Sotto l’inchiostro
“ Non posso farci niente, lo
sai ! ”
Si passò una mano sugli occhi, tirando su con il naso e
sorridendo stancamente.
Non era colpa sua: era tutto merito del buio.
Della notte, ad essere precisi: delle stelle, della luna, anche
delle sporadiche e minaccianti nuvole; dell’atmosfera in generale.
Non era sua la colpa, comunque. Poco ma sicuro.
Mosse le dita sulla tastiera, socchiudendo appena gli
occhi, giocando con i tasti piena di buoni propositi.
Si sentiva pronta, eccitata: completamente in
fibrillazione.
E niente l’avrebbe smossa dal suo proposito.
Non si curava del compito in classe che avrebbe dovuto
affrontare la mattina successiva.
Né del fatto che l’ora fosse già tarda né dei
piccoli puntini bianchi che ora vedeva davanti agli occhi.
Non aveva sonno, o almeno voleva credere di non averlo.
Tutto quello che sapeva era che un’idea
l’aveva svegliata, costringendola con metodi blandi ad alzarsi dal letto
e raggiungere la scrivania: ancora in stato di incoscienza aveva acceso il
portatile, sgranchendosi le dita senza nemmeno rendersene conto.
Sentì la pendola del nonno, quella che suonava ogni ora,
battere due rintocchi dal piano di sotto.
Scrollò le spalle, pienamente indifferente: erano le due,
e allora?
Era forse un problema?
No, si rispose da sola. No, che non era un problema.
C’era un motivo se si era svegliata e lo sapeva
benissimo. Lo sapeva lei e lo sapeva Salem, il gatto. Anche lui, poverino, si
era svegliato con lei, o meglio era stato svegliato dal calcio che lei gli
aveva involontariamente sferrato scendendo dal letto.
E lui, ormai abituato a quella routine era sceso,
sbadigliando ed allungando le zampe posteriori: l’aveva seguita
silenziosamente per poi acciambellarsi sulla scrivania, godendo del calore
diffuso dal computer.
Lei sorrise, passandogli pigramente la mano sul lucido
pelo bianco: sì, bianco. Un bianco candido, al punto da sembrare quasi
rilucente. Non era nero, come ci si aspetterebbe: non aveva niente a che fare
con i gatti delle streghe, quelli dei racconti dell’orrore. No, lui era
buono, dolce, affettuoso, con due enormi e languidi occhi azzurri. Eppure lei
lo aveva chiamato Salem, così, perché le andava e perché sentiva che era
giusto. Il gatto non si era mai lamentato.
- Che fai alzata ? -
Sobbalzò, sentendo quella voce.
Fece girare piano la sedia, senza far rumore, cercando nel
buio.
Non è facile cercare nel buio, soprattutto se non si è un
gatto e non si ha la capacità di vedere, in quel buio.
Per lei era così: tutto era una massa indefinita, senza
contorni e quindi irriconoscibile.
Non ci mise troppo a capire da dove proveniva la voce,
però.
Si era quasi abituata ormai: così individuò velocemente,
ai piedi del letto, quel corpo ancora più nero del nero in cui era immersa.
Sospirando si adagiò comodamente, facendo aderire il corpo allo schienale della
sedia, e sorrise.
Ebbe l’impressione di sorridere al niente, almeno
finché lo schermo del computer non prese ad illuminarsi, diffondendo una fioca
luce nella stanza. A quel punto, con somma soddisfazione, cominciò a vederci di
nuovo.
Con la vista riacquistata, oltre all’immagine
sfocata della sua stanza, in primo piano le apparve finalmente chiara la figura
di lui: se ne stava lì, di fronte a lei, seduto sul bordo del suo letto.
I piedi sul tappeto, le mani nelle tasche. Non aveva
un’aria amichevole.
- Sai che ore sono? – chiese, con voce tagliente.
Era una domanda retorica, eppure lei si sentì in dovere di
rispondere.
- Le due e qualcosa, credo -
- Esatto. Le due. Di mattina. – di nuovo quella voce
arrabbiata, di chi a stento si trattiene dall’urlare.
