capitolo II
GIOCO
DI RITRATTI
I
timidi raggi del sole spiavano al nuovo giorno tra le feritoie delle persiane.
Tenui colori sfumavano sul pavimento antico intingendolo come la tavolozza di
un pittore. Il vento del nord aveva spazzato via le ultime nuvole della notte e
un terso cielo azzurro aveva preso il posto della plumbea e tempestosa volta
del giorno prima. La governante bussò alla porta annunciandosi e incedendo
lentamente fino al letto.
-
Buongiorno duchessina. Come va questa mattina? Ha visto
che tempo bizzarro? Stanotte la tormenta, e questa mattina il sole splende in
cielo. Comprendo bene che é poco più dell'alba, ma suo padre si é raccomandato
di destarla presto per esser pronta per il viaggio. Se volete essere a Londra
per l'ora di pranzo, deve alzarsi subito. Ecco qui: la sua sedia é accanto al
letto. - disse la donna sorridente.
In tutto quel suo parlare, non aveva
distolto neppure per un attimo lo sguardo dalla ragazza che giaceva nel
pregiato baldacchino appartenuto ad una nobildonna. Rimirava quel bel volto con
dolcezza consapevole dello stato
disagiato di cui era affetta. Avanzò verso la finestra spalancando le persiane
e permettendo ai raggi dorati di irrompere nella grande stanza. Poi, si precipitò
all'altro capo del letto afferrando la vestaglia di seta azzurra tra le sue
mani.
Lapilli dorati e profumati mormoravano
nel camino riscaldando la grande stanza. Una fila di libri dalle copertine di
pelle e oro, erano disposti in ordine d’altezza sulla mensola di marmo del
focolare. Sopra il camino, imperioso nelle sue dimensioni e nel portamento, un
ritratto sembrava rimirarla affettuosamente.
Le labbra porpora le sorridevano
dolcemente come gli occhi del suo stesso, meraviglioso colore.
La ragazza alzò lo sguardo verso il
ritratto, poi sospirando sommessamente, voltò il profilo verso la finestra che
s’affacciava sulla marina. Chinò gli occhi sulle coperte e facendo leva sulle
braccia si sedette sul letto attendendo la veste da camera.
La indossò e, con una praticità oramai
sua, si spostò velocemente dal giaciglio ad una pregiata poltrona imbottita che
la governante aveva accuratamente spostato accanto al letto.
Lunghe ciocche color mogano caddero
setose lungo l'ovale perfetto e latteo fino a lambirne un décolleté non più
adolescenziale. Insolite, splendide ma prive di qualsiasi luce, due particolari
iridi color indaco si celavano dietro le ciglia scure.
Era di una beltà inenarrabile,
misteriosa, quasi eterea. I tratti aristocratici sembravano esser stati dipinti
perfettamente su quel volto eburneo sul quale le labbra carnose e purpuree non
accennavano neppure ad un timido sorriso verso il nuovo giorno.
La vestaglia, di un azzurro cobalto,
pareva tessuta con zaffiri preziosi e intarsiata di ricami d’oro. La seta
riluceva sotto la fioca luce delle fiamme dorate e degli impalpabili raggi
creando sfumature violacee che sembravano intingersi negli occhi ametista.
Sebbene seduta, la sua figura s’ergeva alta e slanciata,
risultato di anni di allenamenti di ginnastica artistica che avevano perfettamente
tornito le curve femminili.
La governante si soffermò ancora un
attimo a guardare quella splendida creatura di impareggiabile beltà, poi
abbassò le palpebre e esalando sospiri, aprì la vetrata della finestra.
Una brezza pungente entrò nella camera
spirando imperiosa e portando con se il profumo del mare e il suono della
risacca.
Allungando le dita affusolate sulle
ruote, si spostò verso la finestra ammirando, forse per l'ultima volta, quella
splendida veduta.
I colori dell'alba si stemperavano nel
cielo in soffuse nuance mentre lapilli colorati danzavano su ondeggianti
flutti. La marina era di una bellezza travolgente. I gabbiani s'innalzavano
alti e maestosi aprendo le lunghe ali volteggiando liberi in un cielo terso.
