HYPERVERSUM 4: Il Destino del Falco

di Dean Lucas
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1: Ritorno e Partenza ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitoli 5-13: riassunto ***
Capitolo 6: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 8: *** Capitoli 16-19: riassunto ***
Capitolo 9: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 23 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 24 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 25 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 26 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 27 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 28 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 29 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 30 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 31 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 32 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 33 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 34 ***
Capitolo 24: *** Cap 35: Ritorno a casa ***
Capitolo 25: *** Capitoli 16-50: riassunto ***
Capitolo 26: *** Capitoli 51-54: riassunto ***
Capitolo 27: *** Capitolo 55: Operazione Fenice ***
Capitolo 28: *** Segreti svelati e un amore senza tempo (riassunto) ***
Capitolo 29: *** update! ***
Capitolo 30: *** Sequel: Monika e Mitch ***
Capitolo 31: *** Spin Off: Hyper-Stele ***
Capitolo 32: *** Ringraziamenti & Nuovi Progetti ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1: Ritorno e Partenza ***


 

HYPERVERSUM IV

 

 IL DESTINO DEL FALCO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Hyperversum, data non disponibile

 

 

 

 

Quel grido terribile sembrava non dovesse più finire e tormentava senza sosta Jacques. Proprio adesso si era fatto ancora più orribile e quasi lui non riconosceva più il volto di sua moglie tanto era trasfigurato dal dolore.

Poi tutto si trasformò in silenzio. Fruscii, molti respiri ansiosi, un silenzioso affaccendarsi di mani esperte. 

Adesso poteva riconoscere ancora quel volto, sorridente e calmo, finalmente sereno: Isabelle teneva tra le mani una piccola creatura che prima non c’era.

“E’ una femmina, Jacques! La chiameremo Jeanne“ e come in risposta al suo nome appena nominato dalla madre, la piccola creatura emise un grido del tutto diverso da quelli uditi finora nella stanza, era la voce imperiosa e temeraria, indifesa e spaventata di colei che ancora non sapeva nulla né del mondo né del suo destino, ma che avrebbe scritto alcune delle pagine più importanti della storia di Francia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Montmayeur, Francia. Nell'Anno del Signore 1217

 

 

 

E' la gioia inattesa, la più grande felicità di un uomo.

Come da innamorati, tanto più si giudica se stessi indegni e inadeguati dinanzi all'altro, quanto più con incredula felicità si avverte che quegli stessi sentimenti sono ricambiati, così Ian assaporava il perdono del conte dopo non averlo più creduto possibile.

Le spesse mura di pietra di Chatel Argent ingombravano tutta la vista dei due cavalieri ora che si erano avvicinati sotto al castello. Ai loro lati, l'imponente prima cinta muraria proteggeva gli abitanti del borgo insediati all'interno nella piccola corte, mentre in altezza gli sguardi giungevano a stento fin dove le mura terminavano con le merlature dove sostavano le sentinelle di guardia.

Più in alto di ogni cosa, svettava la sommità del torrione centrale, dove dimoravano le due persone più importanti della sua vita:  la moglie Isabeau e il piccolo Marc. Tempo addietro, prima che il conte Guillaume de Ponthieu lo ripudiasse, su quelle stesse torri sbandieravano i vessilli coi colori bianco e azzurro del Falco d'Argento, ma ora quei colori erano scomparsi, del suo blasone non vi era più traccia. Lo stemma araldico, il suo titolo nobiliare, la sua storia, il suo stesso nome, tutto era stato cancellato dalla feroce rabbia di Ponthieu nello stesso momento in cui aveva compreso  l’inganno di Ian.

Adesso, accompagnato proprio dal conte, mentre imboccava il ponte levatoio già abbassato, Ian muoveva gli ultimi passi verso quella soglia che lo separava ancora dall'essere in quel mondo semplicemente nessuno oppure il conte cadetto Jean Marc de Ponthieu.

Vestito di stracci, smagrito ma temprato dal duro lavoro e dalla vita di severa penitenza e contrizione cui si era sottoposto negli ultimi  mesi, era stato comunque riconosciuto dalle guardie di Chatel Argent.

Riconobbe con piacere tra chi gli veniva incontro il barone Thibault de Chailly, leale compagno di tante battaglie: lo vide affrettare il passo fino al barbacane e poi fermarsi esitante, cercando nel conte un cenno rassicurante di approvazione.

Come in risposta ai dubbi di Monsieur Thibault, il Conte Ponthieu pose una mano sulla spalla di Ian ed esortò tutti i presenti a gran voce: “Cavalieri, soldati, abitanti di Chatel Argent, salutate il vostro Signore! Salutate il Falco d'Argento, il conte cadetto Jean Marc de Ponthieu è tornato!”

Tutti coloro nel frattempo accorsi all'interno della prima cinta muraria, non aspettavano altro e scoppiarono quasi all’unisono in un grido di gioia autentica, inneggiando al Falco d'Argento una volta, due volte e altre ancora, come un’interminabile eco che non perde mai di forza.

Ian avanzava lentamente mentre al suo passaggio la gente alzava le spade, sollevava gli archi, le balestre, le lance e persino chi non aveva armi, qualunque fosse la sua arte, levò in alto gli attrezzi da lavoro che portava in mano quel giorno, per salutare il Falco d’Argento.

Col cuore sempre più in gola, non osando ancora pensare a quello che inevitabilmente sarebbe successo da lì a qualche istante, Ian varcò l’ultimo cancello della seconda cinta muraria, avvicinandosi con Ponthieu al torrione.

Sullo sfondo, stagliandosi contro le grigie e livide pietre del castello, una figura delicata sembrava catturare tutti i colori all’orizzonte.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

Isabeau, inconsapevole di quanto stava accadendo, era appena accorsa ai piedi della scala che congiungeva l'ingresso del torrione al cortile, rincorrendo il figlio sfuggito alle balie.

Lunghi riccioli d’oro le ricadevano sulle spalle e sul petto, in tante volute che traevano riflessi luccicanti alla luce del sole.

Era ora immobile davanti a Ian. 

Emozioni incontrollabili, singhiozzi e lacrime, che non aveva in nessun modo preveduto solo fino a pochi istanti prima, traboccarono improvvisamente in lei con una forza tale, agitando e percuotendo tutto il suo corpo, che per lungo tempo le impedirono di parlare o di muoversi.

Ma fu un’altra voce, acuta e gioiosa, a scuotere Ian: suo figlio Marc, nel tentativo di sfuggire ai rimproveri della madre, gli correva inavvertitamente incontro e stava per inciampare sui suoi stessi piedi, quando Ian lo prese al volo, portandoselo al petto.

Isabeau non riuscì più a mantenere il nobile contegno di castellana, cercò appena di asciugarsi le lacrime con la lunga manica dell’abito e corse anche lei verso il suo sposo, unendosi all’abbraccio di Ian e del piccolo, senza più cercare di tener a freno i propri singhiozzi.

Non ci fu bisogno di parole: così sicuri di pensare insieme e allo stesso tempo le stesse cose, che parlare sembrava loro inutile.

E quel mutismo delizioso, rotto solo dai singhiozzi di Isabeau e del piccolo, che vista la madre era scoppiato a piangere anche lui, durò – così sembrò a Ian – un tempo infinito e non avrebbe voluto spezzarlo mai più, desiderava semplicemente restare sospeso in quell’abbraccio per sempre, tanto era meravigliosa la sensazione di sentire ancora il calore di quei corpi avvinghiati contro il suo.

Dopo aver osservato la scena in disparte per qualche tempo, il conte di Ponthieu si avviò infine verso l’ingresso del torrione dove si trovavano Ian e Isabeau. Allargò le braccia intorno alla famiglia appena riunita e li accompagnò, incamminandosi lui per prima, verso la scalinata che conduceva alle camere nobiliari.

Il Falco d’Argento era tornato.

 

***

 

 

“Lasciatemi almeno chiedere perdono mio Signore, pietà!“ Isabeau aveva ritrovato finalmente la forza per ricacciare indietro le lacrime e cercava le parole per esprimere al suo precedente tutore la smisurata gratitudine per averle restituito Ian.

 “Vi prego di perdonarmi! Abbiate pietà di me, vi ho portato un così ingiusto rancore in tutti questi mesi!”

“E io infine ho compreso che sono stato ingiusto con voi due. Non dovevo negarvi la possibilità di spiegare” sospirò cupo Ponthieu.

 “Ma la rabbia... quell’ira folle che tempo fa provai per il tradimento del mio vero fratello, aveva preso di nuovo il sopravvento su tutto. Ho temuto, creduto un secondo tradimento…” ammise amaramente, “e non potevo ammetterlo né sopportarlo”.

“E io sono pronto ad assumermi le mie colpe, Guillaume!”, lo interruppe Ian. “Sono stato io a tradire il vincolo più sacro che esiste tra due fratelli d'armi: la fiducia. Non dimentico che se non può essere il sangue, la stima e l'affetto che ho per te, a unirci come veri fratelli, sei stato tu a conferirmi l'investitura di cavaliere…”

Ian sapeva che con quel gesto, il conte si era legato a lui per mezzo di un vincolo sacro e indissolubile.

“E come ti ho ricambiato io? Con l’inganno. Sebbene ogni mia azione è stata dettata solo dal desiderio di proteggere i miei amici e Isabeau, ti ho sempre tenuto nascosto tutto! Ho dovuto!”

Ian lo fissò con occhi disperati, la stessa disperazione repressa a lungo, per l’impossibilità di essere completamente sincero come avrebbe voluto.

  “Ma cerca di capirmi Guillaume, come potevo spiegarti? Come avresti potuto credermi?”

“Hai comunque sbagliato e so che sei troppo astuto per commettere due volte lo stesso errore. Eppure, non meritavi di vivere per sempre separato da tua moglie e i tuoi figli, senza nemmeno poter dimostrare la tua innocenza, non dopo tutto quello che hai fatto per me. Ma ho avuto bisogno di tempo… sì, di molto tempo, per arrivare a perdonare e a comprendere cosa avrei fatto con te.” 

Si rivolse quindi a Isabeau: “E non crediate che non abbia capito anche i vostri sentimenti di allora, Madame, non vi biasimerò per questo“, Ponthieu si fece pallido per lo strazio di dover ricordare l'immagine della sua pupilla col coltello in mano rivolto contro di lui.

 “Avete avuto il coraggio di alzare un’arma su di me. Pure, se affondavate la lama, non sareste riuscita a ferirmi maggiormente. Suppongo di dovermi chiedere con più cautela, la prossima volta, quale parte prenderà una donna innamorata”.

Un silenzio imbarazzato aleggiò per alcuni istanti finché lo stesso conte, che evidentemente vi aveva pensato a lungo in precedenza, aggiunse con parole studiate:

“Tuttavia, mon frère, pongo una condizione per poter riporre in te la stessa fiducia di prima”, la sua voce in quello stesso istante abbandonò ogni emozione per ridiventare fredda e decisa.

 “Voglio sapere in quale strano mondo vivete o avete vissuto tu e Monsieur Daniel, voglio essere sicuro che tua moglie, la vostra discendenza, finanche il nome del mio casato non abbia mai a dolersi della decisione di avervi accolto nella mia famiglia!” Attese un istante e quindi pronunciò le parole terribili:

“Mi porterai con te, così è deciso. Nel tuo Paese.”

Isabeau sgranò gli occhi e si portò la mano alla bocca, sconcertata, mentre Ian cercò disperato le parole che potevano dissuadere il conte da quel proposito, la cui enormità non gli permetteva nemmeno di pensare quale, tra le mille ragioni che gli affioravano alla mente, avrebbe più delle altre convinto Ponthieu a desistere.

“Non ti opporrai, non oserai! Sai bene che me lo devi, prima ancora che te lo ordini! Io devo sapere…”, Ian ancora non osava parlare.

“Più di questo, devo sapere che non vi sono più segreti tra noi per quanto terribili o inconcepibili“ e questa volta socchiuse leggermente gli occhi facendo balenare una collera antica e appena trattenuta, “o forse non vuoi accogliere il desiderio legittimo di fare chiarezza del tuo signore e fratello maggiore?“

Ian cercò disperatamente di obiettare che come aveva già sostenuto molti mesi prima, proprio il giorno in cui era stato ripudiato, non era possibile per uno straniero approdare nel suo mondo, che non funzionava così, che non era così semplice, che avrebbe acconsentito a qualsiasi altra prova, ma a quella non poteva. Non era in suo potere. Ma prima che altre parole gli uscissero di bocca, Ponthieu lo incalzò di nuovo in un crescendo inesorabile e tagliente.

 “Avevo dunque ragione di credere che ti ostini a nascondermi qualcosa! Non arrischiarti oltre ad abusare dalla mia generosità e della riconoscenza che serbo per te!” La collera si era impadronito ancora di lui e gli faceva stringere così violentemente la presa sull’elsa della spada da sbiancare le nocche.

“Trova tu il modo, non mi interessa come, né ho mai detto che doveva essere semplice. Tu, proprio tu se ben ricordo, non ti sei fatto scrupolo di irrompere in questo Paese, sconvolgendo le nostre vite e mettendole in pericolo col tuo segreto! Che si tratti di stregonerie o di miracoli come hai l'ardire di sostenere, ne risponderai un giorno dinanzi a Dio, ma ti prego di considerare che io”, aggiunse spietato, “il Conte Guillaume de Ponthieu, feudatario maggiore di Francia, non aspetterò quel giorno per conoscere tutta la verità su di te!”

Ian messo alle strette, dovette temporeggiare prima che la situazione gli sfuggisse di mano, acconsentire se non con le parole almeno con lo sguardo, ma con suo sgomento scoprì che non solo il conte aveva qualcosa di terribile da chiedergli quel giorno.

 Cela suffit Guillame! Je vous prie, je vous en supplie! Non commettete ancora lo stesso errore! Voi avete una moglie, una figlia e dei doveri che non vi permettono di allontanarvi da corte… Cosa dirà il nostro re Filippo Augusto? Lui si fida di voi come di nessun altro! E cosa diranno gli altri feudatari, non useranno la vostra assenza per indebolirvi? Vi prego, farò tutto quanto mi chiederete ma lasciate che sia io ad andare con Ian! Non mi importa quali rischi correrò, basta che non mi allontaniate un’altra volta da lui!“

Guillaume restò qualche istante in silenzio, ponderando attentamente quell’offerta. La ragazza sapeva evidentemente su cosa fare leva e non sbagliava a sostenere che non poteva lasciare che i suoi affari privati avessero la meglio sui suoi obblighi verso il re, specialmente in un periodo di grande incertezza politica.

Il principe Luigi VIII era stato infatti da poco sconfitto nella battaglia di Lincoln e aveva abbandonato l’idea di riunire Francia e Inghilterra sono la stessa corona.  Sullo stesso suolo francese i focolai della ribellione non scarseggiavano e Tolosa era in rivolta.

Isabeau fissava ora il conte inginocchiata a terra,  negli occhi la folle determinazione di chi è disposto a tutto pur di scongiurare di rivivere l’incubo che aveva appena creduto finito quel giorno.

“Mio signore, io non voglio… io… io non posso più separarmi da Jean, vi prego, non strappatemi ancora da lui. Io sento davvero di non poterlo più sopportare!”

Ian si soffermò su quegli occhi nocciola arrossati dagli abissi di lacrime versate fino a pochi istanti prima e chissà in quanti altri momenti in cui lei aveva pensato con disperazione alla propria solitudine.

Solo allora si rese conto di quanto lei avesse sofferto in quei mesi: il suo viso bellissimo, la pelle candida come porcellana, persino gli infiniti boccoli d’oro, erano velati dalla recente sofferenza.

Seppe che lei non avrebbe mai potuto tollerare un’altra separazione. La guardò ancora, innamorato di lei come il primo istante che ebbe incrociato il suo sguardo al monastero di Saint Michel e seppe che nemmeno lui avrebbe potuto sopportare di separarsi nuovamente da lei.

Ponthieu soppesò per qualche istante entrambi, poi annunciò:

“Dunque, se sarete infine voi e non io ad andare con Jean nel suo Paese, accetterete di essere i miei occhi e mi riferirete tutto. Ma farete di più. Oh sì, farete molto di più. Mi porterete una prova tangibile della vostra buona fede, qualcosa che non mi faccia dubitare mai più di voi due, non so ancora cosa, ma al momento opportuno sono più che sicuro lo saprete voi, Madame.”

“Guillaume, ascoltami ti prego”, s’intromise Ian, “non è possibile portare nulla dal mio mondo al tuo. Mi chiedi l’impossibile! Se vuoi che ti dimostri la mia lealtà, ti scongiuro di pormi nella condizione di poterlo fare davvero...” lo implorò.

“Tu mi parli di cose che sarebbero impossibili, quando tu stesso, per spiegare l’accaduto, prendi a pretesto giustificazioni impossibili!” constatò aspramente il conte, socchiudendo minacciosamente gli occhi.

 “E di grazia perché mai, se per Monsieur Daniel è possibile svanire davanti ai miei occhi in un istante, sarebbe impossibile ciò che chiedo? Dove mai si troverebbe il vostro mondo da non poter ammettere questo? Su in cielo forse? O negli inferi?”

“La domanda che dovresti pormi invece non è dove, ma quando! In quale tempo...” si lasciò sfuggire dalla rabbia, Ian.

“Basta! Tu ti prendi gioco di me! Bada che la mia pazienza, pur se ho acconsentito a riportati qui a Chatel Argent, potrebbe esaurirsi più velocemente di quanto pensi!”, lo minacciò il conte.

 “Ma stavolta dipenderà solo da te, non più dalle mie decisioni. Sta bene, io ti credo...” aggiunse con un ghigno di sfida dipinto sul volto, “non è ciò che desideravi? Non è questo che imploravi? Ebbene, io ti credo.” Rimase teatralmente in silenzio per pochi istanti e poi proseguì:

 “Ma affinché la mia fiducia non risulti mai più malriposta, farete anche voi due qualcosa per me. Tu e Madame porterete dal tuo Paese qualcosa che provi le tue parole, qualcosa che affermi la verità su quanto hai il coraggio di sostenere. Il modo in cui agirete, se Dio vorrà, testimonierà la vostra buona fede.”

A Isabeau non furono necessarie altre spiegazioni.

“Faremo questo per voi, mio signore. Grazie di averci concesso questa possibilità… Io conosco Jean, conosco Monsieur Daniel e Madame Jodie, so che loro non agirebbero mai nel male, il loro mondo non può essere malvagio come voi credete”. 

“Queste sono le uniche condizioni che pongo. Non tornerete senza la prova che desidero. Soddisfatemi e renderete felice anche me di avervi concesso il mio perdono. Non onorate questi patti, traditemi o ingannatemi e faccio voto che non rivedrete mai più i vostri figli. E in quel caso vi garantisco che dovrete temere per la vostra stessa vita se mai azzarderete a rimettere piede sul suolo di Francia”.

Ian comprendeva che Guillaume voleva davvero convincersi che la sua pupilla e colui che aveva amato come un fratello erano davvero in grado di dimostrargli la loro lealtà, al di là di ogni dubbio che ancora certamente nutriva.

Ciò nondimeno, si rendeva conto delle difficoltà di soddisfare le implacabili condizioni di Ponthieu: come sarebbe riuscito a portare Isabeau nel presente? Come avrebbe fatto a condurre al conte una prova della loro lealtà, una prova tangibile proveniente dal suo mondo? Per quanto ne sapeva Hyperversum non permetteva nessuna delle due cose.

Una paura che già in passato aveva sperimentato e con la quale aveva convissuto troppo a lungo, cominciò a impossessarsi nuovamente di lui.

Come avrebbe fatto? Avrebbe di nuovo mentito? Si costrinse a restare calmo e assaporare quel breve sprazzo di felicità che già prometteva di sfuggirgli di mano.  

 Era uno sforzo vano. La mente già vagava lontano, mentre serrava così strette le dita nei pugni da sentire pulsare vivo il dolore.

 Si vedeva pregare Daniel di trovare un modo per trasportare Isabeau nel XXI secolo. E Daniel che gli spiegava che era impossibile.

Si osservava nascondere Isabeau in qualche convento sperduto e partire con Daniel alla ricerca di qualcosa che potesse convincere Ponthieu riguardo al loro mondo e alla sua buona fede. Si sorprendeva a rapire come un miserabile ladro i figli e fuggire spregevolmente con la moglie, a dispetto del patto appena concluso. E si vedeva disperato mentre mentiva ancora e ancora… e si sentiva già sporco, insozzato, lordato al solo pensiero.

Qualsiasi cosa pur di non perdere ancora Isabeau e Marc.

“Dovremmo aspettare che monsieur Daniel ritorni qui” sentì dire dalla sua stessa voce, scandendo le parole con una calma studiata a beneficio del conte e Isabeau.

 “Solo lui può condurci nel mio mondo e dovrà passare ancora qualche tempo prima che arrivi. Inoltre Madame è in attesa di un secondo figlio e io ti chiederei se fosse possibile di...“.

 Ponthieu annuì prontamente, aspettandosi già quella osservazione.

“Il mondo che Isabeau vi racconterà al suo ritorno” continuò Ian, “potrà stupirvi e vi sorprenderà al di là di ogni vostra immaginazione“, questa volta annuirono sia Isabeau che il conte, “ma in quel mondo non c’è più male di quanto ve ne sia già qui, Guillaume. Vi dimostrerò che ciò che affermo è la verità” Si voltò verso Isabeau, cercando in lei la forza e la speranza di cui aveva bisogno per non affogare nell’angoscia.

“Non ho domandato io di poter venire in questo posto. Non ho chiesto io di mettere in pericolo la vita delle persone che avevo più care nel mio mondo. Non ho preteso io di diventare cavaliere o conte. Pure, questo luogo è quanto di più caro mi rimane, perché qui ho trovato la ragione stessa della mia vita”.

Isabeau ricambiò il suo sguardo con occhi grandi e liquidi.

“Ho trovato la famiglia e gli amici che ho sempre desiderato. Ho trovato il fratello che non ho mai avuto. Ho trovato la donna per la quale in qualsiasi momento darei in cambio la mia vita, senza rimpianti. Ho combattuto per averli e per difenderli. Costi quel che costi, non mi arrenderò adesso, Guillaume, ti porterò ciò che chiedi”.

            “Metteremo a repentaglio la tua vita, dei tuoi amici o quella di Madame, nel vostro viaggio?“ Domandò calmo Ponthieu.

“Non più di quanto abbia messo in pericolo la mia, quella dei miei amici e la vostra con il mio arrivo qui“ fu la lapidaria risposta di Ian.

“Sta bene, mi basta la vostra parola che mi darete soddisfazione. Poco dopo la nascita del vostro secondogenito, non appena Madame si sarà ripresa, sarete pronti per il viaggio. I vostri figli resteranno qui e farò provvedere io a loro durante la vostra assenza.”

Isabeau annuì con tristezza, cercando di non farsi sopraffare dal dolore di lasciare Marc e il neonato alle cure delle balie e delle dame di compagnia.

“Ora che tutto è deciso, se volete scusarmi, credo che raggiungerò mia moglie ad Auxi. E' un viaggio di due giorni e io mi sono allontanato dai miei doveri già per troppo tempo e mi accorgo“, aggiunse finalmente con una parvenza di sorriso,  “che sto trattenendo le effusioni di due innamorati...”

Quando ebbero salutato con deferenza Ponthieu e non appena questi si fu allontanato, le loro labbra si unirono in un bacio che pretendeva di voler recuperare tutti insieme i baci perduti negli ultimi mesi, spezzato appena dalle poche parole che riuscivano a dirsi, rassicurandosi a vicenda, promettendo, giurando, implorando, pregando il Signore che niente, più niente da quel momento, li avrebbe separati adesso che ancora una volta, contro ogni speranza, erano nuovamente una cosa sola.

 


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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Phoenix, Arizona. Ai giorni nostri.

 

 

 

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Daniel Freeland impostò la propria lingua madre.

“Per favore, impostate ora la data di prenotazione della vostra conferenza d’affari,  quindi pronunciate la parola conference”.

La gradevole voce femminile attese un istante, quindi proseguì con la stessa asettica cordialità:

“Se preferite trascorrere un romantico week end cullati da ogni comfort, in un’atmosfera senza eguali, con personale di servizio altamente qualificato a vostra sola disposizione, ripetete week end. Se invece gradite prenotare il castello per una festa privata, scandite la parola party.”

La pausa che seguì fu leggermente più lunga e quando riprese, la voce elettronica completò il suo annuncio leggendo il resto della comunicazione molto velocemente:

“Per le prenotazioni di una settimana oppure oltre o per i viaggi di nozze, vi chiediamo cortesemente di consultare prima le nostre offerte speciali e inviare una mail al contatto evidenziato sullo schermo. Se preferite, potete contattarci al numero verde otto, uno, otto, sei...”

L’idea era di qualche settimana prima, ma solo ora Daniel aveva trovato qualche minuto da dedicare ad altro che non fosse lavoro o Ian Maayrkas. Né, aveva trovato il tempo di accennare qualcosa a Jodie Carson, sua moglie.

Chi avrebbe mai immaginato che il castello di Chatel-Argent non solo esistesse ancora, ma come i castelli medievali sulla Loira era stato completamente ristrutturato e adesso era in grado di ospitare eventi internazionali, congressi, feste private e anniversari.

Daniel scelse da un ricco menù a tendina l’opzione photogallery e con estrema curiosità si dilungò tra le numerose fotografie che ritraevano il castello dalle angolature più suggestive. Rivedere in quelle immagini Chatel-Argent fu un’emozione sorprendente e ben presto fu sopraffatto dal desiderio di tornarci.

 Il castello attuale era cambiato molto dal vecchio Chatel-Argent del XIII secolo che lui ben conosceva e tra i discutibili cambiamenti portati alla costruzione originale, un particolare attirò subito la sua attenzione: un’ala del castello, a vedere la galleria fotografica del sito, era stata riservata ad un eccentrico museo. Con ogni probabilità vi erano conservati manufatti che avrebbero fatto impazzire Ian.

 Daniel si sorprese a chiedersi, ghignando tra sé, se qualcuno stesse pagando l’affitto a Ian per il suo castello.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Oggi. Saint Gilles, Canada.

 

 

Alla fine Daniel aveva dovuto ammetterlo, dopo aver discusso e ridiscusso a lungo insieme su quanto Ty pretendeva di scoperto con le sue ultime ricerche: il Falco d'Argento altro non era che un ragazzo come loro nato nel presente, che Hyperversum aveva prodigiosamente trasportato nel XIII secolo.

E lui non si era accorto mai di nulla!

Ma quella era un'altra tessera che mancava al suo mosaico e adesso si incastrava perfettamente con la sua teoria, o pazzia come invece preferibilmente la chiamava Daniel.

“Ma perchè Ian? Perchè io? Perchè nessun altro?“ Le domande su Hyperversum l'avevano ossessionato fin da quando Daniel l'aveva riportato dal XIII secolo a casa sua nel presente, salvandogli la vita, dopo che era stato avvelenato dai complici del barone Adolphe de Gant.

In cambio, per giustificare quei sintomi da avvelenamento mortale che solo la medicina moderna aveva potuto guarire, si era addossato una tutto sommato accettabile fama di tossicodipendente da droghe leggere e altre sostanze che i medici avevano catalogato come non ordinarie. In fondo, aver salva la pelle dopo quell'avventura, era stato un miracolo.

Ok, sua madre ne pensava tutto l'opposto, ma per Ty anche quello era un effetto collaterale che poteva sopportare: con sua madre i rapporti non erano idilliaci prima e non erano perfetti adesso, sebbene in cuor suo e lui lo sapeva, lei gli voleva lo stesso bene di sempre.

Le sue ricerche da allora, condotte con  una abnegazione che lui stesso non si riconosceva, lo avevano portato ad alcune conclusioni incredibili. Ma più si faceva le stesse domande  “Perchè Ian? Perchè io? Perchè nessun altro?“ più si dava le stesse risposte.

Perchè, si chiedeva, in nessun posto, in nessun libro, in nessun codice dell'epoca, aveva trovato la data di morte di Jean Marc de Ponthieu e di molti dei suoi primogeniti in linea di successione diretta?

Alcuni manoscritti si perdevano in dettagli sulla vita di molti dei suoi discendenti e poi il nulla riguardo la loro fine. Nemmeno una data. Spariti.

Lui stesso, Thierry Ponthieu - e la cosa lo terrorizzava e lo affascinava irresistibilmente - era legato da una parentela lontanissima nel tempo eppure innegabile col Falco d'Argento. Quale sarebbe stato il suo destino?

Sentiva che solo Daniel poteva aiutarlo a risolvere del tutto questo enigma. Doveva tornare nel Medioevo.

“Ma’? Ehi, mi senti?“ Lei si trovava in cucina intenta a cucinare qualcosa di vegetale e poco calorico che il suo fegato malandato e convalescente fosse in grado sopportare, mentre Ty lui era in camera sua, sdraiato sul letto davanti all’immenso poster dei Guns&Roses. Eppure preferiva parlarle nuovamente della sua intenzione di partire la settimana successiva per gli States senza doverne affrontare direttamente gli sguardi di fuoco.

“Allora, tra qualche giorno preparo le mie cose per partire, te l'avevo già detto, no?”

 Carol trasalì temendo di nuovo il peggio, dopo la sparizione del figlio di pochi mesi prima.

“Come ti dicevo, non so quanto starò via, ma non preoccuparti stavolta, prometto che ti chiamerò almeno un giorno sì e uno no e poi dai… vado a stare da Daniel! Di lui ti fidi, no?”

Carol si sentì sollevata a sentire il nome di quel ragazzo americano così serio e coscienzioso che si era tanto preoccupato per suo figlio durante quella che lei credeva una fuga con quei disgraziati dei suoi amici tossici.

Se solo Ty potesse assomigliare di più a Daniel, sospirò. Lei sapeva che mai Daniel avrebbe dato un simile dispiacere ai genitori, entrando in quei giri di amicizie pericolose in cui si era cacciato il suo Ty.

“Mi chiamerai tutti i giorni, non uno di meno“ pretese invece e poi, non potendo più resistere, “e cerca di imparare come ci si comporta da Daniel, è così un bravo ragazzo!”

Ty sorrise dentro di sé: sua madre non sospettava nemmeno quanto quel bravo ragazzo avesse persino più talento di lui nello sparire e nel cacciarsi nei guai fino al collo.

 

***

 

 

 

“ Basta Skip! Dannazione, adesso basta!

Chi lo può dire, forse anche lui sentiva aria di festa.

“Bel modo di svegliarmi, accidenti, mi hai quasi già lavato la faccia!“

Daniel si contrasse in una smorfia di disgusto sentendo la sua faccia completamente umida e cercò invano l'orologio sul comodino, doveva essere tardi comunque: Jodie doveva essere già a lavoro per il turno di sabato e Skip saltava e scendeva giù dal letto in continuazione, scodinzolando a più non posso.

Ancora con la mente annebbiata dal sonno, senza decidersi ad alzarsi completamente, Daniel si soffermò ad osservare distrattamente il cucciolo che tra un salto e l'altro, masticava con aria soddisfatta ora i bordi delle coperte ora le graziose ciabattine rosa di peluche di Jodie.

Fu all'improvviso che gli tornò in mente la telefonata della sera prima di Ty e gli stessi brividi che aveva sentito mentre il ragazzo gli accennava le sue teorie lo scossero ancora una volta, svegliandolo più di una doccia gelata. 

Lui aveva cercato le risposte a quelle stesse domande di certo non con meno impegno di Ty, scandagliando minuziosamente ogni riga di codice del gioco, esaminando le connessioni di rete, i server su cui si appoggiava la community per giocare online, qualunque componente hardware o software che riguardasse Hyperversum, aveva dedicato a quella ricerca i suoi studi universitari e persino il suo lavoro attuale di ricercatore. Ty invece era partito da tutt'altri presupposti.

“E' una pazzia!” quasi gridò involontariamente all'indirizzo di Skip che ricambiò allarmato il suo sguardo, immobilizzandosi e  abbassando goffamente le orecchie. Eppure quel ragazzo forse ha trovato la chiave di tutto, forse ha ragione, non può essere solo una coincidenza!

E come se non bastasse - si ricordò subito con smisurato rammarico - i giorni passano e io non ho ancora idea di come fare a portare qui Ian e Isabeau!

 Skip abbaiò, manifestando il suo incondizionato assenso a qualsiasi cosa il padrone gli avesse prima urlato contro, pur di avere presto la sua ciotola di latte e i suoi croccantini di pollo.

 Daniel si incamminò proprio verso la cucina subito seguito dal cucciolo, ma l'urgenza che gli saturava ogni pensiero era di dover trovare una soluzione al problema che l’aveva assillato ininterrottamente negli ultimi mesi.

 Si fermò quasi subito davanti allo specchio della sua camera da letto, soltanto per avere conferma, guardandosi in volto, che avrebbe avuto ancora bisogno di dormire e che il tempo non gli bastava mai dopo il lavoro.

Questa volta però, testone che non sei altro - annunciò a se stesso - troverai come portare tutti e due nel presente. Glielo devi, dannazione, dopo tutto quello che lui ha fatto per te.

Devi portarlo via da lì, lui e la sua famiglia! Soprattutto adesso che non ha più nessun motivo per restare, dopo che..., lo stomaco gli si strinse al solo pensiero di quanto il suo amico stesse soffrendo e completò la frase solo mentalmente, ...Ponthieu lo ha ripudiato, dopo avermi visto sparire – chissà con quale stregoneria, crede lui –  insieme a Ty.

Ma presto si sarebbero rivisti ancora, cosa aveva detto Ian?

Fatti trovare a Chatel-Argent il giorno della nascita del mio secondogenito Michel, la data la conosci.” 

Sì, lui non avrebbe mai abbandonato Ian al suo destino. E quando fosse giunto il momento di tornare da Ian, lo avrebbe sorpreso con la notizia che sapeva come fare per portare la sua famiglia con sé nel presente. Hyperversum era imprevedibile, ma se c’era una cosa che Daniel aveva compreso di quel gioco, era che niente era impossibile.

 Skip, intuendo che il padrone si era di nuovo distratto, abbaiò di nuovo.

 

 

***

 

 

Dopo aver servito distrattamente il pasto a Skip, non fece in tempo a preparare la sua colazione, che sentì suonare alla porta.

Sperò che fosse il corriere col materiale che aveva ordinato quasi due settimane prima e che sperava potesse aiutarlo a trovare la soluzione al problema di Ian, così restò quasi deluso quando si ritrovò davanti Jodie.

“Ma non dovevi essere al lavoro, questa mattina?”

Jodie lo guardò con un’espressione paziente e rassegnata, prima di entrare in casa, lasciare sul pavimento davanti all’ingresso due pesanti borse della spesa e ricordargli che il turno di sabato iniziava il pomeriggio ma che “qualcuno doveva pur sempre andare al supermercato se volevano mangiare ogni giorno, no?”

“Alex? Dorme ancora?” volle subito dopo sapere lei.

Daniel annuì con un cenno del capo, l’angioletto di nemmeno quattro mesi riposava serenamente dentro la culla nella sua camera, tranquilla – rimuginò il ragazzo – come Skip non avrebbe mai potuto essere, nemmeno sotto l’effetto di molti sedativi. Jodie si affacciò nella stanza di Alex per recapitarle un bacio e contemplarla per qualche istante. Sentiva il bisogno incontrollabile di guardarla a intervalli regolari anche quando era occupata con i mestieri di casa o guardava la tivù e naturalmente non appena rientrava a casa, anche se si era allontanata solo per gettare il sacco con l’immondizia. Ancora non credeva di essere la mamma di quella serafica e paffuta creatura. E ogni volta che i suoi occhi si distendevano su di lei, si sentiva colmare il petto da una sensazione di tenerezza così forte da sembrarle quasi dolorosa.

L’urlo che arrivò qualche istante dopo, non giunse inatteso alle orecchie di Daniel e lo sentì non appena Jodie entrò nella camera da letto per cambiarsi. Quel giorno, infatti, non aveva avuto la prontezza di fermare Skip prima che cercasse come ogni mattina di fare colazione con le pantofole Hello Kitty della moglie.

“DANIEL! Accidenti, lo sai che se non gli dai subito da mangiare se la prende con le mie cose!” lo rimproverò con un tono di voce subito soffocato dal timore di svegliare l’angioletto nell’altra stanza.

Il secondo urlo arrivò invece inaspettato. Lo raggiunse non appena Jodie arrivò in cucina e notò che al posto della ciotola, Daniel aveva servito la scatoletta di Skip dentro il piatto che avrebbe dovuto usare lui per la colazione.

“Bene, non importa.. non importa tesoro”, gli annunciò con uno sguardo che non ammetteva repliche, “vorrà dire che oggi pranzerai tu nella ciotola di Skip!”

Daniel sapeva che non scherzava.

“Scusa Jodie, scusami tanto... non ci sono proprio più con la testa... Poi ieri la telefonata di Ty... e io che penso giorno e notte a quel problema da settimane e non ho trovato ancora nessuna soluzione. E se non riuscirò io non ci riuscirà nessun altro e la vita di Ian sarà distrutta e…”

“Ehi...” gli impedì di continuare Jodie, mentre l’irritazione di poco prima l’abbandonava e scrutava suo marito con apprensione e affetto.  “Su, calmati adesso. So quanto ci tieni ad aiutare Ian e spiace tantissimo anche a me per la situazione sua e di Isabeau. Ho promesso di aiutarti, no? Ma se non ti riposi un po’ non sarai certo di aiuto a qualcuno in queste condizioni”.

Daniel non poté che annuire sconsolato.

“Se Ian può andare avanti e indietro, perché non potrebbe farlo anche Isabeau? Una soluzione ci dovrà pur essere!”

“Lo so, io lo so che c’è, con Hyperversum tutto sembra possibile... il problema è che ragiona e funziona solo come piace e pare a lui, maledetto gioco!” imprecò Daniel, “alla fine mi sfugge sempre qualcosa…”

“Però qualche progresso l’abbiamo fatto, no? Abbiamo capito cosa ci serve: innanzitutto un modo per aggiungere Isabeau alla partita tra i giocatori attivi e poi un modo per…”

“Un momento, cosa...” Daniel si voltò di scatto verso la moglie. “Cosa hai detto?”

Jodie lo osservò ancora una volta con quello sguardo rassegnato: “Tesoro? E’ da un mese ormai che mi ripetiti queste parole tutti i giorni come un mantra! Ho solo appena detto che una volta aggiunta Isabeau alla partita dobbiamo poi trovare il modo per portarla…”

”Un modo?”

“Sì Daniel, accidenti, un MODO! Si può sapere cosa ti prende, quando fai così mi fai paura!”

“Jodie… Sì!“ non aveva ancora finito di parlare che si lanciò ad abbracciarla e baciarla. “Sì, sì! Sei un genio!” urlò ancora mentre la stringeva e lei lo squadrava esterrefatta, cercando al tempo stesso di divincolarsi. “Ecco quello che ci serve! Un Mod!!”

“Un… cosa?”

“Ma certo, il Mod dei Mod! Premio dell’anno come Miglior Mod per Hyperversum, oltre diecimila endorsement nella Community di Nexus…” 

“Si può sapere di cosa diavolo stai parlando Daniel? Sei sicuro di stare bene questa mattina? Sei così strano e…”

“Sto parlando di Celebrity Skin, il Mod non ufficiale più  premiato e proibito della rete!”

“Premiato? Proibito?” Jodie era sempre più confusa.

“Bè, sì. Se quelli della community ufficiale di Hyperversum ti beccano con un Mod istallato, rischi come minimo che ti levano tutti i punti finora accumulati, se non addirittura il ban della tua utenza dal gioco.”

Jodie lo ascoltava ancora allibita, ma con la speranza crescente che le parole di Daniel avessero il senso che sperava.

Loro erano un forum nato per sviluppare modifiche sui vecchi giochi RPG di qualche anno fa, sai roba da antenati come Oblivion, Dragon Age, appassionati che programmavano nuovi add-on che trasformavano il gioco standard in tutto quello che loro desideravano o che la community richiedeva.” Jodie annotò mentalmente che quei nomi non le dicevano niente, come del resto la sigla RPG.

“Alcune di queste modifiche, o Mod come li chiamano loro, erano talmente complesse e riuscite che i migliori di loro furono assunti da quelle stesse software house per sviluppare i giochi della generazione successiva. Ma la maggior parte rimase comunque fedele alla community originale e continuò a sviluppare modifiche proibite ai giochi di ruolo di maggior successo.” La ragazza lo seguiva con attenzione adesso.

“Non potevano mancare quindi i Mod per Hyperversum.  Prendi ad esempio Better Bodies All In One che migliora l’aspetto del tuo alter ego virtuale e di tutti i personaggi che trovi nel gioco… ogni ragazza che incontri, ad esempio, sembra appena uscita da una sfilata di Victoria’s Secret!”

Jodie lo guardò sconcertata: “Chi diavolo può volere una cosa del genere, Daniel? Cioè, dico.. c’è davvero gente a cui piace questa roba?”

“Eccome! Questo Mod è attualmente secondo nella classifica dei riconoscimenti della community di quest’anno, quasi seimila endorsement!”

Notando l’espressione perplessa sul volto della ragazza, Daniel chiarì: “Quando i membri della community provano un Mod, in seguito possono rilasciare un giudizio. Se la valutazione è particolarmente positiva, gli iscritti concedono all’autore un endorsement, il riconoscimento più alto per aver condiviso gratuitamente il software con gli altri membri della community.

“Ma in questo modo il gioco non perde il suo realismo?”

“De gustibus….”, Daniel si strinse nelle spalle, “in ogni caso esistono così tanti Mod da soddisfare ogni utente, è possibile personalizzare ogni aspetto del gioco, dalla storia ai paesaggi”, proseguiva Daniel con visibile entusiasmo, “attraverso Skip the Fade, Improved Atmosphere… Oppure, prendi Extra Dog Slot, ad esempio! Puoi creare a partire da qualche foto, la copia virtuale perfetta del tuo cane e portartelo sempre appresso anche in Hyperversum!”

Jodie fissò uno Skip emozionato e scodinzolante mentre faceva la posta al mucchietto di peluche che aveva staccato a morsi dal resto della pantofola Hello Kitty e seppe che non avrebbe mai istallato quel Mod.

“Infine c’è il migliore: Celebrity Skin. Con questo Mod puoi diventare tu stesso un personaggio famoso del passato, ad esempio Alessandro Magno, Giulio Cesare…

“E io potrei essere Cleopatra! Questo sì che mi piacerebbe provare, Daniel”.

“Ma non solo! Le opzioni offerte sono pressoché infinite: ad esempio puoi essere te stesso e portarti dietro invece di Skip un vero personaggio del passato che ti aiuta nelle quest del gioco, ti fa compagnia, ti intrattiene quando hai voglia di una pausa, oppure..

“Oh cielo! Che genere di compagnia, Daniel? Adesso concepisco perché è il mod più votato!”

“Bè… ma non è che un’opzione marginale, chi ha programmato Celebrity Skin è senza dubbio un genio! Il Mod fa credere a Hyperversum che il compagno virtuale che hai scelto è un personaggio realmente giocante. Adesso capisci dove voglio arrivare?”

“Credo di capire: vuoi usare questo Mod per aggiungere alla nostra partita salvata un personaggio realmente esistito nel passato: Isabeau, vero?” Daniel annuì con un cenno, e attese in silenzio che il ragionamento ad alta voce di Jodie si concludesse.

“Poi, quando tu e l’Isabeau virtuale inizierete la partita, aspetterai che arrivi Ian… Oh cielo, in quel momento la partita si trasformerà nel reale Medioevo e Isabeau…” Jodie si portò una mano alla bocca, incredula.

“E Isabeau…” le venne in soccorso il ragazzo con un sorriso raggiante dipinto sulle labbra, “sarà una giocatrice attiva, esattamente come me e Ian”.

“Potresti sul serio, Daniel?”

“Ci proverò. E se tutto va secondo i piani…”, ricordiamoci che in Hyperversum niente va secondo i piani, si appuntò subito mentalmente.

 “E come sapremo se funzionerà? Se sarà pericoloso per lsabeau?

“Mi occuperò anche di questo, stanne certa”.

“E Isabeau non vorrà portarsi dietro anche Marc e il secondo figlio che sta per nascere?”

“Se funziona con lei funzionerà anche per i figli, immagino...”

“Ok Daniel, abbiamo forse risolto la prima parte del problema, ma mi hai sempre detto che la difficoltà era duplice! Anche se abbiamo un modo per aggiungere Isabeau alla partita, come facciamo poi a portarla nel presente, alla nostra epoca?”

“Quando noi ritorneremo a casa sulle nostre sedie, con un visore in testa e le mani infilate nei guanti 3D del gioco, lei dove sarà?” lo incalzò ancora Jodie.

“Hummm…. senza guanti e visore, senza un computer...” Credeva di avere appena risolto l’enigma più complesso che avesse mai affrontato ed era così euforico, che si sentiva pronto a rivelare una soluzione per ogni problema del pianeta.

“… a casa nostra hai detto….”

Si guardò intorno, osservando la stanza, con la sensazione esaltante che anche il secondo enigma avesse i minuti contati.

 “Ok, e poi tu prima di passare nel medioevo, apri una partita, selezioni una data precisa e un luogo di destinazione”, considerò la ragazza, “come farai a selezionare la destinazione di Isabeau, dal medioevo? Non si può!”

“Ma sì, sicuro… Non finirà di certo a Phoenix, Arizona”. Daniel si aggirava per la stanza, parlando più a se stesso che a Jodie.

“...E se non è possibile selezionare per lei alcuna destinazione, se non è possibile impostare alcuna coordinata geografica, se lei non ha mai lanciato il gioco da un computer, dopo il salto temporale dove si troverà?”

Gli sembrava di avere davanti un puzzle smisurato e impossibile e l’ultima minuscola tessera era lì, proprio sul palmo della sua mano.

“Ma certo.... Non si muoverà.”

“Non si muoverà? Cosa vuoi dire, Daniel?”

“Non si muoverà da dove è partita!”.

“Vuoi dire che tutti i nostri sforzi sono inutili, che non potrà mai venire con noi nel presente?”

“Al contrario. Hyperversum ha sempre trascinato con sé, nella stessa epoca, tutti i giocatori attivi di una partita in corso”.

 All’improvviso a Daniel sembrava di poter vedere le cose con una chiarezza e una sicurezza mai sperimentata, ogni pezzo si incastrava da solo, in automatico: Ian, Isabeau, Ponthieu, la Francia, il Medioevo, la sorpresa, la paura, le lacrime, il sangue, la guerra, le spade, i morti, il dolore...

E poi ancora un susseguirsi caotico di immagini e sensazioni: la gioia, la speranza, l’amicizia, l’amore, la vittoria, il ritorno, sua madre, suo padre, Jodie, il matrimonio, la casa, il ronzio del pc, lo schermo acceso, la stanchezza, le vacanze che aveva bisogno, Chatel-Argent... tutto scorreva vorticosamente nella sua mente, incastrandosi frammento dopo frammento. Come il puzzle che aveva immaginato di vedere prima.

 “Jodie! Dopo il salto temporale, Isabeau si troverà esattamente  nell’unico luogo possibile: a Chatel-Argent! Nello stesso identico luogo da cui è partita. Naturalmente non sarà più nel 1217 d.C. ma il gioco la proietterà con noi, ai giorni nostri!”

Per qualche istante Jodie soppesò mentalmente quelle informazioni.

“E come accidenti faremo allora, se noi saremo in Arizona?” osservò quasi subito con la consueta energia e lucidità, “Intendi abbandonarla lì in un castello che magari non esiste neanche più, da sola, senza nemmeno il passaporto, un vestito di ricambio e una carta di credito?”

“Avevi già in mente qualche posto per le vacanze, tesoro? ”

“Vacanze? Oh Daniel, per l’amor del cielo, come fai a scherzare in un momento come questo…”

“Non sto scherzando. Se non può essere Isabeau ad andare da noi, vorrà dire che saremo noi a recarci da lei:  lanceremo la partita da lì. Dal castello di Chatel-Argent dei giorni nostri.”

Interpretava ormai ogni passo seguente di quel piano così articolato e complesso, come fosse invece una prevedibile successione matematica, già scritta.

            “Quando chiuderò la partita torneremo tutti a Chatel-Argent: io, Ian e Isabeau. Tu invece ci starai aspettando già lì, con Skip, un prendisole e le creme abbronzanti per il solarium.  E comincio anche ad avere un’idea su come assicurarci che nessuno corra rischi inutili.”

“Se tutto funziona avremmo risolto il problema di Ian, altrimenti, al minimo segnale di pericolo ti giuro non se ne farà nulla, ti prometto che sarà solo una bella vacanza in Europa, cullati da ogni comfort, in un’atmosfera senza eguali, con personale altamente qualificato tutto a nostra disposizione.. e tu hai sempre desiderato visitare la Francia, no?”

 “Suppongo che visto che noi non ce lo possiamo permettere, pagherà Ian, vero? “

“Bè, Ian ha sempre detto che tutti quei soldi che ci ha lasciato erano per noi. Ma sarei più felice se potessimo usarli per fare qualcosa per lui, invece...”

Qualche minuto dopo, dal sito www.chatel-argent.com, Daniel e Jodie avevano ottenuto tutte le informazioni necessarie. La sala conferenze aveva tutte le attrezzature informatiche indispensabili, collegamento internet superveloce con fibra ottica, unità ridondanti di back up e persino gruppi di continuità elettrici che avrebbero consentito loro di giocare in tutta sicurezza.

Alla nascita del secondogenito di Ian, come convenuto, Daniel si sarebbe presentato all’appuntamento con l’amico. E avrebbe portato con sé l’Isabeau virtuale creata grazie al Mod.

Se la prima parte del piano avesse funzionato, aveva già studiato un semplice stratagemma per verificarne la seconda parte già in quel primo viaggio.

 “Oh Daniel,  sono così felice!”

“Lo sarò anch’io, tesoro, ma solo quando vedrò che funzionerà tutto per davvero, già troppe volte ci siamo illusi, mi sembra.”

“Ti confesso che sarà uno sbattimento, senza contare che dovrò lasciare almeno per una settimana Alex a casa di mamma, ma sono contenta di fare tutto questo per Ian. Non mi importa nulla delle vacanze, se ci tieni a saperlo. Spero davvero che tutto funzioni, per lui.”

Il ragazzo sorrise compiaciuto.

“Daniel?”

“Si?”

“Sei perdonato. Per questa volta non pranzerai nella ciotola di Skip.”

“Jodie.... “ prosegui Daniel ridacchiando, “se solo il conte Ponthieu fosse generoso come te e perdonasse Ian...”

“Scemo.”

“Bè, intanto che tu sterilizzi il piatto dove ha mangiato Skip, io recupero la foto della miniatura di Isabeau. Mi servirà per la modellazione del personaggio che dovrà usare il Mod. Ti ricordi esattamente quanto era alta la nostra contessina? E che taglia dovrebbe portare Isabeau?”

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Daniel sospirò e ripassò ancora una volta mentalmente tutta la lista delle cose da fare, quelle che doveva aver già fatto e quelle che aveva lasciato a Jodie.

