Tata si diventa

di Sissi Bennett
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Ottimi motivi per scappare di casa ***
Capitolo 3: *** La famiglia Peyton ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Tata si diventa

Prologo

 

 

Io sono una tata.

E come da copione lavoro in una famiglia di straricchi.

Una famiglia che ha una prole disumana.

Una famiglia nella quale i figli sono degli oggetti.

Una famiglia nella quale la matrigna cattiva progetta di mandare i ragazzi in collegio.

Una famiglia nella quale il padre sembra aveva due fette di salame sugli occhi e non si accorge chi è in realtà la donna perfetta per lui.

Una famiglia che tratta male la tata di turno.

Tutto ordinario parrebbe. Dove sta il problema, penserete voi.

È che io sono la tata.

E ho solo ventidue anni.

E rischio il licenziamento.

Perché ho intrecciato un rapporto clandestino con il padrone di casa?

No, peggio.

Mi sono innamorata di suo figlio.

 

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Capitolo 2
*** Ottimi motivi per scappare di casa ***


Tata si diventa

1)    Ottimi motivi per scappare di casa

Scommetto che almeno una volta nella vita tutti abbiano desiderato scappare dalla propria famiglia. Io provavo questa sensazione ogni giorno da quando avevo cominciato a camminare.

Non so se qualcuno di voi ha mai visto il film “Orgoglio e pregiudizio”. Io sì, un milione di volte e più lo guardavo più mi rendevo conto che la famiglia protagonista poteva essere la mia.

Come nel film anche noi eravamo tutte sorelle e come nel film anche mia madre era fissata con il matrimonio. Beh … fissata è un eufemismo, diciamo pure che viveva per vedere le sue figlie sposate felicemente come lei.

I miei genitori si erano conosciuti l’autunno del lontano 1984 a Parigi; in estate erano già sposati e l’anno dopo mia madre rimaneva incinta di mia sorella.

Lì erano nati i primi problemi sulla decisione del nome; mia madre, Kate, diceva di volere per i suoi bambini dei nomi particolari che nessun altro aveva; mio padre, Milton, un irlandese attaccato alle tradizioni, optava per una scelta più normale. Infine si accordarono: per le femmine il compito spettava a mamma, per i maschi a papà. Per sfortuna del caro Milton, Kate generò solo tre belle bambine.

Mamma aveva viaggiato per tutto il mondo e adorava le diverse culture, così decise che le sue figlie avrebbero avuto nomi delle nazioni di metà globo.

Alla mia sorellona toccò Lucita, nome spagnolo, che lei stessa aveva semplicemente abbreviato con Lucy. Aveva un anno in più di me e frequentava il mio stesso college a San Francisco, dove abitavamo. Era una bravissima ballerina, adorava la musica classica e aveva un’innata capacità di capire al volo le persone. Era la figlia perfetta.

Kikilia era la più piccola; il suo nome arrivava dalla Grecia, ma fuori casa tutti la chiamavano Kiki. Aveva solo diciassette anni ma era già uscita con tanti di quei ragazzi da fare invidia a chiunque. Kiki voleva sempre divertirsi, in ogni occasione, era la regina delle feste, la più popolare a scuola e sicuramente la più restia all’idea di maritarsi.

Mamma diventava matta con lei.

La peggiore delle sorti, però, capitò a me: mamma e papa erano in viaggio in India quando fui concepita, quindi era d’obbligo chiamarmi con un bel nome indiano.

A Bali avevano conosciuto una signora che si chiamava Lalita. Mia madre impazzì per quel nome, ma mio padre quella volta puntò i piedi: sosteneva infatti che Lalita fosse troppo simile a Lolita, frivolo e di poco conto. Così cambiarono la prima lettera e ne uscì Nalita.

Io odiavo Nalita ! Considerando che non era nemmeno un vero nome indiano, ma un’invenzione della mente malata dei miei genitori; era perfino impossibile trovare un soprannome decente.

Superato, quindi, il dramma dei nomi, mi sembra doveroso raccontarvi come da studentessa brillante di lettere, apprendista giornalista, finii a fare la tata.

Era un sera di ottobre casa mia era un vero devasto: vestiti sparsi ovunque, trucchi che ricoprivano il pavimento, scarpe sui letti e arricciacapelli appesi ai lampadari.

Mio padre in quel periodo non era ben messo dal punto di vista finanziario, ma rimaneva comunque uno degli uomini più rispettati della città e quella sera eravamo stati invitati ad una festa organizzata dal sindaco. Erano quei ricevimenti cui partecipavano solo le persone più ricche, più illustri e soprattutto più snob.

Io non sopportavo quelle occasioni, per mamma invece erano lo strumento perfetto per trovare dei mariti a tutte noi.

In realtà Kiki era esclusa dalle sue manie di matrimonio, poiché era ancora troppo piccola; ma non voleva dire che non ci fosse la possibilità di accalappiare qualche bel fidanzato.

“Tu comincia a trovare un ragazzo che ti piace e poi chissà tra qualche anno … “ erano le parole di mia madre prima di un evento del genere.

Io detestavo tali feste: erano noiose, banali e, non fatevi ingannare da “The O.C”, non finivano mai con una bella scazzottata.

Per lo più stavo appoggiata ad un muro, con in mano un bicchiere di Champagne che non terminavo mai, e osservavo la gente che fingeva di divertirsi: gli uomini se ne stavano in un angolo a fumare sigari, le donne spettegolavano a tutto andare.

Solo una cosa riusciva sempre a mettermi di buon umore: le ragazzine. Era davvero uno spasso vederle così agitate ed eccitate all’idea di partecipare ad un evento cui erano presenti tutte le personalità più importanti.

