Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
-Ci mettiamo qui?- chiese
Alberto con fare premuroso.
-No, preferisco continuare
a camminare- rispose tranquillamente Nathan.
Il parco in quel periodo
dell’anno era molto poco frequentato. Gli alberi erano
spogli e scheletrici, a testimonianza del fatto che era già Novembre inoltrato,
praticamente gli ultimi scampoli d’autunno. Le mani di Nathan erano gelate in
quelle di Alberto, ma questi gliele massaggiava nelle sue, gesto che riusciva a
far comparire un sorriso dolcissimo sul volto di Nathan.
-Te l’ho mai detto?-
-Cosa?-
-Che tiamo.-
Disse Nathan, attirando a
sé il fidanzato per baciarlo dolcemente sulle labbra. Chiudendo gli occhi,
restavano soltanto i rumori circostanti. Il fiume che scorreva sottotono alla
loro destra, i corridori che facevano jogging alle ultimissime luci del giorno,
le auto che passavano sulla strada adiacente. E ovviamente, il rumore più
forte, quello del respiro di Nathan commisto al battito del suo cuore, in un
concerto di emozione che il ragazzo provava ogni volta che si baciavano.
Di secondo in secondo, il
loro bacio diventava sempre più travolgente, più passionale. Nathan che si
stringeva forte ad Alberto, e questi che gli cingeva i fianchi amorevolmente,
quasi sollevandolo.
-Non mi lascerai mai,
vero?-
Chiese Nathan. Alberto lo
guardò negli occhi e con un sorriso scosse la testa.
-Nemmeno se mi
costringessero con un fucile al muro. Meglio morto, che senza di te.-
Nathan sorrise a sua
volta, e lo baciò un’ultima volta sulle labbra. Un bacio veloce, ma tanto pieno
di significato per entrambi, mentre all’orizzonte il sole scontava le ultime sue ore di vita anche per quel giorno, dopo aver
illuminato Torino ad orario ridotto.
-Hai visto che bel sole?-
Alberto annuì, sussurrando
un lieve “sì”. Adoravano passeggiare in città, specialmente in quell’area verde
che passava accanto al Fiume Po, dove si fermavano ogni tanto sul ponte a
guardare l’acqua scorrere, tenendosi per mano. Lo guardò ancora una volta. Il
suo Nathan. Era talmente bello che non poteva essere vero,
anzi sicuramente era un sogno lunghissimo da cui Alberto non si era mai
svegliato. Il ragazzo che tutti avrebbero voluto accanto, bello, dolce, gentile
e paziente. Mai che ci fosse stato un litigio tra loro, nemmeno quando a causa
del suo lavoro Nathan era dovuto andare a Bologna… Quanto aveva pianto, durante
quei giorni… Come si faceva a non amare un ragazzo come Nathan?
Ed era suo. Soltanto suo.
Lui, un modesto impiegato pubblico, fidanzato con un ballerino di danza
professionale.
Lo strinse ancora di più a
sé, inalando il suo profumo di pulito e carezzandogli i morbidi capelli biondi,
baciandogli lo zigomo sinistro, gesto che riusciva ancora a farlo arrossire
dopo così tanti anni. Stringendolo, sentì che ebbe un fremito.
-Hai freddo?-
Senza dire una parola,
Nathan annuì.
-Vieni… andiamo a casa.-
E camminando stretti l’uno
all’altro, si incamminarono verso il loro appartamento.
Gli occhi di Alberto erano
di nuovo umidi. Come tutte le volte che doveva ripercorrere quell’evento della
sua vita, interrotta quel giorno di due anni prima. Annuì.Dopo il solito racconto, condensato per
adattarsi al breve tempo concesso dalle sedute terapeutiche, Alberto si sentiva
sempre così, svuotato di qualunque energia, incapace di pensare che il suo
Nathan non ci fosse più, semplicemente volatilizzato nel nulla, consacrato dai
telegiornali come un altro caso di persona scomparsa senza lasciare alcuna
traccia…
Annuì. La donna seduta
accanto a lui teneva le gambe incrociate ed un taccuino nella mano sinistra, e
lo osservava attentamente. Non ci si poteva sbagliare sul suo lavoro.
-Capisco come lei si
senta. Posso farle una domanda?-
-Dica, dica pure.-
-Cosa esattamente non la
lascia tranquillo, di questa storia?-
Alberto ci pensò su,
nonostante sapesse bene la risposta. Non c’era ombra di dubbio sulla sua
risposta: Mi manca Nathan, e non posso credere che sia soltanto scappato,
perché andava tutto bene. Qualcuno l’ha rapito, è ancora vivo da qualche parte,
ma io non so cosa fare. La polizia ha in mano tutto, ma non sono riusciti a
muovere un passo. Perché? Perché, diosanto, perché???
-…Nathan. Mi manca Nathan.-
Rispose Alberto. La
dottoressa annuì e scribacchiò qualcosa sul suo taccuino. Anche se lui non
aveva espresso i suoi pensieri, lei sicuramente aveva intuito tutto. Non tanto
perché fosse una psicologa, ma quanto perché l’intera storia era stata sbattuta
sulle prime pagine di tutta Italia, solo perché Alberto aveva parlato con la
persona sbagliata. Per giorni erano entrati nella loro vita, in quella vita che
si erano costruiti in cinque anni di relazione… eviscerando molti aspetti,
facendo ipotesi, lucrando sul suo dolore.
-So anche che le manca la
sua privacy, i suoi ricordi… perché tutto ciò che aveva, le è stato sottratto
dall’informazione. È un paradosso piuttosto curioso. L’informazione che anziché
informare ci toglie informazioni preziose… come i ricordi.-
-Già… è anche per quello
che mi sento così, dottoressa… -
Alberto sospirò. Doveva
ritenersi fortunato di essere riuscito a conservare il suo posto di lavoro
all’Università, nonostante il suo stato mentale.
Durante il periodo di
assedio mediatico, Alberto aveva cominciato a sentirsi smarrito. Si alzava la
mattina con in mente soltanto Nathan, aspettandolo… per talmente tanto tempo
che saltava giorni interi di lavoro, stando seduto al tavolo della cucina nel
silenzio generale del loro appartamento. Ogni tanto spiccicava qualche parola
incomprensibile, o si girava a qualunque rumore provenisse dall’androne delle
scale, sperando che fosse Nathan che tornava a casa dalla spesa oppure dalla
scuola di ballo… ma immancabilmente la porta che si apriva e poi si richiudeva,
non era mai la sua. Una volta si era addirittura sorpreso a piantonare la porta
come un cane da guardia, pronto ad aprirla in caso di bisogno. Così, tendendo
l’orecchio alla porta, aveva sentito un suono di scarpe che salivano
lentamente… si fermavano, risalivano… si fermavano ancora. Fino a che non
smisero del tutto. Allora lui aprì di scatto la porta, chiamando “Nathan!!” …
ma ciò che ottenne fu soltanto una figuraccia. Ricordò come Dario, il figlio ventiduenne
dei Mainardi lo guardò sollevando un sopracciglio, per poi frettolosamente
estrarre le chiavi ed entrare in casa, senza nemmeno dire un “Ciao”. Aveva
richiuso la porta, scosso la testa e represso l’istinto di piangere. Poco dopo,
era andato su internet a cercare l’indirizzo di un bravo psicologo.
-E’ del tutto normale
cedere allo sconforto e comportarsi come lei ha fatto, Alberto… Ma sappia che a
tutto c’è un rimedio. Le anticiperò subito che non sarà un rimedio indolore, e
che ci vorrà del tempo prima che lei riacquisti il controllo della sua vita, ma
noi faremo del nostro meglio affinché tutto torni alla normalità. Non è così?-
-Nathan… Io… io non riesco
più a vivere, senza di lui.-
Disse di nuovo Alberto,
come un disco rotto. Contrasse le gambe insieme, attorcigliandole… mani si
chiusero a pugno, ed ebbe un brivido di freddo. La dottoressa non si scompose, non
fino a che un lieve cicalino non si mise a suonare.
-Purtroppo il nostro tempo
a disposizione è scaduto, Alberto. Le do appuntamento alla prossima settimana,
e le consiglio di rilassarsi.-
Detto ciò, la dottoressa
si alzò, e Alberto la imitò. Lo accompagnò alla porta, e lo salutò con un
fievole “Arrivederci”. Dopodiché la porta si chiuse alle sue spalle, e lui si
sentì di nuovo smarrito.
*****
La notte, che prima era
stata tanto dolce da desiderare che non finisse più, adesso era soltanto un
luogo di solitudine tra la fine di un giorno e l’inizio di un altro. Nel buio
della sua stanza, rotto soltanto dalla diafana luce di qualche lampione giù in
strada, Alberto poteva comunque distinguere forme conosciute: la sua scrivania
con quel disordine che faceva tanto ammattire Nathan, con sopra il suo computer
portatile fornito dall’Università con il quale preparava gli stipendi dei
dipendenti della sua area… la stessa scrivania che era stata teatro di un dolce
intermezzo, un anno prima, che aveva visto protagonisti lui e Nathan, seduto
sulla scrivania, che lo stuzzicava amorevolmente con i piedi. Dapprincipio
Alberto era rimasto un po’ infastidito, anche perché il lavoro di mettere
insieme gli stipendi di cinquanta dipendenti non era cosa da poco, ma poi si
era lasciato convincere a prendersi una pausa, e per l’ardore del momento, era
stata consumata proprio su quella scrivania.
Sospirò, continuando il
giro della camera con gli occhi… c’erano ancora i quadri di vecchie locandine
cinematografiche risalenti all’età d’oro del cinema. Nathan era sempre stato
appassionato di cineasti come Fellini, Rossellini, Monicelli. Registi e film
che ad Alberto non dicevano proprio nulla, ma stranamente quando era con Nathan
riusciva ad apprezzarli in un modo particolare. Un modo speciale per dire “ti
amo” anche senza necessariamente apprezzare ciò che piace all’altro.
“Cosa non darei per
rivedere uno di quei film con te, amore mio…”
Una locandina portava il
titolo AMARCORD, la cui colonna
sonora aveva suonato dagli speaker del suo portatile per molti giorni, e sulle
quali note Alberto aveva danzato insieme ad un Nathan vestito da principe
persiano, un costume che doveva ancora restituire alla sartoria teatrale,
ricordo di uno spettacolo che aveva fatto tempo prima. Forse era stata
addirittura quella colonna sonora a farli incontrare. Sì, ricordava come Nathan
si era avvicinato a lui in quell’internet café, mentre lui stava guardando per
errore un filmato sull’allora giovanissimo Youtube. Amarcord, appunto.
-Ti piacciono i film di
Fellini?-
Gli aveva chiesto quel
ragazzo biondo con gli occhi chiari. Lì per lì Alberto non era riuscito a
rispondere, ammutolito da tanta bellezza. Nella sua mente la frase “non lo so,
non conosco questo Fellini, sono entrato in questo filmato per sbaglio” era lì
pronta ad uscire, ma chissà perché, come spesso accadeva, al posto di una frase
ne usciva sempre un’altra dalla bocca di Alberto.
-Sì, abbastanza. Più che
altro mi piace la colonna sonora. È molto bella.-
-Oh, davvero? Che
coincidenza, ho appena acquistato la colonna sonora…-
E da lì era incominciata
una bellissima relazione, durata cinque anni. Per tutto quel tempo era stato bene,
finalmente bene, dopo tante delusioni. Cosa gli importava di andarsene in giro
qua e là per locali a fare il galletto con gli altri ragazzi? Gliene sarebbe
bastato uno, e finalmente era arrivato. Con Nathan aveva gettato le basi per
una vita, dedicata totalmente a lui. Lo stesso aveva fatto Nathan, e cosa gli
importava se non potevano sposarsi. Ognuno aveva l’altro, e questo bastava.
Solo che non si sarebbe
mai aspettato che tanta felicità sarebbe svanita da un momento all’altro, come
il giorno che subentra alla notte. Da un momento all’altro Nathan era sparito,
volatilizzato nel nulla. Il suo cellulare ancora lì nel cassetto da tanto
tempo, addirittura completo di portafogli con la tessera bancomat ed i suoi
documenti…Come se ci fosse ancora. Ma
lui non c’era.
Le quattro e venti del
mattino.
Non riuscendo più a
dormire, Alberto si era messo a sedere sul letto, aveva aperto il cassetto
dalla parte opposta al suo (dove dormiva Nathan) ed aveva preso tutti gli
effetti personali che ancora rimanevano lì. Una banconota da venti euro era nel
portafogli, a testimoniare che il buon Nathan aveva in mente di comprarsi quel
bel paio di pantaloni attillati che aveva visto in centro, oppure un cappello
nuovo, ma che non era mai riuscito a farlo per ovvi motivi… la sua patente di
guida, documento abbastanza inutile dal momento che l’aveva conseguita, non
aveva mai preso in mano un volante, se non si contavano le volte in cui era
stato costretto a spostare la Skoda Fabia
di Alberto perché i signori Mainardi non riuscivano ad uscire dal parcheggio.
La foto era piccola, ma si poteva riconoscere il diciottenne che Nathan era
stato. Un bel ragazzo, che addirittura in quella foto sorrideva come uno
scolaretto… Alberto ebbe un moto di tenerezza, in quel mare di ricordi, pensando
a com’era dolce quando si baciavano.
Poi c’era la sua carta
d’identità, che mostrava quanto fosse stato carino anche a quindici anni, un
vero e proprio angioletto da coccolare. “Ma come faccio ad innamorarmi di un
altro che non sei tu, amore mio…?” Pensò Nathan, mentre una lacrima gli rigava
il volto.
All’improvviso, Alberto si
riscosse da quello stato di torpore. Un rumore attirò la sua attenzione.
Proveniva dall’androne
delle scale.
Passi.
Passi che salivano le
scale, leggeri, lenti… quasi esitanti.
“Se anche stavolta è il
figlio dei Mainardi”, pensò Alberto, “è la volta buona che gliele suono.”
E si alzò frettolosamente,
andando a mettersi accanto alla porta. Purtroppo questa non aveva lo spioncino,
quindi non poteva valutare chi fosse il misterioso visitatore. Intanto, i passi
erano cessati. Era del tutto improbabile che il visitatore fosse entrato in un
appartamento: non aveva sentito alcun sbattere di porte. Per cui, se la
matematica non era un’opinione, doveva essere ancora lì.
Accanto alla porta c’era
un pesante orcio portaombrelli. Scelse quello con il manico metallico, un altro
reperto appartenente a Nathan. Se si trattava di un topo d’appartamento,
sicuramente non sarebbe ritornato a rompere le scatole. Aprì la porta, armato
con l’ombrello, ed uscì cautamente. Il pianerottolo era abbastanza freddo sotto
i suoi piedi, ma lui non ci badò. Si guardò intorno, ma sulle scale non c’era
proprio nessuno. Buttò un occhio alla porta dei Mainardi, poi a quella della
signora Galanti, l’anziana vedova che viveva nell’appartamento di fronte,
leggermente preoccupato per lei… Scese le scale fino al pianerottolo inferiore,
sporgendosi dalla ringhiera per capire chi aveva prodotto il suono di quei
passi. Ma apparentemente non c’era nessuno. Fece per rientrare in casa, quando
un lampo improvviso lo accecò, e si precipitò a scendere le scale fino al
pianterreno, dove i passi stavano correndo e il portone si era appena chiuso.
Questo si riaprì di nuovo
con uno scatto, ma Alberto non fece in tempo ad acchiappare il misterioso
visitatore. Era già uscito in strada, e non poteva certo uscire così, in
pigiama e a piedi nudi. Rientrò in casa sconfitto, posò l’ombrello e meditò se
fosse stato il caso di fare una denuncia o meno, il giorno dopo.
“Sì, e contro chi la
faresti, la denuncia? Contro uno che ti ha sparato un flash di una macchina
fotografica negli occhi? Lascia perdere, Alby… Hai già troppi pensieri per la
testa. Fatti un bel sonno e non pensarci più, che domani devi andare al lavoro…
e lì non sono certo così simpatici da spararti un flash negli occhi…” pensò, e
si rimise sotto le coperte, tentando di guadagnare quelle pochissime ore di
sonno che gli restavano.
In tempi di crisi come
quelli che correvano, avere perso un fidanzato in cause poco chiare era motivo
di sconforto, ma se oltre al suo ragazzo Alberto avesse perso anche il suo
lavoro, allora non ci sarebbe stato molto scampo. Dall’altra parte del parabrezza
della sua Fabia, la scalinata d’accesso all’edificio sembrava così accogliente,
con quei portici altissimi e anticamente rassicuranti… Sopra di essi, in
lettere di un qualche metallo (forse ottone?) era composta la dicitura del
luogo – UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI TORINO. Sugli scalini, molti ragazzi poco
più giovani di lui erano seduti a ridere, scherzare, confrontarsi sugli esami
ancora da dare. Qualcuno studiava dei libri fotocopiati, incurante di ciò che
stava succedendo intorno. Anche Alberto era incurante di loro, mentre saliva la
scalinata. Tempo prima era rimasto attratto dai così tanti giovani che
formavano l’università. Ce n’erano di tutti i tipi: Belli, brutti, alternativi,
intellettuali… E tra di loro, anche molti omosessuali. In particolare il suo
primo giorno di lavoro gli capitò di avere a che fare con uno che per la fretta
lo urtò nell’atrio (che stava percorrendo or ora), facendogli cadere tutte le
fotocopie.
-Mi scusi- aveva mormorato
il ragazzo, ma Alberto aveva scosso la testa ed aveva mormorato un “non è
niente, non ti preoccupare”, mentre raccoglieva le fotocopie. Il ragazzo lo
aiutò.
-Sei un nuovo
tecnico-amministrativo?-
-Sì.-
-Che bello! Benvenuto tra
noi, io mi chiamo Filippo, e tu?-
-Alb…Alberto.-
Il ragazzo gli sorrise.
-Sei sempre così
espansivo, tu?-
Intuendo la provocazione,
Alberto finì di raccogliere le sue fotocopie e tirò fuori un mezzo sorriso
smozzicato.
-In genere no, sono molto
più scostante. Ci vediamo presto.-
Aveva detto, e se n’era
andato lasciandosi alle spalle il bel ragazzo che l’aveva aiutato, senza
nemmeno ringraziarlo. Chissà che fine aveva fatto? Chissà se avrebbe mai capito
che essere stati lasciati per l’ennesima volta non avrebbe reso nessuno
amichevole, e Alberto in quel periodo era stato lasciato proprio male dal suo
ultimo fidanzato, poco prima di incontrare Nathan.
L’ultimo fidanzato di
Alberto (prima della relazione stabile con Nathan) era stato un diciottenne di poche speranze, più complessato di una donna con
la cellulite, solo che a differenza di questo modello, lui era un modello vero
e proprio. Sì, uno di quei ragazzi che si fanno fotografare per delle
pubblicità di intimo o cose così. Magro come un chiodo, capelli lisci e con la
frangia ed una voglia di vivere pari a zero. Disgraziatamente, Alberto aveva
una voglia di amarlo pari a centomila, così era sempre stato presente quando
lui aveva bisogno, sempre in prima linea per difenderlo contro i suoi genitori
anche rischiando di perdere il posto appena acquisito all’Università, sempre lì
a sostenerlo anche economicamente, fino a che un giorno questi si stancò e
interruppe la relazione nel più bieco dei modi. Con un SMS che per poco non
fece collassare Alberto e fargli provocare un incidente.
A molto era servito il
lavoro. Il suo lavoro presso l’ufficio del personale lo aveva cambiato
parecchio, in bene. Ora non si perdeva più a pensare a tutte le volte in cui
qualcuno l’aveva lasciato, oppure a quello che non riusciva ad ottenere…
Semplicemente si riteneva fortunato di essere ancora al lavoro protetto da un
contrattone a tempo indeterminato del Comparto Università, e di potersi
permettere (adesso con qualche sacrificio) un appartamento in periferia.
Incredibilmente, quelle otto ore che passava chiuso ad erogare pagamenti e
stipendi, riuscivano anche a fargli passare dalla testa il pensiero di Nathan.
Per almeno dieci minuti.
Poi ripiombava nell’abisso
dei ricordi.
-Hai preparato gli ultimi
mandati, Alberto?-
-Come?-
Il suo ufficio era in
comune con un altro collega, Donatello. Questi alzò lo sguardo da una lista che
stava consultando, dando modo ad Alberto di incontrare i suoi occhi verdi
smeraldo. Il ragazzo si grattò la testa, poi sospirò gonfiando le guance ed
emettendo uno sbuffo d’aria che fece volare un post-it.
-Sei parecchio distratto
in questi ultimi tempi, Alby. Perché non ti prendi un po’ di vacanza?-
-Sto bene.-
Donatello alzò le
sopracciglia come per dire “Certo, come no”, poi si alzò dalla poltrona e prese
il portafogli.
-Vado a prendermi un
caffè. Che dici, vieni con me oppure no?-
-Ma sì, dai. Ne ho proprio
bisogno.-
*****
-Ma non stai nemmeno
cercando?- Chiese Donatello, mentre con la mano sinistra reggeva il bicchiere e
con la destra girava il bastoncino di plastica per sciogliere lo zucchero.
-No, sto soltanto cercando
di ritrovare Nathan.-
Guardando nel vuoto,
Alberto sorseggiò il caffè lentamente, facendo una smorfia di disgusto.
-Che… che schifo, ma cos’è
questa porcheria?-
-Nuove disposizioni-
sospirò Donatello. -Abbiamo recentemente cambiato il fornitore di caffè per le
macchinette, adesso questo nuovo fa prezzi migliori ma roba più scadente…-
-Andiamo bene. Dove
andremo a finire, dico io?- E buttò il caffè nel cestino dei rifiuti.
-Sai cosa ti consiglierei?-
-Cosa…?-
-Di buttarti tutto alle
spalle. Io quando è successo con mia moglie ho fatto così, e adesso…-
-…Adesso sei scapolo e te
ne fai una ogni sera, non è così? E l’amore?-
Donatello era stato
abbandonato dalla moglie tre anni prima, a causa di una presunta storia di
tradimento. La fedifraga se la faceva con un rappresentante di aspirapolvere
amico di famiglia, praticamente l’uomo più insospettabile del mondo. Così,
oltre alla moglie, il buon Donatello dagli occhi verdi aveva perso addirittura
un buon amico. Ora se ne andava in giro per locali a divertirsi, ma cosa ne era
stato della sua vena amorosa…?
-Andato. Finito. Buttato
nel cesso.- E mimò il gesto di tirare lo sciacquone. -Se ho avuto una moglie e
questa mi ha mollato, non vedo perché un’altra non dovrebbe seguire le sue
orme.-
-Ma un po’ di speranza,
santo iddio? Non sei mica un condannato a morte in via definitiva, ci sarà pure
qualcuna per te, no?-
-Chi vive sperando…-
Ridacchiò Donatello. A quel punto Alberto sospirò e tornò in ufficio.
-Ciao, Alberto. Come stai?-
Una voce l’aveva fermato.
Questi era Daniele, un altro collega, addirittura più giovane di lui. Passando
dal suo ufficio poteva sentire il suo profumo dolce che rimandava
immediatamente a quella bella pettinatura che portava sempre. Era un tipo molto
pallido di carnagione, ma indiscutibilmente affascinante. Si occupava degli
acquisti. Alberto fece capolino dalla porta e gli sorrise sarcastico.
-Sto bene, ma non potrei
dire altrettanto se avessi bevuto tutto il caffè che hai comprato, Danny.-
-Stai attento Danny, oggi
il nostro buon Alby morde.- Disse Donatello passando di là, ridacchiando e
calando una leggera pacca sulle spalle di Alberto, mentre scompariva dietro la
porta del suo ufficio.
-Com’è che mordi?-
-Niente, è lui che ogni
tanto mi fa andare il sangue alla testa.-
-E’ sempre il solito
mattacchione. Vieni dentro? Ti faccio vedere una cosa.-
Entrato, Alberto si
accomodò dietro la scrivania di Daniele, che tirò fuori da un cassetto due
biglietti, sorridendo.
-Ecco.-
-Due biglietti? Per cosa?-
-Cinema. Volevo andarci
con la mia migliore amica, ma siccome lei è influenzata, ho pensato a te.-
Terminata la frase, come
se si fosse pentito, Daniele arrossì lievemente sulle guance, e Alberto capì
immediatamente dove voleva andare a parare. Lo guardò con un’aria piuttosto
formale, senza tradire la minima emozione. Per quanto ne sapeva, non gli andava
molto di uscire con quel suo collega, ma da tutt’altra parte nella sua testa,
sentiva qualcosa che gli diceva di andare, di non stare a sperare troppo che
Nathan tornasse, se era ancora vivo.
-Per quando sono i
biglietti?-
-Domani sera. Allora?-
domandò con entusiasmo Daniele, tenendo i biglietti in mano come il diavolo
terrebbe una cosa che il tentato vuole a tutti i costi.
-Diciamo che ti farò
sapere. Ok?-
Con un sospiro veramente
impercettibile, Daniele disse “Ok” e rimise i biglietti a posto.
-Grazie dell’invito,
comunque.-
-Di nulla. Se verrai, ti
ringrazierò anch’io- rispose Daniele, di nuovo sorridendo.
-Torno nel mio ufficio.
Donatello mi starà aspettando.-
-Va bene. Ciao Alby.-
E abbandonato Danny,
Alberto iniziò seriamente a pensare a cosa fare la sera dopo.
Circa un’oretta dopo la
fine del suo lavoro, Alberto era in viaggio verso un cantiere. La temperatura
esterna era scesa ancora un po’, stando al termometro implementato nella
strumentazione della sua auto. “Anche quest’anno la neve arriverà presto” pensò.
Giunto nei pressi di un
grande cancello, fermò il veicolo. Sulle grate del cancello erano appesi vari
cartelli; alcuni invitavano a rallentare, altri vietavano l’accesso ai non
addetti ai lavori, ed uno sollecitava i lavoratori ad indossare i D.P.I. (Dispositivi Protezione
Individuale). L’unico che spiegava cosa fosse quel cantiere era in cima ad una
struttura montata ad hoc per il cartello. “PROGETTO DI COSTRUZIONE TRAFORO
FERROVIARIO” diceva la scritta in alto. Tra i vari nomi presenti, ce n’era uno che
conosceva bene.
“Fabrizio FOSCHI –
Ingegnere capo cantiere”
Suonò il clacson, e come
per magia dall’alloggio modulare usato come ufficio, comparve la figura del suo
amico Fabrizio. Questi lì per lì fece una faccia sconcertata, ma poi la sua
espressione si tramutò in un sorriso nel riconoscere chi era.
-Sempre qui a rompermi le
scatole tu, eh?-
-Eh sì. E tu sempre qui a
lavorare fino a tardi, vero?-
Gli occhi castani di
Fabrizio si fecero scuri e si passò una mano fra i capelli che avrebbero avuto bisogno
di una bella visitina dal barbiere. Mise le mani in tasca e dichiarò che fra
poco avrebbe smesso. Poco lontano c’era la Grande Punto bianca con le
insegne della Regione Piemonte, segno che il buon Fabrizio non si era ancora
comprato una macchina tutta sua.
-Cosa vuoi che ti dica-
disse Fabrizio mentre versava un po’ di grappa nel bicchiere di Alberto -se
posso permettermi di usare la loro auto, è bene e giusto che la usi, no? Fa
parte dei benefit dell’Azienda.-
-Bah, io mi sentirei male
pensando che sto viaggiando a spese degli studenti.- rispose Alberto,
sorseggiando il suo mezzo bicchiere di grappa. Il sapore gli diede una scossa
alla gola, a il suo intero corpo cui reagì con un brivido.
-Quanta onestà. Almeno tu
uno stipendio ce l’hai. Io sono in arretrato di due mesi, e continuo a venire
qui e a fare gli straordinari.-
Alberto ridacchiò.
Ricordava il suo amico fare la voce grossa e poi non mantenere mai una promessa
in campo lavorativo. Per un progetto in lavorazione poteva restare anche ore
senza essere pagato, gli piaceva troppo fare l’ingegnere.
-E tu, come va?-
-Al solito.-
-Novità riguardo a…?-
-Nessuna- Sospirò Alberto,
guardando fisso il suo bicchiere. -Ho iniziato la terapia qualche giorno fa.-
-Stupendo! E con i ragazzi?-
-Ecco, era proprio di
questo che volevo parlarti.-
-Dimmi tutto. Sono
tutt’orecchi.-
Velocemente gli spiegò del
suo collega Daniele che l’aveva invitato al cinema per la sera dopo. Non c’era
stato bisogno di perdersi in particolari, dal momento che più di una volta
Fabrizio era andato a trovare Alberto all’Università, e la prima persona che
aveva visto era stata proprio quell’impiegato di nome Daniele.
-Bel tipino. Perché non ci
vai?-
-Non lo so… sai, io
continuo ad illudermi che…-
-Ti capisco, ma non puoi
fermare la tua vita così. Lo so, è dura… conoscevo Nathan, so quanto tieni a
lui, ma non è mettendo un freno alla tua vita che riuscirai a sbloccarti. E
poi, chi non ti assicura che quando Nathan tornerà (se tornerà) non sia
disposto a metterci una pietra sopra?-
Era un’ipotesi plausibile,
che Nathan passasse sopra ad un presunto tradimento di Alberto. Quando gli
dovette presentare Fabrizio, Nathan sapeva già che loro due erano ottimi amici.
Si conoscevano fin da bambini e passavano un sacco di tempo insieme. Sapeva
anche che Fabrizio era eterosessuale, ma non per questo gli voleva meno bene…
Tuttavia accadde che un giorno Fabrizio abbracciò Alberto per sbaglio, essendo
ubriaco, e gli fece una formale dichiarazione d’amore. Nell’imbarazzo totale di
Alberto, che cercava di scrollarsi di dosso l’amico, sopraggiunse Nathan, che
invece di fare una scenata, si fece una gran risata ed aiutò a far rinvenire
Fabrizio, che una volta raccontata quella storia, si sentì turbato e non poco.
Fabrizio era un tipo di
persona che piaceva ai gay come Alberto e Nathan. Sì, aveva quell’aria così
controversa, una specie di ragazzo terribile fuori e intelligentissimo dentro.
Alto, slanciato, con quel mento allungato e maschile, stuzzicava le fantasie di
molti amici di Alberto (se così si potevano chiamare). E ad ulteriore riprova
della dolcezza di Nathan, c’era dell’altro. Una sera, mentre erano tutti quanti
in discoteca, uno degli amici di Nathan ci aveva provato con Alberto.
Intendiamoci, Alberto non era un ragazzo modello. Era molto semplice, non
perfettamente in forma ma comunque non certo un adone. “Un gran figo come
Nathan insieme a quello lì? Io non ce lo vedo” aveva sentito dire una volta
Alberto. L’aveva anche riferito a Nathan, che lì per lì si era fatto una gran
risata, ma che dopo aver scoperto il tentativo del suo amico di provarci con
Alberto, si era trasformato in qualcosa d’altro.
Infatti il buon Nathan si
era avvicinato al suo amico e l’aveva tirato per il braccio, dicendogli “Sai,
non so a che tipo di uomini sei abituato tu; Anzi lo so benissimo… Però cerca
di tenere presente che il mio ragazzo non appartiene a quella specie, per cui
se vuoi gentilmente levarti di torno, te ne sarei infinitamente grato.”
Spiazzato, il suo amico non aveva potuto fare altro che cercare di starnazzare
come un’oca chiamandolo “Stronzo” e “Fottuto malfidente”, ma Nathan non se
n’era curato più di tanto. In fondo, il mondo gay era anche quello, e Alberto
non si era certo stupito che l’unico supporto fosse venuto soltanto da Fabrizio.
-Nathan è uno che capisce,
hai ragione. Forse allora potrebbe capire che io vado ad un appuntamento
soltanto perché…-
Fabrizio lo fermò con un
gesto della mano mentre sorseggiava la sua grappa.
-…non chiederti perché.
Fallo e basta, d’accordo?-
-Sei sempre così
aggressivo, quando dai un consiglio?-
-Sono aggressivo quando so
che una persona a cui voglio bene si è fatta più di trenta chilometri per
venire a chiedermi un consiglio, e che quindi vuole avere il massimo della
certezza. Non credi?- rispose Fabrizio, facendogli l’occhiolino. Alberto rise,
concordando pienamente con il suo amico.
-Beh… qui ho finito,
direi. Andiamo a farci una birretta o una pizza da qualche parte?-
-Come ai vecchi tempi, eh?-
-Già. Come ai vecchi
tempi.-
Si sorrisero, quindi
presero le giacche ed uscirono verso l’auto di Alberto, che a causa del freddo
si era già riempita di cristalli sul parabrezza.
Il cinema era uno della
catena “Medusa”. C’era andato molte volte in passato, specialmente con
Fabrizio, quando ancora lui era all’inizio del suo corso di studi
all’Università e Alberto stava giusto incominciando le superiori. Gli venne da
ripensare a quei giorni proprio mentre prendeva da bere per entrambi, lui e
Daniele. Alla fine aveva accettato, ed ora il ragazzo era lì seduto ad un
tavolino, a gambe accavallate che giocherellava con il suo cellulare. Le luci
azzurrine proiettate dall’alto rendevano i suoi capelli chiari di un colore
strano, quasi etereo, che comunque piaceva abbastanza ad Alberto. Mentre
consultava il display del cellulare, poi, sembrava un ragazzino di dodici anni.
Con quel suo nasino all’insù e le labbra sottili, le sopracciglia corrucciate
come uno storico che cerca di tradurre dei misteriosi simboli antichi…
Indubbiamente Daniele era un ragazzo molto interessante e carino, ma…
Un brivido percorse la
schiena di Alberto, facendolo sussultare. Non capiva il perché del
comportamento del suo corpo, che l’aveva accompagnato per tutto il tempo da
quando a metà mattinata aveva detto “Sì” all’appuntamento, scatenando la
felicità sommessa di Daniele. L’unica spiegazione plausibile era che forse si
sentiva a disagio. Nella sua mente, un pensiero ciclico era lì in proiezione:
Nathan che entrava dalle porte d’ingresso, con il suo cappotto scamosciato, le
mani in tasca e lo sguardo neutro ma inquisitore. Si avvicinava ad Alberto e lo
tirava gentilmente per il braccio, dichiarandogli la sua delusione per essere
uscito con Daniele – “Divertiti con il tuo collega, Alberto. Ma sappi che se te
lo porti a letto, io per te non esisterò più.” Terribile.
“Se non è apparso per
tutti questi due anni, perché dovrebbe apparire proprio ora?”
Questa era stata la voce
dell’Alberto razionale, che spesso si contrapponeva a quella dell’Alberto
romantico (una voce che parlava veramente troppo, e spesso a sproposito),
dandogli una diversa prospettiva sulle cose. E in quel preciso momento l’unica
prospettiva offerta agli occhi di Alberto era quella di Daniele, così
deliziosamente distratto e all’apparenza indifeso. Il suo cuore ebbe un moto di
ribellione dalla stretta di Nathan…
Alberto chiuse gli occhi e
si avviò verso il suo collega.
-Ecco le bibite.-
-Grazie, Alby.- rispose
Daniele sorridendo e prendendo in mano la sua Sprite. -E’ la prima volta che
vieni qui?-
Alberto scosse la testa,
aggiungendo -No, sono stato qui tante volte, specialmente con il mio amico
Fabrizio.-
-Ah sì, quello che fa
l’ingegnere alla Provincia…-
-Alla Regione, non alla
Provincia- lo corresse Alberto -C’è una bella differenza tra lavorare alla
Provincia ed alla Regione.-
La differenza tra regione
e provincia era che gli ingegneri di provincia non potevano fare grandi opere,
se non nella provincia di competenza. Lavorare presso la Regione era
indiscutibilmente un titolo molto più importante, e Fabrizio ci teneva sempre a
sottolinearlo, e questa sua tendenza era stata fatta propria anche da Alberto.
-Scusa. Eh già, hai
ragione. Penso che anch’io mi sentirei abbastanza sottovalutato, se mi venisse
detto che lavoro in una scuola elementare anziché all’Università.- e alzò il
suo bicchierone, bevendone un sorso dalla cannuccia, quasi nascondendosi dal
rossore che gli era venuto sulle guance.
-Non fa niente. Scusami
tu. Ehi, il nostro film sta per cominciare. Andiamo?-
Danny annuì, quindi si
alzarono e si diressero verso le maschere all’ingresso dei corridoi delle sale.
*****
Il film era stato abbastanza gradevole. Si
trattava di uno di quei film drammatici che soltanto la bella Repubblica
Italiana riesce a sfornare. Stranamente, il buio della sala cinematografica era
stato un potente rilassante per Alberto, che addirittura si era lasciato
prendere la mano e lasciarsela stringere da Daniele, per poi ritirarsi appena
riaccesero le luci.
-Dimmi una cosa, Alberto…-
-Cosa?-
Daniele camminava con le
mani affondate nelle tasche del cappotto, mentre si avviavano ciascuno alla
rispettiva automobile. Per cavalleria Alberto si era deciso ad accompagnare
Daniele verso la sua, che era abbastanza lontana rispetto al parcheggio del
cinema, dove lui era riuscito a trovare parcheggio per un pelo.
-Il tuo ragazzo ti manca
così tanto?-
Tombola. Una domanda che
proprio non si sarebbe aspettato. O meglio, se la sarebbe aspettata, ma sperava
che Daniele avrebbe aspettato un po’ a fargliela. Che dire? Che gli mancava e
che non avrebbe accettato la corte di nessun altro ragazzo anche se bello come
Daniele, oppure che gli mancava ma che era disponibile ad una storia in attesa
che il ragazzo tornasse? Imbarazzato, Alberto fece una risatina che somigliava
più ad un sospiro.
-E’ una domanda un po’…-
-Scorretta, lo so- si
affrettò a concludere per lui Daniele –il fatto è che tu… mi piaci molto, e vorrei
… come dire…- e qui si bloccò, non sapendo bene come mettere giù quello che
avrebbe voluto.
-Vorresti conoscermi
meglio?- lo aiutò Alberto.
Improvvisamente, Daniele
si fermò, guardò fisso il marciapiede sotto le sue scarpe e restò zitto per un
po’ di tempo. Non sembrava più il suo solare collega del lavoro, quello che
salutava sempre tutti e che addirittura allietava la pausa caffè con dei
pasticcini che portava lui stesso, per puro spirito di generosità… Ora Daniele
sembrava ringiovanito di almeno vent’anni, sembrava un bimbo che confessa il
suo amore all’insegnante, allo stesso tempo dolce e vulnerabile, in questo caso
vulnerabile nei confronti di Alberto.
-Da quando sei entrato a
lavorare con noi… Io ho passato il tempo a guardarti da lontano… desiderandoti…
sognando di te…- Finita la frase, il ragazzo si morse il labbro inferiore, e il
suo sguardo si posò su quello di Alberto, che in quel momento si sentì
raggelare.
-Oh… scusami. Non
intendevo … Insomma, non volevo ferirti. Adesso tu penserai che io abbia
approfittato della mancanza del tuo ragazzo, non è così?- I suoi occhi erano
lucidi, sembrava sul punto di piangere. A rassicurarlo ci pensò Alberto,
scuotendo la testa. Con gli occhi che urlavano frasi di supplica all’indirizzo
di Alberto, Daniele si voltò, e Alberto gli cinse dolcemente la vita con un
braccio, mentre con l’altra mano gli accarezzava la guancia mezza congelata.
-No, non mi hai ferito. È
solo che … Daniele… tu sei un bel ragazzo, ma in una sera mi hai fatto questa
dichiarazione… Non pensi che sia un po’ presto?- Chiese, continuando a
carezzargli la guancia con quelle dita che a Daniele sembrarono il tocco di un
angelo… chiuse gli occhi, e Daniele fece lo stesso. Per un istante, sembrò che
il tempo si fosse fermato, insieme con i pensieri di Daniele. Alberto era lì a
portata di … labbra. A Daniele sarebbe bastato avvicinarsi e vedere quale
reazione avrebbe avuto Alberto. E così fece. Lentamente avvicinò le sue labbra,
tanto che poteva sentire il calore del respiro di Alberto… Era prossimo a
baciarlo, spegnendo la sua sete di lui… Poi dopo un attimo, si sciolse
dall’abbraccio e si passò una mano sugli occhi, mentre si allontanava.
-Scusami, Alberto- Disse
–Io vado a casa. Ci vediamo domani. Ciao, grazie per la bella serata.-
-C…ciao, Daniele.- Rispose
Alberto, incapace di proferire altre parole. “Ma cosa stai facendo, brutto
imbecille???” era il suo cervello che stava urlando invettive contro di lui.
-E’ troppo presto.- Disse
a sé stesso, tornando indietro verso il parcheggio del cinema.
*****
Nell’abitacolo della sua
Clio, Daniele piangeva. Lacrime amare solcavano i suoi occhi, mentre si
malediceva per aver dichiarato il suo amore così presto. Forse adesso non ci
sarebbe stata più un’altra occasione di uscire di nuovo con lui, o forse sì.
Era l’incertezza a lacerargli l’anima… “Perché sono andato via così presto? Non
potevo chiedergli di regolarizzare la nostra posizione? Potevo benissimo
chiedergli di vederci ogni tanto, e frequentarci … Oh, al diavolo.” Pensò, e
mettendo la mano sulla chiave d’accensione, si dispose a mettere in moto e
tornarsene a casa, quando all’improvviso…
…Un dito inguantato che
bussava al suo finestrino lo fece trasalire.
-Mi scusi, potrebbe
aiutarmi? Mi sono perso, e vorrei avere un’informazione.-
Senza tradire lo spirito
del buon giovanotto quale era, Daniele abbassò completamente il finestrino e
posò gli occhi sulla cartina che lo sconosciuto gli stava mostrando.
-E’ un vero peccato-
mormorò il personaggio, con una voce quasi impercettibile. Daniele lì per lì
non ci fece caso, e non si preoccupò nemmeno quando per lui scese il buio e non
vide più nulla, vinto da una strana sonnolenza che gli era venuta
all’improvviso.
Alberto era preoccupato.
Il primo giorno che non aveva visto arrivare Daniele al lavoro, aveva pensato
immediatamente che fosse stato un atto di ripicca per il rifiuto di una
relazione con lui. Per tre quarti d’ora era rimasto attaccato al telefono che
squillava a vuoto, fino a che non si era deciso a chiamare a casa, dove aveva
risposto suo padre.
-Non è rientrato? Come
mai?-
-No, non è rientrato. E
non sappiamo dove sia, il suo telefono squilla a vuoto.-
-Capisco. La ringrazio
signor Melandri, eventualmente mi richiami, qui in ufficio abbiamo bisogno del
certificato medico di suo figlio se non si sente bene.-
-E noi abbiamo bisogno di
nostro figlio. Le confesso che siamo alquanto preoccupati- Concluse il padre,
dall’altra parte del telefono. Alberto annuì grave, tenendosi l’attaccatura del
naso con l’indice e il pollice. Ringraziò ancora, quindi riappese e aspettò.
Il secondo giorno arrivò
al lavoro e trovò tutti i suoi colleghi riuniti in crocchio in area relax. Da
lontano, intuì che stavano parlando di Daniele. Donatello, il suo collega di
ufficio stava comunicando che i genitori di Daniele avevano avviato una
procedura per persona scomparsa.
-Mi ha telefonato questa
mattina il padre. Ha detto che Daniele non è rientrato neanche ieri dopo la tua
telefonata. Così hanno chiamato i carabinieri e per ora è dichiarato
scomparso.-
Lo sguardo di Alberto si
era perso nel vuoto nell’apprendere quella notizia, ed il suo cuore aveva avuto
un salto. Con movimenti meccanici si avvicinò alla macchinetta del caffè ed
estrasse una monetina da venti centesimi, che però non riuscì ad introdurre
nella fessura, e gli cadde sul pavimento con un metallico tintinnio. Un dejà
vu... di un episodio che avrebbe voluto dimenticare.
Quella mattina di due anni
prima, non vedendo più arrivare Nathan a casa al solito orario, si era
preoccupato parecchio. La sua mente si era messa a passare in rassegna diversi
scenari per spiegare l’accaduto, non trovando tuttavia la soluzione adatta. E
mentre era al lavoro, già due anni prima, era lì che voleva prendere il caffè
alla macchinetta ma a causa della mancanza di coordinazione, la monetina da
venti centesimi di euro gli era sfuggita di mano andando a finire sul
pavimento, dove aveva tintinnato per due volte, fino a fermarsi. Mentre si
chinava per raccoglierla, con mano tremante, vide qualcosa macchiargli il
dorso.
Una, due, tre piccole
goccioline di sangue si posarono sulla sua mano. A quella vista, Alberto quasi
cadde a sedere per lo spavento, guardando in su per capire da dove provenisse
quel macabro stillicidio. Sul soffitto vide una macchia dello stesso colore,
quindi lasciò lì i venti centesimi e corse in bagno, sciacquandosi le mani e
piangendo dal dolore.
Ora era lì a casa, seduto
sul divano mentre alla televisione trasmettevano “Chi vuol essere Milionario”.
Guardava nel video, ma non riusciva a concentrarsi. Continuava a pensare a
Daniele che era scomparso, e poi a Nathan. “Perché?” pensava, e più si faceva
quella domanda, più la sua mente tirava fuori il meglio degli scenari più
improbabili. Ripensò ai carabinieri che erano venuti a chiedergli che fine
aveva fatto il “signor Melandri”, dato che “lei, signor Ferrari, è l’ultima
persona con cui il signor Melandri è stato in compagnia.”
Alle loro domande Alberto
non aveva saputo come rispondere se non con la verità. Aveva detto loro che
erano andati al cinema e poi che si erano separati verso le ventitré e
quaranta. Da lì in poi non l’aveva più visto, nemmeno sul posto di lavoro.
Preoccupato, Alberto aveva chiesto ai militari come stessero procedendo le
indagini, ma quelli gli risposero che ancora non potevano dire nulla.
Mai come allora Alberto
aspettava il telegiornale. Avrebbe voluto vedere sui titoli del TG5 la notizia che Daniele era
scomparso, per cui continuava a guardare la trasmissione senza interesse,
aspettando che finisse, quando all’improvviso suonò il campanello. Non era
quello esterno, bensì quello interno del pianerottolo.
Arrivato alla porta,
Alberto accostò l’orecchio al battente.
-Chi è?- disse,
controllando il più possibile la sua voce.
-Sono Mainardi, Alberto.
Devo parlarle, se mi apre gentilmente la porta…- disse una voce, che non
sembrava per niente quella del signor Mainardi. Sul momento, la mente di
Alberto non registrò questa difformità nella voce, e nemmeno il fatto che il
signor Mainardi (come d’altronde sua moglie e suo figlio) non si erano mai
nemmeno scomodati a salutarlo quando lo vedevano sul pianerottolo. Quando aprì
la porta, si ritrovò davanti non il signor Mainardi, ma un ragazzo giovane con
un paio di occhiali da sole ed una sciarpa a coprirgli il volto, ed un
cappellino di lana sulla testa. Interdetto, Alberto indietreggiò, e l’individuo
lo spinse via, entrando di forza nell’appartamento. Si chiuse la porta alle
spalle e tirò un calcio negli stinchi ad Alberto.
-Aaaah!!! Ma che caz…?!-
Dopo aver fatto lavorare i
piedi, lo sconosciuto alzò i pugni e ne assestò prima uno allo stomaco del
povero Alberto e poi alla sua faccia. Poi ancora un altro, che lo mandò a
sedere sul pavimento. Cercando di sfuggire al picchiatore, Alberto strisciò
verso il salotto, dove un tranquillo Gerry Scotti stava scandendo un’altra
domanda al concorrente. Mentre strisciava, si sentì mancare il fiato a causa di
un pestone assestatogli proprio sulla schiena. Le scarpe dello sconosciuto lo
colpirono al polmone, facendolo tossire. Lì si fermò. Lo sconosciuto gli montò
sopra ed iniziò a tempestarlo di schiaffoni.
-Dimmelo! Dimmelo,
bastardo!! Dov’è Daniele???- Sibilò l’aggressore. La sua voce era giovanile,
quasi quanto la sua rabbia –Dimmelo o ti ammazzo di botte!-
Alberto provò a parlare,
ma era totalmente senza fiato. Provò a spiccicare due parole, ma il ragazzo gli
aveva già bloccato il collo con la sinistra, pronto a sferrargli un pugno
direttamente in faccia con la destra. Sputò sangue, e l’individuo si preparò a
picchiare ancora.
-Ti conviene dirmelo, o
quando avrò finito con te, per godere dovrai fartelo succhiare da un piccione.
Allora??? Vuoi parlare???-
-Non…-
-Cosa??? Cosa,
bastardo???-
Con la voce rotta da
alcuni colpi di tosse, Alberto rispose qualcosa che l’aggressore non riuscì a
capire. Questi si avvicinò per cercare di capire, e quando abbassò la guardia,
con le ultime forze che gli rimanevano, Alberto sferrò una ginocchiata poderosa
nei genitali del ragazzo, mandandolo a rotolare via da lui. Mentre si
contorceva dal dolore, Alberto lo bloccò con una gamba, andandogli addosso.
-Lasciami, stronzo!!!-
-Fermo, o ti spacco la
testa.- replicò Alberto, brandendo un posacenere di marmo abbastanza pesante.
–Adesso ti calmi e mi spieghi tre cose. Primo, chi cazzo sei; secondo, che
cazzo vuoi da me; Terzo, con che diritto piombi a casa mia e mi demolisci di
botte senza alcun motivo??? Ti consiglio di non fare scherzi. Non sei l’unico
dei due a saper prendere di sorpresa le persone.-
Sentendo che il ragazzo si
calmava, Alberto allentò la presa. Questi si tolse cappellino e occhiali, ed
anche la sciarpa. Sotto a quell’anonimo camuffamento, c’era un ragazzo molto
carino, una completa antitesi di un personaggio malvagio. Gli unici elementi
che avrebbero potuto indurre in dubbio erano i suoi capelli rosso fuoco sparati
dappertutto ed i suoi piercing. Al collo portava una piccola croce d’argento e
le dita, che prima gli avevano fatto del male, erano piene di anelli.
-Allora, ti togli di
dosso… oppure no?- chiese quello, massaggiandosi le parti intime per il dolore.
*****
-Ti fa ancora male?-
-No, è quasi passato.-
Mentre
Alberto si massaggiava la faccia con la borsa del ghiaccio, Thomas (così aveva
detto di chiamarsi) preparava un altro cerotto da applicargli in faccia. Le sue
guance ora erano rosse di vergogna, probabilmente per essersi comportato in
maniera così aggressiva.
