dell'alba, ma suo padre si é raccomandato di destarla presto per esser pronta per il viaggio. Se volete essere a Londra per l'ora di pranzo, deve alzarsi subito. Ecco qui: la sua sedia é accanto al letto. - disse la donna sorridente.

In tutto quel suo parlare, non aveva distolto neppure per un attimo lo sguardo dalla ragazza che giaceva nel pregiato baldacchino appartenuto ad una nobildonna. Rimirava quel bel volto con dolcezza  consapevole dello stato disagiato di cui era affetta. Avanzò verso la finestra spalancando le persiane e permettendo ai raggi dorati di irrompere nella grande stanza. Poi, si precipitò all'altro capo del letto afferrando la vestaglia di seta azzurra tra le sue mani.

Lapilli dorati e profumati mormoravano nel camino riscaldando la grande stanza. Una fila di libri dalle copertine di pelle e oro, erano disposti in ordine d’altezza sulla mensola di marmo del focolare. Sopra il camino, imperioso nelle sue dimensioni e nel portamento, un ritratto sembrava rimirarla affettuosamente.

Le labbra porpora le sorridevano dolcemente come gli occhi del suo stesso, meraviglioso colore.

La ragazza alzò lo sguardo verso il ritratto, poi sospirando sommessamente, voltò il profilo verso la finestra che s’affacciava sulla marina. Chinò gli occhi sulle coperte e facendo leva sulle braccia si sedette sul letto attendendo la veste da camera.

La indossò e, con una praticità oramai sua, si spostò velocemente dal giaciglio ad una pregiata poltrona imbottita che la governante aveva accuratamente spostato accanto al letto.

Lunghe ciocche color mogano caddero setose lungo l'ovale perfetto e latteo fino a lambirne un décolleté non più adolescenziale. Insolite, splendide ma prive di qualsiasi luce, due particolari iridi color indaco si celavano dietro le ciglia scure.

Era di una beltà inenarrabile, misteriosa, quasi eterea. I tratti aristocratici sembravano esser stati dipinti perfettamente su quel volto eburneo sul quale le labbra carnose e purpuree non accennavano neppure ad un timido sorriso verso il nuovo giorno.

La vestaglia, di un azzurro cobalto, pareva tessuta con zaffiri preziosi e intarsiata di ricami d’oro. La seta riluceva sotto la fioca luce delle fiamme dorate e degli impalpabili raggi creando sfumature violacee che sembravano intingersi negli occhi ametista.

Sebbene seduta, la sua figura s’ergeva alta e slanciata, risultato di anni di allenamenti di ginnastica artistica che avevano perfettamente tornito le curve femminili.

La governante si soffermò ancora un attimo a guardare quella splendida creatura di impareggiabile beltà, poi abbassò le palpebre e esalando sospiri, aprì la vetrata della finestra.

Una brezza pungente entrò nella camera spirando imperiosa e portando con se il profumo del mare e il suono della risacca.

 

Allungando le dita affusolate sulle ruote, si spostò verso la finestra ammirando, forse per l'ultima volta, quella splendida veduta.

I colori dell'alba si stemperavano nel cielo in soffuse nuance mentre lapilli colorati danzavano su ondeggianti flutti. La marina era di una bellezza travolgente. I gabbiani s'innalzavano alti e maestosi aprendo le lunghe ali volteggiando liberi in un cielo terso.

Silente, li rimirava, desiderosa d'esser come uno di loro, di avere delle grandi ali per poter spiccare il volo dalla sua gabbia dorata…un volo che forse, le avrebbe donato la libertà.

La governante si trattenne ancora una volta a guardarla, magicamente attratta da quella fanciulla che pareva vivere in una dimensione differente dalla sua, che pareva estraniarsi dal mondo con il corpo e con la mente.

Le sue labbra ne scandirono fiocamente il nome, privandolo del titolo nobiliare, nel tentativo di destarla e ricordarle l’impegno da onorare quella mattina.

