Parla con me

di Ciribiricoccola
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La festa dei tuoi occhi appena mi sorridi ***
Capitolo 2: *** La danza regolare di tutti i tuoi respiri su di me ***



Capitolo 1
*** La festa dei tuoi occhi appena mi sorridi ***


parla

Hello again :)!

Ringraziandovi per le continue letture che date alle mie storie a sfondo TH, vi voglio regalare un altro dei miei racconti! Spero che vi piaccia, fatemelo sapere e siate numerosi :) Ancora un grazie e un sincero abbraccio dalla vostra fedele

Ciry

CHAPTER 1: La festa dei tuoi occhi appena mi sorridi

Sophia spalancò gli occhi nella penombra mattutina della stanza ed il suo cervello si mise subito al lavoro: doveva alzarsi dal letto con molta cautela, prendere la sua borsa, i suoi vestiti e rifugiarsi il più velocemente e silenziosamente possibile in bagno, per truccarsi e sperare che il risultato non fosse catastrofico, perché nella sua pochette non aveva lo stesso fondotinta coprente che usava a casa.

Anche se sopraffatta dal senso del dovere, lasciò malvolentieri il letto, non senza prima assicurarsi che lui dormisse ancora della grossa.

Sorrise brevemente, affascinata dal suo viso completamente rilassato, ed i suoi occhi si soffermarono sul torace, quello su cui lei aveva dormito durante la notte, stanca e felice.

Sentendolo sospirare nel sonno, si morse il labbro inferiore e smise di fissarlo per strisciare verso il bagno.

 

Si rimise la biancheria dopo essersi fatta una doccia veloce, poi si vestì, sistemando alla meglio quel vestito che la sera prima le era sembrato bello nella sua elaborata originalità, ma che ora vedeva solo come uno straccetto troppo corto e troppo scomodo.

Illuminata dal neon bianco sopra lo specchio, fece per truccarsi il viso con la cipria, stando ben attenta agli scherzi che la luce non naturale poteva farle: non voleva che lui la vedesse in quello stato, neanche che sospettasse che lei avesse qualcosa che non andava…

 

“No, non truccarti… Per favore…”

 

La sua voce, roca e impastata dal sonno, la spaventò e la fece voltare di scatto: era alla sua destra, appoggiato alla porta, in boxer, e si stava grattando la testa spettinata, sorridendole dolcemente.

Per il sussulto, a Sophia cadde di mano l’astuccio della cipria nel lavandino, e il prodotto uscì dal contenitore, frantumandosi in minuscoli pezzi sulla ceramica bagnata dall’acqua.
Le salirono le lacrime agli occhi quando vide irrimediabilmente distrutto l’unico mezzo a sua disposizione per truccarsi decentemente, così appoggiò immediatamente una mano sulla parte destra del volto per nascondersi agli occhi di Georg.

Il ragazzo le andò incontro, con calma, dicendole: “Non è successo niente, stai tranquilla… Vieni qui, non ti devi preoccupare…”

Con le spalle al muro, Sophia non poté fare altro che sedersi sul bordo della vasca, facendosi piccola piccola, tentando di tutto pur di non farlo avvicinare troppo; il respiro era diventato affannoso e la mano sul viso aveva iniziato a tremare.
Aveva una paura tremenda. Ma non di lui.

Com’era logico, Georg l’aveva raggiunta dopo due passi e si era inginocchiato di fronte alle sue gambe… Riusciva a vedere le prime lacrime scendere dalla gota sinistra.
Con un gesto rapido, senza perderla di vista, afferrò un rotolo di carta igienica che giaceva inutilizzato su un mobile vicino al water e ne usò qualche pezzo per asciugarle l’occhio; lei gli stava davanti, paralizzata, irrigidita e rossa in viso per la vergogna.

“Stanotte ti ho toccato anche il viso… Non te lo ricordi?” fece retorico, sorridendole e passandole sotto l’occhio quegli improvvisati fazzoletti.

Sophia represse un singhiozzo e scosse la testa, abbassando lo sguardo.

“Poi dopo, mentre stavamo dormendo” continuò lui, accarezzandole con un dito la mano con cui  si stava in parte nascondendo “è passata una motocicletta e il rumore del motore mi ha svegliato… Mi sono girato verso di te per vedere se stavi ancora dormendo e… ho visto. C’era poca luce, ma dalla finestra ne era filtrata un po’, per via del lampione qui davanti…”

Seppur esitante, Sophia lasciò cadere lentamente la mano dal viso e permise a Georg di stringergliela.
Lui le sorrise e la baciò sulla fronte, senza fare caso a ciò che lei aveva tentato di sottrarre alla sua vista.

