Voglia di scappare

di Strummer_inLove
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Venerdì 24 Giugno ***
Capitolo 2: *** Sabato 25 Giugno ***
Capitolo 3: *** Lunedì 27 Giugno ***
Capitolo 4: *** Martedì 28 Giugno ***



Capitolo 1
*** Venerdì 24 Giugno ***


La matita di Russell correva sulla superficie bianca del foglio, tracciando i contorni di una ballerina, intenta ad sistemarsi i capelli davanti allo specchio. Il ragazzo era seduto a gambe incrociate, tra drappi scuri e funi arrotolate come serpenti. A pochi passi da lui, Madame Louis guardava le sue allieve, con le braccia sui fianchi, a caccia di errori. Perrine Louis era una donna sulla cinquantina, magra e slanciata, con i capelli biondo cenere raccolti in uno chignon. Russell passava a teatro gran parte dei suoi pomeriggi, quando i compiti non lo asfissiavano. Ora era in vacanza da qualche settimana, e Madame Louis lo aveva accettato, seppur non con entusiasmo, come spettatore fisso delle sue lezioni. Russell era il tipo di ragazzo che gli adolescenti di oggi definirebbero “strano”. Non era vestito alla moda come i suoi compagni, non giocava ai videogiochi, non passava il suo tempo a parlare di ragazze. Indossava spesso abiti di seconda mano, che suo cugino gli passava quando si rendeva conto che non gli andavano più bene. Alla play-station preferiva starsene in un viale alberato a leggere Stevenson, o ancora meglio Poe. Infine, anche se non prendeva parte alle discussioni da bar sull'altro sesso, aveva avuto modo di farsene ugualmente un'idea. Gli piaceva starsene seduto ad un tavolo della mensa scolastica, mentre Stefany chiacchierava allegramente con le amiche. Non ci aveva mai parlato, eppure conosceva a menadito le sue abitudini. Il suo colore preferito era l'azzurro, amava le poesie della Dickinson, le mele, la cioccolata, il suo fiore preferito era l'iris ed era un asso in storia dell'arte, come in tutte le altre materie. Ora che la scuola era finita, sentiva nostalgia della sua presenza, e un buco nell'anima, dato dalle molte cose che avrebbe voluto sapere sul suo conto, ma che non possedeva.
Una campanella risuonò nell'aria fredda del teatro. Le ballerine volteggiarono leggere ancora per un momento, poi uscirono dalla scena. Russell infilò i disegni in una sacca di iuta e si preparava a tornare a casa quando, camminando nervosamente verso la porta dei camerini, Madame Louis lo chiamò:
-       Jeune homme, mi faccia vedere i suoi schizzi, prego.
-       Ecco, queste sono Mary, Leslie, Megan e Juliet -  rispose Russell.
-       Notevole -  lo lodò Madame Louis -  vorrei chiederle di ritrarre mia figlia, la prossima volta.
-       Uhm... Auriane non è venuta oggi, ma venerdì potrei...
-       Mon Dieu -  lo interruppe stupita la donna -  come ho potuto non notare la sua assenza?!
Fece una pausa, guardandosi intorno imbarazzata:
-       Mi perdoni, Russell -  tentò di dire Madame Louis -  lei ha fatto davvero un buon lavoro. Mi spiace per Auriane, non ha mai perso una mia lezione...
-       Non si preoccupi Madame -  la tranquillizzò il ragazzo -  sua figlia ama la danza, ed è anche molto dotata e intelligente, sono sicuro che ha avuto un impedimento.
-       Già, ha ragione, Chère amis -  concluse Perrine -  non lo farebbe mai di proposito...
Madame Louis sorrise, ma sembrava perplessa e molto spaventata:
-       Sa', mio caro Russell, mia figlia non ha dormito a casa, stanotte, ma il martedì è solita stare da una sua compagna di classe -  restituì i fogli al ragazzo -  crede che mi debba preoccupare?
-       No, ne sono certo. Frequenta il mio stesso locale, il "Saint Martinì": non le può succedere niente in mezzo a quelle persone.
Perrine Louis lo ringraziò ed entrò nello spogliatoio. Russell invece uscì dalla porta sul retro, mentre il sole scendeva sugli alti palazzi di Manhattan.
Russell aprì la porta di casa e la richiuse senza far rumore. Suo padre, Robert Winston Junior, era appena tornato dall'ufficio. Con le maniche della camicia arrotolate fino ai gomiti, l'uomo leggeva il giornale seduto sulla sua poltrona preferita.
-       Ciao papà!
-       Oh, Russ, proprio te cercavo -  Winston aveva sempre quell'aria giocosa da ragazzino, ma ora sembrava molto serio -  hai intenzione di andare al "Saint Martinì", stasera?
-       Si, mi ha telefonato due minuti fa Johann per dirmi che andava...
-       Prendi il cellulare e richiamalo, oggi nessuno esce di casa -  l'uomo era scuro in viso.
-       C'è qualche ricorrenza che ho scordato -  Russell non capiva -  oggi non è festa nazionale, giusto?
-       No, è pericoloso, tutto qui.
-       Che vuoi dire?
In risposta, Winston gettò un quotidiano sul tavolino del soggiorno. Seduto sul divano, Russell lesse alcune righe, poi chinò la testa:
-       Ma cosa sta' succedendo?
Robert non rispose subito. Sembrava scontento, dispiaciuto per la decisione che aveva preso:
-       Comunque tu non andrai da nessuna parte stasera.
-       Ma papà!
-       Non è un divieto permanente; aspettiamo solo che si calmino le acque. Per favore Russell, non ti chiedo altro - quando Winston lo chiamava per intero voleva dire che ne valeva la pena.
Era un suo modo per dirgli “fidati di me, figliuolo”.
Russell sapeva che il padre non sprecava mai il fiato per niente, ma non credeva a quello che il “New York Times” gli stava gridando dalla sua prima pagina. Seccato, sistemò i suoi disegni in un cassetto della credenza in cucina e salì in camera da letto. Winston e signora abitavano in quel grande appartamento all'ultimo piano del Peace Building già alla fine degli anni ottanta. Ed era lì che Russell e Kate, la loro primogenita, avevano mosso i primi passi. Alla ragazza era stata concessa la stanza più spaziosa, di fronte al bagno del piano di sotto, mentre Russell era stato confinato nella minuscola mansarda, con una porta finestra che dava sulla terrazza comune. Così, quando l'afa dei giorni di agosto dava più fastidio, Russell era sommerso dal chiacchiericcio delle signore che venivano ad abbronzarsi. In quella tiepida sera di metà giugno invece, il suono dei clacson delle auto in Robinson Avenue era l'unico fattore di disturbo. Russell continuava a pensare a quell'articolo sul giornale: due settimane prima, quando la sua famiglia si trovava in vacanza a Miami Beach, gli abitanti di Vegher Street avevano sentito vari colpi sparati in aria, a pochi metri dal "Saint Martinì". Qualcuno che festeggiava la fine della World Cup di basket, probabilmente. Ma Robert Winston non era dello stesso parere: un avvertimento, diceva.
Manhattan era silenziosa, in quelle notti di fine primavera. Molti studenti del college tornavano ai loro alloggi nella periferia sul tardi, e i locali per universitari erano ben insonorizzati. Nessun rumore entrava, né usciva. Come se avessero qualcosa di cui vergognarsi, da nascondere a tutti i costi, pensava spesso Russell. Il "Saint Martinì" non era così. Era frequentato da ragazzi di ogni età ed etnia, seguiva le regole sulla distribuzione degli alcolici, non trasmetteva i soliti notiziari politicamente schierati. Era un posto dove si trovava della buona musica, dove c'era sempre una band diversa, dove la gente si divertiva senza bisogno di canne o di pasticche, anche se si sapeva che di fumati ce n'erano. Ora Russell rimpiangeva quell'atmosfera accogliente e spartana, seduto sul letto. Per quel sabato avrebbe dovuto rinunciare. Ma era stanco di chinare la testa e obbedire. Non ne poteva più di quelli che si credevano superiori e lo prendevano in giro, che lo comandavano. Il potere non gli andava a genio. Andò nel piccolo bagno che toglieva spazio alla sua stanza. Iniziò a pettinarsi i capelli chiari dalle punte irregolari. Russell era molto alto, aveva una corporatura fragile e la pelle chiara. I suoi occhi erano di un verde strano, color muschio, e aveva le labbra sottili e rosee. Tornò nella sua camera e aprì un vecchio armadio semivuoto: sul fondo, coperta da uno spesso strato di polvere, c'era una scatola di cartone. Russell la prese e soffiò delicatamente sul coperchio, chiuso con del nastro da imballaggi. Con un cutter aprì il contenitore: al suo interno teneva una giacca di cotone nero, per nasconderla dallo sguardo indiscreto di sua madre. Proprio in quel momento, Oona Winston irruppe nella mansarda. Russell nascose la giacca piegata dietro la schiena, e con un colpo di tacco mandò il pacco sotto al letto:
-       Mamma! -  esclamò innervosito Russell -  Non ti ho sentito bussare.
-       Scusa, caro -  la signora Winston, come il marito, era solare e spensierata -  sono appena rientrata dal negozio e volevo sapere se oggi è andato tutto bene...
-       Si, tutto apposto -  le rispose suo figlio -  come al solito Madame Louis mi ha trattenuto per parlare dei disegni. Niente di ché.
