Tutti i mali dello shopping

di Pichichi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


tutti i mali (1)


Non mi piaceva affatto uscire la sera, soprattutto con quel freddo e quel tempo, così tetro e minaccioso. Non mi piaceva dovermi scollare dalla mia poltrona preferita mentre in tivù si trasmetteva la dodicesima giornata del campionato di calcio.
Ero sdraiata scompostamente sul divano, con le vecchie scarpe color vinaccio poggiate sul cuscino, le mani pigramente abbandonate sulla pancia e gli occhi semichiusi, fissi sullo schermo televisivo.
Avrei potuto incarnare perfettamente l’accidia in quel momento, ed era chiaro per chiunque si fosse avvicinato che non avevo alcuna intenzione di alzarmi di lì prima che fosse terminata la partita di calcio.
Perciò, contenta all’idea di passare un sabato pomeriggio in completo ozio, sbadigliai e spinsi la schiena più giù in modo da affondare la testa nei cuscini e vedere meglio lo schermo.
Avevo in programma di non far niente fino alle otto, quando la partita sarebbe finita, di oziare per il tempo restante giocando a qualche videogioco, e di mangiare pomodori, cetrioli e carote per cena.
Quello era il mio perfetto programma per il sabato, e nessuno avrebbe potuto rovinarmelo.
Peccato che perduta nei meandri dell’ozio più profondo non avessi considerato l’eventualità numero uno che avrebbe potuto far saltare i miei piani.
Ebbene, avevo dimenticato che il sabato era un giorno particolarmente piacevole per me perché, oltre al fatto che non facevo nulla dalla mattina alla sera, era il giorno in cui di solito passavo più tempo con la mia ragazza.
Non era stato così semplice, né per me, né per lei, accettare il fatto che la nostra pseudo - relazione avesse delle fondamenta più resistenti di quanto pensassimo. La scoperta di avere un qualcosa di più profondo a legarci, oltre a sorprenderci e metterci in confusione, ci aveva quasi costretto ad ufficializzare il nostro rapporto.
Essendo entrambe molto orgogliose e non volendo ammettere la reciproca dipendenza che si era instaurata fra noi, ci era stato molto difficile.
In ogni caso quello che intercorreva fra me e lei in quel periodo, qualunque cosa esso fosse, poteva essere classificato come “primi mesi assieme”.
Fin qui, non avevo alcuna obiezione.
L’eventualità che il mio perfetto sabato da dolce far niente potesse subire qualche leggera modifica mi si presentò quando sentii la serratura di casa scattare e la porta aprirsi.
C’erano solo due persone che possedevano le chiavi di casa mia, ovvero la sottoscritta e la sua cosiddetta compagna.
Ora ragionando un po’, essendo io spaparanzata sul divano a fare nulla, con le chiavi dentro la borsa a tracolla gettata a terra, per esclusione non poteva essere che lei ad aver aperto la porta.
            -Ciao!
Mi chiamò dall’ingresso, richiamo a cui io non risposi per pura pigrizia, continuando a guardare la televisione.
            -Ca**o, mi dà i nervi quando ti chiamo e non mi rispondi, e lo sai!
Come potesse riuscire a cambiare tono e modi da una frase all’altra, dovevo ancora capirlo, ma ero diventata abbastanza pratica di lei da capire che al primo avvertimento conveniva rispondere per non farla arrabbiare.
            -E tu lo sai che mi secca risponderti- le dissi stancamente, rovesciando la testa all’indietro.
Ecco, comparì sulla soglia della porta del salotto in tutto il suo splendore, appena tornata dalla libreria e mi si presentò davanti agli occhi con la migliore delle sue espressioni entusiaste.
Anche se avevo la testa rovesciata all’indietro, ero abbastanza certa che non fosse arrabbiata.
-A vederti senza far niente mi sembri una drogata in fase di recupero- commentò lei, avvicinandosi lentamente.
-Com’è andata?
-Ha tenuto le interviste per mezz’ora e per l’altra mezz’ora ha presentato il libro. Dovevi vedere come si gasava...
Sorrisi e tornai a poggiare la testa sui cuscini, contenta che fosse tornata a casa perché la sua presenza era per me un’ulteriore fonte di rilassamento.
Lei si sedette sul pouf giallo posto accanto al divano, e gettando un’occhiata alla partita disse:
            -Non hanno già giocato martedì?
            -No, quella era la Champions League.
            -Bah, sono tutte uguali.
            -Ignorante. Io non critico la tua amata Tonno Callipo, né protesto quando vuoi andare al palazzetto dello sport a vederne le partite.
Mi spintonò con una mano, e lo presi come un segnale poco promettente.
Inoltre, dettaglio che notai solo in quel momento, non s’era ancora tolta il cappotto e ciò non mi faceva ben sperare per i miei piani di un sabato tranquillo.
            -Ancora questa maglia?
Allungai una mano verso di lei e tastai il sottile tessuto di raso di cui era fatta la sua maglia svolazzante, a camiciola.
            -Non ti piace?- mi domandò, facendo una smorfia dubbiosa.
            -Sembri incinta con quella maglia, e un giorno tua madre penserà male di te.
            -Non è vero.
            -Oh sì.
In realtà io amavo le sue maglie a camiciola, poiché essendo larghe, svolazzanti e nella maggior parte dei casi trasparenti, mi davano la possibilità di infiltrarvi sotto le mani con un’incredibile facilità.
Così feci, afferrandole il fianco sinistro e attirandola contro la mia testa in modo da poggiarla sulla sua gamba.
D’un tratto lei, dopo avermi dato un’occhiata strana, tipicamente sua, mi saltò in grembo, sedendosi a cavalcioni.
Il peso del suo corpo sul mio stomaco mi impedì per un secondo di respirare, ma non fu quello a darmi fastidio. Ciò che mi turbò fu il fatto che senza preavviso si abbassò per baciarmi.
E questa non era una buona cosa, poiché non aveva alcun motivo di farlo.
Mi fidavo poco di lei, pochissimo a dirla tutta, perché conoscendola meglio avevo imparato che non faceva mai qualcosa senza un secondo fine.
Rovesciai indietro la testa per sfuggire alle sue labbra, guardandola aggrottando le sopracciglia.
            -Che c’è?
Anche lei di conseguenza aveva imparato che con me non doveva tergiversare, o tentare di arrampicarsi sugli specchi, poiché preferivo che mi si dicesse la verità immediatamente.
Poggiò le mani ai lati della mia testa e inclinò il busto nella mia direzione, guardandomi furba.
            -Fuori è tanto bello, lo sai? Le strade sono piene di luci.
            -Mi accontenterò di queste che abbiamo a casa, altrimenti si offenderanno.
Fece una piccola risata e si chinò ancora di più.
            -Oggi mi sento così... come dire? Mi sento un po’ abbattuta.
            -Perché non ti prendi la cioccolata e ne fai due tazze, che sarebbe proprio una bella idea?
Sapevo quello che voleva fare, e non gliel’avrei permesso per niente al mondo. Niente e nessuno mi avrebbe scollato da quel divano, non c’era ma che tenesse.
Avevo deciso di passare il mio pomeriggio lì a non far nulla, e caspita, sarei riuscita nel mio intento!
Lei mi sorrise invitante e poggiò la fronte contro la mia; così facendo i miei occhi, non potendo osservare ciò che succedeva in campo, scivolarono a contemplare qualcosa di altrettanto interessante, ovvero il suo seno giustamente fornito e stretto in una fascia nera, sotto la maglia.
L’avrei odiata per quello che stava facendo, perché l’aveva fatto di proposito a non alzarsi la scollatura, ma non ci riuscii.
Mi piaceva troppo quello che vedevo, e mi divertiva farla ingegnare per trovare il modo di farmi muovere da quel divano.
            -Devi guardarmi negli occhi, quando parlo- sorrise, sfregando il naso contro il mio.
            -Sai, mi è un po’ difficile se mi sbatti quel bendiddio davanti.
Lei rise, si sedette composta e si alzò il top nero che portava per coprirsi il seno.
            -Allora, ho bisogno di un nuovo paio di scarpe . Inoltre voglio regalarti qualcosa.
            -Allora per prima cosa mi pare che tu abbia già due paia di scarpe e un bel cappotto, quindi non credo ti servano cose nuove. Per quanto riguarda il resto, se tornassi ad abbassarti quel misero e sconsiderato pezzo di stoffa concedendomi la stessa visuale di prima, sarebbe il regalo più bello del mondo.
Non volevo concederle alcuna scusa per portarmi fuori, volevo anticipare tutti i suoi tentativi di movimentare il mio pomeriggio, e finora me la stavo cavando discretamente.