 
Il profilo destro della ragazza era una maschera di cicatrici, macchie, profondi segni irregolari che solo apparentemente sarebbero potuti sembrare simili a quelli di una pelle rovinata dall’acne.
L’angolo esterno del suo occhio appariva leggermente piegato all’ingiù, così come quello della bocca, anche se i danni più evidenti erano presenti dallo zigomo in su, visto anche il diverso colore di pelle rispetto al resto del volto.

 

 

Georg l’aveva notata, la sera prima, in mezzo a molte altre ragazze e fans in quel locale, non tanto per il vestito corto o per l’acconciatura elaborata che, quasi coprendole metà del viso, la rendeva e originale e curiosa…

Era rimasto colpito dal suo modo di chiedergli l’autografo: attraverso un’interprete.

 
“Posso chiederti un autografo?” si era sentito chiedere da una signora sui 40 anni, dal forte accento straniero. Lui, ovviamente, aveva risposto di sì e, davanti al foglio bianco, aveva domandato: “Mi può dire il suo nome?”
Lei gli aveva sorriso, scuotendo la testa, e gli aveva spiegato in un buon tedesco: “Non è per me! È per mia nipote! È seduta a quel tavolo laggiù e… si vergogna!”
A quella risposta, il bassista si era messo a ridere insieme alla donna, lusingato, ed entrambi l’avevano invitata a gesti ad avvicinarsi.

“Ora che sei qui, posso sapere il tuo nome?” le chiese, notando il suo sguardo sorridente ma sperduto.

Per tutta risposta, lei non aveva aperto bocca e, anzi, aveva rivolto un’occhiata implorante a sua zia, che di conseguenza aveva risposto per lei, comprensiva…

“Si chiama Sophia…” gli aveva detto, sorridente e disinvolta.

Aveva fatto quell’autografo senza farsi domande: esistevano tante ragazze come lei, che perdevano la facoltà della parola appena vedevano lui o gli altri ragazzi della band.

Però lei non gli aveva tolto gli occhi di dosso neanche per un momento, né durante il loro breve incontro, né tantomeno dopo, quando sua zia l’aveva riaccompagnata al tavolo per poi sparire poco dopo.

“Questa è davvero troppo timida, magari perché è straniera e non riesce a parlare… o forse sono io…” aveva pensato, perplesso sul da farsi. Alla fine si era deciso ad andare a parlarci, sperando di così di tirarle fuori qualche parola, e anche per non lasciarla sola come un cane, dato che non sembrava avere altri amici o conoscenti con cui parlare nei dintorni.

“Ciao! Posso sedermi o c’è qualcuno qui?” si propose in inglese, sorprendendola non poco. 

Aveva pregato che non cominciasse a urlare come un’isterica.

Sophia gli aveva fatto cenno di accomodarsi con un ampio gesto del braccio, restando con la bocca chiusa sulla cannuccia del suo drink e con gli occhi fissi su di lui, increduli ed euforici.

Vagamente in imbarazzo, il ragazzo aveva così deciso di rompere il ghiaccio, chiedendole: “Sei rimasta sola? Tua zia dov’è finita? Non l’ho più vista!”

Lei, incerta per qualche istante, aveva portato in avanti la schiena, appoggiando il bicchiere sul tavolo e cominciando a gesticolare con le mani, ma si era subito fermata dopo aver notato la faccia perplessa del ragazzo.
Così gli aveva mostrato il palmo della mano per chiedergli di aspettare, e aveva tirato fuori dalla borsa il block notes su cui lui prima le aveva fatto l’autografo, accompagnato da una penna.

“Ma cosa fa? Perché…?” si era chiesto il ragazzo, indagando con lo sguardo la biro che scorreva sul blocchetto.

Quando Sophia glielo aveva mostrato, sopra c’era scritto qualcosa, ma non nella sua lingua, bensì in inglese…

 Mia zia è la padrona del locale, non è potuta restare con me tanto a lungo!

“Ah!” aveva esclamato lui in risposta, spiazzato dal suo strano modo di comunicare “E… Scusa, posso farti una domanda?”
I suoi grandi occhi scuri avevano brillato mentre la sua testa aveva annuito.
“Perché scrivi? Hai paura che non ti capisca? Dài, non me la fai sentire la tua voce?”

Lo sguardo di Sophia si era fatto improvvisamente triste e lui si era sentito un grandissimo stupido: era convinto che lei pensasse che lui volesse prenderla in giro per il fatto di non essere in grado di parlare una lingua straniera.
Poi l’aveva vista riprendere a scrivere sul quel taccuino e il senso di colpa si era acuito più che mai…

La sua risposta lo aveva lasciato letteralmente senza parole.

Mi dispiace. Conosco l’inglese e anche un po’ di tedesco, ma non posso parlare. Sono muta.