-Scusami
se sono piombato in casa tua e ti ho picchiato.-
Sospirando, Alberto
rispose –Ti è andata bene che non sono un anziano. Con la furia che hai avuto,
avresti potuto ucciderlo.-
-Di solito non faccio
così, ma … Sai, Daniele è un mio amico…-
-…Ed un mio collega. Come
ti è venuto in mente di venire qui e di…?-
-Ho interrogato un po’ di
gente in giro. Sapevo che Daniele era andato al cinema, così ho chiesto ad un
po’ di gente, poi sono andato alla tua università, ed ho unito gli elementi. Ed
eccomi qua.-
Per un momento lunghissimo
Alberto si chiese chi fosse stato il deficiente che aveva rilasciato il suo
indirizzo ad uno sconosciuto, poi lasciò correre.
-Sei una specie di
investigatore?-
Thomas scosse la testa
–No, sono uno… beh… diciamo… uno scrittore.-
-Non mi sembri molto
convinto- disse Alberto massaggiandosi la guancia con la fresca borsa del
ghiaccio –lo sei o non lo sei?-
-Non lo sono ancora, ma
sto cercando di scrivere un libro riguardante le persone scomparse.- Dicendo
ciò, arrossì. Alberto se ne accorse, e immediatamente ricollegò il fatto che
anche lui era una vittima di persona scomparsa. Il suo Nathan sicuramente
faceva testo.
-So anche che il tuo
fidanzato è scomparso. Mi dispiace. Daniele non me l’aveva mai detto, e quando
ho fatto alcune ricerche, l’ho scoperto da me. E quindi...-
-…Lasciami indovinare.
Ricollegando il fatto che il mio fidanzato fosse scomparso, e l’ultima persona
che Daniele aveva visto ero io, hai collegato le due cose e sei venuto qui a
picchiarmi, non è così?-
Imbarazzatissimo, Thomas
scosse la testa annuendo. Alberto sospirò sconcertato.
-Dovrei denunciarti per
questo.-
-No, ti prego! Non farlo!-
-E perché non dovrei?-
-Beh… perché sono un bel
ragazzo?- E condì la domanda con un sorriso smagliante, che indubbiamente lo
fece sembrare ancora più carino agli occhi di Alberto. Tuttavia, non si fece
intenerire e si alzò dalla sedia, indeciso se telefonare ai carabinieri oppure
ad un buon avvocato. Thomas lo tirò per un braccio.
-Dai… scusami. Facciamo
pace, vuoi? Se non mi denunci io ti… ti prometto che…-
-Cosa?-
-Ti prometto che ti
aiuterò a ritrovare il tuo ragazzo.- Disse Thomas, e sorrise di nuovo. Alberto
sospirò di nuovo sconcertato.
-Sei un povero scemo se
pensi questo- disse Alberto allontanandosi verso il salotto –La polizia sta
cercando da due anni, e non riescono a trovare traccia. E tu, uno scrittore, o
presunto tale, vorresti giocare a Sherlock Holmes con il mio ragazzo? Questo è
ancora peggio che ricevere un pazzo picchiatore in casa.- Concluse Alberto,
dando le spalle a Thomas e andandosi a sedere sul divano, frastornato.
Senza demordere, Thomas
gli andò vicino e si sedette sulla caviglia.
-Sono laureato in
giurisprudenza! Ho studiato metodo investigativo e criminologia all’Università
di Bologna, e forse potrei…-
-Prima di tutto togli i
piedi dal mio divano. Chi ti ha dato il permesso di sederti qui con me? E poi
…- Fece per aggiungere qualcosa per farlo andare via, ma poi ci pensò su.
Effettivamente la polizia era abbastanza lenta nel ricercare persone scomparse,
e due anni erano già diventati troppi… “E se questo mezzo pazzo con i capelli
rossi potesse fare al caso mio?” pensò Alberto, mentre Thomas lo guardava con
occhi speranzosi. Speranzosi di non ricevere una denuncia per violenza privata.
-Allora?-
-Uhm… So già che me ne
pentirò, ma… D’accordo. Aiutami pure a trovare il mio ragazzo.-
-Che bellezza!! Una vera e
propria indagine sul campo!! Yaaay!-
Esultò Thomas, alzando un
pugno in aria e rivelando i suoi denti bianchi con quel “yaay” di gioia.
Alberto continuò a massaggiarsi con l’impacco freddo, e mentre faceva ciò,
sentì le mani sottili ed affusolate di Thomas che gli applicavano un cerotto
sulla guancia. Alberto lo guardò di traverso, e Thomas incurante dello sguardo
in cagnesco, gli sorrise dolcemente.
L’auto di Thomas era una
vecchia e sgangherata Punto del ’96 che teneva l’anima coi denti. Per tutto il
giorno i due erano stati a cercare informazioni sulla scomparsa di Daniele.
Andarono prima a casa dei genitori di lui, dove c’era stato suo padre che aveva
risposto alle domande in tono veramente molto sconsolato, e sua madre che
restava in silenzio a cercare di farsi passare la voglia di piangere mentre
serviva loro una tazza di caffè. L’acconciatura e il generale aspetto di Thomas
furono un deterrente per l’interrogatorio, perché il padre continuava a
guardare quel ragazzino e a farsi tante domande.
-Ma lei non è un po’
troppo piccolo per fare il detective, giovanotto?- chiese il signor Melandri.
A quella domanda, Thomas
appoggiò la penna e fece un largo sorriso. –Quanti anni mi darebbe lei?- chiese
al signor Melandri. “Più che anni, io ti darei l’ergastolo” pensò divertito Alberto, sorseggiando il suo
caffè e cercando di trattenere una risatina.
-Beh, lei non ha …
diciassette anni?-
-Oh, cielo! Mi ha dato un
anno in più di quanti me ne danno di solito.- Ridacchiò Thomas. Il signor
Melandri invece non ci trovò niente da ridere.
-Ne ho ventitré.- concluse
infine Thomas. Il signor Melandri si scusò prontamente.
-Non ha nulla di cui
scusarsi, non è poi così male essere considerati giovani.- lo rassicurò Thomas,
riprendendo a scribacchiare i suoi appunti.
-Ditemi la verità- chiese
il Melandri allungando le mani verso Alberto e Thomas e facendo correre il suo
sguardo preoccupato prima sull’uno e poi sull’altro –c’è qualche possibilità
che mio figlio sia stato assassinato?-
Alberto guardò Thomas, e
questi gli restituì lo sguardo con un’alzata di sopracciglia, come a dirgli
“non lo so”. Poi si prese la responsabilità e rispose –Non possiamo ancora
saperlo, Signor Melandri. Stiamo ancora indagando. Lei non può fornirci qualche
particolare in più?-
-Che cosa dovrei dirvi di
più- ribatté l’uomo –lei è un amico di mio figlio, dovrebbe conoscere meglio di
me cosa faceva il mio Daniele- poi si rivolse verso Alberto –e lei è un suo
collega, oltretutto dell’ufficio personale. Se non sapete niente voi, mi
domando cosa potete volere da me…- Concluse, tenendosi la testa tra le mani.
*****
-Non sono un
investigatore, ma di certo so che non sta bene importunare i familiari di uno
scomparso.-
Incurante delle parole che
aveva detto Alberto, Thomas cambiò marcia e sterzò il volante imboccando una
via laterale.
-Mi hai sentito?- lo
sollecitò Alberto.
-Tu devi imparare a
rilassarti, tesoro.-
-Non chiamarmi tesoro! Non
sono il tuo boyfriend, capito?- rispose Alberto stizzito, mentre incrociava le
braccia sul petto e guardava fuori dal finestrino.
-Ho in mente un paio di
idee. Ma non sono sicuro che potrebbero piacerti, quindi non te le dico.- senza
farsi vedere, Thomas fece un sorrisetto di chi la sa lunga. Alberto non
rispose, perso nei suoi pensieri. Thomas gli scoccò un’occhiata.
-Ehi, non te la sarai mica
presa perché ti ho chiamato “tesoro”, no? Guarda che era del tutto amichevole…-
-E adesso perché ti
giustifichi?-
-Ma su dai, un po’ di
collaborazione, santo cielo! Dopotutto ti sto aiutando a cercare il tuo
ragazzo, e…-
-Non mi pare che siamo
andati a cercare lui.- ribatté Alberto, stringendo i denti per il nervoso e
stringendosi nelle spalle per il freddo. –non ce l’ha il riscaldamento, questo
catorcio?-
Thomas accese il
riscaldamento della sua auto e si fermò ad un semaforo. –Logico, no? Vorresti
cominciare ad indagare su un caso vecchio? Meglio cominciare ad indagare da uno
più recente, non credi?-
In quegli attimi ad
Alberto vennero in mente tante cose. Cose che aveva pensato quando il suo
Nathan non ci sarebbe stato più. Giocare a carte, oppure coltivare un qualche
hobby… o dedicarsi al volontariato. Ma erano tutte cose che pianificava di fare
da anziano, sempre posto che fosse morto Nathan prima di lui. Invece non si
sapeva nulla… Nathan era solo scomparso come una bolla di sapone, ed in quel
momento lui e quello strano tipo dai capelli rosso fuoco lo stavano cercando.
Due anni in solitudine ad aspettarlo cominciavano a pesare sulle spalle di
Alberto, il quale stava già dando segni di squilibrio e per questo si era
rivolto ad una psicologa. A proposito, fra qualche giorno avrebbe avuto il
terzo appuntamento… Ma gli sarebbe veramente servito uno strizzacervelli? Lui voleva
solo il suo Nathan… il suo adorato fidanzato.
-Un euro per i tuoi
pensieri.- disse ad un certo punto Thomas, interrompendo il flusso mentale di
Alberto.
-Pensavo.. a Nathan.-
Sollevando delicatamente
il piede dalla frizione, Thomas fece riprendere la marcia alla sua auto. Per un
lungo attimo restò in silenzio, e Alberto lo guardò. Non era poi così brutto,
anzi era veramente molto carino. Chissà come sarebbe potuto essere un ragazzo
del genere a letto? Dopo che l’aveva picchiato così selvaggiamente il giorno
prima, fantasticò sul fatto che Thomas fosse un ragazzo molto coccolone e
tenero, che per il suo ragazzo avrebbe dato tutto. Immaginò quanti ragazzi o
ragazze lo tallonavano all’Università, e di come sarebbe stato difficile avere
un fidanzato come lui. Più che altro per gelosia di un eventuale partner. A
volte i ragazzi troppo belli causano gelosia, e lui lo sapeva. Anche lui era
stato geloso di Nathan, non era forse vero? Certo, che lo era stato. Quando il
bel Nathan era dovuto andare a Bologna a fare i suoi saggi di danza, circondato
da tutti quei cicisbei di ballerini suoi colleghi (così magri e atletici come
Alberto non era mai stato - lui che era leggermente sovrappeso e che in
educazione fisica aveva sempre avuto un quattro fisso), ad Alberto era venuta
una crisi di gelosia. Si era messo a piangere fra le braccia di Nathan,
dichiarandogli la sua frustrazione per essere brutto e grasso, e la sua paura
di perderlo in favore di un ballerino più carino. Allorché Nathan gli aveva
accarezzato la testa con quelle mani così dolci e gli aveva sussurrato “E tu
credi davvero che io ti lascerei per una di quelle donne mancate?” ridendo. “Tu
sei molto più uomo di loro, e oltretutto… molto più bello ed intelligente.
Quelli non sanno leggere nemmeno la loro busta paga, tu invece sai tutto di
lavoro e cose così… Ma dove lo trovo io un altro come te, Alberto?” aveva poi
concluso, guardandolo con quegli occhi chiari che riuscivano sempre a
stregarlo. Poi l’aveva baciato, ed insieme avevano fatto l’amore… Ma se fosse
stato un altro ragazzo, meno comprensivo, cosa sarebbe successo?
-Devi amarlo proprio
molto, se non riesci a smettere di pensare a lui, non è così?- chiese Thomas.
-Già… Il fatto è … Il
fatto è che …- annaspò, non trovando le parole -…è che lui riusciva a capirmi.
Non sono mai stato bravo a tirarmi su da solo, benché ci abbia provato e
riprovato nel corso della mia vita. Lui oltre ad essere un fidanzato, era anche
un amico per me…- Concluse, con lo sguardo basso verso le sue scarpe. Thomas
aveva ascoltato tutto, e annuì con un sospiro. Alberto lo sentì.
-Thomas?-
-Sì?-
-Tu sei mai stato
fidanzato?- gli domandò Alberto.
-Ti pare che un bel pezzo
di figo come me possa mai essere stato solo?- Rispose ridendo Thomas. Alberto
sbuffò. Possibile che Thomas fosse sempre ironico su qualunque cosa?
-Rispondo io per te. La
risposta è sì.- riprese Thomas, e Alberto ci rimase di stucco. –Ho avuto alcune
storie di una sera. La più lunga è durata un anno e mezzo, ed è terminata
perché il mio ragazzo era molto geloso.-
-Ah… sì?-
-Sì. Io cercavo di essere
il più presente possibile, dividendomi tra lo studio, il lavoro part-time che
avevo come correttore di bozze presso una casa editrice di Bologna, e lui… Ma
per lui non era mai abbastanza.- Sospirò Thomas, lasciando avvertire ad Alberto
che doveva essere proprio innamorato di quel tizio. –Il guaio era che io ne ero
innamorato, di questo deficiente. E non volevo rassegnarmi a lasciarlo.- cambiò
nuovamente la marcia, scuotendo la testa. –Così ci pensò lui. Un giorno trovai
una sua lettera nella mia cassetta della posta, da parte sua. Diceva che era
stanco di essere soltanto un passatempo per me, che lavoravo e studiavo, e così
si era messo con un altro ragazzo raccattato chissà dove.- ridacchiò amaro
–Spero solo che adesso sia felice.-
-Tu lo sei?- domandò
Alberto.
Thomas si strinse nelle
spalle. –Non lo so. Non ho mai provato una dimensione di felicità tale da
sentirmi felice o infelice. Mi sento… normale, direi. Sono troppo intelligente
per stare giù.-
-E anche modesto, a quanto
pare.-
Thomas fermò l’auto.
Alberto riconobbe il parcheggio adiacente il cinema.
-Che battuta del cavolo.
Scendi, andiamo a fare qualche indagine sul campo.-
Detto ciò, Thomas scese
dall’abitacolo e chiuse lo sportello dolcemente ma con decisione. Tentando di
slacciarsi la cintura di sicurezza, Alberto guardò nei sedili posteriori
dell’auto. C’era Nathan che lo guardava con le braccia conserte. “Stiamo
preparando il terreno ad una bella scopata, non è così, Alberto?”
-…Nathan…-
“Non ti preoccupare, non
sono geloso. Spero solo che ti divertirai.”
Udì soltanto questa ultima
frase e poi chiuse gli occhi. Quando li riaprì, vide che l’abitacolo era vuoto,
ma in compenso, fuori, nel parcheggio, c’era Thomas che stava parlando con
qualcuno. Decise di scendere, se non altro per riscuotersi da uno strano
torpore che gli era venuto all’improvviso.
Non era colpa sua.
Fabrizio Foschi, trent’anni, ingegnere, ancora single dopo una storia durata
sei anni finita male, attirava molto le simpatie di ragazzi omosessuali. Non era
perché frequentasse ambienti del genere, ma bensì perché quel tipo di ragazzi
gli si avvicinavano naturalmente. L’ultimo che si era fatto avanti si chiamava
Nevio.
-Potevi anche dirmelo che
c’era un altro insieme a noi- aveva detto Alberto a Fabrizio, mentre erano in
disparte ad osservare il ragazzo che guardava una vetrina.
-Ho pensato che magari ti
avrebbe fatto piacere conoscerlo… Cos’è, non ti piace?-
Alberto sospirò. –Non è
che non mi piace, è che… Fabry, cerca di capire. Mi sono scomparsi un fidanzato ed
un collega di lavoro. Come pensi che mi senta in ques…- Ma fu interrotto da
Nevio, che si mise in mezzo a loro e si ravviò il ciuffo di capelli neri.
-Ho interrotto un discorso
importante?- Chiese, guardando con sufficienza Alberto. Al contrario rivolse un
mezzo sorriso a Fabrizio, che prontamente si affrettò a rispondere –No, nulla
di importante. Alby mi stava solo parlando del suo lavoro.-
-Fabrizio mi ha detto che
lavori all’Università. Chissà quanti bei ragazzi vedi ogni giorno, non è così?-
domandò Nevio, incrociando le braccia sul petto e guardando Alberto come un
selezionatore annoiato guarderebbe un candidato per un lavoro. Sinceramente
Alberto era un po’ infastidito dal tono che quel ragazzo aveva. In verità non
si sentiva nemmeno di rispondere ad una domanda così sciocca, ma per educazione
nei confronti di Fabrizio, cercò tra le sue forze e rispose –Qualcuno, sì. Però
in genere io resto nel mio ufficio, non vado in giro a guardare i ragazzi.-
Fabrizio fece una mezza risatina, mentre Nevio restò impassibile per cinque
secondi, guardando Alberto con lo stesso sguardo gelido, poi disse –Evviva, un
ragazzo che lavora invece di sbavare dietro ai sederi. Penso che io e te
andremo d’accordo, Alberto.- in tono altrettanto gelido, cosa che irritò non poco
Alberto.
-Ragazzi- si intromise
Fabrizio -Vi ho già anticipato che non saremo in tre a cena?- Alberto guardò
Fabrizio con uno sguardo interrogativo.
*****
Rosanna era una ragazza
molto allegra e solare. Fabrizio l’aveva conosciuta su Facebook. “Buon vecchio
Fabry”, aveva pensato Alberto, in chiaro augurio di fortuna. Dopo tutto quel
tempo che l’ingegnere era single, si sarebbe meritato un po’ di attenzione…
Eppure, quand’erano ancora bambini insieme, Fabrizio era sempre quello che
conquistava più ragazze. Con quell’aria da intellettuale un po’ dandy, quella
parlantina sciolta che piaceva tanto alle bambine, e quella capacità di
costruire strutture in legno abbastanza solide da consentire ai ragazzini più
piccoli di giocare… Non ci si sarebbe mai aspettati che all’età di trent’anni
sarebbe rimasto solo. Quando Alberto aveva sei anni, Fabrizio ne aveva già
undici, e lo aiutava con i compiti ogni pomeriggio. La madre di Alberto ne era
molto felice, un po’ meno lo era la madre di Fabrizio, che lo accusava di stare
troppo poco con i ragazzi della sua età in favore di ragazzini troppo piccoli,
ma lui le rispondeva prontamente di trovarsi meglio con i ragazzini piuttosto
che con i coetanei, e poi che cinque anni di differenza non erano nulla. Gli
unici problemi si avevano con i papà delle bambine, che accusavano il buon
Fabrizio di intortare le fanciulle. In realtà Fabrizio non intortava nessuno.
Le fanciulle cascavano ai suoi piedi dopo tre ore di gioco con lui, e non c’era
niente da fare. Con l’andare degli anni (e sotto la minaccia dei genitori delle
ragazze), Fabrizio si era un po’ allontanato dal mondo dei più piccoli per
starsene per conto suo. L’unico ragazzino che vedeva ancora era Alberto, il
quale si sentiva quasi un “eletto” per stare con un ragazzo che percepiva come
il fratello maggiore che non aveva mai avuto. Anche quando Fabrizio prese la
patente, il suo primo passeggero (tolti suo padre e sua madre) era stato
proprio Alberto. Albertino, timido tredicenne che guardava estasiato Fabrizio
guidare un’automobile, cominciando per la prima volta nella sua vita a pensare
che il tempo passava troppo in fretta. E troppo poco tempo passò da quel giorno
fino al sedicesimo compleanno di Alberto, giorno in cui l’unico regalo che
chiese a Fabrizio fu di ascoltarlo… e giorno in cui scoprì di avere non già un
amico, ma un fratello maggiore che accettava il fatto che al suo migliore amico
piacessero i ragazzi anziché le ragazze. “Sono contento che non mi farai mai
concorrenza” ricordava che Fabrizio gli aveva detto.
Da lì, fino al
fidanzamento con Viviana fino alla rottura (avvenuta circa pochi mesi prima che
Nathan scomparisse), Alberto era stato vicino a Fabrizio. E viceversa quando
Alberto aveva avuto bisogno di conforto a seguito della scomparsa dell’unico
ragazzo che avesse mai amato.
“Ti auguro tanta fortuna
con Rosanna, Fabry.” Pensò Alberto, sorseggiando un bicchiere d’acqua. Rosanna
era lì che parlava a Fabrizio, e questi annuiva sorridendo leggermente. Alberto
scoccò un’occhiata a Nevio. Il ragazzo sembrava un perfetto estraneo seduto
alla loro tavola rotonda per sbaglio. Accortosi che Alberto lo stava
osservando, pensò bene di sparare una cartuccia delle sue.
-E così tu sei quello che
ha perso il fidanzato, non è così? Cos’è, è scappato via?- Fabrizio e Rosanna
si girarono verso di Alberto, il primo che muoveva le labbra come a dire “Stai
calmo, non reagire.”
-Ehm…- si schiarì la voce
Alberto, cercando di dominare il nervoso che si era impadronito di lui -…Nathan
non… non è scappato. È soltanto… scomparso.- con le mani stava torturando il
tovagliolo.
-Ah, tipico. Succede
spesso che un ragazzo si stanchi, sapete? Specialmente nel mondo gay- Si
rivolse a Rosanna e Fabrizio –Sapeste come vi invidio, ragazzi… il mondo gay è
una noia tale… non si hanno mai certezze, e quando le si hanno…- E riportò il
suo sguardo verso Alberto -…Puf. Tutto svanisce in una nuvola di fumo. Vi pare
giusto?- concluse, con quell’aria sussiegosa da vecchio presuntuoso. Sì, ecco
cosa sembrava. Un vecchio presuntuoso scaraventato nel 2010 dal 1800, con una
boria tale che sembrava dire a tutto il mondo “Ah, che tedio. Adesso sono qui,
ma chissà dove potrei essere…” Patetico.
Fabrizio fece un
sorrisetto imbarazzato a Nevio, forse sentendosi direttamente responsabile
della sua presenza a quel tavolo. –Beh Nevio, non puoi dire che tutte le storie
gay finiscono in malo modo. Anche molte storie etero non funzionano bene come
ce ne sono altre che funzionano benissimo. Ma non è un fatto di orientamento
sessuale…-
-Tesoro, diventa gay per
una notte e poi mi dirai- Disse quella frase portandosi la mano destra sul
cuore, come a rivelare una verità divina, e rise per la prima volta in tutta la
serata. Anche la sua risata era sciocca e frivola, ma sembrò avere un notevole
effetto su Rosanna, che gli disse –Ahahah! Certo che sei proprio divertente,
tu. Ma dove le prendi certe battute?- Fabrizio e Alberto erano totalmente
frastornati.
Poco dopo arrivarono le
pizze (l’unica bianca era di Nevio e quella più condita era di Fabrizio). Poco
dopo che avevano incominciato a mangiare, in un momento alquanto particolare ad
Alberto sembrò che Nevio si fosse tolto una scarpa e gli stesse facendo piedino
sotto il tavolo. Ebbe conferma quando guardò Nevio e questi gli fece un
impercettibile occhiolino. Dopo pochi secondi, Alberto mise giù le posate e si
alzò. –Dove vai?- Domandò Fabrizio. –In bagno- Rispose Alberto, secco. E si
allontanò.
*****
“Che serata di merda… Ma
come cazzo è venuto in mente a Fabrizio di presentarmi una persona così???”
pensò Alberto, seduto sul copri water del bagno, la testa tra le mani. Più di
ogni altra cosa avrebbe desiderato che quella serata si fosse conclusa lì, o
quantomeno che ci fosse stato un miracolo a tirarlo fuori da lì. E poi perché
Nevio gli aveva dimostrato interesse? Cercando conforto, ripensò a … Nathan…?
No, questa volta pensò a
Thomas.
Sapeva che il ragazzo
aveva interrogato uno dei custodi di quel grande parcheggio adiacente al
cinema, e ne aveva ricavato che una figura con giacca e cappuccio nera si era
avvicinata alla Clio bianca che poi era stata portata via dalla polizia
scientifica… L’uomo aveva anche aggiunto che l’orario era tra le ventitré e
quaranta e la mezzanotte, dettaglio che corrispondeva, ma non avrebbe saputo
dirgli se quella figura era un uomo o una donna in quanto non l’aveva visto per
più di un minuto. Infatti, pochi minuti dopo era scomparso chissà dove, e
nessuna macchina era uscita dal parcheggio fino al cambio di turno. Questo
rendeva le cose un po’ più complicate, in quanto il secondo custode la mattina
dopo sarebbe stato in riposo, per cui Thomas e Alberto avrebbero dovuto
aspettare un giorno per poter parlare con lui e cercare di capire qualcosa di
più.
Ma era proprio sicuro di
stare pensando all’aspetto investigativo della faccenda? Oppure c’era
qualcos’altro? Qualcosa di più intrinseco, invisibile, magari nascosto
nell’espressione di Thomas, di quei suoi occhi chiari e quei capelli rosso
fuoco, che spostavano i pensieri di Alberto in tutt’altra direzione? Alberto si
massaggiò le tempie con le dita, chiudendo gli occhi. Tutto quel troppo pensare
stava iniziando a logorarlo… Si alzò, tirò lo sciacquone ed uscì nella
toilette.
Qui, ad aspettarlo, c’era
Nevio. Il ragazzo era appoggiato al pianale di marmo dei lavandini, e lo stava
guardando attentamente. Alberto gli lanciò un’occhiata, quindi andò a lavarsi
le mani, evitando di guardare nello specchio.
-Sei il primo ragazzo che
non esce fuori dai gangheri quando parlo, lo sai?- Disse poi Nevio, sorridendo.
Le sue labbra sottili ed il suo volto pallido nello specchio diedero ad Alberto
l’impressione che il ragazzo fosse una specie di vampiro.
Strofinando leggermente le
mani, Alberto disse –Ah sì? E Fabrizio non fa testo, quindi?-
Nevio ridacchiò e si
strinse nelle spalle –Lui è etero. Di solito tutti i gay con cui parlo si
incazzano e se ne vanno.-
-Anch’io me ne sono
andato, se non te ne sei accorto.- e continuò a strofinarsi le mani sotto il
flusso dell’acqua.
-Va bene, giochiamo pure a
carte scoperte. Mi piaci, Alberto. Vorrei venire a letto con te.- Disse infine
Nevio. Alberto alzò gli occhi verso la sua immagine riflessa nello specchio,
poi guardò quella di Nevio, che teneva le braccia conserte e guardava la sua.
Con molta calma, e
prendendo delle salviette per asciugarsi le mani, Alberto rispose –Ascoltami
bene e con attenzione, perché non ripeterò quello che sto per dirti una seconda
volta. Io non sono stato, non sono e non sarò il giocattolo di nessuno-
accuratamente si asciugò le mani e buttò via le salviette, successivamente alzò
l’indice e lo puntò in alto davanti al naso di Nevio –per cui se vuoi provare
qualcosa di forte, rivolgiti a qualcun altro. Chiaro?- concluse Alberto. Nevio
restò impassibile, anzi le sue labbra si erano piegate in un mezzo sorriso.
-Adesso sì che mi piaci
ancora di più. Non vedo l’ora di gustarti sotto le coperte.- E si leccò le
labbra. Alberto restò zitto per un attimo, poi molto repentinamente prese la
porta e lo lasciò solo nel bagno. Questi si guardò nello specchio, con l’aria
di un giocatore che sa quali carte usare.
*****
A fine serata, Fabrizio e
Rosanna se n’erano andati a casa con l’auto di lui (o meglio, della Regione
Piemonte), mentre Nevio era rimasto con Alberto. Per tutto il viaggio erano
rimasti zitti, Alberto in preda ad una strana tensione, un’inquietudine che
quel ragazzo gli dava… Il suo aspetto così strano e atipico, non riconducibile
ad una moda dark ma nemmeno allo stile Emo, lo facevano maledettamente
somigliare ad un vampiro. Avrebbe voluto comunicare a Fabrizio i suoi timori,
ma purtroppo se n’era rimasto zitto per paura di fare brutta figura con
l’amico. Guidava in silenzio, e l’unico suono che si poteva sentire era il
ronfare del motore diesel della Fabia di Alberto e ogni tanto il ticchettio
delle frecce quando Alberto le inseriva. Per il resto, era tutto immerso in un
raccoglimento piuttosto raro.
-Non sei uno che parla
molto, non è vero?- Chiese ad un certo punto Nevio.
Alberto non rispose.
-Chi tace acconsente-
disse infine Nevio. –Fermati, siamo quasi arrivati, io abito qui vicino. E indicò
un palazzone. Alberto si fermò e inserì le quattro frecce.
-Beh… eccoci arrivati.-
-Grazie. Non vuoi salire
con me?-
-Nevio…-
-Magari per un caffè.
Oppure un tè. O un me.- Ridacchiò. Alberto trovò la battuta particolarmente
penosa.
-E’ tardi. Domani devo
fare delle commissioni abbastanza importanti.-
-Importanti come te,
Alberto. Mi piaci tanto, perché mi sembri un ragazzo importante. Perché non ti
vuoi concedere a me…?- E così dicendo, passò una mano sulla coscia di Alberto,
molto vicino al suo inguine. Questi cercò di dominarsi, prese la mano del
ragazzo nella sua e pensò a Nathan, quasi implorandolo di tornare in quel
momento… oppure a Thomas che piombasse all’improvviso e riempisse di botte
quella specie di farfallone. Intanto Nevio, deciso a non perdere neanche un
secondo prezioso, si avvinghiò ad Alberto, cingendogli il collo con le braccia…
Alberto cercò di divincolarsi, ma non essendosi tolto la cintura di sicurezza,
gli riuscì piuttosto difficile. Sentì le labbra di Nevio lambirgli il collo e
poi baciarglielo… e poi morderglielo (“Allora è veramente un vampiro?!?” pensò
Alberto sempre più agitato)… Poi passò a baciargli le guance e le labbra,
leccandogliele… Alberto cercò di guadagnare l’apertura delle portiere, ma non
ci riuscì in quanto il ragazzo gli bloccò la mano.
-Lo facciamo in macchina,
che ne dici?- Ed un sorriso furbetto gli si dipinse sulle labbra. I suoi occhi
chiari fecero trasalire Alberto. Possibile che all’inizio della serata si fosse
rivelato una persona più che boriosa e adesso si comportava in maniera
diametralmente opposta? Tremò al pensiero che Fabrizio avesse pensato di
presentarglielo in previsione di un futuro accoppiamento. Ma chi poteva volere
un personaggio come Nevio? Giusto un mezzo maniaco sessuale come lui.
-Nevio… io …è… è tardi,
non posso…-
Ma Nevio non gli diede
retta. Anzi, con la mano destra stava già armeggiando per reclinare il sedile,
mentre le sue labbra massaggiavano quelle di Alberto senza sosta. Ora era a
cavalcioni del ragazzo, minimamente curante del fatto che fossero su una strada
(seppur poco) trafficata e che erano passibili di atti osceni in luogo
pubblico.
Poi, improvvisamente, il
cellulare di Alberto squillò. Nevio si calmò un attimo, forse meditando se
avrebbe dovuto acchiappare il cellulare e buttarlo fuori dal finestrino.
Alberto fu più lesto di lui e rispose, mentre Nevio ridacchiava nel vedere che
il cellulare di Alberto era un vecchissimo Ericsson T10 blu, un modello
d’antiquariato.
-Pronto.-
-Alberto, sono Thomas.-
Disse la voce all’altro capo.
“Che figura di merda!!!” pensò
Alberto, mentre con calma rispondeva -Thomas. Che c’è?-
-Stavi dormendo?-
-No, stavamo per scopare allegramente-
disse Nevio ridendo. Con rabbia, Alberto lo spinse via, e questi scese
dall’auto andandosene a casa. Fuori dal portone, seduta su un muretto vicino ad
una siepe, c’era una figura nera.
-…ah.- fu la sola risposta
di Thomas.
-Ehm… No… Thomas, non è
come pensi. Ti posso spiegare…-
-…A me non devi spiegare
proprio nulla- ribatté Thomas dal cellulare. –comunque avevo chiamato per
sentire come stavi. Ma vedo che stai bene, quindi ti lascio al tuo
divertimento.-
-No, non mi sto divertendo
affatto!-
Ma stava parlando con soltanto
il suo cellulare. Thomas aveva riattaccato.
L’unico modo che Thomas
conosceva per sfogare la tensione e lo stress era di menare le mani. E i piedi.
In quel momento stava massacrando di pugni e calci il sacco nero da boxe appeso
al muro. Prima lo tempestò di pugni, poi assestò un calcio nel mezzo (dove in
teoria ci sarebbe dovuta essere lo stomaco di un povero malcapitato), con una
tale potenza che il sacco dondolò vistosamente, appeso alla corda che terminava
nel supporto fissato al soffitto. Ma cos’era quella tensione improvvisa che gli
era venuta? Il fatto che avrebbero dovuto aspettare un giorno per interrogare
il custode del parcheggio? Oppure la tensione dovuta alla scomparsa di Daniele
(già trapelata ai vari organi di informazione, il che non era un bene)? No, il
motivo lo sapeva benissimo, anche se non voleva ammetterlo nemmeno con sé
stesso.
“Ti sei sentito male
quando un cretino ha detto che stava scopando con Alberto, non è così?”
Quel pensiero gli diede la
forza di sferrare un’altra scarica di pugni al sacco, che continuò a dondolare,
ovviamente indifferente al trattamento violento del suo padrone. Scacciò via
quel pensiero, cercando invece di concentrarsi sull’investigazione. Ai seminari
di criminologia gli avevano insegnato che nella maggior parte dei casi, i
rapitori che vogliono ottenere un riscatto si fanno sentire in brevissimo
tempo. Quindi Daniele non era stato rapito da qualcuno per un riscatto
(nonostante appartenesse ad una famiglia molto benestante), dal momento che il
padre non aveva ricevuto alcun contatto in tal senso. Pugno dopo pugno e dopo
calcio, Thomas ripensò che un delitto a lunga distanza di tempo può avere una
qualche correlazione con uno avvenuto di recente… Ergo, il rapitore (se di
rapitore si trattava) aveva colpito Nathan, poteva aver colpito anche con Daniele.
“Già, ma il movente…?
Quale sarebbe il movente?”
Proprio mentre il suo
tallone stava per colpire nuovamente, il campanello del suo appartamento
trillò. Thomas si fermò e arrestò il sacco con entrambe le mani, riprendendo
fiato e asciugandosi il sudore con il piccolo asciugamano che portava alle
spalle. Il campanello trillò di nuovo una seconda volta, poi una terza. Chi
c’era dietro la porta doveva avere una certa urgenza di vederlo. Inconsciamente
fece un sorrisetto nel pensare di sapere chi fosse.
Fidandosi del suo istinto,
aprì la porta e si trovò davanti la figura di Alberto, vestito abbastanza
formale. Come per magia, la sua tensione si affievolì, e sotto lo sguardo di
Alberto si sentì un po’ nudo, benché portasse soltanto un paio di pantaloni
lunghi neri con due bande blu ai lati delle gambe.
-Torni da un appuntamento
galante?- esordì Thomas.
-Più o meno. Il mio amico
Fabrizio voleva presentarmi un suo … amico.- Esitò mentre pronunciava la parola
“amico” nei confronti di Nevio. In realtà non sapeva nemmeno da quanto si
conoscessero.
-Capisco. Posso fare
qualcosa per te?- il suo tono era molto formale, cercava di mostrarsi il più
distaccato possibile.
Accortosi di essere
piombato in casa alle undici di sera, senza nessuna informazione da chiedere,
senza niente da dire, ma solo per giustificarsi del fatto che un idiota avesse
detto che “stava per mettersi a scopare”, Alberto arrossì violentemente. Nel
vedere questa reazione, Thomas ridacchiò allegramente, tirò Alberto per il
braccio e lo invitò ad entrare, chiudendo la porta.
*****
Per telefono gli aveva
detto che gli avrebbe spiegato e lo fece. Gli raccontò di come Nevio fosse
all’apparenza borioso ma in realtà era un gran maniaco sessuale. Gli spiegò
anche che era stato lui a dire quella frase per telefono, e nel sentire la
spiegazione, Thomas la buttò sul ridere, una risata che ad Alberto sembrò di
liberazione più che di divertimento.
-Non capisco una cosa,
però.-
-Cosa?-
-Perché sei venuto fin qui
a giustificarti. In fondo l’hai detto tu stesso che io “non sono il tuo
boyfriend”.- disse Thomas, con quel suo sorriso di chi la sa lunga.
Colto nel vivo, Alberto
arrossì. –E’ che non mi piace quando qualcuno mi chiude una conversazione in
faccia- buttò lì -…specialmente se quel qualcuno deve aiutarmi a ritrovare il
mio ragazzo.- Pensare a Nathan gli fece ritrovare un po’ di quella forza che
per qualche motivo sembrava affievolirsi quando era vicino a Thomas.
“Già, già…” pensò Thomas,
ma poi rispose –Capisco.- smentendo i suoi pensieri. –Tornando alle sparizioni-
continuò, cambiando argomento –hai presente quando ti ho detto che avevo delle
idee, stamani, in auto?-
Alberto annuì. Come se con
quel movimento avesse impartito un comando a Thomas, questi si avvicinò a lui,
gattonando sul divano e infine sedendosi sui calcagni per stare più comodo. A
quella distanza, Alberto notò che il ragazzo era leggermente sudato, e vide
anche un’ipotesi di muscolatura sul torace del ragazzo, sentendosi stranamente
a disagio per il suo corpo leggermente in sovrappeso.
-Okay, ascoltami bene.
Forse quello che sto per dirti non ti piacerà, ma se vogliamo avere qualche
speranza di ritrovare Daniele o Nathan…- si fermò, correggendosi –Daniele e
Nathan, volevo dire… non dobbiamo assolutamente farci prendere dallo
sconforto.- Fece una pausa, guardando Alberto negli occhi. –Che dici, ce la
puoi fare?- chiese infine ad Alberto.
Questi non disse nulla, ma
annuì quasi impercettibilmente. Non contento di quella supposta affermazione,
Thomas prese delicatamente ma con decisione le guance di Alberto nelle sue mani
avvolte dai bendaggi usati per la boxe thailandese, e lo costrinse a guardarlo
in quegli occhi verde chiaro che si ritrovava.
-Ce la puoi fare,
Alberto?- Ripeté.
-Sì. Ce la posso fare.-
Rispose Alberto dopo qualche secondo. Le mani di Thomas passarono velocemente
dalle sue guance alle sue spalle, e di questo Alberto si sentì piuttosto
inquieto. Accavallò le gambe, tentando di dominare una strana sensazione che
non provava da almeno due anni a quella parte, mettendosi a braccia conserte.
-Allora. Ho pensato che di
solito una sparizione a distanza di tempo, nella maggior parte dei casi, può
essere collegata ad una sparizione avvenuta da poco.- Fece un’altra pausa –con
questo voglio dire che con molta probabilità, se si tratta di un rapimento, il
rapitore potrebbe essere lo stesso.- deglutì, augurandosi che solo di rapimento
si trattasse.
-Non potrebbe trattarsi di
un rapimento a scopo di estorsione?- chiese Alberto.
Thomas scosse la testa
–Conosco Daniele e la sua famiglia da un po’ di tempo. Non sono poveri, ma
nemmeno ricchissimi. Non sarebbe meglio per un possibile riscatto rapire
qualcuno dal conto in banca più cospicuo? Infatti i familiari di Daniele non
hanno ricevuto alcuna richiesta di riscatto.-
-Magari i rapitori stanno aspettando…?-
Azzardò Alberto, nel vano tentativo di auto convincersi che la sparizione di
Daniele fosse un rapimento a scopo di estorsione.
-Non è prudente aspettare.
In genere nei rapimenti a scopo di estorsione i rapitori si fanno sentire
subito. E poi … c’è un’altra cosa…-
-Cosa?-
-Il fatto che ci fosse una
persona sola.-
-Chi?-
-Dai, l’unica persona che
è stata vista dal custode.- Si stava avvicinando sempre di più a quello che
voleva dire, ma stava cercando di farlo in maniera meno preoccupante possibile.
Dopotutto, anche lui era preoccupato per le sorti del suo amico Daniele. Si
conoscevano da quando Thomas era entrato alle scuole superiori, e per tutto
quel tempo erano rimasti amici. Poi Thomas si era trasferito a Bologna per
frequentare l’università, e durante quel periodo si erano sentiti con una certa
frequenza. Una volta tornato a Torino, desideroso di un po’ di quiete dopo
l’avventura bolognese, Thomas era riuscito ad incontrare Daniele poche volte,
imparando che nel frattempo aveva trovato un lavoro… e che era segretamente
innamorato di un ragazzo. Il ragazzo con cui stava parlando in quel momento,
Alberto.
-Stai forse cercando di
dirmi che…-
Thomas annuì.
-…sto cercando di dirti
che con molta probabilità il nostro Daniele è stato rapito da un individuo con
intenzioni malevole. Non per denaro.-chiarì, scandendo le parole lentamente. Per Alberto fu come una doccia
gelida, anzi, come una scarica di ghiaccio sparata direttamente sulla schiena.
Ebbe un brivido, e Thomas lo abbracciò, mormorando un “scusami”. Sapeva che
Alberto stava pensando a Nathan, e mai come allora desiderò che le sue teorie
apprese ai seminari di criminologia fossero sbagliate.
-Ma… Perché…?- ebbe la
forza di chiedere Alberto. Thomas scosse la testa, allontanandosi leggermente
da lui.
-Non lo so. Il movente va
cercato. Comunque…- esitò, non sapendo bene cosa dire –non prendere le mie
parole come oro colato. Io sto solo esponendo delle teorie. È vero che dobbiamo
essere pronti a tutto, ma cercherò di rispettarti per quanto mi sarà
possibile.- ad Alberto sembrò incredibile che tali parole fossero proferite
dallo stesso individuo che due giorni prima l’aveva picchiato selvaggiamente in
casa sua. Per la verità sembrò ancora più incredibile che si lasciasse toccare
da Thomas, che si fosse addirittura lasciato abbracciare, seppur per un
secondo. Come per una reazione ad una bruciatura, Alberto si allontanò. Thomas
non ci fece caso, ma restò zitto per un attimo prima di dire –Ce la possiamo
fare, Alby.-
-Lo spero, Thomas. Lo
spero tanto.- rispose Alberto, pensando “Dai, cosa stai aspettando, Nathan? Appari
davanti a noi con il tuo solito sguardo a metà tra il preoccupato e l’arrabbiato,
ti prego fallo adesso, perché ho bisogno di te…”
Da due anni a quella
parte, il sonno di Alberto era diventato piuttosto discontinuo. Spesso gli
capitava di dormire solo due ore per notte e passare le prime ore della
mattinata a guardare improbabili palinsesti alla televisione, solo per farsi
venire sonno, che puntualmente non arrivava, costringendolo ad ingerire
notevoli quantità di caffè alla macchinetta dell’area relax al suo lavoro.
Grazie alla scelta di oculatezza di Daniele di comprare del caffè economico ma
totalmente scadente, non si sarebbe più ripreso. Di solito si svegliava se
sentiva qualche rumore sul pianerottolo. E così fece anche quella notte.
Aprì gli occhi, svegliato
da un rumore di passi che salivano. Ormai memore di troppe volte passate a
saltare in piedi e correre verso la porta come un cagnolino ammaestrato, questa
volta si impose di lasciar perdere e si avvolse nelle coperte, richiudendo gli
occhi.
Li riaprì immediatamente
dopo, quando sentì un mazzo di chiavi tintinnare e la serratura della porta
scattare con quel ticchettio che conosceva fin troppo bene. Balzò a sedere,
ancora mezzo addormentato, e si stupì di sentire dei passi nel corridoio e poi
nel salotto. Si alzò dal letto, e corse in quella direzione. La persona che
trovò, gli causò un tuffo al cuore.
-N…Nathan.-
-Alby. Tesoro, che
succede?-
-Come…? Tu domandi a me…
cosa succede? Ma ti… ma dico, ti rendi conto che …- annaspò. Il suo cuore
batteva forte, il suo cervello sembrava essere regredito -…ti rendi conto che
sei stato via due anni?-
Intorno a loro, c’era un
silenzio pesantissimo. L’unica fonte di luce era una lampada poggiata sul
tavolino accanto al divano (tavolino scelto personalmente da Nathan in un noto
negozio di mobili di produzione svedese), e quella fonte di luce così soffusa
creava un gioco di ombre molto suggestivo sul viso di Nathan, che assunse
un’espressione sconcertata.
-Amore… ti… ti senti bene?
Sono stato via soltanto otto ore. Il tempo del mio lavoro. Torno sempre verso
quest’ora.- E gli si avvicinò, toccandogli la fronte per sentire se avesse la
febbre –Oh, hai la fronte che scotta. Cucciolo…- con le braccia cinse le spalle
di Alberto, baciandogli le guance e carezzandogli i capelli castani. C’era
qualcosa di strano, però. Le mani di Nathan non erano soffici come al solito. Erano
piuttosto… ruvide. Nathan continuava a stringerlo, il suo profumo gli penetrava
nelle narici tirandolo su, ma ben presto diventò troppo forte. Quasi… mefitico.
Non riusciva a vedere la faccia di Nathan, ma c’era qualcosa che lo inquietava.
Nel riflesso dello specchio del salotto, la pelle di Nathan aveva assunto un
altro colore. Era bianca cadaverica. Si allontanò un attimo dalla stretta del
ragazzo, ma poco dopo tutto tornò alla normalità.
-Adesso svegliati, Alby.
Svegliati.-
-Cos…? Per… perché?-
-Sta squillando il
telefono.-
-Quale telefono?-
*****
Il trillo del suo
cellulare lo fece svegliare di colpo. Nathan. Dov’era? Non c’era, ovviamente.
Era stato solo un sogno. Un fottutissimo, schifosissimo, merdosissimo sogno.
Guardò l’orario sulla radiosveglia che teneva sul comodino. Le Sei meno un
quarto. Chi cazzo era a quell’ora??? Mentre il cellulare arrivava al suo decimo
squillo, Alberto lo prese e premette il pulsante di risposta.
-Che c’è- biascicò, avendo
intuito di chi fosse il numero.
-…Ti ho svegliato?- chiese
Thomas dall’altro capo del telefono.
-No, stavo soltanto
facendo un bellissimo sogno.- ribatté Alberto, tirando un pugno al materasso e
stringendo i denti per la rabbia.
-Ehi, se sei nervoso ti
richiamo più tardi.-
-No, non sono nervoso.-
-Hm- mormorò Thomas –hai
un tono di voce piuttosto…-
-Lascia perdere- tagliò
corto Alberto –cosa volevi dirmi?-
-L’hanno ucciso.-
Alberto restò zitto per un
po’ di secondi, mettendosi a sedere. Chi, avevano ucciso?
-Potresti ripetere, per
favore?-
-Il tuo amico Nevio. È
stato assassinato. Ho la notizia proprio qui, sul sito dell’ANSA.- Alberto si
mise una mano nei capelli, ripensando a ciò che c’era stato tra di loro.
-Devi andare al lavoro,
oggi?- domandò ad un certo punto Thomas.
-Io… sì…-
Sentì Thomas sospirare
dall’altra parte. –Va bene, vorrà dire che andrò sul luogo a fare qualche
domanda e poi ti farò sapere…- un rumore di fogli di carta che frusciavano ed
una penna a scatto che veniva premuta -…Ti ricordi per caso dove abitava il
malcapitato?-
Alberto glielo disse, ma non
sapeva proprio l’indirizzo. Gli disse la zona, e Thomas gli rispose che non gli
sarebbe stato difficile scovare il palazzo. Sicuramente ci sarebbe stato un bel
po’ di trambusto, anche a quell’ora.
-Vado a dare un’occhiata.
Ciao, ci sentiamo.-
-Ciao… E… Thomas?-
-Cosa?-
Non trovava le parole…
guardò in basso, verso le braghe del suo pigiama. -Sii prudente.- disse.
-Ci proverò. Ciao,
tesoro.- poi Alberto non sentì più nulla, salvo che non gli piaceva essere
chiamato tesoro da lui.
*****
“Forse faccio ancora in
tempo” pensò Thomas, schiacciando più che poteva l’acceleratore della sua Punto
per arrivare in tempo sul luogo del delitto. Soltanto un anno prima, seduto in
prima fila nell’Aula Magna della facoltà di Giurisprudenza, guardava i lucidi e
le slides che mostravano articoli di giornale dove nelle fotografie era
presente l’assassino. Si era stupito nell’apprendere che spesso gli assassini
tornano nei luoghi del delitto per megalomania. Vedere la scena del delitto
oppure soltanto l’ambiente o fare qualche domanda sarebbe stato istruttivo. Il
fatto che anche quel ragazzo si era visto con Alberto, poteva essere un filo
comune. Un momento. Cos’è che aveva pensato? Alberto? Ma certo. Forse poteva
essere un punto in comune, ma bisognava trovare le interconnessioni, ammesso
che ci fossero e che le sue teorie non fossero campate per aria.
Pregava che lo fossero.
Pregava che questo tizio fosse stato fatto fuori per una semplice coincidenza, magari
per qualche migliaio di euro da rubare, anziché per una strana macchinazione
del destino che aveva deciso di includere l’incontro con Alberto nel penultimo
capitolo della sua vita.
Arrivato al quartiere che
gli aveva detto Alberto, Thomas accelerò cercando con gli occhi dove ci fosse
un po’ di movimento.
All’improvviso vide una
gazzella dei carabinieri che usciva da una via laterale, e ci si fiondò
immediatamente. Inchiodò immediatamente dopo nel vedere il cartello di senso
vietato che gli sbarrava la strada.
-Vaffanculo!- Imprecò,
spingendo a fondo la frizione e ingranando la retromarcia che si innestò al
secondo tentativo con una stridente grattata –Se continua così, finirò per
distruggerla completamente, questa macchina.- Si appoggiò al sedile passeggero e
guardò fuori del lunotto posteriore se non ci fosse qualcuno che passava,
quindi ripartì in sgommata imboccando la prima via a sinistra, che portava
all’isolato da dove la gazzella era uscita.
Lasciò la macchina in un
parcheggio poco lontano e si diresse verso il grande spiazzo antistante il
palazzo. Qui c’erano un’ambulanza ed una seconda gazzella dei carabinieri con i
lampeggianti spenti, oltre ovviamente ad un crocchio di persone sconvolte.
C’era una signora anziana che piangeva, evidentemente provata, e due
carabinieri che stavano prendendo le deposizioni della donna. Pensò che quando
i militari avessero finito di importunarla, avrebbe incominciato lui.
