Diario di un alcolista (o qualcosa del genere)

di ballerinaclassica
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 14 Aprile 2010, soffitta ***
Capitolo 2: *** 15 Aprile 2010, cucina ***



Capitolo 1
*** 14 Aprile 2010, soffitta ***


14 Aprile 2010, soffitta.



Non ho mai avuto la più pallida idea di come si cominci un diario, e vorrei continuare a non saperlo, dato che non ho troppa voglia di scriverlo. Mi spiego, non sono una persona stupida ed insulsa, di quelle che non leggono mai libri e che non sono a proprio agio mentre tengono una penna in mano, tutt'altro.
Odio questo genere di cose, le trovo ridicole, lo faccio soltanto perché me lo ha ordinato il mio psicanalista, e i consigli dello psicanalista vanno sempre seguiti, soprattutto del mio psicanalista, che è russo, alto almeno due metri e ha la stessa stazza di un armadio a tre ante cui una famiglia numerosa ha dovuto aggiungere una quarta anta per il nipotino in arrivo. Il mio psicanalista lo conosco da circa tre anni, e da circa tre anni non è cambiato di una virgola, svariate volte ho pensato che si trattasse di un Highlander piuttosto che di un comune mortale, ma le mie sono tutte tesi che non vanno oltre la semplice supposizione.
Ad ogni modo, siamo qui per parlare di me, non del mio psicanalista: sono laureato in fisica nucleare, sono un appassionato di letteratura e filosofia. Mi chiamo Noah Pattinson e ho un problema con l'alcool.
Con problema non intendo una di quelle cose leggere, che dopo una delusione amorosa diventano tipiche di chi non riesce a superare la solitudine e ad affrontarla. No, io non sono così debole. Purtroppo sono una persona molto abile, e a causa di questa mia abilità sono anche una persona capace di crearsi i problemi più insensati, stupidi e complicati dell'intero New England.
Vivo a New York, una di quelle poche città in cui i turisti arrivano e pensano che la vita sia talmente meravigliosa da non consentire ai suoi abitanti di avere problemi. Ebbene, credo di essere l'eccezione che conferma la regola. Tanto per cominciare sono disoccupato, o meglio, faccio il cameriere nel locale più malfamato del Bronx, mentre penso alla mia sudatissima laurea appesa nella mia camera. Non ho uno straccio di donna, piuttosto una serie di piccole avventure destinate a finire ancor prima che iniziassero e che vorrei lasciarmi alle spalle una volta per tutte. Ad essere sincero non ho nemmeno mai capito cosa intenda oggigiorno la gente con il termine “innamorarsi”, è un genere di sentimento al quale io non sono troppo abbietto.
Mia sorella Bessie mi accusa spesso di essere troppo imperniato col misticismo e l'esasperazione religiosa da non avere nemmeno il tempo di preoccuparmi per questo genere di cose (ovviamente lei è sposata, ha tre figli meravigliosi e un marito le regala mazzi di rose rosse la Domenica mattina). A volte stento a capire per quale assurdo motivo Bessie mi consideri così: io non sono una persona che va a messa, né una di quelle che non riescono a prender pace nel letto se prima non hanno recitato almeno per quindici minuti le preghiere, però riesco a infilare Gesù in ogni discorso, persino quando si parla di andare a fare la spesa. Per conto mio, dunque, non condivido la sua squallida opinione, forse troppo generale e frettolosa.
Oltretutto io e Bessie possiamo parlare soltanto per telefono (come sono costretto a fare anche con il resto della famiglia, o quasi) quindi non posso nemmeno accusarla di avere un giudizio sbagliato su di me, alla fine io e lei ci conosciamo come possono conoscersi due tizi che si vedono per la prima volta in metropolitana e che tra una fermata e un'altra hanno solo il tempo di scambiarsi un paio di battute riguardo alla politica o alle dimensioni dell'ultimo topo che hanno visto alla stazione centrale.
Il resto della famiglia, comunque, conta attualmente di altri quattro maschi, oltre a me, e tre femmine. Nove figli in tutto, dato che Matthew è morto tre anni fa, investito da un taxi nel Queens. La verità è che a New York gli incidenti sono all'ordine del giorno: prendiamo un tassista medio, che deve portare una coppia di tedeschi dal J. F. K. a Manhattan, più precisamente a Soho. Se non vuole che i due tedeschi debbano pagare circa trecento dollari e che quindi lo uccidano con una violenza atroce, deve sbrigarsi e cercare il modo più breve e veloce per portarli a destinazione. I pedoni in tutto questo hanno il sacrosanto dovere di attraversare la strada lesti come un giaguaro, perché la loro vita vale almeno quanto quella di uno sventurato tassista.
La mia famiglia ovviamente non ha mai condiviso questo mio punto di vista, tuttavia non riesco nemmeno a biasimarla. Secondo loro Matthew è stato soltanto una povera vittima, un martire, e il tassista un assassino che, dato che non era americano, ma di Santo Domingo, è stato accusato di omicidio colposo e rinchiuso in cella in quattro e quattro otto.
