Il Regno Perduto (I Signori dell'Universo, vol. II)

di Puglio
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** prologo ***
Capitolo 2: *** 1 ***
Capitolo 3: *** 2 ***
Capitolo 4: *** 3 ***
Capitolo 5: *** 4 ***
Capitolo 6: *** 5 ***
Capitolo 7: *** 6 ***
Capitolo 8: *** 7 ***
Capitolo 9: *** 8 ***
Capitolo 10: *** 9 ***
Capitolo 11: *** 10 ***
Capitolo 12: *** 11 ***
Capitolo 13: *** 12 ***
Capitolo 14: *** 13 ***
Capitolo 15: *** 14 ***
Capitolo 16: *** 15 ***
Capitolo 17: *** 16 ***
Capitolo 18: *** 17 ***
Capitolo 19: *** 18 ***
Capitolo 20: *** 19 ***
Capitolo 21: *** 20 ***
Capitolo 22: *** 21 ***
Capitolo 23: *** 22 ***
Capitolo 24: *** 23 ***
Capitolo 25: *** 24 ***
Capitolo 26: *** 25 parte prima ***
Capitolo 27: *** 25 parte seconda ***
Capitolo 28: *** 25 parte terza ***
Capitolo 29: *** 25 parte quarta ***
Capitolo 30: *** 26 (conclusione) ***



Capitolo 1
*** prologo ***


Abbazia di S. Gallo, Svizzera, 31 Giugno 1895



«Per di qua, presto».

L'uomo incappucciato illuminò con la torcia un oscuro bugigattolo, appena prima che ci scomparisse dentro. Era faticoso stargli dietro. Ad ogni passo si rischiava di inciampare in qualcosa di disgustoso: ratti, ossa, resti di corpi sepolti dai secoli.

Dannazione.

Quando gli era stato ordinato di recarsi in Svizzera, non avrebbe mai immaginato che gli sarebbe toccato sprofondare nelle cripte abbandonate da Dio di quel dannato monastero. E dire che ormai, in tutti quegli anni, avrebbe dovuto imparare a non stupirsi più di nulla.

Seguì il frate, che procedeva chino lungo lo stretto cunicolo che ora si inoltrava sempre più in profondità. Erano ormai dieci minuti che percorrevano quel dedalo infinito di gallerie. Se qualcuno si fosse perso lì dentro, pensò lui con un brivido, non avrebbe avuto alcuna speranza di uscirne.

«Qualcuno si è mai perso, qui?» chiese. Il frate si volse per un istante, giusto il tempo necessario perché la luce della torcia illuminasse debolmente il pavimento e uno scheletro mezzo disteso che l'uomo fece appena in tempo ad evitare.

«Oh, sì. Tutte le volte che qualcuno non invitato si introduce qui» fece il frate con un sorriso.

«Ed è capitato molte volte?»

C'era un tremendo odore di vecchio e di morto, lì dentro. L'aria era pesante e l'uomo si sentì quasi soffocare.

«Queste sono le cripte del monastero» commentò il frate. «Qui sono seppelliti i nostri confratelli. Ma alcuni dei corpi che vede qui, hanno raggiunto questi luoghi diciamo... prematuramente».

«Ladri?» domandò. Il frate rise.

«Più che altro frati curiosi. Ora riposano qui, insieme agli altri. Ma non escluderei anche qualche intruso di diverso genere. Da quando la cripta è stata costruita, c'è sempre stato qualcuno desideroso di impossessarsi di quello che vi era custodito».

Questo spiegava l'insolito affollamento di cadaveri sparsi lungo il percorso. «E qualcuno è mai riuscito ad arrivare alla cripta?»

«Nessuno che sia poi riuscito a tornare indietro per raccontarlo».

Bene...

«Ma lei non ha nulla da temere, Mr. Churchill. Se è vero che appartiene al Consiglio, e la sua chiave lo proverà, uscirà di qui del tutto incolume».

Fantastico, pensò lui. Chissà perché, ma la sua sicurezza si era improvvisamente indebolita.

Proseguirono in silenzio lungo una serie di scale a chiocciola che scendevano ripidissime, attorcigliandosi attorno a un pilastro di pietra sudicia e ricoperta di muffa. Winston, che vi aveva appena appoggiato la mano, la ritrasse, disgustato.

«Farebbe meglio a stare attento. Siamo sotto il livello del lago e tutto qui è ricoperto di muffa. Di conseguenza, la pietra tende a farsi alquanto scivolosa».

«Sembra che stiamo sprofondando negli inferi» commentò Winston, che si pulì la mano sfregandola sul bavero della giacca. «Manca ancora molto?»

Il frate tese il braccio sullo strapiombo che si apriva alla loro destra. La luce si spingeva per diversi piani più in basso, ma il suo riverbero si estingueva prima che chiunque potesse scorgere qualcosa di simile a una superficie.

«È un pozzo senza fondo» mormorò sbigottito Winston, sporgendosi leggermente. Una debole corrente d'aria salì a solleticargli il viso, portando con sé un forte sentore di umido. «Non arriveremo mai».

«Non sia tanto ansioso» fece il frate, che intanto aveva ripreso a camminare. «Qui non corre alcun pericolo. Il vero inferno è lassù. Un uomo come lei dovrebbe sapere queste cose meglio di chiunque altro».

Continuarono a scendere per diversi minuti. Ormai Winston aveva perso il conto del tempo che si trovavano là sotto. Cominciava a credere che quel monaco si stesse prendendo gioco di lui e che lo avrebbe portato in giro sotto terra per l'eternità. Magari, quel luogo opprimente e crudo, dalle pareti nere di muffa e sudiciume, sarebbe stato l'ultimo posto che avrebbe visto in vita sua.

O forse no...

«Ecco» disse il frate. «Siamo arrivati».

Buon dio...

Il monaco passò la fiamma della torcia sopra un grande braciere, che avvampò con un boato improvviso. Winston si riparò gli occhi, feriti dall'intensità di quella luce inaspettata; quindi li alzò al cielo, senza riuscire a credere in ciò che stava vedendo.

«Benvenuto nella Cripta dei Profondi. Qui finisce la strada, ma comincia un nuovo cammino. Prego, mi segua Mr. Churchill».

Winston si mosse in silenzio dietro al frate, che attraversava spedito quell'atrio immenso. L'eco dei loro passi risuonava tutt'intorno, per poi perdersi tra le alte colonne di marmo rosa, che si levavano altissime e riccamente decorate a sorreggere un soffitto le cui volte erano ricoperte da fini cesellature e da bassorilievi di rara bellezza e maestria. Sebbene si trovassero ad una considerevole distanza, Winston riuscì a scorgerli perfettamente, grazie alla particolare illuminazione del luogo, studiata accuratamente per mostrare ogni dettaglio e suscitare le ombre più evocative. La luce principale proveniva dal braciere centrale e veniva captata da una serie di pietre luminose, poste su piedistalli d'oro disposti in file regolari lungo tutta la sala, come fossero tanti lampioni di un immenso boulevard. Tutti insieme riflettevano la luce ad altre file di pietre, che a loro volta le riflettevano ad altre ancora; e così via per tutto lo spazio circostante. E quella luce veniva alla fine catturata dalla pietra rosa delle colonne, che risplendevano così come per incanto, diffondendo tutt'intorno un soffuso bagliore. Il pavimento era di marmo finissimo, tutto lavorato; su ogni tessera della enorme scacchiera che lo costituiva era stata scolpita una scena che probabilmente apparteneva a una mitologia sconosciuta, o ormai perduta nelle fila del tempo. Alcune tessere apparivano completamente consumate, mentre altre erano ancora come nuove.

«Tutto ciò che vede, qui, è opera dei monaci Colombani che costruirono l'abbazia oltre mille e trecento anni fa. Ognuna di queste pietre è stata posata e lavorata per onorare e proteggere i segreti che Colombano ha trasmesso ai suoi discepoli».

Winston guardava con curiosità crescente lo spettacolo che si apriva ai suoi occhi. Sulle pareti, erano rappresentate, incise nella pietra, enormi figure di divinità dall'aspetto misterioso. Ovunque erano presenti simbologie pagane, come il tridente, simbolo di Poseidone, e il candelabro a tre braccia e due piedi, che Winston conosceva fin troppo bene, avendolo visto tante volte raffigurato nelle sale della Reggenza. Ma molti di quelli che vedeva, erano simboli dal significato per lui sconosciuto, come il gigantesco sole racchiuso in un ovale, completamente d'oro, che torreggiava sulla immensa cupola, da cui si diramavano una serie di volte che costituivano le navate laterali, tutte raccolte intorno alla cripta centrale come se seguissero una scansione precisa in base all'ampiezza e alla profondità.

«Che significa quello?» chiese Winston indicando il sole d'oro sulla volta della cupola. Il monaco alzò la testa e quindi indicò distrattamente il simbolo che aveva ricamato sulla tonaca. A prima vista sembrava una croce greca. Ma a ben guardare, raggi più sottili e lunghi scaturivano dalle intersezioni dei bracci, andando a disegnare nel complesso un sole stilizzato, al cui centro si trovava inscritto un cerchio più piccolo. Solo allora Winston riconobbe la somiglianza con il simbolo sulla cupola.

«È lo stesso simbolo» disse. Il frate annuì.

«Questo è il simbolo di S. Colombano. Un sole racchiuso nel guscio di una tartaruga. Per ovvi motivi, col tempo si è dovuto trasformare in qualcosa che attirasse meno l'attenzione».

«Perché la tartaruga?»

Il frate alzò un braccio, ad indicare un bassorilievo che raffigurava proprio una testuggine. «La tartaruga è il simbolo dell'universo» disse. «La sezioni che compongono la sua corazza sono divise secondo la serie dei numeri sacri, che costituiscono anche la famosa sequenza di Fibonacci. Da sempre la testuggine viene associata alla rinascita e rappresenta la vita stessa nel suo eterno perpetuarsi. In essa e nella regolarità della sua costruzione viene raffigurato il cosmo stesso, e le leggi che lo reggono nello spazio e nel tempo. Il sole, invece, è il simbolo gli dei e ci ricorda i loro segreti, che noi monaci abbiamo il compito di proteggere e custodire».

«Io non sono credente, Nestorius» rispose acido Winston. «Ma trovo che suoni quantomeno strano sentire un uomo di fede parlare di dei».

«Lei ha detto bene, Mr Churchill» convenne il monaco. «Io sono un uomo di fede. Ma la fede ha diverse accezioni. Non possiamo limitare la nostra dietro un semplice corredo di simboli e nomi. Sono troppo inadeguati e limitati. Ciò che si respira qui, però, è la vera fede: la fede in qualcosa che travalica lo spazio e il tempo. Qui siamo davvero in presenza di Dio».

Sì, come no?

Per quanto Winston fosse affascinato da quello spettacolo magnifico, odiava sempre l'eccessiva retorica. Forse era dovuto al fatto che l'uomo per cui lavorava gli aveva sempre insegnato a non confondere il fanatismo con la speranza. Era consapevole che per molti il nesso tra i due termini poteva non essere del tutto evidente. Ma col tempo, lui era riuscito a distinguere l'uno dall'altra in modo chiaro ed inequivocabile, ed era ormai vaccinato ad ogni forma di idolatria.

«Ecco la cripta. Prepari la chiave».

Winston si sbottonò la camicia. Il frate lo fece fermare davanti a un gigantesco edificio di pietra nera, immerso nel buio.

«È pronto?» gli chiese. Winston sospirò. Quindi annuì, deciso. Il monaco estrasse una serie di chiavi dalla forma simile a quella di un diapason, che inserì una dopo l'altra nelle sette serrature che bloccavano un'enorme porta rotonda, completamente liscia e dalla superficie riflettente. Winston non si era accorto di quella particolarità, perché nel buio quella che aveva di fronte sembrava una semplice porta di metallo. Si avvicinò per guardare meglio e restò letteralmente senza parole: la porta era sì lucida come uno specchio, ma in realtà non rifletteva ciò che aveva davanti, bensì una serie di sfumature di luce che sembravano animarla dall'interno e che guizzavano fin sulla sua superficie per poi combinarsi in giochi di colore assolutamente sorprendenti.

«Questo minerale è incredibile» disse, avvicinandosi a sfiorarlo con la mano. Una specie di formicolio lo percorse sotto la pelle. «Sembra vivo».

«Perché lo è» fece Nestorius, tranquillo. Winston si voltò a guardarlo, ma lui era occupato a regolare le chiavi nelle serrature.

«Ora mi dia la chiave» fece. Winston si sfilò dal collo la catena che portava da quando aveva lasciato Londra. Attaccata ad essa vi era una specie di chiave, simile in tutto a quelle che Nestorius aveva infilato nelle serrature: solo che era doppia e dalla forma più allungata.

«Ora stia indietro».

Nestorius si avvicinò alla porta, mentre Winston indietreggiò di qualche passo. Con un movimento delicato ed impercettibile, il frate percosse la chiave contro una delle sette serrature, tenendola per il gambo centrale. Quindi la lasciò.

«Non è possibile...»

Con stupore crescente, Winston restò a guardare la chiave che vibrava da sola a mezza altezza, senza che nulla o nessuno dovesse reggerla. Un suono ovattato e continuo prese a diffondersi per tutta la cripta, che cominciò pian piano ad amplificarlo. Era una frequenza bassa e costante, che mandò in vibrazione ogni pietra e ogni singolo componente della cripta, generando un suono base, oscuro e profondo, simile a un mantra. Nestorius chiuse gli occhi, e sorrise.

«Che suono meraviglioso» disse, quasi in un mormorio. «Non avrei mai creduto di poterlo sentire ancora».

«Cos'è questo suono?» fece Winston, che era piuttosto scosso da quanto stava accadendo. Man mano che quella vibrazione si propagava, sentiva come se ogni singola cellula del suo corpo stesse acquistando consapevolezza della propria esistenza. Avvertì un'energia spropositata animare il suo corpo e pensò che presto sarebbe esploso, per fondersi con lo spazio circostante. Nestorius lo fissò, sorridendo.

«Questa è la vibrazione originaria, il suono perfetto. È la vibrazione costante che percorre tutto l'universo e che costituisce il suono del moto celeste. È il suono che mette in vibrazione tutto il creato e su cui ogni essere è stato generato».

«È... come dire... la voce di Dio?» mormorò Winston.

«Più o meno».

Una dopo l'altra, le sette serrature scattarono, emettendo una serie di suoni che andarono a combinarsi l'un l'altro. Non appena furono completamente intonati, Nestorius prese a girare un grosso volano, che cominciò a produrre una nuova gamma sonora. Man mano che nuovi armonici venivano prodotti, una serie di meccanismi che prima erano assolutamente nascosti alla vista prese a scattare, in serie, apparendo per poi scomparire. Winston osservava tutto con estrema attenzione.

«Bisogna trovare la serie armonica che sorregge la struttura» fece Nestorius, notando lo stupore di Winston. «Cambia in continuazione. Questa non è una porta come le altre. Una volta chiusa, la materia che la compone si rifonde in un tutto, sigillandola completamente. La materia allora si ricombina sulla base di una precisa struttura molecolare, che può essere messa in vibrazione attraverso una precisa risonanza armonica. È l'unico modo per aprirla. E ogni volta che la porta viene aperta e richiusa, la struttura cambia, e così il gradiente armonico in grado di operare la scissione molecolare. Questa porta, è tutto ciò che ci resta di quanto crearono le popolazioni dell'Antica Civiltà. Furono i nostri predecessori che la portarono qui, nel mille e trecento, per volere di Filippo IV di Francia. Da allora ha sempre protetto la cripta e ciò che essa contiene».

«Qualcuno ha mai aperto la porta per prendere il libro, prima d'ora?» chiese Winston. Nestorius scosse la testa.

«A nessuno è concesso aprire il libro. La porta viene aperta solo in momenti precisi, per officiare ai riti di conservazione del volume. Ma anche in quel caso, solo gli Oculi Capti possono accedere alla cripta, e maneggiare il libro».

«Gli Oculi Capti... cioè monaci ciechi?»

«Sono i custodi del libro. Essi sono i soli che hanno il potere di toccare la reliquia, e possono farlo solo per apportare gli interventi di restauro necessari. Vengono accecati alla luce del braciere, durante la cerimonia di consacrazione».

«Ma perché ciechi?» fece Winston, che non capiva tutta questa necessità di segretezza e trovava terrificante che si potesse rendere cieco qualcuno solo per proteggere un libro.

«Nessuno può leggere il libro, a parte il Reggente» rispose Nestorius. «È una sua prerogativa. È la regola, da quando il libro venne nascosto nel novecentonovantanove, dopo che erano state divulgate le prime pagine da parte di monaci sconsiderati. Coloro che diventano Oculi Capti si offrono spontaneamente al sacrificio. È un grande onore».

«Deve trattarsi di qualcosa di davvero importante...» commentò Winston, piuttosto scettico.

«È così, infatti».

Winston non aveva capito un gran che. Ma trovava comunque sorprendente tutta questa serie di procedure solo per accedere a un libro.

«Ci siamo» fece improvvisamente Nestorius. «Si apre».

Con un moto imprevisto, la materia che componeva la porta prese letteralmente a liquefarsi, ritirandosi su se stessa e brillando come mercurio fuso. Qualche filo di minerale continuava a restare teso da una parte all'altra, come fili di una grossa ragnatela, mentre alcune gocce splendenti cadevano da un lato su quello opposto, superando ogni legge della fisica. Winston avvicinò una mano a quei fili penzolanti, ritraendola stupito quando vide una di quelle gocce scorrergli veloce lungo la mano.

«Tranquillo, non c'è alcun pericolo. La materia ha raggiunto uno stato molecolare di bassissima densità. Scivola via come l'acqua» osservò Nestorius. «È pronto?»

Winston annuì, e varcò la soglia.

La stanza era decisamente piccola e Winston ne rimase piuttosto deluso. Era completamente spoglia e al suo interno era presente solo un piccolo braciere in cui ardeva una fiamma bianca, che splendeva sopra un leggio in pietra scolpita. Su di esso vi era posato un libro, dall'aspetto decisamente vecchio.

«Sarebbe... questo?»

Nestorius prese il volume e lo mostrò a Winston, che prese a fissarlo con curiosità.

«Questo è ciò che stava cercando: Il Crizia. Il libro perduto del filosofo Platone, che raccolse in esso tutta la conoscenza che i Pitagorici avevano trasmesso all'antichità sulla cultura perduta di Atlantide. Quando i monaci lo trovarono, oltre mille e trecento anni fa, capirono che voleva protetto, e lo consegnarono a Colombano in persona che, ormai anziano, lo presentò a Pipino di Heristal, il futuro fondatore del Sacro Romano Impero. Fu lui che ordinò a Colombano di custodirlo in un luogo apposito. E Colombano, a sua volta, diede ordine al suo discepolo di custodirlo in questa abbazia, che ne prese il nome. Fu in queste sale, e nelle sale sopra di noi, che nacque il Consiglio e con esso la storia che conosciamo. Nel momento in cui Pipino ottenne dal Papa e da tutti i regnanti dell'epoca il titolo di difensore della vera fede, si costituì la prima lega Consigliare, nel definitivo riconoscimento del potere supremo di chi deteneva la verità assoluta, la conoscenza originaria dell'umanità, della sua storia e del suo destino. Fu per proteggere questo libro e l'umanità stessa dai segreti che esso conteneva, che si decise che nessuno, a parte i Reggenti, aveva il potere di leggerlo. Per decenni, vi è stato chi ha tentato di trovare questo libro, alcuni per sfruttarne il potere, altri per carpirne i segreti terribili. Altri per distruggerlo e distruggere con esso il Consiglio, spaventati dalla verità che custodisce da oltre duemila anni. Ma noi siamo sempre riusciti a tenerlo nascosto, nonostante i traditori che nei secoli sono riusciti a farne trapelare qualche pagina. Loro adesso sono morti, murati vivi in queste segrete. Ma il libro esiste ancora, e nessuno, a parte noi, lo sa».

Winston tese le mani, in cui il vecchio monaco pose il volume, senza scomporsi. Sembrava non avere il minimo dubbio riguardo a quello che stava facendo.

«Quando il vescovo Christophi mi ha mostrato la lettera del Reggente, in cui ci comunicava il suo arrivo» riprese Nestorius «ho capito che i tempi erano vicini. Ho passato la vita a custodire il luogo in cui riposa questo libro, io come tutti i monaci e gli abati e i vescovi che hanno preceduto me e i miei confratelli. Non avrei mai pensato che sarei stato proprio io a consegnare il libro. Eppure...»

«Questo libro è davvero tanto importante?» domandò Winston, che lo fissava incredulo. Era poco più che un ammasso sgualcito di pergamene, dall'aspetto consunto ed esageratamente modesto. In tutto non gli avrebbe dato due soldi. Nestorius sorrise, ponendo la sua unica mano nodosa sulla spalla di Winston.

«Ora lo vede come un semplice libro. Ma non passerà molto tempo, che lo vedrà come l'unica cosa che ci permetterà di sopravvivere alla catastrofe. E allora, non trascorrerà giorno né momento in cui non sarà pronto a dare la vita per esso. E questo, purtroppo, accadrà presto, molto presto, mio caro Churchill».

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Capitolo 2
*** 1 ***


Tutto intorno era un mare di luce. Nadia, stupita e affascinata, lasciò che i suoi occhi vagassero liberi per quello spazio immenso, mentre fasci luminosi la raggiungevano da ogni dove, illuminandole i capelli lucenti e la pelle, che splendeva sotto quei raggi come una brace viva.

Era scalza. E camminava lungo un sentiero lento e tortuoso, affondando i piedi ad ogni passo nello spesso strato di polvere luccicante che lo ricopriva. Era, la sua, una sensazione di stupenda e assoluta libertà: una libertà completa, che non aveva mai gustato prima, e che la guidava lungo quella strada sconosciuta e bella, infondendole una pace e un vigore nuovi.

Intravide alcune figure stagliarsi scure, sullo sfondo, a contrastare l'intensa luce diffusa. Niente più che pallide ombre, che si ergevano tutt'intorno a lei. Dovette stringere gli occhi perché le apparissero per quello che erano: colline, montagne laggiù; e qualche rado cespuglio, sperso nella brughiera che la circondava.

Un canto si udiva in lontananza: giunse tiepidamente alle sue orecchie, come una brezza delicata e leggera. Non distingueva le parole, ma la tristezza profonda di quella musica le penetrò immediatamente nel cuore, diffondendosi subito, come un veleno. Nadia provò una fitta al petto mentre camminava alla ricerca di quel cantore misterioso e nostalgico, che portava con sé una notte densa, e improvvisa e buia.

Vide una donna. Era una splendida donna, dai ricci capelli biondi. Cantava seduta su un piccolo promontorio: sotto di lei il mare si allungava a perdita d’occhio, risplendente del riflesso di milioni di stelle appena nate, che solcavano il cielo in lunghe scie di fuoco. E mentre la donna cantava, le stelle cadevano intorno a lei e nel mare ai suoi piedi, esauste, disegnando nel loro percorso piccoli intrecci, e deboli spirali di luce. Nadia alzò gli occhi ad osservarle ruotare e spostarsi in quello spazio immenso come piccole schegge impazzite, senza rotta né tregua; e intanto la donna cantava, con gli occhi rivolti al cielo infinito, le candide gambe raccolte. Con voce triste, intonava parole dolorose:


Si vive forse veramente sulla Terra?

Non per sempre, solo per poco.

E noi venimmo per dormire

o forse solo per sognare.

Non è vero, non è vero

non venimmo per vivere sulla Terra!

Come consolare il mio cuore, se invano

venimmo per vivere sulla Terra,

invano qui, a fiorire?

Cerca, mio cuore: dov’è

il luogo della vita

dove la mia casa

la mia dimora

dove, qui, sulla Terra?


Nadia si sedette ad ascoltare in silenzio, e sentì un profondo dolore discendere nel suo cuore. Quel canto la commuoveva senza che lei sapesse perché: e lo ascoltava in un affascinato silenzio, senza dire nulla, senza pensare a nulla, lasciando alle parole il giusto tempo per spegnersi, perché echeggiassero lente nella solitudine del suo cuore.

Dov’è la mia casa? Dove la mia vita?

Come un suono che arriva da lontano, quelle parole che parlavano di lei, e a lei stessa, si adagiarono stanche sulla sua anima, avvolgendola.

Il canto si spense e Nadia vide la donna abbassare lo sguardo, nel silenzio che seguiva l’ultima vibrazione della sua voce. Allora, lo spazio si colorò come un’immensa tela, pronto ad accogliere la nascita del sole e delle altre stelle. Di nuovo, Nadia alzò gli occhi: e sentì che si sarebbe persa in quel mondo senza fine.

Non troverai lassù le risposte che cerchi; è qui, che dovrai guardare, dentro il tuo cuore.


«Nadia? Nadia, stai bene?»

Lentamente, lei aprì gli occhi. C'era qualcuno che la stava guardando. Nel sonno, ne intravedeva il viso, chino su di lei. Sbatté le palpebre, per scacciare il sonno residuo: e due occhi azzurri e intensi le sorrisero nel buio.

«Jean...»

«Stai bene? Ti agitavi nel sonno e continuavi a ripetere parole senza senso».

Lei si stropicciò gli occhi, sollevandosi su un gomito. «Senza senso?» chiese. Jean annuì.

«Sì, sembrava una filastrocca, o una poesia».

«Non ricordo nulla» mentì lei. «Che ore sono?»

«L'una e quaranta. Ormai siamo in viaggio da quindici ore».

Nadia si guardò intorno. Si trovavano nella cabina del dirigibile. Il cupo ronzio delle eliche faceva da contrappunto al russare pesante di Hanson e Sanson, che dormivano nelle loro cuccette. Poco lontano da lei, Marie dormiva insieme a Rebecca e sembrava assolutamente tranquilla. Nadia sorrise, quando intravide il suo volto sereno nell'ombra.

«Marie sta meglio?» chiese. «Stamattina non sembrava stesse bene».

Jean alzò gli occhi verso la bambina. «Sì, direi che sta meglio. Solo un po' di mal d'aria, tutto qui».

«Rebecca mi ha detto che spesso, quando era più piccola, faceva degli incubi...»

«Vieni» fece lui, sorridendole in modo meccanico. «Andiamo a parlare fuori».

Nadia lo seguì, avvolgendosi nel lenzuolo. Volavano a circa trecento metri e fuori faceva piuttosto freddo. Jean indossava una giacca di lana, e una camicia sdrucita. Lei gli passò accanto mentre le teneva aperta la porta, e non poté fare a meno di notare come il suo aspetto apparisse molto sciupato, sebbene fosse così giovane.

Lui la seguì sul ponte, e insieme si appoggiarono sulla balaustra a fissare l'orizzonte illuminato dalla luna. Grosse nuvole azzurre splendevano davanti a loro e anche più in basso, da dove ogni tanto lasciavano intravedere il luccichio diffuso del mare.

«Che meraviglia» fece lei. «È così bello da sembrare irreale».

«Già» commentò sinceramente Jean. Nadia gli lanciò un'occhiata veloce. Quindi si volse verso di lui e sorrise.

«Allora, non vorresti raccontarmi un po' di te?»

Lui sporse in fuori il labbro, alzando le spalle. «Che vorresti sapere?»

«Beh» fece lei, che sperava in una reazione migliore «magari come hai fatto a diventare docente al MIT. O come sono andati i tuoi studi a Berlino».

Credeva che gli sarebbe piaciuto parlare di quelle cose. In fondo, rappresentavano il successo che era sicura aveva da sempre sognato e inseguito. Ma contrariamente a quanto si aspettava, vide il viso di lui spegnersi all'improvviso, e i suoi lineamenti farsi più duri e marcati.

«Berlino è una bella città» si limitò a dire. Lei restò a fissarlo per qualche istante, senza dire nulla.

«Tutto qui?» fece, timidamente. «Io sapevo che eri il migliore del tuo corso, e che hai ricevuto un sacco di offerte di lavoro ancor prima di laurearti».

«E tu, che ne sai?»

Lei arrossì. «Me lo ha scritto Hanson» rispose, semplicemente. Lo fissava con intensità, ora, perché non voleva più provare alcun timore di fronte a lui. Chi era quell'uomo per farla sentire così...

...insicura?

No, non insicura. Era qualcosa di diverso. Con lui si sentiva triste.

«Non sapevo che lui ti scrivesse di me» fece Jean. Ma non c'era sarcasmo. Nadia si strinse nel lenzuolo, guardando altrove.

«Ero io a chiedergli di te».

Jean si appoggiò su un gomito, socchiudendo gli occhi. Restò a guardarla mentre fissava lontano, illuminata dai deboli raggi della luna.

«Perché?» le chiese. Lei scosse il capo.

«Se non te ne rendi conto da solo, non ha senso che io ti risponda, non credi?» disse. Poi, con voce dura e tesa, mormorò «Dio, a volte fai delle domande tanto stupide...»

«Non penso sia stupido domandarsi perché tu chiedessi di me al mio amico mentre io non ho mai ricevuto una singola riga da te, non credi?»

«Ho sonno» fece lei, girando le spalle e abbassando gli occhi. «E qui fa molto freddo. Torno dentro».

«Marie faceva gli incubi su di te, perché non tornavi a casa».

Nadia si fermò con un piede sulla porta. Quando si volse a guardarlo, nei suoi occhi c'era disprezzo e una furia trattenuta a stento.

«Questo è veramente spregevole da parte tua» disse. Jean sorrise, beffardo. E lei non odiò mai tanto quel suo sorriso come in quel momento.

«Dici?» fece lui. «Eppure è la verità. Se non mi credi, chiedi a Rebecca».

«Io ho fatto quello che avresti fatto anche tu, nella mia situazione» disse lei, che sentiva la sua rabbia crescere. Gli occhi di Jean brillarono, attraverso gli occhiali.

«Ti sbagli. Io sono restato. Mi sono preso cura di lei, come potevo. Ho supplito alla tua mancanza ogni giorno, esattamente come Rebecca. Quindi non venirmi a fare la predica!»

«Io? Io ti farei la predica?» Nadia scoppiò a ridere. «Ma sentilo. È da quando ci siamo rivisti che non fai altro che trattarmi con disprezzo e orgoglio. Ho sbagliato, va bene. Ti ho chiesto scusa, più e più volte. Ho cercato di farti vedere che mi assumevo le mie responsabilità...»

«Le tue responsabilità?» la interruppe lui, ridendo.

«...sì, ma tu non hai fatto altro che oppormi il tuo maledetto senso di colpa. Non è colpa mia, se tu avresti voluto fare quello che ho fatto io, ma non hai potuto... o voluto».

Lui impallidì all'improvviso.

«Io cercavo un significato per la mia esistenza, qualcosa che tu avevi, ma io no. Volevo la mia vita, e una stanza tutta per me in questo maledetto mondo, un posto dove potessi finalmente realizzare me stessa, e capire chi volevo essere. Non volevo dimenticarmi di voi, non l'ho fatto apposta. Ma la mia vita ha preso una direzione che non prevedevo e non ho saputo evitare quello che è successo».

Lei parlò senza mai interrompersi. Tremava e aveva il fiato corto, mentre le guance erano accese di rosso. Jean la fissava senza riuscire a togliere gli occhi dalle sue labbra.

«Sono diventata la prima donna cronista in Inghilterra a guadagnare oltre centocinquanta sterline all'anno. Sai quanto guadagna il mio collega meno quotato? Circa mille e cinquecento sterline all'anno. Per non parlare del capocronista, un vero cretino, che però può permettersi di guardarmi dall'alto delle sue tremila sterline annue solo perché è un uomo. Hai idea di cosa significhi?»

«Mi stai parlando di soldi».

«Ti sto parlando di una donna che è riuscita a guadagnarsi il suo spazio, la sua scrivania, i suoi lettori lavorando giorno dopo giorno, e vivendo una vita da schifo per quasi cinque anni, mangiando un giorno sì e tre no, e dormendo in un buco che farebbe orrore a uno scarafaggio. Lottando contro una società abietta, che ti vuole ai margini solo perché sei una donna e perché hai la pelle nera. E scusami se non ho avuto il tempo di venirti a trovare!»

Jean si appoggiò con la schiena al parapetto, incrociando le gambe. «Però hai avuto il tempo di andare a trovare Mr. Fisher».

La mano di Nadia scattò senza che lei riuscisse a rendersene conto. Restò a guardare con orrore il volto di Jean, piegato di lato, e la sua mano, ancora levata per aria.

«Mi dispiace, io non volevo colpirti...» mormorò. Lui si portò una mano al volto.

«Come non volevi lasciarmi».

«Jean» fece lei, con gli occhi che le tremavano per l'emozione. «Devi andare avanti. Tu potresti vivere una vita meravigliosa, se solo riuscissi a capire...»

«Non ti preoccupare. Capisco benissimo».


Lei scosse la testa. «No, non è vero. Tu ti ostini a vivere nel passato e non capisci che quello che abbiamo vissuto, io e te... Jean, quello nessuno potrà mai togliercelo. Ma noi siamo così diversi, e in fondo lo sai anche tu. Credo che tu non lo voglia ammettere, ma l'hai sempre saputo. Come l'ho sempre saputo anche io».

Jean chinò il viso. E attraverso le lenti dei suoi occhiali lei vide il bagliore fugace di una lacrima, che scorse sul suo volto velocemente, senza lasciare traccia.

«Quindi, non mi hai mai amato. C'è voluto Jonathan per scoprirlo, non è così?»

«Non è così» fece lei. «Ma comunque, sì: io amo Jonathan. E farai meglio ad accettarlo, se vorrai cominciare a lasciarti questa infelicità alle spalle».

«Se è questo che vuoi, sono felice per te» fece lui, rassegnato. Nadia lo fissò intensamente: e dopo un attimo di smarrimento, prese a guardarlo con tutto il disprezzo che riusciva a provare; e senza pensarci, glielo gettò in faccia, quel disprezzo, senza rimorso né pietà. Perché sentiva di odiarlo profondamente per quello che aveva appena detto.

«E tu?» fece. «Tu cos'è che vuoi? Già, ma perché domandartelo? Tu fai sempre così. Non sei cambiato per nulla, in sei anni».

Lui la fissò senza parole. «Credevo fosse quello che volevi sentirti dire, no?» disse. Lei si morse le labbra, stringendo i pugni.

«Sei una tale nullità» fece. Jean la fissò interdetto. Aveva il volto tumefatto dalla rabbia troppo a lungo trattenuta e gli occhi che splendevano come due braci incandescenti. «Tu fai tutto quello che ti viene chiesto, senza mai opporti, senza mai dire no. Tu non sai dire no, salvo poi trincerarti in una vita che odi ma che ti sei creato da solo. È questo che detesto di te, questo tuo buonismo assoluto, così... così inumano. Lo trovo insopportabile».

«E cosa vorresti che facessi, che ti impedissi di andare con lui? Magari avresti preferito che ti impedissi di partire?» sbottò Jean. Si sentiva ferito. Non capiva dove avesse sbagliato. Le aveva sempre mostrato tutto il suo affetto e la sua comprensione, appoggiandola e aiutandola quando poteva. Cos'è che gli stava rimproverando?

«Sarebbe stato bello se tu l'avessi capito allora» disse lei, in un sorriso. «Ma tu non arrivi mai in tempo. Sei sempre in ritardo, Jean. E io sono stufa: stufa di aspettarti, stufa di farti capire che quello che cercavo non era la tua comprensione, e nemmeno la tua approvazione. Proprio come non la cerco ora».

Jean la afferrò per un braccio, strattonandola: e per un attimo ebbe paura di quello che aveva appena fatto. Non era da lui. Non si era mai comportato così. Ma non appena vide lo spavento negli occhi di lei lasciare il posto a una luce diversa, più intensa, che insensatamente lo spronava ad andare avanti, lui si riebbe e la lasciò andare.

«Io... non posso fare quello che dici» disse, con la voce che gli tremava. Nadia lo fissò triste. Dov'era quel Jean che aveva conosciuto cinque anni prima e che aveva amato così tanto? Non lo ritrovava più nell'uomo che aveva di fronte, un uomo duro, triste e smagrito, che viveva nel risentimento; e la cui immagine le pungeva il cuore così tanto e così profondamente da farlo sanguinare, pur istigando in lei tutta la sua passione più segreta.

«Tu non sai scegliere» disse lei, sprezzante «e non sai vivere. Avrei tanto voluto che tu scegliessi almeno una volta, Jean, che tu mi facessi capire cosa volevi veramente».

«Io ho sempre agito per un solo motivo, e lo sai» ribadì lui. Ma Nadia lo fissava ormai con occhi vuoti e inespressivi.

«Perché mi fai questo?» disse lei. «Perché lo fai a tutti e due?»

«Non lo capisci?» le sussurrò, prendendola per le spalle. Lei scosse la testa, divincolandosi.

«Basta» fece, strappandosi al suo abbraccio. «Queste cose non mi interessano più. Tu non mi interessi più. Se solo... se solo tu...»

«Cosa?» disse lui. E sentiva di non avere quasi più la forza di reggersi.

«Se solo tu mi avessi mostrato questo tuo motivo, almeno una volta...»

Jean restò a fissarla e capì che l'aveva davvero perduta. Ma non lì, non su quel ponte e non in quel momento. L'aveva perduta anni prima, quando aveva cominciato a dare lei e la sua esistenza come per scontata.

«Mi dispiace» disse lei. «Mi dispiace davvero. Ma adesso...»

Un suono improvviso, simile a quello di una sirena li interruppe. Nadia si guardò intorno, spaventata. Jean la prese delicatamente per un braccio, e lei gli si strinse accanto, mentre la riconduceva all'interno.

«Cosa succede?» gli chiese lei. «Cos'è questo suono?»

«L'allarme. Qualcosa non va come dovrebbe».

Alcune luci si accesero dall'interno e Hanson comparve sulla porta, in canottiera e con i capelli spettinati incollati alla fronte.

«Jean, eccoti qui. Presto, vieni, c'è qualcosa che dovresti vedere».

Jean lasciò il braccio di Nadia e scomparve all'interno dell'abitacolo. Nadia gli tenne dietro, avvolgendosi sempre più strettamente nel lenzuolo. Quando entrò, incrociò casualmente lo sguardo di John, che si stava alzando proprio in quel momento, svegliato come tutti dal suono assordante della sirena. Nel vedere che Nadia e Jean erano rientrati insieme, lui strinse gli occhi, lanciandole un'occhiata interrogativa, a cui lei non rispose se non distogliendo lo sguardo.

«Avevamo inserito il pilota automatico» diceva Hanson, indicando alcune manopole a fianco dei quadranti. «Ma non appena siamo entrati nello spazio aereo boliviano, abbiamo cominciato a perdere velocità e altitudine. Ecco, guarda. Per quanto ne sappia, non sembrano esserci problemi ai motori o al pallone».

Jean stava chino sulla plancia, appoggiandosi con entrambe le mani. Il suo viso era teso e tradiva una certa preoccupazione. «Il carburante è a posto» notò. «E le valvole?»

Hanson premette qualche pulsante. «A posto anche quelle. Jean, non ci sono danni ma stiamo ugualmente precipitando».

«Com'è possibile?» mormorò lui. Si voltò e incrociò lo sguardo ansioso di Marie, che si era svegliata di soprassalto e ascoltava senza capire quello che si dicevano, tra le braccia di Rebecca. Quindi si volse verso Alex, che osservava la strumentazione al suo fianco.

«Può essere un campo magnetico, che ha disturbato l'attività del pilota automatico» suggerì lei.

«No, la bussola funziona» disse Jean, chinandosi a controllare. «Il problema è un altro, ma non riusciamo a capire quale. E se non lo scopriamo in fretta, presto saremo nei guai».

Nadia ascoltava tutto trattenendo il respiro. Tutte quelle persone erano in pericolo perché lei le aveva coinvolte. Se fosse successo qualcosa a qualcuno, non sarebbe mai riuscita a...

State tranquilli e non vi accadrà nulla. Siamo noi, ora, a guidare la vostra nave. Non avete nulla da temere, non abbiamo intenzione di farvi alcun male. Ma se reagirete, risponderemo di conseguenza.

«Avete sentito?»

Tutti si volsero a guardarla. Nadia scrutò uno per uno i volti dei presenti, che la fissavano senza capire che cosa intendesse dire.

«Avete sentito? Quella voce!»

Sanson e Hanson si scambiarono un'occhiata perplessa. John si avvicinò a Nadia, prendendola per le spalle.

«Non c'era nessuna voce» disse. Nadia scosse il capo.

«Io l'ho sentita. Diceva di non preoccuparsi, che non ci sarebbe stato nulla da temere. Sono loro a guidare la nostra nave».

Jean strinse gli occhi. «Loro? Loro chi?»

«Nadia...» fece Rebecca, sospettosa.

«Guardate!»

Un'intensa luce risplendette improvvisa e abbagliante proprio davanti all'abitacolo, investendoli in pieno e accecandoli. Jean si riparò gli occhi con le mani, giusto in tempo per non rimanere abbagliato: schermandosi, si voltò cautamente a guardare quella che pareva una immensa struttura in metallo, materializzatasi all'improvviso proprio davanti al dirigibile. Si avvicinò al finestrino, per osservarla meglio: e notò che era immensa, dalla forma allungata, simile a quella di una gigantesca megattera. Lo scafo risplendeva di un intenso colore vermiglio ed era costellata di luci lungo tutta la fiancata, alcune delle quali brillavano a intermittenza. Nel suo complesso, quella cosa sembrava grande come tre o quattro incrociatori messi in fila, e larga almeno due. Con stupore crescente, Jean restò a fissarla mentre eseguiva una complessa manovra in aria, virando agilmente e a grande velocità, come se poggiasse su un cuscinetto d'aria.

«Che cos'è quella cosa?» ringhiò Sanson. Tutti si precipitarono a guardare. Solo Nadia restò in disparte, cercando di fare mente locale.

«Sembra una nave, una nave volante» mormorò Hanson. «Ma è ancora più terribile di quelle che usava Gargoyle»

«Se Gargoyle avesse avuto una flotta di queste, saremmo stati spacciati» fece Sanson. Nadia si avvicinò, tirandolo per un braccio e costringendolo a voltarsi.

«Io ho sentito quello che dicevano. Sono loro a guidarci. Non vogliono farci del male».

«E tu gli credi?» fece Alex, dubbiosa. «E perché loro parlano solo con te?»

«Non lo so, ma penso che stiano dicendo la verità» disse lei. Sanson fece una smorfia.

«Ah! Io sono dell'idea di sparagli contro tutto quello che abbiamo per coglierli di sorpresa; e quindi, di svignarcela nel più breve tempo possibile».

«Se faremo così, daremo loro l'occasione per attaccarci!» fece Nadia. «Vi prego, fate come vi ho detto».

Tutti si guardarono l'un l'altro. Nadia restò a fissarli con il fiato sospeso, passando in rassegna i loro visi uno per uno. Finché non incrociò lo sguardo di Jean.

Ti prego... sussurrò. Ma lui strinse le labbra, opponendole uno sguardo duro.

«Credo che Sanson abbia ragione» disse, riscuotendo l'approvazione generale. «Facciamo fuoco su quella cosa, presto!»

«Agli ordini!» ruggì Sanson. E afferrando la cloche, attivò le contromisure senza farselo dire due volte.

«Tre... due... uno...»

«No!» gridò Nadia, ma John la trattenne, prima che potesse interferire.

«Vai! Fategliela vedere a quell'ammasso di lamiera!»

Quattro razzi si staccarono dallo scafo, diretti alla nave ad alta velocità. Dopo pochissimi istanti, uno dopo l'altro colpirono il bersaglio, che venne evidentemente colto alla sprovvista, perché si interruppe la presa che esercitava sul dirigibile. Tutti lanciarono un grido di esultanza, nel vedere la nave ondeggiare e girare velocemente su se stessa.

«E vai!» esultò Sanson. «Lo sapevo che avevo ragione a voler imbarcare quelle caramelline!»

«Siamo liberi, riacquistiamo energia!» fece Hanson. Jean afferrò la manopola dei motori.

«Andiamocene di qui, forza!» disse, spingendo i motori alla massima potenza. Ma si erano appena risollevati di qualche decina di metri, che di nuovo si smorzò tutto il loro entusiasmo.

«Questa cosa non mi piace per nulla» fece Rebecca indicando la nave, che in quel momento stava eseguendo una virata di prua, proprio per andarsi a opporre frontalmente al dirigibile. «Credo che li abbiamo fatti arrabbiare...»

Improvvisa, una selva di colpi partì dalla nave per raggiungere lo scafo del dirigibile, che venne investito da una serie di violente scariche elettriche. La strumentazione esplose in un mare di scintille davanti ai volti allibiti di Hanson e Jean, che non poterono fare nulla per evitare che andasse in corto circuito.

«Il pallone è andato, e il timone non risponde più ai comandi!» gridò Sanson nel frastuono generale. «Stiamo precipitando!»

«Tenetevi! Allontanatevi dai vetri e aggrappatevi ai seggiolini, allacciando le cinture. Presto!» gridò Jean. Quindi si tuffò su Marie, trascinandola verso il proprio posto di guida e lottando con tutte le sue forze contro la gravità che lo spingeva verso l'alto, nel tentativo di assicurarla al seggiolino. Quando riuscì finalmente ad allacciare la cintura di sicurezza di Marie, Jean si aggrappò come poté, chiudendo gli occhi. Il suono assordante del dirigibile che precipitava gli riempiva le orecchie, stordendolo. Fece appena in tempo a sollevare gli occhi, per cercare tra gli altri il volto di Nadia. La vide stretta a John, gli occhi chiusi. Lui stava chino su di lei, per ripararla. Sembrava al sicuro. Ma come se Jean l'avesse chiamata, in quell'istante lei aprì gli occhi, a guardarlo. Restarono a fissarsi per un tempo che parve non finire mai, e che li fece sentire come sospesi. Poi, improvviso, lo schianto.


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Capitolo 3
*** 2 ***


«Marie... Nadia...»

Jean si destò all’improvviso. Non vedeva nulla, solo ombre sfocate. In preda al panico, si tastò il viso e si accorse che era senza occhiali.

Oh, no, maledizione!

Provò a cercarli, muovendo la mano a tentoni; ma fu sufficiente che si muovesse appena, perché un dolore lancinante lo colpisse alla schiena, strappandogli un gemito. Jean si irrigidì, stringendo le labbra e serrando gli occhi: quindi si accasciò a terra, semi-incosciente.

Non ricordava nulla. Nella sua mente si affollavano indistinte le immagini precedenti lo schianto. Aveva ancora nelle orecchie l'eco terribile delle grida di Marie; e l'immagine del volto smarrito di Nadia lo tormentava senza sosta ogni volta che chiudeva gli occhi, proprio come la frustrazione e la rabbia per non essere riuscito a proteggerle entrambe come avrebbe dovuto.

Strinse i denti e sollevò la testa, per guardarsi intorno. Non vedeva proprio nulla. Tutto era pervaso da una luminosità diffusa, e persino i contorni delle cose gli apparivano sfumati. Se non avesse trovato gli occhiali al più presto, sarebbero stati guai per lui

Jean si oppose con tenacia al dolore che gli proveniva da ogni parte del corpo e tentò di mettersi a sedere. Ma una fitta più forte delle altre lo privò di ogni forza residua; e con un grido strozzato, si abbatté nuovamente al suolo, esausto.

Se ne stava lì, la fronte imperlata di sudore e il corpo indolenzito, senza sapere che fare né dove si trovasse. Intorno a lui regnava un silenzio assoluto e inquietante. E Jean avvertì il panico che cresceva dentro di lui, inesorabile.

Sono tutti morti, continuava a ripetersi, cedendo sempre più alla disperazione.

No, doveva reagire. Deglutendo, cercò di ritrovare la calma necessaria per pensare. Chiuse gli occhi, opponendosi agli incubi che il buio faceva sorgere nella sua mente. E cominciò ad ascoltare i suoi sensi.

Non si sentiva odore di carburante, né di bruciato. Mosse la mano: era sdraiato sopra qualcosa di simile a un tessuto...

Un tappeto?

Dunque, non si trovava più all'interno del dirigibile. Probabilmente qualcuno doveva averlo trovato: e se l'aveva trascinato lì, era possibile che vi fossero anche gli altri e che fossero tutti sani e salvi.

«Marie? Nadia?»

Se avevano trovato anche gli altri, li avevano senz'altro messi lì, con lui. Sarebbe stata la cosa più sensata da fare.

«Marie, Nadia?» chiamò più forte.

Dovevano esserci.

Rispondetemi, maledizione!

«Sanson, Hanson!», fece con voce rotta. Sentì che la paura si diffondeva nuovamente in lui, senza che potesse fare nulla per contrastarla. Dovette lottare per non gridare; e cercando di fare il vuoto nella sua mente, si passò una mano sul volto, respirando a fondo.

D'accordo, si disse. Cerca di pensare. Pensa, pensa...

Forse gli altri stavano bene ed erano stati sistemati in un luogo diverso. Poteva anche essere: in fondo, lui era l'unico che non era riuscito ad assicurarsi al seggiolino. Era un miracolo che fosse ancora vivo.

Non sono morti. Stanno bene. Sono lì fuori, da qualche parte.

Scacciò con forza il pensiero che forse si stava solo illudendo. Non poteva abbandonarsi alla disperazione. Doveva lottare, in qualche modo...

«Chi c'è? Nadia?»

Un rumore improvviso, di passi, lo fece trasalire. Qualcuno era entrato, ne percepiva la presenza.

Jean sollevò la testa, stringendo gli occhi nel vano tentativo di scorgere qualcosa. Vedeva una sagoma ferma, in piedi, davanti a sé; c'era qualcuno, e lo stava guardando.

«Chi sei? Dove sono tutti?»

«Wachinìcita! Otome hayal, otome hayal!» gridò l'intruso, chiunque fosse. Era una voce maschile, ma Jean non capiva una parola di quello che stava dicendo. Avvertì un improvviso trambusto, come di vasellame rovesciato, e passi che si affrettavano tutt'intorno, per poi svanire all'aperto. Un silenzio irreale cadde di nuovo tutto intorno a lui, e Jean sentì di essere nuovamente solo. Serrò le labbra. Il dolore era lento ma costante e le energie lo stavano lentamente abbandonando: non sarebbe stato in grado di restare lucido ancora per molto...

Passi. Qualcuno si stava avvicinando. Ormai incosciente, Jean avvertì come una presenza accanto a lui; e infatti, qualcuno gli sollevò delicatamente la testa.

«Bevi questo, forza».

Gli versarono a viva forza del liquido in bocca. Jean non riusciva nemmeno ad aprire le labbra, ma alla fine trovò l'energia per inghiottire qualche sorso. Aveva un sapore orribile, che lo fece tossire bruscamente, e che gli squarciò il petto come se stesse per andare in fiamme. Strabuzzò gli occhi, che andarono a posarsi sulla sagoma indistinta di quello che sembrava il volto di un vecchio, chino sopra di lui. Jean avvertì un odore intenso di tabacco e di lana, e si aggrappò a quelle che dovevano essere le mani di quell'uomo, dure e nodose sotto le sue, come la corteccia di un albero. L'uomo ricambiò la stretta e lo aiutò a sorreggersi.

«Cerca di non agitarti. Tra poco starai meglio».

«I miei...» mormorò Jean, muovendo la mano. L'uomo la guidò, e gli fece stringere le dita intorno agli occhiali, che erano lì vicino.

«Cercavi questi?»

Con le forze che gli ritornavano, Jean si rizzò a sedere, inforcando gli occhiali. Si trovava in una specie di capanna: tutto intorno a sé non c’era altro che un semplice panchetto male assemblato con sopra qualche suppellettile, un giaciglio fatto di sterpi e di foglie e un tappeto, intessuto in modo grossolano. Alcuni cesti di paglia erano accatastati in un angolo; e alle pareti – se così si potevano definire quelle frasche intrecciate col fango – erano appesi alcuni oggetti votivi e una testa di gallina avvizzita. Jean posò gli occhi sulla folla di persone che si ammassava incuriosita davanti alla porta. E non appena essi incrociarono il suo sguardo, fuggirono via, chi ridendo chi erompendo in schiamazzi divertiti.

«Devi scusarli. Non sono abituati a incontrare gente come te».

Jean spostò gli occhi sull'uomo che gli stava a fianco, un vecchio dall'aspetto a dir poco formidabile, che gli sorrideva bonariamente: lunghi capelli grigi gli arrivavano al bacino, raccolti in una treccia elaborata ed intrecciata con fili di lana di vari colori; in testa, portava un logoro cappello di paglia, mentre un vecchio poncho strappato e consunto alle estremità gli ricadeva addosso in modo estremamente misero. Ai piedi, due sandali di cuoio ormai completamente consumati contribuivano a donare all'uomo un aspetto dimesso: ma un occhio più attento avrebbe notato che al di sotto di quell'apparente semplicità si celava in realtà una forza segreta, e un autorità indiscutibile. Sebbene fosse seduto, sembrava essere molto alto: e tra le rughe spesse e profonde che solcavano il suo viso scottato dal sole e completamente glabro, emergevano a tratti i segni inconfondibili di quell'indole nobile e forte di cui risplendeva la sua intera persona, uno splendore sotterraneo e vivo, come viva era la luce nera e intensa di quegli occhi perlacei e scuri, che fissavano Jean con una certa serenità e un non so che di divertito. Alla fine, lui si sollevò in piedi, tendendogli una mano.

«Vieni. Ti aiuto ad alzarti» disse. Jean si lasciò aiutare dal vecchio, che lo fece alzare e lo condusse fuori dalla porta, dove lo fece sedere su un semplice scranno di legno. A Jean bastò un'occhiata, per capire che quello in cui si trovava doveva essere un villaggio molto povero. C’erano solo poche capanne oltre a quella in cui lo avevano alloggiato; e fuori da esse alcuni uomini erano indaffarati nella loro attività quotidiana, che pareva essere l'agricoltura e l'allevamento di quelle poche pecore che si riuscivano a intravedere, libere di andare a zonzo tra i sentieri fangosi. In realtà, al di là del divertimento iniziale, quelle persone non sembravano particolarmente interessate a lui. Solo talvolta, quando passavano accanto alla capanna, lo fissavano intensamente e uno strano bagliore attraversava allora i loro occhi, che subito, però, si abbassavano con rispetto.

Jean notò che l’uomo che lo ospitava abitava nella casa peggiore del paese. Le altre erano casupole di fango e pietra di fiume, con il tetto di frasche, semplici ma decisamente più elaborate. Solo la sua era così povera e malmessa. Tuttavia, ogni persona che passava davanti a quel vecchio, si fermava a salutarlo con deferenza.

«Lei è il capo villaggio?» chiese Jean, sommessamente. Le energie stavano tornando a poco a poco.

L'uomo lo fissò con interesse. «No. Sono solo un povero vecchio, che si occupa di antiche questioni. E questo non è il mio villaggio, ma solo uno dei tanti» rispose.

«Parla l'inglese molto bene».

«Se è per questo, parlo molte lingue. Da giovane ho lavorato per diversi uomini europei».

Jean si guardò intorno con interesse. Il villaggio era arroccato sopra un promontorio, da cui era possibile scorgere quella che a un primo sguardo sembrava una immensa foresta pluviale; poco più in basso, lungo il sentiero che risaliva il crinale del monte, si scorgeva il letto di un fiume. Il paese sorgeva proprio al limitare delle montagne, che si levavano alle sue spalle.

«Dove siamo qui?» domandò. Il vecchio ammiccò, fissando dritto davanti a sé.

«In un posto sicuro. Per il momento».

«Questo è un villaggio indio?» insistette Jean. «Dove siamo, in Bolivia?»

«Più o meno».

Jean socchiuse gli occhi. «C'erano delle persone con me...»

«Lo so».

«Stanno bene?»

«Credo di sì. Ma non posso risponderti esattamente. Quando ti ho trovato, eri solo».

«Quindi, qualcuno li ha portati da un'altra parte? E sapete dove?»

«Devi avere pazienza» fece il vecchio con un sorriso. «E non ti devi agitare. Pensa a riacquistare le forze. Per il resto, avremo tempo».

Io non ho tempo, pensò amaramente Jean. Doveva ritrovare i suoi amici. Doveva ritrovare lei.

Il vecchio si mise in spalla una vecchia bisaccia e si alzò in piedi. Jean lo fissò, stupito.

«Se ne sta andando?» chiese. Il vecchio sorrise.

«Solo per qualche tempo. Tornerò quando sarai più in forze».

«E io cosa dovrei fare?»

L'uomo rise. «Aspettare che io ritorni». Jean inarcò le sopracciglia.

«Potrebbe dirmi il suo nome?»

«Te lo dirò» disse il vecchio, e una luce attraversò i suoi limpidi occhi grigi. «Ma sappi che non sono solito rivelare il mio nome. Per il mio popolo, un nome è qualcosa di unico: secondo le nostre credenze, chi conosce i nomi può comandare le persone, il mondo, ogni cosa. Ecco perché il nome è qualcosa di sacro, che appartiene solo a noi stessi; e che a noi soli viene comunicato al momento in cui compiamo la maggiore età dai nostri sacerdoti, che per noi l'hanno scelto alla nascita. Tutti noi della tribù ci riconosciamo come fratelli e usiamo appellativi ricorrenti, spesso uguali. Ma il nome, quello mai.

Jean lo fissò, sorpreso. «Non lo sapevo, altrimenti non glielo avrei mai chiesto».

Lui rise. «A te lo dirò, facendo un’eccezione, perché me lo hai chiesto gentilmente e senza aspettarti che io fossi tenuto a rivelartelo. Mi chiamo Atahualpa; e provengo da un’antica tribù ormai cancellata dal tempo, i Toltechi».

Jean rizzò il busto. «I Toltechi?» fece, sorpreso. «Pensavo fossero originari del Messico...»

Atahualpa sorrise amabilmente e gli occhi gli brillarono di una luce improvvisa. «Sei istruito. È una cosa buona. Tuttavia, devi sapere che i Toltechi non sono originari di un posto in particolare, essi sono in molti posti».

«Cioè, siete nomadi?»

«Se così si può dire. Preferisco pensare a noi come a un popolo che fa del mondo la propria casa. Noi crediamo che la nostra vera casa non appartenga a questo mondo e perciò lo percorriamo senza fermarci mai troppo a lungo in un posto in particolare. Tante sono le strade e molti i luoghi che ricordano il nostro passaggio... e ogni luogo ha una sua storia, che da sempre i Toltechi seguono nella sua totalità».

Jean restò a fissare il vecchio con un espressione vuota. In realtà, non è che gli importasse gran che di tutta quella spiegazione. Le sue preoccupazioni avevano un altro nome.

«Ti vedo perplesso, amico mio» disse il vecchio, chinandosi a guardare Jean dritto negli occhi «È una cosa difficile, per te, da capire?»

«Mi scusi. È che ho altri pensieri» si limitò a commentare lui.

Atahualpa lo guardò serio. «Ci sono cose che ancora non sai e che dovrai imparare; ma prima è di vitale importanza che tu riacquisti le forze».

Jean lo fissò confuso. «Quali cose?»

«Le domande, rimandiamole a dopo» lo frenò Atahualpa. «Avremo tutto il tempo per parlare quando ci metteremo in marcia. E allora ti racconterò di Quetzalcoatl».

«In marcia?» chiese Jean, che cominciava a non capirci più nulla in tutta quella storia. «Non ho tempo per questo. Devo ritrovare i miei amici».

«E li troverai, Jean» disse il vecchio, con fare conciliante. «Ma prima dovrai scoprire cosa il destino ha deciso per te. Ogni uomo ha un suo destino, e in esso si trova nascosto ciò che egli veramente è chiamato ad essere. Il tuo destino ti ha condotto qui, perché io ti trovassi per compiere il mio. Io so che dovrò aiutarti a capire cosa si nasconde dietro gli eventi che ci hanno fatti incontrare, e a scoprire chi è l'uomo che si nasconde dietro al tuo nome».

Jean lo fissò stranito. «Ehi, aspetti. Come conosce il mio nome?» chiese. Atahualpa lo guardò, la bocca socchiusa.

«Oh, ma me l’hai detto tu. Quando ci siamo conosciuti».

«E quando è successo, esattamente?» chiese Jean, insospettito. Atahualpa alzò gli occhi a scrutare l’orizzonte.

«Tanto tempo fa. In un luogo non molto diverso da questo».

«Lei si sbaglia. Io non sono mai stato qui» obiettò Jean.

«Davvero?» fece Atahualpa, imbracciando la sua bisaccia e afferrando un lungo bastone, prima di incamminarsi. «Che strano, ero sicuro che fossi proprio tu».






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Capitolo 4
*** 3 ***


Lisa guardava annoiata fuori dalla finestra. L'estate era finalmente arrivata e nel giardino della ricca residenza di campagna in cui alloggiava, era tutta un'esplosione di verde e di colori. Due merli andarono a posarsi solitari sui rami più alti di un acero, proprio di fronte alla finestra da cui lei si era affacciata. Lisa restò a guardarli trattenendo il respiro, affascinata e felice per quell'incontro inatteso. Uno di loro svolazzò fino al prato, girando e rigirando la testa in continuazione, prima di scomparire nuovamente tra le foglie con un seme nel becco.

«Non ti sei ancora stancata di guardare dalla finestra?»

Lisa si volse a osservare Michael, che giocava svogliatamente a carte con Jeremy Hunter. Entrambi non sembravano gradire particolarmente la loro nuova sistemazione: era stato Winston a condurli a Westwood Manor – così si chiamava l'immensa tenuta in cui erano stati messi sotto custodia. Hunter si era portato dietro la moglie e i due figlioletti, che al contrario di lui, sembravano spassarsela un mondo a giocare tutto il giorno in quel prato immenso. Dal canto suo, la moglie riteneva che costringerla a vivere in quel magnifico palazzo a spese dello stato fosse la cosa migliore che il marito avesse mai fatto. Ma Hunter cominciava a sentire la mancanza del proprio lavoro e della sua scrivania, e così Michael: e sebbene la redazione del Times fosse ancora da ricostruire – e non sarebbe più stato a Fleet Street, ma era ancora tutto da decidere – e sebbene sapesse quanto potesse essere rischioso farsi vedere in pubblico, non passava giorno che Hunter non si lamentasse per il fatto che quella storia della protezione andava avanti da fin troppo tempo.

«È ora di finirla» saltò su, sbattendo le carte sul tavolo. Michael sbuffo. Era l'ennesima partita che interrompevano. «Non se ne può più di stare qui a far nulla. Sono due settimane che ci troviamo rinchiusi qui dentro. Due settimane. Vi rendete conto?»

«Signor Hunter, sa benissimo che...»

«Un accidente. Là fuori sta succedendo un casino, e noi non siamo lì a testimoniarlo».

«E come potremmo farlo, se ad ogni passo che facciamo fuori di qui rischiamo la pelle...»

Lisa scostò nuovamente la tenda, lasciando Michael e Hunter a discutere tra di loro. A lei non interessavano quelle questioni. Ciò che la preoccupava era Nadia. Non aveva notizie di lei da quando era partita e non sapeva se sarebbe mai più riuscita a rivederla. Si era resa conto di quanto le fosse profondamente affezionata solo adesso che era partita. Se solo fossero state insieme di più, quando potevano...

Una nuvola di polvere si levò all'improvviso lungo il sentiero di ghiaia, ad annunciare l'arrivo di una carrozza. Lisa si fece subito attenta, stringendo gli occhi.

Chi potrebbe essere?

Quel luogo era inaccessibile a tutti. Solo le guardie personali messe a loro disposizione da Churchill erano ammesse.

Allora...

Lisa abbandonò la finestra, correndo fuori dal salone sotto lo sguardo attonito di Michael e della famiglia Hunter al completo. Sulla porta, una guardia cercò di fermarla, ma lei la scansò con noncuranza; e aggrappandosi alla maniglia con entrambe le mani e infilandosi nella stretta apertura, si precipitò lungo la scalinata all'ingresso, fermandosi solo sul primo gradino, ad aspettare l'arrivo della vettura.

Quella era una semplice carrozza nera, senza alcun simbolo distintivo, ma con vetri offuscati e parecchio impolverata. Arrivò davanti all'ingresso a grande velocità e i cavalli vennero fatti fermare con furia tanto che, ancora scalpitanti, pestavano rabbiosamente a terra con gli zoccoli. Chiunque fosse il passeggero, doveva avere molta fretta di giungere a Westwood Manor, e doveva aver compiuto un viaggio piuttosto lungo, a giudicare dalla polvere sulla carrozza.

Lisa restò con le mani giunte ad aspettare di vedere chi sarebbe uscito. Dopo pochi istanti, la porta si aprì; e lei si gettò letteralmente addosso al nuovo arrivato, aggrappandosi al suo mantello e strattonandolo.

«Lo sapevo, è lei. Ha notizie? Ha saputo qualcosa?»

«Per la miseria, mi dia almeno il tempo di scendere, dannazione!».

Winston si scrollò Lisa di dosso, che lo seguì lesta su per le scale, tampinandolo fino al suo ingresso nel salone principale. Michael e ad Hunter li videro entrare che stavano già discutendo animatamente, con Lisa che tempestava di domande Churchill e lui che cercava di zittirla in un qualche modo.

«...ormai dovreste averla trovata. Insomma, lavora per il ministero, o no? Se non ci riuscite voi...»

«Le ho già detto che ci stiamo lavorando, e...»

«Dovete fare di più! Se non ci sbrighiamo, forse...»

«Si può sapere che succede?» chiese Michael, ma nessuno dei due sembrò notarlo. Continuavano a discutere tra loro, animandosi sempre di più; ma quasi pareva che non si ascoltassero nemmeno l'un l'altra.

«Non è affatto giusto. Se noi fossimo fuori di qui, l'avremmo già trovata!»

«Le ho detto di portare pazienza. Se voi foste fuori di qui...»

«Esatto, noi saremmo molto più...»

«Sareste già morti, razza di testona che non è altro! Ho conosciuto capre assai più concilianti di lei».

Lisa assunse un'aria indignata, arrossendo violentemente. E sarebbe esplosa in un florilegio di insulti, se Hunter non avesse preso la parola per primo.

«Qualcuno qui vorrebbe informarci di quanto sta accadendo?» disse. Lisa e Winston si zittirono entrambi, sospirando.

«Sono venuto a dirvi che le ricerche procedono» disse. Si voltò verso Lisa, fulminandola con lo sguardo perché lei si era messa a sbuffare. «Ma ancora non sappiamo per certo dove si trovino».

«Mi spiace dirlo» fece Hunter, infilandosi le mani in tasca «ma Lisa ha ragione. Sono due settimane che la state cercando, e non siete riusciti a cavare un ragno dal buco».

«Vorrei ricordarvi che trovare Nadia Ra Arwol non è la nostra prima e unica preoccupazione» mentì Winston. In realtà era esattamente vero il contrario. Ma non poteva dire loro che anche se avessero trovato la loro amica, forse avrebbero dovuto ucciderla.

«Forse non lo è per voi, ma lo è senz'altro per noi» intervenne Lisa, sarcastica.

«Questo è un mondo difficile, Miss Stanfields, in cui spesso le cose non vanno come vorremmo che andassero».

«Vada...»

«Basta così Lisa» fece Hunter. Lei tacque, andando a raggiungere la finestra e opponendo le spalle agli uomini, offesa e irritata. Winston sospirò, sollevato.

«Grazie» disse, rivolto ad Hunter. «Non ne potevo più».

«Non mi ringrazi» fece lui, stringendo gli occhi. «Lisa ha maledettamente ragione. A noi non interessa un tubo delle vostre questioni politiche. Noi abbiamo un'amica laggiù. Nadia è come una figlia per me. Lei capisce cosa vuol dire, vero?»

«Capisco benissimo. Le assicuro che faremo tutto il possibile. Se è ancora viva ed è ancora con Fisher, allora riusciremo a trovarla. Ma non è semplice».

«Perché?» chiese Michael. «Sapevate dove era diretta, e vi abbiamo anche fornito il nome della persona che voleva contattare. Cosa vi serve ancora?»

Winston si tolse il mantello, che affidò a un uomo in livrea che attendeva in silenzio in disparte. Quindi si sedette e annuì alla richiesta che l'uomo gli faceva se gradiva o meno del tè.

«Infatti siamo riusciti a ricostruire parte del suo viaggio» fece, accendendosi un sigaro e accavallando le gambe. Aspirò profondamente e passò l'accendino a Hunter, che estrasse il suo mozzicone dal taschino del panciotto. «Sappiamo che è stata prima a Philadelphia, dove ha contattato Hanson Garrett, e che insieme sono andati a far visita al professor Jean Luc Lartigue, a Boston».

«Jean?» scattò Lisa. «Oddio».

«Lei conosceva questa persona?» fece Winston, stringendo gli occhi fino a ridurli a due fessure. Lisa annuì.

«Si, certo... non direttamente, ma so bene chi è. È l'ex fidanzato di Nadia, il ragazzo a cui era legata prima che si fidanzasse con John... cioè, con Jonathan Fisher».

«E perché non me lo ha detto?»

«Perché non lo ritenevo importante. Non avrei mai pensato che Nadia sarebbe andata a cercarlo. Non si sono lasciati in ottimi rapporti...»

Winston aspirò una boccata di fumo, fissando Lisa per tutto il tempo, finché lei non arrossì e abbassò lo sguardo.

«Invece pare che sia andata proprio da lui. E sembra che siano partiti insieme a queste altre persone: Rebecca Granba, Anne Marie von Löwenbräu, Sanson Garrett. Abbiamo rintracciato i loro nomi nei registri degli alberghi di Boston. Vi dicono qualcosa?»

«Sono tutti i vecchi amici di Nadia, credo» fece Michael, ricevendo un cenno di assenso da Lisa. «Ma perché? Voglio dire, come mai tutti insieme? Dove sono andati?»

«In Bolivia».

I tre si guardarono l'un l'altro. «Bolivia? Quindi è lì che sono diretti?» domandò Michael. Winston annuì.

«A quanto pare. Ma sembra che non siano mai arrivati. Abbiamo mandato l'ordine a tutte le capitanerie di porto del sud America di avvisarci, nel caso avessero notato qualcosa. Abbiamo diramato i loro nomi e le loro descrizioni. Nessuna nave con a bordo quelle persone è partita. Nessuno li ha visti. Sono letteralmente scomparsi nel nulla».

Lisa si portò le mani al volto.

«Il direttore del MIT mi ha detto che il signor Lartigue lavorava a un progetto commissionatogli dalla signorina Ra Arwol» aggiunse Winston. «Per caso ne sapete qualcosa?»

«No. Nadia che finanzia un progetto del MIT? Non avrebbe mai potuto, non aveva abbastanza soldi».

«Allora i casi sono due: o la signorina Ra Arwol è diventata improvvisamente ricca nel suo viaggio verso l'America, o non è stata del tutto sincera con voi».

«Questo è assurdo» sbottò Lisa. «Se fosse come dice lei, perché avrebbe dovuto fare una vita da fame, per tutti questi anni?»

«Questo non lo so. Ma per certo quella ragazza nasconde qualcosa. Può essere che il progetto a cui il suo amico lavorava avesse a che fare con la ricerca che Nadia Ra Arwol intendeva intraprendere... ma finché non scopriremo dove intendeva cercare, non so se riusciremo...»

«Il lago Titicaca!»

Winston fissò Lisa sconvolto. «Cosa?»

«Mi ricordo che quando Nadia è venuta a parlarmi della Pietra, mi ha raccontato una storia strana, che quasi non ricordavo più. E mi ricordo che mi ha anche parlato di alcuni luoghi in cui Kurtag aveva concentrato le sue ricerche riguardo alla Pietra... e tra essi c'era il lago Titicaca. Che se non sbaglio...»

«...è in Bolivia» terminò Hunter. «Lisa, sei un genio».

«Quindi potrebbe essere che i suoi amici abbiano organizzato un viaggio in Bolivia» commentò Winston. «Ma le autorità boliviane non hanno mai registrato nessun visitatore che corrispondesse...»

«Se Nadia si è rivolta a Jean, è probabile che abbiano raggiunto la Bolivia in un modo diverso» fece Lisa, giungendo le mani e camminando nervosamente avanti e indietro. «Jean è un ingegnere formidabile. E anche Garrett lo è. Sono sicura che Nadia gli ha chiesto di costruire un mezzo che le permettesse di arrivare sul lago senza attirare l'attenzione».

«Dev'essere andata di sicuro così» fece Winston, che si alzò in piedi in fretta, schiacciando il sigaro sul vassoio da tè che il domestico stava per appoggiare sul tavolino. «Devo andare. Forse siamo ancora in tempo per trovare la vostra amica».

«Noi veniamo con lei» fece Lisa, guardando Michael che la fissava interdetta, ma che alla fine annuì. Winston si infilò il mantello con una smorfia.

«Non dica sciocchezze...»

«Le ho detto che voglio venire con lei. Non me ne starò qui...»

«Non posso portarmi dietro una ragazzetta come lei e uno...» disse rivolgendo a Michael uno sguardo confuso «insomma... lo capisce o no?»

«Le ricordo che è stata quella ragazzetta a farle capire come trovare Nadia» intervenne Michael «e quanto a me, non le darò problemi. E poi, si ricordi che noi la conosciamo bene, Nadia. Se ci prende con lei, potremmo tornarle molto utili».

«E comunque, noi andiamo lo stesso» intervenne Lisa. «Che sia con lei, o da soli, ora che sappiamo come trovarla, la troveremo. Non ce ne staremo ancora rinchiusi qui, a perdere del tempo».

«Voi due, da soli... in Bolivia?» fece lui, sorridendo con evidente sarcasmo. Lisa fece un passo avanti, annuendo con un cenno vigoroso del capo.

«E perché no?» fece.

Winston restò a fissarli con le mani in tasca. Era sconvolto da tanta stupidità e da tanta testardaggine. Quelle persone gli avrebbero creato dei seri problemi in futuro, ne era certo. Ma chissà perché, ora, segretamente, sentiva di apprezzarli più di quanto osasse ammettere con se stesso.

«E lei» fece, rivolgendosi ad Hunter con un sorriso divertito. «Vuole venire anche lei?»

«Io preferisco restare qui» rispose lui. «Il mio posto è dietro una scrivania, magari a scoprire chi ha tentato di farci la pelle, mandando al creatore sei dei miei ragazzi. Perciò andate pure, ma sappiate che comincerò a lavorare su questo da oggi stesso e vi terrò informati. Ah, un'ultima cosa, Mr. Churchill» disse, prima di aspirare l'ultima boccata dal suo mozzicone. «Sarà meglio che lei cominci a trovarmi una scrivania e una redazione, e le consiglio di fare in fretta se non vuole che ci pensi io, con i miei mezzi. Deve sapere che non sono molto abituato ad aspettare».

«Razza di testoni» brontolò Winston, nascondendo il proprio divertimento. «Vi farete tutti ammazzare».

Ma chissà perché, mentre se ne usciva solo da lì, non riusciva a smettere di ridere.

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Capitolo 5
*** 4 ***


«Avanti».

Winston entrò, chiudendosi la porta alle spalle. Si avvicinò alla scrivania, fermandosi, come voleva la regola, esattamente dopo dieci passi, nel centro esatto della stanza. Il reggente dava le spalle all'entrata, guardando distrattamente fuori dalla finestra. E non appena sentì Winston scattare sull'attenti, voltò lentamente il capo, fissandolo attraverso gli occhi incavati e stanchi. Winston non disse nulla, limitandosi ad aspettare che, come al solito, fosse lui a parlare per primo.

«Voleva vedermi, Churchill?» disse, quasi in un mormorio. Winston annuì.

«Signore, forse siamo riusciti ad individuare la donna».

Il Reggente volse lentamente il resto del corpo. E Winston notò che il suo viso, che pure era sempre stato piuttosto scarno, sembrava addirittura appassito, tanto si era asciugato. Ma in realtà era tutta la sua figura, un tempo così piena di vigore nonostante l'età ormai avanzata, che sembrava essersi come ripiegata su se stessa: e persino nei suoi movimenti, ora più lenti e incerti, Winston lesse tutta l'ansia e la preoccupazione che attanagliavano il suo superiore, nonostante questi cercasse di farvi fronte con grande coraggio.

«Dunque è così? L'avete trovata?» disse, quasi biascicando. Winston fece un cenno deciso con la testa.

«Pare che sia diretta in Bolivia, sul lago Titicaca».

A quelle parole, il Reggente parve come rianimarsi e fissò su Winston i profondi occhi celesti, che si dilatarono improvvisamente, accompagnati da un leggero tremore del volto.

«Titicaca?»

Winston non rispose. Il Reggente si appoggiò con le mani alla scrivania, fissando il vuoto davanti a sé mentre si mordeva le labbra, gli occhi fissi su chissà quali pensieri. Winston ammirava quell'uomo, profondamente. Sulle sue spalle gravava il peso del destino di un'intera umanità: eppure sopportava la situazione stoicamente, senza temere di mostrare la sua debolezza e le sue paure, da cui anzi traeva il proprio coraggio. In molti avevano pensato che fosse un uomo finito, troppo vecchio per portare avanti il proprio compito. Ma Winston pensò che non si sarebbe potuto trovare un uomo migliore di quello, per far fronte alla situazione presente. Se avesse dovuto mettere la propria vita nelle mani di qualcuno, non avrebbe avuto dubbi su chi scegliere.

«Come l'ha saputo?» chiese il Reggente, stringendo gli occhi.

«È stata la ragazza, Lisa Stanfields. Si è ricordata che la Ra Arwol le aveva parlato del lago come uno dei luoghi in cui Kurtag aveva condotto le sue ricerche. Collegando tra loro i vari indizi, abbiamo concluso che forse si è diretta là».

«Avrebbe il suo senso» confermò il Reggente. «Il Libro parla del lago come del luogo in cui sorge la Porta degli Dei, un monumento dal potere immenso, che permetterebbe di ricostituire il Sentiero delle stelle, l'antico passaggio tra la Terra e Atlantide. Fin dalle sue origini il Consiglio ha cercato in tutti i modi di rintracciare quel luogo, ma senza alcun risultato».

«E il libro?»

«Il libro parla di un'entrata sigillata, che può essere aperta solo attraverso la Pietra. Senza di essa, non possiamo fare nulla».

«Non c'è altro modo per entrare?»

«Ma se non sappiamo nemmeno dove sia l'entrata!» sbuffò lui, allargando le braccia. «Questo maledetto Libro non ne parla, limitandosi a dire che è andata perduta nei secoli, e grazie tante. Si parla di un mondo sotterraneo, creato dagli antichi dominatori per sopravvivere dopo il cataclisma atomico che avevano provocato. Ma tutto quello che quel dannato testo riporta, sono inutili leggende riguardanti questa civiltà sommersa, e congetture sui luoghi di accesso al mitico mondo sotterraneo che l'ha vista nascere».

«Signore...»

«No».

Il Reggente si volse, avvicinandosi alla finestra. Estrasse nervosamente dalla tasca il pacchetto di sigarette e ne sfilò una, portandosela alle labbra.

«Per il momento» fece, improvvisamente più calmo, «il Libro non si è rivelato di grande utilità. Possiamo solo sperare che lei abbia ragione, e che Nadia Ra Arwol sia realmente diretta in Bolivia. Ma resta il problema che lei ha la pietra e che l'Ordine sa esattamente dove si trovi, a differenza di noi. Se non riusciamo a trovarla prima che raggiunga l'Antica Città e riesca a riattivare la Porta, ci troveremo in guai molto seri».

«Cosa le fa pensare che voglia aprire la Porta?» fece Winston. «Forse la Ra Arwol non è interessata...»

«Non sia sciocco» fece il Reggente, con una smorfia. «Quella porta verrà aperta, troveranno il modo per spingere la Ra Arwol a farlo. È solo questo che vogliono. La profezia che il Libro riporta si sta tragicamente avverando: se l'Ordine dovesse entrare in contatto con i Signori, presto ci troveremo a dover fronteggiare un'invasione inarrestabile».

«Qualcuno sa dove possono trovarsi i Signori, in questo momento?»

«No. Sono letteralmente scomparsi» disse seccamente il Reggente. «C'è solo da sperare che l'Ordine non sia ancora riuscito a contattarli, esattamente come non siamo riusciti a farlo noi».

«Se mi permette, signore, vorrei recarmi in Bolivia. Credo di poter trovare Nadia Ra Arwol prima che riesca ad attivare la Porta; e se riuscirò a trovarla, le assicuro che la fermerò».

«Cosa le dà tanta sicurezza?» fece il Reggente, agitando la mano in segno di incredulità. Winston sospirò.

«Gli amici della ragazza, signore. Si sono offerti di venire con me».

«Quei giornalisti?» disse lui, grattandosi il mento, ridacchiando. «E cosa si aspetta da loro, Churchill? Sono semplici civili, non dei soldati».

«Ha perfettamente ragione, ma conoscono bene la ragazza» ribatté lui. «Credo che saprebbero aiutarmi a prevenire le sue mosse, Signore».

Il Reggente si fece pensieroso. Quindi «lei sa che potrebbero rivelarsi un problema, nel momento in cui si troverà a dover fermare la Ra Arwol?» disse. «Immagino se ne renda conto».

Winston annuì. «Troverò il modo per ovviare alla cosa, Signore. Ma credo che valga la pena sfruttare questa risorsa, viste le condizioni in cui ci troviamo».

Il Reggente annuì, spegnendo la sigaretta. «Lei si sta muovendo ottimamente, Churchill» fece. «Sono molto soddisfatto. Ha portato a termine la sua ultima missione in modo ottimale, consegnandomi il Libro; e ora mostra di avere una capacità organizzativa non comune. Lei è una vera risorsa per noi, in questo tempo di crisi».

«La ringrazio» fece Winston, gonfiando il petto.

«Ma prima di continuare, voglio che sappia che le cose ora cominceranno ad essere veramente difficili. Se sceglierà di andare laggiù, dovrà contare solo su se stesso. Se dovesse succedere qualcosa, a lei o alle persone che sono con lei, io non potrò aiutarla; in caso di rapimento, o cattura, non ci saranno riscatti, perché noi negheremo di averla mai conosciuta. Non ci saranno aiuti, né missioni di soccorso: in caso di fallimento, lei resterà isolato e dovrà uscire dai guai da solo. E tutto quello che farà, così come ogni decisione che sceglierà di prendere, saranno una sua esclusiva responsabilità. Allora, è davvero sicuro di voler accettare?»

«Credo di essere pronto a fare il mio dovere» rispose. Il Reggente annuì, sorridendo.

«Molto bene. Allora faccia tutto quello che crede per trovare quella donna e fermarla. Ma si ricordi: se l'Ordine dovesse riuscire a riportare alla luce la Porta, tutto ciò per cui abbiamo lottato, da duemila anni a questa parte, non avrà più alcun valore».

«Sì, Signore. Me ne rendo conto».

«Perfetto» fece il Reggente, con un sorriso. «Si prepari a partire. Darò precise disposizioni perché le facciano avere tutto quello di cui avrà bisogno. Può andare, Churchill. E buona fortuna».

Winston si inchinò e girò sui tacchi, uscendo senza voltarsi indietro. Solo quando si fu richiuso la pesante porta di quercia alle spalle, sentì di potersi finalmente rilassare. Le gambe gli tremavano per l'emozione e dovette chiudere gli occhi per qualche istante, prima di poter riacquistare la completa padronanza di se stesso. Era già stato in zone di guerra, e aveva servito per qualche tempo nelle colonie. Ma quello a cui andava incontro stavolta, era qualcosa di completamente diverso. Non era una semplice guerra. Si lottava contro nemici invisibili, e contro il destino stesso. Sarebbe stato solo, in questa battaglia: e per la prima volta, avrebbe dovuto uccidere qualcuno al di fuori della mischia, guardandolo dritto negli occhi, come un assassino. Non sapeva se ne sarebbe stato capace, né sapeva se ne sarebbe uscito vivo. Ma di una cosa era certo. Se fosse tornato da quella spedizione, non sarebbe mai più stato lo stesso uomo di prima. Nel bene, come nel male.


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Capitolo 6
*** 5 ***


Da un letto addossato alla parete, Nadia fissava il soffitto di una piccola stanza buia e senza finestre. Le pareti, lisce, forse di metallo, erano rischiarate da un pallido riflesso giallognolo, troppo debole per vincere veramente il buio che regnava là dentro, ma comunque sufficiente ad illuminare tutto senza ferire gli occhi.

Aveva paura. Per quanto lo volesse, per qualche ragione non poteva muoversi: e per tutto il tempo in cui era rimasta a fissare il soffitto come una bestia in trappola, una serie di pensieri angoscianti – perché si trovava lì, che fine avevano fatto i suoi amici – aveva continuato ad affollarle la testa, che era ormai sul punto di esploderle.

Si obbligò a distogliere lo sguardo, abbassandolo sul suo corpo immobile. Aveva tentato in tutti i modi, ma non era riuscita ad alzarsi: il suo corpo era come pietrificato e lei non riusciva a muovere nemmeno un muscolo. C'era stato un momento terribile, appena aveva ripreso conoscenza, in cui la confusione e il terrore per la situazione in cui si era improvvisamente trovata, si era impadronito di lei, atterrendola. Nadia avrebbe gridato, se solo le fosse stato possibile; ma in tutto, quell'angoscia non durò che un istante. E sebbene avesse ancora paura, adesso, percepiva anche una calma nuova infondersi in lei, quasi una sorta di rassegnazione: qualcosa che non aveva mai provato, ma che la faceva stare bene. Era il fatto di non poter cambiare la sua situazione, la consapevolezza che qualsiasi sforzo, in tal senso, era del tutto inutile. Per una volta, nella sua vita, qualcosa che la riguardava non dipendeva da lei e dai suoi sforzi. Semplicemente, Nadia non doveva – e non poteva – fare nulla.

C'era un certo silenzio. Solo un lieve suono costante, una pulsazione, che proveniva da qualche parte, vicino al letto. Forse si trattava di un macchinario di qualche tipo... Nadia non poteva vederlo, non riusciva a girare la testa. Rassegnata, chiuse gli occhi, concentrandosi su quel suono insistente, che le trapanava inesorabile il cranio. Fosse pure quello che fosse. In fondo, a lei non importava.

Non era morta. Forse era paralizzata, probabilmente a causa dell'impatto. Ma sentiva chiaramente il suo cuore pulsare al ritmo di quel suono estraneo e metallico, e risuonare nello spazio circostante come l'eco di una goccia in una caverna vuota. Goccia dopo goccia, il suo cuore continuava a battere, ricordandole che, nonostante tutto, era ancora viva. E questo pensiero cozzava contro la sua anima, ora così vuota che ne ebbe quasi paura.

John...

Avrebbe voluto che fosse lì, ma non c'era. Era ancora vivo? E gli altri, erano vivi anche loro? Di certo non erano lì con lei. Se le fosse stato possibile, magari avrebbe potuto chiamarli, nella speranza che qualcuno di loro comparisse miracolosamente in quella stanza. Ma se anche avesse scoperto di essere in grado di parlare, non era sicura che l'avrebbe fatto. La paura di non vedere arrivare nessuno e di scoprirsi, così, davvero sola, la terrorizzava più di ogni altra cosa.

Chiuse gli occhi. Ma li riaprì subito, spaventata. Ogni volta che cedeva al buio e alla tranquillità che il sonno le prometteva, l'immagine di Jean che veniva sbalzato fuori dall'abitacolo, subito dopo l'impatto, tornava a tormentarla, insieme allo sguardo che si erano scambiati prima dell'incidente, e all'eco terribile parole che si erano detti sul ponte. Questa era la paura che la opprimeva di più: che non sarebbe più potuta tornare indietro, che probabilmente non avrebbe più potuto rivederlo e cancellare così quello che ormai era stato. Ed era per il carattere così definitivo di quei ricordi assillanti, che si sentiva morire.

Un rumore improvviso le fece strabuzzare gli occhi. Nadia spostò lo sguardo sulla parete di fronte, dove si era aperta una porta. Una giovane donna in camice bianco era entrata nella stanza, e si stava avvicinando al letto; non appena si accorse che Nadia era sveglia, i suoi occhi si dilatarono.

«Vi siete svegliata» disse, e un debole sorriso le si dipinse sul volto. Nadia osservò con curiosità la nuova venuta. Aveva lineamenti estremamente aggraziati, ma stretti in una maschera di assoluta inespressività, un velo da cui fissava il mondo tenendosi a distanza. L'intero suo volto, il modo particolare che aveva di guardarsi intorno, sembravano mostrare una caparbia volontà di mantenersi estranea alla vita e a tutto ciò che le ruotava attorno: nessun pensiero, o sentimento, pareva aver mai inciso il suo passaggio su quel viso, giovane ma sospeso in una bellezza senza età. E al di là di quella sua figura quasi inaccessibile, non una sola parte di lei rifletteva qualcosa che non fosse la stessa gelida imperturbabilità che trasudava da ogni suo gesto, mai eccessivo, sempre estremamente accorto e misurato. Nadia la osservava scivolare silenziosamente accanto a lei nel sistemarle le lenzuola e il cuscino; e intanto si chiedeva se fosse vera, oppure niente più che una semplice visione.

«Io...»

«Vi ho somministrato un forte anestetico, è per questo che non riuscivate a muovervi. Ora ho diminuito il dosaggio. Potete parlare, se lo gradite, ma cercate di non sforzarvi».

«Chi è... lei?» chiese Nadia. La voce che le uscì fu appena più che un soffio.

«Non dovete agitarvi» rispose la donna. «Presto starete bene».

«Perché mi tenete prigioniera?»

La donna sollevò gli occhi a guardarla. Sebbene Nadia fosse estremamente stanca e provata, i suoi occhi brillavano ancora di quella sua particolare determinazione, che nemmeno i farmaci erano riusciti a soffocare.

«Nessuno vi tiene prigioniera» rispose la donna. Nadia sbatté le palpebre.

«Perché mi trovo qui?»

«Per il vostro bene».

«I miei...»

«Stanno bene anche loro» disse la donna. «Non appena vi sarete rimessa, vi porteremo ad incontrarli».

Nadia chiuse gli occhi, sospirando.

«Quanti...»

La donna fissò Nadia senza capire.

«Quanti... sono...»

«Vi ripeto che non dovete preoccuparvi. Stanno bene, tutti e sei».

Sei.

Jean.

Nadia sbatté lentamente le palpebre. «C'era un altro con me... un ragazzo...»

«Non abbiamo trovato nessun altro» fece la donna, opponendo uno sguardo inespressivo. «Mi dispiace».

Nadia chiuse gli occhi e girò lentamente la testa. Le faceva male. Sentiva il collo rigido e tutto intorpidito. Avrebbe dato qualsiasi cosa per dormire. Ma aveva paura dei sogni che avrebbe fatto.

«Adesso cercate di riposarvi» tagliò corto la donna, tastandole il polso. «Non appena vi sarete rimessa, il nostro comandante avrebbe il desiderio di parlarvi, se lo permettete».

Nadia annuì debolmente con il capo. Non aveva idea di chi fossero quelle persone: forse doveva temerle, o forse no. Ma anche di quello, non le importava. Voleva solo dormire, e non pensare più a nulla.

«Vorrei tanto dormire» disse. La donna annuì.

«Vi darò qualcosa per farvi riposare tranquilla».

La donna estrasse un flacone dalla tasca del camice da cui, con una specie di siringa, prelevò un certo quantitativo di sostanza che iniettò direttamente in un tubo, collegato al braccio di Nadia. Lei strinse gli occhi, avvertendo un bruciore momentaneo e un improvviso intorpidimento che presto si estese a tutto il corpo. Si sentì subito estremamente stanca e leggera e la testa le si svuotò da ogni pensiero. Accolse con gioia l'improvvisa inconsapevolezza in cui stava sprofondando e lentamente Nadia lasciò che l'oblio la accogliesse, salvandola da tutti gli incubi che la realtà le stava riservando e che lei non era ancora pronta ad affrontare.

Non appena Nadia si fu addormentata, la donna ripose il flacone e la siringa: quindi restò a fissarla a lungo, in silenzio.

È così strano, pensò.

Aveva aspettato quel momento per tutta la vita: e ora che si era verificato, non aveva nulla da fare, o da dire. Tutto ciò che fece, fu prenderle la mano, per portarsela alle labbra. La baciò, con devozione, tre volte, stringendo gli occhi, in silenzio. Quindi, le scostò un ciuffo di capelli dal volto, e le sistemò la mano sul petto, dove la posò con cura, delicatamente.

«Mia Regina e mia Dea» mormorò. E portandosi la mano alla fronte si inchinò. L'ultima Regina di Atlantide era lì, davanti a lei. Ciò significava che presto il suo destino, e quello di tutto il suo popolo, sarebbe finalmente cambiato per sempre. E tutto il resto, quello che l'aveva guidata lì, quello che aveva vissuto fino ad allora, non avrebbe avuto più alcuna importanza.

Silenziosamente, scivolò fuori dalla stanza. La porta le si richiuse con un soffio alle spalle, e lei alzò gli occhi sulla guardia che aspettava sull'attenti di fronte all'entrata.

«La Regina sta riposando» disse. «Nessuno deve disturbarla, per nessuna ragione. È un mio preciso ordine, chiaro?»

«Si, tenente» fece la guardia, drizzando il busto. «Come comanda».

La donna scomparve lungo il corridoio, che percorse a passi leggeri ed aggraziati fino agli alloggi degli ufficiali. Ogni volta che incontrava qualcuno, tutti si facevano da parte, producendosi in un saluto formale non appena la incrociavano lungo gli stretti corridoi della nave. Ma in realtà, lei quelle persone non le vedeva nemmeno. La maggior parte di coloro che si erano imbarcati con lei apparteneva a un genere che detestava con tutta se stessa. Ma i n fondo, lei non era lì per loro, bensì per un uomo solo. E quell'uomo, lei lo avrebbe seguito anche nel più lontano e sperduto angolo dell'universo, se solo lui l'avesse chiesto.

Si fermò davanti a una porta. Due guardie vi sostavano davanti, discutendo tra loro, sghignazzando. Lei si fermò a distanza, fissandoli in silenzio e aspettando. Non appena si accorsero della sua presenza, i due si fecero da parte, imbarazzati.

«Il comandante è qui?» domandò. Una delle guardie fece un veloce cenno di assenso.

«La sta aspettando sul ponte, tenente Anuri» disse. Lei fece una smorfia. Odiava sentire il suo nome in bocca a quella gente.

«Il capitano Telonio è con lui?» chiese.

«Sì, signora. E anche il capitano Lucano».

Bene.

La porta si aprì e la donna si ritrovò immersa in un intenso vociare. Il ponte principale era affollato, ma la figura alta e imponente del comandante spiccava ugualmente in mezzo a tutte le altre. La donna si soffermò con lo sguardo ad ammirarne le spalle larghe e i lunghi e lisci capelli biondi, che gli arrivavano al bacino. Tutto, in lui, trasudava una nobile e indiscutibile autorità: e mentre lo guardava fissare le carte che qualcuno gli passava, gli parve tanto fiero e perfetto nella sua assoluta concentrazione, che lei si sentì onorata di essere al suo comando.

«Tenente Anuri sul ponte».

A quell'annuncio, il comandante e i due uomini che aveva a fianco si voltarono a guardare verso la porta. Lei chinò leggermente la testa in segno di saluto, aspettando di ottenere il permesso di avvicinarsi. Il comandante le sorrise amichevolmente, prima di voltarsi: e solo allora, la donna si mosse verso di lui.

«Faloe, finalmente è arrivata» le disse allegro un uomo, alla destra del comandante. Era molto alto, e dall'aspetto massiccio. Il volto era segnato da profonde cicatrici, una delle quali tagliava la folta barba ricciuta e nera in due, all'altezza della gota sinistra.

«Vengo ora dalla Regina» disse lei semplicemente, fissando senza timore negli occhi scuri e spiritati di lui.

«Sta bene?» fece il comandante, senza sollevare lo sguardo dalle carte che aveva tra le mani. Faloe annuì, sorridente.

«Sì, mio signore. Sono lieta di informarla che si è svegliata e che presto potrà incontrarla».

«Molto bene».

Il comandante ripiegò i fogli e li consegnò a un soldato, che venne congedato con un veloce cenno del capo. Quindi, si voltò a fronteggiare i tre che aveva davanti.

«Questa è una buona notizia» disse. «Ha fatto un ottimo lavoro, Faloe, mi congratulo».

«Grazie signore» disse lei.

«Ora non resta che rintracciare le Antiche Rovine» intervenne l'uomo dalle cicatrici. «Ma non dovrebbe essere un problema, visto che abbiamo anche recuperato la Pietra...»

«Lei è uno sciocco, Telonio, se pensa che la Regina accetterà tranquillamente di fare quello che chiediamo» lo frenò il comandante. «Anche se abbiamo ritrovato la Pietra Nainet, solo la regina può attivarla. E nulla mi fa credere che lo farà, senza un valido motivo. È vissuta lontano da tutto questo, probabilmente non capisce nemmeno il perché di quello che le sta accadendo. Saremo fortunati se accetterà di ascoltarci».

«Basterà usare i suoi amici» intervenne l'uomo alla sua sinistra. Era molto alto anche lui, ma dal volto ampio e glabro, e con folti e lisci capelli grigi. La sua voce era profonda e calma e manifestava in ogni suo movimento una sicurezza e una serenità assolute. «Saranno una buona merce di scambio. In fondo, potranno esserci più utili di quello che pensavamo» proseguì.

«E infatti la sua idea di salvarli è stata molto saggia, Lucano» fece il comandante. «Come spesso succede, d'altronde».

L'uomo chinò il capo, in segno di ringraziamento. «La ringrazio signore» disse.

«Cosa che non si può certo dire del suo modo di gestire l'operazione, Telonio».

Tutti si volsero a guardare verso Telonio che, sentendosi improvvisamente al centro dell'attenzione, drizzò il busto, diventando paonazzo.

«Signore, se mi permette...»

«No, non le permetto».

«Io...»

Il comandante si sfilò i guanti. «Le era stato dato il preciso ordine di non attaccare. E lei non ha obbedito».

«Ma loro avevano attaccato per primi!» si giustificò. «Io ho temuto che potessero fuggire e...»

«Telonio, la sua stupidità rasenta l'incredibile. Come avrebbero potuto sfuggirci, a bordo di quel trabiccolo?»

L'uomo fissò prima il comandante, che gli opponeva un ghigno forzato e teso, e poi gli altri, che lo fissavano vacuamente. E provò paura.

«Io...»

«Lei non è degno di far parte dell'Armata del Senato. La sua incompetenza è stata motivo di serio imbarazzo già altre volte, ma la sua fedeltà al popolo di Atlantide fin'ora l'ha sempre salvata».

«Veramente... grazie, signore, io...»

«Tuttavia, non la salverà questa volta».

L'uomo impallidì. Fissava il comandante che in quel momento estraeva dalla cintura un arnese dalla forma simile a un punteruolo.

«La prego, comandante Atys. Io ho solo cercato di fare il mio dovere...»

«Il suo dovere?» disse il comandante, ridendo.

«Ho pensato che...»

«Il suo dovere non è pensare, è obbedire. Ci sono altre persone che hanno il compito di pensare al posto suo. Lei non è che uno stupido essere umano: non ragiona, si lascia prendere dall'emotività. Se la Regina fosse morta a causa della sua sconsiderata condotta, per Atlantide sarebbe stata la fine».

«Non accadrà più, signore, lo giuro».

«Di questo ne sono sicuro».

Due guardie sbucarono come dal nulla alle spalle di Telonio, bloccandogli le braccia e immobilizzandolo. Lui si guardò spaesato intorno, quasi non capisse quello che stava accadendo.

«In ginocchio» fece Atys.

«La prego, mio signore, la scongiuro...»

Le guardie costrinsero il gigantesco Telonio a cadere in ginocchio, colpendolo alle gambe. Lui crollò a terra, singhiozzante.

«La testa, presto» disse Atys, levando il punteruolo. Una delle guardie gli afferrò la testa e la spinse verso il basso, denudando la base del collo. Telonio piangeva, mentre un silenzio di tomba era calato su tutti i presenti.

«La prego, signore» singhiozzava Telonio «Non voglio essere riprogrammato...»

Atys premette il pulsante, che scattò liberando un sottile e lungo ago acuminato. Quindi, con un movimento deciso e veloce, gli sollevò inaspettatamente la testa, conficcandogli il punteruolo dritto sotto la mascella, spingendolo nella carne fino alla base.

«Accontentato» sibilò Atys fissando Telonio dritto negli occhi, che si facevano sempre più spenti e vitrei. Con decisione, estrasse il punteruolo, per poi riconficcarlo con un movimento fulmineo alla base del collo dell'uomo. Con un sommesso gorgoglio, Telonio sputò un grumo di sangue, che colò sulla mano del suo assassino, finché la sua testa non si accasciò sul petto. Con un gesto di disgusto, Atys si sollevò.

«Qualcosa con cui pulirmi, svelti» disse. Subito un soldato gli porse un panno.

«Questa è la fine che faranno tutti coloro che oseranno non rispettare un ordine» fece Atys, rivolgendosi alla folla muta di soldati, mentre restituiva il panno alla guardia. «Nessuno verrà risparmiato».

Nel silenzio generale, mentre ogni soldato tornava al proprio lavoro, Lucano si avvicinò al comandante. «Signore, perché ucciderlo?» chiese. «Avremmo potuto riutilizzare il corpo».

Atys si rinfilò i guanti, quindi si strinse nel mantello che una guardia gli porgeva con deferenza.

«Mi ha chiesto lui di non essere riprogrammato» disse, semplicemente. «E io rispetto sempre il volere dei miei uomini».

«Certamente».

«Ripulite tutto» fece Atys, con un gesto imperioso della mano. «Quel sangue umano puzza da far schifo».

Con un inchino profondo, Faloe e Lucano salutarono il comandante, che lasciò il ponte senza voltarsi indietro. Non appena se ne fu andato, Lucano rabbrividì, lanciando a Faloe uno sguardo carico di terrore.

«Ogni giorno ringrazio gli Dei per avermi fatto stare al suo fianco» mormorò «e prego altrettanto intensamente di finire la mia giornata trovandomi ancora dalla sua parte».

Lei sorrise, restando a fissare la porta dietro cui Atys era sparito. Lucano aveva ragione. Il comandante era davvero terribile. Ed era questa la ragione per cui lei lo amava così profondamente.





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Capitolo 7
*** 6 ***


La mattina seguente, Jean si risvegliò molto più in forze. Divorò tutta la frutta che era stata lasciata in una ciotola davanti al suo letto, trovandola squisita; quindi uscì. Il sole si era appena levato e tutto il villaggio stava lentamente ritornando alla vita.

Si sedette sullo sgabello traballante davanti all'ingresso della capanna, dove il giorno prima si era lasciato con Atahualpa. Due bambinetti giocavano con una capra, proprio davanti ai suoi occhi. Jean li osservava in silenzio, divertito. Il più piccolo dei due cercava disperatamente di montarle in groppa, ma l'animale, per nulla d'accordo, scartava ogni volta, trotterellando via tra le grida eccitate dei due.

C'è qualcosa di sorprendente, in tutto questo, pensò.

Quella gente mancava praticamente di tutto: acqua corrente, vestiti adeguati. Non avevano alcun tipo di comodità. Eppure, in quella loro semplicità e miseria, custodivano il segreto di una felicità che lui credeva di non aver mai posseduto.

Era consapevole che ognuno di quei bambini che ora schiamazzavano allegri in mezzo al fango, sarebbe potuto morire da un giorno all'altro per una sciocchezza qualsiasi. Sarebbe bastata una ferita non adeguatamente curata, o un semplice raffreddore. Ma era proprio il modo in cui quelle persone accettavano la precarietà della loro esistenza, che li rendeva tanto straordinari ai suoi occhi. Vivevano come appesi alla vita, nell'innocente inconsapevolezza di ciò che il mondo fosse al di là di quelle montagne: nulla di spaventoso sembrava realmente in grado di raggiungerli, e toccarli. Erano come inviolabili, e sacri nella loro semplicità. O almeno era così che gli sembravano.

Tutto quello che fanno, è vivere.

Forse era quello il segreto. Nessuna domanda, nessuna risposta. Solo vivere. Chissà se lui ne sarebbe mai stato in grado.

«Ayuda, señor?»

Jean si riscosse. Una bambina gli si era avvicinata e lo guardava attraverso due occhi penetranti e vividi, porgendogli un attrezzo. Jean la fissò per un attimo, senza capire.

«Señor? Ayuda, señor?»

Era il suo arco. Giocando, si era rotto. Jean lo prese tra le mani, ancora stordito dai suoi pensieri. Non era nulla di grave: si era solo spezzata la corda. Con un movimento veloce, Jean fece un piccolo cappio e lo agganciò all'estremità libera dell'arco. Ora era leggermente più teso, ma funzionava.

«Gracias, señor, gracias».

Jean sorrise alla bambina, che già correva via inseguita da un bimbetto più piccolo. Li vide dileguarsi tra le capanne, svelti e agili come gatti: ma poco prima che sparissero entrambi, il bambino si voltò per un attimo, fissando Jean attraverso i suoi lucidi e profondi occhi neri, così scuri e densi che facevano male a guardarli, e sorrise. Jean alzò la mano, in segno di saluto; e il bambino fuggì via, ridacchiando.

«Sembra che tu ti sia fatto due nuovi amici».

Atahualpa si materializzò all'improvviso davanti all'ingresso della capanna. Posò a terra la sua bisaccia e si chinò sulle ginocchia, estraendo da essa una sacca di pelle che serviva da borraccia. Bevve alcuni sorsi, quindi la porse a Jean, che rifiutò cortesemente con un cenno del capo.

«Questa gente è incredibile» mormorò Jean. «Sembra che nulla possa sconvolgerli».

«Chi vive qui, conduce una vita molto dura» disse Atahualpa, fissando intensamente il profilo di Jean. «Ho visto madri accettare la perdita di un figlio senza versare una lacrima. Sono cose che ti segnano».

«Com'è possibile?»

«Qui non c'è posto per il lutto» commentò gravemente Atahualpa, riponendo la sacca per l'acqua. «Pensare alla morte, significa non pensare alla vita. Per ogni figlio che muore, due continuano a vivere: e il dovere di una madre, qui, è prendersi cura di chi ha la forza per sopravvivere, e di lasciare andare chi non l'ha. È duro da accettare, ma comprensibile».

Jean annuì. Anche quei bambini che ridevano felici, erano dei sopravvissuti.

«Comunque è vero» riprese Atahualpa. «Qui non è ancora arrivato quel tipo di infelicità che altrove in molti conoscono».

Jean si piegò in avanti, appoggiandosi con le braccia sulle ginocchia.

«Devo andare» disse. Atahualpa annuì.

«Sono tornato proprio per questo. Per accompagnarti».

Jean scosse il capo. «Io devo andare a cercare i miei amici» disse. «Non ho tempo per altre cose».

«Ma non li troverai, se prima non avrai trovato te stesso. E se anche dovessi trovarli, li perderai ancora».

«Non ho tempo per queste storie» sbuffò Jean. Atahualpa strinse gli occhi, fissando davanti a sé.

«Forse ti accorgerai che il tempo, a volte, è molto relativo» disse.

«Senta, cos'è che vuole da me, esattamente?» chiese Jean, alzandosi e fronteggiandolo con uno sguardo duro. «Le sono grato per avermi aiutato, ma lei da me si aspetta qualcosa che non sono in grado di darle. Si dev'essere fatto di me un'idea sbagliata, prendendomi per qualcuno che non sono».

«E non è la storia della tua vita, Jean? Essere quello che non sei?»

Lui tacque, sorpreso da quanto gli aveva appena detto. Avrebbe voluto rispondere, ma non trovava le parole per farlo.

«Se vuoi veramente salvare i tuoi amici, dovrai fidarti di me» disse il vecchio. «Non hai altra soluzione».

«Insomma, sono costretto a fare quello che vuole, non è così?»

«No» fece Atahualpa, scrollando le spalle. «Puoi sempre andartene, se è questo che vuoi. Quella è la strada. Nessuno ti fermerà».

Jean si volse a guardare il sentiero, che si avvolgeva lentamente lungo il fianco del monte. «Non ho la minima idea di dove ci troviamo» confessò. «Non saprei dove andare, da solo».

«Non è forse così per tutti?»

Atahualpa sospirò, lanciando a Jean uno sguardo divertito.

«Raccogli la tua roba» disse. «Abbiamo già perso anche troppo tempo».

Jean restò immobile a fissare Atahualpa, che già si incamminava lungo il sentiero.

«Allora, vieni?» gli gridò il vecchio. Jean raccolse la sua sacca e gli si incamminò dietro, accelerando il passo per raggiungerlo.

«Può almeno dirmi dove siamo diretti?» gli chiese. Il vecchio nicchiò.

«Presto lo scoprirai. Non devi avere fretta».

Jean si risolse a seguirlo senza fare altre domande. Non sapeva perché lo stesse facendo: una voce, dentro di sé, continuava a dirgli che quel vecchio era strano, e avrebbe fatto meglio a non fidarsi troppo di lui. Ma un'energia nascosta lo costringeva a seguirlo, come un richiamo a cui la parte più segreta del suo animo aveva risposto prontamente. Qualcosa gli diceva che seguire quel vecchio avrebbe significato rispondere a tutte quelle domande che da troppo tempo giacevano inevase nel suo cuore. E lui aveva un bisogno tremendo di risposte.

Man mano che procedevano, lasciandosi le ultime capanne alle spalle, il sentiero diventava sempre più impervio e scosceso. Non erano trascorsi che pochi minuti da quando avevano abbandonato il villaggio, ma Jean era già del tutto esausto. Per quanto cercasse di stare dietro ad Atahualpa, il vecchio era molto più a suo agio di lui nello scalare la ripida vetta del monte; Jean invece, ancora piuttosto debole, non faceva che fermarsi per riprendere fiato. Atahualpa, ogni tanto, si voltava per assicurarsi che il ragazzo lo seguisse: e allora, vedendolo arrancare, gli rivolgeva qualche rapido cenno col capo, perché non rimanesse troppo indietro. Ma tutto finiva lì. Nessuno diceva una sola parola, e camminavano immersi in un completo silenzio.

Dopo diverse ore trascorse in quel silenzio innaturale, persino il rumore sordo dei passi che si stampavano sulla roccia sembrava fastidiosamente forte. Jean ascoltava il vento fischiare tra le cime brulle dei monti, che svettavano alte e spruzzate di ghiaccio sopra le loro teste. Sotto di loro, più in basso, un cielo completamente azzurro si specchiava in un lago dalle acque cristalline, incastonato come una gemma tra le montagne. Tutt'intorno, non si vedeva che roccia e polvere: e la monotonia che avvolgeva quei luoghi era rotta solo da qualche rado cespuglio, che spuntava dal suolo come attraverso uno strappo in quella terra lacerata dal sole e dal vento.

Inaspettatamente, Atahualpa prese a canticchiare sommessamente una canzone; e Jean, ancora stretto da quel vuoto opprimente che lo circondava, levò gli occhi a fissarlo, sorpreso.

«Che canzone è?» gli chiese. Non che avesse una gran voglia di fare conversazione: quel silenzio in cui si erano calati gli piaceva. Era confortante, in un certo senso. Ma aveva bisogno di rallentare, e di recuperare un po' di energie.

Atahualpa si fermò per un istante, sollevando gli occhi a scrutare l’orizzonte.

«È solo una vecchia canzone della mia tribù» disse, prima di riprendere a camminare.

«E cosa dice?»

Il vecchio si arrestò, estraendo dalla bisaccia la sacca per l’acqua, che porse al ragazzo. Lui la prese, ringraziandolo.

«Ti interessa davvero?»

Jean lo fissò incuriosito, mandando giù un sorso d’acqua. «Beh, sì. Altrimenti, perché lo avrei chiesto?»

«E perché ti interessa?»

Jean rimase a guardarlo senza sapere cosa aggiungere. «Io... non ne ho idea» confessò.

«Se non ne hai idea allora non ti interessa. Non veramente».

«Se non vuole dirmelo...»

Atahualpa scosse la testa.

«Io non ho detto che non voglio dirtelo. Ho solo detto che se tu non possiedi una ragione valida per cui la cosa debba interessarti, allora vuol dire che non ti interessa, e non ha senso che ti risponda».

«D'accordo, lasciamo perdere» fece Jean, stizzito.

«Come vuoi» concluse Atahualpa.

Camminarono in un rinnovato silenzio per una buona mezz'ora. Tutto intorno a loro, il paesaggio aveva progressivamente mutato aspetto. Ormai la foresta non si vedeva più, nascosta dalle curve nodose delle montagne. Non c'era traccia di anima viva, né un qualche segno del passaggio dell'uomo: in quel vasto deserto di roccia e sale che li circondava, persino l'aria sembrava ansiosa di fuggirsene via. Jean si accorse che ormai faceva fatica a respirare. Aveva tenuto duro finché aveva potuto, ma ora cominciava a sentirsi davvero esausto.

«Non potremmo fermarci, almeno per un po’?» disse. «È tutta la mattina che camminiamo. Non ce la faccio più».

Atahualpa fece finta di nulla, continuando a risalire il sentiero e facendo cenno a Jean di seguirlo. Sbuffando, lui cercò di tenergli dietro. Ma il fastidio, dentro di lui, cresceva. Non aveva idea di dove quel tipo lo stesse portando. Di certo, non dai suoi amici. Ma si rendeva anche conto, e questa era la cosa che lo infastidiva di più, che da solo non avrebbe mai potuto uscire da quelle montagne, né tanto meno sperare di ritrovare le tracce dei suoi amici. Per quanto fosse un pensiero odioso, doveva andare avanti, e affidarsi a quell'uomo assurdo.

Man mano che risalivano lungo il crinale, il sentiero si faceva sempre più impervio. Talvolta, Jean metteva il piede su una roccia acuminata, che gli procurava un dolore intenso, o su un ciottolo, che scivolava via da sotto i piedi inaspettatamente, rischiando di farlo cadere. Le sue scarpe di cuoio non erano certo l'ideale per percorrere quel genere di sentieri. Ci mancava solo che cadesse spezzandosi una gamba, o peggio.

«A che altezza ci troviamo, su per giù?» domandò Jean, lasciando che il suo sguardo si spingesse timorosamente fino al fondo dell’abisso che li fiancheggiava sulla loro destra.