Illuse.

Stesa sul mio letto potevo sentire mia madre sgridare Kiki per il vestito troppo corto.

Con il piede diedi una botta alla porta e la chiusi. Le voci ora erano meno forti.

Istintivamente abbassai le palpebre colta da un attacco di sonno.

“Che ci fai lì? Non ti trucchi?”

Le parole di Lucy mi fecero capire che la porta era stata riaperta e che il mio attimo di pace era finito. Sbuffai “Io non ci vengo”.

“Non dire sciocchezze; mamma ci resterà male”.

Perché Lucy doveva essere sempre così dannatamente saggia?

Mi alzai di malavoglia e mi strascinai in bagno, mentre dal piano di sopra la voce di mia madre stava raggiungendo il livello degli ultrasuoni per convincere Kiki a cambiare abito.

Il mio era semplice come al solito: marrone, senza maniche, lungo fino alle caviglie.

Lucita era accanto a me e si stava preparando con una cura impeccabile. Aveva una strana luce negli occhi e non sapevo spiegarmi il perché. Sembrava felice di andare a quella festa; normalmente la pensava come me su quel tipo di evento.

La fissai di sottecchi per tutto il tempo che passammo davanti allo specchio.

C’era decisamente qualcosa che non andava.

Quando fui pronta scesi in salotto mio padre leggeva tranquillo il quotidiano.

Kiki ci raggiunse poco dopo con l’abito incriminato. A quanto pareva mamma non era riuscita nel suo intento.

Papà squadrò Kiki da capo a piedi, poi con tono calmo e fermo disse “Vatti a cambiare”

“Ma papà …”

“Niente ma”

Kiki pestò i piedi dal nervoso, ma salì ugualmente per scegliere qualcos’altro.

Kate era dietro mia sorella e guardò mio padre incredula.

“Ma come hai fatto?”

“Ci vuole polso”

Io scoppiai a ridere. Era un evento più unico che raro vedere mamma battuta da papà.

Mezz’ora dopo eravamo nell’ingresso del Municipio. La sala era stata allestita egregiamente: contro un muro c’era un tavolo con il rinfresco, a lato c’era lo spazio dedicato ai musicisti, la stanza adiacente era destinata a chi voleva giocare a carte o a biliardo.

Kiki sparì subito in cerca di qualche ragazzo, mamma intavolò una conversazione con le sue amiche, mentre papà si era diretto al tavolo da biliardo, deciso a vincere il torneo della serata. Io e Lucy rimanemmo da sole.

Presto si unì a noi un ragazzo con cui io e Lucy avevamo parlato qualche volta all’università, ma al momento mi sfuggiva il nome.

Lo guardai dall’alto al basso mentre si avvicina, con passo cadenzato da figo.

Un altro degli innumerevoli idioti che popolavano la stanza. Un altro ipocrita; uno qualunque.

“Perché due belle ragazze del genere sono qua da sole?” chiese ammiccando.

“Perché la sottoscritta non è dell’umore giusto per essere circondata da imbecilli” risposi.

“Come sei astiosa! Guarda che queste sono occasioni per incontrare gente nuova”.

Ma chi si credeva di essere per farmi la ramanzina?

“Certo! Tutta gente falsa!” ribattei.

“Lasciala stare Simon, oggi è di facile incazzatura” spiegò mia sorella.

Simon, ecco come si chiamava! Beh, rimaneva lo stesso un deficiente.

“Allora mentre tu sbollisci, io vado da quella tipa laggiù”.

Scomparve tra la folla.

Non feci nemmeno in tempo a pensare quanto fosse stupido, che Lucy si attanagliò al mio braccio e mi costrinse a voltarmi verso il muro.

“Oddio non guardare” mugugnò.

“Cosa?” chiesi.

“Oddio mi ha visto!” continuò lei senza darmi una risposta.

“Ma chi?”

“Oddio sta venendo qua!”

“Mi vuoi dire di chi stai parlando!”

Lei arrossì violentemente.

“Si chiama Nathan Toney, è un mio compagno all’università. E’ da un po’ che … insomma … secondo me c’è qualcosa tra di noi. Mi aveva detto che veniva a questa festa, ma pensavo scherzasse, lui non è tipo da gran galà”

Io sorrisi complice “Aaaa, ecco perché eri così contenta di venire”

Lei annuì e tentò di darsi una calmata; intanto quel Nathan si faceva più vicino.

Lo studiai attentamente: era carino, con i capelli scuri e gli occhi verdi. Vestiva elegante, con uno smoking nuovo di zecca. Aveva il viso simpatico e dolce.

Non era solo: accanto a lui camminava un altro ragazzo.

Quando i suoi occhi incrociarono i miei, credetti di perdere un battito. Era il più bel ragazzo che avessi mai visto. I suoi capelli erano mossi e biondi, aveva dei bellissimi occhi color miele, come oro fuso. Non indossava un abito accurato come quello di Nathan, ma aveva una grazia e una classe invidiabili. Aveva una giacca nera, sotto una camicia bianca e una cravatta rossa e portava dei Jeans chiari e stretti.

“Ciao Lucy” salutò Nathan gentilmente. Lei rispose con un sorriso e mi presentò.   

“Tanto piacere” disse Nathan porgendomi la mano “Lui è un mio amico, verrà con me alla Golden State University; si chiama Artemis Peyton”.

 “Io sono Lucy e lei è mia sorella Nalita”.

Udii una risata uscire dalla bocca di quell’Artemis. Lo guardai malissimo. Già non sopportavo il mio nome, ancora più mi irritavo quando lo schernivano.

