Orgoglio e verità

di Nightmare
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Giustizia e verità non sempre coincidono ***
Capitolo 2: *** Privo di orgoglio ***



Capitolo 1
*** Giustizia e verità non sempre coincidono ***


Riveduta e corretta

Riveduta e corretta

 

Dedicata alle persone che mi sono state vicine nei momenti difficili.

 

Non vorrei dilungarmi troppo.

Le cose da dire, in fondo, non sono poi molte quindi cercherò di parlare dell’essenziale, senza troppi giri di parole. Questa storia, contrariamente al mio modo di fare, non è una storia breve, non è una one-shot, ma è una storia ha più capitoli. Non so ancora se sarà una short-fic, o una long-fic, anche se propendo decisamente per la prima ipotesi, e francamente non so dove mi porterà a finire.

Semplicemente l’ho scritta, così… in un attimo di tempo. Più come sfogo che come idea ponderata e infine creata. Non so se può avere più o meno un senso.

Io ci ho provato, credo, a costruire una rappresentazione credibile senza strafare, ma in fondo non sono poi così convinto.

Il genere ovviamente è triste, drammatico, e sicuramente sfocerà anche nel romantico, ma non in questo capitolo. Giusto per il fatto che questo non è un capitolo, ma bensì un prologo, una base.

Spero possa incuriosirvi e nel caso appassionarvi.

Le cose da dire sono terminate. L’unica cosa che posso fare è augurarvi una buona lettura, sperando di tenervi piacevolmente compagnia per questo breve periodo.

E adesso… Orgoglio, orgoglio e verità.

 

*** *** ***

 

I personaggi di questa one-shot appartengono tutti a J. K. Rowling. Io li ho utilizzati solo per divertirmi e dilettare tutti quelli che leggeranno questo breve racconto. I fatti narrati di seguito non sono mai accaduti nella saga di Harry Potter. Questa storia è stata scritta senza nessuna intenzione di lucro, si ritiene, quindi, che nessun diritto di copyright sia stato violato.

 

*** *** ***

 

Giustizia e verità non sempre coincidono

 

Sentimental days
In a misty, clouded haze
Of a memory that now feels untrue
I used to feel disguised
Now I leave the mask behind
Painting pictures that aren't so blue
The pages I've turned
Are the lessons I learned

Somebody bring up the lights
I want you to see
(Don't you feel sorry for me)
My life turned around
But I'm still living my dreams
(Yes it's true that I've been)
And through it all
I hit about a million walls
Welcome to my truth
I still love, love
Welcome to my truth
I still love

 

Giorni sentimentali
in una misteriosa foschia nuvolosa
di memorie che ora sembrano false
sono abituata a sentirmi disgustata
ora abbandono la maschera dietro
quadri dipinti che non sono così tristi
le pagine che ho girato sono le lezioni che ho imparato

qualcuno ha acceso le luci, voglio vedere
(non sentirti dispiaciuto per me)
la mia vita prendere una svolta positiva
ma sto ancora vivendo nei miei sogni
(si è vero lo sto facendo)
sono passata attraverso tutto
colpito circa un milione di muri
benvenuto nella mia verità

Io amo ancora
benvenuto nella mia verità

Io amo ancora

 

(Welcome to my truth – Anastacia)

 

Orgoglio e verità

 

Prologo

 

Giustizia e verità non sempre coincidono.

Ci sono casi – o ovviamente modi di vedere – che comprovano spesso questo fatto.

A volte non serve fare giustizia se poi, in fondo – dentro a noi stessi – non conosciamo quello che è successo realmente. La verità è una cosa strana, ambigua… che presenta svariati aspetti e che a volte confonde, irretendo.

Molti, nel tempo, hanno prodigato il loro sapere come veritiero, lasciando erroneamente al caso il compito di supportarli nelle loro mancanze, ma spesso la loro condizione rappresentava solo una schermata apatica, inerme, bramosa di potere e di comando…

Molti si sono visti condannare da volti sconosciuti e da voci ignote, non sapendo per quale smodata ragione del destino tutto quanto stesse accadendo così in fretta. Inutili le proteste e le grida. Inutile sapere di essere innocente per poi essere condannato. In qualche modo, questo, fa ancora più male…

Molti sconteranno pene non loro, in un posto che non li appartiene e che comunque sembra ricaricarsi man mano che i corpi vivi entrano, e che i morti – perché in fondo, esiste anche la morte – vengono sdegnosamente buttati oltre.

L’uomo che adesso si trova incatenato nella cella adiacente alla mia, dibatte i piedi in maniera furiosa. Il suo volto è intriso da gelida furia e i capelli rossi che gli cadono flosci sul viso, sembrano fiamme ardenti e assopite, pronte a colpire il primo venuto. Sa di essere innocente, come tutti qui… ma non può opporsi alla regola gelida della vita che scorre contro volontà.

Non può urlare perché verrà picchiato.

Non può fuggire perché verrebbe ucciso.

Non può comunicare perché, in definitiva, sarebbe chiedere troppo.

Ognuno cerca di occupare il tempo – quel languido e viscido tempo che scivola via – come meglio crede e come è più giusto che sia. Alcuni si quietano, in sonni agitati, cercando di evadere dal mondo, quando sanno per certo di essere prigionieri del mondo stesso.

Altri pensano e si perdono nei ricordi di tempi belli e ormai svaniti. Lacrime che cadono senza consistenza, invisibile traccia di un cuore che a poco a poco si sta spegnendo.

E poi ci sono altri ancora, come quel tizio che da poco è entrato nel mio campo visivo, che non si danno pace. Fremono, si agitano, digrignano i denti come cani incattiviti dalla fame e dal gelo. Presto – e lui lo sa – si spegneranno anche loro….

Come tutti qui, del resto.

Con il tempo le energie finiranno. Le violente torture e le scariche, per nulla misericordiose, di percosse li fiaccheranno fino allo sfinimento completo. Fino a farli cadere nella depressione più cupa, da dove non si risale più, senza la luce.  

Ne ho visti molti passare davanti alla mia cella. E forse molti ancora le mie stanche membra riusciranno a vedere. Gente comune, innocente… banalmente normale.

Anime macchiate dalla sola colpa di trovarsi nel posto sbagliato al momento meno opportuno, complici di un ticchettio lento di morte che si propaga come cianuro e che schiaccia ogni coscienza. Sempre.

