Diario di un alcolista (o qualcosa del genere) di ballerinaclassica (/viewuser.php?uid=40547)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 14 Aprile 2010, soffitta ***
Capitolo 2: *** 15 Aprile 2010, cucina ***
Capitolo 1 *** 14 Aprile 2010, soffitta ***
14
Aprile 2010, soffitta.
Non ho mai avuto la più
pallida idea di come si cominci un diario, e vorrei continuare a non
saperlo, dato che non ho troppa voglia di scriverlo. Mi spiego, non
sono una persona stupida ed insulsa, di quelle che non leggono mai
libri e che non sono a proprio agio mentre tengono una penna in mano,
tutt'altro.
Odio questo genere di cose, le trovo ridicole, lo
faccio soltanto perché me lo ha ordinato il mio
psicanalista, e i
consigli dello psicanalista vanno sempre seguiti, soprattutto del mio
psicanalista, che è russo, alto almeno due metri e ha la
stessa
stazza di un armadio a tre ante cui una famiglia numerosa ha dovuto
aggiungere una quarta anta per il nipotino in arrivo. Il mio
psicanalista lo conosco da circa tre anni, e da circa tre anni non
è
cambiato di una virgola, svariate volte ho pensato che si trattasse
di un Highlander piuttosto che di un comune mortale, ma le mie sono
tutte tesi che non vanno oltre la semplice supposizione.
Ad ogni
modo, siamo qui per parlare di me, non del mio psicanalista: sono
laureato in fisica nucleare, sono un appassionato di letteratura e
filosofia. Mi chiamo Noah Pattinson e ho un problema con
l'alcool.
Con problema non intendo una di quelle cose leggere, che
dopo una delusione amorosa diventano tipiche di chi non riesce a
superare la solitudine e ad affrontarla. No, io non sono
così
debole. Purtroppo sono una persona molto abile, e a causa di questa
mia abilità sono anche una persona capace di crearsi i
problemi più
insensati, stupidi e complicati dell'intero New England.
Vivo a
New York, una di quelle poche città in cui i turisti
arrivano e
pensano che la vita sia talmente meravigliosa da non consentire ai
suoi abitanti di avere problemi. Ebbene, credo di essere l'eccezione
che conferma la regola. Tanto per cominciare sono disoccupato, o
meglio, faccio il cameriere nel locale più malfamato del
Bronx,
mentre penso alla mia sudatissima laurea appesa nella mia camera. Non
ho uno straccio di donna, piuttosto una serie di piccole avventure
destinate a finire ancor prima che iniziassero e che vorrei lasciarmi
alle spalle una volta per tutte. Ad essere sincero non ho nemmeno mai
capito cosa intenda oggigiorno la gente con il termine
“innamorarsi”,
è un genere di sentimento al quale io non sono troppo
abbietto.
Mia
sorella Bessie mi accusa spesso di essere troppo imperniato col
misticismo e l'esasperazione religiosa da non avere nemmeno il tempo
di preoccuparmi per questo genere di cose (ovviamente lei è
sposata,
ha tre figli meravigliosi e un marito le regala mazzi di rose rosse
la Domenica mattina). A volte stento a capire per quale assurdo
motivo Bessie mi consideri così: io non sono una persona che
va a
messa, né una di quelle che non riescono a prender pace nel
letto se
prima non hanno recitato almeno per quindici minuti le preghiere,
però riesco a infilare Gesù in ogni discorso,
persino quando si
parla di andare a fare la spesa. Per conto mio, dunque, non condivido
la sua squallida opinione, forse troppo generale e
frettolosa.
Oltretutto io e Bessie possiamo parlare soltanto per
telefono (come sono costretto a fare anche con il resto della
famiglia, o quasi) quindi non posso nemmeno accusarla di avere un
giudizio sbagliato su di me, alla fine io e lei ci conosciamo come
possono conoscersi due tizi che si vedono per la prima volta in
metropolitana e che tra una fermata e un'altra hanno solo il tempo di
scambiarsi un paio di battute riguardo alla politica o alle
dimensioni dell'ultimo topo che hanno visto alla stazione centrale.
Il resto della famiglia, comunque, conta attualmente di altri
quattro maschi, oltre a me, e tre femmine. Nove figli in tutto, dato
che Matthew è morto tre anni fa, investito da un taxi nel
Queens. La
verità è che a New York gli incidenti sono
all'ordine del giorno:
prendiamo un tassista medio, che deve portare una coppia di tedeschi
dal J. F. K. a Manhattan, più precisamente a Soho. Se non
vuole che
i due tedeschi debbano pagare circa trecento dollari e che quindi lo
uccidano con una violenza atroce, deve sbrigarsi e cercare il modo
più breve e veloce per portarli a destinazione. I pedoni in
tutto
questo hanno il sacrosanto dovere di attraversare
la strada
lesti come un giaguaro, perché la loro vita vale almeno
quanto
quella di uno sventurato tassista.
La mia famiglia ovviamente non
ha mai condiviso questo mio punto di vista, tuttavia non riesco
nemmeno a biasimarla. Secondo loro Matthew è stato soltanto
una
povera vittima, un martire, e il tassista un assassino che, dato che
non era americano, ma di Santo Domingo, è stato accusato di
omicidio
colposo e rinchiuso in cella in quattro e quattro otto.
Se
Matthew oggi fosse vivo, avrebbe trentaquattro anni e sarebbe il
secondo figlio dopo Michael. Michael ne ha trentasei, e vive a Miami.