Lei si alzò di scatto a quella frase, apparentemente disinteressandosi di me; arrivata sulla soglia della porta si voltò e annunciò:
            -Be’, vado a farmi una doccia.
            -Bene, vai.
            -E... stamattina ti ho preso dieci euro.
            -Perché hai preso dieci euro?- domandai, guardandola accigliata.
            -Ecco... mi servivano-
Aveva un’aria terribilmente colpevole e provocante assieme, e dalla sua espressione capii che non mi conveniva andare avanti col discorso.
            -Oh... va bene- risposi, non volendo sapere per cosa le erano serviti i soldi – la prossima volta dimmelo però-
Ce l’avevo fatta, avevo ignorato il suo tentativo di adescamento e potevo considerarmi salva, per quel pomeriggio.
            -Te l’avrei detto, ma tu stamattina non c’eri e io non avevo banconote piccole. Sai, per andare a farmi un piercing non voglio portarmi pezzi grandi...
Maledizione, me l’aveva fatta!
Deglutii alla sua informazione, arrossendo e voltandomi a guardarla.
            -Ti sei fatta un altro piercing?- chiesi, sperando che negasse.
            -Sì, certo- lei mi fece un sorriso raggiante, guardandomi appoggiata allo stipite della porta, con artificiosa innocenza.
La mia ragazza adorava bucarsi le parti più svariate del corpo fin da quando l’avevo conosciuta; allora aveva solo due piercing, ma in seguito si era fatta applicare un puntino argentato sul naso, un piccolo anello al termine delle sopracciglia che poi aveva rimosso, delle asticelle che le perforavano ripetutamente i lobi delle orecchie e tre “bulloni”, a parer mio, che le attraversavano la cartilagine del padiglione auricolare.
            -E... dove te lo sei fatto?- domandai, non sapendo perché ma assalita da un brutto presentimento.
Lei mi sorrise in maniera piuttosto sconcia, e piegò la testa da un lato.
            -In un posto diverso dal solito, e devo ammettere che mi ha fatto un po’ male...- rispose, guardandomi intensamente.
Io arrossii subito, osservandola e schiudendo la bocca. Non la credevo capace di un’azione del genere, nemmeno lei poteva essere così svergognata, senza pudore. Non era possibile che si fosse fatta bucare una parte del corpo così delicata.
Ottenuto l’effetto sperato lei si allontanò, continuando a guardarmi e mordendosi un labbro maliziosamente.
            -Vado a farmi la doccia!- annunciò in procinto di scoppiare a ridere, sapendo di aver suscitato in me curiosità.
Quando fu sparita verso la zona notte, rimasi con lo sguardo fisso sulla porta, dove prima c’era lei. Sentivo che era tutta una trappola, che lei aveva architettato tutto per farmi alzare da quel divano, eppure qualcosa di più forte in me, qualcosa che batté perfino la mia pigrizia, mi invogliò a seguirla.
La odiavo terribilmente in quel momento, la odiavo perché mi aveva insinuato il dubbio e la curiosità, e perché stava sfidando la mia resistenza.
Per principio decisi di disinteressarmi della questione, ripetendomi che mi ero prefissata di oziare per tutto il giorno.
Poi, quando sentii il rumore scrosciante dell’acqua, mi si presentò alla mente l’immagine di lei nuda, con l’acqua che le scorreva sul corpo e le bagnava i capelli, intenta a spalmarsi del profumato bagnoschiuma dappertutto.
Scossi leggermente il capo, sentendo le guance diventarmi rosse, ma non riuscii ad allontanare l’immagine, soprattutto al pensiero di dove potesse trovarsi quel misero, freddo e solitario anello di metallo...
Di scatto mi alzai in piedi, percorrendo rapidamente il corridoio e fermandomi alla porta del bagno.
Notando che era aperta la spinsi con una mano per trovarmi davanti agli occhi lei che in piedi si contemplava nello specchio.
            -Oh, ti sei alzata!
            -Non dovevi farti la doccia?
Lei semplicemente girò la manopola dell’acqua e quella smise di scorrere. Capii che mi aveva preso in giro, ma almeno volli la mia ricompensa.
            -Allora?
            -Allora che?
            -Dove caspita te lo sei fatto ‘sto piercing?
La mia ragazza mi fece una smorfia affettuosa e mi diede un bacio a stampo sulle labbra.
            -Lo vuoi sapere davvero?      
            -Sì voglio saperlo.
            -Non pensavo che avresti ceduto alla curiosità.
Voleva prendermi in giro, e mi dava fastidio, ma io avevo necessariamente bisogno di sapere dove si fosse conficcato quell’insulso aggeggio.
            -Cosa significa un posto diverso dal solito? E perché ti ha fatto male?- domandai di getto, senza girarci attorno.
Lei mi portò davanti allo specchio e mi abbracciò da dietro, poggiando la testa sulla mia spalla.
Mi prese una mano e la portò sul suo corpo.
            -Sei così preoccupata per me, perché ti ho detto che mi ha fatto male?
            -No- arrossii, stavo mentendo -il fatto è che non si sa mai, con queste cose, e tu deficiente possibile che vai ancora a fare queste bambinate?-
            -A me piace, fare le bambinate.
            -Oh, lo so.
Mi diede un bacio sulla guancia e fece scivolare la mano sul suo seno, in modo che mi rendessi conto da sola di dove fosse stato messo il piercing.
Notai con sollievo che le sue grazie superiori sembravano perfettamente rotonde e morbide come lo erano sempre state, ma trattenni leggermente il respiro quando sentii che conduceva la mia mano più giù, sulle sue gambe.
Ridacchiò notando il mio imbarazzo e mi morse scherzosamente l’orecchio.
            -Dì la verità, che è proprio per queste bambinate che ti piaccio.
            -Oh, ma questa è l’ultima volta. O almeno, l’ultima volta con i miei soldi- replicai, imbronciandomi.
            -Oh, come sei tirchia...
Fece indugiare la mano fra i nostri bacini un po’ troppo a lungo, ma poi la portò su di scatto, infilandola sotto la maglia.
            -Ecco, è qui.
Sorrise e fece in modo che il mio pollice si sfregasse contro una sporgenza metallica all’altezza della sua pancia.
Sbuffai fuori l’aria e piuttosto irritata perché mi aveva fregato le alzai di scatto la maglia.
            -Be’, allora?- domandò, sorridendomi.
            -Sei una deficiente. M’hai fatto preoccupare!
Nel punto in cui si trovava il suo ombelico, ora c’era uno spuntone rotondo e argenteo, che a dir la verità mi faceva impressione.
            -Cosa pensavi?- domandò maliziosa, fingendo di non capire.
            -Lascia perdere.
Scossi la testa e uscii dal bagno con l’intento di tornare a sdraiarmi sul divano, ma lei mi raggiunse subito e mi prese per un braccio.
            -Dove pensi di andare?- mi domandò.
            -A guardare la partita.
            -Nemmeno per sogno! Dai, visto che ti sei alzata ora ti cambi e usciamo insieme.
            -Ma non se ne parla proprio- scansandola delicatamente ripresi il mio percorso verso il salotto.
Lei incrociò le braccia e anche se non potevo vederla ero certa che avesse messo su il broncio.
            -Se non esci con me torno al negozio e mi faccio il piercing lì!- minacciò.
Mi voltai guardandola con sufficienza.
            -Non ti permettere- le ordinai stancamente.
            -Be’, se non esci con me stasera giuro che quanto prima me lo faccio.
Non avevo intenzione di litigare, poiché sapevo che se avessi fatto ancora resistenza la prossima volta che ci saremmo ritrovate sotto le coperte avrei avuto una brutta sorpresa. Consideravo questa sua mania di bucarsi il corpo una cosa del tutto inutile e di pessimo gusto, e non mi andava che per ripicca si sfregiasse ancora di più.
Sapevo infatti che a tirare troppo la corda l’avrei costretta a dimostrarmi che non potevo comandarla.
Avrei dovuto immaginare, dal momento in cui era entrata a casa, che il mio sabato di perfetto ozio sarebbe stato rovinato.
Sbuffai seccata, mostrandomi costretta ad accettare.
            -E sia, tanto lo sapevo che eri una guastafeste- borbottai, guardandola di traverso.
Lei batté le mani, compiaciuta, e mi diede un bacio sulla guancia.
            -Vedrai che ti piacerà, e poi lo sai che senza di te rischio di comprare delle cose del tutto inutili...-
            -Sì sì, basta che non mi secchi.
In realtà, anche se provavo a fare la dura, mi piaceva vederla felice e soprattutto mi piaceva l’idea di uscire assieme a fare spese come due fidanzati.
 
