Sailor Moon Uncutted

di Miss Demy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Incubi ***
Capitolo 2: *** L'amore rinasce ***



Capitolo 1
*** 1. Incubi ***


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Incubi. Ep. 69, serie 2


“Mamoru, il mio sogno si realizza, finalmente ci stiamo sposando…”
“Mamo-chan!” 
Un sussulto di consapevolezza riportò Usagi alla realtà. Un brivido di dolore le percorse la schiena non appena aprì gli occhi e si rese conto di aver fatto, ancora una volta, lo stesso sogno.
Una bruttissima sensazione di amarezza e sconforto di nuovo si era impadronita di lei. Il sogno era appena finito, l’incubo appena ricominciato.
Sì, perché ormai, da quando Mamoru l’aveva lasciata senza un valido motivo, per lei vivere era diventato un incubo.
Un incubo ininterrotto, che durava tutta la giornata, togliendole il respiro ogniqualvolta incontrava casualmente il suo amato Mamoru per le vie della città. Ormai bastava anche la cosa più semplice per riportarglielo in mente e ciò la faceva impazzire.
E ancora di più la faceva impazzire e le soffocava il respiro, l’indifferenza e l’arroganza con cui lui le diceva di lasciarlo in pace e che non la amava più tutte le volte che si incontravano. Avrebbe preferito morire piuttosto che sentirgli pronunciare quelle parole.
Ma lei non si arrendeva, sapeva ed era fiduciosa nella profondità del loro amore.
Un amore che andava oltre il tempo, un rapporto che aveva sconfitto le avversità.
Tante volte Mamoru l’aveva protetta e difesa, a rischio della propria vita.
Troppe volte l’aveva guardata con occhi pieni d’amore e di dolcezza, facendole capire che le sarebbe stato sempre accanto proteggendola, rendendola tranquilla perché avrebbe avuto sempre lui accanto.
Non importa se nelle vesti di Tuxedo Kamen o semplicemente Mamoru, lui ci sarebbe stato per la sua amata testolina buffa. Sempre.
Era per questo motivo che non si metteva l’animo in pace, lei sapeva che Mamoru non era sincero, che le aveva mentito. Sapeva che lui la amava da morire. Lo sentiva.
Ora però il sogno che faceva ultimamente, in cui poteva vedere Mamoru dolce e amorevole nei suoi confronti, e che ormai considerava irrealizzabile, era svanito e lei era tornata alla triste e dura realtà.

Era una domenica mattina ed erano soltanto le otto. Dalla finestra che aveva lasciata socchiusa la sera precedente, entrava un buonissimo odore di ciliegio in fiore. Si respirava già l’aria d’estate, calda e a volte soffocante.
Avrebbe potuto riaddormentarsi, ma non ci riusciva. Era troppo triste e amareggiata. Il caldo poi di certo non la aiutava a riprendere sonno. Si rigirava in continuazione sul letto. Smaniosa. Un altro giorno iniziato male. Un altro giorno senza il suo Mamoru.
Non aveva voglia di leggere i suoi fumetti preferiti né di giocare ai videogiochi.
Decise quindi di alzarsi e di andare a fare una passeggiata, magari si sarebbe distratta un po’ e, con un po’ di fortuna, lo avrebbe rivisto.
Indossò una maglietta rosa senza maniche e una gonna corta molto leggera, per far fronte al caldo che si preannunciava, continuando a pensare al suo amato Mamoru, sperando di rivederlo.
In tutto ciò che faceva, il suo unico pensiero era Mamoru.

Le mancava da morire, soprattutto quando si svegliava da quei dolci sogni. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per poterlo riabbracciare e sentire il suo calore, stretta fra le sue braccia, a contatto col suo cuore. Avrebbe dato qualsiasi cosa per essere di nuovo baciata dolcemente da lui, per sentirgli dire che anche lui la amava. Più ci pensava più impazziva.
Poi, il destino entrò in gioco. Lo vide, assorto nei suoi pensieri, con le braccia su un ponticello. Chissà se anche lui ogni tanto pensava a lei. Quanto avrebbe voluto, come al solito suo, correre ad abbracciarlo. Purtroppo adesso non poteva.

Si avvicinò a lui, cercando le parole giuste da usare per non irritarlo e per non farlo andare via. In fondo lui le aveva detto tantissime volte che voleva essere lasciato in pace ma lei proprio non riusciva a non parlargli.

Lui la notò subito e per un attimo gli mancò il respiro.
“Perché, perché devo separarmi da lei? Che cosa potrebbe succederle?” aveva appena finito di pensare, malinconico e dispiaciuto dopo aver fatto anche lui lo stesso incubo che ormai lo stava distruggendo. Lui la amava, e la avrebbe amata finché avrebbe avuto vita, ma non poteva rischiare che la sua amata Usagi morisse. Era meglio così, avrebbero sofferto entrambi ma poi lei magari si sarebbe rassegnata, magari avrebbe conosciuto un ragazzo che l’avrebbe trattata con dolcezza, come lei meritava, e così, col tempo, lo avrebbe dimenticato.
Per questo aveva deciso di trattarla con indifferenza e usando toni duri. Era necessario, anche se questa decisione lo uccideva. Non ce la faceva a vederla con gli occhi lucidi ogni volta che dolcemente gli parlava, ogni volta che lui la trattava male. Si sentiva un verme, non era giusto. Usagi era la ragazza più dolce che conoscesse e lui la faceva stare male. Nonostante ciò, lei continuava ad essere dolce e affettuosa, cercando di nascondergli il suo dolore e la sua sofferenza. Lui lo capiva e ne soffriva ancora di più. Vedendola triste avrebbe tanto voluto spingerla verso di sé e abbracciarla forte, sentirla sua, accarezzarla, baciarla, toglierle la tristezza dal viso e dal cuore, scusarsi. Non avrebbe avuto bisogno di parlare, perché lei avrebbe percepito semplicemente dai suoi occhi e dalle sue carezze che l’amava più della sua stessa vita. Ma non poteva. Era troppo rischioso.  

“Ciao Mamoru, non credi anche tu che sia stato il destino a farci incontrare di nuovo?” Con mani giunte e un viso triste ma al contempo felice di vederlo, Usagi lo riportò alla realtà.
“Vuoi smetterla?” rispose duramente lui, spostando il discorso su Chibiusa. Avrebbe voluto dirle che aveva ragione che, destino o meno, lui voleva stare insieme a lei per tutta la vita e poi le avrebbe dato un tenero bacio rendendola felice. Ma anche stavolta le aveva parlato con freddezza. La sua vicinanza lo uccideva, era enorme la tentazione di sentirla sua, così come la voglia di toccarla, di accarezzarle le tenere guance, di prendere quelle piccole mani e baciarle, avendo così la certezza che, al contrario dei suoi sogni, stesse bene. Ma non poteva essere egoista, l’amava troppo.
Andò via, con la scusa dello jogging, sentendo la sua voce chiedergli di restare. Una voce ora triste, non più colma di speranza come quando lo aveva salutato poco prima. “Perdonami Usagi” aveva detto dentro di sé, sperando che le sue parole le giungessero al cuore. “Perdonami, amore mio se non resto con te” si era detto, ripensandola tutta sola e malinconica, mentre lo vedeva girarle le spalle e andarsene.
Lei per l’ennesima volta si era sentita morire. Dopo il sogno, di nuovo l’incubo. Cosa poteva fare? Come avrebbe potuto riconquistarlo? Non lo sapeva, ogni idea le sembrava inutile, però qualcosa doveva fare. Aveva fatto tanto per stare con lui, adesso non poteva essere tutto finito.
In questi casi la cosa migliore era parlare con le sue più care e fidate amiche; loro sicuramente l’avrebbero consigliata e confortata. Come sempre.

Da una cabina telefonica chiamò Rei. La ragazza era al tempio assieme alle altre.
“Usagi, dove sei? Luna dice che stamattina non ti ha vista.”
“Sì, sono uscita presto, ero un po’ giù di morale e avevo voglia di prendere una boccata d’aria.”
“Usagi, siamo tutte qui, hai dimenticato che dovevamo incontrarci per parlare di Chibiusa e di Crystal Tokyo? Su, raggiungici.”
“Mm… che ne dite se ci vediamo in centro? Sono davanti ad una gelateria, potremmo mangiare un gelato e parlarne… fa troppo caldo per restare chiuse in casa. Ti prego dimmi di sì, ne ho tanto bisogno…”
“E va bene! Come posso dirti di no se lo chiedi con quella voce sconsolata”
Usagi era sollevata, tra poco le sue amiche l’avrebbero raggiunta e anche se per parlare dei nemici e di Crystal Tokyo, la loro stessa presenza l’avrebbe rincuorata.
Si sedette su una panchina al riparo dal sole e le aspettò. Con il viso poggiato sulle mani, ripensò a Mamoru, alla sua indifferenza, alla sua freddezza.

 

“I suoi occhi… ” pensava, gli occhi del suo Mamoru non riuscivano ad ingannarla, a mentirle, loro erano sempre sinceri e lei, in quegli occhi color oceano, poteva ritrovare tutto il suo amore, la sofferenza provata ogni volta che le parlava con distacco. Ecco perché non si sarebbe data per vinta. Ecco perché lo avrebbe riconquistato.
 

“Usagi, a che pensi?” chiese una voce amica, riportandola alla realtà.
“Makoto, ragazze, vi stavo aspettando!” Il tempo, assorta nei suoi pensieri, era trascorso velocemente.
“Pronte per il gelato?” chiese Minako.
“Sì!” rispose Usagi, alzandosi, con un dolce sorriso sulle labbra.
Uscendo dalla gelateria con i loro gelati in mano, le ragazze si sedettero al riparo dal sole cocente per discutere sulle varie informazioni ottenute fin a quel momento e cercare un modo per saperne di più sui nemici e su Chibiusa, ma Usagi sembrava non prestare attenzione. Avrebbe preferito confidarsi con le sue più care amiche e ricevere consigli su come riconquistare Mamoru, magari cercando di sapere le loro opinioni sul perché lui l’avesse lasciata, ma ora la cosa più urgente era pensare ai nemici. Combattere era la sua missione, sì, ma Mamoru era tutta la sua vita.