È una specie di aspirante scrittore di quarta categoria, che
per il
momento è ancora alla ricerca della sua musa ispiratrice e
quindi
cambia residenza con la stessa velocità con cui gli Stati
Uniti
riescono a scatenare una guerra. Credo che Michael sia tra i miei
fratelli quello al quale mi rivolgo più spesso,
probabilmente perché
è l'unico con la capacità di ascoltarmi quando
parlo per ore senza
mai fermarmi, anche se spesso e volentieri ho pensato che nel
frattempo, mentre io gli raccontavo la mia vita filo e per segno, lui
se ne andasse al bagno o a prepararsi un caffè. Ma in
realtà tutti,
a partire da Bessie, per finire a me o a Claire, adoriamo Michael e
vediamo qualcosa di diverso in lui; c'è chi lo considera un
mentore,
chi uno psicologo, un unicorno pezzato o magari un comodino, ma
Michael sarà sempre qualcosa che muta forma mano a mano che
si scava
nel cuore di ciascun fratello o sorella.
Dopo Michael, e
naturalmente Matthew, c'è Bessie. Bessie ha
trentatré anni, vive in
Europa, più precisamente a Liverpool, e ogni giorno non fa
altro che
ripetere con entusiasmo quanto sia meraviglioso vivere in quelle
città, che dovrei fare le valigie e lasciare questo
continente che
sembra abbrutirmi e andare a vivere con lei.
“I bambini hanno un
letto a castello”, mi ha detto una volta, “potresti
vivere nella
loro stanzetta!”
Come se trascorrere le notti con tre mocciosi
di cui non ricordo il nome, e francamente nemmeno il sesso, fosse il
sogno di una vita che si avvera.
Il marito di Bessie è un
cronista sportivo, si chiama Arthur, e guadagna un sacco di soldi.
Non ha una laurea in fisica nucleare (anzi, sono
più che
certo che non abbia affatto una laurea), e guadagna
un sacco
di soldi.
Dopo Bessie c'è Carla, l'attrice. Tra le tre sorelle
Carla è stata decisamente la più difficile da
trattare, per i miei
genitori, e la più stravagante. Tanto per cominciare, al
liceo aveva
i capelli blu elettrico e una specie di chiodo sul mento, al college
si era iscritta per studiare storia dell'arte, ma dopo nemmeno due
mesi è scappata via con un francese che aveva conosciuto
mentre lui
era a New York per lavoro. Grazie al fotografo francese (di cui al
momento mi sfugge il nome) ora Carla vive a Lione, ed è
addirittura
riuscita ad accaparrarsi qualche particina quasi importante in uno di
quei film che poi hanno vinto il Festival di Cannes e ad apparire
perfino sui teleschermi americani. Io la trovavo irriconoscibile,
aveva i capelli biondi e non c'era la minima traccia del fantomatico
chiodo sul suo mento.
Oliver ha trent'anni e vive nel New
Hampshire con sua moglie. Dopo aver cercato per anni che si liberasse
il posto alla cattedra di inglese all'università di Boston
ha
preferito volare basso e insegnare letteratura in un liceo di
Merrimack, una cittadina abbastanza sconosciuta e che, si vocifera,
abbia un gusto del macabro da poter vantare il miglior Halloween
degli Stati Uniti d'America.
Adesso mi fa un po' invidia parlare
di David, dato che io e lui siamo praticamente agli antipodi. David
è
un ragazzone ben piazzato, che è stato tre volte campione di
nuoto
al liceo, era il capitano della squadra di pallanuoto e aveva una
miriade di ragazze che gli correvano dietro come oche e che lui non
ha mai guardato nemmeno con la coda dell'occhio, perché
diceva di
essere innamorato solo e unicamente della sua Susan. Oggi vive a
Brooklyn, fa il giornalista ed è sposato con una sciacquetta
mezza
canadese.
Fortunatamente dopo David c'è Andrew, che è
decisamente il più simpatico della famiglia (beh... Dopo di
me
chiaramente). Andrew è palesemente e senza dubbio gay. In
casa se ne
sono accorti tutti, ma nessuno ha il coraggio di dirlo ad alta voce,
quasi come se si trattasse di un anatema che ha sconvolto la
famiglia. Solo Claire, la più piccola della compagnia, ha
osato
chiedergli durante un pranzo del Ringraziamento, se fosse innamorato.
Mia madre ha rischiato quasi di morire soffocandosi con un osso di
tacchino. Andrew ha ventisette anni e anche lui vive a Manhattan, per
questo motivo è il membro della famiglia che riesco a vedere
più
spesso. Non rifiuto mai i suoi inviti a cena, lui e il suo compagno,
Charlie, cucinano da Dio.
Due anni dopo Andrew sono nato io, in
auto, mentre mio padre era bloccato nel traffico e mia madre aveva le
contrazioni. Ho corso il rischio di non respirare dopo la nascita,
dato che non c'era nessun medico nel raggio di un paio di Avenue e
tre Street. Fortunatamente però sono vivo e vegeto, seduto
sul
pavimento della mia soffitta a scrivere un diario mentre Puck, il mio
labrador e fratellastro acquisito, graffia contro la porta.
L'ultima
della famiglia è Claire, la seconda artista dopo Carla. Ha
diciannove anni e sembra essere la futura promessa dell'American
Ballet. Una carriera che ha ottenuto grazie a svariati colpi di
fortuna e, modestamente, al buon occhio del sottoscritto. Claire era
una ballerina nata e nessuno in famiglia se n'era accorto,
probabilmente Andrew al giorno d'oggi sarebbe stato abbastanza
sveglio per farlo, ma all'epoca era ancora un bambino un po' tonto e
che guardava con sdegno i soldatini e le macchinine, perché
le
Barbie erano decisamente più interessanti.