Possedevamo una piccola macchina blu scuro, una minuscola Smart capace di infilarsi ovunque e scarrozzarci dappertutto.
La mia ragazza – adoravo chiamarla così – aveva deciso che quella sera, per comprare le scarpe e farmi un regalo, saremmo andate in un paese distante quaranta minuti di viaggio.
-Dai, così passiamo una serata a fare shopping.
Quella voleva essere una proposta allettante?
Be’, avrebbe potuto proporre di meglio.
            -Urrà- commentai accendendo il motore.
Lei non faceva alcuna resistenza su chi dovesse fra noi guidare, poiché non era abituata a portare la macchina su lunghe distanze e non era tanto pratica.
Perciò lasciava che mi occupassi io di questioni senza importanza come la macchina, preferendo dedicarsi a compiti più adatti a lei.
            -Pensi che basteranno?- mi domandò, mostrandomi delle banconote dal portafoglio.
Gli diedi un’occhiata poco interessata e annuii, pensando piuttosto a quanto tempo avremmo speso stando lì, a quanti negozi avremmo girato inutilmente e a quanti provini avrei dovuto assistere.
Da che doveva essere il sabato più ozioso della mia vita, si stava trasformando in un’inevitabile pomeriggio stressante.
            -Lo sai, ho incontrato Gianluca in libreria- mi disse, poggiandosi contro il finestrino.
            -Davvero? E che cavolo voleva?- domandai, nel ricordo di quello che aveva osato farle il ragazzo.
Quel tale Gianluca aveva per più di un mese, tempo fa, corteggiato falsamente la mia ragazza, confondendola e dandole false speranze in cui lei era cascata, per poi scoprire che il tipo la stava solo prendendo in giro in quanto era fidanzato.
            -Niente, mi ha detto ciao, come va, come stai, tutto bene? Solite domande di circostanza...
            -S’è ricordato di quello che gli ho detto?- domandai, accigliandomi.
            -Credo di sì, perché non s’è azzardato nemmeno ad avvicinarsi.
Sogghignai, felice che il tale avesse capito che non doveva ritentare di adescarla, altrimenti sarebbe andato incontro alla mia rabbia.
Notai poi, dal suo conseguente silenzio, che c’era qualcosa che la turbava.
Decisi quindi di farla distrarre, riportandola su terreni più graditi, e chiesi:
            -Come mai hai deciso di farti un piercing?
Ottenni l’effetto sperato poiché lei mi concesse una piccola risata.
            -Ecco, volevo farti una sorpresa.
            -Lo sai che non mi piace questo tipo di sorprese.
            -Scusami. È solo che avevo voglia di fare qualcosa di incosciente.
            -Io che vivo assieme a te, questa non ti sembra un’incoscienza?
Mi tirò un pugno sul braccio, assottigliando le palpebre.
            -Bastarda.
Essendo autunno molto inoltrato, il cielo, alle sei del pomeriggio, era già buio e non si riusciva a distinguere molto del paesaggio. Perfino i cartelli segnaletici a volte passavano inosservati.
            -Come sei brava- disse ad un tratto, incapace di star zitta, osservandomi guidare.
            -Perché?
            -Io non sarei capace a guidare quando è così buio. Non hai paura?
            -No, affatto.
            -Sono proprio felice che hai accettato di venire.
Le diedi un rapido sguardo, e mi compiacque vederla così felice che sorrisi spontaneamente.
            -Sto pensando che mi divertirò da morire con te in giro per negozi.
            -Lo dici con ironia?- fece, abbassando di colpo la voce e diventando preoccupata.
            -No, sul serio. Lo so che faremo un sacco di figure memorabili e mi verrà da ridere fino alle lacrime. Inoltre, avrò materiale per sfotterti fino a quando vorrò.
            -Oh. Allora va bene.
La mia ragazza adorava vestirsi alla moda, almeno tanto quanto la gratificava ricevere complimenti. Sotto questo aspetto la definivo vanitosa, ma mi piaceva il suo essere donna a trecentosessanta gradi, sia negli aspetti positivi che negativi.
Ero certa che prima di aver trovato qualcosa che potesse andarle bene avremmo dovuto girare per negozi e negozi, facendo su e giù per la città. Ma ero disposta a farlo, solo per lei, perché potesse comprarsi quelle benedette scarpe del tutto superflue.
Ad un tratto, forse annoiata dalla durata eccessiva del viaggio, si sporse verso di me e mi portò dietro l’orecchio una ciocca di capelli.
            -Che ne pensi se un giorno di questi ti stiro i capelli per bene?
            -Non se ne parla.
            -Ma perché?
            -Mi piacciono ricci.
            -Sei bellissima con i capelli lisci. Davvero, mi piaci tantissimo. E inoltre sono così lunghi che ti superano le spalle.
            -Lo so che il tuo scopo è un altro.
Mi guardò interrogativa.
            -Quale?
            -Tu vuoi che io mi stiri i capelli in modo che la gente noti quanto corti te li sei tagliata. E di conseguenza ti dica che ti stanno benissimo.
Lei ammutolì, facendo una smorfia buffa e imbarazzata.
            -Come fai a saperlo?- domandò infine, incrociando le braccia al petto.
            -Oh, ti conosco.
            -Mi fai sembrare una persona spregevole.
            -Oh no- ridacchiai, dandole uno sguardo divertito – a me piaci anche così. Mi piace anche il tuo essere superficiale –
La mia risposta le piacque e rimase in silenzio a godersela per un po’. Forse, intenerita per quello che le avevo detto volle ricambiare, perciò aggiunse:
            -Be’, a me piace tanto che tu sia una scorbutica convinta.
Scoppiai a ridere.
            -E questa dove l’hai trovata, hai un vocabolario appresso?
            -Ecco, appunto- mi beccai un pugno discretamente violento – sei una guastafeste –
Riflettei lentamente sulle sue parole e mi imbronciai, aggrottando le sopracciglia.
            -Non sono scorbutica.
            -Be’ secondo te dare quello sguardo poco amichevole a chiunque ti guardi, è indice di una persona estroversa?
            -Tutti quelli che incontro sono degli emeriti idioti- ribattei convinta delle mie parole -e questo non fa di me una scorbutica –
            -Allora tanto meno pretendere da tutti quelli che conosco un riconoscimento per ciò che faccio non fa di me una persona superficiale-       
Feci un sospiro, lasciando cadere il discorso nel nulla, sapendo che le piaceva avere sempre l’ultima parola nelle nostre discussioni.
Ripresi a guardare la strada, illuminata unicamente dai fari della nostra piccola utilitaria, leggendo sul cartello il nome della cittadina verso cui eravamo dirette.
Quel posto era particolarmente prescelto dagli amanti della moda, poiché vi si potevano trovare negozi forniti di tutte le marche possibili di vestiario.
Purtroppo, la mia ragazza non era stata l’unica ad aver voglia di trascorrere un pomeriggio a far compere in quella città. La fila di auto che premeva per infilarsi nelle vie era così consistente che si protraeva fino all’inizio del corso principale.
Feci fermare la macchina, sbuffando e alzando la testa per controllare se l’ingorgo avesse uno sbocco.
            -Ah, che seccatura...- sbuffai, lasciando il volante e mettendo le mani dietro la testa.
            -Ma non c’è un semaforo più avanti?           
            -E allora?
            -Allora vedrai che una volta superato quello riusciremo a camminare più svelti.
Le sue previsioni si rivelarono esatte, perché sorpassato l’incrocio dove maggiormente si concentravano le macchine, il traffico si affievolì notevolmente e potei riprendere a guidare a velocità sostenuta.
            -Meno male... ma sai di preciso dov’è il negozio?
            -Che negozio?
            -Quello dove devi comprarti le scarpe...- lasciai perdere la frase a metà, quando intuii che lei non aveva la minima idea di dove fosse quel negozio.
Probabilmente, nei suoi rosei piani, avremmo girato per tutto il corso per tutto il tempo necessario a trovare quello che cercava.
Sospirai in maniera seccata, poi volsi la testa nella sua direzione.
            -Possibile che non hai nemmeno l’idea di cosa comprare?- chiesi.
Lei alzò semplicemente le spalle, mi sorrise e rispose:
            -Be’, altrimenti non ci sarebbe gusto, no?
            -Ovviamente- commentai con un sorriso sarcastico.
La piccola città era strapiena di automobili, tutti possibili compratori che il sabato sera si recavano a far spese per quei negozi gettonati.
Trovare un parcheggio che non distasse un chilometro dalla via principale era alquanto difficile, ma non impossibile.
Mentre lei, del tutto ignara delle mie preoccupazioni a suo parere futili, si trastullava osservando le vetrine luminose che sorpassavamo, io mi voltavo ripetutamente a destra e a sinistra per trovare un tanto di spazio da poterci infilare la macchina.
Eppure, non possedevo un fuoristrada che necessitava di ampio spazio per parcheggiare, la nostra macchina era minuscola e mi bastava anche una nicchia, non chiedevo tanto!
Feci per due volte il giro del corso principale, non trovando alcun parcheggio, e cominciavo ad innervosirmi leggermente.
            -Caspita, ecco dove dobbiamo andare! Lì vendono quelle scarpe che ho visto a Paola!
            -E perché, adesso tu copi tutto quello che si mette la tua amica?
            -No, è che voglio vedere quanto costano, per sapere a quale prezzo devo pagare le scarpe perché possano essere della stessa qualità- mi rispose, guardando fuori dal finestrino e allungando il collo all’indietro per cercare di sbirciare ancora quella vetrina alla quale eravamo passate davanti.
Fui tentata di darle della “superficiale”, ma ricordando che prima se l’era un po’ presa, preferii star zitta e concentrarmi per trovare un maledetto parcheggio.
Era chiaro che continuando a girare in tondo per la stessa via non avrei risolto un bel niente, perciò pensai che deviare per una strada secondaria mi avrebbe facilitato.
Per nostra immensa fortuna, in una strada deserta e poco illuminata, sotto un antico palazzo, c’era un posto libero che sembrava proprio invitarci a riempirlo.
Con un gran sorriso fermai la macchina lì, constatando che non eravamo nemmeno troppo distanti dal corso.
In conclusione, potevo ritenermi soddisfatta per la scelta del parcheggio.
            -Ecco, non è stato complicato, vero? E tu che ti lamenti sempre del parcheggio...- mi disse lei, recuperando la borsa.
Mi venne voglia di sorridere ironicamente, ma invece feci un sospiro e mi poggiai contro il sedile, slacciando la cintura.           
            -Già, è stato abbastanza semplice.
Io non mi ero portata appresso nient’altro che il mazzo di chiavi della macchina e di casa, mentre lei si era attrezzata infilando nella borsa di tutto, dal portafoglio agli assorbenti, dalle chewing-gum alle caramelle, dai guanti alle forcine per capelli.
Mi sporsi nella sua direzione, abbracciandomi al suo corpo e le diedi un bacio sulla guancia. Nonostante brontolassi continuamente per la noia che mi dava il girare mezza città alla ricerca del perfetto paio di scarpe, mi piaceva che volesse portarmi assieme a lei a far compere. Lo consideravo un onore.
Lei prese un piccolo specchio dalla capiente borsa, lo aprì e vi si scrutò attentamente, controllando di non avere nemmeno il più piccolo ciuffo fuori posto.
Mentre compieva questo scrupoloso controllo, io certa che per tutta la serata sarebbe stata presa da altre questioni, e sapendo che quando andava a far compere per negozi non voleva sentir parlare di altro, approfittai di quel momento per dimostrarle il mio apprezzamento alla sua mise giornaliera.
            -Non baciarmi sul collo, che poi si vede- mi raccomandò, come faceva sempre prima di uscire di casa.
E come ogni volta io disobbedii al suo comando, andando a baciarle proprio il punto nascosto da un ciuffo di capelli neri, quasi spostandomi sul suo sedile.
Con uno schiocco acquoso mi staccai brevemente.
            -Devi mettere il lucidalabbra?- domandai.
            -Certo che sì, o avrò le labbra secche.
            -Bene.
Prima che potesse spalmarselo sopra e togliermi ogni possibilità, risalii sul suo viso e le baciai la bocca.
Lei mi diede il permesso di continuare per un po’, poi decidendo che altrimenti avremmo impiegato troppo tempo a girare il corso, mi allontanò di poco.
            -Dai, lo so che sono irresistibile, ma datti un contegno.
            -Ma sentila.
Aggrottando le sopracciglia per la sua presunzione, tornai al mio posto guardandola storta; lei rise della mia espressione e per compensare la mancanza di cui avrei sofferto per il resto della serata, si premurò di darmi un bacio piuttosto lungo e approfondito.
            -Okay, ora andiamo!- con questa allegria euforica aprì lo sportello e scese giù dalla macchina, lasciandomi sul sedile, con le labbra ancora bagnate.
Stavolta feci un sospiro molto più esasperato, ma dovetti rassegnarmi a seguirla, scendendo a mia volta giù dall’auto.
            -Dai, non fare quella faccia!- mi rimproverò, prendendomi sottobraccio mentre mi affiancavo a lei sul marciapiede.
            -Che faccia?
            -Hai l’aria di una che è appena stata condannata a guardare per tutto il giorno le repliche di qualche telenovela sudamericana!
            -Considerando il freddo che fa, preferirei essere sul divano a guardare telenovele- borbottai io, sperando che non mi sentisse.
Lei mi diede una brutta occhiata, poi alzò la testa con fare superiore e disse:
            -Be’ se avrai questo atteggiamento per tutta la sera, puoi scordarti il regalo!
            -Non ho bisogno di alcun regalo, c’è una sola cosa che voglio da te e tu ti rifiuti di darmela in nome di uno stupido lucidalabbra!- spiegai, stringendomi nelle spalle.
            -Sempre a quello pensi.
            -Da che pulpito...
            -Allora cosa significa, che ogni volta che voglio farmi accompagnare a fare shopping devo ricompensarti in natura?- mi chiese.
            -Non sarebbe una brutta cosa. Almeno riuscirei a tenere un po’ d’entusiasmo- le sorrisi, ridendo poi quando mi spintonò di lato.
            -Scema.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Inizialmente avevo pensato di rendere il tutto con un unico capitolo, ma poi ho preferito dividerlo in tre parti. Ora, facendo un po' di calcoli, il prossimo capitolo sarà l'ultimo, anche se non so di preciso quando lo pubblicherò.