Si avvicinò al crocchio di
persone con l’aria di un passante che è lì per caso. Difficilmente avrebbero
potuto credere che fosse un giornalista o un detective. Sembrava piuttosto un
ragazzino dissennato che girava per la città alle sei del mattino dopo aver
passato una notte da favola con una sua fidanzatina e ora si trovava lì
incuriosito dalla insolita folla di gente intorno al palazzo.
A causa del freddo novembrino,
teneva le mani affondate nelle tasche. In una di esse teneva un registratore
portatile digitale. Lo accese e si tenne pronto a premere il tasto REC alla prima occasione buona.
-Cos’è successo?- domandò
ad un signore anziano lì vicino.
-Hanno fatto fuori
qualcuno.-
-Chi?-
-Un ragazzo. Sembra che
abitasse nel palazzo accanto a quello dove abito con mia moglie…-
-Il palazzo ha una
portineria?-
L’uomo annuì –Sì, la
signora lì in fondo è proprio la portinaia. Mi hanno detto che è stata lei a
rinvenire il cadavere, questa mattina prestissimo, mentre faceva il giro per
consegnare la posta agli appartamenti.-
Guardò la signora indicata
dall’uomo, ed era proprio quella con cui i carabinieri stavano parlando poco
prima. Era abbastanza anziana, forse prossima alla settantina, e gli venne un
conato di vomito a pensare a che razza di moralità potessero avere dei
condomini che costringevano una signora di quell’età a girare per i
pianerottoli a consegnare la posta. Thomas ringraziò l’uomo, quindi si diresse
lentamente nei pressi della signora, che era lì accanto alle scalinate
d’ingresso. Proprio in quel momento dalla porta a doppio battente uscirono i
paramedici che portavano una barella con sopra disteso un corpo in un sacco
nero coperto da un lenzuolo. A quella vista alcune signore si fecero il segno
della croce, ed una di queste congiunse le mani sulla bocca ed alzò gli occhi
al cielo, come ad invocare pietà a qualunque entità ci fosse lassù.
-Mi scusi- sussurrò Thomas
alla signora, che si girò di scatto, come spaventata –volevo farle alcune
domande, signora, mi permette?-
-Sì? Che cosa vuole
sapere, bello mio?- domandò la portinaia. Thomas notò che aveva un accento
marcatamente del sud Italia, probabilmente la signora era pugliese o meglio
ancora salentina.
Le sue supposizioni non
furono smentite quando entrò nell’appartamento della signora. Alle pareti erano
appese molte foto che mostravano la donna con suo marito e delle fotografie di
ragazzi giovani, in più molte porcellane che recavano la scritta “Terra d’Otranto”.
-Allora, io mi chiamo
Thomas, e sono una specie di …- cercò una scusa da buttarle lì -…giornalista.
Le farò alcune domande inerenti al caso, e non si preoccupi, il suo nome non
comparirà da nessuna parte.-
La donna si strinse nelle
spalle –Eh. Va bene, mi dica.-
Dalla tasca della giacca
Thomas tirò fuori il suo taccuino e la penna. –A che ora ha scoperto il
delitto?- domandò.
-Erano le…- alzò gli occhi
al cielo, nel tentativo di ricordare -…adesso sono le sei e mezza, quando ho
visto il ragazzo erano forse le cinque e mezza. Era appena arrivato il postino
che mi aveva lasciato il sacco con la posta da consegnare. Me lo fanno fare
quasi tutte le mattine- sospirò la donna –non lo vogliono capire che io fra
qualche mese faccio settantuno anni e ancora mi aspetta un anno per andare in
pensione…- Il suo accento era marcatamente salentino adesso, e Thomas non poté
fare a meno di ricordare un suo collega d’università che parlava proprio allo
stesso modo.
-Lei ha visto il corpo,
signora…?-
-Concetta, mi chiamo.
Signora Concetta Candido. Sì, io ho visto il corpo del ragazzo.-
-E com’era?- chiese
Thomas, continuando a prendere appunti.
-Oh signore, non me lo
faccia ricordare- disse, alzando una mano e mettendosi l’altra sugli occhi…
-praticamente era steso sul letto e aveva… Oh signore mio bello, che crudeltà…-
La sua voce era rotta dall’emozione dello sconforto -…Aveva la gola tagliata, e
c’era tanto sangue intorno, lui era proprio bianco come un lenzuolo…- dalla sua
gola uscì un verso simile a un singhiozzo, si portò il grembiule agli occhi e
versò qualche lacrima per il dolore di ricordare una scena così cruenta. Thomas
annuì, decidendo che sarebbe stato meglio leggere la notizia sul giornale o
cercare di ottenere i verbali in maniera ufficiosa…
-Capisco. Basta così,
grazie. Signora Concetta, ricorda di aver visto qualcosa o qualcuno di sospetto
nel palazzo? Una persona che non conosceva, o anche solo qualche rumore fuori
dell’ordinario?- domandò ancora Thomas, piegando le labbra come per incitare la
donna.
La signora Concetta sbatté
le palpebre, che erano diventate rosse per il pianto… -Mah… a parte il postino…
non ho visto nessuno di…- si fermò, come folgorata da una scossa elettrica.
–No, aspetti un attimo. Qualcuno che non conoscevo l’ho visto.- aggrottò le
sopracciglia, mentre Thomas si sporgeva più avanti per cercare di non perdersi
neanche una parola di ciò che la donna avrebbe detto.
-Può essere più precisa,
per cortesia?-
-Sì, sì. Ho visto una
persona. Era vestita… di nero. Portava un cappotto nero e un paio di jeans
neri. Io non ci vedo da lontano, per questo devo mettere gli occhiali, per cui
non ho l’ho visto bene in faccia…-
-Che cosa stava facendo
questa persona? Dove stava andando?- la incalzò Thomas, sentendo brividi di
freddo corrergli per la schiena.
-Io stavo fuori a parlare
con il postino. Lui era girato di spalle, quindi non può averlo visto. Però io
ho visto questo ragazzo uscire così presto. In quarantacinque anni che sto qui,
non ho mai visto nessuno uscire da questo palazzo così presto…- Fece una pausa,
sospirando. -Quando arriva il postino non c’è mai nessuno, per questo posso
scambiare quattro chiacchiere con lui senza problemi. Capisce, io sto molto
tempo qui da sola… mio marito adesso non c’è perché è andato giù a Nardò a fare
dei lavori per la casa che abbiamo comprato giù… ci dobbiamo trasferire lì fra
un anno, perché i figli adesso si sono sistemati e io e mio marito vogliamo
morire nella terra nostra… però ogni tanto lui mi lascia sola e io non parlo
con nessuno tranne che con il postino che viene tutte le mattine…-
Per un attimo Thomas si
sentì commosso dalla mezza solitudine della donna, e quasi fu felice che quello
sporco figlio di puttana di un assassino non fosse ancora lì nell’appartamento
quando era entrata lei. Un cadavere basta e avanza, e quella donna non avrebbe
meritato di morire. Sembrava molto buona e paziente, e si domandò che tipo di
mamma fosse stata. Chiuse il taccuino e lo ripose nel taschino insieme alla
penna, alzandosi dalla sedia.
-Deve già andare via, Thomas?-
-Mi dia pure del tu,
signora Concetta. La ringrazio per il tempo che mi ha concesso, e mi scusi se
l’ho disturbata.-
-No, ci mancherebbe, bello
mio. Non mi hai disturbata. Torna quando vuoi se hai bisogno di sapere altre
cose. Io sto qui.- Disse, alzandosi e accompagnando Thomas alla porta. Arrivato
alla soglia, Thomas si fermò e si rivolse all’anziana portinaia.
-Posso darle un consiglio,
signora Concetta?-
-Dimmi, bello mio- disse
la donna guardandolo con occhi impauriti.
-Eviti di aprire la porta
a qualunque sconosciuto le chiede di farle delle domande. Eventualmente se si
dichiarano giornalisti, chieda loro di esibire la loro tessera dell’Ordine. Se
non gliela fanno vedere, chiami i carabinieri e si chiuda in casa. Non abbia
paura, sia solo molto prudente d’ora in poi. Mi ha capito?-
La signora annuì. –Ci
starò attenta. Grazie, figlio mio. Fossero tutti gentili come te, i giovani
d’oggi… invece io ho a che fare con dei ragazzini che giocano a pallone e una
volta mi hanno anche chiamata “brutta strega terrona”…-
-I maleducati sono
dappertutto, signora. Per combatterli bisogna essere molto educati.
Buongiorno.-
Detto ciò, salutò la donna
con un gesto della mano e corse via verso la sua auto. “E’ un assassino. Porca
puttana, è un assassino…” pensò, mentre girava la chiave nel blocchetto
d’accensione. L’auto tossì per un bel po’ di tempo, costringendo Thomas a
ritentare più volte l’accensione. Al terzo tentativo, l’auto si mise in moto,
epartì in sgommata.
Da quando era stato
svegliato dal suo sonno, Alberto aveva continuato a pensare al sogno che aveva
fatto. Sembrava così dannatamente reale. Gli ci volle un po’ prima di capire
che era stato tutto un sogno e che le uniche cose reali erano adesso il suo
ufficio (dove ora era chiuso, da solo, perché Donatello era malato), Thomas che
gli aveva telefonato, Fabrizio e tutte le altre realtà, collegate tra di loro…
Ma Nathan non c’era.
Nel sogno gli era sembrato
di rivedere una figura quasi spettrale. Quelle mani così ruvide e pallide, che
non potevano certo appartenere ad un vivo. Un brivido gli percorse la schiena,
al pensiero che timidamente si stava affacciando… La possibilità che Nathan
potesse essere morto. Un pensiero che cercava di rifiutare con tutto sé stesso.
“Prima di essere un
picchiatore, Thomas è innanzitutto un ragazzo intelligente. Io ho fiducia in
lui, e sono sicuro che riuscirà a trovarti sano e salvo, amore mio… Devi solo
avere un altro po’ di pazienza, e vedrai che presto ci riabbracceremo. E saremo
solo tu ed io. E non ti lascerò andare via.”
Questo pensiero lo fece
andare avanti per un bel po’ di ore, almeno fino alla fine della giornata
lavorativa; Ripensando a Thomas, si chiese come stessero procedendo le indagini
e se avesse scoperto qualcosa di nuovo. Intanto, all’università, sentivano più
che mai la mancanza di Daniele… Tra una settimana sarebbe stato il suo
compleanno, e nonostante le indagini della polizia non si riuscivano a trovare
elementi certi sulla sua scomparsa… Una figura nera, aveva detto Thomas. Non si
sapeva se fosse uomo o donna, di certo c’era che si era avvicinata all’auto di
Daniele e l’aveva sorpreso in qualche modo, senza farsi vedere da nessuno.
“Speriamo che stia bene.
Che non sia stato fatto fuori.”
*****
Subito dopo il palazzo,
Thomas si diresse immediatamente verso la zona parcheggio dove era sparito
Daniele. Con l’auto entrò nel parcheggio e pagò il dovuto ad un inserviente,
chiedendogli nel frattempo se gli potesse dire dov’era il custode.
-Lo puoi trovare lì, nel
gabbiotto di controllo.- disse il parcheggiatore. Era un ragazzo abbastanza
giovane, alto, con i capelli ricci. Thomas ringraziò e si diresse lì.
-Permesso?- domandò,
bussando alla porticina di vetro del locale.
Entrò, subito assalito dal
puzzo di fumo di sigaretta che impregnava l’aria. Era stato fumatore anche lui,
ma in un passato molto remoto e comunque aveva smesso da un bel po’ di tempo,
tanto che ormai l’odore del fumo stantio gli faceva soltanto venire il
voltastomaco. Trattenne un conato di vomito, poi trasalì quando gli venne
toccata la spalla.
-E’ vietato l’ingresso,
signore- gli disse una voce profonda, leggermente roca. Thomas si girò. Dietro
di lui, un omone alto quasi il doppio di lui e pesante forse il quadruplo, lo
osservava con quei porcini occhi severi.
-Mi… mi scusi. Lei è il
custode notturno, giusto?- chiese.
-Sono il custode notturno
quando ho da fare il turno di notte- rispose questi, sedendosi su una sedia che
sembrava piccola rispetto alla sua mole. Il pancione straripava dalla cintura
per un bel po’, ed il suo collo taurino faceva venire il dubbio che potesse
respirare correttamente –Che cosa vuoi da me, ragazzino?-
Rendendosi conto che
sarebbe stato improduttivo mettersi a discutere con un individuo del genere,
Thomas si tenne il “ragazzino” e provò a continuare il suo lavoro –Sono qui
riguardo alla scomparsa di Daniele Melandri, e volevo sapere se…-
Il rozzo grassone lo
interruppe –Chi, quel finocchio?- rise. –Ho visto la sua foto sui giornali e al
telegiornale, e mi sembra più frocio lui di Cristiano Malgioglio e Tiziano
Ferro messi insieme- rise ancora, poi ritornò serio tutto d’un tratto. –Ebbene?
Io non me ne intendo di froci e compagnia cantante, quindi?- nel dire questo,
scrocchiò le nocche. Thomas fu irritato da questo sciovinismo tipicamente
italiano. Inconsapevolmente, il suo corpo assunse una posizione di difesa nei
confronti del ciccione.
-Ha visto se per caso ci
sono stati movimenti strani, quella notte?-
-Del tipo? Una macchina
che balla oppure un cespuglio che si muove? Se becco due froci che scopano nel
mio parcheggio, io li prendo a botte, e…-
A questo punto Thomas non
poté più trattenersi –Vorrei farle gentilmente notare che il razzismo e gli
atti di violenza privata sono un reato. Perciò, se vuole attenersi a ciò che è
successo quella sera…-
Ma il grassone non lo
ascoltò –Ci sono più froci adesso che negli anni 70. Che schifo. Che muoiano
tutti, anzi spero che quella mezza donnetta sia mor…-
Cercando di trattenere la
rabbia, Thomas tirò fuori il taccuino e iniziò a scribacchiare qualcosa. –Che
fai, prendi appunti?- e rise ancora. In quel momento avrebbe veramente voluto
che ci fosse Alberto a supportarlo, ma alla fine del suo lavoro mancavano
ancora un po’ di minuti. Aggrottò le sopracciglia, cercando di pensare ad un
modo per far smettere il ciccione senza demolirlo di pugni come avrebbe avuto
in mente di fare.
-Non ha notato nulla di
strano, quindi?- e poi aggiunse –Le chiederei un po’ più di collaborazione,
dato che sta parlando con un agente di polizia.- concluse, guardando fisso
negli occhi l’uomo. Aveva detto quella cosa a suo rischio e pericolo, pregando
tutti i santi che lo assistevano che il grassone non gli avesse chiesto il
tesserino di riconoscimento. Quelle quindici parole furono per il grassone come
una metaforica ginocchiata nei coglioni, tanto che smise di ridere e si fece
rosso in viso. Si tastò il grasso collo e si tolse il cappellino imbarazzato,
deglutendo un rospo grande quanto una casa. “Adesso non fai più tanto il
gradasso, non è così? Chissà quanti problemi devi avere tu con la polizia, e
fai un lavoro di responsabilità. A volte penso proprio che il mondo gira al
contrario.”
-Ora che ci penso.. ho
visto un… ragazzo.- tentennò, cercando di ricordare –era uscito da un cespuglio
e si era messo in macchina, allorché io gli ho fatto notare che qui era
proibito fare atti osceni in luogo pubblico, anche perché qui ci viene gente
rispettabile.- concluse. Thomas continuò a prendere appunti, pensando che se
quel grassone trovava le prostitute sul viale fuori del parcheggio e gli
spacciatori sull’altro lato elementi “rispettabili” del paesaggio, era proprio
chiaro: Il mondo andava alla rovescia.
-Potrebbe farmi vedere il
cespuglio da dove è uscito fuori il ragazzo?-
-Certo. Venga con me.-
disse, con un’affabilità che non gli si sarebbe potuta attribuire soltanto
pochi minuti prima.
L’andatura del grassone
era molto barcollante. Sembrava che camminasse senza sapere nemmeno dove
mettesse i piedi. Giunti in prossimità del cespuglio, l’uomo glielo indicò e
Thomas lo congedò, dicendo –La ringrazio per la sua collaborazione. Da qui in
poi farò da me, va bene?-
Annuendo, il grassone si
allontanò, tornando verso il gabbiotto. Com’era prevedibile, il cespuglio
puzzava di urina e feci. Chissà quanti alla faccia del grassone usavano
l’arbusto come toilette o come privè per chissà quali giochi (che Thomas
conosceva fin troppo bene… ma che preferì non rivangare alla sua memoria)… O
come nascondiglio per spiare le mosse di qualcuno.
Effettivamente, se non ci
fossero state molte auto, come la sera del delitto, quello poteva essere un
punto strategico. Si riusciva a vedere come in un grandangolo, tutta la zona,
compresi gli spostamenti della gente sul viale.
“Ricapitolando, il nostro
uomo avrebbe potuto controllare da qui tutta la situazione, poi balzare fuori
al momento opportuno e magari tramortire Daniele senza essere visto… E portare
Daniele da qualche altra parte.” Si girò. Dietro di lui, tanti pezzettini di
carta bianca.
“Cos’abbiamo qui?” tirò
fuori le pinzette e prese uno dei pezzettini di carta. Sembrava una ricevuta, o
qualcosa di simile.
Prese fuori un sacchettino
di quelli da frigo, e prendendo con molta cautela i pezzettini di carta, li
infilò nella bustina, stando bene attento a non sciuparli troppo. Erano circa
una dozzina, ma fu sicuro di averli raccolti tutti. Almeno sperava.
*****
-Questa notte… l’ho
sognato, dottoressa. È stato uno strano sogno…- Alberto era di nuovo sul
divanetto della psicologa ad esprimere i suoi pensieri. Se n’era quasi dimenticato,
ma per fortuna aveva letto un post-it sullo schermo del suo computer in
ufficio.
-Non vorrei sembrare
inopportuna, signor Ferrari… ma lei è proprio sicuro di volere ancora che
Nathan torni indietro?- domandò la dottoressa, sempre tenendo le gambe accavallate
e le mani in grembo sopra il blocco per gli appunti, dove puntualmente
trascriveva i punti salienti della mente di Alberto.
-Cosa intende dire? Certo
che lo voglio!- rispose con decisione –Nathan è al primo posto tra i miei
pensieri, e non farei mai nulla per arrendermi, non prima di sapere cosa gli è
successo!-
Sapendo di aver toccato un
punto sensibile, la dottoressa annuì. Però nella mente di Alberto quella
domanda aveva prodotto un cambiamento a livello inconscio. Aprì la bocca per
cercare di dire qualcos’altro, ma proprio mentre stava per aggiungere qualcosa,
squillò il cicalino che segnalava la fine della loro chiacchierata settimanale.
*****
“Se
voglio veramente ritrovare Nathan…? Che domanda del cazzo. Certo che lo voglio.
Lo voglio più di ogni altra cosa…” continuava a ripetersi, ma inconsciamente
c’era molto dubbio. “Andiamo, Alby… non vorrai mica arrenderti adesso? Proprio
adesso che Thomas sta anche indagando? Come pensi che la prenderebbe?
..Piuttosto cerca di non perdere la speranza, e vedrai che tutto andrà più che
bene.”
Salì le scale lentamente
verso il suo pianerottolo che stava al quinto piano (avrebbe potuto prendere
l’ascensore ma non lo fece. Arrivato al terzo piano, due piani più in su, sentì
qualcuno urlare.
-Dario, torna qui! Te lo
ordino!!!-
-Lasciatemi in pace!-
E sentì dei passi scendere
in fretta le scale. Alberto era giusto lì in mezzo e non fece in tempo a
scostarsi, tanto che Dario gli arrivò proprio addosso e per poco non cadde
insieme a lui. Per fortuna che Alberto si aggrappò al corrimano, evitando così
una brutta caduta ad entrambi. Dario, la cui rabbia era trasparsa dalle sue
parole urlanti poco fa, ora, tra le braccia di Alberto sembrava essere
diventato un agnellino. Arrossì di botto, e non mormorò niente di più di uno
“scusa” prima di riprendere la sua corsa folle per le scale, diretto chissà
dove. Rimasto solo, Alberto pensò che quel ragazzo era abbastanza strano.
Chissà cos’era successo con i suoi genitori, i suoi vicini di casa signori
Mainardi?
Probabilmente normali
incomprensioni di adolescenti con i genitori. E riprese la sua via per le
scale, diretto al suo appartamento.
Rumori di auto. Clacson
che suonavano. Smog che ti intossicava i polmoni… e droga. Troppo poca, per
sballarsi adeguatamente.
-Quanto?- una voce che
parlava da un finestrino aperto per un quarto.
-Cento euro.- la voce di
Thomas che rispondeva.
-Duecento, se accetti di
fare qualcosa di più. E anche un po’ di polvere d’angelo in omaggio.-
-Si può fare.- il freddo
della sera novembrina gli attanagliava le gambe, in un’età in cui non sarebbe
dovuto essere lì, scaraventato dall’infanzia dell’orfanotrofio fino alla
strada. Proprietario di un buon diploma, ma con troppi pochi soldi per tirare a
campare, Thomas si faceva schifo per il modo in cui se li guadagnava. Ogni sera
uno diverso, ogni sera più pervertito che mai. L’unico modo per sopportare
tutto era l’alcool prima e la cocaina dopo. Bevuta dopo bevuta, sniffata dopo
sniffata… scopata dopo scopata. Con vecchi arrapati che se si ricordavano di
togliere la fede dal dito era soltanto perché volevano spegnere la luce sul
comodino una seconda volta per quella serata, per lasciar posto al buio della
loro mente, che non potendo approfittare dei loro figli, approfittavano dei
figli di nessuno che stazionavano sul marciapiede. E lui era soltanto un figlio
di nessuno, soltanto un sedere ed una bocca da riempire di qualcosa di
vischioso e caldo, prima ancora che un ragazzo di diciotto anni che non sapeva
come fare per andare all’Università.
“Ahi… mi… mi stai …
facendo…” Thomas gemette di dolore. Le manette ai polsi erano troppo strette, e
si sentiva le braccia tirate da quello sconosciuto. “…Male!” pensò, sentendo
poi le mani che quasi si staccavano dai polsi. Non poteva esprimere dolore. Non
poteva proprio. Ne andava del suo guadagno. Strinse i denti, ricacciando in
gola anche il minimo gemito, mentre l’individuo, vecchio e grasso, era su di
lui. Il suo volto coperto da una specie di maschera. Per camuffamento… o per
perversione. Guardò meglio quella maschera, che per un istante cadde, rivelando
il volto dell’individuo. Questi si fermò, più spaventato che mai.
-…Oh… No…...No, questo
no.- disse, coprendosi la faccia con le mani. Ma Thomas aveva già riconosciuto
chi era... ma quella fu l’ultima cosa che vide.
*****
TUF…
TUF.
TUF…TUF…
Quel suono. Cos’era?
Sembrava molto il suono che fanno i tergicristalli di un’auto quando fuori
piove forte, così schematicamente ritmato e ripetitivo. E Alberto si trovava
proprio in un’auto, che sulle prime sembrò riconoscere. La Grande Punto della Regione che
spesso guidava Fabrizio.
Se
posso permettermi di usare la loro auto, è bene e giusto che la usi, no? Fa
parte dei benefit dell’Azienda.
-Fabrizio?- chiamò, sentendo la voce del suo
amico. Con la mano cercò la maniglia di apertura ed uscì. Qui, c’era una strana
festa. Una festa in maschera. Gli sembrava di trovarsi in un film a metà tra
“Eyes Wide Shut” di Kubrick ed “Intervista col vampiro” nella scena del teatro
dei vampiri, dove tutti gli individui erano mascherati. Dal nulla comparvero
due figure mascherate, che lo presero per le braccia e lo trascinarono nel
mezzo della folla.
-Dove
mi state portando?- domandò
Alberto, leggermente spaventato dal clima di mistero che si era creato. Lo
portarono fino ad una persona che indossava un lungo abito nero, e la sua
faccia era composta solo da una maschera bianca. Nelle orbite ovali degli occhi
non si riusciva a vedere molto, quindi non avrebbe potuto stabilire nemmeno il
colore degli occhi.
-Dai,
balla con lui. Non capisci che lui vuole?- era comparso all’improvviso Fabrizio. Anche lui portava
una maschera, e accanto a lui, mascherata e vestita come una dama
settecentesca, c’era Rosanna, riconoscibile solo dai folti capelli ricci e
rossicci. –E dai, che aspetti? A
mezzanotte ci toglieremo tutti la maschera, e chissà che non sia…- Ma non
continuò oltre, perché la figura vestita di nero si era già avvinghiata ad
Alberto ed aveva iniziato a ballare con lui. Alberto non protestò, ma ai
ripetuti tentativi di rivelargli la sua identità, la figura rispose solo con
inquietanti silenzi.
Poi, ad un certo punto,
vide qualcosa che non si sarebbe mai aspettato di vedere.
-oh
mio dio, THOMAS!!!-
Quasi urlò per la
sorpresa. Il ragazzo era in piedi al centro del salone da ballo, che nel
frattempo si stava deteriorando, grondando acqua dalle pareti e dal soffitto…
Thomas era lì al centro, completamente nudo, e piangeva.
Piangeva disperatamente,
come un bambino che ha appena perso qualcosa a cui teneva tantissimo. Alberto
si dissolse per un attimo dall’abbraccio del nero ballerino che era con lui, ma
questi aumentò la stretta sul suo polso, per non lasciarlo andare.
-Lasciami.
È un mio amico, voglio sapere perché…-
-Ahahah!
Ci stiamo divertendo come matti!- urlò
Fabrizio, e tutti gli invitati, la cui identità era nascosta dalle maschere,
urlarono all’unisono.
-L’eretico!!!-
urlò all’improvviso
qualcuno.
-L’infedele!!!-
urlò un’altra voce,
femminile.
-L’infiltrato!!!-
Poi le voci si riunirono
in una sola, che gridava -Uccidetelo!!!
Uccidetelo!!!-
-A
morte l’impostore!!!-
In un lampo, vide una
decina di individui mascherati che prendevano Thomas e lo tiravano su, per
portarlo chissà dove.
-Nooo!!!
Lasciatelo!!! Lasciatelo in pace!!!- urlò
Alberto, mentre la mano della persona mascherata sul suo polso si faceva sempre
più stretta. Con un atto di puro eroismo, si liberò da quella stretta e corse
verso i due che stavano cercando di tirare su Thomas. Li respinse e prese il
ragazzo fra le sue braccia, spingendo e abbattendo tutti quelli che stavano
cercando di fermarli. Attraversarono un corridoio lunghissimo, Alberto correndo
a perdifiato, e Thomas che nel frattempo aveva smesso di piangere, ma che
sembrava entrato in uno stato di catatonia. Il corridoio terminava in una
balconata, e siccome alle loro spalle c’era l’orda inferocita di gente, Alberto
dovette prendere una decisione.
Purtroppo non fu
abbastanza veloce, e l’orda arrivò e li travolse, facendo cadere entrambi nel
vuoto.
*****
Albert si svegliò di
soprassalto nel suo letto, non sapendo che a qualche chilometro di distanza,
Thomas aveva fatto la stessa cosa. Cercò con le mani il suo cellulare, il quale
era spento a causa della batteria scarica. Fece un grugnito di disappunto, e
trovato il caricabatterie, lo inserì nella presa e accese il telefono.
Uno squillo…
Due squilli…
-Pronto?- rispose infine
Thomas.
-Thomas? Sono io,
Alberto.-
-Ciao. Come va?-
-Non lo so…- scosse la
testa. A dire il vero era ancora molto stanco, e non sapeva perché si era
precipitato a chiamare Thomas dopo quello strano sogno. Avrebbe voluto
raccontarglielo nei particolari, per cercare di capire cosa significasse.
Dopotutto, la psicologa non gli aveva aperto gli occhi più che tanto, con
quella domanda che gli aveva fatto il giorno prima. -…E tu?- Non sapendo cosa
dire, gli rigirò la domanda.
-Lo stesso. Non lo so.-
percepì una nota di dispiacere misto ad inquietudine nella sua voce. -…Sono
andato al parcheggio. C’era un tizio che se l’avessi visto, ti saresti sentito
finalmente magro- rise, e a quel punto Alberto tirò un sospiro di sollievo nel
constatare che il ragazzo stesse ancora bene e che non aveva perso il suo
spirito.
-Davvero? Sei sicuro di
non essere andato al museo ittico ed aver interrogato una balena?- rise anche
Alberto, e Thomas con lui. Risero per un paio di minuti buoni, entrambi
stranamente confortati dal suono delle loro stesse risate, come due bambini che
non hanno nulla da ridere ma che ridono lo stesso perché l’allegria è il loro
toccasana, è una cosa che possono ancora fare, e finché ce n’è, la fanno.
Alberto non ricordava di aver mai riso così tanto, se non quando c’era Nathan…
Era un giorno di pioggia,
e prima che scoppiasse il diluvio, Alberto e Nathan erano andati a raccogliere
delle castagne in un castagneto proprio nei pressi dove ora sorgeva il cantiere
di Fabrizio. Con la pioggia battente, si erano formate delle pozzanghere.
Nathan, fresco e dolce com’era sempre stato, si mise a saltarvi dentro con le
scarpe da ginnastica. Alberto lo osservava e sorrideva, quando ad un certo
punto il ragazzo non mise un piede in fallo e scivolò atterrando col sedere
sulla pozzanghera. Accorrendo ad aiutarlo, Alberto mise un piede in fallo e
cadde con la faccia nella pozzanghera. Dopo due minuti di silenzio, Nathan
incominciò a ridere perché Alberto sembrava uno di quei personaggi allegorici,
una maschera teatrale, e Alberto rise a sua volta per il capitombolo che aveva
fatto Nathan. Così ora stava facendo con Thomas, ridendo senza un motivo
particolare…
Si fermarono entrambi a
riprendere fiato… Quindi Thomas chiese –Oggi devi andare al lavoro?-
Alberto ci pensò su.
Sarebbe dovuto andare, certo, ma in verità non voleva. Certo che se una parte
della sua mente voleva stare con Thomas, un’altra continuava a dirgli di
aspettare e lasciare lavorare l’investigatore alle sue piste, ammesso che ne
avesse anche soltanto una.
-Non… non ti sarò
d’intralcio?-
-Sì, ma chi se ne frega.-
e rise ancora, questa volta provocando un broncio sulla faccia di Alberto che
Thomas non poté vedere. In verità avere Alberto accanto gli avrebbe soltanto
fatto piacere, ma aveva piazzato lì quella battuta perché non voleva dare
l’impressione che ci stesse provando con lui. Ma ci stava provando…? O no? Si
morse il labbro inferiore e la sua mano destra andò dietro la nuca, mentre
scalpitava per l’imbarazzo. Ovviamente Alberto non poté vedere queste reazioni
al nervosismo.
-Dovresti vedere una cosa
che ho trovato.-
-Cosa???- domandò Alberto,
più speranzoso che mai.
-Un puzzle. Tanti
pezzettini di carta che sto cercando di ricomporre.-
Alberto sembrò deluso
–Ah…- disse, ma poi all’improvviso gli tornò in mente il sogno che aveva fatto,
come un promemoria. Parlando con Thomas, non riuscì a decifrare quel pensiero,
ma era sicuro che c’era un dettaglio importante.
-E poi…- Continuò Thomas,
senza sapere bene cosa dire.
-E poi…? Cosa?- lo
sollecitò Alberto, vedendo che non rispondeva.
-Beh, magari potresti fermarti
a casa mia per un boccone. Mentre ricostruiamo il puzzle. Che ne dici?-
Non già perché l’invito
fosse stato dato da Thomas, quanto perché i pasti che passavano alla mensa
universitaria erano di qualità piuttosto scadente (“Grazie, Daniele”, pensò Alberto),
ed era da quando Nathan se n’era andato che Alberto non gustava un piatto
decente. –Accetto di ottimo grado. Se non altro perché la mensa all’università
fa schifo. Ma non dirlo a nessuno, eh? Non vorrei che le iscrizioni
diminuissero di colpo.- E rise ancora. E Thomas con lui. Ma cos’era quella
stupida ilarità che gli era venuta, tutto d’un tratto?
-Allora ti aspetto.
Ciao….-
-A dopo. Ciao.-
E chiusero la chiamata.
Rimasto solo, ripensò a
quanto facilmente aveva ottenuto un invito a pranzo, ed alla facilità di
comunicazione che si era instaurata con Thomas. Quel ragazzo sicuramente era
intelligente, e si fidava di lui. Troppi ne aveva visti, di ragazzi come lui
che pensavano soltanto al trucco e al parrucco ed alla bigiotteria sul naso o
sulle orecchie. Anche Thomas ci pensava, ma in un certo senso su di lui i
piercing gli davano un aspetto importante. Così come i capelli, rosso fuoco ma
che preludevano ad una mente arguta. “Ehi vecchio marpione, non è che ti stai
innamorando di lui?” domandò una voce nella sua testa.
-Ehi! No! Io sono
innamorato di Nathan! Non ti ci mettere anche tu come la dottoressa,
d’accordo???- quasi urlava. Se l’avessero sentito i Mainardi, i suoi vicini di
casa, sicuramente avrebbero pensato che era ammattito.
“Come vuoi… però ti
suggerirei di pensare alla maschera.” Già, la maschera. Quella che portava l’individuo
vestito di nero. Era sicuro di averla già vista… Ma dove…? E quando?
Da quando era arrivato a casa, fino a che non
si erano messi a ricomporre quella specie di puzzle di pezzettini di carta,
Alberto aveva notato che Thomas era piuttosto inquieto. Traspariva dal suo
sguardo e dalla sua voce che ogni tanto si incrinava, forse disturbata da
pensieri troppo grandi anche per lui. Le sue mani bianche coperte da un paio di
guanti in lattice correvano per quei pezzettini, unendoli meticolosamente,
cercando di dare un senso a ciò che vi era scritto sopra. Non era un compito facile.
Se si contava anche la probabilità che alcuni pezzettini potessero essere
andati perduti, la difficoltà di interpretazione aumentava esponenzialmente.
-Cosa ti fa pensare che
questi appartengano all’assassino?- domandò Alberto. Thomas si fermò e lo
guardò in faccia, sfoderando un sorriso.
-Non lo so. Ma è sempre
meglio tentare, non credi?-
Alberto fece una smorfia
di disappunto –E se alla fine ci stiamo ammazzando di fatica per una pagina di
diario scritta da un adolescente dopo che si è fatto fare un pompino dietro
quel cespuglio e poi l’ha strappata…?-
-In quel caso vorrà dire
che questo ragazzo non c’entra con il nostro caso.- rispose Thomas, serafico.
Da lì, Alberto non rispose più. Anche lui, con i suoi guanti in lattice,
cercava di selezionare i pezzettini per dare un senso compiuto alle parole
scritte. La penna poteva essere una biro blu, e il foglio era a righe,
probabilmente di un bloc-notes.
-Chi ha ridotto in
pezzettini questo foglio doveva essere parecchio forte- replicò Thomas –sono
più che sicuro che alcuni pezzi mancano…-
-Già…-
Thomas guardò l’orologio.
Le dodici. –Accidenti- disse –abbiamo lavorato per tre ore di fila… Tu hai
fame?-
Alberto fece per annuire,
quando all’improvviso si sentì un ruggito proveniente dallo stomaco di Thomas.
Risero entrambi, e Alberto aggiunse –Credo che tra i due, il più affamato qui
sei tu.- Thomas gli fece una linguaccia scherzosa, lasciando intravedere
qualcosa che Alberto non aveva mai notato prima: un piercing a doppia pallina
sulla lingua.
*****
Il pranzo che Thomas aveva
preparato era stato davvero buonissimo. Nonostante fosse particolarmente
luculliano, il ragazzo ci aveva messo pochissimo tempo a prepararlo.
-Quando ero a Bologna e
vivevo in un appartamento condiviso con altri studenti, mi piaceva cucinare per
loro.- stava dicendo, mentre con la forchetta agganciava un pezzo di cotoletta.
-Devi aver fatto molta
gavetta, eh? Questo pranzo è squisito.- rispose Alberto, salvo poi mordersi il
labbro pensando a Nathan. Non voleva offenderlo facendo complimenti a Thomas,
per cui cercò di tenersi molto neutrale.
-Diciamo che ho avuto i
miei guai in cucina. Però alla fine ho imparato.- ridacchiò, finendo la sua
portata. –Sai, penso che potrei anche sedurre un ragazzo, con i miei
manicaretti.- fece un sorriso malizioso, e chissà perché Alberto pensò alla sua
lingua con il piercing, e arrossì al pensiero di volerlo baciare, mentre la
testa cominciava a girargli. Sbatté le palpebre, capendo cosa gli stava
succedendo.
-Cos’hai?- si preoccupò
Thomas, vedendolo arrossire di botto. –Ti ho forse turbato in qualche modo?-
-N…no, è che forse ho
bevuto un po’ troppo vino… e allora…-
Thomas guardò il bicchiere
di Alberto –Due bicchieri non mi sembrano molto, non credi? Non reggi il vino?-
Tenendosi la testa fra le
mani, Alberto era sempre più rosso e cominciava a sentire caldo. –Credo… credo
che sarà meglio che me ne torni a casa…- la testa gli girava, e non riusciva
più a connettere.
Per due anni aveva
resistito alla corte dell’alcool. Sapeva che l’alcool riusciva a mettere K.O. i
suoi pensieri per un bel po’ di tempo, ma si era sempre detto che l’alcool è la
medicina dei disperati. Così era diventato astemio senza saperlo, ma non
volendo rifiutare un bicchiere di vino in compagnia di Thomas, si era ubriacato
con soli due bicchieri. Adesso stava
lentamente scivolando in uno stato di incoscienza dovuta all’alcool. Proprio
come gli successe dieci anni prima, quando uscì a bere con dei compagni di
classe. Per due giorni gli risero dietro per ciò che aveva detto nei confronti
di un loro compagno di classe, che avrebbe voluto farselo nei bagni della
scuola e che gli avrebbe fatto vedere le stelle… Tutto per colpa dell’alcool.
Un motivo in più per non bere nel corso della sua vita. L’alcool ti fa dire e
fare cose che tu non faresti mai in uno stato di coscienza.
-No, col cavolo che torni
a casa- rispose perentorio Thomas. –mi sentirei indirettamente responsabile se
dovesse accaderti qualcosa mentre guidi.-
-Allora puoi accompagnarmi
tu…?- rispose Alberto, sempre più distaccato dalla realtà.
Thomas sbuffò –Che
rompicoglioni che sei. Ma ti fa così schifo restare qui a casa mia?- Alberto
non rispose. Sulle sue labbra un sorriso sardonico si era formato, mentre
cercava di alzarsi. Thomas rise.
-Aspetta, ti do una mano.-
e prese il braccio di Alberto a cingergli la spalla, sorreggendolo. Alberto era
poco più alto di lui e leggermente più pesante, ma non esattamente grasso.
Fortunatamente l’appartamento di Thomas era un Loft, quindi si poteva
raggiungere il salotto senza dover attraversare un corridoio. Gentilmente lo
adagiò a sedere e poi lo fece distendere, togliendogli le scarpe. Alberto
teneva ancora gli occhi aperti, ed incominciò una litania di parole senza
senso, un po’ come la “supercazzola” del conte Raffaello Mascetti del film
“Amici miei”, che Thomas aveva visto più di una volta. Ridacchiò, nel vedere
Alberto che straparlava a bassa voce. Si avvicinò, sedendosi sul bordo dei
grandi cuscini del divano, e mise le mani sul torace di Alberto, osservandolo e
avvicinandosi sempre di più perché non riusciva a capire nulla.
-…lo sai… che oggi… mi
hanno detto che l’università fa schifo? Sì, perché non riescono mai a capire
nulla delle lezioni che spiegano. Ma allora se vi fa tanto schifo, perché ci
andate? Sapete come sarei più… felice … io se … se potessi… se potessi evitare…
di andare … a fare… il cretino ….- parole senza senso, che fecero ridacchiare
Thomas.
-E poi… non ti ho detto…
che quando vado in giro… ci sono tutti questi qui che mi guar… guardano…. Ma …
perché? Io non voglio nessuno. Io … sto … bene come sto. C’è anche…. Quello….
Sfigato del figlio…. Del figlio dei Mainardi. Quello che si veste… come uno di
quelli …. Quelli che si…. Che si tagliano le vene…. Emo…? Sì… forse…-
probabilmente si riferiva al figlio dei suoi vicini di casa, quelli di cui
Thomas aveva letto il nome del campanello per farsi aprire la porta e poi
entrare a picchiarlo. –Cosa fa il figlio dei Mainardi, Alberto…?- domandò
sottovoce Thomas. Ma Alberto non rispose. Mosse le labbra come per dire qualcosa,
ma non venne fuori alcun suono. Le mani di Alberto si avvolsero intorno alla
vita di Thomas, e questi si sentì piuttosto imbarazzato. Arrossì di botto, ma
non seppe come reagire. “Ma… cosa stai facendo, Alby???” pensò, ma le parole
non gli uscirono dalle labbra. Poi Alberto lo attirò dolcemente a sé, con gli
occhi chiusi, e lo baciò teneramente. Thomas arrossì ancora di più, mentre le
labbra di Alberto massaggiavano le sue, in un dolce e sensuale bacio. Le dita
di Alberto poi incominciarono a carezzargli i morbidi capelli rossi, e Thomas
in quel momento chiuse gli occhi, abbandonandosi a quel bacio che per una volta
nella sua vita non era dato da un mero desiderio sessuale ma da qualcosa di
più, che ancora non riusciva a capire che cosa fosse.
-Nathan… amore mio…- disse
Alberto, e Thomas si bloccò. Riaprì gli occhi, lo guardò…
…E la mano destra di
Thomas calò sulla guancia di Alberto con una violenza tale da spedirlo
direttamente nel mondo dei sogni. Alberto non disse più nulla, ma si abbandonò
ad un sonno pesante su quel divano. Thomas era ancora rosso, ma si alzò e fece
uno sguardo furente.
“Io sono Thomas,
imbecille.” Pensò, e andò a rimettersi al lavoro su quel puzzle di pezzettini.
Pochissime ore dopo,
Alberto aprì gli occhi, leggermente scosso da Thomas.
-Ehi, bello addormentato-
gli disse con un sorriso –ho risolto il puzzle. Prepara l’auto, andiamo a fare
una gita fuori città.-
*****
Il foglietto che Thomas
aveva ricomposto conteneva un indirizzo, scritto a grandi caratteri con una
biro blu. Thomas l’aveva cercato prima su Google Maps, ma non riuscendo a
trovare delle foto più chiare della semplice visione dal satellite, aveva
deciso di andarci di persona insieme ad Alberto.
-E dove sarebbe questo
indirizzo?- chiese Alberto, non vedendo alcun nome di via o numero civico.
-C’è scritto “S.S. 20 – Km
30”. Credo
che si riferisca a quel casolare laggiù.- indicò una costruzione a due piani,
una specie di vecchia fattoria. Il tetto era completamente sfondato, e le
pareti in muratura sembrava che stessero in piedi per miracolo. Non c’erano
recinti o automobili o tracce di esistenza umana. Quindi si poteva supporre che
il casolare era abbandonato da molto tempo. Per quanto tempo Nathan aveva
fantasticato insieme ad Alberto di acquistare un casolare in campagna… lo
ricordava troppo bene. Purtroppo per i primi tempi era meglio stare in affitto,
e così avevano fatto nell’appartamento dove tuttora Alberto risiedeva. Gli era
anche stato offerto, dalla madre di Alberto, di vivere insieme a casa della
donna, ma Alberto aveva declinato, non volendo pesare sulle spalle della
genitrice, timoroso di rovinare i suoi ritmi quotidiani, che la vedevano
impegnata in tornei di canasta con molte amiche, riunioni del suo club “Amiche
per la Pentola”,
e via dicendo. E poi, indiscutibilmente, nel loro appartamento avevano molta
più libertà di fare ciò che volevano.
“Se invece di andartene
per conto tuo fossi rimasto con la tua mamma, Alberto, forse adesso Nathan
sarebbe ancora qui!” gli aveva detto sua madre a seguito della scomparsa del
fidanzato… Non che avesse tutti i torti. Sapeva che sua madre si svegliava
sempre di buon’ora, e se avesse visto Nathan, sicuramente gli avrebbe chiesto
“Dove stai andando, Nathan?”, e forse non sarebbe mai successo. Sospirò.
Intanto, Thomas si era già
avviato verso l’entrata. Com’era prevedibile, il portone principale era
sbarrato.
-Da qui non si passa.-
dichiarò, guardandosi intorno per cercare un’altra via d’accesso.
-Proviamo di là.- disse
Alberto, girando intorno al casale e trovando una porticina socchiusa.
Entrati, si trovarono in
un locale piuttosto buio, polveroso e pieno di robaccia sul pavimento.
Nell’aria, c’era un odore di stantio e marcio.
-Che puzza…- mormorò
Alberto, turandosi il naso. Lo stesso fece Thomas.
Aiutati dalle luci di due
torce, quella di Alberto che di solito teneva in auto per le emergenze, e
quella di Thomas, si fecero strada nel casale, alla ricerca di indizi che
potessero suggerire l’identità dell’assassino. I fasci di luce illuminarono il
pavimento, così pieno di cartacce e sporcizia, che non si riusciva a
distinguere il terriccio dal pavimento vero e proprio, ormai ridotto a pezzetti
di mattonelle, inframmezzate da vecchie foglie morte. Sui muri, parecchie
scritte, probabilmente create da barboni o writers senza fissa dimora, e
ovviamente parecchie bottiglie di birra, alcune integre ed altre rotte.
Nel silenzio più totale,
Thomas ed Alberto attraversarono due stanze, poi una che sembrava essere il
salone. Qui Alberto si sentì prendere da una sensazione di dejà vu, che gli
fece tremare tutto il corpo, oltre ovviamente a fargli accapponare la pelle.
Sembrava maledettamente
simile al salone da ballo del suo sogno.
Thomas se ne accorse, e
gli chiese se stesse bene. Alberto rispose annuendo, dichiarando “tutto bene”
sottovoce. Riprendendo la marcia, Thomas entrò in una specie di sgabuzzino. Una
porticina che dava chissà dove. Fece una faccia disgustata.
-Il fetore sembra
provenire da qui. Cavolo…-
-Sembra una riserva di
calzini sporchi.- commentò Alberto, di nuovo turandosi il naso.
-Vado avanti. Tu coprimi
le spalle…- disse, prendendo un tubo da terra, come arma di difesa in caso di
pericolo imminente.
Alberto si accontentò di
un bastone da scopa trovato appoggiato ad un muro, e lentamente seguì i
movimenti di Thomas, che stava già aprendo la porticina.
La porta dava su uno
stretto passaggio dove scendevano delle scale. Il fetore era più denso adesso.
Thomas si girò, guardando negli occhi Alberto.
-Non so cosa potremo
trovare lì sotto. Quindi, se non te la senti, non venire, d’accordo?- dichiarò.
Alberto scosse la testa.
-Sei completamente matto
se pensi che ti lasci andare lì sotto da solo.-
-D’accordo, ma poi non
dire che non ti avevo avvertito- disse, sollevando un indice sotto il naso di
Alberto.
Lentamente, scesero le
scale, addentrandosi in un angusto corridoio. “Di certo un ciccione non
potrebbe passare di qui” pensò Alberto, indirizzando il fascio di luce della
torcia che stranamente stava diventando più debole.
-Ma… che succede?- chiese
Thomas.
-Le batterie. Forse sono
scariche.-
-Ho capito, useremo la
mia. Spegni la tua torcia.-
Avanzarono per un po’,
quando Thomas si sentì urtare da una specie di sacco peloso che gli urtò la faccia.
Nel buio, urlò, gettandosi fra le braccia di Alberto, che saltellò all’indietro
e pestò qualcosa che lo fece trasalire a sua volta. Urlarono entrambi,
abbracciati, in preda al terrore. A Thomas cadde di mano la sua torcia.
-Cazzo!! Mi è caduta la
torcia! Accendi la tua, fai un po’ di luce!-
Alberto obbedì, e nella
fioca luce concessa dalle batterie semi-scariche, i due si ritrovarono in un
ambiente dallo spettacolo raccapricciante.
Al soffitto, erano appesi
dei cavi elettrici a cui erano impiccati dei gatti. Alcuni penzolavano per il
collo, altri per le zampe posteriori… Altri ancora erano addirittura decapitati
o dimezzati. Alle pareti, migliaia di scritte, all’apparenza tutte lettere a
caso, alcune vergate con vernice nera, altre con una strana vernice rossastro -
marrone. Uno spettacolo agghiacciante, che fece drizzare i capelli sulla testa
di Thomas, che si girò per non guardare, cercando rifugio nelle braccia di
Alberto, stringendolo forte mentre lui osservava impietrito quella specie di
stanza delle torture felina. Indirizzò il fascio di luce verso le pareti. Su
alcune parti c’erano dei gatti inchiodati al muro, ed il pavimento era pieno di
scheletri di quelle povere creature ormai putrefatte.
-T…Thomas?- chiamò
sottovoce Alberto, sentendo che il ragazzo stava tremando di paura fra le sue
braccia. –S… sono … sono soltanto cadaveri di gatti, non … non aver paura.- la
luce si stava spegnendo, ma Alberto fu lesto a ritrovare la torcia di Thomas e
l’accese. Per fortuna, le batterie erano ancora cariche.
-Forse… forse è meglio che
io faccia qualche fotografia qui.- disse Thomas, cercando di ritrovare il
contegno che lo contraddistingueva. Lentamente si dissolse dall’abbraccio ad
Alberto e tirò fuori la macchina fotografica digitale dal taschino della sua
giacca, incominciando a fotografare le pareti.
Le migliaia di lettere,
apparentemente non avevano un senso, ma per Thomas, che aveva studiato un po’
della mente degli assassini, potevano essere una nuova chiave. Fotografò
minuziosamente tutte le pareti, cercando di non far sfuggire nessuna lettera al
censimento. Alberto cercò di non intralciare il suo lavoro, sentendosi sempre
più preoccupato per le sorti del suo Nathan, pregando ancora una volta che il
suo ragazzo non fosse finito come una di quelle povere bestiole che erano
presenti lì. Mettendo via la macchina fotografica, Thomas andò verso Alberto,
dichiarando di averne abbastanza di quel posto e di voler tornare a casa.
