New York New York

di Hakigo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Presente. ***
Capitolo 2: *** Rain. ***
Capitolo 3: *** Warning. ***
Capitolo 4: *** Flirt. ***
Capitolo 5: *** Memories. ***
Capitolo 6: *** When September Come. ***
Capitolo 7: *** Tell me. ***
Capitolo 8: *** He will be loved. ***
Capitolo 9: *** Let it be. ***
Capitolo 10: *** Answers. ***
Capitolo 11: *** Cinderella's wit. ***
Capitolo 12: *** Alone. ***



Capitolo 1
*** Presente. ***


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L'uomo è un essere fragile, che ha bisogno di concentrare la propria esistenza su un punto ben definito. Sì, l'uomo, colui che si crede di essere onnipotente; colui che si nutre della linfa vitale del proprio pianeta per danneggiarlo irreparabilmente; colui che con una piccola disfunzione del proprio corpo può perdere ogni prospettiva per il futuro; colui che vive della disgrazia dei propri simili.
Non avevo mai desiderato qualcosa di così particolare o avventuroso. Non ero mai stata accerchiata da uomini, non ero mai stata famosa per qualche mia opera. Eppure avevo trovato il mio punto, il botolo del gomitolo del mio destino: tutta la mia esistenza, tutta la mia fantasia, tutta la mia attenzione era dedicata all'arte.
Arte.
Una parola che rinchiude dentro di sé un'infinità di significati e di diversità.
Andai subito via dall'Italia, precisamente dopo un anno dalla fine delle scuole superiori di grafica pubblicitaria, grazie all'agenzia che mi aveva assunto subito dopo essermi diplomata. Viaggiai. Viaggiai molto, fino a ritrovarmi a New York all'età di 22 anni, nel quartiere di Little Italy, appena sopra un bar italiano dove molto spesso faccio colazione.
Nel mio quartiere a settembre si celebra S. Gennaro e io decisi di preparare le foto per l'articolo a cui avrebbe lavorato il mio collega Norman, nativo americano che non aveva comunque mai preso parte a quella festività.
Abitavo in un edificio di cinque piani con tre appartamenti ciascuno, che mi aveva logicamente passato l'ufficio appena arrivata in America. Io abitavo al secondo piano e la costruzione non era munita di un ascensore. L'appartamento non era grandissimo ma potevo viverci comodamente da persona sola qual'ero. Non mi mancava niente. C'era un bagno con la vasca ed uno specchio enorme, la cucina e la sala da pranzo, più la camera da letto munita di un grande finestrone che dava sulla strada, un armadio e un letto matrimoniale; una camera che usavo come studio, dove avevo il mio computer, la libreria, un piccolo televisore e un divano che serviva da letto quando le mie amiche venivano a trovarmi. Un piccolo appartamento e un lavoro. Ecco il mio sogno realizzato. Adesso mancava solo una cosa: un fidanzato.
Tasto dolente.
Non ne avevo avuti che due e mi erano più che bastati. Attualmente non ne avevo uno e neanche lo cercavo, anche se Norman aveva più e più volte flirtato con me. Non che fosse brutto, ma non era decisamente il mio tipo.
In tutto l'edificio ero conosciuta come “quella brava in cucina”. Questo soprannome che mi andava a genio me lo aveva dato la mia vicina di casa Angelina, una signora sui sessanta anni che mi era servita un po' come madre dopo il mio arrivo a Little Italy, ma che nonostante tutto, mi chiamava col mio nome reale in mia presenza, per paura che potessi offendermi: Irene.
Per la festa di S.Gennaro anche io mi stavo dando da fare. Avevamo deciso tutti noi del quartiere di scrivere degli enormi cartelloni di augurio per una buona festa, insieme a fare dei disegni per terra. Un po' di sere prima della processione, avevo preparato dei tramezzini e li avevo portati alla gente che lavorava in strada. Finito di cenare insieme a tutti gli abitanti di Little Italy, sono andata a fare qualche foto ai disegni prossimi alla colorazione, insieme alle foto al quartiere di notte. In settembre quella strada era bellissima. Nonostante non fosse ancora arrivato il primo freddo, gli alberi avevano cominciato a colorarsi di giallo, segno che l'autunno stava arrivando.
Ero chinata su un particolare del disegno, quando sentii la voce di Norman.
- Che belle le tue mutandine - mi alzai di scatto, imbarazzata e infastidita per quello che lui avrebbe definito un “saluto”.
- Come mai qui? - chiesi secca tirandomi in piedi e alzandomi I pantaloni per coprire l'intimo.
- Per scrivere l'articolo, è ovvio -
- Non è ancora pronto niente -
- Ma io voglio vedere le persone, studiare in che modo si preparano a questa festa - Norman era quasi petulante ormai. Più gli dicevo che non volevo uscire con lui, più diventava insistente.
Ad un tratto, un grande urlo arrivò dal fondo della strada. - Angelina! - gridavano le donne mentre gli uomini cercavano di tenerla in piedi. Quasi terrorizzata, corsi in fondo alla strada, passando impaziente la macchina fotografica al mio collega.
- Cos'ha? - chiesi con il fiatone, allarmata.
- E' svenuta! Dobbiamo portarla in ospedale - disse un nostro vicino, infermiere.
- Vengo con lei. E' troppo importante per me. -
 
Arrivati in ospedale, ci assegnarono un lettino e Angelina venne ricoverata quasi subito.
Il medico ci disse che era uno svenimento a causa del troppo sforzo e il suo cuore non aveva retto. Per la prima volta venni a conoscenza che era malata di cuore. Inizialmente cominciò a girarmi la testa ma poi mi calmai. Lei, che era come una madre, come una zia, con la quale avevo condiviso tutte le mie paure, le mie gioie. Non poteva abbandonarmi così, ancora sola in quell'immenso mondo americano di cui ancora non avevo preso parte. L'infermiere era andato a lavorare, visto che aveva il turno di notte ed io ero rimasta al capezzale della mia adorata mamma americana, vegliandola nel sonno.
Probabilmente mi appisolai, perchè non ricordo niente prima che mi svegliasse un uomo. Aprii gli occhi assonnata e alzai lo sguardo.
- Mi scusi... - cominciò lui.
- Ho chiesto il permesso al primario di rimanere qui - risposi secca, credendo che fosse uno dei medici.
- Volevo dirle che se ha sonno posso prendere io il suo posto - come si permetteva? Un estraneo vegliare alla mia adorata mamma, alla mia amica.
- Preferisco che ci sia una persona che conosce al suo risveglio - non cambiai minimamente tono, troppo infastidita dall'insistenza dell'altro.
- Allora rimango qui con lei. Si accomodi sul divanetto, rimango io qui -
- Va bene - tagliai corto. Avevo troppo sonno ed era evidente, non potevo rifiutare e poi non volevo uscire da quella stanza. Mi alzai e andai ad accovacciarmi sul divano, addormentandomi subito, cadendo in un sonno profondo.
- Sta aprendo gli occhi - sussurrò una voce da uomo che non conoscevo.
Mugugnai qualcosa e aprii gli occhi, ritrovando la stanza dell'ospedale illuminata e completamente contaminata dal profumo dei fiori. Il mio primo sguardo fu indirizzato ai fiori, per poi spostarmi verso Il letto, vedendo Angelina seduta sul letto, che mi guardava sorridendomi stancamente. Mi alzai di scatto - Diamine, volevo che fossi tu a vedermi al tuo risveglio invece mi hai visto nel mondo dei sogni!- dissi dispiaciuta, alzandomi e andando verso il lettino.
- Sto bene - mi disse lei con un sospiro - Adesso che c'è anche Fernando è qui mi sento più tranquilla -
- Chi è Fernando? - chiesi curiosa, girando attorno al letto per andarmi a sedere sulla sedia vicino al letto.
- Sono io - disse la stessa voce che avevo sentito poco prima. Fermo nella stanza c'era un uomo, con in mano due tazze di caffè fumanti. Lo osservai. Mi sembrava di averlo già visto. Mi passò uno dei caffè sorridendomi - Sono suo figlio. -
Il mio sguardo passò da lui alla mia mamma americana, tornando a lui quasi subito. Ecco chi era lo sconosciuto della notte prima! Beh, non poteva dire subito che era suo parente così stretto.
- Dovrai rimanere qui per un bel po' - dissi puntando su un altro argomento.
- Me lo ha detto il medico - disse lei stanca - Andate. Tu devi andare a lavoro e tu, Fernando, non hai dormito. Le mie chiavi... - commentò allarmata e io tirai fuori dal mio marsupio il suo mazzo di chiavi. Le diedi a suo figlio, dato che lei me ne aveva fatto gesto – Rimani nell'appartamento come avevamo stabilito. -
Salutammo e ci dirigemmo verso casa con gli autobus di linea. Non parlammo lungo il tragitto.
Solo quando cominciammo a salire le scale dell'appartamento mi parlò.
- Ehi -
- Si? -
- Molto carine le tue mutandine. -
Dovevo comprarmi una cinta. Non per I pantaloni, ma per frustare chiunque me lo dicesse, lui compreso.


NOTE FINALI___
Ehm °_° Un saluto a tutti, scusate se sarò molto scontata in questo commento. Allora, questa è la mia prima storia su efp e spero che andando in là con i capitoli non si dimostri tanto scontata quanto sembra adesso. Ho utilizzato il primo capitolo un po' come introduzione e descrizione della vita di Irene. Vi prego di scusarmi per eventuali errori grammaticali. La mia voglia di raccontare una storia è nata un po' così, senza un'ispirazione precisa, ma la storia piace molto anche a me. Vi prego solo di aspettare i prossimi capitoli e spero che sarete della mia stessa opinione. Ringrazio chiunque leggerà (se qualcuno leggerà) questo mio primo capitolo. Spero che continuerete a seguirla, anche perchè fra non molto pubblicherò il capitolo successivo, bacioni. Haki-chan.

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Capitolo 2
*** Rain. ***


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- Sono bianche – risposi acida come avevo risposto in strada al mio collega.
- Norman! Aveva la mia macchina fotografica! Mi fermai di botto e sentii l'altro sbattere contro la mia schiena mentre mi passavo una mano sulla fronte. Poi arrivai ad un altro concetto e mi voltai innervosita ed imbarazzata – Mi stavi guardando il culo?! - chiesi cercando di mantenere la calma, anche perchè c'erano delle persone dentro le case di quel piano e non mi pareva il caso di dargli spettacolo. Mi guardò stupito, non aspettandosi un'uscita simile.
- Non posso? - chiese ovvio guardandomi interrogativo.
- No che non puoi! Diavolo, Angelina è all'ospedale e mi torna un pervertito! - dissi riprendendo a salire le scale, lasciando il discorso in sospeso.
- Come ti chiami? - mi chiese. Come faceva a non sapere il mio nome? Possibile che Angelina non glielo avesse detto?
- Prova a indovinare – provai a chiedere. Il mio nome non era americano. Se non sapeva il mio nome non poteva arrivare alla soluzione al primo tentativo!
- Irene – lo sapevo. Stava solo tentando di mantenere una conversazione e la cosa mi dava sui nervi.
- Bravo - arrivai davanti al mio appartamento al terzo piano e lui mi era ancora dietro – Smettila di seguirmi e vai a casa – acida, seccata. Sicuramente non potevo sembrare una persona sociale con quel tono e me ne pentii, perchè fino ad allora avevo sempre cercato di mostrarmi gentile con tutti. Peccato per lui, ma proprio non lo sopportavo.
- Cosa sono un cane? - chiese sarcastico ridendo – In realtà speravo che tu mi chiedessi di entrare – si sbrigò ad aggiungere, vedendo che avevo aperto la porta e stavo entrando in casa.
- Vai a casa – ripetei entrando, rimanendo sulla porta, con la maniglia in mano, pronta a chiudere.
- Mi sentirò solo nell'appartamento di mia madre! -
- Senti, io devo prepararmi per andare a lavoro. Devo riprendere una cosa dal mio collega. Tu intanto, perchè non sistemi un po' la casa e ti fai una bella dormita? Ti prometto che stasera scendo da te e ti preparo la cena – promisi, non dando a vedere quanto in realtà fossi seccata, ma dopotutto, cucinare non mi dava così fastidio.
- A stasera! - disse sorridendomi e io gli chiusi la porta in faccia, ridendo per quello che avevo appena fatto. Ciancio alle bande! Ehm, bando alle ciance, dovevo lavarmi, cambiarmi, passare all'ufficio di Norman e riprendermi la mia macchina fotografica.
Mi vestii semplice, con un paio di jeans neri, una camicetta ed un gilet. Decisi di tirarmi su I capelli e portavo la solita collanina con il piccolo crocifisso di legno come pendente. Inforcai gli occhiali da vista e scesi le scale velocemente. Per fortuna non ero un'appassionata di scarpe col tacco, altrimenti sarei sicuramente rotolata per tutta la scalinata a quella velocità.
Andai al garage, presi la macchina e andai verso l'ufficio.
Fortunatamente Norman non era in riunione. Raggiunsi la sua postazione, bussando ai pezzi di compensato che facevano da divisori tra una scrivania e l'altra, attirando l'attenzione del mio collega.
- Ehi! - salutai e lui si voltò a guardarmi, sorpreso, perchè quello non era il mio ufficio.
- Splendore! - mi chiamò – Qual buon vento? -
- Ieri la mia vicina si è sentita male e ti ho lasciato la mia macchina fotografica...Scusa se sono corsa via così, ma lei per me è come una madre! - mi giustificai.
- No problem. Eccola qui. - disse, spostandosi con la sedia verso la sua tracolla, prendendola e tirando fuori la mia adorata macchina fotografica. Allungai la mano per prenderla ma lui ritirò il braccio. Lo guardai interrogativa.
- Cosa? - chiesi curiosa, aggrottando le sopracciglia.
- Ad una condizione – esordì lui e indicò le proprie labbra.
- Ma non ci penso proprio! - sbottai imbarazzata ma lui non accennava a spostarsi – Lo sai che non mi piacciono I ricatti. - gli ricordai e lui sorrise.
Allungai il braccio verso la macchina – Non dirai sul serio, spero! - ma lui non si smuoveva. Norman era come un mulo, non si smuoveva davanti a niente per nessuna ragione. Sbuffai, pensando ad una soluzione. Alla fine decisi di incastrarlo e gli feci cenno di alzarsi. Ormai da fuori la gente ci osservava curiosa. Succedeva così tutte le volte! Sotto mia richiesta lui si alzò sorridendomi, venendomi incontro, tenendo la mia adorata macchina fotografica ben alta. Aveva pensato a tutto diamine. Non lo avrei baciato neanche per tutto l'oro del mondo...anzi, forse per l'oro avrei potuto anche farci un pensierino, però ora il discorso era un altro. Non lo avevo baciato fino ad allora e non lo avrei baciato adesso.
Lo vidi fare l'occhiolino verso qualcuno alle mie spalle. Mi voltai. Non c'era nessuno che conoscevo là dietro. Voltarsi = Mossa sbagliata. Sentii la mano di Norman afferrarmi, spingendomi verso di lui. Allora voltai il viso, pronta a ribattere ma non feci in tempo perchè lui posò le labbra sulle mie, zittandomi. Un urlo sia maschile che femminile si levò alle mie spalle e mi diede sui nervi, molto più del fatto che il mio odioso collega fosse riuscito a baciarmi. Mi staccai in fretta da lui, prendendo la mia macchina fotografica, puntandogli un dito contro – Questa me la paghi – gli dissi sottovoce con tutta l'ira possibile mentre pian piano venivo divorata dalla vergogna.
Mi voltai, facendomi spazio tra la folla acclamante del Norman Fan Club, dirigendomi verso il mio ufficio.
Norman si era fatto una foto con la mia macchina fotografica. La cosa mi fece sorridere, anche se profondamente mi dava fastidio, perchè il mio odiato, caro collega, a volte ritornava un vero bambino quando voleva ottenere quel che voleva. Nell'altro ufficio finalmente era tornato il silenzio e potei cominciare a lavorare, sistemando sulla mia lavagna elettronica la prima pagina del giornale e le varie pubblicità.
La porta si aprì ed incominciò un brusìo alle mie spalle. Sapevo perfettamente cosa era successo. Joe, il play boy del mio ufficio era arrivato. Come tutte le donne mi voltai a guardarlo, mentre avanzava suadente coi suoi abiti eleganti tra le nostre scrivanie e salutava I colleghi. Quale situazione migliore della mia, visto che lui, l'uomo più bello della mia azienda, era mio socio e compagno di lavoro? I capelli tirati all'indietro, lo sguardo ghiacciato e affascinante, mentre sotto la camicia di seta spiccava il suo fisico bestiale. Ritornai a concentrarmi nel mio lavoro.
Eppure, io conoscevo il suo lato oscuro. Quale?
Aveva messo incinta una nostra collega, mia amica Grace. Certo, le passava gli alimenti, giocava con il bambino, ma non faceva altro. Non si scambiavano baci e lui si ostinava ad andare con altre donne come se niente fosse. Anzi, poi si era presentato il problema che lei avrebbe potuto spifferare tutto a quelli dell' ufficio e lui aveva fatto in modo di cacciarla, visto che era il direttore di quel reparto. Io ero solo la intestatrice delle pagine delle nostre rubriche, ovvero cronaca nera e cronaca rosa.
- Buongiorno – mi disse entrando, passandomi una mano sulla spalla, come faceva sempre.
- 'giorno – risposi – Secondo te dovrei metterla a destra o a sinistra questa locandina? - chiesi - Magari potrei metterla anche lungo la pagina in basso... - commentai perplessa mentre avevo le tre antemprime davanti. Lui mi si avvicinò alle spalle, dopo aver posato la giacca.
- Meglio questa – e indicò l'anteprima di sinistra – Allora il reporter ha fatto colpo? -
- No – risposi seccata dal fatto che prima di entrare in ufficio lo fosse già venuto a sapere.
- Qualcuno prima o poi riuscirà a far breccia nel tuo cuore di ghiaccio -
- Non è ancora il momento – mi alzai, visto che lui mi era ancora alle spalle e la cosa mi infastidiva. Mi avvicinai alla finestra, continuando a muovere le dita sullo schermo della lavagna.
- Irene, non puoi trattarmi così – mi disse dopo lunghi minuti di silenzio.
- Così come? - chiesi curiosa, distogliendo lo sguardo dal mio lavoro per squadrarlo.
- Non vado in giro a mettere incinta tutte le donne che conosco. Con Grace è stato un incidente -
- Io I bambini non li definisco degli incidenti – risposi quasi indegnata dall'aggettivo che aveva utilizzato.
- Si, ma da quando hai scoperto ciò che è successo mi eviti e questa cosa non mi sta bene – aveva ragione. Avevo scoperto il segreto per caso, ascoltando senza volerlo la segreteria telefonica di Grace. Mi dedicai di nuovo al mio lavoro, chiudendo il discorso per quella mattina.

Uscita dall'ufficio verso le cinque pomeridiane, mi accorsi che fuori aveva cominciato a piovere e dovetti andare di corsa verso il parcheggio sotterraneo. Salii in macchina e mi avviai verso casa.
A due chilometri dal mio condominio, la macchina si spense improvvisamente e non ci fu modo di farla ripartire. Era tardi, dovevo preparare la cena per me e per Fernando. Il mio cellulare era scarico e non potevo chiamare neanche il carro attrezzi. L'unica fu quella di avventurarsi sotto la pioggia e percorrere il resto del tragitto a piedi, sotto la pioggia battente, col rischio di prendermi una polmonite per quanto era violento il temporale. Così presi la mia valigia che fortunatamente era impermeabile, me la misi sulla testa e cominciai a correre verso casa.
Non ero molto abituata alle corse, quindi mi fermai senza fiato cinquecento metri più avanti. La strada era deserta e le macchine passavano velocemente. Non c'era neanche l'ombra di un taxi e dovetti continuare a camminare, aspettando di riprendere abbastanza fiato per ricominciare a correre.
Un clacson suonò dietro di me, insistentemente, come a incitarmi di voltarmi a girarmi.
Eccola lì, la mia scialuppa di salvataggio. Era Fernando che mi fece cenno di salire.
Rischiusi lo sportello, badando a non farlo con troppa forza e mi voltai a guardarlo – Che ci facevi là? - chiesi ancora affannata.
- Ero uscito per fare la spesa – mi rispose sorridendomi.
- Scusami, ti sto bagnando tutto il sedile – dissi affranta, guardando I miei abiti grondanti.
- Non ti preoccupare, è pelle. Basta passarci uno straccio. - il ritratto della tranquillità. Non avevo altre cose da dire quindi mi zittii e uardai fuori. Cominciai a sentir freddo poco prima di fermarci. Non vedevo l'ora di entrare in casa e farmi un bel bagno caldo. Mi sentivo un pulcino bagnato.
- Prendi – disse prima di scendere, offrendomi la sua giacca – Stai tremando -
- Si bagnerà -
- Non preoccuparti per questo -
- Merci – risposi in francese, mettendomela sulle spalle, aprendo lo sportello.
Il parcheggio del condominio era sotterraneo e si collegava all'edificio tramite una porta interna.
Con un gesto cavalleresco mi aprì la porta e mi fece entrare per prima. Gli sorrisi, convinta che tutto quello fosse solo un gioco. Chinai un tantino la testa ed entrai, facendo quasi un inchino, salendo per prima le scale, seguita da lui che portava la busta con la spesa.
- Scendi da me a preparare la cena? - mi chiese quando fu davanti alla porta dell'appartamento.
- Si. Dammi il tempo di sistemarmi -
Scesi da lui dopo una mezz'ora circa. Portavo le ciabatte, un paio di jeans larghi e una felpa, coi capelli radunati in una treccia. Bussai cortesemente alla sua porta. Chiacchierammo un tantino mentre ero ai fonelli. Fuori aveva cominciato a grandinare. Fui distratta dalla grandine che colpiva il vetro della finestrella della piccola cucina e poggiai la mano sulla parte sbagliata della pentola, ustionandomi parte del palmo della mano destra.
- Diamine... - mi lamentai, imbarazzata.
Aspetta, prendo del ghiaccio – mi avvertì lui e tornò poco dopo con dei piccoli cubetti di ghiaccio, poggiandomeli sulla pelle rossa. Gemetti per il dolore. Alzai lo sguardo.
Lui era vicinissimo e mi osservava attentamente.
Il buio della notte che avevo visto nel deserto non poteva minimamente competere col blu scuro dei suoi occhi, I capelli erano neri come la pece e le labbra finecontenevano una dentatura assolutamente perfetta. Non mi ero mai soffermata a guardarlo come in quel momento. Il cuore cominciò a battermi in petto come impazzito.


Note finali_____
Secondo capitolo! Ed ecco qua che la storia comincia a prendere corpo. Entrata in campo di un altro personaggio, il perfido ma bellissimo Joe, collega della protagonista.
Ringrazio tutti coloro che hanno letto la mia storia, spero di non avervi annoiato anche con questo capitolo. Beh, che dire? Pubblicherò il prossimo capitolo a breve, anche perchè questa storia sta venendo giù spontaneamente. Giuro che però prima o poi comincerò con aggiornare con più precisione! A Prestissimo. Haki-chan.

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Capitolo 3
*** Warning. ***



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Riportai la mia attenzione sulla mano, troppo imbarazzata per guardarlo, ora che mi ero accorta di quella innaturale bellezza. Avrei voluto accarezzarlo, toccare il suo viso dalla pelle dura, con la barba appena accennata. Avrei impiegato degli anni a guardargli negli occhi.
Il mio sguardo cadde su una parete a destra e mi irrigidii: c'era un quadro con una foto delle dimensioni di un foglio per stampante e nell'obiettivo c'era lui, splendido e ancora più giovane vicino ad una delicata, bellissima donna con abito nuziale. Alla loro destra c'era Angelina, mentre a sinistra il padre sorrideva mettendo una mano sulla spalla allo sposo.
Quell'essere perfetto che mi teneva la mano era sposato! Osava addirittura avvicinarsi!
Così tornai a guardarlo, sorridendogli e ritraendo la mano, facendo finta di niente – Grazie – sussurrai dandogli una pacca sulla spalla per farlo allontanare. Sapevo che prima o poi me ne sarei pentita ma non era il momento di pensarci. Dovevo distrarmi ma lo sguardo mi cadeva in continuazione su quella dannata fotografia? Certo, meglio lì che da qualche altra parte...Ma mi aveva fatto ritrarre sul più bello!
Mi voltai verso I fornelli, riprendendo a cucinare.
- Quanto manca alla festa? - mi chiese poi per sciogliere il silenzio.
- Oh, pochi giorni. La festa sarà domenica prossima. -
- Sai, mia madre ha detto che devo prendere parte al corteo -
- Ma al corteo ci saranno solo persone travestite – dissi ridacchiando, pensando agli anni precedenti in cui mi ero vestita da tenera contadina.
- Metterò una tunica e impersonerò San Gennaro – sbottai a ridere e lui mi guardò incuriosito.
- Devo farti assolutamente una foto per il mio giornale! -
- Se ci riuscirai. Può darsi che possa ucciderti prima della festa. - continuai a ridere girando la carne.
- Da quale città vieni? -
- Sono italiana del sud – mi affrettai a dire. Non volevo parlare del mio passato. – La cena è pronta! - cantilenai prendendo I piatti e servendo in tavola.
- Quindi lavori per il giornale... - iniziò incuriosito mentre mangiava, dopo essersi complimentato per la mia bravura ai fornelli.
- Si, da quando sono arrivata. Tu che lavoro fai? -
- Segreto! - mi canzonò masticando a bocca aperta un boccone. Mi sembrava un bambino ma mi fece ridere.
- Dai dimmelo! -
- Ti sfido a scoprirlo! -
- E quale sarà il premio? Mi darai una coppa, una medaglia? -
- No, semplicemente qualcosa che ho fatto io con le mie mani -
- Allora sei un artista -
- Così dicono – sorrise e riprese a mangiare. Non ricordavo neanche più cosa fosse successo in cucina qualche minuto prima. Ora che ci ripensavo l'amarezza mi risalì in bocca, rendendomi quasi disgustoso ciò che stavo mangiando. Alzai gli occhi. Strano, non aveva la fede alla mano sinistra... - Oggi sono tornato da mamma. Mi ha detto di salutarti. -
Il sorriso mi tornò alle labbra. Parlare di Angelina mi metteva sempre di buon umore. - Come sta? -
- E' molto stanca...I medici dicono che la terranno sotto osservazione per parecchio tempo, anche due mesi se necessario -
- Diamine, è un sacco di tempo! Non so neanche perchè è svenuta ieri sera... -
- Beh, quello è colpa mia. -
- Cosa? - chiesi stupita, allontanando il boccone che stavo per mangiare.
- Sapeva che sarei venuto per la festa ma quella sera un aereoplano di linea è precipitato. Lei ha invertito I voli e....E' solo colpa mia se si è sentita male. -
Il suo viso era estremamente triste in quel momento. Esprimeva dolore, tristezza, ma allo stesso tempo mi addolciva tremendamente. Era andato a trovare la madre con il chiodo fisso di esser la causa di ogni suo male e adesso stava tranquillamente cenando con una compagna di condominio della madre. Oltre che tenerezza, esprimeva anche un'enorme forza d'animo!
- Ma sei qui giusto? - chiesi seria.
- Cosa c'entra? - mi domandò a sua volta curioso ed attento. I suoi occhi erano talmente tanto profondi che sembravano guardarmi dentro.
- Il fatto che tu sia qui, ha fatto si che tua madre non morisse di crepacuore. E' questo l'importante, giusto? -
Rimase in silenzio, distogliendo lo sguardo riflettendo sulle mie parole attentamente e io ripresi a mangiare. Sapevo di poter sembrare scortese ma non avevo mangiato a pranzo quindi avevo fame. In pochi secondi lui arrivò alla soluzione e mi osservò quasi illuminato. Lo considerai un tantino esagerato per il concetto semplice che avevo appena detto.
- Hai ragione. - mi disse sorridente. Stavo per sciogliermi. Mancavano pochi secondi...cinque...quattro...tre... - Perchè non beviamo qualche birra dopo cena? - Cominciai a raffreddarmi.
- Birra? -
- Si, per sciogliere un po' il ghiaccio. Se non ti piace la birra, ho sempre del whisky scozzese – Ci stava forse provando? Voleva farmi ubriacare per qualche losco scopo?
- No grazie. Domani devo lavorare. - buttai lì, ma lui capì il motivo del mio rifiuto. Gli si leggeva negli occhi. Comunque annuì.
- E domani sera torni da me? -
- Non credo di avere impegni. - confermai con la bocca piena, portandomici una mano davanti per non dare uno spettacolino su ciò che stavo masticando. - Devo vedere bene gli orari dell'autobus, visto che la macchina è fuori uso -
- Vengo a prenderti io – mi propose lui.
- Non ti preoccupare. Grazie comunque. - presi I piatti e mi alzai, portandoli al lavandino. Aprii gli sportelli sotto il lavello, presi il detersivo e mi tirai su le maniche. Lui mi venne dietro e mi poggiò una mano sull'avanbraccio.
- Faccio io – mi disse sorridendomi. Perchè diamine continuava a tentarmi? Era SPOSATO! Non dovevo assolutamente cedere. Non volevo essere immischiata in qualche affare tra moglie e marito. Scossi la testa, guardandolo.
- Aiutami a sciacquarli – proposi allora e lui si mise dall'altra parte del lavello. - Dammi un indizio. - ordinai dopo poco, per rompere il silenzio.
- Su cosa? -
- Sul tuo lavoro. -
- E' un lavoro di mani. -
- Tutti I lavori sono di mani! - sbuffai.
- Pensaci bene. Non posso dirti nient'altro. - mi canzonò per l'ennesima volta.
Finimmo di lavare I piatti e mi avviai verso la porta, seguita sempre da lui. Una volta sulla soglia, mi voltai.
- Buona notte – augurai. Lui lentamente si chinò, mi posò la mano sulla guancia sinistra.
Le nostre labbra si facevano sempre più vicine. Il mio cuore cominciò a battere a mille, quasi come un treno impazzito. All'ultimo momento, mi sporsi io, dandogli un piccolo bacio sulla guancia, con una forza di volontà che non mi credevo capace di avere.
- Buona notte – mi sussurrò lui all'orecchio.
Presi sonno molto difficilmente, nel mio letto enorme. Forse stavo facendo troppo la preziosa, forse dovevo lasciarlo fare, almeno fino a quando saremmo rientrati in un certo limite. Non andavo di certo a letto con tutti quelli che me lo chiedevano, anzi, lo avevo fatto con un solo uomo, una sola volta e in un certo senso me ne vergognavo. Sicuramente almeno la metà della popolazione femminile aveva avuto almeno due uomini alla mia età, 22 anni, ma per me era una cosa troppo importante e in un certo senso pericolosa. Grace era più grande di me e faceva fatica a tirare avanti con un figlio a carico e I soldi del padre del bambino, troppo impegnata a spenderli tutti per sé. Non che non voglia figli, ne vorrei tanti, ma sono una grande responsabilità.

Il mattino successivo, mi svegliai presto, provando a riaddormentarmi con scarsi risultati.
Mi alzai e feci colazione, andando a farmi la doccia per rinfrescarmi un po' le idee. Riordinai un po' il mio appartamento, misi la lavatrice e feci colazione con una tazza di latte e riso soffiato al cioccolato, il mio preferito.
Finito, andai nel mio studio e accesi il computer e la linea, cominciando a cercare gli orari degli autobus. Squillò il telefono mentre la pagina si caricava.
- Pronti? - risposi allegramente in italiano.
- Di buon umore? - era Norman.
- Fino ad un momento fa – dissi sarcastica.
- Ah Ah. Sono fuori da Little Italy. E' una mia impressione o questa davanti a me è la tua macchina? - - - No. E' la mia macchina. Stavo per chiamare il carro attrezzi e stavo dando un'occhiata agli orari degli autobus. A proposito, c'è una fermata sotto l'ufficio? -
- Cosa stai blaterando? -
- Pronto? Non ho la macchina! -
- Ti accompagno io, idiota. Sono a due chilometri da casa tua. Aspettami lì sotto. Vengo subito. - e riappese. Fastidioso! Nonostante tutto anche cavaliere. Almeno mi risparmiava di prendere I mezzi. Casa mia non era tanto vicina all'ufficio, dopotutto.
Presi il mio portatile aziendale con le varie tavole che avevo preparato, la borsa e scesi le scale.
Al piano terra, trovai Fernando che chiacchierava con la vecchia signora Maria, intima amica di Angelina. Da quello di cui parlavano capii che la donna si stava appunto informando della sua amica.
Quando lui mi vide, salutò la signora lasciando il discorso a metà e mi venne incontro, verso il corridoio che portava all'uscita.
- Buongiorno! - trillò.
- Così dicono – risposi io, ancora seccata del fatto che Norman stesse venendo a prendermi.- Stavo pensando, se vuoi ti accompagno io a lavoro! Devo arrivare fino al centro.. -
- Non ti preoccupare. Sta arrivando il mio collega. - lo bloccai subito. Già mi aveva riportato a casa. Si frugò in tasca e ne tirò fuori un biglietto. Lo osservai. C'era un numero di telefono scritto sopra.
- E' il mio numero – mi disse vedendomi perplessa – Quando finisci di lavorare chiamami. Andiamo a fare la spesa insieme. -
- Va bene. - accettai senza troppi complimenti. Fernando mi piaceva e se non potevo essere almeno la sua fidanzata, visto che era sposato (e non volevo sicuramente essere la sua amante), potevo almeno essergli amica!
Aprii il portone. Norman era già arrivato, appoggiato alla sua macchina.
Fernando si chinò, reclamando il bacio sulla guancia. Lo salutai e andai verso l'auto.
Il mio collega mi guardava sbalordito e non ne capii il motivo.
- Cosa? - chiesi quando gli fui vicina.
- Dove hai nascosto Irene? -
- Come scusa? -
- Mi giro un secondo e ti baci con un altro uomo! -
- E' un mio amico – dissi stufa.
- Io e te ci conosciamo da anni e non mi hai mai salutato a quel modo. -
- Noi siamo colleghi. Non usciamo insieme, Norman. Non ti devo spiegazioni. -
Sbuffò. Avevo vinto anche stavolta – Sali. - concluse seccato.
Certo, mi sentivo in colpa, ma ormai pensavo che avessi delimitato per bene il mio territorio e più e più volte gli avevo detto che non volevo assolutamente un fidanzato.
Salii in macchina. Il viaggio fu silenzioso e ne fui sollevata. Non volevo discutere con lui, dopotutto gli ero sempre affezionata, come amica, ma niente di più.
- Ti riaccompagno a casa dopo – mi disse prima di entrare in ufficio, sulla porta.
- Ritorno con il mio vicino. Devo far spesa. - sembrò ancora più seccato dal mio comportamento, ma che potevo farci? Sarebbe stato ancora più cattivo dirgli una bugia.
Entrai in ufficio. Il Norman Fan Club mi osservava, come a voler leggermi sul viso un'espressione inebetita, visto che ero entrata con il loro beneamino, ma rimasero leggermente stupiti vedendo la mia espressione seccata. Salutai le mie colleghe ed entrai nella sala dove avevo la scrivania.
Come al solito, Joe non era ancora arrivato. Che seccatura. Non potevo spedire il lavoro se lui non lo controllava. Approfittai del fatto che non avevo ancora niente su cui lavorare per chiamare il carro attrezzi. Mi chiesero il mio numero di cellulare e la via dove avevo lasciato la macchina e contemporaneamente entrò nell'ufficio principale Joe. Riagganciai in fretta, senza neanche salutare l'uomo che mi aveva risposto, ma il mio capo entrò di passo spedito e vide chiaramente che stavo telefonando. A lui non andava giù che facessi delle chiamate personali, anche se il mio contratto non diceva nulla a riguardo.
Nonostante mi avesse visto, non mi rimproverò, ma aveva comunque un'espressione seccata sul viso mentre si toglieva la giacca.
- Cos'è, hai dovuto lavorare e non sei potuto andare nei locali a rimorchiare? - lo canzonai.
- No, ho sempre tempo per quello ma il problema è un altro. E stavolta, mia cara, riguarda anche te. - sorrise trionfale e un brivido mi percorse tutta la schiena.
- Spara. - dissi ansiosa – Un lavoro andato a male? -
- No. -
- Abbiamo perso un cliente! -
- No. -
- I New York Giants hanno perso! - eh sì, amavo il football americano.
- Si -
- Cazzo! -
- Ma non è quello il problema. -
- Cos'altro? -
- Ha chiamato Grace. -
- Cos'è successo? -

- Ha detto che deve dirti una cosa e che sta per arrivare a New York -
- Questo non è un vero problema. - dissi seccata.
Squillò il telefono. Mi guardò sorridendomi e facendomi cenno di rispondere. Presi aria e alzai la cornetta – Pronto? -
- Irenee! - trillò la mia ex collega dall'altro capo del filo.
- Da quanto tempo... - dissi con falso entusiasmo e Joe cominciò a ridacchiare – Come stai? -
- Benissimo! Ho trovato un lavoro! -
- Ma è una notizia bomba questa! E dove? -
- Al ristorante davanti casa tua. -
- Come? - mi aveva preso completamente contro piede.
- Si, proprio lì! E' per questo che ti ho chiamato, ho bisogno d'aiuto. -
KABOOM.
- Dimmi tutto. - mi passai una mano sul viso e mi sedetti, pronta ad un cataclisma.
- Ho bisogno di un posto dove stare con LJ – Little Joe, il figlio suo e del mio collega. In realtà lo avevano chiamato Alexander, ma ormai tutti lo chiamavano così. - Per favore, potrei usare il tuo studio? Dormiremo sul divano e ti pagherò una parte dell'affitto... - mi chiese supplichevole.
- Va bene. Avvertimi quando stai per arrivare. -
- Ti ringrazio, Irene. -
- Non è niente. - ci salutammo e riagganciai.
- Allora? - chiese Joe, aspettando il resoconto.
- Si trasferisce da me. -
- COME SCUSA?! - risi alla sua reazione.
 




