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Autore: aubrunhair    20/02/2024    6 recensioni
Era venuto al mondo un maschio poi finalmente e il suo essere maschio lavava via gran parte dell’onta e sarebbe stato il futuro della famiglia. Il cognome bastava e avanzava a renderlo il degno erede dell’erede di Reinier De Jarjayes.
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: André Grandier, Axel von Fersen, Nuovo Personaggio, Oscar François de Jarjayes, Quasi tutti
Note: AU, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Prologo

Un sole pallido illuminava la proprietà velato da una coltre di nuvole bianche. Dicevano che sarebbe piovuto a breve, ma di acqua non c’era ancora traccia. E neanche di lui.

Pestava impaziente i piedi sul legno scuro sotto le scarpe. Il suo nasino era schiacciato contro la finestra da talmente tanto tempo che ormai lo sentiva ghiacciato. Le impronte che lasciava sul vetro attiravano i rimproveri dell’anziana signora ogni volta che passava dall’ingresso e lo trovava sempre lì, sopra la cassapanca nell’atrio. Il suo paio di occhi colore del ghiaccio studiava il viale alberato da un’ora.

Un’attesa senza fine, una noia mortale. A volte i piccioni lo distraevano, fingeva di contare quelli che si posavano sul davanzale ché non conosceva tanti numeri oltre il cinque e da lì in poi se li inventava. Gliel’avrebbe detto appena tornato a casa: quel pomeriggio ne erano volati addirittura cinquanta! Anche se neanche sapeva quanti fossero cinquanta.

Si sporse verso sinistra e picchiò la fronte contro il telaio della finestra. Un altro taglietto, nulla di rilevante. All’improvviso, l’illuminazione.

- André! - pigolò e saltò giù dalla cassapanca per correre alla porta. - Apri, per favore? Apri, apri! - insistette lui quando si accorse di una cameriera che passava alle sue spalle.

Gli mancava molto quando era via e vederlo rientrare era sempre una grande gioia.  

Il portone era ancora semichiuso quando il piccolo sfrecciò fuori e gli corse incontro. La pietra delle scale era umida e scivolosa, ma a lui non interessava. Aveva rischiato tante volte di finire con la faccia sulla ghiaia, alcune era anche successo mentre altre era stato acciuffato in tempo.

Si amavano come padre e figlio quei due e che entrambi sapessero di non esserlo non cambiava affatto le cose. Erano legati da un filo rosso invisibile e incomprensibile a chiunque, o quasi. Non condividevano una goccia di sangue, eppure avevano preso ad assomigliarsi. I medesimi gesti, le abitudini, la stessa testa. Dura, durissima. Il loro cuore batteva all’unisono.

Non si era infilato la giacca prima di uscire in giardino, ma la corsa a perdifiato e l’emozione non gli facevano sentire il freddo del vento autunnale che gli soffiava in faccia. Inciampò su un sasso un po’ più grande, ma un paio di braccia forti lo fermarono prima del disastro. Chi l’avrebbe sentita poi la nonna!

- Frans, quante volte ti è stato detto di andare piano, sennò ti fai male? - lo rimproverò André con estrema dolcezza.

Il bambino si rimise in piedi e gli si gettò addosso come se non si incontrassero da un secolo. Si allungò per farsi sollevare, ma l’altro lo sorprese caricandoselo in spalla. Lo divertiva sempre tantissimo quando lo faceva, gli sembrava che il mondo fosse diverso da lassù.

Rideva, rideva tanto. Il colletto della giacca dell’uomo gli dava il solletico sulla pancia, coperta solo dalla camicia che correndo si era sfilata dai pantaloni.

André aveva riconosciuto fin dalla sua nascita i tratti di famiglia: i capelli ricci e biondi, gli occhi grandi, le ciglia lunghe e le guance rotonde. C’era una piccola macchia più scura sul suo visino, però, proprio sullo zigomo destro, che gli era valso il soprannome di Chicco di caffè. Ma era una cosa solo loro quella lì, solo di loro due e la tiravano fuori quando non c’erano altri in giro. Non ricordava di aver mai vissuto un’agitazione simile a quella che aveva preceduto la venuta al mondo di Frans, tre anni prima. Nessuno lo aspettava prima della seconda metà settembre, ma lui si era affrettato. Il 26 agosto, il giorno del suo compleanno. Un bel regalo, non c’è che dire. Uno splendido regalo. Un’ansia del genere l’aveva convinto del fatto che ci avrebbe pensato due volte prima di avere un figlio suo un giorno – sempre che… E non era detto, anzi. Era un’ipotesi talmente remota da sembrare nulla.

- Dove sei stato? - gli chiese il piccolo. Agitava le gambe fingendo una protesta serrata, ma in verità voleva solo continuare a giocare.

- A Versailles, come sempre. - Lo rimise giù nonostante le lamentele e si accovacciò per aiutarlo a sistemare i vestiti. – Guardati, non puoi venire con noi un giorno se ti combini così ogni volta…

- E io quando vengo?

Frans si adoperò diligentemente a infilare di nuovo la camicia dove era scappata. Bastava poco a convincerlo: lui voleva sempre seguirli alla reggia e bisognava cominciare a salutarlo con abbondante anticipo prima di uscire di casa, perché i capricci erano sempre tanti. Qualsiasi scusa era buona per invitarlo a comportarsi bene, se il premio era una visita a palazzo un giorno.

Non che si pentissero di raccontargli com’era Versailles, cosa si faceva e chi ci viveva. Era un bambino curioso e non gli si poteva nascondere niente. Anche perché non li lasciava mai un momento quando tornavano a casa, ascoltava tutto e inevitabilmente finiva per immischiarsi in discorsi che non capiva. A lui piacevano soprattutto le storie di quanto il re e la regina non erano ancora il re e la regina, ma solo il Delfino e sua moglie, e intorno a loro succedevano cose divertenti. Almeno, alle sue orecchie lo erano. La principessa spaventata dal cavallo lo aveva fatto ridere tantissimo quel pomeriggio e la sua voce aveva riempito il salottino della merenda. Glielo avevano detto che sua maestà si sarebbe potuta far male, addirittura sarebbe potuta cadere, ma niente: trovava quella vicenda esilarante. Ciò accadeva perché Frans a cavallo già ci andava da qualche tempo, sempre insieme a qualcuno, e non gli era mai parso minimamente pericoloso.

André prese l’amico per mano, ché in casa se c’era il signor generale non erano tollerate troppe smancerie e a quanto pareva prendere in braccio un bambino era tra le peggiori. Lo viziavano il giusto perché non crescesse arido di sentimenti ma nemmeno presuntuoso, ma dietro le spalle del padrone c’erano grandi dimostrazioni di affetto da parte di chiunque.

A suo modo, in realtà, anche quell’uomo severo e poco loquace lo teneva nel cuore. Anzi, meno male che era arrivato! In modo un po’ troppo rocambolesco per i suoi gusti e troppe voci erano circolate intorno alla sua minuscola persona, da prima ancora che nascesse, e per molti giorni aveva pensato a un modo per zittirle, disfarsi di quella situazione incresciosa, imbarazzante, vergognosa. Ma era venuto al mondo un maschio poi finalmente e il suo essere maschio lavava via gran parte dell’onta e sarebbe stato il futuro della famiglia. Nonostante l’ombra che celava metà del motivo della sua esistenza e nonostante tutto il resto. Il cognome bastava e avanzava a renderlo il degno erede dell’erede di Reinier De Jarjayes.
   
 
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