Mamoru aveva fatto jogging, cercando di capire cosa sarebbe potuto succedere a Usagi se fosse rimasto con lei. Non voleva spararsi da lei, avrebbe fatto qualsiasi cosa per stare con lei. Chi era colui che gli parlava in sogno? Perché voleva dividerli? Aveva perfino pensato che fosse solo un sogno e che non avrebbe dovuto dargli importanza. Ma tale pensiero era stato cancellato dalla sua mente quando anche il vetro del portafoto, in cui erano ritratti assieme, si era rotto. Aveva avuto la certezza che non si trattasse di un semplice sogno, ma di un brutto presagio.
Non avendo lezione, né tanto meno voglia di studiare, andò al locale del suo amico Motoki a prendere un caffè, cercando di non pensare più a ciò che lo stava ormai uccidendo dentro.
Il ragazzo era seduto su uno sgabello, riposandosi in attesa che i clienti ordinassero qualcosa, Mamoru lo notò subito non appena entro nel locale. Gli si avvicinò, sedendogli accanto.
Motoki si voltò subito, udendo i passi sempre più vicini. Notò nell’amico un’aria triste e malinconica, non era la prima volta che lo vedeva così e ciò era strano.
Da quando conosceva Mamoru, infatti, seppur egli non fosse molto estroverso, non lo aveva visto mai così pensieroso come negli ultimi tempi, ma non glielo aveva fatto mai notare.
Stavolta invece non resistette, in fondo erano amici e lui avrebbe voluto fare qualcosa per l’amico in difficoltà.
Mamoru fu contento. Da quando aveva lasciato Usagi, era tornato ad essere solo. Usagi era diventata tutto per lui. La sua ragazza, la sua confidente, la sua famiglia. L’aveva reso felice riempiendo la sua vita piena di gioia e allegria. Non era più solo. Peccato che questa meravigliosa sensazione non fosse durata molto. Aveva dovuto rinunciare a lei, tornando nella sua solitudine e ora, sapere di avere qualcuno con cui confidarsi lo tirò un po’ su di morale e, seppur non potesse rivelargli tutta la verità, si lasciò andare, chiedendo un consiglio.
Poiché il suo non era un semplice sogno, ma un presagio di disgrazie, e dato che Usagi non avrebbe mai accettato l’idea di separarsi da lui per il suo bene, non restava altro che farsi odiare da lei.
Sì, doveva farsi odiare da colei che amava. Solo così lei non avrebbe più sofferto per lui. L’odio della sua Usagi nei propri confronti lo avrebbe ucciso, i suoi occhi sempre dolci, sarebbero diventati pieni di rabbia e di odio e ciò gli avrebbe frantumato il cuore. Lui l’amava, ma il suo bene e la sua vita valevano tutto, proprio per questo avrebbe accettato l’odio e disprezzo nei suoi confronti. Usagi valeva questo e molto più.
Chiese consiglio a Motoki.
“Come dovrei comportarmi per farmi odiare da una ragazza?” domandò, senza specificare che la ragazza in questione era Usagi. Quella testolina buffa che tante volte aveva preso in giro proprio davanti a lui, quella ragazzina che all’inizio era infatuata di Motoki e di cui adesso, se ci pensava, era un po’ geloso.
Motoki non capiva.
“C’è una ragazza che deve assolutamente dimenticarmi, voglio che mi detesti, che mi disprezzi.”
Motoki era ancora più confuso di prima, in ogni caso non ebbe il tempo di rispondere che qualcuno si avvicinò loro.
“Ciao Mamoru!”
Una ragazza molto carina, certo non come la sua Usagi, dai capelli ramati e gli occhi verdi si era avvicinata al bancone, tenendo un vassoio fra le mani e con un allegro sorriso in viso, salutando il ragazzo.
“Unazuki, ciao! E’ da un po’ che non ci vediamo! Che ci fai qui!”
“Sono venuta a dare una mano al mio fratellone, in questo periodo il locale è sempre pieno!” rispose lei con aria allegra, avvicinandosi a Motoki.
“E già! Unazuki resterà qui per un po’, così potrò dedicarmi di più allo studio” aggiunse il fratello, stringendola a sé dalle spalle.
Mamoru conosceva Unazuki, la sorella di Motoki, ormai da un po’, anche se non la vedeva spesso in giro. Lei frequentava lo stesso liceo di Rei e lui l’università, i due edifici erano parecchio distanti fra loro e non vi era occasione di incontrarsi spesso.
Per un attimo un’idea gli balenò in mente, un’idea cattiva ma a fin di bene.
Cercò di cacciarla dalla mente. Usagi doveva odiarlo ma non in questo modo. Usagi era buona, dolce, gentile, non meritava questo.
“Oddio! È tardissimo! L’autobus è già passato, adesso come faccio… ” disse spalancando gli occhi, allarmata, Unazuki non appena guardò l’orologio che portava al polso.
“Che succede?” chiese Mamoru, voltandosi verso di lei, riportato alla realtà da quell’esclamazione.
“Dovevo raggiungere il mio fidanzato, ma adesso non so più come fare” rispose lei a testa bassa con tono sconsolato.
Anche se gli sembrava troppo crudele, forse qualcuno lo stava aiutando, forse gli stava suggerendo un’idea che tanto cercava.
Adesso, a malincuore, sapeva come farsi odiare da colei che amava alla follia. L’avrebbe fatta ingelosire, facendole capire che era sincero quando diceva di non amarla più.
“Non ti preoccupare, ti do un passaggio con la moto” disse, alzandosi dallo sgabello e porgendole il casco che aveva portato con sé.
In mente tanti pensieri e sensi di colpa lo assalirono. Aveva avuto l’occasione di farsi odiare. Adesso doveva metterla in atto.
Era più facile a dirsi che a farsi.
Salì in moto, Unazuki fece lo stesso non appena ebbe indossato il casco.
Quanto avrebbe voluto che ci fosse Usagi insieme a lui, quanto avrebbe desiderato sentire quella dolcissima voce, a volte un po’ stridula, ridere piena di allegria. Avrebbe voluto sentire il contatto del suo corpo alla sua schiena, mentre le diceva di stringersi a lui. Ma forse non ce ne sarebbe stato bisogno, Usagi lo avrebbe abbracciato per tutto il tempo, avrebbe riso stretta a lui, sarebbe stata felice. Lo avrebbe reso felice.
Invece con lui c’era Unazuki. Per tutto il tragitto non parlarono, lui aveva in mente solo Usagi.
“Dove potrebbe essere?” pensava nella sua mente, perlustrando le strade del centro. Sicuramente lei era ancora fuori casa, la conosceva e sapeva che preferiva stare in mezzo alla gente, per non concentrarsi su ciò che la faceva soffrire, quando si sentiva triste; sapeva che la causa era lui e si sentiva in colpa per quello che le aveva fatto e che avrebbe continuato a farle.
Doveva trovarla, doveva approfittare dell’occasione per farsi odiare.
La vide.
Pensò fosse uno scherzo della sua mente, visto che ormai la sua ossessione lo portava a vederla ovunque, ma non era un’illusione. Era lei. Proprio lei, insieme alle sue amiche, con un gelato in mano e un’espressione triste ma meravigliosamente dolce in viso, assorta nei suoi pensieri.
Doveva farsi notare prima che la luce del semaforo diventasse verde.
Un rombo di motore avrebbe sicuramente attratto la sua attenzione, non perché lei amasse i motori ma perché quel rumore assordante le dava fastidio.

“Chi è che fa tutto questo chiasso, sto cercando di riflettere” con voce infastidita da quel rumore odioso, Usagi si voltò a guardare l’artefice.
Non ci poteva credere. Era Mamoru, il suo Mamoru, in sella a quella moto rumorosa. Aveva alzato la visiera del casco non appena si era accorto di lei. Come a volersi fare notare a tutti i costi. Non era solo però. Una ragazza dalle gambe scoperte era dietro di lui.
Chi era? Cosa voleva da lui?
Si alzò di scatto, correndo verso di lui. Il cuore le si era fermato. Il respiro le era venuto meno.
Forse stava solo esagerando, forse era solo una sua parente.
“Mamoru, chi è questa ragazza? Non l’ ho mai vista. È una tua lontana parente? È forse tua cugina?” Cercava di auto convincersi che fosse proprio così, che lui l’amava ancora e non avrebbe mai avuto un’altra ragazza. Lo sperava con tutto il cuore, però temeva la risposta negativa. Allora perché lo aveva chiesto? Forse non avrebbe dovuto, a volte è meglio non sapere la verità. Quasi si pentì di averlo chiesto. Quasi sperò di non sapere nulla.

“Come ti permetti di farmi queste domande? Se non sbaglio ti ho già detto di lasciarmi in pace.” Ancora una volta era stato brusco e scontroso, riabbassando la visiera del casco e guardandola negli occhi.
“Abbracciami, o rischi di cadere!” continuò, rivolgendosi stavolta alla ragazza stretta a lui, anche se il suo obiettivo era Usagi.
Aveva voluto ferirla e dai suoi occhi azzurri, increduli e lucidi, ne aveva avuto la certezza. Ma perché? Perché se ciò gli toglieva il respiro? Perché se ciò lo uccideva? Perché proprio a colei che amava più di qualsiasi altra cosa, a colei per cui avrebbe dato la propria vita? Non riusciva più a parlare.

“Chi e’ quella biondina Mamoru?” con aria sorpresa chiese Unazuki.
Seppure dietro la visiera, quegli occhi stupendi, pieni d’amore, lo avevano appena annientato. Non ce la faceva più.
“È soltanto una ragazzina!” rispose con voce beffarda, ridendo, umiliando la piccola e dolce Usagi mentre ripartiva, ignorandola completamente, come se per lui non esistesse più. Come se tutto ciò che avesse fatto finora non fosse bastato. Come se non fossero ancora finite le sofferenze che voleva infliggerle, occorreva anche quello per avere la certezza che stavolta lei lo odiasse sul serio e si mettesse l’anima in pace.

Perché faceva così male? Perché, se dicono che di amore non muore, lei era morta in quel momento?
Il suo dolore, il suo sconforto, la sua incredulità erano padroni della sua anima.
Pianse, da bagnare il pavimento, da consumare quegli occhi così belli e sempre pieni di gioia che amava donare a chi la guardava.
“Sono solo una ragazzina” continuava a ripetere, a se stessa e alle amiche che ormai la vedevano in uno stato indescrivibile.
C’era già passata Usagi a stare lontano da Mamoru, rapito e reso un nemico da Beryl. Quella volta era un incantesimo però e, con il potere dell’amore, lo aveva riportato ad essere la persona buona e generosa che tanto amava.
Aveva sofferto vedendolo combattere contro di sé, ma poi l’amore aveva trionfato.
E adesso? Adesso che lui non l’amava più?
Che stupida era stata. Illusa che lui la avrebbe amata sempre, legato ai ricordi di un tempo lontano.
Stupida ragazzina. Ecco cos’era. Una stupida, piagnucolona ragazzina. E lui lo aveva capito e la aveva lasciata.
Non si dava pace. Era in preda alla disperazione.
Non riusciva a frenare le lacrime.

“Usagi, su, vedrai che ci sarà una spiegazione” le aveva detto Makoto, porgendole un fazzolettino.
“Ma sì, vedrai che non voleva ferire i tuoi sentimenti” anche Rei cercava di confortarla, poggiandole le mani sulle spalle, sperando che le loro parole potessero esserle di conforto.
“Non ce la faccio, non riesco più a vivere. Forse ha ragione Mamoru, sono solo una ragazzina piagnucolona. Che se ne fa di me? Lui merita una ragazza matura.”
Cercava di convincersi di ciò che aveva detto, ma il cuore le si era frantumato.
“Senti Usagi, qualunque cosa abbia spinto a Mamoru a prendere questa decisione, lo farà ricredere e gli farà capire quanto profondo sia il vostro amore.” Ami con le sue parole sempre sagge cercava di trasmettere un po’ di positività.
“Amore… amore… non c’è più amore da parte di Mamoru per me. Devo rassegnarmi, ora sta con un’altra.”
“Ma non è detto che quella sia la sua ragazza. Usagi, cerca di non esagerare, piangendo non risolverai nulla.”
“Luna, lo so, sono le stesse parole che mi disse Tuxedo Kamen la prima volta che mi trasformai in Sailor Moon” disse ancora più sconfortata, con lo sguardo perso nel nulla. Era assurdo, più cercava di non pensarlo, più tutto le ricordava quei dolci momenti. Il suo eroe che arrivava sempre a salvarla. Il suo amato Tuxedo Kamen sempre dolce e protettivo.  
Ma perché, perché? Perché ancora una volta il destino non voleva la loro unione e felicità?