 
Era riuscito a capire molte cose in quel momento. E aveva voluto subito rimediare alla propria gigantesca gaffe…

“Scusami!” aveva esclamato, giungendo le mani davanti a quegli occhi delusi “Non ne avevo idea, non ci ho proprio pensato e non ho capito niente! Davvero, non volevo offenderti…”

Non lo stava più ascoltando: si era rimessa a scrivere, svelta e animata.
Dopo pochi secondi, gli aveva mostrato la sua replica, scritta in tutta fretta…

Non sono arrabbiata! È che mi dispiace non poter parlare con te come tra persone normali! Suppongo che tu non conosca il linguaggio dei segni, vero?

Desolato, aveva dovuto risponderle di no, che gliene avevano insegnato le basi alle scuole medie e che se ne era completamente dimenticato da anni. Gli era dispiaciuto non poco non poterla accontentare. Ma in quel momento un’idea per tirarla su gli era venuta, così l’aveva portata fuori da quel caotico locale e avevano continuato a parlare seduti a un tavolo nel cortile, dove c’era meno gente.

Le aveva chiesto il block notes, lei aveva acconsentito titubante, e lui aveva cominciato a scriverci sopra.

Da allora, Sophia non aveva più smesso di sorridere.

 

 

Dopo due ore e mezza, erano ancora lì, a scrivere, annuire, ridere e scambiarsi sguardi complici.
E lei gli aveva parlato del suo problema…

Non sono nata così… intendo, muta…

Hai avuto dei problemi alle corde vocali? Un’operazione andata male?

Più o meno… ho fatto un incidente con la mia auto. Quattro anni fa. Ero appena maggiorenne e avevo preso la patente da poco… Ad un incrocio, un furgone non si è fermato per darmi la precedenza… Il parabrezza è andato in mille pezzi e… uno di questi è finito molto, molto vicino alla mia giugulare.

E’ da allora che non puoi più parlare?

Prima sono finita in ospedale. Non parlavo, ma riuscivo almeno a rantolare. Poi mi hanno operata e… non è andato tutto come previsto. I medici che mi avevano in cura adesso sono ancora sotto processo, ma il danno che ho subito non si può riparare.

Mi dispiace molto, davvero. Non riesco neanche a immaginare come ci si possa sentire a non avere più la voce. Credo che per me sarebbe come… essere senza dita.

Dopo un po’ impari a conviverci, e poi ti rendi conto che il tuo corpo comunica in molti altri modi! Comunque, come cantante non avrei avuto un futuro: ero completamente stonata…

È bello che tu riesca a scherzarci…

Si erano sorrisi: Sophia non era timida, nonostante il suo silenzio forzato.
Georg leggeva le sue parole e la osservava quando riceveva le sue affermazioni; le aveva dato ragione: il corpo poteva comunicare in tanti modi diversi e proprio lei glielo aveva dimostrato, sorridendogli, scrutandolo con gli occhi, a volte anche picchiettandolo scherzosamente sul braccio, se aveva letto una sua battuta che l’aveva fatta ridere.

 

Erano quasi riusciti a finire il block notes quando si erano accorti che si era fatto davvero tardi, erano le due passate.
Georg aveva chiesto a Sophia se per lei non fosse ora di andare a dormire e lei, terribilmente in imbarazzo, gli aveva scritto l’ennesimo biglietto in perfetto inglese...

Sono qui da un paio di giorni e non sono ancora riuscita a dormire granché: mia zia non si fa problemi a portare uomini in casa, così… spesso, mi ritrovo a sentire… insomma, hai capito… Non è che potrei restare con te? Devi tornare subito in albergo?

 
Georg aveva letto il biglietto e aveva esitato: non era solito accogliere ragazze appena conosciute in camera sua, né a casa, né in albergo
.
Aveva conosciuto Sophia per caso, poche ore prima.
Non sapeva quanti anni avesse, né da dove venisse.
Soprattutto, non conosceva le sue vere intenzioni, semmai stesse nascondendo qualcosa; da molte fans ci si poteva aspettare di tutto, quella era una cosa che manager e colleghi gli avevano inculcato in testa da un pezzo.

Davanti alla sua titubanza, Sophia si era vergognata della sua stessa richiesta e aveva frettolosamente tolto di mano il foglio al bassista, per poi accartocciarlo e scuotere freneticamente la testa, come se volesse dirgli di dimenticare una domanda tanto avventata. Si era poi messa le mani sul cuore, come per chiedere scusa.

A quel punto, il ragazzo aveva deciso di fidarsi e le aveva detto: “Non essere stupida, dài, ti ospito volentieri, non mi faranno storie in albergo, te lo prometto…”

Rossa per l’imbarazzo, lei aveva di nuovo scosso la testa, facendogli di nuovo il gesto delle scuse.

“Guarda che non ti considero una sfacciata. Dico sul serio… Dài, vieni con me. Il mio letto è enorme, ho una coperta di riserva se hai freddo e tutti i cuscini che vuoi!”

