Adieu

di Malitia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PROLOGO ***
Capitolo 2: *** 1 ***
Capitolo 3: *** 2 ***
Capitolo 4: *** 3 ***
Capitolo 5: *** 4 ***
Capitolo 6: *** 5 ***
Capitolo 7: *** 6 ***
Capitolo 8: *** 7 ***
Capitolo 9: *** 8 ***
Capitolo 10: *** 9 ***
Capitolo 11: *** 10 ***
Capitolo 12: *** 11 ***
Capitolo 13: *** 12 ***
Capitolo 14: *** 13 ***
Capitolo 15: *** 14 ***
Capitolo 16: *** 15 ***
Capitolo 17: *** 16 ***
Capitolo 18: *** 17 ***
Capitolo 19: *** 18 ***
Capitolo 20: *** 19 ***
Capitolo 21: *** 20 ***
Capitolo 22: *** 21 ***
Capitolo 23: *** 22 ***
Capitolo 24: *** 23 ***
Capitolo 25: *** 24 ***
Capitolo 26: *** 26 ***



Capitolo 1
*** PROLOGO ***


prologo






PROLOGO 

Non si voltò.
Non guardò  indietro, non si fermò, non rallentò. 
Corse soltanto, con tutta la forza che aveva, con tutto il fiato che le rimaneva in corpo, lei corse. 
Le lacrime le bruciavano il viso come acido. 
Pensò di avere tutto il viso infestato dal sangue. 
Non vedeva più niente, doveva solo correre. 
Il respiro spezzato le opprimeva i polmoni. 
Più aria cercava di respirare, più le sembrava che questa venisse a mancare. 
Le tenebre le penetrarono dentro, arrivando fin nei più  nascosti nidi della mente, avvelenando desideri e sogni, giungendo fino al suo cuore. 
Ormai non respirava. 
Il nodo alla gola si strinse sempre di più, assassino. 
Cadde a terra esausta e chiuse gli occhi, sperando che il suo angelo arrivasse presto. 
Negli ultimi istanti della sua vita, ricordò.

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Capitolo 2
*** 1 ***


adieu - Sei bellissima!-. 
Georgette le sorrise dolcemente con tutto l’amore che poteva trasmettere una sorella. Lei la ricambiò cercando di nascondere la tristezza, ma qualcosa non funzionò. Georgette le sistemò i capelli di lato, e le accarezzò una guancia. 
- Sei stata molto fortunata, sai? Monsieur Rimbaud è molto ricco, non ti farà mancare nulla. Ed è incredibile, vista la nostra situazione finanziaria, che qualcuno ti abbia chiesta in sposa. Avevo paura che saremmo morte di fame tutte e due, da quando mamma e papà non ci sono più. Pensaci, Marguerite, potremo tornare a fare la vita di prima, se non meglio!-. 
I suoi occhi brillavano. 
Sentì un tuffo al cuore, un opprimente senso di colpa, ripensando agli ingiuriosi progetti che aveva fatto per dire a Hugo Rimbaud che non era innamorata di lui e che non voleva sposarlo. 
Lei e Georgette erano ricche, una volta. 
I loro genitori, di nobile casata, le accontentavano in qualsiasi capriccio. 
Ma quando Marguerite aveva dieci anni, ci fu una tremenda carestia. 
Il raccolto scarseggiava, il bestiame moriva, i contadini non avevano di che sfamarsi. 
Papà chiese un prestito, nella speranza che il raccolto dell’anno dopo sarebbe andato meglio. 
Non fu così.
Dovette chiedere ancora soldi, e ancora, e ancora. 
Per tre anni il raccolto rimase gramo. 
Papà era disperato. 
Lo trovò lei, penzolante dal ramo di un albero ormai arido. 
Aveva gli occhi sbarrati, come se non avesse avuto il tempo di rivedere la sua vita che gli sfrecciava davanti. 
Il medico disse che l’ osso del collo si era rotto immediatamente. 
Almeno – pensò- Marguerite- non aveva sofferto. 
La mamma si ammalò, e lo raggiunse sei mesi dopo. 
Confiscarono la casa,i terreni, tutto ciò che avevano. 
Vestiti, gioielli, mobili… qualsiasi cosa. 
Il loro titolo non valeva niente. 
Georgette, cha allora aveva poco più di sedici anni, si prese cura di Marguerite. 
Andarono a vivere a Bordeaux, dai cugini della madre. 
Loro non erano ricchi, non erano nobili, vivevano tra i maiali e le galline. 
Georgette non lo sopportò mai. 
Marguerite si adattò presto, in fondo era ben felice di essere ancora viva e di avere un tetto sotto cui stare. 
Dopo un anno, sei mesi prima di quel matrimonio, il sindaco si dimise. 
Bordeaux fu animata da una fervente campagna elettorale, ma gli aspiranti primi cittadini erano tutti oscurati da un forestiero, giunto misteriosamente da Parigi per stabilirsi in quel paesino tanto lontano. Per il paesaggio e la tranquillità del luogo, diceva lui. 
Alla veneranda età di quarantacinque anni, Monsieur Rimbaud si era stancato della magistrale attività di avvocato, si era arricchito quanto bastava per poter campare in modo soddisfacente sino all’ eterno riposo, e l’unica cosa che gli era venuta a mancare, per quanto fosse la più scontata e la più sorprendente -un uomo ricco e affascinante come lui, per quale bizzarro gioco del destino non aveva…?- era proprio una donna, un angelo leggiadro e soave che lo rendesse felice e gli donasse dei degni eredi. 
In quei mesi successivi al suo arrivo, vedendola per strada, incontrò Marguerite. 
Aveva i capelli colore del miele che le scendevano ribelli e ricci sulla schiena, la bocca rossa e carnosa, gli occhi azzurri e grandi, dalle ciglia lunghe, il seno grosso e ben delineato che risaltava dall’ umile vestito che le aderiva al corpo. Rimbaud si sentì la gola secca e ordinò al cocchiere di fermarsi davanti a lei. 
Marguerite si spaventò e fece per andarsene, ma Rimbaud scese dalla carrozza e le rivolse il più gentile dei suoi sorrisi. 
Le chiese dove abitava, e si offrì di riaccompagnarla a casa - poiché un essere tanto splendido non doveva affaticarsi, ma aveva il dovere di conservare intatta la propria bellezza-. 
Marguerite era un po’ spaventata, ma si disse che sarebbe stata presa per una maleducata se non avesse accettato. 
In carrozza Rimbaud le fece mille domande, e le chiese se sapesse chi fosse. 
Marguerite non lo sapeva, perché la politica non le interessava, e perché durante il giorno aiutava la zia a dare da mangiare ai maiali, o faceva qualcos’ altro per aiutarla. 
Rimbaud sorrise delle parole fiere della contadinotta, e le chiese come mai abitava con la zia. 
Marguerite allora gi raccontò tutta la sua storia, e Monsieur Rimbaud parve molto interessato. 
Dopo quel primo incontro la venne a trovare spesso. 
Georgette ne era entusiasta, faceva la civetta, rideva alle sue battute, e incoraggiava spesso Marguerite verso di lui, che diceva che era solo lei l’oggetto dei suoi pensieri. 
Marguerite arrossì perché non era mai stata l’ oggetto dei pensieri di un uomo. 
La sorella li lasciava spesso soli, permetteva che facessero lunghe passeggiate, che la gente li vedesse insieme. 
Rimbaud parlava della sua campagna elettorale, dei progetti per il futuro, dei luoghi che aveva visitato durante i suoi viaggi. 
- Chissà quante donne avrà avuto- pensava Marguerite, mentre lo ascoltava affascinata, senza avere il coraggio di interromperlo. 
Camminavano per il viale principale di Bordeaux, nelle ore più frequentate del pomeriggio, e Monsieur Rimbaud aveva un passo agile e svelto, e Marguerite certe volte si stancava, e anche se cercava di non darlo a vedere, si trovava con un leggero affanno. Così Monsieur Rimbaud era costretto ad accorgersene, perché la ragazza restava troppo indietro, e le offriva affabilmente il braccio. 
Marguerite si vergognava di camminare a braccetto con un uomo, un uomo del calibro di Monsieur Rimbaud- non c’ era abituata. 
Il giorno del suo quindicesimo compleanno, Rimbaud le dichiarò il suo amore, e le chiese di diventare sua moglie. 
Marguerite era turbata, non sapeva cosa dire. 
Gli chiese del tempo per rifletterci, e Monsieur le diede tre giorni. 
-Tre giorni per decidere della mia vita- pensò.
Georgette fu felicissima, la abbracciò, si dichiarò contenta per lei. Anche gli zii e i cugini erano entusiasti- non riuscivano a credere alla fortuna che aveva avuto. 
La zia lo disse subito alle sue amiche, che lo dissero ai mariti e ai figli, che a sua volta lo dissero agli amici. 
Meno di ventiquattro ore dopo, tutta Bordeaux sapeva che Mademoiselle Dubois avrebbe sposato Monsieur Rimbaud.
Marguerite non ebbe il tempo di dire che lei ci stava ancora pensando. 
Georgette cominciò sin da subito a pensare ai preparativi. 
Le stoffe, la casa –naturalmente vivrai a casa di Monsieur Rimbaud!-, la chiesa… 
Marguerite si sentì costernata. 
Era affascinata da quell’uomo, aveva cultura, soldi, buone maniere…Avrebbe reso felice lei e sua sorella. 
Era perfetto. 
Allora, perché aveva tutti quei dubbi? 
Anche adesso che stava per salire all’altare, nel suo bel vestito di tulle bianco, con i capelli raccolti, il velo davanti il viso, lo strascico lungo un paio di metri, Marguerite si chiedeva se stava facendo la cosa giusta. 
Georgette le sorrise e l’abbracciò. 
Aveva ormai diciotto anni, ed era molto diversa da lei. 
Aveva i capelli neri come la madre, solo leggermente mossi, la bocca sottile, le sopracciglia lunghe e delineate, i tratti più marcati di quelli di Marguerite, ma era abbastanza graziosa. 
- Speriamo che avrò la tua stessa fortuna!-. 
Si incupì un poco, forse pensava che non sarebbe passato in tempo nessun uomo ricco che potesse innamorarsi di lei. Tuttavia le sorrise di nuovo e la strinse ancora di più. 
- Pronta?-. 
Marguerite annuì debolmente e prese la mano che la sorella le tendeva.


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Capitolo 3
*** 2 ***


2 Non pensò ad altro che agli invitati, ai fiori, alla disposizione dei tavoli… 
Gli occhi correvano febbrilmente da una cosa all’altra, costantemente ansiosa di essere criticata o giudicata troppo piccola per poter organizzare per bene un matrimonio. 
Ma no, non era troppo piccola. 
Se lo fosse stata, Monsieur Rimbaud non l’avrebbe mai sposata. 
Lui non la considerava piccola. 
La considerava una donna. 
Questo pensiero la sollevò un attimo, fin quando non si rese conto di aver sporcato leggermente di fango l’orlo della gonna. Si sentì mancare l’aria e lanciò un’occhiata disperata a Georgette, ma lei le dava le spalle e intratteneva una fitta conversazione con Madame Painlevè, la prozia prediletta di Monsieur Rimbaud. La donna sembrava apprezzare la chiacchierata, e Marguerite non osò interromperle. 
Guardò l’orlo e pregò con tutte le sue forze il Cielo perché non se ne accorgesse nessuno. 
Il matrimonio era andato bene. 
La cerimonia era stata commovente, c’era molto bianco, e il giardino era pieno di fiori. Erano stati tutti composti, avevano applaudito, avevano sorriso, si erano complimentati con Georgette e Marguerite, e qualcuno le aveva detto che aveva sicuramente concluso un ottimo affare, ma lei non capì cosa intendevano, e si riservò di chiederlo alla sorella più tardi. 
Anche Georgette era molto bella. 
Aveva arricciato i capelli, che le cadevano morbidi sulla pelle candida, e la bocca era rossa e le gote purpuree. Marguerite aveva scoperto il segreto di quelle guance così colorite solo la sera prima, quando Georgette le aveva rivelato che era di gran moda strofinarle con dei petali di geranio. Anche lei ne aveva usufruito e, ricordandosi di quel dettaglio, si passò appena il dorso della mano sul viso, vergognandosi di dover ricorrere a quell’espediente per sembrare più bella. Cosa avrebbe pensato, Monsieur Rimbaud? 
Monsieur Rimbaud era vestito di bianco, con guanti bianchi, colletti bianchi, pantaloni bianchi, e un farfallino nero annodato al collo. 
I capelli biondo-rossicci e le basette erano stati leggermente accorciati. I baffetti accompagnavano la bocca in un sorriso tirato, nervoso. Monsieur Rimbaud lo mostrava ad ogni invitato che gli porgeva le sue congratulazioni, ma subito dopo scompariva, sostituito dalla linea severa delle labbra. L’uomo a cui sorrise di più fu il vice sindaco di Parigi, anche se Rimbaud si era premurato di invitare direttamente il primo cittadino, con cui durante la sua carriera aveva instaurato, diceva, un ottimo, davvero davvero ottimo, rapporto di amicizia. Purtroppo Monsieur Binet – e ne era davvero davvero addolorato- non aveva potuto prender parte alla cerimonia, per “cause di forza maggiore”, ma,- si era affrettato ad aggiungere nella sua lettera stampata in sobri fogli di carta intestata- aveva subito inviato il suo vice, Monsieur Rousseau , il quale assicurava di esserne stato onorato. 
Seduta al tavolo nuziale, decisa ad andare in giro il meno possibile (almeno dopo che aveva sporcato la gonna), Marguerite cercò con gli occhi il marito. 
Stava illustrando a Monsieur Rousseau il piano di amministrazione dell’acqua corrente, e il suo interlocutore annuiva e gli sorrideva affabile, così si trattenne dal chiamarlo. Marguerite pensò che se il delegato avesse parlato al suo superiore del progetto di Rimbaud, forse egli avrebbe fatto una bella figura, e ne fu contenta. Pensò anche che aveva sposato un uomo intelligente, che conosceva il mondo e sapeva come funzionava . Ormai se lo ripeteva da giorni ed ogni volta che lo ricordava pensava di essere contenta. 
Batté la palpebre e guardò meglio uno dei candidi gigli che sbucava dal suo bouquet. Lo raccolse piano, credendo quasi di fargli del male, e se lo sistemò tra i capelli. 
- Marguerite…-. 
Sussultò leggermente, ma Georgette la rassicurò con un sorriso e le mise in ordine i capelli, come aveva fatto quella mattina, prima del matrimonio. 
- Devo parlarti di una cosa, tesoro-. 
Marguerite corrucciò le sopracciglia, perché aveva notato che la sorella era tesa. Pensò che doveva essersi accorta della gonna, e che la stesse per rimproverare, e se ne mortificò, così provò a precederla. 
- Mi dispiace, Georgette, non so come sia successo, ho fatto molta attenzione, te lo assicuro…- cominciò. 
- Di cosa stai parlando?-. 
Marguerite la guardò interrogativa. Forse non voleva parlarle della gonna. 
- Ho sporcato il vestito di fango, ma non l’ho fatto apposta- le spiegò. 
Georgette rise garbatamente e guardò l’orlo dell’abito. 
- Non preoccuparti, quando si asciugherà basterà passare una spazzola e tornerà come nuovo-. 
Marguerite si illuminò, sollevata nel comprendere che non aveva perdutamente rovinato un capolavoro di costosissima sartoria parigina. 
- Davvero?- 
- Certo. Ma non volevo parlarti di questo…- fece una pausa, dando il tempo di far constatare a Marguerite che era persino imbarazzata. Tra loro non c’era mai stato imbarazzo…. 
- Vedi, tesoro, tu sei indubbiamente una bellissima ragazza, e non stento a credere che Monsieur Rimbaud si sia innamorato di te. Da oggi sei una moglie, e domani, dopo questa notte, sarai diversa. Sarai una donna. Capisci cosa intendo dire, tesoro? Cosa ci si aspetta da te?-. 
Marguerite non capiva, ma non ebbe il tempo di chiederglielo. Monsieur Rimbaud le raggiunse, annunciando che stava per essere servita la torta. La ragazza notò che l’alito gli puzzava leggermente di vino, ma decise che era un giorno di festa e che era giusto divertirsi.

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Capitolo 4
*** 3 ***


3 Marguerite tremava leggermente. 
Aveva un po’ di freddo da quando era scesa la notte, ma non aveva avuto il coraggio di chiedere a Monsieur Rimbaud di prestarle la giacca. Erano partiti quasi due ore prima , e avevano intrapreso il viaggio di nozze sulla carrozza del suo nuovo marito. Era un poco sbronzo dopo il pranzo, ma Marguerite pensò che un uomo come lui aveva il diritto di svagarsi. 
La carrozza si fermò, e il cocchiere scese per aprire la porta. Entrarono nella locanda dove dovevano passare la notte . Marguerite rimase poco distante da Rimbaud -non sapendo cosa fare- mentre questi parlava con l’oste, quando una donna le sia avvicinò. Era piuttosto tozza, con mani callose e una figura prorompente, massiccia. I capelli lunghi e ispidi, unti e divisi nettamente da una linea bianca che risaltava, erano di un cieco color nero, e gli occhi piccoli come quelli di un serpente -che vagavano da un particolare all’altro, leggendo Marguerite e quasi spogliandola, scoprendo le sua paure, la sua anima- parevano pece putrefatta al sole, sporchi e lascivi. Le mani tozze avevano unghia piccole, larghe, spezzate. Le labbra fini e pallide affettavano un sorriso distorto, che Marguerite non seppe ben interpretare. Pensò che fosse una strega e ne ebbe paura. La donna sembrò carpirne l’orrore, ma allargò volgarmente la bocca. 
- Sei una sposina- constatò, allungando una mano per toccarla. 
Lei si scansò, ma rispose educatamente di si. Le avevano insegnato che bisogna portare rispetto per le persone più grandi. Tuttavia quella donna vestita di lercio le metteva più paura di qualsiasi altra cosa. La strega –ormai era certa che una donna del genere potesse solo essere una strega- emise una risata roca e gutturale, e si avvicinò ancora di più, come se volesse stabilire con lei un contatto fisico. Marguerite fece per arretrare, ma la donna le prese fermamente il polso e la ragazza trattenne a stento un urlo. Glielo girò e le guardò il palmo della mano, soffermandosi un paio di secondi. Alzò di scatto la testa e le scavò dentro gli occhi. 
- Erano anni che non incontravo un’animella così pura- rise.- Purtroppo quelli come te non restano tali molto a lungo. Sono come le rose di maggio, belle e profumate, così delicate da poter essere distrutte semplicemente tenendole strette in pugno. E se si ha la pietà di risparmiarle appassiscono nel giro di pochi giorni-. 
Marguerite ritirò la mano e si allontanò velocemente. 
- Cosa ti ha detto quella donna?- le chiese Monsieur Rimbaud, quando lei lo raggiunse. 
- N-niente- rispose, timorosa. Non voleva turbarlo, non senza motivo. Sapeva che una moglie aveva il compito di evitare qualsiasi preoccupazione, qualsiasi peso. Che doveva essere sempre sorridente e conciliante. Era l’unico modo per godere di un matrimonio felice. Glielo aveva detto Georgette. 
Rimbaud la guardò severo, e Marguerite si chiese preoccupata cosa avesse fatto di male. 
- Marguerite, dobbiamo mettere in chiaro una cosa: tra un marito e una moglie si deve sempre dire la verità, altrimenti il matrimonio non funziona. Hai capito, cara?-. 
Marguerite annuì mortificata. Seguì il marito nella stanza che avevano preso, e intravide un sorriso tra le labbra del marito.

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Capitolo 5
*** 4 ***


4 Monsieur Rimbaud cominciò a sbottonare la camicia, e notò che Marguerite non si muoveva. Forse non sapeva cosa fare. Sorrise tra sè. Quella ingenuità non gli dispiaceva. Era ciò che lo aveva colpito di più la prima volta che l’aveva vista. Un volto d’angelo nel corpo di pantera, una sensualità di cui nemmeno lei era a conoscenza. 
Ed era tutta per sé. 
Ghignò trionfante, perché era stato clamorosamente facile sposarla. Certo, avrebbe potuto condurre in un vicolo e porre fine alla crudele tentazione che lo aveva ossessionato da quando l’aveva conosciuta,ma in parte si sarebbe sentito in colpa nel deflorare un essere così casto e ingenuo. Inoltre quel matrimonio aveva anche uno scopo politico. Accresceva la sua immagine di uomo onesto, vicino ai sacramenti cristiani, la sua notorietà e la sua credibilità in quanto candidato a sindaco della città. Qualche malalingua non si era risparmiata dal notare la giovane età di Marguerite, e questo lo aveva innervosito. La ragazzina era abbastanza grande per poter dare ad un uomo ciò che desiderava, e, visto che non l’aveva più, lui le avrebbe fatto anche da padre. L’avrebbe educata, corretta, fatto di lei una signora tra le più invidiate, sia per bellezza che per cultura. 
Si tolse la camicia, e la gettò via. Marguerite era ancora immobile, e rossa in viso. Teneva le braccia strette a sé, come se volesse proteggersi. Lo sguardo di Rimbaud cadde finalmente sui seni pieni, sulle gambe coperte dalla veste, e desiderò strappargliela via per rubarle malignamente tutta la sua purezza. Pregustando la libidine di quella notte, si avvicinò velocemente, troppo assetato per potersi preoccupare di essere gentile. 