In fondo, per gli uomini che li controllano, non esiste giustizia. Esiste solo la loro eterna e sacrosanta vocazione, a seguire il martirio e l’oscurità, annebbiati da effluvi di benessere mai concretizzati ma che comunque fanno sempre discretamente interesse.

Per i Mangiamorte non importa se sei vivo o morto. La loro verità non coincide con la giustizia. Mai. In nessun caso…

E rinchiuderti lì, come carne da macello, non può che rendere l’agonia dell’attesa ancora maggiore della morte stessa.

Per loro non conta se sei vivo o morto.

Ma per quel tipo strano, con i capelli rossi e l’aria possente, credo proprio di sì.

 

*** *** ***

 

Nebbia. Tanta nebbia…

Che si propaga come gas straziante, circolando per vie e luoghi che forse non ha mai visto, ma che comunque in quel momento gli appartengono completamente.

Offusca. Dilania la memoria.

Pensi di essere in un posto e ti ritrovi in un altro. Non sai dove sei.

Non sai chi sei…

Percorri vie scure, ancor più scure del tuo cuore tormentato, e ti affliggi con domande non tue, non sapendoti dare risposta senza cadere in imbarazzo.

Le strade sono deserte come potrebbero esserlo di giorno, senza fretta apparente, senza scopi per vivere. L’offuscamento dei sensi continuo, invita i pochi abitanti di quella sperduta cittadina a restare nei propri anfratti, scongiurando pericoli che non esistono ma che l’immaginazione non manca di creare.

Una figura esile e leggera si aggira nella notte.

Entra quasi in contrasto con il grigiore del tempo, un corpo estraneo ai vizi delle cose, di un candore stupendo… unico. Si aggira, con calma pressoché flemmatica, negli sporchi avanzi di una strada solitaria e sudicia, come un ombra lucente di un chiarore discontinuo.

Il vento è freddo.

Picchia sulla pelle come un lama, squarciando, ferendo, rompendo… tratti di un anima ormai spezzata, incolume al dolore per averne subito troppo. Insensibile al freddo perché è lei stessa parte del gelo.

Un portone. Una palazzina scura, contaminata dalla sporcizia come tutto il resto.

Mille finestre tristi e grigie dove gli uomini si acquietano. 

Mille finestre sul mondo, che non accoglie, ma respinge soltanto.

La figura in ombra – più con se stessa che con l’ambiente – spalanca con un gesto deciso l’ingresso, passando da un’oscurità all’altra, con interessante noncuranza.

Nebbia. Fuori.

Buio. Dentro.

I suoi passi risuonano sugli scalini consunti di quel luogo marchiato dal disprezzo, come pugni allo stomaco. Una danza di morte.

Davanti… ancora un’altra porta. Ancora un altro ostacolo.

La vita è piena di porte che si aprono e di porte che si chiudono. Spesso non facciamo in tempo ad entrare, la lucida facciata di legno sul viso, e aneliamo con tutti noi stessi di riuscire a varcare quella soglia, un giorno. A volte, è un errore…

Sarebbe meglio restare lì, nel dubbio di una cosa che non conosciamo, non rischiando… non temendo. Nell’umida tranquillità che l’essere codardi riesce a donarci.

Alcune volte, invece, ci proviamo.

E quello che è dentro, non si rivela mai come quello che si è desiderato. L’attesa sembra vana. I pensieri futili. E scocciati ce ne andiamo, cercando un’altra occasione. Un’altra porta da aprire… per essere di nuovo delusi. Ancora.

L’uomo è strano. Perverso. Brama, guarda alle cose con sguardo concupiscente e poi, quando finalmente le ha raggiunte, le butta via. Con sdegno. Con disprezzo.

Il desiderio di qualcosa alimenta la voglia stessa. Quando finisce il desiderio, tutto sembra non avere senso.

Lei, quello strano assembramento di muscoli e fibre, ormai un senso sembra non trovarlo più.

La figura scura, un patetico mazzo di chiavi disordinate in mano, entra con forza nella serratura difettosa e preme. La chiave per entrare. Il segreto per uscire.

La porta si spalanca.

Il deserto che è dentro si muove davanti a lei. Cianfrusaglie di oggetti inutili circondano quel lugubre spazio. Per terra, cicche di sigarette appassite, senza forza come il suo possessore e padrone, riempiono l’aria di odori cattivi.

La figura si accascia al suolo. Sfinita.

Nella breve luce lunare, risparmiata dalla nebbia, riusciamo a scorgerla appena.

È una donna. Una donna distrutta.

Gli occhi pesanti e infossati di chi dorme poco, un vestito bianco, stropicciato dal tempo e da mani profane che non conosce. Che odia.

Lei non è più una donna.

È una schiava. Una serva. Costretta contro volontà a servire uomini ripugnanti. Forzata a percorrere carponi, inchini sdegnosi e privi di vita, da volontà non sue, ma che la comandano. La opprimono.

Ogni giorno.

Non c’è la faccio più! sembra urlare quel viso non più così angelico, spento. Non più disposto a lottare.

Per lei ci sono solo state bugie. Bugie e bugiardi. In successione inversa, ma comunque casuale.

Lei non conosce pace. Non conosce verità.

E forse neanche per lei, quest’ultima corrisponde con la giustizia.

 

*** *** ***

 

A volte credi semplicemente che la vita andrà avanti.

Che nonostante le avversità, nonostante i mille e più pericoli disseminati sul tuo cammino, tutto quanto – prima o poi – in qualche maniera si debba aggiustare. Confidi in una speranza che di solito non ti appartiene, conflitto astruso e ingarbugliato che ti inquieta ma che ti serve come punto di appoggio, quando tutti i pilastri della tua vita sembrano crollare.

Preghi. Quando in un esistenza intera non lo hai mai fatto.

E non ti importa se la cosa sia più o meno sacrilega. Non ti importa se tutti i santi del mondo – parlando per assurdo – inveiscano contro di te, tacciandoti come eretico, infedele… blasfemo. Non ti importa.

Ti aggrappi a quell’unico filo di speranza che lega ai ricordi. Ai pensieri positivi.

Ti domandi di cosa ne è stato di quel passato e ti chiede se quello che ti sta accadendo, possa precludere per sempre i tuoi sogni, le tue aspirazioni per il futuro.

Io ho sempre desiderato avere una mia famiglia, per esempio.

Un gruppo unito, che si vuole bene, che si aiuta, che si sostiene. Ho sempre pensato alla famiglia come un posto dove poter tornare sempre, come un luogo di rifugio quando fuori c’è tempesta. Un posto dove potersi dire sempre a casa.