Perché mai poi ? Mica l’aveva obbligato…
Non ottenendo alcuna replica lui sembrò spazientirsi:
assottigliò lo sguardo e ritornò alla sua prima domanda.
- Che fai alzata, Nell ? -
- Lo sai. Che me lo chiedi a fare ? – rispose lei
irritata, scrollando le spalle.
- Te lo chiedo perché speravo di sbagliarmi, ecco perché!
La devi smettere di fare così, devi cominciare a prenderti le tue
responsabilità, a pensare alle conseguenze delle tue azioni, santo cielo! Non
sei più una bambina, non puoi più contare sempre e solo sull’aiuto
degli…-
Lei lo interruppe, incurante di tutto ciò che aveva detto
fino a quel momento.
- Mi è venuta una nuova idea -
- Cosa ? –
Si era zittito improvvisamente, studiando con disappunto
la figura di lei: se ne stava su quella sedia a gambe incrociate, con indosso
un pigiama nero pieno di cuoricini rossi; una coperta di pile bianca sulle
spalle, pantofole sopra i calzini… ma quello che più di tutto gli tolse
momentaneamente la parola fu il suo viso: i capelli rossi e lisci tenuti dietro
le orecchie, le lasciavano libero il visino piccolo e dolce.
La pelle bianchissima, tendente al pallido, era in
contrasto con i grandi occhi verdi che, sgranati, sembravano luccicare nel buio
e le labbra a cuore, rossissime quasi più dei capelli, erano tremanti e
leggermente dischiuse.
- Non è possibile – ansimò lui, incredulo.
L’aveva trovata in quello stesso stato febbrile meno
di una settimana prima e credeva che se ne sarebbe stata buona per un
po’.
Invece no.
- Sì. Non ci credevo neppure io e invece sì! Una nuova
idea, Eslaf. Riesci a crederci ? -
Avrebbe voluto risponderle che no, non riusciva a
crederci. E nemmeno voleva.
Non disse niente però, si limitò a guardarla ancora: ad
osservare l’espressione estatica di lei, il modo in cui agitava le dita
senza accorgersene e l’intensità con cui lo fissava.
Era il suo lavoro in fondo, no? Era così che doveva
andare, punto.
Perciò, senza fiatare, sorrise. Era la prima volta che
sorrideva da quando l’aveva fatta trasalire con la sua voce, e lei ne fu
felicissima.
Il suo sorriso aveva un effetto placebo su di lei: meglio
di qualsiasi calmante o droga.
Il che era, al tempo stesso, un bene e un male.
Ancora una volta, comunque, non poteva farci assolutamente
niente.
Tutto quello che le riuscì fu di ricambiare il sorriso di
quel ragazzo così tetro, vestito interamente in nero: scarpe nere, jeans neri,
camicia e giacca nere. Anche i capelli lunghi fino alle spalle lo erano, così
come gli occhi.
E gli occhi erano un che di spaventoso ed unico, perché
sembravano buchi neri.
Erano contemporaneamente inespressivi e pieni di
significato: il nero anice delle pupille si confondeva con quello delle iridi,
facendone un tutt’uno. Occhi di ebano.
Solo il viso era uno sprazzo di colore, se colore si
poteva definire quel rosa opaco.
Non era brutto, però. Tutto il contrario. O almeno, era
così che la pensava lei.
La cosa più importante poi era che all’oscurità
esteriore, a quell’aspetto da addetto alle pompe funebri, si opponesse
una mente brillante.
Anzi, brillante era un eufemismo con lui.
Eslaf era indescrivibile.
- Nell -
Sentendosi chiamare, sobbalzò ancora una volta,
incontrando di slancio i suoi occhi, perdendosi in quei maledetti e attesi
buchi neri.
- Sì ? -
- Che idea ti è venuta ? – chiese lui, paziente.
Aveva un sorrisetto ancora fisso, a modellargli le labbra.
Si era sistemato meglio sul letto, sdraiandosi ed allungando le gambe: le mani
non erano più nelle tasche, ma ben piazzate dietro la testa, a mo’ di cuscino.