Eravamo appena all’inizio del corso, e io già ne avevo le scatole piene del suo saltellare, camminare voltando la testa a destra e sinistra e commentare con entusiasmo qualsiasi cosa avesse un prezzo.

Io avevo indossato un semplice cappotto di colore nero, dei jeans e degli scarponcini pure neri, e anzi rimpiangevo di non aver scelto delle scarpe di tela, meno eleganti ma più comode, in previsione della lunga camminata che avrei dovuto affrontare.
Lei, dovendo scegliere delle scarpe che facessero concorrenza a quelle della sua amica, si era vestita nel modo migliore, nella maniera che potesse provare l’accostamento dei suoi abiti migliori con i vari modelli di scarpe.
Per quel motivo si era abbottonata nel suo sciccoso montgomery blu, aveva applicato le lenti a contatto, si era lisciata i capelli e truccata con attenzione.
Camminavamo sottobraccio, io con le mani infilate in tasca e il collo del cappotto alzato per ripararmi dal freddo, lei con la mano agganciata al mio braccio e lo sguardo perso fra le luci dei negozi.
Notai che era piuttosto assorta nel suo guardarsi attorno, e che se ne stava in silenzio dubbioso, così domandai:
            -Cosa guardi?
            -Sto cercando di capire da dove iniziare- mi rispose, con una smorfia.
            -Questo?- mi fermai davanti ad un negozio che esponeva in vetrina un manichino abbigliato con giubbotto e jeans.
Lei sbirciò la vetrina, e storse il naso.           
            -È troppo popolare, sembra un outlet.
La mia proposta venne immediatamente bocciata, ma con mio grande orrore l’attimo dopo lei si fermò al negozio successivo.
            -Vieni qua!- mi tirò di forza contro di lei, per guardare un altro manichino, stavolta femminile, che indossava una gonna corta e nera, sui cui erano state applicate numerosi paillettes.
            -Non trovi che ti starebbe benissimo?- mi domandò, con un sorriso larghissimo.  
Ebbi per un momento voglia di ridere, pensando che stesse facendo del sarcasmo, ma la voglia mi passò quando l’attimo dopo mi trascinò dentro.
            -No, no!- mi opposi, facendo resistenza.
Io e le gonne mantenevamo un rapporto abbastanza controverso, che non aveva motivo di essere ancora danneggiato; semplicemente, ci tenevamo alla larga evitandoci, ben sapendo di essere incompatibili.
            -E dai, che ti costa? Provatela almeno, no?- mi invitò lei.
            -Non se ne parla! Sai da quand’è che non metto una gonna?
            -Da esattamente due mesi. Ed è un vero peccato...- sospirò teatralmente.
Feci per allontanarmi dall’entrata, ma lei mi prese per un braccio e mi tirò a sé.
            -Fallo per me.
Purtroppo la sua faccia tremendamente invitante e tenera mi indusse per un momento a tentennare. Ecco, lei astutamente approfittò di quel mio attimo di esitazione per tirarmi dentro, guardandomi bene negli occhi in modo che non potessi ribattere.
Così, prima di potermi rendere conto del mio madornale sbaglio, mi trovai davanti a quel manichino.
            -Avete bisogno?
            -No, veramente...- cominciai io, puntualmente interrotta da lei, che con un gran sorriso indicò la gonna nera e piena di brillanti.
            -Avete la taglia media di questa?
La commessa la squadrò per bene, poi domandò:
            -È per te?
            -No, per lei.
            -Ah, allora va bene.
Questa non l’avevo proprio capita: perché mai per me sarebbe dovuta andare bene e invece se fosse stata destinata a lei ci sarebbero stati dei cambiamenti?
Mi accigliai ed ebbi l’impulso di andarmene lasciandola di punto in bianco così, ma lei mi attorniò la vita con un braccio e mormorò al mio orecchio:
            -Mi prometti che la indosserai?
            -Non so nemmeno se mi piace- replicai, cercando di scrollarmela di dosso.
            -Sono sicura che sei bella.
Mi diede un leggero bacio sulla guancia che non contribuì a far diminuire il mio scetticismo.
            -Non m’hai ancora detto il perché vuoi farmi un regalo- dissi, sciogliendomi dal suo abbraccio.
            -Ma come perché? Per festeggiare!
            -Per festeggiare cosa?- domandai spaesata, non capendo dove voleva andare a parare.
            -Per festeggiare il fatto che finalmente tu e le gonne avete fatto pace!
L’allontanai con una manata, facendo un verso scettico.
            - Che scema.
La commessa di prima tornò porgendomi il sosia del modello esposto, e mi indicò i camerini. Seguita dalla mia ragazza, presi fra le mani la minigonna e mi avviai con scarso entusiasmo a provarla.
Mi sembrava troppo corta, troppo luccicante e soprattutto troppo costosa, quando sbirciai il prezzo.
            -Non posso spendere tanti soldi per un misero pezzo di stoffa che non mi copre nemmeno mezza gamba!- dissi, voltandomi e facendo per restituirla.
Lei però con mano ferma mi prese il polso, scostò la tenda del camerino e mi ci buttò dentro a forza.
            -Piantala di brontolare e ficcati questa gonna!- mi sibilò, alzando un sopracciglio.
Mi chiuse la tenda, lasciandomi sola con lo specchio che mi stava di fronte.
Sporsi la testa fuori per dirle:
            -Ehi, non posso provarla!
            -Perché no?-
            -Perché ho la cicatrice ancora fresca sul ginocchio, maledizione, e tu vuoi farmi prendere in giro da tutte queste deficienti?- alludevo ovviamente alle ragazze che come noi giravano per il negozio e provavano, mettendo in mostra un fisico magrissimo, i vari capi d’abbigliamento.
Lei mi fece un sorriso dolce, poi entrò assieme a me nel camerino e senza darmi preavviso mi baciò sulla bocca. Tentai di liberarmi, perché temevo che qualcuno potesse scoprirci da un momento all’altro, ma poi il lavoro della sua bocca umida ed esperta riuscì a farmi rilassare.
Si staccò con fare malizioso, poi uscì dicendomi:
            -Consideralo come un anticipo.
Niente male, pensai sorridendo come un’ebete, e mi convinsi che in fondo provare una semplice gonna non poteva essere tanto terribile.
Slacciai la cintura del cappotto, lo sbottonai e poi, siccome sfilarmi i jeans mi pareva troppo faticoso, mi limitai ad abbassarne la cerniera e calarli fino alle caviglie.
            -Fatto?- lei infilò la testa dentro proprio nel momento in cui mi stavo chiudendo la cerniera della gonna, e mi guardò con curiosità.
            -Ecco qua, contenta?- mi guardai a mia volta nello specchio per confrontarmi col mio riflesso.
Lei piegò la testa da un lato e mi guardò da dietro.
            -Non sei male- commentò, alzando le spalle.
            -Cos’è, sono più bella di te e quindi ti senti in difetto?
Ridendo schivai il pugno che aveva minacciato di colpirmi, portandomi fuori dal suo raggio d’azione.
            -Se l’avessi provata io si sarebbe perfettamente adattata, piuttosto che strizzarsi sui tuoi muscoli- mi sbeffeggiò, alzando un sopracciglio con fare strafottente, e richiuse la tendina.
Se stuzzicata su questioni personali, sapeva ribattere in maniera velenosa, non curandosi dei danni che provocava.
Mi riguardai nello specchio e improvvisamente le mie gambe mi apparvero più magre di quanto già non fossero, ma le cosce ora nascoste dalla gonna come per magia si ingrandirono a dismisura.
Rapidamente mi sfilai quel pezzo di stoffa nero e una volta rivestita uscii dal camerino.
Lei mi stava aspettando appoggiata al muro, con aria risentita e superiore.
Sapevo che quando faceva così, nervosa, era preferibile ignorarla e lasciare che le passasse naturalmente; lasciai la gonna sul bancone, trascinandola fuori e salutando.
Una volta tornate nella via principale, al freddo, mi azzardai a parlare.
            -Andiamo, stavo scherzando.
Non ottenni risposta, ma solo un muso più lungo di prima.
            -Lo so che sei tu la più bella, cosa credi? Stavo scherzando, era per farti arrabbiare! Era ovvio che stessi scherzando- spiegai, stringendomi nelle spalle.
            -Be’, d’accordo, meglio così. Comunque non mi piaceva un granché come ti stava quella gonna.
Proseguimmo per il resto della via stando per un po’ in silenzio. Io temetti di averla fatta arrabbiare, e ciò mi dispiaceva; stavo rimuginando su un modo per chiederle scusa e farla ridere, quando notammo una ragazza che si stava avvicinando.
            -Ciao!
Vestita di un giubbotto grigio argentato, l’esaltata abbracciò la mia ragazza, baciandola sulle guance.
            -Ciao!- ricambiò lei, sorridendo tutto ad un tratto – che fai qui? –
            -Niente, compere – ovviamente mi stava ignorando.
Rimasi poco distante da loro, osservandole con un broncio leggermente geloso, poiché non mi piaceva che lei giocasse a quella maniera con le sue cosiddette amiche.
            -Ah, ma ci sei anche tu!
Complimenti per la scoperta, mi venne voglia di ribattere, ma preferii star zitta e pronunciarmi in un sorriso tirato.
            -Volevo comprarmi un paio di scarpe, e senza di lei sicuramente spenderei troppo- lei si voltò nella mia direzione e mi fece un sorriso.
Quel gesto fu capace di rendermi le guance rosse e di farmi aprire in un vero, piccolo sorriso, compiacendomi che non fosse arrabbiata come credevo.
            -Perché, è tirchia?
Personalmente detestavo quella definizione che mi affibbiavano sempre. In realtà, a diffondere la voce era stata proprio lei, la mia ragazza, dopo aver scoperto che avevamo una diversa concezione su come impiegare il denaro. Per esempio, lei si recava regolarmente una volta al mese dall’estetista, cosa che io non avrei fatto nemmeno pagata.
            -No, è che mi aiuta a scegliere bene.
            -Ho capito. Be’, buon proseguimento!
            -Ciao, ci vediamo!
            -Ciao.
L’esaltata tornò sui suoi passi, camminando su quei tacchi scintillanti come fosse stata un’equilibrista.
Io rimasi a fissarla corrucciata per un po’, domandandomi ancora cosa caspita ci facesse la mia ragazza con persone del genere.
            -Dai- mi prese per una mano e mi tirò per farmi camminare.
Il fatto che fosse tornata a rivolgermi la parola in maniera rilassata mi fece dimenticare ogni pensiero.
            -Che hai contro di lei?- mi domandò, notando che mi ero incupita dopo quel loro scambio di battute.
Mi strinsi nelle spalle e le diedi un’occhiata storta.
            -Nulla, è che non mi va tanto giù che ci parli.
            -Perché no?
            -Così- assunsi un’aria indifferente, distogliendo lo sguardo.
Lei fece un gran sorriso e mi strinse di più la mano, facendole dondolare entrambe. Per qualche motivo, la mia affermazione sembrava averla gettata in una felicità estrema, anche se non ne capivo il motivo.
Lei si fermò bruscamente davanti ad una vetrina di scarpe, che volle esaminare attentamente.
            -Ecco guarda! Quali ti piacciono?
Sinceramente, più che i vari modelli di scarpe, io mi sporsi per sbirciare i prezzi. I cartellini erano stati sapientemente voltati per non far intravedere nulla, ma alzandomi sulle punte fingendo di guardare una scarpa che era posta più in alto lessi il prezzo di uno scarponcino simile al mio.
Dopo che ebbi letto un numero due seguito da un quattro e uno zero, impallidii e tentai di distogliere la mia adorata fidanzata da quella vetrina.
            -Ehm, perché non andiamo a vedere lì?- indicai col capo un negozio dalla parte opposta della strada, che pure vendeva scarpe -lì si vendono anche giubbini, credo-
Questa mia affermazione parve convincerla, perché si voltò a guardare il negozio che le avevo proposto.
            -Mmm, ma qui hanno la marca di scarpe che voglio comprarmi.
            -Sì ma...
            -Ma che?
Ma qui ne usciremo derubati, avrei voluto dirle; sapevo però che si sarebbe arrabbiata e perciò con un gemito fui costretta a seguirla dentro.
Non appena entrò dentro, guardando le mensole illuminate e piene di borse e scarpe verniciate, sembrò a sua volta illuminarsi e batté le mani, soddisfatta.
Mi tirò verso il lato sinistro, dove le scarpe di una nota marca erano esposte in vari colori. Ero costretta ad osservarle anche io, perché lei mi teneva sottobraccio.
            -Ti piacciono queste?
Mi indicò col dito un paio di scarpe a tratti verniciate, a tratti scamosciate guardandomi negli occhi con espressione invitante.
            -Insomma...- temevo che un paio di scarpe del genere costasse molto, ma effettivamente in quel negozio non sembrava potesse esserci nulla di economico.
            -A me piacciono- dichiarò lei, prendendole in mano.
Qualche minuto dopo, mentre la osservavo provarsi le scarpe, facevo rapidamente il conto di quanto sarebbero costate in totale.
            -Che ne pensi?
Lei era davanti allo specchio ed esaminava il suo riflesso, chiedendomi un parere sulle sue scarpe.
Tossicchiai, dandole uno sguardo e sperando che capisse che non potevo parlare di fronte alla commessa.
            -Scusi, può prendermi il trentanove di quell’altro modello?- domandò lei, per farla allontanare.
Una volta che la ragazza si fu dileguata, mi avvicinai a lei e le mormorai:
            -Costano un occhio della testa, maledizione.
Lei si imbronciò, dondolando la scarpa nuova che stava provando.
            -Ma se ti ho detto che me le pago io- obiettò.
            -Be’ ma a me paiono un po’ troppi soldi per un semplice paio di scarpe.
Lei sembrò volermi dire qualcosa, ma poi sospirò e disse:
            -Magari da qualche altra parte le troviamo meno costose.
            -Ecco, così mi piace sentirti parlare.
La commessa scoprì con grande dispiacere che nemmeno il modello che le aveva proposto andava bene, perché la mia ragazza si mostrò falsamente indecisa, e alzò le spalle.
            -Mah, insomma... non mi convincono tanto.
            -Eppure lo stiamo vendendo tantissimo, questo modello.
Notai il barlume di desiderio che era apparso negli occhi di lei, mentre guardava la scarpa che aveva scelto all’inizio. Temetti che volesse comprarla ugualmente, ma poi, evidentemente con sforzo, si sedette per togliersela.
            -Be’, in caso ripassiamo dopo.
 