Ho sempre sperato, sin dalla prima vera adolescenza – e sembrerà strano – di poter diventare nonno un giorno, con mille nipotini scalmanati che si agitano tra le mie grosse manone mentre gli canto la ninna nanna, con figli di figli agitati, che non trovano pace ma che ti regalano un sorriso.

I pensieri degli altri erano altri. E a volte, perché in fondo è andata così, mi univo anche io a quel gruppo di pecore belanti, pronto a sbavare come tutti sul nuovo modello di scopa nuovo, o sulla più bella ragazza del corso. Ma queste erano cose futili. Insignificanti.

Gratificanti, fino a un certo punto. Ma considerevolmente prossime all’oscuramento completo, una volta passata l’infatuazione collettiva.

Ci sono arrivato piano piano, a poco a poco… ho capito che non aveva senso rifugiarsi dietro comportamenti preconfezionati, regole comuni, e modi di vita standardizzati. Ho scelto un’altra strada, più difficile forse, ma comunque un’altra strada. Mi sono allontanato dal gregge, metaforicamente ma neanche troppo, e ho lasciato le cose al caso, al mio istinto.

Ho deciso di essere libero. Completamente.

Esserlo, ma per davvero – con tutti noi stessi – può voler dire molte cose.

È libero chi si alza al mattino e non ha preoccupazioni per la testa. Guarda il futuro senza costrizione alcuna, e quando la sera si mette sotto le coperte, può sorridere… sorridere come una persona in volo, ignota in un oceano di tutto e niente, dove non conta cosa fai ma chi sei. Sempre.

Io ho creduto di essere così. Ci ho creduto davvero.

Ho pensato che così facendo, vagando come un ramingo da una porta all’altra, avrei potuto essere felice. La mia strana equazione di vita dove la libertà e la felicità erano in stretto rapporto, si è rivelata sbagliata. Stordendomi.

Semplicemente ho solo creduto di essere libero. Come un airone dorato che vaga solcando i cieli e accarezza le acque, confortandomi nell’immagine di pozzi meravigliosi e fantastici, che con forza e facilità avrei potuto esplorare, solo per il gusto di farlo.

È invece non è stato così. No.

Mi ha fatto male. Mi ha distrutto.

La consapevolezza di quello che facciamo riguarda solo noi stessi, e se vediamo le nostre sicurezze crollare, se vediamo che le nostre convinzioni si sgretolano, tutto ci cade addosso…

Ci schiaccia. Ci lacera. Ci annienta.

Il peso della verità che cala su di noi è qualcosa che a stento riusciamo a sopportare, se la parte in torto, se chi ha sbagliato per prima, siamo noi stessi e la nostra coscienza.

Io ci ho creduto. Ho sbagliato. Ho sofferto.

E altri lo hanno fatto prima di me, forse prima ancora che io nascessi.

Una massa indistinta di ciechi che vagano nell’oscurità convinti che lei stessa sia la luce. Convinti di essere padroni, cercando rivalse e spadroneggiando su qualcuno che non esiste, ma che comunque ci sembra reale.

Non lo è. Non lo è mai stato.

E quando arrivi alla fine, e capisci a cosa sei andato incontro, è ormai troppo tardi.

Sei prigioniero.

I mali del mondo si annidano dentro di te come un cancro incurabile.

Cattivo, bieco, subdolo… Un nemico che ti avvolge lentamente, con promesse che non manterrà mai, ma che servono da anestetico prima di impadronirsi di te con il colpo di grazia.

Io l’ho capito. Ora.

E da libero che credevo sono diventato prigioniero come sono, senza infamia e senza lode, senza possibile alternativa.

Sono qui. Qui, con i miei sogni infranti e le mie speranze distrutte, con i dolori alle ossa per i colpi ricevuti sulla schiena…

Sono qui. E piango.

Piango perché non riesco a fare altro. Salato che si aggiunge ad amaro, perle di luce sbiadite su un volto consunto e consumato da odio e rancore. Piango. Perché non servirebbe a nulla porre freno alle lacrime, arginandole, trattenendole… non servirebbe farsi ancora più male.

Soffro. In un luogo buio e sporco che non conosco, ma che i Mangiamorte hanno preferito che io vedessi.

Sono nelle loro mani. Possono fare di me quello che vogliono. Possono fare di noi quello che vogliono.

Perché non sono solo io. Siamo in tanti.

Centinaia di celle come la mia esistono, e si consolidano nei nostri tracciati indistinti di pensiero.

Possono fare di noi cosa preferiscono. Siamo in tanti, ma soli con noi stessi.

Al dì la del freddo metallo delle sbarre, si aggira una realtà che abbiamo imparato a dimenticare, quando lei stessa si è scordata di noi.

Siamo soli. Siamo prigionieri. Siamo in balia della loro folle ideologia delle cose…

C’è giustizia in tutto questo?

 

*** *** ***

Una luce fioca.

Sento il calore del sole accarezzarmi il viso. Socchiudo lentamente le palpebre e mi metto in ginocchio.

Sono stesa sul lurido pavimento della mia stanza – anche se parlare di stanza è effettivamente eccessivo – e cerco di fare mente locale su quello che può essere più o meno successo.

Sono mesi che va avanti così, e non mi sorprenderei se la cosa dovesse continuare a perdurare.

Mi metto a sedere. Ho un brivido. Mi rannicchio come posso portando le mani alle ginocchia, cercando un calore che dentro me stessa non esiste praticamente più.

Sono stanca. Le ossa mi fanno male, sento ancora scricchiolare la costola rotta, simpatico regalino lasciatomi da un cliente insoddisfatto, e le giunture sembrano sul punto di esplodere in mille pezzi.

Semplicemente non ce la faccio più.

Da quando la seconda era è iniziata, da quando le forze del male hanno preso il sopravvento, non è più possibile vivere. Vivere a livello fisico, forse. Tra gli abusi e gli stenti, con dolori che ti perforano il corpo, con maniaci possessivi che ti violano in ogni momento, è ancora possibile vivere. Ma questo, purtroppo, non è vivere. Neanche sopravvivere. Solo… rimandare. Rimandare una morte che non riusciamo ad accettare, una resa che non riusciamo a concepire.

Siamo rimasti in pochi. Pochi cuori che hanno ancora il coraggio di crederci, di sperare. Poche anime che non si rassegnano all’idea che tutto debba finire così. Pochi uomini che non si sono mai piegati e non si piegheranno mai.

Mai… ma in fondo, per cosa?