Gli era sembrata una serie di pretesti buona per invitarla a restare in sua compagnia, ma nel contempo aveva temuto che lei lo credesse un maniaco.
Non era stato così: dopo un po’ di insistenza, aveva ceduto, e si erano diretti all’hotel in taxi.

***

Il titolo di questo capitolo è tratto da "Musica é" (Eros Ramazzotti feat. Andrea Bocelli). Nessuno scopo di lucro.
Stessa cosa per quanto riguarda il titolo della fic, che comunque non ha niente a che vedere con ila canzone di Ramazzotti.

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Capitolo 2
*** La danza regolare di tutti i tuoi respiri su di me ***


parla

Rieccomi! Stavolta sono stata veloce, non potete negarlo :P

Grazie per le numerose letture al primo capitolo :)
Se vorrete lasciarmi un commentino, anche piccolo, anche solo per dirmi quanto è brutta questa FF, ve ne sarò grata e vi risponderò!

Alla prossima FF!

Ciry

CHAPTER 2: La danza regolare di tutti i tuoi respiri su di me

In camera, Georg le aveva prestato una T-Shirt per lei enorme, così che potesse usarla come un pigiama; sopra il letto matrimoniale a gambe incrociate, gli era sembrata  ancora più minuta di quanto non fosse in realtà, ed era rimasto intenerito dalla premura con cui accarezzava il tessuto di quella T-Shirt.

“Se vuoi andare per prima in bagno, fai pure” le aveva detto “Io mi fermerò con i ragazzi qui per un po’ e volevo disfare meglio i bagagli…”
Lei aveva tirato su i pollici con un sorriso ed era sparita dietro la porta dopo aver congiunto le mani in segno di ringraziamento.

Che buffa che era. Era così espressiva e spontanea che ogni suo gesto gli sembrava degno di almeno un sorriso.

 

Dopo essersi cambiata e lavata i denti con l’aiuto dell’indice impiastrato di dentifricio, Sophia era riuscita a togliere con delle salviette umide il trucco dagli occhi, ma aveva deciso di non far fare la stessa fine al fondotinta.

Non gli aveva detto niente.

Non gli aveva detto dei vetri del parabrezza che, scagliati contro il suo viso nell’incidente, ne avevano stravolto i lineamenti.
Non gli aveva detto che non aveva mai potuto permettersi i soldi per un’ulteriore operazione chirurgica, la seconda dopo quella alla gola, esosa e soprattutto fallita.
Non gli aveva detto che il denaro speso per la denuncia contro i medici era stato tanto, forse troppo persino per la sua famiglia, che non era povera, ma neanche miliardaria.

E non avrebbe mai voluto dirgli niente di tutto ciò.

Sarebbe stata attenta: avrebbe dormito con una mano sotto la guancia per non macchiare il cuscino, e lui non si sarebbe accorto di niente.

Si era sciolta i capelli biondi, lasciandoli liberi di invadere il viso, ed era rientrata in camera con la T-Shirt lunga fino a metà coscia e il conseguente imbarazzo… difatti, era praticamente corsa sotto le coperte mentre lui era ancora chino sui propri bagagli.

Ma Georg aveva notato le sue gambe da un pezzo e ci aveva indugiato sopra in diversi momenti durante la serata; così si era ritrovato a sorridere in bagno, ripensando a lei, così vergognosa di tutto.

 

Davanti allo specchio, per un momento, il suo riflesso lo aveva fatto innervosire.

Aveva ripensato a quella che, a tutti gli effetti, era diventata la sua ragazza.
Lo stava aspettando a casa, a Amburgo.
Si fidava ciecamente di lui, era la sua natura.
Era l’opposto di Sophia: mora, con gli occhi verdi, come i suoi, e formosa.
Quando parlavano al telefono e lui lamentava di essere stanco o abbattuto, lei lo tirava sempre su, dandogli mille motivi per pensare positivo.
Era quasi fiabesca, e forse era anche per questo che qualche mese prima ci si era messo insieme.
Gli metteva allegria. E poi era carina, molto carina.

 
“Sei una merda…” si era detto.

 
Nessuna delle due meritava di essere ingannata.

Una ad Amburgo. Gli aveva dato la buonanotte via SMS, perché era ad una festa con delle amiche e la confusione non le aveva permesso di chiamarlo.

E l’altra al di là della porta del bagno. Priva di qualsiasi malizia, ma pur sempre dentro al suo letto e sotto le sue coperte.

Una cosa le accomunava: erano entrambe pazze di lui.
Di lui, Georg.
Non di lui, il bassista dei Tokio Hotel.
Almeno, così sperava.

 

Al suo ritorno, l’aveva trovata ancora sveglia, intenta a rileggere le loro conversazioni sul block notes, gli occhi fissi sulla carta, solo per un attimo alzati per notarlo, e subito riabbassati, dato che anche lui non era molto vestito: era solito dormire solo in boxer, ma in sua presenza aveva aggiunto una maglietta. Non che coprisse proprio tutto, ma era pur sempre meglio che non averla.