*****
Guidando, Alberto si
massaggiò la guancia sinistra. Ricordava di essersi addormentato e poi di aver
fatto un sogno, dove nel sogno baciava Nathan. Ricordava anche di aver detto
“Nathan”, ma all’improvviso gli era arrivata una sberla tale da interrompere la
proiezione del suo sogno e mandarlo a dormire direttamente. Lanciò un’occhiata
a Thomas, seduto sul sedile passeggero, che stava armeggiando con la macchina
fotografica. Nella sua mente, l’interrogativo più grande. Perché l’assassino
avrebbe dovuto scrivere su un foglietto l’indirizzo di un casolare? E poi
perché distruggerlo e lasciarlo lì? L’ipotesi più probabile forse risiedeva in
un eccesso di megalomania dell’assassino: divertirsi nel vedere se riuscivano
ad incastrarlo in qualche modo. Si morse
il labbro inferiore, mentre visionava le foto che aveva scattato poco prima. Finite
di scorrere le fotografie recenti, si mise a guardare le foto più vecchie… Aprì
la prima cartella. Fotografie della sua festa di laurea, celebrata in una
pizzeria alla periferia di Bologna. Tante le facce, gli affetti, i ricordi che
quei tre anni gli avevano lasciato… Vide alcuni suoi vecchi compagni di corso,
e addirittura il suo ex ragazzo (che non ricordava perché l’avesse invitato).
Poi fu la volta della seconda cartella. Qui c’erano alcune foto riguardanti il
suo ritorno a Torino. Sorrise nel vedere che conservava ancora qualche
fotografia di Daniele. Infatti ce n’era una dove erano uno accanto all’altro
sotto la Mole, e
un’altra dove giocavano a fare una parodia di Twilight. Edward Cullen e Bella:
Thomas con le braccia alzate e le dita piegate a formare degli artigli, mentre
Daniele che urlava spaventato, in una vera espressione di finto terrore… Chissà
quantovero terrore stava provando
adesso, posto che fosse ancora vivo. Decise di mettere via la macchina
fotografica quando vide una terza cartella.
Qui c’erano fotografie di
un convegno al quale era stato (in un manifesto alle spalle del relatore c’era
scritto “Reati perpetrati dai politici – tra improcedibilità ed omertà”).
Scorrendo le immagini, le sue labbra si spalancarono leggermente, proprio
com’era successo all’epoca del convegno… avrebbe voluto dire la sua riguardo ai
reati di cui era stato diretto testimone in un tempo che adesso sembrava
lontanissimo, un tempo che l’aveva visto battere le strade e offrire il suo
corpo a vecchi lascivi che si facevano riempire (o riempivano) da giovani
ragazzini a volte minorenni. Chiuse gli occhi, non sopportando quel ricordo. Poi,
pochi attimi dopo, il suo stomaco ebbe una reazione.
-A..Alberto… Fermati.
Fermati!-
-Cosa…? Cosa c’è?-
-Fermati, ti ho detto!!!-
Con calma, Alberto accostò
la Fabia e
inserì le quattro frecce. Non fece in tempo a fermarsi del tutto che Thomas
aprì lo sportello e corse via nell’erba, in mezzo ad alcuni alberi… Alberto
scese, e vide Thomas, abbastanza lontano, che si piegava in due, si teneva la
fronte e rigettava.
“Ma che cosa gli ha
preso?” pensò Alberto. Si chinò, aprì il portaoggetti della sua auto e ne
estrasse un pacchetto di fazzoletti. Poi da sotto il sedile prese una
bottiglietta d’acqua, e lentamente raggiunse Thomas.
Non sopportando il peso di
quei ricordi, Thomas si era totalmente svuotato del pranzo, eppure ancora
sentiva di dover rigettare. Si tenne la fronte ancora per un po’, ma non cavò
altro che amara bile dal suo piccolo stomaco. Mentre respirava a fatica, cercando
di ricacciare indietro anche quelle lacrime che gli erano uscite, più per il
dolore che per lo sforzo, si sentì toccare la spalla delicatamente. Lì c’era
Alberto con in mano un pacchetto di fazzoletti ed una bottiglietta d’acqua.
-Chi… chi ti ha detto di
venire a soccorrermi? Sto benissimo.-
-Non mi pare che uno che
vomita l’anima in mezzo ad una strada di campagna possa stare benissimo-
replicò Alberto.
Senza nemmeno ringraziare,
Thomas afferrò la bottiglietta d’acqua e il pacchetto di fazzoletti,
asciugandosi le labbra prima e bevendo a grandi sorsate direttamente dal collo
della bottiglia dopo.
-Da quando in qua ti
preoccupi per me?- e sputò un grumo di saliva sul terreno. Alberto non rispose.
–So di essere stato io a chiederti di ritrovare il tuo ragazzo, ma credo che tu
sia veramente troppo attaccato a lui. Vuoi smetterla con questo atteggiamento?-
concluse, guardando Alberto con una faccia furente. Questa volta Alberto non
poté trattenersi dal rispondergli per le rime.
-Ehi, si può sapere che cazzo
ti prende? Entri in casa mia, mi prendi a botte, poi mi offri il tuo aiuto e
fai il carino e gentile, e neanche cinque giorni dopo, mi tratti così?!?-
rispose Alberto, alzando la voce –Ma chi ti credi di essere, eh?- Non gli diede
il tempo di rispondere, che lo attaccò di nuovo –Che cosa avresti fatto, che
cosa cazzo faresti tu al mio posto, se il tuo fidanzato anziché scriverti una
lettera dove ti diceva che andava a sbatterlo nel culo ad un altro, se ne fosse
andato di casa e ti avesse lasciato per due anni nello sconforto??? Eh??-
adesso stava urlando. Thomas si girò a dargli le spalle, incrociando le
braccia. I suoi occhi si stavano riempiendo di lacrime. Si allontanò, e questo
ebbe l’effetto di fare incavolare Alberto ancora di più.
-Rispondimi, cazzo!!!-
urlò al suo indirizzo. Ma Thomas stava già camminando verso l’auto. Alberto lo
seguì, ma Thomas accelerò fino ad incominciare a correre. Guadagnata l’auto,
aprì lo sportello passeggero e tolse le chiavi dal quadro, spingendo il
bottoncino che chiudeva tutte le portiere. Quando Alberto raggiunse l’auto,
provò ad aprire gli sportelli e non vi riuscì.
-Cazz… Thomas, apri le
portiere.- disse, tra i denti, mentre provava ad aprire. Thomas era dentro,
rannicchiato nei sedili posteriori, coprendosi la faccia che gli si era
riempita di lacrime.
Fuori, Alberto si stava
alterando di brutto. Non gli era mai capitato di dover scendere a patti con un
ragazzo, nemmeno con Nathan… Egli era molto più intelligente, e di sicuro non
si comportava come un ragazzino come faceva Thomas. –Thomas, non peggiorare le
cose. Apri le portiere, questa è la mia auto, e tu non hai il diritto di…- si
fermò, vedendo che Thomas gli stava mostrando il dito medio. –Ah! È così?
Guarda che se non apri immediatamente, prendo un sasso e sfondo il finestrino!-
esclamò, ma quando ripensò alle ultime due rate ancora da pagare, si morse il
labbro. Fece una pausa, guardando Thomas che si nascondeva e si sentiva
protetto dall’abitacolo dell’auto.
-Thomas!!!- urlò di nuovo
Alberto, picchiando i pugni sul finestrino della sua stessa auto –Smettila di
comportarti così! Se c’è qualcosa che non va, parliamone, ma non è questo il
modo di agire!- pausa. –Mi hai sentito? Thomas!!!-
A nulla servirono i
ripetuti avvisi all’indirizzo di Thomas, inframmezzati da minuti di pausa. Il
ragazzo continuava a non voler sentire, e Alberto si decise a darsi una calmata
anche lui. “Tanto non potrà stare lì chiuso per tutto il pomeriggio”.
Si sedette sul ciglio
della strada e aspettò, mentre la sera scendeva, avvolgendo tutto nell’ombra e
nel freddo. Ricordando i gatti nel casolare, Alberto si preoccupò che
l’assassino potesse essere nei paraggi, e desiderò rientrare nel suo veicolo.
Poco dopo, il suo cellulare suonò. Un messaggio da parte di Thomas.
“Vieni dentro” diceva.
Alberto scattò in piedi, e
velocemente aprì la portiera del lato posteriore. Thomas si era seduto, la
testa poggiata al finestrino, i suoi occhi che guardavano l’oscurità… avrebbe
dovuto essere in collera con lui, ma anziché essere arrabbiato, Alberto gli
chiese –Cos’hai?- Thomas non rispose.
-Ti ho fatto una domanda-
incalzò Alberto. Ma Thomas non rispondeva ancora…sospirò, e si decise ad ignorarlo. Per lo
meno, era riuscito a rientrare in auto con lui. Abbassò la sicura, chiudendo di
nuovo l’abitacolo.
Dentro di sé, Thomas stava
provando dolore. Un dolore antico, forse addirittura collegato all’evento
stesso della sua nascita. Una vita a cui si erano aggiunti solo dolori, che in
parte aveva cercato di guarire con i migliori sforzi possibili, ma non c’era
sforzo che poteva resistere di fronte al dolore più bello…
Accanto a lui, Alberto
sospirò di nuovo, ricordando il sogno in cui Thomas piangeva e gli individui
dicevano “A morte l’impostore”, ed ebbe un brivido di freddo. Lentamente, quasi
guidato da un istinto che non conosceva, allungò il suo braccio a cingere le
spalle di Thomas. Questi si sentì combattuto dentro di sé. Da un lato sentiva
il calore riscaldargli il corpo, e dall’altro provava repulsione verso Alberto,
ancora così attaccato a Nathan che sembrava non voler accettare sentimenti da
un’altra persona. Questo secondo pensiero fu spazzato via quando Alberto lo
tirò a sé, stringendolo in un abbraccio protettivo. Senza dire nulla, ma
tenendo gli occhi aperti, Thomas si lasciò abbracciare, tenendo le mani in
grembo. Con la sua mano destra, Alberto prese le piccole mani di Thomas, che
ora erano fredde come il ghiaccio… Lasciò la sua mano destra su quelle di
Thomas per un po’ di minuti, quando il ragazzo aprì le mani e incominciò a
strofinare quella di Alberto, intrecciando le dita con le sue. Alberto sentì
gli anelli di Thomas che erano abbastanza gelidi.
-Perché?- sussurrò Thomas,
così lievemente che Alberto fece fatica a sentirlo –Perché stai facendo
questo?- deglutì –Io… io non sono …-
-Shhh.- lo zittì Alberto,
posandogli un dito sulle labbra… – Adesso facciamo un gioco. Fai finta che io
sia una persona che vuoi tu.- nel buio dell’abitacolo, ad Alberto sembrò che
Thomas spalancasse gli occhi per la sorpresa. –Io sono chi vuoi, e sarò il tuo
compagno di giochi.- sorrise. Per un attimo Thomas si dimenticò di essere un
ragazzo intelligente, laureato con il massimo dei voti, intuitivo… ma
soprattutto forte. Per qualche strano motivo, Alberto aveva una specie di
ascendente su di lui. E si lasciò andare alla fantasia.
Con le ginocchia scavalcò
il grembo di Alberto e si mise a sedere sulle sue cosce, accarezzandogli
dolcemente le guance. Lo guardò negli occhi castani, ammirando come il ragazzo
fosse una bellezza diversa da quelle che era abituato a vedere nei locali… una
bellezza naturale. Forse adesso capiva perché Daniele si fosse innamorato di
lui. Era semplicemente… stupendo.
Alberto incontrò gli occhi
verdi di Thomas, cercando di indovinare a chi stesse pensando per realizzare
quel timido gioco… forse al suo ex ragazzo? O forse a qualcuno che in passato
gli aveva rubato il cuore? Non se ne curò più di tanto, ma cercò piuttosto di
lasciarsi andare, dato che lui stesso aveva proposto il gioco.
Sopra di lui, Thomas
avvicinò il suo sguardo, chiudendo gli occhi ed aspirando il profumo dolce di
Alberto, quasi chiedendosi perché Nathan l’avesse abbandonato, se così aveva
fatto, e dispiacendosi per lui nel caso che Nathan fosse stato portato via e
non avesse più potuto aspirare quella fragranza. “Scusami, Nathan…” pensò, mentre
le sue labbra andavano a baciare quelle di Alberto, dolcemente, massaggiandole
e assaporandone la dolcezza…
Quando le labbra di Thomas
toccarono le sue, Alberto chiuse gli occhi. Quelle labbra sapevano di fragola,
forse un lucidalabbra o del burro cacao che si era applicato… però erano dolci,
morbide… Così morbide che Alberto ne volle di più. Lo baciò con passione,
vedendo che Thomas si offriva al gioco…
Con le braccia Thomas
avvolse il collo di Alberto e lo strinse forte, e lo stesso fece Alberto,
avvolgendo la vita di Thomas e abbracciandolo teneramente. Con le scarpe Thomas
stava accarezzando le gambe di Alberto, a sottolineare quanto a cuore gli
stesse quel gioco. Con la lingua fece pressione tra le labbra di Alberto,
cercando di schiudergliele… Alberto si lasciò sottomettere al suo volere ed
aprì la sua bocca, lasciando che la lingua di Thomas entrasse… Le loro lingue
si strofinarono insieme, lottando per un po’ di tempo…
Restarono lì,
nell’abitacolo della Fabia di Alberto per un bel po’ di tempo, a scambiarsi
tenere effusioni… Da fuori, i vetri dell’auto erano appannati, e le pochissime
auto che passavano sembravano non curarsi di ciò che stava succedendo in quella
piccola station wagon… Neanche quella volta Alberto vide Nathan apparire
all’improvviso. Si aspettava che sarebbe apparso più tardi, ma se proprio
avesse dovuto, gli avrebbe detto “era tutto un gioco, amore mio…”
Come avendo sentito i suoi
pensieri, Thomas si staccò dalle labbra di Alberto e lo guardò.
-…Alberto…?-
-…Thomas?-
Thomas aprì la bocca, per
aggiungere qualcosa, poi scosse la testa e piegò le sue labbra in un sorriso
leggero, quasi di compassione. Con le dita accarezzò il collo di Alberto,
arrossendo leggermente.
“Vorrei soltanto che
questo non fosse solo un altro gioco” pensò Thomas, e come per auto-zittirsi,
riprese a baciare Alberto, che si lasciò andare ancora una volta, una parte di
sé che desiderava che non stessero soltanto giocando.
La scena raccapricciante
della stanza delle torture con tutti i felini appesi e crocefissi era stata
abbastanza potente da riuscire a togliere appetito al povero Thomas, ed
oltretutto a farlo inquietare parecchio, tanto che aveva chiesto gentilmente ad
Alberto se poteva restare a dormire da lui. Ora Thomas era lì al suo computer
portatile, che scaricava le fotografie dalla macchinetta digitale.
Tamburellò con la biro su
un blocchetto degli appunti che si era approntato, per annotare eventuali
anomalie. Piuttosto stanco, si massaggiò l’attaccatura del naso, strabuzzando
gli occhi. Deciso a mettere in ordine le sue idee, chiuse il portatile ed
incominciò a scribacchiare qualcosa sul bloc-notes.
“Ricapitoliamo. Abbiamo un
pazzo che ha rapito Daniele, forse è lo stesso che ha rapito Nathan, forse è lo
stesso che ha ucciso Nevio; sicuramente lo stesso che ha rapito Daniele ha
frequentato quel casolare abbandonato ed ha fatto una carneficina felina…” pensò,
facendo correre la penna e scrivendo righe in una calligrafia impeccabile. Era
il suo primo caso, ma si sentiva parecchio confuso. Si voltò, sperando che
Alberto non fosse lì a sentirlo. Beh, d’altronde come avrebbe fatto? Alberto
non possedeva certo la facoltà di leggere nel pensiero, e adesso era nel suo
bagno a farsi una doccia. Arrossì, al pensiero di poterlo vedere nudo.
“Ehi scemo. Ricordati che
hai del lavoro da fare, non distrarti!” si auto-impose, schiaffeggiandosi
leggermente la guancia che iniziava a presentare una leggerissima peluria
“…Hmh. Tempo di rasatura…” pensò, e lanciò un’occhiata in direzione del bagno
dove c’era Alberto sotto la doccia.
*****
Come la vittima di un
diluvio universale, Alberto si lasciò accarezzare dallo scroscio dell’acqua
corrente nel bagno di Thomas, facendo finta che la doccia fosse effettivamente
una scarica di pioggia fresca. Nonostante il freddo Alberto aveva preferito non
usare troppa acqua calda, solo perché dopo il pomeriggio passato insieme a
Thomas, sentiva il bisogno di ricaricare le batterie, e l’acqua fredda che
picchiava sul suo corpo aveva un effetto molto benefico. Si passò le mani tra i
capelli, sentendoli ancora un po’ unti nonostante l’acqua. Prese il flacone di
shampoo e ne versò un po’ sui capelli, passando poi a massaggiarli
energicamente per lavare via la sporcizia. La frizione delle sue dita con la
cute nel massaggio, però, non era abbastanza lenitiva dei pensieri, che da
quando erano rientrati stavano ronzando nella testa di Alberto. Thomas si era
rimesso al suo posto al sedile passeggero, e non aveva più detto nulla per
tutta la durata del viaggio. Sembrava che avessero litigato, se non era per il
fatto che erano rimasti a baciarsi per più di due ore. Poi, erano arrivati
all’appartamento del ragazzo e Thomas aveva detto “Ti andrebbe di restare qui?
Non penso che riuscirei a prendere sonno dopo quello che ho visto…” Colto nello
spirito protettivo, Alberto aveva annuito. Ed eccolo là, sotto la doccia di un
mezzo sconosciuto...
“Uno sconosciuto che però
non hai esitato a baciare, eh?” Disse a sé stesso “mentre là fuori c’è un pazzo
che va in giro a rapire e forse anche ad uccidere le sue vittime… Ma che cosa
credevi di fare, proponendo quello stupido gioco, me lo spieghi?”
Con il bagnoschiuma si
massaggiò il torace e la pancia, sentendosi ancora una volta un po’ troppo in
carne…
“…Forse questa cosa sta
andando troppo velocemente. D’accordo, Nathan manca da due anni e sto facendo
il possibile per ritrovarlo, ma allora perché tutto questo preoccuparmi per
Thomas? In realtà non dovrei nemmeno essere qui, e lui dovrebbe fare il lavoro
da solo. Come potrei aiutarlo di più?”
E qui gli venne in mente
che non gli aveva mai parlato abbastanza di Nathan, delle sue abitudini, di
quello che faceva. Ormai era piuttosto chiaro che Thomas non era molto incline
ad indagare per Nathan, quanto lo era per Daniele, il suo amico. Digrignò i
denti, pensando che forse era incappato in un’ennesima presa per i fondelli.
Nelle sue elucubrazioni ci inserì anche la psicologa “soldi buttati al vento”,
pensò, “sarebbe stato meglio se quei soldi li avessi spesi con un buon
investigatore privato…”
Intanto la doccia
continuava a spruzzare acqua. Nella miriade di pensieri, Alberto cercò di
ripercorrere il sogno e la visita al casolare. Dunque. Nel sogno c’era questo
grande salone pieno di gente con la maschera…
A
mezzanotte ci toglieremo le maschere e magari …
…magari ci puoi trovare
Nathan o l’assassino. Quale delle due, signor Ferrari?
Le maschere.
Fabrizio che lo incitava a
ballare con la figura mascherata, tutto raggiante di felicità. Possibile che un
amico, per quanto quella definizione calzasse al nome di Fabrizio Foschi, non
riuscisse a capire che quelli erano momenti drammatici per lui? Almeno un
minimo di ritegno avrebbe imposto di non ridere. Ma nei sogni, si sa, può
accadere di tutto.
La maschera.
Due fessure a formare gli
occhi, un naso con due aperture per consentire il respiro, una bocca sigillata
ma che sembrava vera. Alcune placche d’argento sulla fronte… Possibile che gli
ricordasse qualcosa?
Perso nei suoi pensieri,
Alberto si spaventò a morte quando vide una figura fuori dal box doccia. Fece
un mezzo urlo. Poi asciugò con la mano il vapore sul vetro e vide la figura di
Thomas. Con un colpo della mano chiuse il rubinetto e afferrò l’asciugamano,
che prontamente si avvolse alla vita.
-Ti ho spaventato?-
domandò Thomas.
-Che domanda. Certo che
sì, accidenti. A momenti mi veniva un infarto…- ribatté Alberto, frizionandosi
i capelli con un altro asciugamano un po’ più piccolo. Uscì dal box doccia,
lasciando Thomas a guardare il posto vuoto che aveva lasciato, e si diresse
allo specchio per sistemarsi i capelli. Nel riflesso, vide Thomas, di spalle,
che si stava togliendo la maglietta. Lo osservò, ammirando quella schiena così
bianca e piena di efelidi, e mentre lui faceva finta di niente, vide il ragazzo
togliersi le scarpe e le calze, per poi passare al bottone dei pantaloni.
Abbassò la zip e lasciò cadere anche quelli. Pettinandosi i capelli, Alberto
vide che Thomas si stava anche togliendo gli slip (una fantasia molto strana,
fatta di tanti scheletri ed ossa stampati sul tessuto degli slip), rivelando un
sedere molto curato e in forma, come del resto era tutto l’intero suo corpo. Si
sorprese ad ammirare con rinnovato interesse il suo giovane amico, lo stesso
che poche ore prima aveva baciato nella sua auto, soltanto per gioco… Adesso
cos’avrebbe voluto fare? Fingere che fosse Nathan mentre erano avvinghiati
l’uno con l’altro e fargli l’amore? No, quello sarebbe stato veramente troppo.
E forse neanche troppo eccitante, dal momento che la sua fantasia in quel
momento vedeva come protagonista proprio Thomas, quel bel ragazzo dai capelli
rossi e dalla pelle nivea. “Adesso mi chiama a fare la doccia con lui. E io
cosa gli dico? Che l’ho già fatta, ovviamente? Ma sì, non può essere così
rincitrullito da chiedermi una cosa simile” stava pensando Alberto, mentre
nella sua mente lo scenario di prenderlo sotto la doccia gli stava facendo
venire l’eccitazione… “No, no, no, cazzo… smettila di fare il cretino, Alberto
Ferrari!” pensò, mentre Thomas era in procinto di entrare nel box.
All’improvviso, complice un lieve innalzamento dei livelli di testosterone di
Alberto, questi uscì frettolosamente ma con garbo dal bagno, chiudendosi la
porta alle spalle. Rimasto solo, Thomas sospirò.
“Perché non gli ho chiesto
di fare la doccia insieme…?” pensò, arrossendo…
*****
“Non avrei dovuto
accettare, no, non avrei dovuto. Accidenti a me. Adesso potevo essere a casa
mia a guardarmi un DVD e invece guarda dove sono …” se n’era andato sul divano
di Thomas. Il televisore acceso era sintonizzato su un programma di calcio, che
ad Alberto non piaceva, ma che era un ottimo stemperante per i casi di libidine
subitanea. Intanto, aspettava qualche improvvisa manifestazione di Nathan.
“Lo so che ci sei, sei qui
da qualche parte… Ma allora perché non ti fai vedere?”
Nessuna risposta,
ovviamente.
“Avanti. Dimmi che sei
geloso, dimmi che Thomas è un puttanello qualunque, che magari in passato
faceva l’escort, e che adesso sta solo cercando di spillarmi soldi dal
portafogli.”
Ancora nessuna risposta. In
compenso però la televisione si spense sull’immagine di Davide Dezan che stava
commentando una partita.
-Eh?- domandò Alberto, non
capendo cosa stesse succedendo. Dietro di lui, Thomas reggeva in mano una
bottiglia di vino e due calici.
-Ho pensato che potevamo
parlare un po’- Esordì, calciando delicatamente il telecomando con il piede
nudo. Alberto si accomodò sull’angolo del divano, mentre Thomas poggiava i due
bicchieri e la bottiglia sul tavolino. Gli sorrise.
-Cos’è quella faccia,
Alby?-
Alberto indicò il vino ed
i due calici –Lo … lo sai che a me il vino fa…-
Thomas sospirò, ma annuì.
–A dire la verità avevo bisogno di bere. Ho portato il secondo bicchiere in
caso tu avessi voluto farmi compagnia, ma se non vuoi…- ed incominciò a
stappare il vino, versandolo nel calice. Lo prese in mano e lo avvicinò alla
bocca, prendendone un sorso.
Indeciso sul da farsi,
Alberto prese il calice e lo mise sotto Thomas. Questi sorrise e gli riempì il
bicchiere, tanto che Alberto dovette fermarlo affinché non riempisse troppo.
-Mi aiuta a pensare.-
-Hai scoperto qualcosa,
guardando quelle fotografie?- domandò Alberto, tanto per intavolare un
argomento. Anche lui mandò giù una sorsata di vino.
Thomas scosse la testa
–Hai visto anche tu quello che ho visto io. Tutte quelle lettere, sono sicuro,
nascondono un indizio importante, ma devi darmi il tempo di decifrarle.-
-E decifrale, no?-
-Calma, Alberto, calma.
Ritrova la dimensione della tua calma.- rispose, e Alberto si chiese se fosse
lo stesso Thomas che poche ore prima era corso via piangendo e rinchiudendosi
nella sua auto. Evitò di riaprire il discorso, scuotendo impercettibilmente la
testa e bevendo un altro po’ di vino.
Chiudendo gli occhi,
Thomas si rannicchiò in sé stesso. Nonostante il pigiama che si era messo (“Per
fortuna che se l’è messo e non è nudo” pensò Alberto, già guarito dalla
libidine di cui era stato preda nel bagno), sembrava avere freddo. Allungò le
gambe, fino a toccare la coscia di Alberto con i piedi. –Alby…?-
-Cosa?-
-Ho i piedi freddi.
Potresti…?-
-Thomas…- rispose Alberto,
con un tono leggermente seccato.
-Dai, cosa ti costa…?-
Sospirando, Alberto si
spostò fino a prendere i piedi di Thomas in grembo, accavallò le gambe e si
mise a massaggiarglieli dolcemente. Intanto il vino stava incominciando a fare
di nuovo il suo effetto … “Accidenti a me e a quando sono venuto qui e doppio
accidenti a quando ho preso questo vino.” Pensò, mentre con le mani massaggiava
delicatamente i piedini di Thomas, che erano veramente molto freddi. Thomas si
rilassò, chiuse gli occhi e iniziò a pensare… Al casolare, al delitto, ed a
tutti quei poveri gatti, cercando, ancora una volta, di elaborare una possibile
trama. Frattanto, si godeva il massaggio per niente inesperto di Alberto,
questi ignaro che Thomas aveva iniziato un altro gioco, ovvero la “serata col
fidanzato”.
“Scusami, Alby… Non ti ho
nemmeno chiesto se volevi giocare con me. Ma dal momento che hai accettato, mi
sento felice. Dammi almeno la possibilità di godere di questi piccoli momenti
di felicità, fino a che non ritroverò il tuo amato Nathan…. Se è ancora vivo.”
Pensò, respirando piano e augurandosi che Alberto non si fermasse troppo
presto.
Alberto aprì gli occhi
svegliato da un suono molto consueto, ma che di solito non lo destava
all’improvviso: la sirena di un’ambulanza. Nella penombra della stanza, si
accorse che non era a casa sua. Logico. Era rimasto a dormire con Thomas, e ad un
certo punto della serata erano andati a letto. Insieme. Thomas si era
addormentato quasi subito, ammettendo come unico vezzo quello di tenere la mano
ad Alberto, che si era addormentato subito dopo. Il letto era abbastanza grande
per entrambi, più o meno come quello di Alberto e Nathan.
Eppure, c’era qualcosa che
non quadrava. Lanciò un’occhiata alla finestra socchiusa. Da lì, la poca luce
che filtrava dava alla stanza un’aria spettrale. Restò imbambolato a guardare
la finestra per un bel po’, poi lo sguardo si spostò su Thomas. Il ragazzo
dormiva rannicchiato in sé stesso, i capelli sparsi sul cuscino lo rendevano
ancora più giovane di quanto già non sembrasse. L’unico chiaro riferimento alla
sua età era una peluria incipiente sulle guance. Nel tentativo di capire quanto
ispida fosse la timida barba di Thomas, Alberto allungò una mano e gli carezzò
una guancia… Era un po’ ruvida, ma il ragazzo restava comunque molto carino
anche con quel velo di peluria sulle guance. Pensò a Nathan, che di barba non
ne aveva mai avuta in vita sua, se si voleva escludere un periodo in cui aveva
portato il pizzetto. Il fatto che Thomas fosse carino anche con un po’ di barba
lo fece sorridere.
-Alberto…-
Si sentì chiamare, e gli
si gelò il sangue nelle vene. Da dietro la tenda che separava la zona notte
dalla zona giorno, dove c’erano cucina, salotto e angolo studio, filtrava un
po’ più di luce grazie alle enormi finestre, che creavano una specie di effetto
controluce con la tenda. E dietro di questa, c’era una figura. Leggermente
spaventato, Alberto provò a chiamare Thomas, non tanto per farsi aiutare,
quanto per metterlo in guardia.
-Thomas… Thomas.-
sussurrò. Nessuna risposta.
Con la mano scosse la
spalla del ragazzo, che per tutta risposta fece un mugolio ma non aprì gli occhi.
-Thomas. Svegliati. C’è
qualcuno in casa.- disse di nuovo, sussurrando il più piano possibile. Ma
Thomas non si svegliava. Sembrava essere stato colpito da un misterioso coma
durante la notte. “Cristo” bestemmiò Alberto tra i denti, mentre la figura
scompariva alla vista. Velocemente, Alberto infilò un paio di pantofole e prese
una vestaglia lì vicino, e sbirciò dalla tenda. Nell’appartamento, di spalle,
c’era una persona molto conosciuta.
-Na…Nathan!- quasi urlò.
Era lui, di spalle, che si accingeva ad uscire. Contrariamente alle aspettative
di Alberto, non trapassò la porta come un fantasma, bensì la aprì e se la
richiuse alle spalle. Immediatamente, Alberto scattò all’inseguimento. Corse
verso la porta ed uscì, vestito solo del pigiama e della vestaglia. Sentiva i
passi di Nathan che scendevano le scale, la cosa strana era che nonostante
stesse facendo gli scalini il più veloce possibile, non riusciva a raggiungerlo. Sentiva soltanto i suoi passi, e gli sembrò veramente strano
(nonché inquietante) che il ragazzo fosse già così avanti. Era quasi come se la
velocità di Alberto fosse la stessa di Nathan, se non addirittura inferiore.
Comunque, riuscì a guadagnare la porta d’uscita del palazzo.
Fuori, c’era molta nebbia.
Una nebbia improvvisa, insolita. Troppa, per essere soltanto Novembre. Si
guardò intorno, cercando con gli occhi il suo ragazzo. Lo vide, e urlò al suo
indirizzo.
-Nathan!!!-
Ma Nathan non si girò, né
si fermò. Anzi, prese a sgambettare, proprio come faceva di solito quando
andava a fare footing d’estate. Da dietro, Alberto poteva vedere il lembo della
sua sciarpa che svolazzava.
-Fermati, Nathan! Sono
qui, non ti ho dimenticato!- disse, a sua volta incominciando a corrergli
dietro. Sicuramente Nathan era arrabbiatissimo con lui, ma piuttosto che fargli
una scenata preferiva scappare. Anche se Nathan arrabbiato era un personaggio
che Alberto non aveva mai visto in cinque anni di relazione. E allora perché
scappava?
Non fu difficile seguirlo.
Stranamente la città di Torino sembrava essere stata avvolta dalla nebbia ed
era come se tutte le auto in circolazione fossero state cancellate. Se ne
accorse poco dopo. Nessun rumore di motore, nessun clacson… addirittura nessuno
in giro. Cosa stava succedendo? Improvvisamente, si sentì gelare il sangue
nelle vene, e non era per il freddo. Correre con le pantofole non era il
massimo della comodità, ma per ora non stava perdendo di vista il suo ragazzo,
che nel frattempo si era fermato.
-Nathan! Aspetta… se .. se
mi dai due minuti di tempo ti posso spiegare tutto. T…Thomas è soltanto un
amico. Sì, soltanto un buon amico. Io non ho fatto proprio nulla con lui… E
anzi… stavamo… stavamo lavorando per trovarti. E…-
Non fece in tempo a
concludere la frase che Nathan era partito di nuovo. Questa volta Alberto si
inquietò sul serio, pensando di essere diventato invisibile all’improvviso.
Nathan virò verso un
marciapiede, sovrastato da un grande muro con un filo spinato. All’apparenza di
Alberto sembrava una prigione, ma non avrebbe saputo dire con esattezza cosa
fosse. Era troppo impegnato a tenere gli occhi addosso a Nathan, che svoltò ad
un angolo. Lo stesso fece Alberto, ma quando svoltò, non c’era più nessuno.
Nathan era scomparso. Come volatilizzato. Di fronte a lui, soltanto un marciapiede
del quale non se ne vedeva la fine. Quella cazzo di nebbia dava l’impressione
che si estendesse per un raggio di chilometri. Si domandò se sarebbe stato
opportuno continuare, oppure tornare indietro a casa di Thomas e cercare di
dormire… Ehi ma… dov’era finito?
Si guardò intorno, notando
che per un qualche fenomeno fisico la strada si era ristretta improvvisamente.
Si voltò, percorrendo a ritroso la strada che aveva fatto correndo, ma oltre
alla strada ristretta, sembrava che anche la nebbia si fosse infittita. Nessuno
in giro, neanche un’auto, niente di niente. Torino era stata improvvisamente
inghiottita da quella coltre di nebbia impenetrabile. Si sentì mancare il
respiro, ed il cuore iniziò a battergli forte. La testa gli girava, e stava per
perdere l’equilibrio. Si appoggiò al muro, guardando avanti a sé sperando che
il marciapiede non gli crollasse sotto i piedi. Stava sperimentando un attacco
di panico in piena regola, ed in quel momento desiderò ardentemente di avere lì
qualcuno, Nathan, Fabrizio, Thomas… Persino la sua psicologa.
Si girò verso il muro,
camminandovi appiccicato con le mani divaricate a cercare una porta, una via
d’uscita qualunque. Non la trovò, ed il panico si stava facendo sempre più
forte. Gli occhi corsero di qua e di là in quell’immenso mare bianco, fino a
scorgere una nuova figura eterea. Un miracolo! Con un po’ di speranza nel
cuore, Alberto se ne fregò e si mise ad urlare all’indirizzo di quella persona.
-Aiuto! Mi sono perso!-
La figura non disse nulla.
Si limitò a venire avanti. Alla sensazione di sollievo iniziale di Alberto,
subentrò nuovamente il panico. Quella figura sconosciuta avanzava, ma
nonostante questo la nebbia non si affievoliva, impedendogli una corretta
visione. Cercò di allontanarsi, ma senza punti di riferimento non gli fu
proprio possibile.
Ma cosa stava succedendo?
Possibile che fosse tutto vero? “Se è un sogno voglio svegliarmi se è un sogno
voglio svegliarmi se è un sogno voglio svegliarmi se è un sogno voglio
svegliarmi…” stava ripetendo a sé stesso, atterrito dall’incedere lento di
quella figura. Ora poteva persino sentirne chiaramente i passi. Tic… toc. Tic…
toc. Tic…toc. Facevano le scarpe dell’individuo… Era sempre più vicino, e
Alberto era in trappola. Una trappola insolita, fatta di nebbia.
Improvvisamente memore di
uno stratagemma fanciullesco per scacciare via le cose paurose, chiuse gli
occhi. Li chiuse talmente forte che quasi sentì dolore. Quando li riaprì, la
nebbia c’era ancora, ma la figura era scomparsa. Guardò a destra ed a sinistra,
adesso più calmo. Fece per staccare la schiena dal muro, quando per poco non
gli venne un infarto.
Una massa di pelo cadde
giù dal cielo, solo che anziché cadere al suolo, restò appesa a penzolare,
attaccata ad un cavo elettrico. Poi un’altra, e poi un’altra ancora. Erano
tutti i gatti che avevano visto nella cantina del casolare, decapitati e appesi
per le zampe. Alberto urlò.
*****
-Alberto! Alberto!!!
Svegliati!!!-
Una volta riaperti gli
occhi, Alberto si ritrovò nel letto di Thomas, il ragazzo che lo guardava con
un’aria impaurita.
-T…Thomas. Cazzo, è …-
deglutì, sbattendo le palpebre, incredulo di essere sano e salvo.
Istintivamente, prese Thomas e lo abbracciò, mentre dentro di lui i sentimenti
incominciarono ad esplodere. Per la prima volta in due anni, si mise a
piangere. Preso all’improvviso, Thomas non poté fare a meno di provare un
sentimento di tenerezza verso Alberto, che si stava sfogando sulla sua spalla.
Invece di respingerlo, si mise a carezzargli i morbidi capelli castani.
Tuttavia, non poté evitare di lasciarsi sfuggire un sospiro, conoscendo perché
Alberto stava piangendo.
-Hai avuto un incubo…
Alby… cos’hai sognato?- gli chiese, stringendolo dolcemente a sé.
-Ho… Ho s….- attaccò
Alberto, singhiozzando disperato –Ho … sognato Nathan. E … e poi… il sogno.. si
è trasformato in un … incubo.- Parlava con la voce rotta dal pianto, il che faceva
intendere chiaramente da quanto tempo Alberto stesse covando quelle lacrime.
Thomas annuì, stringendolo e continuando ad accarezzarlo, per niente tranquillo
riguardo alla situazione psico – emotiva di Alberto, desiderando ardentemente
di non essere mai entrato in casa sua a picchiarlo, desiderando che non avesse
mai perso Daniele, desiderando soprattutto… di poter porre fine alle sofferenze
di quel povero ragazzo. Sospirò, pregando chiunque fosse lassù di aiutarlo a
trovare una soluzione per questo caso…
Nonostante Thomas avesse
insistito affinché restasse con lui ancora un po’, Alberto aveva preferito
andarsene a casa, per poi andare immediatamente al lavoro. Si era sentito un
po’ offeso dal fatto che non avesse nemmeno voluto accettare una buona colazione,
ma non voleva dargli la sgradevole impressione di essere un ragazzo che forzava
la gente o che rompeva le palle. Era già stato sufficiente comportarsi come un
ragazzino la sera prima, e prima ancora nel pomeriggio. Thomas era fatto così.
Quando c’era qualcosa che non riusciva a digerire, diventava intrattabile. Nel
corso della sua vita ce n’erano stati abbastanza di episodi del genere, salvo
che nel periodo in cui stava col suo ragazzo, quando era praticamente felice su
tutti i fronti. Felice? Non siamo troppo entusiastici. Diciamo che era
tranquillo. Sì, era soltanto tranquillo, gli andava bene sentirsi di qualcuno
per sempre, anziché per una sera come in passato. In una cartella del suo
computer teneva una foto di Nathan (che fosse d’ausilio per le sue indagini),
presa dal sito web di un’agenzia di stampa che aveva battuto la notizia della
scomparsa, due anni addietro. Lo guardò, e si sentì di nuovo a confronto con
lui, un ragazzo che era riuscito ad ottenere una sua stabilità contro un
ragazzo che era stato usato da tutti e quando credeva di aver trovato il vero
amore, questo l’aveva abbandonato. La fotografia era una normale fototessera di
quelle che si usano per i documenti (Alberto gli aveva confermato che era la
fotografia sulla sua patente), con lo sfondo bianco e gli angoli sfumati. Con
quegli occhi color cristallo, doveva essere sicuramente un desiderio segreto di
molti ammiratori, che probabilmente sognavano di notte le sue labbra così ben
fatte ed immaginavano il suo sorriso. E sapeva bene cosa Alberto pensava di
lui, del suo ragazzo. Ne era innamorato pazzo. Sospirò, chiedendosi quale
ragazzo può essere così innamorato del suo boyfriend a tal punto da rinunciare
ad avere rapporti per due anni interi… lui che era abituato a mariti fedifraghi
e fidanzati infedeli, vedeva in Alberto una specie di persona brillante per
molti aspetti, ma soprattutto per amore.
“Se solo tu sapessi,
Nathan, quanto sei fortunato ad avere un ragazzo come Alberto…” pensò,
guardando negli occhi la fotografia di Nathan, che per tutta risposta non
cambiò espressione ma rimase lì sullo schermo a sorridere… “No, non voglio
rubartelo. Non….” Sospirò, mentre pensava quel monologo interiore. “Non lo
farei mai… dimmi soltanto cos’hai tu che io non ho. Cosa bisogna fare per piacere
ad un ragazzo? Qual è la ricetta per riuscire a tenere una relazione stabile
per più di un anno?” mentre i pensieri gli fluivano nella mente, ricordò un
episodio che ebbe con il suo ragazzo.
Era il periodo in cui
doveva dare l’esame di criminologia e metodo investigativo, ed il suo lavoro,
in aggiunta allo studio, lo teneva abbastanza lontano dal suo ragazzo. Questi
stava cominciando ad accusare dei malumori, sotto forma di porte sbattute
troppo forte quando usciva la mattina per andare al lavoro, risposte fredde a
domande banali, e comunque un sistematico silenzio che ben presto si sarebbe
tradotto in un’esasperazione. Una sera, erano entrambi a cena, uno di fronte
all’altro, nell’appartamento che si erano trovati per conto loro.
“Claudio…?” aveva chiesto
timidamente Thomas, indugiando con la forchetta sui pochi maccheroni rimasti
nel suo piatto, cucinati dal suo fidanzato.
“Eh?”
“Posso farti una domanda?”
Claudio fece un sospiro
seccato, mentre annuiva.
“Che cosa faresti se io un
giorno scomparissi all’improvviso?”
Ci fu un lungo silenzio
dopo quella domanda, un silenzio riempito soltanto dalla forchetta di Claudio
che finiva i maccheroni. Dopo il lungo silenzio, Claudio si pulì le labbra e
rispose “Trovo che questa sia una domanda sciocca. È del tutto ovvio che ti
cercherei, non credi?”
In quel momento preciso,
una ventata d’aria gelida investì il corpo di Thomas, che si sentì il cuore
preso in una stretta di ghiaccio. Non erano state solo le parole in sé a
provocargli quella reazione, ma bensì un’agghiacciante tono di sufficienza che
forse avrebbe preluso ad un imminente addio. Come poi era stato.
Che cosa aveva chiesto
Alberto al suo Nathan, che cosa gli aveva detto prima che lui scomparisse nel
nulla, forse vittima di un pazzo assassino? Era troppo sicuro che l’ultima
parola gli avesse detto era un “ti amo”, magari detto sotto le coperte dopo una
notte d’amore, con un tono puro e semplice, come dovrebbe essere in un rapporto
sentimentale tra due persone.
L’amore per Thomas era un
arcano. Per anni aveva vissuto a dispensare l’amore surrogato, offrendo il suo
corpo in cambio di denaro ad anziani padri che, più che amore, desideravano
sesso dai figli, ovvero adolescenti o giovani ragazzi che avevano solo bisogno
di soldi. Quando era arrivato Claudio, qualcosa era cambiato, in lui. Essere
felici di convivere con qualcuno, di dare il suo corpo ad una persona sola, era
questo il senso dell’amore? Sopportare qualcuno anche quando era d’umore nero,
era anche questo amore? Ma che cosa cavolo era l’amore per Thomas?
Quando era bambino gli
capitava di provare dei batticuore per dei ragazzi che vedeva ogni tanto
all’Istituto. Ricordava fin troppo bene quei sentimenti, una sensazione di
sconvolgimento e tremore attraverso tutto il corpo, accompagnata da battiti cardiaci
molto accelerati… Una sensazione bellissima ma al tempo stesso paurosa. Il
dolore più bello, come qualcuno l’aveva definito.
Si alzò dalla poltrona,
bisognoso di qualcosa che lo calmasse. Preparò un po’ di camomilla e si rimise
al lavoro sul portatile, spremendosi bene le meningi sul posto che Alberto gli
aveva descritto. Un altissimo muro contornato di filo spinato, di cui non
sapeva dire se fosse in città o fuori.
Cliccò con il mouse su
un’altra veduta della città di Torino, incrociando i dati di Google con quelli
di Google Maps, certo di una cosa: “Quel posto esiste.” Pensò, cercando quanto
più possibile rassomigliasse alla descrizione che gli aveva fatto Alberto.
*****
Come ogni giorno feriale,
all’Università c’era il solito viavai di ragazzi. Su e giù per l’atrio
centrale, oppure di fronte alle porte delle aule. Era giorno di lauree, e
c’erano parecchi laureandi vestiti con gli abiti della domenica che aspettavano
di venire ricevuti. Migliaia di flash, macchine fotografiche, personaggi che si
preparavano con trepidazione a ricevere un pezzo di carta per cui avevano
lavorato da un minimo di tre ad un massimo di cinque o più anni. Eccetto che in
contabilità, Alberto non era mai stato bravo in alcuna materia. Gli sarebbe
piaciuto essere chiamato dottore, un giorno, ma dopo il diploma in ragioneria
non si era più sentito di continuare. E poi, all’università ci era entrato
ugualmente, vincendo per un soffio un concorso pubblico, per un posto che non
smetteva mai di benedire. L’unica cosa che lo lasciava perplesso era che con
tutti i ragazzi che si sarebbe potuto trovare all’università, l’unico che
avesse mai amato l’aveva trovato in un internet cafè. Ora stava camminando
facendosi strada tra la calca di persone in attesa, diretto verso l’archivio. I
giovani erano tanti, ed erano tante anche le ragazze. Qualcuna lo guardò con un
sorriso, chiedendosi chi fosse quel ragazzo con il badge attaccato al petto, che
identificava il proprietario.
Ma lui niente, continuava
la sua corsa verso i locali dell’archivio, che – chissà per quale strano motivo
– non erano mai a portata di mano. Nel suo incedere, fece un passo falso e si
scontrò con un ragazzo che veniva da un corridoio laterale.
-Ahi!-
-Ehi!- esclamò Alberto,
quasi cascando sulle ginocchia.
-Oh, chiedo scusa.-
Era quel ragazzo che
cinque anni prima gli aveva fatto cadere tutti i fogli degli stipendi. Quello
che aveva il nome che cominciava per effe. Alberto lo riconobbe subito, e anche
il ragazzo se ne ricordò.
-Alberto, ciao! Dove vai
di bello?- chiese questi, Alberto non ricordandosi il suo nome.
-A fare il mio lavoro-
rispose Alberto.
-Come sei freddo! Ho i
geloni, da quanto sei freddo!- rispose il ragazzo, portandosi una mano alla
bocca e ridacchiando, nonostante Alberto non ci trovasse nulla da ridere. Lo
salutò con un velocissimo “Ciao” e si congedò senza preoccuparsi, ma il ragazzo
lo seguì.
-Ehi, ma ti sono davvero
così antipatico?- domandò il ragazzo –quando mi vedi, scappi sempre via…-
A parte che non lo vedeva
da una vita, e poi chi cavolo era quel ragazzino che si permetteva di rompergli
le scatole in quel modo? –Ma no, non è che… insomma…- sospirò Alberto –è che ho
del lavoro da fare.- concluse. Il ragazzo annuì e gli sorrise nuovamente,
sistemandosi una ciocca di capelli castani vicino l’orecchio.
-Senti, visto che non hai
nulla da fare, che ne diresti se ti invitassi da qualche parte, stasera?-
propose il ragazzo. “Oh cazzo” pensò Alberto, roteando gli occhi leggermente.
–E dove vorresti andare?- chiese Alberto, incrociando le braccia. Qualunque
ragazzo avrebbe dato il braccio destro per essere al suo posto, abbordato da un
altro ragazzo molto carino… invece lui si sentiva abbastanza infastidito e
comunque non era proprio dell’umore per uscire. Non con le indagini di Thomas
in corso e non con il suo fidanzato ancora mancante e senza possibilità di
sapere se fosse ancora vivo o meno.
-Questa sera sarò in
discoteca. Io lì faccio il P.R., e magari pensavo che potevi raggiungermi.- gli
disse con un gran sorriso. Una particolarità della mente di Alberto era che
pensava che i ragazzi che sorridevano troppo fossero falsi. Annuì, aggiungendo
un “Ci penserò su”, fece per andarsene ma il ragazzo lo tirò per il braccio e
gli mise un bigliettino nella mano sinistra.
-Lì c’è il mio nome ed il
mio numero.- disse Filippo (così aveva letto Alberto sul bigliettino).
-Dimmi la verità, non lo
stai facendo solo per avere una persona in più in lista, vero?- domandò
Alberto. Per tutta risposta, Filippo scrollò le spalle e contrasse le labbra in
un sorrisetto malizioso.
-Chissà? Magari se vieni
lo scoprirai da te se voglio solo infilarti in lista oppure no.- concludendo,
gli fece l’occhiolino. Alberto serrò le labbra e pensò che come risposta gli
sarebbe anche bastato un “sì, ti voglio solo per mettere più gente nella mia
lista”. Annuì, quindi lo salutò per l’ennesima volta e si congedò, sentendo lo
sguardo di Filippo su di sé anche adesso che si era voltato.
Rimasto solo, Filippo fu
raggiunto da altri due ragazzi, che lo abbracciarono e gli diedero pacche sulla
schiena. Amici, sicuramente. Non come il proprietario di quella giacca che
faceva capolino da una porta, e che aveva ascoltato quasi tutta la conversazione
tra Alberto e Filippo.
Alle ore diciotto Thomas
era lì seduto alla sua scrivania, dopo aver tralasciato i tentativi di cercare
il muro onirico, ora si stava dilettando a cercare di dare un senso alle
lettere scritte sulle pareti e sui muri della cantina del casolare. In verità
vedere ancora una volta quei gatti impiccati e squartati appesi ai cavi
elettrici non gli giovava allo stomaco. Trangugiò ancora un po’ della sua
tisana alle erbe, che in un certo senso riusciva a dargli quel rilassamento
necessario a sopportare delle visioni di quel genere. Poi il suo sguardo cadde
sul cellulare, che era lì accanto, poggiato su un libro.
“Lo chiamo… o non lo
chiamo?” pensò, allungando la mano verso il telefono. Si morse il labbro,
dubbioso. Se lo chiamava in quel momento, di sicuro lui era in procinto di
uscire dal lavoro. Però… cos’avrebbe pensato se l’avesse chiamato ancora una
volta? Il pensiero di essere considerato un rompiscatole tormentava Thomas.
Voleva sentirlo ancora, ma non osava comporre il numero. “Ehi ciao Alby, sai
volevo invitarti a cena… No, questa volta senza vino, te lo prometto!” sorrise,
ridacchiando fra sé “…Però magari se vuoi te ne verserò un bicchiere… ma solo
se insisti.” Si alzò, andando verso il tavolo della cucina, facendo finta che
ci fosse lì Alberto, a servirlo… “Cucino bene, vero? Non credi che potrei… che
ne so, magari fare innamorare qualcuno con la mia cucina?” e rise ancora nella
sua solitudine, salvo poi accorgersi che era da solo nel suo loft, e Alberto
era ancora al lavoro. Sospirò.
