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Lista capitoli: Capitolo 1: *** L'avventura ha inizio *** Capitolo 2: *** Incontri e sogni *** Capitolo 3: *** L'essenza degli Aurorei *** Capitolo 4: *** La lotta con i Siguya *** Capitolo 5: *** Sogni e partenze *** Capitolo 6: *** Dàimon! *** Capitolo 7: *** Arrivo alla Fortezza *** Capitolo 8: *** La Torre Bianca *** Capitolo 9: *** Alreyd e il Re *** Capitolo 10: *** La battaglia ha inizio *** Capitolo 11: *** Il duello e la trappola *** Capitolo 12: *** La sfida del dio *** Capitolo 13: *** La fine della battaglia e l'inizio della guerra *** Capitolo 14: *** Il commiato e la partenza *** Capitolo 15: *** Il guado *** Capitolo 16: *** Il popolo notturno *** Capitolo 17: *** Sire Alcols *** Capitolo 18: *** Combattimenti *** Capitolo 19: *** Disperazione e salvezza *** Capitolo 20: *** Zeriol e il popolo del Sud *** Capitolo 21: *** La difesa di Condios e l'arrivo dei Siguya *** Capitolo 22: *** Yonuel e Ràidames preparano la battaglia *** Capitolo 23: *** I Cavalieri traditori, la fonte del sangue *** Capitolo 24: *** Layrus *** Capitolo 25: *** La guerra contro i morti, Ghanay contro Ràidames, *** Capitolo 26: *** Il fuoco rivelatore e la decisione del Principe *** Capitolo 27: *** Dailone, la città di Delos, la decisione di Urionar *** Capitolo 28: *** La vendetta di Layrus e l'attacco di Mory ***
La luna tinta di un velo sanguigno brillava nella notte
priva di stelle che copriva le strade silenziose. Non si udiva un solo rumore,
se non il tenue fruscio del vento che fuggiva per i vicoli bui. L’intera città
era sopita in un torpore foriero di tempesta. Al centro della capitale il
castello reale si ergeva maestoso, con alti bastioni che svettavano nel cielo
notturno. Bracieri ardenti sulle torri ne rivelavano la mole imponente.
All’interno, ogni stanza, ogni corridoio era permeato dal silenzio. Nessun
rumore si udiva nelle vaste aule marmoree. Solo un debole suono, ovattato, quasi
impercettibile: un respiro affannato che alcuno avrebbe potuto percepire nel
vuoto che circondava la stanza del Signore di Maruyl. La tenue luce della luna
pioveva nell’ampio salone spoglio e austero da alte vetrate, illuminando la
figura del Principe. Era il Sire della città, la carica affidata di generazione
in generazione ai più meritevoli. Il designato doveva essere un condottiero
infallibile, forte di umanità, saggezza e coraggio e il suo unico proposito il
bene del popolo. Il Principe di allora incarnava alla perfezione quei requisiti.
Quell’uomo si accingeva però ad affrontare forze al di sopra della sua natura
mortale. Avvertiva strani presagi nell’aria. Con lo sguardo perso nel vuoto
sedeva immobile sul suo trono, costruito su una piattaforma rialzata, dominando
l’intera sala. Vestiva una tunica di porpora, che gli avvolgeva il corpo con
delicatezza. Un elmo d’oro con fini rilievi cremisi gli nascondeva i lineamenti del
volto, celando la sua espressione. Il respiro affannoso e spezzato scuoteva
l’aria della stanza, infrangendone l’immobilità. Una voce eterea nacque
d’improvviso dal nulla e l’oscurità si infittì nel salone.
“Misero mortale…Umano di cui farò il mio strumento…”
L’uomo sentì l’aria fremere intorno a sé. Il suo respiro
divenne ancor più irregolare.
Il Principe fissò rapito il buio davanti a sé,
appoggiandosi stanco allo schienale.
Le sue parole suonarono flebili e atone: “Chi sei? Chi
sei tu che assoggetti il mio spirito?” “Inginocchiati!” Mosso da una forza
estranea, l’uomo si alzò lento dal trono, cercando di controllare il violento
fremito che gli faceva fremere l’animo. Si inginocchiò davanti a un’ immagine di
nero assoluto che andava formandosi davanti a lui. “Io sono la forza che
presiede alla vita e alla morte dei viventi…Io sono ciò che giace nel profondo
dello spirito di ogni essere…Io sono…il Potere!” Al centro esatto del nulla
nero, due occhi vuoti brillavano di una luce livida. Una gigantesca mano
artigliata comparve dal vuoto e una luce di fuoco si agitava nel suo palmo.
“Oggi, principe dei mortali, io ti dono la mia essenza e
la mia effige. Con questo tu dominerai su tutti gli esseri
viventi.”
“Cosa può darmi un tale potere?” Alla domanda del
Principe la luce si condensò fino a formare i contorni di una spada lucente. Il
pomo recava incisi due fulmini che s’intrecciavano tra loro, al centro dell’elsa
risplendeva il simbolo di un sole a cui lati si innalzavano undragone azzurro e uno nero. Sotto il
freddo dell’elmo, gli occhi dell’uomo si serrarono rapiti sui contorni della
lama. “Prendila!”. Il Principe esitò, fermando la sua mano che già si protendeva
verso l’elsa splendente. Infinite possibilità si aprivano nella sua mente, sogni
irraggiungibili, desideri inappagati, ora a portata della sua mano. Eppure aveva
l’impressione che tutto ciò fosse sbagliato. Sapeva che il potere ottenuto
contando sugli altri era effimero e pericoloso e spariva con la stessa rapidità
con la quale lo si otteneva. Lo spirito oscuro avvertì la riluttanza nell’animo
dell’uomo. Avrebbe dovuto far leva sulle sue debolezze per convincerlo. Ne
avvolse dolcemente la mente mostrandogli le potenzialità della spada. Gli
promise una forza senza lati oscuri. Gli mostrò le vittorie che avrebbe ottenuto
in nome dei suoi ideali. Predisse il bene e la gloria del suo popolo. Il
Principe si avvicinò tremante all’arma. Quasi sbaragliato nelle difese, la
sfiorò debolmente ed infine serrò la mano con forza intorno
all’elsa.
Un dolce potere si liberò, avvolgendolo sin nel profondo
della sua intima essenza. Avvertì la stretta che fino ad allora l’aveva agitato
sciogliersi veloce, lasciando posto a sensazioni indescrivibili. Nuove energie
diventavano parte di lui, lo cambiavano, lo mutavano, ma era troppo concentrato
sulla Spada per accorgersene. Si sentiva un essere nuovo, traboccante di forza,
invincibile. Quando ogni parte di lui fu intrisa di nuove vitalità, il suo animo
era già stato corrotto.
Le buone intenzioni per il bene della sua gente erano
state accantonate, rigettate nel fondo della sua mente. Tutto il suo spirito era
concentrato su di sé e ammirava sognante i suoi limiti di mortale allargarsi,
diventare sempre più ampi fino a sparire. Non si accorse nemmeno dell’ombra
oscura che diminuì fino a sparire dentro di lui, radicandosinel suo essere. Le ultime parole lo
risvegliarono dal torpore che gli avvolgeva mente e sensi. “Hai accettato…Ora
siamo una cosa sola…”
Il Principe si guardò improvvisamente intornocome per sincerarsi di non aver sognato.
Il suo sguardo si fermò su ciò che aveva ottenuto. Impugnò la spada con maggior
forza, tenendola alta di fronte a sé. La ammirò a lungo nella pallida luce della
sala. I simboli incisi palpitanti, quasil’arma avesse vene pulsanti. Si sedette nuovamente sul trono, incapace di
distogliere lo sguardo da essa. Non si rese conto del tempo che scorreva
silenzioso e veloce.
Un improvviso rumore interruppe la contemplazione del
Principe e la porta del salone si aprì di colpo. Provò a scorgere la figura
dell’intruso nell’oscurità della sala, ma ne udì solo la voce, dura e profonda.
“Siamo giunti tardi a quanto pare.” La figura di un uomo insolitamente alto,
muscoloso e di candida carnagione, si fermò ai limiti della zona illuminata
della stanza. Indossava una armatura metallica che ne proteggeva quasi tutto il
corpo e brandiva due asce. Dietro le spalle possenti si potevano scorgere i
contorni di una grande ascia forgiata in metallo rosso. Il viso ieratico e bello
era incorniciato da una rada barba bionda e da lunghi capelli altrettanto
chiari.
Una seconda voce giunse in risposta alle sue parole.
“Non è mai troppo tardi, amico mio.”
