Tutti i mali dello shopping di Pichichi (/viewuser.php?uid=79680)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
tutti i mali (1)
Non
mi piaceva
affatto uscire la sera, soprattutto con quel freddo e quel tempo,
così tetro e
minaccioso. Non mi piaceva dovermi scollare dalla mia poltrona
preferita mentre
in tivù si trasmetteva la dodicesima giornata del campionato
di calcio.
Ero
sdraiata
scompostamente sul divano, con le vecchie scarpe color vinaccio
poggiate sul cuscino,
le mani pigramente abbandonate sulla pancia e gli occhi semichiusi,
fissi sullo
schermo televisivo.
Avrei
potuto
incarnare perfettamente l’accidia in quel momento, ed era
chiaro per chiunque
si fosse avvicinato che non avevo alcuna intenzione di alzarmi di
lì prima che
fosse terminata la partita di calcio.
Perciò,
contenta
all’idea di passare un sabato pomeriggio in completo ozio,
sbadigliai e spinsi
la schiena più giù in modo da affondare la testa
nei cuscini e vedere meglio lo
schermo.
Avevo
in
programma di non far niente fino alle otto, quando la partita sarebbe
finita,
di oziare per il tempo restante giocando a qualche videogioco, e di
mangiare
pomodori, cetrioli e carote per cena.
Quello
era il
mio perfetto programma per il sabato, e nessuno avrebbe potuto
rovinarmelo.
Peccato
che
perduta nei meandri dell’ozio più profondo non
avessi considerato l’eventualità
numero uno che avrebbe potuto far saltare i miei piani.
Ebbene,
avevo
dimenticato che il sabato era un giorno particolarmente piacevole per
me
perché, oltre al fatto che non facevo nulla dalla mattina
alla sera, era il
giorno in cui di solito passavo più tempo con la mia ragazza.
Non
era stato
così semplice, né per me, né per lei,
accettare il fatto che la nostra pseudo -
relazione avesse delle fondamenta più resistenti di quanto
pensassimo. La
scoperta di avere un qualcosa di più profondo a legarci,
oltre a sorprenderci e
metterci in confusione, ci aveva quasi costretto ad ufficializzare il
nostro
rapporto.
Essendo
entrambe
molto orgogliose e non volendo ammettere la reciproca dipendenza che si
era
instaurata fra noi, ci era stato molto difficile.
In
ogni caso quello
che intercorreva fra me e lei in quel periodo, qualunque cosa esso
fosse,
poteva essere classificato come “primi mesi
assieme”.
Fin
qui, non
avevo alcuna obiezione.
L’eventualità
che il mio perfetto sabato da dolce far niente potesse subire qualche
leggera
modifica mi si presentò quando sentii la serratura di casa
scattare e la porta
aprirsi.
C’erano
solo due
persone che possedevano le chiavi di casa mia, ovvero la sottoscritta e
la sua
cosiddetta compagna.
Ora
ragionando
un po’, essendo io spaparanzata sul divano a fare nulla, con
le chiavi dentro
la borsa a tracolla gettata a terra, per esclusione non poteva essere
che lei
ad aver aperto la porta.
-Ciao!
Mi
chiamò
dall’ingresso, richiamo a cui io non risposi per pura
pigrizia, continuando a
guardare la televisione.
-Ca**o, mi dà i nervi quando ti
chiamo e non mi rispondi, e lo sai!
Come
potesse
riuscire a cambiare tono e modi da una frase all’altra,
dovevo ancora capirlo,
ma ero diventata abbastanza pratica di lei da capire che al primo
avvertimento
conveniva rispondere per non farla arrabbiare.
-E tu lo sai che mi secca
risponderti- le dissi stancamente, rovesciando la testa
all’indietro.
Ecco,
comparì
sulla soglia della porta del salotto in tutto il suo splendore, appena
tornata
dalla libreria e mi si presentò davanti agli occhi con la
migliore delle sue
espressioni entusiaste.
Anche
se avevo
la testa rovesciata all’indietro, ero abbastanza certa che
non fosse
arrabbiata.
-A
vederti senza far niente mi sembri una drogata in fase di
recupero- commentò lei, avvicinandosi lentamente.
-Com’è
andata?
-Ha
tenuto le interviste per mezz’ora e per l’altra
mezz’ora ha presentato il
libro. Dovevi vedere come si gasava...
Sorrisi
e tornai
a poggiare la testa sui cuscini, contenta che fosse tornata a casa
perché la
sua presenza era per me un’ulteriore fonte di rilassamento.
Lei
si sedette
sul pouf giallo posto accanto al divano, e gettando
un’occhiata alla partita
disse:
-Non hanno già giocato martedì?
-No, quella era la Champions League.
-Bah, sono tutte uguali.
-Ignorante. Io non critico la tua
amata Tonno Callipo, né protesto quando vuoi andare al
palazzetto dello sport a
vederne le partite.
Mi
spintonò con
una mano, e lo presi come un segnale poco promettente.
Inoltre,
dettaglio che notai solo in quel momento, non s’era ancora
tolta il cappotto e
ciò non mi faceva ben sperare per i miei piani di un sabato
tranquillo.
-Ancora questa maglia?
Allungai
una
mano verso di lei e tastai il sottile tessuto di raso di cui era fatta
la sua
maglia svolazzante, a camiciola.
-Non ti piace?- mi domandò, facendo
una smorfia dubbiosa.
-Sembri incinta con quella maglia, e
un giorno tua madre penserà male di te.
-Non è vero.
-Oh sì.
In
realtà io
amavo le sue maglie a camiciola, poiché essendo larghe,
svolazzanti e nella
maggior parte dei casi trasparenti, mi davano la possibilità
di infiltrarvi
sotto le mani con un’incredibile facilità.
Così
feci,
afferrandole il fianco sinistro e attirandola contro la mia testa in
modo da
poggiarla sulla sua gamba.
D’un
tratto lei,
dopo avermi dato un’occhiata strana, tipicamente sua, mi
saltò in grembo,
sedendosi a cavalcioni.
Il
peso del suo
corpo sul mio stomaco mi impedì per un secondo di respirare,
ma non fu quello a
darmi fastidio. Ciò che mi turbò fu il fatto che
senza preavviso si abbassò per
baciarmi.
E
questa non era
una buona cosa, poiché non aveva alcun motivo di farlo.
Mi
fidavo poco
di lei, pochissimo a dirla tutta, perché conoscendola meglio
avevo imparato che
non faceva mai qualcosa senza un secondo fine.
Rovesciai
indietro la testa per sfuggire alle sue labbra, guardandola aggrottando
le
sopracciglia.
-Che c’è?
Anche
lei di
conseguenza aveva imparato che con me non doveva tergiversare, o
tentare di
arrampicarsi sugli specchi, poiché preferivo che mi si
dicesse la verità
immediatamente.
Poggiò
le mani
ai lati della mia testa e inclinò il busto nella mia
direzione, guardandomi
furba.
-Fuori è tanto bello, lo sai? Le
strade sono piene di luci.
-Mi accontenterò di queste che
abbiamo a casa, altrimenti si offenderanno.
Fece
una piccola
risata e si chinò ancora di più.
-Oggi mi sento così... come dire? Mi
sento un po’ abbattuta.
-Perché non ti prendi la cioccolata
e ne fai due tazze, che sarebbe proprio una bella idea?
Sapevo
quello
che voleva fare, e non gliel’avrei permesso per niente al
mondo. Niente e
nessuno mi avrebbe scollato da quel divano, non c’era ma che
tenesse.
Avevo
deciso di
passare il mio pomeriggio lì a non far nulla, e caspita,
sarei riuscita nel mio
intento!
Lei
mi sorrise
invitante e poggiò la fronte contro la mia; così
facendo i miei occhi, non
potendo osservare ciò che succedeva in campo, scivolarono a
contemplare
qualcosa di altrettanto interessante, ovvero il suo seno giustamente
fornito e
stretto in una fascia nera, sotto la maglia.
L’avrei
odiata
per quello che stava facendo, perché l’aveva fatto
di proposito a non alzarsi
la scollatura, ma non ci riuscii.
Mi
piaceva
troppo quello che vedevo, e mi divertiva farla ingegnare per trovare il
modo di
farmi muovere da quel divano.
-Devi guardarmi negli occhi, quando
parlo- sorrise, sfregando il naso contro il mio.
-Sai, mi è un po’ difficile se mi
sbatti quel bendiddio davanti.
Lei
rise, si
sedette composta e si alzò il top nero che portava per
coprirsi il seno.
-Allora, ho bisogno di un nuovo paio
di scarpe . Inoltre voglio regalarti qualcosa.
-Allora per prima cosa mi pare che
tu abbia già due paia di scarpe e un bel cappotto, quindi
non credo ti servano
cose nuove. Per quanto riguarda il resto, se tornassi ad abbassarti
quel misero
e sconsiderato pezzo di stoffa concedendomi la stessa visuale di prima,
sarebbe
il regalo più bello del mondo.
Non
volevo
concederle alcuna scusa per portarmi fuori, volevo anticipare tutti i
suoi
tentativi di movimentare il mio pomeriggio, e finora me la stavo
cavando discretamente.
Lei
si alzò di
scatto a quella frase, apparentemente disinteressandosi di me; arrivata
sulla
soglia della porta si voltò e annunciò:
-Be’, vado a farmi una doccia.
-Bene, vai.
-E... stamattina ti ho preso dieci
euro.
-Perché hai preso dieci euro?-
domandai, guardandola accigliata.
-Ecco... mi servivano-
Aveva
un’aria
terribilmente colpevole e provocante assieme, e dalla sua espressione
capii che
non mi conveniva andare avanti col discorso.
-Oh... va bene- risposi, non volendo
sapere per cosa le erano serviti i soldi – la prossima volta
dimmelo però-
Ce
l’avevo
fatta, avevo ignorato il suo tentativo di adescamento e potevo
considerarmi
salva, per quel pomeriggio.
-Te l’avrei detto, ma tu stamattina
non c’eri e io non avevo banconote piccole. Sai, per andare a
farmi un piercing
non voglio portarmi pezzi grandi...
Maledizione,
me
l’aveva fatta!
Deglutii
alla
sua informazione, arrossendo e voltandomi a guardarla.
-Ti sei fatta un altro piercing?-
chiesi, sperando che negasse.
-Sì, certo- lei mi fece un sorriso
raggiante, guardandomi appoggiata allo stipite della porta, con
artificiosa
innocenza.
La
mia ragazza
adorava bucarsi le parti più svariate del corpo fin da
quando l’avevo
conosciuta; allora aveva solo due piercing, ma in seguito si era fatta
applicare un puntino argentato sul naso, un piccolo anello al termine
delle
sopracciglia che poi aveva rimosso, delle asticelle che le perforavano
ripetutamente i lobi delle orecchie e tre
“bulloni”, a parer mio, che le
attraversavano la cartilagine del padiglione auricolare.
-E... dove te lo sei fatto?-
domandai, non sapendo perché ma assalita da un brutto
presentimento.
Lei
mi sorrise
in maniera piuttosto sconcia, e piegò la testa da un lato.
-In un posto diverso dal solito, e
devo ammettere che mi ha fatto un po’ male...- rispose,
guardandomi
intensamente.
Io
arrossii
subito, osservandola e schiudendo la bocca. Non la credevo capace di
un’azione
del genere, nemmeno lei poteva essere così svergognata,
senza pudore. Non era
possibile che si fosse fatta bucare una parte del corpo così
delicata.
Ottenuto
l’effetto sperato lei si allontanò, continuando a
guardarmi e mordendosi un
labbro maliziosamente.
-Vado a farmi la doccia!- annunciò
in procinto di scoppiare a ridere, sapendo di aver suscitato in me
curiosità.
Quando
fu
sparita verso la zona notte, rimasi con lo sguardo fisso sulla porta,
dove
prima c’era lei. Sentivo che era tutta una trappola, che lei
aveva architettato
tutto per farmi alzare da quel divano, eppure qualcosa di
più forte in me,
qualcosa che batté perfino la mia pigrizia, mi
invogliò a seguirla.