Makoto, con un sorriso pieno di entusiasmo voleva farla riprendere. “E’ ora di pranzo, perché non restiamo assieme? Vi preparo un pranzetto squisito. Ti va, Usagi?”
“No, ti ringrazio Makoto ma non ho proprio fame” aveva risposto, scuotendo la testa, mantenendo lo sguardo perso nel vuoto.
“Usagi, torniamo a casa.” Luna le si era avvicinata, accarezzando con il morbido viso la sua gamba.
“No. Preferisco rimanere un po’ da sola. Per favore.”
“Ti farebbe bene, invece, stare in compagnia. Noi magari non possiamo fare molto, però non vogliamo vederti così.”
“Sì, Usagi, Minako ha ragione, vieni con noi e dopo pranzo, se proprio vuoi, ti lasciamo da sola.”
“Ma sì, Rei, forse avete ragione voi. Mi avete convinta. Andiamo.”

Durante il tragitto per arrivare al tempio, Usagi non fece altro che pensare al senso di vuoto e di solitudine che Mamoru aveva lasciato in lei.
Sola. Adesso era sola. Che cosa avrebbe fatto d’ora in poi?
Da quando aveva conosciuto Mamoru qualcosa dentro di lei era cambiato. Inizialmente non lo sopportava proprio. Troppo arrogante e presuntuoso. “Ma chi si crede di essere? Perché non si fa gli affari suoi” si diceva, con tono irritato, quando si incontravano. Lui non perdeva mai occasione per provocarla e innervosirla. Lo odiava, lo detestava e più questo sentimento negativo cresceva dentro di sé, coincidenza del destino, lo incontrava sempre più spesso, come se qualcuno o qualcosa volesse farli conoscere meglio. “Il mondo è piccolo… a volte un po’ troppo” pensava dopo i vari battibecchi.
Poi, pian piano, aveva iniziato a conoscerlo meglio. Lui usciva con Rei e inevitabilmente si incontravano, anche se di sfuggita. Lui aveva cercato di farla sorridere quando la aveva vista triste, seguendola dietro un vicolo dove lei, per evitare di litigare con lui per le sue stupide battutine, si era nascosta. Sempre lui, vedendola in difficoltà, le aveva dato consigli quando lei li chiedeva a Motoki, l’uomo dei suoi sogni. Ma lei non provava nulla per lui, persino quando una famosa pittrice aveva chiesto loro di farle da modelli, quasi si sentiva in colpa nei confronti di Rei.
Però, pian piano che lo conosceva, la sua compagnia diveniva meno fastidiosa dell’inizio. Lui sembrava meno pungente, meno dispettoso.
Ma neanche questo le importava. Per quanto lui fosse carino, era troppo presuntuoso, ecco perché andava d’accordo con Rei.
Appunto, Rei. Non avrebbe mai pensato ad un ragazzo che piaceva alla sua amica.
E poi c’era Tuxedo Kamen. Coraggioso, protettivo, dolce, gentile, sempre pronto ad intervenire in suo aiuto quando era in difficoltà.
Tuxedo Kamen era l’uomo che amava.
E poi…
Poi scoprì che Tuxedo Kamen e Mamoru erano la stessa persona.
Dolce ma arrogante, protettivo ma spiritoso, gentile ma antipatico.
Un contrasto che in fondo, glielo fece amare ancora di più.
Aveva rischiato la vita per proteggerla. Non una, ma due volte.

Pensava a questo, ai momenti in cui lui aveva preferito morire per lei. “Solo una persona che ti ama si sacrificherebbe” si ripeteva nella sua testa, camminando lentamente, insieme alle altre, con occhi fissi per terra.
Aveva chiamato casa per dire che non sarebbe tornata per pranzo.
Makoto ai fornelli preparò un pranzetto squisito, pietanze a cui Usagi solitamente non riusciva a resistere e che mangiava con entusiasmo.
Ora invece l’entusiasmo era venuto meno. Non era la solita Usagi.
Era in un mondo tutto suo, fatto di pensieri e di ricordi.
“Povera Usagi, è veramente assurda questa situazione” commentò Ami a bassa voce, osservando dalla cucina Usagi nella sala adiacente, appoggiata con le braccia e il viso sul tavolino basso e lo sguardo triste e perso nel vuoto.
“Io non ci capisco niente. Fino a qualche settimana fa lui la amava e poi all’improvviso la lascia senza un motivo apparente” osservò Minako.
Rei, pensierosa, era rimasta insieme alle tre ragazze ad osservare Usagi: “E’ molto stano, non è da Mamoru, sono sicura che lui la ami ancora.”
Sapevano tutte quanto lui la amasse, ma soprattutto sapevano quanto profondo fosse l’amore di Usagi per Mamoru. Un amore così grande da far apparire da una sua lacrima versata per lui il potente cristallo d’argento e risvegliare così la principessa Serenity.
“Eccoti qui, Usagi!”
Usagi si sollevò per un istante da quella posizione, mettendosi dritta sulla schiena: “Chibiusa, che ci fai qui? Perché non torni a casa?” rispose con aria scocciata, ritornando subito dopo con la guancia poggiata al tavolino.
“Usagi, i tuoi sono dovuti uscire, ero sola a casa. Posso restare qui?”
“Ma certo, Chibiusa, ci fa piacere!” rispose Rei entrando nella stanza.
“Ma cos’hai, Usagi?” domandò la piccola, accorgendosi del malumore della ragazza.
Usagi non rispose, il suo sguardo era ancora perso nel vuoto. Immobile.
“E’ per Mamoru, non è vero?”
Stavolta Usagi si limitò di annuire, ferma in quella posizione.
Attimi di silenzio, poi, con aria scoraggiata, priva di speranza, lentamente aggiunse:
“Lo amo. Dio solo sa quanto lo amo. Darei la mia vita per lui… ma lui non mi ama più. Lui non mi vuole più. Non sono più niente per lui.”

Fin a quel momento, da quando era arrivata dal cielo, Chibiusa e Usagi avevano sempre litigato, soprattutto per le attenzioni di Mamoru.
Ma adesso, sentendo quanta sofferenza e quanto dolore ci fossero in quelle parole, capì quanto amore provasse Usagi per Mamoru.
In fondo le piaceva vederli assieme e saperli felici. Era la prima cosa che aveva visto appena arrivata in città.
Aveva assistito al loro primo bacio. E poi, quando stava insieme a loro due, quando erano solo loro tre, provava una bellissima sensazione di calore nel cuore.
Aveva capito quanto Usagi fosse gelosa, persino di una bambina.
Usagi era innamorata. Usagi voleva renderlo felice e lui la guardava con occhi pieni d’amore. Rendendola ancora più felice.
Ma adesso Usagi era infelice.
“Vedrai, si sistemerà tutto!” disse, sorridendo e piena di positività, la bambina. Stringendo tra le mani il suo strano giocattolo a forma di faccia di Luna.
“Il pranzo è pronto!” Makoto entrò nella stanza, con in mano un vassoio pieno di prelibatezze.
Pranzarono assieme, cercando di ridere e farle tornare il buon umore, anche se i loro sforzi non riuscirono nell’intento. Usagi però, nonostante la tristezza, mangiò tutto ciò che Makoto aveva preparato.
Era tutto squisito. Come al solito.
Rimasero insieme tutto il pomeriggio.
Poi, approfittando del fatto che Chibiusa si fosse addormentata, ripresero il discorso da dove lo avevano interrotto quella mattina.
Sebbene non fosse il momento più opportuno, dovevano parlare di loro. I nemici.
Verso le 19.00 le ragazze salutarono Rei e si avviarono verso le rispettive dimore.
Usagi e Chibiusa, arrivate all’incrocio, salutarono Ami, Minako e Makoto e presto arrivarono a casa.
I suoi genitori erano dovuti uscire e sarebbero ritornati molto tardi.
In frigo non c’era nulla di pronto e Usagi non era di certo un granché tra i fornelli.
“Chibiusa, aspettami qui, io vado a comprare qualcosa di pronto, torno presto.”
“Va bene, ma non metterci tanto” rispose la piccola, non convinta delle parole della ragazza.

Quella sera le vie erano deserte, molte persone avevano approfittato del week-end e del caldo per andare al mare, allontanandosi dalla città.
“Caspita! È già chiuso!” esclamò leggendo il cartello del take away, dove si serviva quando era sola a casa e non aveva voglia di cucinare.
Con la testa bassa, si voltò e si diresse verso casa. Pazienza, avrebbe dovuto cucinare!
Lentamente, con lo sguardo fisso a terra, nel vuoto, le fu inevitabile ripensare a quella mattina. Chissà dov’era Mamoru. Cosa stava facendo,  ma soprattutto, chissà con chi era. Era certa che ormai nei suoi pensieri lei non ci fosse più e a maggior ragione, non fosse più nel suo cuore.
Le restavano oramai i ricordi. Dolcissimi ricordi di momenti in cui lui la amava.
Iniziò a piangere. Voleva far uscire tutto il suo dolore.
 
Di nuovo sconforto però, di nuovo amarezza, di nuovo infelicità.
Sentimenti che la fecero ricadere in un tunnel da cui non sarebbe più uscita. Lei non voleva uscirne, voleva solamente piangere.
Piangere da consumarsi gli occhi, piangere da stare ancora peggio.
Piangere da contrarre l’addome così tanto da non riuscire più a respirare.
Si fermò un attimo per poteri calmare. In una stradina deserta, buia, dove nessuno dei pochi passanti poteva vederla in quello stato. Si poggiò con la schiena contro la parete umida, giusto il tempo per riprendere fiato.
Rimase qualche minuto in quella posizione, ad ascoltare il silenzio della città.
Poi, senza poter credere che stesse accadendo veramente, strofinò gli occhi per evitare che le lacrime le avessero annebbiato la vista.
Non si sbagliava.
In quella stradina deserta, silenziosa, buia da far paura, riuscì a scorgere sempre meglio la sagoma di qualcuno che si stava avvicinando.
In quell’attimo in cui riuscirono reciprocamente a scorgersi, il mondo,  così come il tempo, sembrò fermarsi.

Usagi spalancò gli occhi. Il cuore le batté così forte che per poco non le usciva dal petto. Con una mano chiusa a pugno cercò di frenarlo, invano.
Si scostò dalla parete, portandosi dritta. In silenzio.

“Che cosa ci fai qui? Perché non sei a casa? Questo non è un posto sicuro dove una ragazza può rimanere da sola.” Quelle parole pronunciate così forte da riecheggiare tra i muri, erano piene di rabbia, pian piano sempre più furiose, come un rimprovero.
Ma Usagi non rispose. Riprese a piangere, abbassando lo sguardo.
Si vergognava, non voleva farsi vedere in quello stato. Non da lui. Ma era più forte di lei. Era proprio per lui che in fondo stava piangendo. Per il suo Mamoru.
Udì i suoi passi avvicinarsi sempre più a lei. Due mani le si poggiarono sulle spalle scoperte. Non sapeva se fosse terribile o piacevolissimo, ma quel contatto, dopo ormai parecchio tempo, le fece provare un brivido.
Lei aveva bisogno di quel contatto. Quando era felice e voleva condividere la sua gioia, quando era triste e aveva bisogno di un conforto.  Lei aveva bisogno di lui. Sempre.
Sollevò lo sguardo, incontrando gli occhi di fronte a sé. Non parlò, parlarono i suoi occhi per lei.

