Sotto l'inchiostro

di miseichan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Eslaf ***
Capitolo 2: *** Reminescenza ***
Capitolo 3: *** Sorsi ***
Capitolo 4: *** Fra mille ***



Capitolo 1
*** Eslaf ***


1

Sotto l’inchiostro

 

_Eslaf

 

 

 

“ Non posso farci niente, lo sai ! ”

 

Si passò una mano sugli occhi, tirando su con il naso e sorridendo stancamente.

Non era colpa sua: era tutto merito del buio.

Della notte, ad essere precisi: delle stelle, della luna, anche delle sporadiche e minaccianti nuvole; dell’atmosfera in generale.

Non era sua la colpa, comunque. Poco ma sicuro.

Mosse le dita sulla tastiera, socchiudendo appena gli occhi, giocando con i tasti piena di buoni propositi.

Si sentiva pronta, eccitata: completamente in fibrillazione.

E niente l’avrebbe smossa dal suo proposito.

Non si curava del compito in classe che avrebbe dovuto affrontare la mattina successiva.

Né del fatto che l’ora fosse già tarda né dei piccoli puntini bianchi che ora vedeva davanti agli occhi.

Non aveva sonno, o almeno voleva credere di non averlo.

Tutto quello che sapeva era che un’idea l’aveva svegliata, costringendola con metodi blandi ad alzarsi dal letto e raggiungere la scrivania: ancora in stato di incoscienza aveva acceso il portatile, sgranchendosi le dita senza nemmeno rendersene conto.

Sentì la pendola del nonno, quella che suonava ogni ora, battere due rintocchi dal piano di sotto.

Scrollò le spalle, pienamente indifferente: erano le due, e allora?

Era forse un problema?

No, si rispose da sola. No, che non era un problema.

C’era un motivo se si era svegliata e lo sapeva benissimo. Lo sapeva lei e lo sapeva Salem, il gatto. Anche lui, poverino, si era svegliato con lei, o meglio era stato svegliato dal calcio che lei gli aveva involontariamente sferrato scendendo dal letto.

E lui, ormai abituato a quella routine era sceso, sbadigliando ed allungando le zampe posteriori: l’aveva seguita silenziosamente per poi acciambellarsi sulla scrivania, godendo del calore diffuso dal computer.

Lei sorrise, passandogli pigramente la mano sul lucido pelo bianco: sì, bianco. Un bianco candido, al punto da sembrare quasi rilucente. Non era nero, come ci si aspetterebbe: non aveva niente a che fare con i gatti delle streghe, quelli dei racconti dell’orrore. No, lui era buono, dolce, affettuoso, con due enormi e languidi occhi azzurri. Eppure lei lo aveva chiamato Salem, così, perché le andava e perché sentiva che era giusto. Il gatto non si era mai lamentato.

- Che fai alzata ? -

Sobbalzò, sentendo quella voce.

Fece girare piano la sedia, senza far rumore, cercando nel buio.

Non è facile cercare nel buio, soprattutto se non si è un gatto e non si ha la capacità di vedere, in quel buio.

Per lei era così: tutto era una massa indefinita, senza contorni e quindi irriconoscibile.

Non ci mise troppo a capire da dove proveniva la voce, però.

Si era quasi abituata ormai: così individuò velocemente, ai piedi del letto, quel corpo ancora più nero del nero in cui era immersa. Sospirando si adagiò comodamente, facendo aderire il corpo allo schienale della sedia, e sorrise.

Ebbe l’impressione di sorridere al niente, almeno finché lo schermo del computer non prese ad illuminarsi, diffondendo una fioca luce nella stanza. A quel punto, con somma soddisfazione, cominciò a vederci di nuovo.

Con la vista riacquistata, oltre all’immagine sfocata della sua stanza, in primo piano le apparve finalmente chiara la figura di lui: se ne stava lì, di fronte a lei, seduto sul bordo del suo letto.

I piedi sul tappeto, le mani nelle tasche. Non aveva un’aria amichevole.

- Sai che ore sono? – chiese, con voce tagliente.

Era una domanda retorica, eppure lei si sentì in dovere di rispondere.

- Le due e qualcosa, credo -

- Esatto. Le due. Di mattina. – di nuovo quella voce arrabbiata, di chi a stento si trattiene dall’urlare.

Perché mai poi ? Mica l’aveva obbligato…

Non ottenendo alcuna replica lui sembrò spazientirsi: assottigliò lo sguardo e ritornò alla sua prima domanda.

- Che fai alzata, Nell ? -

- Lo sai. Che me lo chiedi a fare ? – rispose lei irritata, scrollando le spalle.

- Te lo chiedo perché speravo di sbagliarmi, ecco perché! La devi smettere di fare così, devi cominciare a prenderti le tue responsabilità, a pensare alle conseguenze delle tue azioni, santo cielo! Non sei più una bambina, non puoi più contare sempre e solo sull’aiuto degli…-

Lei lo interruppe, incurante di tutto ciò che aveva detto fino a quel momento.

- Mi è venuta una nuova idea -

- Cosa ? –

Si era zittito improvvisamente, studiando con disappunto la figura di lei: se ne stava su quella sedia a gambe incrociate, con indosso un pigiama nero pieno di cuoricini rossi; una coperta di pile bianca sulle spalle, pantofole sopra i calzini… ma quello che più di tutto gli tolse momentaneamente la parola fu il suo viso: i capelli rossi e lisci tenuti dietro le orecchie, le lasciavano libero il visino piccolo e dolce.

La pelle bianchissima, tendente al pallido, era in contrasto con i grandi occhi verdi che, sgranati, sembravano luccicare nel buio e le labbra a cuore, rossissime quasi più dei capelli, erano tremanti e leggermente dischiuse.

- Non è possibile – ansimò lui, incredulo.

L’aveva trovata in quello stesso stato febbrile meno di una settimana prima e credeva che se ne sarebbe stata buona per un po’.

Invece no.

- Sì. Non ci credevo neppure io e invece sì! Una nuova idea, Eslaf. Riesci a crederci ? -

Avrebbe voluto risponderle che no, non riusciva a crederci. E nemmeno voleva.

Non disse niente però, si limitò a guardarla ancora: ad osservare l’espressione estatica di lei, il modo in cui agitava le dita senza accorgersene e l’intensità con cui lo fissava.

Era il suo lavoro in fondo, no? Era così che doveva andare, punto.

Perciò, senza fiatare, sorrise. Era la prima volta che sorrideva da quando l’aveva fatta trasalire con la sua voce, e lei ne fu felicissima.

Il suo sorriso aveva un effetto placebo su di lei: meglio di qualsiasi calmante o droga.

Il che era, al tempo stesso, un bene e un male.

Ancora una volta, comunque, non poteva farci assolutamente niente.

Tutto quello che le riuscì fu di ricambiare il sorriso di quel ragazzo così tetro, vestito interamente in nero: scarpe nere, jeans neri, camicia e giacca nere. Anche i capelli lunghi fino alle spalle lo erano, così come gli occhi.

E gli occhi erano un che di spaventoso ed unico, perché sembravano buchi neri.

Erano contemporaneamente inespressivi e pieni di significato: il nero anice delle pupille si confondeva con quello delle iridi, facendone un tutt’uno. Occhi di ebano.

Solo il viso era uno sprazzo di colore, se colore si poteva definire quel rosa opaco.

Non era brutto, però. Tutto il contrario. O almeno, era così che la pensava lei.

La cosa più importante poi era che all’oscurità esteriore, a quell’aspetto da addetto alle pompe funebri, si opponesse una mente brillante.

Anzi, brillante era un eufemismo con lui.

Eslaf era indescrivibile.

- Nell -

Sentendosi chiamare, sobbalzò ancora una volta, incontrando di slancio i suoi occhi, perdendosi in quei maledetti e attesi buchi neri.

- Sì ? -

- Che idea ti è venuta ? – chiese lui, paziente.

Aveva un sorrisetto ancora fisso, a modellargli le labbra. Si era sistemato meglio sul letto, sdraiandosi ed allungando le gambe: le mani non erano più nelle tasche, ma ben piazzate dietro la testa, a mo’ di cuscino.

- L’idea per una nuova storia – rispose lei con ovvietà, quasi offesa dal fatto che lui non l’avesse intuito.

- L’avevo capito questo, - spiegò lui – quello che ti chiedevo era che genere di storia, Nell –

- Oh, bè allora viene il difficile –

- Perché Nell ? –

Lei sorrise, accarezzandosi le braccia, leggermente a disagio.