I Mangiamorte hanno preso in breve tempo l’intero controllo del regno magico. I ministri delle varie nazioni del mondo hanno nominato – con ironia, all’unanimità – il Signore Oscuro capo reggente del mondo finora conosciuto. Le cittadine che ancora resistono si possono contare sul palmo di una mano, e i morti hanno raggiunto un livello oltremodo inqualificabile.

Mancano i più naturali diritti di base per la convivenza civile, le cerchie nere – come vengono ormai definite le branchie più sanguinose dell’Oscuro – spadroneggiano in lungo e in largo commettendo delitti senza senso, per puro divertimento, distruggendo famiglie esistenti da generazioni, deturpando le basi del genere umano.

Strofino convulsamente le mani sulle gambe. Il freddo mi si è ormai annidato nell’anima. Un freddo per la temperatura che scende, un freddo per il cuore che ormai è spezzato.

Sono sola. Sola.

Il ragazzo che è sopravvissuto una volta ha fallito. Non è sopravvissuto una seconda. Ci ha provato, ha tentato… ma non ce l’ha fatta. Mancava davvero poco, ma niente. Forse sarebbero stati giorni migliori…

Sono sola. Sola.

Hogwarts è crollata. Dopo la morte di Silente, effettivamente, non è stata più la stessa. Gli attacchi sono stati continui, ripetuti. Impossibile reggere a lungo. Impossibile sperare di salvarla.

Sola.

Lui. Lui non c’è più.

O meglio, non è più con me.

Fu catturato in un giorno senza particolari avvenimenti alle prime avvisaglie di tenebre.

Da quel giorno non l’ho più rivisto. Mai più.

Ma so che è vivo. Dentro di me, dentro il mio cuore, lo sento. Sento il calore che si sprigiona inaspettato dentro di me quando penso a lui. Posso vedere le sue mani callose sul mio viso ansioso di lacrime, i suoi occhi azzurri, talvolta grigi, scrutarmi attentamente in cerca di risposte, posso sentirlo sulla pelle, sotto i segni vistosi di matite ingiallite, sotto i lividi rossi di uomini senza coscienza.

Sì, lui è vivo.

Ed è per questo che continuo a sperare. Con rabbia. Con orgoglio.

Glielo devo. E forse lo devo anche a me stessa.

 

*** *** ***

Il muro del pianto.

Ho raccolto le poche cose in mio possesso per affrontare il nuovo giorno. Il mio vestito, bianco lucente, è macchiato da abominio indiscriminato, da sostanze che non mi appartengono, che non mi riguardano. Sono una schiava, un serva. Il regime imposto in questi luoghi è insostenibile, ma è anche vero che solo i pochi che riescono a reggerlo sono ancora vivi. Vivi… vivi perché quando gli altri abusano di noi i nostri occhi si fanno vacui e non riusciamo a vedere, vivi perché i dolori li abbiamo dentro e riusciamo a contenerli, vivi perché abbiamo deciso di esserlo, fino alla fine.

Non mi importa. Non mi importa se il mio corpo viene violato. Devo vivere. Voglio vivere. Voglio ritrovarlo.

Mi metto in ginocchio sulla terra umida del campo. Serro le mani come mi è consuetudine fare e alzo gli occhi.

E lo vedo. Alto, possente… il ricordo.

Il muro del pianto dove quelli rimasti pregano quelli che se ne sono andati, dove i ricordi si condensano e le sensazioni si intrecciano, dove la vita è scritta dall’uomo e si eleva per l’uomo stesso.

Mille nomi. Mille date.

Aggiunti a poco a poco, quando prima non c’era nient’altro che freddo cemento, hanno ormai occupato l’intera facciata e i colori sbiaditi dal tempo e dalle piogge sembrano rilucere ad ogni nuovo sguardo.

Ad ogni nome, una vita. Ad ogni data, una morte.

Gente conosciuta, o forse soltanto intravista, uomini che non ho mai avuto il piacere o l’onore di incontrare… tutti qui, segnati in modo indelebile più nella mente che nella realtà. Ed improvvisamente mi sembra di conoscerli tutti.

Vedo un nome in fondo alla parete spiccare con affetto. Non l’ho mai sentito, né mai veduto. Eppure mi immagino il viso, gli occhi, il corpo. Mi immagino di vederlo correre verso il cielo e alzare la mano. Un saluto. E poi sparire.

Li vedo tutti insieme. E tutti insieme li vedrò sempre.

Mi alzo. Il vestito non è più bianco come prima. Solo infangato.

Infangato come quel nome splendente d’azzurro che mi si è posto davanti.  Azzurro come i suoi occhi. È la mia calligrafia.

Con un gesto rispettoso volgo la testa verso il basso.

La malinconia mi prende. Ma è solo un attimo.

Io cancellerò quel nome un giorno. Lo cancellerò.

Perché semplicemente i vivi non possono esistere sul muro del pianto.

E lui è vivo.

Non è solo orgoglio.

 

 

Fine prologo

 

 

Allora, questo prologo è concluso.

Non so quanto tempo ci vorrà per il nuovo capitolo, ma prometto di impegnarmi per concludere al più presto questa storia. Ovviamente con il prossimo capitolo entreremo nel vivo della situazione, e certe cose risulteranno più chiare.

Sperando di non avervi annoiato

 

Nightmare

 

Ovviamente qualche commentino è ben accetto! ^^

 

 

*** *** ***

 

Angolo degli annunci:

 

E’ stato aperto da un qualche mese un nuovo forum di Harry Potter molto carino. Abbiamo un gioco di ruolo, lo smistamento, e ogni settimana chi troverà la soluzione all'indovinello che l'Amministratore propone vincerà avatars, gift e animazioni riguardanti chiaramente Hp! Abbiamo bisogno di nuovi iscritti per salire nella Top 100! Quindi, perché non ci fate un salto? Ci farebbe davvero molto piacere.

 

Harry Potter Forum

 

Sento il bisogno di proporvi anche un altro forum! Non che io condivida i principi morali di questo sito, ma visto che è stato creato da 3 delle mie più care amiche, mi sembrava giusto segnalarlo!

Solo per chi odia, disprezza, ritiene indegna di ruolo di attrice… Emma Watson!

 

Anti-Emma Forum

 

Per coloro che volessero contattarmi, per parlare del forum o di qualsiasi altra cosa, accludo il mio indirizzo e-mail e il mio indirizzo MSN:

 

godhands89@yahoo.it

nightmare899@hotmail.it

 

 

 

<< Un grazie infinito al cielo, per avermi donato le stelle… >>

 

Nightmare

 

Continua!!!