 

Non mi hai ancora detto da dove vieni…

Grecia! Patrasso… La conosci?

No! Com’è? Grande?

Sì, abbastanza… ed è sempre piena di turisti, un po’ come qui a Londra!

E tu sei qui in vacanza, con tua zia?

Sono venuta a vedere voi, in realtà… a vedere il concerto! Mia zia si è offerta di ospitarmi, ma lei non c’è quasi mai in casa, anche perché lavorare in quel locale prende gran parte delle sue serate, quasi tutti i giorni…

E ti sei divertita al concerto?

Moltissimo, grazie…

 

Gli aveva sorriso, divertita. E ricambiata.

 

E adesso? Quanto resterai?

Domani sera prendo l’aereo e me ne torno a casa…

Così presto?

 

L’aveva vista sbattere le ciglia, incredula, e poi scrivere mentre era arrossita per l’ennesima volta.

 

Mi dispiace. Sto bene qui, sarei voluta restare un po’ di più…

 

Dopo aver letto, aveva voluto scherzare con lei, anche con l’obiettivo di provocarla un po’…
Anche se una voce, piccola e fastidiosa dentro di lui, gli diceva di non farlo.

“Per qui intendi Londra o la mia stanza?” le aveva chiesto, ridendo.
Ovviamente, Sophia gli aveva tirato un cuscino, fingendosi scandalizzata e scrivendo LONDRA a caratteri cubitali sul blocchetto.
Per tutta risposta, lui aveva ribattuto, fingendosi offeso: “E pensare che ti ho anche ospitata! Bella la tua gratitudine!”

E un altro cuscino era volato: la ragazza piangeva dal troppo ridere ed evitava di guardarlo negli occhi, coprendosi il viso con entrambi le mani. La sua risata non era udibile, ma il suo sorriso era bello, genuino, sinceramente allegro.

Ne era rimasto pressoché stregato. All’improvviso, non aveva più avuto voglia di scherzare ed era ritornato gradualmente serio, come lei.
Aveva sentito una fitta allo stomaco, come un avvertimento, un monito, ma non ci aveva voluto far caso.

 

La prima mossa era arrivata da parte di lei: lo aveva prima abbracciato, poi lo aveva baciato lentamente sull’angolo destro della bocca, gesto che lui aveva immediatamente ricambiato, stringendola più forte a sé…

 

 
Neanche il buio quasi totale aveva permesso ai loro sguardi di separarsi: quelli di Sophia brillavano come due lucciole, e Georg ci si era perso dentro mentre stava sopra di lei, cercando di farla sentire a proprio agio, chiedendole se fosse stata sicura…
Lei aveva annuito, allungando il collo per poterlo baciare di nuovo.

Non un  gemito era uscito dalle sue labbra. E anche lui era rimasto in silenzio, limitandosi ad un grande sospiro al momento della penetrazione.
La sentiva ansimare, questo sì. A ritmo accelerato. E la poca luce arancione che, da un lampione, filtrava nella stanza, illuminava parzialmente il suo viso.

Era stato allora che aveva notato qualcosa.
Insolito, singolare.
L’aveva sfiorata, senza che lei avesse fatto la minima resistenza, presa com’era dal piacere che stava provando.
E allora aveva cominciato ad intuire…
Ma non ci aveva pensato per più di qualche secondo, perché non gli importava.

Profumava di vaniglia, il suo respiro affannoso e lussurioso era pura goduria per le sue orecchie, i suoi occhi erano la fine del mondo.
Era perfetta, non le mancava niente.
Le sue espressioni lo facevano impazzire: ora a occhi chiusi, ora con le iridi puntate nelle sue, si manifestava in una meravigliosa danza dei lineamenti, facendogli capire che era sua, che ne voleva di più, che lo desiderava con tutta l’anima.
Anche se a malapena si conoscevano.
A nessuno dei due importava.

Inconsciamente, erano sicuri soltanto di una cosa: qualunque cosa fosse scattata tra di loro, non era solo sesso.
E dato che dopo quella notte non avrebbero più avuto modo di incontrarsi ancora, tanto valeva sfruttare quel qualcosa al massimo.
Perché era bello, perché li faceva sentire bene, perché sentivano che non avrebbero mai più potuto fare una cosa del genere.

 
Georg aveva poi passato la notte tra il sonno e la veglia, tra i sensi di colpa, l’incredulità e il senso di novità che lo aveva preso alla sprovvista.

