Il bimbo dell'estate

di aubrunhair
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo

Un sole pallido illuminava la proprietà velato da una coltre di nuvole bianche. Dicevano che sarebbe piovuto a breve, ma di acqua non c’era ancora traccia. E neanche di lui.

Pestava impaziente i piedi sul legno scuro sotto le scarpe. Il suo nasino era schiacciato contro la finestra da talmente tanto tempo che ormai lo sentiva ghiacciato. Le impronte che lasciava sul vetro attiravano i rimproveri dell’anziana signora ogni volta che passava dall’ingresso e lo trovava sempre lì, sopra la cassapanca nell’atrio. Il suo paio di occhi colore del ghiaccio studiava il viale alberato da un’ora.

Un’attesa senza fine, una noia mortale. A volte i piccioni lo distraevano, fingeva di contare quelli che si posavano sul davanzale ché non conosceva tanti numeri oltre il cinque e da lì in poi se li inventava. Gliel’avrebbe detto appena tornato a casa: quel pomeriggio ne erano volati addirittura cinquanta! Anche se neanche sapeva quanti fossero cinquanta.

Si sporse verso sinistra e picchiò la fronte contro il telaio della finestra. Un altro taglietto, nulla di rilevante. All’improvviso, l’illuminazione.

- André! - pigolò e saltò giù dalla cassapanca per correre alla porta. - Apri, per favore? Apri, apri! - insistette lui quando si accorse di una cameriera che passava alle sue spalle.

Gli mancava molto quando era via e vederlo rientrare era sempre una grande gioia.  

Il portone era ancora semichiuso quando il piccolo sfrecciò fuori e gli corse incontro. La pietra delle scale era umida e scivolosa, ma a lui non interessava. Aveva rischiato tante volte di finire con la faccia sulla ghiaia, alcune era anche successo mentre altre era stato acciuffato in tempo.

Si amavano come padre e figlio quei due e che entrambi sapessero di non esserlo non cambiava affatto le cose. Erano legati da un filo rosso invisibile e incomprensibile a chiunque, o quasi. Non condividevano una goccia di sangue, eppure avevano preso ad assomigliarsi. I medesimi gesti, le abitudini, la stessa testa. Dura, durissima. Il loro cuore batteva all’unisono.

Non si era infilato la giacca prima di uscire in giardino, ma la corsa a perdifiato e l’emozione non gli facevano sentire il freddo del vento autunnale che gli soffiava in faccia. Inciampò su un sasso un po’ più grande, ma un paio di braccia forti lo fermarono prima del disastro. Chi l’avrebbe sentita poi la nonna!

- Frans, quante volte ti è stato detto di andare piano, sennò ti fai male? - lo rimproverò André con estrema dolcezza.

Il bambino si rimise in piedi e gli si gettò addosso come se non si incontrassero da un secolo. Si allungò per farsi sollevare, ma l’altro lo sorprese caricandoselo in spalla. Lo divertiva sempre tantissimo quando lo faceva, gli sembrava che il mondo fosse diverso da lassù.

Rideva, rideva tanto. Il colletto della giacca dell’uomo gli dava il solletico sulla pancia, coperta solo dalla camicia che correndo si era sfilata dai pantaloni.

André aveva riconosciuto fin dalla sua nascita i tratti di famiglia: i capelli ricci e biondi, gli occhi grandi, le ciglia lunghe e le guance rotonde. C’era una piccola macchia più scura sul suo visino, però, proprio sullo zigomo destro, che gli era valso il soprannome di Chicco di caffè. Ma era una cosa solo loro quella lì, solo di loro due e la tiravano fuori quando non c’erano altri in giro. Non ricordava di aver mai vissuto un’agitazione simile a quella che aveva preceduto la venuta al mondo di Frans, tre anni prima. Nessuno lo aspettava prima della seconda metà settembre, ma lui si era affrettato. Il 26 agosto, il giorno del suo compleanno. Un bel regalo, non c’è che dire. Uno splendido regalo. Un’ansia del genere l’aveva convinto del fatto che ci avrebbe pensato due volte prima di avere un figlio suo un giorno – sempre che… E non era detto, anzi. Era un’ipotesi talmente remota da sembrare nulla.

- Dove sei stato? - gli chiese il piccolo. Agitava le gambe fingendo una protesta serrata, ma in verità voleva solo continuare a giocare.

- A Versailles, come sempre. - Lo rimise giù nonostante le lamentele e si accovacciò per aiutarlo a sistemare i vestiti. – Guardati, non puoi venire con noi un giorno se ti combini così ogni volta…

- E io quando vengo?

Frans si adoperò diligentemente a infilare di nuovo la camicia dove era scappata. Bastava poco a convincerlo: lui voleva sempre seguirli alla reggia e bisognava cominciare a salutarlo con abbondante anticipo prima di uscire di casa, perché i capricci erano sempre tanti. Qualsiasi scusa era buona per invitarlo a comportarsi bene, se il premio era una visita a palazzo un giorno.

Non che si pentissero di raccontargli com’era Versailles, cosa si faceva e chi ci viveva. Era un bambino curioso e non gli si poteva nascondere niente. Anche perché non li lasciava mai un momento quando tornavano a casa, ascoltava tutto e inevitabilmente finiva per immischiarsi in discorsi che non capiva. A lui piacevano soprattutto le storie di quanto il re e la regina non erano ancora il re e la regina, ma solo il Delfino e sua moglie, e intorno a loro succedevano cose divertenti. Almeno, alle sue orecchie lo erano. La principessa spaventata dal cavallo lo aveva fatto ridere tantissimo quel pomeriggio e la sua voce aveva riempito il salottino della merenda. Glielo avevano detto che sua maestà si sarebbe potuta far male, addirittura sarebbe potuta cadere, ma niente: trovava quella vicenda esilarante. Ciò accadeva perché Frans a cavallo già ci andava da qualche tempo, sempre insieme a qualcuno, e non gli era mai parso minimamente pericoloso.

André prese l’amico per mano, ché in casa se c’era il signor generale non erano tollerate troppe smancerie e a quanto pareva prendere in braccio un bambino era tra le peggiori. Lo viziavano il giusto perché non crescesse arido di sentimenti ma nemmeno presuntuoso, ma dietro le spalle del padrone c’erano grandi dimostrazioni di affetto da parte di chiunque.

A suo modo, in realtà, anche quell’uomo severo e poco loquace lo teneva nel cuore. Anzi, meno male che era arrivato! In modo un po’ troppo rocambolesco per i suoi gusti e troppe voci erano circolate intorno alla sua minuscola persona, da prima ancora che nascesse, e per molti giorni aveva pensato a un modo per zittirle, disfarsi di quella situazione incresciosa, imbarazzante, vergognosa. Ma era venuto al mondo un maschio poi finalmente e il suo essere maschio lavava via gran parte dell’onta e sarebbe stato il futuro della famiglia. Nonostante l’ombra che celava metà del motivo della sua esistenza e nonostante tutto il resto. Il cognome bastava e avanzava a renderlo il degno erede dell’erede di Reinier De Jarjayes.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


Capitolo 1
Le venne un dubbio. Da molti giorni, in realtà, era perseguitata da quel dubbio. Osservò il calendario finemente decorato in carta pregiata che teneva sulla scrivania e lesse la data, per sicurezza. 19 febbraio 1779.

Non poteva essere.

O forse sì. Forse sì, in realtà.

Decisamente sì.

Spalancò gli occhi azzurri ora attoniti e li spostò freneticamente nel vuoto davanti a sé, come a leggere un foglio invisibile. Redatto in grandi dimensioni, il testo di un problema. Il suo.

Non sarebbe mai stato un problema loro, di loro due. No, signore. Non glielo avrebbe mai rivelato, tanto più che neanche sapeva dove fosse. Sarebbe stato un segreto anche quando segreto non avrebbe potuto più esserlo per forza di cose. Suo, solo suo. Di nessun altro.

Ma magari non era. Magari erano le difficoltà del periodo, i pasti irregolari, le innumerevoli fonti di pressione. Mattone dopo mattone stavano crollando tutte le certezze che governavano il mondo in cui viveva e la serietà con cui tentava di compensare si rifletteva poi sul suo corpo.

Sì, doveva essere quello. Non poteva farci molto, ma se avesse prestato più attenzione alle proprie necessità fisiche...

Un paio di passi rapidi e superò le poltrone in centro alla camera. In un attimo fu davanti all’armadio. Si accovacciò e aprì il primo cassetto. Scavando sotto a tutto, scovò uno spesso contenitore rettangolare. Sollevò il coperchio, tornò accanto al letto e ci rovesciò sopra il contenuto.

Un gran numero di pezze di tessuto bianco accuratamente lavate, stirate e piegate finirono sparse sulla coperta di lana. Le mosse rapida per dividere le une dalle altre e cominciò a contarle.
Troppe rispetto al solito.

Rimise tutto al proprio posto.

Spalancò l’anta inferiore del comodino per controllare anche lì dentro. Tastò con la mano senza guardare finché non trovò ciò che cercava. Ricominciò a contare altre pezzuole, che conservava lì per le emergenze. Lo stesso numero di quando ne aveva avuto bisogno la volta precedente.

Ma quando era stata la volta precedente? Le era stato insegnato come contare quando aveva meno di tredici anni e lei, diligente come sempre, aveva imparato subito come si teneva sotto controllo un’incombenza su cui non aveva in realtà alcun controllo.

Cercò di fare mente locale, ma la confusione era troppa.

Lei! Proprio lei che aveva il sangue freddo davanti a tutto!

Si sedette sul pavimento, sconsolata. Guardava verso la finestra, ma non vedeva niente a parte la montagna infinita di problemi che le si paravano dinnanzi.

Ricominciò a contare, questa volta usando le dita.

I calcoli erano giusti e se lo erano significava una sola cosa.

Batté il palmo della mano sulla faccia e lo lasciò lì.

- Merde. - Avrebbe voluto lasciarsi andare ad imprecazioni peggiori, ma in quel momento le mancavano le parole.

Ne aveva un’enorme necessità, però. Non sapeva nemmeno come spiegarselo. O meglio, sapeva come spiegarselo, ma non trovava il modo per descrivere come si sentiva.

Qualcuno bussò alla porta. Si mosse di scatto per rimettere tutto al proprio posto, poi diede il permesso di entrare.

- Oscar, avevi int… Cosa stai facendo lì a terra, scusa? - André era perplesso. Gli era noto il contenuto di quella scatola e l’occasione in cui ne era venuto a conoscenza aveva causato imbarazzo in entrambi. Ciò che vedeva, però, non aveva senso. La guardava sistemare tutto con premura dimenticando qualche pezzo di stoffa sul letto e poi inveire quando se ne accorgeva. Una volta chiusa rumorosamente l’anta si affrettò e lo spinse in corridoio insieme a lei. Serrò l'uscio e girò la chiave.

- Tu non hai visto niente, chiaro? - intimò Oscar.

Era una furia.

Lo avrebbe strozzato a mani nude se avesse potuto. L’avrebbe sentita, eccome se l’avrebbe sentita… se fosse stata colpa sua.

- Ma sei impazzita? - le rispose mentre liberava il braccio dalla presa. - Guarda che lo so…

Si fermarono in mezzo al corridoio, guardandosi intorno.

André si sentiva puntati addosso occhi di fuoco, ma non ne comprendeva il motivo. Non era uno sprovveduto, conosceva quali fossero le esigenze del corpo femminile. Però fino a quel momento non gli era mai stato fatto pesare… Non così tanto.

- Che giorno è oggi?

Magari si era sbagliata, era convinta che fosse il 19 e invece era ancora il 18… Ma no, non poteva essere, suo padre era partito con il regimento il 18 febbraio era ieri il 18… Non che cambiasse molto, in verità. Pregò che le rispondesse in un altro modo, ma no, lui non le poté che ribadire l’ovvio.

- Io dico che tu non stai bene. Comunque, oggi è il 19 febbraio. Ricordi? Ieri tuo padre…

- Sì, lo so.

Oscar lo lasciò in mezzo al corridoio e per il resto della giornata non si fece trovare. Non voleva parlare con nessuno, vedere nessuno, incontrare anima viva. Aveva già fatto abbastanza.
Passò l’intero pomeriggio a cavallo, in giro per la campagna che d’inverno gelava e sembrava ricoperta di neve. Il vento freddo le colpiva il volto ma non la scalfiva. Accelerava di tanto in tanto, anche se, a quel punto, non avrebbe dovuto farlo, ma più l’aria le graffiava la pelle e più le sembrava di essere libera.

La sera cenò da sola in camera, con la porta chiusa. Un lungo pianto le tenne compagnia. Si prospettavano talmente tante difficoltà, talmente tanti ostacoli impossibili da evitare che, paradossalmente, se fosse scomparsa nel nulla sarebbero solo che peggiorati.

Non aveva alcuna via di fuga. Non poteva fare altro che rimanere su quella strada fino all’ultimo e decidere per il dopo. Sempre che suo padre non volesse risolvere il problema alla radice a modo suo una volta venuto a conoscenza di tutto. Levandosela di torno. O insabbiando la vicenda.

Per essere l’erede di una grande famiglia vicina al re da generazioni, ne aveva combinate un po’ troppe. Tutte faccende perdonate, recuperate, per cui era stata messa perfino in punizione dalla stessa sovrana. Ma ogni volta era tornata a corte in sella a César e accanto ad André, che non meritava di rimanere all’oscuro perché se le fosse successo qualcosa senza che lui sapesse nulla non se lo sarebbero mai perdonati entrambi. Non voleva dargli delle pene. Ma non ce la faceva, non adesso. Non nel momento in cui lei stessa doveva ancora mettersi in testa che la vita sarebbe cambiata, qualsiasi fosse la sua sorte.

André stava rientrando in casa dalle scuderie quando alzò lo sguardo e vide Oscar aprire la finestra. Era una sua abitudine lasciare che il vento dall’esterno soffiasse in camera per spegnere le candele del lampadario in una volta. Lo faceva per non dover chiamare una cameriera che se ne occupasse, perché non era dell’umore di dover anche solo condividere un paio di minuti con qualcuno. Non ci provò nemmeno a salutarla ché lei comunque non stava guardando giù in giardino. In un attimo l’imposta e poi le persiane si richiusero e la perse di vista.

Avrebbe giurato fino a mettere la mano sul fuoco di conoscerla, Oscar. Il suo comportamento non era mai stato troppo misterioso per lui. Era in grado di leggere il riflesso dei pensieri sul suo volto e nei suoi gesti. Mordeva lievemente il labbro inferiore quando era agitata, alzava il sopracciglio sinistro se era irritata e nel malaugurato caso in cui fosse stata arrabbiata i suoi occhi diventavano di fuoco. Ci era passato tante volte attraverso le sue fiamme, l’ultima poche ore prime.

Adesso, però, gli sembrava un libro scritto in una lingua che non decifrava. Se lo avesse reso partecipe, l’avrebbe di sicuro aiutata. Invece Oscar se ne stava murata dietro una cortina di silenzio e André avrebbe fatto di tutto per far breccia e portarla fuori da lì, fuori dalla nebbia e dalla sua camera. Era sempre difficile vederla soffrire, qualche fosse il motivo, ma non avere idea di cosa le stesse realmente accadendo era ancora peggio. Perché di solito le lasciava spazio per respirare da sola, consapevole che prima o poi avrebbe rimesso la testa fuori dal guscio. Adesso non gli appariva così gestibile.

Per un secondo se ne risentì. Erano insieme, fianco a fianco, ogni ora del giorno da talmente tanto tempo da potersi considerare due facce della stessa medaglia, perché allontanarlo così? Perché prendersela con lui, che non aveva fatto niente? Ripensò ai peccati che potesse aver commesso nel recente passato, ma non gli venne in mente alcunché. Non di così grave, perlomeno.

Ma il livore svanì subito, nel momento esatto in cui entrò in casa dalla porta sul retro e si ricordò che, volente o nolente, il giorno dopo si sarebbero dovuti parlare per forza. Anche solo un saluto, per educazione, ché gli impegni alla reggia non si curavano degli eventuali battibecchi tra loro.

- Giovanotto, cos’hai combinato?

Sobbalzò. La voce infuriata della nonna infranse la coltre di pensieri che gli frullavano nella mente. Si accorse immediatamente che era troppo seria perché fosse un rimprovero di poco conto. Eppure era certo di non aver mancato in niente, ma com’era possibile che ce l’avessero con lui?

La donna gli indicò la sua camera con il dito puntato e il braccio teso, la sua faccia era rossa di rabbia. Se fosse esplosa non sarebbe stata una grande sorpresa. Quando arrivarono nella stanza, fu lei a sbattere la porta e gli scagliò addosso i peggiori improperi.

- Ma siete impazziti tutti oggi? Cosa volete da me?

- Io pretendo delle spiegazioni!

- Le vorrei anche io!

Marie si placò. Era una follia la sua richiesta, ma se voleva giocare sul terreno del fingere di niente lo avrebbe tirato fuori con la forza.

- Ah, se la metti così te lo dico io. È da quando ti ho mandato a parlare con Oscar dopo pranzo che nessuno riesce ad avvicinarsi a lei. Per farmi sapere che avrebbe cenato in camera ha lasciato un biglietto in cucina e poi è sparita di nuovo.

- Nonna, non so come altro dirtelo, ma io non ho idea di cosa le prenda.

La donna decise di risolversela da sé. Il padrone era stato chiaro quando le aveva chiesto di controllare che la figlia tornasse a casa sana e salva ogni giorno e, quando era fuori, che suo nipote non la perdesse mai di vista.
Gli ripeté più volte se comprendesse la gravità della circostanza – stupido lui che si era sempre preso troppe confidenze e dannata se stessa che non si era più preoccupata della vicinanza tra quei due. Non gli passò per la mente nemmeno mezza delle risposte che avrebbe presumibilmente dovuto darle, mentre lei era già giunta alle conclusioni e attendeva che il sipario si chiudesse.

La nonna se n’era accorta che la sua bambina nascondeva qualcosa dalla fine dell'anno appena passato. Non era mai stata una persona di molte parole, ma da quando era tornata dopo un’insolita uscita a cavallo la sera tardi ne aveva ancora meno. Era sparito anche suo nipote alla fine della cena, poco prima di lei. Poi erano rientrati a due orari diversi – aveva controllato bene. Nessuno dei due era sembrato particolarmente sereno e ciò l’aveva impensierita. Non avevano fatto alcun riferimento a quella sera nei giorni successivi per quanto avesse potuto capire dai loro discorsi; seppur sospettosa, aveva deciso di passare oltre. Fino a quando, alla fine del mese, non le era stata consegnata la biancheria che si aspettava di ricevere e lì si preoccupò. Giorno dopo giorno l’aveva attesa, in silenzio, affaccendata in altro, ma i panni e le lenzuola da lavare erano sempre uguali. L’aveva osservata, per quanto le fosse stato possibile, si era soffermata sui dettagli e sì, Oscar era diversa. Sarà anche stata una donna differente rispetto alle altre, ma ci sono cose che le accomunano tutte. Compresa l’unica in uniforme.

Si convinse che dopo pranzo ne avessero parlato e che quella a cui stavano assistendo fosse la reazione ad un rifiuto che suo nipote le aveva opposto alla notizia. Lo aveva sempre chiamato pigrone irresponsabile per cose davvero infinitesimali rispetto a quella. Dovesse essere vero il sospetto…

- Se scopro che sei tu davvero il responsabile ti uccido prima che ci pensi suo padre! – Gli mollò uno schiaffo su una guancia.

Se ne andò imprecando, la porta sbatté di nuovo.

- Ma responsabile di cosa? - le urlò in mezzo al corridoio tentando di seguirla, la mano in faccia per il dolore. Cominciava ad essere stanco di quella situazione e più ancora delle insinuazioni incomprensibili che la sua unica parente gli stava riservando.

- Ti giuro che non ho la minima idea di cosa stia succedendo!

Pur anziana, Marie aveva ancora sufficienti energie per camminare lesta. Uscì dal piano della servitù e il nipote la perse di vista in corrispondenza delle scale che portavano di sopra.

André tornò in camera sempre meno convinto di quanto fosse successo nelle ultime ore. Sospirò per scacciare via la terribile sensazione di essere già stato accusato e processato per un reato non commesso, quale che fosse. Macchiato di una colpa sconosciuta, non l’avrebbe mai lavata se ciò fosse bastato a riavere Oscar in sé. L’avrebbe portato ben in vista il marchio a fuoco per lei.




Note: Se avete letto il prologo alla prima pubblicazione, vi saretǝ accortǝ che la nota precedente con la puntualizzazione sulla cronologia è stata cancellata e quindi urgono spiegazioni. In fase di scrittura di questo capitolo ho deciso di cambiare momento in cui ambientare la storia. In virtù di ciò, voglio ringraziare cuorealtrove (dalla cui penna è nata Fuoco nel fuoco, tra le prime che ho letto qui) ed epices (la cui Rentrée è davvero splendida). Perché proprio loro due, che non conosco ma che saluto? Perché hanno messo in moto la mia immaginazione, le loro storie si sono fuse nella mia mente e hanno dato il via a una nuova, forse inconcepibile per molti – anche per me, prima di trovare il coraggio di metterla giù.
Grazie a chi ha letto e chi vorrà continuare, nonostante tutto.
Grazie a chi la apprezzerà e anche a chi non lo farà.
Panta rei.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2

Si era pentita di essersi recata da lui. Dio, se se n’era pentita! Il momento dopo essere uscita da casa sua già rimpiangeva aver lasciato palazzo Jarjayes. 

Non un grande modo per terminare l’anno. La fine di dicembre peggiore che avesse mai immaginato.

Ma che cosa le era passato per la testa? 

Cosa voleva dimostrare? 

Amicizia? Non lo aveva già fatto fin troppe volte da quando si erano conosciuti?

Doveva fermarsi lì. 

E invece no. Testarda. Era andata di proposito a chiedergli se fosse davvero sicuro che fuggire sarebbe servito a dimenticare ogni sofferenza.

Doveva rimanere a casa.

E invece il cuore, prima della testa, l’aveva condotta lì. Dove era rimasta troppo a lungo. Dove aveva lasciato un pezzo di sé, o forse anche tutta se stessa. 

Doveva dirgli di no.

E invece gli aveva fatto capire di sì. Per la verità, la domanda non c’era stata. Lei era già quasi sulla porta, gli occhi lucidi a trattenere lacrime per qualcuno che sarebbe presto diventato un fantasma.

Non poteva mantenersi l’algida, distaccata, altera di sempre? Non c’era proprio bisogno di mostrare il lato nascosto della luna. 

Il tutto per tutto, come se spogliarsi dell’armatura da guerriero avrebbe potuto far cambiare idea su qualcosa. Partire stava partendo. Soffrire per amore stava soffrendo. A lei, a Oscar, non erano rimaste che le briciole. E le conseguenze delle sue fugaci attenzioni.

Seduta rannicchiata in lacrime sulla poltrona della camera da letto, si coprì il viso con le mani. Si maledisse, maledisse l’aver ceduto e l’aver pensato come una donna innamorata orgogliosa del proprio sentimento. 

Fino a poche ore prima se ne era vergognata. Un soldato non si lascia scalfire dall’amore. Un vero uomo non ha certe debolezze. Si era lasciata andare al suo abbraccio inaspettato, che forse gli sarebbe mancata davvero e non aveva senso impedirgli di dimostrarle un po’ di affetto se lo voleva. 

Le aveva sentite bene le sue mani sulla schiena e talvolta, nei giorni successivi, ne aveva avuto nostalgia. Come dimenticarle? Se solo fosse riuscita… Era pur sempre vero che anche cancellando dalla memoria quella sera nello specifico, non sarebbe servito a nulla a quel punto. 

Aveva guardato troppo al presente, a ciò che la disperazione la spingeva a desiderare. O a credere di desiderare. 

Non aveva più difese lì, tra le sue braccia e maledetto quando era capitato nella sua vita e se stessa che non si era impuntata. Se le avesse chiesto di indossare un abito da sera sarebbe corsa a metterselo.

Si era accorta in ritardo che quella stretta non era più il saluto di due amici. Perché l’aveva tenuta a sé un po’ troppo a lungo e intensamente. Perché aveva respirato tra i suoi capelli e lei aveva chiuso gli occhi e pregato Dio che non la lasciasse proprio adesso. 

Non l’aveva lasciata. Al contrario, le aveva accarezzato la schiena e poi le braccia. Le aveva posato le labbra sul collo e lei subito si era irrigidita, ma poi il cuore le aveva detto che non doveva spaventarsi e che lui non le avrebbe fatto niente che l’avrebbe ferita. 

E così era stato. Non l’aveva obbligata e lei non si era sentita obbligata. Lo aveva voluto. Il mito aveva un corpo adesso, non era più solo gesti, voce e personalità. Si era persa con lui, dentro di lui.

Oscar si alzò veloce dalla poltrona. Non voleva tornare di nuovo lì, sempre lì. Ormai il danno era fatto e anche ripetendosi quanto fosse stata stupida ad abbassare la guardia e quanto si pentisse ancora, non c’erano alternative. Non si scappa.

Era già buio fuori mentre si cambiava in fretta, ché non voleva vedere più un lembo di pelle almeno per qualche ora ancora. 

Spazzolò i capelli e cominciò a pensare che erano passati troppi giorni perché fosse solo un problema momentaneo. Non poteva attendere oltre. Il mutismo non l’avrebbe cavata via dall’impiccio. Anzi, l’avrebbe cacciata sempre più a fondo, perché non ne sapeva quasi niente e cosa avrebbe dovuto fare lei a quel punto era un’incognita. 

Le venivano in mente solo i divieti che avrebbe di sicuro ricevuto dal dottore e alla nonna. Togliere tutto, rimanere a casa e riposarsi. Basta cavalcate, basta Guardie Reali, basta spade e pistole. Basta tutto. Solo tranquillità. 

Ma Oscar non era tranquilla, non lo sarebbe mai stata. Ovunque voltasse il pensiero trovava soltanto porte aperte sul baratro. E il più profondo, il più terrorizzante era l’unico che contava. 

La nonna l’avrebbe aiutata dopo una sonora ramanzina, André l’avrebbe supportata, le sorelle un po’ compatita ma la lontananza avrebbe attutito. Suo padre… Suo padre l’avrebbe obbligata a chiudersi in un convento, confinata nella villa in Normandia e guai a uscire, l’avrebbe fatta allontanare dalla reggia e mai più rientrare. Nemmeno dalla porta sul retro, nemmeno per chiuderla in uno sgabuzzino. 

Traditrice, vergogna della famiglia, dai costumi troppo facili!

E dire che l’aveva cresciuta con dei sani principi, lui. Invece eccola lì, la peccatrice. Nemmeno capace a darsi un contegno. Non è così che si comportano i soldati.

E come si comportano, padre? Io vi giuro che adesso non lo so più. Forse non l’ho neanche mai saputo ed è per questo che adesso sono qui.

Più ancora di dovergli rivelare, di lì a tre mesi, che nella loro casa sarebbe arrivato un bambino – il primo dalla sua nascita ad abitare a palazzo Jarjayes – la spaventava l’idea di dirgli chi fosse il padre.

Si erano incontrati talmente poche volte quei due che non potevano dire di conoscersi. Eppure il signor generale un’opinione precisa  di quell’uomo se l’era fatta benissimo passando le giornate a Versailles, perché anche tra i soldati certi pettegolezzi circolavano. E aveva deciso che l’altro non fosse la migliore compagnia che potesse frequentare la propria figlia. 

Si parlava troppo di lui a corte e non nei termini che il generale avrebbe voluto vicini alla propria erede. Troppe chiacchiere dietro i ventagli delle dame, troppe gomitate nei fianchi tra galantuomini quando passava per i corridoi della reggia.

Pensava questo l’uomo del padre del futuro nipote anche se ancora non sapeva niente. D’altronde, lo pensava già prima che avvenisse tutto. 

Oscar guardò le lancette nere sul quadrante bianco sulla mensola della libreria, distesa sul letto. Una mano istintivamente finì sul ventre, ma quando se ne accorse la tolse subito. 

Piano ad affezionarti.

Le sette e quarantacinque. Tanto non avrebbe comunque cenato, l’agitazione le aveva chiuso lo stomaco e aver passato l’intera giornata a Versailles con la testa che pareva sul punto di scoppiare non era stato d’aiuto. 

A quell’ora Lassonne l’avrebbe ancora visitata e cominciare a consultarsi con il dottore era l’unica cosa da fare per il momento. 

Era in procinto di alzarsi quando si ricordò che il medico era stato chiamato a corte poco prima che lei andasse via per una delicata questione riguardante il re e di certo non lo avrebbe trovato disponibile. 

E poi avrebbe dovuto dare troppe spiegazioni al piano di sotto, non ne aveva la minima voglia di inventarsi una scusa. 

- Ci andrò domani. - bisbigliò. - Domani mattina, appena sveglia.

Se lo sentiva ancora addosso quell’uomo per cui tanto aveva pianto, specialmente quando rimaneva da sola al buio. Percepiva ancora i suoi movimenti, la sua pelle, i suoi baci e mordeva il labbro ricordandosi che non sarebbe mai più accaduto con lui e che invece ci sarebbero state chissà quante altre donne al suo posto, mentre lei rimaneva con le solite briciole e una vita da riorganizzare. 

Che se ne stesse alla larga, allora! Che si trasformasse davvero in un fantasma, sparisse e a mai più rivedersi! In altri casi la corazza dell’orgoglio di essere chi era sarebbe riapparsa ben prima, ma ora… Sorrise amaramente di quanto fosse stata ingenua quando credeva che il dolore più grande lo portasse custodire un sentimento inespresso e inesprimibile. Avrebbe dato tutto pur di tornare indietro e fermare il tempo a dicembre. 

E pur di imparare a perdonarsi. Non avrebbe potuto chiedere scusa al padre per l’errore commesso se prima non avesse accettato le proprie scuse. Una via lunga la sua, lastricata di ostacoli dalla nascita a cui ne aveva appena aggiunto un altro alto quanto una montagna. 

Ho bisogno di tempo, anche se non ce n’è. Solo un po’ di tempo.


Note: grazie a chi continua, la storia è solo all’inizio. In questo capitolo ho dovuto forzare un po’ la direzione in cui sensei Ikeda ha pensato la storia. Si tratta di un alternate universe e come tale diverge nei punti nevralgici. Perdonate, perciò, se alcuni elementi vi sembrano out of character o troppo differenti rispetto all’originale. È per capitani coraggiosi.


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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3

- Da quanto tempo accusate questi fastidi?
- Alcuni giorni.
- E quanti di ritardo avete detto?
- Circa venti.
- Non avrei mai pensato di dovervelo dire, ma vi sto per chiedere una cosa molto personale…

La loro conversazione appena conclusa la inseguì fino a casa in tutto l’imbarazzo che aveva provato vivendola. Aveva già avuto incontri difficili con il dottore in passato, ma quest’ultimo lo era stato più di tutti. Non era come necessitare di una visita per una malattia. Non era malata lei. Come non lo erano le chissà quante donne che gli avevano riportato i medesimi sintomi e che erano state sollevate dal sentire le stesse parole che le erano state riferite senza mezze misure. Ma Oscar non era come loro, né nel bene né nel male. E non era un fatto che di per sé la rendesse migliore o peggiore. Era solo diversa, perché il destino per lei aveva scelto una strada alternativa. Che ora, però, la stava riavvicinando alle altre…

Con l’ennesimo pianto bloccato in gola e gli occhi bassi, ascoltava il rumore delle ruote sulla strada lastricata di pietra e rifuggiva dagli scenari catastrofici che la sua mente le presentava provando a razionalizzare quelle lacrime.