-       Sono contenta che questo passatempo ti piaccia -  disse Oona entusiasta -  a proposito: fino  a lunedì prossimo c'è una mostra impressionista al museo di storia naturale; hai presente quell'ala dove c'erano i reperti egizi...
-       Si, mamma -  rispose stufato Russell -  magari ci faccio un salto domani, quando finisco in teatro.
-       D'accordo Tesoro -  era contenta -  io e papà abbiamo già mangiato, vuoi...
-       Tranquilla mamma, ho mangiato al McDrive venendo a casa.
-       Okay, buonanotte caro.
-       'Notte mamma.
Appena la signora Winston uscì dalla stanza, Russell si preparò per uscire: divieto o no, sarebbe andato al "Saint Martinì", quella sera. Aveva meditato ogni cosa: il suo piano di evasione era pronto già da diversi anni, da quando per la prima volta il padre lo aveva messo in punizione. Sulla terrazza si trovava una scaletta di acciaio pieghevole, che scendeva fino al bancone della cucina. Da lì, se non c'era nessuno ai fornelli, era un gioco da ragazzi infilare la porta di casa. Russell era sempre stato abituato a chiudere la porta della mansarda a chiave quando dormiva, e nessuno si sarebbe accorto di niente. Appena fu pronto, uscì sulla terrazza: il cielo era coperto da nuvole di smog, gli unici puntini luminosi erano aerei e elicotteri. Poi, oppresso dall'inquinamento che gli impediva di vedere le stelle, il ragazzo si rimboccò le maniche e, facendo meno rumore possibile, spostò la scala fino al parapetto di mattoni. Russell guardò giù, verso Robinson Avenue. Le auto degli imprenditori che tornavano da Brooklyn si mischiavano ai pullman che strappavano gli operai bianchi ai cantieri di Harlem. Russell si limitò a guardare dall'alto la Grande Mela, che proprio quando il sole calava nelle acque dell'Hudson mostrava il suo volto più amichevole. Agli occhi di un liceale come Russell, le notti di Manhattan erano molto più entusiasmanti delle calde giornate. Silenziosamente, fece scendere la scaletta sul balcone della cucina. I suoi genitori erano davanti al televisore, e Russell sapeva che suo padre teneva sempre il volume altissimo: diceva che così le notizie gli rimanevano maggiormente impresse nella mente. Mentre scendeva pian piano, sentì il telefono cellulare vibrare nella tasca dei pantaloni. Doveva essere Johann, che era solito aspettarlo davanti al portone d'ingresso. In un primo momento, colto all'improvviso, Russell fece un movimento brusco all'indietro, facendo oscillare la scala, che sbatté sulla ringhiera di ferro del balcone. Robert Winston drizzò le orecchie, come fosse un cane da guardia. Russell lo sentì aprire la porta finestra. Il ragazzo salì si qualche gradino, là dove l'ombra lo avrebbe coperto. Sentiva lo sguardo del padre addosso, ma l'uomo non lo vide. Un momento dopo era rientrato. La voce altisonante del presentatore televisivo coprì i suoi passi, e gli permise di uscire. Scese di corsa le scale, disturbando una coppia di anziani al secondo piano. Come sospettava, Johann Miller era fuori dal cancello del cortile posteriore, e guardava impaziente le finestre dell'ultimo piano.
-       Per la miseria Russ -  lo rimproverò l'amico -  ma dove diavolo ti eri cacciato?
-       Guarda, ti conviene tacere -  Johann aveva poca pazienza per natura, ed era molto invadente. E questo a Russell non piaceva per niente -  per colpa tua mio padre mi ha quasi beccato!
-       Non voleva che uscissi, non è vero?
-       Veramente mi aveva detto di non fare uscire neanche te -  Russell aveva il fiatone, le vene del collo gonfie di tensione -  ma io ti conosco troppo bene, non mi avresti mai dato retta. Comunque non mi dispiace mettere da parte le regole.
-       Così ti voglio, fratello -  esclamò Johann, contento che il suo amico capisse al volo il suo punto di vista -  per fortuna il nostro decoder si è rotto: ho fatto appena in tempo a buttare via il giornale prima che rincasasse il fidanzato di mamma.
Ridacchiando, i due ragazzi si avviarono verso Lincoln Avenue, dove c'era la fermata dell'autobus più vicina. I grandi abbaglianti non tardarono ad apparire all'inizio della via. A bordo c'era ben poca gente, e Russell e Johann si sedettero accanto all'uscita posteriore, parlottando sottovoce:
-       Sai qualcosa di più su quel casino che c'è stato in Vegher Street? -  chiese curioso Johann.
-       Non molto, mio padre dice che ci sono dei giri strani attorno al "Saint Martinì" -  rispose vago Russell -  denaro sporco, roba, cose del genere...
-       Speriamo che non gli rompano i coglioni più di tanto -  commentò l'altro -  dopotutto gli Splinder sono gli unici che fanno bene il loro mestiere. Diciamoci la verità, Russ, quale altro locale è così ben fornito di ispirazioni e novità?
-       Nessuno -  rispose Russell, mentre il pullman imboccava Vegher Street -  nessun posto è come il "Saint Martinì".
L'insegna colorata del pub, gestito dalla famiglia Splinder ormai da cinquant'anni, si trovava a tre quarti della strada. Tutt'intorno al palazzo, per un raggio di circa trecento metri, sembrava di essere in un quartiere alla moda di Parigi: le prostitute si tenevano alla larga, Johnny Page vendeva le sue vettovaglie su una pericolante, ma pittoresca bancarella e decine di negozietti di artigianato rallegravano Vegher Street e Blue Avenue, la più grande via dei quartieri degli immigrati. I due amici lo raggiunsero. Ralph, un universitario al terzo anno, aprì loro la porta. Johann lo salutò allegramente: era il secondogenito degli Splinder, e conosceva Miller dai tempi del liceo. Il locale era ben illuminato da cinque lampadari di carta rossa, le pareti erano decorate da manifesti e poster di Che Guevara e di Einstein, le finestre erano mosaici fantasia dai mille colori. La stanza era un parallelepipedo stretto e lungo: di fronte alla porta d'ingresso c'era un grande bancone d'ebano, dove Nora Splinder serviva la birra nei bicchieri di plastica, poi, verso sinistra c'erano piccoli tavoli tondi. Infondo, contro la parete comunicante con una pasticceria, un gruppo metal intratteneva il pubblico, ragazzi seduti sul parquet. Russell si guardò intorno: nonostante il dissuasivo articolo sul “New York Times, non c'era meno gente del solito. Le sorelle Lottie e Jen Splinder si prendevano una pausa dal lavoro, appoggiate al muro con una gassosa in mano. Russell andò a prendersi una Coca-Cola Zero, mentre Johann zuccherava a non finire il suo cocktail alla frutta. Poi entrambi si sedettero per terra, ascoltando le prime note di una ballata rock. La band sul palco era del Trentino Alto Adige: alle spalle del cantante, la bandiera italiana spiccava gigantesca. La scritta Celtic Mess circondava la faccia di un omino, con delle fiamme verdi per capelli. Una bella ragazza suonava il violino, poi finiva il pezzo e prendeva il flauto dolce. Il front man portava i capelli lunghi e cantava in un inglese perfetto. La loro musica era un concentrato di adrenalina, davano tutti l'impressione che non si sarebbero mai fermati. Rapito dal ritmo incalzante e dalle melodie spezzate e distorte delle chitarre, Russell non si accorse di quel che gli stava intorno. La canzone finì, il pubblicò era entusiasta. Il ragazzo si girò verso Miller per dirgli qualcosa, ma si bloccò: in fondo al tappeto di ragazzi, Auriane Johnson se ne stava in disparte. Guardava il soffitto, come se riuscisse a vedere la luna attraverso l'amianto sciupato e le tegole mancanti. Indossava un body bianco e i pantaloni della tuta grigio scuro, con un ciuffo di capelli castani libero dalla morsa del fermaglio. Russell bevve un goccio di birra dal bicchiere di Johann, mentre si chiedeva dove fosse stata quel pomeriggio durante la lezione di sua madre. Il pubblico mormorava mentre i Celtic Mess smontavano la loro attrezzatura. Sembravano tutti strani, solitamente parlavano ad alta voce, aprivano i loro cuori agli altri clienti di quel magico locale. Molto spesso gli Splinder salivano sul palco e facevano qualche battuta sulla società, oppure la buttavano in politica e scatenavano un comizio antifascista dei migliori; quella volta invece, la serata scemò in quell'atmosfera malsana, quasi falsa. La gente non si guardava nemmeno negli occhi, ognuno osservava qualcosa di invisibile agli altri. Russell mandò giù un'altro goccio, in bocca aveva un sapore amaro. Diverse ragazze accanto a Johann si guardavano intorno smarrite, pur restando inchiodate al suolo. Russell vuotò il bicchiere di plastica. Cominciava a sentirsi strano. Miller lo rimproverò agitando il bicchiere, ma Russell non distinse le sue parole dal brusio di sottofondo. Non riusciva a tenere gli occhi aperti, come se avesse ingerito troppi barbiturici. Ma Russell era allergico ai tranquillanti, sin da piccolo, quando gli venivano gli attacchi di pianto. Un bambino piccolo, con i capelli lunghi fino alle spalle e con pantaloncini a righe arancioni e rosa e un paio di ciabattine fuori moda, come tutto in quel posto, gli passò davanti. Ora Russell sentiva bene la sua voce:
-       Mamma, mamma, dove sei?