«Molto in alto» rispose semplicemente Atahualpa. A quella risposta, Jean scrollò le spalle.

«Ma che razza di risposta è?» fece, innervosito dalla stanchezza e dalla tensione che gli procurava la vicinanza di quel precipizio. «Non potrebbe sforzarsi di rispondere in maniera più comprensibile, una volta tanto?»

«Non va bene?» disse Atahualpa. «Allora vediamo... è alto a sufficienza perché tu ti faccia molto male se cadi. Pensi sia meglio?»

«Oh, sì. Illuminante, davvero».

Atahualpa allargò le braccia. «Eppure sono convinto di averti detto tutto ciò che davvero dovrebbe interessarti, non pensi? Un metro, due, duecento, duemila... cosa conta? Che differenza fa? Ciò che devi sapere è: se cado, cosa succede?»

Jean lo ascoltava in silenzio. La follia di quell’uomo rasentava una qualche forma di genialità che però continuava a risultargli del tutto oscura. Per quanto lo riguardava, Atahualpa riusciva soltanto a indispettirlo. Sembrava che volesse continuamente metterlo alla prova, con quelle sue frasi sconclusionate.

«Ebbene» continuò Atahualpa «se cadi da qui, muori».

«Già» commentò ironico Jean, guardando in basso. «Chissà perché, ma non c’ero arrivato».

Il vecchio sospirò. «Voi giovani mi incuriosite. Quando dovete fare qualcosa, vi concentrate su quello che non conta niente, mentre vi lasciate sfuggire quello che è veramente importante» sospirò. «Mi chiedo come mai».

«Questo è un discorso senza senso» osservò seccamente Jean, che cominciava ad averne fin sopra i capelli dell'atteggiamento del vecchio. «Esattamente come le sue risposte».

«Prendi la domanda che mi hai appena fatto» riprese Atahualpa, come se niente fosse. «Perché avevi bisogno di sapere quanto è alto il monte? A che ti serviva? Ti è utile in questo momento? Non stai facendo una ricerca geografica, o sbaglio?»

«No, era una semplice curiosità».

«Curiosità!» sbuffò Atahualpa. «Se riesci a essere curioso a quest’altezza, vuol dire che non sei abbastanza attento a dove metti i piedi. Quindi non fare altre domande sciocche, e ti basti sapere quello che serve: il monte è alto e se cadi muori».

Al diavolo!

Camminarono ancora a lungo. Il sole, ormai basso all’orizzonte, li raggiungeva con i suoi raggi stanchi e obliqui, che spargevano tutt'intorno un colore morbido e caldo. Jean si guardò intorno, meravigliato: improvvisamente, era come se tutto intorno a loro si fosse acceso del colore del fuoco; persino i loro volti sembravano ardere e le loro ombre, come quelle di due giganti, si allungavano all'infinito sulle pareti di roccia bruna.

Jean lanciò un occhiata torva alle spalle di Atahualpa. Aveva le gambe doloranti e non si sentiva più i piedi. Si portò una mano alla schiena: avvertiva un dolore sordo e continuo, che lo raggiungeva a ondate, succhiandogli ogni energia residua. Si chiese per quanto tempo ancora avrebbero dovuto camminare.

«Ci fermiamo qui» esclamò all'improvviso Atahualpa, scrutando il cielo. «Qui va bene».

Jean trasse un sospiro di sollievo. Posarono le loro cose in una rientranza conica, sormontata da uno sperone di roccia che forniva anche un certo riparo dalle intemperie. In quel punto il sentiero era abbastanza grande perché potessero sdraiarsi comodamente, senza rischiare di cadere di sotto. In poche mosse, Atahualpa raccolse degli sterpi e dei rami secchi e accese un fuoco, così velocemente che Jean non se ne rese nemmeno conto.

«Ehi!» esclamò meravigliato. «Ma come ha fatto?»

Atahualpa lo fissò stranito. Quindi gli mostrò una piccola scatolina che prese a scuotere, facendola risuonare.

«Mai sentito parlare dei fiammiferi?» ironizzò. Jean si sentì un perfetto idiota. Quel vecchio aveva la capacità di annichilirlo.

«Tu resta qui» gli fece Atahualpa. «Io torno in un attimo».

Jean lo lasciò allontanare ben volentieri; quindi si sedette, cercando di rilassarsi. Si sfilò le scarpe e controllò preoccupato i piedi. Come temeva, li trovò pieni di vesciche. Sarebbe stata dura rimettersi in cammino, in quelle condizioni.

Esausto, si sdraiò, mettendosi a fissare il panorama e cercando di scacciare le preoccupazioni almeno per un momento. Davanti a lui si ergeva un massiccio montuoso completamente innevato, dal profilo irregolare e scosceso. Più in basso, tra gli stretti crepacci, si apriva un abisso costellato da guglie di roccia, che si protendevano verso il cielo come tante colonne di un’immensa cattedrale.

Completamente solo, Jean ammirava quello spettacolo sorprendente. Era facile, in un luogo come quello, perdere il senso della propria centralità: e fu così che, dimentico di tutto, Jean si ritrovò a fissare l’orizzonte senza parole, finché non si sentì tanto piccolo e insignificante che sentì che avrebbe anche potuto dissolversi da un momento all'altro, senza che nulla di lui andasse perso. Un senso di stupore e di meraviglia lo colse: non era che una piccola, infinitesima parte di un universo grandissimo che solo in quel momento gli si rivelava, sopraffacendo i suoi sensi; e quella consapevolezza precisa, quel sentirsi parte di qualcosa di così grande, lo riempiva fino a spezzare gli argini della sua anima, procurandogli una gioia inattesa e irrazionale. E per un istante fu come se l'eternità del mondo si riversasse, improvvisa e violenta, nel suo cuore.

Atahualpa tardava. Incuriosito, Jean si infilò le scarpe e si mise dolorosamente sui suoi passi. Appena ebbe voltato l’angolo, tuttavia, notò che il sentiero si biforcava: da una parte si inerpicava ripido su per il crinale, mentre dall’altra continuava a salire dolcemente, per poi perdersi nel buio. Jean scelse di percorrere la parte più semplice: ma dopo alcuni metri, non vedendo comparire Atahualpa all’orizzonte, si fermò, tormentato dal dolore ai piedi e timoroso del buio che avanzava lungo il sentiero. Fece per tornare indietro, e fu allora che gli apparve: su una cresta di roccia a poca distanza da dove si trovava, Jean vide Atahualpa in piedi, che guardava verso il cielo. All'improvviso, il vecchio sporse un braccio: e una splendida aquila apparve alta nel cielo, un punto solitario contro il sole all'orizzonte. Jean ne fissava la lenta discesa come ipnotizzato: e dopo ampie volute, la vide andare a posarsi delicatamente e con estrema eleganza sul braccio del vecchio. Atahualpa raccolse qualcosa dal becco dell'animale, che infilò nella bisaccia. Quindi avvicinò il viso alla testa bianca dell'aquila, che lo becchettò delicatamente sulle gote. Il vecchio rise e lasciò che l'animale volasse via, di nuovo libero.

Jean ritornò pensieroso all’accampamento, pensando che fosse meglio evitare di parlare di quanto aveva visto. Chissà perché, ma aveva l’impressione che ciò a cui aveva involontariamente assistito fosse una cosa intima, su cui non aveva il diritto di indagare.

Atahualpa giunse di lì a poco, lanciando a Jean un sorriso raggiante. «Cibo» disse, mostrandogli il corpo di una specie di topo, che estrasse dalla bisaccia. Jean lo fissò incredulo.

«Dovremmo mangiare quello?» chiese disgustato. «Ma non è un topo?»

«Un toporagno, per l’esattezza. Molto saporito. Poche ossa e carne tenera, una vera delizia. Assomiglia al coniglio».

«Davvero?»

«Se ti sforzi di crederci, sì» rise Atahualpa. E Jean non poté fare a meno di ridere con lui.

Cenarono in silenzio, e Jean mangiò di gusto. Non era poi così male, doveva ammettere. Dopo che ebbero terminato il pasto, Atahualpa raccolse le ossa rimaste e le bruciò, non prima però di averle riunite legandole insieme con un laccio di lana colorato. Jean restò a fissare il volto concentrato del vecchio, che risplendeva come trasfigurato dalla luce calda del fuoco, mentre mormorava alcune parole inudibili.

«Perché lo ha fatto?» gli chiese, quando ebbe terminato. Il vecchio sollevò gli occhi a guardarlo.

«Per ringraziarlo. Lui ha dato la sua vita perché potessimo nutrirci. Il nostro dovere era rendere omaggio alle sue spoglie e donargli una preghiera di ringraziamento».

«E crede che a lui possa servire?» domandò Jean. Nella sua domanda non c’era alcun intento canzonatorio e Atahualpa lo capì, tanto che gli sorrise.

«A lui forse no, ma serve a noi, per ricordarci che non saremmo nulla se non avessimo intorno a noi questo mondo e gli esseri che lo abitano. Sono due cose da cui dipendiamo totalmente, anche se spesso facciamo finta di dimenticarcelo. Ringraziare ogni tanto non può farci che bene, non credi?»

Jean sorrise e annuì. «Penso che abbia ragione» disse.

Atahualpa estrasse una pipa e la riempì di tabacco. Quindi la accese, e il suo volto, per un istante, scomparve avvolto in una nuvola di fumo denso. Prese a fumare a boccate ampie e lente: e intanto fissava Jean con curiosità, stringendo gli occhi sottili e brillanti. Il fuoco del falò si riverberava sulla sua pelle scottata dal sole, gettando ombre tutt'intorno.

«Sai?» disse, meditabondo «Sei un ragazzo interessante. Non molti avrebbero capito quello che ho fatto, prima. E non molti avrebbero avuto la delicatezza di non domandare riguardo a ciò che tu hai visto questo pomeriggio».

Jean arrossì violentemente. «Mi scusi, io...»

«Non c'è bisogno!» rise il vecchio. «Ma apprezzo il tuo gesto. E la tua delicatezza».

Lo fissò con uno sguardo divertito, il volto ampio avvolto da una spirale di fumo grigio e denso.

«Ciò che hai visto ti ha stupito?» domandò. Jean annuì.

«Sembrava che conoscesse molto bene quell'aquila».

Atahualpa sorrise debolmente.

«Devi sapere che quell'aquila è un mio vecchio amico, qualcuno che da molti anni mi accompagna quando ripercorro questa strada. Ogni anno siamo sempre più vecchi, lui ed io, ma continuiamo ad incontrarci. Già, continuiamo a incontrarci...»

Jean vide passare una strana luce negli occhi di Atahualpa. Era come se, improvvisamente, il volto del vecchio avesse preso a riflettere tutto il peso del mondo. E si intenerì, al pensiero di quanto quell'uomo, all'apparenza tanto forte, fosse in realtà un uomo semplicemente solo.

«Lei viene quassù tutti gli anni?» azzardò.

«Tutti gli anni, sì» rispose tranquillo Atahualpa. «Questo è un luogo sacro, un luogo che la mia tribù ha consacrato migliaia di anni fa. Devo venire qui, ogni anno, a rendere omaggio agli antenati e a consultare il libro dei sogni».

«E cosa sarebbe?»

Atahualpa sospirò. «Una nostra leggenda racconta che gli dei discesero fin qui dalle stelle; ma arrivati sulla Terra, videro con sgomento che nulla in essa esisteva. Non era che un immenso spazio vuoto, un caos. Tristi e spaventati, essi cercarono rifugio per la notte e si addormentarono su questi monti. E nel sonno, sognarono che si trovavano sulla Terra e che camminavano sopra di essa; e mentre camminavano, tutto intorno a loro sorgevano cose che non avevano mai visto prima e ad ognuna di esse loro presero a dare un nome. E tutto ciò che trovavano e nominavano cominciava magicamente ad esistere e a vivere e così riempirono la terra di suoni, di canti e di vita. Perché devi sapere che tutto questo lo facevano cantando».

Atahualpa fece una pausa, aspirando una nuova boccata di fumo, che esalò con estrema lentezza, come se volesse gustarne fino all'ultimo il sapore.

«Al loro risveglio, la terra era fiorita di tutte le cose meravigliose che avevano sognato e cantato ed essi presero a vivere in essa e ad amarla. E fu allora che crearono l’uomo e gli insegnarono il mistero dei sogni e dei nomi. Ma poiché videro che ne abusava, glielo tolsero e lo posero nelle mani di pochi di loro, che sceglievano personalmente durante il sonno. Da allora, essi presero a visitare nel sogno i futuri possessori del dono, indicando loro i segreti di quell’arte misteriosa. Coloro che ricevevano la chiamata dovevano recarsi qui, sulla sommità di questo monte sacro, per completare un rito. Se fossero ridiscesi, sarebbero diventati stregoni. Altrimenti, sarebbero morti nel tentativo di diventarlo. Ogni stregone deve quindi tornare qui una volta ogni anno, e consultare il libro del destino, il libro dei sogni attraverso cui ci parlano gli dei».

«Quindi» chiese Jean «anche se si riceveva la chiamata, non era sicuro che si potesse diventare stregoni?»

«No. Solo chi, giunto sul monte, riceveva la visita del proprio spirito guida, poteva diventarlo. Ma chi non incontrava lo spirito, perché per qualche ragione si era mostrato indegno, sarebbe impazzito e non avrebbe mai ritrovato la strada del ritorno. Ancora oggi, noi crediamo che qui si aggirino gli spiriti di coloro che si sono smarriti e che sono divenuti i guardiani della città proibita, la città sacra di Tiahuanaco».

Improvvisamente, un velo di tristezza calò sul volto del vecchio, che si zittì. Jean se ne accorse e provò una stretta al cuore.

«Ma ormai sono rimasto solo io» riprese stancamente Atahualpa. «E presto raggiungerò anche io i miei padri».

«Sa quando le ho chiesto di dirmi della canzone?» disse Jean all'improvviso. Atahualpa annuì, senza alzare gli occhi.

«Volevo sapere quello che diceva, perché mi sembrava una canzone molto triste. Mi chiedevo quale fosse il suo significato. Volevo capirlo, per sapere cosa può spingere qualcuno a scrivere una musica così malinconica».

Atahualpa sospirò, lanciando a Jean uno sguardo penetrante. «Questa è una motivazione molto buona» disse, «perciò ti dirò cosa significa».

E con voce sottile, Atahualpa prese a recitare alcuni versi:


Non importa che come pietre preziose

lo stesso filo ci unisca,

non importa che noi ci troviamo uniti

come gemme della stessa collana

amico mio, mio veramente amico,

per un volere più grande ci amiamo

e come te anche io so

che solo una volta si vive

e che un giorno ce ne andremo.

Solo per conoscerci siamo venuti

Solo in prestito abbiamo avuto la Terra.

Jean ascoltò in silenzio e per molto tempo dopo che Atahualpa ebbe finito di cantare, non commentò nulla. Quindi, all’improvviso «è molto triste, davvero» disse.

«Sì» annuì il vecchio. E prese a pulire e riporre la pipa con gesti lenti e accurati.

«Mi ricorda una vecchia amica» sospirò Jean. Teneva lo sguardo fisso sul fuoco, come se fosse perso in chissà quali ricordi. E nel vederlo così assorto, Atahualpa sorrise teneramente.

«Se è così, un grande amore vi unisce» disse. «L’amore più grande».

Jean abbassò lo sguardo, giocherellando con il colletto della propria camicia.

Forse un tempo, pensò. Ora non più.

«Però» riprese a dire Jean «mi sembra incompleta».

«Dici?» fece Atahualpa.

«Sì... è come se mancasse una redenzione, alla fine».

Atahualpa sorrise, socchiudendo gli occhi. Quindi spostò lo sguardo sul cielo, dove brillavano le stelle, a milioni.

«Perché non è ancora stata scritta» disse. Jean lo guardò e vide che ora lui lo fissava intensamente.

«Su, dormiamo» fece poi, il vecchio. «Domani ci attende ancora molta strada».

Mentre fissava le stelle, sdraiato accanto al fuoco, Jean pensava ancora al significato di quella canzone.

Per un volere più grande, ci amiamo.

Forse era quella la risposta che cercava. Anche se ancora non riusciva a capire a quale, delle tante domande che lo assillavano, potesse rispondere.

Ma forse, anche per questo aveva una risposta. Gliel'avevano insegnata quei bambini, al villaggio. Si trattava di vivere, semplicemente.

Per un volere più grande, ci amiamo...

Se era così, bastava aspettare, lasciando echeggiare la risposta nel proprio cuore finché la vita non si fosse manifestata. Non aveva fretta, avrebbe aspettato. Se quella fosse stata la risposta, allora lui l'avrebbe aspettata finché era necessario, finché non si fossero trovati a rispondere insieme alla vita.

E così, ebbro di una nuova speranza, si addormentò.

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Capitolo 8
*** 7 ***


«Ehi? C'è qualcuno?»

Con le mani incollate alla parete metallica, Sanson si alzò faticosamente in piedi. Aveva un mal di testa tremendo, e non ricordava nulla. Tutto quello che sapeva, era che si trovava in gabbia, completamente buio. E la cosa non gli piaceva per nulla.

Maledizione...

Non che avesse paura; ma doveva ammettere che risvegliarsi da solo, in quella specie di buco, gli aveva gettato addosso una certa agitazione. Il cuore batteva convulsamente, una sensazione scomoda perché piuttosto nuova per lui, per nulla abituato a simili attacchi di panico. Di solito non aveva difficoltà a mantenere il controllo, o almeno era bravo a dare quest'impressione; ma stavolta, sentiva che le cose avrebbero preso una piega del tutto diversa.

«Ehi! Volete decidervi a rispondermi? C'è qualcuno?»

Tanto per cominciare, non riusciva a controllare le proprie emozioni. Era più forte di lui. Qualcosa, in seguito all'incidente, doveva averlo scosso. O forse era proprio il fatto che non ricordava nulla di quanto fosse successo a lui e agli altri, che lo rendeva tanto ansioso. Perché non ricordava? Ricordare gli avrebbe permesso di capire come fosse finito in quella cella. Ma tutto quello che gli era rimasto, dei momenti terribili che avevano preceduto lo schianto, era il rumore assordante del dirigibile che precipitava, e le grida, tutt'intorno a lui. Solo a pensarci, sentiva ancora il corpo scosso dai brividi e dell'adrenalina. Ma per il resto, niente di niente. Per quanto ne sapeva, poteva benissimo essere morto; e magari quel buco orrendo e pieno di buio in cui si trovava non era nient'altro che il suo personalissimo inferno.

«Hanson! Rebecca! Qualcuno riesce a sentirmi? Jean!» gridò. Ma più urlava, più la sua voce gli suonava debole e ovattata, come se qualcosa in quella stanza, forse il buio stesso, facesse di tutto per risucchiarla. E più chiudeva gli occhi, rifugiandosi contro la parete, nella vana speranza di sottrarsi così a quel buio opprimente, più cresceva l'impressione che qualcosa di invisibile fosse in agguato nell'ombra, qualcosa di strisciante che lentamente lo stava circondando per poi schiacciarlo, inesorabile, tra le sue spire.

Ok, datti una calmata.

Doveva cercare di stare tranquillo. E di pensare.

Forza, fai un bel respiro. Dopotutto, sei ancora vivo.

Aprì gli occhi. Ma il buio che lo circondava da ogni dove lo costrinse dolorosamente a serrarli di nuovo. Odiava il buio. Era l'unica cosa di cui aveva paura, fin da quando era bambino.

Non è niente, non è niente...

Un rumore improvviso lo fece trasalire. Sudava. E la testa gli pulsava da far male.

Si rannicchiò lentamente, portandosi le mani alle orecchie e serrando strettamente gli occhi.

Stai calmo...

Quel rumore...

È solo la tua immaginazione. Devi stare calmo.

Sanson si racchiuse su se stesso, coprendosi la testa con le mani e ravvicinando le ginocchia al petto. Immobile, tremante, combatteva nel suo cuore una battaglia solitaria, contro un nemico invisibile. Ma per quanto lottasse, per quanto cercasse in tutti i modi di chiudere la mente ai propri spettri, essi erano sempre lì, davanti ai suoi occhi e più che mai vivi, a nutrirsi del buio in cui lui si sentiva sempre più sprofondare. E sebbene cercasse disperatamente di sfuggirvi, con gli occhi sbarrati che annaspavano in cerca di una luce qualsiasi, tutto quello che continuava a trovare era solo buio, e ancora buio. E in quel buio, come gli accadeva ogni volta che chiudeva gli occhi da quando era bambino, vide uomini vestiti da soldati irrompere dalla porta di casa sua, tra le grida e il suono secco e perentorio degli spari; e suo cugino, accanto a lui, che trattiene i singhiozzi, mentre lo stringe forte tra le braccia. Al buio, dentro un ripostiglio puzzolente, gli preme forte una mano sulla bocca, quasi soffocandolo.

Zitto, Sanson! Non devi fare rumore.

«Sanson? Ehi, Sanson... sei tu?»

Sanson trasalì. Si volse, cercando di capire da dove provenisse quella voce.

«Hanson?» fece, improvvisamente pieno di speranza. Si terse le lacrime dagli occhi. «Dove sei?»

Un rumore sordo gli giunse dalla parete alle sue spalle. Sanson si volse, tendendo le mani e avanzando con passo incerto finché le sue dita non arrivarono a toccare la liscia parete metallica, proprio di fronte a lui.

«Hanson? Ci sei ancora?»

«Sì, sono qui» rispose l'altro in un sussurro, la voce impastata come se qualcuno l'avesse appena sbattuto giù dal letto. Sanson si avvicinò alla parete dietro la quale si trovava Hanson, tastandola in ogni sua parte. Non c'era traccia di aperture o di maniglie. La voce gli giungeva dall'alto: forse c'era una bocchetta per l'areazione ma era impossibile vederla, con tutto quel buio. Sanson provò ad allungarsi, ma per quanto si sforzasse non trovò nulla.

«Dove siamo?» mugolò Hanson, oltre la parete. «Mi fa male la testa...»

«Siamo in trappola, direi» mormorò Sanson in tutta risposta. Dall'altra parte del muro, sentì le mani di Hanson sfregare ansiose contro la parete.

«Mi sa che hai ragione» ammise Hanson. «Comunque, sono contento di sentirti. Per un attimo, ho avuto paura di essere rimasto solo. Ho anche pensato di essere diventato cieco, pensa un po'».

«Cieco? E perché?» scherzò Sanson, ormai rinvigorito. Continuava a cercare qualcosa lungo la parete, anche se non sapeva bene nemmeno lui cosa.

«Per il buio, no? Che domanda!» fece Hanson. Sanson rise, accorgendosi della preoccupazione che suo cugino tentava di dissimulare.

«Ma quale buio? Non è che sei diventato cieco per davvero?»

Dall'altra parte del muro, Hanson prese ad agitarsi. «Cosa?» gridò, portandosi le mani agli occhi. «O mio dio! Sono cieco? Sono cieco davvero?»

Sanson scoppiò a ridere di gusto. Per quanto la situazione non fosse delle migliori, prendere in giro suo cugino gli aveva fatto riacquistare gran parte della sua consueta spavalderia. Ora che aveva dimenticato tutte le sue paure, si sentiva decisamente meglio.

«Sanson? Sanson, rispondimi... sono cieco? Sono cieco davvero?»

«Smettila di frignare» fece Sanson, ridendo. «Sei proprio un idiota. Ti stavo solo prendendo per i fondelli».

«Razza di cretino» bofonchiò Hanson, decisamente sollevato. «Solo una bestia come te può trovare divertente una situazione simile».

«D'accordo, ora sta' zitto e ascoltami» tagliò corto Sanson. «Vedi se riesci a trovare una porta, o qualcosa del genere».

Per quanto cercassero, né Sanson né Hanson riuscirono a trovare la minima fessura. Le pareti delle celle erano come fuse insieme in un unico, resistentissimo blocco. In preda all'ira, Sanson scagliò un pugno contro il muro, producendo un gran frastuono metallico, che risuonò tutt'intorno in modo assordante. Hanson sussultò, sorpreso.

«Ma che diavolo hai in quella testa?» esclamò. «Vuoi metterci ancora più nei guai?»

«Odio stare qui» ringhiò Sanson, appoggiato alla parete con i pugni stretti «chiusi in questa maledetta gabbia, come fossimo cavie».

«Lo so, io...» Hanson abbassò la voce. «Senti» domandò, titubante «che ne sarà degli altri? Voglio dire... pensi che stiano bene?»

Sanson si prese un po' di tempo prima di rispondere. Quella era una cosa a cui effettivamente non aveva ancora pensato. L'eventualità che potesse essere accaduto loro qualcosa non l'aveva nemmeno sfiorato, almeno fino a quel momento.

«Certo che stanno bene» fece, elusivo. «Perché non dovrebbero?»

«E allora perché non sono qui con noi?»

«Forse non si sono ancora svegliati. Ma che domande mi fai?» rispose Sanson, piuttosto seccamente. «Cosa vuoi che ne sappia...»

Effettivamente era molto strano, ma il fatto che gli altri del gruppo non fossero lì con loro, non significava nulla. Magari era vero che non si erano ancora svegliati, e che erano lì, in qualche cella accanto alla loro, sani e salvi. Solo che lui e Hanson non potevano sentirli.

«Sarà» fece Hanson, poco convinto. «Ma se...»

«E smettila di pensare a queste scemenze» lo interruppe Sanson, con una foga che suonò eccessiva persino a lui. «Vedrai che stanno tutti bene. Per il momento il nostro problema è un altro, e cioè come uscire di qui».

Con un improvviso scatto metallico, la porta della cella si aprì e una violenta luce bianca investì Sanson in pieno. Lui chiuse gli occhi, sollevando istintivamente il braccio, a cercare riparo da quella luce abbagliante.

Deglutendo nervosamente, Sanson si costrinse a guardare: ferma sulla soglia, intravide quella che gli pareva una figura sottile, niente più che un'ombra affilata che tagliava in due la luce. Fu solo quando dei fari si accesero all'improvviso, illuminando la cella di una fredda luce giallognola, che Sanson, sbattendo confuso le palpebre, riuscì a distinguere in quell'ombra allungata il corpo elegante di una giovane e bellissima donna. Smarrito, rimase a guardarla come paralizzato dalla sua stupefacente bellezza: ma più la osservava, più notava che quel suo volto all'apparenza così pallido e delicato risultava, allo stesso tempo, duro e freddo come porcellana. Solo i suoi occhi, per quanto lei si mostrasse lontana e irraggiungibile nella sua compostezza, tradivano il segreto di un'anima profondamente inquieta, che lui riconobbe subito perché così simile alla sua. E se ad un primo sguardo anche quei suoi occhi straordinari potevano sembrare fissi e inespressivi come il resto del volto, ecco che un improvviso bagliore arrivava allora a colpirli, facendoli così splendere come vetro fuso, dietro il velo di apparente ritrosia a cui si nascondevano.

Lei entrò, seguita da due uomini in uniforme: e Sanson, nel trovarsela improvvisamente così vicina, avvertì qualcosa di strano emanare da quel corpo tanto perfetto, ma vuoto. Un'aura di mistero e di inflessibile solitudine aleggiava attorno a quella donna dall'aspetto inespugnabile. Era solo una sensazione, ma di quelle che da sempre Sanson aveva imparato ad ascoltare, fin da quando si era trovato, ancora bambino, a dover lottare per poter sopravvivere. E anche in quel momento, il suo istinto gli fece vedere ciò che altre volte in passato lo aveva spinto a voltarsi e fuggire, senza pensarci due volte. C'era qualcosa di strano in quella donna, qualcosa che puzzava terribilmente di morte e di sofferenza e che gli ricordava tutto ciò che di più terribile aveva vissuto, nella sua vita disordinata. Lo avvertì chiaramente: e mentre lei lo fissava in quel modo inesplicabile, quasi si trovasse di fronte a un oggetto inanimato e senza valore alcuno, Sanson indietreggiò di un passo, desiderando con tutto se stesso di sottrarsi a quello sguardo gelido e terrificante al tempo stesso.

«E voi chi diavolo siete?» ringhiò, come una bestia in trappola. «Si può sapere perché ci avete rinchiuso qui come cani?»

«Érkou» rispose lei, quasi in un sussurro. Davanti a quella voce inaspettatamente rassegnata, Sanson socchiuse gli occhi scuotendo il capo, sorpreso.

«Cosa?»

«Kinou!» disse lei, di nuovo. E i lineamenti del suo volto si fecero all'improvviso più duri e taglienti.

«Io non...»

«Sfò» fece la donna, rivolgendo alle due guardie un'occhiata annoiata ma decisa. «Labeté auton».

Lei si fece da parte, lasciando che i soldati entrassero nella cella. In men che non si dica, Sanson si ritrovò completamente immobilizzato e trascinato fuori per le braccia a viva forza. Dall'altra parte della parete, Hanson, al buio, continuava a premere l'orecchio contro il muro, cercando disperatamente di capire cosa stesse accadendo.

«Sanson! Ehi, Sanson» gridò allarmato, picchiando a mani aperte contro la parete. «Cosa succede? Chi c'è lì con te? Sanson!».

«Lasciatemi!» ruggiva Sanson. «Dove credete di portarmi, maledetti?»

Senza alcun preavviso, la donna estrasse qualcosa dalla cintura, un piccolo oggetto metallico dalla forma affilata. Con un movimento veloce e aggraziato lo puntò al collo di Sanson fissandolo dritto negli occhi. Non appena lui ne avvertì il tocco gelido, una fortissima scossa gli attraversò più e più volte tutto il corpo. Gli occhi freddi e spenti di lei furono l'ultima cosa che vide, prima di cadere svenuto.


*


«Signora?»

Nadia si volse. Una giovane donna che non aveva mai incontrato prima se ne stava in piedi davanti a lei, con la testa china sul petto e lo sguardo fisso a terra. Nadia le rivolse uno sguardo tra il sorpreso e il curioso. Aveva appena terminato di vestirsi: era ancora piuttosto debole, ma non ce la faceva più a restare confinata a letto. Voleva incontrare i suoi amici.

«Oh, salve... non mi ero accorta che fosse entrata» disse. «Mi chiedevo...».

«Il comandante mi ha pregato di portarvi i suoi saluti e le sue felicitazioni per la vostra riacquistata salute».

«Sì... ringraziatelo e...»

«Mi è stato ordinato di assistervi per tutto il tempo necessario. Sono ai vostri ordini».

Nadia scosse nervosamente la testa. Perché quella donna non la lasciava parlare?

«Mi ascolti, io...»

«Prego, voglia seguirmi da questa parte».

Lei restò a fissarla senza parole. Il suo era senz'altro uno strano concetto di disponibilità... sembrava del tutto decisa a non rispondere a nessuna delle sue domande, anzi: probabilmente non le avrebbe nemmeno permesso di porle qualche domanda. Piuttosto seccata, Nadia si risolse comunque a seguirla. E mentre camminavano in silenzio lungo uno stretto e tortuoso corridoio, Nadia osservava pensierosa quel suo procedere a piccoli passi veloci, con la testa perennemente rivolta verso il basso. Persino quelle poche volte in cui riusciva a farla parlare, lei non alzava mai gli occhi: ma se era possibile chinava ancora più la testa, quasi avesse paura di incrociare lo sguardo di chi aveva di fronte; e rispondeva elusivamente, con voce morbida e lenta, quasi volesse soppesare con attenzione ogni parola ed evitare di dirne una più del necessario.

«Ecco, vogliate entrare» disse ad un tratto. Nadia si sporse a guardare: una porta si aprì all'improvviso davanti ai suoi occhi, emettendo solo un leggero sbuffo, come se scivolasse sull'aria.

«Dove mi ha portato?» chiese. La ragazza si fece da parte, inchinandosi e indicando l'entrata.

Nadia varcò la porta. Esterrefatta, si rese conto di trovarsi in quello che era senza dubbio uno splendido bagno, il più bello che avesse mai visto. Un'enorme vasca dalle pareti riccamente decorate con fili d'oro campeggiava al centro della stanza, e da essa si levava un denso vapore profumato, che calava come una morbida cappa voluttuosa su tutta la stanza. Era talmente fitto che era quasi impossibile scorgere le finissime e particolari decorazioni che adornavano tutta la stanza: ma Nadia intravide chiaramente i raffinati interni di marmo pregiato, le mattonelle di ceramica lavorata, e l'elegante mosaico con cui era decorato tutto il pavimento. Si volse a fissare la ragazza, a bocca aperta.

«Non capisco...»

«Il comandante vi cede con umiltà il suo bagno privato, nella speranza che vi piaccia utilizzarlo» disse lei con deferenza. «Ho provveduto a fornirvi asciugamani puliti e alcuni vestiti che spero possiate apprezzare, sebbene siano molto miseri e del tutto inadeguati alla vostra persona. Vi chiedo umilmente scusa, ma a bordo non possediamo nulla di meglio, al momento».

Nadia non seppe cosa rispondere. Continuava a guardare alternativamente la ragazza e il bagno, letteralmente senza parole.

«Per qualunque cosa, resto a vostra disposizione. Il comandante Atys Nepheptim si augura che possiate trovare ristoro e che una volta riposata, se ne avrete voglia, possiate raggiungerlo sul ponte principale».

«Io...»

«Attenderò qui fuori, in caso abbiate bisogno».

Nadia fissò ammutolita la ragazza, che fece per uscire senza voltarsi, mantenendo la testa china.

«Un momento».

La ragazza si arrestò di colpo, profondendosi velocemente in un tale inchino che fu come se si fosse spezzata su se stessa. Nadia le sgranò gli occhi addosso, profondamente scossa da quel suo timore quasi reverenziale.

«Dove sono le persone che erano con me?» domandò, piuttosto turbata. «Credevo mi avreste portato da loro».

«Stanno bene e sono trattate come ospiti di massimo riguardo» disse, inchinandosi ancora di più. «Il comandante mi ha pregato di assicurarvi che incontrerete i vostri amici non appena lo raggiungerete sul ponte».

«E la donna?» chiese Nadia. «La donna che mi ha curato... dov'è? Vorrei ringraziarla».

«Porgerò personalmente i vostri ringraziamenti al tenente Anuri» disse lei, con la massima deferenza. «Sono certa che ne sarà lusingata».

Dunque è così che si chiama.

«Avete bisogno di altro?» chiese la ragazza, senza alzare gli occhi. Nadia la squadrò, seccata. Quell'atteggiamento di esagerata ed estrema umiltà cominciava a darle parecchio sui nervi. Trovava detestabile che qualcuno potesse spingersi a trattare un altro essere umano con tale deferenza, arrivando a perdere completamente il senso della propria dignità.

«Sì» rispose, secca «vorrei che non si inchinasse in quel modo davanti a me, mi mette a disagio. Sono solo una donna, non un'imperatrice. E per di più sono vostra ospite. Dovrei essere io a ringraziare, non voi».

La ragazza sollevò gli occhi, in silenzio. Nel vederla confusa, Nadia si chiese se non fosse stata troppo brusca nel riprenderla.

«Per favore» aggiunse, giungendo le mani quasi a volersi scusare. La ragazza si riscosse e distolse subito lo sguardo.

«Come desiderate» disse, umilmente. «Vi chiedo sinceramente perdono».

E senza alzare la testa né voltarsi, uscì.


*


Marie fissava con curiosità l'oblò alla sua porta. Ogni tanto vedeva qualcuno passarvi davanti, un'ombra veloce che si trascinava dietro parole incomprensibili e qualche risata. Ma nella monotonia dell'attesa, anche quello rappresentava pur sempre una specie di novità.

Si trovava rinchiusa insieme ad Alex e Rebecca in una stanza che, a dire il vero, era piuttosto piccola per tutte e tre; ma almeno avevano due brandine e una caraffa d'acqua, sul tavolo. Tuttavia, nessuna di loro aveva ancora osato toccarla: e sebbene Marie stesse morendo di sete, sia Rebecca che Alex le avevano proibito di bere, perché temevano entrambe che nell'acqua vi potesse essere disciolto qualcosa di pericoloso.

Rebecca stava seduta sulla branda alle spalle di Marie. Le gambe accavallate, faceva ondeggiare ritmicamente la gamba destra, provocando il fruscio sordo e costante delle sue sottane, con cui riempiva tutta la stanza, per il resto avvolta da un totale silenzio. Alex se ne stava a capo chino, seria e con il volto tirato, seduta sul pavimento accanto a Marie. La bambina le rivolse una rapida occhiata, senza volgere la testa. Poi tornò a fissare l'oblò, con gli occhi fissi, come stregata.

Una persona passò. Qualcuno si fermò a parlare, fuori dalla porta. Marie ne vedeva l'ombra proiettata sul muro e ne sentiva la voce, che le giungeva attutita dal vetro e dall'acciaio. Il volto di un uomo si affacciò all'oblò: scrutò all'interno con scarsa attenzione, per poi sparire velocemente così com'era apparso. Gli occhi di Marie si dilatarono. Sentiva che stava per accadere qualcosa.

Ci fu un vociferare, e alcune persone risero. Qualcuno canticchiava qualcosa. Marie chinò la testa di lato, incuriosita. Improvvisamente, tutto tacque. Si avvertì un rumore fitto di passi e alcune persone sfrecciarono velocemente davanti al vetro. Dopo poco, la serratura scattò.

Rebecca si rianimò, irrigidendosi e drizzando il busto. Alex sollevò lentamente lo sguardo, stringendo gli occhi verso la porta.

Una giovane donna, accompagnata da due guardie, si affacciò sulla soglia, squadrando distrattamente i presenti. Fissò prima Rebecca e poi Alex; quindi si soffermò su Marie, che la fissava seduta sul pavimento, con la bocca stretta e lo sguardo affilato.

«Humeis» disse la donna con un sospiro «eparkòustze».

Rebecca e Alex si scambiarono uno sguardo interrogativo. La donna le fissò a turno, quindi «akolùze!» fece, con il volto tirato.

«Senti, carina, non capiamo una parola di quello che dici» fece Rebecca, muovendo annoiata la mano. «Quindi o ti spieghi a gesti, o sarà meglio se ti cerchi un interprete».

«Ek podòn, dùle!» sibilò la donna, livida, avventandosi su di lei e levando una mano per colpirla al volto. Rebecca, stupefatta, si volse istintivamente, alzando il braccio per proteggersi con il gomito. Ma il colpo non arrivò mai. Marie era balzata in piedi a frapporsi tra le due, le mani alzate, e fissava con occhi che le brillavano di determinazione il volto della giovane donna.

«Bàinomen» disse. La donna abbassò lo sguardo su di lei, incredula, gli occhi dilatati per la sorpresa e la mano ancora levata a mezz'aria. Marie aveva i muscoli del volto ancora contratti, perché aveva parlato con una certa insicurezza. Ma non appena vide la reazione positiva della donna, si fece coraggio; e con un sospiro «Hemeis... Hemeis bàinomen» ripeté.

Rebecca e Alex si scambiarono uno sguardo sorpreso. La donna restò a fissare la bambina, che aveva ancora le mani levate e uno sguardo vivido e deciso. Il volto le tremava per l'emozione, ma sembrava molto sicura di sé.

La donna abbassò la mano, lentamente. E con un lieve cenno di assenso, restò a fissare Marie, con gli occhi socchiusi. Quindi si volse verso Rebecca, e il viso si fece subito duro.

«Vuole che la seguiamo» disse Marie. Rebecca la fissò esterrefatta, ma si alzò in piedi, senza aggiungere nulla. La donna, allora, si volse e uscì dalla stanza, fermandosi sulla soglia per assicurarsi che la seguissero. Alex, Rebecca e Marie si mossero dietro di lei, seguendola lungo uno stretto corridoio, illuminato da fredde lampade dalla luce incandescente.

«Si può sapere dove hai imparato a parlare la loro lingua?» sussurrò Rebecca all'orecchio di Marie. Anche Alex rivolse alla bambina uno sguardo obliquo.

«Sembra greco antico» fece Marie, in un sussurro. «Quando l'ho sentita parlare, mi è subito venuta in mente suor Genéviéve, e le sue orrende lezioni di greco».

Rebecca si raddrizzò, sorpresa. «Credevo che andassi male, in greco» disse. Marie scosse il capo, senza distogliere gli occhi dalle spalle della donna che li guidava.

«Non sono mai andata male. Facevo finta. Era suor Genéviéve che non mi piaceva, ma io in greco sono sempre stata brava. Suor Caterina mi passava di nascosto i libri delle commedie di Aristofane. Alla fine ero diventata capace di leggerli in greco da sola... erano divertenti».

«Ma pensa un po'» borbottò Rebecca.

«Eis odòn» fece all'improvviso la donna, indicando una porta. «Kinòuesze».

«Vuole che entriamo qui, in fretta» fece Marie. Rebecca, Alex e la bambina si affacciarono alla porta. Era tutto buio. Vennero spinte dentro a forza e la porta sbattuta alle loro spalle. Impaurite, si strinsero tra di loro, facendo vagare inutilmente gli occhi nel buio della stanza, senza sapere cosa aspettarsi. Si accesero dei fari: le tre si ripararono gli occhi, feriti dall'inattesa intensità della luce; e quando li riaprirono, videro con sorpresa una grande vasca, colma d'acqua calda. Rebecca lanciò un grido, percorsa da un brivido di eccitazione.

«Ci hanno preparato il bagno!» esclamò. E in men che non si dica, era già immersa nella vasca.


*

Di nuovo sola, Nadia si avvicinò alla vasca e si chinò, sedendosi sul bordo e sfiorando l'acqua con la punta delle dita. Era piacevolmente calda, ed emanava un intenso profumo di essenze floreali. Nadia aspirò, sorridendo. Era così invitante...

Si spogliò e si immerse. Il corpo le doleva ancora, e lo sentiva tutto indolenzito. Ma non appena l'acqua arrivò a lambirle i fianchi e la schiena, si sentì subito meglio. Si sedette sul fondo, e reclinò la testa all'indietro, appoggiandola sul bordo. Chiuse gli occhi. Era come rinascere a una nuova vita.

Non seppe quanto restò lì. Si era lentamente abbandonata a quel tepore avvolgente e rassicurante, finché il sonno non l'aveva colta all'improvviso. Fu un sogno inaspettato a svegliarla, bruscamente. In quel sogno, aveva visto Jean. Non era durato molto, ma fu sufficiente a farla svegliare di soprassalto, decisamente turbata. Si era completamente dimenticata che lui era scomparso. Come aveva potuto farsi un bagno, rilassarsi, o anche solo stare bene, quando lui poteva essere ovunque, solo e ferito...

O forse persino...

Nadia chiuse gli occhi e volse la testa, disgustata dal suo stesso pensiero. Si rifiutava di pensare una cosa simile. Ma fu allora che, nel profondo del suo cuore, un pensiero inaspettato ed orribile le si affacciò alla mente, sorprendendola e scioccandola.

La fine. La fine di tutte le sue pene. Con la sua morte, lui la lasciava libera.

No...

Eppure era così. Negli ultimi cinque anni, Nadia si era progressivamente liberata dal peso ingombrante di lui. Era riuscita a trovare se stessa, e a capire cosa voleva dalla propria vita. Si era resa conto che se era rimasta così a lungo con Jean, era solo per senso di gratitudine, per quello che lui aveva fatto per lei, e perché era stato l'unico ad averla mai amata per quello che era. Almeno finché non aveva incontrato Jonathan. Era stato lui a svegliarla, e a riportarla alla vita. Alla sua vita.

No, non è così...

E invece, per quanto odiasse ammetterlo, era così. Non amava Jean, gli voleva bene, certo... ma l'amore? L'amore era diverso, era quello che provava per John. Ma era consapevole che non avrebbe mai potuto abbandonarsi liberamente a quel sentimento, se prima non si fosse scaricata del peso della gratitudine che doveva a Jean. Lui aveva abbandonato tutto per lei. Era qualcosa che la soffocava, ogni giorno, facendola sentire in dovere di contraccambiare, e in colpa se non lo faceva.

Se è morto, il suo pensiero non ti tormenterà più. Sarai libera di dimenticare, libera di vivere senza sentirti in colpa...

«Basta!» gridò, prendendosi il volto tra le mani. In preda all'orrore, Nadia picchiò i pugni chiusi sull'acqua, schizzandola ovunque. Come poteva anche solo pensare una cosa del genere?

La verità è un'altra, e la sai bene.

Nadia aprì lentamente gli occhi, fissando il pallido riflesso del suo volto nell'acqua. Quei pensieri non erano che il vano tentativo di nascondere una verità molto più scomoda, e lei lo sapeva. Stava fuggendo, ancora una volta; anche se stavolta aveva scelto un modo davvero orribile, che le provocò il disgusto di se stessa.

Le tue sono solo scuse...

Improvvisamente triste, sorrise. Lei lo amava. Era inutile negarlo. Se n'era accorta dal primo momento in cui l'aveva rivisto. Anzi, era più esatto dire che era stato il suo corpo ad accorgersene. Era solo la sua razionalità che continuava ad opporsi. Ma il corpo non mentiva. E quello sconvolgimento misterioso e segreto, che la attanagliava ogni volta che incrociava il suo sguardo, scuotendola e scaldandola come terra riarsa dal sole, non potevano essere solo menzogne, o una sua semplice illusione. Il suo cuore, il corpo tutto si risvegliava, pulsante come la terra, forte come la terra, schiacciato sotto il fuoco vivo dei suoi occhi. Era quella, la vita. La sola che lei voleva conoscere. Una vita impossibile, e sublime al tempo stesso.

Nadia si coprì il volto con le mani. Quanto avrebbe voluto averlo lì, di fronte a lei... chiuse gli occhi, cingendosi tra le braccia e sprofondando lentamente nell'acqua. Immaginò che quelle braccia che la stringevano fossero le sue, quelle di lui: e sue le mani che le sfioravano le spalle nude, e il collo...

Era tutto così nuovo, e strano. Avrebbe voluto stringerlo tra le braccia, tra le gambe, fino ad abbracciarlo con tutto il corpo e con tutta se stessa; e placare finalmente quell'arsura che la torturava con tutti i baci che il tempo aveva loro malvagiamente rubato.

Ma cosa mi sta succedendo?

Il cuore le batteva all'impazzata. Sentiva la gola secca. Sembrava che il suo corpo vivesse una vita sua, che lei non poteva controllare, ma solo assecondare o combattere. Ma era così dolce il solo pensiero di lui, che se solo lui fosse stato lì, lei gli si sarebbe abbandonata senza riflettere, anche se la paura la attanagliava e la scuoteva, pur inebriandola nel mistero di quell'estasi.

Ma lui non c'è.

Con un sospiro, Nadia cercò di scacciare quei pensieri dalla sua mente. Ritrovare Jean, dopo tutto quel tempo, era stato come ritrovare se stessa. Ma era troppo tardi per tornare indietro. Lui era così diverso e anche lei... e poi, c'era John e le sue responsabilità verso di lui. Ma soprattutto, lei aveva un dovere verso se stessa. Scegliere Jean significava compiere un passo indietro. E lei lo sapeva.

Ma Jean è sparito. Ed è solo colpa mia.

Quel pensiero la tormentò, agitandola e riscuotendola definitivamente. Non poteva più restare lì, come se nulla fosse. Doveva rivedere gli altri, assicurarsi che stessero tutti bene; poi avrebbe chiesto a quella brava gente che li aveva salvati di aiutarla a cercare Jean. Li avrebbe supplicati in ginocchio, se fosse stato necessario. Era quello ciò che il suo cuore le suggeriva.

Ma la paura di ciò che sarebbe successo, sia che l'avesse ritrovato, sia che non l'avesse ritrovato, le tolse ogni respiro.


*


Sanson si risvegliò bruscamente. Scosse la testa, sputando l'acqua che gli si era infilata in bocca e su per il naso.

«Ek podòn, dùle. Pros ton téikon».

Sanson alzò gli occhi, rabbioso. Tre guardie lo fissavano ridacchiando dall'alto. Una di loro aveva un secchio in mano e lo agitava tenendolo per il manico.

«Tode bòule eti?» lo irrise quello, mostrandogli il secchio. Per tutta risposta, Sanson sputò per terra, fissandolo dritto negli occhi. L'uomo si rabbuiò e levò il secchio, colpendolo al volto con violenza.

Sanson si rialzò lentamente a sedere, tendendo le corde che gli bloccavano le mani dietro la schiena. Sentiva il sapore ferrigno del sangue sulle labbra e vi passò lentamente la lingua, ridendo, e senza mai distogliere gli occhi dal volto di quell'uomo.

«Slegami e vedrai, maledetto vigliacco» sibilò. L'uomo fece per colpirlo ancora, ma uno degli altri lo fermò. Qualcuno stava facendo il suo ingresso. Sanson, che non si era nemmeno accorto del luogo in cui si trovava, ne approfittò per guardarsi intorno: era una specie di lavatoio, ricoperto da piastrelle sbeccate ma pulite. C'erano delle fosse per l'acqua e un grosso lavabo. Sembravano le docce di un reggimento.

Con sua grande sorpresa, Sanson vide entrare Hanson e John. Entrambi avevano le mani legate dietro la schiena, ma non sembravano messi male. Solo Hanson pareva piuttosto scosso, e si guardava intorno con i lucidi occhi bovini, evidentemente disorientato. John, al contrario, sembrava perfettamente lucido e calmo. Fissava discretamente intorno a sé, senza soffermarsi mai troppo a lungo sul volto di qualcuno. Era evidente che sapeva come comportarsi in casi come quello e che conosceva la prima regola di sopravvivenza in galera: mai dare al proprio carceriere l'occasione di arrabbiarsi.

«Sanson! Ma che ti hanno fatto?» esclamò Hanson, avvicinandosi preoccupato al cugino, che sedeva per terra zuppo e con il volto sporco di sangue. Una guardia gli sferrò un calcio a una gamba, facendogli perdere l'equilibrio: Hanson cadde, lanciando un grido di sorpresa.

«Lascialo stare, capito?» ringhiò Sanson, che fece per alzarsi. Ma una guardia fu più veloce e lo colpì con il piede allo sterno. Sanson si afflosciò a terra, senza respiro.

«Ek podòn! Katatìze ta èimata».

«Vogliono che ci spogliamo» mormorò John. Hanson si rialzò faticosamente, rivolgendogli uno sguardo corrucciato.

«E tu che ne sai?»

«Guardati intorno» sibilò John, a denti stretti. «Siamo nelle docce. Mi sembra ovvio che vogliano lavarci, no?»

«Katatìze ta èimata!» fece una guardia, afferrandosi la giacca dell'uniforme e strattonandola.

«Sembra che tu abbia ragione» fece Hanson. «Speriamo solo che sia davvero così».

Le guardie fecero alzare Sanson, quindi slegarono i tre, tenendoli sotto tiro con delle armi simili a dei lunghi bastoni, sulla cui punta si trovava un aggeggio simile a quello che era stato usato contro Sanson. Lui rabbrividì, tenendosi a distanza.

«Ne ho già avuto abbastanza di quello» disse sommessamente agli altri, mentre si spogliava, ed indicando con la testa verso una delle lance elettriche. «Vi consiglio di fare in modo di non costringerli ad usarlo».

«Kinòuesze!» ruggì una guardia. I tre si affrettarono e non appena furono completamente nudi, vennero spinti contro il muro. Una delle guardie afferrò un manicotto d'acqua e aprì il rubinetto, indirizzando il getto contro di loro. Una colonna d'acqua ad altissima pressione arrivò a colpirli in pieno. Era fredda gelata; e il getto era talmente violento, che sembrava strappasse via la pelle. I tre lanciarono un grido soffocato sotto lo sguardo divertito delle guardie, che fecero loro segno di girarsi mimando un balletto.

«Prima o poi me la pagherete anche per questo, maledetti» gridò Sanson, prima che uno spruzzo in pieno volto gli chiudesse la bocca.


*


«Signore, è tutto pronto».

Atys si volse. Faloe era in piedi davanti a lui, e aspettava che il suo comandante le impartisse nuovi ordini.

«Bene» rispose. Sospirò. Con le mani dietro alla schiena, percorse a passo deciso il ponte di comando, andando a raggiungere la grande vetrata alle sue spalle. Oltre il vetro, e più in basso, poteva osservare non visto i suoi nuovi ospiti. Erano stati fatti ricongiungere secondo i suoi ordini, dopo essere stati lavati e rivestiti con abiti puliti.

«Quell'uomo è ferito» fece con una smorfia, notando il volto tumefatto di Sanson. «Chi è il responsabile?»

«Una delle guardie» rispose Faloe, che intanto aveva raggiunto in silenzio il suo posto accanto a lui. «È già stata punita».

«Ottimo».

Atys restò in silenzio a fissare i loro volti. Sembravano felici. Nonostante si trovassero in una situazione spiacevole, il semplice fatto di essersi rincontrati sembrava riempirli di gioia.

«L'emozione...» mormorò «...è qualcosa di così strano e prevedibile». Faloe sbatté le palpebre, fissandolo sorpresa.

«Come dice?»

Lui scosse il capo. «Nulla. Stavo solo riflettendo».

«Signore, la bambina che è con loro parla la lingua degli schiavi» confessò Faloe all'improvviso. Atys inarcò un sopracciglio, e si mise a cercare la bambina con gli occhi. La vide che sorrideva, mentre parlava animatamente con una giovane donna dai lunghi capelli scuri.

«Davvero?»

«Non molto bene, a dir la verità. Ma è in grado di capire quello che le viene detto».

«Questo potrebbe esserci utile» commentò lui. Faloe abbassò lo sguardo su Marie. C'era qualcosa in quella bambina che la incuriosiva. O forse si stava solo ingannando. Comunque, sentiva il bisogno di avvicinarla, prima che...

«Vorrei poter parlare con lei, se me lo consente».

«Perché?» fece lui, voltandosi deciso.

«Potrebbe dirci qualcosa sul suo mondo, e...».

Atys gonfiò il petto, voltando le spalle ad esaminare alcune carte che l'ufficiale di bordo gli stava porgendo in quel momento.

«Non è sua sorella, Faloe» disse, freddamente. «Sua sorella è morta».

«Lo so, signore» fece lei, abbassando gli occhi con un brivido.

«È stata gente come quella ad ucciderla. O se n'è già dimenticata?»

«No, signore».

«Allora vuole spiegarmi il perché della sua richiesta?»

Lei fissò Marie, con gli occhi che le brillavano. «È una bambina...»

«No, è una schiava».

«Certo, signore, ma...»

«Ora basta, Faloe. La bambina subirà la sorte degli altri. Questo è fuori discussione. Il solo motivo per cui sono ancora vivi è che possono tornarci utili, e questo lei lo sa meglio di me».

Lei annuì. «Certamente, signore. Perdoni la mia impudenza. Sono stata una sciocca».

«Non c'è nulla da perdonare» fece lui sbrigativo, riconsegnando le carte all'ufficiale di bordo e allontanandolo con un cenno della mano. «Lei forse penserà che io non comprenda i suoi sentimenti, ma invece li comprendo benissimo. Proprio per questo le proibisco di fare quello che mi chiede».

Lei sorrise, mesta, nascondendo il pallore che aveva assunto il suo volto dietro un inchino rispettoso. «La ringrazio, comandante» disse semplicemente.

In quel momento, la porta principale si aprì all'improvviso e Atys si volse giusto in tempo per vedere la figura slanciata di Nadia fare il suo timido ingresso sul ponte. Non appena lei ebbe varcato la soglia, tutto l'equipaggio si alzò in piedi come ad un preciso comando, volgendosi a guardarla e inchinandosi prontamente. Nadia, stupefatta, si guardò intorno disorientata, fissando uno per uno i membri dell'equipaggio. Ma non appena incontrò lo sguardo di Atys, che le sorrideva fiero e orgoglioso dal suo posto accanto alla plancia di comando, i suoi occhi si dilatarono, e lei sbiancò.

«Lei!» esalò, terrea.

«Lieto di rivedervi» fece Atys, sinceramente. Nadia indietreggiò. Fece per voltarsi, ma due guardie le bloccarono il passaggio, evitando tuttavia di guardarla in volto in segno di rispetto. Lei si voltò, indirizzando ad Atys uno sguardo rabbioso.

«Dunque è così» disse. «Alla fine è riuscito nel suo intento. Sono sua prigioniera».

In tutta risposta, Atys fece un cenno con la mano e le due guardie si dileguarono. Nadia restò comunque ferma al suo posto a fronteggiarlo, fiera.

«Non volete vedere i vostri amici?» le disse lui.

«Che gli avete fatto?» domandò Nadia, furiosa. «Lasciateli andare, subito».

«Venite» fece Atys, con un sorriso tranquillo. «Venite a vedere».

Nadia si avvicinò titubante. Camminava lentamente, con le mani giunte, senza perderlo di vista; ma non appena raggiunse la vetrata, perse ogni residua riluttanza; e appoggiandosi al vetro spesso e freddo con le mani aperte, rimase come incantata a guardare i suoi amici. Erano tutti lì, davanti a lei, riuniti nella stessa stanza. Sembravano sereni e mangiavano seduti tranquillamente attorno a un tavolo, serviti e riveriti. Nel vederli così rilassati, Nadia si sentì subito sollevata. Un sorriso le si allargò sul volto e alcune lacrime le rigarono le guance.

«Come potete vedere, stanno tutti bene» sussurrò Atys. «Se vorrete, più tardi vi porterò ad incontrarli».

Nadia lo fulminò con lo sguardo.

«Cosa c'è dietro? Che razza di trappola sta tramando?»

Lui aggrondò, e un lampo balenò nei suoi occhi color del ghiaccio. «Non c'è nessuna trappola, ve lo assicuro».

«Ma per favore!» sbuffò lei. L’uomo sospirò profondamente, come rassegnato. Quindi fece un rapido cenno; e un attimo dopo un soldato apparve, recando tra le mani un vassoio ricolmo di antipasti dall'aspetto delizioso.

«Gradite qualcosa da mangiare? Dovete avere molta fame, immagino».

Nadia lo fissò stupita. Quindi «Non voglio niente da lei, maledetto assassino» sibilò, livida.

«Non capisco la vostra ostilità» disse lui, chinando il capo e scacciando con un gesto ruvido il soldato, che si dileguò in silenzio.

«Capire?» fece lei, scuotendo il capo. «Cosa c'è da capire?»

«Se solo mi permettete di spiegare quali ragioni...»

Senza alcun preavviso, Nadia si scagliò contro di lui, schiaffeggiandolo. Atys, gelato da quel gesto tanto rapido quanto inaspettato, restò a fissarla immobile, profondamente sorpreso. Faloe, accanto a lui, osservava i due con gli occhi sgranati.

«Non c’è nulla di quello che può dirmi che possa interessarmi» sibilò Nadia. «Lei è solo un assassino, un mostro. E io la disprezzo».

«Voi mi offendete, Maestà» affermò lui, teso. Si sentiva sotto pressione. Non era abituato ad essere trattato così, e detestava che accadesse davanti ai suoi uomini. Ma più guardava Nadia, più restava sorpreso di trovare nei suoi occhi un'energia e una forza per lui del tutto sconosciute. Si chiese da dove lei le tirasse fuori, con un fisico così delicato, e dopo tutto quello che le era successo. Sembrava non essere per nulla spaventata dalla situazione in cui si trovava, e questo lo colpì profondamente più di qualsiasi altra cosa: forse, per la prima volta in vita sua, aveva finalmente trovato qualcuno che poteva ritenere alla sua altezza, qualcuno che non aveva paura di lui e che osava affrontarlo da pari a pari; ed era proprio quella ragazza così apparentemente fragile e inconsapevole che ora gli si trovava davanti, e che lo guardava con l'autorità e il distacco propri di un re, o di dio.

«La offendo?» rispose Nadia, sogghignando. «No, è lei che offende me con la sua presenza. Lei ha ucciso un uomo, un mio amico, e ha persino tentato di uccidere me! E ora ha la faccia tosta di venirmi a parlare di spiegazioni?»

«Voi non mi lasciate spiegare...»

«Io so già tutto quello che c’è da sapere!» gridò lei. «Voglio andarmene da qui, subito! E voglio farlo insieme a quelle persone!»

Atys la fissò duramente. «Sono desolato, ma questo non è assolutamente possibile».

Nadia sembrò calmarsi improvvisamente, ma il respiro ancora affannoso continuava a sollevarle pesantemente il petto. Fissava l’uomo di fronte a sé con occhi simili a braci incandescenti.

«Ha fatto presto a cambiare il suo atteggiamento, non è così?» fece poi, sorridendo beffardamente. «Dov'è finita tutta la sua cortesia?» Lui indurì il volto.

«Siete stata voi a costringermi» rispose, asciutto. «Io avrei voluto che questa conversazione potesse svolgersi ben diversamente; ma continuo a trovare il vostro atteggiamento alquanto insolente e capriccioso».

«Quindi, dal momento che non sono disposta a fare quello che vuole, non trova nulla di meglio che impedirmi di andarmene?» ironizzò Nadia.

«Il mio dovere mi impone di trattenervi» fu la sua risposta secca. «E mi scuso per questo».

Nadia gli si avvicinò allungando il volto verso di lui, le labbra leggermente dischiuse a un centimetro dalle sue. Gli era tanto vicina, che lui poteva sentire il profumo della sua pelle.

«Ci si strozzi, con il suo dovere» gli sussurrò lei, con gli occhi splendenti di fierezza e dignità fissi nei suoi e un sorriso sprezzante dipinto sul volto. Atys sorrise. Trovava estremamente affascinante quella sua presunzione. La ammirava, ne ammirava la regalità e la bellezza disarmante. Era una donna fiera, caparbia, che non aveva paura di nulla. Un essere strano e quasi sovrannaturale, a cui avrebbe potuto tranquillamente giurare fedeltà eterna.

É davvero questa la nostra dea.

«Vi chiedo nuovamente perdono» si scusò lui, riacquistando un tono di voce più conciliante, «ma obblighi precisi verso il mio popolo mi impediscono di lasciarvi andare».

«Obblighi? Di quali obblighi parla? E di quale popolo sta parlando?»

«Del popolo di Atlantide, naturalmente» fece lui. «Del vostro popolo».

Nadia inorridì.

«No... non è possibile...»

«Noi non siamo che i vostri umili servi, venuti fin qui per riportarvi a casa».

Nadia scosse la testa incredula. Spostò lo sguardo da Atys a Faloe e poi su ogni membro dell'equipaggio, uomini e donne, nella speranza che quello fosse solo un sogno. Ma nel vedere che tutti si inchinavano al suo cospetto con tale deferenza e umiltà, si accorse di stare vivendo in realtà un orribile incubo.

«No!» indietreggiò, impaurita. «Non voglio avere nulla a che fare con voi!»

Atys la fissò incredulo. «Perché dite così? Maestà, il vostro popolo...»

«La smetta di chiamarmi Maestà!» gridò lei rabbiosa, con gli occhi velati di lacrime. «Io non sono la vostra regina, e voi non siete il mio popolo! Io vi detesto, vi detesto tutti! Non siete che un popolo di assassini, manipolatori e disgustosi schiavisti. Avete assoggettato questo pianeta per millenni, ammorbandolo come la peste, schiavizzando il genere umano e portandolo sull'orlo della distruzione, finché non vi siete annientati da soli in una guerra fratricida. Questa è la verità! E non c'è nulla che lei possa venirmi a raccontare del nostro popolo, senza che io provi nausea o vergogna per il solo fatto di appartenervi».

Atys la fissò, visibilmente colpito dalla durezza delle sue parole. «Chi vi ha detto queste cose?» mormorò.

«Ho visto quello che gli Atlantidi sono capaci di fare. La mia intera famiglia è morta a causa di gente come lei, l'intera popolazione della mia città... uomini, donne, bambini... gente innocente, che non aveva la minima consapevolezza di avere a che fare con dei mostri come voi».

«Mostri come noi... e come voi, allora» fece lui. Nadia rabbrividì.

«Si sbaglia. Io non sono come lei».

«Oh, sì, invece» fece lui. «Voi siete la nostra legittima sovrana, la legittima erede al trono di Atlantide. Siamo venuti qui a cercarvi nella speranza che poteste portare aiuto al nostro popolo e ripristinare così l'Antico Regno. Ma noto con disappunto che avete vissuto nella menzogna, lontano dalla verità che vi lega a noi e al nostro comune destino».

«Io non ho nessun destino da condividere con voi!» sibilò lei.

«Vi sbagliate anche in questo» ribatté Atys, tagliente. «Dimenticate la Pietra».

Nadia sussultò. Si era completamente dimenticata della pietra. Si rese conto solo allora che da quando si era risvegliata non l'aveva più avuta con sé. Come aveva potuto essere tanto sciocca?

«Quella pietra non le appartiene» fece, tradendo tutta la sua preoccupazione. «Dove l'ha messa?»

«È vero, appartiene a voi, in quanto legittima erede al trono. Eccola».

Atys alzò la mano e una guardia gli pose un involto di panno, da cui lui estrasse la pietra. Nel vederla, Nadia percepì un brivido, e tese la mano per afferrarla; ma Atys la ritrasse, prima che lei potesse anche solo sfiorarla.

«Perché dovreste volerla, in fondo?» le chiese. «Il vostro odio per noi è così smisurato, che non vedo ragione per cui possiate desiderare di avere questa Pietra».

«Mi è stata affidata da un amico, l'uomo che avete ucciso» confessò lei, dura. «E io ho promesso che avrei fatto di tutto per proteggerla».

«Con tutto il rispetto, ma voi non potete nulla» rise Atys. «Il suo amico si è impossessato della Pietra casualmente, senza che gli appartenesse. Siamo noi che l'abbiamo perduta nel momento in cui giungemmo sulla Terra, quando sparì nell'oceano insieme alla nave ammiraglia che la custodiva a bordo. Il suo amico l'ha trovata per caso, e noi abbiamo fatto quello che dovevamo per riprendercela, visto che lui l'aveva nascosta».

«Cioè l'avete ucciso!»

«Se ci avesse consegnato la Pietra, non sarebbe successo».

«E tutto questo, tutte quelle persone morte... tutto è successo solo per quella dannata pietra?» esclamò lei. Atys socchiuse gli occhi.

«Questa Pietra è parte di ciò che possediamo di più sacro. È il simbolo e la vita stessa del nostro popolo: e voi siete la persona chiamata a custodire e a dominare il suo tremendo potere. Solo a voi è concesso: la Pietra ha scelto voi fin dalla vostra nascita, anzi, fin dall'inizio dei tempi. Essa già sapeva di voi, e di tutti noi, prima ancora che nascessimo e che sorgesse il glorioso Regno di Atlantide. La vostra vita appartiene alla Pietra; e quello che è successo, è successo solo perché la Pietra ha scelto di raggiungervi, per dimorare in voi».

«La mia vita appartiene a me» ringhiò lei. «Se è un tempio, quello che cercate, vi consiglio di andarlo a cercare altrove. Io non sono in vendita».

Atys sospirò. Quindi si volse, mettendosi a passeggiare lentamente per il ponte.

«Ditemi, Maestà» domandò all'improvviso «Voi fate dei sogni, vero? Sogni strani...»

Nadia sussultò.

«Come fa a saperlo?»

«Lo so per lo stesso motivo per cui voi riuscite a parlare la nostra lingua, la lingua sacra» disse. «Scommetto che non vi siete nemmeno accorta che state tranquillamente parlando in una lingua che fino a ieri era per voi del tutto sconosciuta, non è così?»

Nadia si irrigidì. «Io... non capisco... come potrebbe essere possibile?»

«È la Pietra» fece lui, avvicinandosi a lei e chinandosi a fissarla con il volto animato da un'evidente eccitazione. «Tutto è legato ad essa. Voi, io, Atlantide... Vi rifiutate di accettarlo, ma voi appartenente al nostro mondo, non a questo. La nostra vita, la nostra cultura: tutto è inscritto nel vostro sangue, tutto, in voi, parla di noi. E i sogni che fate non sono che messaggi lanciati al vostro inconscio dalla Pietra, nel suo desiderio di comunicare e di ricongiungersi con voi. È stata la pietra a guidarci fino a voi e al vostro pianeta, in un viaggio che per tutti appariva quasi senza speranza. Voi siete l'ultima discendente rimasta della casa regnante di Atlantide: dovevamo assolutamente trovarvi, anche se non sapevamo nulla di voi, né di questo mondo».

«Perché?» domandò, Nadia. «Perché avreste dovuto fare tutto questo... solo per trovare me?»

«Perché voi siete la nostra sola speranza» ammise lui. «Ecco perché».

Nadia tacque un istante, sconvolta. Poi «io non vi aiuterò comunque» rispose, ostinatamente. Atys abbassò lo sguardo, torvo.

«In tal caso» disse «sarò costretto a minacciare di uccidere tutti i vostri amici».

«Dunque avevo ragione» esclamò Nadia. «Lei non è che un volgare assassino».

«Pensate quello che volte. Io ho il dovere di convincervi a fare quello che è necessario, e userò ogni mezzo a mia disposizione».

«Necessario?» obiettò lei. «A chi? A voi, forse. Di certo non a me, o a quelle povere persone che si trovano oltre quel vetro!»

«La scelta è solo vostra» ribatté Atys. «Siete libera di fare quello che credete. Ma ogni scelta comporta delle conseguenze. Sta a voi accettarle».

Nadia scoppiò a ridere. «Scelta? Lei chiamerebbe questa una scelta? Non c'è nessuna libertà in una scelta del genere. Lei non è che un pazzo maniaco: ed è ancora più pazzo se crede di ottenere il mio aiuto così. Anche se dovesse costringermi, prima o poi troverò il modo per sfuggire a voi e a tutto questo, dovessi anche uccidermi con le mie mani!».

«Io non sono pazzo!» sibilò lui, afferrandola per le braccia e scuotendola rabbiosamente. Nadia ne fissò sconcertata il volto, segnato da un livore incontenibile. La ferocia che splendeva terribile nel suo sguardo la terrorizzò, ma lei si sforzò di non darlo a vedere, sostenendo decisamente il suo sguardo e opponendogli tutta la fierezza di cui era capace. «Voi mi giudicate tale solo perché non conoscete nulla delle mie motivazioni» riprese lui, «ma io ho dei doveri riguardo al mio popolo che voi ancora non capite e non volete capire, tutta presa come siete dal vostro odio personalissimo e accecante. Io vi guardo e mi chiedo: è davvero tanto l’odio che nutrite per la vostra gente? Cosa vi abbiamo mai fatto noi, noi che siamo il vostro popolo e siamo giunti fin qui per riportarvi a casa, perché abbiamo il disperato bisogno di voi, del vostro aiuto e della vostra guida?»

Nadia fissava Atys senza parole. Nel suo sguardo leggeva una convinzione e una fede incrollabile nei segreti valori che lo guidavano, ma anche un tormento interiore che derivava da abissi del suo animo e della sua storia che le risultavano completamente insondabili. Lei non sapeva nulla di lui, nulla di quella gente e del perché fossero lì per lei. Ma il peso della responsabilità che quell'uomo le stava riversando addosso, la fece sentire completamente oppressa, e smarrita. Nel vederla così atterrita, Atys la lasciò andare, tremante.

«Vi confesso» riprese più calmo, ma mantenendo una certa durezza nel tono della voce «che sono pronto a condannare persino me stesso, pur di convincervi a seguirmi: non mi tirerò indietro, se questo significherà salvare la mia gente. Sono consapevole di aver commesso il più alto oltraggio alla mia fede e alla vostra persona, comportandomi in questo modo con voi. Ma sono qui per riportarvi ai vostri doveri e lo farò, con o senza il vostro aiuto e la vostra comprensione, e sia di me quello che deve essere. Non avete scelta, dite: ma sono io, Maestà, io, che a differenza di voi non ho alcuna scelta, anche se a questo mi sono ormai rassegnato. Devo fare quello che faccio, non esiste alternativa. Quindi, non venitemi a parlare di libertà e necessità: per me sono la stessa cosa. Non ho la fortuna di poter decidere cosa fare o non fare. Io non sono come voi, non sono un re, né un dio; proprio per questo, io non conosco che una sola cosa: il mio dovere. Ed è tutto ciò che intendo fare, fino alla fine dei miei giorni».


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Capitolo 9
*** 8 ***


In silenzio, seduto alla sua poltrona e con il viso avvolto da una densa cortina di fumo, il Reggente guardava il mondo scorrere oltre la finestra. Attendeva.

In preda a un'insolita tranquillità, se ne stava lì, gli occhi fissi e dilatati sulle immagini che si affacciavano improvvise alla sua mente, senza però pensare a nulla in particolare. Talvolta, un leggero alito di vento filtrava tra le imposte leggermente accostate, andando a lambirgli la fronte sudata e agitandogli i radi capelli ingrigiti dal tempo e dalle troppe responsabilità: e solo allora lui chiudeva gli occhi, dietro quell'improvviso e gratuito ristoro dalla calura estiva, mentre accanto a lui le tende si agitavano libere, sollevandosi per poi ricadere delicate al suolo, non appena il vento cessava. Nella penombra che avvolgeva la stanza, sottili strisce di polvere brillavano come sospese nel sole, agitate solo dall'improvviso sollevarsi di una debole corrente d'aria.

Con estrema lentezza, il Reggente si portò la sigaretta alle labbra. Inspirò, socchiudendo gli occhi; quindi rilasciò lentamente il fumo. Mentre spegneva il mozzicone nel portacenere, qualcuno bussò.

«Avanti».

Un uomo alto e robusto, dalla barba estremamente curata e dai lisci capelli bianchi divisi da una perfetta scriminatura, entrò con un sorriso sul volto. Vestiva un completo scuro ed elegante, che gli conferiva un aspetto distinto. Il Reggente si volse a guardarlo e si alzò in piedi, andandogli incontro con le braccia tese.

«Gilbert» lo salutò il nuovo venuto, abbracciandolo calorosamente.

«Theo» rispose il Reggente. «È bello rivederti».

«Ho risposto subito alla tua chiamata» disse l'uomo accomodandosi sul divano del piccolo salottino, proprio dove gli indicava il Reggente. «Dopo che hai sciolto il consiglio, mi chiedevo quando avremmo avuto occasione di rivederci».

«È stato necessario» sospirò il Reggente «doloroso, ma necessario. Brandy?» chiese, mostrandogli la bottiglia di cristallo che aveva appena estratto da una credenza. L'uomo assentì con un gesto elegante della mano.

«Ci sono novità?» domandò. Il Reggente finì di versare il Brandy in silenzio, quindi appoggiò la bottiglia sul tavolino e porse all'uomo il suo bicchiere, prima di sedersi prendendo posto di fronte a lui.

«Forse» rispose, evasivo. «Ma è ancora presto per dirlo».

«Quindi, il nostro è un incontro segreto?» rise l'uomo, portandosi il bicchiere alle labbra. Il Reggente, sorrise a sua volta.

«In un certo senso. Diciamo che avevo bisogno di qualcuno fidato con cui parlare».

L'uomo schioccò la lingua contro il palato, quindi «Come ai vecchi tempi, non è così?» disse.

«Hai centrato l'argomento» rispose il Reggente, che ancora non aveva toccato il bicchiere. L'uomo lo squadrò, curioso.

«Che vuoi dire?»

«Ti ricordi il nostro motto al Collegium Fridericianum

L'uomo rise. «Intendi Philosophia vera libertas?» disse. «Certo, ma che cosa c'entra?»

«Non è mai stato tanto vero» fece il Reggente, con fare enigmatico. L'uomo ridacchiò, buttando giù un sorso di brandy.

«Gilbert, vuoi dirmi che ti prende?» fece. «Sei forse del tutto impazzito?»

«Ho il libro, Theo».

Un lampo attraversò per un attimo gli occhi dell'uomo, che parve come trattenere il respiro.

«L'hai letto?» chiese, asciutto.

«In parte» sospirò il Reggente. «Quanto basta perché abbia potuto trovare le prime risposte». Il Reggente si avvicinò all'uomo, piegandosi con i gomiti sulle ginocchia e sporgendosi col volto verso di lui. «Tutto quello che ci serve, tutto quanto, Theo» riprese, con un sorriso «ogni cosa è contenuta in quel libro. In un primo momento non ci capivo nulla... nulla, ti rendi conto? Ero disperato. Ma poi... poi ho trovato la chiave. E tutto è diventato così chiaro...»

«La chiave?»

Il Reggente finì in un solo sorso il suo brandy. Quindi schioccò le labbra e posò il bicchiere. «Platone ha nascosto la verità dietro un poema in versi. Apparentemente le frasi che lo compongono non hanno alcun valore. Ma poi ho capito: non so nemmeno io come, ma mi sono accorto che ogni verso è scritto in un metro differente, a seconda della posizione che occupa nel periodo. Se si vanno a guardare i versi che presentano parole in più e si uniscono tra loro seguendo il principio della proporzione aurea, ciò che si ottiene è un libro nel libro. Un testo sotterraneo. È quello il vero testo, la conoscenza perduta del mistero di Atlantide che il Filosofo ci ha trasmesso, consegnandoci la chiave per la nostra libertà».

L'uomo fissò a lungo il Reggente, spostando poi gli occhi sul fondo del suo bicchiere vuoto, senza dire nulla.

«Cos'hai scoperto?» chiese, alla fine. Il Reggente strinse le labbra.

«So cosa dobbiamo fare... finalmente lo so» disse, sottovoce. «Ho già un uomo sulle tracce della Regina, ma anche se non dovesse trovarla potremmo ancora riuscire a fermare tutto. Ciò che dobbiamo fare, ora, è concentrarci sulla ricerca dei tre Noah restanti, le tre Arche che ancora giacciono nascoste da qualche parte, e distruggerle prima che l'Ordine riesca a trovarle. Ma dubito che possano riuscirci, senza contattare i Signori. Senza di esse non potranno fare nulla, e noi saremo salvi, e così la Terra. E noi abbiamo un vantaggio su di loro, su tutti loro: sappiamo dove trovarle, e possiamo farlo senza l'aiuto della Regina».

«Non riesco quasi a crederci» commentò l'uomo con un sospiro. Il Reggente batté le mani tra loro.

«Ma è così» disse euforico, alzandosi in piedi. «Ed è proprio per questo che ti ho chiamato, perché voglio che tu prenda il comando dell'operazione».

Il Reggente si accostò alla scrivania, chinandosi per estrarre della carta intestata dal cassetto.

«Devi subito formare una squadra. Ti indicherò i posti in cui il libro riporta l'accesso ad Agarthi e al sentiero sotterraneo che collega tra loro le Arche».

L'uomo si alzò in piedi, avvicinandosi alla scrivania. Il Reggente scriveva velocemente, graffiando con foga il pennino contro il foglio di carta. L'uomo lo fissò intensamente.

«Conosci l'accesso al Mondo Sotterraneo?» domandò, incredulo.

«Conosciamo, Theo, conosciamo» fece il Reggente senza nemmeno sollevare gli occhi dal foglio. «Grazie al libro, abbiamo tutte le risposte agli interrogativi che ci attanagliano da secoli».

«È incredibile che dopo tutto questo tempo, proprio tu sia riuscito a decifrarlo» commentò l'uomo, che fissava il Reggente con intensità «tu, dopo che tutti nel corso dei secoli non ce l'avevano fatta».

L'uomo abbassò gli occhi sulla propria mano, che accarezzava la statuetta di andesite che il Reggente teneva sulla scrivania e che raffigurava Titano nell'atto di sorreggere il mondo.

«Per tutti questi secoli, il Consiglio ha tentato di comprendere i segreti che Platone ci aveva tramandato» riprese meditabondo, mentre continuava ad accarezzare il globo che splendeva lucente sopra le spalle curve del dio. «Segreti che celano la verità più terribile su di noi e sul nostro pianeta. E tu, tu Gilbert... tu sei l'unico che sia mai riuscito a decifrarli».

«Ecco» fece il Reggente, incurante di quello che il suo amico aveva appena detto. «Ti ho segnato tutto quello che devi sapere. Hai anche il nome del mio agente: si chiama Winston Churchill, ed è il nostro uomo migliore. Si sta preparando a partire per la Bolivia, insieme ad alcune persone che ci aiutano nella ricerca della Regina. Contattalo subito, prima che parta, e digli...»

Si udì un rumore sordo. Stordito, e con gli dilatati dalla sorpresa e dalla paura, il vecchio prese a fissare incredulo l'uomo che aveva di fronte a sé e che reggeva in mano la statua del Titano, alla cui estremità penzolavano alcuni capelli grigi, incollati alla pietra da un liquido scuro che sembrava sangue. Il Reggente sbatté le palpebre, in preda a un'improvvisa confusione. Il sangue schizzò all'improvviso dalla profonda ferita che gli si era aperta sulla fronte e prese a colargli lungo il volto, cadendogli sul colletto candido e inamidato della camicia e macchiando le carte che teneva sparse sulla scrivania. Il Reggente si portò tremante una mano alla fronte, nel vano tentativo di tamponarsi la ferita: ma il sangue sgorgava a fiotti, e lui si ritrovò a fissare sconcertato le proprie dita imbrattate di sangue, come se quel liquido scuro e denso che le tingeva non gli appartenesse.

«Theo...»

L'uomo sferrò un altro colpo. Il Reggente barcollò sulla sedia, tendendo le mani verso la scrivania, come a volersi sorreggere. Un altro colpo lo raggiunse violentemente, e lui strinse gli occhi, in una smorfia di dolore. L'uomo lo colpì ancora e ancora, finché il Reggente non chinò il capo sotto i suoi colpi, fissandolo con occhi vitrei e la bocca socchiusa. L'ultimo colpo lo raggiunse alla tempia, sfondandogli il cranio. E allora il corpo esanime del Reggente crollò pesantemente sulla scrivania, per poi scivolare al suolo lento, e senza far rumore.

L'uomo lasciò andare la statua, che cadde con un tonfo sordo sul pavimento di legno; quindi si avvicinò al corpo del Reggente. Rimase a guardarne a lungo il cadavere, che appariva così sottile e asciutto da fare quasi tenerezza: una grossa pozza di sangue scuro si stava allragando sotto la sua testa, imbrattando i capelli grigi che ora gli stavano incollati in modo scomposto sulla fronte spaccata. Senza troppe cerimonie, l'uomo lo scavalcò, spostandolo con il piede e sbuffando. Quindi prese ad aprire i cassetti della scrivania finché non trovò quello che stava cercando.

Sollevò la cornetta del telefono e compose un numero. Attese. Fuori dalla finestra, era esploso il caldo e l'estate. Il vento era cessato e lui si passò la mano sulla fronte, tergendosi dal sudore.

«Pronto?»

«Sono Caprivi» disse l'uomo, col respiro ancora pesante. Dall'altro lato del filo, una voce sospirò.

«Che sorpresa. Come procedono le cose?»

«Ho il libro».

La voce tacque. Theo von Caprivi si passò nuovamente una mano sulla fronte. Si sentiva completamente bagnato e la camicia gli si era incollata al corpo.

«E Gilbert de Molay?»

«Non è più un problema» confermò Caprivi, fissando di sfuggita il corpo del Reggente ai suoi piedi. «Ho anche il nome dell'uomo che è sulle tracce della Ra Arwol. Si chiama Churchill, Winston Churchill...»

«Oggi lei si è preso la sua rivincita, barone Caprivi» fece trionfalmente la voce. «La sua rivincita contro quegli sciocchi che hanno abbandonato lei e il suo paese alla rovina, gettandolo nelle mani inette del Kaiser Guglielmo, costringendola a ritirarsi e a tradire il progetto del suo mentore... il grande Bismarck».

«Io avevo fiducia in loro» sibilò l'uomo. «Bismarck l'aveva. Per anni ho atteso che capissero...»

«Io la capisco» lo interruppe la voce. «L'Ordine la capisce. Noi siamo i suoi amici, gli amici che ha sempre cercato. Ciò che le ho promesso quando si è rivolto a me, e cioè un mondo nuovo, in cui non ci fossero più guerre e distruzione... tutto questo è davvero possibile. Lo costruiremo insieme, noi e lei, insieme ai nostri Signori, i veri padroni dell'universo. E noi regneremo al loro fianco, per il bene dell'umanità».

«Io...»

«Ha il nome di quell'uomo. Sa cosa fare» disse la voce. «Non chiami più questo numero. Penseremo noi a contattarla».

«Signore...»

«Arrivederci, barone».

Caprivi restò a fissare la cornetta del telefono, da cui giungeva flebile un suono monotono e costante. Quindi riattaccò.

«Philosophia vera libertas» mormorò, fissando il libro che teneva in mano. «Ti sei ingannato, Gilbert» fece, lanciando uno sguardo carico di irrisione al cadavere del suo amico. «Non esiste libertà, non per l'uomo. La libertà per l'uomo conduce solo alla sua morte. Ciò che serve all'umanità è obbedienza, e qualcuno in grado di governarla con mano solida. Avresti dovuto capirlo e schierarti dalla parte di chi ha questo potere, come ho fatto io».

Gettò il libro sulla scrivania; quindi si avvicinò al tavolino dove era posato il brandy e rovesciò la bottiglia sul libro e sulle carte sparse attorno ad esso. Estrasse da una tasca una scatola di fiammiferi e ne accese uno, gettandolo sulla pila di carte su cui aveva deposto il libro, che prese subito fuoco. In pochi istanti la pergamena cominciò ad accartocciarsi e ad inscurirsi sotto gli occhi dell'uomo, che brillavano fissi e accesi dal riflesso vivido delle fiamme. Quando il fuoco cominciò ad intaccare anche il legno della scrivania e a diffondersi pian piano nella stanza, aggredendo progressivamente tutto ciò che incontrava, l'uomo fece qualche passo indietro, avvicinandosi alla porta.

Il corpo del Reggente giaceva ormai completamente avvolto dalle fiamme, che si erano estese anche alla libreria, lì accanto. Presto, tutta la stanza sarebbe bruciata sotto l'azione inesorabile del fuoco, che si sarebbe poi spinto nelle stanze attigue, allargandosi infine a tutto il palazzo del Consiglio, riducendolo a un cumulo di cenere e macerie.

«La condizione di essere un uomo, è ciò che è per importanza» commentò l'uomo, con una smorfia. «Su questo tu e il Consiglio avevate ragione, Gilbert. Spero che ti piaccia quella in cui ti trovi ora».

Prima di uscire, Caprivi lanciò un'ultima occhiata all'interno. Poi, scrollando le spalle e allacciando la giacca uscì, tirandosi dietro la porta.

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Capitolo 10
*** 9 ***


L'orologio ticchettava rumorosamente. Winston, disteso sul letto e con le braccia dietro la nuca, si volse a guardarlo: l'aveva lasciato aperto sopra al cuscino, accanto alla sua testa, perché potesse leggere l'ora semplicemente voltandosi. E così fece, per l'ennesima volta in quella notte insonne: stancamente, spostò gli occhi sul quadrante ingiallito di quella vecchia cipolla e sbatté le palpebre appesantite davanti alle sottili lancette dal riflesso bluastro. Erano le sette meno un quarto. Ormai era ora. Doveva alzarsi.

Si sollevò con riluttanza, mettendosi a sedere sul bordo del letto. E con le mani abbandonate in grembo, se ne stava lì, raccolto in sé stesso, senza pensare a nulla: finché un'improvvisa consapevolezza non lo spinse ad aprire la mano destra e a fissare, con sguardo che via via si rannuvolava, il foglio accartocciato che ancora stringeva in pugno. Lo prese, svolgendolo con entrambe le mani, lentamente. Quindi lo girò e lo voltò, rileggendolo ancora una volta.

C'erano alcune parole, scritte a mano in un'elegante calligrafia, che attiravano ossessivamente la sua attenzione. Per quanto cercasse di evitarle, conoscendo il turbamento che gli avrebbero provocato, il suo sguardo cadeva inevitabilmente su di esse, e vi rimaneva fintanto che i pensieri più disparati non cominciavano a prendere corpo nella sua testa stanca, affollandola.

Egregio Mr. Churchill, siamo dolenti di informarla...

Winston si portò una mano alla nuca, lisciandosi i folti capelli scuri. Serrando le labbra, si alzò in piedi, strizzando e accartocciando rumorosamente il foglio prima di gettarlo con noncuranza lontano da lui, sul letto, come fosse una cosa inutile; quindi, con passo stanco e assonnato, si avvicinò barcollante al lavabo, seminudo e scalzo, con le bretelle che penzolavano dai pantaloni sgualciti che ancora indossava dal giorno prima.

Sei proprio uno schifo, pensò, scansando con gli occhi l'immagine allo specchio. Svogliatamente, versò dell'acqua nel catino, intingendovi le mani e spruzzandosi la faccia, prima di sfregarsela con vigore.

Come di routine, si rasò accuratamente e si pettinò i folti e mossi capelli scuri, lisciandoseli all'indietro e fissandoli con una buona dose di pomata. Con attenzione scrupolosa, osservò l'immagine nuova del suo volto che ora gli rifletteva il piccolo specchietto tondo: c'era sempre qualche ricciolo ribelle, che non voleva saperne di stare al suo posto... Winston sorrise. Ribellione, incapacità di stare al proprio posto... era la storia della sua vita. Con un gesto deciso del pettine, ricondusse nei ranghi anche l'ultimo dei suoi riccioli scuri.

Si voltò. Sul letto, tra le lenzuola spiegazzate, trovò la sua camicia. Winston la prese tra le mani, rigirandosela davanti agli occhi. Non poteva indossarla, era troppo sgualcita. La gettò stancamente sul letto, e scostò la sedia che usava per tenere chiuse le ante del vecchio armadio sgangherato, da cui tirò fuori una camicia pulita, l'unica che gli restava dopo aver fatto le valigie, e un vestito nuovo a sufficienza per sembrare elegante. Winston fissò tristemente l'armadio ora vuoto, prima di spostare i suoi occhi sul resto del suo appartamento. Cosa c'era di lui in quel tugurio? Nulla che gli sarebbe spiaciuto lasciare. Non ora, almeno, dal momento che tutto quello in cui sperava aveva perso improvvisamente di significato. Aveva lasciato gli ultimi anni della sua vita in quel posto, abbracciando la ferrea disciplina del Consiglio, rinunciando alla sua vita di agi e di affetti per inseguire un sogno che, in fondo, non era nemmeno il suo. E il risultato era lì, sopra le lenzuola, tra le righe vergate a mano di quel foglio accartocciato.

Con un sospiro, Winston gettò il vestito sul letto e indossò la camicia. Profumava di nuovo, e quell'odore piacevolmente fresco e pulito gli strappò un sorriso di lieve compiacimento.

Stava per allacciarsi i polsini, quando qualcuno bussò alla sua porta. Aggrondò. A parte qualche ragazzetta di passaggio di cui non ricordava nemmeno il nome, nessuno era mai andato a cercarlo a casa sua. Winston lanciò un'occhiata veloce all'orologio, richiudendolo con uno scatto, seccato. Erano le otto meno cinque. Non aveva molto tempo. La nave per il Brasile, prima tappa nel uso viaggio verso la Bolivia, sarebbe partita a mezzogiorno, e lui doveva ancora passare a prendere Lisa e Tippett.

«Winston Churchill?»

Due uomini in completo scuro fissavano Winston con insistenza, attraverso la porta leggermente socchiusa. A Winston bastò un'occhiata per capire subito con chi aveva a che fare e spalancò la porta, facendosi da parte.

«Entrate» si limitò a dire. Uno dei due fece un passo avanti, mentre l'altro prese posto all'esterno, piantandosi sull'ingresso a gambe larghe.

Tirapiedi, pensò Winston, lanciandogli un'occhiata al colmo della noia e richiudendosi con indifferenza la porta alle spalle.

«Due agenti del Consiglio, nientemeno» commentò sarcastico, mentre ancora cercava di allacciarsi un polsino della camicia. «Dev'esserci davvero un valido motivo se il Consiglio vi ha mandato qui, tirandovi giù dal letto a quest'ora».

Un rumore insolito lo spinse ad alzare gli occhi. Con il sorriso che gli moriva in volto, Winston fissò confusamente il volto dell'uomo e la pistola che questi gli puntava addosso.

«Con i saluti della Reggenza» disse l'uomo, senza scomporsi. E prima che Winston potesse anche solo muovere un muscolo, nella stanza esplose uno sparo.


*


«Gradisce un sigaro, mr. Tippett?»

In piedi, accanto alla finestra da cui attendeva da ormai due giorni il ritorno di Churchill, Lisa si volse, lanciando ad Hunter uno sguardo corrucciato.

«Con molto piacere mr. Hunter» gli rispondeva Michael, accettando con un inchino il sigaro che il suo principale gli stava porgendo. Entrambi risero. E Lisa, infastidita da quella che riteneva una dimostrazione di leggerezza un po' incosciente, li squadrò, scuotendo la testa in segno di disappunto.

«Possibile che voi due non sappiate far altro che giocare?» squittì. Hunter rise, avvicinando un fiammifero al sigaro di Michael, dopo che si era acceso il suo.

«Avanti, Lisa» fece, agitando il cerino per spegnerlo. «Stiamo solo festeggiando un po'. Dal momento che oggi è l'ultimo giorno che passeremo in questa dannata casa, mi sembrava una buon cosa celebrare la nostra partenza con un bel sigaro. Vero, Tippett?»

«Guardate che non è uno scherzo» fece Lisa imbronciata, incrociando lo sguardo divertito di Michael. Intimidito, lui abbassò subito gli occhi. «Non solo ne va della nostra vita, ma anche di quella di Nadia... e voi state lì a...».

«Questo lo sappiamo» la interruppe Hunter, con sguardo improvvisamente fosco. «Non prenderci per due stupidi. Stiamo solo cercando di rilassarci un po', cosa che farebbe bene anche a te, signorina».

Lisa avvampò, trattenendo a stento la collera. Sapeva che Hunter aveva ragione e si vergognava un po' di essere esplosa in quel modo, rimproverando i suoi amici ingiustamente, come se a loro non interessasse nulla di Nadia: ma aveva una fretta dannata di partire e allo stesso tempo una paura folle di quello che sarebbe potuto succedere a tutti loro nel momento in cui avrebbero lasciato le pareti sicure di Westwood Manor. E il fatto che Winston fosse ormai in tremendo ritardo non migliorava certo la situazione.

«Ancora non si vede» mormorò lei, torcendo gli occhi verso la pendola. «Sarebbe dovuto passare alle nove... o almeno così ci aveva detto...»

«Arriverà» commentò Hunter, con sicurezza. «Avrà avuto un qualche contrattempo».

«Sì, ma...»

Michael prese a tossire violentemente. Spaventata, Lisa corse al suo fianco, notando con preoccupazione che il volto di lui, già estremamente pallido, aveva improvvisamente assunto un colorito verdognolo. Nel vederlo così conciato, Hunter scoppiò a ridere.

«Oh, Michael» lamentò Lisa, poggiandogli una mano sulla schiena «lo sanno tutti che non si respira il fumo del sigaro...»

Michael sollevò gli occhi a fissarla smarrito e lei scosse la testa, sconsolata. Hunter si batté una mano sulla fronte, senza riuscire a frenare le proprie risate.

«Gesù, Tippet, sei proprio un idiota...»

«Arriva qualcuno...» tossì Michael, indicando vagamente fuori dalla finestra. Lisa rizzò il busto, voltandosi in preda a una improvvisa agitazione. Era vero. Il rumore di una carrozza si levò lungo il viale di ghiaia battuta. Lisa si precipitò alla finestra, appena in tempo per vedere la vettura fermarsi davanti all'ingresso del portico.

«È arrivato finalmente!» esclamò. E senza aggiungere altro, si precipitò fuori dalla stanza, sfrecciando lungo gli ampi corridoi vuoti, con il cuore che le scalpitava in petto come impazzito. Raggiunse rapidamente la porta d'ingresso, scansò la guardia che tentava di bloccarla e schizzò fuori dall'immenso portone, andando letteralmente a sbattere contro l'uomo che stava risalendo le scale del portico.

Con un moto di sorpresa, Lisa alzò gli occhi sul volto di lui, un volto ampio e sorridente, la cui barba estremamente curata e i lisci capelli bianche pettinati con cura conferivano al suo possessore un aspetto nobile ed elegante.

«Chi è lei?» chiese, smarrita. «E dov'è Churchill?»

«Temo che Churchill non verrà» rispose l'uomo, sorridendole in modo affabile. «Ma perché non mi segue dentro? Sono certo che avremo modo di spiegarci con calma, signorina Stanfields».


*


Winston respirò, riaprendo gli occhi. Era ancora vivo.

Si volse con circospezione: c'era un uomo sulla porta, che reggeva tra le mani una pistola dalla cui canna si levava ancora un rivolo di fumo. Con un sospiro, Winston si rilassò, improvvisamente sollevato; ma sentiva un disperato bisogno di sedersi, dal momento che le gambe non lo reggevano più.

«Cecil» mormorò, cercando una sedia con le mani che gli tremavano. «Buon dio, non sono mai stato tanto felice di rivederti».

«Temo non ci sia tempo per i convenevoli, Winston» rispose Cecil seccamente, mentre trascinava dentro l'appartamento il corpo dell'uomo che era rimasto a far la guardia fuori dalla porta. «Stavolta sei in un gran casino».

Sorpreso, e ancora sconvolto, Winston sollevò gli occhi sul volto tirato dell'amico, che ora si era messo a controllare ad ogni finestra con estrema circospezione.

«Si può sapere che diavolo significa tutto questo?» gli chiese.

«Dobbiamo andarcene» disse semplicemente Cecil, guardandosi intorno, come se cercasse qualcosa. «Presto ne arriveranno altri».

A quelle parole, Winston scattò in piedi, livido.

«Dannazione, ne ho abbastanza!» sibilò, lanciandosi contro l'amico ed afferrandolo per il bavero della giacca. «Vuoi spiegarmi che accidenti succede? Perché il Consiglio decide di farmi fuori proprio il giorno in cui devo partire alla ricerca della Regina? E perché tu sei venuto qui, come se sapessi esattamente quello che stava accadendo?»

«Il Consiglio non c'entra...»

«Non raccontarmi balle!» sputò rabbioso Winston, scrollando Cecil furiosamente e sbattendolo contro il muro. «Quel tipo mi ha puntato addosso una colt 45 d'argento, per la miseria. Solo noi le usiamo, è il nostro marchio di fabbrica e lo sai anche tu. Quindi smettila di prendermi in giro, e dammi un buon motivo per non buttarti dalla finestra!»

Cecil lo fissò, teso, stringendo le labbra. «Il Reggente è morto» disse. Winston lo fissò vacuamente, il volto che gli si decomponeva in una smorfia di terrore e incredulità.

«Che cosa? Quando?»

«Ieri. L'hanno assassinato, prima di dare il palazzo del Consiglio alle fiamme. Si pensa che chiunque sia stato fosse qualcuno all'interno dell'organizzazione, qualcuno vicino al Reggente, e che poteva accedere a quelle stanze senza destare sospetti».

Winston socchiuse gli occhi, in preda a un tremendo presentimento. Non c'erano molte persone che rispondessero a quella descrizione. E lui era forse l'unico a incarnare insieme tutte quelle caratteristiche.

«Aspetta un momento, non penserai...»

«No, idiota, non io» fece Cecil, divincolandosi e liberandosi dalla stretta di Winston «ma tutti al Consiglio pensano che sia stato tu. Rifletti, maledizione: tu eri l'unico a poter entrare nelle stanza della Reggenza liberamente, l'unico a poter contattare il Reggente con un qualche pretesto. L'unico che poteva ucciderlo e andarsene inosservato. Nei giorni passati sei stato visto spesso a palazzo, e poi sei improvvisamente sparito. Ammetterai che è tutto molto strano».

Winston si passò una mano sul volto e sulla nuca, nervosamente.

«Ero andato a prendere le consegne prima della partenza» si giustificò «Avevo l'ordine di partire per la Bolivia, in segreto...»

«Questo spiegherebbe molte cose» ammise Cecil. «Ma ormai, dubito che qualcuno sia disposto ad ascoltare le tue motivazioni. L'ordine è praticamente di spararti a vista».

Winston si prese il volto tra le mani.

«Dio, non avrei mai immaginato che potesse succedere una cosa simile...»

«Ma è successa» fece Cecil, cupamente. «E ti dirò di più: esiste la prova che De Molay aveva ordinato di fermarti prima che partissi per la Bolivia. Una lettera, scritta di suo pugno prima che morisse».

«E allora? Questo non significa nulla...»

Cecil sbuffò. «Significa tutto, invece. Winston, il Reggente è stato assassinato, il palazzo Consiliare distrutto... una lettera del Reggente in cui si ordina di fermarti salta fuori all'improvviso... tu che risulti irrintracciabile... ammetterai che il sospetto è legittimo».

«E dove si trova ora questa lettera?»

«Dove dovrebbe essere. Tra le mani del nuovo Reggente».

Winston scosse il capo, incredulo. «Il nuovo Reggente? E chi sarebbe?»

Cecil sorrise con una smorfia. «Theodor von Caprivi».

Winston sbatté le palpebre, assolutamente sorpreso. «Caprivi?» esclamò. «Cecil, c'è qualcosa che non quadra» aggiunse, dopo un attimo di esitazione. «Non si elegge un Reggente di punto in bianco, tanto meno Caprivi. C'è un protocollo da seguire».

«La situazione è insolita, Winston» ammise Cecil. «Le circostanze impongono misure straordinarie. Caprivi ha assunto la Reggenza in via eccezionale, in quanto è il più alto in grado all'interno dell'intero Consiglio. Inoltre, sembra che la lettera che ti incrimina sia stata spedita a lui da De Molay in persona, il giorno stesso della sua morte; e questo fa di lui una persona degna della massima fiducia. È come se fosse stato designato suo successore dallo stesso De Molay».

«Se le cose stanno così, perché sei venuto a salvarmi?»

Cecil sospirò. «Confesso che non ero affatto sicuro che tu fossi innocente. Ma non riuscivo nemmeno a pensare che fossi colpevole. Il Churchill che ho conosciuto in India non sarebbe mai stato capace di fare una cosa simile... non l'uomo che ha combattuto al mio fianco ogni giorno per tre anni».

«Beh, ti ringrazio per la fiducia» fece Winston, con mal celata ironia. «E anche per la sincerità».

«Cerca di capire, tutto era contro di te» si scusò Cecil. «Sono venuto qui apposta, trasgredendo a un'ordine preciso, perché volevo sincerarmi di persona. Se fossi stato responsabile, ti avrei ucciso con le mie mani, a costo di strapparti a questi due. Ma quando sono entrato e ti ho visto completamente colto alla sprovvista, ho capito che non potevi essere davvero coinvolto. Era evidente che non avevi la più vaga idea di quello che stava accadendo. Altrimenti non avresti mai fatto entrare quelle guardie».

«Ma hai comunque ucciso una di loro, prima di entrare» notò Winston. Cecil abbassò lo sguardo sul corpo della guardia che aveva appena trascinato dentro.

«No, è solo svenuto» disse, stringendosi nelle spalle. «Se rinviene prima che ce ne siamo andati, ricordati di colpirlo forte» aggiunse con un sorriso.

«Grazie tante» commentò amaro Winston «Non hai bisogno di ricordarmelo».

«Sul serio?» sbuffò Cecil. «Dopo quello che ho visto poco fa, non mi stupirei se ti fossi persino dimenticato come si usa una di queste» disse, agitando la mano con la pistola. «Ti sei fatto sorprendere come un vero cretino».

In tutta risposta, Winston lo fissò con un ghigno sul volto. «Non sono più un agente segreto, Cecil» disse «anzi, non lo sono mai stato. Quella dell'agente segreto è la tua vita, non la mia. Io sono solo un messo diplomatico».

«Dimenticati della diplomazia» fece Cecil, controllando la carica del revolver per poi richiuderlo con uno scatto «questa gente non ha bisogno di nessun permesso in carta bollata per piantarti una pallottola in fronte. E adesso muoviti, non abbiamo tempo da perdere in chiacchiere».

Winston raccolse velocemente la sua roba, travasando l'essenziale del suo bagaglio in un semplice sacco da viaggio. Quindi estrasse la sua pistola da sotto il materasso, controllò che fosse carica e la infilò nella tasca interna del soprabito.

«Preso tutto?» chiese Cecil, nervosamente. Winston lanciò un ultimo sguardo in giro. Quindi annuì, fissandolo in volto, serio.

«Dì un po', ti rendi conto che hai disertato, vero?» gli disse. «Ora sei nei guai fino al collo, proprio come me».

«Vorrà dire che verrò con te» rispose Cecil, scrollando le spalle. «Non potevo certo permettere che tu morissi, Winston. Sei l'uomo di fiducia di De Molay, sei l'unico che conosca i suoi piani e quello che aveva deciso. Sei stato l'ultimo a parlare con lui, conosci i suoi segreti. Se tu fossi morto, il Consiglio sarebbe stato spacciato. Proprio come sperava Caprivi».

«E il fatto che sono tuo amico, non conta?»

«Meno del resto».

Winston sospirò, caricandosi meglio il sacco in spalla. «Pensi che Caprivi sia coinvolto con l'Ordine?» chiese. Cecil fece una smorfia.

«E tu hai ancora qualche dubbio?» disse, indicando i corpi delle due guardie. «Avanti, muoviamoci. Dobbiamo passare a trovare tuo padre. Devi avvertirlo, che sparisca. Nessuno della tua famiglia è al sicuro, ora: e anche se tuo padre è un Lord, il Consiglio non si fermerà davanti a nulla pur di fermarti, tanto meno a un titolo nobiliare».

«Mio padre è morto» fece Winston, scuro in volto ma senza mostrare alcuna emozione. «Mi è stato comunicato per lettera, proprio ieri. Ormai non c'è più nessuno che debba mettere al sicuro».

Cecil rizzò il busto, sinceramente colpito. «Mi dispiace» disse, semplicemente. «Era un brav'uomo».

«Succede» tagliò corto Winston. «Non ti preoccupare».

«In questo caso» riprese Cecil, «Non abbiamo nulla che ci trattenga oltre, qui. Filiamocela».

Winston sospirò, lanciando un'occhiata ai corpi dei due agenti e al suo appartamento. Solo allora si ricordò che in realtà c'era qualcuno che lo aspettava, e che avrebbe dovuto assolutamente avvertire.

«Aspetta, dobbiamo andare a Westwood Manor» fece, in preda a un'improvvisa agitazione. «Le persone che si trovano là sono sotto la mia protezione e potrebbero essere in pericolo».

«Winston» sibilò Cecil, avvicinando il suo volto a quello di lui, «ormai quella gente sarà già bell'e che morta. Smettila di preoccuparti di queste sciocchezze. Devi pensare prima di tutto al tuo incarico. Io ti condurrò alla nave che devi prendere, e tu ci salirai. Chiuso. Non c'è tempo per nient'altro, se vogliamo ancora salvare il salvabile».

«Ma non possiamo...»

«Winston, giù!»

Uno sparo risuonò dal palazzo di fronte, seguito dal rumore di vetri infranti. Le grida di terrore dei passanti, che in quel momento attraversavano più in basso la strada, esplosero all'improvviso mentre Winston, schiacciato a terra nel suo appartamento, si guardava attorno spaesato, premendosi le mani sopra la testa. Accanto a lui, disteso al suolo, Cecil lo fissava con gli occhi sbarrati, senza vita.

«No! Maledizione».

Winston sollevò cautamente il capo. Un altro sparo echeggiò e nuove grida si levarono dalla strada. Il proiettile passò sibilando proprio sopra la sua testa, prima di conficcarsi con un suono sordo nel muro alle sue spalle.

Cristo...

Dei passi, lungo le scale... qualcuno che saliva, di corsa.

Se non pensava a una soluzione, presto sarebbe morto.

Pensa, dannazione, pensa!

I passi si facevano sempre più vicini. Ma tutta quella confusione nella testa di Winston durò solo un attimo. Improvvisamente, ricordò tutto quello che gli era stato insegnato. Ora sapeva esattamente cosa fare.

E così, con un respiro, si portò una mano al petto, stringendo le dita intorno all'impugnatura della sua colt nascosta sotto il soprabito. Sollevò il cane, preparandosi all'inevitabile, proprio mentre la porta si apriva. Non sapeva quello che sarebbe successo, ma di una cosa era assolutamente sicuro. Avrebbe venduto cara la pelle.


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Capitolo 11
*** 10 ***


Sola nella sua stanza, Nadia piangeva. L'eco smorzato dei suoi singhiozzi si spegneva come un soffio contro le pareti di metallo lucido, che agli occhi di lei sembravano assorbire ogni luce e ogni speranza.

Non c'era nulla da fare: aveva provato a sfuggire al suo destino, in tutti i modi. Ma non si poteva, non c'era modo di scappare. Lei era Nadia Ra Arwol, ed era un'atlantidea. Per quanto potesse sognare di vivere una vita normale, per quanto potesse sperare di lasciarsi tutto il suo passato alle spalle, lei era quello che era. Un essere misterioso ai più, non umana, neppure terrestre.

...ma sempre e comunque sola...

Un singhiozzo più forte degli altri la scosse con un brivido. Odiava piangere. Aveva giurato a se stessa che nulla, per quanto grave o difficile da affrontare, l'avrebbe mai più spinta a umiliarsi, e a versare altre lacrime. Quando cinque anni prima si era trasferita in Inghilterra, sola e con in tasca quattro spiccioli e una buona dose di ingenuità, si era trovata a fare i conti con una realtà ben più dura di quanto non si aspettasse. Credeva che l'essere da sempre abituata a badare a se stessa le sarebbe stato di aiuto, ma si sbagliava. Non si era ancora resa conto che, anche quando si era creduta sola in passato, come al circo quando era bambina, aveva sempre avuto qualcuno intorno a lei che la proteggeva e la faceva sentire parte di una comunità, per piccola e sgangherata che fosse. Ma una volta a Londra, si era trovata completamente e inesorabilmente sola forse per la prima volta in tutta la sua vita. E con sgomento capì quale vita le era già stata assegnata, e ciò che le sarebbe stato consentito di essere: una donna, una straniera senza cultura né famiglia, e senza una storia da poter raccontare; invisibile, si sarebbe mossa come uno spettro ai margini della città, raccattando rifiuti su rifiuti alle porte a cui avrebbe osato bussare; e oscenità, da parte di chi non vedeva in lei che un giocattolo, l'occasione con cui divertirsi senza nemmeno il bisogno di lavarsi la coscienza.

Quanto aveva pianto allora lo ricordava bene, come fosse ieri. Aveva terminato tutte le lacrime: e per questo giurò che non avrebbe pianto mai più. Trovò il coraggio per chiedere un prestito, qualcosa che ferì il suo orgoglio in modo crudele e indelebile. E sebbene la persona a cui si rivolse fu lo stesso Jean, quel Jean che non le aveva mai rifiutato un aiuto, accettando quel prestito lei si sentì come se avesse tradito e ucciso se stessa. Per questo lo allontanò progressivamente da lei, approfittando anche della distanza che al momento li separava, finché non fu in grado di restituirgli fino all'ultimo centesimo. Solo così, pensava, tutto sarebbe potuto tornare normale. Ma qualcosa si era ormai incrinato, tra loro. Quel prestito l'aveva segnata, facendola sentire inferiore, inadatta, spingendola persino a detestare la persona che glielo aveva concesso, perché alimentando con la sua generosità la prostrazione in cui lei già versava, lui non aveva fatto altro che gettarla di fronte alla propria miseria, al suo costante bisogno di aiuto. Forse fu proprio per la bontà di Jean che tutto andò a rotoli. O forse, fu perché lei era troppo orgogliosa per ammettere che, al di là di tutto, non avrebbe mai smesso di aver bisogno di lui, in futuro, e del suo amore.

Tutto ciò era assurdo, perché quel prestito le era stato davvero necessario e Jean aveva fatto un grosso sacrificio per aiutarla. Ma per quanto ne fosse consapevole, per quanto gli fosse profondamente, estremamente grata, non riusciva a togliersi dalla testa che agli occhi di lui e di quelli come lui, quelli che possiedono i soldi, e una casa e una famiglia alle spalle, coloro per cui le biblioteche sono aperte senza richiedere un accompagnatore, e per cui ogni college organizza cerimonie di laurea e corsi annuali... per lui e per tutti loro, qualsiasi cosa lei avrebbe mai potuto fare o guadagnare, sarebbe stato un suo trionfo, di lui e dei suoi soldi. Il trionfo della sua generosità passata, del suo amore, della sua dedizione. Tutto ciò che lei avrebbe ottenuto, sudando e lottando, sarebbe stato nulla, destinato ad essere messo in ombra da ciò che lo aveva reso possibile. E tutto questo lei non poteva assolutamente sopportarlo.

Con un sospiro, Nadia si passò una mano sugli occhi lucidi di lacrime. Cercò un fazzoletto, per pulirsi il volto, ma non lo trovò. Non aveva nulla, con sé. Smarrita, si guardò intorno, impotente. Se qualcuno l'avesse vista in quelle condizioni, avrebbe provato pietà di lei. Un'altra cosa che non voleva assolutamente. Ciò che sentiva, le sue emozioni come le sue sensazioni, erano qualcosa di assolutamente privato, a cui nessuno aveva il diritto di prendere parte.

Si alzò, avvicinandosi con un sospiro rassegnato al tavolino, su cui era posata una caraffa di cristallo colma d'acqua, con accanto alcuni bicchieri. Fece per servirsene, ma era come se le sue mani non volessero ubbidirle. La caraffa le scivolò, andando a rovesciarsi sul tavolo. Con un lamento, Nadia fece per sollevarla, ma le cadde nuovamente dalle mani, infrangendosi sul pavimento. Innervosita, si chinò a raccogliere i cocci, ma inavvertitamente si tagliò il palmo della mano: con un sibilo, Nadia restò a fissare il sangue vermiglio che le fuoriusciva dalla ferita, scorrendole lungo il palmo e giù, fino al polso; finché, cedendo a tutta la rabbia e la frustrazione che ormai la divoravano, si alzò di scatto, rovesciando intenzionalmente il tavolo e i bicchieri, che andarono a finire sul pavimento in mille pezzi, al suono come di tante campanelle agitate dal vento.

Con nervosismo crescente, Nadia cercò qualcosa con cui tamponare la ferita. Non c'era nulla, non un asciugamano, né un catino per lavarsi. Al colmo della rabbia, prese a guastare il letto, stracciando le lenzuola di lino sottile e ricavandone una pezza che si arrotolò alla mano. Se solo avesse potuto, avrebbe distrutto quella stanza proprio come aveva fatto a pezzi il lenzuolo e tutto il resto: così, senza motivo, per il solo gusto di farlo, e provando un piacere indescrivibile nel farlo.