“Andiamo, Thomas. Si può
sapere cosa ti prende? Non hai mai fatto così, e soprattutto non puoi iniziare
adesso. Hai un lavoro da fare, e comunque Alberto è un ragazzo fidanzato e tu
ti stai lasciando prendere troppo la mano.” Spalancò gli occhi a quella vocina
che gli veniva da dentro. Era fievole quanto un sussurro, ma lui la sentì anche
fin troppo bene.
-Ma allora perché mi ha
baciato, ieri?-
“…Forse perché ti ha visto
in pena. La debolezza porta sempre guai, ricordatelo.” Rispose la vocina.
-Io vorrei soltanto che…-
“Lascia perdere quello che
vorresti tu. Devi ritrovare Daniele, no? E allora spicciati. Il tempo stringe.
Smetti di fantasticare e cerca di cavare fuori qualcosa da quelle lettere, se
hanno un senso.”
Ascoltando la sua voce,
Thomas si rimise al lavoro e cercò di capire qualcosa di quelle foto
allucinanti. Trascrisse tutte le lettere che vedeva su un foglio. Poi le ordinò
secondo vari criteri. Prima le lettere italiane, poi quelle straniere. C’erano
molte B, molte C, moltissime X e Y. “Certo che se lo risolvessi prima io questo
delitto, farei fare una brutta figura alla polizia e in più… venderei un sacco
di copie del mio libro.” Sogghignò, pensando alle bozze che teneva in serbo sul
portatile. Molte di esse erano più delle fantasie che fonti giornalistiche;
diciamo dei piccoli racconti scritti da lui. Forse l’informazione non era la
sua strada, magari poteva esserlo la narrativa. Scrivere gli piaceva, ma amava
sia inventare che informare: all’Università, con il suo saggio sulla
“Correlazione tra l’età delle vittime di sequestri o scomparse e varie zone
d’Italia”, si era guadagnato le simpatie dell’editore bolognese per il quale
lavorava. Siccome però il saggio mancava di un “qualcosa che non so spiegarti,
così sui due piedi, caro Thomas”, per il momento giaceva in un angolo privilegiato
della scrivania del Dottor Cremonini, in attesa di quell’integrazione che
Thomas avrebbe dovuto scrivere. Una volta completata quella, il volume sarebbe
stato sicuramente pubblicato, ed il ragazzo avrebbe guadagnato un congruo
anticipo sulla pubblicazione. “L’Italia è un paese di voyeurs. Un bel libro
sulle persone scomparse che prelude ad uno di omicidi, e diventi ricco.” Come
se il denaro fosse il primo dei suoi pensieri. Cercò di farlo diventare, almeno
per il momento, per spronarsi a continuare il suo lavoro sulle lettere e di
conseguenza snobbare il cellulare che ancora capeggiava, silenzioso, sulla sua
scrivania.
*****
“Lo chiamo… o non lo
chiamo?”
Cellulare in una mano, e
biglietto da visita nell’altra, Alberto era indeciso se chiamare Filippo e
unirsi a lui nella serata. La lista chiudeva alle dieci, quindi aveva ben
quattro ore per prepararsi. Un patrimonio di tempo, se si considerava che negli
ultimi giorni le sue ore erano praticamente volate via in un istante, tra
lavoro, indagini e … Thomas. Chissà cosa stava facendo adesso? “Magari se lo
chiamo gli chiedo se vuole venire con me…” pensò, poi si bloccò dopo pochi
secondi. “Aspetta. Non sai come potrebbe reagire se lo inviti ad una serata in
discoteca.” Sbuffò. “Oh, al diavolo… ma perché ti preoccupi così tanto per lui?
Neanche fosse il tuo fidanzato!” si lasciò andare sul divano, rilassandosi
completamente. Le sue dita giocarono a lambire il telecomando, toccando
distrattamente i tasti. Li toccò a caso, e a differenza degli altri giorni, il
televisore si accese su Raitre, mentre trasmetteva il TG Regione.
-…non ci sono
aggiornamenti riguardo l’omicidio di Nevio Scalise, il ventiduenne trucidato
nel suo appartamento nel quartiere della decima circoscrizione a Torino. Gli
inquirenti tendono ad escludere il movente economico in favore di quello
passionale, ma vediamo il servizio.-
E lì partirono le
immagini. Alberto guardò l’ambiente, ascoltando le spiegazioni della
giornalista, avvertendo sempre più imminente un’inquietudine data dalla
pesantezza della situazione. Il luogo era proprio quello dove aveva lasciato
Nevio, il palazzo con il grande piazzale, circondato da automobili. Nella
sequenza era intanto comparsa un’intervista al Maresciallo dei carabinieri
giunti sul posto, e l’attenzione di Alberto fu catturata da un particolare.
Un’auto grigio scuro, una
Volkswagen Polo vecchio modello, forse del 2004. Mentre l’intervista andava
avanti, lui osservò quell’auto, avvertendo qualcosa di strano nei recessi della
sua mente. Come dei campanelli d’allarme che non poteva sentire perché troppo
lontani.
“Quell’auto… Mi ricorda
qualcosa, ma non riesco a …”
In quel preciso istante,
suonò il suo cellulare. Si alzò di scatto dal divano, andando a recuperarlo nel
suo cappotto.
-Pronto?-
-Ehilà, allora vedo che
esisti ancora! Che fine avevi fatto?- era Fabrizio, gioviale come al solito.
Alberto sospirò.
-Secondo te? Io lavoro
come te, Fabry… Comunque, avrai sentito che cos’è successo a Nevio, vero?-
-Sì, l’ho sentito. Ti
hanno chiesto una testimonianza?-
-No, per fortuna-
camminava avanti e indietro, come faceva quasi sempre quando parlava al
cellulare. –A te?-
-Niente. Sono stato
attento a rimanere anonimo. In fondo, non è che c’entrassimo qualcosa con quel
povero ragazzo…-
-Stai tranquillo che se
quello andava avanti ancora un po’ l’altra sera, io c’entravo eccome.-
-Vuoi dire che…?- lasciò
in sospeso la frase. Alberto annuì, rispondendogli che Nevio ci aveva
letteralmente provato e che se non era per Thomas che lo chiamava, probabilmente
ci sarebbe stato anche un rapporto sessuale non consenziente.
-Un momento- lo fermò
Fabrizio –Chi sarebbe questo Thomas? Non penso che tu me ne abbia parlato.-
Alberto si batté un colpo
sulla fronte –Oh. Già, non te ne ho parlato. Praticamente è un amico di
Daniele, quell’altro ragazzo scomparso, che si è offerto di aiutarmi a
ritrovare…- Si morse la lingua, ricordando che Thomas gli aveva detto
esplicitamente di non far sapere a nessuno che stava indagando parallelamente
alla polizia. Non gli piaceva tenere un segreto così al suo migliore amico, ma
disse a sé stesso che lo stava facendo per Nathan, e che una volta ritrovato,
si sarebbero riuniti tutti insieme per una pizza ed una birra come facevano di
solito. Mentre Alberto pensava, Fabrizio attese, ma quando non vi fu risposta,
lo sollecitò.
-Allora?-
-Eh? No, niente… è solo un
amico comune. Niente di che…- sorrise, sperando che Fabrizio se la sarebbe
bevuta, il che era molto improbabile ma teoricamente possibile. Si immaginò
Fabrizio dall’altro capo del telefono aggrottare le sopracciglia e grattarsi il
mento in segno di incertezza, poi alzare le spalle e prendere per buono ciò che
il suo migliore amico gli aveva appena detto, ma rimuginandoci sopra ogni
tanto. Fabrizio era un bravo ragazzo, ma al tempo stesso difficile da
incastrare.
-Come va con Rosanna?-
Buttò lì Alberto, tanto per rompere il silenzio.
-Ah, con lei va tutto
bene. A proposito, volevamo invitarti questa sera per una pizza… Magari visto
che l’ultimo che ti ho presentato è morto, è meglio se porti tu quel tuo amico…
Come hai detto che si chiama?-
-Thomas- disse tra i denti
Alberto, non proprio contento della battuta che aveva fatto Fabrizio. E non era
troppo contento del fatto che stesse parlando così liberamente di un omicidio al
cellulare. E se la loro conversazione fosse stata intercettata? –Comunque non
lo so. Sono abbastanza stanco, e … magari voi due preferite conoscervi meglio.
Cosa ci vengo a fare io con …- si interruppe, non volendo menzionare ancora una
volta Thomas -…con il mio amico?- concluse.
Ridacchiando, Fabrizio
rispose –Alby, ma proprio non capisci? Io e Rosanna vogliamo annunciare il
nostro fidanzamento ufficiale.- A quelle parole, Alberto strabuzzò gli occhi.
-Come come come? Ti vuoi
fidanzare con Rosanna? Ma… Fabry, sei sicuro?-
-Mai stato più sicuro.-
Ribatté quello, secco, con un tono di voce che faceva capire che Fabrizio stava
sorridendo mentre lo diceva. Immediatamente le congetture sul futuro di loro
due fecero capolino in testa ad Alberto, che prima vide l’amico a braccetto con
la ragazza dai ricci vaporosi; da lì lo vide accompagnarla all’altare ed
infilarle un anello al dito, per poi ancora spingere una carrozzina e tenere in
braccio un neonato. Tutto questo mentre lui era escluso dalla sua nuova vita.
Si sentì crollare il mondo addosso, soprattutto al pensiero che Nathan non era
lì in quel momento, pensando che Fabrizio se n’era deliberatamente dimenticato.
“Ma come” avrebbe voluto dirgli “Non pensi che io sono qui da solo che sto
cercando di ritrovare il mio ragazzo… e.. e tu… dai un annuncio ufficiale di
fidanzamento? Senza che Nathan possa parteciparvi? Questo… questo è…
inaccettabile!”
Aprì la bocca,
preparandosi a versargli addosso tutto quel discorso, ma si fermò, timoroso di
sentirsi rispondere la solita solfa: “Guarda che il mondo non gira intorno a
Nathan, Alberto. Sarebbe ora che tu ti svegliassi. Non puoi continuare a
vegetare nel suo ricordo, lo vuoi capire?”
Richiuse la bocca, a
questo punto non sapendo più cosa dire.
-Bene. Sono contento per
voi- rispose meccanicamente –Io questa sera non posso venire, ma se tu fossi
così gentile da spostare questa cerimonia, magari io potrò esserci.- concluse,
mentre Fabrizio restava in silenzio. Intuì chiaramente di essere stato il primo
a cui Fabrizio aveva dato quella notizia, e ciò lo riempì di gioia, ma al tempo
stesso sarebbe stato un guaio se Rosanna avesse appreso di essere stata seconda
al migliore amico del suo fidanzato “Hai molte cose da imparare, Rosy…” pensò
Alberto.
-Effettivamente posso ancora
aspettare un po’- rispose Fabrizio, con una voce in stile “ma sì, forse è la
cosa giusta da fare”, non troppo convinta ma nemmeno troppo entusiasta –Ma bada
che lo faccio per te, d’accordo? Lo so che tu vorresti che Nathan fosse lì a
vedere la mia fidanzata ed il mio matrimonio… Quindi non ti cullare troppo
sugli allori. L’invito è soltanto rimandato. Sbrigati a trovare il tuo
ragazzo.-
L’ultima affermazione
stizzì un po’ Alberto, che chiuse gli occhi e chiuse in un pugno la mano
destra, mentre quella sinistra gli tremava per il nervoso. Strinse con più
convinzione il cellulare. –Un attimo. Non è che puoi dirmi “Sbrigati a trovare
il tuo ragazzo”, perché se fosse per me io l’avrei già trovato. Sta già
indagando qualcun altro al posto mio, ed io non posso far altro che aspettare.-
Sentendosi preso in
contropiede, dopo un minuto di silenzio, Fabrizio rispose –Ti va fatta bene che
non ho ancora detto nulla a Rosanna- e lì Fabrizio pensò che ancora una volta
aveva avuto ragione, sentendosi di nuovo lusingato ma stranamente inquieto,
come se un temporale sarebbe scoppiato da lì a poco con il suo migliore amico
–però lasciami dire che tu non puoi tenere ferme così le persone, soltanto
perché il tuo ragazzo non c’è più. Onestamente, non sai se se ne sia andato, se
sia stato rapito… per quel che ne so, potrebbe anche giacere con una pietra al
collo nel…-
-Basta così, Fabrizio-
tagliò corto Alberto, questa volta veramente adirato. Sentiva il sangue che gli
pulsava nelle tempie, e non volle ascoltare oltre. –Ti auguro di passare una
bella serata con Rosanna e altresì ti auguro di sposarvi presto ed avere tanti
bambini felici, e prega iddio che non ti nascano omosessuali come me. Buona
serata.-
Sentì Fabrizio che urlava
“No!!! Alby!!! Aspetta!!!” mentre si toglieva il cellulare dall’orecchio e
spingeva il tasto di chiusura della chiamata, spegnendo anche il telefono, che
poi buttò sul tavolo della cucina. Affondò il viso nelle braccia, con una gran
voglia di piangere, ma stranamente non ci riuscì. Dalla sua gola uscirono
soltanto dei singhiozzi e dei colpi di tosse strozzati.
Senza pensarci, riprese al
volo il cellulare, lo riaccese e compose il numero del biglietto da visita di
Filippo.
-Voglio proprio vedere se
Nathan avrà il coraggio di farsi vedere anche stavolta.- pensò, al colmo della
disperazione.
All’iniziale carica
d’entusiasmo dettata dalla voglia di provare a svagarsi un po’, si era
sostituita in Alberto una strana malinconia. Appena era entrato nella
discoteca (che era peraltro mista, non come si aspettava), con tutte quelle
luci e quella musica sparata al massimo, si era sentito subito un pesce fuor
d’acqua. E pensare che durante il tragitto si era riempito di buoni propositi
di divertirsi almeno un po’, dato che gli ultimi sviluppi non erano poi così
promettenti, posto che Thomas non avesse trovato qualcosa di interessante su
cui poter lavorare. Seduto su un divanetto, ripensava ai giorni scorsi.
L’appuntamento con Daniele, poi la sua sparizione, la comparsa di quel mezzo
punk di nome Thomas con quei suoi capelli rossi e quella personalità così
lunatica, poi il casolare, il suo sogno… se ci fosse stato Dario Argento lì
vicino a lui su quel divano, sarebbe stato ben lieto di raccontargli questa
storia, affinché ne potesse trarre un nuovo film horror. Ma Dario Argento non
c’era, e quella era la realtà. Nonostante ciò, non sapeva ancora dove si
collocasse Nathan in questa realtà. Thomas aveva detto che lo stesso individuo
che aveva rapito Daniele poteva essere lo stesso di Nathan, anzi ne era quasi
certo, però le indagini proseguivano piuttosto a rilento. Strinse i pugni,
pensando che forse Thomas se la stava prendendo troppo comoda con le indagini, ma
si calmò immediatamente pensando che comunque era l’unico jolly che gli era
capitato fino ad ora.
Alzò gli occhi. La
discoteca era piena di “ragazzi del sabato sera”,tutti tirati a lucido e bellissimi a vedersi,
ma che, Alberto ne era sicuro, non avrebbero saputo reggere una conversazione
sui grandi cineasti della storia italiana. E di nuovo ritornò alla mente
Nathan, con la sua passione per il cinema ed il teatro, che il sabato sera
anziché portarlo in discoteca, lo portava a teatro a vedere molte opere
liriche, tra cui “Il Lago dei Cigni” di Tchaikovsky, oppure la “Madama Butterfly” di Puccini. Cosa ci si poteva
aspettare da un ragazzo come Nathan, ballerino professionista e laureato al
DAMS? Tante cose. Per esempio, non era vero che passavano le serate sempre da
soli. Tempo fa avevano anche una compagnia di amici (ovviamente Nathan ne aveva
di più, mentre Alberto poteva contare solo e sporadicamente sull’Ingegner
Fabrizio Foschi, che il più delle volte non partecipava alle uscite per non
venire infastidito dagli amici gay di Nathan), i quali adoravano andare in
discoteca a scatenarsi prima e a fare sesso dopo. “Certo che deve essere
proprio stancante avere un fidanzato fisso, non credi, Nathan?” ricordava di
aver sentito una volta, mentre era in bagno. Si ricordava anche il volto di chi
aveva fatto quella domanda, era un idiota di quarant’anni amico di Nathan che
si dava a tutti e che non era mai stanco di prenderlo nel didietro. Forse si
chiamava Giacomo?
“Parli così solo perché sei
invidioso” aveva ribattuto Nathan con quel suo solito sorriso dolce. Poi aveva
chiuso la bocca, sbattuto le palpebre ed aveva aggiunto “…E poi, in tutta
confidenza… Non credo che facendo queste domande insidiose a me, guadagnerai un
po’ di felicità nella tua vita. Incomincia con l’essere meno aperto e più
riflessivo.” Concludendo, ricordava che Nathan gli avesse toccato la spalla e
si era allontanato, mentre quello era rimasto da solo a digrignare i denti,
perché avrebbe tanto voluto farsi Nathan, ma c’era Alberto di mezzo. In
quell’occasione gli era anche scappata una risatina, e si era persino commosso
per la consapevolezza di avere un ragazzo così.
Se non altro, quella
serata in discoteca era servita da viatico per farlo ritornare in sé dopo gli
sconvolgimenti degli ultimi giorni. Thomas era un bel ragazzo, però sicuramente
non era Nathan. E Alberto voleva lui, e non Thomas, ancora una volta. Si pentì
persino di avergli offerto la possibilità di baciarlo…
“Certo che sono stato
proprio un pirla. Ma che mi è saltato in mente di dargli tutta quella
confidenza.” Pensò, salvo poi pentirsi del suo stesso pensiero, proprio mentre
ripensava a Thomas. Si guardò intorno, sperando magari di vederlo comparire. Se
non altro, avrebbe parlato con qualcuno, anziché aspettare Filippo che se ne
stava lì a ballare con altra gente. Lo osservò. Certo che anche lui era un bel
ragazzo, però non sapeva proprio niente di lui. Di nuovo, quella domanda:
perché aveva accettato?
“Oh cazzo, quanti problemi
che mi faccio. Ma perché non mi lascio andare, una buona volta nella mia
vita???”
Strinse i denti e chiuse
gli occhi. Quando li riaprì, Filippo era lì seduto accanto a lui.
-Ciao!- gli disse, con un
sorriso –Ti stai annoiando?-
-No, stavo soltanto
riposandomi un po’.- rispose Alberto, accavallando le gambe e mettendosi le
mani in grembo. Filippo gli andò vicino.
-Sai, sono contento che tu
abbia accettato il mio invito.- altro sorriso. Altro avvicinamento tattico,
questa volta la mano di Filippo era appoggiata allo schienale del divanetto, ma
Alberto non poteva andare oltre perché bloccato dal bracciolo. Poteva sentire
il profumo dello shampoo di Filippo, applicato a quei capelli mediamente
lunghi, e riusciva ad intuire il suo stato emozionale dal movimento del suo
petto, così irregolare. “Cribbio, ma perché ci devono provare tutti con me? Ma
che cos’ho addosso, una specie di calamita per i ragazzi?” imbarazzato, Alberto
provò a fare un sorriso, ma ebbe un tuffo al cuore quando Filippo gli prese la
mano nella sua e lo guardò negli occhi. Il sorriso sulle sue labbra scomparve
lentamente, come sabbia soffiata via dal vento del deserto –Ti voglio dire una
cosa- esordì Filippo –Io so chi sei. Sei quello che ha perso il fidanzato in
circostanze misteriose.- non avrebbe potuto cominciare peggio. Alberto sospirò
dentro di sé, mantenendo però lo sguardo concentrato sul suo interlocutore
-..So anche che sei stato invitato da quell’impiegato che lavorava con te
all’università. Ho visto i servizi al telegiornale.- lasciò in sospeso
quest’ultima frase, guardando intensamente Alberto per un po’ di tempo,
cercando di studiare una possibile reazione che non ci fu. Poi continuò -…Io
credo che il centro di tutto sei tu.- disse, e la sua mano diede una stretta a
quella di Alberto, che digrignò i denti e fece un altro sospirone, leggermente
sconvolto. –Lo sai… sei un bel ragazzo, molto più bello di tutti quelli che io
vedo di solito.- continuò, con uno strano tono mellifluo che però piacque
abbastanza ad Alberto. Chissà, forse era per il fatto che ad Alberto piaceva
essere corteggiato in quel modo, usando le parole anziché i fatti. Nathan
l’aveva conquistato così, usando le parole prima ed i fatti dopo. –Mi piacerebbe
tanto poterti conoscere meglio. Capisco cosa vuol dire ritrovarsi senza un
fidanzato da un giorno all’altro…- disse, e abbassò gradualmente lo sguardo,
gesto che suscitò in Alberto un senso di tenerezza. Tuttavia non era ancora
molto convinto, ed era ansioso di sapere dove sarebbe voluto arrivare. –Quindi,
io volevo chiederti… se potevamo essere amici, ecco.- rialzò lo sguardo, e
Alberto era ancora lì che lo guardava.
-Oh beh- disse Alberto,
portandosi una mano dietro la nuca e massaggiandosela leggermente –non so cosa
dire. Non mi è mai capitato di incominciare un’amicizia in questo modo. Capisco
cosa voglio dire?-
Filippo annuì.
Effettivamente era piuttosto insolito andare da una persona e chiedere se
voleva essere amica. Nonostante i due frequentassero l’università, Alberto per
lavoro e Filippo per studio, non potevano vedersi troppo spesso. Però, l’idea
di avere un altro amico non dispiaceva affatto ad Alberto, e Filippo sembrava
abbastanza intelligente nonostante la parvenza frivola.
-Senti, non te l’ho mai
chiesto…-
-Cosa?-
-Tu cosa studi alla nostra
università?-
-Studio scienze della
comunicazione.- rispose Filippo, sorridendo. Alberto annuì, sorridendo a sua
volta. –E tu cosa fai sempre chiuso lì negli uffici amministrativi?-
-Distribuisco i soldi
delle vostre tasse ai miei colleghi- rise Alberto –lavoro all’ufficio
personale.-
-Oh, ed è difficile?-
-Abbastanza. Ma per
fortuna so quello che faccio.-
E andarono avanti così a
parlare, proprio come due vecchi amici. Tuttavia, c’era qualcosa che la mente
di Alberto aveva registrato, e che stava per venire a galla. Fu quando Filippo
si alzò e lo invitò a ballare. La musica di sottofondo quando loro si
lanciarono nel ballo era la colonna sonora de “Il tempo delle mele”, per cui un
lento. In mezzo a loro, c’erano tante coppie etero, ma anche altrettante gay.
-Beh, me lo concedi questo
ballo, allora?-
-D’accordo.- rispose
Alberto, e Filippo sorrise.
Si unirono in ballo, con
Filippo che teneva la testa sulla spalla di Alberto, mentre questi pensava a
qualcosa che il ragazzo gli aveva detto prima.
-Scusa, Filippo?-
-Sì?-
-Tu prima hai detto che il
centro ero io. Ma cosa volevi dire?-
Filippo ridacchiò, ma
Alberto non ci trovò niente da ridere –Una fesseria. Io sono un grande
appassionato di romanzi noir.-
-E con questo?- incalzò
Alberto, interessatissimo a quello che il ragazzo voleva dire con
quell’espressione.
-Stavo pensando che magari
il colpevole potrebbe essere una persona che ha un debole per te. E non potendo
sopportare che altre persone gli ronzino attorno, le fa sparire o le fa fuori.-
quest’ultima ipotesi fece ricordare ad Alberto l’episodio di Nevio, che quella
sera aveva cercato di abbordarlo e poi il giorno dopo era stato trovato morto
nel suo letto. Chiunque avesse fatto una cosa del genere di sicuro non nutriva
simpatia nei suoi confronti, e quale miglior movente di quello passionale?
Intorno a loro, le coppie
danzavano tranquille, come se loro non avessero mai avuto problemi di omicidi o
sparizioni nelle loro serene vite, e Alberto augurò loro di non avervi mai a
che fare.
-Secondo me, era questa la
connotazione che volevo dare alla mia frase. Hai un ammiratore segreto che
piuttosto che cercare un approccio amichevole, fa queste cose, per motivi che
non saprei dirti.-
Si guardarono negli occhi.
Alberto che dentro di sé sentiva un mare in agitazione, mentre Filippo che
dichiarava le sue tesi con una naturalezza quasi spaventosa. Perché non poteva
essere? Un assassino che si fa avanti soltanto quando c’è il caso che il suo
amore venga minacciato, che elimina i possibili rivali perché è affetto da
turbe psichiche. “Oh mio dio, ma allora…”
La musica si interruppe,
per lasciare posto ad una nuova sfilza di canzoni da discoteca spacca timpani.
In quel preciso momento Alberto ebbe un capogiro.
-Filippo, devi scusarmi.
Io devo andare in bagno.-
-Oh… va bene. Ti aspetterò
qui.-
-Cerca di non allontanarti
troppo, e non dare confidenza agli sconosciuti, va bene?-
Senza annuire, Filippo lo
guardò sollevando un sopracciglio, perplesso. Intanto Alberto si allontanò
verso il bagno, facendo a gomitate tra la folla di gente presente nel locale.
Giunto in bagno, aprì il
rubinetto e si sciacquò il viso una, due, tre, cinque volte. L’acqua colò in
goccioline dal suo viso nel lavabo, e improvvisamente avvertì una sensazione di
paura. Una paura simile ad un babau che balza fuori dall’armadio quando meno te
lo aspetti. Sai che c’è, ma non sai mai in quale notte verrà fuori a mangiarti
il cuore. Si girò di scatto, e aprì tutte le porte dei bagni. Nessuno. Si
guardò ancora intorno, con il cuore in gola.
“Cristo… d’ora in poi
dovrò stare attento a chi mi si avvicina. Forse Filippo è già in pericolo. Sarà
meglio che lo accompagni a casa e che vada nel suo appartamento.” Si passò una
mano fra i capelli, respirando affannosamente. Possibile che un’ipotesi così
innocente come poteva essere stata quella di Filippo l’avesse messo in un tale
stato d’agitazione?
“Spero soltanto che la mia
sia una paura ingiustificata. Ma se anche Filippo dovesse morire, adesso mi
sentirei colpevole.”
*****
Ultimamente i prezzi della
benzina erano livellati un bel po’. Ragion per cui, Thomas utilizzava l’auto
soltanto quando strettamente necessario, ma anche perché temeva che la sua
vecchia carretta acquistata per mille euro da un rivenditore di auto usate lo
avrebbe lasciato a piedi uno di quei giorni. Averla fatta marciare da Bologna a
Torino era stato un azzardo, ma nel complesso la macchinina aveva tenuto il
ritmo, e così era giunto sano e salvo nella sua città d’origine. Ora stava
guidando nella zona periferica, ovvero ai limiti della città. In realtà stava
girando senza una meta prestabilita, cercando di dare un senso logico ai suoi
pensieri. Uno soltanto attanagliava la sua mente.
“Alberto… perché non si è
fatto vivo stasera? Sono preoccupato. Forse dovrei andare da lui e vedere se va
tutto bene…?”
Era un pensiero niente
male, però forse avrebbe dovuto telefonare prima. Sì, e magari avere anche
qualcosa di più su cui parlare. Non poteva certo andare lì a mani vuote, senza
aver proseguito nell’indagine. La pura verità era che il ragazzo non aveva
idee.
“Sì, e cosa gli dico, che
sto indagando perfettamente, che ho una pista ma che non riesco a decifrare le
lettere e non riesco a trovare quel posto che hai sognato? Pazzesco. Mi sono
spacciato per un buon segugio, ed invece…”
…ed invece era soltanto un
azzeccagarbugli, o presunto tale. Già, perché non aveva mai esercitato la
professione e l’unico straccio di celebrità era un libro intonso nel cassetto
della scrivania di un editore. “Ma è troppo presto per arrendersi. Io sono
sicuro che quel muro esiste!!!” alzò gli occhi al cielo, mentre era fermo al
semaforo. –Ehi, se sei lassù, dammi un segno!- pregò, ad alta voce, sperando
che la sua richiesta avrebbe sortito qualche effetto.
Scattò il verde. Thomas
rilasciò la frizione e partì, però anziché tirare dritto sterzò a destra,
ovvero uscendo quasi dalla città.
E fu lì che lo vide.
Inchiodò, e l’auto si
fermò con uno stridore di pneumatici sull’asfalto.
Un muro di cinta
abbastanza alto, circondato da un giro di filo spinato. Dall’alto sarebbe
sembrato un grosso parallelepipedo grigio, tipo quei mattatoi giganteschi dei
film americani, dove di solito si acquattano i malviventi per mettere a punto i
loro piani oppure dove si nascondono le più spaventose creature di questo
mondo, e gli adolescenti che vanno a passare qualche ora di solitudine vengono
squartati… questo parallelepipedo era circondato da un alto muro di cinta,
sormontato da un filo spinato, probabilmente per non fare entrare nessuno. Antistante
al muro, un parcheggio, completamente vuoto. Thomas si morse il labbro
inferiore, nervoso come non mai. “L’ho trovato” pensò, sicuro che quello fosse
il posto giusto. Alla luce fioca della luna il posto appariva molto sinistro.
Un incubo che Alberto aveva già vissuto nei suoi sogni, e adesso una realtà per
Thomas. Con l’auto si avvicinò al complesso, puntando i fari del veicolo verso
il grosso cancello a lance verticali che svettavano verso l’alto. Nonostante
l’età, gli arrugginiti spunzoni delle lance sembravano parecchio affilati e
pericolosi, per cui sarebbe stato saggio non provare ad entrare da lì. Diede un
colpo di abbaglianti e questi illuminarono anche una parte dell’edificio. Le
finestre, così buie e dai vetri infranti, sembravano degli occhi dalle orbite
vuote. Lo stesso edificio sembrava un bestione dormiente, che osservava quel
piccolo mostriciattolo meccanico che gli puntava le luci addosso, in attesa di
svegliarsi e mangiarselo in un sol boccone. Thomas deglutì, sentendo un groppo
in gola per la paura, poi cercò la sua torcia nel portaoggetti dell’auto,
pensando “Voglio vederci chiaro”.
Scese dal veicolo con un
po’ di titubanza, avvicinandosi al cancello con molta cautela. Si guardò
intorno, e accese la torcia. Il fascio di luce colpì la facciata dell’edificio,
ma non era abbastanza potente da penetrare all’interno delle nere finestre. In
ogni caso, era un edificio abbandonato, ma non avrebbe saputo dire che tipo di
edificio fosse.
“Non sembra una scuola… ma
nemmeno una fabbrica…” mugugnò, cercando di sporgersi un po’ di più attraverso
le sbarre del cancello. “Che sia una prigione…?” indirizzò il fascio di luce
della torcia a destra e a sinistra, constatando che non c’era nessuno. Il
cancello era tenuto insieme da una catena ed un grosso lucchetto. Thomas prese
in mano il lucchetto, tirandolo un po’ “Sarebbe stato troppo bello per essere
vero.” Avrebbe tanto voluto entrare e controllare, ma non c’era proprio modo
di…
“Ehi, ma…” toccando la
catena, si accorse che dietro di essa c’era un anello aperto. Girò l’anello in
modo che l’apertura girasse e ….
“Bingo!”
La catena si aprì,
rilasciando il cancello. Lo aprì veramente molto poco, e sgattaiolò dentro. Non
si preoccupò della sua auto, contando di dare soltanto una rapida occhiata per
poi andarsene a casa di filato.
Inspiegabilmente, la porta
d’entrata non era chiusa, e Thomas si sentì un po’ come entrare nella bocca del
mostro. La torcia era stata fornita di pile nuove, per cui proiettava un fascio
di luce molto potente, che illuminò quello che sembrava un atrio. Una grande
hall, con al centro un punto di reception. Però non era un albergo. Somigliava
di più ad un ospedale. Si avvicinò al banco della reception, dove sedie vuote e
polvere testimoniavano che quel posto era abbandonato da un bel po’ di tempo.
Raccattò un foglio che era lì, e lesse l’intestazione.
“Clinica Psichiatrica
Villa del Monte. Questa è bella. Perché Alberto avrebbe dovuto sognare una
clinica?” si domandò. Apparentemente di spiegazioni razionali ve n’erano ben
poche, ma se si andava a guardare l’irrazionale, forse ce ne sarebbero state di
più. Cercò di non pensare a quel dettaglio, continuando con la sua
esplorazione.
Non c’era molto da vedere.
Soltanto corridoi abbandonati e parecchie stanze vuote. Il tutto si componeva
di tre piani, che Thomas visitò tutti, esplorandoli da cima a fondo. Niente di
interessante, soltanto polvere, ruderi, cartacce e robaccia. Stava
attraversando un corridoio, deciso ad andarsene, quando una porta catturò la
sua attenzione.
“Numero 310.”
La decima stanza del terzo
piano. Era l’unica che aveva la porta chiusa. Mise la mano sulla maniglia, che
tra l’altro era anche pulita. Non presentava la minima traccia di polvere. Come
se qualcuno l’avesse spolverata di recente.
“Chiusa. Accidenti…”
Guardò a destra ed a
sinistra, controllando se per caso non ci fosse nessuno a spiarlo “Ma è ovvio
che non c’è nessuno, idiota. Sei qui da solo, questo posto è abbandonato… cosa
potrebbero mai farti? Una multa per sfondamento di una porta?”
Facendosi anima e coraggio,
si allontanò un po’ dalla porta e assestò un poderoso calcio alla maniglia, che
si aprì come per magia. Sorrise, ed entrò. Lo spettacolo che si trovò quando fu
dentro, fu analogo a quello che si era trovato due giorni prima. Una cella
piena di lettere dell’alfabeto, anche dietro la porta, ma soprattutto… alcuni
fogli scritti a mano. Thomas si chinò e li prese, leggendo ciò che c’era
scritto.
“PERCHE’ NON MI AMI – CHE
COSA TI HO FATTO”
Poi la scrittura non
continuava perché il foglio era stato strappato di netto. Inoltre, sotto ai
fogli c’era un ciondolo. Una specie di laccetto con attaccata una “N”.
“N come Nathan…” pensò
Thomas, sorridendo trionfante. Si rialzò, fece un paio di fotografie alla
stanza e fece per uscire, quando all’improvviso…
Gli venne il cuore in gola
quando sentì dei passi dietro di lui. Si girò, e puntò il fascio di luce. Un
individuo con un giubbotto nero ed una maschera bianca sul volto avanzava,
munito di un coltello abbastanza grosso.
-Oh… No!-
Senza dare il tempo al
pazzo di assalirlo, Thomas scattò in un balzo all’indietro, correndo via verso
le scale. Il cuore gli pulsava nel petto dallo spavento, ma cercò di non
perdersi d’animo. Sentiva i passi di quell’individuo che gli correvano dietro.
Fece le scale velocemente, ritrovandosi in men che non si dica nell’atrio
principale. Qui per poco non inciampò e cadde sui suoi stessi piedi, mentre
l’assassino era lì dietro di lui. Riusciva a vedere chiaramente la maschera
bianca che risaltava nel buio, e questo gli diede un incentivo nel correre più
veloce. Attraversò il cortile, aprì il cancello e corse nella sua auto. Accese
il motore e partì, ma l’auto non procedeva in modo regolare.
-Cazzo!!! Mi ha squarciato
i pneumatici!!!- urlò, con orrore sempre più crescente. Abbandonò la sua macchina
e scappò. Intanto il suo inseguitore si era velocizzato e l’aveva quasi
raggiunto. Thomas urlò quando sentì una mano ghermirlo per il braccio.
-Lasciami!! Lasciami!!!-
Alle sue invocazioni,
l’aggressore rispose con una serie di mugolii inarticolati, che fecero
spaventare ancora di più il povero Thomas. Senza perdersi d’animo, Thomas mise
a frutto le sue conoscenze delle arti marziali, e mentre quello lo teneva per
un braccio e si preparava a vibrare una coltellata, alzò un piede e gli assestò
un calcio potentissimo nello stomaco. –Yaaaaa!!!- urlò, e quello mugolò ancora,
senza però cadere a terra. Perse soltanto il coltello, che andò a finire a
pochi passi da lui. Per un attimo Thomas pensò di aver vinto, ma ebbe di che
ricredersi quando il bastardo spiccò un balzo e gli fu addosso, facendolo
cadere. Gli strappò i capelli rossi e gli mise le mani al collo cercando di
strozzarlo, ma Thomas fu più lesto di lui ed iniziò a tempestarlo di pugni
sulla schiena ed ai fianchi. Una scarica di pugni di quel genere avrebbe
mandato all’ospedale chiunque, ma stranamente quel tizio, chiunque egli fosse,
resisteva bene. Era come … posseduto da una forza extraterrena, che lo faceva
continuare a combattere ignorando le elementari leggi della fisica. Le sue
braccia e le sue mani erano incredibilmente forti, tanto che per un attimo
Thomas credette di morire sotto quella stretta al collo. Gli occhi gli uscirono
quasi fuori dalle orbite, e pensò che forse quelli erano gli ultimi atti della
sua povera vita. Poi, in un attimo di lucidità, quando già stava iniziando a
vedere rosso, sollevò il ginocchio e assestò una poderosa ginocchiata nei
genitali dello strangolatore.
-Uuuuuuuuuuhhhnnnn!!!-
mugolò il tizio, lasciando immediatamente la presa e accasciandosi a terra.
Thomas sgattaiolò via da lui, tenendosi il collo e tossendo come un forsennato.
Si rintanò nella sua auto, dandosi dell’imbecille per essere sceso poco prima,
chiuse immediatamente tutte le sicure e prese il telefono cellulare.
Seduto al posto
passeggero, guardò fuori.
Il tizio era sparito.
Compose un numero, e pregò
tutti i santi che fosse acceso.
Alberto non riusciva
ancora a crederci. Proprio mentre stava scendendo le scale del palazzo dove
abitava Filippo (che peraltro aveva insistito affinché lui restasse per la
notte), il suo telefono aveva squillato ed aveva sentito la voce arrochita di
un Thomas che lo supplicava di correre immediatamente in un posto, perché,
parole sue, stava per finire ammazzato. Subito Alberto era schizzato via come
un cane aizzato, era montato nella Fabia e si era fatto i chilometri che lo
separavano da Thomas in tutta fretta, rischiando di fare incidenti e beccandosi
improperi da altri automobilisti a cui aveva tagliato la strada. Quando poi era
giunto sul posto, immediatamente aveva riconosciuto la Punto di Thomas, solo che
c’era qualcosa che non quadrava. Si accorse che le gomme erano completamente a
terra, e si inquietò non vedendo Thomas nei paraggi. Lo vide soltanto quando
fece capolino con la testa dal finestrino posteriore della sua auto. Si era
acquattato nei sedili posteriori, forse per paura che chi l’aveva aggredito
sarebbe tornato sui suoi passi a completare l’opera.
-Poi mi spieghi cosa ti è
saltato in mente di visitare questo posto da solo.-
Thomas sospirò. –E’ stata
una cosa improvvisa. Ho trovato il muro, ed ho pensato di dare un’occhiata più
da vicino.-
-Ma santo cielo, non hai
pensato che avrebbe potuto esserci qualche malintenzionato? Non parlo solo del
nostro assassino, ma in genere i luoghi come quello sono ricettacoli di …-
-E’ carino che tu cerchi
di mettermi in guardia- lo interruppe Thomas –ma credimi, è l’ultima cosa di
cui ho bisogno.- la sua voce era parecchio abbassata ed arrochita, simile a
quella di un fumatore incallito. Quando Alberto gli lanciò un’occhiata vide che
il ragazzo si stava massaggiando il collo. Capì subito che il loro misterioso
individuo aveva tentato di strozzarlo. Thomas tossì, ripercorrendo con la mente
tutti gli attimi della sua incursione, da quando aveva trovato quella stanza
fino al momento in cui era subentrato l’aggressore mascherato. Un’altra
maschera… La maschera che nasconde il volto, come quella volta a letto con il
politico… chiuse gli occhi, scuotendo la testa in cenno di diniego ai suoi
ricordi stessi. Questa volta però trattenne il conato di vomito, anche perché
era a stomaco vuoto da molte ore.
-L’hai visto in faccia?-
domandò Alberto, mentre con la mano destra cambiava marcia e si apprestava a
svoltare.
-No. Aveva una maschera…
non sono riuscito a togliergliela.- Digrignò i denti –Cazzo.-
Sospirando sconsolato,
Alberto annuì. –Vuoi che ti porti all’ospedale?-
Thomas scosse di nuovo la
testa in cenno di diniego, mormorando un “no” secco e deciso. Il fatto che
avesse trovato un oggetto appartenente a Nathan in quella stanza, nello
specifico il ciondolo con la “N” di legno, non gli fu di grande aiuto. Meditò
sul da farsi, se spiegare tutto ad Alberto oppure no, e lasciare che gli eventi
seguissero il loro corso naturale. Digrignò i denti ancora una volta, sentendo
una fitta allo stomaco, e la testa incominciò a pulsargli a causa del battito
cardiaco che si era accelerato. Uno sconvolgimento fisico in piena regola che
era accentuato in presenza di Alberto. Gli lanciò un’occhiata, mentre era
concentrato alla guida, sospirando così forte che Alberto non poté fare a meno
di girarsi, ma Thomas fu lesto a piegare la testa ed appoggiarsi allo
sportello, fingendo di riposare. Fuori dal finestrino passavano i lampioni e
gli alberi, ed anche i palazzi, e mentre gli occhi di Thomas si chiudevano,
iniziavano anche a lacrimare. Daniele. Perché non riusciva a trovare Daniele,
perché l’unico indizio che aveva trovato apparteneva a Nathan e non a Daniele,
perché si era offerto di aiutare Alberto? Perché, in nome di Dio, perché? In
tutta la sua misera vita non era mai stato nessuno. Soltanto un giocattolo
umano negli anni dell’adolescenza ed un brillante giurista dopo. Deglutì un
rospo grande quanto una casa, cercando di controllare il pianto che da lì a
poco sarebbe esploso. Guardando fuori, si accorse che Alberto stava facendo uno
strano giro.
Le mani sul volante, la
vista concentrata sulla strada, Alberto continuava a guidare senza dire nulla.
Fondamentalmente non sapeva dove andare, ma non perché non l’avesse chiesto a
Thomas, se voleva essere accompagnato a casa sua oppure se preferiva restare
con lui per quella notte, no. Prima di tutto era preoccupato per Thomas, ma
siccome questi l’aveva liquidato così freddamente, si era deciso a rimanere
zitto per tutto il viaggio. Poi avrebbe voluto chiedergli se avesse trovato
qualcosa, ma sapeva fin troppo bene che Thomas non gli avrebbe risposto oppure
gli avrebbe risposto omettendo particolari importanti. Lo sentiva chiaramente,
non era stupido fino a quel punto. Ogni volta che Thomas gli parlava, sentiva
una certa soggezione da parte sua, come se Alberto fosse un capoufficio troppo
esigente e Thomas fosse il timido impiegato che non riusciva a fare un discorso
serio e conciso. In quel momento l’atmosfera all’interno dell’abitacolo era
pesante, la stessa che c’era stata quando erano tornati dal sopralluogo al
casolare, e Alberto temette che Thomas sarebbe esploso nuovamente, con la
differenza che se gli fosse venuto in mente di abbandonare l’auto per andare a
vomitare da qualche parte, poco ma sicuro che questa volta l’avrebbe lasciato
lì e se ne sarebbe andato a casa, ad annegare i suoi pensieri nell’alcool. “Perché
questa situazione? Perché doveva capitare proprio a me? Tra miliardi di coppie
gay in questo mondo, proprio io dovevo perdere l’amore della mia vita?
Oltretutto ho anche alzato la voce con Fabrizio… E adesso Thomas. Cristo.”
Pensò, sospirando ampiamente. Si fermò ad un semaforo e guardò Thomas con la
coda dell’occhio. Il ragazzo era lì che guardava fuori dal parabrezza con gli
occhi spalancati, dai quali un’ipotesi di pianto fuoriusciva lentamente sotto
forma di lacrime.
-Un euro per i tuoi
pensieri.- disse, porgendogli un pacchetto di fazzoletti di carta. Thomas lo
guardò e ignorò la sua premura, contemporaneamente ignorando anche lui. Il
semaforo era ancora rosso, e il motore diesel della Fabia ronfava al minimo dei
giri, dando una sorta di strano sottofondo musicale al loro stesso silenzio.
–Dove vuoi che ti porti, allora?- domandò nuovamente Alberto, cercando di
mantenere la calma. Di nuovo Thomas non rispose, continuando a guardare fuori.
-Senti, Thomas. Se vuoi
che continuiamo a fare questo gioco, dimmelo subito. Io spengo il motore, ce ne
stiamo qui tutta la notte in silenzio e poi ripartiamo quando me lo dici tu,
d’accordo? Mi sto stancando di questi tuoi atteggiamenti lunatici, è chiaro?-
si morse il labbro inferiore, quindi Thomas si girò verso di lui e lo guardò.
Uno sguardo intenso, prolungato, con quegli occhi verdi che brillavano alla
luce rossa del semaforo. Scattò il verde, e i suoi occhi scintillarono di una
luce quasi spettrale. –Giochi. Altri giochi. E se tutto questo fosse un gioco?-
domandò, con la voce che si stava incrinando –Se noi due non fossimo altro che
i personaggi di una ragionata sceneggiatura, che ballano al volere di un
regista che comanda tutto quanto? Eh? Ci hai mai pensato a questo?-
-Thomas- rispose Alberto
cercando di mantenere la calma per quanto gli era possibile –stai facendo un
discorso senza senso che non mi piace neanche un po’. Per cui ti consiglio di
…-
-No, tu non consigli
proprio un bel niente- lo interruppe Thomas. –sai che c’è di nuovo? Che io me
ne vado. Lascio l’indagine, mi sono stancato.- disse, secco. Per Alberto fu
come ricevere una stilettata al cuore. La testa incominciò a pulsargli, il
sangue nelle vene a scorrergli troppo velocemente, il piede sinistro a
tremargli per il nervoso, tanto che dovette spostare la leva del cambio in
folle per evitare che potesse rilasciare la frizione mentre c’era ancora la
marcia, causando lo spegnimento del motore. –Che… Che cosa vuoi fare, tu…?-
-Hai capito benissimo-
disse Thomas, tirando fuori un pezzo di carta ed un ciondolo dalla tasca della
giacca e porgendoli ad Alberto –Dimmi se riconosci questo. Era del tuo ganzo,
se non sbaglio. Questo invece è un frammento di lettera, forse dell’assassino.
Ti auguro soltanto che il tuo ragazzo sia ancora vivo, ma qualora non lo fosse,
sii felice con il suo ciondolo.- Con la mano destra armeggiò per cercare la
maniglia della portiera, mentre Alberto esaminava i reperti. Effettivamente, il
ciondolo apparteneva a Nathan, e quando fu tra le sue mani avvertì un moto di
tristezza mista a rabbia. Tanta rabbia. Subito dopo Thomas si slacciò la
cintura e scese dal veicolo sbattendo la portiera. Imprecando, Alberto spense
il motore, tolse la chiave dal quadro e gli corse dietro, mancando alla grande
il suo proposito di lasciare andare Thomas in caso si fosse aperta una nuova
crisi da parte sua.
-Ehi! Aspetta! Thomas!!!-
urlò, incurante del fatto che fossero in una zona residenziale. Thomas non si
fermò né rispose, incrociando le braccia sul petto e stringendosi nelle spalle
per proteggersi dal freddo. Sempre più incavolato, Alberto lo inseguì e gli
ghermì il braccio. Thomas si voltò e per tutta risposta si guardò le scarpe.
Grandi volute d’aria condensata al freddo di novembre si levavano dalla sua
bocca, così anche da quella di Alberto.
-Dio cristo, Thomas. Odio
quando fai così- disse, rilasciando il braccio al ragazzo –Io vorrei soltanto
sapere che cosa cazzo ti prende alle volte.- ringhiò.
Cercando di trattenere
l’impulso di piangere, Thomas balbettò qualcosa, ma non riuscì ad articolare
bene le parole –I…i…i… io… io … io… t… ti…-
-Ce la fai o hai bisogno
di un aiuto? Vuoi chiamare a casa oppure scegli l’aiuto del pubblico?- incalzò
Alberto, con il tono più ribaldo che gli riusciva, salvo poi pentirsi della sua
spacconeria verso un ragazzo che piangeva, fosse pure un po’ lunatico come
Thomas. Poi all’improvviso Thomas si mise a piangere, portando le mani a coppa
sulla faccia. Alberto non disse nulla, ma pensò che più quella storia andava
avanti, più rischiava di uscirne pazzo. Intanto Thomas continuava a
singhiozzare, e a quel punto Alberto portò la mano verso la sua spalla, ma
Thomas la rifiutò malamente, togliendo le mani dalla faccia e cercando di
aggredire Alberto, quasi volendolo schiaffeggiare. L’espressione che vide
Alberto sulla faccia di Thomas non era per niente rassicurante: il ragazzo era
una maschera di rabbia mista a tristezza, digrignava i denti ed i suoi occhi
brillavano di una luce malsana.
-Non toccarmi. Basta.
Smettila. Non ci voglio più giocare con te!- strillò.
-Ma di che cazzo parli, si
può sapere?- urlò a sua volta Alberto, mentre intanto dalle finestre dei
palazzi adiacenti si accendevano delle luci. –Che cosa ti prende???-
-Mi prende che mi hai
stancato! Ma perché cazzo non accetti che il tuo ragazzo non c’è più e ti rifai
una vita? Mi sembra che ogni volta ci sia lui in mezzo a noi!-
Gli occhi di Alberto
brillavano di furore come quelli di Thomas. Si guardarono intensamente come due
belve che stanno per dare luogo ad un violentissimo combattimento, quindi
Alberto sollevò l’indice all’indirizzo di Thomas. –Ascoltami bene, e vedi di
aprire le orecchie perché non lo ripeterò. Io e te siamo soltanto amici, anzi,
forse lo eravamo. Adesso io voglio che tu sparisca dalla mia vita, in questo
preciso istante. Ti voglio fuori alla stessa velocità alla quale sei entrato,
oltretutto picchiandomi. Per tutti questi giorni mi hai riempito di moine senza
indagare veramente su ciò che dovevi indagare- restò zitto un attimo, mentre
Thomas cambiava espressione e sentiva un nuovo accesso di pianto salirgli dalla
gola –mi avete rotto i coglioni, tutti quanti.- digrignò i denti e pronunciò
sibilando il “tutti quanti”, e sbatté i piedi per terra dalla rabbia –Spero
solo che sarai felice nella tua vita. Addio.- detto questo, girò i tacchi e se
ne andò a grandi falcate verso l’auto. Rimasto solo, Thomas sentì il motore
della Fabia che si riavviava di nuovo, e Alberto che partiva in una sgommata
paurosamente rumorosa, senza nemmeno curarsi che il semaforo fosse ridiventato
rosso nel frattempo. Lo stridere dei pneumatici richiamò all’attenzione alcuni
personaggi che fecero capolino dalle finestre, controllando se ci fosse da
chiamare un’ambulanza. Rattristato, sfinito, sconsolato, Thomas si appoggiò ad
un palo della luce, e ricominciò a piangere.