Il ragazzino andò verso la porta tagliafuoco, seguito da una fiumana di persone: avevano tutti una gran fretta di uscire da lì. Anche Johann e Russell provarono l'immediato impulso di scappare, e scapparono. Miller era già fuori, continuava a correre senza una meta, di fronte a lui vedeva il cielo sporcato dai fumi delle industrie. Russell era rimasto indietro, la testa piena di suoni che lo distraevano e lo chiamavano. Il bambino fricchettone riapparve al suo fianco. Ora erano sistemati in due file indiane, che pian piano uscivano dal "Saint Martinì". Il ragazzino lo guardò storto, o almeno a Russell parve che ce l'avesse con lui. Russell, sempre avanzando istintivamente verso l'uscita, fissò il bimbo. Il tempo si era come fermato, tanto che sembravano passate delle ore quando finalmente videro le luci dei lampioni nel viottolo lercio. Tutti i clienti del "Saint Martinì" si erano dispersi fuori dalla porta, si guardavano tutti nelle palle degli occhi senza capire cosa fosse successo.
Johann adocchiò Russell in mezzo alla calca: era sudato e si massaggiava le tempie per reprimere il dolore. Miller lo trascinò via. Russell si voltò a guardare i visi preoccupati di Nora Splinder e dei suoi figli. Poi vide il bambino di prima: aveva preso il bicchiere di plastica mezzo pieno del padre, e lo levò in alto, gridando forte nella confusione:
-       Alla salute!
Poi sparì nella mischia di gente indecisa se restare o tornarsene a casa.

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Capitolo 2
*** Sabato 25 Giugno ***


Russell socchiuse le palpebre nel buio della mansarda. Sentiva le lenzuola appiccicose, come se fossero state inzuppate nella melassa. Grossi goccioloni gli colavano sulle gote e sul collo. Il mal di testa era passato, ma Russell aveva tutti i muscoli addormentati. Non capiva ancora bene cosa fosse successo la sera prima. Claustrofobia di massa, avrebbe detto suo padre. Non ricordava niente, solo quella carica impazzita di persone impazienti di uscire dal locale. Provò a chiamare Johann Miller, ma aveva il cellulare spento. Guardò la sveglia digitale sul comodino, che proiettava l'ora sul tetto inclinato. Erano le otto meno cinque. Dal lucernario entrava un fascio soffuso dai lampioni per strada. Russell si vestì in fretta, e scese in cucina per preparare la colazione. I suoi genitori erano ancora a letto. Kate era rimasta a dormire dai nonni a Brooklyn. Russell decise di ascoltare i messaggi rimasti in segreteria. Aprì la dispensa e prese i cereali. Ascoltò i primi messaggi: erano gli zii di Baltimora che chiamavano per venire da loro il week-end seguente. Papà ha una riunione il prossimo sabato, dovranno rimandare la loro visita, pensò Russell.
Tuffò i Cornflakes nel latte al cioccolato, e iniziò a mangiare con calma. In sottofondo c'era un pezzo di Miles Davis. Il giornale, infilato dalla portinaia del Peace Building attraverso la buca delle lettere era sul tavolo accanto alla tazza. I titoli nero su bianco del “New York Times”gli saltavano continuamente agli occhi ogni volta che smetteva di mangiare per leggerli. Si stupiva sempre di come le cose trovassero sempre il modo di peggiorare. In piccolo, in fondo agli articoli di cronaca nera, un'immagine amatoriale di Vegher Street mostrava la mischia della notte prima. Una microscopica colonna di dati, incollati da internet all'ultimo momento, parlava più o meno fedelmente dell'accaduto. Russell notò la sottile ironia di Nik Nalcos nelle parole dell'articolo, e provò un immenso sollievo leggendo finalmente il nome dell'amico blogger. Almeno quell'evento inspiegabile era stato narrato da un assiduo frequentatore del pub. Attacco di panico di massa, lo definiva Nalcos. Ipotesi plausibile, non sarebbe stato difficile mettere a tacere le voci. Ma non c'era niente di vergognoso da nascondere. Russell ci rifletté un po' su: potranno parlare all'infinito di quello che è successo, la gente continuerà ad andare al "Saint Martinì".
Russell mise la tazza della colazione nel lavandino, prese una mentina ed uscì. Robinson Avenue era riscaldata dal cerchio di fuoco che sorgeva da dietro il supermercato Bridge. La luce tenue che illuminava le strade deserte era piacevole. Con lo zaino sulle spalle e le mani in tasca, Russell sembrava uno studente di ritorno dall'università. Passò da un chiosco di giornali a comprare “Underground”, un mensile poco diffuso dedicato alle nuove culture e alla musica non commerciale. Accompagnato dall'odore di carta stampata e inchiostro, Russell andò verso il numero cinque di Lincoln Avenue, al circolo "Tobias". Dopo essere andati al "Saint Martinì", lui e Johann Miller si trovavano sempre là. Voleva capire cos'era successo. La verità è che non sapeva a chi dare retta, a Nik Nalcos del “New York Times” o a suo padre. Camminava a passo svelto lungo un filare di cipressi in Jinsey Road, guardando con ammirazione le composizioni floreali delle villette a schiera che incontrava. A pochi metri da lui una porta si aprì con un tenue cigolio. Ne uscì una ragazzina non molto alta, con i capelli castani tagliati a caschetto sotto le orecchie. Portava in braccio una bassotta. Russell riconobbe Stefany Field. La ragazza si sistemò la borsetta sulla spalla e accarezzò la cagnolina, mettendola a terra. Chiuse a chiave la porta di casa, poi si accorse di Russell fermo vicino al cancelletto. La bassotta scodinzolava sui gradini di pietra.
-       Ciao -  lo salutò Stefany -  tu sei Russell Winston, giusto?
-       Si -  rispose lui -  siamo nello stesso corso di letteratura.
-       Forte -  Stefany era sempre allegra -  è un peccato non esserci conosciuti prima. Io stavo andando al "Tobias", vuoi venire con me?
-       A dir il vero -  rispose Russell gioioso -  dovevo trovarmi con un mio amico proprio lì, se vuoi ti accompagno.
-       Bene, così parliamo un po'.
Si incamminarono fianco a fianco lungo il viale, sovrastati dalle case abbagliate dai raggi del sole. Mathilde, la bassotta di Stefany, trotterellava davanti a loro. Russell si sentiva quasi in imbarazzo: non le era mai stato così vicino. Stefany Field era molto più bassa di lui, indossava un abitino di viscosa viola e dei pantacollant bianchi. All'altezza della scapola sinistra aveva una spilla dei Bad Religion. Era diversa da come l'aveva sempre vista a scuola, sembrava più spontanea, ancora più sorridente. Una finta extention rosa fluo le ornava il capo. Attorno al collo portava le cuffiette  bianche dell'iPod, che le cadevano morbide sulle spalle. Arrivarono davanti al circolo: in un piccolo cortiletto e sul marciapiede erano sistemati i tavoli del bar. Di Johann Miller non c'era traccia. Facendo lo slalom tra le sedie, Russell e Stefany entrarono nell'edificio. Lo trovarono seduto davanti a un mazzo di carte e una bibita. Di fronte a lui una ragazza con i capelli ricci, nell'aspetto quasi identica a Stefany, si alzò per salutare.
-       Steffy -  disse con l'aria di chi la sa' lunga -  non dovevi rimanere a casa a studiare?
-       No, Emily -  rispose seccata Stefany -  ti sei dimenticata di portare a passeggio il cane, quindi l'ho dovuto fare io!
-       Mi dispiace -  aveva un ché di ironico nella voce -  era il mio turno? Che sbadata!
-       Spiritosa.
Russell guardava prima una poi l'altra: non credeva alle sue orecchie. Fu Johann a scuoterlo:
-       Sveglia amico! Che ti aspettavi, sono sorelle!
-       Gemelle -  intervenne Emily.
-       Purtroppo... -  furono le ultime parole di Stefany.
Russell approfittò del battibeccare delle due per prendere da parte l'amico. Miller capì immediatamente quello che stava per chiedergli. Non ne sapeva niente: era stato un momento di confusione, tutto qui. Russell ricordava solo il bimbo vestito alla neo-hippy, che diceva “Alla salute” prendendo il bicchiere del padre. Due parole e un gesto che vedeva dipinti davanti a sé, come un miraggio tremolante nell'aria calda di un deserto. Era stata un'allucinazione dovuta  all'alcool o lo aveva visto sul serio. E Auriane Johnson accanto all'ingresso? Russell voleva scoprire cosa era successo, il perché di quell'attacco di claustrofobia di massa. Tutti avevano avuto l'impulso di scappare dal "Saint Martinì".
-       Hai visto anche tu un bambino?
-       Quale bambino?
-       Era vestito in modo strano, forse era figlio di qualche fricchettone dei quartieri etnici.
-       Non mi pare -  Johann non sembrava illuminato da quella precisazione -  no, non l'ho visto. Ma perché me lo chiedi?
-       Ah, lascia stare -  Russell era pensieroso -  che mi dici di Emily Field, lei c'è mai stata in Blue Avenue?
