parla
Hello again :)!
Ringraziandovi
per le continue letture che date alle mie storie a sfondo TH, vi voglio
regalare un altro dei miei racconti! Spero che vi piaccia, fatemelo
sapere e siate numerosi :) Ancora un grazie e un sincero abbraccio
dalla vostra fedele
Ciry
CHAPTER 1: La festa dei tuoi occhi appena mi sorridi
Sophia spalancò gli occhi
nella penombra mattutina della stanza ed il suo cervello si mise subito al
lavoro: doveva alzarsi dal letto con molta cautela, prendere la sua borsa, i
suoi vestiti e rifugiarsi il più velocemente e silenziosamente possibile in bagno,
per truccarsi e sperare che il risultato non fosse catastrofico, perché nella
sua pochette non aveva lo stesso fondotinta coprente che usava a casa.
Anche se sopraffatta dal
senso del dovere, lasciò malvolentieri il letto, non senza prima assicurarsi
che lui dormisse ancora della grossa.
Sorrise brevemente,
affascinata dal suo viso completamente rilassato, ed i suoi occhi si
soffermarono sul torace, quello su cui lei aveva dormito durante la notte,
stanca e felice.
Sentendolo sospirare nel
sonno, si morse il labbro inferiore e smise di fissarlo per strisciare verso il
bagno.
Si rimise la biancheria
dopo essersi fatta una doccia veloce, poi si vestì, sistemando alla meglio quel
vestito che la sera prima le era sembrato bello nella sua elaborata originalità,
ma che ora vedeva solo come uno straccetto troppo corto e troppo scomodo.
Illuminata dal neon bianco
sopra lo specchio, fece per truccarsi il viso con la cipria, stando ben attenta
agli scherzi che la luce non naturale poteva farle: non voleva che lui la
vedesse in quello stato, neanche che sospettasse che lei avesse qualcosa che
non andava…
“No, non truccarti… Per
favore…”
La sua voce, roca e
impastata dal sonno, la spaventò e la fece voltare di scatto: era alla sua
destra, appoggiato alla porta, in boxer, e si stava grattando la testa
spettinata, sorridendole dolcemente.
Per il sussulto, a Sophia
cadde di mano l’astuccio della cipria nel lavandino, e il prodotto uscì dal
contenitore, frantumandosi in minuscoli pezzi sulla ceramica bagnata dall’acqua.
Le salirono le lacrime
agli occhi quando vide irrimediabilmente distrutto l’unico mezzo a sua
disposizione per truccarsi decentemente, così appoggiò immediatamente una mano
sulla parte destra del volto per nascondersi agli occhi di Georg.
Il ragazzo le andò
incontro, con calma, dicendole: “Non è successo niente, stai tranquilla… Vieni
qui, non ti devi preoccupare…”
Con le spalle al muro,
Sophia non poté fare altro che sedersi sul bordo della vasca, facendosi piccola
piccola, tentando di tutto pur di non farlo avvicinare troppo; il respiro era
diventato affannoso e la mano sul viso aveva iniziato a tremare.
Aveva una paura tremenda.
Ma non di lui.
Com’era logico, Georg
l’aveva raggiunta dopo due passi e si era inginocchiato di fronte alle sue
gambe… Riusciva a vedere le prime lacrime scendere dalla gota sinistra.
Con un gesto rapido, senza
perderla di vista, afferrò un rotolo di carta igienica che giaceva inutilizzato
su un mobile vicino al water e ne usò qualche pezzo per asciugarle l’occhio;
lei gli stava davanti, paralizzata, irrigidita e rossa in viso per la vergogna.
“Stanotte ti ho toccato
anche il viso… Non te lo ricordi?” fece retorico, sorridendole e passandole
sotto l’occhio quegli improvvisati fazzoletti.
Sophia represse un
singhiozzo e scosse la testa, abbassando lo sguardo.
“Poi dopo, mentre stavamo
dormendo” continuò lui, accarezzandole con un dito la mano con cui si stava in parte nascondendo “è passata una
motocicletta e il rumore del motore mi ha svegliato… Mi sono girato verso di te
per vedere se stavi ancora dormendo e… ho visto. C’era poca luce, ma dalla
finestra ne era filtrata un po’, per via del lampione qui davanti…”
Seppur esitante, Sophia
lasciò cadere lentamente la mano dal viso e permise a Georg di stringergliela.
Lui le sorrise e la baciò
sulla fronte, senza fare caso a ciò che lei aveva tentato di sottrarre alla sua
vista.
Il profilo destro della
ragazza era una maschera di cicatrici, macchie, profondi segni irregolari che
solo apparentemente sarebbero potuti sembrare simili a quelli di una pelle
rovinata dall’acne.
L’angolo esterno del suo
occhio appariva leggermente piegato all’ingiù, così come quello della bocca,
anche se i danni più evidenti erano presenti dallo zigomo in su, visto anche il
diverso colore di pelle rispetto al resto del volto.