La figura di un secondo uomo si fermò al fianco del
precedente. Vestiva completamente di bianco e sia i capelli chegli occhi erano dello stesso colore. Il
viso era marchiato da segni nivei che, simili a saette, gli illuminavano il
volto terminando intorno agli occhi.Brandiva un bastone di candido legno che aveva inciso nella sommità la
testa di un dragone. Le fauci spalancate della creatura stringevano un globo
trasparente. Il Principe si rivolse con tono distaccato ai due intrusi. “Che
cosa fanno nella mia fortezza l’Astro Bianco, Re degli Ateloi dell’ Aurora e
Mastro Earnor, Sire del popolo degli Albii?” Ma l’umano sapeva già la risposta,
lo Spirito del Potere gliela suggeriva, sussurrandogli parole languide
nell’animo: “Sono qui per lei, per prenderti ciò che ti
appartiene.”
Una terza persona si palesò alla luce della luna e le
sue parole suonarono piene di rammarico e dolore. “ Giungiamo per fare ciò che è
giusto, mio re” Assiso sul suo trono, il Principe si meravigliò di vedere che a
parlare era stato Nicolas, Signore della Casata Guerriera, suo fidato amico e
consigliere. Brandiva due daghe corte e aveva appesa alla vita una lunga
spada.“Nicolas, anche tu qui? Ti rivolti dunque contro il tuo re?” Le parole del
Principe erano deformate dalla rabbia e l’odio si insinuava ormai tra i suoi
pensieri. I presenti che ne ascoltavano la voce, udivano solo un sibilo ferino.
“Quello che ho davanti a me non è più il mio re.” Disse costernato il Signore
della Casatae i suoi occhi grigi
erano velati di tristezza. “Come osi, traditore?” La rabbia del Principe esplose
a quelle parole e si alzò in piedi furioso. Puntò la Spada verso l’amico e raggi azzurrini
la avvolsero. Nicolas non si scansò, abbassò le daghe verso terra e rimase fermo
a fissare quello che era stato il suo Signore per anni. Deboli sussurri
annebbiavano la ragione e alteravano i sensi del Principe. Di colpo un lampo
azzurro scaturì rapido dalla spada verso l’uomo indifeso, ma non raggiunse il
bersaglio. Una figura ammantata di nero si pose davanti il guerriero, sostenne
con il suo bastone d’ebano la mirabile potenza del fulmine e lo disperse. Questo
uomo sembrava l’opposto dell’ Astro Bianco. Il colore degli occhi e dei capelli
evocavano l’oscurità e la pelle era stranamente violacea, mentre i lineamenti
delicati erano marcati da sinuose linee nere che si incrociavano sul viso in un
disegno ammaliante. Anche lui aveva incastonato sul bastone un drago. “ Mi
aspettavo di incontrarvi, Astro Nero, Re degli Ateloi della
Notte.”.
“Vi consiglio di moderarvi, Principe. Siamo qui per
parlare, non per combattere.” Disse con determinazione l’atelos. “Poco credibile
se detto da voi, che siete quattro tra i maggiori potenti del mondo. Raramente
ci siamo incontrati assieme. Una tal concilio non accadeva da tempo immemore.”
“Un’urgente necessità l’ha richiesta.” Intervenne l’Astro Bianco. “Avevo
previsto questo evento, ma le distanze che ci separano ci hanno impedito di
agire prima.”
“Agire prima ?”Chiese il Principe che non aveva capito a
cosa l’auroreo si riferisse.
“Per evitare che voi otteneste ciò che stringete in
pugno.” Concluse l’Astro Bianco.
“Perché mai non avrei dovuto ottenerla? Il destino mi ha
donato questo potere. Io merito di averlo!” “Sapete bene che non è la verità”
ribatté l’Astro Nero “ Ciò che otteniamo crescendo, con le nostre sole forze, è
naturale e giusto.”. Il Principe rispose esitante, quasi cercando di convincere
se stesso. “Che cosa importa da dove esso provenga? L’importante è il fine. Io
lo userò per il bene del mio popolo.”
“Forse, all’inizio. Ma alla fine ne sareste corrotto.
Sapete bene, voi che siete re, quanto sia facile, troppo facile, farsi forviare
dalle lusinghe del potere e deviare dalla via della giustizia.” Le parole degli
ateloi lo ferivano più di una spada e le certezze che si erano radicate da
troppo poco in lui iniziarono a sgretolarsi. Lo spirito del Potere vide il suo
schiavo vacillare. Rinforzò allora la sua morsa e tinse della sua stessa
sostanza i pensieri del Principe. Avvicinò la sua essenza alla propria, fino a
renderlo simile a sé. Il viso dell’uomo si contorse per il dolore. Si piegò a
metà, tenendosi la testa, come ad arginare il dolore che gli dilaniava la mente.
L’elmo gli cadde dal capo, rotolando sul pavimento di marmo. I presenti
inorridirono davanti a ciò che videro. I capelli chiari del Principe diventarono
lentamente scuri, di un colore che richiamava il buio della notte. La pelle si
scurì e gli occhi iniziarono a brillare diluce vuota. Improvvisamente smise di agitarsi. Si rialzò e tenne la spada
alta dinanzi a sé. L’uomo di una volta si sarebbe spaventato nel vedere il
proprio riflesso sulla lama lucente. Ma quello di allora ne fu soddisfatto. I
dubbi e le incertezze che l’avevano turbato erano scomparsi. Non sentiva più
nessun dolore, ma un piacere come non ne aveva mai provati. Tutti si accorsero
con sgomento di ciò che era accaduto. Non ci fu bisogno di parole di intesa.
Sarebbe stato necessario l’uso della forza. Prepararono le loro armi, pronti al
combattimento. Solo Nicolas ancora esitava. Il Principe era stato più di un
amico per lui, quasi un fratello e non poteva credere di doverlo salvare da sé
stesso con la violenza. Avanzò lento e deciso verso il trono con il viso che
esprimeva la stessa determinazione che mostrava in battaglia. Giunto a pochi
passi dal suo signore, lasciò cadere le daghe e sfoderò lasua spada lunga. La lama brillava
d’argento alla luce della Luna e le lettere azzurre incise nell’acciaio
brillavano. Si inginocchiò al cospetto del suo re, che lo fissava
imperscrutabile. Appoggiandosicon
entrambe le mani sulla spada, rimase alcuni secondi in silenzio, come a voler
cercare le parole giuste. Alzò lo sguardo verso quello del Principe. Quella
vista lo sgomentò ancor di più, ma non perse la speranza di salvarlo. Quando
parlò i suoi occhi esprimevano una ferrea convinzione. “Mio Re…Questa città è la
casa dove viviamo e che amiamo…Voi siete la colonna portante di questa casa… Non
potete spezzarvi e crollare. Non potete cedere a questo maleficio!” Il Principe
non rispose, ma per un attimo Nicolas vide una antica luce negli occhi del
Principe, che scomparve subito. Il suo Signore stava lottando per tornare in sé.
Si alzò e il tono della sua voce era deciso e speranzoso.
“La fede del nostro popolo sta in ogni parte del vostro
corpo. Loro hanno fiducia in voi e voi in loro… E’ questo che significa essere
Principe…Amare il popolo e proteggere chi ha fiducia in
voi … questo è il vostro compito…Tornate in
voi!”
Le parole sincere di Nicolas ebbero l’effetto insperato.
Gettarono luce nell’oscurità che aveva avvolto come un manto il Principe. Lo
spirito del Potere non l’avrebbe permesso. Ora che i suoi piani erano quasi
giunti a compimento non avrebbe permesso che fossero rovinati. Prese possesso
con ferocia del corpo che cercava di ribellarsi e con un movimento rapido del
braccio tentò un affondo verso il ventre del guerriero. Nicolas riuscì a
deflettere a stento il colpo e senza quasi volerlo contrattaccò. Girando veloce
su se stesso riuscì a ferire di striscio la spalla destra del suo Principe.
Intanto Earnor e i due Re ateloi erano accorsi in aiuto del guerriero, armi in
pugno. Accadde tutto come lo Spirito sperava: il dolore della ferita e la vista
dei nemici che lo attaccavano spense il tentativo di ribellione del Principe.
“Difenditi!” Gli urlò perentoria una voce nella testa e lui obbedì. Ma mentre
alzava la spada per attaccare, incrociò il suo sguardo con quello di Nicolas.
Non vide nessuna ombra di odio o rancore trasparire dai suoi occhi, solo onore e
valore. Esitò per un attimo.
L’acuto tintinnio dell’acciaio contro l’acciaio
riecheggiò nella sala, mentre le spade si scontravano le une con le altre. Lampi
di magia esplosero nell’aria, illuminando la battaglia. Urla di sgomento e
dolore, sangue…Se qualcuno avesse assistito allo scontro, gli sarebbe parso che
fossero stati degli dei a darsi battaglia. Pochi poterono raccontare ciò che era
accaduto. Lo scontro tra il potereassoluto e la volontà di fermarlo provocò, infatti, un’esplosione tale da
radere al suolo quasi l’intera Maruyl . Nessuno tra i contendenti sopravvisse,
ma il loro ricordo e quello della Spada del Sole rimasero custoditi dai loro
discendenti. Adesso, a venti anni di distanza, gli stessi eventi si ripetono e
gli eredi di chi perì per la propria patria tornano a
combattere.