NOTE FINALI_____

Ecco qui un nuovo capitolo, anche se a un mese di distanza! Mi scuso con tutti i lettori ma non ho praticamente avuto tempo di mettermi al pc >.< Spero che il nuovo capitolo vi piaccia. Ho bisogno di delineare bene i personaggi prima di cominciare con la storia reale, altrimenti non si capirebbe niente. Spero che non ci siano degli errori madornali nella grammatica e ringrazio tutti i lettori che seguono la mia storia (Sempre che ce ne siano). A prestissimo e buone vacanze!

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Capitolo 4
*** Flirt. ***


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Joe si era alzato di scatto dalla sedia e mi guardava a dir poco terrorizzato, facendomi ridere come una pazza.
- Cosa? - chiese di nuovo.
- La tua faccia – dissi cercando di riprendere fiato per il troppo ridere. Mi ricomposi alla meglio, ancora con le lacrime agli occhi – Cos'è, non ridi più? Oh, giusto, adesso sarai costretto a venire fino a laggiù a Little Italy per vedere il sangue del tuo sangue e la donna che ti sei fatto per sbaglio. Mmh, brutta situazione! - lo presi in giro, con acidità.
- Verrà a vivere da te. L'unica che dovrebbe preoccuparsi sei tu. -
- Grace è mia amica e quel bambino è l'amore della mia vita. Io non mi tiro certo indietro nelle situazioni serie. - sempre più acida. Avevo perso anche quel minimo di ilarità che mi era rimasta.
- Non è carino da parte tua parlarmi così. Sono il tuo capo. -
- Ma questa non è una questione di lavoro, capo. - il discorso cadde così, visto che la segretaria portò le notizie da intestare, ovvero il mio lavoro giornaliero.
Non accennai più alla discorso, giocherellando con la mia lavagna interattiva per impostare lo scheletro della pagina e io e Joe non ci parlammo praticamente più se non per parlare di lavoro. Finalmente potevo stare tranquilla. Verso le cinque, presi il foglietto che avevo in tasca e digitai sulla tastiera del telefono il numero di Fernando...o almeno quello che mi aveva dato. Squillò almeno quattro volte, prima che rispondesse.
- Pronto? - la sua voce roca mi fece salire al settimo cielo.
- Buona sera. Siamo sempre d'accordo per andare a fare spesa? - tagliai corto. Con Joe presente non potevo stare tanto a telefono.
- Va benissimo. Passando non ho visto la tua macchina, penso che l'abbiano già ritirata. -
Ridacchiai. - Certo, è il loro lavoro. - dissi ovvia.
Restò in silenzio. - Hai ragione. -
- Fra quanto sei qui? -
- Sono già sotto la palazzina. Stavo aspettando che chiamassi. Vengo a prenderti? -
- Stai scherzando? Scendo io. - dissi arrossendo. Era la prima volta che qualcuno mi chiedeva se poteva venirmi a prendere. Pensavo che fosse una cosa da film! Riattaccai e presi frettolosamente le mie cose. Mi sentivo felice e non ne capivo il motivo.
Joe intanto, dalla sua scrivania mi osservava curioso. - Stai tradendo Norman per caso? -
Mi fermai all'istante e alzai lo sguardo, fulminandolo. - Come scusa?! -
- Sembra quasi che tu stia per andare al primo appuntamento...Norman sa che vai via senza di lui? -
- Norman non ha bisogno di saperlo. Non c'è proprio niente tra me e lui. - risposi seccata e acida. Mi sembrava di essere tornata al liceo, quando una voce diventava realtà assoluta per tutti.
- Ah, basta saperlo. - disse sorridendomi in modo malizioso. Si alzò. Io ormai ero vicina alla porta e lui mi venne incontro. - Allora che ne dici se io e te usciamo una di queste sere? -
Lo guardai come se avessi davanti uno scarafaggio gigante. - Assolutamente no. - dopo tutto quello che aveva combinato alla mia amica si permetteva di chiedere cose simili?
Si avvicinò ancora di più. - Avanti...potresti avere una promozione, pensaci bene. - allungò la mano verso di me, ma mi tirai indietro, aprendo la porta.
Lo fulminai con lo sguardo. - Torna a lavorare. Fai più bella figura, Joe. Mi raccomando, prepara I pannolini: fra pochi giorni arriverà tuo figlio. - dissi a bassa voce l'ultima frase. Potevo rispondergli male ma non volevo certo farmi licenziare per una parola di troppo!
Uscii senza voltarmi, salutando appena con un cenno I colleghi che conoscevo. Feci una corsetta per il corridoio, verso gli ascensori e ne chiamai uno per scendere.
Trovai subito la macchina di Fernando, anche perchè non era di certo il tipo di auto che poteva rimanere inosservata, una Porsche decappottabile Carrera 230 del 75. Molti fanatici di automobili stavano infatti scattandogli delle fotografie, mentre il proprietario si teneva a debita distanza per farli fare senza dar fastidio. Irene non aveva notato com'era vestito quella mattina, ma sembrava assolutamente un qualche detective uscito da un libro poliziesco, con gli occhiali da sole Ray-Ban, un cappotto di pelle fornito di pelliccia, un paio di jeans scoloriti e le Timberland. Diamine, doveva avere tantissimi soldi! Eppure Angelina sembrava il classico tipo di signora che tirava avanti solo con la sua pensione. Strano...O forse era proprio il suo lavoro a fruttargli così tanto?
Mi avvicinai e si voltò sentendo dei passi.
- Buona sera! - trillò, facendo risaltare con un sorriso I suoi denti perfettamente dritti e bianchi. Come diavolo faceva la moglie a lasciarlo andare in giro così?
- Ciao! - risposi, forse con voce un po' troppo stridula.
- Così lavori in un posto così sofisticato? -
- Tra I due quello che veste meglio sei tu... - commentai canzonandolo, osservandolo dalla testa ai piedi per sottolineare quel che avevo appena detto.
- Posso permettermelo, tutto qui. -
- Andiamo? - chiesi.
- Andiamo. - Fernando andò verso la macchina, salutando gli ammiratori della sua macchina e facendomi cenno di salire. Obbedii molto volentieri. Salii e partimmo subito. Guidava bene, anche se andava un po' oltre dei limiti di velocità.
- Sei già passato da tua madre? -
- Non ancora. Volevo andarci dopo averti riportato al condominio, dopo aver fatto la spesa. -
- Ti spiace se vengo anch'io? -
- Mia madre sarebbe più che felice. - disse, togliendosi gli occhiali, visto che ormai il sole era tramontato.
- Bene, allora prima facciamo la spesa e poi andiamo da Angelina. - conclusi, appoggiandomi comodamente allo schienale, portandomi le mani sulla pancia.

Arrivammo poco dopo al supermercato del centro commerciale e visto che c'eravamo comprai per Angelina anche un bellissimo mazzo di fiori composto di Camelie e fiori di Camomilla. Certo, pagai un po' ma per la mia mamma americana avrei fatto tutto il possibile.
Comprammo poche cose, un vaso e appena l'essenziale, ripartendo poi per l'ospedale. L'orario di visita non era ancora finito e trovammo Angelina intenta a lavorare a ferri. Gli occhi le si illuminarono quando mi vide entrare.
- Irene! Ma cosa hai lì? - chiese, perchè avevo I fiori nascosti dietro la schiena.
- Tadà! - dissi tirandoli fuori, sedendomi sulla sponda del letto.
- Oh! - sospirò felice e batté le mani l'una contro l'altra, prima di prenderli in mano e sentire il loro profumo. - Oh, Irene. Sono bellissimi! -
- Conosci il significato dei fiori? - chiesi.
- Oh, per niente.. - disse dispiaciuta.
- Beh, le Camelie vengono regalate in segno di stima, mentre la Camomilla serve per rilassare e indica la forza nelle avversità, come augurio della tua guarigione. - dissi. Gli occhi le si riempirono di gioia. Mi tirò a sé e mi baciò la fronte. Fernando osservava la scena sorridente, seduto sul divanetto non molto distante da lì. - Che Dio ti benedica – disse in italiano.
- Auguri, mamma. - dissi a mia volta nella mia lingua, sorridendole. - A cosa stavi lavorando? - chiesi poi, mentre mettevo dell'acqua nel vaso e vi mettevo dentro I fiori, sedendomi poi sulla sedia.
- Sto lavorando a maglia per fare un maglioncino al mio nipotino! -
Mi gelai all'istante. Fernando era già papà?
- A-ah! Come...Come si chiama? -
- Amanuel, come mio marito. -
- E' un bellissimo nome! Quanto è grande? -
- Ha circa 10 mesi. -
- Che carino! - dissi sorridente. Un Fernando junior non poteva non essere bello.
Chiacchierammo delle cose più varie fino alla fine dell'orario di visita. Salutammo e ritornammo a casa.
- Entri adesso? - mi chiese lui, davanti al suo appartamento.
- No, prima vado a mettermi qualcosa di comodo...Anzi, perchè stasera non vieni tu da me? - proposi. Non mi sembrava giusto essere invitata e non ricambiare.
- Accetto! - trillò e salì di corsa le scale.
Mi spaventai quando vidi la porta socchiusa. - Cosa diavolo... - sussurrai impaurita, mentre ci avvicinavamo alla porta.
- Rimani dietro. - ordinò Fernando e andò verso la porta. Aprì piano. Non c'erano segni di scasso e la casa era esattamente come l'avevo lasciata. Allora gli passai avanti, camminando lentamente, inciampando a qualcosa poggiato per terra.
- Irenee! - strillò una voce da dietro di me, spaventandomi, dal mio studio.
- Grace! Mi hai fatto prendere un colpo! -
- Volevo farti una sorpresaaa! -
- Potevi chiamarmi! Non avevo preparato niente... - dissi. Fernando mi era dietro. Lo capii dagli sguardi che mi lanciava la mia amica, come a volermi costringere a presentarglielo. Non volevo fare la sgarbata, così l'accontentai.
- Grace lui è Fernando e viceversa. - dissi, passando di corsa tra I due prima che si stringessero la mano, sbrigandomi a posare le buste della spesa sul tavolo, visto che non erano molto leggere. - Ora! Dov'è il mio tesoro? - dissi con voce acuta e dallo studio spuntò fuori il mio sole, il piccolo LittleJoe, alias Alexander. Mi venne incontro e fui sul punto di piangere quando lo vidi camminare sulle sue gambine, barcollando. Tipica camminata dei bambini di due anni. Lo presi in braccio e gli feci il solletico, mentre I miei ospiti si conoscevano meglio.
- Rimani a cena? - chiese stupita Grace, guardandomi e facendomi l'occhiolino come per dire “qui stanotte si fanno scintille”. Alzai gli occhi al cielo. Pensava sempre a male.
- Sempre che l'invito sia ancora valido. - chiese Fernando cortesemente.
- Certo che puoi restare. Almeno tu non entri in casa mia senza avvisare. - frecciatina amichevole, ma non potevo farne a meno.
Risero entrambi. Sorrisi a mia volta e andai col piccolino nella cucina. - Andiamo a preparare la cena. -
Panico. Non sapevo cosa stava succedendo là dietro e fui assalita dall'angoscia, tanto che per poco non misi il sale nell'impasto della torta, al posto dello zucchero. LJ mi osservava curioso e rideva quando io mi davo delle pacche sulla fronte per concentrarmi. Squillò il telefono ma io ero occupata ai fornelli – Grace, puoi rispondere per favore? - difatti, il telefono tacque.
Tazza. Mi serviva una tazza. Aprii lo sportello della credenza e allungai la mano. Diamine, dovevo prendere una sedia ma ormai c'ero quasi. Mi misi sulle punte e ne sfiorai una per poi prenderla, ma quella vicina era in una posizione critica e cadde sul pavimento, rompendosi. Ero scattata per cercare di riprenderla ma ero sulle punte e mi sbilanciai all'indietro. Probabilmente sarei morta battendo la testa allo spigolo del tavolo che mi stava dietro o ci sarebbe mancato veramente poco se dietro di me non fosse arrivato Fernando. Mettendomi una mano sulla spalla e una sul fianco.
Ripresi a respirare dopo la paura. Lui rise, facendomi innervosire. Stavo per liberarmi dall'abbraccio ma la sua mano scivolò dal fianco al mio ventre, tenendomi stretta. Ridacchiò ancora e poi si accostò al mio orecchio. - Se non arrivi lassù, mettile più in basso le tazze. - sussurrò soffiando nel mio orecchio. Avvampai. In un'altra situazione, con un uomo scapolo, probabilmente mi sarei lasciata andare all'eccitazione, ma visto che la situazione non era diversa e lui era sposato, dovetti ritirarmi.
- Lasciami.. - dissi ma il tremolio nella mia voce era evidente. Aprì la bocca per parlare.
- Irene, era il carro attrezzi – mi liberai appena in tempo.
- Che...che dicono? -
- Puoi andare a ritirare la macchina fra un paio di giorni. Ti chiameranno loro. -
- Perfetto. - dissi. Poi presi la scopa e cominciai a sistemare I pezzi di coccio che erano in terra. Fernando mi guardava con aria interrogativa ma non ripresi più il discorso per tutta la serata.
Nel bel mezzo della cena, suonarono alla porta.
- Chi è? - chiesi prima di aprire.
- Sono Maria – oh, la signora del piano terra. Aprii la porta.
- Dimmi tutto! -
- Ci servirebbe della mano d'opera di sotto. Voi siete giovani, venite a dare una mano! - fece finta di rimproverarci. Mi voltai verso di loro. Ormai mancava solo il dessert..
- Andiamo! - disse Fernando estasiato – Non ho mai partecipato alla preparazione! -
- Andiamo. - acconsentì Grace.
Scendemmo giù in strada. Presi la mia macchina fotografica. Fernando era elettrico e correva da una parte all'altra della strada per prendere le varie cose che servivano per I decori, salendo sulla scala e appendendo I festoni. Grace e Alexander lavoravano invece a fare I disegni per terra con il gesso. Scattai diverse foto ad entrambi. Fu una serata pienissima. Ognuno aveva il suo compito da svolgere.
Io lavorai alla decorazione del carro sul quale sarebbe passata la statua di S. Gennaro, lavorando alle composizioni dei fiori.
Alla fine, quando ormai tutti erano andati via, Grace e LittleJoe compresi, mi sedetti sulla panchina, sfinita.
- Irene? -
- Mmh... - mugugnai. Era Fernando.
- Hai ancora quel dolce? -
- Certo. -
- Che ne dici di mangiarlo adesso? -
- Va benissimo. Se Grace non dorme ancora le dico di venire con me. - dissi. Mi sorrise e entrò nel condominio. Salii fino al mio appartamento. Entrai nello studio ma I miei ospiti dormivano già, così presi la piccola torta che avevo preparato e la portai giù all'appartamento di Angelina.
La porta era socchiusa.
- E' permesso? -
- Entra! - m'invitò Fernando da dentro ed entrai. Passai alla cucina e poggiai il dolce sul tavolo.
Aprii la cedenza e presi dei piatti di carta con dei cucchiaini.
- Diamine, li stavo cercando da ore! - apparve alle mie spalle, con la camicia che portava semi-aperta. Mi voltai, cercando di sembrare il più naturale possibile. - Ha un'aspetto delizioso! -
- Tutto ciò che cucino ha un bell'aspetto. - dissi, fingendomi arrabbiata con lui. Tagliai le fette e le servii.
- Hai ragione. -
Mangiammo la torta con tranquillità, parlando dei discorsi più vari. Poi, finito, presi I cucchiaini e li misi nel lavandino, buttando I piatti nella pattumiera.
- Irene.. - mi chiamò, suadente.
Mi voltai di scatto ma lui mi era già dietro, imprigionandomi tra il lavello e il suo petto. Rimasi rigida, senza dire una parola, alzando unicamente lo sguardo.
- Irene.. - sussurrò stavolta, piegandosi verso di me, dandomi piccoli baci sulla guancia, avvicinandosi lentamente alle mie labbra. Mi ritirai.
- Cosa stai.. - ansimai in preda al batticuore. Mi sentivo una scolaretta in quella situazione.
- Tu mi eviti. Eviti ogni contatto con me. - cominciò lui – Hai un altro uomo? Non ti piaccio? -
- Ma che ti prende così, di punto in bianco... - annaspai, mettendogli una mano sull'avambraccio, cercando di spostarlo. Davanti ai miei occhi il suo petto caldo non reclamava altri che me. Diamine, come avrei voluto abbracciarlo in quell'istante, ma quella dannata fotografia non voleva assolutamente scomparire dal campo visivo.
“Non devi muoverti. Respingilo.”
- Come se potessi accettarti. - dissi acida. Come si permetteva di persuadermi, sposato e con addirittura un figlio?
- Perchè? - disse dispiaciuto, alzandomi il viso con una mano. Demone, impostore, adultero, ecco cos'era! Come poteva anche solo pensare che io lo avrei seguito nel peccato? Oddio detta così, sembravo una donna prossima ai voti.
- Diamine, Fernando. Guarda quella foto e fatti una domanda! - indicai quella dannatissima fotografia e lui seguì il mio dito.
- Il matrimonio di mia sorella? -
- Eh? -
- E' una foto del matrimonio di mia sorella. Cosa c'entra con questo? -
KABOOM. E io mi ero trattenuta per una dannatissima foto di famiglia?!
- Di...di tua sorella. - ripetei, come se non avessi sentito bene.
- Esatto. Pensavi che quella fosse mia moglie? -
Non risposi. Lui mi sorrise.
- Come sei ingenua... - sussurrò. Si chinò di nuovo a torturarmi con le sue attenzioni, stavolta scendendo dalla guancia fino alla base del mento, facendomi rabbrividire.
Un attacco improvviso, certamente una cosa che non mi sarei mai aspettata da parte sua. Cos'era tutto quel correre, dopo così poco tempo che ci conoscevamo? Mi considerava forse una che poteva portarsi a letto così, dopo neanche una settimana dal suo arrivo? Oh, no, assolutamente no, anche se era difficile...tremendamente difficile, non dovevo darmi per vinta, assolutamente.
- Fermati! - ansimai. Non esaudì il mio desiderio. Mi tirai indietro, almeno per quel poco di spazio che avevo.
- Avanti... - mi pregò. Per un misero istante mi venne voglia di mandare al diavolo tutti I miei pregiudizi e lasciarmi andare, ma poi l'unica a soffrire delle conseguenze sarei stata io.
- No. - e si fermò, guardandomi, senza rabbia ma comunque accigliato.
- Pensavo di piacerti. -
Aveva capito tutto, infatti, ma non dissi niente a proposito. - Non ora, non oggi. -
- Cos'hai da fare tanto la preziosa? Non ti sto chiedendo niente. - maniaco, arrogante. Ero sul punto di piangere.
- Niente? - mi liberai dalla sua presa, con voce tremante e lui mi lasciò andare, tenendo comunque la stretta salda alla mano. - Lasciami! - sibilai – Sei solo uno sporco maniaco. -
- Maniaco è una parola forte. - mi canzonò, quasi esasperato.
- Perchè è l'unica parola che ti rappresenta! Nessuno – e liberai il braccio – ...dovrebbe permettersi di spingersi a tal punto con una donna che conosce a malapena da una settimana. - la voce mi tremava ancora.
Silenzio. Volevo solo andarmene a letto e sfogarmi il più possibile, magari rompendo qualche mobile, se necessario.
- Io non ti conosco da pochi giorni. Io ti conosco da quando sei arrivata qui, Irene. - sussultai, sorpresa. Non era possibile, non l'avevo mai visto prima. - A Natale, a Pasqua sono sempre venuto qui, ma tu non ti sei mai accorta di me. - disse quasi acido.
- Cosa.. - sussurrai, ferma davanti a lui, rigida, mentre rovistavo nella mia memoria per cercare di ricordare un nostro incontro. Nulla, buio completo.
- Irene io.. - cominciò venendomi incontro ma io mi tirai indietro.
- Non toccarmi – scandii bene le parole. - Ci vediamo domani. - salutai e uscii dall'appartamento che fino a venti minuti prima amavo come me stessa.
Salii fino al mio piano, entrai In casa e mi gettai sul letto. Non avevo voglia di piangere, avevo già versato tutte le mie lacrime in passato.
Era tutta colpa sua. Il mio autocontrollo, I miei ideali, si erano frantumati a terra come la tazza che era caduta a terra prima di cena. Se non mi fossi liberata, sicuramente mi avrebbe portato a letto.
Ma non per il fatto che non mi piacesse o meno. Semplicemente per un mio modo di fare egoistico, che non mi permetteva di liberare I miei ricordi d'amore dal mio primo ed esclusivo uomo che avessi mai avuto, morto unicamente per un errore madornale: scegliere me.

 

Note Finali____

Eccoci di nuovo qui con un nuovo capitolo. So' che l'ultimo è stato pubblicato da poco ma visto che fra poco parto per una diecina di giorni, ho deciso di postare subito, in modo da utilizzare tutto il mio tempo sul prossimo capitolo e magari anche su quello dopo. Spero che questa parte vi piaccia come le altre. A presto, buona lettura e buone vacanze a tutti! *_*


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Capitolo 5
*** Memories. ***


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Nel bellissimo mondo italiano vivevo la mia adolescenza felice, andando in giro con le amiche, partecipando alle innovazioni a scuola, per non parlare poi delle iniziative del mio paese.
Mare e collina allo stesso tempo, la mia cittadina era splendida, costruita sul tufo. I tetti delle vecchie case svettavano verso l'alto, quasi volessero toccare il cielo con le loro tegole di terracotta.
Tutto era sano ed equilibrato. Mio padre aveva una bellissima serra dove aiutavo spesso. Mia madre lavorava alla mensa di un'azienda in città. Eravamo tre fratelli, di cui io l'ultima femmina, frequentante l'istituto grafico-pubblicitario, nonostante mio padre insistesse nel farmi prendere ragioneria. Fu proprio in un giorno di marzo, quando I fiori d'arancio cominciavano a sbocciare, che si udì uno sparo non molto distante dal portone d'entrata delle serre di mio padre. Nonostante il nostro paese fosse sotto l'influenza della Mafia, con spari quindi molto frequenti, ogni volta ci prendeva il panico, per paura che uno dei nostri conoscenti, amici o familiari fosse stato ucciso.
La sorte ci aveva voltato le spalle, perchè proprio steso per strada, in una pozza di sangue, giaceva mio fratello maggiore, il secondo genito.
Ricordo ancora perfettamente quei minuti, quando corsi verso di lui, troppo spaventata per scoppiare a piangere, inginocchiandomi a terra sui brecciolini, sollevando mio fratello da terra, macchiandomi i vestiti del suo sangue. Solo quando vidi I suoi occhi privi di vita e le mie mani macchiate di quell'orribile liquido rosso, riuscii a liberarmi e a piangere, mentre la gente accorreva a vedere cos'era successo. Odiosi. Come se loro non avessero visto niente!
Urlai con tutto il fiato che avevo in gola per cacciarli.
Dovevano stare lontani da lui, dal corpo di mio fratello. Loro, troppo codardi per testimoniare davanti ad un tribunale, osavano piangere e stupirsi?
Stavo ancora urlando quando gli uomini dell'ambulanza mi separavano da lui.
Stavo ancora urlando quando mi svegliai di soprassalto, sentendomi scuotere.
Non vedevo ancora niente, solo buio, cercando di allontanare da me il soccorritore; passai una mano sul viso della sagoma: sul mento c'era un sottile strato di barba. Improvvisamente sentii la forza mancarmi, lasciandomi andare, battendo forte le palpebre per mandar via le lacrime.
Davanti a me non c'era più mio fratello, ma Fernando, che mi guardava preoccupato, poggiandomi una mano sul viso. Lo abbracciai istintivamente, ancora tremante. Mi guardai le mani pulite da ogni traccia di sangue, ma madide di sudore, nonostante sentissi freddo.
Vedevo Alexander piangere, ma non sentivo nessun rumore.
Ci misi almeno un minuto per riprendermi, mentre ancora sentivo le direne dell'ambulanza lontane. Tutto tornò tranquillo. Sentii finalmente il pianto del bambino e Grace che gli cantava una ninna nanna, cullandolo, per tranquillizzarlo.
Fernando mi sussurrava all'orecchio – Va tutto bene. -
Smisi di piangere, mollando la presa dalla sua schiena. Solo in quel momento mi accorsi che era a torso nudo e che stavo graffiando la sua schiena. Mi scusai.
- Che ore sono? - chiesi poi.
- Sono le quattro e diciassette del mattino. - mi sussurrò senza smettere di stringermi, nel mio orecchio, dolce come non avevo mai sentito. La sua voce era come agitata, calda. Non ne capii il motivo. Che fosse colpa della paura?
- Scusami – mi scusai ancora, lasciandolo andare, schiarendomi la voce e asciugandomi gli occhi, sedendomi bene di fronte a lui. Il mio sguardo passò a Grace, che guardava l'uomo come se avesse appena ucciso qualcuno, quasi con paura. Ormai il bambino aveva smesso di piangere e feci cenno alla mia amica di portarmelo, in modo da consolarlo un po'.
Si avvicinò piano e presi il piccolo raggio di sole in braccio, mentre lei mi faceva cenno che doveva andare in bragno. Fernando mi rimase seduto vicino.
- Scusami, è colpa mia – lo guardai alzando un sopracciglio – L'incubo...non vorrei che ti fosse venuto perchè ti ho messo in agitazione. - sussurrò.
- No, non scusarti. - sussurrai a mia volta. Avrei voluto spiegargli il motivo, ma sarebbe venuto a conoscenza della mia storia ed io non ero ancora pronta a quel passo.
- La prossima volta non sarà così. Te lo prometto. - mi carezzò e mi baciò la guancia, lentamente. Mi voltai verso il bambino quando sentii tirare lo sciacquone del bagno. Ci guardava curioso.
“Ene” sussurrò e ci giocherellai un tantino. Mi passò una manina sul viso e gliela baciai. Mi diede delle piccole bottarelle sul petto, sulla parte superiore dei seni, stingendo poi la stoffa del pigiama con la mano. Era un bambino, non mi stupii molto, non mi diede neanche fastidio, ma vidi Fernando irriggidirsi, guardando il piccolo quasi con gelosia.
Lo ritenni abbastanza infantile, visto che era una cosa che I bambini facevano spesso, abituati con la mamma.
Tornò Grace – Sarebbe meglio che torniamo tutti a dormire! - trillò.
- Hai ragione... - commentai, cedendole Alexander.
Accompagnai l'ospite alla porta e gli augurai una buona notte, tornando poi nella mia stanza. Grace mi si sedette vicino.
- Potresti farmi il favore di non frequentare quell'uomo? -
- Come? - chiesi, non capendo il motivo di quella sua uscita.
- Mi è parso di vederlo camminare fuori dalla finestra, sulle scale antincendio. - rimasi stupita.
- Non penso sia possibile. E' pericoloso. - dissi incredula.
- Beh, rimane il fatto che non l'ho chiamato per soccorrerti. Era già qui. -
- Grace, questi discorsi mi inquietano. - tagliai corto, assalita dai brividi.
- Hai ragione, scusa. Possiamo dormire con te? Alexander è ancora agitato per lo spavento. -
- Vieni... - disse, sorridendo, spostandomi. Dormimmo abbracciati e gli incubi non tornarono più quella notte.
L'indomani mi svegliai quando l'alba non era ancora iniziata. Mi svegliai alle sette e a mezzogiorno ci sarebbe stata la sfilata. Fortunatamente in strada era tutto pronto.
Dato che non riuscivo a riprendere sonno, decisi di lavarmi, visto che con l'incubo avevo sudato parecchio. Presi il cambio e mi recai in bagno, spogliandomi e gettandomi sotto la doccia, sospirando. Mi parve di sentire un rumore e mi voltai verso la finestra. Nessuno. Continuai a lavarmi, sicura che fosse solo la mia immaginazione. Mentre ero sotto il getto tiepido dell'acqua, mi tornarono in mente I miei ricordi.