Forse per uno sforzo
di gratitudine al più giovane di tutti i suoi fratelli
maggiori,
Claire è l'unica che rinuncerebbe a mille impegni di lavoro
pur di
venirmi a trovare il più spesso possibile. E ogni volta
può
constatare, con grande disappunto di Bessie, alla quale riferisce
praticamente tutto, che trova libri dappertutto, ma che la dispensa
rimane costantemente vuota, che faccio dormire Puck sul divano dove
di regola dovrebbero stare le persone, che non rispondo mai al
telefono e lei ogni volta ha il terrore che io sia morto per aver
infilato un dito nella presa dell'elettricità o qualcosa del
genere.
Naturalmente lei e tutti gli altri sanno del mio psicanalista e
della situazione un po' precaria. Nessuno prende la cosa alla
leggera, ma ovviamente è trattata un po' come è
trattata
l'omosessualità di Andrew, cioè alla stregua di
un tabù. Non è un
problema per me che lo sappiano, e non è un problema che mia
madre,
nelle sue interminabili telefonate, a un certo punto mi chieda, con
il tono di voce più basso che riesca a fare, se sono stato
dallo
psicologo. Quella domanda per me è un sollievo,
perché preannuncia
la fine della conversazione.
Mia madre è, o meglio, era,
insegnante di letteratura in una scuola privata di Manhattan.
Naturalmente (e con nostra grande sfortuna) le è rimasta
l'abitudine
di trattare con i suoi figli come se fossero degli alunni, e spesso
rimprovera a Claire il fatto di non aver potuto finire il liceo a
causa del balletto. A nessuno di noi interessano le sue proteste,
quindi Claire non risulta mai offesa dalle parole di nostra madre.
Brett, questo è il nome di mia madre, ha sessantaquattro
anni, per
gli amici cinquantaquattro, ed è la tipica madre che ha il
coraggio
di mettersi a sistemare la camicia nei pantaloni di suo figlio
più
che ventenne in pubblico e alla luce del giorno, pur di vederlo in
perfetto ordine. E credetemi, è vero e io sono la povera
vittima.
La
verità è che mi trovavo a Central Park con tutta
la mia famiglia,
eccetto mio padre e Matthew, che non ci sono più, e io e
Claire
avevamo pattinato sul ghiaccio. Ora, qualunque essere umano, eccetto
ovviamente la signora Brett Pattinson, dovrebbe di regola scomporsi
un pochino mentre pattina su venti metri per venti di ghiaccio in
compagnia di un'altra cinquantina di persone. Ma per mia madre non
c'è mai limite al buon costume. Stavo uscendo, e lei mi ha
afferrato
per un braccio con la stessa forza un lottatore e ha cominciato a
infilarmi le mani nei pantaloni sotto lo sguardo divertito dei miei
fratelli e quello a dir poco allibito degli estranei. È
ovvio ora,
che il caso clinico sia lei, non io, e che c'è un motivo se
ho
bisogno di vedermi con uno psicanalista, no?
Dopo quell'episodio
ho sempre evitato di farmi vedere a meno di una trentina di metri
dalla pista di pattinaggio artificiale, onde evitare che qualcuno
potesse per caso (e sfortunatamente) riconoscermi.
Credo che
questo aneddoto basti a descrivere e a far capire la cura maniacale
che Brett ha dei suoi figli e che non ci siano problemi se adesso
decidessi di parlare un po' di mio padre (o meglio, di citare anche
lui più per giustizia se non per altro, dato che
differentemente dai
miei fratelli maggiori, io non ho passato molto tempo con
lui).
Montag Pattinson nacque nell'Iowa, suo padre era un pompiere
e suo figlio si beccò quel nome a causa della sua passione
per
Fahrenheit 451. Montag ne è il protagonista e a sua volta
è un
pompiere, ma nella sua città gli incendi non vengono spenti,
ma
appiccati. Mi piacerebbe dire altro su questo meraviglioso capolavoro
letterario o giù di lì, ma mi sono sempre
rifiutato di leggere quel
libro, dato che ho sempre trovato estremamente stupida l'idea di dare
al proprio figlio il nome di un personaggio inesistente. Sì,
lo so,
sono un caso clinico. Distruttivo e cinico.
Ad ogni modo, Montag
si trasferì a New York all'età di ventinove anni,
quindi sono
passati circa quarant'anni da allora, e lavorava nella polizia. Non
so dire come si siano conosciuti lui e Brett, dato che quella donna
ha la strana abitudine di cambiare versione ogni volta che ne parla e
che l'unica costante tra una storia è l'altra è
il romanticismo,
condito da un'atmosfera stracolma di stelle cadenti, violini e magari
gattini bianchi e adorabili.
A Brett i gattini piacciono da
morire, ogni volta che ne vede uno in televisione mi domanda se non
sia carino, e quando le rispondo che è
“più che simpatico” e
“carino quanto Dio ha voluto che fosse carino”, lei
sembra
confusa, ma accetta comunque la mia opinione.
Tornando a Montag, è
morto che io avevo sette anni e mia sorella Claire uno, durante una
sparatoria nel Bronx. I ricordi che ho di lui riguardano qualche
domenica feriale, durante la quale ci portava a vedere le partite di
football, o un paio di passeggiate a Central Park, una delle quali mi
procurò la minuscola cicatrice che ho ancora ora sulla
fronte. Stava
portandomi sulle spalle e aveva scavalcato la recinzione che divideva
il viale ciclabile dai prati con gli alberi acquistati dai
newyorchesi, e a un certo punto si era messo a correre. Mia madre
strillava di stare attento, perché avrebbe potuto cadere a
far male
a entrambi; i fratelli, fino a David, battevano le mani e ridevano
estasiati, i più grandi si allontanavano cercando di fingere
che
quello non fosse loro padre.