La
odiavo
terribilmente in quel momento, la odiavo perché mi aveva
insinuato il dubbio e
la curiosità, e perché stava sfidando la mia
resistenza.
Per
principio
decisi di disinteressarmi della questione, ripetendomi che mi ero
prefissata di
oziare per tutto il giorno.
Poi,
quando
sentii il rumore scrosciante dell’acqua, mi si
presentò alla mente l’immagine
di lei nuda, con l’acqua che le scorreva sul corpo e le
bagnava i capelli,
intenta a spalmarsi del profumato bagnoschiuma dappertutto.
Scossi
leggermente il capo, sentendo le guance diventarmi rosse, ma non
riuscii ad
allontanare l’immagine, soprattutto al pensiero di dove
potesse trovarsi quel
misero, freddo e solitario anello di metallo...
Di
scatto mi
alzai in piedi, percorrendo rapidamente il corridoio e fermandomi alla
porta
del bagno.
Notando
che era
aperta la spinsi con una mano per trovarmi davanti agli occhi lei che
in piedi
si contemplava nello specchio.
-Oh, ti sei alzata!
-Non dovevi farti la doccia?
Lei
semplicemente girò la manopola dell’acqua e quella
smise di scorrere. Capii che
mi aveva preso in giro, ma almeno volli la mia ricompensa.
-Allora?
-Allora che?
-Dove caspita te lo sei fatto ‘sto
piercing?
La
mia ragazza
mi fece una smorfia affettuosa e mi diede un bacio a stampo sulle
labbra.
-Lo vuoi sapere davvero?
-Sì voglio saperlo.
-Non pensavo che avresti ceduto alla
curiosità.
Voleva
prendermi
in giro, e mi dava fastidio, ma io avevo necessariamente bisogno di
sapere dove
si fosse conficcato quell’insulso aggeggio.
-Cosa significa un posto diverso dal
solito? E perché ti ha fatto male?- domandai di getto, senza
girarci attorno.
Lei
mi portò
davanti allo specchio e mi abbracciò da dietro, poggiando la
testa sulla mia
spalla.
Mi
prese una
mano e la portò sul suo corpo.
-Sei così preoccupata per me, perché
ti ho detto che mi ha fatto male?
-No- arrossii, stavo mentendo -il
fatto è che non si sa mai, con queste cose, e tu deficiente
possibile che vai
ancora a fare queste bambinate?-
-A me piace, fare le bambinate.
-Oh, lo so.
Mi
diede un
bacio sulla guancia e fece scivolare la mano sul suo seno, in modo che
mi
rendessi conto da sola di dove fosse stato messo il piercing.
Notai
con
sollievo che le sue grazie superiori sembravano perfettamente rotonde e
morbide
come lo erano sempre state, ma trattenni leggermente il respiro quando
sentii
che conduceva la mia mano più giù, sulle sue
gambe.
Ridacchiò
notando il mio imbarazzo e mi morse scherzosamente l’orecchio.
-Dì la verità, che è
proprio per queste
bambinate che ti piaccio.
-Oh, ma questa è l’ultima volta. O
almeno, l’ultima volta con i miei soldi- replicai,
imbronciandomi.
-Oh, come sei tirchia...
Fece
indugiare
la mano fra i nostri bacini un po’ troppo a lungo, ma poi la
portò su di
scatto, infilandola sotto la maglia.
-Ecco, è qui.
Sorrise
e fece
in modo che il mio pollice si sfregasse contro una sporgenza metallica
all’altezza della sua pancia.
Sbuffai
fuori
l’aria e piuttosto irritata perché mi aveva
fregato le alzai di scatto la
maglia.
-Be’, allora?- domandò,
sorridendomi.
-Sei una deficiente. M’hai fatto
preoccupare!
Nel
punto in cui
si trovava il suo ombelico, ora c’era uno spuntone rotondo e
argenteo, che a
dir la verità mi faceva impressione.
-Cosa pensavi?- domandò maliziosa,
fingendo di non capire.
-Lascia perdere.
Scossi
la testa
e uscii dal bagno con l’intento di tornare a sdraiarmi sul
divano, ma lei mi
raggiunse subito e mi prese per un braccio.
-Dove pensi di andare?- mi domandò.
-A guardare la partita.
-Nemmeno per sogno! Dai, visto che
ti sei alzata ora ti cambi e usciamo insieme.
-Ma non se ne parla proprio-
scansandola delicatamente ripresi il mio percorso verso il salotto.
Lei
incrociò le
braccia e anche se non potevo vederla ero certa che avesse messo su il
broncio.
-Se non esci con me torno al negozio
e mi faccio il piercing lì!- minacciò.
Mi
voltai
guardandola con sufficienza.
-Non ti permettere- le ordinai
stancamente.
-Be’, se non esci con me stasera
giuro che quanto prima me lo faccio.
Non
avevo
intenzione di litigare, poiché sapevo che se avessi fatto
ancora resistenza la
prossima volta che ci saremmo ritrovate sotto le coperte avrei avuto
una brutta
sorpresa. Consideravo questa sua mania di bucarsi il corpo una cosa del
tutto
inutile e di pessimo gusto, e non mi andava che per ripicca si
sfregiasse
ancora di più.
Sapevo
infatti
che a tirare troppo la corda l’avrei costretta a dimostrarmi
che non potevo
comandarla.
Avrei
dovuto
immaginare, dal momento in cui era entrata a casa, che il mio sabato di
perfetto ozio sarebbe stato rovinato.
Sbuffai
seccata,
mostrandomi costretta ad accettare.
-E sia, tanto lo sapevo che eri una
guastafeste- borbottai, guardandola di traverso.
Lei
batté le
mani, compiaciuta, e mi diede un bacio sulla guancia.
-Vedrai che ti piacerà, e poi lo sai
che senza di te rischio di comprare delle cose del tutto inutili...-
-Sì sì, basta che non mi secchi.
In
realtà, anche
se provavo a fare la dura, mi piaceva vederla felice e soprattutto mi
piaceva
l’idea di uscire assieme a fare spese come due fidanzati.
Possedevamo
una
piccola macchina blu scuro, una minuscola Smart capace di infilarsi
ovunque e
scarrozzarci dappertutto.
La
mia ragazza –
adoravo chiamarla così – aveva deciso che quella
sera, per comprare le scarpe e
farmi un regalo, saremmo andate in un paese distante quaranta minuti di
viaggio.
-Dai,
così passiamo una serata a fare shopping.
Quella
voleva
essere una proposta allettante?
Be’,
avrebbe
potuto proporre di meglio.
-Urrà- commentai accendendo il
motore.
Lei
non faceva
alcuna resistenza su chi dovesse fra noi guidare, poiché non
era abituata a
portare la macchina su lunghe distanze e non era tanto pratica.
Perciò
lasciava
che mi occupassi io di questioni senza importanza come la macchina,
preferendo
dedicarsi a compiti più adatti a lei.
-Pensi che basteranno?- mi domandò,
mostrandomi delle banconote dal portafoglio.
Gli
diedi
un’occhiata poco interessata e annuii, pensando piuttosto a
quanto tempo
avremmo speso stando lì, a quanti negozi avremmo girato
inutilmente e a quanti
provini avrei dovuto assistere.
Da
che doveva
essere il sabato più ozioso della mia vita, si stava
trasformando in
un’inevitabile pomeriggio stressante.
-Lo sai, ho incontrato Gianluca in
libreria- mi disse, poggiandosi contro il finestrino.
-Davvero? E che cavolo voleva?-
domandai, nel ricordo di quello che aveva osato farle il ragazzo.
Quel
tale
Gianluca aveva per più di un mese, tempo fa, corteggiato
falsamente la mia
ragazza, confondendola e dandole false speranze in cui lei era cascata,
per poi
scoprire che il tipo la stava solo prendendo in giro in quanto era
fidanzato.
-Niente, mi ha detto ciao, come va,
come stai, tutto bene? Solite domande di circostanza...
-S’è ricordato di quello che gli ho
detto?- domandai, accigliandomi.
-Credo di sì, perché non
s’è
azzardato nemmeno ad avvicinarsi.
Sogghignai,
felice che il tale avesse capito che non doveva ritentare di adescarla,
altrimenti sarebbe andato incontro alla mia rabbia.
Notai
poi, dal
suo conseguente silenzio, che c’era qualcosa che la turbava.
Decisi
quindi di
farla distrarre, riportandola su terreni più graditi, e
chiesi:
-Come mai hai deciso di farti un
piercing?
Ottenni
l’effetto sperato poiché lei mi concesse una
piccola risata.
-Ecco, volevo farti una sorpresa.
-Lo sai che non mi piace questo tipo
di sorprese.
-Scusami. È solo che avevo voglia di
fare qualcosa di incosciente.
-Io che vivo assieme a te, questa
non ti sembra un’incoscienza?
Mi
tirò un pugno
sul braccio, assottigliando le palpebre.
-Bastarda.
Essendo
autunno
molto inoltrato, il cielo, alle sei del pomeriggio, era già
buio e non si
riusciva a distinguere molto del paesaggio. Perfino i cartelli
segnaletici a
volte passavano inosservati.
-Come sei brava- disse ad un tratto,
incapace di star zitta, osservandomi guidare.
-Perché?
-Io non sarei capace a guidare
quando è così buio. Non hai paura?
-No, affatto.
-Sono proprio felice che hai
accettato di venire.
Le
diedi un
rapido sguardo, e mi compiacque vederla così felice che
sorrisi spontaneamente.
-Sto pensando che mi divertirò da
morire con te in giro per negozi.
-Lo dici con ironia?- fece,
abbassando di colpo la voce e diventando preoccupata.
-No, sul serio. Lo so che faremo un
sacco di figure memorabili e mi verrà da ridere fino alle
lacrime. Inoltre,
avrò materiale per sfotterti fino a quando vorrò.
-Oh. Allora va bene.
La
mia ragazza
adorava vestirsi alla moda, almeno tanto quanto la gratificava ricevere
complimenti. Sotto questo aspetto la definivo vanitosa, ma mi piaceva
il suo essere
donna a trecentosessanta gradi, sia negli aspetti positivi che negativi.
Ero
certa che
prima di aver trovato qualcosa che potesse andarle bene avremmo dovuto
girare
per negozi e negozi, facendo su e giù per la
città. Ma ero disposta a farlo,
solo per lei, perché potesse comprarsi quelle benedette
scarpe del tutto
superflue.
Ad
un tratto,
forse annoiata dalla durata eccessiva del viaggio, si sporse verso di
me e mi
portò dietro l’orecchio una ciocca di capelli.
-Che ne pensi se un giorno di questi
ti stiro i capelli per bene?
-Non se ne parla.
-Ma perché?
-Mi piacciono ricci.
-Sei bellissima con i capelli lisci.
Davvero, mi piaci tantissimo. E inoltre sono così lunghi che
ti superano le
spalle.
-Lo so che il tuo scopo è un altro.
Mi
guardò interrogativa.
-Quale?
-Tu vuoi che io mi stiri i capelli
in modo che la gente noti quanto corti te li sei tagliata. E di
conseguenza ti
dica che ti stanno benissimo.
Lei
ammutolì,
facendo una smorfia buffa e imbarazzata.
-Come fai a saperlo?- domandò
infine, incrociando le braccia al petto.
-Oh, ti conosco.
-Mi fai sembrare una persona
spregevole.
-Oh no- ridacchiai, dandole uno
sguardo divertito – a me piaci anche così. Mi
piace anche il tuo essere superficiale
–
La
mia risposta
le piacque e rimase in silenzio a godersela per un po’.
Forse, intenerita per
quello che le avevo detto volle ricambiare, perciò aggiunse:
-Be’, a me piace tanto che tu sia una
scorbutica convinta.
Scoppiai
a
ridere.
-E questa dove l’hai trovata, hai un
vocabolario appresso?
-Ecco, appunto- mi beccai un pugno
discretamente violento – sei una guastafeste –
Riflettei
lentamente sulle sue parole e mi imbronciai, aggrottando le
sopracciglia.