- L’idea per una nuova storia – rispose lei
con ovvietà, quasi offesa dal fatto che lui non l’avesse intuito.
- L’avevo capito questo, - spiegò lui – quello
che ti chiedevo era che genere di
storia, Nell –
- Oh, bè allora viene il difficile –
- Perché Nell ? –
Lei sorrise, accarezzandosi le braccia, leggermente a
disagio.
Non sapeva come spiegarglielo, o forse non voleva.
Lui però continuava a incatenarla con lo sguardo, per
niente accomodante. Voleva delle spiegazioni. Le pretendeva.
Non era la prima volta che trovava Nell in quelle
condizioni, sperava di riuscire in qualche modo a farla ragionare e rimandarla
a letto, sotto le coperte.
- Eddai Eslaf, lo sai… renditi conto che è stata
l’idea a svegliarmi! Non potevo ignorarla, hai presente come succede, no?
Dovevo alzarmi. Dovevo scriverla. E se poi me ne fossi dimenticata, sai che
catastrofe ?! -
- Nell – sospirava, adesso, cominciando ad intuire
la situazione. Continuò imperturbabile, con voce calma e moderata. Doveva
giocare bene le sue carte:
- Nell, è tardi. Sai meglio di me che quando una cosa ti
entra in testa, non ne esce più. La tua è una stupida quanto futile paura. Non
dimenticherai l’idea. Tornatene a letto, adesso –
- Non ci penso proprio! – ribattè lei,
accalorandosi.
- Sì che lo fai, invece. Domani hai compito di matematica,
santo cielo! Devi dormire! –
Aveva parlato con uguale e maggiore enfasi di lei, ma
sapeva di aver perso.
Lo sapeva perché aveva perso in partenza.
Da quando gli occhi verdi della ragazza, umidi e timorosi,
si erano fermati nei suoi.
- Nell… -
Era stato un semplice sussurro questa volta, un mormorio
che sapeva di preghiera.
Inutile.
Resse solo per un istante ancora lo sguardo di lei, poi,
sconfitto, le concesse la vittoria. Con un gridolino di gioia lei fece girare
di nuovo la sedia, dando le spalle a lui e posando gli occhi sullo schermo
bianco del computer.
Un foglio bianco di word era già aperto: si apriva in
automatico.
Eslaf sospirò ancora, osservandola scrivere il suo nome in
cima al documento.
Sapeva che opporsi ancora non sarebbe servito a niente:
sottolineare ad esempio che di storie lei ne aveva già iniziate a centinaia e
che nemmeno una di queste era conclusa, sarebbe stato solo sbagliato. Sarebbe
stato anzi un colpo basso. Sì, e in più non sarebbe stato da lui.
Aveva un animo da scrittrice la ragazza, e lui lo sapeva
meglio di tutti.
Era sempre stato così: quella era solo l’ennesima
volta, una delle innumerevoli, troppe volte, in cui la trovava sveglia in piena
notte, preda di una frenesia che era solo sua.
Sua e di nessun altro.
Riaprendo gli occhi si accorse che lei era ancora
concentrata sul nome che stava scrivendo: il suo nome. Lo scriveva e poi lo cancellava. Ancora e ancora.
- Problemi ? – chiese, con il sorriso nella voce.
- Mm… -
Lui richiuse gli occhi, sapendo perfettamente cosa stava
succedendo: non era la prima volta.
La ragazza scriveva il nome completo, Ornella Fergi, per poi eliminarlo subito dopo.
Eslaf richiamò alla mente le altre volte in cui era
successo, i discorsi precedenti:
Qual è il problema?
E’ che non mi
piace.
Cosa?
Ornella.
Non ti piace il tuo
nome?
No.
Ma…
Non mi rappresenta.
Non sono io, Ornella.
E allora non
scrivere Ornella.
E come se si fossero detti quelle stesse cose lui ruppe il
silenzio, sicuro:
- Non scrivere Ornella, scrivi Nell –
Sorrise davvero, riaprendo gli occhi, soddisfatto.
Si era convinto a prendere parte a quel gioco finalmente,
ancora una volta.