“Ti fa tanto ridere? Direi che non sono l’unica ad avere un nome strano, giusto Artemis?” stetti ben attenta a calcare l’ultima parola.

Mia sorella mi tirò un calcio senza farsi notare. Mi rimproverava sempre di non sapere tener a freno la lingua. Il principino, che avevo classificato come  bello ma presuntuoso, tacque visibilmente imbarazzato dalla gaffe appena fatta.

“Che ne dite se andiamo a ballare?” propose Nathan per allentare la tensione.

“Ottima idea” lo appoggiò Lucy.

Lei e Nathan si allontanarono sulla pista da ballo; io rimasi a fissare con aria di sfida il ragazzo con gli occhi di miele.

“Senti … io non volevo prenderti in giro …” balbettò.

Io lo bloccai con un gesto della mano “Già trovo maleducato quello che hai fatto, almeno evita di essere ipocrita: ammettilo che trovi il mio nome ridicolo”.

Rimase sorpreso dal mio tono duro e dalle mie parole fredde. Si riprese subito, da snob arrogante qual era.

“Io trovo invece che tu sia stata piuttosto egocentrica a pensare subito che mi sia messo a ridere per te”

“Perché? Non è così?”

Eravamo due a zero.

“Certo che è così” confermò “Solo che non credo che tu ti sia arrabbiata per la risata, quanto per il contesto in cui è inserita”.

Era un ragazzo ben istruito, appariva immediatamente dal modo in cui esponeva i concetti, aveva una bella parlantina e il suono della sua voce era caldo e persuasivo.

Restò in silenzio in cerca delle parole giuste con le quali attaccarmi.

“Il tuo abito non è nulla di che e non ti sei sprecata con il trucco; quindi direi che di questa festa te ne frega ben poco, forse non volevi nemmeno venirci; anzi direi che sei stata costretta. Sei qui solo per dare il contentino a mamma e papà. Eri già su di giri quando ti ho preso in giro e io ho solo contribuito ad innervosirti ancora di più. Sbaglio forse?”

No. Non sbagliava. Era più bravo di quanto pensassi.

“Hai ragione, te lo concedo. Comunque siamo ancora due per me e uno per te” risposi.

“Se lo dici tu” infilò elegantemente le mani nelle tasche dei pantaloni “A proposito: il tuo prezioso vestito ha un grosso squarcio dietro”.

Mi voltai a controllare mentre le mie guancie si coloravano di rosso. Qualcun altro aveva già notato il mio abito rotto? Che figura.

Non vedevo bene il dietro della gonna e spostai un po’ la stoffa per esaminare meglio.

Questa volta dalla bocca del principino uscì una vera e propria risata che mi fece intendere che lo strappo era stato solo una brutto scherzo.

Mi rigirai furente.

“Due pari, Nalita” affermò confondendosi con le persone che ballavano.

Battuta da un figlio di papà qualunque. Non mi credevo capace di cadere tanto in basso.

Quel tipo si era allontanato da un po’, quando mia madre fece, puntuale come tutte le volte che mi scorgeva parlare con un ragazzo, la sua comparsa.

“Tesoro, chi era quello?”

“Un amico di Nathan” dissi sorseggiando il mio champagne.

“E chi è Nathan?”

“Un amico di Lucita”

Alla parola “amico” le brillarono gli occhi.

“Aaa amico!” e mi fece l’occhiolino a mo’ di chi la sa lunga. Quella donna doveva urgentemente farsi vedere da uno psicologo.

“E tu non hai un amichetto tesoro?”.

Amichetto???Ma cosa avevo? Dieci anni????

“Se mi stai chiedendo se ho un ragazzo, la risposta è no!”.

“Ma quel ragazzo è davvero carino … potresti provarci” azzardò.

“Mamma, per favore!” sbottai.

Uscii dal Municipio e chiamai un taxi. Avevo solo voglia di andare a casa. Ero stufa di sentire mia madre che mi biasimava. Io non volevo un ragazzo di facciata!

Era strano vedere casa mia immersa nel silenzio e nel buio; di solito qualcuno si dimenticava una luce accesa e c’era sempre qualche rumore fastidioso che mi faceva salire il nervoso.

Andai in cucina, gustandomi quella pace, e tirai fuori dal frigo il cartone della spremuta.

Ne versai un po’ in un bicchiere e mi trovai a fissare distrattamente il giornale aperto sul bancone. Un articolo in particolare catturò la mia attenzione.

Cercasi tata. Diceva il titolo.

Non è richiesto alcun curriculum; sono concesse due sere libere a settimana, più l’intera giornata di domenica, ottima paga. Per ulteriori informazioni contattare il numero 552-69145, Reginald Boulevard, 25, New York.

Ai miei occhi solo alcune parole risaltavano più delle altre: due sere libere, domenica, paga, New York; e improvvisamente balenò nella mia mente un’idea folle.

Mi ripetevo di continuo che appena avrei potuto, me ne sarei andata da casa mia; sarei stata indipendente e che avrei messo quanto più distanza possibile tra me e mia madre.

Non avevo mai fatto una pazzia in vita mia; mai.

Forse era giunta l’ora. Sì, avevo deciso: avrei fatto la tata.

 

All the pain I thought I knew/ tutte le sofferenze che credevo di conoscere
All my thoughts lead back to you/ tutti I miei pensieri riconducono a te
Back to what was never said/ nascosto dietro ciò che non è stato mai detto
Back and forth inside my head/ Avanti e indietro, nella mia mente
I can't handle this confusion/ non riesco a gestire la confusione
I'm unable; come and take me away/ non ne sono capace, vieni e portami via

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Capitolo 3
*** La famiglia Peyton ***


Tata si diventa

2)    La famiglia Peyton

“Non se ne parla nemmeno!” scoppiò mio padre, mentre sul suo collo aveva preso a gonfiarsi una vena e i suoi baffetti fremevano al movimento delle labbra “Non ti ho mandato al college perché facessi la badante!”.