            -Sono molto fiera di te- le dissi più tardi, una volta uscite dal negozio, con un gran sorriso sulla faccia.
            -Sì, davvero?
Non pareva esattamente entusiasta quanto me, poiché stava facendo una smorfia dispiaciuta. Prima di uscire dal negozio, aveva raccomandato alla commessa di mettergliele da parte, in caso avesse avuto dei ripensamenti, e questo mi faceva pensare che nonostante avesse deciso di non comprarle, dentro di sé le desiderasse ardentemente.
            -Uhm...- feci una smorfia pensierosa, guardandola – cos’hai?-
A quel punto lei alzò la testa, e fece un sospiro molto artificioso.
            -Nulla- disse infine, con l’aria di chi invece ha molto da dire.
Mi dispiacque vederla in quello stato e dissi:
            -Be’, se c’è qualcosa dimmi.
            -Ecco, mi piacerebbe... vorrei... no no, fa nulla.
Detestavo quando cominciava una frase e poi subito dopo la interrompeva, mi faceva andare fuori dai gangheri.
            -Spara.
            -Ma niente, una sciocchezza...
Si fermò in mezzo alla strada e abbassò gli occhi come una bambina che si vergogna a chiedere qualcosa.
            -Dimmi- la invogliai.
            -Ecco, vorrei entrare in quel negozio lì- me ne indicò uno dall’altra parte della strada, dove erano esposte delle borse e delle cinture luccicanti – ma forse anche quello è troppo costoso-
Mi guardò con una smorfia invitante e sbattendo più volte artificiosamente le ciglia.
Oh no, pensai dentro di me. Era la stessa tattica che aveva adottato quel pomeriggio per farmi alzare dal divano, la stessa che utilizzava quando voleva indurmi a fare qualcosa, quando voleva suscitare in me i sensi di colpa.
Ora mi stava implicitamente dando la colpa della sua insoddisfazione.
            -Sì, esattamente, è troppo costoso. Andiamo avanti, per favore- risposi senza farmi turbare da quei suoi occhi imploranti, e le diedi una spintarella in avanti.
            -Dai andiamo.
            -Aspetta.
Lei tornò davanti alla vetrina del primo negozio per ammirare ancora una volta quel bel paio di scarpe, poggiando le mani sul vetro nemmeno fosse una bambina.
Io alzai un sopracciglio, sapendo che lo stava facendo apposta perché io le dessi il permesso, e per questo guardai da tutt’altra parte, ignorando la sua sceneggiata.
            -Oh, non sono bellissime?- commentò ancora una volta, cercando una mia risposta.
            -Andiamo, per cortesia?
Non ottenni risposta se non un sospiro desideroso e rumoroso, e fu allora che persi la pazienza. Mi avvicinai a lei e prendendola per la mano la tirai, o meglio strattonai, via dalla vetrina, costringendola a seguirmi.          
            -No, aspetta! Ancora un minuto!- protestò teatralmente.
            -Ma smettila...
Indifferente delle sue chiacchiere riguardo un suo personale fondo destinato alle spese private da cui poteva attingere, attraversai la strada con lei appresso.
Ad un certo punto smise di parlare, e questo suo silenzio mi turbò. La guardai di sbieco e la vidi piuttosto concentrata; sembrava che stesse pianificando qualcosa.
Ad un certo punto si fermò e mi guardò con espressione decisa.
            -Quanti soldi ti sei portata appresso?
            -Perché vuoi saperlo?
            -Così dividiamo il costo delle scarpe per due, no?- dopo questa domanda le scappò un sorriso divertito.
            -E che facciamo, ne mettiamo una io e una tu?
            -Certo!- rise, mi prese sottobraccio e mi diede un bacio sulla guancia, mentre io cercavo nella tasca del cappotto il portafoglio.
Mi sembrava di averlo preso, prima di uscire di casa, eppure non c’erano tracce della sua presenza. Tastai anche l’altra tasca, e dopo un momento di riflessione mi illuminai.
            -Ah, l’ho lasciato in macchina, maledizione!
            -Mmm, perché non vai a prenderlo un attimo? Io ti aspetto qui- propose lei.
Stavo quasi automaticamente per allontanarmi verso il parcheggio, quando una vocina interiore mi parlò all’orecchio, inducendomi ad essere più sospettosa.
Se solo mi fossi allontanata di qualche metro lasciandola sola, lei si sarebbe precipitata in quel negozio e avrebbe speso tutti i soldi che aveva appresso per quel paio di scarpe.
Dovevo ammettere che questa volta me l’aveva quasi fatta. Fortunatamente però ero riuscita ad accorgermi in tempo dell’errore che stavo per commettere.
Mi strinsi nelle spalle e ripresi a camminare.
            -Be’ non importa, credo che i tuoi soldi basteranno- risposi con nonchalance.
Avrei giurato che avesse per un momento stretto le labbra, irritata, ma l’attimo dopo riprese a camminare insieme a me come se nulla fosse.
Fu così che arrivammo davanti ad un altro negozio di scarpe, meno assortito del primo. La mia ragazza esaminò attentamente la vetrina, e con mia immensa gioia, anche i prezzi dei vari modelli.
            -Be’, entriamo.
Il negozio era stato suddiviso in un piano inferiore, e un piano superiore; al piano inferiore erano disposte le borse, le cinture, i portafogli e vari accessori di pelletteria, mentre al piano superiore erano ordinatamente esposte le scarpe.
Guardandomi attorno esaminai i vari modelli di borse, poiché avevo in mente di comprarne una per un regalo ad una mia amica.
Vedendomi forse intenta a guardare, lei lasciò la mia mano e si diresse di sopra.
            -Vado a vedere le scarpe, okay?
            -Okay.
Mi sembrava un negozio abbastanza giusto come prezzi, poiché lo conoscevo già, e perciò mi sentivo sicura a lasciarla libera di scegliere.
In particolare, mi era piaciuta una borsa di pelle nera, piuttosto grande e stavo considerando proprio l’idea di andare a prendere quel portafoglio in macchina e comprarla, per poi regalarla alla mia amica. Istintivamente mi voltai per chiederle cosa ne pensasse, ma non trovandola ricordai che m’aveva detto che sarebbe andata a vedere le scarpe, al piano di sopra.
Salendo gli scalini e spostandomi nella parte superiore del negozio, incontrai una ragazza piuttosto esile che scendeva di corsa.
            -Permesso, scusate...- faceva, scansando i vari clienti.
Non mi curai di sapere cosa stesse facendo, perché fui troppo occupata ad osservare la mia ragazza seduta su un pouf che si stava slacciando le scarpe.
            -Hai già scelto?- domandai sorpresa, stupita della sua rapidità: di solito ci metteva molto tempo prima di scegliere, poiché il suo divertimento stava proprio nell’esaminare le varie possibilità.       
            -Sì, ho fatto.
Non alzò il viso per rispondermi, né si preoccupò di informarmi su quale fosse il modello di scarpa; solo, si slacciò il cappotto e me lo porse.
            -Tieni qua.
Era strano che si fosse sfilata il cappotto, non capivo il perché di questo suo gesto, né del successivo, quando si aggiustò meglio la maglia svolazzante e trasparente.
            -Ecco, sono le ultime rimaste.
La ragazza esile che avevo incrociato prima per le scale e che sembrava avere molta fretta, ad osservarla meglio, sembrava avere la nostra stessa età.
Indossava un paio di occhiali dalla montatura nera e spessa, come piacevano alla mia ragazza, e un maglioncino rosso dal quale spuntava il colletto di una camicia.
Lei allungò le mani per ricevere il paio di scarpe, sfiorando leggermente le dita della ragazzina, e poi slacciò i lacci del modello che aveva scelto.
Io la guardai accigliata, non capendo né il suo essere divenuta ad un tratto fredda, né il provarsi quelle scarpe che erano in tutto e per tutto, tranne che per il marchio riportato di lato, uguali a quelle del negozio precedente.
Lei si alzò e  si guardò nello specchio, voltandosi a destra e a sinistra per confrontare i due profili.
            -Ti stanno benissimo- esordì la ragazza.
            -Davvero?- lei si aprì all’improvviso in un sorriso che più finto non si poteva.
            -Sì sì.
Imbronciata la guardai mentre sorrideva alla giovane commessa, compiaciuta di quel complimento e pavoneggiandosi con disinvoltura.
Sulle prime non capivo proprio perché le dedicasse tutta quella attenzione, poiché non mi pareva che avesse detto nulla di speciale: se me l’avesse domandato, certamente anche io le avrei confermato che era molto bella.
Non mi degnò di un solo sguardo, mentre chiedeva ripetute conferme alla ragazza che la stava servendo.
            -Ma ho paura che mi facciano il piede troppo grosso.
            -Ma no, lo vedi che qui- la ragazza si chinò e toccò la parte anteriore della scarpa – stringono bene?
Che sciocca, mi dissi. Non avevo ancora capito che lo stava facendo apposta?
Lei stava appositamente domandando tutte quelle delucidazioni, si mostrava insicura per ricevere ovvi complimenti, mi ignorava di proposito, unicamente perché si era offesa.
Si era offesa perché non le avevo permesso di comprare quelle scarpe che tanto le piacevano, anche se non capivo perché avesse dovuto per questo misurarsi quelle scarpe e giocherellare come una fanatica con quella commessa.
Mi voleva forse fare ingelosire, cosicché cedessi alle sue richieste?
            -Perché non le provi anche tu, queste?- all’improvviso mi sorrise indicando il modello.
            -Ne volete un altro paio?- domandò gentilmente la commessa.
            -No no, bastano queste.
Aveva fatto tutto da sola, mi aveva proposto (ma implicitamente ordinato) di misurare quelle scarpe che tanto le piacevano, il tutto con uno strano sorriso accomodante.