Non sapeva come spiegarglielo, o forse non voleva.

Lui però continuava a incatenarla con lo sguardo, per niente accomodante. Voleva delle spiegazioni. Le pretendeva.

Non era la prima volta che trovava Nell in quelle condizioni, sperava di riuscire in qualche modo a farla ragionare e rimandarla a letto, sotto le coperte.

- Eddai Eslaf, lo sai… renditi conto che è stata l’idea a svegliarmi! Non potevo ignorarla, hai presente come succede, no? Dovevo alzarmi. Dovevo scriverla. E se poi me ne fossi dimenticata, sai che catastrofe ?! -

- Nell – sospirava, adesso, cominciando ad intuire la situazione. Continuò imperturbabile, con voce calma e moderata. Doveva giocare bene le sue carte:

- Nell, è tardi. Sai meglio di me che quando una cosa ti entra in testa, non ne esce più. La tua è una stupida quanto futile paura. Non dimenticherai l’idea. Tornatene a letto, adesso –

- Non ci penso proprio! – ribattè lei, accalorandosi.

- Sì che lo fai, invece. Domani hai compito di matematica, santo cielo! Devi dormire! –

Aveva parlato con uguale e maggiore enfasi di lei, ma sapeva di aver perso.

Lo sapeva perché aveva perso in partenza.

Da quando gli occhi verdi della ragazza, umidi e timorosi, si erano fermati nei suoi.

- Nell… -

Era stato un semplice sussurro questa volta, un mormorio che sapeva di preghiera.

Inutile.

Resse solo per un istante ancora lo sguardo di lei, poi, sconfitto, le concesse la vittoria. Con un gridolino di gioia lei fece girare di nuovo la sedia, dando le spalle a lui e posando gli occhi sullo schermo bianco del computer.

Un foglio bianco di word era già aperto: si apriva in automatico.

Eslaf sospirò ancora, osservandola scrivere il suo nome in cima al documento.

Sapeva che opporsi ancora non sarebbe servito a niente: sottolineare ad esempio che di storie lei ne aveva già iniziate a centinaia e che nemmeno una di queste era conclusa, sarebbe stato solo sbagliato. Sarebbe stato anzi un colpo basso. Sì, e in più non sarebbe stato da lui.

Aveva un animo da scrittrice la ragazza, e lui lo sapeva meglio di tutti.

Era sempre stato così: quella era solo l’ennesima volta, una delle innumerevoli, troppe volte, in cui la trovava sveglia in piena notte, preda di una frenesia che era solo sua.

Sua e di nessun altro.

Riaprendo gli occhi si accorse che lei era ancora concentrata sul nome che stava scrivendo: il suo nome. Lo scriveva e poi lo cancellava. Ancora e ancora.

- Problemi ? – chiese, con il sorriso nella voce.

- Mm… -

Lui richiuse gli occhi, sapendo perfettamente cosa stava succedendo: non era la prima volta.

La ragazza scriveva il nome completo, Ornella Fergi, per poi eliminarlo subito dopo.

Eslaf richiamò alla mente le altre volte in cui era successo, i discorsi precedenti:

 

Qual è il problema?

E’ che non mi piace.

Cosa?

Ornella.

Non ti piace il tuo nome?

No.

Ma…

Non mi rappresenta. Non sono io, Ornella.

E allora non scrivere Ornella.

 

E come se si fossero detti quelle stesse cose lui ruppe il silenzio, sicuro:

- Non scrivere Ornella, scrivi Nell –

Sorrise davvero, riaprendo gli occhi, soddisfatto.

Si era convinto a prendere parte a quel gioco finalmente, ancora una volta.

Era il loro gioco, in fin dei conti.

- Hai ragione: Nell va meglio – acconsentì lei, soddisfatta.

- Siamo a posto con il nome quindi, passiamo al titolo? –

-  Please, remember”, ti piace ? – chiese incerta, attendendo una conferma.

Lui annuì impercettibilmente prima di commentare, divertito:

- Oh, è magnifico… se non sbaglio anzi, è anche il titolo di una canzone di Celin Dion; a parte questo però, se non mi dici di che parla la storia, non posso aggiungere altro, Nell -

Lei rigirò la sedia, tornando a dare le spalle al computer e a quel foglio non più tutto bianco: un piccolo nome in alto a destra e un titolo più giù a sinistra, gli davano un  po’ di colore.

- Allora, vediamo. Mi ascolti, Eslaf ? – domandò, temendo che si addormentasse.

- Certo che sì, Nell. Sono tutto orecchi –

Ignorando quell’ironia che era parte integrante di tutte le sue frasi, lei continuò:

- Non è proprio allegra come storia, partiamo da questo -

- Più della metà delle tue storie non sono allegre, Nell. O muore sempre qualcuno, o il protagonista è terribilmente depresso.  Non so come fai a scriverle con il sorriso sulle labbra –

Lei sgranò gli occhi, senza più fiato dopo quella sua interruzione:

- Credi che… -

- Non fraintendere, ti prego. Sono bellissime. Toccanti nel loro modo di essere. Solo mi chiedevo perché non ti viene mai in mente una storia più adatta alla tua età. – continuò lui, prima che lei potesse dire qualcosa.

- In che senso? –

- Nel senso che sei in piena adolescenza. Dovresti avere gli ormoni impazziti e scrivere unicamente storielle banali d’amore. Hai presente, no? Quelle che fanno venire il diabete –

Sorridendo Nell alzò gli occhi al cielo.

Eccolo finalmente il suo Eslaf: stava tornando in sé. Ora sì che lo riconosceva.

Fece spallucce, conscia del fatto che lei non aveva una risposta e lui non se l’aspettava davvero.

- Dicevo, prima che tu mi interrompessi, ripetutamente ci terrei a precisare ma non lo faccio… dicevo, che la storia forse è un pochino triste. Malinconica, per lo più, ecco. -

- Sono scoccate le tre, Nell. Vediamo di non fare giorno, okay? –

Sbuffando lei gli fece cenno di tacere con la mano, minacciandolo quasi, e lui sorridente ubbidì.

- Il punto di vista è quello della protagonista, ancora senza nome, che se ne sta nel giardino del campus, ai piedi di un albero, con un libro sulle ginocchia e … -

- … un bruco che le cammina sulle scarpe? Non avevamo detto di sintetizzare, Nell? –

L’occhiata che gli scoccò avrebbe potuto farlo bruciare di autocombustione.

- Scherzavo, Nell -

- Lo so. E so anche che mi stai rompendo –

Se ne stava ancora sdraiato, sorridendo sotto i baffi questa volta.

- Scusa, non lo faccio più – disse, facendo il gesto di chiudersi la bocca e gettare via la chiave.

Lei sospirando scosse la testa: chissà perché quella chiave la ritrovava sempre troppo in fretta.

- Lei quindi sta lì, non ti azzardare a rovinarmi ancora l’atmosfera!, e invece di guardare il libro come dovrebbe, tiene lo sguardo fisso di fronte a sé, su qualcuno -

- Un ragazzo voglio sperare, o hai cominciato a scrivere di amori alternativi ? No, perché sarebbe interessante, sai ? Dovresti provare –

- Ma tu non avevi buttato la chiave? –

- Ne avevo una di riserva. Butto anche questa ? –

- Sì, grazie – rispose, fra il divertito e l’irritato, continuando poi come se niente fosse successo:

- Questo qualcuno, un lui, se ne sta mezzo sdraiato su una panchina poco distante, insieme a una ragazza. Abbracciati, baci e carezze, la solita solfa insomma e lei… -

- Sogna il triangolo – mormorò lui, con voce sognante.

La provocava volutamente, lo sapevano entrambi. Ma non importava.

Perché avevano dimenticato entrambi che fosse piena notte, che fossero passate le tre e che di lì a cinque ore ci sarebbe stato un compito in classe. L’unica cosa a cui pensavano ora, non era possibile spiegarla: non erano più nella camera di Nell, erano nel giardino di quel college, ai piedi della quercia, sotto un cielo in cui il sole si accingeva a tramontare.

Tutto quello che importava era la voce di Nell.

- Che triangolo? -

- Il triangolo fra lei, il ragazzo sulla panchina e la ragazza che pomicia con il ragazzo – rispose lui.

- No. Giuro che te la cucio io la bocca, Eslaf, se non te ne stai un po’ buono –

- Okay, okay, continua. Perché lo fissa ? –

Lei fece fare un giro completo alla sedia prima di continuare, con voce meno sicura:

- Lo fissa perché lo desidera – disse semplicemente.