Non avrebbe mai dovuto farlo.
Ma non riusciva a rimproverarsi, in fondo.
Anzi, era contento che Sophia dormisse tra le sue braccia.
Fare l’amore con lei.
Aveva pensato, fortemente convinto, che era stato molto meglio che con la sua ragazza.
E non perché ci fosse stato quell’ormai ben noto brivido della consapevolezza di avere un certo ascendente su una fan, una ragazzina che per lui avrebbe smosso il mondo.

No.

Era stato qualcos’altro.
Qualcosa che era partito anche da lui.
Perché altrimenti non avrebbe perso la testa per lei.

Cos’era?

Aveva provato a dormirci  sopra, senza aver ottenuto una risposta.

 

 

 

“Sophia… Non m’importa di com’è la tua faccia” le disse, continuando a stringerla a sé.
Lei si staccò dall’abbraccio e camminò velocemente verso la camera per prendere il block notes; dopodiché, ci scrisse sopra…

Non devi  mentirmi solo perché sono una tua fan e sono venuta a letto con te.

Nel leggere quella frase così fredda, materialista e, soprattutto, inappropriata, il bassista chiuse gli occhi. Sospirò, seccato, ma cercò di mantenere la calma per replicare a dovere.

“Io sono stato in silenzio per tutta la serata, ieri, per comunicare con te…” esordì, puntandole contro l’indice destro, serissimo.
“Abbiamo quasi fuso la penna a furia di scrivere, magari qualcuno ci ha pure scambiati per due perfetti coglioni, però a me non è importato. Perché stavo bene, perché ero con te e mi andavi bene così com’eri. Anche stanotte… ho fatto una cosa che non è da me, perché io non vado in giro per il mondo per portarmi a letto la prima che capita! Ma stanotte c’eri tu… e quando ho visto la tua faccia, non me ne è importato niente, neanche in quel caso. Ho dormito accanto a te! Adesso mi dici come potrei arrivare a mentirti, dopo tutto quello che è successo? A cosa mi servirebbe? Cosa credi? Che ti abbia voluta scopare?”

Sophia lo fulminò con gli occhi lucidi ed incrociò le braccia sotto il seno.

Lui si arrabbiò ancora di più: se solo avesse saputo quanto aveva pensato alla loro situazione, non avrebbe messo il muso.

“Ti chiarisco le idee” continuò, con decisione “Se avessi voluto qualcuno con cui scopare, non sarei venuto a cercare te, e lo sai perché? Perché se avessi voglia di una scopata, mi andrei a cercare qualcosa di un tantino diverso da una fan adorante che non può neanche parlare!!!”

Nello stesso istante in cui finì la frase, ebbe voglia di mordersi la lingua, di staccarsela.
Gli occhi sbarrati di Sophia lo fecero sprofondare dalla vergogna.

“Oh, cazzo…” sibilò immediatamente, con una mano davanti alla bocca.

La ragazza scoppiò in lacrime.
Il suono sordo e innaturale di quella gola muta che non riusciva a produrre nessun tipo di singhiozzo lo distrusse.

“Sophia… Sophia, scusami…” le sussurrò, correndo a inginocchiarsi davanti a lei, che però non voleva saperne di ascoltarlo: lo spinse via per poi raggomitolarsi sul letto, lasciando che la sua schiena sussultasse ad ogni singhiozzo.
Georg si sdraiò subito accanto a lei, abbracciandole il busto nonostante la sua resistenza, e cominciò a parlarle piano all’orecchio, con la voce spezzata da un magone insostenibile…

“Non lo penso. Ti giuro su quello che vuoi che non penso niente di quello che ho detto. Ti prego, perdonami, non fare così… Sei la cosa più scioccante che mi sia potuta capitare nelle ultime 24 ore, ti prego, non posso farti andare via così, non me lo perdonerei mai…”

 

Si calmò.
Si calmarono entrambi nel giro di pochi lunghissimi minuti.
Sophia smise di piangere e si voltò lentamente verso Georg, che nel frattempo non era riuscito, come lei, a trattenere le lacrime: aveva gli occhi gonfi e lo sentiva tirare su con il naso.
Lo fissò, immobile, come se fosse in attesa.
Lasciò che il ragazzo sfiorasse con le dita il suo profilo martoriato. E sospirò, chiudendo gli occhi.
Georg sentì la pelle secca e indurita sotto i polpastrelli; seguì alcune delle tante linee irregolari che solcavano lo zigomo; disegnò un’invisibile linea di confine che separava la parte superiore del viso da quella inferiore, la prima un po’ più arrossata dell’altra.

“Non hai niente che non vada…” affermò a voce bassa, serenamente “Non l’ho mai pensato…”
Sophia si tirò su a sedere e scrisse, per poi mostrare la sua replica con uno sguardo confuso…

Mi sono spaventata. Non mi era mai successa una cosa del genere… E pensavo che a te, invece, capitasse di continuo.