La porta della stanza si aprì in quel momento, con un soffio leggero. Sulla soglia, la figura snella di Faloe si stagliò con la consueta eleganza: ma non appena la ragazza fu entrata, il volto sottile le si scompose dalla sorpresa, nel vedere il lenzuolo ridotto in pezzi, la caraffa e i bicchieri in frantumi e il tavolo rovesciato. Fissò perplessa in direzione di Nadia che, seduta sul letto disfatto, fissava in silenzio a terra, il volto tirato in una maschera di rabbia livida.

«Maestà....»

Nadia si sentì invadere da un vortice confuso di sensazioni. Avrebbe voluto fare di tutto, ma l'unica cosa che riuscì a fare fu distogliere lo sguardo dal volto sconvolto di lei. Sentiva gli occhi gonfi, che tremavano di pianto e avvertiva su di sé lo sguardo acuto e indagatore di quella donna. Ne fu spaventata. Non voleva che la vedesse piangere.

Faloe si avvicinò timidamente, chinandosi a terra e raccogliendo i cocci, asciugando l'acqua con i resti del lenzuolo. Sollevò lentamente gli occhi, cercando e fissando preoccupata quelli di lei. Per un attimo, per un solo singolo istante, fu come se in quello sguardo che le univa, le due donne si fossero tese la mano al di là dell'abisso che le separava. E nonostante l'odio e l'avversione che Nadia provava per quella donna e per quello che le rappresentava, fu come se il dolore che parlava segretamente ad entrambe dall'angolo più oscuro e remoto del loro cuore, fosse sorto improvviso innanzi a loro, ergendosi vivido tra i riflessi sinceri dei loro occhi. E quando di fronte allo smarrimento di Nadia anche gli occhi solitamente freddi e inespressivi della donna tremarono, come per la scintilla di una consapevolezza inattesa e precisa, tutta quella distanza e quell'incomprensione che si levava fino a quel momento tra loro a dividerle svanì, lasciandole una di fronte all'altra, niente più che due donne, due esseri soli e sofferenti. Fu allora che Faloe tese una mano, posandola su quella straziata di Nadia. Un brivido percorse entrambe, raggrumandosi in un sospiro mozzato che nessuna di loro esalò mai: e con le lacrime a stento trattenute, si guardarono l'un l'altra, lontane eppure vicine, così diverse, eppure così simili. Avrebbero potuto essere amiche. Avrebbero potuto volersi bene se la vita avesse agito diversamente. Ma non fu che il pensiero di un attimo; e infatti svanì, con la stessa urgenza con cui un istante prima aveva attraversato la loro mente.

«Vi porto qualcosa per medicarvi» le disse Faloe, nuovamente padrona di sé, ritirando la sua mano. Nadia rabbrividì e scosse il capo.

«No. La ringrazio» ribatté, recisamente. «Va bene così».

«Il comandante vi ricorda che siete libera di incontrare i vostri amici quando preferite»

«Dica al comandante che lo ringrazio per la libertà che mi concede» fece Nadia, sprezzante. Faloe abbassò il capo, triste.

«Maestà, se posso fare qualcosa...»

«Vuole fare qualcosa? Mi faccia andare via da qui, insieme ai miei amici» disse Nadia. Quindi si lasciò cadere in ginocchio di fronte a lei, prendendole le mani. «Potrebbe farlo? Può aiutarmi?» la supplicò. Faloe la fissò spaventata e sconvolta, ma subito il suo volto ritornò a farsi duro e inespressivo.

«Riferirò al comandante che siete stanca. Vedrete i vostri amici più tardi» disse, alzandosi in piedi. Nadia si accasciò, portandosi le mani alle tempie. Faloe, in piedi davanti a lei, la fissava con un'espressione indecifrabile.

«Il comandante è un brav'uomo» disse, con un filo di voce. Senza alzare la testa, Nadia scoppiò a ridere.

«Il comandante è un assassino» ribatté, lanciandole un'occhiata di fuoco. Faloe abbassò gli occhi. Si rigirò tra le mani un brandello di cotone che prima era appartenuto al lenzuolo.

«Dove abitiamo, c'è una guerra civile» disse. Nadia spostò gli occhi su di lei, stringendoli leggermente. «Sono ormai diversi anni che va avanti. Il popolo è allo stremo. Gli atlantidei cercano di sopravvivere e di riportare l'ordine, ma se non troviamo una soluzione, presto verremo tutti...»

Nadia aggrondò, ascoltandola con le labbra socchiuse.

«Cosa?»

Faloe fissò gli occhi in quelli di Nadia. Per un attimo, scintillarono come accesi da un fuoco, lo stesso fuoco terribile che bruciava in lei probabilmente da tanto, tanto tempo, e che Nadia aveva sentito così vicino e caldo solo pochi istanti prima.

«Fu il comandante a salvarmi» confessò la ragazza. «Mio padre era un Sacerdote del Tempio, una carica molto importante su Atlantide; io ero la sua figlia maggiore. Eravamo una bella famiglia. Ci volevamo bene, o almeno è quello che mi ricordo».

Nadia scosse il capo. Avvertiva qualcosa di pesante, tutto intorno a sé, come se il fuoco che divorava quella ragazza dall'interno si stesse progressivamente estendendo al di fuori di essa, fagocitando tutto ciò che incontrava. Si sentì come soffocare da un dolore bruciante ma ancora lontano, la cui presenza, tuttavia, si affacciava a lacerarla come una minaccia, dentro di sé. Era qualcosa di indefinibile, che la spingeva a nascondersi a quanto quella donna le stava raccontando.

«Un giorno, i ribelli attaccarono il nostro villaggio. Noi ci barricammo in casa, ma non servì a molto. Alcuni dei nostri servi ci tradirono: aprirono le porte e si unirono ai ribelli, che si riversarono in casa; spinti dall'odio e dalla rabbia, distrussero tutto ciò che trovavano, massacrando ogni membro della mia famiglia e quanti dei servi osarono difenderci. Tutto sotto i miei occhi».

Un velo di lacrime calò sugli occhi di Nadia. Si portò una mano alle labbra, tremante, incapace di ascoltare oltre.

...avevo una sorella... fu quello che udì. Ma ciò che credette di sentire, ciò che quella donna le stava confessando, era troppo perché potesse essere vero, troppo perché potesse essere ascoltato. Con un gemito, Nadia si coprì gli occhi con le mani, scoppiando in lacrime.

«Il comandante mi trovò ancora viva, semi incosciente, abbandonata da quelle bestie come uno straccio in mezzo a ciò che restava della mia casa. Mi curò, e quando fui ristabilita mi mandò all'accademia, perché venissi, addestrata. Il giorno stesso in cui divenni ufficiale, si presentò a me e mi chiese se volevo seguirlo, entrare nel suo reggimento. Io ne fui onorata e risposi di sì. Ciò che fece, subito dopo, fu riportarmi a casa mia. Non c'era motivo per tornare, la mia casa era distrutta, non avevo più nulla. Tornare in quei luoghi significava rivivere quel dolore atroce. Per un po' non capii, e lo odiai per quello che mi costringeva a fare. Ma quando arrivammo, trovai i suoi soldati che sorvegliavano tutti coloro che avevano assalito la mia famiglia. Erano tutti là, davanti a me, legati in ginocchio davanti a quello che un tempo era stato l'ingresso della mia casa. Il comandante si era messo sulle tracce di quegli uomini fin dal primo giorno in cui avevo messo piede in accademia e li aveva stanati, uno dopo l'altro. Ricordavo bene i loro volti, non avrei mai potuto dimenticarli. Mi chiese se volevo che morissero. Risposi di sì. Senza dire nulla, li uccise tutti, uno per uno, personalmente. E io restai a guardare mentre lo faceva».

Nadia scosse il capo, gemendo.

«Il comandante è un brav'uomo» disse Faloe. «Dategli una possibilità. È tutto ciò che vi chiedo».

«Quello che mi ha raccontato» fece Nadia, sollevando gli occhi su di lei «è spaventoso».

«Questo è quello che su Atlantide accade ogni giorno» commentò Faloe, dura. «Ognuno di noi sceglie il mostro contro cui combattere. Non è possibile restare neutrali: per noi, anche solo il fatto di voler vivere comporta una scelta ben precisa».

Nadia si asciugò le lacrime. Non poteva, non riusciva a capire tutto quell'odio. Di fronte al suo silenzio, Faloe restò a fissarla per qualche istante. Quindi «se non volete farlo per lui, fatelo per me, per quello che ho vissuto. Noi tutti abbiamo bisogno di voi, perché ciò che vi ho raccontato, non accada più a nessuno».

«Ma come posso, io...» lamentò Nadia. Faloe sorrise, per la prima volta da forse troppo tempo. E fu come se il volto le si trasfigurasse per quell'ombra di serenità che le comparve agli angoli della bocca.

«Voi siete la Regina di Atlantide» disse. «Non c'è nulla che non possiate fare».

Nadia abbassò gli occhi.

«Venite» disse Faloe, tendendole la mano. «Vi porterò ad incontrare i vostri amici».



*



«Maledizione, Hanson. Vuoi smetterla di ingozzarti?»

Stravaccato sul divano di quella piccola stanzetta in cui erano tutti raccolti, Sanson fissava di traverso il cugino, che divorava con gusto l'ennesima porzione di dolce.

«Non so cosa farci» rispose Hanson scrollando le spalle, un attimo prima che spazzolasse via l'ultimo boccone. «Ho una fame...»

«Che schifo» mormorò Sanson con una smorfia. Non riusciva a capire come si potesse avere tutta quella fame. Per quanto lo riguardava, non aveva toccato quasi cibo. Un po' perché non si fidava affatto dell'improvvisa gentilezza che quei tipi avevano preso a mostrare nei loro riguardi; un po' perché la situazione in sé e per sé non era per nulla chiara. Non aveva ancora capito chi fosse quella gente, perché fosse lì e perché li avesse attaccati per poi salvarli e rimpinzarli di cibo. E finché non fosse riuscito a rispondere a queste domande, di certo non avrebbe abbassato la guardia.

E poi, non aveva ancora visto Jean e Nadia. E la cosa lo preoccupava decisamente.

«Lo mangi quello?»

Sanson fissò storto il cugino, che aveva già allungato le mani sulla porzione di dolce che lui non aveva ancora toccato. Con una smorfia gli spinse il piatto tra le mani, sbuffando.

«Tieni. E strozzati, razza di ingordo».

«Si può sapere che cos'hai?» biascicò Hanson, la bocca piena di dolce. «Non hai quasi toccato cibo».

«Mi chiedi che cos'ho?» gli rispose Sanson, caustico. «Ti sei già dimenticato di quello che ci hanno fatto prima di portarci qui, nel paradiso degli ingordi?»

«Andiamo, non è stato poi così terribile».

Sanson non riusciva a credere a quello che sentiva. «No? E tu come lo chiami essere fulminati, legati e picchiati con un secchio? Dì un po',» aggiunse «ti sei scordato che questa gente è la stessa che ci ha fatto precipitare, rischiando di farci morire tutti quanti?»

«Lo so benissimo» fece Hanson «ma ti ricordo che Nadia ci aveva avvertiti di non fare nulla, che tutto si sarebbe risolto pacificamente, se non fosse stato per la per la tua mania di sparare in giro...»

«Cosa?»

«Se non ti fossi comportato come tuo solito» insistette Hanson, «non sarebbe successo nulla, né a noi, né a te».

Sanson rizzò il busto, profondamente offeso. «Mio solito?»

«Da cretino».

Stupefatto, Sanson restò a fissare il cugino che spazzolava il dolce dal piatto.

«Quindi, mi stai dicendo che quello che è successo alla nave e tutto il resto, sarebbe colpa mia?»

«Esattamente. Sei tu che dove arrivi distruggi sempre tutto».

Sanson tacque. Senza preavviso, allungò la mano e ghermì l'ultimo boccone dal piatto di Hanson, un istante prima che questi lo infilzasse con la forchetta. Quindi se lo spalmò in bocca, sotto gli occhi sgomenti del cugino.

«Ma che diavolo fai?» mugolò Hanson. «Si può sapere adesso che ti prende?»

«Faccio il cretino» biascicò Sanson, che masticava a bocca aperta con l'evidente intento di irriderlo. «Distruggo il tuo dolce».

Irritato, Hanson strinse le labbra.

«Razza di...»

«Voi due, volete smetterla?»

La voce annoiata di Rebecca giunse dall'angolo opposto della stanza, dove se ne stava seduta con le gambe intrecciate mentre accarezzava i capelli di Marie, tessendoli tra le dita per farne una treccia. «È da quando vi conosco che non fate che litigare. Sono stanca dei vostri battibecchi».

I due mugugnarono qualcosa in coro, ma alla fine si acquietarono, dandosi le spalle. Sanson ingoiò il dolce e tornò a stravaccarsi sul divano, le mani dietro la nuca, gli occhi chiusi; sul volto, un'espressione pensierosa.

«Dite quello che vi pare» commentò, con voce calma e lenta «ma a me tutta questa storia non quadra. Questa gente non me la dà a bere».

«Io mi chiedo piuttosto che fine abbiano fatto Nadia e Jean» mormorò in risposta Rebecca. Scrutò di sottecchi in direzione di Alex. La ragazza aveva il volto scuro e tirato, e se ne stava seduta sul divano con le gambe raccolte, cingendosi le ginocchia e nascondendo il volto dietro di esse. Nel vederla così affranta, Rebecca si intenerì.

«Non temere» le disse, con un sorriso «sono certa che stanno bene e che presto li rivedremo». Ma la sua voce non riuscì convincente nemmeno a lei stessa. Tuttavia, Alex sollevò gli occhi a guardarla e sorrise debolmente, in segno di gratitudine.

«E cosa ti fa credere che sia così?»

Tutti si voltarono verso Sanson, che sembrava non essersi nemmeno reso conto di quanto aveva appena detto. Rebecca lo incenerì con lo sguardo.

«Beh, è vero» fece lui, alzando le spalle. «Chi ci assicura che...»

«Sanson» lo interruppe Rebecca, tesa «quando non sai cosa dire, è meglio se non dici nulla».

«Rebecca ha ragione. Non credo ci sia nulla di cui preoccuparsi».

Gli occhi di tutti si spostarono su John, che aveva parlato per la prima volta da quando avevano messo piede là dentro. Sembrava decisamente tranquillo, anche se sul volto aleggiava una specie di ombra, indizio di una certa ansia nascosta. Hanson lo fissò, curioso.

«Sembri piuttosto sicuro».

«Lo sono» disse. «Voi no?»

Nessuno rispose. Al che, John si avvicinò a Marie, che sollevò il volto a guardarlo, sorpresa.

«Marie, posso chiederti un favore?»

Lei lo guardò vacuamente. Quindi si volse a cercare l'approvazione di Rebecca, che le fece un cenno di assenso con il capo.

«Va bene» disse, scrollando le spalle.

«Potresti dire alla guardia che ho bisogno di uscire?»

«Perché?»

«Tu chiediglielo, ti spiace?»

Marie si sollevò fiaccamente, avviandosi alla porta senza dire nulla. Ogni tanto lanciava qualche occhiatina fugace in direzione di John, che la seguiva con un sorriso di circostanza sul volto.

Sospirando, Marie bussò alla porta senza nessuna voglia, finché una guardia non venne ad aprire. Non appena si trovò davanti la bambina, la fissò perplesso, prima di chinarsi a sentire quello che gli stava dicendo. Marie borbottò qualcosa al suo orecchio: la guardia scoppiò improvvisamente a ridere, fissando gli occhi su John e facendogli segno di seguirlo, scuotendo la testa.

Marie tornò a sedersi, nel silenzio generale. Ma non appena John fu uscito, tutti le si fecero intorno. Lei li guardò, ostentando indifferenza.

«Si può sapere che gli hai detto?» chiese Rebecca. Marie scosse le spalle.

«Oh, niente di che. Gli ho solo detto che il signore ha un problema con qualcosa che ha mangiato, e che se non va subito al bagno rischiamo di morire tutti asfissiati».

Sorrise, con gli occhi che le brillavano di malizia. E nello spazio di un attimo, tutti scoppiarono in una fragorosa e improvvisa risata. Marie posò segretamente gli occhi su Alex, che rideva con le lacrime agli occhi mentre guardava Sanson e Hanson che, contagiati dall'ilarità generale, avevano preso a lanciarsi le briciole di pane cadute sulla tavola. Anche Rebecca li guardava, scuotendo il capo in segno di disapprovazione, ma con un sorriso velato sul volto.

«Uomini» disse la donna, divertita. «L'anello di congiunzione tra il maiale e la scimmia».

Marie sorrise. Era contenta. Almeno per un momento, ogni preoccupazione sembrava svanita.


*



John attese che la porta si richiudesse. La guardia di fronte a lui gli ingiunse di muoversi, indirizzandogli un gesto brusco; e a quel punto, lui sorrise, restando fermo al suo posto.

«Aghe me pròs to stratègo» disse, con assoluta sicurezza. La guardia si mise a fissarlo, stupita. «Eko tinà upò fàsein, to autò».

«Il capitano non vuole essere disturbato» rispose la guardia, ora piuttosto incerta riguardo all'uomo che aveva di fronte. Aggrondò. John rise.

«Fidati» disse «da me vorrà essere disturbato».


*



La porta si aprì all'improvviso. Fu in un silenzio carico di emozione che gli occhi di tutti si volsero verso l'ingresso: e con un grido strozzato, tutti scattarono in piedi facendosi incontro a Nadia che si trovava lì, davanti a loro, ritta sulla soglia.

Lei guardava i suoi amici, il volto che splendeva di gioia. Commossa, si passò una mano sugli occhi e fece per entrare. Ma non aveva fatto che un passo, che Marie le si parò innanzi, a fronteggiarla. Per un attimo, Nadia non seppe nemmeno cosa pensare trovandosi di fronte quegli occhi così accesi e limpidi, che la fissavano come a ricordargli tutte le colpe di cui già sentiva di essersi macchiata. Da quando erano partiti, lei e Marie non si erano scambiate nemmeno una parola. Lei l'aveva semplicemente evitata, o ignorata, nonostante Nadia avesse cercato più e più volte di riavvicinarla. E ora, con la vista che le si offuscava, Nadia sosteneva con tutta la forza di cui era capace lo sguardo severo di quella bambina, la sua bambina, con il cuore che le tremava all'idea di quello che sarebbe potuto accadere, se solo lei le avesse parlato.

Accennò a un sorriso, timidamente: e Marie, finalmente libera da ogni rancore, scoppiò in singhiozzi e le si tuffò in lacrime tra le braccia. Sorpresa e felice, Nadia si ritrovò a stringerla come per incanto: e tutto il suo corpo si sciolse in una tenerezza profonda, come soggiogato da quell'emozione inattesa e ancestrale che in lei vinceva ogni volontà, parlandole da uno spazio profondamente radicato nella sua anima e nel suo corpo, ma così lontano e fino ad allora inaccessibile. Mai si era sentita più tranquilla e felice che con quella bimba tra le braccia, mentre si costringeva a farsi forza, perché le gambe non la reggevano più e la commozione che la dominava era sempre più smisurata. Ora sapeva: sapeva che si appartenevano, sapeva che la sua vita non era più sua, ma le era stata strappata, reclamata da quella bambina che ora era lì a pretenderla, mentre piangeva tra le sue braccia stringendosi a lei, e a cui lei, tra le lacrime, devotamente si offriva; e con quale gioia ripeteva a se stessa che nulla, niente al mondo avrebbe mai più potuto, o dovuto dividerle.

«Marie» sussurrò, piegandosi su di lei. Ormai era così alta, pensò. Ricordava quando doveva chinarsi sulle ginocchia per abbracciarla. Era stato tanto tempo prima.

Dove sono stata, per tutto questo tempo?

«Ho avuto paura» pianse Marie, nascondendo il volto tra le pieghe della sua camicetta. Nadia chiuse gli occhi.

«Anche io. Ma adesso è tutto passato, non devi più avere paura».

Nadia sollevò gli occhi e fissò uno per uno i suoi amici. Notò il volto tumefatto di Sanson e avvicinò una mano al livido che aveva in faccia, carezzandolo delicatamente. Lui arrossì, ma non si sottrasse.

«Ti sei fatto male?» gli chiese. Lui scosse la testa.

«Non è niente» la rassicurò, mentendo. «Solo una botta».

«E voi?» fece lei, rivolgendosi agli altri. «Come state?»

«Stiamo bene» rispose Rebecca, facendosi avanti e stringendola in un abbraccio sincero. «Sono contenta di rivederti» le disse, commossa.

«Ero piuttosto debole» rispose Nadia, nascondendo gli occhi al suo sguardo. «Ci ho messo un po' a rimettermi. Ma ora sto bene».

Si guardò intorno, alla ricerca di Jonathan. Non trovandolo, aggrondò.

«Dov'è John?» chiese, leggermente ansiosa.

«È uscito» fece Hanson. «Problemi di digestione».

Nadia lo fissò curiosa e lui scoppiò a ridere, insieme con gli altri. Sorpresa, anche lei rise, pur non sapendo per quale motivo trovassero la cosa tanto divertente. Solo Alex non rideva. Fissava la porta aperta, e Faloe, in piedi davanti ad essa, che osservava tutta la scena con sguardo distaccato. Nadia posò i suoi occhi sul volto smagrito della ragazza e il cuore sembrò fermarsi all'idea di quello che stava per dire.

«Alex...»

«Nadia, non capisco» disse lei, mentre l'ombra di un'improvvisa paura passava veloce a turbare i suoi profondi occhi scuri. «Dov'è Jean?»

Nadia si passò una mano tra i capelli. Marie, che non voleva saperne di staccarsi da lei, sollevò gli occhi a guardarla. Tutti la guardavano. Confusa, lei, passò in rassegna i loro volti, cercando le parole migliori per dire quello che doveva. Ma era del tutto inutile: per quanto potesse cercare, non avrebbe mai trovato le parole adatte.

«Devo dirti una cosa, Alex» fece, con la voce che le tremava. «Devo dirla a tutti voi. È meglio se ci sediamo».



*



Quando la porta si aprì, la guardia pensò che sarebbe presto morta. Per quanto la cosa fosse strana, e meritasse di essere riferita, bussando a quella porta aveva contravvenuto a un ordine preciso. E ricordava benissimo cos'era successo a chi aveva osato disobbedire a un ordine.

Il comandante sollevò gli occhi dalle carte che aveva sulla scrivania. Trovandosi di fronte a quel soldato timoroso e impacciato, provò un certo fastidio; e un guizzo di malvagità gli balenò rapido e velenoso negli occhi.

«Cosa succede?» chiese, indispettito. La guardia deglutì, nervosa.

«Signore, c'è quest'uomo...»

«Avevo detto che non volevo essere disturbato» disse Atys, teso.

«Mi perdoni, comandante, ma credo che si tratti di qualcosa che lei dovrebbe sentire».

Atys socchiuse gli occhi. Si alzò in piedi e fece un rapido cenno alla guardia, che con un sospiro di sollievo fece passare John. Nel trovarselo di fronte, Atys serrò le labbra.

«Qual è il problema con quest'uomo?» disse.

«Signore, parla il linguaggio degli schiavi...» si giustificò la guardia. «E molto correttamente».

«Allora?» fece Atys. «Anche la bambina lo fa».

«Assani ya' ashèr, satràpi» esordì John, «Hai ragione, comandante. Ma la bambina non parla la lingua sacra».

Atys strabuzzò gli occhi, fissandoli su Jonathan. «Come hai fatto?» chiese. «Come puoi parlare la lingua sacra?»

Lui rise. «Sono molte le cose di cui dovremmo discutere, comandante. Ma sarebbe meglio farlo in privato».

Atys fece un cenno imperioso alla guardia, che si eclissò velocemente dietro la porta. Quindi si sedette, incrociando le mani davanti al volto e fissando John acutamente.

«Devo dire che sono molto sorpreso» fece. «Non mi sarei mai aspettato di trovare qualcuno in grado di parlare la lingua di Atlantide. Perché ce l'ha tenuto nascosto? Le avremmo riservato un trattamento di favore».

«Non mi interessano i trattamenti di favore» fece John. «Quello che mi interessa, è trovare un accordo».

Atys socchiuse gli occhi. «Un accordo?»

«So esattamente ciò che state cercando» fece John. «Noi possiamo aiutarvi a raggiungerlo».

«Noi?»

«Io e le persone per cui lavoro».

Atys aggrondò. «E cosa staremmo cercando, se è lecito chiedere?»

«Le quattro Arche. E l'ultima pietra del Trismegisto».

Un improvviso luccichio lampeggiò negli occhi di ghiaccio del comandante.

«Mi sbaglio?» chiese John, con un ghigno.

«Sono impressionato» commentò il comandante. «Come conosce questa storia?»

«L'organizzazione a cui appartengo si occupa da sempre di proteggere e custodire i discendenti di Atlantide presenti sulla Terra. Da quando la nostra Civiltà è decaduta, viviamo nascondendoci, per sottrarci alle persecuzioni che ci hanno decimato nel corso dei secoli. Le nostre famiglie sono sempre più deboli, ormai... siamo allo stremo e ci stiamo lentamente estinguendo. Aspettavamo il vostro ritorno da millenni, come narrano le leggende: come può immaginare, la vostra storia è la nostra storia».

«Noi non conosciamo le vostre leggende» commentò Atys, freddamente.

«No, certo» ammise John, senza scomporsi. «Ma di certo conoscerà la legge dell'Eredità... e quello che essa comporta».

Atys sorrise. «Molto bene» fece. «Un punto a suo favore, signor?»

«Jonathan Fisher».

«Signor Fisher» fece Atys, «da quello che ho capito, lei mi sta dicendo che alcuni Atlantidei, discendenti degli antichi coloni discesi un tempo su questo pianeta, sono ancora vivi. È così?»

«Esattamente».

«Tuttavia, non le nascondo che possiede un nome alquanto strano, per essere un discendente di Atlantide. Nessuna delle vecchie Case ha mai posseduto un nome simile al suo».

John sospirò. «I tempi cambiano, comandante. E su questo pianeta cambiano più veloci che altrove».

Atys inarcò un sopracciglio.

«Il mio nome risale al capostipite di un'antica colonia» continuò John, «i cui membri scamparono al periodo della Grande Distruzione rifugiandosi nel nord della Terra, in un paese chiamato Inghilterra. Fu lì che la mia famiglia mutò il suo nome in Piscàtor, da cui deriva Fisher. Il nome venne cambiato per questioni di sicurezza, ma mantenne un forte legame col suo significato originario. Piscàtor, in una antica lingua terrestre, significa pescatore, così come Fisherman, nella moderna lingua del paese in cui vivo; da qui, Fisher. Un nome piuttosto indicato, per chi proviene dalla famiglia degli Oagnidi, non crede?»

Atys spalancò gli occhi. «Lei appartiene alla discendenza di Oagnes?»

«Il dio pescatore. Esatto».

«Dunque, è tutto vero» fece Atys, ancora incredulo. «Questo spiegherebbe come riesce a parlare la lingua del nostro popolo».

John annuì.

«E cosa vorreste, precisamente, da noi?» domandò Atys, tagliente. «Ci offrite il vostro aiuto, ma cos'è che chiedete esattamente in cambio?»

«Vogliamo solo quello che ci spetta» fece John, duro «nulla di più. Vogliamo il nostro regno, la casa che ci è stata strappata. Ciò che vogliamo, comandante, è la Terra».



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Capitolo 12
*** 11 ***


La porta si aprì, e tre uomini irruppero nella stanza con le pistole alla mano. Winston li stava aspettando premuto contro il muro, le mani alzate, lo sguardo saldo.

Aveva una sola idea su come cavarsela. L'unica che gli era venuta in mente.

Non si mosse. Ma abbassò cautamente gli occhi sulla pistola che uno di quei tipi gli stava minacciosamente puntando addosso.

«Ce ne avete messo ad arrivare» disse, a denti stretti. Cercava di ostentare una calma assoluta, ma qualcosa nella sua voce tradiva una certa inquietudine. L'uomo lo guardò con un misto di stupore e diffidenza. Quindi spostò la sua attenzione sui tre corpi che giacevano ai suoi piedi, senza abbassare la pistola.

Incredibilmente, pensò Winston, la sua idea stava funzionando. Almeno per il momento. Aveva immaginato che il Consiglio avrebbe basato l'intera operazione sulla sorpresa, nella speranza di coglierlo impreparato a casa sua. Del resto, era la loro unica possibilità, poiché in quanto Accolito e agente personale del Reggente, Winston era protetto dal più completo anonimato. Nessuno sapeva chi era, dove trovarlo e come contattarlo, al di là della cerchia ristretta di De Molay. Per il resto del mondo, Winston Churchill non era che un nome. Perciò, gli sarebbe bastato sfuggire a quegli uomini per acquistare un notevole, seppur temporaneo, vantaggio su chi lo voleva morto.

Certo, Winston sapeva perfettamente che era solo questione di tempo: prima o poi, il Consiglio sarebbe comunque riuscito a raggiungerlo. Tuttavia, per identificarlo e colpirlo una volta che avesse lasciato il paese, avrebbero avuto bisogno di molto più tempo di quello che al momento avevano a disposizione. Ma a lui bastava molto meno di tutto quel tempo. Al momento, gli bastava il fatto che non gli avessero ancora sparato. E, soprattutto, che continuassero a non farlo ancora per un po'.

«L'obiettivo è stato eliminato» fece Winston, più tranquillo. «Merito del cecchino». E indicò la finestra con un cenno. L'uomo rispose con una smorfia.

«E tu chi accidenti sei?»

«Agente Cecil Tennyson» mentì lui. «Sono qui per ordine del nuovo Reggente».

Winston lanciò un'occhiata di scuse al corpo senza vita di Cecil, per poi tornare a posarli sull'uomo di fronte a sé, che lo fissava intensamente e che ancora lo teneva sotto tiro. Per qualche istante, l'unico pensiero che riusciva a prender corpo nella sua mente, era se quel tipo se la sarebbe bevuta oppure no. Perciò, quando lo vide rinfoderare l'arma, seppur con una certa circospezione e senza mai togliergli gli occhi di dosso, Winston sospirò, decisamente più sollevato.

«Mostrami il tuo identificativo» gli ingiunse l'uomo, tendendo la mano. Winston fece per cercare qualcosa sotto il soprabito.

«Eccolo» disse, porgendogli l'astuccio di cuoio che aveva fatto appena in tempo a sfilare dalla tasca di Cecil, poco prima che quei tipi gli entrassero in casa. L'uomo lo prese, lo aprì e lo scorse velocemente.

«Perché nessuno mi ha detto di te?»

«Perché è così che doveva essere».

L'uomo sembrò non gradire troppo quell'ultima affermazione. Ma tutto sommato suonava decisamente in linea con l'operato abituale del Consiglio. Non era affatto infrequente che ad un'operazione ne venisse affiancata un'altra, segreta, di supporto. Questo perché, di solito, le operazioni del Consiglio non prevedevano insuccessi. Soprattutto in casi come quello.

«È lui?» disse, indicando il corpo di Cecil. Winston annuì, riprendendosi il distintivo e riponendolo in tasca.

«Alla fine è morto, il bastardo» commentò l'uomo; e punzecchiò con la punta lustra della sua scarpa il cadavere di Cecil, grugnendo per la soddisfazione. Winston rispose con un sorriso. I due uomini di fianco alla porta avevano appena rinfoderato le armi.

Eppure, nessuno sembrava notare che non aveva ancora estratto la mano dalla tasca interna del soprabito.

«Andiamo, è finita» disse l'uomo, voltandosi verso gli altri, con il braccio alzato. Fu allora che, del tutto casualmente, i suoi occhi caddero su una foto che non aveva ancora potuto notare perché, incorniciata e appoggiata com'era su un tavolino posto di fianco all'armadio, era del tutto nascosta a chiunque entrava nella stanza. L'uomo socchiuse gli occhi, incuriosito, il braccio ancora a mezz'aria, mentre faceva un passo avanti per guardare con più attenzione. Un ombra di sgomento attraversò il suo volto teso, non appena riconobbe in quel giovane ufficiale in divisa che posava accanto a un anziano signore, l'uomo a cui aveva appena dato le spalle.

«Tu...» disse, voltandosi. Un'esplosione improvvisa, uno sparo, gli mozzò la voce. La testa dell'uomo vacillò all'indietro, per poi ricadergli sul petto, gli occhi sbarrati e ormai senza vita ancora puntati sulla pistola che Winston teneva saldamente in pugno. Mentre l'uomo si accasciava lentamente al suolo, Winston spostò rapido l'arma sull'agente alla sua sinistra e sul suo compagno che, presi alla sprovvista, non fecero in tempo a metter mano alle armi. Winston fu rapido nel freddare il primo con un colpo alla testa, mentre al secondo piantò tre pallottole in petto.

Con animo insolitamente calmo, aprì il revolver con uno scatto, ricaricando il tamburo senza mai perdere d'occhio l'ingresso. Ai lati della porta, i corpi senza vita dei due agenti, la schiena contro il muro e la testa abbandonata sul petto. Il sangue imbrattava le pareti, alle loro spalle.

Winston spostò gli occhi sullo specchio da barba alla sua destra. Nel piccolo tondo schizzato dall'acqua si intravedeva il palazzo di fronte. Scorse un'ombra, veloce, e un luccichio, nel riflesso della finestra che si affacciava sulla sua stanza. Fece un rapido calcolo. Il cecchino doveva trovarsi all'incirca al quarto piano.

Si avvicinò al tavolino ed estrasse la foto dalla cornice, piegandola in due e ficcandosela in tasca. Quindi si chinò a terra, strisciando fino all'ingresso. Una volta arrivato alla porta si alzò, ricomponendosi gli abiti e lanciando un'ultima, veloce occhiata al suo appartamento.

Non vi sarebbe mai più tornato, ora poteva esserne sicuro. Presto, la polizia di tutto il regno si sarebbe messa sulle tracce del misterioso proprietario di quell'appartamento, insieme agli agenti del Consiglio. Quella casa, Londra, la stessa Inghilterra... da quel momento era tutta terra bruciata, per lui.

Raccolse il suo sacco da viaggio e infilò le scale, scendendo i gradini con disinvoltura. Occhi allarmati lo fissavano attraverso le porte accostate, dilatandosi dalla paura al suo passaggio e scomparendo rapidi dietro gli usci prontamente sbarrati. Lui ignorò quegli sguardi penetranti e curiosi, che lo punzecchiavano alle spalle e alla nuca come uno sciame di piccoli insetti voraci, procedendo senza mai voltarsi. Sul pianerottolo, al piano di sotto, alcune persone erano uscite dalle proprie stanze vincendo ogni paura, e si scambiavano eccitate parole veloci. Quando lo videro arrivare tacquero improvvisamente, fissandolo a lungo e scostandosi al suo passaggio, come a decidere se dovessero aver paura di lui oppure no. Winston attraversò quel capannello senza una sola parola, rapido, fissando dritto avanti a sé e fendendo la folla come una lama affilata.

Conosceva quelle persone, una per una. Le aveva incontrate innumerevoli volte, su e giù per le scale, nell'androne del palazzo, davanti all'ingresso delle loro abitazioni. Le conosceva, proprio come loro pensavano di conoscere lui. Per questo sapeva che quelle persone l'avrebbero presto tradito, raccontando ogni cosa alla polizia. Sapeva che nel giro di poco tempo sarebbe diventato l'uomo più ricercato del Paese, perché quelle persone avrebbero parlato.

In fondo era giusto. Lui aveva tradito per primo la loro fiducia, attirando il pericolo in casa loro, mentendo sulla sua identità.

Pazienza, pensò. Non poteva mica ammazzarli tutti.

Giunto agli ultimi gradini, si fermò, incerto. Una guardia se ne stava proprio sul portone principale, a gambe larghe, e gli dava le spalle. Ancora indeciso sul da farsi, Winston posò a terra il suo sacco e riprese a scendere, seppur molto lentamente. Estrasse la pistola, sollevò il cane.

Fu allora che la signora Carlyle decise di rientrare dalla sua passeggiata.

Winston deglutì. Osservò la guardia seguire con gli occhi il lento ingresso della donna nell'edificio. Si stava voltando. Ancora un istante e l'avrebbe visto.

La signora Carlyle sorrideva. Chups, il suo cane bassotto, sgambettava faticosamente nell'atrio.

La donna accennò un saluto all'uomo fermo sulla porta, che però non ricambiò. Winston continuò a scendere le scale, un gradino alla volta. Fissava il volto della donna, fissava le spalle dell'uomo.

Il sorriso della signora Carlyle incontrò il volto teso di Winston, e si allargò all'improvviso. Lui fece una smorfia. Aveva un pessimo presentimento.

«Buona giornata» disse la signora Carlyle con la sua voce tremolante. Chups scodinzolò. Winston si volse prontamente di spalle, ficcandosi la pistola in tasca e reprimendo una volgarità.

«Vieni qui, Chups» latrò la signora Carlyle, chinandosi a sollevare il cane e sbuffando sonoramente. Nella tasca dei pantaloni, Winston serrò le dita attorno all'impugnatura della sua pistola. La guardia lo fissava, poteva vederlo con la coda dell'occhio.

«Potrebbe essere così gentile da darmi una mano?»

Winston strinse i denti. La signora Carlyle sorrideva stolidamente, fissandolo con i suoi occhi color cenere. «Dico a lei, signor...»

«Certo».

Senza lasciare la presa intorno alla pistola, Winston si avvicinò alla donna, offrendole il braccio.

«Prego» le disse, a denti stretti. Lei sorrise, aggrappandosi a lui.

«Grazie» rispose, scuotendo la testa. Ancora sorrideva.

La guardia restò a fissarli per qualche istante. Quindi si volse. Estrasse l'orologio dal taschino, rivolgendo un'occhiata alle scale per poi scrollarsi nelle spalle.

«Lei è proprio gentile».

«Non c'è nessun problema».

Winston contava i gradini che gli restavano prima di poter lasciare il braccio della signora Carlyle. Ancora qualche passo. Ancora uno.

«Grazie» disse lei «da qui io e Chups possiamo continuare da soli».

Winston salutò con un sorriso tirato.

«Lei è davvero un giovanotto gentile, signor...»

Uno sparo echeggiò lungo le scale. Con un grido, la signora Carlyle cadde riversa al suolo, tirandosi dietro Winston tra i latrati furiosi di Chups.

Winston sollevò gli occhi. Un uomo correva lungo le scale, verso di lui.

Improvvisamente, si ricordò della guardia che Cecil aveva solo tramortito.

Un errore stupido, che avrebbe pagato caro.

«Fermo!» gli gridò l'uomo. Istintivamente, Winston si volse verso l'entrata, dove la guardia che stazionava di fronte alla porta, allertata da tutto quel frastuono, si era appena girata: i loro occhi si incontrarono lungo i gradini e con un movimento veloce l'uomo estrasse la pistola, mentre Winston, la mano ancora in tasca, premette il grilletto: partì un colpo, che però mancò del tutto il bersaglio, andando a bucare la parete. La guardia sgranò gli occhi dalla sorpresa, scomparendo velocemente dietro lo stipite del portone.

Ci furono grida. Chups abbaiò. Winston estrasse l'arma, saltando oltre la ringhiera. Atterrò pesantemente, sbilanciandosi e ruzzolando a terra, rialzandosi nell'attimo in cui l'uomo che lo inseguiva lungo le scale si affacciava al pianerottolo, prendendolo di mira. Con uno scatto doloroso, Winston si gettò di lato. Un proiettile gli sibilò accanto, incendiando l'aria al suo passaggio. Lui rotolò malamente su un fianco, sbattendo con la testa contro al muro. Si girò, come poté, intravide la guardia, ormai sopra di lui. Fece fuoco.

Trattenendo il respiro, Winston osservò il corpo dell'uomo ruzzolare lento e scomposto giù per le scale. Si premette contro il muro, puntando a casaccio la pistola all'ingresso e facendo fuoco. Vide la guardia sulla porta abbassarsi e schivare il colpo, proprio mentre stava per premere il grilletto.

In quel momento, qualcuno da fuori lanciò un grido.

«La polizia!»

Winston trasalì. Si sporse. La guardia all'ingresso era scomparsa.

L'operazione era fallita. Si stavano ritirando.

Sarebbero tornati al Consiglio, a riferire dell'accaduto. E sarebbero tornati l'indomani, e il giorno seguente e quello dopo ancora, finché non fossero riusciti a ucciderlo. Non c'era luogo al mondo in cui non avrebbero potuto raggiungerlo. Non sarebbe mai più stato al sicuro.

Aveva bisogno di tempo, tempo per organizzarsi. Non poteva permettere che la notizia della sua fuga giungesse tanto in fretta alle orecchie del Consiglio. Doveva prima occuparsi di Lisa e degli altri. Doveva farli fuggire, metterli al sicuro. E per questo, per tutto questo, gli serviva tempo. Se anche uno solo di quegli uomini fosse riuscito a sfuggirgli, sarebbe stata la fine.

Grida e schiamazzi giungevano dalla strada. La polizia doveva essere vicina.

Con la pistola in pugno, Winston uscì allo scoperto. Fuori, attratta dal rumore degli spari, la gente si raccoglieva agli angoli delle strade, fissando ansiosa in direzione del caseggiato e gesticolando con eccitazione. Il suo uomo camminava indifferente, diretto verso la folla. In quel momento, si trovava proprio nel mezzo della carreggiata, sotto gli occhi di tutti.

Se fosse riuscito a raggiungere l'altro lato della strada, l'avrebbe perso.

Non c'erano molte soluzioni. Così, serrando le labbra, Winston gli mosse dietro.

«Ehi!»

L'uomo si volse, leggermente sorpreso. Non si fermava.

«Ehi, bastardo. Dico a te».

Winston affrettò il passo, sollevando la pistola. La gente prese a gridare. L'uomo non si voltò.

«Sono qui, idiota!»

Con un movimento repentino, l'uomo si volse, esplodendo un colpo in direzione di Winston. Lui si mosse, all'ultimo istante; e con il cuore che si bloccava, sentì il proiettile ronzare accanto al suo orecchio destro. Fu senza pensare che sparò. Tre colpi ravvicinati, mentre continuava a camminare. La guardia si accasciò a terra, con un lamento. Winston continuò ad avanzare, tra le grida della folla impazzita. Avvicinandosi all'uomo, lo vide che tentava di sollevare il braccio, e senza soffermarsi a pensare, esplose un altro colpo, finendolo. La gente fuggì terrorizzata, mentre lui ormai raggiungeva l'altro lato della strada. All'improvviso, uno sparo risuonò alto, sopra la sua testa. Il terreno ai suoi piedi deflagrò in una miriade di piccole schegge.

Da perfetto idiota, si era completamente dimenticato del cecchino.

Con uno scatto repentino, sfrecciò verso il marciapiede.

Un altro sparo, e un altro. Quel maledetto aveva un fucile semiautomatico.

L'unica consolazione era che quel tipo non sembrava un gran che, come tiratore.

Winston controllò le pallottole che ancora gli restavano. Non più di due colpi. E non aveva la minima idea di quante guardie restassero nell'edificio. Forse due, al massimo tre. Se era fortunato, avrebbe trovato solo il cecchino.

Ma ora il cecchino sapeva che lui lo stava cercando. E si sarebbe sicuramente fatto trovare pronto.

Winston strinse i denti e si allontanò rapido, aggirando il muro del palazzo e dirigendosi all'ingresso posteriore. Come al solito, la polizia arrivava fischiando a tutto spiano. Li avrebbe sentiti un sordo a chilometri. Senza dubbio il modo migliore per arrivare sul luogo di una sparatoria con la sicurezza di non trovare più nessuno.

La gente fuggiva davanti a lui; ma Winston, ostentando tranquillità, svoltò dietro l'edificio, infilandosi nella prima porta che trovò. A una prima occhiata, il palazzo sembrava deserto. Le pareti erano ricoperte di tappezzeria scadente, che puzzava in modo terribile. Le porte scrostate erano perfettamente adeguate allo squallore di quell'ambiente. Probabilmente si trattava di un complesso di appartamenti che venivano usati per appuntamenti clandestini. Un uso abbastanza comune, per i palazzi di quel quartiere.

Winston percorse il corridoio silenzioso, camminando rasente al muro. Il pavimento era ricoperto da moquette rossa spelacchiata. Faceva schifo, ma almeno attutiva i suoi passi.

Udì un rumore, lungo le scale. Al piano superiore, c'era qualcuno che camminava. Winston si affrettò, nel modo più silenzioso possibile.

Quando si affacciò, il corridoio era vuoto.

Dove sei?

Una porta sbatté. La terza camera, sulla sinistra.

Winston si avvicinò cautamente. Caricò il cane ed entrò, sfondando la porta. Un uomo grasso e nudo, piuttosto giovane e sprofondato in un lettone sfatto, si nascondeva sotto il lenzuolo, tirandoselo terrorizzato fin sopra le orecchie. In piedi, accanto al letto, una donna, non più giovanissima ma ancora piacente lanciò un grido, lasciando cadere a terra la sua vestaglia.

«Di là» fece l'uomo tremante, tirando fuori un braccio e indicando una porta che dava sull'appartamento a fianco. «È appena uscito. Per l'amor di Dio, non ci faccia del male».

Winston fece per muoversi, quando una serie di spari risuonò alle sue spalle. La porta esplose in un mare di schegge e lui si tuffò a terra, tra le grida dell'uomo e gli strilli isterici della donna. Un ombra attraversò veloce il corridoio, esplodendo altri colpi dentro la camera, al suo passaggio. Winston si alzò. La porta, al piano di sotto sbatté. Corse giù per le scale, verso l'ingresso, dove aprì la porta di scatto, dimenticandosi ogni cautela. Vide l'uomo, in mezzo alla strada. Correva verso la polizia, indicava loro l'edificio. I poliziotti lo allontanarono e si diressero a passo svelto verso il palazzo. Winston fissò il suo obiettivo mischiarsi tra la folla, tranquillo.

Era finita, l'aveva perso.

...o forse no.

Con il cuore in gola, Winston corse su per le scale. Primo piano, secondo, terzo. Al quarto piano si fermò.

Fissò la serie di porte che si aprivano lungo il corridoio. Quali camere davano sulla strada? Quelle a sinistra? O erano quelle a destra?

Ripercorse mentalmente le scale. Dovevano essere quelle a destra.

La porta di ingresso sbatté, quattro piani più in basso. Poteva sentire i passi della polizia, rapidi, lungo le scale.

Terza camera, quarta...

Doveva essere quella. Doveva assolutamente essere quella.

Girò la maniglia. La porta era aperta. La luce accecante del sole lo investì all'improvviso, insieme a una brezza leggera che filtrava dalla finestra spalancata. La stanza era completamente vuota. A terra, accanto a una sedia, un fucile abbandonato.

Sapeva che il cecchino l'avrebbe abbandonato lì, per comodità e cautela, confidando che nessuno sarebbe riuscito a trovarlo tanto in fretta.

Un grosso errore.

Winston imbracciò il fucile. Il Browning 1892 montava un piccolo obiettivo a cannocchiale, una novità per l'epoca, proprio come il sistema di caricamento semiautomatico con sottrazione a gas. Un'arma magnifica, sviluppata su precisa richiesta del Consiglio. Un'arma che lui conosceva bene.

Puntò l'obiettivo, cercando tra la folla. Sembrava che l'uomo si fosse dileguato. Con la speranza che gli moriva nel cuore, Winston sospirò, sollevando gli occhi dall'obiettivo. Fu allora che lo vide. Lungo la strada più lontana, un uomo camminava, solo: troppo solo, per non essere sospetto.

Winston puntò il mirino su di lui. L'uomo si volse, come se si sentisse osservato. Winston l'aveva solo intravisto in volto, ma non ebbe dubbi. Fu lo sguardo a tradirlo. Lo stesso, identico sguardo con cui anche lui si guardava ogni mattina allo specchio, da quando era entrato nel Consiglio. Lo sguardo di un fantasma.

Winston caricò l'arma. In un attimo, mesi di addestramento ritornarono vividi alla sua memoria. E con essi, tre anni di guerra.

Sentì le dita che gli formicolavano. Quell'uomo doveva trovarsi a cento metri, forse più.

Non era un problema.

Trattenendo il respiro, premette il grilletto. Uno sparo riecheggiò in quella mattina assolata. Dalla folla, in strada, si levò un grido strozzato. La polizia irruppe nella stanza pochi istanti dopo.

La luce accecante del sole colpì agli occhi gli agenti, insieme a una brezza leggera, che fece sbattere le imposte alla finestra aperta. Gli uomini della polizia si guardarono intorno. Tutto quello che trovarono fu un fucile, abbandonato accanto a una sedia vuota.

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Capitolo 13
*** 12 ***


Verso mezzogiorno, il lungo viale che conduceva a Westwood Manor si faceva infuocato. Davanti all'immenso cancello, una guardia si riparava all'ombra di un vecchio platano centenario, sventolandosi svogliatamente il volto con un fazzoletto.

Fissava la strada. Da un momento all'altro, la carrozza sarebbe arrivata e lui avrebbe dovuto aprire il cancello. Poi, per quel giorno, avrebbe finalmente terminato il suo turno.

Per quanto fosse riposante prestare servizio in quel posto, l'uomo non amava quel genere di attività. Si riteneva più un tipo votato all'azione: avrebbe volentieri scambiato quel lavoro noioso con qualcosa di più attivo, qualcosa che gli permettesse di muoversi, viaggiare... insomma, qualcosa di più romantico. Ma nel senso avventuroso del termine.

Estrasse il suo orologio dalla tasca del gilet. Mezzogiorno e dieci. La carrozza era in ritardo.

Spostò gli occhi sul viale. Il riverbero del sole era accecante e dalla strada battuta si levavano lucidi bagliori tremolanti. La carreggiata sembrava come bagnata, ma non era che un'illusione generata dal caldo, davvero eccezionale quell'anno.

La guardia si schermò gli occhi con una mano. Ancora non appariva nessuno.

O forse no. Un punto sfocato, all'orizzonte, si muoveva nella sua direzione. La guardia acuì lo sguardo, stringendo gli occhi. Portò la mano alla pistola e si mosse di qualche passo verso il cancello.

La carrozza. Era arrivata, finalmente.

Attese che la vettura fosse prossima al cancello. Quindi sollevò la mano, ingiungendo al conducente di fermarsi.

Il vetturino tirò le redini, e i cavalli si arrestarono scalpitando. La guardia si avvicinò alla cassetta e fissò il vetturino in volto.

«Caldo, eh?»

«Già...» fece l'uomo. La guardia accennò a una smorfia.

«Non ti invidio» disse. «Tutto il tempo lì sopra...»

Il vetturino sorrise, mostrando il distintivo. La guardia annuì, quindi aprì una delle ante dai vetri oscurati e controllò l'interno della vettura.

«Lavoro noioso, vero?»

«Mai come il tuo» fece la guardia, seccata. Si avviò ad aprire il cancello. Con sforzo evidente, spostò prima l'una e poi l'altra delle immense porte di ferro battuto. Quindi, tergendosi il sudore, si fece da parte.

«Sparisci» disse poi al vetturino, con un cenno brusco. L'uomo fece schioccare le redini, spedendo la carrozza lungo il viale d'ingresso.

Pezzente, pensò la guardia, vedendolo passare. Ecco un lavoro sicuramente peggiore del mio.

Mentre osservava la carrozza che si allontanava lungo il viale, la guardia sollevò la pistola, prendendo di mira le spalle del vetturino e fingendo di sparargli. Sarebbe stato bello, se quell'uomo non fosse stato un semplice vetturino, ma un nemico da abbattere. Almeno, pensò, sarebbe successo qualcosa.

E con un sospiro, ripose l'arma nel fodero, prima di andare a chiudere nuovamente il cancello.



*


«La carrozza sta arrivando, signore».

Theodor von Caprivi si alzò, stirandosi la giacca e congedando il domestico con un cenno.

«Ci siamo. Vogliate seguirmi» disse, rivolgendosi agli ospiti di Westwood Manor, tutti riuniti davanti a lui. Hunter, seduto a fianco della moglie e del figlioletto, lo fissava storto, ancora non del tutto convinto della storia che aveva loro raccontato. Lisa e Michael se ne stavano in piedi alle sue spalle, scambiandosi occhiate in tralice, senza dire una parola.

«Ancora non capisco che rischio corriamo, dal momento che Churchill è morto...» esclamò Hunter, stringendo gli occhi, perplesso «...perché era lui il vero problema... o no?»

«Come le ripeto, Churchill agiva per conto di persone pericolose» sentenziò Caprivi. «Persone che avrebbero potuto fare del male a tutti voi e alla vostra amica, se solo fossero riuscite a entrare in possesso delle informazioni che cercavano».

«Ma allora perché salvarci?» esordì Lisa, ancora sconvolta dalle rivelazioni sul conto di Winston che Caprivi aveva appena fornito loro. «Perché tutta quella premura nel metterci al sicuro, e nel voler proteggere Nadia?»

«Nessuno voleva proteggervi. L'unico motivo per cui siete stai portati qui, è perché da qui non potevate andarvene».

«E perché allora non ci hanno sbattuto in prigione, o torturato o...»

Caprivi fulminò Michael con uno sguardo. «Questo dovrebbe chiederlo a loro, non a me, Mr. Tippet».

Michael si zittì, lanciando a Lisa uno sguardo di sottecchi, carico di significato. Lei, gli occhi rossi e gonfi per l'emozione che ancora provava, si strinse nelle braccia, facendosi minuscola.

«E ora, se non vi dispiace, sarebbe meglio andare» fece Caprivi, infilandosi i guanti che il domestico gli aveva appena portato su un vassoio d'argento. «Sarebbe meglio lasciare questa casa al più presto possibile. Per la vostra sicurezza, ovviamente».



*



La carrozza si fermò all'ombra del portico. Due guardie, ai lati del portone, fissavano la vettura con scarsa attenzione, finché una di esse non lasciò il suo posto e scese lentamente le scale, avvicinandosi alla vettura.

Il conducente si calcò il cappello in testa e smontò, scomparendo dietro la vettura. La guardia fece il giro della carrozza, trovandolo chino che armeggiava attorno a una ruota.

«Ehi, che diavolo fai?»

«Ho un problema, qui» mormorò il vetturino. «Temo che mi si sia sollevato il mozzo».

La guardia si avvicinò, scansandolo malamente.

«Un mozzo non si solleva, al massimo si allenta. Non te l'ha insegnato nessuno?» fece, guardando giù, verso la ruota. Il vetturino si spostò alle sue spalle.

«Hai ragione. La prossima volta chiederò al vetturino di spiegarmi meglio».

La guardia si volse improvvisamente, ma qualcosa lo colpì duramente al volto, facendogli perdere i sensi. Con un movimento veloce, il vetturino si impossessò della sua arma, infilandosela in tasca. Quindi, sistemandosi gli abiti, girò attorno alla carrozza.

Vedendolo sbucare da solo, la guardia in cima alle scale gli si fece incontro, sospettosa. L'uomo gli sorrise, mentre saliva i gradini.

«Che succede?»

«Abbiamo piccolo un problema, laggiù» rispose il vetturino. La guardia si sporse a vedere verso la carrozza.

«Non capisco» disse. «Che problema?»

«Questo».

La guardia sbiancò, alzando le mani davanti alla pistola che il vetturino gli stava puntando addosso.

«E adesso» fece Winston, togliendosi il cappello da conducente «portami dentro. Ho giusto un paio di cose da dire a quel gran bastardo di Caprivi».



*



«Come vi dicevo, la nostra priorità è...»

«Lei non ha nessuna priorità. Non al momento».

Caprivi si volse. Fermo, nel bel mezzo dell'atrio deserto, un uomo vestito da vetturino gli sbarrava la strada, fissandolo duramente e puntandogli contro una pistola. Con una smorfia, Caprivi si immobilizzò.

«Immagino che lei sia il famoso Winston Churchill».

«Immagina bene» fece Winston. «Una bella fortuna sorprenderla qui. Quando ho visto la carrozza lungo la strada, stamattina, non riuscivo quasi a crederci».

Lisa fece per muoversi, ma Hunter la immobilizzò, tirandola indietro. Anche Michael arretrò di un passo, mentre Winston spostava gli occhi su di loro.

«State tutti bene?»

Loro si guardarono perplessi. Quindi annuirono.

«Ci avevano detto che era morto» gli disse Lisa, parlandogli con voce rotta. «Credevamo...»

«Oh, ci hanno provato» rispose Winston. «E a quanto pare sono arrivato da voi appena in tempo. Non è forse vero, Caprivi?»

«Nessuno vuole che accada loro qualcosa di male» rispose Caprivi, sogghignando. «Non crede anche lei, Churchill?»

«Queste persone vengono con me, Caprivi. Vengono con me, ora».

«E dove le porterà?» chiese lui, sghignazzando. «Dove le nasconderà, se è lecito chiedere? Sa meglio di me che non esiste posto al mondo in cui non possiamo trovarvi».

«Questo è un problema che risolverò a tempo debito» rispose Winston «Per il momento, lei dovrebbe preoccuparsi che non le pianti una pallottola in testa».

«Faccia pure».

Winston trasalì.

«Sorpreso?» rise Caprivi. «Come immaginavo, lei non ha capito nulla. La mia partita è finita. Io non ho più alcuno scopo. Vuole ammazzarmi? Lo faccia. Alla fine, non mi dispiace neppure».

«Lei deve essere pazzo» commentò Winston, tra i denti.

«Pazzo?» fece Caprivi. «No, non credo proprio. Disilluso, questo sì. Mi stupisco di come non lo sia anche lei, così giovane eppure così provato... mi dica, mr. Churchill» fece, con un lampo di malignità negli occhi «quante cose ha già visto che non avrebbe voluto vedere? Quante ne conosce che non vorrebbe sapere e quanto, di quello che ha fatto, è così orribile da affollare la sua mente di incubi?»

Winston socchiuse gli occhi.

«Io ero come lei,» continuò Caprivi «giovane, pieno di speranze. Abile. Anche lei farà carriera, un giorno. Ma questo già lo sa. Tutti quelli che sono come noi, sanno già in partenza a cosa sono destinati».

«Io non sono come lei, Caprivi».

«Si sbaglia. Lei è esattamente come me. Farebbe meglio a rassegnarsi all'idea. È l'unico modo che ha, per non commettere i miei stessi errori».

Winston strinse la pistola, che gli tremava tra le mani.

«Perché ha ucciso De Molay?» ringhiò. «Era suo amico».

«Amico?» fece Caprivi. «Sì, era mio amico. Ma non sono stato io ad ucciderlo. È stato il gioco a cui abbiamo accettato di giocare, tanti anni fa».

Caprivi sorrise. «Sa a cosa mi riferisco, vero?»

«No», fece Winston, secco.

«Il potere, Churchill. Entrambi, amavamo il potere. Qualcuno avrebbe potuto dire che lo cercavamo per un nobile scopo, dopo aver votato tutta la nostra vita ai sacri ideali del Consiglio: l'equilibrio, la giustizia, la stabilità... Ma tutto questo, per cosa? Per la sopravvivenza del genere umano, solo per questo».

«È ciò in cui da sempre crediamo, l'ideale che lei ha tradito uccidendo De Molay e aiutando l'Ordine nel suo progetto di distruzione» lo accusò Winston. «Avrei già dovuto ucciderla per molto meno, Caprivi...»

«Morire non mi spaventa» fece lui, allargando le braccia. «Come le ho già detto, io sono già morto. Sono morto quando ho capito che tutto quello in cui credevo, quello in cui crede anche lei, Churchill, e per cui anche lei si batte tanto valorosamente... tutto questo non è che spazzatura, qualcosa che può essere calpestato in ogni momento, a seconda di dove spiri il vento del progresso».

«Non è così...»

«Sì, che lo è, e lei lo sa benissimo!» gridò Caprivi, il volto attraversato e scomposto da una furia sorda e improvvisa. «Ho passato la vita a operare perché si creasse la stabilità, o l'equilibrio, o la giustizia nel mio paese. Crede che sia servito a qualcosa? Non appena mi sembrava di aver raggiunto un obiettivo, ecco che qualche Responsabile del Consiglio avanzava una pretesa territoriale nei confronti di un'altra nazione; oppure, veniva presentata la necessità di diffondere la malaria in India, o in Pakistan, o di decimare la popolazione europea attraverso una guerra, per ristabilire lo status quo. Cosa ha a che fare tutto questo con l'equilibrio, la giustizia e l'equità? Mi risponda, per Dio!»

«De Molay si chiedeva le stesse cose, ma non ha mai tradito il Consiglio» fremette Winston. «Credeva che tutto quel male fosse necessario per raggiungere un bene superiore».

«E lei ci crede?» rise Caprivi. «Povero stupido. Lei è più ingenuo di quanto pensassi, se davvero crede a tutto questo. Ma scoprirà molto presto una verità ben più terribile di quanto non creda. E allora, si ricorderà di quello che questo povero vecchio le ha appena detto».

«Di che cosa sta parlando?» sibilò Winston, sollevando il cane della pistola. Caprivi sorrise. Ma negli occhi non aveva più alcuna luce, che li illuminasse.

«Gli esseri umani non sono come lei pensa. Noi ci affanniamo a proteggerli, e a tutelarne il diritto alla vita; ma in realtà, l'uomo dovrebbe essere annientato. È l'uomo il vero problema, il veleno di questo mondo. Quando anche lei lo scoprirà, sarà forse troppo tardi. Ma se arriverà a capirlo, capirà anche che il potere non è qualcosa che l'uomo possa realmente gestire. Il potere uccide l'uomo, ne uccide l'umanità, corrompendone l'anima. L'uomo non possiede una coscienza capace di gestire il potere di cui si trova investito. Non ha lungimiranza. Possiamo solo essere comandati, e guidati nelle nostre azioni da chi possiede un orizzonte più ampio del nostro; questo è l'unico modo in cui possiamo sperare di ottenere davvero equilibrio, giustizia ed equità».

Winston scosse la testa. «Lei ha perso la testa, Caprivi».

«Si può vivere benissimo senza libertà, Churchill» continuò Caprivi, con un sorriso. «Ma finché l'uomo avrà la sua tanto agognata libertà, finché continuerà a ritenersi padrone del suo destino e di tutto ciò che lo circonda, l'umanità stessa e il nostro stesso pianeta saranno presto destinati a scomparire».

Winston restò a fissare Caprivi in silenzio. Quindi strinse gli occhi, lanciando a Lisa e agli altri uno sguardo deciso.

«Voi» disse «andate fuori».

Lisa fece un passo avanti, sottraendosi alle mani di Hunter.

«Non lo faccia» lo implorò. Winston la fissò, con gli occhi dilatati dalla sorpresa.

«Cosa?»

«Non lo faccia. Non deve».

Lui la fissò intensamente.

«Io devo» esclamò, leggermente spaesato. «Lei non può capire».

«Lei non deve, Winston» fece Lisa. «Quest'uomo è finito. Non ha più nulla in cui credere. Lo lasci andare. Se lo uccide, lei non diventerà altro che un assassino, proprio come lui».

«Io sono già un assassino, sciocca ragazza» ghignò Winston. Lei scosse la testa.

«No, non è vero» obiettò. «O non sarebbe mai venuto a salvarci».

Lui spostò gli occhi su Caprivi, che sorrideva distaccato, come se trovasse tutta quella scena estremamente divertente. Strinse le labbra, tendendo verso di lui la pistola. Odiava quell'uomo. Lo odiava per quello che aveva fatto a De Molay e al Consiglio, e per quello che aveva appena detto; ma soprattutto, lo odiava per quello che lo aveva costretto a fare, per averlo trasformato nuovamente in un assassino.

«Non merita di vivere» sibilò.

«Non merita nemmeno di morire» insistette Lisa. «Merita esattamente quello che ha».

Lui spostò gli occhi su Michael e Hunter, che lo guardavano seri. Quindi abbassò lo sguardo sul ragazzino che Hunter teneva stretto a sé. Era un bambino piccolo e gracile. Aveva due occhi scuri e profondi e nel volto era possibile riconoscere i tratti decisi del padre. Lo fissava spaventato e tremante. Davanti a lui, Winston strinse i denti, e abbassò la pistola.

«Ci penserà l'Ordine a darle la giusta ricompensa, Caprivi» fece, improvvisamente calmo. «Non sarò io a ucciderla. Ma se desidera davvero tanto morire, credo che non dovrà attendere a lungo».

«Ognuno ha il destino che sceglie» fece Caprivi, rassegnato. «Mi auguro che lei sappia scegliere meglio il suo, di quanto non abbia saputo fare io con il mio».

Winston annuì.

«Può starne certo» disse. E con un gesto deciso, chiamò gli altri a seguirlo fuori dalla porta.

«Ormai è tutto finito, Churchill!» gli gridò dietro Caprivi. «Non può scappare. Nessuno di noi può!».

Ma ormai non c'era più nessuno ad ascoltarlo. Caprivi, smarrito, improvvisamente invecchiato, si guardò intorno, ritrovandosi completamente solo nell'immenso e deserto atrio di Westwood Manor.



*



Non appena furono usciti, Winston li condusse tutti alla vettura, aprendo loro la porta. Ma quando venne il suo turno per salire sulla carrozza, Lisa si bloccò davanti allo sportello aperto, improvvisamente.

«Avanti, salga» le fece Winston, spazientito. Lei si strinse le mani al petto, guardandolo torva. Fece per salire, ma all'ultimo istante ci ripensò. Scura in volto, si volse di nuovo a guardarlo e gli tirò uno schiaffo sonoro. Lui la fissò stupefatto.

«E questo cosa significa?» balbettò, assolutamente sorpreso. Lei arrossì, tormentandosi le mani.

«Io... non lo so» fece, avvampando. «Ma così impara. A farmi preoccupare e... tutto il resto».

Lui restò a fissarla in silenzio, senza saper cosa ribattere. E alla fine, lei salì sulla carrozza, senza aggiungere nulla. Non appena si fu accomodata nell'angolo più lontano del sedile, Winston si sporse a guardarla, ma lei evitò i suoi occhi, volgendosi vergognosamente verso il finestrino.

«Tenete giù la testa finché non ve lo dico io. Intesi?» disse. Tutti annuirono. Lui chiuse la porta, lanciando un'ultima occhiata in direzione di Lisa. Quindi salì a cassetta, impugnando saldamente le redini e afferrando la leva del freno.

Dannata ragazza, pensò, rabbuiandosi. Ma che diamine si è messa in testa?

Sganciò il freno e con uno schiocco deciso di frusta, Winston spinse i cavalli al galoppo, imboccando decisamente il viale. La guardia davanti al cancello si portò fiaccamente in mezzo alla strada, subito dopo aver aperto le porte di ingresso. Faceva cenno di fermarsi.

Per tutta risposta Winston accelerò, sferzando i cavalli.

Vedendo che la carrozza non si fermava, l'uomo estrasse la pistola, puntandola in aria. Esplose un colpo.

La carrozza non accennava a rallentare.

«Fermo!» gridò. Winston sollevò il frustino: e mentre la carrozza sfrecciava accanto all'uomo di guardia, lui lo colpì violentemente al volto, mandandolo lungo disteso a lato del viale. Quindi lanciò la carrozza oltre il cancello ed essa, inclinandosi pericolosamente su un fianco, prese a correre verso la città, scomparendo all'orizzonte e lasciando dietro di sé solo una densa nuvola di polvere.

«Ora potete rilassarvi» gridò lui, picchiando con il pugno contro il tetto. «Siamo fuori».

Dentro alla vettura, i passeggeri sospirarono, scambiandosi occhiate allegre. Hunter abbracciò la moglie, e passò allegramente una mano tra i capelli del figlio, che gli sorrideva. Michael esultava. Solo Lisa abbassò cupa il finestrino, rivolgendo l'ultima occhiata a Westwood Manor, che ormai svaniva, avvolta dalla polvere.

Avrebbe dovuto essere felice, ma un oscuro presentimento le impediva di esserlo completamente. Era qualcosa che non si sapeva spiegare, ma che la mordeva fin nelle ossa, gettandole addosso una profonda paura.

Forse non era altro che la precisa consapevolezza che adesso, per tutti loro, sarebbe cambiata per sempre ogni cosa.






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Capitolo 14
*** 13 ***


I primi raggi del nuovo giorno lambirono il volto addormentato di Jean, solleticandogli con una tenera luce le palpebre chiuse. Respirò profondamente: un aroma deciso ridestò con improvvisa prepotenza i suoi sensi. Ormai completamente sveglio, Jean inforcò gli occhiali e si guardò intorno, sbattendo le palpebre e stropicciandosi le membra intorpidite. L’aria era frizzante: e sui suoi capelli e sul panno di lana grezza che aveva usato per coprirsi, centinaia di piccole gocce di brina vi stavano come aggrappate, un attimo prima di sciogliersi al sole.

Chino sul fuoco, Atahualpa armeggiava con un piccolo bollitore ammaccato. Jean annusò l'aria. Era da lì che proveniva quel profumo tanto intenso.

«Hai dormito bene?»

Jean annuì.

«Che sta facendo?» chiese, grattandosi dietro la testa e accennando al bollitore, che ora borbottava allegro sul fuoco, appeso per il manico a un ramo ricurvo conficcato a terra. Atahualpa sollevò il coperchio, scrutando all'interno; quindi ne versò il contenuto in una tazza di legno, che porse a Jean con un sorriso.

«Semi di cacao» disse. «Bevi. Ti darà energia».

Jean prese tra le mani la tazza di legno piena di liquido nero e fumante che Atahualpa gli stava porgendo. Lo ringraziò, mentre la portava alle labbra.

«Attento, è molto amaro» lo avvertì lui. Jean ne assaggiò un sorso, contorcendosi in una smorfia. Era davvero amaro. Ma allo stesso tempo, non appena l'ebbe ingoiato, tutto il corpo si risvegliò immediatamente, scosso da un insolito vigore.

«Caspita» disse, con la bocca ancora impastata dal sonno e da quel liquido scuro e polveroso. «Non scherzava quando diceva che era amaro... e che dava energia».

Atahualpa ridacchiò, estraendo dalla bisaccia un pezzo di carne essiccata, da cui tagliò alcune strisce con un grosso coltello. Ne porse due a Jean, che le accettò di buon grado. Si sentiva affamato.

«Come vanno i piedi?» chiese il vecchio mentre masticava, agitando il coltello. Jean li tastò. Erano pieni di vesciche.

«Bene» disse, nascondendo una smorfia. «Nessun problema».

«Meglio così» fu il commento di Atahualpa, che si mise a fissare l'orizzonte, sprofondando in un improvviso silenzio.

Finirono di fare colazione in fretta, quindi si caricarono le loro cose sulle spalle e si incamminarono. Già dopo i primi passi, Jean si trovò a lottare contro il dolore che gli causavano le vesciche. Non erano in viaggio che da pochi minuti, che già si ritrovava ad arrancare dietro ad Atahualpa, rammaricandosi di aver voluto mentire così grossolanamente. Era evidente che non ce l'avrebbe fatta a continuare.

«Jean, cerca di allungare il passo, o non arriveremo mai!» gli gridò Atahualpa, molto più avanti di lui.

Jean strinse i denti, affrettandosi sul sentiero di pietra. Ogni passo era per lui una vera sofferenza, ma non voleva ammettere davanti al vecchio la propria debolezza e la presunzione con cui aveva negato il suo problema.

Era forse mezzogiorno quando raggiunsero un minuscolo avvallamento al cui centro si trovava un piccolo lago di origine glaciale. Tutto intorno alle sue rive di roccia scura, alcune capre di montagna pascolavano liberamente, e fissavano con sguardo annoiato i due viandanti che procedevano lentamente, sotto il sole a picco nel cielo. Atahualpa si avvicinò all’acqua, estrasse dalla sacca una bacinella e ne raccolse un po’; quindi fece segno a Jean di sedersi su una roccia e di togliersi le scarpe.

«Bagnati i piedi con questa» gli disse, seccamente. «Io torno tra poco».

Jean obbedì. Ogni tanto lanciava qualche occhiata fugace al vecchio, che incedeva chino sul terreno, come a cercare qualcosa che avesse smarrito. Lo vedeva abbassarsi per poi rialzarsi dopo poco, ogni volta stringendo tra le mani qualche nuova radice che strappava da quella terra dura e secca.

Dopo un po’, il vecchio ritornò sui suoi passi, posando alcune erbe e radici nella ciotola che aveva dato a Jean. Quindi, servendosi di un sasso piatto che raccolse lì intorno, prese a schiacciare le erbe, sminuzzandole fino a farne una poltiglia che impastò con qualche goccia d’acqua del lago.

«Tieni» disse alla fine, porgendo a Jean la ciotola colma di una poltiglia verdastra. «Dattelo sulle vesciche. Ti farà bene».

Jean si spalmò quella specie di unguento sulle piaghe che aveva ai piedi e sentì un immediato senso di refrigerio e ristoro. Si infilò nuovamente calze e scarpe e si sentì incredibilmente pronto per incamminarsi di nuovo.

«E la prossima volta, quando ti domanderò qualcosa, rispondimi subito dicendo la verità. Non ha senso fare l’eroe per poi tenere un passo così lento tutto il tempo».

Jean abbassò gli occhi ad allacciarsi le scarpe, senza rispondere.

«Mangeremo qualcosa mentre camminiamo» fece Atahualpa cupo, fissando alto, oltre le cime dei monti avanti a loro. «Siamo ancora molto indietro».

Jean lo fissò. Nei suoi occhi penetranti e grigi brillava una luce diversa dal solito, un lampo, come se qualcosa lo preoccupasse. Ormai Jean si credeva abituato alle stranezze del vecchio, sebbene lo conoscesse ancora da poco; tuttavia, non poté fare a meno di notare quella sua aria misteriosa, mentre lo vedeva annusare il vento e scrutare le vette alte delle montagne.

«Qualcosa non va?» chiese. Provò anche a osservare nel punto in cui Atahualpa stava guardando, ma non vide nulla se non nuvole e rocce. Atahualpa si caricò la bisaccia sulle spalle e si incamminò.

«Non siamo soli» disse.

Jean si incuriosì. Si volse nuovamente a guardare, ma ancora una volta non riuscì a scorgere nulla.

«Non vedo nessuno».

«Perché non sai dove guardare».

Spazientito, Jean sbuffò, allargando le braccia. «Magari potrebbe mostrarmi lei dove guardare, che ne dice?» esclamò. «Non aveva detto che in questo viaggio mi avrebbe insegnato qualcosa?»

Atahualpa scosse il capo. «Essere permalosi non ti aiuterà a capire, Jean. È da due giorni che siamo in cammino, e vedo che ancora non hai appreso molto. Tra poco il nostro viaggio finirà e io mi chiedo: sarai pronto?»

Jean ascoltò con fastidio le parole del vecchio. Non era stato lui a volere tutto ciò. Nemmeno sapeva perché si trovava lì. Aveva seguito quel vecchio pazzo solo perché gli era stato promesso che alla fine avrebbe ritrovato i suoi amici; ma invece, eccolo a scorrazzare in giro per le Ande, all’inseguimento di chissà cosa e chissà per quale motivo.

«Pronto per cosa?» esplose. «Nemmeno so perché ci troviamo qui! Lei continua a non volermi dire nulla, e...»

«Questo non è vero» obiettò Atahualpa. «Mi hai mai chiesto qualcosa?»

«Certo, io...»

«Qualcosa che non fossero sciocchezze?»

Jean si fece livido. «E come faccio a capire cosa per lei è una sciocchezza e cosa non lo è?»

«Vedi Jean», sospirò Atahualpa «tu sei un giovane sveglio e sensibile. E sei anche buono. Ma il tuo problema è che non sai mai quello che bisogna fare. Tu aspetti, sperando che le cose si risolvano da sole, o che la soluzione cada dal cielo nella tua mano aperta, limitandoti a fissare ciò che ti scorre davanti agli occhi, e a concentrarti su ciò che conta meno in assoluto. Se vuoi qualcosa, e se la vuoi davvero, impara a chiederla».

Jean strinse i denti. Era la seconda volta in poco tempo che qualcuno gli lanciava un'accusa del genere. Era stanco di sentirsi dire che era un inetto, o un indeciso.

«Voglio sapere perché sono qui» fece lui, teso.

«Semplice. Perché vuoi trovare i tuoi amici, no?»

«E dove dovrebbero essere?» domandò lui, con un lampo di sarcasmo negli occhi. «Sono due giorni che vaghiamo in mezzo al nulla, senza incontrare anima viva».

«Per certe cose ci vuole pazienza» commentò Atahualpa con un sorriso vago.

«Sono stanco di portare pazienza» ribatté Jean. «E sono stanco delle sue assurdità».

Atahualpa lo fissò intensamente.

«Non sono io il tuo nemico, Jean» disse, masticando le parole con calma. «E non mi arrabbierò, perché non è con me che te la stai prendendo, ora».

Imbarazzato dal modo in cui Atahualpa lo stava fissando, Jean distolse lo sguardo dai suoi occhi penetranti.

«Comunque» continuò il vecchio «io non voglio nulla da te, se non aiutarti a raggiungere ciò che è necessario; ti ho portato qui perché potessi conoscere il mistero di Quetzalcóatl e affrontare la prova a cui ti dovrai sottoporre, la prova che è scritta nel tuo nome e nel tuo destino».

«Il destino non esiste» obiettò Jean ridendo. «Siamo noi che scegliamo la nostra vita».

Atahualpa rise a sua volta, ma la sua era una risata amara. «Già, è una frase che ho sentito molte volte» commentò.

«È la verità. Tutti noi siamo liberi di scegliere ciò che vogliamo diventare».

«È vero» ammise Atahualpa. «Ma che c’entra col destino?»

Jean ammutolì di colpo, senza capire dove quel vecchio volesse andare a parare.

«Vedi ragazzo, tu ragioni secondo un modo di pensare che è tipico della tua gente. Per voi, il tempo rappresenta qualcosa che scorre da un punto all’altro, come fosse un treno che sfreccia sui binari seguendo un'unica direzione, senza possibilità di invertire la marcia. In questi luoghi, però, le cose non funzionano così. Qui troverai che il passato si intreccia strettamente con il presente e che non esiste una sola dimensione per lo spazio che ci accoglie. Ogni cosa possiede un suo preciso punto di vista, che risulta a volte difficile da capire, ma che deve comunque essere accettato».

Senza parlare, Jean procedeva seguendo il vecchio lungo lo stretto sentiero, gli occhi bassi ad osservare il terreno insidioso sotto ai suoi piedi.

«Per te il destino non esiste, pensi al futuro come qualcosa che ancora non esiste e che tu stesso ti aiuterai a costruire» continuò Atahualpa, «ma per noi, per la mia gente e per chi ha vissuto in questi luoghi, il tempo non funziona così. Noi crediamo che tutto ciò che accade intorno a noi, condizioni in modo inevitabile ogni nostra azione. Io e te, le persone che ci circondano, il mondo che abitiamo... non siamo che esistenze separate, ma che conducono una vita inseparabile. In fondo, come posso anche solo pensare di essere padrone di quello che sarà il mio tempo, domani, se oggi il mondo potrebbe in qualsiasi momento privarmi della mia vita?»

Jean sollevò gli occhi, fissando le spalle di Atahualpa. Non appena il vecchio si volse leggermente a guardarlo, lui tornò a torcere gli occhi altrove, torvo in viso. Atahualpa sorrise.

«Prendi il nostro toporagno di ieri, per esempio» continuò il vecchio. «Noi ora siamo qui, sazi, perché esso, col suo sacrificio, ci ha permesso di nutrirci. Ma davvero pensi che il toporagno, svegliandosi la mattina, si sia detto: oggi morirò; e con la mia carne sfamerò il vecchio Atahualpa e il suo amico? Credo proprio che se avesse saputo ciò che lo attendeva, avrebbe preferito nascondersi nella tana per tutto il giorno. O almeno, io avrei fatto così».

«Ancora non capisco cosa c'entri tutto questo con il destino» obiettò Jean, sarcastico.

«Nel mondo che conosco io, non esiste un futuro possibile, ma esiste il futuro, ciò che è legato all’oggi e che è inseparabile da ieri» rispose Atahualpa. «Ma quello che riguarda il domani, io non posso scoprirlo se non affidandomi ai cicli inevitabili della vita, a ciò che da lontano si intreccia alla mia vita e che io non posso decidere, ma solo prevedere. Sempre se sono bravo a leggere».

«Dunque è per questo che sono qui?» chiese Jean, con una smorfia. «Per imparare a leggere?»

«In un certo senso» rispose Atahualpa. «Ma soprattutto, per imparare a vedere».

Jean scosse il capo. Fu per caso che sollevò gli occhi e improvvisamente si trovò a concentrare la sua attenzione sulla particolare treccia di Atahualpa, una treccia composta dai lunghi capelli grigi intrecciati a numerosi fili multicolori. Fu allora che tutto quello che la vecchia guida gli aveva detto fino a quel momento, gli apparve sotto una luce completamente nuova e inaspettata.

«Ogni cosa nella vita segue un ciclo» riprese il vecchio. «Uomini, animali, piante, spiriti... ognuna di queste cose entra a far parte di un ciclo. E questo ciclo si ripete continuamente, ciclo dopo ciclo, senza possibilità di cambiamento».

Jean trasecolò. La trovava una cosa terribile. Un mondo senza cambiamento significava un mondo senza speranza. Non poteva accettarlo.

«Se è così» disse «il suo è un mondo spaventoso. E io non ho nessuna intenzione di far parte di un mondo in cui tutto è già deciso».

«E allora non starci» fece Atahualpa. Jean, sorpreso da quest'ultima affermazione, alzò gli occhi a fissarlo.

«E cosa dovrei fare, secondo lei?» lo schernì. «Uccidermi?»

Atahualpa scosse il capo. «Jean, tu continui a non vedere le cose dal giusto punto di vista».

«Ma come dovrei guardarle?» sbottò Jean, ora davvero infastidito dalla reticenza e dalla supponenza del vecchio. «Lei parla in modo incomprensibile! Sta qui a farmi una predica di filosofia, mentre io ho il disperato bisogno di ritrovare i miei amici!»

Atahualpa si fermò e si voltò a guardarlo. «Jean, tu parli del destino e credi che il tuo destino lo puoi creare da solo. Ma io ti sto dicendo che se non impari a guardare al di là di quel piccolo e insignificante mondo che qui rappresenti» fece, allargando le braccia «tu non otterrai mai nulla di quello che cerchi».

«E allora mi aiuti, per la miseria!» gridò Jean. «Mi aiuti a trovare quello che cerco».

Atahualpa lo fissò tristemente.

«Ma io lo sto già facendo» gli rispose. Esasperato, Jean si portò le mani ai capelli, scuotendo la testa.

«Basta, io me ne torno indietro» fece.

«Perché? Credi che così facendo troverai i tuoi amici?»

«Sì!» disse Jean. «Forse li troverò».

«Forse?» rise Atahualpa. «Ti facevo più sicuro di forgiare il tuo destino».

«Ci proverò, tenterò... sarà sempre meglio che stare qui, con lei».

«E se non riuscirai?»

«Vorrà dire che...»

«Non era destino?»

Jean lo fissò, la bocca socchiusa, il fiato mozzo. Sentiva nel cuore un’agitazione estrema, che si estendeva lentamente a tutto il suo corpo, crescendo in modo inesorabile. Avrebbe voluto gridare, scagliarsi contro quell'uomo e colpirlo, colpirlo fino a perdere ogni energia, per costringerlo a tacere; ma tutto ciò che riuscì a fare fu abbassare il capo stringendo i pugni, mentre la vista gli si offuscava. Rudemente, si passò il dorso della mano sugli occhi. Atahualpa gli si avvicinò e gli posò una mano sulla spalla. Jean non si mosse. Non riusciva a guardarlo in volto, tanto erano confuse le sensazioni che provava in quel momento.

«So che sei pieno di rabbia» gli disse il vecchio, con voce calma e lenta «ma devi capire che il nostro destino da solo non conta, se non riusciamo a farlo incontrare con quello di chi ci circonda. La vita è come un’opera di tessitura. Andiamo alla ricerca di quei fili che sono a noi indissolubilmente legati, per cercare di ricomporre la trama della nostra vita. Se anche tu volessi con tutto te stesso trovare i tuoi amici, ma essi non fossero capaci di trovare te, ogni tuo tentativo per raggiungerli sarebbe inutile. Faresti la fine del cane che si morde la coda. Passeresti la vita alla ricerca di qualcosa che ti sfuggirà per sempre, perché non può incontrarti».

«Allora» disse Jean, sconfortato «è come per la canzone, non è così? In realtà non esiste alcuna redenzione».

Atahualpa sorrise. «Ricordi cosa ti risposi quando mi chiedesti la stessa cosa, ieri sera?»

«Che nessuno ancora l’aveva scritta».

«Esatto» fece Atahualpa ridendo. «Vedo che qualcosa sono riuscito a trasmettertelo»

Jean sorrise, suo malgrado. «Già ma cosa...»

«Tutto ciò che avviene ha un significato preciso. Solo gli sciocchi pensano che nella vita le cose accadano senza alcuna motivazione. Succede solo perché non riusciamo a smettere di vedere al di là di quel poco che rappresenta noi stessi».

«Cosa dovrei fare, allora?» chiese Jean, alzando timidamente gli occhi. Il vecchio lo scosse leggermente per le spalle, serrando le labbra.

«Andare incontro al tuo destino».

Jean sollevò gli occhi; e vide che ora il vecchio lo guardava con uno sguardo carico di comprensione e di affetto.

«Voglio dirti una cosa» fece Atahualpa, fissandolo dritto in volto. «A volte è proprio quando accettiamo di correre il pericolo maggiore, che troviamo la nostra più grande speranza. Quando rischiamo di perdere noi stessi, corriamo il rischio più grande, ma allo stesso tempo possiamo vedere ciò che ci circonda con occhi nuovi; e così ci ritroviamo improvvisamente all’interno di una dimensione più ampia. È come... guardare la vita dall’alto. Emozionante, non trovi?»

Jean sorrise. Sapeva esattamente cosa intendeva.

«Sì» rispose. «Un po' come volare».

«Un po' come volare, esatto» fece Atahualpa, stringendo gli occhi e sorridendo.

Jean alzò gli occhi sulle nuvole che lambivano le cime innevate intorno a loro. E una luce gli balenò per un istante negli occhi, illuminandoli del colore del cielo limpido di quella mattina così strana.

Era tutto così insolito, pensò. Eppure, sentiva che qualcosa lo attendeva, ora, al di là di quei monti dall'aspetto inaccessibile. Qualcosa che lo aspettava da tempo e che lui non poteva più continuare ad ignorare.

«E adesso andiamo» gli disse Atahualpa, passandogli allegro il braccio intorno alle spalle. «Il nostro destino ci sta aspettando».

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Capitolo 15
*** 14 ***


La giornata volgeva ormai al termine, e le ombre cominciavano ad allungarsi lentamente sul sentiero. Jean arrancava esausto lungo il crinale, cercando di raccogliere le ultime energie che ancora gli rimanevano. Ogni tanto sollevava lo sguardo, fissandolo sul profilo sottile del vecchio Atahualpa: lo vedeva procedere taciturno e ingobbito, a pochi passi da lui, chiuso in un silenzio ostinato. Ormai Jean si era abituato ai profondi e improvvisi silenzi del vecchio: ma ogni volta che lo vedeva raccogliersi in se stesso, increspando la fronte sotto il peso di chissà quali pensieri, si chiedeva cosa mai potesse raccogliersi dietro le rughe che ne solcavano il volto arroventato, e quali ricordi, quali timori e preoccupazioni esse rivelassero a uno sguardo più attento del suo.

Per lui, quel vecchio restava un mistero impenetrabile. Ma davvero si trattava solo di lui? Fu con stupore che Jean si rese improvvisamente conto di quanto, in realtà, negli ultimi tempi gli fosse risultato difficile riuscire a immaginare i pensieri e le emozioni di quanti gli giravano intorno. Una volta trovava facile mettersi nei panni degli altri e guardare le cose da un punto di vista diverso dal suo; ma ora, aveva perso quella particolare sensibilità. Qualcosa era intervenuto a bloccarla. Qualcosa che l'aveva spinto a concentrarsi esclusivamente su se stesso.

Alzò gli occhi. Una fitta coltre di nebbia si profilava all'orizzonte. Jean la osservò preoccupato. Non avrebbero certo potuto proseguire oltre, ma fermarsi in quel punto, dove il sentiero si faceva tanto stretto e scosceso, era impossibile.

«Che facciamo?» domandò. Atahualpa sollevò la testa, come ridestandosi all'improvviso.

«Proseguiamo».

Jean scosse il capo. «Non è possibile. Ha visto che nebbia? Se ci entriamo, rischiamo di ammazzarci».

«Tu resta dietro a me, guarda dove metti i piedi e non ti succederà nulla».

«Non sarebbe meglio...»

«No».

Maledizione!

Jean non era per nulla convinto, ma alla fine continuò a camminare. Passo dopo passo, si avvicinavano sempre più al punto in cui la nebbia li avrebbe inghiottiti, cancellando ogni riferimento intorno a loro.

Sarebbero stati fortunati se fossero sopravvissuti altri cinque minuti, pensò.

«Perché non mi racconti qualcosa?» gli domandò ad un tratto Atahualpa, del tutto inaspettatamente. Jean si stupì. Dopo tutto quel silenzio, sembrava aver finalmente ritrovato la parola.

«Qualcosa?» rispose. «Non so... esattamente, cosa vorrebbe sapere?»

«Per esempio, perché non mi parli di lei

Jean si irrigidì. La nebbia era fredda e un brivido lo percorse completamente. O forse non fu solo la nebbia, a farlo rabbrividire.

«Non è un argomento di cui vorrei parlare» si schermì lui.

«Questo è un motivo in più per parlarne» rispose Atahualpa. Jean rise.

«Lei deve sempre convincere le persone a fare quello che non vogliono, non è così?»

«La verità è che dobbiamo continuare a parlare, Jean, se non vogliamo perderci l'un l'altro» fece Atahualpa, con semplicità. «Siamo appena saliti sull'altopiano e qui presto non ci sarà più alcun sentiero da seguire. Se non ci teniamo in contatto con la voce, rischiamo di smarrirci. La nebbia quassù non cala mai».

Fantastico.

«Quindi, ho pensato che chiederti di lei ti avrebbe dato modo di parlare per un bel po'».

«Innanzi tutto, come fa a sapere che esiste una lei

«Te lo si legge in faccia» fece Atahualpa, divertito. «Solo una donna poteva ridurti in quel modo».

Jean aggrondò. «Cioè, come?»

«Rassegnato» disse Atahualpa. «Ecco, come».

Jean tacque per un istante.

«La verità è che non c'è molto da dire» ammise lui. «Un tempo eravamo piuttosto legati, ma ora no. Non lo siamo più».

Atahualpa tacque per un istante. «E questo perché?»

«Abbiamo fatto scelte differenti. Ci siamo allontanati, tutto qui. Non c'è un vero motivo».

«A volte, strade diverse conducono allo stesso luogo».

«Non in questo caso» rispose Jean, piuttosto seccamente. Atahualpa non commentò, non subito.

«Sembri piuttosto sicuro» disse, alla fine.

«Sì» fece Jean. «Lo sono. Direi che è finita».

«Questo è quello che mi stai dicendo e che stai ripetendo a te stesso da parecchio tempo, Jean» insistette Atahualpa. «Ma tu, in realtà, cos'è che vuoi?»

Jean serrò le labbra. «Vorrei solo non averla mai incontrata» mormorò.

Nessuno dei due disse più qualcosa per diverso tempo. Jean prese a concentrarsi sull'ombra di Atahualpa. Non era molto distante da lui, ma ormai stava facendo buio, la nebbia era fittissima e quasi non si riusciva più a distinguerlo.

«Sai» saltò su Atahualpa, all'improvviso «non è possibile scegliere le persone che incontriamo. Le incontriamo e basta. Solo che spesso vorremmo essere noi a decidere come queste dovrebbero essere, e come dovrebbero comportarsi».

Jean sogghignò. «Ho smesso di pensare a come le persone dovrebbero comportarsi. Così come ho smesso di farmi problemi riguardo a ciò che penso sia giusto o sbagliato».

Atahualpa si volse. Jean ne intravide il profilo allungato del volto, il naso adunco.

«Ah si?» domandò Atahualpa. «E come mai?»

«Non serve a nulla. Se non a fidarti delle persone sbagliate».

«Non ti stai riferendo solo a lei, non è così?»

Jean sospirò. «Lei conosce già la risposta, no?» disse. «E allora, perché me lo chiede?»

Atahualpa annuì debolmente. «Isolarti dal mondo non è la risposta, Jean» affermò. «Non è questa la risposta alle tue domande».

«Peccato che io non abbia più nessuna domanda» esclamò Jean, deciso. «Anche se ci ho messo parecchio, alla fine ho capito. In questo mondo, ognuno agisce solo per i propri interessi. Non c'è nient'altro che importi. I furbi l'hanno capito da un pezzo, mentre gli stupidi stanno ancora lì, a pensare a cosa sarebbe più giusto fare».

Atahualpa scosse il capo.

«Non è così che vanno le cose» commentò. «Ma imparerai. Sì, tu imparerai».

«Imparerò! Ma certo» sbottò Jean. «Sicuro. E cosa dovrei imparare?»

«Che esistono cose più importanti...»

«Ma per favore!» ghignò Jean. «L'unica cosa che ho imparato, è che il mondo è pieno di gente pronta a calpestarti per il solo gusto di farlo. Quali sarebbero queste cose importanti che dovrei imparare? La bontà? La generosità? No, grazie tante. Ci sono già passato. Ho sprecato anni della mia vita, credendo che cose del genere contassero qualcosa, mentre non contano un accidenti di niente. Non c'è generosità in giro, né bontà. Là fuori c'è solo un sacco di gente che fa il male ogni giorno, e solo per il gusto di farlo, per divertirsi o perché si annoia. E il resto delle persone vive trattando gli altri come qualcosa che si può tranquillamente usare, pensando che il proprio diritto alla felicità sia sufficiente a cancellare ogni dovere verso il resto del mondo».

Fece una pausa. Quindi, siccome Atahualpa non rispondeva nulla «l'unica cosa che avrei dovuto imparare, era a farmi i fatti miei» aggiunse. «Infischiarmene, di tutto e di tutti. Questo mi sarebbe servito, e almeno non avrei dato così tante preoccupazioni alla mia famiglia, correndomene in giro per il mondo... e per cosa? Bel modo di ringraziare quei poveracci dei miei zii».

«E immagino che la tua famiglia ti abbia insegnato... come dici... a infischiartene?»

«Lei non sa niente» lo liquidò Jean. «I miei zii mi hanno allevato come un figlio, quando sono rimasto solo. Se c'era qualcuno verso cui avevo una responsabilità, questi erano loro. Ma io li ho abbandonati, preferendo seguire lei, un'estranea, solo perché mi piaceva e perché la ritenevo in difficoltà, dimenticandomi di loro come se nulla fosse. Volevo fare l'eroe, ma in realtà non mi sono comportato che da stupido e da immaturo».

«E il motivo per cui li hai lasciati, scegliendo di aiutare chi era in difficoltà, non è forse perché i tuoi zii ti avevano allevato proprio in quel modo? Perché tu sentissi giusto fare quello che hai fatto?»

Oh, al diavolo...

«Parlare con lei non serve a nulla» tagliò corto Jean. «Lei non riesce a capire».

«Come vuoi» rispose Atahualpa. E tacque.

Passò qualche minuto. Nessuno parlava. In quel silenzio agglutinante, Jean si guardò attorno. Sembrava che la nebbia si facesse più fitta ad ogni suo passo.

«Quanto dovremo camminare ancora?» chiese, seccato. Atahualpa non rispose. Jean fissò la sua ombra, davanti a lui.

«Atahualpa?»

Nessuna risposta. Jean cominciò a spazientirsi.

«Dico a lei, mi sta a sentire?»

Fece per agguantare la veste del vecchio, ma la sua mano strinse solo nebbia. Quella che sembrava l'ombra di Atahualpa non era che uno scherzo giocatogli dalla luce e dalla nebbia, che si dileguò al primo tocco della sua mano. Con il cuore che gli moriva in petto, Jean prese a guardarsi intorno, spaventato.

«Atahualpa...»

La sua ansia cresceva, sempre più. Nessuno rispondeva.

«Atahualpa!»

Era solo.

Jean si guardò intorno. Atahualpa era sparito, come scomparso nel nulla. La nebbia sembrava averlo inghiottito.

Cercò di mantenersi calmo, ma era seriamente preoccupato. Ormai era sera inoltrata e presto sarebbe calata la notte, in quel luogo solitario e dimenticato da Dio. Jean non vedeva nulla intorno a sé: tutto ciò che riusciva a distinguere era il sentiero di sassi ed erba, che si faceva sempre più stentato man mano che si avanzava nella nebbia.

E adesso? Cosa faccio?

Si voltò. Tornare indietro non gli sembrava la scelta migliore, visto e considerato che non avevano incontrato anima viva durante tutto il viaggio compiuto sin là.

Allora, andare avanti?

E poi?

Fece qualche passo, quindi si fermò di nuovo, incerto, a scrutare in lungo e in largo.

«Atahualpa!» grido. «Se mi senti, vattene al diavolo, vecchio pazzo!»

Sospirò. Arrabbiarsi non serviva a nulla. Nessuno gli aveva detto di imbarcarsi in quel viaggio assurdo. Se si trovava in quella situazione, era solo colpa sua. Era solo con se stesso che doveva prendersela.

Decise che a quel punto tornare indietro non aveva alcun senso. Forse, se avesse proseguito, nella migliore delle ipotesi avrebbe incontrato un villaggio, o forse anche solo qualcuno. Nella peggiore, si sarebbe perso, esattamente come gli sarebbe accaduto se avesse deciso di tornare sui suoi passi.

Calciò un ciottolo che rimbalzò sul sentiero sconnesso, perdendosi nella nebbia. Inaspettatamente, avvertì qualche goccia fredda cadergli sulla fronte sudata. Cominciava a piovere.

«Oh, perfetto! Non ci mancava che questo».

Una pioggia fittissima si scatenò all’improvviso. Jean venne colto alla sprovvista, ma anche se avesse voluto, non avrebbe avuto alcun modo di ripararsi. Non c’era nulla intorno a lui e anche ora che la pioggia diradava con la sua insistenza la nebbia che avvolgeva fitta tutto l’altopiano, Jean non vide altro che prato, pietre e rocce, che si alternavano senza tregua a formare quel panorama solitario e spettrale in cui si trovava immerso.

Rassegnato, aprì le braccia e lasciò che la pioggia lo colpisse. Grasse gocce fredde gli urtavano il viso, e gli inzuppavano i vestiti sporchi di polvere. I capelli bagnati gli si appiccicarono alla fronte e gli occhiali si appannarono. Ma non gli importava. In cuor suo, avrebbe desiderato che quella pioggia lo portasse via, che gli lavasse di dosso ogni pensiero e ogni dolore. La accettò, come si accetta una benedizione a lungo invocata. Col cuore tremante.

Quando riaprì gli occhi, la nebbia era scomparsa. Il sentiero si perdeva nell’erba bagnata, pochi metri più avanti. Era giunto al capolinea. Ora non sapeva davvero più cosa avrebbe fatto di se stesso.

Si guardò intorno. Con la pioggia che continuava a cadere implacabile, prese ad avanzare nel terreno ormai fangoso, alla ricerca di Dio solo sa cosa. Aveva deciso. Si doveva perdere? E si sarebbe perso. Che senso aveva star lì a pensare dove andare, cosa fare e tutto il resto? Tanto più che non aveva alternative...

In modo simbolico, decise di uscire dal sentiero ormai morente. Con una rinnovata e particolare emozione, si inoltrò nel prato, camminando sempre dritto, senza voltarsi indietro. Osservava le montagne intorno a sé, che si ergevano come un'alta corolla di roccia bruna. Da lì poteva scorgerne le cime innevate, lontane e inaccessibili. Tutt’intorno, nemmeno il più piccolo accenno di vita.

Eppure, non si era mai sentito così assurdamente pieno di energia.

Stava camminando ormai da un po’, quando improvvisamente scivolò su qualcosa di viscido. Doveva aver messo un piede su una roccia bagnata, o qualcosa del genere.

Si sollevò, mettendosi ginocchioni e massaggiandosi la schiena. Inavvertitamente, posò gli occhi proprio sulla pietra che l'aveva fatto scivolare.

Era una pietra strana, a vedersi, dalla forma troppo perfetta e particolare per essere naturale. Sembrava una specie di disco, completamente liscio, ma con delle nervature che sembravano rappresentare qualcosa. Incuriosito, Jean si guardò intorno, per vedere se si riusciva a scorgerne altre di simili.

No, niente.

Fece qualche passo intorno alla pietra, senza perderla di vista. Nulla.

Per un attimo aveva pensato di aver trovato qualcosa che potesse trascinarlo fuori da quel deserto verde, ma doveva essersi ingannato...

Fu allora che lo vide. Un bambino, che lo fissava da lontano. Aveva lunghi capelli neri, che gli ricadevano grondanti di pioggia sugli occhi. Sembrava malnutrito e non indossava che un logoro sacco di iuta, acconciato a mo' di poncho. Jean trasalì. Non si aspettava certo un incontro del genere. Non lì.

«Ehi» fece, alzando una mano in segno di saluto. Sorrise. Non riusciva a vedere il bambino in volto, era troppo lontano e c'era troppa foschia. Il bambino però mosse la mano.

Era un saluto?

«Capisci la mia lingua?» gridò Jean. «Entendes?»

Il bambino non si mosse. Jean sentì un brivido attraversargli il corpo. Quella presenza lo inquietava, in un certo modo.

«Estoy perdido» disse, cercando le parole. «...desorientado. Tu... tu conocer Atahualpa?»

Jean mimò la figura alta del vecchio che lo aveva accompagnato, ma il bambino non dava segno di intendere una sola parola di quello che gli stava dicendo. Sospirando, Jean fece per avvicinarsi.

«Excusa me, puedes ayudarme...»

Il bambino scomparve improvvisamente, dileguandosi davanti ai suoi occhi. Jean sbatté le palpebre, ma quando le riaprì, non trovò più nessuno. Era come se la pioggia lo avesse lavato via dall'orizzonte.

«Devo essere impazzito» mormorò, voltandosi a guardare alle sue spalle. Non c'era nessuno. Eppure, era convinto di averlo visto.

Rassegnato, riprese a camminare; ma non aveva fatto che pochi passi, che una pietra in tutto simile alla precedente gli apparve come dal nulla davanti agli occhi, proprio nel luogo in cui credeva di aver visto il bambino. Se non fosse stato per le linee sulla sua superficie, che tracciavano un disegno completamente diverso rispetto all'altra, avrebbe detto che le due pietre erano assolutamente uguali.

Fu allora che, alzando gli occhi, rivide il bambino. Si trovava a pochi metri da lui, e lo fissava attraverso il velo nero di capelli che gli copriva gli occhi.

«Ehi! Ma da dove...»

Il bambino sollevò un braccio, ad indicare qualcosa. Jean volse la testa nella direzione che gli stava indicando e cautamente, senza togliergli gli occhi di dosso, vi si incamminò. Quello che trovò fu un'altra pietra, ma con il disegno sulla superficie ancora una volta diverso.

Jean si voltò a guardare la lunga linea che i suoi passi avevano tracciato tra una pietra e l'altra, nell'erba bagnata. Una lunga linea di un verde più intenso e scuro che tagliava di netto il prato, là dove l'erba era stata schiacciata.

Che strano, pensò. Gli ricordava qualcosa.

Improvvisamente, un lampo. Si volse nuovamente a guardare in direzione della prima pietra, pensando. Se la sua idea era giusta, avrebbe dovuto trovare una nuova pietra, esattamente...

«Eccola, infatti».

Una quarta pietra si trovava nel prato, proprio dove lui aveva supposto che fosse. Jean sollevò gli occhi. Il bambino era ancora lì, a pochi passi da lui, che lo guardava muoversi per il campo alla ricerca di quelle pietre misteriose.

«Sono costellazioni» disse, rivolgendosi al bambino. «Queste pietre, messe così... raffigurano delle costellazioni, non è vero?»

Jean riconobbe la costellazione della Lira. Se voleva trovare le altre, doveva spostarsi nel prato a seconda della posizione che esse occupavano nel cielo.

«L’orsa maggiore è là» disse, individuando un insieme di pietre poco lontano da lui e raggiungendolo a passi veloci. «A sud c’è il Leone...»

Trovò le pietre, immerse nell’erba. Con un moto di speranza, Jean girò le spalle.

Il Drago... l’Orsa minore...

La Stella Polare.

«Il nord!»

Esultò. Si trovava al centro di un gigantesco stellario a cielo aperto.

Si volse a cercare il bambino, che però era nuovamente sparito nel nulla. Rassegnato, Jean si portò sulla pietra che rappresentava la Stella Polare e vide che da lì si dipartiva un sentiero, anche se appena accennato.

Beh, era ancora nei guai, ma almeno aveva trovato una strada.

Cominciò a percorrerla con un rinnovato vigore. La pioggia sembrava essersi infiacchita e ora cadeva noiosamente, ma aveva di buono che teneva lontano la nebbia.

Dopo qualche decina di metri, il sentiero si fece largo e spazioso, ben lastricato. La cosa lo fece ben sperare. Ed in effetti il sentiero scendeva progressivamente, digradando sempre più lungo la costa scoscesa del crinale. Tutt'attorno le nuvole restavano basse, avvolgendo tutto il promontorio e impedendo così di vedere cosa si celasse al di sotto di esse; ma la visuale si era fatta piuttosto buona, nonostante il buio che ormai stava calando sempre più. Ogni tanto, Jean gettava l’occhio verso la valle che si apriva sotto di lui, nella speranza di scorgere qualcosa, ma ogni volta senza troppi risultati.

Il sentiero si concluse in un pianoro, su cui si innalzava un alto muro di cinta, dall'aspetto tanto perfetto e impenetrabile da sembrare appena costruito. Jean vi si avvicinò, curioso. Fece scorrere la mano sulle lisce pietre levigate, perfettamente incastrate tra di loro. La struttura era stata realizzata con tanta precisione, che non un solo filo d'erba era cresciuto tra un blocco e l’altro; tutte quelle pietre erano talmente precise nella forma, e tagliate con tale maestria, da sembrare che fossero nate esattamente così com'erano.

Costeggiò il muro: e dopo qualche metro, si ritrovò davanti a un gigantesco ingresso. Due enormi dischi solari scolpiti nella roccia ornavano un'entrata monumentale, sotto il cui arco Jean passò, piuttosto titubante. Un grande prato gli si apriva ora davanti agli occhi. Jean lo percorse e ne raggiunse l’estremità, oltre la quale gli si offrì una visuale che lo lasciò letteralmente senza fiato: alcune decine di metri più in basso si trovava una vallata nascosta, al cui centro si ergeva un’enorme piramide di pietra, talmente alta da svettare fino al cielo. Una coltre di nubi plumbee avvolgeva la sua sommità, occultandola alla vista. La piramide sorgeva esattamente al centro di una grande piazza, contornata da numerosi edifici, e solcata da una fitta serie di strani canali intrecciati, da cui dense colonne di fumo grigio si avvolgevano a spirale per poi salire fino al cielo, unendosi alle nubi nel formare una cappa spessa e impenetrabile a qualsiasi tipo di luce. Il sole non sarebbe mai riuscito a bucare quella massa mobile e scura, né a riscaldare il suolo freddo e nascosto di quel luogo. Tutto, lì intorno, sembrava avvolto in un’atmosfera del tutto sospesa e irreale, come congelata.

Jean prese a scendere con cautela lungo il pendio che conduceva fino a valle. Intorno a lui, non si muoveva nulla. Quel posto sembrava completamente deserto.

Quando raggiunse la piazza, si accorse con stupore dell’enormità della piramide. Non avrebbe mai pensato potesse essere tanto imponente. Era talmente alta e maestosa che ci si sentiva letteralmente schiacciati, di fronte ad essa. La base a gradoni era ricoperta da un numero impressionante di bassorilievi, raffiguranti esseri di sogno, usciti da un mondo del tutto fantastico. Sembrava che su quella pietra scolpita, esseri di tutti i generi e specie si alternassero costantemente tra loro, in un universo capace di accoglierli integralmente, senza alcuna esclusione.

Jean trattenne il respiro, avvicinando la mano alla pietra scolpita e sfiorandola con le dita. Quella era la raffigurazione precisa del tempo di cui gli aveva parlato Atahualpa: un tempo che non scorre orizzontalmente, ma che vaga libero nello spazio, mettendo in comunicazione mondi lontani e all'apparenza irraggiungibili. Fu mentre guardava quelle raffigurazioni, che ebbe la precisa sensazione che in quel luogo il passato tendesse la mano al presente, e al futuro; e che le strade che stava percorrendo non avessero in realtà né direzione né distanza.

Continuò a camminare, raggiungendo una curiosa costruzione di pietra, poco distante da lì. Aveva l’aspetto di un recinto, costruito alternando grandi blocchi rettangolari ad alte colonne. Un gigantesco portale si apriva al centro del cordone di pietra, affacciandosi sulla piramide. Jean ne rimase assolutamente affascinato. Si trattava di un’immensa porta, realizzata a partire da un unico blocco di pietra, un blocco enorme, dato che doveva misurare almeno tre metri di altezza per circa quattro di larghezza. Jean si avvicinò a guardarla e lasciò che le mani ne seguissero la superficie liscia e perfettamente regolare, tanto perfetta da sembrare acciaio fuso. Quindi sollevò lo sguardo sul frontone che la sovrastava. Raffigurava un dio dal volto simile al disco solare, i cui capelli gli ruotavano intorno come suoi raggi; piume di pavone si irradiavano dal volto fino a terra, mentre dagli occhi sgorgavano lacrime che si tramutavano in puma, nell'attimo esatto in cui toccavano il suolo. Il corpo era simile a quello di un serpente, ma ricoperto interamente di piume. Nelle mani reggeva una pietra e uno specchio. Alcuni uomini lo circondavano; inginocchiati in preghiera ai suoi piedi, si dissetavano del sangue che gli fuoriusciva da una ferita sul petto.

«Benvenuto».

Jean abbassò gli occhi, sussultando. Davanti a sé, nel bel mezzo del recinto di pietra, vide di nuovo quel bambino. Solo che ora vestiva una tunica splendente di azzurro, mentre i capelli, lisci e nerissimi, gli ricadevano elegantemente sulle spalle abbronzate.

«Entra» gli disse. «Ti stavamo aspettando».

Con un gesto, il bambino lo chiamò a sé. Jean, vinto da una forza irresistibile, gli si mosse placidamente incontro, incurante di tutto. Non appena ebbe varcato la porta, la scultura del dio Sole sopra di lui si illuminò di una luce abbagliante. Gli occhi del dio brillarono di un bagliore intenso, che andò a irradiare la base della piramide, poco lontano. Come se si fosse improvvisamente risvegliata da un sonno durato millenni, essa si accese di quella stessa magnifica luce, risplendendo lungo tutto il perimetro della sua base. I bassorilievi si incendiarono, e fu come se tutte quelle incisioni prendessero vita improvvisamente, come in una immensa scia di fuoco vivo, che si accese con una vampata per poi risalire lungo tutta la gradinata della piramide, su e ancora più su, fino alla sua sommità. Ipnotizzato da tanta meraviglia, Jean osservò un bagliore improvviso risplendere accecante oltre la fitta coltre di nubi, lassù dove la piramide toccava il cielo, squarciando per un attimo le nuvole grigie e cupe che la assediavano.

Con emozione crescente, Jean si ritrovò a salire quell'immensa scalinata, come soggiogato da quello spettacolo incredibile. Fu solo dopo molto tempo che ne raggiunse la sommità: e una volta che ebbe salito l'ultimo gradino, si voltò a guardare in basso, laggiù dove le nuvole lasciavano intravedere la piazza e la valle. Da quell’altezza, si rese effettivamente conto che quelli che credeva fossero niente più che canali di scolo che attraversavano la piazza, in realtà erano una serie di linee scavate nella roccia viva, che si intrecciavano a formare figure stilizzate che saettavano lungo tutta la valle. Vide la figura di un ragno gigantesco, e qualcosa che assomigliava vagamente a un enorme candelabro a sette braccia. Ma l'immagine più stupefacente, era quella di un'immensa balena, stupenda nella sua fissità, che si contorceva in un mare di roccia, con un arpione conficcato in un occhio.

«Sei arrivato, alla fine».

Jean trasalì. Un’anziana donna lo fissava in silenzio, avanzando a passo leggero verso di lui. Vestiva una stupenda tunica bianca, ornata d’oro, che le lambiva le caviglie sottili; ai piedi indossava dei sandali, anch’essi rifiniti con oro e gemme preziose, che lanciavano un tenue bagliore ad ogni suo passo. I capelli erano di un color grigio argento, lisci e brillanti come la seta più pregiata, che teneva raccolti in un elegante ed elaborata acconciatura. Sciolti dovevano essere lunghissimi, pensò lui, guardandola affascinato.

Gli occhi con cui lo osservava pensosa erano intensi e profondi, di una tonalità vicino all’acquamarina. Un velo di mestizia li avvolgeva, quasi che uno strascico del cielo grigio che li sovrastava entrambi avesse trovato in essi la propria dimora. La pelle della donna era scura, come scottata dal sole; e il volto, stanco e provato, sebbene tradisse tutto il peso degli anni, rivelava ad uno sguardo più attento un vigore e una delicatezza solenne, indice di una bellezza antica ma mai dimenticata. Era una donna affascinante, sebbene molto anziana, che da giovane doveva aver posseduto una bellezza straordinaria.

Jean rimase immobile a fissarla, mentre lei gli si avvicinava a passi lenti e calibrati, muovendosi con estrema eleganza e regalità. Lui notò immediatamente il suo portamento nobile, e lo sguardo fiero, con cui gli si rivolgeva.

«È molto che ti aspettavo» gli disse. «Finalmente sei giunto».

Lui aggrondò. «Lei mi conosce?»

La donna annuì. «Seguimi» disse.

Sparì all’interno del tempio che sorgeva sulla sommità della piramide. Jean la seguì, dopo un attimo di indecisione.