Dopo che mio fratello fu portato via dall'ambulanza, coperto di un lenzuolo bianco, mi voltai verso le finestre. Nessuno era accorso in nostro aiuto, tranne alcuni vicini e ogni volta che guardavo da qualche parte, le tende delle finestre si chiudevano di nuovo. Mi sentivo spiata e tradita dalla mia stessa gente.
Fu difficile riprendersi dal colpo e quando arrivarono gli usurai a chiedere soldi, eravamo ancora in alto mare, pieni di sofferenza fino al collo.
Erano in due. Il più grosso chiese di fare un giro della serra e mio padre li accompagnò. Volevo chiamare la polizia e urlare che gli assassini erano in casa, ma mia madre mi fermò.
“Uccideranno anche te. Non muoverti e vai in camera tua.” mi rimproverò. Obbedii.
A cena, mio padre riferì che avevano preso una delle serre per nascondere I loro attrezzi. Non aveva avuto altra scelta, ritrovandoci nel pieno del giro. Nessuno di noi si faceva coinvolgere nei loro affari, tranne mio padre, che passava meno tempo alla serra per svolgere delle consegne o altri piccoli compiti che gli venivano assegnati.
A un anno dalla morte di mio fratello, già li aveva ribatezzati come “famiglia” e “fratelli”.
Lo odiavo e per colpa sua tutti odiavano noi. Tutti si voltavano dall'altra parte al nostro passaggio. Al supermercato eravamo arrivati a pagare tutto la metà. Tutti avevano paura di noi e io ne soffrivo.
Quando papà entrò completamente nel giro, decidemmo di chiedere aiuto alla polizia e di agire sotto copertura. Così fu. Un poliziotto giovane venne scelto come infiltrato.
Si chiamava Andrea, 26 anni. Io non avevo che 18, ma quando mio padre si accorse che il poliziotto si trovava spesso in casa, io e mia madre ci inventammo la banale storia del mio fidanzamento. Il capo famiglia non domandò altro.
Io e Andrea avevamo cominciato subito a frequentarci. Mi trovavo bene con lui, tanto che cominciai a volergli bene. Mi portava sempre in posti carini, mi aveva presentato ai suoi amici. Ricordavo ancora perfettamente la nostra conversazione in macchina, mentre mi stava accompagnando a vedere Roma di notte.
- Non devi farlo per forza... - commentai. Ormai era diventata la mia frase di rito ad ogni uscita.
- Non mi stai forzando. Sono fuori servizio. - rispose sorridendomi, facendomi battere forte il cuore. Lui non era come gli altri. Lui non aveva paura di me. Lui mi voleva bene.
- Potevi portare qualche tuo amico.. - commentai quando ci ritrovammo appoggiati ad una ringhiera a fissare il Foro illuminato dalla luce dei lampioni. Mi chiedevo fino a che ora sarebbero rimasti accesi, visto che al telegiornale avevano detto che avrebbero spento per dieci minuti tutti I lampioni del centro, come campagna per il risparmio energetico.
- Non voglio rovinarmi un appuntamento. - disse, formando le caratteristiche nuvolette di condensa. Faceva molto freddo in effetti e per farmi vedere I Fori lo stavo facendo congelare. Mi avvicinai a lui.
- Non devi sforzarti di fare il bravo fidanzato...e non c'è neanche bisogno che tu muoia di freddo per me – commentai, voltandomi, dando la schiena a quello splendido capolavoro centenario, appoggiandomi con I gomiti sul piano di marmo. Feci per voltarmi a guardarlo, ma me lo vidi praticamente davanti, a circa trenta centimetri dal mio viso, mentre mi teneva bloccata tra il muretto e il suo corpo, con le mani poggiate sul marmo freddo. Il suo naso era rosso e la pupilla era talmente grande che si vedeva a malapena il colore verde degli occhi. La visiera del cappello gli metteva in ombra parte del viso.
Mi sentii improvvisamente in trappola e tremendamente imbarazzata, imbambolata.
- Ti da così tanto fastidio uscire con me? - mi chiese quasi deluso. Mi sentii tremendamente in colpa.
- No affatto! Tu però hai degli amici, degli impegni e stai con me praticamente ogni sera.. - mi giustificai, senza abbassare il viso – Questa farsa ti sta rubando un sacco di tempo. -
- Per me questa non è più una farsa. - sussurrò. Dalla sua bocca uscivano ad ogni parola delle nuvolette.
- Stai morendo di freddo. - cercai di cambiare discorso.
- Scaldami tu. Abbracciami, Irene. - il mio nome, sussurrato con tanto amore, quasi lussuria, mi fece sobbalzare e arrossire. Un po' titubante, obbedii agli ordini, allungando le braccia, infilando le mani dentro al cappotto di pelle che aveva appena aperto, circondandogli la schiena. Nonostante tremasse leggermente, era tremendamente caldo. Lui sospirò e mi abbracciò a sua volta, cingendomi il collo. Mi mancò il fiato per qualche secondo, mentre mi spingeva verso il muretto, intrappolandomi di nuovo.
Sentii le sue labbra sui miei capelli, poi sulla tempia, poi scoprì l'orecchio. Chiusi gli occhi. Ero agitata, molto agitata.
- Sei mia. Sono tuo. Amami. - sussurrò caldo. Sentii chiaramente il suo alito caldo nell'orecchio.
Rabbrividii. Non riuscivo a rispondere. Nelle orecchie continuava a risuonarmi la sua frase e il cuore martellava veloce. Probabilmente prese il mio silenzio come un assenso, perchè arrivò alla mia guancia, scendendo sul mento e sul collo. Ansimai piano, per non farmi sentire, ma il suo orecchio era vicino e mi sentì chiaramente. Alzò il viso, guardandomi serio. Non avevo il coraggio di guardarlo a mia volta per l'imbarazzo. Strinsi la presa sul suo maglioncino.
Sentii le sue labbra vicino alla mia bocca, lasciandovi un segno bagnato, poi si avvicinò sempre di più, fino a quando arrivò a baciarmi, lentamente, gentilmente. Sentii sprigionare in quel momento tutto il suo amore. Aveva aspettato tutto quel tempo. Probabilmente l'attesa per lui doveva esser stata veramente pesante. Chiusi gli occhi. In quel momento esatto capii quanto in realtà mi piacesse. Capii cos'era la morsa allo stomaco che mi veniva quando mi salutava, o quando lo vedevo arrivare. In sua presenza ridevo spesso per la minima cosa e facevo battute tristi. Lui mi sorrideva, mi teneva per mano e io andavo in panne. Pensavo fosse una semplice cotta, ma non era così.
Il bacio fu dolce, casto e rimanemmo tutta la sera a baciaci, chiacchierare e dirci cose dolci, tutta la sera in quella posizione.
Finii la scuola grafica con un voto alto e per festeggiare mi portò a vedere il mare di notte, da una scogliera. L'avevo pregato di non portarmi sulla spiaggia, perchè odiavo la sabbia.
Ci sdraiammo sul telo. Io avevo un annuncio da fare, così mi avvicinai a lui, girandomi a pancia in sotto e alzandomi sui gomiti, mentre lui stava ad osservare le stelle, con le mani dietro la testa.
- Buon compleanno! - trillai, spostandomi I capelli dietro l'orecchio e chinandomi a dargli un bacino a stampo. Ormai ci frequentavamo da un anno e poco più, mentre ci eravamo fidanzati veramente solo da sette mesi.
- Grazie.. - mi sorrise, facendomi arrossire come una ragazzina carica di ormoni, carezzandomi la nuca amorevolmente. Prima di diventare il mio fidanzato, per me era diventato il fratello ideale. Praticamente stavo vivendo una sorta di incesto.
- Non mi hai detto cosa vorresti per regalo. - dissi aggrottando le sopracciglia.
- Non voglio nulla. Non hai neanche I soldi da parte per farmelo. - mi prese in giro. Effettivamente era vero, ma potevo chiedere qualche soldo a papà.
- E' impossibile che tu non voglia niente. Sei solo un bugiardo. - lo rimproverai, mentre giocherellavo con I suoi capelli.
- Un'idea ce l'avrei, ma non sei tenuta a farlo. - disse piano mentre mi saliva sopra, facendomi rimanere di schiena, mentre le sue mani calde mi prendevano I fianchi in modo possessivo. Andrea non mi aveva mai costretto a far niente e me ne chiedevo il motivo. All'inizio avevo pensato solo che volesse aspettare un po', ma con il passare del tempo mi convinsi che non gli piacevo abbastanza. Ero più che pronta a quel momento, anche se tremendamente agitata, visto che ero vergine.
Le mani scivolarono dai fianchi, scivolando sul ventre, risalendo, fino ad incontrare il mio seno. Ansimai quando lo strinse possessivamente. Mi spostò I capelli, baciandomi il collo.
Poi mi fece girare. Effettivamente non mi piaceva stare di schiena. Volevo vederlo, baciarlo, accarezzarlo fino allo sfinimento.
- Forse chiedo troppo. - disse titubante, vedendo che io non rispondevo.
Non riuscivo a parlare per l'emozione. Se avessi aperto bocca poi sarei scoppiata a ridere per l'agitazione e almeno in quel momento non volevo fare figuracce. Così per tutta risposta, gli presi il viso fra le mani e lo baciai, appendendomi poi al suo collo mentre il bacio si faceva profondo.
Lui mi strinse a sé. Introdusse una mano sotto la mia maglietta leggera, risalendo fino al ferretto del reggiseno. Poi andò dietro la schiena, sciogliendolo con movimenti veloci e precisi. Con quante altre donne era stato? La rabbia mi salì fino alla gola ma esplosi in un gemito, quando le dita stranamente fredde toccarono la pelle dei miei seni. Mi tolse la maglietta e l'intimo, baciandomi dappertutto, facendomi impazzire, specialmente quando si fermava sul collo.
Quando una mano aprì la zip dei miei pantaloni, persi completamente il controllo.
Tornarono a casa nel completo imbarazzo.
Andrea la accompagnò fino al cancelletto del suo giardino, baciandola sulla fronte.
- Ti amo – sussurrò.
Gli sorrisi, carica di emozione. Gli presi la mano e baciai il piccolo anello che gli avevo regalato per S.Valentino. - Ti amo. - dissi a mia volta.
La macchina di mio padre si fermò davanti casa. Abbassò il finestrino. C'erano altri due suoi compari e gli fecero cenno di salire in macchina. Mi diede un piccolo bacio a stampo e sparì nella macchina.
L'indomani, sul mio cuscino trovai il suo anello, macchiato di sangue.

Mentre l'acqua mi scivolava sul viso, mi accorsi che stavo piangendo.
La polizia era riuscita a mettere in galera mio padre. Lavorai per almeno un anno in una ditta di grafica che aveva connessioni internazionali, anche oltreoceano.
Decisi di restare almeno fino alla fine del processo, visto che avevo deciso di testimoniare. Mio padre disse ai suoi uomini che non dovevano neanche provare a toccarmi, altrimenti avrebbe rivelato I nomi dei capi, riuscendo a tenerli al loro posto.
Verso la fine della causa, decisi di fare domanda nell'azienda per chiedere una trasferta in America. Venni considerata idonea. Dopo la condanna di mio padre, partii e non tornai più in Italia, nel paese di quei ricordi tanto dolorosi. Volevo Andrea, volevo baciarlo, volevo sentirlo di nuovo mio come l'ultima notte che avevamo passato insieme, ma ormai lui aveva raggiunto mio fratello.
Mia madre e mio fratello partirono per l'Inghilterra, da una lontana parente e ci scambiavamo frequentemente delle e-mail, almeno con mio fratello. Forse per Natale sarei andata a trovarli. Mi mancavano da morire.
Era da almeno quaranta minuti che stavo sotto la doccia, così chiusi il getto e mi asciugai. Mi vestii, misi la lavatrice e andai a fare colazione. In cucina trovai Grace che preparava le sue famose frittelle.
Le sorrisi, lei lo fece a sua volta. Diedi un bacino ad Alexander e mi sedetti, aspettando la colazione.
Utilizzai uno dei miei migliori sorrisi - Allora, pronti per la sfilata? -

Note Finali_____

Ecco un nuovo capitolo, anche se in ritardo. Ho deciso di pubblicare il passato frastagliato di Irene in una sola volta, anche se passerà ancora molto tempo, prima che possa parlarne con qualcuno. Spero di non annoiarvi con il mio racconto. Piano piano prende forma e il prima possibile vi darò anche il prossimo capitolo con la sfilata. Per tutti coloro che seguono questo racconto: Siate pazienti. u.u La vostra Hakichan.

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Capitolo 6
*** When September Come. ***


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Prima di uscire di casa venni chiamata dal carroattrezzi: la macchina mi sarebbe stata restituita l'indomani.
Tutto il quartiere attendeva impaziente la sfilata, me compresa. Ero impaziente di vedere Fernando vestito da frate.
Anche il piccolo LJ era impaziente e non si calmava un momento, torturando le orecchie del suo orsacchiotto di peluche.
Non appena svoltarono dall'angolo I carri, la folla cominciò a fischiare ed applaudire. Mi ero posizionata quasi in mezzo alla strada, affiancata da Norman, per fare le fotografie che sarebbero poi finite sulle nostre rubriche.
Non riuscii a smettere di ridere quando vidi Fernando con l'abito e la barba lunghissimi. Penso di avergli scattato almeno un centinaio di fotografie.
La parata si interrompeva in continuazione, un po' per il traffico agli incroci, un po' per la gente che non si spostava dalla strada. Grace, come al solito, si guardava intorno, cercando di adocchiare il più gran numero di uomini possibile e talvolta mi chiedeva persino di fotografarli.
Fernando scese dal carro, andando in giro a consegnare palloncini ai bambini piccoli. Era bellissimo mentre sorrideva a quelle creaturine e come al solito stavo per sciogliermi, quando Grace mi diede delle gomitate sul braccio, dove molto probabilmente sarebbero usciti dei lividi enormi, porgendomi il piccolo Alexander, di modo che potesse rimorchiare più facilmente.
Con la scusa del bambino, il frate mi si avvicinò per cedere un palloncino.
I nostri sguardi si incrociarono. Gli sorrisi, ma lui ricambiò il mio sguardo con serietà. Mi sentii improvvisamente nuda. Nessuno mi aveva mai guardato a quel modo, quasi fossi un pezzo d'oro prezioso.
Sentivo miliardi di scatti di macchine fotografiche. Ero persa, immobile, cercando di capire col poco di sanità mentale che mi era rimasta, cosa stesse pensando. Quando lo vidi avvicinare il viso, tutto mi fu incredibilmente chiaro.
Non avevo il coraggio di tirarmi indietro. Desideravo profondamente un contatto con lui. Le gambe cominciarono a tremarmi ed il cuore a martellare alla velocità della luce. Tutto il mio mondo si concentrò su quel viso, su quesgli occhi che lentamente si socchiudevano, quelle labbra sempre più vicine, quel profumo di stoffa rovinata che m'inondava.
Socchiusi gli occhi a mia volta, sorridendo al ricordo del suo travestimento. Tutto cominciò ad andare a rallentatore. Le sue labbra si adagiarono lente ed esperte sulle mie, facendole combaciare perfettamente, quasi fossero state create per incontrarsi ancora e ancora.
Gli sguardi delle persone vicine mi soffocavano, ma io non pensavo a loro.
Sentii una serie di urla alle mie spalle, di fischi e di scatti, facendomi irriggidire all'istante. Fernando si accorse del mio stato e passò il braccio libero intorno al mio bacino, stringendomi un tantino a lui. Il bacio non durò molto e alla fine, per concludere, mi passò la lingua sulle labbra, inaspettatamente. Si allontanò, col sorriso dolce e trionfante stampato in faccia.
La folla di curiosi tornò al proprio intrattenimento lentamente. Le donne mi osservavano invidiose, come a voler capire cosa poteva trovare un uomo simile in una reporter coi capelli perennemente in disordine ed un fisico goffo. Eppure, nonostante molte fossero più belle di me, mi sentivo superiore a loro, perchè Fernando aveva baciato me e nessun'altra.
- Complimenti – feci una smorfia quando riconobbi la voce di Norman – Chi è? - chiese acido e maleducato. Chi si credeva di essere? Non decideva certo lui chi doveva baciarmi o meno.
- Cosa ti importa? - chiesi con lo stesso tono coltandomi, mentre LJ farfugliava uno dei suoi discorsi incomprensibili.
- Mi sembrava di esser stato diretto con te, Irene. E' crudele da parte tua trattarmi così. -
- Ti ho dato la mia risposta, Norman. -
- Insomma, mi dici cosa c'è che non va tra di noi? Ci conosciamo da due anni ormai! -
- Non è una cosa che posso comandare, dovresti saperlo. -
- In ufficio dicono che neanche Joe è riuscito a scioglierti, me l'ha detto lui stesso e adesso ti trovo a limonare con un uomo che conosci appena. -
Norman e Joe avevano frequentato lo stesso college, ma non mi aspettavo che fosero così in confidenza. - Non posso comandare questa cosa. - ripetei, continuando a prestare attenzione alla sfilata – Lasciatemi in pace e smettetela di spettegolare come due comari! - me ne andai sbuffando, con il bambino. Il mio collega era petulante e mi stupiva il fatto che avesse parlato di me con Joe. Qualcosa non quadrava o semplicemente mi stavano salendo I nervi. Decisi di far un giro per le bancarelle in strada. Little Joe toccava tutto ciò che vedeva e almeno due volte mi ritrovai un oggetto rubato nella borsa, dove buttava tutte le cose che voleva.
In lontananza Grace parlava con un paio di uomini che avevano tutta l'aria di esserle molto interessati. Dopotutto, nonostante avesse partorito, non aveva niente che non andasse ed il suo fisico era decisamente invidiabile. Il suo seno non era nè troppo grande nè troppo piccolo, le spalle erano esili, la vita stretta e le gambe lunghe, per non parlare poi del suo viso quasi angelico: I capelli neri corvini le ricadevano sinuosi sulle spalle, le labbra erano carnose, proporzionate, squisito contorno di denti bianchi dritti e perfetti. Gli occhi verdi screziati di marrone. L'unico punto a suo svantaggio era la sua ingenuità, lo stesso difetto che l'aveva spinta a fidarsi cecamente di Joe in ogni caso. Pendeva ancora dalle sue labbra, lo sapevo ed era anche per questo che non mi ero mai permessa di avvicinarmi al mio capo.
Io stessa a volte la invidiavo per la sua innata naturalezza, mentre io facevo molta fatica a socializzare con le persone, richiudendomi in un guscio fatto di ironia e agitazione. Mi ritenevo fortunata ad aver ottenuto il mio lavoro attuale, che mi faceva stare a contatto con la gente il minimo indispensabile. Solitamente anche durante la pausa pranzo mi chiudevo in ufficio, leggendo le ultime notizie sulla mafia in Italia, ma da quando ero andata via non era cambiata poi molto la situazione.
- Signora, com'è bello questo bambino! - trillò una voce, svegliandomi bruscamente dai miei pensieri.
Mi voltai – Buon giorno, capo. - disse sorridendo, mentre Alexander si sporgeva allungando le braccia verso il genitore. Gli passai il bambino. - Come mai sei venuto? Abiti lontano da qui. - chiesi, inforcando la mia Nikon. Scattai una foto, mentre il piccolo allungava una manina paffuta verso il padre, toccandogli le guance perfettamente rasate.
- Grace mi ha detto di venire per stare un po' con nostro figlio. - scattai di nuovo – Vieni, facciamoci fotografare da qualcuno. - disse, tirandomi per un braccio.
Alzai semplicemente la macchina, puntandola verso di noi. - Cheese! - sorrisi, scattando. Era una foto molto carina.
- Non è male. - commentò infatti quando gliela feci vedere.
- Te ne manderò una copia via mail. - dissi spegnendo la macchina. - Lo tieni tu? Grace è laggiù. Vado ad aiutare Norman con le foto. -
- Ah, povero Norman – gemette mentre giocherellava con Alexander.
Mugugnai, alzando gli occhi al cielo.
- Oh, Irene! Non capisci che così gli spezzerai il cuore? -
- Mi ha detto che ne avete parlato. A me sembra solo una scommessa che avete fatto tra voi due. - dissi senza pensare. Lui rimase in silenzio, con aria colpevole. Lo osservai stupita. - Non ci credo! - urlai indignata e lui mi fece cenno di abbassare la voce – Voi avete scommesso su chi mi avrebbe portata a letto per primo! - dissi indignata fra I denti, cercando di contenermi.
- E' solo una scommessa. -
- E se io mi fossi innamorata? -
- A Norman piacevi già in quel periodo. -
- E se mi fossi innamorata di te? -
- Forse avrei potuto farci un pensierino. -
- Siete soltanto due pervertiti! - feci per andarmene ma lui mi fermò.
- Le cose sono cambiate. Norman è innamorato di te. Abbiamo perso entrambi, hai vinto tu, Irene. -
- Yuhu! Cos'ho vinto? - sputai ironicamente.
- Irene, tu non capisci come potresti sentirti in una sola notte con me. - arrossii in modo involontario.
- Cosa stai.. - sussurrai. Non feci in tempo a finire che mi tirò a sé.
- Io credo che tu non voglia accettare perchè hai paura di non esser brava...Quello spetta a me deciderlo. O magari sei solo una verginella che piange davanti ai film d'amore che danno in televisione. - mi sussurrò all'orecchio mentre la mano passava dal polso alla mia schiena, scendendo lentamente verso il basso. Mi sentivo terrorizzata, terribilmente terrorizzata. Avrebbe fatto male di nuovo, lo sapevo e ne avevo paura. - Irene io.. - lo sentii allontanarsi d'improvviso e un profumo di stoffa lacera mi riempì le narici. Il bambino gemette ed il palloncino volò via.
- Signore, un palloncino per questo splendido bimbo. -
Approfittai per andarmene a gambe levate. Avrei ringraziato dopo Fernando, tanto abitavamo nello stesso condominio.
Corsi tra la folla, allontanandomi il più possibile. La mia mente pensava solo a correre, fuggire e così fu, fino a quando le gambe e I piedi cominciarono a farmi male. Mi fermai, poggiandomi le mani sulle ginocchia, riprendendo fiato.
- Irene? Cos'hai? - sentire la voce di Norman mi fece passare attraverso il corpo una scarica di nervi, tanto che mi alzai di scatto e gli tirai un ceffone, tanto forte da fargli girare la testa di lato. Non mi sarei mai pentita di quel gesto. Mai, per un dannato giocatore d'azzardo. Rimanemmo entrambi in silenzio.
- Cosa...? - gemette, portandosi una mano sulla guancia offesa. Solo guardando il suo viso mi resi conto di quanto mi fossi sbagliata. Lui non era Joe. Lui mi amava e io lo avevo schiaffeggiato per una scommessa persa in partenza. Tirai su con il naso e solo in quel momento mi resi conto che stavo piangendo.
- Scusami, mi hai spaventata. - mi giustificai.
- Cos'è successo? - disse eclissando il discorso.
- Ho incontrato Joe...è un fottuto maniaco. - gemetti, mentre le lacrime mi tornavano agli occhi. Il pianto non era stato causato da ciò che era appena successo, assolutamente, non ero tanto emotiva. Probabilmente avevo cominciato a piangere per colpa dei ricordi che mi erano tornati alla mente la notte, l'unica notte, in cui Andrea mi aveva stretto fra le sue braccia. Joe voleva rovinarmi tutti I ricordi.
Lui non rispose.
- La parata è finita comunque. Fra poco inizierà la messa. - m'informò. Sapeva che ero credente e gentilmente mi aveva avvisato. Norman era uno dei pochi amici su cui potessi veramente contare. Mi piaceva la sua tenacia, mi faceva sentire protetta, ma non avrei mai potuto amarlo. Il suo amore non avrebbe mai guarito la mia ferita e io dovevo farcela da sola. Senza il suo aiuto.
- Grazie. - dissi facendomi aria con la mano – Ci vediamo domani in ufficio. - tagliai corto. Ci salutammo ed io mi diressi verso la chiesa.

Appena finita la celebrazione, con I vari canti e tutto il resto, tornai verso il condominio. La strada era deserta, tranne qualche turista appiccicato alle bancarelle. Le macchine passavano di nuovo in strada, rovinando I nostri amati disegni. Sarebbero scomparsi da un momento all'altro, ormai.
In chiesa non avevo trovato posto a sedere e I piedi mi facevano malissimo per la fuga di prima. Non me la sentivo di salire le scale, avevo gli occhi ancora gonfi e la testa mi martellava per il chiasso che c'era in chiesa.
Mi sedetti sul secondo scalino, in attesa che la voglia di salire mi arrivasse alle gambe. Sospirai, guardando verso il quadro appeso sul muro, vicino alla cassetta della posta. Era astratto, solo il pittore sapeva che sentimenti c'erano racchiusi dentro. A me non piacevano I disegni di quel genere, quindi di conseguenza il quadro non m'interessava, ma visto che non volevo sbirciare nella posta dei condomini, era l'unico passatempo che avevo a disposizione.
Il portone si aprì. Non mi curai dell'impressione che avrei fatto stando seduta sulle scale e continuai a fissare quell'insignificante tela.
Ben presto trovai altro da fare, quando sentii per Il corridoio la voce di Fernando.
- ...se per Novembre non sarà in Inghilterra, perderà tutto il lavoro! - disse una voce che conosceva.
- Non me la sento di venire. -
- Con I venditori di strada stiamo guadagnando una fortuna, non puoi tirarti indietro adesso che ci sei in mezzo. - insistette la voce.
Cominciai a sospettare qualcosa. Fernando non mi aveva mai detto che lavoro facesse e sicuramente una macchina simile non poteva permettersela chiunque.
- Voglio prendermi una pausa. - disse stanco il mio vicino.
- Pensaci bene. Una volta che hai cominciato non puoi tirarti indietro. Richiamami e fammi sapere. -
Sentii il portone sbattere pesantemente e dei passi venire verso di me. Quando Fernando girò l'angolo, lo vidi scaraventare una busta verso il muro, arrabbiato. Sussultai, era la prima volta che lo vedevo così.
Si accorse della mia presenza e si girò verso di me, arrossendo. Sul suo viso passarono miliardi e miliardi di espressioni, fermandomi poi sul solito sorriso che mi faceva gelare il sangue.
- Come mai qui? Mi aspettavi? - chiese venendomi incontro.
Quando vidi le sue labbra muoversi avvampai, ricordandomi cosa era successo in strada. Avrei voluto alzarmi, ma I piedi mi facevano un male tremendo, quindi rinunciai.
- In realtà mi fanno male I piedi e sto aspettando che mi venga la voglia di salire. - confessai senza peli sulla lingua. Passai le braccia intorno alle gambe, guardandolo imbarazzata.
- Che ne dici se ti porto su io? -
- Dico di no. - tagliai corto, scuotendo la testa velocemente.
- Forza, sei leggera, non ci metterò niente. - insistette allungando le braccia.
- Sono più pesante di quanto pensi. - mi affrettai a dire afferrandogli il polso.
- Non fare la bambina. Se non ce la fai è meglio che ti porti fino al letto.. - si fermò quando vide la mia espressione indignata - ...o il divano. - si corresse.
Mi tirò in braccio senza troppi complimenti e rimase per un attimo fermo, come se mi stesse pesando. Sicuramente non m'importava cosa avrebbe detto o se gli fosse venuta l'ernia del disco. Io l'avevo avvertito e mi sentivo in pace con me stessa.
- Credo che sia meglio che tu mi metta giù – dissi dopo un interminabile minuto di silenzio. Eravamo ancora fermi al terzo scalino, era ora che si muovesse.
- No, sei leggera come una felpa. - decisamente strano come complimento.
- Ai miei tempi si dice “leggera come una piuma” -
- Se hai addosso una piuma neanche te ne accorgi. Tu sei leggera, calda. Come una felpa. -
- Sei un tipo decisamente strano... - commentai, sussultando quando cominciò a muoversi. Mi spaventai quando mi resi conto che stava salendo due scalini alla volta. - Rallenta! - urlai quasi, spaventata e lui obbedì, ridacchiando. Mi voltai verso di lui. Il suo profumo mi assalì. Mi faceva sentire al sicuro.
- Spero che prima non ti sia andata a finire la barba in bocca. - mi chiese serio.
- N-No. Niente del genere. - risposi girandomi subito dall'altra parte.
Saliva gli scalini uno alla volta, piano piano. Il viaggio sembrava terribilmente lungo e un silenzio imbarazzante piombò tra di noi. Arrivammo al mio piano e mi abbassò un tantino per farmi aprire la porta. Presi le chiavi goffamente e aprii. Grace non era ancora tornata. Mi portò dentro, svoltando a destra fino alla mia camera da letto. Quando sentii il materasso soffice sotto la mia schiena sospirai e chiusi gli occhi.
- Gra- - mormorai quando riaprii gli occhi, trovandomelo vicinissimo, seduto vicino a me.
- A me è piaciuto tantissimo, Irene. - sussurrò vicino al mio orecchio.
Non mi usciva una parola per l'emozione.
- Le tue labbra sono così morbide...La tua pelle così profumata... - continuò, intrappolandomi il lobo tra le labbra, giocandoci un tantino, facendomi ansimare. La mia mente si era svuotata all'istante.
- Irene.. - mi chiamò ancora.
La porta si aprì e ci irriggidimmo entrambi.
- Grazie per aver tenuto il bambino. - era Grace.
- Non c'è problema. - rispose Joe. Mi tirai a sedere.
- Lo porto nel box. - si sentirono dei passi veloci e altri più lenti, probabilmente I due erano entrati.
Cominciarono a mugugnare e io e Fernando ci guardammo interrogativi.
- Cosa ti importa? Irene non c'è. - disse Joe.
- Joe... - ansimò Grace. Diventammo rossi entrambi. Ormai non c'erano più dubbi su ciò che stessero facendo. Mi portai una mano sulle labbra.
- Usiamo..Usiamo la camera.. - ansimò lei e si udirono passi. Mi prese il panico. Dovevo nascondermi o farmi vedere? Dopotutto il letto era il mio, come l'appartamento e sinceramente non volevo che facessero qualcosa proprio dove avrei dormito quella stessa notte.
- No, aspetta! - gemette di nuovo Grace – Sul mio lettino sarà meglio. Le molle cigolano. -
Altri passi e un tonfo.
Come potevano fare una cosa simile davanti al bambino?
Mi voltai verso Fernando, che ascoltava, con una strana smorfia, quasi si stesse immaginando la scena. Quando iniziarono I gemiti, guardò verso di me con occhi liquidi. Era una situazione dannatamente strana, quella. Quegli occhi mi avrebbero fatto finire al manicomio. Non poteva usarli contro di me, non avrei resistito e forse era proprio quella la sua intenzione. Si inumidì le labbra.
Tutto successe con un secondo. Si tuffò sulla mia bocca, leccandola avidamente, chiedendomi il permesso di approfondire il bacio. Glielo concessi. Non sarei andata oltre.
Mi sentivo svenire per la sua audacia. Sembravo una ragazzina alle prime armi, ma la verità era solo che avevo perso la mano per quelle cose. Mi baciò in modo passionale, lentamente, in modo da farmi rispondere con abbastanza calma. Sentii un accenno di caffè in bocca, probabilmente era quello che aveva preso con l'uomo con cui aveva discusso per il corridoio. Giusto, quel discorso. Mi irriggidii e lui smise di baciarmi, guardandomi interrogativo. Come avevo potuto lasciarmi andare?
Fernando non mi aveva mai rivelato il suo vero lavoro, mi aveva sfidato a scoprirlo. Io venivo da un paese mafioso. Non volevo farmi inghiottire anche da un circolo di droga, avevo sofferto abbastanza. Però se tutto quello era vero, probabilmente se avesse sospettato che avevo ascoltato la conversazione, probabilmente mi avrebbe fatto tacere in qualche modo. Non dovevo sottovalutarlo, ma se l'avessi trattato freddamente dopo quell'episodio avrebbe sospettato qualcosa. Piombai nel panico.
Mi tirai indietro e diedi una gomitata allo stipite del letto senza volerlo. I gemiti si fermarono all'istante.
Sentii dei mormorii e un rumore di zip che veniva tirata su. Grace arrivò ancora rossa in viso alla porta della mia camera. Inizialmente aveva dipinta sul volto una smorfia di paura, poi passò all'imbarazzo e dopo aver riconosciuto il mio ospite mi mandò un'occhiata ammonitrice.
Fernando mi salutò con un bacio sulla guancia. Joe era già andato via.
La giornata proseguì nel più profondo imbarazzo tra di noi, tanto che parlammo di cose stupide e banali. Prima di andare a dormire, presi la macchina fotografica per rivedere le foto che avevo scattato, tutte buone e a fuoco. Avrei selezionato quelle migliori per il mio articolo.

Il mattino successivo, Fernando mi accompagnò in macchina, come d'accordo. La radio disse che c'era un traffico sulla strada che portava al mio ufficio, quindi si offrì di pacheggiare nei pressi e di andare verso l'azienda a piedi. Accettai. Dopotutto se non avessi fatto parola di ciò che avevo sentito, non mi sarebbe successo assolutamente niente. O almeno speravo.
Mentre eravamo in strada parlammo di argomenti vari. Si fermò all'edicola per prendere il New york Times.
- Irene! - mi chiamò mentre leggeva un articolo di una rubrica.
- Si? - chiesi sorseggiando la mia cioccolata calda che gentilmente mi aveva offerto.
Mi mostrò un titolo in fondo alla prima pagina.
Little Italy – San Gennaro: That's Amore.
Mi accigliai a leggere un titolo simile.
Andò alla pagina indicata e là, poprio al centro del foglio, c'era stampata la nostra foto, QUELLA foto. Sbiancai all'istante. No, non potevo reggere una cosa simile. Strabuzzai un po' gli occhi. Forse avevo sbagliato, eppure la foto era chiarissima. Lui chino sulle mie labbra e io con una mano sulla sua guancia, che non mi ero neanche accorta di aver alzato.
Lo guardai imbarazzata e indignata, mordendomi il labbro, aspettando la sua reazione, ma lui mi stava semplicemente guardando, imbacuccato dentro Il suo cappotto da mille dollari e la dentro la sua sciarpa firmata. Sorrideva, col naso rosso e gli occhi brillanti.
In quel momento, quando mi sporsi verso di lui e lo baciai, capii.
La mia non era una cotta. Era qualcosa di dannatamente serio, troppo serio.
Mi cacciavo sempre nei guai, ma che potevo farci se non potevo vivere senza I miei stupidi problemi? Capii che l'amore non ha ostacoli, non ha pregiudizi, non ha ragione. L'amore è come una clessidra: se si riempie il cuore, la mente si svuota. Lui, quell'uomo splendido che mi teneva stretta a sè con il giornale ancora tra le dita, era il mio amore, il Dio del mio cuore e non avrei potuto impedirlo. L'amavo, l'amavo tantissimo e non avrei permesso al mio cervello di farmelo scappare, non ora che ne avevo tremendamente bisogno.
Quel bacio di una mattina gelida di settembre, mi scaldò più della cioccolata calda che ora giaceva impotente sul marciapiede.

NOTE FINALI_________

@babyblack:Non sai quanto mi abbia reso felice leggere la tua prima recensione! Beh che dirti? Non posso far altro che ritenerti un'anima Pia per aver letto questo racconto nato decisamente dal nulla. Sono felice che i miei personaggi come la mia scrittura siano molto apprezzati da te. Spero di non annoiarti con i prossimi capitoli e che tu continui a leggerli con la stessa euforia. Baci haki-chan <3

@momi87:Cavoli, ho una lettrice e neanche lo sapevo?! Sai, io sono del parere che la vita non sia perfetta e ho deciso di puntare molto sul realismo con questa fanfic, anche se potrebbe sembrare pesante per qualcuno. Volevo raccontare qualcosa di vero, che accade realmente, ma non ho certo intenzione di offendere il mio Paese con questo scritto, perchè io stessa lo amo tantissimo. Per concludere, spero che anche questo capitolo ti sia piaciuto molto e che continuerai a seguirmi. Sai che ti dico, ti lascio nel dubbio, presto scoprirai le origini di Fernando. Baci haki-chan <3

Grazie ad entrambe per le vostre splendide recensioni. Mi avete tirato molto su il morale. Stavo quasi decidendo di eliminare tutto, ma ecco che dal nulla più assoluto spuntate voi due. Gentilissime. Non ditelo a nessuno ma mi sono venute le lacrime agli occhi quando ho letto entrambe le vostre recensioni. Ecco sfornato un nuovo capitolo per dimostrarvi la mia gratitudine, ed ecco un triangolo che viene a formarsi pian piano. Ho già creato una scaletta per aiutarmi con il prossimo capitolo e spero di pubblicarlo a breve. La citazione in corsivo l'ho presa da un fumetto di Dylan Dog. E' una frase di Groucho, tanto per mettere i crediti xD A presto cari lettori, vi adoro.

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Capitolo 7
*** Tell me. ***


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- NORMAN! - urlai sbattendo la mano sul compensato del suo divisorio.
Sussultò, voltandosi verso di me. Gli tirai il giornale in faccia senza troppi complimenti. Il Norman Fan club dietro di me stava ben attento a cosa accadeva e dai loro sguardi capii che avrebbero voluto mettermi in ginocchio da un momento all'altro.
Norman raccolse il giornale che nel frattempo era caduto per terra. Non potevo non essergli riconoscente, ma avevo sempre il mio orgoglio da difendere. Lo avrei semplicemente ringraziato più tardi.
- Hai letto l'articolo? - chiese euforico, sorridendo come uno scemo.
Mi innervosii ancora di più. Girai I tacchi e andai nel mio ufficio.
Il bacio in strada di quella mattina non mi era ancora passato dalla mente, tanto che non riuscii a lavorare come avrei dovuto. Tenevo la mia lavagna sul tavolo e osservavo le varie pubblicità, con il mento poggiato sopra I palmi della mano. Sapevo che a Norman non competeva quella rubrica nel suo ufficio, quindi probabilmente aveva spedito l'articolo al giornale dove avevo poi letto l'annuncio.
Sospirai, prendendo la lavagna, sedendomi comoda, accavallando le gambe. Cominciai a spostare le varie pubblicità, arrivando finalmente ad una soluzione.
- Ti invio l'intestazione sull'e-mail – dissi a Joe.
Non ci avevo parlato per niente quella mattina. Non potevo perdonargli le cose che mi aveva detto e cosa stava per fare con Grace, davanti al bambino, per di più. Io lo evitavo, anche se lui cercava di chiacchierare ogni tanto. Sapevo che non era conveniente lavorare in un'atmosfera simile, ma non avevo voglia di parlarci, ero troppo nervosa.
Dopo il lavoro, Norman mi accompagnò all'officina dove avrei potuto ritirare la mia auto.
Fortunatamente era tutto funzionante e sospirai di sollievo quando girai la chiave per accenderla, sentendola ruggire gioiosa. Ringraziai Norman e partii.


