Prezzemolo, salvia, rosmarino e timo

di Barsine
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE

PREZZEMOLO, SALVIA, ROSMARINO E TIMO

Prologo

 

 

 

 

 

 

   Besso ridacchiava e ingurgitava fiumi di vino assieme ai suoi scagnozzi, parlava di donne e ruttava mentre si accarezzava l’ispida barba ricciuta e si passava poi la mano sul ventre rigonfio. Gongolava grossolanamente indicando la tenda sfarzosa dentro la quale era sbattuto Dario III, pallido e smagrito, tagliato in due dalla luce della luna che filtrava come una lama attraverso la fenditura della tenda.

   “Ridete, ridete, razza di infami” pensava il re ormai in declino “Dario III non ha mai esaurito le sue risorse.”.  Si guardò cautamente intorno per accertarsi di essere solo, infilò una mano tra le pieghe dell’ampia veste che lo copriva e tirò fuori una lampada ad olio, “Finalmente” esultò tra sé e sé, e la strofinò tre volte.

Un vero Genio dalla prominente pancia blu fece prontamente capolino dalla lampada, incrociò le mani sul petto e puntò gli occhi sull’incredulo Dario. «O tu che mi hai invocato, misero…»

«Non so se sia la tua formula di benvenuto» puntualizzò Dario agitando una mano per aria «Ma io sarei ancora un re. Per la precisione, il re dell’impero più grande e glorioso che il mondo abbia mai conosciuto.»

Il Genio si permise una risata sommessa. «Perdonami, padrone, ma ridotto così non avrei mai indovinato»

Dario scosse la testa «Infatti, non mi sembra sia tua pertinenza indovinare alcunché. Tu devi solo esaudire i miei tre desideri!»

«Che padrone antipatico! Non vedo l’ora di sbrigare questa dolorosa faccenda; quindi, avanti, chiedi pure.»

«Allora…» aggrovigliò nervosamente un dito fra la sua lunga barba ricciuta «per prima cosa, voglio tornare ad essere il Gran Re. Anzi, il Gran Re più potente del mondo!»

Il Genio agitò freneticamente le mani nell’aria. «Così sia!»

«E poi… e poi voglio al mio servizio tutti i più valorosi soldati macedoni!»

Il Genio ripeté ancora gli strani movimenti con le mani. «Così sia!»

«E poi… poi…» si portò una mano alla nuca e si grattò come per far uscire qualche idea «E poi… ah! E poi voglio che Alessandro diventi il mio servetto personale…» strofinò famelicamente i palmi delle mani e tirò le labbra in un ghigno malefico.

Il Genio per la terza volta agitò le mani nell’aria e alla fine tuonò: «Io esaudirò i tuoi desideri, ma attenzione: alla tua corte, due persone porteranno due orecchini uguali dai quali non potranno separarsi. Dalla loro comunione l’incantesimo svanirà e tutto tornerà come prima!»

«Come sarebbe? Ma… che razza di Genio sei?» si sbilanciò contro il Genio tentando di afferrarlo, ma quello alzò le mani al cielo e cominciò a girare vorticosamente su stesso. «Cosa significa? Spiegami meglio!»

«Ah ah ah! Addio, padrone antipatico!»

   Ci fu un lampo, un bagliore, un fascio di luce intensa pervase in un attimo la tenda illuminandola come se fosse giorno, e si sentirono solo le urla allarmate di Besso e dei suoi soldati.

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE

PREZZEMOLO, SALVIA, ROSMARINO E TIMO

Capitolo 1

 

 

 

 

Persepoli, Persia, 330 a.C.

   Un bellissimo eunuco massaggiava sapientemente le spalle del re.

“Non posso crederci” pensò Dario “E’ accaduto veramente.”. Si guardò attorno. Un attimo fa ricordava di essere sbatacchiato in un angolo della tenda di Besso e ora si trovava lì. Ori, arazzi, tappeti, pietre preziose, eunuchi, concubine; tutto riversato al suo servizio. Il palazzo di Persepoli era ancora in piedi ed era lì, in tutto il suo splendore, davanti a lui. E lui sedeva ozioso e molleggiato sul suo alto trono, con la mitra regale, non aveva guerre a cui pensare, nessun Alessandro ad occupare i suoi territori, ma tutti i soldati macedoni più valorosi militavano ora nel suo poderoso esercito; era un sogno, e pareva che fosse possibile allungare un dito per scoppiare quella bolla di illusione e far tornare tutto alla cruda realtà.

Scosse la testa.

   «Leggiadra creatura» cominciò, gettando l’occhio ad un vistoso orecchino di bronzo al lobo dell’orecchio dell’eunuco «dimmi, qual è il tuo nome?»

«Bahram, mio signore Re di tutti i Re.»

Dario allungò le labbra in un sorriso soddisfatto: il suono di quelle parole era più armonico della soave melodia con cui i musici lo stavano allietando. «E fammi un po’ vedere questo orecchino…» lo rimirò tra le sue dita e lo sfilò dal buco dell’orecchio. «Ah!»

«Ti piace, mio signore Re di tutti i Re? Me lo regalasti tu il giorno in cui arrivai alla tua corte.»

«Certo, mio leggiadro, me lo ricordo… è veramente bellissimo.» era un gioiello di forma circolare di bronzo cesellato, con incastonata al centro una pietra preziosa di colore rosa opaco, forse un quarzo. «Continua, continua…» e porse l’orecchino all’eunuco, il quale si affrettò a infilarselo per poi continuare a massaggiargli le spalle.

Nel frattempo il re fece un cenno con la mano ad uno dei corpulenti eunuchi accanto al suo trono e in un  batter d’occhio gli fu servito un sontuoso vassoio di ogni bendiddio di frutta: pesche, banane, noci di cocco, e quant’altro.

“E Besso?” pensò, addentando una pesca “Che fine avrà fatto Besso?”, poi chiese ad un eunuco di soddisfargli la curiosità ma quello gli rispose che non aveva mai sentito parlare di Besso.

“Quel Genio in fin dei conti ha fatto proprio un buon lavoro… e il bello deve ancora arrivare!” non trattenne un sorriso a metà tra il divertito e il malizioso.

 

 

   Quando entrò nel suo talamo, il letto era già tutto pronto, ornato con coperte e cuscini della seta più pregiata, nei quattro angoli della stanza bruciavano incensi egiziani che profondevano un aroma soffuso e accogliente e, sfumato con la luce fioca della lucerna, vagamente erotico.

   “Che meraviglia”. Dario inspirò profondamente e chiuse gli occhi per qualche attimo per godere di quell’atmosfera incantata. Quando li riaprì, come per magia, sul letto era comparso un giovane uomo dal corpo snello e aitante, chiaro di carnagione, con lunghi e ricciuti capelli biondi e sfavillanti occhi grigi, vestito solo di un esiguo perizoma di seta. Si teneva semidisteso su un fianco, con la testa appoggiata di peso alla mano destra, con una coscia lievemente sollevata, sfoggiando due natiche sode e levigate. Sul viso dagli occhi bistrati era dipinto un sorriso piuttosto tirato, un’espressione di acuto desiderio - o di fiero orgoglio di sé.

“Questo…” Dario non riusciva a capacitarsi di quello che aveva di fronte “Questo è il più bello spettacolo al quale il Dio potesse farmi assistere”.

«Ben arrivato, mio signore Re di tutti i Re.» sibilò il servo con voce suadente «Spero che la camera sia di tuo gradimento.»

Dario non gli staccava gli occhi di dosso, e intanto cominciava ad armeggiare senza successo con i pesanti vestiti che portava.

Il servo accorto si alzò, e con una camminata flessuosa e ancheggiante si portò direttamente davanti a lui. «Il mio signore non deve mai trovarsi in imbarazzo, ci sono i servi per queste cose…» pose le sue dita affusolate sul petto del suo re e con movimenti decisi e sensuali rimosse ad uno ad uno i suoi vestiti, appoggiandoli poi con grazia sulla grande sedia accanto al letto.

Dario si perse ad ammirarlo da dietro: le forme del suo corpo erano pressoché perfette. «Dimmi, qual è il tuo nome?» già lo sapeva, ma moriva dalla voglia di sentirlo pronunciare dalle sue labbra.

Il servo si voltò, sorridendogli. «Alessandro, mio signore. Sono della Macedonia.»

«Alessandro.» pronunciò quel nome lentamente, molto lentamente, come se volesse sorseggiarne l’aspro sapore. «Sei giunto da lontano…»

«Sua maestà mi ha selezionato tra centinaia di ragazzi provenienti da tutte le parti del mondo.» gettò in fuori il petto in un gesto di pura soddisfazione di sé.

«Ah… ah sì. Non lo ricordavo, con tutti gli affari di cui mi sono occupato in questo periodo…». Era rimasto veramente senza parole. In quel velo d’illusione, in quella capricciosa corte, ognuno aveva ricordi di un passato del tutto inesistente.

Alessandro notò lo sguardo perso del suo re e gli prese entrambe le mani tra le proprie, conducendolo cautamente sul grande letto a baldacchino.

Dario si sentì immediatamente stordito. Non avrebbe mai immaginato, un giorno, che sarebbe andato a letto con il suo peggior nemico. Guardò negli occhi quello che ora era il suo servo: sembrava pensarla del tutto diversamente da lui; senza che se ne fosse accorto, l’aveva già coricato sul letto e ora gli si stava adagiando sul ventre. «Alessandro…»

Alessandro sorrise, premendo le sue cosce contro i fianchi del re. «Questa notte ogni tuo desiderio sarà un ordine.»

Seduto sul suo addome, Alessandro era più pesante degli altri suoi esili schiavi. Dario lo osservò ancora una volta, più attentamente. La sua voce era piuttosto profonda, e il suo corpo era più virile, meno femmineo di quello degli altri servi di quel palazzo; il suo perizoma era notevolmente più gonfio. “Dannazione. Mi sono dimenticato di chiedere al Genio di castrarlo.”

«Qualcosa non va, mio signore?»

Il re decise di non dare peso a certi particolari. Alessandro, il grande Alessandro, colui che l’aveva sconfitto due volte sul campo di battaglia mettendolo in fuga e umiliandolo davanti alla sua patria, era lì, davanti a lui, seminudo, liscio e profumato, sottomesso in tutta la sua virilità, pronto a soddisfare ogni suo desiderio. Afferrò i suoi fianchi con le mani. Erano sottili, non rotondi come quelli degli eunuchi, ma sembravano forti e ugualmente agili.

Quella notte, per la prima volta avrebbe sperimentato i piaceri carnali con un altro uomo come lui. Rabbrividì al solo pensiero.

Alessandro non capiva cosa passasse nella testa del suo sovrano, ma sapeva perfettamente quali fossero i suoi doveri. Con una grazia inaudita per un uomo come lui, si chinò a cospargere di umida saliva il collo reclinato di Dario; lo sentì fremere, e allora addentò la tenera carne cominciando a muoversi su di lui.

Dario non resistette e afferrò i suoi capelli morbidi e lucenti quando sentì la sua lingua abbassarsi sempre di più, quando sentì i denti aguzzi catturare il suo capezzolo sinistro. Gettò lo sguardo all’orecchio di Alessandro quando questi si ravviò all’indietro i capelli per facilitare la stimolazione dei capezzoli: un grosso orecchino d’oro dava sfarzo di sé luccicando ad ogni movimento della testa dello schiavo. «Un momento!»

Alessandro sollevò la testa, confuso.

Dario allarmato allungò una mano e cercò di sfilare il pesante orecchino dal buco, ma non vi riuscì. «Cosa significa questo?»

Alessandro rise. «Questo? Me l’ha venduto uno strano tizio allo scorso mercato. Diceva che fino a che non mi fossi unito alla mia anima gemella - una persona con questo stesso orecchino - non sarei riuscito a toglierlo.»

Dario rimase per un attimo esterrefatto, poi rilassò i lineamenti in uno strano sorriso. «Ah sì? Interessante…»

«Ti piace?»

L’orecchino era vistoso, di forma lievemente allungata, d’oro puro finemente lavorato. «E’ splendido. E ti dona.». Abbandonò ogni renitenza sotto il tocco del suo servo che nel frattempo si era di nuovo abbassato su di lui, e decise di godersi ogni istante di quel sogno meraviglioso: afferrò i suoi fianchi e lo costrinse sotto di sé, levandogli il perizoma.

   Quella notte, i gemiti del grande Alessandro si sarebbero stagliati alti, fino al cielo limpido e stellato di quella magica Persepoli.

 

 

   Dario sbadigliò quando un inaspettato raggio di sole lo distolse dal suo sonno tranquillo; tuttavia, non trovava il coraggio di aprire gli occhi: e se si fosse rivelato tutto un sogno? E se si fosse ritrovato di nuovo nella tenda di Besso? Tastò nell’aria accanto a sé, ma la sua mano toccò una superficie calda e liscia. E il letto su cui era disteso sembrava di gran lunga più morbido e grande della misera branda su cui aveva passato le ultime notti.

Decise di aprire gli occhi. Accanto a lui, giaceva immobile un bellissimo servo biondo. Memore delle follie della notte appena trascorsa, Dario stirò le membra intirizzite e a passi strascicati si diresse verso il terrazzo che regalava una splendida vista della piazza di Persepoli, brulicante e festosa proprio come se la ricordava. Era giorno di mercato. Represse l’irrefrenabile istinto di gridare al popolo tutta la sua gioia; gettò invece un’occhiata al corpo nudo di Alessandro e sorrise. Quella notte, gli aveva dedicato tutto di sé, l’aveva amato come mai si sarebbe aspettato da un uomo, l’aveva sorpreso e sollazzato con giochetti e astuzie degni della più esperta delle meretrici, eppure gli sembrava estremamente spregiativo quel paragone per quell’Alessandro che un tempo non troppo remoto era stato un re più grande di lui, e al pensiero si morse la lingua. L’aveva soddisfatto, gli era piaciuto; si meritava un dono degno della sua devozione.

 

 

   «Bahram!» gridò, mentre nella grande mensa si gustava la sua colazione; il giovinetto dai capelli scuri accorse prontamente. «Voglio che tu oggi vada al mercato e che compri il più bello schiavo in vendita. Non badare a spese.» e gli affibbiò una saccoccia di cuoio colma di darii d’argento.

Bahram prese tra le mani la sacca e la rimirò con occhi tremanti. La voce tonante del re però lo riscosse.

«E che non ti venga in mente di fuggire, con tutti quei soldi: posteggerò le mie guardie alle mura della città. E lo schiavo dovrà essere di grande bellezza, altrimenti…» con un dito fece cenno di decapitazione.

Il giovane eunuco deglutì. «Consideralo già fatto, mio signore.»

«Bravo, ragazzo mio, bravo.»

   Bahram si aggirava placidamente tra i fastosi e colorati banchi del mercato, combattuto tra venditori di pesce, di gioielli, di schiavi da poco prezzo che lo assalivano di suppliche affinché comprasse la loro merce.

Ma Bahram era uno schiavo diligente e non si faceva attrarre dai luccichii di tutti quegli orecchini, cercando invece tra i volti e i corpi di tutti quei giovani ragazzi in vendita qualcosa che potesse essere di gradimento per il suo re. Ma alcuni erano troppo piccoli, altri troppo grandi, alcuni troppo alti, altri troppo bassi, ce n’erano di troppo magri, di troppo grassi, nessuno che soddisfasse il suo gusto personale. “Se tornerò a palazzo senza uno schiavo” pensò preoccupato il giovane eunuco “il re mi taglierà la testa. Ma di questi schiavi, nessuno è adatto per stare al fianco del mio signore!”

«Ehi! Ehi tu!»

Una flebile voce alle sue spalle lo fece sobbalzare: quando si voltò, davanti a lui figurava il ragazzo più bello che avesse mai visto. «Chi sei?»

«Mi chiamo Bagoas. Sono un eunuco, lavoro per quel venditore di gioielli laggiù, vedi?» con il dito indicò un ricco banco di ogni sorta di monili e gioielli delle più pregiate fatture.

Bahram annuì, ancora sorpreso.

«Il mio padrone mi tratta male, e ho visto che tu gironzolavi tra i banchi di schiavi con quella bella saccoccia in mano. Il tuo padrone dev’essere molto ricco, se l’occhio non m’inganna, e tu mi sembri ben nutrito. Io non sarei in vendita, ma credo che quella borsa convincerà quell’avido a lasciarmi andare.»

Bahram si lasciò sfuggire un sorriso. Quello era un segno divino, il più bello schiavo che avesse mai visto gli si era offerto di sua spontanea volontà.