- In che senso ? – chiese lui, tirandosi un po’ su e reggendosi sui gomiti.

Lei lo fissò negli occhi, invitandolo a continuare.

- La solita cotta non corrisposta ? – azzardò allora lui. Lei scosse la testa.

- No, no. Ha avuto una storia con lui, solo che lui non lo ricorda – spiegò Nell.

- Credo di essermi perso. Come ha fatto il ragazzo a dimenticare la loro storia ? Che fa, ha preso una mazzata in testa ? –

Sorrise sornione, sicuro che Nell si sarebbe spiegata, come faceva sempre. Doveva solo ingranare, poi tutto sarebbe scivolato liscio come l’olio e la storia sarebbe nata e finita, come per magia.

- Nessuna mazzata. Solo una buona quantità di alcool -

- Ma allora non era una storia quella che hanno avuto, attenta. Se è roba di una notte non la si può definire storia. E’ stata una notte, punto. A meno che, naturalmente, il nostro tipo non è un alcolizzato sempre ubriaco. –

Nell strinse gli occhi, corrugando le sopracciglia.

- Vero. Una notte. Non è una storia. Come si chiama allora? – chiese, indecisa.

- Tresca? –

- No, quella è se la si ha con qualcuno di sposato, Eslaf – precisò lei, sorridendo. Lui sbuffò.

- Non abbiamo il tempo per bloccarci su questo, Nell. Sono stati assieme una notte, concentrati. Poi ? Come ha fatto lui a dimenticarsene ? –

- Giusto. Ti dicevo: lei lo fissa e lo desidera. Perché ? Perché sono stati insieme una notte e lui non lo ricorda. E’ normale che lui non lo ricordi però. Quelle erano le regole. Lei ha sbagliato. Lei ha infranto le regole. La colpa è sua. Anche lei non avrebbe dovuto ricordare, ma dimenticare

Come sempre, come lui sapeva sarebbe successo, Nell era partita.

Per uno di quei mondi che sapeva creare solo lei.

E quando finalmente entrava nel pieno del racconto, lui non interveniva più. Non se ne sentiva in diritto e non ci sarebbe neanche riuscito. No, perché veniva trascinato da lei, dal suo racconto… e si perdeva al seguito delle parole che lei bisbigliava, incapace di reagire.

Si mise a sedere, fissando gli occhi di Nell che non ricambiavano il suo sguardo. Assenti e opachi, ecco come erano gli occhi di Nell. Ancora più belli, se possibile.

- Quelle erano le regole prefissate, e lei lo sapeva. Glielo aveva specificato l’amica, invitandola alla festa il sabato sera: nessun limite, nessun legame, nessun ricordo. Ecco cosa le aveva detto.

E lei aveva accettato. Senza pensarci, aveva detto di sì, che sarebbe andata. Lo aveva detto perché non ce la faceva più: studio, ecco cosa era rimasto nella sua vita. Nient’altro che quello: lo studio. Non faceva altro. Erano mesi che non usciva. Mesi che non faceva altro che studiare. Da poco se ne era resa conto con sgomento. Non era quella la vita che voleva. Non era il tipo che desidera chissà cosa, eppure era sicura che non le sarebbe piaciuto ritrovarsi a cinquant’anni senza alcun aneddoto da raccontare… con l’impressione di non aver mai vissuto per davvero. C’era una frase che diceva: puoi vivere cent’anni senza vivere un minuto. Ecco, lei non voleva finire così. Lei voleva vivere. Voleva un minuto vissuto per davvero. E lo avrebbe avuto. Forse sbagliava. Forse faceva una pazzia ad andare a quella festa. Non le importava -

Eslaf non era più seduto sul letto: era scivolato pian piano, lentamente, fino ad arrivare alla fine del materasso. Aveva continuato a scivolare, trovandosi alla fine seduto sul tappeto rosso, con la schiena contro il letto ed il viso attento e concentrato sulle labbra di Nell. Anche i suoi occhi come quelli della ragazza erano opachi. Non era sul tappeto, non erano le quattro meno dieci.

Tornava indietro con Nell, fino alla notte di quel sabato sera.

- Arrivò alla villa con il fiato corto, si fermò fuori il grande portone, il dito esitante vicino al campanello. Non ce l’avrebbe fatta, ecco cosa pensava. No, non era da lei. Non poteva andare contro se stessa. Non poteva. Non doveva. Si guardò, infilando a forza la mano in tasca: non era nessuno. Era come se non esistesse. Un jeans, dei semplici stivali e una felpa. Ecco come diavolo era vestita. Poteva mai bussare ? -

Nell si fermò un attimo, prendendo fiato, riordinando le idee. Poi continuò:

- No che non poteva. E perché non era vestita decentemente, e perché non aveva un vestito decente. Non poteva. Si era informata: aveva capito come faceva ad essere una festa senza limiti, senza legami e senza ricordi. L’alcol, ecco la magia. Era dovere dei partecipanti al festino, una volta trovato qualcuno con cui divertirsi, ubriacarsi senza remore. Alcol, alcol e alcol. Così avrebbero dovuto fare. Per dimenticare. Per non ricordare. Ma lei ne era capace ? Era capace di avere una relazione da una notte e via, era capace di prendersi una sbronza come si deve, al punto da arrivare all’indomani senza la minima idea di quello che era successo la notte ? -

Nell sospirò, chiudendo gli occhi.

- Non lo sapeva. Quello che sapeva era che se fosse tornata nella sua camera avrebbe trovato un cellulare vuoto: privo di messaggi o chiamate. Un computer pieno unicamente di tesine. Una scrivania ricoperta da volumi universitari. Era questo che voleva ? Tornarsene in camera a prepararsi ancora? Per un esame che semmai era previsto di lì a tre mesi? No. No, no, no. No, che non era quello che voleva. Cosa, cosa voleva allora ? Senza nemmeno accorgersene, tirò fuori dalla tasca la mano e l’avvicinò di nuovo al campanello. Cosciente o meno, volente o nolente, lo fece. E sorrise, facendolo. Premette il campanello. -

La pendola suonò le quattro ma nessuno sembrò accorgersene.

- Ad aprirle la porta fu una ragazza. Lei la osservò e l’altra fece altrettanto: si stavano studiando, come solo due donne possono fare. Sentiva l’odore di alcol che emanava. Notò subito la bottiglia di birra che stringeva nella mano sinistra, e si soffermò ben poco sull’assai ridotto abbigliamento della ragazza: una davvero mini gonna e un brindello di stoffa a coprirle il seno. Ma ricordava male lei, o erano in novembre? Senza concedersi il tempo di pensarci ancora, guardò la biondina con aria di sfida, ignorando il modo in cui l’altra osservava la sua felpa. “Permetti ?” Così disse e così non avrebbe dovuto dire. Era lei che aveva bussato in fin dei conti. Era a lei che avrebbero avuto il diritto di sbattere la porta in faccia. Non poteva comportarsi in quel modo: come se fosse un onore per gli altri avere la sua presenza, come se fosse dovere della biondina quello di farla entrare. Eppure lo aveva detto, con voce superiore, distante. E la ragazzetta, stupita, si era fatta indietro traballando sui tacchi. Senza darsi né il tempo né il modo di riflettere su ciò che aveva fatto e stava per fare, entrò nella villa, ignorando il rumore della porta che si chiudeva alle sue spalle. -

Nell sembrò tornare momentaneamente in sé: con un sospiro lanciò un’occhiata alla stanza, a Salem che dormiva placidamente, acciambellato ormai del tutto sulla tastiera del portatile. Quasi non si accorse della mano che Eslaf aveva allungato verso di lei e quando la vide sorrise, confortata dalla presenza di lui, dal suo tacito e fondamentale supporto.

Poggiò delicatamente la sua mano nella sua, godendo del brivido di calore che la pervase quando le dita del ragazzo la strinsero, trasmettendole un senso di sollievo. Aumentò la presa e docilmente, si lasciò guidare dal suo braccio che, sicuro, la attirava verso di sé.

Quasi senza rendersene conto si ritrovò anche lei sul tappeto, seduta al fianco di lui.

Non ebbe mai la certezza delle parole di lui, eppure era quasi sicura di averle sentite per davvero: “ Non fermarti, Nell ” .

Così senza aspettare ancora, continuò:

- Era una grande villa. Sembrava strano ma l’interno appariva ampio quasi il doppio dell’esterno. Un enorme salone fu la prima sala in cui si trovò: camini accesi, divani, tavoli. Niente luce.