Mentre percorreva il lungo corridoio illuminato dalle pallide luci di alcune torce, Jean continuava a guardare affascinato i bassorilievi che ornavano le pareti. Raffiguravano scene di vita quotidiana o di lotta; ovunque era possibile trovare raffigurazioni del dio Sole, in molte delle quali era impegnato in una lotta feroce contro un essere umano.

«Cosa raccontano queste immagini?» chiese, incuriosito.

«Solo la storia di un popolo» rispose la vecchia, voltandosi «e la storia di un uomo».

«Di chi si tratta?»

«Presto lo scoprirai».

Jean smise di fare domande e continuò a guardarsi intorno. La donna si fermò e lui fece altrettanto, osservandola, in attesa.

«Vieni, entra» disse lei. Gli indicò una porta. Jean si avvicinò cautamente e si affacciò. Con grande stupore, alzò gli occhi sull'immenso cielo stellato che lo sovrastava. Le stelle erano talmente tante e brillavano con tale intensità da far venire il capogiro.

La donna gli si pose al fianco. Lo fissava, mentre lui guardava affascinato quel cielo magnifico. Ma anche lei era affascinata da lui. Lo vedeva giovane e di una particolare bellezza, di quelle bellezze nascoste agli occhi dei più, ma che splendono come tesori davanti agli occhi di coloro che non cercano l’apparenza più sfacciata.

«Sei molto bello» gli disse. Jean si voltò a guardarla, sorpreso; e nello scorgere la donna che lo osservava intensamente, arrossì.

Lei allontanò gli occhi dal suo volto e li alzò verso il cielo. «Devi sapere che tanto tempo fa, ci fu una grande battaglia, in questo luogo sacro» disse. «Il dio del Sole venne attaccato dal dio venuto dalla Terra. La contesa riguardava la Terra e il suo dominio. Il dio del Sole era il guardiano della Terra e il suo signore. Egli la teneva con pugno di ferro, perché vedeva l’uomo debole e avido e sapeva che il solo modo per proteggerlo da se stesso era schiacciarlo con la propria volontà. Il dio della Terra, invece, amava l’uomo: vedeva in esso ciò che il dio del Sole non riusciva a vedere a causa dell’odio e dell’ignoranza. Non sopportando di vedere che il dio Sole tormentava l’uomo, il dio della Terra lo attaccò, desideroso di liberare la creatura che amava. Raggiunse il cielo dove abitava il dio, ma dopo una lunga battaglia, alla fine il dio Sole ebbe ragione del dio della Terra. Lo ferì a morte, facendolo precipitare al suolo: ma nel cadere, il dio della Terra venne salvato dal tuono e dal vento, che gli donarono le ali dell’aquila, in modo che potesse discendere sano e salvo. Quando gli uomini ne trovarono il corpo ferito a morte, piansero; e con le loro lacrime si formò il lago che quelle cime nascondono» disse, levando il braccio stanco, ad indicare l'orizzonte. «Alcune leggende vogliono che egli venisse trovato ancora vivo. Curato dagli uomini, visse nascosto tra queste cime per scampare all’ira del dio nemico. Tuttavia, indebolito, il dio della Terra dovette andare in esilio; ma giurò che un giorno sarebbe tornato, per liberare l’uomo dalla sofferenza e dalla tirannia».

«E quando tornerà?» chiese Jean, che aveva ascoltato affascinato quella leggenda. La donna si volse a sorridergli mestamente.

«Seguimi» disse.

Jean la segui fino a un piccolo altare di pietra, su cui era posato un coltello di ossidiana. Lei lo raccolse e per un attimo Jean fu attraversato da un brivido.

«Prendi» gli disse lei, porgendoglielo. Jean lo strinse. Era freddo come ghiaccio.

«E adesso, uccidimi».

Lui la fissò scandalizzato.

«Che cosa?»

La donna lo guardava vacuamente, il volto scavato e consunto dal tempo, ormai privo di qualsiasi espressività. Una profonda malinconia si agitava nel profondo dei suoi occhi e una immensa tristezza piegava il suo corpo, forse un tempo splendido e forte, ma ora fragile e cadente.

«Devi uccidermi. Solo così si compirà il corso. E finalmente, quando non ci sarà più il dio del Sole, il dio della Terra tornerà».

«Io non ho intenzione di uccidere proprio nessuno» si ribellò Jean. «Tanto meno un’anziana donna indifesa».

La donna chiuse gli occhi e improvvisamente tutto, intorno a loro, cominciò a brillare di un'intensa luce fiammeggiante. Jean si sentì avvincere da un'energia improvvisa e violenta, che lo investì, abbattendolo a terra. Era come se delle spire di fuoco invisibile lo serrassero, stringendoglisi intorno sempre di più, senza pietà.

«Dovrai uccidermi» disse la vecchia mentre avanzava verso di lui «o morirai. Questo è il tuo destino».

Jean strinse i denti. In mano aveva ancora il coltello di ossidiana. La vecchia alzò le mani e Jean sentì il cuore che cominciava a cedere, stretto in una morsa bruciante. Si sentì soffocare e le vene del collo cominciarono a pulsare, gonfiandosi. Era come se il sangue avesse preso a ribollirgli in tutto il corpo, mentre un fuoco terribile ardeva in lui, nascosto e inestinguibile.

«Uccidimi» sibilò la vecchia, con il volto decomposto in una smorfia di furore. «Tu devi farlo!»

La donna avanzava con gli occhi ridotti a due fessure di luce. Un’aura azzurra ne avvolgeva completamente il corpo, conferendole un aspetto terribile a vedersi, che incuteva un timore reverenziale.

Jean si portò al collo le mani irrigidite. Gli mancava l'aria, le ossa del corpo scricchiolavano come fossero pronte a spezzarsi e un rivolo di sangue prese a colargli dalle orecchie. La testa era come se gli scoppiasse e il corpo prese a contrarsi interamente in una serie di spasmi incontrollabili. Era la fine.

«Uccidimi ora» lo supplicò la donna. «Basta che tu lo voglia. Dì “sì”, e sarai libero».

Per Jean era questione di attimi. Doveva scegliere: si trattava della sua vita, o di quella di un’altra persona.

Non era una scelta difficile. Poteva farlo. L'avrebbe fatto.

Non c'era colpa.

«No» mormorò lui, soffocando lentamente. E con le ultime energie che sentiva in corpo, aprì le dita della mano ormai irrigidita, lasciando cadere il coltello.

La vecchia fissò l'arma con occhi spenti, mentre rotolava ai suoi piedi; quindi, alzò lentamente lo sguardo su Jean, accasciato a terra, rantolante. E una lacrima le solcò il volto.

Si chinò su di lui e gli passò delicatamente una mano sul viso. Jean vide lo spazio intorno a sé accendersi di un improvviso bagliore argenteo, e si sentì subito meglio. Lei lo adagiò dolcemente al suolo: e sedendosi accanto a lui, gli fece posare la testa sulle sue gambe, passandogli una mano tra i capelli color rame e carezzandolo teneramente, finché lui non si addormentò.

Quando si svegliò, la vecchia gli era ancora accanto. Piangeva, con lo sguardo fisso nel vuoto. Jean si alzò lentamente a sedere. E nel vederla così provata, ogni rancore e rabbia sparirono dal suo cuore, facendo spazio solo a un forte desiderio di comprensione. Senza dire una parola, restò a guardarla. Lei sollevò allora lo sguardo, tenendolo fisso avanti a sé.

«Era necessario» si scusò, parlandogli come da uno spazio lontanissimo. «Dovevo provare. Era l’unico modo».

Jean scosse la testa. «Non capisco».

«Speravo che così sarebbe tutto finito» si giustificò lei, fissandolo tra le lacrime. «Se fossi morta, avrei potuto lasciare questo luogo desolato, vuoto come la mia anima e il mio stesso cuore, da quando lui se n’è andato».

Jean trasse un respiro profondo, passandosi una mano tra i folti capelli fulvi.

«Perché non hai voluto uccidermi?» gli chiese lei. Lui alzò le spalle.

«Non lo so. Per un istante ho creduto che l'avrei fatto. Ma poi, non ci sono riuscito».

«Dovevi difendere la tua vita».

«La verità, è che credo di essere un vigliacco» fece lui con un lieve sorriso, come a scusarsi. «Non credo che ce la farei mai a fare qualcosa di simile».

Lei gli rivolse un’occhiata penetrante.

«No» disse. «È proprio per questo che non sei un vigliacco».

Jean fissò gli occhi sull'orizzonte. Lei lo scrutò intensamente.

«Conoscevo qualcuno come te, tanto tempo fa» gli confidò. «Anche lui era una persona buona».

Jean sollevò gli occhi. Il cielo era tornato sereno e regnava di nuovo la pace.

Non aveva mai visto qualcosa di tanto bello e rassicurante.

«Chi era l’uomo di cui parlava?» chiese improvvisamente. «Quello che l'ha lasciata».

La donna si voltò a sorridergli.

«Il mio più grande nemico» confessò. «E il mio più grande amore».

Tacquero a lungo. Quindi lei si alzò. Jean fece per aiutarla, ma lei rifiutò, con un gesto gentile.

«Ora devo andare» disse. «Tu hai vinto e io ho perso. Ma in fondo, è stato meglio così. Con la tua volontà, sei riuscito a fare di me quello che non ero mai stata».

«Aspetti» la fermò lui. «Che ne sarà di lei, ora?»

Lei sorrise, tristemente. «Io sono la custode di questo luogo. L’ultima custode, l’ultima regina. Il mio destino è vivere tra queste rovine. Nella loro desolazione, esse mi ricordano ogni giorno gli errori che ho commesso, e rappresentano la mia condanna. Dunque resterò qui, ad attendere lo scorrere dei miei ultimi giorni».

Jean abbassò gli occhi. Quindi «Posso sapere il suo nome?» le chiese.

«Perché lo vorresti sapere?»

Lui sollevò le spalle, sorridendo. «Mi farebbe piacere».

La donna si addolcì.

«Mi chiamano in tanti modi» sospirò lei «a seconda di dove io mi trovi. Qui, ero conosciuta come Tezcatlipoca».

Lo guardò; e un’espressione divertita le attraversò il volto. «E tu?» gli disse. «Non vorresti dirmi il tuo nome?»

Lui rise. «Jean. Mi chiamo Jean».

La donna lo fissò acutamente, socchiudendo gli occhi. «Jean. Quel nome... io... lo conoscevo».

«Conosce anche un uomo di nome Atahualpa?» chiese lui, massaggiandosi la schiena. La vecchia scosse il capo.

«No. Ma sono molte le cose che ormai ho dimenticato. Ho dimenticato persino perché mi trovi qui».

Lui le prese la mano. La donna non reagì, ma lasciò che lui facesse quello che credeva giusto. Nonostante avesse tentato di ucciderlo, Jean percepiva distintamente il dolore che la animava e si chiese cosa mai avrebbe fatto al suo posto, nel caso avesse provato lui stesso una tale disperazione. Sapeva bene che, a volte, il dolore e l’amore non sono altro che due facce diverse della stessa, unica vita, che chiede comunque di essere vissuta. Ma per quanto lo sapesse, al momento ogni risposta a quella domanda sembrava sfuggirgli.

Le strinse la mano tra le sue, chinandosi a guardarla in volto.

«Cosa le è successo, esattamente?»

La donna restò in silenzio per alcuni istanti, quindi prese a parlare lentamente.

«Mi sono piegata al mio destino, molto tempo fa. E ho perduto la mia vita, la mia speranza. E il mio amore».

«Com’è accaduto?»

«Per colpa mia. Io lottavo per un mondo che non apparteneva a nessuno. Lui per costruire un mondo che appartenesse a tutti. Lo scontro fu... inevitabile».

La donna tacque a lungo, fissando vacuamente l’orizzonte spazzato dalle nubi.

«E poi, cosa accadde?» gli chiese lui. Lei sospirò.

«Io lo uccisi».

Jean rizzò il busto, fissandola senza dire nulla. Era una donna triste e sola e lui ne provò pena. Il passato era per lei il fardello più grande, qualcosa che evidentemente l'ossessionava da sempre, tanto da impedirle di costruire per se stessa un nuovo futuro.

«Ma ora» continuò lei «sei arrivato tu. E io potrò riposare, finalmente. Un nuovo ordine sta per cominciare, un ordine a cui tu hai appena dato l’avvio. Tu hai scelto il tuo destino, e ora devi scegliere se lo vuoi vivere oppure no. Solo a te spetta questa scelta. Io non ho più nulla da poter decidere, ormai».

«Vorrei poterla aiutare, in qualche modo» le disse lui. La donna rise.

«Ti ringrazio, ma non dipende da te. E non rattristarti per questo. Se l’ultima persona che vedrò sarai tu, allora è valsa la pena aspettare così tanto».

Jean si commosse. Quella donna non meritava di portare da sola il peso di tutto quel dolore.

«Io vorrei solo...»

La donna sollevò il volto, fissando Jean con estrema dolcezza. «Ricorda sempre chi sei» gli disse. «Oggi tu hai compiuto qualcosa di importante: hai saputo scegliere. Io mi piegai al mio destino e ad esso sacrificai ogni cosa. Se tu invece saprai vivere la tua scelta, ogni cosa cambierà. E nulla sarà mai più uguale a prima».

E si voltò, lasciando la sua mano e incamminandosi senza una parola. Fu improvvisamente, in quel suo muoversi fiero, che lui riconobbe qualcosa di profondamente radicato nella sua memoria, qualcosa che lo colpì con l’evidenza del fulmine.

«Aspetti!» la chiamò, correndole dietro per fermarla. «Mi dica di chi parlano i bassorilievi nel tempio. L'uomo che lottava contro il dio... è l’uomo che amava, non è così?»

Lei si voltò a guardarlo e il suo volto assunse un’espressione triste. «Sì. Parlano di un uomo che visse in un tempo lontano. Visse amando, e fece dell’amore il suo destino. Nessuno amò più di lui e nessuno lo amò più di me».

«Chi era? Qual’era il suo nome?»

La donna socchiuse gli occhi, come a pensare a qualcosa di molto lontano nella memoria e ormai sepolto.

«Io non lo so più... non ricordo...»

«Si sforzi!»

La donna si piegò su se stessa, come oppressa da un peso insostenibile.

«Perché? Il suo nome è nascosto nel mio cuore... non posso, non voglio ricordarlo. Ma... la gente di qui lo chiamava Moyacayatzin, cioè Colui che esiste».

Jean sospirò. Chissà perché, ma una parte di lui aveva creduto...

«Ma il suo nome, scolpito su quelle porte, è un altro. È un nome terribile per me, perché è quello che designa il mio più grande nemico e l’amore della mia vita: Quetzalcóatl».

Jean spalancò gli occhi.

Quel nome!

«Chi sei?» disse lui, incapace di muovere anche un solo muscolo. «Chi sei, tu?»

La donna si volse a guardarlo e sembrò vederlo per la prima volta. Una luce si accese nei suoi occhi e una lacrima le scese lungo il volto scavato dal tempo, mentre lo scrutava come per cercare in lui qualcosa a cui poter aggrappare la propria memoria.

«Sei... tu?» gli disse lei, tendendo delicatamente la mano.

«Nadia?»

Gli occhi di lei si dilatarono, in un pianto silenzioso. Jean fece per andarle incontro, ma improvvisamente un abisso li separava; e prima che potesse rendersene conto, tutto ciò che li circondava sparì. Si trovò a precipitare nel vuoto: cadeva, e gridava il nome di lei, disperatamente, mentre vedeva il suolo avvicinarsi sempre più. Chiuse gli occhi, chiamandola ancora una volta, sommessamente, in un ultima confessione; ma poco prima che toccasse terra, vide calare sopra di sé l’ombra possente di un'aquila, che lo raggiunse agguantandolo e depositandolo dolcemente al suolo.

Dopodiché, svenne.

 

«Svegliati, Jean. Jean!»

Aprì gli occhi. Si trovava ai piedi della grande porta di pietra, ma intorno a lui splendeva il sole caldo del tramonto e il cielo era terso, senza più neppure una nuvola. Sbatté le palpebre e alzò gli occhi sulla figura china al suo fianco, nulla più che un’ombra contro la luce accecante del sole. Jean si schermò con una mano e sollevò lo sguardo fino a incontrare due occhi sottili e profondi che lo scrutavano curiosi e vivaci. Appartenevano a un volto conosciuto, che rideva allegro a poca distanza dal suo.

«Eccoti qua, ragazzo mio» fece Atahualpa, battendo amichevolmente la mano sulla guancia di Jean, che lo fissava attonito. «Hai fatto un lungo viaggio, ma ora sei a casa. Ben tornato tra noi».

 

 



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Capitolo 16
*** 15 ***


Erano passati mesi da quando erano arrivati sulla terra, e ancora non avevano concluso nulla. Con stizza, il comandante Atys chiuse il briefing, gettando lontano la sua tavoletta luminosa. Non c'era nulla nei dati che i suoi uomini gli avevano inviato che valesse la pena di annotare nei registri di bordo. Nient'altro che vuote perifrasi per dire che la spedizione non aveva avuto, al momento, alcun successo.

Avevano trovato la Regina, è vero. E la pietra. Senza contare la sorprendente rivelazione che gli aveva fornito Jonathan Fisher, o come diavolo si chiamava quel tipo... addirittura un discendente di Oagnes. Se era vero, Atys avrebbe riportato su Atlantide non solo una Regina, ma anche l'ultimo esponente di una delle Antiche Genti. Un bel colpo di fortuna, che avrebbe potuto risollevare le sorti del suo pianeta, se giocato bene. Se Fisher non mentiva, ed era improbabile che mentisse tanto spudoratamente, tra lui e la Regina esisteva già un'intimità. Un matrimonio tra i due sarebbe stato probabile, plausibile... come la nascita di un erede. E l'inizio di una nuova dinastia.

Non avrebbe mai sperato tanto, al momento della partenza. Ma ancora non bastava. Se non convinceva la Regina a seguirlo e ad attivare il Trismegisto, anzi... se non riusciva a trovare quella pietra al più presto, tutti i suoi sforzi per salvare Atlantide si sarebbero rivelati inutili. La Regina era indispensabile, certo, ma non era che un mezzo. Il suo valore risiedeva nel fatto che solo in lei, in quanto prescelta, scorreva il potere di governare l'Enneade, l'insieme delle Nove Pietre Sacre.

Con quel potere nuovamente a disposizione di Atlantide, tutto sarebbe cambiato. Per millenni, da quando una delle tre Trinità si era smarrita su quel pianetucolo ai margini dell'universo chiamato Terra, l'Enneade era stata ridotta al silenzio. Le pietre, che le leggende descrivevano come dotate di una volontà e di una vita propria, capaci addirittura di plasmare la materia e di crearla dal nulla, giacevano in uno stato di inerzia totale. Fredde, spente, non rivelavano nulla dello straordinario potere che si nascondeva sotto la loro superficie opaca.

Ma ora quel tempo sarebbe finito. Atys aveva assistito alla meraviglia del giorno in cui, tre anni prima e del tutto inaspettatamente, le pietre si erano misteriosamente risvegliate, aprendo sorprendentemente quello che si rivelò essere un canale di collegamento con la Via Lattea. La sorpresa con cui il Senato intero aveva accolto la notizia dell'esistenza della Trinità perduta, da qualche parte dell'universo, era stata assoluta. Nessuno avrebbe mai più sperato di poter assistere a un tale miracolo, né avrebbe immaginato che il Trismegisto si trovasse in realtà così vicino, che un giorno sarebbe stato ritrovato e che sarebbe stato così possibile ricostruire l'Enneade. Ma soprattutto, quello era il segno che esisteva una nuova Erede delle Stelle. Un'ultima Regnante, che avrebbe potuto riportare alla vita le Pietre Sacre.

Fu come se gli dei fossero tornati a parlare ai loro figli sperduti. Le preghiere del loro popolo non erano cadute nel vuoto, inascoltate. Una nuova era si apriva, e lui, Atys, vi avrebbe partecipato per la gloria di Atlantide.

Una bella speranza.

Con un sospiro, riavvicinò la tavoletta, trascinandola accanto con due dita. Una serie di dati geografici continuava a lampeggiare sullo schermo. Lui vi fece scorrere un dito e l'immagine cambiò rapidamente, mostrando una panoramica del luogo che in quel momento stavano sorvolando. Era da tre giorni che giravano in tondo su quelle montagne. Una volta arrivati lì, la pietra che avevano riconquistato sottraendola alla Regina, aveva misteriosamente smesso di inviare segnali. Si trovavano a navigare al buio. Se non si fosse riattivata, non avrebbero più potuto rintracciare l'entrata del Tempio che custodiva le spoglie del Trismegisto. Tutto sarebbe stato inutile e la missione sarebbe fallita.

A volte il volere degli dei era strano. Avevano dato a lui e alla sua gente la speranza; ed ecco che improvvisamente la sottraevano loro di nuovo, ricacciando Atlantide e il suo popolo nella disperazione.

Trattenendo una bestemmia, Atys abbandonò definitivamente la tavoletta, prendendosi il volto tra le mani. Forse doveva avere fede. Era quello il problema. La fede. Era una questione importante. Peccato che lui non conoscesse nemmeno una preghiera.

Qualcuno bussò. Attese un istante prima di rispondere. Doveva capire se era nella condizione di ricevere qualcuno senza mozzargli la testa.

«Avanti» sospirò alla fine. Una guardia entrò.

«Signore, sua Maestà la Regina vorrebbe vederla».

Atys sollevò leggermente il volto dalle mani, fissando perplesso il soldato.

«Ha detto perché è qui?»

«No, signore» rispose lui. «Ha solo chiesto di entrare».

Atys gonfiò il petto, congedando con un cenno il soldato. L'uomo scattò sull'attenti, voltando le spalle per aprire la porta su cui comparve la sagoma smagrita di Nadia. Lei fece un timido passo in avanti, lanciando al soldato uno sguardo di sottecchi. L'uomo evitò accuratamente di guardarla, e senza aggiungere altro uscì, chiudendosi la porta alle spalle.

«Maestà!»

Atys si alzò dalla scrivania per andare incontro a Nadia, che aspettava ancora in piedi, sulla soglia.

«Sono felice di vedervi» fece lui, accennando un inchino. Nadia protese le mani.

«Non si inchini» disse lei, bruscamente. Atys si fermò a metà, sollevando gli occhi a guardarla. «Non sopporto queste cose» concluse Nadia, distogliendo lo sguardo.

«Come desiderate» fece lui, drizzandosi. «Posso sapere perché siete venuta da me?» domandò, invitandola ad accomodarsi con un gesto elegante. «Avete forse ripensato a quanto vi ho detto?»

Nadia si avvicinò al tavolo su cui erano sparse delle carte, insieme ad alcuni volumi piuttosto imponenti. Fece scorrere le dita sul dorso spesso di una Storia di Atlantide. Con un brivido, ritirò subito la mano, come se si fosse scottata.

«Ho un favore da chiederle» fece, voltandosi di scatto. Lui socchiuse gli occhi.

«Sarà un piacere per me esaudirvi».

Nadia annuì, chinando il capo, mesta. «Se è così, le sono grata».

«Vorrebbe spiegarmi?»

«C'era un altro uomo, con me» disse lei, a mezza voce. «Non è più stato trovato dopo l'incidente e...»

«Maestà, mi duole informarvi che non è stato trovato nessuno nelle vicinanze del velivolo. Tutti i sopravvissuti sono stati tratti a bordo e non credo che...»

«Sì, ma io le chiederei di tentare lo stesso» fece lei, con uno spasmo nel volto. «Io... ho bisogno di sapere».

Atys si portò le mani dietro la schiena. «Volete che intraprenda una ricerca?»

«Potrebbe farlo?» chiese lei, speranzosa.

«Sì. Certamente».

Nadia sorrise, chinando il capo.

«Io non so come ringraziarvi e...»

«Se voi accetterete di partire con noi, naturalmente».

Lei sbiancò improvvisamente. Alzò gli occhi su di lui, cercando di leggere la verità nel suo sguardo.

«Mi sta ricattando?» disse. «È questo il suo modo di ottenere il mio aiuto per i suoi scopi?»

«No. È il modo che voi avete per ottenere il mio aiuto. Vi avevo avvertito che avrei fatto tutto il possibile per riportarvi al vostro dovere, mia signora» fece lui, prendendo posto alla scrivania e poggiando i gomiti sul tavolo «e questa è l'offerta migliore che possa farvi».

«Questa non è un'offerta, e lei lo sa benissimo!» esalò Nadia. Atys sorrise.

«Forse. Ma è tutto quello che posso proporvi».

Nadia digrignò i denti, stringendo i pugni. «Quell'uomo» disse «è il responsabile della bambina che è con noi. Se non lo ritroveremo, lei non avrà più nessuno».

«Questo non è un problema mio» fece lui. «E non dovrebbe nemmeno essere un problema vostro. Capisco i vostri sentimenti, ma dovreste cominciare a dimenticarvi di quelle persone e a ricordarvi chi siete e a quale popolo appartenete».

«Io appartengo a quella gente!» sibilò lei. «E lei dovrebbe vergognarsi di giocare così sulla vita degli altri».

«E voi? Voi non giocate, forse?» azzardò Atys. «Abbiamo già discusso di questo, non voglio ripetermi. A me non importa nulla degli umani, né dei vostri cosiddetti... amici» e una smorfia gli stiracchiò lenta le labbra. «Trovo deplorevole il fatto che non riusciate a capire quante vite dipendono dai vostri capricci, vite appese a un filo e che solo voi potreste salvare. Non parlo di un uomo sperduto chissà dove nella foresta, ma di milioni di persone. Un intero pianeta, Maestà. Un intero pianeta».

«Io sono responsabile per le persone che erano con me» fece lei, chinandosi sulla scrivania. «Sono stata io a convincerli a seguirmi. Se quella bambina...»

«La bambina, la bambina... e perché ho l'impressione che quell'uomo conti per voi più di quanto vogliate farmi credere?»

Nadia arrossì, passandosi nervosamente una mano tra i capelli.

«Lei si sbaglia» disse.

«Forse» annuì lui. «O forse è lei a sbagliarsi».

Atys sospirò. «Dev'essere stato molto umiliante, per voi, venire da me per chiedermi di fare una cosa del genere. Sapevate già cosa rischiavate, venendo qui e mostrandovi debole ai miei occhi. Immagino che non abbiate dubitato per un secondo che io avrei approfittato della situazione».

«Per un istante ho voluto sperare che possedeste un briciolo di umanità».

«Io nemmeno so cosa sia l'umanità, mia signora» fece lui. «Da dove provengo io, esiste solo la responsabilità».

«Si sta prendendo gioco di me? La situazione la diverte?»

Atys mosse lentamente il capo. «Per nulla. Io vi rispetto profondamente. E sono serio quando dico che quello che avete fatto, venendo a chiedere il mio aiuto ed esponendovi al mio ricatto, vi fa onore».

Nadia abbassò gli occhi, mordendosi le labbra.

«Dunque, qual è la vostra risposta?» chiese lei, senza sollevare lo sguardo. Atys ammiccò.

«Conoscete la mia risposta» fece lui, appoggiandosi allo schienale e intrecciando le mani davanti al volto. «Accettate di seguirmi, e io farò tutto ciò che è in mio potere per ritrovare il vostro uomo».

Nadia si morse un labbro, passandosi nuovamente una mano tra i capelli.

«Almeno avete la decenza di riconoscerlo come un ricatto...»

«Non credo abbiate molta scelta» insistette Atys, con un distacco quasi divertito. «O meglio, avete due scelte. Ognuna di esse presenta un interrogativo interessante. O sacrificare la vostra integrità, accettando di partire con noi... e questo permetterebbe di salvare molte vite, compresa quella del vostro amico» fece, lanciando a Nadia un sorriso ammiccante «o seguire la vostra volontà, rifiutando di tornare su Atlantide e condannando così l'intero pianeta alla rovina; e con esso anche la vita di... come si chiama il vostro amico, se posso chiederlo?»

«Jean» ansimò lei, fremente «si chiama Jean».

«Esattamente» fece Atys. «Jean».

«Lei è davvero un mostro» fu la risposta di Nadia. «Ma credo che questo lo sappia già».

Atys nicchiò.

«Vi sbagliate. In realtà, vi sto regalando una lezione preziosa».

«E quale sarebbe?»

«Vi sto mostrando che non esiste la possibilità di sfuggire alle proprie scelte. È questo che ci rende quello che siamo. Noi scegliamo, ogni giorno. Sono le scelte che facciamo che ci caratterizzano come persone».

«E io» fece lei, ghignando «cosa dovrei scegliere? Sempre che lei possa chiamare la mia una scelta».

«Vi confesso» sussurrò Atys «che se sceglieste di non partire e di condannare tutti alla rovina, non perdereste un briciolo dell'ammirazione che provo per voi. Dimostrereste soltanto di essere il dio e il sovrano che sono pronto a servire da quando sono nato... un essere libero, e potente».

«Se fossi davvero quello che dice» lo irrise lei «non sarei qui, a soggiacere alla sua volontà, ma la costringerei ad obbedirmi».

«Nemmeno Dio può esimersi dallo scegliere» ribatté lui. «Può decidere di essere, come di non essere. Ma ognuna di queste cose, è comunque una scelta. Io non ho fatto altro che mostrarvi le vostre possibilità. E queste non dipendono da me, ma da voi».

«Per essere una regina, ho ben poche possibilità di decisione» rise Nadia. «Non crede anche lei?»

«Finché non sarete su Atlantide e non verrete insediata sul trono dalla commissione del Senato, voi non potrete definirvi la nostra Regina» spiegò lui, tranquillamente. «Ma io so che lo siete. Lo leggo nei vostri occhi, e sul vostro volto. Vedo in voi la volontà che da sempre ha forgiato la storia di Atlantide. Io credo in voi, credo in voi dal primo momento in cui vi ho vista. So che potrete fare grandi cose. Se solo foste capace di vedervi per come io vi vedo...»

«Lei è cieco, se crede di vedere in me quello che non sono e che non sarò mai» esclamò Nadia. «Preferirei morire piuttosto che piegarmi a tutto questo».

«Il problema è che voi non morirete» commentò lui, placidamente. «Voi continuerete a vivere, portandovi appresso il peso della morte dei vostri amici, e con essa quella del nostro popolo».

Nadia si volse rabbrividendo, dando le spalle alla scrivania.

«Questa è la verità» concluse Atys. «Potete scegliere di essere la Regina di Atlantide o di non esserlo. La decisione spetta esclusivamente a voi, proprio come l'eredità delle vostre scelte».

Nadia tacque. Nella stanza calò un silenzio opprimente, rotto solo dal respiro regolare di Atys e da quello affannoso di lei.

«Se accetto di partire» mormorò Nadia, alla fine «chi mi garantisce che alla partenza rilascerete tutti i miei amici, senza far loro del male?»

«Io» disse lui, fermo. «Vi do la mia parola».

Nadia sospirò. Quindi piegò le spalle, rassegnata.

«Prendetevi del tempo per pensare» fece lui, alzandosi in piedi e aprendole la porta. «Ma non aspettate troppo a lungo. Più attendete, più la speranza di ritrovare il vostro amico si indebolisce».

Lei lo fissò con uno sguardo carico di odio, quindi uscì dalla cabina quasi correndo. Atys la fermò sulla soglia, trattenendola per un braccio. Lei si voltò, furiosa, fulminandolo con gli occhi.

«Se davvero quell'uomo è così importante per voi» disse lui, chinandosi a parlarle all'orecchio «credo che la vostra scelta sarà in realtà molto semplice».

Nadia si strappò dalla sua presa, fuggendo via lungo il corridoio. Lui la salutò con un inchino appena accennato quindi rientrò, richiudendosi la porta alle spalle. Era soddisfatto. Forse avrebbe dovuto trovare comunque quell'uomo che si era perduto, così da poterlo ringraziare. Senza volerlo, gli aveva facilitato enormemente i suoi compiti.



*



«...e qual è il tuo nome?»

«Marie. Mi chiamo Marie».

«Moiri?»

La bambina rise. «No, Marie. Prova a ripeterlo con me. Ma... rie...»

«Ma... rie»

«Brava».

Faloe rise, felice. Era finalmente riuscita a strappare un sorriso a quella bambina. Da quando l'aveva trovata in lacrime, spersa nei corridoi della nave, non aveva fatto altro che parlarle, cercando di vincere quel muro di ostilità che la piccola aveva da subito innalzato nei suoi confronti. Non era stato facile, ma alla fine sembrava esserci riuscita. Per quanto si sforzasse, non ricordava nulla che l'avesse mai emozionata tanto come vedere sorridere quella bambina.

«Ora vorresti dirmi perché eri tanto infelice?»

Marie si incupì, ma non rispose nulla.

«Non vuoi?»

«Si tratta di Jean».

«E chi è Jean? Uno dei tuoi amici?»

«Sì. Nadia ha detto che è sparito da quando abbiamo avuto l'incidente».

Faloe si morse un labbro. «Gli volevi molto bene?»

«Lui è mio padre» fece Marie.

«Credevo fosse un tuo amico»

«Sì, ma un po' tutte e due le cose».

«Mi dispiace».

«Lui sta bene» fece Marie, che intanto aveva preso a disegnare su un tovagliolo che si era portata via dalla sala da pranzo, infilandoselo in tasca. «In qualche modo ci troverà. Ha promesso che sarebbe stato sempre con me, e lui mantiene tutte le sue promesse. Comunque sono preoccupata per lui, perché è da solo, e forse ha paura. Non è che sia molto in gamba».

Faloe si sedette sui calcagni, restando perplessa a fissare Marie che disegnava. Sembrava molto presa. Vedendo che talvolta la osservava di nascosto, si chiese cosa stesse pensando.

«Posso vedere?» domandò, indicando la tela improvvisata su cui Marie continuava ad affaccendarsi. La bambina la fissò un'istante di sottecchi; diede un ultimo colpo con il carboncino che si portava sempre in tasca e voltò il tovagliolo.

Era un suo ritratto. Non si aspettava che sapesse disegnare tanto bene. Fu con un moto di stupore che Faloe prese il foglio tra le mani.

«È così bello» disse, affascinata. «E sei così piccola... dove hai imparato?»

«A scuola» rispose Marie, con un'alzata di spalle. «E non sono piccola. Ho quasi dodici anni».

«Voi... andate a scuola?» chiese Faloe. La cosa aveva dell'incredibile. Su Atlantide, le persone come Marie non avevano accesso a nessun tipo di istruzione. Venivano considerati poco più che animali.

«Certo. Come tutti».

«Tutti? Vuoi dire che tutti possono studiare?»

Marie sporse il labbo in fuori. «Beh, forse non proprio tutti...»

La porta si aprì di scatto. Faloe alzò gli occhi, il volto contratto in un brivido di terrore. Quindi, non appena riconobbe l'uomo che aveva di fronte, si rilassò, riacquistando il solito freddo autocontrollo. Non era altri che Lucano.

«Tenente, il comandante vorrebbe vederla nel suo ufficio» disse l'uomo, abbassando gli occhi sulla bambina, con una smorfia sottile. Faloe annuì, alzandosi in piedi e lisciandosi i pantaloni.

«Arrivo» disse. Lanciò a Marie un'occhiata fugace; quindi, vedendo che lei sollevava gli occhi a guardarla, sorrise, chinandosi per accarezzarle i capelli.

«Se hai bisogno di qualcosa, basta che tu me lo chieda» disse. «D'accordo?»

«Sì... grazie» rispose lei. Faloe annuì, e per un istante parve che i lineamenti del suo volto perdessero la loro consueta rigidità, sciogliendosi in un sorriso appena accennato. Lucano la osservò discretamente, e notò una strana luce brillare nel profondo dei suoi occhi di ghiaccio, che in quell'istante splendevano meravigliosamente, illuminandole il viso. Quindi, lei si sollevò, mordendosi le labbra. E tutta quell'improvvisa serenità parve raggrumarsi in un istante.

«Va bene, allora... ci vediamo più tardi. Ti va di aspettarmi qui?» chiese, tesa.

«Sì» rispose vagamente Marie, che ormai era tutta concentrata su un altro disegno. Faloe restò a guardarla per un istante, quindi sollevò il volto, respirando a fondo. Si passò una mano tra i capelli e si volse a guardare l'uomo di fronte a sé, pronta ad andarsene.

«Signora» la richiamò Marie. Faloe si volse, il volto animato da un sottile velo di ansia.

«Sì?»

«Pensi di poterci aiutare a cercare Jean?»

Faloe socchiuse le labbra, senza saper cosa dire. Fissava Marie, che si aspettava una risposta da lei; e lei nemmeno sapeva cosa rispondere, a una domanda tanto semplice.

«Io... vedrò cosa si può fare» balbettò. «Ma tu fai la brava finché non torno, va bene?»

Marie annuì e lei uscì, aspettando la chiusura della porta trattenendo il fiato.

«Andiamo» disse seccamente, alla fine. Al suo fianco, Lucano annuì senza fiatare, cedendole prontamente il passo.

Il corridoio appariva deserto. Per un po', percorsero in assoluto silenzio il lungo dedalo di gallerie che collegava tra loro gli alloggi, uno a fianco all'altra, finché «capitano Lucano, le sarei grata se non accennasse a quanto ha visto con il comandante» disse Faloe improvvisamente, lo sguardo fisso davanti a sé. «Glielo chiedo a titolo personale».

«Stai tranquilla, Faloe» rispose lui, ridendo. «Se è un favore quello che mi chiedi, te lo faccio più che volentieri».

Lei accennò a un sorriso, torcendo gli occhi a guardarlo.

«Grazie».

«Ma penso comunque che finirai col metterti nei guai, se non stai attenta. Non credo che il comandante sarebbe contento di sapere che intratteni rapporti con degli schiavi».

«E infatti ti ho chiesto di non dirgli nulla» commentò lei. «Lui si è fatto un'idea precisa dei nostri ospiti, e tutti sappiamo come sia difficile riuscire a fargli cambiare opinione. Ma detto tra noi, penso che questa volta sia in errore. Quegli esseri... sono particolari. Hanno una cultura, non sono vuoti come gli uomini di Atlantide. Quella bambina, per esempio... è istruita, hai sentito come parla bene la lingua degli schiavi? Inoltre, possiede un certo gusto e una discreta cultura, tutte cose che non ho mai ritrovato in nessuno del suo rango».

«Sono solo schiavi» fu la risposta decisa di Lucano. «Per amor degli dei, sei sicura di non essere tu a vedere quella bambina per ciò che non è in realtà?»

«E con questo cosa vorresti insinuare?»

Lucano le prese delicatamente un polso, costringendola a fermarsi e a voltarsi.

«Faloe, è da quando ti conosco che sei ossessionata dal fantasma di tua sorella» disse. Lei lo squadrò, drizzando il busto.

«Ora ti stai spingendo troppo oltre, Lucano» lo frenò subito, rivolgendogli un'occhiata perentoria e costringendolo con un solo sguardo a lasciarle la mano. «Queste sono faccende personali, su cui non hai il diritto di indagare».

«Ti chiedo scusa, mia signora» fece lui, chinando il capo in un gesto di sincera umiltà. «Mi preoccupo solo per te».

Lei annuì, addolcendo impercettibilmente lo sguardo. «E io ti ringrazio. Ma non è il caso che ti preoccupi. Sono capace di badare a me stessa, dovresti saperlo».

«Tuttavia» fece lui, schiarendosi la voce e rimettendosi in marcia al suo fianco, «ammetterai che solo la bambina è particolare. Gli altri non sono che bifolchi. Non sanno spiccicare nemmeno una parola».

«Sono d'accordo, anche se forse salverei la ragazza più giovane» gli concesse lei. «Ma anche se possono apparire insignificanti e superficiali, li trovo comunque affascinanti. Credo che potrebbero esserci utili a capire come funziona la società su questo pianeta» disse. Un soldato incrociò i due ufficiali lungo il corridoio e scattò sull'attenti. Faloe e Lucano salutarono con un gesto veloce della mano, passandogli accanto con noncuranza. «Sono molto più svegli di quanto non siano molti dei nostri uomini» riprese Faloe, voltandosi a seguire con lo sguardo il soldato «e sono dell'idea che non siano per nulla da sottovalutare. Potrebbero riservarci qualche sorpresa».

«Detto francamente, Faloe, io me ne frego degli esseri umani e di questo pianeta schifoso» disse Lucano, con una smorfia. «tutto quello che voglio è andarmene il prima possibile, per tornare dalla mia Gente».

Lei inarcò un sopracciglio. «Da dove ti vene tutta questa fretta, soldato?» lo schernì lei. Lui si spostò alle sue spalle, per permettere ad alcuni soldati che portavano delle casse dall'aspetto piuttosto pesante di passare. Entrambi si fermarono, addossandosi alla parete.

«È la nausea che mi fa parlare» disse lui, « la nausea che ho provato dal primo momento che abbiamo messo piede qui» le confessò. «Non ti sei mai chiesta che razza di gente era, quella che colonizzò questo pianeta?» sussurrò, chinandosi su di lei perché nessuno sentisse. «Si sono fatti schiacciare come mosche da questi escrementi umani, lasciando che l'intera cultura di Atlantide andasse in rovina. Quasi stento a credere che appartenessero al nostro popolo... razza di degenerati».

«Tu dici?» fece lei, rispondendo con un sorriso di circostanza al saluto di un gruppo di soldati. «E cosa dire di noi, allora? Non siamo venuti fin qui per lo stesso motivo?»

«È diverso, per Ra!»

«Forse, o forse no. Se non torniamo su Atlantide con la Regina, sai benissimo che le nostre possibilità di vittoria contro i ribelli saranno esigue. I gruppi di rivoltosi hanno conquistato già cinque delle nostre roccaforti principali tra il sud est asiatico e il nord di Eugea. A Babele si combatte agli angoli delle strade; e se anche Elissa dovesse cadere, il Senato Centrale si troverebbe a dover governare uno stato spaccato in due, con un serio rischio per la tenuta del governo di coalizione. Sai meglio di me che solo la Regina può salvarci, ormai».

«Quella donna non è la mia regina» obiettò Lucano «lei non sa nulla di Atlantide».

«Farai meglio a rassegnarti all'idea» commentò secca Faloe, bussando alla porta dell'ufficio del comandante. «Non solo quella donna è la nostra Regina, ma direi che è tutto quanto ci resta per sperare di sopravvivere almeno un altro anno».

La porta si aprì e entrambi entrarono nella stanza. Atys li attendeva in piedi, di spalle. In mano aveva un bicchiere di vino rosso.

Sorpresa, Faloe osservò la bottiglia sul tavolo e i due bicchieri accanto, ancora da riempire.

«Signore, voleva vedermi?» disse. Atys si voltò, sorridendo.

«Tenente, Capitano... prego, accomodatevi».

I due si scambiarono un'occhiata veloce. Quindi si disposero nel centro della sala, sull'attenti.

«Riposo, signori» fece Atys. «Vino?»

Faloe lanciò un'occhiata di sconcerto al suo comandante. Era insolito vederlo tanto allegro.

«Signore, la vedo felice...»

«E lo sono, Tenente. Oggi, grazie agli dei e a un'inaspettata fortuna, siamo andati molto vicino a ottenere quello che volevamo».

«La Regina ha accettato...»

«Non ancora. Ma confido che presto lo farà. Proprio per questo, ho deciso di convocarvi per discutere di alcune questioni della massima importanza».

Atys si avvicinò al tavolo, versando il vino nei bicchieri ancora vuoti e porgendoli ai due ufficiali.

«È da molto che servite l'Armata del Senato con efficienza e fedeltà. Presto confido che faremo ritorno su Atlantide, e lo faremo vittoriosi. Se ciò è stato possibile, è anche grazie a voi».

«Grazie signore» risposero i due, in coro.

«Per questo, ho deciso di inoltrare le pratiche per una vostra promozione, che verrà ratificata non appena saremo tornati».

Faloe e Lucano si guardarono, stupefatti. «Signore...»

«Non ringraziatemi» fece lui. «Sono io che vi ringrazio. Ciò che avete fatto per questo reggimento e per la nostra patria è incommensurabile. Soprattutto lei, tenete» disse, accennando a Faloe. «Per anni ha servito in questo reggimento con onore, ed era il momento che guadagnasse il grado effettivo che in realtà già ricopriva. È un modo per qualificare il suo impegno e per confermare davanti agli uomini l'autorità che le deriva in qualità di mio secondo».

Faloe sorrise commossa.

«Per me è un onore servirla, comandante».

«Un brindisi a voi, Colonnello Anuri» disse, alzando il bicchiere «e a voi Capitano di corvetta Lucano. E con voi, brindiamo ad Atlantide. Che la sua civiltà possa risorgere splendente, e gloriosa».

«Ad Atlantide» esclamarono loro, levando i calici.

«E ora, signori» disse Atys, posando il bicchiere dopo aver schioccato la lingua contro il palato «resta solo una cosa da fare. Troviamo quella pietra e torniamocene a casa».


*



La porta si richiuse alle sue spalle e Nadia le si abbandonò contro con un sospiro.

Era tutto sbagliato, pensò. La storia della pietra, il viaggio... tutto. Aveva coinvolto i suoi amici in un'avventura assurda, mettendo a repentaglio le loro vite per qualcosa di assolutamente folle. Avrebbe dovuto sbarazzarsi di quella pietra fin da subito, gettandola nel Tamigi o lanciandola dall'ultimo piano di casa sua, facendola andare in mille pezzi. Ma come al solito, aveva sbagliato tutto. E stavolta, chi ne aveva fatto le spese era Jean.

Ma cosa mi è saltato in mente?

Si passò una mano tra i capelli, che le ricadevano scomposti sulla fronte. Erano cresciuti di molto. Avrebbe dovuto tagliarli, pensò. Odiava portare i capelli troppo lunghi, le dava un senso di fastidio.

Sollevò gli occhi. La desolazione della sua camera era disarmante. Tutto quello che poteva fare, era gettarsi sul letto e sprofondare col volto nel cuscino, nella speranza di addormentarsi e di sottrarsi così all'incubo che si trovava a vivere. Almeno per un po' avrebbe funzionato.

O forse no...

Tanto lo sai che è tutto inutile.

Prima o poi, si sarebbe comunque svegliata e allora sarebbe ritornata ogni cosa: Atys, gli uomini di Atlantide, i volti delusi e disfatti dal dolore dei suoi amici... non si poteva dormire per sempre. La vita non offre mai soluzioni tanto facili ai propri guai.

Si avvicinò al letto a passi lenti, slacciandosi fiaccamente il colletto della camicia e sfilandosi gli stivaletti. Posare i piedi nudi sul pavimento freddo di acciaio le procurò un brivido che la scosse, donandole per un istante l'impressione di essere ancora viva, e di avere ancora un corpo in cui muoversi. Era qualcosa di cui aveva bisogno, e di cui fu grata.

Si chinò, a raccogliere gli stivaletti. Ma perché lo faceva? Non era a casa sua. Non aveva senso riporli. Li lasciò cadere. Uno dopo l'altro toccarono il suolo con un suono sordo. Nadia allungò loro un'occhiata: erano davvero delle brutte scarpe, pensò. Goffe e sporche. Non facevano nemmeno un bel suono, quando cadevano a terra.

Quando Marie aveva saputo di Jean, aveva lasciato cadere a terra il bicchiere da cui stava bevendo. Fu un suono diverso, freddo; come il ghiaccio, quando si rompe. Esattamente come lo sguardo con cui l'aveva ascoltata per tutto il tempo, prima di correre via. Di ghiaccio.

Marie l'avrebbe odiata per sempre, si disse fissando un punto imprecisato avanti a sé, gli occhi sbarrati sull'eco della sua recente memoria. E aveva ragione. Come avrebbe potuto perdonarla di aver causato la scomparsa di Jean? Lui era tutto quello che le restava al mondo di più simile a un padre. Per colpa del suo egoismo, ora quella bambina era di nuovo sola. Solo per quello, avrebbe dovuto accettare l'offerta del comandante e partire subito, senza voltarsi nemmeno indietro, a sperare in dio sa cosa...

Sospirò, sbattendo le palpebre indolenzite. Il volto di Marie, scomposto dal dolore, le si riaffacciò prepotentemente agli occhi. Lei distolse il volto da quell'immagine che affiorava, vivida, a tormentarla. Ma era, quello, qualcosa da cui non avrebbe mai potuto scappare. Il dolore di lei l'avrebbe perseguitata per sempre, perché era una sua colpa. Non poteva fuggire, né poteva sperare di sottrarvisi. Era un dolore presente, vivo; ed era lì per lei. La chiamava per nome.

Che povera sciocca, che sei... sì, solo una sciocca.

Senza nemmeno la forza di lasciarsi cadere sul materasso, Nadia alzò gli occhi al cielo. Cosa avrebbe fatto? Che soluzione le restava? Con sgomento, si rese conto per la prima volta in tutta la sua vita che la forza che credeva di possedere con tanto orgoglio, non era che un'illusione in cui si era crogiolata per anni. Anni passati a ignorare la verità, e il fatto che non aveva mai affrontato un vero problema da sola. Credeva di averlo fatto, arrivando egoisticamente ad ignorare la presenza di tutti quelli che l'avevano sempre aiutata: Jean, Lisa, Michael, John... aveva sempre potuto contare su qualcuno di loro, per far fronte ai suoi problemi.

Smarrita, Nadia si guardò intorno. Era sola. Non c'era nessuno accanto a lei e non c'era nessuno, oltre quella porta e quelle pareti di metallo lucido, che potesse anche solo capire in che situazione si trovava. Non sapeva cosa fare. E non aveva nessuno che potesse dirle cosa fare.

Aiuto, mormorò, chiudendo gli occhi. Lacrime improvvise le scivolarono da sotto le ciglia, imperlandole gli angoli degli occhi prima di bagnarle le guance, mentre i singhiozzi presero a scuoterla adagio, senza che lei potesse fare nulla per evitarlo.

Per favore, qualcuno mi aiuti...

«Nadia».

Lei si voltò, tergendosi le guance.

«John...»

Nadia lo fissò come da lontano, quasi non lo conoscesse; le braccia abbandonate lungo il corpo, lo sguardo spento, piangeva silenziosamente, pur sforzandosi di trattenere le lacrime con tutta se stessa. Lui fece un passo verso di lei, fissandola preoccupato.

«Nadia, non stai bene?»

Lei scosse il capo. «No» disse, e un singhiozzo le sfuggì. Fu come se tutta l'angoscia che si portava dentro avesse trovato uno sfogo improvviso in quel singolo attimo di debolezza: un attimo in cui tutto si offuscò tra le lacrime che cancellavano ogni immagine, mentre un pianto inarrestabile la piegava in due, pungendola al petto e allo stomaco, e strappandole gemiti sempre più acuti.

John le si precipitò accanto, sorreggendola e facendola sedere sul letto. La strinse a sé: ma era così forte e tremendo il pianto che la scuoteva che nulla, di quello che poteva dire o fare, riusciva a calmarla. Restò così, a carezzarle i capelli, scostandole in silenzio i ciuffi bagnati di lacrime che le si appiccicavano al volto, mentre attendeva che ogni emozione in lei facesse il suo corso.

«Non devi affrontare tutto da sola» le disse. «Ci sono io, con te. Io sarò sempre con te, lo sai».

«È colpa mia» gridò lei, tra le lacrime. «È solo colpa mia se lui...»

«Di cosa parli?»

«Jean» balbettò lei «è colpa mia se è scomparso».

John la strinse a sé. «Non è colpa tua. Tu non c'entri, non hai fatto nulla. Lui era maturo abbastanza per decidere se seguirti oppure no. Quello che è successo è stato una disgrazia».

«Non doveva andare così, non doveva!» si sfogò lei, stringendo la camicia di John tra le mani e premendogli il volto contro il petto. «Perché, perché, mio Dio...»

«Nadia, smettila. Non puoi continuare ad addossarti tutta la responsabilità del mondo. Non serve a niente annullarsi nel dolore. Devi cercare di reagire».

Lei continuò a piangere, picchiando con i pugni chiusi contro il petto di lui, come a sfogare tutta la rabbia che aveva contro se stessa. John la lasciò fare, finché «guardami» fece, prendendole il volto tra le mani, energicamente. «Guardami! Ci sono altre persone che sono salve. Sono i tuoi amici. Hanno bisogno di te, sei la loro guida... tutti si aspettano che tu mostri loro cosa fare».

«Io non... non lo so!» fece lei, guardandolo negli occhi. «Io non ne ho idea. Non so cosa fare, né pensare...»

«Comincia con l'essere forte» disse. «Dai loro la tua forza. Mostrati per la donna che sei».

«Sono stanca, John...»

«Lo capisco ma devi resistere. Non puoi cedere adesso, o loro cederanno con te. Sei tu il punto di riferimento. Se crolli, ti tirerai tutti dietro».

Nadia si asciugò le lacrime, appoggiando la testa sulla spalla di lui.

«Nessuno di loro può capire come mi sento» disse. «Parlo con loro, ma loro è come se non mi vedessero neppure. Vedono qualcuno che credono di conoscere, ma non si domandano cosa significa per me vivere tutto questo. Io non sono come loro, né come te. Io non sono come nessuno di voi».

«Nadia...»

«So che mi accusano per quello che è successo a Jean. E hanno ragione. Ma io cosa dovevo fare?» disse, sollevando gli occhi umidi a fissare il volto di John, come a cercare in lui una risposta, o una conferma. «Non potevo... tu lo sai... non...»

«Hai fatto quello che ritenevi giusto» disse lui.

«Sì, ma ora guarda!» gridò. «Guarda cos'è successo perché io ho creduto di fare la cosa giusta!»

«Se Jean non avesse pensato che eri nel giusto, non sarebbe mai partito con te» le disse lui. «Se ha scelto di aiutarti, se tutti hanno scelto di farlo, è perché hanno visto che c'era del vero in quello che facevi, e del buono. Nessuno pensa che la scomparsa di Jean sia colpa tua, Nadia. Nessuno».

«Credi che possa essere ancora vivo?» azzardò lei. John strinse le labbra.

«Non lo so. Ma a quanto ne so, il suo corpo non è stato trovato, quando ci hanno salvato. Potrebbe essere dovunque, certo, e potrebbe ancora essere vivo. Tuttavia...»

«Voglio pensare che lo sia» fece lei, facendosi coraggio. «Voglio crederlo».

Lui annuì, stringendo le labbra.

«Brava».

Le passò una mano sul volto, cancellando i segni delle lacrime. Nadia premette il volto contro il palmo della sua mano, chiudendo gli occhi.

«Scusami» fece lei, sorridendo. «Non ti ho nemmeno detto quanto sono felice di vederti».

«Non ti preoccupare» disse lui, sorridendo a sua volta. «Va tutto bene».

«Sono stata dal comandante, prima» disse lei. «Mi ha detto che cercherà Jean, ma a condizione che io parta con lui».

John si fece scuro in volto.

«Tu che gli hai detto?»

«Nulla» fece lei. «Non so cosa fare. Ho paura che quelle persone mi useranno per fare cose terribili... ma Jean... Dio, non so cosa fare».

John le prese il volto tra le mani, fissandole intensamente le labbra e poi gli occhi.

«Io penso che tu debba partire» disse, alla fine. Lei si passò le mani sulle guance, asciugandosi vigorosamente le lacrime.

«Cosa?»

«Devi partire. È senza dubbio la soluzione migliore».

Nadia scosse il capo. «Aspetta un attimo» fece «come fai a dire una cosa del genere?»

«Non devi temere il comandante» disse John. «Sono a conoscenza dei suoi piani per te e so che non ha alcuna intenzione di farti del male».

«Ma cosa dici?» fece lei, confusa. «Come fai a saperlo? Non puoi aver parlato con lui...»

Nadia fissò John senza capire.

«John...»

«C'è un motivo per cui sono qui, Nadia, un motivo che va al di là del mio desiderio di vederti».

Lei continuava a fissarlo e a non capire. «Vuoi dirmi che ti sta succedendo?» disse. «Non ti riconosco più».

«Sono venuto per convincerti a seguire il comandante su Atlantide» ammise John con un sospiro. «Ancora non sapevo della sparizione di Jean e della sua offerta di ritrovarlo, ma è meglio così. Ora hai un motivo in più per accettare il suo invito».

Nadia sussultò. «Che cosa?» fece. «Invito? Ma come ti salta in mente...»

«Tu sei la legittima erede al trono di Atlantide. E in quanto tale, hai il diritto e il dovere di governare il tuo popolo. Il tuo è un diritto inalienabile, ma è anche un preciso dovere che...»

Nadia si sollevò lentamente in piedi. «Tu...» disse «come sai tutte queste cose?»

«Nadia...»

«Io non te le ho mai raccontate» lo incalzò lei, allontanandosi. «Chi ti ha parlato di questo?»

«Ascolta, io...»

«Dimmi chi ti ha detto queste cose!» gridò lei furiosa. John sospirò.

«Se solo tu mi lasciassi spiegare...»

«Vattene...» disse lei. «Vattene subito». John si alzò in piedi, andandole incontro.

«Nadia, aspetta...»

«Va' via!» gridò lei. «Io non so nemmeno chi sei... mi hai mentito! Mi hai mentito per tutto questo tempo!»

«Ora basta!» fece lui, afferrandola per i polsi e strattonandola. «Sono qui per dirti tutto, e tu mi ascolterai, per Dio».

Lei si divincolò con tutte le sue forze, ma lui la stringeva in una morsa inesorabile, impedendole di fuggire.

«So chi sei perché avevo il compito di seguirti» le confidò. «Anche io, come te, discendo da un'antica stirpe di Atlantide. Io e te siamo uguali, non lo capisci?».

«No!» gridò lei, agitandosi disperata. «No, non è vero!»

«È la verità. Lavoro per gente che ha il compito di proteggere tutti quelli come te... come noi, Nadia...»

«Lasciami!» lo supplicò. «Lasciami andare!»

«È da anni che eravamo sulle tue tracce. Nessuno sapeva chi eri in realtà, sapevamo solo della tua esistenza. Credevamo che tu fossi morta durante la guerra contro Gargoyle e Neo Atlantide. Io stesso non sapevo chi eri, finché non ho visto la reazione che ha avuto la pietra tra le tue mani. Solo allora...»

«Basta!» fece lei, dimenandosi tra le sue braccia.

«...solo allora ho capito che eri la Regina. Nadia, ascoltami: nessuno, qui, vuole farti del male. Non abbiamo nessuna intenzione di...»

«Ti odio, maledetto» pianse lei «ti odio per quello che mi hai fatto! Come hai potuto, come hai potuto convincermi ad amarti, e mentirmi, giorno dopo giorno...»

Lui la strinse a sé, abbracciandola. Lasciò che lei lo colpisse con tutta la forza e la rabbia che aveva in corpo, quindi «so di averti mentito e di aver tradito la tua fiducia» le sussurrò. «Ma l'ho fatto per te, per proteggerti da chi ti voleva morta».

«E ti aspetti che io ti creda?» sibilò lei, cercando di schiaffeggiarlo. Lui le bloccò la mano con facilità.

«No, ma mi aspetto che tu sia tanto intelligente da capire. Se volessimo farti del male, credi che starei qui a tentare di spiegarti? Credi che il comandante accetterebbe tutti i tuoi capricci?»

«Capricci?» fece lei, inorridita.

«Sì, perché è così che ti comporti...»

Lei lo colpì al volto con tutta la forza che aveva. Sorpreso, John indietreggiò, lasciando la presa che aveva su di lei.

«Razza di bastardo, osi anche giudicarmi?» esalò. «Se solo avessi capito prima la canaglia che sei, non ti avrei mai permesso di mettermi addosso quelle tue mani schifose».

«Non ti sei mai tirata indietro, prima» fece lui, stringendola nuovamente. Lei si dibatté con forza.

«Lasciami!» ringhiò Nadia. «Lasciami immediatamente!»

«No, non ti lascerò finché non mi mostrerai che sei in grado di ragionare» fece lui, deciso. «Devi capire, maledizione, devi capire!»

Lui la scosse con violenza, facendole quasi perdere i sensi e serrandola ancora più a sé, sollevandole il volto per il mento e costringendola a guardarlo.

«Tutti noi abbiamo bisogno del tuo aiuto. Puoi continuare a ignorare quello che sei e vivere nel tuo personale egoismo. Ma se solo ti degnassi di guardare a quello che tu stessa sai di provare nel profondo del tuo cuore...»

«Tu non sai niente di cosa provo» fece lei, con gli occhi velati di lacrime. «Tu non sai nulla di me».

«E invece sì» fece lui, coprendole il volto di baci. «Io ti adoro, Nadia. Ciò che sono non cambia nulla, nulla...»

«Cambia tutto, invece!» fece lei, scostandolo bruscamente. «Tu non capisci...»

«Tu non capisci!» fece lui. «Chi, tra noi, dimostra di odiare, ora? Chi è disposto a cancellare tre anni di amore solo... per questo?»

«Tre anni di menzogne!»

«Sì, menzogne, ma perché tenevo a te. Perché volevo proteggerti, finché non fosse arrivato il momento in cui non sarebbe più stato necessario farlo».

«No!» gridò lei. Tentò di fuggire, ma John la teneva avvinta.

«Tu appartieni ad Atlantide, come me. Ma io appartengo soprattutto a te... perché non vuoi capire, perché non vuoi accogliere quello che sei? Tu stessa hai detto di sentirti diversa da tutti... è perché non sei come gli altri, tu non sei umana».

«Basta, non ti voglio più sentire!»

Nadia si liberò, stringendosi disperata nelle braccia, senza avere il coraggio di sollevare il volto a guardarlo.

«Ti scongiuro» la supplicò lui «ti prego di credermi. Non sapevo chi eri prima che tu trovassi la pietra, e quando l'ho scoperto ho dovuto pensare solo a proteggerti. Se ti avessi rivelato tutto, saresti fuggita da me, e avresti corso chissà quali pericoli. Ma ora che sei al sicuro, ho voluto raccontarti tutto e ti chiedo solo di darmi fiducia...»

«Vai via» mormorò lei. «Non voglio vederti mai più».

«Nadia...»

«Fuori!»

Lui si irrigidì. Leggeva nei suoi occhi la stessa volontà di cui si era così perdutamente innamorato, quella volontà che la guidava da quando lui la conosceva e che la rendeva ai suoi occhi l'essere più straordinario che avesse mai incontrato. Sapeva che non avrebbe mai potuto convincerla, non adesso, non finché fosse stata tanto sconvolta.

«Va bene» disse, semplicemente. «Come vuoi».

Nadia si scostò, lasciandolo passare senza mai alzare gli occhi da terra, e attenendo che uscisse senza voltarsi a guardarlo. Ma una volta davanti alla porta, lui si fermò, incapace di muoversi oltre.

«Se pensi che ti abbia tradito, sappi che farò ciò che vorrai. Io sono pronto a seguirti ovunque, perché ti amo. Ma se non mi vorrai, e sceglierai di partire, io non ti seguirò. Spero che tu riesca a trovare Jean... potrai chiedere a lui di seguirti. Sono sicura che ti farebbe felice».

Nadia chiuse gli occhi, serrando le labbra per soffocare un singhiozzo.

«Io ti amo, Nadia. Ciò che ho fatto, l'ho fatto per te. Puoi odiarmi: ma prova a chiederti perché avrei fatto quello che ho fatto, se non ti volessi bene davvero».

Nadia alzò gli occhi a guardarlo. Lui la fissò, e nel vederla così provata, si sentì morire.

«Non volevo ferirti» mormorò. Lei non si mosse.

«Te ne devi andare» fece lei, con la voce rotta. John sospirò, annuendo.

E dopo un ultimo veloce sguardo, uscì, lasciandola completamente sola.




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Capitolo 17
*** 16 ***


Il suono delle campane penetrò dalle finestre socchiuse, accompagnando i raggi di sole del primo mattino. Lisa si risvegliò con la mente ancora impastata di sogni e di angoscia, e con le membra indolenzite. Dormire su quel vecchio divano non era certo il massimo della comodità; comunque, vista la situazione, non ci si poteva davvero lamentare.

E poi a qualcuno era andata anche peggio, pensò sorridendo, nel vedere Michael che si rigirava borbottante per terra, tutto avvolto in un panno tarlato.

«Buon giorno. Ha dormito bene?»

Lisa si sfregò gli occhi gonfi di sonno. Un uomo alto, in abito talare, aveva appena fatto il suo ingresso nella stanza, e la fissava amichevolmente. Reggeva tra le mani un vassoio, con un bricco da cui proveniva un intenso aroma di caffè.

«Caffè» mormorò Lisa. «Dio, ti ringrazio».

L'uomo emise una leggera risata e Lisa arrossì.

«Chiedo scusa, padre» disse.

«Nessun problema. Ci sono anche panini e biscotti» disse lui sottovoce, versando una tazza fumante e porgendola a Lisa, che la prese tra le mani riconoscente. «Lascio tutto qui. Se avete bisogno di qualcosa, sono in sacrestia».

«Padre...» lo richiamò Lisa. L'uomo si volse. «Grazie».

«Non c'è di che. Ah, nel caso si chiedesse...»

Lei inarcò le sopracciglia, portandosi la tazza alle labbra.

«...lo troverà nel chiostro».

Lisa arrossì. Nascose il volto dietro la tazza, trangugiando il caffè.

«... mmh...» mugolò, con la bocca piena. Lui rise, uscendo dalla porta scuotendo la testa.

Lisa lo seguì con lo sguardo, restando a fissare la porta che si richiudeva silenziosa. Quindi alzò gli occhi, sospirando. La stanza si stava pian piano riempiendo di luce. I vecchi armadi di noce, alti fino al soffitto, si svelavano ricoperti di polvere, sotto l'azione impietosa del sole che filtrava dalle finestre appena accostate. Le ante socchiuse lasciavano qua e là intravedere il lembo rosicchiato di un paramento di qualche tipo, mentre dal loro interno si spargeva tutt'intorno un vago profumo di canfora e incenso.

Michael si lamentò sommessamente nel sonno. Lisa abbassò lo sguardo su di lui, spostando poi gli occhi su Hunter e la sua famiglia, che dormivano tutti raccolti su un lettuccio improvvisato nell'angolo. Faceva caldo. L'umidità cominciava a farsi sentire, mischiandosi all'odore di sonno e di chiuso e producendo nella stanza una cappa opprimente.

Lisa si alzò in piedi sul divano. Sopra di lei, una finestra socchiusa lasciava penetrare un leggerissimo filo d'aria. Lei si allungò sulle punte, sprofondando leggermente sul divano sfondato; e con l'estremità delle dita, sfiorò l'anta della finestra, riuscendo ad aprirla di un poco: da fuori giunse il canto argentino di un merlo, appollaiato tra i rami di un albero di cui lei scorgeva appena le ultime frasche. Da lontano, arrivava il suono indistinto di qualche carrozza, e il vociare confuso che risaliva lungo la strada, oltre il parco della chiesa.

Una brezza leggera spinse le ante della finestra, socchiudendola di molto. Un alito fresco soffiò sul volto della ragazza, che chiuse gli occhi, inspirando piacevolmente. Ora era completamente sveglia, e cominciava a sentire persino fame.

Con un balzo, scese dal divano. Si avvicinò scalza al vassoio sul tavolo, raccogliendo un panino che si ficcò tra i denti, prima di agguantare qualche biscotto. Quindi raccolse i suoi stivaletti e uscì in punta di piedi, socchiudendo la porta e bloccandone la chiusura con il chiavistello, per far circolare un po' d'aria.

Il chiostro era ombreggiato e lì il caldo esitava ancora ad arrivare. La luce era comunque accecante e le colonne esposte al sole sembravano quasi risplendere di luce propria, tanto che Lisa dovette socchiudere gli occhi e ripararsi la vista con una mano.

Si infilò gli stivaletti e prese a camminare lungo il colonnato. Sulla destra, oltre una piccola porta di legno con grossi chiodi battuti, si apriva il passaggio che conduceva alla chiesa, mentre più avanti c'era un grande cancello, che collegava il chiostro allo stabile della canonica.

Winston era in piedi davanti al cancello. Le mani in tasca, un piede appoggiato al muricciolo del chiostro, fissava avanti a sé, fumando un mozzicone di sigaro in maniche di camicia. Lisa gli si avvicinò sommessamente, tanto che lui nemmeno si accorse di lei finché non gli fu praticamente accanto.

«Non le farà male, fumare appena alzato?» chiese lei. Si sentì arrossire nel momento esatto in cui aprì bocca. Prontamente, si volse di lato, socchiudendo gli occhi e concentrando il suo sguardo su un punto qualsiasi.

«Può darsi» fece lui, prendendo il sigaro tra due dita. «Ma comunque, sono già in piedi da un po'».

Lisa tacque. Aspettò che lui dicesse qualcosa, ma non sembrava molto loquace.

«Io...» fece nervosamente.

«Ho parlato con padre Collins» esordì Winston. «Dice che possiamo fermarci finché vogliamo».

«È un uomo molto gentile» commentò Lisa. Winston buttò a terra il mozzicone, pestandolo con la punta del piede.

«Comunque sia, oggi partiamo».

Lisa sollevò gli occhi a fissarlo in volto. «E per dove?» chiese.

«Ancora non lo so» ammise Winston. «Ma confido che da qui al momento della partenza avrò le idee più chiare, in proposito».

«Forse potremmo andare a cercare Nadia, come ci eravamo proposti...»

Winston nicchiò. «No, non credo che sia una buona idea. Non prima di essere riusciti a chiarire alcune cose, almeno».

Lisa morsicò un biscotto. «Quali cose?»

«Per esempio...»

Lui abbassò lo sguardo su di lei. Colta da un improvviso turbamento, Lisa strabuzzò gli occhi, cercando un punto in cui guardare che non fosse imbarazzante come fissare il suo volto. Abbassò gli occhi sul suo torace ampio e tonico, che gli si intravedeva sotto la camicia slacciata.

No. Se possibile, era anche peggio.

«Sono buoni, quei biscotti?» fece lui. Lisa sussultò. Con un biscotto ancora tra i denti, allungò la mano ad offrirgliene uno, fissandolo di sottecchi.

«Coa diea pia?»

Lui aggrondò. «Mandi giù, se no non si capisce» fece, dando un morso al biscotto. Lisa si sforzò di ingoiare il boccone.

«Cosa diceva prima?» chiese di nuovo, schiarendosi la voce. Winston ammiccò.

«Che ci sono alcune cose da chiarire. Per esempio, cosa sono le Quattro Arche di cui parlava il diario di Kurtag e che ruolo avrebbe la sua amica in tutta questa storia... sono convinto che il Reggente avesse scoperto qualcosa in proposito, e che sia stato ucciso per questo».

«Cosa glielo fa credere?»

«Il fatto che i nostri nemici abbiano aspettato a muoversi solo adesso. Avrebbero potuto aspettare, vedere come si svolgevano gli eventi, ma la situazione dev'essere in qualche modo precipitata. Hanno dovuto correre ai ripari, per non perdere la situazione di vantaggio che avevano. Per questo hanno messo a tacere il vecchio De Molay, e mi hanno trasformato in un ricercato. Questo mi fa anche pensare che non abbiano ancora messo le mani sulla sua amica, altrimenti non avrebbero mai visto la mia partenza alla sua ricerca come un effettivo pericolo».

«Questo è di qualche conforto» sospirò Lisa.

«Sì, ma non si illuda» la corresse subito lui. «Prima o poi riusciranno a catturarla, se non li precediamo e non troviamo il modo per contrastare le loro mosse».

«E come pensa di fare?» domandò Lisa. «Il Consiglio, a quanto ci ha raccontato, non esiste praticamente più...»

«Non il Consiglio di cui facevo parte» disse lui. «Ma il Consiglio in sé esiste ancora, e con esso tutte le informazioni che ci servono. La prima cosa da fare, è trovare tutto ciò che il Reggente aveva raccolto sulla sua amica e sulla sua storia. Non so se e quante informazioni avesse, anche se sono del tutto sicuro che qualcosa sapesse».

«Ma come, lei non ne era informato?» domandò Lisa, perplessa. «Com'è possibile? La facevano lavorare su qualcosa che nemmeno conosceva?»

Lui sogghignò. «Benvenuta nel mondo degli agenti segreti» fece. «Comunque, sono certo che se ci fosse stata lei al mio posto, li avrebbe di sicuro indotti a rivelarle ogni cosa, grazie alla sua insistenza martellante...»

«Non litighiamo» lo interruppe Lisa, ansiosa. «Non voglio, non è il momento».

Sorpreso dalla reazione della ragazza, Winston si irrigidì. Finì di mangiare il biscotto, quindi si spazzò le dita dalle briciole, sfregando le mani tra loro.

«Come vuole. Comunque, l'unico posto in cui possiamo reperire questo genere di informazioni è l'archivio consiliare. Dobbiamo solo trovare il modo per entrarvi, e una volta là, sono certo che sarà possibile rintracciare qualcosa» concluse lui. «Resta solo un problema...»

«Quale?» fece Lisa, scuotendo la testa. Lui alzò le spalle.

«Chi ci mandiamo?» disse Winston semplicemente.

Lisa sospirò. Quindi, «credo di avere la risposta» disse, illuminandosi all'improvviso.



*



«Che cosa? Non se ne parla neppure!».

Michael si trincerò dietro a un muro di ostilità e paura. Con le braccia conserte, si sedette sul divano, piantando il muso.

«Michael, cerca di ragionare» fece Lisa, conciliante. «Sei l'unico che possa infiltrarsi là dentro».

«E perché non ci vai tu?» fece lui. Lisa sbuffò.

«Si era offerta, ma le donne non sono ammesse nel Consiglio» fece Winston. Lisa gli lanciò un'occhiata storta.

«Già» borbottò. «Comunque credimi: se potessi ci andrei io, razza di fifone che non sei altro».

«Parlate bene, voi, ma io rischio di rimetterci la pelle».

«A dire la verità non dovrebbe essere troppo difficile» ammise Winston. «Esiste la possibilità di farti entrare abbastanza facilmente».

Michael drizzò le orecchie. «Sul serio?»

«Sì. Il difficile sarà uscire».

«Oh. Perfetto...»

«Comunque» continuò Winston «questi tesserini che ho sottratto agli agenti che erano venuti a farmi la festa potranno tornarci utili» disse. «Non credo che la notizia della morte di quei tipi sia già stata comunicata ai livelli più bassi. Con un po' di fortuna, riusciremo a farti entrare e uscire senza problema... sperando che quelli fossero tutti agenti operativi».

Michael aggrottò la fronte. «E se non lo erano?»

«Vuol dire che non lavoravano in incognito. E per te sarebbe un problema se mostrassi il tuo tesserino a qualcuno che non riconoscesse il tuo viso».

«Michael, questo non è il momento di tirarsi indietro» esordì Hunter. «Se non cominciamo a muoverci in qualche modo, presto ci scopriranno e tutto sarà inutile. Dobbiamo trovare il modo di scoprire qualcosa, qualcosa che ci dia la possibilità di pianificare un'azione. È indispensabile, se vogliamo aiutare Nadia».

«Sì, ma...»

«Ho capito» bofonchiò Hunter, deciso. «Ci vado io».

«No!» gridò sua moglie, stringendogli il braccio. «Ti prego, non andare! È troppo pericoloso».

Lui strinse le labbra. «Agatha...»

«Va bene, ho capito» disse Michael, allargando le braccia rassegnato. «Vado io. Ditemi quello che devo fare, avanti».

«Bravo» fece Winston allegro, mostrandogli i tesserini. «Allora, chi preferisci essere? Boswell, Richardson... o MacIntyre?

Michael allungò la mano torvo, strappandone uno a caso.

«Perfetto agente Boswell. Sei appena stato assunto dal Consiglio. Ci aspettiamo tutti grandi cose da te» scherzò Winston. Michael fece una smorfia.

«Come procediamo?» domandò Lisa, con apprensione. «Cerchiamo di non metterlo in difficoltà inutili, se possibile...»

«Già, se possibile» commentò Michael, caustico.

«Per prima cosa, ti accompagneremo al palazzo del Consiglio» fece Winston. «È lì che si trova l'archivio. Noi non potremo entrare con te, perché in quel posto sono piuttosto conosciuto. Una volta dentro, quindi, sarai solo. Dovrai scendere al livello tre, ripeto, tre, superando tutti i sistemi di sorveglianza: si tratta di quattro posti di blocco, posti uno all'ingresso e gli altri all'inizio di ogni piano».

«Fantastico...»

«Ancora una cosa. Per accedere all'archivio, dovrai recuperare un'autorizzazione. È indispensabile, perché nessuno può entrare senza, c'è una procedura da seguire. Una volta nell'archivio, dovrai cercare in qualche modo di restare solo, perché ciò che cerchiamo si trova in una sezione riservata, e data la situazione, sono sicuro che sarà oggetto di particolari attenzioni...»

«In altre parole, sembra tutto molto facile» ironizzò Michael.

«In effetti, sarà divertente» ridacchiò Winston. «Se non ti farai ammazzare».

«E noi che faremo?» chiese Lisa. «Intendo... ce ne staremo lì ad aspettare senza far nulla, mentre lui rischia la vita?»

«Lei ha un conto in banca?» le chiese Winston. Lisa strabuzzò gli occhi.

«Sì» balbettò. «Perché?»

«Perché abbiamo bisogno di soldi. Il più possibile. È probabile che dovremmo spostarci parecchio nei giorni a venire, e per farlo serve denaro».

«Io...»

«Userei i miei fondi, ma sono controllati. Se provassi a toccarli, verrei rintracciato in pochissimo tempo».

«Usate anche i miei» fece Hunter, d'accordo con la moglie. «Lo faccio volentieri».

Winston nicchiò. «No, lei ha una famiglia. Anzi, ho già parlato con padre Collins, e sta cercandovi una sistemazione sicura, per tutti e tre».

«Ma...»

«Niente da fare» tagliò corto Winston. «So che ci tenete a dare una mano, ma non posso pensare di portarvi con me. Questi due» disse, ammiccando a Lisa e Michael, «sono soli, e possono muoversi liberamente. Lei ha una moglie e un figlio. È giusto che rimanga».

«Maledizione, io...» lamentò Hunter con un grugnito. Winston sorrise.

«Apprezzo il suo desiderio di aiutarci. Ma può darci una mano anche da qui. Le passeremo tutte le informazioni che riusciremo a trovare, attraverso padre Collins. Sarà lui il nostro contatto, così saremo tutti più sicuri».

«Vorrà dire che mi guarderò intorno, e vedrò di scoprire cosa succede in città, e nei palazzi del potere» fece Hunter sommessamente. «Ho ancora delle conoscenze in giro, e parecchie carte da giocare».

Winston annuì, deciso. «Bene, ma cerchi solo di stare attento. Tutto ciò che le chiedo è di non gettarmi sulla coscienza un'intera famiglia, lei compreso... siamo intesi?»

«Quando andiamo?» fece Lisa. Provava una insolita eccitazione e non vedeva l'ora di partire. L'idea di poter finalmente fare qualcosa di concreto per aiutare Nadia la esaltava.

«Subito» fece Winston. «Preparatevi, mangiate qualcosa... insomma, fate quello che dovete fare. Vi aspetto tra mezz'ora davanti alla canonica».

«E lei dove va?» fece Michael. Winston sorrise, estraendo un sigaro dalla tasca della giacca.

«Ad adempiere a una vecchia abitudine» rispose, uscendo mentre si infilava il sigaro tra le labbra.



*



Appoggiato a una colonna, Winston fumava pensieroso. Lisa lo raggiunse alle spalle e lui, volgendo la testa a guardarla, si tolse il sigaro di bocca, spegnendolo contro il marmo.

«Già pronta?» fece. «Credevo che le donne fossero sempre in ritardo».

«Lei fa lo sbruffone, ma si vede benissimo che è preoccupato quanto noi».

Winston si incupì, trasformando il suo sorriso in una smorfia.

«Ora è diventata anche un'esperta nel capire le persone?» sibilò.

«Perché è sempre così...»

«Come?»

«Sul piede di guerra. Stiamo tutti dalla stessa parte, no?»

Lui la fissò a lungo, quindi «sì, è vero» ammise. «Ho paura. Temo per voi, perché possa succedervi qualcosa».

«Lei non deve preoccuparsi per noi, sappiamo cavarcela».

«Davvero?» rise lui. «Sapete cavarvela? Lasci che le spieghi. Siamo ricercati da persone che da quasi mille anni governano segretamente la politica mondiale. Hanno accesso a qualsiasi tipo di informazione, sono preparati, silenziosi, non temono nulla perché tutto è nelle loro mani. Credete davvero di potervela cavare con gente così? Allora siete solo dei poveri sciocchi».

«Ma lei è con noi, no?» sorrise Lisa. «Andrà tutto bene».

Lui sbuffò. «Io non sono stato nemmeno capace di proteggere il mio superiore. Cosa diavolo si aspetta da me?».

Lisa tacque, inarcando le sopracciglia. Fissò in silenzio il volto rabbuiato di Winston, seguendolo lungo il chiostro e girando insieme a lui attorno alle colonne.

«Ora non la riconosco» fece, divertita. «Fa il commiserevole?»

Lui rise, suo malgrado. «No» disse. «Mi dispiace, non ce l'ho con lei. La verità è che avevo solo bisogno di sfogarmi».

«Può farlo» fece lei, allungando una mano a sfiorargli la manica della giacca. Lui si voltò a fissarla negli occhi e lei avvampò. «Con me... può farlo. Può sfogarsi, se vuole».

«Perché?»

Lei alzò le spalle. «Non c'è un perché» rispose, nascondendo un sorriso. «O forse, perché mi accorgo che in lei qualcosa non va, e io mi preoccupo».

«Si preoccupa per me?» scherzò lui, infilandosi le mani in tasca. «E da quando?»

«Tendo ad affezionarmi alle persone» ammiccò lei. Lui si indurì.

«Non si affezioni a me» fece, tagliando corto. «È un consiglio che mi sento di darle».

«La scelta spetta a me, non trova?»

«Lei è sempre così?» si arrabbiò lui. «Non dà mai retta agli altri, non ascolta quello che hanno da dire? Perché è così dannatamente testarda?»

Lisa scrollò le spalle. «Non saprei» fece. «Diciamo che mi piace così».

Tacquero, camminando fianco a fianco lungo il colonnato, senza nemmeno guardarsi. Quindi «come mai ci ha portati qui?» saltò su Lisa, all'improvviso. Winston alzò gli occhi, fissando dritto davanti a sé.

«Conosco padre Collins da molti anni» disse. «È stato cappellano militare in India, nel contingente internazionale, proprio durante gli anni in cui mi trovavo là. Ma prima ancora è stato confessore del Primate di Inghilterra, nonché del Papa stesso, per qualche anno».

«Confessore del Papa?» rise Lisa. «Nientemeno. Non sapevo che anche per loro esistesse la necessità di confessarsi».

«Quando sei un Vescovo o un Papa, i tuoi peccati cessano di essere tali e cominciano a confondersi con i segreti di stato» disse Winston. «Più che un confessore, diciamo che padre Collins era qualcuno molto addentro agli affari segreti internazionali».

«Oh...»

«Quando combatti contro un nemico tanto forte, devi sceglierti un amico altrettanto potente» commentò Winston. «E tra i pochi poteri forti, la Chiesa rappresenta un'ottima soluzione, al momento. Almeno finché la guida un Papa fedele a De Molay».

«Capisco» fece Lisa, annuendo. «Molto astuto».

«Già...»

«Tuttavia» continuò lei «perché una persona così importante, un bel giorno ha scelto di rifugiarsi in una chiesetta sperduta nella South Bank?»

«Chissà» chiosò Winston «forse era semplicemente stanco di tutto quel potere».

«Sono pronto».

Entrambi si voltarono. Michael era sulla soglia, insieme alla famiglia Hunter. Non appena lo vide, Winston emise un verso di disapprovazione.

«No, non può mica venire conciato così» disse. «Sembra uscito dal peggiore libro di Dickens».

Michael si squadrò. Vestiva un completo alquanto sdrucito, non su misura, che gli cascava addosso come un mantello spiegazzato. La camicia, dal colletto leggermente liso, presentava anche uno strappo ad uno dei polsini.

«Non ho altro» lamentò lui. «E non abbiamo modo di comprarne uno nuovo».

«Penso di poter trovare qualcosa tra i miei vecchi vestiti» suggerì padre Collins, facendosi largo da dietro gli Hunter. «A occhio e croce direi che abbiamo più o meno la stessa misura».

«Abito scuro, e cravatta nera» fece Winston. «Non può sembrare Arlecchino».

Padre Collins sorrise, ammiccando. Winston sospirò.

«Bene, signori. Direi che questo è un addio» disse alla fine, rivolgendosi agli Hunter e allo stesso padre Collins. «Una volta che saremo partiti da qui, se tutto andrà come deve andare, non ci rivedremo per forse molto tempo. Mi raccomando: fate il possibile per non uscire allo scoperto e per attirare troppo l'attenzione su di voi, perché d'ora in avanti non ci sarà nessuno a proteggervi. Abbiamo a che fare con della gente in gamba, che sa quello che fa e sa come ottenere quello che vuole. Non so come andrà a finire, e se ce la caveremo, ma per quel che mi riguarda» disse, volgendosi verso Lisa, che lo fissava tesa «farò quanto è in mio potere per assicurarmi che non accada nulla a nessuno di voi».

Loro si guardarono l'un l'altro, scambiandosi occhiate nervose e preoccupate.

«E ora, se siete pronti, andiamo» concluse Winston, riprendendo la parola dopo una breve pausa. «E buona fortuna a tutti quanti. Credo proprio che ne avremo un gran bisogno».



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Capitolo 18
*** 17 ***


«Non riesci a dormire?»

Jean sollevò gli occhi dal fuoco. Seminascosto dall'oscurità, vide il volto del vecchio Atahualpa che lo fissava sereno.

«No» rispose. «Continuo a ripensare a tutte quelle cose».

Il vecchio si sollevò lentamente, sgusciando fuori dal buio e avvicinandosi al fuoco, per poi andarsi a sedere accanto al ragazzo.

«Dovresti sforzarti di riposare almeno un poco» fece. «Ormai è l'alba e domani...»

«Domani... mi lasci indovinare» lo interruppe Jean, stizzito «per caso dovrò affrontare una prova importante, o qualcosa del genere, non è così?»

Atahualpa sospirò. «Sei arrabbiato. Va bene».

«Per forza!» si adirò Jean. «È da quando la conosco che continua a ripetermi che dovrò affrontare delle prove, ma non mi dice mai quali... poi, tutto d'un tratto, mi lascia solo su una montagna, dove per poco non ci rimetto la pelle...»

«Non sei mai stato in pericolo...»

«Questo lo dice lei!» esplose lui, scattando in piedi e gettando nel fuoco il rametto di legno che si rigirava tra le mani. «Lei non sa quello che ho visto lassù, né quello che ho passato, vecchio idiota!»

Atahualpa fissò Jean in volto senza scomporsi. Il ragazzo gli volse le spalle in silenzio, portandosi le mani ai fianchi e alzando la testa al cielo.

«Io... mi dispiace» mormorò. «Non era mia intenzione offenderla».

«Non ti scusare» fece Atahualpa, con un gesto della mano. «Non devi. Ciò che si vede, lassù, ci lascia sempre sconvolti. È il prezzo che dobbiamo pagare, tutte le volte. E ogni volta, è sempre terribile come la prima».

Jean annuì, voltandosi per metà. Nel silenzio della notte, l'unico rumore che si udiva era il debole scoppiettare del fuoco, che illuminava i loro corpi traendoli dall'ombra e facendoli brillare vacuamente come spettri proiettati nel buio.

«Perché non ti siedi e non mi racconti cosa hai veduto?» chiese il vecchio, improvvisamente. Jean sospirò, torcendo gli occhi a guardarlo.

«Non so se ho il coraggio di ripensarci».

«Eppure devi. O continuerà a perseguitarti».

Jean strinse le labbra, scuotendo la testa. Una strana forza cominciò a farsi strada in lui, una forza che lo spingeva a raccontare ogni cosa. Ma il suo cuore, ad ogni tentativo di aprirsi, era come se cedesse, lasciandolo inerme e attonito di fronte all'incapacità di descrivere quello che sentiva e che ricordava di aver visto. Forse, pensò, era il ricordo stesso a fargli paura, e con esso il timore che tutto quanto aveva vissuto potesse prender improvvisamente corpo davanti a lui, nutrendosi delle sue parole e paure e facendosi, così, terribilmente vero. Finché tratteneva tutto dentro di sé, finché ciò che sapeva non essere altro che un sogno restava confinato nei tratti sicuri della sua anima, tutto sarebbe andato bene. Non sarebbe stato nulla, nient'altro che lo scherzo della propria immaginazione. La paura che aveva di ritrovarla per poi perderla di nuovo, insieme alla paura di ciò che lui sapeva intimamente di essere... ecco di cosa si trattava. Non c'era nulla di vero in tutto questo. Doveva solo convincersene, e mettere tutto a tacere nel profondo del proprio cuore.

«Preferirei di no» concluse Jean. «E poi, non c'è nulla da raccontare».

Atahualpa annuì. «Capisco» mormorò.

Calò il silenzio: e nella notte, sempre più buia nel suo annunciare l'alba imminente, restarono così, seduti uno a fianco all'altro, fissando il fuoco e lasciando che i loro occhi si perdessero tra le volute ipnotiche della fiamma, tra i suoi bagliori ammiccanti, che traevano dall'ombra pensieri e sogni, mutandoli in immagini e ricordi. Senza far rumore, il vecchio estrasse la sua pipa dalla bisaccia. La riempì di tabacco e la accese. Per un istante, il suo volto rugoso si cosparse dei colori del fuoco, brillando come fosse pura luce.

«Tanti anni fa, io salii la piramide per la mia prima volta» esordì. La sua voce saliva lenta e pastosa, avvolgendosi su se stessa come il fumo che usciva, denso, dalle sue labbra. «Ero giovane, forse più di te. Come altri del mio popolo prima di me, avevo ricevuto la chiamata. Era un grande onore essere chiamati dagli dei del Sogno a intraprendere il cammino sacro degli stregoni, e io ne ero orgoglioso... mi sentivo importante, credevo che sarei diventato un grande uomo. Mio padre, però, la pensava diversamente. Era spaventato, voleva per me qualcosa di diverso, qualcosa che mi consentisse di farmi un futuro lontano da questi luoghi desolati, e che potesse permettermi di aiutare la mia famiglia. Io non ne volevo sapere. Sentivo quella chiamata come il mio destino, a cui non volevo rinunciare per nulla al mondo. Litigammo. Lui mi ingiunse di dimenticarmi di tutto, ma io non ne volevo sapere. Una notte, aspettai che tutti dormissero e decisi di fuggire. Ma mio fratello, che mi dormiva accanto, mi vide raccogliere le mie poche cose nel buio, e mi chiese cosa stessi facendo. Io lo presi da parte e gli raccontai ogni cosa, sebbene fosse ancora molto piccolo. Gli dissi che una volta cresciuto, avrebbe dovuto prendersi cura della casa e dei nostri genitori finché non fossi tornato e anche nel caso non fossi mai tornato. Lo vidi spaventato, ma credetti di averlo convinto. Perciò, quando raggiunsi e scalai la piramide dei sogni, e lo trovai in cima ad attendermi, in un primo momento rimasi sorpreso, quindi mi adirai. Gli corsi incontro e feci per sgridarlo, ma era come se lui non mi vedesse. Mi resi conto solo allora che si trattava di una mia visione: stavo osservando qualcosa che in qualche modo doveva accadere. Era la mia prova, ma non potevo saperlo».

Atahualpa inspirò una boccata di fumo, che trattenne per un lungo istante, prima di soffiarla lentamente dalle labbra socchiuse. In silenzio, Jean attese che riprendesse il suo racconto.

«Mi voltai per vedere ciò che stava guardando e ritrovai me stesso, mentre fuggivo da casa mia» disse. «Era come se avessi viaggiato indietro nel tempo, osservando quello che era successo nel momento in cui me n’ero andato, ma con occhi diversi, occhi che non mi appartenevano. Improvvisamente, vidi l'ombra di mio fratello che cominciava a seguire l'immagine di me stesso, lungo il Sentiero dei Sogni. Con il cuore colmo di angoscia, seguii i suoi piccoli passi lungo l’impervio tragitto che entrambi percorrevamo. Osservavo tutto, talvolta entrando nei suoi occhi oppure standogli semplicemente vicino, come fossimo invisibili l'uno all'altro. Ma nonostante non potessimo vederci, né parlarci, era come se i nostri spiriti comunicassero, facendosi uno; e percepivo la sua paura, e il suo desiderio di ritrovarmi, sentivo la preoccupazione che aveva per me e la stanchezza che lo prostrava e con cui lottava coraggiosamente... mi commossi, pensando alla sua generosità e mi odiai per l'egoismo che avevo dimostrato, spingendomi fin là solo per inseguire un mio desiderio e nient’altro.

Alla fine, raggiunse la piramide. Lo vidi mentre mi guardava salire e con un brivido lo osservai posare il suo piccolo piede sul primo gradino. Chi non è chiamato, non può salire in quel luogo sacro: io lo sapevo e sentivo il terrore che si impadroniva di me, mentre lo vedevo inseguirmi e salire su, su, sempre più stanco. Era come se fossi nel suo corpo, ma non avevo corpo: lo vidi perdere l'equilibrio più volte, e cercai disperatamente di sorreggerlo... ma era come se le mie mani stringessero un sogno, un sogno che sempre più assomigliava a un incubo. Cercava di raggiungermi, ma non poteva... e nemmeno io potevo avvertirlo. Arrivò esausto al suo ultimo gradino e cadde, precipitando nel vuoto. Impotente, lo vidi scomparire oltre le nuvole, come fosse una piuma leggera. Mi ridestai da quella visione pieno di angoscia e subito mi precipitai lungo i gradini, scendendo fino a terra. Trovai il suo corpo ai piedi della piramide, proprio come avevo sognato. Quel giorno mi sentii morire».

Atahualpa tacque, svuotando la pipa dalla cenere e riponendola nella bisaccia. Jean sentì gli occhi che gli bruciavano, ma non fece nulla per contrastarne il dolore.

«Tornai a casa, caricandomi sulle spalle il corpo di mio fratello. Ho ancora negli occhi il dolore di mio padre, quando mi vide. Tutto ciò che ricordo di quel giorno, è lui che mi maledice sulla porta di casa, prima di scacciarmi. Non l'ho mai più rivisto» sospirò. «Da allora dovetti lasciare la mia tribù ed errai, completamente solo e ossessionato dalla colpa e dal rimorso. Non sapevo dove andare, quindi ritornai nel luogo che aveva segnato la mia disperazione. Sapevo che non mi era concesso tornare, non ero diventato uno stregone, non avevo portato a termine il rito. Ma proprio per quello vi tornai, nella speranza di essere punito e di porre termine alle mie sofferenze, in un qualche modo. Ritrovai la piramide, salii di nuovo i gradini, uno ad uno: ma la stanchezza si impadronì di me. Rischiai più volte di cadere e alla fine, senza nemmeno accorgermene, caddi. Mentre precipitavo, avvertivo come una leggerezza meravigliosa, insieme a una grande pace. Mi dicevo: finalmente, ecco! Ora, tutto finirà... E fu allora che apparve una bellissima aquila. Mi si accostò in volo e il tempo sembrò fermarsi: rimanemmo a guardarci come sospesi, finché non mi afferrò e mi posò al suolo, dolcemente. Quando mi rialzai, la trovai ancora lì: io ero adirato, perché volevo davvero morire. La scacciai, ma lei continuava a tornare. Presi a lanciargli le pietre e la colpii con tutto ciò che trovavo, ma lei, zoppicando, non fuggiva, limitandosi a svolazzarmi intorno. Alla fine la presi e feci per tirarle il collo ma improvvisamente, specchiandomi nei suoi occhi, io vidi il volto di mio fratello e udii in me l'eco della sua voce, che mi implorava di non ucciderlo e di non uccidermi. Scoppiai a piangere. Ma alla fine capii. Egli era il mio destino, colui che mi avrebbe accompagnato e protetto fino alla fine dei miei giorni. Ero uno stregone, sì: ma lo ero diventato perché avevo compiuto il destino di un altro. E il destino di un altro, in un qualche modo, compì il mio».

Jean fissava attonito il vecchio Atahualpa, che si voltò a sorridergli malinconico.

«Quindi... quell'aquila che la seguiva, quel giorno, era suo fratello?»

Atahualpa annuì. «Proprio così. Da anni mi accompagna ovunque vado. Lui vive per seguirmi e io non vivrei senza di lui. Nessuno di noi due può sopravvivere, senza l'altro».

«E cosa accadrebbe se uno dei due dovesse...» domandò Jean, timidamente. Atahualpa scrollò le spalle.

«Sarà il momento in cui entrambi, forse, troveremo la nostra pace».

Jean abbassò gli occhi sul fuoco. Le braci si erano ormai spente e brillavano come stelle in una notte sempre più buia.

«Quell'aquila mi ha salvato la vita» confessò Jean, richiamando su di sé l'attenzione del vecchio. «Stavo precipitando nel vuoto, e quell'aquila è comparsa dal nulla, afferrandomi e posandomi al suolo. Dopo non ricordo altro, a parte il suo volto».

«Anche tu sei unito al nostro destino» commentò Atahualpa, chinandosi a ravvivare le braci. «Come ti ho detto, il destino ci accomuna tutti».

«Ed è un destino terribile» mormorò Jean. Atahualpa sospirò.

«Raccontami quello che hai visto» fece, dopo un attimo di silenzio.

«Ho visto lei» mormorò Jean, con gli occhi fissi nel vuoto. «L'ho vista come sarà tra molto tempo. Sarà sola, e sofferente; e io non sarò con lei».

«È questo, quello che hai visto?»

«Ho visto qualcosa, ma non so che cosa. Tutto ciò che so, è che il mondo mi sembrava pieno di desolazione e che una lotta terribile aveva contrapposto lei a me... lei sembrava una regina, ma se lo era, regnava su un luogo di sofferenza e di solitudine».

«Ti ha parlato?» chiese Atahualpa. «Cosa ti ha detto?»

«Mi ha chiesto di ucciderla» rispose Jean.

«E tu, cosa hai fatto?»

Jean sospirò, con una smorfia divertita. «Niente. Come al solito».

Atahualpa trattenne il fiato. Quindi «ti ha detto altro?» domandò, in un sussurro.

«Mi ha detto che scegliendo di non ucciderla, io avevo cambiato il suo destino. Mi ha detto che aspettava di rivedermi, e che io ero Quetzalcóatl, il suo più grande nemico e il suo più grande amore, l'uomo che aveva ucciso molto tempo prima».

«Ha fatto il suo nome?» fece Atahualpa, teso. «Dimmi, ti ha detto come si chiama?»

Jean strinse gli occhi, senza alzarli dal fuoco.

«Ha detto di chiamarsi Tezcatlipoca».

Atahualpa annuì, prima piano poi sempre più vigorosamente.

«Il dio del Sole» mormorò. Jean sollevò gli occhi a guardarlo.

«Una grande battaglia sta per essere combattuta» fece Atahualpa. «Una battaglia che segnerà il destino di molti, unendo mondi e persone lontane tra loro. Tu avrai una parte importante in essa, una parte che non potrai rifiutarti di giocare».

Jean scosse il capo. «Quindi è vero? Dovrò sul serio combatterla?»

«Ciò che hai visto» fece Atahualpa «non so spiegartelo. Dovrai essere tu a comprenderlo. Ma credo che la tua visione rappresenti ciò che in qualche modo accadrà, se tu non farai la scelta che ci si aspetta da te».

«Quale scelta?» chiese Jean, stringendo gli occhi.

«Solo tu puoi saperlo. Ma una cosa è certa: uno di voi due, morirà».

«No» si agitò Jean. «Io non potrei mai ucciderla».

«E allora» fece Atahualpa tranquillo, inarcando le sopracciglia, «sarai tu a morire».

Lui fissò il vecchio senza una parola. Ciò che gli stava prospettando aveva dell'assurdo, e del ridicolo. Com'era possibile che una cosa del genere accadesse? E poi perché a lui, perché a loro?

«Non è così che andrà» mormorò Jean, deciso. «Non lo permetterò».

Atahualpa sospirò profondamente.

«Nessuno saprà mai quello che accadrà» fece «ma la visione su una cosa è chiara. Voi non potete abitare lo stesso luogo, né vivere nello stesso posto. Tu e lei non siete che due anime solitarie, che sopravvivono nella distanza che le separa una dall'altra, senza possibilità di ricongiungervi. Il destino non ha per voi una casa, né un rifugio; e per voi, nessun luogo è, e sarà mai, comune».

Jean lo fissò, mortificato.

«Quindi... la storia della scelta, del destino che può cambiare... è tutto inutile?» disse. «Non potrà mai cambiare nulla, tra noi? Io dovrò combatterla e uno di noi due morirà? È questo che mi sta dicendo?»

Il vecchio lo fissò serio. Quindi, dopo aver chiuso gli occhi per un istante, li riaprì sul suo volto, per sorridergli teneramente. «Voglio dirti una cosa, Jean» disse. «Ricordi che mi dicesti che ognuno di noi possiede il libero arbitrio?

«Sì, ma...»

«In esso troverai la risposta».

«Ma lei mi disse che non c’entrava nulla con il destino...»

«Io ti dissi che non avresti potuto modificare il tuo destino, neanche volendolo».

Jean lo fissò senza capire. «E allora...»

«Dovrai capire da solo, Jean» fece Atahualpa. «Ma ricorda. Solo abbracciando il nostro destino, solo correndo il pericolo più grande, possiamo trovare la nostra più grande speranza di salvezza. Là, forse, nel luogo che segna il confine tra ciò che siamo e non siamo, troverai un giorno la vostra casa» mormorò, alzando gli occhi alle stelle. «Ma forse, le mie non sono che le farneticazioni di un povero vecchio».

Jean si sforzò di riflettere su quello che Atahualpa gli aveva appena detto, ma gli risultò incomprensibile. Per lui, la sola idea di combattere contro la donna che amava, era nient'altro che un incubo.

Atahualpa gli pose una mano sulla spalla, sorridendogli amichevolmente. «Impara a guardare le cose dall'esterno e ciò che ora ti è oscuro, al momento esatto ti diventerà evidente».

«E come posso fare?»

«Imparerai. E molto hai già imparato» disse Atahualpa, sorridendo. «E ciò che ancora non sai, presto troverai il modo di capirlo da solo».

«Mi aiuterà?» domandò Jean. Il vecchio gli passò teneramente una mano sul capo.

«Ciò che potevo fare, l'ho già fatto» disse. «Non c'è nulla che io possa ancora insegnarti, perché ognuno di noi raggiunge il momento in cui deve insegnare a se stesso la propria vita. Sei come me, ora: hai salito la piramide, ne sei sceso... io e te adesso siamo fratelli, Jean; e per quanto sia, nulla potrà mai separare i nostri spiriti. Ogni volta che avrai bisogno di me, io sarò lì, anche se non mi vedrai».

Jean abbassò gli occhi. Una tristezza profonda lo invase, perché sentiva che presto anche quel vecchio stravagante lo avrebbe abbandonato.

«Ora torniamo a riposare» fece Atahualpa, sbadigliando vistosamente. «Come avevo già cercato di dirti, ti aspetta una giornata importante. Qualcosa mi dice che presto tornerai ad incontrare i tuoi amici».

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Capitolo 19
*** 18 ***


Qualcuno una volta disse che nemmeno il re era di casa a Belgravia. Forse per il re non era del tutto vero, ma per Michael senz'altro sì. Continuava a guardarsi intorno, intimidito dall'austera eleganza dei bianchi edifici in stile Regency e dagli sguardi fuggevoli e divertiti delle giovani dame che passeggiavano lungo Chesham Street, splendide nei loro abiti all'ultima moda, con le candide mani fasciate in delicati guanti di raso e le spalle sottili accarezzate da una soffice piuma di struzzo, che ricadeva con eleganza estenuata da un cappellino portato di traverso sul capo.

Due ragazze gli passarono accanto. Gli rivolsero un'occhiata curiosa e scoppiarono in una risata frivola, parlottando vivacemente tra loro in un gioco dissimulato di sguardi.

«Non funzionerà» borbottò Michael, arrossendo. «No, decisamente non funzionerà...»

«Ma di che stai parlando?» gli fece Winston battendogli una mano sulla spalla, giusto per incoraggiarlo. «Tu tieni a mente quello che abbiamo detto, e vedrai che andrà tutto bene».

«Ma mi avete visto?» sbuffò lui, nervosamente. «Sembro uno appena uscito dall'ospizio di Clerkenwell».

«Avanti, non sei poi così male» lo consolò Lisa, alzandosi sulle punte per mettergli a posto il colletto alla diplomatica. Non era del tutto vero. I vestiti che gli aveva procurato padre Collins erano di sicuro meglio dei suoi, ma per quanto lei ne sapesse, non esisteva un abito al mondo che addosso a Michael non lo facesse assomigliare a uno spaventapasseri. Con quel completo nero, la cravatta nera e il cappello di feltro leggero appartenuto a Winston, sempre nero, ovviamente, il ragazzo aveva l'aspetto di un grosso corvo ricurvo.

«Ma per favore, Lisa... non ingannerò nessuno» ribatté lui, rabbuiandosi. «Forse tu non lo sai, ma esiste una forza oscura a Belgravia, che incenerisce sul posto tutti coloro che osano varcare i suoi sacri confini senza possedere almeno un fondo fiduciario. Scommetto che persino quel bambino in passeggino ne ha uno».

«Ora smettila di dire scemenze» lo riprese Winston, seccato. «Non è che uno stupido quartiere e tu non sei qui per far colpo sulla figlia di qualche banchiere, ma per entrare là dentro».

Tutti e tre alzarono gli occhi sulla facciata baluginante di stucchi dell'imponente palazzo a tre piani che sorgeva proprio di fronte a loro, dall'altro lato della strada, che occupava quasi un intero isolato. Sulla destra, all'ombra degli alberi centenari che ornavano l'immenso parco in cui praticamente era immerso, le finestre dell'ultimo piano apparivano annerite dal fumo di un incendio recente.

«Così, quello è il palazzo del Consiglio» fece Michael. Winston annuì gravemente, lanciando uno sguardo vago ai segni che la fuliggine aveva inciso come cicatrici sui suoi muri candidi. Michael e Lisa lo guardarono silenziosamente di sottecchi, finché lui non si riprese, con una scrollata di spalle.

«Allora» disse, rivolgendosi a Michael e ostentando un'indifferenza inverosimile «perché non mi ripeti quello che devi fare?»

«Vediamo» mormorò Michael «per prima cosa devo superare i controlli all'ingresso. Non dovrebbe essere difficile, visto che ho il tesserino... quindi, senza farmi scoprire, devo cercare un'autorizzazione per l'archivio, superare la sicurezza ai piani, scendere nell'archivio... ah, già. Darmela a gambe non appena ho trovato quello che ci serve... ovviamente senza farmi scoprire» concluse, con un sorriso astuto. «Insomma, un gioco da ragazzi».

«Bravo» fece Winston, ammiccando. «Lo dicevo che eri pronto. Non commettere sciocchezze, e vedrai che andrà tutto bene».

«Michael, stai attento, ti prego» fece Lisa, aggrappandosi a lui e posandogli un bacio sulla guancia. Era così alto che lui dovette chinarsi per andarle incontro. «Non fare nulla che non sia necessario. E non parlare con nessuno. E...»

«Per l'amor di dio, lo lasci stare» esclamò Winston, prendendola per un braccio e strappandola letteralmente di dosso a Michael. «Non è mica un bambino».

Lisa si portò le mani al volto, lanciando al suo amico uno sguardo carico di apprensione.

«Non temere Lizzy» la tranquillizzò lui, strizzandole l'occhio. «Andrà tutto bene, vedrai. Sono uno in gamba, io».

«Già, come no» fece Winston. «Allora, è pronto agente Boswell?»

Inarcò le sopracciglia, in attesa di un suo cenno affermativo. Michael lo squadrò senza capire finché, dopo un lungo istante di silenzio, annuì sorridendo.

«Ah, già» fece «Boswell, il tesserino... ora ricordo».

Andiamo bene...

«Buona fortuna, Mickey» mormorò Lisa, giungendo le mani per resistere alla tentazione di trattenerlo. Winston salutò Michael con un solo, grave cenno del capo, osservandolo teso mentre attraversava la strada e saliva le scale del palazzo, rigido come se fosse caduto in una vasca piena di amido.

«Pensa davvero che andrà tutto bene?» chiese Lisa quando lui era ormai lontano, contraendo il volto in una smorfia di preoccupazione. Winston alzò le spalle.

«Non vedo perché no» fece. «Diamogli fiducia e speriamo per il bene. Lui è la nostra unica speranza per scoprire quello che tengono là dentro. Se fallisce lui, falliamo tutti».

«E intanto, che facciamo?» chiese lei, lanciando un'ultima occhiata in direzione del palazzo, prima di allontanarsi lungo il viale a fianco di Winston. Lui le sorrise, porgendole il braccio.

«Siamo a Belgravia» disse. «Passeggeremo per i viali, parleremo del più e del meno e poi, verso le dieci, andremo in banca».

«È così che funziona, qui?» fece lei, ridendo. Lui sospirò.

«Più o meno» rispose, «anche se devo ammetterlo... non ho mai avuto granché modo di passeggiare nei viali, quando venivo qui. Non in compagnia di una bella ragazza, quantomeno» aggiunse, scoccandole un'occhiata maliziosa. Lisa ammiccò, dissimulando la propria eccitazione e assumendo un'espressione incredula.

«Uno come lei?» fece, con voce leggermente alterata. «Ma a chi vuole darla a bere?»

Winston la fissò sorpreso e lei sorrise, arrossendo e distogliendo lo sguardo. Il volto di lei si rabbuiò un poco, quando incrociò una giovane ragazza vestita in uno splendido abito di seta pregiata, che attraversò loro la strada per salire su una carrozza ferma a pochi passi da loro. Senza dare nell'occhio, Lisa sollevò gli occhi su Winston, per vedere se la stava guardando.

«Scommetto che era un rubacuori» azzardò, a mezza voce. Lui aggrondò.

«Ero?»

Lei lo squadrò. Lui rise, allegro.

«Non ho mai avuto tempo per cose come queste» ammise lui. Sollevata, Lisa tornò a respirare.

«Ancora non mi è chiaro del tutto in cosa consisteva il suo lavoro» disse lei, per cambiare discorso. «Per esempio... ho capito che il Consiglio è una specie di organo para-governativo, ma...»

«Non esattamente» la corresse lui. «Il Consiglio non è un governo tra gli altri; è il governo, mentre tutti i governi del mondo non sono altro che una facciata. Rappresentano il palcoscenico pubblico su cui si svolge il gioco che prende vita dentro quel palazzo. Non esiste parlamento, né re, né ministro al mondo che agisca per un fine che non sia stato deciso dal consiglio. Anche se pochi di loro ne sono veramente consapevoli».

«Vuol dire che il Consiglio guida la politica internazionale, senza che i governanti lo sappiano?»

«Voglio dire che non sempre è necessario che i governanti sappiano. Ci sono casi in cui si riesce a convincere gli stati a fare quello che si vuole, senza bisogno di giocare a carte scoperte. Assassinii, colpi di stato, ribellioni, malattie... sono tutte cose a cui il Consiglio ricorre abitualmente, senza porsi troppi problemi. Solo in casi eccezionali decide di piazzare uomini di fiducia a capo di un governo».

Lisa rabbrividì. «E di recente... è successo?»

Lui sporse il labbro. «Diciamo che stanno preparando il terreno per il nuovo presidente degli Stati Uniti d'America».

«Sta scherzando» commentò Lisa, ridendo. «Ma se quasi non è una nazione».

«Il Consiglio ha grandi progetti, per quel paese» fece lui. «Aspetti e vedrà».

Lisa abbassò gli occhi. Per qualche tempo rimasero in silenzio, finché «tutto questo mi fa paura» disse. «Come ha fatto a entrare in una... cosa del genere?»

«Cosa le fa pensare che non avrei potuto?»

«Non potuto, ma dovuto» lo corresse lei. «Winston, lei non mi sembra il genere di persona che ami il proprio lavoro, non è così?»

Lui si adombrò, serrando le labbra. «Questo è un discorso irrilevante».

«Perché?»

«Perché è del tutto inutile mettersi a recriminare su ciò che è stato o che sarebbe potuto essere» tagliò corto lui, recisamente. «Una volta entrato in un giro come questo, non se ne può più uscire, se non in modo definitivo».

«Ma lei ne è già uscito» insisté Lisa. «Non è così? Adesso sta lottando contro il Consiglio e...»

«Lei crede che io stia lottando... contro il Consiglio?» fece lui, trattenendola per il braccio e costringendola a fermarsi. «Si sbaglia. Ciò che sto facendo, lo faccio per De Molay, perché credo nella missione che stava portando avanti. Io sono al servizio del Consiglio, un Consiglio che non esiste più, attualmente, ma che spero di aiutare a rinascere, per contribuire al mantenimento della libertà di tutto il genere umano. È questo, ciò per cui ho prestato giuramento».

«Quindi, tutto quello che ha visto, tutto quello che ha dovuto fare e subire... non le è servito a capire?»

«Capire cosa?» fece lui. Lisa scosse il capo.

«Che la libertà di cui parla, non vale tutto questo».

Winston trasalì. Lentamente rizzò il busto, distogliendo lo sguardo e lasciando il braccio di Lisa, quasi lo spaventasse toccarla.

«Lei non può capire» disse, torvo. «Non è che una ragazzetta ostinata».

Lisa arrossì, sentendosi ferita a morte.

«Andiamo» concluse Winston, abbottonandosi la giacca e incamminandosi senza aspettarla. «Per oggi abbiamo passeggiato anche troppo».



*



Entrare fu per Michael abbastanza semplice. Quasi non ebbe bisogno di parlare. Il problema si presentò al momento in cui varcò il portone di ingresso.

Nell'immensa stanza circolare, sovrastata da una cupola di vetro dalle accese decorazioni in stile liberty, si accalcavano decine di persone, che si muovevano affaccendate da un lato all'altro dell'edificio. Per uno che spariva dietro a una porta, due ne comparivano da un'altra, in un carosello apparentemente senza fine. In piena crisi di panico, Michael non aveva la minima idea di dove andare; di sicuro non avrebbe potuto mettersi a girovagare a casaccio anche se, per il momento, non era un problema, visto che tutto quello che riusciva a fare era starsene impalato in mezzo al salone ad osservare quell'immenso via vai di persone, in attesa di un'illuminazione qualsiasi su come e dove muoversi.