   Senza neanche accorgersene, si fece condurre dal banco del venditore di gioielli.

 

 

   Alessandro stava per immergersi in un bagno odoroso di ciclamino nella grande vasca di marmo quando improvvisamente sentì la porta del suo talamo aprirsi. Si mise in piedi immediatamente e si avvolse un telo di lino attorno ai fianchi, tendendo l’orecchio. Non si sentiva alcun rumore, sicuramente non si trattava di qualcuno interessato a rubare qualcosa. E infatti, quando silenziosamente fece capolino nella stanza, trovò il suo re vestito di tutto punto che mostrava orgogliosamente un bellissimo eunuco profumato del fiore della giovinezza, dai lunghi capelli scuri e la pelle ambrata.

Alessandro aprì la bocca, incapace di parlare.

«Sono molto contento che tu lo gradisca, mio servo prediletto.» cominciò Dario, dando una pacca sulla spalla all’eunuco. «Io stesso l’ho scelto tra centinaia di schiavi di grande bellezza stamane al mercato. Spero solo che ti sia fedele e che soddisfi ogni tuo desiderio, nel caso di qualche problema rivolgiti pure a me e provvederò io a sistemare le cose.» e rivolse un’occhiata severa a Bagoas.

«Io non so come ringraziarti, magnanimo re.»

Dario sorrise. «Non ce n’è bisogno, Alessandro. La tua presenza è già un ringraziamento per me.» ma realizzò improvvisamente che dinnanzi a lui non stava il grande re macedone, bensì un cortigiano qualunque, e scosse la testa assumendo un tono perentorio, con una vena di sdegno. Non poteva di certo apparire così indulgente davanti a quello che era stato il suo peggior nemico, e tanto meno ad uno schiavo appena arrivato a palazzo. «Comunque, penserai a come sdebitarti stanotte nel mio letto.» e si affrettò ad uscire chiudendo la porta alle sue spalle.

   Alessandro osservò per qualche secondo la porta chiusa, incredulo del repentino cambiamento del suo re, poi si rivolse all’eunuco: «Benvenuto a palazzo, qual è il tuo nome?»

Bagoas abbassò gli occhi. Era un po’ deluso di dover servire un altro schiavo e non il re, però il giovane uomo davanti a lui era attraente e sembrava amichevole, anche se fisicamente era molto più virile di come si sarebbe aspettato uno schiavo personale del re: probabilmente non era castrato. E non era neppure persiano. «Bagoas, signore.»

«Puoi chiamarmi Alessandro. Non sono un signore.»

«Va bene, Al… sk… Iskander

Alessandro sorrise. L’accento del giovane eunuco lo eccitava. «Chiamami Iskander, allora.»

«Credo che mi risulterà più facile.»

«Stavo per farmi un bagno. Ti dispiace se ti lascio solo?» in realtà il tono della voce tradiva l’invito.

«Sono uno schiavo, Iskander, è mio compito renderti ogni favore. Se vuoi posso lavarti io.»

Alessandro accennò un sorriso. «Certo. Scusami, non sono abituato a dare ordini. Ma non credo ce ne potrà essere bisogno.»

Bagoas sorrise e arrossì. Non era da lui arrossire, era abituato a ogni tipo di richiesta, ma quell’uomo a prima vista aveva scatenato in lui una strana emozione, un senso di forte attrazione: era l’uomo più giovane che avesse mai servito, e in un certo senso il più simile a lui: sembrava un ragazzo, imberbe e dai lineamenti delicati, ed era decisamente bello.

   Quando entrarono nella sala da bagno profumata di ciclamino, Alessandro si denudò e si immerse lentamente nella vasca; Bagoas osservò ogni suo movimento e non esitò a cominciare a passargli le mani bagnate di acqua odorosa sulla schiena: dagli sguardi che ogni tanto il suo padrone gli lanciava, sentiva che non era troppo presto per constatare che tra loro si sarebbe creata una grande intesa.

 

 

   Bahram era soddisfatto del suo lavoro. Il servo era piaciuto a Dario e per quella somma il venditore di gioielli gli aveva regalato anche un bellissimo orecchino d’oro. Lo stava rimirando allo specchio della sua stanza quando improvvisamente la porta si aprì dietro di lui ed irruppe la voce tonante del re: «Volevo dare un’occhiata a quell’orecchino…»

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


PREZZEMOLO, SALVIA, ROSMARINO E TIMO

PREZZEMOLO, SALVIA, ROSMARINO E TIMO

Capitolo 2

 

 

 

 

 

   «Certo, mio signore.» si sfilò l’orecchino e fece per porgerlo al re «Ti piace? Me l’ha donato il padrone di Bagoas.»

Dario arrestò immediatamente i suoi passi. «Ah. Sì, sì, molto bello. Bene, ci vediamo.» finì la frase che era già fuori dalla stanza di Bahram, il quale scosse confuso la testa per poi rimettersi a cincischiare sorridente con lo splendido gioiello d’oro.

 

 

   Nonostante i giorni si susseguivano tranquilli e sereni, Dario diventava sempre più nervoso e intrattabile e aveva ordinato ad Alessandro di stargli sempre vicino, fino all’ossessione, di non vedere nessun altro oltre al suo schiavo Bagoas e di non sollevare mai i capelli lasciando scoperto l’orecchino d’oro.

All’inizio, così preso da tutto quello splendore e dalla felicità di essere scampato ad una fine tanto atroce quanto sicura, si era decisamente permesso il lusso di trascurare il problema. Ma ora che trascorreva ogni notte con il suo servo, si rendeva conto che era quell’insignificante oggetto di vanità, quel dannato gingillo luccicante che non lo faceva dormire, che minacciava la sua disperata serenità, e per ironia della sorte lo possedeva lui, chi altri avrebbe potuto? Anche nel suo mondo doveva intralciargli i piani, quell’Alessandro? Non lo avrebbe permesso.

Era più che mai deciso ad eliminare il problema definitivamente. Mandò in gran segreto – già si immaginava le voci gracchianti dei cortigiani su questa sua nuova mania, se lo fossero venuti a sapere - dei messi a tutti i capi delle sue satrapie della regione persiana affinché questi controllassero che nessuno degli abitanti possedesse l’orecchino che aveva fatto riprodurre dal più abile disegnatore del palazzo, e se avessero trovato qualcuno che lo possedesse identico, l’avrebbero dovuto sopprimere senza indugio.

Ma la risposta gli arrivò dopo qualche settimana: no, nessuno in tutta la Persia che portasse un orecchino del genere.

Avrebbe dovuto sentirsi sollevato, ma non fu così. Quell’apparente lontananza della seconda metà della minaccia lo turbava: la sentiva come se gravasse sulle sue spalle, come se incombesse dietro di lui, come se ridesse alle sue spalle, come se fosse molto più vicina di quanto non sembrasse.

E soprattutto non riusciva a comprendere perché, quando aveva ordinato ai messi di portare l’ordine ai satrapi del suo regno, aveva sentito uno che borbottava ad un altro: «Solo la regione persiana?».

   «Alessandro» disse una sera «tu saresti mai tentato di amare un altro uomo che non fossi io?»

Alessandro sollevò di scatto la testa prima poggiata sul petto del sovrano e gli puntò in faccia due occhi che più chiari Dario non li aveva mai visti. «In che senso, mio signore?»

«Potresti mai desiderare un altro uomo?» si interruppe per gettare un’occhiata tra le gambe del suo servo «O… una donna?»

Alessandro rise. «Mio signore, è da qualche tempo che mi fai discorsi strani, se posso permettermi.»

«Cerca solo di rispondere alla mia domanda, Alessandro. Stai bene qui con me? Potresti mai desiderare altro?»

«Mio signore… tu mi hai donato Bagoas, ora tu vorresti togliermelo?»

«Quindi, ti intrattieni solo con Bagoas oltre che con me?»

«Sì, mio signore. Mi hai negato di vedere chiunque altro.»

«Benissimo, benissimo.» gli abbassò la testa riluttante sul proprio petto. «Dormi, ora.»

   La lucerna si consumò, e tutto si dipinse di nero. Fuori, strideva solo una cicala solitaria. Dario si perse per qualche lungo momento ad ascoltare il suo canto e a passare le dita fra i capelli di Alessandro in una sorta di danza soporifera, attorcigliandone i ricci e lasciandoli poi ricadere sulla schiena del servo.

«E comunque» esordì all’improvviso «dovresti imparare a porre meno obiezioni e a rispondere adeguatamente alle domande che sono io a porgerti. E poi, sappi che, sì, Bagoas, se volessi, potrei anche togliertelo.»

Ma ora allo stridere della cicala si era ora aggiunto un ronzio sommesso.

 

 

   Il giorno dopo, a Bagoas fu proibito di indossare qualsiasi tipo di orecchino.

«Il re si comporta in modo strano, ultimamente.» disse una volta il giovane eunuco al suo padrone, mentre con le dita tracciava cerchi concentrici sulla sua schiena nuda «pensa che mi ha proibito di indossare gli orecchini! E, per i corridoi del palazzo, ho sentito vociferare che abbia fatto controllare che in tutta la regione persiana nessuno portasse un certo orecchino…»

«E’ il mio signore, ma se non lo conoscessi bene penserei che sia maniaco! Che importanza pensi che possa avere un orecchino?»

«Non lo so, Iskander. Ma secondo me» e abbassò la voce, facendosi più vicino al viso di Alessandro «è tutta colpa dell’età: in fondo ha ormai cinquant’anni passati. Come spieghi il fatto che ti abbia proibito di vedere chiunque tranne me e lui?»

Alessandro rise e si sistemò supino, voltando il viso verso l’eunuco. «Domanda imbarazzante. Non mi far dire quello che penso, a questo punto potrebbe anche aver nascosto qualcuno qui per spiarci e riferirgli quello che diciamo!»

Anche Bagoas rise e approfittò della posizione di Alessandro per schioccargli un bacio sul petto. Il suo primo pronostico non si era rivelato sbagliato: tra lui e il suo padrone andava instaurandosi un rapporto decisamente speciale. Certo, l’attrazione fisica aveva giocato un ruolo importante e spesso, sin dal primo giorno in cui si erano trovati insieme, si abbandonavano su quel letto, fin troppo lussuoso per uno schiavo, sciogliendo le briglie del desiderio e della fantasia – stava arrossendo a pensarci, eppure a Bagoas non piaceva descrivere il loro come un rapporto erotico: c’era dell’altro. C’era quella speciale complicità che, pensava, solo con un altro schiavo avrebbe potuto scattare, con uno che condividesse ogni giorno le sue esperienze – talvolta umiliazioni – e che ingoiasse i suoi stessi rospi; non gli era mai capitato di ridere in questo modo, su un re per giunta, sul Gran Re: con chi avrebbe potuto, se non con Iskander? E poi, la fiducia, le confidenze, come quando, spinto dalla curiosità, gli aveva chiesto cosa provasse un uomo vero nel ricoprire il ruolo passivo ricevendo in cambio un semplice sorriso che parlava da solo: nella sua condizione, quello che c’era da fare, bisognava farlo, e bene. «E comunque» aveva aggiunto, dopo un po’ di tempo «Dario è un bell’uomo.».

   «Bagoas…» la sua voce, sempre troppo profonda per appartenere ad uno schiavo del re, lo distolse piacevolmente dai suoi pensieri. «che ne dici di andare più a fondo nella questione?».

Bagoas tirò le labbra in un sorriso malizioso anche se non aveva ben capito quello che aveva in mente Alessandro. «Cosa intendi?»

Alessandro gli si avvicinò fino a sentire il suo respiro delicato sul suo viso «Provare a capire perché si comporta così… spiandolo. Durante le sue riunioni.»

«Ma, Iskander, tu sei confinato alla tua stanza e agli appartamenti del re: come pensi di fare?.»

«Faremo in modo che non mi veda. Semplice, no?»

Il sorriso di Bagoas si tirò ancora di più «Ci sto.» e non riuscì a dire altro, la sua bocca venne invasa dalla lingua dell’altro.

 

   «Cosa? Nuovi soldati dalla Macedonia?» la sua voce era un misto tra gioia e sorpresa.

«Così sembra, mio re.» confermò Bahram.

Ma subito un altro inquietante pensiero si fece strada nella mente del re «Ma io non ho richiesto nessun altro plotone dalla Macedonia. E non credo ci siano guerre in vista, nessuno oserebbe sfidarmi. Perché sono qui?»

«Saranno una ventina, non sono un vero e proprio plotone, mio signore…»

«Una ventina? E cosa vogliono da me?»

«Dicono che tu hai fatto domanda di loro, mio signore Re di tutti i Re.»

«Come sarebbe? Falli accomodare nella sala delle riunioni.»

«Subito, mio signore.»

Rimasto solo, Dario si accarezzò perplesso la barba ricciuta. “Che si tratti di un altro impertinente zampino di quel Genio dei miei calzari?”

   Sulla balaustra sostenuta da maestose colonne ioniche che circondava il vano circolare della sala del trono, due ombre si tenevano nascoste alla vista del re. «Hai sentito, Bagoas? Soldati inaspettati dalla Macedonia. La mia terra natale!»

«E il re non ha fatto domanda di loro.» commentò l’eunuco.

«O magari l’ha fatta e non se lo ricorda!»

I due si misero a sghignazzare.

   «Chi va là? Chi è lassù?» la voce del re li bloccò immediatamente.

«Presto, Bagoas, alla sala delle riunioni!»

 

 

   «Mmm.» Dario squadrava da capo a piedi sospettosamente ciascuno dei diciannove soldati giunti direttamente dalla Macedonia, disposti in fila uno accanto all’altro con le mani rigide sui fianchi. Continuavano a sostenere che fosse loro arrivata la notizia che il Gran Re li volesse alla sua corte, e addirittura si scusavano per il ritardo con cui si erano presentati. «E chi avete detto che ve l’avrebbe comunicato?»

Un uomo alto e rosso in viso prese la parola «Balthazar, Gran Re. Il satrapo della Macedonia.»

Dario sussultò «Il… che?»

«Il satrapo della Macedonia, Re di tutti i Re.» ripeté il macedone.

«La Macedonia fa parte della Persia?»

I soldati si guardarono stupiti tra di loro.

«Fatemi capire. La Macedonia è stata annessa al regno persiano? Da quando?»

«Da tre anni, dalla battaglia di Isso, Gran Re, da quando hai sconfitto re Filippo II.»

A Dario cominciava a girare vorticosamente la testa «Filippo II? E che ne è stato di lui?»

I soldati non sapevano più se ridere o preoccuparsi.

«Rispondete!»

«Lo catturasti come prigioniero e avevi intenzione di ucciderlo, ma lui insistette perché considerassi suo figlio Alessandro - che viveva sin da piccolo con la madre a Babilonia, da quando la regina aveva divorziato da Filippo…»

«Un momento» lo interruppe Dario «voi conoscete Alessandro?»

Il soldato non capì il senso di quella domanda. «No, signore. Vive in Persia da quando era appena un bambino.»

«Capisco. Continua.» “Mmm. Non è stato nemmeno lui a convocare questi soldati.”

Il macedone si schiarì la voce. «Dicevo, Filippo insistette che tu considerassi suo figlio come un ostaggio e lasciassi lui sul trono di Macedonia col titolo di satrapo al servizio del Gran Re.»

Dario ascoltava sempre più assorto. «E poi?»

«E poi decidesti di vedere questo Alessandro e lo selezionasti tra altri schiavi giunti da tutte le parti del mondo per occuparsi della tua persona. Ma non molto tempo dopo mandasti un sicario per uccidere re Filippo e la regina Olimpia e far salire Balthazar sul trono di Macedonia.»

Dario si passò la mano sulla barba, cercando di nascondere l’imbarazzo «Certo. Bravi. Volevo solo vedere se eravate al corrente degli ultimi avvenimenti.» e voltò loro le spalle.

I soldati si lanciarono occhiate sbalordite e mormorarono qualcosa in macedone tra di loro.

Dario si girò di scatto e rivolse loro un’occhiata di fuoco. «Alla mia corte si parla il persiano!»

I soldati si ricomposero subito, disponendosi prontamente uno a fianco all’altro con le mani rigide lungo i fianchi, come erano stati addestrati a fare. «Certo, Gran Re.»

Ma, ancora una volta, l’alto macedone che aveva parlato per primo si fece avanti. «Posso chiedere una cosa al re più potente del mondo?»

Dario s’impettì. «Certo, soldato. Parla pure.»

«Perché hai voluto solo una ventina di noi alla tua corte?»