A un certo punto, bum!, e mi ritrovo
sdraiato nell'erba e le foglie secche. Montag non si era accorto di
un ramo piuttosto basso e io ci ero finito contro, rischiando una
commozione cerebrale. I milioni di controlli cui fui sottoposto (per
volere di Brett, più che di mio padre) dimostrarono che
fortunatamente non era successo niente, e riuscii a cavarmela con un
paio di punti. Questa storia viene tramandata ancora oggi ai figli di
Bessie, per esempio, ai quali mia sorella racconta di uno zio che ha
una cicatrice a forma di Florida sulla testa. Secondo Andrew la forma
è quella di una torta al formaggio (non so perché
al formaggio, ma
lui sostiene che si tratti esattamente di una torta al formaggio), a
me sembra il fegato di un cane morto.
Al di là delle divagazioni
sulla mia cicatrice (che vorrei specificare, è piccola e
discreta,
molto semplice da nascondere sotto una ciocca di capelli), nella mia
famiglia la perdita di Montag non fu sentita molto, né
pianta fino
alla nausea (eccetto per Brett, ma lei potremo giustificarla). Il
fatto purtroppo ci colse all'improvviso e nessuno poté
goderne a
pieno.
Michael era stato così entusiasta dopo il diploma che se
n'era letteralmente scappato in Europa a fare un viaggio
“ristoratore” con alcuni tra i suoi ex-compagni e
l'aggiunta di
Matthew e Bessie (inviata da Brett nella speranza che potesse far
tornare i suoi figli a casa vivi e con una fedina penale
possibilmente pulita). La ristorazione del viaggio consisteva nel
repentino cambiamento di albergo e nel migrare da uno stato all'altro
per visitare più città possibili nel giro di un
mese (io ci avevo
guadagnato una maglietta del Barcellona, ma non essendo molto
interessato al calcio, finii per regalarla a mia volta a Claire, che
a sua volta la cedette – quasi a malincuore – a uno
dei suoi
amori in età adolescenziale).
Carla, come ho già detto, aveva
uno spirito libero e quello era il periodo in cui aveva abbracciato
la cultura Zen, e quindi comprò Dimitri Mendeleev, convinta
che in
realtà quel labrador beije col naso rosa fosse la
reincarnazione di
Montag. Oliver appoggiò mia sorella, insistette per comprare
un
collare a Dimitri Mendeleev e impose di incidere su una targhetta
d'oro che quel cane era il capostipite della famiglia Pattinson in
tutto il suo splendore.
David pianse un pochino, ma più per il
carro armato che aveva amorevolmente riposto nella bara (semmai suo
padre avesse avuto bisogno di difendersi contro qualche vicino di
tomba cattivo) che per il genitore defunto.
Andrew aveva nove
anni, e come me fissava il volto pallido senza capire che cosa fosse
successo di preciso, a un certo punto mi disse soltanto che da quel
momento si sentiva cambiato, e poi non parlò per un mese.
Uno
psicologo spiegò che Andrew non aveva perso la parola e che
il suo
non era un problema a livello mentale, semplicemente, il bambino non
sentiva il bisogno di parlare per il momento, quindi preferiva stare
in silenzio. Parlò per la prima volta dopo trenta giorni
esatti,
quando eravamo seduti a tavola, e mi chiese di passargli l'acqua.
In
quel periodo la mia reazione fu strana, all'inizio di stupore, poi di
paura, e infine finii per accorgermi che il cambiamento
fondamentalmente era stato percettibile solo in Brett, divenuta tutto
d'un tratto leggermente più taciturna e molto protettiva, e
che
Montag non mi mancava quasi per niente. Il mio unico e concreto
ricordo di lui, oggi, è questa cicatrice a forma di fegato
di cane
morto.
Credo che passare in rassegna tutta la schiera di figli che
Brett e Montag hanno messo al mondo con orgoglio fosse indispensabile
per cominciare la mia storia, per quanto possa risultare noioso. Ad
ogni modo, in questo diario si susseguiranno racconti e ricordi,
mescolati con pagine di vita quotidiana, non necessariamente in
ordine cronologico. La maggior parte di essi, ovviamente,
riguarderà
me, dato che questo lo dice il mio psicanalista. Ma avrei parlato di
me anche se lui non lo avesse specificato, del resto non vedo
perché
dovrei togliermi di qui.
Il
secondo capitolo di questa FanFiction è già
bell'e pronto, ma sono
ancora molto indecisa se pubblicarlo o meno! Si vedrà dalle
recensioni, e da ciò che ne pare a voi di questa storia...
Io me ne
torno a studiare chimica inorgnanica. (:
|
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Capitolo 2 *** 15 Aprile 2010, cucina ***
15
Aprile 2010, cucina
A volte, se devo essere sincero, trovo
che tornare a casa stremato per il troppo lavoro sia una magra
consolazione. Sei sollevato, la giornata è appena finita e
sai di
aver adempito ai tuoi doveri, che a fine mese sarai pagato e
scoprirai con piacere che hai almeno una trentina di dollari di
mancia a disposizione per andare a comprare qualcosa come un
videogioco.
Stamattina mi sono svegliato con questi pensieri
positivi, ho sorriso mentre mi radevo e poi ho portato Puck a fare
una passeggiata.
I newyorchesi bisogna averli davanti in carne e
ossa per capirli, e possibilmente fermi, dato che hanno la strana
abitudine di correre costantemente con il caffè in mano
– e quando
ti urtano rischi un'ustione di quinto grado. E stamattina, essendo di
buon umore, ne ho osservati un paio.