 

Si portò una mano al petto quasi a voler stringere nel cuore mesto l’immagine di quelle onde che per tanto tempo le avevano fatto compagnia o per imprimere dentro di se quello stato di agitazione e trepidazione che da tempo la angosciavano. Sentimenti di malinconia e ira volevano coesistere dentro di lei. Lì dove il desiderio di libertà albergava nella mente, rivedeva nei suoi occhi le incantevoli scogliere che a picco cadevano tra i flutti cobalto, la landa di bianca rena snodarsi dalle pendici del castello fino alle prime luci della città, cornice perfetta di una gabbia che fino a quel momento l’aveva protetta.

Paradossalmente al desiderio di fuggire dalla sua torre come la principessa di una favola, viveva con ansia la prospettiva di una nuova vita a Londra, nella casa paterna.

 

In quei lunghi quattro anni, trascorsi come una prigioniera nella torre del maniero, non ricordava d'averlo mai veduto, o di aver mai ricevuto una sua telefonata. I giorni si erano susseguiti sempre uguali con l’unica consolazione delle stagioni nordiche che si erano riproposte con impareggiabile puntualità.

E così, era vissuta all’ombra di gelidi inverni in cui la neve si posava su una marina argentea, attendendo con trepidazione l’arrivo della verdeggiante primavera e della soleggiata estate.

L'unica persona che pazientemente l'aveva vegliata in tutti quei mesi, era stato il duca Ronald Harold Heatrow VII, suo nonno.

 

 

Hanna, la governante, l’aiutò a prepararsi per la colazione con la stessa meticolosità con cui da anni la assisteva. Sebbene non più molto giovane, il suo volto mostrava appena i segni di un’età adulta e di una professione che l’aveva portata a servire e riverire una delle più illustri famiglie scozzesi.

Fili argentei decoravano appena le tempie confondendosi tra ciocche di un biondo chiarissimo. Sul viso leggermente avvizzito dalle rughe, lunghe sopracciglia dorate si inarcavano su due occhi azzurri come il mare. Le labbra sottili si sfioravano continuamente in sorrisi diligenti e ossequienti. La sua deferenza e il costante impegno l’avevano portata al ruolo di governante di quel castello in cui un tempo si erano vissuti i fasti dell’alta nobiltà del Regno.

 

              Quand’ebbe terminato di prepararsi, si fermò dinanzi la toilette ed afferrò la morbida spazzola d'argento. Hanna stava diligentemente terminando di preparare le sue valigie. A nessuno del personale di servizio era consentito di parlarle, potevano solo scambiare qualche frase ossequiosa o di condiscendenza, ma lei la conosceva da quando era nata e, ricordava con tristezza gli anni lontani della sua infanzia quando la sua risata echeggiava allegramente per le stanze del castello.

 

La guardava spazzolarsi i lunghi capelli mentre il volto privo di vitalità si rifletteva nello specchio.

Un brivido di paura le percorse la schiena. Avvertì un forte tremolio sfiorarle le dita e le gambe mentre il cuore accelerava il suo normale battito. Gli occhi azzurri eran divenuti vitrei e dietro quelle iridi, pareva rivivere le immagini di una donna tanto amata quanto compianta.

La stessa spazzola d'argento con le iniziali incise sul dorso e che tante volte aveva veduto alla duchessa, era adesso brandita dalle mani di quella giovane donna.

Lei si voltò e Hanna temette per un istante di perdere il controllo del suo corpo. Allungò una mano al davanzale del camino per sorreggersi. Il marmo era gelido e senza vita, ma fu un solido supporto verso la sua persona che sembrava dover crollare sotto il peso dei ricordi e di quel tetro sguardo.