Marguerite ricordò vagamente quello che le aveva detto Georgette quando aveva avuto la prima mestruazione. Le aveva spiegato qualcosa a proposito della concezione dei bambini, ma lei aveva appreso solo l’essenziale. Una volta, da piccola, aveva sorpreso mamma e papà che ridevano e ansimavano sotto le coperte, e la sorella le aveva spiegato che erano cose che si facevano spesso dopo essersi sposati. Ma adesso Monsieur Rimbaud aveva cominciato a spogliarsi e lei si chiese se dovesse fare lo stesso. Immaginò proprio di si, di certo non poteva lasciare coperta la parte superiore del suo corpo, anche se lo preferiva. Monsieur Rimbaud si avvicinò di corsa. Non le aveva ancora dato un bacio vero, come fanno gli uomini e le donne, ma prima che potesse pensare a quello che avrebbe dovuto fare, lui si avventò su di lei, insinuandole la lingua dentro la bocca. 
Aveva creduto che il suo primo bacio sarebbe stato una lieve pressione di labbra, che l’avrebbe fatta sentire felice, che dopo sarebbe stata colma d’amore per suo marito, che quel gesto, quello che Rimbaud stava per fare, sarebbe stato gentile, e pregava con tutto il cuore che non le facesse troppo male… 
Marguerite provò un senso di repulsione, perché il marito scavava con la lingua umida la sua bocca,l’alito che puzzava di vino le fece venire il mal di testa, ma lo lasciò fare, perché dopo il matrimonio, dopo che Dio li aveva consacrati l’uno all’altro, come se fossero una cosa sola… Marguerite ripensò a quelle parole, e ricordò i dettagli, a cui inizialmente non aveva voluto credere, che Georgette le aveva pazientemente spiegato sull’unione carnale di moglie e marito. Sussultò lievemente, perché Monsieur Rimbaud le aveva stretto il seno, e si sentì coprire il volto di rossore. Cadde bruscamente sul letto -forse lui l’aveva spinta- e lo vide mentre si toglieva frettolosamente i pantaloni. Strinse i pugni e chiuse gli occhi, sperando che finisse presto, e udì il rumore del bel vestito bianco squarciato. Le venne da piangere, perché amava molto quell’abito, lo aveva disegnato lei, e sua sorella aveva passato intere notti a cucirlo. Magari si poteva aggiustare… 
Sbarrò gli occhi quando sentì il petto nudo e la lingua di Rimbaud che le bagnava la pancia e i capezzoli, e il suo peso le faceva male. Con un gesto fu privata anche delle mutande, e Monsieur Rimbaud le spalancò a forza le gambe. A quel punto non trattenne più le lacrime. Afferrò le lenzuola del letto e le strinse più forte che potè. Si sentì toccare ruvidamente, prima con le mani, e sentì una fitta di dolore. Poi qualcos’altro si insinuò dentro di lei. Si lasciò scappare un grido e si sentì mortificata, perché non avrebbe dovuto, avrebbe innervosito Monsieur Rimbaud. Strinse i denti e lo guardò preoccupata, ma lui non sembrava neanche essersene accorto. 
Aveva un’espressione che non gli aveva mai vista . 
Per la prima volta da quando lo conosceva, ne ebbe paura.

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Capitolo 6
*** 5 ***


5 3 anni dopo 

Marguerite spostò il suo ombrellino per beneficiare del tepore del sole. 
Controllò che suo marito non la stesse guardando attraverso la finestra del suo studio e che non ci fosse nessuno della servitù, poi scostò il parasole e lo lasciò cadere graziosamente sul prato, con noncuranza. Avrebbe detto a Hugo che era stata così sbadata da dimenticarlo da qualche parte. 
Al diavolo lui e le sue maledette premure. 
Si alzò il vestito e si allontanò il più possibile dall’oggetto incriminato, nascondendosi dietro il muro del cortile. 
Si sedette per terra e prese il libro, sorridendo tra sé della sua piccola trasgressione. 
Madame Bovary era il suo romanzo preferito, ma era stato proibito per qualche anno. C’era stato persino un processo che aveva coinvolto tutta la Francia. Marguerite aveva voluto leggerlo non appena possibile, ma naturalmente Hugo gliel’aveva proibito. 
Lo aveva cercato nella biblioteca di Bordeaux, che da quando il marito era diventato sindaco, era aperta solo due volte a settimana. Aveva mandato Sandrine, la sua cameriera personale, per non permettere che nessuno sapesse che Madame Rimbaud leggeva libri del genere. Naturalmente Madame Bovary non aveva nulla che potesse davvero fare scandalo. Non era permesso scrivere cose del genere, se non metaforicamente. Semplicemente era troppo realistico. E Marguerite vi si rispecchiava fin troppo. Non era di un carattere volubile e capriccioso come quello di Emma, ma comprendeva la sua voglia di passione. Il suo desiderio di felicità. Oh, Hugo era molto diverso da Charles Bovary. Ogni volta che la toccava, lei cercava di sfuggirgli, ma alla fine vinceva sempre lui. Viveva uno stupro ogni volta, da tre anni, e alla fine si era abituata a cedere e a sperare che finisse presto. Nonostante questo, non avevano avuto nessun figlio. Hugo ne era molto irritato, alcune volte l’aveva picchiata. Voleva un erede, e lei non era in grado di darglielo. Certo, Monsieur Rimbaud aveva già la sua età, ma sembrava che questo non contasse nulla. 
Si era pentita di averlo sposato già la mattina dopo la sua prima notte di nozze. 
Si era accorta dopo, crescendo, che era stata manipolata dalla sorella. 
Le lacrime le punsero gli occhi. 
Georgette si era sposata con un borghese più povero di Hugo, ma lei lo amava davvero. Aveva avuto una splendida bambina, e aspettava il secondogenito. Ogni tanto le chiedeva un piccola somma di denaro per andare avanti. Lei gliela dava solo per il bene della nipote, ma in cuor suo la disprezzava. Era stata una povera ingenua. Ed era troppo piccola per capire che cosa avrebbe comportato il matrimonio. Quelle parole, durante il pranzo di nozze…- domani, dopo questa notte, sarai diversa. Sarai una donna. Capisci cosa intendo dire, tesoro? Cosa ci si aspetta da te?- le facevano venire i brividi. 
Non l’aveva capito. 
Non poteva capirlo. Era una bambina. 
Si asciugò il viso con il polso, ma sentì uggiolare. 
Si guardò intorno. 
Poochie, il golden retriever di Hugo, uscì da un cespuglio e si mise a fissarla. Sembrava che quando il marito non la stesse osservando, fosse pur sempre spiata dal suo cane. Per prudenza nascose il libro tra l’erba alta, ripromettendosi di andare a riprenderlo, e si alzò infastidita, seguita dal vigile Poochie.

- Tesoro, devo riferirti una spiacevole notizia-. 
Oh, certo, davanti la servitù era sempre bene conservare le apparenze, soprattutto perché si trattava del sindaco. 
Una coppia felice, ecco tutto. 
Adèle si curvò su Marguerite per servirle sul piatto il pasticcio di carne. 
Era la sorella maggiore di Sandrine e avevano lo stesso fisico longilineo, la carnagione molto chiara e i capelli fini e biondi. Gli occhi erano vacui,come coperti da una patina opaca che toglieva loro tutta la bellezza. Eppure qualche volta Marguerite vi scorgeva un barlume di luce, una miccia…qualcosa che scompariva subito dopo che provava a guardare meglio, a osservare i suoi movimenti, a misurare le parole. 
Hugo osservò la moglie. 
- Hai usato il parasole, cara? Sei leggermente arrossata-. 
Marguerite si toccò istintivamente il viso, cercando di non tradirsi con l’espressione colpevole che assumeva tutte le volte. Se voleva convivere con suo marito, doveva imparare a mentire bene. O la poca libertà che le era stata lasciata sarebbe svanita come in un soffio, lasciandole solo polvere. 
- L’ho dimenticato da qualche parte, signore-. 
Rimbaud corrucciò le sopracciglia e congedò la cameriera. 
- Puoi andare, Adèle -. 
Adèle finì di servire e se ne andò con un breve inchino. 
Quando la porta della stanza da pranzo fu chiusa, Hugo tornò a guardarla. 
Marguerite teneva gli occhi bassi sul piatto, come se non si fosse accorta di nulla. 
- Quante volte ti ho detto che il sole è forte in questa stagione, e che devi usare il parasole?- esordì duramente. 
Marguerite strinse il pugno sotto la tavola per non mettersi ad urlare, e ingoiò il boccone che stava masticando. Alzò gli occhi su di lui al limite della furia, ma si costrinse a placare la rabbia e ad adottare un tono di voce più conciliante. 
- Sono certa che un po’ di sole non mi abbia fatto niente. La prossima volta starò più attenta-. 
Odiava essere condiscendente, odiava esserlo con lui. L’orgoglio le bruciava fin nelle viscere. Non sopportava di dover rendere conto e ragione a quell’ estraneo , a quel bifolco mascherato da agnello. 
Vide che i muscoli del viso gli si contrassero. 
Così ebbe paura. 
E’ qualcosa che ti rende irrazionalmente cauto,quasi paranoico, e Marguerite lo aveva imparato a proprie spese. 
- Cosa volevi dirmi?-. 
Sperò che ciò bastasse a cambiare argomento. Forse aggiunse anche uno sguardo implorante, perché Hugo scosse la testa e rispose: 
-Dobbiamo partire-. 
- Come mai?-. 
-Sto prendendo in considerazione l’eventualità di candidarmi a sindaco di Parigi -. 
Marguerite restò interdetta. Parigi… Avrebbe sempre voluto vederla. 
Respirare il profumo della baguette, vedere la Senna scorrere sotto i ponti, ammirare Notre-Dame… Lei e Georgette lo desideravano tantissimo da piccole. Pregavano spesso il padre di portarle con loro, quando partiva per i suoi viaggi d’affari, e lui rispondeva ce lo avrebbe fatto quando sarebbero cresciute. 
Il ricordo la distrasse un momento, ma non le fece male. 
Ormai, non le faceva male più nulla.

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Capitolo 7
*** 6 ***


6 Bussò alla porta mal ridotta della casa. 
Nonostante tutto, Georgette restava sempre sua sorella. 
Anche se aveva pianificato per bene il matrimonio con Hugo, alla fine si era ritrovata a vivere in una misera casupola, accanto agli zii. 
Non erano ricchi. 
Non andavano ai balli, non avevano gioielli, non possedevano cavalli o carrozze. 
Marguerite avrebbe dato tutto questo per essere al loro posto. Per essere felice come lo erano loro. 
Una donna aprì la porta. 
Georgette era ancora molto giovane-aveva solo 21 anni-, ma già qualche ruga le increspava la bella fronte. 
I capelli scombinati erano raccolti in una crocchia alta, che le affilava il viso, e teneva in mano la piccola Charlotte, di appena un anno. Ironia della sorte, non assomigliava affatto alla madre. 
Aveva bellissimi boccoli color dell’oro, e occhi limpidamente azzurri… 
Forse, era per questo motivo che Marguerite le era tanto affezionata. Le sembrava una specie di rivincita sulla sorella. 
-Oh, Marguerite!-. 
Georgette parve sorpresa, e la bambina allungò le manine paffute verso di lei. Marguerite le sorrise - alla piccola, sia ben inteso!-, e si fece largo dentro casa. L’ arredamento era modesto, ma non troppo umile. Aveva un tocco raffinato, malgrado la semplicità del mobilio. 
Georgette non aveva dimenticato le sue origini nobiliari. 
Si volse verso di lei, cercando di essere più glaciale e diretta possibile. 
- Vado a Parigi. Mio marito deve trasferirsi per via del lavoro-. 
Sapeva bene cosa avrebbe comportato ciò per la sorella. 
Non aveva più una risorsa finanziaria sicura a cui aggrapparsi. Erano in balia della modica fortuna che aveva ricevuto in eredità Pierre, la stessa che gli era valso l’appellativo di “borghese”. 
Ma Georgette era una donna esigente. 
Voleva i vestiti costosi, le comodità, amava i soldi e tutto ciò che potevano comprare. Era vissuta così per sedici anni, come darle torto? 
Adesso, Marguerite le toglieva quell’unica sicurezza che le era data, in special modo dopo che si era affaticata tanto a farle sposare l’ Uomo Nero. 
Non potè nascondere che ciò le dava una piccola soddisfazione. 
Odiava la sorella e se si fosse ritrovata in mezzo ad una strada per la sua cupidigia, la sua malvagità e il suo egoismo, avrebbe soltanto potuto riderne. 
Ma, naturalmente, c’erano i bambini. 
Si dispiacque per loro. 
Si dispiacque davvero. 
Non c’entravano niente con ciò che aveva fatto la madre, non avevano colpa. Erano creature innocenti. 
Georgette restò allibita e chinò il capo, stringendo la figlia. Quando lo rialzò, aveva il viso rigato di lacrime. 
- Marguerite…non puoi farmi questo…-. 
Anziché provare compassione, Marguerite si sentì solo pervadere dalla rabbia. 
Ecco, l’aveva usata. L’aveva solo usata. 
- Eseguo gli ordini di Hugo- ribattè. 
Georgette si asciugò il viso con la mano libera. 
- Ma tu sei sua moglie… non lo puoi convincere?-. 
Marguerite le gettò un’occhiataccia. Non poteva restare con quella donna un minuto di più. 
- A casa mia, ciò che dice lui è legge. Se mi amasse forse ti aiuterebbe-. 
Lasciò che le parole rimbombassero nella stanzetta e che il silenzio piombasse tra loro. 
Non c’era nulla da dire. Nulla che non fosse un denso groviglio di dolore, rancore e disperazione. 
Georgette sgranò gli occhi come una bella bambolina. -Ti prego, Marguerite, non abbandonarmi…-. 
La ragazza sbuffò e le scagliò addosso i suoi occhi. 
Forse Georgette non aveva mai capito niente. La condanna che le aveva inflitto. Ciò che le aveva fatto. “Eppure, lei, lei – pensò con disgusto- lei ha sposato un uomo di cui era innamorata…”. 
- Georgette…ami tuo marito?-. 
La domanda la lasciò stupefatta. 
- Che domande sono…? Certo che…- 
- Hai mai pensato che io, per causa tua, vivo una vita senza amore?- la interruppe.- Hai mai pensato che invidio la tua felicità, perché io non potrei mai essere felice? Hai mai pensato che Hugo è un barbaro senza cuore, a quello che in quanto moglie ho il dovere di fare con lui, tutte le maledette notti? Al fatto che non mi stringe mai delicatamente e mi usa come se fossi un oggetto? Hai mai pensato che la colpa di tutto questo è tua?-. 
Georgette si portò le mani alla bocca. 
Non se ne rendeva conto. 
- Pensavo che, non avendo avuto ancora figli…-. 
- Oh, si, come no…-. Una risata sprezzante le uscì dalla bocca.- Sei una povera ingenua! Hugo è un uomo fatto e finito, cosa credi?-. 
La bocca le si torse malignamente. 
Voleva ferirla. 
Voleva farle capire che l’incubo in cui viveva aveva un solo responsabile. 
- Pensavi solo a te stessa, ai soldi, ai tuoi interessi…ti faccio i miei complimenti, Georgette…hai ottenuto tutto quello che volevi. Hai sposato un brav’uomo, hai avuto la gioia di essere madre, e hai una sorella pronta a darti soldi di sui hai bisogno per campare. Cosa c’è di meglio?-. 
- No! Non è vero! Io volevo che non ti mancasse niente! Volevo solo la tua felicità!- urlò la sorella. 
La bimba nelle sue braccia scoppiò a piangere. Marguerite la guardò. 
Avrebbe voluto salvarla. 
Non si meritava una madre del genere. 
Avrebbe voluto che fosse sua figlia. L’avrebbe amata, l’avrebbe protetta. 
Sarebbe stata migliore di Georgette. In una frazione di secondo, il piano le si palesò in tutta la sua perfezione e malvagità.
Le avrebbe portato via la figlia, le avrebbe provocato un dolore uguale al suo. 
Sarebbe stata la sua vendetta. 
Così decise. 
Avrebbe dovuto farlo senza interpellare il marito. 
L’idea non le dispiaceva. 
- Dalla a me, Georgette-, propose con un sorriso sinistro.
La sorella alzò di scatto la testa e la fissò inorridita. 
- Mi prenderò cura di lei- le spiegò.- Vivrà a Parigi, avrà tutto quello che le serve, e non rischierà di morire di fame. La farò educare e ti prometto che la amerò come se fosse mia. Per una volta, non essere egoista-. 
Georgette strinse la figlia a sé, con forza. 
- No- scosse violentemente la testa.- Non puoi chiedermelo-. 
Marguerite alzale spalle. 
- Sei sempre la stessa. Ma questa volta è per la bambina. Charlotte crescerà meglio con me-. 
Georgette fece per ribattere, ma si fermò. 
- Dovrò…dovrò parlarne con Pierre…-. 
- Parto stasera, Georgette. Tuo marito non tornerà prima di domani pomeriggio. Ultima offerta-. 
Georgette scoppiò a piangere e annuì. 
- E’ un si?-. 
- Si- ansimò. 
Marguerite sorrise trionfante. 
- Preparala. Torno a prenderla tra un paio d’ore-. 
Georgette non rispose. 
Aprì la porta e la richiuse dentro di sé. 
Si sentiva appagata. 
Non provò un pizzico di rimorso.

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Capitolo 8
*** 7 ***


8 Marguerite osservò il paesaggio scorrerle davanti gli occhi. 
Charlotte era una bella bambina, tranquilla e composta, nonostante fosse così piccola, ma in quel momento, in braccio alla zia, aveva uno sguardo pressoché triste. 
Aveva pianto come una disperata quando si era separata dalla madre. 
Parlava un poco, ma era decisamente troppo piccola per capire che sarebbe stata una separazione permanente. E appunto perché era così piccola, si sarebbe presto dimenticata della vera genitrice. 
Marguerite avrebbe preso facilmente il suo posto. 
Hugo, assopito, poggiava la testa sul cuscino della carrozza. 
Non aveva fatto problemi, anzi era stato entusiasta di prendere con sé la bambina. 
Ovviamente aveva tutto un fine politico. 
L’avrebbero spacciata per la loro vera figlia –nessuno avrebbe avuto dei dubbi data la somiglianza tra zia e nipote- . 
Una famigliola felice è la pubblicità migliore per un aspirante sindaco. 
Charlotte gemette e cominciò a piangere. 
Marguerite la sollevò e le sorrise, cullandola tra le braccia. 
La bambina ripetè il nome “mamma” più volte. 
- Sono io la mamma, Charlotte. Non mi riconosci?-. 
La bimba pianse ancora, ma piano piano si calmò e si appisolò tra le braccia di Marguerite. 

La casa che avevano scelto a Parigi -o che aveva scelto Hugo- era una villa lussuosamente arredata, con ampie e luminose finestre. Avevano portato con loro solo la cuoca e la fidata Sandrine, perciò avrebbero dovuto assumere il nuovo personale. Ci avrebbe pensato Hugo nel pomeriggio. 
Non abitavano in città, ma nei dintorni attigui a Parigi. Marguerite esplorò i paraggi, ma lasciò la bambina alla cameriera, perché si sarebbe stancata presto e non avrebbe potuto portarla in braccio tutto il tempo. La campagna incontaminata, il verde, i colori sgargianti dei fiori passavano inosservati ai suoi occhi. Pensò che una volta avrebbe saputo apprezzarli, ma adesso non le importava più se il cielo era terso o i fiori stavano sbocciando. 
Individuò un albero all’ombra poco lontano e, aggiratolo per non essere vista dal marito, si sedette impunemente sull’erba ed estrasse dalla borsetta che aveva portato –Hugo non si era nemmeno chiesto perché si portasse la borsetta per andare a fare una passeggiata- il suo prezioso libro. Lo sfogliò, si guardò in giro per essere sicura di non essere vista da nessuno, e si immerse nelle vicende della sua peccaminosa compagna di solitudine.