-Non sono scorbutica.
-Be’ secondo te dare quello sguardo
poco amichevole a chiunque ti guardi, è indice di una
persona estroversa?
-Tutti quelli che incontro sono
degli emeriti idioti- ribattei convinta delle mie parole -e questo non
fa di me
una scorbutica –
-Allora tanto meno pretendere da
tutti quelli che conosco un riconoscimento per ciò che
faccio non fa di me una
persona superficiale-
Feci
un sospiro,
lasciando cadere il discorso nel nulla, sapendo che le piaceva avere
sempre
l’ultima parola nelle nostre discussioni.
Ripresi
a
guardare la strada, illuminata unicamente dai fari della nostra piccola
utilitaria, leggendo sul cartello il nome della cittadina verso cui
eravamo
dirette.
Quel
posto era
particolarmente prescelto dagli amanti della moda, poiché vi
si potevano
trovare negozi forniti di tutte le marche possibili di vestiario.
Purtroppo,
la
mia ragazza non era stata l’unica ad aver voglia di
trascorrere un pomeriggio a
far compere in quella città. La fila di auto che premeva per
infilarsi nelle
vie era così consistente che si protraeva fino
all’inizio del corso principale.
Feci
fermare la
macchina, sbuffando e alzando la testa per controllare se
l’ingorgo avesse uno
sbocco.
-Ah, che seccatura...- sbuffai,
lasciando il volante e mettendo le mani dietro la testa.
-Ma non c’è un semaforo
più avanti?
-E allora?
-Allora vedrai che una volta
superato quello riusciremo a camminare più svelti.
Le
sue
previsioni si rivelarono esatte, perché sorpassato
l’incrocio dove maggiormente
si concentravano le macchine, il traffico si affievolì
notevolmente e potei
riprendere a guidare a velocità sostenuta.
-Meno male... ma sai di preciso
dov’è il negozio?
-Che negozio?
-Quello dove devi comprarti le
scarpe...- lasciai perdere la frase a metà, quando intuii
che lei non aveva la
minima idea di dove fosse quel negozio.
Probabilmente,
nei suoi rosei piani, avremmo girato per tutto il corso per tutto il
tempo
necessario a trovare quello che cercava.
Sospirai
in
maniera seccata, poi volsi la testa nella sua direzione.
-Possibile che non hai nemmeno
l’idea di cosa comprare?- chiesi.
Lei
alzò semplicemente
le spalle, mi sorrise e rispose:
-Be’, altrimenti non ci sarebbe
gusto, no?
-Ovviamente- commentai con un
sorriso sarcastico.
La
piccola città
era strapiena di automobili, tutti possibili compratori che il sabato
sera si
recavano a far spese per quei negozi gettonati.
Trovare
un
parcheggio che non distasse un chilometro dalla via principale era
alquanto
difficile, ma non impossibile.
Mentre
lei, del
tutto ignara delle mie preoccupazioni a suo parere futili, si
trastullava
osservando le vetrine luminose che sorpassavamo, io mi voltavo
ripetutamente a
destra e a sinistra per trovare un tanto di spazio da poterci infilare
la
macchina.
Eppure,
non
possedevo un fuoristrada che necessitava di ampio spazio per
parcheggiare, la
nostra macchina era minuscola e mi bastava anche una nicchia, non
chiedevo
tanto!
Feci
per due
volte il giro del corso principale, non trovando alcun parcheggio, e
cominciavo
ad innervosirmi leggermente.
-Caspita, ecco dove dobbiamo andare!
Lì vendono quelle scarpe che ho visto a Paola!
-E perché, adesso tu copi tutto
quello che si mette la tua amica?
-No, è che voglio vedere quanto
costano, per sapere a quale prezzo devo pagare le scarpe
perché possano essere
della stessa qualità- mi rispose, guardando fuori dal
finestrino e allungando
il collo all’indietro per cercare di sbirciare ancora quella
vetrina alla quale
eravamo passate davanti.
Fui
tentata di
darle della “superficiale”, ma ricordando che prima
se l’era un po’ presa,
preferii star zitta e concentrarmi per trovare un maledetto parcheggio.
Era
chiaro che
continuando a girare in tondo per la stessa via non avrei risolto un
bel
niente, perciò pensai che deviare per una strada secondaria
mi avrebbe
facilitato.
Per
nostra
immensa fortuna, in una strada deserta e poco illuminata, sotto un
antico
palazzo, c’era un posto libero che sembrava proprio invitarci
a riempirlo.
Con
un gran
sorriso fermai la macchina lì, constatando che non eravamo
nemmeno troppo
distanti dal corso.
In
conclusione,
potevo ritenermi soddisfatta per la scelta del parcheggio.
-Ecco, non è stato complicato, vero?
E tu che ti lamenti sempre del parcheggio...- mi disse lei, recuperando
la
borsa.
Mi
venne voglia
di sorridere ironicamente, ma invece feci un sospiro e mi poggiai
contro il
sedile, slacciando la cintura.
-Già, è stato abbastanza semplice.
Io
non mi ero
portata appresso nient’altro che il mazzo di chiavi della
macchina e di casa,
mentre lei si era attrezzata infilando nella borsa di tutto, dal
portafoglio
agli assorbenti, dalle chewing-gum alle caramelle, dai guanti alle
forcine per
capelli.
Mi
sporsi nella
sua direzione, abbracciandomi al suo corpo e le diedi un bacio sulla
guancia.
Nonostante brontolassi continuamente per la noia che mi dava il girare
mezza
città alla ricerca del perfetto paio di scarpe, mi piaceva
che volesse portarmi
assieme a lei a far compere. Lo consideravo un onore.
Lei
prese un
piccolo specchio dalla capiente borsa, lo aprì e vi si
scrutò attentamente,
controllando di non avere nemmeno il più piccolo ciuffo
fuori posto.
Mentre
compieva
questo scrupoloso controllo, io certa che per tutta la serata sarebbe
stata
presa da altre questioni, e sapendo che quando andava a far compere per
negozi
non voleva sentir parlare di altro, approfittai di quel momento per
dimostrarle
il mio apprezzamento alla sua mise giornaliera.
-Non baciarmi sul collo, che poi si
vede- mi raccomandò, come faceva sempre prima di uscire di
casa.
E
come ogni
volta io disobbedii al suo comando, andando a baciarle proprio il punto
nascosto da un ciuffo di capelli neri, quasi spostandomi sul suo sedile.
Con
uno schiocco
acquoso mi staccai brevemente.
-Devi mettere il lucidalabbra?-
domandai.
-Certo che sì, o avrò le labbra
secche.
-Bene.
Prima
che
potesse spalmarselo sopra e togliermi ogni possibilità,
risalii sul suo viso e
le baciai la bocca.
Lei
mi diede il
permesso di continuare per un po’, poi decidendo che
altrimenti avremmo
impiegato troppo tempo a girare il corso, mi allontanò di
poco.
-Dai, lo so che sono irresistibile,
ma datti un contegno.
-Ma sentila.
Aggrottando
le
sopracciglia per la sua presunzione, tornai al mio posto guardandola
storta;
lei rise della mia espressione e per compensare la mancanza di cui
avrei
sofferto per il resto della serata, si premurò di darmi un
bacio piuttosto
lungo e approfondito.
-Okay, ora andiamo!- con questa
allegria euforica aprì lo sportello e scese giù
dalla macchina, lasciandomi sul
sedile, con le labbra ancora bagnate.
Stavolta
feci un
sospiro molto più esasperato, ma dovetti rassegnarmi a
seguirla, scendendo a mia
volta giù dall’auto.
-Dai, non fare quella faccia!- mi
rimproverò, prendendomi sottobraccio mentre mi affiancavo a
lei sul
marciapiede.
-Che faccia?
-Hai l’aria di una che è appena
stata condannata a guardare per tutto il giorno le repliche di qualche
telenovela sudamericana!
-Considerando il freddo che fa,
preferirei essere sul divano a guardare telenovele- borbottai io,
sperando che
non mi sentisse.
Lei
mi diede una
brutta occhiata, poi alzò la testa con fare superiore e
disse:
-Be’ se avrai questo atteggiamento
per tutta la sera, puoi scordarti il regalo!
-Non ho bisogno di alcun regalo, c’è
una sola cosa che voglio da te e tu ti rifiuti di darmela in nome di
uno
stupido lucidalabbra!- spiegai, stringendomi nelle spalle.
-Sempre a quello pensi.
-Da che pulpito...
-Allora cosa significa, che ogni
volta che voglio farmi accompagnare a fare shopping devo ricompensarti
in
natura?- mi chiese.
-Non sarebbe una brutta cosa. Almeno
riuscirei a tenere un po’ d’entusiasmo- le sorrisi,
ridendo poi quando mi
spintonò di lato.
-Scema.
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
Inizialmente avevo pensato di
rendere il tutto con un unico capitolo, ma poi ho preferito dividerlo
in tre parti. Ora, facendo un po' di calcoli, il prossimo capitolo
sarà l'ultimo, anche se non so di preciso quando lo
pubblicherò.
Eravamo appena
all’inizio del corso, e io già ne avevo le scatole
piene del suo saltellare,
camminare voltando la testa a destra e sinistra e commentare con
entusiasmo
qualsiasi cosa avesse un prezzo.
Io
avevo
indossato un semplice cappotto di colore nero, dei jeans e degli
scarponcini
pure neri, e anzi rimpiangevo di non aver scelto delle scarpe di tela,
meno
eleganti ma più comode, in previsione della lunga camminata
che avrei dovuto
affrontare.
Lei,
dovendo scegliere
delle scarpe che facessero concorrenza a quelle della sua amica, si era
vestita
nel modo migliore, nella maniera che potesse provare
l’accostamento dei suoi
abiti migliori con i vari modelli di scarpe.
Per
quel motivo
si era abbottonata nel suo sciccoso montgomery blu, aveva applicato le
lenti a
contatto, si era lisciata i capelli e truccata con attenzione.
Camminavamo
sottobraccio, io con le mani infilate in tasca e il collo del cappotto
alzato
per ripararmi dal freddo, lei con la mano agganciata al mio braccio e
lo
sguardo perso fra le luci dei negozi.
Notai
che era
piuttosto assorta nel suo guardarsi attorno, e che se ne stava in
silenzio
dubbioso, così domandai:
-Cosa guardi?
-Sto cercando di capire da dove
iniziare- mi rispose, con una smorfia.
-Questo?- mi fermai davanti ad un
negozio che esponeva in vetrina un manichino abbigliato con giubbotto e
jeans.
Lei
sbirciò la
vetrina, e storse il naso.
-È
troppo popolare, sembra un outlet.
La
mia proposta
venne immediatamente bocciata, ma con mio grande orrore
l’attimo dopo lei si
fermò al negozio successivo.
-Vieni qua!- mi tirò di forza contro
di lei, per guardare un altro manichino, stavolta femminile, che
indossava una
gonna corta e nera, sui cui erano state applicate numerosi paillettes.
-Non trovi che ti starebbe
benissimo?- mi domandò, con un sorriso larghissimo.
Ebbi
per un
momento voglia di ridere, pensando che stesse facendo del sarcasmo, ma
la
voglia mi passò quando l’attimo dopo mi
trascinò dentro.
-No, no!- mi opposi, facendo resistenza.
Io
e le gonne
mantenevamo un rapporto abbastanza controverso, che non aveva motivo di
essere
ancora danneggiato; semplicemente, ci tenevamo alla larga evitandoci,
ben
sapendo di essere incompatibili.
-E dai, che ti costa? Provatela
almeno, no?- mi invitò lei.
-Non se ne parla! Sai da quand’è che
non metto una gonna?
-Da esattamente due mesi. Ed è un
vero peccato...- sospirò teatralmente.
Feci
per
allontanarmi dall’entrata, ma lei mi prese per un braccio e
mi tirò a sé.
-Fallo per me.
Purtroppo
la sua
faccia tremendamente invitante e tenera mi indusse per un momento a
tentennare.