“A parte che non vado a fare la badante …” provai a difendermi, ma s’intromise anche mia madre nel discorso e fu la fine.

Quella mattina avevo stabilito di dare la favolosa (almeno per me) notizia che mi sarei trasferita a New York per iniziare il mio nuovo lavoro.

Erano passate due settimane da quando avevo letto l’annuncio.

Avevo preferito metterli subito davanti al fatto compiuto, in modo che, se mi avessero vista convinta della mia scelta, forse si sarebbero persuasi più facilmente.

Il mio piano, però, aveva fallito al primo attacco.

“Hai idea di cosa penserà la gente?” chiese mia madre come se fosse priorità assoluta  l’opinione altrui “Diranno che siamo dei morti di fame, che siamo costretti a mandare i nostri figli a lavorare per portare a casa il pane!” concluse con un acuto isterico.

“Mamma, lo dicono già …” svelai.

Il volto di Kate cambiò svariate volte colore, fino a fermarsi su una bella tonalità di violetto che s’intonava quasi con i suoi abiti e i baffetti di Milton tremolarono fino ad arricciarsi.

Non avevo mai visto i miei genitori così su di giri.

“Io” tuonò Milton “Non ho sborsato un sacco di soldi …”, ma non lo lasciai continuare.

Era giunto il mio turno per arrabbiarmi.

“Basta! Sempre parlare di soldi vuoi due! Quella lì che non pensa ad altro se non a farmi sposare con un riccone e tu così attaccato al denaro che te lo porterai nella tomba! Il nostro conto in banca diminuisce sempre più e forse non sarebbe male se qualcun altro guadagnasse qualcosa! Io non ho intenzione di lasciare gli studi, ma solo di prendermi una pausa. Non ho bisogno della vostra benedizione, ritenevo solo giusto informarvi. Me ne vado con o senza il vostro consenso”.

Dopo questo discorso mi resi conto che mi ero fatta un po’ troppo prendere la mano. Come minimo mia madre sarebbe svenuta di fronte alla ribellione della figlia e mio padre mi avrebbe preso il collo come una gallina da spennare.

La reazione fu ben diversa: li osservai trattenere il fiato e restare immobili (sicura che stessero ponderando il modo migliore per uccidermi) e cercai con lo sguardo l’aiuto di Lucy.

Lei fissava il pavimento ignorando palesemente il mio appello: voleva restarne fuori.

Viva la solidarietà tra sorelle!

La reazione dei miei fu tutto fuorché prevedibile: entrambi concordarono con me. Avevo sperato che approvassero la mia decisione, ma mi stupii quel cambiamento repentino di idee.

Perché all’improvviso non si opponevano più al mio trasferimento?

Era forse una delle tattiche genitoriali, secondo la quale il mio piano mi si sarebbe ritorto contro e io sarei tornata a casa con la coda fra le gambe, dando ragione a loro?

Al momento non ritenni importante sapere il motivo, mi bastava avere la loro approvazione, così me ne sarei andata con la coscienza un po’ più tranquilla.

Scattai in camera mia a fare le valigie prima che il loro umore mutasse ulteriormente. Aprii gli armadi, posai il borsone sul letto e ci buttai dentro tutto ciò che reputavo necessario.

Aveva già parlato con il padrone di casa, colui che aveva messo l’annuncio, e gli ero piaciuta subito; diceva che gli ero parsa una ragazza responsabile e determinata, di carattere forte e intraprendente, qualità che mi sarebbero sicuramente servite per tenere a bada i suoi figli.

Non avevo fatto molto caso a quell’affermazione; credevo fosse un modo per fare il simpatico.

Col senno del poi compresi che era la pura e semplice verità.

Ma all’inizio della mia prima esperienza lavorativa non avevo messo in conto le difficoltà che avrei trovato; dopo tutto dovevo solo fare la babysitter: dove stava il problema?

Chiusi la cerniera dei miei bagagli e scesi in cucina a salutare Kate e Milton. Sulle prime temevo ci avessero ripensato, ma poi mi accorsi che la loro espressione cupa era dovuta solo al dispiacere per la mia partenza.

Mamma mi saltò addosso sull’orlo delle lacrime e quasi mi stritolò nel suo abbraccio; anche papà mi abbracciò e mi sussurrò “Fatti sentire ogni tanto, sai per tua madre”.

In realtà sapevo che ne aveva più bisogno lui: mia mamma era attaccate a tutte allo stesso modo, si sarebbe consolata con Lucy e Kiki; papà, invece, aveva una sorta di preferenza nei miei confronti. Ero la più ribelle, testarda e somigliavo a lui da giovane.

Li salutai ancora una volta prima di uscire in attesa del taxi. Milton mi aveva aiutato a trascinare giù per le scale le valigie ed ora erano accanto a me nel vialetto davanti a casa.

La porta alle mie spalle sbatté rumorosamente e io mi voltai: Lucita mi stava venendo incontro con un’espressione tutt’altro che felice.

“Ma sei impazzita!” sbraitò “Butti tutto all’aria per un po’ d’indipendenza? Non puoi aspettare un annetto?! Ti mancano solo pochi esami e sarai laureata e a quel punto avrai tutta la libertà che vuoi. Che senso ha andare via adesso?”.