La casa confinante alla residenza di Marguerite era una villa in stile neoclassico, elegantemente inserita nel paesaggio campagnolo, tronfia delle fronde dei propri arbusti, così ben posizionata che sembrava fosse nata insieme al paesaggio, e che ci fosse sempre stata. Il proprietario, un certo Monsieur Lemaire, l’aveva resa una residenza estiva, e ciò aveva fatto intuire ai vicini che disponesse di un reddito annuo considerevolmente alto –etichettare quella magnifica villa come “residenza estiva”, o limitare a soli tre mesi il tempo a disposizione per godere della pace, del silenzio dei boschi, dei luoghi pittorescamente vividi di verde, era poco più che un imperdonabile affronto all’ architetto dalla natura geniale, e conseguentemente tormentata, che avevo partorito il progetto di cotale splendore e, prendendone atto, aveva lavorato giorno e notte, instancabilmente, fin quando la villa, una volta terminata, era risultata talmente bella a vedersi che nessuno si sarebbe stupito se avesse scorto qualche angelo nascosto tra le nivee tende delle finestre. La casa era stata dedicata alla moglie dell’architetto, prematuramente spirata a causa di un oscuro morbo, e le era stato dato il nome di villa Helene. L’ipotesi più accreditata era che l’architetto, oppresso da debiti che nemmeno la vendita della casa erano riusciti a pagare, e tormentato dal fantasma della giovane consorte, avesse deciso di togliersi la vita. E, se l’uomo non l’avesse fatto dentro la villa stessa, qualunque fosse stata l’ubicazione del decesso, il folclore, che si sente in dovere di trasmettere una storia con la sua legittima dose di particolari macabri, avrebbe mischiato un po’ le carte e attribuito alla leggenda di villa Helene quel tocco di gotico che altrimenti le sarebbe mancato. E cosa è il gotico senza un buon fantasma tormentato che urla la notte, produce strani rumori, e cerca disperatamente il pallido riflesso della moglie scomparsa?. I fatti, comunque, indipendentemente dalla loro veridicità, erano talmente radicati nell’immaginario collettivo locale che, anche se fosse comparso l’architetto in carne ed ossa –ipotesi poco probabile dato che la villa era talmente vecchia da non poter esser rivista da nessuno dei suoi primordiali ammiratori -, la gente avrebbe continuato a credere che l’edificio fosse stato testimone dell’ultimo disperato gesto di un uomo infelice. Dato che la verità non ha nessuna importanza quando si trova in balìa dalla ferma persuasione del popolo –a tal punto che il vero risulta falso-, la misteriosa villa Helene era temuta e considerata come la casa infestata dai fantasmi, nonostante –e ciò impuntava un poco gli appassionati- fosse una residenza delle magnifiche fattezze. Pensate: nemmeno una finestra ciondolante, una torre ambigua (neanche piccola piccola…), né l’ombra di minacciose nuvole che si concentrano soltanto sopra il suo tetto –mentre il resto del cielo rimane azzurro-!. 
Monsieur Lemaire aveva un po’ dimenticato quella casa, e da qualche anno, da quando stava invecchiando e si era ammalato, non vi trascorreva più le estati. L’erba era cresciuta incolta, la polvere e la muffa sporcavano le belle mura, qualche ragazzino aveva rotto i vetri delle finestre…si stava cominciando a sperare, insomma, che stesse finalmente assumendo un aspetto che fosse degno della sua fama, quando il figlio maggiore del Lemaire, un certo Adrien, non infranse i sogni dei Parigini del luogo.

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Capitolo 9
*** 8 ***


8 Monsieur Lemaire, il figlio, aveva solo ventitrè anni, ed era suo malgrado entrato in possesso del patrimonio di famiglia alla morte del padre. Di bell’aspetto, istruito, musicista, lettore, cacciatore accanito, assiduo frequentatore dei mondani balli Parigini, ma non per questo frivolo o prodigo, Adrien Lemaire, oltre a tutti i pregi che le gentil donzelle ricercano in un buon partito, incluso fascino e denaro, aveva anche due amabili e graziose sorelle, più piccole di lui, Louise e Celine, di venti e diciotto anni. Essendo in età da marito, Adrien si era sentito in dovere di condurle a Parigi, di rispolverare la casa della loro infanzia e, da bravo fratello, trovare un buon uomo ad almeno una delle due, per consegnare nelle sue mani la felicità della prediletta. 
La casa era in ottime condizioni, nonostante fosse stata abbandonata per alcuni anni. Adrien aveva impiegato due settimane per rimetterla a nuovo: farla pulire, imbiancare alcuni punti, sostituire i vetri rotti, curare il giardino…Era ben arredata –riconosceva il gusto della madre nella raffinata eleganza del mobilio, e in special modo dell’angelo di marmo che vegliava amorevole sul portico ligneo immerso nel giardino. Adrien aspettava l’arrivo delle sorelle da lì a pochi giorni. Avevano un carattere docile, di ammirato rispetto nei confronti del fratello e della zia, alla quale obbedivano come se fossero stati padre e madre, ma non per questo sottomesse ad una cieca reverenza. 
Erano intelligenti, colte, graziose, anche se con tutti i fronzoli e le fantasie della loro età. Più volte Adrien aveva provato a riprendere i modi di Louise, che era ormai una donna, e certe volte di Celine, che a diciotto anni avrebbe dovuto cominciare a crescere. Tuttavia le due ragazze erano instancabilmente ligie al divertimento e alle civetteria, seppur adeguatamente controllate. Certe volte queste infastidivano Adrien, che sentiva di dover ricoprire un ruolo paterno ormai scomparso, altre volte lo facevano ridere, o semplicemente egli alzava le spalle. Fortunatamente la buon vecchia zia Josephine –zia Jo nell’intima conversazione tra le due sorelle- era una donna di sani e saldi principi, con la bocca perennemente serrata in un broncio arcignamente severo, gli occhi incavati e piccoli che guardavano lontano, le spalle larghe e i capelli fissi in uno chignon nero e oscuro come la pece. Incuteva un certo timore, e negli ultimi anni le prime rughe le avevano increspato la pelle intorno alla bocca e agli occhi. Non aveva più di quarant’anni, ma la sua presenza ne dimostrava almeno dieci di più. Louise e Celine la canzonavano bonariamente quando nessuno le sentiva. 
Erano ben felici di trasferirsi, avevano preparato le valigie e, scortate dalla zia materna –sempre attenta alle loro esigenze e alla loro educazione- avevano intrapreso il viaggio. In diligenza, purtroppo, poiché Adrien si era servito della carrozza per giungere prima a villa Helene in modo da dirigere i lavori di pulizia della casa. Il ragazzo attendeva dunque la loro venuta, quando si sparse in giro la notizia del trasferimento dei Rimbaud. Si diceva che Monsieur fosse un importante uomo politico candidato al ruolo di sindaco di Parigi – e che, molti aggiungevano, aveva avuto la presunzione di farlo nonostante provenisse da un paesino sconosciuto dell’entroterra (come se non ci fossero persone più adeguate da votare!)-. Madame Rimbaud era invece una giovanissima e bella donna – che chissà per quali trame aveva sposato un uomo come il marito-. In realtà più di questo non si sapeva. La signora non era mai venuta a vedere la casa, a comprare i mobili che erano stati poi sistemati. Non si sapeva come fosse fatta esattamente. Lunghi boccoli d’oro, avevano detto, labbra rosse di pesca, occhi limpidi e azzurri. Chi lo sapeva aveva solo visto di sfuggita il quadro di famiglia in cui compariva con il marito, durante il trasferimento. 
Si era già sparsa una grande ammirazione per quella dama – uomini e donne attendevano trepidanti il suo arrivo; i primi per riempirsi gli occhi della sua bellezza, le seconde per confutarla- , anche se naturalmente tutto ciò restava nell’ambito delle casette che circondavano Parigi, e residenti, avendo il carattere, i vizi e i capricci della città, non avevano tuttavia abbandonato quelle abitudini così disgustosamente provinciali. Paesane, per così dire. Loro erano cittadini DOC, sia ben chiaro. Ma anche la campagna –così tranquilla – aveva il suo fascino, fino al punto in cui cominciavano ad annoiarsi a morte e a cercare argomenti su cui spettegolare. 
Anche Adrien aveva udito quelle voci, senza restare immune alla malia della piccola leggenda di Madame Rimbaud. “perché” si chiedeva, “una donna così graziosa –persino bella per alcuni – avrebbe dovuto sposare un uomo che poteva farle da padre?”. Riteneva che il modo migliore per risolvere quel mistero fosse soltanto quello di conoscere personalmente i due personaggi – un po’ per noia, un po’ per curiosità- e quindi andarli a trovare il giorno stesso del loro arrivo, in modo da non correre il rischio di farsi influenzare dalle opinioni altrui. 
Il loro arrivo aveva preceduto di qualche settimana quello dei coniugi Rimbaud, e quando si stabilirono finalmente nella loro dimora le fanciulle chiesero il permesso di andare a visitare i nuovi vicini al fratello. No, avrebbe dovuto andare prima lui, in quanto capofamiglia. 
Si incamminò verso la villa, una mattina d’aprile, senza l’ausilio delle sorelle, non immaginando quanto quell’incontro gli avrebbe cambiato la vita per sempre.

Marguerite alzò gli occhi dal libro e guardò la campagna stendersi davanti a sé. Non che la vedesse davvero, fissava soltanto un punto indefinito dell’orizzonte. In quei momenti la sua mente era completamente vuota, o forse così piena da non accorgersi dei mille pensieri che cozzavano gli uni contro gli altri. Restò così per qualche tempo, fin quando, sbattendo le palpebre, non s’accorse di una bruna figura che si avvicinava sempre di più a lei. accortasi del pericolo, balzò in piedi e sistemò la veste, ma si ritrovò Madame Bovary tra le mani.
Non avrebbe dovuto sapere nemmeno cosa fosse quel libro. 
Se Hugo avesse scoperto che lo possedeva lo avrebbe come minimo bruciato. 
Sentiva già le sue parole rimbombarle nelle orecchie. “scellerata!”, “mia moglie che legge libri del genere?!”, “cosa penserà la gente?”, e via dicendo…le avrebbe dato della sgualdrina e l’avrebbe presa per i capelli. Inorridì, cercando disperata un posto dove nasconderlo. Ma la figura nera- un uomo- era ormai così vicina da poterne distinguere i lineamenti. Ricacciò indietro le lacrime, sistemò i capelli, si diede un contegno e capovolse il libro, in modo che non se ne potesse vedere il titolo. Attese che il gentiluomo arrivasse, arricciandosi i capelli tra le mani per via del nervosismo.

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Capitolo 10
*** 9 ***


9 L’uomo –il ragazzo- aveva davvero una bella presenza. Marguerite studiò i suoi tratti, le mani affusolate, quasi femminee, i profondi occhi scuri, i capelli mossi che ricadevano gentilmente sulle guance. 
Si fissarono un attimo. 
Marguerite si accorse che attorcigliava ancora i capelli tra le dita e lasciò bruscamente la presa. Il ragazzo ne approfittò per prenderle una mano, poggiare le sue labbra sul dorso e presentarsi. 
- Mi scusi l’invasione, signora…Ho saputo che vi siete trasferiti da poco e sono venuto a fare gli onori di casa…-. 
Sorrise. 
Marguerite non sapeva cosa dire. 
- Voi siete…?- le uscì soltanto. 
- Sono Adrien Lemaire, il vostro vicino di casa-. 
Monsieur Lemaire la guardò da capo a piedi. Marguerite sentì caldo, e si soffiò involontariamente con il libro. 
Si insinuò un imbarazzante silenzio. Marguerite non era abituata a trattare con uomini che non fossero suo marito. La buona educazione le imponeva di dare una risposta al giovanotto. 
Semplicemente non sapeva cosa dire. Si impose di farlo, allora, poiché lei era Madame Rimabaud, e una signora del suo calibro sapeva sempre cosa dire. 
- La ringrazio della cortesia, Monsieur. Mio marito si trova in casa-. Sorrise e accennò alla villa dietro di lei. Ecco, era stato facile. 
- Certamente-. 
Il giovane annuì, dando un’occhiata alla casa alle spalle di Marguerite. La ragazza smise di soffiarsi con il libro, paralizzandosi nella speranza che Lemaire non avesse visto il titolo. 
Lo abbassò lentamente, cercando di non dare nell’occhio, e aspettò che Monsieur le rispondesse. 
- Quale lettura vi delizia, signora?- le chiese garbatamente. 
Si sentì mancare l’aria. Maledizione. Lo odiò di un odio furente per quella domanda, e forse qualcosa trasparì dal suo viso, perché il ragazzo esitò. – Se è lecito chiedere…-. 
Si impose di ricomporsi, e fece un sorriso forzato. 
- Non pretendo che le mie sciocche letture vi interessino, monsieur. Ma sa, non c’è altro modo di passare il tempo, in campagna…-. 
Adrien Lemaire annuì, ma aggiunse:- Beh, sarebbe cosa lieta trascorrere qualche ora domani sera al ballo che do in onore delle mie sorelle, alla mia dimora. Posso sperare di vedervi insieme a vostro marito?-. 
Marguerite lo scrutò. 
Un ballo. Aveva partecipato a qualcuno di questi, oltre al primo da debuttante, ma non era mai stato niente di esaltante. Hugo non era un ottimo ballerino. Tuttavia era curiosa di conoscere il nuovo vicinato, e non aveva niente da fare per la sera dopo. Forse Hugo aveva in mente qualcosa. Ma lei preferiva di gran lunga il ballo, noioso o meno che fosse. 
- Dovrò chiedere a mio marito, ma suppongo di si-. 
Sorrise riconoscente, l’aveva salvata da un’altra notte d’agonie. 
Anche lui sorrise. Marguerite sentì una morsa allo stomaco, e si morse il labbro. Quando si rese conto che il libro le stava scivolando di mano, era troppo tardi. 
Madame Bovary cadde aperto sull’erba, e Monsieur Lemaire si premurò di raccoglierlo, facendo ben attenzione a non guardare il titolo stampato a caratteri porpora. 
Glielo riconsegnò, avvicinandosi fin troppo a lei. 
- Non lo dirò a nessuno- sussurrò. 
Marguerite ricevette un colpo al cuore. 
Si scostò come se non avesse detto niente, le prese di nuovo la mano e la baciò delicatamente. 
- A domani- la salutò. 
Si voltò e si allontanò. 
Marguerite non seppe cosa pensare. Restò inerme per qualche minuto, il respiro affannato e il viso accaldato.
Avrebbe dovuto tenere lontano quell’uomo.

Adrien si allontanò parecchio da Madame, prima di potersi concedere un sorriso. La signora Rimbaud era una creatura a dir poco angelica, la sua fama non le rendeva giustizia. La pelle lattea, morbida e delicata, che si imporporava rapidamente sbocciando come un timido fiore era tra le visioni più piacevoli che avrebbe conservato per il resto della sua vita. La figura snella e flessuosa, i profumati ricci biondi, l’eleganza innata dei movimenti e quegli splendidi occhi chiari gli avevano fatto seccare la gola. Era la donna più bella che avesse mai visto. Perché nonostante avesse l’età di Celine, non era più una ragazza. Lo era stata, probabilmente, ma adesso era una donna fatta e finita. Una donna che sapeva imporsi, se necessario, e ostentare un’alterigia che avrebbe fatto intimorire chiunque. Rispondeva garbatamente, ma freddamente, senza tremiti nella voce. Appunto, era tutto ciò che ostentava. Ma quel toccante rossore, quella improvvisa e umana debolezza, facevano vibrare le corde del cuore molto più di quanto la voce tagliente incutesse soggezione. Adrien ne era incantevolmente affascinato, ma si lasciò sfuggire un gemito. Quella donna era sposata ad un altro uomo. Un uomo molto più grande di lei, un nonno, che si beava dei suoi sorrisi, dei suoi imbarazzi, e delle sue grazie. Provò una rabbia improvvisa, e strinse i pugni conficcando le unghia nel palmo delle mani, fin quando non gli fece male. Sicuramente era un uomo legato al buon costume, uno dei tanti conformisti di vecchia generazione attaccato alle sue idee e alla facciata ipocrita della società. Sbuffò, perché un uomo del genere non avrebbe meritato di sposare quella donna. Madame Rimbaud non era solo un bel visino, di questo ne era sicuro. Si era illuso, all’inizio, fino al momento in cui aveva visto il titolo del libro che teneva in mano. Un libro della quale si vergognava, a causa del marito, ma che in realtà rappresentava la pure e semplice verità, quella per cui la gente “per bene” faceva finta di scandalizzarsi. La verità, gli era sembrata. E la rivelazione, la sensazione che con quella donna avrebbe potuto parlare, parlare davvero, lo aveva spinto ad invitarla al ballo. Ma avrebbe dovuto farlo comunque, no? sarebbe stato maleducato non invitare i nuovi vicini, anche se avrebbe fatto volentieri a meno del marito. 
Scosse la testa. 
In fondo non conosceva Monsieur Rimbaud, non aveva nemmeno voluto vederlo. Magari era un brav’uomo e lei lo amava. Magari. All’improvviso si chiese se la coppia avesse dei figli, e si sentì ribollire il sangue nelle vene. Nessuno aveva parlato o sentito parlare di bambini, e Madame non ne aveva fatto accenno. Non che avesse parlato molto, ovvio. Si scoprì a sperare che non fosse così, e scosse di nuovo la testa. Era già arrivato a casa.

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Non ho pensato ci potesse essere l'angolo dell'autrice! xD (oddio definirmi autrice mi sembra anche troppo...).
Comunque volevo ringraziare Miky che commenta sempre puntualmente *____* E poi anche
VeraAuxilia 04  che  ha cominciato a leggere la mia storia, Hey There Delilah (che si è firmata Lily): Per entrambe,  adoro i commenti dedicati ai personaggi  *_____* e infine   cussolettapink che mi segue dal prologo ^^ . Inoltre, se esistono (ma ho molti dubbi in proposito, anche se vedo tante visualizzazioni xD) coloro che leggono senza commentare ^^

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Capitolo 11
*** 10 ***


10 Adrien varcò la porta di villa Helene sopraffatto ancora dal fascino ribelle della giovane signora, e le sorelle gli andarono incontro. 
- Com’è andata??- si precipitò a chiedere Celine. 
Adrien nascose un sorriso voltandosi per posare la giacca, e si diresse tranquillamente in soggiorno. Louise gli venne dietro, conoscendo abbastanza il fratello da capire che più gli avrebbero fatto pressione, meno si sarebbe spicciato a parlare. Si sedette nella poltrona accanto a lui, riprese il proprio lavoro di ricamo e lasciò alla sorella lo sforzo di indurre Adrien a sillabare qualche notizia. Zia Jo fece capolino dal piano di sopra e lanciò un’ occhiataccia a Celine. Non tollerava quegli schiamazzi, soprattutto se provenivano da una ragazza di buona famiglia e dell’età della nipote. Santo Cielo!, a diciotto anni ci si aspetta un po’ di decoro! 
Tuttavia Celine non la vide, o fece finta di non vederla, e continuò ad interrogare il fratello con mille reclami. Alla fine si risolvette a risponderle, cogliendo un infinitesimale frazione di secondo in cui la sorella stava prendendo spazio tra una domanda e l’ altra. 
- Ti dirò, Celine, se fossi la metà di ciò che è quella donna, mio cognato - giacchè avrei un cognato già da un pezzo- sarebbe l’ uomo più felice di questa terra-. 
Celine parve pensarci un attimo, senza capire se il fratello la stesse o no canzonando, poi decise di passarci sopra e chiedere successivamente a Louise. 
- E’ bella?- si intromise questa. 
Adrien fissò il pavimento davanti a sè, ricordando perfettamente i tratti di madame Rimbaud, la gentile linea del collo, l’ incavatura morbida del seno, gli occhi sorprendentemente trasparenti, tanto da sembrare di potervi leggere l’ anima. 
- E’ la creatura più bella che abbia mai visto- rispose semplicemente. 
Louise si sciolse in un sorriso e zia Josephine, venutasi a sedere accanto a lei per cucire, si scompose un poco. 
Celine, ancora in piedi, battè le mani contenta, ma le abbassò di colpo quando esclamò: 
- Ma è sposata!-. 
- Brillante affermazione, tesoro-, disse Louise candidamente. 
Celine era abbastanza intelligente da capire che quello non era sicuramente un complimento, e incrociò risolutamente le braccia. 
- E l’ uomo? Che mi dici di Monsieur Rimbaud?- chiese la zia. 
Adrien parve imbarazzato e guardò la zia di sottecchi. Aveva sperato - ingenuamente- che le attenzioni delle sorelle sarebbero state tutte per la dama, ma non aveva considerato la curiosità calcolata della vecchia zia Jo, che tutto vede e tutto sa. 
- Veramente non ho avuto il piacere di incontrarlo- rispose vago. 
- Non era in casa?- lo incalzò lei. 
- Ehm…si. Ma…-. 
Insomma! mica poteva dirle che non aveva voluto vedere quell’ uomo per un’ illogica e bizzarra pulsazione! Lo avrebbe visto domani sera e già questo lo riempiva di collera. 
- Era occupato- mentì. . 
La zia lo fissò per un istante, e lui ebbe l’ impressione che sapesse che non era così. Abbassò lo sguardo sul suo lavoro e mormorò un “capisco”. 
- Li hai invitati domani sera, vero?-. 
Celine era smisuratamente felice per il ballo in suo onore, e aveva provveduto a preparare qualsiasi cosa fin nei minimi dettagli. Voleva una grande festa, e una grande festa avrebbe avuto. 
- Certamente-. Adrien alzò gli occhi al cielo. 
Celine fece un risolino. 
- Spero proprio che quell’uomo sia un vecchio antipatico! E che muoia presto, così Adrien potrà sposare la signora Rimbaud!-. 
- Celine!- la rimproverò Louise, “non è bene augurare il male alle persone!-. 
La ragazza alzò le spalle e prese il suo lavoro da cucito in mano. Si sedette accanto ad Adrien e gli sorrise. Il ragazzo si vergognò di se stesso, perchè per un attimo si era ritenuto completamente d’accordo con Celine.