“Usagi, non piangere più; và a casa” udì. Stavolta le parole del ragazzo erano calme, quasi dolci.
Continuò a fissarlo, senza parlare. Poi annuì lentamente, per far capire che aveva compreso.
Istintivamente  portò le braccia attorno al busto del ragazzo, stringendo la sua camicia rosa.
Lui rimase immobile, pietrificato. Continuava a fissarla nell’azzurro dei suoi occhi. Sapeva che era sbagliato, ma non riusciva a muoversi.
In quell’istante avrebbe voluto che il tempo si fermasse. Avrebbe desiderato di restare con lei senza che ciò fosse sbagliato, proibito.
Ma lo era.
“Usagi…” disse, togliendo le mani dalle sue spalle.
Lei però, prima che Mamoru potesse allontanarsi, si strinse ancora di più a lui, portando la testa a contatto con il suo cuore:
“Solo un altro minuto. Solo un’ultima volta. Per favore” chiese dolcemente, mentre le lacrime ripresero a scenderle sul viso.
“Poi ti lascerò andare, magari quella ragazza carina di stamattina ti starà aspettando.” Stavolta piangeva e singhiozzava mentre pronunciava quelle parole. Perché lo aveva detto? Forse inconsciamente sperava che lui smentisse le sue parole, dicendo che non c’era nessun’altra.

Lui rimase stupito e sconvolto da quelle parole. Era riuscito a farla ingelosire, l’aveva fatta soffrire tanto, forse troppo facendole credere che avesse un’altra ragazza. Ma non era riuscito a farsi odiare. Capì, allora, che lei non lo avrebbe mai odiato, perché lo amava troppo. Non avrebbe mai potuto.
Il suono di quel pianto amaro gli pugnalò il cuore. Quello era un incubo per entrambi.
Si sentì così in colpa che non sapeva più cosa fare. Avrebbe tanto voluto dirle che non c’era nessuna ragazza, che per lui esisteva solo lei. Perché doveva farle così male? Non era giusto. Non a lei. Non a lei per cui avrebbe dato la propria vita.
Vedendo che continuava a piangere sempre di più e a stringerlo forte, capì che forse per quella volta, in un angolo isolato lontano da tutto e da tutti, poteva lasciarsi andare. Poteva essere se stesso.
Abbassò la testa, poggiando il mento su quella tanto amata testolina buffa. Strinse la sua Usagi forte a sé, con una mano tra i biondi capelli e l’altra sulla schiena.
Un bellissimo senso di calore e di amore li pervase.
Sapevano che sarebbe durato poco, ma in quei brevi attimi riuscirono a percepire il loro amore reciproco.

“Oh Mamo-chan…” Tra le sue braccia l’incubo sembrava finito, ma sapeva che in fondo non lo era, che non doveva illudersi. Mamoru stava ormai con un’altra.

"Ma perché non posso stare con te, amore mio? Perché non posso stringerti a me tutte le volte che voglio e dirti che ti amo, Usagi?" pensava Mamoru mentre la abbracciava.
Capì però che era giunto il momento, a malincuore, di lasciarla andare, di lasciarla vivere. Era necessario.
"Mamoru, io..." sospirò lei che, senza fare in tempo a completare la frase, si ritrovò di nuovo lontana dal lui e dal suo caloroso abbraccio.
Era durato pochi attimi, ma lo aveva desiderato così tanto, che ne fu contenta ugualmente. Quel contatto l'aveva rigenerata ma il distacco era stato straziante.
"Và a casa Usagi, su!" La sua voce voleva risultare dura come al solito ma era semplicemente malinconica, quasi amorevole.
Si guardarono negli occhi.

 

Pieni di lacrime e di sconforto quelli di lei, di dolore e sensi di colpa quelli di lui.
"Sappi che io ti amerò sempre, Mamoru. Ci sarò sempre per te."
Lui abbassò lo guardo, quelle parole piene d'amore gli fecero capire ancora una volta che, nonostante tutti i tentativi avesse fatto d'ora in avanti, lei non lo avrebbe mai odiato, ma avrebbe solo sofferto.
"Vattene Usagi, vai a casa!" rispose, con voce tremante e lo sguardo basso, appoggiandosi alla parete, in attesa che lei se ne andasse. Sarebbe andato via anche lui, ma quello era un luogo che a lui non piaceva e voleva assicurarsi che lei fosse lontana da lì prima di tornare a casa.
Lei però non gli ubbidì, ma, scuotendo la testa, gli si mise davanti, stringendogli i polsi e tentando di bloccarlo. I suoi occhi erano lucidi, prese un respiro profondo e disse:

 

"Non me ne vado, non prima di sapere perché non mi ami più." Un altro respiro profondo, poi, cercando di trattenere le lacrime:
 

"Sono sbadata, sono piagnucolona, nelle situazioni di pericolo non do il massimo, lo so. Però ti amo da morire, ti amo più della mia stessa vita. Non voglio vivere senza di te."
Lui non si mosse, rimase con lo sguardo basso, i suoi occhi dolci i pieni d’amore lo avrebbero ucciso. "Maledizione Usagi, non rendere tutto così difficile" pensava confuso.
Mantenendo le mani su quelle di Mamoru, lei iniziò ad accarezzargli i palmi con i pollici. Adesso lui  non ce la faceva più, la sua vicinanza, il suo contatto, il suo respiro, lo stavano facendo impazzire.
Cercò di liberarsi da quella presa e lei lo lasciò libero, rimanendogli ferma ad un passo di distanza con gli occhi su di lui, in attesa di risposte.
Appena ebbe le mani di nuovo libere, con una di esse la strinse a lui, eliminando quella breve distanza, con l'altra sotto il suo mento, le sollevò il viso e la baciò.
Un brivido percorse entrambi. Una sensazione di amore e serenità attraversò i loro corpi.
Fu un bacio pieno di dolcezza, pieno di calore. Pieno di amore.
Lui la teneva stretta a sé, tenendola per la schiena con una mano e con l’latra accarezzandole i capelli e scendendo per la schiena, avvertendo così l'unione dei loro corpi a contatto.
Lei per un attimo rimase incredula, non avrebbe mai creduto che lui l'avesse baciata. Ne fu felice, forse l'incubo era finito.
Gli portò le braccia dietro la nuca, accarezzandogli i capelli.
Un dolce bacio, poi un altro, un altro ancora. Come se ognuno di essi fosse l'ultimo. Come se ciascuno di essi, con gli occhi chiusi, dovesse essere assaporato come una prelibatezza.
Usagi spostò una mano dai capelli corvini per potergli accarezzare il viso perfettamente sbarbato.
Proprio durante quelle carezze di quella tenera e piccola mano sul suo viso, Mamoru riuscì a vedere nuovamente Serenity che con sguardo triste e spaventato si allontanava da lui morendo. Di nuovo la stessa visione del sogno.
Si spostò bruscamente da Usagi, terrorizzato.
Capì che era stato un errore, un dolcissimo, meraviglioso errore.
Aveva appena messo in pericolo la sua preziosa Usagi. Si maledì per ciò.
Le voltò le spalle e, con tutta la rabbia e la cattiveria che aveva nei confronti di colui che gli stava rovinando la vita, disse:
“Sto con un’altra. Ora che hai avuto quello che volevi vattene. Non cercarmi più, non ti voglio più vedere.”
Usagi, immobile, spalancò gli occhi. Le mancò il respiro, il cuore sembrava avesse smesso di batterle. Ora, se fosse mai possibile, faceva ancora più male. Adesso che aveva ancora sulle labbra il suo sapore, credeva che sarebbe morta.
Lui, senza voltarsi, si allontanò verso la direzione da cui era arrivato. Due lacrime gli caddero sulle guance e finirono per terra, ma era buio e Usagi non poté accorgersene.

Usagi capì che doveva tornare a casa, si era fatto molto tardi e lei non se ne era resa conto. A quest’ora sicuramente erano persino tornati i suoi, per non parlare di Chibiusa che aveva lasciato da sola.
Si diresse verso la stessa direzione che aveva preso Mamoru.
Alla fine della stradina c’era un semaforo. Mamoru era in attesa che scattasse il verde per i pedoni prima di attraversare.
Notò Usagi che, uscita dalla via, a testa bassa aveva sbadatamente appena attraversato, non accorgendosi che il semaforo indicasse il rosso. 
Sfortunatamente in quel preciso istante un camion sfrecciò a tutta velocità. Usagi se ne accorse dal rumore del mezzo che si avvicinava sempre più rapidamente.
Presa dal panico, rimase immobile. Credeva fosse la fine.
Improvvisamente Mamoru, notando la scena, impaurito si scaraventò verso di lei urlando il suo nome.
La afferrò per la vita e la spinse verso la banchina opposta, togliendola così dalla strada.
Spingendola caddero a terra. Lui aveva cercato di metterle le mani sotto la testa per evitare che lei, sotto di lui, si facesse male, ma Usagi purtroppo aveva battuto ugualmente la nuca, urlando dal dolore con gli occhi chiusi.
Sollevandosi un po’, tanto per non farle male, seppur rimanendo sopra di lei, le mise una mano sotto la nuca, accarezzandogliela.
“Usagi, Usagi, come ti senti?” urlava, pieno di ulteriori sensi di colpa. Sì, perché in fondo sapeva che se lei, distratta, aveva attraversato senza guardare, la colpa era sua e di come la aveva trattata.
Ma Usagi non rispose, si lamentava solamente.
Con l’altra mano accarezzò il suo dolce e soffice viso.
“Usagi, rispondimi, apri gli occhi!” Le sue parole erano agitate, spaventate, ma dolci e piene d’amore.
Lei aprì gli occhi, lentamente, vedendo i suoi occhi blu in preda alla paura, sentendo il contatto tra i loro corpi.
“Come ti senti?”
“Sto bene, sto bene. Non preoccuparti. Grazie di avermi salvata.”
La aiutò a rialzarsi, notando che la gonna durante la caduta si era alzata, lasciandole le gambe e le mutandine scoperte. Arrossì  e distolse lo sguardo, imbarazzato. Era bella, per quanto fosse ancora solo una quattordicenne, era maledettamente bella e non sarebbe mai potuta essere sua. E se l’incidente col camion fosse collegato alla minaccia dei sogni? Se fosse dovuto al bacio che le aveva dato poco prima?
Basta. Aveva appena capito di aver giocato con il fuoco, ma a bruciarsi era stata lei.
Si voltò, dandole le spalle e disse:
“Stai più attenta la prossima volta, perché né io né Tuxedo Kamen verremo più in tuo aiuto.”
Sarà stata la botta in testa o uno scudo invisibile attorno al suo cuore cReitosi dopo tutti i colpi ricevuti dalle sue parole, ma stavolta Usagi non si sconvolse più di tanto. Ormai il concetto era chiaro.

Tornò a casa. Ora era l’unica cosa che voleva fare.
L’appetito le era passato, voleva andare a dormire. Era stremata.
I suoi erano tornati. Sul frigo sua mamma le aveva lasciato un bigliettino con su scritto:

"Se avessi fame, in frigo ci sono le polpette di riso che ti piacciono tanto. Buonanotte tesoro".