Se Matthew oggi fosse vivo, avrebbe trentaquattro anni e sarebbe il secondo figlio dopo Michael. Michael ne ha trentasei, e vive a Miami. È una specie di aspirante scrittore di quarta categoria, che per il momento è ancora alla ricerca della sua musa ispiratrice e quindi cambia residenza con la stessa velocità con cui gli Stati Uniti riescono a scatenare una guerra. Credo che Michael sia tra i miei fratelli quello al quale mi rivolgo più spesso, probabilmente perché è l'unico con la capacità di ascoltarmi quando parlo per ore senza mai fermarmi, anche se spesso e volentieri ho pensato che nel frattempo, mentre io gli raccontavo la mia vita filo e per segno, lui se ne andasse al bagno o a prepararsi un caffè. Ma in realtà tutti, a partire da Bessie, per finire a me o a Claire, adoriamo Michael e vediamo qualcosa di diverso in lui; c'è chi lo considera un mentore, chi uno psicologo, un unicorno pezzato o magari un comodino, ma Michael sarà sempre qualcosa che muta forma mano a mano che si scava nel cuore di ciascun fratello o sorella.
Dopo Michael, e naturalmente Matthew, c'è Bessie. Bessie ha trentatré anni, vive in Europa, più precisamente a Liverpool, e ogni giorno non fa altro che ripetere con entusiasmo quanto sia meraviglioso vivere in quelle città, che dovrei fare le valigie e lasciare questo continente che sembra abbrutirmi e andare a vivere con lei.
“I bambini hanno un letto a castello”, mi ha detto una volta, “potresti vivere nella loro stanzetta!”
Come se trascorrere le notti con tre mocciosi di cui non ricordo il nome, e francamente nemmeno il sesso, fosse il sogno di una vita che si avvera.
Il marito di Bessie è un cronista sportivo, si chiama Arthur, e guadagna un sacco di soldi. Non ha una laurea in fisica nucleare (anzi, sono più che certo che non abbia affatto una laurea), e guadagna un sacco di soldi.
Dopo Bessie c'è Carla, l'attrice. Tra le tre sorelle Carla è stata decisamente la più difficile da trattare, per i miei genitori, e la più stravagante. Tanto per cominciare, al liceo aveva i capelli blu elettrico e una specie di chiodo sul mento, al college si era iscritta per studiare storia dell'arte, ma dopo nemmeno due mesi è scappata via con un francese che aveva conosciuto mentre lui era a New York per lavoro. Grazie al fotografo francese (di cui al momento mi sfugge il nome) ora Carla vive a Lione, ed è addirittura riuscita ad accaparrarsi qualche particina quasi importante in uno di quei film che poi hanno vinto il Festival di Cannes e ad apparire perfino sui teleschermi americani. Io la trovavo irriconoscibile, aveva i capelli biondi e non c'era la minima traccia del fantomatico chiodo sul suo mento.
Oliver ha trent'anni e vive nel New Hampshire con sua moglie. Dopo aver cercato per anni che si liberasse il posto alla cattedra di inglese all'università di Boston ha preferito volare basso e insegnare letteratura in un liceo di Merrimack, una cittadina abbastanza sconosciuta e che, si vocifera, abbia un gusto del macabro da poter vantare il miglior Halloween degli Stati Uniti d'America.
Adesso mi fa un po' invidia parlare di David, dato che io e lui siamo praticamente agli antipodi. David è un ragazzone ben piazzato, che è stato tre volte campione di nuoto al liceo, era il capitano della squadra di pallanuoto e aveva una miriade di ragazze che gli correvano dietro come oche e che lui non ha mai guardato nemmeno con la coda dell'occhio, perché diceva di essere innamorato solo e unicamente della sua Susan. Oggi vive a Brooklyn, fa il giornalista ed è sposato con una sciacquetta mezza canadese.
Fortunatamente dopo David c'è Andrew, che è decisamente il più simpatico della famiglia (beh... Dopo di me chiaramente). Andrew è palesemente e senza dubbio gay. In casa se ne sono accorti tutti, ma nessuno ha il coraggio di dirlo ad alta voce, quasi come se si trattasse di un anatema che ha sconvolto la famiglia. Solo Claire, la più piccola della compagnia, ha osato chiedergli durante un pranzo del Ringraziamento, se fosse innamorato. Mia madre ha rischiato quasi di morire soffocandosi con un osso di tacchino. Andrew ha ventisette anni e anche lui vive a Manhattan, per questo motivo è il membro della famiglia che riesco a vedere più spesso. Non rifiuto mai i suoi inviti a cena, lui e il suo compagno, Charlie, cucinano da Dio.
Due anni dopo Andrew sono nato io, in auto, mentre mio padre era bloccato nel traffico e mia madre aveva le contrazioni. Ho corso il rischio di non respirare dopo la nascita, dato che non c'era nessun medico nel raggio di un paio di Avenue e tre Street. Fortunatamente però sono vivo e vegeto, seduto sul pavimento della mia soffitta a scrivere un diario mentre Puck, il mio labrador e fratellastro acquisito, graffia contro la porta.
L'ultima della famiglia è Claire, la seconda artista dopo Carla. Ha diciannove anni e sembra essere la futura promessa dell'American Ballet. Una carriera che ha ottenuto grazie a svariati colpi di fortuna e, modestamente, al buon occhio del sottoscritto. Claire era una ballerina nata e nessuno in famiglia se n'era accorto, probabilmente Andrew al giorno d'oggi sarebbe stato abbastanza sveglio per farlo, ma all'epoca era ancora un bambino un po' tonto e che guardava con sdegno i soldatini e le macchinine, perché le Barbie erano decisamente più interessanti.