Georg l’aveva notata, la sera prima, in mezzo a
molte altre ragazze e fans in quel locale, non tanto per il vestito corto o per
l’acconciatura elaborata che, quasi coprendole metà del viso, la rendeva e
originale e curiosa…
Era rimasto colpito dal suo modo di chiedergli
l’autografo: attraverso un’interprete.
“Posso chiederti un autografo?” si era sentito
chiedere da una signora sui 40 anni, dal forte accento straniero. Lui,
ovviamente, aveva risposto di sì e, davanti al foglio bianco, aveva domandato:
“Mi può dire il suo nome?”
Lei gli aveva sorriso, scuotendo la testa, e gli
aveva spiegato in un buon tedesco: “Non è per me! È per mia nipote! È seduta a
quel tavolo laggiù e… si vergogna!”
A quella risposta, il bassista si era messo a
ridere insieme alla donna, lusingato, ed entrambi l’avevano invitata a gesti ad
avvicinarsi.
“Ora che sei qui, posso sapere il tuo nome?” le
chiese, notando il suo sguardo sorridente ma sperduto.
Per tutta risposta, lei non aveva aperto bocca e, anzi,
aveva rivolto un’occhiata implorante a sua zia, che di conseguenza aveva
risposto per lei, comprensiva…
“Si chiama Sophia…” gli aveva detto, sorridente e
disinvolta.
Aveva fatto quell’autografo senza farsi domande:
esistevano tante ragazze come lei, che perdevano la facoltà della parola appena
vedevano lui o gli altri ragazzi della band.
Però lei non gli aveva tolto gli occhi di dosso
neanche per un momento, né durante il loro breve incontro, né tantomeno dopo,
quando sua zia l’aveva riaccompagnata al tavolo per poi sparire poco dopo.
“Questa è davvero troppo timida, magari perché è
straniera e non riesce a parlare… o forse sono io…” aveva pensato, perplesso
sul da farsi. Alla fine si era deciso ad andare a parlarci, sperando di così di
tirarle fuori qualche parola, e anche per non lasciarla sola come un cane, dato
che non sembrava avere altri amici o conoscenti con cui parlare nei dintorni.
“Ciao! Posso sedermi o c’è qualcuno qui?” si
propose in inglese, sorprendendola non poco.
Aveva pregato che non cominciasse a urlare come un’isterica.
Sophia gli aveva fatto cenno di accomodarsi con un
ampio gesto del braccio, restando con la bocca chiusa sulla cannuccia del suo
drink e con gli occhi fissi su di lui, increduli ed euforici.
Vagamente in imbarazzo, il ragazzo aveva così deciso di rompere il
ghiaccio, chiedendole: “Sei rimasta sola? Tua zia dov’è finita? Non l’ho più
vista!”
Lei, incerta per qualche istante, aveva portato in
avanti la schiena, appoggiando il bicchiere sul tavolo e cominciando a gesticolare
con le mani, ma si era subito fermata dopo aver notato la faccia perplessa del
ragazzo.
Così gli aveva mostrato il palmo della mano per
chiedergli di aspettare, e aveva tirato fuori dalla borsa il block notes su cui
lui prima le aveva fatto l’autografo, accompagnato da una penna.
“Ma cosa fa? Perché…?” si era chiesto il ragazzo,
indagando con lo sguardo la biro che scorreva sul blocchetto.
Quando Sophia glielo aveva mostrato, sopra c’era
scritto qualcosa, ma non nella sua lingua, bensì in inglese…
Mia
zia è la padrona del locale, non è potuta restare con me tanto a lungo!
“Ah!” aveva esclamato lui in risposta, spiazzato dal
suo strano modo di comunicare “E… Scusa, posso farti una domanda?”
I suoi grandi occhi scuri avevano brillato mentre
la sua testa aveva annuito.
“Perché scrivi? Hai paura che non ti capisca? Dài,
non me la fai sentire la tua voce?”
Lo sguardo di Sophia si era fatto improvvisamente
triste e lui si era sentito un grandissimo stupido: era convinto che lei
pensasse che lui volesse prenderla in giro per il fatto di non essere in grado
di parlare una lingua straniera.
Poi l’aveva vista riprendere a scrivere sul quel
taccuino e il senso di colpa si era acuito più che mai…
La sua risposta lo aveva lasciato letteralmente
senza parole.
Mi dispiace. Conosco l’inglese e anche
un po’ di tedesco, ma non posso parlare. Sono muta.
Era riuscito a capire molte cose in quel momento. E
aveva voluto subito rimediare alla propria gigantesca gaffe…
“Scusami!” aveva esclamato, giungendo le mani
davanti a quegli occhi delusi “Non ne avevo idea, non ci ho proprio pensato e
non ho capito niente! Davvero, non volevo offenderti…”
Non lo stava più ascoltando: si era rimessa a
scrivere, svelta e animata.
Dopo pochi secondi, gli aveva mostrato la sua
replica, scritta in tutta fretta…
Non sono arrabbiata! È che mi dispiace
non poter parlare con te come tra persone normali! Suppongo che tu non conosca
il linguaggio dei segni, vero?