Silente, li rimirava, desiderosa
d'esser come uno di loro, di avere delle grandi ali per poter spiccare il volo
dalla sua gabbia dorata…un volo che forse, le avrebbe donato la libertà.
La governante si trattenne ancora una
volta a guardarla, magicamente attratta da quella fanciulla che pareva vivere
in una dimensione differente dalla sua, che pareva estraniarsi dal mondo con il
corpo e con la mente.
Le sue labbra ne scandirono fiocamente
il nome, privandolo del titolo nobiliare, nel tentativo di destarla e
ricordarle l’impegno da onorare quella mattina.
Si portò una mano al petto quasi a
voler stringere nel cuore mesto l’immagine di quelle onde che per tanto tempo
le avevano fatto compagnia o per imprimere dentro di se quello stato di
agitazione e trepidazione che da tempo la angosciavano. Sentimenti di
malinconia e ira volevano coesistere dentro di lei. Lì dove il desiderio di
libertà albergava nella mente, rivedeva nei suoi occhi le incantevoli scogliere
che a picco cadevano tra i flutti cobalto, la landa di bianca rena snodarsi
dalle pendici del castello fino alle prime luci della città, cornice perfetta
di una gabbia che fino a quel momento l’aveva protetta.
Paradossalmente al desiderio di
fuggire dalla sua torre come la principessa di una favola, viveva con ansia la
prospettiva di una nuova vita a Londra, nella casa paterna.
In quei lunghi quattro anni, trascorsi
come una prigioniera nella torre del maniero, non ricordava d'averlo mai
veduto, o di aver mai ricevuto una sua telefonata. I giorni si erano susseguiti
sempre uguali con l’unica consolazione delle stagioni nordiche che si erano
riproposte con impareggiabile puntualità.
E così, era vissuta all’ombra di
gelidi inverni in cui la neve si posava su una marina argentea, attendendo con
trepidazione l’arrivo della verdeggiante primavera e della soleggiata estate.
L'unica persona che pazientemente
l'aveva vegliata in tutti quei mesi, era stato il duca Ronald Harold Heatrow
VII, suo nonno.
Hanna, la
governante, l’aiutò a prepararsi per la colazione con la stessa meticolosità
con cui da anni la assisteva. Sebbene non più molto giovane, il suo volto
mostrava appena i segni di un’età adulta e di una professione che l’aveva
portata a servire e riverire una delle più illustri famiglie scozzesi.
Fili argentei decoravano appena le tempie
confondendosi tra ciocche di un biondo chiarissimo. Sul viso leggermente
avvizzito dalle rughe, lunghe sopracciglia dorate si inarcavano su due occhi
azzurri come il mare. Le labbra sottili si sfioravano continuamente in sorrisi
diligenti e ossequienti. La sua deferenza e il costante impegno l’avevano
portata al ruolo di governante di quel castello in cui un tempo si erano
vissuti i fasti dell’alta nobiltà del Regno.
Quand’ebbe terminato di
prepararsi, si fermò dinanzi la toilette ed afferrò la morbida spazzola
d'argento. Hanna stava diligentemente terminando di preparare le sue valigie. A
nessuno del personale di servizio era consentito di parlarle, potevano solo
scambiare qualche frase ossequiosa o di condiscendenza, ma lei la conosceva da
quando era nata e, ricordava con tristezza gli anni lontani della sua infanzia
quando la sua risata echeggiava allegramente per le stanze del castello.
La guardava
spazzolarsi i lunghi capelli mentre il volto privo di vitalità si rifletteva
nello specchio.
Un brivido di
paura le percorse la schiena. Avvertì un forte tremolio sfiorarle le dita e le
gambe mentre il cuore accelerava il suo normale battito. Gli occhi azzurri eran
divenuti vitrei e dietro quelle iridi, pareva rivivere le immagini di una donna
tanto amata quanto compianta.
La stessa spazzola d'argento con le
iniziali incise sul dorso e che tante volte aveva veduto alla duchessa, era
adesso brandita dalle mani di quella giovane donna.