Decisi di passare da Angelina per una visita, dato che la sfilata ci aveva tenuto tutti un po' occupati.
Mi fermai di nuovo a prenderle altri fiori, stavolta delle semplici rose rosse, coi petali simili a strati pregiati di velluto.
Quando varcai la soglia, la trovai addormentata, con dispiacere. Avrei voluto chiederle che lavoro faceva suo figlio, ma non me la sentivo di svegliarla, visto che dormiva tanto profondamente. Mi fermai un po' ad osservarla.
Mi chiedevo se anche sul viso di mia madre stessero spuntando delle rughe simili a quelle di Angelina. Era un anno che non vedevo né lei né mio fratello e sentii il mio stomaco stringersi. Provavo una forte nostalgia verso entrambi. Mi mancava anche l'Italia, in realtà. Mi mancava il viso di mio padre, quello dei miei amici d'infanzia che non sentivo da secoli, il volto della nostra adorata vicina di casa. Tirai su con il naso. Pensando al mio passato mi sentivo tremendamente fragile e adesso anche l'unica persona che mi aveva trattato come una figlia al mio arrivo stava male.
Ero seduta sulla sedia, all'incontrario, in modo da poggiare I gomiti sullo schienale. Mi reggevo la testa con una mano. Più vedevo la mia adorata mamma americana, più mi salivano le lacrime agli occhi. Sarei salita su un aereo per l'Inghilterra anche immediatamente, solo per riabbracciare mio fratello e mia madre.
Quando scesi nell'atrio, alla fine dell'orario delle visite, non ero ancora riuscita a parlare con Angelina. Mi sedetti su una panchina che dava sull'autostada. Ormai era notte e il vento pungente settembrino si insinuava in ogni piccola fessura dei miei vestiti. Non mi importava del freddo. Stavo solo ferma a guardare l'autostrada, con le sue macchine in continuo movimento.
Mi ritrovai a pensare di nuovo a mia madre, a come si era sentita quando mio padre ci aveva traditi con la Mafia, nonostante avesse ucciso mio fratello, suo figlio. Cosa aveva provato? Tradimento, paura della persona con cui aveva condiviso I migliori anni della sua vita? E se Fernando fosse veramente dentro un giro di droga, probabilmente anche io mi sarei sentita allo stesso modo.
Mi ero sempre prefissa di non pensare con la mente, ma con il cuore. Eppure, mentre pensavo alle lacrime di mia madre, mi salì un brivido gelido su tutta la schiena.
Se il giro era abbastanza grande, probabilmente avevano anche qualche strozzino o assassini. E se una volta sposati, avessero ucciso nostro figlio? Correvo troppo con la mente, ma eravamo abbastanza grandi da pensare ad un possibile futuro insieme, anche perchè io non volevo assolutamente diventare mamma dopo I trent'anni. Preferivo passare gli anni più belli della mia vita con un bellissimo bambino fra le braccia e con un marito che mi tenesse caldo durante l'inverno.
Io non volevo giocarmi il mio futuro, tantomeno quello di possibili figli.
Sospirai. Forse dovevo lasciarlo perdere e dedicarmi a Norman il più possibile. Lui mi amava, forse anch'io avrei potuto amare lui un giorno o l'altro e se non ci fossi riuscita, potevo almeno affermare di averci provato con tutte le mie forze. Per quanto amassi in modo incondizionato Fernando, era arrivato il momento di finire una storia che non era neanche realmente iniziata. Mi odiavo per quella decisione, ma fino a quando non avessi scoperto cosa faceva in realtà, non avrei cambiato idea.
E se l'impressione di Grace fosse giusta? Forse la sensazione di essere spiata non era poi tanto strana. Forse qualcuno dei suoi scagnozzi mi stava spiando! Mi assalì il panico. Dovevo tenermi tutte le mie impressioni per me, senza destare sospetti.
Con il passare dei giorni facevo di tutto per non rimanere sola con Fernando, facendo rimanere sempre presente Grace, la quale era sempre felice di immischiarsi, visto che continuava a non fidarsi. Tutte le mie riflessioni avevano spinto anche me a diffidare di lui, naturalmente con molta fatica.
Una sera me lo ritrovai seduto, con la schiena poggiata sul legno della porta del mio appartamento.
- Buona sera. - fece lui senza calore, alzandosi dopo avermi visto.
- 'Sera – ricambiai dubbiosa. Grace ancora non era tornata ma se per una volta fossimo rimasti soli non sarebbe successo nulla, giusto? Arrivai alla porta – Entri? - chiesi e lui, con un piccolo accenno, mi seguì, fino alla cucina – Qualcosa da bere? -
- Solo un po' d'acqua, grazie. - disse con uno strano tono. C'era qualcosa che non andava.
Riempii il bicchiere e glielo porsi, arrossendo per il piccolo contatto che si creò fra le nostre dita, quasi una scarica elettrica che travolse completamente il mio corpo.
- Qualcosa...Qualcosa non va? - chiesi con tutto il coraggio che avevo.
- E' proprio questo il punto. Niente va al posto giusto. - obiettò pochi secondi più tardi, dopo aver svuotato completamente il bicchiere colmo d'acqua.
- Cos'è successo? - stavolta ero preoccupata veramente, si capiva alla perfezione dal mio tono. Mi voltai verso il lavello, dandogli le spalle, poggiando le mani sul ripiano. Che avesse capito il motivo per il quale lo evitavo? Ero finita.
Sentii un fruscio dietro di me e me lo ritrovai dietro. Sospirai, cercando di calmare il mio cuore. Perchè tutto doveva essere tanto difficile tra noi due? Non potevamo essere solo dei semplici conoscenti o amici? Comunque, in un modo o nell'altro, mi mettevo sempre nei guai e questo non andava bene.
- Dimmi tu cos'è successo, Irene. -
- Io? - balbettai.
- Fai sempre in modo di non rimanere soli. Eppure mi hai baciato tu stessa, per strada, quella mattina. -
Colpo basso. Mugolai. Sentivo il suo petto premere contro la mia schiena. Una delle sue mani passò ad accarezzare la mia. Stavo morendo o ero già morta, perchè quello era il paradiso. Rimasi in silenzio. Pensai all'istante che il mio amore per lui fosse come un pezzo di cioccolata per un bambino. Era troppo dolce ed invitante per non gustarlo, ma io dovevo resistere. Dovevo farcela.
- Mi sbaglio forse? - mi sussurrò caldo all'orecchio.
Mi morsi il labbro, abbassando la testa. Voleva entrare nei miei pensieri, voleva manovrarmi e ci stava riuscendo benissimo.
- Irene.. - sussurrò di nuovo, baciandomi la nuca, mentre la sua mano carezzava la mia con gesti lentissimi.
- Stai giocando sporco. - sussurrai a mia volta, coraggiosamente.
- Perchè non ho altro modo per comunicare con te. - si strinse di più, facendomi ansimare silenziosamente. Tuttavia, mi accorsi che alla mia sinistra avevo una via di fuga, visto che la sua mano era ferma sul mio fianco. Mi stava lasciando una via di fuga. Che fosse per quello che era successo quella volta in casa sua? Per quanto fosse difficile, mi divincolai un tantino, scivolando sulla sinistra. Riuscii a liberarmi ma mi bloccò il polso, dolcemente. Ripresi il respiro. Sentivo gli occhi lucidi e il viso in fiamme.
- Eri venuto qui per chiedermi qualcosa? - cambiai discorso al volo.
- Devo andarmene. - disse chiaro, serio. Negli occhi era presente ancora una piccola fiamma d'eccitazione.
- Eh? - domandai stupidamente.
- Devo andare in Inghilterra. - spiegò.
Annuii, aspettando che continuasse, ma lui rimase in silenzio. Mi stava chiedendo il permesso di andare? - Allora? -
- Non so per quanto tempo sarò via. -
- Non capisco - ammisi, guardandolo fisso, seria.
- Tu vuoi che io vada o vuoi che io rimanga? -
Quella domanda mi colse completamente alla sprovvista. L'America era distante dall'Inghilterra e io mi recavo oltre oceano solo per andare a trovare mia madre a Natale. - Perchè me lo stai chiedendo? -
Rimase deluso dalla mia domanda.
- Scusami, ho capito. - disse lasciandomi il polso – Pensavo, egoisticamente, di piacerti. -
Un tuffo al cuore. Non risposi. Ero senza parole.
Lui annuì. Mi venne incontro e mi strinse forte. Lo abbracciai di rimando, respirando a pieni polmoni il suo cappotto di pelle, impregnato di quel dopobarba che avevo imparato ad adorare, annusandolo sui miei stessi vestiti, quando mi capitava di sedergli vicino.
- Arrivederci. - disse baciandomi a stampo. Non feci neanche in tempo a chiudere gli occhi per la sua velocità.
Rimasi ferma immobile a guardare la sua schiena, poi la porta chiudersi.
Fu come se il mondo mi avesse chiuso ogni entrata ed ora rimanevo là, ferma immobile nella mia cucina, a fissare una porta dalla quale il mio mondo non sarebbe mai più entrato. Tuttavia, preparai la cena per noi tre.
Grace e il piccolo tornarono in tempo per la cena. Non dissi alla mia coinquilina ciò che era successo. Stava vivendo un momento bellissimo. Mi aveva raccontato di aver conosciuto un ragazzo alla sfilata di settembre e avevano cominciato a sentirsi da circa un mesetto. Infatti ultimamente restavo a casa da sola sempre di più. Sospirai. Il bambino era la mia unica fonte di luce, mi sentivo quasi come una mamma per lui e il non vederlo per ore consecutive mi rattristava.
Quella sera, cenammo allegramente guardando I cartoni che davano in tv e andammo a dormire, come sempre.
Mi addormentai con fatica. Non ce la facevo ancora a credere che non avrei visto Fernando per chissà quanto tempo. Come avevo potuto lasciarlo così, dopo una storia cominciata a malapena?
Ero ferma in un luogo vagamente familiare, l'Italia? Una chiesa alta e ricca di decorazioni alla mia sinistra, teneva le porte aperte, come se mi invitasse ad entrare e io obbedii, camminando piano, come se potessi precipitare da un momento all'altro.
Entrai. In fondo, davanti all'altare, un uomo vestito di bianco stava in piedi a fissare il soffitto.
Mi mancò il respiro, quando si voltò a guardarmi.
Andrea era lì, davanti ai miei occhi sognanti, immobile. Avevo sempre creduto che gli angeli sorridessero ai comuni mortali, mostrando fieri le loro ali candide e piumate, ma questo non sorrideva e non aveva ali e non sorrideva: sul suo viso era dipinta un'espressione di rimprovero, come se avessi fatto qualcosa di sbagliato, mista a compassione e dolcezza.
Il pianto di un bambino, la porta della chiesa si chiuse all'istante e tutto cominciò a crollare, facendomi perdere l'equilibrio. Mi svegliai con uno scatto alzandomi a sedere. Mi sentivo sudata e il pianto di un bambino risuonava ancora ovattato nelle mie orecchie. Sobbalzai quando mi resi conto che il suono non era immaginario, ma arrivava dall'altra stanza. Little Joe stava forse piangendo? Perchè Grace non si svegliava per andare da lui?
Mi alzai, accigliata, accendendo la luce della cucina e poi quella dello studio. Il divano era stato aperto e le coperte erano leggermente in disordine, ma era evidente che nessuno ci avesse dormito dentro. Little Joe piangeva, seduto nel suo lettino. Di Grace neanche l'ombra.
Andai verso il bambino, prendendolo in braccio. Non aveva neanche un paio di anni. Cominciai a temere il peggio. Grace non era mai stata una cima in fatto di ragionamenti, ma se era accaduto davvero quello che stavo pensando, aveva toccato il fondo. Scossi leggermente la testa, mentre cullavo il piccolo che andava via via calmandosi, fino a quando non si addormentò fra le mie braccia. Lo risistemai nel lettino e andai verso il divano, passandomi una mano fra I capelli. Mentre mi sedevo, sentii un fruscio: mi ero seduta su un pezzo di carta e mi alzai per recuperarlo.

“Cara Irene, non odiarmi per quello che sto facendo.
Sento che stavolta ho trovato la pista giusta, con Holand, ma non posso vivere con il ricordo di Joe nella mia mente. Per questo ti lascio il mio piccolo, sperando che tu riesca a prendertene cura meglio di me. Faccio schifo come madre e sono felice di lasciarlo a qualcuno più competente di me. Andremo in Canada, dai suoi genitori. Sento che quesa è la mia occasione. Quando tutto si sarà calmato, forse verrò a riprendermi Alexander. Sul tavolo della cucina ti ho lasciato tutte le informazioni che potrebbero essere utili, incluso il numero e l'indirizzo di mia sorella e di mio fratello. Se non puoi prenderti cura tu del piccolo, rivolgiti a loro. Ti chiedo solo di non lasciare Alexander nelle grinfie di Joe. Non voglio che cresca con lui, nonostante la possibilità di godere di ogni bene inimmaginabile.
Scusa per tutti I problemi che ti ho creato, sei la mia unica vera amica. Ti voglio bene. Arrivederci,
Grace.”

Tutta la camera diventò più stretta, facendomi soffocare.
Avevo troppe cose da fare, non ce l'avrei mai fatta a mantenere un bambino con le mie sole forze.
Il mio primo pensiero fu quello di correre via, di lasciare quella dannata situazione in mano a qualcun altro, ma riuscii a calmarmi in fretta.
Mi alzai con gesti meccanici e le mie gambe cominciarono a muoversi da sole. Andai verso la porta, poi scesi le scale, arrivando fino al SUO piano. Era impossibile che fosse già partito e io volevo assolutamente vederlo. Volevo farmi stringere da lui e acconsentire ad ogni sua richiesta. Avevo un bisogno pazzo di affetto, di due braccia forti che mi abbracciassero, dei suoi occhi caldi fissi nei miei.
Arrivata davanti alla porta, suonai piano il campanello. Nessuna risposta.
Suonai ancora e ancora. Dopo dieci minuti nessuno era venuto ad aprire la porta.
Incapace di decidere il da farsi, mi buttai con la schiena contro il legno massello, accovacciandomi, cingendo le ginocchia con le braccia, piangendo. Caddi in un sogno profondo e privo di sogni.

L'indomani, la signora Maria mi riscosse dal mio sonno, facendomi sobbalzare.
- C'è un bambino che piange nel tuo appartamento! Cos'è successo, Irene? - domandò preoccupata.
Sussultai, mi alzai di scatto e con le gambe doloranti salii le scale, aprendo la porta con le chiavi che avevo nella tasca del mio pigiama. Il piccolo piangeva, facendomi dolorare la testa. Arrivai con passi svelti nello studio, trovandolo in piedi, aggrappato alla piccola ringhiera del lettino.
Appena mi vide, allungò le braccine tra le sbarre. Lo presi in braccio, portandolo in cucina e facendolo sedere nel seggiolone. Emetteva versetti strani e faceva smorfie come se stesse per scoppiare a piangere da un momento all'altro. Gli preparai il latte e per un po' stette calmo nel seggiolone, poi lo lasciai nel lettino a giocare con I suoi vari intrattenimenti.
Per tutta la mattina non avevo fatto altro che occuparmi del bambino, ma ora dovevo andare a lavoro. Decisi di chiamare I fratelli di Grace, io non ero brava con le esigenze dei bambini.
Composi il numero di suo fratello Ewon.
- Ewon West, chi parla? - chiese una voce dura e sensuale, che mi fece salire I brividi.
- Buon giorno, mi chiamo Irene.. - cominciai titubante.
- Non compro niente. - m'interruppe.
- ..sono un'amica di Grace -
- Ah, cos'è successo stavolta? - il tono seccato non prevedeva niente di buono.
- Grace era venuta ad abitare da me da un mese e mezzo circa, ma ora è sparita ed il bambino è rimasto qui. L'ha abbandonato. -
- Mi spiace, non posso prendere il bambino. -
- Perchè? È suo nipote dopotutto e io non so cosa fare! - protestai.
- Lei l'ha fatta venire a casa sua e lei se ne assumerà le responsabilità. Io e mia moglie non vogliamo altri guai, ne abbiamo abbastanza con il nostro. Buona giornata. - l'uomo chiuse la conversazione.
Dovevo aspettarmi una reazione simile, non mi aveva neanche lasciato il tempo di insistere. Mi sembrò istantaneamente di essere invecchiata di almeno dieci anni. Avevo sempre pensato che un bambino fosse un'enorme responsabilità ma fino ad un certo punto. Solo adesso mi rendevo conto che quella creaturina sarebbe diventata grande, avrebbe avuto bisogno di un'istruzione, di quaderni, penne e fogli per disegnare, per non parlare poi di assistenza mentre faceva I compiti. Poi sarebbe diventato adolescente, avrebbe cominciato a rispondermi male, forse a fumare e ad andare male a scuola. Non potevo farcela, sola, senza nemmeno un marito e un figlio mio.
Mi salirono le lacrime agli occhi, ma avevo ancora una possibilità. Composi il numero freneticamente.
Il telefono cominciò a squillare e attesi. Quando il terzo squillo andò a vuoto cominciai a piagnucolare come una ragazzina.
- Pronto? - rispose una voce maschile al quarto squillo.
- Pronto, mi chiamo Irene, sono un'amica di Grace... - dissi tutto d'un fiato.
- Oh – m' interruppe l'uomo. Dal suo tono era chiaro che non era la prima volta che una sconosciuta chiamava a casa loro per nome della cognata  – Dimmi pure. -
- Vorrei parlare con.. - sbirciai il foglio che avevo sotto gli occhi – Melany. È possibile? - chiesi gentilmente.
- Si, te la passo. - disse l'uomo, sparendo.
- Parla Melany! - rispose una voce seria, sullo stesso tono di Grace. Anche dalla voce si poteva dimostrare che erano sorelle.
- Mi chiamo Irene, sono un'amica di Grace. -
- Cos'è successo stavolta? - era un caso che rispondessero entrambi I fratelli allo stesso modo? - Come sta Alexander? -
- Vorrei parlare proprio di questo. Grace è andata via. Senza il bambino. -
- Senza il bambino?! Ma cosa diavolo...e dov'è andata? - la donna era tremendamente allarmata.
- Non lo so'...è fuggita con il suo fidanzato. - risposi, passandomi una mano fra I capelli. Sembrava quasi che le mie spalle cominciassero a pesare di più. Come aveva potuto Grace lasciarmi in una situazione simile? Fortunatamente c'era sua sorella – Io...io non so' cosa fare – dissi sull'orlo del pianto.
- Tesoro, mi dispiace tantissimo che mia sorella ti abbia messo in questa situazione. - rispose gentile e comprensiva. Evidentemente capiva il peso della situazione. - Dove abiti? - chiese dopo un lungo silenzio. Forse stava parlando con il marito. Sentii piangere un paio di bambini nel sottofondo. Non ci voleva. Non potevo sostenere un problema simile sulle mie sole spalle e ora che Fernando era partito, avrei dovuto fare tutto da sola.
- A New York, nel quartiere di Little Italy – singhiozzai.
- Così lontano! - esclamò.
Tirai su con il naso. Sapevo che Grace proveniva di San Francisco e forse non era stata una buona idea quella di chiamare sua sorella, ma probabilmente anche il fratello era della stessa zona, quindi uno valeva l'altro.
Stavo perdendo le speranze velocemente. Quanto sarei riuscita a resistere?
- Irene? - mi chiamò la donna all'altro capo del telefono.
- Si? - dissi con poco entusiasmo.
- Noi non possiamo partire immediatamente, dobbiamo organizzarci coi nostri figli – cominciò Melany – Ma potremmo prendere il bambino. Riusciresti a prendertene cura per almeno una settimana? - chiese dolcemente. Era evidente che fosse una mamma, perchè nessuna donna single mi avrebbe fatto una domanda simile. Sapeva che ci voleva pazienza con I bambini piccoli.
- Penso...Penso di si. - singhiozzai.
- Bene -
Lasciai I miei numeri e il mio indirizzo. Melany e suo marito Donovan si sarebbero presi cura del bambino fino a quando Grace non sarebbe tornata a casa. Nel caso non fosse tornata per almeno due anni, avrebbero subito provveduto con l'adozione. Mi sentii tremendamente sollevata. Ora però dovevo prepararmi per andare a lavoro. Fortunatamente era abbastanza presto.
Mi feci un bagno con il bambino nella vasca, che di tanto in tanto avvicinava le mani ai miei seni, cercando il latte che io non avevo. Ci lavammo per bene e giocherellammo con le paperelle. Poi indossai un accappatoio e cominciai a vestire il bambino. Non ero sicura di aver allacciato bene il pannolino. Alexander frequentava l'asilo aziendale, avrei chiesto a una delle tutrici di farmi vedere come si cambiava un bambino.
Mentre osservavo il pannolino mal legato, qualcuno suonò la porta. Strinsi bene l'accappatoio intorno al mio corpo e andai ad aprire. Non avevo lo spioncino, quindi vedere Joe davanti ai miei occhi mi spiazzò completamente.
- Buon gio- -
- Che ci fai qui? -
- ..no – disse sorridendomi – Posso entrare? - chiese cortesemente.
Aprii la porta lentamente e ridacchiò quando, dopo diversi secondi, riuscì ad entrare.
- Grace mi aveva chiesto di venire a prendere il bambino questa settimana. -
- Potevo portarlo io in azienda.. - dissi precedendolo nello studio, avvicinandomi al bambino.
Salutò il bambino con un bacio e poi osservò il pannolino – Chi lo ha cambiato? -
- Lo stavo cambiando ora...Non sono brava in queste cose – mi giustificai arrossendo, avvicinandomi.
- Beh, hai sbagliato. Guarda bene. - disse, mentre con gesti veloci apriva il pannolino, rimettendolo apposto – Si fa così. - disse guardandomi una volta finito.
- Ho capito. - dissi annuendo, vestendo poi il bambino sotto I suoi occhi indagatori che mi facevano sentire terribilmente a disagio, soprattutto perchè portavo solo l'intimo e l'accappatoio addosso. Praticamente ero nuda e con Joe non era precisamente una situazione sicura.
- Posso vedere la nostra foto? - chiese quando misi Alexander nel box.
- Certo! - dissi – Vieni.. - lo invitai a seguirmi. Avevo lasciato la macchina fotografica in camera da letto e solo quando ormai eravamo entrambi nella stanza mi resi conto di quello che avevo fatto. Afferrai la macchina fotografica e mi voltai di scatto, intenzionata a fargliela vedere in cucina. Stranamente, riuscii a passargli vicino senza essere assalita e sospirai di sollievo, ma quando ormai ero a un passo dalla porta, lui mi fece fare un passo indietro e chiuse entrambi nella stanza. Mi voltai, fulminandolo con gli occhi e lui approfittò per sbattermi contro la porta, facendomi dolorare leggermente la schiena. Afferrò I miei polsi, alzandoli e imprigionandoli con una sola mano. Gemetti piano per il doloretto che avvertivo, tenendo gli occhi chiusi, spalancandoli solo quando sentii la sua lingua entrare violentemente nella mia bocca. Un sapore di menta assalì la mia lingua. Strinsi gli occhi e la morsi più forte possibile. Lui tirò indietro il viso, gemendo per il dolore che gli avevo provocato. Volevo approfittare di quel momento per liberarmi ma non ci riuscii: la sua presa era troppo forte.
- Lasciami! - protestai.
- Fai parlare il tuo corpo. - ansimò a sua volta, sciogliendo con un movimento secco la cinta del mio accappatoio. Aprì entrambi I lembi di stoffa, osservando il mio corpo, facendomi vergognare tanto da sotterrarmi.  
Mi prese in braccio e mi appoggiò sul letto. In quel momento realizzai che in realtà a nessuno importava se andassi o non andassi con Joe. Avevo rifiutato Fernando e lui era andato via nonostante lo amassi da impazzire. Che importanza aveva se avessi lasciato fare Joe? Avremmo goduto entrambi, probabilmente avrei ricevuto una promozione.
Mi sentii sporca dentro per I miei pensieri. Non ero forse io quella che aveva sempre parlato di amore? Avevo avuto un unico uomo ed era un uomo che amavo.
Joe cominciò a slacciarmi il reggiseno e passo la mano dai miei polsi all'elastico delle mie mutandine. Un brivido di terrore mi scosse tutto il corpo. Ormai era tardi per opporsi, strinsi le mani e mi resi conto di avere ancora la macchina fotografica in mano. Un'idea mi balenò nella mente.
Accesi la macchina. Per un momento il mio assalitore mi lasciò andare per vedere da dove provenisse quel rumore e gli scattai una foto, accecandolo con il flash vicinissimo agli occhi, stordendolo. Scivolai sul letto, poggiando I piedi per terra e andando verso la porta. Joe si stava rialzando.
- Se fai un solo passo, mi metto a urlare. - lo minacciai e lui si bloccò di colpo – Fuori! - ordinai ma lui non si muoveva – FUORI! - urlai più forte e lui obbediente si avviò alla porta, uscendo e scendendo le scale.
Chiusi la porta di casa. Il bambino aveva cominciato a piangere per le mie urla e andai a consolarlo, con il battito ancora accelerato dall'agitazione. Sentii il rombo di un motore in strada e mi sentii più sicura.
Andai in cucina per prendermi un po' d'acqua. Attaccato al lavello c'era un piccolo post-it che non avevo notato. Come c'era finito lì? Lo strappai.
Un indirizzo e-mail era scritto in caratteri chiari ed eleganti. In quell'istante capii che il mio amato mi aveva lasciato il suo contatto, di modo che potessi contattarlo per eventuali ripensamenti. La mia felicità salì alle stelle. Quella sera stessa avrei aperto I contatti con lui.
Subito dopo però mi resi conto di quello che era appena successo. Avevo rifiutato Joe, con un bambino momentaneamente a carico. Mi avrebbe tolto il lavoro?

 Note Finali____

@babyblack : innanzi tutto ti ri-ringrazio per aver recensito di nuovo :D Allora, se parliamo di triangolo amoroso, non penso sia giusto inserire anche Joe, visto che lui non pensa decisamente all'amore ù___ù Il fatto della scommessa aveva proprio lo scopo di stupire il lettore e sono contenta che abbia ottenuto l'effetto desiderato. Scusami se ho aggiornato così tardi ma ho altre quattro storie da scrivere e sto seguendo un ordine ben preciso, yeah. Aspetto tue notizie, baci, haki-chan.

@momi87 : eh curiosona! Se ti dicessi ora il lavoro di Fernando, rovinerei la sorpresa :D Quello che dici tu è assolutamente vero: non è raro che tra ragazzi si facciano delle scommesse simili, speriamo solo di non rientrare mai tra i loro premi! Mi sento crudelmente soddisfatta per averti messo un po' sotto tensione, ma vedrai che fra pochi capitoli si chiarirà tutto. Che dire, spero che tu legga con lo stesso animo anche questo capitolo. Aspetto tue notizie, baci, haki-chan.

Eccomi tornata dopo un mese e un giorno dall'ultimo aggiornamento, chiedo venia! >_<
Spero che questo capitolo non vi abbia annoiato, perchè a me personalmente piace molto. Il racconto diventa sempre più intrecciato, arriveremo mai ad un finale simili al "per sempre felici e contenti"? Salutoni cari lettori, a presto! Stavolta cercherò di aggiornare prima, promesso! :D la vostra haki-chan <3

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Capitolo 8
*** He will be loved. ***


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Mentre scendevo le scale per arrivare al garage, mi soffermai di nuovo davanti alla sua porta, come in attesa che potesse aprirsi da un momento all’altro. Attesi invano per almeno due minuti, mentre Alexander mi tirava i capelli per richiedere l’attenzione.
- Irene? – mi chiamò una voce facendomi sobbalzare.
Mi voltai: era la signora Maria, la migliore amica di Angelina.
- Buon giorno – salutai cortesemente, anche se sapevo bene cosa voleva da me. Mi aveva visto, quella mattina seduta davanti alla porta mentre il bambino piangeva disperato nel mio appartamento. Probabilmente tutto il condominio mi aveva sentito urlare contro Joe e ora come di routine, la pettegola veniva ad informarsi per poi spiattellare gli affari miei ai quattro venti.
- Stai bene, tesoro? Ho sentito le tue urla, poco fa – come previsto. Osava anche chiamarmi “tesoro”.
Ero già passata in una situazione simile dopo l’uccisione di mio fratello. Nessuno era corso in strada o aveva chiamato un’ambulanza. Ora la situazione si ripeteva. Maria aveva sentito piangere il bambino, ma come tutti gli altri condomini non era accorsa a vedere cosa gli fosse successo. Odiavo quel genere di persone che si tiravano indietro.
- Sto bene – tagliai corto e lei ovviamente non fu soddisfatta dalla mia risposta. Mi voltai e continuai a scendere senza nemmeno salutare.
Arrivai alla macchina e deposi il bambino sul seggiolino, sedendomi poi al posto di guida e mettendo in moto.
Ricordai il ruggito accattivante della costosa Porche Carrera di Fernando. Era andato via solo qualche ora prima e già mi sentivo vuota.