 Sì, era davvero tutto a posto. Calmati dannazione, andrà tutto bene, hai tenuto conto di tutte le variabili. Questa è solo una prova per verificare che almeno il Mod funziona. Rivedrai finalmente Ian e lo farai felice dicendogli che hai trovato una possibile soluzione per lui e Isabeau. Coraggio, andiamo!

Caricò l’ultima partita salvata, scegliendo tra le molte copie di backup quella in cui aveva istallato Celebrity Skin e controllò come al solito che il personaggio non giocante di Jean Marc de Ponthieu fosse incluso nello scenario.

Una seconda verifica si rese necessaria dopo che aveva istallato e configurato il Mod: tutto ok, anche Isabeau de Montmayeur era presente in qualità di Companion. Indossò i guanti e il visore in dotazione con Hyperversum e ordinò al pc di caricare il gioco.

Sullo schermo piatto e sul visore a LED apparve la consueta clessidra che scandiva il tempo di pre-caricamento e quindi la scritta:

HYPERVERSUM

Configuring game

Please wait…

 

Scorrevano intanto alcune immagini salvaschermo raffiguranti battaglie epiche del passato, rese in un realismo disarmante e paesaggi mozzafiato di epoche lontane, fintanto che la clessidra scomparve.

Subito dopo, apparve la scritta Game ready  e scandendo il comando vocale Start, Daniel diede finalmente inizio alle sequenza animata che preannunciava l’inizio di una nuova avventura.

L’intero pianeta apparve sul visore, splendente nelle sue sfumature più vivide, come in una foto via satellite, mentre ruotava pigramente su se stesso.

Le cifre del contatore della data scorrevano impazzite come in una slot machine, finché si arrestarono tutte insieme sulla scritta:

 

1217 d.C.

 

All’improvviso, gli sembrò di precipitare dallo spazio sempre più velocemente, presto le macchie blu-verdastre e i vortici lattescenti delle nubi che avvolgevano la Terra iniziarono ad avvicinarsi ad una velocità insostenibile, come se il giocatore stesse precipitando in picchiata.

Poi la caduta sembrò rallentare e Daniel, attraverso il visore, riuscì a distinguere i contorni sempre più definiti dei continenti, poi l’Europa e poi ancora i territori francesi, sempre più vicini.

“Start Game!”

Saltò l’introduzione vocale, desideroso di vedere da vicino la nuova compagna virtuale che doveva impersonare Isabeau e all’improvviso fu dentro il gioco, riparato in una fitta boscaglia che lui sapeva essere poco distante dal castello di Chatel-Argent.

Si guardò intorno per assicurarsi che non ci fosse nessuno e sbirciò verso la radura alla sua destra sobbalzando quando invece si accorse che non era solo.

Bellissima, con i biondi e lunghissimi capelli che catturavano ogni filo di luce che baluginava dagli alberi, apparentemente annoiata e un po’ troppo strizzata e sensuale negli abiti di una contessa del XIII secolo, a pochi passi da lui si trovava proprio Isabeau.

Non appena lei si accorse che Daniel la stava osservando, si avvicinò:

“Buon giorno Daniel. Lascia che mi presenti: sono la contessa Isabeau de Montmayeur, posso fare qualcosa per te?

La fissò a bocca aperta, il rendering e la modellazione 3D erano perfetti, più di qualsiasi altro personaggio virtuale ricreato dal gioco. Celebrity Skin era incredibile.

 “Preferisci esplorare subito il paesaggio qui intorno?” proseguiva intanto lei, “Gradisci che ti parli un po’ di questo posto e delle quest di maggiore interesse oppure ti piacerebbe appartarti un po’ con me in questo bosco?”

Fece una breve pausa densa di significato che fece deglutire Daniel e poi riprese con soave naturalezza: “ti devo ricordare che non hai ancora raggiunto nella partita in corso il punteggio minimo che sblocca la terza opzione. Per disabilitare il tutorial mode ora attivo, devi solo pronunciare il relativo comando vocale.”

La voce e le sembianze erano tanto simili all’Isabeau originale che Daniel credette che questa volta Hyperversum avesse pescato i suoi dati non dalle infinite librerie del gioco ma direttamente dalla realtà.

Daniel si concesse di ammirarla ancora per qualche istante, prima di rispondere che per il momento avrebbe preferito esplorare da solo il bosco e di aspettarlo lì ben nascosta ad occhi indiscreti.

“Tornerò presto con una sorpresa per te, vedrai!”

“Le sorprese mi piacciono! E ti ricordo che i doni graditi sbloccano immediatamente nuove opzioni di dialogo e forniscono bonus di punteggio. Se desideri posso subito elencarti tutti i doni che gradisco ricevere.”

“Ok, ok Isabeau. Vediamo però di non spaventare troppo questi medievali con i tuoi discorsi, eh. Tutorial mode off.”

L’Isabeau virtuale imbronciò leggermente le labbra, incrociò le braccia sul petto, e si riparò dietro ad un albero come le era stato detto.

 Sistemata con sollievo la faccenda Isabeau, altri problemi e altre angosce si presentarono subito a Daniel: Michel, il secondogenito di Ian sarebbe nato oggi, ma a che ora? E quando sarebbe apparso Ian per rispondere all’appuntamento stabilito tanto tempo fa?  Si sarebbe ricordato? E se qualche impedimento gli avesse reso impossibile presentarsi?

L’erba del sottobosco era ancora la sterile filigrana di pixel ricreata da Hyperversum, gli alberi e gli sprazzi di luce, che filtravano a stento dalle fronde dei rami, erano riproduzioni foto-realistiche delle realtà, ma i sensi gli assicuravano ancora che quel mondo era solo digitale.

Ad un tratto, mentre si era già allontanato di qualche centinaio di passi dalla Isabeau virtuale, un fruscio più evidente degli altri e poi un rumore metallico lo fece sobbalzare.

 Qualcuno si avvicinava verso di lui, ricoperto dall’usbergo lucente e con l’elmo calato sul viso. Daniel si vide subito in trappola e lo spavento di quella apparizione improvvisa non gli fece notare né la statura dell’uomo né il simbolo che portava indosso.

Tutto accadde in pochi istanti: un momentaneo capogiro fece turbinare tutt’intorno per un attimo i riflessi di luce che filtravano dagli alberi e dall’armatura del cavaliere, le percezioni dei sensi furono stravolte all’improvviso e avvertì acutamente l’inconfondibile senso di nausea che lo accompagnava tutte le volte che Hyperversum compiva il suo prodigio.

  E solo allora, proprio quando il cavaliere alzava minaccioso la spada di punta verso il suo petto, capì cosa stava succedendo.

Ian era lì. Si tolse l’elmo ed entrambi scoppiarono a ridere.

“Ma cosa diavolo hai fatto ai capelli?” Fu la prima cosa che riuscì a dirgli dopo tanti mesi, sorprendendosi di vedere la lunga chioma corvina del cavaliere ridotta ad un taglio corto che ricordava fin troppo i tempi moderni.

“Ricordi? Il mio atto di contrizione...“ Ian si sforzava di sorridere nel modo più naturale possibile e Daniel squadrandolo e poi fissando il simbolo del falco d’argento, poté intuire molte cose, ma non tutte.

“Ti ha perdonato! Lui ti ha perdonato, non è così? Oh Dio, grazie, grazie! E come è successo, cosa hai fatto? E’ stata Isabeau? Cosa gli hai detto per convincerlo?”

“Non è così semplice come sembra, alla fine ha preteso che...“, non fece in tempo a continuare che Daniel lo tempestò di nuove domande: “E Isabeau sta bene? E tuo figlio, anzi i tuoi due figli, adesso? Oggi è nato Michel, come sta? Assomiglia a te o a Isabeau? Sono così felice per te, se sapessi cosa ho passato anch’io, quanto mi sono tormentato sapendoti qui in quelle condizioni... ma accidenti, ti sei messo questa dannata armatura solo per non farti abbracciare, eh?”

“Veramente volevo giocarti uno scherzetto e spaventarti, ma ormai sei troppo smaliziato, vedo. Quando ti ho visto apparire all’improvviso mi sono spaventato più io, se vuoi saperlo!“

I due amici scoppiarono di nuovo a ridere e parlarono per molto tempo solo di cose piacevoli, raccontandosi di come stavano i loro cari e i loro amici di qua e di là, nei due mondi tra cui viaggiavano. 

Ogni cosa è andata al suo posto, si ripeteva incredulo Daniel, non potevo sperare di meglio. Nemmeno mi servirà tentare quell’esperimento con l’Isabeau virtuale che mi sono portato dietro... Ah se Ian potesse vederla! Chissà come la prenderebbe!?  

Finalmente sia io che lui potremo vivere quei giorni felici e spensierati che ci meritiamo dopo aver passato tutto quello che abbiamo passato! E come sono felice per Ian, non appena lo saprà Jodie…

“Ehi, Monsieur le compte“ lo apostrofò scherzando Daniel mentre gli allungava una pacca sulla spalla, “adesso che io e te siamo felicemente sistemati con le rispettive consorti, non sarebbe ora di una bella cenetta a quattro in qualche bel locale tranquillo di Phoenix, che ne dici? “

Ian lo guardò serio e uno strano scintillio attraversò il suo sguardo. “Dai, non dirmi che incontrare di nuovo quel piccolo mostro di Skip ti spaventa a tal punto da rifiutare l’invito!“

Ian abbozzò un sorriso, quel tanto per far credere all’amico che stava allo scherzo. Non voleva rovinare quel momento di pace e di serenità con le preoccupazioni che gli offuscavano tutto il tempo la mente.

“…avresti dovuto vedere la faccia di Jodie…”, Daniel intanto continuava a raccontare episodi divertenti della sua vita nel presente, “quando ha trovato le sue adorate pantofole di Hello Kitty ridotte a brandelli, già.. chissà cosa avrebbe detto Isabeau sui mostri del nostro tempo!“

“Proprio di questo ti dovrò parlare, Daniel…”

L’amico non riuscì a decifrare lo strano sguardo che gli ricambiò Ian pronunciando quelle parole, ma non vi badò in quel momento spensierato, dove ogni cosa sembrava andata al suo posto.

“Hai per caso una sorpresa per me? Bè forse ne ho anch’io una per te. Seguimi!”

 

 

 

***

 

 

 

“Ehi, ma non mi dici niente, allora? Di quale diabolica sorpresa parlavi prima, Daniel?”

“Tranquillo, rilassati cavaliere e goditi l’attesa!”

Arrivarono al punto in cui Daniel aveva lasciato l’Isabeau virtuale, girarono per qualche passo intorno, senza riuscire tuttavia a scorgere nessuno.

“Doveva trovarsi qui, dove accidenti è finita?”

Ian iniziò a preoccuparsi. “Non sarà qualcosa che riguarda Hyperversum, vero Daniel? Non avrai fatto qualche sciocchezza per salvarmi o robe del genere?”

“No, no figurati.... lasciami solo controllare una cosa. Help!”

Apparve immediatamente una mela rossa fosforescente che fluttuava pigramente a mezz’aria: il menu 3D del gioco.

Entrambi tirarono un sospiro di sollievo. “Eh, funziona ancora... sai, meglio accertarsene spesso visto com’è andata le ultime volte!”

Ian si concesse un sorriso tirato.

Velocemente aprì il menu addizionale associato al Mod e digitò il comando che ordinava al compagno virtuale di materializzarsi immediatamente davanti al giocatore principale, ovunque si trovasse. Utilizzò la user alfanumerica invece del nome proprio di Isabeau per non allarmare l’amico.

Nessun compagno si presentò davanti a loro.

Daniel sorrise.

Ci aveva sperato, ammetteva tra sé, ma non aveva mai avuto la certezza di farcela. Era tuttavia esattamente quello che si aspettava, nel momento in cui Ian fosse comparso e il gioco virtuale si fosse trasformato nel reale Medioevo.

Aprì questa volta il menù standard del gioco, richiamando i player attivi della partita. Sotto la mela, brillarono per pochi secondi i caratteri che componevano i nomi di Daniel, Ian e per la prima volta... Isabeau. Mentre un sorriso di soddisfazione gli si allargava sul volto, controllò per scrupolo anche l’elenco dei compagni virtuali attivi: nessuno. Chiuse immediatamente il menù prima che Ian sbirciasse qualcosa.

Metà del piano aveva funzionato, restava solo da verificarne il resto. Ma ormai era inutile, non sarebbe più stato necessario, ora che Ponthieu aveva concesso il suo perdono all’amico. Era tuttavia più che mai convinto che la sua idea avrebbe comunque funzionato il giorno che avessero voluto metterla in pratica.

“Bè, amico, devo confessarti che la mia sorpresa a quanto pare se l’è data a gambe. Forse sarà per un’altra occasione...”

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

I festeggiamenti proseguivano senza sosta da due giorni, Etienne de Sancerre, spalleggiato dai due Henry, aveva convinto Ian che la nascita del suo secondogenito unitamente  al suo ritorno alla vita sociale di corte, meritassero almeno una settimana di celebrazioni e ovviamente un degno torneo, aveva tenuto ad aggiungere Sancerre.

Erano finalmente giorni allegri e spensierati, come nemmeno Ian ne aveva più il ricordo, ma dopo aver rimandato quel momento a lungo per non turbare la felicità almeno dei suoi amici, sentiva di non poter più rinviare ciò che doveva confessare a Daniel.

Approfittò della scusa che doveva recarsi dalla moglie, che da pochi giorni dato alla luce Michel, per separarsi da suoi compagni d'armi e salì insieme a Daniel nelle stanze di Isabeau.

Salendo le scale,  sentiva  già  la voce divertita di sua moglie e le risa cristalline di Donna, tornata a Chatel-Argent per assistere l’amica qualche settimana prima che partorisse.

Dal giorno in cui era tornato a Chatel Argent, aveva evitato il più possibile di discutere con la moglie del viaggio nel suo mondo come la ragazza vi si riferiva. Isabeau era in attesa del loro secondogenito e non voleva angosciarla per nessuna ragione al mondo con altre preoccupazioni. Così le aveva assicurato che Daniel avrebbe trovato una soluzione, sebbene era sicuro che non ve fosse alcuna.

Vedendolo comparire alla porta con la sguardo cupo, le due dame interruppero i loro spensierati discorsi sui difetti più divertenti dei rispettivi mariti.

“Ti preoccupa qualcosa Jean?“ chiese subito sua moglie ancora allegra, chiamandolo col suo nome francese con cui era conosciuto nel medioevo, “hai uno sguardo così serio, forse Etienne ti ha costretto a promettergli che avresti partecipato anche tu al torneo e sei venuto a implorarmi di non negarti questo deplorevole divertimento?”

Donna rise con la mano sulla bocca per non darlo troppo a vedere e la stessa Isabeau trattenne a stento un sorriso: avevano appena deciso che sulle questioni davvero importanti i loro sposi da quel momento avrebbero sempre dovuto chiedere il loro permesso.

Era stata Donna a convincerla, adducendo come prova che lei già pretendeva niente di meno dal suo focoso e imprudente marito, il conte cadetto Etienne de Sancerre.

 Ed era persino pronta a giurare che anche Madame Jodie si comportava allo stesso modo con Monsieur Daniel: nel mio mondo comandano le donne in famiglia!, la istigava l’americana e Isabeau tutte le volte non poteva trattenersi dal ridere.

“Fosse davvero il torneo! Ma no, non voglio farti preoccupare mai più, te l'ho giurato, no? Piuttosto dobbiamo dire a Daniel e Donna una certa cosa... “,  la fanciulla intuì il resto e annuì seria.

“Ehi, così mi spaventate voi due!“ cercò di metterla sul ridere Daniel, “se è un gioco, almeno fatemi indovinare vi prego... si tratta di un altro bambino?“

Ian e Isabeau rimasero in silenzioso diniego.

 “Allora... oh cielo!“ lo interruppe più preoccupata Donna, “Dovete confessarmi qualcosa che riguarda Etienne, cosa ha combinato stavolta, si tratta di lui, vero?”

Ian non sopportava più di tenere dentro quel peso e non trovò che poche fredde parole per raccontare a tutti quello che aveva promesso a Ponthieu.

“Porto Isabeau da noi...  è il patto che ho dovuto stringere con Guillaume in cambio del suo perdono“. Silenzio.

Donna lo guardò senza intendere, ciò che voleva farle capire Ian era ancora al di fuori dalla sua portata.

 “Non capisco, da noi… dove, esattamente?” sentì chiedere dalla voce di Daniel, mentre lo vedeva già sbiancare, intuendo il peggio.

Ian non sapeva come ripeterlo senza spaventarli a morte.

 “La devo portare nel nostro mondo, Daniel. Guillaume l'ha posto come condizione al suo perdono ed io… “  continuò pur accorgendosi del muto stupore di entrambi.

 “...Io, vorrei tanto che non esistessero più ombre o segreti tra tutti noi, sento che è stato quanto di più sbagliato al mondo vivere così e so che a causa di questo ho rischiato di perdere tutto… perfino Isabeau”, lei gli strinse con forza la mano nella sua.

 “E’ il solo modo affinché Guillaume mi possa degnare della stessa fiducia e dell’affetto di prima. Io so di doverglielo, Daniel, non guardarmi così... “Ian esitò un attimo prima di continuare, perché ciò che stava per dire lo ripugnava.

“Ma so anche che è impossibile. Che Hyperversum non lo permetterà. So allora che dovrò mentire, ingannare, raggirare chi mi ha concesso tutto questo, ordire nuovi espedienti e sotterfugi…” Isabeau lo guardò sconvolta, sorpresa lei stessa da quelle parole, scuotendo il capo in segno di diniego e incredulità.

“Amore, io non so come portarti nel mio mondo!” scoppiò infine Ian.

“Dovremmo mentire ancora?” domandò con una voce così sottile che lei stessa poteva udire a stento, “e Marc e Michel? Cosa sarà dei nostri figli?”  

“Li rapiremo, mi inventerò qualcosa! E poi fuggiremo in Inghilterra con una nave prima che Guillaume ci scopra, andremo nel feudo di Martewall. Lui ci ospiterà.”

Ian ascoltava le sue parole come se non fosse davvero lui a pronunciale, senza smettere di chiedersi quanto, del ragazzo che studiava storia all’università, fosse rimasto in lui dopo gli orrori che aveva vissuto nel Medioevo.

 “Isabeau, mio tesoro, so che non sarò più degno del titolo che mi ha concesso Guillaume, so che non sarò più nemmeno degno del tuo amore… espierò ogni secondo della mia vita il torto che sono costretto a fargli, ma ti prego, ti scongiuro, perdonami! Io non posso vivere senza di te! Non posso vivere senza di te e i nostri figli!”

Isabeau scrutò il marito ancora qualche istante in silenzio, col petto che sussultava visibilmente in ampi e affannosi respiri.

Moi non plus, je peux vivre sans toi” riuscì infine a sillabare flebilmente la ragazza, mentre si aggrappava più forte che poteva al petto di Ian. Daniel e Donna osservavano la scena attoniti, in un mutismo irreale.

Finché una voce frantumò quel silenzio.

“Voi due, sciagurati, non farete nulla di tutto questo.”

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tutti si voltarono, sorpresi, verso la voce che aveva parlato.

A Ian bastò osservare per un istante quegli occhi colmi di rimprovero, per rendersi conto di quanto le sue disperate parole di prima l’avessero deluso.

Daniel ricambiò il suo sguardo con decisione e continuò altrettanto aspramente:

“Chi credi di essere diventato Signor Conte? Credi davvero di poter recitare la parte del Falco d’argento ovunque? Credi davvero di essere l’astuto signore che orchestra stratagemmi sul campo di battaglia, a corte o in famiglia con la stessa disinvoltura? Parli di rapire quei due bambini e scappare con tua moglie come fosse la cosa più naturale del mondo…”

“Sono i miei figli, Daniel! Cosa ne puoi sapere tu? Cosa puoi saperne di cosa è giusto o non è giusto fare qui, in questo mondo? Tu non sai proprio niente!”

“Cosa ne posso sapere io? Lascia che ti spieghi una cosa allora!” si arrabbiò Daniel, “Non sono più il ragazzino che dovevi solo proteggere e difendere dalla sua ingenuità e stupidità!” Ian era stato sempre l’amico e l’esempio a cui ispirarsi e lo faceva infuriare sentirlo parlare così.

“E poi è così che vuoi continuare a vivere? Tra inganni e astuzie, tra imbrogli e segreti? Scappando e guardandoti le spalle per tutta la vita?”

Daniel attese che le sue dure parole andassero a segno, quindi riprese: “Io… Io non saprò mai ringraziarti abbastanza per quello che hai fatto per me, per Jodie e per Martin! Credi forse che nel presente non mi manchi l’amico che consideravo il mio fratello maggiore? E tu, stupido conte, se proprio vuoi saperlo… sei il migliore finto fratello maggiore che potessi mai avere…”

Ian distolse lo sguardo dall’amico, disarmato dalla sincerità delle sue parole e senza sapere cosa aggiungere.

“Cosa credi? Ho passato questi mesi a cercare di scoprire come permetterti di vivere felice con Isabeau e i tuoi figli! Pensavo che l’unico posto dove avreste potuto vivere insieme sarebbe stato da noi, nel presente… e prima di partire ho scoperto come fare.”

Ian gli ricambiò una occhiata incredula.

            “Sì, possiamo portare Isabeau con noi per permetterle di vedere il nostro mondo” gli confermò ancora l’amico.

“Dici sul serio? E come diavolo hai fatto? Credevo fosse impossibile!”

“I dettagli a dopo, per ora abbi fiducia in me, se ne hai ancora nel tuo vecchio amico…”

“Daniel… non ti sei mai arreso all’idea che restassi qui… ti ho accusato di questo come fosse una colpa in passato e adesso non so nemmeno come ringraziarti e chiederti scusa. Ma forse faccio ancora in tempo a dirti che anche tu sei l’amico migliore che un uomo possa sperare di avere al suo fianco… in qualunque epoca si trovi.”

Daniel si avvicinò per allungargli una pacca sulla spalla. “Ok, ora basta con queste smancerie” sorrise “ma sono contento che la pensiamo ancora allo stesso modo.”

Ian tuttavia restò serio. “Daniel c‘è un’altra questione che dobbiamo discutere adesso, Guillaume mi ha chiesto un’altra cosa, ancora più impossibile…”

Il ragazzo riprese fiato e raccontò a Daniel e Donna cosa aveva preteso il conte.

“Humm… qualcosa che possa provare che quel che gli hai raccontato non è una menzogna, qualcosa che possa testimoniare che il nostro mondo esiste…” considerò ad alta voce Daniel, “mi stai dicendo che dovremmo trovare nel presente un oggetto che significhi qualcosa anche per Guillaume e portarlo indietro nel XIII secolo?”

“Purtroppo è quello che lui ha preteso.”

“Bene, credo non ci sia alcun problema.” Asserì il ragazzo sogghignando con aria soddisfatta.

Tutti lo guardarono sconvolti. “Daniel non ti devo certo ricordare che tutte le volte che abbiamo viaggiato con Hyperversum, non ci ha concesso di portare nulla con noi, né i vestiti, né le armi, niente.”

“Perché ognuno di quegli oggetti non apparteneva all’epoca in cui ci spostavamo! Hyperversum, per quanto possa apparire inverosimile, non lascia mai nulla al caso. Considera scrupolosamente ogni dettaglio, dalla lingua all’abbigliamento… nella sua logica ineccepibile non consente a nessun oggetto del nostro mondo di essere trasportato nel medioevo e viceversa…” Daniel fece una breve pausa, quindi riprese con un ghigno sulle labbra.

“Ma se ben ricordo ce n’è proprio uno, a te e a Ponthieu molto caro, che appartiene ad entrambe le epoche e forse in questo caso il gioco acconsentirebbe a trasportarlo con noi… e si dà il caso che sappia anche dove si trovi. Non resta che provare.”

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


 

Chateau de Chatel-Argent , France. Ai giorni nostri.

 

Opzioni di politica del clima per le città a bassa emissione di carbonio: promesse, rischi e necessità di politiche a più livelli. Geeta Kakde decise che tra gli eventi secondari all’ordine del giorno, avrebbe scelto proprio quella conferenza.

Il meeting era alle 10:30, aveva quindi un paio d’ore per scattare tutte le foto che desiderava al castello e soprattutto per visitare il grande salone adibito a museo dei manufatti medievali, un periodo storico che fin dai tempi degli studi alla University of Cambridge l’aveva sempre affascinata, come l’Europa di quei secoli.

Volse le spalle all’ingresso del torrione, dove erano disposti i pannelli con le indicazioni relative agli eventi del giorno e si incamminò nella direzione opposta per alcuni passi. Quando si voltò nuovamente verso l’imponente torre centrale, il suo naso e la sua fedele Nikon Coolpix erano puntati all’insù.

Osservare Chatel-Argent da così vicino, con le enormi pietre spesse anche due o tre metri, di un argento ormai brunito dai secoli, faceva immaginare a Geeta un mondo misterioso fatto di battaglie e di assedi, avvenuti in quel luogo di sanguinose contese tra gli alleati di Francia e Inghilterra.

Con l’immaginazione poteva fantasticare di arcieri nascosti dietro le merlature sulla sommità delle torri, di camminamenti di ronda con feritoie e caditoie attraverso i quali soldati dall’armatura scintillante sorvegliavano i territori circostanti.

Piazzandosi diligentemente di spalle al sole, immortalò da ogni posizione le torri, adoperando lo zoom per inquadrare da vicino le antiche merlature.

Secoli fa, come Geeta si figurava, su ogni torre svettavano i vessilli del signore del castello. Adesso ondeggiavano al vento le bandiere con i colori delle Nazione Unite, le dodici stelle dorate in campo blu, in onore dell’evento mondiale sul clima che Chatel Argent ospitava in quei giorni. Lei era invitata a presiedere quel congresso annuale in qualità di sottosegretario al Ministero dell’Ambiente indiano.

Ciò che la incantava maggiormente era il mastio, o torrione, che svettava più alto di ogni cosa. Era il cuore della cittadella, la torre più solida e imponente, alta oltre sedici metri. Ospitava un tempo la grande sala del banchetto e dei ricevimenti, insieme alle stanze private del signore. La costruzione originaria, che risaliva intorno alla fine del XII secolo, era l’unica dell’intero castello ancora parzialmente intatta.

Spostò quindi il suo interesse dalla parte opposta, esaminando la cinta muraria più interna, ancora abbozzata, alla ricerca di una inquadratura suggestiva. Secoli addietro quelle mura avevano avuto il compito di proteggere il mastio insieme al nucleo abitato che comprendeva il palazzo del signore e la sua famiglia, le abitazioni dei domestici e dei soldati, la cappella, i magazzini e i servizi comuni.

Quasi tutti questi fabbricati erano stati ristrutturati nel corso dei secoli e riconvertiti di recente, cercando di salvaguardare la facciata esterna delle costruzioni, in lussuosi alloggi riservati agli ospiti del castello, oppure in ristoranti, in un parcheggio coperto e nell’immancabile spa.  

Più avanti ancora, oltre l’ampio cancello rinascimentale dove un tempo era collocato il barbacane, come se le inferriate del cancello fossero in realtà le ante di uno scrigno, si schiusero davanti a lei i maestosi giardini di Chatel-Argent.

Erano introdotti da un sontuoso viale di platani, ombreggiato e fresco, e mentre Geeta li immortalava con la Nikon, la sua fantasia li popolava di sfarzose carrozze, cavalieri in sella alle loro candide cavalcature, dame dall’abbigliamento eccentrico, scudieri, paggi e ancelle.

I giardini, suddivisi in due dall’asse del vialetto di platani, erano articolati su due temi diversi: alla sua sinistra, Geeta fotografò entusiasta il giardino labirinto composto da siepi dalle forme più inverosimili: a forma di fate, orchi, folletti, draghi e altri motivi presi a prestito della foresta incantata. Sulla destra, invece, si poteva ammirare la precisa geometria del giardino ornamentale di bossi topiati.

L'amore era il motivo dominante di quest’ultimo ambiente: sapientemente modellate nei bossi intagliati, ricorrevano le forme delle lame di pugnale che simboleggiano l'amore tragico, le corna e i rami d'albero che alludevano all'amore dissoluto e infine i cuori arrotondati che ricordavano l'amore eterno. Il funzionario del governo indiano si lasciò trasportare per molti minuti nei dedali verde cupo delle siepi di bosso, cercando di imprimere nella propria memoria e in quella digitale della Nikon, quella vista incantata.

Solo quando fu sicura di avere esaurito la prima memory card, la donna decise che era giunto il momento di esplorare gli interni. Ripercorse il vialetto alberato, oltrepassò il cancello e si diresse, scansando i cartelli con le indicazioni sulle conferenze, verso l’ampia scalinata che consentiva l’accesso al cuore del castello.

Impiegò qualche istante ad abituarsi alla tenue luce che illuminava l’ambiente, mentre una piacevole e frizzante sensazione di fresco l’intirizziva leggermente.

 Al piano si trovavano le stanze dove un tempo risiedevano i famigli, tutte dotate di grandi camini con la canna fumaria in comune, ora utilizzate invece dai domestici per vari scopi. All’interno della stanza centrale, l’unica di qualche interesse, Geeta fotografò le scale di accesso alle antiche carceri sottostanti ed un pozzo di acqua sorgiva.

Sotto il pavimento della stessa sala, così faceva sapere un apposito cartello, era situata la neviera. L’insegna spiegava che si trattava di un ambiente sotterraneo, interamente rivestito in legno, in modo da ottenere un discreto isolamento termico, dove in origine veniva immagazzinata la neve, raccolta negli inverni freddi e utilizzata per conservare le vivande e alcuni cibi al fresco. Geeta, delusa, di non vedere un accesso alla neviera, non si scoraggiò e fotografò il cartello.

Le varie sale dell’ala meridionale un tempo erano utilizzate come semplici magazzini, come l’immancabile pannello segnalava, ma adesso ciò che Geeta poteva vedere erano sale da svago e un caratteristico lounge bar, ricavato nella roccia, dalle numerose nicchie dove erano incassate finte lumiere ad olio, alimentate ora invece da faretti alogeni.

L’ultimo ambiente di quest’ala del castello era una grande cucina e tuttora ne conservava il forno. Un’ammiccante freccia illuminata invitava a scattare l’ennesima foto alla scalinata nascosta che emergeva dal buio: esisteva in questa stanza una scala segreta, che conduceva al piano superiore, quello nobiliare.

 Dalla cucina comunque si usciva nello splendido cortile interno: evidentemente conservato e vezzeggiato dalle stesse mani che provvedevano ai giardini, già intravvedeva un trionfo di colori.

Non appena fu all’aperto, i sensi furono storditi da un profumo intenso e inebriante: una varietà infinita di rose di ogni forma e colore adornava il cortile. I giardinieri avevano dipinto con le rose un angolo di Paradiso. 

Dopo che ebbe scrupolosamente passato in rassegna ogni angolo del cortile, Geeta fu costretta a controllare quanti scatti le restavano ancora sulla seconda memory card.

   Scoprì che la stanza attigua alla cucina, dove si trovava in precedenza, dava accesso alle cisterne olearie, grandi ambienti sotterranei che potevano contenere circa cinquemila quintali d’olio. Nonostante l’opportuno pannello che informava della loro capacità, Geeta ritenne di non dovere catturare un ricordo di quell’ambiente.

Ritornò invece nell’atrio da dove era possibile accedere, salendo le scale illuminate da sottili strisce di led bianchi incassate sotto ogni gradino, alla loggia, la cui copertura era impostata su una doppia fila di colonne, posta esattamente sulle cantine.

Oltre la rampa che un tempo portava agli appartamenti nobiliari, come ben sapeva, si trovavano ora alcune delle sale conferenza, attrezzate con la più moderna tecnologia informatica. Il tempo per controllare l’orologio e decise che aveva a disposizione un’altra ora abbondante.

Continuando a salire, sulla destra, dopo aver attraversato un piccolo ambiente anonimo, si aveva accesso ad una anticamera, dotata di un grande e favoloso camino. Probabilmente restaurato nei secoli successivi, finemente istoriato con una variazione sul tema della caccia, meritò diverse fotografie come del resto le splendide decorazioni sulle porte e su ciò che rimaneva degli enormi affreschi che coprivano quasi interamente le pareti.

 Attraversò il corridoio in cui si affacciavano le sei ampie stanze da letto, ora adibite a sale conferenze per gli eventi secondari.

Dopo averlo percorso tutto, Geeta s’imbatté ancora nella scala segreta che metteva in comunicazione questo piano con quello inferiore esplorato in precedenza. Ripercorse queste stanze accedendo finalmente alla Gran Sala, detta sala a capriate – così informava un pannello –  per il particolare tipo di copertura con travi lignee lasciate a vista.

Le pareti della Gran Sala erano interamente attraversate e decorate con stucchi raffiguranti stemmi araldici probabilmente restaurati, visto lo stato impeccabile con cui si presentavano all’obbiettivo della Nikon di Geeta.

Ogni angolo tradiva la magnificenza del suo passato e attraverso i ritratti e gli affreschi era possibile ricostruire, attraverso i secoli, la storia del castello.

Questo salone, un tempo adibito a sontuosi ricevimenti e grandi riunioni che avevano deciso le sorti di popoli e regioni, ospitava adesso il main event della conferenza.

I consigli di amministrazione di alcune società europee avevano discusso i bilanci di fine anno in questa sala, celebrando tra fiumi di champagne, i risultati proiettati sull’immenso monitor con pannelli OLED di ultima generazione. All’occorrenza, per fortunate coppie dalle ingenti disponibilità economiche, poteva trasformarsi nella sala cinematografica privata più esclusiva. Gli sposini, che avevano scelto il castello come meta del loro viaggio di nozze, avrebbero rivisto le immagini e i video del loro matrimonio su quello stesso schermo, godendo della cornice probabilmente più suggestiva al mondo.

Quello che Geeta non poteva immaginare, era che in quella stessa stanza, su quello stesso schermo, un giorno sarebbe stato rivelato il più sconvolgente, forse il più importante, segreto dell’intera storia dell’uomo.

In ogni caso il funzionario indiano conosceva il salone già a memoria, dopo aver trascorso dentro sei ore in video conference il giorno prima, decise infine di oltrepassarlo e si trovò davanti un altro splendido e immenso stanzone, probabilmente ciò che era anticamente un soggiorno. Adesso era l’elegante ristorante principale.

Non era ancora riuscita a trovare la stanza di maggior interesse per lei e per la sua macchina digitale: il museo medievale.

 Raccolse quindi dalla borsa la brochure del United Nations Framework Convention on Climate Change. Una vivace piantina del castello evidenziava come raggiungere le camere da letto degli ospiti e la spa, le sette sale conferenza che aveva appena oltrepassato, i quattro ristoranti a tema, i due lounge bar…

“Eccolo finalmente!” l’ingresso del museo si trovava proprio lì, oltre quella scalinata alla sua destra.  Il suo abituale sorriso radioso si stemperò poco dopo in una smorfia di disappunto, quando sull’opuscolo lesse che ”in quest’area è severamente vietato fotografare i manufatti esposti”. Aveva acquistato all’aeroporto una memory card aggiuntiva, credendo di riempirla solo con le foto del celebre museo!

Bertrand LeClercq notò subito la donna in tailleur pantalone beige, dalla carnagione scura e dai bellissimi occhi neri, incerta sulla soglia dell’ingresso del salone. Credette fosse l’occasione giusta per sfoderare il suo fascino.

Bonjour Madame” esordì emergendo dall’ombra e accennando un lieve inchino di cortesia, nella convinzione che avrebbe impressionato favorevolmente le donne che approcciava a quel modo. “Vi prego, lasciate che mi presenti: sono il Curatore del Museé National du Moyen Âge di Cluny”, dichiarò offrendole un ricercato biglietto da visita, “se tutto ciò che vi interessa è racchiuso in questo oscuro salone, ma avete il legittimo timore ad entrarvi da sola, permettetevi di accompagnarvi nella visita e di annoiarvi con qualche erudito commento”, le sorrise porgendole il braccio.

Geeta, a metà tra la sorpresa e lo sconcerto, osservò l’uomo che sembrava apparso dal nulla: aveva un viso magro e affilato e i capelli neri lucidi erano raccolti all’indietro in una corta coda di cavallo. Era vestito con gusto straordinario: Geeta avrebbe scommesso che l’abito, su misura, era di una delle migliori sartorie italiane e le impeccabili calzature, invece, inglesi.

Dopo essersi presentata accettò l’invito e il braccio dell’uomo e insieme entrarono nello stanzone. L’ambiente era quasi in penombra, la moltitudine di faretti illuminava soltanto gli oggetti esposti dietro le vetrate. Geeta rabbrividì sia per il fresco che per il senso di inquietudine che quel luogo trasmetteva. Si soffermò sulle armature, esposte subito ai lati dell’ingresso: proprio sulla destra dietro una vetrina erano in bella mostra una cotta di maglia e la sua successiva evoluzione, l’usbergo.

L’osservò con curiosità, confrontando ciò che si era sempre figurata leggendo romanzi sull’amor cortese, con la realtà: sembrava davvero una lunga cappa fatta da anelli di ferro intrecciati a maglia. Non doveva essere agevole indossarne una, soprattutto doveva essere veramente pesante.

“I cavalieri lo indossavano sopra una tunica imbottita e proteggeva efficacemente dai colpi fendenti di un’arma da taglio, non altrettanto dai colpi di punta” spiegò LeClercq “e questo qui sopra”, aggiunse indicando un flessibile copricapo dalla vaga somiglianza a un cappuccio composto di maglia di ferro, “è invece il camaglio. Costruito con la stessa tecnica dell’usbergo, proteggeva il capo e la gola dei cavalieri durante le battaglie”.

Poco più avanti, dietro il vetro, i faretti illuminavano una scintillante armatura a piastre, mantenuta in perfetto stato.

“Che splendore, non sembra affatto costruita così tanti secoli fa!” esclamò Geeta entusiasta.

“Sei secoli per la precisione, Madame” confermò l’uomo.

Geeta esaminava ammirata i particolari della corazza. Era montata sopra un manichino, coperto quasi interamente da piastre di metallo lucente, tranne le giunture dei gomiti e dei ginocchi, dove era visibile la foderatura in raso bordeaux che rivestiva il modello di plastica. Incuteva timore anche così.

La corazza ricurva che proteggeva il petto era decorata in rilievo con un disegno che ricordava i contorni di un falco con le ali spiegate.

Anche l’elmo calato sul volto riprendeva la stessa effige. Ai fianchi una spessa cintura cingeva l’armatura e reggeva, sulla destra, un pesante spadone con la guardia, l’elsa e il pomolo preziosamente istoriate. Sotto al bordo della corazza, una cotta di maglia arrivava fin dove iniziavano le piastre che avvolgevano le gambe, decorate anch’esse sopra e sotto il ginocchio da alcuni rilievi che raffiguravano le ali aperte stilizzate di un falco. Gli stivali d’acciaio terminavano con un puntone che a Geeta rammentò sorridendo le scarpe décolleté a punta, dai tacchi vertiginosi, che le donne europee sfoggiavano con disinvoltura la sera. Era indecisa su quale calzatura tra le due dovesse infine essere la più scomoda.

Il suo accompagnatore intanto stava osservando: “come avrete notato, alle maglie di metallo del basso medioevo, furono gradualmente aggiunte piastre o dischi nel tentativo di proteggere le parti del corpo più esposte e vulnerabili… La cosa vedo che vi fa sorridere, Madame.”

Geeta sorpresa nelle sue considerazioni a occhi aperti, non poté non sorridere ancora, come del resto ogni volta che quel gentiluomo la chiamava signora in francese.

LeClercq scambiò la sua espressione con l’invito lusingato ad andare avanti nelle sue dotte spiegazioni. “Fu già nel XIII secolo che le ginocchia furono coperte con acciaio e due dischi circolari furono applicati alle giunture delle braccia per fornire protezione in assetto da guerra. Il camaglio a protezione del capo si evolse in un grosso elmo: la parte posteriore fu infatti allungata per coprire il retro del collo e i lati della testa. Ulteriori piastre di acciaio furono poi sviluppate per proteggere stinchi, piedi, gola e il torace. Intorno al 1400 molte parti della maglia furono coperte da queste piastre protettive. E’ tutto così affascinante, non trovate?

“Oh sì, il 1400… i tornei, l’amor cortese, i cavalieri… E voi siete un connaisseur straordinario e appassionato, sbaglio forse?”

“Per me, la storia è più di una passione accademica, Madame. E’ la mia vita, la mia sposa, la mia amante…”

Un fanatico di storia medievale, tradusse mentalmente Geeta.

 “Ebbene, oggi dev’essere il vostro giorno fortunato!” affermava intanto l’uomo con enfasi. “Qualche mese fa il museo di cui sono il curatore ha concesso a Chatel-Argent per il periodo di un anno, l’onore di ospitare uno dei manufatti medievali più preziosi mai rinvenuto: il manoscritto miniato originale su cui è incisa la storia del casato di questo castello, dal basso medioevo fino al XVIII secolo. Solo una persona al mondo avrebbe potuto mostrarvelo e perdonatemi l’orgoglio, Madame, quella persona è proprio qui dinanzi a voi!” 

Sempre sottobraccio, la trascinò letteralmente verso la vetrina principale.

LeClercq si schiarì la voce: “Eccolo” esclamò con ostentata fierezza mentre disinseriva l’allarme collegato alle forze di pubblica sicurezza, digitando un codice sul tastierino numerico che sembrava apparso dal nulla. Geeta, intuì la straordinaria importanza storica di quel manufatto, probabilmente unico nel suo genere, ma più di questo era affascinata dalle storie che doveva contenere: le vite, le gesta eroiche, le guerre, gli amori di quei nobili che avevano vissuto da protagonisti quell’epoca così seducente. 

Sempre apparentemente dal nulla, l’uomo porse alla ragazza un paio di guanti di lattice, “Se volete toccarlo usate questi”. Senza sollevarlo dal piedistallo dov’era collocato, l’uomo stava decantando le qualità dell’antico codice miniato: “le pagine sono di una pergamena particolare, pelle di vitellino da latte, calcinata, depilata ed essiccata sotto tensione, una chicca anche per l’epoca” ammiccò LeClercq.

“Posso aprirlo? Vi prego, solo una pagina, a caso… sono così curiosa di sapere quali vite, quali battaglie, quali amori potrà rivelare la pagina che sceglierò!” lo supplicò Geeta, “voi la tradurrete per me, non è vero? Non metto in dubbio che un uomo della vostra cultura sappia leggere il latino non meno agevolmente della propria lingua madre…” cinguettò lei. 

“E va bene, Madame, chi sono io per dir di no alla curiosità di una donna del vostro fascino?”

 Subito dopo, indossando i sottili guanti di lattice, Geeta aprì il gigantesco manoscritto, scegliendo una pagina a caso. Vi scorse splendide e preziose miniature dipinte a mano da mani infinitamente abili e pazienti. Alcune raffiguravano i volti giovanissimi di un uomo e di una donna.

Geeta esibì uno dei suoi sorrisi più accattivanti, mettendo in risalto i denti bianchissimi e nello stesso istante in cui si ravviò i lunghi e setosi capelli neri, chiese implorante:

“Che ne dite di una foto? Un’unica foto che mi ricordi di voi… magari a fianco di questo codice antico?”

Madame, ciò che mi chiedete è proibito...”

“Proibito, dite? Esclamò con finto stupore. “Oh, ma che volete farci, questo non fa che accrescere il desiderio di questa foto!” civettò la ragazza.

Quando LeClercq si atteggiò in posa per farsi immortalare accanto al manoscritto, Geeta puntò l’obiettivo nella sua direzione, preoccupandosi però di zoomare sul libro finché sul display la figura dell’uomo non scomparve del tutto, lasciando la scena alle sole pagine aperte del codice. Solo allora scattò due foto in rapida successione.

“Sono presentabile?” volle subito sapere lui, mentre Geeta controllava il risultato sul display digitale.

“Certamente, ma… cosa fate ancora lì impalato!? Leggetemi cosa c’è scritto! Vi prego, muoio dalla voglia di saperlo!”

LeClercq si accigliò un poco e iniziò a tradurre la prima delle due pagine aperte.

“In queste righe narreremo per sommi capi la vita e le indimenticate gesta di Thierry conte di Ponthieu, figlio di Francois e Caroline, ai tempi della grande guerra che durò….”

“Oh cielo!” sospirò all’improvviso Geeta guardando l’orologio, “sono quasi le dieci e trenta, devo scappare! Farò tardi alla mia conferenza!”

           

 

 

***

 

 

 

Ty era ancora una volta in ritardo mentre salutava alla reception la biondina assorta nella lettura di Vanity Fair e si infilava direttamente negli spogliatoi, mentre ancora in corsa si era levato il giubbino e stava già facendo scivolare la felpa da sopra le spalle.

Frequentava quella palestra da quasi sei mesi, all’inizio per pura curiosità, poi questa si era trasformata in una vera passione. Gettò sulla panca il borsone blu dove campeggiava in bianco la scritta Ottawa Medieval Fightclub. Sotto, più in piccolo la spiegazione di quel nome altisonante: Sword Training & Medieval Sword Techniques.

Se un corso di Orienteering l’aveva salvato nel bosco vicino a Morges, dalla trappola ordita dal barone di Gant, non era sicuro a cosa sarebbe mai servito un corso di scherma e di tecniche di spada medievale, ma tanto bastava per ricordagli i brividi dell’ultima incredibile avventura nel XIII secolo.

Il Maestro d’arme, attendeva il suo miglior allievo da solo nell’ampio salone riservato all’addestramento, con lo sguardo cupo: “Thierry, la puntualità non è davvero il tuo forte!” lo rimproverò con le consuete parole, “se tu fossi stato al servizio di un vero cavaliere, avresti imparato a suon di frustate cosa significa rispettare gli orari!”

Se solo il maestro sapesse la verità! Sogghignò mentalmente Ty, se solo il maestro sapesse che lui aveva visto un vero cavaliere, e che cavaliere! Lui conosceva il Falco d’Argento. Lui, discendeva in qualche modo direttamente da lui.

Aveva già indossato le protezioni obbligatorie per ogni allenamento di scherma del suo livello. In sei mesi, frequentando assiduamente la palestra e esibendo un naturale talento per la scherma aveva appreso oltre quaranta tecniche di fendenti diversi dei cinquantadue conosciuti e tutte le tecniche di guardia.

Si avvicinò alla rastrelliera di legno per scegliere l’arma. Una di fianco all’altra facevano bella mostra di sé le riproduzioni perfette delle spade utilizzate dal basso all’alto medioevo. Dopo averle provate tutte, Ty aveva scelto di affinare maggiormente la scherma con la spada lunga o a una mano e mezza, detta bastarda, la spada maggiormente in uso nel medio-alto medioevo.

La sfilò dalla sua sede e soppesò il ferro: l’impugnatura allungata permetteva la presa piena di una mano costantemente sull'elsa e quella parziale della seconda mano per stabilizzare, indirizzare e controllare il ferro.

L’elsa terminava con un pomolo finemente istoriato di forma trapezoidale, che in certi frangenti poteva essere usato anch’esso, come il maestro gli aveva spiegato, come arma di offesa.

La guardia della spada, che aveva il compito di offrire una qualche protezione alle mani che stringevano l’elsa dai colpi che potevano scivolare sulla lama, era una sezione di metallo orizzontale e formava una croce con la spada, delimitando l’impugnatura dalla lama.

La lama, come Ty aveva imparato nelle prime lezioni, era a doppio filo ed era divisa in tre sezioni, dalla punta all’elsa: il debole, il medio e il forte. Il debole era l’unico segmento che poteva provocare danni letali all’avversario e doveva avere sia  il filo diritto che il filo rovescio sempre affilatissimi, anche se durante le sue lezioni il doppio filo era stato accuratamente smussato. Il compito del medio consisteva nelle prese di ferro, ovvero il complesso di tecniche atte a imprigionare l’arma nemica e ridurre l’avversario all’impotenza, oltre ad essere di vitale importanza nelle tecniche di gioco stretto. Il forte, il segmento più largo a contatto con la guardia, era usato invece per parare i colpi vibrati dal nemico.

Fece per avvicinarsi al maestro, valutando la posta iniziale da assumere nel duello, quando – imprecando tra sé – si rese conto che aveva scordato ancora una volta di stabilire la misura.

Come il maestro gli aveva ripetuto decine di volte, prima di dare inizio allo scontro, era fondamentale misurare la distanza dall’avversario: tecnica e misura erano variabili strettamente dipendenti e inscindibili.  

Avrebbe adoperato le tecniche di misura del gioco largo per gli scontri sulla media distanza, oppure tecniche di misura a gioco stretto per il corpo a corpo. Chiese dunque diligentemente al maestro quale tipo di allenamento avrebbero approfondito oggi.

Sapeva che doveva migliorare nelle tecniche portate a distanza ravvicinata e infatti il maestro acconsentì all’addestramento a gioco stretto.

Scelse la posizione di guardia che preferiva, la posta iniziale più sfacciata e provocatoria. Ben piantato sulle gambe appena divaricate, portò la mano sinistra aperta sul petto e alzò il braccio destro che stringeva l’arma fin sopra il capo, col gomito piegato ad angolo retto, in modo che la lama si trovasse quasi orizzontale sopra la sua testa, con la punta rivolta contro l’avversario esattamente come l’aculeo letale di uno scorpione.

Il Maestro, con un ghigno feroce e soddisfatto, replicò la stessa postura del giovane allievo, e poco dopo, urlando selvaggiamente, entrambi si lanciarono all’attacco, in un cozzare di metallo contro metallo.

 

 

 

***

 

 

Ian era incredulo e sconcertato. Donna guardava ora l’uno ora l’altro mentre parlavano e bisticciavano, comprendendo la metà di tutto e quindi senza riuscire a capire realmente nulla. Isabeau, non osava ancora intervenire in quella discussione dove tutti parlavano di lei come se non fosse nemmeno presente, ma il cipiglio cupo della sua espressione faceva ben intendere il suo stato d’animo.

“Ti dico che non c’è nessun pericolo a fare la prova con Isabeau! Proviamo almeno, cosa ti costa?”

“Dannazione è di mia moglie che stiamo parlando, Daniel! E se la tua geniale intuizione…”, Ian sottolineò le ultime parole disegnando con due dita di ogni mano un paio virgolette sospese nell’aria, “si rivelasse invece completamente sbagliata?”

“Se mi sono immaginato un film che non esiste, non succederà nulla! Ma finché non facciamo un tentativo, come accidenti posso saperlo?”

“Di grazia, chi mi spiega almeno cos’è un film, Messieurs?” alzò la voce Isabeau all’improvviso, “Ho capito che devo fare qualcosa se vogliamo essere certi che l’idea di Monsieur Daniel funzioni… Bien, sebbene nessuno di voi abbia avuto la cortesia di chiedermelo, la mia risposta è , io accetto”, annunciò risoluta la ragazza.

Ian e Daniel la guardarono stupiti e incerti per qualche secondo. Poi entrambi ripresero a parlare, sovrapponendo esattamente come prima le loro voci, ognuno fermo nelle proprie posizioni.