Dario li osservò ad uno ad uno; tutti i loro occhi erano puntati su di lui. Quella era la domanda che temeva gli venisse rivolta; egli non aveva la più pallida idea del perché solo diciannove soldati fossero giunti alla sua corte. Cosa poteva rispondere? Non poteva fare un’altra brutta figura davanti ai suoi sudditi.

“Maledetto Genio” pensò. Forse non avrebbe dovuto rispondergli male, quando l’aveva chiamato misero. “Maledetto Genio, mi hai ingannato in tutti i modi possibili.” ma all’improvviso un lampo attraversò la sua mente. Sorrise.

«Miei cari soldati, perché voglio che voi entriate a far parte del corpo degli Immortali.» e dentro di sé immaginava l’espressione che il Genio avrebbe avuto se avesse sentito le sue parole.

I macedoni si guardarono nuovamente tra di loro, ma questa volta sui loro visi era dipinta un’espressione di gioiosa sorpresa, di puro orgoglio, e quando si rivolsero a lui, di profonda gratitudine.

«Il Gran Re parla sul serio?» chiese un altro di loro.

Dario annuì solennemente. «Certo, mio soldato, certo.»

 

 

   Fuori dal grande portone, Bagoas ed Alessandro stavano origliando l’intera conversazione, e non riuscivano più a trattenersi dalle risate. «Hai sentito, Bagoas? Forse hai ragione tu, sarà l’età!»

«E’ incredibile! Non si ricorda proprio niente!» e si concesse un risolino soffocato.

   All’improvviso, mentre i due servi accostavano di nuovo l’orecchio al portone, il re cacciò un urlo da far tremare le pareti.

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


PREZZEMOLO, SALVIA, ROSMARINO E TIMO

PREZZEMOLO, SALVIA, ROSMARINO E TIMO

Capitolo 3

 

 

 

 

 

   I soldati sussultarono e cominciarono a preoccuparsi seriamente.

Il Gran Re non era esattamente come se l’erano sempre immaginato; l’uomo alto e imponente dalla lunga barba scura che aveva sconfitto brillantemente il grande esercito macedone nella battaglia di Isso si stava rivelando una persona del tutto imprevedibile, decisamente ansiosa, e, a quanto pareva, perfino isterica. Possibile che fosse stato proprio lui a impadronirsi dell’impero più grande e potente del mondo?

   I suoi occhi erano sbarrati, fissi su uno dei diciannove soldati, animati da un’espressione di puro terrore. La sua mano era tesa davanti a lui, il dito indice puntato sul soldato macedone, il quale cercava spiegazioni con lo sguardo tra gli altri suoi commilitoni, che però sembravano attoniti quanto lui.

«Tu.» deglutì Dario, e fece cenno al macedone di avvicinarglisi. «Fammi un po’ vedere.» e, quando il macedone fu davanti a lui, afferrò violentemente il grosso orecchino che pendeva dal suo orecchio destro.

Il soldato gemette di dolore: l’orecchino non aveva intenzione di sfilarsi.

Dario cominciò a tremare. «Cos’è questo?»

«E’… un orecchino, sire.»

«Lo so! Perché non si sfila?»

Il macedone si voltò verso i suoi compagni con aria smarrita. «Se te lo raccontassi non mi crederesti.»

Dario si mise ad agitare i pugni nell’aria. «Decido io a cosa voglio credere e a cosa no! Dimmelo!».

«Certo, sire. Lo comprai ad un mercato, in Macedonia. Il tizio che me lo vendette mi disse che non sarei riuscito a sfilarlo fino a quando non mi fossi unito alla mia anima gemella.»

Dario cacciò un altro urlo; i soldati si chiedevano se fosse stato meglio improvvisare una fuga immediata.

«Questi gingilli da schiavi non sono ammessi nel mio esercito! Sei qui per una ragione seria e precisa!»

Il macedone si toccò l’orecchino; era in oro puro. «Dunque? Devo tornarmene in Macedonia?»

Dario si grattò la barba. «Non necessariamente. Qual è il tuo nome?»

«Efestione, mio re.»

   Efestione. Dario socchiuse gli occhi in un’espressione di profonda concentrazione; aveva già sentito questo nome. Gliene aveva parlato l’eunuco addetto alla persona della regina Statira, quando era giunto alla sua corte direttamente dall’accampamento di Alessandro per annunciargli la morte della sua consorte. Gli aveva detto che il re macedone si era presentato nella tenda regale assieme ad un altro uomo, e che la regina madre Sisigambi si era inginocchiata davanti a quest’ultimo. Alessandro, vista la nobildonna in evidente imbarazzo dopo che ebbe capito di essersi sbagliata, aveva preso in mano la situazione affermando che “anche lui è Alessandro”.

L’uomo alto e bello, aveva detto l’eunuco, si chiamava Efestione.

   La situazione corrispondeva perfettamente; l’anima gemella del suo servo Alessandro era dunque Efestione, l’alto macedone di fronte a lui. Doveva assolutamente impedire che quei due si vedessero.

   «Efestione.» riprese alla fine «Tu rimarrai qui alla mia corte assieme ai tuoi compagni per ricoprire la carica di Immortale. Ma fino a che non ti darò il permesso, non dovrai vedere nessuno tranne me e i tuoi commilitoni. Ti farò preparare una stanza.»

E sciolse la riunione.

I soldati ancora storditi lo congedarono e, usciti dalla grande sala, non sapevano dove andare; il loro arrivo non era atteso da Dario e le loro stanze non erano ancora state preparate.

 

 

   Alessandro e Bagoas erano sgattaiolati via velocemente dal grande portone quando avevano sentito Dario sciogliere la riunione, e ora osservavano la scena da lontano, nascosti dietro un angolo, attenti a non farsi vedere.

«Hai sentito, Bagoas?» fece Alessandro tutto eccitato «Qualcuno, tra quei soldati, porta un orecchino uguale al mio.»

Bagoas osservò la piccola marmaglia di soldati. «Non ho ben capito la storia di quegli orecchini.»

«Le parole del tizio che me l’ha venduto erano chiare: la mia anima gemella è l’unica persona al mondo ad avere l’altro orecchino. Solo dopo essermi unito alla mia anima gemella potrò togliermelo.»

«E tu ci credi?»

Alessandro si toccò istintivamente l’orecchino. «Non si sfila.» si fermò un istante per riflettere «Ma non capisco perché Dario sia così preoccupato per questi orecchini.»

«Forse non vuole che tu e quel soldato vi incontriate.»

Alessandro non rispose; intanto, tutti i soldati si strinsero attorno ad Efestione, impedendogli di scorgere il volto della sua anima gemella.

“Dannazione” pensò il servo “Devo assolutamente riuscire a vedere chi è! Chi mai avrebbe detto che la mia anima gemella fosse un nobile macedone?” e già la sua mente viaggiava liberamente, raggiungendo una vita in cui non avrebbe dovuto obbedire a nessuno, in cui avrebbe anche potuto combattere da uomo.

   Ma anche Dario uscì dalla sala delle riunioni, cingendo un braccio attorno alle spalle di Efestione, invitandolo a seguirlo nella direzione opposta a quella in cui i due schiavi stavano spiando la situazione, e subito tutto il resto della compagnia li seguì, coprendoli alla vista di Alessandro e Bagoas, che non riuscirono ad individuare il soldato che indossava l’orecchino.

 

 

   Quella sera, Dario non aveva voluto Alessandro con sé.

Quando si era ritirato nelle sue stanze, l’aveva trovato già pronto nella sua camera da letto, e quando l’aveva rifiutato aveva sentito come se l’avesse profondamente ferito. La testa del servo si era arricciata ulteriormente, e, per evitare pericoli, una volta rinchiuso nella sua stanza assieme a Bagoas, aveva preferito posteggiare due guardie davanti alla porta. Così, avrebbe avuto tutto il tempo per riflettere e, se necessario, per camminare avanti e indietro per la stanza.

   Tutto era andato esattamente come se l’era aspettato. La seconda metà della minaccia era proprio lì, nel suo splendido palazzo, giunta direttamente dalla Macedonia, troppo vicina alla prima metà per farlo dormire.

Uno dei suoi migliori soldati possedeva quel malefico orecchino d’oro che avrebbe compromesso tutto il suo potere. Conosceva infatti quell’Efestione, sapeva che era un uomo nobile, potente, e troppo importante perché si potesse in qualche modo fargli del male, non osava immaginare le conseguenze che una simile azione avrebbe comportato tra i macedoni - e forse non solo tra loro. No, non poteva permettere ad un paio di orecchini di sfasare l’equilibrio del suo immenso impero, doveva mantenere la calma e fare attenzione a non perdere la dignità, doveva trovare un modo per eliminare la minaccia senza che nessuno se ne accorgesse, o quasi.

   Ma come avrebbe potuto fare?

 

 

   Bagoas fremeva sotto le carezze di Alessandro, lo guardava, lo cercava, ansimava il suo nome; le sue labbra bruciavano di fuoco vivo mentre mordevano il collo del suo padrone, mentre le sue gambe cingevano i suoi fianchi come morse vogliose, e lo sentì finalmente impetuoso dentro di sé.

   Alessandro si muoveva in modo lento e sensuale, ma estremamente energico, e ad ogni spinta le sue orecchie si deliziavano dei mugolii del suo giovane amante che si apriva sotto di lui e lo accoglieva completamente.

   Bagoas aprì gli occhi e incontrò i lineamenti del suo padrone sfigurati dal piacere, e i capelli biondi appiccicati al viso; con un gesto della mano glieli scostò e li strattonò quando Alessandro aumentò la sua foga; vide l’orecchino d’oro che oscillava ritmicamente, in armonia con i suoi movimenti che si facevano via via più veloci, fino a quando sentì le sue mani afferrargli i fianchi in un forte gemito; e improvvisamente, quell’immenso calore dentro di lui, lo sfogo di quella passione, quella sensazione di ebbrezza che solo lui era in grado di procurargli, di cui sentiva non sarebbe mai stato sazio.

 

 

   Si girò su un fianco.

Le ore della notte stavano trascorrendo lente, ma inesorabili. Il suo regno… il suo potere… la sua serenità… due orecchini d’oro. Due orecchini d’oro… la sua serenità… il suo potere… il suo regno.

Un vortice inarrestabile, un’inquietudine irrefrenabile si stavano sempre più velocemente impadronendo di lui, il cuore accelerava i suoi battiti, dov’era Alessandro? Nella sua stanza? Davvero aveva posteggiato le guardie davanti alla sua porta? Alessandro era armato? Avrebbe potuto farle soccombere?

   Si girò dall’altro fianco.

Il suo letto era come cosparso di spine che pungevano i suoi fianchi, ogni puntura acuiva in lui il timore che quei due potessero incontrarsi; come, come avrebbe potuto fare?

   Si coprì il volto con le mani, esasperato; la sua barba era irsuta, arricciata, intrattabile.

 

 

   Alessandro si sciolse completamente nel corpo flessuoso, arcuato di Bagoas e si abbandonò al suo fianco, contando i suoi setosi capelli corvini, prendendoli tra le sue dita e rilasciandoli sul cuscino.

L’eunuco protese le labbra tumide dai baci violenti per incontrare quelle più minute e carnose del suo padrone, guardandolo negli occhi cangianti - sorrise. «E’ la prima volta, a quanto io ricordi, che abbiamo tutta la notte a nostra disposizione. Perché Dario non ti ha voluto con sé?»

Alessandro, piegato sul suo viso per catturargli nuovamente le labbra tra le sue, si bloccò all’istante e corrugò la fronte, come se avesse visto qualcosa di anomalo sul visino del suo amante. «Per lo stesso motivo per cui mi ha proibito di vedere praticamente chiunque, per cui ti ha ordinato di non indossare orecchini e per cui non si ricorda niente di quello che è accaduto nella sua vita prima di tre settimane fa.»

   Si avvertì un tonfo sordo dall’esterno, contro la porta della stanza.

Bagoas e Alessandro, interrotti nella loro tranquilla intimità, rizzarono immediatamente le orecchie.

«Hai sentito?»

«Perfettamente.» Alessandro sfilò da sotto il cuscino lo stiletto che gli aveva regalato Dario tre anni prima e si alzò, avvicinandosi a passi felpati alla porta, tendendo l’orecchio. Sembrava proprio che se avesse aperto la porta avrebbe trovato una qualche inattesa sorpresa.

Bagoas si coprì con il lenzuolo istintivamente.

 

 

   La stanza attorno a lui sembrava girare ininterrottamente su stessa, come se volesse accompagnare la frenetica spirale dei suoi pensieri.

Quella notte si stava protraendo troppo a lungo, le luci dell’alba erano ancora lontane, e nel frattempo avrebbe potuto succedere di tutto. Si alzò malamente, stordito dalla stanchezza, e si affrettò a gettarsi addosso la prima vestaglia che gli capitò tra le mani; doveva assolutamente controllare che fosse tutto a posto.

 

 

   Incrociò per un attimo lo sguardo trepidante di Bagoas e aprì improvvisamente la porta, con l’intento di spaventare il presunto aggressore.

Sollevò prontamente lo stiletto quando due guardie regali gli puntarono le lance contro il petto, ma la voce grossa di Dario in vestaglia che correva sgraziatamente verso di loro impedì che si consumasse una tragedia.

«Signore.» cominciò una delle due guardie «Come hai comandato, non avremmo versato sangue.»

Alessandro spostò lo sguardo ora sul re, ora di nuovo sulle guardie, confuso.

Dario guardò severamente la mano armata del suo servo. «Voi no, miei fidati, ma forse lui sì.»

«Non capisco, mio re.»

«Non ti avevo forse ordinato di startene chiuso nella tua stanza? Ti ho donato Bagoas per dilettarti, la notte, quando non sai cosa fare.»

Alessandro carpiva una certa vaga titubanza nella voce perentoria del re, e decise di non permettergli di tergiversare. «Cosa ci facevano due guardie fuori dalla mia stanza, mio signore?»

Dario cominciò ad agitare i pugni serrati nell’aria. «Quante volte ti ho detto di imparare a fare meno domande? Era un mio ordine, un mio ordine! E a nessuno è permesso discutere sulle decisioni del Gran Re! E tanto meno ad uno schiavo, ad uno schiavo! Chiaro?». Il suo sguardo si posò inesorabilmente sull’orecchino d’oro, che dondolava ad ogni movimento della testa del servo.

Alessandro aprì la bocca per ribattere ma, guardandosi impulsivamente alle spalle, incontrò lo sguardo attento di Bagoas, che osservava la situazione con un’espressione indecifrabile. «Chiarissimo. Voglia il Gran Re scusare la mia impertinenza.» e, con un solenne inchino del capo, si ritirò umilmente nella sua stanza.

   «Non ho parole, Iskander. Ti sorveglia!»

«A quanto pare. Sto cominciando a preoccuparmi seriamente, Bagoas, quello che fino a ieri sera mi divertiva adesso sta cominciando ad infastidirmi. Dobbiamo scoprire la cagione di questa sua mania.»

«Spiarlo più frequentemente?» avanzò l’eunuco, il quale trovava un certo diletto nell’osservare gli strani comportamenti del suo re.

«Se necessario.» fece una pausa «Ma ho come l’impressione che le sue guardie cammineranno molto spesso davanti alla mia stanza.» sospirò e lanciò a Bagoas uno sguardo d’intesa «Bagoas, io mi fido di te.»

   Dal corridoio si levò l’urlo stanco del Gran Re: «E comunque, non ti avevo ancora dato il permesso di rientrare nella tua stanza!»

 

 

   La mattina seguente, Dario si sentiva stanchissimo per la notte passata insonne, eppure aveva le idee decisamente più chiare. Aveva visto gli occhi insolenti del suo servo, e l’orecchino d’oro.

Efestione era di gran lunga troppo potente e troppo stimato perché gli si potesse fare del male, ma nessuno conosceva particolarmente bene Alessandro, e inoltre, chi avrebbe avuto a cuore un macedone schiavo e per giunta orfano? Senza contare che negli ultimi tempi l’aveva tenuto segregato nelle sue stanze senza che nessuno si fosse accorto della sua mancanza, a chi sarebbe importato se non fosse tornato mai più a gironzolare per il palazzo?

   Convocò subito Bahram nella sala delle riunioni e il servo si sentì eccitato per essere stato chiamato da solo al cospetto del Gran Re.

«Mio leggiadro» cominciò Dario con un sorriso soddisfatto dipinto sulle labbra «voglio che tu esegua uno sbrigativo compito per me.»

Bahram si inchinò. «E’ lo scopo della mia vita, mio signore.»