Una volta nello spiazzale dell’ufficio, venni assalita dall’ansia: non volevo vedere Joe, avevo paura di trovare la mia scrivania vuota o di esser costretta a fare chissà cosa per mantenere il posto e non era un’ipotesi remota, conoscendo il mio capo.
Mi accorsi che Alexander si stava allontanando e gli andai incontro.
Si chinò a terra, raccogliendo poi una foglia secca e marroncina, portandomela.
- Grazie – ringraziai prendendo il gambo tra pollice ed indice, facendola roteare. Mi osservava rapito con la boccuccia aperta – Foglia – spiegai continuando a giocarci.
- Ioia – mugugnò rapito. Ridacchiai.
Si voltò e riprese a correre, tenendo le braccia in avanti, come se potesse cadere da un momento all’altro. Cominciò a saltare sulle foglie secche facendo rumore.
Tutti gli impiegati si soffermavano almeno due secondi ad osservarlo sorridendo, soprattutto le donne. Mentre una signora le passava la mano sulla testolina, alzò la testolina, vedendo una foglia staccarsi da un ramo, collegando così che quello strano oggetto rumoroso proveniva da lassù.
La afferrò al volo con estrema agilità e poi me la portò.
- Su! – indicò l’albero con una smorfia che mi fece ridere. Indicava l’albero con il polso, tenendo la manina aperta.
- Non si può – scossi la testa.
- No? – chiese accigliato.
- Non serve più all’albero – tentai di spiegare ma lui ovviamente non capì. Lo presi in braccio e lo portai dentro, andando verso l’ascensore, chiamandolo e attendendo, mentre cullavo Little Joe.
- Sei venuta – rabbrividii. Era stato Joe a parlare. Perché era lì?
- Già – l’ascensore arrivò – Pensavo fossi in ufficio –
- Sono venuto a prendermi un caffè –
Scusa bella e buona. Dal suo ufficio poteva vedermi arrivare, avevamo la macchinetta del caffè anche nel nostro reparto e in quello vicino.
Entrai nell’ascensore e lui mi venne di lato. Mi si parò davanti solo quando le porte si richiusero. Alexander mugolò infastidito quando Joe mi strinse tra la parete ed il suo corpo, schiacciandolo contro il mio petto e costringendolo a passarmi le braccia intorno al collo, poggiando la testolina sulla mia spalla.
- Gli fai male – ringhiai stringendo il bambino, senza smettere di guardarlo negli occhi. In uno scontro, l’importante è proprio quello di non abbassare mai lo sguardo.
- Ti voglio – sussurrò suadente, guardandomi dall’alto in basso. Nonostante tutto mi venne la pelle d’oca. Una voce ed un corpo come il suo non si trovavano dappertutto.
- Ti odio – risposi acida. La porta dell’ascensore si aprì al terzo piano, ovvero quello del nido. Scivolai sulla sinistra ed uscii, camminando velocemente, quasi con la paura che mi potesse seguirmi, anche se non aveva senso, visto che ci saremmo visti fra pochi minuti in ufficio.
- Ecco qui il piccolo Elgei! – trillò una delle maestre che stava alla reception. Lasciai il bambino a terra, sfilandogli cappello guanti e cappotto prima che cominciasse a scorrazzare per il piazzale.
Cercai di trattenermi più tempo possibile, chiacchierando con la donna e spiegandole la situazione che era appena venuta a crearsi.
- Vi prego di mantenere il silenzio – aggiunsi infine.
- Certo, signorina. Nessuno saprà nulla – mi confermò facendomi sospirare di sollievo. Era ora di andare in ufficio, nella tana del lupo.
Presi l’ascensore buttandomi all’indietro andando, sbattendo letteralmente contro la parete. Al piano successivo salirono Norman e altre due persone.
- Buon giorno, Irene – mi salutò, ma io mi limitai ad un cenno del capo. Mi sentivo stanchissima.
- C’è qualcosa che non va? – mi chiese cordiale, poggiandomi una mano sulla fronte, come per controllare se avessi la febbre.
Un solo sguardo bastò a fargli scoprire tutto.
- Ci vediamo alla pausa pranzo? – domandò una volta fuori.
- Non esco mai durante la pausa. – risposi istintivamente, dandomi dell’idiota: lui cercava di aiutarmi ed io rifiutavo – Vieni tu da me – aggiunsi cercando di recuperare.
Lui sorrise – A più tardi. – confermò.
Sorrisi educatamente. Da come mi guardò preoccupato, probabilmente più che un sorriso dovevo avere un’espressione tormentata e stanca.
Entrai, guardandomi in giro con agitazione. Nessuno sospettava nulla e tutti lavoravano o almeno facevano finta di farlo, si prendevano caffè o chiacchieravano con i colleghi. Mi diedi della stupida, di nuovo: non erano gli altri ad essere stranamente indifferenti, ero io ad essere agitata  per quello che mi aspettava in ufficio con il mio capo.
Salutai i miei colleghi, trattenendomi a chiacchierare come accadeva di rado. Presi un caffè e scherzai, parlando del più e del meno.
- Irene! – mi chiamò una voce femminile.
- Si? – risposi cortesemente.
- Ti ho appena portato le intestazioni sulla scrivania –
- Grazie, Louise – ringraziai.
- Oh!  - fece come se avesse ricordato qualcosa – Joe ha chiesto di te. Ti conviene sbrigarti. Ha un colloquio con il dirigente, sta aspettando solo che lo chiami – mi immobilizzai. Era un caso il colloquio con il capo? Cosa stava tramando?
Non potevo rimanere a bere caffè in eterno. Raccolsi tutto il coraggio che avevo, buttai il bicchierino, salutai i colleghi e mi avviai verso la mia porta. Presi un lungo respiro prima di aprire.
Joe era seduto alla sua scrivania. Mi voltai verso il mio tavolo e fortunatamente tutto era al suo posto. Poggiai la mia borsa sul ripiano e presi in mano il mio lavoro giornaliero.
Credevo che non si sarebbe mosso, ma si alzò, procedendo lentamente fino ai vetri che ci separavano dal resto dell’ufficio, chiudendo le veneziane.
Solo una volta aveva adottato quel provvedimento: quando ero venuta a conoscenza della sua paternità.
I suoi passi risuonavano sul pavimento lustrato. Lo sentii avvicinarsi, piano piano, fino a quando il suo respiro si fermò a pochi centimetri da me. Poggiai quel che avevo in mano sul tavolo.
-  Mi aspetto dei ringraziamenti, Irene. Ringraziami del fatto che ho deciso di non  licenziarti.  – mi afferrò per le spalle. Mi sembrava di essere sul set di un film. Non riuscivo a credere che tutta quella situazione fosse reale. Forse mi sarei svegliata da un momento all’altro, prima che Angelina si sentisse male. Eppure, in un sogno non si avvertono i respiri o il tocco di una persona. Ero terrorizzata. Il mondo di Joe non mi apparteneva.
Cominciò a massaggiarmi piano le spalle muovendo le dita in modo lento e preciso, facendomi sciogliere la tensione anche non volendo. Poi si separò, passandole sul mio collo, rilassando anche quello. Mi spostò i capelli sulla spalla sinistra, baciandone la parte destra rimasta libera, provocandomi una serie di brividi che cominciarono a corrermi per tutta la schiena. Odiavo il mio corpo e le sue reazioni.
Appena mi resi conto che le sue mani stavano scendendo sempre più in basso verso il mio inguine facendomi ansimare, mi ridestai da quel tepore in cui ero piombata.
- Lasciami – sibilai. Voleva sempre e solo quello.
- E tu lasciami fare. Fino ad un secondo fa ansimavi, ti stavi lasciando andare. Tu non mi odi, mi desideri e lo sai. –
Le sue parole mi colpirono dritte al cuore. Aveva ragione? Ne avevo avuto la prova fino a pochi secondi prima. Non potevo mentire a me stessa e se non avessi avuto degli ideali probabilmente mi sarei donata a lui già molto tempo prima, ma io non ero così. Anche se lo desideravo, ormai era inutile negarlo, non avrei mai voluto avere un rapporto tanto per soddisfare le mie voglie, soprattutto le sue.
- Lasciami andare – sibilai di nuovo, divincolandomi.
Mi afferrò per i fianchi e mi voltò verso di lui. I nostri visi erano vicinissimi e sentivo chiaramente il profumo di caffè provenire dalle sue labbra che si espandeva su tutto il mio viso.
- Oggi ho una riunione con il capo – cominciò. Trattenni il respiro: sapevo già dove voleva arrivare – Se vuoi mantenere il posto di lavoro, come ho già deciso, dovremo stringere un patto –
Deglutii e chiusi gli occhi, reprimendo la rabbia e la frustrazione.
Non mi sarei mai aspettata di ricevere una risposta simile in tutta la mia vita, eppure adesso per un dannatissimo capo pervertito e arrapato stava succedendo. Adesso che avevo Alexander a carico per un periodo indeterminato, non potevo perdere il lavoro per cercarmene un altro. Probabilmente sarei anche dovuta andarmene dai miei familiari o addirittura tornare in Italia dove avevo lavorato appena uscita da scuola.
- Cosa vuoi? – mi arresi. Avrei accettato dei compromessi, ma entro un certo limite.
- Voglio che tu ti lasci andare – chiaro e conciso, la sua proposta arrivo chiara e concisa alle mie orecchie, facendomi rabbrividire con un sentimento misto tra eccitazione e paura.
- Sai che non posso. – dissi lentamente, completamente rossa in viso.
- Se continuerai a vivere nell’astinenza, non farà bene al tuo corpo – rispose vicino al mio orecchio.
Cosa potevo rispondere? Ero completamente inesperta su argomenti simili poiché nessuno si era mai spinto tanto oltre con me.
- Non mettermi in questa condizione, Joe. Ho bisogno di lavorare, non voglio.. –
- Non vuoi tornare in Italia? –
- Esattamente. – ammisi a capo basso. Lui era a conoscenza dell’identità di mio padre in quanto mio capo, ma conteneva quei documenti segreti in una cassaforte in casa sua, insieme a quelli di tutti gli altri dipendenti.
Deglutii spaesata. La mia mente correva veloce o almeno cercavo di farla andare a tutta velocità. Dovevo trovare una soluzione al più presto, prima che andasse dal capo.
- Farò qualsiasi altra cosa, ma non questo – tentai, ma cos’altro poteva desiderare dopo una richiesta come la sua? Non esisteva qualcosa di più subdolo che potesse chiedermi.
- Impossibile. – rispose infatti, spingendosi ancora di più contro di me.
Allungò il suo viso verso il mio per baciarmi ma riuscii a spostarmi. Tuttavia lui mi fece voltare, tenendo il mento stretto tra indice e pollice. Bussarono alla porta. Eccolo il richiamo del capo. Accettare o perdere. Il suo tempismo era ottimo.
Se solo non avessi perso tempo con i miei colleghi avrei avuto più tempo per discutere e trovare un’altra soluzione. Aveva il coltello dalla parte del manico.
- Prendere o lasciare. – disse chiaramente con un sussurro.
Bussarono di nuovo. Vidi la figura muoversi per andare verso la maniglia. Andò tutto a rallentatore. Ero nel più completo panico. Chiamare aiuto sarebbe stato inutile ed avrebbe equivalso a firmare le mie dimissioni. C’era una sola cosa da fare.
- Accetto! – dissi tutto d’un fiato, chiudendo gli occhi, aspettandomi il peggio.
Un momento prima che la porta si aprisse, mi lasciò andare, afferrando le pubblicità che stavano dietro di me.
- Capo? – chiese la donna mentre io guardavo dritto davanti a me quasi fossi una statua di sale.
- Sì? – chiese noncurante, facendo finta di osservare bene tutto quello che c’era scritto e le richieste dei clienti.
- Il dirigente la sta aspettando – disse Louise guardandomi accigliata.
- Certo, arrivo – annuì Joe andando verso la  scrivania e prendendo il materiale che poteva servirgli. La porta si richiuse. Non ero ancora tornata alla realtà. Vedevo e sentivo quel che mi circondava, ma mi sentivo distante, come se la mia decisione mi stesse portando lontano da tutto, nonostante servisse all’esatto contrario, cioè a farmi rimanere al mio posto in azienda.
- Irene? – mi chiamò Joe.
Mi voltai verso di lui, guardandolo dritto negli occhi.
Lui si accigliò: ero talmente tanto abituata a guardarlo male che probabilmente lo avrei guardato a quel modo per tutta la vita.
- Non so quanto starò con il dirigente. Inviami tutto per e-mail, se finisci prima che io ritorni –
Sbattei le palpebre. Cosa stava facendo? Perché si comportava così…normalmente? Mi voltai verso le mie tavole, studiandole per la prima volta veramente da quando ero entrata, dandogli le spalle.
Sentii una mano risalirmi per la coscia e mi irrigidii al’istante.
- Non a lavoro – lo pregai quasi.
- Non era specificato nel patto – la mano si insinuò lentamente nell’interno coscia e la allontanai.
- Lo specifichiamo ora – sibilai rabbiosa.
Ridacchiò, mi lasciò andare ed andò vero la porta, uscendo e lasciandomi quindi sola. Mentre lavoravo, ebbi tutto il tempo per riflettere della mia scelta e più ci pensavo, più capivo di aver sbagliato della grossa. Ma cos’altro potevo fare?
Con Alexander a carico per un periodo imprecisato non potevo permettermi di non ricevere una paga, anche perché non si poteva mai sapere se la sorella di Grace avrebbe ritardato, rimandato o addirittura rinunciato all’ultimo minuto?
“Vendermi” era stato decisamente eccessivo, ma con Joe non esistevano altri tipi di pagamenti, ma in un modo o nell’altro avrei trovato il modo di sfuggirgli, anche se sarebbe stato molto difficile.
Avrei voluto che fosse stato Fernando a riabbracciarmi per primo dopo Andrea e le occasioni erano state veramente molte in un certo senso, persino la sera precedente, prima che andasse via.
Esatto. Fernando era andato via e io mi cedevo all’uomo che mi aveva sedotto quella stessa mattina.
All’ora di pranzo, Norman, puntuale come un orologio svizzero, bussò cortesemente alla mia porta.
- Avanti – dissi con lo sguardo concentrato sullo schermo. Stavo sistemando la terzultima tavola. Ancora un paio d’ore e sarei tornata a casa.
- Hai fame? – mi chiese.
Mi voltai verso di lui: in mano aveva la confezione del Burger King con una macchia di olio gigante sul fondo. Pensai a quante calorie dovevano esser contenute all’interno di quella busta, ma invece che sentirmi disgustata, mi venne l’acquolina in bocca. Avevo un assoluto bisogno di mangiare grasso e fortunatamente non seguivo alcuna dieta, riuscendo a mantenermi abbastanza in forma, nonostante avessi almeno un paio di chili di troppo.
- Adesso tantissima! – trillai quando vidi all’interno patatine e hamburger.
Cominciammo a mangiare mettendo al riparo tutti i documenti che mi servivano per lavorare. Nonostante Norman fosse mio amico e mi stesse facendo divertire moltissimo, non riuscivo a dimenticare l’accordo con Joe.
- Com’è andata? – chiese una volta finito di mangiare, divenendo improvvisamente serio.
Quella domanda, nonostante fosse attesa, mi spiazzò completamente.
- Non bene – tagliai corto mentre mi pulivo le mani e guardavo gli scarti sul tavolo.
- Cos’ha fatto? – chiese sinceramente preoccupato.
Feci spallucce guardando fuori – Ho accettato un patto – mi mantenni sul vago. Io avevo imparato a conoscere Joe nel giro di un paio d’anni, ma Norman lo conosceva molto meglio di me, visto che avevano frequentato lo stesso college. Sul suo viso passarono migliaia e migliaia di espressioni. Cercò di parlare ma richiuse la bocca all’istante. Era stupito ma allo stesso tempo arrabbiato. Penso che quella sola frase gli avesse rovinato completamente la giornata, ma se avessi mentito e lui lo avesse scoperto, poi sarebbe stato peggio per entrambi.
- Non dovevi farlo – sibilò almeno due minuti più tardi.
- Non avevo altra scelta. O il patto o la disoccupazione. –
- Avresti potuto trovare almeno un milione di altri lavori! –
- Non posso permettermelo. Io sono qui in trasferta, sarei dovuta tornare in Italia nella vecchia azienda –
- Avresti potuto dare le dimissioni anche da quella e rimanere qui in America. –
- Avrei perso l’appartamento.. – commentai.
- Potresti venire da me! – si propose. Lo guardai sorridendo tristemente: Norman faceva di tutto per aiutare ad essere felice. Perché non riuscivo ad amarlo?
- Veramente, non posso lasciare il bambino da solo. –
Lui rimase in silenzio. Sapevamo entrambi che avevo ragione. Fino a quando c’era un unico adulto di mezzo non c’erano problemi, ma quando si trattava di un bambino non era la stessa cosa.
- Troveremo un piccolo monolocale a Grace e al bambino vicino al mio appartamento.. – tentò allora.
- Grace è andata via.. – annunciai solenne.
- Cosa? E’ impossibile, Alexander è giù al nido.. – ci mise pochi secondi a connettere il tutto. Lo stupore passò attraverso i suoi occhi – Non è possibile commentò.. –
- Sono sola con il bambino, adesso –
- Come farai? Non potrai mai riuscirci da sola! –
- Ho già chiamato Melanie, la sorella di Grace..Ha detto che potrebbe venire a prenderlo fra una settimana, ma non ne era sicura. Non voglio lasciare Alexander a Joe.. – la mia voce era diventata un sussurro.
- Vieni da me, Irene. Possiamo farcela! – mi incoraggiò.
- Non è mio figlio ma Grace ha incaricato me di proteggerlo, almeno fino a quando non arriverà la sorella. E’ una mia responsabilità. Anche se sarà difficile, posso farcela. –
- Irene.. – mi chiamò avvicinandosi a me con la sedia, prendendomi le mani – Lascia il lavoro e vieni a vivere con me. Ci prenderemo noi cura del bambino, io e te. Non avremo bisogno di altro –
Abbassai lo sguardo e guardai le sue mani grandi e forti. Quella era una proposta, era impossibile negarlo. Mi chiesi fino a che punto arrivavano i suoi sentimenti per me e capii che non aveva limiti. Mi chiesi cosa trovava in me di tanto speciale. Non avevo futuro ed ero una ragazza come tante altre. Vivevo la vita così come si presentava, all’ordine del giorno, con le sue gioie ed i suoi dolori.
- Non capisco cosa ci trovi tu in me, sinceramente. – sussurrai guardando le sue spalle larghe.
- Non farmi domande simili. Se dovessi risponderti, non capiresti, poiché non lo capisco nemmeno io. Vieni con me Irene. – se solo Fernando non fosse arrivato, probabilmente sarei saltata fra le sue braccia da un momento all’altro. Se solo non fossi stata già innamorata, probabilmente il mio cuore sarebbe impazzito, invece di rimanere solo nell’agitazione.
- Lasciami pensare. – risposi mentre la campana segnava la fine della pausa pranzo.

- Non ti dispiace di non poter festeggiare il Natale con tuo figlio? - chiesi il pomeriggio dopo ad Angelina.
- Mia figlia ha già chiesto al primario di farmi uscire per le feste. Andrò per un po' di giorni a New Orleans e poi a Fernando non piacciono queste feste. - disse stancamente, mentre continuava a lavorare a ferri – E tu? Dove festeggerai il Natale? Tornerai in Italia? -
- Andrò in Inghilterra, da mia madre e mio fratello. -
- Non hai intenzione di tornare da tuo padre? -
La guardai stranamente. Le avevo detto che mio padre era in galera, tralasciando il mio passato, ma pensavo che avesse più delicatezza. - No. - risposi – Non voglio vederlo. -
- Non è un bene lasciare I genitori abbandonati a sé stessi. Il perdono è divino, te l'ho detto tante volte. -
- Ha commesso un atto che non posso perdonare. –
Annuì. La osservai. Avevo una voglia tremenda di raccontarle tutta la mia vita, per potermi sfogare con lei quando ne avrei avuto bisogno, ma era dannatamente difficile. Poi, cosa avrebbe pensato di me e della mia famiglia? Così, come tante altre volte, decisi di reprimere quel desiderio.
- Che lavoro fa Fernando? - chiesi di punto in bianco.
- Un giorno è un delinquente, un giorno è un poliziotto e un giorno è un poeta. - disse sorridendo. Un dilemma decisamente contorto. Come poteva fare tutti quei lavori in una sola volta? Arrivò l'infermiera, avvisandomi che l'orario delle visite era finito. Salutai Angelina, baciandole la fronte, uscendo dalla camera. Fra un mese e poco più sarei partita e mi dispiaceva il fatto che non l'avrei rivista fino al nuovo anno. Uscii nel vento pungente.
Data la risposta di Angelina, era ovvio che Fernando le avesse proibito apertamente di rispondere in modo chiaro e conciso. Quando aveva pronunciato la parola “delinquente” mi era arrivato un tuffo al cuore, passato subito dopo per il resto della frase.
Inoltre, stavo considerando veramente l’idea di tenere con me Alexander e di andare a vivere da Norman. L’amore poteva nascere da un momento all’altro, avevo solo bisogno di tempo per dimenticare Fernando.
Mi balenò un’idea in mente.
Io avevo Alexander e Grace non c’era più. Joe mi aveva minacciata di licenziarmi ma io potevo rigirare la situazione con delle semplici frasi. Avrei potuto minacciarlo di dire a tutti il suo segreto, facendo scoppiare uno scandalo e fermando definitivamente la sua ascesa al successo.
Nessun’altra donna dell’ufficio l’avrebbe voluto se fossero venute a conoscenza della gravidanza e della vita di Grace.
Adesso mi sentivo più forte. Avrebbe potuto togliermi la casa ma era un rischio che ero disposta a correre.
Era sabato e non ero andata a lavoro. Tuttavia, secondo accordo del giudice, Joe aveva passato tutto il pomeriggio con il bambino e entro poche ore doveva riportarlo in casa. Non volevo che venisse da me, di nuovo, ma era necessario perché mettessi in atto il mio piano.

Il mio capo-stupratore arrivò in perfetto orario alle sette di sera, con il bambino addormentato e la giacca sporca di bava. Appena depose il bambino nel box, venne in cucina dove io stavo preparando la cena per me e per lui.
- Dov’è Grace? Sono almeno due giorni che non la vedo –
“Finalmente te ne sei accorto” pensai.
- Grace non c’è. –
- E dov’è? –
- Non lo so.. – sorvolai sul fatto che mi avesse scritto chiaramente che sarebbe andata in Canada.
- Come fai a non saperlo? E’ uscita con una nuova conquista? A che ora torna? –
Mi chiesi il perché di tutte quelle domande.
- Come mai tutte queste domande? Credevo fosse solo un peso per te. -  chiesi infatti acida.
-  E’ pur sempre una madre ed ha delle responsabilità – spiegò duro. E io che per pochi secondi avevo pensato che pensasse almeno un po’ a lei.
- Grace non tornerà – conclusi continuando a controllare i fornelli, senza guardarlo.
- Come sarebbe a dire? Cosa mi stai nascondendo? – domandò.
- Grace è fuggita. Senza il bambino – parlai ad una lentezza estenuante e voltai lo sguardo solo per godermi la sua espressione. Era una statua di sale, con la bocca leggermente aperta. Si vedeva chiaramente che stesse salutando tutte le notti di divertimenti con donne e amici, passati a bere e parlare delle cose più varie. Mi stavo godendo a pieno ogni singolo secondo.
- Quindi presumo che dovrò prendere io il bambino.. – commentò con almeno un minuto di ritardo.
- No. Grace mi ha chiesto espressamente di tenerlo o di chiedere ai suoi fratelli. – risposi rimanendo sul vago, senza dirgli che in realtà la sorella, Melanie, aveva già accettato di prenderlo in custodia.
- Dove vuoi arrivare? – domandò poi.
Annuii. Sapevo che me lo avrebbe chiesto – E’ proprio qui che entri in campo tu, capo – dissi, rimanendo in silenzio. Mi piaceva tenerlo sul filo di un rasoio.
- Parla! – la sua reazione mi metteva voglia di ridere, ma mi limitai a sorridere.
- Ricordi quel patto che abbiamo fatto ieri..? – cominciai vaga.
- Sapevo che avevi in mente qualcosa! –
- Bene. Io non dirò niente e tu rinuncerai al patto. –
- Un patto è un patto. –
- Non c’era nessuno presente, e poi non c’era ancora di mezzo tuo figlio. –
- Potresti sempre darlo in custodia ad uno dei fratelli –
- Io voglio tenerlo. – dissi decisa.
- Potrei licenziarti. Potresti arrivare alla stessa situazione di Grace. –
- Potrei dire a tutti che hai un figlio e che tu hai deciso comodamente di non tenerlo e di non sposare la madre, mandandola allo sbando e costringendola ad andarsene –
- Sarebbe una bugia. –
- Sarebbe uno scandalo. Prendere o lasciare, Joe. –
- Sai che potrei comunque prenderti da un momento all’altro, se volessi. –
- Non lo farai. –
- Perché no? – chiese spavaldo avvicinandosi.
- Perché insieme alla notizia della tua paternità, potrei anche aggiungere una denuncia per violenza sul posto di lavoro. –
Rimase in silenzio. Avevo vinto.
- Affare fatto? –
- D’accordo, ma dovrai dire addio alla tua casa. –
- E’ un sacrificio che sono disposta a correre. –
Il telefono squillò. Visto che io ero ai fornelli non potevo allontanarmi, così andò lui a rispondere.
- Pronto? – lo sentii rispondere.
- Sono un suo amico. – cominciò a parlottare. Sembrava accigliato.
Alzò lo sguardo su di me, spalancando gli occhi. Poggiò la mano sul ricevitore.
- E’ l’ospedale… - annunciò.
Il mio primo pensiero andò ad Angelina – Cosa? – chiesi con il cuore in gola.



Note Finali____
Credevate che mi ero dimenticata di voi, eh?! E infatti è proprio così! ._.
No, scherzo xD Ho ritardato tantissimo cavoli, credo di aver superato il mio record. Mi scuso tantissimo, ma ho dovuto formattare il pc e ho dovuto ricominciare tutto il capitolo da capo, stupido windows! Comunque eccomi qui con un capitolo succulentissimo.
Se alla fine siete rimasti col fiato sospeso era proprio quello il mio obbiettivo. Baci, haki-chan.

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Capitolo 9
*** Let it be. ***


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Non avevo mai creduto alle favole che tutte le donne sognavano di avere, perché sapevo che non ne avrei mai avuta una. Di conseguenza non valeva la pena neanche sprecare del tempo a rimuginarci sopra, immaginando il proprio principe azzurro.
Tuttavia in quel momento, ferma in piedi nella sala d’attesa in ospedale, non aspettavo altro che la mia vita cambiasse in un sogno: volevo che arrivasse una troupe televisiva di “Scherzi a Parte” e mi dicesse che quei due anni d’inferno erano solo una finta. In quel momento sarebbe arrivato mio fratello, mio padre e Andrea. Mi avrebbero abbracciato e avrebbero asciugato le mie lacrime. Rimaneva solo la scelta tra il mio primo amore ed il misterioso Fernando, anche se ero più che convinta che la mia decisione sarebbe ricaduta sul primo. Volevo che Grace non fosse scappata e volevo che l’ospedale non mi avesse chiamato per dirmi che era stata ritrovata sul ciglio dell’autostrada svenuta, ormai in fin di vita.
Mi ero affrettata a chiamare i suoi parenti e poi avevo preso l’ultimo volo per Ottawa, con il fiato sospeso. Non sapevo neanche se portare il bambino con me, ma Joe mi aveva consigliato di farlo. Non l’avevo mai visto tanto agitato ed amareggiato. Eravamo vicini in aereo. Era riuscito a trovare i biglietti grazie ad un suo ex compagno di corso che adesso lavorava come pilota.
Non ero neanche riuscita a fare la valigia come si deve: avevo con me un paio di cambi e qualche intimo, le prime cose che avevo trovato nel cassetto.
Il volo durò qualche ora, ma non riuscii a dormire nonostante fosse tardi, tanta era l’agitazione.
Arrivata davanti la camera della mia amica, stentavo quasi a riconoscerla. Non aveva più i capelli e la testa era completamente fasciata. Due enormi occhiaie spuntavano sotto gli occhi addormentati, quasi avesse trovato la pace dopo giorni e giorni di veglia. Aveva almeno tre flebo vicino al letto e nessuna di queste era almeno alla metà.
Il medico mi aveva subito detto che non c’erano possibilità, a meno che non fosse arrivato un miracolo.
- Irene, cosa stai dicendo? – mi chiese Joe, alzandosi dalla poltroncina in cui era seduto, stringendomi le spalle.
- Eh? – chiesi voltandomi verso di lui, senza nemmeno guardarlo in realtà. Capii solo dopo qualche secondo che avevo cominciato a pregare senza nemmeno rendermene conto.
Lui mi abbracciò – Non trovo le parole – confessò, sussurrandomi all’orecchio.
Cosa avrebbe dovuto dire? “Andrà tutto bene”? “Si salverà, vedrai!”? Avevamo sentito chiaramente entrambi la diagnosi del medico. Sperare non bastava, le medicine stesse non bastavano. Perché stavo piangendo? Dopotutto mi ero trovata in una situazione simile due anni prima, quando avevo visto mio fratello steso a terra in un mare di sangue. Forse piangevo perché stavolta potevo vedere chiaramente l’espressione di una persona poco prima che andasse nell’aldilà. Con mio fratello non era stato possibile, era troppo tardi quando abbracciai il suo corpo ancora caldo. Forse piangevo più per il ricordo che tornava vivido e chiaro nella mia mente, che per la mia amica che lottava per la sopravvivenza in una delle camere di quel dannato reparto.
Abbracciai convulsamente Joe, sfogandomi. Ero troppo agitata per capire se i piccoli movimenti della sua schiena fossero gli scossoni del mio o del suo stesso pianto.
Poi tutto diventò nero.
 
- Ehi! Ehi! – mi scosse qualcuno.
Aprii piano gli occhi. Le palpebre erano più pesanti del solito.
- Ma insomma, non sta bene dormire sulle panchine, sembri una barbona! – quella voce la conoscevo benissimo. Quella voce femminile che volteggiava leggera nell’aria, come portata nel vento da un gruppo di bellissime farfalle.
- Cosa c’è? – chiesi ancora assonnata, aprendo leggermente gli occhi. Mi trovavo in Central Park.  – Perché siamo qui? – domandai alzandomi piano e stirandomi, guardandomi intorno – Dove sei? – domandai ancora, guardandomi in giro. La trovai a qualche metro da me, in piedi sotto un’enorme quercia.
- Hai gli occhi così gonfi! Sembra quasi che tu pianga da giorni! Lo sai che non fa bene? Ti rovina qual bel visino che Dio ti ha donato – mi rimproverò, facendomi salire di nuovo le lacrime agli occhi.
- Grace.. – cominciai sull’orlo del pianto, muovendo dei passi instabili verso di la mia amica, ma lei alzò la mano, bloccandomi.
- Guarda laggiù – indicò qualcosa dietro di me.
Strinsi gli occhi per vedere bene. A un centinaio di metri da noi c’era una panchina, sulla quale era seduta una donna in dolce attesa, con un pancione di otto mesi all’incirca. Aveva dei capelli neri e spumosi che le ricadevano morbidi ed ordinati sui seni rigonfi di latte. Conoscevo bene la persona che era seduta immobile ad accarezzare il pancione con tanto amore ma all’interno di tanta solitudine.
- Grace! – chiamò una voce. Un’altra donna si avvicinava di corsa alla panchina dov’era seduta la mia collega.
- Irene, sei in ritardo! Lo sai che correre non si addice ad una donna? – mi rimproverò puntandomi con l’indice.
- Scusami, Joe è il solito donnaiolo. Doveva uscire con una del nostro reparto e mi ha lasciato tutto il suo lavoro da fare – sbuffai, sedendomi di peso sulla panchina di marmo – Brr, che freddo! – mi lamentai alzandomi leggermente, procurandogli una piccola risata. Ricordavo perfettamente quel giorno e ancora non ero a conoscenza della paternità del mio capo. – Come mai mi hai chiesto di vederci con questo fresco? Dovresti stare a casa il più possibile per pensare ad Alexander – dissi cortese, carezzando dolcemente il pancione e lasciandovi un bacino.
- Non avevo voglia di stare a casa, mia sorella è una rompiscatole. Volevo vederti prima di trasferirmi – disse ed io annuii: Grace si sarebbe trasferita dalla sorella, Melany probabilmente, per i primi mesi dopo il parto.
- Pensavo che non ti piacesse Central Park…Non mi hai detto che odi vedere tutte le coppiette che si tengono per mano passando per questo vialetto? – domandai dubbiosa.
- Sono venuta qui per prendere un po’ d’aria fresca, tutto qui – fece spallucce – Conosci la particolarità di queste panchine? – mi chiese dopo qualche secondo di silenzio.
- No, in realtà no – ammisi. Ero arrivata da appena un anno a New York.
- Ogni panchina ha la sua targhetta con il nome di due fidanzati. Mi chiedo se un giorno anche il mio nome e quello di mio marito sarà inciso su una di queste panchine..è un po’ il mio sogno proibito, in realtà – ammise imbarazzata.
Io sorrisi – Beh, è un po’ il sogno di tutti quello di esser legato alla persona che ama per tutta la vita, non credi? –
- Hai ragione. È stupido. – si affrettò a dire.
- No, non è affatto stupido Grace. –
- È stupido per una stupida donna incinta. Ormai non avrò mai un fidanzato, nessuno ha voglia di impegnarsi con un figlio a carico – mentre parlava stringeva le mani sulla maglietta che portava in corrispondenza della pancia.
- Perché dici questo? La speranza è l’ultima a morire. Troverai qualcuno! Può darsi anche che il padre tornerà a vedere suo figlio e s’innamorerà di nuovo di te –
- No, il padre non tornerà mai da me. Quando è successo lui sicuramente non ricambiava neanche il mio amore. Sono stata una sconsiderata. Avrei dovuto abortire. Ho sbagliato. – commentò amareggiata.
- Sai che il bambino ascolta tutto quello che dici? – chiesi con aria di rimprovero.
Lei mi guardò stupita – No! Non lo sapevo! Alexander, scusami! – disse lei carezzando quella pancia immensa ed ingombrante.
- Il solo fatto che tu adori il bambino che sta per nascere ripara a tutti i tuoi errori, Grace. Non pentirti della sua nascita, probabilmente sarà il periodo più bello della tua vita. La sua prima parola sarà l’unica che amerai di più in questo mondo pieno di parole e le sue risa ti illumineranno il viso milioni e milioni di volte. I suoi primi passi ti faranno capire che è complicato rimanere in equilibrio senza cadere, ricordandoti la difficoltà della vita che non è comunque riuscita a metterti in ginocchio. Non dare tutto per scontato, vedrai, il bambino ti cambierà la vita in meglio e non sentirai più neanche il bisogno di un marito. – lei cominciò a piangere alle mie parole e mi strinse forte.
- Installeremo la targhetta con i nostri nomi. Non importa se a tutto il mondo sembreremo un paio di lesbiche arrapate. Se non ti amerà il padre, ti amerò io con tutte le mie forze. – la sua presa divenne più stretta. Potevo ancora sentire la forza del suo abbraccio sulle mie spalle.
- Ti voglio bene – sussurrò tra un singhiozzo e l’altro.
Le lacrime ricominciarono a scendere veloci sulle mie guance.
Improvvisamente tutto divenne bianco, facendo sparire completamente il parco che avevamo intorno. Mi voltai. Grace era ancora vicino a me, ma non aveva più i capelli e le gambe erano piene di lividi. Indossava un vestito bianco fino a metà coscia con un paio di splendide decolté dello stesso colore dell’abito. Il suo corpo ed il suo viso portavano un numero infinito di lividi che dovevano fare malissimo, ma lei sorrideva con i suoi denti bianchi e perfettamente allineati.
- Perdona il tuo passato e segui il futuro –
- Grace.. – chiamai piano allungando la mano ma lei cominciò ad allontanarsi. Continuai a chiamarla ma ormai non era altro che una sagoma che diveniva sempre più piccola.
 - Grace! – mi svegliai improvvisamente e di soprassalto, svegliando anche Joe che mi teneva sulle sue ginocchia. Ero senza fiato ed il viso era ancora rigato di lacrime.
- Un incubo? – mi chiese premuroso Joe.
Mi passai una mano sul viso, asciugandomi le lacrime – Non proprio – dissi.
Alexander dormiva ancora placidamente nel passeggino e ringraziai il cielo che avesse il sonno tanto profondo. Con tutta la tristezza che mi stava divorando il cuore, mi mancava solo il pianto del bambino.
- I parenti di Grace *******? – domandò un’infermiera sulla soglia della sala d’attesa.
Mi alzai di scatto – Siamo noi! – dissi andandole incontro mentre Joe svegliava le sue gambe dall’intorpidimento. Il brutto di quando si ha un parente od un amico in fin di vita, è proprio il fatto che non si sa mai se l’infermiere possa venire da un momento all’altro a dirti che non hai fatto in tempo a salutarlo.
- La paziente si è svegliata. È il momento giusto per salutarla.. – la donna non completò la frase, non ce n’era bisogno. Mi voltai verso Joe serissima. Mi è ancora sconosciuto il luogo in cui trovai tutto quel coraggio per non piangere per la conversazione che sarebbe avvenuta di lì a poco.
Tuttavia, quando arrivai davanti alla porta mi fermai di scatto. Probabilmente a Grace serviva un momento d’intimità con il grande amore della sua vita.
- Entra prima tu con il bambino – balbettai, appoggiandomi al corrimano posto nel corridoio. Le gambe mi tremavano freneticamente. Lui annuì ed entrò. Probabilmente era del mio stesso pensiero. Decisi di non guardare la scena dal vetro della camera, non volevo invadere la loro intimità neanche per quei pochi minuti o per quelle poche ore che rimanevano. Dopo dieci minuti, vedendo che Joe non usciva, decisi di tornare in sala d’attesa sulla poltroncina ancora calda a fare compagnia al passeggino. Mi chiesi come si sarebbe sentito Alexander fra qualche anno, in una famiglia che non era nemmeno la sua, senza una madre e con un padre che avrebbe visto solo raramente e ogni volta con una donna diversa. Solo adesso mi rendevo veramente conto dell’importanza di avere una madre ed un padre al proprio fianco ed io non ero in grado di approfittarne. Avevo lasciato mio padre marcire in galera e mia madre in un paese che non era il nostro, anche se almeno lei stava insieme a mio fratello.
“Come ci si sentiva ad essere abbandonati da tutto e da tutti? Come ci si sente a non avere più nessuno della famiglia vicino, papà?”
Capii la frase che mi aveva detto Angelina qualche giorno prima in ospedale. Mio padre aveva commesso un peccato grave, era vero, ma era pur sempre mio padre e non ne avrei avuti di altri. Non avevo ricordi particolari della mia infanzia con lui, se non tutti gli schiaffoni e i pianti che lui mi procurava, ma allo stesso tempo ricordavo le volte in cui veniva a riprendermi a scuola quando no passava il mio bus o magari quando dovevo andare a qualche festa. Ricordavo di quando comprava qualcosa di costoso per me nonostante non avessimo molti soldi da parte. Ricordavo i suoi sorrisi e le sue carezze, con le sue mani ruvide che sapevano essere tanto crudeli e dolci allo stesso tempo. Mi chiesi cosa aveva spinto mia madre a sposarlo, ma la risposta era semplice: l’amore a volte cambia punti di vista, è vero, ma c’è anche da dire che anche il tempo cambia le persone. Chissà com’era mio padre  nel periodo del fidanzamento con lei.
Stavo riflettendo su quei pensieri, quando Joe mi portò alla realtà, poggiandomi una mano sul ginocchio. Alzai lo sguardo. Il suo volto era rigato di lacrime e si intravedeva il dolore nei suoi occhi. Mi stupii di quanto potesse essere espressivo, perché nella quotidianità era sempre inespressivo o malizioso. Non l’avevo mai visto tanto triste. In realtà, nonostante ci conoscessimo da un po’ di anni, non sapevo niente di lui. Entrambi ci stavamo aprendo in un modo tremendo all’altro, senza pensare minimamente alle conseguenze.
- Vai, non resta molto – disse dopo essersi schiarito la voce.
Annuii, alzandomi di corsa e andando verso la porta della sua stanza. Una volta chiusa la porta, mi avvicinai al suo letto. Il viso era sereno e sorrideva, proprio come nel sogno.
- Ecco qui la mia migliore amica – mi accolse. La sua voce era stanca e trascinata, probabilmente a causa del sonno e dei medicinali.
- Ci sono – confermai prendendole la mano e mettendomi a sedere – Cos’è successo? – chiesi senza pensare. Avrei dovuto parlare d’altro, ma era l’unica domanda che mi veniva in mente in quel momento e non conveniva rimanere in silenzio in quegli ultimi minuti, o almeno durante quello che restava.
Le sorrise di nuovo, guardando verso la finestra – Ricordi quel giorno in cui abbiamo deciso di mettere una targhetta coi nostri nomi..a Central Park? – domandò, deglutendo piano. Allentai la presa sulla sua mano: avevo paura che potesse frantumarsi da un momento all’altro, ma lei la ristrinse con forza, tornando a guardarmi con un’espressione serena. Allora anch’io ricominciai a stringere.
- Ricordo perfettamente – mi chiesi perché proprio in quel momento le tornava in mente l’episodio che avevo sognato una mezz’ora prima.
- Io ero incinta e non sapevo se sarei stata in grado di mantenere il bambino che stava per nascere, ma tu mi hai dato la forza di farlo nascere. Ho passato le doglie e tutto il resto solo perché tu me ne hai dato la forza – sentivo i miei occhi tornare lucidi – Mentre viaggiavo verso Ottawa, ho ripensato intensamente a quel giorno – riprese fiato – Ho pensato ad Alexander…Non me la sono sentita di lasciarlo solo, ma lui non voleva rallentare. Aveva bisogno di me, diceva, ma io volevo tornare dal mio bambino, da te e da..da Joe – parlava ancora più lentamente: si stava agitando – Così sono saltata dalla macchina in corsa..Credo di aver battuto la testa – alzò una mano verso le bende che le fasciavano il capo.
Non sapevo cosa dire – Beh, noi siamo qui, adesso – azzardai con un sussurro, trattenendo il più possibile le lacrime che combattevano furiose per uscirmi dagli occhi.
- Alexander cammina adesso? – domandò dopo qualche secondo di silenzio.
- Non..ancora – risposi titubante.
Lei sorrise – Non sono riuscita a capire l’equilibrio – commentò con un filo di voce. Gli occhi le divennero lucidi – Non potrò mai vedere il mio bambino camminare, parlare e ballare, Irene..Come ho potuto fuggire? Non si può fuggire dai propri doveri…Io ho provato e mi sono tirata indietro troppo tardi. – concluse mentre una lacrima scendeva lungo gli zigomi scarni.
Cominciai a piangere anch’io, silenziosamente, stringendole la mano con le mie – Grace, non dire così.. – piagnucolai.
Mi osservò accigliata – Sembra quasi che tu abbia pianto per tutta la notte, Irene. Non fa bene piangere, ti si gonfiano quei bei due occhioni che hai – mi sorrise sebbene lei stessa piangesse con me. Avevo sperato, pregato, per un addio dignitoso. Io l’avrei consolata e lei sarebbe stata in pace con sé stessa finalmente. Stavo perdendo e non sapevo come rimediare.
- Non è vero – dissi dopo un lungo silenzio, rotto solo dai nostri singhiozzi – Tu vedrai Alexander fino a quando sarà vecchio. Nel Paradiso, chiunque può vedere i propri cari in qualunque momento voglia. –
- Sarò il tuo angelo, Irene, veglierò su di te, ma tu non dimenticarti di me –
- Non potrei mai – confermai scuotendo la testa.
- Finalmente sono felice. Tu sei qui con me e i due uomini che adoro di più sono appena entrati da quella porta. Ho sempre sognato un finale come quello dei film e finalmente ho realizzato almeno un desiderio – concluse sospirando. Gli occhi erano vitrei e la luce al loro interno pian piano se ne andava. – Prenditi cura di loro. Abbi cura di te e non piangere più, è un ordine –
- Promesso – confermai, anche se una promessa simile non potevo mantenerla assolutamente.
Lei annuì – Chiama il medico – disse mentre chiudeva gli occhi e sorrideva.
Lasciai andare una delle mie mani per chiamare l’infermiera. Quando la ristrinsi con entrambe, la presa era già diminuita, poi sempre di più, sparendo completamente quando l’infermiera entrò con lo stereoscopio.
- I defibrillatori! – urlò, ma ormai non c’era più niente da salvare.
Uscii di corsa, non volevo assistere a quello spettacolo inquietante.
Quando varcai la soglia dell’uscita dell’ospedale, i miei occhi erano già asciutti.
 