“CELA SUFFIT!” scoppiò alla fine Isabeau. “Ho detto che farò la prova, adesso!”

Tutti cessarono di parlare e Ian la guardò sconcertato, mentre Daniel e soprattutto Donna cercavano di trattenersi dal ridacchiare. Non aveva mai visto la sua angelica moglie prendere posizione in quel modo in una discussione.

“Oh sì, non guardarmi così, Jean!” chiarì subito la giovane “Madame Donna mi ha spiegato molto bene come devono comportarsi le donne nel vostro mondo per farsi rispettare, quindi non fare quella faccia stupita, adesso!”.

Ian la esaminò ancora più sconvolto da quella rivelazione. “Cosa credi, da quando tu e Guillaume avete deciso che dovrò andare nel tuo mondo… mi sto allenando in segreto nelle vostre abitudini!” Dopo qualche istante di teatrale silenzio, Isabeau si sciolse in una risata argentina e contagiosa.

“Ad ogni modo è inutile stare qui a parlarne all’infinito”, proseguì infine facendosi seria, “se una prova dev’essere fatta, ebbene, facciamola! N’est pas, Messieurs?”

Ian alla fine si vide sconfitto e a malincuore dovette accettare di fare il tentativo di cui parlava Daniel. Ma Isabeau non aveva finito di stupirlo quel giorno poiché aggiunse con genuina naturalezza:

“E adesso, Monsieur Daniel, ditemi finalmente cos’è un film”. Mentre scandiva l’ultima parola, sollevò le braccia e muovendo rapidamente due dita di ogni mano, disegnò nell’aria un paio di virgolette. Tutti scoppiarono in una nuova risata che stemperò definitivamente la tensione per i pericoli che dovevano ancora affrontare.

 

 

 

***

 

 

 

Daniel spiegò agli altri ragazzi l’ultimo fondamentale dettaglio del suo piano: prima di raggiungere Ian aveva controllato che nello stesso giorno, al castello di Chatel Argent nel presente, era in corso la Conferenza Mondiale delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici.

 Dalle parole che Isabeau avrebbe udito di là, non appena le avessero fatto sfiorare la mela rossa del menù del gioco lasciandola in sospeso tra il presente e il passato, avrebbero avuto la conferma sulla destinazione della ragazza quando avrebbero chiuso la partita nel XIII secolo.

Li informò anche della parziale ristrutturazione del castello e che adesso le camere da letto nobiliari del torrione erano state convertite in altrettante sale conferenza. “Stanze per riunioni”, chiarì frettolosamente a Isabeau che lo guardava con un’espressione interrogativa.

Secondo Daniel, Isabeau sarebbe apparsa nel presente esattamente nello stesso luogo da cui fosse partita, pertanto dovevano trovare un posto dove nessuno avrebbe potuto vederla apparire dal nulla.

“La scalinata segreta del torrione” affermarono contemporaneamente Ian e la ragazza, “lì Isabeau potrà ascoltare la vicina sala conferenza senza essere vista” aggiunse Ian.

La giovane francese non perse tempo, uscì dalla stanza da letto e raggiunse in fondo al corridoio la scala segreta che metteva in comunicazione il loro piano con quello inferiore.

Ici nous sommes, enfin…” sospirò con un filo di voce. “Adesso mostratemi cosa devo fare…”

“Help!” al comando vocale di Daniel apparve istantaneamente la mela rossa fosforescente, l’icona di Hyperversum, che fluttuava pigramente a mezz’aria in attesa di ulteriori comandi.

Isabeau e persino Donna, come per un riflesso condizionato, indietreggiarono di un passo non appena l’icona luminosa prese forma dal nulla.

Isabeau l’aveva vista un paio di volte, sempre in occasioni tragiche ed era ancora terrorizzata da quel prodigio per lei inspiegabile.

Ian si avvicinò alla ragazza e le prese la mano, serrandola nella sua, nel tentativo di infonderle coraggio.

Daniel stava già pronunciando le parole per poter attivare l’utenza della ragazza. All’improvviso, sotto l’icona della mela, apparve il rettangolo luminoso con le scritte:

 

 

CONTROLLO PARTITA

Nome utente: daniel.freeland

Codice utente: _

 

 

La linea orizzontale del cursore lampeggiava proprio al termine dell’ultima riga. Daniel confermò la password e all’interno dello stesso rettangolo luminescente, il gioco mostrò le utenze che era possibile attivare in quel momento: Ian, Donna e Isabeau.

Lo stesso Ian osservava sconcertato, chiedendosi come fosse possibile quel prodigio.

Daniel cercò con una rapida occhiata l’amico e il ragazzo annuì, era tempo di fare il tentativo. Ian posò quindi lo sguardo su Isabeau. Lei lo stava fissando con occhi grandi e acquosi.

Non era mai stata più bella di allora.

Come in ogni altro momento in cui avesse temuto di perderla.

“Ti fidi di me?” le chiese semplicemente.

“Mi fido di te”.

Lei chiuse gli occhi. “Fa’ ciò che devi”.

Ian la condusse per mano davanti alla mela fosforescente. Cercò con lo sguardo ancora una volta Daniel per ottenere l’ultimo cenno di approvazione. Quindi prese delicatamente il polso della ragazza e lo avvicinò all’icona. Ancora pochi centimetri e il pugno chiuso della ragazza avrebbe toccato l’icona luminosa del gioco. Col cuore che batteva all’impazzata, mentre Isabeau teneva ancora gli occhi risolutamente chiusi, mosse il braccio quel tanto che bastava per farle sfiorare l’immagine della mela sospesa.

In quello stesso istante, Isabeau strizzò le palpebre chiuse che si contrassero come in un sogno agitato. Attraverso le dita che la stringevano, Ian sentì il braccio di lei vibrare: per un secondo tutto il suo corpo parve scosso da una scarica, poi tutto tornò normale e silenzioso.

“Amore?”

“Isabeau?” chiamò Daniel.

“Isabeau?” la cercò Donna.

Ian strinse più forte il polso della ragazza. “Stai bene? per l’amor di Dio, parlami! Dì qualcosa!”

Le palpebre tremolarono ancora sugli occhi chiusi e poi anche la sua bocca sembrò sussultare, come se volesse parlare.

“Si… sono lì” mormorò finalmente, incespicando sulle parole.

“Grazie al cielo non ti è successo niente, Signore ti ringrazio!” esclamò Ian appena rassicurato, “vedi qualcosa, senti qualcosa?”

“Posso udire le voci…” bisbigliò appena più sicura di prima, “mi sento strana, come se i miei sensi fossero sdoppiati… Jean, tienimi ti prego!” aggiunse poi con una nota della voce più acuta e angosciata.

“Cosa… non ti ho lasciata un attimo, ti sto ancora tenendo la mano, amore!”

“Non può sentire il contatto con te, calmati Ian.. è di là adesso” spiegò Daniel.

“Parlano in inglese…. Non conosco tutte le parole, alcune non hanno… senso… ma, un momento, che strano… eppure mi sembra di ricordarle, le capisco….”

“Hyperversum non si fa mancare niente, nemmeno l’aggiornamento del vocabolario, ricordi Ian?”

“Riesci a capire se sei veramente a Chatel Argent?”

“La scalinata sembra la stessa… credo proprio di non essermi mossa da qui…. Soltanto le voci sono diverse”

“Isabeau mi senti? Concentrati solo sulle parole che senti di là, riesci a ripeterle?” volle sapere Donna, “non importa se per te hanno un senso oppure no.”

“Ci provo… c’è una voce femminile adesso… sta dicendo che qualcosa che lei rappresenta e che chiama india, non appoggerà incondizionatamente le politiche sul cambiamento climatico a meno che anche… la cina… non farà lo stesso…”

“Mio Dio! Mio Dio! Ce l’abbiamo fatta, Daniel!”

“Ce l’abbiamo fatta” confermò il ragazzo.

 

 

***

 

 

In quello stesso istante, ma circa otto secoli più avanti, Geeta Kakde aveva appena finito di ripetere al segretario delle Nazioni Unite che moderava la conferenza, quelle stesse esatte parole.

 

 

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Capitolo 5
*** Capitoli 5-13: riassunto ***


Tra un capitolo e un altro, riassumerò per maggiore chiarezza espositiva le parti della trama non ancora sviluppate o completate.

Capitoli 5-13

Nel pieno svolgimento delle guerre tra Francia e Inghilterra, Jeanne compie 13 anni ed è una ragazzina molto sveglia, gentile con tutti e caritatevole: nonostante la giovane età, visita e conforta i malati e non era insolito che offrisse il proprio giaciglio ai senzatetto per dormire lei stessa per terra, sotto la copertura del camino. La sua vita si snodava nelle forme usuali delle ragazze di campagna di quel tempo: i lavori casalinghi, filare e cucire, si alternavano a quelli più impegnativi, come sorvegliare il gregge e custodire la mandria comunale. Nello stesso periodo stringe amicizia con Juliette, figlia di vicini pastori, di due anni più grande di lei.

Ian e l’amico decidono di separarsi per un breve tempo, per dar modo a Daniel di tornare nel presente e di pianificare insieme a Jodie tutto il necessario per il loro piano: avrebbero lanciato il gioco dal castello stesso, in modo che dopo il viaggio di ritorno si sarebbero ritrovati, insieme a Isabeau, nello stesso luogo: Chatel Argent, ai giorni nostri. Daniel quando ritorna a casa trova anche Ty: ora che sa ogni cosa sul Falco d’Argento, sentendosi in colpa per quello che era successo dopo che il conte l’aveva visto sparire sotto i suoi occhi, si sente obbligato anche lui a fare di tutto per discolpare Ian. Convince Daniel a portarlo con loro quando torneranno nel XIII secolo. Si terranno aggiornati via email e si daranno appuntamento per quando tornare nel medioevo, quindi fa ritorno in Canada. Nel frattempo, Ty fa equitazione, frequenta un corso di tecniche di spada medievale, qualsiasi cosa che gli ricordi la straordinaria avventura nel XIII secolo. Si spinge persino a farsi cancellare il tatuaggio dei Guns sull’avambraccio sinistro. Occorrono molte sedute e parecchi soldi per la rimozione al laser: quando arriverà infine giorno concordato con Daniel per ritrovarsi a Chatel Argent nel XIII secolo al posto del tatuaggio resterà ancora una macchia arrossata.

Daniel invece, perfezionati tutti i preparativi e affidata la piccola Alex ai nonni per la breve “vacanza in Francia”, ritorna nel passato e questa volta può portare indietro con sé Ian e Isabeau, nel XXI secolo. Il loro compito sarà quello di soddisfare le condizioni poste da Guillaume. Gli amici sanno adesso cosa occorre fare: dovranno riportare nel medioevo il manoscritto miniato originale con tutta la storia del casato di Ian, l’oggetto che chiarirà al di là di ogni dubbio a Guillaume che ciò che Ian sostiene è la verità: Daniel è convinto che Hyperversum non consente di portare con sé gli oggetti appartenenti ad una epoca diversa, come i vestiti e le armi ad esempio. Ma quell’oggetto appartiene al XIII secolo. Lo shock per Isabeau di ritrovarsi in una epoca diversa è parzialmente attutito dal fatto di conoscere perfettamente il luogo dove si trova: Chatel Argent è cambiato molto nei secoli, ma il cuore del castello è ancora in qualche modo riconoscibile. Insieme scoprono quel luogo stanza dopo stanza, ripercorrendo i ricordi più belli del passato, tra la meraviglia di Isabeau quando si imbattono nella tecnologia moderna, finché arrivano al salone dedicato al museo dei manufatti medievali. Concesso dal Musée National du Moyen Âge di Cluny, il codice originale è proprio lì, inespugnabile, protetto da un allarme collegato alla Gendarmerie Nationale. Ma Jodie ha in mano la copia del codice pressoché perfetta appartenuta a Ian e lo stesso amico è uno dei più autorevoli professori universitari americani, famoso per le sue ricerche sui codici medievali. Ottenere il permesso di poter toccare con mano e di studiare il vero codice è tutt’uno con l’idea di sostituirlo temporaneamente con l’altro manufatto in loro possesso, almeno fintanto che Ian e Isabeau non fossero tornati dal XIII secolo.

Era da poco iniziato l'anno 1429 quando gli inglesi erano ormai prossimi ad occupare completamente Orléans, cinta d'assedio sin dall'ottobre del 1428, la città, sul lato settentrionale della Loira, aveva, per la posizione geografica ed il ruolo economico, un valore strategico nel decidere le sorti della contesa tra Francia e Inghilterra. In quegli anni infatti la Francia si trova nel pieno della Guerra dei Cent'anni ed è spezzata in due: il nord con Parigi è occupato dagli Inglesi e dai Borgognoni ed a sud è sotto il controllo del re Carlo VI e dai suoi sostenitori, gli Armagnacchi.

Dopo che erano morti entrambi i legittimi contendenti alla corona, Enrico V di Inghilterra e Carlo VI di Francia, gli inglesi avevano approfittato della guerra civile fra i Borgognoni ed Armagnacchi per proclamare Enrico VI, allora ancora bambino, re di Inghilterra e di Francia. Il figlio di Carlo VI, il legittimo erede al trono francese, Carlo VII, si rifiuta di abdicare ma non può farsi incoronare re secondo il rito ufficiale, poiché per tradizione il rito si deve tenere nella Cattedrale di Reims, allora sotto il dominio inglese.

Lord Glasdale, non ancora comandante inglese dell’assedio, era noto per la vigliacca abitudine di abusare delle donne più giovani che catturava, condannandole poi al rogo per coprire sotto le false accuse di eresia, il suo vile comportamento, che nemmeno la Chiesa avrebbe tollerato.

Un giorno, al suo ritorno dai giochi nei campi insieme all’inseparabile Juliette, Jeanne scopre con orrore che gli inglesi hanno invaso il suo villaggio. Il sole tramontava su edifici ridotti in macerie fumanti e su corpi mutilati che giacevano qui e là lungo le strade, esattamente nella posizione in cui erano caduti e che venivano già spogliati dagli empi spigolatori che seguivano agli assassini. Le due ragazze si precipitano a casa di Jeanne: non appena Juliette si accorge che non sono soli, con fare protettivo, nasconde Jeanne in un armadio a muro che protegge con il suo corpo. Due soldati inglesi si affacciano subito dopo nella stanza e Juliette li affronta cercando di soffocare le lacrime e con in mano un coltello. Jeanne è la testimone inorridita, impotente e traumatizzata del massacro dell’amica che adora, uccisa da un colpo di spada e violentata contro la porta dell’armadio dove lei si nasconde, da un soldato inglese ubriaco e brutale. Un volto in particolare non potrà mai più dimenticare: quello di William Glasdale, che comandava le scorribande degli inglesi. In seguito a questo tragico evento, Jeanne viene mandata a vivere dagli zii in un villaggio vicino a Vaucouleurs, nella valle della Mosa. Jeanne inizia a sviluppare più o meno inconsciamente il desiderio di vedere vendicata la morte dell’amata Juliette e di veder cacciati via per sempre tutti gli inglesi.

La guerra tra francesi e anglo-borgognoni sfiora intanto i territori appartenenti ai vassalli di Francois de Ponthieu, conte di Ponthieu nel 1429. Le truppe messe a disposizione dal feudatario, col Falco d’Argento orgogliosamente sul petto in memoria del loro leggendario avo, sono ingaggiate in battaglia dagli inglesi nei pressi di Verdun. Il conte, deciso a punire la rinomata malvagità del capitano inglese, Lord Glasdale, lo va a cercare personalmente sul campo. Veterano di tante battaglie, si difende abilmente nel duello con l’inglese, ma nel momento stesso in cui riesce a disarmare Lord Glasdale, sente la voce del giovane figlio che cerca aiuto, circondato da due borgognoni e sanguinante da un fianco. Il conte decide di risparmiare la vita all’inglese e si precipita in soccorso del figlio, si sbarazza del primo nemico e mentre si accinge a dare il colpo di grazia al secondo, viene trafitto alle spalle da Glasdale, che schiumante di rabbia per essere stato disarmato, lo colpisce a tradimento. Thierry de Ponthieu, accasciato al suolo e ferito, può solo vedere il valoroso padre morire e chiedere pietà al suo nemico. Glasdale non mostra tuttavia alcuna compassione, trafigge l’unico erede maschio del casato di Ponthieu e ordina di gettare il suo cadavere nella Mosa, dove nessuno potrà piangerlo o dargli sepoltura.

Jeanne, vinta anche la resistenza del genitori, prende la decisione che avrebbe consacrato la propria vita ad una missione. Non avrebbe più permesso che tragedie come quella di Juliette accadessero di nuovo, gli inglesi dovevano essere tutti cacciati via. Ma per prima cosa occorreva incontrare il comandante della piazzaforte più vicina: avrebbe parlato ad ogni costo con il capitano Robert de Baudricourt proprio lì, a Vaucouleurs.

Finalmente, gli amici americani con Isabeau da Chatel-Argent (e Ty da casa sua in Canada) sono pronti a ritornare nel XIII secolo, con in mano il codice miniato originale, la prova che Ponthieu cercava. Daniel ricarica l’ultima partita salvata, lancia il gioco e…. scoprono con sgomento che qualcosa è andato storto. Un effetto imprevedibile del mod istallato?

Ora, nei pressi di Montmayeur, ma circa due secoli più avanti come presto si renderanno conto, quei feudi confinanti con la Fiandra sono contesi da inglesi e francesi e saranno teatro proprio dello scontro finale della guerra dei cent'anni.

E il solito, beffardo, Hyperversum non risponde più ai comandi.

Nel presente, infatti, a premurarsi di far visita a Ian, arriva personalmente il Curatore del Musée National du Moyen Âge di Cluny, Bertrand LeClercq, vecchio conoscente durante gli anni degli studi di Ian in Francia e suo rivale per fama accademica, desideroso di rivedere il giovane americano di cui non aveva mai compreso le ragioni dell’improvviso successo che aveva tratto proprio nella decifrazione dei codici medievali. Jodie comprende subito che non può certo ingannare il Curatore con la copia in suo possesso, e non sapendo cosa inventare, accampa la scusa che Ian ha portato il codice con sé per studiarlo, ma non sa dove si trova. Mosso da un sentimento di invidia nei confronti di Ian, il Curatore non perde tempo per mettergli il bastone tra le ruote: chiama la Gendarmerie per far luce su quel lui definisce un vero furto e un atto di sottrazione di un importante reperto storico da parte degli americani. Con disperazione di Jodie, i computer e tutto il loro materiale vengono posti sotto sequestro, confiscati e messi a disposizione delle indagini. La stessa Jodie viene tratta in arresto per accertamenti. 

Il padre di Daniel, il colonnello John Freeland, è promosso di grado e avanzato a Brigadier General. Contestualmente, sulla base del Intelligence Reform and Terrorism Prevention Act, viene trasferito con compiti di coordinamento dalla US Army alla USIC, la United States Intelligence Community, l'entità collaborativa cui fanno capo tutte le diciassette agenzie ed organizzazioni del governo federale degli Stati Uniti. Sylvia gli rimprovera di aver accettato senza consultarla il prestigioso incarico, che lo costringerà a volte a viaggiare all’estero e in particolare in Europa, dove lui dovrebbe assecondare la collaborazione delle agenzie americane con le unità locali dei governi del vecchio continente con finalità di prevenzione del terrorismo.

Nel Medioevo intanto è Il 12 febbraio 1429, poco a nord della città assediata di Orléans, Ian, Daniel e Isabeau sono stati scaricati dal gioco, o dal destino, presso una piccola cittadina di nome Rouvray. Con terrore, si scoprono subito circondati da alcune migliaia di soldati anglo-borgognoni in marcia verso di loro, nel tentativo di catturare un grande convoglio di rifornimenti alle loro spalle, vitale per le truppe francesi assediate. Comprendono, loro malgrado, di non poter evitare la battaglia, passata alla storia come la Battaglia delle aringhe: tali provviste facevano infatti parte delle vettovaglie previste per l'imminente periodo quaresimale. Di Ty, che invece il gioco aveva catapultato a Vaucouleurs, nessuna notizia.

Ian, lottando per la sua stessa vita e in grave difficoltà, ormai allo stremo delle forze, non può impedire al comandante inglese, Glasdale, di rapire le donne del convoglio e insieme a loro, la stessa Isabeau. Nonostante la situazione disperata ingaggia ugualmente un duello con l’inglese che sprezzante si sbarazza di lui in poche mosse mentre Daniel aiutato da alcuni difensori francesi gli salvano la vita. Glasdale, mentre loro si danno alla fuga, lo deride urlando che si sarebbe prima divertito con la bella dama francese e poi l’avrebbe gettata in pasto alle fiamme come tutti i francesi avrebbero meritato infine di morire. Ian è distrutto e disperato.

Nello stesso giorno, a Vaucouleurs intanto, Ty è sconcertato: nessuna notizia degli amici, non sa dove si trova, indossa una pesante armatura a piastre di metallo che non ha nulla a che fare con l’usbergo a maglie di acciaio che aveva selezionato nel gioco prima di avviare la partita. D’accordo con Daniel aveva infatti deciso che per restare nascosto agli occhi di chi lo credeva morto e sepolto per avvelenamento, avrebbe accompagnato gli amici indossando usbergo e camaglio come un qualsiasi cavaliere di Chatel Argent. Non sa ancora che un malfunzionamento nel Mod istallato da Daniel l’aveva separato dagli amici e l’aveva scaraventato non nel XIII secolo ma nel XV. Non sa nemmeno che il gioco, come con qualsiasi altro parametro, aveva adeguato la sua armatura all’epoca in cui si trovava adesso. E la corazza che indossa, scoprirà molto più avanti, era identica a quella dello scomparso figlio del conte di Ponthieu, adattata da Hyperversum o dal Mod a quella che secondo la storia doveva indossare l’unico Thierry de Ponthieu vivente nel 12 Febbraio 1429: lui.

Ty viene infatti  immediatamente “riconosciuto” come il conte Thierry: ha la sua armatura, ha lo stesso volto, gli stessi capelli, persino la voce è identica. Dopo la disastrosa ritirata di qualche tempo prima, nella battaglia dove aveva trovato la morte il conte Francois, nessuno aveva saputo spiegare che fine avesse fatto suo figlio, né il suo corpo era mai stato ritrovato. Una donna, la contessa Caroline de Ponthieu moglie del defunto Francois, lo abbraccia e benedice il Signore di averle fatto ritrovare almeno il figlio scomparso. Ty scopre di essere quasi identico al vero figlio della donna. L’unica differenza che Caroline nota è che lui appare molto più magro, evidentemente malnutrito dopo essere fuggito per tanto tempo agli inglesi. Vedendolo spaesato e reticente, Caroline decide di sincerarsi dell’identità del ragazzo con l’unico modo per lei infallibile. Con una scusa fa togliere a Ty l’armatura e gli fa sollevare la manica sinistra della tunica fino a scoprirgli l’avambraccio. Suo figlio in quel punto aveva una voglia rossastra sulla pelle. La stessa che ha Ty dopo essersi fatto cancellare parzialmente il tatuaggio col simbolo dei Guns.

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Capitolo 6
*** Capitolo 14 ***


Gli unici beni, che Daniel custodiva nella logora sacca di cuoio, erano due forme di pane scuro di segale e una manciata di aringhe essiccate, che il vecchio gli aveva appena allungato di nascosto dai resti della carovana di viveri. Oltre al pesante manoscritto miniato con la storia dei Ponthieu.

A ricordargli la sua colpa, nella sua testa riecheggiavano ancora le lancinanti grida di Isabeau e di Ian. Per molte notti, forse per sempre, quelle urla non l’avrebbero più abbandonato e l’avrebbero inseguito in ogni suo incubo, come un retaggio indelebile. L’equa punizione per il dolore che aveva inflitto all’amico, si diceva.

Non riusciva nemmeno a immaginare l’angoscia che stava straziando Ian, dopo che Isabeau gli era stata strappata in quel modo.

Aveva tentato di essergli di conforto, di rassicurarlo, di fargli capire che era lì per aiutarlo in qualunque modo fosse possibile ma lui non aveva risposto. Non aveva detto nulla, proprio nulla. Ian si era chiuso in se stesso in un guscio sordo e impenetrabile, ma Daniel sapeva che il dolore lo seguiva come un’ombra, senza abbandonarlo mai, in qualunque momento del giorno e della notte.

E lo stava lacerando anche adesso, mentre ringraziava ancora una volta il vecchio che aveva avuto pietà della loro condizione.

“Un ultimo favore vi chiedo di concedermi, buon uomo”.

Il vecchio squadrò Ian esitante, consapevole che non avrebbe potuto permettersi di sottrarre ulteriori vettovaglie al convoglio di viveri diretto a Orléans, già miseramente saccheggiato da quei barbari.

“Se il Signore vorrà concederlo, molto volentieri, cavaliere”, replicò con la consueta formula di cortesia.

“Vi chiedo soltanto alcune informazioni, né io né il mio amico sappiamo orientarci bene in queste terre ed è molto tempo che manco da casa”, spiegò Ian, “sapete indicarmi dove posso trovare il Re e la Corte di Francia, in questo momento?”

“Santo cielo! Da che mondo venite, ragazzo? I francesi oggi non hanno un re e ciò che resta della Corte è al castello di Chinon!”.

Ian esibì una espressione sbalordita.

“Dal momento in cui Parigi è caduta sotto il comando del re anglosassone, Enrico VI di Windsor”, chiarì l’anziano uomo, “e’ lì che dimora l’erede al trono di Francia, Carlo VII”

“Carlo VII!” esclamò Ian all’improvviso, voltandosi nella direzione di Daniel, che invece appariva ancora più smarrito.

“Già, vorrei tanto dire Re Carlo VII, ragazzo, ma la cattedrale di Reims è ancora in mano ai barbari che hanno invaso le nostre terre e il rito dell’incoronazione non può aver luogo finché non verrà liberata”.

Merda! Mentre iniziava faticosamente a rendersi conto, Ian era incredulo e sgomento. Siamo nel bel mezzo della guerra dei Cent’anni! Come diavolo siamo finiti qui?

Le poche informazioni gli erano state sufficienti per elaborare lo scenario in cui si trovavano. Carlo VII non aveva ancora cacciato gli inglesi e i loro alleati Borgognoni dal nord della Francia e questo era l’assedio di Orléans!

“Devo raggiungere il resto della Corte a Chinon!” annunciò Ian con un senso di urgenza nella voce, “qual è la strada più breve, buon uomo?”

“Siete sicuro, ragazzo? Se avete intenzione di chiedere alla nobiltà di pagare un riscatto per la vostra povera moglie, sappiate che non vi ascolteranno”, tentò di scoraggialo l’uomo, “e quand’anche aveste il denaro, quel bastardo di Glasdale non lascerà andare le sue prigioniere, per timore che possano denunciarlo alla Chiesa”, concluse amaramente, “mi dispiace.”

“Non è questo il motivo, vi prego, ditemi come posso raggiungere il castello di Chinon il prima possibile!”

Il vecchio lo fissò con rassegnazione, scuotendo debolmente il capo.

“La via più breve da qui è procedere a Sud per Chécy, aggirando la città di Orléans. A cavallo, è un viaggio di mezza giornata, se non ne possedete uno, temo che sarà molto più faticoso. Da Chécy, proseguite costeggiando il fianco sud-occidentale della Loira finché non incontrerete, dopo una giornata di marcia forzata, Beaugency. Riposatevi la notte e avrete i giorni successivi per raggiungere Saint Laurent Nouan e Blois. Da qui, sempre costeggiando il versante occidentale della Loira, avanzate fino a Tours. A sud, a meno di una giornata di viaggio a cavallo, troverete finalmente il castello di Chinon.”

Dopo che Ian e Daniel ringraziarono più volte l’anziano, s’incamminarono per la via che conduceva a sud.

Non appena furono abbastanza lontani dal convoglio dei viveri distrutto dagli inglesi, Ian informò l’amico:

“Siamo nel 1429”, gli annunciò, ancora incredulo delle sue stesse parole, “uno dei momenti più importanti e sanguinosi della storia di Francia…”

Daniel gli ricambiò uno sguardo colmo di terrore: “1429? Come diavolo può essere possibile? Cristo, ma non può essere! Non può essere vero!”, Daniel non riusciva ad ammetterlo. “Nei sei sicuro?”

Ian annui greve. “Ne sono certo ormai. Abbiamo appena assistito alla celebre battaglia delle aringhe, i rifornimenti che la città assediata di Orléans attendeva per sfamare i suoi cittadini nell’imminente periodo quaresimale”.

“E quel tipo che ha rapito Isabeau, allora era…”

“Lord William Glasdale, il comandante più spietato e malvagio che gli inglesi abbiano mai avuto durante la guerra dei cent’anni.” Il volto di Ian si adombrò per qualche istante mentre serrava rabbiosamente i pugni. “Quel bastardo...” ma poi non finì la frase.

Daniel piombò anche lui in un silenzio affranto. E’ soltanto colpa mia se ci troviamo in questa situazione, dannato Hyperversum e dannatissimo Mod! Dio mio, cosa ho fatto?

Era appena iniziato l'anno 1429 quando gli inglesi erano ormai prossimi ad occupare completamente la città di Orléans, cinta d'assedio sin dall'ottobre del 1428. La città, sul lato settentrionale della Loira, per la posizione geografica ed il ruolo economico, aveva un valore strategico nel decidere le sorti della contesa tra Francia e Inghilterra. In quegli anni, infatti, la Francia era spezzata in due: il nord con Parigi era occupato dagli Inglesi e dai Borgognoni, il territorio a sud era invece sotto il controllo di re Carlo VI e dei suoi sostenitori, gli Armagnacchi.

Dopo che erano morti entrambi i legittimi contendenti alla corona, Enrico V di Inghilterra e Carlo VI di Francia, gli inglesi avevano approfittato della guerra civile fra i Borgognoni ed Armagnacchi per proclamare Enrico VI, allora ancora bambino, re di Inghilterra e di Francia.

Il figlio di Carlo VI, il legittimo erede al trono francese, Carlo VII, si rifiutò di abdicare ma non poteva farsi incoronare re secondo il rito ufficiale, poiché per tradizione il rito si doveva tenere nella Cattedrale di Reims, allora sotto il dominio inglese.

 

***

    

La pioggia sembrava non volere offrire ancora una tregua, mentre il freddo e la fame continuavano a sferzarli senza pietà.

 “Ian…”, Daniel si avvicinò e, per la prima volta da quando avevano lasciato Rouvray, lo fissò faticosamente negli occhi: non poteva posare lo sguardo su di lui senza sentirsi orribilmente colpevole per quanto era successo.

La pioggia spargeva i capelli dell’amico come tanti serpenti incollati sulla pelle, e quando lui scostò con una mano alcune ciocche corvine che pendevano dagli occhi, Daniel si accorse che non era soltanto pioggia che scendeva dagli occhi.

“Cristo!”, imprecò, “E’ tutta colpa mia! Dimmi qualcosa, colpiscimi, prendimi a pugni, non è giusto tenerti tutto dentro!”

“Non è colpa tua, lasciami stare da solo adesso, ti prego”, lo allontanò lui con un gesto spazientito del braccio.

“E invece sì che è colpa mia! Ho insistito io per portare con noi Isabeau nel presente ed è dannatamente a causa mia se è stata rapita!”, urlò ancora Daniel fuori di sé.

Ian lo guardò con occhi vacui. “Risparmia le energie, se ne hai ancora. Prima di arrivare a Chinon ne avremo bisogno”.

Si era arreso. L’espressione indolente dell’amico lo colpì più della pioggia e della fame e seppe che non c’era una sola cosa al mondo che potesse dire o fare per farlo stare meglio.

Proseguirono il viaggio in silenzio, rotto solo dalla voce di Daniel quando, a intervalli regolari, cercava di richiamare il menù di gioco di Hyperversum.

Il gioco continuò ostinatamente a ignorare ogni comando e ogni imprecazione del ragazzo.

 

***

 

Anche se la luce del giorno non era mai apparsa, ad un certo punto fu chiaro che il sole stava tramontando. Era dalla mattina che camminavano, senza aver mandato giù nient’altro che l’acqua piovana, raccolta a coppa nelle mani per saziare la sete.

“Presto sarà buio, dobbiamo trovare un rifugio all’asciutto per dormire e mangiare qualcosa”, bofonchiò infine Ian emergendo dalla sua apatia.

“Dove? Io non vedo altro che una strada deserta!”

“Troveremo qualcosa”, mormorò svogliatamente, stringendosi nelle spalle.

“Per oggi, forse, e domani?”, si disperò all’improvviso Daniel, “Non ce la possiamo fare! Lui, quel maledetto gioco, non ce lo permetterà, capisci? Come possiamo salvare Isabeau dalle prigioni di una fortezza inespugnabile? Affronteremo da soli un’intera guarnigione inglese?”

“Sono sicuro che quando arriveremo a Chinon riceveremo aiuto. Chiederemo del conte di Ponthieu, ammesso che ne esista ancora uno e ci faremo arruolare nel suo esercito…”, proseguì Ian, pensoso. Dopo qualche istante, indicò con un’occhiata il borsone sulle spalle di Daniel: “Forse il manoscritto miniato potrà tornarci utile anche in questa epoca.”

“Impiegheremo comunque un mucchio di tempo! Chi ci assicura che arriveremo prima che quel maledetto non abbia già…”

“Basta, Daniel…”, Ian scandì le parole con un ringhio di ammonimento.

“Ci ha tolto tutto, ancora una volta, lo capisci? E stavolta è solo colpa mia!”, proseguì invece Daniel, “Cristo, perdonami! Ma cosa dico, maledizione! Anche se tu riuscissi a perdonarmi, sono io che non potrò mai perdonare me stesso! Non riesco a sopportare di averti fatto questo…”

“Tu non mi hai fatto niente, smettila! E’ colpa mia se non sono riuscito a proteggere Isabeau…”

Daniel gli si avventò contro, colpendolo debolmente col pugno chiuso tra il petto alla spalla, “Smettila tu, ti addossarti tutte le colpe di questo mondo! Anche quelle degli altri... Smettila, smettila!”, singhiozzò sommessamente il ragazzo.

Ian covava dentro di sé una disperazione infinita. Pure, vedere Daniel avvilirsi così crudelmente, lo impietosì e gli fece trovare lentamente il desiderio di fargli coraggio e di aiutarlo.

 E in questo modo aiutò anche se stesso, traendo dalle sue stesse parole la speranza che prima non possedeva.

Sentì dentro di sé che l’unica cosa che gli avrebbe permesso di sopravvivere, sarebbe stato studiare un modo per salvare Isabeau. Riflettere su come salvarla, l’avrebbe distratto da pensare al presente.

Ma prima dovevano trovare un posto per dormire e un fuoco per asciugarsi.

Mentre Daniel cercava ancora di colpirlo, gli afferrò il pugno diretto contro di lui e con l’altro braccio lo strinse a sé, in un abbraccio virile tra uomini che condividono lo stesso insopportabile dolore.

Quell’abbraccio affrancò Daniel da molte angosce e si sentì finalmente libero di sfogare tutto ciò che covava dolorosamente dentro, singhiozzando e maledicendo se stesso, Hyperversum e il mondo.

Quando l’amico si fu sfogato abbastanza, Ian lo liberò dall’abbraccio e si guardarono negli occhi arrossati. Gli allungò una energica pacca sulla spalla e Daniel finalmente abbozzò un sorriso.

“Basta disperarsi. Andiamo avanti”, lentamente sentiva rifluire la voglia di vivere e di lottare. “Finché sono vivo intendo combattere e sento che non avrò pace finché ritroverò Isabeau o troverò la morte, cercandola”.

Daniel annuì. “Mi fa piacere sentirtelo dire, amico. Se è questo che vuoi, allora temo che non ti libererai di me finché non hai avrai raggiunto uno dei due scopi”.

“Guarda là…” Ian distese la mano per indicare qualcosa che emergeva oltre la macchia verde scura della boscaglia. “Si direbbe un capanno abbandonato”.

“Non sarà l’Hilton Hotel, ma per questa notte me lo farò bastare” gli sorrise Daniel.

Quando giunsero al capanno si accorsero che il tetto era crollato per metà ma rannicchiandosi in un angolo, avrebbero trovato un po’ di riparo dalla pioggia incessante. Avanzava anche un piccolo spazio dove avrebbero potuto accendere un fuoco per riscaldarsi. Inzuppati di pioggia e al freddo, il rischio di morire assiderati balenò nella mente di Ian. E solo per un momento desiderò ancora la dolce pace dell’oblio. 

Misero ad asciugare vicino al fuoco le tuniche fradice, riparandosi solo coi mantelli.

Daniel tirò fuori il cibo dalla sacca, porgendo a Ian una forma di pane scuro e prendendo l’altra per sé.

“No, il pane dobbiamo farcelo bastare per due giorni e domani ci aspetta un altro faticoso viaggio prima di raggiungere un villaggio. Dividiamoci metà forma di pane a testa, mi spiace, Daniel.”

Daniel acconsentì con un cenno del capo. Sentire i morsi della fame in quel momento gli dava uno strano piacere, in quel modo cominciava ad espiare la sua colpa.

“Possiamo mangiare anche qualche aringa essiccata”, concesse infine Ian che scambiò il silenzio dell’amico per malumore. “Quante ne abbiamo?”

“Una dozzina in tutto”.

“Non abbiamo denaro con noi e non sappiamo se riusciremo a mangiare qualcosa nei villaggi, dobbiamo preservare le nostre scorte il più possibile”.

Il pane di segale era duro e lasciava in bocca un sapore di terra e muffa, mentre il pesce essiccato aveva un gusto salmastro e fibroso. Daniel inghiottì comunque, cercando di non pensare alle prelibatezze che gli preparava Jodie. In quel momento, si sarebbe persino sfamato con gli odorosi croccantini di pollo di Skip.


***
 

La giornata seguente fu la copia del primo giorno di viaggio: la stessa strada sterrata, disseminata di pozze d’acqua e di fango, gli stessi alberi che crescevano in disordinata libertà qua e là, per poi serrarsi improvvisamente in macchie di bosco e gli stessi identici filari dei vigneti, tanto abbondanti in quella regione quanto inutili senza i loro frutti.

 E poi c’era la pioggia, onnipresente, ora battente ora singhiozzante, ma costante compagna del loro tetro peregrinare.

Avevano abbondantemente aggirato, come aveva consigliato loro il vecchio, la grande città di Orléans assediata dagli inglesi. S’imbatterono nelle prime case del borgo di Chécy poco prima del tramonto. Entrarono quando le strade erano ormai deserte e senza il denaro per pagarsi un rifugio per la notte in qualche locanda.

 Prima che la poca luce che filtrava dalle nubi si spegnesse del tutto, trovarono un caprile e si acquattarono sulla paglia sudicia per la notte. Consumarono in silenzio la seconda pagnotta, l’ultima che restava e quando si sdraiarono, sprofondarono immediatamente in un sonno senza sogni.

Quando Ian si svegliò, s’intravedeva un pallido sole oltre la staccionata al coperto. Era appena l’alba e il morso della fame adesso era tremendo e sentì il corpo completamente irrigidito dal freddo.

Si alzò a fatica dal giaciglio di pagliericcio e subito fu investito da un senso di vertigine, a causa della debolezza.

 Scosse Daniel che ancora dormiva, rannicchiato in una posizione fetale. Lamentandosi, l’amico socchiuse lentamente gli occhi e gli ricambiò uno sguardo spento e malaticcio. Gli occhi erano arrossati e velati di lucido. Probabilmente anche lui appariva ugualmente malandato alla vista di Daniel e si rese conto che non avrebbero potuto andare avanti per molto, in quelle condizioni.

“Alzati Daniel, dobbiamo andare via da qui, prima che il padrone di questo posto ci trovi qui e ci creda dei ladri.”

“Dannazione, sono così infreddolito che sento che non proverò mai più caldo in vita mia!”

“Speriamo che almeno oggi non piova”, mormorò Ian mentre scrutava all’orizzonte grandi ammassi cupi e gravidi di pioggia.

 La pioggia lasciò loro un po’ di tregua e ogni tanto il sole fresco di febbraio fece capolino tra le nuvole col suo tiepido abbraccio. Usciti dal borgo di Chécy fu facile seguire il versante occidentale della Loira. Per arrivare al castello di Chinon non dovevano fare altro che seguire il corso serpeggiante del fiume e dei canali, lungo la strada disseminata di castelli. Gli stessi, che molti secoli più avanti, avrebbero rappresentato la maggiore attrazione turistica della regione.

***


“Non ce la faccio più, riposiamoci un po’”.

Ian si guardò attorno e indicò a Daniel un vecchio salice a poca distanza da loro. “Arriviamo fin là, i suoi fitti rami ci daranno qualche protezione da questa pioggia sottile”.

Ian capì che da quando avevano lasciato Chécy alle spalle, il loro passo si era fatto molto più lento rispetto a quello che avevano mantenuto il primo giorno. La stanchezza e la debolezza li zavorrava inesorabilmente e Beaugency, che a questo punto secondo i suoi piani doveva già essere in vista, appariva invece irraggiungibile.   

“Tra poco sarà buio...” constatò Daniel.

“Non raggiungeremo Beaugency prima che chiudano le porte e non vedo nessun rifugio dove ripararci questa notte. »

« Restiamo qui, allora… ci risparmieremo almeno la pioggia. »

« D’accordo, ma ci restano solo poche aringhe essiccate, se non troviamo qualcosa da mangiare, non sopravvivremo ancora per molto.”

Daniel soppesò il pacchetto con il poco cibo rimasto, scartò un paio di aringhe a testa e richiuse l’involucro.

Cercò di far durare il più possibile in bocca il sottile e filamentoso pesce essiccato, masticando lentamente, per accorgersi solo che quel cibo non era sufficiente per saziarlo.

Non ebbe comunque il coraggio di lamentarsi e con la coda dell’occhio, osservò Ian silenzioso e impassibile, chiuso nella sua sofferenza. Se il suo problema era la stanchezza e la fame, non osò immaginare cosa stesse patendo in quel momento Isabeau, nelle mani del suo spietato carceriere. In quel momento Ian stava sicuramente pensando a lei.

 

***


Un lungo ponte di quattrocento metri, sorretto da una moltitudine di archi di pietra, congiungeva la città di Orléans alla riva meridionale della Loira.

Mentre scendeva dal carro, dov’era stata stipata insieme ad un’altra dozzina di donne, Isabeau era riuscita a scorgere la splendida città sulla riva opposta: un’alta e spessa cinta muraria rettangolare racchiudeva il grande borgo abitato, mentre maestosi torrioni che terminavano con altissimi coni dotati di feritoie e pertugi per gli arcieri, sovrastavano i quattro angoli all’estremità delle fortificazioni. Molteplici pinnacoli si ergevano dai contrafforti lungo tutta la muratura. Nell’insieme la città dava l’impressione di essere meravigliosa e inespugnabile.

Una guardia dal colorito rubizzo e con un osceno sorriso sul muso si avvicinò al retro del carro, spalancando brutalmente l’apertura posteriore e urlando selvaggiamente di scendere.

Isabeau vide le donne esitare e ammassarsi dalla parte opposta del carro, urlando e piangendo, finché l’inglese non abbaiò ancora più furiosamente il suo ordine. Nessuna ancora obbediva. La guardia andò in bestia e fece volteggiare a vuoto nell’aria l’orribile mazzafrusto che portava con sé.

Descendre de là, salopes! Mi avete capito adesso? » ringhiò l’energumeno.

Poi abbatté il mazzafrusto sull’apertura del carro, facendo schizzare schegge taglienti di legno in ogni direzione. Alle lacrime di molte si mischiò il sangue provocato dalle lacerazioni, un panico isterico si impadronì all’improvviso di molte di loro che finalmente si gettarono fuori dal carro.

Sempre col mazzafrusto minacciosamente in mano, l’uomo ordinò le donne in una fila, sorvegliandole e abbaiando come un cane da guardia. Quando anche Isabeau smontò dal carro, con un salto, si avvide che era sopraggiunto un secondo uomo, magro e rinsecchito dentro l’armatura leggera di cuoio, che conduceva a piedi un mulo col dorso sormontato da un ingombrante e tintinnante fardello.

L’uomo fece cadere a terra il carico e srotolò a terra l’involucro: Isabeau rabbrividì mentre intravide le orribili catene arrugginite.

Disposta in fila insieme alle altre donne, si diceva si stare calma, di non piangere, perché Ian e Daniel avrebbero presto usato il misterioso mezzo che usavano per viaggiare tra i loro mondi, per salvarla. Doveva solo resistere fino a quel momento, no? Pure con questa consapevolezza, riusciva a stento a padroneggiare il terrore e l’apprensione per la sorte che sarebbe comunque toccata alle altre prigioniere. Daniel avrebbe potuto salvare anche loro? SI sentiva così terribilmente rattristata a pensare che non poteva portarle in salvo con sé.

Persa nei suoi pensieri, non si accorse nemmeno che l’uomo più esile adesso era proprio accovacciato per terra davanti a lei e la fissava con uno sguardo strano e lascivo. Quando si accorse che lei si era girata a guardarlo, l’uomo sghignazzò, mostrandole un sorriso colmo di denti storpi. Poi armeggiò con quell’oggetto metallico, avvicinandolo ai suoi piedi.

Isabeau sentì le luride dita dell’uomo che risalivano dalle sue caviglie fino ai polpacci, dove indugiarono a lungo finché lei tremò visibilmente per il ribrezzo e la paura. L’uomo se ne accorse e ancora una volta alzò lo sguardo con lo stesso ghigno dipinto sul grugno.

 Poi, Isabeau sentì il freddo e inflessibile acciaio che si chiudeva con uno scatto metallico in una morsa sulla caviglia e vide la guardia che si spostava verso la donna che le stava di fianco, proseguendo a incatenare la fila di donne, l’una all’altra.

 

***

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Capitolo 7
*** Capitolo 15 ***


Arrivarono a Beaugency solo nel pomeriggio del giorno successivo. La pioggia e il freddo suggeriva agli abitanti del borgo di stare rintanati nelle loro case o nelle loro botteghe e i pochi uomini che incontrarono lungo le strade li osservavano come se stessero già rubando qualcosa col semplice respiro.

Daniel era consapevole che il loro aspetto era terribile, il sudiciume e il fango aveva insozzato tutti i loro vestiti e i loro volti erano adombrati dalla stanchezza e dalla barba incolta.

Vagarono un po’ per le strade semideserte e infine giunsero in vista della piazza. Dominava la scena la superba torre quadrata del dongione, alta oltre trenta metri e che appariva già antica e consumata dal tempo.

Lo stomaco di Daniel brontolò rumorosamente.

“Lo so, dobbiamo trovare il modo di sfamarci”.

“Se tentassimo di pescare qualcosa sul fiume?”

“E con cosa, a mani nude?” replicò Ian nervoso, “No, piuttosto dobbiamo trovare un lavoro provvisorio, qualunque cosa che ci permetta di guadagnarci la giornata, per poter affrontare il resto del viaggio per Chinon con qualche soldo in tasca”.

“D’accordo, per me va bene”.

“Allora rechiamoci in una locanda, lì troveremo qualcuno a cui poter chiedere informazioni”.

La locanda era affollata, poiché la pioggia aveva attirato gran parte degli uomini lì dentro. Appena entrati, furono piacevolmente accolti dall’aria tiepida del locale pieno di gente e dall’odore invitante del vino e del cibo.

Ian si guardò un po’ intorno, raccogliendo gli sguardi torvi riservati ai viaggiatori poveri e che portavano una spada sul fianco. Si diresse diritto al bancone dell’oste e domandò:

“Cortesemente, Monsieur, può indicarmi come due giovani desiderosi di guadagnarsi la giornata, possono trovare un lavoro onesto in questa città?”

L’uomo inarcò un sopracciglio e continuò a lavare un boccale, ignorando completamente Ian.

Solo molto tempo dopo, quando ebbe riposto il boccale pulito e asciutto dietro il bancone, l’oste si rivolse finalmente a lui.

 “Possedete una imbarcazione adatta alla pesca fluviale, straniero?”

“Mi rincresce ma non possiedo nient’altro che la forza delle mie braccia e la voglia di lavorare duro, signore.”

L’oste si voltò allora verso Daniel e l’osservò in tralice. Infine ringhiò: “Il vostro amico somiglia davvero molto a un dannatissimo inglese, viaggiatore”.

La parola inglese suscitò immediati mormorii tra la gente e molte voci tacquero per ascoltare la conversazione tra i due stranieri e l’oste.

“Lui è mio fratello e siamo francesi, Monsieur”.

“E chi mi dice che non siete invece dannate spie di Glasdale, che Dio lo maledica!”

“Quel maledetto è il mio nemico giurato!” s’inalberò Ian, “lo ucciderò con le mie stesse mani quando l’avrò nuovamente di fronte!”

Altri due uomini si erano avvicinati intorno a Daniel e lo squadravano in modo poco raccomandabile.

“Non sono inglese!” sbottò alla fine Daniel, sentendosi tutti quegli occhi addosso.

L’uomo più vicino lo spintonò con una mano, “Dimostralo. Vediamo di che pasta sei fatto”, lo sfidò. Con un movimento fulmineo tirò fuori un coltellaccio ricurvo e si scagliò sul ragazzo.

Ian si avvide del movimento furtivo che aveva compiuto l’uomo, quando si era portato la mano sul fianco per estrarre l’arma. Con una spallata spostò l’amico dalla traiettoria della lama che gli si avventava contro, mentre con la mano libera sguainava la spada che aveva raccolto a Rouvray.

L’uomo stava già alzando il braccio, nel tentativo di affondare un altro attacco contro Daniel, ma Ian lo precedette, puntandogli la punta della sua spada contro la gola. L’assalitore sollevò anche l’altro braccio in segno di resa e indietreggiò di un passo.

“Non abbiamo bisogno di stranieri in questa città”, intervenne nuovamente l’oste, che adesso era occupato ad asciugare l’interno di un altro boccale, “lasciate Beaugency, prima che qualcun altro possa pensare che siete delle spie”.

Ian abbassò lentamente la spada e la rinfoderò nella sua guaina di cuoio.

“Non vogliamo guai”, sibilò infine, “ce ne andiamo”.

Un brusio di voci irritate lo accompagnarono finché non uscirono dalla locanda.

Fuori stava piovendo.

“In questa città non troveremo che guai”.

Mentre già si incamminavano, Daniel borbottò:  

“Dannazione, perché mai tutti mi devono credere una spia?”

“Bè, almeno adesso sappiamo che nel ruolo eri davvero credibile”, ammise Ian mentre un ghigno divertito gli premeva sulle labbra e lui, dopo tanti giorni in cui non aveva più sorriso, finalmente si sentì libero di ridere, accompagnato subito dopo da Daniel.

Quella notte trovarono ospitalità e un frugale pasto alla chiesa abbaziale di Notre Dame di Beaugency, che abbandonarono alle prime luci dell’alba. Mangiarono lentamente, gustando ogni frammento del pane di avena intinto in un denso brodame: parve ai due ragazzi il cibo migliore che avessero mai assaggiato da molto tempo, tanto erano affamati.