La sua espressione senza vita incorniciata dalle lunghe ciocche la rendevano quasi spettrale. Hanna si sentì quasi scrutare da quelle ametiste chiare tanto rare quanto misteriosamente indefinite. Sapeva che dietro quel suo sguardo glaciale stava pensando, forse fantasticando o semplicemente accusando un altro dolore. Qualunque fosse il sentimento che stava provando in quel momento, era certa che da quel giorno la sua vita sarebbe sicuramente cambiata.

 

 

            Quando finalmente ebbe terminato, la governante chiamò un inserviente che, come di consueto prese tra le sue braccia la duchessina e la condusse nel salone da pranzo, dove per l'ultima volta avrebbe fatto colazione con suo nonno. Al suo arrivo nella grande sala adibita alle colazioni, il maggiordomo del castello spostò una poltrona imbottita vicino al tavolo e aiutò l’inserviente ad accomodare con leggerezza la loro padroncina. Quando fu sistemata, con un cenno della mano congedò i due.

Non appena furono fuori dalla sua visuale, si voltò a destra e manca e scrutò quanto quegli archi decorati offrivano ai suoi occhi. Da un lato, lunghi corridoi si snodavano sul piano ospitando porte, ritratti di avi, stendardi tramandati nei secoli, vecchie armature appartenute ai valorosi condottieri della famiglia; dall’altro si intravedeva una grande scalinata che saliva verso i piani superiori sontuosamente arredati per accogliere amici e parenti aristocratici e dalla quale, poco prima ne era discesa.

Non voleva lasciare la gabbia dorata che in quegli anni l'aveva raccolta dandole sicurezza e protezione. Le sue mani tremavano al solo pensiero del viaggio che avrebbe intrapreso di lì a poco. 

 

Scorse una figura in piedi, ferma e solitaria nei suoi pensieri, vicina al camino fumante. Tizzoni ardenti brulicavano in lapilli cremisi e oro mentre i profumi dei legni arsi olezzavano nella stanza. Il lungo tavolo di legno era già stato apparecchiato per i due commensali. L’argenteria del mattino brillava alle timide ombre delle fiamme che alte fluttuavano nel camino. Giochi di ombre si inseguivano sulle pareti adorne e i sui mattoni freddi.

 

Continuava a guardarlo timorosa di disturbarlo con la sua presenza. Sapeva cosa stava provando in quel momento. Sebbene il loro dialogo non fosse mai stato molto forbito e loquace negli ultimi tempi, riusciva a percepire la malinconia sul suo volto.

Sapeva che era profondamente dispiaciuto per quella partenza e nonostante il grande rammarico, era ben conscia di non poter porre alcun rimedio a quella situazione.

 

In quel preciso istante, ricordò il momento in cui il duca le aveva comunicato la notizia e le immagini di quel dì presero a scorrere dietro le iridi, come scene di un vecchio film.

La voce tremante e gli occhi lucidi, stretti in piccole fessure, le erano parsi un mondo così lontano; circondati da profonde occhiaie che nei loro tratti bluastri parevano essere i solchi di una vita non sempre facile, li aveva visti divenire tristi e vacui come il suo cuore.

La sua figura, seduta su una grande poltrona di pelle, le era parsa inverosimilmente invecchiata e turbata, i lineamenti incanutiti da un’età non più giovane e il fisico appesantito non tradivano comunque la sua figura piacevole.

Lei sapeva bene che non aveva avuto il coraggio di ribattere le decisioni del figlio. Suo nonno aveva paura di suo padre, del duca Harold Arthur Heatrow VIII.

In quei lunghi silenzi si celavano mille segreti, fiumi di parole mai sibilate o semplicemente sussurrate ad un cuore troppo vecchio per poter combattere o semplicemente ribattere.

 

 

Senza esitare, incedette verso il camino. Il suono stridulo delle rotelle accompagnava i suoi movimenti. Il calore che il fuoco riusciva ad infondere alla stanza era intimo e piacevole ma sembrava non poter riscaldare i loro cuori neppure di un piccolo tepore. Le pareti tinteggiate di calde sfumature crepuscolari e il mobilio essenziale ma prestigioso, rendevano la stanza pittoresca e tipica delle dimore nobiliari inglesi.