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Capitolo 12
*** 11 ***


11 Marguerite lasciò che si allontanasse completamente, prima di prendere la borsetta che aveva dimenticato per terra. Guardò Madame Bovary chiedendosi se avesse potuto fidarsi del sorriso enigmatico di Lemaire. Ovviamente no. Non si era mai fidata di nessuno, perché avrebbe dovuto cominciare a farlo con uno sconosciuto? Strinse il libro tra le mani e lo mise in borsa. Non avrebbe dovuto permettere che quel tizio ne vedesse il titolo. Era stata una stupida. Si arrabbiò con sé stessa per la sua ingenuità e si sentì il viso rosso furente di ira. Sperò che almeno non fosse un bugiardo e che non rivelasse davvero a nessuno che Madame Rimbaud leggeva libri scabrosi. Cosa ci fosse di tanto scabroso in quel libro, perché Flaubert fosse stato criticato e aggredito a quel modo, poi, doveva ancora capirlo. Quanti in società avevano amanti, giocavano d’azzardo, e conducevano una vita impregnata di piacere? Molti, erano molti. Tutti facevano finta di non vedere, di non sentire, soprattutto se la data persona era ricca e potente. Ricchezza e potere facevano girare il mondo e niente e nessuno avrebbe potuto opporsi. Per fortuna suo marito, e questo era l’unico fattore positivo di Hugo, aveva una buona dose dell’una e dell’altro. Rientrò in casa e domandò a Sandrine, che giocava con Charlotte nel soggiorno, dove fosse il padrone. Charlotte gattonava per la stanza, vestita dell’abitino modesto che le aveva messo la madre prima di partire. Non avevano avuto il tempo di comprarne di più belli, ma lo avrebbero fatto domani mattina. Allo stesso tempo, realizzò che avrebbe dovuto comprarne uno per sé, per andare al ballo. La bimba, vedendola, le venne incontro. Marguerite la prese in braccio e le sorrise. 
- Sandrine, non permettere che vada girovagando sul pavimento sporco- disse alla ragazza. Doveva suonare come un rimprovero, ma aveva una nota più dolce che si era lasciata sfuggire per via della bambina.- Va’ a chiamare il padrone- le ordinò allora. 
- E’ impegnato nell’altra stanza con le assunzioni della nuova servitù- rispose la cameriera. 
Già. Le solite noie. 
- Quando sarà pronta la cena?-. 
- Tra un’ora circa, Madame-. 
- Di’ a mio marito di rimandare a domani e di concludere entro mezz’ora. Nel caso chieda di me, digli che sono nei miei appartamenti a riposare-. 
- Si, Madame-. 
Marguerite mise controvoglia Charlotte in braccio a Sandrine e salì ai piani superiori. 
Si rese conto di non aver mai effettivamente visto quella casa, tanto velocemente e segretamente Hugo l’aveva preparata. Lei era stata avvisata per ultimo, come se non dovesse importarle un trasferimento da un piccolo paesino come quello di Bordeaux ad una città grande come Parigi. Un posto vale l’altro, no? 
Esaminò una ad una le stanza, fin quando non trovò la camera da letto. 
Controllò che in corridoio non ci fosse nessuno, chiuse la porta a chiave, ed aprì la borsetta. Nascose il prezioso volume sotto il materasso del letto, incastrato con la rete, certo che la fantasia di hugo non l’avrebbe mai spinto a controllare se vi fosse nascosto qualcosa di losco, né che la sua smania igienista lo avrebbe colto da un momento all’altro costringendolo a smontare il matrimoniale per pulirlo da capo a piedi. Assicuratasi che non fosse visibile dall’esterno, tornò ad aprire la porta e guardò alla finestra, dove si godeva di un bellissimo panorama. La casa era rivolta ad est, verso il sole nascente, e alle sue spalle si srotolava la strada maestra che portava a Parigi. Di fronte, oltre lo stendersi del giardino, era visibile qualche altra villa, nascosta più o meno nella macchia. Si chiese se vi fosse quella di Lemaire, se fosse visibile da là, ma era impossibile stabilirlo semplicemente dando loro un’occhiata dalla finestra. La visione di quel giovane uomo tornò allora a turbarle la mente, ma la scacciò immediatamente. Le dava fastidio. Eppure ricomparì, definendo il suo viso, disegnando le linee del naso e della bocca, ricostruendo particolari che non si era resa conto di aver memorizzato. 
Si scostò dalla finestra e si sedette allo scrittoio. Prese carta, penna e calamaio, cominciando a scrivere una lettera a Georgette –era dovuto, in fondo- in cui le spiegava che lei e la bambina erano arrivate sane e salve a destinazione.

E come avrebbe potuto suo marito non prenderla bene? 
Il modello di famiglia felice a cui agognava Hugo Rimbaud era abbondantemente esibito proprio durante quelle manifestazioni mondane, in cui poteva mostrare il suo ruolo da capo famiglia e la sua splendida moglie. L’affidabilità e la fiducia erano i sentimenti che voleva ispirare, sebbene la sua faccia ispirasse qualcosa di molto diverso. Trasparivano molto di più, invece, dalla presenza della moglie, e, come se se ne fosse accorto, Rimbaud la trascinava ad ogni ballo di Bordeaux, a quei pochi che c’erano, e ai molti che lui stesso dava a casa sua. 
Il giorno dopo Marguerite, Charlotte e Sandrine andarono a Parigi, che non distava più di mezz’ora in carrozza. Era la prima volta che tutte e tre vi si recavano, e Marguerite era emozionata. Teneva stretta la bambina, stando attenta ai passanti e alle vetrine delle boutique. Qualcuno la guardava sfacciatamente –soprattutto le giovani signore-, altri le rivolgevano un’occhiata ma non si soffermavano. L’allegro chiacchiericcio delle vie le inondava piacevolmente le orecchie di suoni sconosciuti –Bordeaux era sempre stato un paesino tranquillo- e i colori sgargianti della primavera dipingevano ogni angolo. Le strade pulite e costeggiate di aiole, i lampioni illuminati dall’innovazione del XIX secolo, l’elettricità, i palazzi elegantemente costruiti e decorati, segnati indelebilmente dall’influenza dell’Art Nouveau, si imprimevano e si scolpivano negli occhi di Marguerite. Se non poteva più provare interesse o piacere in un cielo terso o nella bellezza dei fiori, tuttavia rimase colpita dalla modernità parigina, di cui non mancava di carpire ogni segreto. La campagna –soprattutto da quando aveva perso l’abitudine di osservarla- era diventata ben poca cosa. Si augurò che Hugo riuscisse a vincere le elezioni, in modo da rimanere per sempre in quella città. Fu a quel punto, dopo esser andata da una sarta per far cucire qualcosa di appropriato a Charlotte, che entrò in un piccolo negozietto di meritata fama. L’ invenzione della macchina da cucire e la produzione in serie dei vestiti aveva reso più possibile acquistare abiti, non soltanto dal punto di vista economico. I nastri e i merletti appesi alle pareti e agli scaffali, le stoffe e i pizzi, qualsiasi cosa attirava la sua attenzione. Marguerite si sentiva come stregata da quel magico posto. Desiderava toccare tutto, guardare ogni cosa, spendere fino all’ultimo centesimo. Consegnò la bimba nelle mani di Sandrine e si diresse verso un cappellino di paglia. Nel momento in cui la ragazza la chiamò “Madame Rimbaud”, due figure femminili si voltarono verso di lei. Erano entrambe brune, con i capelli parzialmente legati, gli occhi grandi e vivi dello stesso colore marrone, ed erano molto graziose, presumibilmente della sua stessa età. Si scambiarono un’occhiata, ma Marguerite, prima di rispondere a Sandrine. Si curò di prendere in mano il cappellino. Una di esse le si avvicinò. Erano scortata da una signora dall’aria severa e i capelli spaventosamente neri, con qualche traccia di grigio qua e là. 
- Non per recarvi troppo disturbo, signora - le disse – ma abbiamo sentito, se non vi sembra troppo inopportuno chiedervelo, che portate il cognome Rimbaud e ci chiedevamo se per caso voi foste andata di recente ad abitare in una villa appena fuori Parigi-. 
La ragazza era leggermente più alta dell’altra, ma, al contrario, aveva un portamento più elegantemente contenuto. Marguerite si meravigliò per quella domanda, e rispose affermativamente. La due ragazze allora si illuminarono, mentre la signora insieme a loro rimase tassativamente arcigna. Intervenne quindi la seconda, con una vivacità nettamente superiore a quella della prima –e a cui, tuttavia, la vivacità non mancava- e con una compostezza gelosamente celata – in verità praticamente nulla. Unì con un tonfo le mani e quasi urlò:- E’ lei! e’ Madame Rimbaud!-. 
A quel punto la signora dai capelli neri diede segno di essere viva: alzò gli occhi al cielo e contrasse la faccia in una smorfia disgustata. Mille ruchette solcarono il suo viso e Marguerite si rese conto che non doveva avere più di quanrant’anni. Rivolse la sua attenzione alle signorine che aveva di fronte e immaginò quale potesse essere il modo migliore per domandare chi diavolo fossero. Le venne incontro la prima, quella più alta, che vedendola disorientata, fece un piccolo inchino e si presentò: 
- Perdoni mia sorella, signora. Siamo Louise e Celine Lemaire, questa è nostra zia, Mademoiselle Binet, e abitiamo a Villa Helene, giusto vicino a casa vostra. Avete incontrato nostro fratello ieri, che vi ha invitata al ballo tenuto a casa nostra questa sera-. 
Sorrise leggermente. 
L’altra, che da quanto aveva capito si chiamava Celine, la osservava con gli occhi lucidi di contentezza. Marguerite quasi indietreggiò, ma la ragazza non se ne accorse. 
- Sono davvero felice di conoscerla, nostro fratello ci ha parlato molto bene di voi. Avremmo comunque fatto la vostra conoscenza questa sera-. 
Ciò che sorprese Marguerite era il fatto che la signorina Lemaire sembrava sul serio felice di vederla. Insomma, tutte le volte che l’aveva detto lei a qualcuno il sentimento non era provato sul serio, o per lo meno non lo era così tanto. 
Il suono “nostro fratello ci ha parlato molto bene di voi” le provocò uno spasmo allo stomaco. Si chiese per l’ennesima volta se avesse parlato a qualcuno di quel libro, anche se considerò che, se l’avesse fatto, forse le sorelle non avrebbero una tanto alta opinione di lei. Decise che Lemaire aveva tenuto la bocca chiusa, e si sforzò di sorridere alle due ragazze. 
- Anche vostro fratello mi ha parlato di voi –sorrise. –Mi sembra una persona davvero…-inghiottì il boccone-…squisita. E inoltre questo ballo è un’ottima occasione per conoscere i vicini e i parigini in generale-. 
Sorrise di nuovo. 
Notò che lo sguardo della più piccola si spostava oltre le sue spalle, infatti ella chiese: 
- Quella bambina è vostra figlia?-. 
Il brusco cambiamento d’umore –l’aveva detto con un tono di voce sorpreso e vagamente accusatore- la meravigliò non poco. 
Si girò verso Charlotte, e indicò a Sandrine di farsi avanti. 
- Si, è mia figlia. Si chiama Charlotte-. 
La bugia le era risultata naturalissima. In verità aveva sempre considerato la piccola come sua figlia- non soltanto per i tratti fisici che le somigliavano- e le era sembrato normale chiamarla in questo modo. 
- E’ davvero una bellissima bambina-, disse Louise a mezza voce. 
Celine aveva inspiegabilmente messo il broncio, così la ragazza si affrettò a dire: 
- Oh, credo sia meglio che adesso andiamo. Ci sono tante cose da fare prima di stasera! E’ stato un vero piacere conoscervi!-. 
Si inchinò nuovamente e si diresse, insieme alla sorella e alla zia, verso l’uscita del negozio.






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Angolo autrice:
@Hey There Delilah : Grazie per il commento e i complimenti ^^ Sì, la famiglia è un elemento importante, non solo nella vita di Adrien... In particolare ci saranno alcune sottotrame concentrate su uno dei suoi componenti ;)  Rimbaud è un essere abominevole, punto u.u Adrien ha 23 anni, l'ho scritto all'inizio del capitolo 8 ^^

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Capitolo 13
*** 12 ***


13 Adrien attese che le sorelle terminassero gli ultimi preparativi per l’evento della serata. La zia Josephine seguiva l’andazzo delle giovani dalla sua poltrona, con il ricamo in mano, mostrando qualche smorfia infastidita quando Celine alzava troppo la voce o Louise faceva accidentalmente cadere qualcosa per terra. I rimproveri non erano mai troppi, per quelle due. 
Adrien si alzò dalla poltrona e, congedatosi dalla zia, si avviò verso la biblioteca. I libri, di cui era un appassionato estimatore, troneggiavano negli scaffali impolverati, stretti gli uni contro gli altri, aggrappati ai respiri delle anime che visitavano la biblioteca. Le loro pagine fremevano sotto il tocco delle dita umane. Volevano vivere, volevano esser presi, accarezzati, sfogliati, letti. Il loro antico padrone li amava, trascorreva ore con loro. In quella casa nuova nessuno li toccava più, se non il figlio del vecchio proprietario. Il ragazzo ne prese uno a caso, si sedette sulla poltrona e lo aprì. Casualmente, il volume che si ritrovò tra le mani era Madame Bovary, di Gustave Flaubert. Spazientito, lo rimise al proprio posto e ne prese un altro. La bisbetica domata, William Shakespire. Così andava meglio. Cominciò a leggere. Cercò di concentrarsi sulla didascalia, ma le parole passavano inosservate e prive di significato. Quando, appena all’inizio, Ortensio dichiarò “Amo madonna Bianca” e Lucenzio rispose “Anch’io”, richiuse con un tonfo il libro e lo andò a posare. Un altro, ne voleva un altro. Scorse un titolo dopo l’altro, ma non gliene piacque nessuno. Bronte, Austen, Stendhal, Baudelaire, Scott, Shakespire, Goethe…Amore, amore, sempre e solo amore. Sfinito, prese a passeggiare per tutta la stanza, non sapendo che dire, cosa fare, guardando nervosamente l’orologio. Era un stupido. Era solo uno stupido. Ma cosa gli passava per la mente? Chi gli aveva dato anche solo l’autorizzazione di pensare a quella donna? Perché l’aveva invitata a quel ballo? L’aveva vista soltanto una volta. Una misera, maledetta volta. Che cosa gli prendeva? Era forse uno sciocco? Era un ragazzino, uno sprovveduto, una mezza cartuccia al primo amore? “Amore!” Lo pensò con disprezzo, “che assurdità!”. Era un’assurdità, era nient’altro che un’assurdità. Era normale provare ammirazione per quella donna, no? era assolutamente normale. Era bella. Era bella da morire. Ed era affascinante ed intelligente. Era doveroso provare ammirazione. Il suo voltò gli rimbalzò nella mente. Smise di camminare, si umettò le labbra e si passò una mano tra i capelli. Adesso basta, era un uomo, non poteva comportarsi così. Non era altro che una ragazzina, accidenti! E forse suo marito sarebbe persino diventato sindaco. Perché non avrebbe dovuto avere figli? 
Ma quel pensiero lo faceva impazzire. 
Stava ammattendo, stavo uscendo fuori di testa. Se la doveva scordare. Non aveva nessun diritto. 
Ma più se lo ripeteva, più quel viso gli tornava in mente, più il pensiero che si fosse concessa ad un altro uomo lo faceva star male. Era folle di gelosia. Geloso, lui! Di una donna che aveva appena conosciuto, geloso del marito! Era lui l’intruso, non quel politico da strapazzo. Si sedette sulla poltrona, si rialzò, riprese a passeggiare, andò alla finestra, non si era accorto che era già sceso il crepuscolo, e le prime vetture erano cominciate ad arrivare. Chissà se lei era già al piano di sotto… 
Un battito alla porta lo fece sussultare. 
- Avanti- rispose. 
Entrò Liza, la cameriera, che lo informò che le sorelle lo richiedevano. 
- Io…non mi sento molto bene. Informate le signorine che non parteciperò. Sono rammaricato-. 
Liza si inchinò e scomparve dietro la porta. 
Era meglio così. Non l’avrebbe vista. Non avrebbe più dovuto vederla. Andò nuovamente a sedersi e nascose la testa tra le mani, evitando di pensare. Ma non trascorsero nemmeno cinque minuti, che qualcun altro venne a bussare. Celine non attese nemmeno che il fratello le desse il permesso di entrare che si precipitò dentro. 
- Adrien! Alzati immediatamente! Non posso gestire tutto da sola! Non so che fare!-. Celine era in preda al panico, nonostante il tono autoritario. – Non so come intrattenere gli ospiti!- continuò. 
Adrien sollevò piano il viso. 
- Oh, che sei pallido…- sussurrò la ragazza. 
- Mi dispiace Celine, dovrete fare a meno di me…-. 
- Sciocchezze! Stai benissimo!-. 
Celine lo scrollò. Era abbattuto. Dio mio, era davvero abbattuto! Lo abbracciò forte e gli prese la mano, inginocchiandosi premurosamente davanti a lui. 
- Adrien, se vuoi dimenticarla ti riuscirà impossibile farlo da qua. Adesso è la nostra vicina di casa. Dovremo vederla spesso. E non puoi ridurti uno straccio tutte le volte. Perciò comportati da uomo e affrontala-. 
Adrien tacque. Celine gli sorrideva fiduciosa. 
- E’ già di sotto?- chiese. 
La sorella annuì. 
Sospirò e si alzò dalla poltrona. Aveva ragione. Era bizzarro ammettere che Celine avesse detto qualcosa di saggio, ma era così. 
- Andiamo a ricevere gli ospiti-.

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Capitolo 14
*** 13 ***


14 Villa Helene era maestosamente elegante, satura di aura arcana. Profumava di fiori e si passioni, segreti sussurrati e amori eterni. Marguerite ne saggiò l’essenza respirando il tempore familiare che emanava- l’irresistibile richiamo della casa sensibilizzava tutti i suoi sensi. Fremeva, voleva entrare nella villa. Fu percorsa da un brivido, ma si curò di non farlo notare ad Hugo. Finalmente fecero il loro ingresso, accolti dalle padrone di casa. 
L’interno era altrettanto affascinante. 
L’arredamento richiamava il candore delle mura ed ogni pezzo del mobilio era stato accuratamente predisposto. La sala circolare era illuminata da un grande lampadario a cristalli. Il tavolo era sistemato in fondo, e dall’altro lato sostava una piccola orchestra. Le tende dorate, momentaneamente chiuse, davano sul giardino. 
Non erano gli unici ad essere arrivati in quel momento. Hugo baciò la mano ad ognuna delle signorine, e porse un affabile sorriso e Mademoiselle Binet, che però non ricambiò. Marguerite aveva un leggero timore di quella donna. 
Hugo non faceva che ripetere “magnifico, assolutamente magnifico!” alla ragazza più grande. Marguerite lo affiancava, anche se non aveva la più pallida idea di cosa stessero parlando. La sala stava cominciando a gremirsi. Non aveva ancora incontrato il giovane padrone della villa. Si guardò intorno, vedendo solo un mucchio di gente che non conosceva, e notando che anche la minore delle sorelle era scomparsa. Poi entrambi comparvero ai piedi della grande scala marmorea che portava al piano di sopra. Due ciocche ricce cadevano ai lati del delicato viso di Celine. I capelli erano legati e fermati da un piccolo diadema posto sul capo. Il vestito bianco accentuava la figura esile. In contrasto con quell’aspetto tanto fragile, era l’espressione vivace e birichina del volto. Gli occhi mandavano lampi eccitati e percorrevano la sala, divoravano ogni dettaglio. 
Una bambina nel paese dei balocchi. 
Accanto a Celine c’era lui. 
Marguerite strinse i denti per mettere a tacere il sussulto dello stomaco. Gli occhi neri di quell’uomo la stavano impunemente fissando. La bocca carnosa era chiusa in un’espressione indecifrabile, la mascella forte e contratta evidenziava gli angoli del viso. Marguerite faceva di tutto per sostenere quello sguardo, non sarebbe certo stata la prima ad abbassarlo. Contemporaneamente, però, il fuoco le salì alle guance e le accese gli occhi. Non lo temeva, non temeva Adrien Lemaire. 
Perché avrebbe dovuto? Era solo un uomo! 
Continuarono a fissarsi, uno più fiero dell’altra, fin quando Marguerite non cominciò a sperare che si arrendesse. Era un ragazzino arrogante e sfacciato, un bel faccino che si credeva chissà chi. E lei, lei!, era stata così stupida! Gli aveva fornito un pretesto per legarla a sé. Se solo avesse detto una parola su quel libro lo avrebbe soffocato con le proprie mani. Lo detestava con tutto il cuore. Ah, certo, se la società non fosse stata così suscettibile a certi romanzi, lei non avrebbe corso nessun pericolo. Erano solo un branco di conformisti radicati nelle proprie idee ottuse e presuntuose, piccoli uomini farciti di falsa sapienza. 
Ne aveva incontrati molti, nonostante la sua giovane età, ed erano tutti uguali, a cominciare dal marito. Quando Lemaire avanzò verso di loro, Marguerite sentì aumentare il battito cardiaco. 
Louise lo accolse con un sorriso. 
- Adrien! Permettimi di presentarti Monsieur Rimbaud!-. 
Lui sorrise e Hugo gli strinse la mano. 
- Avete già fatto la conoscenza di mia moglie- disse. 
Lo sguardo di Lemaire si spostò su Marguerite. 
- Ma certo! Davvero una creatura affascinate, non molte sono le donne che si dilettano con argute letture…-. 
Marguerite spalancò gli occhi e arrossì ancora di più, a causa soprattutto del furore. 
Hugo fece una smorfia. 
- Argute letture?-. 
Monsieur Lemaire sorrise. Il velo di ironia celato dai suoi occhi e dal sorrisetto fecero venirle voglia di pestargli un piede. 
- Intendevo solo dirle che la mia biblioteca, tra le più fornite di Parigi, sarà sempre disponibile per voi e per la vostra signora-. 
- Oh- Hugo rise.- Ve ne siamo grati, ma l’unico che dovrà servirsene, se mai ce ne sarà bisogno, sarò io. Sapete, mia moglie non è molto incline a passare il tempo con frivolezze come i romanzi, e io necessiterò più che altro di volumi sulla politica-. 
- Capisco-. 
Aveva ancora quell’irritante sorrisino stampato in faccia. 
Marguerite maledì il marito per la sua stupidità, quando cominciò la musica. Le coppie in sala cominciarono a ballare , ma la ragazza si augurò che la discussione continuasse indisturbata. 
Naturalmente non fu così. 
- Spero che non vi dispiaccia se chiedo l’onore di questo ballo alla vostra consorte- udì chiedere da Lemaire. 
Ma quell’uomo era proprio uno sfrontato! Non conosceva limiti! 
Pregò che Hugo avesse l’orgoglio di pretendere per sé la prima danza con la moglie –non perché fosse più piacevole, ma semplicemente perché non voleva dargliela vinta-, ma Rimbaud diede il permesso senza nessuna opposizione. Marguerite lo mandò mentalmente al diavolo e si chiese se le fosse concesso rifiutare di ballare. 
Contro la sua volontà, si lasciò condurre al centro della sala. Lemaire le mise la mano sul fianco e la strinse a sé. Marguerite, nascondendo il tumulto che quel contatto le aveva creato, appoggiò la mano sulla sua spalla r si fece più vicino per ripicca. 
Si fissarono negli occhi e cominciarono a ballare.