“Lucy io e te siamo diverse. Tu ami questa città, la gente che ci vive, sai perfettamente cosa farai del tuo futuro. Io no! Odio stare in un paese dove tutti criticano tutti, sparlano, spettegolano; questa è la capitale dell’ipocrisia. Io non ho la più pallida idea di cosa sarà di me dopo la laurea, mi capisci? Non so se ho scelto la strada giusta, non so più niente e questa opportunità di cambiare aria mi schiarirà le idee”.

Lucy mi guardò non troppo convinta.

“Fidati di me per una volta, per favore” l’implorai.

Lei sospirò “E non saluti nemmeno Kiki?” mi chiese cercando di farmi crescere il rimorso.

“Dalle un bacio grosso da parte mia” risposi. Ormai ero ferma sulle mie posizioni.

Le schioccai due baci sulle guance e m’infilai sul taxi appena arrivato prima che Lucy con le sue perle di saggezza mi persuadesse a rinunciare al mio piano.

Io mi sistemai meglio sui sedili posteriori. L’aeroporto non era molto lontano da casa mia, in dieci minuti sarei stata lì.

Mi venne la nausea a pensare al check in e a tutte le procedure di sicurezza; avrei passato più tempo in aeroporto che in aereo. Tanto valeva ascoltare un po’ di musica.

Imbarcai i bagagli quasi senza accorgermene, passai sotto il metal-detector come un automa ed aspettai. Il viaggio durò poco e dormicchiai per quasi tutto il tempo. Mi ritrovai a New York in un batter d’occhio. C’impiegai quasi venti minuti per trovare un taxi libero. Tutti uscivano dal terminal correndo come matti e si accaparravano l’auto più vicina.

“Reginald Boulevard 25” dissi all’autista e la macchina partì. Non avevo mai visto Manhattan in vita mia e ne restai affascinata. Era totalmente diversa da San Francisco. I grattaceli, gli alberi, le persone sfrecciavano davanti ai miei occhi velocemente adeguandosi al ritmo della città stessa. New York era la città che non si fermava mai.

La casa nella quale avrei abitato, era un attico enorme in cima ad un palazzo in uno dei quartieri più eleganti ed esclusivi. Lì le strade non erano intasate dal traffico, ma anzi sembrava una zona molto tranquilla, immersa nel verde e nel silenzio.

Cercai sul citofono il cognome: Peyton. Ero certa di averlo già sentito dal qualche parte, ma al momento non ricordavo dove e associato a chi.

Suonai un paio di volte e il pesante uscio scattò. Mi venne incontro il portiere che con incredibile gentilezza si offrì di caricare le mie valigie sull’ascensore.

La porta di casa Peyton era aperta ed entrai piano chiedendo permesso. Sgranai gli occhi. Mi ci vollero un paio di secondi per riprendermi: quel salone d’ingresso era immenso.

Se solo l’entrata era grande quasi come casa mia, cosa sarebbe stato il resto?

A distogliermi dai miei pensieri, fu una voce proveniente dalla stanza adiacente; mi diceva di raggiungerla. Io m’incamminai verso quella che era sicuramente la cucina.

“Lei deve essere la signora Peyton” esclamai rivolta ad una donna che mi dava le spalle.

Si voltò e mi gelò con il suo sguardo penetrante.

“No, ma lo sarò presto. Sono Delia Gilbert, la compagna del signor Byron Peyton”.

Più che Delia, così d’impatto, la paragonai a Crudelia Demon: era avvolta in una pesante pelliccia di visone e portava un paio di scarpe di vernice rossa, con un tacco che mi faceva venire le vertigini solo ad osservarlo. Aveva un caschetto platinato, rigido come lei e due occhi piccoli ma incredibilmente freddi ed inespressivi.

Mi schiarii la voce e mi presentai “Piacere, sono Nalita Occleve”.

“Assolutamente no!” trillò lei alzandosi e facendomi cenno di seguirla in un tour della casa.

“Il tuo nome è da cambiare: i piccolini non riusciranno ad impararlo e non mi pare adatto ad una tata. Ne cercheremo uno più consono”.

Intanto che la futura signora Peyton mi mostrava ogni angolo della casa, io stringevo i pugni lungo i fianchi per non strozzarla a mani nude.

Antipatica, presuntuosa e prepotente, erano gli unici aggettivi che mi venivano in mente.

“Mi scusi, ma il padrone di casa dov’è?” chiesi, forse con un po’ troppa foga dato che mi lanciò un’occhiata che mi fece rabbrividire.

“Al lavoro. Ha lasciato me per accoglierti. Ti assicuro che se tu sei qui, è solo per merito suo; io non ero per niente d’accordo: sono convinta che per tenere a bada i suoi figli ci voglia una persona esperta e quindi più anziana, ma Byron si è impuntato. Non chiedermi perché”.

Stavo per risponderle per le rime, non era nella mia natura starmene zitta e farmi mettere i piedi in testa, ma poi ricordai le parole di Lucy quando mi raccomandava di tenere a freno la lingua e mi trattenni. Se volevo tenermi quel lavoro, dovevo imparare a controllarmi.

Lasciò per ultima la mia camera. Un buco in confronto alle altre stanze, ma mi potevo adattare. Dovevo immaginare che la babysitter non avrebbe avuto una suite.

Era carina comunque, ben arredata e il letto sembrava comodo.

“Ora i ragazzi sono a scuola torneranno verso le cinque. Io esco, se hai dei problemi chiedi al maggiordomo” poi mi tirò addosso degli abiti puliti che odoravano di ammorbidente “Questa è la divisa” spiegò “E te lo devo proprio dire: non abituarti a questo lavoro; tra meno di un anno io mi sposerò con il signor Peyton e i ragazzi finiranno in collegio. La tua presenza qui sarà perfettamente inutile” poi sparì dietro la porta.