Il sole inondava con gli ultimi raggi la valle, che
dalle falde dei monti si estendeva all’ infinito verso occidente. Le vette delle
montagne, ancora innevate all’inizio della primavera, brillavano di rosa lucido
contro il blu pallido del cielo. Profondi passaggi scavati nella nuda roccia
tagliavano le catene di monti creando un labirinto di gole, passi e burroni dove
nulla viveva se non un profondo silenzio interrotto solo dall’incessante soffio
del vento. Una figura solitaria ed esile emerse dall’intrico di roccia e la sua
ombra si allungò lungo il versante della montagna quando il sole la illuminò. Si
fermò alcuni secondi, ammirando un paesaggio che per la prima volta da giorni
non era la nuda ossatura della terra. Ogni albero, pianta o fiore davanti a lui
era tinto di rosso sanguigno. Sembrava quasi che la terra versasse lacrime di
sangue al suo arrivo. Un brivido lo percorse a quel pensiero e per scrollarsi di
dosso l’ansia si inoltrò nel rosso della prateria, lasciandosi alle spalle le
montagne. Quando il sole scomparve oltre l’orizzonte e l’oscurità della notte lo
sorprese durante il cammino, lasciò che la pallida luce della luna e delle
stelle lo guidasse. Si fermò sotto le fronde scure di un vecchio albero nodoso,
che si stagliava su una piccola collina sperduta nella pianura aperta. L’erba,
piegata da folate lente e continue
di vento, assomigliava al frangersi continuo delle onde del mare sulla spiaggia.
Raccolse alcuni rami e foglie secchi e accese un piccolo fuoco, per potersi
riscaldare nella fresca aria notturna. Seduto attorno al fuoco si liberò della
sua sacca e si abbassò il cappuccio del mantello che fino ad allora aveva tenuto
sul capo. Il calore del fuoco gli riscaldò le membra e la luce viva ne rivelò i
lineamenti. Era un uomo. La corta e rada barba ne testimoniava la giovane età. I
capelli, d’oro, con striature bianche, erano lunghi, e terminavano in una lunga
coda raccolta. Gli occhi erano di un colore indefinito. Variava come lo
sfavillare delle lingue di fuoco che fissavano, cambiando da un azzurro chiaro a
nero profondo. E rispecchiavano un animo inquieto. Rivelavano una natura
selvaggia, un’anima placida e mite, che se stimolato poteva mutare bruscamente
in violenta e passionale. Il ragazzo si avvolse meglio nel mantello e si
accomodò tra le radici dell’albero, osservando con attenzione la valle oltre lo
sfavillare del fuoco. Avrebbe vegliato fino a poco prima del sorgere del sole,
per poi rimettersi in cammino. Preferiva riposare alla luce del giorno, che
tante creature temevano e paventavano. Era inevitabile adottare talicautele in quei tempi malvagi. Anche
quelle contrade, che conducevano alle città degli Uomini, adesso non erano più
sicure. Vegliò per quelle che a lui sembrarono ore interminabili, osservando le
stelle nel cielo limpido e ravvivando di tanto in tanto la fiamma con qualche
sterpaglia. Quando l’alba era ormai vicina e il torpore della stanchezza lo
assopiva, colse un movimento alcuni metri davanti a lui. Si alzò di scatto in
piedi, portando la mano destra ad afferrare qualcosa appeso alla cinta. Aguzzò
gli occhi e tentò di individuare di nuovo ciò che aveva visto. Oltre alla vista
acuta, poteva contare anche su un udito molto fine: due qualità che potevano
spesso salvare la vita.La
individuò quasi subito: una figura incappucciata, avvolta in un manto, che
recava incisi strani simboli brillanti. Il viandante si fermò a pochi metri,
guardando nella direzione del ragazzo, come avendo capito di essere stato visto,
poi si avvicinò lentamente al focolare. L’umano mise mano all’elsa della spada
che gli pendeva dal fianco, rilucente di rosso e lingue di fuoco.
L’incappucciato si fermò e disse con calma, quasi incurante della presenza
dell’umano.
“Sono un atelos. Il mio nome è Ràikas ”. Detto questo si
fece avanti, mostrando il viso e le mani levate, in segno di
resa.
Il ragazzo costatò che, in effetti, era davvero un
atelos e della razza aurorea. Il viso chiaro, dagli occhi nivei, incorniciato da
una folta chioma bianca e gli occhi penetranti e sottili erano una prova più che
sufficiente. Ma ciò che catturò lo sguardo del ragazzo erano dei segni bianchi,
lame aguzze luminose, dipinte ai lati del viso come fulmini sfavillanti nel
cielo notturno. Inoltre quel nome, Ràikas, sembrava riportargli alla mente
qualcosa che gli sfuggiva.
“Sono un viandante… ” Cominciò il viaggiatore, ma il
ragazzo gli tagliò le parole in bocca, interrompendolo con tono
brusco:
“Qui ci sono solo io. Cosa vuoi?” Rispose il
ragazzo.
“Posso fermarmi qui?” Gli chiese semplicemente l’atelos,
notando il carattere scontroso dell’umano. Il ragazzo sembrò pensarci per alcuni
secondi, poi rispose, con fare più calmo:
“Fa come credi, ma se solo provi a fare qualcosa di
strano… – l’auroreo rimase impassibile a queste parole senza prestare troppa
attenzione al tono minaccioso che lasciavano intendere.
“Non ne è ho mai avuto intenzione” Concluse con
noncuranza sedendosi davanti al fuoco. Il ragazzo si sedette nuovamente con la
schiena appoggiata al vecchio albero, senza mai distogliere lo sguardo
dall’estraneo. Non sapeva quali fossero le sue reali intenzioni, ma sapeva che
gli aurorei erano di indole buona. Passò del tempo e non distolse mai lo sguardo
dall’altro. Questi dopo un po’ sembrava essersi addormentato, rimanendo
immobile, seduto, anche se il ragazzo non ne era sicuro. Gli aelta, infatti, non
avevano bisogno tanto del riposo della mente, quanto di quello del corpo. Come
divinità dal cuore umano, lasciavano che il sonno ridesse forza alle loro
membra, mentre la loro mente rimaneva lucida e vigile.
Quando finalmente giunse l’alba, vinto dalla stanchezza,
il ragazzo chiuse gli occhi, quasi senza accorgersene. In pochi attimi
l’oscurità lo avvolse e si addormentò profondamente.
Aprì gli occhi, ma non si svegliò. Stava sognando, non
avvertiva nulla, il suo corpo era spento ed era immobile ad osservare la visione
che aveva davanti. Si trovava nel suo villaggio natio. Era una notte buia e
senza luce. Nubi cupe e tuoni fragorosi turbavano il sonno del paese. La piazza
centrale del villaggio, piatta e vuota, circondata da piccole abitazioni di
legno e paglia, era deserta. Improvvisamente un rombo fragoroso squarciò la
notte e un bagliore ad Ovestlacerò
le tenebre. Passarono pochi secondi in cui il silenzio fu assoluto, anche lo
scorrere del tempo sembrava essersi fermato.Poi ci fu un lampo, improvviso e
violento si abbatté con fragore sul centro della piazza. Il ragazzo chiuse gli
occhi, accecato dalla luce, così improvvisa e vicina. Il boato violento ruppe
vetri e finestre e per un attimo la terra fremette. Il bagliore rosso durò pochi
istanti, per poi dissolversi. Quando aprì gli occhi rimase sconcertato: nel
punto dove si era abbattuto il fulmineora giaceva un piccolo fagotto avvolto in fasce
nere.
Rimase fermo, interdetto e stupito da quel
prodigio.
La porta della casa di fronte a lui si aprì, lenta. Un
uomo si stagliò sulla soglia della sua abitazione con una lucerna in mano,
gettando luce sul luogo immerso nell’oscurità . Altri abitanti imitarono il
primo e ben presto molte altre porte si aprirono e numerose persone si
affacciarono dagli usci delle loro case. Nessuno osava però avvicinarsi al
misterioso involucro, che rimaneva immobile al centro della piazza. Alcune gocce
bagnarono il terreno e ben presto una leggera pioggia iniziò a cadere sul
villaggio. Dei tenui vagiti e il pianto di un bambino ruppero il silenzio. Al
centro della piazza c’era dunque un neonato avvolto nelle fasce scure.