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Capitolo 15
*** 14 ***


Inviti Le luci e il chiasso della sala, la musica elegante e la vicinanza di quella donna rendevano pesante la testa di Adrien. La strinse ancora –oh, avrebbe voluto stringerla per sempre!- fin quando un dolore al piede non lo costrinse ad allentare la presa. Abbassò lo sguardo notando che la signora glielo aveva pestato. 
- Scusate, sono stata maldestra!- disse soavemente lei. 
Si lasciò sfuggire un sorriso insincero. 
- Sopporterei qualsiasi cosa per tenervi tra le braccia tutta la sera- sussurrò. 
Madame Rimbaud arrossì. 
- Siete un farabutto! Come osate?! Sapevo che non dovevo fidarmi di voi!- 
- A cosa vi riferite, signora?- chiese, fingendo lo stupore che traspariva dal suo viso. 
- Avete pure il coraggio di mentire! Credevo che non avreste mai fatto accenno a quel romanzo! Invece, appena vedete mio marito, subito lo sventolate ai quatto venti! “Argute letture”! Come diamine vi è venuto in mente?-. 
Adrien impiegò qualche attimo prima di ricondurre le sue parole all’episodio di poco prima. Aveva già dimenticato tutto, perdendosi nel profumo dei suoi capelli. 
Già, perché aveva nominato quel libro? 
Bisogna dire che Adrien Lemaire aveva ereditato dal padre un certo sprezzo del pericolo e dei modi che alcuni, se non lo conoscevano bene, poteva definire arroganti. Era infatti così apparso a Marguerite, ma i suoi tormenti e i suoi stati d’animo (che avrebbero stupito molti, in netto contrasto con ciò che egli mostrava di sé alla società) erano profondamente travagliati. Semplicemente, davanti alla Parigi mondana, diventava un’altra persona. 
Spesso agiva senza che se ne accorgesse. 
Era come se due parti di lui convivessero costantemente una accanto all’altra, e si alternassero in base alla circostanza e alla convenienza. La sua parte sfacciata, Monsieur Lemaire, aveva il sopravvento in compagnia di estranei o di formalità. L’altra, Adrien soltanto, avevo libero sfogo nella familiarità della casa e nell’affetto verso la zia e le sorelle. Certo, non avrebbe potuto spiegare tutto questo a Madame Rimbaud. Ma desiderava immensamente che lei conoscesse il vero Adrien. Con quella misteriosa donna voleva essere solo se stesso. 
Non avrebbe dovuto giocare col fuoco, eppure era ciò che stava facendo. 
Quella donna inibiva i suoi sensi. La ragione si perdeva tra le sue braccia bianche e gli occhi azzurri. 
All’inferno. Ecco, sarebbe andata all’inferno per lei. 
E quando realizzò tutto questo ne ebbe paura. 
Un lampo di consapevolezza sfiorò i suoi occhi, e per un attimo temette che lei l’avesse carpito. 
- Mi perdoni se l’ho turbata, signora. Le do la mia parola che non capiterà più-. 
La voce gli uscì roca e profonda. 
Madame Rimbaud sollevò le sopracciglia e si sporse leggermente verso di lui. 
Adrien studiò i contorni della sua bocca, le labbra rosse di fragola e le linee morbide che la disegnavano. Se non fossero stati lì, in mezzo ad una sola, davanti a suo marito –quell’idiota!- l’avrebbe baciata. Ricordò la bambina, il frutto dell’unione dei coniugi Rimbaud, e fu pervaso nuovamente dall’ira. Ma un solo sguardo alla dama che ballava con lui, che lo scrutava così sapientemente da sembrar buffa , bastarono a sciogliere la rabbia come neve al sole. 
- Posso…-esitò.-Posso sapere qual è il vostro nome di battesimo?-. 
La ragazza sorrise divertita. 
- Mi chiamo Marguerite, signore-. 
Adrien si scrisse quel nome sul cuore, e lo ripetè mentalmente finchè non si accorse che la musica era terminata. 
Non la lasciò, anche se le coppie si erano ormai sciolte. 
Soltanto un’occhiata di sua sorella Louise e l’insistente curiosità che si stava cominciando a creare tra gli ospiti lo indussero a far cadere lentamente le braccia. 
Adrien si scusò, la guardò un ultima volta, e si affrettò verso il giardino.





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Angolo autrice:
@Miky: Grazie per esserti ricordata ^^

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Capitolo 16
*** 15 ***


16 Marguerite lo guardò scomparire dietro una tenda dorata e rimase inerte al centro della sala. Le altre coppie si erano già disperse e chiacchieravano allegramente in piccoli gruppi. Rimase qualche secondo interdetta, senza pensare a niente. 
- Non c’è un gran caldo, Madame?-. 
Una voce allegra alla sua destra la riscosse. Si voltò e vide il faccino lieto di Mademoiselle Celine Lemaire sorriderle. Alle sue spalle, Hugo conversava amorevolmente con la più grande, sebbene i sentimenti del primo non corrispondessero a quelli della seconda. Louise era un perfetto esempio di buona educazione. Lo ascoltava, annuiva, diceva qualche parola ogni tanto. Il suo bel viso era persino concentrato nello sforzo di capire di cosa stessa parlando il logorroico interlocutore. 
Marguerite ebbe pena di quella povera ragazza, ma non si sentì in vena di andarla a salvare dalla perfidia del marito. 
Si ricordò del visino che la guardava attendendo una risposta ed annuì. 
- Tutto questo ballare mi ha messo un caldo enorme, nonostante sia solo marzo. Che ne direbbe di fare una passeggiata in giardino? E’ molto bello e sarei felice di conoscerla meglio-. 
Marguerite impiegò qualche momento per assimilare l’informazione. Giardino? Caldo? Conoscerla meglio? 
Valutò una possibile scusa per rifiutare. Aveva freddo? Stava male? Il fratello le aveva pestato un piede e non era nelle condizioni di poter camminare?, quando si chiese perché avrebbe dovuto eludere quell’invito gentile. Il fatto che da qualche parte anche lui gironzolasse per il giardino, non voleva dire niente. Che cosa le importava? Niente. Assolutamente niente. Chiederle il nome era stato solo…solo uno spunto di conversazione. Ecco. Uno spunto di conversazione. Sorrise soddisfatta della sua spiegazione. 
- Sì, penso che sarebbe piacevole-, le rispose. 
Mademoiselle Lemaire le porse il braccio ed entrambe uscirono all’aria aperta. 
Il giardino era ben illuminato, profumava di lillà. Celine le fece fare il giro della casa, e sul retro si avviava un boschetto di proprietà dei Lemaire. 
- Vi piace passeggiare, Madame?- le chiese. 
Marguerite ricordò il piacere di una volta, quando traeva godimento da ogni frammento della campagna. Amava fare lunghe passeggiate, respirare il tepore del sole, cogliere i fiori e cavalcare indisturbata. 
Sospirò. Da qualche tempo tutto era cambiato. 
- Molto-, rispose. 
- Eppure non mi sembrate felice. Pensavo di darvi un sollievo permettendovi di camminare un poco- 
Marguerite ne fu sorpresa. 
- Come mai?- 
- Beh, eravate un poco pallida. E non avete riso molto durante la serata. Sapete, i balli sono divertenti-. 
Le scappò un sorriso.- A Bordeaux i balli non erano molto divertenti, rappresentavano soltanto un modo diverso di passare la serata. Sapete, mio marito si interessa sempre di politica…-. 
- Oh, capisco. Beh, spero che questo ballo sia un’eccezione. Io e Louise abbiamo faticato molto perché riuscisse-. 
Marguerite si sentì in dovere di rassicurarla.- Posso garantirle che è un ballo divertentissimo, Mademoiselle-. 
Celine ne fu sollevata e per un po’ restarono in silenzio, ascoltando soltanto il frinire dei grilli. 
- Madame, posso farvi un domanda?-, disse ad un tratto.- Non mi permetterei mai di chiedervelo se non avessi la parziale certezza che siamo coetanee-. 
- Dite pure-. 
- Quanti anni avete? Siete molto giovane, signora, e mi ha sorpreso sapere che avete già un figlia-. 
Marguerite si sentì un attimo stringere il cuore. Se si fosse trovata con qualcun altro probabilmente avrebbe trovato il modo di sviare la domanda, o di rifiutarsi di rispondere. Aveva intuito che l’interesse della ragazza non riguardava tanto l’età, quanto il matrimonio e il fatto che avesse una “figlia”. Invece, per una volta, si sentì rispondere sinceramente. Pensò che in seguito avrebbe potuto pentirsene, ma scacciò dalla mente quella ipotesi e lasciò alla bocca il compito di liberarla. 
- Ne ho 18, Mademoiselle. Sono sposata da tre anni, e la piccola Charlotte ne ha soltanto uno-. 
Nella penombra, vide Celine sgranare gli occhi. 
- 3 anni? vi siete sposata a soli 15 anni?-. 
Marguerite annuì. 
- Avevo perso un anno prima i miei genitori. Io e mia sorella Georgette andammo a vivere con i nostri zii a Bordeaux, e lì incontrai Monsieur Rimbaud. Dopo qualche mese di corteggiamento, il giorno del mio compleanno mi chiese di sposarlo. E così mi ritrovai con la fede al dito a soli 15 anni-. 
- Perdonatemi, ma vostra sorella era più piccola?-. 
Marguerite scosse la testa.- No, aveva l’età che ho io adesso. Ma Monsieur Rimbaud voleva me, e io non potei far altro che acconsentire-. 
Celine guardò quella bellissima fanciulla e ne carpì l’assoluta infelicità. Pensò che Adrien non avrebbe mai permesso a lei o a Louise di sposare qualcuno che non amavano –perché era ovvio che lei non amava Hugo Rimbaud – e si disse che la vera tragedia di quella ragazza fosse che era sola al mondo. Fu colpita dalla terrificante quanto veritiera consapevolezza che Madame Rimbaud non aveva nessuno che l’amasse e nessuno che lei potesse amare, ad eccezione della figlia. 
- Oh, che sbadata!- esclamò.- Ho dimenticato il ventaglio!-. 
- Il ventaglio? Ma non c’è abbastanza fresco qua?-. 
- Oh no, no!si muore letteralmente di caldo! Perdonatemi, vado a prenderlo-. 
- Mah…-. 
- Ci metterò un attimo, ve lo prometto!-. 
Marguerite non ebbe il tempo di ribattere che Celine era già corsa via. 
Sospirò e si guardò intorno. Si trovava ai piedi di un portico di legno, nel cui centro la statua di un piccolo angelo sembrava invitarla ad entrare.
Marguerite si disse subito di uscire da quella costruzione e di attendere Mademoiselle Lemaire fuori. Ma i suoi piedi continuarono ad avanzare, facendo tutto l’opposto di ciò che le diceva le diceva la testa. Il portico circolare era decorato da fiori e piante, e ai lati vi erano due panchine. Sembrava un piccolo angolo di paradiso, un ritaglio fuori dal mondo. Si soffermò davanti l’angelo. 
Aveva guance paffute e riccioli morbidi che gli ricadevano sulla fronte. Con il viso tra le mani e le belle labbra imbronciate, i gomiti appoggiati alle gambine, osservava l’orizzonte. Nonostante le ali piumose, aveva un’aria buffamente umana. 
- Vi piacciono gli angeli, signora?-. 
Marguerite sussultò e si girò di scatto. Anche se da un paio di giorni, aveva imparato a conoscere ogni sfumatura di quella voce. Non lo vedeva chiaramente per via della penombra, ma sapeva che era lui allo stesso modo in cui sapeva che il su cuore batteva e le mani tremavano. Deglutì e risolvette di adoperare un tono di voce fermo ma distaccato. 
- Ho smesso di credere nel paradiso qualche anno fa, Monsieur Lemaire - . 
L’uomo fece un passo verso di lei, illuminato dal chiarore della luna. Marguerite non potè fare a meno di notare quanto fosse bello, con una mascella forte e le ciglia lunghe, e che sebbene il fisico o il viso fossero virili, qualcosa in quel volto sfuggiva all’eccessivo rigore. Un movimento accennato della bocca, forse, o un guizzo divertito degli occhi. Era qualcosa di molto simile ad un uomo, ma conservava ancora un brandello della propria fanciullezza. 
- E, di grazia, come mai?- chiese. 
Marguerite socchiuse gli occhi, confidando che il buio non rivelasse quell’attimo di debolezza. 
- Dei, santi, angeli, Madonne, papati…cosa ci danno? Ore di preghiere, false speranza, fiducie mal riposte. Bianco e nero, male e bene, inferno e paradiso, dov’è la giustizia? Un dio che permette le guerre, che chiude gli occhi davanti ad omicidi, truci dazioni, sangue, stupri! Un diavolo tentatore che diffonde i male, che si bea del dolore, che agisce impunito. L’unico modo per sopravvivere è cedere all’odio, corrompersi e dimenticare la coscienza, ma al prezzo della propria anima. Chi, in questo mondo, si mantiene ancora puro? Chi merita il paradiso? Bambine vendute a ricchi mercenari senza scrupoli, società ipocrite, sporche e sanguinarie! Bugia, non v’è altro che bugia in questo e quell’altro mondo, niente in cui credere, niente per cui valga la pena lottare. Il lercio contamina il puro, la notte eclissa il sole. Nè bene, né male, una sola unica creatura. Né inferno, né paradiso, soltanto questa terra meschina, e null’altra certezza se non quella della morte-. 
Marguerite continuò a tendere gli occhi chiusi, il battito incessante del proprio cuore che le assordava i timpani. Sentì che Lemaire si stava avvicinando e li riaprì controvoglia. 
Era a pochi centimetri da lei, evidentemente scosso. La sua fredda impassibilità si era sgretolata. 
- Niente per cui valga la pena di lottare, Madame? E l’amore?-. 
Marguerite si lasciò andare ad una risata isterica, coprendo la bocca con una mano e asciugando le lacrime che le spuntarono agli angoli degli occhi con l’altra. 
- L’amore, Monsieur?- disse,- l’amore non esiste, non è altro che l’illusione di poveri sciocchi! Mi faccia un esempio di vero amore, Monsieur Lemaire, coraggio! Nemmeno l’amore di un figlio verso un padre, di un fratello per una sorella è disinteressato, figuriamoci quello di un marito per una moglie! Esiste la passione, ve lo concedo. Ma quella svanisce presto e cerca altrove il suo alimento. Niente è incontaminato, e in questo luogo non vi è posto per l’amore, e non vi è mai stato-. 
Lemaire strinse le labbra. 
- Non è così, Madame. Il mondo è certo un luogo ignobile, ma esistono persone che credono in alti valori, che sopravvivono grazie all’amore. Dite così perché siete stata ferita in passato-. 
Marguerite contrasse la mascella, indignata. 
- Ferita? Come fate a dire che sono stata ferita? Mi conoscete, forse?- 
- No, ma…- 
- Siete comparso nella mia vita da due giorni, Monsieur, e pretendete di sapere tutto di me. Tralasciando il fatto che finora mi avete sempre messo i bastoni tra le ruote, trovo i vostri modi arroganti, e la vostra personalità si impone a forza nei pensieri della gente-. 
- Mi avete pensato?-, sorrise. 
Marguerite arrossì. 
- No, certo che no, perché avrei dovuto? Ma non siete altro che un impiccio, signore, di gradevole avete solo questa villa e le vostre sorelle. Mi dispiace essere franca, ma devo confessarvi che non vi sopporto-. 
Quelle parole, anziché scatenare ira o rammarico, produssero l’effetto di far sorridere il ragazzo. Marguerite ignorò lo spasmo al ventre e cercò di continuare imperterrita. 
- E in un momento del genere, voi sapete solo sorridere! Ecco, come dicevo prima! Siete un arrogante, un presuntuoso, un…-. 
Lemaire si avvicinò pericolosamente a lei. Marguerite non potè far a meno di fissare la bocca sinuosa del ragazzo, ma cercò di indietreggiare. 
- Un…-. 
Niente. Aveva dimenticato tutto. Il filo del discorso, cosa stava dicendo…cosa diavolo stava dicendo? 
Lemaire era vicino, troppo vicino. Sentiva quasi il suo respiro sulla pelle, e quel che era peggio era che aveva voglia di sentirlo. Lui alzò il suo mento con le dita e la fissò negli occhi. Avrebbe dovuto staccarsi, andarsene, fuggire da quell’uomo, ma assisteva alla scena senza poter far niente, come se si vedesse da lontano e non potesse controllare il suo corpo. 
- Voi non sapete quel che state dicendo, Marguerite – sussurrò. 
La ragazza sgranò gli occhi sentendolo pronunciare il suo nome di battesimo –chi diamine gli aveva dato quella confidenza?!-, ma non si sentì la forza di protestare. 
- Io…lo so benissimo-, riuscì a dire. 
Adrien Lemaire le accarezzò il viso con il dorso della mano, e Marguerite socchiuse gli occhi e schiuse involontariamente le labbra. 
- Oh, no invece. Non sapete che io vi amo, Marguerite, più di quanto ami qualsiasi altro essere su questa terra, che la mia passione, come la chiamate, mi ha dato torture indicibili, e da soli due giorni. Chi siete voi, ragazzina così altera, così terribile, così invitante? Chi siete voi per avere questo potere su di me, per farmi perdere il controllo delle mie facoltà, per gettarmi nella disperazione e resuscitarne subito dopo come il più felice degli uomini? Mai in vita mia avevo incontrato una donna tanto bella e tanto forte, pensavo che non ne esistessero. Mi amerete, Marguerite, e forse un poco mi amate già, o impazzirò, morirò di dolore-. 
Marguerite non riusciva a capire ciò che Lemaire le stava dicendo, ciò che volesse da lei, e tremò all’idea che qualcun altro bramasse il suo corpo. Questa volta, però, non era Hugo. Era ipnotizzata da quegli occhi scuri, da quelle labbra, dal profilo del naso, da tutto ciò che derivava da Lemaire. Deglutì, aveva la gola secca. 
- Voi…voi siete pazzo…- 
- Shh…- 
Adrien posò lievemente la sua bocca su quella di Marguerite e non vi indugiò più di qualche secondo. Vedendo però che la ragazza non rispondeva, né lo rifiutava, la prese tra le braccia e bevve da quelle labbra rosse. 
Marguerite non sapeva cosa stesse succedendo, ma il suo corpo agì immediatamente. 
Le mani esplorarono i capelli di Adrien, lo attirarono a sé, volevano sentirlo più vicino. L’incontro delle lingue divenne frenetico, fin quando la bocca di lui si spostò sul collo di lei, quel collo pallido ed esile. 
Marguerite tenne chiusi gli occhi, non voleva vedere, non voleva sapere che quell’uomo, quell’uomo che la baciava come non aveva mai fatto nessuno, di cui sentiva la tenerezza e l’ardore fino alla punta dei capelli, non fosse suo marito. Lo abbracciò, mentre lui le copriva il viso di baci, ma seppe che era una favola destinata ad infrangersi. Quell’uomo non era suo, né per amore, né per capriccio. 
Si scostò e gli vibrò un sonoro ceffone sul viso. 
- Sono una signora, Monsieur. Vi prego di non importunarmi-. 
Lo supplicò con gli occhi di non seguirla e scappò via dal portico, fuggendo il raggio di luna che rischiarava Adrien Lemaire intontito sulla soglia.







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Grazie Miky per avermi dedicato il tuo tempo ^^

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Capitolo 17
*** 16 ***


fede.