 

 

***

 

 

Saint Laurent Nouan era lontana ancora una decina di chilometri e la tappa successiva, il castello dei conti di Blois, si trovava ad una distanza più che doppia.

Dopo l’incidente alla locanda, avevano deciso di evitare il più possibile i centri abitati dove non vi erano abbazie che potessero ospitarli. L’isterismo collettivo che colpiva quelle regioni aspramente contese tra inglesi e francesi, poteva facilmente sfociare in episodi di rabbia come quello accaduto alla locanda. Avevano imparato che la gente locale, nel migliore dei casi non si fidava dei viaggiatori stranieri. Nel peggiore o più semplicemente nel dubbio, li uccideva.

Bivaccarono tra i margini della strada e il corso del fiume per un periodo che presto non furono più in grado di determinare: il cielo era sempre buio anche quando non pioveva e le notti erano sempre fredde.

Ian e Daniel impararono a riconoscere i canali di acqua dolce che confluivano nel fiume da quelli d’acqua salata.

La composizione della vegetazione era infatti completamente differente nei due casi, a causa della resistenza al sale e, ovviamente, erano diverse le specie animali che li popolavano: rane, rospi e piccoli pesciolini d'acqua dolce in un caso, conchiglie che i locali chiamavano coque de marais, gamberetti piccoli e trasparenti, échilettes e pesciolini di mare nell'altro.

L’acqua del fiume era gravida delle piogge e defluiva con troppo impeto per far sperare ai due ragazzi di catturare con i loro mezzi primitivi i piccoli e sfuggenti pesci. E presto riconobbero che senza un battello, non avrebbero mai potuto pescare nulla nei canali d’acqua salata. Dopo che ebbero esaurito le scorte di pesce essiccato, si nutrirono soprattutto di piccole rane, ogni giorno più disposti a cibarsi di ciò che il giorno precedente avevano disdegnato con ribrezzo.

Quando finalmente giunsero, sfiniti, in vista delle imponenti guglie del castello di Chaumont, Ian si rese conto che non rammentava più quanti giorni erano trascorsi da quando avevano abbandonato Beaugency. Forse un paio, probabilmente molti di più.

Sebbene, ormai, era soltanto la forza di volontà a trascinarlo avanti, dopo che le forze lo avevano lasciato, Ian osservò con estremo interesse quella fortezza leggendaria, che in capo a pochi decenni sarebbe stata incendiata da Luigi IX, come monito a Pietro d'Amboise, per la sua partecipazione alla Lega del bene pubblico.

In quel luogo avrebbero dimorato Caterina de Medici e Nostradamus e per uno storico qual era lui, osservare il castello, nella sua realizzazione originale, fu un’emozione che lo distrasse per qualche tempo dalle angosce e dalla fame.

Le torri di Chaumont erano già scomparse all’orizzonte da molto tempo, quando la via che costeggiava quel versante della Loira, lambì i confini di un’altra celebre fortezza:  il castello di Amboise.

Era uno dei più imponenti che Ian avesse mai visto. Qualche decennio più tardi qui avrebbe trovato i natali e la morte, re Carlo VIII, l'ultimo esponente del ramo più antico della dinastia dei Valois. Ian conosceva l’aneddoto che voleva che il re fosse morto battendo la testa contro un architrave in pietra di una porta, mentre giocava al jeu de paume, il gioco antesignano dell’attuale tennis.

Ma più di questo, il castello doveva la sua leggenda a un altro personaggio che avrebbe ospitato: Leonardo da Vinci visse ad Amboise fino alla morte, avvenuta come Ian si ricordava nel 1519 e venne successivamente sepolto nella cappella Saint-Hubert, all’interno del corpo principale della costruzione.

Ian si concesse un sorriso al pensiero di poter incontrare Leonardo in persona e poi fantasticò di raccontargli la sua vera storia, nella certezza che se esisteva un uomo in quell’epoca che avrebbe trovato interessante la sua vita e l’avrebbe creduto, sarebbe stato proprio Leonardo Da Vinci.

 

 

 

***

 

 

 

Les Tourelles assomigliava alla copia ridotta del corpo centrale di un castello: quattro torri all’estremità di ogni lato sorvegliavano a nord, il ponte che congiungeva la fortezza alla città di Orléans, mentre a sud, vigilavano sugli ampi territori dinanzi alla Loira.

Incatenate per le caviglie una all’altra, le donne proseguirono in fila, inciampando e urtandosi a vicenda fino alle segrete della bastia. La paura, più del freddo, le raggelò quando si addentrarono nelle viscere della fortezza, scendendo fin dove solo le torce dei loro carcerieri potevano illuminare le umide mura di rozza pietra delle prigioni, mentre tutt’intorno regnava una tenebra spessa e ostile.

All’improvviso le torce rischiararono altri volti, quelli già scavati e spenti di altre donne, che le avevano precedute nella sventura. Le guardie trascinarono il gruppetto con Isabeau in una grande cella proprio di fronte a quella delle altre recluse.

 Il pavimento era ricoperto da uno strato di sordido pagliericcio dall’odore ripugnante. Isabeau immaginò che fosse l’odore pungente dell’urina di coloro che avevano occupato la cella prima di loro.

Dopo che furono entrate tutte, la guardia provvide e sganciare i morsi di ferro alle caviglie. Le donne, finalmente libere, si accovacciarono all’estremità più buia della prigione, occupando un posto che per molte sarebbe stato loro fino al resto dei propri giorni. Isabeau stava per scegliersi un cantuccio, quando una guardia la trattenne rudemente per il polso e sibilò:

“Tu, bellezza, vieni con noi.” La bassa voce maschile spaventò Isabeau, “Perché, dove volete portarmi?”

“Tu sei fortunata, non morirai tra i tuoi stessi escrementi come queste cagne. Lord Glasdale vuole conoscerti”, le sorrise oscenamente l’uomo, scostandole una lunga ciocca di capelli e stropicciandosela tra le dita, “se sarai brava, lui saprà ricompensarti, vedrai…”

Non servì a nulla tentare di divincolarsi: una morsa più fredda e più stretta dell’acciaio, che prima le aveva addentato le caviglie, l’afferrò e la trascinò brutalmente in superficie.      

 

 

***

 

 

Chinon doveva distare solo qualche giornata di marcia. Da giorni andavano avanti e basta, per inerzia, senza scambiarsi una parola, sapendo soltanto che dovevano camminare fino all’estremo delle loro forze, senza fermarsi. Non consumavano un vero pasto da quando il gioco li aveva scaraventati a Rouvray e nell’ultimo tratto, non avevano più trovato canali d’acqua dolce per cacciare un po’ di cibo. Avevano teso i loro corpi all’estremo ed erano entrambi consapevoli che erano ormai prossimi al punto di rottura.

Il freddo, che durante la notte diveniva insopportabile, era penetrato a fondo fino alle ossa e sembrava che non dovesse più abbandonarli, nemmeno quando riuscivano ad accendere un fuoco e si riscaldavano davanti alle fiamme.

Quando uno di loro crollava a terra per la stanchezza, allora cercavano un giaciglio di fortuna dove potersi distendere e giacevano lì fino all’alba del giorno successivo, quando avrebbero ripreso il loro viaggio.

Erano in cammino già da molte ore, senza aver messo ancora niente sotto i denti, quando Ian inciampò in qualche ostacolo e cadde bocconi a terra, sul terreno fangoso. Non si rialzò.

Nello stesso istante in cui Daniel comandò alle gambe di piegarsi per aiutare Ian, le ginocchia tradirono anche lui, gettandolo a carponi nel fango. Sfinito, si trascinò fino a Ian, con la mente così annebbiata, che non era sicuro se si trattava di un sogno o della realtà.

Daniel stava pensando a Jodie e Alex, il loro pensiero era così dolce e aveva voglia di addormentarsi e sognarle ancora, per sempre. Fece per alzarsi dal fango, ma le sue ginocchia erano inchiodate al suolo. Tentò un secondo sforzo, aiutandosi con le braccia, ma non si mosse. Era stanco come non lo era mai stato, doveva dormire, riposarsi, si disse, così avrebbe trovato le forze per rialzarsi. Finalmente si accostò a Ian e si accasciò sulla spalla dell’amico.

“Daniel! Daniel!” lo scosse il ragazzo, “non è questo il momento per arrendersi, andiamo, l’ultimo sforzo… Chinon ormai non può essere lontana!” Daniel sembrava svenuto e nemmeno lui aveva più la forza per rialzarsi.

Sapeva che erano vicini alla loro meta, forse solo un giorno o due di marcia, ma ogni passo adesso costava una fatica insopportabile. Non avevano più nemmeno la forza per disperarsi.

Il tempo passò ancora senza poterlo misurare, trascorsero forse solo pochi secondi oppure ore, Ian non poteva dirlo. Udiva adesso un altro rumore oltre alla pioggia incessante, un picchiettio di cui non capiva la provenienza. Finché si accorse che Daniel tremava e il freddo gli faceva battere freneticamente i denti. Un gelo dolce e vacuo si stava impadronendo anche di lui, gravido di promesse che lo avrebbero finalmente liberato dal dolore insopportabile, dalla fame, dal freddo, dalla pesantezza di vivere.

Passò altro tempo, incalcolabile ed eterno, finché ogni rumore perse importanza. Non sentiva più la gelida pioggia bagnarlo, tuttavia non era sicuro che avesse smesso di piovere. Non sentì più il freddo, ma non era sicuro che il sole lo stesse scaldando. Percepiva solo abbandono e oblio. Persino Isabeau era un ricordo distante, confuso insieme a tanti altri ricordi sfumati.

Isabeau. Forse si sarebbero finalmente incontrati in un mondo tiepido e asciutto, dove non esistevano nemici o sofferenza. Il pensiero lo fece sorridere debolmente. Ma, ancora, gli era impossibile dire se stesse ridendo davvero o se stesso solo sognando di farlo.

E poi, in quel sogno, comparvero all’improvviso dei cavalli, purosangue bianchi e maestosi. Cavalcati da cavalieri altrettanto splendidi e lucenti. Un uomo o forse un angelo luminoso, gli parlò e così pure un altro.

Ian non li poteva udire e quando aprì la bocca per parlare, si accorse che era uno di quei sogni dove non è concesso parlare, poiché dalla sua voce non uscì nulla.

Intravide la prima figura toccare Daniel con un’asta luccicante. L’amico era ancora accovacciato contro la sua spalla, ma quando l’uomo lo toccò, Daniel come un oggetto inanimato, si staccò orribilmente da lui e rotolò a terra.

Ian fece per urlare, ma ancora una volta il sogno non glielo permise.

Fu quando Daniel si accasciò a terra su un fianco, che una delle due figure scorse il borsone di pelle che portava sulla spalla: dall’apertura sporgeva qualcosa che Ian ricordava di aver già visto, ma non ricordò dove.

Una voce nella mente bisbigliava che quell’oggetto era importante per lui, che lo doveva proteggere, ma non si rammentò perché.

Invece, osservò impotente quell’essere mentre apriva completamente la borsa e con vivo stupore ne trascinava fuori un pesante manoscritto. Vide il suo volto stravolgersi non appena lo girò tra le mani e ne scorse la copertina, indicandola al suo compagno, che replicò la stessa espressione incredula.

Alla vista del codice miniato, il sogno sembrò farsi più vivido, i suoi occhi misero pigramente a fuoco i colori e i mantelli bianco e azzurro delle due figure. All’improvviso braccia robuste lo issarono su un cavallo.

“Un uomo dall’altezza insolita e dal fisico possente, coi capelli neri insieme ad un altro coi capelli chiari e corti…”

“Il figlio della Contessa aveva assicurato che ci sarebbe stata anche una donna.”

“Ma d’altronde, questo manoscritto…”

“Cosa succede lì fuori? Perché ci siamo fermati?” intervenne una voce autorevole dietro di loro. La donna era scesa dalla carrozza e tirandosi le sottovesti fin quasi al ginocchio, per non farle sporcare nel fango, veniva adesso incontro alle due guardie.

“Allora? Cosa succede?” volle sapere spazientita.

“Abbiamo trovato questi viaggiatori in mezzo alla via, Signora Contessa. Erano come morti e ci siamo fermati per controllare che non vi fosse pericolo per la vostra sicurezza, Madame.”

“Per quale motivo li avete tirati sopra i cavalli? Non intendo rallentare la nostra marcia a causa di due sconosciuti moribondi! Abbandonateli dove li avete trovati, per l’amor del cielo!”

Si era già voltata indietro per risalire sulla carrozza, quando la raggiunse la voce di una delle guardie: “Scusate, Madame, credo che prima dobbiate vedere questo”.

Quando l’uomo porse alla contessa il pesante manoscritto, Caroline de Ponthieu sbiancò. Quello era l’oggetto che il suo benamato marito custodiva come un tesoro e che amava moltissimo.

“Come possono averlo loro?” strillò la donna.

“Non possiamo esserne sicuri, Madame, ma credo che il signor conte vostro figlio conosca queste due persone. Prima di mettersi in viaggio per scortare quella donna a corte”, spiegò il soldato, “aveva fornito una descrizione nel caso uno di noi si imbattesse negli amici che gli avevano salvato la vita e costoro”, l’armato indicò i due corpi adagiati sui cavalli che trainavano la carrozza, “corrispondono alla descrizione. Se vogliamo conoscere la verità, dobbiamo portarli con noi a Chinon.”

 

 

***

 

 

“Milord?” la guardia che trascinava con sé Isabeau bussò nuovamente alla porta.

 “Entrate!”, sibilò una voce burbera da dietro l’uscio.

L’uomo dischiuse la porta e spintonò in avanti la ragazza che, incespicando, entrò nella stanza.

“Andate via, ora”, ordinò. Lord Glasdale era seduto di spalle con la testa china sopra un manoscritto e non si era nemmeno voltato. La guardia, facendo un lieve inchino, indietreggiò di qualche passo e poi chiudendo l’uscio, sparì.

L’ufficio del comandante della fortezza era arredato sontuosamente e a parte le dimensioni, non aveva nulla da invidiare alle stanze nobiliari di un castello.

Finalmente l’uomo si alzò e si avvicinò a Isabeau per osservarla da vicino. Restò in silenzio, girandole intorno e studiandola attentamente per molto tempo, con aria soddisfatta.

“Una puledra di razza purissima”, commentò infine l’uomo. “Nemmeno conoscevo l’esistenza del purosangue francese!”, esclamò compiaciuto, più a se stesso che rivolto alla ragazza.

Per tutta risposta, Isabeau si voltò fino ad incrociarne gli sguardi e fissandolo diritto negli occhi con evidente disprezzo, gli sputò addosso, colpendolo di striscio sul volto.

Lord Glasdale, non si scompose, anzi sembrò divertito. Isabeau era pronta ad affrontare la sua collera, ma l’inglese invece scoppiò in una gran risata.

“Rispetto il temperamento sanguigno di una purosangue”, aggiunse beffardo, “non provo gusto nella doma di una puledra remissiva”.

“Io invece non vi rispetto affatto!”, lo aggredì Isabeau, “Quali intenzioni avete, perché mi avete fatto condurre qui?”

L’uomo le mostrò un sorriso storto che raggelò la ragazza. “Voi siete di mia proprietà adesso, ciò che intendo fare con voi non vi riguarda. Lo farete e basta”, sibilò subito dopo.

“Voi non siete un uomo! Che Dio possa avere pietà della vostra misera anima, Monsieur”.

L’uomo lasciò balenare negli occhi un moto di irritazione poi indugiò ancora pensoso su di lei, “Siete ancora selvaggia, ma vi domerò, siatene certa”

“Preferirei morire piuttosto”.

“E sarete accontentata, se lo desiderate. Ma non prima di avermi soddisfatto”, così dicendo le afferrò il braccio e la trasse a sé con forza. Isabeau, agì d’istinto, piegò il capo e affondò i denti sull’avambraccio dell’uomo, che strillò di dolore.

Glasdale si scostò bruscamente e si guardò incredulo la tunica lacerata che stillava sangue. Inferocito, schiaffeggiò Isabeau con un manrovescio e poi col palmo aperto della mano, lasciandola stordita.

“Non ho dubbi che mi obbedirete, sgualdrina!”

L’insulto fece tornare in sé la ragazza che urlò. “Sono una contessa, come osate, vigliacco!” e fece per schiaffeggiare a sua volta l’uomo. Ma Glasdale afferrò con facilità l’esile polso con la sinistra, mentre con la destra estraeva dalla cintura un pugnale e ne appoggiò la punta sulla gola della ragazza, che al contatto del freddo acciaio sulla pelle, s’immobilizzò.

“Dunque conoscete le buone maniere, quando volete”, le alitò sul collo, “oppure preferite che vi sgozzi adesso, signora contessa? Privandomi così di tutta la soddisfazione che potrei ottenere da voi?” la irrise, scrollando teatralmente il capo.

 Poi fece scendere lentamente il rovescio della lama lungo la gola e poi lungo la scollatura della tunica della ragazza, mentre curvò ancora di più il capo verso di lei nel tentativo baciarle i capelli e il collo.

Isabeau era così terrorizzata da essere paralizzata dalla paura.

“Questi capelli”, mormorava inebriato l’uomo, “il loro profumo...”

Improvvisamente, Glasdale l’afferrò brutalmente con la mano libera, in modo da tenerla ferma, mentre Isabeau sentiva la disgustosa lingua dell’uomo posarsi su ogni lembo di pelle lasciato scoperto dalla tunica.

Il terrore raggiunse infine il suo parossismo e mentre esplodeva nella sua testa, frantumò la gabbia invisibile che l’aveva paralizzata. 

 Isabeau riuscì finalmente a urlare e graffiando e scalciando si divincolò dalla stretta dal suo aguzzino. Si voltò verso la porta, con uno scatto afferrò la maniglia e l’aprì.

Finì tra le braccia dalla guardia che aspettava dietro l’uscio.

“Per oggi la lezione è conclusa, sarete così cortese da tornare domani?”, la congedò Glasdale. La guardia sghignazzava mentre le stringeva i polsi con della corda ruvida e la trascinava nuovamente nelle prigioni.

Isabeau trattenne le lacrime finché il soldato non l’abbandonò nella cella.

Ian, amore mio, perché ci metti tanto? Perché non mi hai ancora tirato fuori di qui? Ti prego, ti scongiuro, fa presto…

Infine, ritirandosi in un angolo della cella, lontana da tutte le altre donne, fu libera di piangere, silenziosamente, soffocando i singhiozzi, senza che nessun’altra la confortasse o le domandasse cosa fosse successo. Tutte sapevano e la odiavano.

 

 

***

 

 

 

Il cibo consisteva in un pentolone di brodaglia e pezzi di pane duro di avena che galleggiavano dentro. Le guardie lo posarono all’entrata della cella insieme ad un secchio pieno d’acqua.

Le donne, affamate, si ammassarono intorno al tegame, afferrando ognuna un pezzo di pane nero che poi intingevano nel denso liquame.

Isabeau pur disgustata, non mangiava dal giorno precedente e quando fu il suo turno fece per afferrare un avanzo di pane.

“Tu no!” abbaiò contro di lei la donna che le era di fianco, serrando la mano intorno al suo polso.

Isabeau la guardò sorpresa, senza capire.

“Tu no!” ripeté con astio la donna, “Credi che non sappiamo perché sei salita su? Tu sei la sgualdrina del loro comandante!”, l’accusò davanti a tutte.

       Isabeau era così sconvolta da non riuscire nemmeno a difendersi. “Non è vero, io… ” articolò debolmente.

“Hai venduto il tuo bel corpo in cambio di qualche favore, non mentire!”

Altre donne annuirono e alcune di loro l’additarono con disprezzo.

“E’ una sgualdrina!”, urlò una seconda voce, “Il minimo che possiamo fare è prenderci la sua porzione di cibo!”

“E’ una spia degli inglesi!” suggerì un’altra.

“E’ già tanto se non ti uccidiamo con le nostre stesse mani, sgualdrina!”

Quasi tutte le donne dissero la loro e nessuna difese Isabeau.

Si rintanò ancora una volta nell’angolo più remoto e buio della prigione e dopo essersi seduta con la testa nascosta tra le ginocchia, pianse sommessamente finché, distrutta, cedette al sonno.

 

 

***

   

  

Le immagini sfuocate della stanza dov’era ricoverato, insieme ai volti sconosciuti di uomini e donne, affioravano a intervalli irregolari dal suo sogno, senza che Ian potesse in alcun modo comprenderle. In quei momenti udiva anche delle voci basse e preoccupate e sognava persino di mangiare e di bere un nettare meraviglioso, prima di crollare ancora in un torpore confuso.

Finché arrivò il giorno in cui, quando cercò di aprire gli occhi, le immagini si rivelarono più vivide, le nebbie nella sua testa si diradarono e la realtà, sorprendendolo, prese il posto del sogno.

Ian si guardò attorno non ricordando com’era finito in quella stanza, dagli arredi ricercati e lussuosi. C’era una giovane accanto a lui, appisolata su una sedia. Cercò Daniel, solo per accorgersi che non era lì.

Si aspettava di sentirsi debole, invece si rese conto che si sentiva stranamente in forma e non aveva fame. Provava solo una gran voglia di balzare in piedi e distendere i muscoli intorpiditi e così fece.

In quel momento, ridestata dal rumore, la giovane damigella seduta davanti al suo letto, spalancò gli occhi e lo spettacolo che vide davanti a sé le strappò un imbarazzato sorriso. L’uomo che aveva accudito così premurosamente in quei giorni, si era alzato dal suo giaciglio e si era appena accorto di essere nudo.

“Non vi disturbate per la mia presenza, Monsieur”, cercò di rassicurarlo, mentre Ian cercava goffamente di coprirsi con le lenzuola, strappandole dal letto, “chi credete si sia preso cura di voi in questi giorni?”

Ian la fissò per nulla meno imbarazzato da quella rivelazione.

“Avevate addosso lo stesso odore e lo stesso sudiciume di un cinghiale selvatico!”, lo accusò benevolmente, “Ma non potrei arrossire a vedervi nudo da sveglio, più di quando eravate nudo nel sonno” aggiunse, mentre le sue guance, a quel ricordo, la tradivano e si infiammavano. “Oh, ma credo che adesso vi porterò subito i vostri vestiti!”.

Ian riuscì solo a mormorare un grazie e non trovò di meglio che nascondersi nuovamente sotto le lenzuola, in impaziente attesa che la ragazza tornasse. Non sapeva nemmeno dove si trovava e a chi doveva quell’ospitalità.

La giovane tornò pochi istanti dopo, con in mano i vestiti di Ian accuratamente piegati e lavati.

“Aspetto fuori, chiamatemi quando avete finito di vestirvi!” e prima che Ian potesse rispondere, gli porse il fagotto e sparì dietro l’uscio, senza chiuderlo del tutto.

“Sono così contenta che vi siate ripreso!” esclamò poco dopo da dietro la porta, mentre Ian si stava frettolosamente rivestendo. “Proprio stasera è atteso il Signor Conte e lui sicuramente vi vorrà vedere in forze per rispondere alle sue domande”.

“Quali domande?” si stupì Ian, “per favore, Madamigelle, dove mi trovo?”

“Siete ovviamente alla Corte di Francia, signore!”

“Siamo al castello Chinon?” mormorò Ian, meravigliato, “per favore, chi mi ha portato qui? Non ricordo niente di quanto è successo”.

“Povero ragazzo! Siete arrivato qui due giorni fa. I cavalieri che scortavano la carrozza della contessa vi hanno trovato per strada, voi e il vostro amico, entrambi svenuti”.

“Daniel? Sta bene?”

“Il vostro amico non possiede la vostra corporatura, Monsieur”, si lasciò sfuggire la giovane, mentre ritornava con la mente a quando aveva strofinato con acqua tiepida e sapone i muscoli rilevati del ragazzo, “ma se la caverà senz’altro anche lui, è solo un po’ più debole di voi e adesso sta ancora riposando.”

“Vi sarò sempre immensamente grato e debitore, Madamigelle”.

Senza attendere che Ian le confermasse che si era rivestito, la giovane irruppe nuovamente nella stanza e si accostò a Ian, impegnatissimo a tirarsi su i calzoni.

“Oh, la signora contessa ha dei buoni motivi per avervi salvato la vita”, esclamò a bassa voce, mentre aiutava Ian con i lacci delle brache. Poi, fare da cospiratrice, gli bisbigliò all’orecchio:

 Madame sostiene che siete amico di suo figlio ma è anche convinta che voi abbiate tradito la sua fiducia e l’abbiate persino derubato! Cosa che io non credo affatto, naturalmente”, si affrettò ad aggiungere.

“Derubato?” esclamò sorpreso Ian, “La tua signora mi ha salvato la vita solo per farmi impiccare? Non capisco!”

“Ho ascoltato di nascosto, mentre Madame ripeteva alle guardie che sarà suo figlio, il Signor conte, a decidere la vostra sorte. Per questo lo ha mandato a chiamare! Ma il signor conte non ha potuto ancora recarsi qui, perché si dice che sia impegnato in qualcosa di importante! Dicono che è in riunione con l’erede al trono, Carlo VII!”  

“Ma io nemmeno conosco il signor conte!” ribatté Ian, sempre più confuso dalle parole della giovane.

“Lui vi ha descritto così bene alle guardie che vi hanno trovato, che credo vi conosca per forza, Monsieur! Magari l’avete conosciuto in battaglia, il giovane conte di Ponthieu…”

“Ponthieu!” Ian sbiancò nel sentire pronunciare quel nome. “Avete detto Ponthieu?”

“Visto?” sorrise lei con aria compiaciuta, “vi avevo detto che lo conoscevate, no? Dovreste fidarvi di più della vostra amica”, cinguettò la ragazza, atteggiando le labbra ad una finta espressione imbronciata.

 

 

***

           

 

Dal rumore e dalle voci concitate che udì provenire da dietro la porta, Ian intuì che il conte stava arrivando di gran corsa.

La porta si spalancò di colpo, trascinando con sé le parole ossequiose dei subalterni e le urla severe del conte. Una voce giovane ma autorevole, resa più profonda dall’elmo calato sul volto, comandò alle guardie di aspettarlo di fuori.

“Alla mia sicurezza so badare da solo!” ringhiò di nuovo il nobile, “fuori di qui, ho detto!” 

L’uomo, interamente rivestito da una splendida armatura decorata col motivo di un falco stilizzato, entrò, subito seguito da un ufficiale più esile ma ancora più elegante dentro la propria lucente corazza.

 Ian e la giovane damigella scattarono immediatamente in piedi, porgendo con deferenza i loro saluti al conte e poi all’uomo al suo seguito.

In silenzio, il conte fissò il ragazzo per molto tempo e Ian ne percepì dietro la fenditura dell’elmo, gli occhi celesti e indagatori che lo studiavano con severità. Il modo in cui quegli occhi lo scrutavano, gli ricordarono fin troppo quelli di Guillaume.

Cosa stava pensando? Aveva già compreso che non era lui l’uomo stava cercando? Come avrebbe giustificato al conte che lui era stato trovato in possesso del manoscritto con la storia del suo casato?

Per un attimo, ringraziò il cielo che Daniel fosse ancora troppo debole per sostenere un contraddittorio: se fosse stato costretto a inventare qualcosa per spiegare l’accaduto, la presenza dell’amico avrebbe potuto complicare la situazione.

L’uomo infine si rivolse alla damigella a fianco di Ian:

“I miei due ospiti adesso godono di buona salute, Sophie?”

La ragazza aveva così fretta di annuire, che rispose di si prima ancora che il conte avesse terminato di parlare.

“Bene, ora lasciaci da soli, per favore.”

“Come volete, mio signore.” La ragazza lanciò a Ian uno sguardo preoccupato e sembrò volesse aggiungere qualcosa, ma alla fine cambiò idea e sparì dietro alla porta.

Non appena la ragazza si fu allontanata, Ian prese finalmente la parola:

 “Innanzitutto, mi preme informarvi che prima che vostra madre mi salvasse la vita, stavo per recarmi proprio in questo luogo, per chiedervi di potermi unire ai cavalieri del vostro esercito”.

“Servirete senz’altro sotto il mio comando”, acconsentì sbrigativamente l’uomo.

Ian poteva scorgere dalla fessura sull’elmo, soltanto gli occhi attenti del feudatario, senza tuttavia indovinarne l’espressione. Facendosi coraggio, continuò: “Vi ringrazio infinitamente di avermi accordato questo privilegio e di esservi preso cura di me e del mio amico. Vi sarò eternamente debitore, mio signore. Riguardo invece il manoscritto…”

L’uomo non gli consentì nemmeno di concludere il suo discorso: “Sono io, invece, ad essere in debito con voi ed è motivo di gioia, poter finalmente cominciare a disobbligarmi, cavaliere”.

“Non sono sicuro di capire, signor conte…”

Il suo interlocutore alzò il palmo della mano aperta, per intimare a Ian di tacere.

“Voi mi avete già salvato più volte la vita, Monsieur. Ma non sarebbe servito a niente, poiché più di questo, col vostro esempio, voi avete contribuito a fare di me un uomo migliore.”

Ian non era sicuro di aver compreso appieno il senso della frase, era sconcertato e smarrito e temeva che il conte lo stesse ancora confondendo con qualcun altro che evidentemente gli somigliava.

Stava per ripeterlo al nobiluomo, quando questi si rivolse all’ufficiale a suo fianco e gli annunciò:

“Dinanzi a me vedete l’unico uomo, inglese o francese, al cui cospetto sono fiero di inginocchiarmi”.

Così dicendo, posò a terra un ginocchio e chinandosi davanti a uno Ian esterrefatto, si tolse lentamente il pesante elmo con l’effige del falco. Scrollò la scompigliata zazzera bionda, che si agitò per qualche istante nell’aria prima di ricadere arruffata sulla fronte.

“Ben tornato a casa, Falco d’Argento”, esclamò infine rivolto a Ian, con un sorriso colmo di emozione e di gioia.

Ian indugiò, ancora paralizzato da quella scoperta, sbalordito oltre ogni immaginazione.

“T-Ty?” balbettò ancora incredulo.

“Thierry de Ponthieu”, lo corresse lui, alludendo con un guizzo degli occhi al fatto che non erano soli. Poi Ty si alzò e lo avvolse in un abbraccio fraterno.

“So che hai un mucchio di cose da chiedermi, ma prima vorrei presentarti una persona”.

Ian osservò l’ufficiale che aveva di fronte, che intanto si stava liberando del proprio elmo.

E fu consapevole che si era sbagliato. Davanti a lui c’era una donna.

Anche se portava i capelli castani abbastanza corti per l’epoca, il taglio degli occhi, degli zigomi, le labbra, il collo sottile, rivelavano indubbiamente che era una ragazza, ancora giovanissima.

Ed era la prima donna che vedeva dentro un’armatura.

Ma la cosa che lo turbò di più, mentre la sua mente cominciava ad elaborare spontaneamente quelle informazioni, era l’aurea di autorità e di ingenua dolcezza che emanava, in splendido contrasto tra loro.

La ragazza avanzò di un passo e per compiacere il conte, di fronte ad un suo caro amico, si presentò porgendo il dorso della mano a Ian: “Il mio nome è Jeanne e provengo dalla regione della Lorena. Se voi siete amico del conte Thierry, vi prego di farmi l’onore di considerarmi anche vostra amica, Monsieur”.

Ian ghermì le dita affusolate della giovane e piegò il capo per sfiorarle il dorso della mano, senza che le parole che intendeva pronunciare, gli uscirono mai di bocca.

Di fronte, era impossibile sbagliarsi, aveva Giovanna D’Arco.


 

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Capitolo 8
*** Capitoli 16-19: riassunto ***


Senza aspettarselo, a poco a poco, scortandola e aiutandola nelle incombenze quotidiane, Ty si innamora di quella giovane, così devota al suo scopo, così determinata, con una volontà incrollabile, così sicura di sé, così genuina, così pura, così diversa da tutte le ragazze di cui si era vagamente infatuato nel XXI secolo. Un sentimento che fin dall’inizio gli sembra blasfemo sapendo chi e cosa lei rappresenta, eppure inestinguibile e innegabile. Lei non fa nulla per incoraggiarlo: porta i bei capelli castano chiari piuttosto corti per l’epoca, veste quasi sempre in abiti maschili anche quando si leva l’armatura, per non attrarre l’attenzione degli uomini e proteggere la sua purezza. Ciò nondimeno, Jeanne, accorgendosi dei sentimenti di Ty, pur apprezzando i modi gentili di quel giovane conte, deliziata da certi suoi imbarazzi quando la guardava e vedendolo così diverso dai nobili arroganti e brutali ch’ella conosceva, gli parla chiaramente: l’unico suo sposo è il Signore per il momento, aveva fatto voto di castità fino a quando a Dio fosse piaciuto e gli spiega che sarebbe stato Dio stesso a indicarle quando non sarebbe più servita ai suoi scopi e sarebbe quindi stata libera di dedicarsi ad un uomo. Prima del successivo scontro di Les Tourelles, pur disperandosi perché sapeva dai libri di storia che non sarebbe mai accaduto, Ty riesce ad ottenere da lei che quando quel giorno arriverà, sarà lui quell’uomo: un bacio quanto mai casto ma infinitamente prezioso per entrambi, suggellerà il loro patto segreto. Da quel momento crescerà in Jeanne un lacerante tormento interiore che la dividerà tra il giuramento fatto a Dio e a Juliette di guidare l’esercito francese alla vittoria scacciando tutti gli inglesi e il desiderio crescente e irresistibile di abbandonare tutto e vivere il suo amore con Ty. Lei era solo una ragazzina di 17 anni, perché non poteva vivere come tutte le sue coetanee?

Jeanne comunque non perde tempo e riforma l'armata trascinando con il suo esempio le truppe francesi e imponendo uno stile di vita rigoroso: fece allontanare le prostitute che seguivano l'esercito, bandì ogni violenza o saccheggio, vietò che i soldati bestemmiassero. Impose loro di confessarsi e fece riunire due volte al giorno, intorno al suo stendardo, l'esercito in preghiera. Il primo effetto fu quello di instaurare un rapporto di reciproca fiducia tra la popolazione civile ed i suoi difensori i quali, invece, avevano l'inveterata abitudine di tramutarsi da soldati in briganti quando non erano impegnati in azioni di guerra. Soldati e capitani, contagiati dal carisma della giovane, dal sostegno del conte Thierry de Ponthieu e dai suoi fedelissimi falchi d’argento come erano conosciute le sue milizie, sostenuti dalla popolazione di Orléans, si preparano alla riscossa.

Ian nel frattempo si allena ogni giorno, con feroce determinazione. Temprato nel fisico e nella volontà dalla vita severa cui si era sottoposto nei molti mesi di soggiorno nel monastero di Saint Michel, si adatta velocemente alla nuova armatura a piastre personalizzata per la sua stazza e secondo le sue richieste e ad uno stile di combattimento differente, diventando in poco tempo uno dei più terribili guerrieri di cui l’armata francese dispone e guadagnandosi la stima assoluta dei falchi d’argento, suoi compagni d’arme.

Gli inglesi intanto avevano accerchiato Orléans e avevano occupato otto fortezze intorno alla città, dalle quali la tenevano in scacco: le Tourelles, le bastie degli Augustins, di Saint-Jean-le-Blanc (sulla riva meridionale della Loira), di Saint-Laurent, di Saint-Loup, le tre dette "Londre", "Rouen" e "Paris" (sulla riva settentrionale), ed infine di Charlemagne (sull'isola omonima). Gli assediati erano tuttavia riusciti a tenere libera la porta di Bourgogne e quando Jeanne giunse sulla riva meridionale, in sella ad un destriero bianco, di fronte al piccolo borgo di Chécy, il 29 aprile, trovò ad attenderla il cosiddetto Bastardo d'Orléans, comandante delle forze a difesa dell’assedio.

Il comandante francese la pregò di entrare in città per quella via mentre i suoi uomini compivano manovre diversive, l'esercito ed i rifornimenti invece - necessari per sfamare la popolazione allo stremo - avrebbero atteso di poter essere traghettati attraverso il fiume non appena il vento fosse divenuto favorevole.

L'incontro tra il comandante e la ragazza fu subito burrascoso; dinanzi alla decisione di attendere che il vento girasse in modo da consentire l'ingresso dei rifornimenti e dei rinforzi, Jeanne, appena 17enne, rimproverò aspramente l'esperto uomo di guerra, sostenendo che suo compito sarebbe stato solo quello di condurre lei e l'esercito direttamente in battaglia, avrebbe preso lei le decisioni necessarie. Il Bastardo d'Orléans non ebbe neppure tempo di replicare poiché pressoché subito il vento mutò direzione e divenne favorevole al transito sulla Loira, consentendo l'ingresso per via d'acqua dei rifornimenti e dei rinforzi - circa 4000 uomini - che la ragazza aveva recato con sé.

Gli inglesi erano ora guidati da Lord Glasdale dopo che il precedente comandante, Thomas Montaigu conte di Salisbury, ferito gravemente al volto da alcuni detriti sollevati dal fuoco dell'artiglieria e ormai morente, era stato soffocato nel sonno dallo stesso Glasdale bramoso di prendere subito per sé il potere e avere via libera nel comandare l’assedio col pugno di ferro e disporre a suo piacimento dei prigionieri.

Nonostante la veloce conquista di una delle fortezze minori in mano agli inglesi, lo scontro decisivo sembrava tuttavia dover attendere ancora, quando un giorno gli informatori dei difensori riportarono a Ty la notizia che la notte del 7 maggio gli inglesi avrebbero ucciso, nel tentativo di fiaccare la morale degli assediati, proprio davanti agli occhi dei loro cari, tutti i prigionieri catturati. Le donne “eretiche” sarebbero invece bruciate vive sui roghi. Per Ty, Ian e Daniel è facile convincere Jeanne della necessità di sferrare l’attacco decisivo prima di quel massacro. E così facendo pianificano lo storico attacco a Les Tourelles.

Mattina del 7 maggio 1429, Orleans: iniziò l'attacco decisivo agli inglesi, barricati dietro al portone fortificato de Les Tourelles, secondo il copione dell'assalto frontale in voga ai tempi. La stessa sera, già ultimati tutti i preparativi per i roghi, secondo i piani di Glasdale sarebbe stato consacrato al sacrificio di tutte le dame francesi che aveva catturato. Inclusa Isabeau.

In testa alla formazione francese c’erano Ty e Ian. E ovviamente lei. Sebbene non le fosse stata affidata formalmente nessuna carica militare, Jeanne era la figura centrale nelle armate francesi: vestita da soldato, impugnando spada e bandiera bianca con raffigurato Dio benedicente il fiordaliso francese ed ai lati gli Arcangeli Michele e Gabriele, si rivolse così alle truppe schierate: “Agite e Dio agirà! Gli uomini d'arme si batteranno e Dio darà loro la vittoria!” e pronunciando alla fine le famose parole “Chi mi ama, mi segua!”. Il piano elaborato da Ian prevedeva come prima cosa di insidiare, mediante alcune chiatte incendiate, gli archi del ponte, che servivano in parte come struttura muraria di base della fortezza. Quando Glasdale si accorge di Ty, l’uomo che lui sapeva di aver ucciso e gettato a marcire nel fiume, di fianco a Jeanne, in prima fila, senza elmo e con ben in evidenza i colori del Falco d’Argento, un superstizioso terrore si impadronisce di lui, prima di riprendere poco dopo il controllo di se stesso e gettarsi con folle ferocia nel combattimento.

Nel mezzo dello scontro, Jeanne fu colpita come lei stessa aveva predetto il giorno prima. Pur ferita da una freccia tra il collo e la scapola, non smette di combattere né cerca di farsi curare sino al termine delle ostilità, difesa con coraggio da Ty e tra le grida di incitamento dei suoi uomini che nel fatto straordinario videro la conferma del disegno divino che stava per compiersi: avrebbero vinto poiché era Dio a volerlo.

Verso sera, quando ormai il comandante francese si stava preparando ad ordinare il disimpegno dallo scontro per il buio ormai incombente, Jeanne lo convinse a ritardare il proponimento, convinta a sua volta da Ty e Ian a trovare le forze necessarie per affrontare quella prova: Ian sapeva dai libri di storia che quella sera ci sarebbe stata la battaglia decisiva e non voleva dare tregua agli inglesi, che potevano impiegare quel tempo per mettere in atto il massacro dei prigionieri che avevano progettato.

Nel frattempo, Glasdale, furibondo per le perdite subite e per la paura irrazionale che attanagliava le sue truppe dinanzi agli straordinari comandanti dell’esercito nemico, decise che era il momento di sferrare un duro colpo al morale dei nemici e ordinò di portare immediatamente tutti i prigionieri e le donne ai roghi già allestiti. 

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Capitolo 9
*** Capitolo 20 ***


L’aria della boscaglia, che fiancheggiava a poca distanza la sponda meridionale della Loira, era pregna dell'aroma penetrante della resina che colava dalle cortecce degli alberi, dell'odore di umido che saliva dalle foglie marcescenti sul terreno e del sapore piacevolmente fresco del muschio. Rovi e felci erano dappertutto, intralciando il passo di Ty appesantito dall’armatura. Non dovette tuttavia attendere molto prima di trovarla: a tradirla fu un riflesso che filtrava dalla corazza di cui si era liberata e che ora giaceva abbandonata a terra.

Jeanne, appoggiata con la schiena ad un grosso tronco, sembrava assorta in preghiera. La fasciatura leggera dov’era stata colpita dalla freccia trasudava ancora sangue.

Ty si avvicinò in silenzio e attese che lei notasse la sua presenza.

“Cosa ci fate qui, Monsieur Thierry? Vi avevo già detto che intendevo pregare da sola…”

“Siete ferita, io non vi lascio da sola nemmeno un minuto finché non vi rassegnate a farvi curare come si deve!” la rimproverò il ragazzo. Ian gli aveva spiegato che la ferita non sarebbe stata fatale, ma non poteva sopportare di vederla soffrire e non poter fare nulla per lei.

“Se morirete adesso per aver trascurato di curarvi, chi ci guiderà? Come farò io senza la vostra guida?”

“Tutti dobbiamo morire prima o poi, signor conte, è solo questione di sapere quando e dove… Io non pretendo di conoscere la volontà del Signore, ma di una cosa sono sicura: so che Egli mi proteggerà finché non avrò assolto il compito che mi ha affidato.”

Ty non poteva dimenticare nemmeno per un secondo la sorte crudele che il Signore aveva predestinato a quella sua giovane figlia ma cercò, una volta di più, di non farsi sopraffare da quel pensiero. Jeanne, tuttavia, dovette cogliere qualcosa dal suo sguardo poiché aggiunse serena:

“Voi vi preoccupate per me e io vi ringrazio, ma non ne avete ragione. Guarirò presto, abbiate fiducia in Dio, Monsieur Thierry.”

“Voi sanguinate ancora e mi chiedete di non preoccuparmi. Voi sfidate l’esercito invincibile di Glasdale e mi chiedete di non preoccuparmi… Eppure, sapete bene che non posso, perché già conoscete ciò che provo per voi…” Jeanne gli afferrò il braccio con forza, impedendogli di continuare.

“Vi prego Monsieur, non ditelo!” Si ribellò Jeanne. “Pure se sapessi di cosa state parlando, anche voi conoscete qual è il mio compito, vi prego, andate via!”

“Sono sicuro che non è davvero ciò che volete... Madame…”

“No!” lo interruppe ancora Jeanne. “Non adesso, vi prego, andate via!” lo scongiurò.

Ty aveva il terrore di doverle tacere per sempre i suoi sentimenti e allo stesso tempo temeva il momento in cui le avrebbe parlato con sincerità, confessandole tutto.

Non poteva sapere che una paura persino maggiore tormentava anche lei.

“Per l’amor di Dio, andate via! Vi prego!” lo supplicò ancora Jeanne mentre cercava di ricacciare indietro le lacrime.

“Sapete che non posso, dunque non chiedetemelo più.”

Jeanne ristette.

Ty si avvicinò ancora di più. Sfiorò con le dita il braccio e poi  la spalla nuda di lei, percorrendola delicatamente fino alla base del collo, indugiando dove la fasciatura era intrisa del sangue ancora fresco che filtrava dalla ferita. 

Inaspettatamente, chiudendo gli occhi, lei piegò il capo proprio da quella parte, fino a strofinare con infinita dolcezza la guancia contro la mano del ragazzo. Dopo qualche momento, quando infine lei risollevò il capo e socchiuse gli occhi, una sola lacrima che Jeanne non era riuscita a trattenere, le imperlava il viso.

Incredulo, Ty lasciò che le sue dita toccassero quella lacrima: gli parve cristallo liquefatto e credette che fosse la cosa più preziosa che avesse mai visto. Era la prova dell’amore di Jeanne per lui.

Quella goccia che adesso si scioglieva tra le dita, gli donò finalmente il coraggio di vincere ogni remora e di pronunciare dinanzi a lei, le parole che fino ad allora aveva ripetuto mentalmente solo a se stesso.

“Dal primo momento che vi ho vista ho saputo che eravate parte del mio destino, Madame… ed è da quello stesso istante che io so di amarvi.” Jeanne, con un’espressione di muto sgomento dipinta sul viso, scuoteva il capo come per negare quelle parole e più cercava di negarle, più le lacrime scorrevano ora numerose a rigarle il volto.

“Vi amo adesso e non importa se voi mi amerete oppure no, se vivrò o morirò, se voi vivrete o morirete, io amerò per sempre solo e soltanto voi.”

Jeanne non disse nulla. Ma una forza irresistibile la attirò ancora di più verso il ragazzo.

Terrorizzati com’erano, di stare così vicini, nessuno dei due osò più parlare.

 Ormai erano così vicini che sarebbe stato assurdo persino guardarsi ancora. Lei chiuse gli occhi per prima e Ty non ebbe il tempo di pensare ad altro, che già si accorse che la stava baciando.

 

 

***

 
 

Il tempo si arrestò e riprese a scorrere solo quando le loro labbra si disgiunsero.

Fu allora che ebbero il coraggio di guardarsi ancora negli occhi, a lungo, increduli di quanto era accaduto. Finché Jeanne, stringendo tra le dita la mano di lui che la sfiorava, pronunciò la sua promessa.

“Nulla accade senza che Dio non voglia, Monsieur Thierry, il Signore ha sempre una buona ragione per ogni cosa. Sarà Egli stesso a indicarmi quando non sarò più utile ai suoi scopi e sarò libera di dedicarmi ad amare un uomo”. Adesso i suoi occhi verdi e arrossati, brillavano lucidi ma non piangevano più. “Quando quel giorno arriverà, se mi amerete ancora, sarò vostra e voi sarete quell’uomo.”

Dunque era questo l’amore, pensò Ty mentre udiva le parole che aveva sempre desiderato ascoltare da lei e prometteva:

 “Quando quel giorno arriverà, se mi amerete ancora, sarò vostro e voi sarete la mia donna.”

Quando gli fu finalmente chiaro il significato di ciò che si erano detti, l’emozione si agitò così violentemente in lui, che gli sembrò di percepire con chiarezza un brivido diffondersi dall’addome a tutto il suo corpo. No, ammise, questo era più dell’amore che si era sempre figurato: era amare scoprendo di essere amati.

La baciò sui soffici capelli castani, l’aiutò a indossare l’armatura e si avviarono mano nella mano verso l’accampamento, dove l’esercito di armati e la cavalleria pesante di Chatel-Argent capeggiata da Ian li aspettavano.

Le aveva appena detto di amarla, rimuginava mentre si incamminavano, eppure adesso quelle parole gli apparivano già insufficienti, deplorando che non ne esistessero di migliori per esprimere appieno alla ragazza i suoi sentimenti. In fondo tutti gli innamorati, di qualunque epoca, si ripetevano da sempre quelle stesse parole e a lui sembrava che il suo amore per Jeanne dovesse essere unico, diverso dagli altri milioni di amori che esistevano in quel momento. “Giuratemi solo di sopravvivere finché non arriverà quel giorno”, udì invece aggiungere dalla sua stessa voce. Jeanne non seppe mai perché Ty le strinse così forte le dita, pronunciando quelle parole.

Jeanne non aveva paura della morte, né di morire in nome del suo Signore, ma per la prima volta conobbe la paura di morire senza aver amato un uomo.

Ancora non sapeva che la Morte aveva già posato gli occhi su di lei.

 

 

***

 

 

“Dov’è? Dov’è quella cagna francese! Portatela qui”, tuonò Glasdale fuori di sé, “ADESSO!”

“Perdonatemi, Milord, dobbiamo liberarla? L’abbiamo incatenata allo steccato di uno dei roghi, come vostra signoria aveva ordinato”.

“La voglio sgozzare io stesso! Voglio gettare la sua graziosa testa ai piedi di quell’infame francese che ha bruciato questa fortezza, obbedite!”

“Perdonatemi se insisto, mio signore, il fumo che sale dalle chiatte incendiate e dal bastione non consentono un agevole passaggio verso il ponte”, proferì il cavaliere inglese, non osando alzare lo sguardo oltre gli stivali del suo comandante,  “non sarebbe più semplice bruciarla insieme a tutte le altre sgualdrine francesi?”

Lord Glasdale, inferocito, avanzò di un passo verso il suo luogotenente.

 “Quale parte del mio ordine non vi è ancora chiaro, sir Falstolf?”, sibilò con un sorriso sardonico dipinto sul volto e poi, senza alcun preavviso, scagliò verso l’ufficiale un brutale calcio in pieno ventre che lo piegò in due senza fiato e lo fece inginocchiare a terra, mentre boccheggiava nel tentativo di respirare.

“Non permettetevi di discutere una seconda volta un mio ordine. Ora andate e portatemi quella donna! Avete compreso le mie parole, adesso?”

L’ufficiale, mentre ancora tossiva e non riusciva a raddrizzarsi dal dolore, annuì e con passi incerti sparì dalla vista del comandante inglese.

Oltre il portone posteriore della fortezza di Les Tourelles, le fiamme salivano alte, ammorbando l’aria intorno e rendendola irrespirabile. La cancellata posteriore si affacciava direttamente sul ponte di pietra lungo circa quattrocento metri, eretto per congiungere la sponda meridionale della Loira alla città di Orléans.

Poco prima del punto in cui gli assediati avevano interrotto il ponte durante la ritirata, si ergevano una dozzina di rozze impalcature sovrastate da palizzate, alle quali erano state incatenate le donne francesi catturate. Gli abitanti della città, con orrore, avevano subito compreso che si trattava di roghi collettivi, che avrebbero presto offerto il loro macabro spettacolo ben visibile dalle mura di Orléans.

Ma più di questo, ogni cittadino avrebbe ascoltato le urla disperate di quelle disgraziate: sarebbero state le grida delle loro mogli e delle loro figlie.

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Capitolo 10
*** Capitolo 21 ***


 

Ty l’aveva fatta semplice, “Il mio posto è stare vicino a Jeanne e proteggerla, tu invece, molto più di me, sai cosa devi dire, cosa devi fare… qualunque cosa tu faccia mi renderai orgoglioso di te, ora va… i tuoi uomini ti aspettano…”

Così dicendo, era salito a cavallo e affiancatosi a Jeanne aveva atteso che la ragazza ordinasse nuovamente l’attacco a Les Tourelles.

