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Autore: Strummer_inLove    15/12/2010    0 recensioni
L'estate del giovane Russell Winston viene tuebata da alcuni misteriosi avvenimenti, che orbitano intorno a due conosciutissimi pub di New York, e ad una misteriosa droga che ti obbliga ad alzarti e scappare.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La matita di Russell correva sulla superficie bianca del foglio, tracciando i contorni di una ballerina, intenta ad sistemarsi i capelli davanti allo specchio. Il ragazzo era seduto a gambe incrociate, tra drappi scuri e funi arrotolate come serpenti. A pochi passi da lui, Madame Louis guardava le sue allieve, con le braccia sui fianchi, a caccia di errori. Perrine Louis era una donna sulla cinquantina, magra e slanciata, con i capelli biondo cenere raccolti in uno chignon. Russell passava a teatro gran parte dei suoi pomeriggi, quando i compiti non lo asfissiavano. Ora era in vacanza da qualche settimana, e Madame Louis lo aveva accettato, seppur non con entusiasmo, come spettatore fisso delle sue lezioni. Russell era il tipo di ragazzo che gli adolescenti di oggi definirebbero “strano”. Non era vestito alla moda come i suoi compagni, non giocava ai videogiochi, non passava il suo tempo a parlare di ragazze. Indossava spesso abiti di seconda mano, che suo cugino gli passava quando si rendeva conto che non gli andavano più bene. Alla play-station preferiva starsene in un viale alberato a leggere Stevenson, o ancora meglio Poe. Infine, anche se non prendeva parte alle discussioni da bar sull'altro sesso, aveva avuto modo di farsene ugualmente un'idea. Gli piaceva starsene seduto ad un tavolo della mensa scolastica, mentre Stefany chiacchierava allegramente con le amiche. Non ci aveva mai parlato, eppure conosceva a menadito le sue abitudini. Il suo colore preferito era l'azzurro, amava le poesie della Dickinson, le mele, la cioccolata, il suo fiore preferito era l'iris ed era un asso in storia dell'arte, come in tutte le altre materie. Ora che la scuola era finita, sentiva nostalgia della sua presenza, e un buco nell'anima, dato dalle molte cose che avrebbe voluto sapere sul suo conto, ma che non possedeva.
Una campanella risuonò nell'aria fredda del teatro. Le ballerine volteggiarono leggere ancora per un momento, poi uscirono dalla scena. Russell infilò i disegni in una sacca di iuta e si preparava a tornare a casa quando, camminando nervosamente verso la porta dei camerini, Madame Louis lo chiamò:
-       Jeune homme, mi faccia vedere i suoi schizzi, prego.
-       Ecco, queste sono Mary, Leslie, Megan e Juliet -  rispose Russell.
-       Notevole -  lo lodò Madame Louis -  vorrei chiederle di ritrarre mia figlia, la prossima volta.
-       Uhm... Auriane non è venuta oggi, ma venerdì potrei...
-       Mon Dieu -  lo interruppe stupita la donna -  come ho potuto non notare la sua assenza?!
Fece una pausa, guardandosi intorno imbarazzata:
-       Mi perdoni, Russell -  tentò di dire Madame Louis -  lei ha fatto davvero un buon lavoro. Mi spiace per Auriane, non ha mai perso una mia lezione...
-       Non si preoccupi Madame -  la tranquillizzò il ragazzo -  sua figlia ama la danza, ed è anche molto dotata e intelligente, sono sicuro che ha avuto un impedimento.
-       Già, ha ragione, Chère amis -  concluse Perrine -  non lo farebbe mai di proposito...
Madame Louis sorrise, ma sembrava perplessa e molto spaventata:
-       Sa', mio caro Russell, mia figlia non ha dormito a casa, stanotte, ma il martedì è solita stare da una sua compagna di classe -  restituì i fogli al ragazzo -  crede che mi debba preoccupare?
-       No, ne sono certo. Frequenta il mio stesso locale, il "Saint Martinì": non le può succedere niente in mezzo a quelle persone.
Perrine Louis lo ringraziò ed entrò nello spogliatoio. Russell invece uscì dalla porta sul retro, mentre il sole scendeva sugli alti palazzi di Manhattan.