Lei si voltò e Hanna temette per un
istante di perdere il controllo del suo corpo. Allungò una mano al davanzale
del camino per sorreggersi. Il marmo era gelido e senza vita, ma fu un solido
supporto verso la sua persona che sembrava dover crollare sotto il peso dei
ricordi e di quel tetro sguardo.
La sua espressione senza vita
incorniciata dalle lunghe ciocche la rendevano quasi spettrale. Hanna si sentì
quasi scrutare da quelle ametiste chiare tanto rare quanto misteriosamente
indefinite. Sapeva che dietro quel suo sguardo glaciale stava pensando, forse
fantasticando o semplicemente accusando un altro dolore. Qualunque fosse il
sentimento che stava provando in quel momento, era certa che da quel giorno la
sua vita sarebbe sicuramente cambiata.
Quando
finalmente ebbe terminato, la governante chiamò un inserviente che, come di
consueto prese tra le sue braccia la duchessina e la condusse nel salone da
pranzo, dove per l'ultima volta avrebbe fatto colazione con suo nonno. Al suo
arrivo nella grande sala adibita alle colazioni, il maggiordomo del castello
spostò una poltrona imbottita vicino al tavolo e aiutò l’inserviente ad
accomodare con leggerezza la loro padroncina. Quando fu sistemata, con un cenno
della mano congedò i due.
Non appena furono fuori dalla sua
visuale, si voltò a destra e manca e scrutò quanto quegli archi decorati
offrivano ai suoi occhi. Da un lato, lunghi corridoi si snodavano sul piano
ospitando porte, ritratti di avi, stendardi tramandati nei secoli, vecchie
armature appartenute ai valorosi condottieri della famiglia; dall’altro si
intravedeva una grande scalinata che saliva verso i piani superiori
sontuosamente arredati per accogliere amici e parenti aristocratici e dalla
quale, poco prima ne era discesa.
Non voleva lasciare la gabbia dorata
che in quegli anni l'aveva raccolta dandole sicurezza e protezione. Le sue mani
tremavano al solo pensiero del viaggio che avrebbe intrapreso di lì a
poco.
Scorse una
figura in piedi, ferma e solitaria nei suoi pensieri, vicina al camino fumante.
Tizzoni ardenti brulicavano in lapilli cremisi e oro mentre i profumi dei legni
arsi olezzavano nella stanza. Il lungo tavolo di legno era già stato
apparecchiato per i due commensali. L’argenteria del mattino brillava alle
timide ombre delle fiamme che alte fluttuavano nel camino. Giochi di ombre si
inseguivano sulle pareti adorne e i sui mattoni freddi.
Continuava a
guardarlo timorosa di disturbarlo con la sua presenza. Sapeva cosa stava
provando in quel momento. Sebbene il loro dialogo non fosse mai stato molto
forbito e loquace negli ultimi tempi, riusciva a percepire la malinconia sul
suo volto.
Sapeva che era profondamente
dispiaciuto per quella partenza e nonostante il grande rammarico, era ben
conscia di non poter porre alcun rimedio a quella situazione.
In quel
preciso istante, ricordò il momento in cui il duca le aveva comunicato la
notizia e le immagini di quel dì presero a scorrere dietro le iridi, come scene
di un vecchio film.
La voce tremante e gli occhi lucidi,
stretti in piccole fessure, le erano parsi un mondo così lontano; circondati da
profonde occhiaie che nei loro tratti bluastri parevano essere i solchi di una
vita non sempre facile, li aveva visti divenire tristi e vacui come il suo
cuore.
La sua figura, seduta su una grande
poltrona di pelle, le era parsa inverosimilmente invecchiata e turbata, i
lineamenti incanutiti da un’età non più giovane e il fisico appesantito non
tradivano comunque la sua figura piacevole.
Lei sapeva bene che non aveva avuto il
coraggio di ribattere le decisioni del figlio. Suo nonno aveva paura di suo
padre, del duca Harold Arthur Heatrow VIII.