Ritornò dopo pochissimi secondi per darmi il colpo finale “E scordati Nalita; da oggi in poi sarai Danielle”.

Tra tutte le cose che mi erano state dette, l’ultima era la più sopportabile: in fondo io odiavo il mio nome e Crudelia aveva trovato il modo di levarmi l’impiccio. Anche se un po’ mi dispiaceva vederlo eliminato così indegnamente.

Ringraziai il cielo che quella donna se ne fosse andata, non potevo reggerlo un minuto di più. Era come essere finita in un film tipo “Nanny McPhee” o “Tutti insieme appassionatamente”.

Feci un altro giro dell’appartamento; del maggiordomo non c’era traccia. Forse era uscito o forse era nascosto in qualche angolo a me ignoto per tenermi d’occhio.

Girovagando, mi ritrovai nello studio del signor Peyton. Mi soffermai sulle fotografie che affollavano la scrivania: cercai di contare quanti figli avesse il padrone di casa.

Mi venne quasi un infarto: sei. Sperai che una buona parte fosse già grande.

Il campanello suonò. Mi voltai di scatto e mi accinsi ad andare ad aprire, ma una figura mi superò e corse alla porta. Avevo trovato il maggiordomo.

Non mi degnò comunque di uno sguardo. Raggiunsi anche io l’entrata.

Tre bambini si stavano togliendo i cappotti e appoggiavano le cartelle a terra.

Li studiai per bene; in fondo mi dovevo occupare di loro, era mio compito conoscerli.

Quello che doveva essere il più piccolo aveva un visino simpatico. Capelli biondi, occhi chiari e vispi. Gli mancavano un paio di denti davanti. Me ne accorsi quando mi vide e mi sorrise.

L’altro maschietto era un po’ più grande, doveva avere circa dieci anni. Assomigliava molto al fratello, ma appariva più serio e composto. Sotto braccio teneva la custodia di un violino.

Con impeccabile educazione mi si fece vicino e mi porse la mano “Piacere, Edwin Peyton; e quelli sono mio fratello Matthias e mia sorella Annette. Lei è sicuramente la tutrice”.

Rimasi stupita da tali formalità. Avevo solo ventidue anni ed ero la tata: non era certo necessario che mi desse del lei. Glielo avrei detto più tardi.

Spostai la mia espressione sulla bambina; mi colpì subito la sua bellezza: morbidi capelli castani chiari divisi in boccoli, un nasino piccolo e occhi circondati da folte ciglia nere. Il colore era la caratteristica più sorprendente: miele.

Dove avevo già visto quegli occhi?

“Io sono la tata, mi chiamo Nal – mi corressi subito – Danielle”.

I bambini mi salutarono e scapparono in un attimo nelle loro camere per fare le docce e mettersi più comodi in casa.

“Beh sembrano simpatici” commentai.

Il maggiordomo rispose con sarcasmo “Perché lei non ha ancora conosciuto i più grandi. Charlotte e Susan torneranno a momenti. Per il maggiore dovrà aspettare fino al week end; è a San Francisco a studiare”.

“Io sono determinata, sono sicura che andrà tutto bene” replicai “Comunque non mi dia del Lei” e gli porsi la mano “Danielle Occleve”.

Lui la strinse con forza “Martin”. Non volle dirmi il cognome ed io non insistetti.

Desideravo porgli qualche domani sulla famiglia Peyton, ma il campanello trillò nuovamente.

L’entrata in scena delle due ragazze questa volta non fu così silenziosa come prima.

“Tu sei soltanto una bambina! Perché diavolo sei venuta dai miei amici?!” urlò una ragazza, presumevo la più grande, gettando lo zaino sul pavimento.

“Non sono una bambina, ho quattordici anni! E poi mi hai lasciato sola in macchina per mezz’ora! Che dovevo fare, mettere le radici?”.

“Ti avrò detto mille volte che quando sono in compagnia, tu non ti devi avvicinare! Fosse caduto un meteorite o quant’altro!”.

Non potei nemmeno presentarmi. Entrambe corsero verso le proprie stanze gridandosi contro, mentre Martin le inseguiva per raccogliere cappotti, felpe e tutto ciò che facevano cadere.

E il campanello suonò ancora; ebbi paura di quello che potevo trovare dietro la porta.

Era Delia, tornata evidentemente dallo shopping per tutte le borse che aveva in mano.

Non mi salutò nemmeno “Dov’è Martin?”.

“Con Charlotte e Susan”. Pregai di non aver sbagliato i nomi.

“Ah!” esclamò “E non dovrebbe essere compito tuo occuparti dei ragazzi?”  mi tirò addosso la pelliccia e mi disse di appenderla “E mettiti la divisa” aggiunse.

Ero finita in una gabbia di matti.

 

Passai le prime due settimane ad ambientarmi e ad analizzare i Peyton. Il signor Byron era un tipo piacevole, dalla battuta facile, dotato di grande umorismo, tutto il contrario insomma di quella scopa che si era scelto come fidanzata.

Annette era una bambina molto perspicace che per alcuni aspetti mi ricordava Lucita. Era la più coccolata di casa, ma non era viziata, anzi nei suoi discorsi risultava molto umile e semplice. Edwin era stato più complicato: era sempre così impettito e posato; non sembrava nemmeno avere dieci anni. Riuscii a conquistarmi la sua simpatia accompagnandolo con il pianoforte nei suoi esercizi di violino.

Con Matthias non c’era stato invece alcun problema: mi adorava. Mi seguiva ovunque andassi, mi dava retta senza mai obiettare; era un angelo.