-       Non molte volte, che io sappia, ma l'altra gemella -  rispose Miller guardando con la coda dell'occhio le ragazze -  ha un'amica vicino ad Harlem. Frequenta un club hard rock, non mi ricordo come si chiama...
-       Il “Bad People Bar” -  Stefany guardava Russell da sopra la spalla di Johann.
Russell sapeva bene di cosa si stava parlando: lui andava là prima di scoprire il “Saint Martinì”. Era un locale aperto da un disk jockey con la mania per i flash mob. Un pazzo, diceva qualcuno: Neddy Blake. Russell aveva voglia di tornarci, di cambiare un po' aria: era da così tanto tempo che non metteva su' un disco degli Aerosmith.
-       Sentite, siete libere stasera?
-       Si -  rispose Emily, addentando un bombolone alla crema -  avresti qualcosa da fare tutti assieme?
-       Potremmo andare in Blue Avenue...
-       Forte -  lo interruppe scocciata Emily -  così dovremo sorbirci mia sorella che parla di Stephen Tyler.
-       Ma se sto' sempre zitta! -  protestò Stefany.
Emily stava per ribattere, ma Russell intervenne in aiuto dell'amica:
-       Insomma Emily, piantala! E poi si può sapere cos'ha che non va Stephen Tyler?
-       Niente, niente -  Emily sapeva di essere l'unica che andava pazza per i Jonas Brothers -  allora, tutti al “Bad People Bar”?
Erano passate le cinque del pomeriggio quando Russell e Johann uscirono dal circolo, mezzi sbronzi e allegri. Con la faccia annoiata, Russell guardò l'ora: avrebbe già dovuto essere in teatro. Salutò frettolosamente Johann e andò a casa a prendere i fogli e i pastelli a cera. In teatro la lezione era già iniziata da quindici minuti, ma Madame Louis non si accorse del suo ritardo, e presto Russell capì il perché. Infatti, in fila con le altre alla sbarra e riflessa nello specchio in tutta la sua grazia, Auriane si esercitava nei piegamenti. Perrine Louis era raggiante, contenta che la sua migliore allieva, nonché sua figlia, fosse tornata. Non si poteva dire lo stesso di Auriane: mentre la ritraeva nei suoi movimenti fluidi, Russell si rese conto che il suo viso era percorso da una qualche inquietudine. Si guardò bene dal disegnare ciò, inventandosi un sorriso sognante. Alla fine della lezione, corse via in tutta fretta, lasciando lo schizzo di Auriane accanto alla borsa di Madame Louis. Si rintanò come un ratto in camera sua. Aprì l'armadio: la giacca che aveva usato la sera prima era buttata sul fondo polveroso. Prese un paio di jeans chiari e una maglioncino di cotone a righe. Non ebbe difficoltà a scegliere le scarpe: ne aveva solo due, oltre alle quelle vecchie a punta di nonno Jack. Era stanco, non era nemmeno sicuro di aver fatto un ritratto decente di Auriane. Guardò la vecchia pendola appesa al muro, poi impostò la sveglia: aveva tre quarti d'ora di tempo per riposarsi un po'. Ne approfittò per rimuginare sulla giornata: chi l'avrebbe mai detto che sarebbe andato al "Tobias" insieme ad Stefany Field, la prima e unica ragazza che gli fosse mai piaciuta? E quella sera l'avrebbe rivista in uno dei più famosi locali di musica anni ottanta. Parlare con lei era molto meglio che guardarla bere il succo d'ananas alla mensa del liceo. I suoi pensieri si mischiarono alla suspense del racconto horror che stava leggendo.
La sveglia lo fece sobbalzare. Il tempo passa così velocemente quando si pensa a una donna?, si chiese. Russell posò il libro sul comodino: Stephen King gli teneva sempre compagnia, quando Johann era in punizione. Quella volta non ci furono problemi, e nessuno si accorse della sua uscita. Cinque minuti dopo era alla fermata dell'autobus. Le gemelle erano già lì, sedute sulla panchina sotto la tettoia. Emily indossava pantaloncini al ginocchio e una camicetta blu con tante paillette. Stefany era vestita con un completo nero un po' retrò, e un giubbotto di pelle celeste, dello stesso colore della calze, che si vedevano spuntare dalla gonna ricamata d'azzurro. Entrambe avevano un fiocchetto viola nei capelli.
-       Ciao! -  Emily gli venne incontro con entusiasmo, avrebbe potuto saltargli addosso.
-       Ciao, siete qui da molto? -  chiese Russell, osservando Stefany che gli sorrideva vicino alla sorella.
-       No -  Emily aveva un'espressione furba, in parte sgradevole -  Steffy non vedeva l'ora che arrivassi...
Stefany fece roteare in alto gli occhi verde acqua: Emily era davvero insopportabile, a volte. L'ultimo autobus per Vegher Street passò pochi istanti dopo. Sconcertato, Russell dovette notare la desolazione che aleggiava al suo interno, mentre proseguiva verso il "Saint Martinì" senza fermarsi. L'autista sbadigliò, tutt'intorno il cupo, triste suono del nulla. Le gemelle Field abbassarono la testa, quasi in segno di lutto. Il tamburellare disordinato di un paio di sneakers. Johann Miller arrivò correndo, proprio mentre il loro pullman stava per fermarsi. Russell era abituato a vedere l'autobus del "Bad People Bar" arrivare vuoto, ma rimase interdetto: già una ventina di giovani avevano preso posto in fondo al mezzo, e insieme a loro salì un nutrito gruppo di dj techno. Stefany e Emily si presero a gomitate per l'unico posto a sedere rimasto libero; alla fine glielo prese Miller.
-       Fra i due litiganti, il terzo gode! -  dichiarò trionfante.
-       State tranquille -  cercò di mediare Russell, guardando storto Johann -  siamo quasi arrivati.
In pochi minuti il pullman si arrestò, riversando in Blue Avenue una fiumana di ragazzi. Una volta sul marciapiede orientale, i quattro amici poterono notare le diverse tribù che popolavano i quartieri etnici di New York. Ce n'era davvero per tutti i gusti: diversi negozi di musica punk, grandi magazzini gestiti da cinesi dove i paninari si davano appuntamento, colorati bazar per i neo- hippy. Inoltre si potevano vedere gli striscioni artigianali di qualche skinhead di passaggio e il cupo cartello di una discoteca dark aperta di recente. Russell non si sarebbe mai aspettato un così radicale cambiamento. Infatti, nei due anni durante i quali non aveva fatto visita a quella parte della city, il posto si era colorato, il commercio aveva messo su radici e ora i gangster si tuffavano nelle tasche di chi si giocava lo stipendio nei casinò. Il “Bad People Bar” era uno di quelli. Nato dal nulla, era diventato in pochi anni un bel giro di affari per Neddy Blake. Ci credeva, aveva ingrandito e amato il suo locale come un figlio: ora era uno dei più ricchi imprenditori di Manhattan, non si occupava più di mettere su i dischi in vinile. Ma non aveva abbandonato il pub: ogni sera era lì, a chiacchierare con i clienti abituali, inspirando l'aria di ciò che aveva creato. Russell provò una groppo allo stomaco, quando si ritrovò nell'ampia locale. Era diverso da come se lo ricordava: c'era più personale, le pareti avevano perso colore, le luci viola rendevano un'atmosfera soft e fuori dal tempo. La musica era alta, tutti i tavoli erano occupati. Stefany Field era davanti a tutti e gli altri facevano fatica a starle dietro, mentre furba sgusciava tra le persone che si litigavano le sedie. Dall'alto dei suoi centottantaquattro centimetri, Russell vedeva la postazione del dj, la consolle, le ragazze immagine che ballavano snodate sui loro cubi. Johann e Russell si fermarono a guardarle. Avevano visto queste creature della notte, senza vergogna solo le rare volte che erano entrati nelle discoteche del centro della city. Queste non erano proprio cubiste: non erano svestite, né troppo truccate, né provocanti. Ballerine. Erano solo ballerine. Guardavano fisse i loro piedi, concentrate sui loro movimenti: si capiva che non erano lì per farsi guardare. Neddy Blake non le pagava per questo. Ed eccolo lì, il padrone, appollaiato dietro al mixer. Russell e Johann raggiunsero le gemelle sotto i cubi. Il volume della voce di Stephen Tyler era assordante. Stefany urlava a Blake, lui le rispondeva, ma nessun'altro sentiva le loro parole. Poi le luci si abbassarono e gli Aerosmith cominciarono a raccontare una ballata più dolce. Stefany si illuminò quando udì le prime note di Angel. Vincendo la timidezza, Russell la invitò a ballare. Emily guardò per qualche attimo la sorella sussurrare la melodia all'orecchio di Russell, poi afferrò Miller per il bavero e lo costrinse a seguire i suoi passi. Russell guardò l'amico che prendeva pieno di imbarazzo i fianchi della ragazza, ben sapendo che Emily non aveva nessun interesse verso di lui. Lo aveva fatto solo perché Stefany stava ballando con Russell, e non voleva essere da meno. Era tutto perfetto. Tutto era cambiato in meglio. Ma c'era qualcosa che turbava Russell Winston. Era la grande folla che non ascoltava la canzone, i ragazzi che seguivano altri ritmi, le cameriere disorientate che davano l'impressione di guardarsi sempre alle spalle, anche quando prendevano le ordinazioni. Erano quei fragili calici pieni di alcol, quell'aria rigida che odorava di pulito. Troppo pulito, pensava Russell, osservando l'espressione controllata delle ballerine. La lentezza con cui venivano mixati i dischi lo innervosiva. Era come se tutta quella gente si sentisse controllata, spiata, trattenuta. Russell si sentiva a disagio: lui e Stefany erano chiusi in una bolla di serenità in mezzo al caos. Per un momento Russell pensò alla sera prima al "Saint Martinì", rivivendo quegli istanti di panico immotivato, poi guardò giù: Stefany come addormentata poggiava la testa sul suo petto. Russell chiuse gli occhi: qualcuno voleva farci andar via dal "Saint Martinì", e noi siamo scappati. Ora siamo tutti ammassati qui, pensò mentre la musica cessava. Si vergognava di essere fuggito pure lui, di stare lì insieme a loro. Di essere con la piccola Stefany Field no.