Io sapevo che dietro quel sorriso non si nascondeva nulla di buono, ma non potevo fare marcia indietro e rifiutare, così mio malgrado mi sedetti accanto a lei e sfilai i lacci dei miei scarponcini.
Ora, avevamo lo stesso numero di scarpe, eppure c’era un motivo se io non amavo quelle zeppe altissime e scomode, preferendo delle semplici scarpe da tennis.
C’era un motivo, e lei lo conosceva.
Infilai quella scarpa color testa di moro, verniciata, e mi misi in piedi, sentendo subito il piede protestare per essere stato costretto in una posa scomodissima.
            -Che pensi?- mi chiese lei, mettendo la mano a reggere il mento, pensosa.
Mi strinsi nelle spalle, guardando lo specchio per vedere come mi stavano addosso, e immediatamente conclusi che non era proprio nel mio stile indossare quelle scarpe.
            -A chi vanno meglio?
Lei mi si affiancò nello specchio, dondolando a destra e a sinistra la scarpa uguale a quella che stavo provando, e guardò la commessa.
Diedi alla mia ragazza uno sguardo dubbioso, non capendo dove volesse arrivare.
La commessa ovviamente, dovendo scegliere, preferì lei.
            -Be’, diciamo addosso a lei- indicò me – sembrano un po’ troppo... come dire, grosse-
            -Dici?
            -Sì.
Io feci un passo e osservai il mio riflesso compiere lo stesso movimento.
            -Non so, è come se si sfaldassero, come se la pianta le abbattesse.
La mia ragazza e la commessa guardarono come la scarpa, mentre camminavo, perdeva la sua rigidità e si faceva enorme tutto ad un tratto.
            -Possiamo prendere il numero più piccolo- propose lei.
            -Non credo cambi qualcosa. È proprio il tipo di scarpa che non va bene.
La commessa indicò il mio scarponcino nero che mi ero sfilata.
            -Infatti, se uno è sempre abituato ad indossare scarpe larghe, è logico che il piede si sforma.
Grazie mille, avrei voluto aggiungere io, ma mi limitai a stringermi nelle spalle e osservare impotente il mio riflesso.
            -In effetti, mi sembrava che ti stessero un po’ male- fece lei, con finta aria critica.
            -Se il piede è fatto in un certo modo, non lo si può cambiare.
            -Già.
            -Per esempio io che ho il piede secco, le scarpe da tennis non riesco proprio a calzarle- aggiunse la commessa, scambiando un’occhiata con la mia ragazza.
Non potei fare null’altro che incassare tutte quelle umiliazioni senza dire nulla, anche se avrei proprio voluto sapere cosa ci fosse di male nelle piante dei miei piedi.
La cosa peggiore, poi, era che lei dava corda senza difendermi alla ragazza, come se l’avessero concordato precedentemente.
Allargai le braccia come a dire ‘fate voi’ e più velocemente che potei mi tolsi le scarpe; la mia ragazza scambiò qualche altra amichevole parola con la giovane commessa, prima di confermare l’acquisto delle scarpe.
Accigliata la osservai tirare fuori il portafoglio e porgere la somma stabilita alla ragazza, che con un sorriso e un ‘arrivederci’ si congedò.
Camminavamo, pochi minuti dopo, sempre lungo quel corso interminabile, io con le mani in tasca e la fronte corrugata a domandarmi quanto potessero essere sottili e vendicative le ragazze, e lei tutta felice per l’acquisto, apparentemente indifferente al mio stato d’animo.
Anche se mi ero ripromessa di non litigare con lei e di sorvolare su ogni piccola cosa, non riuscivo proprio a credere che lo avesse fatto apposta per umiliarmi e farmela così pagare.
Oltretutto aveva acquistato proprio quelle scarpe che a quanto pareva io non avrei mai potuto indossare.
            -Ora sei contenta?- le domandai con una specie di ringhio.
            -Sì, perché? Perché me lo chiedi?
            -No dico, dopo avermi fatto fare la mia bella figura sei contenta?
            -Quale figura?
Detestavo quando fingeva di non capire e mi rendeva perciò polemica.
            -Dovevi proprio farmi misurare quelle scarpe? Lo sai benissimo che stanno meglio a te che a me, quindi che bisogno c’era di farmele provare?
Lei non si scompose, anzi fece la faccia più innocente del mondo e replicò:
            -Visto che disapprovi sempre tutto quello che compro, volevo farti provare le scarpe e farti rendere conto che sono belle.
            -Ah, e va bene.
Ero molto risentita per quel suo colpo basso, così annuii ironicamente e guardai da tutt’altra parte, crucciata. Lei a quel punto si accigliò, fermandomi con una mano.
Oh, com’era brava a rigirare le situazioni come le piacevano!
            -Scusa, non ho comprato quelle scarpe più costose per farti un piacere, ho misurato delle scarpe di qualità molto inferiore, te le ho fatte provare per avere il tuo consenso e ora è colpa mia?
            -No no, lascia... non mi fare innervosire...
Levai una mano in aria, sentendo che se solo avesse detto un’altra parola mi sarebbero saltati i nervi: avevo ricevuto la mia bella umiliazione, sentendomi dire che in pratica le uniche scarpe adatte a me erano grossolane e dozzinali; non ero proprio entusiasta di passare un’intera serata in giro per negozi; inoltre, precedentemente mi aveva fatto notare con cattiveria di come io e le gonne non fossimo proprio compatibili.
Non mi serviva molto per arrabbiarmi, ma sentivo di averne tutte le ragioni.
            -Non capisco che ho fatto- disse lei, continuando a mantenere la calma, facendomi passare per nevrotica.
            -Sei davvero così superficiale da aver bisogno che ti ricordi costantemente e in tutte le maniere possibili che sei più femminile di me?
In realtà non volevo portare il discorso su quel piano, poiché sapevo si sarebbe arrabbiata di brutto, ma ero veramente offesa per la sua mancanza di riguardo nei miei confronti.
            -Se è la verità non è colpa mia.
Ma quella risposta, pronunciata quasi con noncuranza, pose fine alla mia pazienza.
            -Ca**o, se ti serve una leccapiedi che ti ripeta ogni due per tre che sei bella e sei figa e sei tutto, va******lo esci con le tue amichette!
Quando mi arrabbiavo e perdevo leggermente il controllo, purtroppo, incominciavo a gesticolare e ad alzare la voce senza rendermene conto.
La mia ragazza non si spaventò del mio cambio di tono, né per la mia sfuriata mi domandò scusa; anzi, strinse le palpebre come per volermi studiare e disse con tono molto freddo:
            -Cos’ hai contro le mie amiche, non l’ho mai capito.
            -Cos’ho contro di loro? Nulla, a parte che ti ronzano attorno solo perché hai un bel po’ di soldi...- risposi, facendo una smorfia.
            -È un problema?
Non sapevo se lo faceva apposta a rispondermi a quella maniera, ma sembrava che fosse abbastanza sincera.
            -Fai un po’ tu- dissi, alzando le spalle e facendole un sorriso cattivo – poi non chiedermi perché ti do della superficiale-
Questo la fece arrabbiare, perché si accigliò e finalmente si decise a contrastarmi seriamente, alzando pure la voce.
            -Se ti do fastidio che cavolo ci fai ancora qui? Cos’è, vuoi dei soldi?
            -Io non t’ho mai chiesto un solo centesimo!- alcuni dei passanti mi guardarono a questa affermazione convinta – sai quanto me ne può fregare dei tuoi soldi! Ma guarda tu... pensi che sono come le tue “amiche”, che ti basta schioccare le dita per trovartele intorno, tutte ai tuoi comandi?
            -Be’ però i ragazzi quando guardano me non hanno paura di essere menati a sangue...- ribatté con un sorriso falso, consapevole dei propri mezzi.
Be’ non me ne vantavo, ma possedevo una certa forza e quando volevo, picchiavo forte, almeno a quanto dicevano i miei fratelli più piccoli.
            -Al diavolo- le dissi, guardandola come stupita della sua perfidia – vai a quel paese, te lo dico con tutto il cuore, davvero-
Lei sembrò soppesarmi per un attimo con aria sufficiente, poi domandò:
            -Sei seria quando mi dai della superficiale?
            -Certamente, tutto quello che dico lo penso veramente, non come te che spari ca**ate sapendo di attirarti così la simpatia degli altri.
            -Be’ secondo me invece sei una grandissima ipocrita, pensa un po’ ai tuoi, di difetti. Almeno io riesco a mantenere un comportamento decente in pubblico.
Non sapevo come eravamo giunte a litigare a quel modo, certo era che quel piccolo battibecco aveva tirato fuori questioni ben più importanti, e nessuna di noi due era intenzionata a rivedere la propria posizione per fare pace.
Così mi allontanai  un po’, dicendo:
            -Non so proprio che cavolo ci faccio ancora qui a perdere tempo con una bambina viziata.
            -E io non so perché ho speso mezz’ora con te inutilmente...
            -Bene, allora se ritieni che la mia presenza sia inutile, vaffan***o. Se ti fa sentire realizzata, chiama una delle tue amichette, fatti dire quanto sei bella- le rimandai con un ghigno cattivo.
            -Va’ al diavolo. Mi supplicherai di perdonarti- minacciò tutta seria.
Io feci una faccia strafottente, sorridendo sorniona e alzando un sopracciglio.
            -Non so nemmeno cosa significhi, supplicare.
Detto ciò lei mi levò contro il dito medio e raccogliendo la busta delle scarpe mi voltò le spalle, tornando sui suoi passi.
Con ancora addosso lo spirito da litigata, sorrisi nel vederla allontanarsi a quel modo, compiaciuta di averla mandata via.