Forse per uno sforzo di gratitudine al più giovane di tutti i suoi fratelli maggiori, Claire è l'unica che rinuncerebbe a mille impegni di lavoro pur di venirmi a trovare il più spesso possibile. E ogni volta può constatare, con grande disappunto di Bessie, alla quale riferisce praticamente tutto, che trova libri dappertutto, ma che la dispensa rimane costantemente vuota, che faccio dormire Puck sul divano dove di regola dovrebbero stare le persone, che non rispondo mai al telefono e lei ogni volta ha il terrore che io sia morto per aver infilato un dito nella presa dell'elettricità o qualcosa del genere.
Naturalmente lei e tutti gli altri sanno del mio psicanalista e della situazione un po' precaria. Nessuno prende la cosa alla leggera, ma ovviamente è trattata un po' come è trattata l'omosessualità di Andrew, cioè alla stregua di un tabù. Non è un problema per me che lo sappiano, e non è un problema che mia madre, nelle sue interminabili telefonate, a un certo punto mi chieda, con il tono di voce più basso che riesca a fare, se sono stato dallo psicologo. Quella domanda per me è un sollievo, perché preannuncia la fine della conversazione.
Mia madre è, o meglio, era, insegnante di letteratura in una scuola privata di Manhattan. Naturalmente (e con nostra grande sfortuna) le è rimasta l'abitudine di trattare con i suoi figli come se fossero degli alunni, e spesso rimprovera a Claire il fatto di non aver potuto finire il liceo a causa del balletto. A nessuno di noi interessano le sue proteste, quindi Claire non risulta mai offesa dalle parole di nostra madre. Brett, questo è il nome di mia madre, ha sessantaquattro anni, per gli amici cinquantaquattro, ed è la tipica madre che ha il coraggio di mettersi a sistemare la camicia nei pantaloni di suo figlio più che ventenne in pubblico e alla luce del giorno, pur di vederlo in perfetto ordine. E credetemi, è vero e io sono la povera vittima.
La verità è che mi trovavo a Central Park con tutta la mia famiglia, eccetto mio padre e Matthew, che non ci sono più, e io e Claire avevamo pattinato sul ghiaccio. Ora, qualunque essere umano, eccetto ovviamente la signora Brett Pattinson, dovrebbe di regola scomporsi un pochino mentre pattina su venti metri per venti di ghiaccio in compagnia di un'altra cinquantina di persone. Ma per mia madre non c'è mai limite al buon costume. Stavo uscendo, e lei mi ha afferrato per un braccio con la stessa forza un lottatore e ha cominciato a infilarmi le mani nei pantaloni sotto lo sguardo divertito dei miei fratelli e quello a dir poco allibito degli estranei. È ovvio ora, che il caso clinico sia lei, non io, e che c'è un motivo se ho bisogno di vedermi con uno psicanalista, no?
Dopo quell'episodio ho sempre evitato di farmi vedere a meno di una trentina di metri dalla pista di pattinaggio artificiale, onde evitare che qualcuno potesse per caso (e sfortunatamente) riconoscermi.
Credo che questo aneddoto basti a descrivere e a far capire la cura maniacale che Brett ha dei suoi figli e che non ci siano problemi se adesso decidessi di parlare un po' di mio padre (o meglio, di citare anche lui più per giustizia se non per altro, dato che differentemente dai miei fratelli maggiori, io non ho passato molto tempo con lui).
Montag Pattinson nacque nell'Iowa, suo padre era un pompiere e suo figlio si beccò quel nome a causa della sua passione per Fahrenheit 451. Montag ne è il protagonista e a sua volta è un pompiere, ma nella sua città gli incendi non vengono spenti, ma appiccati. Mi piacerebbe dire altro su questo meraviglioso capolavoro letterario o giù di lì, ma mi sono sempre rifiutato di leggere quel libro, dato che ho sempre trovato estremamente stupida l'idea di dare al proprio figlio il nome di un personaggio inesistente. Sì, lo so, sono un caso clinico. Distruttivo e cinico.
Ad ogni modo, Montag si trasferì a New York all'età di ventinove anni, quindi sono passati circa quarant'anni da allora, e lavorava nella polizia. Non so dire come si siano conosciuti lui e Brett, dato che quella donna ha la strana abitudine di cambiare versione ogni volta che ne parla e che l'unica costante tra una storia è l'altra è il romanticismo, condito da un'atmosfera stracolma di stelle cadenti, violini e magari gattini bianchi e adorabili.
A Brett i gattini piacciono da morire, ogni volta che ne vede uno in televisione mi domanda se non sia carino, e quando le rispondo che è “più che simpatico” e “carino quanto Dio ha voluto che fosse carino”, lei sembra confusa, ma accetta comunque la mia opinione.
Tornando a Montag, è morto che io avevo sette anni e mia sorella Claire uno, durante una sparatoria nel Bronx. I ricordi che ho di lui riguardano qualche domenica feriale, durante la quale ci portava a vedere le partite di football, o un paio di passeggiate a Central Park, una delle quali mi procurò la minuscola cicatrice che ho ancora ora sulla fronte. Stava portandomi sulle spalle e aveva scavalcato la recinzione che divideva il viale ciclabile dai prati con gli alberi acquistati dai newyorchesi, e a un certo punto si era messo a correre. Mia madre strillava di stare attento, perché avrebbe potuto cadere a far male a entrambi; i fratelli, fino a David, battevano le mani e ridevano estasiati, i più grandi si allontanavano cercando di fingere che quello non fosse loro padre.