«Molto bene. Allora voglio che tu… commetta un omicidio.» continuò Dario senza battere ciglio.

Bahram sussultò. «Prego?»

«Hai capito benissimo. Preparerai un veleno e lo diluirai nel vino che andrai a portare ad Alessandro, il mio schiavo personale.»

«Ma, mio signore, perché, se posso?»

«Non fare domande, se non vorrai fare la stessa fine. E’ un ordine, uccidi Alessandro. Fallo nel modo più discreto e veloce possibile. So che voi eunuchi siete maestri nell’arte della frode.» e pronunciò queste ultime parole senza curarsi di velare un certo sarcasmo, pensando ad Arsete suo padre, avvelenato proprio da un eunuco che lui stesso ebbe poi il piacere di eliminare.

«Ogni desiderio del Gran Re è un ordine.»

«Benissimo, benissimo.»

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


PREZZEMOLO, SALVIA, ROSMARINO E TIMO

PREZZEMOLO, SALVIA, ROSMARINO E TIMO

Capitolo 4

 

 

 

 

 

   Bagoas aveva udito troppo.

Aspettò che Dario congedasse Bahram e corse allarmato ad avvertire Alessandro, che del tutto ignaro lucidava il pavimento  della stanza del re.

 

 

   «Iskander!» arrivò nella stanza di Dario con una tale irruenza che quasi cadde tra le braccia del suo padrone.

Alessandro si mantenne del tutto tranquillo. «Calmati. Cos’è successo?»

Bagoas si fermò un istante per riprendere fiato. «Dario ti vuole uccidere!»

«Uccidermi?» sgranò gli occhi «Ma sei sicuro di quello che dici?»

«Certo, Iskander. Sono appena stato alla sala delle riunioni. Parlava con lo schiavo che mi comprò al mercato tre settimane fa.»

Alessandro avvertì immediatamente che qualcosa gli stava sfuggendo. «Mmm. Chissà perché, ma immaginavo che non fosse stato Dario a comprarti.»

Bagoas roteò le pupille.

«Insomma, dicevi che quei due stavano tramando alle mie spalle?»

«Dario ha esplicitamente ordinato al suo schiavo di avvelenarti al più presto possibile.»

Alessandro si grattò nervosamente la nuca. «Senti, Bagoas, io non ho intenzione di stare ancora qui a subire la pazzia di Dario. Tu che ne dici?»

«E cosa vorresti fare? Fuggire?»

Si strinse nelle spalle. «Non vedo alternativa. Non so esattamente il perché, ma sento che in qualche modo la mia presenza lo rende nervoso. Preferisco togliermi di mezzo da solo piuttosto che aspettare che mi faccia la pelle.»

«E io verrò con te?»

Alessandro distolse lo sguardo dal suo giovane schiavo. «Certo. Ma a dire la verità, credo che ci sarebbe un problema… anche se ammetto che nel contesto potrebbe suonare piuttosto frivolo.»

Bagoas cercò di scrutare nei suoi occhi. «Quale?»

«Il soldato con l’orecchino.» fece una breve pausa «Bagoas, io credo alle parole del tizio che me l’ha venduto. Non voglio rinunciarci.». Aspettò la risposta dell’eunuco, ma quella non arrivò. «E poi» riprese quindi «qualcosa mi dice che sì, non devo perderlo di vista.»

Bagoas sospirò. «Hai qualche idea?»

«Per adesso dobbiamo pensare a fuggire. Quando saremo al sicuro, faremo in modo che tu possa regolarmente comunicare con il palazzo, per mantenere i contatti con i soldati macedoni. In fondo è me Dario che vuole morto, non te.»

 

 

   Bahram, tutto eccitato e solo nella sua umile stanzetta, riversava ogni sorta di veleni incolori e insapori nella coppa di vino che avrebbe dovuto portare ad Alessandro.

“Il mio re ha affidato proprio a me questo compito gravoso,” pensava “questo significa che ripone in me completa fiducia. Non devo assolutamente deluderlo!”

   Solo quando fu sicuro d’aver preparato una pozione abbastanza letale da finire il servo di Dario in pochi attimi, si affrettò a dirigersi verso le stanze di Alessandro con la coppa ricolma posata aggraziatamente su uno splendido vassoio d’argento.

 

 

   «Presto, Bagoas! Dobbiamo partire prima che arrivi il servo. Porta con te solo il minimo indispensabile, al resto ci penseremo una volta fuggiti.» Alessandro aveva già legato un paio di lenzuola pronte per essere calate dal balcone.

«Sono pronto, Iskander. Ho preso qualche provvista, un paio di vestiti, e qualche soldo.»

«Benissimo. Vieni.» legò le lenzuola al parapetto in un saldo nodo «Questo dovrebbe riuscire a reggerci, siamo entrambi leggeri.»

Bagoas raggiunse il suo padrone e si calò per primo, Alessandro lo seguì subito dopo ed entrambi corsero veloci a prendere due cavalli nella scuderia regale.

 

 

   Bahram giunse fischiettando alla stanza da letto di Alessandro; bussò, ma nessuno rispose.

Perplesso, bussò un’altra volta, accostò l’orecchio, ma dalla camera non proveniva alcun rumore. Le stanze di Dario erano sorvegliate, e il re aveva detto che il suo servo era stato confinato ai propri appartamenti.

“Che si sia già tolto di mezzo da solo?”

Incuriosito – e impaziente di vedere il sorriso soddisfatto del suo re, e magari anche una solida ricompensa – decise di provare ad entrare. Ma quando fece capolino nella stanza, non trovò esattamente la scena che si aspettava: l’unico rumore che disturbava quell’inquietante silenzio erano le tende leggere del balcone che ondeggiavano smosse dal freddo vento crepuscolare; nessun altro segno di vita.

Allarmato, osservò meglio qua e là, anche sotto il letto, ma di Alessandro non c’era nessuna traccia. Quasi si fece sfuggire il vassoio di mano quando si accorse delle lenzuola legate alla balaustra del balcone. D’istinto si sporse dal parapetto per guardare giù: all’orizzonte, una chioma bionda svolazzava verso il rosso acceso del tramonto - la sagoma di Alessandro dritta su uno dei cavalli della scuderia, affiancata dalla figura snella del suo schiavetto personale, anch’egli su un cavallo.

   E ora cosa avrebbe dovuto fare? Cosa avrebbe potuto dire al suo re? Non avrebbe di certo potuto provocargli quell’inutile dispiacere: Alessandro non era morto, bensì era fuggito! Era fuggito davanti ai suoi occhi! E lui non aveva fatto niente per fermarlo. Si sentì avvampare dall’ansia; il suo re gli aveva concesso un’enorme fiducia, e sapeva benissimo qual era la ricompensa per chi di quella fiducia non sapeva cosa farsene. Cercò di riflettere. Alessandro era fuggito, aveva portato via alcune cose con sé, probabilmente non sarebbe più tornato. In un certo senso, aveva compiuto il volere di Dario.

   Si affrettò a rovesciare il vino giù dal balcone. E promise a sé stesso che, se Alessandro avesse dovuto tornare, non avrebbe fatto in tempo a vedere Dario un’ultima volta.

 

 

   «Allora, leggiadra creatura, hai compiuto il tuo dovere?»

«Certo, mio re. E’ morto in pochi attimi, e ho gettato il cadavere nel fiume a qualche passo dal palazzo.» e si impettì soddisfatto.

Dario si grattò la barba, tentennante. «Ma… io non ti avevo detto di gettare il cadavere nel fiume.»

Bahram si irrigidì «Certo, mio signore, lo so,» balbettò «ma sai, girano molti cortigiani e guardie curiosi tra i corridoi di questo palazzo… ho avuto paura che si sarebbero potute scoprire cose che avrebbero dovuto rimanere tra noi due… ho preferito essere prudente.»

Dario sorrise, questa volta convinto. «Bravo, mio Bahram. Vedo che sei molto accorto nei tuoi affari.»

Bahram chiuse gli occhi e si godette lo sguardo appagato del suo re su di sé. Niente lo gratificava di più che accontentare il suo sovrano. «Ogni desiderio del Gran Re è un ordine.»

«Benissimo, mia dolce creatura…» si interruppe all’istante, lasciando qualcosa in sospeso.

Bahram lo osservò confuso; sentiva gli occhi di Dario strisciare impudenti sui suoi esili contorni. Si sentì ardere: Alessandro, lo schiavo personale del re, non c’era più. Era morto. E ora davanti al Gran Re c’era lui. Solo lui. Sorrise.

«Bahram…» riprese Dario.

«Mio re…»

«Ti aspetto questa sera nelle mie stanze..»

 

 

   Il suo corpo tenero, la pelle scura, l’odore di selvatico, e quelle labbra fameliche.

Non portava l’orecchino d’oro, e sicuramente non si sarebbe rivelata la sua anima gemella, ma quella donna era seduzione, era indecenza, era sesso puro.

Aveva sentito parlare delle donne persiane e dei loro seni accoglienti, delle loro labbra gonfie, delle loro lunghe gambe tornite, e doveva ammettere che quando aveva ricevuto l’invito del Gran Re a raggiungerlo nel suo palazzo quella era stata una delle prime cose a cui aveva pensato.

«Aahh…» la sentì gemere, e avvertì le sue mani appigliarsi alle sue braccia, le sue dita affusolate stringere i suoi muscoli tesi. E parlò, in persiano. Disse qualcosa che Efestione non si preoccupò troppo di comprendere.

Mentre la guardava tendersi sotto di sé, mentre la sentiva soffice e calda che lo accoglieva completamente assecondando i suoi movimenti con il suo bacino, con le gambe cinte sui suoi fianchi, pensò ad alcuni dei suoi commilitoni che quella sera avevano preferito portarsi in camera degli esili eunuchi.

Cosa mai ci trovavano in un corpo duro e sterile come quello di un maschio? – sebbene quello degli eunuchi fosse modificato ad arte e reso più malleabile.

La mollezza delle forme di una donna, il suo calore, il suo odore, non erano nemmeno paragonabili all’asprezza di un corpo maschile. E i capelli di seta… affondò il viso nella chioma scura di quella splendida creatura, profumata, sensuale… femmina.

   Sentì le sue cosce serrargli la vita quando giunse al culmine del piacere. Quanto lo eccitava soddisfare le sue donne! Adorava sentirsi accarezzare i capelli e farsi sussurrare all’orecchio che era un bravissimo amante. Zeus solo aveva saputo contare quante femmine avevano lasciato il loro odore sulla sua pelle ruvida, quanti segni avesse avuto sul collo sin dall’adolescenza, quante unghie avevano graffiato la sua schiena gagliarda. E mai, lo sapeva, mai avrebbe potuto rinunciare a tutto questo.

   Quando si abbandonò esausto al fianco della splendida persiana, quando sentì le sue labbra catturargli il lobo dell’orecchio e sussurrargli tutta la loro soddisfazione, si ritrovò a pensare all’orecchino d’oro e alla strana profezia. E, con gli occhi fissi al soffitto, cercò di immaginare quale divina creatura potesse indossare il gioiello complementare, se fosse mora o bionda, se fosse alta o bassa, se tenesse gli occhi bassi e pudichi o se invece si sapesse leccare le labbra con lascivia.

 

 

   Si leccò le labbra; aveva appena finito di mangiare. il fuoco che avevano appena acceso scolpiva i suoi lineamenti stanchi sottolineandogli le occhiaie che si facevano via via più profonde.

   Avevano viaggiato per un giorno intero e ora si stavano godendo l’aria della sera in un’isolata radura immersa nel boschetto che inverdiva le zone periferiche di Persepoli. Il giorno dopo sarebbero partiti di nuovo, alla volta di Susa, la residenza invernale del Gran Re: il freddo si stava infatti avvicinando, e presto tutta la corte vi si sarebbe trasferita. Avrebbero fatto in modo che potessero non essere visti ma allo stesso tempo avessero la possibilità di comunicare con il palazzo. Susa era immersa nei boschi, non sarebbe stato difficile sfuggire a occhi indiscreti.

   Alessandro si ritrovò a osservare il visino assonnato di Bagoas, i lineamenti delicati, il mento dolce e affusolato e il taglio affilato degli occhi, il corpo sinuoso e sottile, e si rese conto che, con lui al fianco, non aveva mai sentito il bisogno di stare con una donna. Cosa poteva dargli, una femmina, più di quanto già non gli desse Bagoas? Sensibile, complice, intelligente - anche se purtroppo poco istruito - e di una bellezza gracile, di una morbidezza sublime, toccare il suo corpo e vederlo rispondere era un piacere di cui sentiva che non avrebbe mai potuto fare a meno, sentire il proprio nome pronunciato da quelle sue labbra, con quella sua voce impastata dal desiderio, con quei suoi gemiti; e quell’esperienza nell’arte dell’amore, che a lui sembrava non riservare alcun segreto.

   Bagoas si accorse degli occhi di Alessandro su di sé e si volto a guardarlo, sorridendo stancamente. «Ho sonno.».

Alessandro si convinse che sì, forse era meglio anche per lui che si riposasse un po’, e cercò di calmare le sue voglie. L’eunuco aspettò che il suo padrone spegnesse il fuoco e si coricasse nella tenda rudimentale - che avevano costruito con pali di legno e i loro stessi vestiti - per potersi stringere forte a lui e posare la sua testa leggera sul suo petto. Si addormentò subito.

   Alessandro, invece, teneva gli occhi fissi sopra di sé e si godeva il torpore che i capelli di Bagoas infondevano al suo corpo. Cercò di immaginare il viso della sua anima gemella: non era un devoto eunuco come Bagoas, bensì un rude soldato macedone. Un uomo, in tutto e per tutto. Si chiese cosa stesse facendo in quel momento, se anche lui ogni tanto pensasse a dove si trovasse la sua anima gemella, se avesse mai provato ad immaginarsela.

   Avrebbe fatto di tutto, avrebbe lottato contro lo stesso Dario, avrebbe fatto fronte persino alla sua pazzia, pur di riuscire a raggiungere il soldato con l’orecchino.

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


PREZZEMOLO, SALVIA, ROSMARINO E TIMO

PREZZEMOLO, SALVIA, ROSMARINO E TIMO

Capitolo 5

 

 

 

 

 

   Susa, Persia.

   Bahram gli sarebbe stato sempre fedele, lo intuiva facilmente dai suoi grandi occhi innocenti e dalla devozione con cui apriva le gambe per lui ogni notte. Non era petulante come Alessandro, che rimpiangeva solo per l’intraprendenza – forse troppa - che sfoggiava sotto le lenzuola; Bahram era assolutamente devoto, taceva se non interrogato ed era abile nel sottomettersi e nell’eseguire qualsiasi tipo di ordine.

Non provava alcun rimorso per aver fatto uccidere Alessandro, e non gli sembrava vero che la minaccia fosse ormai del tutto estinta. Sarebbe rimasto tutto così per sempre… lui, l’uomo più potente del mondo, con l’esercito più valoroso ai suoi ordini e tutto quello sfarzo riversato ai suoi piedi; nessuno avrebbe mai osato rovinare la sua pace, nessuno avrebbe mai osato sfidarlo, nessuno.

   Si staccò dal corpo caldo di Bahram per affacciarsi alla finestra. Le cime dei monti di Susa erano ricoperte di neve, il cielo era terso e il sole splendeva più che mai. Ora avrebbe potuto godersi tutte quelle meraviglie sgombro dell’ansia che lo aveva attanagliato gli ultimi giorni a Persepoli; persino i cortigiani si erano accorti che il loro re era diventato improvvisamente più attraente, il suo viso era rilassato e i suoi modi non più scattosi e irritanti, la sua voce era diventata pacata, quasi dolce, e soprattutto aveva smesso di ordinare balordaggini.

   «Buongiorno mio re.» Bahram trattenne un disonorevole sbadiglio.

Dario si voltò a guardarlo con un sorriso. «Buongiorno, mio leggiadro.»

«Il mio signore è rimasto soddisfatto ieri notte? Ha dormito bene?»

«Certo, dolce.» si sedette sul letto accanto a lui, scoprì lentamente il suo corpo e passò una mano sulle sue natiche «La tua pelle morbida è più appetitosa di una pesca.»

   Bahram sorrise compiaciuto e si allungò sul letto come un gatto. Da quando erano arrivati a Susa il suo re era cambiato radicalmente. Nessuno l’aveva mai paragonato ad una pesca, e invece Dario l’aveva considerato addirittura migliore!