Il duca si accorse della nipote e la salutò affettuosamente chinandosi a baciarla sulla guancia. Lei avvertì subito il profumo della sua inconfondibile colonia francese e chiuse gli occhi per imprimere nella mente quella dolce fragranza.

-          Allora, é arrivato il gran giorno. Oggi tornerai nella capitale. Pensa piccola mia, finalmente potrai tornare ad una vita sociale e mondana come si addice alle signorine del tuo rango. Era impensabile che tu potessi restare ancora qui. Oramai sei in grado di vivere con altra gente, e poi vedrai che pian piano riacquisterai completamente la memoria...e chissà, a Londra ci sono tanti centri medici ottimi e magari, riuscirai di nuovo a camminare. Hai un fisico elastico e forte...e i medici continuano a ripeterti che puoi guarire...io…io…beh vorrei tanto che tu potessi rimanere con questo vecchio sentimentale, - aggiunse poi con lacrime che gli inumidivano il volto – ma…

Tornò a sedersi sulla sua poltrona e lei si avvicinò dolcemente. La nebbia che gli offuscava la vista non riusciva a celare l’immagine, seppur soffusa, della bella nipote. Sentì il cuore balzargli in gola quando lei, con gesto inconsueto e dimentico, gli portò la mano al volto lambendo con le dita le tristi lagrime che rigavano il volto aggrinzito.

La sua gelida espressione, quella di infinita mestizia che l’aveva accompagnata nel suo ultimo sguardo all’albeggiare, pareva aver lasciato completamente il posto ad un segno d'amore.

Il duca si portò una mano al petto nel disperato tentativo di arrestare quell’improvviso quanto piacevole sussulto. Era molto legato alla giovane nipote: l’amava intensamente, quanto o forse maggiormente di come in passato aveva amato la madre, un tempo splendida sposa di suo figlio.

Le afferrò le mani, stringendole nelle sue e portandosele al petto. Abbassò lievemente le palpebre nell’arduo sforzo di fermare, dentro i suoi occhi, l’immagine di quell’attimo. Così sfuggente, così delicato, il tocco di quelle dita sulla sua pelle, come velluto sfiorato da un lieve e impalpabile bacio.

 

Cercava disperatamente la serenità e desiderava infondere alla nipote la fiducia nel futuro, quel barlume di speranza perduto qualche tempo prima.

Era conscio, tuttavia, che quel giorno avrebbe solo permesso a suo figlio di portar via il meraviglioso frutto di quello che un tempo era stato un amore tanto complicato quanto osannato: gli avrebbe permesso di condurla nella sontuosa casa londinese nella quale avrebbe, dopo tanto tempo, riaccolto la figlia inferma celebrando l’evento con uno sfarzoso ricevimento nel quale gli aristocratici nobili inglesi lo avrebbero elogiato per il suo buon cuore e l’affetto paterno.

Il duca fu scosso da un fremito e alzò lo sguardo verso la parete frontale al camino

Una sequenza di ritratti di avi si alternava a paesaggi campestri dipinti dai più illustri pittori dell’ottocento.

Harold. Il ritratto di suo figlio, allora ventenne, pareva troneggiare imperioso tra i volti di predecessori che avevano dato lustro alla corte inglese servendola e riverendola con estrema alacrità e zelo e che avevano portato in alto il nome della casata Heatrow.