Nonostante la ferita, impugnando la spada e la bandiera bianca con raffigurato Dio benedicente il fiordaliso francese, Jeanne comandava ancora i suoi uomini dalla prima linea.

Da dov’era adesso, al riparo con tutta la cavalleria pesante dagli sguardi degli inglesi, Ian non poteva ascoltare le parole che la ragazza rivolgeva alle truppe, udì soltanto il grido che pronunciò alla fine:

“Agite e Dio agirà!”

Poi l’immenso reggimento di soldati reclutati tra il popolo  si era lanciato una seconda volta verso il castelletto. Li aveva osservati mentre avanzavano camminando per poi trasformare progressivamente il passo in una corsa leggera, urlando per darsi coraggio.

Ian scrutò la posizione dell’esercito inglese ai piedi della piazzaforte in fiamme. Tra poco il sole sarebbe tramontato, nascondendo finalmente alla vista la mattanza dei corpi straziati nella precedente battaglia e di quelli che ancora non sapevano che non avrebbero più rivisto un’alba. Con l’animo freddo e risoluto di chi sapeva di non aver nulla da perdere, volse quindi lo sguardo verso le sue truppe.

Li vide stremati, feriti, decimati dal precedente scontro, sporchi del loro stesso sangue e di quello degli uomini a cui avevano tolto la vita, ma i soldati di Chatel-Argent che potevano ancora reggersi su un cavallo erano tutti dinanzi a lui: la cavalleria pesante in prima linea e gli arcieri a cavallo nella retrovia. Cercò Daniel in mezzo agli altri cavalieri e gli rivolse un silenzioso saluto. Sapendolo nella retroguardia con gli arcieri, attenuava un poco l’apprensione, ma non gli alleggeriva la coscienza: stavano contravvenendo per l’ennesima volta al patto che i due amici avevano inutilmente stretto in passato. La sorte sembrava prendersi gioco di loro e più giuravano di tenersi lontano dal pericolo, più il pericolo infine li reclamava a sé, come se non fossero mai davvero padroni del loro destino.

Con la mano libera dalle briglie, accarezzò il collo già leggermente sudato del poderoso cavallo da guerra. L’animale nitrì e si lasciò condurre docilmente davanti allo schieramento dei cavalieri. Ancora poco e sarebbe stato scontro in campo aperto con gli inglesi e allora, in un modo o nell’altro si augurava, avrebbe potuto chiudere i conti col destino.

Non aveva più paura di morire oramai, non temeva più nulla per sé dopo quanto era accaduto, ma di una cosa aveva ancora il terrore: cadere in battaglia senza aver rivisto un’ultima volta Isabeau, morire senza sapere di averla salvata, senza conoscere se lei era ancora viva, se aveva sofferto. Se le avevano fatto del male. Ognuno di questi interrogativi era doloroso in modo intollerabile, ogni dubbio era insopportabile e l’avrebbero divorato finché fosse impazzito oppure avesse finalmente trovato le risposte che cercava.

Era più che mai consapevole che solo la battaglia imminente avrebbe placato la sua rabbia e solo il sangue di William Glasdale avrebbe estinto la sua sete di vendetta.

Daniel l’aveva affermato apertamente e Ian sapeva che non si sbagliava: il rapimento di Isabeau l’aveva cambiato per sempre: come una crisalide, quell’episodio l’aveva aiutato a rimuovere definitivamente il vecchio involucro, ma dalla muta non ne era emersa una farfalla, ma il cavaliere temibile e implacabile che era diventato. Lui apparteneva al Medioevo ormai, fino all’ultima fibra del suo essere e gli scrupoli di civiltà dell’uomo moderno erano ricordi lontani ormai parecchi secoli.

Con ancora questi pensieri che gli affollavano la mente, fece caracollare il cavallo per qualche passo, attendendo che le voci degli uomini in formazione di fronte a lui si quietassero prima di prendere la parola.

“Cavalieri, ascoltatemi…” esordì non senza una traccia di emozione nella voce e sull’adunata scese progressivamente il silenzio. “Come me, molti di voi hanno già affrontato innumerevoli volte i momenti che precedono la battaglia, chiedendosi ogni volta se sarà l’ultima…” Ian attese un istante, abbracciando con lo sguardo le centinaia di armati schierati in rassegna intorno allo stendardo del Falco d’Argento.

“Voi sapete perché siete qui, intorno a questo stendardo”, continuò, avvicinandosi e serrando con rabbia l’asta che reggeva il blasone.

“Conoscete, cavalieri, il tributo di sangue e di gloria che la Francia esige da questo esercito, più alto di quanto oserebbe mai chiedere a qualunque altro, poiché grande è la nostra fama e più grande ancora…”, urlò poi con tutto il fiato che aveva in gola, “E’ IL NOSTRO VALORE!”

Un boato fu la risposta, mentre un fremito di orgoglio percorse ogni uomo e sembrò quasi prendere vita, scintillando sulle spade sguainate in segno di saluto alle parole di Ian.

“Un giorno, forse, arriverà il momento che esausti, rotti, senza più sangue nelle vene, non avremo più la forza di combattere… Ma io vi dico, che non è oggi quel giorno!”

Allentò la presa sulle redini e con una leggera pressione delle gambe ordinò al cavallo di muoversi al passo lungo tutto il fronte dello schieramento.

 “Un giorno forse indietreggeremo dinanzi al nemico, ci lasceremo spaventare dalla morte e anzi la invocheremo. Ma ancora vi dico, che oggi… non è quel giorno!”

“Falchi d’Argento! Arriverà forse il momento in cui lasceremo indietro gli amici, abbandoneremo i  compagni e persino la speranza. Ma vi giuro…”, Ian attese un istante prima di liberare il suo grido, “che oggi non è quel giorno!”

A far da eco all’impeto di queste parole, fu stavolta il clangore dell’acciaio colpito ritmicamente dalle armi dei cavalieri: per qualche momento il cuore di ogni uomo pulsò allo stesso ritmo delle centinaia di spade e di lance contro gli scudi, un battito così assordante che Ian rimase invano in attesa che si placasse.

“E se mai arriverà il tempo”, urlò sopra quel frastuono, “in cui tutti noi saremo costretti a piegarci, in ginocchio, davanti alla corona d’Inghilterra, sappiate ancora…”, li spronò a gran voce, “che oggi non è quel giorno!!”

 “OGGI NON E’ QUEL GIORNO!!” ruggirono le milizie di Chatel-Argent, con un’unica terribile voce che fece tremare gli animi e la terra, sopra il rumoreggiare delle grida e del metallo percosso adesso senza sosta.

“No, non è oggi quel giorno”, confermò qualche tempo dopo il ragazzo e tra gli armati calò lentamente il silenzio, disturbato soltanto dallo scalpitare delle cavalcature, ancora innervosite dalle grida degli uomini.

 “Perché oggi, cavalieri, è invece il giorno che liberemo le nostre donne e i nostri fratelli! Oggi è il giorno che spezzeremo le loro catene!” Ian si concesse un solo istante per riprendere fiato. “OGGI!” tuonò infine scandendo a squarciagola ogni singola parola, “È IL GIORNO! CHE SCRIVEREMO! LA STORIA! DI FRANCIA! SIETE CON ME FALCHI D’ARGENTO?”.

 Un boato assordante di approvazione vibrò a lungo nell’aria, finché lo stesso Ian chiese ancora, con voce ormai roca:

“Siete tutti con me fino alla morte?”

“Fino alla morte!” replicarono i cavalieri in un solo boato, mentre Ian sguainava e sollevava in alto la spada, pronto a gettarsi nella furia della battaglia. In quel momento, mentre ogni uomo replicava il gesto del loro comandante, migliaia di riflessi catturati dalle lame balenarono sull’intera adunata, tingendo il metallo già intriso nel sangue con il rosso acceso del sole morente.

Ian volse rapidamente lo sguardo verso l’esercito guidato da Jeanne e Ty, per cogliere la loro posizione: era tempo di agire.

“E allora, cavalieri… per Jeanne d’Arc! Per amore della nostra terra! E nel nome di Dio… Andiamo a forgiare il nostro destino!”

Isabeau, amore mio, sto arrivando, aspettami, ti prego aspettami… fu il suo ultimo pensiero, prima di scagliarsi in avanti, verso la fortezza rischiarata dai bagliori delle fiamme che la consumavano.

 

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Capitolo 11
*** Capitolo 22 ***


Lord Glasdale osservò quell’esercito gettarsi sconsideratamente tra le fauci spalancate delle sue truppe.

“Arcieri, pronti al mio via!”

“Al suo segnale, Milord.

“Falceremo quegli stolti mangiarane come fili d’erba secca!” Glasdale era fiducioso che il long bow inglese, l’arco lungo con una gittata di novanta metri con il quale tutti i sudditi del Re d'Inghilterra avevano il dovere di esercitarsi, avrebbe decimato la fanteria leggera nemica con un’unica raffica.  “Tenete pronta la retrovia per il colpo di grazia, voglio che si lanci in avanti non appena la prima scarica di frecce si sarà abbattuta su di loro”.

***

“Disporsi in colonna!” Urlò Ian alle truppe a cavallo, “tutti in fila per due!”

Pochi alberi intralciavano il passo sullo sterrato e man mano che si fossero avvicinati alla riva meridionale della Loira, i tronchi si sarebbero trasformati in radi cespugli e gli ostacoli si sarebbero quasi del tutto diradati.

A uno a uno le centinaia di cavalieri confluirono secondo i piani in tre lunghe fila, una centrale e due molto larghe ai lati.

Ian si sporse in avanti per cercare di scorgere la posizione degli uomini di Jeanne e Ty davanti a loro. Ancora poche centinaia di passi e avrebbero raggiunto la via maestra che portava al vecchio monastero vicino alla fortezza, risultando da quella distanza un facile bersaglio per il tiro degli arcieri nemici.

Doveva fare in fretta, l’effetto sorpresa avrebbe funzionato solo coordinando con precisione i movimenti dei due schieramenti.

 “Avanti cavalieri!” spronò i suoi uomini e diede lui stesso l’esempio, allentando la presa sui finimenti di cuoio delle redini e spingendosi avanti per primo. Dietro di lui, le colonne di armati si mossero insieme.

Stringendo i polpacci sul fianco dei cavalli e scaricando il peso sulle reni, i cavalieri tramutarono il passo iniziale con cui la cavalleria s’era inizialmente mossa, in un’andatura al trotto.

Qualche istante dopo, i capofila ordinarono di procedere al galoppo e in poco tempo la cavalleria di Chatel Argent fu quasi a ridosso dell’esercito di Jeanne, approfittando del leggero pendio per restare ancora nascosta agli occhi degli inglesi.

Sul fronte opposto, Glasdale stava valutando la distanza dei francesi e decise che erano quasi a tiro. Il suo sorriso si tramutò in un ghigno feroce, nel momento in cui i suoi pensieri si posarono sulla vittoria imminente. Sì, finalmente avrebbe catturato, meglio ancora se viva, la giovane strega e avrebbe tagliato la gola, con la sua stessa lama, all’insolente che aveva dato alle fiamme la roccaforte di Les Tourelles.

Dopo l’incendio della bastia, per qualche tempo ammise di aver temuto il peggio, che sciocco era stato a pensare che un francese potesse sconfiggerlo in strategia militare!

La ricca e potente Francia, popolata da circa venti milioni di abitanti, stava per essere piegata dall’Inghilterra cinque volte più piccola e la causa immanente della vittoria inglese risiedeva nella loro indiscutibile supremazia militare.

I francesi, considerò ancora osservando la loro linea esposta senza copertura ai suoi arcieri, erano tanto ottusi che si infliggevano la sconfitta da soli. Ma il suo disprezzo era soprattutto per le loro donne: erano streghe come quella folle con l’armatura o sgualdrine, come ogni buon inglese timorato di Dio sapeva.

Con ancora quel ghigno spietato sul volto, si preparò ad alzare il braccio, per segnalare agli arcieri di tendere gli archi e mirare.

Rimpianse un poco di non avere più le possenti colubrine che non aveva ancora potuto  far calare dalla fortezza: amava morbosamente osservare l’effetto di un colpo di colubrina su un essere umano e si compiaceva delle devastazioni che procurava alla carne.

Ebbe un ultimo pensiero per la prigioniera francese, che odiava più di qualsiasi altro nemico. Tirò fuori dalla piccola sacca che teneva appesa alla cinta dello spadone, una lunga ciocca dei suoi capelli d’oro e se la passò tra le dita.  Assaporò con eccitazione, il gusto di più di una crudele tortura che avrebbe potuto infliggerle, prima di ucciderla. Falstolf la stava conducendo da lui, si compiacque, e questa volta Thomas Montaigu, compianto conte di Salisbury, non sarebbe più stato in grado di salvarle la vita. No, non avrebbe avuto fretta con lei, sarebbe stato il piacere sublime e cruento con cui brindare alla vittoria.

Spinse ancora lo sguardo nella direzione del fronte francese: sapeva che non appena avesse abbassato il braccio, tenendolo teso davanti a sé, una nube nera e acuminata avrebbe investito i suoi odiati nemici, spalancando loro le porte dell’inferno.

 

***

 

 Non appena Ty udì arrivare le prime file di cavalieri capeggiati da Ian alle loro spalle, comprese che era giunto il momento di giocare a carte scoperte. Bastò un silenzioso cenno d’intesa con Jeanne e come convenuto, il profondo e cupo suono di un corno fu il segnale che diede il nuovo ordine agli uomini che avanzavano a piedi: all’improvviso l’esercito compatto spalancò un varco nel mezzo, aprendosi in due tronconi.

 Lo spazio era sufficiente per lasciare passare al centro dello schieramento, la fila centrale di armati a cavallo lanciati a folle velocità, mentre le due restanti ali aggiravano le estremità della formazione in marcia e la superavano con agilità.

Quando Glasdale si accorse dello strano movimento nelle linee francesi, era troppo tardi: in quello stesso momento echeggiò il sibilo inconfondibile dello stormo di frecce che davanti a sé iniziava a disegnare la sua mortale parabola in cielo.

“Arrestarsi!” gridò Ty, “Tutti al riparo sotto gli scudi!” fece appena in tempo ad urlare proprio mentre Glasdale dava ordine agli arcieri di liberare i loro dardi micidiali.

Tutti gli uomini si rannicchiarono più che poterono sotto gli scudi, mentre per alcuni secondi che sembrarono non dovessero mai finire, le frecce rimasero sospese nell’aria, come una nuvola oscura e sinistra. Poi all’improvviso, in un solo istante, l’intera nube li inghiottì, rivelando i suoi aculei mortali.

Sibilando tutt’intorno nell’aria, le frecce s’infransero sul metallo, si conficcarono sul legno, si disseminarono sul terreno, spandendo ovunque morte e lamenti. Alcune trovarono ugualmente un pertugio, dilaniando braccia, gambe e piedi. Altre infransero gli scudi e trafissero gli sventurati. Dopo che quella nube infernale si fu abbattuta, non furono pochi i gemiti e le grida di sofferenza che si levarono sul campo di battaglia.

La cavalleria pesante disposta nelle tre fila oltrepassò velocemente il nugolo di frecce, concedendo al nemico un bersaglio troppo esiguo per poter mietere vittime direttamente tra i cavalieri, protetti dalle armature. Più di un cavallo fu invece ferito dai dardi che piovevano dal cielo, sbalzando violentemente i loro cavalieri a terra, nella polvere. Ma il cavaliere precedente prese il posto di quello caduto, nessuno si fermò o rallentò il passo, la macchina terribile ordita da Ian era lanciata inarrestabile sul suo obiettivo e niente avrebbe potuto intralciarla.

“Ora! Puntare le lance!” Le scintillanti punte di metallo scattarono immediatamente verso il basso, parallele al terreno. “Spargersi a ventaglio!”, tuonò subito dopo Ian, oltrepassando velocemente la via maestra.

Le retrovie di ogni fila, approfittando del terreno ormai spianato, aumentarono l’andatura per raggiungere e affiancare ai lati i cavalieri che li precedevano in prima linea.

“Lancieri, serrate! Serrate le fila!”, ruggì ancora Ian.

 Le ali si unirono progressivamente al centro, mentre la formazione disegnava la caratteristica linea del cuneo, distribuendosi lungo tutta la larghezza del fronte. Gli inglesi che si aspettavano di fronteggiare la fanteria leggera, si trovarono all’improvviso bersaglio di uno spiegamento di cavalleria pesante, lanciata a tutta velocità contro di loro.

 

***
 
 

“Quel dannato francese, che bruci all’inferno!” Lord Glasdale era incredulo e la sua collera incontenibile, mentre osservava la linea dei cavalieri che stava per abbattersi ineluttabilmente contro le sue truppe. Senza picchieri a contrastare le cavalcature e le lance del nemico, la battaglia si sarebbe presto risolta in una carneficina.

Realizzò troppo tardi che Ian aveva nascosto i cavalli, inutilizzabili per l’iniziale assalto alla fortezza, nella retroguardia ai margini del bosco. Dopo aver dato alle fiamme gli archi del ponte, che servivano come struttura muraria di base della roccaforte, all’estremità della riva meridionale, aveva costretto i suoi uomini ad abbandonare la fortezza e a combattere in campo aperto, se non volevano essere divorati dalle fiamme o uccisi dalle esalazioni di fumo.

“Armate le balestre e gli archi! Restate ai vostri posti!”, il comandante inglese urlava ordini che nessuno eseguiva o dava segno di udire. “Ucciderò con le mie stesse mani chi non obbedirà, codardi! Vigliacchi! Traditori!”, ripeteva con un’espressione spaventosa che gli mascherava il volto. Ma molti uomini, terrorizzati dagli schiumanti cavalli da guerra che sopraggiungevano al galoppo e dalle lance puntate su di loro, stavano già abbandonando la posizione per darsi alla fuga. Menò selvaggiamente nell’aria più di un fendente con il suo spadone, senza poter raggiungere nessuno di quei disertori. Finché la sua furia impazzita trovò finalmente un bersaglio a portata della sua lama.

L’impatto dell’acciaio che strappava maglie metalliche e carne, un suono a lui piacevolmente familiare e che amava, gli restituì la lucidità per pensare. Poteva anche succedere che Les Tourelles cadesse, giurò a se stesso, ma prima che fosse accaduto, si sarebbe preso la vita di quel francese e della sua donna.

Fu in quello stesso momento che Isabeau, a poco più di un centinaio di metri di distanza dal fronte, udì le grida degli inglesi e il frastuono della cavalleria, senza poterla vedere.

Sir Falstolf, seguito da quattro soldati, percorreva a grandi passi il ponte, affrettandosi proprio verso la palizzata cui era incatenata, con un orribile coltellaccio in mano. Quando la ragazza vide ogni soldato stringere una torcia infuocata, seppe che era giunto infine il momento di pregare.

Non si sarebbe mostrata debole di fronte a quegli animali e soprattutto davanti a lui, che avrebbe goduto ancora maggiormente di quello spettacolo. Ma quando ebbe la certezza che non avrebbe più rivisto Ian, che non avrebbe più potuto stringere tra le braccia Marc e Michel, fu come se le fiamme la stessero già divorando, straziandole l’anima. Si fece coraggio, ordinò al suo corpo di non piangere, serrò i denti, affondò le unghie nella carne, ma la sofferenza di non rivedere mai più i suoi cari era così crudele, così atroce. Così ingiusta... La vista era sempre più velata e confusa dalle lacrime che si affollavano sulle palpebre. Falstolf era lì.

Isabeau non si arrese, chiuse gli occhi per qualche istante e quando li riaprì per guardare con disprezzo gli inglesi davanti a lei, aveva già ricacciato indietro la disperazione e il pianto.

Fu proprio allora che vide in lontananza un uomo, in sella ad un possente cavallo da guerra, mentre superava al galoppo lo sbarramento di fumo all’inizio del ponte.

Era Daniel.

 

 

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Capitolo 12
*** Capitolo 23 ***


Dalla fessura dell’elmo calato sul viso, mentre era lanciato al galoppo, Ian poteva ormai scorgere chiaramente i suoi avversari.

 Sentiva i suoi respiri risuonare sempre più forti e affannosi all’interno dell’elmo, finché lentamente le grida, il calpestio degli zoccoli e ogni altro rumore, si ridussero soltanto all’eco assordante del suo ansimare: la concentrazione adesso era assoluta. Percepiva l’adrenalina scorrergli nel sangue e la paura, com’era normale che fosse, istillarsi brutalmente in lui. Ma Ian aveva imparato che tra poco, non appena i due schieramenti si fossero scontrati, non ci sarebbe più stato tempo per pensare o per tremare.

In battaglia non c’era tempo per nulla, se non per vivere o morire.

In una frazione di secondo, sapeva di dover agire per strappare la propria vita alla morte, offrendole in cambio la vita di un altro e un istante dopo, tutto ricominciava daccapo, in un balletto che si sarebbe concluso soltanto quando la terra fosse stata abbastanza pregna del sangue degli uomini. E  prima che si fossero contati vincitori e vinti, morti e vivi, spesso in quel macabro spettacolo si perdeva persino la memoria del motivo per cui si era combattuto.

Ian strinse gli speroni sui fianchi della sua cavalcatura, trasformando l’andatura al galoppo nella carica finale, subito imitato dai suoi uomini.

 Le figure poco prima indistinte degli inglesi, acquistarono volti ed espressioni. Nella moltitudine scelse un bersaglio, sforzandosi di liberare la mente da qualsiasi altro pensiero che non fosse il suo obiettivo. D’ora in avanti solo l’istinto e l’esperienza l’avrebbero guidato e l’unica voce che avrebbe sentito, fino al momento in cui tutto fosse finito e si fosse sbarazzato dell’elmo, sarebbe stato soltanto l’eco pesante del suo respiro.

Gli inglesi davanti a lui erano visibilmente sconcertati dall’arrivo della cavalleria pesante e fuggivano da ogni parte, come selvaggina braccata dai battitori.

Quando scorse la prima linea di cavalieri abbattersi sul groviglio di soldati inglesi in rotta, si aspettò già di godere del sapore dolciastro della vendetta, ma nel massacro che seguì non trovò nulla che potesse placare la sua furia.

Cercò di convincersi che non gli interessava la sorte dei suoi nemici, che lui voleva un solo uomo, William Glasdale, ma quella carneficina non fece altro che accrescere la sua irritazione.

Davanti a lui, un inglese attraversò il suo campo visivo correndo disperatamente, zigzagando nel tentativo di sfuggire al nemico, che comparve subito dopo all’inseguimento, spronando il suo destriero. Il fuggitivo inciampò in un compagno già cadavere e mentre il francese sopraggiungeva, alzò le braccia per difendersi, incrociandole davanti al volto. Il cavaliere aveva già spezzato la sua lancia contro un altro avversario e Ian lo vide ergersi in equilibrio sulle staffe e prendere la mira con la spada. Quando fu colpito, l’inglese crollò a terra e non si rialzò mai più.

 La cavalleria francese, sebbene notevolmente inferiore nel numero, rase al suolo la fragile resistenza opposta dai fanti, dagli arcieri e dai balestrieri delle guarnigioni inglesi di Les Tourelles e di Augustins, lasciando a terra, disseminate tra i corpi martoriati dei loro avversari, le lance spezzate e insanguinate dei cavalieri.

Il suo cuore pulsava ancora ad un ritmo impossibile, ma Ian non lo ascoltava, né vedeva davvero la strage sotto i suoi occhi. In testa aveva soltanto l’eco del pesante respiro che risuonava dentro l’elmo e la sete di vendetta contro chi aveva rapito e forse violentato, torturato e ucciso la donna che amava.

Dopo aver attraversato completamente le file nemiche, fin quasi ad arrivare al cancello frontale della bastia in fiamme, cercò Daniel, individuandolo nel mezzo degli arcieri a cavallo che sopraggiungevano con la retroguardia della cavalleria. Quando lo raggiunse, scostò rapidamente l’ingombrante elmo per rivolgersi all’amico:

“Presto, attraversa il ponte e cerca di salvare le donne!” Non menzionò Isabeau, non voleva sperare invano, ma non poteva nemmeno ammettere che fosse troppo tardi. 

Daniel annuì e subito dopo si girò sulla sella per individuare gli uomini che secondo il piano di attacco dovevano accompagnarlo sul ponte, “Ci vediamo dopo la battaglia, cerca di non fare l’eroe…”.

“Nemmeno tu”, replicò asciutto Ian.

 Il senso di urgenza non permise a Daniel di dilungarsi oltre. Avrebbe voluto rassicurare l’amico, dirgli che sarebbe tornato con Isabeau, ma capiva che le sue parole sarebbero state inutili, Ian sapeva che lui avrebbe fatto tutto il possibile e  nella loro amicizia non servivano parole superflue.

  “Arcieri, a me!” li chiamò a raccolta Daniel, urlando sopra le grida della battaglia. Gli uomini scelti si riunirono immediatamente davanti alle rovine in fiamme della fortezza. Ognuno di loro tirò fuori da un borsone un grande panno che poco prima era stato imbevuto nell’acqua. Stesero gli ampi drappi bagnati sulle loro cavalcature, avendo cura di coprire il muso e le spalle dei cavalli. Loro stessi, si coprirono con altri tessuti inzuppati e quando furono pronti, Daniel ordinò: “Vado io per primo, voi seguitemi subito dopo con gli archi pronti!” così dicendo, lasciò andare le redini e con un colpo secco ai reni del cavallo, si lanciò attraverso il portone frontale della fortezza, avvolto dalle colonne di fumo nero.

Ian osservò Daniel mentre scompariva oltre i miasmi del fuoco, di fronte all’entrata di Les Tourelles. Il destino delle donne prigioniere e forse della stessa Isabeau, adesso era in mano dell’amico. Lui, invece, doveva finire ciò che aveva iniziato.

“Falchi d’Argento!” attirò a gran voce l’attenzione delle sue truppe, “Indietro, ritirata! Ricongiungersi alla fanteria!”

Mentre dava l’ordine, tirò sulla destra i finimenti delle redini, facendo girare il cavallo su se stesso. Prima che la retroguardia inglese potesse organizzarsi e sfruttare la superiorità numerica, il loro piano di battaglia prevedeva di ricongiungersi velocemente con la fanteria guidata da Jeanne e prendere nuovamente d’assalto le truppe inglesi, con una nuova carica frontale.

Al comando di Ian, i cavalieri di Chatel Argent si raccolsero progressivamente intorno al loro comandante, girarono i cavalli, porgendo le spalle alla fortezza e in breve raggiunsero le truppe di Jeanne e Ty, che li aspettavano nei pressi della strada maestra.

Fu in quel momento che un frastuono assordate di voci giunse dal loro fianco destro. Le truppe di Saint-Jean-le-Blanc, la terza guarnigione inglese sulla sponda meridionale della Loira, erano state chiamate in soccorso non appena era divampato il fuoco all’interno della fortezza e andavano finalmente a ricongiungersi col resto dei distaccamenti inglesi di Les Tourelles e di Augustins, che nel frattempo gridavano ed esultavano per i rinforzi insperati.

Senza fretta, i cavalieri di Chatel-Argent si disposero al passo, puntando nuovamente il muso minaccioso dei loro possenti destrieri davanti al nemico, disegnando una linea sottile che abbracciava tutta la larghezza del fronte.

Quando ogni inglese che aveva gioito al sopraggiungere dei rinforzi di Saint-Jean-le-Blanc, levò lo sguardo sul vasto spiegamento di cavalli da guerra dinanzi a loro, strozzò in gola il proprio grido di giubilo.

In mezzo allo schieramento francese, una figura più minuta delle altre, accompagnata da un altro uomo a cavallo, avanzò facendosi largo fino alla linea dei cavalieri. Reggeva con una mano la bandiera bianca, con raffigurato Dio benedicente il fiordaliso francese.

La sua armatura non aveva più la protezione ad una spalla, che si intravedeva nuda e fasciata, ma nessun uomo sospettò che fosse rimasta indifesa: ognuno di loro avrebbe dato la propria vita per difenderla, ma più di questo, nessuno dubitava che una forza superiore stesse proteggendo quella ragazza.

Jeanne abbracciò tutti con lo sguardo o almeno così sembrò ad ognuno di loro e bastò quel gesto per infondere loro il coraggio per battersi fino alla morte. Quando la videro chiudere gli occhi, seppero che stava pregando per la loro vittoria e con lei al loro fianco, ogni soldato si sentì benedetto e invincibile. Quando aprì nuovamente gli occhi, scorsero nei suoi sguardi lacrime di pietà per i morti e di rabbia per i vivi.

“All’alba il sole sorgerà su una terra libera, Monsieur Thierry”, mormorò fieramente la ragazza dentro l’armatura.

Ty annuì con un cenno del capo.

Monsieur Thierry?” Jeanne esitò un istante, “promettetemi che sarete prudente in battaglia, non mettete inutilmente in pericolo la vostra vita per proteggere la mia”.

“A voi protegge le spalle un signore molto più potente di me”, scherzò Ty, “questa volta prometto di stare più attento a me stesso”.

Jeanne sorrise d’istinto al ragazzo, tornando per un istante una ragazzina di soli diciassette anni, divertita da quella battuta impertinente, tipica del conte Thierry.

Poi quell’attimo passò e quando distolse lo sguardo da Ty, il suo spensierato sorriso si adombrò della greve consapevolezza del compito che era chiamata a portare a termine.

La vide respirare profondamente e Ty seppe che stava provando le stesse emozioni che stava sperimentando lui: eccitazione, paura, angoscia, rimorso.

Il cuore gli batteva già all’impazzata e sapeva che sarebbe scoppiato, non appena avesse colpito con gli speroni i fianchi del cavallo.

Jeanne si alzò sulle staffe della sua giumenta bianca, levò al cielo la bandiera e urlò con il fiato che aveva in gola:

“Questo è il momento tanto atteso, uomini d’arme. Io vi condurrò alla guerra! Vi guiderò alla vittoria o alla morte! Chi mi ama, mi segua!”

Mentre il boato tremendo che seguì echeggiava ancora nell’aria, la cavalleria di Chatel Argent, precedendo la fanteria leggera, si preparò ancora una volta a lanciare l’assalto frontale al castelletto di Les Tourelles.

 

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Capitolo 13
*** Capitolo 24 ***


Glasdale scorse la guarnigione di Saint-Jean-le-Blanc quando già si preparava al peggio. La vista degli uomini che gli venivano in soccorso riaccese in lui la speranza di poter respingere l’assalto francese. Rinvigorito da quel pensiero, si affrettò a dare nuovi ordini, prima che la cavalleria pesante nemica fosse pronta per un nuovo assalto.

Non tutto è perduto, si ripeteva continuamente. Nonostante le gravi perdite subite durante la prima carica, le forze di Saint-Jean-le-Blanc riequilibravano in parte il peso dei due schieramenti. Guardò la fortezza in fiamme dove non avrebbe più potuto ripararsi. Tra lo stridio dei rinforzi di legno, che cedevano e crepitavano in mezzo alle fiamme, ci fu un’esplosione di fiamme, subito seguita da una lunga chioma di scintille strappate dal vento.

Improvvisamente un pensiero maligno, una intuizione chiara e limpida, attraversò i suoi sensi già eccitati dalla battaglia: i suoi soldati avrebbero presto avuto un’arma formidabile contro la cavalleria francese. Forse non tutto è ancora perduto.

 

 

***

 
 

Al passo.

Come una danza di morte, che partiva lenta e proseguiva in un irrefrenabile crescendo, fino a raggiungere un ritmo folle al suo parossismo, così l’andatura placida e indolente dei cavalli faceva già presagire la furia incontenibile che avrebbero presto scatenato.

La linea orizzontale composta dai destrieri avanzò adagio, mentre i cavalli con brevi movimenti aggraziati toccavano pigramente il terreno con ogni zoccolo, allineandosi uno di fianco all’altro. Gradualmente, la loro andatura aumentò, inarrestabile.

Al trotto.

Al piccolo galoppo.

Al galoppo.

Il frastuono degli zoccoli che scuotevano il suolo pianeggiante echeggiò sempre più assordante, come una terrificante valanga, man mano che le cavalcature acquistavano velocità.

“Carica!” fu il grido ininterrotto dei cavalieri di Chatel-Argent, proprio nel momento in cui, nella luce crepuscolare, centinaia di minuscole stelle infuocate si accesero di fronte a loro.

 

 

***

 

 

“Armatevi di torce, qualsiasi cosa cui potete appiccare il fuoco, maledizione!” urlava senza sosta Glasdale correndo come un pazzo tra le fila dei suoi uomini, spronandoli, minacciandoli, lottando contro il tempo.

“Incendiate le frecce e i quadrelli! Arcieri, balestrieri, prepararsi immediatamente a tirare! Presto, al mio segnale! Prepariamo una calda accoglienza a questi dannati mangiarane…”

 Gli arcieri inglesi, sollevando ognuno il pesante long bow, non avevano né il tempo né l’ordine di mirare alla sottile striscia di cavalieri che avanzava velocemente al galoppo, mirarono semplicemente al terreno davanti a loro.  “Adesso, puntare!” ruggì Lord Glasdale e dopo aver atteso solo pochi istanti, gridò:

“Scoccare!” Le frecce incendiate tracciarono un breve arco nel crepuscolo, come tante comete dalla coda infuocata, per ricadere subito dopo ad una distanza molto più corta della loro abituale gittata.

Ian sollevò lo sguardo su quello spettacolo, allo stesso tempo terribile e meraviglioso. L’istinto gli fece portare le mani sulle redini per trattenere la falcata del suo destriero, ma osservando la traiettoria che tracciavano le frecce, seppe che non li avrebbero colpiti, miravano troppo in basso.

Hanno intenzione di incendiare il terreno di fronte a noi e di spaventare i cavalli!

 Qualche istante dopo i dardi sfavillanti piovvero dal cielo, non colpirono nessun cavaliere ma gettarono comunque nel panico i cavalli. Molte cavalcature, imbizzarrite dai piccoli focolai che bruciavano sulle rade sterpaglie davanti a loro, disarcionarono i loro cavalieri, aprendo degli squarci all’interno del fronte compatto che avanzava, senza rallentare, verso gli inglesi.

 

 

***

 

 

 

L’impatto tra la cavalleria pesante e il muro di soldati inglesi fu tremendo, questa volta le truppe di Lord Glasdale non si fecero trovare impreparate e incapaci di organizzare una qualsiasi strategia di difesa.

I soldati nemici, aizzati dalle urla del loro comandante, piombarono laddove i cavalieri disarcionati avevano lasciato un crepa dentro il fronte compatto della cavalleria. Accerchiarono e ingaggiarono in mischie furibonde, i cavalieri di Chatel-Argent che adesso non erano più in grado tenere a distanza i nemici, sfruttando le lunghe lance che avevano spezzato al primo assalto. 

Molti compagni di Ian alla fine vennero sbalzati di sella dagli inglesi o dai loro stessi cavalli, feriti o resi folli dalle torce infuocate brandite dagli avversari. 

Ian comprese che questa volta non avrebbero vinto da soli, senza l’aiuto della fanteria di Jeanne. Dopo aver rallentato la corsa del suo destriero, si apprestò a tirare le redini da un lato per girare il suo cavallo e dirigersi nella retroguardia a impartire nuovi ordini, quando nell’attimo stesso in cui frenò la cavalcatura, si vide accerchiato da quattro inglesi che brandivano spade e torce infuocate.

 Davanti alle lingue di fuoco agitate dagli uomini davanti a lui, il destriero si impennò sulle zampe posteriori, gli zoccoli del possente animale colpirono il soldato più vicino che cadde a terra privo di sensi. Ian, ormai sbilanciato, fece appena in tempo a lanciarsi sul secondo inglese, abbattendolo col peso della sua armatura, mentre il suo cavallo si allontanava rapidamente dal pericolo che l’aveva terrorizzato.

Il corpo dell’uomo su cui era crollato gli aveva fatto da scudo durante l’impatto. Si rialzò velocemente, appena impedito nei movimenti dall’armatura di maglia rinforzata da piastre leggere, realizzata su misura per lui dal fabbro di Chatel-Argent e che consentiva molta più libertà di movimento rispetto a una corazza a piastre convenzionale.

Ian maledisse la sorte che in pochi istanti l’aveva scalzato da una posizione di vantaggio, obbligandolo adesso ad uno scontro impari. Si guardò attorno rapidamente, con i sensi acuiti dal pericolo mortale in cui era precipitato: altri cavalieri ingaggiavano duelli tutt’intorno a lui con i resti delle armate inglesi, l’esercito di Jeanne era ormai su di loro ma il loro aiuto sarebbe arrivato maledettamente tardi per lui.

Devo cavarmela da solo.

I due soldati avversari rimasti in piedi si gettarono su di lui proprio in quel momento. Ian parò facilmente il primo colpo, prevedibile e troppo lento, impegnando la lama del nemico. Allo stesso tempo si preparò a sferrare un calcio al ginocchio dell’uomo, che stramazzò rovinosamente a terra.

Continuando a muoversi, senza apparente soluzione di continuità, girò su se stesso, impugnando l’elsa con entrambe la mani come una falce che scindeva l’aria in due. L’uomo che gli veniva incontro di spalle alla sua sinistra fu sorpreso dal movimento imprevedibile di Ian e non riuscì a parare il colpo di taglio, a mezza altezza, che penetrò nel fianco della sua armatura leggera di cuoio indurito.

Intanto il soldato che aveva abbattuto per primo, gettandosi dal cavallo, si era rialzato e spalleggiato dall’inglese che aveva scaraventato a terra, lo circondavano. Con la furia cieca che nasceva dalla disperazione si avventarono insieme ai due lati opposti della guardia di Ian. Parare il primo colpo con il forte del ferro e inginocchiarsi a terra per sottrarsi al fendente del secondo, fu una cosa sola.

Si avvide che uno dei due avversari aveva un braccio molle accostato al petto, spezzato dove Ian l’aveva colpito quando gli si era lanciato contro con tutto il peso della sua armatura, ma era ancora in grado di offendere con l’altro braccio. Anche l’inglese che aveva ferito di taglio intanto si era alzato faticosamente, con la mano insanguinata premuta ostinatamente sul fianco squarciato.

Ancora una volta, tre uomini lo accerchiarono, girandogli intorno, ridendo a sprazzi, terrorizzati e folli. Voltandosi ora da un lato ora dall’altro, Ian tentò di seguire i loro movimenti, finché non decise di concentrarsi sull’unico uomo ancora incolume.

Azzardò che sarebbe stato lui a portare il primo affondo e per attirarlo a sé aprì leggermente la guardia su quel fianco, modificando la presa sull’elsa e sollevando con entrambi le mani la spada per simulare la preparazione di un colpo dall’alto.

Il fendente dell’inglese arrivò senza preavviso, echeggiato dalle urla degli altri due uomini che qualche istante dopo lo seguirono all’attacco. Ian parò il primo assalto con un colpo dall’alto, portato grazie alla maggiore statura da una posizione di vantaggio e con tale potenza, che deviò verso il basso la lama del rivale senza impegnarla.

Poi, con un movimento fulmineo, girò su se stesso sul fianco opposto, roteando la spada con tutta la propria forza, tracciando un fendente decrescente che impattò in alto la gamba destra dell’inglese dal braccio spezzato. La lama penetrò a fondo nella fibra muscolare dell’uomo e il sangue fuoriuscì a fiotti dall’arteria femorale recisa: sarebbe morto dissanguato nel giro di pochi minuti. Di fronte, spostato a sinistra, si trascinava l’uomo con fianco ferito, che assunse una posizione difensiva e indietreggiò di un passo.

Ian non si curò di lui, sapeva che l’inglese alle sue spalle stava già sollevando la spada per colpirlo. Immise nei polmoni tutta l’aria che fu in grado di immagazzinare, cambiò presa sull’elsa e con un unico movimento fluido, sollevò la lama sopra la testa. Facendo perno su un piede per acquistare maggior slancio possibile, roteò nuovamente su se stesso.

L’uomo ne intuì il proposito, ma la mossa di Ian non gli dava la possibilità di prevedere da quale direzione sarebbe arrivata la lama del rivale. Istintivamente, incrociò il ferro per intercettare un assalto diretto alla gola, ma Ian, avvedutosi con la coda dell’occhio del suo tentativo di difesa, lo colpì dall’alto proprio dove si era scoperto, all’attaccatura della spalla destra.

L’inglese urlò di dolore mentre la mano si apriva in uno spasmo, lasciando cadere a terra l’arma. Con uno strattone Ian liberò la sua spada dalle carni dell’uomo, dov’era penetrata recidendogli il braccio quasi per intero.

L’uomo si guardò incredulo l’arto mozzato e sopraffatto, afferrò con l’altra mano il filo insanguinato della lama di Ian e con un gesto estremo si diede la morte, accasciando il mento sulla sua spada. Poco dopo, Ian si voltava nuovamente verso l’unico avversario rimasto in piedi, che sanguinava copiosamente dal fianco. L’inglese, dopo averlo fissato con occhi sbarrati come se guardasse un demonio, lasciò anche lui cadere la spada e fuggì.

Ian piantò la sua spada sul terreno, ansimante, appoggiandosi sul pomolo nel tentativo di riprendere fiato e calmarsi. Si guardò attorno: quasi ovunque vedeva nemici che fuggivano impazziti, che venivano inseguiti da un francese a cavallo o dalle truppe di Jeanne nel frattempo sopraggiunte. Scorse alcuni inglesi arrendersi in ginocchio, invocando pietà, altri invece scappavano senza una meta e inevitabilmente una lama metteva fine alla loro fuga.

Avevano vinto, Les Tourelles era caduta.

Si tolse l’elmo, l’eco del suo respiro ansimante gli era divenuto insopportabile, ma i lamenti di orrore e di sofferenza che adesso poteva ascoltare, gli erano ancora più intollerabili.

Ian si strinse la testa tra le mani, nel vano tentativo di far tacere quelle voci, cercò di respirare profondamente, mentre lo avvolgeva un senso sempre più opprimente di vuoto e di incompiutezza, quando le urla ruvide e rauche di Glasdale sovrastarono ogni altro suono e lo scossero all’improvviso.

 

 

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Capitolo 14
*** Capitolo 25 ***


Daniel si liberò con sollievo dei pesanti stracci inzuppati che l’avevano protetto dalla lingue di fuoco e dai miasmi del fumo, che impregnavano l’aria all’interno della fortezza.

Respirò a pieni polmoni l’aria fresca della sera, levando i bendaggi bagnati con cui aveva coperto anche il cavallo, rassicurandolo con lievi carezze sul collo sudato.

“Su, calmati bello, sta buono...”, gli sussurrò dolcemente, nel tentativo di tranquillizzarlo, “così, bravo…”.

L’animale dilatò le grandi narici, ancora spaventato dall’odore acre del fumo che proveniva dal cancello posteriore e con qualche esitazione si convinse a procedere lungo il ponte.

Lo spettacolo che Daniel scorse un centinaio di metri più avanti, lo agghiacciò. Disposte in una disordinata colonna, sporgevano rozze palizzate alle quali erano incatenate gruppi di donne. Mucchi di legna erano affastellati ai piedi dei grezzi fabbricati. Roghi.

Cercò con lo sguardo immediatamente Isabeau, ma da quella distanza le prigioniere avvinghiate ai tralicci sembravano tutte uguali.  Subito dopo trasalì per la paura, nel momento in cui si accorse dei soldati inglesi con le torce infuocate in mano.

Senza indugio, mentre spronava con gli speroni la sua cavalcatura, sfilò l’arco già incordato da dietro la spalla e un istante dopo stava già incoccando la prima freccia.

“Fermo!” gli abbaiò contro uomo che stava puntando un grosso coltello sotto il mento di una donna, mentre con l’altra mano impugnava una torcia incendiata, “Fermo dove sei!”

Quando l’inglese gridò, Daniel aveva già quasi dimezzato la distanza che lo separava dai suoi nemici. Istintivamente tirò indietro le redini, per arrestare la cavalcatura, ben sapendo in ogni caso che da quella distanza il suo arco sarebbe stato letale.

Dietro di lui, udì sopraggiungere subito dopo i compagni e s’affrettò ad alzare una mano col palmo aperto, per intimare loro di arrestarsi dietro di lui.

La donna aveva il volto e i vestiti insudiciati, i capelli erano biondi e scompigliati e le cadevano appena sulle spalle, troppo corti per essere...

“Ora, se vi raccapriccia l’odore della carne umana bruciata, abbassate le armi, maledetti mangiarane”, minacciò l’uomo col coltello.

Daniel, senza distogliere minimamente la freccia già incoccata dal bersaglio, osservò meglio la donna.

“Adesso, ho detto! Abbassate quei dannati archi!”

La consapevolezza lo colpì come un pugno nello stomaco. Isabeau. Era viva!

“Devo dedurre che i signori desiderano un incentivo per arrendersi?” domandò beffardo l’inglese con un sorriso storto sul volto. La mano, che reggeva la torcia, si distese per lanciare l’oggetto che impugnava. La torcia infuocata disegnò un breve arco nell’aria e atterrò ai piedi di un traliccio poco più dietro.

 “Non datevi pena per loro, sarebbero comunque bruciate all’inferno!”. Il combustibile avvampò subito e le tre donne, intrappolate contro la palizzata, scalciarono e si dimenarono inutilmente, mentre osservavano, inorridite, la legna ai loro piedi cominciare ad annerire e a fumare.

            “Gettate gli archi o avete la mia parola che darò fuoco a tutte le vostre dannate sgualdrine!”, sbraitò l’uomo.

            Daniel fu percorso da un brivido gelido di paura, ma sapeva cosa doveva fare. E si preparò a farlo.

 

***

   

“Codardo di un francese!” strepitava come una furia Lord Glasdale, “vieni qui a combattere da uomo, tu e io! Codardo, dove ti nascondi?”

L’inglese estrasse, con un secco strappo, la sua spada dalla gola di un cavaliere di Chatel-Argent, schizzando di rosso la superficie metallica della sua corazza. Nessun francese era ancora riuscito ad avere ragione di lui in battaglia e molti altri avevano pagato con la vita l’audacia di averlo sfidato. Combatteva come una belva spietata e feroce, consapevole della sua forza e del terrore che incuteva.

Glasdale avanzò di qualche passo, senza che nessun altro osasse affrontarlo. Mise mano alla sacca, che portava annodata al cinturone della spada, e tirò fuori qualcosa che strappò alla luce deboli riflessi d’oro, mentre l’agitava in alto con rabbia.

“Codardo! Io, Lord William Glasdale, ti sfido! Degnati di comparire davanti a me, se hai il coraggio!” ringhiò ancora all’indirizzo di Ian.

A pochi passi dal cancello della bastia in fiamme, la sagoma torreggiante e possente di quell’uomo si stagliava contro le mura di Les Tourelles. Le piastre di metallo lucidato della sua armatura traevano riflessi infuocati dall’incendio che lo sovrastava alle spalle. A Ian sembrò una figura mitologica appena uscita dalle fiamme dell’inferno.

Non aveva scordato lo scontro di tre mesi prima, quando l’inglese aveva solo scherzato con lui, prima di strappargli l’arma al primo vero affondo. Ian riconosceva che era un avversario formidabile, la cui forza non risiedeva tanto nella ferocia con cui combatteva, quanto nel perfetto connubio di una tecnica di spada eccezionale, che finora aveva ravvisato solo in Geoffrey Martewall, e di uno strapotere fisico pari al suo.

L’uomo si avvicinava a grandi passi, scrollando nell’aria qualcosa di setoso e dorato, che Ian infine riconobbe.

Le inconfondibili lunghe ciocche di capelli di Isabeau.

E mentre un urlo di dolore disumano prorompeva dalla sua gola, udì quel demonio che gridava:

 “Quando avrò finito con te”, lo sfidò, “mi supplicherai anche tu in ginocchio? Oppure sai fare di meglio, che morire piagnucolando come la tua cagna?”

Per Ian fu troppo.

In quel momento, seppe che nella vita di ogni uomo non poteva esistere gioia senza sofferenza, non vi era amore senza odio, non c’era luce senza tenebra.

Si abbandonò interamente al dolore, alla rabbia, alla vendetta, accecato e travolto, mentre ogni fibra del suo essere cominciò ad ardere e ardere ancora. E arse, finché non gli sembrò di essere fatto della stessa incandescente materia di cui era fatto il fuoco.

L’inglese gli si parò davanti e con disprezzo, gli gettò ai piedi le ciocche di capelli dorati.

“Tu…”, Ian non riconobbe la sua stessa voce, tanto quel ringhio era profondo e terribile, “morirai oggi.”

“E chi lo dice, la strega che vi comanda?”, lo interrogò sogghignando il comandante inglese.

“No, l’ho letto sui libri di storia, bastardo.”

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Capitolo 15
*** Capitolo 26 ***


Daniel sapeva che se l’inglese non fosse morto all’istante, anche se ferito, avrebbe ritorto la sua vendetta su Isabeau.

 Aveva a disposizione un tiro soltanto. Se fosse riuscito ad eliminare l’ufficiale che minacciava la ragazza, avrebbe concesso ai suoi compagni qualche secondo per scoccare le loro frecce, prima che gli inglesi rimasti organizzassero una controffensiva. Poteva funzionare, doveva funzionare, non vi erano alternative. Dopo essere stato la causa del rapimento di Isabeau, toccava a lui adesso riportarla sana e salva tra le braccia dell’amico, non poteva concedersi di sbagliare una seconda volta.

Sbatté le palpebre per cacciare indietro ogni preoccupazione e quando riaprì gli occhi, percepiva già la concentrazione necessaria per agire.

Cercò con le dita la piccola scanalatura nell’asta della freccia con cui l’aveva agganciata alla corda. Allungò accuratamente l’indice, che fungeva da mirino, sopra l’elemento scanalato, appoggiando invece sotto di esso il dito medio, che conferiva la direzione e l’anulare, che contribuiva alla forza.

Tese gli avambracci, lasciando che fossero i gomiti a guidare il movimento e condusse i flettenti dell’arco al massimo della trazione.

L’indice inquadrò il bersaglio distante circa cinquanta passi, la testa dell’inglese accanto a Isabeau. Tutto accadde in pochi istanti. Daniel liberò la freccia, Isabeau urlò, altre frecce furono scoccate alle sue spalle.

 

***

 
 

Lord Glasdale, con la spada abbassata che stillava ancora sangue sul terreno, indugiava girandogli lentamente attorno, senza decidersi a sferrare il primo assalto.

Intorno ai duellanti la battaglia sembrava finita e i vincitori si strinsero attorno ai due cavalieri. Decine di braccia si fletterono mentre tendevano gli archi, pronti a scagliare i loro dardi mortali sul comandante inglese.

“No, questo bastardo è mio!” urlò Ian all’indirizzo degli arcieri, “nessuno osi interferire prima che io sia morto”, la voce di Ian era così irriconoscibile e spaventosa che nessuno considerò di contravvenire al suo ordine.

Glasdale infine arrestò il movimento laterale intorno a Ian e accompagnò lentamente la lama, parallela al proprio corpo, a poca distanza dal suo viso, come se intendesse baciarla. Quindi guidò anche l’altra mano sull’elsa dell’arma, proprio davanti al suo addome.