In primis, lei sapeva di non essere capace. Avere un figlio ed essere una buona madre non è come tenere compagnia alla nipotina esagitata durante i pranzi in famiglia e questo era certo. E nemmeno come accudire Rosalie, alla quale bisognava insegnare tutto ma i fondamenti dello stare al mondo un po’ li conosceva già. Ecco, Rosalie sì che sarebbe stata un’ottima madre…

Un secondo fatto importante riguardava il suo non avere tempo per nulla. Conosceva l’infanzia lontana dai genitori e non l’avrebbe mai augurata a nessun bambino. Entrambi per motivi diversi sempre a corte, quando poi tornavano era perlopiù il generale ad addestrarla prima di mandarla in accademia.

Per non parlare della totale inadeguatezza emotiva che riteneva di avere. Si sentiva inadeguata a gestire qualsiasi genere di situazione al di fuori della vita militare, in special modo nei rapporti con le altre persone. Solo con André riusciva ad avere un ottimo rapporto, ma loro erano loro e niente e nessuno ci somigliava.

- Siamo entrambi due persone adulte, non credo di dover parlare per metafore con voi. Ebbene, voi non avete l’aria di una che lo stesse cercando.

- Nel modo più assoluto, dottore. C’è almeno una speranza che sia altro?

- Vi potrei dire di attendere ancora alcuni giorni, ma dubito succeda qualcosa. Sappiamo già la risposta.

Una sensazione di nausea la colpì improvvisamente. La carrozza stava viaggiando troppo veloce per la sua sopportazione del momento, ma finse tranquillità. Non chiese di rallentare, tanto più che prima sarebbe tornata a casa e meglio era. Cominciò a piovere.

Il mattino non aveva segnato il momento della verità. Monsieur Lassonne si era fermato agli appartamenti di Versailles e sua moglie l’aveva invitata a presentarsi la sera, dopo cena. Oscar, diligente, aveva seguito le sue parole. Una visita più lunga del previsto, che era stata male e il dottore voleva assicurarsi di rimandarla indietro più in forze.

- Le donne alla vostra età…

La sua età, certo. Ventitré anni compiuti da due mesi. Le sue coetanee avevano almeno già un figlio. Oscar invece aveva le responsabilità degli uomini e le colpe delle donne. E nessuno con cui dividerle realmente.

Le sue sorelle avrebbero potuto darle consigli, chissà, ma non si sarebbe mai permessa di informare prima loro del generale. Magari loro quattro l’avrebbero comunque rimproverata e si sarebbero lamentate del fatto che proprio a lei fosse toccata in sorte l’eredità morale ed economica della famiglia, una che non aveva saputo resistere alla tentazione e aveva gettato fango sul loro nome. Il padre le aveva sgridate malamente per decisamente meno!

- Vi invito a pensare di congedarvi dalle Guardie Reali. Se avete bisogno, vi firmo io il foglio che ne attesti la necessità.

Il suo ruolo. I suoi uomini. Non voleva perdere tutto. Aveva sacrificato la sua vita per la carriera militare! Sì, ci era stata messa dentro da altri, ma era comunque qualcosa che le dava la possibilità di vivere davvero. Non l’aveva protetta dall’amore e dalle debolezze, però.

- Non penso che lascerò. I sovrani hanno bisogno di me e io ho giurato di compiere il mio dovere in ogni caso e a ogni costo.

- Sarà pericoloso per voi e per il bambino, madamigella.

Quella frase l’aveva fatta stare male. Non era riuscita a nascondere più la nausea e il medico se n’era accorto. Il problema era dover guardare in faccia la realtà e accettarla. Il suo corpo non l’aveva mai tradita davvero, adesso invece si rifiutava di collaborare.

Un terribile mal di testa si ripresentò prepotente. Le tempie pulsavano, credeva di impazzire. Si lasciò scivolare appena contro lo schienale della carrozza, avvolta nel mantello per proteggersi dall’aria fredda di febbraio.

La mano tornò sulla pancia, quasi ad accarezzarla. Quando realizzò, si bloccò.

Basta affezionarsi.

Finalmente le lacrime si liberarono. Necessitava di buttare tutto fuori: pensieri, paure, ipotesi.

Gli occhi di ghiaccio del padre la fissavano e bruciavano di rabbia e delusione. La sua voce potente la accusava mentre il pugno si calava devastante sulla scrivania di mogano. Una reazione violenta, distruttiva. Avrebbe maledetto il suo nome, al quale per la prima volta avrebbe preferito non rispondere.

Meglio affezionarsi, forse, che non è certo ci potremo incontrare un giorno.

Asciugò le lacrime e si trovò a sorridere di nascosto di se stessa all’idea di crescere una persona fatta e finita. Una nuova persona, per metà come lei.

- Che fatica… - Se lo disse da sola.

- Perdonatemi, ma devo capire la situazione. Voi sapevate quello che stavate facendo, non è vero?

- Certamente.

Lo sapeva davvero? O era meglio dire che aveva seguito i gesti dell’altro e il proprio istinto.

- Ve lo chiedo perché vivete in mezzo a situazioni pericolose e…

- Ritengo di saper gestirle meglio di qualsiasi altra cosa, dottore.

Se c’era una cosa in cui eccelleva era proprio quella: affrontare il pericolo. Tutto il resto era routine o un pasticcio. Niente in mezzo. Questa volta, era un pasticcio.

- Siate onesto. Sarà doloroso?

- “Donna, partorirai con dolore”. Il buon Dio questo ha decretato. Io sono un uomo di scienza, ma posso confermarvi che sì, lo sarà.

Se così era necessario, che lo fosse allora. Avanti in quella direzione. Chi era lei per sottrarsi, d’altronde? La sofferenza fisica non l’aveva mai davvero spaventata. Fosse stato solo quello il problema…

- E il mio corpo cambierà.

- Il vostro corpo cambierà e vi costringerà a rallentare se non a fermarvi del tutto.

Avere un corpo femminile era qualcosa per cui si era messa l’anima in pace. A volte, però, quando un misto di disperazione, stanchezza e solitudine la sopraffacevano, aveva creduto che parte del problema dipendesse da lei. Poi, razionalizzando, era giunta alla stessa conclusione più volte: non odiava realmente il proprio corpo. Voleva che non la mettesse in svantaggio nella vita e che si adattasse ad essa il più possibile.

Oscar aveva riabbottonato la giacca ascoltandolo con attenzione, le dita tremavano alle parole che in quel momento pesavano più di ogni altra indicazione.

- Dimenticate di poter cavalcare, tirare di scherma, guidare le Guardie Reali almeno per un po’… Cominciate ad accettare che sta per aprirsi davanti a voi una nuova vita che richiederà spazio, tempo e pazienza. Vi suggerisco di prendere una licenza se non volete congedarvi. Ritiratevi in campagna, meglio ancora al mare. Necessitate di calma per riflettere e riposarvi.

Oscar scese dalla carrozza lentamente. Non che stesse molto meglio di quando aveva lasciato casa del dottor Lassonne, ma quantomeno si reggeva in piedi. Fece un profondo respiro e si diresse al portone d’ingresso. Sperava non ci fosse nessuno a quell’ora, aveva ancora bisogno di tempo da sola. Aveva già un piede sulla scalinata quando sentì la nonna salutarla, come se fosse stata via per giorni.

- Devi essere stanchissima, hai una faccia pallida…

Mentì con maestria, ma se anche non si fosse nascosta dietro l’accusa all’eccessivo carico di impegni che la sfinivano probabilmente l’altra non l’avrebbe notata.

- Non preoccuparti, sto bene. - rispose lei laconica.

C’erano così tante cose che le avrebbe voluto chiedere, in verità. La sua saggezza e la grande esperienza che sapeva avere nel mondo reale sarebbero state sufficienti per scioglierle ogni altro dubbio. Marie sarebbe di sicuro stata più esaustiva, perché in quella situazione lei c’era già stata e l’aveva vissuta dall’interno e certamente si ricordava ancora.

- Posso… Posso chiederti una cosa?

Se ne pentì immediatamente. Non era il caso, era troppo stanca adesso e ancora di pessimo umore.

- Dimmi tutto, bambina mia. - rispose la nonna, sincera nella sua dolcezza.

Per la prima volta da settimane Oscar si sentì scaldare il cuore. Poteva contare su di lei, poteva fidarsi. Si volevano bene da sempre, non avrebbe avuto nulla da temere. Ma non ora, un altro giorno.

- André è uscito?



I suoi appartamenti cominciavano a diventare claustrofobici e ci si chiudeva dentro solo da trenta ore. Non sarebbe sopravvissuta così, mai. E la nausea stava tornando, prepotente, ma lei voleva uscire, voleva piangere, urlare a pieni polmoni.

Aveva bisogno di calore e conforto. E di un tè, che magari avrebbe attutito il fastidio e sciolto i muscoli. Era tardi ormai, la nonna doveva già essersi ritirata e così le altre cameriere. Una sola persona poteva essere ancora sveglia. Anzi, pregava che lo fosse che a tirarlo giù dal letto ci avrebbe messo una settimana. 

Era stato un riflesso spontaneo trattenere il respiro finché Marie non le avesse detto ciò che sperava: non lo aveva visto uscire André quella sera. D’altronde aveva iniziato anche a piovere e faceva freddo, non avrebbe avuto molti motivi per andare in giro. Dove, poi, era un mistero per chiunque, ma nessuno glielo domandava e lui di sua sponte non parlava. Però, doveva ammetterlo, le dava non poco fastidio non essere al corrente di come passasse il suo tempo libero in sua assenza. Si fidava – d’altronde a mettersi nei guai pareva essere l’unica in quella casa – ma se lo avesse saputo sarebbe stata più tranquilla.

Oscar si incamminò al piano della servitù con lo stesso passo di quando a corte doveva raggiungere la sovrana. Sicura, decisa. D’altronde sapeva cosa voleva: una tazza di tè e la compagnia di qualcuno che non la giudicasse. Scese le scale veloci, svoltò a sinistra e lì attraversò il corridoio.

Davanti alla porta di legno scuro esitò. Si sarebbe aperto il vaso di Pandora con lui e ne aveva paura. Non di André, chiaramente, ma di ascoltarsi pronunciare quelle parole. Parole non presenti nel suo lessico quotidiano che a stento sapeva dirle.

Bussò un paio di volte. La voce dall’interno diede il permesso di entrare e Oscar finalmente tornò a guardarlo negli occhi. Le era mancato.

- Vuoi un tè?

Le sue prime parole dopo ore e ore di mutismo suonavano come le prime in assoluto che gli avesse rivolto. Speciali, destinate esclusivamente a lui, puntuali.

- A quest’ora?

- Se non vuoi, non importa. Scusa. - Fece per tornarsene sui propri passi con la coda fra le gambe, ma una mano la fermò.

- No, no, va bene. Ehm… Dammi un paio di minuti, tu comincia ad andare in cucina.

Non si era neanche accorta che André si era già tolto la camicia. In realtà non lo aveva proprio osservato con attenzione. Premurarsi che fosse in camera sveglio era sufficiente. E lui l’aveva fatta entrare perché non aveva gran senso essere così pudico nei suoi confronti, conoscendosi da tutta la vita.

Volò a raggiungerla con l’indumento di nuovo addosso, anche se un po’ stropicciato. La trovò in piedi, appoggiata al tavolo con la testa bassa. Singhiozzava, di tanto in tanto asciugava il volto con il dorso della mano.

Si avvicinò per capire cosa succedesse, ma Oscar non si accorse di lui e scappò nella stanza accanto. La inseguì, ma era stata più veloce e la porta del ripostiglio si chiuse con un colpo.

André bussò, seriamente preoccupato. Non ricevette alcuna risposta se non la prova che stesse male. Poteva accettare che i suoi immotivati malumori gli si riversassero addosso, ma che non volesse essere aiutata proprio quando ne aveva evidente bisogno era fuori discussione. Riprese a chiedere di aprirgli ma ricevette solo un ordine di aspettarla di là e di preparare tutto.

Si allontanò sospettoso, tenendo sempre un occhio e un orecchio all’erta. Non si era mai comportata così, mai.

Prese dell’acqua e la mise nel pentolino per scaldarla. Tirò poi fuori una teiera di ceramica bianca, due tazze dello stesso servizio e un vassoio. Stava aprendo il cassetto dove tenevano i barattoli con il tè e gli infusori quando sentì una mano chiudersi piano attorno al suo polso.

Si voltò con cautela e trovò Oscar a meno di un passo. Gli occhi erano lucidi, il viso stanco e tremava. André mollò tutto e la abbracciò, d’istinto. Al diavolo che erano grandi adesso ed era sconveniente perché un servo non ha certe confidenze con la sua padrona. Prima di tutto erano amici e vederla così era la più grande sofferenza per lui.

Più ancora di amarla da sempre senza poterglielo dire.

- Vorresti dirmi che cosa succede? - le domandò nella speranza di capirci finalmente qualcosa.

Dov’era la forza che aveva sempre dimostrato di avere? Dov’era adesso che le serviva? Santo cielo, riusciva solo a piangere!

Oscar rimase in silenzio con il viso ancora nascosto sulla stoffa sgualcita della camicia. Non lo aveva mai stretto così. Un calore così intenso, così profondo, non lo aveva mai provato. Neanche… No, neanche quella sera.

Davanti al suo rinnovato mutismo, André tentò la carta di strapparle un sorriso. Anche mezzo, purché non piangesse almeno per un istante.

- La nonna mi ha tirato uno schiaffo ieri sera. Mi è perfino rimasto il segno.

La strategia funzionò, perché le sue labbra si incurvarono leggermente ed ebbe un piccolo sussulto.

- Te lo sarai meritato. - Trovò in un angolo dell’anima un briciolo di forza per scherzare. La pazienza per piangere per quella sera era finita. – Cos’hai combinato?

- Non ne ho la minima idea, dovresti dirmelo tu. Sostiene che riguardi te.

Oscar gli propose di sedersi. Era talmente debole che un minuto di più in piedi l’avrebbe costretta a svenirgli addosso. Non sapeva perché Marie se la fosse presa con lui e, in tutta onestà, aveva altri problemi a cui pensare. Ma per quanto la riguardava, non aveva nulla da recriminargli.

André l’aiutò e poi riprese a occuparsi del dopocena. Quando finalmente il tè fu pronto, portò il vassoio sul tavolo e versò il liquido caldo nelle tazze. Gliene passò una e le allungò il barattolo con i biscotti che da bambini tenevano loro nascosto perché non se li finissero. Non gli ci era voluto un grande sforzo per immaginare che non avesse neanche cenato.

- Puoi mangiarli adesso.

Sorrisero di quel ricordo. Lei ne prese uno perché non insistesse, ma lo posò sul piattino. - Domani andrò a parlarle, non preoccuparti.

- Oh, ma non è per me che mi preoccupo. - Si intromise André, che tanto Oscar da sola non avrebbe vuotato il sacco. Probabilmente neanche con il suo aiuto, ma tanto valeva provarci. - È per te.

Il calore della bevanda creava scie sottilissime di fumo che si liberavano nell’aria e poi svanivano. Le guardarono entrambi finché non finirono in prospettiva davanti ai loro volti. Gli occhi si incontrarono di nuovo, seri.

- Non dovresti.

Il tono con cui glielo riferì tradì un reale desiderio che qualcuno intorno a lei lo facesse comprensibile solo da André. Ma perché succedesse, era necessario forzare le barriere autoimposte e svelare il mistero del suo comportamento e delle lacrime, che finalmente parevano essersi placate un po’.

- Mi chiedi troppo, Oscar.

- Promettimelo.

- Va bene, te lo prometto.

- E promettimi anche che non mi giudicherai e che mi starai accanto, anche dovesse cambiare tutto.

Certo che resterò con te! La mia intera esistenza non ha senso se non ci sei tu accanto a me e poi non giudicherei mai la persona che più amo al mondo.

Annuì convinto.

- Da quando dubiti di me? Pensavo mi conoscessi…

- Anche io pensavo di conoscermi. - lo interruppe lei, innervosita dalle sue parole. - E neanche dubitavo di me. Avrei dovuto farlo, invece, avrei dovuto promettere a me stessa le stesse cose che io pretendo da te.

- Da parte mia sai già la risposta. - Un tono asciutto. Così tanto da incresparle l’apparente calma che credeva di aver ritrovato. Se ne risentirono entrambi. - Se hai qualcosa da dire sbrigati, comincia ad essere tardi.

- Si farà spesso tardi tra non molto tempo in questa casa. - Parole ancora più secche e taglienti. - E ci saranno anche notti in bianco, se lo vuoi sapere.

- Notti in bianco, fare tardi… Ma di che cosa stai parlando? Sei sicura di non stare male?

Appoggiò la tazza su piattino. Qualsiasi cosa avesse avuto, non voleva rischiare di bruciarsi.

- Non è da te girarci intorno.

- André, io…

Erano lì le parole, a un passo dal vedere la luce, una spinta leggera et voilà! Il segreto non era più un segreto almeno tra loro due. Un piccolo sforzo, piccolissimo, un incoraggiamento ma anche senza ché ormai era quasi fatta.

Diglielo, Oscar. Diglielo. Lo deve sapere. All’improvviso le dimostrazioni di amicizia non valgono più con gli amici veri?

Bevve un sorso di tè tenendo gli occhi nei suoi. Si accorse di quanto fossero verdi solo in quel momento, cosa che la distrasse un momento dall’obiettivo di quella conversazione. Abbassò la tazza a insieme ad essa lo sguardo, poi sospirò.

- Sono andata dal dottor Lassonne per una visita.

Lo disse senza prendere fiato per non correre il rischio di essere interrotta. Posò la tazza e si alzò rimettendo tutto nel vassoio, perfino il biscotto rimase intonso. Il tutto davanti agli occhi indagatori di André, il quale si alzò di scatto soltanto all’ultimo – quando Oscar provò a passargli accanto per raggiungere la porta.

- Gradirei tornare in camera. Si è fatto tardi, lo hai detto anche tu. Grazie per il tè.

Era di nuovo scontrosa adesso. Dall’altra parte, però, trovava adesso un avversario che non si sarebbe arreso tanto in fretta.

André le fece cenno di passare, ma non appena fu alla porta la richiamò. Lei si fermò e rimase di spalle. Non girò neanche il viso quel tanto per vederlo con la coda dell’occhio.

- Sono disposto a prendermi tutti gli schiaffi del mondo se significa proteggere te. E credimi che quello di ieri ha fatto male. Almeno abbi la decenza di spiegarmi.

Il tono grave, la voce ferma a mantenere una posizione più che legittima.

Ti seguirei perfino sott’acqua e ti darei il mio ossigeno per farti respirare. Per favore, però, dimmi qualcosa.

- Tu sai crescere un bambino?

Una domanda caduta dalle nuvole come un fulmine a ciel sereno.

- Io… cosa?

Se scopro che sei davvero tu il responsabile ti uccido prima che lo faccia suo padre!
Il responsabile?

- Rispondimi. Tu sai crescere un bambino?

- Oscar, noi ci siamo cresciuti a vicenda.

- Allora dovrai ricordarmi com’era, perché mi servirà.

Se scopro che sei davvero tu il responsabile ti uccido prima che lo faccia suo padre!

Le sue dita afferrarono la maniglia, ma la porta restò chiusa e lei immobile sulla soglia.

Il cuore di entrambi cominciò a battere sempre più forte, fino quasi ad uscire dal petto. La luce flebile delle candele parve tremare sotto la tensione che si era creata in cucina tra loro due.

André si mosse nella sua direzione, si avvicinò lento e in un attimo le fu alle spalle. A un passo da lei quella rete di sicurezza che si era eretta intorno pareva fabbricata con fili spinati.

Appoggiò delicato una mano sul braccio, neanche un tocco vero e proprio. La sfiorò e gli sembrò tremare per un attimo.

 - Tu…

Oscar annuì.
 
 
Note: grazie per essere arrivat* fino a qui! Gli aggiornamenti sono rapidi, lo so, ma voglio condividere questa mia piccola follia con voi. A presto!

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


Capitolo 4
Lunghi minuti di silenzio prima che uno dei due interrompesse la sospensione di tutto, perfino del respiro.

Infiniti secondi in cui non si guardarono negli occhi ma era come se si stessero osservando nell’anima.

Da un momento all’altro il mondo era cambiato. Non erano più soltanto Oscar e André e la cucina e il servizio da tè e il biscotto ancora sul piattino. Adesso erano Oscar e André e un segreto inconfessabile e gigantesco e deflagrante.

- Andrà tutto bene. - lo mormorò soltanto, un soffio sottile, ma lei lo sentì. E pur magra consolazione, ma la apprezzò.

Le dita scivolarono sulla maniglia e tornarono al corpo.

Si girò lenta e scoprì le guance rosse e gli occhi di nuovo lucidi.

Era lui a doverlo sapere per primo. Glielo doveva. Ma non si aspettava che succedesse così, anche se in realtà non aveva immaginato mai la situazione. Perché la situazione non ci sarebbe neanche dovuta essere. Invece c’era e come sempre André aveva capito senza che glielo dicesse esplicitamente e l’aveva tolta dall’impiccio di doversi ascoltare mentre dava una notizia lontana dal suo mondo.

- E se non dovesse andare tutto bene?

Lui sospirò e la riportò a sedersi al tavolo. Se non dovesse andare tutto bene, ti porterò via da qui e farò qualsiasi cosa perché invece accada.

Provò a rassicurarla in ogni modo, perché sapeva che dentro di lei ancora albergava lo spirito orgoglioso di sé e proprio su quello aveva deciso di far leva. Sulle sue incredibili capacità di uscire sempre vincitrice dai problemi, trovare soluzioni. Ma più di tutto, sul suo essere in grado di voler bene alle persone – unico, talvolta incomprensibile, ma sincero.

Oscar teneva lo sguardo basso. Al senso di colpa verso la propria famiglia, il padre e se stessa, si aggiunse anche quello – immotivato forse, ma reale – nei confronti di André. Il generale glielo aveva messo accanto perché le evitasse pericoli e pazzie, lei invece aveva agito da sola e ciò gli avrebbe creato problemi. Tanti problemi.

André resisteva alla lotta tra cuore e mente. C’era qualcuno che aveva avuto l’onore di poterla tenere tra le sue braccia e non era lui. C’era qualcuno che l’aveva baciata e che lei aveva baciato e non era lui. L’aveva spogliata, guardata ed era stato spogliato e guardato. L’aveva amata ed era stato amato. E chissà quante volte, chissà da quanto tempo. Chiunque fosse, doveva ritenersi fortunato.

- Perché non vai a dormire adesso? - le disse, prendendola per mano. - Rimanere qui non risolverà la situazione.

- E cosa la risolverà?

Era seccata, ma era anche seria. Cosa avrebbe risolto la situazione in cui si era cacciata da sola?

- Poco per volta lo scopriremo.

Si permise di includersi e di renderglielo palese. L’unica cosa che sapeva per certo era che da soli, lei e il suo bambino, non sarebbero mai stati finché lui era in vita.

- Devo dirlo alla nonna… Salterà su tutte le furie.

- Ha già cominciato ieri.

Sorrisero. Da che erano bambini, quando lui si prendeva uno schiaffo immotivato da qualcuno lei rideva. E allora poi litigavano fra loro, si picchiavano e la ramanzina da parte degli adulti riprendeva.

Non avrebbero replicato adesso. Non perché fossero grandi, ché le discussioni certo non mancavano, ma perché non aveva senso. Non in quel momento.

- Crede che sia io il responsabile.

Oscar lo guardò stranita. - Ma non è possibile! Io… Tu… Non… Non è possibile!

Ti prego di non infierire.

Si lasciò accompagnare in camera, senza aggiungere una parola. Nessuno dei due lo fece, pure nell’immensa quantità di cose che avrebbero dovuto salire in superficie.

Dalla fessura della porta appena accostata, dalla sua camera Marie li osservava allontanarsi. La mano di lui sulla spalla di lei. Le pareti erano troppo spesse perché avesse potuto udire qualcosa, ma si era accorta della loro presenza. Non erano famosi, il nipote e la bambina, per spostarsi in modo discreto fra le stanze quando erano in casa. Anche a tarda sera. Aveva sentito prima i passi svelti di Oscar percorrere un paio di volte il corridoio, poi quelli più pesanti di André andare nella stessa direzione.

Si domandò che cosa fosse capitato nel tempo speso in cucina. Ma non si precipitò a dividerli: riconosceva che esisteva un limite oltre il quale loro due erano adulti ormai e neanche lei poteva intromettersi. Pregò soltanto che non facessero altre sciocchezze.



Giorno dopo giorno le settimane e i primi mesi passarono e quella certezza che nascondeva un’infinitesimale, remota, lontanissima possibilità che si trattasse di altro divenne granitica. Solidissima.

E nel frattempo anche la nonna venne resa partecipe del segreto, che segreto non era più e non era mai stato. Oscar glielo rivelò una sera, di ritorno da Versailles, e pretese che ci fosse anche André nella stanza. Per dare un po’ di pace al proprio cuore doveva sollevarlo da qualsiasi colpa potesse avere agli occhi dell’anziana signora.

L’abbracciò forte nonostante la stesse ancora rimproverando. Le lacrime bagnavano gli occhialetti tondi, la voce tradiva preoccupazioni uguali a quelle della sua bambina, ormai grande abbastanza da averne uno suo.

Si asciugò in fretta il volto e si scagliò sul nipote. I capi d’imputazione cambiarono nel momento in cui l’altra intercedette per lui, frapponendosi con il rischio di essere colpita lei dagli schiaffi.

- Non c’entra niente!

- Siete sempre stati bravi a mentire per proteggervi, voi due!

- Ma ti dico che non ha colpe.

- E allora perché alla fine dello scorso dicembre una sera vi ho visti uscire e rientrare da soli a pochi minuti l’uno dall’altra?

Si voltò a guardarlo Oscar e André ricambiò. Seri, che poi forse avrebbero parlato anche di quello ma non era il momento. Proseguì nella difesa, c’erano delle priorità: la sua incolumità fisica.

- Capita che le nostre vite si separino di tanto in tanto…

- Non avrebbero dovuto farlo. Per quale motivo non vi siete parlati per un giorno intero?

- Converrai che non mi trovo in una situazione tanto semplice.

- È comunque colpa sua perché ha lasciato che tu uscissi di casa da sola.

- Il suo compito non è dirmi cosa fare o non fare.

Lo disse più per se stessa che non per la nonna. Perché quel pensiero lo aveva avuto anche lei, come senso di colpa, e doveva ricordarselo. Anche nel futuro, quando la questione sarebbe di certo stata sollevata da suo padre.

L’identità del padre del bambino non venne rivelata. Il discorso a volte tese in quella direzione, ma Oscar lo evitò. Ed era questo che continuava a lasciare un’ombra di dubbio in Marie. Il problema si poteva risolvere con un matrimonio, ché di casi come il suo era pieno il mondo dalla notte dei tempi. Ma se rifiutava così categoricamente anche solo di nominarlo, allora significava che l’unione non si doveva (o poteva) proprio celebrare. E una nobile non deve né può sposare un uomo del popolo.

André, da parte sua, non si azzardava. Non che non avesse compreso, ma i cassetti che lei non apriva erano un tabù. Anni al suo fianco glielo avevano insegnato fin troppo bene. Che poi magari un giorno si sarebbe confidata, oppure non lo avrebbe mai fatto e la verità sarebbe rimasta nell’ombra. E a lui andava bene, perché erano decisioni sue e si sarebbe adattato.

La routine rimase la stessa di sempre. Finché la nonna non cominciò a cucire e rammendare come una forsennata e ogni giorno i momenti liberi li occupava confezionando indumenti un po’ più morbidi. Anche se il vero centro delle sue attenzioni era il corredo, come già successo per le cinque nascite precedenti. Non era poi così inusuale trovarla indaffarata con fiocchi e merletti e ordini pronti per il resto della servitù – resa partecipe con discrezione e poche informazioni alla volta.

Ma giorno dopo giorno anche il corpo cominciò a cambiare.

Dapprima dettagli che solo Oscar notava (e tutt’al più gli occhi esperti della nonna), particolari minimi che le procuravano disagio; presto ci fece l’abitudine, però, anche se ogni volta che si accorgeva di qualcosa si indisponeva. Avvenne con la schiena che doleva, i crampi alle gambe che la svegliavano di notte e i palmi delle mani arrossati che prudevano e le rendevano insopportabili i guanti. Il dottor Lassonne, come Marie prima di lui, la tranquillizzò.

- Te ne aspettano di fastidi, mia cara… - sentenziò l’anziana.

Poi successe che una domenica mattina Oscar si era svegliata, voleva fare una passeggiata. Nel prepararsi, però, fu necessario indossare un nuovo paio di pantaloni, un poco più larghi, perché nessuno della sua misura riusciva chiudersi.

Tutto il palazzo la sentì. Corse come un fulmine André, spaventato che fosse successo qualcosa. E invece spalancando la porta della camera la trovò seduta sulla poltrona, arrabbiata. A terra, tutto ciò che aveva provato a mettersi ed era rimasto aperto.

Glieli raccolse e piegò mentre Oscar sbuffava.

- Finirò per mettere i tuoi.

Lui rise rassicurandola che non sarebbe accaduto.

Doveva essere uno di quei giorni in cui i momenti difficili li voleva passare con qualcuno. Altrimenti lo avrebbe cacciato all’istante.  

- Cosa vorresti fare oggi? - le domandò per distrarla. Ormai il suo compito era diventato anche quello e per lui andava più che bene.

- Non lo so. Non mi interessa più.

Non era infrequente che si precludesse in un batter d’occhio ogni alternativa al fare nulla. Un ozio che si concedeva come unica reazione alle quotidiane rimostranze di un fisico in costante cambiamento. Crogiolava nella noia per punire se stessa di quanto fosse stata stupida. Finché poi non sopportava più neanche quello e cercava qualcosa con cui impegnare la mente.

- Va bene, vorrà dire che rimarremo qui dentro. - Finse accondiscendenza, per prepararsi al contrattacco. - Oppure, come immagino avessi in mente tu, andiamo a fare due passi fino al fiume.

Oscar lo guardò ombrosa e si alzò, segno che si era convinta. La vecchia sé era tornata prima del solito e non aveva intenzione di lasciarsi prendere troppo dallo sconforto. Dal silenzio ostinato sì, però.

André si compiacque di quanto poco ci fosse voluto questa volta. Forse non sarebbe più accaduto, lo riteneva un successo personale. Gli dispiaceva vederla lottare con se stessa per accettare la realtà, tra le cose. Provava ad alleviarle i problemi quando poteva, ma non tutto dipendeva dagli sforzi altrui. C’erano situazioni in cui solo la sua forza di volontà poteva fare la differenza, altre in cui nemmeno lei aveva voce in capitolo.

Passeggiare per la proprietà senza una destinazione precisa per allontanare le preoccupazioni era rimasta una costante nella sua vita. Ed era diventato l’appuntamento fisso della domenica, costi quel che costi, quando non c’erano responsabilità più urgenti.

Lontano da casa, lontano dalle apprensioni. Soltanto loro due, a piedi perché doveva limitare le cavalcate allo stretto indispensabile. In silenzio assoluto oppure parlando di tutto. Un angolo di normalità, un pezzo di come sempre incastrato tra nuove necessità e obblighi.



Il pomeriggio del martedì successivo, l’ennesimo cambiamento le si presentò davanti.

A Oscar delegare non piaceva. Non le era mai piaciuto. Ma al colloquio settimanale con la regina proprio non sarebbe più riuscita ad andare. Non aveva la concentrazione necessaria, men che meno le forze per farlo.