La serata passò velocemente. All'una e mezza di notte Johann Miller era completamente fatto, pieno di alcol fino agli occhi. Da tempo le gemelle avevano smesso si ballare: Emily spiava la sorella attraverso il bicchiere di pepsi mezzo pieno, mentre Stefany canticchiava le strofe di una canzone dei Blur, facendo ondeggiare la testa. Un tonfo le fece sobbalzare: Russell aveva adagiato Johann su una sedie accanto al loro tavolo. La maggior parte dei ragazzi stava sloggiando, accalcandosi sotto la fermata dell'autobus. L'ultima linea per Lincoln Avenue sarebbe passata dopo mezz'ora. Nel locale era rimasto Neddy Blake, appoggiato alla porta delle cucine, che controllava a vista le cameriere. Un uomo vestito di grigio, con la schiena piegata su un pacco di fogli raccolti sul bancone, sorseggiava rumorosamente una limonata. Russell riconobbe gli occhiali neri di Nik Nalcos, il giornalista. Lo aveva visto altre volte, quando ancora il "Saint Martinì" era un piccolo locale di borgata: c'era bisogno di tanta pubblicità, e a questo ci aveva pensato lui. Metteva una buona parola su tutto, aveva fatto un eccellente lavoro di propaganda. Russell e Johann seguivano il suo blog, gli piaceva il suo modo provocatorio di parlare di politica. Perso nei suoi ricordi, Russell non si rese conto degli spostamenti di Johann. Era appoggiato al bancone, e tentava di conversare con Blake. Neddy non gli dava retta, scrutava invece di sottecchi il giornalista. Russell andò a riprendersi lo sbronzo:
-       Andiamo, ubriacone -  gli disse dandogli un'amichevole pacca sulla spalla -  fra poco passa l'ultimo pullman.
-       Non vedi che sto' parlando -  aveva un tono di voce pacato: aveva fatto un pisolino ed era tornato in sé -  A proposito: Neddy, questo è Russell Winston, veniva qui prima che nascesse il "Saint Martinì".
Russell gli porse la mano rivolgendogli un sorriso, tentando di mascherare la poca fiducia che nutriva verso quell'uomo. Nemmeno Neddy Blake si comportò in modo naturale: si era come irrigidito sentendo il nome del pub di Vegher Street, e la sua stretta di mano apparve molto rigida a Russell. Non gli stava simpatico, lo aveva capito immediatamente.
-       Piacere di conoscerti, Russell -  mentì Blake -  non ricordo di averti mai visto nel mio locale, prima d'ora...
-       Venivo solo il venerdì sera -  Russell era imbarazzato -  ma è stato fino a due fa, poi...
-       Capisco -  sembrava molto arrabbiato -  bene ragazzi, se volete scusarmi dovrei chiudere...
Russell e Johann si diressero verso la porta. Emily stava rimproverando Stefany per qualcosa, mentre cercava nella borsetta. I due amici rimasero accanto all'entrata, mentre Blake finiva una birra offertagli dall'ultima barista rimasta nel pub. Mentre stava con lo sguardo perso nella confusione della borsa di Emily, Russell sentì la porta sbattere. Guardò il bancone: Nik Nalcos se n'era andato. Si stupì di non aver ricevuto nemmeno un saluto. Neddy Blake guardava la ragazza dietro al bancone, che gli dava le spalle pulendo la macchina del caffè. Era un uomo basso di statura, magrissimo e con i capelli lisci e i baffi giallognoli. Indossava una tuta bianca profilata in verde e una dozzina di anelli e braccialetti argentati. Ora Emily aveva preso d'assalto la borsa della sorella, nella disperata ricerca di un cellulare, che squillava incessantemente. La barista prese dal piano della caffetteria una grande borsa da palestra e uscì senza salutare nessuno. Quando gli passò vicino, a Russell parve il riflesso di un fantasma: aveva il volto di Auriane Johnson. Più svelta della luce, la ragazza si precipitò in strada, come se avesse paura di essere vista. Russell buttò la testa fuori, per vederla svanire tra la folla sotto il pannello degli orari dell'autobus.

Il cellulare smise di suonare proprio quando Emily lo afferrò, precipitandosi insieme agli altri verso i vetri aperti della corriera.

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Capitolo 3
*** Lunedì 27 Giugno ***


Alle tre e mezzo, Russell era seduto di fianco alla fila di attaccapanni, sul parquet caldo del palcoscenico. Scarabocchiava con la matita il profilo dei Lottie e Jen Splinder, appoggiate al muro portante del "Saint Martinì", con un bicchiere di plastica in mano. Dipingere i ricordi sgradevoli, o parte di essi, lo aiutava a svuotare la mente, a riflettere meglio. Voleva scoprire cos'era realmente accaduto quella sera, quando una forza misteriosa aveva svuotato il "Saint Martinì" alle dieci e mezza. Troppo presto per tornarsene a casa, quando hai meno di vent'anni non desideri altro che lo sballo duri all'infinito, pensava. Era sempre esagerato nelle sue analisi sugli adolescenti, a volte generalizzava. Un po' di ragione ce l'aveva, però. Poi c'era stata la serata al "Bad People Bar", quella strana atmosfera, tanto controllata da stonare con il contesto. Un denominatore comune c'era: lo stesso giorno, nello stesso locale dove era capitato lui, c'era finita anche Auriane Johnson. Ricordò anche la sua lezione saltata, la preoccupazione di Madame Louis. Nella sua testa rivedeva gli occhi celesti di Neddy Blake a sentir parlare del "Saint Martinì". Gli mancavano alcuni tasselli del mosaico, e la musica di Debussy non lo aiutava a concentrarsi. Madame Louis passava in rassegna le sue allieve, tutte allineate e composte alla sbarra. Sembravano soldatesse davanti al sergente, in un campo di addestramento. Russell pensava ad altro. Uno squillo nella tasca dei jeans. Russell non era abituato a ricevere messaggi. Controllò il numero: non lo conosceva. Titubante, lesse le poche righe. Sembrava quasi un telegramma, scritto da una persona preoccupata, che andava di corsa:
“ Ho informazioni, so' cosa cerchi, vieni stasera al "Saint Martinì”. Nalcos”.
Il vecchio Nik l'aveva quindi riconosciuto, la due sere prima. Non si è dimenticato di me, pensò tutto contento. La puntina del giradischi saltò, e Madame Louis cambiò compositore. Mozart accompagnò le ballerine per altri venti minuti, mentre Russell indagava nello sguardo spaventato di Auriane Johnson. Ripulì il cartoncino dai residui delle cancellature. Richiuse l'album da disegno e attese la fine della lezione. Auriane finì di volteggiare per ultima. Prese un asciugamano e sistemò i dischi di musica classica di sua madre in uno zainetto.
-       Auriane...
Nessuna risposta.
-       Perché non sei venuta venerdì?
-       Non sono affari tuoi, Russell -  era molto tesa.
-       Tua madre si è preoccupata molto, sei sicura di stare bene?
-       Si, si -  rispose Auriane, abbassando lo sguardo -  e poi tu non sei mica mio padre!
-       E che centra -  protestò Russell, che iniziava a scaldarsi -  sei stata sia al “Saint Martinì” che al “Bad People Bar”, mi vuoi spiegare che sta' succedendo?
-       Non capisco a cosa tu ti riferisca -  Auriane cercava di cavarsela fingendo ignoranza.
-       Qualcuno ti impedisce di parlarne? Centra con la sparatoria, vero?
Con i pugno sui fianchi, la ragazza lo guardò dritto negli occhi:
-       Questo non lo so, ma centra con il bordello dell'altra sera.
-       Cosa? -  Russell ci capiva poco.
-       Ascolta, non posso dirti niente. Ho le mani legate, Russell. Non voglio trascinarti in questa situazione. E' una cosa troppo grande per noi.
Russell era arrabbiato. Tutti continuavano a ripeterli che era troppo giovane per certe cose, che aveva tutta la vita davanti. , pensava ora Russell,ho tutta la vita davanti per fare quello che è giusto. Ora è tempo di sbagliare.
Auriane si avviò verso lo spogliatoio delle ragazze. Russell non la trattenne, ma non rinunciò a ottenere da lei un aiuto in questa faccenda:
-       Almeno vieni al “Saint Martinì”, stasera.
Nessuna risposta. Russell non era convinto che accettasse l'invito, salutò Madame Louis e si incamminò sulla strada di casa. Rilesse e rilesse il messaggio di Nik Nalcos più e più volte, mentre i lampioni iniziavano ad accendersi, un dopo l'altro, in Redford Road. In uno squallido palazzo a quattro piani tormentato da strilli e dalla puzza di fritto, abitava Johann Miller.