Mille grazie a quelle che l'hanno messa nei preferiti, quelle che la seguono, e a chi ha recensito il primo capitolo: ad Nlc (okay, ammetto che forse i comportamenti della voce narrante, come il guardare partite di calcio, non voler fare un cavolo il sabato sera, essere tirchia, odiare lo shopping, possono trarre in inganno, ma qui si parla di due ragazze. Er... non so se è un problema, comunque ho apprezzato la tua recensione), Emmps3 (grazie per la precisazione), hacky87 (non è proprio una storia, è una cavolata buttata giù dopo aver aspramente litigato a causa dello shopping, appunto), reby94 e Mizar19 (come già detto, non sarà una storia lunga, e per questo non ho dato nomi ai personaggi. Spero che tu l'abbia persa, la partita, così ci arriva un nuovo capitolo della tua storia...).

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***




Se avessi avuto il vizio del fumo, probabilmente quello sarebbe stato il momento perfetto per sfogare la mia rabbia su di una sigaretta.

Purtroppo non fumavo e perciò dovevo sfogarmi in qualche altro modo; c’era stato un periodo in cui, assieme alle parole che buttavo fuori quando mi arrabbiavo, mi era necessario esternare la rabbia anche a livello fisico, accompagnando i gesti alle parole.
Appurato che quel comportamento poco si addiceva ad una ragazza, mi ero sforzata di reprimere la voglia di assalire a pugni il mio interlocutore.
Infine, avevo concluso che mangiare del gelato a novembre mi aiutava a raffreddare gli animi, e rendeva la mia mente più calma e lucida.
Per quello ero seduta ad un tavolino esterno di un bar con una brioche ripiena di gelato in mano, e la stavo aggredendo a morsi.
Non avevo alcun motivo di prendermela con questa, ma se ripensavo alla litigata di prima e a quanto mi irritassero i comportamenti della mia ragazza, non potevo fare a meno di mordere con più foga la brioche, ritraendomi bruscamente l’attimo dopo per via del contatto dei miei denti col gelato.
Stavo proprio massaggiandomi la gengiva dopo un morso particolarmente violento, che mi sentii chiamare.
Alzai lo sguardo e vidi una ragazza più grande sedersi davanti a me e sorridermi.
            -Ciao! Si può sapere che caspita ci fai qui?
            -Mhm, volevo buttare all’aria un pomeriggio nella maniera più stupida possibile, ed eccomi qua- risposi, corrugando la fronte.
            -Dov’è lei?
            -Lei chi?
            -Lei, la tua ragazza!
            -Boh.
            -Che vuol dire boh?
            -Vuol dire che non me ne fo**e un ca**o.
Questa fu l’educata e gentile risposta che diedi alla mia amica, la quale mi guardò con cipiglio divertito, consapevole che il mio linguaggio volgare era dovuto unicamente al fatto che ero arrabbiata.
            -Vediamo, abbiamo te seduta ad un bar da sola, lei che non c’è e tu che ne parli come se non desiderassi altro che la sua morte, e una brioche piena di gelato azzannata. Mhm...- la mia amica mise una mano sotto il mento con finta aria pensosa, poi concluse – direi che avete litigato-
Alzai un sopracciglio, riprendendo a mangiare il gelato, e chiesi:
            -Da cosa l’hai capito?
            -Dalla brioche, ovviamente.
            -Ovviamente, il premio per detective è tuo- commentai, ingoiando l’ennesimo cucchiaio di gelato.
            -E perché avete litigato?- mi domandò, curiosa.
            -Perché mi irrita. È l’essere più superficiale e costruito che conosca, inoltre è ipocrita, falsa e ambigua. La odio con tutto il mio cuore, con tutta la mia mente e con tutta la mia anima- risposi, battendo il pugno sul tavolino, di riflesso.
            -E così avete litigato per questo?
            -Sì.
Lei mi guardò un attimo, poi esalò un respiro seccato e commentò:
            -Ancora? Possibile che ogni santa volta che andate a fare compere assieme finite sempre per scatenare la seconda guerra mondiale?
Restai per un momento senza risposta, poi dissi:
            -Be’ sì, non la posso soffrire.
            -Molto coerente, un giorno amarla e un giorno odiarla a morte.
            -Non ci posso fare niente, non riesco proprio a sopportarla quando fa così. E stavolta ha esagerato.
            -Ah sì?
            -Oh sì. Mi ha ripetuto in continuazione di essere più bella di me, ha ucciso la mia già scarsa autostima e tutto perché non le ho dato il permesso di comprarsi uno stupido paio di scarpe!
La mia amica dapprima seguì le mie ragioni con aria interessata, poi quando terminai alzò un sopracciglio e domandò:
            -E perché non le hai fatto comprare quelle scarpe?
            -Perché costavano troppo.
            -La solita tirchia- commentò lei, sorridendomi.
Scossi la testa, capendo che non mi avrebbe mai dato ragione, e terminai la brioche con gran sollievo dei miei denti.
            -Oh va bene, fa’ pure l’offesa, tanto sei più testarda di un mulo- così dicendo si sporse per darmi un bacio sulla guancia.
            -Ci vediamo domani!
            -Ciao...- risposi, senza tanto entusiasmo.
Terminata la brioche, non mi restava nient’altro su cui sfogare la mia insoddisfazione, così sedendomi più scomposta sulla sedia cominciai a battere le dita sul tavolino, sempre più velocemente finché non arrivai a tirarci sopra un altro pugno.
Infilai le mani nella tasca del cappotto per cercare degli spiccioli, lasciarli sul tavolo e alzarmi, desiderando solo essere a casa.
Così ora ero da sola, al freddo, senza un soldo e per giunta in una città che iniziavo a detestare. Non sapevo dove andare, conoscevo a malapena l’ora e sul cellulare non compariva nessuna sua chiamata.
Mi odiai per questo pensiero, mi odiai per aver desiderato che mi parlasse di nuovo.
Dovevo ricordarmi che avevamo pur sempre litigato, e dovevo convincermi che avevo fatto benissimo ad arrabbiarmi con lei, perché ne avevo tutto il diritto.
Sbuffai fuori una nuvoletta di vapore e, unica soluzione possibile, m’incamminai verso la macchina.
Questa, per fortuna, era lì ad aspettarmi così come l’avevo lasciata, immobile nello spazio buio sotto il palazzo.
            -Alla buon’ora.
La voce sarcastica che arrivò alle mie orecchie non poteva che corrispondere ad una persona.
La mia ragazza era lì ferma, appoggiata al muro e con delle buste ai piedi, che mi guardava a braccia conserte, piuttosto impaziente.
            -Te la potevi dare una mossa.
            -Oh abbassa la cresta, nessuno ha detto che ti accompagno a casa io.
In realtà non pensavo veramente di lasciarla lì a piedi solo perché avevamo litigato, forse ero cinica e strafottente, ma non cattiva.
            -Nessun problema, posso farmi venire a prendere da una mia amica- mi rispose prontamente, cacciando il telefonino fuori dalla tasca.
            -Bugiarda del cavolo, lo sai meglio di me che nessuna delle tue amichette ti verrebbe a prendere qui in questo stupido paese, altrimenti non mi avresti aspettato.
La mia risposta evidentemente aveva colto nel segno, perché lei non replicò nulla  ma si limitò a guardarmi corrucciata.
Mi avvicinai all’auto, in procinto di schiacciare il pulsante e far aprire le portiere, quando notai un’altra busta accanto a quella delle sue scarpe.
Aggrottai le sopracciglia e feci un cenno col capo in quella direzione.
            -Che roba è?
            -Che te ne frega? Roba mia- mi rispose, prendendola in mano.
Lessi di sfuggita sulla busta il nome di un noto negozio, immaginando che lei, testarda, avesse comprato lo stesso il suo giubbino.
Non le sfuggì la brutta occhiata che avevo fatto alla seconda busta, e per qualche motivo imbarazzata la tirò indietro fuori dal mio campo visivo.
            -Ca**o guardi, ti ho detto che è roba mia, pagata con i miei soldi, tranquilla!
Infastidita delle sue insinuazioni, salii in macchina e aspettando che lei facesse altrettanto ribattei:
            -Non avevo alcuna intenzione di fare commenti sul modo in cui spendi i tuoi soldi, tanto per chiarire.
            -Bene, in ogni caso se mai vorrò scrivere un saggio dal titolo “i 100 modi perfetti per non spendere il tuo denaro” chiederò consiglio a te, la massima esperta.
            -Tante grazie per la considerazione.
            -Prego, non c’è di che.
Entrambe imbronciate ci sedemmo sui sedili anteriori, allacciammo le cinture e tenemmo lo sguardo dritto davanti a noi.
Lei per i primi dieci minuti stette in un silenzio offeso, ma non appena superata la prima galleria tornò a parlare.
            -Sarebbe colpa mia poi...- borbottò, e io sbuffai silenziosamente perché ero sicura che stesse per intraprendere una nuova polemica -... se a te importa più del tuo reddito mensile che non di me?-
            -Non è questo il punto.
            -Ah no?
            -No.
            -E allora illuminami, genio.
            -Senti- nuovamente sentii la rabbia crescere veloce in me, e preferii avvertirla fin da subito - ti avviso da adesso: sto guidando, e se mi fai incavolare quando guido non lo so che faccio, okay?-  Quando m’arrabbiavo, come in quel caso, gesticolavo senza accorgermene.
-Quindi se devi dirne una delle tue aspetta che arriviamo a casa, così possiamo litigare per bene senza il rischio di fare incidenti- conclusi.
La mia ragazza si ammutolì per un secondo, poi le sfuggì:
            -A te quando guidi dovrebbero controllare il tasso di rabbia, non di alcool.
Rinunciai a replicare, preferendo concentrarmi su qualche altro pensiero; in questa maniera riuscii ad ignorarla per buona parte del viaggio, quasi dimenticando che eravamo arrabbiate.
Accesi la radio, dirottando la frequenza su una trasmissione sportiva in modo da potermi informare sul risultato della partita che avrei desiderato vedere.
Quando alzai leggermente il volume vidi la mia ragazza voltarsi verso di me, come incuriosita del mio movimento.
Lo speaker della radio annunciò la sconfitta della mia squadra, decantando le lodi dell’avversaria e mostrando tutti i difetti dell’altra. Ascoltai per circa cinque minuti, poi infastidita di tutti quei commenti negativi spensi l’aggeggio.
Lei guardò la mia mano premere il pulsante con stizza, poi incapace di trattenersi ghignò in maniera complice e disse:
            -Questa è la terza volta su tre che perdete.
Dovetti violentare le mie labbra per impedire che si allargassero in un sorriso, ma riuscii ad ignorare il suo commento.
A dir la verità, un po’ mi dispiaceva averla messa da parte a quella maniera, ma non me la sentivo di fare io il primo passo e chiederle scusa.
Maledizione, pensai dentro di me. Ecco, come sempre mi ero fatta corrompere e ora stavo anche pensando di chiederle scusa.
Ebbene, mi imposi di non fare il primo passo, ma di attendere che fosse lei a scusarsi per prima del suo comportamento.
Così arrivammo fino a casa, e lei si comportò come se nulla fosse accaduto fra noi: preparò da mangiare normalmente, non fece obiezioni quando mi misi sdraiata sul divano per vedere un film, non si lamentò come faceva sempre del disordine nella mia parte di camera. Svolgeva tutte le sue mansioni normalmente, solo non ci parlavamo.
Evidentemente anche lei aspettava che fossi io a fare il primo passo.
 
Qualche ora più tardi, mentre me ne stavo sdraiata fra le lenzuola al caldo a leggere un libro, si presentò sulla soglia della camera.
Ci guardammo per un lungo attimo, poi io tornai a leggere e lei raccolse le buste da terra. Con aria noncurante estrasse la scatola di scarpe nuove e ripiegò la plastica, poi salì sul letto facendo dondolare il materasso e mi guardò con aria curiosa.
Era incapace di essere coerente anche quando litigava, difatti sospettavo che stesse solo cercando una scusa per parlarmi di nuovo.
Lei si sdraiò a pancia in giù reggendosi sui gomiti e mi domandò:
            -Che leggi?
Più che compiaciuta della sua domanda posta con un tono tranquillo, sogghignai e risposi:
            -“I 100 modi perfetti per lasciare la tua ragazza”.
La vidi storcere il naso e accigliarsi, poi fece un gran sospiro e si voltò a pancia in su.
Indossava una leggera camicia da notte, di cui non coglievo l’utilità in un periodo dell’anno freddo come novembre.
Lentamente, fingendo di ignorarmi, alzò il tessuto sottile di cui era vestita fino ad oltrepassare il ventre e scoprire il piccolo piercing che si era fatta quella mattina.
Lo sfiorò con un dito, esaminandolo con aria critica.
            -Forse è stata veramente una spesa inutile- esordì ad un tratto – tanto più che la moda delle pance di fuori è passata e nessuno lo noterà-
            -Direi-
Non riuscii a trattenere quel commento, ma non le concessi nemmeno uno sguardo, continuando a guardare il mio libro.
Sapevo che lei in quel momento si stava scervellando su come attirare la mia attenzione, e per questo ero ancora più decisa ad ignorare i suoi tentativi.
Per farsi perdonare stavolta avrebbe dovuto veramente fare uno sforzo in più.
La mia ragazza fece un sospiro e si infilò sotto le coperte, guardandomi a lungo; allora io abbassai il libro per incontrare i suoi occhi e domandai:
            -Sì, hai qualcosa da dirmi?
            -No, nulla- mi rispose subito, quasi forzata.
            -Bene.
Tornai a leggere e potei sentirla sbuffare impercettibilmente, cosa che per poco non mi provocò delle risate poco gentili nei suoi confronti.
            -Senti...- cominciò poi, tormentandosi le mani.
            -Dimmi tutto.
Adoravo prenderla in giro, e così feci.
            -...er... i soldi...-
            -Che soldi?
            -I soldi del piercing. Te li ho messi nel portafoglio.
            -Ah, d’accordo.
Nuovamente ripresi la mia lettura, e per la seconda volta dovetti trattenere la risata che minacciava di uscire dalle mie labbra.
Di proposito chiuse la lampada alla cui luce stavo leggendo e si voltò a pancia in giù, abbracciando il cuscino con le mani.
            -Non dimentichi qualcosa?- le domandai, posando il libro sul comodino e scivolando a mia volta fra le lenzuola.
            -Ti odio. Va’ al diavolo.
            -Almeno lì non dovrò ascoltare i tuoi capricci- risposi stancamente, facendo un sospiro e poggiando la nuca sulle mani.
L’unica cosa buona era che per quella sera ero riuscita a non cedere e restare arrabbiata con lei, prendendomi qualche piccola soddisfazione, ma non sapevo quanto avrei potuto durare.
 