Tanto più che anche lì tra i soldati bisognava accomodare le cose prima o poi. Era l’occasione migliore per cominciare ad affidare a un altro ufficiale i compiti del suo ruolo. Non avrebbe destato troppi sospetti, non essendo permesso a nessuno di assistere alla conversazione. E di Girodelle poi si fidava.

Che poi lui era venuto a scoprirlo per caso. Una mattina, quando stava uscendo dalle scuderie della reggia e proprio in quel momento aveva incontrato il capitano e il suo attendente che ne stavano parlando. Un po’ incauti, in verità, ma credevano non ci fosse nessuno. Prima o poi lo avrebbe dovuto sapere. Non poteva rifilargli una scusa qualunque quando si sarebbe assentata in futuro. E quindi un giuramento solenne era stato siglato per evitare che si spargesse la voce. A Versailles anche i muri hanno le orecchie.

Per essere un po’ più in pace con se stessa, però, con sua maestà voleva affrontarlo lei l’argomento e in maniera diretta. C’era un mutuo rispetto tra di loro che le faceva pesare quanto ormai aveva posticipato il momento. Troppo a lungo. In virtù degli anni trascorsi insieme, le doveva sincerità.

Oscar giunse agli appartamenti di Maria Antonietta all’ora canonica. Alle cinque e mezza bussava alla sua porta. Nessun discorso preparato prima, non era sua abitudine.

Cercò di dissimulare che l’uniforme le era scomoda. Era stata una seconda pelle per dieci anni. Una sera, una, e adesso si sentiva compressa sotto la stoffa rossa, anche quei pantaloni erano e la fusciacca chiusa di lato in vita da un fiocco copriva, sì, ma le dava fastidio.

Comprese allora perché la regina cercava in ogni modo di fuggire dalle regole rigide del protocollo di corte. E ringraziò che quantomeno non doveva indossare corsetti. Però le fasce sì, da molti anni. Prima erano solo antipatiche e lunghe da indossare e poi togliere. Adesso facevano male.

Il sole tramontava fuori dalle finestre e irradiava calore nel salotto dove sua maestà l’attendeva paziente.

Il capitano delle Guardie Reali si inchinò davanti alla sua sovrana, che la studiò. Durante le giornate, circondata dalle persone che più le gradiva avere intorno, non aveva mai prestato troppa attenzione alla sua singola persona. Adesso erano da sole, però, e lo notò. Lo notò bene. Era diversa. Il suo sguardo (pur sempre altero) emanava una luce nuova. La sua postura (al solito perfetta) appariva un po’ meno rigida, i movimenti leggermente più morbidi.

Non poteva essere.

Non lei.

La conosceva bene, non le era mai sembrata una donna con quell’intenzione.

E non aveva neanche mai appreso di qualcuno al suo fianco.

Beh, un uomo sì, ma erano voci. A corte si sparla di chiunque, figuriamoci.

Impossibile, davvero impossibile. Non era persona da…

Però.

Sempre insieme da che ricordasse.

E a lei con Fersen era bastato molto meno.

- Capitano, è un piacere vedervi. Ditemi, è accaduto qualcosa? Avete anticipato l’incontro della settimana…

- Vogliate perdonarmi, Maestà. Ci sarebbe una cosa urgente di cui avrei bisogno di parlarvi.

Maria Antonietta si accomodò su un divanetto. La scrutava con una gentile aria indagatrice. Ogni secondo di più le parve di non sbagliarsi. - Una cosa urgente? - ripeté un po’ allarmata. - State bene?

- Certo, Maestà. Grazie per l’interesse.

- Vi vedo diversa, madamigella.

- Diversa, dite? Sono sempre io, ve lo assicuro.


La regina si rialzò pregandola di essere seguita. Voleva avere un’ultima prova. Si lanciò in un lungo discorso, uno di quelli che faceva quando aveva voglia di perdere tempo ché all’infuori della propria cerchia il mondo era noioso.

Oscar la ascoltava muta, la concentrazione divisa tra le sue parole e la fascia in vita che si spostava e lei doveva aggiustarla a ogni passo.

Se ne accorse la sovrana, con la coda dell’occhio. Riconosceva ormai i gesti più consueti e particolari. Nascose un sorriso mentre le impediva di riportare la conversazione su qualcosa che con ogni evidenza le premeva.

- Sapete, da quando il conte è partito mi sento molto più sola. Non ero felice, lo sapete anche voi, ma almeno c’era lui.

Oscar si irrigidì. Non rispose, per non tradirsi. Mi auguro non lo veniate mai a sapere, Maestà…

- Perché vi voglio bene sinceramente, a voi auguro di esserlo dal profondo del mio cuore. Vi meritate di essere felice. - Il tono, da che si era fatto grave, tornò più leggero. - Di quanto tempo avete bisogno?

Si capirono entrambe al volo.

L’altra abbassò lo sguardo. Si schiarì la voce. Non era mai stata tanto in imbarazzo in sua compagnia e ciò la metteva in difficoltà più dell’argomento stesso.

- Io… Io vi ringrazio, ma non ce n’è necessità. Come…

- Suvvia, siamo donne entrambe. - La regina si lasciò andare a una breve risata divertita. - E poi vi conosco da tanti anni. Proprio perché vi conosco so anche che non chiedete mai niente e svolgete il vostro dovere a ogni costo. Ma non posso pensare che vi mettiate in pericolo proprio adesso. Vi farò avere domani stesso un periodo di licenza per potervi riposare. È il minimo che io possa fare per ringraziarvi di tutto ciò che fate da dieci anni.

- Sono commossa dalla vostra magnanimità, ma per il momento vi devo avvisare che ai colloqui settimanali mi sostituirà il tenente Girodelle.
Maria Antonietta annuì. Non era quello che le interessava veramente. A lei premeva che la sua amica più sincera stesse bene. - Immagino non abbiate messo da parte la spada. E nemmeno diminuito il resto degli impegni con le Guardie Reali.

Oscar sorrise mestamente. Era così.

- Ebbene, in qualità di regina di Francia prima ancora che di vostra amica, vi propongo un accordo.

Sgranò gli occhi.

- Presterete massima attenzione, ma potrete continuare a svolgere il vostro compito ancora fino a metà maggio. Poi vi offrirò un congedo finché ne avrete bisogno, anche dopo…

- Siete molto generosa, Maestà. Vi ringrazio davvero dal profondo del cuore.

- Ritengo che sia giusto così. Non posso ignorare cosa significhi per voi il vostro ruolo, ma nemmeno i rischi che correte.  - Riprese a camminare e il suo sguardo si perse oltre le vetrate, lontano oltre i giardini. - Vi prometto che non farò parola con nessuno di quanto ci siamo dette oggi.

Oscar si accorse solo tornando verso le scuderie che metà maggio era il periodo in cui sarebbe tornato suo padre. Non avrebbe avuto altra scelta che dirglielo subito, dunque. Perché mai, sennò, sarebbe dovuta rimanere a casa tanto tempo? E comunque si sarebbe notato in ogni caso.

Assillata com’era da se stessa e dalla possibile reazione del generale e da tutto il resto, però, aveva dimenticato un altro particolare importante. Le venne in mente in quel momento, quando vide in lontananza alcune dame salire sulle loro carrozze.

Sua madre! Era partita anche lei, con il seguito del regimento che essenzialmente comprendeva le mogli degli ufficiali. Non sapeva niente, non si era preoccupata di riferirle alcunché per rispetto di suo padre e così intendeva procedere. Ma lei era la sola dei due su cui avrebbe potuto contare (si augurava) per avere un po’ di vicinanza, l’unica della coppia che le avesse mai dimostrato un po’ di affetto.

Un altro pensiero, un ennesimo cruccio.
 
Note: la cronologia della storia originale diverge un po’ da quella reale e io vorrei provare a farle incontrare almeno in parte. Anche nei prossimi capitoli ci saranno degli aggiustamenti: se qualche dettaglio sembra strano sapete perché. Grazie per essere arrivat* fino a qui.

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


Capitolo 5
Non ci aveva mai prestato attenzione. Non le era importato che parlassero di lei, erano le regole del mondo. Anche ultimamente c’era chi la guardava in modo diverso se la incontrava, ma Oscar confidava nel fatto che non fosse ancora così evidente da essere chiaro a tutti. Il suo dovere, poi, non la teneva ogni ora del giorno a corte ed era facile evitare occhi, bocche e orecchie indiscrete. E neppure quella volta sarebbe stata tanto diversa dalle altre, se non fosse stato per la malizia che aveva percepito. Più viscida, più giudicante. Sprezzante perfino dell’ipocrisia che guidava la vita di corte.

La contessa di Polignac aveva un conto in sospeso con lei. Aspettava soltanto il momento giusto per chiuderlo. Non le era bastato portarle via Rosalie, no. Perché Rosalie se n’era andata nel frattempo e se non avesse passato quegli anni accanto a una persona tanto caparbia non avrebbe imparato ad avere abbastanza amor proprio da fuggire. Indirettamente, era colpa sua se le fossero saltati i piani. Di nuovo.

Fu tranchant nel suo commento, quando la vide arrivare nella Galleria degli specchi. A voce bassa perché udissero solo le persone intorno a lei; e Oscar, in quel preciso istante, era proprio intorno a lei. Non poteva che essere così: quella donna era ovunque nei paraggi si trovasse la regina ed era dai sovrani che si stava recando. Aspettò il momento giusto madame Jolande di Polignac – che la superasse di pochi passi, accanto al suo attendente.

- Madamigella non è la vergine di ghiaccio che abbiamo immaginato. Buono a sapersi.

Si voltò e il suo viso era torvo. Guardò le altre dame ridere dietro i ventagli, le stesse che solitamente la riempivano di inutili lusinghe.

- Come dite, prego?

Strinse i pugni, ma dentro di sé la sentì tutta la rabbia che montava. Era un limite che ovviamente avrebbe superato prima o poi, d’altronde aveva già dato prova di freddezza d’animo.

- Oh, volevo solo congratularmi, capitano. - Nascondeva abilmente la cattiveria tra le pieghe della cordialità. - Siete molto fortunata, sapete? Si vede ancora poco e immagino che ciò vi aiuti nel vostro compito. A proposito, andate ancora a cavallo? È molto pericoloso…

- Da quando in qua vi preoccupate per me, contessa? - Si trattenne per decenza, perché in certe trappole non intendeva cadere. Non così facilmente.

- Come siete suscettibile, madamigella! Certo, nel vostro… stato è comprensibile. Ci siamo passate tutte. Finalmente vi siete arresa all’essere una donna. - L’ultima speranza che qualcuno non avesse avuto anche solo il sospetto venne meno nell’istante in cui la contessa aveva sottolineato quella parola, “stato”, e poi tutto il resto si trasformò in tesserine del domino in caduta libera. Chiunque fosse nella Galleria si girò verso di loro. - Mi chiedo però chi sia il fortunato. Non abbiamo sentito parlare del vostro matrimonio e come sapete le notizie corrono…

- Ciò che avviene nella mia vita non è di vostro interesse.

L’altra sorrise, ma la fulminò con lo sguardo. Che si spostò sull’uomo alle sue spalle, in silenzio ma visibilmente irritato dalla conversazione. Restò un istante su di lui, che fosse stato nobile avrebbe incluso ma certe cose per la contessa erano sacre e tenerlo fuori le avrebbe comunque dato la possibilità di infastidirla.

- Permettetemi di dissentire, capitano. - Accorciò la distanza a zero. - Siete troppo vicina alla regina perché possiate pensare che la vostra reputazione riguardi voi e voi soltanto.

Oscar spostò un braccio per bloccare sul nascere qualsiasi reazione di André, ché non si sarebbe mai permesso di rispondere ma sapeva che cosa stava passando nella sua mente.

-Se vi interessa veramente il bene di sua Maestà, non dovreste trattenermi qui.

Si congedò dalle presenti. Non era la voglia di discutere ancora a mancarle, né il tempo. La disturbava il doversi difendere dagli attacchi di una come la contessa. Spregevole e arrivista. Poche volte in vita sua aveva pensato tanto male di qualcuno.



Versailles era anche quello e sembrava volersi superare di volta in volta. Era toccato a lei adesso, di nuovo. La guerra con l’amica della regina durava da tempo oramai e non le risparmiava attacchi.

Anche se c’era un’altra guerra che la preoccupava di più, dall’altra parte del mondo. Una guerra di cui veniva informata formalmente insieme a ministri e ufficiali e che le rimaneva dentro silenziosa, aggrovigliata ai propri pensieri.

Che al fronte si sparasse non era una novità. Che il contingente francese non si fosse imbarcato per rimanere fermo era un’altrettanta verità. Ma non poteva non rivolgerglisi ogni mattina pregandolo di non morire, perché non sarà dipeso da lui sopravvivere o meno ma quella era l’unica strategia che conosceva per aggrapparsi ad una speranza. Se si fosse difeso, se si fosse nascosto a dovere…

Era per quello che era stata chiamata. Per ascoltare i dispacci provenienti dall’America e i ragionamenti del re, dei ministri e degli ufficiali su obiettivi militari che sotto nascondevano persone. Tante persone, compresa quella che occupava ancora la sua mente e il suo cuore.

Oscar entrò in una grande stanza che dava sul lato est dei giardini. Il cielo si stava rannuvolando fuori dalla reggia, ma non sembrava minacciare pioggia a breve.

André l’aspettava fuori, come ogni volta in cui l’impegno era ufficiale e lui non aveva il permesso di assistere. Qualcosa si sentiva lo stesso, però. Qualche parola veloce, ma nulla di più. Una sola frase gli arrivò distinta quando per un attimo la porta si aprì per far uscire un uomo in uniforme che lo ignorò.

Gli inglesi si stanno spostando verso sud.

L’uscio si chiuse e si ristabilì il silenzio. Ma quel breve istante gli fu sufficiente per scorgere Oscar, seduta a fianco del ministro degli Esteri, e pensare che le cose sarebbero dovute andare diversamente.

Finì dopo più di un’ora l’incontro, quando il re e la regina si allontanarono e con loro il seguito di gente impettita che lo ignorò ancora.

Uscì per ultima Oscar ed era come se ogni singola parola si fosse riversata sul suo volto. André non la incalzò per sapere cosa fosse successo, non lo aveva mai fatto da quando il contingente francese era partito.

Pur nella troppa delicatezza dell’argomento, le notizie essenziali gli giungevano. Tramite Oscar, l’unica informata, che sviscerava la questione quel tanto che poteva. E che riusciva, soprattutto. Un poco alla volta, ché aveva bisogno di elaborare e metabolizzare. Ma le notizie alla fine in parte gli giungevano.

Gli arrivavano prima ancora i suoi lunghi silenzi successivi ai colloqui mensili. Le lasciava il modo di trasformare i nomi trascritti nei bollettini di guerra nell’idea che se non c’era quello che le interessava significava che fosse ancora vivo. O disperso… Che non significava per forza la morte. Così, almeno, si ripeteva.



- È arrivata una lettera per te.

Sulla soglia della camera, la voce di André sovrastò lo scoppiettio del fuoco nel camino. Era primavera già da quasi un mese, eppure faceva ancora freddo tra le mura di palazzo Jarjayes.

Oscar era seduta sulla poltrona rossa della sua camera, l’unica che le sembrasse davvero comoda, ad aspettare la cena. Leggeva, o almeno ci provava dato che la sua mente fuggiva. Non riusciva a seguirla, la perdeva. Quando poi la riacciuffava e la obbligava a soffermarsi sulle parole stampate, quella ripartiva.

Andava da lui. E aveva paura.

Non avere notizie certe di qualcuno dall’altra parte del mondo a cui teneva e di cui avrebbe per sempre portato con sé una metà esatta era soffocante, specialmente nelle sere dopo i colloqui di guerra.

Dov’era adesso?

Che cosa stava facendo?

La pensava?

L’aveva mai pensata?

Aveva avuto il tempo e il modo per farlo?

Non pretendeva di occupare uno spazio molto grande dentro di lui, ché quello era destinato a una donna che non era lei e lo sapeva bene. Ma un angolo, uno soltanto, sì. Se non in nome di quella sera, per gli anni di amicizia che avevano condiviso. Se lo meritava dopotutto, no?

Se lo meritava? O era il giusto prezzo per non essere stata corretta nei confronti della regina?

André non era sicuro che fosse quello il momento giusto. Perché forse il momento giusto neanche esisteva per quel genere di cose. Ma se avesse aspettato ancora sarebbe stato peggio. E quella lettera le andava consegnata.

- Grazie.

Oscar chiuse il libro e osservò la busta. Le mani cominciarono a tremare. Lo guardò sconvolta.

Era stata spedita da una località ignota. Non c’era il mittente, ma la calligrafia sul fronte era inconfondibile. Carta spessa, non troppo raffinata. Sigillo senza stemma.

Squarciò di netto l’estremità superiore. Vide che c’erano due fogli: recavano i loro nomi. Le bastarono per sentire che l’aria adesso mancava.

- Prendi pure, questo è per te. - Gli parlava di fretta. Ogni momento speso lontana da quella pagina scritta di corsa era sprecato. - Puoi andare.

André se ne andò, ma le dedicò un’ultima occhiata prima di chiudere la porta e lasciarla da sola.

Le venne istintivo lasciare che una mano scivolasse sulla pancia, ancora piccola ma già un poco evidente dalla camicia. La nonna sosteneva che fosse troppo piccola per trattarsi di un maschio, mentre la cuoca aveva smentito categoricamente perché già si poteva vedere che era tonda e quindi non sarebbe potuta essere una femmina. A lei non interessava granché delle teorie di cui le riempivano la testa molte delle donne che frequentavano quel palazzo. Finché poteva continuare la propria vita, andava tutto bene…

Lui sorrise appena, se ne andò.

Oscar rimase un momento con il foglio aperto, ma non lesse.

Come prima di un tuffo. La sensazione era la stessa. Lo stomaco chiuso, la testa vuota, una vertigine sottile ma tagliente.

Riposò lo sguardo sulla missiva. Il respiro si fece nuovamente corto. Adesso capiva perché aveva dovuto aspettare tanto per sapere di lui.

La guerra infuriava e che fosse ancora vivo a quanto pareva era un miracolo. Vedeva cadere i suoi compagni ogni giorno e di striscio la sorte lo aveva risparmiato. E il sangue che imbrattava il suolo americano non portava via ma acuiva le sue sofferenze. Il dolore per essersi lasciato indietro la donna che amava e per averne probabilmente illusa un’altra.

Lei, il suo migliore amico.

Le chiedeva scusa, le prometteva che non la avrebbe mai dimenticata. La ringraziava per quell’unica sera e per i cinque anni precedenti. E la teneva sempre tra i pensieri, perché un militare brillante come lei avrebbe fatto comodo all’esercito ribelle.

Oscar appoggiò la lettera su tavolino. Lenta. Lentissima. Doveva convincersi di aver letto bene. Non che pensasse di aver sostituito nel giro di qualche ora la regina Maria Antonietta dal posto d’onore nel suo cuore.

Ma questo era per lui. Un soldato. Un amico. L’alibi, la copertura perfetta. La spalla su cui piangere per un’altra.

Una sola volta le aveva chiesto se non si fosse mai sentita sola nella sua uniforme. Ma all’epoca a lei non interessava nient’altro che quell’uniforme.

All’epoca… Tre anni fa.

E come gli avrebbe risposto? Non c’era l’indirizzo e in quanto soldato, prima che donna, comprendeva la ragione.

Ciò nonostante, se avesse potuto rispondergli non avrebbe infarcito due pagine di risentimento. Le avrebbe bagnate con le lacrime che adesso si trovava a versare. Perché innamorarsi di lui pur sapendolo di un’altra era stata una debolezza, cedere al suo abbraccio una sciocchezza, ma i sentimenti non seguono una logica e di sicuro non la sua.

E se anche un giorno fosse riuscita ad allontanarsi da ciò che nutriva per quell’uomo distante e in costante pericolo, non avrebbe mai potuto smettere di volergli bene. Sinceramente. Non avrebbe potuto essere altrimenti.

Per questo, la vita doveva andare avanti. Perché quella che stava arrivando meritava che almeno lei fosse presente con il corpo, con la testa e con il cuore. Glielo doveva.

Per la prima volta da che ricordava, non infilò la lettera nel cassetto con quelle che riceveva, ma la guardò prendere fuoco lentamente nel camino.

La carta che bruciava aveva un nonsoché di catartico. Bisogna distruggere per poter ripartire. E lei, Oscar, aveva adesso intenzione di ripartire. Da sé, dal proprio bambino. Un passo alla volta.

E poi la solita richiesta.

Fersen, non morite.

 
 
 
Note: grazie per la lettura! Avrete notato che cambio le cose in corsa, infatti adesso l’indice dei personaggi è un po’ diverso, ma la storia rimane uguale a come l’ho pensata.

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


Capitolo 6
Arrivò poi la metà di maggio. Caldo, soleggiato. Profumava di tigli. E arrivò anche il momento di congedarsi da Versailles, dalla regina e dai soldati delle Guardie Reali.

Le avevano dedicato una parata, perfetta al dettaglio, che il tenente aveva preparato quando il capitano non era insieme a loro e lei si era complimentata per quanto fossero stati bravi.

Ordinati per file, non uno fuori posto. Splendidi nelle loro uniformi azzurre.

Apprezzava decisamente più un gesto del genere che non le ingenti quantità di fiori che arrivavano a palazzo Jarjayes da che era quattordicenne. La sua vita era quella, la carriera militare. Anche se adesso avrebbe dovuto guardarla da lontano per un periodo imprecisato, sarebbe poi ritornata un giorno e tutto avrebbe ripreso a funzionare come al solito. Così era nei nuovi piani.

E con Girodelle, una volta soli nell’ufficio, era stata chiara: aggiornamenti regolari su tutto, da inviarle a palazzo oppure ovunque gli avesse scritto di essere. Non avrebbe dovuto saltare un giorno, ogni singolo avvenimento le sarebbe dovuto giungere nel più breve tempo possibile. Ché non esistevano ragioni per cui non potesse rimanere informata. Perfino sulla guerra. Anzi, a maggior ragione sulla guerra.

Ma soprattutto, arrivò lo schiaffo. Quello che fece vibrare anche i vetri. Quello che le lasciò il segno sulla guancia.

Diretto in faccia.

La pelle bruciò al contatto con la mano.

La faccia seguì il movimento, ma l’espressione era fissa. Se l’aspettava.

Ma fece male ugualmente.

Lo schiaffo che quasi la fece cadere.

Lo schiaffo che la condannò a peccatrice, una squallida traditrice. Una meretrice di infimo ordine. Ben peggiore di quelle che si comprano per poche monete nei bordelli. Quelli sarebbero stati la sua nuova casa, solo quelli. Che non c’era posto per una come lei sotto il tetto di una rispettosa famiglia nobile come la loro devota alla famiglia reale.

Non era lì che da pochi minuti. Gli era parso inusuale trovare il suo cavallo nelle scuderie a metà settimana. Ma il generale era un uomo pragmatico: si era detto che doveva aver avuto un buon motivo per averlo lasciato lì.

Era entrato in casa, sua moglie era già nei suoi appartamenti per potersi cambiare e riposare dal viaggio. Il valletto alla porta lo aveva salutato, poi era stata la volta dei camerieri e delle cameriere e infine della governante. Si era stranito. C’era un velo di agitazione nel suo sguardo. Quella donna era l’unica ad avere il permesso di sgridare perfino lui, il padrone, cosa diavolo le passava per la testa adesso?

Per la testa le passava che la decisione a cui Oscar era giunta comprendeva parlargli di persona, il giorno stesso del suo ritorno, e ora che questo era arrivato non era più sicura fosse stata una buona idea attendere tanto tempo.

- Vado ad avvisare vostra figlia che siete tornato.

- È in casa, dunque?

Si era un po’ perso il procedere dei suoi turni alla reggia negli ultimi mesi. Nelle lettere che si erano inviati non aveva mai fatto menzione di cambiamenti al comando delle Guardie Reali.

Uno sì, per la verità. Un cambiamento lo aveva nominato. Ma non riguardava i suoi soldati. E nemmeno i giorni in cui si sarebbe dovuta recare a Versailles.

Non riguardava niente, in effetti. Non aveva spiegato nei dettagli di cosa si trattasse. Erano state diverse le missive in cui citava una situazione molto importante che le stava permettendo di riconsiderare un po’ tutto. E della quale avrebbe voluto parlargli meglio di persona.

Lui da militare in carriera aveva subito pensato a una promozione. Era cambiata molto quando la regina l’aveva passata di grado, tre anni prima. Più matura, più consapevole. L’aveva fatta crescere quell’esperienza e di certo da quel momento aveva nuove priorità. Chissà per cosa si era distinta per meritarsi un onore simile dopo così poco tempo! Ma perché renderlo partecipe solo una volta rientrato a palazzo, allora?

Da padre aveva riso quando, consultandosi con la moglie, questa gli aveva suggerito che, perché no, potesse essersi trovata un marito. Certo, un po’ strano che questo fantomatico giovanotto non avesse aspettato di chiedere prima a lui, al generale suo padre, la sua mano… E strano anche potesse aver fatto tutto da sola. Non era da lei. Perciò l’ipotesi lo aveva divertito ed era stata accantonata. Tanto più che si trattava di un soldato “anomalo”, per così dire, perché nel suo caso sposarsi equivaleva ad abbandonare la carriera e non lo avrebbe mai fatto. Ne era certo.

Si era diretto verso le sue stanze a passi lunghi. Qualcosa di insolito doveva esserci, se la cameriera appena uscita si era affrettata a bussare di nuovo e rientrare un momento. Un breve inchino al suo cospetto e poi la ragazza si era dileguata, che non voleva finire in mezzo a caos che stava per scatenarsi.

Aveva aperto l’uscio senza chiedere permesso. Era in piedi davanti alla finestra Oscar e lo guardava con espressione seria. Non muoveva un muscolo, anche se suo padre si stava avvicinando – che non era sicuro i suoi occhi gli stessero dicendo la verità.

Ma sì, quella era decisamente la verità. La situazione che le stava dando modo di riconsiderare un po’ tutto e di cui avrebbe voluto parlargli meglio di persona.

Si vedeva da sotto la camicia quel tanto che gli diede la conferma.

Lo schiaffo arrivò proprio in quell’esatto momento. Volò sul suo viso come non era mai accaduto, a dispetto dei numerosi precedenti.

La fece barcollare e per evitare che cadesse le afferrò un bracciò e se la portò con sé nel suo studio. In una pioggia di improperi che causò la totale sparizione di qualsiasi membro sella servitù fosse nei paraggi.

Glieli disse tutti, il signor generale. Uno dopo l’altro. Senza prendere fiato.

- Ti rendi conto di ciò che hai fatto? - Lo chiese due volte, alzando la voce, nel caso non lo avesse udito bene a tre passi di distanza. - Con la tua condotta immorale hai infangato il nome della nostra famiglia!

La costrinse a ritenersi molto fortunata, perché se lo avesse scoperto prima l’avrebbe cancellata lui quella colpa tanto invisibile e comunque ripugnante. E lei con essa. Ma così… Oramai era troppo tardi per tutto, anche per mettere fine nel peggiore dei modi a quella vergogna. Compreso a se stesso.

- E sei andata a Versailles in… queste condizioni? Tu ti sei fatta vedere… così da qualcuno? E magari avrai anche incontrato le loro Maestà…!

Oscar lo guardava e il suo volto sembrava scolpito nel marmo. Immobile.

- Sì, padre. Ho continuato a svolgere il mio dovere…

Un altro schiaffo che la interruppe. Un secondo segno sulla guancia.

- Il tuo dovere è quello di proteggere la famiglia reale, non di finire nei letti di tutta Parigi!

Al diavolo che era sua figlia! Se le meritava quelle insinuazioni, quegli insulti! Uno per uno.

- Padre, permettetemi…

- Io ti ho già permesso abbastanza e guarda in che guaio ti sei cacciata! - Le puntò l’indice al volto, gli occhi fissi nei suoi. - È da quando sei nata che devo intervenire per risolvere problemi legati a te! Prima la tua educazione, poi il tradimento per esserti rifiutata di duellare davanti al re… Come pensi che io possa sistemare ciò che hai fatto adesso?

- Voi non dovete sistemare alcunché, padre.

- Io non… Oscar, sei impazzita forse? Peggio di questo c’è solo il tradimento e tu ti sei già macchiata anche di quello! È tutto inutile con te!

Sbatté un pugno sulla scrivania e gli oggetti appoggiati sopra tremarono. I suoi occhi azzurri parevano ora di fuoco mentre guardavano la sua colpa attraverso la stoffa bianca della camicia e scuoteva la testa.

Negava a se stesso di trovarsi in quella situazione davvero. Era un incubo dal quale non riusciva a svegliarsi.

Si avvicinò alla finestra dandole le spalle, che di vederla ancora non aveva la minima intenzione. La voce, quella era ancora irata e fragorosa.

- Quanto tempo fa hai deciso di guastare la reputazione del tuo intero casato?

Avrebbe voluto puntualizzare lei, se la sua vita non fosse dipesa dal silenzio con cui affrontava la situazione. - Dicembre.

Il generale si voltò, come se la rivelazione dei mesi passati peggiorasse in qualche modo la sua posizione. - Dicembre? Tu ti sei… rovinata alle mie spalle mentre io ero ancora a palazzo? - Alzò ancora la voce. - Rispondimi!

Oscar annuì, che di menzogne non ce n’era davvero bisogno.

- Traditrice! Vedi di mettere al mondo un maschio almeno, perché se per caso si dovesse trattare di una femmina spedisco te in un convento e quella creatura in un orfanotrofio. Mi hai sentito bene?

Lei deglutì. Non tanto per la fine a cui sarebbe stata costretta, ma per l’ennesima responsabilità di cui veniva investita e per la quale non credeva di avere mezzi per affrontarla. Perché non ce li aveva. Non li aveva mai avuti nessuno.

- Padre, comprendo che non ci siano parole per ciò che è successo…

- Che hai fatto, vorrai dire!

- … Ma permettetemi di spiegarvi.

Lui la interruppe alzando una mano. Terribilmente identici quando si arrabbiavano. – Non c’è niente da spiegare. Tu ti sei comportata come la stupida che sei e questo è quanto. Ci saranno già migliaia di pettegolezzi in giro sul tuo conto. Né io né tua madre potremo recarci a corte senza essere derisi. Te ne rendi conto?!

- Vi assicuro che il peggio l’ho subito io fino a questa mattina.

- Te lo sei meritata! - Tuonò che parve un temporale fosse scoppiato nella stanza. -D’ora in poi seguirai alla lettera tutto ciò che ti dirò e non ti azzarderai a fiatare.

- Sì, padre.

- Per prima cosa esigo che tu ti rechi dalle loro Maestà e implori perdono. Oltre alla tua famiglia, ti sei comportata in modo increscioso davanti al re e alla regina!

- Non è possibile, padre.

Il generale la guardò sconcertato. Com’era possibile che ogni minuto crollasse un pezzo di montagna in più?

Oscar tentò di spiegarsi. - La regina sa già tutto e ha informato il re. Hanno convenuto nel concedermi un periodo di congedo, finché ce ne sarà bisogno. Oggi è il primo giorno.

Suo padre era incapace di rispondere. Le parole gli arrivavano prive di significato.

- Ho già ringraziato a dovere per la magnanimità, non dovete preoccuparvi.

- Io mi preoccupo eccome, invece! Sei un ufficiale delle Guardie Reali, hai un ruolo e non puoi permetterti di rimanere lontana dalla reggia per tanto tempo!

Mentre la figlia abbassava per un secondo lo sguardo, gli venne in mente una questione fondamentale. Non gliela aveva ancora chiesta, ma non poteva di certo ignorarla. La risposta a quella domanda conteneva in sé la sorte che le sarebbe toccata questa volta. Sempre per mano sua.