Un’anziana donna si mosse dal cerchio degli abitanti esitanti, l’unica che
avesse il coraggio di avvicinarsi, quasi la pioggia fresca l’avesse liberata
dalla paura che ancora bloccava tutti. Il ragazzo la riconobbe. Era la sua madre
adottiva. Si avvicinò con passo lento al fagotto e lo raccolse con esitazione e
lentezza dal suolo, tenendolo con delicatezza fra le braccia, calmandone il
pianto. Il ragazzo si avvicinò senza volerlo alla donna, quasi fosse qualcun
altro a voler vedere tramite lui la creatura che teneva in grembo. Per pochi
istanti poté osservare il bambino. Il piccolo viso addormentato e delicato
pareva quello di un bambino qualunque, uno come tanti. Eppure il ragazzo
avvertiva una terribile consapevolezza: quelle scene accadute venti anni prima
riguardavano lui, quel trovatello in fasce nato dalla folgore era lui. E la
verità gli appariva davanti agli occhi solo ora. Tutto intorno a lui si dissolse
come nebbia al sole, lasciandolo solo con i suoi dubbi. D’improvviso il sogno
era ricominciato e in un vortice di immagini e colori passavano davanti a lui
scene spezzate di tutta la sua vita. Sembrava che qualcuno stesse scrutando nel
suo passato. Vide la madre che raccontava al giovane di allora come l’aveva
trovato sull’uscio di casa, abbandonato. Menzogne, se ciò che aveva visto era
vivo.
Visse nuovamente le emarginazioni e l’isolamento in cui
l’avevano rilegato gli abitanti del villaggio. Adesso capiva perché nessuno
aveva mai voluto stringere legami con lui. Avevano tutti paura. Era la paura che
si annidava dietro l’odio che leggeva negli occhi di chi lo aveva disprezzato
sin da piccolo. E si rivide anche quando, pochi giorni prima aveva deciso di
mettersi in viaggio per giungere a Fearin, la città dove forse avrebbe potuto
ottenere le risposte alle sue domande. Le visioni cessarono d’improvviso,
lasciando il ragazzo solo con i suoi pensieri, circondato dal
nulla.
Fu la voce di Ràikas a svegliarlo: “Forza, ragazzo,
ormai il sole è sorto da tempo. E’ ora che entrambi riprendiamo il
cammino.”
Si mise in piedi lentamente, destandosi e risvegliando
le membra intorpidite, sorpreso che l’atelos fosse ancora lì e che non se ne
fosse già andato e soprattutto ancora stordito dallo strano sogno che aveva
fatto. L’elfo sembrò non notare l’aria turbata del ragazzo e gli si rivolse con
voce indifferente: “Sei fin troppo distratto. Non solo accendi un fuoco,
rivelando così la tua presenza nel raggio di molte miglia, ma ti addormenti alla
presenza di uno sconosciuto di cui non sai nulla.”.
“Pare che non mi sia sbagliato sul tuo conto, Ràikas,
giacché sono ancora vivo.” Ribatté il ragazzo.
“Ma non lo sarai ancora per molto, nonostante la tua
vista e il tuo udito.”
Il ragazzo rimase sorpreso del particolare notato
dall’altro e si incuriosì di quel personaggio di cui conosceva, di fatto,
soltanto il nome.
“Allora mi accompagnerai per evitarmi una brutta fine?”
Chiese ironico a Ràikas.
“Sì, se sei diretto ad Ovest.”
“E’ proprio la direzione che
seguo.”
“Allora la percorreremo insieme finché le nostre strade
non si divideranno.”
Annuì. L’auroreo gli ispirava fiducia e per la prima
volta da settimane avrebbe trascorso del tempo con compagnie diverse dal vento e
da sé stesso.
Si misero subito in marcia, lasciandosi alle spalle il
vecchio albero avvizzito mentre le loro ombre li precedevano verso occidente al
crescere del sole.
…………………………………………………………………………………….
Alcune ore dopo,intorno alle ceneri del fuoco intorno a cui i due avevano riposato, si
trovavano altre persone, se così si poteva descriverle. Erano quattro, tutti
abbassati a terra e annusavano l’aria come le belve fiutano la traccia.
Portavano lunghi stracci grigi come vestiti, forati in più punti, come se
qualcosa di appuntito e massiccio li avesse trapassati. Avevano capelli grigi,
lunghi, che lasciavano sciolti. Sarebbero potuti sembrare comuni Uomini se non
fosse stato per gli occhi. Estremamente dilatati e neri come la pece, brillavano
di una luce rossa che pareva sangue. Improvvisamente si voltarono tutti nella
direzione che l’umano e l’aelto avevano intrapreso tempo prima. Si incamminarono
rapidi nello stesso cammino, correndo agili nell’erba alta, quasi non toccassero
il suolo. La caccia era iniziata.
I due viandanti viaggiarono senza alcuna sosta per molte
ore, senza scambiarsi alcuna parola. Il ragazzo fissava spesso il suo compagno,
incuriosito ed attratto dalla sua natura aurorea. Non aveva mai incontrato atols
nel suo villaggio a Est. Di questo popolo sapeva ben poco, solo ciò che dicevano
le storie, come tutto ciò che riguardava il mondo al di fuori del suo paese
natio. Le leggende narravano che gli dei avessero infuso una scintilla di
essenza divina negli atelos, a differenza degli altri uomini, alla creazione del
mondo. Per questo avevano fama di essere immortali, saggi e capaci di usare la
magia al di sopra dei comuni umani. Sapeva inoltre che la stirpe atelos era
divisa in due, quella aurorea e quella notturna. Quale relazione e differenza ci
fosse tra le due, lo ignorava. Tanti e tali pensieri gli affollavano la mente,
che non si accorse del tempo che rimase a fissare l’aelto, senza rendersi
peraltro conto che egli si era accorto del suo sguardo.Spesso volgeva la mente a ciò che aveva
sognato e si interrogava sul significato della prima visione. Era anche roso dai
dubbi; perché sua madre gli aveva mentito sul modo in cui l’aveva trovato? Non
riusciva a trovare risposta e intanto rabbia e sconcerto si accavallavano nel
suo animo, mentre il tempo passava e proseguivano verso occidente. L’atelos
pareva anch’egli immerso nei propri pensieri.
Sembrava che durante la notte qualcosa lo avesse
profondamente turbato e faceva ben attenzione a tenere nascosto il corpo sotto
il mantello. Nascoste, le ferite provocate da quella che sembrava esser una profonda ustione, facevano ancora
tremare le sue braccia per il dolore.
Trascorsero così parecchie ore, quando i due giunsero
infine ai piedi di un’alta collina. “Vorresti accamparti qui o preferisci
viaggiare anche di notte?” Gli chiese l’auroreo, poiché ormai il sole stava per
tramontare. “Accampiamoci pure”.
Salirono in poco tempo lungo i fianchi del colle,
totalmente spoglio, ma dalla cui sommità si poteva scorgere tutto il paesaggio
circostante. L’orizzonte si tingeva di porpora agli ultimi raggi del tramonto
quando i due si sedettero uno al fianco dell’altro.
L’atelos alzò gli occhi bianchi verso l’alto, fissando
le stelle che compivano il loro eterno ciclo celeste. Il suo sguardo scorreva
rapido sulle costellazioni, soffermandosi su ogni punto luminoso, quasi stesse
leggendo le parole di un libro. Nell’oscurità sempre più fitta sembrava che la
sua figura risplendesse di una luce flebile. “ Studi le stelle?” Gli chiese il
ragazzo.
“Studio i messaggi che mi trasmettono.” Corrugò
leggermente la fronte, preoccupato. “Questa notte, però, emanano bagliori rapidi
e complessi che non riesco a decifrare.”
“Se hai qualcosa da chiedermi - disse, intuendo forse i
pensieri del ragazzo - non esitare”.
Per alcuni istanti regnò il silenzio, poi il giovane
parlò, valutando l’efficacia di ogni sua singola parola. “Io non so molto a
proposito degli ateloi, solo le storielle che raccontano gli anziani. Vorrei
quindi che mi raccontassi qualcosa a proposito della tua razza, degli aurorei e
dei notturni.”.
Ràikas rimase alcuni secondi silenzioso, sempre mirando
attento il flusso degli astri, poi parlò con voce ironica. “Sei come una rana in
un pozzo, che vive del tutto ignara della grandezza dell’oceano.” Il timbro
della voce poi cambiò, divenendo austero, sereno e fermo.
“Io appartengo alla nobile stirpe degli Ateloi, gli
uomini del Drago Azzurro, del Sole Sorgente. Gli dei ci preservarono, il giorno
della nostra creazione, dalla mortalità, entro la fine del mondo. Possiamo in
ogni caso morire, per violenza e dolore. Noi e i nostri fratelli, i Notturni,
quando la nostra razza era giovane, eravamo tuttavia intrappolati dalla nostra
immortalità. Ci eravamo cristallizzati, e oltre a non poter invecchiare, non
potevamo nemmeno maturare, crescere spiritualmente. Avevamo colto l’istante e
non riuscivamo a superarlo, se mi intendi.”
“Credo di capire.” Disse rapito il ragazzo, che mai
aveva sentito narrare una storia con tale intensità. “Noi eravamo e siamo tutto
uno con la terra e i nostri destini, vicende ed emozioni erano legati ad essa
come tralci inerpicati su torri altere e immobili. Vivevamo sì in armonia con il
mondo, ma eravamo intenti in sogni anziché nella realtà. Furono i due Saggi, i
primi due Astri a svegliare il nostro popolo dalla sua
immobilità.