Ecco, lei astutamente approfittò di quel mio attimo di
esitazione per tirarmi
dentro, guardandomi bene negli occhi in modo che non potessi ribattere.
Così,
prima di
potermi rendere conto del mio madornale sbaglio, mi trovai davanti a
quel
manichino.
-Avete bisogno?
-No, veramente...- cominciai io,
puntualmente interrotta da lei, che con un gran sorriso
indicò la gonna nera e
piena di brillanti.
-Avete la taglia media di questa?
La
commessa la
squadrò per bene, poi domandò:
-È
per te?
-No,
per lei.
-Ah,
allora va bene.
Questa
non
l’avevo proprio capita: perché mai per me sarebbe
dovuta andare bene e invece
se fosse stata destinata a lei ci sarebbero stati dei cambiamenti?
Mi
accigliai ed
ebbi l’impulso di andarmene lasciandola di punto in bianco
così, ma lei mi
attorniò la vita con un braccio e mormorò al mio
orecchio:
-Mi prometti che la indosserai?
-Non so nemmeno se mi piace-
replicai, cercando di scrollarmela di dosso.
-Sono sicura che sei bella.
Mi
diede un
leggero bacio sulla guancia che non contribuì a far
diminuire il mio
scetticismo.
-Non m’hai ancora detto il perché
vuoi farmi un regalo- dissi, sciogliendomi dal suo abbraccio.
-Ma come perché? Per festeggiare!
-Per festeggiare cosa?- domandai
spaesata, non capendo dove voleva andare a parare.
-Per festeggiare il fatto che
finalmente tu e le gonne avete fatto pace!
L’allontanai
con
una manata, facendo un verso scettico.
- Che scema.
La
commessa di
prima tornò porgendomi il sosia del modello esposto, e mi
indicò i camerini.
Seguita dalla mia ragazza, presi fra le mani la minigonna e mi avviai
con
scarso entusiasmo a provarla.
Mi
sembrava
troppo corta, troppo luccicante e soprattutto troppo costosa, quando
sbirciai
il prezzo.
-Non posso spendere tanti soldi per
un misero pezzo di stoffa che non mi copre nemmeno mezza gamba!- dissi,
voltandomi e facendo per restituirla.
Lei
però con
mano ferma mi prese il polso, scostò la tenda del camerino e
mi ci buttò dentro
a forza.
-Piantala di brontolare e ficcati
questa gonna!- mi sibilò, alzando un sopracciglio.
Mi
chiuse la
tenda, lasciandomi sola con lo specchio che mi stava di fronte.
Sporsi
la testa
fuori per dirle:
-Ehi, non posso provarla!
-Perché no?-
-Perché ho la cicatrice ancora
fresca sul ginocchio, maledizione, e tu vuoi farmi prendere in giro da
tutte
queste deficienti?- alludevo ovviamente alle ragazze che come noi
giravano per
il negozio e provavano, mettendo in mostra un fisico magrissimo, i vari
capi
d’abbigliamento.
Lei
mi fece un
sorriso dolce, poi entrò assieme a me nel camerino e senza
darmi preavviso mi
baciò sulla bocca. Tentai di liberarmi, perché
temevo che qualcuno potesse scoprirci
da un momento all’altro, ma poi il lavoro della sua bocca
umida ed esperta
riuscì a farmi rilassare.
Si
staccò con
fare malizioso, poi uscì dicendomi:
-Consideralo come un anticipo.
Niente
male,
pensai sorridendo come un’ebete, e mi convinsi che in fondo
provare una
semplice gonna non poteva essere tanto terribile.
Slacciai
la
cintura del cappotto, lo sbottonai e poi, siccome sfilarmi i jeans mi
pareva
troppo faticoso, mi limitai ad abbassarne la cerniera e calarli fino
alle
caviglie.
-Fatto?- lei infilò la testa dentro
proprio nel momento in cui mi stavo chiudendo la cerniera della gonna,
e mi
guardò con curiosità.
-Ecco qua, contenta?- mi guardai a
mia volta nello specchio per confrontarmi col mio riflesso.
Lei
piegò la
testa da un lato e mi guardò da dietro.
-Non sei male- commentò, alzando le
spalle.
-Cos’è, sono più bella di
te e
quindi ti senti in difetto?
Ridendo
schivai
il pugno che aveva minacciato di colpirmi, portandomi fuori dal suo
raggio
d’azione.
-Se l’avessi provata io si sarebbe
perfettamente adattata, piuttosto che strizzarsi sui tuoi muscoli- mi
sbeffeggiò, alzando un sopracciglio con fare strafottente, e
richiuse la
tendina.
Se
stuzzicata su
questioni personali, sapeva ribattere in maniera velenosa, non
curandosi dei
danni che provocava.
Mi
riguardai
nello specchio e improvvisamente le mie gambe mi apparvero
più magre di quanto
già non fossero, ma le cosce ora nascoste dalla gonna come
per magia si
ingrandirono a dismisura.
Rapidamente
mi
sfilai quel pezzo di stoffa nero e una volta rivestita uscii dal
camerino.
Lei
mi stava
aspettando appoggiata al muro, con aria risentita e superiore.
Sapevo
che
quando faceva così, nervosa, era preferibile ignorarla e
lasciare che le
passasse naturalmente; lasciai la gonna sul bancone, trascinandola
fuori e
salutando.
Una
volta
tornate nella via principale, al freddo, mi azzardai a parlare.
-Andiamo, stavo scherzando.
Non
ottenni
risposta, ma solo un muso più lungo di prima.
-Lo so che sei tu la più bella, cosa
credi? Stavo scherzando, era per farti arrabbiare! Era ovvio che stessi
scherzando- spiegai, stringendomi nelle spalle.
-Be’, d’accordo, meglio
così.
Comunque non mi piaceva un granché come ti stava quella
gonna.
Proseguimmo
per
il resto della via stando per un po’ in silenzio. Io temetti
di averla fatta
arrabbiare, e ciò mi dispiaceva; stavo rimuginando su un
modo per chiederle
scusa e farla ridere, quando notammo una ragazza che si stava
avvicinando.
-Ciao!
Vestita
di un
giubbotto grigio argentato, l’esaltata abbracciò
la mia ragazza, baciandola
sulle guance.
-Ciao!- ricambiò lei, sorridendo
tutto ad un tratto – che fai qui? –
-Niente, compere – ovviamente mi
stava ignorando.
Rimasi
poco
distante da loro, osservandole con un broncio leggermente geloso,
poiché non mi
piaceva che lei giocasse a quella maniera con le sue cosiddette amiche.
-Ah, ma ci sei anche tu!
Complimenti
per
la scoperta, mi venne voglia di ribattere, ma preferii star zitta e
pronunciarmi in un sorriso tirato.
-Volevo comprarmi un paio di scarpe,
e senza di lei sicuramente spenderei troppo- lei si voltò
nella mia direzione e
mi fece un sorriso.
Quel
gesto fu
capace di rendermi le guance rosse e di farmi aprire in un vero,
piccolo
sorriso, compiacendomi che non fosse arrabbiata come credevo.
-Perché, è tirchia?
Personalmente
detestavo quella definizione che mi affibbiavano sempre. In
realtà, a
diffondere la voce era stata proprio lei, la mia ragazza, dopo aver
scoperto
che avevamo una diversa concezione su come impiegare il denaro. Per
esempio,
lei si recava regolarmente una volta al mese dall’estetista,
cosa che io non
avrei fatto nemmeno pagata.
-No, è che mi aiuta a scegliere
bene.
-Ho capito. Be’, buon proseguimento!
-Ciao, ci vediamo!
-Ciao.
L’esaltata
tornò
sui suoi passi, camminando su quei tacchi scintillanti come fosse stata
un’equilibrista.
Io
rimasi a
fissarla corrucciata per un po’, domandandomi ancora cosa
caspita ci facesse la
mia ragazza con persone del genere.
-Dai- mi prese per una mano e mi
tirò per farmi camminare.
Il
fatto che
fosse tornata a rivolgermi la parola in maniera rilassata mi fece
dimenticare
ogni pensiero.
-Che hai contro di lei?- mi domandò,
notando che mi ero incupita dopo quel loro scambio di battute.
Mi
strinsi nelle
spalle e le diedi un’occhiata storta.
-Nulla, è che non mi va tanto giù
che ci parli.
-Perché no?
-Così- assunsi un’aria indifferente,
distogliendo lo sguardo.
Lei
fece un gran
sorriso e mi strinse di più la mano, facendole dondolare
entrambe. Per qualche
motivo, la mia affermazione sembrava averla gettata in una
felicità estrema,
anche se non ne capivo il motivo.
Lei
si fermò
bruscamente davanti ad una vetrina di scarpe, che volle esaminare
attentamente.
-Ecco guarda! Quali ti piacciono?
Sinceramente,
più che i vari modelli di scarpe, io mi sporsi per sbirciare
i prezzi. I
cartellini erano stati sapientemente voltati per non far intravedere
nulla, ma
alzandomi sulle punte fingendo di guardare una scarpa che era posta
più in alto
lessi il prezzo di uno scarponcino simile al mio.
Dopo
che ebbi
letto un numero due seguito da un quattro e uno zero, impallidii e
tentai di
distogliere la mia adorata fidanzata da quella vetrina.
-Ehm, perché non andiamo a vedere
lì?- indicai col capo un negozio dalla parte opposta della
strada, che pure
vendeva scarpe -lì si vendono anche giubbini, credo-
Questa
mia
affermazione parve convincerla, perché si voltò a
guardare il negozio che le
avevo proposto.
-Mmm, ma qui hanno la marca di
scarpe che voglio comprarmi.
-Sì ma...
-Ma che?
Ma
qui ne
usciremo derubati, avrei voluto dirle; sapevo però che si
sarebbe arrabbiata e
perciò con un gemito fui costretta a seguirla dentro.
Non
appena entrò
dentro, guardando le mensole illuminate e piene di borse e scarpe
verniciate,
sembrò a sua volta illuminarsi e batté le mani,
soddisfatta.
Mi
tirò verso il
lato sinistro, dove le scarpe di una nota marca erano esposte in vari
colori.
Ero costretta ad osservarle anche io, perché lei mi teneva
sottobraccio.
-Ti piacciono queste?
Mi
indicò col
dito un paio di scarpe a tratti verniciate, a tratti scamosciate
guardandomi
negli occhi con espressione invitante.
-Insomma...- temevo che un paio di
scarpe del genere costasse molto, ma effettivamente in quel negozio non
sembrava potesse esserci nulla di economico.
-A me piacciono- dichiarò lei,
prendendole in mano.
Qualche
minuto
dopo, mentre la osservavo provarsi le scarpe, facevo rapidamente il
conto di
quanto sarebbero costate in totale.
-Che ne pensi?
Lei
era davanti
allo specchio ed esaminava il suo riflesso, chiedendomi un parere sulle
sue
scarpe.
Tossicchiai,
dandole uno sguardo e sperando che capisse che non potevo parlare di
fronte
alla commessa.
-Scusi, può prendermi il trentanove
di quell’altro modello?- domandò lei, per farla
allontanare.
Una
volta che la
ragazza si fu dileguata, mi avvicinai a lei e le mormorai:
-Costano un occhio della testa,
maledizione.
Lei
si
imbronciò, dondolando la scarpa nuova che stava provando.
-Ma se ti ho detto che me le pago
io- obiettò.
-Be’ ma a me paiono un po’ troppi
soldi per un semplice paio di scarpe.
Lei
sembrò
volermi dire qualcosa, ma poi sospirò e disse:
-Magari da qualche altra parte le
troviamo meno costose.
-Ecco, così mi piace sentirti
parlare.
La
commessa
scoprì con grande dispiacere che nemmeno il modello che le
aveva proposto
andava bene, perché la mia ragazza si mostrò
falsamente indecisa, e alzò le
spalle.
-Mah, insomma... non mi convincono
tanto.
-Eppure lo stiamo vendendo
tantissimo, questo modello.