Distolse quasi subito gli occhi dall’attraente figura di Harold: quel dipinto, dalle proporzioni reali, gli incuteva timore. I gelidi occhi azzurri erano assottigliati in un sinistro sguardo sul quale si inarcavano le fitte e sottili ciglia bionde. Folti fili d’oro incorniciavano il volto regolare e ne lambivano gli zigomi alti. Le labbra, d’un rosso acceso, sembravano intenzionalmente arcuate verso un lato, leggermente schiuse in un sorriso di scherno o un sogghigno. I lineamenti nordici, seppur a tratti severi, erano belli e ammalianti e il bianco palafreno alle sue spalle sembrava solo l’ombra del suo cavallerizzo.

Il duca sapeva quanto quell’espressione sicura, sinonimo di un carattere egocentrico, e i tratti angelici avevan fatto capitolare ai piedi del figlio le più belle dame del reame.

Fin dall’adolescenza, la sua fama di amatore e adulatore non era passata inosservata nei nobili salotti e dame annoiate e figlie da maritare si erano precipitate a conoscere e civettare con il bel figlio del duca di Aberdeen.

Ma lì dove splendeva come il sole per il suo carattere fascinosamente irriverente e la sua bellezza, Harold si era distinto per aver indossato le tipiche vesti del figlio della ricchezza nel quale prodigalità, mondanità, lusso e lascivia avevan sempre albergato indisturbate. Harold aveva sempre vissuto con dissolutezza e al massimo, senza mai pensare alle eventuali conseguenze che alcuni suoi gesti avrebbero potuto comportare.

Fino all’incontro che, in qualche modo, aveva cambiato la sua vita e il corso degli eventi. La sua evanescenza sembrava improvvisamente essersi sopita dopo aver incontrato Alexandra Reynolds ed esserne rimasto affascinato al punto da farne in poco tempo la sua sposa.

 

Il duca sbatté più volte le palpebre cercando di riacquistare un’espressione cheta e allontanare pensieri nefasti e il passato dalla mente.

            - Tesoro, non ti preoccupare. Vedrai che tutto cambierà in meglio. Oramai sto diventando vecchio e non posso più prendermi cura di te come una volta. Adesso vieni, facciamo colazione, prima che arrivi tuo padre. - disse alzandosi e spingendo la sedia a rotelle verso il tavolo.

 

 

Consumarono insieme la colazione, parlandosi con sguardi e gesti, molto più loquaci delle loro voci. Solo i tintinnii di argenti e cristalli echeggiavano nel salone. Non appena il duca si avvide che la nipote aveva terminato il suo desinare, si alzò dall’estremità del tavolo occupata dal suo trono e incedette sicuro verso la ragazza. Senza proferire nulla, con gesti meccanici e quotidiani, sospinse la carrozzella fino in biblioteca.

Era la stanza che lei preferiva, quella nella quale si isolava per ore intere, sognando di poter volare oltre quei vetri a cattedrale che irraggiavano la stanza di magiche tinte iridescenti.

Altissime librerie in legno scuro abilmente intagliate da mani esperte, salivano dal pavimento verso il soffitto, tutt’intorno la stanza, ospitando migliaia di testi, antichi e moderni, tramandati di generazione in generazione e che il duca gelosamente custodiva in quel luogo quasi mistico il cui accesso era consentito solo alla nipote.

Sulla parete frontale alla porta due grandi porte finestre con i vetri a cattedrale si affacciavano ai giardini interni del castello. I raggi del sole solcavano quei cristalli tinteggiati, riflettendo le loro nuance sui pavimenti lucidi e ben lustrati. Giochi prismatici e opalescenti si inseguivano al muoversi delle ombre.

Al centro, tra le due mirabili vetrate, un ritratto meravigliosamente incastonato in una cornice barocca s’innalzava regale, sul camino, incutendo l’immancabile tocco aristocratico in quel salone dedito alla lettura e alla riflessione.

Al centro della biblioteca, sedevano tre salotti completi di poltrone e tavolini, ognuno di un colore differente dall’altro. Abat-jours e appliques ai muri illuminavano la stanza intimamente mentre un sontuoso lampadario di cristallo di Boemia pendeva superbo e altero dal soffitto.