 

 

Commentino!

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V

 

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Capitolo 2
*** Privo di orgoglio ***


Una porta sbatte in lontananza

*** *** ***

 

I personaggi di questa one-shot appartengono tutti a J. K. Rowling. Io li ho utilizzati solo per divertirmi e dilettare tutti quelli che leggeranno questo breve racconto. I fatti narrati di seguito non sono mai accaduti nella saga di Harry Potter. Questa storia è stata scritta senza nessuna intenzione di lucro, si ritiene, quindi, che nessun diritto di copyright sia stato violato.

 

*** *** ***

 

Privo di orgoglio

 

You better swallow your pride

Or you're gonna choke on it

You better digest your values

Because they turn to shit

Honor's gonna knock you down

Before your chance to stand up and fight

I know I'm not the one

I got no pride

 

E' meglio che tu inghiotta il tuo orgoglio

O ti soffocherà

E' meglio che tu digerisca i tuoi valori

Perché stanno diventando merda

L'onore ti stenderà

Prima della tua occasione di alzarti e combattere

So di non essere la persona giusta

Non ho orgoglio

 

(Green Day – No Pride)

 

Orgoglio e verità

 

Capitolo Uno

 

Una colonna di pietra.

Attorno il freddo del tempo che passa e non lascia traccia, le foglie cadute e appassite sulla terra, una condizione che per giorni sembra insostenibile, incancellabile, ma che poi con i mesi che scorrono non sembra addirittura possibile da affrontare.

La differenza fra un uomo vivo e un uomo morto.

Piccola. Miserabile. Cosa importa se il sangue scende?

Le ferite si alimentano le une con le altre, e il dolore – perché questo è il nome proprio della sofferenza – si concatena nella mente come nelle ossa, non da spazio a ragionamenti logici, porta con sè in un mondo lontano il senso di una vita che sembra non esistere più.

Un ragazzo dai capelli rossi, il viso appassito e intriso di mal celata agonia e di pianto represso, è legato con una sottile rete di filo spinato alla colonna di pietra. Si è svegliato così, istintivamente, drogato per giorni e giorni da sostanze imbevibili eppure bevute, soggiogato e addormentato da effluvi mortali ingeriti con sciocca noncuranza, argomentando la propria resa personale con luoghi comuni di scarso interesse.

Ha avuto fame. E ha mangiato quello che gli è stato dato.

Ha avuto sete. E bere quelle insulse brodaglie non è stato un problema.

Ma adesso si trova nella posizione scomoda – non solo metaforicamente – di dover convivere in un ambiente sconosciuto, quando per mesi l’unico spazio da lui inquadrato è stato quello della sua angusta cella, senza sapere per quale motivo, e soprattutto chiedendosi perché semplicemente non l’hanno ancora ucciso.

Naturalmente avrebbe avuto presto la risposta a queste domande.

Lo spazio che si dirama da quel luogo di morte e orrore annunciato, è un cortile piccolo, stretto, da impiccagione. Il soffitto è alto, arioso di stantio, è nel buio si può distinguere qualche piccola figura ammantata, uccelli scuri come la pece, corvi asserragliati e pronti per ricevere il loro pasto.

Il pavimento è sporco di sangue miscelato.

Sostanze che non combaciano ma che comunque fanno parte della stessa natura, anche di quelli che nel loro gioco subdolo hanno spezzato la natura stessa. Alle pareti, muri scrostati di fresco, attrezzi non propriamente rassicuranti. Reminescenze lontane di scure e martello, quando questi venivano usati come mezzi di lavoro convenzionali.

La differenza fra un uomo vivo e un uomo morto.

Basta colpire in un punto che non sia quello stabilito, mancare di un centimetro quel minuscolo pezzo di carne necessario per vivere, spostarsi di lato al momento dell’impatto e schivare il colpo.

La differenza fra un uomo vivo e un uomo morto.

Non c’è.

Non per loro. Non per coloro che si voltano dopo una strage; non per quelli che in vita non hanno fatto altro che disseminare morte senza rimpianti; non per quelli che in definitiva godono di un certo strano sadismo nel vedere corpi e anime discendere negli inferi della sofferenza.

Loro non piangeranno mai di fronte al tuo dolore. Ne rideranno, schernendoti.

Loro non si commuoveranno per pietà di fronte alle tue preghiere. Ti sputeranno in faccia, umiliandoti.

E se sarai abbastanza forte da resistere a tutto questo… bè, forse neanche ti basterà.

Perché sono sempre e comunque loro a decidere del tuo destino, con la loro ideologia folle, con il loro gretto materialismo, con lo sporco desiderio di distruggere tutto, sono sempre loro che hanno il potere, il controllo, di quel filo sottilissimo che ti tiene legato ad una vita piuttosto che ad un'altra, di quel piccolo frammento di speranza e di pietà che cerchi di scorgere nei loro occhi.

La differenza fra un uomo vivo e un uomo morto, la fanno le circostanze. Tutto il resto, francamente, ha poca importanza.

L’uomo con i capelli rossi chiude gli occhi. Sente il sapore metallico di quel liquido rosso impastargli sgradevolmente il palato, le piccole spine di ferro conficcarsi ad ogni minimo movimento ancora di più, entrare nel pallida carne di un corpo indebolito, sfinito, chiedendo il loro tributo lentamente ma con costanza, allungando l’agonia… come se fosse ancora possibile.

Strano come tutto quanto sembra prendersi gioco di lui. Prima il buio, dei sensi come del cuore, incastonato da rari momenti di scarsa vitalità, cercando un modo di uscirne, di fuggire, un piano per evadere; il viaggio della mente che continua su binari ormai irriconoscibili, il freddo che ti gela quando la speranza si dirada, la fame per gli stenti, il compatimento per se stessi; l’insofferenza per una situazione che non vuole cambiare, la lenta resa ad un nemico invisibile che agisce con calma disarmante, con freddezza melliflua, il lento assopimento della ragione, il mondo dei sogni, il mondo degli incubi. E poi trovarsi fuori, spogliati di tutto e di niente, legati senza possibilità di muoversi, di girarsi, quasi di respirare, l’agonia dell’attesa incolmabile che presto verrà esaurita.

Infine… passi.

Passi che non avrebbe mai voluto sentire, mai immaginare. Passi pesanti da calcare il terreno, possenti nella loro sonorità incontrastata. Piccoli rintocchi di morte che si propagano piano, con lentezza estenuante, entrano dentro, scolpiti dentro la pelle, terribilmente vividi.