Erano le braci del fuoco, le fiamme delle candele, a rischiarare il tutto. Si mosse adagio, come un cucciolo che fa i suoi primi passi. Evitava qualsiasi contatto. L’odore di alcol sembrava creare quasi una cappa sulla sua testa. Era fortissimo. Catini, botti, birra, vino, liquore. Ovunque e comunque. Sempre. Le sembrava incredibile, fuori dalla realtà. Giovani in ogni angolo: ragazzi, ragazze, più o meno vestiti, giravano come lei. In gruppo, soli, in coppie. Sembrava governare al tempo stesso un clima di tacita confusione e ragionevole consenso. La musica non era da discoteca: non martellava le orecchie, non era psichedelica. Era soffusa, leggera, un lieve e quasi invisibile accompagnamento. Così come le voci, i suoni: non giungevano precisi, forti, ma sempre attutiti, smorzati. Come se si trovassero in una dimensione parallela.

Senza neanche sapere come, dopo qualche minuto, si accorse di avere un bicchiere in mano: un liquido ambrato, con riflessi dorati, si agitava piano seguendo il suo passo. Sobbalzò, lasciandolo di scatto sul primo tavolo e voltandosi sperò di non aver percorso troppa strada e di essere ancora in tempo per prendere la porta. Voleva andarsene. Solo di quello era sicura.

Con sconforto però realizzò di non trovarsi più nel salone d’ingresso e di aver percorso tantissimi corridoi in stato di semi incoscienza. Non aveva bevuto, solo non riusciva quasi più a ragionare. Si guardò attorno, camminando ancora a rilento. Esplorò distaccata altre stanze, altri corridoi. Sembravano tutti uguali e non riusciva a farsene una ragione.

Quando all’improvviso si sentì afferrare per una spalla, arretrò istintivamente di parecchi metri, mettendo la maggiore distanza possibile tra lei e chi l’aveva toccata. Sollevò lo sguardo, incontrando gli occhi di un ragazzo esile, con un tremito diffuso per il corpo: le pupille erano dilatate e gli occhi iniettati di sangue; un sorriso pericoloso gli increspava le labbra e quando allungò di nuovo una mano, lei scattò senza pensare: in pochi passi si allontanò, raggiungendo il lato opposto della stanza. Intravide delle scale a chiocciola, confusa si decise a salirle. Non era la scelta migliore, doveva ammetterlo: così si allontanava solamente dall’uscita. Eppure ora la cosa che più voleva era lasciarsi alle spalle quel tipo. Perciò salì in fretta gli scalini, senza guardarsi indietro e raggiunse il piano superiore. -

Nell non era più seduta al fianco di Eslaf: non sapeva nemmeno come ma era fra le sue braccia. La schiena contro il torace di lui, la testa poggiata alla sua spalla, una mano sul suo ginocchio.

E stava bene, perfettamente a suo agio. Si sentiva al sicuro.

- Un lungo corridoio, ampio e fiocamente illuminato le si aprì  davanti: una sfilza di porte lungo di esso. Alcune aperte, altre chiuse o appena socchiuse. Per un po’ lo percorse, abbracciandosi da sola. Poi vide un ragazzo chiudersi piano una porta alle spalle e avviarsi lentamente per il lato opposto del corridoio. La sua mente realizzò da sola l’informazione, immaginando chissà perché che ci potesse essere un bagno dietro quella porta. Senza rifletterci troppo si avvicinò. Sperando in una specie di oasi, in un’ancora di salvezza. Aveva già afferrato il pomello fra le dita quando con la coda dell’occhio notò che il ragazzo appena uscito si era fermato, voltando la testa verso di lei. Lui prese a scuotere la testa, facendole cenno di fermarsi con le mani.

Lei però non se ne era  accorta, e aveva aperto leggermente la porta. Corrugando la fronte, impensierita dal comportamento del ragazzo, fece per cercare a tentoni un interruttore sul muro alla sua sinistra quando si sentì afferrare il braccio. Voltò il viso, scorgendo quello del ragazzo a pochi centimetri dal suo. La stava tirando indietro, cercando di chiudere al tempo stesso la porta. E fu solo in quel momento che lei riuscì a scorgere la sagome indefinita di un letto, immerso nel buio, con sospiri ed ansiti sconnessi che rompevano il silenzio. Si ritrasse, incredula, lasciando fare al ragazzo: lui l’aveva già tirata via e chiuso di scatto la porta di legno. La fissava, sorridendo in lieve imbarazzo. Niente in confronto a come si sentiva lei. Non osava immaginare a cosa avrebbe combinato accendendo la luce. Fu lui a parlare, sussurrando:

“ Ho fatto lo stesso errore, poco fa. Ho rischiato il linciaggio. Volevo evitarti il pericolo.”

Lei sorrise appena, pensando che sì, non doveva essere piacevole venir interrotti ripetutamente in una situazione come quella. Sospirando poggiò le spalle al muro, guardando il giovane che tanto gentilmente aveva avuto la prontezza di fermarla: era alto una spanna più di lei, con corti capelli neri e spettinati. Vestito di scuro, sembrava voler confondersi nell’ombra che regnava.

Il viso era aperto e cordiale però: sorridente, mostrava una sfilza di denti bianchi, e gli occhi scuri sembravano amichevoli.

Lei si accorse in ritardo della mano che gli tendeva.

“ Duncan ” disse lui, stringendo quella fredda di lei nella sua.

“ Becky ” rispose la ragazza, non riuscendo a smettere di guardarlo.

Quando sentì la voce di Eslaf, la recepì come se provenisse da molto lontano, eppure non era così: voltandosi Nell lo trovò ancora lì, dietro di sé. Sorrise, sentendo le sue parole:

- Becky, allora. Potrebbe andare sì, e almeno così smetterai di chiamarla solo con pronomi personali – mormorò, cercando di allentare la tensione che si era creata.

Nell annuì, grata per quel diversivo che le dava modo di riprendere fiato e riordinare le idee.

Tornando a poggiare la testa sulla spalla di lui, riprese il racconto da dove lo aveva interrotto.

Erano solo bisbigli i loro, mormorii che nel silenzio si facevano portatori di una storia.

 

*

 

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Capitolo 2
*** Reminescenza ***


2

Sotto l’inchiostro

 

_Reminescenza

 

 

 

 

- Becky lo osservava, stupita dal fatto che le sembrasse di conoscerlo. Forse era solo la mente che le faceva brutti scherzi.

 Forse erano le esalazioni dell’alcol, il buio, la tensione. 

Tutte quelle cose assieme, probabilmente. Ad ogni modo, continuava a guardarlo, senza dire niente.

Lui sorrideva, rilassato. La osservava, senza muoversi, senza parlare. Non sembrava avere nessuna fretta, nessuna cosa da fare. Era come se il suo unico desiderio in quel momento fosse continuare a stare lì, di fronte a quella ragazzetta. A quella piccoletta che si fingeva coraggiosa, che se ne stava nascosta in una felpa che era il doppio di lei. Fissava gli occhi in quelli grandi e spaventati di lei e non pensava a nient’altro. Lo aspettavano di sotto: aveva detto agli altri che sì, sarebbe tornato subito. Pochi minuti, ragazzi e torno giù, non preoccupatevi. 

Ci divertiremo. Così aveva detto. Ora però non se lo ricordava.

Aveva completamente dimenticato gli amici, le ragazze, tutto. Non rimaneva niente al di fuori della ragazzina che aveva davanti.

“ Vuoi qualcosa da bere, Becky ? ” chiese cortese, rompendo il pesante silenzio.

Lei scosse la testa, cercando di arretrare.

Non appena lui se ne accorse, capì di aver sbagliato. Non era l’approccio giusto, e lo aveva sospettato fin dall’inizio. Era diversa. 

Sembrava che si trovasse decisamente nel posto sbagliato e ancor di più nella serata sbagliata. 

Non era tipo da quelle cose e a Duncan, senza capire neanche perché, quell’idea piacque tantissimo.

“ Hai ragione. Per ubriacarsi qui basterebbe respirare a pieni polmoni, vero ? ” continuò lui, addolcendo il sorriso e avvicinandosi di un passo.

Becky lo osservava, con i nervi tesi, pronta a scattare. Al minimo segno di pericolo si sarebbe messa a correre e lui non sarebbe riuscito neanche a vedere da che lato era sparita.