Nella sua mente riaffiorò una zazzera bionda contro il rosso di un tramonto. Digrignò i denti. Ora era lui il favorito del re, e non avrebbe ceduto il posto a nessun altro. Se mai avesse trovato Alessandro da qualche parte, non avrebbe indugiato ad ucciderlo. E a gettarlo in un fiume.

   «Dimmi, mia deliziosa creatura.» riprese Dario avvicinandosi a lui, incurante dell’espressione pensierosa del giovane schiavo «Mi resterai per sempre fedele? Obbedirai a tutto quello che ti ordinerò?»

 

 

   «Ma certo, Iskander, che ti resterò sempre fedele. In quanto all’obbedirti, mi riserverò di valutare prima i tuoi ordini…» ridacchiò Bagoas.

«Bene.» Alessandro non si curò del tono del suo amichetto – che chiamare schiavo gli sembrava ormai del tutto fuori luogo, si lavò il viso nell’acqua di un laghetto vicino alla tenda con cui si erano appena accampati e osservò a lungo la sua immagine riflessa. Era ansioso di incontrare il soldato con l’orecchino. «Dici che siamo vicini al palazzo?»

Bagoas sorrise soddisfatto. «Certo, Iskander. Vieni con me.» afferrò il suo compagno per una mano e lo condusse con passo deciso attraverso la foresta fin su un’altura da cui si poteva godere di uno spettacolare panorama. Il giovane schiavo indicò con un dito un punto non molto lontano, da cui svettava orgogliosa la struttura di un’imponente reggia, la reggia di Susa.

«Meraviglioso» commentò Alessandro rapito.

   Bagoas sorrise. Era sempre fiero di mostrare agli stranieri le bellezze del suo luogo di nascita, l’antica capitale dell’Elam, e le sue splendide montagne. «Sentivo la nostalgia di questi monti.» sussurrò quasi tra sé e sé.

«Mi fa piacere di essere così vicino al palazzo. Volevo infatti chiederti di andare a vedere come se la passa Efestione.»

Bagoas annuì, rassegnato.

«E quando torni» riprese Alessandro schioccandogli un bacio sulle labbra «sappimi riferire qualche informazione interessante.»

Bagoas annuì nuovamente, sorridendogli, e discese dall’altura per riprendere il suo cavallo. Alessandro lo osservò allontanarsi per dirigere poi il suo sguardo verso la reggia. Inspirò l’aria fresca della montagna e poco dopo davanti a lui apparve la sagoma sottile e indistinta di Bagoas che si dirigeva verso le porte del palazzo.

 

 

   «Guardate quell’Efestione!»

«Caspita, un uomo più bello non aveva mai messo piede alla corte del re!»

«Ho sentito dire che è arrivato dalla Macedonia per dare servizio presso il Gran Re.»

«Oh, dev’essere un ottimo guerriero!»

«Beata quella che lo sposerà!»

   Efestione camminava a testa alta e a tre piedi dal pavimento nei corridoi del palazzo, attirandosi gli sguardi delle cortigiane che sembravano apprezzare oltremodo la sua presenza e soprattutto la disponibilità che dimostrava nei loro confronti. Abituato ad essere ammirato e vezzeggiato, rispondeva con calore ai sorrisi più o meno allusivi che gli venivano lanciati dalle donne più affascinanti della corte – meravigliandosi di quanto quelle femmine ritenute così pudiche in Grecia si rivelassero poi così audaci, intrattenendosi più che volentieri con qualunque di loro gli lasciasse intuire qualche allettante intenzione, e durante i banchetti seduceva anche più di due donne alla volta, conquistandosi così la fama di inguaribile libertino.

   Bagoas lo osservava da lontano mimetizzandosi tra i servi che lucidavano i pavimenti. Il regno di Persia godeva di un’incredibile armonia dettata dalla propria potenza: nessuno osava sfidare il Gran Re, e il giovane eunuco non aveva mai visto un Immortale aggirarsi tranquillamente tra i corridoi del palazzo distribuendo largamente sguardi maliziosi qua e là. Doveva ammetterlo, sì, quell’Efestione era veramente notevole, con quel fisico prestante e quella camminata altera.

   «Ah, Bagoas.»

Una voce profonda dietro di lui lo riscosse dai suoi pensieri. «Mio signore.»

Dario comparve dal nulla, accompagnato dal fedele Bahram. «Mi fa piacere vederti al lavoro. E’ da qualche tempo che, come dire… ti avevo perso di vista.»

«Sono solo un puntino in mezzo allo sfarzo di questa corte, mio signore.» si inchinò esageratamente per nascondere un sorriso sotto i baffi.

«Certo.» fece Dario con una smorfia «Spero che senza Alessandro tu non ti senta troppo solo. Mi dispiace molto per lui.»

Bahram impallidì.

«Anche a me, mio signore.»

«Bene, continua pure il tuo lavoro.» e gli diede una pacca sulla spalla.

«Grazie, mio re. Buona giornata.»

Dario si allontanò, seguito a ruota dal suo fedele schiavetto.

   Bagoas era a palazzo! E Alessandro dove avrebbe potuto essere? Perché erano tornati? O forse Bagoas era tornato da solo poiché Alessandro era morto per davvero? Bahram deglutì. Aveva come l’impressione che i suoi sonni da quel momento sarebbero diventati molto irrequieti.

   Bagoas osservò il re allontanarsi e rivolse di nuovo la sua attenzione su Efestione, il quale si era fermato a scambiare due parole in greco con un commilitone. Senza neanche accorgersene, Bagoas smise di lucidare il pavimento e nell’inutile intento di carpire qualcosa dal loro discorso prese a fissare intensamente l’ignaro macedone. Quando sentì una mano sottile posarsi decisa sulla sua spalla sobbalzò.

   Dietro di lui, una bellissima donna gli stava sorridendo. La riconosceva: era una delle cortigiane che aveva sorriso ad Efestione poco tempo prima. «E’ bello, vero?»

«Efestione? Ah, sì.»

La donna tirò ulteriormente le labbra, trasformando il sorriso in una smorfia maliziosa. «Se ti interessa, prima di sera va spesso a bagnarsi non molto lontano dal palazzo. Spesso ci siamo incontrati là.» i suoi occhi rotearono sognanti come per rievocare immagini di ardente beatitudine «E’ un laghetto poco profondo all’ingresso della foresta.»

Bagoas sorrise. «Oh, non so come ringraziarti.»

«Non ti preoccupare. Ma ti avverto» la sua voce assunse un tono altezzoso «a lui piacciono le donne.»

Bagoas sospirò.

 

 

   «Allora? Hai scoperto qualcosa?» Alessandro saltellò impaziente verso il suo servo non appena lo vide arrivare.

Bagoas scese da cavallo con un’espressione indecifrabile. «Ne parlano tutti, a palazzo. Ha la fama del libertino. Le donne lo adorano.»

«Ah sì, eh? Le donne lo adorano? E lui adora le donne?» Alessandro non amava essere paragonato ad una donna, specialmente negli affetti di un uomo. Era fiero di sé, ed era convinto che il suo fascino fosse irresistibile per entrambi i sessi.

«Così sembra.»

«Staremo a vedere. E’ affascinante?»

«Sono sicuro che ti piacerà. E ho una buona notizia per te: una donna a palazzo mi ha rivelato che viene spesso da queste parti a bagnarsi.»

Gli occhi di Alessandro si illuminarono. «Non dirmi… al laghetto qui vicino?»

«Esattamente.»

Alessandro già si sentì smanioso. «Ti ha detto anche in quale momento della giornata si reca lì?»

«Prima di sera.»

«Bene.» sorrise deciso «Sarò lieto di aspettarlo.»

«Io starò qui. Non vorrei trovare qualche sorpresa nel caso in cui ci allontanassimo entrambi.»

 

 

   Efestione amava rilassarsi nell’aria quieta e pura delle montagne di Susa.

Il caldo afoso di Persepoli lo sgualciva, era terribilmente fastidioso; il tenero vento di Susa era rilassante, i suoi boschi tranquilli gli regalavano una particolare serenità, una pace che non aveva mai provato prima, un senso di totale fusione con la natura circostante. Quanto gli piaceva bagnarsi nell’acqua fredda di quel laghetto, rabbrividire e lasciarsi in ammollo, pensando all’incredibile svolta che aveva preso la sua vita. Viveva alla ricchissima corte del Gran Re di Persia con la carica di Immortale, attorniato da donne bellissime e vogliose, e nessuna guerra a turbare quel sogno meraviglioso, di cui non riusciva ancora a capacitarsi.

   Scese da cavallo e cominciò a spogliarsi lentamente, facendo scivolare i suoi abiti sull’erba umida. Lasciò che il venticello carezzasse il suo corpo nudo e si scosse leggermente in un brivido, dopodichè si immerse lentamente nell’acqua.

Era solo, immerso nel profondo verde di una foresta che pareva incantata, sgombro da ogni pensiero, da ogni preoccupazione, da ogni armatura.

   Inspirò profondamente.

 

 

   Si spogliò silenziosamente e saggiò l’acqua con la punta del piede, rabbrividendo per tutto il corpo.

L’istinto guerriero di Efestione percepì una presenza incombente alle sue spalle e di scatto il soldato uscì dall’acqua, raggiunse i suoi abiti e prese un pugnale che portava sempre con sé, per non permettere a nessuno di coglierlo alla sprovvista, nemmeno durante il bagno. Quando si girò per puntarlo addosso al suo presunto aggressore, però, si fermò improvvisamente. Davanti a lui si stava immergendo un giovane che pareva avere all’incirca la sua età, non molto alto, snello, che lo fissava coi suoi grandi occhi grigi in modo decisamente imbarazzante. Brandì il pugnale contro di lui con non molta convinzione, indeciso sul da farsi. L’uomo era nudo, senz’armi, e non sembrava avere intenzione di combattere. «Chi sei? Chi ti manda?» disse in persiano stentato.

   Alessandro si allungò con qualche agile bracciata e fece scorrere l’acqua su tutto il suo corpo, osservando l’uomo davanti a lui, cercando di nascondere il suo indecoroso eccitamento, come gli era stato insegnato prima di entrare alla corte del Gran Re. Efestione era sfacciatamente bello, nudo, solido, con un’espressione di insolenza stampata sul viso glabro, e quell’adorabile smorfia del labbro inferiore, un misto tra tensione battagliera e ingenua sorpresa.

   «Non hai sentito?» riprese Efestione, avvicinandosi minacciosamente.

Alessandro sorrise, ergendosi davanti a lui, quasi sfidandolo. Efestione si meravigliò: quel giovane disarmato, e a giudicare dalla pelle completamente liscia nemmeno avvezzo ai combattimenti, non sembrava aver alcun timore del suo pugnale.

«Non mi manda nessuno» rispose Alessandro in greco «Sono di un villaggio vicino, vengo spesso qui a bagnarmi.»

   Efestione lo osservò più attentamente: c’era qualcosa di strano nel suo aspetto quasi etereo, in quella cascata di capelli biondi, in quegli occhi luminosi che non si abbassavano mai, in quella pelle chiara e levigata. Se l’occhio non lo ingannava, poteva avere all’incirca venticinque anni, non era castrato, e non aveva segni di alcun tipo sul corpo, pareva quasi finto. E i lineamenti rilassati, l’energia che sprigionava il suo corpo e uno spruzzo roseo sulle sue guance facevano chiaramente capire che quel giovane non era avvezzo nemmeno alla miseria. Si chiese che posto potesse avere nella società. «Tu… sei greco?»

«I miei genitori erano greci… ma sono morti quando io ero molto piccolo. Vivo qui praticamente da sempre. Mi chiamo Erodione.»

Efestione gettò il pugnale a terra. «Io sono macedone. Mi chiamo Efestione.»

«Piacere di conoscerti, Efestione.» i suoi occhi scorrevano sul corpo del soldato macedone più rapidi e fluenti dell’acqua. «Sei un soldato?» e si immerse nuovamente, lentamente, lentamente, esibendo la flessuosità del suo corpo ad ogni singolo movimento.

   Efestione non si era mai sentito così imbarazzato, immobilizzato dagli occhi e dalle movenze di quello strano ragazzo che sembrava saper fare le fusa meglio di un gatto. «Faccio parte degli Immortali.»

«Oh.» fece Alessandro, affondandosi completamente nell’acqua e riemergendo poi subito dopo, gettando i capelli all’indietro «Quindi… sei al servizio del Gran Re. Devi essere un ottimo guerriero…»

Efestione spalancò gli occhi, incredulo. Dall’orecchio di quel ragazzo, prima nascosto dai capelli… pendeva il suo stesso orecchino!

   Alessandro si mise a giocherellare malizioso con il gioiello d’oro, tenendo lo sguardo fisso su Efestione. «Ti piace? Oh, che coincidenza… a quanto pare tu ne possiedi uno uguale…»

   Efestione non credeva ai propri occhi. La sua anima gemella, la persona che da tempo desiderava conoscere, la bellissima donna dei suoi immaginari… era in realtà un uomo. Un maschio come lui. Per un attimo avvertì un senso d’asfissia, ma non riuscì a staccare gli occhi da Erodione. Deglutì.

   «Anche a te è stata detta la stessa cosa?» continuò Alessandro mentre si sedeva accanto a lui.

«Cosa?» rispose confuso il soldato. Non voleva assolutamente sentire dalle labbra di quello strano individuo quello che purtroppo già sapeva!

«A me è stato detto che non sarei riuscito a sfilarmi questo orecchino fino a che non mi fossi unito con la mia anima gemella, l’unica persona al mondo che possiede l’altro orecchino del paio.»

Unito. Sì, dannazione, anche a lui era stata detta la stessa cosa! Unito. Erodione era dunque la sua anima gemella? Avrebbe dovuto unirsi con lui? Con un uomo? Un uomo come lui?

   Alessandro si sentì offeso. Efestione sembrava riluttante nei suoi confronti, privo del tutto dell’entusiasmo che si era aspettato di vedere. Sapeva di essere bello, e si sentiva irrimediabilmente ferito ogni volta che veniva rifiutato.

«Ma guarda un po’ com’è meschino il Fato!» Efestione sdrammatizzò la situazione con una leggera risata. «La mia anima gemella, la persona a cui penso tutte le notti prima di addormentarmi, sei tu!»

Alessandro si strinse tra le proprie braccia. «Cosa c’è di male?»

Efestione sembrava cominciare a divertirsi. «Ti sei visto? Sei un uomo!»

«E allora?»

Efestione gli si avvicinò e protese una mano fino a toccare il suo petto «Hai un bel corpo.» e la fece poi scivolare lungo l’addome scolpito. «Ma sei duro.»

Alessandro si sentì avvampare al tocco della sua mano, fece per afferrarla ma Efestione fu più rapido di lui a ritirarla.

«Non mi piacciono gli uomini come te… come me. E per giunta non sei neanche castrato! Se proprio dovessi finire a letto con un uomo, sceglierei un morbido eunuco!»

   Alessandro non credeva alle proprie orecchie. Quel soldato, la sua anima gemella, l’unica persona al mondo a possedere l’altro orecchino del paio, l’aveva apertamente rifiutato, deriso! E lui che aveva seguito la corte del Gran Re, vivendo nelle foreste come una fiera, lui, che mai aveva conosciuto la miseria e che mai in vita sua si era trovato a inseguire un animale per assicurarsi il pasto; e l’unico motivo per cui aveva fatto tutto questo si era rivelato tristemente vano.

   «A me piacciono le donne! Soffici, sensuali, calde…»

Alessandro si ritrovò incapace di ribattere. Guardò Efestione che si chinava a raccogliere i suoi abiti e si rivestiva velocemente, per poi girarsi verso di lui con un sorriso strano a fior di labbra. «Addio, Erodione! Vivrò una vita senza l’amore, forse, ma ne ho sempre saputo fare a meno, e preferisco che sia così.» e montò sul suo cavallo per avviarsi lesto verso il palazzo.

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


PREZZEMOLO, SALVIA, ROSMARINO E TIMO

PREZZEMOLO, SALVIA, ROSMARINO E TIMO

Capitolo 6

 

 

 

 

 

   «Non sono mai stato trattato così! Nemmeno da Dario! Ma chi si crede di essere, quell’Efestione? Mi ha deriso! Deriso! E se n’è andato così…»

   Bagoas roteò le pupille mentre lo asciugava sapientemente con il primo panno che aveva trovato sui suoi passi incespicanti «In certi casi si vede che sei il figlio di un re.»

«Cosa

«Niente, parlavo da solo.»

   Il crepuscolo era ormai calato, e dal velo dell’aria serotina che si stendeva incontaminata sugli alberi leggermente scossi cominciava a trasparire il verso di qualche animale notturno; versi pacifici e soffusi.