In quei lunghi silenzi si celavano
mille segreti, fiumi di parole mai sibilate o semplicemente sussurrate ad un
cuore troppo vecchio per poter combattere o semplicemente ribattere.
Senza esitare,
incedette verso il camino. Il suono stridulo delle rotelle accompagnava i suoi
movimenti. Il calore che il fuoco riusciva ad infondere alla stanza era intimo
e piacevole ma sembrava non poter riscaldare i loro cuori neppure di un piccolo
tepore. Le pareti tinteggiate di calde sfumature crepuscolari e il mobilio
essenziale ma prestigioso, rendevano la stanza pittoresca e tipica delle dimore
nobiliari inglesi.
Il duca si accorse della nipote e la
salutò affettuosamente chinandosi a baciarla sulla guancia. Lei avvertì subito
il profumo della sua inconfondibile colonia francese e chiuse gli occhi per
imprimere nella mente quella dolce fragranza.
-
Allora, é arrivato il gran giorno. Oggi tornerai nella
capitale. Pensa piccola mia, finalmente potrai tornare ad una vita sociale e
mondana come si addice alle signorine del tuo rango. Era impensabile che tu
potessi restare ancora qui. Oramai sei in grado di vivere con altra gente, e
poi vedrai che pian piano riacquisterai completamente la memoria...e chissà, a
Londra ci sono tanti centri medici ottimi e magari, riuscirai di nuovo a
camminare. Hai un fisico elastico e forte...e i medici continuano a ripeterti
che puoi guarire...io…io…beh vorrei tanto che tu potessi rimanere con questo
vecchio sentimentale, - aggiunse poi con lacrime che gli inumidivano il volto –
ma…
Tornò a sedersi sulla sua poltrona e
lei si avvicinò dolcemente. La nebbia che gli offuscava la vista non riusciva a
celare l’immagine, seppur soffusa, della bella nipote. Sentì il cuore balzargli
in gola quando lei, con gesto inconsueto e dimentico, gli portò la mano al
volto lambendo con le dita le tristi lagrime che rigavano il volto aggrinzito.
La sua gelida espressione, quella di
infinita mestizia che l’aveva accompagnata nel suo ultimo sguardo
all’albeggiare, pareva aver lasciato completamente il posto ad un segno
d'amore.
Il duca si portò una mano al petto nel
disperato tentativo di arrestare quell’improvviso quanto piacevole sussulto.
Era molto legato alla giovane nipote: l’amava intensamente, quanto o forse
maggiormente di come in passato aveva amato la madre, un tempo splendida sposa
di suo figlio.
Le afferrò le mani, stringendole nelle
sue e portandosele al petto. Abbassò lievemente le palpebre nell’arduo sforzo
di fermare, dentro i suoi occhi, l’immagine di quell’attimo. Così sfuggente,
così delicato, il tocco di quelle dita sulla sua pelle, come velluto sfiorato
da un lieve e impalpabile bacio.
Cercava disperatamente la
serenità e desiderava infondere alla nipote la fiducia nel futuro, quel barlume
di speranza perduto qualche tempo prima.
Era conscio, tuttavia, che quel giorno
avrebbe solo permesso a suo figlio di portar via il meraviglioso frutto di
quello che un tempo era stato un amore tanto complicato quanto osannato: gli
avrebbe permesso di condurla nella sontuosa casa londinese nella quale avrebbe,
dopo tanto tempo, riaccolto la figlia inferma celebrando l’evento con uno
sfarzoso ricevimento nel quale gli aristocratici nobili inglesi lo avrebbero
elogiato per il suo buon cuore e l’affetto paterno.
Il duca fu scosso da un fremito e alzò
lo sguardo verso la parete frontale al camino
Una sequenza di ritratti di avi si
alternava a paesaggi campestri dipinti dai più illustri pittori dell’ottocento.
Harold. Il ritratto di suo figlio,
allora ventenne, pareva troneggiare imperioso tra i volti di predecessori che
avevano dato lustro alla corte inglese servendola e riverendola con estrema
alacrità e zelo e che avevano portato in alto il nome della casata Heatrow.