Adrien la osservò scomparire senza avere il coraggio di respirare. Si lasciò cadere lungo la colonna del portico e nascose il viso tra le mani.
Non poteva crede di averlo fatto.
Non si capacitava d’aver baciato Marguerite Rimbaud e non era disposto ad affermare che ella lo aveva ricambiato, nonostante fosse palese.
Rimase a lungo immobile, sentendo il tempo frusciargli indifferente nelle orecchie, fin quando non sobbalzò al tocco di una mano leggera.
- Come stai, fratello caro?-.
Celine lo guardava preoccupata, con la bocca fissata in un’insolita seria espressione.
Adrien non si era accorto d’avere il viso bagnato di lacrime. Prese la mano della sorella e la baciò delicatamente.
- Credo d’avere il cuore a pezzi, Celine -.
La ragazza si sedette accanto a lui, incurante del delicato vestito bianco e del pericolo che potesse sporcarsi. Adrien aveva gli occhi stravolti ed enormi, l’aria tesa e i capelli stranamente scombinati.
- Ebbene, Adrien? Cosa successe?- gli chiese apprensivamente.
- Dov’è lei?-.
- E’ andata via con il marito qualche minuto fa accusando un violento mal di testa. Non sembrava stravolta, né particolarmente frettolosa. Ma quella donna sa fingere molto bene e sono pronta a mettere la mano sul fuoco che non era un mal di testa ciò che l’ha fatta fuggire -.
Adrien la guardò e strinse le mani di lei tra le sue.
- L’ho baciata, Celine-. Alzò le spalle.- Ho baciato quella donna nonostante fosse sposata, e lei ha perfino risposto. Mi ha stretto a sé, ha passato la mano tra i miei capelli, è stata così sinceramente passionale che ho creduto per un istante che fosse solo mia-.
Celine era sconvolta dalla meraviglia e dalla gioia.
- Dunque ella ti ama?-.
Adrien rise, rise amaramente, e rivolse lo sguardo alla luna, la stessa luna a cui poco prima aveva giurato che avrebbe trovato un’altra donna.
- Non lo so Celine, non lo so proprio. Mi ha dato uno schiaffo e mi ha pregato di non importunarla più-.
Mademoiselle Lemaire era, se possibile ancora più esterrefatta.
- E tu? Cosa hai intenzione di fare?-.
- Nemmeno questo so, sorellina. L’unica certezza che ho è che amo quella donna e farò di tutto per averla-. Tornò a guardarla , un triste sorriso era disegnato sul suo volto.- Ma non ho ancora capito se tutto questo è giusto o sbagliato-.

Marguerite trascinò via dal ballo Hugo, sebbene fosse presto e non avessero ancora cenato, attribuendo ad un orribile mal di testa la causa di quella partenza improvvisa.
Rimbaud la seguì grugnendo, profondamente contrariato, ma era talmente stupido e intontito dal vino che non si era accorto del turbamento della moglie.
Nel frattempo Marguerite, salita sulla carrozza e messe a tacere le lamentele di Hugo, ebbe finalmente il tempo per pensare, per quanto le fosse penosa questa facoltà.
Il primo pensiero che le venne in mente fu rivolto al bacio di Adrien Lemaire sotto al portico, e la fece arrossire tanto che fu grata all’alcool per aver inebetito a quel modo l’intelletto del marito. Marguerite sentiva ancora la pressione delle labbra calde di Adrien sulle sue, e lo scoppio di emozioni che le aveva causato. Erano sensazioni nuove, sconosciute -dato che i baci di Hugo erano più che altro repellenti-, e si sentì come una ragazzina al suo primo bacio. Ne avrebbe conservato il ricordo per sempre, si sarebbe portata quella dolcezza nella tomba, ma Marguerite era abbastanza disincantata dal mondo da capire immediatamente che l’esistenza di Hugo rendeva quella di Lemaire irreale. Quell’uomo non esisteva –non poteva esistere- nella sua vita. Che lo volesse o meno, era legata indissolubilmente ad un altro uomo –per quanto ripugnante fosse- e l’unica soluzione era quella di liberarsi subito di Adrien, troncare le sue speranze distruggere il suo amore, rendersi odiosa affinché gli fosse più facile odiarla. Ciò le provocò quasi una crisi di pianto, al pensiero di non poter godere, come le altre persone, della felicità. E il peso di quello sciagurato matrimonio, di quell’infausta unione, le crollò addosso come un macigno, togliendole il respiro.
Per quanto fosse cambiata in quei tre anni Marguerite Rimbaud, per quanto male le avessero fatto il marito e la sorella, per quanta crudeltà si fosse insita nel suo animo, rimaneva sempre una ragazza le cui radici affondavano nell’onestà e nella santità dell’unione coniugale.
Mise così a tacere il suo cuore, una volta per tutte, e decise risolutamente di respingere le attenzioni che Monsieur Lemaire le porgeva tanto calorosamente.






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Angolo autrice:

@Giulia87: Grazie mille, spero mi perdonerete per il ritardo del capitolo ma volevo aspettare qualche commento in più ^^

@Miky: grazie mikyyyyyy *________* grazie per la tua costante presenza, per i complimenti, per gli incoraggiamenti… purtroppo hai toccato un tasto dolente, la carenza dei commenti è una cosa che mi abbatte non poco e mi porta a pensare che debba fare proprio schifo =_=

@SenzaFiato: Sono sempre felicissima di avere nuove lettrici, grazie anche a te *__*

@cussolettapink: ti preg invece, commenta, ora faccio un appello universale ç_ç


VI PREGO DI COMMENTARE, HO BISOGNO DI SUPPORTO MORALEEEE!!! ç____ç


(mi sembra un appello del tipo “fate la carità ad una povera autrice senza commenti, fate la carità, chiedo solo qualche parola, fate una buona azione”. Avete presente quella scena di Mary Poppins in cui lei scuote la palla di vetro e canta la storia della vecchietta davanti la cattedrale che vende il mangime per i piccioni e chiede l’elemosina? http://www.youtube.com/watch?v=s8xoycSYPdg Ecco, mi sento esattamente così XD

Tra l’altro io odio i piccioni .)



Volevo segnalarvi anche il mio nuovo blog, creato per le recensioni, i libri e le mie storie ^^ Spero che mi seguirete:

http://dustypagesinwonderland.blogspot.com/

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Capitolo 18
*** 17 ***


Per quanto frivola e sciocchina e civetta, Celine Marie Lemaire non era certo una stupida. Celava l’acutezza della sua mente e l’eloquenza del suo sguardo dietro l’apparenza di ragazzina e la sonora freschezza della sua risata induceva la gente a pensare che fosse solo una cara ingenua ragazza. 
Celine Lemaire, a modo suo, ingenua non lo era. Se solo avesse ampliato i suoi orizzonti, assottigliato la naturale intelligenza, acutizzato i sensi, avrebbe potuto benissimo guidare i fili della politica. 
Parigi era il suo grande teatro e la periferia il suo regno. Sapeva tutto di tutti, aveva i suoi informatori, le sue pedine e un’abile maestria nel fingere sorpresa, dispiacere, gioia, preoccupazione, esitazione, timore, felicità, depressione. 
Sventuratamente i fratelli e la zia non si erano resi conto del suo valore, né tantomeno lei ne attribuiva il ben che minimo peso: in fondo erano solo stupidi pettegolezzi di un’area ristretta di Parigi. 
L’unico che ne aveva intuito l’arguzia era un giovane stalliere, affascinato dalle doti di Mademoiselle Lemaire non meno che dalla sua bellezza. Lei sapeva che lui esisteva nei limiti del breve dialogo circa il mangime di Rosie, la cavalla di Celine, o della sua sellatura, o della sua pulizia. Jacques, così si chiamava il ragazzo, era felice di servirla. 
E di servire la sua cavalla, ovviamente. 
Ad ogni modo la ragazza si era messa in zucca che il fratello meritava un po’ di felicità, e allo stesso modo, si era persuasa che l’unica in grado di dargliela fosse Marguerite Rimbaud. Poco importava che fosse sposata, che avesse una figlia, che tenesse una posizione. 
Nemmeno quella giovane donna era felice. Marguerite e Adrien si meritavano a vicenda. 
Pensava questo quando, il giorno dopo, si diresse verso le scuderie per reclamare la compagnia di Rosie. 
Jacques la osservò così pensierosa, e si sentì arrossire constatando che quel leggero cipiglio, quei grandi occhi velati, la rendevano ancora più bella. 
- Cosa ti prende, Jacques?-. 
La ragazza gli sorrise e lui abbassò lo sguardo, sorpreso e lusingato dal fatto che quella fosse la prima parola che gli rivolgesse, da quando era giunta in quella casa, che non riguardasse la cavalla. 
- Nulla, Mademoiselle-. 
Celine studiò i tratti delicati dello stalliere, davvero poco idonei al mestiere che svolgeva, e rammentò che una volta Adrien le aveva riferito che era il figlio bastardo di un conte amico del padre . Se avesse studiato un poco avrebbe potuto accompagnare quella candida bellezza ad una eleganza dei modi e ad una finezza di intelletto che solo l’istruzione avrebbe potuto donargli. Ma in fondo,a cosa sarebbe servito? 
Sarebbe sempre rimasto lo stalliere di Villa Helene, il bastardo di un nobile che non lo aveva voluto. Celine fece scoccare la lingua sul palato. Era un vero peccato. 
Decise comunque di metterlo alla prova e di verificare se meritasse il proprio status. 
- Jacques, hai visto Monsieur Rimbaud? L’hai conosciuto?- gli chiese affabile. 
Un lampo di meraviglia balenò negli occhi del ragazzo, con grande diletto di Celine, ma egli subito li abbassò. 
- Si, signorina, più volte-. 
- Non credi sia un grand’uomo, Jacques?- domandò con fervore.- davvero uno degli uomini più squisiti che io abbia mai conosciuto! Così colto, così forte! Invidio mortalmente sua moglie!- aggiunse, con aria disincantata. 
Per quanto fosse timido e insicuro neanche Jacques era uno stupido o un ingenuo,e capì subito che quella era una prova –doveva esserla, poiché si rifiutava di accettare l’idea che anche Mademoiselle Lemaire si fosse unita allo stuolo di ammiratori incredibilmente raccolto da Rimbaud durante il ballo della sera prima. 
Non poteva essersi illuso sulla natura superiore di Celine –una delle poche certezze di quella misera vita- né accettava di credervi. 
Sentiva che se avrebbe perso ogni stima di lei se quell’ammirazione si fosse rivelata fondata, e anche soltanto l’ipotesi che lo fosse gli causava una fitta lancinante al petto. Perderla l’avrebbe reso un essere meschino ed inetto, un verme strisciante della terra. Nemmeno la bellezza di lei lo avrebbe più riscaldato. 
Solo dopo quella rapida riflessione si accorse finalmente di esserne innamorato. 
Impallidì rapidamente –la mente frastornata da quella ridicola verità- cercando al contempo un modo per rispondere alla sua signora. La risata cristallina di Celine gli parve lontana e ovattata. Non si era nemmeno reso conto che la ragazza si era avvicinata tanto finchè non la udì sussurrare: 
- Sei libero di parlare Jacques. Ti prego dimmi cosa pensi-. 
Celine si staccò e gli sorrise. 
- Beh, Mademoiselle…di certo è un uomo colto e ha tutta l’esperienza dell’età, ma…-. 
- Ma…?- lo incalzò lei. 
Jacques tirò un sospiro. 
- Ma, Mademoiselle Lemaire, è talmente stupido…elargisce il suo sapere a destra e a manca, anche soprattutto quando non è richiesto. La sua vanità supera certi limiti, espone la moglie come un trofeo o un oggetto, ed è talmente falso… ha bisogno di attrarre continuamente l’attenzione su di sè, ha bisogno di essere stimato e riconosciuto come un grand’uomo, l’uomo che in realtà vorrebbe essere, ed è un individuo pronto ad invidiare chiunque. Noioso, Mademoiselle, e petulante. Ecco ciò che mi è parso. Spero di non avervi offeso. In caso contrario sono pronto a fare le valigie oggi stesso-. 
Celine scoppiò in una franca risata e riconobbe il merito di quel giovane coraggioso stalliere. 
- Non ho nessuna intenzione di farti fare le valigie, hai detto bene. Jacques, quanti anni hai?-. 
- Ne farò venti a fine mese, signorina-. 
- E sai leggere o scrivere?-. 
Il viso di Jacques si accese nuovamente di rossore, e gli occhi di Celine di compiacenza. 
- No, Mademoiselle -. 
- Bene, mi occuperò personalmente della tua educazione. Farò di te un grand’uomo, Jacques, e pagherai il mio servigio con la tua riconoscenza. Ed ora prepara Rosie, per favore-. 
- Si, Mademoiselle-. 
Celine sorrise tra sè per la curiosa scoperta. Avrebbe deciso in seguito come sfruttare al meglio le potenzialità di Jacques, ma nel frattempo aveva aggiunto un nuovo pedone alla sua scacchiera.

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Capitolo 19
*** 18 ***


Marguerite potava le piante.
Ovviamente c’era il giardiniere che poteva farlo al posto suo, lo pagava per quello.
Ma a lei piacevano le piante, ed era una bella giornata, ed aveva cominciato a pensare che Madame Bovary avesse una brutta influenza su di lei.
Charlotte, accanto a Sandrine, muoveva i suoi primi passi e batteva allegra le manine. La bambina si era adattata presto alla vita Parigina e ai nuovi genitori. Marguerite non aveva avuto dubbi.
Certo, qualche volta lamentava l’assenza di una madre ormai lontana, ma la zia l’ammoniva dolcemente, dicendo che era lei la mamma.
Oh, lei e Georgette, in quanto ad aspetto fisico, non sarebbero potute essere più diverse, ma presto la bambina avrebbe dimenticato la sua vera madre.
Soprapensiero, si punse un dito con la spina di una rosa bianca. Imprecò mentalmente e ordinò a Sandrine di andare a prendere un fazzoletto o qualche altra diavoleria che fermasse il sangue.
La ragazza lasciò Charlotte dov’era, poco distante da Marguerite, e corse in casa.
Marguerite sospirò, guardando preoccupata il taglio che colava sangue.
Nonostante si sforzasse di far finta di niente, di non pensare e di non ricordare, quel bacio le saliva alle labbra nei momenti più inaspettati. A letto con il marito, guardando la piccola Charlotte, a colazione, pranzo e cena, in chiesa, mentre si confessava (non aveva mai confessato quel bacio, però) , camminando per le vie di Parigi, nell’inconscia speranza di vederlo, praticamente sempre. Sognava spesso quella sera e certe volte non poteva fare a meno di chiedersi cosa sarebbe stato di lei se non fosse mai diventata la signora Rimbaud. Era una domanda che da tempo evitava di porsi, ma che le era riaffiorata dopo quel bacio, di cui non poteva scordare la dolcezza.
Cosa fare, allora?
Non avrebbe potuto tornare indietro, non avrebbe mai riavuto quindici anni, non avrebbe potuto dire quel “no” in chiesa. Di nuovo, sorse tutto il rancore per la sorella. E, se mai si fosse pentita di averle tolto la figlia maggiore, subito quel sentimento volava via al ricordo di ciò che sopportava e aveva sopportato a causa di Georgette. Chissà, forse sarebbe andata lo stesso a Parigi. Forse lo avrebbe incontrato per strada, forse si sarebbero innamorati, forse…
O forse non l’avrebbe vista nemmeno, vestita miseramente come lo era un tempo. L’unica cosa che doveva a Georgette era la floridità economica. Già, ma a quale prezzo?
Si spazientì, vedendo che Sandrine non tornava ancora, e il suo sguardo cadde sulla piccola che si teneva malferma sulle gambe, appoggiata ad un albero. Si abbassò un poco e sorrise alla bellezza della bimba. Era un vero amore.
- Charlotte!- la chiamò.- Vieni dalla mamma!-.
Charlotte sorrise gaia, si staccò lentamente dal tronco e mosse qualche passo. Era arrivata a metà strada, quando cadde rovinosamente. Marguerite corse verso di lei, ma due mani furono più veloci.
La bambina fu sollevata e abbracciata, e quando Marguerite si accorse di chi fossero era ormai troppo tardi: Charlotte si aggrappava al suo collo con la forza della disperazione.
Lui.
A casa sua.
Cosa diavolo ci faceva?
Il tempo si fermò un istante, giusto la durata per permettere al suo cervello di elaborare l’informazione. Non sarebbe dovuto venire. Non avrebbe dovuto.
Monsieur Lemaire era ancora più bello di come lo ricordava, con gli occhi meri sfavillanti e un sorriso furbo sulle labbra. Le si avvicinò per porgerle Charlotte, ma la ragazza arretrò di un passo.
Adrien fece un inchino un po’ goffo, impedito dalla bimba che teneva in braccio.
- Buongiorno, Marguerite-.
Al sentir nominare il proprio nome, Marguerite fu percorsa da una scossa di cui non seppe riconoscere la natura.
- Io per voi sono Madame Rimbaud, Monsieur- lo rimbeccò stizzita.
- Perdonatemi Madame, ma chiamarvi con il nome di un uomo tanto indegno mi nausea al punto che preferisco mille volte il vostro nome di battesimo. Ma siete ferita?-.
Marguerite nascose il dito insanguinato dietro la schiena.
- Non sono cose che vi riguardano. La mia salute non vi riguarda-.
Insomma, perché mai lo respingeva? Perché non sarebbe potuta essere felice?
Perché era sposata, ecco perchè. Perché aveva dei doveri nei confronti di suo marito. Perché era così e basta.
Adrien si avvicinò un po’ troppo, tanto da destare in Marguerite la preoccupazione che qualcuno li vedesse e potesse intuire tutto. Come se portassero il marchio di quel bacio stampato in fronte.
- Statemi lontano- gli intimò.
Monsieur Lemaire le consegnò la bambina –un po’ restia a staccarsi dal suo salvatore- e, a tradimento, le prese la mano ferita.
Esaminò il dito con perizia, poi lo portò lentamente alla bocca e lo leccò. Marguerite ebbe uno spasmo allo stomaco. Ritrasse fulminea la mano e quasi si strozzò cercando di non gridare.
- Ma che diamine fate?? E se ci vedesse qualcuno?-.
Adrien ignorò la possibilità del pericolo e mirò all’argomento che più gli stava a cuore.
- Voglio vedervi, Madame. Vi prego, ditemi voi dove e quando, ma è fondamentale per la mia felicità che vi veda-.
Marguerite stentava a credere alle proprie orecchie. Quando cercava di dimenticarlo, ecco che lui si presentava con quella richiesta assurda.
- Voi siete matto – ripose, con una risata isterica che le fece gelare il sangue nelle vene. – Voi non vi rendete conto del fatto che io sono sposata, che mio marito è un pezzo grosso della politica e che ho una figlia piccola-.
Adrien rimase immobile, imperturbabile, limitandosi a fissarla negli occhi.
- Vi prego, state lontano da me- aggiunse.
Adrien tornò a sorridere con quell’aria spavalda, come se fosse sicuro del suo successo. Se c’era qualcosa che dava fastidio a Marguerite, era quella presunzione.
- Vi prego io, Madame, di non dirmi di no. Se quel bacio… se quel bacio ha significato qualcosa, vi supplico, non ditemi di no-.
Il cambiamento repentino del tono di voce la stordì.
Passare da una maschera di arroganza ad una realtà umile con una tale velocità la inducevano a pensare che Lemaire fosse solo un abile attore. Eppure, guardare in quegli occhi- sembravano così sinceri!- le fece scorgere qualcosa. Un’anima, forse, un barlume di felicità. La possibilità di scappare, di non essere Madame Rimbaud, madre di famiglia e moglie di un mostro, ma semplicemente Marguerite.
Il desiderio di amarlo –di poterlo amare veramente, di poter dare se stessa ad un uomo per la prima volta – fiorì nel suo cuore prima che la ragione potesse impedirle di osare sperare tanto.
Se di egoismo si trattava, egoista lo era già stata molte volte. Finora, l’unico gesto sconsiderato era stato quello di derubare Georgette di sua figlia. Ma ora? Peccare di adulterio era un misfatto moralmente più grave di quello di togliere ad una madre la propria creatura?
No, non lo era, anche se Marguerite era consapevole di aver dato un futuro migliore a Charlotte. Ma in fondo, non era anche ciò che aveva desiderato Georgette per lei, quando l’aveva spinta a sposare Rimbaud?
No, non si poteva paragonare. Charlotte non soffriva come stava soffrendo lei. Charlotte era piccola, stava dimenticando, si stava affezionando alla zia. Non era la stessa cosa.
Le salirono le lacrime agli occhi.
Le era concesso? Poteva aprire uno spioncino e dire di si?
- Domani pomeriggio, davanti casa tua. Farò finta di passare di lì per trovare le tue sorelle-.

Marguerite si pentì subito di ciò che aveva fatto. Appena Lemaire scomparve dalla sua vista, portò una mano sul viso, dimenticando che il dito le sanguinava ancora. La goccia le colò lungo la guancia e le sporcò il vestito, ma gli occhi vitrei non se ne accorsero nemmeno.
La sua mente era un turbinare di emozioni talmente vorticoso che credette di stare per svenire.
Charlotte, che le stava ancora in braccio, tentò, giocosamente, di asciugarla, ma si macchiò la manina paffuta.
Marguerite si ridestò e cercò di sorridere alla bambina. Guardò per la prima volta la mano che, sudicia di quei piccoli rigoletti vischiosi, aveva assunto una tonalità di colore che le ricordò la mela vermiglia del peccato originale.
Cercò di non badarvi, rimise la nipote per terra e si guardò in giro. Solo in quel momento tornò Sandrine, che si preoccupò di lavare e fasciare il dito.
Un istante prima di rientrare in casa, notò l’occhio severo di Poochie che la scrutava.