Non mi era, al contrario, per nulla facile farmi accettare da Susan e Charlotte.

La prima solamente m’ignorava: se ne stava per lo più chiusa nella sua stanza e se mi doveva rivolgere la parola, stava bene attenta a mantenere un certo distacco.

La seconda mi metteva spesso in serie difficoltà. Solitamente non m’istigava, ma se io provavo a stabilire una conversazione, lei mi rispondeva con superiorità ed arroganza.

Non capivo perché ce l’avesse così con me: forse credeva che fossi una specie di sostituta di sua madre, ma a quel punto sarebbe stato più sensato prendersela con Crudelia.  

Il secondo giorno di lavoro avevo conosciuto il migliore amico di Charlotte: Sean Hopkins.

Era un ragazzo brillante, con il pallino per il golf. Mamma sosteneva che non poteva esserci amicizia tra una ragazza e un ragazzo; più osservavo quei due, più mi trovavo a darle ragione.

Sean aveva i capelli neri, lasciati un po’ lunghi e gli occhi azzurri; era l’idolo delle ragazze al liceo e mi rendevo conto che per Charlotte non fosse semplice essere amica di un donnaiolo del genere.

Ormai mi ero abituata a vederlo gironzolare per casa come uno di famiglia.

Una delle mie tante mansioni era preparare la colazione per tutti. Stavo scaldando il latte per i più piccoli, quando Delia entrò reclamando il suo caffè.

Ovviamente l’avevo già preparato ed era sul tavolo in bella vista pronto per essere bevuto, ma quella donna provava uno strano piacere a farmi diventare matta.

“E’ sul tavolo” risposi mentre versavo il latte nelle tazze degli altri.

“E che ci fa sul tavolo?” mi chiese.

“Di solito dov’è che si fa colazione?” ribattei con sarcasmo. Mi maledii appena mi accorsi di quello che avevo fatto; era inutile, non riuscivo proprio a farmi trattare così.

Per fortuna quella mattina, la pazza sclerotica era di buon umore e mi ignorò. Arrivarono in cucina anche Charlotte e Susan. Mi voltai verso di loro con un sorriso a trentadue denti.

“Ho cucinato le frittelle, le volete?”.

Susan sembrava tentata di assaggiarle, ma Delia la bacchettò duramente appena la ragazza allungò la mano “Non vorrai mangiare quelle cose piene di grassi?”.

Susan non poté nemmeno ribattere, poiché s’intromise anche la sorella maggiore “Delia ha ragione! Devi stare attenta alla linea”.

Charlotte normalmente non era mai d’accordo con Delia, anzi tendeva a darle contro ogni qualvolta ne aveva l’occasione; solo su due cose quelle due erano in perfetta sintonia: tutto ciò riguardasse l’aspetto esteriore e prendersela con me. Ero il loro capro espiatorio; quindi non mi sorprese che le avesse dato ragione.

“Se posso permettermi” dissi “Susan ha solo quattordici anni e deve crescere; non può tirare avanti a carote crude e tofu … come nessun altro dei ragazzi”.

Delia assunse un’aria supponente “In questa casa si mangiano solo cibi sani”.

“Giusto. Ma se ogni tanto si trasgredisce non cade il mondo. Io l’ho sempre fatto”.

La donna alzò le sopracciglia “Appunto” prese la borsetta e mandò tutti a scuola.

Io rimasi con le frittelle ancora in mano. Mi aveva forse dato della ragazza grassa? Io non ero affatto grassa. Ero magra, nel mio perfetto peso forma. Non avevo mai sentito nessuno dire che avevo qualche chilo di troppo, anche perché la mia corporatura era talmente minuta che era impossibile affermare il contrario.

Eppure Delia aveva detto che ero grassa, senza nasconderlo più di tanto per altro.

Io non ero grassa! Io ero magra, non anoressica, magra! Giusta per la mia statura. Se per quella donna essere magra significava assomigliare ad uno scheletro, allora sì: ero decisamente in carne! E ne ero fierissima.

Quel giorno conobbi un’amica di famiglia del signor Byron. Si presentò a casa proprio quando madame Demon stava uscendo. S’incontrarono sulla porta e così d’impatto credevo stessero per ammazzarsi a suon di borsettate.

La signora sconosciuta aveva dei lucenti capelli color mogano, lunghi e liscissimi, quasi quanto i miei, e occhi verdi-azzurri. Era elegante e fine; nonostante qualche ruga intorno agli occhi era una bella donna e soprattutto non era assomigliava ad un appendiabiti da tanto era secca.

Aveva delle bella forme fasciate perfettamente dall’abito.

“Giselle”  salutò freddamente Delia.

“Ciao Delia; tesoro ogni giorno che passa diventi sempre più magra” rispose quell’altra.

Crudelia sorrise osservando il suo figurino, senza cogliere il tono sarcastico di Giselle che voleva solo farle notare quanto apparisse appuntita e spigolosa.

“Che ci fai qui?” chiese.

“Sono venuta a prendere Byron … ricordi che lavoriamo insieme, vero?”.

Io mi appoggiai al muro spiando le due donne, soddisfatta che qualcuno tenesse testa a Delia senza cadere nel terrore.

Delia sbuffò spazientita e uscì superando Giselle che se la stava ridendo sotto i baffi.

Sopraggiunse all’entrata anche il signor Peyton, vestito di tutto punto pronto per andare al lavoro. Afferrò il cappotto appeso all’attaccapanni e lo indossò.

“Oh Danielle!” esclamò vedendomi “Non ti ho ancora presentato la mia socia, vero?”.

Scossi la testa. La donna si avvicinò e con un gran sorriso mi porse la mano.