Notai
il barlume
di desiderio che era apparso negli occhi di lei, mentre guardava la
scarpa che
aveva scelto all’inizio. Temetti che volesse comprarla
ugualmente, ma poi,
evidentemente con sforzo, si sedette per togliersela.
-Be’, in caso ripassiamo dopo.
-Sono molto fiera di te- le dissi
più tardi, una volta uscite dal negozio, con un gran sorriso
sulla faccia.
-Sì, davvero?
Non
pareva
esattamente entusiasta quanto me, poiché stava facendo una
smorfia dispiaciuta.
Prima di uscire dal negozio, aveva raccomandato alla commessa di
mettergliele
da parte, in caso avesse avuto dei ripensamenti, e questo mi faceva
pensare che
nonostante avesse deciso di non comprarle, dentro di sé le
desiderasse
ardentemente.
-Uhm...- feci una smorfia
pensierosa, guardandola – cos’hai?-
A
quel punto lei
alzò la testa, e fece un sospiro molto artificioso.
-Nulla- disse infine, con l’aria di
chi invece ha molto da dire.
Mi
dispiacque
vederla in quello stato e dissi:
-Be’, se c’è qualcosa dimmi.
-Ecco, mi piacerebbe... vorrei... no
no, fa nulla.
Detestavo
quando
cominciava una frase e poi subito dopo la interrompeva, mi faceva
andare fuori
dai gangheri.
-Spara.
-Ma niente, una sciocchezza...
Si
fermò in
mezzo alla strada e abbassò gli occhi come una bambina che
si vergogna a
chiedere qualcosa.
-Dimmi- la invogliai.
-Ecco, vorrei entrare in quel
negozio lì- me ne indicò uno dall’altra
parte della strada, dove erano esposte
delle borse e delle cinture luccicanti – ma forse anche
quello è troppo
costoso-
Mi
guardò con
una smorfia invitante e sbattendo più volte artificiosamente
le ciglia.
Oh
no, pensai
dentro di me. Era la stessa tattica che aveva adottato quel pomeriggio
per
farmi alzare dal divano, la stessa che utilizzava quando voleva indurmi
a fare
qualcosa, quando voleva suscitare in me i sensi di colpa.
Ora
mi stava
implicitamente dando la colpa della sua insoddisfazione.
-Sì, esattamente, è troppo costoso.
Andiamo avanti, per favore- risposi senza farmi turbare da quei suoi
occhi
imploranti, e le diedi una spintarella in avanti.
-Dai andiamo.
-Aspetta.
Lei
tornò
davanti alla vetrina del primo negozio per ammirare ancora una volta
quel bel
paio di scarpe, poggiando le mani sul vetro nemmeno fosse una bambina.
Io
alzai un
sopracciglio, sapendo che lo stava facendo apposta perché io
le dessi il
permesso, e per questo guardai da tutt’altra parte, ignorando
la sua
sceneggiata.
-Oh, non sono bellissime?- commentò
ancora una volta, cercando una mia risposta.
-Andiamo, per cortesia?
Non
ottenni
risposta se non un sospiro desideroso e rumoroso, e fu allora che persi
la
pazienza. Mi avvicinai a lei e prendendola per la mano la tirai, o
meglio
strattonai, via dalla vetrina, costringendola a seguirmi.
-No, aspetta! Ancora un minuto!-
protestò teatralmente.
-Ma smettila...
Indifferente
delle sue chiacchiere riguardo un suo personale fondo destinato alle
spese
private da cui poteva attingere, attraversai la strada con lei appresso.
Ad
un certo
punto smise di parlare, e questo suo silenzio mi turbò. La
guardai di sbieco e
la vidi piuttosto concentrata; sembrava che stesse pianificando
qualcosa.
Ad
un certo
punto si fermò e mi guardò con espressione decisa.
-Quanti soldi ti sei portata
appresso?
-Perché vuoi saperlo?
-Così dividiamo il costo delle
scarpe per due, no?- dopo questa domanda le scappò un
sorriso divertito.
-E che facciamo, ne mettiamo una io
e una tu?
-Certo!- rise, mi prese sottobraccio
e mi diede un bacio sulla guancia, mentre io cercavo nella tasca del
cappotto
il portafoglio.
Mi
sembrava di
averlo preso, prima di uscire di casa, eppure non c’erano
tracce della sua
presenza. Tastai anche l’altra tasca, e dopo un momento di
riflessione mi illuminai.
-Ah, l’ho lasciato in macchina,
maledizione!
-Mmm, perché non vai a prenderlo un
attimo? Io ti aspetto qui- propose lei.
Stavo
quasi
automaticamente per allontanarmi verso il parcheggio, quando una vocina
interiore mi parlò all’orecchio, inducendomi ad
essere più sospettosa.
Se
solo mi fossi
allontanata di qualche metro lasciandola sola, lei si sarebbe
precipitata in
quel negozio e avrebbe speso tutti i soldi che aveva appresso per quel
paio di
scarpe.
Dovevo
ammettere
che questa volta me l’aveva quasi fatta. Fortunatamente
però ero riuscita ad
accorgermi in tempo dell’errore che stavo per commettere.
Mi
strinsi nelle
spalle e ripresi a camminare.
-Be’ non importa, credo che i tuoi
soldi basteranno- risposi con nonchalance.
Avrei
giurato
che avesse per un momento stretto le labbra, irritata, ma
l’attimo dopo riprese
a camminare insieme a me come se nulla fosse.
Fu
così che
arrivammo davanti ad un altro negozio di scarpe, meno assortito del
primo. La
mia ragazza esaminò attentamente la vetrina, e con mia
immensa gioia, anche i
prezzi dei vari modelli.
-Be’, entriamo.
Il
negozio era
stato suddiviso in un piano inferiore, e un piano superiore; al piano
inferiore
erano disposte le borse, le cinture, i portafogli e vari accessori di
pelletteria, mentre al piano superiore erano ordinatamente esposte le
scarpe.
Guardandomi
attorno esaminai i vari modelli di borse, poiché avevo in
mente di comprarne
una per un regalo ad una mia amica.
Vedendomi
forse
intenta a guardare, lei lasciò la mia mano e si diresse di
sopra.
-Vado a vedere le scarpe, okay?
-Okay.
Mi
sembrava un
negozio abbastanza giusto come prezzi, poiché lo conoscevo
già, e perciò mi
sentivo sicura a lasciarla libera di scegliere.
In
particolare,
mi era piaciuta una borsa di pelle nera, piuttosto grande e stavo
considerando
proprio l’idea di andare a prendere quel portafoglio in
macchina e comprarla,
per poi regalarla alla mia amica. Istintivamente mi voltai per
chiederle cosa
ne pensasse, ma non trovandola ricordai che m’aveva detto che
sarebbe andata a
vedere le scarpe, al piano di sopra.
Salendo
gli
scalini e spostandomi nella parte superiore del negozio, incontrai una
ragazza
piuttosto esile che scendeva di corsa.
-Permesso, scusate...- faceva,
scansando i vari clienti.
Non
mi curai di
sapere cosa stesse facendo, perché fui troppo occupata ad
osservare la mia
ragazza seduta su un pouf che si stava slacciando le scarpe.
-Hai già scelto?- domandai sorpresa,
stupita della sua rapidità: di solito ci metteva molto tempo
prima di
scegliere, poiché il suo divertimento stava proprio
nell’esaminare le varie
possibilità.
-Sì, ho fatto.
Non
alzò il viso
per rispondermi, né si preoccupò di informarmi su
quale fosse il modello di
scarpa; solo, si slacciò il cappotto e me lo porse.
-Tieni qua.
Era
strano che
si fosse sfilata il cappotto, non capivo il perché di questo
suo gesto, né del
successivo, quando si aggiustò meglio la maglia svolazzante
e trasparente.
-Ecco, sono le ultime rimaste.
La
ragazza esile
che avevo incrociato prima per le scale e che sembrava avere molta
fretta, ad
osservarla meglio, sembrava avere la nostra stessa età.
Indossava
un
paio di occhiali dalla montatura nera e spessa, come piacevano alla mia
ragazza, e un maglioncino rosso dal quale spuntava il colletto di una
camicia.
Lei
allungò le
mani per ricevere il paio di scarpe, sfiorando leggermente le dita
della
ragazzina, e poi slacciò i lacci del modello che aveva
scelto.
Io
la guardai
accigliata, non capendo né il suo essere divenuta ad un
tratto fredda, né il
provarsi quelle scarpe che erano in tutto e per tutto, tranne che per
il
marchio riportato di lato, uguali a quelle del negozio precedente.
Lei
si alzò
e si
guardò nello specchio, voltandosi a
destra e a sinistra per confrontare i due profili.
-Ti stanno benissimo- esordì la
ragazza.
-Davvero?- lei si aprì
all’improvviso in un sorriso che più finto non si
poteva.
-Sì sì.
Imbronciata
la
guardai mentre sorrideva alla giovane commessa, compiaciuta di quel
complimento
e pavoneggiandosi con disinvoltura.
Sulle
prime non
capivo proprio perché le dedicasse tutta quella attenzione,
poiché non mi
pareva che avesse detto nulla di speciale: se me l’avesse
domandato, certamente
anche io le avrei confermato che era molto bella.
Non
mi degnò di
un solo sguardo, mentre chiedeva ripetute conferme alla ragazza che la
stava
servendo.
-Ma ho paura che mi facciano il
piede troppo grosso.
-Ma no, lo vedi che qui- la ragazza
si chinò e toccò la parte anteriore della scarpa
– stringono bene?
Che
sciocca, mi
dissi. Non avevo ancora capito che lo stava facendo apposta?
Lei
stava
appositamente domandando tutte quelle delucidazioni, si mostrava
insicura per
ricevere ovvi complimenti, mi ignorava di proposito, unicamente
perché si era
offesa.
Si
era offesa
perché non le avevo permesso di comprare quelle scarpe che
tanto le piacevano,
anche se non capivo perché avesse dovuto per questo
misurarsi quelle scarpe e
giocherellare come una fanatica con quella commessa.
Mi
voleva forse
fare ingelosire, cosicché cedessi alle sue richieste?
-Perché non le provi anche tu,
queste?- all’improvviso mi sorrise indicando il modello.
-Ne volete un altro paio?- domandò
gentilmente la commessa.
-No no, bastano queste.
Aveva
fatto
tutto da sola, mi aveva proposto (ma implicitamente ordinato) di
misurare
quelle scarpe che tanto le piacevano, il tutto con uno strano sorriso
accomodante.
Io
sapevo che
dietro quel sorriso non si nascondeva nulla di buono, ma non potevo
fare marcia
indietro e rifiutare, così mio malgrado mi sedetti accanto a
lei e sfilai i
lacci dei miei scarponcini.
Ora,
avevamo lo
stesso numero di scarpe, eppure c’era un motivo se io non
amavo quelle zeppe
altissime e scomode, preferendo delle semplici scarpe da tennis.
C’era
un motivo,
e lei lo conosceva.
Infilai
quella
scarpa color testa di moro, verniciata, e mi misi in piedi, sentendo
subito il
piede protestare per essere stato costretto in una posa scomodissima.
-Che pensi?- mi chiese lei, mettendo
la mano a reggere il mento, pensosa.
Mi
strinsi nelle
spalle, guardando lo specchio per vedere come mi stavano addosso, e
immediatamente conclusi che non era proprio nel mio stile indossare
quelle
scarpe.
-A chi vanno meglio?
Lei
mi si
affiancò nello specchio, dondolando a destra e a sinistra la
scarpa uguale a
quella che stavo provando, e guardò la commessa.
Diedi
alla mia
ragazza uno sguardo dubbioso, non capendo dove volesse arrivare.
La
commessa
ovviamente, dovendo scegliere, preferì lei.
-Be’, diciamo addosso a lei- indicò
me – sembrano un po’ troppo... come dire, grosse-
-Dici?
-Sì.
Io
feci un passo
e osservai il mio riflesso compiere lo stesso movimento.
-Non so, è come se si sfaldassero,
come se la pianta le abbattesse.
La
mia ragazza e
la commessa guardarono come la scarpa, mentre camminavo, perdeva la sua
rigidità e si faceva enorme tutto ad un tratto.