Era il loro
gioco, in fin dei conti.
- Hai ragione: Nell va meglio – acconsentì lei, soddisfatta.
- Siamo a posto con il nome quindi, passiamo al titolo?
–
- “Please, remember”, ti piace ?
– chiese incerta, attendendo una conferma.
Lui annuì impercettibilmente prima di commentare,
divertito:
- Oh, è magnifico… se non sbaglio anzi, è anche il
titolo di una canzone di Celin Dion; a parte questo però, se non mi dici di che
parla la storia, non posso aggiungere altro, Nell -
Lei rigirò la sedia, tornando a dare le spalle al computer
e a quel foglio non più tutto bianco: un piccolo nome in alto a destra e un
titolo più giù a sinistra, gli davano un
po’ di colore.
- Allora, vediamo. Mi ascolti, Eslaf ? – domandò,
temendo che si addormentasse.
- Certo che sì, Nell. Sono tutto orecchi –
Ignorando quell’ironia che era parte integrante di
tutte le sue frasi, lei continuò:
- Non è proprio allegra come storia, partiamo da questo -
- Più della metà delle tue storie non sono allegre, Nell.
O muore sempre qualcuno, o il protagonista è terribilmente depresso. Non so come fai a scriverle con il sorriso
sulle labbra –
Lei sgranò gli occhi, senza più fiato dopo quella sua
interruzione:
- Credi che… -
- Non fraintendere, ti prego. Sono bellissime. Toccanti
nel loro modo di essere. Solo mi chiedevo perché non ti viene mai in mente una
storia più adatta alla tua età. – continuò lui, prima che lei potesse
dire qualcosa.
- In che senso? –
- Nel senso che sei in piena adolescenza. Dovresti avere
gli ormoni impazziti e scrivere unicamente storielle banali d’amore. Hai
presente, no? Quelle che fanno venire il diabete –
Sorridendo Nell alzò gli occhi al cielo.
Eccolo finalmente il suo Eslaf: stava tornando in sé. Ora
sì che lo riconosceva.
Fece spallucce, conscia del fatto che lei non aveva una
risposta e lui non se l’aspettava davvero.
- Dicevo, prima che tu mi interrompessi, ripetutamente ci
terrei a precisare ma non lo faccio… dicevo, che la storia forse è un pochino triste. Malinconica, per lo
più, ecco. -
- Sono scoccate le tre, Nell. Vediamo di non fare giorno,
okay? –
Sbuffando lei gli fece cenno di tacere con la mano,
minacciandolo quasi, e lui sorridente ubbidì.
- Il punto di vista è quello della protagonista, ancora
senza nome, che se
ne sta nel giardino del campus, ai piedi di un albero, con un libro sulle
ginocchia e … -
- … un bruco che le cammina sulle scarpe? Non
avevamo detto di sintetizzare, Nell? –
L’occhiata che gli scoccò avrebbe potuto farlo
bruciare di autocombustione.
- Scherzavo, Nell -
- Lo so. E so anche che mi stai rompendo –
Se ne stava ancora sdraiato, sorridendo sotto i baffi
questa volta.
- Scusa, non lo faccio più – disse, facendo il gesto
di chiudersi la bocca e gettare via la chiave.
Lei sospirando scosse la testa: chissà perché quella
chiave la ritrovava sempre troppo in fretta.
- Lei quindi sta lì, non ti azzardare a rovinarmi ancora
l’atmosfera!, e invece di guardare il libro
come dovrebbe, tiene lo sguardo fisso di fronte a sé, su qualcuno -
- Un ragazzo voglio sperare, o hai cominciato a scrivere
di amori alternativi ? No, perché sarebbe interessante, sai ? Dovresti provare
–
- Ma tu non avevi buttato la chiave? –
- Ne avevo una di riserva. Butto anche questa ? –
- Sì, grazie – rispose, fra il divertito e
l’irritato, continuando poi come se niente fosse successo:
- Questo qualcuno, un lui, se
ne sta mezzo sdraiato su una panchina poco distante, insieme a una ragazza.