Russell aprì la porta di casa e la richiuse senza far rumore. Suo padre, Robert Winston Junior, era appena tornato dall'ufficio. Con le maniche della camicia arrotolate fino ai gomiti, l'uomo leggeva il giornale seduto sulla sua poltrona preferita.
-       Ciao papà!
-       Oh, Russ, proprio te cercavo -  Winston aveva sempre quell'aria giocosa da ragazzino, ma ora sembrava molto serio -  hai intenzione di andare al "Saint Martinì", stasera?
-       Si, mi ha telefonato due minuti fa Johann per dirmi che andava...
-       Prendi il cellulare e richiamalo, oggi nessuno esce di casa -  l'uomo era scuro in viso.
-       C'è qualche ricorrenza che ho scordato -  Russell non capiva -  oggi non è festa nazionale, giusto?
-       No, è pericoloso, tutto qui.
-       Che vuoi dire?
In risposta, Winston gettò un quotidiano sul tavolino del soggiorno. Seduto sul divano, Russell lesse alcune righe, poi chinò la testa:
-       Ma cosa sta' succedendo?
Robert non rispose subito. Sembrava scontento, dispiaciuto per la decisione che aveva preso:
-       Comunque tu non andrai da nessuna parte stasera.
-       Ma papà!
-       Non è un divieto permanente; aspettiamo solo che si calmino le acque. Per favore Russell, non ti chiedo altro - quando Winston lo chiamava per intero voleva dire che ne valeva la pena.
Era un suo modo per dirgli “fidati di me, figliuolo”.
Russell sapeva che il padre non sprecava mai il fiato per niente, ma non credeva a quello che il “New York Times” gli stava gridando dalla sua prima pagina. Seccato, sistemò i suoi disegni in un cassetto della credenza in cucina e salì in camera da letto. Winston e signora abitavano in quel grande appartamento all'ultimo piano del Peace Building già alla fine degli anni ottanta. Ed era lì che Russell e Kate, la loro primogenita, avevano mosso i primi passi. Alla ragazza era stata concessa la stanza più spaziosa, di fronte al bagno del piano di sotto, mentre Russell era stato confinato nella minuscola mansarda, con una porta finestra che dava sulla terrazza comune. Così, quando l'afa dei giorni di agosto dava più fastidio, Russell era sommerso dal chiacchiericcio delle signore che venivano ad abbronzarsi. In quella tiepida sera di metà giugno invece, il suono dei clacson delle auto in Robinson Avenue era l'unico fattore di disturbo. Russell continuava a pensare a quell'articolo sul giornale: due settimane prima, quando la sua famiglia si trovava in vacanza a Miami Beach, gli abitanti di Vegher Street avevano sentito vari colpi sparati in aria, a pochi metri dal "Saint Martinì". Qualcuno che festeggiava la fine della World Cup di basket, probabilmente. Ma Robert Winston non era dello stesso parere: un avvertimento, diceva.
Manhattan era silenziosa, in quelle notti di fine primavera. Molti studenti del college tornavano ai loro alloggi nella periferia sul tardi, e i locali per universitari erano ben insonorizzati. Nessun rumore entrava, né usciva. Come se avessero qualcosa di cui vergognarsi, da nascondere a tutti i costi, pensava spesso Russell. Il "Saint Martinì" non era così. Era frequentato da ragazzi di ogni età ed etnia, seguiva le regole sulla distribuzione degli alcolici, non trasmetteva i soliti notiziari politicamente schierati. Era un posto dove si trovava della buona musica, dove c'era sempre una band diversa, dove la gente si divertiva senza bisogno di canne o di pasticche, anche se si sapeva che di fumati ce n'erano. Ora Russell rimpiangeva quell'atmosfera accogliente e spartana, seduto sul letto. Per quel sabato avrebbe dovuto rinunciare. Ma era stanco di chinare la testa e obbedire. Non ne poteva più di quelli che si credevano superiori e lo prendevano in giro, che lo comandavano. Il potere non gli andava a genio. Andò nel piccolo bagno che toglieva spazio alla sua stanza. Iniziò a pettinarsi i capelli chiari dalle punte irregolari. Russell era molto alto, aveva una corporatura fragile e la pelle chiara. I suoi occhi erano di un verde strano, color muschio, e aveva le labbra sottili e rosee. Tornò nella sua camera e aprì un vecchio armadio semivuoto: sul fondo, coperta da uno spesso strato di polvere, c'era una scatola di cartone. Russell la prese e soffiò delicatamente sul coperchio, chiuso con del nastro da imballaggi. Con un cutter aprì il contenitore: al suo interno teneva una giacca di cotone nero, per nasconderla dallo sguardo indiscreto di sua madre. Proprio in quel momento, Oona Winston irruppe nella mansarda. Russell nascose la giacca piegata dietro la schiena, e con un colpo di tacco mandò il pacco sotto al letto:
-       Mamma! -  esclamò innervosito Russell -  Non ti ho sentito bussare.