A un certo punto, bum!, e mi ritrovo sdraiato nell'erba e le foglie secche. Montag non si era accorto di un ramo piuttosto basso e io ci ero finito contro, rischiando una commozione cerebrale. I milioni di controlli cui fui sottoposto (per volere di Brett, più che di mio padre) dimostrarono che fortunatamente non era successo niente, e riuscii a cavarmela con un paio di punti. Questa storia viene tramandata ancora oggi ai figli di Bessie, per esempio, ai quali mia sorella racconta di uno zio che ha una cicatrice a forma di Florida sulla testa. Secondo Andrew la forma è quella di una torta al formaggio (non so perché al formaggio, ma lui sostiene che si tratti esattamente di una torta al formaggio), a me sembra il fegato di un cane morto.
Al di là delle divagazioni sulla mia cicatrice (che vorrei specificare, è piccola e discreta, molto semplice da nascondere sotto una ciocca di capelli), nella mia famiglia la perdita di Montag non fu sentita molto, né pianta fino alla nausea (eccetto per Brett, ma lei potremo giustificarla). Il fatto purtroppo ci colse all'improvviso e nessuno poté goderne a pieno.
Michael era stato così entusiasta dopo il diploma che se n'era letteralmente scappato in Europa a fare un viaggio “ristoratore” con alcuni tra i suoi ex-compagni e l'aggiunta di Matthew e Bessie (inviata da Brett nella speranza che potesse far tornare i suoi figli a casa vivi e con una fedina penale possibilmente pulita). La ristorazione del viaggio consisteva nel repentino cambiamento di albergo e nel migrare da uno stato all'altro per visitare più città possibili nel giro di un mese (io ci avevo guadagnato una maglietta del Barcellona, ma non essendo molto interessato al calcio, finii per regalarla a mia volta a Claire, che a sua volta la cedette – quasi a malincuore – a uno dei suoi amori in età adolescenziale).
Carla, come ho già detto, aveva uno spirito libero e quello era il periodo in cui aveva abbracciato la cultura Zen, e quindi comprò Dimitri Mendeleev, convinta che in realtà quel labrador beije col naso rosa fosse la reincarnazione di Montag. Oliver appoggiò mia sorella, insistette per comprare un collare a Dimitri Mendeleev e impose di incidere su una targhetta d'oro che quel cane era il capostipite della famiglia Pattinson in tutto il suo splendore.
David pianse un pochino, ma più per il carro armato che aveva amorevolmente riposto nella bara (semmai suo padre avesse avuto bisogno di difendersi contro qualche vicino di tomba cattivo) che per il genitore defunto.
Andrew aveva nove anni, e come me fissava il volto pallido senza capire che cosa fosse successo di preciso, a un certo punto mi disse soltanto che da quel momento si sentiva cambiato, e poi non parlò per un mese. Uno psicologo spiegò che Andrew non aveva perso la parola e che il suo non era un problema a livello mentale, semplicemente, il bambino non sentiva il bisogno di parlare per il momento, quindi preferiva stare in silenzio. Parlò per la prima volta dopo trenta giorni esatti, quando eravamo seduti a tavola, e mi chiese di passargli l'acqua.
In quel periodo la mia reazione fu strana, all'inizio di stupore, poi di paura, e infine finii per accorgermi che il cambiamento fondamentalmente era stato percettibile solo in Brett, divenuta tutto d'un tratto leggermente più taciturna e molto protettiva, e che Montag non mi mancava quasi per niente. Il mio unico e concreto ricordo di lui, oggi, è questa cicatrice a forma di fegato di cane morto.
Credo che passare in rassegna tutta la schiera di figli che Brett e Montag hanno messo al mondo con orgoglio fosse indispensabile per cominciare la mia storia, per quanto possa risultare noioso. Ad ogni modo, in questo diario si susseguiranno racconti e ricordi, mescolati con pagine di vita quotidiana, non necessariamente in ordine cronologico. La maggior parte di essi, ovviamente, riguarderà me, dato che questo lo dice il mio psicanalista. Ma avrei parlato di me anche se lui non lo avesse specificato, del resto non vedo perché dovrei togliermi di qui.






Il secondo capitolo di questa FanFiction è già bell'e pronto, ma sono ancora molto indecisa se pubblicarlo o meno! Si vedrà dalle recensioni, e da ciò che ne pare a voi di questa storia... Io me ne torno a studiare chimica inorgnanica. (:

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Capitolo 2
*** 15 Aprile 2010, cucina ***


15 Aprile 2010, cucina


A volte, se devo essere sincero, trovo che tornare a casa stremato per il troppo lavoro sia una magra consolazione. Sei sollevato, la giornata è appena finita e sai di aver adempito ai tuoi doveri, che a fine mese sarai pagato e scoprirai con piacere che hai almeno una trentina di dollari di mancia a disposizione per andare a comprare qualcosa come un videogioco.
Stamattina mi sono svegliato con questi pensieri positivi, ho sorriso mentre mi radevo e poi ho portato Puck a fare una passeggiata.
I newyorchesi bisogna averli davanti in carne e ossa per capirli, e possibilmente fermi, dato che hanno la strana abitudine di correre costantemente con il caffè in mano – e quando ti urtano rischi un'ustione di quinto grado. E stamattina, essendo di buon umore, ne ho osservati un paio.