Russell si pulì i piedi sullo straccio fuori dalla porta ed entrò in un bilocale con bagno dai colori cupi e tristi. Miller era in tuta e ciabatte, dietro di lui il fidanzato di sua madre guardava una partita di hockey alla televisione, buttato sul divano rovinato dalle unghie del gatto. Eliza Bernard Miller era all'opera davanti ad una vecchia cuciniera di latta bianca, che emetteva uno strano ronzio quando il fuoco scoppiettava al suo interno. La donna non gli rivolse la parola, ma Russell era abituato ai suoi silenzi improvvisi. Era sempre un tantino in imbarazzo quando faceva visita a Johann e, anche se cercava di nasconderlo, l'amico lo aveva capito molto tempo prima. Fermi nell'entrata, sentirono Samuel Fry russare, sovrastando gli applausi dei tifosi provenienti dal televisore. Era un uomo tarchiato e robusto, che aveva avuto problemi con la giustizia e due matrimoni falliti.
-       Non capisco come abbia fatto a conquistare mamma... -  sussurrò piano Johann all'orecchio di Russell.
-       Sarà almeno la centomillesima volta che me lo ripeti -  disse lui scherzando.
-       Non ti ho detto l'ultima -  continuò Johann, avido di pettegolezzi e contento di fare comunella con il suo migliore amico -  l'hanno preso a lavorare da Neddy Blake!
-       Che fortuna -  Russell non ne era tanto sicuro, in verità -  e che cosa fa per lui?
-       Si occupa del rifornimento dei magazzini.
Delle urla dal piano di sopra. Istintivamente, Johann buttò un occhio ai fornelli: sua madre cantava Liza Minelli. Russell gli toccò con un dito la spalla: un solco ancora caldo era rimasto sul divano, del signor Fry nessuna traccia. I due si guardarono negli occhi, terrorizzati. Poi, il silenzio. La signora Bernard Miller taceva e cucinava a testa bassa. Johann trascinò Russell in camera sua. La confusione regnava sovrana: il letto era sfatto, i vestiti buttati nell'armadio. Il tavolo era ingombro di carte, libri, penne e fotografie. Il ragazzo si buttò su una poltroncina di pezza messa in un angolo, poi disse:
-       In verità, sono successe cose strane ultimamente. E penso che abbia a che fare con la sparatoria.
-       Vai avanti -  lo incalzò Russell -  sono curiosissimo.
-       Bene -  si accinse a continuare Johann, un po' in ansia -  è successo tutto poche settimane fa, quando era in vacanza con i tuoi. Qualche giorno prima del cosiddetto “avvertimento”, ho iniziato a notare comportamenti strani nel ragazzo di mamma. Rincasava più tardi del solito, non parlava, chiudeva ermeticamente tutte le porte. Poi qui intorno girava spesso un'auto violacea, come quella di Blake. Un giorno che uscivo per andare in cartolibreria ho intravisto quell'auto ferma all'angolo. Non ho visto chi la guidava, ma di fianco c'era Fry. Poi ho visto arrivare una ragazza -  ci pensò un po' -  Si, era proprio quella tua amica che fa danza...
-       Auriane Johnson?! -  chiese Russell. Era concentratissimo e sudava tantissimo dalla fronte.
-       Si, si lei. E' salita in macchina con loro, ma non sembrava lo facesse di sua volontà...
-       In che direzione andavano? -  lo interruppe per la terza volta Russell.
-       Verso Harlem. Li ho seguiti in bici, hanno curvato all'ultimo momento verso Blue Avenue.
-       Quindi potrebbero essere andati sia al “Saint Martinì” che al “Bad People Bar”. Auriane potrebbe avere visto qualcosa che non doveva, o trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Forse la ricattano...
Si udì di nuovo un grido, soffocato e basso. Due paia di gambe che scendevano di corsa le scale del palazzo.
I pensieri di Russell era in subbuglio. Chissà cosa aveva combinato Auriane? Nella stanza tutto girava in tondo. Johann e Russell riflettevano. A Russell sembrava di trovarsi in un mare in tempesta, dove nulla era chiaro, niente apparteneva a nessuno, tutto era di tutti.
Quella era la filosofia di Neddy Blake.
 
Un'ora dopo, lontano, in uno degli uffici commerciali del Karbugs Building, Samuel Fry e Gerard Kipling aspettavano. Le loro sedie pieghevoli erano voltate verso la grande vetrata che dava sulla strada. Neddy Blake guardava le auto mangiare l'asfalto, come formiche che tornano alla colonia. Girava un cucchiaio nel caffè. La poltrona dietro alla scrivania girò su se stessa, rivelando in suo volto contorto dal pensare. Aveva i capelli unti, sbiaditi.
-       Dobbiamo liberarci della ragazza -  disse guardando il soffitto -  ma senza fare troppo rumore. Se qualcuno dovesse insospettirsi, tutto andrebbe a monte... Il locale, le vendite, tutto.
-       Lei potrebbe già aver cantato -  ipotizzò Kipling. Quelli non erano scagnozzi stupidi che girano intorno ad un capo intelligente, erano più o meno alla pari -  quel suo amichetto potrebbe essersi fatto strane idee...
-       Non credo -  spiegò Blake, muovendo a scatti le pupille -  le sta' a cuore la famiglia, ed è convinta che abbiamo i suoi contanti telefonici e gli indirizzi. E' terrorizzata. Ce l'abbiamo in pugno.
Blake si isolò nuovamente nelle sue fantasie. Fry e Kipling uscirono dalla stanza senza salutare.
In una specie di sala d'aspetto, che si apriva sul marciapiede formicolanti di gente, Fry si appoggiò alla macchinetta del caffè. Gerard Kipling stava davanti a lui, strillando al cellulare con la moglie. In mano teneva una lattina di Sprite. Kipling riappese con uno sbuffo seccato, l'altro lo guardava sogghignando, perché lui non aveva quei problemi coniugali.
-       Ci possiamo ritenere liberi per il pomeriggio?
-       Penso di sì, Samuel -  gli rispose, senza immaginare ciò che Fry aveva in mente -  Perché?
-       Oh, niente -  Fry aveva un sorrisetto sgradevole -  potremmo fare visita alla signorina...
Samuel Fry si aspettava di vedere un'espressione divertita dipinta sulla faccia del collega, ma Kipling abbassò lo sguardo. Sembrava a disagio.
-       Ma dobbiamo proprio farlo di nuovo? Non hai sentito il signor Blake, ci ha detto di non dare nell'occhio! Meglio non esagerare troppo.
Fry odiava l'atteggiamento di sottomissione che l'amico aveva nei confronti del loro capo. Lui non lo considerava neanche un datore di lavoro, per lui quello era solo un hobby un po' morboso. In quanto alla paga rimaneva un impiego a tutti gli effetti. Però non voleva che la sua ostilità verso Blake fosse palese:
-       Ascolta Gerard -  gli rispose l'altro irritato -  per poco non ci faceva licenziare, quella piccola ficcanaso. Insomma, lo sappiamo tutti e due che poteva rovinarci l'affare.
Non ci volle molto per raggiungere Redford Road. I passi dei due sui gradini rosi dall'umidità destarono Russell dalle sue deduzioni. Il ragazzo si guardò intorno, rendendosi conto di aver perso la cognizione del tempo. Johann si era assopito sul suo letto, tra piumoni e riviste porno. Il disordine sembrava un macabro disegno futurista, illuminato dal sole basso sulla superficie dell'Hudson. Qualcuno corse giù per la rampa delle scale. Il fracasso di qualcosa che cadeva al piano di sopra. Russell svegliò bruscamente Johann, che si lamentò mugolando. Un altro botto sopra le loro teste. Scuotendo l'amico per un braccio, Russell chiese:
-       Chi sta' all'ultimo piano?
-       Nessuno -  rispose Johann, ancora intontito dal pisolino -  è una specie di sgabuzzino comune: ci si trova praticamente di tutto.
Senza aggiungere altro, Russell incitò l'altro a seguirlo in soffitta. Una parte del mistero stava là, ne era certo. Salendo fecero una terribile confusione. Nonostante ciò, Russell distingueva dei rumori incerti e cauti provenire dalla mansarda. Per ultimo, arrivati a pochi metri dalla porta, sentirono il rumore di una finestra che veniva aperta di scatto. L'uscio era stato chiuso dall'interno, nella serratura mancava la chiave. Fu Johann a buttar giù la porta con una spallata. Dentro c'erano solo montagne di scatole, libri e giornali, vecchi abiti e giocattoli impolverati e rotti. Un telefono  degli anni cinquanta beige era stato attaccato alla corrente, il suo imballaggio buttato in un angolo. Russell vide un fermaglio per capelli abbandonato a terra. I ragazzi si guardarono intorno con circospezione, senza rivolgersi la parola, ma sapevano entrambi che quello che cercavano se ne era andato. La chiave della porta era sparita, così come quella di quello strano caso, scappata insieme 
a loro dal “Saint Martinì”. Una volta di più, Russell si chiese dove fosse Auriane Johnson.