Fu con sgomento che si accorse che uno degli uomini di guardia lo stava fissando perplesso, incuriosito dalla sua innaturale fissità.

«Signore?»

Michael deglutì, volgendosi e ignorando la voce che lo chiamava.

«Signore, dico a lei...»

Maledizione.

«Signore...»

«Sì, sì... eccomi» fece Michael, avvicinandosi all'uomo seduto alla guardiola con un sorriso stiracchiato. «Voleva dirmi qualcosa?»

«Lei è qui per...» chiese l'uomo, socchiudendo gli occhi. Michael trattenne il fiato, cercando una risposta plausibile.

«Beh, io...»

«Agente Boswell» mormorò l'uomo, fissando il tesserino che spuntava dal taschino di Michael e controllando il suo nome su alcuni dei fogli che teneva in mano. «Ah, eccola qui. Avrebbe dovuto ritirare i moduli di servizio ieri» disse, alzando gli occhi a fissarlo con aria di disapprovazione. Michael impallidì. «Deve ritirare la documentazione al piano di sopra, in cancelleria, e poi presentarla al distretto di Camden, prima che la multino per il ritardo».

«Al piano... di sopra...»

«Sì, terza porta a destra, prenda le scale e chieda del signor Marbles».

«Bene» fece Michael con una smorfia, che nella migliore delle sue intenzioni avrebbe dovuto assomigliare a un sorriso. «La ringrazio davvero».

«Di nulla» rispose l'uomo. «Lei è nuovo, vero?»

«Esatto» fece Michael. «Nuovo, nuovo. Assolutamente».

L'uomo inarcò le sopracciglia, dissimulando un sorriso di scherno. Imbarazzato, Michael salutò goffamente, prima di allontanarsi con un sospiro.

Dunque, terza porta a destra... scale... Marbles...

Trovare le scale fu abbastanza facile. Per quanto potesse sembrare assurdo, nessuno lo fermava, nessuno gli faceva domande o metteva in discussione la sua presenza in quei luoghi. Era una cosa strana, pensò lui, ma quando si vuole passare inosservati, forse il modo migliore per farlo è proprio quello di mostrarsi in giro con tutta la sfacciataggine di cui si è capaci.

Ostentando una sicurezza che in realtà non aveva per nulla, Michael salì le imponenti scalinate di marmo, osservando meravigliato gli splendidi affreschi in stile neoclassico che decoravano le pareti e i soffitti. Uomini di tutte le razze e nazioni si incontravano lungo i corridoi e gli ampi disimpegni che collegavano un piano all'altro dell'edificio: dalle balconate che si affacciavano sul salone centrale, era possibile scorgere persone che discutevano, fumavano, ridevano; si udiva un tintinnare di piatti, da qualche parte, segno che forse c'era persino un ristorante, o una sala da tè. Sceicchi in lunghi pastrani e turbanti parlavano fittamente con gentiluomini inglesi dagli spessi favoriti. Giovani agenti svettavano muscolosi e imponenti agli angoli delle stanze, impeccabili nei loro completi scuri, mentre seguivano con gli occhi ogni movimento e ogni persona che incrociasse il loro sguardo. Camerieri in livrea e fattorini in completo rosso salivano e scendevano con contegno ed eleganza dagli ampi scaloni.

Intimidito, Michael raggiunse il primo piano. Oltre una porta in legno di noce smaltato, cominciava un lungo e ampio corridoio, su cui si affacciavano decine di uffici. Il rumore frenetico delle macchine da scrivere era disturbato solo dallo squillare incessante dei numerosi telefoni e dal parlottare indistinto degli impiegati. Qualcuno rideva, altri protestavano per qualcosa, lanciando imprecazioni. C'era chi entrava e chi usciva, chi correva da un ufficio all'altro, schivando nella fretta i propri colleghi e lanciando informazioni al suo passaggio, che venivano raccolte al volo da qualcuno altrettanto di fretta.

Con il cuore in gola, Michael avanzò. Un uomo con la camicia dalle maniche arrotolate, chino sulle cartelle che teneva in mano, si affacciò casualmente da un ufficio sulla destra, sollevando distrattamente gli occhi su di lui.

«Cercava qualcuno?» fece, lanciando una rapida occhiata al tesserino di Michael. Lui sbiancò.

«Marbles» disse Michael, tutto d'un fiato.

«Marbles, ma certo» fece l'uomo. «Ultima porta in fondo. Bussi forte, è un po' sordo».

Michael annuì, incamminandosi lungo il corridoio e cercando di darsi un certo contegno. In realtà, era quasi inutile. Sembrava che nessuno notasse la sua presenza. Ogni tanto, gettava qualche occhiata circospetta dentro la porta di uno degli uffici, ma tutto ciò che trovava era un uomo chino alla scrivania, che batteva a macchina o che parlava al telefono, gesticolando furiosamente. Chi incrociava il suo sguardo si alzava svelto a chiudere la porta, o gli faceva cenno di andarsene. Nessuno era minimamente interessato al fatto che fosse lì.

Rassicurato, Michael raggiunse l'ultima porta del corridoio. Bussò. Nessuna risposta. Bussò più forte, ma per quanto attendesse, nessuno venne ad aprire. Stava per bussare ancora una volta, e ancora più forte, quando una voce lo sorprese alle spalle, facendolo sussultare.

«È inutile bussare, non verrà nessuno ad aprirle».

Michael si voltò, spaventato. Un uomo alto e azzimato, dai capelli grigi e un po' calvo, con spessi occhiali che gli scivolavano sulla punta del naso adunco, era in piedi davanti a lui, tra le mani ossute un carico di fascicoli e cartelle.

«Perché?» domandò Michael, preoccupato. Il vecchio ghignò.

«Perché non c'è nessuno, ecco perché» fece, tirando fuori una chiave dalla tasca del gilet e infilandola nella toppa. «Sono uscito per alcune commissioni. È stato fortunato a trovarmi, perché sono tornato unicamente a prendere il cappello, che mi ero dimenticato» fece l'uomo, varcando la porta con passo strascicato. «Non sarei dovuto tornare fino a lunedì».

«Caspita» fece Michael, seguendolo all'interno. «Una bella fortuna».

L'uomo si volse a guardarlo, sollevando leggermente gli angoli della bocca.

«Beh, dal momento che è qui, si accomodi, Mr...»

«Boswell» affermò deciso Michael, prendendo posto di fronte alla scrivania. L'uomo posò pesantemente i fascicoli sul tavolo, mettendosi lentamente a sedere. L'ufficio era piccolo e intasato di fogli. Le scaffalature, piegate sotto il peso di innumerevoli raccoglitori, stipati uno sull'altro, lasciavano spuntare qua e là un qualche foglio volante, scappato in qualche modo alla sua cartella. Tra la polvere, la puzza di muffa e di chiuso, e il caldo che filtrava da dietro le tende, Michael pensò di essere sul punto di svenire.

«Boswell...» mormorò il vecchio, facendo cenno a Michael di sedersi. «Boswell... il suo nome mi dice qualcosa».

Maledizione...

«Davvero?» deglutì Michael, che cominciava a sudare freddo.

«Conoscevo suo padre, se non mi sbaglio».

«Mio... padre?»

Di bene in meglio.

«Sì» fece l'uomo, sospirando mentre si appoggiava allo schienale della sua poltrona «è stato tanto tempo fa... ci siamo conosciuti per caso in giro per il mondo... era in quel posto lontano... chi si ricorda più... con la G...»

«Ginevra?» buttò lì Michael, tanto per dire qualcosa. L'uomo nicchiò.

«Guatemala?»

«No».

«Allora, Ghana... Gabon?»

«Ma no...»

Michael cominciò a fremere.

«Gibuti? Guadalahara?»

«Per dio, ma esistono davvero posti con un nome del genere?» farfugliò il vecchio. Michael si arrese. Per quanto riguardava la lettera G, aveva esaurito le sue conoscenze geografiche più esotiche.

«Ecco, Glasgow».

Michael trasalì, sbattendo le palpebre.

«Glasgow? In Scozia?»

«Sì» fece il vecchio. «Beh, non mi guardi così. Forse per lei non sarà lontano, ma considerando che io non mi sono quasi mai mosso da casa mia in tutta la vita...»

«Certo, capisco» fece Michael, sorridendo nervosamente. «Come no...»

«Comunque, perché è qui?»

Michael cercò sulla scrivania qualcosa che potesse anche solo vagamente assomigliare a un foglio di autorizzazione. Ma in mezzo a tutte quelle scartoffie, si trattava di un'impresa disperata.

«Ci sono degli incartamenti per me...» azzardò.

«Che genere di incartamenti?» chiese il vecchio, tranquillo.

«...autorizzazioni?»

«Lo chiede a me?»

«È che sono nuovo e...»

«Ah, capisco» fece il vecchio con un cenno della mano. «Non me ne parli. Quando ho cominciato io si faceva tutto con tre fogli, una matita e una gomma. Un foglio si scriveva fino sui margini, mentre adesso guardi» disse, mostrandogli una circolare che raccolse tra quelle sparse ovunque sul tavolo «tre righe appena e via! Mica si può andare avanti così... ha idea di quanti fascicoli abbiamo?»

«Tanti, immagino...»

«Mi piacerebbe firmarle un'autorizzazione per l'archivio» disse, gettando un modulo sul tavolo, davanti agli occhi spiritati di Michael «così potrebbe vedere e rendersene conto personalmente».

«Certo...»

Il vecchio sospirò. «Ma veniamo a noi. Dunque, lei ha detto di chiamarsi Bowell...»

«Boswell» lo corresse Michael. Marbles alzò gli occhi sopra le lenti, fissandolo a bocca aperta.

«Boswell. Allora io conoscevo Bowell».

«Oh» fece Michael, con un sorriso tirato. «Che peccato. Pazienza».

«Boswell, Bos... well...» mormorò il vecchio, cercando tra le cartelle che aveva sul tavolo. «Deve perdonarmi, ma non ci vedo più molto bene... riuscirebbe a darmi una mano?»

Michael si prestò più che volentieri. Senza farsi vedere, si avvicinò l'autorizzazione per l'archivio che il vecchio aveva dimenticato sulla scrivania e si mise a cercare la sua cartella. La trovò quasi subito, sotto una pila di fogli volanti e circolari, insieme ad altre cartelle in tutto simili alla sua. Senza farsi notare, la prese, facendovi scivolare dentro l'autorizzazione di cui aveva bisogno.

«Ecco» fece, porgendola al vecchio. Marbles la prese, con un sorriso.

«Grazie. Allora, vediamo...»

Michael fremette. Sentiva il cuore pulsargli fin nelle orecchie.

«... autorizzazioni per Camden, autorizzazioni per operatività straordinaria... un momento».

Michael sentì il cuore saltare un battito.

«Questa cosa ci fa qui?» fece Marbles, prendendo in mano l'autorizzazione per l'archivio. «Lei ne sa qualcosa?»

«Cosa, quella? Beh...»

«Brutta storia» fece il vecchio, alzando gli occhi su Michael e squadrandolo torvo. «Lei è in un bel guaio... eh, sì. In un grosso guaio».

Michael deglutì. Era davvero finita. Aveva commesso una sciocchezza di troppo, ed era stato scoperto.

«Sa cosa significa questa autorizzazione per l'archivio?» fece il vecchio, sventolando il foglio davanti al suo naso. «Che lei è stato reindirizzato dalla fase operativa all'attività di ufficio. Deve aver fatto qualcosa che non è piaciuto ai piani alti, e loro, per punizione, l'hanno sbattuta in mezzo alla polvere».

«Come?» Michael non capiva. Improvvisamente, tirò un sospiro di sollievo. Non era stato scoperto. Quel vecchio pazzo parlava di tutt'altro.

«Proprio così» fece Marbles. «Mi sa che lei all'archivio ci andrà davvero, signor Boswell... altro che Guardalalara, o come accidenti si chiama» rise divertito, mentre gli firmava il foglio. «Guardalalara... ma da dove l'ha tirato fuori?»

«Guadal... lasci stare» disse Michael. Prese il foglio che Marbles gli allungava, mentre continuava a ridere sommessamente. Non appena l'ebbe tra le mani, salutò alla svelta e fece per andarsene, ancora incredulo di averla scampata così. Si era già visto con un piede nella fossa, mentre invece non era che a un passo dal successo.

«Ehi, aspetti!» lo richiamò Marbles. Michael, la mano già sulla maniglia della porta, sentì il sangue ghiacciarsi nelle vene.

«Sì?» fece, voltandosi. Impallidì. Il vecchio lo fissò, con le lacrime agli occhi.

«La sua cartella» disse. Michael allungò una mano per prenderla, prima di scomparire velocemente dietro la porta. Mentre usciva, gli giunse alle spalle la risata strozzata del vecchio Marbles.

«Guardalalara» diceva «ma tu guarda che razza di coglione».



*



La banca era già piuttosto piena, sebbene avesse aperto da poco. Winston entrò per primo, tenendo aperta la porta a Lisa, che sgusciò dentro alla spicciolata, senza dire una parola.

«Cerchiamo di non dare troppo nell'occhio» la ammonì Winston. Lisa, imbronciata, annuì. «E la smetta di tenermi il broncio» la riprese lui.

«Se non vuole vedermi, può sempre girarsi dall'altra parte» rispose Lisa, seccamente. Winston sospirò. Le porse il braccio, che lei accettò con estrema diffidenza prima di lasciarsi guidare fino allo sportello più vicino.

«Lasci parlare me» le disse lui all'orecchio. Lisa sbuffò.

«Pensavo si trattasse dei miei soldi».

«Ma che le prende?» si spazientì lui. «Voglio solo evitare problemi inutili, tutto qui».

«Mi crede davvero tanto stupida?» scattò lei. «Potrebbe almeno sforzarsi di usare un po' di gentilezza».

Winston alzò gli occhi al cielo. «Lasci parlare me, per favore. Va meglio così?»

«Decisamente».

«Bene».

«Bene».

La giovane impiegata allo sportello sollevò gli occhi con fare annoiato. Finì di raccogliere alcune banconote in una mazzetta che fasciò con un laccio, per poi riporla insieme alle altre nella cassa. Winston le rivolse un sorriso, a cui lei rispose stiracchiando le labbra in una smorfia meccanica, dedicando sia a lui che a Lisa una sola occhiata veloce. Le era bastato un attimo per capire il genere di clienti che aveva di fronte, e per decidere quale livello di cortesia riservare loro.

«Posso fare qualcosa per voi?» chiese, con fare monotono.

«Vorremmo chiudere un conto, e ritirare il deposito in contanti» fece Winston, posando sul davanzale dello sportello il libretto bancario di Lisa. La donna inarcò le sopracciglia, prendendolo tra le mani e scorrendolo velocemente.

«Stanfields» mormorò. Sollevò gli occhi. Lisa le sorrise imbarazzata. «Posso sapere qual è la ragione?» domandò.

«Nessuna ragione particolare» commentò Winston. La donna abbozzò.

«Il conto è di mille ottocento sterline» disse lei. «Le procedure di chiusura e il prelievo in contanti di una cifra così... considerevole richiedono la firma del direttore» disse lei con una punta di ironia, sfilando alcuni documenti da una cartella che tirò fuori da un piccolo archivio alle sue spalle. «Se volete accomodarvi nell'attesa...»

«Volete dire che non avete contante?» fece Lisa, incredula. La donna la fulminò con uno sguardo glaciale.

«Non ho detto questo. È semplicemente la procedura» concluse.

«Quelli sono i miei soldi» continuò lei, infervorandosi. «Vedete di tirarli fuori alla svelta e...»

«Non si preoccupi» intervenne Winston, conciliante. «Aspetteremo».

La donna si allontanò, non prima di aver rivolto a Lisa uno sguardo avvelenato.

«Perché tanti problemi?» sibilò lei. «Sono soldi miei, quelli».

«Le ho detto che non dobbiamo dare nell'occhio» fece Winston, posandole una mano sul braccio. «Litigare con i dipendenti non mi sembra il modo migliore per passare inosservati, non crede anche lei? I soldi arriveranno, basta avere pazienza».

Lisa sbuffò. Era agitata e Winston lo vedeva.

«Sta rischiando parecchio per la sua amica» le disse lui, che comprendeva la sua ansia. «Deve costarle molto».

«Per Nadia?» fece lei, sorridendo. «No, per lei farei questo e molto altro».

Lui inarcò le sopracciglia, sorpreso. «Deve volerle molto bene».

«Molto, sì» rispose lei. «Sembrerò retorica, ma è più di una sorella, per me».

Winston sorrise. «E com'è che siete diventate tanto legate?»

«È una storia lunga» fece lei, aprendo la borsetta ed estraendo un piccolo portacipria. «La nostra amicizia risale a tre anni fa, quando mi sono trasferita a Londra dal Suffolk. Venivo da una famiglia piuttosto benestante, sa... mio padre era medico, mia madre proveniva da una famiglia molto in vista del luogo. Come per tutte le ragazze di buona famiglia, mi venne concesso di studiare, almeno fino a un certo punto... era sempre stato un mio desiderio. Speravo tanto di poter diventare scrittrice... anche se, ovviamente, i miei genitori avevano progetti diversi».

«Cioè?»

«Secondo lei?» fece Lisa, riponendo il portacipria. «Un fidanzamento interessante, un matrimonio proficuo... qualche marmocchio... niente di più e niente di meno di quello a cui, al giorno d'oggi, può ambire una ragazza come me, in Inghilterra».

«Interessante...»

«Già. Sembravano non tenere in minima considerazione le mie aspirazioni. Non mi fraintenda... non ne faccio loro una colpa. Quello era il loro mondo, il mondo in cui erano stati allevati e cresciuti. E credo che prima o poi sarebbe diventato anche il mio mondo, se non avessi incontrato una persona come Nadia. È stata lei a mettermi di fronte ai doveri che avevo verso me stessa, doveri a cui stavo rinunciando a causa dei sensi di colpa sotto cui provavano a seppellirmi i miei genitori».

«Quali sensi di colpa?» domandò lui. Fissò l'orologio alla parete. L'impiegata non era ancora tornata.

«Dicevano che la mia educazione cominciava a costare troppo, che sottraevo denaro all'educazione di mio fratello minore. Ovviamente, era su di lui che ricadevano tutte le aspettative della mia famiglia. Sarebbe dovuto diventare un medico, e portare avanti il nome degli Stanfields... credo che lo stia facendo, in qualche modo...»

«Non parla più con la sua famiglia?»

«Ora sì. Qualche volta mi mandano persino qualche soldino, tanto per aiutarmi con l'affitto. Credo che vogliano sentirsi a posto con la coscienza, ma il più delle volte io li rimando indietro... e se non subito, appena riesco a ripagarli. Da quando ho lasciato casa, non voglio più vivere alle loro condizioni o alle loro spalle».

«È una scelta coraggiosa...»

«Sì, ma che non avrei mai potuto prendere da sola. Venni a Londra contro la volontà di mio padre. Praticamente scappai, quando capii che volevano combinare il mio matrimonio con qualcuno tra i figli dei loro conoscenti... mio Dio... ha mai conosciuto qualche giovane della provincia inglese?» fece, aggrondando. «Non sono che una manica di poveri inetti, stupidi debosciati...»

Winston rise di gusto e lei arrossì. Si era appena ricordata che anche lui era uno di loro.

«Mi perdoni...» fece, imbarazzata.

«Non si preoccupi, le credo» la rassicurò Winston. Lei sorrise, e gli occhi le si illuminarono.

«Sì, beh... per farla breve» riprese «arrivai qui, ed ero sola. Avevo detto ai miei che sarei andata a Bath per una vacanza, e invece mi fermai a Londra. Presi in affitto una camera in albergo e mi misi a cercare un lavoro nelle redazioni dei giornali. Avevo scritto qualche articolo, qualche piccola recensione... nella mia ingenuità, credevo che un diploma ottenuto ad un college femminile e tanta passione potessero essere sufficienti» rise. «Naturalmente, mi sbagliavo. Lo scoprii dopo l'ennesimo rifiuto. Ormai i soldi stavano terminando, e non avevo ancora trovato nulla. Fu la sera in cui ero lì lì per abbandonare tutto, che incontrai Nadia. Accadde nella sala da tè dell'albergo. Lei era lì con un uomo molto elegante e bello...»

«L'agente Fisher?» chiese Winston.

«Sì. Io li osservavo e provavo invidia per lei: mi sembrava una donna bellissima, felice, arrivata. Io, invece, me ne stavo al tavolino tutta sola, con il mio taccuino aperto, la matita in mano, senza nulla da annotare se non pensieri deprimenti... mi creda, una vera tristezza».

Winston si volse a guardarla. Era divertito. Trovava quella storia davvero affascinante.

«Alla fine, abbandonai il taccuino sul tavolo, pensando che tanto non me ne sarei fatta più nulla, e me ne tornai in camera mia. Ero decisa a ripartire il giorno dopo. La mattina seguente, qualcuno venne a bussare alla mia porta. Aprii e mi trovai di fronte il fattorino, che mi consegnò un biglietto da visita. Era di una donna che aveva ritrovato il mio taccuino e mi chiedeva se potevo raggiungerla nella hall. Io mi rivestii, perplessa, e scesi per incontrarla. Immagini la mia sorpresa quando trovai ad aspettarmi la donna che avevo visto la sera prima...»

«Nadia?»

«Sì. Mi accolse con un sorriso. Ci mettemmo a sedere e cominciammo a parlare di noi, di quello che facevamo, della nostra vita... insomma, era come se, dopo cinque minuti, ogni barriera tra noi fosse caduta. Per me era come parlare allo specchio. Ritrovai in lei tutte le ansie e le paure che avevano animato la mia vita fino ad allora, solo che lei le aveva affrontate e vinte, raggiungendo quanto desiderava. Anche se era ancora all'inizio della sua carriera, aveva già superato quello che io stavo vivendo in quel momento. Mi raccontò delle sue difficoltà quando arrivò a Londra, di come fosse riuscita a entrare in un giornale pur non avendo alcuna esperienza, cominciando come tuttofare per poi arrivare pian piano a diventare cronista. Mi raccontò quanto aveva faticato, quanto aveva studiato per migliorare uno stile praticamente inesistente... per due anni, di giorno aveva lavorato al giornale e nei fine settimana e la sera aveva servito come cameriera, studiando nel poco tempo libero che le restava. Mi disse che trovava in me del talento, che voleva parlare di me al suo direttore, se ero d'accordo. Era entusiasta, ma io ebbi paura. Non so perché. Nel momento in cui intravedevo finalmente la possibilità di ottenere quello che avevo tanto cercato, io non lo volevo più. Rifiutai. Dissi che stavo per partire, che tornavo dalla mia famiglia. Lei parve delusa. Mi chiese di ripensarci...»

«E lei lo fece?»

«No. Le dissi che ero contenta per lei, per quello che aveva ottenuto... ma che credevo che nessuna donna avrebbe mai potuto raggiungere un tale successo altrettanto facilmente. Lei sembrò indignarsi. Ricorderò sempre quello che mi disse, prima di andarsene: noi donne possiamo fare tutto quello che fanno gli uomini. L'importante, però, è che lo facciamo da donne».

Winston sorrise. «La sua amica dev'essere una persona di un certo carattere» fece. Lisa annuì.

«Ripensai a quella frase per tutto il giorno. Ero sul treno per il Suffolk, quando riaprii il taccuino. Vi aveva scritto il suo indirizzo e messo alcune annotazioni ad una pagina di diario in cui descrivevo i miei sogni, insieme al desiderio di una vita libera, in cui potessi decidere da me il mio futuro. Lei aveva sottolineato alcune parti e rileggendole, mi tornò in mente tutto quello che mi aveva spinto a fuggire a Londra. Fu allora che capii che stavo sbagliando. Scesi dal treno alla prima fermata e tornai indietro. Il resto, lo conosce».

Winston annuì, chinando la testa. «E ora si sente realizzata?» chiese, fissandola intensamente. Lisa inarcò le sopracciglia, sorridendo.

«Se per realizzata intende avere amici che ti amano, e svegliarsi la mattina con la consapevolezza della libertà di poter disporre del proprio futuro... sì, direi che sono realizzata. Anche se i conti continuano ad ammucchiarsi sul mio tavolo, in sala».

Risero entrambi.

«Direi che ha tutto quello che può desiderare» fece lui, improvvisamente triste. Lei lo guardò e il suo volto si addolcì.

«Lei no?»

Lui sorrise. Ma il suo volto tradiva un dolore troppo a lungo tenuto segreto.

«Beh, credo di avere anch'io parecchi conti che aspettano di essere saldati...»

Il grande specchio alla parete rifletté un movimento insolito che attrasse l'attenzione di Winston. Senza scomporsi, si voltò a guardare verso l'entrata, dove era appena comparsa una guardia armata. Insospettito, lui si volse a guardare verso gli uffici. Senza nemmeno farlo apposta, riapparve anche l'impiegata.

«Signori» fece lei, con un ampio sorriso «il direttore si scusa, ma al momento è impegnato in una riunione. Vi chiede la cortesia di aspettare ancora qualche minuto, in modo che possa occuparsi della vostra pratica non appena terminati i suoi impegni».

«Vuole che aspettiamo qui?» fece Winston. «Ancora?»

«Non ci vorrà molto» disse la donna, con estrema gentilezza. Winston notò che tremava. Una sua occhiata all'ingresso gli diede la conferma definitiva dei suoi sospetti.

«Solo qualche minuto» insistette lei. «Nel frattempo, potreste accomodarvi nel salottino e...»

Lisa notò l'espressione concitata di Winston e aggrondò.

«Ma che succede?» gli chiese. «C'è qualche problema?»

«Credo che i nostri amici siano arrivati prima di noi» mormorò lui, senza togliere gli occhi dallo specchio e dal riflesso dell'uomo sulla porta.

«Sapevano che eravamo qui?» fece Lisa, guardandosi intorno, allarmata. Winston sorrise, teso.

«Sapevano che saremmo venuti qui. Non è vero, signorina?» disse lui, allungando una mano oltre lo sportello e strappando le cartelle dalle mani di lei. La donna rabbrividì, quando Winston sollevò una circolare che recava l'ordine di bloccare e trattenere per accertamenti chiunque avesse deciso di ritirare ingenti somme di denaro.

«Credo che faremo a meno dell'autorizzazione del direttore» fece Winston, infilando la mano nella tasca del soprabito ed estraendo la pistola, che poggiò sul marmo dello sportello coprendola con il palmo della mano. La donna impallidì, e Lisa trattenne a stento un grido di stupore. «Non abbiamo proprio il tempo di aspettare che arrivino gli amici che avete appena chiamato. Quindi si metta a sedere, ora; e tiri fuori tutti i soldi che ha in cassa, fino a raggiungere la cifra esatta di mille e ottocento sterline».

«Signore...» fece lei, cercando con gli occhi la guardia davanti all'ingresso.

«Non ci provi neppure» fece Winston, con un sorriso. «Non vorrei diventare improvvisamente meno gentile».

«Io...»

«Ma cosa fa?» sibilò Lisa, bianca in volto. «È per caso impazzito?»

Winston continuò a tenere lo sguardo fisso sull'impiegata, che stringeva le mani al petto, senza osare muoversi.

«Faccia come le ho detto» sibilò lui. «Si sieda».

Lei si sedette, lentamente. Le mani le tremavano, mentre estraeva mazzette su mazzette di banconote, che posava in fila sul ripiano dello sportello.

«La prego, non mi faccia del male...» mormorava, tra le lacrime.

«Stia tranquilla e non le accadrà nulla. Noi vogliamo solo i nostri soldi, nulla di più. Non siamo ladri, né persone pericolose».

Lisa scosse il capo. «Io non capisco, cosa...»

Winston sollevò gli occhi sullo specchio che aveva di fronte. La guardia, insospettita, aveva cominciato a guardare nella loro direzione. Il volto di Winston si fece tirato. Improvvisamente, l'uomo fece un passo avanti.

«Non si muova» gli intimò Winston, voltandosi di scatto e puntandogli contro l'arma. L'uomo si bloccò a pochi passi da lui, alzando le mani. Tutti nella banca si voltarono, improvvisamente; e vedendo Winston che impugnava una pistola, lanciarono un grido, terrorizzati.

«State tutti calmi, e sdraiatevi a terra» fece lui, assolutamente tranquillo. Lisa fece per stendersi e lui, sorpreso, le lanciò un'occhiataccia.

«Ma che diavolo fa?» esclamò.

«Ha detto...»

«Non lei, razza di stupida».

Lisa si alzò, lisciandosi la gonna imbarazzata.

«State tranquilli e tutto finirà presto. A nessuno sarà fatto del male» fece Winston. Quindi, voltandosi verso l'impiegata, le sorrise, ammiccando.

«Ora, se vuole essere così gentile da mostrarci l'uscita sul retro, gliene sarei molto grato» disse. «Come può immaginare, abbiamo una certa fretta».

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Capitolo 20
*** 19 ***


Non voglio aprire gli occhi.

Posso sentire ogni cosa da qui, sotto la mia pelle. Come se il mio corpo fosse il mondo, la terra, e il cielo sopra di essa.

Non voglio aprire gli occhi. Non ce n'è bisogno.

Non voglio aprirli.

Non voglio...

Le onde le lambivano i piedi. L'acqua fresca risaliva le sue membra accaldate, scavando la sabbia sotto le sue gambe prima di ritirarsi nuovamente nell'oceano. In quella quiete assoluta, aspettava l'abbraccio dell'onda e il suo lento abbandono come qualcosa di inevitabile, mentre il sole, caldo e alto nel cielo, le bruciava la schiena.

È tutto così calmo.

Lentamente, aprì gli occhi. La luce troppo intensa le ferì i sensi: e lei, ancora confusa, con una mano si ripulì dalla sabbia che le si era appiccicata al volto sudato, e al corpo. Si accorse di essere nuda, ma non provò vergogna. Nulla di quello che la circondava avrebbe mai potuto inquietarla.

Il mare era tranquillo, ma in distanza era possibile scorgere la bianca cresta delle onde agitate dal vento. Una brezza leggera le accarezzò il corpo, sollevandole i capelli dal volto. Nadia chiuse gli occhi, respirando l'intenso profumo di sale; nelle orecchie, il lento sciabordio delle onde.

«Sei sveglia».

Si volse. Un bambino bellissimo era in piedi accanto a lei, e la stava fissando. Vestiva una splendida tunica azzurra, che riluceva come una gemma sotto la calda luce del sole. La sua pelle era candida e i capelli, neri e lunghissimi, gli ricadevano sul volto in spesse ciocche agitate dal vento.

«Dove mi trovo?» chiese lei, confusa. Il bambino alzò gli occhi, a guardarsi intorno.

«Dove tu hai scelto di essere» fece lui. «Questo è il mondo che tu hai creato».

«Ti sbagli. Io non ho mai visto prima questo posto».

Il bambino reclinò leggermente il capo, perplesso. Quindi sorrise, avvicinandosi e tendendole delicatamente una mano.

«Vieni» disse. «C'è qualcosa che voglio mostrarti».

Lei si ritrasse, indecisa. Sentiva che non aveva nulla da temere da lui, ma ancora non riusciva a lasciarsi andare.

«Non temere. Non voglio farti del male».

A quelle parole Nadia si alzò, seppur lentamente, coprendosi pudicamente il seno e il sesso. Provava vergogna a mostrarsi in quel modo agli occhi di lui, e distolse lo sguardo, arrossendo.

«Non hai bisogno di coprirti» la rassicurò il bambino. «Io so chi sei».

«Sono nuda» rispose lei, come a scusarsi. Lui annuì.

«Perché qui non puoi nasconderti» le disse, sereno. «Vieni con me. Non devi aver paura».

Lentamente, Nadia lasciò scivolare le braccia lungo il corpo, restando immobile di fronte a lui. Ora che gli si era mostrata completamente, non aveva più paura. Al contrario, sentiva che ogni indumento sarebbe stato di troppo, perché in quella nudità sincera che gli occhi di lui le riflettevano, sentiva di aver finalmente ritrovato se stessa, e il germogliare della propria anima.

«Vieni» le disse lui, quasi reclamandola. «Dobbiamo andare».

Abbandonarono la spiaggia, lasciandosi alle spalle il fragore del mare. Nel silenzio che ne seguì, Nadia lasciò vagare lo sguardo sul mondo che la circondava, seguendo con gli occhi il morbido profilo delle dune modellate dal vento. Era quello un mondo desolato e vuoto, ma meraviglioso nella sua misteriosa semplicità. Nulla di quel luogo solitario e deserto la turbava: era come se fosse stato creato apposta per lei, perché potesse perdersi in esso per poi ritrovarsi, passo dopo passo, in un lungo viaggio in se stessa, e verso se stessa. Un viaggio che non sapeva dove l'avrebbe condotta, ma che sentiva che avrebbe dovuto comunque intraprendere.

Un movimento inatteso al suo fianco la fece trasalire. Nadia osservò spaventata le ombre che andavano addensandosi improvvisamente intorno a lei, scivolandole accanto per poi dissolversi come polvere al suo passaggio.

«Chi sono quelle ombre?» chiese, stringendosi inquieta al bambino, che procedeva tranquillo al suo fianco.

«Coloro che ti sono passati vicino» rispose lui, senza voltarsi. Nadia sussultò e fece per coprirsi, ma lui la trattenne gentilmente, nonostante una certa fermezza.

«Non aver paura» disse. «Non possono vederti e tu non puoi vedere loro».

«Perché?»

«Solo tu puoi decidere a chi concedere l'accesso alla tua anima. E a loro non l'hai concesso».

Nadia scosse il capo, spaventata. Era come se l'improvviso agitarsi di quelle ombre intorno a lei avesse cancellato tutta la sua sicurezza, facendola precipitare in un abisso di vergogna e paura.

«Questo posto non mi piace» mormorò lei, tesa. «Ti prego, portami via».

«Manca poco ormai» fece il bambino.

«No, è orribile» insistette lei. «Voglio andarmene!»

«Devi resistere. Solo così potrai vedere».

«No!»

Non è questo, non è questo quello che voglio!

«Voglio andare via!»

Nadia chiuse gli occhi, raccogliendosi su se stessa. Le ombre le si strinsero intorno, sovrastandola e circondandola in un turbinio concitato. Si portò le mani alle orecchie, gridando per contrastare il lento mugghiare che si levava minaccioso sopra di lei, sempre più forte, man mano che le ombre le si piegavano addosso. Disperata, lanciò un grido: un vento fortissimo sorse dal nulla a disperdere le ombre che la opprimevano, facendosi via via sempre più leggero finché non scese tiepido a lambirle il volto rigato di lacrime. Quando riaprì gli occhi, tutto intorno a lei era magicamente cambiato. Si trovava in un bellissimo giardino. Un sentiero di pietra lo attraversava, conducendo a una piccola casetta bianca ad un piano, ombreggiata da olmi e da querce rigogliose. Il profumo dei fiori selvatici che crescevano lungo il muretto di cinta si mischiava ai raggi caldi del sole, che bucavano come lame le fronde verdi degli alberi. C'era, nell'aria, il profumo denso dell'estate, annunciato dall'estenuante frinire delle cicale nei campi.

Anche lei era cambiata. Vestiva un fresco vestito di mussola gialla e ai piedi portava sandali intrecciati, mentre i capelli, assai lunghi, erano raccolti ai lati della nuca, stretti solo da due piccoli fermagli.

Facendosi coraggio, si mosse lungo il sentiero, fermandosi solo quando fu davanti alla porta. Delle voci la raggiunsero da dentro la casa. Risa. Qualcuno cantava. In quel momento, un'ombra attraversò la finestra, proprio accanto a lei.

Nadia si avvicinò e si sporse, alzandosi sulle punte. Una giovane donna lavorava in cucina, dandole le spalle. Il suo modo di muoversi sollecitava i suoi ricordi, ma per quanto si sforzasse, non riusciva a trovare in essi una qualche corrispondenza con ciò che vedeva. Udì delle risate; e piccoli passi che si avvicinavano sempre di più finché, improvvisamente, la porta si aprì e un bambino schizzò fuori, in un'esplosione di energia. Nadia si voltò a guardarlo. Lo vide chino sul sentiero, che giocava con un insetto trovato per caso. Non appena si accorse di lei, il bambino sollevò gli occhi a fissarla, sorpreso. Fu sufficiente uno sguardo, perché lei avvertisse l'improvviso bisogno di avvicinarsi a quell'esserino, e toccarlo. Un legame tanto profondo da risultare insondabile li univa, irradiandosi misterioso da quel volto sereno, come se una parte di lei le fosse stata strappata e riversata in lui, nel suo modo di muoversi, di ridere, e di vivere.

All'improvviso, lui sollevò verso di lei la sua manina, mostrandole con un sorriso deliziato l'insetto che custodiva come un tesoro nel suo palmo.

«Guarda, mamma».

Nadia trasalì. Allungò una mano verso di lui, ma il bambino corse via divertito, prima che lei potesse anche solo sfiorarlo.

«Ma che meraviglia. Magari possiedi anche un cane e un gatto?»

Fu come se un vento gelido si fosse levato a spazzar via tutto ciò che la circondava. Il tempo si congelò nell'istante in cui si volse, richiamata da quella voce che le parlava sorgendo come dall'angolo più oscuro della propria memoria, sul cui fondo aveva lasciato che si adagiassero i suoi ricordi più lontani e terribili.

Un uomo vestito elegantemente era comparso all'improvviso al suo fianco, e la fissava con un sorriso ambiguo attraverso una maschera bianca spezzata a metà, che lasciava intravedere parte del suo volto smagrito.

«Tu...»

Il suo antico aguzzino, colui che aveva distrutto la sua famiglia, che le aveva dato la caccia per tutta la vita e che l'aveva rapita, trasformandola in un giocattolo al suo comando, era lì, davanti ai suoi occhi.

Gargoyle rise e la sua faccia martoriata si stirò in una debole smorfia.

«Sono davvero sorpreso» esclamò, divertito. «Non credevo che un giorno mi avresti invitato a casa tua, Nadia. Non mi offri un tè?»

«Cosa ci fai tu, qui?» esalò lei, impallidendo. «È opera tua, tutto questo?»

«Nadia, tu mi sorprendi. Io sono morto. Tutto questo non è che una tua proiezione. Se sono qui, è solo perché sei stata tu a volermi».

«Io non potrei mai volerti, maledetto...»

«A-ah, non cominciamo con le offese» la interruppe lui, muovendo sardonicamente l'indice della mano destra, «altrimenti me ne vado».

«Credi forse che mi dispiaccia? Per quanto mi riguarda, puoi anche sparire all'inferno».

«Lo farei più che volentieri, se solo potessi» le rispose lui, chinandosi sul suo volto. «Sempre meglio di ciò a cui tu mi hai destinato, quando hai distrutto entrambe le pietre azzurre. Ma tu non sai nulla di questa storia, vero?» mormorò, alzando gli occhi a guardare il bambino che giocava nel prato. «Meglio così. Preferisco lasciare che sia tu a scoprirlo da sola... ma che bel bambino...»

«Lascialo stare!»

«Suvvia, Nadia» rise lui. «Prima mi inviti a casa tua e poi non mi fai nemmeno conoscere la tua famiglia? Vieni qui, piccolino» disse, allargando le braccia con un sorriso. «C'è lo zio, che è venuto a trovarti».

Il bambino si volse e un'espressione di gioia gli saettò ingenua sul volto. Caracollò veloce verso di loro, e Gargoyle si chinò fino a terra, per sollevarlo tra le braccia.

«Ma come sei grande» esclamò, issandoselo in spalla. «Assomigli tutto... a chi, Nadia?» le fece lui, con divertita perplessità. «Vedo i tuoi occhi... la tua splendida bocca... ma il resto? A chi assomiglia?»

«Lascialo andare» sibilò lei, scagliandoglisi contro furiosa. Ma lui era troppo alto e le sottrasse il bambino con facilità.

«Guarda cosa hai combinato» lamentò lui, con una risata. «L'hai fatto piangere».

«Ridammi mio figlio!»

Disperata, Nadia gli si gettò addosso, afferrandolo per la giacca e cercando di strappargli il bambino dalle mani. Con un lampo di puro divertimento negli occhi, Gargoyle lo posò a terra, e lui corse subito a nascondersi tra le braccia della madre.

«Mia povera, sciocca, ragazza» le fece Gargoyle, asciugandosi con un fazzoletto immacolato il sangue che aveva preso a colargli improvvisamente dal naso «davvero credi che quello sia tuo figlio? Nemmeno sai riconoscere dove comincia e dove finisce la realtà» esclamò duramente, mentre finiva di ripulirsi. Nadia lo guardò e si sentì agghiacciare. Lui incontrò il suo sguardo e le rispose con un'occhiata di scherno.

«Sorpresa?» ghignò. «Devi sapere che da quando sono morto, faccio molta fatica a mantenere la mia... integrità fisica» disse. «Ma faccio comunque del mio meglio».

«Ti ricordavo ridotto peggio di così» commentò lei. Lui rise.

«Essere trasformato in una statua di sale non è la cosa peggiore che mi sia capitata» disse. «Porto ancora sul mio corpo le ustioni che mi provocarono le fiamme sotto cui tuo padre seppellì la nostra città. Eh, sì» fece, chinandosi sul bambino, che si ritrasse spaventato «devi sapere che il nonno era davvero un uomo molto cattivo».

«Non osare avvicinarti a lui un'altra volta, Gargoyle» lo minacciò Nadia, voltando le spalle per far da scudo al bambino.

«Mia cara, non è di me che devi aver paura, ma di te stessa» fece Gargoyle, compiaciuto. «E comunque, visti i nostri trascorsi, credo che potresti cominciare a chiamarmi col mio vero nome, che ne dici? Nemesis Ra Algol suona meglio di Gargoyle. Ma se preferisci, puoi chiamarmi pure zio... ne sarei felice...»

Nadia lo ignorò, chinandosi a stringere tra le braccia il bambino e posandogli un bacio in fronte, prima di rimandarlo a giocare in giardino. Quindi, volgendosi rabbiosa verso Gargoyle «che diavolo vuoi» lo aggredì «che diavolo vuoi ancora, da me?»

«Cosa vuoi tu, Nadia» alitò lui. «Io non potrei nemmeno essere qui. Se ci sono, è solo perché tu mi hai chiamato. Perché lo hai fatto? Agli esseri umani non è consentito di assorbire l'energia della pietra. Portarmi qui, ha costituito un'eccezione non da poco, una concessione che la pietra ha voluto farti perché tu l'hai desiderato... al posto tuo, comincerei a chiedermi cosa c'è che non va in te, mia piccola principessa. Forse, ti credi troppo diversa da quello che sei in realtà».

«Tu...»

«Ma in fondo, sono contento di essere qui» fece lui, infilandosi le mani in tasca e ignorando del tutto quello che lei stava per dirgli. «Sono persino riuscito a vedere mio nipote. Chi l'avrebbe mai detto...»

«Lui non è tuo nipote, maledetto maniaco!»

«Oh, sì che lo è, sciocca ragazza!» la zittì lui. «Ma immagino che tuo padre non ti abbia mai raccontato questa parte della storia... peccato, perché è la più divertente. Anche se in fondo era prevedibile... Elusys, oh, chiedo scusa... Nemo... non ha mai avuto un gran senso dell'umorismo. Era un uomo così noioso».

«Ma di che diavolo stai parlando?»

«Ti sei mai chiesta perché io e tuo padre portassimo lo stesso cognome?» la incalzò lui tagliente e pregustando già la sua sorpresa, con una smorfia di trionfo che gli trasfigurava l'intero volto. «Nemesis Ra Algol, Elusys Ra Arwol... Nadia Ra Arwol. Ra è il cognome di appartenenza alla casa regnante di Tartesso. O forse non lo sapevi?»

Nadia impallidì.

«Tu non fai parte della mia famiglia» mormorò lei, atterrita. «Tu sei...»

«Un essere umano?» ghignò Gargoyle. «Sì, che divertente. Ora sei tu a disprezzare la mia condizione».

«Io stavo per dire un mostro».

«Oh, smettila» tagliò corto lui. «È la verità. Io sono un essere umano, mentre tu non lo sei. Inoltre, io venni adottato dal padre di tua madre... quindi, tecnicamente, ciò fa di te mia nipote, e anche il tuo bambino è...»

«Stai mentendo!» gridò lei, livida.

«Ma che mentendo!» la zittì lui. «Ero il figlio del capitano della guardia reale. Rimasi orfano di entrambi i miei genitori quando avevo solo pochi mesi. Mia madre morì di malattia e mio padre la seguì poco tempo dopo, perdendo la vita in battaglia per difendere la tua famiglia. Non seppi mai che erano esseri umani, perché venni adottato dai genitori di tua madre, che mi crebbero nella loro casa come se fossi un figlio, facendo di tutto per nascondermi la verità. Crebbi credendo di essere quello che non ero, pur consapevole di essere stato adottato... la mia gratitudine verso di loro era smisurata. Se avessi saputo realmente l'orrore della mia condizione, non sarei mai più stato in grado di guardare mio padre negli occhi. Ancora lo ringrazio di avermi mentito...

«Cresciuto, entrai nell'esercito, com'era prevedibile; lì conobbi per la prima volta tuo padre. Eravamo giovani e audaci, e ci ritrovammo a crescere anno dopo anno di grado e importanza, finché non diventammo entrambi alti ufficiali.... eh, sì» sospirò con mal celata ironia «quelli erano begli anni... quasi mi mancano, sai? Comunque, io amavo tuo padre, il mio migliore amico. E amavo la mia famiglia, proprio come amavo tua madre, mia sorella. Quando venni a sapere che Elusys e tua madre si sarebbero sposati, io ne fui felice, perché credevo che lui sarebbe stato un grande re, e che avrebbe fatto della mia amata sorella una grande regina. Ma non appena tuo padre venne incoronato, cominciò a farfugliare che voleva cambiare le cose... voleva impiantare un regno progressista, come lo chiamava lui. E più passava il tempo, più io vedevo mio padre, anzi, il mio patrigno, l'uomo che mi aveva accolto in casa sua donandomi una vita quando nemmeno l'avevo una vita, piegarsi giorno dopo giorno sotto il peso della vergogna e della delusione, nel vedere gli esseri umani che avanzavano sempre più verso un potere che non meritavano di possedere. E tutto questo per colpa di tuo padre... Tra tutti, solo io intravedevo il pericolo imminente. Provai a parlarne a tua madre, ma quella sciocca era resa cieca dall'amore, e non riusciva a vedere gli errori che suo marito, il suo idolo, stava commettendo. In veste di Primo Ministro provai a riferire all'Assemblea Generale, ma ormai il mio ruolo era stato compromesso dall'avanzata delle frange progressiste. Ero isolato. Nessuno riusciva a capire. E intanto, io assistevo impotente alla fine della nostra famiglia, del nostro potere e della nostra grandezza, trovandomi solo a reggere il peso della responsabilità verso i posteri, insieme a ciò che restava dell'onore di tua madre, la mia adorata sorella... la regina di Tartesso...»

«Ma davvero credi in quello che dici?» esclamò Nadia, incredula. «Davvero sei convinto che quello che hai fatto possa definirsi anche solo vagamente responsabile? Ti dipingi come un eroe, ma in realtà tutto ciò che hai saputo fare, è stato plagiare mio fratello, un ragazzino, e usarlo per dare l'avvio a una rivolta che è cominciata con l'assassinio di mia madre e si è conclusa con la distruzione di un'intera città! Se davvero hai amato mia madre tanto come dici, come hai potuto farle quello che hai fatto!»

«Io sono solo un essere umano» commentò lui, con un inchino. «Cosa potevi aspettarti da uno come me?»

Nadia sussultò.

«Quale mirabile, suprema ironia, non trovi?» fece Gargoyle, sprezzante. «Una vita intera, la mia, spesa per combattere ciò che credevo essere il veleno di questo mondo, senza sapere che l'unica cosa che mi separava dal resto dell'umanità, era il fatto che io, in fondo, ero solo un miracolato».

Tacque. Quindi, rise, sommessamente, finché la sua risata non si mutò in un ghigno.

«Sai» le fece lui alla fine, sospirando soddisfatto «più mi intrattengo qui, in tua amabile compagnia, più mi rendo conto che c'è un motivo preciso, per cui tu mi hai chiamato...»

«Io non ti ho chiamato» sibilò lei, torva.

«Oh, sì che l'hai fatto» ribatté lui. «E il motivo, è che c'è un dubbio che ti sta tormentando da tempo, un dubbio che ogni tanto ti assale sorgendo fuori dal nulla quando meno te lo aspetti, e che scombussola tutte le tue deboli certezze. È quel dubbio, che tiene vivo in te il mio ricordo. Ed è mio personale orgoglio ritenere che sia stato proprio io a suscitartelo».

Lei gli rivolse un'occhiata sprezzante.

«Tu non puoi niente» sibilò.

«Ma forse... ho potuto» sussurrò lui, accarezzandole il volto. Nadia si sottrasse, disgustata.

«L'unica cosa che tiene vivo in me il tuo ricordo» mormorò, tesa «è la nausea che provo ogni volta che ripenso alla tua faccia schifosa».

«Quale eleganza» ridacchiò lui. «Puoi continuare a negarlo, Nadia, ma non ti servirà» fece, afferrandole il mento con una mano e costringendola a guardarlo. «Tu sai cosa significa la mia presenza qui. E anche io comincio a capirlo. Prima accetterai la verità, prima riuscirai a fare pace con te stessa».

Nadia si dimenò, strappandosi alla sua presa.

«Vattene all'inferno, maledetto animale».

Lui scoppiò a ridere, drizzando il busto.

«Sì, che meraviglia!» sghignazzò, allargando le braccia. «Sono morto perché tu potessi avere tutto questo... la casetta di Cappuccetto Rosso, un bel bambino... Per amor del cielo, Nadia!» sibilò, chinandosi su di lei, livido. «Ritrova te stessa! Tu sai chi puoi diventare. Io l'ho sempre saputo».

«Questo è quello che voglio!»

«Questo non è reale!» esclamò lui. «Ti sei trincerata in un sogno di zucchero per sfuggire alla realtà. Ma sappi che la realtà ha fame di trovarti e ti troverà, prima o poi, e ti divorerà... così» disse, schioccando le dita. «Tutto questo non è che un sogno, proprio come me. Peccato che io sia un sogno utile, al contrario di questa paccottiglia».

«Vattene» sibilò lei. «Vattene subito».

«Come desideri» fece lui. «Ma per quanto tu possa provare, non riuscirai a cancellarmi dalla tua mente. Io sarò sempre con te, mia cara, proprio come il tuo angelo custode... ti seguirò ovunque, per ricordarti ciò da cui non puoi sfuggire, che ti piaccia o no...» rise. «Presto scoprirai da sola a cosa mi riferisco. Anche se credo che qualcosa tu l'abbia già capito... non è così?»

«Vattene!» gridò lei, esasperata. «Vattene via!»


È questo quello che voglio!

è questo... questo è la verità

la verità, Nadia, la verità...

Non voglio aprire gli occhi

questo, è la verità...

la verità...


«Nadia?»

Il volto di Alex andava prendendo forma lentamente, e così la sua voce, che si fece sempre più chiara e distinta. Nadia si portò una mano alla tempia, cercando di vincere la confusione e la nausea che le attanagliava lo stomaco mentre lottava contro il suo corpo, che non ne voleva sapere di sollevarsi da terra.

Sbatté le palpebre nel tentativo di raccapezzarsi e di scacciare l'immagine di Gargoyle, che ancora le stava come appiccicata davanti agli occhi. Pian piano, riuscì a guardarsi intorno: si trovava in una stanza in cui non aveva mai messo piede prima. Era come un enorme caverna circolare, con vetrate che dal suolo arrivavano fino alla sua sommità, e che nulla lasciavano intravedere di ciò che dietro vi si nascondeva. Al centro della stanza, sopra una specie di piedistallo cilindrico, la pietra che Nadia aveva portato con sé ruotava tranquilla su se stessa come fosse sospesa nel vuoto, immersa nel riflesso di un tenue bagliore azzurrognolo.

«Dove siamo?» domandò Nadia, perplessa. Aveva la bocca asciutta e la voce le uscì impastata, come per il troppo sonno. Alex sospirò, inarcando le sopracciglia.

«Dovresti dirmelo tu, Nadia».

Lei la squadrò, aggrondando.

«E con questo, che vorresti dire?»

«Avevo bisogno di parlarti, così sono venuta a cercarti in camera tua» le spiegò Alex. «Ti ho trovato che ti aggiravi per i corridoi con un'aria strana... ti ho chiamato, ma non rispondevi. Ho provato anche a toccarti, ma ho avvertito come una scossa non appena ti ho sfiorato...»

«Una... scossa?» mormorò Nadia, confusa.

«... Così, ho deciso di seguirti. Ed eccoci qui».

«Tu mi hai seguito?» fece Nadia, infastidita da quell'idea. Alex annuì, decisa.

«Sì. Ti ho seguito in silenzio fino qui... e ho potuto vedere quello che hai fatto».

Nadia scosse la testa. Non capiva. Al di là del sogno, non ricordava nulla; né come fosse finita là, né perché.

«Nadia, si può sapere cosa sta succedendo?» la inquisì Alex, visibilmente alterata. «Cosa facevi con quella pietra? E chi sono le persone su questa nave, cosa vogliono da te?»

«Chi ti dice che vogliano qualcosa da me?» ribatté Nadia, massaggiandosi la tempia.

«Basta mentire!» gridò Alex, esasperata. «È da quando siamo partiti che nascondi a tutti qualcosa. Prima la faccenda della pietra, poi... questo» fece. «Senti, io credevo di essere abituata alle stranezze di Jean, sapevo che il vostro passato nascondeva qualche segreto, ma... Nadia» esclamò, allargando le braccia «questa è una nave spaziale! Io... io faccio fatica a credere a quello che vedo! Sono una scienziata, da sempre mi trovo circondata da innovazioni tecnologiche, ma tutto quello che ho visto su questa nave da quando siamo saliti a bordo, supera di gran lunga ciò che l'uomo può sperare di raggiungere da qui ad almeno cento, forse mille anni!»

«Alex, so che può sembrarti strano, ma devi fidarti di me» le disse Nadia, fissandola intensamente. Alex, scosse il capo.

«No, io non mi fido di te» esclamò, aggrondando. «Come puoi venirmi a parlare di fiducia dopo tutte le tue menzogne, dopo che ci hai usati, nascondendoci il tuo legame con quella pietra e tutto il resto...»

«Alex, non è come pensi tu...» mormorò Nadia. Ma lei non voleva ascoltarla.

«Io ti ho visto, Nadia. Ho visto come la pietra reagiva ai tuoi comandi, ho sentito l'energia che si sprigionava, tutto intorno a te. Ero qui, non l'ho sognato. Ho provato ad avvicinarmi, a chiamarti, ma sembravi caduta in una specie di trance... e quella pietra... sembrava viva, come se stesse reagendo ai tuoi stessi pensieri...»

Nadia si irrigidì.

«Tu mi fai paura, Nadia. Io non... non so cosa ho visto, ma...»

«Ti prego Alex» la supplicò lei, «c'è un motivo per cui non vi ho detto nulla e se solo tu volessi ascoltarmi...»

«Non mi interessano i tuoi motivi» la interruppe lei. «Non più. Io non voglio saperne nulla di te. Tutto quello che mi interessa, ora, è riavere Jean, vivo. E voglio che tu faccia qualcosa per riportarlo indietro».

Nadia impallidì. Il pensiero di Jean si era come eclissato dalla sua mente e ora ritornò a pungerla come e più di prima.

«È solo colpa tua se ora è disperso» continuò Alex, infervorandosi. «Tu l'hai trascinato qui, tu l'hai convinto a seguirti, facendo appello al suo buon cuore, consapevole del fatto che non ti avrebbe mai negato un aiuto».

«Non è così» si giustificò Nadia. «Ci sono cose che non sai, e...»

«Ma come fai a essere così fredda e insensibile?» sibilò Alex, livida. «Possibile che per te Jean valga solo due parole con cui dici a tutti che è sparito? Perché te ne stai lì, senza muovere un dito? Ho visto come queste persone ti trattano, e quale rispetto ti mostrano... perché non chiedi a loro di tentare qualcosa per lui?»

«Io... non posso...» mentì.

«Trova un modo!» gridò Alex. «Marie parla la loro lingua, chiedi a lei di tradurre per te, ma per l'amor di Dio, fa' qualcosa!»

Alex restò a fissarla ansimando, e Nadia distolse lo sguardo. La disgustava mentire in quel modo, ma non poteva dirle la verità. C'erano cose che non potevano essere dette, segreti che dovevano restare tali. Anche se ciò significava sembrare insensibile, e mentire così dolorosamente sui propri sentimenti.

«Parli come se tu fossi l'unica a cui interessi di lui» mormorò.

«Adesso non venirmi a dire che sei preoccupata per lui» fece Alex, ridendo «perché non ti credo».

Nadia sussultò. «Che cosa?»

«Speravo tanto di sbagliarmi, Nadia. Speravo che l'idea che mi ero fatta di te fosse solo dettata dalla mia assurda gelosia nei tuoi confronti. Ma la verità è che sei anche peggio di quello che mi immaginavo».

Gli occhi di Nadia si strinsero, scintillando come fossero attraversati da un lampo.

«Allora avanti, Alex» disse, alzandosi in piedi a fronteggiarla. «Se è così, perché non ti sfoghi una buona volta, e non mi dici quanto mi trovi ripugnante, e odiosa?»

«E perché dovrei?» ribatté Alex, con una smorfia. «Non servirebbe. A te non importa nulla di quello che provano gli altri, come non ti importa nulla di lui. Non ti è mai importato. L'hai solamente usato per venire fin qui. Tutto il resto per te non ha mai avuto alcuna importanza».

«Vedo che hai già capito tutto».

«Non è forse così?»

«Non vedo perché dovrei parlare con te di quello che mi ha spinto a venire fin qui, a chiedere l'aiuto di Jean e tutto il resto» replicò Nadia, tesa, «così come non vedo perché dovrei dirti quello che sento. Io e te non ci piacciamo, questo è palese. Ma abbiamo qualcosa in comune, qualcosa a cui entrambe teniamo. Io ho amato Jean, l'ho amato come non ho mai amato nessuno prima. Quindi, non venirmi a dire cosa dovrei o non dovrei provare in una situazione come questa. Non accetto lezioni da nessuno, men che meno da te».

«E allora, se è vero quello che dici, dimostralo» la incalzò Alex. «Fa' qualcosa per riportarlo indietro!»

«Se solo mi lasciassi parlare...»

«Non voglio ascoltare niente da te, voglio solo che tu lo salvi! Voglio che lo salvi e che lo riporti da me, e che sparisci una volta per tutte dalla nostra vita!»

Nadia la fissò e sentì il sangue defluirle dal volto.

«Lui non c'è più, non c'è più ed è solo colpa tua, colpa tua...»

«Jean era abbastanza maturo per accettare di aiutarmi oppure no» sibilò Nadia. «Sapeva quello a cui saremmo andati incontro, venendo qui, e ha scelto di aiutarmi proprio per questa ragione. Ci sono cose che tu non sai e non puoi capire, cose che riguardano solo noi e il nostro passato. Quindi smettila di accusarmi, come se tutto quello che è successo fosse solo colpa mia!»

«Tu sei solo un'ipocrita ed un'arrivista» gridò Alex, tra le lacrime. «Se davvero ci tenessi a lui, faresti tutto il possibile per ritrovarlo e per restituirlo a Marie e a tutti noi, noi che gli vogliamo bene e a cui tu, tu l'hai strappato per il tuo stramaledetto egoismo!»

Nadia strinse le labbra. Tutto quello che aveva vissuto fino ad allora, l'apprensione per Jean, il tradimento di Jonathan e la visione terribile di Gargoyle, insieme a quell'angoscia che la attanagliava senza che ne sapesse il perché, né da dove le arrivasse... tutto questo cominciava a mescolarsi in un disagio sempre più difficile per lei da sopportare, e che le accuse di Alex non facevano che accrescere e diffondere in lei, come un veleno lento, e subdolo.

«Tu non riesci a capire...» mormorò, frastornata.

«Io capisco benissimo» ribatté Alex. «Ti ho capito da molto tempo, ormai».

«Pensi di sapere tutto su di me, non è vero? Sei così perfetta... solo tu possiedi la verità».

Alex rise. «La verità? Sai qual è la verità? È che se qualcuno deve rimetterci, in questa storia, è meglio che quella non sia tu. Non è così?»

«Ora basta, smettila...»

«Vuoi che la smetta? E allora ritrova Jean!»

«Ma cosa vuoi da me?» gridò Nadia, infuriata. «Cosa vuoi che faccia, da sola! Continui ad accusarmi, senza lasciarmi parlare, e...»

«Non mi interessa quello che fai o che dici. Io...»

«Ma vattene al diavolo, Alex!»

Un'esplosione di luce le avvolse entrambe, improvvisamente. Nadia si riparò gli occhi con il braccio, cercando di vedere al di là di quel bagliore accecante. Come mossa da un'insolita energia, la pietra aveva preso a girare vorticosamente su se stessa, allungandosi come se si stesse lentamente liquefacendo. Ben presto, il suo movimento fu talmente veloce che sembrò quasi scomparire, e trasformarsi in semplice cono di luce.

Alex indietreggiò, lanciando a Nadia uno sguardo allarmato.

«Cosa stai facendo?» mormorò. «Perché fa così?»

Nadia scosse il capo, senza saper cosa rispondere. Fece per avvicinarsi, allungò una mano: ma un lampo saettò improvviso e investì in pieno Alex, senza che lei avesse nemmeno il tempo per reagire. Con un grido strozzato, la ragazza ricadde sulle ginocchia, portandosi febbrilmente le mani al collo.

Era come se spire invisibili la stessero soffocando. Un'energia terribile le scorreva nelle vene, facendole sobbollire il sangue. Terrorizzata, Alex alzò gli occhi su Nadia, implorando il suo aiuto con uno sguardo.

«Alex!»

Nadia si lanciò su di lei, cercando di strapparle le mani dal collo. Non sapeva cosa fare, né come lottare contro quell'energia che sembrava dominarla dall'interno. Vide il volto di Alex farsi sempre più pallido, e gli occhi spegnersi lentamente. Una lacrima rigò la guancia della ragazza, mentre il suo corpo si irrigidiva sempre di più.

«No, basta!» gridò Nadia, terrorizzata. Alex chiuse gli occhi. Le forze la abbandonavano.

«Basta, lasciala andare!»

Con uno schianto, la pietra si spense, rallentando il suo movimento finché non recuperò la sua forma consueta. Continuava a pulsare di una intensa luce azzurra, e piccole scariche elettriche la illuminavano percorrendola completamente, l'ultimo baluginio della terribile energia che aveva appena sprigionato. Con sollievo, Nadia vide il volto Alex riprendere il suo colorito normale, mentre il suo corpo si rilassava progressivamente tre le sue braccia.

«Ti senti bene?» fece, chinandosi su di lei ad accarezzarle il volto. Con un gesto brusco, Alex le allontanò la mano.

«Stai lontana da me» sibilò, con voce soffocata. Nadia impallidì.

«Alex, io non c'entro nulla, te lo giuro...»

«Mi hai quasi ucciso».

«No! Non avrei mai potuto fare una cosa simile!»

Alex si sottrasse alle sue mani, scivolando a fatica lontano da lei. «Tu non sei umana» mormorò tra le lacrime, massaggiandosi il collo. «Non so cosa sei... o chi sei... ma non permetterò che ti avvicini di nuovo a me, o a Marie».

Nadia sbiancò.

«Alex, ti prego, non dire così...»

«Dirò a tutti quello che sei...»

In quel momento, la porta si aprì e Faloe si precipitò all'interno, seguita da un gruppo di guardie e alcuni tecnici. Nel vedere le due ragazze a terra, il suo volto si fece terreo.

«Maestà, state bene?» domandò, avvicinandosi a loro angosciata. In silenzio, Nadia annuì, sollevandosi in piedi.

«Questa donna ha bisogno di cure» le disse Nadia, lanciando ad Alex uno sguardo imbarazzato. Nel sentire che le due donne parlavano tra loro una lingua sconosciuta, diversa da quella che aveva sentito parlare a Marie, Alex aggrondò. Nadia nascose il suo volto agli occhi di lei, consapevole di averle appena fornito la prova tangibile di tutti i dubbi che ancora nutriva nei suoi confronti.

«Un'altra menzogna» sussurrò Alex, sogghignando. «Vuoi ancora chiedermi di fidarmi di te?»

Nadia non rispose, limitandosi a chinare il capo, stringendosi nelle braccia.

«Forse è un bene che Jean non sia qui» continuò Alex con tono di sfida, mentre alcuni uomini la aiutavano ad alzarsi. Lei li allontanò con fastidio. «Almeno non dovrà più aver a che fare con un mostro come te».

Nadia la fulminò con lo sguardo. Faloe, che non capiva quello che stava succedendo, si limitò a fare un cenno ai suoi uomini, perché scortassero Alex fuori dalla stanza. Accompagnata da due soldati, la ragazza si allontanò in silenzio, non senza lanciare a Nadia un'occhiata di disgusto. Lei la seguì con gli occhi finché non la vide sparire dietro la porta e solo allora tornò a respirare, passandosi una mano sul volto, pallido come uno straccio.

«Quella donna ha cercato di farvi del male?» le chiese Faloe, avvicinandosi e scrutandola con sollecitudine. Nadia nicchiò. Si sentiva stanca, spossata. Le gambe le tremavano.

«No» rispose, sommessamente. «Quello che è successo qui, è solo colpa mia».

Faloe la fissò in silenzio per un istante. Quindi, «come dite voi, Maestà» concluse, adagio. «Forse vorrete riposare?» proseguì, addolcendosi. Nadia annuì debolmente.

«Voi, scortate la Regina nella sua stanza» ordinò al resto dei suoi uomini, con voce tagliente. Questi obbedirono scortando Nadia alla porta, che lei varcò in silenzio, e con il volto contratto in un'espressione indecifrabile. Faloe la studiò, pensierosa; e quando la porta si fu definitivamente richiusa alle sue spalle sospirò, drizzando il busto e passandosi una mano sulla fronte, inquieta.

«Signora?»

Ancora immersa nei suoi pensieri, si volse, incrociando lo sguardo acceso di uno dei tecnici.

«Cosa c'è?» domandò stringendo gli occhi, come a riacquistare la piena padronanza di se stessa. Senza scomporsi, l'uomo le mise tra le mani una tavoletta luminosa su cui si susseguivano una serie interminabile di grafici in continua evoluzione, e che lei fissò come non sapesse che farsene.

«Non lo sappiamo di preciso, ma è successo qualcosa di strano» disse il tecnico. A quel punto, Faloe si portò la tavoletta davanti agli occhi, studiandola con attenzione.

«Di strano?»

«È come se la pietra si fosse improvvisamente risvegliata dal suo letargo».

Faloe alzò gli occhi sulla pietra. «A cosa può essere dovuto?» chiese, tornando ad analizzare i grafici. L'uomo sollevò le spalle.

«Forse, la presenza della Regina può aver avuto la sua importanza».

Faloe sospirò, restituendo la tavoletta al tecnico.

«C'è altro che dovrei sapere?» chiese. «Il comandante vorrà essere informato».

«Credo che sia meglio che gli dica di venire qui» fece il tecnico. «C'è qualcosa che credo gli interesserebbe vedere».

Faloe aggrondò. «Cosa?»

«Nel momento in cui ha riacquistato le sue funzioni, la pietra ha ripreso a trasmettere anche il segnale» disse il tecnico, e sorrise. «Abbiamo le coordinate, signora. Il Sentiero è nuovamente aperto».

«Aperto?» Faloe sussultò. «Ma questo vuol dire...»

«Sappiamo esattamente dove si trova l'ingresso del Tempio» fece l'uomo, trionfante. «Finalmente possiamo raggiungere il Trismegisto».












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Capitolo 21
*** 20 ***


«Ci siamo, è oltre quella collina».

Jean seguì il vecchio Atahualpa su per un pendio ricoperto di sterpaglie ingiallite. Procedeva chino, aggrappandosi con le mani alle erbacce che affondavano le radici tenaci in quella terra dura e secca. La schiena gli doleva e le gambe erano in pezzi.

Si voltò, sollevandosi a tergersi il sudore con la manica sporca di polvere e terra. Alle sue spalle, la piramide del Sogno si levava come un monumento triste, avvolto in un sudario di nuvole. Non era come l'aveva sognata; nella realtà, rimaneva di essa ben poco, qualche gradone di pietra e nulla più. Tutta la sua imponenza si era perduta, tra le pietre ruzzolate a valle sotto l'azione del tempo e la vegetazione che ne infestava la superficie erosa dalle piogge, occultando i segni di una memoria ormai dimenticata. Vista così, poteva sembrare un luogo strano per ritrovare se stessi. Un luogo di rovine.

Ma pensandoci bene, non era nemmeno così strano.

«Muoviti, Jean».

«Arrivo...»

L'ultimo tratto fu particolarmente duro. Jean si puntellò con le mani sulle ginocchia, ansando, mentre muoveva gli ultimi passi che lo separavano dalla vetta del colle. Atahualpa lo stava già attendendo in cima, lo sguardo fiero fisso avanti a sé, le mani sui fianchi, il petto gonfio.

«Siamo arrivati. Tra poco, nascerà il sole».

Jean annuì pesantemente, passandosi il dorso di una mano sulla bocca. Il sudore che gli colava sulle labbra aveva un sapore amaro e salato. Ogni volta che inspirava, era come se il petto fosse punto da una miriade di spilli. Il cuore gli mandava delle fitte e pulsava incontrollato. Era esausto.

«Ecco, guarda».

Atahualpa allungò il braccio verso l'orizzonte. Jean sollevò gli occhi per la prima volta dal suolo. Sbatté le palpebre.

Una corolla di monti azzurrognoli si slanciava su un lago immenso, nelle cui acque placide e lente si specchiavano tutto il grigio e il violetto di quel cielo ancora addormentato che li sovrastava. Visto dall'alto, sembrava quasi un gigantesco buco nella terra, che lasciava spuntare un frammento di cielo sotto i piedi.

Una fitta coltre di nubi avvolgeva le pendici dei monti agitandosi in una perenne trasformazione, come dietro l'azione di una forza invisibile. L'impressione era che le nubi e le montagne si muovessero in senso opposto, con le alte cime spruzzate di neve e d'azzurro tutte reclinate a est, pronte a cadere su se stesse, quasi fossero stanche per i troppi anni che si portavano appresso. Più in basso, sotto al cupo turbinare del cielo, le tonalità della notte si confondevano con le ombre che dal lago sorgevano misteriose e oscure, in un paesaggio insieme da sogno e da incubo. Più si fissavano le acque che lo colmavano, più si avvertiva un sordo richiamo provenire da esse, quasi un pericolo. Il presentimento che lì, in quel luogo magico, punto di incontro tra il cielo e l'immagine perfetta di esso, l'anima stessa del mondo giacesse impastoiata in quelle acque gelide e torve fin dall'inizio del mondo.

«Questo è il luogo in cui riposa Manco Capàc, il figlio del sole» mormorò Atahualpa, eccitato. «Ogni giorno, quando il sole nasce tra quelle montagne, Manco Capàc si risveglia, e il mondo prende vita».

Jean allungò lo sguardo oltre le pallide cime dei monti, dove il cielo cominciava a farsi più chiaro. Ci fu un istante in cui tutto il mondo sembrò attendere in silenzio il sorgere del proprio mistero: gli uccelli tacquero e il vento cessò, all'improvviso. L'acqua era immota. Jean assorbì tutta la calma che quella visione gli trasmetteva, il cuore colmo di meraviglia e stupore di fronte a uno spettacolo così inatteso.

Non avrebbe saputo dire come, né quando esattamente i suoi occhi vennero toccati dai primi, timidi raggi del sole, che si arrampicava aggrappandosi lento alla cresta dei monti. L'azzurro del ghiaccio si mutò in luce e una lama di fuoco tagliò in due la montagna, riversandosi nell'acqua del lago che si incendiò, ribollendo di porpora e arancio. Le nubi, intorno, si liquefecero e il cielo dietro di esse apparve rivestito dei colori del nuovo giorno.

In quel miracolo perenne si trovava racchiuso il mistero di quel luogo, e Jean aveva il privilegio di assistervi. Per la prima volta in vita sua, sentì di essere in presenza di qualcosa di unico e sacro, una sensazione che non aveva mai provato in nessun luogo prima. Laggiù, dove la luce si univa a ciò che restava ancora dell'ombra, davvero la Terra mostrava tutto il suo spirito, e ritornava con esso a ricongiungersi alla vita.

«Andiamo» lo incoraggiò Atahualpa. «Dobbiamo raggiungere il lago».

Jean inspirò. L'aria fresca gli placò immediatamente la stanchezza e si sentì come ritemprato.

«Crede davvero che laggiù troveremo i miei amici?» domandò. Il vecchio si calcò il cappello di paglia in testa, incamminandosi veloce giù per la china del monte.

«Presto li vedrai» latrò, mentre continuava a scendere quasi correndo. «Ma sbrigati, dobbiamo essere a valle prima di loro».


*



«Sei tornata».

Faloe si chinò sulle ginocchia, accucciandosi di fronte a Marie. Per qualche istante restò a guardarla mentre disegnava, cercando qualcosa da dirle, imbarazzata dal sorriso sciocco che si sentiva stampato sul volto.

«Quando posso vedere la zia Rebecca?»

«Presto. Ora sta riposando. Non stai bene qui?»

Marie sollevò le spalle, senza dire nulla. Faloe si passò un ciuffo di capelli dietro l'orecchio, nervosa.

«Hai ricevuto le cose che ti ho mandato, allora...» fece, notando i pastelli che Marie aveva sparso sul pavimento. La bambina annuì, senza staccare gli occhi dal foglio.

«Guarda. Ti ho portato anche questa».

Faloe tirò fuori da dietro la schiena una tavoletta luminosa, che appoggiò a terra, tra loro due. Marie, curiosa, si fece più vicino.

«Cos'è?»

«È una tavola speciale. Puoi disegnarci, se vuoi... aspetta, ti faccio vedere».

Faloe tracciò un cerchio sullo schermo, al cui interno disegnò due puntini e un trattino. Il semplice schizzo di un volto sorridente.

«Manca qualcosa...»

Completò il disegnò con una serie di raggi, tutt'intorno al cerchio. Quindi toccò il bordo dello schermo, selezionò l'immagine e con un semplice tocco questa si colorò di un bel giallo intenso. Marie rise.

«Un sole».

«Sì, ma non sono certo brava come te. Sono sicura che tu sapresti fare di meglio».

Marie prese la tavoletta tra le mani. La guardò per qualche istante e poi vi appoggiò sopra un dito. Con pochi gesti, disegnò una piccola casetta, sotto il sole.

«Ti piace?» le chiese Faloe. Marie annuì, chinando la testa a studiare il disegno.

«È carina. Ma credo di preferire i pastelli e le matite».

Faloe sorrise.

«Penso tu abbia ragione».

«Voi avete tante cose, qui» disse Marie, tornando al suo disegno. «Ma questo posto è freddo che fa schifo. Non c'è nemmeno un quadro, una pianta... è pieno di queste cose che brillano e si illuminano, ma non danno molto colore a una stanza fatta di metallo...»

Faloe si guardò intorno. La sua stanza era effettivamente piuttosto spoglia. Strano che se ne rendesse conto solo adesso.

«Ecco, ti ho fatto un quadro».

La donna abbassò gli occhi sul foglio che Marie le stava mostrando. Emozionata, lo prese delicatamente tra le mani, lasciando che la tavoletta le scivolasse in terra.

«L'hai fatto per me?» chiese, sottovoce.

«Sì, così se ti piace lo puoi appendere».

Faloe fissava il foglio, senza sapere dove posare gli occhi. L'emozione era talmente forte, in lei, che l'immagine che aveva davanti le appariva del tutto confusa.

«Ti piace?»

Lei annuì. Sentì le labbra che le tremavano e si portò una mano alla bocca.

«Sì...»

«Puoi appenderlo qui, sopra la scrivania. O anche lì. Anche se non so ancora come... si può bucare il metallo?»

Faloe scoppiò a ridere. Aveva le lacrime agli occhi e guardava la bambina con intensità e calore.

«Sì» rispose. «Direi proprio di sì».


*



«Fateci uscire da qui, maledetti!»

Rebecca sferrò un calcio alla porta, che lo assorbì silenziosa. Era quasi un'ora che si ritrovavano rinchiusi in quella camera e lei cominciava ad averne abbastanza.

«Datti una calmata, sorella. Non verrà nessuno ad aprire».

Lei si voltò verso Sanson, che se ne stava stravaccato sul divano, muovendo uno stuzzicadenti tra le labbra.

«Perché non fai qualcosa?» ringhiò. «Te ne stai lì, tranquillo, mentre...»

«E cosa vuoi che faccia?» biascicò Sanson, spolverandosi la punta dello stivale con la mano. «Quelle pareti sono più dure dell'acciaio. Non c'è modo di uscire da qui, a meno che non siano loro a volerlo. E a quanto pare, non vogliono».

«Marie è ancora là fuori, e io devo sapere dov'è».

«Rilassati» fece lui. «Siamo su una nave. Dove vuoi che vada? E poi, anche Alex è fuori. Vedrai che sarà con lei».

Proprio in quel momento la porta si aprì e Alex venne spinta dentro alla stanza senza troppe cerimonie, davanti allo sguardo attonito dei suoi amici.

«Alex!»

Rebecca si precipitò a sorreggerla, e la ragazza per poco non si accasciò tra le sue braccia.

«Sto bene» gorgogliò, protendendo le mani. «Devo solo sdraiarmi un attimo».

«Si può sapere cos'è successo?» fece Rebecca, aiutandola a distendersi. Hanson e Sanson le si strinsero intorno, preoccupati.

«Dov'è Marie?» chiese Sanson, guardando nervosamente la porta chiusa. «Credevamo fosse con te».

Alex scosse il capo, lentamente. «No, io non l'ho vista».

«Dove sei sparita, allora?» chiese Rebecca, tergendole il sudore che le imperlava la fronte con un fazzoletto. Alex passò in rassegna i volti dei tre, indecisa su cosa dire.

«Ero... ero andata a cercarla, ma non l'ho trovata» mentì. Rebecca sospirò, agitata.

«Quella bambina mi farà impazzire» mormorò.

«Forse è con Nadia» suggerì Hanson. Alex strabuzzò gli occhi, sollevandosi sui gomiti.

«No!»

Tutti si volsero a guardarla, sconcertati.

«Si può sapere che ti prende, adesso?»

Alex si lasciò cadere sul letto. Chiuse gli occhi, quindi «Nadia» mormorò, con voce incerta «è stata lei. Ha... cercato di uccidermi».

«Ucciderti?» esclamò Rebecca, incredula. «Ma che dici?»

«Ero andata a cercarla. Volevo parlarle di Jean» confessò Alex. «L'ho trovata che vagava per i corridoi, come fosse ipnotizzata. Poi...»

«Poi?»

«Lei ha cominciato a parlare con la pietra. Era come se... non lo so, ma era strano. A un certo punto, la pietra ha cominciato a reagire, proprio come se stesse comunicando con lei».

«La pietra... intendi quella che si era portata dietro? Quella pietra?» fece Hanson. Alex annuì, e i tre si scambiarono un'occhiata fosca.

«Quando si è svegliata, abbiamo litigato. L'ho accusata di non fare abbastanza per Jean, e lei mi ha detto che non poteva. Alla fine, la discussione ci è scappata di mano, e lei ha cominciato a...»

Il volto di Alex prese a tremare e lei scosse il capo, ricacciando indietro le lacrime.

«Ha usato la pietra contro di te?» chiese Rebecca, ansiosa. Alex la fissò negli occhi, il volto striato di lacrime.

«Non so cos'è successo, ma è stato terribile» mormorò, scossa. «Mi sono sentita soffocare. Era come se il mio corpo stesse per esplodere dall'interno... e nella testa... avevo tutte quelle voci, e quelle parole incomprensibili che loro continuavano a urlarmi...»

«Alex...»

«Più io li supplicavo, più loro urlavano. Sentivo il loro odio, lo percepivo. Volevano uccidermi, e io non potevo fare nulla...»

Rebecca le prese il volto tra le mani, portandoselo al petto. Alex si abbandonò in singhiozzi, aggrappandosi a lei, disperatamente.

«Adesso stai tranquilla, è tutto finito» le sussurrò dolcemente Rebecca, avendo cura di sollevarle le ciocche di capelli incollate al volto tumefatto dal pianto. Sanson le pose una mano sulla spalla e lei si volse, reagendo al suo sguardo con un cenno d'intesa.

«Sembra che la nostra Nadia ci abbia nascosto qualcosa» rifletté Rebecca, smorzando i singhiozzi di Alex con una carezza. «Non so cosa ne pensate voi, ma forse sarebbe il caso trovarla, e di scambiare due parole con lei».


*



C'era silenzio nella stanza. Un silenzio denso, che le colava addosso e che il suo corpo assorbiva avidamente. Era lo stesso silenzio che aveva dentro, lo stesso cupo risuonare di pensieri confusi, che non andavano da nessuna parte e che cozzavano tra loro, in un nulla indistinto.

Nadia si avvicinò al letto. Si sedette, giungendo le mani in grembo e giocherellando con le pieghe della gonna. Nervosa, si alzò. Si versò un bicchiere d'acqua, ma aveva un sapore orrendo. Con una smorfia, la mandò giù, abbandonando il bicchiere e quello che ne restava all'interno sul bordo del tavolo.

Avrebbe voluto riflettere su quello che le era successo, ma allo stesso tempo avrebbe voluto far finta di nulla. Camminava inquieta per la stanza, cercando un pensiero qualsiasi a cui appigliarsi. Gargoyle, Jean... Jonathan. Alex.

I loro nomi resistevano nella sua testa la frazione di un secondo, come appesi a un filo sottile, tanto delicato da cedere sotto il loro esile peso.

Chiuse gli occhi, scacciando la voce di Gargoyle che aveva improvvisamente preso il sopravvento sui suoi pensieri.

Il dubbio.

Non c'era alcun dubbio. Era tutto chiaro, per lei.

La cosa era semplice. Aveva perso Jean, poi aveva perso il suo fidanzato. Da lì a poco, avrebbe perso anche gli amici. Non è che le restasse molto.

C'erano dubbi in tutto questo? No. Chi se ne importava del resto, della pietra, dell'umanità... era stanca. Se solo qualcuno le avesse chiesto «cosa vuoi, Nadia?» ora avrebbe saputo cosa rispondere.

Era veramente uno schifo. Questo mondo, tutto. Perché le cose belle arrivano solo quando è il momento di dir loro addio? E perché per ogni cosa bisogna lottare, per strappare con le unghie e con i denti un attimo di felicità al proprio destino?

Sarebbe stato bello. Essere normale, come tutti.

Il mio cuore è un uccello che canta...

Ridicolo. Com'è che proprio adesso le tornavano in mente quei versi?

Il mio cuore è un uccello che canta

con il nido tra fronde bagnate...

C'era stato un tempo in cui aveva sognato di poter essere felice. L'aveva immaginato, sperato. Per poco, non l'aveva vissuto. Poi era tutto finito.

Era colpa sua. Lui l'aveva ingannata. Le aveva fatto credere di essere come lui, di poter vivere come lui, ed essere amata come lui.

...Il mio cuore è simile a un melo

dai rami ricurvi sotto frutti carnosi...

Al diavolo.

Io non sono come te, Jean.

Avrebbe voluto dirglielo, sputarglielo in faccia, fargliela pagare per tutte le menzogne che le aveva raccontato. Le aveva detto che sarebbe stato per sempre. Non era vero. Tutto finisce. Gli esseri umani sono così. Dimenticano. Come lui si era dimenticato di dirle questo piccolo particolare, prima di trasformarla in quello che era, insegnandole cosa voleva dire amare. Prima che non potesse più tornare indietro.

...Il mio cuore è una conchiglia iridata

che si culla beata, in un mare sereno...

Grazie a lui aveva creduto di poter essere normale. Di poter amare ed essere amata. Di poter scegliere la propria vita. L'aveva fatto e aveva sofferto, facendo soffrire a sua volta per poi tornare a soffrire, a causa di un altro. Tutto per colpa sua. Chi, se non lui, l'aveva sorpresa un giorno, insinuandosi pian piano nel suo cuore? A chi aveva aperto se stessa, la prima volta? A chi aveva consegnato il segreto più intimo di tutto il suo essere?

Vattene al diavolo, Jean. Vai al diavolo, al diavolo...

Stupido essere umano, stupido uomo a cui non sapeva dire addio.

Stupido, stupido. Stupida.

...Il mio cuore è il più felice tra questi

perché il mio amore è venuto da me.

Tutte balle.

L'amore non esisteva. Esisteva solo l'egoismo dell'attrazione, che resisteva finché non si insinuava la noia, e la stupidità della natura umana. Quello che seguiva erano solo rovine. Come i versi di quella poesia, affiorata chissà come dalle macerie della sua memoria. Chissà perché proprio adesso, neanche a farlo apposta. Neanche a cercare una scusa, per odiarsi ancora di più.

Ancora una volta, le cose si ripetevano. Per quanto si tentasse, era impossibile fuggire al proprio destino.

Per questo, gli sarebbe andata incontro. Una volta per tutte.

«Maestà...»

Il soldato di guardia piegò il capo, inchinandosi profondamente. Era scosso, non credeva che la sua regina sarebbe uscita così presto dalla sua camera, né che si sarebbe mai rivolta proprio a lui.

Nadia lo fissava, ancora ferma sulla soglia. Lo sguardo vacuo e spento, la frangia scura che le calava come un sipario sugli occhi.

«Voglio vedere il comandante» mormorò.



*



Avanti.

John misurava a lunghi passi il suo alloggio, fermandosi ogni tanto, come per ascoltare qualcosa.

E muovetevi, per dio.

Si mosse di nuovo. Pochi passi, prima di fermarsi ancora nel mezzo della stanza. Strinse le labbra, passandosi nervosamente una mano dietro la nuca.

Un bagliore sottile risplendette da un angolo, alle sue spalle. Sulle prime, John non se ne rese neppure conto. Fu solo quando notò la propria ombra proiettata sul muro, che lentamente si volse, quasi incredulo.

Un piccolo oggetto di forma tubolare, posato su un tavolino, emetteva una luce bianca che cresceva sempre più di intensità. John si avvicinò, prima cautamente, poi con maggior decisione. Lo afferrò, fissandolo affascinato. Quindi lo svitò, posandolo nuovamente sul tavolo e allontanandosi di qualche passo.

Un'immagine tridimensionale si sviluppò sopra il piccolo proiettore. John attese. Ben presto, la luce intorno a lui si oscurò e si ritrovò immerso in una stanza buia, illuminata solo da alcune torce che emettevano una debole luce schermata di blu.

«Agente Fisher».

John sussultò. Dodici fiamme si accesero sotto altrettanti troni, disposti in un largo semicerchio di cui lui occupava il centro esatto. Si guardò intorno. Dodici uomini incappucciati sedevano sopra ai rispettivi seggi, disposti in ordine scalare. Il seggio centrale, il più alto, vedeva seduto un uomo che indossava un cappuccio di colore diverso rispetto agli altri. Doveva essere bianco, ma il riflesso delle luci lo tingeva di azzurro.

«Wiesbaden ci ha avvisati della sua chiamata» disse l'uomo, con voce gorgogliante. «Vista la situazione, abbiamo preferito prendere il suo posto, e parlare direttamente con lei».

John abbassò gli occhi, intimidito.

«Signori... è per me un onore».

«Come procedono le cose?»

Il volto chino, seminascosto nell'oscurità, John strinse le labbra.

«Abbiamo... qualche problema».

Ci fu silenzio.

«La donna sa tutto, ma si rifiuta di collaborare».

«Credevamo non sarebbe stato un problema, per lei, convincerla».

«Lo credevo anche io, ma evidentemente...»

«Evidentemente, lei ha sbagliato qualcosa».

John chiuse gli occhi.

«Agente Fisher, ci sta forse dicendo che ha fallito?»

«No, signore...»

«Sono dodicimila anni che attendiamo la riuscita del progetto. Avevamo quasi perso le speranze, dopo che quell'idiota di Ra Algol e la sua Neo Atlantide rovinarono tutto. Ora, finalmente, dopo anni di ricerche ci si ripresenta l'occasione... ha idea di cosa questo significhi?»

«Sì, signore...»

«Non possiamo fallire. Non più».

John deglutì.

«Signore, credo di poter ancora fare qualcosa...»

«Non mi interessa cosa può o non può fare, Fisher» gracchiò l'uomo. «Mi interessa solo che quella donna attivi l'Enneade».

«Sì, supremo Teofilo».

L'uomo tacque, tamburellando lentamente con le dita ossute sul bracciolo del suo seggio.

«Il ritrovamento insperato del nucleo energetico di Adam, a seguito dell'esplosione in cui fu disgraziatamente coinvolto il Red Noah, ci pone in una condizione di inaspettato vantaggio. Dubito che i nostri... Signori siano a conoscenza del potere di cui attualmente disponiamo. Se riuscissimo a riattivare l'Enneade, il processo di Trasformazione, una volta iniziato, sarebbe... irreversibile».

«Certo, signore» fece John. L'uomo lo studiò attraverso le orbite vuote che si aprivano sul suo cappuccio. Quindi allungò un dito verso di lui.

«La distanza tra il diventare Dio e diventare nulla, passa attraverso quella donna» esalò l'uomo. «Lei cosa vuole diventare, Fisher?»

«Ciò che voglio, è il bene dell'Ordine, signore».

«Meglio così. Perché se non posso essere Dio, le garantisco che farò in modo che lei diventi assolutamente nulla».

John si inchinò.

«È una promessa, agente Fisher».

«Sì, supremo Teofilo».

«Ci richiami quando avrà ripreso il controllo della situazione. Cosa che avverrà molto presto, voglio sperare».

John si inginocchiò, senza osare alzare gli occhi. Aveva usato il connettore per chiamare Wiesbaden, non si sarebbe mai immaginato di dover incontrare l'Ordine al completo. Digrignando i denti, maledì il suo superiore.

Alzò gli occhi. La stanza era sparita e lui era di nuovo solo, al centro della sua camera. Davanti a lui, sul tavolo, il connettore appariva completamente spento.

John si alzò, avvicinandosi al piccolo oggetto e agguantandolo. Lo tenne nel palmo, fissandolo pensoso per qualche istante. Quindi lo serrò tra le dita e lo ricacciò in tasca, un attimo prima di uscire.


*



«Comandante sul ponte!»

Atys entrò, salutando i presenti con un secco cenno del capo. Si diresse subito alla plancia di comando, dove venne immediatamente ragguagliato sulle ultime novità.

«Abbiamo inserito le coordinate, signore» fece un giovane ufficiale, seduto al timone. «Dovremmo raggiungere l'obiettivo entro pochi minuti».

«Condizioni?» domandò Atys, studiando il rapporto di bordo che gli porse Lucano.

«Ottime. Velocità ridotta, motori al minimo. Avviata procedura di avvicinamento».

«Avete individuato un luogo adatto su cui atterrare?»

«C'è un'isola, a sud est, piuttosto pianeggiante. Sembrerebbe il luogo adatto» rispose l'ufficiale addetto alla rotta. Atys osservò il punto dello schermo che quello gli indicava.

«Eccellente. Iniziate i rilevamenti. Se il luogo è quello giusto, si comincia».

«Sissignore».

«Signore, rilevo la presenza di due uomini» esclamò l'ufficiale al radar. «Sono quasi sotto di noi, e si muovono in successione verso nord est».

Atys si avvicinò allo schermo. Lucano, al suo fianco, si fece perplesso.

«Abitanti del luogo?»

«Negativo signore» affermò deciso l'ufficiale. «L'intera area appare deserta, ad eccezione dei due bersagli».

«Faccia una panoramica» ordinò Atys. L'uomo puntò un dito sullo schermo, tracciando un cerchio intorno ai due punti luminosi. Subito l'immagine mutò, mostrando una visione diretta della montagna da cui Jean e Atahualpa stavano scendendo.

«Che accidenti fanno, quei due?» mormorò Lucano. «Sembra che vogliano andare dove andiamo noi...»

La porta si aprì e un brusio concitato percorse l'intero equipaggio. Atys si volse giusto in tempo per veder entrare Nadia.

«Signori, La Regina».

Tutti i presenti scattarono in piedi, inchinandosi profondamente. Nessuno osava alzare il capo a guardare la giovane donna che faceva in quel momento il suo ingresso sulla plancia.

Sorpreso, Atys le si fece subito incontro.

«Maestà, a cosa devo...»

Lei lo evitò, scansandolo e volgendosi altrove.

«Sono qui per sapere se la sua offerta è ancora valida».

Atys aggrondò. Si volse verso Lucano che, per tutta risposta, sporse le labbra in un gesto di assoluta sorpresa.

«Certamente».

«In questo caso» riprese lei, «cominci a cercare quell'uomo. In cambio, farò tutto quanto desidera».

Un profondo silenzio avvolse i presenti nella stanza. Atys non si capacitava di un cambiamento tanto repentino, ma alla fine si volse con un sorriso compiaciuto verso l'ufficiale al radar, facendogli un cenno conciso con il capo. L'uomo annuì prontamente e con pochi gesti ingrandì l'immagine che aveva in quel momento sullo schermo. Nadia sollevò distrattamente lo sguardo su quello che era il volto ingrandito di un giovane uomo. Socchiuse gli occhi, aggirando con passo malfermo il tavolo al centro della plancia e portandosi direttamente di fronte al monitor. Non appena riconobbe il volto sullo schermo, impallidì.

«Lo abbiamo individuato poco fa» mormorò Atys, avvicinandosi alle sue spalle. «Per caso è lui l'uomo che stavate cercando?»

Nadia si chinò sullo schermo. Vi poggiò entrambe le mani, avvicinandosi ancora e accarezzando il profilo del volto di Jean con la punta delle dita.

«Sei... vivo».

L'immagine sparì, e lo schermo si fece nero. Sconvolta, Nadia si guardò intorno, disperatamente.

«Dov'è andato?» domandò, picchiando sullo schermo e sui pulsanti che trovò tutt'intorno. «Dov'è?»

«È solo un'immagine, è sparita per errore. Ecco, guardate» sussurrò delicatamente Atys, premendo un pulsante e stringendola per le spalle. Gli indicò lo schermo e lei si volse, gli occhi umidi e tremanti di una pallida luce. Lo schermo si accese e il volto di Jean riapparve immediatamente davanti a lei, strappandole una lacrima.

«Visto? É vivo e presto lo rivedrete, vi do la mia parola».

Nadia allungò una mano, ma questa volta non osò toccare lo schermo. Restò come incantata a fissarlo quindi, dopo un istante in cui le sembrò che il tempo si fosse fermato, annuì debolmente, con gli occhi che le tremavano per l'emozione. Senza dire una parola, se ne andò così com'era arrivata, senza mai voltarsi indietro.

Atys attese che la porta si fosse richiusa. Sospirò, gonfiando il petto. Quindi si volse, indirizzando al resto dell'equipaggio un cenno eloquente del capo. In un attimo, tutta la plancia di comando tornò a riempirsi di attività.

«Congratulazioni, comandante» fece Lucano, avvicinandosi a lui con un sorriso trionfante. «A quanto pare, è riuscito a trovare il modo per convincere la nostra amata sovrana a seguirci fino a casa».

«Non sono stato io, è stato quell'uomo» mormorò lui, voltandosi a guardare assorto il volto di Jean, che ancora campeggiava sullo schermo. «E sa una cosa?» fece, con un sorriso che gli balenò in volto. «Sono curioso di incontrarlo. Voglio assolutamente vedere chi è l'uomo che è riuscito a rubare il cuore della Regina di Atlantide».



*



«Ecco, fermiamoci qui».

Jean si guardò intorno. Erano sulla riva del lago e non c'era nessuno, a parte loro due.

«Qui? Ma...»

«Vieni» gli fece Atahualpa. «Guarda».

Il vecchio tirò una vecchia fune, che risultò attaccata a una piccola canoa ricavata da un tronco svuotato e che galleggiava poco lontano da riva. Con poco sforzo, la avvicinò, immergendosi nell'acqua fino alle caviglie per trascinarla in secco sulla spiaggia.

«Dovrai usare questa» disse, alzando gli occhi su Jean ed estraendo un lungo ramo dal fondo della canoa. Jean alzò un sopracciglio.

«Esattamente, per andare dove?»

«Laggiù».

Jean seguì con lo sguardo il dito smagrito del vecchio, incontrando il profilo sbiadito di un'isola.

«Sta scherzando» rise, nervoso. «Dovrei arrivare fin laggiù a bordo di quella?»

«Esatto».

«Ma saranno almeno cinque chilometri!»

«Sette, per l'esattezza» fece Atahualpa con un sorriso. «Ma sei fortunato. Oggi non c'è vento, e le acque sono tranquille».

«Che fortuna...»

«Cerca solo di non finire in acqua, quando sarai lontano da riva» disse Atahualpa, porgendogli la pertica. «Il lago è freddissimo e rischieresti di annegare in pochi istanti».

«Fantastico...»

Atahualpa sorrise.

«Il mio viaggio finisce qui, Jean» disse. Lo fissò in volto per alcuni istanti, quindi si portò una mano al collo, estraendo da sotto la logora lana del suo poncho una collana, da cui pendeva un medaglione di legno intagliato.

«Prendi questa con te» fece, tirando la collana e strappandosela dal collo. «È un portafortuna».

Jean tese la mano, osservando affascinato il medaglione che il vecchio depose sul suo palmo. Rappresentava un disco solare, racchiuso in un guscio di forma ovale. A prima vista, l'intero medaglione aveva l'aspetto di un grosso occhio.

«Appartiene alla mia tribù da generazioni» disse Atahualpa. «Me lo consegnò mia madre, prima di morire, quando ero ancora un bambino».

«Non posso accettarlo» mormorò Jean. Atahualpa rise.

«Certo che puoi. Questo è il simbolo del popolo dei Toltechi. Rappresenta lo spirito della nostra tribù. Da quando i Signori dell'Universo giunsero a visitarci, migliaia di anni fa, noi continuiamo a custodire i loro segreti, e a tramandare ciò che ci hanno insegnato. Da sempre, la tribù Tolteca nasconde i luoghi sacri al dio del Sole, in attesa del momento in cui secondo le leggende il dio sarebbe ritornato, per portare a compimento il ciclo del mondo. Ora, quel momento è giunto; e tu, Jean, sei diventato l'ultimo dei Toltechi, l'ultimo guardiano. Questo talismano ti guiderà, e ti permetterà di compiere il destino che ancora ti aspetta».

«Aspetti un attimo» fece Jean, aggrondando. «Cosa significa che siete i guardiani?»

«Quando i Signori giunsero, portando con loro la pietra del Sole, ci insegnarono le scienze, e le arti, e ci tramandarono la magia che possedevano. Prima di lasciarci, quando il mondo finì il suo primo ciclo e incominciò il secondo, essi ci lasciarono in custodia la Pietra Sacra, che le nostre leggende identificarono con Manco Capàc, il figlio del Sole. Esso è custodito nelle profondità di questo lago, e attende che qualcuno giunga a risvegliarlo».

«E cosa succederà quando si risveglierà?»

Atahualpa sospirò.

«Tu, ora, hai nelle mani il destino di un mondo, Jean» fece, posandogli le mani sulle spalle. «Il motivo per cui ti ho trovato, è perché fu Manco Capàc a guidarmi. Mi apparve in sogno, mostrandomi dove avrei potuto trovarti e indicandomi quello che avrei dovuto fare una volta che ti avessi trovato. Mi disse che eri molto importante, che tutto sarebbe dipeso da te. Mi disse che tu eri la porta, e la chiave attraverso cui il mondo avrebbe compiuto il suo ciclo».

Jean scosse il capo. «Non ci capisco nulla».

«Nemmeno io» fece Atahualpa, ridendo. «Ma capirai quando sarà il momento. Credo che tu abbia già incontrato Manco Capàc, solo che forse non hai saputo riconoscerlo...»

Jean si fece pensieroso. All'improvviso, il suo volto si illuminò.

«Quel bambino?»

Atahualpa annuì. «Lui appare sotto molte forme. Mostrandosi a te, ti ha scelto perché tu portassi a compimento la profezia, la profezia che racconta del ritorno del figlio del Sole, e della sua fine. Non posso dirti di più, perché non so di più. Sarà il dio a guidarti, lui saprà dirti ciò che devi fare. Ma tu, non avere paura. Un destino più grande aspetta di essere compiuto, un destino che può avere due diversi modi di compiersi: spetterà a te scegliere, Jean. Tu dovrai decidere se spezzare o no il ciclo eterno attraverso cui questo mondo continua a perpetuarsi. Qualunque sarà la tua scelta, essa sarà quella definitiva; ma ho fiducia in te, e so che sceglierai per il meglio».

«Cioè, dovrei scegliere se distruggere il mondo o no?» fece lui, incredulo, abbassando con timore gli occhi sul medaglione che ancora stringeva in mano.

«Nulla finisce mai davvero, Jean» gli rispose Atahualpa, sereno. «Ciò che finisce, segna sempre l'inizio di qualcosa di nuovo, e un altro ciclo si apre».

«Bella prospettiva...»

«Ora va'» gli disse il vecchio, spingendolo impaziente verso la canoa. «Presto i tuoi amici saranno qui».

«Ma come farò a incontrarli se...»

Atahualpa sorrise e Jean sollevò le spalle, disarmato.

«Ho capito, devo imparare a guardare nel posto giusto».

«Oh, no. Basta che alzi gli occhi».

Un'ombra improvvisa oscurò il sole. Jean sollevò gli occhi al cielo, fissando stupefatto l'immensa nave che era apparsa come dal nulla a sorvolare il lago, alta sopra le loro teste. Aveva la forma di una gigantesca megattera, e le pareti del suo scafo rilucevano di un rosso intenso, che lanciava bagliori di porpora e rubino. Non fosse stato per il rombo sordo che riempiva tutta la vallata, facendo tremare la terra sotto i loro piedi, la nave sarebbe stata assolutamente silenziosa.

«Cosa...»

Incredulo, Jean abbassò gli occhi, cercando conforto nello sguardo di Atahualpa. Ma era inutile. Desolato, aprì la mano, indugiando con gli occhi sulla collana che stringeva tenacemente in pugno, sospirando. Non c'era più nessuno, lì con lui. Il vecchio era sparito.

Il suo viaggio, al contrario, era appena cominciato.













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Capitolo 22
*** 21 ***


«Come facciamo a uscire?»

Winston lanciò a Lisa la pistola che aveva appena sottratto alla guardia. Lei la prese con un grido, tenendola tra le mani come se fosse incandescente.

«Dalla porta, esattamente come tutti gli altri» le rispose lui. Si guardò attorno. C'erano almeno una trentina di persone in banca, in quel momento, tra clienti e impiegati. Li aveva radunati tutti nell'atrio, dove li aveva fatti sdraiare a terra. Per un attimo aveva persino pensato di rinchiuderli nel caveau, ma ci avrebbe messo troppo tempo; e poi, l'idea che gli era appena venuta in mente per fuggire di là era talmente pazza che poteva persino funzionare. Ma per metterla in pratica, aveva bisogno di tutte quelle persone.

Alzando la pistola, Winston calamitò su di sé gli occhi di tutti.

«Bene signori» disse, schiarendosi la voce. «Avete tre secondi di tempo per uscire tutti quanti da qui. Perciò, vi consiglio di farlo in fretta, prima che io cambi idea».

Lasciò che i suoi occhi vagassero sui volti smarriti dei presenti. Ai suoi piedi, le persone presero a interrogarsi perplesse le une con le altre, lanciandosi sguardi allarmati. Qualcuno osò accennare a una timida reazione, qualcun altro preferiva restare sdraiato a terra, con le mani sopra la testa.

«Uno...»

Niente. Per movimentare un po' le cose, Winston fece scattare il cane del suo revolver.

«Due...»

Qualcuno cominciò a sollevarsi in piedi, seppur con una certa cautela. A quel punto, Winston allungò il braccio e lo strinse intorno alla vita di Lisa, traendola a sé.

«Tre!»

Esplose un colpo in aria. Tutte le persone presenti gridarono come in preda ad un'isteria generale, mentre si precipitavano contro le porte, sollevando una gran confusione. Per qualche istante nessuno riuscì a uscire, perché la calca era troppa e gli ingressi erano intasati da gente che pensava solo a farsi largo spintonando chi aveva vicino. Ci furono grida, schiamazzi, volò qualche pugno; ma poi, di colpo, tutti si riversarono all'esterno in preda al panico, come un fiume che avesse improvvisamente rotto i suoi argini. Non appena la gente nell'atrio cominciò a scemare, Winston cinse Lisa ancora più stretta.

«Stia pronta» mormorò. Lei non capiva, e lo guardava confusa.

«Cosa?»

«Ora!»

Winston attese che le ultime persone uscissero dalla banca, quindi scattò deciso verso le porte trascinandosi dietro la ragazza, che lanciò un grido di assoluta sorpresa. Quando furono all'esterno, il sole di mezzogiorno li colpì violentemente in faccia, e Lisa strizzò gli occhi, alzando una mano per ripararsi. Ci mise un po' ad abituarsi alla luce: e mentre Winston continuava a correre costringendola a tenere il passo, così da mischiarsi alla massa di gente che fuggiva terrorizzata tutt'intorno a loro, lei cercò di non perdere l'equilibrio, stringendosi fortemente al braccio di lui.

«Di qua, presto» le fece Winston, a denti stretti. Lisa non capiva nulla, si lasciava semplicemente trascinare lungo la strada, come un cane al guinzaglio. Nella foga, si accorse vagamente che stringeva in mano qualcosa di pesante: abbassò gli occhi e con evidente sorpresa si ritrovò a fissare la pistola che ancora teneva in pugno. Non appena se ne rese conto, gridò, sollevandola in aria e agitandola. Voleva liberarsene, ma le si era impigliato l'indice nel ponticello.

«Oh, mio dio!»

«Ma che diavolo fa?» esclamò Winston, abbassandole la mano con un gesto brusco. «La getti via, subito».

Un cordone di uomini vestiti di nero apparve all'improvviso, allargandosi intorno al perimetro della banca, mentre cercava in tutta fretta di frenare la fuoriuscita delle persone. Senza nemmeno accorgersene, i due ci stavano proprio andando a sbattere contro.

«Getti via quell'arma, subito» sibilò Winston, afferrando la pistola che Lisa teneva tra le mani e gettandola in un cespuglio a margine della strada. Ma era troppo tardi: uno degli agenti li sorprese; incrociando il suo sguardo, Winston invertì la rotta all'ultimo istante, cercando di nascondersi dietro a un gruppetto di persone. Lisa, che non se l'aspettava, per poco non inciampò.

«Dico, ma che modi...»

«La smetta di blaterare, e si muova!»

Il cordone di uomini si stava facendo sempre più stretto. Winston lanciò un'occhiata veloce alle proprie spalle. Sembrava che nessuno li stesse seguendo, per il momento, anche se quella fortuna non sarebbe certo durata per molto. Dovevano allontanarsi da lì, perché presto qualcuno avrebbe potuto identificarli...

«Sono loro!»

«Sì, sono quei due!»

Appunto.

«Dannazione!» sussurrò Winston, mordendosi le labbra. Si guardò rapidamente intorno. Gli agenti del consiglio avevano abilmente circondato tutta zona antistante la banca. Non c'era posto in cui poter scappare. L'unica possibilità era rifugiarsi nella banca, dove molto probabilmente avrebbero fatto la fine del gatto col topo.

«Fermi!» gridò qualcuno, poco distante da loro. Winston imprecò. L'ultima possibilità, era sorprenderli con una mossa inaspettata, e tentare così di bucare in qualche modo il cordone di sorveglianza.

«Corra» fece Winston, strattonando Lisa per un braccio. Lei cercò di stargli dietro, ma i suoi tacchi glielo impedirono. Incespicò; e lui se la ritrovò addosso, perdendo l'equilibrio a sua volta e stramazzando in mezzo alla strada, proprio ai piedi di due agenti che in un attimo furono sopra di loro, immobilizzandoli e mettendo così fine a ogni loro tentativo di fuga.

«Spero sia contenta, Calamity Jane» ringhiò Winston, liberandosi in malo modo della ragazza che sgambettava in aria, riversa sopra di lui. «Perché diavolo non ha buttato via quella pistola, razza di stupida?»

«Perché lei non me l'ha detto!» si giustificò Lisa, con voce lamentosa. «E lasciatemi, so alzarmi da sola!» fece, allontanando gli uomini che la circondavano con un gesto stizzito. Questi indietreggiarono giusto di un passo, facendo cerchio intorno ai due. Winston si alzò in piedi, e gli agenti lo immobilizzarono, mettendogli delle manette ai polsi e stringendolo saldamente per le braccia. Lui non oppose nemmeno resistenza.

«Guarda, guarda chi abbiamo qui: Winston Churchill. Finalmente, ci rivediamo».

Gli agenti si fecero da parte, per lasciar passare un uomo alto e robusto, dal fisico atletico e asciutto. Aveva i capelli brizzolati, sebbene fosse ancora piuttosto giovane, e una barba leggera che gli adombrava elegantemente il volto. Gli occhi azzurri e profondi lasciavano trasparire una gioia maligna, a stento repressa dalle labbra leggermente stiracchiate sul volto spigoloso ma nel complesso decisamente piacevole. Con eleganza, si sfilò i guanti e li gettò nel cappello.

«Samuel Priscoe» ghignò Winston. «Che dispiacere vederti».

«Quanto credevi di poter scappare al Consiglio, Winston bello?» fece lui, infilandosi una mano in tasca, mentre con l'altra faceva ondeggiare leziosamente il cappello. «Sapevi benissimo che anche un invisibile agente speciale come te, sarebbe stato identificato nel giro di qualche ora. Sono tante le persone che hanno avuto la sfortuna di conoscerti».

«Tu sopra tutte».

«Io sopra tutte» ripeté lui. «Ma per quanto sapessi che razza di idiota sei, anche sforzandomi non avrei mai immaginato che tu arrivassi a fare quello che hai fatto».

«Samuel, io non ho fatto nulla» si giustificò Winston. «So che può sembrarti impossibile...»

«Già, come no» rise l'altro. «Non l'ho mai sentito dire a nessuno».

«Se solo cercassi di ascoltarmi, invece che usare questa situazione per sfogare la tua consueta arroganza...»

Lisa trasalì. Si schiarì la voce e tirò delicatamente Winston per la manica del vestito. Lui si voltò, a fulminarla con gli occhi.

«Sa» disse lei sottovoce, arrossendo «non credo che offendere la gente sia il modo migliore per farsi ascoltare...»

«E questa chi sarebbe?» fece Samuel, piantando gli occhi addosso a Lisa e prorompendo in un sorriso smagliante. «Non sarà mica la tua fidanzata, vero Winston bello?»

«Mi chiamo Lisa Stanfields e le pregherei cortesemente di non rivolgersi a me come a una donnaccia di strada» rispose lei, piccata. Samuel ammiccò, improvvisamente serio.

«So chi è lei, signorina. I nostri ordini erano di darle la caccia, proprio come per il nostro amico, qui» fece, accennando gravemente a Winston. «Ma ha ragione. Mi scuso per la mia impertinenza. Non intendevo mancarle di rispetto».

Lisa arrossì, vedendo che l'uomo si inchinava leggermente; segno che, in fondo, era piuttosto sincero.

«Non fa nulla» mormorò, confusa. Winston fece una smorfia.

«Cosa hai intenzione di fare, ora?» disse, rivolgendosi a Priscoe. Quello inarcò le sopracciglia.

«Sai come vanno queste cose, Winston bello. I traditori hanno un solo, comune destino. Non c'è bisogno che te lo ricordi, no?»

«E hai intenzione di ucciderci qui? Davanti a tutti?»

«Ho intenzione di portarti al Consiglio, dove renderai conto di tutto quello che hai fatto».

Winston scoppiò a ridere. «Ma che gentili. Prima cercate di ammazzarmi inviandomi degli assassini a domicilio, poi mi offrite un processo? Sono quasi commosso».

«Non gestivo io le operazioni, Winston» fece Samuel, rimettendosi il cappello. «Per quanto sia fortemente tentato di spararti in mezzo alla faccia per cancellarti quell'espressione di sufficienza dal volto, io rispetto i miei antichi compagni... e amici».

«Tu non hai amici, sei solo un bastardo».

Samuel ghignò, calcandosi il cappello in testa e infilandosi i guanti.

«Peccato per te, Winston bello, perché ora come ora, avresti bisogno di tutti gli amici possibili... anche di un bastardo come me. Portateli via» ordinò, prima di allontanarsi.



*



«Per di qua».

Michael imboccò un lungo corridoio debolmente illuminato. Non c'erano porte, né scale. Solo due lunghe pareti di cemento imbiancato, che correvano parallele a poca distanza tra loro.

Un omino sottile e silenzioso lo guidava svelto lungo quella specie di catacomba, dove l'aria era talmente rarefatta che quasi si soffocava. Michael sentiva la testa farsi sempre più leggera; e forse era solo una sua impressione, ma avvertiva come una leggera pendenza, quasi che il pavimento si stesse lentamente inabissando. Boccheggiando, si passò una mano sulla fronte.

«Quanto dobbiamo proseguire, ancora?»

L'omino si voltò, il volto impassibile.

«Questa è un'area di contenimento. Non manca molto. Probabilmente fa fatica a respirare, perché l'aria viene filtrata attraverso una serie di accorgimenti architettonici».

«Accorgimenti... architettonici?» fece Michael, alzando perplesso gli occhi al soffitto. «Io non vedo nulla di particolare».

«Perché non può» rise l'omino, distaccato. «Gli ultimi cinque piani interrati del palazzo, sono stati costruiti impiegando le tecniche che vennero usate per innalzare le piramidi in Egitto. Si tratta di una serie di gallerie molto strette e che seguono una particolare inclinazione, in modo da convogliare l'aria verso punti di sfogo, così da farne filtrare il meno possibile nelle stanze della biblioteca».

«E questo perché?» chiese Michael. Aveva il fiato corto. Ma forse, era solo suggestione, la sua.