Abbracciati, baci e carezze, la solita solfa insomma e lei… -
- Sogna il triangolo – mormorò lui, con voce
sognante.
La provocava volutamente, lo sapevano entrambi. Ma non
importava.
Perché avevano dimenticato entrambi che fosse piena notte,
che fossero passate le tre e che di lì a cinque ore ci sarebbe stato un compito
in classe. L’unica cosa a cui pensavano ora, non era possibile spiegarla:
non erano più nella camera di Nell, erano nel giardino di quel college, ai
piedi della quercia, sotto un cielo in cui il sole si accingeva a tramontare.
Tutto quello che importava era la voce di Nell.
- Che triangolo? -
- Il triangolo fra lei, il ragazzo sulla panchina e la
ragazza che pomicia con il ragazzo – rispose lui.
- No. Giuro che te la cucio io la bocca, Eslaf, se non te
ne stai un po’ buono –
- Okay, okay, continua. Perché lo fissa ? –
Lei fece fare un giro completo alla sedia prima di
continuare, con voce meno sicura:
- Lo fissa perché lo desidera – disse semplicemente.
- In che senso ? – chiese lui, tirandosi un
po’ su e reggendosi sui gomiti.
Lei lo fissò negli occhi, invitandolo a continuare.
- La solita cotta non corrisposta ? – azzardò allora
lui. Lei scosse la testa.
- No, no. Ha avuto una storia con lui, solo che lui non lo
ricorda – spiegò Nell.
- Credo di essermi perso. Come ha fatto il ragazzo a
dimenticare la loro storia ? Che fa, ha preso una mazzata in testa ? –
Sorrise sornione, sicuro che Nell si sarebbe spiegata, come
faceva sempre. Doveva solo ingranare, poi tutto sarebbe scivolato liscio come
l’olio e la storia sarebbe nata e finita, come per magia.
- Nessuna mazzata. Solo una buona quantità di alcool -
- Ma allora non era una storia quella che hanno avuto,
attenta. Se è roba di una notte non la si può definire storia. E’ stata
una notte, punto. A meno che, naturalmente, il nostro tipo non è un alcolizzato
sempre ubriaco. –
Nell strinse gli occhi, corrugando le sopracciglia.
- Vero. Una notte. Non è una storia. Come si chiama
allora? – chiese, indecisa.
- Tresca? –
- No, quella è se la si ha con qualcuno di sposato, Eslaf
– precisò lei, sorridendo. Lui sbuffò.
- Non abbiamo il tempo per bloccarci su questo, Nell. Sono
stati assieme una notte, concentrati. Poi ? Come ha fatto lui a dimenticarsene
? –
- Giusto. Ti dicevo: lei lo
fissa e lo desidera. Perché ? Perché sono stati insieme una notte e lui non lo
ricorda. E’ normale che lui non lo ricordi però. Quelle erano le regole.
Lei ha sbagliato. Lei ha infranto le regole. La colpa è sua. Anche lei non
avrebbe dovuto ricordare, ma dimenticare –
Come sempre, come lui sapeva sarebbe successo, Nell era partita.
Per uno di quei mondi che sapeva creare solo lei.
E quando finalmente entrava nel pieno del racconto, lui
non interveniva più. Non se ne sentiva in diritto e non ci sarebbe neanche
riuscito. No, perché veniva trascinato da lei, dal suo racconto… e si
perdeva al seguito delle parole che lei bisbigliava, incapace di reagire.
Si mise a sedere, fissando gli occhi di Nell che non
ricambiavano il suo sguardo. Assenti e opachi, ecco come erano gli occhi di
Nell. Ancora più belli, se possibile.
- Quelle erano le regole
prefissate, e lei lo sapeva. Glielo aveva specificato l’amica,
invitandola alla festa il sabato sera: nessun
limite, nessun legame, nessun ricordo. Ecco cosa le aveva detto.