   Alessandro appiccò un fuocherello e si strinse nel panno, maneggiando nervosamente un rametto, scavando violente spirali nel terreno freddo. Un soffio di vento più prepotente degli altri lo fece rabbrividire, tuttavia non distolse lo sguardo dalle fiamme che avvampavano vigorose regalando una luce preoccupantemente obliqua ai suoi occhi.

   Bagoas si schiarì rumorosamente la voce. Alessandro spezzò il rametto sotto il peso della sua mano. «Mi dici chi si crede di essere?»

«Faresti meglio a mangiare qualcosa…» azzardò il piccolo eunuco.

   Alessandro non si curò del suo amichetto; continuò a fissare il fuoco e a spezzare rabbiosamente i pezzi del rametto fino a che non fossero troppo corti.

   Bagoas si schiarì nuovamente la voce. «Avresti dovuto aspettartelo, forse. A lui piacciono solo le donne.» e chiuse immediatamente gli occhi, aspettandosi una sfuriata.

Alessandro invece rimase perfettamente immobile, stranamente glaciale; i suoi occhi avrebbero potuto spegnere all’istante quel fuoco divampante che stavano così minacciosamente fissando. «E gli eunuchi.»

   Bagoas deglutì silenziosamente, oppresso dalla insopportabile pesantezza in cui quella situazione stava inesorabilmente degenerando, si alzò timidamente farfugliando un buonanotte e rientrò silenzioso nella tenda.

   Alessandro si coricò sull’erba sottile e levò gli occhi al cielo. La notte era ormai completamente calata, e il firmamento di Susa sembrava sorridergli rassicurante come una balia prosperosa, come trasmettendogli buoni auspici. Per un attimo gli sembrò d’aver dimenticato l’umiliante episodio di qualche ora prima, ma si rivelò soltanto un attimo di irrisoria brevità. Inspirò profondamente e chiuse gli occhi. Addio, Erodione. Addio? …Addio? Addio… a lui? Al servo più avvenente della corte del Gran Re? Aprì immediatamente gli occhi e si sollevò di scatto sedendosi sull’erba schiacciata dal suo peso. «Addio?» gridò, quasi inconsapevolmente. Si toccò meccanicamente l’orecchino d’oro. Ormai era diventata una sfida, una pura questione d’orgoglio. Poco importava se non piacesse a quell’Efestione. Si alzò con un agile movimento delle reni e osservò all’orizzonte l’ombra troneggiante delle solide mura della reggia di Susa.

   Nemmeno il vento che nel frattempo si era fatto sempre più pungente riuscì, seppur fosse seminudo, a scuoterlo anche solo in un debole tremito.

 

 

   «Qual è il tuo nome?» e con un dito le fece cenno di avvicinarsi.

   Lei obbedì senza ritrosie e con un mezzo sorriso avanzò ancheggiando verso di lui, le mani morbidamente adagiate sui fianchi ad ogni passo accarezzavano la seta che ricopriva ancora la sua pelle fremente. Lui alzò un sopracciglio osservando i movimenti di quelle mani sottili, assaggiandoli come fossero un preludio dei suoi. Lei aprì la bocca, lui la interruppe con un cenno della mano.

«No, aspetta, non dirmelo. Non m’interessa. Domani probabilmente non me lo ricorderei..»

   Lei sorrise scioccamente e abbassò lo sguardo con falsa pudicizia, lasciando che la mano di lui s’insinuasse serpentina sotto la sua veste e andasse a lambire lubrica la sua natica destra.

   «Come sei bella.»

Un altro fastidioso sorrisetto.

   La sua voce era insopportabile, però, per Zeus, che corpo. Alta, quasi come lui, fianchi alti, seno rotondo, lunghi capelli corvini. Tutto ciò che poteva desiderare. Aveva la pelle tanto nera che sembrava rimandare riflessi blu; non era sicuramente persiana, forse etiope.

Decise di non perdersi in ulteriori inutili contemplazioni e senza ritegno la afferrò per le natiche e la strinse forte a sé.   

   Lei spalancò la bocca larga e carnosa in un gemito roco quando sentì le mani forti di lui spingerla avidamente contro il suo turgore, quando si lasciò spogliare dalla sua furia rocambolesca; si abbandonò completamente nuda alle mani esigenti di quell’uomo bellissimo e caldo, ingenuamente fiduciosa, mentre lui le mordeva bramoso il collo, le spalle, il seno, e ansimava ai lobi delle sue orecchie.

   La stese sul letto e fece scorrere i suoi occhi impazienti su quel corpo statuario, introducendoli lascivamente in quel meraviglioso fiore pulsante, svergognatamente spalancato davanti a lui, e all’improvviso, senza un preciso motivo, la sua mente sostituì all’immagine della donna scura un corpo chiaro e levigato, i capelli neri divennero aurei, i seni marmorei scomparvero, il ventre si appiattì, e il meraviglioso fiore appassì.

Scosse la testa in un brivido d’orrore a pensare all’incontro inaspettato di qualche ora prima. Aveva ancora in mente gli occhi irritanti e maliziosi di quello strano ragazzo quando gli aveva esibito sfrontatamente l’orecchino d’oro penzolante. No… no… cerco di scacciare dalla mente quell’immagine così scocciante.

   Erodione non avrebbe mai preso il posto di una di quelle splendide fanciulle nel suo letto.

 

 

   Si affrettò a buttarsi qualcosa addosso per coprirsi bene e perse qualche attimo ad osservare Bagoas che dormiva silenzioso, il suo petto che si alzava e si abbassava dolcemente. Gli dispiaceva averlo trattato così freddamente, e si chinò piano per donargli un bacio puro e morbido sulla fronte liscia e profumata, ma era ormai troppo frettoloso ed eccitato per rendersi conto, quando uscì ad ampie falcate dalla tenda, che il visino tenero dell’eunuco si era rassegnato in un rilassato sorriso.

   Col sorriso già pregustava la vittoria quando saltò in sella al suo cavallo nero. Quella notte, il bell’Efestione non avrebbe saputo resistergli: avrebbe sciolto con la sua passione ogni renitenza, ogni pudore, se mai ci fosse stato. Gli avrebbe fatto assaggiare la sua carne, e, per Ahura Mazda, era sicuro che non ne avrebbe più saputo fare a meno. L’avrebbe cercato, sì, già immaginava le sue mani toccarlo ovunque, stringerlo a lui, nel respiro del vento già gli pareva di avvertire i suoi ansimi, le sue esplicite richieste, tutto il suo ardore.

   Tutte le difese della sua fortezza sarebbero ineluttabilmente crollate al dardeggiare della lingua del favorito del Gran Re.

   Spronò il cavallo con un rapido colpo di talloni e si diresse svelto nell’oscurità verso la reggia nera.

 

 

   Non fu difficile, per un essere agile e discreto come lui, sfuggire all’attenzione sopita delle sentinelle notturne e confondersi nella notte come un felino; si permise persino di ridacchiare osservando i due uomini che presiedevano l’entrata principale che dava al cortile interno russare rumorosamente addossati alle mura del palazzo. La condizione di pace e prosperità in cui si crogiolava l’impero persiano ammetteva questo ed altro.

   Quando si trovò dinanzi alla reggia nuda rimase perplesso. Non aveva la più pallida idea di dove si trovassero le stanze di Efestione. Gettò una rapida occhiata alle guardie che proteggevano l’accesso all’interno del palazzo: erano perfettamente sveglie e vigili, e gli pareva che una di loro lo stesse proprio guardando. “Dannazione! Dannazione! Dannazione!” s’infuriò, piantandosi le mani nei fianchi “Come non ho potuto pensarci?”. Detestava che gli avvenimenti non andassero per il verso che voleva lui.

   A quanto pareva, adesso doveva nuovamente ricorrere all’aiuto di Bagoas.

 

 

   Non ebbe il coraggio di svegliare il piccolo eunuco fino all’alba.

Dormiva così saporitamente che l’unica cosa che aveva avuto il coraggio di fare, una volta tornato irritato dalla reggia, era stata infilarglisi accanto e osservare il suo sorriso rilassato come se fosse una benedizione in grado di affievolire la fiamma dolorosa della delusione. Calma, si era detto, calma. Quel giorno già troppe cose erano andate storte, per i suoi gusti. Forse avrebbe fatto meglio a lasciar passare la notte ristoratrice. E così fece, si addormentò profondamente dopo poco tempo.

   Al risveglio, il mondo gli era apparso già diversamente, ed aveva avuto la presunzione che quella mattina il sole splendesse solo per lui.

Si stiracchiò un poco per sciogliere le membra e rivolse un radioso sorriso a Bagoas, il quale intese subito che, per essere così allegro, il suo amante doveva sicuramente avere in mente qualcosa.

   «Buongiorno, Bagoas. Dormito bene?»

Bagoas ricambiò il sorriso. «Buongiorno a te, Iskander, sì, ho dormito bene, spero lo stesso per te.»

«Sì, sì. Facciamo colazione alla svelta e montiamo sui cavalli, stamattina dobbiamo fare un viaggetto alla reggia.»

Bagoas roteò le pupille.

 

 

   «Compreso? Tu entrerai nel palazzo come se niente fosse e porterai la colazione nella stanza di Efestione. Una volta dentro, ti affaccerai alla finestra e io vedrò in quale stanza ti troverai. Dopodichè entrerò dalla stessa finestra.»

«Iskander, non sono sicuro che sia una buona idea. Efestione potrebbe non gradire la tua visita e chiamare delle guardie, le quali ti accompagnerebbero da Dario, e»

Alessandro non sembrava voler accettare obiezioni: «…E niente; fa’ quello che ti dico, Bagoas, andrà tutto bene.»

   Bagoas annuì rassegnato ed entrò tranquillamente nel palazzo, mentre Alessandro si teneva nascosto tra i folti cespugli del cortile.

   Dopo qualche tempo, Bagoas continuava a non farsi vedere e Alessandro cominciava a perdere la pazienza. Si mosse cautamente lungo ogni lato del palazzo, timoroso di un’improvvisa comparsa di Dario alle sue spalle, imprecando, cercando di sfuggire agli sguardi dei cortigiani che si sollazzavano mollemente tra i profumi degli iris e dei ciclamini, ma del viso di Bagoas non c’era alcuna traccia.

   Si innervosì poi ulteriormente quando finalmente l’eunuco fece capolino da una finestra del secondo piano con un’espressione strana e una mano che si agitava in un cenno di negazione. Cosa mai avrebbe voluto dire? Aspettò che Bagoas lo raggiungesse.

   «Allora?»

«Iskander, non ti consiglio di entrare, o almeno, non adesso; Efestione non è solo.»

L’istinto di afferrare la prima cosa che gli capitasse sotto mano e schiantarla contro le mura del palazzo era quasi incontrollabile, per Alessandro. Bagoas se ne accorse e indietreggiò. «Non è solo? Non è solo? Cosa vuoi dire? Chi c’è accanto a lui?»

Bagoas non aveva idea di come dirglielo. «C’è… u… una donna nera, Iskander.»

Alessandro strinse gli occhi riducendoli a due fessure sottili e affilate come lame. «Una donna…?»

L’eunuco annuì con un gesto frenetico del capo. Allora Alessandro girò il cavallo cacciando un urlo rabbioso che attirò l’attenzione di tutti i cortigiani presenti nel cortile, dopodichè spronò il cavallo e corse via dal palazzo. Bagoas, terrorizzato dalla reazione del suo compagno e dall’attenzione dei cortigiani – che nel frattempo avevano preso a borbottare concitatamente, preferì imitare Alessandro e sparire al più presto possibile da quel posto.

 

 

   Sedeva ai bordi del laghetto e lanciava bruscamente sassi e ciuffi d’erba nell’acqua, osservando la propria immagine deformata dalle increspature che si allargavano sempre di più fino a dissolversi.

   Il bell’Efestione continuava a preferire le donne; tuttavia il suo orgoglio non poteva tollerare una sconfitta del genere. Ormai era diventata un’ossessione, non avrebbe potuto lasciar perdere; doveva trovare un modo per sedurre quel cocciuto guerriero. Fino a quel momento erano successe già troppe cose che avevano messo a dura prova la sua pazienza; non avrebbe di certo sopportato una sconfitta su quel campo in cui si sentiva più esperto della più esperta delle concubine. Osservò più attentamente la propria immagine fluttuante nello specchio dell’acqua: cosa non andava in lui? Niente, era stato selezionato alla corte del Gran Re tra centinaia di ragazzi provenienti da tutte le parti del mondo. Quell’Efestione evidentemente non aveva la minima idea di quello che si stava perdendo.

   Era così assorto nei suoi pensieri che non si accorse nemmeno dei passi leggeri di Bagoas. Quando l’eunuco gli posò delicatamente la mano sulla spalla, sussultò.

«Iskander…»

Alessandro sospirò, deluso. Si aspettava forse che fosse Efestione? «Ah, sei tu, Bagoas.»

«Mi dispiace molto.»

«Come può preferire l’amore di una donna a quello di un uomo?»

   Bagoas non osava controbattere, non voleva incattivire ulteriormente il suo fragile umore. Si limitò a sederglisi accanto e cercare di riflettere.

   «Tu non immagini cosa questa faccenda stia diventando per me. Io devo conquistarlo.»

Ancora una volta, Bagoas tacque per qualche secondo; poi, con un vocino appena percettibile esordì: «Forse io avrei un’idea che potrebbe risolvere un paio di nostri problemi…»

«Se la tua idea è quella di lasciar perdere, sai già la mia risposta.» fece, tirando un sasso più lontano degli altri.

Bagoas sorrise. «No, no, niente di tutto ciò.» “So come sei fatto”, avrebbe voluto aggiungere, ma non gli sembrò il caso. E si alzò. «Sarebbe meglio che andassimo a fare un giro al prossimo mercato…»

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***


PREZZEMOLO, SALVIA, ROSMARINO E TIMO

PREZZEMOLO, SALVIA, ROSMARINO E TIMO

Capitolo 7

 

 

 

 

 

   Il sonoro sbadiglio risuonò solitario in un’eco solenne e sgraziata tra le quattro mura del suo talamo.

Com’era lento il corso del sole nella tranquilla e pacifica Susa! Niente pericoli a cui pensare, nessuno da condannare, e il suo ventre si gonfiava sempre di più.

 

 

   «Sei sicuro che funzionerà?»

«Vista la tua testardaggine, abbiamo ben poco da perdere.» si sciacquò le mani e il rosso scuro andò ad imbrattare l’acqua cristallina. «E poi tutta questa roba ci è costata quasi tutti i nostri risparmi, forse sarebbe meglio almeno tentare.» calmò il tono per evitare di accendere un incendio che non avrebbe saputo domare.

 

 

   Ah, l’ozio, nemico acerrimo di ogni re e di ogni regno! L’ozio che stava diventando il suo fedele compagno nelle lunghe e uggiose giornate di quell’ingannevole illusione. Aveva dormito con Bahram la notte scorsa, eppure il sonno non aveva assopito quel senso di insoddisfazione e di insensibilità persino ai piaceri carnali; le concubine nell’harem parevano avere la pelle avvizzita.

 

 

   «Ora un tocco di carminio…»

 

 

   Nessuno che avesse bisogno di lui; oramai i suoi ordini apparivano fiacchi e forzati. Decise tuttavia di lasciare da parte i pensieri sgradevoli e di abbandonarsi all’ozio totale e si distese placido fra i grandi cuscini di seta del suo letto.

 

 

   «Sono sicuro che non ti riconoscerà.»

«Speriamo bene, ne va della mia pelle.»

 

 

   Venne svegliato qualche tempo dopo da Bahram.

«C’è una donna alle porte del palazzo, mio signore. Le guardie chiedono se possono farla entrare.»

Dario si grattò confuso la nuca. Una donna? «Certo. Che male mai potrà fare, una donna…». Mentre si vestiva di tutto punto per ricevere la nuova arrivata, il suo cuore gongolava di una strana e perversa gioia. Anche se quella donna inaspettata avesse portato qualche innocuo guaio, un uomo d’azione come lui sapeva che avrebbe dovuto preferirlo allo sterile e tedioso ozio che aveva avvelenato il suo regno come la pozione malefica di una strega. Che emozione sarebbe stata, pensava un angolo del suo cuore traditore, sfoderare di nuovo l’armatura e montare sul carro…

   Poco dopo ricevette la donna nella sala delle riunioni e le mani appoggiate solennemente sui braccioli tremavano impercettibilmente dall’emozione. La donna avanzò, Dario si passò una mano sulla barba lunga e ricciuta.