Non lo sentiva davvero quel senso di pericolo, però. Non riusciva a capire come fosse possibile, ma l’istinto in quel momento non le ispirava paura, tutt’altro…

Studiava il ragazzo, molto vicino e con sorpresa si accorse di come nel suo alito non ci fosse il minimo sentore di alcol. 

Non aveva un atteggiamento provocatorio: le mani in tasca, i piedi irrequieti, sembrava piuttosto a disagio.

“ Vieni a fare un giro con me, Becky ? ” chiese ancora, senza toni di urgenza nella voce. Accomodante, rilassato. E sempre sorridente.

Becky osservò la fossetta che si era creata nella sua guancia e ne rimase spiazzata.

Per qualche motivo assurdo si sentiva sicura. Aveva l’impressione di doversi fidare, di dover acconsentire, di dover andare con lui. Con Duncan. 

Il ragazzo aveva spalle larghe, forti. Una caratteristica che avrebbe tanto potuto tanto spaventarla quanto confortarla.

Quando annuì, le sembrò che a farlo fosse stata un’altra.

Non potevo essere che avesse acconsentito, vero ? E se era un maniaco ?

Non voleva morire quella notte Becky, a soli diciannove anni, in una casa sconosciuta.

Duncan si era già avviato lungo il corridoio, facendole strada, ma lei non si era mossa.

Quando lui si girò, tornando a fissarla, si sentì rivolgere una domanda che lo sconcertò:

“ Vuoi farmi male, Duncan ? ”

Ecco cosa gli aveva chiesto. Con voce sicura, affatto tremante. Lo fissava, con aspettativa, attendendo solamente di veder comparire negli occhi di lui una luce maligna.

Non successe.

Duncan la guardava, non riuscendo a credere alla domanda. Non aveva mai incontrato una ragazza così, non riusciva a spiegarsi cosa in lei gli piacesse tanto. 

Solo tornò ad avvicinarsi, cacciando una mano dalla tasca del jeans ed allungandola verso di lei, con il palmo rivolto verso l’alto.

Voleva che lei la prendesse. Voleva che fosse lei a fare il primo passo, fidandosi.

“ Non lo farei mai, Becky. ”

Qualcosa nella voce del ragazzo la toccò fin nel profondo.

Il tono, la serietà nello sguardo: o era un bugiardo di prima qualità, o diceva la verità.

E Becky propendeva per la seconda. Sorrise, portando con timore la mano in quella di lui.

Duncan ricambiò il sorriso, facendo formare di nuovo le fossette di poco prima, e strinse la mano della ragazza. Protezione, ecco cosa sembrava volerle assicurare con quella presa.

La guidò lungo il corridoio, svoltando poi a destra e proseguendo a passo svelto. Non correva troppo, aveva anzi adeguato il suo passo a quello della ragazza. Becky non riusciva a guardarsi attorno. Non vedeva niente: né i corridoi né le porte né le scale. Niente al di fuori di lui. Di Duncan.

Ne fissava la mano: quella che stringeva, grande, calda, morbida. Quella che contro ogni logica le ispirava sicurezza, calma. Promesse in cui stentava a credere.

I suoi occhi erano come incatenati. Se non fissavano la mano di lui, si spostavano a rilento sulla sua schiena, sulle sue spalle. Al massimo sulla testa. Non riuscivano ad inquadrare nulla di più e lei non ne sembrava preoccupata. Non le importava. Quando Duncan si fermò, lo fece con calma, dandole modo di percepire il leggero rallentamento e di non finirgli contro, sbilanciandolo. Becky sollevò irrequieta lo sguardo, trovandosi di fronte una porta finestra. Era grande, enorme quasi. Fu lui ad aprirla, facendola scorrere piano.

“ Andiamo? ” chiese, con voce bassissima.

Lei non rispose, seguendolo docilmente. Uscirono, accolti subito da una forte brezza.

Era fredda, sinuosa: morbida e al tempo stesso raggelante.

Non vi erano illuminazioni e ci misero qualche minuto ad abituare la vista, quando gli occhi si furono sufficientemente abituati però riuscirono tranquillamente ad inquadrare il luogo. Duncan sapeva dove si trovavano, non ne rimase sorpreso più di tanto. Becky invece restò sconcertata, al punto da non accorgersi che lui le aveva lasciato la mano.

Erano usciti all’esterno: in terrazza. Un balcone enorme. Pieno di fiori, con un muretto basso a recintarne il perimetro. Grazie all’assenza di luci, l’atmosfera era bellissima.

Suggestiva, sarebbe stato solo un eufemismo.

Il cielo era di un nero pece, così scuro da sembrare un’unica macchia di inchiostro. C’erano però, dei minuscoli puntini luminosi a brillare in quel nero. 

Tanti, tantissimi, innumerabili puntini. Brillavano, quali più quali meno. Di una bellezza incomparabile.

Becky adorava le stelle, le erano sempre piaciute. Mai quanto quella sera, però.

Il vento agitava le foglie, era come se desse voce a tutte quelle piante. Muoveva i fiori, dava vita ad ogni cosa. 

E anche i capelli di Becky cedettero presto a quella forza: presero a sollevarsi e ruotare, abili e vivaci.

Lei non se ne accorse. Non pensava a sé, non pensava al vento, e nemmeno a Duncan.

Il paesaggio in qualche modo era riuscito a distrarla totalmente.

Lo sguardo non si fermava, scorrendo su ogni cosa, veloce, instancabile. Passò senza fermarsi dal cielo al terrazzo, raggiungendo rapida la discesa sotto di loro: la base della collina, ecco cosa avevano sotto i piedi. E continuando, proseguendo lungo quella strada, si raggiungevano le miriadi di altre lucine: quelle che sembravano voler far concorrenza alle stelle, quelle che però si trovavano per terra. Ed erano le case. Erano i lampioni, le finestre, le vetrine, le macchine. Tutto ciò che era vita. Sintomi del fatto che la vita continuava…

Becky sorrise, estasiata da quella vista, e solo in quel momento si accorse del fatto che Duncan non le teneva più la mano: non era vicino a lei, né alle sue spalle. Si era allontanato di qualche passo, fermandosi vicino al parapetto, i gomiti poggiati sul muretto ed il viso fra le mani. Non la guardava, lo sguardo perso sotto di sé.

“ Cosa ci fai qui, Becky? ”

Lo aveva chiesto lui, facendo trasalire la ragazza. Lei lo credeva distratto, per questo non si aspettava di sentirne la voce. Era un tono dolce il suo, però, un tono che le piacque.

Perciò, dopo un attimo di silenzio, rispose.

“ Non credo di aver capito la domanda ”

“ Perché sei qui? ” ripeté lui, girandosi per guardarla in viso. Sorrideva.

“ Non è il tuo posto, Becky ” continuò, cercando di chiarirsi.

“ Sembri un pesce fuor d’acqua. Non sei adatta a queste feste, o sbaglio? ”

Lei non rispose, respirando piano, le mani in tasca. Sembrava voler imitare il modo di fare del ragazzo, quasi per sentirsi più sicura.

Lui la osservava, in attesa.

“ Sbagli ”

“ Tu dici? ” ribattè lui, senza spostarsi, continuando semplicemente a fissarla.

“ Sì. Perché non mi conosci. Perché non sai niente, e non hai il diritto di giudicare. Perché per quello che sai, io potrei anche essere una prostituta, o una poliziotta in borghese. Tu non sai niente, e non…”

Lui non le lasciò il tempo di concludere, interrompendola quasi brutalmente:

“ Non sei una prostituta e nemmeno una poliziotta. Di questo sono sicuro. So anche che sei una studentessa, che frequenti lettere, terzo anno. Certo, hai ragione su qualcosa: è vero che non ho il diritto di giudicare. Ma non stavo giudicando. Ti chiedevo semplicemente il perché della tua presenza qui, nell’ultimo posto in cui mi sarei aspettato di incontrarti ”

Becky rimase in silenzio per qualche minuto questa volta.

Era rimasta sconcertata dalle parole di Duncan, parole che non si aspettava. Aveva detto cose vere, con una sicurezza allarmante. Sapeva che frequentava l’università, così come che aveva scelto lettere e che era al terzo anno. Eppure lei non era riuscito a riconoscerlo.

Vedendolo aveva avuto una sensazione di familiarità, ma non se la spiegava.

Poi, lui l’aiutò. Inconsapevolmente.