Sorrise. Aveva bisogno di sapere che qualcuno le volesse bene e si preoccupasse per lei.
Andò in camera sua e indossò il suo pigiama rosa.
Si sdraiò, ma la tensione era troppa. Moltissime emozioni in un giorno solo…
Mamoru con un’altra, Mamoru che la baciava, Mamoru che la salvava da un camion, Mamoru che le diceva che non sarebbe più intervenuto per proteggerla.
Si alzò e, senza accendere la luce per non svegliare nessuno, aprì il frigo e iniziò a mangiare tutte le cose buone che la mamma aveva preparato amorevolmente per lei. Era come un conforto. Ne aveva bisogno.
Luna la vide, distrutta, con lo sguardo spento.
Non poteva permettere che si lasciasse andare in quella maniera.
“Usagi, se continui a mangiare in quel modo diventerai una cicciona” disse, capendo che Usagi non mangiava per fame, ma per affogare i suoi dispiaceri nel cibo.
Ma a lei non importava, ormai Mamoru stava con un’altra, glielo aveva confermato. Che senso aveva ormai restare magra, essere bella se tanto lui non l’avrebbe mai più guardata?

Chibiusa, girandosi nel letto di Usagi e non trovandola, scese in cucina e udì le parole della ragazza con le quali si rassegnava al fatto che Mamoru avesse un’altra.
La piccola rimase colpita. Non voleva che lui avesse un’altra ragazza. Lei voleva vedere Mamoru e Usagi insieme, voleva che Mamoru amasse Usagi allo stesso modo in cui lei amava lui. Voleva riprovare quella sensazione di pace e amore quando stavano tutti e tre assieme. Perché Mamoru non amava più Usagi? Lei doveva saperlo e doveva fare sapere a Mamoru che Usagi lo amava più della sua stessa vita.
Corse fuori, doveva andare da lui e dirgli tutto.
Ironia della sorte, anche lei distrattamente non si accorse di un camion che sfrecciava a tutta velocità. Fortunatamente riuscì a schivarlo ma, per la forte paura e lo spavento, emise di nuovo quella luce accecante, come tutte le volte che era agitata. Ciò attirò l’attenzione dei nemici e non solo.

 

Usagi infatti, corse verso di lei, vedendo la bambina in pericolo, trasformandosi in Sailor Moon senza farsi notare da lei né dai nemici. Avrebbe sfogato la sua rabbia contro questi ultimi.
Ma loro ebbero la meglio. Un demone chiamato Incubo stordì la paladina della legge.
Adesso Usagi non riusciva più ad alzarsi e a combattere, era troppo stanca. Sapeva che doveva proteggere Chibiusa, ma non ce la faceva, voleva dormire.
Arrivarono le altre guerriere, ma Incubo colpì la bella combattente che veste alla marinara, infliggendole un sonno mortale. Sailor Moon non si sarebbe mai più svegliata, avrebbe fatto degli incubi e, sentendosi senza energie, sarebbe morta. Nei suoi peggiori incubi c’era Mamoru che la lasciava, che si allontanava senza aspettarla.
Più lo vedeva nei suoi incubi, più si indeboliva. Stavolta era davvero la fine, stavolta lui non sarebbe soccorso in suo aiuto. Stavolta era meglio morire.
Si lasciò andare, il suo corpo divenne gelido, il suo battito sempre più lento.
Adesso nessuno poteva salvarla, le ragazze ci avevano provato, invano.
Solo una persona, poteva riuscirci. Colui che possedeva il suo cuore, colui senza il quale per Usagi nulla aveva più un senso.
Luna capì che solo lui poteva aiutarla, solo il suo amore poteva farla risvegliare. Non era la favola della bella addormentata che Usagi leggeva a Chibiusa la sera prima di addormentarsi, sognando ad occhi aperti. No. Ma sapeva che Usagi e Mamoru erano legati da un amore profondo, indissolubile. Un amore senza il quale avevano preferito morire in passato, un amore senza il quale lei voleva non vivere più. Di nuovo.

Usagi le aveva raccontato, mentre mangiava dal frigo, che Tuxedo Kamen non sarebbe più intervenuto in suo aiuto e Luna non poteva permettere che Usagi morisse.
 

Corse verso casa del ragazzo, alla velocità della luce. Ogni attimo era prezioso.
 


Mamoru era tornato subito a casa dopo aver lasciato Usagi.
Era esausto anche lui. Si sdraiò a letto e pensò a lei.
“Povera piccola mia, chissà quanto male ti ho fatto con le mie parole dure e cattive, quanta paura avrai avuto dopo l’incidente scampato. Dolcissima Usagi, chissà quanto avrai sperato, illudendoti, con quel bacio che ti ho dato.

 

Chissà quante emozioni avrai provato quando ti stringevi forte a me che ti accarezzavo.”
Era come se volesse che le sue parole giungessero a lei.
Chiuse gli occhi e si addormentò. Il suo sonno durò poco, perché Luna entrò nella sua stanza.

“Mamoru, Sailor Moon è in grave pericolo, rischia la vita. Soltanto tu puoi farle riprendere conoscenza. È una questione di vita o di morte. Sei l’unico che ha la possibilità di salvarla, ti prego, vieni con me.”
“Io non posso fare niente.”
“Io lo so che nutri sentimenti di affetto profondo per lei. L’hai amata per tanto tempo. Perché adesso hai deciso di abbandonarla?” Luna, con le lacrime agli occhi, non riusciva a capire.
“Non voglio ma…”
“Sailor Moon sta morendo e tu non fai niente.” Stavolta le sue parole risuonavano come un rimprovero.
Solo così Mamoru capì che non poteva permettere che per colpa sua la sua amata Usako morisse.
Adesso il tempo sembrava scorrere troppo velocemente, adesso temeva che il tempo avrebbe giocato contro di lui.
Usagi stava morendo, e se non fosse arrivato in tempo? Non se lo sarebbe perdonato mai. A stento si perdonava il modo in cui l’aveva fatta piangere e stare male. Se Usagi fosse morta per colpa sua e della sua testardaggine lui sarebbe morto insieme a lei.
Prese la moto e più veloce della luce, corse da lei.

La vide. Le Sailor erano accanto a lei, Venus la teneva fra le braccia.
Quando anche loro si accorsero di lui, indietreggiarono.
Sapevano che solo lui poteva aiutarla. Solo il loro amore avrebbe sconfitto, anche stavolta, il male.
Adesso non gli importava più dei sogni, degli incubi, delle minacce. Adesso non voleva più dar loro retta. Quando la vide, sdraiata su una gelida panchina, l’unica cosa che fece fu stringerla forte a sé, come a volerla riscaldare con tutto l’amore che provava per lei. Solo per lei. Sempre per lei. Rivide l’immagine di Serenity che tristemente scompariva. E se si fosse avverata la premunizione?
Ma poi lei, con le sue poche forze rimaste, pronunciò con una dolcezza incredibile il suo nome.
Era viva. Chiese perdono, per tutto il male che le aveva fatto, per non essere stato lì a proteggerla. Era stato stupido dirle che Tuxedo Kamen non sarebbe più intervenuto.
La strinse forte a sé e le diede un dolce bacio sulle labbra.
Le trasmise il suo amore, la sua fedeltà, la sua eterna devozione.
Lei aprì miracolosamente gli occhi. Il potere del loro amore aveva restituito la vita a Sailor Moon.
“La favola si avvera come nella bella addormentata” aveva pensato Chibiusa.
In quel caso, però, la principessa si chiamava Serenity e il principe Endymion.
Non era una favola. Era la realtà.
Una realtà dove il loro eterno amore avrebbe superato tutte difficoltà e le avversità che si sarebbero presentate in avanti. Sempre.
Un amore così unico e speciale che andava oltre l'infinito, oltre l'eternità.
 

Fine  



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Capitolo 2
*** L'amore rinasce ***


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Cap.2: L'amore rinasce. Ep 77, serie 2



Anche quella mattina la corsa su per le scale era stata una sofferenza per le sue gambe rendendole il fiato sempre più corto. Correva, correva, cercando di raggiungere il prima possibile la sua classe.
Correva… correva… non riusciva più a respirare sentendo la gola secca ma continuava a correre; fino a quando fu costretta a spalancare gli occhi e cercare di rallentare il passo - ormai troppo veloce – per evitare di scontrarsi con Umino che stava per uscire dall’aula. La capocciata fu dolorosa e inevitabile!

L’insegnante della prima ora era assente e Usagi tirò un respiro di sollievo anche se, a saperlo prima, si sarebbe concessa un’abbondante colazione.

Una volta entrata in classe, vide i suoi compagni impegnati ad intrecciare fili per creare braccialetti; fu così che Umino e Naru la informarono di un nuovo negozio specializzato nella realizzazione di braccialetti portafortuna; braccialetti che avrebbero realizzato i desideri espressi.
 

Naru e Umino erano la prova vivente che avessero funzionato; infatti, da semplici compagni di classe il loro rapporto era diventato sempre più intimo e affiatato.
 

Usagi osservò il volantino del negozio e quando Naru le disse che regalando il braccialetto alla persona amata l’avrebbe conquistata, ne rimase piacevolmente sorpresa.
 

Il suo entusiasmo all’idea di quel genere di braccialetti ‘magici’ svanì subito, però.
 

Il suo pensiero andò subito al suo Mamo-chan. Il ricordo di lui, di tutte le volte che la allontanava, che le parlava con voce infastidita, con tono freddo, scostante, privo di sentimento, le procurava una fitta al cuore, un bruciore al petto che faceva male, ogni volta allo stesso modo; un dolore che lei sapeva non si sarebbe assopito col tempo. La confusione nella sua testa era sempre presente, le martellava il cervello ogni volta che cercava di darsi una risposta, tutte le volte che provava a capire perché lui l’avesse lasciata. E ogni volta, la consapevolezza che non avrebbe avuto una risposta, che lui non le avrebbe mai detto il motivo per cui aveva messo fine a quella storia nata da poco ma che in realtà li rendeva uniti da sempre, la faceva dannare. Non era giusto dover rinunciare a lui, non senza sapere il motivo, almeno.
 

Quelle ore scolastiche sembrarono non terminare mai per Usagi quel giorno e quando la campanella suonò, sentendosi piacevolmente sollevata, si affrettò a tornare a casa. Sola, per le vie di Tokyo, ogni tanto ripensava a Naru e Umino; lui era innamorato della ragazza dal caschetto castano da un po’ e finalmente – da quanto aveva capito – il braccialetto portafortuna gli aveva dato la gioia di vedere il suo desiderio realizzato.

Sospirò, ripensando a Serenity ed Endymion; da quando aveva ricordato tutto, da quando anche Mamo-chan aveva ricordato i dolci baci sul Silver MIllennium, l’amore sincero e inviolabile, puro, che li aveva visti protagonisti indiscussi fra balli in maschera e una guerra nata tra i due Regni, si erano ripromessi che sarebbero rimasti assieme per sempre; il destino li aveva messi sulla stessa via, dando una seconda possibilità a Serenity ed Endymion per quell’amore sofferto, privato ingiustamente ma che loro due, Usagi e Mamoru, potevano riscattare.