   «Ringrazio il Gran Re…»

   Inclinò il capo leggermente a destra, confuso, e osservò quella strana donna di fronte a lui. La sua voce era bassa, roca, raschiava su di lui provocandogli un piacevole prurito. Aveva i capelli scuri attraversati da una luce vagamente rossiccia, lunghi e folti che le andavano a coprire frondosi quasi completamente il volto, oscurandone i lineamenti; due labbra cremisi staccavano dal colore scuro della chioma. Le ampie vesti rosse come le sue labbra non lasciavano trapelare alcuna forma del suo corpo; a prima vista avrebbe potuto sembrare un’indovina, o qualcosa del genere.

   «…per avermi accolta così calorosamente nonostante il mio indecente ritardo.»

   Ritardo? Ancora una volta, qualcuno sosteneva di essere in ritardo. L’aveva dunque convocata… egli stesso?

«Guardami negli occhi, donna, e dimmi il tuo nome; temo di averlo dimenticato.» e gli parve che le labbra della donna si fossero contratte in un inafferrabile sorriso. Quando tuttavia ella sollevò lo sguardo verso di lui, Dario trasalì. I suoi occhi erano di un chiarore etereo, divino, raggiante, color dell’acqua più pura, risaltati dalla spessa linea di bistro che li circondava completamente e si allungava verso le tempie - alla maniera delle regine egiziane, sovrastati dalle sopracciglia nere perfettamente disegnate, leggere, che si andavano a sfumare verso l’esterno come le soffici ali scure di un demone. Le guance erano altrettanto pomposamente truccate del color dell’ocra rossa, e sembravano lisce come la buccia di una pesca matura.

   «Sono Ippolita di Rodi, mio signore. L’unica pittrice donna in circolazione.»

«Certo.» Una pittrice donna? Pensava che in Grecia le donne perbene a malapena uscissero di casa. E sicuramente non ricevevano alcun tipo di istruzione, se non quella sul saper soddisfare il proprio marito. «Mi aveva appunto incuriosito il tuo essere donna. La tua indole squisitamente femminile potrebbe imprimere una forza nuova, un vigore sconosciuto ai tuoi dipinti. E come sai, io tratto molto bene le mie donne.» ma quegli occhi… «Ti avevo convocato a palazzo poiché vorrei abbellire le spoglie pareti di alcune sale.»

   Ippolita fece scivolare una mano piuttosto pallida dalle ampie maniche della sua veste rossa. «Certo, mio signore. Non vedo l’ora di cominciare.»

   Dario sorrise compiaciuto e scorse un’altra volta i suoi occhi curiosi sul corpo della donna, nel tentativo di intravedere la sua bellezza femminina, ma inutilmente.

   Inarcò un sopracciglio, perplesso.

 

 

   «Per tutti gli dei dell’ecumene, Bagoas, io non so da che parte cominciare!»

Bagoas fissò la parete spoglia e si grattò la testa. «Ma non potevi improvvisarti scultore, cantante, o ballerino? Insomma, dipingere affreschi non è facile!»

Alessandro intinse nervosamente un dito nell’ocra gialla e se lo portò davanti agli occhi, esaminandolo attentamente «Credi che scolpire, cantare o danzare possa essere più facile? Io non sono stato addestrato a nient’altro che a una cosa, oltre che a lucidare i pavimenti, Bagoas… Dario ha sempre preferito veder danzare e cantare voi dolci eunuchi. E mi sembrava che dipingere potesse essere più semplice che scolpire.»

Bagoas si morse il labbro inferiore e gettò lo sguardo al suolo.

«Dannazione, se imbratterò le pareti del palazzo Dario mi caccerà dal regno e non ci sarà possibilità di ritorno.»

«Cerca di osservare gli altri affreschi del palazzo e prova a riprodurre qualcosa di simile.»

Alessandro si passò il dito di ocra sul naso, tracciando una consistente striscia gialla. «Già fatto. Ma non ho la  più pallida idea di come rendere quelle forme, quei colori, quei disegni così solenni e maestosi… insomma, non ci si può improvvisare grandi artisti. Mi chiedo dove andrà a finire tutta questa farsa.»

Bagoas contrasse i lineamenti in una smorfia nervosa. «Vado a prepararti la stanza, Ippolita da Rodi.»

Alessandro si perse per un attimo ad osservare da dietro l’andatura serpentina di Bagoas che scivolava lungo lo sfarzo del tappeto rosso del corridoio. Doveva assolutamente inventarsi qualcosa: Dario avrebbe potuto sorprenderlo da un momento all’altro, smanioso di controllare come procedessero i lavori.

 

 

   L’aveva cercato per tutto il palazzo e non l’aveva trovato; evidentemente era nel cortile.

Si diede un’occhiata allo specchio e si aggiustò l’acconciatura raccogliendosi i capelli, attorcigliandoli sulla parte alta della nuca e lasciando ricadere morbide alcune ciocche corvine simili a onde sulle spalle e sulla schiena.

   Uscì dalla propria stanza quasi volteggiando sulle caviglie sottili e fece capolino nel cortile dove, come s’era immaginato, stava allegramente oziando quel macedone presuntuoso. Si guardò intorno e scorse un eunuco grasso e calvo che si prodigava a potare la pianta all’ombra della quale Efestione stava riparandosi dal sole abbagliante.

   «Possa il signore scusarmi, ma sarebbe meglio spostarsi da qui.» fece l’eunuco, sorridendo caldamente.

E in quel momento Bagoas intervenne volando verso di lui, prima che Efestione potesse allontanarsi troppo.

   «Ciao, Bagoas.»

«Hai sentito l’ultima? Pare che sia arrivata a corte una pittrice donna!»

   Efestione si voltò di scatto verso i due eunuchi e prese ad ascoltare attentamente.

Il grasso eunuco si lasciò sfuggire una risata incredula «Una pittrice donna? Ma stai scherzando? Da dove?»

«Te lo posso giurare, l’ho vista con questi stessi miei occhi! Credo che sia giunta da Rodi.»

   “Una greca” si ritrovò a pensare Efestione. Una pittrice donna… greca?

Bagoas lanciò una rapida occhiata ad Efestione e riprese: «L’ho vista, sì, e ti posso assicurare che è una donna di grande fascino!»

L’eunuco grasso ridacchiò: «Ma dicono che le donne greche non posseggano nemmeno la metà della bellezza delle donne persiane!»

Bagoas scosse energico la testa «Ti assicuro che è molto avvenente! Dovresti vederla!»

   Efestione si portò una mano davanti alle labbra per nascondere un sorriso sconveniente. Egli conosceva perfettamente le bellezze delle donne greche. Greche, persiane, etiopi, italiche, iberiche, indiane… le donne avevano lo straordinario potere di essere tutte belle. “Penso che andrò io a vederla per primo”.

   «Ti consiglio veramente di vederla, ha due occhi bellissimi!»

«Sì, sì, quando avrò finito qua.»

   Efestione aspettò che i due eunuchi si congedassero e che Bagoas passasse accanto a lui per attirare la sua attenzione.

   «Sì?»

Efestione si guardò cautamente intorno e poi cominciò, sommessamente: «Ho sentito che parlavi di una pittrice donna. Strano, non trovi?»

«Naturalmente, signore.»

«E adesso dove si troverebbe?»

Bagoas sorrise. «Sta dipingendo le pareti dell’atrio che porta alla sala del trono.»

 

 

   Si era ormai dipinto il viso di tutti i colori che aveva a disposizione.

Gli sembrava che fosse trascorsa un’eternità e ancora le pareti del corridoio erano bianche come il sudario che l’avrebbe ricoperto se Dario avesse scoperto la verità.

   Appoggiò di peso il mento al palmo aperto della mano destra, chiuse gli occhi gravemente e cominciò a pensare. Entro sera, quelle pareti dovevano assolutamente essere sporcate.

   «Siamo a corto d’ispirazione?»

Una voce profonda e familiare lo distolse dai suoi pensieri. Si voltò verso l’imponente figura che era appena apparsa dietro di lui sbattendo le palpebre nervosamente, come se si fosse risvegliato da un lungo sonno agitato. Quando mise a fuoco chi fosse spalancò gli occhi.

   «Mi chiamo Efestione. Ma guardati!» sorrise «Devi dipingere le pareti, non il tuo viso. Che mi sembra troppo carino per essere imbrattato.»

   Bagoas era stato più bravo e veloce di quanto si fosse aspettato. Finse un sorriso pudibondo e abbassò lo sguardo nella maniera più femminea che potesse simulare. «Io sono Ippolita da Rodi.»

   Efestione sorrise, divertito. Era strana, non c’era dubbio. Così vestita, così timida, così… da scoprire. Aspettò che riponesse i suoi occhi sui propri; e sì, erano proprio belli come li aveva decantati l’eunuco in cortile. Color dell’acqua cristallina – puri. Chissà, si chiese, se ella fosse pura come quegli occhi. «Una pittrice donna, eh? Curioso.»

   Ippolita sorrise di nuovo, facendo sporgere deliziosamente le guance colorate. «Dario crede che il mio stile possa essere diverso da quello dei pittori maschi. In verità sono un po’ emozionata, non sono sicura di poter riuscire a soddisfarlo.»

   Efestione si perse a guardare le sue labbra carnose mentre gli parlava. E quella voce rauca e vagamente androgina che ne usciva appariva stranamente musicale su una donna dall’aria così selvaggia, dai capelli arruffati, eppure così contenuta. Era abituato ai sorrisetti allusivi delle cortigiane, questa donna greca così assurdamente concentrata sul suo lavoro lo stordiva e destava in lui un desiderio di conquista così ardente che nemmeno in una battaglia avrebbe potuto provarne uno simile. «Sono sicuro che ce la farai. Se Dario ti ha convocata alla sua corte significa che ha notato i tuoi dipinti da qualche parte e ne è rimasto particolarmente colpito. Lui detesta il pensiero che il suo palazzo sia in mano a degli incompetenti.»

   Ippolita sorrise amaramente e presto gli angoli delle sue labbra non ressero quel pensiero e si incurvarono all’ingiù.

   «Qualcosa non va?»

   I suoi occhi erano su di lui… quello sguardo così caldo e penetrante, scottante. Dei dell’ecumene, che voglia di mollare i colori, saltargli addosso e fargli vedere ciò di cui era capace, ciò che aveva rifiutato in modo così indecente quella sera al laghetto! Si sentì tremare d’eccitazione quando avvertì la mano di Efestione bruciare come fuoco sulla sua schiena; mai nessun uomo l’aveva fatto sentire così. Il mercante degli orecchini non si era sbagliato, solo quel cocciuto guerriero poteva essere la sua anima gemella. Se solo fosse riuscito a farlo innamorare di sé, così da fargli dimenticare la sua avversione, permettendogli di amarlo liberamente! «No, niente. Stavo pensando ad un possibile soggetto.»

   Non era possibile, ancora pensava al lavoro! Si chiese se si trattasse solo di una tattica per farlo impazzire. La sua fama di grande amatore si era sparsa per tutta la corte, possibile che lei non ne fosse ancora al corrente? Non aveva parlato con nessun’altra donna, finora? E poi, perché quelle vesti così larghe? Che bellissimo corpo si celava sotto quelle stoffe rosse e sformate? Si sentì le mani roventi al pensiero di poterle spingere sotto quella stoffa ed esplorare ciò che quella donna teneva così assiduamente nascosto. Si accontentò di allungare una mano per andarla ad aggrovigliare tra le volute scure dei suoi capelli, ma Ippolita si ritrasse di scatto come se ne avesse avvertito il bollore. «Ah… scusa.»

   «Niente. E’ che… quando sto lavorando non amo essere toccata.» e abbozzò un sorriso rassicurante; non voleva che Efestione interpretasse la sua paura di essere scoperto a causa dell’orecchino come una ritrosia nei suoi confronti. Egli era lì, a una mano di distanza da lui, non poteva rischiare di perderlo un’altra volta! Si accorse che quella situazione era molto più difficile da gestire di quanto si fosse aspettato.

   «Capisco, hai ragione. Forse ti sto innervosendo. Magari ti verrò a trovare quando avrai finito.»

Ippolita sorrise e puntò i suoi grandi occhi grigi sul viso di Efestione. «Grazie. Ti aspetterò.»

Efestione tremò un poco sostenendo lo sguardo di quegli occhi abbaglianti e sorrise a sua volta. «Mi piacciono le donne impegnate.» e si allontanò inconsapevole degli occhi di Erodione che lo tampinarono fino a che ne furono capaci.

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 ***


PREZZEMOLO, SALVIA, ROSMARINO E TIMO

PREZZEMOLO, SALVIA, ROSMARINO E TIMO

Capitolo 8

 

 

 

 

 

   Dio dio dio di tutti gli dei, l’aveva avuto ad un palmo di distanza; gli aveva parlato con affetto e sensualità, non gli era sembrato nemmeno lui, quel presuntuoso soldato che aveva incontrato al laghetto. La sua voce non era stata irrisoria, il suo sguardo non era stato duro, le sue mani quando l’avevano toccato sembravano aver impresso un marchio di fuoco indelebile sulla sua schiena, un marchio che ancora bruciava così appassionatamente.

   Non ebbe il tempo di recuperare i suoi pensieri che vorticavano selvaggi nella sua testa, non ebbe il tempo di liberarsi dal suo odore - da quell’odore che aveva sentito prepotente anche senza esserglisi stretto addosso - non ebbe il tempo di scacciare la sua immagine dalla mente, che un’altra ombra, ancora più imponente di quella di Efestione, si proiettò sul muro ancora bianco. Passo dopo passo, il mantello svolazzava come le ali di un pipistrello, e, man mano che si avvicinava, l’ombra pareva espandersi tanto da poter inghiottire Alessandro immobile e tremante.

   «Mia carissima Ippolita.» la voce pareva tuttavia dolce e pacata. Nonostante questo, Alessandro continuò a guardare di fronte a sé, impietrito. «Mi sembra che tu non abbia ancora cominciato.»

   Alessandro sibilò un sorrisetto acuto e finalmente si voltò. «Mio re. Mio signore. Perdonami, ma sto cercando di immaginare qualcosa che possa addirsi alla maestosità delle mura del tuo palazzo. Non vorrei sfigurare accanto ai maestri che hanno dipinto prima di me.»

   Dario si accostò alla pittrice con le sopracciglia corrugate. «Hai il viso tutto sporco, mia carissima.»

   «Oh!» sorrise di nuovo «Mi aiuta a scaricare la tensione.»

«Capisco.» inspirò profondamente, e, da così vicino, avvertì il profumo dei capelli di Ippolita. Un profumo particolare, che sembrava ricordargli qualcosa… «Comunque mi fa piacere che tu non abbia fretta, e che anzi tu rifletta. Mi piacciono le donne che riflettono. Significa che si interrogano, e questo è indice di intelligenza e sensibilità. Non amo le persone frettolose, che fanno le cose tanto per farle.» e sorrise, a sua volta, molto caldamente, appoggiando una mano inanellata sulla spalla di Ippolita «Sono sicuro che dalle tue manine uscirà qualcosa di veramente originale. Non vedo l’ora di vedere la tua creazione. Ma non ti voglio mettere fretta, ora me ne andrò. Buon lavoro.»

   Quando il re se ne fu andato, Alessandro tirò un lungo sospiro di sollievo e si massaggiò lo stomaco che durante tutta la conversazione era stato torturato da acute fitte di tensione.

   E, dopo che si fu permesso qualche minuto per riprendersi, finalmente si decise a stendere l’intonaco.

 

 

   Si abbandonò indolente nella vasca tra il profumo intenso del gelsomino e le mani di Bagoas che gli lavavano via la polvere di henna dai capelli.

   «Che piacere rilassarsi di nuovo nelle stanze di questo palazzo. Cominciavo a sentirne la nostalgia.»

   Bagoas sorrise premuroso e continuò a passare le sue mani dolci e delicate tra i capelli di Alessandro. «Dario ti ha detto qualcosa?»

«Mi ha detto che ama le donne che riflettono.» ridacchiò «Comunque alla fine, esasperato, ho cominciato a buttar giù qualcosa sulla parete.»

«Davvero? E cosa?» e cominciò a scorrere le mani umide sul suo petto.

«Non lo so esattamente, per ora. Ho gentilmente proibito a Dario di controllare i lavori finché non saranno terminati. Forse, a lavoro compiuto, almeno lui riuscirà a trovare qualche bellezza nel mio affresco.»