Un’altra iniezione di
medicina magica. Quella che gli faceva prima girare la testa, e poi gli dava
quel senso di potenza che lo spingeva dove non si era mai spinto prima d’ora.
Per quanto tempo aveva corso, dopo la colluttazione con quel puttanello dai
capelli rossi? Ore, forse, o giorni. Non lo sapeva. Non che gli sembrasse
rilevante, in quel momento. Lo stomaco gli faceva un po’ male a seguito del
calcio ricevuto, così come i testicoli. Quel ragazzino sembrava debole ma
invece era tutto l’opposto. Per fortuna che il suo corpo era abbastanza
resistente, a differenza della sua psiche. Ora era troppo eccitato.
Si guardò intorno, alla
ricerca di un possibile elemento sul quale sfogare la sua ira. Nei pressi della
discoteca gay più in vista di Torino, c’erano molti ragazzi veramente carini,
alcuni che giravano da soli, altri in coppia.
Sembrava quasi un leone.
Sì, un leone fortissimo a caccia di prede da mangiare. Tese l’orecchio, e restò
in ascolto.
-…E allora Nathan? Secondo
me quello se n’è andato perché non poteva più sopportare uno come Alberto. A me
non la raccontano.-
Un ragazzo che parlava al
cellulare. Camminava avanti e indietro, dando bella mostra del suo sedere
ingrossato, che dimenava di qua e di là. Sicuramente non doveva preoccuparsi
delle auto in transito, dato che portava delle scarpe fluorescenti che
risplendevano anche al buio, ed il suo vestito così casual chic appariva molto
comune se non addirittura sciatto, in contrasto con quella pettinatura così
all’avanguardia, composta da un ciuffo di capelli castani sparati. Agli occhi
portava un paio di occhiali neri, dalla montatura grossa.
-Ma sì, figurati se lo
chiamo. Non mi è mai stato simpatico, quello lì. Già che lavora all’Università,
figuriamoci… poi è di un noioso che … Oh mamma, non trovo le parole- rise,
portandosi una mano alla bocca ed offrendo sfoggio dei suoi braccialetti
colorati -…Spero solo che Nathan sia in un posto migliore con qualcuno migliore
di quell’Alberto.- e rise ancora, un suono che non fece altro che aumentare la sua
sete di sangue. Rimase ad osservarlo per un po’, finché non chiuse la
conversazione dichiarando che gli stava finendo il credito, urlicchiando come
una ragazzina. Fece per avvicinarsi, quando accanto a lui si fermò un ragazzo
molto più maschile di lui. Lo baciò, e si allacciarono entrambi in un sensuale
abbraccio.
-Mmm… dove mi porta
stasera il mio cavaliere?- domandò ciuffo-di-legno.
-Dovunque sua maestà
voglia.- fu la risposta, condita da un sorriso, del cavaliere-non-mascarato, un
giovanotto di circa ventotto anni, magro e ben portato, che stava stringendo
dolcemente il ragazzo, dandogli dei baci sulle labbra.
-Vorrei… fare qualcosa
qui.-
-Qui…? Ma sei sicuro?-
-Cos’è, hai paura?- sbuffò
ciuffo-di-legno.
-No, è solo che…-
-Cosa?-
Il Cavaliere ci pensò un
po’ su. Poi rispose -Niente. Andiamo?-
Si leccò le labbra quando
vide che stavano entrambi venendo da quella parte. La sua mano destra tirò
fuori il coltello a serramanico dalla tasca della giacca, e si acquattò dietro
un angolo, pronto a balzare addosso alla coppietta felice.
Il boschetto era molto
buio, nonostante i lampioni creassero una parvenza di luce idonea a non
perdersi. Tuttavia, il volto dell’individuo restò mascherato dalle ombre degli
alberi, in modo che i due piccioncini non si accorsero di quella pericolosa
presenza alle loro spalle.
-Dai… baciami.- disse
ciuffo-di-legno. Cavaliere obbedì, iniziando a baciarlo come se non ci fosse
nemmeno stato bisogno di impartigli quell’ordine. Le sue mani andarono ad
accarezzare il corpo di Ciuffo, gli tolsero gli occhiali e lo baciarono sulle
labbra in una maniera così passionale da togliere il fiato. Intanto le sue mani
stavano giocando con il suo sedere… -Hmm.. sì… così…- mormorò di nuovo Ciuffo,
lasciandosi travolgere dalla passione, mentre Cavaliere con una mano gli
massaggiava il sedere sodo, e con l’altra cercava di sbottonargli i calzoni.
-Adesso ti faccio mio-
sogghignò Cavaliere, abbassandosi la zip dei pantaloni e lasciando che quelli
di Ciuffo andassero giù ad adornargli le caviglie.
-Oh…. Sì… Fottimi. Fottimi
più che puoi…- si morse le labbra Ciuffo, per resistere alla passione quando
Cavaliere gli abbassò anche gli slip per fargli sentire qualcosa di caldo
dentro di sé.
E fu un attimo, da quando
Ciuffo sentì quella cosa calda nel sedere fino a quando avvertì uno spruzzo
caldo sul collo, che lo lasciò prima perplesso, poi lo gettò in un baratro
d’orrore quando vide il suo partner con il membro eretto fuori dai calzoni ed
una seconda bocca disegnata sul collo, da un orecchio all’altro. Ma ancor di
più si spaventò vedendo una figura in giacca e pantaloni neri, che portava una
maschera bianca.
-Ahhh!!!- urlò, cercando
di attirare l’attenzione di qualcuno. Il misterioso mascherato però fu più
lesto di lui. Gli balzò addosso e gli coprì la bocca con una mano inguantata,
puntandogli il coltello alla gola. Quello continuava ad urlare e a dimenarsi, e
fu in quel momento che la maschera piantò il coltello nella gola di Ciuffo, che
istantaneamente smise di gridare. Respirava ancora, e dietro la maschera si
formò un sorriso compiaciuto, anche se Ciuffo non poté vederlo.
Gli occhi di Ciuffo erano
sbarrati, e le sue mani cercarono di afferrare il cellulare che nel frattempo
era caduto dalla tasca dei pantaloni. Accortosi di quella manovra, l’individuo
mascherato gli tagliò prima le dita della mano, e poi la mano intera con quel
coltello. Ciuffo urlò, ma fu un urlo alquanto poco potente. Quasi un sibilo.
Per completare l’opera, il coltello squarciò l’addome di Ciuffo, rivelando
sangue ed organi interni. La maschera accoltellò più volte il povero Ciuffo,
colpendolo là al centro della stessa vita umana. Quando ebbe finito si rialzò e
scattò come un’ombra nella notte, abbandonando Ciuffo che ora giaceva con gli
occhi sbarrati e la bocca aperta in un urlo infinito e silenzioso.
Seduto alla sua scrivania,
ad Alberto gli sembrava di aver passato troppo tempo a cazzeggiare anziché ad
occuparsi della contabilità del personale. Quel giorno c’erano altri due
assenti, in più i lettori di schede non funzionavano e c’era un gran viavai di
gente al CED, perché ogni due per tre il gestionale saltava, rendendo
impossibile qualunque operazione. Tanto per cambiare, Donatello mancava.
Piuttosto normale, di giovedì. Si sorprese a chiedersi ancora una volta come
facevano a tenere un elemento così improduttivo come il suo collega. “Almeno
oggi ti sei risparmiato il dolore di dover registrare tutti i dati a mano…”
pensò Alberto, mentre armato di biro riempiva dei moduliper la contabilizzazione successiva degli
stipendi.
Ripensare a come Thomas si
era comportato ieri per la seconda volta gli diede un brivido lungo la schiena.
Pensare che il ragazzo non stesse veramente cercando Nathan ma stesse soltanto
cercando di sedurlo, lo mandava ai matti. Ma ancor di più lo faceva incazzare
il fatto che nonostante tutto quel trambusto, Nathan non c’era ancora e per di
più era morto un ragazzo. Scosse la testa, cercando di capire cosa fare della
sua vita, ancora una volta.
“Forse è il caso che me ne
torni da mia madre per un periodo…” guardò il calendario, dove la fotografia in
bianco e nero di un ragazzo che attraversava un corridoio portava il titolo
“NOVEMBRE” ed in basso c’era il logo dell’università. Tirò su la pagina e
questa volta c’era la fotografia di due studenti che si tenevano per mano sotto
la neve. “DICEMBRE” era il titolo. Qui, alcuni giorni erano stati cancellati
con il pennarello rosso.
“Sono in ferie dal 15 al
31 Dicembre. Due settimane di ferie. Bene, andrò a fare visita a mia madre,
allora. Ho bisogno di staccare la spina.”
Dalla finestra vide
Filippo che attraversava il viale d’ingresso. Chissà a che ora aveva lezione
oggi? Pensò che sarebbe potuto andare a trovarlo, dato che con lui non ci
sarebbero dovute essere complicazioni. Amicizia, niente di più. Lo osservò
fermarsi sulle scale e prendere fuori il cellulare, per poi portarselo
all’orecchio ed iniziare una muta conversazione con qualcuno. Forse un qualche
spasimante. Il lungo ciuffo di capelli castani gli ricadde sugli occhi, ed i
guanti senza dita rossi davano alle sue mani un certo prestigio, che in quel
momento sembrava illuminare la bruma novembrina della città.
Alberto si alzò dalla sua
poltrona, ed andò verso l’atrio, senza però farsi vedere da Filippo. Restò ad
osservarlo da lontano, mentre entrava, ammirando la sua eleganza nel camminare
ed il suo viso con l’immancabile sorriso. Pensò che forse avrebbe potuto
avvicinarsi, chiedergli come stava, a che ora finiva la sua lezione. Pensieri
questi, che correvano nella mente di Alberto mentre Filippo saliva le scale
tenendo a mano il suo zaino blu, offrendo a chi stava guardando una vista delle
sue scarpe bianche e del suo abbigliamento molto curato. Un ragazzo felice,
forse anche più di quanto lo era stato Nathan.
Quanti ragazzi che gli
erano passati davanti nel corso degli anni. E quanti ne aveva fatti piangere,
Alberto, che non si innamorava mai a colpo d’occhio ma doveva essere
corteggiato e passare un po’ di tempo con qualcuno prima di concedersi
totalmente. Magari anche Thomas ci sarebbe riuscito, se solo non fosse stato così
impetuoso. Ma d’altronde, chi poteva stabilire un codice di comportamento per i
ragazzi innamorati? L’amore ha mille e più facce, tanti modi di espressione…
rabbrividì. Come la pazzia.
La pazzia indossa delle
maschere, come in una grande festa di Halloween, con la sola, sottile
differenza del limite tra sogno e realtà. E chissà quale maschera di pazzia si
era impossessata di Daniele e Nathan, rendendo vittima anche Nevio che non
c’entrava proprio nulla…
Maschera.
Ora che Filippo era
scomparso dalla vista, Alberto camminò nel grande atrio, pavimentato con grandi
piastrelle bianche e nere. Una sorta di scacchiera trasversale, sormontata da
due grandi volte che s’incrociavano nel centro. Guardò verso una porta, che
conduceva agli sportelli della segreteria studenti. Lì sicuramente c’era Paola,
la segretaria, che tra una telefonata e l’altra leggeva uno dei suoi romanzi
gialli, magari immaginando di essere lei stessa una detective e svelando trame
mai viste. Camminò in quella direzione, e come si aspettava, dalla vetrina la
vide intenta ad espletare la sua attività preferita, leggere l’ennesimo romanzo
giallo, preso dalla sua piccola catasta personale che teneva a destra sulla
scrivania. Se ne stava lì, immersa nella lettura fino al collo, come se in quel
libretto ci fossero tutti i misteri della vita e della morte. Poi, senza che
Alberto avesse cercato di attirare l’attenzione, Paola alzò gli occhi e gli
rivolse un sorriso. Imbarazzato come se avesse rotto un qualche incantesimo,
Alberto sollevò la mano e salutò Paola, sorridendo a sua volta.
-Hai visto che casino,
oggi?- domandò Paola, che in piedi stava prendendo una bottiglietta di
coca-cola dal mini-frigo ed offrendola ad Alberto.
-Grazie- disse Alberto –Ho
visto il casino, è incredibile che i lettori di schede si siano bloccati. Per
fortuna che non siamo sotto esami, altrimenti sarebbero stati cavoli amari.
-Ho sentito che potrebbe
essere stato un hacker o qualcosa di simile- scrollò le spalle. –ma lo sai che
io vivo prevalentemente di romanzi.- ridacchiò, lasciando intravedere ad
Alberto i suoi denti perfetti e bianchissimi.
-A proposito dei tuoi
romanzi- attaccò Alberto –Vorresti enunciarmi una tua tesi sugli omicidi
passionali?-
Alla domanda, Paola si
strinse nelle spalle. –Non saprei, cosa vuoi sapere in particolare?-
-Voglio sapere cosa faresti
tu se fossi in un romanzo giallo. Cosa penseresti se una persona fosse stata
uccisa dopo essere stata con te? E se un’altra fosse stata rapita, o cos’altro…
Insomma, cose così.-
Annuendo, Paola si sedette
e diede un sorso alla sua lattina di coca, spalancando gli occhi per cercare di
pensare meglio.
-Allora, per come sono
fatta io, penserei che c’è qualcuno che ha un qualche interesse in me, e che
per gelosia ammazza i miei spasimanti. Ma questo qui non è una persona
qualunque, è una persona affetta da turbe psichiche talmente gravi da farlo
sragionare ogni qual volta che pensa a me insieme con qualcuno.-
-Quindi secondo te sarebbe
un killer passionale?- domandò Alberto, dando un altro sorso alla bottiglietta
di coca cola.
-Sì- rispose con
convinzione Paola, annuendo –Un killer passionale, che è talmente attaccato da
controllare periodicamente i miei spostamenti, da architettare trame oscure per
uccidere i suoi rivali…- fece un sorriso affettato –una trama tipica per un
romanzo giallo.-
Alberto annuì,
ringraziando il cielo che fra le ultime notizie non fosse trapelato il suo
nome, consentendogli conversazioni tranquille come quella.
-E’ inutile che ci giri
intorno, Alby…- disse Paola allungando la mano fino a toccare il braccio di
Alberto –Tu vuoi sapere che cosa ne penso riguardo a tutto il casino che hai
dovuto sopportare in questi giorni.- aggrottò le sopracciglia, formando quella
che ad Alberto sembrò l’espressione più persuasiva e magnetica che avesse mai
visto fare ad una donna. –Non è forse così?-
Sentendosi preso in
contropiede, Alberto si strinse nelle spalle e contrasse le labbra in
un’espressione di incertezza –Beh… Forse sì.- rispose, cercando di non far
trasparire tutto il suo disagio accumulato negli ultimi giorni tra Thomas,
Nevio e Daniele…
-Hm-hm.- mormorò Paola
–secondo me, tu sei incappato in uno di questi fanatici passionali. Mi spiego: forse
là fuori c’è qualcuno che ti vede e ti desidera, ma non riesce a dirtelo.
Allora appena vede qualcuno che ti ronza intorno con troppo zelo, pensa bene di
farlo fuori. Facile, no?- concluse, bevendo un altro sorso di coca cola. Lo
sguardo di Alberto si spostò sulla pila di romanzi gialli/thriller, poi su
Paola stessa, che con quell’espressione di presunta intelligenza non sembrava
nemmeno più una segretaria, ma addirittura una famosa criminologa. E chi meglio
di lei poteva impersonare una forense criminologa, dopo tutti i romanzi che
aveva letto?
Due persone, due versioni
diverse. Anche Filippo gli aveva dato una sua idea, del tutto simile a quella
che aveva Paola. C’era qualcuno lì fuori che bramava Alberto, ma a causa di un
problema abbastanza grave, non riusciva a dichiararsi e di conseguenza uccideva
chiunque minacciasse le sue fantasie malate. Rabbrividì, guardando fuori dalla
finestra. Fiocchi di neve avevano incominciato a scendere dal cielo plumbeo.
-Nevica…- disse Alberto.
Paola guardò fuori dalla finestra ed annuì.
-Già. Strano, non era
nelle previsioni, stamattina…-
-Beh, via il dente, via il
dolore. Magari quest’inverno ne avremo di meno.- replicò Alberto, alzandosi e
salutando Paola, per tornarsene al suo lavoro.
*****
Dalla finestra del suo
loft, Thomas non poteva vedere bene i fenomeni atmosferici, a causa del
contrasto troppo alto con il colore del cielo. Guardando verso un altro palazzo
vide che era appena iniziata una leggera nevicata. Si alzò dal letto avvolto
nel panno di lana che usava come coperta, sentendo il freddo pungente che era
sceso nell’appartamento. Una nuvola di fiato condensato uscì dalla sua bocca,
mentre controllava il termostato sul muro che segnalava lo stato di non
funzionamento dei radiatori.
“Ci mancava anche questa.”
Pensò, cliccando con le dita inanellate sui tasti del termostato, per poi
sospirare sconfitto quando si rese conto che la caldaia dava problemi da un po’
di tempo.
Andò verso la cucina, accese
il televisore su un canale a caso, dove c’erano dei cartoni animati. Mise a
bollire un pentolino di latte e si servì una brioche, che piluccò senza molto
appetito, attendendo che il latte fosse pronto. Il suo stomaco era praticamente
chiuso dalla sera prima, quando era tornato a casa in taxi e si era abbandonato
ad un pianto quasi infinito… per tutta la serata aveva versato lacrime,
pensando ad Alberto, a come l’aveva scacciato. Ripensare a lui gli faceva
troppo male, ma ancora di più gli faceva male pensare a come si era lasciato
fregare da un ragazzo soltanto perché era abbastanza serio da tenere un ragazzo
per più di un anno, ed amarlo di conseguenza. Quanto avrebbe voluto essere
stato al posto di Nathan, per ottenere cinque anni di amore incondizionato…
Portò le mani a coppa sugli occhi e si rimise a piangere copiosamente,
amaramente. Singhiozzò, chiamando più volte il nome di Alberto, ma purtroppo
lui non c’era. Immaginò che fosse nel suo ufficio all’Università, a preparare
stipendi, al caldo, magari triste anche lui… o forse soltanto frustrato. Gli
augurò mentalmente di trovare la sua felicità un giorno, salvo poi ricominciare
a piangere perché non poteva accettare il pensiero di Alberto insieme ad un
altro… Lo avrebbe voluto tutto per sé, soltanto per sé e nessun altro.
“Ma lui non mi vuole…”
pensò, e questo lo fece piangere ancora di più. Intanto, la televisione passava
i cartoni animati di Tom e Gerry che si inseguivano in una casa ed il topo
colpiva i denti del gatto con un martello, rompendoglieli tutti. Con gli occhi
umidi di lacrime, Thomas scosse la testa, come a dire che le due bestiole
avevano sbagliato tentativo per farlo ridere, e cambiò canale. TG Regionale.
-…Durante la notte,
accanto ad una nota discoteca per omosessuali, sono stati rinvenuti i cadaveri
di due ragazzi…-
Thomas sgranò gli occhi,
tenendo le mani sulla bocca e osservando le immagini che scorrevano sullo
schermo. Conosceva quel posto. Non era lontanissimo dall’ospedale abbandonato,
e immediatamente collegò la sua aggressione a quel duplice omicidio. –Oh mio
dio- mormorò.
-…la prima vittima
presentava un taglio profondo alla gola, mentre la seconda è stata brutalmente
mutilata delle dita e della mano, e …- lì andava avanti con dei particolari
macabri che Thomas ascoltò con lo stomaco ancora più rivoltato…
Saltò giù dallo sgabello
della cucina, per correre verso la sua scrivania, accendere il portatile e
cercare di mettersi al lavoro per risolvere il caso. Con o senza Alberto, non
gli importava. Doveva assolutamente trovare quell’assassino prima che fosse
troppo tardi. Il suo senso della giustizia gli diede un po’ di forza necessaria
a mettere da parte i suoi dolori.
“La soluzione è qui, devo solo
cercarla.”
*****
Finita la lezione, Filippo
bussò al vetro della segreteria, dove c’era la ragazza che leggeva il libro
giallo e la degnò di un sorriso smagliante.
-Ciao, c’è Alberto?-
chiese, mettendo in mostra una fila di denti bianchi e perfetti, e
tamburellando con le dita sul piano dello sportello.
-Quale dei due?- ribatté
la donna, mettendo a posto il libro.
-Quello che lavora!-
-Ah. Ah. Ah. Molto
spiritoso. Te lo chiamo subito… è ora di andare comunque.-
*****
-Grazie per accompagnarmi
a casa- disse Filippo, guardando fuori dal finestrino della Fabia di Alberto.
-Di nulla. Lo faccio con
piacere. Troppa brutta gente in giro…-
-Già… Anche se mi saprei
difendere bene.-
-Pratichi arti marziali?-
-Sì. Faccio Tae Kwon Do.-
rispose Filippo, poi aggiunse –sai, i ragazzi che fanno arti marziali sono
molto agili a letto.-
Alberto arrossì
lievemente, facendo finta di guardare a sinistra per nascondere il suo viso
arrossito, mentre si immetteva in una strada secondaria. Fece anche finta di
non aver sentito il commento volutamente provocatorio del suo passeggero, evitando
di rispondergli.
-Sei piuttosto taciturno
oggi- notò Filippo –qualcosa non va?-
-Niente. Nulla di
preoccupante per te, almeno.-
-Uffa, ma come sei chiuso
come una cozza. Ma si può sapere che cos’hai?-
Tranquillo come se non
fosse mai accaduto nulla negli ultimi anni, Alberto rispose –Se te lo sei
dimenticato, c’è un pazzo che fa fuori i ragazzi che mi ronzano intorno… Mi
sentirei colpevole se per caso tu dovessi finire nella sua lista di vittime.-
Mentre diceva ciò, lanciò
un’occhiata allo specchietto retrovisore. Dietro di lui c’erano una Seicento
blu ed una Multipla azzurrina, poi in lontananza sbucò fuori una Polo grigia
che li sorpassò, per poi svoltare in una via laterale. Alberto non notò
quest’ultima auto, e procedette dritto verso casa di Filippo.
-Guarda che non ti devi
preoccupare per me- ribatté Filippo, mettendo una mano sulla coscia di Alberto
–So difendermi da solo, e comunque… Io e te siamo soltanto amici, lo sai.-
“Basta, basta, non ne
posso più di questi che mi vogliono portare a letto” pensò Alberto sfinito,
rivolendo soltanto indietro il suo Nathan ma al tempo stesso sentendo un
bisogno impellente di calore umano… La mano di Filippo non aiutava certo la
situazione. Quella mano inguantata, con il guanto che lasciava fuori soltanto
le dita, era molto invitante. Gentilmente, Alberto la prese e cercò di
spostarla, rimettendola gentilmente in grembo a Filippo. Questi sorrise ancora,
scostando il ciuffo di capelli castani.
-Siamo arrivati.-
-Bene. Allora… ci vediamo,
eh.-
-Non mi accompagni su?-
-Beh, io…-
Aprendo lo sportello,
Filippo mise fuori le gambe, ed uscendo disse –Se non vuoi, mi avrai sulla
coscienza in caso ci sia qualcuno lassù.-
Alberto sospirò e scese
dal veicolo, deciso ad accompagnarlo a casa. L’ultima cosa che voleva era avere
un altro morto sullo stomaco.
*****
Ci era già stato in
quell’appartamento, esattamente la sera prima. Nulla era cambiato da allora,
ovviamente, ma in ogni caso Alberto volle dare un’occhiata in giro affinché non
ci fosse nessuno. Finito il giro delle stanze e controllato ogni armadio,
arrivarono nella stanza da letto. Nessuno nell’armadio, nessuno sotto il letto.
-La casa è sicura.-
Filippo ridacchiò.
-Cosa ridi?- domandò
Alberto, un po’ stizzito.
-Rido perché sei buffo.
Sembri il detective di una serie televisiva, controlli tutti gli angoli e poi
dichiari che “la casa è sicura”- deformò un po’ la voce mentre diceva ciò, e
Alberto sbuffò, uscendo verso il corridoio.
-Dove vai?-
-A casa mia. Posso, oppure
hai ancora bisogno di me?-
-Non vuoi restare con me?
Sai, ho preparato un po’ di lasagne e pensavo che potevamo mangiarle insieme…-
“Oh, no… Anche questo mi
prende per la gola.” Il suo stomaco sarebbe volentieri rimasto, ma troppi
pensieri gli si accavallarono nella mente, chiedendosi se fosse stato giusto
restare con quel ragazzo.
Intanto Filippo si era già
allontanato verso la cucina, e Alberto era andato subito a chiudere la porta di
casa, sbarrandola per bene.
-D’accordo, resto.- disse,
facendo capolino dalla porta della cucina/soggiorno. Filippo sorrise.
-Bene. Mettiti pure
comodo, penso a tutto io.- Accese il televisore, facendo comparire magicamente
la faccia di Gerry Scotti con il suo programma “Chi vuol essere milionario”.
Alberto si sedette sul divano, e mentre Filippo si allontanava lo osservò con
la coda dell’occhio.
“Un ragazzo che fa arti
marziali è molto agile a letto…” pensò. “Già, e se ti dicessi che un ballerino
può essere anche meglio?”
Sotto il ponte della
Tangenziale era il luogo del piacere. Vi si accedeva passando da una strada
periferica abbastanza larga da consentire un adeguato traffico di autoveicoli.
Le auto andavano lì sotto il ponte, magari parcheggiavano, i passeggeri
scendevano già con la lussuria negli occhi, scegliendo accuratamente il loro
“pasto” per la serata. I ragazzi erano tutti là, c’era chi fumava, chi si
concedeva il lusso di bere una birra per poi smaltirla l’indomani in palestra,
e chi stava a guardare le auto che si fermavano sperando di venire scelto. O di
non venire scelto, almeno per quella sera. Camminando lentamente, Thomas
attraversava il battuto, senza sapere bene dove fosse diretto. Intorno a lui
soltanto mormorii, risate, in un brusio così assordante eppur maledettamente
fievole. L’effetto era inconfondibile: droga. Si era appena fatto una dose, di
quella dolce polvere che lo scollegava dalla realtà per un po’ di tempo,
consentendogli di andare avanti a fare il suo lavoro al meglio possibile.
Gli occhi socchiusi, la
testa leggera come un palloncino gonfiato di elio, un sorriso sulle labbra che
gli conferiva un aspetto molto stralunato. “Avanti, chi si fa avanti per farmi
mangiare, questa sera?” pensò, e tutti si girarono “coraggio… paparini, nonnetti…
sono un bel cucciolotto, fatevi avanti. Sono qui tutto per voi.”
Allungò le mani, mentre i
suoi colleghi si riunivano in circolo come in una strana sorta di rito magico,
quasi come in quel film di Stanley Kubrick, “Eyes wide shut”. Lo presero e lo
issarono, portandolo su una specie di altare improvvisato lì vicino. Nei
lunghissimi momenti in cui era sotto l’effetto della droga, non capiva più
nulla, e gli uomini potevano fare di lui ciò che volevano. Una volta, uno
riuscì ad usarlo per più di tre ore, senza che lui si ribellasse, ma soltanto
avendo la sensazione di essere spinto e provando una sorta di piacere, dato
soprattutto dal fatto che la droga gli faceva vedere ciò che lui voleva vedere:
un personaggio vestito solo di una maschera, perché il viso che c’era sotto
sarebbe stato un boccone troppo duro da digerire. Sì che lo faceva per soldi e
quindi non doveva lamentarsi troppo. I soldi sono sempre soldi, chiunque li
largisca.
Si lasciò adagiare su una
specie di altare, ed i suoi colleghi lo accarezzarono. Mille mani che lo
toccavano dappertutto, via via togliendogli un indumento. Prima le scarpe e la
giacca, poi i calzini, il maglione ed i pantaloni… nonostante il freddo, restò
lì in mutande, nel brusio generale, con la sola illuminazione dei fuochi nei
barili che davano all’ambiente un’atmosfera da seduta spiritica che in
condizioni normali lo avrebbe terrorizzato. Tirò su le mani, sentendosi
sorridere, con la sensazione che la bocca fosse scollegata dal viso e che si
fosse piegata in base ad un suo capriccio. Sorrideva. Le dita erano le sue,
c’erano ancora gli anelli all’indice, all’anulare ed al pollice, ed incominciò
a fendere l’aria con le dita, mimando la scrittura di un testo su una tastiera.
-Guarda, che bello… le
lettere compaiono nell’aria…- si udì dire, ma in un tono troppo incerto perché
potesse capirlo appieno. Comparirono alcune lettere davanti ai suoi occhi.
A … I … D… R….
Le lettere comparse
rimasero ferme per un po’ di tempo, poi come per magia iniziarono a svolazzare
tutt’intorno, come delle stranissime farfalle. Thomas continuò a sorridere,
mentre i suoi colleghi si dileguavano lentamente, scomparendo nell’ombra.
Rimase solo, in mutande, in un posto che non era più il mercato del sesso dove
esercitava la sua professione di ragazzo in affitto, ma bensì una cella umida e
spoglia provvista soltanto di una finestra, dalla quale filtrava la luce
diafana di una luna troppo timida. L’ospedale psichiatrico dov’era stato il
giorno prima. Soltanto che ora sembrava molto più grande. Le lettere intanto si
erano trasformate in scritte sul pavimento e sui muri. A … I … D … R.
La stanza ne era piena,
persino la porta. Allungò una mano verso di essa. Chiusa, ovviamente.
-Fatemi uscire da qui-
mormorò, facendo capolino con la testa verso la finestrella sulla porta, non
vedendo però nessuno.
-Nessuno ti aprirà-
rispose una voce nell’ombra –la chiave ce l’hai soltanto tu.-
Thomas si girò di scatto,
spaventato più che mai. Vide un paio di piedi fare capolino dal buio, ed una
figura appoggiata al muro che giocava con una cordicella, forse una specie di
ciondolo.
-Chi sei?- domandò Thomas,
sentendo la sua voce lontanissima e rimbombante. La figura gli rispose poco
dopo, restandosene sempre acquattata nel buio.
-Sono il tuo compagno di
cella. Ci hanno messi insieme perché sapevamo contare bene- rispose questi,
continuando a giocherellare con quella specie di cordicella, che Thomas
riconobbe forse essere la cordicella che aveva sbattuto in mano ad Alberto
prima di abbandonarlo. –sappiamo contare bene e ci hanno messi insieme. Spesso
la vita è buffa. Un giorno sei vivo, un altro giorno sei qui.- si fermò, mentre
Thomas si accasciava a terra, appoggiandosi alla porta. Si rannicchiò su sé
stesso, come un bimbo impaurito, con la sensazione viscerale che sapesse ciò
che la figura ombrosa stesse per dirgli. Infatti questa continuò, lanciando per
aria il ciondolo che stranamente si librava per aria come un palloncino, per
poi ricadergli dolcemente nella mano, e poi ricominciare la sua corsa verso
l’alto e verso il basso –Un giorno sei un grande giurista, incrollabile, pieno
di certezze, duro come la roccia… e il giorno dopo perdi la testa per un
ragazzo che ti sembra un dio solo perché riesce ad amare una persona che è
scomparsa da anni...- una risatina. –Patetico…- le parole continuavano a vagare
nella mente di Thomas, che poteva sentirle molto deformate, come d’altronde
vedeva l’ambiente stesso. Deformato dalla droga, che lentamente stava prendendo
il sopravvento.
-Ti dirò una cosa,
tesoruccio. Hai trovato la soluzione del caso.-
-Cosa…? Non …-
-Non prendermi per il
culo? È questo quello che vuoi dirmi?- una risata fragorosa ruppe il silenzio
della cella, facendo trasalire Thomas. Il misterioso compagno di detenzione di
Thomas si scoprì lentamente, avvicinando la faccia al cono di luce della
finestrella. La luce della luna illuminò la parte destra del suo viso, che era
tutto bianco e lucido. I suoi occhi erano due orbite nere tagliate a mandorla.
-Sei tu…-
-Sì. Sono io. E tu non mi
fermerai.- sembrò concludere, ma poi aggiunse –Mai.-
*****
Con gli occhi sgranati,
Alberto guardava il televisore di Filippo, sintonizzato su un altro
telegiornale. Adesso anche lui sapeva che Renato e Yari, due della compagnia
che frequentava insieme con Nathan, erano morti. L’uno sgozzato come un suino,
l’altro squartato brutalmente e con una mano amputata. Chiuse gli occhi,
portandosi le mani alle tempie.
-Oh, cristo… oh no. No…
No…-
Si
raccolse in un minuto di silenzio, mentre il televisore continuava a parlare a
basso volume; sarebbe voluto scappare, andare a casa, e poi fare le valigie ed
andarsene da sua madre. “Prima prendete questo bastardo, prima torno” pensò,
deciso in tutto e per tutto ad andarsene da Torino, fino a che non si fossero
calmate le acque.
-Qualcosa non va?-
Si girò. Filippo era lì in
piedi accanto a lui, vicino al divano. Indossava una specie di vestaglia bianca
con sopra disegnato un dragone nero, in stile giapponese. Si sedette su un
bracciolo, e Alberto ritornò alla sua posizione di mestizia.
-Due… due persone che io
conoscevo, sono state assassinate. Io non…- balbettò -..non ce la faccio più.-
scosse la testa, evitando di dire ciò che non avrebbe voluto dire, ovvero la
sua paura che le probabilità di ritrovare Nathan vivo si erano
considerevolmente abbassate negli ultimi giorni. Filippo gli posò una mano
sulla spalla, amichevolmente. Alberto sospirò e lo ringraziò sottovoce.
-Non ringraziarmi. Lo
faccio con piacere.- sorrise, ma Alberto non lo vide. Andò ad accoccolarsi
accanto a lui, e lo strinse dolcemente a sé, sapendo quanto Alberto avesse
bisogno di un po’ di calore umano. Troppo stanco per ribellarsi, Alberto si
arrese a quella dolcezza, stringendo a sua volta Filippo.
-A volte abbiamo bisogno
di sapere che c’è qualcuno lì per noi.- sussurrò Filippo in un orecchio di
Alberto, accarezzandogli i morbidi capelli castani.
Con un braccio avvolto
attorno alla vita del ragazzo, Alberto rispose che lui era solo, da quando
Nathan se n’era andato. Si guardò bene dal menzionare Thomas, almeno non dopo
quel che era successo la sera prima. Thomas aveva cercato di fare tutto il
possibile, ma il pensiero che rallentasse le indagini per approfittare di
Alberto era troppo invasivo. Nel silenzio di entrambi, e sotto le carezze di
Filippo, Alberto si rilassò un po’, chiedendosi da quanto non provava quella
sensazione. Si distese, ma la sua testa non era poggiata sul bracciolo del
divano o su un cuscino come a casa. Adesso era ospite delle cosce di Filippo,
il quale aveva iniziato a massaggiargli la testa con le dita, provocandogli una
strana sensazione di rilassamento generale.
-Che stai facendo…?-
domandò Alberto sottovoce.
-Ti faccio un massaggio
rilassante.- precisò Filippo, continuando a far lavorare quelle dita lunghe e
sottili sul suo cuoio capelluto. –Oppure vuoi che mi fermi?- Alberto scosse la
testa.
Con un sorriso, Filippo
continuò a massaggiargli la testa, e Alberto si sentì come nel bel mezzo di un
lavaggio del cervello, ma non in senso spregiativo. In senso buono. Quelle mani
che non erano di Nathan erano comunque molto abili nel consolarlo dal suo
dolore, uccidendo tutti i pensieri negativi che si formavano nella sua mente.
Forse avrebbe dovuto guardare Filippo sotto ben altri occhi che quelli
dell’antipatico impiegato universitario, che cercava sempre di sfuggirgli…
Dopotutto era un bel ragazzo, e indiscutibilmente molto affascinante. Per molti
versi somigliava a Nathan, e quella frase “i ragazzi che fanno arti marziali
sono molto bravi a letto” continuava a ronzargli in testa, nonostante il
massaggio. Chiuse le gambe, e avvertì un leggero calore avvampargli le guance.
Come se avesse parlato ad alta voce, Filippo gli sussurrò di aprire le gambe,
di rilassarsi completamente se voleva che il trattamento facesse effetto. Alberto
obbedì, però si augurò che Filippo non vedesse la collinetta in prossimità del
suo inguine. Auspicio mancato, in quanto Filippo se n’era già accorto e stava
già sorridendo soddisfatto.
I respiri di entrambi si
fecero più lievi ogni secondo che passava, mentre Alberto era sempre più sotto
il potere di Filippo. Il divano era abbastanza largo, e parecchio comodo. Con
gli occhi chiusi, sentì che Filippo si girava, tenendogli la testa, per
incrociare le gambe sotto di essa e poi rilasciagliela. Mentalmente mormorò un
“ahia” quando sentì l’osso del piede di Filippo dietro la schiena, ma si
rilassò subito dopo quando la sua testa fu in una posizione più comoda.
-Stai bene…?- sussurrò
Filippo.
-Sì. Sto bene…-
-Va tutto bene, Alby…
Adesso ci sono qua io. Fai finta che io sia chi vuoi tu.-
Il vecchio gioco del “fai
finta…” a cui aveva giocato insieme a Thomas quel giorno in auto. Ultimamente
la sua vita era diventata talmente intricata e stressante che l’unica cosa che
avrebbe voluto fare finta di provare era un po’ di tranquillità. L’avrebbe
provata volentieri, anche se per finta. Beh, e adesso lo stava facendo. Un
piccolo spiraglio di tranquillità dopo tutti quei giorni di sconforto, iniziati
inesorabilmente quando aveva accettato quell’invito di Daniele. A proposito,
chissà se Thomas era riuscito a trovarlo? Se lo augurò, ma poi decise di
staccare la spina su suoi pensieri per concentrarsi unicamente su quel
preziosissimo momento di relax regalatogli da Filippo.
-Posso chiederti una
cosa?-
-Dimmi, Filippo.-
-Spogliati.-
Un unico verbo,
imperativo, bastò a minargli la tranquillità, salvo riacquistarla
immediatamente dopo.
-Voglio farti solo un
massaggio. Se ti secca puoi anche restare solo in mutande, non ti violenterò.-
disse Filippo, ridacchiando.
-Ma io… Voglio dire, sei
sicuro?-
Filippo si abbassò verso
di Alberto e lo guardò negli occhi castani con i suoi occhi dorati. –Hai paura
di me, Alberto? Grande e grosso come sei, ti spaventi di un ventiquattrenne?-
ridacchiò. –è forse perché ti ho detto che faccio arti marziali?-
Arrossendo, Alberto sentì
che il suo fallo s’induriva nuovamente, ma per dissimularlo si alzò leggermente
ed andò a togliersi le scarpe, posandole sul tappeto. Filippo sorrise.
Lentamente Alberto si tolse i calzini, poi rimosse jeans e poi il dolcevita
grigio che portava di solito. Restò con i boxer, e Filippo lo guardò dalla
testa ai piedi, mentre Alberto si vergognava del suo stomaco non proprio
atletico.
-Sai che sei proprio un
bel ragazzo? Anche sotto i vestiti, dico.- disse Filippo sorridendo. Alberto
tornò a stendersi, ma questa volta Filippo non gli offrì le sue gambe come
cuscino. Al contrario, si alzò e disse –Chiudi gli occhi- poi aggiunse –E non
riaprili per nessun motivo, d’accordo?-
Alberto obbedì, chiudendo
gli occhi ed evitando assolutamente di aprirli. Pochi istanti dopo, sentì
Filippo che si sedeva sulle sue cosce, con un solo particolare: non aveva più
la vestaglia ed era nudo. Le mani del ragazzo andarono ad accarezzare Alberto,
leggermente, come il tocco di una farfalla. Filippo fece scendere quelle mani
leggere verso il ventre di Alberto, che (a parte il suo sesso leggermente
indurito) era completamente rilassato. Non fece una piega nemmeno quando
Filippo, con il suo sedere nudo, si sedette sul suo inguine, continuando ad
imporre le mani su di lui in quella strana disciplina.
Finalmente era suo. Per
anni aveva atteso quel momento, Filippo, che aveva sempre bramato Alberto, fin
dal primo momento che l’aveva visto. “Non mi importa se finirò ammazzato.
Voglio solo godermi questo momento insieme a te” pensò, chinandosi verso il suo
ospite e andando a baciargli la fronte. Da lì scese a baciargli il naso… e poi
le labbra. Fu un bacio lungo, lunghissimo, a cui Alberto partecipò
passivamente, senza mai aprire gli occhi. Nella sua mente, per una volta, non
c’era più Nathan, ma soltanto il ragazzo che era lì con lui. Filippo.
Filippo, con quel suo
ciuffo di capelli castani e le sue mani perfette.
Filippo, lo studente di
sociologia che vedeva ogni tanto ma a cui non pensava mai perché troppo
occupato a preoccuparsi. Adesso era lì con lui, e forse era giusto che fosse
così. Era lì, in mutande, con un ragazzo nudo, che peraltro stava armeggiando
con il suo sesso mentre lo baciava. Avvertì il membro di Filippo battergli un
po’ sul ventre, e anche senza vedere capì che il ragazzo era eccitatissimo. Ma
la cosa più incredibile era che la mente di Alberto era libera. Almeno per quel
momento.
I baci di Filippo erano
molto sensuali. Talmente tanto che Alberto si chiese se per caso il suo amico
non fosse un professionista delle arti amatorie, mentre con le mani gli
carezzava il sedere ben formato, liscio come il marmo. Continuò a baciarlo,
lasciando che la sua lingua combattesse con quella del ragazzo, e
abbandonandosi ad un piacere che negli ultimi due anni gli era stato precluso.
Poi, Filippo si staccò dal bacio. Si guardarono negli occhi per un lungo
istante, fino a che Filippo sussurrò –Hai ancora paura di me, allora?-
Alberto scosse la testa.
Sorridendo, Filippo sussurrò lentamente –Bene. Allora togliti i boxer. Voglio
farti vedere quanto sono bravo.-
Una volta che Alberto ebbe
obbedito, cominciò la notte più bella che entrambi avessero mai provato. Fu un
rapporto molto calmo, ma al tempo stesso selvaggio e dolce. Il corpo di Filippo
era per la prima volta a disposizione di quel qualcuno che voleva veramente, e
non del solito idiota che lo abbordava in discoteca. Invece per Alberto fu come
volare. Volare da un periodaccio, scaricarsi da tanti pensieri che negli ultimi
giorni gli avevano provocato degli incubi… fare qualcosa per sé stesso, questa
volta sul serio. Mentre faceva l’amore con Alberto, anche Filippo si sentiva
bene. Sentire quella parte così privata di Alberto nel suo corpo gli riscaldò
il cuore, non fosse stato altro perché Alberto somigliava in modo incredibile
ad un ragazzo che lui aveva sempre amato ma che non era mai riuscito a
conquistare. Sopra di lui, Alberto lo penetrò ad occhi chiusi, lasciando che
Filippo rispondesse con il suo corpo, fremendo di piacere ad ogni movimento che
faceva, e sentendosi appagato quando le gambe di Filippo si avvolgevano al suo
bacino e lo tiravano a sé, come se non volessero lasciarlo andare. Continuarono
per un bel po’ di tempo, nel quale Filippo provò piacere più di una volta,
mentre Alberto continuava a trattenersi. Accortosi di ciò, Filippo sorrise
malizioso e toccò il sesso ancora turgido di Alberto… -Non ti piaccio…?-
domandò. Alberto scosse la testa, arrossendo –Tu… mi piaci… è solo che…- non
concluse la frase, che Filippo si era già chinato e fece per aprire la bocca
sul pene di Alberto. Questi lo fermò. –Che c’è? Non vuoi...?- chiese Filippo,
guardandolo con un’espressione piuttosto seria che fece venire i brividi ad
Alberto. Ad entrare nel suo corpo c’era anche arrivato, ma quello che voleva
fargli Filippo era ancora una cosa molto personale, nonostante ciò che avevano
fatto prima. Si fece lo scrupolo di non lasciarlo continuare con i suoi
propositi, ma evitò quando le labbra di Filippo avvolsero il suo membro ed
incominciarono a baciarlo, per poi continuare nel modo che Alberto conosceva
fin troppo bene… per finire in uno spruzzo di piacere direttamente nella bocca
di Filippo, che si lasciò andare sul divano, addosso ad Alberto, che ansimava
per lo sforzo. Si asciugò le labbra con il dorso della mano, poi arrossì.
Alberto gli sorrise.
-Non è stato poi così
terribile, cosa ne dici?- sussurrò Filippo con un sorriso, mentre Alberto gli
carezzava la schiena.
-No… Assolutamente. È
stato magnifico.-
Filippo sorrise raggiante
dentro di sé, felice che qualcuno gli avesse fatto un complimento del genere,
per la prima volta. Chiuse gli occhi, senza però sapere che Alberto aveva detto
che era stato magnifico soltanto per non dire che adesso aveva anche più paura.
Se Alberto se la stava passando bene, c’era
qualcun altro che se la stava passando più che bene. Fabrizio era nell’ufficio
modulare del suo cantiere insieme a Rosanna. Dopo il cinema Fabrizio aveva
pensato bene di farle vedere il posto dove lavorava, dato che era lui l’unico
depositario delle chiavi ed aveva facoltà di accesso ad ogni ora volesse.
“Carino il tuo ufficio”, aveva detto Rosanna una volta entrata, ed ora erano
entrambi seduti sul divanetto che Fabrizio si era portato da casa il primo giorno
di lavoro su quel cantiere per ricevere i papaveri dell’amministrazione locale.
I due tubavano come piccioncini, scambiandosi effusioni e parole dolci. I
capelli ricci di Rosanna profumavano di buono, e Fabrizio inalò a fondo quella
fragranza, pregustando ciò che sarebbe accaduto da lì a poco.
-Champagne?- domandò a Rosanna.
-Oui- disse lei, alla francese –Soltanto un
po’.-
-Alla nostra.- disse Fabrizio, alzando il
calice. Lo stesso fece Rosanna, e ne bevvero un po’. La ragazza era così bella
e sensuale, che Fabrizio faceva fatica a contenere tutta la sua sessualità a
lungo trattenuta dopo la rottura del suo ultimo rapporto. Fece appello a tutta
la sua calma, per cercare di godersi il momento appieno, senza rovinare
qualcosa. Gentilmente accarezzò i fianchi di Rosanna, mentre con l’altra mano
teneva il calicino di champagne… Lei arrossì e abbassò gli occhi, però
sorridendo.
-Che c’è?- chiese lui, con un sorriso dolce
sulle labbra.
-Niente… è che… tu mi piaci tanto,
Fabrizio…-
-Anche tu, Rosy. Anche tu…-
Lei gli si avvicinò e lo baciò dolcemente
sulla guancia, sempre reggendo il calice in mano… Fabrizio la guardò un po’
deluso, e lei si sentì come se avesse fatto qualcosa di sbagliato.
-Non… non vuoi che io ti baci?- domandò la
ragazza, perplessa. Per tutta risposta, lui le sorrise di nuovo e disse –Voglio
che mi baci sulle labbra.-
Lei rise –Scemo. Ti stavo prendendo in
giro- disse, e prendendogli gentilmente il mento fra due dita, lo baciò
teneramente sulla bocca. Fabrizio posò il bicchiere sul tavolino, e con la mano
destra incominciò ad accarezzarle i fianchi… Lei si sentì sempre più strana,
forse per via dell’alcool, ma era certa di una cosa: voleva Fabrizio, e quella
serata stava per evolversi nel migliore dei modi. Lo baciò ancora una volta, lasciando
che lui cominciasse a mettere le mani nei suoi punti più intimi. Proprio mentre
stava per arrivare alle mutandine, la luce dell’ufficio modulare si spense.
-Ah!- urlicchiò Rosanna –Che cosa…?-
Calmo come al solito, Fabrizio rispose –Il
gruppo elettrogeno. Forse è saltato un fusibile.- Si alzò dal divano, cercando
a tentoni la scrivania, dove teneva una torcia nel cassetto. La estrasse e
illuminò Rosanna che si era alzata e si guardava intorno. –Che c’è?- le chiese
–Hai paura del buio?-
Titubante, lei rispose –Un po’.-
-Dai, non c’è nulla di cui aver paura. E
poi ci sono qua io.- la rassicurò lui, sorridendole. Con la torcia andò verso
la porta, uscendo all’aria aperta.
Per decisione della regione, il gruppo
elettrogeno era uno di bassa potenza, per risparmiare sulle spese del
carburante. Altrettanto per ragioni di economicità, si era scelto un gruppo a
carburante diesel, in modo che non potesse essere utilizzato anche per il
veicolo di Fabrizio (la Grande Punto
andava a benzina). Per questo Filippo ogni volta che vi si avvicinava pensava
“Ladri…” Per altrettante ragioni di spazio di manovra, Fabrizio l’aveva fatto
collocare abbastanza lontano dal cantiere, quasi in una posizione limite (nei
progetti era segnato con un post-it rosso quasi ai margini del foglio).
Arrivato dopo una breve camminata, girò
intorno al piccolo parallelepipedo rosso. Non troppo piccolo, ma abbastanza
grande. Una specie di grosso scatolone tenuto su da quattro supporti. Con la
torcia illuminò il quadro principale, che mostrava tutti gli strumenti:
potenziometro, amperometro, e livello del carburante. Vide che il carburante
era a posto, e sospirò al pensiero che si fosse bruciato un fusibile, con le
conseguenti magagne che sarebbero derivate con la Regione e la società
fornitrice del gruppo elettrogeno. La scatola dei fusibili era coperta da uno
sportellino metallico, apribile con la chiave. Essendo un ingegnere civile,
Fabrizio non conosceva molto di elettrica, ma per fortuna si era istruito con
un corso dopo la laurea. Aprì lo sportellino e illuminò la zona con la torcia.
Tra le tante ampolle, ne vide due che si erano annerite di brutto. Si morse il
labbro, mentre imprecava “porca puttana…”. Sicuramente non poteva sostituire il
fusibile da solo, ma avrebbe dovuto chiamare la ditta fornitrice del gruppo.