Si erano punzecchiati troppe volte, quasi fino all’esasperazione, però sapevano entrambi che qualcosa li legava, li univa e li faceva stare bene quando erano assieme.
Era una sensazione bellissima, che avvolgeva il loro cuore in un calore mai avvertito prima. E da quando avevano ricordato, avevano dato un nome a quella sensazione: Amore. Ecco cos’era il sentimento che li legava, che li faceva stare bene nonostante i battibecchi e li rendeva fiacchi al pensiero che non si sarebbero scontrati per caso per le vie della città. Da quando avevano ricordato, Mamoru non era più l’odioso ragazzo che la prendeva in giro bensì era ritornato a essere il suo Mamo-chan. Suo lo era da sempre, Mamo-chan perché in quel secolo, in quella nuova vita, il nome era differente.
Ma in fondo, cos’era un nome? Una rosa, anche con un altro nome, non avrebbe mantenuto il suo inconfondibile e unico profumo?*
E così, anche lui, quel bellissimo ragazzo dai capelli corvini, gli occhi blu come l’oceano, lo sguardo intenso e il calore unico e rassicurante che le trasmetteva quando era tra le sue braccia, sia che si chiamasse Endymion, sia che si chiamasse Mamoru, per lei rappresentava un unico sentimento: l’Amore.
Si erano promessi che sarebbero stati assieme per sempre. Lui aveva promesso. Promesso che le sarebbe stato accanto per sempre, garantendole che sarebbe rimasto al suo fianco per qualsiasi cosa. Voleva riconquistarlo. Cosa poteva fare? Magari i braccialetti portafortuna avrebbero funzionato pure per lei. Si sarebbe impegnata mentre avrebbe realizzato il portafortuna, e avrebbe espresso il desiderio con tutto il cuore, con tutta l’anima che – se era vero ciò che diceva Umino – sarebbe riuscita a riconquistare il suo Mamo-chan.

I suoi pensieri tristi ma tuttavia ancora carichi di una fioca luce di speranza, furono interrotti da Makoto che, notandola triste, le si avvicinò assieme ad Ami.
La Principessa di Giove vide lo sguardo malinconico dell’amica e domandò cosa la turbasse, anche Ami intervenne, supponendo che Usagi – come al solito – avesse rimediato qualche insufficienza; la ragazza dai lunghi codini dorati, accennando un sorriso rassicurante, però, negò, affermando di non aver nessun tipo di preoccupazione. Capì che non era in grado di mascherare i suoi stati d’animo, la sofferenza che provava nel cuore, la paura di dover rinunciare al suo Mamo-chan per sempre.
Lei era sempre troppo sincera, i suoi occhi azzurri e limpidi riuscivano a mostrare la sua anima. Un’anima che in quel periodo era tormentata. E loro erano le sue più care amiche, le sue guerriere, le sue guardiane. Non avrebbe mai potuto fingere con loro. Cercò di rassicurarle mostrando un sorriso pieno di entusiasmo e accennando al negozio dei braccialetti di cui le avevano parlato Naru e Umino.
Non poteva guardarle negli occhi, però, altrimenti avrebbero capito che il suo era un ingenuo modo pieno di buone intenzioni per non farle preoccupare per lei.
Si voltò, dando loro le spalle ma continuando a rassicurarle. E fu proprio quando la sua voce stava diventando sempre più convincente, allegra, bugiarda, che i suoi occhi luminosi si posarono sulla persona che si era appena immessa sulla sua via. Di nuovo. Ancora una volta.
Per un istante il respiro le morì in bocca, il cuore mancò un battito. Era Mamo-chan, il suo Mamo-chan, possibile che il desiderio di volerlo rivedere si fosse realizzato? Possibile che quei braccialetti magici e la voglia di vedere realizzati i propri desideri funzionassero?
Ci fu un attimo, un preciso istante, in cui i suoi occhi furono rapiti da quelli blu e profondi di lui, avrebbe anche potuto annegare in quegli occhi magnetici.
Un attimo, e poi lui distolse lo sguardo, riprendendo a camminare come se la sua presenza fosse del tutto indifferente a colui che aveva promesso. Aveva promesso di stare tutta la vita assieme a lei. E non aveva promesso a parole. Lui aveva sempre parlato col cuore, riflettendo i suoi sentimenti puri e sinceri attraverso i suoi occhi sempre pieni d’amore e di protezione.
Non poteva continuare a permetterlo, non poteva cercare di capire da sola il motivo del suo cambiamento. Lei doveva sapere. Lui doveva spiegarle.

Gli andò incontro, correndo, cercando di fermarlo. “Mamo-chan, aspetta!”, ma la punta della sua scarpa fece attrito sul cemento facendola inciampare. Il dolore alle ginocchia scoperte dalla gonna della divisa scolastica fu forte, non le permise di rialzarsi subito, però doveva sapere, non ce la faceva più ad andare avanti così.
Lui si voltò subito verso di lei al suono di quel lamento e, vedendola a terra, i suoi occhi sembrarono letteralmente tremare all’immagine di lei, la sua Usako, sofferente, che si strofinava le ginocchia come a voler attenuare il dolore.
Avrebbe voluto andare da lei e aiutarla a rialzarsi, avrebbe voluto accarezzare le sue ginocchia e alleviare il suo dolore, avrebbe voluto stringerla a sé e dirle che lui la amava, non la aveva dimenticata, non voleva rinunciare a lei. Però non poteva fare ciò. Per via degli incubi, delle minacce, per via di Usagi, di Serenity, della sua vita. Essa valeva più di ogni altra cosa.
Tornò a camminare cercando di allontanarsi da lei, la ragazza che inevitabilmente era destinato a incontrare, alla quale era inevitabilmente legato e dalla quale doveva rimanere ingiustamente lontano.

“Ti prego, aspetta” lo bloccò lei, ancora a terra, “io continuo a pensarci, mi chiedo perché mi hai lasciata però non riesco a trovare una risposta.” La sua voce era dolce, gentile, piena d’amore e – allo stesso tempo – di malinconia, di confusione.
“Ascoltami, avrò il motivo di sapere per cui non mi vuoi più vedere, non credi?” Il tono diveniva sempre più affannato, lei sempre più ansiosa al pensiero che lui se ne andasse senza rispondere, ignorandola semplicemente come era solito fare.
“Avrò il diritto di sapere perché non mi vuoi più bene” riprese arrossendo. Si stava mostrando ridicola? Stava facendo la parte della stupida ragazzina che non si arrendeva a un rifiuto? No. Non era così, e lei lo sapeva. Lo sapeva ricordando i suoi occhi pieni di amore fino al giorno in cui la aveva lasciata. Lo sapeva ogni volta che Tuxedo Kamen interveniva per proteggere Sailor Moon. Usagi lo sapeva che ci sarebbe dovuto essere un motivo per tutto ciò e lei doveva conoscerlo.

Rimanendo di spalle, lui voltò lo sguardo verso di lei.
E per quello sguardo, lacrime amare piene di pura sofferenza che partiva dal suo cuore e si diramava in tutto il suo corpo, uscirono dagli occhi belli e sempre gioiosi di Usagi.
“Se non mi dai un motivo non potrò mettermi il cuore in pace” riprese con voce tremante.

Mamoru distolse lo sguardo, gli faceva troppo male vederla in quello stato, lo faceva soffrire la vista della sua Usako che piangeva per lui. Per lui che avrebbe soltanto voluto vederla felice, per lui che amava vedere la sua euforia e la sua allegria per qualsiasi cosa. Per lui che in realtà la amava.
“Ho delle ragioni personali, non te lo posso dire” rispose bruscamente prima di allontanarsi sempre di più, prima di andare via. Via da lei, da quel dolcissimo e ingenuo tormento che lo pregava di rimanere. Non poteva più restare lì però, faceva troppo male; anche se probabilmente agli occhi di Usagi, di Makoto e di Ami, risultava semplicemente un insensibile, lui soffriva tanto perché se era vero che agiva per il bene di Usagi, i suoi sentimenti erano troppo forti, troppo contrastanti con la ragione.

Usagi rimase lì, per terra, sfogandosi per il senso di impotenza che la assaliva, facendo uscire le lacrime che aveva cercato di trattenere davanti a lui e seguendo quell’immagine che tanto amava e che pian piano diveniva sempre più lontana fino a scomparire dalla sua visuale.

Makoto fece qualche passo in avanti prima di piegarsi sulle gambe e, poggiando una mano sulla spalla dell’amica, disse:
“Vedrai Usa-chan, si sistemerà tutto.”
Ma Usagi scosse la testa, amareggiata, e asciugando le lacrime col palmo della mano rispose: “No, è tutto inutile, orami è finita.”
Ami le tese una mano e Usagi, alzando il viso, incontrò gli occhi turchesi della ragazza dal caschetto blu. “Ci sarà una spiegazione, vedrai” la rincuorò aiutandola a rialzarsi.
Makoto non avrebbe mai voluto vedere Usagi in quello stato; lei l’aveva sempre protetta dai prepotenti grazie alla sua forza. Capì però che in quel caso la forza non sarebbe servita per proteggere l’amica. Neppure altre parole di conforto l’avrebbero aiutata perché il problema di Usagi era Mamoru e finché non avrebbero capito qual era il motivo per cui l’avesse lasciata, l’unica cosa che poteva fare era cercare di rasserenarla e tenerla lontano dal pensiero di lui e della sua decisione misteriosa. Prendendo la cartella della ragazza e porgendogliela le fece coraggio.
“Prima parlavi di un negozio di braccialetti, giusto?” Usagi annuì guardandola nelle iridi verdi e luminose.
“Di che si tratta?” chiese cercando di distoglierla dal pensiero di Mamoru e di rasserenarla.
Usagi raccontò meglio del negozio, dei braccialetti, del corso per imparare a intrecciare i fili e dei poteri che avevano, come testimoniavano i suoi due compagni di classe.
“Usa-chan, è splendido!” esclamò entusiasta Makoto poggiando una mano sulla spalla dell’amica, “vedrai, con questo braccialetto anche Mamoru tornerà ad amarti!”
Nonostante il sorriso sulle labbra di Makoto e Ami, Usagi rimase seria, malinconica e, scuotendo la testa, rispose:
“No, ci avevo pensato anche io ma adesso credo sia del tutto inutile.”
“Su, Usagi, devi essere positiva, tentare non nuoce e poi, almeno potrai dire di averci provato!” Ami con la sua dolcezza riusciva sempre a rincuorarla e a convincerla.
“Facciamo così, oggi io e Ami ti accompagniamo al negozio, va bene?” Makoto facendole l’occhiolino, riuscì a farla sorridere.
“Va bene, proviamo” disse soltanto, anche se, dentro di sé, dopo averlo rivisto, dopo aver ascoltato le sue parole gelide, paragonabili a lame affilate per il suo cuore, dopo aver letto indifferenza nei suoi occhi profondi, non ne era più convinta come quando aveva appena letto il volantino.

Le ragazze fecero un tratto di strada assieme prima di salutarsi per imboccare strade diverse. Si diedero appuntamento nel pomeriggio, Makoto e Ami sarebbero andate a prenderla a casa, evitando così che Usagi potesse avere ripensamenti.