-Possiamo prendere il numero più
piccolo- propose lei.
-Non credo cambi qualcosa. È proprio
il tipo di scarpa che non va bene.
La
commessa
indicò il mio scarponcino nero che mi ero sfilata.
-Infatti, se uno è sempre abituato
ad indossare scarpe larghe, è logico che il piede si sforma.
Grazie
mille,
avrei voluto aggiungere io, ma mi limitai a stringermi nelle spalle e
osservare
impotente il mio riflesso.
-In effetti, mi sembrava che ti
stessero un po’ male- fece lei, con finta aria critica.
-Se il piede è fatto in un certo
modo, non lo si può cambiare.
-Già.
-Per esempio io che ho il piede
secco, le scarpe da tennis non riesco proprio a calzarle- aggiunse la
commessa,
scambiando un’occhiata con la mia ragazza.
Non
potei fare
null’altro che incassare tutte quelle umiliazioni senza dire
nulla, anche se
avrei proprio voluto sapere cosa ci fosse di male nelle piante dei miei
piedi.
La
cosa
peggiore, poi, era che lei dava corda senza difendermi alla ragazza,
come se
l’avessero concordato precedentemente.
Allargai
le
braccia come a dire ‘fate voi’ e più
velocemente che potei mi tolsi le scarpe;
la mia ragazza scambiò qualche altra amichevole parola con
la giovane commessa,
prima di confermare l’acquisto delle scarpe.
Accigliata
la
osservai tirare fuori il portafoglio e porgere la somma stabilita alla
ragazza,
che con un sorriso e un ‘arrivederci’ si
congedò.
Camminavamo,
pochi minuti dopo, sempre lungo quel corso interminabile, io con le
mani in
tasca e la fronte corrugata a domandarmi quanto potessero essere
sottili e
vendicative le ragazze, e lei tutta felice per l’acquisto,
apparentemente
indifferente al mio stato d’animo.
Anche
se mi ero
ripromessa di non litigare con lei e di sorvolare su ogni piccola cosa,
non riuscivo
proprio a credere che lo avesse fatto apposta per umiliarmi e farmela
così
pagare.
Oltretutto
aveva
acquistato proprio quelle scarpe che a quanto pareva io non avrei mai
potuto
indossare.
-Ora sei contenta?- le domandai con
una specie di ringhio.
-Sì, perché? Perché me lo
chiedi?
-No dico, dopo avermi fatto fare la
mia bella figura sei contenta?
-Quale figura?
Detestavo
quando
fingeva di non capire e mi rendeva perciò polemica.
-Dovevi proprio farmi misurare
quelle scarpe? Lo sai benissimo che stanno meglio a te che a me, quindi
che
bisogno c’era di farmele provare?
Lei
non si
scompose, anzi fece la faccia più innocente del mondo e
replicò:
-Visto che disapprovi sempre tutto
quello che compro, volevo farti provare le scarpe e farti rendere conto
che
sono belle.
-Ah, e va bene.
Ero
molto
risentita per quel suo colpo basso, così annuii ironicamente
e guardai da
tutt’altra parte, crucciata. Lei a quel punto si
accigliò, fermandomi con una
mano.
Oh,
com’era
brava a rigirare le situazioni come le piacevano!
-Scusa, non ho comprato quelle
scarpe più costose per farti un piacere, ho misurato delle
scarpe di qualità
molto inferiore, te le ho fatte provare per avere il tuo consenso e ora
è colpa
mia?
-No no, lascia... non mi fare
innervosire...
Levai
una mano
in aria, sentendo che se solo avesse detto un’altra parola mi
sarebbero saltati
i nervi: avevo ricevuto la mia bella umiliazione, sentendomi dire che
in
pratica le uniche scarpe adatte a me erano grossolane e dozzinali; non
ero
proprio entusiasta di passare un’intera serata in giro per
negozi; inoltre,
precedentemente mi aveva fatto notare con cattiveria di come io e le
gonne non
fossimo proprio compatibili.
Non
mi serviva
molto per arrabbiarmi, ma sentivo di averne tutte le ragioni.
-Non capisco che ho fatto- disse
lei, continuando a mantenere la calma, facendomi passare per nevrotica.
-Sei davvero così superficiale da
aver bisogno che ti ricordi costantemente e in tutte le maniere
possibili che
sei più femminile di me?
In
realtà non
volevo portare il discorso su quel piano, poiché sapevo si
sarebbe arrabbiata
di brutto, ma ero veramente offesa per la sua mancanza di riguardo nei
miei
confronti.
-Se è la verità non è
colpa mia.
Ma
quella
risposta, pronunciata quasi con noncuranza, pose fine alla mia pazienza.
-Ca**o, se ti serve una leccapiedi
che ti ripeta ogni due per tre che sei bella e sei figa e sei tutto,
va******lo
esci con le tue amichette!
Quando
mi
arrabbiavo e perdevo leggermente il controllo, purtroppo, incominciavo
a
gesticolare e ad alzare la voce senza rendermene conto.
La
mia ragazza
non si spaventò del mio cambio di tono, né per la
mia sfuriata mi domandò
scusa; anzi, strinse le palpebre come per volermi studiare e disse con
tono
molto freddo:
-Cos’ hai contro le mie amiche, non
l’ho
mai capito.
-Cos’ho contro di loro? Nulla, a
parte che ti ronzano attorno solo perché hai un bel
po’ di soldi...- risposi,
facendo una smorfia.
-È un problema?
Non
sapevo se lo
faceva apposta a rispondermi a quella maniera, ma sembrava che fosse
abbastanza
sincera.
-Fai un po’ tu- dissi, alzando le
spalle e facendole un sorriso cattivo – poi non chiedermi
perché ti do della
superficiale-
Questo
la fece
arrabbiare, perché si accigliò e finalmente si
decise a contrastarmi
seriamente, alzando pure la voce.
-Se ti do fastidio che cavolo ci fai
ancora qui? Cos’è, vuoi dei soldi?
-Io non t’ho mai chiesto un solo
centesimo!- alcuni dei passanti mi guardarono a questa affermazione
convinta –
sai quanto me ne può fregare dei tuoi soldi! Ma guarda tu...
pensi che sono
come le tue “amiche”, che ti basta schioccare le
dita per trovartele intorno,
tutte ai tuoi comandi?
-Be’ però i ragazzi quando guardano
me non hanno paura di essere menati a sangue...- ribatté con
un
sorriso falso, consapevole dei propri mezzi.
Be’
non me ne
vantavo, ma possedevo una certa forza e quando volevo, picchiavo forte,
almeno
a quanto dicevano i miei fratelli più piccoli.
-Al diavolo- le dissi, guardandola
come stupita della sua perfidia – vai a quel paese, te lo
dico con tutto il
cuore, davvero-
Lei
sembrò
soppesarmi per un attimo con aria sufficiente, poi domandò:
-Sei seria quando mi dai della
superficiale?
-Certamente, tutto quello che dico
lo penso veramente, non come te che spari ca**ate sapendo di attirarti
così la
simpatia degli altri.
-Be’ secondo me invece sei una
grandissima ipocrita, pensa un po’ ai tuoi, di difetti.
Almeno io riesco a
mantenere un comportamento decente in pubblico.
Non
sapevo come
eravamo giunte a litigare a quel modo, certo era che quel piccolo
battibecco
aveva tirato fuori questioni ben più importanti, e nessuna
di noi due era
intenzionata a rivedere la propria posizione per fare pace.
Così
mi
allontanai un
po’, dicendo:
-Non so proprio che cavolo ci faccio
ancora qui a perdere tempo con una bambina viziata.
-E io non so perché ho speso
mezz’ora con te inutilmente...
-Bene, allora se ritieni che la mia
presenza sia inutile, vaffan***o. Se ti fa sentire realizzata, chiama
una delle
tue amichette, fatti dire quanto sei bella- le rimandai con un ghigno
cattivo.
-Va’ al diavolo. Mi supplicherai di
perdonarti- minacciò tutta seria.
Io
feci una
faccia strafottente, sorridendo sorniona e alzando un sopracciglio.
-Non so nemmeno cosa significhi,
supplicare.
Detto
ciò lei mi
levò contro il dito medio e raccogliendo la busta delle
scarpe mi voltò le
spalle, tornando sui suoi passi.
Con
ancora
addosso lo spirito da litigata, sorrisi nel vederla allontanarsi a quel
modo,
compiaciuta di averla mandata via.
Mille grazie a quelle che l'hanno messa nei preferiti, quelle che la
seguono, e a chi ha recensito il primo capitolo: ad Nlc (okay, ammetto
che forse i comportamenti della voce narrante, come il guardare partite
di calcio, non voler fare un cavolo il sabato sera, essere tirchia,
odiare lo shopping, possono trarre in inganno, ma qui si parla di due
ragazze. Er... non so se è un problema, comunque ho
apprezzato la tua recensione), Emmps3
(grazie per la precisazione), hacky87
(non è proprio una storia, è una cavolata buttata
giù dopo aver aspramente litigato a causa dello shopping,
appunto), reby94
e Mizar19
(come già detto, non sarà una storia lunga, e per
questo non ho dato nomi ai personaggi. Spero che tu l'abbia persa, la
partita, così ci arriva un nuovo capitolo della tua
storia...).
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
Se avessi avuto
il vizio del fumo, probabilmente quello sarebbe stato il momento
perfetto per
sfogare la mia rabbia su di una sigaretta.
Purtroppo
non
fumavo e perciò dovevo sfogarmi in qualche altro modo;
c’era stato un periodo
in cui, assieme alle parole che buttavo fuori quando mi arrabbiavo, mi
era
necessario esternare la rabbia anche a livello fisico, accompagnando i
gesti
alle parole.
Appurato
che
quel comportamento poco si addiceva ad una ragazza, mi ero sforzata di
reprimere la voglia di assalire a pugni il mio interlocutore.
Infine,
avevo concluso
che mangiare del gelato a novembre mi aiutava a raffreddare gli animi,
e
rendeva la mia mente più calma e lucida.
Per
quello ero
seduta ad un tavolino esterno di un bar con una brioche ripiena di
gelato in
mano, e la stavo aggredendo a morsi.
Non
avevo alcun
motivo di prendermela con questa, ma se ripensavo alla litigata di
prima e a
quanto mi irritassero i comportamenti della mia ragazza, non potevo
fare a meno
di mordere con più foga la brioche, ritraendomi bruscamente
l’attimo dopo per
via del contatto dei miei denti col gelato.
Stavo
proprio
massaggiandomi la gengiva dopo un morso particolarmente violento, che
mi sentii
chiamare.
Alzai
lo sguardo
e vidi una ragazza più grande sedersi davanti a me e
sorridermi.
-Ciao! Si può sapere che caspita ci
fai qui?
-Mhm, volevo buttare all’aria un
pomeriggio nella maniera più stupida possibile, ed eccomi
qua- risposi,
corrugando la fronte.
-Dov’è lei?
-Lei chi?
-Lei, la tua ragazza!
-Boh.
-Che vuol dire boh?
-Vuol dire che non me ne fo**e un
ca**o.
Questa
fu
l’educata e gentile risposta che diedi alla mia amica, la
quale mi guardò con
cipiglio divertito, consapevole che il mio linguaggio volgare era
dovuto
unicamente al fatto che ero arrabbiata.
-Vediamo, abbiamo te seduta ad un
bar da sola, lei che non c’è e tu che ne parli
come se non desiderassi altro
che la sua morte, e una brioche piena di gelato azzannata. Mhm...- la
mia amica
mise una mano sotto il mento con finta aria pensosa, poi concluse
– direi che
avete litigato-
Alzai
un
sopracciglio, riprendendo a mangiare il gelato, e chiesi:
-Da cosa l’hai capito?
-Dalla brioche, ovviamente.
-Ovviamente, il premio per detective
è tuo- commentai, ingoiando l’ennesimo cucchiaio
di gelato.
-E perché avete litigato?- mi
domandò, curiosa.