- Sarà necessario ricorrere a un matrimonio lampo che dia un senso alle sciocchezze che hai fatto in mia assenza.

- Anche questo sarà impossibile, padre.

Il generale sgranò gli occhi. Tornò rapidissimo da lei. Il volto cambiò colore più volte in reazione alle sue parole. Che qualsiasi cosa sottintendessero l’avrebbe strozzata con le sue mani prima ancora di finire il discorso.

- Cosa significa tutto questo?

- La vostra soluzione è impraticabile…

Non glielo fece dire che lo era al momento. Anche perché, lei lo sapeva, lo sarebbe stato per sempre.

A lui soltanto un’idea venne. L’unica conclusione possibile nel suo ordine del mondo. Che se la figlia di una nobile famiglia non poteva rimediare al guaio compiuto, il motivo era uno soltanto. E quel guaio lo aveva compiuto con uno del popolo.

Si affrettò alla porta, corse fuori e dalla balaustra del mezzanino interno chiamò un nome a gran voce. Chiese di essere raggiunto immediatamente e quello si palesò sulle scale in meno di un minuto.

Trafelato, salì i gradini veloce. Quando arrivò nell’ufficio e vide Oscar con la guancia rossa, André trasalì.

Si voltò a cercare lo sguardo del suo padrone e in un baleno lo schiaffo arrivò anche a lui. Se lo prese così forte che per un istante credette di aver perso i sensi.

Sbatté le palpebre e tutti erano ancora lì. Lei immobile alla sua destra, il generale davanti a sé e aveva tutta l’aria di non volersi fermare a quella dimostrazione di supremazia.

- Sei un lurido traditore anche tu!

L’altro era adesso a un palmo dalla sua faccia. E pur essendo adesso più basso, lo squadrava con ira. Il suo vantaggio risiedeva in ben altro.

- Signore, io non…

- Taci!

Ancora uno schiaffo. - Io ti ho messo al suo fianco perché la proteggessi, non per metterla nei guai in questo modo!

André provò a difendersi dall’accusa, l’ennesima, che riceveva in merito. E le sopportava tutte, perché la verità era peggiore e acconsentiva tacitamente quando serviva a salvare almeno in piccola parte Oscar.

Il figlio del peccato con il proprio attendente era uno scandalo ma prevedibile. Con il favorito della regina un tradimento vero e proprio a ogni singola regola morale.

- Ti do un’ora per prendere i tuoi effetti personali e levarti di torno.

Oscar si mise in mezzo. Non poteva sopportare quell’ordine senza senso in silenzio. Non era responsabilità sua e non doveva andarsene.

Lo ripeté per la centesima volta che André non c’entrava. Come ripeté che non erano costretti a stare insieme tutte le ore del giorno.

Ad un tratto ebbe una strana sensazione. Come un fastidio dall’interno, un colpo morbido ma tenace.

Non adesso, ti scongiuro.

Alla domanda su chi fosse allora il… responsabile – che proprio non riusciva a dirla quell’altra parola – e perché non potesse sposarlo, lei si trovò per la prima volta a doverla esternare la realtà dei fatti.

- È in America, padre. Sta combattendo con il contingente francese.

Il generale la afferrò per le spalle.

Un nuovo fastidio, il secondo. Strinse i pugni. Il suo viso tradì una smorfia di disappunto che l’amico riconobbe.

Provò ad avvicinarsi, ma lo sguardo iracondo dell’uomo lo fermò.

- Come sarebbe a dire in America? Stai per avere un figlio da qualcuno che potrebbe morire in ogni momento?

Oscar annuì. Era già pronta a un’altra mano del padre stampava sul volto. L’istinto di sopravvivenza stranamente la spinse indietro invece di aspettarlo e finì addosso ad André.

- Chi diavolo è quest’uomo?! – Lo urlò e i vetri tremarono di nuovo.

- Il conte…

Alzò una mano. Non le diede modo di concludere. Che di conte a lei vicino uno ce n’era e uno bastava.

Il generale mise insieme i pezzi del mosaico. Nel suo complesso, l’immagine era ancora più terrificante. Sarebbe nato un bambino senza padre intorno, senza una famiglia legittima unita dal matrimonio. Inoltre, nelle sue vene sarebbe scorso sangue non del tutto francese. Un bambino a metà, sorretto da cose che erano e non erano allo stesso tempo. Senza cognome, ché prendere quello della madre era solo una soluzione di convenienza, ma con uno che gli avrebbe comunque garantito di vivere in società. Nobile, nobilissimo, ma illegittimo. Già graziato dalla magnanimità di una regina tradita alle spalle. E nel peggiore dei modi.

Non voleva più vederla sua figlia. La disgrazia del casato. In altre circostanze l’avrebbe picchiata, come era già successo, e la medesima sorte sarebbe toccata anche al suo attendente. Una per essere stata leggera e sconsiderata. L’altro per aver mancato al proprio dovere.

Non voleva vedere nemmeno lui. Ma se li avesse spediti entrambi lontani insieme quei due sarebbe stato peggio.

Tornò alla figlia. La guardò severo e in un istante diede il verdetto.

- Te ne andrai in Normandia finché non avrò preso una decisione definitiva su di te e il… il bambino. - Poi le sibilò: - E ti ripeto: vedi di partorire un maschio. Non ne posso più di femmine in questa casa.

Oscar lo osservava muta. Compressa tra quel fastidio continuo e il pensiero di non avere altre possibilità per sopravvivere davvero che accontentarlo.

Il generale uscì furibondo dallo studio.

Loro due rimasero nella stanza. Si guardarono, ma non aggiunsero altro. Non era il momento. Glielo avrebbe detto il prima possibile che lo aveva sentito muoversi suo figlio.

Madame Jarjayes arrivò all’improvviso. Ce l’aveva mandata suo marito a scoprire cos’avesse combinato quella stupida. Lei era corsa e se li era trovati entrambi davanti, con il viso rosso per metà.

Cominciò a versare litri di lacrime nel vedere sua figlia. L’abbracciò. Le chiese perdono per non esserci stata, per non averle insegnato. Avrebbe dovuto capirlo, una buona madre deve sempre anticipare le proprie figlie.

- Non avete di che rimproverarvi.

Oscar inaspettatamente si lasciò stringere un poco, mentre l’amico se ne andava e tornava al piano di sotto.

Si sentiva chiara e forte la voce del signor generale. Impartiva ordini a destra e a manca. Pretendeva che tutto venisse predisposto per la partenza di sua figlia, non più tardi di una settimana.



Il martedì dopo, puntuale, la carrozza aspettava nel giardino di palazzo Jarjayes. Carica di bagagli, anticipata di un giorno da alcuni membri della servitù. Avrebbe viaggiato un valletto insieme a Oscar. Il generale aveva deciso così.

Finché non fosse stato pienamente convinto che non aveva responsabilità, André poteva soltanto scriverle e accompagnare sua nonna per controllare che tutto andasse bene un paio di giorni ogni mese. Lo voleva sempre a portata di mano, il signor generale. E tante grazie che non leggeva la loro corrispondenza!

L’uomo si rifiutò perfino di salutare la propria figlia. Un congedo veloce, per educazione. Poi fu lei a togliere il disturbo, che tanto suo padre non alzava gli occhi dalle carte sulla scrivania.

Scese le scale. La nonna la aspettava davanti alla porta. Piangeva, povera donna, ché una ragazza nel suo stato non poteva affrontare un viaggio così lungo da sola e chissà cosa le sarebbe successo!

Oscar le circondò le spalle con un braccio e le sorrise. Non aveva di che preoccuparsi, non era da sola e aveva tutto ciò che potesse necessitare.

- Ci vedremo presto! - La rassicurò lei stringendo appena la manica del suo abito violetto.

Marie annuì asciugandosi il naso con un fazzoletto ricamato. - Non stancarti troppo. - Sarà stata la quarta volta che glielo diceva in poco tempo. - E mangia! Che siete in due e sei ancora pelle e ossa…

- Credo se lo ricordi, sai? - S’intromise André aprendo l’uscio. Che di lacrime ce n’erano state già abbastanza.

Oscar rise. Sulla soglia il profumo dei tigli volava nell’aria. Sarebbe stato sostituito dalla salsedine in pochi giorni, cercò si conservarne un po’ per ricordarsi di casa.

Salutò la madre che aspettava paziente il suo turno. Le promise di scriverle e di fare attenzione. Non le era mai sembrata così vicina come in quel momento. Chissà come doveva essere crescere con una madre accanto e poterle parlare di tutto e avere conforto da lei…

Si avvicinò alla scaletta della carrozza e alzò lo sguardo. Osservava la sua partenza il generale. A braccia dietro la schiena e volto scuro.

Era stato molto generoso. Aveva risparmiato entrambi. Ma aveva posto delle condizioni. Sarebbe diventato un soldato, se fosse stato maschio. In realtà, dava per scontato che lo fosse. Non accettava l’alternativa nemmeno nel pensiero. Una carriera militare di tutto rispetto. In accademia anche lui, ma prima precettori e maestri a casa, fin da bambino. Esattamente come la madre. Ad ogni costo. E anche fosse stata una femmina – Dio non voglia! – in nessun caso avrebbe mai dovuto chiamarla in altri modi se non per nome.

Entrò nella vettura Oscar e si sedette mentre André le chiudeva la porta. Dall’altro lato, il valletto si accingeva a mettersi fronte a lei.

- Sai cos’è successo una settimana fa, quando tu non c’eri? - L’amico cercava di rendere il distacco meno duro. Lo aveva fatto anche dodici anni prima, quando si sarebbero dovuti dividere per farla studiare in accademia militare.

Lei rifletté per ricordare di quale giorno parlasse e dove fosse invece che lì con loro. Scosse la testa.

Lui le si avvicinò come a confidarle un segreto, ma non riusciva a stare serio.

- La nonna mi ha usato davvero per prendere le misure dei pantaloni per te.

Scoppiarono a ridere insieme.

- Ero bloccato in cucina, non potevo scappare via che lei mi rimproverava! Allora le ho chiesto se fosse sicura, a occhio e croce direi che saremo diversi comunque, ma non voleva sentire ragioni. Quando ha tirato fuori gli spilli ho avuto seriamente paura per la mia incolumità.

Non sapeva cosa la divertisse di più: l’idea di André imprigionato tra le stoffe, la nonna che gli avrà impedito perfino di respirare o se stessa con addosso indumenti cuciti su di lui che chissà come le sarebbero stati.

- Non farla impazzire, per favore. - Gli rispose ancora divertita. Sfiorò la sua mano appoggiata sul bordo inferiore della finestra, ma si ritirò subito.

André sospirò con sarcasmo. - Vedrò cosa posso fare… Sempre che non ci pensi prima lei!

Le sorrise per infonderle un po’ di coraggio. Ma lo sapeva quanto lo fosse lei. Lo era sempre stata, più di lui. Indomita. Ora lo sarebbe dovuta essere da lontano, ma non lo avrebbe deluso.

Ci vediamo a giugno. Se lo dissero con gli occhi, nel silenzio dei passeri che cinguettavano tutto intorno.

Le donne dalla porta diedero a quei due un’ultima occhiata prima di andare.

In fondo al cuore, ma proprio in fondo dove nessuno arrivava, c’era ancora una speranza. Che avessero mentito per proteggersi l’un l’altra. Erano sempre stati esperti nella menzogna. Perché se davvero era come aveva assicurato Oscar e il responsabile era quell’uomo lontano e proibito…


Note: grazie per la lettura e per l’attesa. Occorre una precisazione sulla linea temporale e gli avvenimenti. Nel capitolo precedente ho scritto che Rosalie è già andata via da palazzo Jarjayes e addirittura anche via dai Polignac. Ricordiamoci sempre che si tratta di un alternate universe e che le sviste che prendo nel frattempo verranno risolte. Non preoccupatevi!

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***


Capitolo 7
I mesi in Normandia, nel tepore della tarda primavera e dell’estate, erano trascorsi lenti. L’esatto opposto di quanto non avesse fatto il tempo da quella sera di febbraio fino a maggio. Troppo veloce all’epoca. Troppo calmo adesso.

All’inizio provava ad allenarsi da sola con la spada. Un pochino ogni giorno, piano. Soltanto i movimenti del braccio, per non perdere l’abitudine. Finché non era arrivato il momento in cui si era stancata presto e all’arma aveva detto arrivederci a qualche mese. E poi senza avversario era noioso.

C’erano state tante passeggiate sulla spiaggia. Soprattutto la mattina. E anche in paese, dove gli abitanti delle terre di suo padre continuavano a chiamarla conte e si fermavano per porle i loro omaggi. Si congratulavano, talvolta le portavano regali – ciò che potevano permettersi di quei tempi, s’intende. Lei lo vedeva in che condizioni versavano tutti e li accettava solo dopo lunghe trattative, perché gli altri minacciavano di offendersi. Si sentiva inaspettatamente amata da quelle persone.

Sempre accompagnata da qualcuno. Una cameriera, un valletto. La nonna (più del generale) era stata perentoria. La sua bambina non doveva mai stare da sola. Che non si sa mai…

- Non mi portano via, stai tranquilla.

- Potresti stare male! O cadere!

- Nonna, io credo che Oscar sappia camminare ormai…

- Stai zitto tu, cosa vuoi saperne!

C’erano state anche tante letture. Infinite. Alla ricerca di diversivi, di intrattenimento di sorta. Un pomeriggio si era perfino recata nella biblioteca del paese, quella dentro il seminario. Il religioso non l’aveva riconosciuta subito, che l’ultima volta era una bambina con i capelli corti e le guance rotonde. Non sapeva neanche lei cosa cercasse. Aveva tirato fuori un libro a caso, nello scaffale della letteratura straniera. Lo aveva aperto senza darci troppa attenzione.

- Conoscete lo svedese?

- No. Voi?

- Piuttosto bene. Avete preso una raccolta di poesie.

- Come ci è arrivato un libro di poesie svedesi in un posto così remoto?

- Donazione di un nobile che ha girato per l’Europa.

- … Posso chiedervi il nome?

- Non saprei dirvi, dovrei guardare nell’archivio. Ma un uomo del posto.

Un po’ ci aveva sperato.

Da quella sera in cui aveva bruciato la lettera non poteva dire di aver smesso di pensarlo. Era impossibile, chiaro. Ma si era impegnata a combattere l’idea il più possibile.

Nelle settimane che erano passate, in Normandia, lei non si era mai ritrovata nei discorsi delle dame che ricordava di aver ascoltato attraversando i corridoi della reggia. Cercava un appiglio, un modo per non sentirsi ancora una volta in una situazione che viveva in esclusiva. No, in un’esperienza le pareva di rivedersi. Quelle donne erano sole. I loro mariti non si curavano di loro. Una volta fatto il proprio dovere si sentivano di non aver più altro di che interessarsi.

Ma lei un marito neanche ce l’aveva! Non che lo volesse… E non poteva sapere con certezza se anche il padre del suo bambino fosse così. Forse sì, forse no. Per come lo conosceva avrebbe giurato di no. Ma avrebbe anche giurato che non aveva testa che per la regina, invece…

Ciò che Oscar aveva era André. Lui sopperiva a tutte le mancanze. Anche da lontano. Le scriveva talmente spesso e talmente tante pagine di volta in volta che era come averlo accanto.

E le voleva bene. Un bene sincero, profondo, antico come il mondo. Questo non l’avevano le nobildonne di Versailles. Avevano tutto il resto, ma non lui.

Aveva avuto modo e tempo di pensare, per una volta. A fondo. Si era accorta che non ricordava come fossero le sue giornate senza André. E sì che era abbastanza grande per averne memoria. Era legata a lui da un affetto che non riusciva nemmeno a spiegare a se stessa. Era così. Naturale.

Di nuovo il calore del suo abbraccio nelle cucine quando ci pensava.

Ogni venticinque del mese, la carrozza arrivava alla villa in Normandia e rimaneva per tre o quattro giorni. E una parte dell’atmosfera di casa giungeva fino a lì. Quella più caotica, ma anche la sua preferita. La nonna che si accigliava perché nulla era come diceva lei, che andava dalla levatrice del paese e poi dalla nutrice per prendere accordi e solo lei poteva farlo (perché sapeva e conosceva i metodi). E dal dottore (conosceva anche lui), che dalla sua viva voce le cose erano diverse e al generale doveva riferire la verità dei fatti.

Le passeggiate con André erano più divertenti, anche se non potevano andare a cavallo. Lui le raccontava ciò che riusciva a scoprire da Versailles, quando andava per riportare sua madre a palazzo. In quei mesi la contessa Di Polignac avrà garantito cariche prestigiose a talmente tanti parenti e amici… E la regina continuava a isolarsi dalla corte, perfino i balli e le feste parevano un vecchio ricordo. Era davvero circondata solo dagli amici più stretti. Chiedeva spesso di lei, di Oscar, e le mandava i suoi saluti tramite Madame.

Poi una sera, seduti al tavolino al centro del balcone che dava sul mare, a Oscar era venuto in mente che finalmente qualcosa era successo. Poteva contraccambiare, per una volta.

- Ho scelto il nome, sai?

André si era illuminato nonostante fosse buio e l’unica luce provenisse dal doppiere accanto a loro. - Entrambi?

- Solo uno, però lo voglio adottare in ogni caso. Ti piace Frans?

L’altro ci aveva pensato su un secondo. Frans. Breve, ma esaustivo. Annuì.

- È svedese. Me lo ha suggerito padre Pierre, della biblioteca del seminario.

Quante informazioni tutte in una volta!

- Lo sapevo! La noia ti ha dato alla testa e hai deciso di prendere i voti.

Oscar aveva riso e André se l’era sentita dentro la sua risata. Il suo cuore aveva fatto da cassa di risonanza e si era espansa ovunque in lui. Se solo avesse saputo cosa poteva generare, quanto grande si facesse il proprio sentimento quando lei era felice.

Gli era chiaro perché avesse scelto un nome svedese. Non glielo aveva chiesto nemmeno il motivo, andava bene così. Era comprensibile. Anche se non poteva negare di aver sentito una morsa allo stomaco. Perché parlarne a voce alta aveva un peso diverso dal sapere la verità ma tenerla in sospeso.

Ma anche ne avesse scelto un altro, la realtà dei fatti non sarebbe cambiata. Quel bambino era figlio del conte e nessuno lo avrebbe mai dimenticato. Anche se non se ne parlava. Gli sarebbe più o meno somigliato e tanto bastava.

Non aveva neanche alcun diritto di recriminarle nulla. Era la sua vita e Oscar era libera di fare ciò che preferiva. Anche avere un figlio da un altro uomo, che chissà se sarebbe mai tornato dall’America.

Ma lui, André, gli avrebbe voluto bene comunque. Ai propri occhi non esisteva nulla che provenisse da Oscar che fosse davvero così sbagliato. Men che meno un bambino.

A dispetto di come il generale continuava ad appellarlo. Nei momenti in cui sentiva di volerci spendere due parole, queste erano solo negative. Ma il pensiero che lo teneva sveglio la notte, più dei pettegolezzi di palazzo, era un altro. L’uomo non voleva un’altra femmina sotto il suo tetto. Nel modo più assoluto. Per di più illegittima!

André lo nascondeva a Oscar, sempre. E anche se lei stessa poteva immaginarlo, non era il caso di dirglielo.

Ma quella sera glielo aveva domandato lei. Si sentiva forte abbastanza per affrontare anche quell’ennesimo ostacolo.

- Non credo tu voglia davvero saperlo. - Aveva cercato di essere il più franco possibile.

- Invece è proprio quello che ti ho chiesto. Devi essere sincero.

Aveva sospirato e abbassato gli occhi, mentre lei guardava il mare scuro al loro fianco.

- Tuo padre non vuole raggiungerti finché non saprà se è un maschio o una femmina. E pertanto non vuole neanche che tua madre venga qui.

- Mi ha esiliata, dunque.

Le tempie avevano ripreso a pulsare. Ma della verità non aveva mai avuto paura e questo era l’unico appiglio per non tornare allo stato in cui si sentiva a febbraio.

 - Mi dispiace.

- Non devi, non c’entri niente tu.

Un esilio lungo, il suo. Che le aveva cambiato le abitudini e il modo in cui guardava il mondo. Le madri del paese erano diventate davvero l’unico esempio diretto da cui potesse imparare. Le aveva studiate da lontano, passeggiando. Le erano sembrate così amorevoli e piene di attenzioni, anche quando dovevano rimproverare i loro piccoli. Era tornata a chiedersi se ne sarebbe stata davvero capace. Se i dubbi a cui non trovava soluzioni nelle risposte della nonna si sarebbero dissolti con la pratica. E se ci sarebbe potuta tornare a casa propria. Quello desiderava di più al mondo. Rientrare all’Île de France insieme, loro due, per conoscersi, riprendere a guidare i soldati della Guardia, proteggere la regina.



Il tempo di avere risposte non si fece più attendere. Anche se avrebbe dovuto. La sera del 25 agosto, proprio a poche ore dall’arrivo della carrozza da palazzo Jarjayes.

La giovane donna lo guardava di sbieco, un po’ assonnata data l’ora in cui era stata buttata giù dal letto. Ma c’era bisogno di lei. Urgente. Lo guardava e tratteneva un sorriso.

Sono sempre così gli uomini al primo bambino. Sarebbero capaci di bucarlo il pavimento a furia di andare avanti e indietro per la stanza.

Ne aveva visti diversi in quelle condizioni, nonostante la giovane età. Nobili, plebei… E lui non era da meno.

Attendevano entrambi nel salottino del piano superiore, ma da ore ormai non sembravano arrivare notizie. Capitava ogni tanto Marie con un catino di ceramica vuoto e andava a riempirlo, rifiutando altro aiuto. Ma non si sbilanciava a dire niente.

Dunque lui tornava nel territorio dove era stato confinato insieme alla donna e riprendeva a contare quanti passi distanziassero due muri opposti.

- Sapete, monsieur, è la terza volta che percorrete quella parete. La lunghezza non è cambiata. - Sorrise della sua agitazione, ma un po’ lo capiva.

L’altro si sedette.

Osservava maniacalmente le lancette dell’orologio. Gli sembrava che il tempo non passasse mai.

Incrociò le braccia e cominciò a muovere una gamba. Gli bastò poco per infastidirsi da solo e fermarsi.

Lei gli toccò il braccio con una mano. - Non vi preoccupate, madame Rose è una levatrice esperta. Ha aiutato moltissime donne, sa il fatto suo.

Le annuì poco convinto.

Che quella signora di mezza età con i capelli ricci raccolti in uno chignon veloce fosse capace non lo metteva in dubbio. Ma era pur sempre stato chiamato il dottore in tutta fretta. E mancava ancora un mese, da quanto aveva prospettato Lassonne prima di partire per la Normandia.

- È il vostro primo…?

- Uhm… - Non sapeva neanche lui come rispondere a quella domanda. Non era certo suo figlio, ma non aveva mai assistito a un parto. Anche se non stava assistendo. Tutto stava avvenendo a due porte di distanza. Ma era come se fosse lì. –Sì. Cioè no no, non è…

- Non vi capisco, monsieur. Voi non siete il conte? – Poco avvezza com’era delle cose del mondo, a Marguerite ogni uomo ben vestito pareva nobile.

Un grido li interruppe.

- Voilà il conte.

André si asciugò la fronte con una manica della camicia. Possibile che sentissero soltanto quello e nessuno li informasse di niente?

Si voltò a guardarla. Doveva averla sconvolta.

- Il conte è una donna. Io sono il suo attendente.

- La contessa, quindi?

- No, il conte. Ma puoi chiamarla madamigella, lo fanno tutti.

La ragazza lo osservava perplessa. Si strinse nelle spalle. Lei era lì per altro, chiunque fosse l’identità della partoriente. E comunque non aveva idea di cosa fosse un attendente.

Una cameriera uscì veloce verso le scale. Quando la vide passare, André si alzò e si avvicinò circospetto al riflesso lungo della luce che spuntava sul pavimento dalla camera.

La porta era rimasta semichiusa, guardò dentro appoggiato al muro. C’era sempre qualcuno in prospettiva davanti, ma riuscì a scorgerla.

Sdraiata tra le lenzuola, il viso madido di sudore e arrossato. Tutti le ripetevano cosa fare, di respirare e spingere in particolar modo. Ogni tanto qualcuno le asciugava la fronte. La nonna le teneva la mano.

Doveva averlo visto Oscar mentre ricadeva sul cuscino stremata. Gli sembrava gli avesse sorriso per salutarlo, poi Marie si voltò e corse verso di lui. Si fermò a metà tra lo stipite e la porta.

- Non è posto per te questo. Fila via!

Sbatté l’uscio.

André riprese il proprio posto sulla sedia nel salottino. La ragazza lo seguiva scuotendo la testa.

- Quanti anni avete?

- Venticinque… - Lesse di nuovo l’ora. - Tra venti minuti.

- Oh, ma che gioia! - Lei gli sorrise. Un sorriso luminoso e sincero. - Non siete poi tanto più grande di me, allora…

- Quanti ne hai?

- Ventuno.

André studiò un secondo il suo viso. Era sorpreso. Non gliene avrebbe dati più di sedici.

- A maggior ragione non darmi del voi, va bene? - Le sorrise. Un sorriso teso e agitato, come d’altronde era lui. - Quanti figli hai?

- Due, mon…

- André. È il mio nome.

- Io mi chiamo Marguerite.

Tanto valeva presentarsi. Che si sarebbero dovuti incontrare ancora nel futuro prossimo.

- Pensavo che non sarei servita fino al mese prossimo…

- Lo pensavamo tutti, ma c’è chi ha fretta.

Se tanto mi dà tanto, so da chi ha preso…

Erano arrivati da poche ore, appena dopo cena, lui e la nonna. Oscar da qualche giorno lamentava fastidi, perciò l’anziana signora l’aveva mandata in camera a riposarsi. E a metà del corridoio il dolore all’improvviso era divenuto più acuto.

Il medico era stato intransigente. A ogni ora del giorno e della notte, se fosse peggiorato avrebbero dovuto avvisarlo. E chiamare la levatrice, perché ne avrebbero avuto sicuramente bisogno.

Per non tenersi il nipote tra i piedi (ché ce l’aveva scritto in faccia quanto fosse agitato), Marie lo aveva spedito a casa della balia per portarla a palazzo. Sarebbe nato di lì a poco quel bambino, era chiaro, e avrebbe dovuto nutrirlo.

Si affacciò alla porta del salottino la nonna, inaspettata. Si alzarono entrambi gli altri due, ma la ragazza venne invitata a sedersi di nuovo. Tornò nel corridoio, seguita da André che non capiva se dovesse preoccuparsi oppure no.

- Ora tu devi metterti qui - indicò un punto nel nulla a un passo dalla porta socchiusa - e risponderle quando ti chiama. Non entrare per nessun motivo!

Non le conosceva bene quelle situazioni, neanche ci aveva mai pensato. Gli sembrava tutto nuovo e mutevole di secondo in secondo. Era piuttosto confuso dal comportamento di chiunque. Ma teneva duro, nonostante lo sentisse bene quanto Oscar stesse soffrendo. Però… a cosa mai serviva lui in mezzo al corridoio? Era certo di non aver mai sentito parlare di una cosa del genere nelle tante volte in cui avevano provato a spiegarglielo.

A un tratto, udì il proprio nome. Oscar lo aveva ripetuto talmente tanto in diciannove anni, in mille modi diversi. Mai, però, così disperata. Perché mai aveva vissuto un’esperienza così definitiva e complessa da sola e impossibilitata ad averlo accanto.

- André, sei qui?

Glielo domandò provando a tirare su di nuovo la maschera del guerriero. Nella fatica c’era ancora l’orgoglio del soldato che le provava tutte prima di arrendersi.

- Sì, sono qui. Va tutto bene, so che ce la farai.

In risposta solo la voce della levatrice che le chiedeva di concentrarsi.

Una cameriera gli passò accanto con una tazza fumante, dall’odore sembrava un’erba medicinale.

Un altro grido.

André fece un passo avanti. La porta gli venne serrata in faccia ancora mentre il dottore chiedeva di aprire bene la finestra e sua nonna lo rispediva nell’altra stanza.

Tornò dalla ragazza. Sul viso l’espressione sconsolata di chi sapeva di non essere stato d’aiuto nonostante la buona volontà.

Anche nel salottino c’era la finestra ancora aperta. E da lì si udivano, lontane, le medesime indicazioni di prima e i lamenti. Ma il suo nome era sparito.

L’orologio suonò la mezzanotte.

- Buon compleanno!

Marguerite gli fece gli auguri con talmente tanta gentilezza, seduta sulla stessa sedia, che André quasi parve stupito dalle sue parole.

Aveva scordato che giorno fosse e, soprattutto, che occasione stesse arrivando.

Ringraziò, ma non collegò subito cosa stava succedendo con il tempo che passava.

Per la prima volta da ore, all’improvviso, un attimo di silenzio.

La risacca del mare, le onde contro gli scogli.

Poi un pianto.

Uno squarcio nella notte.

Una voce stridula ma potente.

- È un maschio!
 

Note: grazie per essere arrivati fino a qui. Lo so, avreste voluto magari quest’ultima scena dal punto di vista della madre. Però mentre scrivevo non potevo non pensare a tutte quelle molto belle che ho letto in altre fanfiction e che, invece di ispirarmi, mi hanno fatto scegliere una soluzione alternativa. Ci sono state due versioni diverse di questo capitolo, dall’inizio alla fine, quindi potrete immaginare quanto ci abbia pensato. Alla fine ho preferito questa, ma non demordete perché tutto torna normale e bilanciato. A presto!
 
P.S.: un grazie a Mareggiata, perché mi ha giustamente fatto notare un calcolo che non tornava (e che non tornava neanche a me mentre scrivevo per la verità, ma non mi sono preoccupata controllare). Ora è corretto anche retroattivamente, vi dovrete rileggere tutto. ;)

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 ***


Capitolo 8
Non era riuscita a udirle le parole della levatrice. Era svenuta prima.


Il dottore le stava ancora premendo il polso, la nonna avvicinando il fazzoletto impregnato di aceto per farla riprendere quando riaprì gli occhi.

La vista era ancora un po’ annebbiata, ma cominciava a capire di nuovo chi e dove fosse. E cosa fosse appena accaduto, soprattutto.

Socchiuse gli occhi per provare a vederci meglio. La finestra era aperta, c’era il mare dall’altra parte. L’aria fresca della notte le soffiava in faccia. Nella stanza una gran confusione. La porta venne dischiusa, se ne accorse, e qualcuno uscì di corsa.

Rientrarono in due.

Era certa ci fosse il rumore dell’acqua da qualche parte intorno a lei. E dei lamenti che perforavano la momentanea nebbia della sua mente.

Chiuse di nuovo le palpebre. Poi le riaprì.

Si sentiva sfinita. Mai in vita sua il corpo le aveva fatto così male. Ma si sentiva anche molto sollevata.

Quando l’udito tornò vigile, quel sollievo per un momento mancò.

- Secondo la mia esperienza, le prime quarantotto ore sono le più importanti.

Il dottore parlava serio, Marie lo ascoltava tenendole ancora la mano.

Avrebbe voluto ribattere Oscar, chiedere perché fosse preoccupato. Che lo capiva lei che non era tranquillo e che nessuno lì dentro lo era.

E perché tutti gli altri bisbigliavano? Cosa le stavano tenendo nascosto?

Voleva sapere! Doveva sapere!

Provò ad aprire le labbra per parlare, ma la voce non uscì.

Alzò la testa dal cuscino per guardarsi intorno ma subito la nonna la fece stendere di nuovo.