La mattina dopo, quando schiusi leggermente le palpebre, la prima cosa che percepii attraverso i sensi fu la spalla destra indolenzita e il pigiama sudato.
Mi voltai a destra, per incontrare il calore tiepido di un corpo abbracciato al mio; sulle prime, ancora addormentata, non obiettai e anzi ricambiai il suo abbraccio, sfregandomi contro il suo collo.
Poi però ricordai di essere ancora arrabbiata e come se avessi preso la scossa mi staccai, sedendomi sul letto.
Lei, infastidita dal mio brusco movimento, sussultò e aprì gli occhi, guardandomi confusa.
            -Mhm...- gemette, spostandosi i capelli che le cadevano davanti agli occhi – buongiorno –
Oh no, pensai dentro di me, se credeva che fosse così facile ottenere il mio perdono, che bastasse un abbraccio affettuoso e un buongiorno, si sbagliava di grosso.
Non risposi al suo saluto e testarda scesi dal letto, ignorandola.
Sentivo su di me il suo sguardo, sapevo che si stava tormentando per la mia indifferenza, e ne ero estremamente felice. Entrai nel bagno per farmi una doccia con l’acqua fredda, lasciando che questa mi svegliasse bruscamente.
Mentre le goccioline congelate scorrevano su tutto il mio corpo, mi domandai se per caso non fosse un po’ infantile continuare ad ignorare i suoi, pur se deboli, tentativi di rappacificamento.
Non si poteva dire che si fosse sforzata, però a modo suo c’aveva provato.
Per questo una volta uscita dal box doccia, tutta tremante e bagnata fino al midollo, avevo l’intenzione di seppellire l’ascia di guerra.
Tornando in camera da letto la trovai ancora stesa, che si tormentava le mani con aria crucciata, e non appena avvertì la mia presenza alzò lo sguardo.
            -Hai fatto la doccia- disse solo, atona.
            -Sì.
Indossavo solamente la biancheria intima e avevo i capelli bagnati, perciò avevo premura di trovare al più presto un asciugamano.
Notai, poco prima di voltarmi verso lo specchio e pettinarmi le ciocche, che il suo sguardo si era fatto stranamente vacuo.
Poi sentii due braccia che da dietro mi abbracciavano e un mento posarsi sulla mia spalla, indice che lei s’era degnata di fare il primo passo.
Non disse nulla, semplicemente mi guardò attraverso il riflesso e mi diede un bacio sulla guancia.
            -Io non voglio che tu mi ripeta in continuazione che sono bella- disse in un mormorio molto flebile.
            -E allora cosa vuoi?- domandai, smettendo di pettinarmi.
Lei sembrò pensarci su per un po’ di tempo, poi rispose:
            -Da te, niente.
Non potei fare a meno di allargarmi in un sorriso entusiasta, udendo quelle parole; pensai che le avesse pronunciate apposta, poiché il giorno prima l’avevo più volte rimproverata di essere superficiale e approfittatrice.
            -È solo che, insomma... lo so che quello che mi dici sempre quando litighiamo lo dici perché vuoi che corregga tutti quei comportamenti che non ti piacciono. Però... è difficile.
            -Be’, nessuno ha mai detto che fosse facile.
            -Voglio dire che non posso fare a meno di arrabbiarmi, quando mi dici quelle cose. Sai, non ci sono abituata...
            -Sì, lo so che infondo sei una deficiente ingenua e...- lei mi guardò corrucciata, sfidandomi a continuare la sfilza di aggettivi.
            -Ingenua e vanitosa- mi limitai a dire, facendole un bel sorriso.
Non le piaceva affatto che la mettessi di fronte ai suoi difetti, poiché di tutte le persone che conosceva io ero l’unica a rimproverarla e ad arrabbiarmi per questo.
            -Sono stufa di litigare ogni singola volta che usciamo a fare spese- concluse lei, sbadigliando.
            -La soluzione è semplice- feci io, terminando di sfregarmi i capelli con l’asciugamano.
            -Non provare a dire ‘non usciamo più’ perché t’arriva un pugno dritto in faccia- minacciò con un sorriso.
Purtroppo era proprio quello che avevo in mente di dire, ma per non suscitare la sua ira mi limitai a scrollare le spalle.
            -Si potrebbe fare un compromesso- proposi, mettendo su una faccia pensosa.
            -Cioè?
            -Be’, la prossima volta che usciamo io prometto di non arrabbiarmi più e di farti comprare tutto quello che ti pare.
            -Bene, perfetto!
Lei batté le mani e sciolse l’abbraccio che ci teneva legate, per poi ridere quando le rivolsi un’occhiata scettica. Credeva mica che i compromessi si facessero singolarmente?
            -Okay...- si mise un dito sotto il mento, fingendo di pensarci su – io... mi impegnerò a...-
            -A fare cosa?
Io adoravo, assieme alle sue maglie a camiciola, anche le camicie da notte corte che amava indossare per puro vezzo. Erano più di otto ore che non ci scambiavamo una minima carezza e non ci davamo il più piccolo bacio, e non avevo intenzione di restare un altro po’ di tempo senza prendermi ciò che di diritto mi apparteneva.
Per questo, mentre lei rideva e non opponeva resistenza, la presi per i fianchi e la stesi di forza sul materasso.
            -A fare cosa?- ripetei, mentre cercavo freneticamente di imprimerle più baci possibili alla base del collo, riuscendo solamente a farla ridere per il solletico.
            -Io mi impegnerò ad essere meno me stessa- disse infine, lasciando che infilassi le mani sotto la camicia da notte.
Il siparietto stava per concludersi nel modo più ovvio possibile, con una bella rappacificazione, quando lei di scatto si mise a sedere, facendomi sbattere a terra.
            -Oh, ho dimenticato di dirti una cosa!
Avevo male al labbro poiché aveva deciso di alzarsi proprio mentre avevo cacciato la testa sotto la sua veste, e in questa maniera avevo sbattuto la bocca contro il suo ginocchio.
            -Mmm...- trattenni un’imprecazione ma le rivolsi un’occhiataccia, massaggiandomi la parte colpita.
Lei mi tirò a sedere sul letto, si piazzò sopra di me e disse con un sorriso:
            -Ho fatto una cosa per cui sicuramente ti arrabbierai.
            -E sarebbe?
La mia ragazza rise divertita e poi mi indicò col capo la busta che la sera precedente avevo adocchiato con sospetto. Aggrottai le sopracciglia senza capire, così lei la afferrò e la trascinò sul letto.
            -Apri- mi disse.
Sospettosa e con molta cautela infilai una mano al suo interno, per poi cavarne fuori una gonna nera, corta e dalla cintura brillante.
Rimasi per un po’ di tempo senza dire nulla, semplicemente osservandola indecisa fra il ridere e il piangere.
Non potevo credere che avesse comprato per davvero quella gonna che avevo misurato, non mi sembrava una cosa da lei. Lei non era il tipo da regali post-litigata, non era suo solito farsi perdonare con un gesto carino nei miei confronti.
Solitamente, i suoi massimi picchi di gentilezza erano rappresentati da frasi melense che mi rifilava quando era sicura che nessuno di sua conoscenza potesse ascoltarla.
            -Si può sapere cosa hai fatto?- le domandai, non poco scioccata.
            -Ho pensato di aver fatto male, ieri sera, a dirti che stava meglio a me questa- la prese e la ripose nella busta.
            -Era questa la busta che non volevi farmi vedere ieri?- chiesi sogghignando compiaciuta.
Lei non rispose, ma arrossì e fece finta di non aver sentito.
            -Ora che te l’ho comprata mettitela, per favore! Non frega a nessuno della cicatrice che hai sulla gamba!
            -Sì invece.
            -A me non importa, tu mi piaci lo stesso.
Caspita, quella mattina dovevano averle somministrato una dose di gentilezza piuttosto potente, pensai dentro di me, comunque soddisfatta per quelle parole.
            -Cos’è, hai bisogno di soldi?- domandai, alzando un sopracciglio.
            -No! Perché?
            -Perché mi stai facendo la corte come non hai mai fatto e per di più sei tutta gentile e adorabile... insomma, cosa c’è sotto?
Lei incrociò le braccia, guardandomi dritta negli occhi.
            -Ma perché pensi sempre che debba avere un secondo fine?
            -L’esperienza insegna, lo sai.
Invece di arrabbiarsi, come mi sarei aspettata, mi sorrise complice e mormorò piano:
            -Quanti sabati sono che litighiamo?
            -Un bel po’, direi. E altrettante sono le mattine in cui facciamo pace.
            -Mi piace fare pace.
            -Oh, anche a me.
Restammo per un po’ di tempo a guardarci negli occhi con un’espressione che io avrei definito decisamente da idioti, finché lei non alzò lo sguardo su un punto imprecisato del soffitto e buttò lì con fare noncurante:
            -Mhm, mi piacerebbe tanto che tu adesso mi preparassi un bel caffè, con un cornetto caldo appena uscito dal forno, e dentro la marmellata. O forse sarebbe meglio della cioccolata, di prima mattina?
            -Per me, non c’è problema... 
            -Certo però la crema non mi dispiacerebbe nemmeno-
            -...ma non abbiamo ancora fatto pace.
Lei poggiò l’indice contro il mento con aria pensosa, poi leggermente confusa domandò:
            -Non abbiamo fatto pace? Mi pareva di sì.
            -Non esattamente.
Mise su una faccia stupita e aggrottò le sopracciglia.
            -E cos’altro devo fare per farmi perdonare?
            -Eh, non ti viene in mente nulla?
            -No...- fece una faccia quasi dispiaciuta, come delusa della mia mancata indulgenza.
Alzai un sopracciglio e feci un sorriso divertito, sospirando e chiedendomi cosa mai avesse in quella testolina che la distogliesse da quel pensiero.
Eppure non era certo restia a quel tipo di perdono che intendevo, anzi ne era piuttosto entusiasta, di solito.
La guardai negli occhi con espressione invitante per qualche secondo, poi lei arrossì e spalancò gli occhi, capendo ciò che volevo comunicarle.
            -Oh...- disse ad un tratto, arrossendo – ho capito –
Si lasciò docilmente baciare e tirare sul letto, lasciando che almeno conquistassi la mia rivincita per la disastrosa serata precedente.
In seguito tuttavia fui costretta a prepararle la colazione con tanto di cornetto alla marmellata, al cioccolato e alla crema.
E così, eravamo a posto anche per quella settimana.
Almeno, fino al prossimo sabato.
 




Note dell'autrice:

L'ho postato secoli fa il capitolo precedente, e notandolo mi sono imposta di trovare il tempo di pubblicare la fine, così da non avere più il pensiero dell'aggiornamento. Be', che dire, non avevo intenzione di scrivere un romanzo, questo è un racconto e sono felice che l'abbiate trovato divertente.
Mille grazie a chi ha messo la storia nei preferiti, a chi l'ha seguita, a chi avrà la bontà di leggerla anche se è passato mezzo mese dall'ultimo aggiornamento, e a chi l'ha recensita: Emmaps3 ( forse hai una diversa concezione dello shopping, ma in ogni caso c'è sempre l'altra faccia della medaglia, no? E per me è una gran seccatura... Oh sì che hanno fatto pace), Mizar19 ( nonostante B sia la persona più superficiale del mondo, non credo che A sia esente da colpe. Conoscendole bene, direi che B è vanitosa, A è irascibile, tuttavia si prendono), hacky87 (giusto! Anche io ho sempre pensato che lo shopping faccia male. Come puoi leggere hanno fatto pace), the angelus (mi fa piacere che ti abbia divertito, per quanto riguarda i caratteri. si può arrivare ad un compromesso.... grazie per la recensione, mi ha fatto molto piacere).


 

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