Desolato, aveva dovuto risponderle di no, che
gliene avevano insegnato le basi alle scuole medie e che se ne era
completamente dimenticato da anni. Gli era dispiaciuto non poco non poterla
accontentare. Ma in quel momento un’idea per tirarla su gli era venuta, così
l’aveva portata fuori da quel caotico locale e avevano continuato a parlare
seduti a un tavolo nel cortile, dove c’era meno gente.
Le aveva chiesto il block notes, lei aveva
acconsentito titubante, e lui aveva cominciato a scriverci sopra.
Da allora, Sophia non aveva più smesso di
sorridere.
Dopo due ore e mezza, erano ancora lì, a scrivere,
annuire, ridere e scambiarsi sguardi complici.
E lei gli aveva parlato del suo problema…
Non sono nata così… intendo, muta…
Hai avuto dei problemi alle corde
vocali? Un’operazione andata male?
Più o meno… ho fatto un incidente con
la mia auto. Quattro anni fa. Ero appena maggiorenne e avevo preso la patente
da poco… Ad un incrocio, un furgone non si è fermato per darmi la precedenza…
Il parabrezza è andato in mille pezzi e… uno di questi è finito molto, molto
vicino alla mia giugulare.
E’ da allora che non puoi più
parlare?
Prima sono finita in ospedale. Non
parlavo, ma riuscivo almeno a rantolare. Poi mi hanno operata e… non è andato
tutto come previsto. I medici che mi avevano in cura adesso sono ancora sotto
processo, ma il danno che ho subito non si può riparare.
Mi dispiace molto, davvero. Non
riesco neanche a immaginare come ci si possa sentire a non avere più la voce.
Credo che per me sarebbe come… essere senza dita.
Dopo un po’ impari a conviverci, e poi
ti rendi conto che il tuo corpo comunica in molti altri modi! Comunque, come
cantante non avrei avuto un futuro: ero completamente stonata…
È bello che tu riesca a
scherzarci…
Si erano sorrisi: Sophia non era timida, nonostante
il suo silenzio forzato.
Georg leggeva le sue parole e la osservava quando
riceveva le sue affermazioni; le aveva dato ragione: il corpo poteva comunicare
in tanti modi diversi e proprio lei glielo aveva dimostrato, sorridendogli,
scrutandolo con gli occhi, a volte anche picchiettandolo scherzosamente sul
braccio, se aveva letto una sua battuta che l’aveva fatta ridere.
Erano quasi riusciti a finire il block notes quando
si erano accorti che si era fatto davvero tardi, erano le due passate.
Georg aveva chiesto a Sophia se per lei non fosse
ora di andare a dormire e lei, terribilmente in imbarazzo, gli aveva scritto
l’ennesimo biglietto in perfetto inglese...
Sono qui da un paio di giorni e non
sono ancora riuscita a dormire granché: mia zia non si fa problemi a portare
uomini in casa, così… spesso, mi ritrovo a sentire… insomma, hai capito… Non è
che potrei restare con te? Devi tornare subito in albergo?
Georg aveva letto il biglietto e aveva esitato: non
era solito accogliere ragazze appena conosciute in camera sua, né a casa, né in
albergo.
Aveva conosciuto Sophia per caso, poche ore prima.
Non sapeva quanti anni avesse, né da dove venisse.
Soprattutto, non conosceva le sue vere intenzioni,
semmai stesse nascondendo qualcosa; da molte fans ci si poteva aspettare di
tutto, quella era una cosa che manager e colleghi gli avevano inculcato in
testa da un pezzo.
Davanti alla sua titubanza, Sophia si era
vergognata della sua stessa richiesta e aveva frettolosamente tolto di mano il
foglio al bassista, per poi accartocciarlo e scuotere freneticamente la testa,
come se volesse dirgli di dimenticare una domanda tanto avventata. Si era poi
messa le mani sul cuore, come per chiedere scusa.
A quel punto, il ragazzo aveva deciso di fidarsi e
le aveva detto: “Non essere stupida, dài, ti ospito volentieri, non mi faranno
storie in albergo, te lo prometto…”
Rossa per l’imbarazzo, lei aveva di nuovo scosso la
testa, facendogli di nuovo il gesto delle scuse.
“Guarda che non ti considero una sfacciata. Dico
sul serio… Dài, vieni con me. Il mio letto è enorme, ho una coperta di riserva
se hai freddo e tutti i cuscini che vuoi!”
Gli era sembrata una serie di pretesti buona per
invitarla a restare in sua compagnia, ma nel contempo aveva temuto che lei lo
credesse un maniaco.
Non era stato così: dopo un po’ di insistenza,
aveva ceduto, e si erano diretti all’hotel in taxi.
***
Il
titolo di questo capitolo è tratto da "Musica é" (Eros
Ramazzotti feat. Andrea Bocelli). Nessuno scopo di lucro.
Stessa cosa per quanto riguarda il titolo della fic, che comunque non ha niente a che vedere con ila canzone di Ramazzotti.