Arrivarono le 17.30, Usagi andò ad aprire sentendo il campanello suonare. Le sue amiche erano lì, sulla soglia di casa, pronte a darle il sostegno e l’incoraggiamento necessario.
Mostrò loro il volantino e insieme si diressero verso il negozio.
Una volta lì, alzando gli occhi, rimasero attratte dal maestoso palazzo; non sembrava il semplice negozietto di portafortuna. Usagi era titubante, forse aveva sbagliato, forse continuando a sperare nei poteri dei braccialetti si sarebbe soltanto illusa, come quando aveva addirittura bevuto un’enorme pozione d’amore nella speranza di riuscire a riconquistare Mamo-chan. Forse stava sbagliando di nuovo.
Coi piedi ben piantati al cemento, guardò indecisa l’interno della struttura attraverso le porte scorrevoli, sempre più convinta ad andare via.
Furono le parole di Makoto, piene di positività e di allegria, a farla desistere dalla voglia di tornare a casa.
Entrarono, tutte e tre, dando uno sguardo all’interno. Una commessa dai capelli biondi legati in una coda bassa e gli occhi neri come il carbone, le accolse con un gentile sorriso. Usagi acquistò il cestino con tutto l’occorrente per la realizzazione dei portafortuna e venne accompagnata dalle due amiche all’interno dell’aula dove si svolgeva il corso. Provò a seguire la spiegazione dell’insegnante ma per lei quel genere di lavoretti manuali era davvero difficile. Eppure si sarebbe impegnata, avrebbe messo tutta la pazienza e la buona volontà perché la voglia di riavere Mamo-chan, di udire le parole piene d’amore nei suoi confronti, superava tutto. Per lui avrebbe anche studiato il libretto delle istruzioni.
Quando il corso terminò, tornò a casa. Chibiusa notando il sacchetto blu che teneva in mano domandò:
“Cos’hai comprato, Usagi?” cercando di sbirciare all’interno.
Usagi estrasse dalla busta i fili colorati, spiegando dei braccialetti e dei loro poteri.
Chibiusa sorrise, sperava tanto che il desiderio della ragazza si realizzasse. Anche se probabilmente non lo avrebbe mai confessato, per lei Usagi e Mamoru erano davvero belli assieme e ogni volta che stava con entrambi un calore piacevole le scaldava il cuore, proprio come quando era coi suoi genitori nel futuro. Usagi soffriva, e lei lo capiva, lo vedeva, era evidente. Non era più la ragazza allegra e solare che aveva conosciuto quando era arrivata nel ventesimo secolo, la sua voce era sempre triste e i suoi occhi spenti. Le mancava la vecchia Usagi, quella con cui litigava per le attenzioni di Mamoru, quella a cui faceva i dispetti.
Rimase davanti alla porta della stanza della ragazza mentre la osservava aprire il libretto delle istruzioni e attaccare i fili con lo scotch al tavolino basso.

Usagi iniziò a far passare i fili colorati fra loro, seguendo le istruzioni e ripensando alla spiegazione dell’insegnate, però era troppo complicato per lei. Non era abile con quel tipo di lavori, soprattutto se nessuno potesse correggerla quando capiva di stare sbagliando. Sospirò spazientita notando che il suo braccialetto dai fili verdi e arancio, che, stando alla spiegazione dei colori, rappresentavano l’amore ritrovato, in certi tratti non era uguale a quello della figura. Per un attimo sentì le palpebre pesanti; quel pomeriggio non aveva potuto riposare per andare al corso dei braccialetti; sbadigliando, poggiò le braccia sul tavolino a sostenerle il viso. Si concesse qualche minuto di riposo prima di riprendere e terminare il braccialetto per il suo Mamo-chan.
Col pensiero del ragazzo, chiuse gli occhi, ritrovandolo presto accanto a sé, in uno smoking bianco, che le sorrideva e la chiamava per nome con voce piena di dolcezza, mentre insieme percorrevano la navata centrale della Chiesa nella quale sarebbero diventati marito e moglie. Proprio mentre i suoi occhi si perdevano in quelli di lui, mentre il suo viso si avvicinava a quello del suo ragazzo per suggellare quell’unione sacra dinnanzi a Dio; una voce minacciò Mamoru di lasciarla mentre lei, Usagi, Serenity, iniziava a sprofondare allontana dosi sempre di più da lui che urlava il suo nome.

Usagi spalancò gli occhi. Era un sogno in cui sposava il suo Mamo-chan. Lo aveva sognato di nuovo. Ancora una volta. Differente dai precedenti, però, per il fatto che quella voce minacciosa non l’aveva mai udita; lei che veniva trascinata verso un baratro, era una visione nuova.
Cosa significava tutto ciò? Probabilmente era il suo subconscio che riversava nei sogni la sua paura di perderlo per sempre. Sì, probabilmente era così pensò. Si alzò avvicinandosi alla cassettiera e prendendo tra le mani la cornice con la foto che ritraeva lei il suo Mamoru insieme. Felici. Il vetro si ruppe proprio mentre ripensò alle immagini e alla minaccia. Sussultò. Cosa stava accadendo? Oramai era evidente che non si fosse trattato solo di un sogno; la minaccia era reale, proprio come il vetro frantumato che ancora aveva in mano. Doveva capire. Solo una persona poteva aiutarla a capire. La stessa persona che era con lei nel sogno, la stessa che veniva intimorita dalla voce.

Corse fuori dalla stanza, scese le scale, ritrovandosi Chibiusa e Luna sorprese di vederla agitata.
“Dove vai, Usagi?” chiese la gattina preoccupata non appena la ragazza abbassò la maniglia della porta d’ingresso.
“Devo andare da Mamoru” si limitò a dire prima di correre fuori.
Chibiusa salì in camera della ragazza, notando il braccialetto sul tavolo; era carino ma non era terminato.
“Luna, Usagi ha dimenticato il braccialetto, dobbiamo portarglielo.” E così dicendo, aprì la porta e seguì la ragazza ormai lontana. Luna le andò dietro pensando a quanto lei e Usagi fossero simili negli atteggiamenti e nei modi di fare.
Sotto il palazzo in cui si trovava l’appartamento di Mamoru non c’era nessuno. Usagi era già dentro pensarono la bambina e la gatta.
Decisero di non salire. In fondo, forse era meglio che rimanessero da soli. Forse si sarebbero chiariti, finalmente.

Usagi bussò più volte alla porta di Mamoru, pregandolo di aprirle.
Al suono di quella voce il ragazzo trasalì; chiudendo il libro che stava studiando, sentì il cuore mancare un battito. L’aveva pensata, si era domandato tante volte quel giorno come stesse, se le ginocchia le facessero ancora male, se le sue amiche fossero riuscite a consolarla.
Per un istante, uno soltanto, invidiò colei che amava. Lei aveva loro, le sue principesse e amiche, sempre pronte a proteggerla, sempre pronte a starle accanto e a farla confidare per poi donarle parole di conforto. E poi aveva la sua mamma, dolce e premurosa, e suo padre, geloso e protettivo.
Ma lui? Lui no. Lui era solo, come sempre. Non aveva una mamma che gli sorridesse, trasmettendogli un po’ di serenità quando lo vedeva preoccupato, non aveva un padre con cui parlare da uomo a uomo affrontando quei discorsi da grandi che un ragazzo fa insieme al padre nel periodo dell’adolescenza. Non aveva amici con cui sfogarsi, a cui parlare di Serenity, della minaccia, della paura di perdere Usagi e della voglia di difendere Sailor Moon anche con la sua stessa vita. Perché per lui, Sailor Moon, Usako, era quello. Vita.
E la sua Vita era lì, fuori da quella porta, che lo supplicava di aprire.
Inspirò, cercando di stamparsi in viso quello sguardo odioso, come se sperasse di allontanarla da sé.
“Parla piano, non sai che ore sono?” ordinò con voce arrogante aprendo e guardandola con sguardo gelido.
Ma lei non si lasciò intimorire da lui. Lei doveva sapere.
“Perdonami, ho una cosa urgente da chiederti e vorrei subito una risposta” rispose tutto d’un fiato con la gentilezza e la dolcezza che erano solo sue.
“Mi dispiace per te ma non ho niente da dirti, va’ a casa!” ordinò lui richiudendo la porta.
Ancora una volta non si arrese.
“Mamoru, ti prego, dimmi almeno se hai fatto un brutto sogno recentemente.”
Alle parole brutto sogno, Mamoru riaprì la porta, spalancando gli occhi per l’incredulità.
“Brutto sogno?” domandò, più per ripetere a se stesso che non aveva capito male; lei aveva detto proprio quelle parole.
Lei annuì, entrando per poi richiudere la porta alle sue spalle.
“Sembri preoccupato, Mamo, ho detto qualcosa che ti ha turbato?” Vedere il suo Mamo-chan triste, pensieroso, la faceva star male.
“Di che si tratta?” chiese semplicemente lui, poggiandosi al mobile del corridoio e facendo scivolare le mani nelle tasche dei pantaloni.
Usagi, col capo chino sulla moquette, iniziò a raccontare di lei, di lui, della Chiesa in cui si sarebbero sposati.
Lui la bloccò subito quando lei parlò di loro che percorrevano la navata assieme.
Non poteva essere lo stesso sogno, si era tormentato tanto per colpa di quel sogno. Non poteva tormentare pure lei.
“C’era qualcos’altro nel sogno?” cercò di capire meglio.
Lei annuì, con le mani chiuse al petto.
“Una voce che ti minacciava di lasciarmi, Mamoru” rispose sinceramente continuando a guardarlo negli occhi.
“L’ho sognato anche io” aggiunse lui pieno di sconforto.
“Sì, ma c’era dell’altro” riprese lei, “io sprofondavo sempre di più davanti ai tuoi occhi terrorizzati mentre urlavi il mio nome.”
Rivide quegli occhi, di fronte a lei, sul serio quella volta. Erano confusi.
“Ora capisco, anche tu hai fatto quel brutto sogno” riuscì a dire mentre incontrava il suo viso spaventato.
“Sì, infatti, è uguale al tuo” affermò, “però dobbiamo pensare che si tratta solo di un incubo, non è la realtà.” Cercò di rasserenarlo; non l’aveva mai visto così turbato.
“Niente affatto! La voce mi diceva che saresti morta.” Usagi, nonostante la tensione provata per via dell’incubo, delle coincidenze, del vetro rotto tra le sue mani, provò un calore al cuore. Si sentiva più leggera, più serena. finalmente capì qual era la ragione per cui lui l’avesse lasciata. Lui la amava. L’aveva lasciata per proteggerla, per evitare che non le accadesse nulla.
Un sorriso nacque sulle sue labbra.
“Oh, Mamo-chan, quindi non è vero che hai smesso di amarmi, mentivi, è così?”
Ma lui non rispose. E lei capì che non si stava sbagliando. Lui la amava, voleva proteggerla ancora una volta perché la amava. E lei non poteva più rimanere senza di lui, senza il suo calore avvolgente, senza quelle labbra che le facevano toccare il cielo con un dito quando le avvicinava alle sue.
“Dimentichiamo tutto questo, pensiamo a noi.” Voleva essere più convincente possibile. Voleva dimenticare tutto quel periodo passato senza di lui, i momenti in camera a piangere dannandosi l’anima in cerca di una risposta. Voleva soltanto pensare a lei, a lui, assieme.
“Pensi che non ci abbia provato? È stato impossibile, tutte le notti ero ossessionato dallo stesso sogno.” Il suo tono era agitato; aveva finalmente rivelato il motivo del suo assurdo comportamento. Abbassando gli occhi per non incontrare quelli ingenui di lei che lo rendevano fragile, inerme, riprese. “Ora sono convinto che sia una premonizione e non voglio rischiare che tu muoia, mi capisci Usagi?”
Lui lo faceva per lei. Lei doveva capire.
“Che senso ha vivere per me se non posso starti accanto ogni ora del giorno?” Usagi cercava di farlo riflettere, di fargli capire che la vita andava vissuta insieme alle persone amate, la vita era fatta di piccole cose che rendevano felici solo se le si condividevano con le persone che si amavano. Altrimenti niente aveva senso, neppure la sua vita.
I suoi occhi ormai lucidi lo fissavano, lui alzò lo sguardo e quando incontrò quelli di lei che lo ammaliavano, che lo catturavano con innocenza, per un attimo sentì delle scosse dentro di sé che si propagavano in tutto il suo corpo. La voglia di stringerla e non lasciarla andare era troppa, la voglia di custodirla tra le sue braccia come un tesoro prezioso cresceva sempre di più. Il desiderio di baciare le sue labbra e sentirla, sentirla sua, solo sua, stava diventando un’ossessione.
Lei cercò di avvicinarsi ma la paura di vederla morire prevalse in lui.
“Sta’ zitta, ormai ho deciso” ordinò a voce alta, poi, stringendo un pugno per cercare di sfogare la sua ira per quel destino beffardo che si stava prendendo gioco di loro, la spinse indietro.
“Noi non dobbiamo più vederci né frequentarci” aggiunse facendola uscire contro la sua volontà prima di richiudere la porta.
Usagi non poteva accettarlo, lei sarebbe voluta rimanere lì, con lui. Era quello il suo posto. Accanto all’uomo che amava e che la amava.
Non poteva arrendersi, dovevano rimanere uniti anche se ciò avrebbe comportato la sua morte. Lo pregò, lo scongiurò di farla rientrare, battendo i pugni sempre più insistentemente sulla porta mentre le lacrime le rigavano le guance e il respiro le si affannava.