C'era un uomo piuttosto grasso che stava in piedi accanto a me mentre compravo la colazione e Puck mi guardava in silenzio, e augurandosi che mi dessi una mossa (lui era legato fuori). L'uomo mi guardava e non faceva assolutamente niente per nasconderlo, non ho la più pallida idea di che cosa volesse da me, ma all'inizio ho pensato che il motivo fosse la canzone che cantavo mentre sono entrato. Era un vecchio brano di Iggy Pop che avevo sentito durante qualche pubblicità e al quale sono stato costretto a cambiare le parole, perché non ne ricordo quasi nessuna. Ad ogni modo, l'uomo grasso mi guardava, e a un certo punto l'ho guardato anche io, subito dopo aver pagato la colazione, e lui ha distolto lo sguardo, quasi come se lo avessi all'improvviso messo in imbarazzo. Una volta fuori, Puck ha cominciato a scodinzolare, vicino a lui c'era una ragazza. Aveva i capelli rossi e non doveva essere americana, dato che quando le ho chiesto se le piacesse il mio cane lei ha sorriso ed è andata via. Mentre camminava continuava a voltarsi indietro e a guardarci, io con il sacchetto della colazione in mano e Puck seduto per terra, che abbaiava.

Questi due incontri mi hanno ricordato qualcosa che successe circa un anno e quattro mesi fa, quando ero appena laureato e nutrivo le migliori speranze del mondo, illudendomi di trovare al più presto un lavoro prestigioso. Purtroppo però erano già due mesi che non venivo contattato da nessuno, e in cuor mio credevo che sarei rimasto disoccupato a vita (come effettivamente succede tutt'ora). L'unica a consolarmi sembrò essere Brett, che ogni giorno telefonava e chiedeva informazioni, aggiungendo poi che tutti erano così presi dal mio curriculum brillante che volevano rileggerlo di nuovo prima di avere il piacere di conoscermi di persona. Non sono mai stato così stupido da credere a quello che mi racconta Brett, quando avevo nove anni le ho anche scritto un elenco di prove secondo le quali, a mio parere, Babbo Natale non esistesse.
Un giorno, comunque, la fatidica telefonata arrivò. Avevo avuto lavoro come supplente in un liceo che si trovava lungo l'Ottantesima Strada, non seppero dirmi altro, solo che l'edificio era rosso e che stava vicino a “quella vecchia casa che era andata a fuoco durante la seconda guerra mondiale, quella con la scala antincendio tutta storta e i graffiti sopra”. Trovare il liceo fu un'impresa ardua, naturalmente.
Quando finalmente ci riuscii, non ero più in me dalla gioia. Era la prima volta che lavoravo e che mi sentivo utile dopo la morte di Matthew, alla quale era seguito un periodo di crisi mistica e di numerose difficoltà negli studi che avevo superato soltanto dopo l'inizio delle sedute.
Ad ogni modo, entrai in quella scuola e andai nell'ufficio del direttore con dieci minuti di anticipo, per fare una bella impressione, ma lui sembrò invece infastidito, dato che si ritrovò a dover interrompere bruscamente una telefonata. Io però non avevo nessuna fretta, anzi, mi sarebbe piaciuto rimanere in quell'ufficio in silenzio mentre lui parlava al telefono per poter leggere quello che c'era scritto su tutte le targhe. Inoltre c'era un buon profumo di pulito e il condizionatore era acceso e sentivo l'aria fresca direttamente sulla nuca.
Mi consegnò il programma da svolgere in tre settimane, facendomi capire che il mio compito, più che altro, era quello di evitare che la classe degenerasse durante l'assenza per malattia del loro vero professore di chimica.
- Ed è libero di scegliere se interrogare o meno, al suo ritorno il professor Collins si occuperà dei voti e delle valutazioni vere e proprie – disse.
Non mi sembrava un problema, anzi, a dirla tutta in quel momento credevo di avere il mondo in mano. Per quanto ogni volta, durante l'università, mi ripetessi che il mio destino non doveva essere quello di professore, quel giorno mi sentii Dio. In realtà mi affascinava il potere che avrei potuto esercitare, per quanto il ragionamento possa sfiorare l'assurdo.
Fare il professore a mio parere implica sapere molte cose, ma contemporaneamente anche non essere in grado di saperne altre, e per questo motivo non mi piace insegnare, né mi è mai piaciuto. Sono consapevole del fatto che al di là della fisica nucleare, di un'infarinatura di geografia astronomica e delle conoscenze che ho cercato di ricevere da solo dalla lettura di qualche filosofo (la maggior parte del buon vecchio Soren K. e di quel simpaticone di Kafka) c'è ancora molto da imparare. Ad esempio non ho mai saputo quale sia la capitale dell'Eritrea. A dire il vero non sono nemmeno sicuro di conoscere i miei polli abbastanza bene. Per spiegarmi, riguardo la chimica inorganica so talmente tante cose che potrei mettere da parte il mio racconto e cominciare a parlare di lunghezza d'onda, orbitali, calcoli stechiometrici o entropia, ma non lo farò (con vostro grande rammarico!), nonostante ciò ho la sensazione di essere una specie di giocoliere che tiene una palla sulla fronte, con sopra un candelabro, con sopra un vassoio di cristallo, con sopra un set di tazze in porcellana piene di tè alla vaniglia. Da un momento all'altro un quindicenne che ha appena studiato la liquefazione dei gas potrebbe venirmi a fare una domanda alla quale non so rispondere, mentre lui, invece, sa esattamente di che cosa si tratti, e io verserei tutto il contenuto delle tazzine e farei cadere tutto il resto. Per questo non ho mai voluto fare il professore, perché il tè alla vaniglia mi piace veramente molto e preferirei non sprecarne nemmeno una goccia.