«Sai perfettamente cosa succederà se non gli piace.»

«Certo, Bagoas, ma non posso lasciare in bianco la parete, altrimenti…» e non terminò la frase.

«Tu e la tua mania di quell’Efestione! Non potevamo condurre una vita normale lontano da qui?»

   Alessandro sorrise malizioso e afferrò Bagoas per la mano che lo stava lavando, attirandolo avido nella vasca con sé. «Basta parlare, stupido eunuco.» e prese ad accarezzare voluttuosamente il piccolo corpo di Bagoas «E’ da un po’ di tempo che io e te non ci facciamo un po’ di sana compagnia.» gli sussurrò all’orecchio, leccandogli il lobo. «Avanti, vieni qui.»

   Bagoas accondiscendente e desideroso si lasciò baciare ovunque dalle labbra di fuoco del suo compagno, stringendosi a lui quasi spasmodicamente, gettando la testa all’indietro e facendo ricadere i lunghi capelli corvini nell’acqua, mordendosi il labbro inferiore.

   Si stavano sciogliendo da ogni ragione e addentrando nei tortuosi meandri del piacere quando all’improvviso la porta della stanza sussultò sotto tre tocchi decisi e vagamente militareschi. I due, smarriti e tremanti, si guardarono per un attimo negli occhi sgranati, indecisi sul da farsi. I tre tocchi risuonarono di nuovo, come un segnale di guerra.

   «Ippolita…?» fece una voce calda e per nulla militaresca al di là della porta. «Dario mi ha indicato la tua stanza. Ti avevo promesso che ti sarei venuto a trovare una volta che avessi finito di lavorare. Disturbo?»

   Alessandro e Bagoas balzarono subitamente fuori dalla vasca, urtandosi a vicenda e scivolando malamente sul pavimento bagnato, sopprimendo a fatica un gemito di dolore. 

   Efestione udì un tonfo sordo. «Ah! Ti ho sentita! Lo so che ci sei. Vuoi aprirmi?» continuò con tono volutamente accattivante. Da Ippolita non arrivava nessuna risposta, ma Efestione non voleva saperne di darsi per vinto; restò in piedi fuori dalla porta ad ascoltare gli strani rumori che provenivano dalla stanza della bella pittrice.

   Alessandro e Bagoas nel frattempo continuavano a guardarsi terrorizzati e a muoversi scattosamente qua e là nel tentativo di ricomporre i pensieri che non c’erano e farsi venire in mente un’idea.

   «Se non vuoi vedermi dimmelo, me ne andrò.»

   Alessandro scosse nervosamente la testa, non voleva perdere Efestione così, avrebbe voluto che entrasse e che rimanesse con lui per tutta la notte; ma non poteva nemmeno fingere che Ippolita dormisse, oramai Efestione aveva inevitabilmente sentito il loro chiasso e se non gli avesse aperto avrebbe forse pensato di dare fastidio, avrebbe pensato che Ippolita non fosse interessata a lui, avrebbe pensato… scosse di nuovo la testa e si schiarì la voce più silenziosamente che poté. «Oh, Efestione.» cominciò in falsetto «Oh per gli dei, mi ero completamente dimenticata, sai, noi artiste siamo sempre così distratte!» e si fermò un istante per aspettare una risposta dal suo bello, ma quella non arrivò. «Ehm. Mi… mi ero addormentata, e, per Zeus, la tua voce così all’improvviso mi ha spaventata e sono caduta giù dal letto! Perdonami.» e rise nervosamente, in ansiosa attesa di una risposta.

   «Oh» rispose Efestione con tono non molto convinto «Mi dispiace molto. Ti sei fatta male? Aprimi, possiedo discrete nozioni di medicina.»

   Alessandro strinse spasmodicamente i denti. «Eh… no, non preoccuparti, sto benissimo.»

   Ci fu un attimo di silenzio dietro la porta. «Ti disturbo? Non vuoi che entri?»

   Alessandro si rivolse freneticamente  a Bagoas, sottovoce «Qualcosa che copra i capelli, presto!» e Bagoas scattò come frustato a cercare qualcosa che coprisse i capelli. «Eh, no, figurati, mi fa molto piacere che ti sia ricordato di venirmi a trovare!»

   Bagoas fu pronto poco dopo con un velo persiano color porpora con cui coprì svelto i capelli biondi di Alessandro. «Ma così si vede l’orecchino!» imprecò sommessamente, e infilò anche il vistoso gioiello sotto il velo, nascondendo poi le intere orecchie.

   «Però continui a lasciarmi fuori!» commentò Efestione in un lieve sorriso.

   «Fammi le sopracciglia, presto, le sopracciglia!» fece, rivolgendosi nuovamente a Bagoas «E truccami un poco; solo un poco, però, gli ho detto che stavo dormendo!». E Bagoas schizzò fulmineo a prendere bistro e carminio. «Ehm… mi sto ricomponendo, non credo sia rispettoso accogliere un ospite così affascinante nello stato in cui mi trovo ora!» cercò di prendere tempo con Efestione.

   «Ne sono lusingato, mia carissima, ma a me le belle donne piacciono anche appena sveglie!»

   Alessandro rise nervosamente mentre le mani esperte e sollecite di Bagoas in tutta fretta gli scurivano le sopracciglia col bistro e gli ravvivavano le guance col carminio. «Presto, scomponi il letto e gettami una vestaglia molto larga!» e in pochissimi attimi fu accontentato. «Ora nasconditi!»

   «Se sei stanca e non ti va di vedermi, dimmelo. Dopotutto sono io che ti sono venuto a cercare ad un orario così scomodo. Ma tu sembri sempre così… impegnata!» l’ultima frase gli uscì quasi come un lamento. E lo credeva davvero. Quell’attesa lo stava facendo impazzire, ogni istante che trascorreva davanti a quella porta serrata faceva accrescere in lui il desiderio di scoprire chi era quella donna così misteriosa. Non c’era forse aggettivo che avrebbe potuto descriverla meglio; era quel mistero che lo titillava inesorabilmente, quel fascino che probabilmente mancava a tutte le altre donne che aveva incontrato fino a quel momento, quelle altre donne che gli sorridevano impudiche e che in una situazione come quella non avrebbero perso tempo ad aprirgli e ad accoglierlo senza pudori. Sempre di più, impalato davanti ad una porta chiusa, si rendeva conto di essere in balia delle velleità di quella donna. Avrebbe potuto andarsene, stizzito, tanto più che aveva mille altre bellissime donne – anche più belle di Ippolita – pronte ad aspettarlo nelle loro malinconiche stanze. E invece era lì, ad aspettarla. Lei, una sconosciuta appena arrivata a palazzo. Se lei avesse aperto la porta, lui sarebbe entrato. Se lei avesse deciso di non aprire la porta, lui sarebbe rimasto lì, dolorosamente, fuori. Tutto dipendeva da lei, non più dalla sua volontà, che in fatto di donne non era mai stata scontentata.

   Ad interrompere i suoi pensieri fu la porta che si aprì, ed Ippolita che uscì dal buio della sua stanza col fiatone, sibilando con un filo di voce: «Ciao.»

   Efestione sollevò il sopracciglio destro, osservandola perplesso. Portava i suoi bellissimi capelli raccolti in un velo purpureo decorato con qualche ghirigoro dorato.

   «E’ per non lasciar scompigliare i capelli durante il sonno.» ridacchiò incerto Alessandro, accortosi dello sguardo di Efestione.

   «Capisco. Allora, posso entrare?» sorrise caldamente e con un’acuta vena di impazienza che non si curò di camuffare.

 

 

   Non riusciva davvero a capire il perché. Perché Ippolita si ostinava a nascondere le forme del suo corpo sotto quelle vesti così larghe e sformate? La stava osservando incessantemente mentre lo accoglieva nella sua stanza sobria e poco illuminata; l’unica lampada che bruciava sul tavolino accanto al letto scolpiva i suoi lineamenti e risaltava la linea delle sue labbra stuzzicanti.

   La stava osservando e con gli occhi cercava di spingersi sotto quella vestaglia blu che copriva interamente il suo corpo, mentre si coricava sul letto facendo attenzione a far suonare ogni suo movimento come una provocazione: sedendosi prima piano, sorridendole, sollevando poi le gambe e allungandole lentamente sul letto, e infine, senza staccare gli occhi da lei, passandosi quasi spontaneamente una mano tra i capelli mentre stendeva la testa sull’alto cuscino. Osservò le sue reazioni.

   Alessandro sorrise nervosamente, torcendosi le mani dietro la schiena, cercando di non lasciarsi andare alle irresistibili sensazioni che lo stavano travolgendo, cercando di non fare caso alla sensualità così prorompente che trasudava la sola pelle di quel soldato, e si ritrovò a benedire Bagoas per avergli lanciato una veste così larga.

   «Oh, che sfacciato.» cominciò Efestione, sollevandosi un poco, volgendosi verso di lei, appoggiando la testa sulla mano destra. «Mi sono steso senza che tu nemmeno mi avessi dato il permesso! Sono proprio un rozzo soldato.»

   Alessandro non riusciva a smettere di ridacchiare. «Ma figurati, sarai stanco, immagino.»

«Perché non ti stendi qui vicino a me? Così parliamo meglio.» sorrise, e osservò con occhi rapaci Ippolita che si sedeva rigida accanto a lui. «Rilassati, mi sembri pensierosa.»

   «No, è che… in confidenza, non mi aspettavo di essere accolta subito così caldamente a palazzo.» si sforzò di controllare le sue emozioni e di assumere un tono il più pacato possibile.

   Efestione sorrise e cercò, appoggiandole una mano sul fianco, di farla coricare accanto a sé, ma invano, Ippolita era irremovibile sulla sua inspiegabile posizione. Allora non si sentì di andare oltre e prese a parlare. «Pensavo, oggi, che strano avere una pittrice donna a palazzo. Io sono macedone, e so che in Grecia non esistono molte donne in grado di intraprendere mestieri così importanti. Voglio dire…» ebbe paura di averla offesa.

   «Sì, lo so, noi donne non abbiamo molta libertà. Ma è tutta opera di mio padre. E’ lui che, innamoratissimo di mia madre, non ha mai creduto nell’inferiorità della donna.» e mentre raccontava ciò che si inventava sul momento gli sembrò di poter riuscire a non pensare ad Efestione accanto a lui steso sul suo letto, così disponibile ed invitante. «Da piccola mi indirizzò all’amore per la pittura, e mi disse che non gli interessava se mai mi fossi sposata con un buon marito che mi avesse tenuta segregata nel gineceo ad allattar bambini, lui voleva che io diventassi qualcuno in grado di competere nella società con la sovrabbondanza di maschi.» e nascose il suo sorriso con la mano nella maniera più femminea che gli riuscì. «Ricordo che mi portava nelle case dei nobili suoi amici ad ammirare i quadri dei più grandi pittori dell’epoca.»

«Lo sai come vengono considerate le donne come te da alcuni greci…» rilevò assorto Efestione.

   Alessandro sorrise, e questa volta con atteggiamento rilassato. «Sì, certo. Le cosiddette puttane di lusso. Gli uomini che pensano così non hanno considerazione presso di me, sono ottusi e ignoranti, e innegabilmente invidiosi. Pensano che noi donne non siamo in grado di imporci nella società.»

   Efestione ascoltava assorto, fissando i suoi occhi brillanti.

«In realtà io non sono mai nemmeno entrata in un bordello, e chi mi conosce lo sa, sono una donna per bene. Mi sono sempre comportata onestamente e mi sono guadagnata la fama grazie al mio lavoro.» e si interruppe per qualche istante, mordendosi il labbro inferiore. Cosa sarebbe successo se non fosse stato in grado di dipingere qualcosa di accettabile sulle pareti del palazzo? Ippolita sarebbe stata marchiata come una boriosa cialtrona e sarebbe stata allontanata dal palazzo, nonché irrisa dallo stesso Efestione. Cambiò discorso. «Dicevo, io sono una donna per bene. Non sono di certo come una di quelle che usano il proprio corpo per raggiungere i loro scopi. E non sono nemmeno una di quelle facili a concedersi. Saffo diceva che la fanciulla vergine è come una mela posta sul ramo più alto dell’albero, e tutti si accaniscono per coglierla, ma lei continua a splendere rigogliosa e pura lassù. E, aggiungo io, una volta colta, non fa più gola come quando sembrava così irraggiungibile.»

   Efestione sorrise, ammaliato dall’innocente e sicuramente inconsapevole sensualità di quella donna davanti a lui. Ippolita era dunque vergine? Questo era il motivo della sua ritrosia che pareva quasi timore? Che meraviglia essere steso sul letto di una vergine, pensava, che meraviglia aver varcato la soglia della porta di quella stanza incontaminata, mai visitata da nessun altro uomo, che meraviglia sapere che se fosse riuscito ad averla sarebbe stato per lei il primo.

   Bagoas, avvolto nelle tenebre del suo nascondiglio, rideva sommessamente. Non avrebbe mai immaginato che Iskander potesse immedesimarsi così bene nei panni di una donna. Vergine, per giunta.

   «Sei la prima donna che sento parlare così, in questo palazzo.» intervenne Efestione. «Ti confesso una cosa, sono un po’ stanco delle conquiste facili. Sono un guerriero, amo combattere, amo sudare e farmi male. Guarda.» e le mostrò una profonda cicatrice sul petto. «Vedi? A me queste cose non spaventano. Mi ammaccano il corpo, ma non l’animo. Sono orgoglioso delle mie ferite: raccontano di me, di quello che ho vissuto. Sin da piccolo sono stato educato alle armi come tutti i nobili macedoni, quando regnava ancora re Filippo. E sono cresciuto così, come un rozzo guerriero macedone. Non amo le città che si arrendono al mio passaggio senza opporre resistenza, non amo le città che aprono le loro porte e si fanno espugnare con poca fatica, anzi, addirittura con mal celata connivenza. Mi piacciono gli assedi. Mi piace combattere e non sapere se vincerò o perderò.

   E amo soprattutto non fermarmi mai. E’ un senso di insoddisfazione che non riesco a saziare. Non amo stabilirmi in una città. Io devo andare avanti, conquistare insieme con i miei commilitoni. E purtroppo in questo periodo non c’è nulla da fare, mi annoio. Il nostro re non ha altre ambizioni, non ha interesse a guidarci a conquistare terre nuove. Probabilmente pensa che già occupi tutte le terre emerse. Ma l’India, per esempio, chi mai potrà conquistare l’India?

   Se Dario non ha ambizioni particolari che tengano allenato lo spirito di noi guerrieri, e se nemmeno le donne qui si fanno più lo scrupolo di lasciarsi desiderare, inevitabilmente cadiamo nell’ozio e nella noia.»

   Alessandro si accorse che qualcosa era cambiato. Ora le mani di Efestione non cercavano più di sfiorarlo, ma gesticolavano accanitamente; e i suoi occhi non lo guardavano più libidinosi, ma fissavano intensamente un punto indefinito nella stanza, assorti nel discorso che si stava districando. Si sentì libero di osservare il suo viso e di restare incantato da quel piglio guerriero che aveva visto rammollito tra gli ozi del palazzo di Dario quando quel pomeriggio si erano visti davanti alla parete bianca, dalla voce aspra e schietta che aveva sentito incrinarsi nell’ipocrisia quando poco fa stava tentando di sedurlo. Si accorse che probabilmente il tempo stava volando senza che loro due se ne accorgessero.

   Efestione si sollevò un poco e accostò la bocca all’orecchio di Ippolita, sorridendo complice. «Ti confesso una cosa: al maschio piace far la guerra. Vedi, è un istinto di natura. Non si può negare al maschio la possibilità di conquistare. E magari di trovare quella città così speciale e in qualche modo attraente in grado di cancellare ogni senso di insoddisfazione, ogni desiderio di spingersi oltre.»

   Alessandro non poteva fare a meno di concordare. Sin da quando l’aveva rifiutato quella sera al laghetto si era incaponito di volerlo conquistare; si era risvegliato qualcosa di guerriero anche in lui. Ed ora aveva capito che, se voleva che Efestione provasse lo stesso intenso desiderio nei suoi confronti, avrebbe dovuto lasciar emergere il suo spirito guerriero.

   Dal canto suo Efestione riprese a guardare Ippolita e a sentirsi, lì, sul letto, accanto a lei, senza averla neppure baciata, per un momento quasi innamorato. E dichiarò guerra aperta a quella donna così intrigante e involontariamente seducente.

   L’avrebbe avuta, a tutti i costi. Avrebbe avuto la mela più alta dell’albero.

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