Ian si costrinse a calmare il proprio respiro, eclissò dalla mente ogni pensiero e ogni immagine che non fosse il suo avversario. Impugnando la spada con entrambe la mani, sollevò il gomito destro in alto, fino a sfiorare l’elmo con l’elsa della spada, mentre rivolgeva la punta verso il suo nemico.

Avvertiva le fiamme della sua ira smisurata che l’avvolgevano e lo consumavano, una percezione così terrificante da farlo sentire invincibile.

Isabeau…

“Infame bastardo, questo è per mia moglie!”, una voce disumana articolò quelle parole nell’istante stesso in cui Ian torceva la presa sull’elsa e ruotando di taglio la spada, la calava su Glasdale, trasformando la posta iniziale in un fendente di immane potenza.

Il grido del francese era quasi riuscito a distrarlo e per poco non si accorse dell’improvviso movimento del polso e del colpo di taglio che un istante dopo si abbatteva su di lui. Scaricando l’enorme peso sulle gambe ben piantate a terra e sui gomiti stretti sui fianchi dell’armatura, Glasdale si preparò ad assorbire il colpo, senza spostare il ferro dalla posta iniziale.

L’arma del francese cozzò contro la sua con un clangore assordante, entrambe le lame si scheggiarono, ma come si aspettava, fu in grado di reggere l’urto senza problemi.

La tecnica del ragazzo era così prevedibile che pensò di divertirsi un po’ prima di fargli male sul serio.   

Ian vide le scintille schizzare dove aveva colpito il ferro nemico e con una smorfia incassò il tremendo contraccolpo sui polsi.

Il colosso inglese non si era spostato di un centimetro. Ian ignorò il dolore ai polsi, colmò i polmoni d’aria e si preparò ad espellerla mente caricava il colpo successivo. Non attese un secondo, per far seguire al fendente, un falso dritto che mirava sotto la cintura dell’inglese, nello spazio non difeso dalla sua lama.

Glasdale sorrise, lesse la mossa negli occhi di Ian nello stesso istante in cui il rivale l’aveva pensata. Rovesciò repentinamente l’impugnatura del suo ferro, rivolgendo la punta verso il basso per intercettare il colpo.

Ian non fu sorpreso che l’inglese avesse indovinato così prontamente le sue intenzioni, ma era consapevole che una parata rovesciata non poteva essere supportata dalla stessa forza di una diritta e urlando tutta la propria rabbia, mise ancora più forza nel colpo.

Il poderoso fendente esplose letteralmente contro la lama di Glasdale, la spada di Ian cedette e si spezzò.

 

 

***

 

 

Le dita, che un momento prima serravano il coltello che minacciava Isabeau, si distesero, all’improvviso incapaci di obbedire ai comandi del suo cervello. La bocca restò aperta, immobilizzata sull’ultima parola che l’uomo stava pronunciando. Gli occhi rotearono per un istante all’insù, nel vano tentativo di intravedere la freccia che gli aveva trafitto la fronte. Isabeau non aveva ancora finito di urlare, che l’uomo si accasciò a terra, senza più vita.

Mentre Daniel colpiva sui fianchi la sua cavalcatura, si avvide che gli altri quattro inglesi erano stati tutti colpiti dalle frecce dei suoi compagni. Sapendo di non poter sbagliare il colpo, avevano tutti scelto di mirare al petto dei loro obiettivi.

Mentre avanzava al galoppo, Daniel si accorse che i dardi avevano trapassato i bersagli fino all’impennaggio di piume d’oca, l’unica porzione ancora visibile delle frecce scoccate. Quegli uomini non erano più in grado di nuocere, ma un quarto inglese era stato colpito solo su un fianco e con la torcia ancora in mano, si stava rapidamente riprendendo dallo shock.

Ancora in corsa, Daniel lasciò cadere le redini per estrarre dalla faretra a tracolla una seconda freccia. La incoccò rapidamente, mirò alla figura dell’uomo e lo trafisse al ventre, inchiodandolo ad un traliccio di legno.

Non appena raggiunsero le prime impalcature dove erano stati montati i roghi, si preoccuparono subito di smorzare le fiamme dell’incendio che stava avvampando nella seconda palizzata. Usarono i panni bagnati, di cui si erano serviti per attraversare la fortezza, per soffocare le fiamme: l’incendio aveva attecchito solo in parte sul legname alla base dell’impalcatura e fecero in tempo a strozzare le lingue di fuoco prima che si propagassero. Le donne cessarono di urlare solo quando furono liberate dal traliccio cui erano incatenate.  

Poi Daniel fu libero di correre verso Isabeau.    

 

 

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Capitolo 16
*** Capitolo 27 ***


Ian osservò incredulo il moncherino della spada frantumata, ancora nelle sue mani. La risata sguaiata di Glasdale echeggiò nelle sue orecchie, mentre si vide perduto.

Dai libri sapeva che l’inglese sarebbe morto quel giorno, annegato nella Loira. Ma più di questo, la sua conoscenza della storia non chiariva se prima di morire Glasdale avesse ucciso anche lui.

Isabeau…  

Gli bastò scandire mentalmente quel nome per percepire il fuoco divampare nuovamente nelle vene e pervaderlo del tutto. L’Inglese ghignava ancora e giudicandolo ormai alla sua mercé, aveva abbassato l’arma, appoggiando il filo della lama a terra.

L’ira incontrollabile gli donò il coraggio per una mossa disperata. Con un colpo di reni, si scagliò inaspettatamente contro il suo nemico, chinando il capo come un ariete e facendo cozzare il proprio elmo contro il petto di Glasdale.

Il colpo fu terrificante e per qualche secondo lasciò entrambi frastornati. L’inglese indietreggiò di un passo e per mantenersi in equilibrio istintivamente staccò una mano dalla spada. Ian se ne avvide nel momento stesso in cui, con un calcio, colpì la mano che reggeva lo spadone, facendolo volare lontano.

L’inglese sembrò esitare per qualche secondo, sbalordito. Ian non gli lasciò il tempo di riaversi, caricò ancora a testa bassa, colpendo ancora una volta l’avversario sul petto. L’urto avrebbe scaraventato a terra qualsiasi altro uomo ma non Glasdale, che indietreggiò ancora ma riuscì a reggersi in piedi. La linea perfettamente ricurva della sua armatura adesso esibiva una voluminosa rientranza, dove l’elmo di Ian l’aveva centrato.

Glasdale non riusciva ancora a credere di essersi fatto disarmare così stupidamente. Con la mente tornò alla battaglia di Verdun, quando il vecchio conte di Ponthieu gli aveva strappato di mano la spada, umiliandolo davanti al suoi uomini. Come allora, una furia incontenibile e folle si appropriò di lui.

Se non potrò sminuzzare con la spada la tua carne, allora la staccherò a brandelli con i miei stessi denti! E si scagliò contro la linea di cintura di Ian, abbrancandolo in presa.

L’americano si avvide troppo tardi che la carica di Glasdale mirava a imprigionarlo nella morsa delle sue braccia, cercò invano di divincolarsi dalla sua stretta mostruosa e fu sorpreso di sentirsi sollevare da terra dalla forza di quel demonio. Prima che Ian riuscisse a scalciare, l’inglese piegò a terra un ginocchio, e fece piombare Ian sullo spuntone della piastra metallica che proteggeva l’articolazione. Ian fu investito da un dolore lancinante, ma Glasdale non gli diede nemmeno il tempo di urlare: adesso che aveva il volto del nemico alla portata del suo elmo, prese a tempestarlo di testate.

Ian cercò di voltare il capo, quel tanto perché i colpi dell’inglese non lo centrassero frontalmente: diversamente, gli avrebbe schiacciato il setto nasale, come se fosse burro.

Dalle feritoie del suo elmo, Glasdale intravedeva il sangue del rivale imbrattare il metallo della corazza ad ogni colpo che sferrava. Ma non sarebbe riuscito a finirlo in quel modo, con un guizzo degli occhi cercò la spada e la trovò a una decina di passi alla sua destra. Assestò un ultimo colpo al suo avversario e lo abbandonò a terra, mente scattava verso l’arma.

Ben presto, Ian comprese che sul lato dove l’inglese l’aveva colpito ripetutamente, il metallo deformato dell’elmo sfregava contro la carne viva. Appena mosse il capo, un dolore atroce lo paralizzò, come se un coltello stesse affondando dentro la guancia. Ignorando con uno sforzo tremendo la fitta, si sfilò l’elmo e lo scagliò a terra. Davanti a lui, più lontano, Glasdale stava raccogliendo la spada.

Ty, che fino ad allora non aveva potuto fare altro che assistere impotente allo scontro, irruppe tra i soldati che assistevano al duello.

“E’ finita, Ian! E’ finita!” gli urlava, “Les Tourelles è in mano nostra! Lascia che questo infame sia catturato, non morire per orgoglio, non morire per niente!”

“La mia vita non vale niente senza Isabeau!” gli gridò di rimando l’americano.

“Maledizione, non permetterò che tu ti faccia ammazzare davanti ai miei occhi! Me ne frego del tuo orgoglio, so di fare la cosa giusta…”, con un cenno ordinò ad alcuni soldati di farsi avanti, avanzando lui stesso verso Ian.

“Non immischiarti!” gli ringhiò rabbiosamente contro, “Se mi sei amico stanne fuori”.

“Oh, va al diavolo!” gli replicò Ty mentre sguainava la sua spada e la lanciava in alto verso l’amico, “Prendila, è tua! Appartiene al Falco d’Argento, non si spezzerà, né ti tradirà mai!”

Ian afferrò al volo l’elsa, nel momento in cui Glasdale raccoglieva la sua arma e la sollevava verso di lui.

Era la spada più straordinaria che avesse mai visto: la guardia era forgiata in modo da riprodurre due ali stilizzate che si aprivano in volo. Gli intarsi sull’impugnatura descrivevano il piumaggio di un falco i cui artigli si aggrappavano in rilievo alla base della lama, mentre la testa e il grosso becco ricurvo davano forma al pomolo.

La lama era percorsa dalle parole intagliate nel mezzo: In Manu Falconis Invictum Ero.

L’inglese si dispose in una posta d’attacco.

“Riconosco che sei migliorato, da quando abbiamo combattuto l’ultima volta, ma temo di essermi stancato di giocare”, annunciò Lord Glasdale. “Adesso tocca a me attaccare…”

Ora che non indossava più l’elmo, Ian era certo che l’inglese avrebbe mirato al volto e si preparò a difendersi. Glasdale trasformò gli ultimi passi in corsa e con straordinaria agilità portò l’assalto con un fendente alto.

 Ian sollevò i gomiti in alto e bloccò il ferro avversario con una parata rovesciata. La lama di Glasdale cozzò contro la sua a pochi centimetri dal suo viso.

L’inglese non arrestò tuttavia la sua azione e con un gesto fluido portò un nuovo attacco dal lato opposto. Ian fu costretto a indietreggiare mentre parava l’assalto frapponendo orizzontalmente la lama davanti al proprio volto.

Glasdale non lo lasciò nemmeno respirare mentre continuava ad affondare i colpi come se fossero un unico movimento, naturale e continuo. Con un sapiente gioco dei polsi, lo tempestò di fendenti rovesci e diritti, uno dopo l’altro, senza sosta, senza tregua.

Ian attinse alla propria rabbia infinita, che ancora avvampava dentro, per ignorare il dolore sempre più acuto ai polsi, dopo ogni parata e le forze che gli venivano inesorabilmente meno. Aveva sempre un occhio sulle mani del nemico, in modo da avere conoscenza dell'origine dell'attacco e prefigurare la direzione dell’assalto.

All’improvviso, l’inglese eseguì un movimento più ampio delle spalle e trasformò il fendente alto al volto in un falso dritto sotto la cintura. Ian roteò disperatamente i polsi, guidando la lama di traverso e sollevando l’impugnatura della spada fino al petto, per difendere il maggiore spazio possibile. Vide un lampo attraversare gli occhi dell’inglese e subito dopo si accorse dello stivale dell’avversario che lo centrava al ginocchio sinistro.

Il dolore fu tremendo e Ian dovette inginocchiarsi per non perdere l’equilibrio. Glasdale, con un urlo gutturale, roteò ancora una volta i polsi e portò un colpo di taglio rovescio diretto alla gola dell’avversario.

Ian alzò rapidamente, ancora più in alto, la presa sull’arma, mentre con la spada rovesciata, parava con difficoltà il colpo dell’inglese.

Il clangore fu così potente che sembrò che la spada dovesse spezzarsi ancora, ma le lame rimasero invece legate l’una all’altra.

“Iaaaaan!”

Fu in quel momento che udì il grido di una donna.

Davanti a lui, dietro alle spalle di Glasdale, vide Daniel emergere dai miasmi delle rovine in fiamme della fortezza. Una ragazza era aggrappata alle sue spalle, e pure se ai suoi occhi appariva irriconoscibile, pure se il suo urlo era alterato dalla paura, qualcosa dentro di lui la riconobbe.

Isabeau.

E in quel momento finalmente seppe. Seppe che anche nell’abisso più cupo e tetro poteva albergare la speranza. Che non c’era sofferenza senza gioia. Che non esisteva tenebra senza luce.

E fu consapevole che persino l’odio più viscerale, cui aveva attribuito il potere di infondere una forza invincibile, era in realtà ben misera cosa rispetto alle energie che poteva trasmettergli l’amore.

Glasdale, del tutto ignaro della donna che era comparsa alle sue spalle, disimpegnò la lama e si preparò a calare come una mannaia il colpo che avrebbe sbriciolato il cranio indifeso del suo avversario.

Nel tempo in cui l’inglese portava indietro i gomiti, per sferrare l’attacco decisivo, Ian sollevò il ginocchio posato a terra. Per darsi slancio usò come perno l’altro piede, roteò come un fulmine il busto e il braccio, e falciò l’aria con un fendente orizzontale.

Glasdale, stupito e innervosito dalla rapidità del movimento, non poté che rinunciare all’assalto e disporsi per una parata rovescia in grado di intercettare il ferro avversario.

Ian aveva bene a mente la raccomandazione del maestro d’armi di Chatel Argent, durante il suo addestramento a Chécy: “il colpo migliore è sempre quello che percorre la minore distanza, il colpo della strada retta”.

Ebbene, vuol dire che d’ora in poi farò l’esatto contrario, se voglio avere qualche possibilità di sorprendere quel maledetto.

Un istante prima che la sua lama toccasse quella dell’inglese, arrestò l’attacco, ruotò i gomiti e in quello che sembrò un solo movimento, senza soluzione di continuità, eseguì un giro completo su se stesso nella direzione opposta.

Glasdale si avvide troppo tardi di quel gesto folle. Per preparare la difesa aveva caricato tutto il suo peso sulle spalle e sulle braccia, che ora erano lente a reagire. Senza poterne approfittare, osservò il rivale che per un istante apriva del tutto la guardia, mentre piroettava su se stesso.

L’avvitamento del busto fornì al colpo di Ian una forza e una imprevedibilità altrimenti inimmaginabili.

Per la prima nella sua vita, Glasdale conobbe l’atroce consapevolezza di non aver saputo prevedere, con una frazione di anticipo, la mossa del suo avversario.

Un istante dopo percepiva un lampo incandescente abbattersi contro il suo fianco sinistro, proprio sotto la corazza, dove lo proteggeva solo una cotta di maglia.

Nessuno era mai riuscito a ferirlo in un duello, era incredulo e indignato. Non riusciva a spiegarsi in che modo quell’uomo avesse trovato le forze, l’ingegno e la velocità per sferrare un attacco del genere. L’umiliazione lo ferì più del dolore che gli bruciava il fianco. Sollevò l’arma, bramando di vendicare senza indugio quell’offesa intollerabile.

Ian disimpegnò la lama dalle maglie di ferro che aveva sbriciolato, staccò la mano sinistra dall’elsa, e col solo movimento del polso dell’altra mano, mulinò il ferro come se fosse un’elica impazzita. La spada ruotò più volte su se stessa, e quando Ian l’arrestò, la stava impugnando al contrario, pronto a lanciarsi contro l’avversario con un gesto ancora più folle e inatteso.

 Sollevò in alto il braccio, adoperando come un’arma il pomolo forgiato con la testa del falco e si scagliò su Glasdale, con tutta la forza di cui era capace. Lo centrò sulla parte bassa dell’elmo, cogliendo l’inglese del tutto impreparato a fronteggiare quella mossa inconcepibile.  

Il metallo che proteggeva Glasdale si incrinò, screziandosi di rigagnoli sangue.

E Ian colpì ancora, ancora e ancora, riducendo in una poltiglia raccapricciante il muso dell’inglese, finché il pomolo stesso della sua spada si sbriciolò sotto la sua furia.

Solo allora fece un passo indietro e ruotando nuovamente tra le dita l’elsa della spada, tornò a impugnarla nel verso corretto, preparandosi a sferrare il colpo di grazia.

Glasdale sI levò l’elmo sputando a terra l’impiastro di sangue e denti che gli riempiva la bocca. La lingua si muoveva liberamente nel palato, senza trovare più altro attrito che il sangue.

L’incredulità lasciò per la prima volta il posto al terrore. Qualcosa aveva trasformato quell’uomo e non riusciva a capire cosa. Ian sembrava attendere che l’avversario fosse di nuovo pronto a brandire la sua arma.

Glasdale decise di accontentarlo immediatamente, si scagliò su di lui come un cane rabbioso, facendo cozzare la sua lama contro quella di Ian e impegnandola in una prova di forza e di abilità che sapeva che non avrebbe mai potuto perdere.

Con un solo movimento del polso che aveva imparato da Geoffrey Martewall, Ian strappò via la spada all’inglese, facendola volare in alto e lasciando una volta di più Glasdale sgomento. Con la mano sinistra, Ian afferrò l’elsa dell’arma del rivale mentre ricadeva in basso. Ci fu lo stridore acuto del metallo contro metallo, mentre incrociava a forbice le due spade ai lati della gola del suo avversario.

Sul campo calò un silenzio innaturale.

Poi Ian udì le grida dei francesi che esultavano e lo acclamavano e di colpo la sete di vendetta che per tanto tempo l’aveva consumato, l’abbandonò, mentre la stanchezza aveva finalmente ragione di lui. Separò le due lame tese davanti alla testa di Glasdale e abbandonò le braccia lungo i fianchi, facendo strisciare le punte delle due spade a terra.

Glasdale indietreggiò cautamente verso il cancello della fortezza alle sue spalle.

Era sconfitto, finito, umiliato. Ma più di questo, non riusciva a capacitarsi di come era potuto accadere.

Gustò il sapore metallico del suo sangue. Tutt’intorno scorgeva solo i volti ostili dei suoi nemici, che gli gridavano contro ogni genere di oscenità. Incrociò lo sguardo con la strega francese dentro l’armatura. Nei suoi occhi vi lesse una pietà che non fu capace di sostenere.

Distolse immediatamente lo sguardo e fu sbalordito di posarlo su un’altra donna, quella cagna maledetta che non era riuscito né ad uccidere né a possedere. Vi scorse un odio infinito, identico a quello che covava lui stesso verso tutta la gente. Ma poi l’odio negli occhi della ragazza si smorzò, tramutandosi in una desolata commiserazione.

 Voltò disperatamente gli occhi in un’altra direzione, e Incrociò lo sguardo del giovane conte di Ponthieu che lui stesso aveva assassinato insieme al padre, a Verdun. Ma anche quel fantasma lo osservò severamente, esprimendo silenziosamente soltanto pena e compatimento. All’ora estrema, gli incubi del suo passato erano tornati ad esigere il loro prezzo.

Per Glasdale fu troppo, gli sguardi della folla presero a turbinare nella sua testa, insieme alle occhiate impotenti di tutte le vittime a cui in passato aveva strappato la vita. Perché tutti lo stavano fissando con quell’espressione di insopportabile pietà? Perché nessuno lo temeva più?

Quelle domande senza risposta lo gettarono nella follia e urlò più volte a quegli occhi di smetterla, ma essi non smisero di vorticare, né di fissarlo.

Girò goffamente su sé stesso, nel disperato tentativo di scorgere un posto dove quegli sguardi indagatori non avrebbero potuto seguirlo: davanti a lui si apriva la cancellata della fortezza in fiamme e senza esitazioni, si lanciò dentro.

Nessuno lo fermò.

Eccola Les Tourelles, l’inespugnabile. La roccaforte che finché lui era vivo non sarebbe mai caduta. Si addentrò ancora per qualche passo all’interno del passaggio, mentre il fumo nero lo accoglieva nel suo fosco abbraccio. Cominciò a tossire e a sputare sangue, mentre avanzava barcollando, picchiando di qua e di là contro le mura e i sostegni della fortezza.

Lontano dalle porte, il calore era intollerabile e le fiamme incombevano dall’alto e da ogni lato, aggrappate alle travi che bruciavano. Inevitabilmente, una lingua di fuoco ghermì la sua lunga chioma rossiccia, imprigionando i capelli nell’odore raccapricciante della morte.

Glasdale se ne avvide solo quando il calore incandescente lambì la carne. Agitò le mani nel vano tentativo di difendersi dal fuoco, ma riuscì soltanto a bruciarsi le dita. Non aveva fiato per urlare, non poteva fare nulla per alleviare il dolore lancinante, allora cominciò a correre. Una luce tenue illuminava il cancello sul retro che immetteva sul ponte e concentrò tutte le sue forze per raggiungere l’uscita.

Attraversò il ponte impazzito dal dolore e mentre esalava un ultimo grido disumano, si gettò nella Loira, compiendo il suo destino.

 

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Capitolo 17
*** Capitolo 28 ***


 

 

Nel momento in cui tutti udirono l’ultimo grido di Lord William Glasdale in questo mondo, Ian si trascinò stancamente verso la donna che aveva creduto di non poter più rivedere.

Quando infine la raggiunse, lei gli porse la mano e lui gliela sfiorò, ancora increduli di quel contatto. Dopo qualche istante, in cui furono immobilizzati dalle loro stesse emozioni, Isabeau gli gettò le braccia al collo e finalmente cedettero ad un pianto disperato e liberatorio.

Quando un amore è tutta la tua vita, senza di esso un uomo continuerà pure ad esistere, ma non più a vivere.

Nel momento in cui erano stati strappati l’uno all’altra erano appassiti, inariditi, lentamente spogliati dalla voglia di essere. E mentre i loro corpi adesso aderivano e combaciavano di nuovo, tornando ad essere una cosa sola, in quel pianto irrefrenabile sperimentarono dolorosamente l’unione ritrovata e la vita che riprendeva a fluire nelle vene.

Jeanne cercò la mano di Ty e la serrò nella sua, mentre voltava il viso dalla parte opposta per non lasciare scorgere al ragazzo le lacrime che le crescevano dagli occhi. Il sole era ormai una goccia di sangue nell’oscurità.

Quando anche l’ultimo riflesso scarlatto fu prossimo ad essere inghiottito dal buio, Ian guardò dinanzi a lui e non vide la notte, non vide gli uomini che festeggiavano e le donne liberate che tornavano a sorridere, non vide i cadaveri, non vide l’incendio che ancora infuriava, non vide nient’altro che lei, che eclissava la luce del giorno.

 

 

 

***

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Capitolo 18
*** Capitolo 29 ***


Mónika Szigeti era arrivata all’Aeroport de Lille, nelle Fiandre francesi, con quasi un’ora di anticipo sull’orario previsto di atterraggio del Learjet 45 XR proveniente dalla base militare di Davis-Monthan, Tucson, Arizona.

Non lasciava mai nulla al caso e quando la informarono che il piccolo ma superbo bimotore otto posti sarebbe giunto con abbondante anticipo sul piano di volo, non si meravigliò ma ordinò allo steward di preparare un caffè macchiato per lei e uno lungo per il suo nuovo boss, che stava atterrando.

Dopo aver osservato rullare e manovrare sulla pista la sagoma slanciata del Learjet, attese che entrasse dentro l’enorme hangar privato, dove un lussuoso e nuovissimo Bombardier 85 era già parcheggiato. Esaminandone il profilo alare, si stupì che ricordasse la guardia che incrociava una spada tra la lama e l’elsa: le ali rastremate erano leggermente ad angolo acuto, con le estremità che terminavano con due brevi appendici aerodinamiche rivolte verso l’alto.

Lo steward dell’aviorimessa la seguì come un’ombra quando lei si avviò verso l’unico uomo che scendeva dagli scalini.

Scattò sull’attenti, non appena il suo nuovo capo stava per passarle di fianco. “Benvenuto in Francia, Signor Generale!”

“Lei deve essere Mónika, suppongo.”

“Affermativo, Signore.”

“Si metta pure comoda, Maggiore” le disse cordialmente, porgendole la mano, “riposo”.

Mónika gli ricambiò la stretta con una presa che non fu né troppo timida né troppo forte.

“Caffè, Signore?”

“Grazie”, rispose lui, raccogliendo dal vassoio la tazza grande che gli porgeva lo steward, “ne avevo proprio bisogno dopo tutte queste ore di volo. Non ero più abituato, per la miseria!”

“La condurrò io stessa al suo hotel, ho prenotato una stanza all’Hermitage Gantois: è l’hotel più in vista di Lille ed abbiamo uno dei nostri operativo lì dentro da quasi dieci anni. La sua stanza è già stata debitamente controllata ed è pulita, Signore.”

“Il Colonnello Appleton mi aveva riferito che è molto efficiente, Maggiore. Mi affido completamente a lei se non le dispiace.”

“E’ mio dovere, Signor Generale”.

“Il Colonnello mi ha raccontato anche che i suoi uomini la chiamano Szigi. Sono curioso, non conosco il significato di questa parola”.

Mónika sperò che le guance non rivelassero troppo il suo imbarazzo mentre rispondeva: “Sono di origini ungheresi, Signore. Mio padre è ungherese e mia madre è di Boston, anche se sono di stanza in Francia da alcuni anni” spiegò.

 Szigi è il diminutivo del mio cognome, nella mia lingua significa isola. E’ il soprannome con cui mi chiamano i ragazzi del nucleo operativo”. Fece una pausa e poi sapendo con certezza di stare per arrossire, esclamò tutto ad un fiato: “Gli uomini sono tutti dei porci, con rispetto parlando, Signore, se non gli dai quello che vogliono… bè, poi trovano sempre qualcosa con cui fartela pagare, Signore.”

John Freeland si soffermò ad esaminare il Maggiore Mónika Szigeti. I lineamenti erano regolari ma non anonimi, come le labbra, né sottili né carnose. Il viso era contornato da due frange biondo cenere, lisce e lucenti:  su un lato i capelli erano scalati all’altezza della bocca, sul lato opposto invece, scendevano più lunghi, tra il mento e la spalla, mentre una ciocca le percorreva di traverso la fronte e spariva appiattita dietro l’orecchio.

I grandi occhi, appena ombreggiati da un leggero trucco antracite, erano di un grigio-verde limpidissimo e sconvolgente e lo stavano fissando con intensità sconcertante.

Szigi  era una donna dalla bellezza non comune. Il Generale intuì come il suo aspetto fisico, più che aiutarla, fosse stato un problema nell’esercito e nei corpi speciali. Come per altri uomini che conosceva e che possedevano qualità straordinarie, il rischio era proprio quello: diventare un’isola, messi da parte dal gruppo a causa del loro stesso dono. Come ripeteva ai suoi soldati in questi casi, stava all’intelligenza del singolo venire fuori da simili situazioni.

“Mi creda, non avevo nessuna intenzione di metterla in imbarazzo, dimentichi la domanda...” si scusò, mentre strangolava mentalmente il colonnello Appleton.

“Non importa, Signore. Il soprannome ha finito col piacermi e l’ho adottato io stessa. Ai miei uomini piace giocare coi nomi, ma le assicuro che in missione non troverà un reparto più efficiente in tutto il continente.”

 John comprese dalla sua risposta che aveva avuto abbastanza buon senso da farsi una ragione di ciò che pensava la sua squadra di lei ed era andata avanti per la sua strada.

Non lasciò tuttavia trasparire il suo compiacimento quando aggiunse: “Non dubito dell’efficienza dei suoi uomini, Maggiore. Ma la nostra è una missione diplomatica, non lo scordi.”

Sir, yes Sir!” scattò lei di nuovo sull’attenti, rivolgendo al comandante il tipico saluto in uso nel corpo dei marines. “Noi ex marine siamo sempre pronti ad ogni evenienza, Signore”.

A John quella donna non dispiaceva. E anche lui era un ex marine. Avrebbero tirato fuori dai guai Jodie e trovato suo figlio e Ian, ovunque si fossero cacciati. Osservando Szigi si sentiva ora più sicuro di farcela.

 

 

***

 

 

Mónika prelevò la Renault alla Hertz dell’Aeroport de Lille e accompagnò John all’Hermitage Gantois.

Lui si concesse appena il tempo di rinfrescarsi e posare le valige, poi chiamò Szigi sul cellulare: “Sono pronto, aspettami giù nella hall, sto arrivando.” Mónika stava già digitando sul navigatore le parole: Chemin de la Plaine, 179.

Era l’indirizzo del carcere di Lille-Sequedin.

Presero la A25 verso nord, in direzione Lille Dunkerque, percorrendola in silenzio per alcuni chilometri. Solo quando l’auto svoltò sulla destra per Sequedin, John parlò e si informò se l’ambasciata avesse fatto storie alla richiesta inoltrata con urgenza dal Comando della U.S.I.C.

As smoothly as honey, Sir. Ho già collaborato in altre missioni con Cynthia Doell, della VPP Lille. Ha prodotto tutta la documentazione necessaria a tempo di record.”

“VPP, ha detto?”

“A Lille stiamo sperimentando un nuovo tipo di ambasciata innovativa. VPP sta per Virtual american Presence Post, abbiamo un consolato solo virtuale, Signore.”

“Virtuale? Santo Dio, di questo passo ci manca solo che recluteremo agenti virtuali, affronteremo missioni virtuali e magari scopriremo che il mondo intero è un dannato gioco virtuale!”

L’umore di John non migliorò quando arrivarono in vista del carcere:  la Maison d'arrêt de Lille-Sequedin non era altro che uno squallido e immenso capannone di cemento, circondato da mura anch’esse di cemento e stonacate.

Il sole stava già tramontando dietro le fluorescenze elettroniche dei prominenti lampioni che  chiaroscuravano un’inarginabile fatiscenza architettonica e sociale.

Fiancheggiarono l’ampio parco dove l’erba, a tratti giallognola e avvizzita, era stata comunque accuratamente tosata e giunsero infine ad un cancello. Al gabbiotto, Mónika mostrò un tesserino e chiese del Direttore.

Passarono alcuni minuti prima che le sbarre permisero loro di superare il posto di controllo. Alla fine di un lungo vialetto asfaltato, un uomo in uniforme e il direttore della casa circondariale erano in attesa della delegazione americana.

I convenevoli durarono solo lo stretto necessario: John non aveva intenzione di far trascorrere in quel posto un solo minuto in più, alla madre della sua unica nipotina.

“Mi rincresce la spiacevole occasione che l’ha condotta fin qui, Generale. Sua nuora l’attende nella stanza riservata agli ospiti del carcere per le visite. La sua splendida accompagnatrice è il suo avvocato?”, volle sapere il direttore rivolgendosi a Mónika con un sorriso ammiccante.

“No e noi non stiamo chiedendo di vedere nessun ospite di questo penitenziario” chiarì lei.

“P-Prego?” Incespicò sulle parole l’uomo, di fronte al tono impassibile della donna dallo sguardo conturbante.

“Non sono l’avvocato della ragazza e Jodie Carson è una cittadina americana libera di lasciare questo edificio a partire da questo istante. Legga questa ingiunzione, per favore.”

Il direttore del carcere, raccolse il primo dei due fogli che gli porgeva il Maggiore e si accigliò fin quando lesse sulla carta intestata:

 

Ambassador Charles Rivkin
     American Embassy
    2, avenue Gabriel

75008 Paris

 

Comprese di cosa si trattava prima ancora di finire di scorrere la pagina.

 “Immunità diplomatica?” esclamò sorpreso “Non sapevo che Madame Carson si fosse appellata all’immunità diplomatica…”

“Bene. Lo sa adesso, signor direttore.”

“Ma tutto ciò è ridicolo, andiamo… Sono pronto a respingere qualsiasi pretesa di immunità!”

“Prima dovrebbe dirmi se è ridicola anche l’istanza di scarcerazione firmata dal juge d’instruction competente. Tenga, anche questa è sua, direttore”, lo informò porgendogli il secondo documento.

“Ma io credo…”

“Lei crede…” Mónika si sporse in avanti per leggere il nome del direttore sulla targhetta fissata alla giacca “…Monsieur Renard? Qualsiasi cosa lei creda in questo preciso momento, che non riguardi la scarcerazione della ragazza, è superfluo e irrilevante” ringhiò Szigi, scandendo lentamente le parole.

“Per cortesia” lo liquidò il Generale “ordini di preparare il prima possibile gli effetti personali della ragazza. Al momento dell’arresto aveva con sé due Notebook Dell di cospicuo valore. Entrambi i portatili contenevano informazioni riservate di proprietà esclusiva del Governo degli Stati Uniti, gradiremmo averli indietro senza indugio.”

“Ma questo è fuori discussione, Generale! Si tratta delle evidenze di un reato!”

John stava per perdere la pazienza. “Maggiore, per favore, rimanga col direttore e sbrighi le ultime formalità burocratiche”, dispose infine irritato, “sono ansioso di vedere Jodie.” Quando già si era voltato, aggiunse a beneficio dei due francesi: “Se sorgono ulteriori difficoltà non si disturbi a chiamarmi. Telefoni direttamente al segretario alla Difesa.” Senza nemmeno aspettare la reazione del direttore, John oltrepassò l’atrio e si avviò verso il corridoio.

“Un momento, dove crede di andare?” lo ammonì  l’ufficiale del penitenziario in uniforme che fino a quel momento non aveva ancora parlato.

“A far visita a mia nuora.”

“Mi segua per favore, non può andare in giro da solo.”

Jodie lo aspettava lì. Il Generale ebbe un tuffo al cuore quando la vide seduta a ridosso delle strette inferriate, con la testa appoggiata sui gomiti e i capelli in disordine. Ma quando la ragazza americana si accorse della sua presenza, l’uomo badò a non lasciare trasparire alcuna emozione.

“Oh John. Grazie a Dio...”

 “Buongiorno Jodie. Non dire nient’altro. Non qui.”

La ragazza lo studiò con apprensione e quando il Generale scandì a bassa voce le parole “avrai molto da raccontarmi non appena saremo fuori da questo posto” i suoi timori trovarono conferma.

Quando nello stanzone fece il suo ingresso Mónika, sventolando alla guardia carceraria un paio di fogli che attestavano il diritto formale a prelevare il cosiddetto ospite, John capì che il primo capitolo della missione era giunto al termine.

 

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Capitolo 19
*** Capitolo 30 ***


Szigi aveva prenotato all’Hermitage Gantois un’ampia camera singola per il Generale e una doppia per lei e Jodie. Aveva intenzione di controllare l’americana da vicino.

Gli effetti personali della ragazza sarebbero stati recapitati entro due giorni in Hotel. Niente da fare per i computer, su questo avrebbero lavorato in seguito.

In breve la 222 che ospitava le due donne divenne il quartier generale. A Jodie, in un primo momento, sembrò di essere stata trasferita in un carcere soltanto più lussuoso. E l’interrogatorio era appena iniziato.

“Alex… Alex sta bene? Mi manca così tanto, John”.

“Non preoccuparti per la piccola, sta benone. Sylvia non la lascia un attimo”, le confermò l’uomo sorridendo per la prima volta da quando l’aveva rivisto, “è davvero un angelo”.

Per un po’ restarono in silenzio, con le tante domande solo sospese nell’aria, nell’attesa che qualcuno finalmente le pronunciasse. 

“John, per prima cosa, vorrei parlare solo con te”, attaccò Jodie, rompendo il silenzio e mostrando un cipiglio serio.

“E la tua nuova amica? Non dirmi che non ti è simpatica?”

In effetti a Jodie quella bionda, che in auto si era presentata come “Maggiore Mónika Qualcosa ma puoi chiamarmi anche Szigi”, era parsa socievole come lo può essere un cubetto di ghiaccio. Né si fidava di quegli occhi grigio-verdi inquietanti, che la scrutavano come se mentisse, anche quando le aveva detto di chiamarsi Jodie Carson.

“Non si tratta di questo, preferisco soltanto non parlare del problema di Daniel e Ian davanti a degli estranei.”

Mónika non batté ciglio e continuò ad osservare la ragazza con un’espressione neutra.

“Il Maggiore fa parte della squadra, Jodie. Noi tre”, disse indicando se stesso, la ragazza e l’ufficiale, “siamo un team. Tu hai la palla adesso. Se vogliamo superare la difesa avversaria e andare a canestro, devi passare la palla, figliola.”

Jodie esibì un’espressione interrogativa. Per un istante le parole di John le ricordarono le partite di basket della Regular Season dell’anno prima, poco prima del matrimonio: lei abbracciata a Daniel, entrambi felici dentro le maglie arancio-viola dei Phoenix Suns.

“Devi passare la palla se vogliamo salvare Daniel…” rincarò ancora la dose l’uomo.

Avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere per salvare Daniel, lo sapeva. Persino rivelare il segreto più inverosimile e importante del secolo al padre del marito? Al Governo?

Si passò nervosamente le mani tra i capelli castani. Una cosa era certa: se voleva salvare Daniel e recuperare i portatili confiscati dalla forze di sicurezza francese doveva chiedere aiuto a John. Senza quei computer e il loro prezioso contenuto, suo marito non sarebbe mai tornato indietro.

Ma se rivelava la verità al generale, significata divulgarla al governo americano.

Cosa doveva fare? Cosa avrebbero fatto al posto suo Daniel e Ian? 

Il Falco d’Argento! Ma certo… Pensa come lui. Come si sarebbe comportato l’amico in questo frangente? Ian aveva affrontato situazioni forse persino più complicate, cavandosela ogni volta grazie alla sua abilità di piegare, con le sole parole, la realtà al suo volere.

Mentire.

Calma Jodie, calma! Non è necessario raccontare ad ogni costo tutta la verità su Hyperversum. Pensa… rifletti!

Troppo pericoloso far sapere al Governo di Hyperversum, poteva addirittura essere la fine della loro vita com’era oggi. Le implicazioni erano incalcolabili. Ciò che doveva ottenere erano solo quei maledetti portatili e far cadere tutte le accuse per lei, Daniel e Ian. E per pensare aveva bisogno di tempo.

“John, ho bisogno di una pausa… devo andare in bagno.”

L’uomo non disse nulla, si limitò a voltare lo sguardo verso Mónika, che fece per alzarsi.

“Santo cielo, John! Posso andare in bagno da sola o è necessario che il tuo segugio mi segua anche lì?”

“Se vuoi farti una doccia e cambiarti… e credo che tu ne abbia davvero voglia…”, furono le prime parole di Szigi da quando erano entrati in camera, “in quella valigia lassù troverai dei vestiti e della biancheria” aggiunse in tono asciutto indicando il bagaglio sopra l’armadio più grande, “stavo andando a tirartela giù.”

“Li ha presi Sylvia da casa tua, prima che io partissi per la Francia” confermò John.

“In questo caso ritiro la frase di prima” mormorò Jodie pentita. “Ok, sono preoccupata per mio marito e sono irritabile dopo aver passato due notti piene di angoscia in quello schifosissimo posto. Credo proprio che una doccia mi farà stare meglio, scusatemi.”

E mi serve tempo per ideare una storia plausibile, ripeté mentalmente mentre si alzava. La verità a volte è così preziosa da aver bisogno di una guardia del corpo di menzogne. Che la difenda da voi, caro Segugio dagli Occhi Grigi e caro Signor Generale.

 
 
 

***


 

Quando mezz’ora più tardi Jodie uscì dal bagno sapeva cosa avrebbe rivelato e cosa avrebbe taciuto.

“Ok, cominciamo l’interrogatorio”, annunciò la ragazza, mentre si metteva comoda sul divano e accavallava le gambe, ostentando una sicurezza che sapeva di non possedere.

“Jodie, per la miseria, non ho intenzione di farti il terzo grado! Sto solo cercando di aiutarti!”

“Se fossimo solo io e te, John, ti crederei senz’altro… ma con lei presente, come posso fidarmi?”

“Te l’ho già detto, Jodie, tutti e due siamo qui solo per aiutarti, siamo nella stessa squadra. E questa dannata storia che coinvolgerebbe mio figlio e Ian, che mi hai solo accennato al telefono, non ho nemmeno idea di cosa sia!”

 “Ok. Ok coach, capisco” mentì Jodie, “ad ogni modo il riscaldamento è finito. Iniziamo la partita, io sono pronta.”

“Ascoltami Jodie, Mónika fa parte dell’agenzia”, cominciò l’uomo sorvolando su altri dettagli, “è l’ufficiale responsabile delle operazioni in questa regione. E’ una donna in gamba e devi fidarti di lei. Raccontaci tutto quello che sai senza tralasciare niente e vedrai che troveremo il modo per aiutare Daniel e Ian, per questo l’ho portata con me”.

“Ok”, annuì Jodie simulando una convinzione che le mancava.

 “Bene, adesso prima di cominciare con le domande, sincronizziamo gli orologi della squadra: a quando risale la scoperta di questo maledetto segreto?”

“All’incirca da quando vi abbiamo raccontato che Ian era in giro per il mondo e non poteva tornare a casa”.

John tornò indietro con la memoria e chiese: “Quelle brutte cicatrici che si era procurato sulla schiena, centrano qualcosa con questa faccenda?”

Jodie rifletté velocemente: non era i dettagli che doveva nascondere, quelli anzi sarebbero serviti per rendere più realistico e credibile l’intero scenario. “Si”.

Il Generale s’incupì.

“Vi siete fatti dei nemici? Dei nemici pericolosi?”

“Si, ma era tanto tempo fa. Questa volta non saprei dirtelo.”

“Sono in pericolo, potrebbero esserlo?”

“Si”. E lo sospirò in tono così angosciato che Szigi lo annotò mentalmente.

“Dove sono?” incalzò ancora il Generale.

“Non lo so. Davvero non lo so.”

“I satelliti possono aiutarci, abbiamo a disposizione come sai..”

“No, John” lo interruppe Jodie. “I tuoi satelliti non possono trovare mio marito e Ian.”

“Possono scovare i loro nemici.”

“Nemmeno. Non ci riusciranno mai.”

John assenti greve, rimandando mentalmente quella questione ad un momento successivo.

“Al telefono mi hai solo accennato che mio figlio e Ian si trovano in grave pericolo e che solo uscendo il prima possibile di prigione e riavviando quei dannati computer saresti stata in grado di salvarli.”

“E’ così, John.” L’angoscia, notò Szigi, era più che mai viva e sincera quando Jodie aggiunse “Potranno raggiungerci, sempre che nel frattempo non sia successo loro qualcosa di irrimediabile.”

“Spiegami perché uno stupido laptop dovrebbe salvare la vita di mio figlio.”

Erano finalmente arrivati al punto. Al momento in cui il match si sarebbe deciso.

Mónika annotò che l’espressione di Jodie era leggermente cambiata, era preoccupata. Ma non lo era per suo marito, adesso. Intuì che era nervosa per quello che stava per dire. Stava per mentire.

“Ian…” esordì cercando di apparire più sicura possibile, “durante i suoi viaggi e le sue ricerche è venuto in possesso di una tecnologia, non conosco i dettagli perché non sono un’esperta…”

 “E questa tecnologia a chi appartiene?” la incalzò John, “Russi, cinesi, nordcoreani? Terroristi arabi? Per la miseria, Jodie, in che guaio vi siete cacciati? Ian ha derubato i suoi nemici?”

“No, assolutamente” scandì con sicurezza Jodie, scuotendo il capo.

Sincera, registrò Szigi.

 “L’ha trovata, non so come diavolo ha fatto, ma l’ha trovata!”

Ok, per Mónika adesso Jodie diceva la verità.

“Lui e Daniel sanno usarla?”

“Si, hanno impiegato qualche tempo per governarla, ma adesso credevano di sapere come gestirla...”

Vero.

“Ma…?” la sollecitò ancora John.

“Non so, Daniel lo conosci.. a volte è così imprudente e quando si tratta di Ian… Gli ho detto mille volte che doveva piantarla!” esclamò Jodie con irritazione genuina, “che doveva mettere la parola fine a quella cosa, ma è così testardo… e senza i computer, adesso…”

“Chi altri sa usarla?”

“Io ho visto qualcosa, ma non ho mai provato...”

“Bene”, l’interruppe l’uomo, “Jodie, adesso dimmi a cosa serve questa dannata tecnologia.”

Jodie era sicura che per quanto ogni agenzia di intelligence americana avesse scandagliato ogni bit di dati contenuto nel disco fisso dei due notebook e nei dvd, non avrebbe mai trovato nulla di sospetto su Hyperversum. Solo un normalissimo videogioco che i ragazzi si erano portati dietro per trascorrere il tempo durante le loro vacanze in Francia. Era perfettamente a conoscenza che il gioco non avrebbe mai funzionato davvero senza Ian.

Si era chiesta fino a quanto poteva spingersi a raccontare degli effetti di Hyperversum e si era persuasa che doveva essere il più credibile possibile, ma senza mai menzionare il gioco. Poche, piccole e circostanziate menzogne per sviarli sulla fonte del suo segreto, ma il resto della storia doveva condirla con molte verità se voleva apparire convincente.

Ai due militari avrebbe fornito indicazioni sufficienti per assimilare quali prodigi era in grado di compiere quella misteriosa tecnologia. Ma mai abbastanza per utilizzarla.

Hyperversum compiva il suo miracolo solo con Ian presente. Ian, per qualche oscuro motivo che lei stessa ignorava, era la chiave di volta, l’accesso segreto a quel Mondo nel Passato.

L’americana doveva spostare l’attenzione dal gioco e da Ian. E se al posto del gioco era stato facile pensare ad una imprecisata tecnologia scoperta dall’amico chissà dove, durante i misteriosi viaggi di cui era accreditato, più difficile era stato immaginare una nuova chiave di accesso a quel mondo. Finché a Jodie non venne in mente l’oggetto stesso per cui era stata tratta in arresto, il codice miniato di inestimabile valore che i francesi non avrebbero mai concesso per nessun motivo agli americani.

Lo stesso manoscritto che Ian era accusato di aver sottratto a quel dannato LeClercq.

E senza poter mai venire in possesso dell’antico manoscritto, rifletteva Jodie, gli americani non avrebbero mai potuto smentire o ricostruire la storia che stava per raccontare. Tutto combacia, si congratulò, posso farcela.

Jodie si concesse un lungo respiro e si voltò verso Mónika, sostenendone lo sguardo inquietante. 

Gli occhi della donna erano di un grigio-verde purissimo e sconcertante, ma intenzionalmente privi di ogni espressione. Mónika era di ghiaccio.

Sapeva che la stava osservando con la massima attenzione da quando la partita era iniziata, dentro quella stanza.

Quello che sto per rivelarti ti cambierà la vita. Ma dovrai farti bastare la mezza verità che ti racconterò. Altrimenti io e te non saremo mai amiche come vorrebbe il capo…

Mentre pronunciava mentalmente le ultime parole, le sue labbra si schiusero in un sorriso spontaneo. Mónika, socchiuse ancora di più le palpebre e abbozzò anche lei una sorta di ghigno che sapeva di sfida.

 

 

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Capitolo 20
*** Capitolo 31 ***


 

“Non prendermi in giro, figliola. Se la vita di mio figlio è in pericolo non perdiamo tempo a raccontarci favole”.

Ciò che il Generale e il Maggiore udirono dalla voce di Jodie li lasciò basiti oltre ogni immaginazione e più la ragazza si sforzava di descrivere di cos’era capace quella tecnologia, più lo scenario descritto si presentava improbabile e impossibile. Ma allo stesso tempo, la dovizia di particolari che Jodie aggiungeva subito dopo, senza mai contraddirsi o esitare, rendeva quel quadro meno paradossale di quanto Mónika avesse voluto credere in un primo momento.

Lentamente, senza nemmeno accorgersene, Mónika fu trasportata dalle parole di Jodie in un’epoca lontana, rappresentata con una quantità tale di particolari che la restituivano alla vita. Reale, percepibile, quasi palpabile. Ogni sua domanda trovava con prontezza una risposta. Ogni dubbio, una spiegazione. Quelle erano le dannate parole di una ragazzina che ha vissuto davvero nel medioevo, fu il pensiero che si faceva assurdamente strada nella mente del Maggiore.

“Andiamo, gli unici viaggi possibili nel Medioevo sono quelli di Mark Twain, in Un americano alla corte di re Artù!” sorrise bonariamente John.

“Lei l’ha letto, Mónika?” aggiunse ancora.

“Per la verità sì” replicò, “e l’ho trovato discreto.”

La donna continuò a fissare il Generale, intenta.

“Ebbene, Maggiore?”

“Quando fui ammessa all’agenzia, mi assegnarono al team di analisti che vigilava sui gruppi di discussione universitari più brillanti di Boston: Harvard University e MIT. Tra le teorie più interessanti trovai una pubblicazione del professore Seth Lloyd, del dipartimento di fisica quantistica del Massachusetts Institute of Technology. Un gruppo internazionale di studiosi asseriva, con una sofisticata ma rigorosa spiegazione scientifica, che i viaggi a ritroso nel tempo non sono tecnicamente impossibili”.

John le rivolse un’occhiata carica di scetticismo. “Il delirio di qualche folle visionario, suppongo.”

“All’epoca l’agenzia si interessò a quei test, Signore. Ricordo che si teorizzava che l’effetto combinato del meccanismo di postselezione del Quantum computing, di cui Lloyd era l‘ideatore, e del teletrasporto, avrebbe permesso di invertire la freccia temporale di una particella elementare e riportarla alla sua condizione originaria nel passato”.

“Teoria davvero interessante…”, bofonchiò con evidente sarcasmo il generale. “Ha appena detto teletrasporto, Maggiore? Immagino che persino gli autori di Star Trek, annoverino nei loro curricula interessanti pubblicazioni al MIT di Boston”, concluse divertito.

Mónika gli mostrò a sua volta un sorrisetto compiaciuto:

“Signore, l’equipe scientifica di  Seth Lloyd è già riuscita a teletrasportare qualche fotone in laboratorio. Gli scienziati conclusero che era solo questione di tempo e di progresso tecnologico prima che l’uomo riuscisse a trasportare più di una semplice particella elementare e magari, un giorno, ne invertisse la freccia temporale”.

“Maggiore, lei vorrebbe suggerirmi che mio figlio, ricorrendo a queste farneticanti teorie, è riuscito a costruire...”, John abbatté un pesante pugno sul tavolo, “la macchina del tempo?”

“Forse no, Signore. Ma non possiamo escludere che qualche scienziato dell’equipe di Lloyd possa aver proseguito le ricerche al di fuori dell’università. E con l’aiuto di qualche governo compiacente o di qualche fondazione con fondi illimitati… potrebbe aver raggiunto qualche risultato. Sono del parere che questo deve interessare la U.S.I.C., Signor Generale”, aggiunse infine con freddezza.