Quando entrai per la prima volta nell'aula pensai di essere nudo o di avere qualche bottone dei pantaloni aperto, come minimo, ma dopo un'occhiata furtiva mi accorsi che non era assolutamente così.

A questo punto dovrei sacrificare il mio pranzo caldo e mettermi a scrivere un paio di paragrafi riguardanti il mio aspetto fisico, dato che non vorrei mai restare un anonimo scrittore in erba che ha avuto problemi con l'alcool e vanta migliaia di aneddoti divertenti, carini o almeno in parte misteriosi sulla sua famiglia e su lui stesso. (Non che io abbia voglia di descrivere il mio aspetto fisico, sia chiaro, anche perché sono una persona – quasi – perfettamente nella norma, ma ho l'intenzione non solo di farvi capire che faccia abbia, ma anche di dare a questo racconto semi-diaristico una precisa indicazione spazio-temporale. Sono nella mia cucina, alle tre del pomeriggio, seduto a tavola e rinuncio a mangiare un pasto adeguatamente caldo pur di aggiungere qualcosa a questa pagina).
Cercherò di dare una visione più esauriente possibile di me, occupando soltanto un paio di paragrafi e senza usare troppi capoversi (io odio i capoversi).
Se dovessi partire dai capelli, comincerei col dire che non ho dei capelli particolari, eccetto forse il loro colore, ma che ho dei capelli del tutto nella norma, che crescono lentamente e che il barbiere (il buon vecchio Marcus) taglia con un'inefficienza disarmante, tuttavia non ho il coraggio di abbandonare la sua adorabile bottega. Sono di un colore rossiccio, tendente al biondo, un colore che, se fossi alto un metro e novanta, mi farebbe sembrare un idiota. Fortunatamente (forse) non sono alto un metro e novanta, e nemmeno un metro e ottanta, quindi i capelli potrebbero passare anche inosservati, in una folla numerosa. Le origini scozzesi della mia famiglia purtroppo non ci perdonano per aver lasciato la Terra Madre più o meno una cinquantina di anni fa, e credo che ci perseguiteranno per almeno altre dieci o undici generazioni. Forse la calamità degli antenati infuriati si è abbattuta su di me tramite le mani di Marcus, che ogni volta riesce a storpiarmi la linea sulla nuca che di regola dovrebbe essere dritta e parallela alle spalle.
Una volta ho cercato di spiegargli di fare attenzione, ma lui non sembra ascoltarmi, e quindi è andato avanti imperterrito e per la sua strada. Dietro di noi c'era un signore che aspettava il suo turno, era molto silenzioso, ma continuava a sorridere come se guardare Marcus che mi piegava la testa da una parte all'altra a suo piacimento e senza la minima preoccupazione di essere violento o meno fosse la cosa più divertente del mondo. Ma forse lo era per davvero.
Il colore rosso dei capelli ho la fortuna di condividerlo con molti membri della mia famiglia, i quali sembrano andarne fieri o (nel caso delle ragazze soprattutto) vergognarsene da morire. Una volta Bessie è veramente “morta” per un'osservazione sui suoi capelli da parte di una di quelle zie vecchie e con l'alito puzzolente, quelle un po' cretine e che sbagliano sempre i nomi dei nipoti. Se non sbaglio era la sia Margareth, la sorella del padre di Montag, cioè la sorella di mio nonno.
Io avevo circa cinque anni e Bessie tredici, eravamo educatamente seduti sul divano del salotto, e qualcuno tra i numerosi fratelli invece se ne stava (per questioni di spazio) a gambe incrociate sul pavimento ai nostri piedi. Insomma, eravamo tutti lì a fissare il parentado schierato in casa nostra e a un certo punto questa zia con l'alito puzzolente se ne uscì chiedendo a Bessie perché mai alla sua età tingesse i capelli in quel modo. Bessie ebbe la tipica reazione che hanno tutte le ragazze a un complimento mancato, una specie di crisi cardiaco-respiratoria di circa mezzo minuto e poi di nuovo un atteggiamento di semi-normalità tradito soltanto ogni tanto da qualche occhiataccia alla zia Margareth o alle punte dei suoi stessi capelli che arrivavano oltre la spalla.
Bessie non ha avuto la brillante idea di cambiare colore di capelli come ha fatto Carla, sono ancora rossi e luccicanti, lunghi, lisci e appariscenti. Se devo essere sincero, penso che Bessie non sia quel genere di persona alla quale i capelli rossi donano (nemmeno io credo di esserlo, ma differentemente da lei nessuno fa mai troppo caso ai miei capelli). Lei è molto alta, quasi come lo era Montag, e quindi quando cammina per strada a me dà quasi l'idea di un semaforo. Una volta ho provato a accennarle di questa mia impressione e a cercato di uccidermi con la forza del pensiero. L'unico risultato che ottenne fu un mio acuto attacco di tosse, ma la cosa sembrò soddisfarla comunque.
Anche Michael, Oliver, Andrew e Carla hanno (o hanno avuto) i capelli rossi, sebbene Carla si sia liberata in fretta di quel tocco scozzese con una buona tintura biondo cenere.