C'era un uomo piuttosto
grasso che stava in piedi accanto a me mentre compravo la colazione e
Puck mi guardava in silenzio, e augurandosi che mi dessi una mossa
(lui era legato fuori). L'uomo mi guardava e non faceva assolutamente
niente per nasconderlo, non ho la più pallida idea di che
cosa
volesse da me, ma all'inizio ho pensato che il motivo fosse la
canzone che cantavo mentre sono entrato. Era un vecchio brano di Iggy
Pop che avevo sentito durante qualche pubblicità e al quale
sono
stato costretto a cambiare le parole, perché non ne ricordo
quasi
nessuna. Ad ogni modo, l'uomo grasso mi guardava, e a un certo punto
l'ho guardato anche io, subito dopo aver pagato la colazione, e lui
ha distolto lo sguardo, quasi come se lo avessi all'improvviso messo
in imbarazzo. Una volta fuori, Puck ha cominciato a scodinzolare,
vicino a lui c'era una ragazza. Aveva i capelli rossi e non doveva
essere americana, dato che quando le ho chiesto se le piacesse il mio
cane lei ha sorriso ed è andata via. Mentre camminava
continuava a
voltarsi indietro e a guardarci, io con il sacchetto della colazione
in mano e Puck seduto per terra, che abbaiava.
Questi due
incontri mi hanno ricordato qualcosa che successe circa un anno e
quattro mesi fa, quando ero appena laureato e nutrivo le migliori
speranze del mondo, illudendomi di trovare al più presto un
lavoro
prestigioso. Purtroppo però erano già due mesi
che non venivo
contattato da nessuno, e in cuor mio credevo che sarei rimasto
disoccupato a vita (come effettivamente succede tutt'ora). L'unica a
consolarmi sembrò essere Brett, che ogni giorno telefonava e
chiedeva informazioni, aggiungendo poi che tutti erano così
presi
dal mio curriculum brillante che volevano rileggerlo di nuovo prima
di avere il piacere di conoscermi di persona. Non sono mai stato
così
stupido da credere a quello che mi racconta Brett, quando avevo nove
anni le ho anche scritto un elenco di prove secondo le quali, a mio
parere, Babbo Natale non esistesse.
Un giorno, comunque, la
fatidica telefonata arrivò. Avevo avuto lavoro come
supplente in un
liceo che si trovava lungo l'Ottantesima Strada, non seppero dirmi
altro, solo che l'edificio era rosso e che stava vicino a
“quella
vecchia casa che era andata a fuoco durante la seconda guerra
mondiale, quella con la scala antincendio tutta storta e i graffiti
sopra”. Trovare il liceo fu un'impresa ardua, naturalmente.
Quando
finalmente ci riuscii, non ero più in me dalla gioia. Era la
prima
volta che lavoravo e che mi sentivo utile dopo la morte di Matthew,
alla quale era seguito un periodo di crisi mistica e di numerose
difficoltà negli studi che avevo superato soltanto dopo
l'inizio
delle sedute.
Ad ogni modo, entrai in quella scuola e andai
nell'ufficio del direttore con dieci minuti di anticipo, per fare una
bella impressione, ma lui sembrò invece infastidito, dato
che si
ritrovò a dover interrompere bruscamente una telefonata. Io
però
non avevo nessuna fretta, anzi, mi sarebbe piaciuto rimanere in
quell'ufficio in silenzio mentre lui parlava al telefono per poter
leggere quello che c'era scritto su tutte le targhe. Inoltre c'era un
buon profumo di pulito e il condizionatore era acceso e sentivo
l'aria fresca direttamente sulla nuca.
Mi consegnò il programma
da svolgere in tre settimane, facendomi capire che il mio compito,
più che altro, era quello di evitare che la classe
degenerasse
durante l'assenza per malattia del loro vero professore di chimica.
-
Ed è libero di scegliere se interrogare o meno, al suo
ritorno il
professor Collins si occuperà dei voti e delle valutazioni
vere e
proprie – disse.
Non mi sembrava un problema, anzi, a dirla
tutta in quel momento credevo di avere il mondo in mano. Per quanto
ogni volta, durante l'università, mi ripetessi che il mio
destino
non doveva essere quello di professore, quel giorno mi sentii Dio. In
realtà mi affascinava il potere che avrei potuto esercitare,
per
quanto il ragionamento possa sfiorare l'assurdo.
Fare il
professore a mio parere implica sapere molte cose, ma
contemporaneamente anche non essere in grado di saperne altre, e per
questo motivo non mi piace insegnare, né mi è mai
piaciuto. Sono
consapevole del fatto che al di là della fisica nucleare, di
un'infarinatura di geografia astronomica e delle conoscenze che ho
cercato di ricevere da solo dalla lettura di qualche filosofo (la
maggior parte del buon vecchio Soren K. e di quel simpaticone di
Kafka) c'è ancora molto da imparare. Ad esempio non ho mai
saputo
quale sia la capitale dell'Eritrea. A dire il vero non sono nemmeno
sicuro di conoscere i miei polli abbastanza bene. Per spiegarmi,
riguardo la chimica inorganica so talmente tante cose che potrei
mettere da parte il mio racconto e cominciare a parlare di lunghezza
d'onda, orbitali, calcoli stechiometrici o entropia, ma non lo
farò
(con vostro grande rammarico!), nonostante ciò ho la
sensazione di
essere una specie di giocoliere che tiene una palla sulla fronte, con
sopra un candelabro, con sopra un vassoio di cristallo, con sopra un
set di tazze in porcellana piene di tè alla vaniglia. Da un
momento
all'altro un quindicenne che ha appena studiato la liquefazione dei
gas potrebbe venirmi a fare una domanda alla quale non so rispondere,
mentre lui, invece, sa esattamente di che cosa si tratti, e io
verserei tutto il contenuto delle tazzine e farei cadere tutto il
resto. Per questo non ho mai voluto fare il professore,
perché il tè
alla vaniglia mi piace veramente molto e preferirei non sprecarne
nemmeno una goccia.