“ Ti sei svegliato, Weasley. Mi chiedevo quanto tempo avrei dovuto ancora aspettare… “

Una voce dolce. Drammaticamente dolce.

Un suono quasi androgino, un soffio di vento gelato, portatore di brividi, di paure.

Il volto incappucciato, una maschera d’argento sugli occhi.

Un Mangiamorte.

Si fa avanti con passo deciso, fermo, senza staccare gli occhi da terra, senza mostrare di più di quel che è realmente concesso. Un sorriso gli increspa febbrilmente le labbra, le contorna di qualcosa di sinistro e di misterioso, lasciando al caso il compito di interpretare. Negli occhi una smania ben visibile, un desiderio che va oltre il bisogno fisico, ma che completa il quadro dalle tinte grigie che si sta componendo nell’aria.

L’uomo dai capelli rossi si muove appena, subito mille aghi gli si conficcano nella pelle, ma non ci fa caso. Rivolge la testa direttamente al suo interlocutore, e con un briciolo di vivacità ritrovata chissà dove, domanda con sdegno: “Chi sei?

Una voce che avrebbe spesso contornato le sue notti.

“ Il tuo incubo peggiore… “

 

*** *** ***

 

Non ho mai capito se sono le cose a diventare simili a chi le possiede, o se sono gli uomini che inevitabilmente finiscono per assomigliare ad esse.

Il portone che mi si para davanti, in tutta la sua tetra natura, è abbastanza distrutto, reso a pezzi dal tempo poco caritatevole, e da movimenti non certo pietosi nell’atto di chiudere o aprire, quale sia stata l’occorrenza del momento. La maniglia è sporca di qualcosa di non ben identificabile, e il vetro che dovrebbe conferire un minimo di decenza al tutto, naturalmente, è fracassato in mille punti diversi, diramazioni di vetro su vetro, di colpi su colpi.

L’interno se possibile è anche peggio. Appena entrata, un odore nauseabondo di sporco e di peccato, al quale purtroppo ormai dovrei essere abituata, mi si ferma nelle narici, stordendomi. Ampie poltrone di velluto rosso e mobili ingialliti in vecchie fotografie di tempi trascorsi, contornano il resto.

Su una sedia circolare di legno massello, siede un uomo grasso, dalle guance flaccide, il corpo disteso.

Sembra controllare il mondo da lì, con la sua posa burbera e patetica allo stesso tempo, con i suoi baffi da generale decaduto, con quello sguardo privo d’espressione che ha la durezza di un macigno su cui è stata incisa la parola odio a caratteri cubitali.

Non mi ha sentito arrivare.

Cammino con leggerezza, cercando di evitare un contatto con lui, prendendo la via delle scale, senza farmi notare. Senza motivi validi per cercare uno scontro diretto di primo mattino.

“ Sei in ritardo “

La sua voce giunge a me come una pugnalata. Il mio corpo s’irrigidisce al suono che quell’essere riesce ad emettere dalla bocca, e il mio pugno, disteso saggiamente contro un fianco, si chiude in una morsa stizzosa e incattivita. Mi volto lentamente verso la sua direzione, cercando di dominare istinti primordiali poco congeniali alla situazione.

Lui non c’è più. La sedia a dondolo di legno massello oscilla appena verso di me, come sfiorata da qualcosa di delicato, come mossa semplicemente dal vento.

Ma quando mi accorgo dell’errore, dell’inganno, è ormai troppo tardi.

Lui è ormai dietro di me, e con forza inspiegabile per la sua mole decadente, mi stringe le braccia intorno al collo, con violenza, senza quella pietà che mia madre disse di vedere un giorno nei suoi occhi, senza un briciolo di compassione alcuna per il mio corpo, stupido mezzo di divertimento per uomini senza cuore.

Sento l’aria iniziare a mancare, il viso fatto di un unico colore, ed inizio ad annaspare, a divincolarmi come posso, stremata, priva di volontà, priva di orgoglio. Le mani callose di quell’uomo orribile sembrano moltiplicarsi con i secondi. Scendono rapide, si annidano, prendono vita in ogni centimetro di carne disponibile, seviziano con tocchi irriverenti, rudi, le gambe smagrite e pallide che mi sono rimaste; percorrono il seno con malagrazia scomposta, in morse cattive, violente, senza perdono, senza remora; scivolano là dove è custodito il mio segreto più grande, e più volte violato, in quel luogo troppe volte concesso senza appello, senza ragione, quando in vita – quella vera – non sarebbe mai stato pensabile per una come me.

Sento la presa allentarsi. Le mani frenarsi di fronte alla voglia. Lo sguardo passare in rassegna tutto quanto con bramosia. Mi stacco velocemente, le lacrime che scendono senza neanche accorgersene, figlie anch’esse di un nuovo giorno, e cerco di ritrovare il respiro, non riuscendoci, non potendo riuscirci.

Chiudo gli occhi.

“ La prossima volta non sarò così tenero “

E quando li riapro lui non c’è più. Un incubo che ogni giorno non vuole smettere di esistere, un incubo che non è più un incubo bensì una rappresentazione concreta di una realtà esistente, insormontabile, un gioco di sadismo mortificante, sfiancante, che non è mai iniziato come non è mai finito, che mi resterà impresso per sempre, finché avrò vita e fiato da esalare.

Mi passo una mano sul petto. Il cuore batte all’impazzata, terrorizzato. Impaurito.

Facendomi forza, quella forza che temo di non possedere più, raccolgo le ultime energie e mi dirigo verso le scale, in quel regno dove l’incubo continua, in quel luogo dove la tortura perdura… in modo più ovattato, forse.

I miei passi risuonano quasi inopportuni in quel silenzio inoppugnabile. I gradini sembrano montagne secolari da scalare, il peso sulle gambe è eccessivo, la stanchezza troppa. Mi trascino come posso nella mia stanza, la famosissima camera n°4, un cuore gigante e provocante impresso nella porta, un cuore distrutto dentro, raggrinzito dagli abusi e dalle oscenità a cui ha dovuto assistere.

Il letto al centro di quello spazio di vergogna e peccato lo vedo quasi come un miraggio. I cuscini rossi a forma di cuore e la federa vellutata – anch’essa dello stesso colore – mi chiamano intonando una nenia immaginaria, attirandomi nella loro profumata fragranza, nel loro falso candore.

Mi stendo con delicatezza. Apro le braccia ad angelo e fissò il soffitto.