«L'aria è composta da ossigeno. Come tutti sanno, l'ossigeno produce ossidazione. Lo dice il nome stesso. Se sottoposta a un quantitativo normale di ossigeno, come quello contenuto naturalmente nella biosfera, la carta si ossida e ingiallisce, andando progressivamente in putrefazione. Per questo, abbiamo adottato lo stesso sistema che gli egizi utilizzarono per preservare nel tempo le mummie dei loro faraoni. Un sistema utile, che permette di sottrarre aria là dove non serve e di rallentare così il decadimento della materia. Tutto, adottando semplici accorgimenti durante la fase di costruzione dell'edificio. Chiaro?»

«Penso... di sì».

«Certo questo comporta qualche svantaggio. Uno per tutti, il fatto che là dentro non può passarci troppo tempo, perché l'assenza prolungata di una sufficiente quantità di ossigeno le provocherebbe un'embolia. Per sicurezza, una volta in biblioteca, non superi i dieci minuti. Siamo d'accordo?»

«Certo» fece Michael, deglutendo. E cosa poteva trovare in dieci minuti? Nemmeno sapeva esattamente cosa cercare.

«Lei sa esattamente cosa cercare, vero?» chiese l'omino. Michael impallidì.

«Sì... naturalmente».

«Meglio così. Solo per consultare il catalogo impiegherebbe ore. Se mi dice esattamente dove vuole che l'accompagni...»

«È davvero così grande, questo archivio?»

«Grande?» ridacchiò l'uomo. «Qui custodiamo l'equivalente delle settantacinque biblioteche più importanti del mondo. L'intero archivio si estende per cinque piani sotterranei, tre dei quali occupano una superficie pari quasi a quella di due interi isolati. Ma dipende che concetto ha lei per grande».

«Ed è tutto qui? Voglio dire... tutto quello che vi serve, è qui?»

«Non sia ridicolo» fece l'uomo. «L'archivio si aggiorna periodicamente. Per far posto ai nuovi volumi, quelli meno in uso sono inviati alle succursali in giro per il mondo. Ne abbiamo qualche centinaio, solo in Europa».

Caspita.

«Ecco, siamo arrivati».

Michael spalancò gli occhi di fronte alla sorprendente porta che avevano davanti. Si trattava di una porta completamente trasparente; ma il materiale di cui era fatta non aveva nulla a che vedere con il semplice e comunissimo vetro. Sembrava spessa e resistente, ma al tempo stesso era anche perfettamente liscia e traslucida, tanto che sembrava, a prima vista, quasi impalpabile.

«Si tratta di Tectite speciale» fece l'uomo, passando una sottile scheda attraverso una fessura che fungeva da serratura. Questa si illuminò e la porta si scompose in tre distinte sezioni che vennero riassorbite nel muro. Ancora incredulo su quanto stava vedendo, Michael passò attraverso la porta, accorgendosi con stupore che doveva essere spessa almeno un metro.

«Tectite...?» chiese, osservando con stupore la porta, che si richiuse in un soffio alle sue spalle.

«Esatto. Si tratta di un composto chimico di ultima generazione, impenetrabile a qualsiasi cosa. Purtroppo, la sua sintesi è estremamente difficile da realizzare, perché il minerale che serve a crearla è rarissimo e quasi esaurito. Per di qua, prego».

L'uomo condusse Michael in una stanza enorme, illuminata a giorno. Le lampade erano nascoste, e sembrava quasi che le pareti stesse splendessero di luce propria. Una serie di lunghissimi tavoli occupava il centro della stanza, oltre la quale, al di là di una vetrata, era possibile scorgere tutta una fila di librerie che si innalzavano fino al soffitto, per un'altezza di almeno quattro o cinque metri. Senza contare le balconate più in alto, dove erano stipati ancora altri volumi, l'intera stanza doveva contenere migliaia di libri e fascicoli.

«Impressionante, vero?» sospirò l'uomo, con orgoglio. «E consideri che questa è solo una delle quindici stanze di questo piano. Da questa parte, le faccio vedere il catalogo».

Michael seguì l'uomo oltre un'apertura nel muro. In una stanza molto più piccola, ma grande abbastanza per contenere comodamente una cinquantina di persone, c'era un gigantesco macchinario, che emetteva un sottile ronzio.

«Che roba è?»

«Questo è il Magi I» fece l'uomo. «È un prototipo di super calcolatore sviluppato per noi dal MIT di Boston. Lo usiamo per testare la possibilità di inserire tutti i dati dell'archivio in uno spazio molto più ristretto e che permetta una più facile consultazione. Dentro quei dischi» fece, indicando a Michael un'intera parete piena di piastre di metallo «può trovare l'equivalente del trenta per cento della nostra intera collezione libraria. Notevole, non trova?»

«Assolutamente...» fece lui, del tutto basito. «Ma... che cos'è un calcolatore?»

L'uomo rise. «È una specie di cervello elettronico. Diciamo che questa macchina riesce ad elaborare i dati come farebbe un essere umano. Noi gli forniamo ciò che deve ricordare, e gli poniamo delle domande, digitando tutto su quella tastiera».

«Quella che sembra una macchina per scrivere?» fece Michael, perplesso.

«Esatto. E una volta inserita la domanda, il calcolatore fornisce la risposta. Per esempio, mettiamo che io debba sapere dove si trova il tal volume. Digito il nome e... il gioco è fatto. Niente più lunghe consultazioni al catalogo, niente più attese. In pochi secondi ho la scheda del volume e la sua collocazione».

«Sensazionale» mormorò Michael. Era vero. Se solo fosse riuscito a uscire di là, avrebbe avuto materiale a sufficienza per scrivere un libro di fantascienza e campare di rendita per il resto della sua vita.

«Questo, invece, è il catalogo cartaceo» disse l'omino, indicando una serie di cassetti che in totale occupavano due pareti alte fino al soffitto. Per raggiungere gli ultimi cassetti era necessario utilizzare la scala. «Naturalmente, non è il catalogo generale, ma solo quello della sezione moderna» continuò l'uomo, aprendo un cassetto e mostrando l'inverosimile quantità di foglietti che conteneva. «Per quello generale è stata necessaria una stanza molto, molto più grande... allora» disse l'impiegato, battendo le mani. «Come posso esserle utile?»

Michael deglutì.

«Ecco, sto cercando...»

L'uomo annuì.

«... avrei bisogno... di...»

«Si sbrighi, non abbiamo tutto il giorno».

Michael si morse le labbra. Stava per dire mi serve tutto quello che avete su Nadia Ra Arwol, ma prima che potesse commettere una sciocchezza del genere, una luce nel muro cominciò a lampeggiare, attirando lo sguardo severo dell'impiegato.

«E adesso che succede?» fece. «Lei mi aspetti qui. E non provi a entrare da solo, perché rischia di perdersi e una volta là dentro dieci minuti passano in fretta. Farò prima che posso».

Michael annuì. Quasi non credeva alla fortuna che aveva avuto.

Attese che l'omino uscisse dalla porta di Tectite speciale quindi, senza pensarci due volte, si avvicinò al Magi. Sulla tastiera provò a digitare Nadia Ra Arwol, ma il calcolatore, dopo qualche attimo in cui produsse nulla più che un sottile ronzio, non diede alcun tipo di risultato.

Maledizione. Ma come funziona questo coso?

Provò a digitare Neo Atlantide, ma ugualmente non ci furono risultati. Forse non era sufficiente scrivere sulla tastiera. Magari doveva anche schiacciare qualcosa.

Ma cosa?

La porta si aprì nuovamente. Michael si nascose, credendo che fosse tornato l'impiegato dell'archivio. Ma si sbagliava. Udì delle voci, e numerosi passi. Con circospezione, si affacciò alla porta.

«Un luogo insolito in cui fissare un incontro, Caprivi».

La voce era roca e profonda. Michael cercò di guardare meglio. Davanti a lui, a pochi metri di distanza, Caprivi si intratteneva con alcune persone misteriose. Una di esse era un uomo alto e magro, dal volto serio e squadrato. Aveva una barba che gli correva lungo tutta la mascella, ma era del tutto privo di baffi. I capelli gli ricadevano radi sulla fronte, e portava due occhiali piccoli e tondi, che torreggiavano sul naso aguzzo a proteggere due occhi sottili e incavati. Al suo fianco, quattro uomini vestiti di nero, dall'aspetto decisamente poco raccomandabile.

«Non qui. Mi segua nella sezione F».

Michael li vide spostarsi, ed entrare nella stanza della biblioteca. Non appena la porta si fu richiusa, lui uscì allo scoperto, mettendosi sui loro passi. Aveva appena poggiato la mano sulla porta quando intravide l'impiegato dell'archivio che trottava verso di lui, passandosi un fazzoletto sul volto. Senza pensarci, Michael entrò.

La sala era immensa, anche perché ciò che era possibile intravedere dalla vetrata non era che una minima parte dell'intera stanza. Era vero che l'aria era più rarefatta, là dentro: Michael sentì immediatamente la testa farsi molto più leggera. Dovette slacciarsi il colletto della camicia e allentare la cravatta, perché ogni passo che faceva gli costava fatica.

Percorse il corridoio laterale, prestando attenzione a non farsi sorprendere. Sussultò, al suono della porta che si aprì dietro di sé. Con prontezza, si dileguò tra gli scaffali.

«Signor Boswell? Signor Boswell, dove si è cacciato?»

Era l'impiegato. Michael strinse le labbra. Una porta scattò, poco più avanti. Michael si affrettò a raggiungerla.

La aprì. E un altro breve corridoio lo condusse a una nuova stanza. Anche lì non trovò nessuno. Cominciava a temere che si sarebbe presto smarrito, anche perché le porte che si aprivano sui lati di ogni stanza erano più di una.

Provò ad aprirle tutte, ma ogni porta dava su un corridoio diverso. Non c'era modo di sapere quale tra essi avesse potuto condurre alla sala F.

«Agente Boswell, le avevo raccomandato di non gironzolare da solo».

Michael si volse. L'impiegato dell'archivio era in piedi davanti a lui, le mani sui fianchi e lo sguardo severo puntato sul suo volto.

«Mi vuole dire cosa sta cercando?»

«Ecco, lei non arrivava e...»

«E aveva così tanta urgenza?»

«Veramente, sì. Ho bisogno di raggiungere al più presto la sala F».

«È da quella parte, ma lei non ci andrà ora. Deve prima uscire e aspettare mezz'ora per ossigenarsi di nuovo. Mi segua prego».

Un tonfo improvviso risuonò greve tra gli scaffali. L'uomo si volse, sul volto uno sguardo sorpreso. Mosse un passo, barcollò, quindi cadde al suolo svenuto. Con un sospiro, Michael posò a terra il gigantesco volume di Archeologia degli antichi regni, con cui aveva colpito l'impiegato alla testa.

«Mi dispiace amico, ma non ho proprio tempo per questo, ora».

Varcò la porta che l'uomo gli aveva indicato. Il corridoio era deserto come gli altri. In fondo, si intravedeva un'altra porta, che evidentemente dava su un'altra sala. La raggiunse e la aprì leggermente. La serratura scattò con un rumore secco. Michael lanciò un'imprecazione appena sussurrata.

Voci. Qualcuno stava parlando poco lontano dall'ingresso, nascondendosi tra gli scaffali.

Bene. Era nel posto giusto.

«... comunque, per quanto sia, non dovete più preoccuparvi di nulla. Ora la Regina è nelle mani dei Signori e Fisher è con lei. De Molay è morto. Non c'è più nessuno che possa farle del male».

«Ottimo. Ora che il Consiglio è allo stremo, non ha più alcuna speranza di vincere questa battaglia. Tutto ciò che ci interessava, era impedire che potesse arrivare a mettere le mani sulla Regina prima del tempo...»

«Le ripeto che anche se Churchill è ancora vivo, ormai non rappresenta più alcun problema. Anche se lo volesse, non potrebbe in alcun modo raggiungere Nadia Ra Arwol e ucciderla».

Michael sussultò. Dunque era quello il motivo per cui Winston voleva trovare Nadia?

Altro che proteggerla.

Con cautela, si mosse tra gli scaffali. Nella penombra era difficile scorgere dove andare, ma lui si lasciava guidare dalle voci. Presto, trovò i sei uomini riuniti al centro della sala, i volti illuminati da una pallida luce da scrivania posta su un tavolo.

«Allora, Caprivi» disse l'uomo alto e magro, «veniamo al motivo per cui siamo qui».

Caprivi estrasse un taccuino dalla tasca della giacca e lo posò sul tavolo, facendolo scivolare verso l'uomo. Quello lo prese e lo aprì, scorrendone velocemente le pagine.

«È quello che cercavamo?»

«È il diario personale di De Molay» fece Caprivi. «Lì troverete tutte le informazioni che cercate».

L'uomo sogghignò e fece sparire il taccuino in tasca.

«Ottimo. Le siamo tutti molto grati».

«Non lo faccio per lei, Wiesbaden, né per la SEELE, se è questo che vuole sapere».

«Non ci chiamiamo più così da molto tempo, dovrebbe saperlo» fece Wiesbaden, con un ghigno. Caprivi abbassò il volto.

«SEELE, Ordine di Thule... per me è lo stesso. Non cambia che il nome».

«Come vuole» rispose Wiesbaden.

«Che accadrà ora?»

Wiesbaden sporse le labbra.

«Ora? Ora, finalmente, il progetto Deus troverà il suo compimento» fece. «Dopo la guerra che avete condotto contro Neo Atlantide e Gargoyle, credevamo di aver perso per sempre la Regina. Pensavamo tutti che fosse morta nell'incidente occorso al Red Noah, il Noè Rosso, la nave sacra dove il Generale Gargoyle l'aveva rinchiusa».

«Anche noi lo pensavamo» commentò Caprivi.

«Certo che lo pensavate. Ne eravate ben contenti. L'ultima discendente della Prima Razza Ancestrale era scomparsa... coloro che avevano creato l'uomo a propria immagine e somiglianza non esistevano più, sulla terra; nessuno avrebbe potuto più accedere alle ricchezze della loro gloriosa civiltà e tornare ad assumere il potere dell'intero pianeta, e dell'intero universo... noi, poveri disgraziati appartenenti alla progenie di Atlantide... senza l'erede al trono, senza colei che nel suo seno racchiude l'essenza della vita che le è stata trasmessa dagli dei che forgiarono le Pietre, non eravamo nulla. Nessuno di noi, per quanto appartenente alla Razza Ancestrale, avrebbe mai potuto governare le Pietre Sacre. Nessuno di noi avrebbe potuto completare il progetto. Nessuno di noi avrebbe mai potuto dominare la materia, e la vita. Con la morte di Nadia Ra Arwol, eravate finalmente salvi».

«Salvi?» fece Caprivi, sbuffando. «Lei la chiama salvezza, vivere nel mondo in cui ci avete costretto? Voi ci avete dato la vita, migliaia di anni fa. Voi ci avete insegnato tutto quello che sappiamo. Ma era meglio non nascere, che nascere liberi o schiavi in questo mondo disgustoso in cui voi ci avete abbandonato».

«Lei non capisce, Caprivi» commentò Wiesbaden. «Voi esseri umani non eravate che un giocattolo. Siete nati per errore, per prova. Fu solo perché avevamo bisogno di sperimentare le nostre teorie, che voi siete nati. Non siete che topi da laboratorio, cavie. Quando i nostri progenitori di Atlantide crearono Adam, utilizzando il potere generativo delle nove Pietre Sacre, l'Enneade, essi erano a un passo dal divenire dei. Tutti noi atlantidei avremmo potuto sostituirci a coloro che ci avevano creato, lasciandoci le Pietre in eredità. I nostri dei... noi eravamo il popolo prescelto da loro, l'unico in tutto l'universo; il solo che avesse il diritto e il dovere di generare la vita. Per questo creammo Adam, il Primo: lui era noi, la nostra creatura. Identico a noi, nell'aspetto e nella forma, ma capace di racchiudere, nella sua magnifica imponenza, tutto ciò che eravamo stati. Se solo fossimo riusciti a liberare l'energia dell'Enneade... congiungendoci con l'essenza di Adam, avremmo attivato il processo di Trasformazione, e ora l'universo conoscerebbe un corso differente. Ci sarebbero nuovi dei da venerare, non ci sarebbe più sofferenza, né dolore. Solo un paradiso infinito, nel tempo e nello spazio».

«Quindi è questo quello che volete fare?» lo interruppe Caprivi. «Volete diventare dei

«Vogliamo diventare ciò che eravamo destinati a diventare, e che ci è stato impedito!» sbottò Wiesbaden. «Quando creammo Adam, non ci fermammo a lui. Un Secondo venne creato, Lilith. Essa era necessaria. La creammo dal nucleo di Adam, mentre Adam venne creato dall'energia delle Pietre stesse. Da Lilith generammo l'uomo. Dovevamo farlo, per verificare la consistenza delle nostre teorie. Se l'uomo, una volta creato, una volta fattosi umanità, simile a noi, avesse potuto trasformarsi in qualcosa di simile a un dio... allora anche per noi sarebbe stata possibile una tale trasformazione. Ma per farlo, dovevamo lasciare che l'uomo vivesse, si moltiplicasse, che acquisisse memoria, vita, storia. Dovevamo lasciarlo essere nel mondo, lasciarlo crescere e far sì che sperimentasse tutto quello che lo avrebbe reso simile a noi: l'amore, il dolore, la gioia e la sofferenza. Per questo lo facemmo vivere al nostro fianco. Lo aiutammo a crescere come fosse un figlio, proteggendolo come qualcosa di assolutamente prezioso».

«Figli? Prezioso? Voi ci avete solo consegnato alla sofferenza!» sibilò Caprivi. «Quello che lei chiama amore, è stata in realtà la nostra condanna».

«Forse, o forse no. Quello che avevamo in serbo per voi, era farvi diventare l'essere più perfetto e vicino a dio mai realizzato. Se la fusione finale di tutta l'umanità con l'essenza di Lilith avesse avuto successo, voi sareste tornati ad essere un solo, unico spirito che viaggiava in sincrono con l'universo. Voi sareste stati accanto a noi, una mente unica e sola, un unico sentire al di là di ogni corpo e materia. Voi sareste stati pari a dio, pari a noi».

Wiesbaden rise, prendendosi una pausa.

«Ma questo non fu possibile. Una parte di noi, su Atlantide, si ribellò, sostenendo che ormai il genere umano aveva una propria storia e identità, che non avevamo il diritto di continuare a considerare l'uomo come qualcosa di nostro. Che sciocchezza. Senza di noi, l'uomo non sarebbe mai stato in grado di sopravvivere a se stesso. Gli mancava la lungimiranza, e la capacità di fare memoria dei propri errori. Come tutte le copie, esso era imperfetto rispetto all'originale, e noi lo sapevamo. Ma il buon cuore di parte della popolazione di Atlantide, affezionata ormai ai suoi schiavi, decise di interrompere il progetto. Ci fu una guerra. I ribelli vinsero e il nuovo governo organizzò quattro Navi, le Quattro Arche, che vennero usate per allontanare dal nostro pianeta Adam, Lilith, il Trismegisto e la Lancia Sacra di Atlante. Lo scopo era di separare Adam da Lilith e trovare a ciascuno un pianeta su cui poter far proliferare la propria discendenza. Da Adam sarebbe scaturita la Razza di Atlantide, da Lilith sarebbe scaturita la razza umana. La Lancia e il Trismegisto sarebbero stati allontanati fino agli estremi confini dell'universo, per impedire che qualcuno potesse nuovamente accedere, in futuro, all'energia delle Pietre. Fu per un guasto ai sistemi di navigazione che quelle Quattro Arche furono costrette ad atterrare tutte quante su questo pianeta. Qui gli Atlantidei sbarcarono e si riorganizzarono, cercando di trovare il modo per comunicare con il loro pianeta originario. Il rischio era che con Adam e Lilith sullo stesso pianeta, si ripetesse lo stesso destino toccato ad Atlantide. Se qualcuno avesse attivato l'Enneade, il processo di trasformazione avrebbe avuto comunque inizio: Adam avrebbe assorbito gli Atlantidei, fondendoli in un Unico Pensiero Divino, e l'umanità derivata da Lilith sarebbe scomparsa insieme con lei. Fu per questo che i Due vennero nascosti sotto terra, all'interno dei nuclei delle Arche che diedero origine alle quattro città Ancestrali presenti sulla Terra: Noè Rosso fu Mu, capitale del continente di Lemuria, nell'Oceano Pacifico. Noè Blu fu Bimini, capitale del continente di Atlantide, situato nell'Oceano Atlantico. Noè Bianco cadde nel Centro America, e Noè Nero nel continente Africano. In questi luoghi, gli atlantidi proliferarono, crearono città, stati, nazioni. E ricrearono ancora una volta l'essere umano, a cui affidarono ancora una volta il proprio destino. Ma nel tempo, l'uomo si ribellò e fece guerra ai propri signori, che furono costretti a nascondersi ai quattro angoli del globo per sopravvivere. Noi siamo quello che resta di loro. E finalmente, possiamo prenderci la nostra rivincita e il nostro destino».

«E per questo vi serve Nadia Ra Arwol?» domandò Caprivi. Wiesbaden annuì.

«Lei è la sola che può attivare l'Enneade. Ora, abbiamo tutto quello che ci serve. Abbiamo ritrovato Adam, che era contenuto nel Noè Rosso, e che credevamo perduto per sempre. In realtà, il suo nucleo energetico cadde sulla terra in seguito all'esplosione in cui il Noè Rosso venne distrutto. È stata una scoperta recente. Una vera fortuna. Un segno del cielo. E con la Regina ancora viva, sarà possibile liberare nuovamente l'Energia delle nove Pietre. In questo modo noi, gli ultimi discendenti di Atlantide sulla Terra, potremmo superare in potenza persino gli abitanti del nostro vecchio pianeta, e diventare finalmente Dei».

«Ma per farlo, dovete convincere la Regina ad attivare l'Enneade».

«Ed è questa la missione di Fisher. Convincerla a compiere il proprio destino, senza lasciar trapelare nulla ai Signori. Nessuno sa quello che l'Ordine ha in mente. Anche il Consiglio credeva di dover combattere una semplice invasione aliena. Sciocchi! Come sciocchi sono i nostri Signori. Se sapessero cosa abbiamo in mente, e ciò di cui attualmente disponiamo, potrebbero persino decidere di fermarci. Non possiamo accettarlo. Noi vogliamo attuare il processo di Trasformazione. E stavolta, nessuno oserà né potrà mai impedircelo. Questo è ciò che dobbiamo alla storia. È ciò che dobbiamo ad Atlantide».

Caprivi abbassò gli occhi. Il volto appariva pallido e tremolante sotto la luce bianca della piccola lampada.

«Ed è per questo che ho ucciso il mio migliore amico?» mormorò «per permettervi di perpetuare il vostro egoismo?»

«Non la veda così» ribatté Wiesbaden, divertito. «Lei ha reso un grande servigio all'umanità. Dice di essere stanco di questo mondo, in cui tutti si odiano e perseguono solo il proprio interesse. Con la sua azione, lei aiuterà questo mondo a finire. In un certo senso, sarà il più grande benefattore dell'umanità».

Caprivi rise.

«Che belle parole».

«Bene. Abbiamo finito» fece Wiesbaden, schioccando le dita. Subito i suoi uomini si radunarono attorno a lui. «In questo libretto sono contenute le informazioni che ci servono per accedere ad Agarthi, il mondo sotterraneo che, attraverso una rete di gallerie, collega tra loro i continenti e ciò che resta ancora delle Arche Sacre. Potremo finalmente recuperare Lilith e La Lancia. Il Trismegisto ormai sarà nelle mani dei Signori e Fisher presto concluderà la sua missione. Il Consiglio ormai è finito... e noi non dobbiamo più preoccuparci di nulla. Nemmeno di lei».

«Cosa?»

Un uomo si materializzò all'improvviso alle spalle di Caprivi. Con un movimento veloce, gli passò una lama sul collo, troncandogli la giugulare. Caprivi si afflosciò al suolo velocemente e in silenzio, come si trattasse di un vecchio cencio abbandonato.

«Sistemate questo posto» fece Wiesbaden, lanciando al cadavere di Caprivi un'ultima occhiata e muovendo circolarmente il braccio. «Non deve restare pietra su pietra».

Michael si acquattò. Lasciò che i passi di Wiesbaden e di parte della sua scorta si facessero sempre più lontani, quindi sollevò timidamente la testa. Erano rimasti due uomini, che si guardavano intorno circospetti. Uno di essi estrasse dalla giacca un piccolo aggeggio di forma ovale, che posò al centro del tavolo. Lo premette e questo prese a lampeggiare.

«Andiamo» disse, al suo compagno. «Usciamo e facciamo saltare tutto».

Michael trasalì. Gli uomini erano già lontani quando lui sgattaiolò fuori e si avvicinò al tavolo. Con disgusto, sollevò una scarpa. Sulla suola era rimasto appiccicato il sangue denso che sgorgava dal taglio sul collo di Caprivi, che giaceva a terra con gli occhi sbarrati. Michael represse una smorfia nauseata e allungò le mani sul tavolo.

Il marchingegno emetteva una piccola luce intermittente. Restò a fissarlo ammirato per un attimo. In poco tempo, da quando aveva varcato le porte di quel palazzo, aveva visto e sentito cose che non avrebbe mai immaginato, nemmeno nel più strano e angosciante degli incubi. Era come se il mondo avesse subito un'improvvisa accelerazione, trascinandolo con sé fino alla nausea.

Ma cosa diavolo sto qui a pensare?

Si riscosse. Non sapeva esattamente perché lo faceva, né gli era chiaro quale strana idea avesse in mente. Ma con un gesto veloce e improvviso, agguantò l'oggetto e se lo infilò in tasca, andandosene di corsa.

Cosa avrebbe fatto poi, restava ancora un mistero.





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Capitolo 23
*** 22 ***


Il segnale che era davvero finita fu la porta che si richiuse alle loro spalle. Winston sospirò, abbattuto. Non pensava che sarebbe andata così. Per qualche istante, aveva creduto che avrebbero potuto farcela davvero, che in qualche modo sarebbero riusciti a scappare. Ma ora che erano entrati nel palazzo del Consiglio, non c'era che un modo per uscirne. Da morti.

«Agente Samuel Priscoe. Porto con me due ricercati, l'agente speciale Winston Churchill e la signorina Lisa Stanfields».

Un uomo si affacciò dalla guardiola, lanciando un'occhiata fugace alla comitiva.

«Firmi qui, prego» disse, porgendo a Samuel un foglio e una stilografica.

«E adesso, che succede?» mormorò Lisa. Era agitata, e aveva il volto di un pallore esasperato. Winston le sorrise, cercando di assumere un'espressione rassicurante.

«Andrà tutto bene» disse. «Non possono farle nulla, perché lei non c'entra in tutta questa storia. È con me che ce l'hanno».

«Ma a lei, cosa accadrà?»

Lui scrollò le spalle. «In qualche modo, me la caverò».

«Come sempre?»

A vederla così preoccupata, nonostante il timido sorriso dietro cui faceva il possibile per nascondersi, Winston si intenerì. Non sapeva cosa aveva fatto per meritare la stima e l'attaccamento di quella ragazzetta, ma in quel momento era qualcosa per cui si sentiva assolutamente grato. Qualcosa che ancora gli dava la forza di lottare, e sperare.

«Esatto. Come sempre» rispose. «Mi conosce, no?»

«Allora, Winston bello» fece Samuel, tracciando uno scarabocchio veloce con la stilografica e riconsegnando il tutto all'agente di guardia «che effetto ti fa varcare per l'ultima volta le austere soglie del potere? Questo posto ti mancherà, dì la verità...»

«Fottiti Samuel» scattò Winston. Lui rise.

«Per la miseria, potresti anche evitare di esprimerti in questo modo davanti a una signora, non credi?»

«Lei non c'entra nulla, e lo sai. Perché non la lasci andare?»

«Sicuro. Magari prima le offro anche un tè, che ne dici?»

«Ti sto dicendo la verità. Se solo ti prendessi la briga di fare delle indagini, delle vere indagini, ti accorgeresti che non sto mentendo».

Samuel sbuffò, tirando Winston per un gomito e costringendolo a muoversi.

«Ascolta, Winston bello. A me non interessa nulla di quello che, secondo te, è o non è la verità. Io avevo un compito, che era quello di riportarti indietro. Così ho fatto. In tutta franchezza, per me puoi anche sparire all'inferno, ora».

«Sono felice di vedere che il tuo odio per me non è mutato di una virgola, in tutti questi anni».

A quelle parole, Samuel si voltò, fissandolo duramente in volto. «Credi che tutto questo c'entri qualcosa con me e te?» esalò, puntandogli l'indice al petto. «Ti sbagli. La verità è che hai messo a repentaglio la sicurezza del Consiglio uccidendo De Molay, l'uomo che ti ha preso con sé quando non eri nessuno e che ha fatto di te quello che sei...»

«... E che io ho ricambiato consegnandogli quello che restava della mia vita» commentò acidamente Winston.

«Ma piantala. Ti ha fatto comodo essere al suo servizio... almeno finché qualcuno, a quanto pare, non ti ha fatto un'offerta migliore».

Winston sbuffò. «Se proprio lo vuoi sapere, ti ho fatto un favore ad accettare di servire il Reggente al posto tuo. Credimi, non saresti durato a lungo».

«E chi lo dice?»

«Un diavolo non può vendere l'anima a se stesso, Samuel» fece Winston, sarcastico. «E così, non riuscendo a disfarsene, prima o poi impazzisce».

Samuel si irrigidì.

«Vorrei ricordarti che sei stato tu che l'hai ammazzato come un vigliacco, correndo poi a nasconderti da quel cane bastardo che sei». sibilò. «Non contento, hai persino minacciato il nuovo Reggente, e chissà cos'altro avresti fatto, se non ti avessimo fermato. Quindi, cosa ti aspettavi di ottenere, dopo tutto? Una pacca sulle spalle?»

«E vuoi farmi credere che è solo per la tua fedeltà al Consiglio, che ora sei così ligio al tuo dovere?»

«Proprio così» ribatté Samuel, duro. «Per quanto mi riguarda, non sei che uno sporco traditore e un assassino. Sarò contento quando ti vedrò penzolare da una forca».

Winston sorrise. «Immagino che avere un avvocato sia una richiesta da non prendere nemmeno in considerazione».

«Questa volta, nemmeno Dio può salvarti, Winston bello» lo dileggiò Samuel divertito, voltandogli le spalle. «Ma se può consolarti, brinderò a te con un bicchiere di cherry, in nome dei bei tempi andati».

«Ma che pensiero carino».

Samuel aprì la porta che conduceva nell'atrio. Un intenso vociare li investì, e Lisa si guardò intorno frastornata. Decine di persone attraversavano quella stanza immensa, immerse nei loro affari quotidiani, senza curarsi minimamente di chi avevano intorno. Lei, che tanto si vergognava di apparire in manette come una qualsiasi delinquente, si trovò a fendere la folla senza raccogliere nulla più di qualche sguardo distratto, che le scivolava frettolosamente addosso come se nulla fosse.

In modo del tutto casuale, gli occhi le caddero sui volti di due uomini che attraversavano l'atrio proprio in quel momento, e che passarono loro accanto. Non avrebbe saputo dire, esattamente, cosa fosse scattato in lei nel momento in cui aveva incrociato i loro occhi: fu una semplice sensazione, come un dejà vù. Ma c'era qualcosa in quegli uomini, nei loro volti all'apparenza anonimi, che la impensierì; un particolare piccolo piccolo, perso nel turbinio di ricordi che quell'ultimo mese portava con sé.

Non aveva senso. Perché, tra tutti, aveva notato proprio quei due?

In fondo, questi tipi si assomigliano tutti...

«Ehi!»

Winston sussultò, voltandosi a guardarla.

«Che le prende?»

«Vede quei due?» fece lei, animandosi. «Me li ricordo. Sono gli stessi tipi che erano venuti al Times, fingendosi uomini della manutenzione».

Winston aggrondò, sporgendo la testa a guardare oltre le sue spalle. In un attimo, intravide i due uomini, che si stavano allontanando verso l'uscita.

«Ne è sicura?» fece, teso.

«Assolutamente».

«Basta parlare, datevi una calmata» sbottò Samuel. Winston strinse i denti e gli si avvicinò, sottraendosi alla scorta con un gesto fulmineo.

«Samuel, ascoltami» fece. «C'è qualcosa che non va».

«Certo. C'è sempre qualcosa che non va».

«Sto dicendo sul serio, razza di idiota che non sei altro!»

Per la rabbia, Winston gli si scagliò addosso; ma venne subito bloccato dagli uomini incaricati di sorvegliarlo, che lo trattennero rudemente. Samuel ordinò di rilasciarlo, con un semplice gesto della mano.

«Sono stanco dei tuoi giochini» commentò, amaro.

«Vedi quei due tipi laggiù?» fece Winston, senza curarsi di lasciarlo finire. «Chiedi che ti facciano vedere i loro documenti, presto».

«Perché dovrei?»

«Perché non credo che siano al servizio del Consiglio».

Samuel aggrondò. Si alzò sulle punte per sporgersi e guardare i due tipi che erano fermi davanti all'ingresso. Stavano riconsegnando i loro passi proprio in quel momento. Ancora pochi istanti e sarebbero usciti.

«Se stai cercando di farmi perdere tempo...»

«Ti sto dicendo la verità. Quei due sono gli stessi che hanno fatto saltare la redazione del Times poche settimane fa. Hai presente?»

L'uomo inarcò le sopracciglia. Senza togliere gli occhi di dosso a Winston, richiamò accanto a sé due agenti della scorta.

«Toglietemi di dosso questo coglione» disse, con una smorfia. «Stavolta l'hai sparata davvero grossa, caro il mio...»

«Fermate quei due!»

A quel grido si voltarono tutti i presenti e un silenzio glaciale calò all'improvviso sull'atrio. Un uomo aveva appena fatto il suo ingresso da una porta laterale, tutto trafelato. Era pallido in volto, dall'aspetto quasi emaciato; tra le dita ossute reggeva qualcosa che lampeggiava sinistramente.

«E questo chi accidenti sarebbe, adesso?» sbottò Samuel, allargando le braccia. Liberatasi della scorta, Lisa gli saettò accanto, uscendo allo scoperto prima che qualcuno potesse fermarla.

«Michael!»

Michael si volse, incrociando sorpreso lo sguardo ansioso di Lisa. Un breve sorriso gli illuminò il volto, non appena l'ebbe riconosciuta.

«Lisa! Ma che ci fate voi, qui?» esclamò, andandole incontro e agitando in segno di saluto la mano in cui stringeva l'ordigno. Non appena Samuel ebbe riconosciuto l'oggetto che il ragazzo teneva in pugno sbiancò, indietreggiando di un passo.

«Ha una bomba!»

Tutti gli agenti assunsero immediatamente una posizione di allerta, estraendo le pistole e puntandole dritto addosso a Michael, che a momenti non stramazzò al suolo per lo spavento.

«Posa quell'affare» gli intimò Samuel, duro «o sei un uomo morto».

Michael si guardò intorno, impaurito. Era circondato. I due falsi agenti intanto, approfittando di tutta quella confusione e del fatto che gli occhi di tutti erano puntati sul povero Michael, si stavano lentamente eclissando verso l'uscita, praticamente non visti.

«No, non avete capito» balbettò Michael, confusamente. «Non è mia... io l'ho solo trovata...»

«Posala a terra!»

«Vi dico che non è mia!» ribatté lui, con le mani alzate. «È di quei due tipi laggiù. L'hanno lasciata nell'archivio, dopo aver ucciso Caprivi».

«Cosa?»

A quelle parole, Samuel impallidì, vacillando per un momento.

«Di che diamine parli?» balbettò. «Chi è che ha ucciso Caprivi?»

«Samuel, ferma quei due! Stanno scappando».

Ridestato dalla voce di Winston, Samuel intravide i due falsi agenti che erano ormai vicinissimi all'uscita. In un attimo, e senza pensarci, intimò loro di fermarsi; e quelli vennero subito messi sotto tiro dagli agenti di scorta.

«Se provate a muovere un solo passo, siete morti!» gridò loro Samuel. «Chiunque si muova, qui, è un uomo morto, intesi? Voglio capire che accidenti sta succedendo, e lo voglio capire adesso!»

Per tutta risposta, uno dei due falsi agenti tirò fuori dalla tasca il detonatore, alzandolo perché tutti potessero vederlo.

«Succede che non volete morire, è meglio che mettiate subito giù le armi» esclamò, teso «e che ci lasciate uscire».

Gli agenti caricarono il cane dei loro revolver, pronti a fare fuoco. Trattenendo a stento un'imprecazione, Samuel fece loro rabbiosamente cenno di fermarsi.

«Maledizione!» ringhiò, voltandosi a incenerire Winston con lo sguardo. «È opera tua questo casino, Churchill? Perché se lo è, ti giuro...»

«Razza di idiota» ribatté lui «se tu avessi fermato quei due quando te l'avevo detto, ora non ci troveremmo in questa situazione del cavolo!»

«Cosa facciamo?» esalò Lisa terrea, stringendosi accanto a Winston. Lui nicchiò, serrando strettamente le labbra.

«Non lo so».

«Non lo sa?» fece lei, smarrita. «Come, non lo sa! Siete tutti super agenti speciali, o quello che è... e bastano due balordi qualsiasi perché andiate nel panico?»

«Non so se se n'è accorta, ma così ammanettato non è che possa fare granché» ribatté lui, caustico. Lisa aggrondò.

«Lei» fece tirando una spallata a Samuel, che le stava accucciato a fianco. «Lo liberi, presto».

«Cosa?»

«Lo liberi. Così sistemerà la situazione».

Samuel lanciò a Winston uno sguardo carico di ironia.

«Davvero? E come sistemerai la situazione, mio eroe?»

Winston arrossì, imbarazzato. «Ascolta, credo di poterlo colpire» disse. Samuel si fece perplesso.

«Guarda che se fai saltare il detonatore, qui esplode tutto».

«Se tu riuscissi ad avvicinarti quel tanto che basta, potrei tentare di colpirlo di striscio, costringendolo a lasciarlo. Però tu dovresti essere tanto in gamba da prenderlo al volo».

«Oh, davvero?» esclamò Samuel, annuendo. «Caspita, che idea sensazionale. Mi congratulo».

«Ha un'idea migliore?» scattò Lisa, amara. Samuel la squadrò con un occhiataccia.

«Senta, signorina, vediamo di capirci. Quell'affare che ha in mano il suo amico, è una bomba vibrazionale. Se il detonatore si rompe, o cade, o inavvertitamente quel tipo all'ingresso lo attiva, non solo saltiamo per aria noi, ma anche mezza Belgravia. Ho reso l'idea?»

«E allora trovi una soluzione migliore. Altrimenti, facciamo a modo nostro».

«Basta, non ha senso continuare a discutere» intervenne Winston. «Liberami, Samuel; e vedi di passarmi una pistola, presto».

«E poi?»

«Poi cerca di distrarre in qualche modo quei due. Mettiti a ballare, fai uno spettacolo di magia... non mi interessa. L'importante è che ti avvicini a quel tipo».

«E chi mi dice che il tuo non è un trucco?»

Winston sorrise. «Nessuno» disse. «Devi fidarti».

Samuel arricciò il naso. Spostò gli occhi su Michael, che se ne stava in piedi, tremebondo e con le mani alzate, guardandosi intorno con sguardo terreo. Quindi lanciò un'occhiata ai due falsi agenti, che stavano spalle alla porta, pronti a uscire. Tutt'intorno a loro, decine di persone sdraiate a terra, terrorizzate, e altrettanti agenti con le pistole spianate, pronti a far fuoco al minimo cenno di pericolo.

«D'accordo» fece alla fine, estraendo le chiavi delle manette e facendo scattare la serratura ai polsi di Winston. «Ma se è un trucco, giuro su Dio che la prossima volta che ti trovo, ti ammazzo».

«Sempre se non lo faccio prima io» rise Winston, raccogliendo la pistola che Samuel gli stava facendo scivolare non visto tra le mani. «Adesso, datti una mossa».

«Va bene» esclamò Samuel, alzandosi in piedi con le mani bene in vista, mentre avanzava lentamente e con circospezione verso i due agenti fasulli. «Vediamo di chiarire la situazione. Come potete vedere, siete circondati» disse, accennando al nugolo di agenti che si era disposto tutt'intorno a loro. «Se provate a uscire, vi ammazziamo. Se fate saltare la bomba, morirete comunque insieme a noi. Perché non vi arrendete? Così nessuno si farà del male...»

I due sembravano piuttosto nervosi, ed esasperati. Evidentemente, quando avevano messo piede là dentro, non si aspettavano che le cose potessero prendere una piega del genere.

«Cerchiamo di ragionare...» riprese Samuel, conciliante. Ma l'uomo col detonatore agitò il braccio, inducendolo a fermarsi.

«Vogliamo uscire» fece quello, deciso. «Vogliamo uscire adesso». Samuel annuì.

«Possiamo trovare una soluzione...»

L'uomo col detonatore impallidì. Forse fu a causa della tensione, della paura, o di un addestramento ancora inadeguato; ma qualcuno, alle spalle di Samuel, si era mosso. Lui ne aveva colto il movimento con la coda dell'occhio e aveva cercato di mostrarsi indifferente alla cosa, nella speranza di far mantenere la calma. Ma gli bastò uno sguardo lanciato al volto dei due agenti fasulli, per capire che era troppo tardi perché si potesse ancora fare qualcosa. Vi lesse il terrore, e la rabbia per quello che immaginavano essere un tradimento. E capì che la situazione sarebbe precipitata.

«Crepate, maledetti bastardi!» gridò l'uomo col detonatore. In un ultimo, disperato tentativo di convincerlo a fermarsi, Samuel si gettò su di lui, agitando le braccia.

«No!»

In quell'istante, uno sparo riecheggiò nell'atrio. L'uomo col detonatore lanciò un grido, afferrandosi il polso e lasciando cadere l'ordigno, che volteggiò pericolosamente nel vuoto. Con uno slancio, Samuel si avventò su di esso, proprio mentre intorno a lui cominciarono a volare i proiettili. Uno dei due falsi agenti aveva estratto la pistola e gli uomini di scorta avevano immediatamente risposto al fuoco, in un tiro incrociato. Ci furono grida, e persone che caddero al suolo ferite, contorcendosi dal dolore tra l'eco assordante degli spari.

Tutto accadde in pochi istanti, ma che sembrarono durare un'eternità intera. Quando finalmente quell'inferno cessò e tornò il silenzio, l'odore di polvere da sparo restava a impregnare l'aria, insieme a quello ferrigno del sangue e al fumo che ancora avvolgeva le canne delle pistole, levandosi alto sopra i lamenti appena sussurrati e i gemiti delle persone ferite.

Ansante, schiacciato al suolo, Samuel rialzò la testa. Aprì lentamente la mano e fissò incredulo il detonatore, che teneva miracolosamente stretto nel palmo.

«Gesù» mormorò, alzandosi tutto barcollante. Spostò gli occhi su Winston, che in quel momento riconsegnava la pistola a uno degli agenti di scorta. Il falso agente ferito veniva ammanettato e il resto della scorta aiutava le persone presenti nell'atrio a lasciare ordinatamente l'edificio, oltre a prestare le prime cure ai feriti. Lentamente, tutto stava ritornando alla normalità.

«No, lasciateli» fece Samuel, ordinando che Lisa, Michael e Winston venissero liberati. In un attimo, gli agenti obbedirono, togliendo loro le manette ai polsi.

«Credo che vi dobbiamo tutti delle scuse» disse, fissando i tre con un sorriso. «Oggi avete salvato la vita a parecchie persone».

«Tu che chiedi scusa?» commentò Winston, massaggiandosi i polsi. «Incredibile. Non è qualcosa che capita di vedere molto spesso».

L'uomo annuì. «Esattamente come il tiro di poco fa».

«Certe cose non si dimenticano» rispose Winston evasivo, distogliendo lo sguardo. Senza commentare oltre, Samuel infilò la mano in tasca e gli mostrò il detonatore.

«Abbiamo molto di cui discutere, non credi?» disse, stringendo l'ordigno nel pugno. «Per esempio, vorrei tanto che mi spiegassi cosa diavolo sta succedendo. Tu sai chi erano quei tipi?»

«Avremo il tempo per parlarne, non appena avrò preso in mano le operazioni e deciso su come organizzarci».

«Ehi, aspetta un secondo» fece Samuel, aggrondando. «E chi dice che sia tu a dover gestire le operazioni?»

Winston si tastò il vestito, come fosse alla ricerca di qualcosa. «Dal momento che le accuse nei miei confronti sono decadute» commentò, estraendo un sigaro dalla tasca della giacca e portandoselo soddisfatto alle labbra «resto sempre io il più alto in grado. Dovresti saperlo, Samuel bello».

Samuel restò a fissarlo in silenzio mentre si accendeva il sigaro e ne traeva una grossa boccata. Quindi scosse la testa, e i suoi occhi fiammeggiarono.

«Dovevo immaginarlo» commentò, con una risata. «Razza di bastardo».



*



Quando Winston entrò dalla porta, l'uomo era già seduto al tavolo, le mani legate e la ferita al polso fasciata. Senza dire una parola, lui gli si avvicinò e gli sedette di fronte.

«Vuole fumare?»

L'uomo ammiccò e Winston gli mise un sigaro tra le labbra, accendendoglielo. Quello inspirò mentre Winston reggeva per lui il sigaro, attendendo che espirasse completamente il fumo.

«Chi siete?» domandò. L'uomo sorrise.

«Lo sapete, chi siamo».

Winston annuì.

«Cosa cercavate? Perché siete venuti qui?»

«Va' a farti fottere» rispose l'uomo. Winston sospirò, lanciando un'occhiata annoiata a Samuel, che osservava tutto in piedi, a poca distanza.

«Non sei gentile» disse.

«No?» fece l'uomo. «Mi spiace. Ma tu vedi di fotterti lo stesso, va bene?»

Samuel rise. Winston si infilò le mani in tasca.

«Voglio sapere cosa facevate nel palazzo del Consiglio, e voglio i nomi dei vostri mandanti» fece, senza scomporsi più di tanto. «Tutti, nessuno escluso».

«Non ti dirò un bel niente, leccapiedi del Consiglio».

Winston restò a fissarlo vacuamente per un istante. Quindi si avvicinò alla vetrinetta e ne estrasse due bicchieri, in cui versò del whisky. Prese un bicchiere e lo mise davanti all'uomo.

«Come faccio a bere, devo leccarlo?» disse quello, con un ghigno. Winston fece un cenno a Samuel che si avvicinò e lo liberò dalle manette. L'uomo si massaggiò i polsi, lanciando un'occhiata in tralice a entrambi.

«Ma che gentili. Magari se ve lo chiedo, mi lavate anche le mutande».

Winston non disse nulla. L'uomo rise tra sé e sé, portandosi il bicchiere alle labbra. Non appena cominciò a bere, con un colpo secco Winston gli colpì il fondo del bicchiere, mandandolo a sbattere violentemente contro i denti dell'uomo. Il bicchiere si scheggiò, tagliandogli la lingua e le labbra.

«Cristo...»

«I nomi» sibilò Winston.

«Mi hai spezzato un dente!»

Senza preavviso, Winston afferrò il bicchiere e glielo frantumò in testa. L'uomo si accasciò sulla sedia portandosi una mano alla fronte e lamentandosi debolmente.

«I nomi» ripeté Winston. L'uomo lo incenerì con lo sguardo.

««Bastardo» ringhiò l'uomo, rabbioso. «Quando uscirò da qui, verrò a trovarti; e non appena avrò finito con te penserò anche alla tua puttana...»

Winston sferrò un calcio a uno dei piedi della sedia, che si ruppe fin troppo facilmente. La sedia si rovesciò e l'uomo, cadendo, ruzzolò con il volto contro lo spigolo della scrivania, fratturandosi il naso. Mugolando, lanciò un'imprecazione, che venne soffocata dal tappeto su cui sparse il sangue che gli colava abbondantemente da tutto il volto.

«Allora, ricominciamo da capo» fece Winston, chinandosi su di lui. «Voglio sapere cosa facevate qui e chi vi ha mandato».

Quello rise, scuotendo la testa.

«Crepa» disse, fulminandolo con lo sguardo. Winston lo fissò impassibile.

«Non ho capito».

«Ti ho detto di crepare, brutto pezzo...»

Con un movimento estremamente rapido, Winston gli afferrò la mano, torcendogliela dietro la schiena. L'uomo lanciò un grido soffocato, piegandosi in due dal dolore.

«Cosa cercavate?»

«Vai al diavolo» esalò. «Credi di farmi paura? Prima o poi vi ammazzeremo tutti, cani schifosi».

Senza scomporsi troppo, Winston lo costrinse ad alzarsi storcendogli l'intero braccio, per poi spingerlo di peso contro la scrivania. Aprì uno dei cassetti, gli prese una mano e senza dargli il tempo di reagire ve la infilò dentro, richiudendo il cassetto con tale forza che l'uomo lanciò un grido terribile, prima di afflosciarsi contro il mobile come uno straccio.

«Mi hai rotto la mano!»

«Cosa stavate cercando?»

«Mi hai...»

Winston richiuse nuovamente il cassetto. L'uomo gridò disperato mentre le ossa della sua mano scricchiolarono sinistramente. Davanti a lui, Samuel distolse lo sguardo.

«Se continuerai a non rispondere, passerò all'altra mano, poi comincerò con le ginocchia, le gambe, e quando avrò finito non ti resterà un solo osso integro. Quindi, te lo ripeto per l'ultima volta. Cosa stavate cercando?»

«Vai all'inferno, figlio...»

Winston strinse le labbra e richiuse il cassetto con tutta la forza che aveva.

«Basta, per l'amor di Dio!»

«Cosa stavate cercando?» sibilò Winston. L'uomo era caduto in ginocchio. Piangeva.

«Il diario di De Molay» farfugliò. «Siamo venuti con Wiesbaden. Caprivi aveva fissato un appuntamento, per consegnargli quel maledetto diario. Erano d'accordo. Quando lo scambio è avvenuto, lo abbiamo ucciso. L'ordine era di distruggere l'intero edificio, non so altro».

«Perché volevate il diario?»

«Ho sentito Wiesbaden che parlava con i suoi superiori di qualcosa che quel diario lo avrebbe aiutato a trovare» fece l'uomo, singhiozzando. «Diceva che avrebbe offerto le risposte a ciò che emergeva dai Rotoli del Mar Morto. Ma non so altro».

«Dove si trova Wiesbaden, ora?»

L'uomo tentennò. Winston gli prese l'altra mano, infilandola nel cassetto.

«No, ti prego! Non lo so, lui si nasconde sempre. Veniamo chiamati solo quando è necessario, dobbiamo essere sempre pronti. Ma non lo vediamo mai, è la verità».

«Esiste un luogo in cui vi riunite, un quartier generale, o qualcosa di simile?»

«So che hanno una base da qualche parte ad Hannover. Ma noi non abbiamo mai avuto l'accesso per quella, siamo solo dei mercenari».

«Se stai mentendo...»

«Te lo giuro» lo implorò l'uomo. «Te lo giuro su Dio! Oggi era la prima volta che vedevo Wiesbaden da quando lavoro per loro».

Winston lasciò andare l'uomo che si accasciò al suolo tremante, con la mano insanguinata e livida stretta tra le ginocchia. Con un cenno richiamò Samuel, che si chinò sull'uomo per aiutarlo a rialzarsi.

«Fai diramare un'agenzia» gli disse Winston. «Voglio che per domani tutte le prime pagine dei giornali riportino la notizia di un'esplosione a Belgravia. Dobbiamo far credere loro che l'attentato è riuscito».

«Perché?» chiese Samuel, perplesso. «Presto capirebbero comunque che si tratta di una notizia fasulla».

«Forse, ma intanto avremo guadagnato del tempo prezioso per riorganizzarci. Fai come ti ho detto, per favore».

«Va bene» rispose Samuel. Winston si ripulì le mani dal sangue e afferrò la giacca.

«Dove sono quei due?» chiese.

«La ragazza è fuori, che aspetta».

«Vi avevo detto di portarla da un'altra parte» latrò Winston, livido.

«Non voleva saperne» si scusò Samuel. «Era peggio di una furia».

Winston uscì, sbattendo la porta. Trovò Lisa ad attenderlo seduta in anticamera, che si tormentava le mani. Non appena lo vide apparire, lei scattò in piedi, con un ampio sorriso sul volto. Ma quando gli occhi le caddero sulla camicia di lui, sporca di sangue, aggrondò, impallidendo come se avesse visto uno spettro.

«Cosa le è successo?» domandò.

«Non si preoccupi, non è mio» fece Winston. In quel momento, Samuel passò alle loro spalle, sorreggendo l'uomo che avevano appena interrogato. Nel vedere com'era ridotto, Lisa si portò una mano al volto, scuotendo la testa.

«È stato lei a...»

«Dov'è Michael?» tagliò corto Winston. Lisa si indurì e la sua voce si fece tagliente.

«L'hanno portato via poco dopo che salissi qui» fece. «Cosa volete fare, torturare anche lui?»

«Si può sapere che le prende, adesso?» esclamò Winston, torvo. «Siamo tutti vivi, no?»

«Sì, ma a quale prezzo?»

Lui la fissò con astio. «Ora che ha visto quello che faccio, non riesce più a sentirsi tanto affezionata a me, non è vero?» la pungolò. Arrossendo, Lisa distolse lo sguardo.

«Come immaginavo» commentò lui, con un ghigno di profonda amarezza.

«Lei mi fa paura» mormorò Lisa, triste.

«E chi non la fa, a questo mondo?» fu la risposta di lui.

«Lisa!»

Michael riapparve in quel momento, scortato da due uomini in abito scuro. Con le lacrime agli occhi, sollevata di non trovarsi più sola con Winston, Lisa gli corse incontro, gettandogli le braccia al collo.

«Michael» esclamò, ansiosa. «Che ti hanno fatto? Stai bene?»

«Volevano solo interrogarmi su quello che avevo sentito in archivio» confessò. «Non mi hanno fatto nulla, tranquilla».

«Visto?» fece Winston con un sorriso. «Tanta paura per niente».

«Per niente?» obiettò Michael, duro. «Non direi proprio».

Winston lo fissò con occhi spenti, un sorriso bloccato a metà sul volto.

«Che vuoi dire?» chiese, alzando le braccia.

«Lo sa benissimo. Perché non dice a Lisa cosa avrebbe dovuto fare, una volta trovata Nadia? O devo pensarci io?»

Il volto di Winston si fece pallido. Fissò Michael con durezza, prima di spostare gli occhi sul volto della ragazza, che lo scrutava smarrita.

«Cosa vuol dire?» fece lei, confusa. «Cosa sta dicendo?»

Winston strinse le labbra. Lisa gli si fece accanto, guardandolo direttamente e sinceramente negli occhi.

«Winston?»

«Dovevo trovarla...» ammise lui, sommessamente «... e ucciderla».

Una lacrima scese lungo la guancia di lei mentre scuoteva la testa, incredula.

«No, non è possibile...»

«Voi non capite...» si scusò lui, cercando di abbracciarla. Ma Lisa gli si sottrasse.

«Tutto questo tempo... e ci ha mentito».

«Non vi ho mentito. Ho solo...»

«Noi non possiamo più fidarci di lei» constatò Michael stringendo a sé Lisa, che si rifugiò in lacrime tra le sue braccia, nascondendo il volto contro il suo petto. «Lei non vuole salvare la nostra amica. Non ha mai voluto farlo».

«Vi ho sempre protetto...»

«Perché le servivamo a trovarla» ribatté Michael, sfoderando tutto il suo coraggio. «Ma ora che sappiamo la verità, dovrà fare a meno del nostro aiuto».

Winston si irrigidì.

«Volete andarvene?» esalò, duro. «Senza il mio aiuto, vi faranno la pelle non appena metterete piede fuori di qui».

«Questo è un problema nostro» ribatté Lisa, scagliandosi furente contro di lui. «O ci impedirà di andarcene in qualche modo, magari torturandoci, proprio come ha fatto con quell'uomo?»

«Questo non è giusto» sibilò Winston, guardandola intensamente. Lei sostenne fieramente il suo sguardo, ma alla fine scoppiò in lacrime.

«Noi ci fidavamo di lei» mormorò. «Ma ora... ora non possiamo più farlo».

«E allora andatevene!» gridò Winston. «Andatevene al diavolo, e non fatevi mai più rivedere, razza di idioti buoni a nulla. Volete sapere la verità?» esclamò, afferrando Lisa per un braccio e spingendola brutalmente addosso a Michael. «Senza voi due tra i piedi, starò finalmente tranquillo. Proprio così. Se volete correre a farvi ammazzare, non sarò certo io a fermarvi».

Lisa e Michael si strinsero tra loro, lanciandogli un'ultima, triste occhiata prima di allontanarsi e sparire mestamente dietro la porta. Winston restò a guardare mortificato la stanza vuota, gli occhi congestionati da lacrime che era incapace di piangere. Avrebbe voluto correre loro dietro, e dire che gli dispiaceva. Ma non era vero. Non gli dispiaceva. In una parte di sé, nemmeno così remota, si sentiva davvero finalmente e totalmente libero. Libero di essere quello che doveva essere. Un uomo con un lavoro, e senza una coscienza tra i piedi.

Con un grido rabbioso, scagliò la giacca contro il muro, prendendo a pugni la parete.

«Ehi. Tutto bene?»

Samuel, che era rientrato in quel momento, gli si avvicinò sorridente, con le mani in tasca. Ansando, Winston si volse a guardarlo.

«Che diavolo hai da ridere?»

«Dove hai imparato a tirar fuori le informazioni a quel modo?» gli chiese. «Ancora un po' e quel tipo lo riducevi a brandelli».

Winston si sollevò, passandosi una mano tra i capelli spettinati. «Un trucchetto imparato dalle truppe spagnole a Cuba» disse. «Solo che loro, nei cassetti, ci mettevano le teste».

Samuel increspò le labbra, inarcando le sopracciglia.

«Hai fatto come ti ho detto?» gli chiese Winston. Lui annuì.

«Sissignore. Domani i giornali di tutta l'Europa riporteranno la notizia di un'incidente avvenuto a Londra, costato la vita a diverse centinaia di persone».

«Ottimo».

«E ora» fece Samuel, chinandosi a scrutare il volto scuro di Winston «che hai intenzione di fare?»

Lui sospirò, raccogliendo la giacca e infilandosela, nel vano tentativo di ricomporsi. «Al momento, tutto quello di cui ho bisogno, sono risposte» fece, sospirando. «Ed esiste un solo luogo in cui un uomo nella mia posizione possa sperare di trovarle».

Samuel ammiccò. «E sarebbe?»

Winston sorrise, mesto. «Sto per andare in convento» disse. «Non aspettarmi per cena. Credo che starò via per un po'».










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Capitolo 24
*** 23 ***


(avviso ai lettori: se in questo capitolo doveste riscontrare una violazione del rating, siete caldamente invitati a farmelo notare. Provvederò a innalzarlo da arancione a rosso. Grazie in anticipo).

 

 

«Maestà, volevo informarvi che siamo prossimi all'atterraggio. Gli altri sono già tutti pronti».

«Sì, un attimo solo».

Nadia finì di abbottonarsi il vestito che Faloe le aveva fatto trovare. Si trattava di una semplice uniforme da cerimonia, priva di mostrine e di particolari segni distintivi. Per quanto si trattasse di un abito dimesso e per nulla femminile, lei lo indossò comunque con piacere, felice di potersi sbarazzare del suo vestito sporco e ormai rovinato.

«Come sto?» disse, voltandosi e sorridendo nervosamente all'indirizzo di Faloe. Sorpresa da una tale domanda, la ragazza arrossì.

«Benissimo» rispose, vincendo la sua titubanza nel parlare così direttamente alla sua sovrana. «Voi siete davvero una donna stupenda, Maestà. Mi duole solo che questo sia il massimo che mi è riuscito di trovare per voi...»

«Non c'è problema» la rassicurò Nadia. «Va benissimo».

«Non ha nemmeno una gonna...» si lamentò Faloe, avvicinandosi per sistemarle il colletto della giacca di tessuto porpora. Nadia nicchiò.

«Non importa. Anzi, a dirla tutta, cominciavo proprio a essere stanca di gonne e sottovesti».

A quelle parole Faloe rise, e Nadia fece altrettanto. Era strana, quell'inattesa complicità che si era creata tra loro. Mentre Faloe armeggiava attorno al colletto, lei ne osservava i modi delicati, studiati con cura, mentre con le mani diafane allacciava un bottone o metteva in piega un risvolto. Era una donna, quell'essere strano e scostante che le stava di fronte? Una donna, sì, esattamente come lei... eppure, così diversa.

Ma quanto? Forse, era lei stessa a essere diversa e nemmeno se ne accorgeva. Forse era per quello che da quando era salita su quella nave, l'unica persona con cui non si sentisse a disagio era quella ragazza sola e discreta, capace di avvicinarsi a lei pur senza mai perdere quella distanza che le era vitale per sopravvivere nella propria solitudine.

«Lei è mai stata innamorata?» chiese Nadia, tutto d'un tratto. Faloe si ritrasse, alzando meravigliata lo sguardo su di lei.

«Io... no» balbettò.

«Mai?»

Nadia sembrava incredula.

«No» ribatté debolmente Faloe. «Non ne ho mai avuto il tempo, credo».

In quel momento, Nadia si ricordò di quanto la ragazza le aveva raccontato riguardo alla propria giovinezza. Imbarazzata, distolse velocemente lo sguardo.

«Mi dispiace, non volevo ricordarle qualcosa di tanto brutto».

«Non dovete chiedermi scusa, voi siete la mia Regina» fece Faloe, fissandola quasi inorridita. Nadia scosse il capo.

«Sono stanca di questa storia» ribatté. «Io vi sto parlando sinceramente, da amica. Parli con me se lo desidera, o mi mandi al diavolo, se preferisce. Ma non mi tratti ancora con quel distacco. Non lo sopporterei».

Faloe era perplessa. Guardava Nadia con un misto di apprensione e di curiosità. Si morse le labbra, abbassando lo sguardo. Arrossì.

«Immagino che sarebbe stato bello» mormorò all'improvviso «... innamorarsi di qualcuno».

Nadia la fissò. Commossa, ricacciò indietro le lacrime, sfoderando il suo più sincero sorriso.

«Sì» fece, ammiccando «ma le confesso che è anche una gran seccatura!»

Entrambe scoppiarono a ridere. Arrossendo per l'imbarazzo, Faloe alzò gli occhi sul volto di Nadia, socchiudendo timidamente le labbra mentre cercava il coraggio per dire qualcosa.

«Voi...» azzardò, avvampando «voi lo siete? Intendo dire... siete innamorata?»

Nadia la fissò con una certa perplessità. Il volto di Faloe si fece subito cereo e lei si inchinò prontamente, con estrema soggezione.

«Vi chiedo perdono, non intendevo mancarvi di rispetto».

«No, non è questo» fece Nadia, accarezzandole amichevolmente la spalla. «È che... sinceramente non lo so».

Faloe sembrò non capire. Risollevò timorosamente gli occhi, fissandola con rinnovata curiosità.

«So che può sembrare strano» le sorrise Nadia, alzando le spalle «ma è così. È tutto molto confuso».

«Forse» le suggerì la ragazza, «vi diventerà tutto più chiaro non appena incontrerete quell'uomo».

«O forse, morirò prima di ansia» sospirò Nadia esitante, mentre volava a Jean col pensiero. «Ma chissà. Magari è proprio questa la risposta che sto cercando».

Qualcuno bussò. La porta si aprì e la figura slanciata ed elegante di Rebecca fece capolino sulla soglia.

«Rebecca! Che bello vederti» la salutò cordialmente Nadia. «Non ti aspettavo».

Rebecca aggrondò, leggendo l'ostilità sul volto di Faloe.

«Già» disse, sporgendo le labbra senza mai abbassare lo sguardo dal volto della ragazza. «Senti, hai un minuto? Vorrei parlarti di qualcosa. In privato» aggiunse, inarcando un sopracciglio.

«Maestà, se non avete più bisogno di me, io mi ritirerei» intervenne Faloe, inchinandosi rispettosamente. Colta alla sprovvista, Nadia annuì.

«Certo» replicò, confusa. «Vada pure. Noi raggiungeremo gli altri tra poco».

Rebecca osservava tutto senza dire nulla, restandosene sulla porta a fissare Faloe che le sfilava accanto in silenzio. Non appena la vide sparire lungo il corridoio, «una donna alquanto silenziosa» commentò con ironia. Nadia scrollò le spalle.

«Non saprei. Fino a poco fa parlava benissimo».

«Allora sarò io a infastidirla. Magari, tu ne sai qualcosa?»

Nadia volse le spalle, prendendo tra le mani il suo vecchio vestito e cominciando a ripiegarlo.

«Cosa vorresti dire?» fece, improvvisamente dura. Rebecca si staccò dalla porta, avvicinandosi a passi misurati verso di lei.

«Dimmelo tu» fece. «C'è qualcosa che dovrei sapere?»

«A cosa ti riferisci?»

«Tanto per cominciare, potresti spiegarmi quando hai scoperto di parlare la lingua di questa gente» disse, sorridendo. «Prima quella donna si è rivolta a te in una lingua che non ho mai sentito, diversa persino dal greco che Marie usa per comunicare con loro».

Nadia impallidì.

«Allora?» insisté Rebecca.

«Io non vi ho nascosto nulla» si giustificò Nadia. «Nemmeno io so come riesco a parlare con loro».

«Non mentire. Non è proprio il caso».

«Senti» fece Nadia, voltandosi livida a fronteggiarla «non ho niente da nascondere. Se sei venuta qui per rimproverarmi di qualcosa, fallo. Altrimenti vattene e lasciami in pace».

«E per cosa dovrei rimproverarti, secondo te?»

«Non lo so» fece Nadia, esasperata. «E comunque, non mi interessa».

«Non ti interessa?»

«No, per niente».

Rebecca annuì. «Quindi non ti interessa nemmeno che Alex ci abbia quasi rimesso la pelle e che adesso sia spaventata a morte» disse, con calma. Nadia si zittì. Per un attimo, sembrò sul punto di non sapere cosa rispondere. Alla fine, scosse il capo, agitando nervosamente le mani.

«Senti, pensa quello che ti pare...»

«Io non penso niente» fece Rebecca «vorrei che fossi tu a spiegarmi come interpretare la cosa. Volevi farle del male? Non credo. Allora, che cosa è successo?»

«Cosa vuoi che ti dica?» scoppiò Nadia. «Che volevo uccidere Alex? Ebbene sì, è così. La mia perfidia non conosce limiti».

Rebecca scrollò la testa, rivolgendole uno sguardo di sufficienza.

«Hai finito di fare la ragazzina viziata e incompresa da tutti? Speravo di meritare qualcosa di meglio da te».

Nadia arrossì, abbassando gli occhi.

«Senti, Nadia» riprese Rebecca «non sono venuta perché credo che tu abbia voluto veramente far del male ad Alex. Sono qui perché voglio sapere la ragione che ti ha spinto a mentirci fin dall'inizio. Tutti noi sappiamo chi sei, e cosa hai passato. Allora, perché non ci hai detto subito che quella pietra che hai trovato è tremendamente simile alla Pietra Azzurra che avevi con te cinque anni fa? E come mai tu e queste persone sembrate intendervela tanto bene? Chi diavolo sono, e soprattutto, cosa vogliono da te?»

«Non lo so, io...»

«Smettila di mentire!» fece lei, prendendola per le spalle e scuotendola con energia. «Noi tutti abbiamo rischiato la vita per venire con te ed aiutarti. Il minimo che tu possa fare, è essere sincera con noi! È evidente che tu e quella pietra avete un legame, come è evidente che lo hai con queste persone» esclamò. «Normalmente non mi preoccuperei. Ho abbastanza fiducia in te per sapere che sei in grado di gestire la situazione. Ma più ti vedo, più mi sembri strana. Ammetterai che quella pietra ha un brutto effetto su di te... ti fa fare cose cattive, ti rende... diversa da quello che sei».

Nadia abbassò gli occhi. Con un gesto secco, allontanò da se Rebecca.

«E che ne sai tu, di quello che sono?»

Rebecca esitò.

«Che ne sai di quello che sono, o che penso?» fece Nadia, tagliente. «Vieni qui e lanci facilmente giudizi contro di me; ma ci sono cose che non potevo e non posso dirvi, e non perché non voglio, ma perché so che è meglio così» esclamò. Rebecca scosse il capo, aggrondando.

«Perché?»

«Perché voglio proteggervi!» scattò Nadia. «È tanto difficile da capire? Nemmeno io, all'inizio, sapevo esattamente cosa fosse, questa pietra. L'ho scoperto solo recentemente, proprio come recentemente ho scoperto chi sono e cosa vogliono queste persone da me. Non volevo coinvolgervi in tutto questo, non era mia intenzione. Se solo l'avessi saputo, mi sarei tenuta lontana da voi... Tutto quello che desidero, adesso, è trovare una soluzione che mi permetta di mettervi in salvo, per quanto difficile sia da trovare».

«Se tu ci avessi parlato di tutto prima, avremmo potuto aiutarti...»

«A fare cosa?» ruggì Nadia. «Avreste potuto aiutarmi a capire se dovevo lasciare tutto e partire con questa gente alla volta di un pianeta che non ho mai sentito nominare, ma che a quanto pare dipende in tutto e per tutto da me e dalle mie scelte; o restare, e condannare l'intera popolazione da cui discendo allo sterminio totale? O forse avreste potuto indicarmi la via per gestire il potere di questa pietra, un potere talmente forte che mi soggioga ogni volta senza che io possa minimamente tentare di oppormi? Dimmi, Rebecca» sibilò «nella tua immensa saggezza, cosa avresti mai potuto suggerirmi?»

Rebecca impallidì.

«Non lo so...»

«Non lo sai? Beh, nemmeno io lo so, cosa dovrei fare» fece Nadia, gesticolando furiosa. «Mi trovo in questa situazione e sono la sola a doverla gestire. Devo occuparmi di voi, devo occuparmi della pietra e devo occuparmi delle responsabilità che queste persone mi hanno gettato addosso senza che io potessi fare nulla per rifiutare. Tutte cose che non posso condividere con nessuno, perché nessuno è in grado di capire quello che significa trovarsi nella mia situazione» esclamò. «Quindi, chiamami pure egoista, o falsa, o quello che ti pare. In questo momento, ho ben altro per la testa che preoccuparmi dei vostri stupidi giudizi».

Tacque. Rebecca la fissò. Era pallida, e respirava a fatica.

«Capisco» mormorò. Nadia ancora ansimava, scossa.

«Perché non te ne vai, allora, e mi lasci sola?» disse, dura. Rebecca annuì. Abbattuta, si avviò alla porta; ma una volta davanti ad essa si voltò, rivolgendo a Nadia un'occhiata sconsolata.

«Forse hai ragione, noi non possiamo capire» disse. «Ma siamo tuoi amici. E mi dispiace che tu non ti fidi più di me, e di noi».

Nadia distolse lo sguardo.

«Tu per me sei come una figlia, Nadia» fece Rebecca. «Forse nessuno di noi avrebbe potuto aiutarti, è vero. Ma almeno, ti saremmo potuti stare vicino. È a questo, in fondo, che servono gli amici. Ed è per questo che ti sei rivolta a noi, immagino».

«Ed è perché vi voglio bene, che vi ho nascosto la verità» esalò Nadia. Rebecca sorrise, scuotendo il capo.

«No, non è vero» disse. «In tutto questo tempo, tu non hai ancora imparato che non si può vivere da soli. Continui a voler fare tutto per conto tuo, contando solo sulle tue forze, credendo di essere l'unica a poter capire quello che provi e quello che sei. Pensi di essere eroica, ad affrontare il mondo da sola. Ma il tuo è solo egoismo. Finché non capirai che ci sono persone intorno a te pronte a darti una mano e ad ascoltarti, non potrai mai trovare le risposte che cerchi, né sfuggire alla solitudine che ti perseguita».

«Non è così...»

«Sì che è così, e lo sai anche tu» fece Rebecca, mesta. «Tu credi di esserci amica, ma in realtà vivi solo per te stessa. L'hai sempre fatto. È la tua paura di soffrire che ti impedisce di avvicinarti troppo agli altri, e per questo continui a fuggire ogni volta che rischi di toccare o di essere toccata da qualcuno. Questa non è vita, Nadia: e prima te ne accorgerai, prima riuscirai a lasciarti alle spalle tutte le tue paure e a vivere consapevolmente ciò che il mondo ha in serbo per te».

Nadia taceva, lo sguardo fisso al suolo, il volto teso. Rebecca la fissò a lungo, senza dire nulla.

«Se posso darti un consiglio, cerca solo di fare in fretta» riprese, mesta. «Noi ora siamo qui per te, ma non ci saremo per sempre. Nessuno vuole combattere una battaglia che si sa già persa in partenza».

«Io non sono una battaglia persa» mormorò Nadia. Ma quando alzò gli occhi, Rebecca se n'era già andata.

 

 

*

 

 

Ormai era prossimo alla riva. Jean balzò agilmente fuori dalla canoa, immergendosi nell'acqua fino alle ginocchia. Sopra di lui, l'immensa astronave cominciava in quel momento la manovra di atterraggio, oscurando il sole e la volta del cielo.

Alzò gli occhi. Vide lo scafo dalla forma simile a un'enorme balena rossa che ruotava su se stesso, inclinandosi leggermente di lato. Un rumore sordo e costante fece ribollire la terra; e le acque, tutt'intorno a lui, si incresparono: Jean capì in fretta che se non voleva rimanere sommerso, avrebbe fatto meglio a darsi una mossa, e raggiungere la riva.

Raccolse la corda che giaceva sul fondo della canoa e se la arrotolò intorno alla mano, muovendosi a fatica nell'acqua gelida e spingendosi fino alla spiaggia, trascinandosi dietro l'imbarcazione. Aveva appena messo piede sulla terraferma, quando l'astronave scese fino a sfiorare il suolo: affascinato, restò immobile a guardarne le ultime manovre, prima che si posasse a terra con l'eleganza e la leggerezza di una piuma, senza il minimo frastuono e senza creare confusione alcuna.

Un portellone si aprì nello scafo perfettamente levigato, emettendo solo un leggero sibilo: e un gruppo di uomini si riversò prontamente all'esterno, disponendosi a semicerchio intorno a Jean, che se ne stava ancora in piedi sulla spiaggia, immobile e con la cima della canoa stretta nella mano destra. Improvvisamente, si ritrovò al centro di uno schieramento di soldati che gli puntavano addosso delle lunghe armi, dall'aspetto assai simile a quello di una lancia. Jean mosse un passo verso di loro; e uno dei soldati scattò subito in avanti, bloccandolo e fissandolo con sguardo truce.

«Upseis tas keiras!» gridò. Jean non capì una parola.

«Upseis tas keiras! Kìnei!» ripeté, agitandogli l'arma davanti alla faccia. Spaesato, Jean lasciò cadere la corda, facendo l'unica cosa che gli sembrava sensata in quel momento. Alzò lentamente le mani.

Fantastico, pensò. Come primo incontro, non poteva andare meglio.

 

 

*

 

 

«Jean!»

Non appena lo vide comparire dalla porta, scortato da alcuni soldati, Marie saettò attraverso la stanza, gettandoglisi letteralmente addosso. Ancora frastornato, Jean vacillò.

«Marie» disse, stringendola forte tra le braccia non appena si fu ripreso. «Sono così contento di rivederti».

Marie scoppiò improvvisamente a piangere. Jean rimase del tutto sorpreso da quella sua reazione inattesa, ma ancora di più lo fu nello scoprirsi così fragile di fronte al suo pianto; ne avvertiva l'intera responsabilità e sentiva che ognuna delle lacrime che Marie versava per lui, aveva un peso che non si era mai fermato a considerare prima, da quando l'aveva presa con sé trattandola come una figlia. Come sua figlia.

È per te che piange, pensò. Perché la lasci sola, perché la fai soffrire e spaventare. Lei ti vuole bene, e tu ne sei responsabile.

Non doveva più dimenticarlo. Già portarla con sé si era rivelata un'immensa sciocchezza, degna solo di un povero stupido. Doveva smetterla di fare il cretino e di cacciarsi nei guai, e cominciare a fare il padre.

«Mi dispiace» mormorò. «Non volevo farti preoccupare». Ma per quanto cercasse di consolarla, non c'era modo di quietarla. Per tutto il tempo Marie non l'avrebbe più lasciato, restandogli attaccata come se avesse paura che qualcuno potesse riportarglielo via.

Jean spostò sorridente gli occhi sul resto della comitiva, che era rimasta ad attenderlo in una stanza adeguatamente preparata per l'occasione. Ma per quanto fosse felice di vedere che stavano tutti bene, non poté evitare di cercare lei, in mezzo a tutti gli altri.

Nadia.

In disparte, lo fissava pallida, le mani giunte al petto. Incrociando il suo sguardo, Jean sorrise, rassicurato.

Stava bene. Ed era così bella.

«Jean! Allora ce l'hai fatta a farti catturare» scherzò Sanson, andandogli incontro e tendendogli una mano. Jean la strinse, imbarazzato. Restarono a guardarsi confusi per qualche istante, finché l'uomo non lo strinse velocemente a sé in un abbraccio inamidato, battendogli una mano sulla spalla. Jean sorrise, ricambiando la stretta mentre Sanson si allontanava arrossendo, nascondendo agli altri la propria commozione.

«Sapevo che ce l'avresti fatta» farfugliò Hanson tirando su col naso, e abbracciando Jean fin quasi a stritolarlo. Rebecca si asciugò furtivamente una lacrima, limitandosi a scostargli una ciocca di capelli dal volto e ad accarezzargli la spalla, come a constatare che fosse reale. L'ultima a salutarlo fu Alex. Aveva atteso in disparte per tutto il tempo, sul volto un'espressione indecifrabile. Jean le si avvicinò con un sorriso e nemmeno si accorse che lei lo stava già abbracciando e baciando. Rimase come paralizzato mentre lei gli cingeva le braccia al collo e insinuava la sua lingua tra le sue labbra socchiuse. Un senso di dolcezza senza fine si diffuse in tutto il suo corpo, una dolcezza contro cui non ebbe la forza di lottare. Sapeva che quel bacio non poteva, non doveva significare nulla; eppure, gli si abbandonò completamente, rispondendo alla passione di lei e scordandosi di ogni altra cosa. La strinse e la baciò, grato, sollevando una mano ad accarezzarle la nuca e premendosi forte contro di lei. Alex gli morse le labbra, dolcemente, appoggiando la fronte a quella di lui e chiudendo gli occhi, finché non si allontanò, accarezzandogli teneramente il volto.

Quindi, dopo un istante, lo spinse via con rabbia, colpendolo con un pugno sul petto.

«Alex...»

«Vattene via, idiota» fece lei, con le gote infiammate. «Non ti sopporto più. Mi farai morire».

Lui lanciò uno sguardo fugace in direzione di Nadia. Vide che lo fissava sconvolta; e non appena i suoi occhi incontrarono quelli di lui, lei si volse, confusa.

«Sono così felice di vedere che state tutti bene» fece Jean, schiarendosi la voce. «Ero... davvero preoccupato» aggiunse, lanciando a Nadia uno sguardo in tralice che lei però non colse.

«Già, ma tutto è bene quel che finisce bene» esclamò Sanson. «E adesso anche tu sei nei pasticci, prigioniero su questa nave proprio come noi».

«Beh, non direi proprio nei pasticci» fece Jean, squadrando allegro la tavola imbandita che era stata apparecchiata apposta per loro. «Mi sembra che ve la siate passata piuttosto bene, in mia assenza».

«A parte il fatto che non possiamo muoverci se non al guinzaglio» fece Hanson, gettando a Jean una mela che aveva raccolto da un cesto a centro tavola «non possiamo certo lamentarci».

«Almeno non avete dovuto mangiare topi, come me» rise Jean, addentando la mela con gusto. Marie, ancora attaccata ai suoi pantaloni, sollevò la testa a guardarlo, scandalizzata.

«Topi?» fece, con una smorfia. «Ma che schifo!»

«E io che ti ho anche baciato!» lamentò Alex. Tutti scoppiarono a ridere. Solo Nadia ascoltava in silenzio.

Giunsero le portate; e mentre tutti gli altri mangiavano e ridevano, Nadia se ne stette seduta a capotavola, limitandosi a sbocconcellare qualcosa dal piatto. Sorrideva alle battute, rideva quando necessario, ma evitava accuratamente di intervenire e di farsi notare più del dovuto. Ogni tanto lanciava a Jean qualche occhiata preoccupata e ansiosa: talvolta, quando incontrava i suoi occhi, subito distoglieva lo sguardo, intimorita; altre volte, facendosi forza, cercava di sorridergli timidamente, nel tentativo di risvegliare in lui un poco di tenerezza. Ma quando lei riusciva a scovare quel poco di coraggio necessario a sostenere il suo sguardo, lui la fissava con un tale distacco che lei subito impallidiva sconvolta, cedendo di fronte a quei suoi occhi vuoti e inespressivi che la facevano sentire come una perfetta estranea. Più lei cercava di comunicargli la sua presenza, più lui la ignorava. Desolata, lei cercava allora dove posare i suoi occhi, vagabondando con lo sguardo sul volto degli altri; ma era inutile. Nessuno la guardava, nessuno le si rivolgeva. Era completamente sola, dimenticata da tutti. Sconfitta, alla fine posò la forchetta nel piatto e si eclissò, rinchiudendosi in un silenzio opprimente.

Per tutta la durata del pasto, non disse più una parola, e non alzò gli occhi dal piatto. Quando venne il momento e tutti si alzarono, lei si alzò. Quando tutti si salutarono, lei si accostò timida a Jean, sperando in un suo saluto, in un cenno che, pure, non arrivò. E quando fu lui a salutare gli altri, apprestandosi ad andarsene, lei non ebbe il coraggio di fare e di dire nulla.

«Non vedo l'ora di sdraiarmi e dormire» diceva lui, accompagnando Sanson e Hanson alla porta. «Non so cosa darei per un materasso...»

Sussultò, sentendo qualcosa che lo tratteneva. Nadia gli stava tirando delicatamente la manica della camicia, impedendogli di andarsene. Aveva provato a ignorarla, ma lei insisteva. Quando si volse a guardarla, la trovò agitata, con il volto teso per l'emozione.

«Posso parlarti?»

«Ora?» fece lui, freddo. Nadia sentì una fitta al petto. Il cuore le prese a pulsare fortissimo e la bocca le si seccò, mentre le gambe non riuscivano quasi più a reggerla.

«Solo... solo un attimo» mormorò. Lui strinse le labbra e lei avrebbe voluto sprofondare. Era umiliante. Perché faceva così? Sarebbe scoppiata a piangere, se non avesse odiato anche solo il pensiero di mostrarsi tanto debole ai suoi occhi.

«Sono un po' stanco» fece lui, allargando le braccia. «Magari più tardi».

Nadia scosse il capo.

«Adesso, ti prego».

Lui sospirò, congedando con un cenno il resto del gruppo. Nel vederlo così seccato, lei trattenne a stento un singhiozzo.

Era crudele, pensò. La odiava così tanto? Non voleva nemmeno parlarle... perché?

«Allora» disse lui «che succede?»

Lei abbassò gli occhi.

«Sono felice che tu stia bene» gli disse, con un debole sorriso. Gli posò una mano sul braccio e con un dito lo accarezzò sulla pelle lasciata nuda dalla manica arrotolata. Il contatto con il suo corpo le diede un brivido profondo, che le strappò qualche lacrima.

«Anche io sono felice che stiate tutti bene» ripeté lui, sottraendosi al suo tocco in modo gentile ma deciso. Nadia fremette, come se si fosse riscossa da un sogno.

«Chi sono queste persone?» le chiese lui, aggrondando. «Vengono dal tuo pianeta di origine, non è così?»

Lei annuì.

«Perché vi hanno catturati?»

«Non ci hanno catturato» fece Nadia. «Mi stavano cercando. E cercavano la pietra che avevo con me...»

Lui strinse gli occhi.

«Perché?»

Nadia sospirò. «Jean, c'è qualcosa... qualcosa di cui dovrei parlarti» confessò. «Questa gente... sono qui perché hanno bisogno di me. Vogliono che io ritorni su Atlantide, con loro».

«Atlantide?»

«Il loro pianeta. Il pianeta da cui proviene la mia gente».

«Per quale ragione?» fece lui, tagliente.

«Perché dicono che posso aiutarli a salvarlo».

«Con la pietra?»

«Sì».

Jean annuì. Nadia lo fissò in silenzio. Quindi «ti ho voluto parlare» disse «perché ho bisogno di sapere che ne pensi... non so che fare e...»

«Credo che faresti bene a partire».

Nadia si paralizzò. Spostò gli occhi sul volto di lui e sbiancò.

«Partire?» mormorò.

«Sì».

Lei si sentì morire. Indietreggiò di un passo, sforzandosi di non fuggire dalla stanza e da lui.

«Ti rendi conto che se partirò non potrò più ritornare?»

«Se davvero puoi aiutarli a salvare un intero pianeta, credo che dovresti partire. Io lo farei. In fondo, tu non sei mai appartenuta davvero a questo pianeta. Credo che anche tu ne sia consapevole».

Nadia non riusciva a credere alle proprie orecchie.

«Ma cosa dici?»

Lui abbassò gli occhi.

«Hai chiesto la mia opinione. Ma sei tu a dover decidere. Se non vuoi partire, non farlo».

«Davvero vuoi... vuoi che me ne vada?»

«Che importa cosa voglio?» fece lui, duro. «Sei tu che devi scegliere. E allora scegli».

Non conto nulla per lui. Non conto davvero nulla...

«Credevo...»

«Cosa?»

Lei impallidì. Scoppiò in lacrime.

«Non lo so» fece, portandosi le mani al volto. «Non questo. Non così».

Lui distolse lo sguardo.

«Ami lei?» mormorò Nadia tremante, senza osare alzare gli occhi sul suo volto. «È così... ami Alex?»

«Alex non c'entra» sbuffò lui.

«E allora...»

«Una volta mi hai detto che dovevo imparare a scegliere, ricordi?» le disse, fermo. «Beh, ora tocca a te, farlo. Io ti ho aiutato ad arrivare fin qui, di più non posso fare. La vita è tua, Nadia. Sinceramente, io ho altro a cui pensare».

«Non posso, non posso credere che tu dica sul serio» mormorò lei. Lui la fulminò con lo sguardo.

«Anche questa è una tua scelta».

Sconvolta, Nadia cercò sul suo volto la traccia che si stava ingannando, che quello che aveva sentito da lui non era che un errore, un incubo terribile da cui presto si sarebbe svegliata. Ma non era così. Lui si sottrasse, volgendo altrove lo sguardo; e capì che era finita. Disperata, lei scosse il capo e si coprì il volto con le mani, fuggendo via dalla stanza tra i singhiozzi. Ben presto, anche l'eco dei suoi passi svanì lungo il corridoio, lasciando Jean definitivamente solo.

Barcollando, lo sguardo fisso al suolo, Jean cercò con le mani che gli tremavano qualcosa a cui appoggiarsi.

L'ho fatto, pensò lui, sospirando. L'ho fatto davvero.

Quanto si odiava.

Per tutto il tempo, da quando aveva messo piede in quella stanza, aveva cercato il modo per allontanarla definitivamente da sé. Inaspettato, gli aveva dato una mano il destino. Quel destino che, alla fine, era arrivato anche per lei, e che anche lei non avrebbe potuto evitare di abbracciare.

Magari, sarebbe stato proprio quel destino che l'aveva portata a incontrare la sua gente, a salvarla dalla tremenda visione che lui aveva avuto e che ancora lo sconvolgeva, ogni volta che osava chiudere gli occhi.

In fondo, era semplice.

Se fosse partita, si sarebbe salvata.

Lui avrebbe sofferto; lei anche, forse. Però, nessuna battaglia, nessun odio. Nessuno sarebbe morto, se non il suo cuore.

Nel dolore, gli sarebbe comunque rimasta la speranza di saperla viva, da qualche parte nell'universo. Per quello voleva che partisse. Voleva intensamente, insensatamente che partisse. Solo per quello. Per averla lontana da lui. Per saperla viva. Perché l'immagine di lei non potesse essere distrutta da quel destino che li odiava entrambi, e che sembrava desiderare solo il loro male.

Aveva ragione Atahualpa. Il vecchio, saggio Atahualpa. Era nella distanza, la risposta. E nella capacità di scegliere. Per quanto fosse difficile, per quanto preferisse morire piuttosto che rinunciare a lei, lui aveva scelto. E la sua scelta era lei, la sua sopravvivenza.

Se quello era l'unico modo, avrebbe fatto quello che doveva fare. Avrebbe scelto per entrambi, e l'avrebbe salvata, condannando se stesso all'infelicità e lei alla vita.

Sospirando, si guardò attorno. Non c'era più nessuno, adesso.

Finalmente, poteva piangere.

 

 

*

 

 

«Nadia?»

John si alzò in piedi. Non si aspettava di trovarsela davanti agli occhi. Non ancora. Ecco perché non era andato con gli altri a incontrare Jean. Perché non avrebbe sopportato di vedere il modo in cui lei lo avrebbe guardato.

«Cosa ci fai qui?» fece, avvicinandola perplesso. Vide che aveva pianto. Lei si scostò, allontanandosi.

«Perché non sei venuto?» mormorò. Lui strinse le labbra.

«Non potevo».

«Perché?»

«Lo sai».

Lei si passò una mano tra i capelli. Il suo volto si tese e dopo un istante scoppiò a piangere.

«Ma che è successo?» fece John, prendendola tra le braccia. Lei resistette per un poco, ma poi si lasciò stringere, ricambiando intensamente l'abbraccio.

«Dimmi che sei come me» singhiozzò lei. «Dimmi che non mentivi, quando dicevi che sei come me».

Lui non capì. Si limitò a stringerla, aggrondando.

«Nadia...»

Lei si alzò sulle punte e gli prese il volto tra le mani, cercando le sue labbra. John si irrigidì, soccombendo lentamente alla furia con cui lei lo baciava. Alla fine, lui la allontanò, boccheggiando.

«Ma che ti prende?» fece. «Sembri uscita di senno».

«Non mi ami?» esalò lei, smarrita. «Avevi detto che mi amavi, ma non era vero, allora...»

«Certo che ti amo» ribatté lui, confuso. «Ma prima mi dici di andarmene, poi vieni qui come una pazza...»

Lei avvampò. John si fece pallido, drizzando il busto.

«Ora capisco» mormorò. «È per lui, vero? Sei venuta qui per rifarti su di lui. Cos'è successo, qualcosa non è andato come speravi?»

Nadia si strinse nelle spalle. Gli occhi le tremavano.

«Non mi merito questo» disse lui, fermo. «Non è giusto. Non lo merito».

«No, è vero» fece lei.

«E perché allora sei venuta qui?»

Lei lo guardò. Una lacrima le scese solitaria lungo la guancia.

«Perché non sapevo dove altro andare».

Sorpreso, John sospirò. Non l'aveva mai vista tanto fragile, tanto debole. Provò pietà per lei, insieme a un'immensa tenerezza.

«Ti prego» lo supplicò. «Non essere cattivo con me. Almeno tu... non trattarmi male».

John restò a guardarla senza saper cosa dire, o cosa fare. Continuava a piangere sommessamente davanti ai suoi occhi, facendosi sempre più piccola e sempre più sottile finché lui, impietosito, non la strinse, posandole un bacio sulla fronte.

«Hai fatto bene a venire» sussurrò. «Tu lo sai, io ti amo. E sai anche che sono come te. Non ti lascerò mai sola, se è questo che vuoi».

Lei sollevò gli occhi a guardarlo. Sorrise. E senza rispondere nulla, lo baciò.

In fondo, era per quello che era andata da lui.

Non per le carezze con cui adesso lui la spogliava, lentamente. Non per i baci con cui ora esplorava il suo corpo. Non per i sospiri e i gemiti che le rubava.

Era lì perché voleva avere la certezza che non l'avrebbe mai lasciata sola. Quella sarebbe stata la sua condanna e lui sarebbe stato il suo aguzzino. Non l'avrebbe lasciata andare e lei l'avrebbe lasciato fare, annientandosi tra le sue braccia, consegnandogli tutto quello che lui avrebbe desiderato, piegandosi a qualsiasi suo desiderio. Tutto andava bene, purché lei smettesse di esistere, purché il suo orgoglio cadesse sotto i colpi del disgusto e della vergogna, purché qualcuno la riconsegnasse al nulla da cui aveva osato rialzarsi, trasformandola in un nudo corpo.

Solo per questo, era andata lì. Per perdersi. Per gettarsi via. Per darsi a lui completamente, perché voleva che quello che restasse di lei, una volta che lui l'avesse avuta, fosse niente. Nulla più di niente. E così, smettere una buona volta di esistere.

Lasciò che l'avesse. Lasciò che si insinuasse in lei, e che mantenesse l'illusione di un potere che non aveva. Mentre si agitava su di lei, dentro di lei, ascoltando frenetico i sospiri che le strappava con un misto di timore e di orgoglio, lei ebbe finalmente l'impressione di essere nulla. Era vuota. Un puro involucro.

E allora pensava. E dentro di sé, cantava.

Il mio cuore...

C'era stato un momento nella sua vita in cui aveva creduto all'amore. Era stato un momento sincero. Ora si era perduto, cancellato tra le pieghe delle lenzuola che avvolgevano i loro corpi sudati.

Il mio cuore è un uccello che canta...

Patetico.

Era tutto così ridicolo. Il modo in cui lui si muoveva, il modo in cui lei non riusciva a essere padrona del suo corpo. Il disgusto che provava per se stessa, e per quello che si costringeva a fare.

Il mio cuore è simile a un melo...

«Nadia...»

Chiuse gli occhi. Perché lo faceva? Perché la chiamava? Il suo nome era osceno pronunciato dalle sue labbra, perché la riportava alla propria identità. Era lì per dimenticarsi, per farsi estranea a se stessa ma lui, chiamandola, ridava un volto a quel corpo che lei si sforzava di osservare crudamente dall'esterno, e di abbandonare su quel letto insieme al cadavere dei propri sogni.

Era così osceno, mentre si muoveva. Così orrendamente, insensatamente osceno.

E invece no, non era lui. Era lei, ad essere oscena. Perché a tutto quel disgusto, si mescolava il piacere e il suo desiderio di annegare consapevolmente in esso.

Gemette. Lui sorrise.

Ne era orgoglioso.

Lei provava schifo.

Il mio cuore è una conchiglia iridata...

Si agitava, sempre più convulsamente. Era tutto così assurdo. Il dolore che provava, il piacere con cui il suo corpo la tradiva, obbligandola a seguire una volontà disgustosamente estranea. Non era amore, quello. Non era altro che nulla. Nulla, nulla... solo nulla.

Sì...

E perché, allora, era ancora viva? Perché ancora sentiva, perché ancora confidava in una redenzione, in una assoluzione per sé e per i propri sogni di ingenua... perché ancora sperava che aprendo gli occhi svanisse il disgusto e il dolore per la violenza senza significato a cui aveva costretto il suo corpo? Perché lasciava che lui la portasse a provare un piacere che poi subito rigettava come ignobile, perché indegno, perché sbagliato e umiliante nel suo rispondere a un nome che le ripugnava e che sostituiva nella sua mente con quello così tanto amato?

Cos'era lei, in quel letto, sotto di lui?

Dimentica di se stessa, diversa da un essere umano.

Il mio cuore...

«Nadia...»

Ora lo sapeva. Sapeva la verità. Giaceva come una nuda vittima tra le lenzuola, un giocattolo, un semplice passatempo; lì, su quel letto, abbracciata a un amante per cui non provava nulla, nemmeno fastidio, era tornata ad essere ciò a cui il mondo, rifiutandosi di accettarla, l'aveva da sempre destinata, scaricandola come un cumulo di spazzatura.

Un corpo, senza identità. Una vita, che si agitava senza alcuno scopo.

Il mio cuore è il più felice tra questi...

John si accasciò esausto sopra di lei. Nadia lo strinse, ascoltando in silenzio il suo respiro affannoso.

«... perché il mio amore è venuto da me» mormorò, tra le lacrime. Lui la baciò e lei si sentì morire.

Ora sapeva. L'amore, la passione, il turbamento... liberata da ogni illusione, ogni cosa appariva alla fine per quello che era.

La vita, non era nulla. Esisteva solo l'orrore.

E lei ne era parte.

 

 



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Capitolo 25
*** 24 ***


La sala comandi era gremita. Atys si fece largo tra lo stuolo di tecnici e il personale specializzato che brulicava attorno alla plancia nel tentativo di decifrare i dati che arrivavano praticamente a flusso continuo. Non appena lo intravide in mezzo a quella folla, Lucano gli si mosse incontro, spostando rudemente quanti lo accerchiavano e gli sbarravano il passaggio.

«Comandante, benvenuto sul ponte» fece, scattando sull'attenti e affiancandolo prontamente. «Tutti i preparativi sono quasi ultimati. Siamo pronti a procedere».

«Novità sull'attività della Pietra?» domandò Atys, chinandosi a studiare sulla plancia le mappe di bordo e gli ultimi rapporti tecnici. «Si mantiene stabile?»

«Non proprio» lo informò Lucano, indicandogli alcune cifre che brillavano sullo schermo. «Da quando siamo atterrati, sembra che la sua energia abbia subito un incremento progressivo, piuttosto sostanziale. L'attività magnetica che stiamo registrando attualmente, è ai massimi livelli».

«Ci siamo, dunque».

Atys sollevò il busto. Gli occhi incavati per il sonno di cui si era privato negli ultimi tempi lasciavano cadere sul suo viso un'ombra fosca, esasperata dalla smorfia severa che gli piegava la bocca.

«Non resta che lei,» sospirò. Sembrava quasi sollevato. «La nostra Regina».

«Vuole che mandi qualcuno a chiamarla?»

Atys sembrò notare Lucano per la prima volta. Sbatté le palpebre appesantite, come per scacciare un'immagine fastidiosa e ricorrente.

«No. Lasciate che riposi ancora un po'» disse. «Credo che abbia avuto una giornata piuttosto intensa».

«Come comanda».

Atys abbassò gli occhi. La plancia gli illuminava il volto, emettendo un bagliore ipnotico e costante che lo trascinò nel vortice indistinto dei propri pensieri, da dove ben presto si ritrovò a fissare un punto imprecisato avanti a sé. Perso ogni altro riferimento, tutte quelle cifre che ballavano risplendendo davanti ai suoi occhi, cessarono di avere significato, limitandosi a brillare confuse come uno sciame di lucciole nel buio.

«Ci pensa?» mormorò, praticamente rivolgendosi a se stesso. «Siamo a un passo dal recuperare l'ultima delle nove Pietre Sacre. Finalmente potremo tornarcene a casa e mettere fine a questa fottutissima guerra».

Di fianco a lui, Lucano si chinò sulla plancia, come a cercare conferma in essa di quanto diceva il suo comandante.

«Speriamo che sia così», esalò. Atys strinse i pugni.

«Deve essere così» disse, mostrando i denti. «È solo per questo che ho resistito fino ad ora. Se non sono ancora impazzito e se non ho ancora mandato tutto al diavolo, è solo perché ho continuato ad attaccarmi disperatamente a questa singola speranza, la speranza che esistesse ancora qualcuno in grado di salvare il nostro mondo. Perciò, deve per forza essere così».

Lucano tacque. Il volto del suo comandante aveva assunto un'espressione tetra, che lui non conosceva.

«Avete avviato i calcoli per la traiettoria di passaggio?» chiese Atys, gli occhi aperti su un luogo della sua anima inaccessibile a chiunque. Lucano annuì.

«Li stiamo ultimando» rispose. Con rapidi gesti, afferrò una tavoletta luminosa ed estrasse i dati che gli servivano. «I tecnici hanno già avviato la simulazione, ricalibrando la struttura propulsiva della nave. Resta comunque da vedere quanto tempo la Merkaba resterà attiva, una volta aperta».

«Il tempo necessario» fece Atys. «Non dobbiamo preoccuparci di questo. Penserà a tutto la nostra sovrana».

Lucano assunse un'aria perplessa. Scrutò dubbioso il volto deciso del comandante, inarcando le spalle. «Crede davvero che ne avrà la forza?» azzardò. «In fondo, non è che una semplice ragazza e non credo che abbia mai avuto davvero a che fare con un potere del genere. Per quel che ne sappiamo, potrebbe addirittura uscirne distrutta».

«Lo so benissimo» affermò Atys, aggrottando. «Generare un'apertura dimensionale di tali entità e attraverso la sola forza psichica, richiede uno sforzo che potrebbe risultare fatale per chiunque. Ma si ricordi che lei non è una persona qualunque. Nadia Ra Arwol è la nostra Regina. L'ultima sopravvissuta dell'antica Casa Regnante. Nelle sue vene, scorre il potere che gli dei hanno trasmesso a quanti tra i nostri progenitori furono scelti per questo, per governare le Pietre. Lei è l'unica a poter istituire la Merkaba. Senza il suo intervento, sarebbe impossibile aprire il varco spazio-temporale necessario a ricondurci a casa. Ma io so che lei può farlo, e lo farà. Ho piena fiducia in quella ragazza».

«Allora, speriamo che non si sbagli» commentò Lucano, per nulla convinto.

«Non posso sbagliarmi» fece Atys. «Significherebbe che tutti noi, e questo intero mondo, periremmo nel tentativo. E questo non posso permetterlo, non a un passo dal successo. Non ho accettato questa missione per morire su un pianetucolo dimenticato dall'ultimo degli dei».

Lucano indugiò per un istante, meditando su quelle parole senza esprimere alcuna opinione. Alla fine, Atys ruppe il silenzio che si era creato, emettendo un debole sospiro.

«Mi mandi Faloe» disse, avvolgendosi nel mantello e voltando le spalle a Lucano. «È tutto il giorno che è come scomparsa. Ho bisogno di parlarle dei nostri ospiti».

«Cosa ha intenzione di fare, a proposito?» chiese Lucano, inarcando un sopracciglio. «Ormai il momento della partenza si avvicina, e non abbiamo ancora ricevuto disposizioni adeguate, al riguardo».

«Ho dato la mia parola che li avrei lasciati andare vivi, ed è quello che farò» affermò Atys, voltandosi indietro una volta raggiunta l'uscita. «Ma per quanto mi riguarda, una volta fuori da questa nave, la sorte di quegli uomini non sarà più affar mio».

«Quindi, se riusciranno a sopravvivere...»

«Tanto meglio per loro» fece Atys un attimo prima che la porta si chiudesse, sottraendolo alla vista.

 

 

*

 

 

«Ti ho fatto male?»

Nadia si strinse nelle spalle. John le passò dolcemente una mano sul braccio, stringendola da dietro.

«No» mormorò lei, dopo un attimo di esitazione. «No, davvero».

«Ti è piaciuto?»

Non sapeva cosa rispondere. Se avesse dovuto dire la verità, non è che avesse sentito granché. Non le aveva fatto esageratamente male, ma non era stato neppure esaltante.

«Sì» disse alla fine. Era meglio così. In certi casi, la verità non serviva a nulla, se non a complicare le cose.

Lui sorrise, aggrondando. «Sai, non sembri particolarmente convinta».

«Ma sì, sì, è stato bello» si schermì lei. «Molto».

John restò a guardare assorto la morbida curva delle sue spalle. Gli giaceva accanto, ma sentiva che in realtà lei si trovava altrove. Persino il suo corpo, quel corpo che aveva così intensamente assaporato e con cui si era fuso nel modo più completo possibile, sembrava quasi avvolto su se stesso e completamente abbandonato. Un guscio vuoto, come una conchiglia sulla spiaggia.

Con il palmo della mano, accarezzò la linea sinuosa dei suoi fianchi, percorrendone l'interno e risalendo su fino alla pancia. Sotto le sue dita, la pelle di lei era morbida e calda. Nadia gli bloccò la mano e intrecciò le dita a quelle di lui.

«Bello come ti aspettavi?» insistette John. Lei si voltò a guardarlo.

«Ma perché mi fai tutte queste domande?» chiese. Era irritata. Lui scrollò le spalle, come per dare poco peso alla cosa.

«Beh, in fin dei conti era la tua prima volta».

«E cosa c'è di così sensazionale, in questo? Ne parli come se avessi vinto un trofeo».

«Scusa, non lo ritieni importante?»

Lei sbuffò. «Cosa? Aver fatto del sesso?»

«No. Averlo fatto la prima volta».

Nadia scrollò le spalle, infossando il mento e nascondendo il volto tra le pieghe del cuscino.

«Prima o poi doveva pur succedere».

John sospirò. Si distese al suo fianco, sistemandosi il cuscino dietro la testa.

«Avresti preferito farlo con lui, non è vero?»

Nadia si irrigidì. Volse la testa, a guardarlo. Lui le sorrise.

«Guarda che non me la prendo» disse. «Anche se, sinceramente, mi secca un po' essere stato usato in quel modo».

«No» fece lei, drizzandosi su un gomito. «No, ti sbagli. Era con te che volevo farlo. Mi spiace averti dato l'idea che non fosse così».

John le passò un braccio intorno alle spalle e lei si girò tra le lenzuola, appoggiando la testa al suo petto.

«Io ti amo, Nadia» le disse John, stringendola a sé. «Sono felice per quello che è successo, ma non posso esserlo da solo. Vorrei che lo fossi anche tu».

Lei non rispose. Si limitò a sbattere lentamente le palpebre.

«Vuoi dormire?» le chiese John. Lei scosse la testa.

«Non è che non ti ami» fece Nadia, sommessamente. «È solo che mi sento molto confusa. Tutto quello che mi sta succedendo, ogni cosa» sospirò «mi sento così sola e incapace di affrontare la realtà. La verità, è che non so che fare».

Lui le accarezzò i capelli. Nadia respirò a fondo, come per farsi coraggio. Ormai aveva cominciato a confidarsi, non c'era ragione di smettere proprio ora.

«Anche mentre facevo l'amore con te, era come se non fossi veramente io. Scusa se te lo dico così, ma è la verità. Ero lì, ma in realtà mi trovavo altrove. Non è che fosse colpa tua, o che non provassi piacere... ma vivevo tutto dall'esterno, come se il mio corpo non mi appartenesse. È stato... strano».

«Ti va di parlarne?»

Lei impallidì. John le spostò i capelli dalla fronte, e le diede un bacio.

«Parlare?» fece lei. «E di che cosa?»

«Di come ti senti».

Lei restò a guardarlo come sospesa, ma all'ultimo si rimangiò quello che stava per dire. Con un movimento secco del capo si rintanò sul petto di lui.

«No, non credo che servirebbe a qualcosa».

«O forse sì, chi può dirlo».

«Ti ho già detto che ciò che provo non dipende da te, o da quello che abbiamo fatto. Perché insisti?»

«Perché insisto?» fece lui, sorpreso. «Perché mi interessi, no? Mi sembra piuttosto evidente».

John attese pazientemente che lei rispondesse qualcosa, ma Nadia sembrava essersi calata in un silenzio improvviso e ostinato. Era come se un'ombra fosse discesa su di lei, racchiudendola e occultandola al resto del mondo.

«Allora?» incalzò lui. Lei sembrò farsi ancora più distante, ma alla fine la sua voce lo raggiunse, tiepida e lontana, come se sgorgasse da un luogo remoto ad entrambi.

«Cinque anni fa, ho per la prima volta capito cosa fosse quella pietra azzurra che portavo con me sin da quando ero bambina» mormorò. Sorpreso, John si raddrizzò, ascoltandola attento. «Per tutta la vita, avevo sempre creduto che fosse solo un gioiello, l'ultimo ricordo di mia madre, che non avevo mai conosciuto. Credevo di dover proteggere quella pietra come si proteggono i ricordi, perché era l'unica cosa che ancora mi legava a lei, e a una vita che avevo vissuto solo per poco, pochissimo tempo».

Nadia fece una pausa. Accavallò una gamba a quelle di lui, posandogli una mano sul petto ed esplorandolo con il tocco lieve dei polpastrelli.

«Quando incontrai Gargoyle, avevo quindici anni. Non avevo idea di chi fosse quell'uomo. Mi aveva rapito e rinchiuso nella sua fortezza, dove mi parlava continuamente di cose che non conoscevo, di un passato che non mi apparteneva. Lui aveva vissuto insieme a mia madre e a mio padre, io no. Non sapevo niente di lui, né di loro. Perché voleva la pietra? Perché voleva me? Non ne avevo idea. L'unica cosa certa era che, dentro di me, qualcosa mi spronava a nascondermi da lui e a fuggire. Almeno, fino a un certo punto».

John le spostò i capelli dal volto, percorrendo con un dito il profilo elegante della sua piccola orecchia. Era la prima volta che Nadia gli parlava del suo passato. La sentiva incredibilmente vicina, ora, e fragile. Un'immagine di lei che non conosceva, ma che sentiva di apprezzare profondamente.

«Cosa intendi?» chiese. «Non eri convinta?»

«C'è qualcosa» mormorò lei, atterrita «qualcosa che non ti ho mai detto. Che non ho mai detto a nessuno. È qualcosa che sento dentro di me da quando ho preso consapevolezza per la prima volta di chi fossi realmente. È come una forza oscura e potente, che cresce in me e che da sempre cerco di controllare e di sopire. È una voce, che mi parla e mi dice cose terribili, che non ho mai voluto sentire».

John strinse gli occhi. «Spiegati meglio».

«Dopo che Gargoyle mi ebbe svelato chi ero in realtà» riprese lei, «e dopo che finalmente ebbi scoperto cosa significava quella pietra che da sempre mi portavo appresso, avvertii che in me si era verificato un mutamento profondo. Non accadde subito. Le prime avvisaglie le ebbi quando entrai in contatto con le rovine della mia antica città natale. Raggiunsi ciò che restava di Tartesso casualmente, insieme a Jean e agli altri, proprio mentre cercavo di fuggire da Gargoyle. Si potrebbe dire il destino» rise, debolmente. «Ma una volta là, mi resi conto che non ero sola. Udivo distintamente la voce delle anime degli atlantidei che ancora giacevano insepolti in quel luogo, attendendo disperatamente che qualcuno li riportasse a casa. Per la prima volta, in quel luogo di miseria, avvertii tutto il peso della storia del mio popolo, un peso che ricadeva interamente sulle mie spalle. Era a me che si rivolgevano quelle voci, a me sola; e a me chiedevano giustizia per quanto era accaduto, per il fatto che mio padre aveva causato la loro morte, nel vano tentativo di uccidere Gargoyle. Fu allora che me ne accorsi. C'era qualcosa in me, qualcosa che, per quanto fossi terrorizzata, mi spingeva a farmi carico del destino di quei morti e delle spoglie vuote e desolate della nostra antica civiltà. Sapevo che avrei potuto riportare in vita il regno di Atlantide, sentivo dentro di me quella forza e quasi ne gioivo. Era come se una parte di me avesse cominciato a sentirsi improvvisamente viva, come se quella lacerazione profonda che avevo avvertito in me per tutta la vita avesse finalmente acquistato un senso, ricomponendosi. C'erano due anime in me, una consapevole e l'altra che aveva atteso dormiente nel mio cuore per anni. In quel momento, quella parte di me così segreta e inaccessibile si era risvegliata: e non era qualcosa che conoscessi. Mi mostrava una persona completamente diversa da quella che credevo di essere. Era come se avessi davanti un'altra me stessa, l'esatto contrario dell'immagine che avevo di me. Eppure, mi esaltava. Ogni volta che lasciavo quella Nadia sconosciuta libera di affiorare alla mia coscienza, seppur debolmente, mi sentivo invadere da un'energia incredibile, quasi esasperante. È difficile da descrivere, ma potevo sentirla scorrere in tutto il mio corpo, quell'energia, nelle mani che mi formicolavano, o nelle gambe che chiedevano di correre, e di muoversi. Mi sentivo euforica, ma anche spaventata, perché sapevo che se solo l'avessi lasciata fare, se non l'avessi contrastata, mi avrebbe senz'altro sopraffatto. Per questo fui felice, quando distrussi sia la pietra azzurra che avevo con me, sia quella di mio padre. Credetti che liberandomi di esse, sarei finalmente sfuggita a quel destino, a quella parte di me che pretendeva da me cose tanto terribili. E infatti, da allora non sentii più quella forza. Almeno per un po', la sua voce smise di tartassarmi».

Nadia sospirò chiudendo gli occhi. John la ascoltava senza mai interromperla, osservando affascinato le ombre che la dura luce artificiale gettava sul suo corpo, illuminandola come in un quadro al chiaroscuro.

«Passava il tempo e io dimenticai quanto avevo vissuto. C'era una vita nuova ad attendermi, e nuove emozioni. Finalmente, ero libera di affermare me stessa, e di trovare il mio posto nel mondo. Eppure, qualcosa non mi soddisfaceva. Un giorno mi accorsi che una parte di me era come morta. Cercai di scoprire cosa mi affliggeva e credetti di trovarlo in ciò che ancora mi legava a quel passato che non riuscivo veramente a dimenticare. Fu allora che fuggii. Fuggii lasciandomi alle spalle tutto quanto mi parlava della Nadia che ero stata, e che non volevo più essere. Mi rifugiai in un nuovo paese, in un nuovo lavoro e in un nuovo amore, il tuo, credendo di poter finalmente essere libera, ma mi ingannavo. Non perché non ti amassi. Oh, John, dio solo sa quanto ti ho amato, ma il motivo era un altro. Era la parte di me più nascosta, che era tornata a parlarmi. Era lì, che chiedeva di essere ascoltata, che pretendeva la parte della mia vita che ancora le spettava. Mi rifiutavo di ascoltarla, ma più passava il tempo, più mi rendevo conto che tante cose che mi erano state dette, tante cose che avevo sempre ostinatamente liquidato come menzogne, in realtà si stavano avverando».

«Quali cose?» fece John, incuriosito. Nadia impallidì, abbassando lo sguardo.

«Quando incontrai Gargoyle, insieme a lui c'era anche mio fratello. Per me fu uno shock incontrarlo. Non sapevo di avere un fratello, anche se da sempre, dentro di me, nutrivo la sensazione che non fossi sola al mondo, e che da qualche parte esisteva qualcuno che mi stava disperatamente cercando.