Mosse la mano, portandosela dietro il collo. In un gesto che poteva tanto sembrare di pudicizia quanto di autorevolezza. Un gesto ambiguo ed al tempo stesso dolce, rassicurante.

E fu per quel gesto a colpirla, quel gesto a farle capire con chi aveva a che fare.

Ritornò subito con la mente a tutte le lezioni che aveva avuto con il professor Belga, e pensando a quelle lezioni, ricordò anche lui. Il tirocinante.

Ripensò a quando camminava fra i banchi, chiedendo il silenzio, consegnando compiti e ritirando fogli… distribuendo sorrisi a ragazze sognanti. Sì, era proprio lui. Lui che non riusciva a smettere di passarsi quella mano dietro il collo.

Duncan si accorse subito del lampo che passò negli occhi della ragazza e capì di essere stato riconosciuto. Se lo aspettava anzi. Ci era rimasto quasi male quando si era accorto che lei non lo aveva inquadrato sul momento. Lui l’aveva riconosciuta istantaneamente.

“ Non mi andava di studiare ”

Duncan rialzò gli occhi, fissandoli in quelli enormi e spauriti di lei.

“ Come? ” chiese, distratto e sorpreso.

“ Ho risposto alla domanda che mi avevi fatto. Sono qui perché non mi andava di studiare, stasera. Qualcosa in contrario? ”

Duncan sorrise, scrollando le spalle.

“ Tutt’altro, per carità. Per quanto mi riguarda poi, l’esame con me l’hai già dato o sbaglio? Tu non sei quella che aveva quella buffa teoria sulla reminescenza? ”

Sorrideva sotto i baffi mentre lo aveva chiesto, perché era una domanda falsa: conosceva già la risposta. Voleva però vedere come avrebbe reagito lei.

Becky strinse gli occhi, accalorandosi subito.

“ Buffa, un accidenti! E’ la mia teoria. Una giusta teoria! Come ti permetti di definirla buffa? Buffa! Ma per cortesia! Ti sei almeno degnato di leggerla? O parli così, a vanvera, dopo averne letto meno di due righe? Non sopporto critiche da chi non sa di cosa parla. Non è stupida né errata né buffa! Mi sono documentata, ho chiesto in giro, cercato… ci ho sudato su quella dannata tesina. Non sarebbe giusto penalizzarmi solo per aver provato a … ”

“ Non ti ho penalizzata ”

“ L’hai appena definita buffa ”, replicò lei secca, con gli occhi stretti.

“ Hai preso il massimo dei voti ”

“ Non capisco ”

“ Non sono stato io a definirla buffa, Becky. E’ stato il professor Belga. Dopo di lui l’ho letta anche io. E mi sono trovato completamente in disaccordo. Così ho modificato il voto ”

Lei sgranò gli occhi, credendo a stento alle parole del ragazzo.

Non lo credeva possibile.

Eppure gli occhi di lui erano sinceri, fermi nei suoi, affatto indecisi. Il sorrisetto era vero, affascinante, provocatorio. Tutto in lui era eccitante.

“ Cosa avresti fatto? ”

Duncan capì in quel momento di aver vinto.

Lo capì dal viso di lei, dal modo in cui si avvicinò: gli occhi aperti, leali. Un sorrisetto al tempo stesso  incerto e indisponente. Con una mano Becky si portò i capelli dietro le orecchie, l’altra ancora affondata nella tasca della felpa.

“ Ho modificato il voto ” rispose lui, senza indugi.

Becky avanzò di un altro passo ancora, ritrovandosi così a sfiorare il corpo di lui con il suo.

Si toccavano, quasi in modo impercettibile.

Lei doveva tenere lo sguardo rivolto verso l’alto e lui il viso piegato verso il basso.

Gli occhi erano incatenati gli uni negli altri, non riuscivano a separarsi.

“ Grazie ” sussurrò lei, la voce portata subito via dal vento.

Duncan estrasse la mano dalla tasca, portando due dita sotto il mento della ragazza: le sollevò il viso, avvicinandolo ancora di più a sé. Sorrise, formando le fossette che a lei piacevano tanto. Non sapeva cosa rispondere.

Non aveva idea di cosa dire. Era come paralizzato. Dagli occhi di lei, dal rossore timido ed eccitato delle guance, dalle labbra così inavvertitamente sensuali. Poi se ne accorse.

Si accorse di quel piccolissimo movimento, e allora seppe cosa fare.

Vide come lei si mordeva l’interno guancia, tirando piano con i denti.

Nervosismo, paura, frenesia. Qualunque cosa fosse, lo portò a decidersi in un attimo.

Senza nemmeno pensarci con l’altro braccio le avvolse i fianchi, stringendola a sé.

Senza nemmeno rifletterci la guardò come se non l’avesse mai vista e non avrebbe mai smesso di farlo per questo.

Sensa fare niente, e allo stesso tempo facendo tutto, la baciò.

 

*

 

 

 

Lo ammetto, come storia è alquanto strana…

Probabilmente a ben pochi potrebbe piacere, nonostante ciò, purtroppo per voi ho intenzione di continuarla ^^

Detto questo, vi faccio tanti auguri per Ferragosto!

Non so voi ma io le vacanze non le ho ancora finite e si prospetta una prossima partenza per la Grecia…

… assenza durante la quale né io né la mia assurda storia daremo fastidio a qualcuno ^^

Un bacio,

Sara

 

 

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Capitolo 3
*** Sorsi ***


3

Sotto l’inchiostro

 

_Sorsi 

 

 

 

 

 

Valentino sospirò.

Afferrò al volo una birra e poi si accinse a salire le scale. Per lo stato in cui si sentiva, quelle poche rampe equivalevano ad una scalata del k2.

Ondeggiava leggermente, sbandando appena, ma con una mano poggiata alla parete riusciva almeno a reggersi in piedi.

Non gli andava di salire e a rigor di logica non avrebbe nemmeno dovuto farlo. Perché lo stava facendo, allora? Non riuscendo subito a darsi una risposta, con un mezzo singulto bevve un altro sorso di birra. Era la terza quella, giusto? O forse la quarta?

Stava ancora riflettendo su che birra potesse essere, quando improvvisamente gli tornò in mente il motivo per cui stava salendo le scale: doveva trovare Duncan. Trovarlo e tirarlo giù per le orecchie, ecco cosa doveva fare. Torno subito, così aveva detto. Ed era passata un’ora. E di Duncan nessun segnale. Perciò stava salendo. Duncan…

Lo aveva cercato giù, nel giardino, ma niente. E allora si era detto che forse non era ancora sceso, e che lo avrebbe trovato di sopra. Ma perché? Perché non era sceso? Aveva trovato qualcosa di meglio da fare? Non riusciva a spiegarselo. Di sotto c’erano almeno tre ragazze che sarebbero state d’accordo a sparire con lui, ma no, lui non c’era più.

Era sparito da solo.

Ed era questo a far preoccupare Valentino. Conosceva l’amico, da troppo tempo.

Duncan non era il tipo da volatilizzarsi se c’era la possibilità di concludere qualcosa. Nonostante il tasso alcolico molto alto perciò, Valentino era arrivato a chiedersi: e se gli fosse capitato qualcosa? Una botta in testa, una caduta per le scale, rissa con qualche testa calda… tutto era possibile. Si era sentito in dovere di andare a controllare. Certo come il sole però, l’avrebbe messa in conto all’amico.

Superato l’ultimo scalino si fermò un attimo per riprendere fiato.

Okay, e ora?

Valentino bevve un altro sorso, cercando di ricordarsi di chi fosse la casa. Sì, del cannaro gli sembrava. Del cannaro… Non gli veniva in mente niente.

Bevve un altro sorso. Servì.

L’illuminazione giunse. Inaspettata e immediata. La terrazza.

Riprese a camminare, sempre reggendosi al muro, la birra nella mano destra.

Raggiunse la porta finestra in quelli che gli sembrarono pochi minuti e, sebbene con qualche difficoltà, riuscì ad aprirla. Mise un piede fuori, ma non fece in tempo a mettere anche l’altro. Bloccato. Pietrificato.

Non sentiva freddo. Il venticello anzi, era confortevole. Aveva l’impressione che ci fosse più alcol che sangue nel suo sistema circolatorio e che per questo potesse tranquillamente buttarsi nella neve completamente nudo. Cos’era perciò quel venticello?

No, a sconcertarlo fu il fatto che aveva trovato l’amico.

Duncan, certo. Ma non solo.

Poggiò una spalla allo stipite, godendosi la scena. I due si stavano baciando, fermi contro il muretto, con gli occhi chiusi. Vicini, frementi. Degni di foto.