-Perché mi irrita. È
l’essere più
superficiale e costruito che conosca, inoltre è ipocrita,
falsa e ambigua. La
odio con tutto il mio cuore, con tutta la mia mente e con tutta la mia
anima-
risposi, battendo il pugno sul tavolino, di riflesso.
-E così avete litigato per questo?
-Sì.
Lei
mi guardò un
attimo, poi esalò un respiro seccato e commentò:
-Ancora? Possibile che ogni santa
volta che andate a fare compere assieme finite sempre per scatenare la
seconda
guerra mondiale?
Restai
per un
momento senza risposta, poi dissi:
-Be’ sì, non la posso soffrire.
-Molto coerente, un giorno amarla e
un giorno odiarla a morte.
-Non ci posso fare niente, non
riesco proprio a sopportarla quando fa così. E stavolta ha
esagerato.
-Ah sì?
-Oh sì. Mi ha ripetuto in
continuazione di essere più bella di me, ha ucciso la mia
già scarsa autostima
e tutto perché non le ho dato il permesso di comprarsi uno
stupido paio di
scarpe!
La
mia amica
dapprima seguì le mie ragioni con aria interessata, poi
quando terminai alzò un
sopracciglio e domandò:
-E perché non le hai fatto comprare
quelle scarpe?
-Perché costavano troppo.
-La solita tirchia- commentò lei,
sorridendomi.
Scossi
la testa,
capendo che non mi avrebbe mai dato ragione, e terminai la brioche con
gran
sollievo dei miei denti.
-Oh va bene, fa’ pure l’offesa,
tanto sei più testarda di un mulo- così dicendo
si sporse per darmi un bacio
sulla guancia.
-Ci vediamo domani!
-Ciao...- risposi, senza tanto
entusiasmo.
Terminata
la
brioche, non mi restava nient’altro su cui sfogare la mia
insoddisfazione, così
sedendomi più scomposta sulla sedia cominciai a battere le
dita sul tavolino,
sempre più velocemente finché non arrivai a
tirarci sopra un altro pugno.
Infilai
le mani
nella tasca del cappotto per cercare degli spiccioli, lasciarli sul
tavolo e
alzarmi, desiderando solo essere a casa.
Così
ora ero da
sola, al freddo, senza un soldo e per giunta in una città
che iniziavo a
detestare. Non sapevo dove andare, conoscevo a malapena l’ora
e sul cellulare
non compariva nessuna sua chiamata.
Mi
odiai per
questo pensiero, mi odiai per aver desiderato che mi parlasse di nuovo.
Dovevo
ricordarmi che avevamo pur sempre litigato, e dovevo convincermi che
avevo
fatto benissimo ad arrabbiarmi con lei, perché ne avevo
tutto il diritto.
Sbuffai
fuori
una nuvoletta di vapore e, unica soluzione possibile,
m’incamminai verso la
macchina.
Questa,
per
fortuna, era lì ad aspettarmi così come
l’avevo lasciata, immobile nello spazio
buio sotto il palazzo.
-Alla buon’ora.
La
voce
sarcastica che arrivò alle mie orecchie non poteva che
corrispondere ad una
persona.
La
mia ragazza
era lì ferma, appoggiata al muro e con delle buste ai piedi,
che mi guardava a
braccia conserte, piuttosto impaziente.
-Te la potevi dare una mossa.
-Oh abbassa la cresta, nessuno ha
detto che ti accompagno a casa io.
In
realtà non
pensavo veramente di lasciarla lì a piedi solo
perché avevamo litigato, forse
ero cinica e strafottente, ma non cattiva.
-Nessun problema, posso farmi venire
a prendere da una mia amica- mi rispose prontamente, cacciando il
telefonino
fuori dalla tasca.
-Bugiarda del cavolo, lo sai meglio
di me che nessuna delle tue amichette ti verrebbe a prendere qui in
questo
stupido paese, altrimenti non mi avresti aspettato.
La
mia risposta
evidentemente aveva colto nel segno, perché lei non
replicò nulla ma
si limitò a guardarmi corrucciata.
Mi
avvicinai
all’auto, in procinto di schiacciare il pulsante e far aprire
le portiere,
quando notai un’altra busta accanto a quella delle sue scarpe.
Aggrottai
le sopracciglia
e feci un cenno col capo in quella direzione.
-Che roba è?
-Che te ne frega? Roba mia- mi
rispose, prendendola in mano.
Lessi
di
sfuggita sulla busta il nome di un noto negozio, immaginando che lei,
testarda,
avesse comprato lo stesso il suo giubbino.
Non
le sfuggì la
brutta occhiata che avevo fatto alla seconda busta, e per qualche
motivo
imbarazzata la tirò indietro fuori dal mio campo visivo.
-Ca**o guardi, ti ho detto che è
roba mia, pagata con i miei soldi, tranquilla!
Infastidita
delle sue insinuazioni, salii in macchina e aspettando che lei facesse
altrettanto ribattei:
-Non avevo alcuna intenzione di fare
commenti sul modo in cui spendi i tuoi soldi, tanto per chiarire.
-Bene, in ogni caso se mai vorrò
scrivere un saggio dal titolo “i 100 modi perfetti per non
spendere il tuo
denaro” chiederò consiglio a te, la massima
esperta.
-Tante grazie per la considerazione.
-Prego, non c’è di che.
Entrambe
imbronciate ci sedemmo sui sedili anteriori, allacciammo le cinture e
tenemmo
lo sguardo dritto davanti a noi.
Lei
per i primi
dieci minuti stette in un silenzio offeso, ma non appena superata la
prima
galleria tornò a parlare.
-Sarebbe colpa mia poi...- borbottò,
e io sbuffai silenziosamente perché ero sicura che stesse
per intraprendere una
nuova polemica -... se a te importa più del tuo reddito
mensile che non di me?-
-Non è questo il punto.
-Ah no?
-No.
-E allora illuminami, genio.
-Senti- nuovamente sentii la rabbia
crescere veloce in me, e preferii avvertirla fin da subito - ti avviso
da
adesso: sto guidando, e se mi fai incavolare quando guido non lo so che
faccio,
okay?- Quando
m’arrabbiavo, come in quel
caso, gesticolavo senza accorgermene.
-Quindi
se devi
dirne una delle tue aspetta che arriviamo a casa, così
possiamo litigare per
bene senza il rischio di fare incidenti- conclusi.
La
mia ragazza
si ammutolì per un secondo, poi le sfuggì:
-A te quando guidi dovrebbero
controllare il tasso di rabbia, non di alcool.
Rinunciai
a
replicare, preferendo concentrarmi su qualche altro pensiero; in questa
maniera
riuscii ad ignorarla per buona parte del viaggio, quasi dimenticando
che
eravamo arrabbiate.
Accesi
la radio,
dirottando la frequenza su una trasmissione sportiva in modo da potermi
informare sul risultato della partita che avrei desiderato vedere.
Quando
alzai
leggermente il volume vidi la mia ragazza voltarsi verso di me, come
incuriosita del mio movimento.
Lo
speaker della
radio annunciò la sconfitta della mia squadra, decantando le
lodi
dell’avversaria e mostrando tutti i difetti
dell’altra. Ascoltai per circa
cinque minuti, poi infastidita di tutti quei commenti negativi spensi
l’aggeggio.
Lei
guardò la
mia mano premere il pulsante con stizza, poi incapace di trattenersi
ghignò in
maniera complice e disse:
-Questa è la terza volta su tre che
perdete.
Dovetti
violentare le mie labbra per impedire che si allargassero in un
sorriso, ma
riuscii ad ignorare il suo commento.
A
dir la verità,
un po’ mi dispiaceva averla messa da parte a quella maniera,
ma non me la
sentivo di fare io il primo passo e chiederle scusa.
Maledizione,
pensai dentro di me. Ecco, come sempre mi ero fatta corrompere e ora
stavo
anche pensando di chiederle scusa.
Ebbene,
mi
imposi di non fare il primo passo, ma di attendere che fosse lei a
scusarsi per
prima del suo comportamento.
Così
arrivammo
fino a casa, e lei si comportò come se nulla fosse accaduto
fra noi: preparò da
mangiare normalmente, non fece obiezioni quando mi misi sdraiata sul
divano per
vedere un film, non si lamentò come faceva sempre del
disordine nella mia parte
di camera. Svolgeva tutte le sue mansioni normalmente, solo non ci
parlavamo.
Evidentemente
anche lei aspettava che fossi io a fare il primo passo.
Qualche
ora più
tardi, mentre me ne stavo sdraiata fra le lenzuola al caldo a leggere
un libro,
si presentò sulla soglia della camera.
Ci
guardammo per
un lungo attimo, poi io tornai a leggere e lei raccolse le buste da
terra. Con
aria noncurante estrasse la scatola di scarpe nuove e
ripiegò la plastica, poi
salì sul letto facendo dondolare il materasso e mi
guardò con aria curiosa.
Era
incapace di
essere coerente anche quando litigava, difatti sospettavo che stesse
solo
cercando una scusa per parlarmi di nuovo.
Lei
si sdraiò a
pancia in giù reggendosi sui gomiti e mi domandò:
-Che leggi?
Più
che
compiaciuta della sua domanda posta con un tono tranquillo, sogghignai
e
risposi:
-“I 100 modi perfetti per lasciare
la tua ragazza”.
La
vidi storcere
il naso e accigliarsi, poi fece un gran sospiro e si voltò a
pancia in su.
Indossava
una leggera
camicia da notte, di cui non coglievo l’utilità in
un periodo dell’anno freddo
come novembre.
Lentamente,
fingendo di ignorarmi, alzò il tessuto sottile di cui era
vestita fino ad
oltrepassare il ventre e scoprire il piccolo piercing che si era fatta
quella
mattina.
Lo
sfiorò con un
dito, esaminandolo con aria critica.
-Forse è stata veramente una spesa
inutile- esordì ad un tratto – tanto
più che la moda delle pance di fuori è
passata e nessuno lo noterà-
-Direi-
Non
riuscii a
trattenere quel commento, ma non le concessi nemmeno uno sguardo,
continuando a
guardare il mio libro.
Sapevo
che lei
in quel momento si stava scervellando su come attirare la mia
attenzione, e per
questo ero ancora più decisa ad ignorare i suoi tentativi.
Per
farsi
perdonare stavolta avrebbe dovuto veramente fare uno sforzo in
più.
La
mia ragazza
fece un sospiro e si infilò sotto le coperte, guardandomi a
lungo; allora io
abbassai il libro per incontrare i suoi occhi e domandai:
-Sì, hai qualcosa da dirmi?
-No, nulla- mi rispose subito, quasi
forzata.
-Bene.
Tornai
a leggere
e potei sentirla sbuffare impercettibilmente, cosa che per poco non mi
provocò
delle risate poco gentili nei suoi confronti.
-Senti...- cominciò poi,
tormentandosi le mani.
-Dimmi tutto.
Adoravo
prenderla
in giro, e così feci.
-...er... i soldi...-
-Che soldi?
-I soldi del piercing. Te li ho
messi nel portafoglio.
-Ah, d’accordo.
Nuovamente
ripresi la mia lettura, e per la seconda volta dovetti trattenere la
risata che
minacciava di uscire dalle mie labbra.
Di
proposito
chiuse la lampada alla cui luce stavo leggendo e si voltò a
pancia in giù,
abbracciando il cuscino con le mani.
-Non dimentichi qualcosa?- le
domandai, posando il libro sul comodino e scivolando a mia volta fra le
lenzuola.
-Ti odio. Va’ al diavolo.
-Almeno lì non dovrò ascoltare i
tuoi capricci- risposi stancamente, facendo un sospiro e poggiando la
nuca
sulle mani.
L’unica
cosa
buona era che per quella sera ero riuscita a non cedere e restare
arrabbiata
con lei, prendendomi qualche piccola soddisfazione, ma non sapevo
quanto avrei
potuto durare.
La
mattina dopo,
quando schiusi leggermente le palpebre, la prima cosa che percepii
attraverso i
sensi fu la spalla destra indolenzita e il pigiama sudato.