Quando entrai per la prima volta nell'aula
pensai di essere nudo o di avere qualche bottone dei pantaloni
aperto, come minimo, ma dopo un'occhiata furtiva mi accorsi che non
era assolutamente così.
A questo punto dovrei sacrificare il
mio pranzo caldo e mettermi a scrivere un paio di paragrafi
riguardanti il mio aspetto fisico, dato che non vorrei mai restare un
anonimo scrittore in erba che ha avuto problemi con l'alcool e vanta
migliaia di aneddoti divertenti, carini o almeno in parte misteriosi
sulla sua famiglia e su lui stesso. (Non che io abbia voglia di
descrivere il mio aspetto fisico, sia chiaro, anche perché
sono una
persona – quasi – perfettamente nella norma, ma ho
l'intenzione
non solo di farvi capire che faccia abbia, ma anche di dare a questo
racconto semi-diaristico una precisa indicazione spazio-temporale.
Sono nella mia cucina, alle tre del pomeriggio, seduto a tavola e
rinuncio a mangiare un pasto adeguatamente caldo pur di aggiungere
qualcosa a questa pagina).
Cercherò di dare una visione più
esauriente possibile di me, occupando soltanto un paio di paragrafi e
senza usare troppi capoversi (io odio i capoversi).
Se dovessi
partire dai capelli, comincerei col dire che non ho dei capelli
particolari, eccetto forse il loro colore, ma che ho dei capelli del
tutto nella norma, che crescono lentamente e che il barbiere (il buon
vecchio Marcus) taglia con un'inefficienza disarmante, tuttavia non
ho il coraggio di abbandonare la sua adorabile bottega. Sono di un
colore rossiccio, tendente al biondo, un colore che, se fossi alto un
metro e novanta, mi farebbe sembrare un idiota. Fortunatamente
(forse) non sono alto un metro e novanta, e nemmeno un metro e
ottanta, quindi i capelli potrebbero passare anche inosservati, in
una folla numerosa. Le origini scozzesi della mia famiglia purtroppo
non ci perdonano per aver lasciato la Terra Madre più o meno
una
cinquantina di anni fa, e credo che ci perseguiteranno per almeno
altre dieci o undici generazioni. Forse la calamità degli
antenati
infuriati si è abbattuta su di me tramite le mani di Marcus,
che
ogni volta riesce a storpiarmi la linea sulla nuca che di regola
dovrebbe essere dritta e parallela alle spalle.
Una volta ho
cercato di spiegargli di fare attenzione, ma lui non sembra
ascoltarmi, e quindi è andato avanti imperterrito e per la
sua
strada. Dietro di noi c'era un signore che aspettava il suo turno,
era molto silenzioso, ma continuava a sorridere come se guardare
Marcus che mi piegava la testa da una parte all'altra a suo
piacimento e senza la minima preoccupazione di essere violento o meno
fosse la cosa più divertente del mondo. Ma forse lo era per
davvero.
Il colore rosso dei capelli ho la fortuna di condividerlo
con molti membri della mia famiglia, i quali sembrano andarne fieri o
(nel caso delle ragazze soprattutto) vergognarsene da morire. Una
volta Bessie è veramente “morta” per
un'osservazione sui suoi
capelli da parte di una di quelle zie vecchie e con l'alito
puzzolente, quelle un po' cretine e che sbagliano sempre i nomi dei
nipoti. Se non sbaglio era la sia Margareth, la sorella del padre di
Montag, cioè la sorella di mio nonno.
Io avevo circa cinque anni
e Bessie tredici, eravamo educatamente seduti sul divano del salotto,
e qualcuno tra i numerosi fratelli invece se ne stava (per questioni
di spazio) a gambe incrociate sul pavimento ai nostri piedi. Insomma,
eravamo tutti lì a fissare il parentado schierato in casa
nostra e a
un certo punto questa zia con l'alito puzzolente se ne uscì
chiedendo a Bessie perché mai alla sua età
tingesse i capelli in
quel modo. Bessie ebbe la tipica reazione che hanno tutte le ragazze
a un complimento mancato, una specie di crisi cardiaco-respiratoria
di circa mezzo minuto e poi di nuovo un atteggiamento di
semi-normalità tradito soltanto ogni tanto da qualche
occhiataccia
alla zia Margareth o alle punte dei suoi stessi capelli che
arrivavano oltre la spalla.
Bessie non ha avuto la brillante idea
di cambiare colore di capelli come ha fatto Carla, sono ancora rossi
e luccicanti, lunghi, lisci e appariscenti. Se devo essere sincero,
penso che Bessie non sia quel genere di persona alla quale i capelli
rossi donano (nemmeno io credo di esserlo, ma differentemente da lei
nessuno fa mai troppo caso ai miei capelli). Lei è molto
alta, quasi
come lo era Montag, e quindi quando cammina per strada a me
dà quasi
l'idea di un semaforo. Una volta ho provato a accennarle di questa
mia impressione e a cercato di uccidermi con la forza del pensiero.
L'unico risultato che ottenne fu un mio acuto attacco di tosse, ma la
cosa sembrò soddisfarla comunque.
Anche Michael, Oliver, Andrew
e Carla hanno (o hanno avuto) i capelli rossi, sebbene Carla si sia
liberata in fretta di quel tocco scozzese con una buona tintura
biondo cenere.