La potenza degli dei scorreva in loro, riunirono gli
atelos e li guidarono verso due strade diverse, ma parallele. Essi mostrarono
agli aelta la bellezza del mondo nel suo cambiare, quella che dimora e muta in
ogni istante e quella che dura in eterno, aumentando ogni giorno di luce e
bellezza. Il nostro popolo sentì il potere crescere nella sua anima, quando capì
che la terra pulsava di tumultuosa vita ed essa poteva dimorare nei nostri cuori
se l’avessimo fatta nostra.
Quella consapevolezza ci ha sempre accompagnato e ora
sappiamo che un tempo non eravamo che una fiamma che non traeva sostegno dal
legno che le dava vita.
Ad un certo punto, le due Stirpi si divisero e i due
Astri si separarono e ancora oggi non c’è conciliazione tra i due
popoli.
Ahimè, purtroppo lo splendore che dava sostentamento
alla mia stirpe, quella Aurorea, richiamò presenze oscure e crudeli nei nostri
cuori. Ci eravamo liberati da una maledizione eterna, ma diventammo deboli. Con
il passare del tempo, che ora avvertiamo con più forza, divenimmo compiacenti.
Dimenticammo lo spirito d’armonia che ci univa alla nostra
terra.
Moltissimi morirono, corrotti dalla cupidigia e da
oscuri sentimenti, lasciandosi consumare da essi, visto che la nostra natura
divina ci impedisce di coltivare certe passioni. Ponemmo delle restrizioni alle
nostre vite, affinché non commettessimo lo stesso errore. Adesso frantumiamo le
nostre vite, viviamo un’esistenza di privazioni e focalizziamo il nostro essere
solo su taluni aspetti, inseguendo in loro la perfezione. Non desideriamo
provare ogni sensazione, ogni emozione del mondo. Coloro che lo fanno capiscono,
prima della fine, che questo desiderio è un’immagine allo specchio, una
riflessione dei nostri peggiori eccessi, portata in vita dalla
decadenza.”.
L’umano rimase alcuni secondi a riflettere su ciò che
aveva udito, poi disse: “La vostra scelta di vita è del tutto differente da
quella di noi uomini comuni. Noi siamo spinti dalla curiosità a provare ogni
frutto che la terra ci offre. Ciò non accade quindi agli atelos. Così
imperturbabili sono i vostri spiriti?”
L’auroreo sospirò e il suo sguardo si fece assente,
quasi rimembrasse tempi passati o pensasse a un terribile
futuro.
“Molti di noi cadono negli anni della maturità,
abbandonando le nostre regole e la grande tragedia della nostra razza accade
ancora e ancora, mentre il numero delle nostre genti diminuisce di generazione
in generazione.”
Il ragazzo tacque, fissando anch’egli le stelle,
dispiacendosi di aver fatto parlare Ràikas di qualcosa di tanto spiacevole. Non
poté fare a meno di pensare che, nonostante tutto, gli atelos erano ancora un
popolo potente, che aveva una grande influenza sul suo, specialmente sulle
grandi città del Sud, i più grandi insediamenti dopo la caduta di Maruyl venti
anni prima.
Il ragazzo si voltò verso l’atelos, notando che si era
alzato fissando con sguardo sempre più accorato il cielo.
“E’ il momento in cui la luce che si riversa sulla terra
svela il fato.”disse con calma. “Esse annunciano il destino”. Ciò che lesse in
seguito lo sigillò tuttavia nel proprio cuore.
“E’ il filo della casualità a tessere il nostro
cammino?” Si domandò quando ebbe decifrato l’oracolo dei
numi.
Il ragazzo che per caso aveva incontrato, che di un dio
aveva uguale indole, sarebbe stato d’innumerevoli lotte la causa, e di fiumi di
sangue la fonte. Tutto ciò che vedeva era la sventura, la morte, la decadenza e
la sagoma di una grandiosa divinità che si ergeva nuovamente. Cosa doveva fare?
“Cosa vedi?” gli chiese il ragazzo,
notandol’espressione turbata
dell’elfo. “Nulla che possa interessarti.” Disse, troncando il discorso. Si
sedette nuovamente, immergendosi nei suoi pensieri, riportando alla mente
ricordi lontani.
Quando infine Ràikas gli rivolse nuovamente la parola
mancava poco tempo all’alba e nessuno dei due aveva dormito. Gli parlò,
nuovamente pacato: “Non mi hai detto nulla di te. Puoi avere i tuoi segreti, ma
per ancora un po’ di tempo saremo compagni. Potresti almeno dirmi come ti
chiami.”
“Elios.”rispose quasi senza
riflettere.
“Elios? E’ chiaramente uno pseudonimo. Capisco che tu
non riesca a fidarti di me, ma provaci, perché io ti
proteggerò.”.
“Cosa ti spinge a farlo?”
“Avere la possibilità di proteggere gli altri è
estremamente importante, non credi?”
“E’ questo il tuo senso dell’onore, Ràikas?” Chiese
dubbioso il ragazzo.
“Ciò di cui parlo non è onore, ma orgoglio.” Lo corresse
l’auroreo.
Elios rimase alcuni istanti in silenzio, riflettendo su
quelle parole. Ràikas disse infine:
“Adesso basta parlare, è tardi, riposa pure, ti
sveglierò fra qualche ora.”
Il
ragazzo non pose domande. Era molto stanco e aveva bisogno di un po’ di riposo.
Si stese sull’erba e rimase per un po’ di tempo ad occhi aperti. Ràikas guardava
ancora le stelle e gli dava le spalle. Quando il sonno lo colse, l’ultima cosa
che vide fu il viso dell’atelos che fissava il suo. I suoi occhi rispecchiavano
un animo dibattuto come chi sia messo di fronte a un terribile bivio. Per un
attimo ebbe paura di ciò che quegli occhi esprimevano. Poi si
addormentò
Si risvegliò improvvisamente, senza una ragione
particolare. Ràikas era chino su di lui, gli occhi bianchi velati di oscura
preoccupazione e gli indicava di fare silenzio. Lo teneva fermo con un braccio e
alla sua vista, per poco non ebbe un’esclamazione di stupore. Il braccio era
ferito. Recava tagli e segni d’ustioni in più punti. Non riusciva ad immaginare
come si fosse potuto procurare simili lesioni. L’auroreo avvertì lo sguardo di
Ary e scostò il braccio, lasciando che si mettesse a sedere e indicandogli con
un cenno del capo una zona ai piedi del colle immersa nell’oscurità. Il ragazzo
cercò di scrutare con attenzione e dopo alcuni secondi riuscì a distingueredue figure abbastanza lontane, che si
avvicinavano. Gli sembrò di udire un debolissimo rumore:il fiutare di cani da caccia che
annusano l’aria per percepire l’odore della preda. Tornando a guardare Ràikas si
accorse che intorno a lui scintillavano dei bagliori d’oro e che la sua figura
era più sfocata, quasi non riuscisse a distinguerne i contorni con precisione.
Si rese conto che lo stesso accadeva al suo corpo, anch’esso circondato da
quelle strane luci. Fissò con sguardo interrogativo Ràikas e questi gli sussurrò
debolmente:
“E’ un mio incantesimo, adesso siamo svaniti alla vista
di chiunque.”
Rimasero in silenzio, attendendo che i due intrusi si
avvicinassero. Le due figure si accostarono e il loro fiutare divenne ora ben
udibile alle orecchie dei due. Portavano logori abiti grigi strappati in più
punti e le lunghe chiome cineree brillavano ai raggi della luna. Nulla
traspariva dei loro corpi, i vestiti lunghi e larghi nascondevano anche le mani,
solo il volto, dalle fattezze umane, era visibile. Uno dei due si diresse verso
di loro. Si fermò a pochi passi, guardando fisso nella loro direzione. Per
alcuni secondi, che si dilatarono in un’eternità, Ary e quello strano essere si
fissarono negli occhi, senza che nessuno dei due distogliesse lo sguardo, tanto
che il ragazzo temette che fossero stati scoperti. D'improvviso gli occhi di
quello che sembrava un uomo si dilatarono orribilmente, divenendo neri. In
quell’istante lance ossee ricurve spuntarono ovunque dalla sua figura e questi
urlò, con voce terribile, allungando una mano artigliata: “Vi ho
trovati!”
Non fu abbastanza rapido. L’auroreo, che fino ad allora
era stato all’erta, seguendo ogni loro piccola mossa, si era preparato. Ràikas,
Astro Bianco degli Atelos, aveva tenuto pronta la sua potentissima magia.
Anticipò quell’essere immondo che li aveva trovati e gli scatenò contro la sua
forza. Richiamando a sé la temuta potenza degli aurorei scagliò contro il nemico
un ardente dardo di brillante energia bianca. Ary rimase accecato
dall’improvviso bagliore e per alcuni secondi non vide più nulla. Quando riaprì
gli occhi, vide Ràikas, poco distante, chino sull’essere che giaceva al suolo
immobile.