Un grosso lampadario arrugginito penzola sopra la mia testa. Volteggia sopra di me come un rapace, pronto a colpire al momento più opportuno, oscillando brevemente sospinto per inerzia. Sembra un boia pronto a sferrare il suo colpo finale, pronto a far saltare la testa del prigioniero.

Da un quadro vecchissimo una donna con il naso appuntito ricambia il mio sguardo.

In quel momento trovo la risposta al mio quesito.

Sono le cose a diventare simili a chi le possiede, e anche quella donna in quel quadro, improvvisamente sembra più triste, più sola.

Proprio come me.

 

*** *** ***

 

Cosa importa se il sangue scende?

Il Mangiamorte che da qualche ora mi sta tenendo compagnia ha deciso di prendersi una pausa. Lo posso vedere appena, torcendo innaturalmente il collo, accendersi una sigaretta tra le mani, inghiottire il vapore cancerogeno di quella sostanza, sbuffare in piccole bocche di fumo grigio.

Sembra tranquillo.

Non sembra dare troppo peso alla ferita al fianco che continua a sanguinare; non sembra accorgersi delle ossa rotte, delle vertebre incrinate; non sembra dare un quantitativo ragionevole di importanza a tutto quello che mi è stato fatto.

Il suo martello ha colpito inesorabile, le carni si sono lacerate, e il suo sguardo, quello sguardo leggermente imperfetto dietro la piccola mascherina d’argento, mi ha osservato come se fossi già cadavere, condensando nei propri occhi il preludio di qualcosa di terrificante.

Ho perso i sensi, miracolo voluto da qualcuno che forse si è sentito in colpa, e per un periodo che non saprei quantificare ho vagato in quella dimensione magnifica, terribilmente falsa, dove tutto si spegne, i dolori svaniscono, e il tempo si ferma concedendo riposo.

Ma poi, svegliatomi dall’incubo dolce in cui mi ero venuto a trovare, ho dovuto riaffrontare di nuovo l’amara realtà.

Il Mangiamorte, l’uomo prima del mostro, il carnefice prima della vittima, ha finito la sua breve pausa ristoratrice. La sigaretta, ormai un minuscolo mozzicone nero, cade a terra, apparentemente senza peso, e si mischia in una miscela di sangue e catrame, catrame e sangue, sporcando se possibile ancor di più quel luogo di abominio incontrastato.

Si volta verso di me. Sorride.

Con un gesto fluido estrae la scure dal suo posto di origine.

“ Il gioco ha di nuovo inizio… “

Un gioco che purtroppo avrebbe visto un solo vincitore.

Il gioco. E qualcuno lo avrebbe perso.

 

*** *** ***

 

Piove.

Piccole gocce di pioggia cadono. Si depositano sul terreno, formando pozze naturali e fangose, cuciono nell’aria una fitta rete di fresco e si alimentano, le une con le altre, dando origine al circolo propiziatorio della vita.

Guardo dalla finestra, il mio respiro che si condensa sul vetro, le poche persone ancora fuori affaccendarsi per rientrare in casa, portare pacchi fino alla porta, correre sotto la pioggia battente riparandosi alla bene e meglio con i cappotti. Le loro vite mi passano davanti per poi sparire.

Vedo le loro facce, i loro volti, ma sempre senza riconoscerli appieno, senza la possibilità di capire chi sono realmente, e realmente distinguerli.

Piove forte, fuori. La pioggia si abbatte.

Alcuni, nel profondo della loro anima, la aspettano per non piangere più da soli. La attendono, come si attende una persona cara, e la pregano di venire in loro soccorso, ripulendo così la loro coscienza sporca, il peccato che l’uomo commette solo vivendo, lo sciocco materialismo che si prende gioco di tutte le cose.

Io ho atteso tanto la pioggia. Ho pregato quelle nuvole nere, minacciose ma inconsistenti, di gettare in questi luoghi un po’ di purezza, quando essa non esiste più, da molto tempo ormai; ho pregato con le mani congiunte al cielo quella volta celeste, unica custode di verità inoppugnabili, verità che si condensano in ogni cuore, in ogni anima, cercando di guarire. Ho pregato. Tanto.

Le lacrime che scendono dai miei occhi non sono altro che niente. Perché niente è rimasto dentro di me.

Qualcosa si è spezzato, rotto, qualcosa si è incrinato dentro al mio corpo, uccidendomi, schiacciando quanto rimasto. Cosa è rimasto?

Lucy si sta struccando davanti ad uno specchio consunto. Le ciglia nere, macchiate di liquido scuro, si disperdono in piccoli fili di lacrime sbiadite. La sua immagine riflessa mi raggiunge ovattata, e in quegli occhi così simili ai miei per durezza e mancanza di vita, scorgo la stessa tristezza che si concentra nel mio corpo.

La vedo in quell’antico specchio, e non posso fare a meno di pensare quanto le nostre vite si assomiglino, percorso strano che ci ha portato a conoscerci, contro la nostra volontà, contro il nostro parere.

La vedo. E non vorrei doverlo fare.

Lei, con la sua sola presenza, mi ricorda tutto lo schifo che sta attraversando la mia strada, mi ricorda cosa sono diventata, come sono diventata, e non posso guardare i suoi occhi senza vedere me stessa riflessa.

Lei, unico specchio della mia verità.

“ Credi che potremo continuare così? “

Una domanda cui, purtroppo, non trovo risposta. Una domanda posta per caso, con disperazione.

Faccio forza sulle mie gambe smagrite e mi avvicino a lei. Con un grosso sospiro, tento di esprimere in gesti quello che non riuscirei a dire con le parole.

“ Non lo so… non lo so

Lei si volta verso di me. Mi abbraccia.

Calore spento. Calore confuso. Restiamo attaccate, unite dallo stesso dolore, dalla stessa perdita, unite dal nostro essere così diverse eppure così uguali, cercando un conforto che non vediamo in nient’altro, che non riusciamo a trovare.

Mi stacco leggermente da lei, il palmo leggermente imperfetto della sua mano nel mio. Le accarezzo i capelli scuri e lucenti, sistemandoli in piccole ciocche dietro l’orecchio, e con uno sguardo comprensivo cerco di comunicargli tutta la mia gratitudine, tutta la mia riconoscenza, per esserci sempre stata da quando è accaduto tutto.

Perché tutto è successo… ed è successo troppo in fretta.

“ Devo andare… “

La mia voce è lontana, trasparente. Faccio fatica a distinguerla io stessa.