-       Scusa, caro -  la signora Winston, come il marito, era solare e spensierata -  sono appena rientrata dal negozio e volevo sapere se oggi è andato tutto bene...
-       Si, tutto apposto -  le rispose suo figlio -  come al solito Madame Louis mi ha trattenuto per parlare dei disegni. Niente di ché.
-       Sono contenta che questo passatempo ti piaccia -  disse Oona entusiasta -  a proposito: fino  a lunedì prossimo c'è una mostra impressionista al museo di storia naturale; hai presente quell'ala dove c'erano i reperti egizi...
-       Si, mamma -  rispose stufato Russell -  magari ci faccio un salto domani, quando finisco in teatro.
-       D'accordo Tesoro -  era contenta -  io e papà abbiamo già mangiato, vuoi...
-       Tranquilla mamma, ho mangiato al McDrive venendo a casa.
-       Okay, buonanotte caro.
-       'Notte mamma.
Appena la signora Winston uscì dalla stanza, Russell si preparò per uscire: divieto o no, sarebbe andato al "Saint Martinì", quella sera. Aveva meditato ogni cosa: il suo piano di evasione era pronto già da diversi anni, da quando per la prima volta il padre lo aveva messo in punizione. Sulla terrazza si trovava una scaletta di acciaio pieghevole, che scendeva fino al bancone della cucina. Da lì, se non c'era nessuno ai fornelli, era un gioco da ragazzi infilare la porta di casa. Russell era sempre stato abituato a chiudere la porta della mansarda a chiave quando dormiva, e nessuno si sarebbe accorto di niente. Appena fu pronto, uscì sulla terrazza: il cielo era coperto da nuvole di smog, gli unici puntini luminosi erano aerei e elicotteri. Poi, oppresso dall'inquinamento che gli impediva di vedere le stelle, il ragazzo si rimboccò le maniche e, facendo meno rumore possibile, spostò la scala fino al parapetto di mattoni. Russell guardò giù, verso Robinson Avenue. Le auto degli imprenditori che tornavano da Brooklyn si mischiavano ai pullman che strappavano gli operai bianchi ai cantieri di Harlem. Russell si limitò a guardare dall'alto la Grande Mela, che proprio quando il sole calava nelle acque dell'Hudson mostrava il suo volto più amichevole. Agli occhi di un liceale come Russell, le notti di Manhattan erano molto più entusiasmanti delle calde giornate. Silenziosamente, fece scendere la scaletta sul balcone della cucina. I suoi genitori erano davanti al televisore, e Russell sapeva che suo padre teneva sempre il volume altissimo: diceva che così le notizie gli rimanevano maggiormente impresse nella mente. Mentre scendeva pian piano, sentì il telefono cellulare vibrare nella tasca dei pantaloni. Doveva essere Johann, che era solito aspettarlo davanti al portone d'ingresso. In un primo momento, colto all'improvviso, Russell fece un movimento brusco all'indietro, facendo oscillare la scala, che sbatté sulla ringhiera di ferro del balcone. Robert Winston drizzò le orecchie, come fosse un cane da guardia. Russell lo sentì aprire la porta finestra. Il ragazzo salì si qualche gradino, là dove l'ombra lo avrebbe coperto. Sentiva lo sguardo del padre addosso, ma l'uomo non lo vide. Un momento dopo era rientrato. La voce altisonante del presentatore televisivo coprì i suoi passi, e gli permise di uscire. Scese di corsa le scale, disturbando una coppia di anziani al secondo piano. Come sospettava, Johann Miller era fuori dal cancello del cortile posteriore, e guardava impaziente le finestre dell'ultimo piano.