Quel suono, quel lamento straziante pugnalò Mamoru dritto al cuore. Avrebbe preferito morire in quel momento pur di non sentirla piangere e disperarsi. Si poggiò alla porta, la stessa che la divideva dalla ragazza accasciata a terra in preda allo sconforto.
Voleva farla entrare, rientrare nella sua casa e nella sua vita. Da quella vita da cui era uscita nonostante non avesse mai lasciato il suo cuore.
Deglutì, abbassando gli occhi e permettendo alle lacrime di cadere a terra.

Usagi rimase a terra, con le mani aperte a sorreggerle il viso per qualche minuto prima di alzarsi e andare via. Lei non poteva più stare lì, lui non la voleva più e dato che ormai sapeva il motivo, capì che lui non si sarebbe convinto facilmente, lui non si sarebbe più convinto a tornare con lei e affrontare tutto assieme.

Lui rimase con la schiena aderente alla porta, con la testa poggiata al legno duro e freddo anche dopo aver sentito i passi di lei farsi sempre più lontani fino a divenire impercettibili.
La fine di quel suono, il rumore del silenzio, gli strinse il cuore in una morsa. Lei non c’era più. Non era più lì, con lui, ma il suo profumo inconfondibile e unico inebriava ancora le sue narici. Se chiudeva gli occhi poteva ancora vedere i suoi occhi tristi, ascoltare la sua voce spaventata e tremante, poteva ancora udire i pugni che sbattevano sulla porta implorandolo di farla restare, chiedendogli amore. Lo stesso amore per il quale l’aveva lasciata. Se alzava le palpebre, però, era di nuovo solo. Senza di lei. Lei che per pochi attimi aveva donato vita a quell’appartamento abituato al buio. Usagi era la luce. Una luce che scaldava il cuore con la sua vitalità, con quell’allegria che metteva il buon umore. Una luce che donava amore solo con uno sguardo pieno di tenerezza. Usagi era la luce che aveva illuminato la sua vita nera, donandole raggi di arcobaleno. Usagi era l’amore, la vita, la luce. Era la sua famiglia.
Al solo pensiero di doverla lasciare andare per sempre, all’idea che non avrebbe più rivisto la sua Vita, la sua Luce, si sentì soffocare. Aveva già avuto quegli attimi di smarrimento, di naturale debolezza dettata in parte dall’egoismo. Ma poi l’Amore prevaleva e la vita di Usagi veniva messa al primo posto.
Quella volta però fu diverso. Sapeva che Usagi non lo avrebbe lasciato tranquillo, non si sarebbe arresa dato che aveva conosciuto quali fossero le sue ragioni.
La avrebbe – inevitabilmente – rivista. Era destino che si incontrassero per le vie di Tokyo. Si incontravano sempre. Lei lo avrebbe bloccato, chiesto di ripensarci, guardato con occhi supplichevoli e pieni d’amore e di luce che lo avrebbero sciolto come neve al sole. Lui non avrebbe potuto sbatterla fuori di casa. Non avrebbe potuto evitarla per sempre. Pian piano si sarebbe arreso, o forse no. Ad ogni modo, sarebbe impazzito sempre di più. E non per se stesso ma per Usako, per l’immagine di lei che avrebbe pianto e si sarebbe disperata ogni volta. Odiava vederla piangere, e non perché non sopportava le piagnucolone, bensì perché soffriva vedendola soffrire.
Portò le mani alle tempie; il cervello sembrava gli stesse uscendo dal cranio.

Destino maledetto, pensò.
Destino…
Un destino che li voleva uniti, che li aveva messi sulla stessa via, che li aveva fatti rinascere, reincarnare in due corpi per poter rivendicare quell’amore tanto desiderato, voluto ma violato per colpa della gelosia e dell’invidia.
Ripensò a Endymion. Lui sì che era un uomo. Un Principe e un uomo valoroso. Lui sì che era un eroe. Aveva protetto la sua donna, il suo Amore, aveva preferito Lei andando incontro a una guerra contro Beryl pur di non lasciare andare Serenity.
Endymion non si era arreso alle minacce di Beryl, era morto pur di non lasciarla sola tra le grinfie di quella strega.
E Serenity? Anche lei era morta per difendere il loro amore, per non vivere senza di lui.
E Selene? Morta. Per la vita di sua figlia. Per donare a Serenity, a Endymion una seconda possibilità.
Si sentì un idiota. Troppe persone innocenti erano morte per Endymion e il suo amore per la sua Princess. Erano morte per lui. Lui era Endymion.
Finalmente capì. Aveva sbagliato. Tutto.
Non aveva tenuto onore a Endymion, a Serenity, alla regina Selene, a tutti quegli innocenti periti in guerra. Aveva vanificato il sacrificio di una regina, di regno, di un Amore.
Avrebbe dovuto prendere esempio da quelle persone valorose e coraggiose che avevano affrontato le insidie insieme. Perché le grandi lotte, le avversità, si combattono assieme. L’unione faceva la forza. Serenity ed Endymion, anche se in un modo diverso, avevano vinto grazie all’amore.
Il suo potere malvagio di cui l’aveva investito il Dark Kingdom, era stato sconfitto dall’amore di Sailor Moon per lui.
Tutte le avversità le avevano affrontate e vinte assieme.
Doveva rimanerle accanto, custodirla tra le sue braccia per proteggerla da chiunque volesse farle del male, doveva amarla alla luce del sole. Perché Usako era la luce, una luce che in quel momento realizzò avesse bisogno di amore. Di lui. Se Usagi era la sua Vita, lui era la Vita per lei.

Improvvisamente sentì il richiamo dell’Amore, Sailor Moon era in pericolo, lui lo percepiva ogni volta e ogni volta la rabbia e la paura di vederla soccombere durante i combattimenti si impadronivano di lui. Usagi non doveva essere toccata. Usako era inviolabile.

Tuxedo Kamen arrivò giusto in tempo, dando a Sailor Moon la possibilità di intervenire con il suo scettro e sconfiggere il demone.
Osservandola dopo che Esmeraude svanì, trovò il coraggio di parlarle, di dirle che avrebbero dovuto lottare uniti, solo in quel modo avrebbero potuto sconfiggere i nemici.
“Questo lo so” rispose, confusa, la Paladina della legge. Non capiva, perché Mamo-chan parlava in quel modo? Avevano sempre combattuto assieme, perché diceva quelle cose solo in quell’occasione?
Lo guardò, riuscendo a immaginare il suo volto anche senza la mascherina. Percepì i suoi occhi fissarla. Durò pochi attimi prima che lui abbassò lo sguardo, imbarazzato dalla presenza delle Senshi, desideroso di parlarle, di spiegarle, di dirle Ti amo.
Ma lei non aveva letto il suo desiderio, come avrebbe potuto dato che l’aveva sbattuta fuori di casa poco prima? Però ormai non poteva più fare a meno di lei, non poteva più tenere per se stesso tutto l’amore che era riservato solo a lei. Solo a Usako.
Deglutì, non poteva farlo davanti alle altre. Salutò correndo via tra i palazzi della città.

Solo nella notte, sciolse la trasformazione, ritornando nella sua giacca verde e nei suoi pantaloni beige. Non aveva voglia di tornare a casa. La avrebbe rivista lì, mentalmente, avrebbe percepito il suo profumo. E Avrebbe fatto male.
Poggiato alla ringhiera di ferro di un terrazzo, dal quale era possibile ammirare il panorama, alzò gli occhi verso la luna. “Usagi” sospirò, sentendo ancora i sensi di colpa per come l’aveva trattata, per come aveva violato quell’amore nato e perito su quel satellite che rifletteva i propri raggi sul mare rendendolo argentato.
“Mamo-chan!”
Quella voce; la avrebbe riconosciuta dovunque. Sembrava un sogno, eppure era meglio; Usagi correva verso di lui, in volto spaventata e affannata.
Probabilmente temeva un altro rifiuto, l’ennesimo ammonimento a lasciarlo stare.
Sorrise, era felice. La luce era rientrata nella sua vita.
“Usako” invocò pieno di gioia aprendo le braccia e avvolgendola in un caldo abbraccio. Un abbraccio che non le avrebbe più fatto mancare.
Lei strofinò la testa sul suo petto, sentendolo, realizzando che fosse tutto vero.
Mamoru affondò la testa sui capelli biondi e profumati della sua Usako prima che lei sollevasse la testa per incontrare i suoi occhi.
Lo disse con gli occhi Ti amo e lei capì, sorridendo, prima di abbassare le palpebre e sentire il calore che proveniva dalle labbra di lui che premevano sulle sue.
Un brivido percorse le loro schiene, in quel momento sembrò che la luna splendesse ancora di più, per loro, per testimoniare quell’amore e ringraziarli per aver riscattato ancora una volta il loro amore passato.
Le avrebbe spiegato il suo comportamento, il suo sbaglio e ciò che gli aveva fatto capire che avesse commesso un errore lasciandola. Prima però voleva solo stringerla forte e baciarla, farle sentire che era lì con lei, che la amava e non l’avrebbe lasciata andare mai più. Per tutto il resto, ci sarebbe stato tempo. In fondo, c’era tutta una vita davanti.

Fine


Note:
 

*: La frase è ripresa da Romeo e Giulietta di Shakespeare.
 


Il punto dell’autrice


Questo capitolo nasce per esaudire – nel mio piccolo – il desiderio di molti di capire questo episodio. Perché lui la sbatte fuori e dopo dieci minuti cambia idea dopo averla fatta dannare per ben 17 episodi? Ecco, questa è la mia versione spero vi sia piaciuta.
Non ho approfondito molte parti per non ripetere tutto l’episodio e rendere la lettura scontata. Mi son soffermata più che altro su Mamo e i suoi pensieri.
Per il resto, spero di sapere una vostra opinione sul cap., ne sarei felice!
Un enorme ringraziamento va alla bravissima CharlotteWeasley per aver realizzato il logo di 'Sailor Moon Uncutted' (oltre che quello per 'La Melodia del Cuore'). Grazie Mille!
Un bacio e a presto!


Demy

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