E lei aveva accettato. Senza pensarci, aveva
detto di sì, che sarebbe andata. Lo aveva detto perché non ce la faceva più:
studio, ecco cosa era rimasto nella sua vita. Nient’altro che quello: lo
studio. Non faceva altro. Erano mesi che non usciva. Mesi che non faceva altro
che studiare. Da poco se ne era resa conto con sgomento. Non era quella la vita
che voleva. Non era il tipo che desidera chissà cosa, eppure era sicura che non
le sarebbe piaciuto ritrovarsi a cinquant’anni senza alcun aneddoto da
raccontare… con l’impressione di non aver mai vissuto per davvero.
C’era una frase che diceva: puoi
vivere cent’anni senza vivere un minuto. Ecco, lei non voleva finire
così. Lei voleva vivere. Voleva un minuto
vissuto per davvero. E lo avrebbe avuto. Forse sbagliava. Forse faceva una
pazzia ad andare a quella festa. Non le importava -
Eslaf non era più seduto sul letto: era scivolato pian
piano, lentamente, fino ad arrivare alla fine del materasso. Aveva continuato a
scivolare, trovandosi alla fine seduto sul tappeto rosso, con la schiena contro
il letto ed il viso attento e concentrato sulle labbra di Nell. Anche i suoi
occhi come quelli della ragazza erano opachi. Non era sul tappeto, non erano le
quattro meno dieci.
Tornava indietro con Nell, fino alla notte di quel sabato
sera.
- Arrivò alla villa con il
fiato corto, si fermò fuori il grande portone, il dito esitante vicino al
campanello. Non ce l’avrebbe fatta, ecco cosa pensava. No, non era da
lei. Non poteva andare contro se stessa. Non poteva. Non doveva. Si guardò,
infilando a forza la mano in tasca: non era nessuno. Era come se non esistesse.
Un jeans, dei semplici stivali e una felpa. Ecco come diavolo era vestita.
Poteva mai bussare ? -
Nell si fermò un attimo, prendendo fiato, riordinando le
idee. Poi continuò:
- No che non poteva. E perché
non era vestita decentemente, e perché non aveva un vestito decente. Non
poteva. Si era informata: aveva capito come faceva ad essere una festa senza
limiti, senza legami e senza ricordi. L’alcol, ecco la magia. Era dovere
dei partecipanti al festino, una volta trovato qualcuno con cui divertirsi,
ubriacarsi senza remore. Alcol, alcol e alcol. Così avrebbero dovuto fare. Per
dimenticare. Per non ricordare. Ma lei ne era capace ? Era capace di avere una
relazione da una notte e via, era capace di prendersi una sbronza come si deve,
al punto da arrivare all’indomani senza la minima idea di quello che era
successo la notte ? -
Nell sospirò, chiudendo gli occhi.
- Non lo sapeva. Quello che
sapeva era che se fosse tornata nella sua camera avrebbe trovato un cellulare
vuoto: privo di messaggi o chiamate. Un computer pieno unicamente di tesine.
Una scrivania ricoperta da volumi universitari. Era questo che voleva ?
Tornarsene in camera a prepararsi ancora? Per un esame che semmai era previsto
di lì a tre mesi? No. No, no, no. No, che non era quello che voleva. Cosa, cosa
voleva allora ? Senza nemmeno accorgersene, tirò fuori dalla tasca la mano e
l’avvicinò di nuovo al campanello. Cosciente o meno, volente o nolente,
lo fece. E sorrise, facendolo. Premette il campanello. -
La pendola suonò le quattro ma nessuno sembrò
accorgersene.
- Ad aprirle la porta fu una
ragazza. Lei la osservò e l’altra fece altrettanto: si stavano studiando,
come solo due donne possono fare. Sentiva l’odore di alcol che emanava.
Notò subito la bottiglia di birra che stringeva nella mano sinistra, e si
soffermò ben poco sull’assai ridotto abbigliamento della ragazza: una davvero
mini gonna e un brindello di stoffa a coprirle il seno. Ma ricordava male lei,
o erano in novembre? Senza concedersi il tempo di pensarci ancora, guardò la
biondina con aria di sfida, ignorando il modo in cui l’altra osservava la
sua felpa. “Permetti ?” Così disse e così non avrebbe dovuto dire.