Chi avrebbe detto che tutto sarebbe finito così, quando partii dall’Italia?
Probabilmente, avrei rimediato a quel dolore che mi stava crescendo sempre di più dentro, divorandomi il cuore. Il fatto più brutto era che non riuscivo a versare più neanche una lacrima. Non sapevo se le avessi esaurite o se semplicemente la promessa che avevo appena stretto mi costringesse a non farlo.
Prendemmo il primo volo per New York. Optammo per andare a casa di Joe almeno a dormire, visto che era più vicina all’aeroporto. Non avevo nemmeno la forza per pensare ad un eventuale finale amoroso e di certo non avrei avuto tantomeno la forza di rifiutare. Avevo un bisogno assoluto di affetto.
Ero completamente persa in un altro mondo quando arrivammo a New York. Presi quel bagaglio inutile e mi avviai con il bambino e Joe all’uscita e poi al parcheggio dove aveva lasciato la macchina. Non parlammo per tutto il viaggio, ci limitammo a tenerci la mano fin quando non salimmo entrambi in macchina. Ognuno cercava dall’altro il conforto di cui aveva bisogno.
Fortunatamente la sua casa non era lontana. Alexander non si svegliò quando lo presi in braccio dal seggiolone, ne tantomeno quando lo sistemammo a dormire nel piccolo box che Joe teneva in casa quando teneva il figlio a dormire da lui. Non aveva che un letto, ma non mi feci problemi quando me lo disse ed ero veramente troppo stanca per dormire su di un divano piccolo e scomodo. Così entrai in bagno e mi cambiai, rientrando poi in camera, trovandolo già a letto.
Mi infilai sotto le coperte velocemente: la mia camicia da notte era più corta di quanto ricordassi.
Mi stesi di modo che potessimo guardarci entrambi negli occhi.
- È stata una giornata dura – ruppi il silenzio senza smettere di guardarlo.
- Pessima, direi – rispose. Gli occhi gli divennero lucidi, di nuovo.
- Penso che la reazione peggiore sarà quella dei fratelli e dei genitori..Non hanno fatto in tempo..a parlarle – misuravo ogni minima parola. La stanza era talmente tanto silenziosa che mi sembrava di gridare.
- Quando sono entrato – si schiarì la voce – con Alexander, lei ha detto che eravamo i suoi due uomini preferiti ed era contenta di vederci prima di.. – non concluse la frase, continuando a fissarmi, fino a quando non vidi due lacrime scivolare sulla sua guancia. Non esistevano parole, non esisteva conforto in un momento simile. Mi domandai perché avessimo tante parole, se poi in quei momenti non se ne potesse fare il minimo uso.
Mi avvicinai a lui e lo strinsi al petto, forte, come una madre con il figlio. Anche lui mi abbracciò di rimando, cingendomi i fianchi e sfogandosi contro la stoffa che mi carezzava il petto. Non era una buona situazione, sapevamo entrambi a cosa stavamo andando incontro. Nessuno vorrebbe soffrire tali dolori uniti all’insonnia. E in quel momento c’era una sola cosa che potesse distrarre completamente entrambi, lui uomo ed io donna.
Alzò il viso dopo qualche minuto, guardandomi serio.
- Non ti piacerà quel che sto per chiederti – cominciò ma io sapevo già quale sarebbe stata la mia reazione. Tuttavia arrossii. Il suo viso si era avvicinato al mio con estrema lentezza. Fortunatamente le luci erano spente.
- Vorresti essere la mia distrazione, per questa notte? – lo disse con un sussurro. Chiusi gli occhi, rimanendo un attimo in silenzio, fermando anche il respiro. Anche io avevo bisogno di un dannatissimo momento d’affetto che non ricevevo da anni. Avevo intenzione di lasciarmi andare. Joe non avrebbe più avuto nome, sarebbe stato solo l’oggetto dei miei bisogni, come io dei suoi.
Annuii piano – Nessuna conseguenza – sibilai seria mentre gli passavo le mani fra i capelli.
- Nessuna – confermò serio, stringendomi verso di lui.
La mente cominciò a svuotarsi, come previsto. I brutti pensieri e le lacrime tutto ad un tratto sembrarono allontanarsi sempre di più, mentre le mani precise di lui arrivavano ad infilarsi sotto la maglia, sfilandomela. Era già sopra di me e nemmeno me ne ero accorta, forse per il buio o per i brividi che mi attraversavano il corpo come una scarica elettrica. Non ero in condizioni di capire cosa fosse.
Sentii il reggiseno allentarsi e mi salì il panico nel corpo.
- Joe.. – mi allarmai - ..io è da tanto..è passato molto – mugugnai confusa stringendo i capelli tra le dita.
- Va tutto bene… - mi rassicurò lui, facendomi sfilare l’intimo. Percepii chiaramente una piccola differenza nella sua voce, quasi fosse diventata più profonda e…sensuale. Mi aveva fatto rabbrividire immediatamente senza motivo.
Vidi il suo viso sparire sotto le coperte e le sue labbra si soffermarono decise sui miei seni su ogni piccola parte di pelle, facendomi sussultare ad ogni bacio e ad ogni carezza, dovunque fosse. Ansimavo e gemevo, quasi fossi una ragazzina in calore. Quando anche l’altra parte dell’intimo scivolò via, presi ad emettere versi che neanche credevo di esser capace di fare, aggrappandomi alle lenzuola mentre Joe proseguiva nel suo lavoro sotto le coperte.
Risalì poco dopo verso il mio viso, lasciandomi tregua. Mi sembravo un pezzo di legno, capace solo di ricevere senza dar niente in cambio, ma lui non sembrava curarsene, poiché si prendeva cura del mio corpo con estrema precisione, come se non fosse la nostra prima volta, in realtà.
Mi osservò sotto la luce soffusa dei lampioni che arrivavano da dietro le pesanti tende della camera da letto. Ansimava e sentivo chiaramente la sua eccitazione contro la mia coscia.
- Voglio guardarti, Irene – ansimò con voce ancora più profonda, eccitandomi di nuovo. Improvvisamente una luce fioca aranciata si accese alla nostra sinistra e ci misi qualche secondo ad abituarmi alla luce. Lui osservò il mio corpo, i miei seni ed il ventre, passando poi al viso, studiandomi. Non osai abbassare lo sguardo a mia volta ma da quel che potevo vedere il suo corpo sembrava uscito da uno di quei concorsi degli uomini più belli del mondo – Sei bellissima – interruppe le mie riflessioni. Nessuno me lo aveva mai detto a quel modo, in quel momento e con quella voce. Rabbrividii e lui si tirò di nuovo su di me, stringendomi a lui, pelle contro pelle.
Per la prima volta, prese a baciarmi il viso, poi le labbra, approfondendo sempre di più il bacio fino a farmi perdere il respiro.
Entrò dentro di me non molto dopo, facendo risvegliare sensazioni che sembravano assopite da secoli. Mi sembrava di impazzire, sempre di più, sempre più veloce. Ci fermavamo e riprendevamo senza neanche chiederci il permesso, cercando di resistere al massimo per non tornare al dolore della realtà.
Quando lui ormai dormiva fra le sue braccia e le prime luci dell’alba cominciavano a spuntare timide e stanche all’orizzonte formato da grattacieli e palazzi, cominciai a riflettere su quello che avevo appena fatto. Non potevo definirlo stupido. Niente è stupido quando ci si sente di farlo, ma era stato irragionevole. Per cose simili non esistevano altro che conseguenze. Ci saremmo guardati, ci saremmo cercati e ci saremmo desiderati ogni ora in ufficio. Sarebbe stato diverso se solo non fossimo stati due colleghi.
Tuttavia, mi sentivo in pace con me stessa. Mi abbandonai al mondo dei sogni, lasciandomi cullare dalle dolci lenzuola che quella notte mi avevano tenuto tanto impegnata.
 
Mi svegliai quando il sole era già alto ma non avevo dormito più di tre ore. Joe era ancora addormentato vicino a me, voltato di schiena. Approfittai per alzarmi, raccattando la camicia da notte dal pavimento e andando in bagno velocemente. Fortunatamente lì avevo anche lasciato la mia valigia, di modo che potessi cambiarmi tranquillamente.
Mi infilai nel box doccia e cominciai a lavarmi. La tristezza mi assalì nuovamente insieme al getto di acqua tiepida che mi batteva sul collo, ma anche stavolta non versai nessuna lacrima. Mi sbrigai a fare tutto il più velocemente possibile e uscii dalla doccia, rivestendomi in fretta e uscendo dal bagno comunque senza scarpe, per evitare di svegliare Joe, anche se sembrava che neanche un cannone sarebbe riuscito a farlo alzare.
Arrivai nello studio dove Alexander era rimasto a dormire. Anche lì la situazione non era diversa, visto che non sembrava avere la minima intenzione di svegliarsi. Il suo visino era rigato di lacrime e mi sentii un po’ in colpa per la distrazione che ero riuscita ad ottenere al contrario della sua solitudine.
Mi avviai nella cucina ed aprii il frigorifero. Lo trovai stranamente pieno: di solito a casa di uno scapolo si trovava sempre il vuoto più assoluto, mentre quello era ricco di cibi ben assortiti e che nemmeno io stessa avevo nel mio. Presi un po’ di latte e guardai nei cassetti in altro, ritrovandomi davanti alla scelta di cereali o biscotti. Optai per questi ultimi. Avevo bisogno di caffè e mi sentivo completamente indolenzita. Joe non si era trattenuto molto o semplicemente era un effetto dovuto alla lunghissima astinenza. Dovevo ammettere che mi ero trovata benissimo, nonostante quello che era successo andasse contro ogni mio principio o ideale. Dopotutto la vita non è fatta anche di compromessi?
Accesi la macchinetta che prese a funzionare silenziosamente, diffondendo nell’aria un dolce aroma di caffè che mi fece sentire di nuovo in forze: mi faceva sempre quell’effetto. Ci mescolai insieme del latte e cominciai a berlo a piccoli sorsi, in piedi davanti alla macchinetta, senza curarmi dei biscotti che avevo lasciato sul tavolo.
- Se una cosa non la vuoi, potresti rimetterla a posto? – chiese assonnato Joe, facendomi sussultare. Mi voltai immediatamente verso di lui, riprendendo fiato dallo spavento.
- Scusami, volevo dei biscotti ma adesso non ne ho più voglia – mi giustificai prendendo la busta e rimettendola al suo posto. Non volevo voltarmi verso di lui, non così presto.
- Faresti un caffè anche per me? – chiese vicinissimo. Non mi ero accorta dei suoi passi.
Poggiai la mia tazza mettendo di nuovo in funzione la macchinetta – Certo – risposi con un sussurro, schiarendomi subito dopo la voce. Mi accorsi solo in quel momento di avere pochissimo fiato e arrossii quando arrivai alla motivazione. Avevo urlato.
Una sua mano si poggiò sulla mia spalla sinistra. Sentii il suo petto aderire a parte della mia schiena. – Stanotte mi sembrava di vivere in un sogno, Irene – disse piano, mi voltai leggermente, guardandolo un po’ demoralizzata. Niente conseguenze, si, come no. Anche la sua voce ed il suo modo di guardarmi era cambiato. Lui afferrò al volo i miei pensieri e mi carezzò piano la guancia – Manterrò la mia promessa, vedrai –
 


Note Finali___
Ed ecco un finale che io stessa non mi sarei mai aspettata gente. Mi sono sentita in colpa per Grace, mi piaceva veramente molto come personaggio ed io stessa mi sono commossa un po’ a scrivere questo capitolo. Penso sia uno dei più intensi che abbia mai scritto fin’ora. Voi che ne pensate? A presto, baci haki-chan.

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Capitolo 10
*** Answers. ***


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Vestire un corpo freddo non è certamente un atto dolce, piuttosto qualcosa di triste e deprimente. Vedere il modo in cui un fratello apparentemente disinteressato cura nei minimi dettagli le pieghe degli abiti, il modo in cui la stoffa ricade sulla federa dell’interno della bara, fu per me qualcosa di estremamente profondo e ricco di sentimento, da farmi commuovere.
Perché c’è bisogno di perdere per apprezzare?
Il corpo di Grace era più magro di quanto fosse mai stato. Sul capo era stata posta una parrucca mora e riccia che assomigliava tantissimo ai suoi reali capelli che ormai non aveva più, dopo l’incidente. Nonostante l’avessi sempre creduta bellissima, adesso non era che un corpo freddo e smagrito, con gli occhi chiusi. Mi rendevo conto solo ora di quanto fosse importante l’anima di una persona. Che importa di come siamo fuori? Non siamo forse tutti uguali davanti alla morte?
Avevo sempre pensato che fosse una frase di consolazione per le persone che non riescono a trovare un partner e non era così. Su quante cose mi sbagliavo, su quante cose avevo costruito degli ideali senza ricavarne nulla in cambio. Vedere la mia migliore amica all’interno di quel pezzo di legno, bianca come un lenzuolo, più che farmi piangere, mi colpì profondamente, soffocando il mio cuore e proibendomi di emettere un solo suono. Si poteva definire una specie di shock? Non ce la facevo più a mantenere lo sguardo su quella scena, ad osservare le lacrime di suo fratello sgorgare come un fiume in piena, bagnando leggermente i suoi abiti.
Avevamo scelto io e Melanie il suo abbigliamento perché conoscevamo entrambe molto bene i suoi gusti ed i suoi abiti preferiti, tuttavia nessuna delle due era stata in grado di farsi avanti per vestirla, al contrario di suo fratello. Cercava di mantenere un’espressione dignitosa, ma davanti all’affetto non esiste nemmeno un briciolo di dignità: c'è solo dolore, rimorso per non averle detto “ti voglio bene” prima che chiudesse gli occhi, ma allo stesso tempo serenità. Sul viso di Grace non era presente alcuna imperfezione, insieme ad un sorriso appena accennato. Era ovvio che fosse felice per il fatto di aver visto alcune delle persone che amava di più in quella vita prima di andare dall’altra parte o in cielo, ovunque fosse in quel momento. Neanche la religione ci può consolare in momenti simili. Cosa ci importa del Paradiso se quella persona non è con noi? Tanto valeva avvertirci subito di non affezionarci a nessuno, avremmo vissuto nella solitudine più assoluta, piuttosto che soffrire. Per me sarebbe stato un giusto compromesso, perché a quanto pareva, la morte aveva attraversato la mia vita più e più volte, tanto da portarmi a credere che probabilmente essa fosse una compagna fedele, che non mi abbandonava mai neanche a distanza di anni, prima con mio fratello, poi con Andrea e adesso con Grace. La morte ci toglie la voglia di vivere, sebbene in un secondo momento ci porti a capire la reale importanza della nostra vita, dimostrandoci con quanta facilità possiamo esserne privati. Siamo troppo gracili per comandare il mondo.
Joe si era ritirato in un angolino, privo di espressione, guardando quella scena come se fosse un fatto che non lo riguardasse minimamente. Doveva provare i miei stessi sentimenti, all’incirca. Il solo trovarlo lì ne era dimostrazione.
Alexander, nelle braccia del marito di Melanie, sembrava completamente separato dal nostro mondo. La sua mamma non si muoveva, non poteva neanche vestirsi, non sorrideva e non gli stendeva le braccia per abbracciarlo. Doveva sentirsi tradito, anche se probabilmente neanche lui capiva ciò che provava. Anche se non nei migliori dei modi, sua madre si era presa cura di lui da quando era nato, da sola. E adesso neanche lei c’era più, come non c’era mai stato il padre se non in quegli ultimi periodi. Da solo contro il mondo, costretto ad alzare i pugni, sebbene non fosse neanche in grado di alzare se stesso da terra.

- Non so come ringraziati per esserti presa cura di Alexander per tutto questo tempo – mi ringraziò Melanie con un sorriso, mentre teneva il mio piccolo sole in braccio. Aveva gli occhi gonfi. Mi aveva detto che nonostante Grace avesse sempre procurato problemi, non poteva non volerle bene. Era terribilmente triste per non aver fatto in tempo a salutarla, al contrario di me.
Sua sorella non aveva detto niente riguardo a loro, ma non me la sentii di mentire, quindi le dissi solamente che voleva un mondo di bene a tutta la sua famiglia. Mi ero sentita un po’ in colpa per aver mentito, ma era ovvio che anche se la mia amica non aveva pronunciato quelle parole, non avesse pensato ai suoi fratelli e ai suoi genitori. Credo che le fosse passata davanti tutta la sua vita. Chissà come si era sentita in quegli ultimi istanti. Pensarci, nonostante ormai fosse passata una settimana, mi faceva sentire ancora male.
- Starai scherzando, spero, Melanie – sorrisi, abbracciandola.
- Stammi bene – salutò ancora. Diedi un bacino al bambino e ci avviammo verso l’entrata dell’aeroporto. Non mi fermai a vedere Joe che salutava Alexander per un fatto di privacy. Sembrava molto rattristato dal fatto che stesse per separarsi in modo quasi permanente dal suo bambino. In quegli ultimi giorni aveva passato tutto il tempo con lui, giocandoci di giorno e facendolo dormire vicino a lui di notte.
Passai il check-in e andai verso l’aereo, sedendo a bordo. Era sera ed ero stanchissima. Non vedevo l’ora di addormentarmi per un po’, prima di arrivare in città.
Joe arrivò un paio di minuti più tardi, mettendo la valigia a mano al suo posto, sedendosi vicino a me: sembrava avere il mio stesso desiderio di dormire. Era stata una giornata dura per entrambi, dopotutto.
- Come stai? – gli chiesi non appena si rilassò contro lo schienale.
- Uno schifo – ammise, guardandomi.
Annuii e guardai fuori. Sembrava quasi che quella notte avesse aiutato entrambi ad aprirsi di più con l’altro. Per il momento, non mi aveva fatto altre proposte, forse perché era troppo impegnato con il bambino, ma sapevo che alla fine sarebbe tornato al posto di battaglia.
 
Come immaginavo, mi aveva chiesto di dormire a casa sua, ma io rifiutai, visto ciò che era successo la volta scorsa. Non appena varcai la soglia del mio appartamento, tirai un sospiro liberatorio.
- Finalmente a casa – sussurrai, buttando la valigia a terra e chiudendomi la porta alle spalle. C’era un po’ di odore di chiuso e faceva un freddo tremendo. Probabilmente avrei fatto meglio a restare da Joe, ma mi sentivo più sicura ad aver rifiutato. Andai subito ad accendere i riscaldamenti e, data la fame, decisi di prepararmi qualcosa da mangiare, niente di complicato e qualcosa abbastanza veloce da cucinare. Scelsi un paio di toast caldi e mi addossai al termosifone mentre li mangiavo.
Mentre facevo la doccia, poggiai il pigiama sulla stufa. Con l’indumento caldo, andai finalmente a infilarmi sotto le coperte gelide, rabbrividendo e sperando che tutto si riscaldasse il più in fretta possibile.
Nonostante avessi compiuto le mie azioni abituali, c’era qualcosa che non andava, qualcosa che mancava, nel mio appartamento. Come avrei passato la serata con il piccolo Alexander e Grace che dormivano nella camera vicino alla mia? Avrei preparato per loro la cena, avrei cambiato il bambino mentre Grace si faceva il bagno dopo di me e dopo un bel film, saremmo andati tutti a letto sfiniti, stanche e svogliate di tornare a lavoro l’indomani.
Con questi pensieri, feci molta fatica ad addormentarmi. Avrei preferito di certo passare la notte con un corpo caldo vicino al mio, con Joe, ma i miei ideali m'impedivano di ripetere quello che avevo già fatto una volta per sbaglio. No, non s'impara dai propri errori. Sapevo che avrei passato tutte le notti successive a preoccuparmi della mia solitudine, finché non mi fossi decisa a fare un passo avanti.
Magari sarei potuta andare da Norman, come lui aveva proposto o magari sarei tornata da Joe. Dovevo scegliere fra amore puro e una questione di letto. La risposta era più che ovvia, perché la cosa che poteva coinvolgermi al minimo era proprio la seconda, perché sapevo che l’innamorato mi avrebbe travolto con i suoi sentimenti, senza farmi tornare più a galla.

- Ehilà! – chiamò una donna entrando in redazione – Siamo felici del suo ritorno. Che ne dice se stasera andiamo a berci qualcosa? – chiese sedendosi sulla sua scrivania. Sheila, ecco come si chiamava. Era mora con degli occhiali da vista che proteggevano un paio di occhi chiari, intelligenti e vispi. Sapeva che quella proposta riguardava tutti gli editori che lo avevano seguito nel corso di quegli anni e che di conseguenza non c’era niente d'intimo leggendo tra le righe, anche perché se fosse stato il contrario gli avrebbe sicuramente dato del tu.
- Non c’è problema – rispose con un cenno del capo e sorridendo. Lei sorrise e uscì di nuovo dalla redazione. Nonostante sapesse di avere un certo fascino sulle donne, Sheila non si era mai lasciata abbindolare dai suoi sorrisi e dalle sue battutine. L'ammirava e si sentiva allo stesso tempo un po’ sminuito dai suoi modi di fare, al contrario di come si sentiva quando era con Lei.
Lei era caduta immediatamente ai suoi piedi, ma faceva di tutto per non lasciarsi prendere. Si chiedeva ancora cosa fosse a trattenerla. Si piacevano entrambi, ma dopo il loro primo bacio, qualcosa era cambiato, come se avesse paura di lui e dei suoi stessi sentimenti. Ogni giorno, da quando era partito, Lei era il suo chiodo fisso, il perno sul quale ruotavano tutti i suoi pensieri. Forse avrebbe fatto meglio a non partire, nonostante Lei non avesse risposto alla sua richiesta, tuttavia ormai l’aveva fatto e tanto valeva rimanere e ricominciare qualcosa di nuovo, magari un nuovo libro su cui lavorare, anche se sapeva già che probabilmente avrebbe impersonato lei all’interno della protagonista femminile che intendeva utilizzare. Il fatto che non riuscisse a concentrarsi su una storia al di fuori di Lei, lo faceva deprimere, perché sapeva che da quel momento Lei sarebbe esistita solo nella sua mente, nei suoi ricordi e nelle pagine del suo nuovo libro. Sospirò.
- Afflitto? – chiese Mortimer, mentre prendeva un caffè al distributore vicino alla sua scrivania.
- Molto – rispose mettendo la testa fra le mani e massaggiandosi un po’ le palpebre. Ogni notte la sognava ed ogni mattina si sentiva afflitto perché Lei non era con lui. Lei non sapeva da quanto tempo si conoscevano, in realtà, Lei non sapeva che di solito saliva sulla scala antincendio per spiarla in segreto, anche se l’amica se n’era accorta. Lei non sapeva che non appena l’aveva vista addormentata sul letto di sua madre, con il suo viso angelico dormiente, era rimasto ore ed ore ad osservarla, prima di svegliarla, rendendosi conto che la posizione che aveva assunto le avrebbe provocato un fastidioso mal di schiena. Lei non sapeva che quel che prima era una forte attrazione, dopo il primo bacio era diventato amore. Lei non sapeva.
Era talmente tanto preso a pensare che quando alzò di nuovo la testa, Mortimer era già andato via.
La sera andò a prendere una birra insieme ai colleghi e il bere lo aiutò notevolmente a smettere di scervellarsi per qualche ora o minuto, dipendeva dall’argomento che avrebbero affrontato durante la serata.
- Il tuo nome non è italiano? – ruppe il ghiaccio uno dei colleghi.
- No, è di origine spagnola, anche se io sono nato in Italia – confessò bevendo un sorso di birra.
- Non mi dire! – gridò quasi Sheila – Ho sempre sognato di andare in Italia! Ti invidio tantissimo! –
- Città? – domandò uno dei capi redattori.
- Venezia –
Sheila sorrideva a più non posso. Adesso si che sembrava interessata a lui.
- Ricordi qualche parola, o qualche canzone? –
- Quando ero piccolo, mia madre cantava sempre una canzone che si chiama “Volare” –
- Ti prego, cantacela! – lo pregò Sheila.
- Conosco una persona che potrebbe pronunciarla con meno difficoltà di me... – ammise, giocherellando con il bicchiere. Eccola tornata a far capolino nei suoi pensieri.
- Ohoh! Qui qualcuno è innamorato! – trillò l’editore dandogli una pacca sulla schiena.
- Già... – concluse, bevendo un lungo sorso di birra.
- Il tuo ultimo libro ha venduto tantissimo…non mi stupisce il fatto che tu abbia una Porche – cambiò discorso un altro. Era evidente che aveva capito che lo scrittore non era intenzionato ad entrare in quel campo.
- La Porche è un ricordo di mio padre, in realtà – sorrisino. Vide chiaramente una donna intenta a fissarlo con la coda dell’occhio.
- Non ha paura che possano rubargliela? –
- Un modello simile non si vede molto in giro – ridacchiò. Si voltò verso la ragazza di prima. Non appena i loro sguardi si incrociarono, lei arrossì, distogliendo immediatamente il proprio. Ecco, Sheila era veramente l’unica incapace di cedere al suo sorriso, a quanto pareva.