Quando lo incontrai, scoprii che era stato proprio lui a salvarmi tanti anni prima, facendomi allontanare da Tartesso prima che la città venisse distrutta. Tuttavia, per me non era che un mostro, esattamente come Gargoyle, perché aveva causato la morte di centinaia di persone innocenti, tra cui mia madre, nostra madre. Eppure, più ascoltavo le sue parole, più esse scendevano dentro di me, posandosi lentamente nel mio cuore. E da lì non riuscivo più a toglierle. Mi disse che ciò che da sempre lo guidava, era la speranza in un mondo migliore, e la convinzione che l'umanità non avrebbe mai potuto salvarsi, se fosse stata lasciata a se stessa. Tutte frasi che avevo già sentito ripetere a Gargoyle, e che fino a quel momento avevo reputato solo sciocchezze. Ma oltre a questo, mi disse qualcosa che rispose immediatamente a tutte le domande che ancora mi angosciavano. Mi disse che io e lui eravamo diversi. Che nessuno mi avrebbe mai accettato. Che ero una aliena, e che come tale non sarei mai appartenuta al genere umano e a questo pianeta. Sul momento, io mi rifiutai di accettare una cosa del genere; e quando mio fratello morì, insieme a Gargoyle, credetti che tutto fosse finito e di essermi lasciata finalmente alle spalle quella terribile esperienza. Ma più passava il tempo, più mi rendevo conto che quello che mio fratello mi aveva detto, quel giorno, non era che la verità».

Nadia si sollevò, cercando il contatto con lo sguardo di John. Lui strinse gli occhi, fissandola direttamente e senza timore, incitandola a proseguire.

«Guardati intorno, John» gli disse lei, aggrappandosi nervosamente al cuscino. Il lenzuolo le scivolò dalla schiena, rivelando così il suo corpo completamente nudo. «Quante volte nel tuo lavoro hai dovuto assistere a cose orribili? Quante volte sei venuto a conoscenza di eventi disgustosi, legati all'egoismo e alla bramosia dell'uomo? Per tutto il tempo in cui io credevo di affermare me stessa, non ho fatto altro che scontrarmi contro l'egoismo, l'arrivismo, e la sozzura della razza umana. Ovunque vai, qualcuno è pronto a ingannarti, a truffarti, o a servirsi di te per i suoi scopi. Nessuno mi ha mai accettato, nessuno mi ha mai offerto aiuto in modo completamente disinteressato. Anche le persone che credevo amiche... anche loro si sono dimostrate pronte ad abbandonarmi, quando hanno visto chi ero e cosa ero in grado di fare. Ora, hanno paura. Nei loro occhi leggo il disprezzo, e la diffidenza. Credevo di poter sempre contare su di loro, loro che erano la mia speranza, ciò che ancora mi permetteva di credere nell'uomo e che mi faceva desiderare di essere come loro. Ma ora...»

Tacque. John le posò una mano sulla spalla. Lei torse gli occhi, torva.

«Ora sono così disgustata. Vedo solo esseri disprezzabili attorno a me, persone che sono in grado di pensare solo ai propri interessi. Ogni giorno, nel mondo, scoppia una nuova guerra. Persone innocenti muoiono a causa di qualcosa che qualcuno, dall'altra parte del mondo, giudica indispensabile per la propria felicità. In Africa, la vita di uomini, donne e bambini viene venduta al peso dei diamanti; altrove si fa altrettanto per l'oro, o per l'argento. Ognuno è pronto a vendere la propria famiglia e i propri valori per due soldi... e per cosa?»

Lei ansimò. Era pallida in volto, e sudava. Stringeva il cuscino con le mani, tesa, mentre la luce le tagliava lateralmente gli occhi, oscurandole il volto.

«Recentemente, da quando sono entrata in contatto con la pietra che Kurtag ha ritrovato, ho ricominciato ad avere strani sogni. Gli stessi sogni che facevo quando avevo la pietra azzurra. Sogni terribili, ma anche chiarificatori. È come se la parte di me che avevo sempre temuto avesse ricominciato a parlarmi, a distanza di tanti anni. Con la differenza che io, stavolta, non voglio più nascondermi. Ho cominciato ad ascoltarla, e sai cos'ho scoperto? Che quella che mi spaventava così tanto è forse la parte più vera di me. È così. Io non sono umana. Io non appartengo a questo mondo, un mondo che disprezzo e detesto, che non mi ha mai accettato per quello che sono. Un mondo dove la gente muore per nulla, e dove chiunque è pronto a uccidere il suo prossimo per convenienza. Sì, è vero, io sono diversa. Sono un'atlantidea. Non voglio più essere umana, non voglio più credere che ciò che sono sia sbagliato. Essere diversi da ciò che si è, questo è sbagliato».

«Sei molto arrabbiata...» intervenne John, nel tentativo di quietarla. Ma lei lo interruppe, battendo seccamente con la mano sul cuscino.

«Ho sognato Gargoyle» disse. «Un sogno così vivido e vero che sembrava reale. Era lì, davanti a me e mi parlava. Mi diceva le stesse cose di sempre solo che, stavolta, io non le trovavo così assurde. Trovavo strano il mio tentativo di controbatterle. In realtà, dentro di me, sentivo che le approvavo, che aveva ragione lui. Eppure, continuavo a mentire a me stessa, confutandolo, difendendo l'indifendibile. Ma lui sapeva. Forse, tra tutte le persone che abbia mai incontrato, lui era l'unico a sapere la verità. Per quanto mi ripugni ammetterlo».

Nadia tacque, pallida e tesa. John sospirò, lasciando che il silenzio tra di loro desse il tempo alle parole di lei di depositarsi. In fondo, non era necessario dire qualcosa. Forse, tutto era già stato detto.

«Tu sei davvero come me?» fece lei, improvvisamente dura e con un lampo di diffidenza negli occhi. «Davvero facevi sul serio, quando dicevi di appartenere ad Atlantide?»

Lui esitò. Per un attimo pensò a quanto stava per fare. Lei aveva bisogno di lui in quel momento e qualunque cosa lui le avesse detto, lei gli avrebbe creduto. Per la prima volta sentì di averla nelle sue mani, e che la direzione che lei avrebbe impresso alla sua vita, dipendeva da quello che lui le avrebbe confidato. Sorrise e annuì, deciso.

«Sì,» fece «io sono esattamente come te. Questa, è l'unica verità che conosco».

«In questo caso» fece lei «tu sei l'unico che può capirmi. Solo tu puoi darmi quello che cerco».

John la scrutò perplesso. Avvertiva tutta la forza e la decisione di lei, raccolte dietro il suo sguardo, ora non più timido, ma duro, e determinato.

«E cos'è che cerchi, esattamente?»

Nadia gli si avvicinò. Sul volto, aveva un'espressione indecifrabile.

«Solamente me stessa» disse.

 

 

*

 

 

«Jean, posso entrare?»

Lui alzò gli occhi verso la porta. Alex aspettava sulla soglia, incerta se entrare oppure no. Con un sorriso, la invitò ad accomodarsi.

Non si sentiva a suo agio, era evidente. Poteva capirlo da come la vedeva muoversi, così stranamente defilata per una come lei. Senza volerlo, Jean si addolcì.

«Ti faccio paura, per caso?»

Alex esitò. Vagava con gli occhi lungo la stanza, le mani dietro la schiena.

«No, è che...»

Stette per un po' sovrappensiero, mordendosi le labbra, come a cercare le parole giuste.

«Non ero sicura che volessi incontrarmi» si decise, alla fine. Lui aggrottò la fronte.

«E per quale ragione, scusa?»

«Non lo so. Forse, è perché ti ho baciato, prima».

Arrossì, mentre lo diceva. Jean se l'era completamente scordato. Non era davvero un granché in quelle situazioni. Chissà perché, ma riusciva sempre a deludere le donne che lo amavano, in qualche modo.

«Ma figurati se sono arrabbiato».

«Già, nemmeno te lo ricordavi, vero?»

Lui avvampò, distogliendo lo sguardo. Era vero. C'era poco da dire.

Alex sospirò, andandosi a sedere accanto a lui. Si lasciò cadere lunga distesa sul letto, facendo penzolare le gambe. Jean la osservò curioso. Per quanto gli fosse accanto da quasi tre anni, spesso dimenticava che, in fondo, era poco più che una ragazzina. Forse era per via della sua intelligenza, che arrivava a dimostrare più dei suoi diciassette anni.

Ricordava ancora la prima volta che l'aveva vista. Una quattordicenne seduta senza vergogna tra centinaia di studenti universitari molto più vecchi di lei. Ma se Jean, professore a nemmeno vent'anni, rappresentava un'eccezione, Alexandra Galvani era molto di più. Una ragazzina capace di risolvere uno studio di funzione senza bisogno di appuntarsi un singolo calcolo, era semplicemente un miracolo.

«Sei proprio incorreggibile, non dai tregua alla stupidità» mormorò lei, mettendo su il broncio. Si portò le mani dietro la nuca e spostò gli occhi su di lui, che la guardava da dietro la spalla. Quindi, aggrondò.

«Ma insomma...»

«Che c'è?»

«Jean, vuoi svegliarti?» sbottò lei, tirandosi a sedere. «Per la miseria, ti ho baciato. Possibile che tu non abbia nulla da dire?»

Lui scrollò le spalle. Per quanto si sforzasse, non trovava proprio niente da dire. Lei sbuffò, rassegnata.

«Non smetterai mai di amarla, vero?»

Jean sussultò. Avvertiva il suo sguardo, dietro la nuca. Tuttavia, non si voltò. Preferì abbassare gli occhi, e fissarsi le punte dei piedi.

«È così, per quanto una faccia, o per quanto si possa sforzare, non potrà mai competere con la perfettissima Nadia, l'unica e la sola donna che il professor Lartigue abbia mai amato!»

«Non conoscevo questa tua vena sarcastica» fece lui. Lei rise.

«E io non ti facevo così inaccessibile».

Jean decise di non controbattere. Non c'era nulla da aggiungere.

«Sai, se non fossi così arrabbiata con te, ti direi che mi fai pena» ammise lei. Lui si schermì.

«Chissà cosa mi diresti se fossi davvero molto arrabbiata».

«Non scherzare. Io sono serissima».

«A-ah...»

Lei ammiccò. «Nadia ti sta solo usando. Possibile che tu non te ne accorga? Quante volte, da quando vi conoscete, ha mai fatto qualcosa per te? E quante volte, invece, tu hai fatto qualcosa per lei?»

«Il discorso non è così semplice».

«Certo che non lo è. Non pretendo affatto che lo sia. Ma non è nemmeno così difficile».

Alex raccolse le gambe, incrociandole sul letto. Allungò la mano sul comodino e prese la caraffa d'acqua, quindi riempì il bicchiere fino all'orlo, portandoselo alle labbra e mettendosi a bere lentamente, con gli occhi socchiusi.

«Anche se la ragione mi dice che dovrei lasciarti perdere e cercarmi un uomo migliore di te, proprio non ce la faccio, sai?»

Jean si mosse sul letto, voltandosi con l'intero corpo a guardarla. Alex sorrise, timida.

«Perché non puoi provare ad amarmi, Jean?» gli chiese. Lui indugiò per un istante.

«Credi davvero che non vorrei?»

«No, credo che tu abbia paura di provarci».

Lui rise. «A dirla tutta, credo di avere paura di fare molte cose» ammise. Alex restò con le labbra appoggiate al bordo del bicchiere, indecisa su cosa dire.

«Hai parlato con lei, prima?»

Jean la guardò. Alex lo fissava, attendendosi una risposta.

«Sì».

«Che vi siete detti?»

Lui sospirò. Non è che avesse una gran voglia di fare quella conversazione. Avrebbe preferito gettarsi a letto e scomparire sotto le coperte per il resto della giornata.

«Alcune cose» buttò lì, vagamente. Alex nicchiò.

«Puoi essere più preciso?»

«Lei mi ha detto che era indecisa se partire, andarsene insieme a queste persone. Io le ho detto che avrebbe fatto bene a farlo. Tutto qui».

Come risposta fu piuttosto concisa, ma Alex sembrò decisamente sorpresa. Lo fissò con un misto di incredulità e interesse.

«E perché gli hai detto una cosa tanto assurda?»

Lui scosse la testa. Avrebbe dato qualsiasi cosa per saperlo. Sul momento gli era parsa la cosa migliore da fare, ma ora non ne era più tanto sicuro.

«Forse è come dici tu. Magari ho solo voglia di rifarmi una vita, lontano da lei».

«Oh...»

Alex posò il bicchiere, dopo esserselo rigirato per qualche istante tra le mani. Con un balzo, scese dal letto, lisciandosi la gonna e lanciando a Jean un'occhiata divertita.

«Quando avrai capito se sei pronto a lasciarti il ricordo di Nadia alle spalle, vienimi a cercare. Forse sarò ancora disposta a prenderti in considerazione, anche se confesso che mi sembri davvero senza speranze».

Lui era sconcertato.

«Che ti prende?» fece. «Perché fai così, adesso?»

«Jean, tu non vuoi veramente quello che hai detto» gli disse lei, improvvisamente seria. «Tu stai solo scappando. Stai scegliendo la soluzione migliore, quella che ti permette di evitare i problemi. Non è questo quello che voglio, né quello che mi aspetto da te».

«E cosa diavolo è che vuoi?» sbottò lui. Alex non parve affatto intimidita. Anzi, sorrise.

«Io voglio essere scelta» disse. «Voglio che tu mi scelga, pur potendo scegliere lei. Ecco quello che voglio».

«Alex, io non posso farlo» rispose lui, con fare atono. «Per quanto mi sforzi, non riesco a smettere...»

«... di amarla. Non è così?»

Lui abbassò gli occhi. Lei scosse la testa.

«Patetico» mormorò.

«Che cosa?»

Alex si morse le labbra.

«Tu» scattò, livida. «Tu sei patetico. Lei ti ha rovinato la vita, e tu continui a correrle appresso come un cagnolino».

«Ti sbagli. Le ho appena detto che per me può anche andarsene».

«Ma non ti rendi conto, che proprio per questo tu continui a scegliere lei?» fece Alex, ora davvero furibonda. «Tu vuoi che si allontani perché non hai la forza di abbandonarla. Vuoi che sia lei a decidere per te. Sei solo un vigliacco, uno stupido fantoccio senza volontà! Se la ami, vai e fai di tutto per prenderla. Se ami me, fammi vedere che ho il diritto di avere qualcosa di meglio, di quello che mi hai offerto fin'ora».

Lui la fissò desolato. Odiava farla soffrire. Alex gli aveva sempre fatto capire con sincerità quello che provava per lui; perché non poteva fare altrettanto? Perché non poteva amarla, e basta? Era consapevole che se solo ne fosse stato in grado, sarebbe stato felice. Lei era perfetta. Eppure, lui non riusciva a compiere il passo decisivo, per quanto sentisse di esserle profondamente legato.

«Io non so cosa dire» fece. «Mi dispiace».

Lei lo fulminò con lo sguardo.

«Ho io qualcosa da dirti» disse, dura. «Va' all'inferno, Jean».

E con sua grande sorpresa, gli rifilò un bel calcio.

 

 

*

 

 

Il capitano Dario Lucano non era tipo da scomporsi più di tanto. Di solito, era uno che si limitava a fare quanto gli veniva chiesto, nel modo migliore e più rapido possibile. Nella sua particolare visione del mondo, le cose funzionavano in un modo molto preciso: ad ogni comando, corrispondeva un'azione; ad ogni azione, un risultato. Per questo, era convinto che non avrebbe avuto problemi a risolvere la questione riguardante i prigionieri, così come gli era stato ordinato di fare. Questo, almeno, finché non aprì la porta dell'alloggio del tenente Faloe Anuri.

«Ma che diavolo...»

Con sua enorme sorpresa, sgranò gli occhi sul pavimento della stanza. Era completamente ricoperto di fotografie. Faloe se ne stava in ginocchio nel mezzo, semi svestita, gli occhi fissi su un un foglio da disegno che stringeva tra le mani.

«Sei del tutto impazzita?» esordì Lucano. Richiuse prontamente la porta, guardandosi nervosamente intorno. Se qualcuno avesse osservato quella scena, le voci avrebbero cominciato a correre e lei avrebbe corso il rischio di veder sminuita la sua autorità. Un danno che non avrebbe fatto bene a nessuno, sulla nave.

«Attento a non pestare nulla» mormorò lei, senza alzare neppure lo sguardo. Lui si irrigidì. Contrariato, cercò di farsi strada tra le fotografie, mettendo i piedi nei pochi spazi da lei lasciati vuoti.

«Si può sapere che diavolo ti ha preso?» ringhiò. «Cosa significa questa messinscena? Sembri quasi malata».

«Perché scattiamo delle fotografie?» fece Faloe, all'improvviso. Lucano sussultò. Il volto di lei era quasi trasfigurato, ma stranamente spento, come se un'oscurità invisibile avesse risucchiato tutta la luce che solitamente lo illuminava.

«Come dici?» deglutì. Lei mosse gli occhi. Se non fosse stato per quel movimento impercettibile con cui sbatté le palpebre, si poteva quasi credere che si fosse tramutata in una statua.

«Perché scattiamo fotografie?» ripeté lei, debolmente. «Proprio non lo capisco».

Lucano abbassò gli occhi sulle foto sparse intorno a loro. Si chinò, avvicinandosi al volto di lei e guardandola fissamente. Lei non alzò mai gli occhi su di lui.

«Beh, per ricordare, immagino».

«Perché?»

Lucano si ammutolì. Perché gli faceva quelle domande? Non era mica un filosofo.

«Insomma... perché non possiamo ricordarci tutto. E le foto ci aiutano a conservare i momenti migliori. Ma si può sapere che hai?»

Faloe posò il foglio che teneva tra le mani. Lucano intravide il disegno e capì che doveva averlo fatto la bambina umana. Con una smorfia, si passò la mano dietro la nuca.

«Sei così per colpa di quella bambina, vero?» disse. Lei tacque. Innervosito, Lucano prese a guardare le foto che lei aveva sparso tutt'intorno. Erano foto scattate durante il suo servizio da soldato. In tutte le foto, Faloe vestiva l'uniforme ed era in compagnia di qualche commilitone. Ma la cosa più incredibile, era che in nessuna di esse Faloe sorrideva.

«Perché hai tirato fuori questa roba?» fece lui. Di fronte al suo silenzio ostinato, Lucano strinse i denti e si mise a raccogliere le foto. Scossa, Faloe gli afferrò delicatamente la mano.

«No» disse. «Lascia».

«Tu non stai bene» fece lui, teso. «Non lo capisci? Devi smetterla di tormentarti così».

«Se è vero che le foto servono per ricordare i momenti migliori, perché io non ricordo di essere mai stata felice?»

«Cosa?»

Lei sollevò gli occhi a guardarlo, smarrita. Di fronte al suo sguardo vuoto, lui si sentì atterrire.

«Guardo queste foto, e non ricordo il motivo per cui sono state scattate. Se fosse come dici tu, se ricordassero un momento felice, me lo ricorderei, no?»

Lucano abbassò gli occhi sulle fotografie. Non capiva.

«Ebbene, non è così» concluse lei.

«Sei solo stanca».

«Non sono stanca» obiettò lei. «Sono sola».

Lucano restò a fissarla in silenzio. Cosa avrebbe potuto dirle? Che non era vero? Che poteva contare sui suoi compagni?

Che scemenza.

«Faloe...»

«Guardo queste foto, e mi accorgo che non ce n'è una in cui io sia con la stessa persona. Non ho una famiglia, non ho nessuno a cui tornare. La mia vita, guardando queste immagini, sembra che l'abbia trascorsa indossando questa divisa. L'esercito è la mia famiglia. È come se a un certo punto della mia vita io fossi morta, per poi rinascere con indosso questi abiti. Ognuno di voi ha qualcuno. Tu hai i tuoi genitori, i tuoi fratelli... il comandante ha i suoi ricordi. Io, invece... cosa mi rimane?»

«Non è vero che non hai niente. Anche tu hai i tuoi...»

Si fermò. Stava per dirle che anche lei aveva i propri ricordi, come tutti. Ma si rese conto che i ricordi che aveva lei, sarebbe stato meglio non esistessero neppure.

«Mi dispiace» mormorò. Lei sorrise, inaspettatamente, e gli strinse delicatamente la mano. Lui si irrigidì, avvampando.

«Non devi» lo rassicurò lei. E ritornò triste. «Dopo quello che mi è successo, dopo la violenza» mormorò «ho deciso di chiudermi al mondo. Se c'è qualcosa che queste foto ricordano, è quella decisione. Io mi guardo, attraverso queste immagini, e ciò che vedo è una persona dura, diffidente, anzi, indifferente. Così diversa da quella che ero tanto tempo fa».

Lucano strinse i pugni. Si aspettava di vederla piangere, ma non fu così.

«Una volta mi hai detto che ho passato tutta la vita a inseguire il fantasma di mia sorella» fece lei. «È vero. Non sono mai riuscita a cancellare il ricordo di quello che le hanno fatto, davanti ai miei occhi. Nemmeno una foto potrebbe essere tanto vivida. È sufficiente l'odio, a rendere tutto sempre presente e doloroso, come se ciò che di più terribile ti è accaduto non fosse mai passato. E se c'è qualcosa che ho imparato, in tutti questi anni, è che l'odio è bravissimo ad alimentarsi da solo».

«Faloe...»

«Era solo una bambina» disse lei. Alzò gli occhi e lo guardò. In quel momento, Lucano avrebbe dato qualunque cosa per capire cosa doveva fare. Se si fosse trovato sul campo di battaglia, tutto sarebbe stato chiaro. Avrebbe caricato e caricato, e caricato ancora, finché gli fosse rimasto un briciolo di energia in corpo. Finché il nemico non fosse stato annientato, o finché lui stesso non fosse rimasto ucciso. Ma lì, davanti a lei, tutto quello che credeva di poter fare, gli sembrava semplicemente inutile e stupido.

«Credevo che non sarei mai più stata capace di ritrovare me stessa, sai?» gli confessò. «Fino ad ora».

Faloe sorrise. E con un movimento delicato, gli appoggiò la testa sulla spalla.

«Stringimi, ti prego» mormorò. Lui esitò, sorpreso, ma alla fine allargò le braccia, e la strinse a sé. Mentre stavano così, in silenzio, lui udiva solo il respiro regolare di lei. Un suono sottile e delicato, che lo rincuorò. Chiuse gli occhi, e quando li riaprì, lo sguardo gli cadde sul disegno che giaceva accanto a loro. Con stupore, si accorse che era un ritratto di Faloe, un ritratto eccellente. Ma la cosa più singolare non era che quel ritratto fosse stato fatto da una normale bambina. Ciò che lo colpì, con l'evidenza di un fulmine, fu che in quel ritratto Faloe sorrideva.

In quel momento, si udì uno scatto. Un suono familiare, che lo allarmò. Lucano allontanò Faloe da sé e abbassò gli occhi. Tra le mani, lei reggeva una pistola a tranquillanti.

«Che vuoi fare?» fece lui, scosso. Lei sorrise.

«Non posso lasciarla andare, non adesso. Non ora che l'ho ritrovata» disse. «Devi aiutarmi, ti prego».

Lui scosse la testa. «Sei davvero impazzita?» esalò. «Ti rendi conto...»

«Da sola non posso accedere al siero. Ho bisogno che tu me ne procuri una fiala. E devi aiutarmi a nasconderla, quando sarà il momento».

«Faloe, cerca di ragionare! Se il comandante lo scoprisse... come credi di fare con gli altri del suo gruppo? Credi che accetteranno la cosa senza fare nulla?»

Senza alcun preavviso, lei gli prese le mani, fissandolo intensamente. In quello sguardo, lui poté leggere tutta la fiducia che quella ragazza riponeva in lui. Non c'era nessun altro di cui lei potesse fidarsi. Aveva scelto lui, lui tra tutti, per provare a fidarsi ancora una volta degli altri. Non poteva tradirla, non poteva lasciarla sprofondare ancora una volta in quel suo maledetto torpore. Non ora che sembrava ritornata lentamente alla vita.

«Ti prego» mormorò lei, con un debole sorriso sul volto. «Proprio per questo, ho bisogno di te».

Lui trasalì. Era la prima volta che la sentiva parlare in quel modo. Per quanto si sforzasse di ricordare, da quando la conosceva non l'aveva mai vista così decisa. E radiosa.

«Va bene» disse alla fine, posandole una mano sulla spalla e sorridendole rassegnato. «Se le cose stanno così, vorrà dire che ti aiuterò».

 

 

*

 

 

In quel preciso istante, Rebecca si svegliò. Era buio intorno a lei, e il silenzio era rotto solo dal battito forsennato del suo cuore.

Calmati, è stato solo un sogno.

Si passò una mano sulla fronte madida di sudore. Aveva la schiena e il petto completamente fradici e anche il cuscino era inzuppato. Non ricordava nulla di ciò che aveva sognato, ma l'ansia per qualcosa di imprecisato continuava ad aleggiare tutt'intorno a lei. Per calmarsi si versò un sorso d'acqua. La bevve e sentì come se il fuoco che la animava dall'interno si fosse spento all'improvviso.

Si volse. Marie dormiva serena accanto a lei. Ogni tanto sbuffava nel sonno. Rebecca sorrise, intenerita. Con la mano, le spostò delicatamente alcuni ciuffi dal viso, restando a guardarla. Piano piano, Marie schiuse gli occhi, fissando insonnolita avanti a sé. Quando incontrò lo sguardo di Rebecca sorrise debolmente.

«Che succede?» mormorò. Rebecca scosse la testa.

«Niente. Ti guardavo».

Marie emise un lamento, rintanandosi sotto le lenzuola.

«Hai fatto un brutto sogno?» domandò, con gli occhi chiusi.

«Sì, ma ora è passato» rispose Rebecca. Improvvisamente, l'ansia cominciò a salire di nuovo, senza un vero motivo. Ma era proprio questo, a farle più paura. Il momento in cui l'istinto le parlava, mettendola in allerta verso qualcosa di sconosciuto.

«Vuoi che mi alzi?» domandò Marie, assonnata. Rebecca rise.

«No, grazie. Dormi pure tranquilla».

«Va bene».

No, non c'era nulla che andava bene, pensò Rebecca, guardando preoccupata le tenebre che avvolgevano lei e Marie. Qualcosa le diceva che dovevano andarsene al più presto da quella nave. Non sapeva perché avesse quella sensazione, ma era forte, ed era concreta. Forse era l'istinto materno che aveva cominciato a sviluppare, ma era profondamente inquieta.

Se non ce ne andiamo, succederà qualcosa.

Era un bel problema, visto che non aveva la minima idea di come fare ad andarsene.

Lentamente, poggiò i piedi per terra. Il contatto con il pavimento di ferro freddo sembrò tranquillizzarla. Si portò le mani al volto e pensò, anche se non riusciva a concentrarsi su niente in particolare.

Se volevano andarsene, la loro unica speranza restava Nadia. Solo lei, avrebbe potuto fare qualcosa. Ma Nadia non era mai stata così lontana.

«Cosa devo fare?» disse. Dietro di sé, Marie emise un sospiro. Rebecca si volse a guardarla, mentre le sue parole continuarono a vagare nel buio per un po', dissolvendosi lentamente attraverso l'eco che ancora poteva sentire nella sua testa. Sarebbe stato bello, se qualcuno le avesse risposto.

Peccato, però, che lì con loro non ci fosse nessuno.

 



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Capitolo 26
*** 25 parte prima ***


Lo aveva sotto di sé. Con un sorriso malizioso, si piegò su di lui, tuffando il volto nell'incavo del suo collo. Lo morse piano, succhiando avidamente la pelle. Lo sentì annaspare.

Le piaceva quella sensazione di comando. Ciò che facevano in sé non era nulla di particolare, ma doveva ammettere che dopo alcune volte aveva cominciato a provare un certo piacere. Bene. Era segno che il suo cuore si stava lentamente anestetizzando.

Sentiva le dita di lui che le scorrevano febbrili, lungo la schiena. Lo lasciò fare, offrendogli ciò che voleva. Lui inarcò la schiena e lei sorrise, passandogli le mani tra i capelli arruffati.

Cosa...

Qualcosa non andava. Conosceva quel corpo. Lo conosceva bene, dopo che l'aveva usato per sfamare quella sua assurda bramosia. Eppure, sebbene le sue mani accarezzassero nel buio ciò che avevano imparato a conoscere e desiderare, il volto che ora sentiva sotto le sue dita era differente da quello che si aspettava. Quello non era Jonathan.

«Nadia...»

Lei passò le sue dita sul volto di lui. Sentì le palpebre chiuse, gli zigomi forti e la mascella serrata in un grido di silenzioso piacere.

Non era possibile.

Lui la rigirò. Confusa, Nadia si lasciò abbattere sotto di lui. Ne sentiva il respiro affannoso sulla propria pelle, mentre le divorava il corpo di baci. Con il cuore che batteva come impazzito, Nadia cominciò ad agitarsi.

«No...»

Non era così che l'aveva immaginato. Non doveva vederla così. Era sporca. Ed era sbagliato, profondamente sbagliato.

«No, ti prego...»

«Calmati».

Lei chiuse gli occhi. Non voleva. Non così. Quello non era per lui. Quella era la parte di lei che lui non avrebbe mai dovuto vedere.

«Ti prego...»

Jean.

«Hai paura di me?»

Lei sospirò. Era qualcosa di incredibile, e tremendo al tempo stesso. Si sentì privare di ogni forza. Inarcò la schiena, schiudendo le labbra.

«O hai paura di te stessa?»

Nadia spalancò gli occhi. Nel buio, il ghigno di Gargoyle emerse, squarciando l'oscurità.

 

«No!»

La stanza era avvolta dal buio. Tutto era silenzio, rotto solo dal suo respiro pesante. Con fare stanco, Nadia si passò le mani sul volto sudato e tra i capelli, ancora incollati alla fronte. Al suo fianco, John dormiva serenamente, il petto che si alzava e abbassava con regolarità. Lei gli gettò un'occhiata da dietro la spalla. Sentiva il respiro di lui, che sorgeva per poi spegnersi nel buio, come un suono ovattato.

Chiuse gli occhi, prendendosi il volto tra le mani. Attese che il cuore rallentasse la sua corsa; e quando si fu calmata, uscì dal letto. La debole luce artificiale che illuminava il contorno della porta si riverberava sul suo corpo nudo, che scivolava nell'ombra con il candore di uno spettro. Nadia si avvicinò al comò; e con le mani che ancora le tremavano, si versò un bicchiere d'acqua.

La caraffa era pesante. O forse era lei a non avere forza. Sentì che le sarebbe caduta e la appoggiò cautamente sul comodino. Prese un respiro profondo e quindi strinse di nuovo le dita attorno al manico di vetro, sollevandola. L'acqua si riversò nel bicchiere con un gorgoglio che sembrò uscire chissà da dove. In quel buio, le cose prendevano una distanza strana, come se lo stesso spazio attorno a lei si fosse improvvisamente deformato, cancellando ogni possibile riferimento al suo interno.

Con calma, come per riprendere coscienza di ciò che la circondava, afferrò il bicchiere con due mani, portandoselo alle labbra. L'acqua era fredda, e le passò lungo la gola facendola rabbrividire.

Che cosa disgustosa.

Il volto di Gargoyle era ancora lì, davanti ai suoi occhi. Non voleva andarsene, per quanto lei si sforzasse di cancellarlo dalla sua memoria.

Ero proprio io, quella?

Sì. Inutile provare a negarlo.

Con un sospiro, appoggiò le mani sul tavolo, piegando le spalle. Non aveva la minima idea di cosa le stava accadendo. Lentamente, stava perdendo la presa su se stessa e sul mondo che la circondava. Era come se qualcosa la stesse risucchiando, qualcosa che era perfino più denso e profondo dell'oscurità presente in quella stanza. Lo sentiva dentro di sé, come un parassita che cresceva in lei a sua insaputa, deformandola in modo invisibile all'esterno, ma visibilissimo a chiunque avesse saputo osservarla con attenzione.

Che schifo.

Qualcuno bussò. Immerso nel buio, a poca distanza da lei, John emise un sospiro. Nadia si volse, abbandonando improvvisamente i suoi pensieri. Lanciò un'occhiata verso il letto, per assicurarsi che lui non si fosse svegliato, quindi si avvicinò alla porta.

«Chi è?»

La voce chiara di Faloe la raggiunse attraverso il metallo spesso.

«Maestà, volevo avvertirvi che il momento è arrivato».

«È sola?» chiese Nadia, dopo un'istante.

«Sì»

«Mi dia un momento».

Ormai gli occhi le si erano abituati al buio. Nadia percorse con sicurezza la camera, avvicinandosi al punto in cui lei e John avevano abbandonato i loro vestiti. Con disinvoltura, si chinò a raccogliere la camicia di John e se la infilò, abbottonandosela completamente. Quindi aprì la porta, sgusciando velocemente all'esterno. Quando Faloe se la vide apparire davanti così, con i capelli scarmigliati e quella sola camicia addosso, si irrigidì, guardandosi nervosamente intorno.

«Maestà!»

«Avete provveduto ad avvertire gli altri?»

La ragazza annuì. «Sì, vostra Maestà. Sono già stati radunati. Forse intendete dare loro un saluto?»

Nadia sembrò soppesare per bene quelle parole.

«No» disse, aggrondando. «Non credo di volerlo fare».

Faloe non si mostrò per nulla sorpresa. Stava lì in silenzio, impassibile, in attesa che lei le desse un ordine qualsiasi. O che semplicemente la congedasse.

«Vostra Maestà ha bisogno di qualcosa?» domandò, dopo qualche istante. Nadia la guardò confusa, come se si aspettasse di ricevere una risposta proprio da lei.

Aveva bisogno di qualcosa?

«No, la ringrazio. Può andare».

Con un inchino, Faloe si congedò, allontanandosi lungo il corridoio. Nadia rientrò in camera, abbandonandosi contro la porta chiusa e lasciandosi scivolare lentamente a terra, il volto tra le mani, gli occhi fissi nel vuoto.

Aveva appena rifiutato di incontrare per l'ultima volta i suoi amici, e non sentiva nulla. Niente. Non riusciva nemmeno a piangere.

Cosa diavolo c'era che non andava, in lei?

 

 

*

 

 

«Siamo liberi!»

Non appena ebbe messo piede fuori dalla nave insieme con gli altri, Sanson lanciò un grido di esultanza, levando le braccia al cielo. Sembrava non fosse mai stato tanto felice in tutta la sua vita.

«Non credevo proprio che sarei tornato a rivedere il sole » esclamò, mentre si sfilava in tutta fretta stivali e calzini. «Ancora un po' di tempo dentro quella maledetta carretta, e giuro che mi trasformavo in una mummia».

Si slacciò la camicia; e facendola roteare sopra la testa, si precipitò giù per la riva del lago, tuffandosi dentro l'acqua a piedi pari e schizzando ovunque intorno a sé. Marie, divertita, lo fissava mantenendosi a una certa distanza dalla riva, battendo le mani euforica.

«Vieni anche tu, forza» la incitò lui. Lei si volse a guardare Rebecca, mordendosi le labbra, il volto acceso da un'emozione a stento trattenuta.

«Vai pure, ma vedi di non allontanarti troppo» le disse lei, accompagnando le sue parole con un cenno conciliante del capo. Ma prima ancora che finisse di parlare, Sanson era già andato a prendere Marie, trascinandola in acqua senza nemmeno darle il tempo di togliersi le scarpette. Marie, l'orlo del vestito ormai completamente zuppo, lanciò qualche grido, prendendo a calciare l'acqua e a schizzare Sanson da capo a piedi.

«Sembra divertente» fece Hanson, arrotolandosi i pantaloni al ginocchio prima di gettarsi nel lago, dove con un urlo selvaggio si avventò su Sanson per poi trascinarlo con la testa sott'acqua, facendo sbellicare Marie dalle risate.

Seduta sulla riva, Rebecca osservava affascinata il loro profilo che si stagliava scuro, contro la luce declinante del sole. Una miriade di piccole gocce ricadeva intorno a loro come piccole schegge di vivissima luce, brillando sopra i raggi del sole che si allungavano vividi, oltre le cime scoscese delle montagne.

«Sono proprio dei bambini»

Con la coda dell'occhio, Rebecca seguì il movimento di Jean, che si sedette al suo fianco.

«Quei tre» riprese, scuotendo la testa e ammiccando verso di loro. «Non so chi tra di loro sia più bambino».

«Sembra che si divertano» fu il commento di lui, una volta che si fu seduto. «Meglio così, no?»

Lei piegò le gambe, raccogliendo le ginocchia al petto e appoggiandovi sopra il mento. Restò a guardare i tre che giocavano per un po', quindi «so cosa è successo, Alex mi ha raccontato tutto» disse. E si voltò, con la guancia appoggiata alle ginocchia e la bocca atteggiata in un debole sorriso. «Ti va di parlarne?»

«No» fece lui. «Non credo di averne voglia».

Rebecca restò a guardarlo senza dire nulla. Il riverbero del sole le bruciava gli occhi, costringendola a tenerli socchiusi. Un vento leggero le soffiò tra i capelli. Con una leggera scossa del capo, lei se li scostò dal viso, passandosi poi alcuni ciuffi dietro un orecchio con un movimento della mano particolarmente aggraziato.

«Non dovevi dirle di andarsene» mormorò. Il suo tono era tranquillo, come se stesse dicendo qualcosa di assolutamente naturale; eppure, tradiva una certa apprensione. Lui, però, non parve accorgersene più di tanto. Le parole di lei gli giungevano come da un luogo estremamente lontano. Ci mise un po' perfino a capire che si stava rivolgendo proprio a lui. Sospirando, Jean inarcò un sopracciglio, scrollando leggermente le spalle.

«E cosa avrei dovuto fare, secondo te?» chiese.

«Restarle vicino» rispose lei. Jean piegò le labbra in una smorfia.

«È più o meno quello che ho sempre fatto. E sai dirmi a cosa è servito?»

Rebecca si voltò a guardarlo. «A renderla viva, credo».

Jean alzò gli occhi sulla superficie del lago, le cui acque placide e scure riflettevano tutto di quel cielo che le sovrastava, reso incandescente dalla luce calda del tramonto. Con un movimento stanco, infilò la mano nella sabbia e la sollevò, aprendo lentamente il pugno. Una brezza leggera si levò a catturare i granelli che gli scivolavano via tra le dita, soffiandoli lontano. Jean restò ad osservare quel velo di sabbia che mulinava impalpabile lungo la riva, per poi spegnersi debolmente sulla superficie dell'acqua, come un debolissimo sospiro. Quando anche l'ultimo granello ebbe lasciato il suo palmo, restò a guardare la sua mano vuota, per poi spostare nuovamente gli occhi sull'orizzonte.

«È tutta la vita che lottiamo per combattere un destino che ci vuole divisi» disse. «Per quanto ci sforziamo, io e lei non riusciamo mai a trovarci nello stesso posto allo stesso momento. Sono stanco, Rebecca. Tutto questo lottare, è così estenuante. Non riesco più a vivere, e nemmeno lei, perché ormai siamo divenuti la maledizione l'uno dell'altra. Non c'è niente di bello in questo, o di piacevole. Stiamo male, e basta; e se vogliamo smettere di soffrire, non c'è che una soluzione possibile».

«Cioè, scappare?»

Lui colpì la sabbia con un pugno. «Io non sto scappando» sibilò, fissandola con astio.

«E non ti sei mai fermato a pensare che il motivo per cui non riuscite a trovarvi, non è perché il destino non vi vuole insieme, ma perché voi fate di tutto per evitarlo? Magari, siete l'uno il destino dell'altra e non, come dici tu, una maledizione. Solo che non riuscite ad accettarlo, ecco tutto».

«Magari fosse così semplice» fece lui, sorridendo. «Ma non lo è».

Rebecca tacque. Poco lontano, Marie lanciò un grido, ed entrambi si voltarono a guardare. Sanson l'aveva appena sollevata e minacciava di farla cadere in acqua a testa in giù.

«È incredibile quanto quei due si siano affezionati a Marie» commentò Jean, mentre guardava Hanson e Sanson che giocavano in acqua insieme alla bambina. «Sembra che il tempo non sia passato, per loro».

«A volte il tempo non passa davvero, e nemmeno la distanza riesce ad annullare il sentimento che lega tra loro le persone» fece Rebecca. «Succede raramente, è vero; ma a volte capita».

«A volte» ripeté lui. Rebecca sorrise.

«Vai da lei, e dille che la aiuterai» disse. Jean trasalì.

«Non posso fare una cosa del genere, Rebecca. Non adesso».

«Jean, sei proprio uno stupido» fece lei, scuotendo la testa. «Si può sapere cos'è che ti frena? Il tuo orgoglio, forse?»

«Non puoi capire» mormorò lui, abbassando gli occhi. «C'è un motivo se ho fatto quello che ho fatto...»

«E quale? Perché volevi vendicarti di lei, perché volevi vederla soffrire? Bel modo di dimostrare che la ami».

«Ma cosa ne sai tu?» esclamò lui, rabbioso. «Cosa vuoi saperne tu, che non sei mai riuscita a tenerti qualcuno accanto per più di due minuti?»

Rebecca impallidì, irrigidendosi. Mortificato, Jean si prese il volto tra le mani, chinando il capo.

«Ti prego, perdonami» sussurrò. Con un sorriso, lei scosse la testa.

«Non sono arrabbiata. E poi, non sono sola. Io ho Marie, e ho te» disse. «Non desidero nient'altro».

Jean nascose il volto tra le braccia e prese a piangere sommessamente. Lei lo lasciò fare, aspettando che si calmasse.

«Tra tutte le persone, lei è venuta a cercare te. Poteva andare da chiunque... da John, da me... ma è venuta da te. Voleva confidarti le sue paure. Possibile che tu non ti sia accorto di quanto è turbata?»

Lui taceva. Si sfregò il dorso della mano sugli occhi velati di lacrime, tirando su con il naso. Fissava in silenzio la superficie calma del lago, il volto irradiato dai raggi caldi del sole.

«Jean, questa gente non mi piace, non mi convince» riprese lei, protendendosi verso di lui. «Ho un brutto presentimento. Da quando Nadia è entrata in contatto con loro, sembra essere tornata vittima di tutte quelle paure e debolezze che pensavamo si fosse lasciata alle spalle tanto tempo fa. Sono convinta che se la lasceremo cadere in mano a questa gente, non riuscirà mai più a ritrovare se stessa. Per questo ti supplico: se davvero la ami, vai da lei e diglielo. Solo tu puoi darle ciò di cui ha davvero bisogno».

«Davvero?» commentò lui, sarcastico. Torcendo gli occhi a guardarla. «E di cosa avrebbe bisogno, secondo te?»

«Di quello di cui hanno bisogno tutti» rispose lei, con un tono triste nella voce. «Di qualcuno che ti ami e ti stia accanto, anche quando nessuno sembra disposto a farlo. Jean, ciò di cui ha bisogno Nadia, ora come ora, è di quell'unica persona che è capace di accendere la luce, quando tutto intorno a te sembra essere piombato nel buio».

«E credi davvero che sia io, quella persona?» fece lui. «Cosa ti rende tanto sicura?»

Lei sorrise, incoraggiante. Quindi si alzò, scuotendosi la sabbia dalle vesti spiegazzate.

«Non importa cosa credo io, ma cosa crede lei» disse, avvicinandosi a lui e passandogli una mano tra i capelli fulvi, in un gesto di estrema intimità e affetto. «È stata lei a sceglierti, nel momento in cui è venuta a cercarti. Se non ti basta questo, non so proprio di cosa tu abbia ancora bisogno, Jean, per capire che lei ti ama e che sta aspettando che tu vada a liberarla da se stessa».

«Ancora una volta?» fece lui, freddo. «Per quanto ancora dovrò mettere da parte le mie esigenze per aiutarla?»

«Tutte le volte che sarà necessario» rispose Rebecca, impassibile. «Una volta hai accettato di farti carico dei suoi problemi, e l'hai spinta ad avere fiducia in te. Ora non puoi semplicemente far finta di nulla, e lasciarla a se stessa. Sarebbe crudele».

«Io non posso farlo» obiettò lui, deciso. «Mi dispiace, ma è evidente che non sono io, il suo principe azzurro».

A quelle parole, Rebecca annuì, drizzando il busto.

«Come vuoi, la scelta è tua» disse, semplicemente. Quindi si chinò a baciarlo sulla guancia, tenendo le labbra premute contro il suo viso a lungo, prima di allontanarsi lasciandogli un'ultima carezza.

 

 

*

 

 

«Vedete di muovervi, dobbiamo finire di caricare tutto prima di sera».

Lucano osservava con apprensione le operazioni di imbarco. I vettori erano già stati fatti sbarcare e i soldati stavano ultimandone il carico. Tutto l'indispensabile – vettovaglie, armi, materiale medico – era stato trasportato a bordo dei tre velivoli, parcheggiati in fila davanti alla nave. I soldati continuavano ad andare e venire dallo scafo principale in una lunga catena ininterrotta, portando casse e spingendo pesanti container di metallo, che poi caricavano sui tre mezzi più piccoli, simili a grossi baccelli.

«Capitano, come procedono le operazioni?»

Lucano si volse. Il comandante Atys Gorall si stava facendo largo fino a lui, le mani raccolte dietro la schiena, e sul volto uno sorriso a dir poco smagliante.

«Signore, tutto procede secondo i piani» affermò Lucano, portandosi una mano alla fronte in segno di saluto. «Se non si verificheranno intoppi, prima che faccia buio avremo ultimato il carico. Saremo pronti per domattina».

«Eccellente».

Atys alzò gli occhi sullo scafo della immensa nave, che giaceva sul terreno brullo dell'isola come una grande balenottera in agonia. Con un sospiro, gonfiò il petto, abbassando lo sguardo.

«Mi duole abbandonare questa nave» mormorò. «Ha servito bene l'Armata del Senato, in tutti questi anni».

«La Meseketh è una nave eccezionale» convenne Lucano, con un cenno del capo. «Ma è una perdita che consente un grande guadagno».

Atys annuì. «A proposito, la nostra Regina ha già lasciato il suo alloggio?»

«No, signore. Sembra che non desideri essere disturbata. Così ha riferito il tenente Anuri».

«Bene».

Lucano lanciò un'occhiata alle sue spalle. Oltre il muro di soldati, poteva vedere il gruppetto raccolto degli amici di Nadia, che si intratteneva sulla spiaggia. Il suo sguardo si accigliò.

«Signore, come dobbiamo comportarci con il resto di quel gruppo?»

Atys si volse, inarcando un sopracciglio. Indirizzò loro un'occhiata superficiale, quindi sporse le labbra.

«Lasciateli qui».

«Qui?» Lucano si grattò la testa, confuso. «Signore, ma è impossibile che riescano a sopravvivere. Se riusciremo ad attivare il Noè, al momento in cui si aprirà la merkaba tutto ciò che ci circonda verrà distrutto».

«Proprio per questo, un luogo vale l'altro».

Lucano si ammutolì.

«Capisco...»

«Come le avevo detto, io manterrò la mia promessa. Lascerò andare sani e salvi quegli uomini. Che poi riescano o meno a sopravvivere, questo è un problema che non mi riguarda».

«Molto bene, signore».

Atys sbadigliò. Quindi estrasse un orologio dalla tasca della giacca e lanciò uno sguardo assonnato al quadrante.

«È arrivato il momento che raduni le mie cose» fece, riponendo l'orologio. «Per qualsiasi evenienza, mi troverete nel mio alloggio».

«Sissignore» rispose Lucano, scattando sull'attenti. Atys si allontanò di qualche passo, quindi si voltò. Si morse le labbra, come a trattenere un pensiero sorto all'improvviso.

«Capitano, non faccia parola di quello che le ho detto con Faloe» disse. «Non vorrei diventasse un problema per lei... visto l'effetto che quella bambina ha avuto sul suo equilibrio».

Lucano impallidì. «Naturalmente signore» fece. Atys sorrise.

«Molto bene» disse. «Quando ha finito, chiami Faloe e raggiungetemi nelle mie stanze. Brinderemo come si deve, dando l'ultimo saluto alla nostra gloriosa nave». Quindi si allontanò, sparendo tra la folla. Lucano, che aveva trattenuto il respiro fino ad allora, lentamente si rilassò.

Dannazione.

Si guardò intorno, nella speranza di scorgere Faloe. Era da troppo tempo che non la vedeva, e la cosa non gli piaceva per nulla. Ci mancava solo che avesse deciso di mettere in atto il suo piano assurdo proprio in un momento come quello.

«Per l'amor degli dei, non fare idiozie» mormorò Lucano tra sé, a denti stretti. Quindi, rassegnato, abbassò gli occhi sulla tavoletta luminosa che aveva tra le mani, in cui scorrevano senza sosta gli ultimi dati relativi alle operazioni di imbarco.

«Vedete di muovervi voi, laggiù» gridò rabbioso ad alcuni uomini, addetti ai serbatoi «Non abbiamo tutto il tempo del mondo».

Gli occhi gli caddero su un gruppetto di soldati che stava facendo una pausa, nascosti dietro a una pila di container poco lontano da lui. Li squadrò, lanciando loro uno sguardo di ghiaccio. Quelli, non appena se lo videro comparire davanti, si raggelarono.

«E voi, che diavolo state facendo?»

I soldati gettarono a terra le sigarette e si dileguarono rapidamente, senza fiatare. Lucano li seguì con lo sguardo, finché non li vide riprendere il loro lavoro.

«Stupide teste di cazzo» sibilò. «Come se non avessi già abbastanza problemi».

 

 

*

 

 

Appena scese la sera, la spiaggia si accese della luce di numerosi fuochi. Finiti i preparativi di imbarco, i soldati poterono godere di un po' di libertà: ci fu chi preparò da mangiare, arrostendo qualcosa sul fuoco; chi parlava, magari un po' sguaiatamente perché leggermente brillo. Alcuni cantavano, altri semplicemente ascoltavano, o partecipavano al coro con un lieve tremito delle labbra, persi nei propri pensieri.

Alex se ne stava da sola sulla riva del lago. Il suono dei festeggiamenti le giungeva lontano, increspando la superficie immobile dei suoi pensieri come una piccola pietra gettata in un lago. Nulla di quello che la circondava sembrava toccarla, anche se non avrebbe saputo dire con esattezza a cosa pensava. Se ne stava lì, semplicemente, lasciando che la propria immaginazione le fornisse qualcosa a cui aggrapparsi, per sfuggire a quella sua torbida malinconia.

Nemmeno si accorse di Jean, che alzandosi e allontanandosi dagli altri, si andò a sedere al suo fianco. Lui restò a guardarla a lungo in silenzio, seguendo con gli occhi i folti capelli castani che le ricadevano mossi e ancora umidi sulle spalle, perché quel pomeriggio si era messa a giocare con Marie, bagnandosi tutta. Vedendola rabbrividire, si schiarì la voce, rompendo il silenzio che li avvolgeva entrambi.

«Non hai freddo?»

Lei sbarrò leggermente gli occhi, voltandosi a guardarlo. Dopo qualche istante, abbassò lo sguardo, con un sorriso appena accennato.

«No. Forse solo un po'».

«Perché non vieni accanto al fuoco?»

Lei scosse la testa. «Non mi va. Preferisco restare un po' da sola».

«È colpa mia, vero?»

Alex sussultò. Lo guardò per qualche istante, come a riflettere su ciò che lui aveva appena detto.

«Credo di sì» confessò, in un sussurro.

«Beh, è giusto» fece lui, comunque sorpreso. «Per quanto possa valere, mi dispiace».

«Mmm...»

Jean tracciò qualche linea nella sabbia con un legnetto che trovò lì accanto. Alzò gli occhi. Il cielo era ricoperto di stelle, uno spettacolo veramente magnifico.

«Quando ero piccolo, spesso nelle sere d'estate andavo da solo alla vecchia casa dei miei» cominciò a raccontare. «Mi sdraiavo sulla veranda, e restavo lì, a guardare il cielo, avvolto nel più completo silenzio».

A quelle parole, Alex non reagì, continuando a rimanere assolutamente immobile. Così com'era adesso, pallida e dimessa, acquisiva una bellezza ancora più trasfigurata, che la faceva sembrare una specie di spirito, una immagine fantastica condensatasi magicamente sulla riva del lago, attraverso l'intreccio fitto dei raggi di luna.

«Non so perché, ma tutte le volte che in quei momenti alzavo gli occhi a guardare le stelle, cominciavo a sentirmi sempre più piccolo» continuò Jean «finché non mi sembrava di vagare in quello spazio immenso, niente più che un punto minuscolo. E allora, parlavo».

Alex si volse a guardarlo, riacquistando improvvisamente consistenza agli occhi di lui.

«Parlavi?» fece. «Da solo?»

Lui rise. «Sì. Mi mettevo a parlare dei miei sogni, e dei miei desideri. Parlavo a quel cielo, sentendo che nella sua vastità avrebbe saputo accogliere anche quel poco di mio che volevo disperatamente affidare a qualcuno. Non so perché facessi una cosa del genere. Ma in quei momenti, sentivo che dovevo ascoltare che rumore facevano i miei pensieri; mormorarli, e lasciare che prendessero corpo, davanti a me. Era una bella sensazione. Ho sempre amato quei momenti ma poi, una volta cresciuto, non sono più tornati».

Alex si volse. Jean spostò gli occhi sul suo profilo muto, quindi sospirò, distogliendo lo sguardo.

«Non volevo farti soffrire» disse. «Tu sei una ragazza fantastica. Sono io il problema. Credevo di poter gestire la situazione, ma non è andata così».

Alex taceva, continuando a fissare lontano. Un punto in cui la notte si congiungeva alla superficie scura del lago, quasi fossero una cosa sola, e che solo lei sembrava in grado di scorgere.

«Quando ero disperso, ho incontrato un vecchio. Un tipo strano» continuò Jean. «Con lui mi sono recato in un posto incredibile, dove ho visto qualcosa... qualcosa che non saprei spiegarti. Era come se all'improvviso mi fossi trovato in un mondo diverso da questo; eppure sentivo che non stavo sognando. Io ero vivo, e tutto quello che mi circondava era assolutamente vero. Lì, ho visto qualcosa che poteva sembrare il mio futuro, non saprei. Tutto quello che posso dirti, è che ho visto chiaramente che se io e Nadia fossimo restati vicini, sarebbe stata la fine, di uno o dell'altra. Ecco perché le ho chiesto di andarsene. Non perché volessi scappare da lei, ma perché non volevo essere io la causa della sua morte».

Jean sospirò, lanciando il legnetto nell'acqua. Era talmente leggero che non si udì alcun rumore.

«Perché ho l'impressione che tu non l'abbia raccontato a nessuno?» fece Alex all'improvviso, quasi mormorando. Jean scrollò le spalle.

«Perché è così».

«Ma l'hai detto a me».

Lui sorrise. «Sì».

Alex sospirò. «Sai, credevo che fossi uno stupido, invece sei proprio uno scemo totale» fece. Sorrise. Jean ricambiò quel sorriso con calore.

«Un tempo mi sarebbe piaciuto creare qualcosa con te» fece «ma non credo che mi sia possibile. Non adesso, almeno. Ti confesso che quando ho detto a Nadia che avrebbe fatto meglio a partire, ho provato un senso di sollievo. Per quanto fosse doloroso per me, per quanto il rapporto che mi lega a Nadia sia particolare e indissolubile, in quel momento mi sono sentito per la prima volta libero. Pensavo che finalmente avrei potuto lasciarmi tutto alle spalle, e che lei avrebbe potuto fare altrettanto. Se lei se ne fosse andata, non avremmo dovuto mai più lottare, non ci sarebbe stato nessun destino pronto a farci sprofondare nella disperazione. E io forse sarei stato libero di vivere una nuova vita, magari con te. Mi rendo conto solo ora di quanto mi sbagliassi. Io non posso smettere di amarla, e non posso usarti come se tu fossi un pezzo di ricambio. Da quando ti conosco, mi hai sempre aiutato a superare la mia solitudine. Ti ho chiesto tanto, senza darti nulla in cambio. Ti chiedo scusa. Avrei voluto essere diverso, ma non ci sono riuscito».

«Io sono una donna, Jean» fece lei, scuotendo la testa. «Quando tu mi guardi, e nemmeno mi vedi, non riesci a immaginare quanto possa soffrire?»

«Io ti vedo, Alex».

«Non dire balle!»

«Ma è così» fece lui, protendendosi verso di lei. Alex chiuse gli occhi, e raccolse le gambe, affossando il viso tra le ginocchia. «Tu puoi non credermi, ma sei importante per me. Ma adesso, sono legato. Non posso smettere di amare Nadia solo perché lo desidero. Perciò, l'unica cosa che posso dire, è che una volta tornati a casa sparirò dalla tua vita, lasciandoti finalmente libera».

Lei scoppiò in singhiozzi.

«Avevo pensato che una volta tornati saremmo potuti stare insieme, che magari avremmo trovato il modo di crearci il nostro futuro» fece lui. «Ma non è possibile. Per quanto mi sforzi, io mi sento responsabile verso Nadia, e sento che non potrò mai lasciarmi alle spalle il sentimento che provo per lei, almeno per ora. Non posso chiederti più di quello che mi hai già concesso: anche se sento che perderti sarebbe terribile, non posso pretendere altro da te».

Jean tese una mano verso di lei. Fece per posarla sulla sua spalla, scossa dai fremiti del pianto, ma all'ultimo si fermò. Non ce la faceva. Non ne aveva il diritto. Ormai tra loro sorgeva una distanza incolmabile. Forse la cosa migliore era proprio lasciarla stare là dove si trovava, senza tentare di raggiungerla mai più.

Si alzò, in silenzio, facendo per andarsene. Ma dopo pochi passi, Alex sollevò il volto a guardarlo.

Mosse le labbra due, tre volte, come per dire qualcosa, parole a cui lei però non riusciva a far prendere corpo, perché erano come imprigionate da una patina spessa che le agglutinava la lingua. Alla fine, con uno sforzo che la prosciugò interamente, si slanciò verso di lui, vincendo quella sua apatia incrollabile.

«Due rette parallele non giungeranno mai ad incontrarsi» esclamò. Jean si bloccò, voltandosi a guardarla. Lei lo fissava tra le lacrime, in ginocchio, le mani affondate nella sabbia.

«Cosa?»

«È la prima cosa che ti ho detto, quando ci siamo conosciuti» fece lei, tirando su con il naso. «Discutevamo in classe del quinto postulato di Euclide, quello sulle rette parallele. Data una retta, e un punto fuori di essa...»

«... esiste una sola retta parallela alla retta data e passante per quel punto» continuò Jean. «Ma cosa c'entra...»

Io dicevo che non era possibile confutarlo, al che tu disegnasti due rette alla lavagna».

«Ricordo...»

«Ci chiedesti: queste rette, vi sembrano parallele? Era ovvio che lo fossero, e tutti rispondemmo di sì. Al che, tu ci dicesti ''e se questa retta non fosse quello che sembra?'' e disegnasti una semicirconferenza, dicendo che una delle due rette non era altro che quella semicirconferenza vista dall'alto».

Jean rise, spianando la sabbia con la punta della scarpa. «È vero».

«''Quindi'' continuasti, ''da questo punto, passa più di una retta parallela alla retta data. Una di queste, è anche una linea curva''».

«Al che tu dicesti che una retta non può essere curva»

«E tu rispondesti che se lo spazio in quel punto avesse subito una modificazione, incurvandosi, una persona che vi si fosse trovata nel mezzo avrebbe pensato che la linea curva, in realtà, era assolutamente retta. Di conseguenza, siccome il postulato non era più valido, diventava possibile supporre che in uno spazio differente da quello a cui siamo abituati, le due rette parallele avrebbero anche potuto incontrarsi. E non dimenticherò mai cosa aggiungesti poi: ''se ciò che avete davanti agli occhi non può essere modificato, allora modificate ciò che ancora non riuscite a vedere''».

Jean sorrise, scuotendo la testa. «Perché hai tirato fuori questa storia?»

«Perché quel giorno mi sono innamorata di te».

«Alex...»

«Jean, io e te siamo come due rette parallele. Sembra che non ce la facciamo ad incontrarci. Ma io non ci sto. Se non posso modificare quello che sei, o quello che sono, allora voglio modificare lo spazio intorno a noi. Lo modificherò finché non riuscirò ad incontrarti da qualche parte, dovesse volerci l'eternità».

Jean sussultò.

«Ti chiedo solo, sinceramente: vorresti darmi una mano?»

Lui la fissò, come intontito. Non riusciva a staccare gli occhi da quel suo volto sereno e determinato e da quei suoi occhi vividi e sinceri, ancora accesi dalle lacrime che splendevano nel buio, imperlandole le ciglia. Sapeva di non meritarla, ma non poteva smettere di provare quella sensazione. Una sensazione di gioia indescrivibile, come la una nuova, dolcissima speranza che anche per lui, da qualche parte, esistesse una qualche felicità da raggiungere.

«Sì» mormorò, emozionato. «Mi piacerebbe provarci».

«E allora non stare lì, come uno stupido. Vieni qui, e abbracciami stretta» fece lei, ridendo tra le lacrime. «Sto morendo di freddo».

 

 

*

 

 

«Signori, leviamo in alto i calici. Oggi diamo l'addio a un mondo che non esiste più».

Atys sollevò la mano in cui teneva il bicchiere, quindi lo portò alle labbra, vuotandolo in un sorso.

Faloe e Lucano si lanciarono una rapida occhiata, prima di fare altrettanto.

«Ancora non mi sembra vero, poter finalmente fare ritorno a casa» mormorò Atys, rigirandosi il bicchiere tra le dita, pensoso. «Lei, Lucano» disse, alzando gli occhi su di lui, allegro «cosa farà una volta rientrato?»

Lucano avvampò, irrigidendosi. «Veramente, signore, non ci ho ancora pensato...»

«E lei Faloe? Ma no, sappiamo già che lei tornerà subito in servizio...»

«Come dice lei, signore» fece Faloe con un sorriso impassibile.

«Suvvia, almeno qualche giorno vorrà pure concederselo, no?» commentò Atys, allargando le braccia ed esplodendo in una risata. «Stiamo per vincere la guerra! Al diavolo tutto il resto!»

In quel momento, la porta della stanza si aprì e Nadia fece il suo ingresso, seguita da Jonathan. Non appena la videro entrare, Lucano e Faloe si fecero da parte, inchinandosi rispettosamente. Atys le si mosse incontro, chinando la testa e sorridendole calorosamente.

«Maestà, sono contento che abbiate voluto unirvi a noi».

«Non sono qui per festeggiare» fece Nadia. «Volevo solamente sapere a che punto siamo con i preparativi. Ho fretta di lasciare questo posto».

Atys annuì. «Comprendo benissimo, vostra maestà. I preparativi sono ultimati. Alle prime ore dell'alba, procederemo con le operazioni, se siete d'accordo».

Nadia annuì, senza rispondere.

«Gradite del vino?»

«No, la ringrazio io...»

«Suvvia, Nadia. Non facciamoci pregare» disse John, accettando il bicchiere che Atys gli porgeva. Anche Nadia si ritrovò a stringerne uno, suo malgrado.

«Alla nostra Regina» fece Atys.

«Alla Regina» esclamarono gli altri in coro. Nadia impallidì. Mentre gli altri bevevano, lei posò il bicchiere sul primo mobile che trovò, pulendosi la mano contro la stoffa dei calzoni.

«Vorrei riposare» fece schiarendosi la gola. «Sono piuttosto stanca».

John le lanciò un'occhiata in tralice, mentre finiva di sorbire il suo vino. Faloe si fece avanti, inchinandosi al suo cospetto.

«Maestà, lasciate che vi conduca al vostro nuovo alloggio, sul vettore principale».

Nadia accennò a un timido grazie; quindi seguì Faloe fuori dalla porta. Vedendo che John non si muoveva, si volse a guardarlo.

«Vai avanti» le disse lui. «Io resto qui a parlare per un po' con il comandante».

Nadia lo fissò per qualche istante, quindi abbassò lo sguardo abbattuta e uscì. Lucano salutò i presenti e si accomiatò, accompagnando Nadia e Faloe fuori dalla stanza. Non appena furono soli, Atys sorrise sottilmente a John.

«Vedo che il suo rapporto con la nostra Regina si è rafforzato considerevolmente» esordì. Si avvicinò alla bottiglia di vino, versandosene ancora. Quindi si volse verso John, inarcando un sopracciglio. Lui gli porse il bicchiere, che Atys riempì.

«Se devo essere sincero, pensavo che con la comparsa di quell'uomo, quel Jean, tutto si sarebbe complicato tra voi».

«Evidentemente non è andata così» commentò John, portandosi il bicchiere alle labbra. «Credo che debba ringraziare lui, per questo».

Atys annuì. «Il nostro accordo, allora, è sempre valido?»

John posò il bicchiere, facendo schioccare le labbra.

«Voi avete bisogno che qualcuno convinca Nadia ad attivare l'Enneade. Le persone per cui lavoro io vogliono la medesima cosa. Tutti siamo sulla stessa barca, ma con lo stesso risultato potremo ottenere benefici diversi, senza il rischio di pestarci i piedi l'un l'altro».

«Ancora non capisco perché volete così tanto che l'Enneade venga attivata» mormorò Atys. «Cosa può venirvi in tasca, in fondo? Non dimenticate che si trova ad anni luce di distanza».

«Ciò che può venircene in tasca, non è affare che vi riguardi» fece John, perentorio. «Vi basti sapere che nessuno ha interesse a mettere il naso nelle vostre faccende. Ciò che interessa noi, è qualcosa di completamente diverso».

«Diverso...»

Atys aggrondò. Non capiva. Cosa poteva mai esserci di tanto importante nel fatto che su Atlantide si ripristinasse l'antico potere delle Pietre Sacre?

«Comprendo la sua perplessità, Comandante. Ma non sono autorizzato a dire di più».

«Potrei anche costringerla» fece Atys, stringendo gli occhi. «O potrei cancellare il nostro patto».

«Lei dimentica che Nadia, in questo momento, farà solo ciò che io le consiglierò di fare» fece John, infilandosi le mani in tasca con un ghigno. «Se le chiedessi di non fare nulla, lei non potrebbe mai riuscire a convincerla. Morirebbe, piuttosto che fare qualcosa sotto sforzo».

«Sembra che lei la conosca molto bene».

«Meglio di quanto crede».

Atys annuì, gravemente. Si spostò dietro la scrivania, dove si sedette poggiando i gomiti sul tavolo, sorreggendosi il mento con le mani.

«Quindi, sembra che non abbiamo scelta» disse, alzando gli occhi su John. «Dobbiamo fare come dice lei».

«Proprio così» fece John, con un sorriso. «Non avete scelta».

 

 

*

 

 

Nadia congedò Faloe e Lucano, quindi si chiuse la porta alle spalle, sparendo in silenzio nella sua stanza. Faloe passò le consegne alla guardia di scorta, quindi si allontanò, subito seguita da Lucano.

«Credevo che avessi deciso di fare tutto senza avvertirmi» le sussurrò, chinandosi su di lei. Faloe lo scostò, guardandosi intorno.

«Non qui».

Lui la seguì all'esterno del vettore. Fuori era già buio, e i soldati stavano cominciando ad allestire il campo sulla riva del lago. I primi fuochi erano già accesi.

Faloe fece cenno a Lucano di seguirla, e lui le tenne dietro mentre si districava tra una folla di reclute indaffarate e di sottufficiali in vena di un po' di baldoria. Ovunque passassero, si creava subito il vuoto intorno a loro.

«Dove stiamo andando?» mormorò Lucano. Faloe non rispose. Continuò per la sua strada, finché non raggiunse la stiva della Nave. Salì sulla pedana e percorse tutta la piattaforma di scarico, dove gli operai stavano finendo di raccogliere gli ultimi strumenti. Arrivata sul fondo, Faloe aprì una porta e vi si infilò dietro, tenendola aperta a Lucano.

«Allora?» fece lui. Lei richiuse la porta. Quindi si volse a guardarlo.

«Lo faremo ora».

Lucano aggrondò. «Non credo» disse «a meno che tu non voglia farti scoprire. C'è troppa gente, in giro».

«Ormai è buio» disse lei. «E il comandante ha dato ordine che quegli uomini vengano lasciati sull'isola. È perfetto. Li porteremo nella nave e li rinchiuderemo da qualche parte nella stiva. Nessuno verrà mai a controllare».

«E con la Regina, come la metti?» contestò Lucano. «Se le saltasse il ticchio di volerli salutare?»

«Non lo farà».

«Come lo sai?»

«Lo so, e basta» rispose lei, fissandolo impassibile. Lucano strinse le labbra.

«Dannazione, credo proprio che ci farai ammazzare».

Lei sorrise, e il suo volto si addolcì.

«Io sono pronta anche a morire, per lei» fece. «Ma non voglio chiederti tanto. Se vuoi, puoi tirarti indietro. Non te ne vorrò, per questo».

Lui sembrò riflettere un istante sulle sue parole. Ma alla fine scosse il capo.

«No, ho promesso che ti aiuterò e lo farò» disse. «Sono con te, in questa cosa».

Gli occhi di Faloe si allargarono impercettibilmente, e il suo viso si piegò in un'espressione di stupefatta curiosità.

«Perché?» disse. «Perché vuoi aiutarmi, anche se sai che potrebbe mettersi male?»

«Perché non è vero che tu non puoi contare su nessuno» fece lui, deciso. «Voglio che tu sappia che puoi sempre contare su di me».

Faloe si irrigidì, impallidendo. «Sbagli, se lo fai per motivi così futili» esclamò, con distacco. Lucano distolse lo sguardo.

«Futili o non futili, perché lo faccio non ti deve interessare» mormorò. Faloe lo fissò a lungo senza parlare. Sembrava piuttosto perplessa, ma anche leggermente annoiata dalla situazione.

«Avrai comunque la mia gratitudine» disse. Lui annuì, drizzando il busto ma senza mai osare guardarla.

«Ora andiamo» fece lei. «È arrivato il momento».

 

 

*

 

 

Alex e Jean avevano appena raggiunto gli altri, quando Faloe e Lucano si avvicinarono. Tutti alzarono gli occhi sui due, che li fissavano con sguardo freddo e distaccato.

«Umeis» esordì Faloe, con un cenno brusco «He dunastés zélei orònta».

«Ha detto che la Regina vuole vederci, credo» fece Marie. Lo sguardo di tutti si calamitò sulla bambina.

«Pèizestze» aggiunse Faloe, perentoria. A quel punto, Marie si alzò in piedi.

«È meglio se facciamo come dice» disse, scrollando le spalle. Lanciandosi alcune occhiate perplesse, gli altri fecero come veniva loro ordinato.

«Non si è fatta vedere in tutto il giorno, e adesso ci convoca al suo cospetto» fece Sanson, acido. «Proprio come una regina, non c'è che dire».

Rebecca non commentava. Si limitava a fissare il volto di Faloe, senza farsi sorprendere a guardarla.

Qualcosa non mi convince, pensava.

«Forse Nadia è stanca. Magari non si sente molto bene e ci vuole lì con lei» suggerì Marie. Jean preferì tacere. A parte Rebecca ed Alex, non aveva confidato a nessuno che Nadia, probabilmente, non sarebbe mai andata via con loro.

Faloe e Lucano condussero il gruppo lungo i corridoi deserti della nave. Tutto, intorno a loro, aveva un aspetto quanto mai desolante: ogni cosa utile era stata portata via, a volte persino svitando le pareti di metallo. Le stanze apparivano vuote e spoglie, ingombre di oggetti abbandonati alla bell'e meglio sul pavimento, tra casse rotte e accatastate e oggetti di poco valore gettati in un angolo. Nelle stanze e sui ponti, non si vedeva nessuno.

«Ma siamo sicuri che sia qui?» azzardò Hanson. «Gli alloggi erano molto più in alto, da quanto ricordo».

«Sigéi!» ringhiò Faloe. Hanson si ricevette una botta alla schiena da Lucano, che chiudeva la fila alle sue spalle. Confuso, si massaggiò la nuca.

«Sto solo dicendo che stiamo scendendo troppo, ecco tutto» bofonchiò.

Dopo aver girato in lungo e in largo tra gli spazi ormai vuoti della nave, Faloe imboccò un lungo corridoio, fermandosi davanti all'unica porta che vi si apriva sul fondo. Si volse, e con un cenno, ordinò a Lucano di aprire. Quello si fece avanti e dopo aver digitato un codice su un pannello numerico, si fece da parte, indicando l'ingresso con un movimento deciso del capo.

«Vuole che entriamo» fece Marie. Con un sorriso, la bambina si precipitò dentro la stanza, prima che qualcuno potesse fermarla.

«No, Marie!»

Rebecca le corse dietro e anche gli altri, a turno, si infilarono oltre la porta. La stanza era vuota.

«Ehi, ma qui non c'è nessuno» si lamentò Sanson. «Si può sapere...»

Senza alcun preavviso, Lucano sbatté in faccia a Sanson l'impugnatura della sua lancia. Sanson vacillò, portandosi le mani alle labbra.

«Maledetto...» ruggì, con il sangue che gli colava vivido tra le dita. La testa prese a girargli; e per quanto cercasse di restare lucido, non ce la fece a stare in piedi e dovette appoggiarsi al muro. Hanson e Jean corsero subito al suo fianco, a sorreggerlo.

«Pròs ton téikon» esclamò Faloe, estraendo una specie di pistola dalla fondina che portava alla vita. Tutti la fissarono scandalizzati. Hanson aggrondò.

«Ma cosa...»

«Pròs ton téikon!» gridò di nuovo la donna, con gli occhi iniettati di sangue. Non ci fu bisogno di spiegazioni. Quello che voleva era molto chiaro. Uno per uno, si misero tutti in fila contro il muro, con le mani alzate.

Con un movimento brusco, Faloe strappò Marie dalle braccia di Rebecca, serrandola contro di sé e trascinandola verso la porta.

«No!»

Rebecca si slanciò su di lei, ma invano: Lucano intervenne subito a bloccarla, immobilizzandola a terra.

«Lasciatela andare, bastardi!» gridò Jean. Fece per alzarsi in piedi, ma Lucano lo spinse immediatamente contro il muro, mandandolo a finire lungo disteso al fianco di Sanson. Faloe agitò la sua arma, puntandola dritta in faccia a Jean.

«Mè tolméis dràin ti etì» sibilò, squadrandolo in volto. Jean torse gli occhi a guardarla, lanciandole uno sguardo di fuoco.

«Jean! Zia!» gridava Marie, tra le lacrime. Come una furia, Rebecca si dimenava tendendo le mani, nel disperato tentativo di raggiungerla. Ma Lucano la immobilizzava al suolo, impedendole di muoversi. Le torse un braccio, strappandole un grido; Rebecca strinse i denti, soffocando il dolore mentre si protendeva verso Marie con tutta se stessa, sorda a tutto ciò che non fosse la sua voce angosciata.

«Ti prego, non portarmela via!» gridò. Ma Faloe la fissava come fosse posseduta, il volto pallido più del solito, gli occhi spenti e vitrei, animati da un'energia nascosta e sconvolgente.

«Pros ton teikon! Òloi!» strillò. Nessuno osò fiatare. Solo Rebecca, in lacrime, continuava a dimenarsi, chiamando disperatamente Marie. Alla fine, Lucano la sollevò di peso, sbattendola malamente contro il muro. Rebecca lanciò un grido, accasciandosi al suolo tra i singhiozzi.

«È solo una bambina, animali!» scattò Hanson, livido. Ma tutto ciò che ottenne, fu un colpo dell'impugnatura della lancia di Lucano, dritto allo stomaco. Piegandosi su se stesso, Hanson si accasciò al suolo, pallido e senza fiato.

Faloe e Lucano indietreggiarono, portandosi con le spalle alla porta, senza mai abbassare le armi.

«Kalòs òdos eis Àdou» sibilò Lucano, in un ghigno: al che, la porta si richiuse con un soffio e improvvisamente la luce nella stanza si spense, lasciando Jean e gli altri soli e completamente al buio.

 

«Lasciatemi!» gridava Marie, mentre Faloe la trascinava a forza lungo il corridoio. Appena furono abbastanza lontani, con un movimento rapido e deciso Faloe estrasse la pistola a tranquillanti e la puntò al collo della bambina. Senza pensarci, premette il grilletto: gli occhi di Marie si dilatarono, e il suo corpo si irrigidì, prima di rilassarsi completamente tra le braccia della donna. Una volta che la bambina ebbe perso conoscenza, Faloe gettò via la pistola e la strinse a sé, posandole un bacio sulla testa e cullandola dolcemente.

«Nessuno ci separerà mai più, piccola mia» mormorò commossa, sotto lo sguardo perplesso e preoccupato di Lucano. «Te lo giuro. D'ora in avanti, staremo sempre insieme».

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Capitolo 27
*** 25 parte seconda ***


«Maestà, è arrivato il momento».

È arrivato il momento...

Con un gesto quasi disperato, Nadia si aggrappò alle lenzuola, sollevandosi senza mai alzare lo sguardo verso la porta. Avrebbe tanto desiderato che quelle lenzuola madide le si avvolgessero al corpo, stringendola come in un sudario e sottraendola finalmente a tutto l'orrore che la circondava. Per un istante ci sperò quasi. Avrebbe aperto gli occhi, scoprendo così di essere sprofondata in un luogo caldo e buio, in cui il suo corpo poteva annullarsi nella privazione e il suo respiro farsi sempre più sottile, fino a scomparire anch'esso. Poteva immaginare tutto, di quel suo lento soffocamento: il suono del suo respiro strozzato, rimbombante nelle sue orecchie mentre si faceva sempre più debole, intanto che le forze la abbandonavano scivolando via dal suo corpo, come dissanguandolo. Ma alla fine, quando aprì gli occhi, ogni illusione svanì; e la realtà tornò a urlarle in faccia con la solita rabbia feroce.

Vincendo ogni resistenza, alla fine riuscì perfino a mettersi a sedere. La testa le girava, perché la notte prima non aveva quasi chiuso occhio; e poi continuava a tormentarsi le mani, che vedeva come imbrattate di una macchia che le procurava una nausea e un disgusto irrazionalmente profondi.

C'era davvero poco da sognare, in tutto quello.

«Maestà, tutto bene?»

Nadia alzò spento lo sguardo su Faloe.

«Sì» mormorò. «Sono pronta».

La voce le uscì come se non le appartenesse. Risuonò tra le pareti della stanzetta per poi ritornarle indietro distorta, quasi amplificata. Ne fu infastidita.

«Il Comandante vi sta attendendo sulla riva» fece Faloe, entrando. «Ha con sé la Pietra, ed è pronto a consegnarla nelle vostre mani...»

Faloe continuava a parlare, ma Nadia non la ascoltava. Stava ancora cercando di capire se era un sogno, quello in cui si trovava, o solo la cruda realtà. Alla fine, optò per la realtà. Tanto non faceva molta differenza, i suoi sogni erano ancora più terribili, ultimamente.

Sospirò. Provò ad alzarsi da quel letto duro come la pietra, ma non ce la fece senza operare uno sforzo più grande di lei.

«... e le navi sono già imbarcate. Siamo tutti pronti».

«Che ne è dei miei... delle persone che erano con me?» si corresse all'ultimo Nadia. Storse le labbra. Non stava per niente bene. Ci mancava poco che vomitasse.

«Loro sono già stati messi al sicuro, lontano da qui» la assicurò Faloe. Nadia alzò lo sguardo su di lei, aggrondando.

«Qualcosa non vi soddisfa?» domandò Faloe, con sollecitudine. Nadia si schiarì la voce. Il senso di nausea non accennava a diminuire.

«È solo... mi chiedo se...»

Faloe si irrigidì.

«Forse, avrei dovuto almeno salutarli. Per l'ultima volta».

«Maestà, credo che non vi faccia bene tormentarvi così» disse la ragazza, senza tradire neppure per un attimo la sua calma assoluta. «I vostri amici sono al sicuro. Ma se preferite incontrarli ancora una volta...»

«Potrebbe farlo?»

«Certo» rispose Faloe con un inchino. «Ma se mi permettete, siamo già molto in ritardo, e questo potrebbe allungare ancora di più i tempi. Senza considerare che ormai potrebbero essere già stato condotti in un posto sicuro, lontano da qui...»

«Ma lei mi assicura che stanno bene?» le chiese Nadia.

«Naturalmente».

Nadia la fissò a lungo, quindi scosse il capo. Perché insistere? Non aveva alcuna ragione per dubitare di lei. In fondo, quella ragazza non le aveva mai mentito.

E poi, non aveva proprio la forza di star lì a discutere. Tanto più che i suoi amici le avevano lasciato intendere che...

«Va bene, lasciamo perdere».

Cercò di muovere un passo, ma era come se il suo corpo fosse inchiodato al suolo. Vedendola in difficoltà, Faloe le si avvicinò, offrendosi di aiutarla. Normalmente, Nadia non avrebbe accettato, ma in quel momento non aveva nemmeno la forza di rifiutare. Forse, era perché non toccava cibo da quasi due giorni.

Alla fine, si lasciò perfino aiutare a vestirsi. E mentre Faloe le girava attorno con sollecitudine per sistemarle la giacca, Nadia la scrutò in volto, notando in un suo sguardo fugace una preoccupazione che però la ragazza nascose subito dietro una maschera di assoluto distacco.

«C'è qualcosa che vuole dirmi?» fece Nadia, con un sospiro. Faloe arrossì fissandola per un istante, prima di dirigere nuovamente lo sguardo sui bottoni della sua divisa.

«Maestà, voi vi trascurate» fece, tirandole leggermente la giacca per raddrizzare alcune pieghe. «Non dovreste trattarvi così...»

«Così, come?» chiese Nadia, con noncuranza. Faloe terminò di abbottonarle la divisa, quindi le aggiustò il colletto.

«Mi sono permessa di osservarvi» disse, seria. «Ho visto che non avete mangiato nulla, in questi ultimi due giorni».

Nadia sospirò. «Ciò che faccio, sono affari miei» disse.

«Certamente, vostra Maestà, ma...»

«Se desidero non mangiare, o lasciarmi anche morire di fame, è qualcosa che non deve riguardare né lei, né il suo comandante, né nessun altro» la interruppe, con fare atono. «Mi sono spiegata?»

«Maestà...»

«Non ammetto intrusioni nella mia vita. Non amo essere sorvegliata».

«Sono spiacente, ma in questo non posso obbedirvi».

Nadia volse lentamente gli occhi a guardarla.

«Come dice?»

«Non posso lasciare che vi facciate del male» riprese Faloe. La fissava direttamente in volto, con rispetto ma senza mostrare alcun timore, come fosse consapevole dell'autorità che le derivava da una responsabilità molto più alta. «Se persevererete in questo atteggiamento sconsiderato, mi vedrò costretta ad agire di conseguenza».

«Agire... di conseguenza?»

Nadia era scandalizzata. Faloe annuì, fissandola con estrema determinazione.

«Dovrò ricorrere alla somministrazione forzata. In quel caso, verrete nuovamente sedata e messa sotto farmaci».

«Voi non potete fare una cosa del genere!» si ribellò Nadia. Faloe chinò il capo, in segno di rispetto.

«Mi dispiace, ma ho il dovere di salvaguardare il vostro benessere. La vostra vita viene prima di ogni altra cosa, persino dei vostri ordini».

«Avete un modo curioso di pensare al mio bene» ironizzò Nadia. Faloe alzò gli occhi a guardarla, con fare inespressivo.

«Se non ci lasciate scelta...»

«Scelta!»

Nadia rise. Per quel che la riguardava, era da quando era bambina che non aveva mai avuto diritto a una scelta.

«Desiderate altro?» disse Faloe, allontanandosi di un passo e congiungendo le mani davanti al corpo. Nadia aggrondò, quindi si incamminò verso la porta a passo deciso, senza aggiungere nulla. Era già uscita, quando ritornò indietro, fermandosi sulla soglia a lanciare un'ultima occhiata al suo alloggio. Quel posto era ancora più squallido della stanza che le avevano dato a suo tempo sulla nave, tuttavia si era rivelato il posto perfetto in cui passare l'ultima sua notte sulla terra. Assolutamente in accordo con le emozioni che in quel momento albergavano nel suo animo. Forse era per questo che voleva vederlo un'ultima volta, per imprimerselo nella mente. Quello sarebbe stato il suo ultimo ricordo di una vita che cessava per sempre di appartenerle.

«Qualcosa non va?» chiese Faloe, seguendo il suo sguardo. Nadia tacque. Quindi, torse gli occhi a guardarla.

«No» disse, con una smorfia, prima di uscire. «Ormai non ha più alcuna importanza».

 

 

*

 

 

«Dannazione, siamo chiusi dentro!»

Con estrema testardaggine, Sanson continuava a prendere a spallate la porta, ma senza grandi risultati. Per quanto si gettasse contro di essa con tutto il suo peso, tutto quello che riuscì ad ottenere fu solo una spalla indolenzita.

«Dobbiamo andarcene da qui, o quella strega si porterà via Marie» lamentò Rebecca. La sua voce scaturì dall'ombra, gonfia di ansia. «Jean» disse, tendendo un braccio alla cieca, davanti a sé. «Jean, dove sei?»

Lui si mosse piano verso di lei, camminando con una mano appoggiata alla parete. Dopo qualche passo, incontrò il braccio di Rebecca. Le afferrò la mano e la strinse, chinandosi ad abbracciarla.

«Eccomi, sono qui» fece. Rebecca lo cercò con le braccia e lo strinse avidamente a sé, soffocando un singhiozzo contro la sua spalla.

«Jean, devi farci uscire, ti prego» mormorò. «Devo trovarla, devo assolutamente trovarla...»

«Rebecca, cerca di stare calma».

«No, non capisci» esclamò lei, affranta. «Io ne sono responsabile! Sapevo che qualcosa non andava, ma non sono stata capace di proteggerla. Ho lasciato che me la portassero via, è solo colpa mia!»

«Non è così» la confortò lui, accarezzandole la testa e stringendola al petto. Ma Rebecca continuava ad agitarsi, tormentandogli la camicia con le mani e premendosela contro il volto bagnato di lacrime, mentre lo stringeva sempre più forte.

«No, lei chiamava me» insisteva «e io non ho saputo aiutarla».

«Ti prego...»

«Chiamava me, Jean» esalò tra le lacrime, scuotendo la testa. «Mi chiamava, e io...»

Lui la abbracciò, lasciando che lei affondasse il volto tra le sue braccia.

«La troveremo» mormorò, chiudendo gli occhi e appoggiando il volto contro quello di lei. «In qualche modo usciremo di qui, vedrai».

«Vorrei sapere come. Non si vede un accidente, e non abbiamo nulla con noi».

Da qualche parte poco lontano da loro, la voce di Hanson era rotolata, stanca, fuori dal buio.

«Forse un modo ci sarebbe», saltò su Alex. «Basterebbe trovare il pannello di alimentazione della porta».

«Bella idea, ma come pensi di fare?» la irrise Hanson. «Ti ricordo che siamo al buio».

Alex sbuffò, seccata da quel suo tono scostante. «Non ho mica detto che sarebbe stato semplice!» ribatté.

Jean sbatté le palpebre. Il buio era così spesso che lo feriva agli occhi, tanto che dovette chiuderli per il fastidio. Abbassò il volto, pensieroso, quindi «Sanson, tu sei vicino alla porta» disse. «Vedi se riesci a trovare qualcosa, accanto allo stipite».

Ci fu un movimento, nell'ombra. Era Sanson, che si alzava rumorosamente in piedi. Nel silenzio che ne seguì, era possibile sentire la sua mano scorrere contro la parete.

«Allora?» chiese Jean. «Trovato niente?»

«Niente» fece Sanson, rassegnato. Alex sospirò.

«Eppure, deve esserci qualcosa».

«Perché non vieni a cercarlo tu, allora?» scattò lui, innervosito. «Se pensi che non sia in grado di riconoscere un pannello...»

«Nessuno ha detto questo, smettetela» intervenne Jean, deciso. «Litigare non servirà certo a farci uscire».

Nessuno parlò più. Jean trasse un sospiro, cercando di fare mente locale.

«Se il pannello non è accanto alla porta, non significa che non ci sia» disse. «Alex ha ragione. Queste porte devono pur potersi aprire dall'interno».

Tutti tacevano. Il peso dei loro pensieri sembrò rendere ancora più denso il buio che li circondava. Alla fine, Alex si mosse. Si alzò lentamente, senza però staccare le spalle dal muro.

«Aspettate un secondo» fece. «Queste porte si aprono automaticamente quando qualcuno vi sosta davanti, no? Il che vuol dire che deve esserci per forza qualcosa che rileva la presenza delle persone».

«E con ciò?» sbuffò Sanson.

«Vuol dire che se c'è un pannello...»

«... non lo troveremo di fianco, ma in alto, sopra lo stipite» intervenne Hanson. «Alex, sei un genio!»

«Presto, qualcuno mi aiuti a salire sopra la porta» fece Jean. Tese il braccio verso il centro della stanza, finché non trovò la mano tesa di Sanson.

«Preso!» disse lui, con una risata. Jean si avvicinò e si lasciò issare sulle spalle. Con le mani, tastò ovunque la parete sopra la porta, alla ricerca del pannello.

«Trovato?» fece Alex, nervosa.

«C'è qualcosa, ma non assomiglia a un pannello».

«Cerca lì intorno, magari sopra...»

«Ecco! Ci siamo!»

L'aveva trovato. Jean percorse febbrilmente il contorno del pannello con i polpastrelli. Cercava di tracciare nella sua mente l'immagine di quanto stava toccando: la sua forma, le sue dimensioni, l'alloggio delle viti... tutto quanto.

«Mi serve un fermaglio, o qualcosa di simile» disse.

«Prendi il mio» fece Alex. Si sfilò il fermaglio dai capelli e si avvicinò a tentoni, finché non andò a sbattere contro Sanson. Le loro mani si cercarono confusamente, finché non si trovarono.

«Vedi di prendere solo il fermaglio, grazie» fece lei, tagliente. Lui ritrasse prontamente la mano, avvampando. Quello che aveva stretto, era decisamente troppo morbido per essere...

«Ce l'ho» disse. Il buio nascose il suo imbarazzo.

«Quando usciremo di qui, ricordami che ti devo una sberla» sibilò Alex. Sanson deglutì, mentre passava il fermaglio a Jean.

«Cerchiamo di non farlo cadere...»

Jean lo strinse tra le mani e lo piegò, in modo da farne una specie di cacciavite. Non poteva vedere nulla, quindi agiva secondo quanto riusciva a figurarsi nella sua immaginazione. Poteva solo sperare che tutta quella fatica servisse a qualcosa.

Con i polpastrelli, tastò la superficie del pannello, individuando l'alloggio delle viti. Quindi avvicinò il fermaglio, procedendo per tentativi finché non riuscì ad agganciarlo.

«Sembra funzionare» mormorò, con leggero entusiasmo. Una dopo l'altra allentò le viti, finché il pannello non cadde a terra, con un suono metallico.

«Tutto bene?»

«L'ho aperto» fece Jean. «Ma il problema è cosa fare adesso».

Alex sembrò pensarci sopra un attimo. «Strappa tutto» disse, senza troppi preamboli. Jean trasalì.

«Cosa?»

«Strappa tutti i fili. Non possiamo fare altro che tentare di mandarlo in cortocircuito».

«Aspetta un attimo, e se fosse un errore?» commentò Hanson. «In fondo, non abbiamo idea di come funzioni la loro tecnologia. Per quanto ne sappiamo, potremmo anche bloccare la porta definitivamente, o attivare un qualche tipo di allarme...»

«Che vuoi dire?» chiese Sanson spaventato. «Che potremmo anche restarci secchi?»

«Avete qualche idea migliore?» tagliò corto Alex. «Non potendo vedere nulla, non è che possiamo girarci tanto intorno, no? La porta funziona ad elettricità. Se la scolleghiamo, dovrebbe sganciarsi anche la serratura».

«È questa la tua idea?» ironizzò Hanson. «Ti ricordo, che una volta strappati quei fili, non potremo più aggiustarli».

«E io ti ricordo che se vogliamo uscire di qui, non abbiamo altra possibilità che tentare!» ribatté lei. «Statisticamente parlando, strappare tutti i fili è la soluzione migliore».

Jean strinse le labbra. La cosa lo spaventava, ma Alex aveva ragione. Mandando in cortocircuito l'impianto di alimentazione della porta, forse avrebbero potuto disattivare la chiusura automatica. O forse no.

«Sentite, proviamo a pensare ad una alternativa» suggerì Hanson. «Magari riusciamo a sollevarla, o a scardinarla...»

«È una porta di metallo, che funziona ad elettricità» commentò Alex, piccata. «Non è il portone di casa, Hanson».

«Allora...»

Ci fu un lampo improvviso, seguito da una cascata di scintille. Per un istante, i volti di tutti vennero tratti crudamente dall'ombra, rivelando l'espressione di sorpresa e di spavento che avevano sul viso. Seguì un tonfo. E tutto ripiombò nel buio.

«Cos'è successo?» fece Rebecca, scossa. «E cos'è questa puzza di bruciato?»

«Sono stato io» mormorò Jean, alzandosi da terra con un rantolo. «Ho strappato i fili».

«Per la miseria...» mormorò Hanson, passandosi le mani nei capelli.

«Sembra che non abbia funzionato» commentò stancamente Sanson. «La porta è sempre chiusa e...»

Sanson appoggiò la mano alla porta ma, con sua grande sorpresa, questa prese a scorrere leggera sotto la pressione delle sue dita. Una lama di luce penetrò dall'esterno, tagliando in due l'oscurità come un coltello.

«È aperta» mormorò, incredulo. «Non posso crederci. Ha funzionato».

Jean si sollevò su un braccio, aggiustandosi gli occhiali sul naso. Quando Sanson aprì di più la porta, la luce lo investì in pieno volto, facendogli strizzare gli occhi. Li chiuse, per poi riaprirli subito. E solo allora sorrise.

«Siamo liberi» esalò. Quindi si volse a cercare Rebecca, che lo guardava con incredulità.

«Siamo liberi» ripeté, più deciso. Lei annuì, e stavolta sorrideva anche lei.

«Andiamo a riprenderci Marie» disse.

 

 

*

 

 

Il sole risalì le cime dei monti che si levavano scure all'orizzonte, iniettando di fuoco il cielo limpido del mattino e l'acqua nera e densa del lago ancora addormentato. Onde tranquille increspavano leggermente la sua superficie opaca, infrangendosi sulla riva come lingue sottili, screziate di rosso e di tenebra; quasi che sulla loro cresta si giocasse l'ultima partita tra il giorno e la notte.

Ferma sulla riva, tra le ombre che ancora abbracciavano le pendici scavate dei monti e le valli acquattate dietro le muraglie di roccia bruna, Nadia cercava il significato della sua presenza in quel luogo remoto, e del suo profondo patire.

Un raggio di vivida porpora perforò l'ultimo lembo di quella notte che ancora resisteva, tenacemente aggrappata alle cime delle montagne scoscese. Illuminò l'orizzonte, spingendosi fino ad infiammare il volto di Nadia, che brillò come fosse incandescente. Lei chiuse gli occhi. Come trasfigurato, il suo corpo nuotava nella luce calda del sole. Il giorno era finalmente cominciato.

Abbassò il volto. Atys, al suo fianco, la fissava in silenzio. Alle sue spalle vi erano Faloe e Lucano. Poco distante, John le rivolgeva un sorriso incoraggiante. Lei li guardò uno per uno. Per ultimi, passò in rassegna i volti dell'equipaggio della nave, che la osservavano schierati in formazione un poco più lontani, rapiti e increduli, con gli occhi pieni di attesa.

Fu con un sospiro misto di ansia e rassegnazione, che Nadia accettò la Pietra tra le sue mani. Si stupì. Non la ricordava così leggera. Era calda, e pulsante di una vita sotterranea e intensa, che lei poteva sentire chiaramente, mentre ne sfiorava la superficie con le dita. Era una sensazione simile a una scossa leggera, che si trasmetteva a livello profondo a tutto il suo essere e al suo corpo, eccitandola.

La strinse. Ne poteva percepire il battito sotteso. Era qualcosa di così strano, e di così incredibilmente delicato. La sua vita e quella Pietra avevano una tale connessione, che Nadia riusciva ad avvertire tutta la fragilità del potere che essa racchiudeva, come se in realtà scorresse proprio dentro di lei. Un potere tremendo, che chiedeva di essere custodito e raccolto, e che quella Pietra celava dietro il proprio aspetto semplice e dimesso in attesa di qualcuno a cui affidarlo. E quel qualcuno, era lei.

A pensarci bene, quella Pietra all'apparenza normalissima, era proprio come lei. Anche lei era una donna che a un primo sguardo poteva sembrare come tutte le altre, anche se in realtà non era per niente come tutte le altre. Nemmeno se lo voleva, nemmeno se lo desiderava fino a morire, avrebbe potuto essere come tutte le altre, perché ciò che custodiva dentro di sé, ciò che da sempre nascondeva come una macchia oltraggiosa, la rendeva diversa. Per questo era lì. Per accettare il suo destino. E farla finita, una volta per tutte, con le sue assurde speranze di una vita normale.

Alzò la Pietra, portandosela davanti agli occhi. I raggi del sole la colpirono, illuminandola completamente. La Pietra divenne totalmente trasparente, tanto che sembrò quasi dissolversi nell'aria, mentre Nadia chiudeva gli occhi e allentava lentamente la presa, con un movimento estremamente delicato e controllato. In realtà, non sapeva quello che faceva. Sentiva una forza, dentro di sé, questo sì, che la guidava in tutti i suoi movimenti. Era come se qualcuno avesse preso il controllo del suo corpo lasciandola lì a guardare, senza però darle la possibilità di opporsi.

Non appena le ultime falangi delle sue dita si furono staccate dalla Pietra, questa rimase a galleggiare nell'aria davanti al suo volto, emettendo un debole bagliore. Nadia aprì le mani e la Pietra si animò, prendendo a ruotare improvvisamente su se stessa: e più lei continuava ad allontanare progressivamente le mani, più la pietra ruotava velocemente, facendosi al contempo sempre più luminosa. Gli occhi di tutti i presenti si fissarono meravigliati su di essa, osservandola ruotare a una velocità incredibile; ormai era talmente rapido il suo movimento, che la sua stessa forma sembrò modificarsi davanti ai loro volti stupefatti, finendo con l'assumere uno stato quasi liquido, come fosse pura energia pulsante.

Quando la pietra sembrò raggiungere la massima intensità possibile di energia e movimento, Nadia allargò le braccia, di scatto. Seguì un bagliore, e uno schianto terribile. Le persone sulla riva barcollarono, indietreggiando spaurite. Atys lanciò uno sguardo smarrito all'esile profilo di Nadia, che si levava austero davanti alle acque profonde del lago, impassibile di fronte al loro improvviso inquietarsi. Con un rombo, queste presero a ribollire, gonfiandosi come se qualcosa di mostruoso e nascosto sotto di esse si fosse improvvisamente risvegliato.

In un attimo, e con un boato assordante, le acque del lago esplosero verso il cielo, dando vita a una gigantesca e spessa colonna che salì fino a raggiungere le cime più alte dei monti, oscurando perfino il sole. Man mano che la colonna saliva, risucchiando e nutrendosi di tutto ciò che ancora ricopriva il fondo del lago, questo emergeva lentamente dalle tenebre che ancora l'avvolgevano, denso e scuro come una ferita profonda, una bocca fetida che si apriva orribile sul dorso del mondo.

Solo quando il lago fu completamente prosciugato Nadia tornò a rilassarsi, abbassando le braccia. La Pietra era ormai completamente disciolta, niente più che un puro punto di luce, che brillava tranquilla davanti ai suoi occhi. Con delicatezza, Nadia avanzò finché non vi fu vicinissima, e tese la mani come a cercare un abbraccio con essa: ciò che restava della pietra le si posò dolcemente sulla sua fronte, quasi fosse stata una farfalla o un tenero bacio, per poi cristallizzarsi nel mezzo di essa come una piccola, purissima gemma. E a quel punto, Nadia riaprì gli occhi.

«Ora possiamo andare» disse lei, volgendosi finalmente serena a guardare il Comandante, che aveva assistito a tutto ciò che era successo con gli occhi sbarrati per l'incredulità. «Il passaggio è di nuovo aperto».

 

 

*

 

 

Nonostante la nave sembrasse davvero abbandonata e non avessero attraversato altro che corridoi deserti, Jean e gli altri procedevano con estrema cautela. Arrivati al fondo di un passaggio, Sanson, che precedeva l'intero gruppo, ripeteva ogni volta la stessa operazione: si accucciava in un angolo, quindi si sporgeva a destra e a sinistra, per controllare la situazione. Solo quando era certo che il passaggio fosse completamente sgombro, agitava la mano, per farli rimettere in marcia. Ogni volta la stessa storia, ripetuta così tante volte che la sua evidente inutilità risultava quasi imbarazzante.

«Sei sicuro di sapere dove stiamo andando?» lamentò a un certo punto Rebecca, guardandosi nervosamente intorno. «Questi corridoi sono tutti uguali... ho come l'impressione che stiamo girando in tondo».

«So esattamente dove stiamo andando» ribatté sicuro Sanson. Erano diversi minuti che cercavano di districarsi dall'intrico di gallerie e passaggi abbandonati nelle viscere della nave. Eppure, per quanto girassero, non riuscivano a trovare una strada che li conducesse verso l'uscita.

«Ho l'impressione che di qua ci siamo già passati» mormorò Hanson. Lanciò un'occhiata all'interno di una stanza vuota. Riconobbe i mobili spostati, e una macchia di ruggine sul muro di metallo che lo aveva già colpito per la sua forma particolare, che gli ricordava una specie di medusa.

«Sanson, ascolta...»

«Vuoi chiudere il becco?» rispose piccato l'altro. «Sto cercando di pensare».

«Ti dico che di qui ci siamo già passati. Mi ricordo esattamente di quella stanza».

Sanson si volse. Lanciò un'occhiata alla stanza e al cugino, accigliandosi.

«Lo so».

Gli altri sgranarono gli occhi.

«Lo sai?» fece Rebecca. «Che vuol dire, che lo sai? Significa che per tutto questo tempo hai continuato a portarci in giro senza sapere dove andare?»

«Questi corridoi sono tutti uguali» si giustificò Sanson. «Non è così semplice».

«Razza di cretino, se non ci muoviamo rischiamo di perdere Marie per sempre!» gridò Rebecca, afferrandolo per il bavero della giacca. Era letteralmente fuori di sé. Lui si liberò, abbassando lo sguardo con aria colpevole.

«Lo so» ripeté, in un sussurro appena udibile. «Non c'è bisogno di ricordarmelo».

Rebecca lo fissò a lungo. Quindi sospirò.

«E adesso che facciamo?» chiese. Sembrava aver ritrovato la calma. «È evidente che se continuiamo così, di qui non usciremo mai».

«Troviamo qualcosa per segnare dove siamo passati» fece Alex. «Qualcosa con cui marcare le pareti. Che so, un gesso, un cacciavite...»

«Questo dovrebbe andare» fece Jean, sollevando da terra un tubo rotto. Lo sfregò contro il muro, ottenendo alcuni graffi non troppo visibili, ma sufficienti come indicazione.

«Ecco, ora abbiamo un segno».

«Muoviamoci allora» disse Rebecca.

Il nuovo sistema sembrava dare i suoi risultati. Dopo alcuni minuti si trovavano ancora nello stomaco della nave, ma almeno non avevano più percorso due volte le stesse vie.

«Mi chiedo quanto ancora resisterà il gruppo elettrogeno» mormorò Hanson, guardandosi attorno. «È già da un po' che i motori sono spenti e con tutte le luci della nave accese, quanta autonomia pensate che possa restare?»

«Speriamo che resti quella sufficiente a permetterci di uscire da qui, razza di uccellaccio del malaugurio» esclamò Rebecca. Alex si volse stancamente a guardare alle sue spalle, mossa più dalla noia che da altro. Improvvisamente, sbatté le palpebre e aguzzò gli occhi.

Qualcosa si muoveva in fondo al corridoio, o era solo una sua impressione?

«Che roba è?» fece. Jean, accanto a lei, si girò a guardare.

«Cosa?»

«Laggiù» disse lei, indicando verso il fondo del corridoio. «Non ti sembra che qualcosa si muova, e che venga verso di noi?»

Jean socchiuse gli occhi. Tutto d'un tratto impallidì, afferrando Alex per un braccio e mettendosi a correre.

«Sono le luci, si stanno spegnendo» gridò.

Hanson, Sanson e Rebecca si volsero sconcertati a guardare. Un blocco denso di tenebre stava avanzando sempre più velocemente, procedendo per settori. Se li avesse raggiunti, non sarebbero mai più riusciti a uscire dalle viscere di metallo di quella maledetta nave.

«Di qua, muoviamoci!» gridò Sanson, imboccando il primo corridoio che trovò.

«Sei sicuro?» gli urlò dietro Rebecca. «Prima abbiamo rischiato di perderci».

«Non abbiamo tempo di metterci a segnare la strada» fece lui, sfrecciando in un passaggio alla sua sinistra. «Tra poco qui sarà tutto buio».

Svoltarono a sinistra, e poi a destra, lungo corridoi che si ripetevano sempre uguali, con il buio che li incalzava inesorabile alle loro spalle.

«Di qua!»

Sanson si infilò in un lungo passaggio alla sua destra. Dietro di loro, le luci cominciavano già a spegnersi. Hanson, che chiudeva la fila, si trovò con il buio che gli lambiva minacciosamente le spalle.

«Presto!»

Il buio avanzava sempre più, inghiottendoli uno dopo l'altro. Continuavano a correre, lasciandosi guidare dal profilo ancora visibile di Sanson, poco avanti a loro. Era come percorrere un lungo cunicolo di tenebra, all'inseguimento di una luce che si faceva sempre più remota e lontana quanto la speranza di raggiungerla.

«Muovetevi!» gridò Sanson. Ma non appena svoltò l'angolo, sul fondo del corridoio apparve una parete, con una porta aperta su una stanza inesorabilmente vuota. Trattenendo a stento un'imprecazione, Sanson si bloccò.

«Dannazione» fece, voltandosi. In quel momento, calò il buio. «Dannazione, dannazione, dannazione!»

Cominciò a sudare. Protendeva le mani con gli occhi sbarrati, alla disperata ricerca di qualcosa a cui aggrapparsi nel buio.

«Moriremo, moriremo tutti qui, come topi!»

«Sanson, vedi di stare calmo!»

La voce di Rebecca lo colpì come una staffilata. Si acquietò per un attimo, ritrovando un barlume di lucidità.

«Odio questo posto» mormorò. «E odio questa gente. Io...»

«Sanson, adesso basta».

Hanson si avvicinò al cugino, facendosi strada a tentoni. Gli si accostò, afferrandogli il braccio e scrollandolo con decisione.

«Va tutto bene» gli sussurrò prendendolo per le spalle, «Non ci succederà niente, capito? Dobbiamo solo mantenere la calma».

Improvvisamente, nel silenzio risuonò un clangore metallico, come se qualcosa o qualcuno avesse colpito lo scafo della nave dall'esterno. Trattennero il fiato.

«Che diavolo era?» mormorò Hanson. Jean lo zittì bruscamente.

«C'è qualcuno» fece, dopo un attimo. «All'esterno. C'è qualcuno».

«Allora facciamoci sentire» disse Hanson. «Forse ci verranno a prendere».

«Ma sei scemo?» lo aggredì Rebecca. «Ci hanno chiuso in gabbia con l'intento di lasciarci marcire e adesso tu vorresti che li aiutassimo anche a trovarci?»

«Il suono veniva da là» fece Jean, incurante di quella discussione che reputava inutile. «Potremmo seguirlo, e vedere dove ci conduce».

«Rischiamo solo di perderci, se ci muoviamo al buio» ribatté Alex. Jean le cercò la mano, e la strinse.

«Tenete una mano contro la parete alla vostra destra» disse, bussando debolmente contro le lastre metalliche del corridoio. «Battete un colpo, come ho fatto io, così capiremo se ci siamo tutti».

Tutti, uno dopo l'altro colpirono leggermente la parete. Jean sorrise.

«Non staccate mai la mano, per nessun motivo. Se vi dovesse succedere, ditelo subito. D'accordo?».

Ci fu un debole mormorio di assenso. Jean strinse di più la mano ad Alex.

«Bene» fece, traendo un grosso sospiro «allora, andiamo».

Si mossero lentamente, attenti a cogliere anche il minimo rumore che provenisse dall'esterno. C'erano solo quei suoni a guidarli lungo l'intrico di gallerie prive di luce, ma nonostante tutto sembrava funzionare. Man mano che avanzavano, le voci e i rumori che in un primo momento giungevano lontani e ovattati si facevano sempre più chiari: era evidente che si stavano avvicinando a un'uscita. Probabilmente era questione di attimi, poi sarebbero finalmente stati fuori di là.

O almeno spero, pensò Jean.

Certo, restava il problema di ciò che avrebbero fatto una volta usciti, visto e considerato il numero di soldati che probabilmente si trovava là fuori. Ma su questo, Jean preferì soprassedere. Almeno per il momento, c'erano cose più importanti di cui preoccuparsi.

«Che staranno facendo?» sussurrò Rebecca, tendendo l'orecchio alle voci che le giungevano ormai distintamente attraverso la parete metallica. Jean strinse le labbra, mettendosi in ascolto.

«Sembra che stiano scaricando o caricando qualcosa» fece. «Zitti, sento qualcuno avvicinarsi».

Subito al di là della parete, risuonò lo scoppio di una risata. In lontananza, qualcuno tuonò qualcosa, forse un comando, a cui seguì il sommesso borbottio di alcune voci, che fecero vibrare leggermente la sottile parete divisoria.

«Devono essere in molti» fece Jean. «Cerchiamo di fare attenzione...»

Improvvisamente ci fu uno stridio, e sul fondo del corridoio, a poca distanza da dove si trovavano, si aprì una porta. Una luce accecante colpì Jean e gli altri in pieno volto, abbagliandoli.

«Ma che diavolo!» esclamò Hanson tra i denti, riparandosi gli occhi. Dietro di lui, Sanson barcollò, sorpreso.

«Presto, da questa parte!»

Jean si rifugiò dove il corridoio faceva una curva. Alex, ancora confusa da quel bagliore improvviso, si lasciò trascinare da lui e si accucciò al suo fianco sfregandosi gli occhi feriti. Rebecca, Hanson e Sanson erano subito dietro di loro.

«Guardate, quella è la stiva» fece Hanson, sbirciando attraverso la porta che i soldati avevano aperto. «Stanno ultimando i preparativi per la partenza».

«Si direbbe che vogliano abbandonare la nave per usarne una più piccola» commentò Rebecca, spingendo lo sguardo fino all'esterno del portellone, dove si intravedeva uno dei tre vettori ancorato a poca distanza dalla nave principale. In quel momento, Faloe e Lucano fecero capolino, mentre si dirigevano in tutta fretta a una seconda nave. Non appena furono saliti, il portellone si richiuse dietro di loro e la nave su cui erano saliti si sollevò da terra con un rombo. Rebecca trasalì, stringendo i pugni.

«Erano loro!» esalò. «Sono saliti su quella nave, quindi Marie deve essere per forza là! Dobbiamo trovare il modo di inseguirli».

«Ma sei impazzita?» esclamò Hanson, sottovoce. «E come diavolo pensi di fare?»

«C'è un'altra nave, che non è ancora partita» suggerì Sanson, sbirciando oltre il portellone. Sembra che stiano terminando di caricarla. Non è lontana. Forse possiamo farcela a raggiungerla».

«E se ci scoprissero? Ci avete pensato?»

«Non abbiamo altra scelta» disse Rebecca. «Sono sicura che Marie è stata caricata sulla nave su cui sono saliti quei due; forse questa è l'ultima possibilità che abbiamo di poterla raggiungere».

Hanson sbuffò, per nulla convinto. «Ammesso che riusciamo a salire su quella nave, e non è per nulla una cosa scontata, come pensate di fare, poi? Quelli sono diretti alla caverna che si apre sotto il fondo del lago. Anche se li raggiungessimo, e riuscissimo a trovare Marie, come faremo poi a tornarcene in superficie?»

«Questo è un problema a cui penseremo quando sarà il momento» ribatté lei, dura. «Adesso mi interessa solo ritrovare Marie. O forse mi stai suggerendo che dovrei infischiarmene e lasciarla in mano a quei mostri?»

Hanson arrossì. «Non intendevo questo, ma...»

«Se avete finito di discutere, andiamo» tagliò corto Jean. «Se stiamo bassi, e cerchiamo di muoverci velocemente, dovremmo poter raggiungere la stiva senza troppi problemi».

Aspettarono che i soldati si allontanassero quindi, uno dopo l'altro, sgattaiolarono tra le casse, accucciandosi nella penombra. Oltre il portellone, era possibile intravedere l'ultimo dei tre vettori, ancora a motori spenti. Era davvero vicino, ma contemporaneamente sembrava del tutto impossibile riuscire a raggiungerlo. C'erano troppi soldati che vi giravano attorno, affaccendati con le ultime operazioni di imbarco. Nonostante fosse evidente che non sarebbe stato possibile salirvi a bordo senza essere scoperti, Rebecca dovette sforarsi molto per frenare la propria impazienza, e con essa il desiderio di alzarsi in piedi e di correre fin là. Il pensiero di Marie, sola e spaventata da qualche parte lontano da lei, ormai le offuscava la mente; e tutta quella attesa non faceva che riempirla di un frustrante senso di inutilità che aumentava ogni minuto di più, rendendola estremamente nervosa.

«Secondo voi che diavolo stanno facendo?» fece Hanson, sporgendo la testa da sopra le casse per controllare la situazione. «Forse hanno finito di caricare...»

In quel momento un soldato risalì a bordo, dirigendosi proprio verso il punto in cui si nascondevano. Con un gemito strozzato, Hanson si rituffò dietro le casse accatastate, trattenendo il respiro insieme agli altri. I passi del soldato si fecero sempre più vicini, spegnendosi subito dietro le loro spalle. La tensione si fece altissima: lo sentivano rovistare, spostando casse di qua e di là; e intanto seguivano come ipnotizzati i movimenti che l'ombra dell'uomo gettava contro la parete, senza osare muovere un muscolo. Dopo istanti che parvero loro interminabili, il soldato sembrò allontanarsi, bofonchiando scontento qualcosa.