John si concesse una smorfia che manifestò tutta la sua incredulità.   

 “Ciò che ho raccontato è comunque la verità!” s’intromise Jodie, anche lei affascinata dalle teorie enunciate da Szigi, “che abbia senso o no, che vi piaccia o no, è quello che è successo. Prima lo accettate, prima salviamo Daniel”, affermò alla fine, a muso duro.

John, nient’affatto persuaso nemmeno dalla storia di Jodie, con un gesto spazientito, rivolse una nuova occhiata al suo ufficiale.

Restò a bocca aperta quando Mónika annunciò:

“Non so se Seth Lloyd, o chi per lui, abbia proseguito segretamente le ricerche e se queste abbiano avuto successo, ma il profilo emotivo della ragazza conferma che lei è convinta di dire la verità, Signore. E per quanto possa apparire paradossale, comincio a credere anch’io che il suo racconto corrisponde in qualche modo a quanto è successo ai ragazzi.”

John adesso era muto e incredulo.

“E se non recuperiamo il prima possibile il materiale in mano ai francesi”, incalzò Jodie, “Daniel resterà per sempre bloccato lì!” Questa volta anche John comprese che l’apprensione della ragazza era reale.

Gli occhi castani della moglie del figlio, luccicavano più che mai lucidi. John vi vide riflessa una angoscia autentica. Jodie temeva che in ogni minuto che perdevano in inutili parole poteva succedere qualcosa di irreparabile dov’era adesso Daniel.

“John, ti prego, so che ti è quasi impossibile credermi, ma perché mai dovrei inventarmi proprio adesso una storia tanto assurda? Mi conosci, mio Dio! Credi che sarei capace di perdere tempo, sapendo che mio marito è in pericolo?

L’uomo non sapeva cosa pensare.

“Continua con la tua storia”, intervenne impassibile Mónika, “sono sicura di avere ancora altre domande”.

“No, dannazione! Abbiamo già perso abbastanza tempo in chiacchiere! Mi potete aiutare oppure no? Dobbiamo recuperare i portatili e i dvd… ogni secondo che trascorriamo qui a parlare, potrebbe essere lungo un giorno per Daniel… vi prego, facciamo in fretta!”

“Signor Generale, se contatto Cynthia, sono sicura che entro due giorni avremo anche i computer, non possono più trattenerli ora che la ragazza gode dell’immunità diplomatica. Faranno storie, i loro capi si lamenteranno coi nostri, ma alla fine se lei insiste col segretario alla Difesa, dovranno cedere.”

“I nostri amici francesi”, sibilò pensieroso John, “saranno molto curiosi di sapere cosa combinasse di tanto segreto, insieme a due persone che ora risultano svanite nel nulla, una ragazza che abbiamo fatto passare per uno dei nostri, dentro un castello medievale. Con un manoscritto miniato del XIII secolo, d’incalcolabile valore storico, scomparso insieme a loro…”

“Con l’intelligence francese posso vedermela io, Generale, loro non sono un problema”, assicurò. Fece una pausa in modo che il suo superiore assimilasse le sue parole e poi aggiunse:  “se la ragazza dice la verità, Signore, non ci resta che fare ciò che ha chiesto.”

Mónika era certa che Jodie nascondesse qualcosa, sapeva dunque di pronunciare una piccola bugia ma non se ne curò: “mettiamola alla prova, al momento non abbiamo altre piste da seguire per trovare suo figlio.”

Siamo già diventate amiche, Segugio dagli Occhi Grigi? A Jodie quell’alleanza così imprevista non convinceva, ma approfittò del momento di esitazione del Generale:

“Lo so… lo so che ti sembra tutto così impossibile”, convenne Jodie, rivolgendosi al padre di suo marito, “ma ti giuro che quando recupereremo i computer, vedrai coi tuoi stessi occhi se sto mentendo o no. Quando vedrai, capirai... adesso non perdiamo tempo, ti scongiuro, John…”   

“Quando avremo i portatili e dopo che avremo recuperato mio figlio, lo sai che ogni millimetro di silicio di quei laptop sarà sezionato dagli esperti del governo? Se avete rubato o centrate qualcosa con questa storia di Seth Lloyd, sarete ancora più nei guai che per un semplice furto di un manoscritto medievale, lo sai questo, vero?”

“A me interessa solo salvare mio marito e Ian, non abbiamo nulla da nascondere”, mentì Jodie, sicura che il segreto di Hyperversum sarebbe rimasto comunque al sicuro.

Mónika socchiuse ancora le palpebre, leggendo negli occhi di Jodie la bugia che aveva appena pronunciato.

Quella sciocca s’illudeva di poter giocare con lei.

Ma cosa diavolo stava succedendo? si domandò. Cristo! Qualcuno era davvero riuscito a trasformare in realtà le teorie di Lloyd? Com’era possibile? Ma se anche solo metà di ciò che la ragazza raccontava era vero, si trattava della scoperta più sconvolgente della storia. La rivelazione più sensazionale di sempre.

Il passo più importante mai compiuto dall’uomo. E lei era lì e poteva avere una parte in tutto questo.

 Desiderava quella tecnologia come non aveva mai voluto nient’altro in vita sua. Ok starò al tuo gioco, baby. Ma attenta, tu non sai con chi stai giocando…  

 “Ok, ok, maledizione! Due contro uno… Faremo come dici tu”, si arrese infine John, “spero solo che tu non abbia perso la testa, figliola.” Poi si rivolse alla donna: “Maggiore, chiami Cynthia Doell, voglio quei dannati portatili già domani. E allerti anche i nostri ragazzi al MIT, che scavino a fondo su questa faccenda. Se la vita di mio figlio è in pericolo non voglio lasciare nulla di intentato.”

 

 

***

 

 

“La ringrazio moltissimo per l’informazione, Direttore Renard… assolutamente, è come dice lei, una perdita incolmabile… grazie ancora, buona serata.”

L’uomo chiuse la comunicazione e scagliò il cellulare contro i cuscini del divano.

L’irritazione era insostenibile e gli faceva digrignare i denti dalla rabbia. “Maledizione! Ian Maayrkas, non puoi vincere sempre tu!”, urlò da solo nella stanza d’albergo vuota, “Non puoi! Ti giuro che stavolta te la farò pagare!”

Corse alla cassettiera del mobile e trascinò fuori tutti i vestiti, ammucchiandoli sul letto.

Odiava Ian Maayrkas, che l’aveva derubato della fama e dei riconoscimenti accademici che spettavano soltanto a lui. E detestava tutti i dannati americani, una stirpe senza passato, senza storia, addestrata a prendersi tutto ciò che volevano, con arroganza e in spregio alle leggi.

Afferrò brutalmente la valigia e nel momento in cui l’appoggiò sulla moquette, intravide la sua immagine riflessa sullo specchio a figura intera, che occupava la parete di fronte.

Non fu capace di distogliere lo sguardo dalla sua figura, compiacendosi dell’ineccepibile eleganza del suo abbigliamento. Il gessato cobalto, cucito su misura, metteva in risalto il suo fisico asciutto e atletico. Le semi-brogue inglesi, in vitello bianco spazzolato, erano perfettamente in tinta con la camicia di sartoria e con la cintura dello stesso pellame e colore. All’occhiello, un fazzoletto di candida seta era stato disposto con pignoleria.

Bertrand LeClerq si compiaceva dell’armonia di ogni dettaglio nella sua immagine e in ogni altro particolare che circondava il suo mondo. Per questo detestava furiosamente ogni elemento fuori posto.

Il manoscritto miniato rubato.

Con la mano si aggiustò la ciocca di capelli, che nel moto di rabbia, era quasi fuoriuscita dall’elastico della coda di cavallo. Bastarono quei gesti per riprendere il pieno controllo di sé e pianificare con calma la prossima mossa.

L’americana sarebbe tornata al castello e il castello è il mio regno.

Si tastò le tasche e ne trasse l’oggetto di metallo che cercava: il portachiavi d’argento con l’effigie del falco, che gli dava accesso a ogni porta di Chatel-Argent.

Dopotutto, Cluny avrebbe potuto aspettare il suo Curatore ancora qualche giorno. Adesso aveva una missione da compiere. Cosa aveva detto Renard? L’americana era accompagnata da due ufficiali, un pezzo grosso in là con gli anni e una bionda, un vero bocconcino.

Recuperò il cellulare e individuò velocemente nella rubrica un nome che credeva che non avrebbe mai più cercato.

Erano anni che non contattava il fratellastro, da quando la posizione che aveva conquistato in seno alla società, l’aveva indotto a rimuovere ogni ricordo del suo umile e controverso passato.

Si era servito del fratellastro per convincere qualche avido collezionista, che non sentiva ragioni, a privarsi di certi oggetti che lui desiderava possedere ad ogni costo.

Ma questa volta, non avrebbe chiesto direttamente i suoi servigi, troppo rischioso coinvolgere una seconda persona per il piano che aveva in mente. Sarebbe stato sufficiente che gli procurasse un’arma.

Non poteva presentarsi all’appuntamento con gli americani, disarmato. Certo che no, questa volta avrebbe fatto a modo suo. Il cancro della corruzione americana aveva infiltrato le sue metastasi fin dentro le istituzioni francesi. Non poteva più fare affidamento su chi aveva liberato quella criminale.

 La ucciderò, se non mi rivelerà dove hanno nascosto il codice. Dopotutto, il vecchio e la biondina non potevano essere una grossa complicazione.

E poi, avrebbe pazientemente atteso che il professor Maayrkas facesse ritorno.

 



 

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Capitolo 21
*** Capitolo 32 ***


“Ehmm, si?”, Jodie era ancora assonnata mentre si svegliava e rispondeva al ricevitore sul comodino di fianco al letto.

“Buongiorno, Maggiore. Mi scusi se la disturbo a quest’ora, abbiamo quel regalo per lei”, annunciò la voce maschile, “sono qui con Kincaid alla reception, possiamo salire?”

Jodie cercò Szigi sul letto di fianco al suo. Non c’era, ma sentì il rumore dell’acqua che scrosciava nella doccia.

“E voi, sareste?” domandò alla voce.

L’uomo dall’altra parte, restò in silenzio per un istante. “Maggiore, non mi riconosce? Sono Mitch… saliamo?”

Jodie sorrise dentro di sé, “Certo, salite pure, siamo al secondo piano, alla 222”. Dopotutto non era granché, ma poter vedere quella donna, che aveva sempre tutto sotto controllo, almeno una volta alle prese con una situazione imprevista, la divertiva.

Quando Jodie attaccò il telefono, il rumore della doccia era cessato. Non passò molto che Mónika, coi capelli che ancora grondavano acqua e coperta appena da un asciugamano che si era avvolta intorno ai fianchi, fece irruzione nella stanza.

“Allora, con chi diavolo stavi parlando?”

Non ci fu bisogno di risposte: Jodie era di spalle e stava aprendo la porta. Proprio in quel momento, due uomini entravano nella loro camera e osservavano intenti la scena del loro capo che li accoglieva seminuda.

Jodie soffocò a stento la risata, mentre Mónika lasciava trapelare per la prima volta un’emozione e le sue guance avvampavano.

“’Giorno, boss…”, la salutarono i due uomini con un sorriso un po’ ebete.

“Si può sapere cosa accidenti ci fate, qui?”

“Li ho fatti salire io, scusami. Dovevano consegnare qualcosa e sembrava urgente…”, fece finta si scusarsi Jodie.

“I computer che aspettavi da Cinthya”, si affrettò a dire Mitch, senza distogliere lo sguardo dalle gambe affusolate del suo superiore.

“Molto bene”, replicò freddamente la donna, ignorando le occhiate dei due militari. “Torno subito, devo andare ad asciugarmi i capelli” e mentre passava davanti al letto, afferrò distrattamente i vestiti distesi lì sopra.

Quando sparì dietro la porta del bagno, i due compagni si scambiarono uno sguardo d’intesa e un’espressione eloquente delle labbra.

“Uomini…”, commentò Jodie, ma anche lei non poté fare a meno di ammirare la perfetta forma fisica del Maggiore. Poi aggiunse mentalmente: quando tutto sarà finito, mi iscriverò in palestra! Se voglio tornare com’ero prima di Alex…

Quando il Maggiore tornò, i volti dei tre ragazzi conservavano ancora un’aria complice e soddisfatta, che Mónika si preoccupò immediatamente di raggelare con un’occhiata. I suoi capelli adesso erano perfettamente asciutti e pettinati, indossava un paio di jeans aderenti e un sottile dolcevita nero senza maniche. Era a piedi nudi.

“I computer, tenente, avete già verificato che funzionano?” volle sapere senza indugi, mentre afferrava gli stivali scamosciati col tacco.

Mitch farfugliò qualcosa, poi giurò che avrebbero provveduto immediatamente.

“E cosa diavolo aspettavate?” lo interrogò la donna, mentre s’infilava con difficoltà il primo stivale, tirandolo con entrambe le mani.

“E poi, per l’amor del cielo”, sibilò roteando gli occhi verso l’alto, “la smetta di fissarmi in quel modo!”

“S-sì, boss”, scattò Mitch, “sorry, boss”.

Mitch e Kincaid si misero subito ad armeggiare con i computer, mentre Mónika regolava sopra il dolcevita la cinghia di cuoio della fondina ascellare e controllava l’otturatore della sua Beretta 9 millimetri, prima di introdurla nella sua custodia.  

 Né il primo portatile, né il secondo tuttavia si riavviarono.

“La batteria deve essersi scaricata”, suppose Jodie.

“E non c’è modo di trovare rapidamente un alimentatore di corrente, compatibile con uno dei due modelli?

“Bé, forse facciamo prima a tornare al castello. Gli adattatori dei portatili dovrebbero essere ancora lì.”

“Ok, mi sembra giusto proseguire lì dove è iniziato tutto. Avverto il Generale che torniamo a Chatel-Argent”.

Mónika aprì l’armadio e prelevò la giacca a vento.

Poi guardò Jodie, che era ancora nel suo pigiama Hello Kitty: “E tu? Hai intenzione di venire vestita così?”

Questa volta oltre ai due ragazzi, fu Mónika a sogghignare.

 

***

 

 

LeClercq pagò il taxi e camminò sul ghiaietto prima di raggiungere il moderno cancello che delimitava le proprietà di Chatel-Argent.

 Al videocitofono, annunciò il suo nome e tanto bastò per accedere senza ulteriori spiegazioni. Mentre percorreva la stradina all’ingresso, si tastò la tasca destra del cappotto di cachemire e trasse conforto dal percepire il freddo acciaio della Smith&Wesson a canna corta.

Oltrepassò velocemente il viale di platani e scorse l’amministratore del castello che gli veniva incontro a grandi passi, salutandolo con ampi cenni delle braccia.

Il Curatore approntò sul volto un sorriso amichevole e rispose prontamente al saluto, agitando a sua volta la mano.

Non l’aveva ancora raggiunto che l’altro uomo gli domandò: “Novità dal comando di polizia?”

LeClercq replicò con uno sdegnato scrollare del capo. “Mi rincresce, Monsieur, non hanno fatto alcun progresso.”

“Dite sul serio? Ancora nessuna notizia su dove possa trovarsi il codice?”, chiese sconsolato l’altro.

“Nossignore”, gli confermò, tacendo volutamente che Jodie era stata liberata.

L’amministratore lo guardò smarrito. “Cosa possiamo fare, adesso?”

“Non si preoccupi, ci penserà il mio istituto. Ci affidiamo ai migliori specialisti sul mercato, in casi come questo, senza badare a spese. Mi sono precipitato qui, proprio per condurre personalmente le ricerche”.

“Sono a vostra completa disposizione, Monsieur”, si affrettò ad aggiungere l’uomo, “il nostro personale può esservi in qualche modo di aiuto?”

LeClercq assunse un’espressione pensierosa, a beneficio del suo interlocutore, ma restò in silenzio, in modo che fosse l’altro a continuare.

“Ovviamente”, proseguì cautamente l’amministratore, prevedendo un lauto risparmio nei suoi costi di gestione, “dato che la signorina è in carcere e gli altri ospiti risultano scomparsi, forse lei crede, per non essere d’intralcio, che sia opportuno…”

“Certamente Monsieur, non si preoccupi, liberi tutto il personale interno.”

LeClercq attese, rilassandosi nella spa, che tutto il personale ordinario del castello abbandonasse l’immobile.

Quando fu certo che nessun altro lo avrebbe disturbato, entrò nel torrione, compiacendosi che ogni variabile, fino allora, si fosse comportata esattamente come aveva previsto.

Tutto in ordine, nessuna cosa fuori posto.

Il Curatore sorrise apertamente, traendo conforto dalla logica ineccepibile dei suoi ragionamenti e si addentrò dentro il castello medievale: ogni pietra simboleggiava una pagina di storia che lui conosceva alla perfezione, in ogni sua sfaccettatura.

Rassicurato di essere nel suo elemento, si sentì invincibile.

 

***

 

 

Guidava Mónika. Mitch e Kincaid erano rimasti a Lille e il viaggio si trasformò presto in una nuova occasione per porre a Jodie sempre nuove domande sulla prodigiosa tecnologia rinvenuta da Ian.

Quando le domande parvero esaurirsi e Jodie si sentiva pronta a chiedere al Maggiore di mettere su un po’ di musica, Mónika cominciò invece una noiosissima descrizione delle teorie di Seth Lloyd e del suo allegro gruppo di fisici quantistici al MIT. Jodie trovò divertente solo il fatto che lei, un ricercatore esperto di tecnologie, l’aveva persino sposato.

Da Lille, presero la A1 in direzione Sud per Arras, e da qui proseguirono a sinistra, imboccando lo svincolo per la A26. Poi il navigatore li guidò per le stradine provinciali fino a Chatel-Argent.

Al videocitofono non rispose nessuno, così furono costretti ad abbandonare davanti al cancello l’auto di servizio del Maggiore. Poi Szigi aiutò il Generale e Jodie a scavalcare la ringhiera, che percorreva i confini degli ampi giardini che circondavano il castello.

“Dove accidenti è tutto il personale?”, volle sapere John, non appena oltrepassarono la cancellata e si avviarono verso il vialetto di platani, “Per la miseria, non c’è nessuno!”

“Allora niente sandwich con paté de foie gras marinato nel cognac e tartufi, stasera!”, ti sarebbe piaciuto John, Daniel ne andava matto, si ricordò amaramente Jodie.

“Quasi tutto il personale è in servizio solo quando il castello è prenotato da qualche ospite”, cercò di spiegare la ragazza, “probabilmente confidavano che mi avrebbero dato l’ergastolo e li hanno mandati tutti a casa…”

“Meglio così, abbiamo maggiore libertà per provare la tua storiella…” bofonchiò Mónika.

“E allora proviamola subito!”, sperando che siamo ancora in tempo, si preoccupò subito dopo Jodie.

 

 

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Capitolo 22
*** Capitolo 33 ***


Era stato un giorno memorabile, il più bello della sua vita, il compimento finale del suo sogno.

I Pari del Regno avevano finalmente posato la corona sul regio capo del suo dolce Delfino, mentre lei, imperterrita ed orgogliosa, rimaneva al suo fianco, sventolando il suo bianco vessillo.

Erano già trascorse alcune notti da quell’evento indimenticabile, senza che i suoi sogni non le mostrassero altro che gioia e sollievo.

E pace, mentre ogni altra voce taceva.

E lei aveva segretamente cominciato a sperare che il Signore considerasse finalmente conclusa la sua missione e che la Sua volontà si fosse compiuta liberando Orléans.

Thierry.

Pur nascondendolo a tutti, persino a se stessa, era lui che aveva sognato ogni notte, dopo la cerimonia dell’incoronazione a Reims.

Poeti illustri consacravano le sue gesta in poemi, Christine de Pizan le aveva persino dedicato versi, nei quali la immaginava già alla conquista della Terrasanta, dopo aver ristabilito la pace in Europa. A lei tutto questo non importava.

Thierry.

E c’erano voci preoccupanti, che gli inglesi stessero preparando con cura una nuova offensiva. Tremilacinquecento tra cavalieri ed arcieri, nonostante fossero stati mobilitati per la crociata in Boemia, contro gli eretici hussiti, erano stati invece richiamati. E per la prima volta, un’armata crociata sarebbe stata impiegata contro altri cristiani.

E poi c’era Thierry.

E i suoi sogni, per molte notti, erano stati popolati soltanto dalle sue carezze e da quel bacio strappato nel bosco. E con lui, c’era la promessa di un amore diverso da quello finora nutrito per il Padre dei cieli.

C’era, soprattutto, la promessa che si erano scambiati a Orléans e che lei ricordava sussurrandola tra sé ogni notte, prima di addormentarsi.

E che ripeteva ogni giorno, non appena si svegliava, ricordando perfettamente le parole pronunciate dall’uno e dall’altro:

Quando quel giorno arriverà, se mi amerete ancora, sarò vostra e voi sarete quell’uomo.

Quando quel giorno arriverà, se mi amerete ancora, sarò vostro e voi sarete la mia donna. E sorrideva da sola, mentre bisbigliava quelle parole, ringraziando subito dopo il Signore per quella gioia.

E sentiva le guance in fiamme, mentre vagava con la fantasia, fantasticando come sarebbe stata la sua vita, se un giorno il conte avesse chiesto la sua mano.

Percepiva che i sentimenti di Thierry erano sinceri quanto i suoi e confidava che il suo dolce Delfino, dopo tutti i servigi che gli aveva reso, avrebbe favorito la loro unione, nonostante le differenze sociali.  

Dopo l’incoronazione, re Carlo aveva promesso che avrebbe nobilitato la sua famiglia e affrancato dalle tasse il paese dov’era nata. Che brav’uomo era il re e lei lo sapeva, l’aveva sempre saputo!

Unirsi in matrimonio col dolce Thierry… 

Quella era la volontà del Signore, non vi era alcun dubbio! Per quale altro scopo, altrimenti, li aveva fatti incontrare?

"Figlia di Dio”, le avevano intimato le voci all’inizio del suo viaggio, “recati da Robert di Baudricourt, nella città di Vaucouleurs, perché ti dia delle persone che ti accompagnino lungo il tuo cammino". E aveva trovato lui.

 Thierry non solo gli appariva bello come un angelo, ma possedeva un animo così puro e così nobile, rimuginava, com’era possibile che amasse proprio lei, una povera pastorella lorenese?

E cullava l’idea che quell’amore era la ricompensa che il Signore aveva concepito apposta per lei, per la sua fedeltà e devozione.

E poi era giunta quella notte.

E nei suoi sogni erano ricomparse le voci che la spronavano ad andare avanti, perché la guerra non era ancora conclusa e Dio aveva ancora bisogno della sua leale soldatessa.

“Per quanto è in tuo potere, Jeanne, cerca di fare la volontà del Signore che ti è trasmessa da queste Voci. Noi non diciamo niente che non discenda dal volere di Dio!

 Jeanne la riconobbe: era la voce e il parlare degli angeli. Lei credeva fermamente che erano angeli e mentre la luce sprigionata da quegli esseri celestiali l’abbagliava, lei pianse.

“Parti, figlia di Dio! Và, è necessario. Salva la Francia! Non basta aver liberato Orléans, bisogna cacciare gli inglesi da tutte altre città occupate!"Soldatessa di Dio, và, và, và! Il Signore sarà il tuo aiuto. Ora và, salva la Francia, libera Parigi!”

Quelle parole l’ossessionarono fino a restarle nella testa e quando si svegliò di soprassalto, piangeva e udiva ancora le voci che le ripetevano lo stesso ritornello. Parigi doveva essere liberata.

Il Signore aveva ascoltato i suoi dubbi e le aveva indicato la strada. Doveva parlarne immediatamente al conte Thierry.

 

 

***

 

 

“Ecco i due alimentatori, esattamente dove li avevo lasciati”, esclamò Jodie.

Mónika annuì e mentre percepiva il battito del cuore che già accelerava, volle sapere:

“Quanto ci metterà a...“, poi non sapendo cos’altro dire, aggiunse solo, “a funzionare?”

“Di là, il tempo non scorre allo stesso modo del nostro, potrebbero volerci molte ore o soltanto qualche minuto, non si può prevedere con precisione”.

Giunto il momento, anche John cominciava a dare segni di nervosismo, nell’ansia di sapere se la storia di Jodie era vera e se fosse davvero possibile rintracciare suo figlio.

“Accendiamo questi maledetti computer”.

 

***

 

 

Probabilmente, era solo un’inutile ruotine che ripeteva da cinque mesi e dodici giorni – Daniel li contava con precisione – eppure non aveva mai saltato un solo tentativo.

Ogni volta, si svegliava nel cuore della notte, quando era sicuro che tutti intorno dormissero, e allora, pregando che potesse essere la volta buona, scendeva dal letto e al riparo nell’ombra, pronunciava le parole che avrebbero richiamato la mela rossa luminosa del menu del gioco.

Quella notte, Daniel non nutriva nessuna speranza particolare, si apprestava ad eseguire quel gesto, sapendo che doveva farlo e basta. Da tempo, non ne parlava più nemmeno con Ian.

Si accucciò sul pavimento dietro il suo giaciglio e in maniera appena percettibile, scandì la parola help. Come al solito, gli sembrò che non accadesse nulla.

Era ancora troppo insonnolito, per accorgersi subito della luce che illuminò debolmente la scena, gettando dall’angolo in cui era rannicchiato, lunghe ombre dai piedi del letto e dei mobili.

Strabuzzò gli occhi, sbattendo le palpebre per acquistare maggiore sensibilità.

Quando riuscì nuovamente a mettere a fuoco, fu sorpreso di vedere Ian, anche lui sveglio, seduto sul letto di fronte a lui.

Aveva gli occhi sbarrati e guardava sgomento qualcosa che si trovava davanti ai suoi occhi, sopra la testa di Daniel.

Alzò subito lo sguardo, seguendo quello di Ian, con la testa che gli scoppiava, tanto era l’urgenza di guardare e tanti erano i pensieri che si accalcavano, nello stesso istante, dentro la sua mente.

E alla fine era successo. La mela rossa fosforescente fluttuava pigramente proprio sopra il suo letto, Hyperversum aveva ripreso a funzionare.

Fu in quel momento che sentirono bussare.

E un istante dopo assistevano, terrorizzati e impotenti, al ripetersi di un incubo, mentre la maniglia scattava verso il basso e l’uscio si apriva lentamente.

 

 

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Capitolo 23
*** Capitolo 34 ***


***

 

 

LeClercq aveva ascoltato i passi sulle scale e poi le voci. Comprese che si erano diretti in una delle sale tecnologiche, al secondo piano. Controllò la presenza della rivoltella, nella tasca destra del cappotto e scese furtivamente la rampa di scale che conduceva al secondo piano.

Nascosta nell’ombra, sull’angolo opposto, si trovava la scala segreta che conduceva al piano inferiore.

Attese silenziosamente, accertando con scrupolo che le uniche voci che poteva udire, provenissero da un’unica stanza.

 Quando fu sicuro, sperando che nessuno attraversasse il corridoio proprio in quel momento, si lanciò verso il muro opposto e scomparve, inghiottito dal buio all’interno della rampa segreta. 

Attese che il suo respiro tornasse normale e cercò nuovamente con la mano l’impugnatura di legno della Smith&Wesson. Quando la estrasse dalla tasca e sollevò il copricanna brunito del revolver, oscuro come le tenebre in cui si trovava, questo non lasciò balenare alcuna luce.

 

 

***

 
 

 

La porta si aprì completamente, facendo sobbalzare Daniel e Ian.

Tutti credettero di essere stati sconfitti definitivamente dal fato, quando da dietro la porta fece capolino la zazzera bionda di Thierry, ugualmente sbalordito dalla visione del menu di emergenza del gioco.

Ian e Daniel si guardarono stupefatti, improvvisamente felici e disorientati da quel turbine di emozioni, che in pochi istanti li aveva precipitati dalla gioia alla disperazione e poi ancora nella gioia più sfrenata.

Ian svegliò Isabeau, che strabuzzò anche lei gli occhi di fronte a quel prodigio che ormai conosceva bene.

“Questo significa che…”, Isabeau non riuscì a completare la frase, tanto era disperato il bisogno che quella visione fosse in grado di porre fine al suo incubo.

“…possiamo tornare a casa…” aggiunse Daniel, anche lui incredulo.

“Possiamo finalmente tornare da Guillaume col codice!” esclamò Ian senza staccare un attimo lo sguardo dall’icona fosforescente sospesa nell’aria.

E mentre Ty osservava tutti e tre gli amici, abbracciarsi ed esultare, si ricordò il motivo per cui era venuto a bussare alla loro stanza.

“Dai, vieni anche tu a festeggiare!”, lo invitò Daniel, mentre cingeva con le braccia sia Ian che Isabeau, “si torna a casa! Si torna a casa, accidenti! Riesci a crederci?”

“Ormai non ci pensavo quasi più…”, ammise Ty, abbozzando un sorriso che in realtà non mostrava alcuna gioia. Ian e Isabeau intuirono immediatamente il motivo.

Jeanne.

“In verità”, proseguì il canadese, “ero venuto qui perché ho bisogno di voi”, aggiunse spegnendo del tutto ogni cenno di felicità nella voce.

“Jeanne mi ha fatto chiamare questa notte e mi ha raccontato che ha avuto ancora quegli orribili sogni di guerra…”

“Ty… è il suo destino, ne abbiamo già parlato”, cercò di rassicurarlo cautamente Ian, “non puoi farci nulla, non puoi farle cambiare idea e non puoi cambiare il corso della storia”.

“Tu non puoi capire!” si ribellò immediatamente il ragazzo, “Mi ha detto che Lui le ha chiesto un altro sforzo, un’ultima battaglia, conquistare Parigi e poi…” Ty lottò per non piangere, “poi è sicura che il suo compito sarà finito e allora potrà essere libera, finalmente libera di…”, sbatté più volte le palpebre per ricacciare indietro le lacrime, “libera di amarmi, mi ha detto.”

Isabeau non ce la fece più e corse ad abbraccialo, non riuscendo a trattenere lei stessa le lacrime. E mentre lo stringeva e lo accarezzava, Ty continuò:

“Crede che il suo amato re la ricompenserà, che le concederà delle terre o un titolo, non perché lei lo desideri, ma solo per permetterle... se mai un nobile dovesse chiedere la sua mano…”, Ty non riuscì a terminare la frase, mentre la voce gli si spezzava in gola, “E mi guardava e arrossiva, mentre lo diceva, capisci? Capisci adesso?”

“Oh, Ty….”

“Cristo, lei merita di essere felice, più di qualunque altro! Ha pensato per tutta la sua vita agli altri e mai a se stessa!”

Isabeau lo strinse ancora di più, poggiando il volto sulla spalla del ragazzo.

“Non credo di essere minimamente degno di ciò che lei prova per me, forse sono solo un fottuto egoista a dire che vorrei sposarla, che vorrei amarla per tutta la vita…”, cercò di calmarsi ma non era possibile, “Diamine! E’ la cosa più bella che poteva capitare ad una nullità come me! Io non sono niente, ma so di amarla, di amarla, di amarla! Io non voglio… perderla…”

Rimasero in silenzio, mentre Isabeau non si sforzava nemmeno più di trattenere le lacrime.

“E invece quel vigliacco di re Carlo la tradirà! La venderà agli inglesi, quel maledetto bastardo!”

“Non possiamo farci niente noi… Ty, ragiona ti prego”, mormorò Ian, disarmato anche lui dal dolore dell’amico.

 “E pure il suo Dio non è da meno!”, urlò il ragazzo ormai fuori di sé, “non la tradirà anche lui? Proprio lui?” Isabeau lo implorò di tacere, di non parlare così.

“Isabeau, Lui la farà bruciare viva, dannazione! Io non posso permetterlo! Non lo permetterò mai, a costo di morire insieme a lei!”.

“Ty, torna in te! Capisco la tua rabbia, ma hai sempre saputo che sarebbe finita così! Noi cosa possiamo fare? Cosa vuoi che facciamo? E’ tutto maledettamente ingiusto, ma non si può cambiare la storia!”, lo supplicò Ian.

Ty rivolse lo sguardo alla mela fosforescente, che continuava a fluttuare nell’aria, sopra il letto di Daniel e si calmò.

“Voi dovete andare, non sappiamo nemmeno per quanto continuerà a funzionare, ma io non posso. Io resto con lei”.

“Non dire così, vuoi davvero farti ammazzare anche tu?”

“Se è quello il mio destino, perché no? L’hai detto tu, prima, che non si può cambiare la storia!”

Daniel si voltò verso Ian. “Io credo che dobbiamo rispettare la sua scelta, come tempo fa io rispettai la tua. In ogni caso dobbiamo decidere in fretta, non vorrei aspettare altri cinque mesi per prendere il prossimo treno per casa.”

Ian rimase in silenzio, pensieroso, e dopo qualche istante annunciò:

“Va bene, ma dovrai stare a questi patti: ti lasceremo qui per adesso, insieme a Jeanne. Mi rendo conto che non puoi abbandonarla in questo modo e che hai bisogno di tempo. Ma il giorno in cui sarà rapita dai Borgognoni, verremo a prenderti e tu verrai con noi.”

Ty ristette, continuando a fissare Ian.

“Non sarai tanto sciocco da voler stare qui fino al processo e all’esecuzione della condanna! Lo strazio ti ucciderà dentro, anche se tu restassi vivo.” Ian gli concesse del tempo per assimilare le sue parole. “Abbiamo un accordo, allora?” gli domandò infine, porgendogli la mano.

Ty ancora una volta non disse nulla, ma sollevò la mano e gliela strinse.

“Devi essere forte, Ty. E’ nel destino del Falco d’Argento affrontare prove come queste”, poi fissò l’amico negli occhi, con uno sguardo intento. “Sei tu il Falco, adesso”.

“Ian...”, Ty abbassò il capo, “dalla prima volta che ho sentito parlare del Falco d’Argento, non ho mai smesso di sognare di essere te, un giorno.” Una smorfia di infinita amarezza trapelò sul volto. “Eppure adesso non riesco a gioirne del tutto, perdonami.”

Ian gli allungò una pacca e trattenne la sua mano sulla sua spalla, cercando di infondergli coraggio.

“Hai già pensato a come farai a spiegare la nostra partenza?”

“Voi sareste partiti comunque tra un giorno o due e poi, dopo l’incoronazione, c’è un tale via vai di gente qui dentro, che nessuno noterà la vostra partenza. Se qualcuno domanderà di voi, spiegherò che avete anticipato il viaggio all’alba.”

“Molto bene. Ty… Jeanne mancherà terribilmente anche a me.”

“E anche a me”, si affrettò ad aggiungere Isabeau, subito imitata da Daniel.

“Mi dispiace non poterla salutare, ma non possiamo rimandare la partenza. Dille soltanto che conoscerla e combattere per lei…”, Ian cercò le parole giuste, “è stato l’onore della mia vita”.

Quando ogni cosa fu pronta, gli uomini si abbracciarono rudemente tra di loro e Isabeau versò ancora qualche lacrima, ma alla fine si costrinsero a separarsi ed affrontare ognuno le proprie decisioni.

Ad un comando di Daniel, sotto l’icona della mela fosforescente, apparvero sospese nell’aria le scritte:

 

 

CONTROLLO PARTITA

Nome utente: daniel.freeland

Codice utente: _

 

 

L’ultimo carattere lampeggiava ancora e si trasformò in una fila di asterischi, non appena Daniel scandì la password.

I nomi di Daniel, Ian e Isabeau s’illuminarono di un verde intenso non appena le loro dita li sfiorarono.

 

  

 

***

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Capitolo 24
*** Cap 35: Ritorno a casa ***


Erano trascorse quasi due ore, da quando avevano riavviato i portatili e la ragazza aveva controllato che il software, che appariva ingegnosamente mascherato come un normale videogame, girasse correttamente e fosse connesso alla rete LAN del castello. Aveva persino verificato che alle postazioni fossero collegati i guanti e i visori 3D, sebbene Mónika non ne comprendesse il motivo.

“La terza postazione per chi diavolo sarebbe?” aveva domandato nervosa, “E’ la tua?”

“Non si sa mai che Ian e Daniel abbiano fatto qualche amicizia nel passato e desiderino farcela conoscere!”, aveva scherzato Jodie, con un sorriso tirato.

“Le tue battute iniziano a darmi sui nervi”, aveva sibilato Mónika, fissandola da dietro gli occhi grigio-verdi socchiusi minacciosamente, “basta giocare, ora rispondi alla mia domanda”.

“Quando Ian e Daniel sono partiti, le postazioni accese erano tre, voglio solo riprodurre con precisione le stesse condizioni di allora”, cercò di schermirsi.

Mónika lesse negli occhi di Jodie la menzogna, chiedendosi chi o cosa stesse ancora cercando di proteggere.

Ora che si avvicinavano al momento della verità, si faceva strada dentro di lei l’angoscia crescente di essere stata giocata da quella ragazzina. L’ansia le faceva dubitare di tutto, a cominciare da come l’hardware insignificante di quei portatili, potesse celare al proprio interno le risposte alle teorie di Lloyd.

 Infine, senza alcun preavviso, accadde ciò che cambiò per sempre la sua vita.

I suoi occhi la sorpresero, mostrandole ciò che era inimmaginabile e impossibile.

All’impazienza e all’irritazione subentrò una paura ghiacciata. Un istante prima non c’erano e poi erano lì. Apparvero, irragionevolmente, proprio dove prima c’era soltanto il vuoto, il nulla.

Ian, Daniel e Isabeau.

Jodie si precipitò verso Daniel, facendolo quasi ribaltare dalla sedia, mentre gridava il suo nome e gli gettava le braccia al collo.

John incrociò lo sguardo di Ian e dopo qualche secondo di sconcerto, i loro occhi crepitarono di minacciosi lampi elettrici.

Mónika posò la sua attenzione sulla figura femminile che non doveva esserci, una ragazza dalla perfezione quasi aliena, che maneggiava atterrita guanti e visore.

E tu, chi diavolo sei? Non appartieni a questo mondo, vero?

LeClercq udì le grida e gli strani rumori che giunsero inaspettatamente dalla stanza alla sua sinistra. Emerse con cautela dall’angolo di buio dov’era nascosto e tese ogni suo nervo all’ascolto.

Sta succedendo qualcosa. Qualcosa che avevo previsto. Un sorriso storto gli contorse le labbra, mentre assaporava il trionfo e la vendetta. Ian Maayrkas si trovava lì, a pochi passi da lui.

 

 

***

 

 

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Capitolo 25
*** Capitoli 16-50: riassunto ***



Nel presente, dal carcere di Lille-Sequedin, Jodie può finalmente avvertire i genitori di Daniel che lei, loro figlio e Ian sono accusati di aver trafugato un manufatto di ragguardevole interesse storico, che rischia di creare un incidente diplomatico tra Stati Uniti e Francia. John, non appena ricevuta la notizia si precipita in Francia. Lo aspetta a Lille il Maggiore Monika Szigeti, soprannominata szigi, ovvero “isola” per il carattere glaciale e solitario.

Isabeau era stata rinchiusa nelle prigioni della fortezza di Les Tourelles, all'estremità del ponte sulla Loira. Il capitano inglese non tarda a farla condurre nei suoi alloggi e colpito dalla straordinaria avvenenza della ragazza e dei suoi bellissimi boccoli biondi, pregustando un piacevole passatempo, le spiega che se fosse stata carina con lui le avrebbe risparmiato molte inutili sofferenze. Isabeau rifiuta sdegnosamente e mentre lui cerca di farla sua, nella breve colluttazione riesce ad impossessarsi del coltello da cavaliere di Glasdale che usa per tagliarsi i lunghissimi riccioli che incantavano l’inglese. Glasdale la fa condurre da lui ogni notte, e ogni volta Isabeau gli resiste, in una lotta più psicologica che fisica, finché, ormai smagrita dal quasi digiuno cui si era costretta, senza più i boccoli che lo affascinavano, l’inglese decide che non prova più per lei l’irrefrenabile attrazione di prima e ordina ai suoi sgherri di divertirsi con lei prima di ucciderla crudelmente. La notizia giunge però alle orecchie di Lord Thomas Montaigu conte di Salisbury, comandante dell’assedio, che revoca l’ordine di Glasdale e lo redarguisce pubblicamente per la sua condotta senza onore. Umiliato dal suo comandate, Glasdale smanioso di vendetta minaccia Isabeau della morte più orribile. La sorte della francese nei suoi disegni è comunque segnata, sarebbe morta arsa viva sopra le pire, quando lui si fosse stancato anche delle altre donne che aveva catturato.

Gli inglesi intanto avevano accerchiato Orléans e avevano occupato otto fortezze intorno alla città, dalle quali la tenevano in scacco: le Tourelles, le bastie degli Augustins, di Saint-Jean-le-Blanc (sulla riva meridionale della Loira), di Saint-Laurent, di Saint-Loup, le tre dette "Londre", "Rouen" e "Paris" (sulla riva settentrionale), ed infine di Charlemagne (sull'isola omonima). Gli assediati erano tuttavia riusciti a tenere libera la porta di Bourgogne e quando Jeanne giunse sulla riva meridionale, in sella ad un destriero bianco, di fronte al piccolo borgo di Chécy, il 29 aprile, trovò ad attenderla il cosiddetto Bastardo d'Orléans, comandante delle forze a difesa dell’assedio.

Il comandante francese la pregò di entrare in città per quella via mentre i suoi uomini compivano manovre diversive, l'esercito ed i rifornimenti invece - necessari per sfamare la popolazione allo stremo - avrebbero atteso di poter essere traghettati attraverso il fiume non appena il vento fosse divenuto favorevole.

L'incontro tra il comandante e la ragazza fu subito burrascoso; dinanzi alla decisione di attendere che il vento girasse in modo da consentire l'ingresso dei rifornimenti e dei rinforzi, Jeanne, appena 17enne, rimproverò aspramente l'esperto uomo di guerra, sostenendo che suo compito sarebbe stato solo quello di condurre lei e l'esercito direttamente in battaglia, avrebbe preso lei le decisioni necessarie. Il Bastardo d'Orléans non ebbe neppure tempo di replicare poiché pressoché subito il vento mutò direzione e divenne favorevole al transito sulla Loira, consentendo l'ingresso per via d'acqua dei rifornimenti e dei rinforzi - circa 4000 uomini - che la ragazza aveva recato con sé.

Gli inglesi erano ora guidati da Lord Glasdale dopo che il precedente comandante, Thomas Montaigu conte di Salisbury, ferito gravemente al volto da alcuni detriti sollevati dal fuoco dell'artiglieria e ormai morente, era stato soffocato nel sonno dallo stesso Glasdale bramoso di prendere subito per sé il potere e avere via libera nel comandare l’assedio col pugno di ferro e disporre a suo piacimento dei prigionieri.

John e Monika nel frattempo riescono a ottenere l’immunità diplomatica per Jodie che viene scarcerata e condotta in un albergo a Lille: i due militari intendono scoprire cosa è successo e soprattutto perché Daniel e Ian sono irreperibili.

Nel Medioevo, nonostante la veloce conquista di una delle fortezze minori in mano agli inglesi, lo scontro decisivo sembrava tuttavia dover attendere ancora, quando un giorno gli informatori dei difensori riportarono a Ty la notizia che la notte del 7 maggio gli inglesi avrebbero ucciso, nel tentativo di fiaccare la morale degli assediati, proprio davanti agli occhi dei loro cari, tutti i prigionieri catturati. Le donne “eretiche” sarebbero invece bruciate vive sui roghi. Per Ty, Ian e Daniel è facile convincere Jeanne della necessità di sferrare l’attacco decisivo prima di quel massacro. E così facendo pianificano lo storico attacco a Les Tourelles.

Mattina del 7 maggio 1429, Orleans: iniziò l'attacco decisivo agli inglesi, barricati dietro al portone fortificato de Les Tourelles, secondo il copione dell'assalto frontale in voga ai tempi. La stessa sera, già ultimati tutti i preparativi per i roghi, secondo i piani di Glasdale sarebbe stato consacrato al sacrificio di tutte le dame francesi che aveva catturato. Inclusa Isabeau.

In testa alla formazione francese c’erano Ty e Ian. E ovviamente lei. Sebbene non le fosse stata affidata formalmente nessuna carica militare, Jeanne era la figura centrale nelle armate francesi: vestita da soldato, impugnando spada e bandiera bianca con raffigurato Dio benedicente il fiordaliso francese ed ai lati gli Arcangeli Michele e Gabriele, si rivolse così alle truppe schierate: “Agite e Dio agirà! Gli uomini d'arme si batteranno e Dio darà loro la vittoria!” e pronunciando alla fine le famose parole “Chi mi ama, mi segua!”. Il piano elaborato da Ian prevedeva come prima cosa di insidiare, mediante alcune chiatte incendiate, gli archi del ponte, che servivano in parte come struttura muraria di base della fortezza. Quando Glasdale si accorge di Ty, l’uomo che lui sapeva di aver ucciso e gettato a marcire nel fiume, di fianco a Jeanne, in prima fila, senza elmo e con ben in evidenza i colori del Falco d’Argento, un superstizioso terrore si impadronisce di lui, prima di riprendere poco dopo il controllo di se stesso e gettarsi con folle ferocia nel combattimento.

Nel mezzo dello scontro, Jeanne fu colpita come lei stessa aveva predetto il giorno prima. Pur ferita da una freccia tra il collo e la scapola, non smette di combattere né cerca di farsi curare sino al termine delle ostilità, difesa con coraggio da Ty e tra le grida di incitamento dei suoi uomini che nel fatto straordinario videro la conferma del disegno divino che stava per compiersi: avrebbero vinto poiché era Dio a volerlo.

Verso sera, quando ormai il comandante francese si stava preparando ad ordinare il disimpegno dallo scontro per il buio ormai incombente, Jeanne lo convinse a ritardare il proponimento, convinta a sua volta da Ty e Ian a trovare le forze necessarie per affrontare quella prova: Ian sapeva dai libri di storia che quella sera ci sarebbe stata la battaglia decisiva e non voleva dare tregua agli inglesi, che potevano impiegare quel tempo per mettere in atto il massacro dei prigionieri che avevano progettato.

Nel frattempo, Glasdale, furibondo per le perdite subite e per la paura irrazionale che attanagliava le sue truppe dinanzi agli straordinari comandanti dell’esercito nemico, decise che era il momento di sferrare un duro colpo al morale dei nemici e ordinò di portare immediatamente tutti i prigionieri e le donne ai roghi già allestiti. 

Dopo essersi ritirata per riflettere in un bosco vicino insieme a Ty che non la lasciava un attimo, Jeanne rinnovò l'assalto a Les Tourelles. Diede lei stessa l’esempio, lottando in prima fila, insensibile al dolore della sua ferita e facendo così credere ai soldati che combattevano al suo fianco che fossero invincibili. Gli uomini col falco d’argento sul petto, erano invece trascinati da uno Ian implacabile che vedeva Isabeau sempre più vicina e incitava i compagni con sentite parole e una determinazione assoluta: “oggi è il giorno che forgeremo la leggenda con le nostre imprese! Oggi è il giorno che scriveremo la storia di Francia!”

Insieme scatenarono una furia mai vista dagli inglesi in battaglia.

Il castelletto fu conquistato, in un unico incontenibile assalto e la sua guarnigione uccisa o catturata. Nessun inglese riuscì a fuggire. Lo stesso Glasdale, che aveva provocato Ian gettandogli davanti una manciata dei lunghi riccioli della moglie, che teneva con sè, venne decapitato in un duello straordinario, da uno Ian determinato come non mai, con la mossa delle due spade a forbice che aveva visto più volte eseguire a Martewall. Nel frattempo, Daniel, disimpegnatosi dallo scontro secondo i piani, con un piccolo drappello di arcieri scelti, colpiva a morte il primo inglese che stava dando fuoco alle pire. Pochi attimi dopo tutti gli inglesi incaricati di appiccare il fuoco caddero trafitti dalle loro frecce. L’incontro di Isabeau con Ian è, per l’ultima volta, straziante e commovente. Sebbene ridotta all’ombra di ciò che era prima per le sofferenze patite, il suo sorriso splendeva ancora come Ian lo conosceva. Ci sarebbe voluto del tempo per riprendersi e dimenticare, ma con Ian a suo fianco sapeva di potercela fare.

Il mattino del giorno successivo, tutte le forze inglesi degli altri forti si riunirono in un’unica immensa formazione di battaglia. Lo stesso fecero i francesi. Dopo essersi fronteggiati immobili per un'ora, senza che nessuno prendesse l'iniziativa (era domenica e Jeanne non desiderava iniziare l'attacco), gli inglesi si ritirarono, spaventati dalla forza sovrannaturale che sembrava emanare dai nemici e che pareva rendere invincibile l’esercito condotto da quella adolescente. L'assedio di Orlèans si era concluso. Era l’8 maggio: Orléans era salva e la storia di Francia era stata cambiata per sempre e in modo radicale.

La vittoria sorprendente consente l'incoronazione di Carlo nella cattedrale di Reims, finalmente libera dal dominio inglese. Una volta incoronato, Carlo VII sembra pienamente soddisfatto. Non altrettanto Jeanne, che decide di continuare a combattere. Ty e Ian la avvertono che non soltanto re Carlo ha abbandonato l'intenzione di proseguire la guerra contro gli inglesi rimasti in territorio francese, ma sta ordendo dei piani per tradirla. Ma ovviamente nulla potrà farle cambiare idea. La giovane si sente obbligata a continuare a combattere con determinazione fino alla fine, nonostante sia macerata interiormente tra la scelta di compiere la sua missione fino in fondo e quella di abbandonare tutto per vivere l’amore della sua vita con Ty. Ma si dice che manca poco al successo finale, che non sarebbe stato giusto nei confronti del suo Paese abbandonare i suoi uomini per seguire l’istinto egoista di voler essere felice con l’uomo che amava. Cosa voleva il Signore da lei? Cosa voleva che facesse, cosa le chiedeva ancora? Disperata, non riesce a darsi una risposta né la ottiene questa volta da Lui, nonostante le sue suppliche. Tra le lacrime rinnova ancora una volta a Ty la promessa che quando tutti gli inglesi saranno stati cacciati via lei potrà infine dedicarsi a lui, come il Signore una volta le aveva promesso. Ty sa che lei non potrà mai mantenere quella promessa e Ian gli spiega che non possono cambiare il corso della storia né sarebbero mai riusciti a convincere Jeanne a fermarsi adesso.

Jodie, nella disperazione e temendo che ogni attimo trascorso con i pc spenti può essere fatale ai suoi cari, trova il coraggio di dire al genitore di Daniel se non la verità, qualcosa che in qualche modo le somiglia: “la verità è così preziosa da aver bisogno di una guardia del corpo di menzogne”. Racconta quindi che Ian durante le sue ricerche ha scoperto una tecnologia, un qualcosa più grande di lui e adesso tutti loro, Daniel, Ian stesso, sono in pericolo di vita a causa di questa scoperta. Il suo racconto, è infarcito da dettagli così particolareggiati da rendere plausibile lo scenario improbabile che descrive a John e Monika. Si preoccupa di non citare mai il gioco né la chiave di volta che permette a Hyperversum di compiere il suo prodigioso salto nel Passato: Ian.