A Michael i capelli rossi danno un'aria vissuta,
che abbinata al tartan delle occasioni speciali lo fa sembrare
meraviglioso agli occhi di Brett (che se ne tornerebbe volentieri a
Eyemouth, in Scozia, se un esercito di figli - e di nipoti - non la
tenesse ancora inchiodata negli Stati Uniti alla ricerca di affetto
filiale e tanta, tantissima affettuosità, così
tanta da dare il
voltastomaco). A Oliver danno un'aria un po' stralunata, dato che
sembra non avere mai tempo per pettinarli (ho anche la vaga
impressione che nella sua massa di capelli nasconda anche un'edizione
tascabile di Wordsworth) perché è sempre molto
impegnato a pensare
agli scempi che scrivono i suoi alunni sui compiti in classe (Shelley
si starà rivoltando nella tomba adesso, dice sempre). Andrew
sembra
fiero quanto Michael della sua capigliatura, probabilmente
perché
Andrew più di tutti gli altri desidera farsi notare.
Una volta
stavo camminando con lui lungo Broadway e a un certo punto, arrivati
all'altezza del giornalaio da cui ci fermiamo praticamente ogni
mattina, Andrew si è bloccato sul marciapiede con lo sguardo
rivolto
al lato opposto della strada. Ahimé, riuscii subito a notare
il
cosiddetto sguardo da giovane scout che riesce ad accendere un fuoco
da campo usando i bastoncini, altrimenti definito “sguardo
Eureka”.
Ad Andrew bastò attraversare la strada affinché
fosse notato anche
lui dal ragazzo che aveva puntato, i suoi capelli col sole bruciavano
alla stessa maniera di un solido incandescente del quale non mi
metterò a spiegare le proprietà chimico-fisiche,
sebbene so che ci
sia gente curiosa di conoscerle. Il “gayometro” di
Andrew,
abbinato ai capelli rossi e alla sua faccia tosta, ha un effetto
strabiliantemente immediato, e probabilmente dovrei smettere di
parlare della sua omosessualità come se si trattasse di una
voglia a
forma di Texas che ha sul palmo della mano, ma non riesco a farne a
meno (e dubito che ci riuscirò, quindi penso di voler
continuare a
non avere peli sulla lingua).
Ad ogni modo, dopo i capelli, i
Pattinson possono vantare una larga scelta di occhi blu notte, che a
detta di mia madre altro non è che il meraviglioso colore
del mare
all'altezza dell'orizzonte. Io continuerò a chiamarli
“occhi blu
notte” e basta.
Secondo il mio parere, gli occhi più belli di
tutta la famiglia sono quelli di Claire, sono profondi e le danno un
aspetto intelligente, nonostante abbia la strana e forse un po'
odiosa abitudine di sbattere continuamente le palpebre e far
così
fluttuare le sue lunghe ciglia biondastre. Una volta Claire, quando
poteva avere poco più che cinque o sei anni, seduta sulle
ginocchia
dello zio Seymour, cominciò a sbattere le palpebre, e mentre
sbatteva le palpebre spiegava al vecchio Seymour (allora poco
più
che trentenne) che cosa dovesse fare per conquistare la signorina che
lavorava alle poste e cominciò ad elencare gli orari della
signorina
e i giorni in cui lavorava, quelli in cui pranzava velocemente e
quelli in cui preferiva andare a mangiare qualcosa di caldo. Non so
per quale strano motivo Claire avesse tutte quelle informazioni a sua
disposizione, da servire su un piatto d'argento, ma in famiglia siamo
abituati, chi più chi meno, alle assurdità
più disparate, come la
passione sfrenata che Matthew aveva per il giallo, tanto da dipingere
le pareti della camera che divideva con Michael di quel colore e
comprare mobili affini.
Mi spiace dover essere poco gentile e
galante con le altre signore della famiglia, ma credo di dover
ammettere che al nostro fratello maggiore spetta il secondo posto in
quanto a “miglior paio di occhi blu notte firmati famiglia
Pattinson”. Gli occhi blu notte di Michael riescono a
esprimere in
una maniera incredibile il maggior numero di emozioni possibile come
se l'incertezza, la malinconia, il sentimentalismo, l'affetto, la
paura, la tristezza e la felicità siano le cose
più normali del
mondo e possano coesistere con tanta facilità quanta ne
può
esprimere un quaterback che ha appena fatto Touch Down a tre minuti
dalla fine della partita. Quel furbacchione di Nicholas Sparks cerca
sempre di descrivere nelle sue opere gli occhi del
nostro
Michael, ovviamente senza riuscirci... Con questo vorrei specificare
che io non leggo Nicholas Sparks, ma mi è capitato un paio
di volte
di leggere la trama dei suoi libri abbandonati sul comodino di
Andrew. Lui è un romanticone.
Ho un crampo alla mano, credo di
essermi addentrato fin troppo nella mia descrizione fisica senza
venirne a capo. Per ora le uniche cose di cui vi ho messo a
conoscenza sono capelli rossicci e gli occhi blu notte.
Potrei
passare ai vestiti, ma è un tasto delicato e che vorrei
riserbare
per ultimo.
Okay, il naso.