Era lei che aveva bussato in fin dei conti. Era a lei che avrebbero avuto il
diritto di sbattere la porta in faccia. Non poteva comportarsi in quel modo:
come se fosse un onore per gli altri avere la sua presenza, come se fosse
dovere della biondina quello di farla entrare. Eppure lo aveva detto, con voce
superiore, distante. E la ragazzetta, stupita, si era fatta indietro
traballando sui tacchi. Senza darsi né il tempo né il modo di riflettere su ciò
che aveva fatto e stava per fare, entrò nella villa, ignorando il rumore della
porta che si chiudeva alle sue spalle. -
Nell sembrò tornare momentaneamente in sé: con un sospiro
lanciò un’occhiata alla stanza, a Salem che dormiva placidamente,
acciambellato ormai del tutto sulla tastiera del portatile. Quasi non si
accorse della mano che Eslaf aveva allungato verso di lei e quando la vide
sorrise, confortata dalla presenza di lui, dal suo tacito e fondamentale
supporto.
Poggiò delicatamente la sua mano nella sua, godendo del
brivido di calore che la pervase quando le dita del ragazzo la strinsero,
trasmettendole un senso di sollievo. Aumentò la presa e docilmente, si lasciò
guidare dal suo braccio che, sicuro, la attirava verso di sé.
Quasi senza rendersene conto si ritrovò anche lei sul
tappeto, seduta al fianco di lui.
Non ebbe mai la certezza delle parole di lui, eppure era
quasi sicura di averle sentite per davvero: “
Non fermarti, Nell ” .
Così senza aspettare ancora, continuò:
- Era una grande villa.
Sembrava strano ma l’interno appariva ampio quasi il doppio
dell’esterno. Un enorme salone fu la prima sala in cui si trovò: camini
accesi, divani, tavoli. Niente luce.
Erano le braci del fuoco, le fiamme delle
candele, a rischiarare il tutto. Si mosse adagio, come un cucciolo che fa i
suoi primi passi. Evitava qualsiasi contatto. L’odore di alcol sembrava
creare quasi una cappa sulla sua testa. Era fortissimo. Catini, botti, birra,
vino, liquore. Ovunque e comunque. Sempre. Le sembrava incredibile, fuori dalla
realtà. Giovani in ogni angolo: ragazzi, ragazze, più o meno vestiti, giravano
come lei. In gruppo, soli, in coppie. Sembrava governare al tempo stesso un
clima di tacita confusione e ragionevole consenso. La musica non era da
discoteca: non martellava le orecchie, non era psichedelica. Era soffusa,
leggera, un lieve e quasi invisibile accompagnamento. Così come le voci, i
suoni: non giungevano precisi, forti, ma sempre attutiti, smorzati. Come se si
trovassero in una dimensione parallela.
Senza neanche sapere come, dopo qualche
minuto, si accorse di avere un bicchiere in mano: un liquido ambrato, con
riflessi dorati, si agitava piano seguendo il suo passo. Sobbalzò, lasciandolo
di scatto sul primo tavolo e voltandosi sperò di non aver percorso troppa
strada e di essere ancora in tempo per prendere la porta. Voleva andarsene.
Solo di quello era sicura.
Con sconforto però realizzò di non trovarsi
più nel salone d’ingresso e di aver percorso tantissimi corridoi in stato
di semi incoscienza. Non aveva bevuto, solo non riusciva quasi più a ragionare.
Si guardò attorno, camminando ancora a rilento. Esplorò distaccata altre
stanze, altri corridoi. Sembravano tutti uguali e non riusciva a farsene una
ragione.
Quando all’improvviso si sentì
afferrare per una spalla, arretrò istintivamente di parecchi metri, mettendo la
maggiore distanza possibile tra lei e chi l’aveva toccata. Sollevò lo
sguardo, incontrando gli occhi di un ragazzo esile, con un tremito diffuso per
il corpo: le pupille erano dilatate e gli occhi iniettati di sangue; un sorriso
pericoloso gli increspava le labbra e quando allungò di nuovo una mano, lei
scattò senza pensare: in pochi passi si allontanò, raggiungendo il lato opposto
della stanza. Intravide delle scale a chiocciola, confusa si decise a salirle.