Johann Miller non ci mise molto a prepararsi, e insieme a Russell Winston si avviò alla fermata dell'autobus. Trovarono le gemelle Field già a bordo, nell'ultima fila. Ridevano e scherzavano, e questo fece felice Russell. Finalmente vanno d'accordo, pensò sedendosi accanto a Stefany. Guardandola capì perché tutte due non erano salite in Lincoln Avenue: Stefany infatti indossava un abitino di merletto nero all'ultima moda, decorato con passamaneria celeste, comperato probabilmente nell'outlet “Dolce&Gabbana” vicino alla stazione delle corriere. Profumava ancora di cellofan. Russell trovò il coraggio di dirle che le stava benissimo. In cambio ricevette un bacio sulla guancia. Emily e Johann se ne accorsero e rimasero zitti per un bel po' di tempo, scambiandosi sorrisetti divertiti. Il pullman era vuoto e, giunti al “Saint Martinì”, si resero conto che anche là aleggiava l'ansia di chi era tornato, vergognandosi di essere scappato sotto l'ala protettrice di Neddy Blake. Il locale si era trasformato in una cosa molto simile al “Bad People Bar”. Anche qua la gente si sente spiata, ma al contrario che in Blue Avenue, sembra che sia spinta ad andarsene, pensò, anch'io sento l'impulso di uscire, proprio come l'altra volta...
Russell diede una rapida occhiata a Johann: lo sentì sibilare tra i denti “Che noia, mi piacerebbe tanto tornarmene da Blake”. Per fortuna, nel loro caso la compagnia di due ragazze che non erano mai entrate in quel posto li distraeva dalla voglia di darsela a gambe. Era una desiderio innato, quello di scappare. Tutto risaliva a quel maledetto venerdì sera.
Il gruppo musicale che suonava quella sera era composto da ragazzi sulla trentina. Il loro genere era un folk- rock strampalato, che si snodava tra armonie complicate e ghirigori da rococò.
Russell non si perse come al solito nelle canzoni. Spiava i gesti delle poche persone che occupavano il parquet, temendo di incappare in un altro fuggi fuggi generale. Johann guardava il contenitore trasparente di birra dorata, poi le tre monete che aveva in pugno. Niente alcool. Anche il resto della clientela non ne usufruì: Russell notò solo qualche tetra - pack di succo di frutta. Gli occhi gli caddero su Stefany, che si gustava un'aranciata fresca. Non impazziva per la musica, ma comunque era contenta di trovarsi lì, la vigilia del suo compleanno. Ne avrebbe compiuti quindici. Russell la vedeva così, dai lineamenti delicati come quelli un angelo, pestifera e unica. Poi vedeva la sua brutta faccia riflessa nel pavimento troppo lucido, e sentiva un groppo in gola. Sono solo un gran sfigato, pensò, guardando la sua immagine e aspettando la fine di quella pena, non mi vorrà mai. Però aveva voluto ballare con lui, le era piaciuto. E' solo pietà, pensò, mentre lo coglieva il sonno.
Rimase in un dormiveglia tormentato, gli strumenti diventati muti si muovevano in una danza sinuosa. Una mano ferma e calda gli si posò sulla spalla sinistra. Russell volse lo sguardo in quella direzione, con un'espressione di blanda protesta dipinta sul volto. Nik Nalcos gli sorrideva sotto la folta barba nera. Aveva i capelli scarmigliati di sempre, un taccuino gli spuntava dalla tasca delle bermuda. Il suo stile era inconfondibile, e Russell non ebbe difficoltà a ricordarsi del messaggio, nonostante fosse intontito.
-       Sei venuto...
-       Sì, devo parlarti subito.
Russell attirò l'attenzione di Johann, che salutò calorosamente il giornalista. Miller iniziò a fare domande senza capo né coda, mentre le gemelle ascoltavano incuriosite. Russell lo guardò storto, mettendolo a tacere.
-       Allora -  chiese a Nalcos tutto eccitato -  hai detto che sai cosa stiamo cercando...
-       Precisamente, ma non sarà piacevole da sentire...
-       Non importa -  lo interruppe Stefany, sfoggiando il suo sorriso più amichevole -  è tutta la vita che ci dicono solo stronzate...
-       Già -  proseguì Russell, che ormai non si stupiva più delle stranezze della ragazza -  anche se è una cosa brutta, l'importante è che tu non ci prenda per il culo.
-       Vai tranquillo, è la pura verità. Forse so' qualcosa a proposito della sparatoria di qualche settimana fa. Ero andato in Blue Avenue per alcune consegne, e mi è capitato di sentire la voce di Neddy Blake. Era dentro al suo locale, e parlava con un uomo in abito scuro. Forse era un manager, ma poteva anche essere un gangster...
-       Può darsi -  commentò Johann Miller, con fare da intenditore -  il “Bad People Bar” è cresciuto molto in poco tempo, qualche aiutino dalla mafia potrebbe esserci stato...
-       Probabile -  continuò Nik Nalcos, niente affatto infastidito dall'interruzione -  comunque ho sentito parte della conversazione, e mi pare di aver capito che c'è sempre stato dell'attrito tra gli Splinder e Blake. Insomma, i due locali si facevano concorrenza...
-       E scommetto che era il “Saint Martinì” ad avere la meglio, giusto? -  chiese sempre più entusiasta Russell.
-       Sì, e questo a Blake non piaceva per niente -  confermò Nik scuotendo il capo -  quello svitato non ha mai accettato le sconfitte. Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di non dover chiudere il “Bad People Bar”.
I ragazzi si guardarono nelle palle degli occhi, increduli. Questo spiegava gli spari in Vegher Street. Russell intravedeva la luce in fondo al tunnel:
-       Mio padre aveva ragione, si trattava di un avvertimento!
-       Ma come spieghi quella voglia di scappare che ci ha colpiti tutti? -  chiese Johann.
-       E' tutto collegato, ne sono certo -  Russell si sforzava di pensare in fretta -  ma manca ancora un passaggio. Sabato sera ho notato che molta gente che si trovava al “Saint Martinì” venerdì era al “Bad People Bar”. Come ha fatto Blake a farci sloggiare tutti e farci venire nel suo covo?
Russell era convinto che Auriane Johnson avesse la soluzione. Sapeva qualcosa che Blake voleva tenere segreta. Neddy aveva bisogno di certezze, e Auriane lo minacciava. Ma non potevano indovinare da soli il nesso tra la ballerina e la rivalità tra i due pub: avevano bisogno di lei. La musica andava avanti senza di loro, e i ragazzi erano daccapo.

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Capitolo 4
*** Martedì 28 Giugno ***


Il quindicesimo compleanno di Stefany Field iniziò con il sole. La ragazza frugò nei cassetti finché non trovò un vestito di mussola celeste e un diadema, di così squisita fattura che sembrava fatto di veri diamanti. Qualcuno bussò alla porta. La voce di sua madre le disse che Johann e Russell erano arrivati. Stefany guardò verso la finestra. Emily era tutta arrotolata nel lenzuolo leggero, ancora immersa nei suoi sogni infantili.
-       Svegliati -  le gridò facendola ruzzolare giù dal letto -  i ragazzi sono già in salotto.
-       Uhm... Cosa... Che ore sono -  chiese Emily massaggiandosi il bernoccolo che si era fatta sbattendo contro un piede della cassettiera -  che cos'è tutto 'sto casino?...
-       Sbrigati, Russell ha prenotato una visita al museo di storia naturale -  la scosse la sorella -  dovresti già essere pronta.
Emily si mise a sedere, appoggiando la schiena alla parete e infilandosi i vestiti che aveva preparato la sera prima, gettati ai piedi del letto. Guardava con aria furba la sorella, che si sistemava i capelli davanti allo specchio appeso alla porta. Immaginava i suoi pensieri, rivolti a Russell che aspettava fuori dalla stanza.
-       Allora ti piace... -  disse distrattamente afferrando una spazzola.
-       Tu dici?
-       Diciamo che si era capito da un pezzo che quello ti sbava dietro...
-       Chi, Russell?
-       E dai, Hilli. Non dirmi che caschi dalle nuvole.
-       Cosa vuoi che ti dica, ci stiamo conoscendo dopo un anno di scuola in cui non ci siamo mai parlati -  disse Stefany -  e devo dire che si, in un certo senso mi fa molta simpatia.
-   Sorella -  la guardò ridacchiando Emily -  quando la smetterai con questi giri di parole? Si vede       che sei cotta, tienilo a mente.
I colpi alla porta divennero più insistenti.