L’elfo alzò la mano destra al cielo ed evocando i
tumultuosi vortici della magia, la avvolse di crepitante folgore. Con fragore
abbatté il violento colpo sul corpo dell’avversario, passandolo da parte a
parte, togliendogli ogni vita. Ary rimase stupefatto: Ràikas era dunque uno dei
maghi ateloi, che avevano fama di essere i migliori del mondo. L’auroreo si
volse verso di lui, staccandosi dal corpo dell’avversario
battuto.
“Stai in guardia - gli disse - ne sono rimasti ancora
due e questi non sono semplici uomini.”
“Cosa sono allora?” Gli chiese Ary, sguainando la spada
e mettendosi al fianco di Ràikas.
“Siamo i Siguya, mortale.”
Ary si voltò. Poche volte provò un orrore simile. Non
credette di avere davanti né Uomini néDemoni ma mostri terrificanti.
….…………………………………………………………………………….
La storia dei Siguya era scritta con il sangue. Razza
più giovane degli Atelos e degli uomini comuni, erano comparsi nella storia
duecento anni prima. Molti li consideravano demoni, ma i più eruditi sapevano
che erano i Figli della Terra. Nati da essa nelle sue profondità, ne avevano
ereditato l’ossatura invincibile e praticamente indistruttibile e la forza
travolgente. Ma come una fiamma troppo violenta consuma subito il suo
sostentamento, così i Siguya quasi si estinsero in poco tempo. Essi, infatti,
benché fortissimi, non erano numerosi e quando sfidarono anni prima le forze
degli Uomini, a quel tempo all’apice della forza, furono sconfitti e sterminati.
Solo i più forti e giovani sopravvissero. Nonostante avessero fama di
immortalità al pari degli Ateloi, il fatto che non fossero proliferi ne decretò
l’estinzione totale come prossima. I sopravvissuti erano considerati un popolo
belligerante senza cervello. Amavano a tal punto combattere che sembrava che
solo sul campo di battaglia fossero a loro agio. Ma un branco ingenuo e assetato
di sangue non poteva continuare ad esistere. O almeno così si credeva. E invece
i Siguya resistevano. Divisi e sparpagliati per tutta la terra, combattevano e
sfidavano chiunque potesse essere degno di combattere contro di loro. Come gli
Atelos avevano trovato la loro ragion d’essere nel raggiungimento della
perfezione così i Siguya l’avevano trovata nell’uccidere e assaporavano la vita
in questo modo. Tutto ciò Ràikas, Astro Bianco, lo conosceva e sapeva che non
sarebbe stato facile uccidere quei due Siguya. Elios invece fissava con terrore
gli avversari avvicinarsi. L’uno al fianco dell’altro, entrambi fissavano il
corpo del loro compagno caduto. Ma le fattezze del morto, tornato all’apparenza
umano, non avevano niente in comune con le loro. I visi, bestiali, erano grigi e
macchie nere circondavano gli occhi, di un rosso violento, visibile anche
nell’oscurità. I capelli, bianchissimi, ricadevano sulle spalle ricurve. Ciò che
caratterizzava i Siguya era tuttavia ben altro. Gli abiti erano squarciati in
più punti da enormi tronchi e lame ossee che spuntavano dalla pelle come rami da
un albero. Il Siguya davanti ad Ary ne aveva due, come uncini ricurvi, sulle
spalle e dalla schiena sporgevano enormi scaglie bianche. La cosa più
sorprendente era la coda, lunga e squamata con spuntoni affilati che la
ricoprivano ovunque. Dal braccio destro inoltre nascevano quattro lame ossee,
che terminavano affilate oltre il pugno. Il secondo mostro non differiva molto
dal secondo. Non aveva la coda, ma il suo braccio sinistro era inquietante. Dal
gomito in giù, infatti, c’erano due enormi ossa, che, avvolgendosi a spirale,
terminavano in una punta acuminata, simile a quella di una
freccia.
Il mostro vicino a Raikas, parlò, fissandolo attento. La
sua voce era cavernosa e profonda ed inquietante: “Auroreo, hai ucciso un nostro
fratello, uno dei Siguya, gli dei partoriti dalla madre terra. Non gioire della
tua effimera vittoria, perché presto lo seguirai nei regni
ultraterreni.”
Si avventarono feroci su entrambi. Ràikas non ebbe il
tempo di aiutare Elio, poiché dovette subito difendersi. Il Siguya che aveva
parlato gli si fece contro con rapidità sorprendente, ma fortunatamente
l’affondo del suo braccio mancò il bersaglio e affondò a vuoto nella terra. Il
ragazzo era nella stessa situazione. Intento a schivare i colpi della coda del
mostro e i fendenti del suo braccio, non riusciva a trovare il tempo per
contrattaccare. Infine, quando il mostro lo mancò nuovamente, dandogli le
spalle, vibrò un fendente sulla schiena scoperta del Siguya. La lama colpì la
pelle grigia e si spezzò all’altezza dell’elsa nell’impatto. Il mostrosi voltò e lo derise con voce malvagia.
“Stolto uomo, solo con la magia più potente avresti una possibilità di
uccidermi. Come le dure pietre dei monti, così la nostra pelle è stata
forgiata.” Ràikas lo sapeva bene, e come aveva fatto in precedenza,imbrigliò il potente flusso della magia
e ne conquistò la mirabile potenza, scatenandola contro il suo avversario. La
sua mano fu avvolta da un intenso bagliore e per un istante, tutti si fermarono,
abbagliati.
“Poiché il vostro corpo è insensibile a qualsiasi
attacco fisico, proverò a spazzarlo via con il bagliore di stelle generato dalla
mia magia.”
I due avversari urlarono furiosi gettandosi su di lui,
ma Ràikas fu più rapido. Aprendo il palmo della propria mano verso i Siguya, ne
riversòla luce contro di loro,
investendoli e avvolgendoli completamente. E lentamente iniziarono a svanire,
assorbiti dalla luce, incapaci di reagire.
La voce calma di Ràikas suonò come una condanna. “Questo
incanto è come una guida . Nessun essere al mondo può evitare di essere condotto
dalla sua luce. Infine, una volta che la porta luminosa si chiude – disse,
serrando debolmente il pugno – tutto svanisce…” L’intensa luminosità svanì,
portando con sé i mostri e la loro vita e di essa non rimase che una pallida
nebbia dorata che svanì rapida nell’aria.Elios si lasciò cadere a terra, sedendosi sull’erba, fissando stupito
eppur felice l’auroreo. Gettò l’elsa della spada ormai spezzata e rimase in
silenzio, incapace di parlare. Ràikas gli si avvicinò lento e il ragazzo notò
che sembrava spossato. Si alzò e gli si fece incontro fermandosi davanti a lui.
“Ero già molto debole e l’uso di una magia tanto potente mi ha stremato.” Gli
disse, notando la sua espressione preoccupata. “Potrai riposare quanto vuoi,
Ràikas, è finita”
Una voce senza corpo alle spalle di Elios li fece
sobbalzare entrambi.
“Muori, debole ed insignificante essere
umano.”.
L’auroreo non ebbe un solo momento di esitazione, spinse
di lato Ary gettandolo a terra ed accusò l’attacco del quarto Siguya al posto
suo. Il colpo, terribile, affondò nelle sue carni all’altezza del petto e per
alcuni secondi atelos e mostro si fissarono. Ràikas disse quasi in un sussurro:
“Non ti ho sentito avvicinarti avete imparato a usare la magia?” Siguya non
rispose, ma estrasse il braccio dal corpo dell’auroreo, che cadde in ginocchio
per il dolore. Anche ferito a morte, però, rimaneva un nemico temibile.
Chiamando a sé tutta la magia che il suo corpo poteva contenere, scatenò una
saetta contro il Siguya, scaraventandolo come un fantoccio a diversi metri di
distanza, nell’oscurità che si schiariva al sopraggiungere dell’alba. Ary si
chinò sul corpo dell’amico, stendendolo sull’erba che già si macchiava del suo
sangue. Quando ritrasse le mani dal corpo esanime erano sporche di sangue,
chiaro e lucido.
La sua voce spezzata era carica di dolore, ma anche di
rabbia.
“Perché Ràikas? Perché mi hai protetto? Tu non correvi
alcun pericolo!” L’atelos parlò debolmente e i segni bianchi intorno al suo viso
iniziarono a svanire, quasi ciò indicasse la vita che abbandonava il suo corpo
ferito. “Mi chiedi…perché ti ho protetto? Non riesci nemmeno…a comprendere i
comportamenti più naturali, quindi?” Tossì. “ Aiutare le persone è una cosa
naturale, ricordalo. Non è un gesto inutile… ma un comportamento ovvio. Per
proteggere qualcuno a rischio della vita…non servono… motivazioni. Non
dimenticarlo.” Chiuse gli occhi per un attimo e quando li riaprì erano colmi di
stanchezza e disperazione. Sollevò a fatica il braccio destro e strinse il polso
sinistro del ragazzo con una forza che non poteva appartenere ad un moribondo.