- Bisogna tenerlo ben coperto e assicurarsi che il suo corpo non si raffreddi troppo. Quanto alla madre, ha bisogno di riposo. Tanto riposo. Consiglio a tutti di lasciarla un po’ tranquilla.

Era cosciente della stanchezza che aveva addosso. La percepiva tutta. Ma non sopportava quel gioco dal quale la stavano escludendo, nemmeno fosse chissà dove.

I presenti se ne andarono quasi tutti. Solo una rimase nella camera. Sedeva in fondo, su una poltrona accanto allo specchio. Sorreggeva qualcosa, ma era troppo stanca e lontana per vedere bene. Qualcosa di bianco.

- Buonasera, madamigella. Congratulazioni!

Chiunque fosse quella ragazza che cominciava a distinguere soltanto adesso, le parve molto educata. Il secondo dopo, realizzò che doveva essere il proprio bambino quello che teneva l’altra tra le braccia.

Si scosse il tanto che la indebolì di nuovo e dovette tornare a sdraiarsi.

Ebbe la netta sensazione di dover piangere. Senza sapere perché. Doveva liberarsi di un peso che era tornato e forse non se n’era mai andato davvero.

Le mancava tutto. Era svuotata.

Completamente sudata, ma non poteva muoversi per spostare il lenzuolo.

Pensava di star sprofondando nel letto.

- È normale. - La voce gentile della ragazza provò a consolarla. - Anche a me è successo la prima volta, quattro anni fa.

Arrivarono in silenzio le lacrime. Scorsero giù per le guance senza controllo. Libere. Neanche un singhiozzo.

- Voi dovete essere la nutrice…

Non sapeva neanche lei dove avesse ripescato quell’informazione. Si asciugò il viso e finalmente vedeva bene nella stanza.

L’altra annuì e guardò il piccolo. Anche se in penombra, li riconobbe i tratti delicati e i colori chiari. Rimasero da sole finché il bambino non fu sazio.

Oscar dormiva, o almeno tentava. Provava un insieme di troppe cose in contrasto perché riuscisse a calmarsi abbastanza da prendere sonno davvero.

Quando Marie entrò, piena di buone intenzioni, si dovette fermare per non disturbare. Aveva una culla con sé, la posò accanto al letto. Cominciò a rassettare un po’ la stanza, giusto per portarsi avanti col lavoro.

- Non preoccuparti, sono sveglia. - Lo disse piano Oscar, per non spezzare la calma che finalmente sentiva di avere intorno.

La nonna la invitò a riposarsi ancora, ché il dottore era stato categorico. L’altra non l’ascoltò, rimase a seguirla mentre si spostava in giro per la camera.

Finì di piegare un lenzuolo e lo ripose in una cesta di vimini. Si avvicinò alla ragazza riprendendo il fagotto avvolto nelle coperte bianche, poi la congedò al giorno dopo.

- Arrivederci, madamigella. Ci vediamo tra qualche ora. - Sussurrò Marguerite in un breve inchino.

L’anziana signora cullava il suo ennesimo nipotino acquisito con l’amore che aveva sempre avuto per il suo unico di sangue.

Piccolo, che aveva avuto premura e di stare allo stretto non ne aveva avuto più voglia. La pelle ancora arrossata, sbadigliava ed emetteva minuscoli suoni indistinti. Si muoveva a stento, avvolto com’era per rimanere al caldo.

Era incredibilmente simile alla madre. Tanti capelli biondi quanti ne aveva lei appena nata. Perfino l’espressione mentre dormiva era la sua. Sembrava si fosse impegnata per non evidenziare alcuna traccia di quel padre lontano.

Un bellissimo bambino maschio. Il primo da anni.

- Credo tu sia abbastanza in forze da poterlo conoscere ora…

Non si erano ancora incontrati davvero loro due. Otto mesi insieme senza mai vedersi, soltanto avvertendo uno la presenza dell’altra. Lei lo aveva nutrito e cresciuto dentro di sé; lui si era fatto sentire vivo in tutto e per tutto. C’erano stati e ci sarebbero stati per sempre, da questo momento. Loro due di sicuro.

Che ne fosse dell’uomo con cui lo avrebbe dovuto condividere non lo sapeva. Non aveva più ricevuto sue notizie personali, soltanto i resoconti che le arrivavano dalla reggia. Era davvero diventato un fantasma.

Quando le venne adagiato il bambino tra le braccia, Oscar tremò. Perché era felice, come non aveva mai creduto di poter essere in quella situazione. E perché ebbe paura: paura di non essere capace, paura di non riconoscerlo e di non essere riconosciuta, paura di non saperlo tenere.

Era leggero, fragile tanto che temeva di spezzarlo soltanto scostando un po’ la coperta dal petto. C’era davvero un’altra persona adesso con lei e le pareva di conoscerla da tutta la vita. Si lasciò guidare dall’istinto, come sempre.

L’istinto, il suo più fedele alleato. Insieme a…

- Dov’è André?

Oscar lo domandò come se fosse la richiesta più normale del mondo. Doveva presentarglielo.

Non che non si conoscessero abbastanza. Era stato André il primo a cui lo aveva rivelato e il primo a sapere che aveva iniziato a muoversi. Lo aveva salutato sempre nelle lettere e quando era con lei si preoccupava che stessero bene entrambi.

- Ha accompagnato la levatrice e la balia a casa.

L’altra parve delusa dalla risposta di Marie. Percepiva i movimenti frenati del bambino tra le stoffe, lo guardò e poi alzò gli occhi sull’anziana donna e non se la sentì più di trattenere le emozioni.

Belle, brutte. Onde anomale che la colpivano a ogni rivelazione, anche minima. Aggrovigliate come un lunghissimo filo annodato su se stesso. E l’unico che avrebbe potuto aiutarla a cercare di capire dove fosse il bandolo della matassa non era lì.

Lo strinse a sé quel bambino, gli accarezzò piano una guancia mentre sulle sue tornavano le lacrime.

La nonna le passò una mano tra i capelli. Comprendeva il suo stato d’animo ed era ancora debole.

E poi erano sempre stati loro due, insieme, ovunque e in qualsiasi occasione. Ora che la sua vita stava cambiando, André era lontano.

Le propose di nuovo di dormire, finché non fosse tornato. Lei non voleva sentire ragioni. Lo avrebbe aspettato sveglia, che il paese era piccolo e non ci avrebbe messo ancora molto.

- Hai già deciso come chiamarlo? - Le incombenze pratiche preoccupavano Marie tanto quelle emotive.

La porta, socchiusa, in quell’istante si aprì piano con un cigolio.

Apparve nella penombra André, ma nessuno dei due aveva bisogno di luce piena per riconoscere l’altro. Le sorrise e non poté non rimanere colpito dall’immagine di Oscar che lo guardava tenendo in braccio il proprio bambino.

Entrò e rimase accanto al comò. Non ascoltava una parola di quanto gli diceva sua nonna. Avrebbe avuto tutto il tempo più tardi per recuperare le sue indicazioni, che poi erano ordini.

- Allora? - La incalzò Marie prima di uscire. - Come lo chiamiamo?

- Frans. - rispose Oscar. - Frans Auguste, perché è nato nel mese di agosto.



André teneva il piccolo tra le braccia come se pesasse un quintale. Non voleva rischiare di neanche di respirargli troppo addosso. Lui con i neonati non ci aveva mai davvero avuto a che fare, al massimo con i bambini che già parlavano e camminavano da sé.

Frans invece era minuscolo in confronto. C’era tutto un mondo e gli pareva di reggerlo in una mano.

Minuto dopo minuto quel peso si alleggeriva e lui si sentiva più a proprio agio. Gli voleva già bene come fossero stati amici da sempre.

Non poteva crederci che quel momento fosse arrivato. E invece erano tutti e tre lì, in camera, nessuno parlava che le parole erano superflue. Giurò a entrambi, nella mente, che la loro felicità sarebbe arrivata prima di quella di chiunque. Anche della propria.

Lo divertiva il modo in cui Frans si dimenava (o almeno ci provava) tra le coperte.

Ma più di tutto lo incantava la somiglianza con Oscar. La guardò per accertarsene e lei gli sorrise, stanca. Il viso era pressoché identico. Solo le labbra erano un po’ diverse, ma per il resto era lei.

L’altra li osservava ed ebbe un brivido al rendersi conto di cosa le stesse accadendo. Quella sensazione di calore che aveva provato durante l’abbraccio otto mesi prima stava tornando. Nonostante la spossatezza, lottava con il pensiero dell’uomo invisibile, destinato a non andarsene mai davvero. Ma a differenza di quest’ultimo, non le stringeva il cuore e lo stomaco. E non la faceva sentire sola.

Si spaventò di quella personale rivelazione, ma non lo diede a vedere.

- Secondo te mi vede?

- Non credo…

Nessuno dei due sapeva più di quanto Marie e le altre donne a casa avessero mai detto loro in merito e di quello non ricordavano menzione. Si dissero in silenzio che avrebbero imparato insieme, ancora una volta.

André si alzò dal fondo del letto e portò il bambino nella culla. Lo adagiò con cautela, terrorizzato dal poter essere troppo brusco. Gli diede un’ultima occhiata e una carezza e Frans si addormentò.

- Domani partirò per andare ad avvisare tuo padre.

Non voleva spezzare l’incantesimo, ma la realtà bussava.

Oscar scosse la testa. - Manderò qualcun altro...

Si salutarono, sfiniti entrambi per ragioni differenti. Lui era già quasi sulla porta, quando udì ancora il proprio nome. Era risuonato diverse volte dentro quella stanza, le pareti dovevano esserne pregne.

Si voltò da lei, un ultimo sorriso prima di andare a dormire.

- Dimmi, Oscar…

- Grazie.

- E di cosa?

Perché mantieni la promessa. Per esserci e per esserci stato anche da lontano. Per aver risposto quando ti ho chiamato. - Di tutto. Buon compleanno.
 
 
 
Note: facciamo una precisazione linguistica. In francese agosto si dice août. Deriva dal latino Augustus (da cui l’italiano agosto), in onore dell’imperatore Ottaviano Augusto. Voilà. Grazie per essere rimast* fino a qui!

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Capitolo 10
*** Capitolo 9 ***


Capitolo 9
-  Generale Jarjayes! Madame!

Il valletto si precipitò dentro la sala da pranzo, dove sapeva avrebbe trovato i signori all’ora della colazione.

Un rapido inchino al loro cospetto, aveva il fiato corto per la cavalcata. Non poteva permettersi di perdere tempo.

L’uomo lasciò la tazza da tè sul piattino e si alzò di scatto. Sua moglie lo emulò.

- Cos’è successo? Parla!

Lo aveva riconosciuto. Era stato scelto personalmente da lui per andare alla villa in Normandia insieme alla figlia e parte della servitù. E se quel giovane era tornato in tutta fretta, doveva essere successo qualcosa.

- Vostra figlia…

- Cosa le è capitato? - C’era un misto di rabbia e paura nella sua voce e il fiatone dell’altro non faceva che acuirle entrambe. L’avrà anche ricoperta di insulti, maledetta in ogni modo, ma rimaneva sangue del suo sangue e non voleva le succedesse niente di male.

- Vostra figlia ha partorito, signore.

Madame Jarjayes giunse le mani davanti al petto. Si ricordò che era ancora agosto e quando guardò il marito si trovarono entrambi sconcertati.

- Come sarebbe a dire? È troppo presto!

- Un mese prima… Lo so… Ma… c’è un’altra cosa… che dovete sapere…

Il generale lo obbligò a sedersi e bere un bicchiere d’acqua prima di svenire. Aveva già esaurito la pazienza ed erano solo le otto.

- Tre giorni fa, signore… È…

- È…?

- È nato un maschio!

L’uomo guardò di nuovo la moglie.

- Un maschio… - ripeté incredulo. - Un maschio!

Finalmente c’era un maschio con il proprio cognome sotto quel tetto! Un bambino a cui non avrebbe dovuto mentire nessuno su chi fosse davvero.

Di colpo la vergogna venne spazzata via, lavata da un colpo di spugna. Il casato sarebbe proseguito, la dinastia non era più destinata a scomparire con la sua ultima figlia!

Forse non l’avrebbe ancora perdonata del tutto. Doveva comunque provargli di meritare la sua grazia. Però si era impegnata per fare ciò che le aveva chiesto e bisognava dargliene atto.

- Preparatevi, nel pomeriggio si parte.

L’intero viaggio non fece altro che immaginare il futuro del primo vero maschio della famiglia Jarjayes. E lo vedeva già adulto in uniforme da generale, come la propria.

Un altro erede al servizio delle loro maestà, un altro nome insignito dei più alti riconoscimenti.

Quella sconsiderata era riuscita di nuovo a cavarsi fuori da un guaio tutta intera. E nel migliore dei modi.

Non sapeva neanche quale fosse il suo nome, ma per lui era già un militare graduato.

Non conosceva il suo nome. Presi dalla notizia, si erano dimenticati di chiederlo. E il valletto ormai era lontano dalla loro carrozza. Si augurò avesse scelto bene, con criterio. Il prete non l’avrebbe battezzato se le fosse saltato in mente di fare chissà quale altra pazzia. E lui stesso non voleva rovinarsi l’umore pensando a dover rimediare, eventualmente.

La sua mente era un libro aperto per Madame Jarjayes. Era al suo fianco da troppo tempo per non sapere cosa suo marito pensasse. E si era tranquillizzata all’udire le parole del valletto. Non poteva non soffrire alla sola idea di dover rinunciare sia alla figlia che alla nipote, che amava già incondizionatamente dal momento in cui aveva scoperto del suo arrivo. Non si era permessa di sperare che fosse femmina. Non aveva neanche pregato Dio che fosse maschio, però. Gli chiedeva soltanto che le tensioni si distendessero il giusto per tornare a vivere sereni. E che facesse rendere conto al generale che un bambino è una benedizione a prescindere. La dinastia poteva adeguarsi ancora una volta.

Lo vedeva perso nelle riflessioni – già immaginava di cosa si trattasse – e gli posò una mano, leggera, sulla sua. Cosa poteva farci? Era così: quando aveva un pensiero non lo lasciava più andare. Qualsiasi esso fosse. E doveva ammettere che anche la loro ultima figlia non era poi troppo diversa. Aveva solo altri orizzonti, ora più che mai. Com’era giusto che fosse.



- Non lo so, Oscar, forse non gli piaccio. È la seconda camicia che mi bagna…

André pareva sconsolato mentre tornava nel salotto indossando un indumento pulito. Portava un vassoio con una tazza di infuso, l’appoggiò al tavolino davanti alle poltrone.

Oscar rise e seguì la nonna rientrare sulla scena del crimine con il colpevole cambiato e profumato.

- Ha già capito che ti deve tenere d’occhio! - commentò l’anziana.

Le prime quarantotto ore erano trascorse e nessuna delle indicazioni del dottore era stata lasciata da parte. Era stato tenuto al caldo Frans, ben stretto nelle coperte. Il balcone, il giardino e il mare erano stati permessi soltanto dal terzo giorno, iniziando pochi minuti alla volta, perché si potesse abituare alla temperatura esterna. Controllato ogni momento, mai tenuto da solo nemmeno un secondo. E nutrito, tanto, perché il medico ogni giorno si raccomandava di tenerlo bene a mente che il bambino era nato un mese prima e bisognava dargli modo di recuperare. La povera Marguerite avrebbe avuto necessità di qualcuno che l’aiutasse nel gravoso compito. Tanto più che Marie si era già prodigata a informarsi su una seconda balia, per essere certa che tutto procedesse a dovere.

- Ma non posso pensarci io? Sono sua madre.

- Una donna del tuo rango, ma sei impazzita? Comportati come tale almeno per una volta!

Era stata la risposta un po’ a tutto in quei giorni trascorsi in Normandia, fin dall’arrivo. Ma a lei era sempre sembrato di comportarsi come una persona del proprio rango. Fin troppo nell’ultimo periodo, ché non le avevano dato la possibilità di alzare un dito e lei si era indisposta più volte. E per stanca che fosse ancora, non capiva cosa ci fosse di male nel prendersi cura di suo figlio.

Innumerevoli erano state anche le tisane e gli infusi che le venivano serviti. Se ne prospettavano molte anche nel futuro, che le piacessero o meno. Tutte diverse – tutte roventi peraltro e guai a lasciarle raffreddare troppo! La nonna sosteneva strenuamente la loro utilità per potersi riprendere dopo il parto e il dottore le aveva dato manforte.

Quella sera era la volta dell’infuso all’ortica e non c’erano santi in paradiso che la proteggessero: doveva berlo tutto.

- Ma a cosa serve?

André glielo bisbigliò quasi, con circospezione, perché l’altra donna non lo sentisse. Lo avrebbe di sicuro rimproverato di essere troppo polemico.

Le passò la tazza, ebbe cura di farle sapere che era calda nonostante lo sapesse già da sola.

Oscar guardò il liquido di quell’indecifrabile colore e lo avvicinò con cautela alle labbra. - Dice che fa passare il dolore…

- E funziona?

L’altra alzò le spalle e bevve piano. - È comunque meglio del laudano.

Marie non fece in tempo a riprenderli che una delle cameriere entrò nella stanza. Annunciò l’arrivo del valletto mandato a dare la lieta notizia e, subito dopo, quello dei signori.

Oscar posò la tazza e si alzò in piedi, ancora un po’ dolorante ma in forze.

Erano tre mesi ormai che non li vedeva e nonostante tutto (o forse proprio per tutto) ne aveva sentito la mancanza. Perfino del padre. Che comunque li aveva risparmiati e confinati in un esilio “dorato”. Se l’era tolta da davanti agli occhi, per riflettere meglio. Adesso poteva vederla di nuovo.

E infatti quando si ritrovarono uno davanti all’altra furono tante le emozioni e difficili da dosare nell’esprimerle. Ma nessuno dei due avrebbe osato piangere davanti agli altri.

Una preoccupazione che Madame Jarjayes non si pose. Entrò nel salotto e le lacrime sgorgarono spontanee. Prima ancora di capire dove fossero i destinatari delle sue preghiere a Dio. E poi la vide la sua ultima bambina, accanto alla poltrona, corse da lei e l’abbracciò con delicatezza. Sapeva cosa provasse, ci era passata cinque volte!

Il generale si avvicinò a loro. Quando la moglie gli lasciò spazio, pose entrambe le mani sulle spalle della figlia e la guardò fiero negli occhi.

Fiero, sì.

Fiero perché lei aveva scongiurato il peggio.

- Hai fatto un buon lavoro.

Un buon lavoro. Ché ottimo avrebbe presupposto un regolare matrimonio e tante altre cose…

- Grazie, padre.

Erano rimasti loro tre in salotto. E il piccolo Frans, tra le braccia della sua vera nonna, seduta sul divanetto di velluto bordeaux.

La donna lo guardava e non credeva ai suoi occhi. Ne aveva altri di nipoti, certo, ma nessuno assomigliava alla propria figlia come lui.

Marie gli aveva liberato le braccia dalle coperte. Le muoveva scomposto, apriva le mani per afferrare l’aria. Sbadigliava felice. Il ritratto della salute, anche se piccolo.

- Ha il sangue della famiglia Jarjayes, verrà su forte! - sentenziò il generale. Schiarì la voce, che aveva dato sfogo a un po’ troppo entusiasmo per essere il loro primo incontro. - Come hai deciso di chiamarlo?

- Frans Auguste.

Andava così orgogliosa di quel nome. Scelto da lei, lei in persona. La prima grande decisione pensata e supportata solo da se stessa. Il nome di suo figlio.

Il generale aprì lo sguardo su di lei e lo mostrò in tutto il suo azzurro, emozionato. Ripeté ad alta voce, come un annuncio ufficiale: Frans Auguste De Jarjayes.

- Prevedo un grande futuro per lui.

- Grazie, padre. Grazie davvero.



Dovevano certamente prendere confidenza con l’immagine della loro figlia che teneva tra le braccia un bambino così piccolo. E suo. Ma sembrava a entrambi che, nonostante il comprensibile essere e sentirsi impacciata del momento, stesse facendo di tutto per mettersi a proprio agio. Era solo strano sapere che fino a poco tempo prima impugnava una spada o una pistola.

Ma lei lo mise in chiaro fin da subito: sarebbe tornata alla vita per cui aveva sacrificato tanto. Lo doveva al padre e anche a se stessa. Il tempo necessario per riprendersi. Poi si sarebbe comportata come una qualsiasi persona del suo rango insignita di grado militare. Non aveva mai saltato una lettera inviata dal tenente Girodelle, sapeva cosa stesse succedendo a Versailles e a Parigi. Nonostante le rimostranze della madre – e prima ancora quelle della nonna.

Il generale si sentì orgoglioso di udire quei progetti. Perché sapeva che lei non li avrebbe disattesi. Ma non poté non mettersi in pensiero. Se le fosse accaduto qualcosa, come militare ne avrebbe pensato in termini ben diversi che come padre (e nonno). Avrebbe dovuto sostituirla nel crescere il bambino. Anche se nel viaggio aveva già studiato come procedere con la sua educazione. Ma gli sarebbe potuto mancare l’unico genitore presente e lui non avrebbe saputo davvero compensare. Nessuno l’avrebbe fatto.

- André, ricordi cosa ti ho detto la mattina della visita dei Delfini a Parigi?

Il generale lo aveva fatto chiamare nella sala lettura. Doveva parlargli da solo.

L’altro non ricordava con esattezza ciò che gli era stato chiesto. Erano passati diversi anni. Preferì non mentirgli.

- Temo di non rammentare, mi dispiace.

L’uomo gli fece cenno di non preoccuparsi. Si alzò e raggiunse uno scaffale, tirò fuori il primo libro che trovò e lo aprì.

- Quella mattina mi ero reso conto di stare invecchiando… - Piegò le labbra in un mezzo sorriso sarcastico. - Per la prima volta provavo preoccupazione per Oscar.

Ora ricordava André. E ricordava anche di essersene stupito, perché il suo padrone non si era mai mostrato spaventato da niente.

- Debbo mestamente ammettere che la sensazione non è scemata. Al contrario, mi trovo nella scomoda situazione di esserlo ancora di più. Sia invecchiato che preoccupato.

- Non dite così, signore.

- Tu sei troppo gentile, André. Ma è così. E adesso che Oscar ha avuto un figlio, non posso che dirmi ancora più in pensiero. Se dovesse accaderle qualcosa…

Fece una pausa e sospirò. Chiuse il libro con un tonfo, lo ripose al suo posto.

- Devi prestare ancora più attenzione adesso, hai capito?

André annuì in silenzio.

- Devi proteggere Oscar e proteggere Frans. L’uno dipende dall’altra. Lo sai molto bene cos’ha dovuto affrontare per arrivare dov’è ora. Comprendo che mia figlia non intenda abbandonare le Guardie Reali, ma i rischi che corre non sono pochi. Non lasciarla mai da sola, è chiaro?

La voce s’era fatta grave e imperiosa. Non era un consiglio. Era un ordine da non mettere in discussione nemmeno un minuto.

- Devi essere la sua ombra come e più di prima.

- Certamente, signore.

- È tutto, puoi andare.

André lo ringraziò e imboccò la strada per uscire dalla stanza. Prima di aprire la porta, però, venne chiamato un’ultima volta.

- Mi pare evidente che il bambino non sia figlio tuo. È troppo biondo…

L’altro capì cosa intendesse il generale. Non gli avrebbe mai chiesto scusa, non sarebbe stato un gesto degno. Ma prese quelle parole come se lo fossero. Salutò e se ne andò.

Gli sembrò una richiesta superflua, la sua. Non l’avrebbe mai lasciata a prescindere, a maggior ragione adesso che non era più da sola. Non era trascorso giorno, in diciannove anni, in cui il bene di Oscar non fosse la priorità massima di André. L’unica differenza, ora, riguardava la necessità di farle spartire il primato insieme a Frans, ma sapeva non ci sarebbero state proteste.

In altri termini, ma le parole del generale non erano comunque troppo diverse da quelle che gli aveva scritto il conte nell’ultima sua lettera. Gli aveva raccomandato di lasciarla libera di fare di testa propria ma ti non permetterle di rischiare.

Di restarle accanto sempre. E lo ringraziava, per tutto. Senza specificare altro.

Non aveva mai avuto motivo di pensare davvero male di Fersen. Benché fosse a conoscenza dei taciti sentimenti di Oscar nei suoi confronti e ne soffrisse, perché la portavano lontana da sé. Ma quella lettera, in cima a tutta la vicenda, gli aveva fatto riconsiderare alcune cose sulla sua persona. Non aveva di sicuro bisogno che lui, il conte svedese favorito della regina, glielo dicesse di supportarla. Prima ancora di essere il suo compito, era la sua natura.



Rimasero in Normandia pochi giorni i signori Jarjayes. Il tempo di assicurarsi che madre e figlio stessero bene. E di riorganizzarne il futuro prossimo e quello più lontano. Conte e prima erede da soli per trovare una soluzione che funzionasse per tutti.

Non aveva idea di quanto le sarebbe servito con precisione per ritornare come prima della gravidanza. Avrebbe dovuto riprendere a tirare di scherma, sparare e soprattutto andare a cavallo. E il dottore le aveva imposto particolare cautela per tutto, specialmente quest’ultima attività. Almeno sei settimane di riposo, almeno. Che il suo corpo aveva necessità diverse da quelle della sua volontà.

Oscar valutò perciò di darsi tempo fino alla fine di dicembre per decidere. Con l’inizio del nuovo anno avrebbe stabilito come procedere. Ma di sicuro sarebbe tornata a palazzo Jarjayes, su questo era intransigente. Voleva incontrarlo di persona Girodelle per avere i resoconti da palazzo, si era stancata delle lettere.

Il generale le concesse di tenere la nonna e André con sé in Normandia. A casa di persone esperte e capaci ne avevano e loro sarebbero stati più utili lì alla villa. Poi, però, tornò su una delle condizioni che aveva posto a maggio. Gliela ribadì, anche se era ancora presto.

- Questo bambino ti chiamerà per nome. Non accetto che la situazione cambi.

Le sue parole la trafissero dentro più che a maggio. All’epoca aveva ingenuamente ritenuto fosse un pensiero dato dalla foga del momento. O forse ci aveva sperato. Invece era serio tre mesi prima così come lo era adesso.

Lei accettò, che le aveva già permesso troppo per i suoi canoni. A quel punto doveva solo adattarsi.

- Frans porta il mio cognome e pertanto ho voce in capitolo in merito. È illegittimo, se non ha un uomo da chiamare padre… non vedo perché debba chiamarti madre.

L’aggiunta era peggiore della premessa.

- Volete che io gli taccia la verità?

- No, Oscar. L’ho già fatto una volta quell’errore, la verità non va nascosta perché prima o poi viene comunque fuori. Pretendo, però, che ti chiami per nome.

Era una follia. Sembrava che quell’uomo sapesse reagire alle situazioni scomode soltanto con scelte azzardate. Ma così aveva deciso. E così doveva essere. Non poteva lasciargliele vinte tutte.

Oscar ripensò per giorni a quella frase, quando ormai i suoi genitori erano già a palazzo.

Se non ha un uomo da chiamare padre… non vedo perché debba chiamarti madre.

Lei era stata allevata per combattere e non per diventare madre. Avere avuto un figlio (maschio!) non avrebbe mai cambiato davvero le cose. Ed era bene che se lo ricordasse, secondo l’opinione del generale.

Più ci rifletteva e più le pareva uno strappo insanabile.

Non voleva immaginarselo il futuro, quando il suo bambino avrebbe parlato e mai pronunciato quella parola nei suoi confronti. Pregò soltanto che il bene che gli voleva e gli avrebbe voluto per sempre fosse a sufficienza per dimostrargli che loro due erano madre e figlio a prescindere dai termini con cui si chiamavano.

Voleva potergli garantire una vita il più normale possibile, ma a quanto pareva non le era possibile. Era quello il pensiero che la teneva sveglia di notte.  Quando si alzava dal letto e lo guardava dormire; o se era sveglio lo cullava come l’istinto le suggeriva. E si rendeva conto che quel piccolo avvolto nelle coperte bianche un po’ placava i suoi tormenti soltanto esistendo.
 

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Capitolo 11
*** Capitolo 10 ***


Capitolo 10
La nonna li rimproverava sempre quando si allenavano. Lui perché la faceva stancare troppo; lei perché erano tutte attività che non si confacevano a una giovane donna adesso madre. Ma in realtà, dietro le ramanzine, era contenta. Perché vedeva la sua bambina felice di poter ricominciare e li ritrovava entrambi ragazzini.

Sapeva che non l’avrebbe potuta tenere ferma troppo a lungo. Non ci riusciva quando aveva cinque anni, non ci sarebbe riuscita di certo ora. Non era cambiata. La sua vita era quella, da sempre. Stava solo facendo una sosta momentanea. Lo comprendeva bene, anche se non condivideva. E le premeva molto farlo notare a entrambi. Dal primo mattino in pieno autunno quando li aveva visti uscire con le pistole. Alle quali erano seguite poi le spade e infine i cavalli. Era piano piano ripreso tutto e Marie non aveva potuto fare altro che accettare la realtà manifesta: Oscar non avrebbe mai smesso di essere chi era sempre stata – e André non l’avrebbe convinta a cambiare idea.

E poi, in verità, ne guadagnava un pochino anche lei. Mentre loro due erano fuori poteva stare di più con il suo ultimo nipotino. Impartiva ordini e indicazioni tenendolo in braccio e glielo mostrava dalla finestra quanto fosse spericolata sua madre. Lo pregava di non diventare così anche lui, pur essendo quello il sangue… Pareva sentirselo Frans quando lei tornava in casa, che se dormiva si svegliava e se era già sveglio piangeva e si calmava solo tra le sue braccia.

Se ne accorgevano tutti, settimana dopo settimana, che stava crescendo. Il piccolo recuperava con regolarità ciò che non aveva alla nascita. Non gli ci era voluto molto, a detta delle balie (che di suoi pari ne vedevano diversi quotidianamente), perché la differenza tra lui e gli altri si fosse quasi colmata.

Frans non stava fermo un minuto, anche se non andava da nessuna parte. Nei mesi, ovunque lo sdraiassero, lui si faceva notare sempre un po’ di più. E sentire. Suoni allegri perlopiù, perché così era quasi sempre: allegro e sorridente. Afferrava tutto ciò che gli capitava vicino e non lo lasciava più. Gli indumenti, i capelli, i cuscini del divano, i bordi delle coperte, qualsiasi cosa diventava sua. Capitava anche che piangesse, certo, e la disperazione pareva implacabile per un tempo che sembrava eterno.

Poi una sera, prima di essere messo a dormire, un dettaglio del bambino li aveva sorpresi. Lo aveva sempre studiato bene il suo volto Oscar. Ogni qualvolta i suoi occhi ci si posassero sopra. Ed era certa che sul suo zigomo, proprio sotto l’occhio, non ci fosse mai stata quella macchiolina più scura. I “Vedrai che scompare” della nonna non l’avevano particolarmente convinta, ma non le importava. Anzi, era perfino più bello così! Perché era unico, nessuno in famiglia ne aveva una. Non era sicura nemmeno che avesse la forma di un chicco di caffè, in realtà, ma André sosteneva strenuamente questa sua opinione e non lo contraddiceva troppo.

Oscar li guardava spesso quei due insieme. Li guardava e sorrideva, perché pareva si capissero al volo. Non aveva mai smesso di ringraziare il destino per averle messo proprio lui accanto, che sapeva trovarsi con chiunque – anche i neonati. Perfino quelli che gli afferravano il fiocco tra i capelli e l’unico modo per liberarsi era lasciare che tirassero la stoffa.