Valentino sorrise, bevendo un altro sorso.

Erano carini, poco ma sicuro. E forse non avrebbe dovuto disturbarli. Sembrava che stessero bene, e c’erano ottime possibilità che l’amico non volesse seguirlo dabbasso.

Era sbronzo, certo. Tutt’altro che lucido. Gli sembrava però che fosse un bel bacio. Davvero bello. Aveva come l’impressione che Duncan non avesse mai baciato qualcuna in quel modo. Probabilmente si sbagliava. Si poteva, in fondo, giudicare un bacio?

Sì. Valentino credeva di sì. E quello era da fuochi d’artificio.

Da guerra mondiale.

Fece per bere un altro sorso, ma la birra era finita.

Scrollò le spalle e voltandosi, uscì dalla terrazza in punta di piedi. Non voleva far rumore.

“ Valentino? ”

Per poco non inciampò nei suoi stessi piedi, cadendo così rovinosamente a terra. La voce di Duncan in quel momento, proprio non si aspettava di sentirla. Con i riflessi rallentati si girò, incontrando lo sguardo sorpreso e irritato dell’amico.

“ Dun! ” rispose, con un sorriso tirato.

“ Ti cercavo! Stavo andando via però. Continuate pure ”

Aveva anche alzato la bottiglia vuota a mo’ di brindisi, sperando che bastasse a sistemare le cose. Non fu così. I due si erano separati, allontanandosi di scatto.

Valentino osservò il modo in cui l’amico fissava la ragazza, indeciso se tenderle o meno la mano, e sorrise. Sì, Duncan non si comportava mai così, aveva visto giusto.

Lei però gli sembrava recalcitrante: sembrava addirittura più distante di quanto non fosse.

Con un sospiro si avvicinò ai due di qualche passo, cercando di rimettere in moto il cervello e trovare un modo per farli tornare assieme e scomparire al tempo stesso.

“ Dun, mi presenti la tua amica? ”

Duncan guardò Valentino con gli occhi socchiusi. In quel momento avrebbe solo voluto buttarlo giù dal balcone. Aveva rovinato tutto. Idiota.

“ Lei è Becky. Becky, Valentino ”

Fece comunque le presentazioni, osservando i due stringersi la mano.

Valentino guardò la ragazza: non era male. Davvero no.

Non il suo tipo certo, troppo timida e fragile per i suoi gusti. Era il tipetto che piaceva a Duncan però. Quello importava. Così come importava che aveva combinato un casino.

Valentino serrò le labbra, pensando a cosa fare. Se c’era una cosa che conosceva, erano le ragazze. Doveva solo capire in che modo comportarsi.

Che doveva fare?

Dannato alcol! Non riusciva a riflettere, santo Dio!

Prima che potesse dire qualunque cosa, Duncan parlò, rivolgendosi a lei:

“ Ti va di fare due passi con me, Becky? ”

Dolce, pacato, tipico dell’amico.

Valentino scosse la testa, perfettamente conscio di quello che sarebbe successo.

Lei sollevò lo sguardo, incontrando quello del ragazzo per poi distoglierlo subito dopo.

Scosse la testa, arretrando anche di un passo. Rifiuto netto.

Valentino sorrise. Come volevasi dimostrare.

Sorrise perché gli era venuto in mente cosa fare. Avrebbe risolto tutto in meno di cinque minuti, ne era sicuro. Perché lui le conosceva le ragazze.

“ Duncan, se non devi andare da nessuna parte con Becky… torni giù con me? Io e gli altri ti aspettavamo già da un po’. C’è anche una certa Melissa che dice di conoscerti e voleva assolutamente che ti trovassi perché potesse vederti. Se sei d’accor… ”

 Valentino si era accorto delle occhiate omicida che l’amico gli aveva lanciato mentre parlava. Le aveva viste benissimo. Non gli importava però.

Le aveva ignorate.

Non esisteva nessuna Melissa.

Valentino aveva inventato tutto. E lo aveva fatto per Duncan. Perché Valentino conosceva le ragazze. Ed era sicuro di quello che sarebbe successo poi.

Ne era sicuro perché aveva visto l’espressione di Becky mentre parlava.

Stizza, gelosia, invidia.

Tutto era passato su quel viso. E ogni emozione era per Duncan.

Solo il diretto interessato sembrava non essersene reso conto.

Duncan lo interruppe di colpo, non riuscendo a capire dove l’amico volesse andare a parare. Gli sembrava ubriaco fradicio.

Con un moto di urgenza si avvicinò di nuovo a Becky, pronto quasi ad afferrarla e tirarla di nuovo a sé.

“ Ti prego, Becky. Vieni con me. ”

Valentino si sentiva più leggero, certo di aver rimediato al suo errore. Pensava anche che ora lui e l’amico erano di nuovo pari, non avrebbe avuto nessun potere su di lui. Non era importante però, non quanto il fatto che la ragazza, dopo solo un attimo di indecisione, aveva risposto con un filo di voce:

“ Sì ”

Valentino sorrise ancora, incurante anche del fatto che la bottiglia fosse vuota.

Con una scrollata di spalle si girò, lasciando finalmente la terrazza e cominciando a scendere cautamente le scale. Altri pochi scalini e avrebbe preso una nuova birra.

Mentre li scendeva però quegli scalini, ripensò a Duncan che aveva lasciato di sopra: non stava di certo male, si disse. Era in compagnia. Ottima compagnia. Non riusciva a togliersi dalla testa l’espressione estatica che aveva attraversato il viso dell’amico quando lei gli aveva detto di sì. Era un bene, poi?

Andava bene che quello stupido si facesse incastrare così da una ragazza? Valentino scosse la testa, meno lucido di prima.

Arrivato in fondo alla scalinata si avvicinò ad un tavolo e afferrò il primo bicchiere che gli capitò a tiro. A proposito… ma Duncan come stava messo ad alcol? Valentino chiuse gli occhi, cercando di concentrarsi. Aveva bevuto la prima birra con lui, e lo aveva visto bere la seconda. Poi?

Da solo si era bevuto la terza, e forse anche la quarta… aveva perso di vista Duncan però. No, era sicuro: almeno tre le aveva bevute anche l’altro.

Certo non era sobrio, si disse Valentino, con uno strano sorriso. Becky, poi, era sicuro che avrebbe avuto su Duncan l’effetto di altre due birre.

“ Al volo! ”

L’urlo lo colse di sorpresa ma seppur con qualche attimo di ritardo, riuscì ad afferrare la lattina che gli era stata lanciata. Valentino ridacchiò, guardandosi attorno alla ricerca di chi gliel’avesse tirata. Non ci mise troppo ad individuare nella folla Giuseppe: il ragazzo svettava a quasi due metri di altezza, non vederlo sarebbe stato difficile.

Velentino gli si avvicinò, accennando un grazie con la mano.

“ Oi Vale, ma che fine avevi fatto? Ti abbiamo perso! Non dovevi tornare con Dun? ”

Valentino sospirò, sentendo già la mancanza di Duncan. E ora che avrebbe dovuto dire?

Che non l’aveva trovato? Non sarebbe stato da lui, anche in capo al mondo era sicuro che sempre e comunque avrebbe ritrovato l’amico.

E allora?

“ Scusa il ritardo, Peppe. Non l’ho trovato. Sopra di sicuro non è, che ci vuoi fa?”

Aveva optato per una mezza verità. Del resto sì, lo aveva trovato… che sopra non fosse più però era vero. Certo, ora non avrebbe scommesso su niente, ma era abbastanza sicuro dell’ultima immagine che aveva dell’amico.

Ricordava Duncan. Un Dun sorridente, con gli occhi lucidi, che stringeva la mano di una ragazza. E altrettanto bene ricordava che i due non erano più in terrazza.

Scendevano la scala, ecco cosa stavano facendo.

La scala che portava in giardino.

La risata di lei, unica colonna sonora di quel breve filmino.

Eh già…

Scuotendo la testa, Valentino bevve un altro sorso di birra.

 

*

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Capitolo 4
*** Fra mille ***


4 Fra mille

Sotto l’inchiostro

 

_Fra  mille

 

 

 

 

 

“ Dove andiamo? ”

“ E’ importante? ”

Becky sorrise, stordita dalla situazione.

Non riusciva a credere a quello che stava succedendo. Le risultava così difficile, quasi temesse si trattasse solamente di un sogno. Un bellissimo sogno.