Distolse quasi subito gli occhi
dall’attraente figura di Harold: quel dipinto, dalle proporzioni reali, gli
incuteva timore. I gelidi occhi azzurri erano assottigliati in un sinistro
sguardo sul quale si inarcavano le fitte e sottili ciglia bionde. Folti fili
d’oro incorniciavano il volto regolare e ne lambivano gli zigomi alti. Le
labbra, d’un rosso acceso, sembravano intenzionalmente arcuate verso un lato,
leggermente schiuse in un sorriso di scherno o un sogghigno. I lineamenti
nordici, seppur a tratti severi, erano belli e ammalianti e il bianco palafreno
alle sue spalle sembrava solo l’ombra del suo cavallerizzo.
Il duca sapeva quanto
quell’espressione sicura, sinonimo di un carattere egocentrico, e i tratti
angelici avevan fatto capitolare ai piedi del figlio le più belle dame del
reame.
Fin dall’adolescenza, la sua fama di
amatore e adulatore non era passata inosservata nei nobili salotti e dame
annoiate e figlie da maritare si erano precipitate a conoscere e civettare con
il bel figlio del duca di Aberdeen.
Ma lì dove
splendeva come il sole per il suo carattere fascinosamente irriverente e la sua
bellezza, Harold si era distinto per aver indossato le tipiche vesti del figlio
della ricchezza nel quale prodigalità, mondanità, lusso e lascivia avevan
sempre albergato indisturbate. Harold aveva sempre vissuto con dissolutezza e
al massimo, senza mai pensare alle eventuali conseguenze che alcuni suoi gesti
avrebbero potuto comportare.
Fino
all’incontro che, in qualche modo, aveva cambiato la sua vita e il corso degli
eventi. La sua evanescenza sembrava improvvisamente essersi sopita dopo aver
incontrato Alexandra Reynolds ed esserne rimasto affascinato al punto da farne
in poco tempo la sua sposa.
Il duca sbatté
più volte le palpebre cercando di riacquistare un’espressione cheta e
allontanare pensieri nefasti e il passato dalla mente.
-
Tesoro, non ti preoccupare. Vedrai che tutto cambierà in meglio. Oramai sto
diventando vecchio e non posso più prendermi cura di te come una volta. Adesso
vieni, facciamo colazione, prima che arrivi tuo padre. - disse alzandosi e
spingendo la sedia a rotelle verso il tavolo.
Consumarono
insieme la colazione, parlandosi con sguardi e gesti, molto più loquaci delle
loro voci. Solo i tintinnii di argenti e cristalli echeggiavano nel salone. Non
appena il duca si avvide che la nipote aveva terminato il suo desinare, si alzò
dall’estremità del tavolo occupata dal suo trono e incedette sicuro verso la
ragazza. Senza proferire nulla, con gesti meccanici e quotidiani, sospinse la
carrozzella fino in biblioteca.
Era la stanza
che lei preferiva, quella nella quale si isolava per ore intere, sognando di
poter volare oltre quei vetri a cattedrale che irraggiavano la stanza di
magiche tinte iridescenti.
Altissime librerie in legno scuro
abilmente intagliate da mani esperte, salivano dal pavimento verso il soffitto,
tutt’intorno la stanza, ospitando migliaia di testi, antichi e moderni,
tramandati di generazione in generazione e che il duca gelosamente custodiva in
quel luogo quasi mistico il cui accesso era consentito solo alla nipote.
Sulla parete frontale alla porta due grandi porte finestre
con i vetri a cattedrale si affacciavano ai giardini interni del castello. I
raggi del sole solcavano quei cristalli tinteggiati, riflettendo le loro nuance
sui pavimenti lucidi e ben lustrati. Giochi prismatici e opalescenti si
inseguivano al muoversi delle ombre.
Al centro, tra le due mirabili
vetrate, un ritratto meravigliosamente incastonato in una cornice barocca
s’innalzava regale, sul camino, incutendo l’immancabile tocco aristocratico in
quel salone dedito alla lettura e alla riflessione.