“E’ capitato qualche volta… sì… anzi, piuttosto spesso…” le confessò “Ma non mi era mai successo con una come te. Non mi era mai successo prima di parlare tutta la sera con una ragazza. Di solito…”

Sophia chiuse gli occhi, scosse la testa con un sorriso imbarazzato e lo interruppe mettendo le mani avanti: non voleva sapere.

Mi fido di quel che mi hai detto, va bene così!” gli scrisse.

Georg annuì e tacque con un sorriso, sollevato in un certo senso: a pensarci bene, non voleva parlare delle sue notti brave, non con lei. Di sicuro, ci sarebbe rimasta male. E lui non voleva farla stare male, non un’altra volta.

“Allora… pace fatta?” le chiese, avvicinandosi.

Sophia lo scrutò in volto, seria.
Georg la lasciò fare, ormai abituato e, anzi, compiaciuto dalle sue lunghe occhiate enigmatiche e affascinanti.
Si sorrisero. Lei appoggiò la testa sulla sua spalla e fece schioccare un bacetto a stampo sul suo collo.
Il bassista l’abbracciò, baciandola sulla guancia destra, senza sorridere.

Era già ora di pranzo.

 

 

La vide mangiare con molto appetito, chiedendosi dove sarebbe andato a finire il suo pranzo, vista la sua minuta magrezza.
Pranzarono sulla terrazza della camera, in silenzio.
Lei era serena, lui invece pensieroso.

Al momento del gelato, affermò guardandola negli occhi: “Così stasera te ne vai…”.
Sophia annuì lentamente, con un sorriso triste. Non scrisse niente.
Il bassista sospirò un “Mi dispiace”, che però non la smosse.

Era nervosa.

Dispiace anche a me…

Georg lesse la frase sul tovagliolo di carta e ribatté tutto d’un fiato: “Sai, credo che dovresti sapere una cosa che non ti ho detto…”

Doveva dirglielo. Non ce la faceva più.
Se gli avesse rifilato uno schiaffo, non avrebbe protestato: se lo sarebbe meritato.
Aveva bisogno di dirglielo, di parlargliene, di capire.

 
Lei lo guardava, in attesa, tranquilla, per niente preparata.

“Sophia, io… sono fidanzato…”.

Lo disse con gli occhi abbassati sul tavolo.
Poi trovò il coraggio di alzarli su di lei.

La trovò quasi mistica nella sua immobilità.
Non aveva mosso un muscolo.
La brezza le agitava i capelli, ma il suo viso era il ritratto della fissità.
Le labbra socchiuse, gli occhi che lo penetravano, le mani affusolate rilassate sulla tovaglietta americana.

Cadde nello sconforto, convinto di averla distrutta con quella rivelazione: si prese la testa tra le mani e sbuffò, chiudendo gli occhi.

La sentì scrivere sul tovagliolo.
Lei glielo allungò sotto il naso.

Lo sospettavo. Non devi preoccuparti. Io sto bene.

“Cosa…?” esclamò d’istinto, alzando il capo per tornare a guardarla.
La trovò in piedi, appoggiata con i fianchi alla balaustra. Gli sorrideva, le braccia incrociate sotto il seno.

Le si piazzò davanti, stupito, e boccheggiò: “Ma… tu non…”
Sophia lo interruppe con un sospiro, divertita dal suo incespicare, e scrisse qualcosa sulla propria mano per poi mostrargliela.

Stanotte lei non c’era!

“Sì, ma lei c’è! Esiste! È… è presente nella mia vita!” replicò il bassista.

Ancora una volta, si scrisse sulla mano.

Rispondimi sinceramente: quanto hai pensato a lei in queste ultime 24 ore? Non mi offenderò, qualsiasi cosa tu dica…

Sbuffò, colto in contropiede.
Annuì, rispondendo: “Molto poco…”

Allora lei gli prese la mano destra e tornò a scrivere.

Sei stato con me. Hai pensato a me. Ti sei preso cura di me. Io mi sento fortunatissima già così. E non pretendo nient’altro. Mi dispiace solo per lei. Forse non dovresti dirle niente, se ci tieni sul serio.

Sorrise.
Si perse un’altra volta in quei grandi fari scuri, fatti d’acqua per la commozione.
Si lasciò stringere e, per la prima volta, fu lui a rifugiarsi tra le sue braccia.

 

 

 

Ti è importato qualcosa di me?

Glielo scrisse poco dopo, andando in taxi verso casa della zia.
Georg lesse il biglietto e, diffidando del tassista, rispose scrivendo.

Più di quanto avessi mai immaginato. Mi credi?

La ragazza strinse il foglietto al cuore e appoggiò la testa sulla sua spalla. Rimase così per tutto il viaggio, stretta al suo braccio.

 

 

 

 
Il taxi era fermo dietro la piccola villetta.
Con uno sguardo, Sophia pregò Georg di accompagnarla alla porta: non voleva salutarlo di fronte ad un estraneo.
Lui non ci pensò due volte.