Se lo chiedeva come fosse possibile per loro essere già tanto in sintonia. Almeno quanto si domandava come riuscisse lei stessa a trovare così spontaneo comprendere ciò di cui aveva bisogno. Non sempre, chiaro, ma molto spesso. Proprio lei che non lo aveva mai sentito quell’istinto, poi, che non si era mai preoccupata di immaginarselo. Perché con Rosalie l’impregno era diverso, anche se l’affetto era comunque immenso. Forse avrebbe dovuto dirglielo di quella piccola grande novità nella sua vita. Chissà che cosa facesse adesso e dove fosse…

Lo aveva pensato un poco di meno, il conte. Non era vero: lo pensava eccome ogni qualvolta si accorgeva che un’espressione o uno sguardo del bambino non erano i propri. E si interrogava su cosa gli fosse accaduto: se fosse ancora vivo, se sarebbe ritornato un giorno. Ma i mesi, le esperienze, il ricordo di essersene andata da casa sua con qualcosa che lui probabilmente non avrebbe mai conosciuto stavano lentamente anestetizzando il sentimento. Piano piano, non ne piangeva così tanto spesso di notte. Non le mancavano le braccia che l’avevano stretta, non le sentiva le labbra sulla pelle. Non per sé, quantomeno. Per sé le mancava l’amico che aveva trovato nella sua persona, quello sì. Ma per lui, per il bambino. Perché sarebbe stato meglio che fosse lì a vederlo crescere. Stava trasformando ciò che provava per Fersen in altro: stava dirottando verso Frans l’amore che l’aveva portata fino a quel punto, era lui a farle battere il cuore – anche se in maniera differente. C’erano i suoi occhi chiarissimi così allegri, i suoi capelli biondi, la sua voglia di farsi sentire a ogni ora del giorno e della notte. Frans era davvero un bimbo dell’estate, ce l’aveva dentro la sua stagione. E forse lo avrebbe comunque sempre amato il conte, ma in un’altra maniera.

E poi… E poi c’era qualcosa di diverso, che non apparteneva né al padre né al figlio. Qualcosa che le sembrava esserci sempre stato e che adesso cominciava a parerle un poco più evidente. Si diceva che fosse impossibile e se lo diceva da mesi ormai. Da quando quella sensazione, sottile e leggera, più tentava di ignorarla e più rimaneva lì, nel profondo.

Fingeva che le cose procedessero come al solito, ma rimaneva incantata da quei due e neanche se ne accorgeva. E se poi succedeva di rendersene conto, Oscar trovava un motivo per allontanarsi un momento e ritornare in sé. Si indispettiva con se stessa perché non era il caso, non era possibile e non era stata cresciuta per quello. Aveva già trasgredito a una regola, non poteva permettersi altri colpi di testa.



Faceva ormai troppo freddo per la colazione in balcone. Ma non rinunciava a tenerlo con sé Frans mentre leggeva il resoconto quotidiano dalla reggia arrivato la sera precedente (e vecchio ormai di un giorno e mezzo). Anche se non c’era il mare da fargli vedere.

- Tutto bene, Oscar? - le domandò André. Sedette davanti a lei, al tavolo del salottino. - Stai fissando la stessa pagina da dieci minuti.

Lei sbatté le palpebre e si concentrò su di lui. Quando era arrivato? Non se n’era accorta! Ora appariva dal nulla. - Sì, mi sono solo distratta. Pare che la regina abbia espresso il desiderio di conoscere Frans un giorno…

Cadde per un attimo il silenzio. Il bambino rise del fazzoletto che aveva gettato a terra dopo averlo tenuto un po’ in bocca. André raccolse il quadrato di stoffa bianca dal pavimento e lo lasciò sul tavolo.

- Cos’hai intenzione di fare al riguardo?

- Scrivere per ringraziarla, per cominciare. Presto o tardi vorrà sapere qualcosa in più. Sono pur sempre un ufficiale al suo servizio: è stata magnanima, merita delle spiegazioni.

Spiegazioni che se avesse dato nella sincera verità avrebbero creato un precedente doloroso. Come dire a sua maestà che l’uomo che ama ha avuto un figlio da una delle sue pochissime vere amiche? E che amica poteva sperare di essere adesso?

Posò il foglio e bevve un sorso di tè. Lasciò che il suono delle stoviglie provenienti dalla cucina adiacente la coinvolgesse per qualche istante. Cominciava a esserci troppa calma intorno perché potesse dirsi davvero a proprio agio. Era lontana da tutto da mesi. Benché lo sconvolgimento della nascita non fosse stato da poco, la nuova routine si era imposta e le stava forgiando perfino il modo di ragionare. Tanto più che si stava avvicinando a grandi passi l’anno esatto dalla sera in cui la sua vita sarebbe cambiata. E non voleva, in alcun modo, passarlo a rimuginarci troppo sopra. Serviva un diversivo.

- Credo sia giusto che tu sappia che ho preso una decisione. Con il nuovo anno torniamo a Parigi. - sentenziò.

Dopo averne parlato con il generale, l’argomento era rimasto in sospeso con chiunque altro. Lo aveva accennato di quando in quando, se le veniva chiesto. Ma finché non era certa non voleva essere troppo definitiva.

 - Per febbraio si rientra a Versailles, sento il bisogno di riprendere ciò che è mio.

André posò il cucchiaino sul piattino della zuccheriera. Lo vedeva da settimane che Oscar si sentiva come un animale in gabbia. Gli era chiaro da quando si era di nuovo seduta in sella al cavallo e l’aveva lanciato al galoppo dopo i primi tempi di passeggiate tranquille. Sarebbe accaduto prima o poi. Ma non era sicuro fosse il momento giusto. Perché lo sapeva che andava dal dottore ogni settimana dopo l’ultimo allenamento. Anche se non aveva idea di cosa si dicessero.

- Sei sicura?

Lei annuì e sistemò meglio il bambino tra le braccia. - Mi piace stare qui, ma io ho un dovere da rispettare e ho giurato di onorarlo in ogni situazione. Non sono cresciuta per rimanere a casa.

- E poi in un mese la nonna troverà un esercito intero di persone che ti aiuteranno con lui.

Detto fatto. Bastò dirglielo che Marie aveva già in mente un paio di nomi di persone, amiche di conoscenti, a cui si sarebbe rivolta. Pur nella poca convinzione dovuta alla sua scelta. Ma non si impuntò più.



Un Natale strano, quello del 1779. E un compleanno solitario. Non che lo avesse mai festeggiato, ma almeno i parenti di solito c’erano. Invece quell’anno i signori Jarjayes avevano preferito recarsi al palazzo dove viveva la loro primogenita, Hortense, e riunirsi con il resto delle figlie.

Tutte, tranne l’ultima.

Lo aveva accettato lui l’erede dell’erede, ne era orgoglioso e gli stava perfino già pianificando il futuro. Ma non era ancora il caso di presentarlo nella loro cerchia. Le zie del piccolo covavano ancora il fuocherello del risentimento sotto la cenere della lieta notizia. E il generale aveva voluto evitare l’imbarazzo all’intera famiglia.

Perciò le avevano inviato lettere con le congratulazioni prima e augurandole buon Natale e felice compleanno dopo, ma non si erano mai presentate da lei. Né si erano preoccupate di farle sapere che sarebbe stata la benvenuta. Perché era stata privilegiata anche in un’occasione simile, in cui nessuna di loro altre sarebbe stata perdonata. Neanche a metà. E no, non si sarebbero sentite a proprio agio a guardarla negli occhi e far finta di niente. Forse col tempo la ferita nell’orgoglio si sarebbe rimarginata, ma non quel Natale.

André bussò anche se la porta era aperta. Non voleva disturbarla, sapeva quanto fosse difficile quel giorno per lei. L’esilio dorato era solo in procinto di concludersi. In realtà c’era ancora dentro.

Rimase sulla soglia, appoggiato allo stipite. Lei gli dava le spalle, in piedi davanti la scrivania.

- Hai bisogno di qualcosa? - gli domandò senza guardarlo.

- Sono venuto a chiederlo io a te, a essere sincero…

Notò che c’era troppo silenzio in quella stanza. Mancava qualcosa, o meglio: qualcuno.

- Dov’è Frans?

- Di là, con una delle balie.

Chiuse con un colpo il cassetto.

- Va bene, ti lascio da sola.

André si staccò dal muro. Fece un passo indietro e le voltò le spalle per tornare al piano di sotto. Oscar si girò di scatto, non credeva che se ne sarebbe andato davvero. Era solito insistere almeno un po’ e, a meno che non fosse stato un momento difficile, non lo avrebbe rimproverato.

- Aspetta.

Lui riapparve davanti ai suoi occhi, dall’altra parte della stanza. - C’è qualcosa che non va?

Glieli avrebbe voluti rivelare tutti i problemi. Dal primo all’ultimo. Ma non si sarebbero risolti neanche così e avrebbero perso soltanto del gran tempo. Provò a riassumere, magari le sarebbe riuscito di cavarne qualcosa.

- Mi sembra che questi ultimi giorni in Normandia siano difficili quanto i primi. Se non di più.

- Ne mancano pochi, passeranno in fretta.

- Non mi importa di quanto ci metteranno a passare. Io non voglio più sentirmi esclusa dalla mia famiglia.

Sospirò. Si rifiutava di cedere al pentimento, che a quel punto non serviva a niente, era scorretto e comunque poco da lei. Ma non poteva fare a meno di guardarsi intorno e vedere che non c’era nessuno. E il motivo era ben noto.

- Mi chiedo perché tornare a Versailles va bene, ma raggiungere la nostra famiglia ci è precluso.

Comprendeva il suo dispiacere André. Non aveva bisogno di essere passato attraverso situazioni simili per capirla.

- Peso non volesse metterti in difficoltà. - Provò a mettersi nei panni dell’uomo, ma era complicato dare una spiegazione plausibile.

Erano una famiglia particolare i Jarjayes. Se n’era accorto il giorno in cui era arrivato a palazzo. Dove l’avrebbe trovata se non lì una figlia femmina educata come un maschio e avviata a una vita da uomo come se fosse la cosa più normale del mondo? Ma nella peculiarità della situazione generale, qualche reazione comune agli altri casi doveva comunque esserci. E infatti si stavano dispiegando tutte insieme.

Oscar sorrise amaramente. - Ironico, non trovi? Posso gestire le malelingue della corte, affrontare i pericoli del mio ruolo ma non i malumori delle mie sorelle. - Si allontanò dalla scrivania e gli si fermò davanti. Da quella conclusione non voleva generare altri discorsi: - Immagino tu sia venuto qui anche per avvisarmi che tutto è pronto.

André annuì, accompagnandola fuori. - La nonna ti ha preparato il posto nella sala da pranzo.

- Da sola?

- Non credo che Frans sia cresciuto abbastanza nelle ultime ore per sedersi al tavolo.

La fece ridere. Il tanto che gli consentì di interpretare la sua reazione come sincera e non un semplice modo per ricacciare l’argomento sotto il tappeto a prendere polvere.

Almeno ci siete voi due… Voi non mi lasciate da parte.

Avrebbe desiderato chiedergli di rimanere a tavola con lei, per avere se non altro la sua compagnia. Succedeva spesso che facessero merenda insieme da bambini, allo stesso tavolo. Ma al solito gli anni erano passati e non avevano più potuto condividere molti momenti così. E poi non le interessavano tante formalità, a maggior ragione se non c’erano i signori.

Quel giorno le sarebbe stato comunque impossibile convincere la nonna. Le sarebbe anche dispiaciuto vanificare i suoi sforzi per preparare il tavolo chiedendole di portarle il pranzo nei propri appartamenti.
Oscar la incontrò in fondo alla scalinata principale Marguerite, in tempo per salutarsi prima che tornasse a casa. Il suo dovere per il momento lo aveva compiuto, anche il 25 dicembre. Così come avrebbe fatto anche Clarisse nello spazio di qualche ora.

Forse non avrebbe dovuto essere stata tanto distaccata nei confronti delle balie. Non era di certo colpa loro se non le era permesso prendersi cura del proprio figlio anche per nutrirlo. E nemmeno della nonna, che l’aveva sollevata dal risolvere il problema. Era solo un’ennesima richiesta di un mondo in cui nessuno faceva le regole e tutti le seguivano.

Loro due, quelle due donne, svolgevano il compito per cui erano state chiamate. E lo facevano bene: Frans era vivo, vegeto e in forze. Inizialmente il pensiero era corso alla paura che il bambino potesse affezionarsi di più a loro; con il tempo era mutato nell’indisposizione verso abitudini che le sembravano folli, perché lei le proprie responsabilità voleva prendersele fino in fondo. Per evitare di prendersela di più aveva preferito ridurre al minino i contatti. A costo di contravvenire a se stessa e lasciare che fosse Marie occuparsi anche di quello.  

- Marguerite, state andando via? - le disse.

La ragazza si voltò e fece un breve inchino. - Sì, mademoiselle, per adesso non servo più. Avete un bel bambino, ma immagino lo saprete già…

Si imbarazzò per un istante. Le dava una strana sensazione ricevere quel complimento, ma lo accettò. Frans era bello? Bellissimo! Le sorrise, con educazione.

- Intendevo ringraziarvi per tutto. Il vostro aiuto è stato essenziale.

Le parlava con una tranquillità ben lontana dall’educato distacco con cui le si era sempre rivolta. Si era infine resa conto. Un po’ tardi, ma aveva capito.

Marguerite la ascoltava perplessa. Ringraziarla? Non ce n’era bisogno, lei era una nutrice e in quanto tale svolgeva ciò che le era stato richiesto. Come Clarisse, d’altronde, e tutte le balie del mondo dalla notte dei tempi. Fece un cenno del capo.

- Tra qualche giorno rientreremo dalla Normandia, mi sembrava giusto dirvi che ho apprezzato quanto avete fatto… Per entrambi.

L’altra sorrise e il suo viso si illuminò. Le muoveva tenerezza quella donna che aveva visto relativamente poco nei passati tre mesi e invece adesso le si mostrava davvero riconoscente.

- Non vi dovete preoccupare, l’ho fatto con piacere. 

Con rammarico la ragazza si congedò, che una famiglia l’aveva anche lei e quello era pur sempre il giorno di Natale – anche se per il popolo cambiava molto poco. Ma prima di chiudere la porta ci tenne a precisare: - Ho saputo da Marie che è il vostro compleanno oggi, tanti auguri!

Oscar la ringraziò ancora e la guardò andare via, mentre alle sue spalle André la raggiungeva al fondo delle scale. Era stata così gentile, fin dal principio. Si voltò per un attimo a cercarlo, proprio sul gradino dietro di sé.

- Dovevo essere più conciliante nei mesi scorsi, credo. - Pensò ad alta voce, ma era serena.

- Più conciliante? Tu? - Scherzò e si affrettò ad anticiparla nell’altra stanza, per proteggersi dall’eventuale reazione.

Però aveva ragione, non era necessario ergere una barriera tra sé e le nutrici. Ma non se la sentiva di giudicarla: stava pur sempre imparando da zero.

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Capitolo 12
*** Capitolo 11 ***


Capitolo 11
I cancelli di palazzo Jarjayes si aprirono all’avvicinarsi delle carrozze. Non era stato un viaggio semplice, lo avevano messo in conto. Ma finalmente erano di nuovo a casa e anche se non c’era il mare fuori dal balcone, quelle distese di prato che in pochi mesi sarebbero diventate di un verde brillante erano comunque perfette.

Aveva cominciato a nevicare un paio d’ore prima. Una sottile coltre bianca copriva il paesaggio, a perdita d’occhio. Il rumore delle ruote era attutito sulle strade e i cavalli erano stati fatti rallentare. Non un grande momento per spostarsi. Soprattutto con un bambino così piccolo.

La nonna si prodigava a calargli meglio la cuffietta e sistemargli lo strato più esterno di quel bozzolo stretto in cui il piccolo era stato avvolto.

- Credo sia coperto abbastanza. - puntualizzò Oscar in tono tranquillo. - Finirà per essere l’unico ad avere caldo in pieno inverno!

Lo cullava cercando di attutirgli gli scossoni del terreno dissestato. Cominciava a sentire le braccia intorpidite, ma erano quasi arrivati ormai e voleva essere lei a portarlo dentro.

I cavalli vennero fermati davanti i gradoni di pietra dell’ingresso. Scesero tutti e la servitù – Marie compresa – prese la strada per il portone sul retro.

Solo André rimase lì, ad attendere loro due. Non aveva viaggiato nella stessa carrozza, sua nonna era stata chiara. Con loro c’era una balia fatta arrivare direttamente da Parigi per poter sopperire alle necessità del bambino e lui, di certo, non era il benvenuto.

- È andato tutto bene? - Le domandò. Lei confermò.

Fece strada verso l’uscio, prestando attenzione che Oscar non scivolasse. Ci pensarono entrambi, senza dirselo. Sarebbero bastati dodici mesi perché ci finissero le impronte delle sue piccole mani nel bianco della neve. Ordini del generale nonna permettendo!

Il valletto aprì il portone e dall’interno arrivò il caldo del camino al pianoterra. Parevano esserci solo le cameriere in casa quella mattina. Arrivarono a salutare, a congratularsi ed erano elettrizzate alla vista di quel volto rotondo addormentato.

- Mio padre è a palazzo?

Una delle donne glielo confermò e tutte la lasciarono passare per tornare al proprio lavoro.

C’era qualcosa di strano nel ripercorrere in senso opposto la stessa strada di maggio. Ma non era sola. Non che lo fosse sette mesi e mezzo prima. C’erano tutti, proprio tutti e perfino il generale a modo suo, e forse erano stati perfino troppi. Solo che all’epoca la sorte era ignota. Nessuno sapeva come sarebbe andata a finire. Nemmeno se lei stessa sarebbe davvero ritornata. E con chi.

Invece adesso era di nuovo a casa ed era insieme al suo bambino. Saliva le stesse scale che aveva sceso quando lui ancora dipendeva in tutto dal suo corpo e lo sentiva muoversi dentro.

Gradino dopo gradino, un battito alla volta il cuore accelerava. Che pur avendoglielo già presentato, entrare nello studio del generale, loro due, segnava il vero inizio della nuova vita.

La porta era socchiusa, ma bussò ugualmente. Dall’interno una voce le diede il permesso di entrare e Oscar si infilò nella stanza, con attenzione a non disturbare nessuno.

Lo studio era illuminato dal chiarore dell’esterno più ancora che dalle candele sul lampadario. Il tepore del camino lo rendeva più accogliente, ma forse era solo una sua impressione.

Voleva pensarlo cordiale quel secondo incontro tra nonno e nipote. Dare a se stessa e a Frans l’illusione di un’esperienza normale – qualsiasi cosa significasse.

Il generale alzò la testa dalle carte che leggeva sulla scrivania. L’espressione sul suo volto si aprì in un sorriso soddisfatto.

- Siete arrivati, finalmente!

Quanto amava parlare al maschile senza doversi più preoccupare di sembrare senza speranze! Gli aveva risolto un bel problema, in effetti, anche se superficiale.

- Buongiorno, padre.

L’uomo si alzò e i suoi occhi impiegarono alcuni minuti ad abituarsi. Qualche giorno in agosto non era stato sufficiente per fare propria l’immagine dei due eredi insieme.

Le si avvicinò a grandi passi dandole il permesso di sedersi davanti la scrivania. Sfilò piano il bambino dalle sue braccia e lo prese per sé, studiandolo a distanza ravvicinata.

Era decisamente più grande di pochi mesi prima, più in forze. Lo sentiva che voleva provare a muoversi nonostante le coperte così strette.

- Ah, come avevo previsto! - Esclamò soddisfatto. Se ne intendeva di certe cose, lui. E riconoscere la tempra del soldato era una di queste. - Il sangue dei Jarjayes non mente mai: si è ripreso in fretta!

La figlia gli sorrise a labbra chiuse. - Non poteva che essere così.

Il generale osservò meglio il viso del nipote, serio. Sembrava tutto uguale all’ultima volta, a eccezione di qualcosa. C’era una macchiolina sotto l’occhio. Era certo di non averla notata ad agosto. Ci passò delicatamente un polpastrello sopra, ma quella rimase al suo posto. Spostò lo sguardo su Oscar, pretendeva spiegazioni.

- Sostiene il dottore che non sia niente di preoccupante.

Non lo aveva mai davvero visto avere a che fare con un neonato intorno e già questo la straniva. Per di più, quel piccolo mostrava una caratteristica che non sapeva se l’avrebbe considerata un difetto insormontabile o qualcosa di innocuo. L’estetica non era mai stata il suo cruccio, ma a quel punto tutto poteva essere. Bastava una minuscola scintilla per far scoppiare l’inferno.

- Lo faremo visitare da Lassonne appena smetterà di nevicare. – Concluse senza troppe formalità. - Tu come stai?

- Meglio, grazie. Ho ripreso gli allenamenti in autunno, a febbraio intendo ritornare a Versailles.

L’uomo annuì alla conferma di quei piani. Parole che bramava da tempo! Finalmente! L’aveva proprio cresciuta a sua immagine e somiglianza: impossibile da tenere troppo senza fare niente.

- Immagino ti sarai chiesta il motivo per cui non vi ho fatto raggiungere il resto della famiglia.

Mosse il capo per fargli capire che lo stava seguendo.

Penso non volesse metterti in difficoltà.

Le parole di André le risuonarono nella mente come una rete di salvataggio dopo un salto nel vuoto. Un tentativo un po’ controproducente di venirle incontro.

- È una situazione molto delicata e bisogna procedere con cautela. Io ti ho accettata perché hai ovviato a una mancanza che noi siamo riusciti a colmare. Ma le tue sorelle… Devi comprendere.

Oscar respirò profondamente. Aveva altre possibilità oltre a comprendere? Poteva rifiutarsi?

Suo padre le restituì il bambino, accorto nel non svegliarlo ma lui aprì gli occhi comunque e cominciò a piangere.

Si alzò per alzò per andare fuori e lasciarlo ai suoi impegni. L’uomo le fece un’ultima raccomandazione:

- Mi aspetto una condotta più che eccellente d’ora in poi. Non mi troverai ancora così disponibile, sappilo.

- Certamente, padre, grazie. - Lo salutò e se ne andò, facendo tornare il silenzio nella stanza.

Se la scrollò di dosso piano piano la sensazione di non avere avuto scelta. E poi di altre cose a cui pensare ce n’erano. Volle concentrarsi su quelle, mattino dopo mattino, perché erano una priorità assoluta.

Le mura di palazzo Jarjayes erano rimaste vuote e silenziose durante la sua assenza. Soltanto con l’ordine del generale di adibire una stanza per accogliere il nuovo arrivato l’atmosfera si era scaldata un poco.

Adesso, invece, tutto riprendeva a girare come al solito, nella rinnovata austera quotidianità della casa di un militare.

I primi tempi sembrava che Frans si fosse accorto di non essere più in Normandia. Gli ci volle un po’ per abituarsi, pur non essendone ancora conscio. Non sapeva dove fosse, non sapeva neanche chi fosse. Ma tutti avevano l’impressione che se ne fosse accorto che fuori dal balcone c’era una distesa di erba coperta di neve invece del mare.

Gli ci volle meno a diventare il motivo per cui il generale si trovò a ripetere le stesse identiche raccomandazioni di ventiquattro anni prima. A chiunque.

“Il bambino sarà un soldato.”

“Non dovete viziarlo troppo, o crescerà debole.”

A nulla serviva fargli notare che fosse ancora davvero molto piccolo. L’uomo non intendeva arretrare di un passo. Un eterno ritorno dell’uguale. Ma almeno adesso nessuno avrebbe dovuto mentire.

Si scontrava spesso con la governante, di nuovo. Perché lei non tollerava che ricominciasse con la solita nenia e l’altro ricordava che l’ultima volta aveva avuto ragione lui – nonostante tutto.

Non la prendevano neanche in considerazione l’opinione della madre. Oscar proseguiva nelle proprie giornate, con le proprie abitudini. E i propri dubbi, che a mano a mano cambiavano.

Alcuni si trasformavano in lezioni imparate, altri mutavano forma. Ma le pareva di conoscerlo meglio il suo bambino e di conoscere meglio se stessa. Continuavano a esserle sconosciuti, ad esempio, i meccanismi per cui aveva imparato a riconoscere il motivo della maggior parte dei suoi pianti. E adattava le strategie affinate in anni di addestramento militare per dar retta a ogni vagito in piena notte con la guardia sempre alzata. Che se avesse avuto bisogno di lei era pronta ad alzarsi come se l’avessero chiamata per correre dalla regina.

E poi gli allenamenti nei terreni intorno al palazzo erano diversi. C’era un’aria di quotidianità differente. E non perché conoscesse la posizione di ogni pietra e di ogni albero. Era lì che aveva imparato tutto e lì che avrebbe imparato tutto anche il suo bambino. Lì si era sbucciata le ginocchia, aveva rischiato di cadere di sella da César. Lì correva quando aveva bisogno di liberarsi di tutto.

- André, devo chiederti una cosa. - Gli disse un pomeriggio.

La neve aveva smesso di cadere da una settimana e lei voleva testare il controllo del cavallo sul terreno scivoloso.

- Dimmi pure, è successo qualcosa?

Si sentì all’improvviso agitata.

Temeva la risposta che avrebbe potuto darle. Se fosse stato ciò che sospettava, ci sarebbe rimasta molto male. Se ne avesse ricavato una bugia e lo avesse scoperto (le ci voleva davvero poco per farlo), non glielo avrebbe perdonato.

- Un anno fa, quando uscivi la sera e tornavi tardi... Dove andavi?

André mantenne lo sguardo sulla strada, come se non l’avesse neanche udita. Tirò piano le redini per rallentare e costringerla a fare lo stesso.

- In un posto.

Lo disse senza alcuna inflessione. Non pensava si ricordasse e lui stesso ci era andato molto meno.

- Quale posto? - Insistette Oscar, pur sapendo che lo avrebbe innervosito. Ma lo voleva sapere. Non c’erano mai stati segreti tra loro.

Lui sbuffò appena. - Da quando mi controlli se non sono con te, Oscar? È un posto!

- Beh, mi piacerebbe saperlo.

- Un giorno lo saprai.

- Mi sento dare questa risposta da tutta una vita. Non sono più una bambina, André!

Ma alle sue rimostranze lui replicava con una calma serafica. - Lo so. Ti devi fidare di me e avere pazienza. Una volta tanto…

Ripartì più rapido per farsi seguire, lanciandole un’occhiata divertita.

Non ne aveva ricavato niente e la cosa la infastidiva. Ma almeno aveva avuto la prova di non aver perso l’abilità di saper cavalcare in ogni condizione e ciò un po’ la confortava.



Era nello studio di suo padre che Oscar incontrava Girodelle. Finalmente di persona, le poteva sentire dalla sua viva voce le notizie. Pareva non essere cambiata troppo la situazione, almeno laggiù. La regina alienata, il re indulgente, la guerra dall’altra parte dell’Atlantico che infuriava, le feste, i balli, i nobili indispettiti e le dame con i ventagli.

A ogni colloquio assisteva anche il generale – così, per sicurezza. Non che non si fidasse più, però… Finché poteva tenerla davanti agli occhi dormiva sonni più sereni. E lei, che non aveva mai tollerato interferenze, dovette adattarsi.

Rimaneva in silenzio dall’altra parte della scrivania, ad ascoltare ciò che si dicevano. Studiava con attenzione il modo in cui la figlia gestiva la situazione. E non poteva che pensare bene del suo comportamento: sempre impeccabile. Stava attenta al dettaglio, alla minima parola che il tenente le riferiva. L’aveva addestrata a dovere, sì.

- Sua Maestà ha chiesto quando tornerete. Vuole il giorno esatto.

L’altro uomo spostò lo sguardo su di lei, attirando per un momento la sua attenzione. Anche lui avrebbe gradito una data precisa. Che “febbraio” significava allo stesso tempo tutto e niente.

La risposta non tardò ad arrivare. Decisa, come lo era sempre stata. - Il primo lunedì di febbraio. Fino ad allora, vi prego di porgere i miei omaggi alla regina.



Un sole non troppo caldo quello che batteva su Versailles. Era già stata tolta tutta la neve dalla strada che portava alla piazza d’armi. Soltanto alcune pozzanghere dei cumuli sciolti erano rimaste ai lati del viale.

Contò mentalmente da quanto mancasse. Otto mesi e mezzo. Era una strana sensazione. Come se ci fosse un racconto da riprendere dove la piuma era stata staccata dal foglio.

- Comandante, sarete contenta di essere ritornata dopo tanto tempo. - Esordì Girodelle affiancandola a cavallo.

Oscar annuì col capo e continuò a osservare la reggia diventare grande all’orizzonte. – L’ho lasciata che era primavera, mentre ora…

Non riuscì a finire la frase. Il rumore delle ruote di una carrozza lanciata a grande velocità alle sue spalle la sovrastò. Si dirigeva verso di loro, incurante del fatto che fossero ancora in centro al viale d’ingresso.

Riuscirono a salvarsi appena in tempo. Si divisero ai due lati della strada e lasciarono passare chi avesse tanta fretta.

Lanciarono entrambi un’occhiata veloce oltre le finestrelle, coperte dalle tendine bianche che volavano nel vento.

Conosceva fin troppo bene la persona seduta all’interno.

- Di nuovo lei! - Esclamò Oscar tirando le redini del cavallo - Sono passati mesi ma la contessa di Polignac ha mantenuto gli stessi metodi di sempre.

- Quella donna nell’ultimo periodo ha acquisito sempre più potere a corte ed è inspiegabile come ci stia riuscendo.

- Cosa intendete dire?

- Non c’è carica istituzionale che riesca a rimanere vacante per più di qualche giorno: ci pensa lei a riempirla.

Ogni parola che Girodelle aggiungeva definiva un quadro oscuro. Non pensava che la contessa si smascherasse così apertamente. Ma soprattutto, che nessuno le impedisse di essere tanto sfacciata. Si stava prendendo tutto per davvero. Perfino la libertà di insinuarsi nella volontà di sua maestà.

Giunti alla Court Royale vivi e vegeti, si divisero. Prima di tornare dai propri uomini, Oscar voleva recarsi dalla regina. Glielo doveva, più di ogni altra cosa.

Quando la vide seduta sul divanetto nel salottino da tè, così regale e splendida nella sua robe à l’anglaise azzurra a fiori gialli, non poté che provare un’immensa felicità. Aspettavano entrambe quel momento. Ritrovarsi fu una vera gioia.
 
-Madamigella Oscar, mi siete mancata!

La regina parlava e dalle sue labbra uscì un grande entusiasmo. Lo stesso di quando la chiamava per raccontarle di quanto fosse divertente essere amata da tutti. Anche se ora non era più così. Anzi.

Corse dalla sua amica e le strinse le mani. Il massimo di affetto che il suo ruolo le permettesse. Aveva gli occhi lucidi e le guance un poco più rosate del solito. Il suo grande sorriso le illuminava il volto. Averla davanti a sé era il primo vero momento felice dalla partenza di Fersen.

- Sono venuta a salutarvi per prima e a rinnovare il mio ringraziamento per la vostra magnanimità nei miei confronti.

Era mancata molto a Oscar la sua regina. Perfino i suoi capricci e i suoi malumori le erano mancati. Era bello poterle parlare di persona di nuovo.

- Vi prego, madamigella, raccontatemi tutto! -Esclamò Maria Antonietta tornando a sedersi sul divanetto imbottito. - Ho saputo da vostra madre che avete avuto un bel maschietto!

L’altra le sorrise, in piedi al centro della stanza. - Sì, Maestà, è un maschio. Si chiama Frans Auguste.