Al centro della biblioteca, sedevano
tre salotti completi di poltrone e tavolini, ognuno di un colore differente
dall’altro. Abat-jours e appliques ai muri illuminavano la stanza
intimamente mentre un sontuoso lampadario di cristallo di Boemia pendeva
superbo e altero dal soffitto.
Tappeti pregiati si stendevano lungo i
pavimenti alternandosi a cuscini di seta e velluti nelle tinte del porpora, oro
e smeraldo. La regalità era propria di quella stanza nella stessa misura della
sapienza.
La duchessina
si soffermò, come di consueto, a rimirare il ritratto sopra il camino. Il duca
parve conquistato da quell’immagine quasi eterea. La nipote non riusciva a
distogliere lo sguardo dalla tela che pareva specchiare la sua immagine più
solare e radiosa. Alexandra Reynolds era nel fiore della sua giovinezza, di
quella inenarrabile bellezza di cui la figlia era unica testimone. Un abito di
seta avorio le fasciava il corpo dalle sinuose forme e rose lilla ne
circondavano la sottile vita. I capelli mogano, appena ondulati, parevano
fluttuare morbidamente sui seni leggermente scoperti, al dolce stormire di una
brezza primaverile. Pendenti di brillanti e rose di ametista scendevano dai
lobi e dal collo completando il ritratto di una donna dalla beltà indefinita. I
suoi occhi, dello stesso colore delle rose, ridevano alla vita, di una gioia
che il duca non aveva mai dimenticato e di cui rimembrava l’eco di un riso
nelle oramai gelide navate del maniero.
Harold l'aveva
fatto dipingere per il loro secondo anniversario di matrimonio, di ritorno
dall'Australia dove lei aveva girato un film, come simbolo di un amore che
declamava essere la gioia della sua vita.
La vide
socchiudere gli occhi e non mutare l’espressione di mestizia sul volto. La
pelle liscia pareva porcellana di raffinata fattura adorna di seta lucente.
Tese le dita sulle ruote e con movimento lesto si girò dando le spalle al
ritratto.
Il duca
afferrò un libro dal tavolino e glielo pose. Raccoglieva poesie italiane, un
testo che sua madre aveva amato molto e che aveva imparato a menadito. Lo
strinse tra le mani cercando di imprimere sulla pelle quello che restava del
ricordo materno.
Un vocio
maschile parve distogliere le due figure dal loro silente parlare. Harold era
giunto al castello e in pochi istanti avrebbe portato via sua figlia dal
maniero. Il duca le si avvicinò per l'ultima volta e tremante l'abbracciò,
timoroso di non averne più il coraggio o forse, il tempo.
-
Abbi fede e coraggio. Sii forte come lo era lei. Io e
tua madre ti veglieremo ovunque. Cerca di essere felice, trova in te stessa la
forza per rialzarti e...sono sicuro che un giorno verrai a trovarmi...che
varcherai quella porta con in grembo il frutto del tuo amore. Ti chiedo perdono. E' solo colpa mia se tuo padre è
uno scellerato. Se solo io...fossi stato più forte ed autoritario con lui,
probabilmente a quest'ora tu non saresti qui. Perdonami! - le disse aprendole
il cuore. Si sentiva responsabile per il disinteresse del figlio e per la sua
amoralità. Udì i passi ben scanditi dai tacchi sul pavimento. Abbracciò la
nipote. Un lungo dolcissimo abbraccio colmo di tenerezza.
-
Papà! – esclamò Harold dal corridoio che conduceva alla
biblioteca. La sua voce era prossima all’uscio. Il duca liberò la nipote
dall’abbraccio consentendole di girarsi verso l’uscio e incrociare lo sguardo
dell’uomo che stava incedendo verso di loro.