Non era la scelta migliore, doveva ammetterlo: così si allontanava solamente
dall’uscita. Eppure ora la cosa che più voleva era lasciarsi alle spalle
quel tipo. Perciò salì in fretta gli scalini, senza guardarsi indietro e
raggiunse il piano superiore. -
Nell non era più seduta al fianco di Eslaf: non sapeva
nemmeno come ma era fra le sue braccia. La schiena contro il torace di lui, la
testa poggiata alla sua spalla, una mano sul suo ginocchio.
E stava bene, perfettamente a suo agio. Si sentiva al
sicuro.
- Un lungo corridoio, ampio e
fiocamente illuminato le si aprì
davanti: una sfilza di porte lungo di esso. Alcune aperte, altre chiuse
o appena socchiuse. Per un po’ lo percorse, abbracciandosi da sola. Poi
vide un ragazzo chiudersi piano una porta alle spalle e avviarsi lentamente per
il lato opposto del corridoio. La sua mente realizzò da sola
l’informazione, immaginando chissà perché che ci potesse essere un bagno
dietro quella porta. Senza rifletterci troppo si avvicinò. Sperando in una
specie di oasi, in un’ancora di salvezza. Aveva già afferrato il pomello
fra le dita quando con la coda dell’occhio notò che il ragazzo appena
uscito si era fermato, voltando la testa verso di lei. Lui prese a scuotere la
testa, facendole cenno di fermarsi con le mani.
Lei però non se ne era accorta, e aveva aperto leggermente la porta.
Corrugando la fronte, impensierita dal comportamento del ragazzo, fece per
cercare a tentoni un interruttore sul muro alla sua sinistra quando si sentì afferrare
il braccio. Voltò il viso, scorgendo quello del ragazzo a pochi centimetri dal
suo. La stava tirando indietro, cercando di chiudere al tempo stesso la porta.
E fu solo in quel momento che lei riuscì a scorgere la sagome indefinita di un
letto, immerso nel buio, con sospiri ed ansiti sconnessi che rompevano il
silenzio. Si ritrasse, incredula, lasciando fare al ragazzo: lui l’aveva
già tirata via e chiuso di scatto la porta di legno. La fissava, sorridendo in
lieve imbarazzo. Niente in confronto a come si sentiva lei. Non osava immaginare
a cosa avrebbe combinato accendendo la luce. Fu lui a parlare, sussurrando:
“ Ho fatto lo stesso errore, poco fa.
Ho rischiato il linciaggio. Volevo evitarti il pericolo.”
Lei sorrise appena, pensando che sì, non
doveva essere piacevole venir interrotti ripetutamente in una situazione come
quella. Sospirando poggiò le spalle al muro, guardando il giovane che tanto
gentilmente aveva avuto la prontezza di fermarla: era alto una spanna più di
lei, con corti capelli neri e spettinati. Vestito di scuro, sembrava voler
confondersi nell’ombra che regnava.
Il viso era aperto e cordiale però:
sorridente, mostrava una sfilza di denti bianchi, e gli occhi scuri sembravano
amichevoli.
Lei si accorse in ritardo della mano che gli
tendeva.
“ Duncan ” disse lui, stringendo
quella fredda di lei nella sua.
“ Becky ” rispose la ragazza,
non riuscendo a smettere di guardarlo. –
Quando sentì la voce di Eslaf, la recepì come se
provenisse da molto lontano, eppure non era così: voltandosi Nell lo trovò
ancora lì, dietro di sé. Sorrise, sentendo le sue parole:
- Becky, allora. Potrebbe andare sì, e almeno così
smetterai di chiamarla solo con pronomi personali – mormorò, cercando di
allentare la tensione che si era creata.
Nell annuì, grata per quel diversivo che le dava modo di riprendere
fiato e riordinare le idee.
Tornando a poggiare la testa sulla spalla di lui, riprese
il racconto da dove lo aveva interrotto.
Erano solo bisbigli i loro, mormorii che nel silenzio si
facevano portatori di una storia.
*