- Dove sono le pubblicità? – domandò Joe mezz’ora dopo esser entrato in ufficio.
- Sono appena arrivate, ci sto lavorando – sbuffai infastidita. Non riuscivo più a concentrarmi. Stavo organizzando nel modo più economico possibile i miei viaggi, dall’America all’Italia e in seguito dall’Italia verso l’Inghilterra. Avevo optato per rimanere un massimo di tre giorni nella mia vecchia casa, per andare a trovare papà, mio fratello e Andrea. Dopo sarei passata alle serre dov’ero cresciuta e sarei tornata a casa nostra, magari per dare una sistemata, sempre che non fosse stata affittata a nessuno. Volevo rivedere i miei libri, prendere qualcosa che avevo dimenticato, carezzare i muri dove c’erano ancora i segni dei quadri che avevo appeso e che poi avevo portato via con me, buttarmi sul letto dove avevo dormito ogni notte e dove avevo passato pomeriggi interi a parlare con le mie amiche, mettendoci lo smalto. Pensavo anche di rivisitare qualche vecchia conoscenza con la quale avevo ancora contatti, qualche vecchio compagno di scuola.  
Avevo paura che tre giorni non bastassero, ma non potevo trattenermi di più, perché oltre che rivedere al più presto papà, volevo anche al più presto passare giorno e notte con mamma per almeno un paio di giorni.
- Perchè non sei voluta venire a casa mia? - chiese mentre sistemavo le ultime pagine.
- Come scusa? - chiesi distratta.
- Ieri sera. Non sei venuta – ripetè alzandosi e venendo a sedermi alla sedia davanti la mia scrivania.
- Arriva al punto. - mi alzai ed andai con la lavagna elettronica verso la finestra. Ormai era un'abitudine quella di non volerlo troppo vicino. Probabilmente era sbagliato, perchè adesso ci conoscevamo più a fondo, avevamo stretto un rapporto decisamente intimo, quindi il mio comportamento non era neanche lontanamente giustificato.
Le veneziane si mossero, facendoci calare in un silenzio profondo per qualche secondo. Joe non abbassava quasi mai le tende ed era chiaro che tutto l'ufficio avesse sentito quel rumore, quando li aveva separati dal resto dell'ufficio, facendoli incuriosire e preoccupare allo stesso tempo per un minuto o poco meno.
- Irene, entrambi abbiamo bisogno l'una dell'altro. Dopo tutto quello che è successo, tu continui ad evitarmi, specialmente quando siamo in ufficio. Voglio sapere se c'è qualcosa che ti ferma dall'aprirti veramente – mi accigliai e lo guardai. Perchè adesso se ne usciva con discorsi simili? Parlava proprio lui di fiducia, quando non si era preso neanche la briga di andare al battesimo di suo figlio, nonostante lo avesse promesso? Doveva aver intercettato i miei pensieri, anche perchè ero più che sicura che avessi assunto la mia tipica espressione da “senti-chi-parla”.
- Dovresti conoscere la differenza tra casa e ufficio, Joe -
- Differenza? -
- Adesso noi siamo colleghi. Nella nostra vita privata, siamo sempre come dei colleghi. Il nostro rapporto si è fatto un po' più intimo, ultimamente, ma non vedo il motivo per il quale dovrei comportarmi in un modo “diverso” dal normale. -
- Vorresti dire che tu mi eviti solamente perchè siamo in ufficio? - domandò. Non sprecai neanche il fiato per rispondergli. Non aveva afferrato il concetto.
- No, io non ti evito, è solo il mio modo di comportarmi – precisai – Cosa cerchi, cosa vuoi da me? - chiesi in definitiva. Perchè girare intorno all'argomento quando potevamo arrivarci direttamente? Le mie parole sembrarono quasi spiazzarlo ed innervosirlo allo stesso tempo. Non riuscii bene a percepire la sua espressione. Ok, ero stata brusca e forse lui si sentiva quasi come una pezza da piedi usata e poi gettata via. Si, dovevo spiegarmi meglio – Aspetta, mi sei stato di grande aiuto, ci siamo consolati e...distratti – indugiai su quella ultima parola, imbarazzata, perchè era proprio quello che avevamo cercato l'uno nell'altra quella notte: una distrazione – ma adesso è passato ed io non riesco a capire cosa vuoi. Non girare intorno al discorso e arriva dritto al punto. - chiara, niente di più ed io non pretendevo ne più ne meno di altrettanta chiarezza.
- Irene – quando mi chiamava per nome era sempre un brutto segno. Mi venne incontro ma io non mi mossi – Io...ti ho sognato spesso. -
- Ci stai girando intorno – lo ammonii, andando verso la finestra.
- No, il punto è proprio questo. Quella notte ho capito che volevo una situazione stabile, un corpo caldo da cui tornare la sera dopo il lavoro, una persona con cui litigare e scherzare.. -
Non mi mossi, pietrificata. Avevo una vaga idea di dove volesse andare a parare. Stavolta ero caduta in una trappola con tutte le scarpe. Non lo avrei ritenuto che uno scherzo, se non avesse avuto uno sguardo tanto serio.
- Voglio un'altra possibilità, con la vita, con Alexander. - confessò infine.
- Perchè mi stai dicendo questo? -
Rimase in silenzio per qualche istante – Non sono mai stato tipo da relazioni fisse, ma sento che dopo quello che è successo, potrei farcela, veramente. Ho bisogno di te, per riuscirci. -
KABOOM.
No, no, no. È impossibile, fatemi svegliare da un brutto sogno.
“Pensa, pensa ad una risposta ad effetto” mi ripetei più e più volte mentalmente. Candid Camera, ti ho scoperto!
Quando vide che la risposta non arrivava, cominciò a diventare irrequieto.
- Sono stata una distrazione, non mi vuoi veramente – commentai con l'amaro in bocca, un amaro che si stava espandendo piano piano in tutto il mio corpo, soffocando il cuore ed impossessandosi di ogni mio pensiero. Fernando non aveva aspettato che mi schiarissi le idee, non gli avevo dato neanche realmente una risposta. Eppure era partito per l'Inghilterra a condurre un chissà quale giro di affari, la sera stessa in cui me lo aveva chiesto. Probabilmente sarebbe partito anche senza il mio consenso, era impossibile prenotare un volo all'ultimo minuto, specialmente nel periodo prossimo al Natale, quando migliaia e migliaia di persone tornavano dalla loro famiglia.
- Ci piacciamo entrambi, potrebbe andare, potrebbe succedere qualcosa – disse lu, cercando di convincermi.
– È inutile, tu non sei il tipo da avere una donna per volta – mi voltai verso di lui, poggiando la lavagna sulla sua scrivania. Sapevo chiaramente che anche quella sera avrebbe avuto compagnia.
- Cambierò. - era vicino al mio viso.
- Non basta. - volevo un caffè, così mi avviai verso la porta, passandogli dietro – Vado a prendermi un caffè – aprii la porta ed uscii. L'ufficio si zittì una seconda volta e sentii almeno una ventina di sguardi puntati su di me fino a quando scomparii dietro l'angolo per andare alle macchinette, infilando la chiavetta e ordinandolo.
- Irene, tutto ok con il capo? - mi chiese una collega che stava scegliendo qualcosa da mangiare. Non si voltò verso di me, perchè digitò il numero del prodotto sulla tastiera.
- Siete tutti terrorizzati dal playboy a quanto pare – commentai sarcastica, ma senza alcun tono acido.
- La maggior parte, sì. Almeno quella maschile – si voltò verso di me non appena prese la sua merendina. Ridacchiai.
- Voi donne non ne avete paura perchè con quel faccino può farvi tutto ciò che volete – dissi allora, facendo ridere anche la collega. Ci conoscevamo da tempo, si chiamava Jasmine. Solitamente andavamo a prendere sempre una birra appena dopo il lavoro, insieme a lei e a Grace. Era mia amica, oltre che collega, anche se non parlavamo mai di fatti troppo personali, al contrario dell'altra. Pensavo che anche lei avesse un passato non tanto rose e fiori, altrimenti ne avrebbe parlato apertamente.
- Per me è come un VIP. Non mi sono mai neanche avvicinata a lui, i raccomandati non mi vanno a genio – ammise senza troppi giri di parole. Ecco com'era Jasmine. Era arrivata in ufficio, a fare una lavoro che le piaceva con le sue sole forze, di conseguenza odiava a morte i superiori come Joe, perchè avevano amici nei piani più alti.
- Con il caratteraccio che ha, neanche a me piacerebbe conoscerlo – commentai cominciando a bere il mio caffè.
- A proposito, Irene, parliamoci chiaro. Qui in ufficio girano strane voci.. - cominciò. Ecco, non sarei mai voluta arrivare a conversazioni simili. Non c'era cosa che odiavo di più degli impiccioni che non avevano niente da fare se non rovinarmi la carriera.
- Quali voci? - chiesi senza guardarla, sorseggiando.
- Pauline ha detto di avervi visto in fila al check-in dell'areoporto- Le abbiamo detto che si sbagliava, ma lei ha avuto una storia con il capo e saprebbe riconoscerlo anche a miglia di distanza. - si, ero nei guai.Non avevo avuto il tempo di dirle di Grace perchè avevo passato praticamente tutto il tempo nella veccchia casa della mia amica o in albergo.
- Possiamo uscire un attimo? - chiesi seria. Un lampo le passò negli occhi e sapevo che aveva capito male – Si tratta di Grace – mi affrettai a precisare. Cambiò espressione immediatamente e annuì.
Uscimmo dall'ufficio, prendemmo l'ascensore e ci avviammo verso l'uscita. Una volta fuori, la feci sedere su una delle panchine e poi mi accomodai a mia volta.
Parole, parole e parole, in contrasto con i sentimenti che vagavano e danzavano sul volto di Jasmine. Mi sentii crudele per non averle parlato prima della fuga e della visita in ospedale che avevo fatto all'ultimo minuto, ma non avevo avuto tempo, non ne avevo avuto neanche per preparare in grandi linee la mia valigia, nel caso in cui avessi avuto il bisogno di fermarmi più a lungo. Nonostante fosse giusto che lei sapesse tutto sulla sua amica, io mi astenni dal parlare della paternità di Joe. Lo odiava già abbastanza e non volevo mettere il carico da dodici. Lei cominciò a piangere, ma in modo dignitoso, mi abbracciò, tremò un tantino, ma non emise neanche il minimo suono, lasciandosi unicamente cullare dal mio affetto e dal mio calore. Capii solo in quel momento cosa intendeva veramente il mio capo con le sue parole: lui aveva sofferto ed ero stata io a consolarlo. Se adesso mi chiedeva ancora di tornare da lui, di cominciare a passare più tempo insieme, probabilmente voleva solo dirmi che aveva bisogno di un punto chiave con cui sfogarsi, una persona da abbracciare nei momenti difficili e da cui tornare a casa quando si è stanchi. Io però non volevo assolutamente questo. Avevo già Norman che mi creava problemi di livello psicologico con le sue proposte e non ne volevo altri, di problemi. Gli avrei risposto in modo conciso, esprimendomi.
E comunque avevo ancora Lui in mente.
Fu in quel momento che decisi. Quando sarei partita dall'Italia per l'Inghilterra, lo avrei cercato e avrei messo in chiaro le cose una volta per tutte, a costo di rovinarmi il Natale.

Note finali____
Eccomi con un nuovo aggiornamento dopo non si sa quanto tempo! La scuola mi sta veramente mettendo in ginocchio quest'anno D:
Com'è andato l'inizio del nuovo anno? Spero bene per tutti, anche se forse è decisamente tardi per chiederlo. A me è partito benissimo a quanto pare, speriamo che continui ad andare sempre meglio, un po' di fortuna serve a tutti diamine! Spero che il capitolo vi sia piaciuto. Ringrazio immensamente chi ha inserito il racconto tra i preferiti, seguiti o da ricordare e prego con tutto il cuore che anche questo vi sia piaciuto. Baci, haki-chan. <3 

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Capitolo 11
*** Cinderella's wit. ***


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Al contrario di come mi aspettavo, Jasmine non mi riempì d’insulti per non averla messa al corrente di ciò che era successo alla nostra amica. Rimase in silenzio, dandosi un contegno, aspettando che i segni del pianto se ne andassero via da soli.
- Ho solo una domanda – disse dopo qualche minuto. Mi voltai verso di lei, in attesa – Perché eri con Joe al suo funerale? –
Dovevo trovare una risposta credibile entro tre, due, uno – Perché hanno avuto una relazione di recente – decisi di non mentire, ma di dichiarare solo la verità in parte.
Lei ne rimase una tantino stupita – Sapevo che Grace puntava in alto, ma uscire con il capo.. – a Jasmine Joe non era mai stato simpatico per via della sua carriera basata solo sulla raccomandazione. Non ci aveva mai lavorato insieme, al contrario di me, quindi se le avessi detto che era più bravo nel lavoro di quanto credesse, probabilmente l’avrebbe preso come un tentativo per coprirgli le spalle. Volevo che lo conoscesse, ma doveva farlo da sé.
Mi passò un lampo per la mente: Joe aveva bisogno di qualcuno da amare e che lo amasse di conseguenza. Che io sapessi, neanche Jasmine era occupata al momento. Stavo organizzando qualcosa di losco, ma sapevo che entrambi avevano bisogno l’uno dell’altra. Lei aveva bisogno di qualcuno estroverso che la facesse aprire, che le facesse di nuovo battere il cuore, mentre lui aveva bisogno di una persona seria e che non cadesse ai suoi piedi all’istante per il suo aspetto.
Mi sentivo meschina per aver pensato cose simili, perché era come se stessi usando la mia amica per togliermi almeno il capo dai piedi, anche se sapevo che alla fine entrambi ne avrebbero goduto, soprattutto lei nell’altro senso, dopo il ricordo della notte che ci avevo passato insieme.
Si sentì un trillo: il mio cercapersone. Alzai lo sguardo verso l’ufficio e vidi chiaramente Joe indicare la mia lavagna con il lavoro incompiuto. Non mi ero neanche resa conto di essermi presa una pausa troppo lunga senza permesso. Tornammo entrambe in ufficio.

- Joe, potresti andarmi a prendere un caffè? – chiesi non appena vidi la mia amica alzarsi e dirigersi verso i distributori.
- Cos’è hai invertito i ruoli? – il suo commento era alquanto seccante, ma aveva ragione, era lui il capo.
- Dai, sono impegnata in una telefonata all’agenzia di viaggi, se perdo la precedenza dovrò aspettare il doppio del tempo… - lo pregai indicando la cornetta.
Sbuffò e andò verso la porta – Quanto zucchero? –
- Uno e mezzo – dissi. Avrei voluto seguire la scena dal mio ufficio ma l’operatore rispose non appena Joe girò l’angolo.

Una fila tremenda. La pausa pranzo era micidiale in ufficio. Avrebbe fatto meglio a salire al piano superiore ed andare a prenderne un po’ dalla caraffa della sala riunioni, ma ormai era lì, tanto valeva rimanere. Alcuni arrivati dopo di lui avevano battuto in ritirata e adesso era rimasto lui ed una donna. Osservò la macchinetta e solo in quel momento si rese conto di non aver mai preso un caffè da quegli affari. Anche al college aveva sempre provveduto Norman ad offrirglielo o a digitare il codice, perché lui era sempre carico di libri e aveva sempre le mani occupate.
La donna incrociò le braccia – Scusi, ha bisogno di una mano? – chiese. Nel suo tono c’era una punta d’ironia che lo infastidì un tantino, ma aveva veramente bisogno di aiuto per capire come funzionasse. Tuttavia, non voleva dargliela vinta.
- Può passare avanti se va di fretta – rispose, voltandosi a guardarla. Rimase un attimo in silenzio nel vederla. Gli sembrava la collega che ogni tanto si fermava a chiacchierare con Irene. Il suo sguardo d’acciaio, con quegli occhi grigi gelati, lo misero un tantino in soggezione.
- Lasci che le spieghi come funzioni – la sua voce era gentile ma lo sguardo cupo, come se si stesse sforzando ad essere gentile – Deve inserire qui le monete, aggiungere o togliere lo zucchero qui e premere li pulsante della bevanda che desidera – spiegò indicandogli passo per passo i pulsanti di cui aveva bisogno.
Joe inserì la chiavetta di Irene, spinse due volte il “+zucchero” e attese che la macchinetta completasse il suo lavoro.
- Non era difficile – disse lei ridacchiando sotto i baffi e Joe non rispose.
Quando la bevanda fu pronta, la donna ruppe di nuovo il silenzio – Posso dirle una cosa? – chiese cortese con un sorrisino che fece rabbrividire l’uomo.
- Dica pure – mantenne un tono autorevole. Non sopportava chi lo derideva.
- E’ incredibile vedere come riesca ad essere altezzoso anche mentre chiede un caffè, dopo esser rimasto per buoni cinque minuti a cercare di capire come funziona questo affare – diretta. Il suo sguardo ed il suo modo di parlare era tutt’altro che amichevole, piuttosto sembrava un modo di deriderlo ancora di più e lei ci stava riuscendo alla perfezione.
- Non stavo cercando di capire come funziona – mentì. Doveva difendere una certa immagine.
- Scusi, non sapevo che la affascinassero anche le macchinette del caffè, oltre alle segretarie – sorrise, con una faccia da schiaffi. Non c’era da stupirsi che fosse un’amica di Irene.
- Posso dirle una cosa? – pose la stessa domanda che lei gli aveva posto poco prima.
- Certo –
- Se lo tenga pure il caffè, offro io – e detto questo si diresse di nuovo verso il suo ufficio con la coda tra le gambe. Come si permetteva a comportarsi così con il suo capo? Tuttavia, mentre camminava, non si accorse di avere un sorriso idiota stampato sul viso.

Rimasi confusa nel vedere lui entrare sorridente, senza il mio caffè, mentre la mia amica tornava alla sua scrivania con un’espressione vittoriosa. Che avessero fatto amicizia così in fretta? Dovevo andare a lavorare in un’agenzia matrimoniale.
Continuai a parlare con l’operatore, finendo di organizzare tutto il viaggio, per poi riattaccare.
- Dov’è il mio caffè? – chiesi aprendo le braccia e guardandolo.
Lui sembrò risvegliarsi da un sonno profondo, voltandosi verso di me leggermente confuso. Ci mise qualche secondo a riorganizzare i suoi pensieri.
- Oh – esordì cercando nella tasca della sua giacca e tirandomi poi la mia chiavetta – L’ho offerto alla tua amica – mi lasciò completamente senza parole.
- Con i miei soldi. – scandii bene le parole, aggrottando le sopracciglia.
- Diamine, costa pochissimo un caffè. – fece come per giustificarsi, alzando gli occhi al cielo.
- Ah, dai dell’avara a me? – commentai – Hai preso la mia chiavetta senza battere ciglio, un gentiluomo me lo avrebbe sicuramente offerto. – conclusa altezzosa.
- Oggi sei peggio di una suocera, Irene –
- E tu sei più strano del solito – dissi facendo la finta tonta, anche se in realtà avevo pianificato tutto io stessa.

                                                                     
***


Era ora di sfidare il mio italiano, non lo parlavo da qualche tempo.
Dovevo inviare un’e-mail ai miei amici e compagni di scuola per organizzare una cena o un pomeriggio insieme, durante la mia piccola vacanza. Ero incerta su alcuni verbi e impiegai il doppio del tempo a scrivere, visto che ogni tanto dovevo controllare bene la tabella sul dizionario che mi ero portata. Avevo previsto una cosa simile, fortunatamente, anche perché al momento della mia partenza non avevo certamente in progetto di ritornare entro un paio di anni. Pensavo di rimanere in America per sempre o di trasferirmi da mia madre in Inghilterra nel caso lei ne avesse bisogno per assistenza, se non fosse potuta venire a vivere da me.
Le famiglie normali non avevano i miei problemi. Ad esempio, tutti i miei amici avevano genitori italiani, erano cresciuti in Italia e si sarebbero fatti una famiglia in Italia, mentre io ero nata e cresciuta lì, per poi fuggire lontano da mio padre, in carcere e da mia madre e mio fratello partiti per l’Inghilterra. La cosa più bella della famiglia è la consapevolezza di avere intorno le persone che ti conoscono meglio, che ti consolano, ti puniscono e ti amano come nessun altro potrebbe fare. Ti da il calore che nessun fidanzato può donarti.
Per me non era stato possibile rimanere con loro e di conseguenza mi sentivo sola come un cane, o almeno mi ero sentita così fino a quando non avevo conosciuto Angelina.
Ci incontrammo sulle scale del mio nuovo condominio, con una mia caduta rovinosa per aver preso male uno scalino. Lei mi aiutò a rialzarmi, spostando il cumulo di valige e scatoloni dove custodivo tutte le cose che mi ero portata via dall’Italia. Per abitudine mi scusai in italiano e lei mi rispose con la mia stessa lingua. Così ogni tanto quando ci incontravamo, mi tenevo allenata con la mia lingua madre. Lei adorava sentire mentre le cantavo delle canzoni in italiano. Conoscevo a memoria quelle più famose, come Volare di Domenico Modugno e ogni tanto andavo avanti anche con Adriano Celentano o Mina, Patty Pravo o Rino Gaetano, passando poi talvolta a stornelli, l’Inno di Mameli e talvolta anche sigle di cartoni animati. Non cantavo mai canzoni recenti perché ad Angelina piacevano molto quelle di un certo periodo, anche se andava matta per Modugno. Con lei avevo imparato La tuta blu che io stessa non avevo mai sentito. Mi raccontava che suo marito ai tempi in cui lei andava al liceo era un benzinaio e l’avevano ribattezzata come loro canzone, perché rispecchiava molto il loro rapporto, anche se poi erano partiti insieme per l’America dopo la nascita dei figli. Una volta mi aveva persino costretto a cantare Volare durante un pranzo con tutti i suoi amici e parenti. Quando avevo cantato Meraviglioso, avevo ricevuto un applauso da urlo che mi fece imbarazzare fino alla punta dei capelli. Con i suoi amici e la sua famiglia, avevo sentito di nuovo il calore che non sentivo più dai tempi antecedenti la morte di mio fratello, per questo la ritenevo quasi come una madre.
Finii di scrivere l’e-mail, inserii l’indirizzo e la inviai.
Sgranai gli occhi quando vidi il Suo indirizzo tra le ricevute. Ci misi qualche minuto a realizzare e a decidere se aprire o meno quella posta. Ovviamente la aprii, ma rimasi delusa quando non trovai scritto niente, solamente una pagina bianca. Mi accigliai. Meglio una pagina bianca che un’e-mail indirizzata a qualcun altro, ma il fatto che dopo non ce ne fosse un’altra mi portava a pensare che ci fosse stato un errore. Di conseguenza, mi ero emozionata per nulla.
Sbuffai e cliccai sul tasto di risposta senza troppi ripensamenti.
Cavoli, pensavo volessi dirmi qualcosa invece la tua mail era bianca.
Mi rendo conto solo adesso che forse non saresti dovuto partire, che avrei dovuto fermarti. Mi manca il tuo profumo, mi manca la tua compagnia e mi sento sola. Non so che ora sia da te. Buona notte se sei sveglio e sogni d’oro se stai dormendo.
Irene.

Rileggendo ciò che avevo scritto, mi resi conto di somigliare ad un’adolescente frustrata che richiede attenzioni dal suo ex ragazzo. Non avevo certo intenzione di spedirla, figuriamoci se avessi voluto dare quell’idea di me stessa.
Suonarono alla porta.
- Ciao Irene – mi salutò Magda, la figlia della mia vicina. Sorrisi divertita: Magda, dodici anni, diceva che era in grado di leggerti il futuro con le carte e ogni tanto si presentava da me durante la serata per mettermi paura con le sue predizioni spaventose. Una volta mi aveva persino detto che avrei perso un orecchio a causa di un fantasma dispettoso. Ovviamente non era successo.
- Giochiamo? – trillò con il mazzo di carte in mano.
- Veramente devo preparare le valigie – dissi rendendomi conto solo in quel momento di quanto avessi da fare, invece di scrivere e-mail di risposta che non avrei mai inviato. Lei mise il broncio, era tenera, ma non potevo fare altrimenti.
- Sarà per quando ritorno dalle vacanze, va bene? – lei annuì, senza togliere il broncio, per poi fare retromarcia e tornare nel suo appartamento. Trottai verso la camera, andando verso il portatile, premendo “invio” e chiudendo il PC, mettendomi poi a fare le valigie.

- Sono a casa! – strillò.
- La prossima volta avverti quando torni tardi dall’ufficio.. – si lamentò la donna, intenta a preparare la cena per il figlio appena rientrato.
- Oggi mi ha mandato una mail di conferma Irene, ha detto che prima vuole andare a trovare papà – si accigliò l’uomo, sedendosi al tavolino della cucina in attesa della cena.
La donna si bloccò all’istante, battendo il cucchiaio sull’acciaio – Perché sta tornando in Italia? – chiese senza voltarsi.
- Penso che abbia riflettuto un po’, dopotutto papà ha sempre chiesto di lei, sarà contento di ricevere una sua visita.. – commentò, mentre la mamma riprendeva a cucinare.
- Dopo quello che le ha fatto…l’ha perdonato in fretta –
- Forse qualcuno le ha fatto cambiare idea. Ma non sei felice?  Le hai sempre detto di tornare almeno una volta da lui. –
- Sì, ma qualcosa non quadra. Deve esserle successo qualcosa –
- Avrà trovato un fidanzato – fece spallucce, mentre il piatto di spaghetti gli veniva servito sotto gli occhi.
- Chissà. Sia tu che tua sorella avete deciso di fidanzarvi..sarà una sorta di legame psicologico. –
- Già..a proposito, hai riflettuto su quella proposta che ti abbiamo fatto, io e Samantha? –
- Non voglio mettermi tra voi due. –
- Mamma, tu non sei un peso – commentò con un sorriso il ragazzo, con le labbra completamente sporche di sugo – Sei sicura di quello che vuoi fare? – domandò poi immediatamente serio.
La donna aveva sorriso per un momento, vedendolo con la bocca sporca, come quando era bambino, ma poi si fece immediatamente triste – Ho deciso. Mi spiace lasciarvi, ma non posso stare lontano da vostro padre. Quando uscirà dalla prigione, avrà bisogno di qualcuno che lo ami ed io sarò lì. Voglio che voi abbiate un punto di riferimento da cui tornare. Riaprirò la serra e ricomincerò da capo. –

Un brivido mi passò su tutta la schiena. Mi alzai in piedi, guardando fuori verso la città: stava cominciando a nevicare. Una neve sottile che non avrebbe avuto neanche il tempo di arpionarsi al terreno. Tuttavia, mi rallegrò e mi scaldò il cuore. New York è irresistibile con la neve, anche se non l’avevo mai vista nel momento più bello, perché passavo le vacanze in Inghilterra da mia madre e da mio fratello. Riuscivo sempre a vederla quando le giornate cominciavano a riscaldarsi di nuovo, sciogliendola nel giro di una settimana.
Ripresi a piegare i vestiti con attenzione, cercando di dedicarci più tempo possibile. La solitudine mi uccideva, visto che ormai ero troppo abituata alla presenza di altre persone in casa. Anche con tutta l’intenzione, finii presto di piegare tutto ciò che dovevo portare, perché il mio guardaroba invernale era relativamente stretto e comunque sarei stata via solo due settimane e mezzo.
Squillò il telefono e andai a rispondere con calma, tanto che alzai il ricevitore solo al terzo squillo.
- Pronto? – feci guardando l’orologio. Erano le 22.13.
- Sei sveglia? – riconobbi la voce di Joe dall’altra parte.
- No, sto dormendo –
- Giusto, domanda idiota. - Sentii un clacson sia dalla cornetta, sia sotto il mio condominio.
- Joe, dove sei? – domandai accigliata, dirigendomi verso l’infisso che dava sulla strada. La macchina non era parcheggiata e lui non c’era. Eppure avevo sentito chiaramente il clacson di un’automobile. Sussultai quando mi voltai verso la finestra della camera, ritrovandomelo dall’altra parte del vetro – Devo aspettarmi il mazzo di rose e la limousine qui sotto? – scherzai. Continuavo a parlare tramite telefono, anche se eravamo ad un massimo di quattro metri di distanza e riuscivamo a vederci chiaramente.
- Il fioraio era chiuso e il noleggio è in ferie per le vacanze natalizie – si giustificò sorridendomi, facendomi arrossire e ridacchiare di rimando.
- Perché sei qui? – chiesi senza muovermi.
- Ho dimenticato le chiavi di casa in ufficio. –
- E’ una bugia per farti entrare? –
- Assolutamente no. – sembrava serio. – Posso entrare? –
Mi ricordai solo in quel momento che fuori aveva cominciato a nevicare. Doveva fare freddo. Tuttavia era troppo divertente tenerlo sulle spine – Dammi una buona motivazione – scherzai.
- Dai, sto morendo di freddo… - mi pregò. Attaccai il ricevitore e andai verso la finestra, aprendo e facendolo entrare, congelandomi di conseguenza. Fortunatamente non avevo ancora indossato il pigiama: addosso avevo una tuta pesante ed un felpone gigantesco che usavo ai tempi dell'ultimo anno di liceo.
- Permesso.. - fece mentre metteva l'altra gamba sul pavimento della stanza.
- Mi sembra un po' tardi per chiedere permesso lo canzonai. - commentai mentre chiudevo la finestra. Lui si era messo in piedi e quando mi voltai verso di lui mi sentii improvvisamente piccola, come se la stanza fosse diventata più bassa – Posso offrirti qualcosa? - chiesi cortese, sbrigandomi ad andare in cucina.
- Qualcosa di caldo..un caffè? -
- Va bene – annuii mentre mettevo a bollire il caffè per entrambi, facendo diffondere l'aroma in tutta la casa. Mi voltai verso di lui, fermo immobile vicino al tavolo, grondante – Sei fradicio.. - commentai andandogli incontro e sfilandogli il cappotto. Nell'azione, gli carezzai bene le spalle per controllare che anche la maglietta fosse asciutta. Solo quando sfilai le maniche, facendo scivolare il cappotto lungo la schiena, mi accorsi che lui mi stava osservando. Indugiai un secondo. I nostri visi vicini mi portavano alla mente i ricordi di quella notte, ma era successo solo una volta e non doveva accadere di nuovo. Avrebbe dormito in casa, ma non avremmo fatto nient'altro.
Sfilai definitivamente l'indumento e andai a metterlo vicino al termosifone, appeso all'attaccapanni.
Quando tornai in cucina, il caffè era pronto. Lo servii in un paio di tazzine e glielo offrii.
- Lo zucchero è là – dissi mentre mettevo a bagno la macchinetta – Io ce ne voglio.. -
- Un cucchiaino e mezzo – rispose lui, guardandomi per un interminabile momento, tornando poi al barattolo dello zucchero. Che cosa stava cercando di dimostrare? Nonostante fosse insopportabile a volte, se non petulante, ogni tanto si dimostrava attento e preciso.
Finii presto il mio caffè, osservandolo mentre bevevo. Anche i capelli erano bagnati.
Andai in bagno a prendere il phon e poi lo chiamai nello studio, facendolo sedere sul divano e cominciando ad asciugare i capelli cortissimi e zuppi. Se fosse rimasto la notte da lei, l'indomani avrebbe potuto farsi la doccia tranquillamente.
- Non ce n'è bisogno – mi disse prima che accendessi l'asciuga capelli.
- Prenderai un raffreddore. Non vorrai rovinarti il week-end – lo canzonai accendendo e mettendo l'aria non troppo calda per non ustionargli le orecchie.
Un piacevole calore cominciò a salire nella stanza grazie al phon, facendo rilassare entrambi. Lui chiuse gli occhi e poggiò la fronte sulla mia pancia, sospirando. Era piacevole asciugargli i capelli: erano morbidi, forti e luminosi. Mi piaceva passarci la mano nel mezzo dopo che il getto caldo li aveva scomposti.
Quando spensi l'asciuga capelli, Joe non si separò da me, facendoci rimanere in quella posizione.
Io ero in piedi davanti a lui, che poggiava la fronte sul mio ventre. Mi ricordò molto quando anch’io lo facevo con mia madre, da piccola. Mi faceva tenerezza. Lui cercava amore ed io non ero in grado di donarglielo.
Gli afferrai i capelli, facendogli tirare la testa indietro e costringendolo a guardarmi dritto negli occhi – Vado a riposarlo – dissi, spostandomi ed andando in bagno, riposando l'elettrodomestico al suo posto nell'armadietto sotto il lavandino.
Quando tornai nello studio, vidi che Joe non si era mosso da come lo avevo lasciato.
- Posso offrirti qualcos'altro? - domandai. Magari aveva fame.
- Sono apposto, grazie. - rispose alzando lo sguardo.
- Aiutami a sistemare il divano – feci prendendogli la mano e strattonandolo un tantino per farlo alzare. Lui, docilmente, obbedì.
Nel giro di cinque minuti il letto era aperto e pronto per dormire, con tanto di cuscini e coperte pesanti. - Grazie dell'aiuto – feci guardandolo. Lui era dall'altra parte.
- Ti lascio un po' di privacy per metterti comodo. Vado a lavarmi i denti. - ero un po' agitata, tanto che la voce mi tremò un tantino.
Mi avviai verso il bagno, cercando di impiegarci più tempo possibile, di modo da evitare scene imbarazzanti con lui in mutande o simili. Anche se eravamo stati insieme per una notte, non avevo visto il suo corpo, ero troppo impegnata per fermarmi sui dettagli. Vederlo in intimo sarebbe stato un colpo tremendo ai miei poveri ormoni.
Quando uscii, la luce nello studio era già spenta. Mi affacciai appena dalla soglia: la luce dei lampioni permetteva di distinguere i contorni rigonfi delle coperte.
- Ehi – mi chiamò.
- Si? -
- Buona notte – sussurrò con calore, facendomi rabbrividire per l'ennesima volta.
Non so cosa mi spinse, forse proprio quella sensazione di calore momentanea, forse quel corpo freddo che non aveva gridato altro che solitudine per tutto il tempo che mi era stato vicino, qualunque cosa fosse, andai verso di lui, poggiando un ginocchio sul materasso, facendolo cigolare e posai dopo uno o due secondi di indugio le labbra sulla sua guancia.
- Sogni d'oro – sussurrai a mia volta nel suo orecchio. Vidi i suoi occhi spalancarsi e i muscoli irrigidirsi. Mi stavo spingendo oltre e ne ero perfettamente al corrente. E non feci niente per regolarmi.
- Irene.. - mi chiamò, voltandosi di scatto, prendendomi il polso.
Solo quando sentii il contatto con le sue dita fredde, mi resi conto di quel che stavo facendo. Stava accadendo di nuovo. Durante il tempo in cui mi era stato vicino, la tensione tra di noi si era ingigantita e adesso non aspettava altro che uno sfogo, un qualsiasi sfogo.
Cercai di tirarmi via, ma lui ormai mi aveva afferrato forte e non aveva intenzione di lasciarmi andare.
- No, aspetta. Non possiamo – blaterai, mentre lui mi abbracciava ed io arrossivo come una ragazzina – No..Joe... - pigolai di nuovo.
- Andrà tutto bene... - sussurrò nel mio orecchio, lussurioso. I miei sensi si accesero, come quella notte, facendomi bruciare dappertutto, ovunque lui toccasse.
- Fermo...Lo sai che non accetterò la tua richiesta  neanche dopo questo – lo attaccai, senza smettere di rabbrividire.
- Lo so, ma stasera lascia a me il compito di amarti – e quello fu il colpo finale, il colpo di grazia che mi fece cadere in un buco nero senza uscita. Mi stavo mettendo nei guai con le mie stesse mani e non mi stavo opponendo come avrei dovuto fare, come la me stessa di qualche mese prima avrebbe fatto, come la me stessa che in quel momento, se non fosse stato per un misero capriccio, sarebbe potuta stare insieme all'uomo che avesse desiderato di più al mondo da quando il suo cuore era chiuso, l'uomo che adesso era in Inghilterra e che io non avevo fermato.
Fu così che ricominciò quella strana danza. Joe mi aveva portato sotto di lui, arrotolandomi senza volerlo tra le coperte. Al contrario della volta precedente, cominciò a baciarmi immediatamente, con foga, passione e trasporto. Mi abbandonai all'istante alle sue attenzioni, liberando un gemito voluto e desiderato.
- Proprio così – commentò Joe, mentre mi faceva sedere sul suo inguine e mi torturava la pelle tra le clavicole, mordendola piano, facendomi ansimare e mugolare senza controllo.
Non mi limitai a subire come un pezzo di legno, stavolta. Partecipai, mi lasciai andare tra le sue braccia.
Nonostante fosse solo la seconda volta, evitò di farmi girare di schiena, come se sapesse che quelle erano le cose che odiavo di più. Mi piaceva vederlo in viso, scavargli dentro lo sguardo, passare le mani fra i suoi capelli e baciarlo quando mi sentivo di farlo.
Andò avanti così fino a tarda notte. Penso di essermi addormentata per prima, perché nel dormiveglia sentivo chiaramente le sue mani carezzarmi la schiena.
Se durante il mio fidanzamento con Andrea fossero arrivati DOC e Martin McFly dicendomi a chiare lettere che fra qualche anno sarei andata a letto con il mio capo per ben due volte, nonostante amassi un altro, non gli avrei mai creduto, perché avevo dei seri principi.
La morte di Grace e la solitudine si erano portate via con facilità estrema, rubandomeli, senza nemmeno chiedermi il permesso tutti i miei ideali.
Mi chiedo se Cenerentola, mentre aspettava il principe azzurro, avesse mai sognato di vivere con il contadino che abitava nel suo stesso paese, in una casa normale, con dei figli che adoravano rigirarsi nel fango e fare la rissa con gli altri bambini.
Tuttavia, c’era una differenza tra di noi: Cenerentola era stata furba. Aveva lasciato la scarpetta per le scale del castello, come se sapesse che il Principe sarebbe venuta a cercarla. Io non l’avevo fatto. Piuttosto che lasciare la scarpetta, avevo fatto attenzione a non lasciare tracce, preso un biglietto di sola andata per l’Alaska e stabilita lì, pur di non fargli capire che la donna dei suoi sogni ero io.