A Michael i capelli rossi danno un'aria vissuta, che abbinata al tartan delle occasioni speciali lo fa sembrare meraviglioso agli occhi di Brett (che se ne tornerebbe volentieri a Eyemouth, in Scozia, se un esercito di figli - e di nipoti - non la tenesse ancora inchiodata negli Stati Uniti alla ricerca di affetto filiale e tanta, tantissima affettuosità, così tanta da dare il voltastomaco). A Oliver danno un'aria un po' stralunata, dato che sembra non avere mai tempo per pettinarli (ho anche la vaga impressione che nella sua massa di capelli nasconda anche un'edizione tascabile di Wordsworth) perché è sempre molto impegnato a pensare agli scempi che scrivono i suoi alunni sui compiti in classe (Shelley si starà rivoltando nella tomba adesso, dice sempre). Andrew sembra fiero quanto Michael della sua capigliatura, probabilmente perché Andrew più di tutti gli altri desidera farsi notare.
Una volta stavo camminando con lui lungo Broadway e a un certo punto, arrivati all'altezza del giornalaio da cui ci fermiamo praticamente ogni mattina, Andrew si è bloccato sul marciapiede con lo sguardo rivolto al lato opposto della strada. Ahimé, riuscii subito a notare il cosiddetto sguardo da giovane scout che riesce ad accendere un fuoco da campo usando i bastoncini, altrimenti definito “sguardo Eureka”. Ad Andrew bastò attraversare la strada affinché fosse notato anche lui dal ragazzo che aveva puntato, i suoi capelli col sole bruciavano alla stessa maniera di un solido incandescente del quale non mi metterò a spiegare le proprietà chimico-fisiche, sebbene so che ci sia gente curiosa di conoscerle. Il “gayometro” di Andrew, abbinato ai capelli rossi e alla sua faccia tosta, ha un effetto strabiliantemente immediato, e probabilmente dovrei smettere di parlare della sua omosessualità come se si trattasse di una voglia a forma di Texas che ha sul palmo della mano, ma non riesco a farne a meno (e dubito che ci riuscirò, quindi penso di voler continuare a non avere peli sulla lingua).
Ad ogni modo, dopo i capelli, i Pattinson possono vantare una larga scelta di occhi blu notte, che a detta di mia madre altro non è che il meraviglioso colore del mare all'altezza dell'orizzonte. Io continuerò a chiamarli “occhi blu notte” e basta.
Secondo il mio parere, gli occhi più belli di tutta la famiglia sono quelli di Claire, sono profondi e le danno un aspetto intelligente, nonostante abbia la strana e forse un po' odiosa abitudine di sbattere continuamente le palpebre e far così fluttuare le sue lunghe ciglia biondastre. Una volta Claire, quando poteva avere poco più che cinque o sei anni, seduta sulle ginocchia dello zio Seymour, cominciò a sbattere le palpebre, e mentre sbatteva le palpebre spiegava al vecchio Seymour (allora poco più che trentenne) che cosa dovesse fare per conquistare la signorina che lavorava alle poste e cominciò ad elencare gli orari della signorina e i giorni in cui lavorava, quelli in cui pranzava velocemente e quelli in cui preferiva andare a mangiare qualcosa di caldo. Non so per quale strano motivo Claire avesse tutte quelle informazioni a sua disposizione, da servire su un piatto d'argento, ma in famiglia siamo abituati, chi più chi meno, alle assurdità più disparate, come la passione sfrenata che Matthew aveva per il giallo, tanto da dipingere le pareti della camera che divideva con Michael di quel colore e comprare mobili affini.
Mi spiace dover essere poco gentile e galante con le altre signore della famiglia, ma credo di dover ammettere che al nostro fratello maggiore spetta il secondo posto in quanto a “miglior paio di occhi blu notte firmati famiglia Pattinson”. Gli occhi blu notte di Michael riescono a esprimere in una maniera incredibile il maggior numero di emozioni possibile come se l'incertezza, la malinconia, il sentimentalismo, l'affetto, la paura, la tristezza e la felicità siano le cose più normali del mondo e possano coesistere con tanta facilità quanta ne può esprimere un quaterback che ha appena fatto Touch Down a tre minuti dalla fine della partita. Quel furbacchione di Nicholas Sparks cerca sempre di descrivere nelle sue opere gli occhi del nostro Michael, ovviamente senza riuscirci... Con questo vorrei specificare che io non leggo Nicholas Sparks, ma mi è capitato un paio di volte di leggere la trama dei suoi libri abbandonati sul comodino di Andrew. Lui è un romanticone.
Ho un crampo alla mano, credo di essermi addentrato fin troppo nella mia descrizione fisica senza venirne a capo. Per ora le uniche cose di cui vi ho messo a conoscenza sono capelli rossicci e gli occhi blu notte.
Potrei passare ai vestiti, ma è un tasto delicato e che vorrei riserbare per ultimo.
Okay, il naso.