-       Per la miseria Russ -  lo rimproverò l'amico -  ma dove diavolo ti eri cacciato?
-       Guarda, ti conviene tacere -  Johann aveva poca pazienza per natura, ed era molto invadente. E questo a Russell non piaceva per niente -  per colpa tua mio padre mi ha quasi beccato!
-       Non voleva che uscissi, non è vero?
-       Veramente mi aveva detto di non fare uscire neanche te -  Russell aveva il fiatone, le vene del collo gonfie di tensione -  ma io ti conosco troppo bene, non mi avresti mai dato retta. Comunque non mi dispiace mettere da parte le regole.
-       Così ti voglio, fratello -  esclamò Johann, contento che il suo amico capisse al volo il suo punto di vista -  per fortuna il nostro decoder si è rotto: ho fatto appena in tempo a buttare via il giornale prima che rincasasse il fidanzato di mamma.
Ridacchiando, i due ragazzi si avviarono verso Lincoln Avenue, dove c'era la fermata dell'autobus più vicina. I grandi abbaglianti non tardarono ad apparire all'inizio della via. A bordo c'era ben poca gente, e Russell e Johann si sedettero accanto all'uscita posteriore, parlottando sottovoce:
-       Sai qualcosa di più su quel casino che c'è stato in Vegher Street? -  chiese curioso Johann.
-       Non molto, mio padre dice che ci sono dei giri strani attorno al "Saint Martinì" -  rispose vago Russell -  denaro sporco, roba, cose del genere...
-       Speriamo che non gli rompano i coglioni più di tanto -  commentò l'altro -  dopotutto gli Splinder sono gli unici che fanno bene il loro mestiere. Diciamoci la verità, Russ, quale altro locale è così ben fornito di ispirazioni e novità?
-       Nessuno -  rispose Russell, mentre il pullman imboccava Vegher Street -  nessun posto è come il "Saint Martinì".
L'insegna colorata del pub, gestito dalla famiglia Splinder ormai da cinquant'anni, si trovava a tre quarti della strada. Tutt'intorno al palazzo, per un raggio di circa trecento metri, sembrava di essere in un quartiere alla moda di Parigi: le prostitute si tenevano alla larga, Johnny Page vendeva le sue vettovaglie su una pericolante, ma pittoresca bancarella e decine di negozietti di artigianato rallegravano Vegher Street e Blue Avenue, la più grande via dei quartieri degli immigrati. I due amici lo raggiunsero. Ralph, un universitario al terzo anno, aprì loro la porta. Johann lo salutò allegramente: era il secondogenito degli Splinder, e conosceva Miller dai tempi del liceo. Il locale era ben illuminato da cinque lampadari di carta rossa, le pareti erano decorate da manifesti e poster di Che Guevara e di Einstein, le finestre erano mosaici fantasia dai mille colori. La stanza era un parallelepipedo stretto e lungo: di fronte alla porta d'ingresso c'era un grande bancone d'ebano, dove Nora Splinder serviva la birra nei bicchieri di plastica, poi, verso sinistra c'erano piccoli tavoli tondi. Infondo, contro la parete comunicante con una pasticceria, un gruppo metal intratteneva il pubblico, ragazzi seduti sul parquet. Russell si guardò intorno: nonostante il dissuasivo articolo sul “New York Times, non c'era meno gente del solito. Le sorelle Lottie e Jen Splinder si prendevano una pausa dal lavoro, appoggiate al muro con una gassosa in mano. Russell andò a prendersi una Coca-Cola Zero, mentre Johann zuccherava a non finire il suo cocktail alla frutta. Poi entrambi si sedettero per terra, ascoltando le prime note di una ballata rock. La band sul palco era del Trentino Alto Adige: alle spalle del cantante, la bandiera italiana spiccava gigantesca. La scritta Celtic Mess circondava la faccia di un omino, con delle fiamme verdi per capelli. Una bella ragazza suonava il violino, poi finiva il pezzo e prendeva il flauto dolce. Il front man