Note Finali___
Sono tornata! Ho concluso questo capitolo a mezzanotte in punto *si applaude da sola*
Ho deciso di variare un po’, raccontando del passato, inserendo spezzoni che non siano in prima persona. Ecco che si definisce Jasmine, l’amica di Grace e Irene. Lei ha un caratterino bello tosto e mi sono divertita molto a darle vita. Ho in programma di dedicarle almeno metà di un prossimo capitolo. Siamo arrivati quasi al centro della storia, non abbandonatemi!
Ci tengo a precisare che quando Joe parla di amare, intende più nel senso pratico della parola: non amare come sentimento, piuttosto amare nel senso di fare l’amore.
Un po’ mi sento triste, perché la fine si sta avvicinando sempre più in fretta! ç___ç
Ringrazio chi ha inserito la storia tra le preferite, seguite o ricordate e chi ha recensito, chi mi segue e chi legge. Baci, haki-chan

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Capitolo 12
*** Alone. ***



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Un bacio umido mi risvegliò dal sonno, facendomi mugugnare.
- Buongiorno – mi salutò Joe, carezzandomi una guancia. Aprii gli occhi. La camera era nella penombra, così i miei occhi si abituarono subito all’ambiente. Sorrideva e gli occhi erano luminosi, come se avesse raggiunto la pace divina.
- Buongiorno – mugugnai. Aveva indosso la maglietta e i pantaloni della sera precedente e sentivo nell’aria l’odore dei miei prodotti per il bagno. Doveva essersi lavato. Appena realizzai il motivo per il quale si trovasse nella mia camera, sentii l’amarezza in bocca, misto ad una forte sensazione di tranquillità e pace.
Lui comprese la mia espressione e sorrise apertamente – Voglio svegliarmi in questo modo tutte le mattine – sussurrò al mio orecchio, continuando a carezzarmi.
Mi rabbuiai – Sai benissimo che non tornerò sulla mia decisione – mormorai, sbadigliando e mettendomi a sedere, tirandomi il lenzuolo addosso, contro il petto, guardandolo.
Joe si era asserito, ma non faceva trapelare le proprie emozioni, così non capii cosa stesse pensando realmente in quel momento. Appena mi vide tirarmi contro le lenzuola, sorrise.
- Cos’hai tanto da ridere, stamattina? – chiesi divertita. Non potevo farci niente, mi sentivo bene.
- Sto ripensando a stanotte. Sei un tipo estremamente strano, a letto – commentò ridacchiando.
Arrossii: quegli argomenti non erano di certo il mio forte – Come mai, grande esperto? – domandai tra i denti, assottigliando gli occhi.
Mi carezzò il centro della schiena procurandomi dei brividi ed incrociò lo sguardo con il mio – Sei l’unica finora che non ama stare sopra – ridacchiò di nuovo.
- È così sbagliato? – chiesi al culmine dell’imbarazzo, scansandomi dalla sua mano per fargli smettere di farmi venire i brividi, posizionandomi in ginocchio davanti a lui, ovviamente coperta dal lenzuolo.
- No, assolutamente. Può significare che tu sia una passiva fino al midollo oppure che tu sia alle prime armi e hai paura che possa far male – concluse alzando le spalle.
M’irritò – Non sono passiva. Sono solo dell’idea che l’uomo debba stare sopra – mi giustificai, tralasciando il fatto che la seconda ipotesi non era poi così errata.
- Tornerai da lui, a Natale? – mi spiazzò, cambiando argomento all’improvviso.
- Penso di sì – ammisi, inquieta. Dove voleva andare a parare?
- Mi chiedo cosa proverai, quando lui verrà qui e sentirai il ricordo di questa notte, tra queste lenzuola. Quando ricorderai la mia voce, quando ricorderai il mio profumo, le mie dita… - era serio.
Abbassai lo sguardo. Ero effettivamente la donna più stupida dell’intero pianeta. Avevo ceduto alla voglia, mentre l’uomo che credevo d’amare così tanto era dall’altra parte del mondo, essendo esattamente cosciente che per le vacanze natalizie sarei andata nella sua stessa nazione.
Mi sentii sporca dentro. Rabbrividii. Dicevo di non amare Joe, ma avevo dei principi che non mi avrebbero mai permesso di andare a letto con lui senza una giustificazione. Adesso ero certa che in realtà non era vero che non provassi nulla.
- Vado a preparare la colazione, così puoi vestirti tranquillamente – mi carezzò la nuca, lasciandomi un bacio sulla fronte, andando poi verso la cucina, chiudendosi la porta alle spalle.
Mi lasciai andare sul materasso con un sospiro. Come sempre, mi ero messa in un problema grande il doppio di quanto avrei potuto controllare.
Mi alzai. Avrei pensato al problema sull'aereo con tutta la calma possibile.
 
Lavata, pulita e vestita, andai nella cucina.
Rabbrividii – Che freddo – mormorai alzando il livello dei termosifoni che si erano accesi automaticamente. Joe era in piedi davanti alla finestra che dava sulla...Sussultai. Corsi verso il vetro, con gli occhi lucidi. Little Italy, la piccola Little Italy, era completamente sommersa di neve.
Emisi dei gridolini eccitati, portando le mani a coprirmi la bocca. Quella piccola parte di strada, imbiancata, mi fece ritornare all'età di sei anni, quando vidi per la prima ed ultima volta la neve nel mio paese – Non la ricordavo tanto bella – sussurrai attaccandomi al vetro con le mani.
Lui giocherellava con i miei capelli. Lo vedevo sorridere nel riflesso – Non ce n'è ancora abbastanza per costruire un pupazzo, ma se continua così, forse nel tardo pomeriggio riusciremo a costruirne uno – mi sussurrò all'orecchio, mescolando i nostri profumi uguali, che arrivarono direttamente nelle mie narici, facendomi sospirare piano.
- Cosa c'è per colazione? - chiesi voltandomi e andando verso la caraffa del caffè. Con mio grande dispiacere, invece della mia adorata carica mattutina, c'era una brodaglia marrone fatta più d'acqua che di qualunque altra sostanza  – Joe, non si fa così – lo canzonai indicando quel che aveva preparato.
Lui mi guardò interrogativo – Ricorda che io sono Newyorkese, non italiano – sorrise ancora.
- Hai mai bevuto un cappuccino? - domandai divertita, prendendo il latte dal frigorifero.
- No, odio il latte con il caffè – rispose.
- Te lo preparo io, un cappuccino. Impazzirai, è buonissimo – trillai mettendo a scaldare l'occorrente e del nuovo caffè.
- Io sono già pazzo – sussurrò senza spostarsi dalla finestra, guardandomi intensamente.
Mi accorsi solo in un secondo momento, di aver trattenuto il respiro.
 
- Tu sei pazzo, Lombardi – sbottò l'editore, dietro alla sua scrivania.
- Ho un assoluto bisogno di partire per l'America. Non c'è alcun modo di rimandare la conferenza? - domandò stremato ed inquieto.
Il giorno precedente, aveva ricevuto una Sua e-mail. Aveva aperto la posta con noncuranza, aspettandosi le solite congratulazioni da parte di autori che conosceva o lettere da parte di suoi fan. Invece, aveva trovato una mail con la Sua firma.
Era scattato sulla sedia, dopo averla riletta miliardi e miliardi di volte. Imprecò contro la tecnologia per non avere la possibilità di sentire il suo profumo sulla carta, come succedeva con le lettere comuni in cartaceo, di non poter passare le dita sull'inchiostro per sentire il tocco delle sue dita sulla penna.
Sarebbe partito subito e stava per prendere l'aereo, se all'aeroporto non avesse incontrato per una disgraziata casualità il suo editore. Non ci era voluto molto a capire il motivo per il quale si trovasse lì, con una valigia e un biglietto di sola andata in mano.
Così era strato costretto a rimanere a Londra, volente o nolente.
Durante quella settimana aveva una conferenza ed un colloquio molto importante con una casa editrice di rilievo in diversi stati europei e gli era stato rigorosamente proibito di partire. Come ultima possibilità, adesso si ritrovava a pregare letteralmente il suo supervisore, nell'ufficio di quest'ultimo.
- No. Stiamo discutendo da due mesi su questa possibilità. Mi hai fatto arrivare fino a New York per convincerti a venire qui e a preparare la bozza del tuo nuovo libro. È il tuo momento, non puoi rinunciare e se vuoi farlo, sono comunque io a proibirtelo, Lombardi. È fuori discussione, mettiti l'anima in pace. - il giudice emise la sua sentenza con decisione e con un tono che non ammetteva repliche, bloccandolo in città, lasciandolo in preda alla depressione più nera.
Aveva provato almeno un paio di volte a fuggire, chiamando diverse compagnie aeree, ma all'entrata del lussuoso condominio, del quale gli era stato concesso un appartamento, e da tutte le uscite secondarie erano stati posti dei controllori, ovvero uomini della sicurezza che si assicuravano che non scappasse via. E così era stato.
Impalato davanti al computer, incapace di formulare una frase di senso compiuto come uno scolaretto, decise di inviare semplicemente una mail bianca, senza testo, solo per farle capire di averla pensata.
Si chiese se l'e-mail fosse arrivata per sbaglio, ma lo credeva a dir poco impossibile. Era troppo carica di sentimenti per esser stata scritta per sbaglio.
 
- Sono pazzo del tuo profumo, del tuo sorriso, dei tuoi occhi, dei tuoi capelli, del tuo modo di camminare, di parlare, del modo in cui prendi la matita fra le dita, del modo in cui arrossisci, del modo in cui reagisci per ogni mio tocco, del tuo sapore...Tu mi hai reso pazzo. Mi piaci veramente tanto, Irene – disse serio, ancora poggiato alla finestra.
Sembrava quasi che stesse sferrando un attacco contro il suo nemico, dimostrando che lui era il più forte in ogni caso.
Ripresi a respirare e mi voltai verso il latte che aveva preso a bollire, gorgogliante – Joe, non puoi venire a sparare sentenze. Non ora – feci stufa, massaggiandomi le palpebre.
- Perché? - chiese.
- Perché mi hai sempre fatto capire di desiderare solo il mio corpo, un mese dopo del mio arrivo. Hai persino fatto una scommessa con Norman. Una persona seria non si diverte a scherzare con i propri amici sui sentimenti degli altri – spiegai senza guardarlo, cominciando a servire il cappuccino, recuperando i biscotti nella credenza.
- È vero, hai ragione, ma dopo quello che è successo ultimamente...sono cambiato. Lo vedi anche tu , lo sai chiaramente che sono cambiato, ma non vuoi ammetterlo. Mi sono dedicato a te con anima e corpo -
Mi chiedevo perché dovessimo discutere di cose simili di mattina, quando non ero ancora nel pieno delle mie facoltà mentali.
- Dammi una possibilità. Lascia stare lui e prova a rimanere con me – scossi la testa.
Com'ero cosciente che provavo qualcosa per Joe, ero altrettanto cosciente di amare Fernando. Non potevo rinunciare a lui, non dopo tutti i ragionamenti ed i sacrifici fatti, non prima aver ottenuto dei chiarimenti, di aver pianto e di trovare la forza per accettare un possibile rifiuto.
Suonarono alla porta e ringraziai il cielo. Quando aprii, trovai Norman con il naso rosso, sorridente come un bambino di dieci anni – Vista la neve? - chiese euforico.
- Certo! - risposi con lo stesso tono, spostandomi per farlo entrare. Camminò tranquillo per il corridoio, lasciandomi l'impermeabile, ma lo vidi fermarsi di colpo davanti alla porta della cucina – Joe! - mormorò stupito, portando poi immediatamente lo sguardo su di me. Rimasi senza parole, incapace di capire il modo migliore per spiegargli l'accaduto, ma l'altro parlò per primo.
- Ho dimenticato le chiavi in ufficio e sono venuto qui. Ho dormito sul divano, tutto regolare – lo tranquillizzò con una bugia ed io annuii quando Norman si voltò verso di me per chiedere conferma.
- Stavo facendo il cappuccino – cambiai discorso andando ai fornelli, prendendo un terzo bicchiere – Scommetto che ne hai voglia – lo canzonai sorridendogli.
Lui ricambiò – Certo. Adoro il tuo cappuccino! - commentò gioioso, mettendosi a sedere.
L'arrivo del mio collega alleggerì momentaneamente la colazione.
Visto che fuori continuava a nevicare senza sosta, passammo il resto della mattina a giocare a carte o a giochi da tavola, compreso il Monopoli, dov'ero un vero asso.
Quando arrivò l'ora di pranzo, aprii il frigorifero, cercando di pensare a cosa avrei potuto cucinare.
- Cavoli, ma li hai i soldi per fare la spesa? - chiese Joe canzonandomi, vedendo il frigo molto più vuoto del suo. Mi astenni dal fare paragoni per la presenza di Norman.
- Sei un antipatico. Devo partire per un mese, non ho fatto la spesa ultimamente. Vi cucinerò comunque qualcosa di buono. Intanto andate a vedervi un po' di televisione nello studio e lasciatemi lavorare – ordinai e loro obbedirono, lasciandomi cucinare in pace per i primi venti minuti, prima di rivedermeli entrambi sulla soglia.
- Non danno nulla a quest'ora, solo programmi per casalinghe – si lamentò Joe.
- E a me non piace il football – aggiunse Norman.
- Allora datemi una mano – feci spallucce.
Quando finimmo di preparare, la cucina era in un caos totale (ed il frigorifero fortunatamente vuoto), così decidemmo di mangiare sul letto, come se fossimo al campus i giorni in cui la mensa era chiusa per le vacanze, Ovviamente, la proposta era partita da loro, perché io non avevo frequentato l'università, facendo solo corsi aggiuntivi e concorsi alla fine delle scuole superiori. Quell'ultimo anno passato in Italia era stato un vero inferno ed io ero troppo occupata a rimediare uno stipendio assicurato, più che mettermi a studiare.
Joe era rimasto stupito dalla mia capacità culinaria e ricevere complimenti da parte sua fu una vera e propria vittoria.
- Perché non vediamo un film? - proposi divertita, allungandomi per prendere qualche dvd dal mio raccoglitore.
- Vediamoci un cartone – rispose Joe, sorprendendo sia me che Norman.
Annuii ridacchiando, prendendo Aladdin e mettendo il dvd nel lettore, sistemandomi seduta a terra ai piedi del divano, in mezzo ai miei due ospiti, nel pieno della comodità, lanciando un attimo lo sguardo fuori: non aveva smesso un attimo di nevicare.
Il cartone cominciò e dopo pochi minuti eravamo nel pieno delle risate.
- Il genio, nella mia lingua, ha la voce di un comico molto famoso – commentai dopo un po’, senza un motivo tanto preciso.
- Come si chiama? – chiese curioso Norman.
- Gigi Proietti –
- Perché non ci dici qualche battuta del cartone in italiano? – mi voltai verso i due, in ginocchio, fermando il cartone.
- Vediamo…Regola numero uno: io non ammazzo. Quindi non chiederlo – tradussi poi per fargli capire cosa avevo detto.
- È divertente! – rise Joe, esortandomi a continuare.
Continuarono a chiedermi frasi su frasi e ringraziai il cielo per saper parlare ancora tanto bene la mia lingua.
- Ha smesso di nevicare! – annunciò Norman, indicando la finestra.
Dopo dieci minuti eravamo tutti e tra in strada a tirarsi palle di neve senza pietà. Gli spazzaneve non erano ancora passati, quindi avevamo la strada completamente imbiancata, con bambini che giocherellavano per ogni pizzo, per non parlare poi di fidanzati e gruppi di amici. Un boato di risate si era velocemente innalzato in strada, anche se non eravamo tanti.
Per colpa del ghiaccio, caddi diverse volte a terra e ogni volta chi dei due era più vicino mi aiutava a rialzarmi. La parte più divertente arrivò quando li vidi confabulare, per poi vederli piegati a preparare delle munizioni.
- Noo! – urlai cominciando a scappare, tirando ogni tanto qualche munizione fino ad esaurimento scorte. Allora mi limitai a fuggire, correndo veloce, infilandomi tra un palazzo e l’altro, fino a quando una raffica di neve mi arrivò alla schiena, facendomi cadere in avanti completamente ilare. Per fortuna non avevo portato alcun tipo di occhiali, altrimenti si sarebbero rotti nel giro di qualche secondo.
- Basta! Mi arrendo! – dissi alzando le mani, girandomi a pancia in su.
Joe si inginocchiò vicino a me. Era davvero adorabile con un mio cappello di lana e il naso rosso, per non parlare poi del suo sorriso da far invidia a Brad Pitt in persona. Era sempre stato bello, ma non mi era mai interessata quella parte di lui.
- Mi arrendo – mugugnai e lui rise ancora.
- È troppo divertente sentirti parlare così – commentò, spostandomi i capelli dal viso. Mi misi a sedere – Anche stanotte hai farfugliato qualcosa, o sbaglio? – domandò ed arrossii.
- Stai zitto – ordinai, pulendomi il naso con il guanto.
- Ricordo perfettamente, farfugliavi “sì..” – m’imitò, facendomi rabbrividire.
- Ti sbagli – non mi piaceva emettere versi da far invidia ad una porno star. Joe stava dicendo una bugia.
- Esatto, ma il tuo viso è troppo bello, quando diventa rosso – sussurrò carezzandomi una guancia.
Evitai il suo sguardo, ma lui mi fece voltare il viso, avvicinandosi per baciarmi. Mi ritrassi – Smettila – ordinai alzandomi – Dov’è Norman? – chiesi non vedendolo in giro.
- Ci siamo divisi per trovarti, ma io sono stato più svelto – fece spallucce. Non m’importava se fosse offeso.
- Andiamo, sta ricominciando a nevicare – cominciai a camminare, tornando sotto la mia palazzina. Norman stava in piedi, intento a parlare al cellulare. Joe ci ci raggiunse e rimanemmo entrambi in silenzio, in attesa che terminasse la chiamata.
Quando riappese, sospirò – Il mio capo vuole che vada a fare un servizio su un incidente di Manhattan, devo andare – sembrava alquanto stufo.
- Mi dispiace, stavo andando a preparare la cioccolata calda...Te la farò arrivare in ufficio la prossima settimana -  ci salutammo e lui si allontanò a piedi, visto che con tutta quella neve non si poteva di certo utilizzare la macchina.
Io e Joe rientrammo in casa. Appesi l'impermeabile semi-fradicio vicino al termosifone e poi andai in camera con l'intento di cambiarmi almeno la felpa, troppo infreddolita.
- Se il capo di Norman l'ha chiamato, penso che gli uffici siano pieni – commentò Joe sulla soglia, nonostante avessi socchiuso la porta. Doveva andarsene. Stavo per togliermi la felpa ma rimasi bloccata, tenendola alzata poco più su della cinta dei pantaloni. Eravamo arrivati alla fine. Quando sarei tornata, niente sarebbe stato com'era adesso. Potevo tornare mano nella mano con Fernando, come potevo andare a casa di Joe al mio ritorno, ritrovandolo in dolce compagnia. Non pretendevo che lui mi aspettasse mantenendo la castità per un mese intero.
Vedendo che non mi muovevo, lui venne davanti a me, fissandomi negli occhi, prendendo i lembi della felpa e tirandoli in alto, facendomi alzare le braccia per sfilarla. Avevo distolto lo sguardo, ma sentivo ancora i suoi occhi fissi nei miei – Tu sai che questa è l'ultima volta. Quando tornerai, sarà tutto diverso – sussurrò dando voce alle mie stesse conclusioni – Vuoi davvero che finisca a questo modo? Se tu lo chiedi, potrò darti una vita piena di agi, amore, figli. Sai che mantengo sempre le mie promesse – era convinto, sicuro di sé.
Passai in rassegna i miei sogni da adolescente: con le mie amiche, prima di conoscere Andrea, avevo sempre desiderato un marito bellissimo, passionale e pronto ad amarmi fino alla fine. Dopo l'arrivo del mio primo fidanzato, la mia sicurezza aveva cominciato a vacillare. Lui non era
bellissimo, non era ricco sfondato, ma mi amava.  Allora avevo cominciato a pensare che non avevo bisogno che fosse bellissimo, ma bastava che mi amasse. Poi era arrivato Fernando, che era riuscito a farmi aprire come con Norman non era successo. Lui non mi aveva corteggiata, era passato subito al dunque e io avrei sicuramente accettato se non fosse stato per la foto che mi aveva portato a soluzioni completamente sbagliate. Ci eravamo baciati, ma non eravamo fidanzati. Con lui era venuto tutto in modo completamente naturale, ma non ero sicura che lui mi amasse, poiché era partito, la sera stessa in cui me lo aveva annunciato. Colpo di grazia, era arrivato Joe, il classico modello che avevo in mente nell'adolescenza. Inizialmente, non avevo mai neanche pensato di poter stare con uno come lui.
Il mio primo giorno di lavoro, ero ferma all'entrata dell'ufficio, alla reception e chiedevo in un inglese ancora un po' tirato quale fosse la mia postazione. La segretaria non mi aveva risposto, perché si era aperta la porta ed era entrato lui, figo, fresco di dopobarba, in giacca e cravatta, distogliendo l'attenzione della donna da me. Non avevo neanche pensato per un centesimo di secondo di potermi avvicinare a lui, fino a quando la segretaria non mi aveva indicato l'ufficio dov'era appena entrato, dicendomi che avrei lavorato lì.
Effettivamente, appena entrai, vidi la scrivania vuota alla sinistra di quella di Joe, un po' più distante. Mi presentai e lui mi spiegò cosa dovevo fare. Una settimana dopo avevo capito che era il classico donnaiolo e dopo quindici giorni aveva cominciato con le sue avances, alle quali io avevo coraggiosamente resistito fino a qualche giorno prima.
Riportai il mio sguardo su quello di lui, convinta di ciò che volevo fare.
- Joe, non so cosa troverò in Inghilterra. Non so neanche se Fernando sia fidanzato a meno. Non voglio che tu mi aspetti inutilmente. Abbiamo avuto...passato due notti indimenticabili, ma non me la sento di legarmi a te, non prima di aver scoperto se lui mi ama. - dissi sincera, completamente consapevole che lo stavo usando come seconda scelta, ma non potevo dire altro. In fondo, neanche lui mi amava.
Lui rimase in silenzio qualche istante – È la prima volta in cui ricevo un rifiuto – ammise senza il minimo sarcasmo – Ti rendi conto che in questo modo mi stai offrendo una seconda possibilità? Come posso pensare ad altre se so che potrai tornare da me? Non posso, Irene – era la risposta che mi aspettavo.
- Non pensarlo, allora. Dopotutto, fino ad un mese fa avevi una donna nel letto ogni notte. Puoi pretendere qualunque essere femminile di questa città, non sarà difficile non pensarmi – ero seria, ma non indifferente a quel che stavo dicendo. Sentivo un crampo allo stomaco, ma avevo fatto la mia scelta, sbagliata o giusta che fosse.
- Mi stai buttando tra le braccia di un'altra. Sei davvero sicura di volerlo fare? - avrei dovuto ringraziare Joe per la libertà di scelta che mi stava offrendo.
- Sì, è meglio così – conclusi dopo qualche secondo.
Allora lui stese la mano verso di me ed io la strinsi – È stato bello conoscerti -
Gli sorrisi. Mi baciò la fronte, andando poi verso la cucina, prendendo le sue cose ed uscendo.
E quando oltrepassò la soglia, uscì anche per sempre da quell'intimità che si era creata tra noi. Gli avevo dato una sorta di speranza, di seconda occasione, che non avrebbe mai avuto la possibilità di sfruttare.
Quando si è giovani, non si ha tutta questa difficoltà nel lasciarsi. Un bel giorno, ti alzi, vai a scuola o esci con i tuoi amici, dove c'è lui. Vi interessante, c'è il primo bacio e se il rapporto dura a lungo, anche le prime esperienze sessuali, a meno che non si abbia già avuto un fidanzato in precedenza. Quando si è giovani, è difficile trovare un poi. Le sedicenni dicono “per sempre insieme” ma quel che loro chiamano amore è solo una pellicola che si applicano sugli occhi per non vedere quanto sono libere le persone che non sono fidanzate. Allora cominciano le prime gelosie, le prime litigate per un'occhiata di troppo e i primi pianti. Se la pellicola è abbastanza spessa, la situazione dura a lungo, facendo soffrire entrambi, fino al lasciarsi definitivamente. Il lasciarsi adolescenziale non è uguale a quello che usano due persone adulte. I giovani non subiscono mai delle ferite così profonde, a meno che non siano casi estremamente particolari, mentre le persone adulte hanno una vita dietro di loro. Quando una persona adulta s'innamora, il mondo comincia a ruotare unicamente intorno all'altra. Si comincia ad adattare l'orario lavorativo in modo abbastanza comodo da trovare anche il tempo per uscire, ci si adatta ai difetti. Quando due persone convivono e si sposano, si accettano spontaneamente, perché i pregi di uno corrispondono perfettamente alle cattive abitudini dell'altro. Una persona amata ti riempie le giornate e tutta la vita.
Perdere la persona con la quale convivi, è come subire la morte di un parente, senza che questo sia morto. Se io sapessi che in realtà mio fratello è vivo ed abita a pochi metri da me, senza avere la possibilità di vederlo o sentire la sua voce, calerei nella depressione più assoluta.
In un certo senso, il separarsi dalla persona amata corrisponde a questo, come si sentivano Adamo ed Eva a vedere l'albero proibito all'interno del Giardino dell'Eden, a desiderare i suoi frutti senza avere però la possibilità di mangiarne.
Il mio legame con Joe non si era sviluppato nell'ambito sentimentale, ma solo in quello sessuale. Di conseguenza sapevo che sarebbe passata, anche se mi dispiaceva moltissimo vedere quell'uomo tanto bello e fiero con la testa chinata per un mio volere. Lui che poteva avere una donna che non gli avrebbe scalfito minimamente l'orgoglio, era andato a scegliere la peggiore di tutte.
 
Era rientrato in ufficio, prendendo le chiavi dal primo cassetto della scrivania.
Si mise a sedere sulla sua poltrona, prendendosi la testa fra le mani. Era deluso e divertito allo stesso tempo. Quando aveva visto per la prima volta Irene entrare nel suo ufficio, l'aveva vista come una uguale a tutte le altre. Però con il passare dei giorni, quando aveva cominciato a sbirciale il fondoschiena, rimanendone attratto, ed aveva provato di conseguenza a farle delle avances, lei aveva rinunciato senza il minimo velo d'imbarazzo in volto, anzi: lo guardava come se fosse un verme grosso e appiccicoso.
Allora aveva letto il suo rapporto personale ed era venuto a conoscenza che aveva perso da poco un caro amico. Come se non bastasse, era anche figlia di un mafioso chiamato “Il Fioraio” contro la quale aveva testimoniato al suo processo. Sempre per colpa della Mafia, aveva perso il fratello di due anni più grande di lei ed il ragazzo con la quale era fidanzata da più di un anno.
Aveva capito che sarebbe stato più difficile del previsto avvicinarsela. Poi però, l'aveva vista in compagnia di Grace, una delle ragazze con la quale usciva di tanto in tanto che poi era divenuta la madre di suo figlio e di conseguenza si erano avvicinati, visto che ogni tanto Grace lo invitava a delle uscite a cui lei prendeva parte. Nonostante i suoi pretendenti fossero numerosi, solo lui ed il suo collega Norman erano riusciti ad avvicinarsi più degli altri. Da allora era cominciato una specie di duello tra i due ex compagni di college. Avevano scommesso su chi se la sarebbe portata a letto prima, ma poi l'altro si era innamorato perdutamente, al contrario di lui, che continuava comunque a frequentare altre donne per tenersi allenato a letto.
L'aveva avvicinata molto nel giro di un anno, tanto che a volte uscivano persino per andare a prendere qualcosa per pranzo al fastfood. Proprio nel momento in cui aveva conosciuto bene Irene, l'altra era rimasta incinta. Se l'italiana avesse saputo che il figlio era suo, sarebbe stato tutto tempo perso. E così era stato. L'aveva scoperto tramite un messaggio lasciato in segreteria. Da quel giorno aveva ripreso ad allontanarlo ed ogni tentativo per riavvicinarsi era stato inutile.
Sei mesi prima, era spuntato fuori un altro sconosciuto che era riuscito a far breccia più di quanto lui e Norman insieme fossero riusciti a fare con due anni di tempo.
In quel momento si era accorto di essere geloso. Non l'avrebbe mai pretesa come compagna, ma non voleva neanche vederla tra le braccia di quel novellino appena arrivato e senza volerlo era persino arrivato a ricattarla o a forzarla durante gli orari di lavoro, nonostante non fosse da lui.
Poi era accaduto tutto insieme: Fernando se ne era andato, lui l'aveva ricattata seriamente per la prima volta introducendosi persino in casa sua, Grace era scomparsa, Norman aveva rinunciato alla scommessa perché era stato troppo meschino nei confronti di lei ed aveva preso il primo volo per Ottawa  con Irene e il bambino.
Quando aveva visto la madre di suo figlio sul letto d'ospedale, tanto ridotta male, aveva avuto di abbracciarla, ma poi aveva rinunciato per paura di tirarle via il respiro che le era rimasto. Aveva sempre avuto una paura matta degli ospedali. Ricordava la volta in cui aveva visto suo padre in coma per un incidente d'auto. Quando si era risvegliato, non ricordava più lui, ma solo sua madre. L'aveva accusata di aver avuto un figlio da un altro uomo e aveva cominciato una vita sfrenata, piena di amanti e alcool. Joe voleva bene a suo padre. Quando lo vedeva ogni sera con una donna diversa, quando andava a trovarlo nei fine settimana alterni, era come se finalmente fosse nella pace dei sensi, così aveva cominciato a credere che avere sempre una donna diversa portasse alla felicità. Che senso aveva crearsi una famiglia, se poi uno stupido incidente d'auto poteva rovinare tutto? Vedere Grace in quello stato, nella camera d'ospedale, in compagnia sua e di Alexander, lo aveva portato come indietro nel tempo. Aveva capito che tutta la sua vita era sbagliata, che aveva bisogno di un punto fisso dove tornare ogni sera, dove far tornare suo figlio senza che vedesse ogni volta una donna diversa.
Allora aveva visto in Irene la sua ancora di salvezza.
Lei era lì con lui in quel momento. L'aveva abbracciato e non aveva fatto commenti quando l'aveva abbracciata per sfogare il pianto. La morte l'aveva messo più in contatto con la vita di quanto l'avesse fatto la vita stessa.
Quando l'aveva abbracciato, la notte di ritorno da Ottawa, aveva provato il bisogno di distrarsi e distrarla e le aveva offerto il meglio che sapesse fare, perché la sua vita era incentrata sulla lussuria.
Lei era bella, pura e piena di piccole imperfezioni, ma il solo fatto che quelle imperfezioni fossero sue, la rendeva ancora più perfetta e desiderabile. L'aveva fatta sua più e più volte, fino a quando non era crollato dal sonno, troppo stanco per la giornata appena passata.
Ogni volta, quando  sentiva dentro il desiderio di vederla, lo coglieva una sensazione di inquietudine completamente inaspettata. La sera prima, dopo aver lottato tutto il tempo in ufficio contro il desiderio di abbracciarla e farla sua su quella stessa scrivania, aveva lasciato di proposito le chiavi in ufficio, insieme a tutto il suo orgoglio di uomo donnaiolo qual era. Era corso a casa sua, era salito sulle scale antincendio rischiando almeno un paio di volte di fare un bel volo e l'aveva chiamata.
Era in tuta. Si sentiva sul punto di cedere, ma l’avrebbe spaventata e le avrebbe fatto intendere che avesse cattive intenzioni, così non l’aveva fatto. Aveva aspettato, aveva pazientato e aveva rischiato seriamente di perdere il controllo quando lei gli aveva sfilato il cappotto fradicio, carezzandogli le spalle. In quello stesso momento però aveva ricevuto il permesso di spingersi oltre. L’aveva capito dal modo in cui l’aveva carezzato.
Poi il divano era stato aperto e si era messo a letto, accontentandosi di quel solo gesto. Invece lei, uscita dal bagno, si era chinata su di lui e gli aveva augurato la buona notte. E lui l’aveva tirata a sé e l’aveva fatta sua per la seconda volta. Gli era sembrato che lei avesse accettato la sua presenza, ma non era stato così. Lei era fermamente convinta di dover prima chiarire con Fernando. Le aveva lasciato via libera, ma sperava con tutto sé stesso che sarebbe tornata da lui.
Guardò verso l’ufficio e lo trovò semi-deserto. Con tutta la neve della notte prima, il suo superiore aveva chiamato i reporter per fare dei servizi. Aveva voglia di un caffè, ma la sala riunioni era chiusa, visto che il direttore era andato in ferie per una crociera.
Così fu costretto ad arrivare fino alle macchinette dietro l’angolo per prenderselo.
Appena arrivato, contemplò la macchinetta per qualche secondo, visto che non c’era fila e cominciò a premere i tasti che la donna dell’altra volta gli aveva insegnato.
- Buon giorno – lei apparve, come se i suoi pensieri l’avessero chiamata. Si voltò a guardarla.
- Buon giorno anche a lei – salutò con il caffè in mano. Lei sorrise divertita.
- Sono stata veramente insolente la volta scorsa, mi scusi. Ero agitata –
Joe si voltò a guardarla. Sembrava decisamente in imbarazzo – Non fa niente. È divertente sentire i dipendenti insolenti, una volta tanto – alzò le spalle, cominciando a bere il caffè e facendo una lieve smorfia. Era molto amaro.
- Se fossi arrivata qualche secondo prima, glielo avrei offerto io, il caffè – disse lei dopo un po’ d’esitazione.
- Posso permetterlo – commentò sarcastico, facendola ridacchiare.
- Non pensavo che il capo avesse tanto spirito – gli sorrise di nuovo, mentre prendeva il suo caffè.
- E io non pensavo che questo caffè facesse così schifo – sussurrò con la bocca ancora amara.
- È dei plebei, sa com’è… -
- Credo che farò mettere una piccola cucina in questo angolo solo per il nostro ufficio, almeno tutti potranno bere qualcosa di decente…anche altri reparti ne hanno una -
- Sarebbe una buona idea – lei alzò le spalle indifferente. Era più che evidente che si stesse trattenendo per parlare in modo civile. Dopotutto, non era l’unica a non sopportare i capi reparto raccomandati, era solo una delle tante.
- Sarebbe un buon modo di interagire con tutti i colleghi – rispose allora e lei alzò immediatamente gli occhi, studiandolo. Si allontanò senza neanche salutare.
- Ciao – mugugnò, buttando il bicchierino mezzo pieno nel cestino. Era di nuovo solo.

 
Note Finali___
Ben ritrovati anche stasera con uno dei miei racconti! Questo periodo sto veramente scrivendo come una pazza, accidenti °-° Finalmente spunta fuori il passato di Joe, insieme alla motivazione del suo comportamento verso le donne. Un po’ frastagliato, lo so, scusate ù_ù”
Per tutti quelli che seguono le mie storie: sto convertendo i caratteri al Georgesimo (carattere Georgia) perché ultimamente me ne sono innamorata. Mi piace molto il corsivo e tendo molto ad utilizzarlo mentre scrivo di questo periodo. Quindi, se notate che i capitoli precedenti non sono ancora convertiti (l’ho usato di nuovo *trollface*) non spaventatevi.
A presto, haki-chan

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