Però in questo modo saltava la sua serata romantica. Che fare?
Mentre pensava, la torcia gli sfuggì di
mano, illuminando lo spazio sottostante il gruppo elettrogeno. –Merda- mormorò,
per il fatto che la torcia si era sporcata un po’. La raccolse, ma per qualche
strano caso, volle dare una sbirciatina a quello che c’era sotto il gruppo. Di
norma non ci sarebbe dovuto essere nulla, però qualcosa c’era. Vide una schiena
biancastra ed un sedere dello stesso colore. Appresso a questo, ce n’era un
secondo, del quale riusciva ad intravederne gli occhi vitrei. Due cadaveri, in
piena regola.
Non si sentì più le gambe, che lo
abbandonarono quando pronunciò le parole –Oh cristo…- finendo a sedere sul
fango.
Si rialzò, e velocemente tornò nell’ufficio
modulare. Rosanna vide che c’era qualcosa che non andava nel suo aspetto.
-Tutto bene?-
-No, Rosanna. Tutto male. Non ti allarmare,
ma credo che per stasera la nostra serata debba concludersi qui.-
La ragazza lo guardò con un viso
stralunato. –Cosa vuoi dire?- Chiese, mentre con le mani iniziò a torturarsi i
riccioli, in preda ad una crisi di nervoso. Ma Fabrizio non la stava già più
ascoltando. Con la cornetta del telefono premuta bene sull’orecchio, stava
telefonando ai carabinieri.
Thomas si svegliò di soprassalto a causa
del rumore del telecomando che cadde sul pavimento del suo loft, mentre lui era
addormentato sul divano. Intorno a lui, soltanto le stampate delle fotografie
della stanza delle torture e poi della camera imbottita. “Cristo… che sogno.
Sembrava troppo realistico…” pensò, strabuzzando gli occhi per cercare di
vedere meglio. “Ho trovato la soluzione del caso…? Ma che cavolo ho sognato…?”
prese in mano una delle stampe, che non erano cambiate per niente. Le solite
fotografie, con quelle stupide lettere scritte sui muri e sulla porta. Cosa
cavolo stavano a significare…?
Una volta, durante la sua carriera
universitaria, si era trovato a risolvere quiz criminologici di una certa
difficoltà. Era riuscito a risolverli tutti, ma il più difficile era
sicuramente quello dove l’assassino firmava (consciamente o inconsciamente) i
propri delitti con un qualche segno. Ricordava che l’assassino tracciava un
piccolo triangolo rosso su una parte del corpo dell’assassino, oppure un’ape, o
qualcosa di simile. Lì il mistero stava nel cercare di mettere in relazione i
vari segni, fino a giungere ad una conclusione piuttosto sensata. La soluzione
del suo test era in un nome, Diogene Triapecchi. L’aveva risolto con grande
sforzo mentale, e si era pure stupito di quanto le menti che non funzionano
riuscissero ad essere così labirintiche e machiavelliche. Criminali, appunto.
Questo gioco con le lettere, era una cosa simile. Si trattava solo di trovare
la chiave, che lui stava appunto cercando di … ma dov’era finito il suo
bloc-notes? Frugò con la mano sotto di sé, senza risultato. Andò a cercare
sotto i cuscini e lo acchiappò finalmente.
“Dunque… qui mancano alcune lettere. Nel
mio sogno…” sbuffò, cercando di rimetterne insieme i pezzi “…Nel mio sogno
c’erano alcune lettere che si formavano. Ma quali?” Guardò ancora una volta il
taccuino, grattandosi i voluminosi capelli rossi. Mormorò un suono
inarticolato, prima di portarsi le dita alle tempie, in una sorta di strana
posizione meditativa. Incrociò le gambe e si concentrò per liberare la sua
mente.
Ciò che stava per fare era una cosa molto
difficile imparata da un maestro di arti marziali che aveva avuto in passato:
meditazione per ricordare i sogni. La tecnica era semplice, bastava meditare un
po’ per sgombrare la mente e poi ripercorrere a ritroso tutto il sogno,
ricreando l’ambientazione, la situazione, i fatti. Proprio la natura inconscia
dei sogni rendeva il lavoro difficilissimo, ma evidentemente i grandi filosofi
orientali avevano previsto anche una disciplina per ricordarli (logico,
altrimenti come facevano a trarre le loro massime così piene di saggezza?
Sicuramente lo zampino di qualche folletto onirico ci doveva essere per
forza!). Respirò a fondo, cercando di cogliere ogni minimo ricordo del suo
sogno. Ricreò l’ambiente circostante, ovvero una cella imbottita. Accanto a
lui, nell’ombra, un individuo che gli parlava con una voce che a lui sembrava
profonda, dandogli una sensazione di paura. Serrò i denti, cercando di scacciare
il pensiero di Alberto che lo baciava, un sogno che ultimamente era ricorso
anche fin troppo spesso. Non gli ci voleva proprio il sentimentalismo in quel
momento delicatissimo, quindi spinse con viva forza Alberto ed il suo ricordo e
si concentrò sul suo sogno, cercando di cavarne quanto di buono poteva. Pensa
che ti pensa, spremendo le meningi, qualcosa stava iniziando ad emergere dalla
sua mente, anche se parecchio offuscata. Oltre all’ambiente, gli parve di
tornare indietro nel sogno, fino a vedere se stesso che prendeva… Una lettera…
due…. Tre.
A…
R… D…
Tre lettere. Nulla di più. Oltre a quello,
non riusciva più a ricordare nulla.
Ripreso il contatto con la realtà,
respirando piano e riaprendo lentamente gli occhi, Thomas trascrisse le tre
lettere sul taccuino, belle in grande. Gli altri fogli contenevano un sacco di
altre combinazioni, ma la prima cosa che saltava all’occhio, era che le lettere
comparse nel suo sogno, erano tutte e tre mancanti.
“Aspetta aspetta… E se…?”
Prese un’altra fotografia, questa era
proprio quella della cella. Con un grandissimo sforzo, era riuscito a ricavare
tutte le lettere presenti sulle superfici, e le aveva trascritte, in ordine,
sul taccuino, differenziandole per ambiente. Se in un ambiente mancavano quelle
tre lettere, allora nell’altro…
“Ci sono!”
Ebbe i brividi per la sua scoperta. Un
capogiro fece la sua comparsa, provocandogli quasi una sensazione di
svenimento. Dalle sue elaborazioni così accurate, venne fuori un nome. Un nome
che peraltro conosceva solo per sentito dire. Si morse il labbro, non sapendo
bene cosa fare. Prese il telefono e fece per comporre il numero di Alberto. Con
molta titubanza schiacciò il pulsante di chiamata, ma purtroppo… Il cellulare
di Alberto, unico suo mezzo di comunicazione, era spento. “Merda!” pensò,
saltando giù dal divano. “Come faccio adesso? Cosa devo fare…?” il respiro si
fece sempre più affannato, non sapendo bene come comportarsi. Improvvisamente,
gli venne un’idea. Andò al suo computer e compose una e-mail.
*****
Era incredibile. Per la prima volta dopo
due anni, Alberto si sentiva appagato. Con Filippo era stata la notte d’amore
più bella della sua vita, almeno dopo Nathan. Una lunga notte di sesso, nel
quale Filippo aveva dato una brillante performance di sé, che Alberto aveva
apprezzato più e più volte. Se solo l’avesse scoperto prima, forse si sarebbe
risparmiato un sacco di problemi. Ora erano entrambi lì, sul divano del padrone
di casa, Alberto che guardava il soffitto, con la mano che accarezzava i
capelli di Filippo, mentre questi sonnecchiava sul suo petto. Lo osservò,
pensando che fosse veramente molto dolce mentre si riposava. “Tanto dolce
quanto selvaggio.” Pensò Alberto tra sé e sé. Contrariamente alle aspettative,
c’era anche qualcosa di più. Avrebbe voluto rivederlo. Iniziare ad uscire con
lui, provare una relazione. Beh, e cosa c’era di male? Per quanto ne sapeva,
Filippo era single, e forse avrebbe acconsentito ad incominciare una conoscenza
nel vero senso della parola. “Sì” pensò, decidendo “Sono rimasto solo per troppo
tempo. Filippo mi aiuterà, comincerò una nuova vita, andrò da Fabrizio e
chiarirò tutto quanto, e andremo insieme al suo party di fidanzamento.
Finalmente la fortuna mi sorride!” disse, sorridendo. Poi però ripensò a Nathan
e Daniele. Entrambi scomparsi, finiti chissà dove. Entrambi lo amavano,
soprattutto Daniele, ma lui era stato così cieco da perderli… E pensò anche a
Thomas.
Thomas, quel ragazzetto che sembrava appena
uscito dal liceo con quei capelli rossi ed i jeans strappati e le dita piene di
anelli, che in realtà era un laureato in giurisprudenza nonché un aspirante
scrittore che picchiava forte quando lo voleva. Lo stesso ragazzetto che si era
innamorato di Alberto, ma che da questi era stato respinto. “In fondo ha scelto
lui di non aiutarmi più, ammesso che l’avesse mai voluto.” Si fece coraggio
Alberto, fino a che un’altra voce, forse quella della sua coscienza buona, lo
interpellò. “Ah sì? È così che si fa adesso? Si liquida tutto con il cinismo?
Dove andremo a finire… Se fossi in te lo chiamerei per sentire se sta bene, o
quantomeno per comunicargli la buona novella.”
-Quale buona novella?- domandò Alberto a sé
stesso.
-Hmh…- mormorò Filippo, strabuzzando gli
occhi. Alberto gli carezzò una guancia, ma Filippo non rispose. Sembrava praticamente
una bambola di pezza, che non rispondeva allo stimolo. Delicatamente, Filippo
prese la mano di Alberto e la tirò via dalla sua guancia, alzandosi dal divano.
Stralunato, Alberto si mise a sedere, guardando Filippo come se fosse stato un
alieno. Il suo profilo molto ben formato si delineò alla luce fioca
dell’illuminazione stradale che filtrava dalle finestre, mentre il ragazzo
prendeva un pacchetto di sigarette e ne tirava fuori una con la bocca, per poi
accenderla subito dopo.
-Filippo…? Amore?-
Filippo si girò, cacciando fuori una
boccata di fumo bluastro. –Dimmi, Alberto.- disse, in modo abbastanza freddo.
Con la visione del sedere del ragazzo, Alberto pensò bene di coprirsi le
vergogne, senza però capire bene perché il ragazzo l’avesse chiamato col suo
nome anziché con l’appellativo “amore”.
-Io… volevo dirti che…-
-Cosa?-
-Che…
che ho passato una bella notte con te.-
-Ah-ha…- Annuì Filippo, continuando a
tirare fumo dalla sua sigaretta.
-…E… vorrei che … insomma, vorrei che noi
due potessimo conoscerci meglio.- sembrò concludere, ma poi aggiunse –Penso…
penso di amarti. Vorrei averti come fidanzato.- concluse infine Alberto, un po’
titubante. Con ancora la sigaretta in mano, Filippo tirò una lunga boccata,
annuendo più volte… -Alberto- attaccò –Tu … Tu devi sapere una cosa.-
Titubante, Filippo cercò le parole dentro
di sé, non sapendo bene quali e quante dosarne per non urtare Alberto. –Io… Non
voglio un fidanzato.- portò la sigaretta alla bocca e diede un’altra boccata,
cacciando fuori il fumo anche dalle narici, mentre Alberto lo guardava… -Non
posso avere un fidanzato. È nella mia natura di ragazzo libero. Mi piace
divertirmi e non disdegno nessuno, però questa mia particolarità ti renderebbe
infelice. Tu sei un bravo ragazzo… dolce… premuroso… gentile… Io sono tutto il
contrario.- Scosse la testa, mestamente -…Ti farei soltanto male, lo capisci?
Tu… tu sei destinato ad una persona migliore. E quella persona non sono io.-
Se gli ultimi due anni non erano bastati a
fargli crollare i nervi, bastò quella dichiarazione. Nella sua vita non aveva
ricevuto molti rifiuti, più che altro perché non aveva mai provato più di
tanto. Di solito era lui a rifiutare, e anche con Nathan non aveva dovuto decidere
se rifiutare o meno, dal momento che con il suo Nathan si trovava bene ed il
loro fidanzamento era stato quasi un atto consensuale, frutto dell’evoluzione
di una splendida amicizia. Mestamente, Alberto raccattò i suoi indumenti e li
indossò, senza dire una parola, ma sentendosi ferito nel suo cuore. Ecco cosa
aveva provato Daniele prima di scomparire, con il suo rifiuto. Filippo rimase
lì seduto sulla poltrona, a finire di fumare la sua sigaretta, guardando un
punto imprecisato nel vuoto. –Chissà quanti cuori hai spezzato prima d’ora,
eh?- domandò ad un certo punto Alberto, con una voce talmente bassa che si
faceva fatica a sentirlo. Il tono era leggermente sibilante, come la sintesi di
una rabbia trattenuta.
-Più di quanti immagini- rispose Filippo,
sospirando –Non è facile essere belli, te lo assicuro.-
-E pensare che mi eri sembrato tutto un
altro tipo di persona…- Ora Alberto era in piedi nell’ombra, accanto alla porta
d’entrata dell’appartamento.
-Mi dispiace. Che altro posso dirti? Non
saresti felice con me, renditene conto.- concluse freddamente Filippo,
lasciando ampio spazio di replica al suo interlocutore. Alberto restò zitto per
qualche minuto, poi la sua voce sibilata e roca si fece di nuovo sentire –Spero
soltanto che ti sia divertito anche stavolta. Un ragazzo con il cuore a pezzi
fa molto più gola di qualcuno a cui spezzare il cuore per primo, credo.-
Filippo non rispose, ma Alberto continuò
–Da ora in poi, tu per me non esisti più. Guai a te se ti fai vedere in giro
nell’area degli uffici all’Università. Lasciami in pace, non cercarmi mai più.
Buona notte.- concluse, e con molta calma aprì la porta, per poi richiuderla
dietro di sé. Rimasto solo, Filippo spense la sigaretta nel posacenere, quindi
sospirò e guardò il vuoto avanti a sé.
*****
Seconda fase del piano. Siccome non poteva
aspettare Alberto, Thomas si era recato direttamente a casa sua, nel palazzo.
Siccome la sua auto era ancora in riparazione presso il gommista, ora girava
con una Fiesta a noleggio. Arrivò allo stabile dove viveva Alberto,
preparandosi mentalmente a qualsiasi cosa il ragazzo gli avrebbe potuto dire.
Parcheggiò l’auto e scese, correndo verso il piano del ragazzo. Suonò il
campanello, ma questi non aprì. Suonò una seconda volta, ma non ci fu niente da
fare. Pervaso da una strana eccitazione, dovuta al fatto di sapere chi si
celava dietro i delitti, si mise a correre avanti e indietro per un po’ di
tempo, intervallando le sue corse a momenti in cui si scaldava le mani per il
freddo. Improvvisamente, a quell’ora, il portone si aprì, e ne uscirono alcuni
ragazzi allegri, che parlavano di una festa. Bloccò il portone che si stava
chiudendo con una spallata, quindi salì velocemente le scale per raggiungere il
piano di Alberto.
Arrivato a destinazione, si attaccò al
campanello, che suonò con un “Driiiiiiiiiiiiin” veramente squillante, tanto che
forse avrebbero potuto sentirlo anche i due inquilini del pianerottolo e forse
anche quelli del piano inferiore.
“Ma dove cazzo è? Possibile che non…”
Portò di nuovo la mano al campanello e fece
per suonare nuovamente, quando all’improvviso… un dolore lancinante prese a
corrergli dalla testa ai piedi. Qualcosa di lungo e spesso aveva colpito la sua
nuca, facendolo crollare sul pianerottolo. Negli ultimi istanti di coscienza,
vide una faccia nascosta dall’ombra del pianerottolo, un paio di jeans neri… ed
un paio di scarpe a scacchi bianchi e neri, come quelle della serie “Vans”.
Il sonno di Alberto era stato tormentato.
Per tutta la notte si era girato e rigirato nel suo letto, pensando,
ripensando, cercando di capire dove avesse sbagliato. Ed aveva pianto. Lacrime
amare che non sapeva se stava versando più per Filippo o per Nathan. Il mondo
gay era così, per molti di loro… soltanto una botta e via. Ma Filippo era una
persona troppo atipica, molto fuori dallo schema classico del dongiovanni.
Ancora una volta, fra le lacrime, Alberto pensò che non si conosceva mai abbastanza
una persona. Soprattutto se la si conosceva da così poco tempo come l’aveva
conosciuta lui.
“Così imparo a lasciarmi coinvolgere da
tutto e da tutti. Fanculo. Mi sta proprio bene” si asciugò una lacrima che era
andata a finire sul cuscino, già umido. “Se Nathan dovesse tornare, mi farò
perdonare in qualche modo.”
Thomas?
Perché gli era venuto in mente lui? “Oh
cazzo.” Pensò, con la ferma convinzione di stare impazzendo. Se ci fosse stato
un pulsante sulla testiera del letto in grado di porre fine alla sua vita senza
alcun dolore, l’avrebbe premuto immediatamente. Troppa confusione nella sua
testa, nonostante si sforzasse di razionalizzare il tutto. Il rosso sicuramente
era ancora a Torino, ma forse se ne stava per conto suo ad assorbire le stesse
cose che stava assorbendo Alberto in quel momento. Ehi, e se si fossero
incontrati, magari avessero bevuto qualcosa e poi fossero andati al cinema,
come sarebbe stato? “Che stronzata. Soltanto nei film succedono cose così
idilliache…” rispose la sua coscienza, azzittendo qualunque idea di
riconciliazione con Thomas, sebbene forse avrebbe dovuto. Non fosse stato altro
per dovere morale verso una persona che comunque gli aveva dimostrato di
volergli bene.
Essere desiderato comportava spesso molti
problemi. Uno dei tanti era che si facevano piangere molte persone. Eppure
Alberto non era il classico “figo”, non possedeva una bellezza da divo di
Hollywood, non era nemmeno ricco (figuriamoci, lo stipendio pubblico gli
consentiva di avere al massimo quel bilocale che aveva condiviso con Nathan)…
Lui era il classico ragazzo della porta accanto, né più né meno. Strinse i
denti, pensando al da farsi. Intanto, sul comodino, la radiosveglia segnava le
Sette meno un quarto. Era tornato a casa da tre ore ma non era riuscito a
prendere sonno neanche per un minuto. Sospirò, provandosi a chiudere gli occhi
e cercare di spegnere il cervello (anche in quel senso, avrebbe tanto
desiderato un interruttore che glielo spegnesse, almeno il tempo necessario a
dormire).
Non passarono neanche trenta minuti, che
dalle scale sentì un gran rumore di passi frettolosi. Forse più di una persona
stava salendo. Troppo occupato a commiserarsi, evitò di alzarsi ed andare alla
porta. Quando però i passi si fermarono, il suo campanello suonò. “Ma chi…?” al
pensiero che fosse Thomas, inconsciamente si alzò, accorgendosi addirittura di
essersi messo a letto completamente vestito.
Quando aprì la porta, si trovò di fronte
tre carabinieri. Il suo cuore ebbe un tuffo.
-Buongiorno, lei è il Signor Alberto Ferrari?-
domandò uno dei militari. Aveva un accento siciliano, come molti carabinieri.
-Sì, sono io. Cosa…?-
Il carabiniere non gli diede il tempo di
rispondere, per comunicargli la notizia.
*****
Due minuti dopo, Alberto era nella gazzella
dei carabinieri, che aggiungeva pianto al pianto già versato durante la notte.
Continuò a piangere, incurante dei militari che gli stavano intorno, cercando
di rassicurarlo offrendogli fazzoletti di carta e pacche sulla spalla. La
notizia che gli avevano dato era troppo anche per lui, che si era visto
spezzare il cuore due volte in poche ore: Nel cantiere gestito da Fabrizio,
nella buca sottostante il gruppo elettrogeno erano stati rinvenuti i cadaveri
la cui descrizione corrispondeva agli scomparsi Daniele Melandri, di anni
ventiquattro, e Nathan Edward Winterbourne, di anni ventisei. Mentre l’Alfa 156
percorreva le curve che portavano al cantiere, Alberto si sentì male. Si
sentiva lo stomaco sottosopra, la testa gli scoppiava e non ci sarebbe stato
proprio verso di farlo ragionare.
-Perché è così necessario che io venga con
voi?- domandò, con la voce rotta dal pianto.
-Ci dispiace- disse il carabiniere seduto
sul sedile davanti –Ma il suo amico, l’ingegner Foschi ha richiesto la sua
presenza. E poi lei ha denunciato la scomparsa del signor Winterbourne, che ci risulta essere…- si fermò, forse perché
non voleva dire quella parola magica.
-Era il mio compagno.- rispose Alberto,
asciugandosi le lacrime. Si soffiò anche il naso, cercando di controllare un
altro accesso di pianto.
-Si calmi, signor Ferrari. Andrà tutto
bene.- gli disse il carabiniere accanto a lui, ma Alberto scosse la testa. –No…
non andrà tutto bene, d’ora in poi…- e si coprì la faccia con le mani a coppa,
cercando di piangere più sommessamente almeno per non essere seccato più dai
tentativi di tirarlo su dei militari.
*****
Il cantiere era pieno di gazzelle dei
carabinieri e c’erano anche due ambulanze. Tutto intorno era stato predisposto
del nastro per tenere lontane le persone, mentre si stava predisponendo il
sequestro del luogo. Nell’ufficio modulare, Alberto vide Fabrizio che, telefono
alla mano, stava animatamente litigando con qualcuno. Forse un responsabile
della Regione. Dalla finestra non perveniva alcun suono, si sentì soltanto il
forte rumore della cornetta che sbatteva quando Alberto entrò insieme ai
carabinieri. Lì dentro c’era anche Rosanna, che si teneva la testa preoccupata,
piangendo. Come se avesse visto un fantasma, Fabrizio alzò gli occhi verso
Alberto. Il suo sguardo era allo stesso tempo truce e preoccupato.
-…Erano lì da parecchio tempo…- esordì
Fabrizio. Alberto non rispose, continuando a guardarlo. –Io… Io non ho fatto
niente. Lo giuro!- riprese Fabrizio, alzando le mani e camminando intorno alla
scrivania. Ora la sua espressione era cambiata, sembrava più un’espressione di
terrore. –Diglielo anche tu, Alby. Digli che noi due siamo amici, che io non
avrei mai potuto…-
-Sta dicendo la verità.- disse asciutto
Alberto, rivolgendosi ai carabinieri. Questi annuirono, ma sospirarono ampiamente.
-Ci dispiace signor Foschi, ma lei deve
venire in caserma con noi…-
-Perché???- chiese l’ingegnere, spaventato.
Alberto non ricordava di aver mai visto Fabrizio così spaventato. Nemmeno
quand’erano bambini. Dal divano, Rossana si alzò e andò accanto al suo fidanzato,
tenendogli il braccio.
-Normale prassi- rispose un carabiniere,
molto in carne e con la barba color sale e pepe. Sembrava un pirata. –Le faremo
qualche domanda. Se crede, può farsi assistere da un legale. Però non si può
evitare. Siamo obbligati a farlo.-
Deglutendo, sapendo che non poteva farci
nulla, che comunque in qualità di impiegato pubblico era tenuto più di tutti al
rispetto delle leggi, Fabrizio annuì. –Vi prego- attaccò Rosanna –Vorrei venire
con lui.-
Come se non l’avessero nemmeno sentita, i
carabinieri si accostarono accanto a Fabrizio, prendendolo uno per braccio. In
quel momento Alberto non vide più il suo amico trentenne, ma rivide un bambino
spaventato, che era pur sempre il suo amico del cuore… che aveva scoperto i cadaveri
di un amico e del suo amato Nathan. I loro sguardi si incrociarono, e quegli
occhi così carichi di sentimento di Fabrizio sembravano urlare “Aiutami, amico
mio, aiutami.” Gli sembrò anche che stesse per piangere. Detto questo, lo
portarono via, uscendo dall’ufficio modulare. Dalla finestrella Alberto lo vide
che entrava nei sedili posteriori dell’Alfa 156 dove poco prima era stato
portato lui.
-Alberto- chiamò Rosanna. Lei era già in
lacrime, bisognosa di sapere cosa stesse succedendo. La ragazza andò vicino ad
Alberto, cingendogli le spalle e mettendosi a piangere su di lui. Pianse forte,
e mentre piangeva Alberto la stringeva dolcemente e le carezzava la schiena.
Lacrime scesero ancora anche dagli occhi di Alberto, che, adesso lo sapeva, non
avrebbe mai più parlato con il suo amato Nathan.
Nei giorni successivi alla sua convocazione
al cantiere, Alberto si era rinchiuso nella più totale solitudine. Seduto sul
suo letto, a gambe incrociate, era circondato di fotografie. Molte delle quali
erano state scattate in cinque anni di relazione insieme a Nathan.
Povero Nathan… Era veramente morto da due
anni, e lui che lo credeva scomparso chissà dove. Non gli avevano fatto
riconoscere nemmeno il cadavere, ed era stata clemenza dei suoi genitori,
venuti direttamente dall’Inghilterra, ad acconsentire al ragazzo di guardare
per un’ultima volta il suo compagno. La madre di Nathan era stata distrutta
dalla notizia quasi quanto Alberto, forse addirittura di meno. Nessuno stava
peggio di lui in quel momento. Ogni tanto sua madre lo chiamava e gli proponeva
di andare da lei a passare un po’ di tempo, ma lui rifiutava categoricamente,
ben sapendo che avrebbe dovuto accettare di passare il resto della sua vita da
solo, con il suo dolore a fargli compagnia.
-Nathan… amore mio, ti ho perso…- disse,
piangendo. Continuava a sfogliare un album di fotografie, con la rilegatura
simile a quella di un libro medievale. Lì c’erano molte foto di uno spettacolo
che aveva fatto a Roma, come ballerino. Era così bello, in quel vestito bianco
latte… Sembrava un angelo. Ricordava le emozioni che riusciva a dargli quando
si sollevava da terra con quella leggerezza tipica di un professionista del
ballo… E chissà quanta strada avrebbe fatto, se solo un pazzo non fosse
arrivato a stroncargli la vita nel fiore degli anni.
Ma chi era quel pazzo? Non poteva credere
che fosse Fabrizio, il suo amato amico Fabrizio. Lui era un ragazzo buono, non
un pazzoide. Era stato soltanto un caso che i due (Nathan e Daniele) fossero
stati ritrovati nel suo cantiere. Sicuramente c’era qualcosa che non andava, ma
non spettava più a lui stabilirlo, bensì alla magistratura, che aveva già
predisposto le indagini. Per giorni, dopo la tumulazione del suo ragazzo,
Alberto era andato e venuto dal Tribunale di Torino per le varie interrogazioni
di rito. L’università era stata clemente con lui, concedendogli qualche giorno
di ferie in modo da potersi ricomporre dal grave lutto, ma lui non riusciva
proprio a farcela. Si sentiva troppo distrutto.
“Chissà se Thomas è ancora qui… Avrei tanto
bisogno di lui, in questo momento…” pensò, chiedendo mentalmente scusa al
ragazzo che aveva mandato via soltanto pochi giorni prima.
Poco dopo era già lì a chiamarlo al
cellulare, ma stranamente il suo cellulare era spento. Sospirò ampiamente,
scuotendo la testa sconsolato. Si portò le mani ai capelli, mentre si sedeva
alla poltrona dove c’era la scrivania ed il suo computer portatile. Spento.
Lo accese, attendendo che il sistema
operativo comparisse sullo schermo. Quando apparve la schermata di inserimento
della password, vide che c’erano ben sette messaggi non letti nella sua casella
di posta elettronica. “Figurarsi” pensò, “sarà il solito spam.” Una volta
acceduto al suo profilo, andò a vedere la posta. Come pensava, c’era soltanto
spam. Pubblicità, un tizio che gli dichiarava di aver vinto una lotteria a cui
non aveva mai giocato, la dichiarazione di una sconosciuta amante slava e…
Thomas
Marchant – So chi è stato.
Una
e-mail da parte di Thomas. “So chi è stato” era l’oggetto. L’aprì.
Lesse attentamente il contenuto della mail,
e ad ogni riga, giustificata con delle spiegazioni, c’era il nome del
colpevole.
“Oh mio dio” pensò Alberto, correndo verso
l’album delle fotografie, e sfogliandolo freneticamente alla ricerca di quel
particolare che gli era sfuggito.
Halloween 2006. Alberto e Nathan avevano
appena iniziato la loro convivenza da un mese. Il loro appartamento era quello
dove Alberto viveva tuttora, ma che quattro anni fa era abbellito della
presenza del suo ragazzo. Per quell’anno si era deciso di fare una grande
festa, e gran parte del quartiere sarebbe stato al Parco a festeggiare. Uomini,
donne, bambini, tutti là. Era appunto una festa organizzata dal loro
condominio, quando ancora i suoi coinquilini li salutavano, pensando che
fossero soltanto amici. Alla festa aveva partecipato anche Fabrizio, che
infatti compariva in una fotografia vestito da Napoleone (un abito per cui
Alberto e Nathan l’avrebbero preso in giro per un bel po’ di tempo), mentre
Nathan era vestito da giullare di corte e Alberto si era vestito da cavaliere
medievale. Rivide tutti quei particolari nelle varie foto che erano state
scattate per la serata, però ne stava cercando una in particolare. Frugò
forsennatamente in quell’intrico di immagini, fino a che non la trovò. La prese
in mano e guardò attentamente tutti i dettagli. La fotografia raffigurava lui,
Fabrizio e Nathan, che sorridevano all’obiettivo, inquadrati interamente in un
campo lungo. Nell’inquadratura della foto, c’era anche un altro particolare: in
lontananza si vedeva una figura vestita di nero. Un vestito lungo, di qualcuno
che reggeva una maschera in mano, e guardava l’obiettivo con un aspetto
abbastanza truce, mentre la mano era tenuta sulla maniglia dello sportello di
un’auto. Una Volkswagen Polo grigia del 2004. Alberto avvertì brividi freddi
corrergli lungo la schiena, mentre teneva la fotografia. “Thomas ha risolto il
caso. Cazzo.”
Richiamato da un istinto sconosciuto, si
precipitò fuori dal suo appartamento, andando verso la porta dei suoi vicini, i
Mainardi.
Come volevasi dimostrare, la porta era
chiusa. Suonò il campanello più volte, ma sembrava non esserci nessuno.
“Merda!!!” pensò, quindi tornò in casa a cercare qualcosa che avrebbe potuto
aiutare. Un cacciavite elettrico. Con quello, tornò alla porta e svitò le viti
della serratura, entrando agevolmente nell’appartamento.
Si guardò intorno. Un’aria piuttosto
pesante aleggiava nel luogo, un puzzo insolito di chiuso che non ci sarebbe
dovuto essere, misto ad una strana fragranza di pino silvestre. Non sapeva bene
perché era entrato lì, ma sicuramente aveva bisogno di sapere. Con il
cacciavite in mano, sarebbe stato pronto in caso di un’eventuale aggressione,
quindi guardò stanza per stanza se c’era qualcuno. Il posto era abbastanza
inquietante, nonostante fosse un normalissimo appartamento. Non una voce, un
televisore acceso, una radio… Sembrava deserto. Le porte erano tutte chiuse,
comprese quelle del soggiorno e la camera da letto. Alberto cercò di mantenere
il sangue freddo, nonostante un’immagine raccapricciante che vedeva gatti morti
appesi ai soffitti delle stanze chiuse continuava a ricorrergli in mente.
Scacciò quel pensiero, avanzando verso il corridoio. Alle pareti, c’erano molte
fotografie. Alcune raffiguravano automobili e quadri di stile, altre erano foto
di famiglia dove comparivano i signori Mainardi ed il loro figlio.
Dario.
“Dario…”
L’unica fonte di luce proveniva da una
porta. Velocemente, camminò in quella direzione, trovandosi di fronte alla
stanza di Dario.
Una stanza come tutte le altre,
all’apparenza, con un letto attaccato alla parete dove c’era un telo da
proiezioni ed un proiettore sul comò. Qualche fotografia di cantante ed un paio
di calendari. La scrivania era meticolosamente ordinata, con un computer
portatile che doveva aver visto tempi migliori, dato che la polvere lo stava
lentamente seppellendo. Sul comò, vi era uno specchio. Non sapeva bene cosa
cercare, ma ebbe una specie di flash quando guardò la libreria. Anche lì tutto
in ordine, ma c’era un librone che stonava completamente con gli altri. Un
raccoglitore nero.
Alberto lo prese in mano, aprendolo alla
prima pagina.
Qui, una copertina fatta di fiori
essiccati, diceva “Sweet Memories” –
Tradotto, Dolci ricordi. Incominciò a sfogliarlo, e ad ogni pagina sentiva il
cuore battergli forte. La prima pagina mostrava soltanto fotografie di lui.
Alberto, in vari momenti della giornata. Una foto raffigurante lui che saliva
in auto, un’altra dove faceva la spesa, un’altra ancora dove passeggiava
insieme a Nathan… Il tutto datato 2007. A bocca aperta, con i brividi di freddo
che lo attanagliavano, vide altre fotografie, datate 2008, che mostravano
Alberto e Fabrizio che parlavano nell’ufficio modulare del cantiere, Alberto in
pizzeria che sorrideva… e altre varie situazioni. A piè di pagina, c’erano delle
notule vergate con frenesia da un pennarello rosso:
PERCHE’
NON VUOI AMARMI???
Sempre più allarmato, Alberto continuò a
sfogliare quell’album, senza però pensare che ciò che aveva visto fino ad
allora era soltanto la punta dell’iceberg… Sulla superficie di alcune
fotografie, c’erano gocce di un colore marrone scurissimo, e la didascalia
diceva “Per te, soltanto per te, il mio
umano plasma, senza di te sono solo un fantasma”. Nel leggere quelle righe,
Alberto lasciò andare il raccoglitore, che cadde per terra, aprendosi su una
pagina che mostrava Alberto sul pianerottolo, che guardava da qualche parte.
Questa foto era recentissima. “Ecco chi è stato a farmi quel flash improvviso,
l’altra notte.” La foto era circondata da un cuore grandissimo, vergato dal solito
pennarello rosso.
-Oh mio dio… Oh mio … dio…- mormorò
Alberto. Si era appena imbattuto nell’album di un pazzo ossessionato da lui,
che forse lo amava, che aveva invaso la sua privacy… Tante fotografie che
riprendevano la sua vita, come un film che Dario aveva architettato e scritto
tutto da solo. Un film agghiacciante di cui Alberto ne era il protagonista. Gli
venne la pelle d’oca.
A confermare i sospetti, un altro album,
molto più piccolo, delle dimensioni di un libro tascabile. Lo prese dallo scaffale
della libreria, e lo aprì.
-Cristo…-
Gli occhi sgranati di Alberto si aprirono
su un nuovo spettacolo, ancor più orribile del primo. Questo secondo album
conteneva tutte le vittime di Dario. Prima erano soltanto animali, ovvero tutti
i gatti decapitati e appesi. Poi, nel 2008, comparve anche Nathan, che nella
fotografia aveva il collo rosso, come se il pazzo lo avesse strozzato. Subito
dopo comparve Daniele, legato ad una sedia, in un ambiente scuro che non
conosceva, con una corda legata al collo. Poi fu il turno di Nevio, fotografato
con le vergogne in bella vista e la gola tagliata sul suo stesso letto… E poi,
ultimamente, una foto di coppia: Renato e Yari, gli amici di Nathan che chissà
come avevano attraversato la strada del pazzo assassino che era il timido
ventiduenne della porta accanto. Dario Mainardi, il suo vicino di casa.
Paralizzato dal terrore, Alberto avrebbe voluto urlare a squarciagola, chiamare
la polizia, i carabinieri, uccidere Dario. Ma non sapeva dove trovarlo, e
soprattutto…
Sfogliò ancora l’album. Questa volta non
c’era alcuna fotografia, ma soltanto uno spazio vuoto, e in quello spazio c’era
scritto…
“Thomas…”
-Cazzo!!! Thomas!!!-
Nel riflesso dello specchio, vide qualcosa
fare capolino dall’armadio. Sembrava… Una mano. Aprì l’armadio, e si trovò di
fronte i cadaveri del signor e della signora Mainardi, il primo con un buco
nella fronte, forse causato da un piccone, e l’altra con lo stesso tipo di buco
nella gola. –Ahhh!!!- urlò Alberto quando i cadaveri caddero dall’armadio. Tremando,
Alberto li scavalcò, uscendo da quel postaccio. In mano aveva ancora l’album
dei morti, dal quale uscì un foglio ripiegato in quattro. Alberto lo raccolse,
e fu subito rassicurato nel vedere di cosa si trattava.
*****
Tuf…tuf…
Poi una piccola pausa. E poi di nuovo quel
suono, ritmato, ripetuto all’infinito. Era il suono dei tergicristalli della
Mondeo dei genitori di Dario, presa in prestito arbitrariamente dopo averli
licenziati per sempre da questo mondo. “Tanto a voi non servirà più, mamma e
papà… Voi non capireste mai quanto ho amato Alberto.”
“Ma chi è questo Alberto?” avrebbero
sicuramente detto loro, se fossero stati ancora vivi, scatenando le ire del
loro unico figlioletto a cui volevano tanto bene ma non sapevano come
dimostrarlo.
Dodici anni. Sì, per ben dodici anni
avevano provato a farlo ritornare sui binari di una vita normale. E anche lui
si era impegnato, non era forse vero? Facendosi maneggiare il cervello da tutti
quei medici, luminari, sacerdoti della psiche umana. Per cosa, poi? Per niente.
Uno stramaledetto niente, che aveva finito per consumarlo in tutti quegli anni.
Un niente che lo stava divorando lentamente, un pezzo per volta, giorno per
giorno, nei mesi in cui una mattina dormiva e la mattina dopo si alzava e
faceva progetti su come porre fine alla sua vita insignificante.
Tuf… tuf…
E di nuovo, come degli strani metronomi, i
tergicristalli intervennero a scandire il tessuto musicale dei suoi pensieri
con il loro suono chiaro e forte.
Ma poi era arrivato lui.
Lui… chi?
L’angelo del paradiso, il misterioso, ma
dolce, l’inavvicinabile, ma gentile… Il ragazzo che lui avrebbe sempre voluto.
Alberto.
Alberto, che in un giorno d’estate di
cinque anni prima era apparso da uno dei portoni, mentre lui, Dario, se ne
stava seduto sull’erba con una lametta in mano, prossima al suo polso destro.
Il ragazzone lo guardò per un attimo, e Dario fece altrettanto. Gli si
avvicinò, e gli chiese qualcosa che mai nessuno gli aveva detto.
“Ciao.”
Dario, molto timidamente, aveva replicato
allo stesso modo…
“Tu devi essere Dario, giusto? Io sono
Alberto, il vostro nuovo vicino di casa.”
Piacere di conoscerti, avrebbe detto Dario.
Ma non ricordava di averlo fatto. Se n’era rimasto incantato a guardarlo,
incapace di proferire parola di fronte a tanta bellezza e dolcezza. Senza
accorgersene, aveva anche fatto sparire la lametta in una delle tasche dei
pantaloni attillati.
“Beh, adesso devo andare. Ci vediamo
presto, d’accordo? Ciao!”
Poche parole proferite da uno sconosciuto,
lo avevano reso felice. Un animo così puro, così dolce… Qual’era quello di
Alberto, l’aveva toccato nel profondo. Tante le domande che Dario si pose sul
suo conto nei giorni a venire, e tante le fantasie che vedevano lui e Alberto
insieme, a giocare, a fare l’amore… Ma l’amore per davvero, “Love Actually”,
come quel film che aveva visto al cinema… Non come quell’amore malato che gli
faceva quello schifoso di uno psicologo… Allora aveva diciassette anni, ed era
proprio nel pieno di una depressione nera, all’interno della quale l’unico sprazzo
di luce era stato il suo vicino di casa, Alberto.
Passava le notti a sognarlo, nel buio della
sua mente affioravano come tante lucciole parole d’amore per lui, che metteva
su carta e chiudeva nel suo diario segreto, in attesa di un giorno per dichiararsi.
Lo sognava sfondare la porta del suo appartamento, rapirlo, portarlo via da
tutto quell’orrore che era la sua vita, da quei genitori così assenti e
perbenisti, troppo impegnati a progettare come risparmiare di più sul
riscaldamento che ad accorgersi di quanto il loro figlio stesse soffrendo…
fantasticava di Alberto quando doveva andare da quel porco di psicologo che gli
metteva le mani addosso per soddisfare i suoi capricci malati… “Sì, Alberto
mio. Portami via da qui, per sempre.”
Passarono i giorni… i mesi… gli anni… Ne
passarono tre, in cui Dario continuò a sognare di Alberto senza mai avere il
coraggio di andare a parlargli… Finché un giorno… Vide ciò che non avrebbe mai
voluto vedere.
Un ragazzo, un fottutissimo cicisbeo biondo
che avvicinava le labbra al suo Alberto e lo baciava con passione. Nel vedere
quella scena sarebbe balzato sul ragazzo e l’avrebbe ucciso lentamente. Gli
avrebbe morsicato la gola con tutta la forza e la rabbia che aveva in corpo e
poi gli avrebbe strappato quel cuore maledetto con coltello e forchetta.
Ma non lo fece.
Non quel giorno.
Accadde un sabato mattina.
Dario si era svegliato di buon’ora, era
sceso in cantina per prendere la bicicletta, deciso a farsi un bel giro per la
città, magari andare a prendersi un gelato e poi tornare a casa per il pranzo.
Aveva già tirato fuori la bicicletta dalla sua cantina, quando all’improvviso,
lo vide.
Il fottuto cicisbeo maledetto che viveva
con Alberto. Anche lui si accorse di Dario, e fu lesto ad aprire la porta della
cantina ed entrarvi dentro. Dario appoggiò la bicicletta al muro e si avvicinò
alla porta. Nathan (così aveva sentito si chiamasse dalla bocca di Alberto) era
di spalle.
“Nathan…?” aveva detto, educatamente.
“Sì? Dimmi, Dario.” aveva replicato Nathan,
gentilmente.
“Voglio che tu la smetta di ronzare attorno
al mio Alberto.”
Sulle prime, Nathan si era girato e l’aveva
guardato con uno sguardo interrogativo, chiedendosi se per caso il ragazzo
stesse scherzando.
“…Che… cosa…?”
“Ho detto che voglio che tu ti levi dai
coglioni e lasci vivere me ed Alberto in pace.”
Di fronte a tanta aggressività, Nathan
cercò nella sua mente britannica le parole giuste, ma non trovandole, fece due
grossi errori.
“Primo, non rivolgerti a me con quel tono.
Secondo, Alberto è il mio ragazzo e casomai sei tu a doverti togliere dai
coglioni, ragazzino. Terzo, mi sono accorto di come lo guardi e sinceramente
sarei voluto venire io a farti questo discorso prima o poi. Quindi, voglio
dirti che se non la smetti di importunarlo, io riferirò tutto ai tuoi genitori
e poi anche ai carabinieri.” Detto ciò, restò a guardarlo per un po’ di
secondi, dove Dario rimase solo a guardarsi le scarpe. Poi Nathan si girò, e a
quel punto, gli occhi di Dario brillarono.
Da uno scaffale prese una corda, e proprio
nel momento in cui Nathan si girava per dire “vattene adesso”, Dario gli
agganciò il collo con quella cordicella solida. Gliel’avvolse stretta intorno
alla gola, mentre quello si dimenava e cercava di gridare. Come per magia, la
porta della cantina si chiuse, e Dario fu più tranquillo nel fare il suo
lavoro. Il viso di Nathan diventò cianotico, gli occhi quasi gli uscirono fuori
dalle orbite.
“Dimmelo adesso, di togliermi dai coglioni,
se ne hai il coraggio… porco!”
E strinse ancora più forte, provocando la
morte del ragazzo. Metodicamente, lo adagiò a sedere, badando di non far cadere
nulla dagli scaffali… Poi aprì la porta, si sincerò che non ci fosse nessuno in
giro e lo trascinò nella sua cantina. Poi chiuse la porta e se ne tornò a casa,
meditando sul da farsi.
Mentre meditava, passarono due anni. Due
anni in cui Alberto sembrava essere stato derubato della sua felicità, senza il
suo Nathan… E due anni in cui Dario non riusciva ad esprimergli i suoi
sentimenti. Nel suo cuore avrebbe voluto dichiararsi, dirgli quanto lo amasse…
Ma non era sicuro della reazione di Alberto se gli avesse detto che era stato
lui ad ucciderlo, per regalargli una vita più bella. Insieme a lui. Dario.
A complicare ulteriormente le cose, erano
arrivati i suoi genitori. Loro lo sapevano che era stato il loro figlio, l’assassino
di quel ragazzo, il carnefice di Nathan, l’artefice di tutto. Sapevano tutto di
lui, ma erano sempre rimasti in silenzio con tutti, in una specie di omertà
familiare… Omertà a cui erano abituati da vent’anni.
“Dario, figliolo nostro… Noi ti vogliamo
bene. E dal momento che non riusciamo a fare nulla, abbiamo pensato di
riportarti in clinica.”
Le mani strette sul volante, mentre
guardava la strada e cercava di non perdere ulteriormente la ragione, Dario si
morse il labbro. Calde lacrime iniziarono a sgorgargli dagli occhi, ricordando
come sua madre e suo padre si erano presentati al suo cospetto, comunicandogli
quella malsana decisione di riportarlo in quella clinica pidocchiosa dove c’era
quel brutto psicologo che lo violentava… Si arrabbiò. Si arrabbiò tantissimo,
tanto che prese la piccozza di suo padre e gliela piantò nel cranio. Poi,
quando sua madre intervenne per sedarlo, lui le piantò la piccozza nel collo.
“Libero” pensò, mentre guidava “sono libero. Libero di amarti, Alberto mio. Ti
aspetterò.”
Concluse, mentre un sorriso nasceva sulle
sue labbra, piegando le guance solcate dalle lacrime.
L’ultima cosa che aveva visto Thomas era
stato il portone di Alberto. Poi per lui era improvvisamente calato il buio, a
causa della gentile carezza fattagli dall’assassino. Assassino che adesso aveva
un nome e cognome, e recentemente anche un volto per Thomas. Dario Mainardi, il
vicino di casa di Alberto era un ragazzo snello ma tonico, bianco come una
mozzarella e dal visino dolce al quale sembrava mancare qualunque ombra di
malvagità. Le uniche ombre, oltre a quelle nella sua testa, erano il colore dei
suoi capelli e degli occhi, neri corvini senza essere tinteggiati. Il loro
primo incontro, una settimana prima, non fu dei migliori.
-Ciao, Thomas.- gli aveva detto Dario,
puntandogli contro una pistola scacciacani, probabilmente di suo padre.
-Ciao, Dario. Piacere di conoscerti.- aveva
risposto Thomas –Perché mi hai legato così?-
Dario aveva riso. Prima si era fatto un
risolino sommesso, che era andato di crescendo in crescendo, passando da una
grassa risata fino a diventare uno schiamazzo incontrollato. Thomas l’aveva
guardato attentamente, quel ragazzino di solo un anno più giovane, che gli
aveva bloccato caviglie e polsi con dei pezzi di corda, unendo le due estremità
con un altro lungo cavo, un fil di ferro. –Sei tu lo scrittore- aveva detto Dario
ridendo –Perché non usi l’immaginazione, invece di fare domande idiote?- detto
questo, si era magicamente calmato, come se qualcuno alla guida del suo
cervello avesse girato una chiave e spento il sistema delle risate. Gli occhi
del ragazzo erano calmi, ma Thomas sentiva che dentro di sé quel ragazzo
portava una grande pazzia. Si era accomodato alla bene meglio su quel doppio
materasso su cui era stato posato, e Dario gli aveva intimato di non fare
scherzi, senza smettere di puntargli la pistola contro. –Per favore, potresti
smetterla di puntarmi quell’affare contro? Non sono nelle condizioni di
scappare, amico.- gli aveva detto Thomas, sfidandolo. Le parole erano state
abbastanza da fare incazzare Dario.
-Ti invito a non fare lo smargiasso con me,
puttanello.- aveva replicato –So tutto di te. Facevi il puttanello ai tempi
della scuola, ho conservato la tua foto sui giornali. Hai estorto milioni ad un
politico solo perché gli era caduta la maschera e avresti minacciato di
rovinarlo.-
Si riferiva chiaramente al suo episodio di
quando era ragazzo, un episodio di cui Thomas conservava ricordi ben chiusi in
un compartimento a tenuta stagna del suo inconscio. All’epoca il politico, un
uomo di cinquantotto anni suonati, usava Thomas ogni sera come suo giocattolo
preferito, facendogli cose inimmaginabili. Chiuse gli occhi, ricordando quelle
cose… I giornali non avevano certo usato il suo nome, ma lo scandalo era venuto
fuori comunque, quando il politico aveva smesso di servirsi di Thomas in favore
di un altro ragazzo, addirittura più giovane di lui. Una regola principe del
mondo degli escort era la seguente: Rispettare sempre i clienti paganti. Una
sola regola da rispettare, e la si imparava da subito. Tuttavia le regole sono
fatte per essere infrante, e questo ragazzo più giovane aveva scelto il modo
più giusto per farlo: era arrivato addirittura a fare la cialtronata di
minacciare il paparino, dicendogli “Se non mi paghi profumatamente all’inizio
di ogni scopata, io racconterò tutto a tua moglie. So chi sei, anche se usi
quella ridicola maschera.” Tale bravata gli era costata la vita: un giorno due
sicari assoldati dall’uomo gli avevano timbrato il cartellino con due colpi di
pistola con silenziatore in fronte. Con operazioni di intelligence all’epoca
inimmaginabili per Thomas, i servizi segreti riuscirono a risalire al colpevole
dell’omicidio del suo “stimato collega” escort, che fu dapprima destituito
dalla sua carica e poi processato per direttissima. Con una moglie e due figli
(uno addirittura della stessa età del ragazzo assassinato), una famiglia
cattolicissima che non poteva sopportare i pervertiti come lo era il loro bel
figliolo prossimo alla sessantina, non riuscendo a reggere al peso della sua
stessa colpevolezza, il povero (si fa per dire) politicante si era a sua volta
messo la “cravatta eterna” al collo, lasciando per sempre quella valle di
lacrime che era il mondo. Tuttavia, prima di andarsene da quella landa di
dolore inquinata dal denaro, un po’ della sua dote era inaspettatamente
arrivata nella cassa di Thomas. Cinquantamila euro in contanti, in cambio del
suo silenzio. Buona parte di quella fortuna Thomas l’aveva usata per pagarsi
gli studi universitari, chiudendo per sempre con la sua carriera di ragazzo in
affitto, lasciando come unico legame con il passato una foto rubata da un
giornalista che aveva osato insinuare che Thomas era stato coinvolto. Sui
giornali la sua identità non aveva avuto alcun seguito, ma evidentemente Dario
ne aveva conservato una copia.