Mi
voltai a
destra, per incontrare il calore tiepido di un corpo abbracciato al
mio; sulle
prime, ancora addormentata, non obiettai e anzi ricambiai il suo
abbraccio,
sfregandomi contro il suo collo.
Poi
però
ricordai di essere ancora arrabbiata e come se avessi preso la scossa
mi
staccai, sedendomi sul letto.
Lei,
infastidita
dal mio brusco movimento, sussultò e aprì gli
occhi, guardandomi confusa.
-Mhm...- gemette, spostandosi i
capelli che le cadevano davanti agli occhi – buongiorno
–
Oh
no, pensai
dentro di me, se credeva che fosse così facile ottenere il
mio perdono, che
bastasse un abbraccio affettuoso e un buongiorno, si sbagliava di
grosso.
Non
risposi al
suo saluto e testarda scesi dal letto, ignorandola.
Sentivo
su di me
il suo sguardo, sapevo che si stava tormentando per la mia
indifferenza, e ne
ero estremamente felice. Entrai nel bagno per farmi una doccia con
l’acqua
fredda, lasciando che questa mi svegliasse bruscamente.
Mentre
le
goccioline congelate scorrevano su tutto il mio corpo, mi domandai se
per caso
non fosse un po’ infantile continuare ad ignorare i suoi, pur
se deboli,
tentativi di rappacificamento.
Non
si poteva
dire che si fosse sforzata, però a modo suo
c’aveva provato.
Per
questo una
volta uscita dal box doccia, tutta tremante e bagnata fino al midollo,
avevo
l’intenzione di seppellire l’ascia di guerra.
Tornando
in
camera da letto la trovai ancora stesa, che si tormentava le mani con
aria
crucciata, e non appena avvertì la mia presenza
alzò lo sguardo.
-Hai fatto la doccia- disse solo,
atona.
-Sì.
Indossavo
solamente la biancheria intima e avevo i capelli bagnati,
perciò avevo premura
di trovare al più presto un asciugamano.
Notai,
poco
prima di voltarmi verso lo specchio e pettinarmi le ciocche, che il suo
sguardo
si era fatto stranamente vacuo.
Poi
sentii due
braccia che da dietro mi abbracciavano e un mento posarsi sulla mia
spalla,
indice che lei s’era degnata di fare il primo passo.
Non
disse nulla,
semplicemente mi guardò attraverso il riflesso e mi diede un
bacio sulla
guancia.
-Io non voglio che tu mi ripeta in
continuazione che sono bella- disse in un mormorio molto flebile.
-E allora cosa vuoi?- domandai,
smettendo di pettinarmi.
Lei
sembrò
pensarci su per un po’ di tempo, poi rispose:
-Da te, niente.
Non
potei fare a
meno di allargarmi in un sorriso entusiasta, udendo quelle parole;
pensai che
le avesse pronunciate apposta, poiché il giorno prima
l’avevo più volte
rimproverata di essere superficiale e approfittatrice.
-È solo che, insomma... lo so che
quello che mi dici sempre quando litighiamo lo dici perché
vuoi che corregga
tutti quei comportamenti che non ti piacciono. Però...
è difficile.
-Be’, nessuno ha mai detto che fosse
facile.
-Voglio dire che non posso fare a
meno di arrabbiarmi, quando mi dici quelle cose. Sai, non ci sono
abituata...
-Sì, lo so che infondo sei una
deficiente ingenua e...- lei mi guardò corrucciata,
sfidandomi a continuare la
sfilza di aggettivi.
-Ingenua e vanitosa- mi limitai a dire,
facendole un bel sorriso.
Non
le piaceva
affatto che la mettessi di fronte ai suoi difetti, poiché di
tutte le persone
che conosceva io ero l’unica a rimproverarla e ad arrabbiarmi
per questo.
-Sono stufa di litigare ogni singola
volta che usciamo a fare spese- concluse lei, sbadigliando.
-La soluzione è semplice- feci io,
terminando di sfregarmi i capelli con l’asciugamano.
-Non provare a dire ‘non usciamo
più’ perché t’arriva un pugno
dritto in faccia- minacciò con un sorriso.
Purtroppo
era
proprio quello che avevo in mente di dire, ma per non suscitare la sua
ira mi limitai
a scrollare le spalle.
-Si potrebbe fare un compromesso-
proposi, mettendo su una faccia pensosa.
-Cioè?
-Be’, la prossima volta che usciamo
io prometto di non arrabbiarmi più e di farti comprare tutto
quello che ti
pare.
-Bene, perfetto!
Lei
batté le
mani e sciolse l’abbraccio che ci teneva legate, per poi
ridere quando le
rivolsi un’occhiata scettica. Credeva mica che i compromessi
si facessero
singolarmente?
-Okay...- si mise un dito sotto il
mento, fingendo di pensarci su – io... mi
impegnerò a...-
-A fare cosa?
Io
adoravo,
assieme alle sue maglie a camiciola, anche le camicie da notte corte
che amava
indossare per puro vezzo. Erano più di otto ore che non ci
scambiavamo una
minima carezza e non ci davamo il più piccolo bacio, e non
avevo intenzione di
restare un altro po’ di tempo senza prendermi ciò
che di diritto mi
apparteneva.
Per
questo,
mentre lei rideva e non opponeva resistenza, la presi per i fianchi e
la stesi
di forza sul materasso.
-A fare cosa?- ripetei, mentre cercavo
freneticamente di imprimerle più baci possibili alla base
del collo, riuscendo
solamente a farla ridere per il solletico.
-Io mi impegnerò ad essere meno me
stessa- disse infine, lasciando che infilassi le mani sotto la camicia
da
notte.
Il
siparietto
stava per concludersi nel modo più ovvio possibile, con una
bella
rappacificazione, quando lei di scatto si mise a sedere, facendomi
sbattere a
terra.
-Oh, ho dimenticato di dirti una
cosa!
Avevo
male al
labbro poiché aveva deciso di alzarsi proprio mentre avevo
cacciato la testa
sotto la sua veste, e in questa maniera avevo sbattuto la bocca contro
il suo
ginocchio.
-Mmm...- trattenni un’imprecazione
ma le rivolsi un’occhiataccia, massaggiandomi la parte
colpita.
Lei
mi tirò a
sedere sul letto, si piazzò sopra di me e disse con un
sorriso:
-Ho fatto una cosa per cui
sicuramente ti arrabbierai.
-E sarebbe?
La
mia ragazza
rise divertita e poi mi indicò col capo la busta che la sera
precedente avevo
adocchiato con sospetto. Aggrottai le sopracciglia senza capire,
così lei la
afferrò e la trascinò sul letto.
-Apri- mi disse.
Sospettosa
e con
molta cautela infilai una mano al suo interno, per poi cavarne fuori
una gonna
nera, corta e dalla cintura brillante.
Rimasi
per un
po’ di tempo senza dire nulla, semplicemente osservandola
indecisa fra il
ridere e il piangere.
Non
potevo
credere che avesse comprato per davvero quella gonna che avevo
misurato, non mi
sembrava una cosa da lei. Lei non era il tipo da regali post-litigata,
non era
suo solito farsi perdonare con un gesto carino nei miei confronti.
Solitamente,
i
suoi massimi picchi di gentilezza erano rappresentati da frasi melense
che mi
rifilava quando era sicura che nessuno di sua conoscenza potesse
ascoltarla.
-Si può sapere cosa hai fatto?- le
domandai, non poco scioccata.
-Ho pensato di aver fatto male, ieri
sera, a dirti che stava meglio a me questa- la prese e la ripose nella
busta.
-Era questa la busta che non volevi
farmi vedere ieri?- chiesi sogghignando compiaciuta.
Lei
non rispose,
ma arrossì e fece finta di non aver sentito.
-Ora che te l’ho comprata mettitela,
per favore! Non frega a nessuno della cicatrice che hai sulla gamba!
-Sì invece.
-A me non importa, tu mi piaci lo
stesso.
Caspita,
quella
mattina dovevano averle somministrato una dose di gentilezza piuttosto
potente,
pensai dentro di me, comunque soddisfatta per quelle parole.
-Cos’è, hai bisogno di soldi?-
domandai, alzando un sopracciglio.
-No! Perché?
-Perché mi stai facendo la corte come
non hai mai fatto e per di più sei tutta gentile e
adorabile... insomma, cosa
c’è sotto?
Lei
incrociò le
braccia, guardandomi dritta negli occhi.
-Ma perché pensi sempre che debba
avere un secondo fine?
-L’esperienza insegna, lo sai.
Invece
di
arrabbiarsi, come mi sarei aspettata, mi sorrise complice e
mormorò piano:
-Quanti sabati sono che litighiamo?
-Un bel po’, direi. E altrettante
sono le mattine in cui facciamo pace.
-Mi piace fare pace.
-Oh, anche a me.
Restammo
per un
po’ di tempo a guardarci negli occhi con
un’espressione che io avrei definito
decisamente da idioti, finché lei non alzò lo
sguardo su un punto imprecisato
del soffitto e buttò lì con fare noncurante:
-Mhm, mi piacerebbe tanto che tu
adesso mi preparassi un bel caffè, con un cornetto caldo
appena uscito dal
forno, e dentro la marmellata. O
forse sarebbe meglio della
cioccolata, di prima mattina?
-Per me, non
c’è problema...
-Certo
però la crema non mi
dispiacerebbe nemmeno-
-...ma
non abbiamo ancora fatto
pace.
Lei
poggiò
l’indice contro il mento con aria pensosa, poi leggermente
confusa domandò:
-Non abbiamo fatto pace? Mi pareva
di sì.
-Non esattamente.
Mise
su una
faccia stupita e aggrottò le sopracciglia.
-E cos’altro devo fare per farmi
perdonare?
-Eh, non ti viene in mente nulla?
-No...- fece una faccia quasi
dispiaciuta, come delusa della mia mancata indulgenza.
Alzai
un
sopracciglio e feci un sorriso divertito, sospirando e chiedendomi cosa
mai
avesse in quella testolina che la distogliesse da quel pensiero.
Eppure
non era
certo restia a quel tipo di perdono che intendevo, anzi ne era
piuttosto entusiasta,
di solito.
La
guardai negli
occhi con espressione invitante per qualche secondo, poi lei
arrossì e spalancò
gli occhi, capendo ciò che volevo comunicarle.
-Oh...- disse ad un tratto,
arrossendo – ho capito –
Si
lasciò
docilmente baciare e tirare sul letto, lasciando che almeno
conquistassi la mia
rivincita per la disastrosa serata precedente.
In
seguito tuttavia fui costretta a prepararle la colazione con tanto di
cornetto alla
marmellata, al cioccolato e alla crema.
E
così, eravamo
a posto anche per quella settimana.
Almeno,
fino al
prossimo sabato.
Note dell'autrice:
L'ho
postato secoli fa il capitolo precedente, e notandolo mi sono imposta
di trovare il tempo di pubblicare la fine, così da non avere
più il
pensiero dell'aggiornamento. Be', che dire, non avevo intenzione di
scrivere un romanzo, questo è un racconto e sono felice che
l'abbiate trovato
divertente.
Mille grazie a chi ha messo la storia nei preferiti, a
chi l'ha seguita, a chi avrà la bontà di leggerla
anche se è passato mezzo
mese dall'ultimo aggiornamento, e a chi l'ha recensita: Emmaps3 ( forse
hai una diversa concezione dello shopping, ma in ogni caso
c'è sempre
l'altra faccia della medaglia, no? E per me è una gran
seccatura... Oh
sì che hanno fatto pace), Mizar19 ( nonostante
B sia la persona più
superficiale del mondo, non credo che A sia esente da colpe.
Conoscendole bene, direi che B è vanitosa, A
è irascibile, tuttavia si
prendono), hacky87
(giusto! Anche io ho sempre pensato che lo shopping
faccia male. Come puoi leggere hanno fatto pace), the angelus (mi fa
piacere che ti abbia divertito, per quanto riguarda i caratteri. si
può arrivare ad un compromesso.... grazie per la recensione,
mi ha fatto molto piacere).
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