Tappeti pregiati si stendevano lungo i pavimenti alternandosi a cuscini di seta e velluti nelle tinte del porpora, oro e smeraldo. La regalità era propria di quella stanza nella stessa misura della sapienza.

 

La duchessina si soffermò, come di consueto, a rimirare il ritratto sopra il camino. Il duca parve conquistato da quell’immagine quasi eterea. La nipote non riusciva a distogliere lo sguardo dalla tela che pareva specchiare la sua immagine più solare e radiosa. Alexandra Reynolds era nel fiore della sua giovinezza, di quella inenarrabile bellezza di cui la figlia era unica testimone. Un abito di seta avorio le fasciava il corpo dalle sinuose forme e rose lilla ne circondavano la sottile vita. I capelli mogano, appena ondulati, parevano fluttuare morbidamente sui seni leggermente scoperti, al dolce stormire di una brezza primaverile. Pendenti di brillanti e rose di ametista scendevano dai lobi e dal collo completando il ritratto di una donna dalla beltà indefinita. I suoi occhi, dello stesso colore delle rose, ridevano alla vita, di una gioia che il duca non aveva mai dimenticato e di cui rimembrava l’eco di un riso nelle oramai gelide navate del maniero.

 

Harold l'aveva fatto dipingere per il loro secondo anniversario di matrimonio, di ritorno dall'Australia dove lei aveva girato un film, come simbolo di un amore che declamava essere la gioia della sua vita.

La vide socchiudere gli occhi e non mutare l’espressione di mestizia sul volto. La pelle liscia pareva porcellana di raffinata fattura adorna di seta lucente. Tese le dita sulle ruote e con movimento lesto si girò dando le spalle al ritratto.

Il duca afferrò un libro dal tavolino e glielo pose. Raccoglieva poesie italiane, un testo che sua madre aveva amato molto e che aveva imparato a menadito. Lo strinse tra le mani cercando di imprimere sulla pelle quello che restava del ricordo materno.

Un vocio maschile parve distogliere le due figure dal loro silente parlare. Harold era giunto al castello e in pochi istanti avrebbe portato via sua figlia dal maniero. Il duca le si avvicinò per l'ultima volta e tremante l'abbracciò, timoroso di non averne più il coraggio o forse, il tempo.

-          Abbi fede e coraggio. Sii forte come lo era lei. Io e tua madre ti veglieremo ovunque. Cerca di essere felice, trova in te stessa la forza per rialzarti e...sono sicuro che un giorno verrai a trovarmi...che varcherai quella porta con in grembo il frutto del  tuo amore. Ti chiedo perdono. E' solo colpa mia se tuo padre è uno scellerato. Se solo io...fossi stato più forte ed autoritario con lui, probabilmente a quest'ora tu non saresti qui. Perdonami! - le disse aprendole il cuore. Si sentiva responsabile per il disinteresse del figlio e per la sua amoralità. Udì i passi ben scanditi dai tacchi sul pavimento. Abbracciò la nipote. Un lungo dolcissimo abbraccio colmo di tenerezza.

-          Papà! – esclamò Harold dal corridoio che conduceva alla biblioteca. La sua voce era prossima all’uscio. Il duca liberò la nipote dall’abbraccio consentendole di girarsi verso l’uscio e incrociare lo sguardo dell’uomo che stava incedendo verso di loro.

 

Harold arrestò il passo sulla soglia, basito dalla scena che si dipingeva dinanzi ai suoi occhi. Sua figlia sedeva sulla poltrona a rotelle, proprio di fronte a lui. I lunghi capelli erano perfettamente divisi in due parti simmetriche e scivolavano giù dal capo come veli scuri e lucenti. Nell’ovale eburneo rilucevano due ametiste profonde e la bocca vermiglia. Harold avvertì un nodo serrargli la gola e lo stomaco contorcersi. Un fitta improvvisa rimbombò nel torace. I suoi occhi, di un gelido azzurro, non smettevano di rimirare la figlia esterrefatti, quasi trascinati da un tetro magnetismo. Sedeva inerme e silente, e con espressione tetra e duramente indifferente reggeva lo sguardo paterno. Sentiva freddo. Brividi gelidi iniziarono a percorrergli la schiena e per un attimo, temette di perdere il controllo della sua persona.