Russell Winston e Johann Miller si erano accomodati in salotto, rossi di imbarazzo sotto gli sguardi penetranti del signor Field e di sua moglie. Le gemelle avevano una casa molto grande e moderna, e Russell non faceva altro che guardarsi attorno. Seduto sul divano del salone, Johann ammazzava il tempo ammirando Jinsey Road, splendida sotto il sole beneaugurante. Un ombra incerta e opaca, stagliatasi improvvisamente su un cespuglio di rose bianche nel parco di fronte all’edificio, attirò la sua attenzione. Era un gruppetto di tre o quattro persone, che avanzavano a passo svelto verso il parco. Russell si sentì strattonare per il braccio, si volto per ricambiare con un manrovescio, ma rimase con il pugno sospeso a mezz’aria. C’era in effetti qualcosa di sospetto in quelle cinque persone( Johann contava ancora sulle dita delle mani): Erano messi in formazione, con una ragazza al centro, come se stessero svolgendo una missione segreta, oppure cancellando le tracce di un tremendo delitto. Russell decise per optare per la seconda probabilità, quella meno complicata da risolvere. Stefany e Emily spuntarono come margherite dal corridoio. Non capivano perché i due ragazzi avessero un aria tanto turbata: fatto sta che sembravano avere molta fretta. Una volta in strada, senza dire una parola, Russell afferrò Stefany per un braccio e si mise a correre attraverso il parco, senza perdere di vista il gruppetto di fuggitivi. Johann e Emily fecero una specie di gara andandogli dietro, finché non arrivarono all’imponente palazzo che ospitava il museo di storia naturale. Il manipolo di delinquenti, tra i quali Russell aveva individuato Samuel Fry e Auriane Johnson, entrò in un’ala antica, dove si teneva la mostra impressionista. I quattro amici attesero, sperando con tutto il cuore che l’ultimo della fila lasciasse maldestramente la porta socchiusa. Per qualche scherzo del destino non successe niente di interessante. Johann si avvicinò alla porta sul retro: era un pezzo di ferraglia attaccato al muro con dei chiodi, e bastò un calcio perché si aprisse, emettendo un guaito da cane bastonato. Emily decise di rimanere di guardia: gli adulti la spaventavano a morte, quando imbracciavano fucili.
-   Non preoccupatevi, se ne arrivano altri vi avviso io - disse spingendoli verso l’entrata.
Russell, Stefany e Johann si incamminarono lungo la galleria d’arte, senza prestare alcuna attenzione ai dipinti di Monet, Degas e Renoir. Per qualche istante sentirono solo il ticchettio dei loro passi sulle piastrelle lucide, Poi il tonfo di qualcosa che cadeva da un’altezza molto ridotta. Appiattendosi contro ad una parete, Russell buttò un occhio lungo nel tunnel adiacente.
Là dove i quadri finivano, Samuel Fry, Gerard Kipling e altri due uomini stavano aprendosi un varco, togliendo le mattonelle dal pavimento. Auriane era buttata in un angolo, con mani e piedi legati, e un bavaglio che la soffocava. Russell riuscì ad attirare la sua attenzione. Con il linguaggio dei sordomuti riuscì a spiegarle che andava tutto bene, che l’avrebbero tirata fuori dai guai.
Dopo un po’, Samuel Fry la sollevò e la calò con una corda nel buco. Gli scagnozzi di Blake si diedero una rapida occhiata intorno e sparirono a loro volta. Passarono non pochi minuti di tensione, aspettando che si liberasse la via. Mentre si calavano nel comignolo, precariamente aggrappati alle pietre sorgenti dal terreno, Russell percepiva la paura malcelata dei suoi compagni. Quando misero piede sulla lunga scia di cemento che percorreva in tutte le direzioni New York, con cinque milioni di chilometri di fognature abbandonate, anche Winston sentì l’ansia impadronirsi dei suoi nervi. Dietro di lui, come a volersi nascondere da occhi indiscreti, Stefany e Johann osservavano quel paesaggio irreale facendosi sempre più piccoli davanti a quella immensità.
In quel modo l’ombra di Neddy Blake avrebbe potuto invadere più o meno tutto lo stato. Stefany si attaccò a Russell come una sanguisuga. I due si guardarono negli occhi e iniziarono a camminare, sempre dritto. Passarono ore. I muscoli erano tesi e doloranti, ma la tenacia era dura come l’acciaio. Stefany camminava avanti, Russell era così stanco da avere un’aria quasi indifferente; Johann era in coda alla fila, ma poteva anche essersi perso, perché non si faceva sentire. Nell’oscurità, apparve un fioca luce sopra le loro teste. Poi il ciocco di qualcosa di duro che va a sbattere contro qualcosa di ancora più robusto. La testa di Johann aveva trovato la scala di un tombino. Furono fuori in un battibaleno, e si ritrovarono in Vegher Street, a due passi dal “Saint Martinì”. L’insegna fucsia accesa indicava che c’era qualcuno dentro. Si avvicinarono con cautela, ma era tutta fatica sprecata: infatti, irrompendo a sorpresa nel locale, scoprirono una desolazione inaspettata. Stefany curiosava e, poggiando l’orecchio ad una porta tagliafuoco scorrevole, sentì ripetuti mugolii.
-   Venite, qui dietro c’è qualcuno! - li chiamò.
Oltre la porta, il buio totale. Aguzzando la vista, Stefany intuì una presenza che si muoveva impacciata. Ciac, Johann aveva trovato l’interruttore della luce. E lì, con una caviglia incatenata alla gamba di un tavolo, con le corde vocali arrossate nel tentativo di urlare, Auriane Johnson li fissava con occhi imploranti, gonfi di lacrime. Johann, il primo a riprendersi dallo stupore, corse a liberarla. Appena le ebbe slacciato il fazzoletto che copriva la bocca, Auriane iniziò a singhiozzare. Pian piano, mentre i minuti volavano via senza che i nostri amici se ne accorgessero, raccontò l’accaduto:
-   Da circa tre settimane lavoravo al “Saint Martinì” come addetta ai magazzini. Il mio compito era controllare che tutto arrivasse in orario: la birra, i succhi, i biscotti per il the… - disse sempre piangendo - Doveva anche pagare i fornitori. Giovedì pomeriggio, sentì arrivare il camion delle consegne. Fuori faceva freddo, e il tizio mi disse di fare in fretta, che aveva altri giri da fare. Era arrivato in anticipo, quindi sono tornata nel locale per chiedere i soldi alla signora Splinder. Decisi di passare per il magazzino. Da dietro la porta ho sentito delle voci: ho aspettato che svanissero per entrare. Ad una prima occhiata non notai niente di strano, poi però mi accorsi che il cellofan che avvolgeva i contenitori delle bevande era fuori posto. C’erano dei fori in alto, e un po’ di birra era finita per terra. Ho capito subito che c’era qualcosa che non andava, ma nel locale non era rimasto nessuno da avvisare. Ho pagato il camionista di tasca mia e sono rimasta fino all’ora di chiusura. - Auriane continuò, calmandosi poco per volta - Verso le nove sono entrati in due, con i passamontagna e i giubbotti in pelle, e mi hanno minacciata, tenendomi lì fino alle tre del mattino. Al quel punto sono andata da una mia amica(il giovedì vado spesso da lei a dormire). Non ho detto niente a nessuno, avevo troppa paura. Sabato mi hanno incrociato per strada, si sono guardati e mi hanno portata nella soffitta di Redford Road. Me ne sono accorta dopo, perché mi devono aver fatto respirare del cloroformio, o qualcosa di simile. Mi portavano a danza, ma subito mi rinchiudevano in mezzo a quel bordello. Poi lunedì sono scappata, ma mi hanno ripresa, e così eccomi qui. Hanno avvelenato le bevande, deve essere una droga…
-   Oppure una sostanza qualsiasi capace di invertire le abitudini delle persone - continuò Johann.
-   Non hanno fatto altre incursioni, la dose doveva essere abbondante - dedusse Russell - ma… Aspetta un momento: io ti ho vista al “Saint Martinì” la sera di venerdì, e al “Bad People Bar” sabato!
-   Mi hanno obbligato a venire qui, mentre sabato gli serviva una cameriera in più…
-   Ma certo! - saltò su Russell - tu… il bimbo neo- hippy, era una sfida a capire il loro gioco!...
-   E noi ci siamo riusciti! - disse Stefany guardandolo negli occhi.
-   Sì, solo che non lo andrete in giro a raccontarlo.
Con un brivido, Russell si voltò. Neddy Blake era davanti a lui, e imbracciava un mitragliatrice. Russell cercò di farsi più grande, di nascondere di avere solo quindici anni. Ma Blake non si fece ingannare. Gli bastò un occhiata al ragazzo per capirne i secreti. Allungò una mano e afferrò Stefany. Ora la ragazza era tra i due.
-   Facciamo un patto - gli propose con fare losco Blake - voi dimenticate tutto, e io non le faccio saltare le cervella.
Fu un attimo. Una sbarra di ferro scese dritta sul cranio biondo di Neddy. All’improvviso affievolirsi della stretta del gangster, Stefany volò tra le braccia di Russell.
Dietro il passaggio nella parete apparve Emily Field, in tempo per vedere lo sguardo invitante di Stefany rivolgersi a Russell. E l’effetto fu quello di una calamita.
Persino Johann, che di baci ne aveva visti tanti prima di allora, fu così catturato da un amore tanto sincero che prese in braccio Auriane senza neanche accorgersene. Il mio ragazzo è diventato grande, pensò quasi a voce alta. Auriane si lamentò per la sua distrazione nel portarla fuori da quel magazzino, ma poi gli diede un bacetto sulla guancia, da brava amica. Emily ci rimase un po’ male, ma poco dopo poté vantarsi con la polizia per aver trovato un carico di psicofarmaci illegali, grazie anche all’eccezionale fiuto della bassotta Mathilde.
Russell e Stefany continuarono a vivere la loro vita da adolescenti, non incapparono mai più in misteri del genere, con il sommo dispiacere di entrambi. Blake e i suoi stettero al fresco per il resto dei loro giorni, e la madre di Johann si trovò un lavoro e un fidanzato onesto. In quanto a coloro che assunsero la misteriosa droga, non ebbero più problemi, perché il “Bad People Bar” divenne una secondo “Saint Martinì”, tra il plauso di Blue Avenue.

   

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