Non era sicura di volerglielo dire perché avesse scelto quel nome. Anche se era sicura sarebbe arrivata la domanda. Era una giovane donna curiosa, soprattutto quando si trattava di persone a lei care. E infatti non tardò.

- Oh, che bel nome! - Le sue mani diafane si unirono in un breve applauso. - Come mai avete scelto proprio questo?

- Lo ha scelto il destino, Maestà. Un libro di poesie e il mese in cui è nato.

- Madamigella, sono così contenta! Immagino che vi mancherà adesso che siete tornata…

- È il mio dovere servirvi, non potevo restare lontana a lungo.

Nonostante la serietà di quella risposta sincera, non poteva negarlo. Le mancava, eccome!

Lo aveva tenuto tra le braccia fino all’ultimo minuto prima di uscire di casa. Aveva voluto conservare ogni istante insieme per averne una scorta sufficiente per tutta la giornata. Si era congedata da lui con un bacio sulla fronte e aveva ricevuto in cambio un sorriso e uno sbadiglio. La faceva ridere quando reagiva così. Anche André lo aveva salutato. Una carezza sulla testa e la raccomandazione di comportarsi bene, mentre la nonna lo riportava nella culla.

- Oh, quanto sei stupido, André! Cosa pensi che possa fare? E poi è bravissimo lui, a differenza tua!

- Non lo so, nonna, è pur sempre figlio di Oscar!

- Mi raccomando, madamigella, non fatevi problemi di alcun tipo: potete domandarmi qualsiasi cosa e quando lo riterrete opportuno avete già il mio permesso di presentarmelo. Sono così curiosa di incontrarlo!

- Non mancherò alla vostra richiesta, grazie.

La porta alle sue spalle si aprì e nel salottino si palesò Yolande De Polignac. Finalmente di nuovo faccia a faccia. Le due donne più amate dalla regina. E dire che loro non si erano mai potute vedere!

La contessa finse di rimanere sorpresa in presenza del comandante delle Guardie Reali, con un gesto tanto teatrale quanto stucchevole.

- Oh, siete tornata a corte! Non vi ho vista nei corridoi… - Le si parò davanti per squadrarla meglio.

- Nemmeno il vostro cocchiere mentre vi stavate precipitando alla reggia. - La interruppe Oscar.

Fece un passo indietro per lasciarla proseguire, ma l’altra non si mosse. Strinse il ventaglio tra le dita, invece. Come si permetteva di farla fare una figura del genere davanti a Maria Antonietta? E per di più il primo giorno dopo otto mesi e mezzo di lontananza! Se non avesse agito in fretta, se la sarebbe vista molto brutta.

- Converrete che sia una questione che richiede una certa fretta essere al fianco di sua Maestà.

- Senza dubbio. Eppure siete arrivata adesso.

La disputa venne interrotta dalla regina. Non voleva negatività intorno quel giorno, solo animi distesi.  

Davanti all’imposizione dell’armistizio, Oscar decise che fosse giunto il momento di uscire. Si congedò da entrambe. Prima di uscire, però, la sua nemesi la fermò un’ultima volta:

- Madamigella, vi fa onore aver deciso di tornare tanto presto al vostro dovere sottraendolo al vostro bambino.

Era chiaro cosa intendesse. Lapalissiano. E in breve tempo lo avrebbero pensato tutti a corte.

Se Oscar avesse risposto ciò che veramente voleva, avrebbe cosparso sale su una ferita presumibilmente ancora aperta. E di passare per indelicata, oltre che maleducata, non le andava. Non per la contessa, quantomeno.

Si riparò dietro un imprecisato cenno del capo e un inchino alla sovrana, poi uscì dal salottino e chiuse la porta.

Rimase un istante in corridoio, ferma. A pensare che le trappole erano veramente ovunque là dentro e mai dove avrebbero dovuto essere.

Un’accoglienza meno aspra gliela riservarono i suoi soldati, seppur decisamente convenzionale e impettita. Il malumore scemò. Li trovò come li aveva lasciati: impeccabili. E siccome non voleva perdere altro tempo, mise fine in fretta alle cerimonie. Preferiva essere accolta da un’esercitazione perfetta, piuttosto che da tante (seppur sentite) felicitazioni.

Li osservò: praticamente perfetti a cavallo, agili con la spada. Tutto ciò che aveva impartito lei negli anni lo avevano messo in pratica nel periodo in cui non era stata con loro. E non poté che complimentarsi con Girodelle. Nulla era stato lasciato al caso: lo notò e se ne compiacque.

Ma ci fu qualcos’altro che catturò di più l’attenzione. O meglio: qualcun altro.

Tra i soldati, un volto duro, squadrato, assolutamente non familiare e sconosciuto si stagliava tra tutti. Era diverso dai suoi compagni, praticamente in ogni cosa. Non portava i capelli lunghi legati in un fiocco e nemmeno il tricorno blu. Oscar osservò la sua giacca. Aveva una spilla accanto alla fascia del titolo nobiliare ma non la vedeva bene da dov’era.

- Tenente, c’è un nuovo arrivato? - domandò cercando di riconoscere il suo grado.

- Sì, ho ritenuto opportuno aspettare a dirvelo perché dovevamo ancora ricevere la conferma del suo incarico. È il capitano Nicolas De La Motte. - Spiegò Girodelle cercando di tenere a bada il cavallo, stanco di rimanere fermo. - È amico del Cardinale De Rohan.

Lei continuò a guardare lo sconosciuto. Non gli tolse mai gli occhi di dosso, nemmeno per dare ordini all’intero gruppo. C’era qualcosa di strano in quell’uomo, qualcosa che non la convinceva, ma non sapeva ancora dire che cosa.

Lo avrebbe scoperto. Suo malgrado.
 
Note: grazie per essere arrivatə fino a qui! Gli slice of life sono conclusi. Un po’ veloci, lo so, ma non sottovalutiamo il potere dei flashback nel corso della storia, che inizia (alla buon’ora!) adesso. Nella mia testa li ho immaginati davvero come piccole scene di un film che ci fanno capire lo sviluppo precedente alla vicenda senza dilungarsi troppo, mi auguro vi siano piaciuti e questa strategia narrativa si adatti bene al complesso. Vi anticipo che i prossimi aggiornamenti saranno un po’ dilatati da adesso, ma ci saranno. A presto!

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Capitolo 13
*** Capitolo 12 ***


Capitolo 12
Sbuffò.

Non capiva niente di ciò che le persone tutt’intorno dicevano. Per la verità, la maggior parte di esse non aprivano bocca se non in alcuni precisi momenti. Tutte insieme, poi tacevano.

Di loro vedeva solo schiene e nuche davanti a sé. Giacche scure come la sua, cappellini scuri, abiti neri. Ovunque, tranne al proprio fianco.

Ogni tanto si alzavano e allora non riusciva a scorgere neanche più le luci delle candele in fondo.

C’erano delle signore, a qualche metro di distanza, che avevano in mano una collana. A bassa voce ripetevano cose facendone scorrere le perle.

Sedeva in mezzo a gente che non conosceva, ad eccezione di chi era subito accanto e dietro. Solo due su chissà quanti.

Una voce roca proveniente da non capiva dove ripeteva frasi senza senso, tutte con lo stesso tono. Una cantilena che avrebbe dato sonno a chiunque.

Sbuffò ancora.

Un colpetto gentile diede una spinta delicata al suo braccio.

Smise di sbuffare subito. Nonostante l’argento vivo addosso, era diligente nelle correzioni.

Alzò gli occhi verso l’unica cosa alla sua portata: il soffitto. Le fiammelle delle candele non illuminavano fin là sopra, al massimo rischiaravano. Le ombre oscuravano la volta e rendevano tetri i volti delle statue e dei grandi quadri appesi alle pareti. Forse si sarebbero mosse tutte quelle persone immobili, sofferenti e tristi.

Si spostò un pochino più a destra, per farsi proteggere.

Il suo sguardo si posò poco più avanti, sempre in alto. La luce dall’esterno rendeva nitide le figure sul vetro. Com’erano lunghe e alte e colorate! Loro sapeva chi fossero. Quello con la barba che stava in centro era Gesù, poi c’era Maria vestita di blu e dall’altra parte… no, dall’altra parte non riconosceva chi fosse. Ma gli altri due sì. Glielo aveva insegnato la nonna.

C’era un odore forte lì dentro. Non lo aveva mai sentito fino a quel momento. Pungeva il naso, voleva starnutire.

La gente tutt’intorno si alzò di nuovo e venne a trovarsi in una penombra che incuteva timore da là sotto.

Riuscì a trovare di nuovo i visi sofferenti delle statue e dei quadri. Erano ancora più paurosi adesso che li vedeva a pezzi e se lo sentiva dentro che si sarebbero mossi, avrebbero dato la caccia a chiunque e nessuno li avrebbe salvati.

Si alzò, ma pensò di essere ancora di più in basso. Afferrò la manica della giacca di chi aveva accanto, il suo unico appiglio. Forse l’avrebbe tratto in salvo.

Invece accarezzò i suoi capelli e basta, senza dare uno sguardo. Nessuno si stava accorgendo che il buio inghiottiva e quelle facce cupe avrebbero avuto di che mangiare?

Trasalì al suono imperioso dell’organo a canne, mentre tutti ricominciavano a ripetere nenie incomprensibili e rimanevano in piedi e quella voce ignota li anticipava e chissà dov’era e perché.

Serrò gli occhi e si aggrappò alla gamba vicino a sé. Strinse più forte che poté, sbattendo i piedi sul pavimento di marmo lucido.

Avrebbe iniziato a piangere se quella mano non fosse tornata tra i suoi capelli e non si fosse poi fermata sulla sua spalla.

Ci impiegò ancora troppo tempo per i suoi gusti, ma la messa infine si concluse. Frans aveva paura dei luoghi troppo affollati. E del buio. Si dà il caso che la chiesa dove si era appena conclusa la funzione in suffragio della marchesa De Brambéry fosse sia troppo affollata che troppo buia.

Non avevano potuto lasciarlo a casa. Secondo il generale era già grande abbastanza per cominciare a presenziare almeno a questi eventi “di famiglia”. Il suo contributo si limitava a doverci essere, poteva farlo.

Tre anni lo scorso agosto.

E poi un soldato deve imparare fin da piccolo l’arte della pazienza! E lui lo sarebbe diventato un giorno.

Gli era stato annunciato il pomeriggio prima che li avrebbe accompagnati. Ultimamente Oscar tornava a palazzo un po’ più tardi rispetto ad André. Ma quella volta era rientrata con quella notizia e allora Frans le aveva perdonato subito il ritardo. Non aveva accennato una protesta. Perché andare con loro due era bello per lui.

L’aveva presa come un’occasione speciale. Non sapeva neanche chi fosse la marchesa né cosa fosse una messa, figuriamoci un suffragio! Ma finché poteva farsi prendere per mano da uno dei due (o da entrambi) e camminare al loro fianco andava bene tutto.

- Dovrai comportarti bene, è molto importante.

- E poi?

- E poi non potrai fare i capricci quando sarai stanco.

- Uffa…

- Dovrai rimanere composto e seguire quello che fanno tutti gli altri.

A quelle indicazioni la prospettiva aveva perso un po’ di emozione. Non avrebbe potuto fare niente!

Frans aveva ascoltato Oscar seduto (o meglio, sprofondato) sul suo letto. Lo faceva sembrare più piccolo di quanto non fosse. L’aveva aspettata mentre si cambiava e toglieva l’uniforme, dietro il paravento. E quando ne era uscita, si era messo in piedi e aveva alzato le braccia per essere preso in braccio e riportato fuori dalla camera.

L’afferrò di nuovo quella mano. Stretta. Non la lasciò più mentre si avviavano tutti e tre verso il sagrato, circondati da altra gente.

Si sentiva osservato e la cosa non gli piaceva.

- Oscar, andiamo a casa? Ti prego! - La supplicò sull’orlo del capriccio (nonostante…), se non fosse stato per la prontezza con cui venne sollevato.

- Stiamo andando, vedi? Non devi avere paura: è tutto finito.

Oscar voleva che imparasse ad affrontarli certi comprensibili timori e voleva che lo facesse insieme a lei. Era al suo fianco per questo.

Attraversarono la navata centrale e in un attimo furono fuori. La luce del giorno era accecante dopo oltre un’ora nella penombra della chiesa. Frans si coprì gli occhi con la mano finché non si abituò di nuovo al sole.

La gente defluiva lenta giù dalle scale. Alcuni si fermavano a scambiare due parole in attesa delle proprie carrozze. E gli sembravano tutti ancora più tetri adesso nei loro indumenti scuri, le parrucche sui toni del grigio e il viso incipriato per apparire ancora più chiaro.

Lui guardava e non capiva. Perché adesso erano felici? Perché erano tutti vestiti di nero mentre lei aveva soltanto quella fascia al braccio?

Una donna con i capelli lunghi scuri e l’abito dello stesso colore discese la scalinata, a qualche metro di distanza. Pochi passi dietro, un uomo in divisa da ufficiale. Bisbigliavano. Si voltò nella loro direzione. Un brivido li colse quando gli sguardi si incrociarono.

Riconobbero subito lui. - È Nicolas De La Motte, quello. - Disse André. – L’altra dev’essere sua moglie, non ricordo il suo nome… Ma è strano vederli qui, non sono mai venuti negli anni passati.

Li osservò seria Oscar. - C’è qualcosa di inquietante in loro.

L’amico annuì.

Era strano davvero. Da quando madame era morta non si erano fatti vedere alle messe in suo ricordo. Perché mai proprio quell’anno? Per quanto ne sapevano, peraltro, abitavano ancora nel suo palazzo. Forse avevano riscoperto una certa riconoscenza. O forse…

Scesero di nuovo sulla piazza, la carrozza li aspettava dall’altra parte della strada. Si accorsero che la donna vestita di nero si stava avvicinando, da sola. Lo strascico volava rasoterra sul pavimento di pietra impolverato.

Quando li raggiunse, si esibì in un vistoso inchino. Un sorriso glaciale si aprì sul suo volto.

- Buongiorno, madamigella. È un vero piacere poter fare la vostra conoscenza.

Si accorse che Oscar la osservava senza alcuna espressione. Teneva in braccio il bambino, ritraendolo un poco. Non tradiva alcuna emozione.

-Sono Jeanne Valois. Ma immagino che sarete più familiare con mio marito, il capitano Nicolas De La Motte.

La sua voce suadente pareva voler ipnotizzare chi l’ascoltava. Fece un altro passo in avanti. Le si fermò esattamente davanti e la guardò negli occhi.

- Molto piacere, madame. - L’altra tentò di essere il più concisa possibile. Meno tempo passavano insieme, meglio era.

- Volevo ringraziarvi per aver presenziato alla messa. Ho saputo che non siete mai mancata in questi anni.

- La marchesa era un’amica di mia madre. Ora, con permesso, dovremmo andare. Arrivederci.

Jeanne si spostò per lasciarla passare. I suoi occhi si spostarono per un istante sul piccolo, che ricambiò. La notò subito la macchiolina sullo zigomo. Così simile al neo che campeggiava sul proprio.

- Confido di incontrarci ancora, colonnello.

Ma Oscar le aveva già dato le spalle.

La donna in abito nero li guardò allontanarsi. Sentì la presenza del marito accanto a sé. Non gli rivolse neanche un’occhiata, ma sentenziò: -Invia quella lettera, Nicolas.



Salirono i due gradini che portavano alle sedute. Frans insistette per poterci provare da solo ma il primo era troppo alto e finì per essere sollevato fino all’ultimo.

La porta si chiuse e il cocchiere fece partire i cavalli. Attraversarono Parigi, un ingorgo di vie grandi e vicoli stretti e povertà.

Il bambino cercava di allungarsi verso la finestrella pur rimanendo seduto accanto alla madre, ma non c’era niente da fare. Non ci arrivava.

- È una mattinata difficile per te che hai le gambe corte, vero? Prima in chiesa vedevi solo il soffitto, adesso soltanto il cielo.

André amava provocare il suo amico, il cui pensiero fisso del momento era dimostrare di essere grande come chi lo circondava.

- No, non è vero! - Frans ci cadeva sempre. E discutere sul nulla era il suo forte. Soprattutto con lui. Si aggrappò alla spalla della giacca di Oscar per reggersi, poi si alzò sul sedile tra le rimostranze degli altri due. - Lo vedi? Sono come te!

- No, non lo sei comunque. Per favore, siediti composto. - Lei gli parlava sempre in tono diretto anche se amorevole. Non credeva ci fossero altri modi per potergli far capire le cose.

E infatti la maggior parte delle volte funzionava, come quella. Il bambino scese e si spostò sulle sue gambe mentre faceva una smorfia all’uomo davanti a sé. Perché comunque voleva averla vinta, a ogni costo…

- A quanto ho sentito il cardinale De Rohan sta facendo di tutto pur di tornare a Versailles, sai?

La buttò lì la notizia André. Come se fosse qualcosa di poco rilevante. Invece Oscar se ne interessò anche se non voleva darlo a vedere, che i pettegolezzi la infastidivano. Molti, però, erano corretti. Purtroppo.

- Dubito che sua Maestà accetti di riaverlo intorno. – rispose lei. – È stata entusiasta e ingenua nel passato, ma non scorda gli insegnamenti di sua madre.

L’amico annuì. Scostò la tendina e vide Notre Dame passare alla sua destra. La carrozza si fermò per far passare qualcuno e da lontano riconobbe delle figure note. Aggrottò la fronte, stranito.

Di nuovo quei due. Non erano da soli, però. Stavano parlando con qualcuno mentre entravano nella cattedrale. Guardò meglio.

La sua curiosità verso l’esterno catturò quella del bambino. In un momento gli si buttò addosso e pretese di poterlo emulare. Di nuovo in piedi sul sedile, ma almeno sorretto. I cavalli ripartirono.

- Parli del diavolo… - Commentò André. Cercò di dividere l’attenzione tra le tre persone ormai puntini sul sagrato e Frans che voleva scendere.

- Chi hai visto?

-Il cardinale stava entrando a Notre Dame con Jeanne e Nicolas. Erano insieme anche dopo il funerale della marchesa, se non sbaglio.

Oscar non riusciva a togliersi dalla testa l’impressione che aveva avuto di quella donna. E lo sguardo che aveva riservato a suo figlio. Gelido, tagliente.

- Sì, mi ricordo. Dobbiamo prestare molta attenzione, d’ora in poi.

- Un’altra cosa, però, mi è sembrata insolita. - André notava sempre il dettaglio, in tutto. Anche nelle parole degli sconosciuti. - Jeanne non si è presentata con il cognome del marito.

- Valois ha origini più prestigiose. Dev’essere una discendente della famiglia precedente ai Borboni sul trono di Francia.

- Sempre che sia il suo vero cognome.

Oscar alzò gli occhi sul suo volto. - Cosa intendi dire?

- Girano voci, ma voglio essere sicuro che siano attendibili prima di riferirtele. Sarebbe inutile, altrimenti…

Lo conosceva bene quel mezzo sorriso che le offriva. Lo conosceva e sapeva che poteva fidarsi. Non doveva neanche esplicitarlo il permesso di scoprire di più.

Il discorso si concluse lì.

Per il resto del viaggio fino a palazzo ci pensò Frans a intrattenerli. L’abitudine di farsi sentire non gli era mai passata. Anzi, era aumentata. Da che aveva iniziato a balbettare quel nome difficile, un paio d’anni prima. Davanti a loro due e li aveva sorpresi. Che stavano aspettando da tempo quel momento e finalmente era arrivato. Un po’ distratto, mentre giocava con un cuscino sul tappeto. L’aveva appena sentita quella parola e gli interessava. Ci aveva provato un paio di volte a dirlo. E loro lo avevano portato dalla nonna, per farglielo ripetere. Una sola sillaba, per la verità; l’ultima. Avevano deciso che contava come intera.

Ma adesso aveva a disposizione sempre più termini e li usava tutti. Cambiava argomento in fretta, era difficile stargli dietro. Solo il generale riusciva a conquistare il suo silenzio con uno sguardo. Era timore di tornare in castigo, imparava in fretta certe cose.

Tra i suoi argomenti preferiti c’erano i quadri appesi nel corridoio del piano nobile. Poteva passare ore a osservarli e inventarsi le storie dei loro protagonisti. Poi le riportava a chi lo ascoltava. O chiunque trovasse e non lo mandava altrove. E se dimenticava qualcosa, se la inventava su due piedi.

Oscar provò a inserirsi nel suo discorso. - Sai, è probabile che il generale ti chieda di posare per un ritratto, un giorno. - Gli spostò i riccioli biondi da davanti agli occhi.

Il generale. Non poteva chiamarlo in altro modo davanti al bambino: doveva imparare a farlo anche lui.

- Cosa significa… posare?

A volte gli sembrava complicato parlare con gli adulti, ma loro due si prendevano il tempo per spiegargli le cose.

- Significa farti fare un ritratto come quelli che ti piacciono tanto. - Aggiunse André.

- Davvero? - Il suo viso si illuminò. Già non vedeva l’ora.

- Prima dovrai imparare a stare seduto fermo e avere pazienza.

Rimase deluso dalla risposta di sua madre. C’erano già troppe cose che richiedevano di annoiarsi.

- Lo sai, è lo stesso motivo per cui non ce ne sono di suoi in casa. - Commentò l’altro, come a rivelargli un segreto, per attirare l’attenzione del piccolo. - Non ha pazienza e non riesce a stare seduta ferma.

Risero entrambi loro due, mentre lei alzava gli occhi al cielo.

Frans decise finalmente di non alzarsi più in piedi. Che tanto lo riportavano sul sedile ogni volta. Rimase accanto a Oscar, la teneva per mano.

E ricominciò anche il suo monologo. Altri mille discorsi intrecciati, incastrati come le pietre in una parete rocciosa. Ma la nonna lo diceva sempre: se smettesse, ci sarebbe da preoccuparsi.

Sapevano perché si comportasse così. Capitavano anche intere giornate in cui non aveva molta altra compagnia a parte la servitù. Che era ancora troppo piccolo per le lezioni di scherma e per cavalcare seriamente. Pertanto, quando uno dei due o tutti e due erano con lui, sfruttava ogni istante per recuperare.

E quantomeno loro lo lasciavano libero di esprimersi. Perché era un bambino solare e divertente, regalava sorrisi a chiunque. Anche se Marie avrebbe detto piuttosto che regalava spaventi, ma il sangue nelle sue vene è quello…

 
 
Note: la datazione dei fatti qui prende un po’ la sua strada. Ho cercato di unire gli eventi del canon secondo questa timeline (https://ladyoscar.forumfree.it/?t=77832319) , la mia idea per l’alternate universe e la storia reale. Se vi sembra particolare, sapete perché. Grazie!

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Capitolo 14
*** Capitolo 13 ***


Capitolo 13
- Come faccio a sapere di potermi fidare di voi?

- Solo il tempo ve lo dirà. In ogni caso, sarei una sciocca a voler imbrogliare proprio voi. Non trovate?

- Questo lasciate che sia io a deciderlo. Avete già provveduto…?

- Certamente, madame. Se tutto va come deve andare – e accadrà – non c’è bisogno di preoccuparsi.

La donna annuì. Il piano non le era ancora del tutto chiaro, ma non aveva altra possibilità. A volte è necessario correre qualche rischio per avere ciò che si vuole. A maggior ragione se l’oggetto del desiderio è così ben al sicuro. Ma una come lei non poteva permettersi di contemplare la sconfitta.

Alzò una mano e la cameriera, muta, versò il vino rosso all’interno di due calici di cristallo. Non aveva visto né sentito niente.

L’altra, ossequiosamente in piedi, accettò il bicchiere. Lo portò alle labbra, le inumidì appena ma non bevve. Era lei, adesso, a non fidarsi. Che cosa sarebbe successo se ci fosse stato del veleno? Aveva un obiettivo ben preciso, non doveva perderlo di vista.

- Ricordatemi dove mi avete incontrata la prima volta…

- Al ballo di madame Élisabeth, alcuni anni fa.

- Capisco… - Si alzò dalla sedia e sprimacciò la stoffa blu della gonna. - E di quest’uomo… come si chiama…

- Il cardinale De Rohan.

- Siamo certe di poterci fidare?

- Madame, quell’uomo farebbe di tutto e crederebbe a qualunque cosa pur di entrare nelle grazie di sua Maestà. Lo sto studiando da diverso tempo e, credetemi, non sarà di certo lui il problema.

La donna la squadrò da capo a piedi, poi si voltò verso la finestra. Era lì, fuori nei giardini, il centro della sua attenzione. E dei suoi fastidi. - Molto bene. Avete già provveduto a inviare ciò che avevamo concordato?

- Certo. Proprio poco fa, come d’accordo. Con l’avviso di farglielo recapitare non prima di stasera.

Sorrisero entrambe e si guardarono. Dopotutto, la posta in palio era molto grande.

- Se rimarremo unite, non ci saranno motivi per cui questo piano fallirà. Voi avrete ciò che tanto bramate, mentre io… Io mi sarò finalmente liberata di quel detestabile ingombro che mi rovina le giornate da ormai troppi anni.

Un valletto entrò nella stanza, scusandosi per l’interruzione. Sua maestà chiedeva di lei. Lo congedò e si affrettò alla porta, ma prima volle ricapitolare quanto deciso.

- Domani sera, allora. Nel bosco di Venere.

L’altra annuì e la guardò andarsene. Sorrise tra sé e sé. Possibile che fosse così semplice? Che la contessa Di Polignac si lasciasse usare senza remore, solo per togliersi di mezzo qualcuno?

Jeanne uscì dal salottino nel suo abito di seta verde scuro, le mani stringevano il ventaglio. Proseguì fino alla scalinata ovest senza salutare nessuno. I suoi occhi brillanti fissavano un punto imprecisato davanti a loro. Peccava di superbia, peccava sempre. Ma era grazie alla superbia che era riuscita ad arrivare fino a lì e non avrebbe smesso di certo sul più bello.

Cominciava a fare freddo a Versailles quel tardo settembre. Appena giunta fuori, nell’androne della reggia, si strinse nello scialle e camminò per un centinaio di metri. Un’ombra sinuosa stagliata sul chiarore dello sterrato, solitaria. Accanto a lei la gente istintivamente passava al largo, inquietata dalla sua presenza tetra. Il pallore della pelle sbatteva contro i colori scuri dei capelli corvini e degli abiti.

Si incontrarono a pochi passi dalla sua carrozza, vicino al portone dell’ingresso principale. L’aveva riconosciuta da lontano. D’altronde, era impossibile non farlo. Nessun’altra donna a corte andava vestita con un’uniforme. Men che meno con i capelli sciolti sulle spalle e una spada in vita. Non fece niente per evitare di incontrarla, anzi. Rallentò un pochino. Per essere sicura di non arrivare all’uscita prima che l’altra si avviasse sulla scalinata.

- Buongiorno, madamigella Oscar.

Lei alzò gli occhi sui suoi e la guardò seria con sospetto. - Buongiorno a voi.

Non aveva troppa voglia di perdere tempo. La superò, lasciandola a un passo dal portone spalancato. Poi l’altra la chiamò.

- Volevo ringraziarvi, colonnello.

Oscar la studiò un attimo, non rispose.

- Mio marito è uno dei vostri uomini, è il capitano delle Guardie Reali. Mi parla molto bene di voi e volevo che sapeste che vi sono molto grata per non averlo mai trattato come l’ultimo arrivato. Anche quando lo era. Non me ne dimenticherò mai.

- Non faccio favoritismi, madame. È semplicemente mia consuetudine considerare tutti allo stesso modo. - Tagliò corto l’altra. Pensò che dovesse avere delle tempistiche tutte sue quella donna. - Temo di dovermi congedare da voi, adesso. Buona giornata.

Jeanne di nuovo la osservò andare via. La ammirava. E la invidiava molto. Perché per essere dove era non aveva mai avuto bisogno chiedere scusa al mondo di essere nata.

Almeno, così dava per scontato che fosse.



Arrivò la sera stessa a palazzo Jarjayes un baule piuttosto pesante. Insieme ad esso, una lettera imbustata senza stemma. L’uomo incaricato di consegnarli aveva ricevuto l’ordine di attendere una volta lasciati nelle mani di chi doveva riceverli. Non conosceva chi abitasse lì. Doveva solo svolgere quel compito.

Venne fatto entrare dalla governante nell’anticamera del salotto. Appoggiò il carico sul tavolo e aspettò in un angolo. Le cameriere che passavano avanti e indietro di tanto in tanto lo osservavano, ma non gli rivolgevano la parola. Un tipo strano, nessuno lo aveva mai visto.

Si guardò intorno silenzioso, finché dei passi sulla scalinata di marmo richiamarono la sua attenzione. Una giovane donna in abiti maschili lo raggiunse, accompagnata da un bambino che saltellava sui gradini.

- Buonasera, monsieur. - Non sembrava molto convinta della sua presenza, ma si adattò a riceverlo al meglio.

- Colonnello Oscar François De Jarjayes?

- Sono io.

L’uomo indicò il tavolo alle sue spalle. - Mi è stato dato ordine di consegnarvi quanto trovate là sopra. Non posso dirvi da parte di chi.

Oscar si avvicinò al baule, ne studiò l’esterno. Ebbe di nuovo quella sensazione di disagio.

Preferì dare la priorità alla busta, che magari ne avrebbe scoperto qualcosa in più. Tirò fuori la lettera, precisa e senza macchie. Diede un’occhiata a quello sconosciuto: era una grafia femminile. Non c’era la firma.

“Sono una donna di parola, io. Vi ho detto che non mi sarei mai dimenticata della vostra gentilezza e così ho voluto omaggiarvi.”

Aprì con cautela la cinghia che teneva chiuso il contenitore. Ne alzò piano il coperchio. Il giusto che bastò per vedere qualcosa che rifletteva la luce del lampadario a goccia.

Accanto a lei, Frans si aggrappava al piano del tavolo. In punta di piedi, per vedere cosa ci fosse nella strana scatola. Allungò un braccio, ma ritrasse subito la mano. Il tonfo con cui il baule si serrò lo spaventò. Rimase immobile. Guardò gli altri due concludere la loro breve conversazione.

- Potete riportarlo indietro. Arrivederci.

Lapidaria.

L’altro mosse il capo. Richiuse la cinghia e ritornò sui propri passi. Le monete d’oro sotto il braccio e la busta in tasca. Una cameriera richiuse la porta una volta fuori di casa, ma l’atmosfera pareva compromessa.

Oscar attese che se ne fosse andato prima di rispondere alle insistenze del bambino. Non sapeva neanche lei chi fosse. Tutto sommato, forse non le interessava. Conosceva però l’identità del mittente e le bastava. Che una volta terminato un discorso non ci ritornava su.

Le premeva altro in quel preciso momento.

- Non devi toccare le cose che non sono tue se non hai il permesso.

Frans se ne risentì. Gli sembrava di non riceverlo mai quel permesso. Anche se, in realtà, gli veniva data la possibilità di fare molto un tempo proibito. Se non c’era il generale, ben inteso.

Pestò i piedi sul posto e strinse i pugni. Non si interessò minimamente del fatto che la nonna li stesse chiamando per la cena. Né che Oscar non gli desse retta. Lo guardava lamentarsi in attesa che finisse.

Era una lezione che aveva appreso in fretta. Da che il piccolo aveva iniziato a fare i capricci. I primi tempi le dispiaceva rimproverarlo perché piangeva, pur per un nonnulla. Come con la regina, era indulgente davanti alle tristezze delle persone a lei care. Ma sua maestà era una donna adulta ormai; Frans ancora un bambino e doveva imparare. Non poteva averle vinte tutte e sempre. Specialmente quando qualcosa non lo riguardava.