Dietro di lei, a voler proteggere quella figura, s’innalzava maestoso il ritratto di Alexandra. Erano identiche. Solo il sorriso le distingueva. Quello gioioso della moglie era spento, minimamente accennato e forse sogghignante sul viso della figlia. Il contrasto tra i capelli scuri e il volto latteo parevano voler confermare, ancora una volta, l’eterno dualismo tra giorno e notte, luce e buio…bene e male! Era come se, di colpo, lui stesse rivedendo la defunta moglie.

Sebbene si fosse recato più volte al castello, in visita all’anziano padre, non vedeva la figlia da quattro anni, dalla morte di Alexandra e quell’incontro gli fece raggelare il sangue nelle vene. Il duca non riusciva a non guardare il figlio, paralizzato alla vista della figlia. Con gli occhi disegnò ogni minimo tratto di quel viso che si contraeva per il timore di quello che il fato gli aveva riproposto. Alexandra, la sua amatissima moglie, riviveva nel volto della figlia, che ne era la copia identica.

Harold sollevò la mano verso le labbra, celando la bocca asciutta e cercando di trattenere un conato che velocemente stava risalendo dal profondo del suo stomaco. Il sudore gli imperlò la fronte in quella gelida mattina di febbraio. Tremava palesemente al cospetto di quella scena. Quando comprese che l’effetto di quella visione lo aveva chiaramente sconcertato ed era vicino al crollo, alzò l’altra mano accennando ad un suo immediato ritiro in altre stanze. Corse via con la mano alla bocca, nel disperato tentativo di trattenere ancora lo sconcerto di cui era stato vittima.

 

 

-          Ti voglio bene, nonno! - le sussurrò flebilmente.

Quelle parole ridondarono nella biblioteca come campane a festa. Il sole parve inondare la stanza come ancora non aveva fatto e irradiò la sua sagoma avvolgendola come in un telo d’oro.

Il duca era incredulo. Dopo quattro anni sua nipote aveva parlato e, l'aveva fatto per sussurrargli parole d'amore. Era felicissimo e nessuna parola avrebbe potuto esprimere tanta gioia. Avvertì le lacrime salirgli velocemente e velare le iridi azzurrine. Tremante di gioia, posò la rugosa mano sulle dita della nipote.

-          Tu…tu…Anch'io te ne voglio, piccola. - le disse baciandole la mano, - Adesso, è meglio che vada. Hanna verrà ad aiutarti. Ciao! – esclamò guardandola ancora, prima di congedarsi.

Dopo qualche passo, oramai in corridoio, si fermò e voltò verso la nipote ancora ferma nella sua posizione. Sembrava essere al centro del ritratto, essere lei la protagonista di quel dipinto, una bellissima, triste figura, sontuosamente incorniciata. La sua reazione, di fronte a quella strana scena, fu differente da quella del figlio. Se Harold aveva provato timore, il duca continuava a guardarla con la pace nel cuore. Sua nipote aveva parlato. Dopo quattro lunghi anni, le sue labbra si erano sfiorate per un sussurro. Aveva udito quel dolce vociare con immensa felicità. Non l’avrebbe mai dimenticato, proprio come l’allegra risata di Alexandra che ancora pareva risuonare nelle stanze. Si baciò una mano e soffiò sul palmo per inviarle un bacio. Vide un sorriso accennarsi sulle sue labbra e mai gioia maggiore poté conoscere il suo cuore.

Ciao…Adrianne. –

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