Elio sentì una fitta di dolore che lo fece sussultare, ma non si
mosse.
“Un’ultima fatica.”Sussurrò in un sorriso forzato
l’elfo. Chiuse gli occhi, come a volersi concentrare in quegli ultimi momenti.
La sua mano fu avvolta da un debole bagliore che si trasferì lentamente al
braccio del ragazzo, avvolgendolo fino ad avvilupparlo del tutto. La luce si
spense subito, svanendo come rugiada al mattino.
Ràikas aprì gli occhi, fissando il proprio sguardo in
quello del ragazzo. Doveva ancora portare a compimento molte cose e nel suo
sguardo c’era la sconforto di chi sapeva di avere il dovere di terminare
qualcosa ma non aveva più tempo per farlo. E il suo era giunto. I suoi occhi
scrutarono nell’animo del ragazzo ed Elios ebbe l’impressione che lo avesse
guardato fin nel più profondo recesso della sua anima. Un sorriso gentilegli apparve sul viso, sembrava
soddisfatto di ciò che aveva capito. Mormorò: “Recati alla Torre Bianca, cerca
Alreyd. ” Chiuse gli occhi ed emise un ultimo, lungo e stanco sospiro. I segni
bianchi sul suo viso sparirono. Non sentì più nessun dolore e l’oscurità lo
avvolse. Accanto a lui, Ary urlò tutta la sua frustrazione contro il cielo.
Sensazioni contrastanti si agitavano in lui, ma soprattutto sentiva crescere una
strana trepidazione.
Un potere che già poche volte prima di allora aveva
avvertito si ridestava nelle sue membra stanche e nel suo animo afflitto. Era
una forza che aumentava con la violenza delle sue emozioni. E quando scorse il
Siguya risalire il pendio della collina verso di loro, se ne sentì pervaso
completamente. Il mostro vide il cadavere dell’atelos ed infierì con tono
malvagio: “Il suo sacrificio non è servito a niente. Anche tu morirai
qui.”
“Invece ti sbagli” disse Elio pacato, alzandosi e
voltandosi verso l’assassino.
Il Siguya sussultò. Il ragazzo era circondato da una
luce di fuoco vermiglio e se fosse riuscito a scorgerne il volto in quel
momento, forse avrebbe provato terrore.
Il ragazzo continuò, con voce ferma, di chi cova un’ira
terribile.
“Egli ha eliminato la debolezza che minava il mio cuore,
convincendomi che non bisogna cercare il significato di ciò che si fa in nome
degli altri.”
Il Siguya si avvicinò lentamente e la sua gigantesca
mole sovrastò quella del ragazzo. “Allora gli chiederai direttamente perdono,
perché quell’auroreo ti sta aspettando nel mondo dei
morti”.
“Il mondo dei morti? Non farmi ridere, sarai solo tu ad
andare nell’oltretomba. Io sono il tuo personale dio della morte e ora mi
prenderò la tua vita.”. Tale era la fermezza e la determinazione di Elios che il
Siguya indietreggiò di un passo, intimorito.
Le parole del ragazzo divennero ora piene della rabbia
fino ad allora trattenuta. “Per le persone perite a causa della stupida superbia
della tua razza e per Ràikas, che è morto per la tua insensata violenza, farò si
che tu patisca la disperazione della morte.”
Il corpo del ragazzo si ricoprì di bagliori rossi, che
ruggivano intorno alla sua figura. La sua voce suonava ora inesorabile come una
condanna a morte. “Non ti chiederò come ti chiami. Non ci sarà una tomba con il
tuo nome.”
Il mostro si riprese. Quelle minacce di morte lo fecero
talmente infuriare, che si gettò sul ragazzo quasi senza pensare. Non si rese
contò di ciò che accadde. Un lampo rosso lo investì e cadde a terra. Capì solo
che centinaia di migliaia di scintille lo avevano penetrato in un istante. Il
suo corpo era ridotto a brandelli. Un pugno di luce fu l’ultima cosa che
vide.
…………………………………………………...
L’alba stava sorgendo. I primi raggi del sole
illuminarono la terra e sorpresero Elios in piedi vicino al corpo di Ràikas. Il
ragazzo aveva coperto il colpo con il suo mantello e ora lo fissava con
un’espressione indecifrabile. Era tornato il ragazzo di sempre e la rabbia aveva
lasciato il posto alla tristezza e al rimpianto. Sembrava che parlasse con
l’auroreo, quasi pensasse che il suo spirito potesse sentirlo. “Non mi sono mai
interessato al mio prossimo. Credevo che ciò che accadesse nel mondo non mi
riguardasse. Io desideravo solo vivere per me stesso e che i colpevoli della
disgrazia della mia vita scomparissero. Sono stato uno sciocco a non capirlo.”
Lacrime amare scesero dai suoi occhi, neri come la pece. “Perdonami, Ràikas, tu
mi hai protetto e io non ti ho nemmeno rivelato il mio nome. Ma di sicuro non
dimenticherò il tuo, perciò vorrei che anche tu conoscessi il mio. Io mio chiamo
Anarion… Anarion, uomo maledetto dal potere.”
Anarion si era sopito, vinto dalla stanchezza e dalle
fatiche della notte, alle prime luci dell’alba. Giaceva addormentato vicino alle
immortali spoglie di Ràikas, il viso umido di pianto per la scomparsa
dell’auroreo. Ebbe un sonno agitato, carico di sogni dal significato oscuro.
Intorno a lui tutto era avviluppato da una rada oscurità. Era fermo su una
scalinata sospesa nel vuoto. Avanti e dietro sembrava continuare all’infinito.
Centinaia di altre gradinate si incrociavano con questa, dando vita a un
labirinto di gradini che si sviluppava su un’infinità di piani ed altezze.Una luce illuminava debolmente quello
spazio, provenendo da qualche parte davanti a lui. Iniziò a dirigersi verso la
fonte di quel bagliore, attratto come una falena dalla fiamma.
Proseguì senza sosta, gli sembrò di viaggiare attraverso
le infinità del tempo e l’oscurità più profonda. Infine giunse alla sorgente
dalla vaga luminosità che si irradiava in quel luogo
innaturale.
Tutte le gradinate sembravano confluire su una vasta
piattaforma di roccia sospesa nel vuoto, una sorta di limbo, un luogo senza vita
né tempo. Quando mise finalmente piede sulla nuda terra, poté vedere chiaramente
la sorgente della luce che l’aveva guidato fin lì.
C’era solo una figura ammantata di nero, il cui viso era
celato da un cappuccio. Il mantello scuro, lacero in più punti, sembrava usurato
dal lento scorrere del tempo. Era seduto immobile, fermo in una posa che lo
faceva assomigliare ad una statua. Aveva il braccio mancino appoggiato con
debolezza al ginocchio sinistro, alzato. La mano destra appoggiata al suolo lo
sosteneva, mentre l’altra gamba era stesa allungata al suolo. Intorno a quella
figura, così ferma e silenziosa brillavano folgori e lampi che rinchiudevano lo
sventurato in una gabbia luminosa.
Anarion notò che era legato al suolo da pesanti catene e
che gli era quasi impossibile muoversi. Gli si avvicinò con passo esitante,
sentiva l’irresistibile bisogno di aiutare quella persona a liberarsi dal giogo
che lo intrappolava. Tese la mano, tremante, verso la figura, che da sotto il
cappuccio sembrava fissarlo. Nell’istante in cui stava per toccare le sbarre
sfavillanti, la figura scomparve e con lei il mondo in cui era imprigionata,
lasciandolo solo. Un’altra apparve davanti a lui. Era una fanciulla, la più
bella che avesse mai visto in vita sua, tanto da mozzargli il fiato e fargli
bollire il sangue nelle vene. Non era la prima volta che incontrava quella
ragazza nei suoi sogni, l’aveva già vista molte volte prima di allora e anche
adesso come tutte le volte, rimase fulminato dalla sua visione. L’aspetto della
ragazza lo affascinava. I lunghi capelli d’ebano, che scendevano lungole braccia scoperte e i fianchi sinuosi,
risaltavano sul viso chiaro, dai lineamenti stupendi. L’espressione malinconica
della ragazza lo ammaliava, così come la profondità degli occhi, simili a due
laghi cristallini. Vestiva solo un peplo leggero che lasciava trasparire tutta
la sua bellezza. Aveva un collo liscio e morbido, spalle dritte, seni turgidi ed
eretti. Tale era la potenza del suo sguardo e della sua esile figura, che non
pareva un umana, ma una dea. Il ragazzo sarebbe rimasto lì ad ammirarla per
giorni interi, ma dopo pochi istanti la ragazza si dissolse dopo averlo guardato
con un ultimo sguardo colmo di tristezza.