Harold arrestò
il passo sulla soglia, basito dalla scena che si dipingeva dinanzi ai suoi
occhi. Sua figlia sedeva sulla poltrona a rotelle, proprio di fronte a lui. I
lunghi capelli erano perfettamente divisi in due parti simmetriche e
scivolavano giù dal capo come veli scuri e lucenti. Nell’ovale eburneo
rilucevano due ametiste profonde e la bocca vermiglia. Harold avvertì un nodo
serrargli la gola e lo stomaco contorcersi. Un fitta improvvisa rimbombò nel
torace. I suoi occhi, di un gelido azzurro, non smettevano di rimirare la
figlia esterrefatti, quasi trascinati da un tetro magnetismo. Sedeva inerme e
silente, e con espressione tetra e duramente indifferente reggeva lo sguardo
paterno. Sentiva freddo. Brividi gelidi iniziarono a percorrergli la schiena e
per un attimo, temette di perdere il controllo della sua persona.
Dietro di lei, a voler proteggere
quella figura, s’innalzava maestoso il ritratto di Alexandra. Erano identiche.
Solo il sorriso le distingueva. Quello gioioso della moglie era spento,
minimamente accennato e forse sogghignante sul viso della figlia. Il contrasto
tra i capelli scuri e il volto latteo parevano voler confermare, ancora una
volta, l’eterno dualismo tra giorno e notte, luce e buio…bene e male! Era come
se, di colpo, lui stesse rivedendo la defunta moglie.
Sebbene si fosse recato più volte al
castello, in visita all’anziano padre, non vedeva la figlia da quattro anni,
dalla morte di Alexandra e quell’incontro gli fece raggelare il sangue nelle
vene. Il duca non riusciva a non guardare il figlio, paralizzato alla vista
della figlia. Con gli occhi disegnò ogni minimo tratto di quel viso che si
contraeva per il timore di quello che il fato gli aveva riproposto. Alexandra,
la sua amatissima moglie, riviveva nel volto della figlia, che ne era la copia
identica.
Harold sollevò la mano verso le
labbra, celando la bocca asciutta e cercando di trattenere un conato che
velocemente stava risalendo dal profondo del suo stomaco. Il sudore gli imperlò
la fronte in quella gelida mattina di febbraio. Tremava palesemente al cospetto
di quella scena. Quando comprese che l’effetto di quella visione lo aveva
chiaramente sconcertato ed era vicino al crollo, alzò l’altra mano accennando
ad un suo immediato ritiro in altre stanze. Corse via con la mano alla bocca,
nel disperato tentativo di trattenere ancora lo sconcerto di cui era stato
vittima.
-
Ti voglio bene, nonno! - le sussurrò flebilmente.
Quelle parole ridondarono nella
biblioteca come campane a festa. Il sole parve inondare la stanza come ancora
non aveva fatto e irradiò la sua sagoma avvolgendola come in un telo d’oro.
Il duca era incredulo. Dopo quattro
anni sua nipote aveva parlato e, l'aveva fatto per sussurrargli parole d'amore.
Era felicissimo e nessuna parola avrebbe potuto esprimere tanta gioia. Avvertì
le lacrime salirgli velocemente e velare le iridi azzurrine. Tremante di gioia,
posò la rugosa mano sulle dita della nipote.
-
Tu…tu…Anch'io te ne voglio, piccola. - le disse
baciandole la mano, - Adesso, è meglio che vada. Hanna verrà ad aiutarti. Ciao!
– esclamò guardandola ancora, prima di congedarsi.
Dopo qualche passo, oramai in
corridoio, si fermò e voltò verso la nipote ancora ferma nella sua posizione.
Sembrava essere al centro del ritratto, essere lei la protagonista di quel
dipinto, una bellissima, triste figura, sontuosamente incorniciata. La sua
reazione, di fronte a quella strana scena, fu differente da quella del figlio.
Se Harold aveva provato timore, il duca continuava a guardarla con la pace nel
cuore. Sua nipote aveva parlato. Dopo quattro lunghi anni, le sue labbra si
erano sfiorate per un sussurro. Aveva udito quel dolce vociare con immensa
felicità. Non l’avrebbe mai dimenticato, proprio come l’allegra risata di
Alexandra che ancora pareva risuonare nelle stanze. Si baciò una mano e soffiò
sul palmo per inviarle un bacio. Vide un sorriso accennarsi sulle sue labbra e
mai gioia maggiore poté conoscere il suo cuore.
Ciao…Adrianne. –