Non posso descrivere chiaramente la totalità dei nasi Pattinson, perché non c'è un naso che somigli ad un altro nella nostra famiglia. Diciamo che alcuni derivano dal nasino di Montag, altri da quello di Brett, che non è altrettanto piccolo (e poi c'è quello di David, che è un po' storto da un lato a causa di una mazza da baseball contro la quale è andato a sbattere. Esatto. Non è stata la mazza da baseball a colpirlo, ma lui a colpire lei. Stava uscendo di casa, e Oliver si stava allenando per la sua primissima partita con la squadra della sua scuola. Aveva la mazza da baseball a mezz'aria, immobile, e David era terribilmente in ritardo – a casa nostra nessun è mai in ritardo, ma sono tutti terribilmente in ritardo – e a un certo punto se ne va a sbattere contro la mazza da baseball di Oliver mentre stava correndo verso la porta. A dispetto di quello che diceva Montag – che non era nulla di grave, David era un ragazzone, che cosa poteva mai succedere? - il setto nasale era andato completamente). Chiusa questa piccola parentesi vorrei scusarmi con tutti i lettori (dubito che ce ne saranno, ma ho bisogno di qualcuno al quale rivolgermi prima di sentirmi troppo solo... E no, Puck sta dormendo e non voglio svegliarlo, altrimenti sarebbe perfettamente normale rivolgermi a lui) per aver abusato della vostra pazienza, in cambio ho da offrirvi questo asterisco fatto col cuore: * Spero che lo accettiate come segno della mia gratitudine, oltretutto.
Continuando con questo benedetto naso, devo dire che ne sono abbastanza soddisfatto. Qualche volta ho letto su una rivista per donne (stessa coincidenza che vale per i libri di Sparks) che deve esserci una certa distanza tra il naso e gli occhi e tra il naso e la bocca. Ecco, io l'ho misurata e c'era, checché voi ne diciate, quella distanza c'era. È un naso discreto, molto simile a quello di Montag, a quanto ho potuto notare dalle foto, l'unica differenza in quanto a larghezza, lunghezza e contorni tra i nostri nasi sta in una leggera curvatura all'insù del mio, che mi aiuterà ad introdurre il tratto morfologico che segue.
I denti.
Solitamente i denti non sono una parte del corpo degna di nota, dato che a nessuno salterebbe mai di descrivere i propri denti come se si trattasse di qualcosa di speciale, tanto meno io. Ma dovete sapere, semmai un giorno io dovessi incontrarvi sull'autobus, che ad eccezione di un orecchio che sporge leggermente più dell'altro non c'è nulla di sproporzionato nel mio viso, a meno che io non sorrida. La verità è che non ho mai capito per quale assurdo motivo io sia l'unico esemplare di Pattinson che vanti gli incisivi più grandi del mondo, dritti, ma comunque grandi. Brett mi dice che un suo prozio trasferitosi in Australia durante la guerra aveva dei denti grandissimi e una mascella quadrata che gli dava un'aria da duro. Io non ho una mascella quadrata, né un'aria da duro, ma solo dei denti grandissimi.
Una volta Bessie mi disse che ho un sorriso disarmante e adorabile. Non ci credo, una donna che si crede mukta, il saggio illuminato, colui che vede Dio, e poi manda le cartoline di Natale con le foto della sua famiglia non è una fonte attendibile.
Nella speranza che abbiate colto aspetto e dimensione (l'avete colta, oh, se l'avete colta!) dei miei denti, passerei a descrivere quello che per la famiglia Pattinson è un elemento imprescindibile, i vestiti.
Brett ha sempre avuto la straordinaria dote di riuscire a vestire più che dignitosamente ognuno dei suoi pargoli, più precisamente di vestirli in un vecchio negozio dall'aria rispettabilissima che si trova lungo Greenwich Street. Era ed è tuttora un negozio praticamente minuscolo, ma tutto quello che c'era lì dentro assecondava alla perfezione i gusti di Brett, tanto da diventare cliente abituale negli anni compresi tra il 1979 e il 1999.
Brett non ha mai trascurato nessuno dei suoi figli, ma all'età di tredici anni ognuno di noi (più per evitare un esaurimento nervoso a nostra madre che per altro) ha cominciato a ricevere una paghetta fissa che dovevamo usare responsabilmente e cioè per comprare abiti quanto più simili a quelli scelti da Brett in persona.
Ovviamente qualche strappo alla regola fu d'onere per ognuno, e cominciò con la giacca di pelle alla Top Gun di Michael, per continuare con la cravatta color zafferano di Matthew, il vestito di tulle rosa che aveva scelto Bessie per il suo primo ballo scolastico di fine anno, la cintura di borchie di Carla, la maglietta attillata e color oro che Andrew sfoggiava con un certo orgoglio.
Alla fine però ognuno sceglieva per suo conto degli abiti meravigliosi, ma a nessuno riuscivano ad adattarsi mai perfettamente addosso. Le giacche di David erano sempre troppo strette sulle spalle, il mio doppio-petto era troppo lungo, Claire doveva riempire di ovatta le sue scarpe col tacco, Matthew, per quanto fosse fortunato nel trovare vestiti della sua taglia, dimenticava di abbottonarsi completamente i pantaloni suscitando risatine tra le ragazze che lo vedevano in piedi nella metropolitana. La verità è che nessuno si prendeva mai la briga di misurare, come invece Brett ci aveva costretto a fare, ciò che comprava. Oliver scappava via dal negozio con il suo abito nuovo di zecca addosso e i segni del gesso sul risvolto dei pantaloni.
Mi piacerebbe tanto descrivere anche il modo in cui ero vestito io la mattina del mio primo giorno lavorativo (il racconto del primo giorno lavorativo è ormai concluso, la mia era soltanto una specie di paternale mal riuscita sul lavoro di professore), ma ho seriamente un crampo alla mano, seriamente. Torno tra cinque minuti.

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