“ No. La prenda per pura curiosità, professore ”

Duncan si bloccò sui suoi passi, sorpreso dalla risposta della ragazza.

Com’è che lo aveva chiamato?

Sorrise, divertito come non mai. Professore! Incredibile. Si girò, per ritrovarsi faccia a faccia con lei. Senza lasciarle la mano si fece ancora più vicino.

“ Mi hai chiamato professore, Becky? ” chiese, il riso nella voce.

“ Sì. Problemi? Preferisci prof. forse? ”

Duncan scosse la testa, inebetito da lei. Riusciva sempre a sorprenderlo.

La ragazzina timida e schiva di prima, sembrava essere scomparsa, sostituita da una decisamente più disinvolta e maliziosa.

E la cosa lo faceva impazzire.

Un altro passo e la prese tra le braccia, stringendole i fianchi.

“ Mi piace prof… ha un non so che di eccitante ”

Capì di aver fatto un passo falso non appena sentì Becky tentare di liberarsi dalla sua stretta. Lui non la lasciò. Non lo avrebbe fatto.

Sbagliava certo, più di quanto avrebbe fatto normalmente.

Non volutamente, però.

Era colpa dell’alcol e lo sapeva. Lo reggeva bene, rimanendo sufficientemente lucido. L’unico problema era che alcune riflessioni gli uscivano rallentate, al contrario delle parole che invece gli sgorgavano di bocca, spesso anche senza il suo consenso.

Quello era il problema. Ah, e certo poi anche il fatto che se raggiungeva le tre, o quattro birre, la mattina dopo faticava non poco a ricordare come ci era arrivato a quel numero.

Ora però non riusciva a pensare alla mattina successiva.

Gli occhi di nuovo indecisi della ragazza che stringeva fra le braccia occupavano ogni suo pensiero. Erano come un blackout totale.

Aveva sbagliato, ma poteva rimediare.

“ Scusa ”

“ Di cosa? ” ribattè lei, con uno strano tono di voce.

Non lo guardava negli occhi, maledicendosi mentalmente. Era una stupida, ecco cos’era. Niente di più, niente di meno.

Perché diavolo reagiva in maniera così drastica? Cos’aveva fatto quel povero ragazzo?

Niente.

Una battutina. Ecco tutto. Neanche tanto spinta, poi.

E lei? Lei subito aveva tentato di arretrare. Di scappare. Perché?

Lo sapeva che festa era. Sapeva a cosa si sarebbe dovuto andare a finire. Le era stato chiaro fin dall’inizio. E come era chiaro a lei, lo doveva sicuramente essere per ogni ragazzo lì presente. Non poteva certo aspettarsi che proprio quello che si era trovato lei, Duncan, non pensasse a quello… non sperasse di arrivare a divertirsi.

Certo, che era a quello che pensava.

Ma lei poteva farcela? Così. una botta e via?

Dio! Che orrendo modo di dire! Non riusciva nemmeno a pensarci! C’era lui però. Lui così dolce, lui con i suoi occhi che riuscivano a farle impazzire il cuore.

Lui che l’aveva baciata. E che bacio…

Aveva tentato di allontanarsi, ma poi aveva sentito la presa delle mani di lui aumentare, stringendo maggiormente i fianchi. E aveva smesso di scappare.

Si era riavvicinata, sollevando lo sguardo per incontrare gli occhi di lui.

Credeva di riconoscerci desiderio, brama, impazienza folle. E invece no.

C’era sì desiderio, ma era contenuto, al punto da riuscire unicamente a far aumentare il suo. Non trovò quello che si aspettava.

La luce in cui si imbatté era provata. E Becky non riusciva a capirne il perché. Che diavolo prendeva a quel ragazzo?

Poi sentì il sussurro, proprio vicino al suo collo.

Incredibile.

Scusa.

Aveva chiesto scusa. E non aveva fatto niente. Non riusciva a crederci, a spiegarselo.

E ancora di più si diede della stupida, per star rovinando tutto. Era un’occasione d’oro. Di quelle che capitano solo nei sogni… Duncan.

Quante volte, mentre camminava per l’aula, aveva distolto lo sguardo da lui? Non lo guardava.

Non lo faceva perché sapeva che altrimenti non sarebbe più riuscita a smettere.

Ora però poteva guardarlo quanto voleva, fissarlo a suo piacimento.

Becky sorrise, poggiando le mani sul petto del ragazzo.

Respirando piano, mosse piano la mano destra, portandola fino al suo viso. Percorse lentamente il tragitto, soffermandosi sulla curva del collo, sull’accenno di barba della mascella… per fermarsi poi in una carezza sulla guancia.

Era lei a doversi scusare, non lui.

“ Scusami tu ” mormorò, posando solo per un secondo le labbra all’angolo della sua bocca.

Duncan si sentì avvampare, preso completamente in contropiede.

La guardò, incantato.

“ Sei bellissima, lo sai? ” lo aveva chiesto senza riuscire a fermarsi.

Aveva semplicemente dato voce ai suoi pensieri.

Anche lui sollevò una mano, accarezzando il viso di lei. Indugiò sulla bocca della ragazza, giocando con le labbra di lei, carezzandole dolcemente.

“ Non è vero ”

Quasi non l’aveva sentita. Eppure lei lo aveva detto.

Scherzava, forse?

Duncan non riusciva a spiegarselo, osservandola senza capire. Per quanto lo riguardava era la cosa più bella che avesse mai visto. E ne aveva viste tante.

“ Sì che è vero, Becky ”

“ No. ”

Prima che Duncan potesse ribattere qualsiasi cosa, lei continuò, implacabile.

“ Ce ne sono tante più belle di me che farebbero carte false per averti… anche quella Melissa che ti aspetta dentro sono sicura che è meglio di me. Non so perché sei qui a perdere tempo, Duncan. Non so cosa ti aspetti… forse davvero ti conviene lasciar perdere e cercartene un’altra. Non dovresti… Ti sei sbagliato ”

E avrebbe voluto continuare, ma lui non gliene diede modo.

La interruppe, di colpo.

Stringendola con impeto, premendo con foga le labbra sulle sue. All’inizio credeva che la ragazza stesse scherzando, un gioco che non conosceva.

Ma poi aveva sentito la voce di lei spezzarsi, con tristezza, rabbia…

E non ci aveva visto più.

“ Non mi sono sbagliato, Becky ”

Lo aveva mormorato, distante pochi millimetri dalle labbra di lei.

“ Sei sicuro? ”

Duncan le sorrise, guidando le braccia della ragazza dietro il suo collo. Voleva sentirla sua, più di ogni altra cosa.

Non era mai stato più sicuro di qualcosa.

“ Sì ”

Becky agitò le dita, giocando con i suoi capelli. Era troppo bello per essere vero.

“ Perché dici così? ”

“ Così cosa? ”

Lei scosse la testa, tentando di frenare la discesa dei suoi baci. Le stava ricoprendo il volto, dalla fronte al collo, senza riuscire a fermarsi.

E lei temeva che se avesse continuato a quel modo avrebbe potuto avere un infarto proprio lì.

“ Cosa ti dice che non è per l’alcol che vedi le cose come non sono? ”

Duncan si bloccò un attimo, guardando Becky negli occhi.

Si piegò leggermente, portando le mani sotto le cosce di lei.

La sollevò, prendendola in braccio. Lei strinse la presa attorno al suo collo e, quasi senza rendersene conto, allacciò le gambe ai fianchi del ragazzo.

“ Non mi sbaglio, Becky ”

Lei per poco non lo sentì, il volto affondato nel collo di lui.

Fu lui a farle alzare il viso, due dita sotto il mento.

“ Ti noterei fra mille ”

 

*

 

 

Ed ecco un altro capitolo…

A dir la verità non ho idea di come sia, né di come possa sembrare a chi legge. ^^

Certo mi piacerebbe saperlo: sapere se fa provare qualcosa, se piace, qualunque cosa! **

Ringrazio comunque tutti, chi legge, chi passa, e in particolare ssundew che ha commentato *.*

Alla prossima,

Sara

 

Ssundew:  Sono contentissima che ti sia piaciuta la mia stramba idea della storia nella storia. Ti assicuro che sono stata indecisa fino all’ultimo, ancora ora lo sono un po’ ^^… Ti ringrazio per i complimenti, e ancor di più per i consigli! Hai ragione ad esempio sul fatto che all’inizio ho ripetuto troppo i nomi, cercherò di correggere il prima possibile. Grazie ancora! **

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