John accoglie il racconto di Jodie con evidente scetticismo e incredulità. Non però Monika, che prima di essere assegnata in Francia, aveva lavorato per l’agenzia nella città natale di Boston, col compito di vigilare sulle teorie emergenti di interesse del governo, nelle università più celebri che si trovavano a Boston: Harvard e il MIT. Proprio uno stimato professore al MIT, il fisico quantistico Seth Lloyd, aveva teorizzato la fattibilità tecnica di un salto temporale, combinando l’effetto di sub-selezione del Quantum computing di cui era il padre con gli stessi mezzi che avevano permesso agli studiosi di teletrasportare con successo il primo fotone in laboratorio (cfr MIT Digest, Boston 23 jul 2010 ndr).    

Monika – convinta di poter mettere le mani sulla scoperta più sconvolgente della storia – convince il Generale a fare quello che chiede la ragazza, nonostante l’incredulità di John. Grazie ad un nuovo intervento dell’ambasciata ottengono i portatili e il loro prezioso corredo di dvd dove Daniel aveva salvato tutti i dati di gioco. Ma le loro richieste vengono accolte ad un prezzo: tutte le accuse contro i ragazzi cadranno solo se restituiranno il codice miniato che avevano sottratto al museo di Chatel-Argent. Jodie li conduce quindi al castello e riavvia i computer.

Il Curatore LeClercq non digerisce che gli odiati americani, popolo senza un vero passato e senza storia e che lui disprezza profondamente, avevano infine con i loro vili trucchi ottenuto tutto ciò che volevano, con la solita arroganza e in spregio alle leggi. Non avrebbero imbrogliato lui, però. Chatel Argent era anche il suo regno dopotutto, conosceva il castello e i suoi segreti come le sue tasche. Sapeva che prima o poi quegli insolenti ragazzini avrebbero commesso un errore e lui sarebbe stato lì, a coglierli con le mani nel sacco.

Daniel finalmente si accorge che Hyperversum ha ripreso a funzionare: durante un tentativo di richiamare l’uscita di emergenza del gioco che, ormai con rassegnazione, ripeteva ogni giorno, appare finalmente la mela rossa del menu del gioco. Ty li supplica di lasciarlo con Jeanne, mentre gli altri, sapendo che non era in loro potere cambiare il destino della ragazza, decidono che la cosa migliore da farsi al momento è tornare a casa e portare il manoscritto a Guillaume, l’obiettivo iniziale del loro viaggio. Sarebbero tornati a prendere Ty il giorno stesso della cattura di Jeanne da parte degli inglesi, la data la conoscevano.

A Chatel Argent, nel XXI secolo, Daniel, Ian e soprattutto Isabeau si materializzano dal nulla davanti a Jodie, John e Monika, quest’ultimi sconcertati all’inverosimile. Monika sapeva di aver visto giusto. La tecnologia che aveva compiuto quel prodigio era la scoperta più sensazionale della storia dell’umanità. Nascosto nell’ombra, dalla sala del museo del castello di cui possiede le chiavi, LeClercq osserva più di quanto dovrebbe vedere. Non può capire da dove sono arrivati i ragazzi, ma una cosa vede con certezza: il suo prezioso manoscritto miniato nella mani di Daniel.

Dopo i primi imbarazzanti momenti in cui i ragazzi appena sbarcati dal Medioevo si trovano inaspettatamente di fronte John e Monika, Jodie comunica loro che devono restituire il codice ai francesi. Ma Ian e compagni sanno che devono assolutamente portarlo a Guillaume, altrimenti tutte le loro fatiche sarebbero risultate vane. Dopo aver finalmente vinto lo sconcerto e la preoccupazione iniziale, giurano a John che non appena completato l’incarico, sarebbero ritornati nel Presente, dove intanto sarebbero trascorsi solo pochi minuti. L’assicurazione che Daniel fornisce al padre e Monika è che potranno verificare loro stessi sui monitor se ciò che affermano è vero. Per Monika è la prima occasione di vedere all’opera la misteriosa tecnologia di cui ha parlato Jodie e nonostante John si dichiara palesemente contrario a far ripartire i ragazzi mettendoli ancora in pericolo, convince il suo superiore a non ostacolare Daniel e Ian.

Tuttavia Daniel, prima di affrontare un nuovo viaggio con Hyperversum, cerca in rete notizie sui malfunzionamenti conosciuti del gioco in seguito all’istallazione di alcuni Mod: si accorge che altri giocatori avevano riscontrato problemi analoghi nelle loro avventure virtuali e la community di Nexus ha rilasciato una patch per Celebrity Skin, che sembra davvero fare al caso suo. Tornano quindi tutti, senza problemi stavolta, nel XIII secolo. Nella grande sala dei ricevimenti del castello, proiettato sull’immenso monitor a led, i due militari e Jodie osservano attoniti i ragazzi tornare nel Passato. LeClercq, sgusciante e sfuggente come un viscido animale notturno, si insinua dietro la porta del grande salone, vede proiettare nei larghi schermi un semplice videogioco, e poi…

Ponthieu è stupefatto oltre ogni dire del contenuto di quel codice e non può che ammettere che Ian aveva ragione. Il conte acconsente alla restituzione del manoscritto, né avrebbe mai voluto possedere qualcosa che gli avrebbe svelato parte del futuro del suo casato.

Tornano quindi tutti nel presente, tranne Isabeau che Ian lascia prudentemente con Ponthieu e i figli: sono passati solo pochi secondi dalla loro partenza. Irrompe finalmente nella sala LeClercq, articolando grida confuse e incoerenti a proposito di stregonerie e sortilegi, ma deciso a riprendersi l’antico manoscritto con le buone o le cattive, forte anche del piccolo revolver che adesso stringeva tra le mani. Volano parole grosse e accuse pesanti, Monika senza pensarci un secondo punta la sua arma d’ordinanza sul francese. E’ John infine che prende la decisione: lasceranno il codice nelle mani di LeClercq, ma a questo punto per Ian e Daniel non ha più importanza. Di tutt’altra opinione è invece Monika che crede, come le aveva raccontato Jodie, che è l’antico manoscritto la chiave di accesso per utilizzare Hyperversum come ponte per il Passato: del resto ogni volta che aveva visto apparire o scomparire nel nulla i ragazzi, questi avevano con sé il codice miniato.

Quando LeClercq si allontana, nessuno tuttavia può impedire a Monika di sequestrare i portatili e i dvd. Anche John si dichiara d’accordo a porre fine a quella follia, finché non ci avrebbe visto chiaro.

Sarebbero tutti tornati negli States dove sarebbero rimasti a disposizione per chiarire i molti lati ancora oscuri della vicenda. Le loro strade quindi momentaneamente si dividono, con Monika che porta con sé i computer e i supporti elettronici e inquietanti interrogativi che tormentano i ragazzi: cosa farà il governo adesso, come si comporterà? John riuscirà in qualche modo a proteggerli come aveva infine promesso? Fino a quanto ci sarebbe riuscito? Cosa sarebbe successo invece se Monika fosse riuscita ad avere accesso al segreto più intimo di Hyperversum e di Ian? Daniel e soprattutto Ian non si danno pace. E anche se l’avevano prudentemente nascosto ai militari, dovevano ancora recuperare Ty, rimasto con Jeanne nel XV secolo.

Nel XV secolo, intanto, la figura di Jeanne, ormai leggendaria, diveniva intanto sempre più ingombrante per l'aristocrazia francese che cominciò a temere di vedere offuscato il proprio prestigio da una pastorella lorenese. Anche Isabella di Baviera madre di Carlo VII, turbata dalla diceria popolare "una Vergine ci salverà dalla regina madre svergognata" contribuiva a fomentare dubbi e sospetti a corte. Inoltre, le casse del nuovo re non permettevano di continuare la guerra come avrebbe voluto la ragazza, e senza fondi Carlo VII temeva di perdere troppo presto la corona appena ottenuta. Ma Jeanne era una ragazzina determinata e, grazie alla sua fama ed al suo carisma, aveva radunato intorno a sé un vero e proprio esercito, con il quale attaccò Parigi, sempre con Ty e le armate del falco d’argento a suo fianco, l'8 settembre 1429. Spaventata da questa sua forza sul campo, la corte di Carlo VII decise allora di togliere di mezzo la scomoda ragazzina: non inviò infatti i rinforzi promessi a Jeanne, che vide così capitolare il suo esercito e fallire l'assedio di Parigi.

Contro ogni parere, Jeanne fa quindi rotta verso Compiègne, a nord di Parigi, dove ha luogo una imboscata durante la quale viene fatta prigioniera dai Borgognoni, mentre Ty non può che assistere impotente e in lacrime al rapimento della ragazza. Daniel, come promesso, ritorna nel XV secolo con l’intenzione di riportare a casa Ty, ma il ragazzo si oppone disperatamente, non volendo abbandonare la ragazza. Alla fine convince Daniel a rimandare il ritorno al mattino successivo: la mattina avrebbe portato le risposte che la notte sembrava semplicemente nascondere.

Jeanne viene venduta dai borgognoni agli inglesi per 10'000 scudi come prigioniera di guerra. Abbandonata dal re francese che lei stessa aveva innalzato al trono e per il quale aveva combattuto mille battaglie, fu consegnata all’Inquisizione che l’accuserà con suo atroce stupore di eresia. Nonostante le prove raccolte contro di lei saranno oggettivamente assai deboli, verrà infine emesso un verdetto di colpevolezza per una lunga lista di imputazioni, le più gravi delle quali erano la blasfemia, l'idolatria e la superstizione. La pena per questi reati, dopo che lei stessa negherà l’abiura estortale dagli ecclesiastici, è il rogo.

In quella stessa notte in cui Jeanne è stata rapita e Daniel è arrivato per riportarlo a casa, Ty ha un incubo terribile, che gli mostra nei dettagli più crudeli quale orribile morte toccherà alla sua amata.

Disperato, sveglia Daniel, implorando in lacrime il suo aiuto. Lui è il conte di Ponthieu, no? La copia del codice ancora in mano a Daniel e Jodie non avrebbe potuto aiutarli in qualche modo? E se avesse tenuto traccia di quei pochi mesi dove lui aveva impersonato il ruolo del conte Thierry? Era davvero questo il suo destino: innamorarsi perdutamente di una persona tanto straordinaria solo per vederla atrocemente morire senza poter far nulla per lei?

Daniel lo deve riportare in fretta a casa, dopo quello che è successo non può trasgredire gli ordini del padre né destare il benché minimo sospetto. Ma una volta tornati a casa i ragazzi hanno una idea.  

Dopo aver consultato le pagine della copia del manoscritto miniato, adesso sanno tutti cosa fare. Sanno che la possibilità di riuscita dell’unica opzione possibile è quasi irrisoria, troppe le variabili in gioco e molte al di fuori del loro controllo, ma tra molte, una possibile interpretazione del codice infonde loro il coraggio necessario per tentare. 

La Direction Centrale du Renseignement Interieur, l’intelligence francese, non gli aveva prestato fede e aveva osato persino sbeffeggiarlo, ma Bertrand LeClercq non solo sapeva di non essere pazzo, non solo era a conoscenza del segreto di Daniel e Ian, ma adesso poteva prevedere anche cosa sarebbe successo. Il codice medievale gli aveva infine rivelato tutto e lui non poteva permettere che accadesse. Non sarebbe stato un manipolo di ragazzini americani ad arrogarsi il diritto di cambiare la storia a loro piacimento. Il corso degli eventi di quei secoli era già stato scritto dall’uomo e lui adesso sapeva che il suo destino era essere qualcosa di più di un semplice curatore delle Vestigia del Passato: ne doveva diventare il Custode. La storia era tutto ciò in cui lui credeva e l’avrebbe difesa a qualsiasi costo. Se i francesi erano così ottusi da non dargli ascolto, l’intelligence americana forse gli avrebbe creduto, quella Monika poteva aiutarlo. Doveva restare sulle tracce di quei ragazzi, doveva conoscere ogni loro spostamento. Doveva fermarli.

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Capitolo 26
*** Capitoli 51-54: riassunto ***


 

30 Maggio 1431, Place du Vieux Marché, Rouen. Sfruttando la conoscenza della storia e la loro lingua madre Ty, Ian e Daniel da giorni si sono fatti passare per inglesi e si sono sostituiti ai boia incappucciati. Sanno che non sarà possibile una fuga perché non c’è scritto sui libri di storia, dovranno fare in modo che nessuno si accorga di nulla in modo che la storia continui a pensare che Jeanne è morta lì, sul rogo. Poiché avrebbero rischiato la loro stessa vita, per il compito più delicato si propone volontario Ty che si dichiara pronto a morire per lei, se le cose fossero andate storte. Ian invece ha l’ingrato compito di far sembrare che il rogo si sia consumato ugualmente: in una sacca ha le ceneri e i pochi resti carbonizzati di un cadavere. E’ Ty il boia avvolto in un cappuccio e irriconoscibile che dovrà appiccare il fuoco, ma subito dopo, non appena potrà farlo, dovrà aprire di nascosto i comandi di uscita di emergenza di Hyperversum, la mela rossa luminosa e in qualche modo farla sfiorare a Jeanne.

Grazie al mod di Celebrity Skin, Jeanne fa già parte dei giocatori non attivi della partita, Ty non deve fare altro che trovare il modo di farle toccare la mela prima di appiccare il fuoco alle pire e poi nascondersi per chiudere la partita con i codici di Daniel, mentre già le fiamme avrebbero iniziato ad allungarsi verso il corpo di Jeanne… Sa che è sufficiente il minimo errore e non solo Jeanne sarebbe bruciata sul rogo, ma anche lui, se fosse stato scoperto, avrebbe perso la vita. Ma se lei fosse morta, che differenza poteva esserci tra vivere e morire, quando l’amore per Jeanne era tutta la sua vita? Ty non aveva paura.

La ragazza mentre vedeva confusamente le lingue delle fiamme salire verso i piedi e le gambe, sente ancora la voce di Lui che le sussurra di non temere nulla, perché lei non era sola, egli non avrebbe mai abbandonato la sua figlia diletta, non avrebbe lasciato morire una sua prescelta. 

Ty, Ian e Daniel, riescono a stento a trattenersi da precipitarsi verso di lei quando vedono le fiamme lambirle le gambe tra le sue urla disperate, l’uscita di emergenza è già attiva e Jeanne non dovrebbe sentire dolore: allora perché quelle grida disumane? Come già Daniel quando fu trafitto dalle frecce a Dunchester, agli occhi dei presenti Jeanne sembra morire davvero, ma quando incamminandosi dietro al rogo in fiamme, nascondendosi agli occhi di tutti Ty riesce a dare finalmente l’ok al game over si ritrovano tutti catapultati nella città di Rouen. Piazza del Mercato Vecchio, XXI secolo.

Otto militari delle forze speciali americane sono appostati da tempo sui tetti dei colorati e pittoreschi edifici e degli Hotel che circondano la grande piazza di Rouen: conoscono ormai quasi tutto di Hyperversum e si sono fatti trovare puntuali all’appuntamento con la storia. Con le loro carabine dotate di ottiche di massima precisione scandagliano ogni centimetro in movimento sopra le loro tacche di mira.

Monika è il comandante che coordina la squadra di cecchini sui tetti e la squadra mimetizzata tra la folla della piazza: mascherata da turista e nascosta tra loro è disposta a tutto pur di garantire il successo dell’operazione. Sapeva che in quel momento, forse, la storia stava per cambiare per sempre. Oppure grazie alla sua missione, la storia dell’umanità non sarebbe cambiata affatto. Tutto dipendeva da lei, adesso. La storia dipendeva da lei. Ma si ripeteva che era abbastanza fredda da prendere la decisione giusta al momento giusto: era consapevole che ogni istante della sua vita fino ad allora aveva avuto come unico scopo quello di prepararla a vivere quel momento.

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Capitolo 27
*** Capitolo 55: Operazione Fenice ***


Disseminate sui tetti verniciati di nero, le canne fumarie e le antenne si protendevano verso il cielo simili a dita adunche e irrigidite dalla morte, in contrasto con l’armonia e i colori caldi dei pittoreschi palazzi attorno alla piazza.

Proprio dietro ad uno di quei comignoli, nel posto dove aveva appuntamento con la storia, era accovacciato il cecchino. Inquadrava la sagoma di una donna, a poco meno di cento metri dalla tacca di mira.

Avvolto dall’equipaggiamento mimetico, era pressoché indistinguibile dal cemento antracite su cui era disteso. Persino la canna da ventotto pollici e il grosso silenziatore del McMillan TAC-50 erano stati accuratamente mascherati e non riflettevano alcuna luce.

Da quella posizione, il suo fucile poteva colpire l’obiettivo con rosate inferiori ai 10mm e una energia d’impatto maggiore a quella di un proiettile esploso da un Ak-47 a bruciapelo.

La distanza dal bersaglio non lo preoccupava: l’uomo sapeva che in Afganistan, nella valle del Shah-i-Kot, il caporale Furlong aveva ucciso con quella stessa arma un talebano a oltre due chilometri.

Si drizzò appena sui gomiti e studiò la figura incorniciata dentro la lente del mirino: i reticoli del Nightforce 16x erano perfettamente centrati sulla chioma biondo cenere della donna. Non c’era vento e valutò che ad una distanza così ravvicinata gli effetti del silenziatore sulla pallottola calibro 0.50 BMG sarebbero stati trascurabili. Aggiustò il mirino telescopico e fece scorrere tra le dita il selettore circolare che comandava l’ingrandimento 16x, indugiando sul corpo flessuoso della donna.

Una scarica crepitò in quell’istante dentro il suo orecchio, dov’era alloggiato l’auricolare della trasmittente.

“Capo Isola a Squadra Aquile” gracchiò una voce femminile, “confermate posizione e vista.” Qualche istante dopo, un’altra voce replicò:

“Aquila Sei a ore dieci, sopra Le Floria. Visuale libera lato sud della basilica”.

“Aquila Cinque a ore otto, su Raichers. Ho campo libero a nord-est”. Si sentì un raschiante rumore di sottofondo e poco dopo, ad uno ad uno, gli altri cecchini fecero rapporto, finché arrivò il suo turno di parlare.

“Aquila Uno a Capo Isola, mi trovo esattamente a ore dodici dall’entrata della cattedrale”.

“La tua vista, Aquila Uno” incalzò la voce femminile.

 L’uomo sorrise tra sé e finalmente pronunciò la battuta che aveva a lungo studiato nei momenti di inedia. “Reticolo perfettamente centrato sul suo egregio fondoschiena, boss.”

Un sommesso rumore di scariche elettriche e risa soffocate si aggiunsero in sottofondo.

Monika diventò tutta rossa dalla rabbia e si preparò a una sfuriata, ma l’uomo la precedette: “Se il mio compito è salvarle il culo, ho pensato di non dovere mai perderlo di vista, boss.”

“Capo Isola a Aquila Uno: tenente Mitch McCarthy, quando questa storia sarà finita, le prometto che passerà il resto dei suoi giorni alla frontiera col Messico, a puntare quel dannato fucile sul culo di qualche dannato clandestino messicano, mi ha capito?”

“Aquila Uno a Capo Isola, non la prenda sul personale boss, stavo solo cercando di tirar su il morale ai ragazzi. E’ da un secolo che stiamo qui immobili, niente pausa caffè oggi? Avrei anche un problemino con la vescica, boss…”

“Ottimo tentativo Aquila Uno, ma sono sicura che questo si rivelerà un buon allenamento per il suo prossimo lavoretto alla frontiera messicana”.

Monika, avanzò di qualche passo tra i turisti, spingendo una ingombrante carrozzina che nascondeva il suo equipaggiamento e chiamò i restanti uomini delle special forces sotto il suo comando.

“Capo Isola a Squadra assalto di terra, rispondete”.

Ad uno ad uno, Kincaid e il resto della squadra d’assalto mimetizzata a terra tra i turisti intorno alla piazza snocciolò i propri pseudonimi, descrivendo lo spazio che stavano sorvegliando.

“Capo Isola a Squadra Hotel…”

“Ancora nessun movimento Maggiore.”

 

 

***

  

 

Mitch smorzò il sorriso che ancora si affacciava sul volto e assunse in pochi istanti quello stato di vigile concentrazione che poteva conservare per ore, nuovamente immerso nella missione.

Poggiandosi sulla culatta, spostò delicatamente sui perni del cavalletto il suo McMillan TAC-50, scandagliando minuziosamente la visuale da un lato all’altro.

Non poté evitare di pensare all’incredibile riunione tenutasi quella mattina in un Hotel dietro la piazza. Oltre al Generale John Freeland e Szigi che comandava le operazioni, erano in soli dodici uomini a conoscere finalmente il vero obiettivo dell’operazione Fenice.

Per una volta, pensò, il nome di un incarico segreto era quanto mai azzeccato. La Fenice era l’uccello mitologico che risorgeva dal fuoco delle proprie ceneri, qualcosa che somigliava maledettamente allo scopo della missione.

Catturare la Fenice.

Era ancora incredulo e sbalordito da quanto aveva appreso dal Maggiore, ma conosceva abbastanza quella donna da non dubitare di una sola parola che aveva pronunciato.

Nessuno avrebbe probabilmente mai conosciuto il suo nome, il compito della squadra era di operare nell’ombra, ma sapere di essere parte di quell’evento straordinario e inconcepibile gli riempiva il petto d’orgoglio.

Gli sembrava di essere seduto sul tetto del mondo, improvvisamente a parte di una verità che i minuscoli esseri umani, che si muovevano attraverso il suo mirino telescopico, avrebbero ignorato per sempre.

 

 

***

 

 

Monika si aggiustò nervosamente sul volto gli occhiali da sole, schiacciando dietro l’orecchio una lunga ciocca di capelli biondo cenere.

Una famiglia e il loro figlio grassoccio sceglievano rumorosamente alcune cartoline dal pannello alla sua destra. Una coppia di giovani asiatici, entrambi coi capelli ossigenati, passava proprio in quel momento davanti a lei, affrettandosi verso un altro obiettivo per la loro macchina digitale. Decine e decine di visitatori di ogni età, nazionalità e colore gremivano la piazza, spostandosi in ogni direzione, ignari di quanto stava per accadere.

Come una turista qualsiasi, era seduta sul muretto di pietra irregolare sberciato dai secoli, ciò che restava dell’originale Place du Vieux Marché, a Rouen. Fingeva di scrivere qualcosa sul palmare e di vegliare sulla carrozzina, ricolma del materiale che avrebbe utilizzato per portare a termine la missione.  Dietro gli occhiali da sole, sorvegliava con estrema attenzione ogni movimento intorno all’église de Sainte-Jeanne D’Arc. 

Sapeva che in quel giorno il corso della storia stava forse per cambiare per sempre. Oppure, grazie alla sua missione, non sarebbe cambiato affatto.

L'ago della bilancia in grado di influenzare nientemeno che il passato e il futuro dell'intera umanità era proprio lei. Tutto dipendeva dalla decisione avrebbe preso e a chi avrebbe dato ascolto.

Stava per fare la cosa giusta?

Chi l’avrebbe giudicata?

A chi avrebbe dovuto rendere conto delle sue decisioni? Al Governo che aveva giurato di servire, al suo capo, a se stessa, agli uomini, o forse, se mai ne esisteva uno, a Dio stesso? 

La pressione era diventata insopportabile, centinaia di pensieri e di preoccupazioni si rincorrevano a folle velocità nella mente, ma tutto ciò che poteva fare per il momento era ripetersi che era abbastanza fredda da saper prendere la decisione giusta al momento giusto.

Dal palmare, richiamò la vista satellitare della piazza: l’avveniristica chiesa costruita in memoria di Jeanne D’Arc emergeva dal cuore della città proprio come un’isola, dai contorni frastagliati ma nell’insieme ellittici.

Ancora una dannatissima isola… 

Ad un tratto, mentre il cuore accelerava i battiti per la consapevolezza, seppe che ogni istante della sua vita fino ad allora aveva avuto come unico scopo quello di prepararla a vivere quel momento.

Poi una voce esplose nell’auricolare.

 

 

***

 

 

Bertrand LeClercq si trovava nell’unico posto dove Szigi non avrebbe mai pensato di cercare.

Le navate della chiesa di Sainte-Jeanne D’Arc erano plasmate attraverso un sorprendente intreccio di linee tese e curve, che avvolgevano e meravigliavano il visitatore da qualunque punto le osservasse.

Attraversò la navata centrale incamminandosi verso un transetto laterale, restando affascinato dai giochi di luce delle immense vetrate dipinte con colori vivaci. Si inginocchiò con un fruscio di abiti sopra il legno davanti all’austero confessionale e annunciò:

“Mi perdoni Padre perché ho peccato”.

Sebbene sembrasse che non vi fosse nessun altro, poco dopo un’ombra dietro i fori della grata gli rispose:

 “Il Signore ascolterà i tuoi peccati”.

LeClercq per un momento esitò, come sei i suoi propositi si fossero annebbiati e divenuti indistinti, ma ritrovò presto la fredda determinazione a proseguire nel suo intento.

“Padre so che ho molto peccato durante la mia vita…”

“La confessione ci offre l’occasione di rinnovarci fino in fondo con Dio, confidami i peccati che ti affliggono e ne riceverai sollievo” gli replicò una voce anziana e gentile.

“Suppongo che la mia colpa più grande è di non essermi mai pentito dei miei peccati”.

“Il Signore dice che il pentimento è per chiunque sbaglia”.

“Padre, non mi fraintenda. Riconosco di aver peccato secondo la dottrina della Santa Chiesa, ma so di non aver sbagliato!” ribatté LeClercq, con una nota della voce più acuta di quanto volesse.

“Le mie mani sono guidate dal Signore e stanno per perpetrare l’ultimo peccato, ma so che è Dio a volerlo, è lui che l’ha chiesto!”

“Figliolo, il peccato è qualcosa che non ci appartiene… è qualcosa di maligno che s’insinua dentro ed è assai pericoloso nella misura in cui s’immedesima alla nostra natura fino a fare un tutt’uno. Dio non può averti chiesto di peccare in Suo nome”, rispose pacatamente l’anziano sacerdote.

“Invece Egli ha grandi progetti per me! Assolva la mia anima o non sarò mai degno di compiere ciò che Dio mi ha chiesto di fare. Non sta a lei giudicare, ma a Lui soltanto!”

“Figliolo, In questo tribunale di misericordia non ci saranno mai parole di giudizio e di condanna, perché c’è chi ha già pagato tutto il debito col suo sangue, versato per i nostri peccati. Ma affinché ti assolva è necessario che mi confessi la tua colpa”.

“Ucciderò una donna, Padre. Una strega, un’eretica, una pazza. Il Signore l’ha già condannata a morte.”

Un terrore gelido s’impadronì del vecchio dietro la grata. All’improvviso comprese che stava confessando un folle. E che quel folle era armato.

LeClercq, irritato per non aver ancora ricevuto la necessaria assoluzione, aveva infatti rivolto la Smith&Wesson verso la grata, minacciando il sacerdote.

“Non posso assolvere un uomo che non dimostra pentimento!”

“Lei mi assolverà, invece, altrimenti raggiungerà Dio prima di quanto Lui non avesse previsto!”

Terrorizzato, l’anzianò pronunciò tutto ad un fiato la formula di assoluzione: “Dominus noster te absolvat. Ego te absolvo a peccatis tuis, in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti”.

“Amen…”, terminò di avvitare il silenziatore sulla volata della Smith&Wesson. “La sua missione in questo mondo temo sia finita, ora inizia la mia…” e così dicendo armò il cane del revolver e premette il grilletto.

 

 

***

“SONO QUI! Trovate Jeanne!”

La voce del Generale dalla postazione all’Hotel, sparata dagli auricolari, scaricò in un istante fiumi di adrenalina in ogni membro della squadra.

Attraverso la lente del suo mirino telescopico, Mitch ispezionò lo spazio davanti all’ingresso della chiesa.

Monika si alzò di colpo, gettando il palmare dentro la carrozzina e trascinandola con sé con una mano, mentre con l’altra cercava la fondina ascellare all’interno della giacca a vento e levava la sicura alla Beretta.

Kincaid, lasciò sul tavolino una banconota da venti euro e si alzò immediatamente, voltandosi in ogni direzione, nel tentativo di scorgere la ragazza.

 

 

***

 

 

LeClercq si mosse lentamente, verso l’altare, inginocchiandosi per pregare. Assorbito dal silenziatore, lo sparo non era stato udito da nessuno. Un uomo gli si avvicinò e si inginocchiò accanto a lui.

“L’hai ucciso?”

“Ho dovuto”.

“Stronzate fratello, io non ho bisogno di chiedere perdono a nessuno, nemmeno a Dio.

“Non ti ho chiesto di capire, Francois.” LeClercq osservò il fratellastro con un sorriso storto. “ti ho chiesto di eliminare chiunque intralci la mia strada, in nome dei vecchi tempi”.

L’uomo ricambiò il suo ghigno. “In nome dei vecchi tempi, allora…”

 

***

              

 

Mitch sbatté nuovamente le palpebre, ma la vista non cambiò: dove un secondo prima c’erano soltanto i gradini della chiesa, ora si trovava un’adolescente che si stava accasciando a terra. I suoi vestiti… Cristo, che diavolo avevano i suoi vestiti? Fumavano.

La Fenice.

Monika intravide la ragazzina inginocchiarsi a terra e crollare su un fianco sopra i gradini. Chinò appena il mento verso il ricevitore per urlare: “E’ all’entrata della chiesa! Tutti in assetto NFDD, cinque secondi all’esplosione!” Nello stesso istante, gettava da un lato il rivestimento che copriva la carrozzina e afferrava la prima granata stordente M84. Staccò la linguetta con i denti e la gettò sui gradini. Prima che la granata toccasse terra stava già lanciando la seconda.

Kincaid vide la giovane avvolta dal fumo e seppe che era lei. Qualche secondo dopo aveva già raggiunto il SUV parcheggiato di fianco a Le Reims e con la portiera ancora aperta, portava su di giri il motore e si muoveva lasciando a terra l’impronta nera dei grossi pneumatici.

 

 

***

 

 

Le due granate stordenti toccarono il cemento e deflagrano devastanti come una dozzina di tuoni esplosi tutti nello stesso istante. L’intera piazza fu investita in rapida successione dai 180 dB prodotti dall’onda sonora di ogni granata, mentre chiunque si trovasse nelle vicinanze, fu accecato dalla luce di oltre otto milioni di candele generate dall’arma incapacitante. Per qualche minuto nessun uomo fu in grado di vedere né di comprendere nulla.

Assorto in preghiera, LeClercq continuava a chiedere imperterrito a Dio una conferma della sua missione, quando udì il segno.

Si riprese immediatamente dai due spaventosi boati, attutiti dalla struttura della chiesa e scattò verso l’apertura, seguito dal fratellastro.

“E’ lì! Lei è lì! E’ lì!” gridò al culmine dell’estasi, mentre scorgeva il corpo della ragazza sui gradini. “Dio è con me! Adesso coprimi, Francois!”

Il fratellastro estrasse dall’impermeabile due mitragliette israeliane Uzi con nastri da cinquanta colpi, impugnandone una per ogni mano e si preparò a polverizzare qualsiasi cosa si avvicinasse alla ragazza.

 

 

***

 

 

 

 

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Capitolo 28
*** Segreti svelati e un amore senza tempo (riassunto) ***


 Nel frattempo LeClercq, che aspettava quel momento da ore nascosto dentro la chiesa stessa, può ascoltare finalmente il segnale che aveva chiesto nelle sue preghiere. Si precipita fuori dalla moderna cattedrale e la prima cosa che vede, nonostante il fumo denso, è la ragazza immobile a terra, esattamente lì, a due passi, esattamente dove sei secoli prima era stata condannata a bruciare su un rogo. Consegnata evidentemente a lui dal Signore perché portasse a termine la sua missione. In tasca ha sempre il suo piccolo revolver Smith&Wesson, ma l’avrebbe usato solo se necessario, la storia era chiara e lei doveva bruciare. “Tu non puoi essere qui! Tu sei morta!” ripete continuamente a se stesso. Ma doveva essere purificata dalle fiamme prima di morire, così era scritto nei libri. Estrae quindi dalla borsa a tracolla la bottiglia di plastica colma di benzina, gettandone il liquido sulla ragazza e cercando nelle tasche i fiammiferi necessari per il nuovo rogo. “Avevano ragione loro, sei una strega e morirai tra le fiamme! Il Signore”, si diceva con orgoglio, “mi sarà eternamente grato per aver portato a compimento il suo progetto e purificato attraverso il fuoco questa strega!”. Subito dopo, nel mezzo della piazza affollata si scatena il panico, poi l’inferno. In mezzo alle grida, il fragore inconfondibile dei colpi d’arma da fuoco.

Quando il fumo si dirada, con la gente ancora terrorizzata e i bambini che piangono, della ragazza non c’è più traccia adesso. Nessuno giace a terra ferito. Non sembra successo nulla.

A pochi passi dalla piazza, al 15 di Rue de la Pie, nella suite del Best Western Hotel Du Vieux Marché, John riabbraccia commosso Daniel e Ian, apparsi dal nulla in quella stanza pochi istanti prima. Persino l’algida Monika, entusiasta e commossa, rinfodera la sua Beretta 92 FS ancora fumante nella fondina ascellare e si lancia tra le braccia del tenente Mitch McCarthy. Jodie si sta prendendo cura di Jeanne cercando di farle spazio tra i militari in abbigliamento tattico e gli altri in abiti borghesi che, confusi tra i turisti, avevano appena condotto lì la ragazza. Jodie, in soggezione davanti all’adolescente che aveva davanti ai suoi occhi, asserisce che non ha nulla, è solo svenuta per le esalazioni da fumo respirate prima di venire tratta in salvo da Ty e Daniel nel medioevo. Per LeClercq, anche lui trasportato lì, invece non c’è nulla da fare: giace senza vita su un tappeto con un foro di 9mm in mezzo agli occhi. Prima ancora che Jeanne si possa risvegliare, Daniel come da accordi col padre, chiede ai militari della USIC di lasciare l’hotel: l’operazione Fenice - la ragazza “risorta” dalle sue stesse ceneri - ovvero la loro missione di copertura era conclusa. Jeanne era salva. Monika farà rapporto sulla missione e il file sarà secretato per ordine del generale John Freeland, sepolto insieme ad altre migliaia di fascicoli segreti protetti dal segreto militare. Il corpo di LeClercq sarà invece fatto scomparire e quando sarà ritrovato nessuno potrà ricondurlo all’operazione appena conclusa. Daniel riavvia quindi il gioco dagli stessi portatili da cui avevano lanciato l’ultima partita da quella stessa stanza e permette a Ty di ricondurre Jeanne nella sua epoca, nello stesso giorno e anno in cui doveva morire: il 30 Maggio 1431. Ma stavolta la destinazione digitata su Hyperversum è Chatel Argent, dove lui è per tutti Thierry conte di Montmayeur, conte di Ponthieu, feudatario maggiore di Francia.

Ty, come già Ian e Isabeau, sa che non tornerà più a casa, sa che prenderà il posto del suo omonimo scomparso, sa che sarà lui nel XV secolo a impersonare il ruolo del valoroso Falco d’Argento, come nemmeno nei suoi sogni più fantasiosi aveva sperato. Sa che sposerà presto Jeanne, precisamente tre mesi dopo, il 30 Agosto 1431, come il codice riportava di fianco ad una miniatura dei volti di Thierry de Ponthieu e di una giovanissima donna appena uniti in matrimonio.

Il nome di lei trascritto sul codice era J. Anne Romée: pronunciandolo, sente la sua voce scandire proprio il nome di lei, Je-anne seguito dal suo vero cognome materno.

Ty sa che Julie Anne, come adesso lei si fa chiamare in ricordo della sua adorata Juliette, liberata da tutti i vincoli, assolto il suo compito impossibile, adesso può finalmente vivere la vita normale di una ragazza non ancora vent’enne, adempiere alla sua promessa ed essere felice con l’uomo che ama.

Ogni sua minuziosa ricerca aveva dimostrato al di là di ogni dubbio che dietro il software di Hyperversum non c’era nessuna tecnologia particolare. Come Seth Lloyd aveva chiarito, il meccanismo che proiettava i giocatori nel passato era assai simile al Quantum Leap che aveva teorizzato al MIT: le particelle elementari dei corpi dei giocatori si dissolvevano, residuando lo stesso quantum noise, il rumore quantico, prodotto dai fotoni che era riuscito a teletrasportare in laboratorio. Ma l’inversione della freccia temporale funzionava solo se al momento del salto era presente lo stesso marcatore genetico, ovvero la stessa sequenza di DNA di cui la discendenza di Ian era portatrice. Ma come e in che modo questo operava in combinazione con Hyperversum, compiendo il suo prodigio, era ancora un profondo mistero. La risposta che Seth aveva infine dato a Monika era stata che una incredibile quanto fortuita combinazione di condizioni produceva scientificamente l’effetto oppure si doveva asserire che il gioco aveva un suo scopo che trascendeva la scienza. Una condizione era tuttavia certa: gli attori, predestinati ad avere un ruolo da protagonisti in quella storia, erano soltanto i discendenti del misterioso casato da cui provenivano Ian e Ty, una stirpe di cui adesso sapeva che faceva parte nientemeno che Jeanne D’Arc. Solo attraverso di loro Hyperversum compiva il suo prodigio. Persone in qualche modo speciali – rifletteva Monika – chiamate a compiti, piccoli o grandi, altrettanto speciali. E chissà quali altri nomi ancora, vissuti nel passato, nel presente o nel futuro, avevano lo stesso marcatore genetico di cui Ian era portatore. Era possibile risalire al capostipite? In quanti avevano ereditato quel genoma? Aveva già preso i contatti col Dipartimento di Biologia Molecolare di Princeton e fremeva dalla voglia di cominciare le ricerche, fantasticando quali altri nomi celebrati dalla storia sarebbe riuscita a ricondurre a quel patrimonio genetico. Per non lasciare nulla di intentato avrebbe iniziato proprio da lì, l’anno zero d.C., in fondo era da quella data che il primo mistero aveva avuto inizio, no? Tuttavia, sapeva che qualunque fosse il destino di questi individui, qualunque fosse la loro parte nella storia, non spettava certo a lei e a John rivelare al mondo questa sensazionale scoperta o peggio ancora depositare quel segreto nelle mani sbagliate. Monika di questo era certa e non aveva avuto dubbi nello scegliere da che parte stare: quel folle di LeClercq non aveva compreso che lei non stava cambiando la storia, ma aveva solo permesso che accadesse quello che era già scritto: Jeanne sarebbe vissuta e avrebbe generato lei stessa i figli che avrebbero perpetuato la dinastia dei Ponthieu.

Adesso che Ian vive felice con Isabeau e i suoi figli nel XIII secolo, Ty con Jeanne nel XV, Daniel e Jodie nel XXI secolo, anche loro si domandano se Jeanne fosse uno strumento proprio come loro. Le voci che sentiva Jeanne in sogno, i prodigiosi salti temporali di Hyperversum: Ian, Ty e Daniel si interrogano se ogni momento storico in realtà non avesse custodito eventi inspiegabili secondo la semplice ragione. Si chiedono se a seconda delle epoche fossero scelti i mezzi e mosse le pedine. Ma chi può dire quale sia l’imperscrutabile quadro finale dipinto dalla storia? Gli uomini possono vederne solo una parte e non sono loro a conoscere il dipinto completo. Loro e la loro discendenza erano stati scelti. Ma non erano loro a sapere da chi e per quale scopo. Non erano loro a poter sapere se il Destino del Falco, il destino di Ian o di Ty, si era compiuto in queste gesta o quali altre eroiche imprese li attendevano ancora.

Su France2, nell’edizione de “Le Journal de 20h” in coda all’approfondimento sul presunto attentato di Rouen, una coppia di giovani in jeans strappati e piercing ovunque, racconta dell’improbabile apparizione nientemeno che di Giovanna D’Arco ai piedi della chiesa a lei dedicata al centro della piazza di Rouen e di agenti della CIA capaci di viaggiare nel tempo, scomparsi in una nuvola di fumo insieme all’eroina di Francia. Monika spense la tv, si concesse un soddisfatto sorriso e uscì sul terrazzo di casa che si affacciava su Palais Rihour, un tempo residenza dei Duchi di Borgogna lì a Lille. Alzò lo sguardo verso le stelle tremolanti: forse lei si sbagliava, forse era tutto un caso, ma era così intensamente emozionante credere che infine non erano soli e abbandonati al loro destino. Poco dopo si sentì avvolgere teneramente dalle forti braccia del suo nuovo compagno, il tenente Mitch McCarthy. Anche questa era una sensazione straordinariamente emozionante e nuova per lei. E fu proprio allora che, pensando a quei ragazzi, a quanto ognuno di loro avesse lottato contro ogni speranza per il proprio amore, si disse che no, nessuno poteva restare un’isola in quel mondo. In qualunque mondo, in qualsiasi epoca.

***THE*END***

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Capitolo 29
*** update! ***


Vista l'incredibile richiesta, tra un mese o poco più prometto di inserire il capitolo di Isabeau ai giorni nostri. Era uno dei capitoli cui anch'io tenevo di più, io stesso sono curioso di scriverlo.
Bè, tra poco sarete accontentate/accontentati! Un pò di pazienza ancora!!!
Nel frattempo ho quasi finito di scrivere il mio primo vero libro! E se l'esperimento di HYP IV mi piaceva, questo mi entusiasma davvero al di là di ogni più rosea aspettativa. Ancora qualche piccola fatica e per fine estate conto di iniziare l'assalto agli editori. Emozioni, battaglie epiche e qualche lacrimuccia non mancheranno di certo... Ma questo non è HYP IV, è davvero un'altra storia ;-)))

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Capitolo 30
*** Sequel: Monika e Mitch ***


Best Western Hotel Du Vieux Marché, Rouen

 

Mónika aveva sbrigato le ultime formalità con Cynthia Doell insieme a Mitch.

Il D-Day era infine arrivato e stentava ancora a crederci a quanto aveva assistito. Lei e la squadra avrebbero custodito uno dei segreti più sconvolgenti della storia dell’umanità.

Il suo rapporto era stato consegnato attraverso i canali sicuri del consolato. Il file era stato immediatamente secretato e avrebbe riposato, in uno dei tanti fascicoli secretati a Langley per chissà quanti decenni, prima che un altro occhio umano avesse potuto notarlo e riportarlo alla luce.

Come aveva detto John non era un insabbiamento: l’umanità non era ancora pronta a sapere di Hyperversum.  

Con l’adrenalina che scorreva ancora nel sangue, Mónika era euforica e allo stesso tempo annichilita da ciò che aveva scoperto. Forse fu anche per quel motivo, che non si accorse del tenente Mitch McDowell che la stava fissando da cinque minuti abbondanti, torcendo da ogni posizione il portachiavi dell’auto tra le mani.

Quando finalmente diede segno di aver notato la sua presenza, gli domandò cosa aspettava ad andare a casa. La missione era finita.

Mitch, sempre tormentando il portachiavi, esclamò con una voce che avrebbe voluto che fosse molto più sicura: “Maggiore io mi chiedo se lei…”

“Cosa c’è, tenente?”

“Bè, io...”

“Si decide a parlare o no, tenente?”

“Io mi chiedevo… la conosco da tanto tempo, Maggiore… e non c’è mai stata l’occasione per parlare d’altro che non fosse lavoro…”

“Mi sembra ovvio, McDowell.”

 “Insomma, mi chiedevo se un giorno… dopo il lavoro…. Noi due non potessimo bere insieme qualcosa, signore!”

“Tenente McDowell, mi dica se ho capito male: lei ci sta provando col suo superiore?”

“Io, veramente…”

 “Lo sa che anche solo per questo potrei farla distaccare in Alaska per il resto della sua vita?”

“Si signore, ma ho pensato…”

“Cosa ha pensato tenente?”

“Che sarebbe valsa la pena tentare, signor Maggiore”

“…”

“Mi perdoni, ma…”

“Lei ha del fegato, McDowell. Non sa cosa dice la gente di me?”

“Lo so benissimo signore”

“E allora?”

“Allora penso che ho sempre combattuto per un ideale, ho sempre combattuto per il bene della mia nazione. Ho combattuto per un senso del dovere… Non ho mai combattuto, signore, per la cosa che avevo più a cuore…”

Monika aggrottò la fronte. “Che sarebbe?”

“Lei, signor Maggiore.”

“Io.”

“Signor si, signore.”

Mónika inarcò un sopracciglio. “E già che ci siamo, cos’altro ha pensato?”

“Che potevamo andare stasera da Lizzy’s… fanno pizza americana e hamburgers, signore!”

“Da Lizzy’s… pizza americana e hamburgers” ripeté inorridita la donna.

“Signor sì, signore! L’ho pensato soltanto, signor Maggiore” si scusò Mitch.

“E mi dica, tenente, cosa le fa credere che lei possa permettersi di invitarmi a cena?”

“Mi scusi signore, sono solo fantasie, lo so bene, ma non potevo più andare avanti senza sapere la sua risposta, signore”

“La mia risposta l’ha sempre saputa.”

“Signor sì, signore!”

“Dunque, perché fare la domanda? Anche a rischio di essere trasferito tra i ghiacci?”

            “Dovevo farlo signore”

“La pensavo più furbo, McDowell… o lei è totalmente un idiota o ha fegato da vendere.”

“Grazie signore!”

“Non era un complimento, tenente.”

Mitch restò impassibile sull’attenti.

“Quindi lei faceva fantasie su di me” Szigi socchiuse gli occhi irritata, ma per Mitch quello sguardo era di una bellezza così sconvolgente che abbassò subito il suo verso i piedi del Maggiore.

“… e magari aveva pure programmi per il post serata, non è vero tenente?”

“Ho pensato che sarebbe stato bello fare una passeggiata insieme, raccontandoci un po’ di noi, signore.”

“McDowell non dica idiozie, lei ha fantasticato di fare sesso con me, alla fine della serata”

“Io… no, davvero… signore” incespicò sulle parole il ragazzo

“Non mi prenda in giro, tenente.”

“Ok, ho anche desiderato di fare sesso con lei, signore. Ora può sbattermi in Alaska se crede.”

Szigi, prese un foglio e scrisse qualcosa.

“Ci può contare, tenente. Prenda questo foglio, ho scritto sul retro a chi deve consegnare questo ordine. Ora sparisca dalla mia vista!”

“Signor sì, signore!”

Mónika lo vide allontanarsi e annotò mentalmente che le spalle larghe e il fondoschiena del ragazzo non la lasciavano indifferente.

Quando uscì dalla stanza, Mitch sconsolato, prese il foglio e lo lesse avvilito.

Esultò come al Superball dell’anno prima.

 

Lizzy’s scordatelo. Prenota un tavolo alle 9 a La Toque d’Or. E’ un ordine.

 E se stasera mi chiamerai ancora una volta signore, considerati già di stanza in Alaska.

Un’ultima cosa, Mitch: per stasera puoi solo sognartelo di fare sesso con me.

 

Szigi




questo capitolo è dedicato alla vera Szigi, alla vera Monika.... che non essendo italiana non lo leggerà mai. Però il personaggio è ispirato da lei. :)

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Capitolo 31
*** Spin Off: Hyper-Stele ***


NOTA: HYPERSTELE E' STATA INSERITA COME STORIA A PARTE :)

Carissime amiche e amici di Hyperversum IV,

Tornati dalle vacanze, non mancano le novità. La più succosa al momento è questo spin-off: Hyper-Stele, nato dall’intreccio delle storie e dei personaggi di Hyperversum IV e del mio romanzo inedito (spero di prossima pubblicazione) La Stele dei Sogni, che alcuni di voi hanno già avuto modo di apprezzare in anteprima.

Mi sono così affezionato a entrambi i gruppi di personaggi dei due romanzi che mi è venuta l’idea bizzarra di farli incontrare e… dopo qualche bozza, così per gioco, ho scoperto che la cosa non solo funzionava, ma addirittura il finale svelerà nientedimeno che il segreto di Hyperversum che nel mio IV volume era solo accennato.

Ecco a voi, per iniziare, l’incipit della trama che cercherò di aggiornare ogni settimana. Fatemi sapere se vi piace ovviamente, ci tengo moltissimo ai vostri commenti.

A presto,

Dino

 

 

HYPER-STELE

 

 

Monika guardò con preoccupazione la clessidra che scandiva il tempo di caricamento sul visore a LED.

 

Configuring game

Please wait_

 

L’ultimo carattere lampeggiava a intermittenza.

Nonostante l’addestramento militare e la sua proverbiale freddezza quell’attesa la rendeva nervosa.

L’intero pianeta apparve sul visore, come in una foto via satellite, mentre ruotava lentamente su se stesso. Le cifre del contatore della data ruotarono impazzite e si arrestarono all’improvviso.

Monika lesse il numero e sbarrò gli occhi.

L’ultima cosa che pensò prima di perdere la percezione del proprio corpo fu che doveva smetterla di giocare ai videogame.

 

***

Monika si guardò attonita le braccia e le gambe. Jeans aderenti e maglietta erano spariti e al loro posto indossava un lungo mantello grigio di lino grezzo.

Una folata di vento caldo le scompigliò i capelli biondo platino davanti agli occhi.

«Tirati su il cappuccio!» la sgridò Ian. «E’ troppo pericoloso! Ti ho già detto che nessuno deve vederci in volto!»

«Nessuno tranne loro» aggiunse la donna.

«Certo, certo... se mai troveremo il modo di farci ricevere» replicò preoccupato Ian.

Monika si tastò i fianchi e roteò gli occhi. «Ovviamente la mia Beretta calibro 9 è sparita e siamo tutti senza un’arma. Grandioso!»

«E qui si muore di caldo» aggiunse Ty.

Ho una notizia ancora peggiore» sibilò lei. «Guardate a ore nove.»

Ian si voltò di scatto e vide i temibili ankh che scintillavano tra le mani di due Delicate.

Deglutì.

Il solito Hyperversum.

Davanti ai suoi occhi, le case di fango e argilla dei nemeh di Giza tremolavano come un miraggio nell’aria rovente.

Ian scosse il capo, sconsolato. Erano appena arrivati nell’antico Egitto e i guai li avevano seguiti come un’ombra.

 

***

NOTA: HYPERSTELE E' STATA INSERITA COME STORIA A PARTE :)

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Capitolo 32
*** Ringraziamenti & Nuovi Progetti ***


il vostro incredibile entusiasmo mi ha dato il coraggio di tentare l'impresa di scrivere un libro tutto mio.. e meraviglia delle meraviglie, è stato accettato da un editore non a pagamento e sarà presto disponibile in libreria.
Tutto questo è fantastico ed è anche merito di tutte le persone che mi hanno spronato, elogiato, aiutato a dare il meglio di me.
GRAZIE!
A coloro che seguono le mie storie:

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Iryael   
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Dieci, cento, mille volte grazie.

Per chi vuole seguire i miei progetti editoriali dopo HYP IV:

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Un abbraccio sincero
Dean Lucas alias Dino  :-) Vi piacciono le mie storie? Non perdetevi la più bella su EFP!!!
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