-Sì, sei soltanto un puttano che usa il suo
corpo per ricattare la gente. Fai soltanto schifo, dovrei ammazzarti adesso-
disse Dario puntando la pistola contro Thomas, che chiuse gli occhi spaventato…
-D…Dario- si era sentito balbettare
–C…cerca di capire… Io non … Io non ho estorto dei soldi a quel politico… su
che giornale l’hai letto?-
A quella domanda, Dario aveva digrignato i
denti, posando la pistola sul pavimento, e sempre tenendo gli occhi impregnati
di furore sulla persona di Thomas, aveva tirato fuori una specie di taccuino,
dal quale a sua volta aveva preso fuori un foglio di giornale ripiegato.
-“La Repubblica”, diciotto maggio duemilaquattro. Cito
testualmente: “…Sembra che il suicida, il deputato Massimiliano Calvetti, abbia
prelevato una grossa somma di denaro in contanti poche settimane prima di
morire. Il denaro contante risulta sparito nel nulla, ed i servizi di
intelligence stanno lavorando per recuperarlo, o quantomeno cercare di fare
luce su questo increscioso episodio…” Chi altri può aver beneficiato di quella
somma???- aveva detto, e poi aveva mostrato una foto sul giornale. Quella foto
ritraeva Thomas di profilo, mentre cercava di coprire con la mano l’obiettivo
della macchina fotografica. –Tu, gran figlio di puttana. Soltanto tu. Ti sembra
giusto che un povero ragazzo sia stato assassinato per colpa tua?- “Senti chi
parla di assassinare” aveva pensato Thomas. Dario stava camminando avanti e
indietro e squadrandolo da capo a piedi, evidentemente aspettando una risposta.
Tirare nuovamente fuori quella storia era un brutto colpo per il povero
ragazzo, che già stava soffrendo per quei nodi che gli stavano segando mani e
piedi. Poi Dario era scattato e si era andato a sedere accanto a lui,
tirandogli i capelli. Thomas aveva urlato dal dolore, versando anche qualche
lacrima…
-…Io ti odio. Ti odio con tutto il mio
cuore, pezzettino di merda.- il suo alito profumava di gomma da masticare alla
menta, ma il suo furore faceva paura -…Quando Alberto sarà qui, ci fidanzeremo
ufficialmente, tu morirai ed io piscerò sulla tua tomba.- detto questo, diede
un altro strattone ai capelli di Thomas, gli tirò un pugno sul naso e gli sputò
negli occhi. Impossibilitato a replicare alla minaccia del pazzo, il povero
Thomas gemette di dolore, provando a rannicchiarsi per quanto gli riusciva, nel
tentativo di scendere a patti col dolore, mentre Dario si alzava ed andava
verso la porta, lasciando solo ed al buio il suo prigioniero, che nel frattempo
si era messo a piangere.
Questo era stato il loro primo incontro, al
quale Thomas ripensava quasi ogni giorno e durante il quale aveva capito perché
Dario avesse fatto fuori tutti quei poveri ragazzi. Una lista nella quale
sarebbe entrato anche Thomas, se non fosse arrivato un miracolo dal cielo o se non
si fosse fatto venire un’idea.Mentre
aspettava, ormai da alcuni giorni, Thomas se ne stava lì disteso su quel
materasso, con le caviglie e i polsi bloccati da quelle corde. Fortunatamente
Dario non gli aveva tappato anche la bocca, così poteva respirare
tranquillamente. Il suo aguzzino andava a trovarlo ogni giorno. Quasi
maternamente lo metteva a sedere e lo imboccava con fette di pizza che comprava
prima di recarsi lassù. Grazie alla metodicità di Dario, dopo due volte che gli
aveva chiesto l’orario, il suo aguzzino era diventato anche il suo orologio: tutte
le sere alle ventuno arrivava a portargli la sua pizza margherita. Dopo tutto
quel tempo avrebbe anche potuto dire in anticipo quando sarebbe arrivato (salvo
imprevisti). Ora Thomas se ne stava disteso guardando la porta, nel buio. Si
sentiva sporco, sudato, puzzolente. Desiderò di essere fuori da lì, nel suo
loft, a fare una bella doccia e dopo a guardare un po’ di televisione. Accanto
a lui c’era Alberto, al quale non aveva mai smesso di pensare… Nemmeno dopo che
l’aveva lasciato. Adesso avrebbe avuto bisogno di lui, e pregò tutti i santi in
paradiso che il ragazzo avesse letto la sua e-mail. D’altronde era stato
abbastanza incauto a presentarsi a casa sua direttamente. Si sarebbe dovuto
presentare alla porta di Dario armato di una bella pistola scacciacani e dargli
il fatto suo. Il problema era che non aveva mai posseduto una pistola. Era uno
scrittore, non certo un poliziotto, anche se negli ultimi giorni si era calato
in quel ruolo.
“Ti prego Alberto… Vieni… Vieni a
salvarmi…” pensò, con un sospiro. Improvvisamente, la porta della sua prigione
si aprì con uno scatto di chiave, e la figura di Dario con un cartone di pizza
in mano si profilò sulla soglia.
-Ciao, Thomas- lo salutò con scherno –Come
stai oggi?-
-…Fottiti.- gli rispose Thomas.
-Come siamo acidi stasera. Ti ho portato la
cena- disse, poi aggiunse –ed è meglio che tieni a freno la lingua, se non vuoi
che ti lasci a morire di fame.- E rise, andando verso di lui. Thomas si zittì,
osservandolo con aria truce. Dario si inginocchiò davanti a lui, posando la
torcia sul pavimento lercio e polveroso. Alla luce della lampada, il volto di
Dario era dipinto da giochi di ombre molto suggestivi, gli stessi che c’erano
anche sulla faccia di Thomas. Per la prima volta durante quel periodo, Dario si
soffermò a guardare Thomas. Lo guardò a lungo, senza dire nulla, soltanto
osservando il suo viso ed i suoi occhi verdi. “L’angelo bianco e l’angelo nero”
pensò Thomas, mentre i suoi occhi erano fissi in quelli di Dario.
-Sai…- disse Dario, portando una mano sulla
guancia di Thomas e carezzandogliela –…Non sei niente male. Se fai il bravo,
potremmo anche fare un’esperienza a tre.- Rise di gusto –Sì! Io, tu… e il
nostro Alberto. E’ un bel ragazzone, lui… sono sicuro che riuscirebbe a
soddisfare due sederini come i nostri.-
-Con il tuo di sicuro ci metterà poco
tempo. Per toglierti più in fretta dai coglioni- rispose acidamente Thomas. A
quella risposta, Dario cambiò espressione e mollò un ceffone in faccia a
Thomas, lasciandogli il segno di cinque dita più due anelli.
-E adesso prova a mangiare da solo- disse
stizzito, calciando il cartone della pizza, che volò fuori dal contenitore.
Dentro di sé, Thomas stava ridacchiando. Il riso gli passò quando sentì il
rumore di un motore che si avvicinava.
*****
Una leggera nevicata aveva preso a scendere
dal cielo di Torino. Al volante della sua Fabia, Alberto si augurò che la neve
non attecchisse al terreno, perché altrimenti il ritorno sarebbe stato
difficile. Il posto segnato sulla mappa (una stampa da “Tuttocittà” con una X
rossa che indicava il posto giusto) era proprio nei pressi del cantiere di
Fabrizio: si trattava di una vecchia casetta abbandonata, praticamente in
disfacimento. Il tetto era praticamente sfondato, e inchiodato ad un muro c’era
un cartello che avvertiva del pericolo di crollo. Così il buon Dario poteva
contare sull’appoggio di due case abbandonate, in quel posto sperduto dove non
andava mai nessuno, per fare i suoi comodi. “Thomas dev’essere sicuramente là.”
Avanzò lentamente, abbandonando l’auto, munito soltanto di una torcia e di un
lungo cacciavite a lama (l’unica arma che era riuscito a trovare in caso ci
sarebbe stato da difendersi), che nascose prontamente dietro la schiena. Con la
torcia esplorò la facciata della casa, mentre la neve che cadeva dal cielo si
stava già depositando. Nessuno in vista, quindi avanzò lentamente, stando bene
attento alle spalle, in caso il suo pazzo vicino di casa fosse lì appostato. Si
armò del suo cacciavite, pronto a ficcarlo in gola a Dario in caso non avesse
voluto collaborare. Deglutì al solo pensiero, dopotutto lui era uno che non
aveva mai fatto male ad una mosca, quindi si augurò che il ragazzo se ne fosse
stato buono.
Nell’avvicinarsi sempre di più alla casa,
gli venne la pelle d’oca. C’era qualcosa che lo terrorizzava, soprattutto al
pensiero che Nathan potesse essere stato ucciso là. Cercò di farsi coraggio il
più possibile, dato che ormai conosceva il colpevole… Dato che non voleva
complicazioni, aveva evitato di chiamare i carabinieri. Thomas doveva essere assolutamente
salvato, ammesso e non concesso che non fosse già troppo tardi. Dopotutto,
erano passati alcuni giorni da quella mail. Una settimana minimo.
“Signore, se ci sei… Io ti imploro… Ti
prego, fa che Thomas sia vivo.”
*****
Thomas non fece in tempo ad urlare che
Dario gli aveva già sigillato la bocca con un pacco di nastro da pacchi sulla
bocca. –Se ti azzardi a starnazzare- gli stava dicendo –ti taglio quella gola.-
Comprendendo che non era il caso di
resistere, Thomas annuì e chiuse gli occhi.
-Vedo che capisci. E comunque quegli occhi
tienili aperti. Voglio che tu stia a guardare mentre…- non terminò la frase,
lasciando ad un sorriso sardonico tutto il significato attribuibile. Thomas
ringhiò, con tutto lo scotch che gli aveva appiccicato la bocca.
*****
Il salone d’ingresso sembrava proprio un
antro malefico. La struttura era insolitamente anglosassone, ovvero c’erano le
scale che portavano al piano superiore già all’ingresso. Analogamente all’altro
casolare in campagna, questo qui era coperto dello stesso marciume ed elementi
della natura, ovvero foglie morte e rami spezzati, che nelle case abbandonate
riuscivano sempre ad entrare in qualche modo. Dal pavimento fuoriuscivano dei
tubi molto vecchi ed arrugginiti, piegati verso l’alto come le due canne di una
doppietta. Tese l’orecchio, cercando di captare qualche rumore. Senza sentire
nulla, cominciò la sua esplorazione del posto, camminando piano e tenendo
sempre alto il lungo cacciavite, immaginando di essere un cavaliere per farsi
coraggio. Se Thomas era lì, lui l’avrebbe tirato fuori, ad ogni costo. La luce
della torcia nell’altra mano creava dei paurosi giochi di ombre con le tende
ormai sfibrate e consunte da troppi anni di cambiamenti climatici, e l’ombra
proiettata di un ragno fece fare un balzo ad Alberto per la paura. Si trovò
davanti un lungo corridoio, il quale si snodava a sinistra verso la fine. Ai
lati del corridoio c’erano quattro porte. Due a sinistra e due a destra.
Furtivamente, si mosse cercando di fare piano ma anche in fretta, ispezionando
brevemente le porte. Appreso che non c’era nessuno, girò verso sinistra nel
corridoio, e …
-Fermo.- gli intimò una voce. Era Dario, in
un timbro vocale che non gli aveva mai sentito fare. Beh, d’altronde si erano
parlati veramente poco in tutti quegli anni che si conoscevano, per cui gli
sarebbe stato difficile riconoscere la voce del ragazzo. Alberto rimase
impietrito, cercando di vedere con la coda dell’occhio, ma non riuscendoci,
rinunciò a voltarsi. –Non voltarti. Lascia cadere il cacciavite e alza le mani.
Lentamente.-
La voce di Dario era molto impostata, quasi
quella di un soldato che beccava un prigioniero di guerra, troppo suadente. –Ho
una pistola, per cui decidi tu se vuoi collaborare oppure farmi incazzare come
ha fatto il tuo amico giù di sotto.-
-Dario, non è il caso di…-
-Zitto!- gli intimò, e questa volta sentì
la pistola che gli toccava la base del collo, ed il fiato caldo di Dario che
gli parlava all’orecchio. –Adesso vai avanti. E scendi lentamente le scale. Te
lo ripeto, non fare scherzi o dipingerò le pareti di questa casa soltanto
premendo il grilletto.- Non scherzava affatto, tanto più che poteva sentire il
freddo metallo della rivoltella sul collo, che gli fece venire la pelle d’oca. Scesero
le scale insieme, Alberto davanti e Dario dietro, che già pregustava lo
spettacolino che aveva in mente, quella sua mente bacata che aveva perpetrato
così tanti delitti. Arrivati a destinazione, Dario intimò ad Alberto di aprire
una porta, e una volta varcata la soglia vide una persona che sembrava Thomas,
ma che aveva i capelli talmente scarmigliati, il viso sporco e insanguinato ed
un grosso pezzo di nastro adesivo sulla bocca e si spaventò.
-Thomas!!!-
Fece per accorrere da lui, ma Dario gli
puntò la pistola alla schiena e disse –Io non lo farei…- provocando il blocco
immediato di Alberto. Thomas incominciò a latrare mugolii dalla gola, e Alberto
vide che era prossimo a piangere. Tranquillamente, Dario girò intorno ad
Alberto con il suo cacciavite in mano, che buttò in un angolo della stanza, il
più lontano possibile dai due.
-Bene- disse Dario –è ora di cominciare.-
Un ghigno satanico gli si dipinse sulle labbra.
Al centro della stanza c’era un materasso
pulito. Forse l’unico oggetto pulito in tutta la casa. Su di esso vi erano due
cuscini, puliti anch’essi. Sempre con le mani alzate, Alberto osservava il suo
vicino di casa, che continuava a puntargli la pistola. Nel suo angolino, Thomas
era ancora lì legato come un salame e forzatamente zittito dal nastro da
pacchi.
-Dario.-
-Cosa?-
-Io… io credo che dovremmo parlare.-
Inaspettatamente, ma senza abbassare la
pistola, Dario sorrise –E di cosa vorresti parlare, amore?-
L’aveva chiamato amore. Evidentemente non
si rendeva conto di non essere lui l’amore della sua vita, ma per il suo
cervello era questo e forse anche altro… Cercò di pesare bene le parole, non
fosse stato altro perché c’era il rischio che dalla rivoltella sarebbe potuto
partire un colpo. –Amore. È… una parola… una parola ricca di significati- si
stava chiaramente arrampicando sugli specchi. Guardò fugacemente Thomas,
pensando “Cazzo, sei tu quello laureato in giurisprudenza, io ho finito a
malapena l’istituto tecnico!” continuando a tenere le mani alzate, riprese a
parlare, mentre Dario ascoltava –E… io credo che… questi significati… siano…
piuttosto … come dire… Ampi. Molto ampi, nel nostro caso.-
-Alberto, le supercazzole lasciale fare al
Conte Lello Mascetti di “Amici miei”. Questo non è un film. Che cosa cazzo vuoi
dirmi esattamente?-
-Volevo sapere… perché … hai ucciso il mio
fidanzato.- disse Alberto, cercando di temporeggiare.
-Mi aveva fatto incazzare. Continuava a
ronzarti attorno, e quando gli ho chiesto di levarsi dal cazzo, lui non ha
voluto obbedirmi. Ed ha avuto quel che si meritava.- Thomas sgranò gli occhi a
quella spiegazione. “E’ pazzo. È pazzo. È completamente suonato.” Pensò,
scuotendo la testa lentamente, affinché Dario non se ne accorgesse. Molto
remissivamente, Alberto annuì, maledicendo sé stesso per essere così fifone, ma
immensamente dispiaciuto per cosa era accaduto al suo boyfriend… Avere
l’assassino faccia a faccia, dopo due lunghi anni… e non sapere cosa dire.
-Ma allora… perché poi non sei venuto da
me?- domandò. –Non ti avrei respinto, tu sei… un bravo ragazzo…- Adesso Thomas
si girò a guardare Alberto. Se non avesse avuto quello scotch sulle labbra
avrebbe detto “Che cosa??? Tu sei ancora più scemo di lui!!! Ti avrebbe ficcato
un paio di forbici nel naso dopo il primo mese di fidanzamento, se ti fosse
andata bene!!!” come se l’avesse sentito, Dario si girò verso Thomas e gli
rivolse un’occhiata truce, senza però distogliere totalmente l’attenzione da
Alberto.
-Ero troppo timido. Non come certa gente
che si diverte a dare il culo alle persone più anziane per ricavare due soldi.-
-A … a chi ti riferisci, Dario?-
-Mi riferisco a Nevio. A Yari. A Renato…
Che schifo. Possibile che il mondo gay sia soltanto dare il culo a destra e a
manca?- Alzò il tono della voce -Non c’è più nessuno che riesca a lottare per i
veri valori della moralità e della monogamia?? Eh???- Si alzò dalla sedia,
girando attorno ad Alberto, che continuava a tenere le mani alzate sotto la
minaccia della rivoltella.
-E’ un mondo di merda! Ma perché non lo
volete capire?- camminò intorno ad Alberto, tenendolo d’occhio… Alberto girò
con lui, francamente stanco di tenere le mani in alto… -è proprio un mondo di
merda!- ripeté –Vi rendete conto che io, a ventidue anni non sono riuscito a
trovare nessuno? E vi rendete conto che sono stato abusato da parte di persone
che dovevano aiutarmi? Chi cazzo siete voi per dirmi che io sono un pazzo? La
verità è che non sapete riconoscere il vero amore. E quando arriva uno con il
sedere più sodo o il cazzo più duro, ci andate senza problemi, senza curarvi di
chi avete accanto…- sputò, e il grumo rasentò il pantalone di Alberto. –Tu- si
rivolse ad Alberto –Tu, Alberto, lo sai cos’è il vero amore?-
-S…sì.- Balbetto, aggiungendo mentalmente
“…Sì che lo so, e tu me l’hai portato via, dannato pazzoide.”
Dario tirò su col naso e strabuzzò gli
occhi. –“Sì”? Che cazzo di risposta è “Sì”??? Guardami negli occhi quando ti
parlo! Tu non lo sai, cos’è il vero amore. Perché stavi con quel cicisbeo
inglese. Ma tu credi veramente che lui ti amasse?-
Questa volta Alberto evitò di rispondere.
Era la prima volta che si trovava ad avere a che fare con un pazzo, e per di
più con una pistola carica nella mano destra. Pensò che sarebbe stato meglio
lasciarlo sfogare, fino a che non si fosse calmato. Thomas era lì che
armeggiava tentando di liberarsi le mani, ma Dario spostò il mirino della
pistola e urlò –Provaci e sei un puttanello morto!!!- provocando l’immediata
pietrificazione di Thomas, il quale restò a guardarlo come un agnellino
impaurito. –Non farmelo ripetere. La prossima volta lascerò parlare la
pistola!- gridò.
-D… Dario, ascoltami. Perché proprio io?
Che cos’ho io che a te piace tanto?- azzardò a domandare Alberto.
Contrariamente alle aspettative, la domanda gettò in un silenzio inquietante
l’intera conversazione, mentre Alberto cercava una posizione più comoda per le
sue braccia.
-Perché… io ho visto un angelo in te-
rispose Dario, con un tono dolcissimo che inquietò notevolmente Thomas. Il
poveretto guardava la scena con gli occhi sgranati, incredulo delle parole che
sentiva dire a Dario, ma ancor di più per quelle che sentiva dire ad Alberto. –In
te ho visto una persona pura. Ma accanto a te… c’era sempre lui, Nathan. Ed io
ero geloso. Geloso da morire.-
Alberto sospirò, abbassando lentamente le
mani. Dario glielo concesse, e infine Alberto chiese –Cosa vuoi che faccia
adesso?-
-Prova un po’ a pensare.- gli rispose
Dario, sempre continuando a puntargli la pistola. –Voglio che io e te ci
uniamo. Qui. Adesso.-
Frastornato, spossato, Alberto guardò da
più parti, non capendo bene come avrebbe dovuto comportarsi. Guardò anche
Thomas, che lo guardò con occhi mesti e tristi e scosse la testa in segno di
diniego, così impercettibilmente ma anche così chiaramente. Non voleva vedere
quello spettacolo. “Ma devo farlo.” Pensò Alberto “Non ho altra scelta.”
-Vieni qui, adesso- gli ordinò Dario, che
si stava inginocchiando sul materasso. Batté leggermente una mano, invitando
Alberto a raggiungerlo. Inginocchiatosi anche lui, Dario continuò a puntargli
la pistola, e gli ordinò di togliergli le scarpe. Lentamente. Alberto allora
andò ai suoi piedi e gli rimosse le Vans a scacchi, togliendogli anche le
calze. I piedi di Dario erano freddissimi, quasi gelati. Un po’ per
temporeggiare, e un po’ per tranquillizzare quel pazzo assassino, si mise a
scaldarglieli come aveva fatto con Thomas qualche sera prima, strofinando le
sue mani. Dario fremette, e in quel momento Alberto ebbe paura che sarebbe
partito un colpo dalla pistola, costantemente puntata sulla sua testa.
-Adesso… toglimi i vestiti.-
-S… sei sicuro? Fa molto freddo qui. Non
vorrei che ti beccassi una polmonite…-
“Oh, ma dai! Vuoi dargli anche un brodino
caldo? Magari un’aspirina? Oppure un panno di lana per le gambe? Disarmalo,
idiota!!!” pensò Thomas osservando la scena, poi però si impose il silenzio,
persuaso dalla pericolosità di un tizio che alle spalle aveva una discreta
lista di persone assassinate.
Con una lentezza quasi felina, Alberto andò
su Dario ed incominciò a togliergli la maglia. Prima un braccio… poi la pistola
passò a quella mano… e poi l’altro. “Cazzo!” pensò Alberto “Occasione mancata”,
rimuovendo infine la maglia nera.
Allo stesso modo, gli sfilò i pantaloni
dalle gambe. Ora il ragazzo era soltanto in boxer. Ripensò alla neve fuori.
Chissà quanta ne era già caduta, e se avrebbe poi ritrovato la sua auto. Ma
soprattutto, si augurò che quel pazzo di Dario non gli avesse chiesto di
spogliarsi. Speranza vana.
-Bene. Adesso spogliati tu.- Gli intimò.
-Cosa…? Ma hai idea del tempo che c’è
fuori…? Morirò congelato!-
-Ho detto spogliati- ordinò Dario, puntando
di nuovo la pistola sul povero Alberto –E non farmelo ripetere. Quando sarai
pronto, ti riscalderò io.-
“Ti riscalderei volentieri io a suon di
schiaffoni” pensò Thomas, ancora muto e paralizzato sul suo materasso lercio.
Velocemente, Alberto si denudò, togliendosi
il cappotto, la camicia di flanella, scarpe, calze e pantaloni. Rimase in
boxer, e Dario fu soddisfatto. –Va bene, adesso vieni qui.- L’innaturalezza di
quel rapporto era pazzesca. Tutte le volte che aveva fatto l’amore, non era mai
stato comandato così a bacchetta da qualcuno. Beh, forse perché nessuno dei
suoi amanti aveva mai portato una pistola al primo appuntamento. Cercò di farsi
coraggio mentre si avvicinava a Dario, che già gli si era avvinghiato…
Sorrideva contento come un bambino a Gardaland, quando prese a baciargli le
guance e le labbra. Ovviamente la pistola era sempre a portata di mano, ma
finalmente l’aveva posata sul pavimento. Dario diede uno sguardo a Thomas, per
sincerarsi che fosse ancora lì e fermo. “E dove vuoi che vada” pensò Thomas.
-Non badare a lui. Non ci sarà di nessun
disturbo. Fai come se lui non ci fosse…- disse Dario, accarezzando le guance di
Alberto, poi si rivolse di nuovo a Thomas –E tu guarda bene e cerca di
imparare. Dopo questo spettacolino, farai la fine del tuo amico Daniele.-
Cercando di ignorare l’ultimo commento,
Alberto annuì e rispose -Okay…- pur non sapendo bene da dove cominciare. A
questo pensò Dario, che guidò la mano di Alberto sul suo petto, chiudendo gli
occhi a quel tocco così bello. Alberto prese ad accarezzarlo, e Dario gli cinse
le spalle con un braccio… Le sue labbra lambivano le sue, e mentre Alberto
giocava con i capezzoli turgidi di Dario, questi gli leccava dolcemente le
labbra. Non era poi un brutto ragazzo, almeno esteriormente. Interiormente era
bruttissimo, ma in un certo senso Alberto non poté non provare un briciolo di
pietà per quella povera creatura. Se era vero che quelli che dovevano aiutarlo
avevano abusato di lui, allora bisognava provare a contestualizzare la cosa.
Cercò di non pensare al fatto che Dario fosse l’assassino di tutti quei
ragazzi, compresi Daniele e Nathan, il primo che era stato legame tra lui e
Thomas… Il ragazzo dai capelli rossi che ora era lì, con la bocca ben sigillata
e lo sguardo rivolto alle chiazze di sporco del materasso, chiaramente per non
vedere ciò che i due piccioncini stavano facendo. “Spero che tu capisca” pensò
Alberto, come se potesse mandare un messaggio a Thomas “Che non mi sto
divertendo”. Come se l’avesse sentito, Thomas gli rivolse uno sguardo pieno di
mestizia, prima di abbandonare i suoi occhi ad un pianto sommesso.
-Stai concentrato- gli disse Dario, e
Alberto chiuse gli occhi, unendosi in un sensualissimo bacio con il bel ragazzo
Emo che era il suo vicino. Gli carezzò quel ciuffo di capelli, che per molti
versi era molto simile a quello di Filippo, di cui si era innamorato. Con la
lingua esplorò la bocca di Dario, mentre la sua mano andava a carezzargli la
coscia ed il gluteo… Dario ansimava di piacere, e il braccio di Alberto toccò
la sua mascolinità eretta nei suoi slip.
-Sono pronto…- mormorò Dario, guardandolo
con occhi da cucciolo. –Dai… fammi tuo, Alberto… Ti prego.- Per l’unica volta
in quella serata, Dario stava supplicando, tecnicamente senza nessun requisito
per supplicare. Lui era l’aguzzino, ma Alberto pensò che in mano sua Dario
sarebbe stato meglio di un cagnolino ammaestrato. Con grande velocità, Dario si
abbassò gli slip, girandosi ed offrendo ad Alberto una panoramica della sua
schiena… con annessi e connessi. Sebbene fosse un assassino, Dario era un bel
ragazzo. Già durante i baci, il sesso di Alberto si era indurito. Ora si
trattava soltanto di superare quella martellante sensazione di sporcizia che si
sentiva dentro. Deglutì ed entrò nel corpo di Dario, che gemette di piacere.
Durò tutto un bel po’ di tempo, in cui Dario ansimò di piacere, gemette,
supplicò Alberto di continuare e non smettere; lo stesso fece Thomas, dato che
quello sarebbe stato l’ultimo spettacolo porno della sua vita, se Alberto non
si fosse sbrigato a trovare una soluzione.
Durante il suo “lavoro”, Alberto era
riuscito a registrare la posizione della pistola. Era lì, a due passi dalla sua
coscia, a portata di mano di Dario. Avrebbe potuto prendergliela in quel
momento che era di spalle, ma preferì aspettare. Continuò a muovere il suo
sesso nel corpicino di Dario, che sembrava non averne mai abbastanza. –Hmm….
Ooohhh… sìììì… amore mio….- gemette, e Alberto provò a stare al gioco, soltanto
per evitarsi rogne poi. –Hm… Dario… sei fantastico… Quanto avrei voluto
scoparti prima…- mormorò. Dario gemette ancora, rispondendo –Oh, sì… oh, cazzo
sì… ti avrei aperto la porta immediatamente… ho sognato questo momento per
anni… hmmm…. Ti prego non smettere… aaahh…- Contemporaneamente cercò di
allungare una mano, ma non riuscì a raggiungere l’arma.
Notando un movimento strano, Dario si voltò
e lo guardò negli occhi. Alberto gli sorrise, e Dario fece altrettanto. Il suo
pene si era appena sciolto nel piacere.
-Sei stato magnifico… però adesso tocca a
me- disse Dario, leccandosi le labbra e distendendosi verso il sesso di
Alberto, aprendo la bocca e accarezzandolo dolcemente con la lingua. Alberto
strinse i denti, chiuse gli occhi fino al momento in cui Dario prese in bocca
il suo membro e poi li riaprì, cercando di resistere quanto più possibile. Con
una mano cercò di bloccargli il polso contro il materasso, e Dario lo lasciò
fare, troppo impegnato a lavorare con la sua bocca. Furtivamente, approfittando
del fatto che Dario aveva gli occhi chiusi, Alberto riuscì ad acchiappare la
pistola, e gliela puntò alla tempia.
-Il gioco è finito, Dario.- disse Alberto
–Avanti, togli la tua schifosa bocca dal mio pisello!- Per tutta risposta,
Dario non solo non si spostò, ma iniziò a serrare dolcemente le labbra,
mordendo l’asta del pene di Alberto
-Ahi ahi ahi ahi ahi ahi!!! Smettila!!!-
gemette Alberto, ma Dario non la smise, e anzi continuò a mordere. Alberto
sentì un dolore lancinante al pene, e si ricordò di un film “Le ali della
libertà”, dove il detenuto Andy Dufresne diceva che le mascelle si contraggono
in caso di un forte shock, e quindi scartò l’idea di sparargli in testa. Invece
buttò la pistola, e Dario mollò la presa su Alberto, balzando per cercare di
recuperare la pistola. Sebbene dolorante, Alberto provò a fermare Dario,
prendendolo per la caviglia e facendolo scivolare. Questi urlò –Lasciami!!!
Stronzo!!!- Alberto lo tirò a sé cercando di bloccargli entrambe le gambe, ma
Dario scalciava come un forsennato, e un calcio colpì Alberto dritto in faccia.
Con un colpo di fortuna, Dario riuscì a recuperare la pistola mentre Alberto si
massaggiava il setto nasale.
-Mi avete rotto, tutti e due… adesso vi
faccio….- Puntò la pistola verso Alberto prima, e verso Thomas poi. Erano
davvero giunti alla fine. La fine di tutto, e tutto per colpa di Alberto. Tra
il dolore lancinante al setto nasale, Alberto versò anche qualche lacrima.
Adesso soltanto un miracolo avrebbe potuto salvarli. Sentì il “Clic” del
tamburo che veniva armato, poi Dario che diceva “Andate all’inferno, stronzi”…
poi… si aspettò di morire, e invece…
Invece Thomas vide Dario che guardava
qualcosa verso il muro. Lui non vide niente, ma Dario di sicuro fu scosso.
Sembrava che avesse visto un fantasma. Era nudo e spaventato, e sparò un colpo
in direzione del muro. Poi corse via verso il corridoio, urlando come un pazzo.
Alberto non credeva a ciò che sentiva.
Dario era scappato via, lasciandoli soli. Fece per avvicinarsi a Thomas, quando
sentì uno sparo. Poi un altro, poi un altro ancora, in rapida successione.
Sentì Dario che correva e urlava cose senza senso, ma ora doveva preoccuparsi
di Thomas. Si guardò intorno, e individuò il suo cacciavite a lama. Lo afferrò
e iniziò a tagliare accuratamente le funi che stringevano Thomas. Una volta
sciolti i nodi, il ragazzo fu libero.
-Ah!!! Ahnf!!!- Ansimò Thomas, a grandi
boccate. –Oh mio dio. È impazzito. Deve aver visto qualcosa che…-
La sua frase fu interrotta da uno strano
rumore. Una specie di tonfo. Alberto strisciò in fretta verso i suoi pantaloni,
mente Thomas correva fuori a vedere cos’era successo. –Thomas!! No!!!- urlò
Alberto, ma Thomas era ormai lontano. Si infilò le mutande e le scarpe, e corse
all’inseguimento.
Percorse il corridoio a ritroso,
ritrovandosi poi in una saletta e poi nel salone principale. Lì, accanto alle
scale, c’era Thomas che guardava una scena raccapricciante: Dario era
precipitato giù dal ballatoio delle scale, direttamente con la schiena sui due
tubi arrugginiti a canna di fucile. Gocce di sangue caldo sprizzavano dalla sua
bocca, mentre lui, agonizzante, aveva già perso anche la pistola dalla mano.
-Oooorrgglll…- mormorò Dario, mentre Thomas
si strinse ad Alberto e si coprì il viso con il suo petto, per non guardare.
Pochi istanti dopo, Dario, ventidue anni, una vita passata a progettare la sua
morte fino al momento in cui non aveva incontrato Alberto Ferrari, un
affascinante vicino di casa con cui pochi minuti prima aveva avuto il primo
vero rapporto sessuale amoroso, era morto.
-Gesù…- mormorò Thomas –Che fine orribile.-
-Già…- Una nuvoletta di fiato condensato
uscì dalla bocca di Alberto, che guardò dalla finestra. Nevicava forte, adesso.
-Sarà meglio che mi rimetta i vestiti. La
neve è già alta fuori, non sono sicuro che riusciremo ad andarcene.-
-Oh no!- disse Thomas. -E adesso?-
-Fidati di me.- rispose Alberto, tornando
verso la stanza della prigionia per rimettersi i vestiti.
Proprio
mentre stava puntando la pistola contro Thomas ed Alberto, Dario vide delle
luci spuntare fuori dal muro. E iniziò a sentire delle voci.
-Daaaaaaaario……-
Gli
venne la pelle d’oca, soprattutto quando vide a chi appartenevano. Dal muro, vide
uscire i due ragazzi che aveva assassinato davanti al locale, per soddisfare il
suo odio verso la promiscuità. Questi avanzavano verso di lui, e lui scappò
via. Nel corridoio, però, c’erano altri “amici” ad aspettarlo. Da una porta
venne fuori Nevio, che con quella gola tagliata allungò le mani verso di Dario
per cercare di strozzarlo. Disperato, spaventato, Dario premette il grilletto e
fece fuoco, ma la pallottola attraversò il corpo di quel povero ragazzo che lui
aveva ucciso. Corse via, ma fu intercettato da Daniele che lo prese per un
braccio –Perché mi hai ucciso…? Alberto mi aveva rifiutato…- il viso di Daniele
era così innaturale, il ragazzo piangeva sangue e i suoi occhi erano vitrei.
-No!!!
Lasciatemi in pace!! Andate via!! Viaaaaaaaaaaa!!!!- urlò, correndo verso
l’atrio. Cercò di uscire, ma la porta era stranamente sbarrata. Dalla porta
della cucina udì miagolare un esercito di gatti. Sparò di nuovo, uno, due, tre,
quattro colpi, fino a che il caricatore non si esaurì, lasciandolo solo come un
bambino in una stanza buia. Ancora tutto nudo, salì le scale, ma una volta lì,
fu bloccato dall’immagine dei suoi genitori che piangevano. –Figlio mio, perché
mi hai ucciso… Noi volevamo solo aiutarti…- aveva detto suo padre –Vieni con
noi, Dario… Lo sai che la mamma ti vuole bene…- Disse sua madre.
-Andate
via, ho detto! Andate via!!- urlò ancora una volta, piangendo come un
disperato. Nel fare dietrofront, si ritrovò l’immagine di Nathan. Il ragazzo
stava in piedi con i pugni chiusi, il trench abbottonato fino al collo e quegli
occhi vitrei che lo squadravano da capo a piedi.
-Ciao
Dario. Ti ricordi di me? È passato un po’ di tempo, non è vero?- Nathan avanzò,
dicendo –Sei stato un bambino cattivo. E come tutti i bambini cattivi, adesso
meriti la tua punizione.-
-No!!
Lasciami in pace!- gemette Dario, mentre quello avanzava. Fece l’errore di
appoggiarsi all’asse marcio del ballatoio delle scale, mentre Nathan avanzava
da una parte ed i suoi genitori dall’altra. Non sapendo dove andare, Dario
chiuse gli occhi e pregò tutti i santi che sparissero, ma evidentemente anche
il buon Dio lassù si era deciso che l’ora di Dario era suonata da un bel pezzo.
Sotto
il peso del tempo, l’asse di legno cedette di schianto, e Dario fu proiettato
nel vuoto. I due tubi fuoriusciti dal pavimento erano lì ad aspettarlo, con
quelle estremità appuntite come lance. Lui vi cadde proprio sopra con la
schiena, e fu infilzato da parte a parte. Quando il metallo arrugginito gli
penetrò nelle carni, la sua bocca sputò un fiotto di sangue, che si depositò
come l’acqua di una fontana quasi tutto sulla sua faccia. Poi arrivò Thomas e
subito dopo Alberto.
Cercò
di dire qualcosa.
“Alberto…
Io… ti… ho …. Amato… tanto… fin…… dal primo… momento…. Che….. ti ho visto….”
I
suoi occhi si soffermarono su Alberto, che all’improvviso diventò sempre più
oscuro, fino a scomparire. Ebbe soltanto il tempo di pentirsi di tutto il male
che aveva fatto, e poi si addormentò per sempre.
*****
Avvolto nel cappotto di Alberto, Thomas era
disteso sul divano dell’ufficio modulare del cantiere. La neve continuava a
scendere copiosa, quasi come se avesse voluto cancellare tutti quei posti,
rendendo impossibile la circolazione con le auto. Per fortuna, accanto alla
scrivania c’era una stufetta elettrica, che Alberto accese immediatamente,
cercando di scaldare l’ambiente il più possibile. Cercò anche nell’armadietto
dei medicinali qualcosa con cui curarsi, e prese un bel fiaschetto di Brandy
che Fabrizio teneva in serbo, forse per le occasioni speciali.
-I carabinieri dovrebbero arrivare fra
poco.-
-Bene…- rispose Thomas.
-Tu stai bene?- domandò Alberto a Thomas.
Questi annuì, poi sospirò.
-Grazie.- mormorò Thomas. –Adesso il mio
mestiere si conclude veramente qui. Il caso è chiuso.-
-Non è concluso un bel niente- replicò
Alberto, andando a sedersi accanto a lui. Thomas gli fece spazio,
rannicchiandosi su sé stesso. –Io… penso di doverti delle scuse, Thomas.-
Il ragazzo fece una risatina –Hmh. No, sono
io che te le devo. Anzi, forse ti devo qualcosa di più.- disse, e Alberto lo
guardò. –Mi sono comportato come un ragazzino, l’altro giorno. Non avrei dovuto
aggredirti così, dirti che rifiutavo il caso. Mi … mi dispiace, io non so se
potrò mai perdon…..-
Non fece in tempo a finire la frase, che
Alberto lo prese dolcemente a sé e gli baciò le labbra. Thomas non oppose
resistenza, anzi chiuse gli occhi e lo baciò a sua volta. Forse quello era il
più bel bacio che si erano mai dati.
-Alberto?-
-Hm?- mormorò questi, staccandosi un attimo
dal bacio.
-Non… non starai di nuovo giocando a
qualche gioco?- domandò Thomas.
Ironicamente, Alberto sorrise e lo baciò
ancora, con più sensualità. Sorrise anche, abbracciando teneramente il bel
ragazzo. Poi infine lo guardò negli occhi, e sorridendo gli rispose –Sì, sto
giocando ad un gioco che non hai mai fatto: Alberto che vuole incominciare a
frequentare Thomas. Ti va di giocare?-
Thomas lo guardò per un attimo con quegli
occhi verde smeraldo. Poi li chiuse e lo baciò ancora una volta, con una
passione mai provata prima, addirittura portando le mani sulle sue guance ed
esplorandogli la bocca con la lingua.
-Ti basta come risposta?-
-No, non ho capito bene.- disse Alberto,
ridacchiando.
-Uffa, ma allora sei proprio duro di
comprendonio- rispose Thomas, e riprese a baciarlo di nuovo, mentre Alberto lo
abbracciava e lo teneva a sé. Complicità. Qualcosa che era scattato anche tra
loro due. Finalmente, dopo tanto tempo che Alberto aspettava qualcosa del
genere. E finalmente anche per Thomas, che per la prima volta nella sua vita
poteva dire di essere stato fortunato ad incontrare una persona così.
Libreria
Feltrinelli di Via Ugo Bassi. Proprio accanto alle due torri, l’Asinelli e la Garisenda, simboli di
Bologna, e a due passi dall’Università, Thomas era seduto ad un tavolino
insieme al suo editore, il Dottor Cremonini, e alla sua agente letteraria. Il
suo libro era stato stampato dalla Feltrinelli, di cui Cremonini era
responsabile dell’area Emilia-Romagna. Davanti al tavolino imbandito con il
libro di Thomas intitolato “Delitti o
sparizioni?” in brossura coperti nata, una fila di gente che gli chiedeva
di autografare il libro. Ne aveva già firmati un centinaio, e pensare che era
lì soltanto da due ore! Ogni autografo, equivaleva una copia venduta, e questo
pensiero bastava a far fregare le mani a Cremonini ed a Lucilla, l’agente
letteraria.
-Questo
libro sarà un best seller, me lo sento.- disse Cremonini –Bravo, figliolo! L’ho
sempre saputo che avevi la stoffa, tu!- esclamò, dando una leggera pacca sulla
schiena al suo pupillo.
-Se
continua così, dovremo aumentare la tiratura- disse preoccupata Lucilla, con
quegli occhioni blu nascosti dalle lenti degli occhiali a tartaruga ed il
ciuffo di capelli biondi che immancabilmente le ricadeva dalla fronte.
-Non
c’è problema, vorrà dire che l’aumenteremo.- Thomas si guardò intorno, mentre
editore ed agente avevano preso a chiacchierare. Aveva perso di vista Alberto,
ed era preoccupato. Aguzzò la vista per cercare di scorgerlo, ma non lo vedeva
proprio più. Continuò a firmare autografi per gli ultimi che erano rimasti, quindi
uscì dalla libreria lasciando gli altri a sbaraccare il tavolino.
-Alberto?-
chiamò. –Alby, dove sei?- Era preoccupato all’idea di aver perso il suo
fidanzato, il vero e proprio amore della sua vita. Prese il cellulare,
meditando di chiamare i carabinieri e denunciarne la scomparsa, quando
all’improvviso si sentì toccare la spalla e vide un mazzo di rose rosse. Da
questi spuntò fuori Alberto, che glielo porse con un sorriso. Thomas si mise a
ridere della sua stessa preoccupazione. –Ciao amore- lo salutò, arrossendo.
Dopo solo qualche mese Alberto era riuscito a conquistarsi totalmente il cuore
di Thomas, e pensare che solo pochi mesi prima entrava in casa sua di
soprassalto per fracassarlo di botte. –Ma dove sei andato?- gli chiese,
prendendo in mano le rose.
-Scusa
tesoro. Mi ha squillato il cellulare, era Fabrizio. Ci sono ottime notizie in
vista.- disse, con un sorriso raggiante. Thomas scostò il ciuffetto di capelli
rossi dagli occhi, rivelando un paio d’occhi sorpresi ed allo stesso tempo
felici. L’espressione di intesa di Alberto diceva tutto.
-Vuoi
dire che … Oh…. No, non ci posso credere!!!-
-Invece
sì. Fra nove mesi, Fabrizio diventerà Papà.-
Thomas
si portò una mano alla bocca, quasi piangendo dalla felicità. Dolcemente,
Alberto lo abbracciò e lo strinse a sé, aspirando il suo profumo di pulito.
-Amore…-
disse Thomas –Ma è stupendo…-
-E
non è finita. D’ora in poi Fabrizio non lavorerà più per la Regione Piemonte,
ma si è aperto uno studio tutto suo. Ha già un pacchetto di clienti ben consistente.-
-Bene,
mi fa molto piacere- Guardò le rose. –Ma… perché le rose?-
-Per
farmi perdonare della mia assenza, no?- rispose Alberto, facendo l’occhiolino
al suo partner. Thomas arrossì, quindi si guardò intorno e rubò un dolce bacio
sulle labbra ad Alberto, che lo strinse nuovamente a sé e rispose al bacio.
Rimasero lì a baciarsi tranquillamente, senza badare alle chiacchiere, alla
folla di studenti universitari che accedevano a Via Zamboni, o agli sporadici
clacson delle auto, fino a che qualcuno non toccò il braccio di Thomas.
-Mi
scusi- era un ragazzo giovane, aveva potuto avere circa venti o ventuno anni.
–Potrebbe farmi un autografo?- domandò a Thomas, porgendogli una copia del suo
libro.
-Ma…
ma certo.- Rispose Thomas, un po’ titubante. Il ragazzo era veramente carino.
La bocca così larga sorrideva benevola, e lo stesso gli occhi azzurro cielo,
che erano una piacevole vista anche rispetto ai capelli biondi pettinati
all’insù con il gel. Con un gesto da vero scrittore, Thomas appose la sua firma
sulla prima pagina del libro. –A chi lo dedico?-
-Scriva
“A Tiziano”.-
-A
Tiziano… con affetto.- disse Thomas, mentre scriveva. Poi chiuse il libro e
glielo restituì con un sorriso.
-Grazie.
Sono il tuo ammiratore numero uno.- Disse Tiziano. Mentre lo diceva, una strana
scintilla gli sfavillò negli occhi.
-Dicono
tutti così. Questo ragazzo ha talmente tanti ammiratori numeri uno che
bisognerebbe fare una fila in orizzontale.- Ridacchiò Alberto. –Se ci puoi
scusare, per noi si è fatto tardi.-
-Ma
certo. Grazie ancora, Thomas.- disse Tiziano, con un occhiolino.
-Prego,
non c’è di che.- Rispose Thomas, mentre prendeva il braccio di Alberto e si
faceva accompagnare. –Cosa facciamo stasera?- chiese Thomas.
-Io
suggerirei di festeggiare la vendita del tuo libro con dell’ottimo champagne.-
-Oh,
sì. Bella idea!- sorrise Thomas, accoccolandosi sempre di più ad Alberto,
mentre risalivano verso Via Ugo Bassi, diretti all’Hotel Jolly, vicino alla
stazione ferroviaria.
-Sicuramente
in albergo ne hanno. Ci prendiamo una bottiglia e festeggiamo.-
-Sììì!-
esultò Thomas. –Ah… Alberto?-
-Sì,
Thomas?-
-Ti
amo.-
-Anch’io
ti amo, cucciolo.-
E
continuarono la loro camminata. Dietro di loro, il ragazzo a cui Thomas aveva
appena firmato il libro, aveva preso a seguirli da lontano.
“Thomas…
sei il ragazzo della mia vita.” Aveva pensato Tiziano.
E
mentre il sole salutava Bologna anche per quel giorno, i due innamorati se ne
tornavano in albergo, beati e tranquilli e soprattutto innamoratissimi l’uno
dell’altro.
***Qualcosa c'è
che ti fa paura e rende incerto il tuo volo.
Sarà l'idea
che il tempo si consuma
e l'improvviso sei solo,
come un attore hai scelto il ruolo
di chi è sicuro di se,
ma sai benissimo che la tua arte è nella parte fragile di te.***
Dove muoiono i sogni
fan fiction distribuita
da
EFP.net
Ufficio Stampa
Art & Fiction
Roma
Personaggi e interpreti
(In
ordine di apparizione)
Alberto
FerrariAlberto
Nathan WinterbourneNathan
Daniele MelandriDaniele
FabrizioFoschiFabrizio
Thomas MarchantThomas
Nevio MancusoNevio
Rosanna
BenfattiRosanna
Dario MainardiDario
Filippo
BrighéFilippo
Tiziano
ManaresiTiziano
***Cerca angoli di
cielo
fantastiche visioni,
per dare nuova luce ai tuoi occhi
lasciando entrare tutte le emozioni
senza far finta che l'amore non ti tocchi.
Prendi tutti i suoni
dal frastuono di ogni giorno
cerca tra la gente le parole
segui la tua vita
non lasciarla andare
ora è il momento***
Personaggi secondari
Sig.ra
Concetta StrianiPortinaia
dello stabile
Pietro Giustino
De CarliParcheggiatore
Donatello
BenelliDonatello
Paola RaschiapinoPaola
la segretaria
Eugenio
LolliCarabiniere
#1
Silvano
La
BuonaCarabiniere
#2
Ernesto
MacalusoCarabiniere
#3
***Perchè
non c'è
nessuna differenza
se vinci o se perdi,
quello che conta
che ha più importanza
essere quello che sei.***
Responsabile ufficio stampa
Valerio Christian Ferrarini
Regia di
Notrix
Operatore alla macchina
Notrix
Operatore seconda unità
Nathan Winterbourne
***Cerca angoli di
cielo
fantastiche visioni,
per dare nuova luce ai tuoi occhi;
lasciando entrare tutte le emozioni
senza far finta che il dolore non ti tocchi.
Prendi tutti i suoni
dal frastuono di ogni giorno
cerca tra la gente le parole
ama la tua vita
non lasciarla andare
ora è il momento***
Fonico di scena
Donatello Benelli
Microfonista
KeiHiwatari
Musiche e commento musicale
Tiromancino – Angoli di cielo
Doppiaggio avvenuto presso
Suono & Colore - Roma
Capo squadra elettricisti
Andrea Castellino
Capo squadra macchinisti
Emanuele Ricciarelli
Effetti speciali
HitoshiKinomiya
TakaoKinomiya
Direttore della fotografia e fotografo di
scena
KyosukeKasuga
Negativo
KODAK
Assistente alla regia
Marco De Cristina
Post-produzione
Notrix
Montaggio
KyosukeKasuga
Soggetto scritto da
Notrix
Sceneggiatura di
Notrix
Marco De Cristina
Stefano Jevlier
***Prendi tutti i
suoni
dal frastuono di ogni giorno
cerca in ogni notte un po' di sole
ama la tua vita
non lasciarla andare
ora è il momento
non aspettare***
Un grazie particolare a:
il Comune di Torino
la Provincia di Asti
Direzione Lavori
Pubblici ed Infrastrutture Regione Piemonte
la Regione Piemonte
L’Università degli
Studi di Torino
Librerie Feltrinelli
Gruppo Volkswagen
Fiat Auto S.p.A.
0337 Telefonia
Bologna
I fatti
ed i personaggi narrati in questa storia sono frutto della fantasia dell’autore
e non corrispondono a realtà. Ogni riferimento citato a fatti, persone
realmente accaduti o realmente esistenti, è da ritenersi puramente casuale.
Tutti i
personaggi sono maggiorenni in ottemperanza alle leggi statali contro la pedopornografia.