 
Con la chiave infilata nella serratura, si voltò a guardarlo.
Era serena, nonostante gli occhi lucidi.
Il ragazzo accarezzò il suo zigomo destro, privo di trucco come il resto del viso.
D’un tratto, le staccò un ultimo biglietto dal block notes e cominciò a scrivere. Lui la abbracciò da dietro e lesse parola dopo parola…

Sono contenta che tu mi abbia voluto bene e che mi abbia accettata per quella che sono, anche se solo per un giorno.
Io ti ho amato.
E non perché suoni in un gruppo famoso.
Non cerchiamoci mai più, ti prego.
Ti auguro tutto il meglio.

Lui si intristì, ma non si sorprese di fronte a quelle parole: in fondo, se le aspettava.
La baciò sulla nuca.
“Sei proprio sicura?” mormorò, sperando di avere una risposta diversa da quella che conosceva.
Sophia si voltò a guardarlo, indicò la frase “Non cerchiamoci mai più” e poi puntò il dito verso di lui.
“Io?” interpretò il ragazzo.
“… Credo tu abbia ragione. Sarà meglio per tutti e due. Sì.”

 
Si sorrisero, pacati.
Poi lei allungò le braccia verso di lui e si aggrappò alla sua schiena.
Il bassista cacciò indietro le lacrime e ricambiò l’abbraccio, incurvandosi sulla sua figura minuscola.

Gli consegnò l’ultimo biglietto scritto, e lui lo infilò accuratamente nel portafoglio, al sicuro da sguardi indiscreti.
Ancor prima che potesse chiedersi come avrebbe dovuto salutarla, lei sporse scherzosamente le labbra e chiuse gli occhi.

La accontentò, prendendole il viso tra le mani.
Sentì il suo sapore di vaniglia per l’ultima volta, a lungo, poi la lasciò andare.

 
La vide sparire dietro la porta di servizio e in taxi si lasciò andare ad un paio di lacrime, né di tristezza, né di rimpianto.
Era felice.
Gli dispiaceva solo di non averle potuto dire “Grazie”.
Per averlo aiutato a capire, finalmente.

 

 

 

“Sei tornato!!!”

Lo strinse forte a sé, strappandogli un sorriso nonostante la stanchezza: il viaggio era stato sfiancante, e dormire dodici ore non era servito a molto, anche se aveva riposato fino alle quattro del pomeriggio.
Le baciò i capelli, sospirando un “Sì, sono a casa…”.
“Dimmi com’è andata, dài!!!” lo spronò la sua ragazza, stringendogli le mani.

Georg la scrutò per qualche istante nel suo sorriso raggiante.

 
Non l’aveva vista per quasi un mese.
Come poteva trattarlo in quel modo, dopo che lui l’aveva inevitabilmente trascurata in maniera esponenziale?

“Sei stanco, non è vero?” si preoccupò lei, passandogli dolcemente una mano tra i capelli.

 
Ultimamente, per lei era sempre stato stanco. Anche al telefono.
Per questo le loro conversazioni erano durate poco più di cinque minuti.
Ma lei non se la prendeva mai.

Scosse la testa e le diede un bacio veloce prima di ribattere: “No, non sono stanco… Vieni qui…”
La invitò a sdraiarsi sul letto insieme a lui e la fece accoccolare sul suo petto.
Era al settimo cielo, come lei.

“Allora, non me lo dici com’è andata?” insisté, con la sua voce limpida ed incalzante “Il palazzetto era pieno? Avete incontrato qualcuno di importante?”

Esitò prima di rispondere. Ma poi parlò, spedito…

“Ho conosciuto una persona, sì. Una fan…”
“Una fan?” chiese l’altra, senza nascondere una punta di gelosia nel tono di voce.
Georg sorrise.
“Sai cosa è successo con lei?”
“Sentiamo…”
“Mi ha chiesto l’autografo… mi ha offerto da bere… io le ho detto di te… e lei mi ha fatto capire che…”
“Cosa?” lo interruppe la ragazza, tirandosi su a sedere con aria sospettosa.
“Che dovrei stare più attento a te! Tutto qui!”
Lei lo fissò, stupita, prima di esclamare scettica: “Ah! Ma che premura!”; poi tornò a sdraiarsi accanto al suo ragazzo, non senza prima averlo baciato con trasporto.

Georg sorrise tra sé e sé: faceva sempre così, quando era gelosa. Voleva… “marcare il territorio”.

 

La verità, anche se taciuta in gran parte, aveva funzionato.
Andava benissimo così.

 

Ma le sue labbra non sapevano di vaniglia.

THE END

Ancora una volta, il titolo del capitolo è tratto da "Musica é".
I Tokio Hotel, Georg Listing compreso, non mi appartengono (magari).

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