portava i capelli lunghi e cantava in un inglese perfetto. La loro musica era un concentrato di adrenalina, davano tutti l'impressione che non si sarebbero mai fermati. Rapito dal ritmo incalzante e dalle melodie spezzate e distorte delle chitarre, Russell non si accorse di quel che gli stava intorno. La canzone finì, il pubblicò era entusiasta. Il ragazzo si girò verso Miller per dirgli qualcosa, ma si bloccò: in fondo al tappeto di ragazzi, Auriane Johnson se ne stava in disparte. Guardava il soffitto, come se riuscisse a vedere la luna attraverso l'amianto sciupato e le tegole mancanti. Indossava un body bianco e i pantaloni della tuta grigio scuro, con un ciuffo di capelli castani libero dalla morsa del fermaglio. Russell bevve un goccio di birra dal bicchiere di Johann, mentre si chiedeva dove fosse stata quel pomeriggio durante la lezione di sua madre. Il pubblico mormorava mentre i Celtic Mess smontavano la loro attrezzatura. Sembravano tutti strani, solitamente parlavano ad alta voce, aprivano i loro cuori agli altri clienti di quel magico locale. Molto spesso gli Splinder salivano sul palco e facevano qualche battuta sulla società, oppure la buttavano in politica e scatenavano un comizio antifascista dei migliori; quella volta invece, la serata scemò in quell'atmosfera malsana, quasi falsa. La gente non si guardava nemmeno negli occhi, ognuno osservava qualcosa di invisibile agli altri. Russell mandò giù un'altro goccio, in bocca aveva un sapore amaro. Diverse ragazze accanto a Johann si guardavano intorno smarrite, pur restando inchiodate al suolo. Russell vuotò il bicchiere di plastica. Cominciava a sentirsi strano. Miller lo rimproverò agitando il bicchiere, ma Russell non distinse le sue parole dal brusio di sottofondo. Non riusciva a tenere gli occhi aperti, come se avesse ingerito troppi barbiturici. Ma Russell era allergico ai tranquillanti, sin da piccolo, quando gli venivano gli attacchi di pianto. Un bambino piccolo, con i capelli lunghi fino alle spalle e con pantaloncini a righe arancioni e rosa e un paio di ciabattine fuori moda, come tutto in quel posto, gli passò davanti. Ora Russell sentiva bene la sua voce:
-       Mamma, mamma, dove sei?
Il ragazzino andò verso la porta tagliafuoco, seguito da una fiumana di persone: avevano tutti una gran fretta di uscire da lì. Anche Johann e Russell provarono l'immediato impulso di scappare, e scapparono. Miller era già fuori, continuava a correre senza una meta, di fronte a lui vedeva il cielo sporcato dai fumi delle industrie. Russell era rimasto indietro, la testa piena di suoni che lo distraevano e lo chiamavano. Il bambino fricchettone riapparve al suo fianco. Ora erano sistemati in due file indiane, che pian piano uscivano dal "Saint Martinì". Il ragazzino lo guardò storto, o almeno a Russell parve che ce l'avesse con lui. Russell, sempre avanzando istintivamente verso l'uscita, fissò il bimbo. Il tempo si era come fermato, tanto che sembravano passate delle ore quando finalmente videro le luci dei lampioni nel viottolo lercio. Tutti i clienti del "Saint Martinì" si erano dispersi fuori dalla porta, si guardavano tutti nelle palle degli occhi senza capire cosa fosse successo.
Johann adocchiò Russell in mezzo alla calca: era sudato e si massaggiava le tempie per reprimere il dolore. Miller lo trascinò via. Russell si voltò a guardare i visi preoccupati di Nora Splinder e dei suoi figli. Poi vide il bambino di prima: aveva preso il bicchiere di plastica mezzo pieno del padre, e lo levò in alto, gridando forte nella confusione:
-       Alla salute!
Poi sparì nella mischia di gente indecisa se restare o tornarsene a casa.

   
 
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