Non posso descrivere chiaramente la
totalità dei nasi Pattinson, perché non
c'è un naso che somigli ad
un altro nella nostra famiglia. Diciamo che alcuni derivano dal
nasino di Montag, altri da quello di Brett, che non è
altrettanto
piccolo (e poi c'è quello di David, che è un po'
storto da un lato
a causa di una mazza da baseball contro la quale è andato a
sbattere. Esatto. Non è stata la mazza da baseball a
colpirlo, ma
lui a colpire lei. Stava uscendo di casa, e Oliver si stava allenando
per la sua primissima partita con la squadra della sua scuola. Aveva
la mazza da baseball a mezz'aria, immobile, e David era terribilmente
in ritardo – a casa nostra nessun è mai in
ritardo, ma sono tutti
terribilmente in ritardo – e a un certo
punto se ne va a
sbattere contro la mazza da baseball di Oliver mentre stava correndo
verso la porta. A dispetto di quello che diceva Montag – che
non
era nulla di grave, David era un ragazzone, che cosa poteva mai
succedere? - il setto nasale era andato completamente). Chiusa questa
piccola parentesi vorrei scusarmi con tutti i lettori (dubito che ce
ne saranno, ma ho bisogno di qualcuno al quale rivolgermi prima di
sentirmi troppo solo... E no, Puck sta dormendo e non voglio
svegliarlo, altrimenti sarebbe perfettamente normale rivolgermi a
lui) per aver abusato della vostra pazienza, in cambio ho da offrirvi
questo asterisco fatto col cuore: * Spero che lo accettiate come
segno della mia gratitudine, oltretutto.
Continuando con questo
benedetto naso, devo dire che ne sono abbastanza soddisfatto. Qualche
volta ho letto su una rivista per donne (stessa coincidenza che vale
per i libri di Sparks) che deve esserci una certa distanza tra il
naso e gli occhi e tra il naso e la bocca. Ecco, io l'ho misurata e
c'era, checché voi ne diciate, quella
distanza c'era. È un
naso discreto, molto simile a quello di Montag, a quanto ho potuto
notare dalle foto, l'unica differenza in quanto a larghezza,
lunghezza e contorni tra i nostri nasi sta in una leggera curvatura
all'insù del mio, che mi aiuterà ad introdurre il
tratto
morfologico che segue.
I denti.
Solitamente i denti non sono
una parte del corpo degna di nota, dato che a nessuno salterebbe mai
di descrivere i propri denti come se si trattasse di qualcosa di
speciale, tanto meno io. Ma dovete sapere, semmai un giorno io
dovessi incontrarvi sull'autobus, che ad eccezione di un orecchio che
sporge leggermente più dell'altro non c'è nulla
di sproporzionato
nel mio viso, a meno che io non sorrida. La verità
è che non ho mai
capito per quale assurdo motivo io sia l'unico esemplare di Pattinson
che vanti gli incisivi più grandi del mondo, dritti, ma
comunque
grandi. Brett mi dice che un suo prozio trasferitosi in Australia
durante la guerra aveva dei denti grandissimi e una mascella quadrata
che gli dava un'aria da duro. Io non ho una mascella quadrata,
né
un'aria da duro, ma solo dei denti grandissimi.
Una volta Bessie
mi disse che ho un sorriso disarmante e adorabile. Non ci credo, una
donna che si crede mukta, il saggio illuminato, colui che vede Dio, e
poi manda le cartoline di Natale con le foto della sua famiglia non
è
una fonte attendibile.
Nella speranza che abbiate colto aspetto e
dimensione (l'avete colta, oh, se l'avete colta!) dei miei denti,
passerei a descrivere quello che per la famiglia Pattinson è
un
elemento imprescindibile, i vestiti.
Brett ha sempre avuto
la straordinaria dote di riuscire a vestire più che
dignitosamente
ognuno dei suoi pargoli, più precisamente di vestirli in un
vecchio
negozio dall'aria rispettabilissima che si trova lungo Greenwich
Street. Era ed è tuttora un negozio praticamente minuscolo,
ma tutto
quello che c'era lì dentro assecondava alla perfezione i
gusti di
Brett, tanto da diventare cliente abituale negli anni compresi tra il
1979 e il 1999.
Brett non ha mai trascurato nessuno dei suoi
figli, ma all'età di tredici anni ognuno di noi
(più per evitare un
esaurimento nervoso a nostra madre che per altro) ha cominciato a
ricevere una paghetta fissa che dovevamo usare responsabilmente e
cioè per comprare abiti quanto più simili a
quelli scelti da Brett
in persona.
Ovviamente qualche strappo alla regola fu d'onere per
ognuno, e cominciò con la giacca di pelle alla Top Gun di
Michael,
per continuare con la cravatta color zafferano di Matthew, il vestito
di tulle rosa che aveva scelto Bessie per il suo primo ballo
scolastico di fine anno, la cintura di borchie di Carla, la maglietta
attillata e color oro che Andrew sfoggiava con un certo
orgoglio.
Alla fine però ognuno sceglieva per suo conto degli
abiti meravigliosi, ma a nessuno riuscivano ad adattarsi mai
perfettamente addosso. Le giacche di David erano sempre troppo
strette sulle spalle, il mio doppio-petto era troppo lungo, Claire
doveva riempire di ovatta le sue scarpe col tacco, Matthew, per
quanto fosse fortunato nel trovare vestiti della sua taglia,
dimenticava di abbottonarsi completamente i pantaloni suscitando
risatine tra le ragazze che lo vedevano in piedi nella metropolitana.
La verità è che nessuno si prendeva mai la briga
di misurare, come
invece Brett ci aveva costretto a fare, ciò che comprava.
Oliver
scappava via dal negozio con il suo abito nuovo di zecca addosso e i
segni del gesso sul risvolto dei pantaloni.
Mi piacerebbe tanto
descrivere anche il modo in cui ero vestito io la mattina del mio
primo giorno lavorativo (il racconto del primo giorno lavorativo
è
ormai concluso, la mia era soltanto una specie di paternale mal
riuscita sul lavoro di professore), ma ho seriamente un crampo alla
mano, seriamente. Torno tra cinque minuti.
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