È un suono strozzato, contuso. Un suono pieno di angoscia e di speranza, un suono per chi ha troppe cose da dire e non ha la forza per farlo.

“ Ce la faremo ‘Mione, ce la faremo… “

E come in un canto mistico di innaturale bellezza, Lucy pronunciò le ultime parole del suo cammino, prima che una forza troppo prepotente e insaziabile come il destino, avesse deciso di scardinare il nostro legame.

Ce la faremo ‘Mione, ce la faremo

Non un bel modo di abbandonare la vita.

 

*** *** ***

 

Io lo faccio per mia madre. Nient’altro.

Se sono come sono, sporca più di quanto non lo sono mai stata, sudicia nelle viscere, nel cuore, se sono come sono adesso, lo faccio unicamente per lei. Per non offuscare il suo ricordo, il suo sorriso, per non disperdere in modo disdicevole il legame che ci concatenava, univa, reminescenza di qualcosa di profondo che purtroppo non esiste altro che nella mente.

Lo faccio per mia madre. Niente di più.

Ho imparato ad amare, a guardare le cose oltre alla loro falsa semplicità, perché è stata lei ad insegnarmelo, a farmelo capire; ho scoperto i valori, le ovvie conseguenze degli errori e degli sbagli, perché è stata lei ad aprirmi il cammino verso la conoscenza.

Io volevo bene a mia madre. Davvero.

Magari nell’ultimo periodo non sempre l’ho dimostrato, troppo impegnata com’ero a pensare alla mia vita, ai miei sciocchi obiettivi, alle mie effimere sensazioni, ma posso dire – in mia difesa – di avere nutrito per lei un affetto sconfinato, un amore inimmaginabile, quantificabile e quantificato, come spesso accade, solo nel momento della sua morte.

Troppo tardi ho capito i miei errori, le mie mancanze; troppo tardi ho riconosciuto cosa contava veramente, per trovarmi sola con il vuoto dentro, con la perdita incolmabile che solo il dolore riesce a conferire; troppo tardi ho lasciato stare l’orgoglio, strascicando scuse misere di diniego, protraendo la tensione accumulata su tutti e su tutto. Troppo tardi… lei non c’è più. Non con me. Non con altri.

Io lo faccio per mia madre. Perché so che lei lo avrebbe voluto.

Eseguisco gli ordini di un uomo che dovrebbe farmi da padre, quando il mio si è spento ormai da tanto tempo, e che mia madre ha amato, forse come non è mai riuscita ad amare me.

Io lo faccio per lei, perché questo è stato il suo ultimo desiderio.

Resta con lui. Resta con lui.

Ed io sono rimasta, da schiava quale sono, vicino alla sua presenza. Soffrendo miseramente, fingendo indifferenza, sottoponendomi alle sue violenze forzate, guardando la sua faccia sperando sadicamente di morire.

Io sono rimasta. L’ho fatto per lei.

E anche se non capisco come possa essere stata così cieca, così sorda, nell’apprendere la verità, nel comprendere che l’uomo che aveva davanti non era altro che feccia, io non posso far altro che pagare il mio tributo verso la mia coscienza, estinguere il dolore, giorno dopo giorno.

Molte ragazze, nella mia stessa condizione, stanno pagando per colpe che forse non sono neanche loro. Stanno decomponendo la loro anima per un uomo che non ha avuto pietà, che non ha avuto scrupolo.

Non ha importanza se veniamo sbattute in ogni momento da porci maiali che abusano di noi, se lui può avere il suo tornaconto. Non importa, e non è mai importato.

Ma un giorno tutto questo finirà… lo so.

Per il momento non ci resta che aspettare.

 

*** *** ***

 

Il sole è ormai tramontato. La notte si sta avvicinando.

Un corpo attaccato ad una colonna di pietra perde vistosamente sangue da un fianco.

Non un rumore si perde nell’aria, non un suono giunge all’esterno.

La figura di un uomo con i capelli rossi sembra l’unico motivo distorto in quel paesaggio di freddezza totale.

Che sia un’altra anima pronta a raggiungere il cielo?

 

Fine Primo Capitolo

 

 

Bene, la storia sta iniziando a prendere una sua forma, che dite?

Non so se sono stato molto chiaro, o se la lettura in generale vi è sembrata piuttosto pesante, ma credo che alcune cose debbano ancora essere omesse, restare poco chiare, in modo da seguire un filo logico più stabile con i capitoli che verranno. Non garantisco sulla velocità di pubblicazione, per ovvi motivi personali, ma con l’avvento prossimo delle feste di Natale, dovrei riuscire a scribacchiare qualcosa entro l’anno! ^^

 

Vorrei ringraziare quelle anime buone (e pie e sante e qualsiasi appellativo angelico esistente) per le recensioni da loro concesse. Vi adoro!

 

In ordine prettamente casuale:

-          Robby

-          Hermione Weasley

-          Nancy (Nox)

-          Phoebe80

-          Ciara

-          GiuliettaLestrange

-          Yelle

-          Ellie

 

Grazie mille, davvero!

Ovviamente vi sarei infinitamente grato, dall’alto della mia umile posizione, se foste così gentili da ripetere il gesto evangelico!

 

Ogni commentino è ben accetto!

 

Un saluto enorme

 

Nightmare

 

*** *** ***

 

Angolo degli annunci:

 

E’ stato aperto da un qualche mese un nuovo forum di Harry Potter molto carino. Abbiamo un gioco di ruolo, lo smistamento, e ogni settimana chi troverà la soluzione all'indovinello che l'Amministratore propone vincerà avatars, gift e animazioni riguardanti chiaramente Hp! Abbiamo bisogno di nuovi iscritti per salire nella Top 100! Quindi, perché non ci fate un salto? Ci farebbe davvero molto piacere.

 

Harry Potter Forum

 

Sento il bisogno di proporvi anche un altro forum! Non che io condivida i principi morali di questo sito, ma visto che è stato creato da 3 delle mie più care amiche, mi sembrava giusto segnalarlo!

Solo per chi odia, disprezza, ritiene indegna di ruolo di attrice… Emma Watson!

 

Anti-Emma Forum

 

Per coloro che volessero contattarmi, per parlare del forum o di qualsiasi altra cosa, accludo il mio indirizzo e-mail e il mio indirizzo MSN:

 

godhands89@yahoo.it

nightmare899@hotmail.it

 

 

 

<< Un grazie infinito al cielo, per avermi donato le stelle… >>

 

Nightmare

 

Continua!!!

 

 

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