Allungò una mano perché lui non sbattesse contro uno spigolo. Attese un poco e la sua pazienza fu premiata. Venne notato il suo silenzio. La disperazione scemò.

- Oscar… - Le disse Frans asciugandosi gli occhi. Non aveva versato neanche una lacrima.

- Dimmi.

Un copione che si ripeteva sempre uguale. E che la inteneriva, a tempesta conclusa: aveva pur sempre tre anni. Quando il capriccio si risolveva in fretta, non c’era da imporsi più di tanto.

- Andiamo?

- Prima voglio che tu capisca che comportarsi così non serve a niente. - Prese la sua mano e si diressero verso la sala da pranzo. - E devi chiedere scusa alla nonna: urlavi mentre lei ci parlava e non si fa.

Il bambino annuì e le camminò accanto. Ci andò da solo da Marie nella stanza adiacente. Gridò il suo nome, come se non fosse lì davanti a sé. Le promise di non farlo più. La donna lo perdonò con un abbraccio, stretto alla gonna violetta.

Oscar lo ascoltava da lontano, accanto al tavolo. Sorrise e scosse la testa a quella bugia. Lui non si rendeva ancora conto, probabilmente, che lo era. Ma lo sapevano tutti che sarebbe successo ancora. Bisognava solo sperare che non esagerasse.

L’arrivo di André la distolse dai pensieri. Lui, a differenza del bambino, era meglio che venisse messo al corrente. Anche se, come sempre, la anticipò. Perché aveva visto tutto dal fondo del corridoio, ma non aveva sentito cosa si fossero detti.

- Chi era quell’uomo?

Tradì una certa preoccupazione la sua domanda. Sconosciuti a palazzo potevano essere pericolosi. Se non nell’immediato, in futuro.

- Jeanne Valois voleva corrompermi.  - Non sembrava particolarmente colpita dal fatto.

- Corromperti? - Le spostò la sedia e l’accompagnò al tavolo.

Udirono Marie e Frans avvicinarsi alla porta aperta tra le due stanze. Abbassarono la voce, per non attirare troppo la loro attenzione.

- O comprarmi, mettila come vuoi tu. Una cosa però mi sembra strana. L’uomo che ha mandato si aspettava che io rifiutassi. È rimasto nell’ingresso.

Gettarono un’occhiata verso la porta. Poi si guardarono, in silenzio. Si misero a bisbigliare.

- Cosa intendi fare?

- Ancora non lo so, ma tieni gli occhi aperti anche tu.



L’uomo aveva lasciato palazzo Jarjayes ed era salito accanto al cocchiere. Subito prima di partire, aveva lasciato il baule all’interno della carrozza. Come era stato convenuto.

- Come sapevi che avrebbe rifiutato? - domandò Nicolas.

Sua moglie sedeva nell’angolo buio davanti a lui. Entrambi coperti da un pesante mantello nero. I cappucci tirati su a celare il viso.

- Madamigella Oscar è una persona dalla morale integra. Ed è nobile. Una nobile vera. Non ha bisogno di un baule di monete d’oro. - Poi abbassò leggermente il tono, incupito: - Non ne ha mai avuto bisogno…

- Presumo che la contessa e il cardinale non verranno mai a sapere di questo diniego.

Jeanne sorrise compiaciuta. - Ovviamente, mio caro.

- Passi il cardinale De Rohan, ma… la Polignac è una donna furba. Mi sembra già troppo strano che si sia fidata…

Lei lo interruppe con una mano levata nel vuoto.

- Jolande De Polignac detesta madamigella Oscar più di qualsiasi persona al mondo. Farebbe di tutto pur di infangarla. Anche dare cento per avere in cambio la metà. Noi, invece, abbiamo bisogno di un appoggio per rendere credibile il perdono della regina verso quel religioso e procedere con il piano. C’est tout.

Nicolas si spostò accanto a lei sul sedile. Le abbassò il cappuccio per guardarla meglio negli occhi. Erano di un verde smeraldo brillante. Lo avevano sempre spaventato. Per questo l’amava tanto. In modo sordido, oscuro.

Jeanne era per lui una sorta di demone. Le aveva donato l’anima. E lei l’aveva accettata. Accettava tutto pur di non essere più sola, di non morire di fame. Perfino macchiarsi di un crimine. O più di uno.

- Ora ascoltami bene. - Proseguì la donna, seria. - Queste monete le terremo noi, ma a quei due faremo sapere che il colonnello le ha accettate. La contessa oramai ha avuto ciò che voleva: un motivo in più di cui parlare male di lei alla corte e qualcuno che garantisca. Dopo l’incontro di domani sera al bosco di Venere, il suo contributo sarà esaurito.

L’uomo annuì. Prese le sue mani e le strinse, avvicinandola ancora di più a sé.

- Non possiamo permetterci di coinvolgerla di più, o avanzerà ancora più pretese. Io non ho intenzione di dividere niente con nessuno, Nicolas. A eccezione tua.
 

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Capitolo 15
*** Capitolo 14 ***


Capitolo 14
Maria Antonietta aveva spesso strane idee improvvise. Un giorno la roulette, un altro il teatro, quello dopo la nomina di un qualche amico a ministro. Non sembrava avere una logica. L’importante era provare un breve momento di piacere. Quella sera era toccato alla passeggiata nei giardini.

Alle nove e mezza. In autunno.

- Va bene, Maestà!

- Che idea brillante, Maestà!

- Verremo con voi, Maestà!

E non era nemmeno stata una proposta della contessa. Che stranamente non si era fatta vedere da prima della cena. Ma lei aveva voglia di fare quattro passi e respirare un po’ d’aria fresca. La sua amica l’avrebbe raggiunta, chi lo sa.

- Vado a controllare il percorso.

- Grazie, madamigella Oscar. Posso sempre fidarmi di voi.

- Dovere.

Aveva già mandato a casa André. Che era tardi e non aveva più bisogno di lui lì. A palazzo, invece, qualcuno che reclamava probabilmente si era già addormentato.

E così adesso si dirigeva fuori, verso il bosco di Venere. Dove o non succedeva niente, o succedeva troppo. Sapeva che era in quel luogo appartato che Fersen e la regina si incontravano. Perché la sovrana con lei ne aveva parlato. Era un posto solitario, abitato da qualche statua senza braccia. Proprio per questo andava ispezionato.

Oscar si guardava intorno con circospezione. Come prevedibile, il percorso era vuoto e semibuio. Solo i versi di qualche uccello notturno, i passi di qualche animale tra i cespugli.

Proseguì comunque. Non poteva permettersi di lasciare un compito svolto a metà. E anche avesse potuto, non lo avrebbe fatto. Superò un piccolo ponte, sopra un ruscello che rifletteva i raggi di luna. Ancora nessuno. Soltanto il vento che soffiava sulla superficie dell’acqua.

Guardò alla propria sinistra. Il punto esatto in cui i due amanti si incontravano. Tra gli alberi, ben nascosti. Fino a quattro anni prima. Poi c’era stata la fuga, la guerra, una lettera. Fine. Niente di più. Per nessuna delle due. Solo che ora la lotta per l’indipendenza delle colonie stava volgendo al termine e di lui nessuna traccia.

Dove siete, Fersen? Avete un figlio.

Aveva smesso di pensarci in altri termini. Anche se un’ombra leggera, inevitabilmente, era rimasta. Che certe cose non si cancellano in un colpo. A maggior ragione se le conseguenze corrono ovunque per passare il tempo. Per Frans, invece, ci pensava eccome. Non foss’altro perché prima o poi avrebbe chiesto. E non voleva mentirgli.

D’un tratto udì un rumore. Come foglie secche schiacciate, o ramoscelli spezzati. Proveniva da destra, qualche metro più lontano. Nel sentiero che portava alla grande fontana.

Meglio controllare.



Era incredibilmente identica. Uguale a lei. Stessi capelli, stesso volto diafano, stessi occhi blu e grandi. I movimenti regali e delicati, il modo in cui teneva quella rosa tra le dita. Nessuno avrebbe potuto distinguerle. Soprattutto se non avesse parlato. Perché era la voce l’unica differenza tra le due. Ma qualcosa doveva dirla, o sarebbe stato troppo sospettoso. Non era un problema, però. Il cardinale De Rohan, testuali parole, era “un babbeo”. Non se ne sarebbe mi accorto.

Babbeo quando aveva creduto alla buona fede di quella donna con i capelli scuri. La nipote della defunta marchesa.

Babbeo quando l’aveva cominciata a ricoprire di livres.

Babbeo quando non aveva voluto dimostrazioni in cambio e quando le aveva chieste ma le risposte di Jeanne lo avevano convinto.

Perfino quando si era lasciato trasportare dall’emozione dello scambio epistolare segreto.

Ecco il motivo per cui non lo aveva mai incontrato in pubblico, la regina. Ed ecco perché lo voleva incontrare lì, nel bosco di Venere. Perché era, appunto, un segreto.

Purtroppo per lui, non aveva fatto niente per smentirle. Anzi. Ci era caduto con tutte le scarpe, per la seconda volta. Aveva creduto alla faccenda delle monete d’oro. E ora anche all’incontro con la regina.

Le si era prostrato ai piedi.

Che umiliazione per un uomo del suo rango, aveva pensato la contessa.

La fronte affondata nel terreno umidiccio, l’abito talare sporco di fango. Gli avrebbe chiesto di mantenere un briciolo di contegno, ma Nicolas De La Motte glielo aveva impedito. Bisognava lasciarlo fare.

Nicole Olivier. Una povera ragazza cieca di Parigi. La sorte l’aveva omaggiata con un incredibile regalo. Venire al mondo con il medesimo corpo della regina. Ma le aveva anche messo Jeanne accanto. E suo marito. E la contessa Di Polignac.

Nicole Olivier neanche sapeva di quella somiglianza. Come non era al corrente dell’inganno in cui era stata coinvolta.

- Eminenza, voi conoscete bene i miei sentimenti.

Era l’unica cosa che potesse dire. Non aveva avuto il permesso di aggiungere altro. E lei l’aveva ripetuta, all’infinito. Davanti a quell’uomo che non conosceva. Lo sentiva ai propri piedi, implorante. Non ne pensava niente, in fondo. Lei era stata pagata per essere ben vestita e pettinata. Per dire quella frase, reggere quella rosa. Nient’altro. E di quei soldi aveva un gran bisogno. Il gioco valeva la candela.

La contessa Di Polignac non aveva aperto bocca. Non poteva rischiare di farsi scoprire. Che se malauguratamente la storia fosse uscita…

Guardavano tutti e tre fra gli alberi la scena pietosa di un uomo di chiesa che scongiurava una finta sovrana per un po’ di attenzione.

- Io sono un vostro umile servitore, Maestà. Conserverò questa rosa per tutta la vita!

- Eminenza, voi conoscete bene i miei sentimenti.

- Ma certo, Maestà, li conosco. E voi mi state rendendo l’uomo più felice del mondo!

Jeanne aveva interrotto l’incontro. Che stava arrivando qualcuno e bisognava fuggire. Una scusa, già concordata tra loro spettatori. E il cardinale, il solito babbeo, si era esibito in un goffo inchino. Poi era scappato via, nel bosco. Era perfino ruzzolato a terra, inciampando nell’abito e nelle pietre. Sparito nel bosco, felice.

Contento lui…

Se non fosse stato che qualcuno davvero stava arrivando.

Nicole Olivier continuava a ripetere quelle parole. Ne sembrava ossessionata. Aveva smesso soltanto quando la situazione era cambiata.

Aveva sentito un gran rumore di passi e rami e foglie schiacciati. Poi il terreno le era mancato da sotto i piedi. Si era affidata alla presa decisa di Nicolas. Caricata sulle sue spalle, sentiva il freddo entrare nelle maniche a sbuffo dell’abito. Una gran concitazione, il cuore le batteva forte. Aveva paura. Così tanta che perfino non aveva sentito cosa si fossero detti chi la circondava.

All’improvviso erano finiti nell’acqua. Era gelata. Tremava tra le braccia di quell’uomo e non aveva risposte. Il buio in cui abitava da sempre si era fatto ancora più scuro e spaventoso. Pregava che tutto finisse il più presto possibile.

- Adesso andiamo alla carrozza.

Jeanne era tornata sui suoi passi. A nascondersi tra gli alberi fino al momento giusto. Avevano messo in conto quell’ipotesi. Anche se era il piano secondario. Ma lo avevano previsto. D’altronde, la contessa era lì per quello. Che cosa se ne facevano, altrimenti, di una zavorra in più?

- Madamigella Oscar, cosa ci fate qui a quest’ora? - domandò madame con voce oltraggiata.

Come se quel posto fosse di sua proprietà. E come se non fosse più strano che a tarda sera ci Si trovasse la migliore amica della regina e non il comandante delle Guardie Reali.

- Dovrei essere io a chiederlo a voi. Vi consiglio di tornare alla reggia. Sua Maestà vuole fare una passeggiata e chiedeva dove foste. - rispose l’altra.

Prestò attenzione a non avvicinarsi troppo a lei, come sempre. Notò un’ombra alle sue spalle, provò a muoversi ma la contessa la ostacolò.

- Torno subito dalla regina. In ogni caso, non credo di aver bisogno dei vostri consigli: so sempre di cos’ha bisogno la nostra sovrana. - La donna fece un paio di passi per superarla. La urtò leggermente, braccio contro braccio. - Quanto a voi, piuttosto, affidatevi a una donna con maggiore esperienza. Ve l’ho già detto: concentratevi su ciò che vi compete, non sugli affari altrui. Sono sicura che ne avete già abbastanza di pensieri vostri.

Si trattenne Oscar. Per l’ennesima volta. Ma pareva che gliele volesse togliere di bocca le parole che pensava. La incenerì con uno sguardo. Non avrebbe mai ceduto a quella provocazione, né alle mille altre. Pur davanti alla centesima insinuazione. Pareva divertirsi a insinuare il veleno attorno a lei. Come la settimana in cui aveva messo in giro voci su chi fosse il padre. E si era arrampicata su ogni specchio per sospettare del suo attendente.

No, si divertiva a farlo. È diverso.

La squadrò da capo a piedi mentre se ne andava.

Il giorno in cui la contessa se ne sarebbe andata era comunque troppo tardi.

Proseguì ancora, verso la vasca della fontana. La stessa in cui César e il cavallo di Maria Antonietta erano stati lasciati cadere per evitare il disastro.

C’era una figura scura, in piedi davanti al bordo. Non pareva in pericolo, ma si affrettò comunque. Era buio, la luce della luna non bastava a svelarne l’identità. Però le sembrava di conoscerla. I suoi capelli si muovevano nel vento, sciolti. Insieme ad essi, una specie si mantellina corta. O almeno così sembrava.

Si accorse che oltre la sua silhouette l’acqua era ancora increspata. L’aveva udito qualche minuto prima il rumore di qualcosa che ci finiva dentro.

La persona sconosciuta si voltò nella sua direzione. Sorrideva e spostava una ciocca scura dal viso.

Un consesso di menti affidabili.

- Madame Valois, mi è parso che qualcosa sia caduto nella fontana.

- Oh certo, mademoiselle. Stavo solo giocando con delle pietre.

- Non trovate sia tardi per questi passatempi? E poi fa freddo. Posso riaccompagnarvi alla reggia.

L’altra rifiutò con un gesto del capo.

Le sembrò di vedere un riflesso sotto la stoffa della mantellina, appoggiata sul braccio. Un riflesso argenteo. Diede un’occhiata più precisa mentre quella donna si scusava e la lasciava lì. Doveva avere un pugnale nascosto tra le pieghe.

Qualcosa continuava a non tornare.

Prima la contessa.

Poi il rumore nella fontana.

Infine Jeanne, con un’arma nascosta.

Oscar si decise a cambiare i piani ancora una volta. Non si fidava. Non poteva lasciare che la regina si aggirasse per luoghi frequentati da gente poco raccomandabile. Anche se una era una sua cara amica.

Proseguì nel giro di ricognizione. Perfino nelle zone non necessarie. Concluse tra sé e sé che se avesse incontrato ancora qualcuno, si sarebbe prodigata per rimandare al giorno dopo.

Non incontrò più nessuno in giro. Ma l’iniziativa la rendeva comunque perplessa.



Quasi tutte le candele erano ormai state spente a palazzo. Marie le aveva lasciato solo il doppiere all’ingresso. Il fuoco nei caminetti si stava lentamente consumando.

Salì le scale, ma arrivata sul mezzanino dovette fermarsi. Qualcosa vicino alla balaustra catturò la sua attenzione. Si accovacciò, senza avvicinare troppo il candelabro. Afferrò un pupazzo di stoffa. Era il coniglietto imbottito di cotone che le cameriere avevano cucito per il terzo compleanno di Frans. Se lo portava ovunque e ovunque lo lasciava. Doveva riportarglielo. Se si fosse svegliato senza, avrebbe cominciato a cercarlo in giro.

Il generale non tollerava il disordine. Anche un semplice animaletto di stoffa creava confusione. Se lo avesse trovato, abbandonato in un angolo, ci sarebbe stato un nuovo castigo. E l’ultimo era finito da pochi giorni. Oscar li ricordava ancora i rimproveri per aver lasciato qualcosa fuori posto da bambina. Era diventata scrupolosa a forza di essere sgridata. Così le sue sorelle. Una delle poche cose che avevano accomunato le loro diverse educazioni.

Si rialzò e girò l’angolo. Giunse in corridoio. La porta della stanza del bambino era la seconda sulla destra. Non lontana dalla sua. L’aprì piano, appoggiando il doppiere sul tavolino di fuori.

Scivolò dentro. Ancora una volta utile l’addestramento in accademia. Camminare di soppiatto per sorprendere il nemico. O non disturbare il proprio figlio per riportargli il pupazzo. O entrambe le cose, perché no.

Si avvicinò al letto. Il coniglietto di pezza venne adagiato sotto le coperte, tra il cuscino e braccio. Lo osservò dormire. Quel viso che ora, nella penombra, non le sembrava troppo somigliante alla sua famiglia. Si sentiva sempre un po’ strana quando notava qualcosa del padre in lui. Ma d’altronde, così doveva essere.

Frans non si accorse della carezza che gli diede lei. Si girò dall’altra parte. Portò con sé anche il pupazzo; nel sonno, non ricordava di non averlo con sé.

Oscar decise di uscire. Cominciava a percepirla la stanchezza di quella lunghissima giornata. Lasciò la stanza e richiuse l’uscio con delicatezza.

Dalla porta della sua camera vide un riflesso di candele accese. Un istante più tardi, uscì André con un vassoio sotto il braccio. Non la notò subito. Quando si avvicinò la salutò reggendole il doppiere.

- È andato tutto bene al bosco di Venere?

Lo aveva notato dalla sua espressione che doveva esserci qualcosa sotto.

- Ti spiegherò meglio domani. Qui invece?

L’altro scosse la testa, sarcastico. - Abbiamo sfiorato la tragedia.

Non era sicura di voler sapere perché. Né chi ne fossero i protagonisti. Benché a uno arrivasse da sola.

Si avviarono entrambi verso i suoi appartamenti.

- C’è stata una caccia all’uomo senza esclusione di colpi. Per poco non veniva coinvolto perfino tuo padre. Non so quanto ne sarebbe stato entusiasta… Comunque è rientrato a operazioni concluse.

- Non ti seguo.

- In effetti, più che caccia all’uomo era una caccia al coniglio. Frans ha perso il pupazzo, ci siamo messi a cercarlo tutti…

Lei lo interruppe. Era meglio svelare l’arcano. - Era sul balconcino interno, in un angolo. Gliel’ho riportato.

André la guardò stupito. Tutta la sera lo avevano cercato e quello se ne stava sotto il loro naso!

Venne da sorridere a Oscar. L’idea di un intero palazzo alla ricerca di un giocattolo di pezza le si figurava divertente. Ma più che altro insolita.

Per fortuna che mio padre non c’era, allora.

- Vorrà dire che domani avrò la conferma che era andato a fare una passeggiata da solo dal diretto interessato. - Commentò lui. Che c’era da dare sfogo alla fantasia per spiegare le cose al piccolo. L’amica annuì.

Ormai erano in camera. Le candele appoggiate sulla mensola del caminetto non illuminavano più granché. In compenso c’era il fuoco del camino, ravvivato da pochissimo. Sul comodino, l’acqua e un bicchiere nel caso avesse sete. La camicia da notte piegata sul bordo del letto. Ogni cosa al suo posto, come al solito.

- Ti ho preparato tutto per la notte. Hai bisogno d’altro?

Oscar scosse la testa. Non aveva bisogno di niente.

O forse sì. Di qualcosa aveva bisogno. E ci pensava da tanti di quei mesi ormai… Talmente tanti che era quasi grottesca la faccenda.

Era qualcosa che non riusciva a spiegarsi davvero. Che la distraeva a volte e diventava più acuta tornando a casa. Si accompagnava al timore di non essere in grado di definirlo. O meglio: di non avere il permesso di farlo. Perché lei, nonostante la piega degli ultimi anni, rimaneva un soldato. E i soldati non provano solitudine. I soldati si bastano da soli.

Dunque non ne faceva parola neanche con se stessa. Non menzionava mai nei propri soliloqui che il sentimento un tempo provato era stato sostituito. Taceva di quanto amata si sentisse da tre anni tramite l’immenso affetto che lui nutriva per suo figlio. Perché quel bambino era una parte di sé. Amare uno equivaleva ad amare l’altra.

Eppure… Cominciava a essere impegnativo. Non che si trattasse di “accontentarsi”. Ma di sicuro non era esclusivo. E voleva provarsi e provare, per una volta. Ad avere e condividere allo stesso tempo.

Uno solo al mondo poteva davvero darle ciò che cercava. Le stava davanti. Le chiedeva se avesse bisogno d’altro. Lo faceva da tutta la vita. Lo guardava, illuminato in parte dal fuoco del camino. Pensava a quante volte in quegli anni avesse provato a interpretare un gesto, un segnale da parte sua. Ma non le sapeva decifrare certe cose! Anche ci fossero state… Soprattutto se nascoste tra altre.

Abbassò lo sguardo al tavolino tra di loro. Imbarazzata da ciò che aveva osato dirsi.

André lo notò. Si accorse che era in difficoltà. Perché invece di congedarlo lo teneva lì. E ipotizzò che forse lo era perché lui rimaneva. Oscar doveva cambiarsi e non poteva di certo farlo in sua presenza. Che il permesso di andare e venire capitava che neanche gli servisse. Bastava bussare, o annunciare la partenza. E allora come mai adesso attendeva un suo cenno? Prolungava la permanenza in camera per compensare con le ore che si era trattenuta a Versailles?

Si diede dello sciocco. Che quel sentimento era proibito e sbagliato. Sempre lo era stato e sempre lo sarebbe stato. Non aveva senso. C’erano il rango, il ruolo, la famiglia, le regole della società. Tutto tra di loro. Per di più, Oscar era certo avesse la mente concentrata sulla vita militare e il cuore sul piccolo. Così come doveva essere. Bisognava tenerle per sé certe illusioni eterne.

Fu lui a superare l’impasse. Le augurò la buonanotte e in un attimo la porta si richiuse. Con rammarico di entrambi. Anche se non lo sapevano.



All’ora della colazione il palazzo era già a pieno regime. La servitù si prodigava a rendere la vita dei padroni più leggera. I signori ne traevano beneficio. Come ogni giorno.

Il generale ci teneva ad avere la famiglia insieme a tavola al mattino. Compreso il grande assente. Che sapevano essere sveglio, lo sentivano. Si aggirava mostrando a tutti il coniglietto redivivo. La voce dell’uomo tuonò nella sala da pranzo. Un minuto prima che il colpevole apparisse.

Frans Auguste.

Lo chiamava per nome completo. Soprattutto se doveva rimproverarlo. Era l’unico a farlo. E ne andava fiero. Che lo capisse fin da subito chi dettava le regole lì dentro. La colazione va consumata tutti insieme. Salvo rare eccezioni. E finché non si fosse fatto vedere, agli altri toccava aspettare. Non aveva molto tempo da perdere.

- Oscar, devi essere più rigida con il bambino.

Che poi, in verità, perfino lui si era ammorbidito nel tempo. Quando era sua figlia a tardare, andava a prenderla di peso e portarla a tavola. E non accettava scuse! Se avesse aperto bocca per protestare se ne sarebbe pentita! Ora invece si limitava a sgridare severamente. Magari un pugno sbattuto accanto alle posate.

Forse era davvero invecchiato. O forse era perché comunque a quella piccola peste si era affezionato. L’ingrigirsi dei capelli faceva questo effetto anche sul più duro dei generali. Lo rendeva un poco più malleabile. Solo un poco.

- Padre, vi posso assicurare che sono tante le regole che gli impongo.

- Non abbastanza. - Sentenziò l’uomo e studiò il modo in cui il tè gli veniva versato nella tazza. - Altrimenti sarebbe già qui.

Si intromise sua moglie. Pacifico avvocato difensore dei più piccoli in quella casa. Fin tanto che le fosse consentito. - Non sta facendo nulla che non farebbe un buon soldato. Voi non avete le vostre medaglie appuntate sulla giacca?

- Che domanda sciocca! Ovviamente, ne va del nostro onore di militari.

Rispose un po’ piccato, ma troppo concentrato a non scottarsi con la colazione.

- Frans le medaglie da esporre ancora non può averle, ma ha un pupazzo che ieri aveva perduto e questa mattina ha ritrovato.

Il generale alzò gli occhi al cielo. Marguerite tendenzialmente aveva ragione. Ma non lo avrebbe mai ammesso, figuriamoci.

Il bambino entrò nella sala da pranzo. Gli occhi puntati su di sé. Una cosa che lo intimoriva ovunque. Anche a casa propria. Forse ancora di più lì.

- Buongiorno, ti stavamo aspettando. – Esordì Oscar con il tono del rimprovero travestito da tutt’altro.

Frans si sedette accanto a lei. La sua sedia era diversa. Aveva un cuscino spesso per evitare che sparisse sotto al tavolo. Salutò i presenti con cortesia, ma si accorse che qualcosa non andava. Strinse tra le mani il coniglietto in attesa della colazione. Di tanto in tanto qualche calcetto all’aria per ingannare il tempo.

Un inizio giornata un po’ in salita. Per tutti. Anche per l’unico senza responsabilità. La sua fonte di gioia venne costretta a rimanere sulla sedia, ben nascosta. E glielo spiegò ancora, duro e severo, il generale che non poteva perdere tempo dietro le sue ridicolaggini. Non era sicuro di sapere cosa significasse quella parola. Ma non suonava come una lode.

A dispetto del padre, Oscar tentava approcci un poco meno marziali. Ugualmente diretti e decisi. Ma incutevano meno timore. Che lui non faceva (ancora) parte dei suoi uomini, non c’era bisogno di parlargli da ufficiale.

- Devi capire che ci sono altre persone intorno a te. Non è giusto farle attendere. Prima la colazione, poi il resto.

Frans annuì e si scusò. Di sua spontanea volontà: aveva capito l’errore. Poi gli servirono una tazza grande come la sua faccia e l’attenzione si focalizzò solo su quella.

Il pasto continuò più sereno, almeno fino all’ora in cui i signori non dovettero andare alla reggia. Si alzarono lasciando figlia e nipote al tavolo. Un saluto veloce, Versailles non accetta ritardi.

Lo incrociarono nel corridoio André. Appena rientrato dalla commissione che la nonna lo aveva mandato a fare tanto presto. In un breve inchino si spostò per lasciarli passare.

Quando entrò nella sala da pranzo si stranì. C’era un po’ troppo silenzio. Salutò gli ultimi rimasti, aiutando le cameriere a sparecchiare i posti lasciati vuoti.

L’assenza di parole contagiò anche lui. Lo chiese scuotendo il capo che cosa fosse successo. E Oscar glielo disse con un’espressione del viso di non preoccuparsi.

- Ho scoperto qualcosa che credo possa interessarti… - Se ne uscì André con un piatto ancora in mano.

L’altra lo guardò, il volto in parte coperto dalla tazza di tè. Gli fece cenno di proseguire.

- Quella donna, Jeanne Valois… pare che abbia detto la verità sul suo cognome.

- Uhm… Almeno in questo è stata sincera.

Non le diede modo di articolare il pensiero. C’era di più. - Non lo darei troppo per scontato.

- Ossia?

- Nessuno sa nulla del suo passato. Certo, ha abitato presso la marchesa De Brambéry, ma pare essere apparsa dal nulla nella sua abitazione. La chiamava zia, ma nessuno dei suoi conoscenti l’ha mai vista né sentita nominare prima di qualche anno fa. È strano, non trovi?

Oscar lo ascoltava attenta.

Non era così infrequente per i nobili aiutare qualcuno in difficoltà, per varie ragioni. Lei stessa con Rosalie. Suo padre con André. Si faceva. Ciò che non era inusuale, invece, era quanto ne stava conseguendo.

Esattamente come il loro incontro della sera prima. Inusuale.

- Sì. Lo trovo strano. E ho trovato strano anche incontrarla ieri sera vicino al bosco di Venere. Aveva un pugnale nascosto nella manica del vestito.

Glielo diceva senza guardarlo in faccia. Fingeva fosse normale amministrazione. Ma non lo era.

-Pensi che…

Lei scosse la testa. A che pro voler provare ad uccidere la regina? Peraltro, non poteva sapere che si sarebbe recata nei giardini.

Raccontò tutto. Tutto ciò che aveva visto e udito. Con chi aveva parlato. Cosa si erano dette le tre donne. E nelle risposte di lui la percepì una nota di preoccupazione. Si sorprese contenta di esserne il centro. André si preoccupava per lei e le faceva piacere.

Tossì appena. Si schiarì la voce e tornò al discorso.

- Non so fin dove vogliano spingersi, André. Qualsiasi cosa sia, bisogna guardarsi bene le spalle.

L’altro confermò convinto.

Quelle due donne erano da tenere sott’occhio singolarmente. Ma insieme erano ancora più pericolose.

Fu nel momento in cui finì l’ultimo biscotto che Frans tentò la fuga per andare a giocare. Aveva ancora le briciole sulle labbra.

Un braccio lo bloccò prima.

Pur avendo finito entrambi, Oscar non gli aveva dato il permesso di alzarsi. Ed era un’altra cosa da imparare. Rispettare i silenzi e gli assensi dei più grandi. Anche se quella mattina pareva intenzionato a voler agire di testa propria.

- Forse venire a Parigi con noi oggi non ti interessa, dopotutto.

Abbandonò la frase a metà. Ci pensarono gli altri due a raccoglierla. Con stupori uguali e contrari. Che al primo pareva una prospettiva inedita ed emozionante. Ma per il secondo era inedita e basta.

Lo lasciò andare solo quando la nonna venne a prenderlo per portarlo a cambiarsi. Il rango continuava a impedirle molte cose con lui. Anche se, di tanto in tanto, si prendeva libertà che riteneva le spettassero.

Quando si alzò, Oscar lo guardò negli occhi André. Comprese il suo dubbio. Sapeva di aver fatto un’improvvisata. E glielo spiegò che non c’era nulla da fare in città.

- Temo che se lo teniamo a palazzo oggi lo rade al suolo. - e lo invitò a prepararsi.

Qualcosa da fare la troveremo.
 
 
Note: grazie per aver letto fino a qui! Nell’anime la valuta di cui si parla sono i franchi, ma all’epoca della Francia prerivoluzionaria la moneta corrente era la livre (reintrodotta nel 1776 dopo la parentesi del luigi). Ho fatto anche una ricerca (un po’ veloce, lo ammetto) sui giocattoli dei bambini all’epoca e sì, gli animali di pezza li avevano (cuciti a mano, naturalmente).

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