«Dio, ti ringrazio» sospirò Alex. «E adesso?»

«Adesso, aspettiamo» disse Jean semplicemente, rilassandosi con un sospiro contro la parete.

 

Per diverso tempo non poterono fare nulla. I soldati erano troppi, e salivano e scendevano dalla nave spostandosi da una stiva all'altra nei modi e nei momenti più inaspettati. Non c'era alcuna possibilità di raggiungere il vettore. Finalmente, dopo più di un'ora passata a nascondersi, le operazioni di imbarco terminarono. I soldati risalirono a bordo del vettore disponendosi in una fila composta, dopo aver ripulito accuratamente la stiva della nave principale e aver caricato quella della nave più piccola. Sporgendosi da sopra le casse allineate sul fondo, Jean e gli altri li videro salire dal portellone, per poi scomparire all'interno dell'abitacolo. Solo due soldati rimasero a guardia della stiva, sedendosi sul portellone mezzo sollevato, mentre i motori cominciavano ad avviarsi. Uno di loro estrasse una sigaretta, che offrì all'altro con un cenno di intesa.

«Ragazzi, ora o mai più» mormorò Sanson. Hanson sporse leggermente la testa, per poi ritornare a nascondersi quasi subito.

«Ma come facciamo con quei due?» fece, teso. Sanson sogghignò.

«Di quelli posso occuparmene io. Voi state pronti a saltare su quando vi farò cenno».

«Aspetta un attimo, che hai in mente?» chiese Jean, trattenendolo per un braccio. Sanson lo fissò sorridendo.

«Tu non preoccuparti. Pensa solo a fare come ti ho detto».

I due soldati fumavano tranquilli, ignari di tutto. Il portellone era ancora aperto, quando Sanson li raggiunse. Si avvicinò di soppiatto, fino a che non fu a qualche metro da loro. Quando fu abbastanza sicuro che non ci fosse nessun altro là, a parte quei due, uscì allo scoperto.

«Ehi, scusate!» esclamò. I soldati si volsero a guardarlo, stupiti. «Non è che sapete dirmi come si fa ad andarsene da qui? Credo proprio di essermi perso».

I due restarono a fissarlo increduli per qualche istante, nemmeno avessero appena incontrato un fantasma. Approfittando della loro sorpresa, Sanson continuava ad avanzare verso di loro, con passo sicuro.

«Ti estì dràonton?» fece uno dei due, gettando la sigaretta a terra e afferrando la lancia. L'altro corse subito al quadro comandi, riattivando la discesa del portellone. Con un balzo, il soldato armato scese a terra, avventandosi su Sanson.

«Upésis tas kéiras, kai légei» gli gridò, puntandogli in faccia la sua arma. Sanson sorrise, infilando le mani in tasca con assoluta tranquillità.

«Intendiamoci, è bello starsene qui, e tutto il resto» disse, ostentando una certa noncuranza «ma comincio a essere stufo di trovarmi sempre voi coglioni tra i piedi...»

Il soldato alzò la lancia, colpendolo allo stomaco. Sanson se l'aspettava, così assorbì il colpo, piegandosi appena.

«Non sei gentile, amico...» sibilò, gli occhi attraversati da un lampo. Il soldato strinse le labbra e fece per colpirlo di nuovo, ma Sanson fu più veloce. Aspettò che lui vibrasse il colpo per anticiparlo, bloccando la lancia sotto il braccio. Quindi ruotò su se stesso, strappandogliela e afferrandola saldamente con entrambe le mani. Senza pensarci due volte, la fece ruotare, colpendo il soldato alla nuca e poi alle caviglie, facendolo cadere al suolo privo di sensi.

«Ehi!»

Con la coda dell'occhio intravide l'altro soldato, che dopo essersi riavuto dalla sorpresa, aveva fatto per scattare verso il punto in cui aveva abbandonato la sua lancia. Sanson fu più svelto: con un balzo salì sulla pedana, e puntò la lancia dritto in faccia al soldato, che si arrestò con la mano già sull'impugnatura della propria arma.

«A-ah! Io non lo farei».

Il soldato alzò gli occhi, fissandolo con uno sguardo spiritato. La sigaretta che ancora gli pendeva dalle labbra traballò un secondo, prima di cadere a terra.

«Ego se apoktéineso, suō...» sibilò, mentre alzava le mani. Sanson scrollò le spalle.

«Si, come no. Anche a te». E con un movimento fulmineo, lo colpì al volto, facendolo stramazzare a terra. Quindi, si voltò a cercare dove si nascondevano gli altri.

«Forza!» disse, agitando il braccio verso di loro. In un attimo, il resto del gruppo uscì allo scoperto, percorrendo in un lampo il tratto che divideva la stiva della nave da quella del vettore. Una volta che furono tutti saliti a bordo, Sanson spinse fuori dalla stiva il corpo del soldato svenuto, che andò a finire nella polvere insieme a quello del suo compagno.

«Ci vediamo, belli» fece, azionando il dispositivo di chiusura. Attese che il portellone della stiva si sigillasse, quindi andò a prendere posto accanto agli altri, che si erano già nascosti dietro ad alcune casse più lontane.

«Sei stato davvero in gamba» gli fece Jean, rivolgendogli un sorriso di sincera ammirazione. Rebecca annuì.

«Sì, niente male».

«Lo so, grazie» fece lui passandosi una mano tra i capelli, il volto attraversato da un sorriso smagliante. In quel momento, i motori presero a ruggire. Ci fu una scossa. La nave oscillò; quindi, con un ultimo rollio, si staccò dal suolo.

Con la tensione che cominciava lentamente a sciogliersi, Jean sospirò, chiudendo gli occhi e abbandonando la testa contro la parete alle sue spalle.

Ce l'avevano fatta, pensò, mentre si lasciava cullare dalla vibrazione lenta dei motori. Erano partiti.

Restava da pensare a come sarebbero tornati indietro.



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Capitolo 28
*** 25 parte terza ***


Con un leggero scossone, i motori della nave aumentarono la potenza. Nadia alzò gli occhi sul finestrino, accanto a sé. Si erano appena introdotti lungo la spaccatura che si apriva sul fondo del lago, e ora procedevano scendendo lentamente, con i motori che spingevano per contrastare la forza di gravità.

«Va tutto bene?»

Nadia si volse, sbarrando leggermente gli occhi. In piedi alle sue spalle, John la stava guardando con una certa apprensione, anche se cercava di dissimulare le proprie emozioni dietro un sorriso.

«Sì, grazie» rispose, stringendo lievemente la mano che lui le aveva posato sulla spalla. Senza aggiungere nulla, John si sedette al suo fianco.

«Incredibile, vero?» disse ammirato, guardando fuori dal finestrino. Nadia annuì. Il lungo condotto di pietra che dal fondo del lago conduceva fino alle spoglie del Noah, era stato completamente scavato da mani umane. Una lunga scalinata incrostata di fango e putredine si attorcigliava ad un maestoso pilastro scolpito nella roccia viva. Tutt'attorno, raffigurazioni rupestri e simbologie che rimandavano ad una fede antica e ormai persa nel tempo, davano bella mostra di sé, sgusciando dal buio come spettri inquietanti, tratti dall'oscurità dal freddo bagliore dei fari della nave.

«La gente che ha creato questo posto doveva possedere conoscenze davvero straordinarie» mormorò John, scuotendo il capo. «Guarda la perfezione di quelle statue scavate nella roccia... assolutamente incredibile».

Nadia spostò svogliatamente gli occhi sulle due grandi statue che ornavano la nuda parete che avevano di fronte. Erano alte all'incirca come un palazzo di sei piani, e raffiguravano due esseri dall'aspetto umano ma dal volto mostruoso. Nadia aggrondò. Chissà perché chi aveva scolpito quelle statue, aveva scelto di raffigurare i suoi dei come fossero mostri?

Forse perché lo siamo, pensò. Anche se, probabilmente, non più di un qualsiasi essere umano.

Atlantidi, uomini... in fondo, che differenza faceva? Uno valeva l'altro. Creatori e creature, imperfetti entrambi; esseri che passavano la vita a ricercare... cosa? Nemmeno lei sapeva cosa stava cercando. Ma forse il punto era proprio quello. Nella vita non esiste altro che la ricerca di qualcosa che continua comunque a sfuggire. Tutto il resto, non sono che sciocche illusioni, volte a mascherare la fame di ciò che non si può avere.

«Stiamo per raggiungere il Noah, guarda».

Nadia si sporse, premendo il volto contro il vetro. Una luce diffusa illuminava la profondità del passaggio, allungando le ombre dei numerosi speroni di roccia che sporgevano minacciosamente dalle pareti. Man mano che scendevano, la luce tendeva a farsi sempre più intensa, finché le navi non sbucarono in una enorme cavità nascosta, dal soffitto a volta scavato interamente nella pietra e affrescato con straordinarie raffigurazioni di esseri mitologici dalla forma umana. La luce, che si rifletteva sulla volta, irradiandosi da qualche sorgente sconosciuta e nascosta, si riverberava poi in tutta la caverna, trasformandola quasi in una parentesi di cielo immersa nella profondità della terra.

Le navi rallentarono ancora. Nadia sentì il rombo dei motori aumentare, mentre lo scafo beccheggiava lievemente nell'aria. Una dopo l'altra, le navi si affiancarono, adagiandosi sopra un'enorme spiazzo dalla forma ellittica, interamente circondato da edifici diroccati. I vettori si posarono lievemente; quando toccarono il suolo, un rumore metallico riecheggiò in tutta la caverna, come un tuono lento e sordo.

«Siamo arrivati» fece John. Nadia scosse il capo.

«Non ancora» disse.

Ci fu un clangore: e la superficie sotto le navi cominciò a sprofondare lentamente. John, stupefatto, si avvicinò al vetro, per guardare meglio. Le tre navi stavano progressivamente scendendo nelle profondità del Noah, lasciandosi indietro un paesaggio quasi lunare, costituito da abitazioni abbandonate scavate nella roccia, proliferate sul dorso di quella immensa nave addormentata come una colonia di funghi.

«Cosa può mai essere successo, per produrre una tale catastrofe da cancellare tutta quanta una popolazione e far sprofondare quaggiù un'intera città?» mormorò John. Nadia distolse gli occhi, stanca di guardare.

«Sono morti, ecco cos'è successo» rispose semplicemente. Lui le lanciò un'occhiata cupa, ma non replicò.

Man mano che scendevano, tutto intorno si fece sempre più buio. Quando l'oscurità era ormai completa, il piano si arrestò, risuonando rumorosamente nello spazio vuoto che lo circondava. Una serie di luci azzurrognole si accese lungo tutto lo scafo interno del Noah, illuminandone debolmente gli austeri interni di metallo. John sorrise, esterrefatto. Si trovavano al centro di una delle ultime navi ammiraglie di Atlantide, il leggendario Noè Bianco. La nave che custodiva una delle Pietre Sacre più importanti del suo popolo, il Trismegisto.

Il piano su cui poggiavano le tre navi ruotò su se stesso, per fermarsi dopo aver compiuto un giro di novanta gradi. Un ponte di metallo fuoriuscì dalla parete di fronte, collegandosi automaticamente alla piattaforma. John continuava a guardarsi attorno stupito. Era incredibile, come tutto avvenisse quasi fosse stato programmato. Era come se quella nave sapesse già cosa doveva fare, senza bisogno di ricevere istruzioni dall'uomo. Sempre più emozionato dalla grandezza che, per riflesso, gli derivava dall'appartenere a quel popolo eccezionale che aveva creato tutto ciò che lo circondava, John scattò in piedi, visibilmente eccitato.

«Ti rendi conto?» disse, al colmo dell'emozione. «Siamo nel luogo in cui i nostri antenati hanno creato la loro civiltà. Guardati intorno: tutto, qui, trabocca della loro scienza e della loro grandezza».

Nadia fece una smorfia, fissandolo con astio. «Adesso parli come Gargoyle» fece.

«Gargoyle era uno stupido» ribatté lui sprezzante, scrollando le spalle. «Non aveva alcuna idea di quello che faceva. Credeva di conoscere Atlantide, ma era solo uno sciocco che si è trovato tra le mani un potere più grande di lui».

«Tu... tu conoscevi Gargoyle?» fece lei, stupita. John annuì di mala voglia.

«Non personalmente, certo. Ero ancora troppo giovane. Ma so quello che ha fatto. Quando la mia associazione ha scoperto quali erano i suoi reali progetti, ha cercato di fermarlo. Ma ormai, era troppo tardi».

«Quindi, avete preferito lasciarlo agire indisturbato?» disse lei, sconvolta. John aggrondò.

«Ti ricordo che io non c'entro» fece. «Comunque, se la vuoi mettere su questo piano, sì. La mia associazione ha innanzi tutto il dovere di proteggere le ultime famiglie che discendono dagli antichi Atlantidei, nascondendole da coloro che intendono trovarle per far loro del male».

«E perché né io né mio padre sapevamo che esisteva una società del genere?» fece Nadia. «Perché ci avete lasciato da soli a combattere contro Gargoyle? Potevate aiutarci, se è vero che eravate così interessati a noi».

«Pensavamo foste morti» disse John. «Credevamo che la tua famiglia fosse scomparsa durante la guerra di Tartesso. Per questo abbiamo appoggiato Gargoyle, in un primo momento. Perché insieme a lui si trovava l'ultimo discendente della famiglia reale di Tartesso, l'ultimo appartenente a alla stirpe Reale, tuo fratello Vinasys. Ma quando tu e tuo padre siete riapparsi... beh, posso solo immaginare lo stupore che in quel momento avrà colpito i miei superiori».

«Mi stai dicendo che avete fornito voi a Gargoyle i mezzi per fare quello che ha fatto?» sibilò lei, incredula. «Mi stai dicendo che se non fosse stato per voi...»

«Lui non avrebbe mai fatto risorgere il potere di Atlantide? Probabilmente ci sarebbe riuscito lo stesso» ribatté John. «Magari gli ci sarebbe voluto più tempo, questo sì... Ma il punto, è che quando abbiamo scoperto che aveva intenzione di utilizzare la tecnologia di Atlantide per i suoi sporchi fini, abbiamo capito che non era altro che un pazzo. Per questo ci siamo ritirati, negandogli ogni ulteriore appoggio».

«Più che altro vi siete rintanati al sicuro nell'ombra, lasciando a mio padre l'onere di dare la propria vita per sconfiggerlo» ringhiò lei. John serrò la mascella, abbassando lo sguardo.

«Capisco la tua rabbia» mormorò. «Ma devi cercare di capire...»

«Cosa?»

«Noi ci battiamo per una causa più grande» fece, sorridendo con entusiasmo. «Non ci interessa fare la guerra agli umani. Noi vogliamo solo poter riavere quello che ci appartiene, la nostra eredità».

Nadia aggrondò. «Ma di che parli?»

John trasalì, come se le parole di lei l'avessero improvvisamente rapito dal mondo in cui si era rifugiato con i propri pensieri.

«Ci sono molte cose che dovrei spiegarti, ma...»

«Maestà, il comandante mi ha ordinato di riferirle che stiamo per uscire».

John strinse le labbra, infilando le mani in tasca e girandosi di spalle. Nadia si alzò in piedi, spostando gli occhi dal volto di lui a quello del soldato.

«Arrivo» disse. Mentre gli sfilava accanto, John la fermò, trattenendola per un braccio. Lei si irrigidì, tenendo lo sguardo sempre fisso avanti a sé.

«Nadia, devi credermi» le sussurrò. «Io non ti farei mai del male. Tutto quello che è successo, se avessi potuto, lo avrei evitato».

«Il fatto che andiamo a letto insieme, non significa che io debba avere con te rapporti di altro genere» fece lei, torcendo gli occhi a guardarlo. «Ci divertiamo; e per quel che mi riguarda, va bene così. Non mi interessano le tue scuse, o le tue motivazioni. Puoi benissimo tenertele».

«Nadia, per favore...»

Ma con un gesto deciso lei si strappò alla sua presa, lasciandolo solo nella stanza.

 

 

*

 

 

«Secondo voi siamo arrivati?»

La testa di Sanson fece capolino da dietro le casse. Sporgendosi, sbirciò attorno per qualche istante, prima di tornarsi ad accucciare a terra, al suo posto.

«I motori si sono fermati» fece. «Sembrerebbe che siamo al capolinea...»

In quel momento, le porte della stiva si aprirono. I soldati si riversarono al suo interno, e la carlinga si riempì di un vociare intenso e fastidioso. Con un frastuono metallico, il portellone della stiva si schiuse: ordinatamente, i soldati presero a scemare all'esterno.

«Finché non ci saremo liberati di questi rompiscatole, sarà difficile per noi andarcene» mugugnò Sanson, squadrando alcuni soldati che sembravano non avere molta fretta di abbandonare la nave. Rebecca , accanto a lui, si inquietò.

«Eppure dobbiamo muoverci» disse. «Non ci resta molto tempo».

«E ancora non sappiamo come fare a tornare a casa» lagnò Hanson.

Jean si spostò accanto a loro. Sporse la testa, quindi si riabbassò.

«Per questo avrei un'idea» disse. Sanson e Hanson si raccolsero accanto a lui. «Ma potrebbe essere pericoloso».

«Che hai in mente?» fece Sanson.

«I motori sono ancora accesi, quindi il pilota non ha ancora lasciato la cabina» disse. «Se riuscissimo a raggiungerla e a costringerlo a riportarci di sopra...»

«Non è che la cosa mi suoni molto bene» fece Hanson. «Mi sa tanto di missione suicida».

«Però ha ragione» saltò su Sanson. «Se riuscissimo ad impossessarci di questo coso, potremmo tornare su senza problemi».

«A meno che non decidano di abbatterci prima che riusciamo a sollevarci da terra».

«È un rischio che dobbiamo correre» fece Jean. «Non abbiamo altra soluzione. Presto questo posto si trasformerà in una immensa astronave, in partenza per Atlantide. Se non vogliamo svegliarci su un altro pianeta, allora non ci resta che tentare il tutto per tutto».

«Io sono con te» fece Sanson. «Anzi, sai che ti dico? Voi andate a cercare Marie. Al resto pensiamo io e Hanson».

«Come no» mugugnò Hanson.

«Sei sicuro?» fece Jean, incerto. «Voglio dire...»

«Jean, con tutto il rispetto, ma tu non sei proprio il massimo quando si tratta di combattere» fece Sanson. «Magari sei bravo a usare il cervello, ma per queste cose serve anche un po' di addestramento. Senza offesa».

Jean sospirò, rassegnato.

«Va bene, come vuoi».

«Allora dividiamoci» fece Rebecca. «Io e Alex cercheremo di salire sulla seconda nave, mentre tu, Jean, ti occuperai dell'altra. Ci ritroviamo tutti qui, va bene?»

«Perfetto».

«I soldati sono usciti» sussurrò Hanson. «Sembra tutto tranquillo».

«Presto» fece Jean, indicando alcune casse accatastate in un angolo, da cui spuntavano alcuni indumenti ammucchiati e confusi tra loro. «Prendiamo le divise che sono là dentro e indossiamole. Così sarà più facile muoversi in mezzo a tutti gli altri».

«Non credi che sarà rischioso?» fece Hanson. Jean sorrise, cercando dentro la cassa e lanciandogli una giacca, la più larga che fu in grado di trovare.

«La gente cerca sempre ciò che non sa di avere davanti agli occhi» disse, allegro. Hanson sbuffò.

«Ora mi sa ancora più rischioso» brontolò.

«Da quando sei diventato così fifone?» gli fece Jean, sollevando una giacca che poi ricacciò dentro al mucchio. Hanson aggrondò.

«Essere coraggiosi non significa mica essere incoscienti» borbottò, infilando una manica dopo l'altra. La giacca era stretta e dovette contorcersi un po' prima di riuscire a indossarla.

«Se siamo pronti, andiamo» fece Jean, calcandosi un berretto militare in testa. «Non parlate con nessuno, tenete lo sguardo basso e mantenetevi defilati. Se tutto va bene, non dovremmo avere grossi problemi».

«Se tutto va bene» fece Alex, perplessa, abbottonandosi la divisa. «Che il cielo ci aiuti».

 

 

*

 

 

«Di qua, presto».

Alex seguì Rebecca su per la stiva del secondo vettore, e da lì lungo lo stretto passaggio che collegava la stiva alle cabine. Erano state fortunate a non trovare nessuno, per il momento. Ma per quanto avessero già frugato in diverse stanze, non avevano ancora trovato alcuna traccia di Marie.

«Forse non è qui» suggerì Alex. Rebecca scosse il capo.

«No, è qui. Me lo sento».

In quel momento, un gruppo di soldati spuntò da dietro l'angolo del corridoio. Alex impallidì, voltandosi verso Rebecca con il volto cereo.

«E adesso?» sussurrò, muovendo appena le labbra.

Rebecca si guardò intorno. Da una stanza lì a fianco, spuntava un carrello carico di biancheria sporca. Lei sorrise, indicandolo con un cenno del capo.

«Tu reggimi il gioco, e cerca solo di non farti prendere dal panico».

Rebecca afferrò il manico del carrello della biancheria e uscì nel corridoio. Alex le camminava dietro, lo sguardo fisso a terra e le gambe che le tremavano. Dopo pochi metri, si incontrarono con il gruppo di soldati, che si fece da parte per farle passare. Qualcuno disse qualcosa, e ci furono delle risate volgari. Rebecca si scostò camminando radente al muro, il volto seminascosto dalla visiera. Alex, subito dietro di lei, non osava alzare gli occhi da terra. Ancora un po' e il suo cuore sarebbe esploso per la paura.

Alla fine, i soldati passarono loro accanto senza degnarle più di tanto, lanciando loro solo qualche occhiata lasciva. Non appena li sentirono lontani, Rebecca si girò a metà verso Alex, strizzandole l'occhio con un sorriso.

«La prova del fuoco» sussurrò. «Non male, vero?»

«Dovrei strozzarti» replicò Alex, con un sospiro sollevato.

Continuarono a cercare ovunque, fermandosi davanti ad ogni porta incustodita. Rebecca si premurava che non ci fosse nessuno nei dintorni; quindi entrava, senza troppe cerimonie. Se non trovava nulla, usciva dopo un attimo.

«Non ho più idea di dove siamo» le confessò Alex, mentre percorrevano l'ennesimo corridoio, uguale a tutti gli altri. «Ho paura che ci siamo perse».

«Non importa. Finché non troverò Marie, non uscirò comunque da questa nave».

Alex sospirò, guardandosi alle spalle. Chissà perché ma aveva una pessima sensazione.

Raggiunsero un bivio. Il corridoio terminava con delle scale, con un passaggio più stretto al termine del quale si raggiungeva un ripostiglio. Sembrava un angolo della nave scarsamente utilizzato. Nel ripostiglio trovarono casse impolverate e vecchi raccoglitori ingialliti. Le scale conducevano invece a un vano superiore, che si affacciava sulla sala motori. Senza pensarci su due volte, Rebecca si issò sulle scale e scomparì oltre la botola.

«Dove vai?» le sibilò dietro Alex, allarmata. Dall'alto della scalinata, Rebecca le fece cenno di restare dov'era.

«Vado a cercare quassù. Tu aspettami lì».

Alex si strinse nelle spalle, mentre Rebecca scompariva di nuovo. Si accigliò, lanciando occhiate preoccupate alle scale e al corridoio alle sue spalle. Se fosse arrivato qualcuno, non avrebbero avuto molti luoghi in cui nascondersi.

Dopo aver attraversato la botola, Rebecca si ritrovò su una pensilina che correva tutt'attorno ai motori principali. Sotto di sé poteva vedere i meccanici al lavoro, e operai che spostavano macchinari da riparazione da una parte all'altra della sala macchine. Tuttavia, nessuno alzò mai gli occhi a guardarla. E poi, se anche qualcuno lo avesse fatto, non avrebbe visto altro che un soldato come gli altri.

Camminò lungo tutta la pensilina, il rumore dei suoi passi coperto dal clangore che emettevano le turbine meccaniche. C'erano alcune porte, ai lati della carlinga. Sembravano ripostigli, o officine. Rebecca ne aprì qualcuna: non si era sbagliata. Per lo più erano depositi in cui giacevano inutilizzati attrezzi meccanici e pezzi di ricambio puzzolenti di polvere e di grasso. Li lasciò perdere, percorrendo in fretta tutta la pensilina. Stava per darsi per vinta, quando arrivata in fondo, sul versante opposto, trovò una porta chiusa. Incuriosita, provò a bussare ma non arrivò alcuna risposta.

«Marie» provò a chiamare. «Marie, sei lì dentro?»

Niente.

Stringendo le labbra, Rebecca, fece per ritornare da Alex, decisa a trovare un modo per aprire quella porta. Peccato che in quel momento, dall'altra parte del ponte, Faloe e Lucano avessero appena varcato la botola, diretti esattamente dove si trovava lei.

Un vero colpo di fortuna.

Rebecca masticò un'imprecazione, incerta su cosa fare. La prima porta utile, era almeno dieci metri più avanti.

Si mosse, senza mai perdere d'occhio il profilo dei due, che ora avanzavano praticamente affiancandola, dall'altra parte del ponte. Parlavano fittamente, e non sembravano averla ancora notata. Lei camminò con le spalle dritte, cercando di sembrare disinvolta, il volto e i capelli nascosti dal cappello militare calato fin sopra gli occhi.

Rebecca contava i passi che la separavano dalla porta. Faloe e Lucano svoltarono l'angolo proprio in quel momento. Ora erano a meno di venti metri da lei. Con un sospiro, si avvicinò al ripostiglio, girando la maniglia.

Oh, no...

Perché non si apriva?

«... e per quanto sia, non credo che ti faccia bene mangiare tutta quella robaccia. Finirai col rovinarti la salute...»

Apriti, maledizione!

Rebecca agitò la maniglia. Sentì Lucano rispondere qualcosa, che fece ridere Faloe. Ormai, erano dietro di lei.

«Forse hai ragione, ma non riuscirei mai a rinunciare a certi piaceri della vita...»

I passi sul reticolato di metallo risuonarono vicinissimi. Disperata, Rebecca spinse la porta. La maniglia girò e con uno scatto la porta si aprì, facendola quasi cadere all'interno. In tutta fretta, si richiuse la porta alle spalle proprio mentre Faloe vi passava davanti, gettando uno sguardo incuriosito al suo interno. Con il cuore in gola, Rebecca si abbandonò contro la porta, ascoltando i passi dei due farsi sempre più lontani.

«Avevo ragione, allora» mormorò, passandosi una mano sulla fronte. «Marie deve trovarsi in quella stanza».

Calmatasi, fece per socchiudere la porta. Girò la maniglia e tirò, ma la porta non volle aprirsi. Mordendosi le labbra, provò a tirare più forte, ma la porta non voleva cedere.

Oh, no. Oh, no, no, no...

Si aggrappò alla maniglia con entrambe le mani, ma per quanto tirasse, non ottenne risultato. Era chiusa dentro.

«Non puoi farmi questo, maledetta bastarda, non adesso!»

Rebecca tirò la maniglia con tutte le sue forze. La sentiva gemere sotto le sue dita, e sentiva il cigolio della serratura. Con speranza crescente, continuò a tirare.

Con un suono secco, la maniglia si staccò dalla porta. Rebecca, perdendo l'equilibrio, rotolò a terra, andando a sbattere contro la parete, urtando una scaffalatura metallica alle sue spalle che oscillò pericolosamente.

Fece appena in tempo ad alzare gli occhi, per vedere che una cassetta di legno le stava cadendo in testa. La fissò sgomenta, praticamente senza riuscire a muoversi.

Non ebbe nemmeno il tempo di reagire.

 

 

*

 

 

«Prego, Maestà. Da questa parte».

Nadia seguì Atys attraverso un ampio salone, le cui pareti di metallo azzurro erano adorne di sofisticate trame dalle linee intrecciate e multicolore. Posandovi sopra gli occhi, soffocò il proprio stupore dietro un gemito. Era come attraversare un denso intrico di rami aggrovigliati, splendenti del colore dell'arcobaleno, che cambiavano lucentezza e sfumatura a seconda del punto da cui li si osservava.

«Sembra un roseto enorme, è incredibile» mormorò. Atys alzò gli occhi al soffitto, là dove le trame si aggrovigliavano più fittamente tra loro, disegnando figure stilizzate che emergevano fugaci in un continuo riflusso di immagini, le più diverse.

«Sì, è davvero stupefacente» commentò sinceramente ammirato. «Non immaginavo che il nostro popolo potesse aver raggiunto in passato una tale magnificenza».

Uno fitto scalpiccio attirò l'attenzione di Nadia, che abbassò gli occhi sui soldati che attraversavano a gruppi di tre o quattro il salone, in varie direzioni. Sembravano già perfettamente a loro agio, capaci di muoversi in quella immensa nave come se la conoscessero da sempre.

«Sembra che i vostri uomini si siano ambientati molto in fretta» disse, rivolgendosi al Comandante con uno sguardo di sottecchi. Lui sorrise, chinando leggermente il capo.

«Vi ringrazio per averlo notato, Maestà» fece. «In effetti, sono riusciti a tracciare una planimetria essenziale della nave in pochissimo tempo. Devo dire che sono molto soddisfatto di loro. Sono bravi ragazzi».

«Mi stupisce sentirla parlare così» fece lei, sorridendo. «Non credevo che nel suo cuore ci fosse spazio per sentimenti quali l'affetto, o la stima».

Lui aggrondò. «Mi spiace se vi ho spinto a credere questo di me» fece. «Non era mia intenzione».

«Veramente io non so nulla di voi» disse lei, spostando con fare indifferente lo sguardo dal volto di lui a ciò che li circondava. «Tutto quello che so, è quello che ho avuto modo di vedere».

«Ciò che ho fatto, è legato unicamente al dovere che mi ha spinto fino a voi» disse lui, ponendosi a fianco a una porta e cedendole il passaggio. Nadia ringraziò con un veloce cenno del capo. «Ma anche io possiedo dei sentimenti, proprio come tutti gli altri».

«E quali sarebbero?»

Lui sorrise, ma sembrò più che il volto gli si contraesse in una smorfia dolorosa. «È complicato» bofonchiò.

«Provi a spiegarmelo».

Atys sospiro. La guardò intensamente, quindi «sono nato nella famiglia dei Gorall» disse. «La mia è una famiglia tra le più antiche di Atlantide, da generazioni presente nella regione di Bassora. Il nostro blasone affonda di diritto nei secoli».

Nadia tacque, non particolarmente impressionata.

«Rimasi orfano quando ero ancora un bambino. Avrò avuto sì e no tre anni... l'ultimo esponente della mia famiglia. Da allora, sono stato accudito da un uomo, il Comandante Plutarco, ora nella Guardia Reale».

«Un uomo?»

«Un essere umano» fece Atys, schiarendosi la gola. «Un uomo buono».

«Credevo odiasse gli esseri umani».

Atys strinse gli occhi. «Io non l'ho mai detto».

«Ma l'ha fatto capire» ribatté lei. Lui incrociò le mani dietro la schiena.

«Il mio odio non va all'uomo in generale, ma va a quella tipologia di uomo che rappresenta il suo esempio peggiore» disse, facendosi arcigno. «I miei genitori vennero entrambi uccisi da ribelli infiltratisi in casa mia, durante la notte. Io dormivo, non mi accorsi di nulla. Plutarco fu ferito nel tentativo di difendere i miei genitori... purtroppo non ne fu in grado, ma almeno riuscì a metterli in fuga, salvando la mia vita. Da allora si è preso cura di me, istruendomi e facendo di me un soldato. Ciò che sono, lo devo unicamente a lui».

Nadia tacque. «Non lo sapevo» mormorò. «Mi dispiace».

Atys sospirò. «Non vi scusate, non è necessario».

Lei si fece pensierosa. Quindi «la vostra è una storia molto simile a quella del tenente Anuri» azzardò. Si volse a guardarlo. Atys si irrigidì.

«Ve l'ha raccontato lei?» chiese. Nadia disse di sì.

«Con l'unica differenza che, al contrario di me, lei non ha avuto nessuno a proteggerla» mormorò. Per un attimo il suo volto si fece scuro, quindi «purtroppo, storie come la mia e quella di Faloe sono molto frequenti, sul nostro pianeta. La guerra che i ribelli hanno scatenato ha come risultato che ormai non si contano più le persone che hanno perso tutto quello che avevano: casa, famiglia... quando tutto finirà, dovremo occuparci di questa massa di disperati. Non so davvero come faremo a dar loro la speranza per ricominciare».

«Ma perché è scoppiata la guerra?» chiese Nadia. Era una domanda semplice, eppure quando Atys la guardò, le sue pupille guizzarono, come cercassero di fissare qualcosa che continuava a sfuggire.

«Io nacqui che la guerra era già iniziata da anni» disse. «Io...»

Nadia si fece perplessa. Lui si adombrò. Si volse, confuso; poi il suo volto si rasserenò, improvvisamente.

«Ecco, siamo arrivati» disse.

Nadia sollevò gli occhi sul portale che avevano di fronte. Un immenso occhio, racchiuso in un ovale, galleggiava su una mobile coltre di luce azzurra, sotto la cui superficie saettavano bagliori simili a lampi. Affascinata, Nadia allungò la mano, fino a sfiorarne la superficie: immediatamente questa reagì, agitandosi e gorgogliando; alcune protuberanze liquide germogliarono sopra di essa, sollevandosi e spingendosi verso di lei come nel tentativo di raggiungere la sua mano.

«Sembra viva» mormorò, ritraendosi. Atys annuì.

«Lo è davvero».

Nadia abbassò la mano e il portale tornò a farsi completamente liscio. Sotto la superficie lucida, le scariche di elettricità che saettavano improvvise si fecero immediatamente più lente, e quiete. Lei fissò come ipnotizzata le continue trasformazioni che la luce imprimeva a quella materia mobile e misteriosa.

«È qui, vero?» mormorò, timida. «Il Trismegisto».

«Pensiamo di sì» fece Atys, gravemente. Nadia chinò il capo.

«Allora ci siamo».

Atys si scostò di un passo, inchinandosi rispettosamente. «Maestà, vi prego di iniziare le procedure di partenza. Attendiamo tutti con ansia di poter tornare a casa insieme a voi, e di potervi presentare finalmente al vostro popolo in qualità di legittima sovrana».

A quelle parole, Nadia impallidì. Quindi «va bene» esalò. «Farò come volete».

 

 

*

 

 

«Rebecca?»

Ma dove diavolo si è cacciata...

Alex girò la testa a destra e a sinistra, cercando di capire dove poteva nascondersi la sua amica. Aveva immaginato che si fosse rintanata in qualche angolo, quando aveva visto arrivare Faloe e Lucano. Lei stessa si era nascosta dentro al ripostiglio, in attesa: e non appena li aveva visti scendere, per poi scomparire di nuovo lungo il corridoio, era guizzata fuori, alla ricerca di quella pazza testarda che non trovava da nessuna parte.

Niente. Sembrava essersi volatilizzata.

«Oh, beh...»

Con un sospiro di rassegnazione, si issò su per la botola, percorrendo nervosamente la pensilina. Provò ad aprire tutte la porte che incontrava, per poi uscire da ogni stanza sempre più scoraggiata. Senza contare che aveva una gran paura di essere scoperta.

In fin dei conti, era Rebecca la testa calda, quella che sapeva reagire prontamente alle situazioni di pericolo. In caso di difficoltà, Alex non avrebbe saputo che pesci pigliare.

«Cavolo, se ti metto le mani addosso...»

Arrivò davanti a una porta chiusa. Provò a girare la maniglia, ma sembrava bloccata. Aggrondando, Alex si guardò attorno con circospezione, alzando la mano per bussare.

Si bloccò poco prima che le nocche sfiorassero la superficie di metallo. Deglutì, mordendosi le labbra. Era sicura di quello che stava facendo?

Se fosse venuto ad aprire qualcuno, non avrebbe avuto idea di come comportarsi. L'avrebbero sicuramente scoperta, e catturata. Non era una bella prospettiva.

Provò ad avvicinare l'orecchio alla porta. Silenzio. Sembrava che non ci fosse nessuno, all'interno.

«Rebecca?» sussurrò. «Sei lì dentro?»

Nulla.

Alex, drizzò il busto, sbuffando sonoramente.

Ma tu guarda.

Stava per bussare, quando udì un gemito provenire distintamente dall'interno. Si gelò, con la mano a un centimetro dalla porta.

«Rebecca...» mormorò tra i denti. Da dietro la porta arrivò un tramestio confuso. Alex si avvicinò, piegandosi in avanti. Un colpo risuonò improvviso, facendola balzare all'indietro con un gridolino strozzato.

«Alex? Sei tu?»

Alex cominciò a tremare. Non si sentiva più le gambe. Si appoggiò al parapetto, chiudendo gli occhi e tirando un sospiro profondo.

«Al diavolo Rebecca! Ma che ti salta in mente?»

«Alex, sono chiusa dentro» disse l'altra. «Vedi se riesci ad aprire».

Alex si chinò sulla maniglia, provando a girarla. Sembrava andasse a vuoto.

«Niente da fare, non funziona» disse. «Ma che hai fatto?»

«Credo di averla rotta»

«Cosa?»

Si passò una mano tra i capelli. Quindi «ascolta, vado a cercare Jean. Lui riuscirà a combinare qualcosa».

«Alex, fai presto. Credo di aver trovato Marie».

Alex si accigliò. «Sei sicura?»

La voce di Rebecca si fece più sottile. «Penso sia nella stanza a fianco. Vi ho visto entrare quei due, prima di finire bloccata qui dentro».

Alex si volse a guardare. C'era un'altra porta, in effetti, poco più avanti. Provò ad avvicinarsi. Non giungeva nessun rumore dall'interno e la maniglia non girava. Tornò indietro.

«Sembra difficile riuscire a entrare» mormorò. «Comunque troveremo il modo. Vado a cercare Jean. Tu non fare stupidaggini».

«Fai presto» la redarguì Rebecca.

Fai presto, una parola, pensò lei, allontanandosi silenziosa. Tutto quello esulava dalle sue capacità. Il massimo con cui aveva avuto a che fare, nella sua vita, era stato organizzare le lezioni di Jean, e occuparsi dei seminari da tenere durante i suoi corsi. Ma per quanto fosse, gestire una classe di centosessanta studenti non era minimamente paragonabile all'aggirarsi sola in una astronave aliena, con la costante minaccia di essere scoperta e catturata.

«Se esco viva da tutto questo, giuro che non metto più piede fuori casa per un mese» borbottò, mentre si calava giù per la botola.

No, per un anno!

Ripercorse i corridoi all'indietro, rischiando più volte di perdersi. Dovette ritornare sui suoi passi più di una volta, e ciò non faceva che acuire la sua paura. Fortunatamente, non incontrò nessuno. Sembrava che le navi fossero state abbandonate dal personale.

Fu con grande sforzo che riuscì a imboccare la strada giusta verso l'uscita. Una volta fuori, respirò profondamente, come se fino a quel momento fosse stata in apnea. Fu allora che li vide. Jean e John, che si allontanavano insieme.

«Ma dove...»

Senza pensarci, si mise a seguirli.

 

 

*

 

 

Poco prima, mentre Alex e Rebecca si facevano strada all'interno del vettore su cui erano saliti Faloe e Lucano, Jean si era introdotto su quello in cui si trovava Nadia. Ne aveva percorso i lunghi corridoi, luminosi e freddi, sgusciando negli angoli bui quando incontrava qualcuno, girandosi di spalle là dove non aveva modo di nascondersi, cercando di contenere la propria paura mentre si spingeva sempre più in profondità nelle viscere della nave, là dove sperava potesse essere tenuta prigioniera Marie.

Ma non era solo Marie, quella che sperava di rincontrare. Lo sapeva bene.

Era l'irrazionale desiderio di rivedere Nadia, a spingerlo. Non perché volesse fermarla. Era ancora convinto della scelta che aveva fatto. Pensava ancora, come prima, che sarebbe stato meglio per entrambi, se lei se ne fosse andata. Ma poterla rivedere anche solo per un istante, senza che lei lo notasse, senza che ci fosse bisogno di parlare... era questo che lo induceva ad avanzare sempre più all'interno di quella nave, senza curarsi dei pericoli a cui poteva andare incontro.

Passò davanti a diverse stanze vuote, dietro le cui porte aperte le sedie spostate e le scrivanie ingombre rivelavano ancora la presenza di chi le aveva occupate, fino a poco tempo prima. Avanzava senza fermarsi, lanciando occhiate a destra e a sinistra, anche se sapeva che Marie non poteva trovarsi in stanze come quelle. Era il modo in cui l'avevano presa che glielo aveva fatto capire. Non era stata un'operazione condotta alla luce del sole: per qualche ragione, le persone che l'avevano rapita, l'avevano fatto agendo in modo sospetto, quasi volessero farlo di nascosto. Se avessero voluto, avrebbero potuto farlo davanti a tutti, senza problemi. Invece, avevano agito in due soli, portandoli in un luogo isolato dove nessuno poteva vedere quello che avevano intenzione di fare.

Tuttavia, una cosa non era ancora del tutto chiara. Perché lui e i suoi amici fossero ancora vivi.

Quei due avrebbero potuto ucciderli tutti. Nessuno se ne sarebbe probabilmente mai accorto, una volta abbandonata la nave. Invece, avevano preferito non ucciderli, anche se li avevano lasciati in una situazione non certo delle migliori. E questo era davvero strano.

Magari era stata Nadia, a chiedere che Marie venisse rapita? Avrebbe spiegato il motivo per cui lui e gli altri non erano stati uccisi... Jean scacciò con fastidio quel pensiero. Non poteva essere stata una sua idea. Conosceva Nadia. Il solo fatto che avesse potuto pensarla capace di una cosa del genere, lo disgustò.

Passò davanti a una porta chiusa. La aprì, sbirciandoci dentro velocemente; quindi la richiuse, avendola trovata vuota.

In fondo...

Era davvero sicuro di conoscere Nadia? Il fatto che l'avesse pensata capace di far del male a lui e agli altri, dimostrava esattamente il contrario. Non solo non si fidava di lei, ma non riusciva nemmeno a ricordare cosa li legasse così tanto, da spingerlo a mettere tutta la sua vita in discussione al suo minimo cenno. Perché Nadia esercitava su di lui una tale presa? Per quanto si sforzasse, non ricordava nulla di lei e della persona che un tempo aveva conosciuto, che potesse minimamente ritrovare nella Nadia di adesso. Il sentimento che li legava era ancora così forte da farlo vacillare, ma la razionalità con cui pensava abitualmente gli suggeriva che, in realtà, tutto quello non era che una sua illusione. Erano cresciuti in modo molto diverso, allontanandosi progressivamente dall'immagine che custodivano l'uno dell'altra: lei era diventata una persona sicura, capace, inserita in un mondo che Jean faceva fatica persino a comprendere. Alla fine, lui non era che un semplice professore universitario, un topo di biblioteca. Non conosceva lo sfavillio dei cristalli che adornano le sale da ballo, né le sue mani avevano mai percorso la schiena di una donna il cui lungo strascico di lamé volteggiasse attorno alle sue caviglie sottili, mentre venivano trascinati dalle note di un valzer sotto gli occhi affascinati di nobili signori in abito scuro, e di dame che nascondevano i loro leziosi sorrisi dietro svolazzanti ventagli di seta.

Represse un sorriso. Nemmeno sforzandosi, sarebbe mai riuscito a calarsi in una parte del genere. Non era un principe azzurro. Decisamente, per quel ruolo era molto più adatto uno come Jonathan.

Parli del diavolo...

John uscì da una stanza poco più avanti, imboccando il corridoio senza nemmeno voltarsi. Jean se lo vide passare davanti a pochi metri di distanza. Camminava veloce, le mani in tasca, il capo chino, come fosse immerso in chissà quali pensieri.

Restò per un istante ad ammirane l'andatura sicura. In un certo senso lo invidiava. Si muoveva come se non conoscesse il significato della parola dubbio. Ogni cosa che quell'uomo faceva aveva la forza di risultare assolutamente naturale, per quanto in realtà potesse essere difficile, o faticosa. Si muoveva senza far rumore, camminava nel fango senza sporcarsi, i suoi abiti, anche se sgualciti, gli conferivano comunque un fascino irresistibile. Jean si chiese se esisteva qualcosa, in quell'uomo, che potesse anche solo vagamente assomigliare a un difetto, o essere ricondotto a una caratteristica di scarso pregio.

Decise di seguirlo. Qualcosa, nel suo volto, lo aveva incuriosito. Come una nota di preoccupazione.

Lo vide imboccare a passo svelto un corridoio deserto, per poi percorrerlo fino in fondo. Jean aspettò che scomparisse dietro l'angolo, quindi si incamminò, tranquillo, evitando di far troppo rumore. Quando arrivò in prossimità del bivio, si sporse a guardare. John sostava davanti a una porta, che si aprì silenziosamente, lasciandolo entrare.

Camminando in punta di piedi, Jean si avvicinò. John non si era premurato di richiudere la porta, dietro di sé. Forse era sicuro che nessuno l'avrebbe visto.

Eppure, avrebbe dovuto preoccuparsi. Soprattutto, quando tirò fuori dalla tasca un aggeggio che svitò, per poi posarlo sul tavolo davanti a sé. Jean si avvicinò all'entrata, spalmandosi contro la parete.

Che diavolo era quel coso?

All'improvviso, la luce parve oscurarsi. Jean sussultò. La stanza in cui si trovava John venne come fagocitata all'interno di un muro di tenebra, da cui spuntarono dodici luci azzurrognole, disposte a semicerchio attorno a lui. John, fermo nel centro esatto, aspettava pazientemente, senza fare nulla.

«Agente Fisher, che piacere. Quali sono le novità?»

Jean trasalì. Una voce profonda e roca era sgorgata fuori da quella oscurità compatta, risuonando come se ci si trovasse all'interno di uno spazio enormemente ampio. Si volse, come per controllare di non essere stato risucchiato senza che se ne accorgesse in un posto completamente diverso. Alle sue spalle, c'era ancora il semplice corridoio di metallo della nave.

«La ragazza ha accettato di attivare il Trismegisto» disse John, con disinvoltura. «Stiamo per partire alla volta di Atlantide».

«Questo è un bene» rispose la voce. «Purtroppo, non siamo ancora riusciti a ritrovare le esatte coordinate del punto di impatto del nucleo del Noè Rosso, in cui erano contenute le spoglie di Adam. Ma è questione di poco conto. Presto riusciremo a individuarlo».

«Come farò a sapere quando dovrà essere attivata l'Enneade?» chiese John. La voce risuonò ancora una volta. Fu come se, al suo suono, le deboli luci che brillavano nell'oscurità come tanti fuochi fatui si fossero appannate improvvisamente.

«Saremo noi a comunicarle il momento. È indispensabile che tutto avvenga con la più estrema coordinazione. Se qualcosa dovesse fallire, sarebbe un disastro. É sicuro che la donna sia disposta a compiere il necessario?»

John sorrise. «Farà tutto ciò che le dirò di fare» disse. «Il Consiglio sospetta qualcosa?»

«Nulla che non volevamo sospettasse» confermò la voce. «Per il momento non possiedono una vera leadership. L'uomo di De Molay è ancora vivo, ma non crediamo possa costituire un problema reale».

«Potrebbe sempre interferire» suggerì John. «Conosco Churchill di fama. È un uomo da non sottovalutare».

«Risolveremo il problema».

John annuì. «Avete altri ordini?» chiese.

«Sì» ridacchiò la voce. «Si occupi della persona che sta spiando questa conversazione».

La luce ritornò improvvisamente, lasciando Jean smarrito a guardarsi intorno. John raccolse l'oggetto a forma di cilindro che aveva posato sul tavolo, quindi si volse in direzione di Jean, fissandolo con un sorriso bieco.

«Ciao Jean» fece, estraendo una pistola da sotto la giacca e puntandogliela addosso con aria divertita. «Che sorpresa. Sono davvero contento che tu sia qui».

 

 

*

 

 

I motori continuavano a funzionare al minimo, trasmettendo il loro sordo ronzio a tutta la nave. Hanson e Sanson avevano già abbandonato la stiva, e ora si aggiravano per i corridoi deserti, diretti alla cabina di pilotaggio.

«Siamo stati fortunati» commentò Hanson, volgendo gli occhi attorno a sé «sembra che non ci sia nessuno...»

«Eho!»

«Ma perché non impari a stare zitto, una buona volta?» ringhiò Sanson tra i denti. Hanson arrossì, per poi impallidire rapidamente alla vista di un ufficiale sbucato chissà da dove alle loro spalle, che avanzava a passo svelto verso di loro.

«Hémeis duòin» fece quello, non appena si fu avvicinato. «Kré iskùrein ton bàron, tàkista».

Quell'uomo parlò così velocemente che Hanson e Sanson non riuscirono a scambiarsi più che un'occhiata desolata. Lui li fissò entrambi severamente; quindi tuonò qualcosa che i due ovviamente continuarono a non capire, agitando il braccio in direzione di un punto non ben definito, alle sue spalle.

«Ma che diavolo vuole?» sibilò Hanson, tra i denti. Sanson biascicò qualcosa che suonò vagamente come «non ci capisco un cazzo» mentre si sforzava di tenere le labbra piegate in un conveniente sorriso di circostanza.

«Kinouestze!» ruggì l'ufficiale, piantandosi a gambe larghe davanti a loro. Sanson fece una smorfia, torcendo gli occhi verso il cugino. Con un veloce cenno di intesa, entrambi si volsero a sorridere all'uomo, un istante prima di assestargli un pugno sul volto, contemporaneamente.

L'uomo indietreggiò, portandosi le mani alla faccia. Ancor prima di rendersi conto di quello che stava accadendo, Sanson l'aveva afferrato per la collottola, facendogli sbattere la fronte contro la parete.

«Sogni d'oro» sibilò, sorreggendone il corpo mentre l'uomo si accasciava a terra privo di sensi. Hanson ridacchiò.

«È stato divertente» fece, massaggiandosi il pugno. «Sai, ti confesso che avevo dimenticato quanto potesse essere eccitante, fare di queste cose».

«Almeno finché non ti scoprono a farle» fece Sanson, issandosi il corpo esanime dell'ufficiale sulle spalle, dopo avergli sfilato la pistola dalla fondina. «Ora dobbiamo trovare il modo di liberarci di questo tipo».

«Perché non lo leghiamo e non lo buttiamo in una delle casse della stiva?» suggerì Hanson. «Chi vuoi che lo trovi?»

Sanson lanciò al cugino un'occhiata divertita.

«Diabolico» fece. «Mi piace».

Tornarono velocemente sui loro passi, finché non raggiunsero la stiva. Era pieno di casse e di materiale da imballaggio. Fu uno scherzo legare l'ufficiale e imbavagliarlo. Sanson scelse la prima cassa che gli capitò, ve lo buttò dentro ancora svenuto e poi richiuse il coperchio, sigillandolo con il lucchetto.

«Sbattiamolo fuori» disse al cugino, mostrando i denti in un ghigno.

Spinsero la cassa fino alla rampa, quindi le diedero una bella spinta. La cassa ruzzolò fino a terra, andando a finire accanto alle altre che erano state accumulate lì a fianco con un gran fracasso.

«Così dovrebbe andare» fece Sanson, battendo soddisfatto la mano sulla spalla massiccia di Hanson. «Ora torniamo indietro a finire quello che avevamo cominciato».

 

Il pilota aveva appena terminato l'usuale controllo dei motori. Stava per spegnere tutto, quando due soldati entrarono inaspettatamente nella cabina. Lui si stirò, lanciando loro un'occhiata annoiata.

«Tì bùlestze?» chiese con un sonoro sbadiglio. Il soldato estrasse una pistola dalla fondina puntandogliela dritto in faccia. L'uomo, con le mani ancora alte dietro la testa, impallidì puntando gli occhi sulla canna, e lo sbadiglio gli si congelò in volto in una smorfia di incredulità.

«Ora prenderemo il comando di questo coso» fece Sanson con un ghigno, mentre Hanson prendeva velocemente posto accanto al pilota, con ostentata disinvoltura. «E tu, prova un po' a fermarci».



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Capitolo 29
*** 25 parte quarta ***


«Muoviti».

John agitò la canna della pistola, in direzione dell'uscita. Jean gli lanciò un'occhiata torva, prima di incamminarsi davanti a lui.

«Abbassa quelle mani. Non vorrai che ci scoprano?»

«Se anche fosse?» fece Jean, con una smorfia. «Di che hai paura?»

«Meglio non attirare l'attenzione. Non vorrei che Nadia venisse a sapere che sei qui. Rischieresti di rovinare i miei piani».

«Immagino...»

Jean stava per uscire lungo la rampa della stiva, quando John lo fermò, trattenendolo per un braccio ma senza farlo voltare. Si avvicinò alle sue spalle, premendogli la canna della pistola contro le reni.

«Ti avverto, bamboccio. Prova a fare il furbo, e te ne pentirai. Non ho nulla da perdere, ma tutto da guadagnare; quindi non esiterò a spararti, se sarà necessario».

«Non faccio fatica a crederlo» ghignò Jean, fissando dritto davanti a sé. John rise, battendogli leggermente la canna della pistola contro la nuca.

«Credimi, mi farebbe davvero piacere. Ma vista la situazione, ti offro la possibilità di sopravvivere almeno per un po'. Che ne dici? Affare fatto?»

«Quanto sei generoso».

John lo sospinse in avanti con una risata, quindi presero a scendere lungo la rampa. Continuava a tenere Jean sotto tiro, con la pistola nascosta sotto la giacca che portava arrotolata intorno al braccio.

«Vai a destra».

Jean alzò gli occhi. C'era un montacarichi, poco più avanti. Una volta che vi fu davanti, John allungò il braccio, premendo il pulsante di chiamata.

«Sai dove andiamo?» disse. Jean guardò in alto. La luce che si rifletteva sulla volta della caverna, decine di metri più su, arrivava a lambire leggermente la cavità interna del Noah, splendendo lontana come fosse quasi irraggiungibile.

«Credo di poterlo immaginare».

Le porte del montacarichi si aprirono silenziose. John diede una spinta brusca a Jean, che salì senza fiatare. Una volta che entrambi furono entrati, John premette il pulsante di risalita. Attraverso la fessura delle porte che si richiudevano, Jean lanciò un ultimo sguardo ai numerosi soldati che percorrevano tranquilli l'hangar del Noah, indifferenti a quello che stava accadendo davanti ai loro occhi.

Inutile, pensò. Anche se avesse potuto attirare la loro attenzione, non sarebbe cambiato nulla. Non c'erano amici pronti ad aiutarlo, tra quelle persone.

«Allora, Jean» fece Jonathan con fare sardonico, mentre lo fissava appoggiato alla parete del montacarichi, con le gambe incrociate. «Non vuoi dirmi come hai fatto a seguirci fin qui?»

«Te lo direi volentieri, ma visto il bastardo che sei, credo che mi terrò il segreto».

«Fai il gradasso» rise John. «Sai, mi fai persino tenerezza. Capisco perché Nadia si è innamorata di te. Siete entrambi così dannatamente romantici».

Jean impallidì.

«Lei è ancora innamorata di te, lo sai?» fece John, assolutamente tranquillo. «O meglio, crede di esserlo. Intanto, però, viene a letto con me. Credo che lo faccia per dimenticarti, in un certo senso».

Jean strinse i denti, irrigidendosi.

«Devo dire che la cosa non mi dispiace» continuò John. «Sai, la nostra Regina ha un po' l'animo della puttana. È una che sa cosa vuol dire divertirsi, basta solo darle la spinta giusta. E tu le hai dato proprio quella necessaria a finire nel mio letto. Il resto è venuto da sé, io non ho dovuto insegnarle proprio nulla...»

«Figlio...»

Jonathan alzò l'impugnatura della pistola, colpendo Jean alla fronte un attimo prima che questi riuscisse a mettergli le mani al collo. Con un gemito strozzato, Jean indietreggiò, andando a sbattere contro la parete.

«Non fare l'eroe» sibilò John, alzandogli il mento con la punta della sua arma. «La prossima volta ti spappolo la faccia».

Jean si sollevò lentamente, fissandolo in volto con odio profondo.

«Credevo che la amassi» fece. «Pensavo che fossi sincero con lei. Non ti accorgi di quanto è debole? Se dovesse scoprire...»

«Che cosa, che me la scopo perché mi piace?» rise John. «Falla finita. È una donna adulta, ed è capace di fare le sue scelte. Il bello è che io non ho dovuto fare nulla. È arrivata da sola a trarre tutte le conclusioni, a scegliere di partire, e...»

John si interruppe. Aveva notato un'ombra passare veloce negli occhi di Jean. Lo studiò intensamente per qualche istante. Quando lo vide impallidire, scoppiò a ridere.

«Mio dio, non ci credo. Sei stato tu. Tu l'hai convinta a partire».

Jean distolse lo sguardo.

«Pazzesco!» fece John, allargando le braccia. «Devo ammettere che sei un vero genio!»

Il montacarichi si arrestò e le porte si aprirono. Ancora sghignazzante, John fece cenno a Jean di uscire, quindi lo seguì.

«Fermati, qui va bene» gli fece, dopo che si furono allontanati di qualche decina di metri. Jean si voltò. Intorno a loro c'erano solo gli edifici diroccati che si reggevano sulle spoglie addormentate del Noah, penzolando l'uno contro l'altro come a sorreggersi a vicenda.

«Un bel luogo per morire» fece John. «Immerso nella storia».

«Un luogo come un altro» rispose Jean. «La gente muore dappertutto».

«Non qui» fece John, sospirando mentre si guardava attorno. «Qui sopravvive ancora il ricordo delle anime grandi che hanno plasmato anticamente la vita. Questo è ciò che resta della civiltà che Atlantide ha impiantato sulla Terra. Qui le anime dei miei antenati sopravvivono ancora».

«I tuoi antenati?» fece Jean, stringendo gli occhi. John sogghignò.

«Anche io discendo da una stirpe Atlantidea, caro il mio Jean» disse. «Anche se per te può risultare incomprensibile».

«Credevo che Nadia fosse l'ultima rimasta».

«Sbagliato. Siamo in molti, in tutto il mondo. Ma su una cosa, hai ragione. Nadia non faceva parte di noi, fino a poco tempo fa. Non sapevamo nulla della sua esistenza, così come lei e la sua famiglia non sapevano nulla di noi. Per questo, è cresciuta sola».

«È cresciuta sola per colpa di gente come te, e come i tuoi amici» fece Jean, con disprezzo. «Gente che preferisce agire nell'ombra, per perseguire i propri scopi. E non importa se ciò che volete raggiungere, lo ottenete sulla pelle della povera gente».

«L'avevo detto che sei un vero romantico» fece John, scrollando le spalle. «Sai, il mondo avrebbe davvero bisogno di più uomini come te, così sarebbe molto più facile per quelli come me arrivare al potere».

Jean lo fissò con astio. Quindi fece qualcosa che non aveva mai fatto in vita sua. Drizzò il busto e sputò per terra, accanto ai suoi piedi. John lo fissò, con aria di sfida.

«Tu non vali niente» mormorò Jean. «E mi fai schifo».

John sollevò la canna della pistola.

«Ti saluto, professore».

«No!»

Sorpreso, John si volse all'improvviso. Nessuno di loro si era accorto che una volta saliti, il montacarichi era stato richiamato. Nessuno si era accorto che qualcuno l'aveva usato per risalire, così come nessuno si era accorto che le porte si erano di nuovo aperte, lasciando uscire qualcuno.

Ci misero un attimo a mettere a fuoco di chi si trattava. Jean, coperto dal corpo di Jonathan, si dovette sporgere. John non si aspettava una cosa del genere. Nel voltarsi, l'indice premette involontariamente il grilletto. Il cane scattò, ricadendo contro il tamburo con un movimento che sembrò non finire mai. In realtà accadde tutto in un meno di un secondo. Quando lui riaprì gli occhi, l'eco dello sparo si era già dissolto.

«Alex!»

Jean si lanciò su di lei, che lo fissava con lo sguardo spento, la mano imbrattata di sangue tesa in avanti, con incredulità. John indietreggiò di un passo, sbattendo le palpebre.

«Io non volevo...» farfugliò. «Mi dispiace...»

«Alex, no...»

Jean si gettò su di lei, facendola distendere delicatamente al suolo. Era pallida, e sudava. Aveva gli occhi spalancati e pieni di paura.

«Jean...» mormorava, muovendo instancabilmente la mano a cercare le sue. Deglutiva faticosamente, aprendo e chiudendo gli occhi.

Jean le tamponò la ferita all'addome. Il sangue sgorgava scuro e denso, ma lento. Probabilmente, la pallottola le aveva perforato il fegato. Ecco perché era ancora così lucida. Se non faceva qualcosa al più presto, le sarebbe toccata una morte lenta, e dolorosa.

«Non restare lì, aiutaci!» fece Jean, guardando John disperatamente. Lui restò immobile a fissarli, gli occhi sbarrati, la bocca spalancata in un gesto di muto stupore.

«Io...»

«Jean, ho paura».

Jean le strinse la mano. Con la coda dell'occhio, intravide John che fuggiva verso il montacarichi.

«Non puoi lasciarci qui!» gridò Jean. «Mi hai sentito?»

John premette furiosamente il pulsante, finché le porte non si richiusero. Jean fece per corrergli dietro, ma Alex gli strinse la mano, gemendo.

«Non lasciarmi, non lasciarmi...»

Lui si chinò su di lei, sollevandole il volto e poggiandoselo sulle ginocchia.

«Sono qui» disse, accarezzandole il viso spento e tergendosi le lacrime con il dorso della mano. «Stai tranquilla, non andrò da nessuna parte».

«Sto per morire?» fece lei. E le scappò un singhiozzo. Jean represse i suoi. Quindi le sorrise.

«Ti porterò fuori di qui. Non morirai, te lo prometto».

«Tu mantieni sempre le promesse» rise lei, debolmente. Jean strinse i denti. Annuì, pregando in silenzio, dentro di sé.

Pregò che quella non dovesse essere la prima volta in cui aveva seriamente mentito a qualcuno.

 

 

*

 

 

Una brezza sottile le risalì le membra, facendola rabbrividire. Nadia aprì gli occhi. Stupita, si guardò attorno, lasciando che lo sguardo si spingesse lungo il muretto di cinta ornato di giacinti ed ibiscus dalle sfumature violacee, e lungo il prato tagliato di fresco, dove qua e là spuntavano piccoli ciuffetti di margherite selvatiche. Le frasche sopra la sua testa ondeggiarono al vento, e le foglie frusciarono allegre, risuonando come una risata nella calda calura estiva.

Sorrise. Non ricordava come fosse finita ancora una volta in quel luogo. Tutto ciò che sapeva, era che una volta entrata nel santuario del Trismegisto, e avvicinate le mani alla grande pietra che sorgeva davanti a lei, una luce immensa l'aveva avvolta. Era stato come addormentarsi tra le braccia di qualcuno, e sentire il proprio respiro farsi regolare, sottile. Fino a perdere la consapevolezza di tutte le cose inutili che circondano la vita, per abbandonarsi a un sonno ristoratore.

Il vento le spirò tra i capelli, portandole un ciuffo davanti al volto. Lei lo scostò; e quando riaprì gli occhi vide quello che sapeva essere il suo bambino, chino sul prato. Accanto a lui, un uomo le dava le spalle.

Nadia si sollevò, inquieta. Fissò il profilo di quell'uomo, e sentì l'improvvisa urgenza di avvicinarglisi. Voleva sapere chi era colui che giocava con suo figlio, che lo faceva ridere. Si alzò, percorrendo scalza il sottile tappeto erboso che li divideva. Era piacevole sentire sotto i piedi accaldati la fresca carezza dell'erba. Si avvicinò, finché non fu a un passo da loro. Socchiuse gli occhi.

Perché non riusciva a vedere il volto di quell'uomo? Tutta la sua testa era come avvolta da un'ombra ondeggiante...

Suo figlio si volse, alzando gli occhi verso di lei. Sorrise.

 

«Sapevo che ti avrei trovato ancora qui».

 

Nadia si riscosse e una luce bianca, abbagliante, cancellò ogni cosa attorno a lei. Quando si volse, Gargoyle le lanciò uno sguardo di commiserazione.

«Proprio non imparerai mai, vero Nadia?» rise, scuotendo il capo.

«Non è colpa mia, io...»

Trasalì. Perché sentiva il bisogno di giustificarsi? Dopotutto...

«...dopotutto, sei tu a dover scegliere. Non è così?»

Nadia impallidì. «Come hai fatto a sapere quello che avrei pensato?» gli chiese. Gargoyle scosse le spalle.

«Ho tirato a indovinare. Sei così scioccamente prevedibile...»

Lui si allontanò di qualche passo. Estrasse la mano destra dalla tasca e tracciò un semicerchio nell'aria, con il palmo. Improvvisamente tutto, dalla casa al prato, a suo figlio che giocava, riapparve davanti a lei; solo che tutto pareva immobile, come congelato nel tempo.

«Cosa hai fatto?» chiese lei, sconcertata. Lui nicchiò.

«Nulla. È ancora tutto come lo vuoi tu. Mi sono solo ritagliato un attimo del tuo tempo, e della tua attenzione. È per questo che sembra che il tempo si sia... fermato».

Nadia strinse le mani tra loro, intrecciando le dita. L'uomo che giocava con suo figlio era ancora là. Avrebbe potuto vederlo, se avesse voluto...

«Non farlo».

Lei si fermò, a un passo dal volto di lui. Si volse, lanciando a Gargoyle uno sguardo supplichevole.

«Perché?» chiese. «Perché non dovrei?»

«Perché poi non saresti più in grado di tornare indietro».

Nadia si tornò a voltare verso l'uomo che stava seduto immobile ai suoi piedi. Un brivido la percorse, e si raddrizzò, indietreggiando di un passo.

«Sarebbe davvero tanto terribile?» mormorò. Gargoyle la raggiunse, mettendosi al suo fianco.

«È questo il potere tremendo che possiedono i sogni» disse. «Fagocitano tutto ciò che li circonda, portandoci a isolarci dalla realtà. Le trame dei sogni si sviluppano come un parassita, una pianta che si avvolge stretta attorno a un'altra, risalendo il suo tronco per raggiungere il cielo, sopra di loro. Solo che, una volta che vi è arrivata, essa ha completamente ricoperto la pianta di cui si è servita per salire, soffocandola».

Nadia rabbrividì.

«Eppure...»

Gargoyle scoppiò a ridere. «Suvvia, Nadia» fece. «Non mi dirai che ci siamo ritrovati per questo, vero? Per assistere al seguito del tuo delirante sogno?»

«Io... non lo so» fece lei, gli occhi accesi da una luce sinistra.

«Sì che lo sai!» sibilò lui, chinandosi sopra di lei e cingendole le spalle con un braccio. «Lo sai eccome. Ecco perché mi hai voluto qui, con te; ed ecco perché mi hai sognato, proprio quando...»

«Non è vero!»

Lei chiuse gli occhi, portandosi le mani al volto e allontanandosi furiosamente, disgustata. Gargoyle ridacchiò, rizzando il busto e infilando le mani in tasca. La fissava attraverso la sua maschera spezzata a metà, il volto scarno atteggiato in una smorfia maligna.

«Puoi continuare a mentire, ma questo non cambierà le cose» mormorò, sogghignando. Lei cadde in ginocchio.

«Perché?» singhiozzò. «Perché?»

«Perché io sono te» fece lui. «Ecco la verità. Io e te, siamo la stessa cosa».

«Tu sei...»

«Un mostro?» latrò lui, ridendo. «Forse. Ma per quanto ti ostini a rifiutarlo, tu sai benissimo che ciò che senti è lo stesso. Sai che i tuoi pensieri da tempo tendono a confondersi con i miei, sai che non riesci più a distinguere il confine tra ciò che ritenevi fossero i tuoi ideali e quello in cui ora realmente credi».

«Sei tu, è solo colpa tua se mi sta succedendo tutto questo!»

«È colpa mia?» fece lui, afferrandola per il mento e costringendola a guardarlo. «Non mentire, sciocca! Perché tu sai che avevo ragione, e questo ti assilla ogni giorno. Sai che, nonostante tutto, sebbene tu non condividessi la mia lotta, quello che ti dissi riguardo alla malvagità dell'uomo e al suo insanabile egoismo era vero. Sai che non ci sarà mai speranza per un mondo in cui non esistano lotte fratricide, battaglie per assicurarsi un po' di quel potere di cui tutti sono così affamati. Sai che solo vincendo gli altri, puoi imporre la tua verità, il tuo obiettivo».

«No, io...»

«Anche tu disprezzi l'uomo, proprio come lo disprezzo io. Anche tu godi nel restare sola, perché sai che nessuno esiste, al mondo, di cui tu possa fidarti. Sai che affidandoti a qualcuno verrai tradita, proprio come è successo con lui, quando più avevi bisogno del suo aiuto».

«Lui non mi ha mai tradita» piagnucolò lei. «Sono stata io ad abbandonarlo».

«Dici così, ma sai che non è vero!» rise Gargoyle. «Sai che lo odi per averti lasciato fare, per non aver capito che doveva combattere la tua tendenza all'isolamento, perché doveva mostrarti lo scopo della vita che avresti voluto avere! Lo sai che ha fallito, ritirandosi nel comodo del suo egoismo, lasciandoti completamente libera, facendoti sprofondare nell'angoscia. Perché tu non vuoi essere libera, non è così? Tu vuoi appartenere a qualcuno, vuoi sentirti importante, vuoi che gli altri ti amino e ti apprezzino, perché sei sempre stata sola...»

«Loro non capiscono...»

«Sì, non capiscono, non sanno cosa significa. Ma tu sì. Allora smettila di opporti. Accetta quello che sei. Tu puoi cambiare le cose, tu sei la Regina di Atlantide. Tu puoi riportare l'universo nelle mani dei suoi signori e padroni!» esalò lui. «Con te, tutto ritornerà come prima. Tutto sarà esattamente come deve essere».

Come deve essere...

Nadia apri gli occhi. Tremava. Ma non perché avesse paura. Tremava per un'emozione violenta e improvvisa che la scuoteva nell'intimo, eccitandola segretamente.

«Posso avere anche questo?» chiese, alzando gli occhi sul quadretto che aveva davanti. Gargoyle sorrise. Si avvicinò all'uomo che sedeva accanto a lei e gli passò la mano sul volto, cancellando l'ombra che lo copriva. Nadia lo vide, e il suo sguardo vacillò per la gioia.

«Puoi avere tutto. Ma una volta avuto questo, dovrai consegnare a me ciò che resta di te stessa» disse. «Ti senti pronta?»

Lei si avvicinò a quell'uomo, spostandosi sulle ginocchia. Portò le mani al suo volto e si chinò a baciarlo. Quindi alzò gli occhi su Gargoyle.

«Niente di ciò che resta è davvero importante» gli disse, commossa. Al che, lui sorrise, tendendole la mano. Nadia guardò prima lui, poi la sua mano. Quindi, gli tese la propria.

«Nulla sarà più come prima» le sussurrò lui, chinandosi sul suo volto.

E in un solo attimo, fu tutto.

 

 

*

 

 

«Ma che diavolo succede?»

Tutta la nave prese a tremare improvvisamente, come scossa da un violentissimo terremoto. Sanson alzò gli occhi sul volto del pilota; e non appena vi lesse lo stesso sconcerto che animava anche lui, si sentì gelare il sangue.

«Tà Merkaba» esclamò il pilota. «Tà Merk....»

«E stà un po' zitto, coglione! Ho capito!» ringhiò Sanson, afferrandolo per il bavero della giacca. Il soldato sbarrò gli occhi, guardando fuori dal finestrino. Ormai sul ponte non c'era più nessuno. Tutti si erano ritirati nelle parti più interne del Noah.

«Vedi di far partire questo coso, muoviti!» gli gridò Sanson. Il pilota scosse il capo.

«Non te lo ripeterò» fece lui, puntandogli dritto in faccia la pistola. «Scegli: o muori adesso, o ci aiuti ad andarcene. In un modo o nell'altro, lascerai comunque questa astronave».

«Sanson, non sono riuscito a trovare Rebecca e gli altri» fece Hanson, spuntando tutto trafelato alle sue spalle. «Non sono ancora saliti nella stiva».

«Dannazione!»

Qualcosa echeggiò rumorosamente sopra di loro, aumentando il frastuono che già si levava tutt'intorno, assordante. Alzarono gli occhi, il volto appiccicato al vetro. Molto più in alto, sopra le loro teste, il Noah si stava richiudendo, pronto per la partenza.

«Cristo!» mormorò Sanson. «Dobbiamo andarcene!»

«Cosa?» fece Hanson. «E gli altri?»

«Non possiamo... ehi!»

Sanson indicò il montacarichi, che si aprì proprio in quel momento. Jonathan si precipitò fuori dalle porte ancora socchiuse, caracollando verso l'estremità opposta del ponte.

«Tienilo a bada, io vado da lui» disse, passando ad Hanson la pistola. Quello la prese, puntandola con un sorriso contro il pilota.

Sanson si affacciò dalla stiva proprio mentre John vi passava davanti. Ma quando lo vide, invece che fermarsi, quello accelerò il passo.

«Ehi, fermati!»

Sanson gli corse appresso, rischiando più volte di perdere l'equilibrio a causa delle continue scosse che facevano letteralmente sobbalzare il suolo. Non appena fu a pochi passi da John, gli si gettò addosso, facendolo rovinare a terra.

«Lasciami!» si dibatté lui. Sanson lo teneva, senza capire da dove gli venisse quella sua furia quasi isterica.

«Calmati, voglio solo...»

Scattò in piedi, alzando le mani. Sconvolto, John gli puntava contro una pistola.

«Ehi, amico, diamoci una calmata» disse Sanson, scandendo bene le parole. «Non voglio farti del male».

«Devi lasciarmi andare, capito?» sibilò John, rabbioso, mentre si alzava in piedi. Sanson annuì, senza abbassare gli occhi dalla canna della pistola.

«Volevo solo sapere se hai visto Jean e gli altri... tutto qua...»

A quelle parole, John impallidì.

«Sono di sopra» farfugliò. «Sì... non è stata colpa mia. Io non volevo. Si sono messi in mezzo...»

Sanson strinse gli occhi. «Ma che diavolo stai blaterando?»

John rise, un riso nervoso, e freddo. «Non me ne frega. Non me ne frega niente. Andate al diavolo» fece. Quindi si allontanò, indietreggiando lentamente. La terra tremò ancora e lui incespicò. Per un attimo il suo volto sudato impallidì ancora di più, e un lampo di sconcerto gli attraversò gli occhi. Ma subito riacquistò l'equilibrio; e alla fine, si allontanò senza ulteriori problemi. Sanson restò a fissarlo finché non lo vide sparire dietro una porta. Solo allora si rilassò, abbassando le mani.

«Ma porca...»

Si volse, ritornando di corsa sul vettore. Richiuse il portellone della stiva, quindi si precipitò in cabina, dove Hanson teneva ancora sotto controllo il pilota, sempre più pallido.

«Dobbiamo andarcene» fece, con il fiato mozzo. «Sono tutti di sopra».

«Di sopra?» fece Hanson. «Cosa cazzo vuol dire, di sopra?»

«Vuol dire di sopra, là!»

Sanson indicò vagamente un punto sopra le loro teste. Hanson sbirciò fuori dal finestrino, là dove il Noah si stava richiudendo. E sbiancò.

«Muoviti!» fece, dando uno spintone al pilota. «Fai partire questo coso, presto!»

Il pilota li guardò, scuotendo il capo. Non capiva nulla di quello che dicevano. Spazientito, Hanson afferrò la cloche, e indicò in alto.

«Fai salire questo affare oltre quel buco» disse, agitando la pistola «o ti infilo questa nel tuo!»

Quello il soldato parve capirlo. Senza farselo ripetere, afferrò la cloche con una mano, mentre con l'altra spinse i motori al massimo. Le turbine presero ad accelerare sempre più e il rumore si fece insopportabile.

Il pilota disse qualcosa, che venne soffocato dal rombo dei motori. Hanson scosse la testa. Il soldato si guardò attorno, poi gli indicò qualcosa.

«Che succede?» fece Sanson, chinandosi sul cugino. Questi studiava con sguardo teso la plancia dei comandi, passando un dito su alcuni pulsanti mentre si ripeteva qualcosa a fior di labbra.

«Ok!» disse, alzando il pollice verso il pilota. «Credo di aver capito come funziona».

Il pilota gli rivolse uno sguardo perplesso, ma alla fine annuì. Hanson azionò alcuni pulsanti e i motori si spostarono sotto la fusoliera. Il pilota sembrò sollevato. Strinse le labbra e diede potenza. La nave cominciò a sollevarsi.

«Presto!» mormorò Sanson, a denti stretti. «Si sta per chiudere!»

La nave acquistò velocità, risalendo sempre più rapidamente lungo il condotto. Il tetto del Noah era quasi chiuso, quando vi si avvicinarono. Strinsero i denti, mentre le enormi cataratte di metallo sfilavano al loro fianco, avvicinandosi a stringerli come in una morsa gigantesca. La nave urtò contro di esse, scricchiolando, e uno sfolgorio di scintille schizzò tutto intorno alla fusoliera. Teso, con gli occhi sbarrati, il pilota aumentò la potenza. La nave ebbe un sussulto, quindi schizzò fuori dalla fessura, appena prima che questa si serrasse definitivamente sotto i loro piedi.

 

 

*

 

 

Con orrore, Jean si rese conto che John aveva sabotato il congegno di risalita. Non potevano fuggire da lì usando il montacarichi. L'unica soluzione era andarsene lungo la scalinata di pietra.

Si volse a guardare Alex, distesa al suolo. Era inutile nasconderselo. Non avevano molte possibilità. Soprattutto ora che il Noah aveva cominciato a muoversi.

Stringendo i denti, si precipitò su di lei, che gli cercò subito la mano.

«Cosa facciamo?» mormorò, tremando. Jean le strinse la mano tra le sue.

«Dobbiamo cercare un posto in cui metterci al riparo» disse, cercando di mostrarsi il più possibile tranquillo. «Il Noah sta partendo, e presto qui crollerà tutto. L'unica cosa che possiamo fare, è tentare di risalire lungo la scalinata, laggiù, e metterci in salvo da qualche parte».

Alex volse la testa. Non appena vide la scalinata che si levava per più di cento metri lungo le profondità della roccia, chiuse gli occhi, sconfitta.

«Jean...».

«Ce la fai a camminare?» le chiese lui. Non voleva darle il tempo di abbattersi. Doveva preservare ogni sua possibile speranza. Lei lo fissò. E vedendo la sua determinazione, sorrise, annuendo debolmente.

«Aiutami».

Jean la aiutò a sollevarsi. Con una smorfia, lei tentò di mettersi in piedi, ma al primo passo si accasciò; e se non fosse stato per lui, che la sorreggeva, sarebbe caduta malamente al suolo.

«Non so se ce la faccio» disse, pallida in volto. Jean si strinse le labbra.

«Ti porto io, vieni».

Si chinò, lasciando che lei gli montasse sulla schiena. Lui le passò le mani dietro le ginocchia, issandosela sulle spalle. Quindi prese a muoversi il più velocemente possibile verso la scalinata.

Si rese subito conto che non sarebbe stata una passeggiata. I gradini erano incrostati di fango e di marciume, cosa che li rendeva estremamente scivolosi. Alcuni poi, erano sbeccati e corrosi. Ma non aveva tempo per questo. Doveva metterla in salvo, sperando che riuscisse a resistere ancora a lungo.

«Mi dispiace» mormorò lei, stringendogli le braccia al collo. Lui la sentiva sempre più stanca. La voce le usciva piatta e lontana, e la sua presa si faceva sempre più debole, man mano che salivano. Jean lanciò uno sguardo verso il basso. In tutto, non avevano percorso che una ventina di metri.

«Non ti preoccupare» fece, allegro. «Tu cerca solo di tenere duro, va bene?»

«Va bene...»

Jean saliva i gradini senza ascoltare né la fatica né il dolore che gli lanciavano i suoi muscoli indolenziti. Si fermò solo per un attimo, per issarsi meglio Alex sulle spalle. Lei si faceva sempre più inconsistente; poteva sentire il sangue che colava caldo tra l'addome di lei e la sua schiena, imbrattandogli la camicia. Strinse i denti, scacciando le lacrime che già affioravano agli angoli degli occhi.

«Devi resistere, capito?» le disse. «Vedrai che ce la faremo. Ti porterò di sopra e poi cercheremo il mio amico Atahualpa. Lui è un tipo eccezionale. Ti curerà, vedrai».

«Sono così stanca...»

«Resisti, ti prego».

Jean continuava a sorreggere Alex, mentre risalivano i gradini sdrucciolevoli dell'immenso pilastro di pietra. Ma non era una cosa semplice. Oltre a stare attenti a non scivolare, dovevano guardarsi dalle rocce che a causa delle vibrazioni si staccavano dalla parete, andandosi a schiantarsi contro i gradini che cominciavano così a crepare e a frantumarsi.

«Forza, Alex» mormorò lui. Lei gemette, stringendogli la camicia.

«Non ce la faccio, non ce la faccio...» mormorò, affranta. Lui strinse le labbra. Con uno sforzo silenzioso, si issò su un altro gradino.

«Jean, dovresti continuare senza di me» sussurrò stanca lei. Jean non la ascoltò nemmeno. Guardò verso il basso. Erano quasi a metà strada, ma il cammino era ancora lungo.

«Ti ricordi quando siamo saliti su quella collina, a Princeton, quando siamo andati a vedere la gara di canottaggio?» fece lui all'improvviso, cercando di nascondere la propria fatica e la propria paura. Gli venne in mente Sanson. In quel momento, avrebbe dato qualsiasi cosa per essere come lui.

«No...»

«Sì, quando ti facesti male alla caviglia».

«Perché tu mi avevi fatto scivolare» mormorò lei. E rise, debolmente.

«Poi ti ho portato in cima, proprio come ora».

«Ricordo».

«Anche oggi ce la faremo».

«Va bene».

Jean sentì che lei stava lasciando la presa. Si chinò in avanti, caricandosela meglio sulle spalle.

«Alex, cerca di tenerti stretta».

«Sono tanto stanca».

Metro dopo metro, continuavano a risalire. Ai loro piedi, la terra si era aperta in un immensa voragine. Il pilastro restava abbarbicato alla pareti di roccia, ma il suolo, sotto di loro, era già completamente crollato e così gli edifici che per tanti secoli avevano resistito sopra di esso, germogliando sulla superficie del Noah. Ormai, non erano ridotti che a un cumulo di macerie polverose, sotto le quali si poteva intravedere l'armatura di metallo della nave, splendente nella luce azzurrognola che la illuminava.

«Ancora uno sforzo e saremo fuori» fece Jean, cercando di mantenere un tono rassicurante. «Poi cercherò Atahualpa. Lui ti aiuterà. Quel vecchio è incredibile, devi conoscerlo. Sono sicuro che ti aiuterà».

«Jean, io ti amo».

Jean ricacciò indietro le lacrime, tirando su con il naso. Lei lo strinse.

«Anche io ti amo, Alex» disse, con gli occhi che gli si offuscavano. Lei sorrise, stringendolo a sé.

«Mio meraviglioso bugiardo» sussurrò.

«Tieni duro, Alex» fece lui. «Vedrai che andrà tutto bene. Ti prometto che passerò la mia vita a prendermi cura di te. È questo quello che voglio. Voglio stare con te, ogni giorno. Voglio sentirti parlare, e ridere... parlami, Alex, continua a parlarmi ti prego».

«Sarebbe bello» fece lei. «Ma adesso è finita. Mettimi giù, ti prego».

Jean la strinse, scuotendo la testa e continuando a salire imperterrito. Ma per quanto si sforzasse, era troppo lento. Di quel passo, non ce l'avrebbe mai fatta a risalire prima che il Noah fosse partito, facendo crollare tutto.

«Alex...»

«Jean, ti prego, ho bisogno di fermarmi».

Lui la posò delicatamente al suolo. Una scossa più forte delle altre fece cadere alcuni frammenti di pietra. Jean si chinò sopra di lei, a ripararla con il proprio corpo. Alex aprì gli occhi, e lo fissò, sorridendo.

«Sei il mio amore» disse, accarezzandolo con la mano. Lui la strinse, portandosela alle labbra.

«Chi l'avrebbe detto che sarebbe andata così?» mormorò Alex, sorridendo. Jean le accarezzò i capelli, ricoperti di polvere.

«Non dire così, non è ancora finita».

Lei lo fissò con tenerezza.

«Devi andare via» disse. Jean spalancò gli occhi.

«No, non ti lascerò qui».

«Non ha senso morire in due» fece lei, con la voce rotta. Jean la prese tra le braccia e la strinse, posandole un bacio sulle labbra.

«Se non posso portarti con me, allora resterò qui con te fino alla fine».

«Perché?»

«Io non ti lascio sola».

Lei lo guardò e le lacrime le velarono gli occhi.

«Sei davvero uno stupido» fece, piangendo. «Perché mi fai capire di amarmi solo ora che sto per morire?»

Lui pianse. Lei gli portò una mano al volto e gli terse le lacrime che scorrevano abbondantemente lungo le guance.

«Ma va bene così. Io sono felice. Alla fine, anche se per poco, tu mi hai scelta. Se è questo tutto quello che possiamo avere, non mi serve altro».

«Io voglio te» disse lui. «Voglio che sopravvivi, perché possa dimostrartelo ogni giorno della mia vita».

Alex sorrise. Quindi strinse gli occhi, cercando di alzarsi. La terra tremò di nuovo e alcuni gradini sotto di loro crollarono.

«Aiutami» fece lei. Lui la aiutò a sollevarsi. Quando furono in piedi, lei lo abbracciò, baciandolo.

«Voglio che tu sappia che non ce l'ho con te» disse, guardandolo negli occhi. «Tutto quello che è successo, io l'ho voluto. E se sono qui, ora, è stata una mia scelta. Non dovrai mai tormentarti per questo, promettimelo».

Lui non riusciva a parlare. I singhiozzi lo soffocavano.

«Promettimelo, Jean» ripeté lei. Lui annuì.

«Ti prego...» fece. Alex alzò gli occhi sul suo volto, sorridendogli. Quindi lo spinse con tutte le sue forze, allontanandolo prima che dei frammenti di roccia cadessero sui gradini che li sorreggevano. Quando riaprì gli occhi, Jean si rese conto troppo tardi che tra lei e lui si era aperta una voragine.

«Dammi la mano, presto» gridò, avvicinandosi al bordo. Fissava Alex con apprensione, ma lei era tranquilla. Scuoteva la testa, ferma su ciò che restava di quei pochi gradini che ancora ne sorreggevano il corpo esile.

«Se non vai ora, morirai. E io non voglio che accada» fece lei, appoggiandosi pallida al muro. Jean cominciò ad agitarsi.

«Ma che diavolo dici? Ti ho già detto che non ti lascio!»

«Sei proprio incorreggibile, con te bisogna fare tutto da soli» disse lei, con un sorriso. Jean si sporse ancora di più, allungandosi verso di lei più che poté.

«Ti prego, afferra la mia mano» la supplicò. La terra lanciò un'altra scossa e Jean si sentì scivolare. Indietreggiò di un passo, ma appena tutto tornò tranquillo, tornò a sporgersi. Una nuvola di polvere saliva verso di loro, offuscando la visuale. Entrambi sembravano come sospesi nel cielo.

«Possiamo farcela, forza!»

«In due non ce la faremo. Non potremmo mai risalire in tempo. Ma tu puoi farcela, se ti sbrighi».

«No, io...»

«Jean» fece lei, avvicinandosi. «Ti giuro che ti amo». Tese la mano verso di lui e gli sfiorò i polpastrelli. Jean fece per prenderla, ma lei sorrise tra le lacrime, quindi indietreggiò. Non si fermò nemmeno quando posò il piede nel vuoto, alle sue spalle. Per un attimo, lui la vide restare così, come sospesa. L'ultimo istante, prima che il suo corpo svanisse, precipitando nel nulla.

 

 

*

 

 

Il vettore schizzò fuori dal Noah avvolto in una nuvola di polvere. Tutto ciò che ancora resisteva sulla superficie dell'astronave, si stava velocemente sgretolando, e una immensa nuvola di pietrisco e pulviscolo si levava sempre più alta, a causa delle vibrazioni sempre più forti.

Mentre risalivano verso la superficie del lago, Sanson continuava a guardare disperatamente da un lato all'altro della cabina, alla ricerca dei loro amici. Tutto era andato distrutto. Se era vero che si trovavano là, dove ora non restavano altro che polvere e detriti, allora non c'era davvero più alcuna speranza di...

«Ehi guarda là. Quello è Jean!»

Hanson indicò al cugino il punto in cui Jean si stava tenendo stretto alla parete. I gradini intorno a lui stavano per crollare. Era questione di attimi e presto sarebbe precipitato.

«Avviciniamoci, presto».

Hanson fece cenno al pilota di avvicinarsi al pilastro, ma l'uomo rifiutò.

«Che diavolo ti prende, idiota? Ti ho detto di avvicinarti». Sanson lo colpì alla nuca. L'uomo prese a indicare la parete, parlando e gesticolando nervosamente.

«Credo che intenda dire che non possiamo avvicinarci. La parete rischia di crollarci addosso» fece Hanson.

«Provate ad avvicinarvi il più possibile. E restategli sotto, d'accordo?»

Hanson cercò di spiegarsi a gesti con il pilota. Quello strinse le labbra, quindi rifiutò decisamente. A quel punto, Hanson gli puntò contro la pistola.

«Fai come ti ho detto, idiota».

L'uomo impallidì, e mosse torvo la cloche. La nave ondeggiò leggermente, avvicinandosi alla parete di pietra e mantenendosi ferma ai piedi di Jean. Sanson aprì un portellone laterale di emergenza, affacciandosi e richiamando a gesti l'attenzione del ragazzo.

«Jean, resisti!»

Jean abbassò gli occhi. Vide Sanson, affacciato dallo sportello laterale, che gli faceva dei gesti concitati.

«Buttati!» gli gridò quello. Jean fece per staccarsi dalla roccia, ma la terra sotto di lui tremò e alcune rocce andarono a frantumarsi proprio sopra lo scafo del vettore, facendolo oscillare pericolosamente. La nave fu costretta ad allontanarsi, per poi riavvicinarsi lentamente.

Sanson si trovava ancora al suo posto, scosso, ma deciso a non mollare. Con un gesto, incitò Jean a riprovarci una seconda volta.

«Forza, non abbiamo molto tempo».

Jean raccolse tutto il suo coraggio e si lanciò. Atterrò sul tetto della nave, pesantemente, rotolando verso il bordo opposto. Cercò di aggrapparsi, ma il tetto era troppo spiovente; e la nave, che si inclinò in quel momento per allontanarsi in fretta dalla parete pericolante, lo fece scivolare. Mentre cadeva, Jean cercò disperatamente qualcosa a cui reggersi, ma si rese conto che era troppo tardi. Lanciò un grido: e all'ultimo istante, quando già era stato sbalzato fuori bordo, si sentì afferrare per la mano. Avvertì uno strattone alla spalla; e con sua enorme sorpresa, si ritrovò a penzolare nel vuoto.

«Preso» fece Sanson, lanciandogli un sorriso. Lo issò a bordo, dove si sedettero esausti per terra, uno di fronte all'altro.

«Mica male come esperienza, eh?» fece Sanson. «Allora, dove sono Rebecca e le altre ragazze?»

Jean deglutì. Cercò qualcosa da dire, ma non sapeva da che parte cominciare. Il ricordo del volto di Alex che scompariva nel vuoto, riapparve improvvisamente davanti ai suoi occhi, costringendolo a chiuderli.

«Allora? Vuoi deciderti a parlare?» fece Sanson, sbrigativo. «Tra poco qui salta tutto»

Jean impallidì. «Non lo so» mormorò, spento. Sanson lo fissò, aggrondando.

«Non lo so?» fece. «E che cazzo significa, non lo so?»

«Non ho idea di dove siano Rebecca e Marie» disse. «Non sono riuscito a trovarle».

«E Alex?»

Jean chiuse gli occhi. «Lei è morta».

Sanson trasalì. «Morta? Come...»

«L'ha uccisa John» mormorò Jean. Sanson si alzò in piedi, passandosi una mano sulla fronte. Quindi lanciò un'occhiata a Jean e con un ruggito lo afferrò per la camicia, sbattendolo contro il muro.

«No, razza di idiota, l'hai ammazzata tu!» fece. «È stata un'idea tua, quella di venire fin qua per aiutare la tua dannata Nadia. Se loro sono morte, è solo colpa tua!»

«Io...»

«Sta' zitto, coglione» fece Sanson, sbattendolo lontano. «Se non fosse stato per te, ora io sarei tranquillo a casa mia, e Rebecca e le altre sarebbero dove dovrebbero essere!»

«E se voi vi foste sbrigati prima, allora?» fece Jean, teso. Sanson vacillò per un attimo.

«Cosa dici?» sibilò.

«Dico che se voi vi foste sbrigati prima a venire, allora Alex non avrebbe dovuto lanciarsi nel vuoto, per permettere a me di salvarmi!»

Sanson bloccò senza fatica il pugno che Jean fece per dargli, ma restò a guardarlo sconcertato. Jean piangeva, ma lo fissava con un odio e un fervore che non aveva mai visto in lui. Restò immobile, con il pugno di lui stretto nel suo. Quindi lo allontanò, e gli sferrò un pugno al volto.

«Ti giuro su dio, che se osi venirmi ancora vicino ti ammazzo con queste mani» disse, piattamente.

In quel momento la nave ebbe un'improvvisa scossa. Sanson perse l'equilibrio e Jean, accasciato al suolo, scivolò lungo il pavimento. Con uno sforzo estremo, Sanson riuscì a chiudere il portellone della nave, proprio mentre sotto di loro il Noah Bianco emergeva finalmente dalla roccia che lo teneva imprigionato, mostrandosi in tutta la sua possenza.

«Che mi venga...»

«È il Noah!» gridò Hanson, dalla cabina. «È proprio sotto di noi. Stanno partendo!»

«Reggetevi!» gridò Sanson.

Ci fu un lampo, che culminò in un silenzio improvviso e denso. Jean sollevò gli occhi su Sanson, che lo fissò preoccupato. Un boato esplose devastante, frantumando tutto ciò che restava della caverna. La nave oscillò, andando a sbattere violentemente contro la parete, mentre la luce che sotto di loro avvolgeva il profilo del Noah, salì fino ad avvolgerli completamente. Durò tutto un attimo. Poi, tornò il buio. Il Noah era sparito.

«Siamo fuori?» mormorò Sanson, stordito. «Ehi, ce l'abbiamo fatta?»

«Porca puttana!»

Sanson e Jean si alzarono, precipitandosi in cabina di pilotaggio. L'uomo al timone tentava disperatamente di governare la nave, con l'aiuto di Hanson che intanto continuava ad imprecare.

«Abbiamo danneggiato gli stabilizzatori» gridò. «Non possiamo governarla».

«Ci sta per crollare addosso!» gridò Sanson, pallido. Hanson lo fissò con sguardo vacuo. Non capiva a cosa si riferisse.

«Cosa?» urlò, disperato, mentre tentava di tenere la nave in assetto. «Cosa ci sta per crollare addosso?»

«L'acqua!»

Jean si affacciò al finestrino. Sopra di loro, l'immensa colonna d'acqua che si era sollevata grazie al potere della Pietra, stava lentamente collassando su se stessa. Migliaia di litri cubi d'acqua che si sarebbero riversati direttamente sulle loro teste, annientandoli.

«Se non usciamo in fretta di qui, siamo tutti morti» latrò Hanson. Sanson non riusciva a staccare gli occhi dal finestrino.

«Dobbiamo cercare di imboccare l'apertura» fece Jean. La fenditura nell'acqua si stava lentamente richiudendo, mentre dall'alto l'acqua crollava verso l'interno.

«I comandi non rispondono, la nave non procede in linea retta» fece Hanson. «Non riusciamo a manovrarla!»

Il pilota urlò qualcosa, trafficando con i pulsanti. Indicò ad Hanson una manovella.

«Girate quella!» fece lui, tenendo stretto il timone. «Muovetevi».

Sanson e Jean si aggrapparono alla manovella, girandola con tutte le loro forze. Per un istante, la nave sembrò riacquistare equilibrio. Sopra di loro, l'apertura era sempre più vicina.

«Tenetevi!»

La nave subì una sbandata, andando a sbattere contro la colonna d'acqua. Roteò su se stessa, fuori controllo, mentre Hanson e il pilota tenevano disperatamente la cloche, per stabilizzarla. In quel momento, Hanson alzò gli occhi. E vide con sgomento che una montagna d'acqua grigia e di fango stava per riversarsi sopra di loro.

«Ora!»

Il pilota spinse i motori al massimo. Ci fu una scossa violentissima, quando la nave andò ad impattare quell'enorme massa liquida. Lo scafo vibrò e le luci all'interno si spensero e si riaccesero alcune volte. I vetri si incrinarono e lo scafo si ammaccò; con un ultimo, disperato gesto, il pilota assegnò ai motori tutta l'energia di riserva.

Ci fu uno scatto: e la nave squarciò la superficie dell'acqua, schizzando verso il cielo come un proiettile, mentre la colonna di denso liquido scuro si infrangeva al suolo con un fragore assordante. Onde alte decine di metri arrivarono a lambire i fianchi delle montagne, cancellando ogni traccia di vegetazione che vi fosse cresciuta, prima che lentamente ritornasse la calma tra le sponde del lago.

«Siamo vivi?»

Sanson si alzò. Il pilota continuava a parlare tra sé, pallido in volto, mentre Hanson lo guardava, abbandonato sulla poltrona, sfinito.

«Siamo senza timone» esalò Hanson, sfregandosi il volto con le mani. «Non possiamo più governare la nave».

Lentamente, Jean si alzò, avvicinandosi al finestrino. Fuori era giorno, e il terreno sotto di loro si faceva sempre più lontano. Stavano continuando a prendere quota.

«Vuoi dire che siamo alla deriva?» azzardò Sanson. Hanson si passò una mano tra i capelli.

«Proprio così» fece, allargando le braccia. «Non possiamo andare né su né giù, né a destra né a sinistra. Siamo completamente, assolutamente alla deriva».

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Capitolo 30
*** 26 (conclusione) ***


(avviso ai lettori: questo è il capitolo conclusivo. Siccome ho pubblicato insieme gli ultimi tre capitoli, se capitate qui cliccando su «ultimo capitolo» sappiate che ci eravamo fermati al 25 parte seconda; quindi restano 25 parte terza, quarta e 26. Buona lettura!)

 

 

Quel giorno, il mare era particolarmente tranquillo. Una di quelle giornate in cui veleggiare era davvero un piacere, oltre che una semplice questione di lavoro.

Dopo tanti anni passati a bordo di navi a motore, quello era sicuramente un piacevole ritorno al passato, per lui; anche se sapeva benissimo che quello sarebbe stato l'ultimo viaggio del Cutty Surk, l'ultimo veliero che ancora batteva bandiera Inglese, e anche se lavorare per gli inglesi non era forse mai stata la sua massima aspirazione. Ma per quanto lo riguardava, al di là di tutto, quello era stato un bel viaggio: attraverso le indie orientali e Giava, per poi spingersi fin nel mar dell'Australia. Luoghi che lui conosceva bene.

Per questo aveva accettato l'incarico, quando glielo avevano proposto. E anche perché era giunto in un momento in cui aveva proprio bisogno di allontanarsi da casa.

Qualcuno bussò. Il capitano Echo Villan aprì un occhio, volgendo la testa verso la porta.

«Capitano, mi spiace disturbarla, ma è meglio se viene a vedere una cosa».

Echo scese svogliatamente dalla sua amaca, appoggiandosi con le mani alle ginocchia. Sbadigliò. Gli dispiaceva alzarsi. Si stava bene, nella penombra della sua cabina. Erano appena passate le due: e il sole, in quell'angolo di mondo, a quell'ora non concedeva nessuna tregua, né per terra, né per mare.

Si stiracchiò, lasciandosi condurre sul ponte. Non appena furono sopra coperta, un uomo del suo equipaggio gli piazzò un binocolo tra le mani, che Echo puntò sbuffando sull'orizzonte.

«Spero per voi che sia davvero importante» borbottò. L'uomo al suo fianco agitò il dito verso un punto lontano.

«Direi di sì, capitano. Guardi anche lei».

Echo mosse il binocolo lungo la linea dell'orizzonte. Non vide nulla, tranne un punto lontano che...

Aguzzò la vista, mettendo a fuoco il binocolo.

No. Non può essere...

«Ma che diamine...»

«Sono naufraghi, signore?»

Echo si sentì percorre da un brivido. Posò il binocolo, quindi «Preparatevi ad avvicinarvi. Tirate fuori le armi, e state pronti ad usarle».

L'ufficiale di bordo sussultò, sorpreso. Quindi si volse, ammiccando al resto della ciurma. «Avete sentito il capitano, razza di balordi senza palle? Muovetevi, e armi alla mano».

Lo scafo del Cutty Sark scivolò delicatamente tra le onde, fino al punto in cui un ammasso di rottami galleggiante, ondeggiava sulla superficie calma dell'acqua. Echo si sporse. Non si vedeva nessuno. A un suo cenno, un gruppo di quattro uomini si avvicinò al relitto, dopo aver calato una scialuppa. Salirono a bordo, e dopo pochi istanti tornarono fuori, portando con loro il corpo svenuto di un uomo.

«Ci sono tre persone, oltre a questo» gridò il marinaio, dopo aver deposto il corpo di Jean sul fondo della scialuppa. «Una di loro è morta».

Echo Villan lanciò un occhiata al corpo esanime di Jean, e trasse un profondo sospiro.

«Portateli a bordo» confermò. Quindi consegnò il binocolo all'ufficiale di bordo.

«Preparate loro un alloggio» disse, mentre si allontanava. «E chiamatemi, quando si sono svegliati».

 

 

*

 

 

Jean si risvegliò con le membra tutte indolenzite. Quando aprì gli occhi, dopo essersi guardato intorno, ci mise un attimo a capire che quegli interni di legno non potevano certo appartenere alla nave di Atlantide.

Fece per alzarsi, ma una fitta alla schiena lo costrinse a ripiombare sul letto. Si volse. Nelle cuccette a fianco a lui, Hanson e Sanson continuavano a dormire.

«Ti sei ripreso, alla fine».

Jean strizzò gli occhi. Un volto conosciuto lo fissava, sorridendogli con calore. Apparteneva a un uomo che non ricordava di conoscere, anche se i suoi lineamenti gli ricordavano prepotentemente qualcuno.

«Lei chi è?» mormorò. La voce gli uscì fiacca, e secca.

«Non mi riconosci?» fece l'uomo. «Sarà per la barba. Tu, invece, non sei per nulla cambiato. Beh, forse un po' sì» rise. Jean aggrondò.

«Echo?» mormorò. L'uomo annuì.

«Proprio io».

Jean chiuse gli occhi. Era incredibile. Tra tutti, doveva essere proprio uno degli uomini che avevano fatto parte dell'equipaggio del padre di Nadia, a salvarlo. Era un destino davvero ironico, il suo.

«Che ci facevate in mezzo al mare, a bordo di quel trabiccolo di ferro?» chiese Echo, prendendo una sedia e sedendosi accanto al suo letto.

«È una lunga storia» fece Jean. Echo sorrise.

«Bene. Tanto, non ho nessuna fretta».

Jean sospirò, quindi prese a raccontare tutto quello che aveva vissuto fino a quel momento. Non omise nulla. Anzi, più parlava, più sentiva che le forze lo riconquistavano. Era come liberarsi di un peso opprimente. Quando ebbe finito di racconare, Echo trasse un profondo sospiro, abbandonandosi contro la spalliera della sedia.

«E così, Atlantide è di nuovo tornata a farsi viva».

Jean annuì, fiaccamente. Echo sporse le labbra.

«Sai, io sono fuori da queste cose ormai; e ti consiglio di fare altrettanto».

Jean lo fissò per un po', senza dire nulla. Quindi «come va con...» azzardò. Lui scosse il capo.

«È una storia chiusa».

«Credevo vi foste sposati» fece Jean, perplesso. Da quel che ricordava, Echo e l'infermiera che lavorava insieme a lui e a tutti gli altri, ai tempi della guerra contro Gargoyle, erano sempre stati innamorati. La loro sembrava la storia perfetta, quella che non può concludersi che in un modo soltanto.

Echo nicchiò. «E lo abbiamo fatto. Ma il mio lavoro non ci ha aiutato».

«E non si poteva rimediare?»

«Non quando torni a casa e trovi lei che aspetta il figlio di un altro».

Jean restò a bocca aperta. Echo rise. «Ma non ce l'ho con lei, quindi non fare quella faccia. In fondo, la colpa è anche mia. Se non avessi voluto fare questo mestiere e stare mesi lontano da casa, forse... chissà».

«Già...» commentò Jean, senza troppa convinzione.

«Beh, ora ti lascio riposare. Quando starai meglio, vieni a farmi un saluto».

Jean lo fissò mentre si allontanava. Raccogliendo le ultime energie, lo fermò, prima che uscisse dalla porta.

«Echo, io...»

«Non è stata colpa tua» fece lui, con un sorriso. «Non tormentarti, Jean».

Jean distolse lo sguardo. Echo uscì. E lui ripiombò in un sonno inquietato da incubi.

 

 

*

 

 

Il sole scottava la pelle. Fermo sul ponte, Jean osservava le operazioni di sbarco. Il Cutty Surk aveva raggiunto Antofagasta, in Cile, pochi giorni dopo che lui e gli altri erano stati tratti a bordo. Una volta sbarcati, Sanson e Hanson avevano lasciato la nave senza troppe cerimonie, andandosene ognuno per la sua strada. Per tutta la durata del viaggio, Sanson non aveva mai rivolto la parola a Jean. Una volta, il ragazzo lo aveva visto sul ponte, da solo, appoggiato alla balaustra. Avrebbe voluto avvicinarsi e parlargli; ma mentre stava per farlo, lo vide alzare la mano e darsi uno schiaffo da solo. Jean non riuscì mai a capire perché avesse fatto una cosa del genere, ma da quel momento, per qualche strana ragione, non riuscì più ad avvicinarlo. Sentiva che doveva rispettare il suo diritto a essere lasciato in pace. Anche se questo significava creare tra loro una frattura che difficilmente si sarebbe mai ricomposta.

Al contrario del cugino, Hanson diceva di non essere arrabbiato, ma stavolta era Jean che non riusciva a parlare con lui. Lo sentiva responsabile per aver riportato Nadia nella sua vita. Sapeva di essere ingiusto e che così facendo feriva il suo amico di sempre; ma per quanto ci provasse, proprio non riusciva a parlargli.

«Tutto bene?»

Jean si volse. Echo prese posto accanto a lui, appoggiandosi alla balaustra di legno smaltato. Entrambi fissavano il molo, che brulicava di persone indaffarate.

«È davvero una bella nave» fece Jean, riferendosi al Cutty Sark. Echo si volse ad abbracciare la nave con uno sguardo, quindi annuì.

«Peccato che quando torneremo, verrà messa in pensione» disse, con un sospiro. Estrasse una sigaretta dalla tasca e la mise in bocca, accendendola. Prima di riporre il pacchetto, fissò Jean pensieroso, quindi gliene porse una. Lui rifiutò cortesemente.

«Tutto finisce, prima o poi» fece Echo, picchiando leggermente con l'indice sopra la sigaretta. La cenere cadde volteggiando, rapita dalla brezza leggera che spazzava il pontile.

«Già» mormorò Jean, in tutta risposta. «Proprio così».

«Sai già dove andrai?» gli disse Echo. Jean sospirò. Temeva quella domanda, perché sapeva fin troppo bene la risposta. Ci aveva pensato per giorni, senza mai chiudere occhio.

«Ho un favore da chiederti» disse. Echo lo fissò di sbieco.

«Qualunque cosa» fece, curioso.

«Voglio sapere dove si trova».

Echo lo fissò per un attimo, senza capire. Quindi «sei impazzito, per caso?» fece, impallidendo improvvisamente. «Nadia è partita. Non c'è nulla che tu possa fare per...»

«Io no. Ma forse, se...»

«Non ti aiuterà».

Jean strinse le labbra.

«Nonostante tutto, voglio provare a chiederglielo».

Echo sospiro. Trasse una boccata di fumo e lo espirò completamente.

«Come vuoi» fece, aggrondando. «Ma non dire che non ti avevo avvertito».

 

 

*

 

 

Quando la campanella suonò, i bambini schizzarono fuori dai banchi, disponendosi in fila ordinata davanti alla porta. Il bidello, fermo sulla soglia, li osservava uscire con un sorriso sulle labbra.

«Ma come? Non salutate la maestra?» disse, tutto allegro. I bambini si volsero verso la cattedra, dove la loro insegnante li fissava divertita.

«Arrivederci, signora maestra» dissero, praticamente in coro. Lei sorrise.

«A domani, bambini» rispose. Non appena furono usciti, la giovane maestra sospirò, riponendo i i suoi fogli nel cassetto della cattedra. Quindi si alzò, prese il cancellino e cominciò a pulire la lavagna.

«Miss Lugensius, non dovrebbe fare queste cose... è il mio lavoro».

«Non c'è problema, signor Parker» fece lei, con un sorriso. «Non è poi una gran fatica. Piuttosto, vorrebbe ringraziare sua moglie per aver tenuto mio figlio anche oggi? La ragazza che se ne occupa di solito è ancora ammalata, e...»

«Non si deve preoccupare di questo» fece l'uomo con un sorriso, agitando le mani in segno di scusa. «Lei è più che felice di occuparsi di quel piccolo. Sa, dopo aver cresciuto cinque figli...»

«Mi chiedo davvero come abbia fatto!» fece la donna, con un sorriso, inarcando le sopracciglia.

«Beh, se tutti i figli fossero come il suo bambino, non ci sarebbero mai problemi» fece Parker, sincero. «È davvero un bravo bambino. É stata molto brava a crescerlo...»

Lei lo fissò, aggrondando. Lui avvampò.

«Mi perdoni» farfugliò, improvvisamente a disagio. Lei scoppiò a ridere.

«Signor Parker, ma di cosa si scusa? Lo sanno tutti che vivo sola».

L'uomo abbozzò, arrossendo. Quindi «Ah, mi perdoni... ma prima che mi dimentichi: c'è un signore che è venuto a cercarla. Dice che ha bisogno di parlarle e che è molto urgente».

La giovane maestra lanciò un'occhiata all'orologio, appeso sopra la porta. Quindi si rabbuiò.

«Adesso? Non è ora di ricevimento».

«Gliel'ho detto, ma lui dice che deve assolutamente parlarle. Dice così».

Lei aggrondò.

«Dovrei anche andare a prendere mio figlio...»

«Se vuole ci pensiamo noi. Mia moglie lo riporterà a casa, e aspetterà con lui che voi torniate».

La maestra si piantò le mani sui fianchi, sbuffando. Lanciò un'occhiata di sbieco al vecchio signor Parker, che la fissava incoraggiante.

«Non so se posso chiederle una cosa del genere...»

«Non è un problema, davvero».

Lei allargò le braccia. «In questo caso, non so come ringraziarvi, tutti e due» disse, porgendo all'uomo le chiavi di casa sua. «Farò prima che posso».

«Non si deve preoccupare» fece l'uomo, salutandola con un sorriso.

Speriamo solo che sia una cosa veloce, pensò lei.

Mentre aspettava, si mise a raccogliere i quaderni che i bambini, nella fretta, avevano lasciato sui banchi. Era decisamente seccata. Certa gente non ha proprio ritegno, pensò. Presentarsi a quell'ora... anche lei aveva una vita, e un figlio che la aspettava a casa. Possibile che fosse tanto difficile da capire?

Dei passi risuonarono lungo il corridoio. Lei inarcò un sopracciglio, sforzandosi di assumere un'aria cortese. Quando bussarono, però, quasi non riuscì a sollevare gli occhi.

«Di che cosa voleva parlarmi, signor...»

Non può essere...

Impallidì. Con una mano cercò la superficie della cattedra, appoggiandovisi per non cadere.

«Tu?» mormorò, fissando l'uomo che si trovava davanti a lei, fermo sulla porta. «Cosa ci fai qui?»

Jean entrò nella classe, togliendosi il cappello. Con un sorriso, alzò lo sguardo triste, posandolo su di lei.

«Ciao Electra» fece. «È bello rivederti».

 

 

 

Cari lettori, eccoci finalmente giunti alla fine di questa seconda parte. Voglio ringraziarvi tutti di cuore per aver seguito questa storia fino qui... e voglio ringraziarvi per gli incoraggiamenti e i suggerimenti che tutti mi avete dato. Scrivere è davvero una delle cose più belle della vita, e devo ammettere – senza alcuna piaggeria – che scrivere per lettori come voi lo è ancora di più.

Spero che questa ultima parte vi sia piaciuta. Devo dire che l'ho terminata un poco affaticato, e credo che in alcuni punti possa aver risentito di un certo calo... spero me non me ne vorrete.

Tra qualche settimana comincerò a pubblicare i primi capitoli della terza parte. Credo due, tre settimane al massimo. Giusto il tempo di ordinare le idee e rinfrescare l'ispirazione.

Per il momento, vi ringrazio ancora tutti, citandovi in ordine alfabetico: berlinguer, il primo a seguirmi, il primo a recensire; Christine8, fedele anche con il computer che fa le bizze; Daydreamer, che riesce sempre a farmi riflettere su aspetti importanti della storia e dei personaggi; Nadia1986, che mi ha fornito suggerimenti preziosi; SallyBrown, che con le sue recensioni riesce sempre a darmi una carica di ispirazione. A tutti voi, ancora grazie!

Per concludere, aggiungo che l'inserimento del personaggio di Electra è dovuto a una suggestione fornitami da Nadia1986. Per questo ci tengo a ringraziarla, perché mi ha effettivamente permesso di modificare in modo sostanziale la trama originale, dandole una sfumatura inattesa e, a mio avviso, interessante. Staremo a vedere se così sarà anche per voi, se ancora vorrete continuare a seguire ciò che scriverò.

A presto, e ancora una volta grazie!

 

Puglio

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