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Angolo autrice:
@Giulia87: Grazie!! Sei un bicchiere d'acqua fresca in mezzo al deserto...
Se volete anticipazioni sul prossimo capitolo le potete trovare sul mio blog!! ^^

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Capitolo 20
*** 19 ***


20 Adrien non credeva si sarebbe presentata. 
E ne aveva tutte le ragioni, perché non poteva certo pretendere che quella donna lo amasse. Non poteva pretendere che lasciasse il proprio marito e la propria figlia per inseguire un amore invisibile che le avrebbe solo fatto male. 
Se amore provava. 
Forse, se mai fosse venuta, l’avrebbe fatto solo per fuggire dalla sua solitudine. 
Lui era uno strumento. 
Era uno sfogo, una rivalsa, una vendetta. 
Gli sarebbe importato? Avrebbe avuto importanza? 
Tenerla tra le braccia, amarla come poteva fare, e non essere ricambiato, sapere che lei non provava altrettanto, gli sarebbe bastato? 
Come doveva agire? Doveva saltarle addosso, assecondare il suo desiderio, guardarla, baciarla ancora, spogliarla lentamente? O avrebbe dovuto lasciarla andare? Cosa si fa quando ami una donna con la fede al dito? 
Parlarne con le sorelle e la zia, non avrebbe certo potuto. E non avrebbe potuto nemmeno guardarla negli occhi e chiederle cosa lui rappresentasse per lei. Insomma, che avrebbe dovuto fare? 
L’avrebbe semplicemente osservata, tutto il pomeriggio, mentre intratteneva le sorelle, di cui non aveva saputo liberarsi. Guardarla gli sarebbe bastato. Oppure… oppure avrebbe potuto andarle incontro. Aspettarla a metà strada in modo che non giungesse a casa e non vedesse Louise e Celine. Si sentì un essere riprovevole, ma al contempo non riuscì a reprimere un intimo brivido di felicità. Uno stupido dal cuore villano e dagli occhi pieni di amore. Stava sorridendo tra sé, quando sentì bussare alla porta. 
Celine, come suo solito, non aspettò che le si dicesse di entrare. 
Sorrideva radiosa, e aveva la bocca atteggiata ad un leggero broncio che indossava quando aveva delle richieste da fare. 
- Ti vedo contento, fratello!- esordì. 
- Tu lo sembri di più, Celine-. 
La ragazza ridacchiò, portando una mano alla bocca. –No, veramente non più contenta del solito. Volevo domandarti una cosa, però-. 
Adrien alzò le sopracciglia. 
- In effetti ne avevo il sentore. Di cosa si tratta?-. 
- Adrien, fratello caro, tu mi vuoi bene, vero?-. 
Gli occhi di Celine diventarono inspiegabilmente più grandi, luccicanti, quasi angelici e scuri, incorniciati dalle belle ciglia. Lo sguardo implorante e sereno, le labbra semi-distese in un timido sorriso, le mani giunte a mo’ di preghiera non annunciavano nulla di buono. 
Adrien la conosceva bene. Ciò che stava per chiederle non gli sarebbe piaciuto. 
- Immagino di sì, Celine-, ripose. 
- E faresti di tutto per la mia felicità, vero, fratello caro? E per la felicità di Louise e della zia Josephine, giusto, fratello caro?-. 
Gli occhi di Celine divennero sorprendentemente più grandi e più scuri. Adrien si domandò se fosse un effetto ottico dovuto alla luce, o piuttosto una capacità innata della sorella di dilatare a proprio piacimento la pupilla. Nonostante non conoscesse effettivamente tutte le qualità della ragazza, optò per la seconda. 
- Dove vuoi arrivare, sorella cara?-. 
- Mi sto solo assicurando che tu nutra per me del serio affetto, fratello caro-. 
- Sorella cara, credo d’averti dimostrato più volte di avere a cuore la tua felicità-. 
- Dici sul serio, fratello caro? Oh, come sono felice! E farai di tutto per mantenere intatta questa felicità?-.
- Assolutamente, cara sorella-. 
Adrien sapeva di stare per incastrarsi con le proprie mani, ma lasciò correre perché incuriosito dalle motivazioni che spingevano Celine ad attuare quella sciocca mess’in scena. 
Il sorriso di Celine divenne radioso, il luccichio dei denti abbagliò Adrien, che si coprì gli occhi per non rischiare di rimanere compromesso. Celine emanava raggi luminosi da tutti gli angoli, o almeno così gli parve. 
- Or bene, fratello caro, caro fratello, avrei una preghiera da rivolgerti-. 
Adrien arretrò di qualche passo. Improvvisamente spaventato dalla splendente tenacia della ragazza. 
- Hai presente Jacques?-. 
- Jacques chi?- 
Celine alzò gli occhi al cielo. Il luccichio parve incrinarsi. 
- Lo stalliere!-. 
- Sì, mi pare di rammentarlo. Allora?-. 
- Hai mai notato le sue regali fattezze, Adrien?-. 
Adrien cercò di guardarla, togliendo le mani dagli occhi. 
- Non dirmi che te ne sei innamorata!-, sbottò. 
Celine parve offesa. La luce si incrinò ancora di più. 
- No! cosa ti salta in mente?! Volevo solo dire che quel ragazzo è molto bello, Adrien. Non è un peccato che sia solo uno stalliere, Adrien?-. 
Il bagliore cominciò a ridestarsi. 
Adrien si convinse che fosse meglio sedersi sulla poltrona, per prepararsi adeguatamente alla pazzia che avrebbe detto la sorella. 
- Dove vuoi arrivare, Celine?-. 
La fanciulla, diplomaticamente, si sedette nella poltrona accanto a lui. Cominciò a sorridere, poi a ridere così tanto che la sua solarità (era forse solarità?) aumentò vertiginosamente, fin quasi ad esplodere. Adrien era sicuro di immaginarsi tutto. E magari era davvero così. 
- Fratello caro, voglio educarlo!-. 
A quel punto il luccichio dei denti e degli occhi divenne incontrollabile, e Celine scoppiò a ridere fragorosamente, emettendo dei grugniti tra una pausa di respiro e l’altra. 
- Celine, sorella cara, tu sei fuori di testa!-. 
In realtà rideva pure lui, Adrien, e non ne sapeva nemmeno il perché. L’allegria della ragazza lo contagiò per un buon paio di minuti, ma quando si riebbe tornò serio, grigio e malinconico e sentenziò: 
- Non se ne parla proprio-. 
Appena ebbe finito di pronunciare quelle parole, di colpo il sole e la gaiezza che avevano inondato la stanza scomparvero- forse non c’erano mai stati- e la prima cosa che Adrien notò fu il tempo nuvoloso fuori dalla finestra. Celine assunse un tono di voce sofferente: 
- Oh, ma perché?-. 
Gli occhi non solo le erano tornati delle dimensioni normali, ma si erano perfino rimpiccioliti. 
- Perché è un servo, Celine! Perché dovresti istruirlo? A quale scopo? Cosa ne ricaveresti? Attireremmo soltanto le antipatie dei vicini e le ambizioni degli altri servi. E’ un’ azione totalmente inutile e ci si può rivoltare contro. Perché dovresti farlo?-. 
- Perché quel ragazzo ha delle qualità, Adrien! E non è giusto che vadano sprecate semplicemente perché suo padre non l’ha voluto riconoscere! Aveva diritto ad una vita come la nostra, invece adesso si occupa di pulire gli zoccoli di Rosie! Non è giusto!-. 
Adrien ci pensò un secondo. 
- Ma a te cosa importa, sorella? Non cambierà la sua posizione. Certo, potrà farsi strada e magari intraprendere un mestiere più colto. Ma ci vorrebbero anni, e non vedo perché noi dovremmo mantenere i suoi studi all’università. Sicura di non provare interesse per lui?-. 
Celine si indispettì. 
- No, Adrien, ho detto di no! non vedo perché per te io debba avere un secondo fine desiderando istruirlo! Mi sembra solo un peccato sprecare il suo talento. Non meriterebbe questa fine-. 
Adrien scosse la testa. 
- Mi dispiace, Celine, non posso acconsentire. Mantenere gli studi di un servo susciterebbe invidie, e dato che è quasi un tuo coetaneo, anche chiacchiere. Non posso permettere che ciò avvenga, perché ne uscirebbe danneggiato il tuo nome o quello di tua sorella. In quanto capofamiglia ho il dovere di tutelarvi. Dato che non tutti credono nei tuoi buoni propositi si dedurrà sicuramente che c’è qualcosa sotto. Si creeranno malintesi, la gente parlerà-. 
- E con questo?- ribattè lei freddamente. 
- Non posso farlo, Celine. Lo sai. Mi dispiace molto-. 
Celine sbuffò. 
- Oh, certo. Ti dispiace. Dopo tutto quello che faccio per te!-. 
- Celine, sorella cara, non avertene a male per favore. Se potessi sarei felice di acconsentire. Ti prego, non portarmi rancore-. 
Celine si alzò dalla poltrona, erigendosi come fredda e implacabile Giunone. 
- Non te ne porterò. Sia fatta la tua volontà-. 
Il contesto, nonostante le belle parole, non esprimeva molta cordialità. Sembrava più che altro una minaccia. 
Adrien, però, non potè constatarne in quel momento la veridicità, perché il suono del campanello lo portò a problemi più urgenti.









Angolo autrice:
@Shadow_Soul:  Grazie mille per la recensione di molti capitoli!! spero di non deluderti ^^.
@Giulia87: Sì, tu sei  il mio conforto *_*  Spero davvero che qualcun'altro abbia il piacere di recensirmi!

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Capitolo 21
*** 20 ***


20 Hugo Rimbaud amava i balli. 
Amava la gente che lo reclamava, lo salutava, lo riveriva. Amava essere considerato un uomo di mondo, e amava la vita politica. Amava il suo viso piacevole, il colore biondo rossiccio dei baffi e dei capelli, i completi eleganti e le luci accecanti. Amava la chiacchiera e i brusii delle grandi sale. Amava persino la moglie, a modo suo, anche se non l’aveva mai capito. 
Di certo, non amava l’idea di non aver ancora avuto un figlio. Quello era l’unico fastidio a cui non era ancora riuscito a provvedere. Sarebbe riuscito anche in questo, prima o poi, ma avrebbe dovuto sbrigarsi dato che, lo ammettesse o no, l’età cominciava ad avanzare. C’era Charlotte, naturalmente, ma per quanto somigliasse alla moglie non era figlia nè dell’una, né dell’altro, e, inoltre, era una femmina. Un maschio. Avrebbe voluto un bel ragazzo sano e forte a cui affidarsi per il resto della sua vecchiaia. 
Il rumore inconfondibile dei passi di Marguerite oltrepassò la porta. Stava andando di gran corsa, chissà dove e chissà perché. 
Non gli importava nulla se lei spendeva i suoi soldi, a condizione che fossero spesi per migliorare la sua immagine. Libri, strumenti, tele su cui dipingere, non avevano senso, non erano d’utilità, solo un grande spreco di denaro. Con i libri, al limite, potevi rifocillare il fuoco del camino. 
Spinto da un moto di curiosità, Hugo si alzò e si recò all’ingresso, dove Marguerite si specchiava controllandosi il cappellino. 
- Dove vai?-, le chiese. 
Marguerite sussultò leggermente, non l’aveva visto. Lo guardò per un secondo e tornò a specchiarsi. 
- A Villa Helene. Volevo ricambiare la visita dei Lemaire e congratularmi con le Mademoiselle per il successo del ballo-. 
La ragazza si morse le labbra e si avviò verso la porta. 
- Tornerò prima di cena, non…- 
- Aspetta- la interrupe. 
- Perché?-, sorrise incerta.-Sono già in ritardo…-. 
- Vengo con te-. 
Hugo prese la giacca, distrattamente appoggiata ad un sofà. 
- Ma…- esitò lei. 
- Qualche problema? Mi pare lecito accompagnare mia moglie ad una visita ai vicini. Daremo l’impressione di una famiglia unita, quale siamo. Anzi, porta pure la bambina-. 
- Ma Charlotte dorme…-. 
- Svegliala-. 
Il tono brusco non ammetteva repliche. 
Hugo doveva essere autoritario con quella ragazzina, o dandole un dito si sarebbe presa tutta la mano. Era un di quelle che aveva bisogno di un uomo che impartisse loro degli ordini, che fossero soggiogate per sentirsi sicure. Una sciacquetta come molte, insomma. 
E la bambina le somigliava, con i suoi capriccetti e l’aria vagamente insolente che scorgeva fugacemente negli occhi di Marguerite. 
Ma una volta cresciuta, ce ne sarebbero state pure per lei. 
In quanto a Villa Helene, non lo disturbava il pensiero di rivedere le belle proprietarie, sebbene il fratello non gli fosse riuscito simpatico. Ad ogni modo erano vicini, e come tali dovevano essere trattati, con affabilità, gentilezza e una celata persuasione. Per incrementare a tutti i costi la sua credibilità politica, doveva mostrarsi necessariamente come un uomo felicemente sposato, dalle solite basi familiari ed economiche. Perciò l’idea di prendere la bambina, se serviva a racimolare voti, non gli era parsa malvagia. 
Marguerite, frastornata, chiamò Sandrine ordinandole di svegliare e vestire la piccola. 
Quando la cameriera se ne andò, Hugo non potè fare a meno di constatare che la moglie era turbata. 
- Avevi forse qualche altro piano per questo pomeriggio, Marguerite?-, domandò freddamente. 
- No, certo. Perché chiedi questo?-. 
Hugo solcò a grandi passi la sala, arrivandole di fronte in pochi istanti. 
- Non fare la furba con me, ragazzina, sono nato prima di te-. 
Le tirò un ceffone che le fece voltare la faccia. 
Piccola insolente. 
Pretendeva di mentirgli, di prenderlo in giro. 
Le prese con forza il mento e le alzò il viso. 
- Cerca di sembrare felice questo pomeriggio, d’accordo?-. 
Le labbra si distesero in un sorriso diabolico, perfettamente conciliante al tono di voce che aveva adoperato. Le passò un dito sulla guancia arrossata e premette una mano sul suo ventre. 
- Stanotte vedremo di donare a questa casa un degno erede, e di rimettere un poco in chiaro le cose. Ho l’impressione che ultimamente ti sia presa troppa libertà-. 
L’ombra d’odio che passò per un attimo tra le ciglia di Marguerite gli fece pensare di arretrare. Rifiutando una simile idea, la prese per i capelli costringendola a ritirare la testa e a mostrare il collo e la scollatura del vestito. Tirò di più in modo da farle male e inarcare la schiena, ma avendo sentito i passi si Sandrine, la lasciò andare. Teneva infatti in braccio Charlotte, ancora insonnolita, che si tese verso la zia. 
- Andiamo-, ordinò. 
Si diressero tutti e tre verso la carrozza.

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Capitolo 22
*** 21 ***


20 L’ansia di Adrien lambiva palpabile l’aria di Villa Helene. Nell’ultima mezzora avrebbe scommesso tutto il suo patrimonio che non sarebbe venuta –una donna così stupenda non poteva ricambiarlo, era impensabile- ma quando udì lo stridio delle ruote della carrozza sul viottolo credette che da un punto all’altro sarebbe morto per l’emozione. La felicità, lo stupore e l’apprensione si contendevano il suo cuore, rincorrendosi pericolosamente e rischiando di causare un arresto cardiaco. Alla fine aveva trovato il modo di mandare le sorelle via per qualche ora, donando generosamente loro alcune banconote per fare in modo che acquistassero ciò che volevano in vista del prossimo ballo. Zia Josephine, come sua consuetudine, le avrebbe accompagnate. Era tutto perfetto, sarebbero stati soli, si sarebbero guardati, osservati, temuti. Era arrivato il momento e Adrien fremeva di gioia e preoccupazione. 
Quando Marguerite fece il suo ingresso in salotto, il giovane si sarebbe aspettato tutto, meno la presenza del marito e della bambina. Tale vista gli uccise il cuore e la speranza. Per una frazione di tempo la odiò. Lo aveva illuso, aveva ceduto e acconsentito, gli aveva promesso un incontro –un incontro in cui lui sperava ardentemente anche solo un bacio- e poi gli aveva sbattuto in faccia la cruda realtà: era una donna sposata. Ma perché tanta crudeltà? Si stava forse prendendo gioco di lui e del suo amore?
Strinse i pugni per trattenere il rancore e la guardò. 
Era bella più che mai. 
Il collo colore del latte, così tenero e delicato, sembrava invitarlo. Il seno, compresso nel busto, florido e profumato, costringeva Adrien a galoppare con la fantasia verso mondi decisamente poco pudici. Il tiepido rossore sulle guance avrebbe indotto la nazione più prudente a intraprendere guerra con la pacifica vicina. Come la leziosa Elena, incantevole e ingannevole, Marguerite Rimbaud tentava il suo Paride, consapevole che lui avrebbe venduto l’anima al diavolo per un suo sorriso. 
Ma c’era un Menelao, c’era Sparta e c’era Ermione. Adrien non avrebbe potuto ignorarlo così facilmente. 
Nel frattempo Rimbaud aveva già snocciolato le sue domande di circostanza, a cui Adrien aveva risposto freddamente e velocemente. La sua attenzione era tutta per Marguerite. Voleva –doveva- capire. Lei teneva il volto basso, le labbra contratte, la bambina stretta sulle gambe.
No, non l’avrebbe mai perdonata.

Marguerite stava vivendo il suo inferno personale e faceva di tutto per trattenere le lacrime che minacciavano di scendere copiose. Era dunque questo il suo destino? Doveva arrendersi alla volontà di quell’uomo senza cuore, senza cervello e senza umanità? Doveva essere sua ancora una volta e rinunciare al caloroso invito dell’amore?
Ecco, ci aveva provato. Ci aveva provato con tutte le sue forze. Aveva vinto le sue remore, si era convinta che ne valeva la pena, sì, di tradire quel mostro, diventare una creatura spregevole –come la sua Emma, esattamente come lei-, per amore, solo per amore, quello che non aveva mai avuto, che desiderava con tutta se stessa, solo affetto e protezione e felicità. Ma c’era quel dannato marito che la reclamava come un oggetto di sua proprietà, come qualcosa di cui usufruire a proprio piacimento e stuprare e picchiare. Voleva risucchiarle la vita, ecco cosa voleva, voleva ucciderla lentamente, toglierle la sua identità, ridurla ad una cosa inutile bella solo da mostrare. E neanche quello, no. Un giorno sarebbe invecchiata, sarebbe imbruttita, e allora cosa ne sarebbe stato di lei? Non poteva vincere contro di lui, non poteva ucciderlo –lo avrebbe fatto, se ne avesse avuto il coraggio- poteva solo subire e subire e arrendersi a quella forza demoniaca. Charlotte sorrideva contenta verso Adrien, ma lui aveva occhi solo per lei. Marguerite lo sapeva e non osava alzare lo sguardo, non osava appurare l’odio che era certa lui provava nei suoi confronti. Desiderava alzarsi ed urlare che non era colpa sua, che lei voleva accettare il suo amore e rischiare, ma che era impossibile, Hugo l’aveva seguita, non era colpa sua! 
Ma non fece niente di tutto questo. Lasciò che il marito parlasse per lei, che conducesse la visita come meglio credeva. Tuttavia non stava obbedendo al suo ordine di essere felice e contenta davanti gli occhi estranei e sapeva che per questo sarebbe stata punita. Ma non poteva farci niente.
Quella vita –se vita poteva chiamarla- era ormai intollerabile.