“Giselle Ripley, tu devi essere la nuova tata”.

“Esatto … Danielle Occleve”.

Sembrava simpatica e affabile. Non potemmo dirci altro, perché Annette si gettò letteralmente tra le braccia di Giselle stringendola forte.

Anche gli altri ragazzi l’accolsero amabilmente, Charlotte compresa. Non l’avevo mai vista comportarsi in quel modo con qualcuno e la cosa mi fece molto piacere.

Significava che non era una stronza assurda con tutti e forse anch’io prima o poi le sarei andata a genio. Successivamente Martin mi raccontò che la signorina Ripley era amica di Byron, avevano frequentato lo stesso college e avevano fondato un’azienda che era la fonte di tutta la loro fortuna. Giselle frequentava casa Peyton da sempre, anche da prima che la moglie, con la quale aveva stretto un ottimo rapporto, di Byron morisse e i ragazzi la conoscevano fin da quando erano nati e la consideravano come una seconda madre.

Così mi spiegai quella favolosa confidenza e intesa che si era instaurata tra Giselle e i figli del suo socio in affari. Avevo inoltre capito come mai Delia non la potesse sopportare: non doveva renderla molto contenta il fatto che il suo quasi marito stesse tutto il giorno con una donna di indiscutibile fascino ed eleganza.

La casa si svuotò in fretta. Non ero abituata a tutto quel silenzio, mi metteva a disagio, così di solito uscivo a visitare la città. New York era enorme e mi offriva infinite passatempi: il primo fra tutti guardare le vetrine. Dato che con me non avevo portato molti soldi, non potevo far altro che limitarmi a fissare i capi di abbigliamento esposti nei negozi.

Quel giorno, però, rimasi in casa. Era un venerdì e Delia mi aveva riempito di faccende in vista dell’imminente arrivo del figlio maggiore del signor Byron.

Lessi tutte le istruzione che Crudelia mi aveva segnato su un foglio:

1)    Fai il letto di tutti i ragazzi.

2)    Dai una sistemata alle loro camere

3)    Vai nella sua ( sua stava per “la camera del figlio più grande; da quando ero lì non avevo ancora sentito il suo nome) e puliscila a fondo

4)    Lava il pavimento del suo bagno

5)    Aiuta Martin a preparare la cena di stasera

Richiusi il foglio e maledii mentalmente quell’arpia di una donna. Non le bastava trattarmi come una pezza da piedi!

Era normale che mi facesse svolgere mansioni non proprio pertinenti con il mio ruolo di babysitter: riteneva infatti che, mentre non mi occupavo dei ragazzi, fosse uno spreco che me ne stessi con le mani in mano a non fare niente.

Mi rimboccai le maniche e completai i primi quattro punti della lista. Alla fine del mio lavoro la casa risplendeva.

Martin tornò verso l’una, ma non si fermò più di un’ora: giusto il tempo di farmi qualcosa da magiare, dato che ero una vera inetta in cucina, e riuscì per alcune commissioni per la strega.

Ed io mi ritrovai di nuovo nel silenzio. 

Controllai l’ora: erano le due e mezza. Edwin aveva lezione di violino, Annette di canto; Matthias cominciava a destreggiarsi con il calcio, invece Charlotte aveva un impegno con le cheerleader o qualcosa del genere e Susan probabilmente l’aveva seguita cercando disperatamente di entrare nel gruppo, che tanto agognava, della sorella.

Il venerdì era il giorno peggiore per me, come il lunedì: nessuno rientrava prima delle cinque ed io ero costretta a starmene da sola e senza qualcuno che mi tenesse compagnia e mi distraesse, ero perseguitata dai sensi di colpa per aver lasciato la mia famiglia.

Sola e senza nessuno che mi controllasse, pensai di approfittarne per fare un bagno caldo e godermi un po’ di pace.

Crudelia aveva una vasca stupenda nel suo bagno personale: come poteva non tentarmi l’idea di andarci?

M’immersi nell’acqua bollente, piena di bollicine e poggiai la testa sul bordo. Era tutto perfetto, mancava solamente un po’ di musica, ma per il momento potevo anche accontentarmi.

A malincuore fui costretta ad abbandonare quel relax e a ripulire tutto prima del ritorno di Delia: se mi avesse scoperta nella sua vasca, mi ci avrebbe affogata.

Mi avvolsi nell’asciugamano e strizzai i capelli; e lì udì un rumore che mi gelò il sangue: qualcuno stava entrando in casa.

Era sicuramente Delia!

Non mi feci prendere dal panico, aprii piano la porta e sbirciai fuori: non c’era nessuno; il qualcuno probabilmente era ancora all’ingresso.

La mia camera non era lontana, bastava passare per il corridoio di fronte e si arrivava subito nell’ala dell’attico riservata alla “servitù”, ovvero io e Martin.

Sì, ce la potevo fare e Delia non mi avrebbe mai scoperto. Richiusi piano la porta alle mie spalle, scattai verso il corridoio, lo attraversai e svoltai l’angolo.

Purtroppo non avevo calcolato il tappeto dell’anticamera e ovviamente slittò facendomi scivolare. Al confronto Bella Swan era un trionfo di grazia ed equilibrio.

“E questo cos’è? Il regalo di bentornato?”.

 

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Eheh che dire? Sono decisamente in ritardo con tutti i miei aggiornamenti  e non so se potrò mai postare i capitoli con regolarità. Ma questo era pronto da un po’ e ho pensato di caricarlo.

Fatemi sapere che ne pensate, i vostri commenti e anche le vostre critiche mi stimoleranno sicuramente a mettermi al lavoro e scrivere ;)

Grazie!

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