Angolo autrice:
Ringrazio sempre tutti coloro che si prendono la briga di commentare ^^ (siete grandi m/)

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Capitolo 23
*** 22 ***


20 Celine spalancò la porta con un tonfo sonoro.
- Oh Monsieur Rimbaud!- esclamò concitata. Il suono che le era uscito dalla bocca era un mirabile misto di piacere e stupore. Entrambi falsi naturalmente, ma quanto era brava a manovrare persino se stessa come un burattino! La ragazza, vestita con un bellissimo abito blu d’organza, irruppe nella sala interrompendo i pensieri dei presenti e le ciarle di Hugo.
- Mademoiselle Lemaire!- esclamò questi. Marguerite notò una certa spregevole malizia negli occhi del marito, che si soffermarono sulla scollatura di Celine. Quel vecchio disgustoso maiale non risparmiava nessuno.
- Devo assolutamente farvi vedere la mia serra!- cantilenò l’attrice, calcando la voce sull’avverbio. 
Celine, oltre a tutte le qualità prima enumerate, era una fanciulla particolarmente intuitiva. Come già detto, traeva piacere dal rendere felici le persone e trovava nella loro gratitudine la ricompensa delle sue fatiche. Ma ciò che la spingeva ad operarsi tanto per il fratello era un caldo e solido affetto, rafforzato dalla stima immensa che provava nei suoi confronti.
Adrien era stato il sostegno di tutta la famiglia alla morte del padre, sia dal punto di vista economico che da quello affettivo e la ragazza tentava in qualche modo di ripagarlo.
Dal modo frettoloso con cui il fratello le aveva congedate – e, soprattutto, dalla generosità da lui dimostrata quando aveva dato loro i soldi- Celine aveva capito che una tale celerità nascondeva necessariamente un secondo fine. E quale sarebbe potuto essere, se non un incontro segreto con Madame Rimbaud? 
Ne era stata contenta, naturalmente –e altrettanto contenta lo era stata per tutti gli acquisti che avrebbe potuto fare a Parigi. Ma mentre il chiasso assordante le riempiva le orecchie e i profumi delle baguettes vendute per strada le facevano venire un certo languorino, la sensazione che qualcosa non stesse andando per il verso giusto l’aveva momentaneamente paralizzata.
Stava giusto osservando un bel cappellino di paglia, agghindato con una grossa piuma di pavone, e Louise aveva invece preso un paio di guanti di camoscio color glicine, quando la sensazione l’aveva colpita dritta al cuore.
Intuito femminile, avrebbe detto qualcuno.
Sotto lo sguardo sbigottito della sorella e della povera zia Jo, aveva alzato la gonna e si era diretta di corsa verso la carrozza, cercando di giustificarsi con un “Mal di testa! Un terribile mal di testa!”.
Codesta era la scusa prediletta dalle dame francesi.
Louise e la zia l’avevano seguita con passo accelerato pregando tutti i santi di non essere viste da qualche importante esponente della nobiltà parigina e di non avere in tal modo irrimediabilmente compromesso non solo la propria reputazione, ma anche quella dell’intera casata.
- Con sommo piacere, Mademoiselle!-, esclamò Rimabud, volgendo un’occhiata raggiante anche a Louise e a Mademoiselle Binet, rosse in viso per la corsa e la vergogna.
Louise in particolare, non seppe trattenersi.
- Monsieur Rimbaud, vi prego di perdonare i modi un po’ vivaci della nostra Celine…- cercò di scusarsi. –Oh, Madame Rimbaud!- esclamò poi, notando per la prima volta Marguerite seduta di fianco al marito.
Questa fece un cenno col capo azzardando un piccolo sorriso, ma l’attuale stato d’animo non le consentiva di lasciarsi andare a nessuna gioiosa emozione, fosse essa vera o falsa.
- E la piccola Charlotte!- continuò Louise, con un certo disagio nel sorriso.
Sembrava che in quel turbinio di chiacchiere, voci, pensieri rumorosi, ognuno dei presenti si fosse dimenticato dell’esistenza della bambina, nonostante la sua bellezza –esattamente come era ed era stato per Marguerite- le avrebbe sempre concesso il beneficio di essere al centro delle attenzioni di chiunque la conoscesse. Charlotte era d’altronde una bambina molto calma e silenziosa… I perfetti boccoli biondi ben si addicevano a quell’animo innocente, privo dei capricci tipici dei bambini della sua età. Guardava con sbalordimento i personaggi che la circondavano, curandosi di osservare le luci e i colori senza capire chi dicesse cosa… Ma avvertendo il clima di tensione sprigionato dalla zia e dall’uomo che le stava di fronte. Con la boccuccia pronunciata, osservava lo svolgersi degli eventi.
Solo Louise, entrando, aveva notato la presenza della bambina e si era sentita in dovere di dedicarle le sue premure.
Zia Josephine, invece, inarcò le scure sopracciglia in un’espressione rigida e severa.
Dio solo sa cosa stesse pensando quella donna! La sua persona era talmente arcigna ed inaccessibile che nemmeno la sottoscritta saprebbe riportare il corso fastidiosamente inflessibile dei suoi pensieri.
- Permettetemi di portarla con noi a vedere la serra-.
La richiesta di Louise era giunta inaspettata e spontanea e Marguerite, riscossa dal suo torpore, non potè fare a meno di esclamare un “Oh” di sorpresa.
- Ma certamente- acconsentì, non senza essere invasa da un’improvvisa ondata di rossore.
Rimbaud, con il suo insopportabile tono allegro, proruppe in un “Eccellente, eccellente!”, alzandosi contemporaneamente in piedi per affiancare Celine. 
La ragazza sorrise, felice di aver finalmente distolto Madame Rimbaud dalle grinfie del marito.
- Devo mostrarvi ad ogni costo le mie rose-, ripetè.




Scusate, è molto piccolo come capitolo ma ho davvero poco tempo!

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Capitolo 24
*** 23 ***


20 La scena era stata talmente sorprendente e si era svolta con tanta celerità che sia Marguerite che Adrien avevano impiegato qualche secondo per realizzare che avrebbero dovuto seguire il gruppetto in giardino.
- Favorite?- le si rivolse Adrien, porgendo il braccio all’amata mentre il corteo stava già uscendo dalla villa.
L’ombra dura che gli era calata sugli occhi aveva convinto Marguerite che non c’era più speranza.
Egli non l’amava anzi al contrario la detestava e l’avrebbe presto sostituita o peggio dimenticata.
Marguerite avvertì con clamorosa chiarezza il tocco della lama che affondava sul suo cuore come se fosse stato burro. Aveva bruciato la sua unica possibilità e una tale prospettiva l’aveva definitivamente uccisa. Con gli occhi pieni di lacrime si appoggiò al braccio di Lemaire, l’unica cosa che potesse ancora pretendere da quell’uomo.

Adrien provava pena.
Provava pena per quella situazione, per Marguerite, per le sorelle, per Charlotte, persino per Rimbaud.
Anche quell’uomo stupido e vanesio gli faceva pena, coi i suoi modi ossequiosi e la presunzione degli ignoranti.
Eppure, nonostante la pena, il rimorso, il dolore, e nonostante la consapevolezza che l’uomo per cui avrebbe dovuto provare più pena sarebbe dovuto essere proprio se stesso, Adrien si sentiva completamente e inesorabilmente felice
Quale individuo, vedendosi rifiutato dalla donna che ama, essendo stato schiaffeggiato in quel modo, avendo assistito al disgustoso quadretto famigliare offerto dai Rimbaud, sarebbe stato felice?
Stringerle il braccio, era bastato questo per far crollare la maschera di freddezza e impenetrabilità che aveva indossato. Persino la lenta processione verso la serra di Celine, la tacita e intraducibile espressione di zia Josephine, la vista di Louise che teneva in braccio la figlia di Marguerite non lo turbavano. 
Erano ridicoli, questo era ovvio.
Ciascuno di loro mentiva, ciascuno sorrideva, ciascuno giudicava.
Ma quale teatrino sarebbe stato se ognuno non avesse recitato fin in fondo la propria parte? 
Chi di noi davanti ai nostri simili non sorride beato e conversa gioviale, mentre in testa scorrono immagini di sdegno e odio?
Questa è la natura umana… succhia avidamente i frutti del profitto e coltiva segretamente l’albero delle apparenze.
Adrien non osava osservare né sbirciare il bel viso di Marguerite.
Solo il braccio la teneva legata a lui, a quello scorcio di amore e felicità. Ecco, vedete il povero Adrien?
Associa ancora Marguerite ad “amore” e “felicità”, sebbene da lei non sembrino derivare né l’uno né l’altra.
Stava cercando inutilmente di trovare un qualsiasi spunto di conversazione, qualcosa che lo portasse a quella domanda… Perché?
- Vi starete chiedendo per quale motivo ho portato con me mio marito…-.
Era stata Marguerite ad interrompere il silenzio.
Rossa in viso e rivolta con gli occhi al gruppetto davanti a sé, Madame Rimbaud sembrò più che atro sussurrare quelle parole, nonostante non ci fosse il pericolo di essere sentita.
Adrien si voltò finalmente verso di lei. Studiò il profilo aggraziato e corrucciato, gli occhi limpidi offuscati dalla tristezza, la linea delle labbra carnose e rosse, che spiccavano sul viso come ciliegie in una torta di panna.
Tutto l’amore che sarebbe potuto essersi assopito fino a dieci minuti prima si era risvegliato ancora più forte e prepotente. L’aria del giardino gli ridestava immagini infantili, che si mescolavano con la mestizia e la lussuria che provava in quel momento… il ricordo del loro primo e unico bacio sembrava tamburellargli in testa con assassina sordità, quasi non volesse concedergli un attimo di tregua. La consapevolezza che fosse accaduto davvero, che fosse possibile, gli destavano la voglia di provarci di nuovo.
Adrien non avrebbe potuto separarsi da lei nemmeno per l’infinitesimale legame che la univa al marito, nemmeno se lo avesse voluto lei stessa, non se il mondo si fosse opposto. Dipendeva in tutto e per tutto da quella donna, da ciò che le avrebbe detto, e non riusciva a spiegarsi perché. Il mistero di Marguerite Rimbaud era celato da quel sorriso infelice e dal corpetto stretto che le schiacciava il cuore.
- Confesso di sì, Madame- si decise a rispondere. 
La ragazza si guardò intorno lanciando insistenti occhiate al braccio del marito stretto a quello di Celine. 
- Non è stata colpa mia- sussurrò, con un’ombra tormentata negli occhi –Io stavo venendo da sola ma mio marito mi ha seguito, mi ha costretto a prendere la bambina e ad accompagnarlo. Sono mortificata…- aggiunse, abbassando lo sguardo.
Se non fossero stati così maledettamente numerosi, Adrien l’avrebbe presa tra le braccia e baciata. La gioia che gli avevano dato quelle parole se fosse esplosa l’avrebbe ucciso e non sapendo come manifestarla non poté fare altro che applicare una leggera pressione sul braccio di Madame Rimbaud.
Lei finalmente si voltò e dovette notare l’espressione felice di Adrien perché assunse un’aria buffamente interrogativa.
- Siete perdonata, Madame- sussurrò lui.
Anche Marguerite sorrise con gli occhi e con le labbra e si avvicinò un po’ a lui.
- Dite davvero? Non siete arrabbiato?- domandò.
- Lo ero- rispose Adrien –ma è stata solo una reazione passeggera. E poi siete troppo bella per meritare qualsiasi ira-.
A queste parole il viso di Marguerite si rannuvolò nuovamente. La scena vissuta prima di arrivare a Villa Helene le bruciava ancora nell’orgoglio.
- Mio marito non sarebbe d’accordo-.
Adrien si irrigidì immediatamente, rinsaldando ancora di più la presa sul braccio della dama.
-Vostro marito è un maiale e uno stupido- enunciò, strappando un sorriso sommesso a Marguerite.
- Su questo non posso che darvi ragione. Sono lieta che ve ne siate accorto-.
Lui annuì e sciorinò una serie di sagaci motivi per cui nella sua modesta opinione, i politici rappresentavano la miglior qualità di porcellini da affettazione.
Marguerite e Adrien erano tanto immersi nella loro conversazione da non essersi resi conto delle meraviglie del parco della villa. Tutto il mondo per loro era racchiuso in quel piccolo contatto fisico, negli occhi dell’altro e nelle parole che pronunciavano.
Non si erano accorti che stavano per entrare nella serra fin quando non si ritrovarono nella porta d’ingresso. Le pareti in vetro creavano mirabili e colorati effetti di luce, e delimitavano ad un’area circoscritta del giardino quel piccolo paradiso terrestre.
Fiori di tutti i tipi erano disposti senza criterio, generando una sensazione di armoniosa confusione.
Le rose, le orchidee, le margherite, le ortensie a gruppetti variopinti rendevano l’ambiente una festa di profumi.
Sembravano quasi voler celebrare l’amore di Adrien e Marguerite.

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Capitolo 25
*** 24 ***


20 Non appena entrati nella serra, Celine aveva cominciato a guardare con la coda dell’occhio il fratello. 
Era innegabile che tra lui e Madame Rimbaud ci fosse stata una riconciliazione, il modo felicemente imbarazzato con cui si guardavano non lasciava spazio a dubbi. Tirò un sospiro di sollievo e rivolse l’ennesimo solare sorriso ad Hugo Rimbaud. 
Jacques aveva proprio ragione, era insopportabile. 
Si era lanciato in una filippica dalla vena vagamente scientifica in cui dimostrava –più che altro ne aveva l’intenzione- i benefici di un particolare concime proveniente da New York... New Orleans… o era il New Jersey?
Celine si meravigliò di come facesse sua moglie a tollerarlo addirittura da tre anni, ad aver generato una bambina e a guardarlo in faccia ogni mattina. Celine non avrebbe potuto starlo a sentire un minuto di più.
- E queste sono le mie rose!- lo interruppe ad un tratto, senza curarsi della valanga di parole che le aveva rigettato addosso. – Non sono meravigliose? Mi curo di loro come se fossi la loro mamma…-- Magnifiche, davvero magnifiche!- asserì Rimbaud, facendo cadere ancora una volta lo sguardo sul suo decolleté. – E sono sicuro che siete una mamma molto premurosa!-.
Il modo ingordo con cui si umettò le labbra le fece venire i brividi. Cosa doveva sopportare per il bene di Adrien…

La zia Josephine osservava lo svolgersi degli eventi con la solita imperscrutabilità. Sembrava volesse rimproverare l’esosità della nipote, ma in qualche maniera e per qualche oscuro motivo, evitava di farlo. Di certo, questo non era un suo tipico atteggiamento.
Mai una volta Josephine Binet aveva risparmiato dure critiche ai modi vivaci delle sorelle Lemaire. Celine in particolare, la più piccola, era il suo tallone d’ Achille. 
Sfrontata e indomabile come la madre. 
E altrettanto graziosa, doveva ammettere pur questo. 
Somigliava molto ad Adrien, con quegli occhi acuti e grandi, spensierati o pensierosi. Louise invece, che, forse per l’età un po’ più grande, era leggermente più contenuta, somigliava tutta a lei e al padre. Povero Guillame, pace all’anima sua… Amava i figli come nient’altro al mondo, e non aveva avuto il tempo sufficiente di vederli maturare, sposare e procreare a loro volta degli eredi.
Tutto era finito nelle mani di Adrien troppo presto… Si sentiva già un uomo per la cospicua rendita che possedeva e per il ruolo che esercitava adesso all’interno della famiglia, ma era ancora un ragazzo. 
Mademoiselle Binet guardava e taceva.
Fu a lei che parlò Hugo, per scrupolo, si presume, di non rivolgere proprio tutte le attenzioni a Celine. 
- E voi, Madame? Non coltivate fiori come la vostra amabile nipote?-.
Zia Josephine riuscì, tirando con tutte le forze le pieghe del viso abitualmente marmoree, a far comparire sul viso un sorriso affabile. 
- Gli unici fiori che coltivo, signore –fu la risposta- sono i crisantemi da deporre sulla tomba dei miei nemici-.
Il silenzio calato sull’allegra combriccola sarebbe stato senz’altro imbarazzante se non fosse stato interrotto dal pianto acuto e improvviso di una bambina.
Charlotte infatti, tra le braccia di Louise, aveva cominciato a strillare convulsamente.
Il visino pallido era diventato d’un tratto livido, e le labbrucce apparivano contratte in una smorfia di sbigottito smarrimento. Tuttavia non era questo che avrebbe potuto turbare, quanto il modo rantolante con cui aveva cominciato a respirare.
La piccola inoltre agitava disordinatamente le braccia e tossiva con forza. 
I suoi spasmi erano aumentati fino a toglierle completamente l’aria.

Marguerite abbandonò ogni romantica velleità e corse immediatamente dalla nipote.
La confusione che regnava nella sua testa non le permetteva nemmeno di distinguere le voci degli altri che correvano a chiamare il medico.
Non capiva cosa stesse succedendo, era forse malata? Perché Georgette non le aveva detto nulla? Perché Charlotte non riusciva a respirare? 
La prese tra le braccia e cercò di calmarla.
La bambina, che si era sempre aggrappata a lei con tenacia, adesso la allontanava, cercare respiro, e questo sembrava invece farsi più sottile e irraggiungibile, come il nodo di una fune che l’avrebbe stretta fino alla fine. 
Marguerite versava calde lacrime e urlava e si chiedeva perché, e pensava che era colpa sua, solo colpa sua che l’aveva tolta alla madre naturale per un capriccio ed era stata un mostro, soltanto un mostro, ed un’egoista, ma non voleva che quella dolcissima bambina la pagasse per questo. 
Più passava il tempo più pensava che non l’avrebbero salvata, più la stringeva, più lei voleva liberarsi e gridava e si divincolava. 
Adrien tentò di toglierle Charlotte dalle braccia ma lei non voleva, e qualcuno la tirò da un’altra parte finché non lasciò scivolare il corpicino tra le mani di uno sconosciuto. 
Poi si perse, si abbandonò al buio, e l’ultima immagine che vide fu quella del viso di Charlotte, diventato cadaverico, condotto via da un uomo che non aveva mai visto.

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Capitolo 26
*** 26 ***


Il risveglio la colse lentamente, ridestando i suoi sensi uno ad uno.
Sentì la morbidezza di un sofà sotto di sé e delle presenze che si aggiravano intorno a lei e bisbigliavano.
- Come sta la bambina?- diceva la voce di Adrien.
- Ha la febbre alta, ma è stabile- rispose il tono sommesso di Louise.
Poi passi, il rumore di una porta che si chiude, di nuovo la sensazione di qualcuno accanto a sé.
Marguerite si decise ad aprire gli occhi, ma il gesto le sembrò più difficile del previsto. La luce che filtrava attraverso le ciglia era calda e viva. Si rese conto che doveva provenire da un camino.
Dunque era sera.
Lentamente, sollevò entrambe le palpebre e notò per prima cosa il soffitto meravigliosamente dipinto. Ampliando la visuale riuscì ad identificare un uomo di spalle, rivoltò alla finestra.
Adrien.
Quasi avesse sentito gli occhi di lei che lo accarezzavano, il ragazzo si voltò.
Marguerite avrebbe voluto spiarne per sempre i contorni, le spalle forti, le gambe fisse per terra, la nuca invisibile sotto i capelli e il…
Ma lui si voltò, e la sua espressione grave le ricordò improvvisamente per quale motivo si trovasse lì.
Strabuzzò gli occhi e cercò di parlare, ma al terzo tentativo la voce le uscì strozzata.
-Dov’è Charlotte? Come sta?-.
Adrien superò la distanza che li separava con pochi passi e si sedette sul divano in cui era distesa. Averlo così vicino le trasmise simultaneamente mille piccole sensazioni… un leggero formicolio sottopelle, un battito mancato del cuore, un calore sospetto al ventre. Gli occhi penetranti di Adrien le scivolarono delicatamente dentro, stabilendo un contatto molto più intimo di quanto fosse loro concesso. Nonostante la gravità della situazione, le sue labbra carnose la fecero arrossire. Il ricordo del loro bacio tornò a tormentarla, e il desiderio di riceverne un altro le guizzò per un attimo nella mente.
- Ha avuto un attacco d’asma a cui è seguita un’insolita febbre… abbastanza alta. Per ora è in una delle nostre stanze, le mie sorella e mia zia la vegliano continuamente, il medico si tiene sempre nei paraggi-.
Marguerite si alzò di scatto, imponendosi di dare un taglio a quegli ignobili impulsi.
- Indicatemi la strada- ordinò, forse un po’ troppo perentoriamente.
Adrien però non vi badò e si alzò dal divano, invitandola a seguirlo.
La ragazza non perse tempo.
I lunghi corridoi di Villa Helene passavano inosservati sotto il suo passo svelto.
Mille pensieri confusi le frustavano la mente e le provocavano una nausea quasi intollerabile. Il senso di colpa stava scavando la sua anima e la sua coscienza in maniera irreversibile, facendo riaffiorare i ricordi legati alla bambina e agli occhi con cui l’aveva implorata Georgette quando le aveva “consigliato” di darla in affidamento a lei.
Ma no, è stato per il bene di Charlotte… sarebbe morta di fame…
Eppure questa scusa all’improvviso non funzionava più, non la convinceva, non la rassicurava. L’ennesimo sentimento di impotenza che la costernava da tutta la vita, da quando l’azienda si famiglia era andata male e i genitori erano morti a quando era stata costretta a trasferirsi a Bordeaux, a quando aveva accettato la proposta di matrimonio di Hugo bussò ancora al suo cuore rigato di crepe. Marguerite non poteva fare niente, mai. Non poteva decidere se e quando andare a letto con il marito, non poteva essere libera di leggere un libro, non poteva vivere un’altra storia d’amore. Qualcun altro decideva la sua vita, qualcun altro disponeva i parametri in cui doveva vivere. Prima era stata Georgette, poi Hugo. Prendere troppo sole era pericoloso per la sua pelle così delicata, mettere troppo zucchero nel tè l’avrebbe fatta ingrassare, utilizzare il belletto era terribilmente volgare.
La prima decisione presa di sua iniziativa, quella di portare con sé Charlotte, aveva causato tale tragedia. Cosa sarebbe successo alla bambina? E se fosse morta? Cosa avrebbe detto a sua sorella? Avrebbe finalmente contraccambiato il suo odio e non si sarebbero più parlate?
In una frazione di secondo Marguerite realizzò che Georgette e Charlotte erano gli unici pezzi della famiglia che le fossero rimasti. Non aveva legami di sangue con nessun altro. Non aveva radici.
La pesantezza della sua solitudine le si palesò in maniera molto più atroce di quando l’avesse mai considerata. E le solite domande su cosa fosse accaduto se… se non avesse accettato di sposarlo… se non fosse caduta in rovina… se, direttamente non fosse mai esistita.
Sì, se non fosse mai nata non avrebbe mai sofferto.
La lucidità di quella considerazione le fece venire un groppo in gola. Niente Marguerite, niente dolore. Niente violenze, niente lacrime, niente disperazione.
Per un attimo considerò quanto sarebbe stato bello somigliare ad una leggera ed impalpabile bolla di sapone… un qualcosa senza pensieri, senza tormenti, inconsapevole di esistere, di nascere, di volteggiare, di scoppiare.
Scoppiare.
La prospettiva le sembrava incredibilmente affascinante.

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