Si risvegliò, madido di sudore, mettendosi a sedere. Il
sole era alto in cielo, ma il ventoche soffiava da Nord rinfrescava l’aria. Si rialzò e si voltò verso il
corpo di Ràikas; non sapeva cosa avrebbe dovuto fare, non conosceva i rituali
funebri degli aurorei, né aveva gli strumenti per scavare un tumulo per
seppellirlo. Ma non poteva nemmeno lasciarlo esposto alle intemperie. Mentre si
arrovellava con tali problemi, il suo udito percepì qualcosa. Un rombo lontano,
indistinto, tanto che non riusciva a capire cosa potesse provocarlo. Si voltò
verso Ovest e i suoi occhi videro in lontananza sollevarsi un fitto polverone,
che si muoveva nella sua direzione. Aguzzò gli occhi e notò che in mezzo al
polverone si muovevano quattro figure, quattro cavalieri. Ma avvertiva un altro
suono. Si voltò a destra e a manca, ma non vide nulla. Alzò allora lo sguardo
verso il cielo e per un attimo le sagome di enormi uccelli coprirono il disco
del sole, proiettando le loro ombre sulla collina. Per alcuni secondi il ragazzo
pensò a come dovesse agire. Non poteva scappare a piedi da inseguitori a
cavallo, né nascondersi in quell’enorme distesa piatta di erba. Decise infine
che avrebbe aspettato lì, se non altro per difendere le spoglie di Ràikas.
Rimase così, fermo e immobile fissando i quattro cavalieri avvicinarsi. Giunsero
al galoppo, fermandosi ai piedi della collina. Notò subito che un cavallo era
senza cavaliere. I presenti vestivano abiti scuri e leggeri, da esploratori, con
ampi cappucci calati sul viso e stoffe davanti alla bocca, sicché era possibile
vederne solo gli occhi. Dalle cinture pendevano ampie e lunghe lame, dai foderi
decorati con motivi naturali in oro e dalle else finemente avvolte in fasce di
seta. A tracolla portavano archi lunghi di legno chiaro e faretre colme di
frecce dalle piume rosse. Il cavaliere che per portamento pareva il capo si
avvicinò ad Anarion con passo lento, ma deciso, mentre i suoi compagni rimasero
in sella ai cavalli, impassibili. Il ragazzo fece qualche passo indietro,
intimorito dallo sconosciuto, fino ad arrivare vicino al corpo di Ràikas. Si
fermò, allora, fissando il cavalierecon sguardo smarrito. Questi, intuendo i sentimenti del ragazzo, si fermò
a sua volta e si scoprì il volto. Con gesti lenti si abbassò il cappuccio e si
tolse il drappo davanti alla bocca. Anarion sussultò per la sorpresa e ringraziò
gli dei per ciò che vide. Chi gli stava davanti era un auroreo, dagli occhi
azzurri e i capelli bruni. Gli sorrise, lasciando che la tensione diminuisse, ma
l’espressione dell’altro non era affatto rincuorante. Non tradiva alcun
emozione, solo gli occhi trasmettevano qualcosa ed erano tristezza e dolore. E
in essi si agitava una luce, una velatura scura che li incupiva. Parlò con voce
profonda e autoritaria “Sono Olos, Capitano della Fortezza
Bianca.”.
Il ragazzo rispose, esitante: “Sono Anarion”. Non sapeva
cosa dire, né intuiva cosa gli ateloi volessero da lui. Poi si ricordò di
Ràikas. Quasi gli avesse letto nei pensieri Olos disse:
“Siamo qui per prendere il corpo dell’Astro Bianco
affinché abbia la sepoltura che gli spetta.” Anarion rimase pietrificato,
l’atelos che aveva dato la vita per lui era l’Astro Bianco, uno degli esseri più
potenti del mondo. Aveva fama di potente mago e la storia della pace che si era
avuta grazie alla sua mediazione tra le razze era conosciuta anche nel suo
villaggio. Un così grande individuo era morto per lui. Stentava a crederlo. Si
costrinse a riscuotersi e con aria piuttosto scossa parlò: “Ràikas è qui - disse
indicando il corpo coperto dal mantello – ma come avete fatto a sapere che era
qui?” Ma il Capitano non gli prestava più attenzione. L’aveva sorpassato e si
era chinato al fianco del caduto, scoprendone il volto. Lo fissò con sguardo
vitreo, senza lasciar trapelare nulla. Sembrava piuttosto che anziché mirare il
viso di Ràikas, Olos guardasse lontano, ricordando e vivendo antichi ricordi.
Passò la mano delicatamente sul viso, sfiorandolo dove prima erano impressi i
segni bianchi ormai scomparsi. I lineamenti del volto avevano mantenuto
inalterata tutta la loro bellezza, anche se oramai era scomparsa la tenue
luminosità che in vita lo avvolgeva. L’atelos ricoprì confare frettoloso il viso di Ràikas,
alzandosi, apparentemente per nulla scosso. Guardò un attimo verso il cielo e
mettendosi due dita sulle labbra emise un lungo e potente fischio, il cui suono
si diffuse potente nella zona. Pochi istanti dopo due ombre enormi si
proiettarono al suolo e Anarion vide due gigantesche aquile che scendevano a
terra volando in ampi giri finché entrambe in pochi secondi atterrarono con
delicatezza al suolo. Si trattava di due Aquile Giganti, i destrieri alati che
venivano allevati dagli atelos per essere usati come messaggeri o in battaglia.
Simili ad aquile, ma dalle dimensioni dieci volte superiori, erano estremamente
longeve e intelligenti e il loro piumaggio bruno rimaneva lo stesso per quasi
tutta la loro vita. Il becco appuntito e il temperamento irascibile li rendevano
animali assai difficili da crescere, compito che tuttavia gli aurorei riuscivano
a svolgere egregiamente. Ma quelli erano i primi esemplari che il ragazzo vedeva
e la sua sorpresa fu grande. E la sua meraviglia crebbe ulteriormente quando
vide che le Aquile portavano sulla groppa dei cavalieri. Gli aurorei, in tenuta
simile a quella di Olos, sedevano su selle sul dorso degli animali e tenevano
due briglie legate ai morsi che stringevano nei becchi. Con fare attento i Solca
Cielo, come erano chiamati dai loro simili, scesero di sella, lasciando le
briglie senza tuttavia che gli animali accennassero a scappare. Scrutarono
appena la salma dell’Astro Bianco e poi si voltarono verso Olos, inchinando
leggermente il capo in segno di rispetto. I tre si scambiarono alcune parole
sottovoce. I Solca Cielo sollevarono delicatamente il corpo senza vita di Ràikas
e uno dei due, salito in sella, lo assicurò al proprio corpo con corde legate
alla sella. Lo avvolse meglio nel mantello e sussurrò alcune parole all’ Aquila
che emise un verso acuto per risposta. Quando anche l’altro risalì poi con
agilità in groppa alla sua Aquila e afferrò le briglie, urlarono una parola dal
suono acuto e stridente, simile ad un fischio, e le due Aquile, aperte le ali,
spiccarono il volo, salendo in cielo con ampi giri prima di allontanarsi
nell’aria. Anarion rimase alcuni secondi osservando le Aquile andarsene, poi si
volse verso Olos, sicuro che lo avrebbe visto allontanarsi a cavallo. Invece il
Capitano si era messo ad esaminare i corpi dei Siguya uccisi e si era soffermato
su quello sconfitto da Anarion. Quando ebbe finito gli tornò vicino, fissandolo
con sguardo imperscrutabile, quasi attendesse una sua parola. Invece fu lui a
parlare: “Verrai con noi…” Quella frase suonava più come un ordine che una
richiesta.
“Dove?” Chiese Anarion, sorpreso.
“Alla Fortezza Bianca.”
“Perché?” Osò ribattere il ragazzo, sebbene lo sguardo
di Olos era quello di chi non ammette obbiezioni.
“E’ un ordine del Consiglio, che governa la città in
assenza del Re.”
“Ma…”incominciò a protestare e le sue parole furono
troncate sul nascere.
“Partiamo ora, subito”. E l’auroreo si volse, scendendo
la collina, e salì con un movimento felino sul cavallo, alzandosi sulle staffe
per osservare il ragazzo che era rimasto interdetto sulla
collina.
Anarion non sapeva davvero cosa fare, ma pensava che la
scelta presa fosse senza dubbio la più saggia. Prima di tutto perché gli atelos
l’avrebbe comunque potuto costringere con la forza; in secondo luogo perché
doveva assolutamente incontrare l’auroreo nominato da Ràikas, Alreyd, e infine,
non aveva alcuna fretta nel raggiungere la sua meta. Aveva atteso per venti anni
e quella deviazione avrebbe ritardato il suo viaggio di quanto? Tre giorni, una
settimana? Si risolse quindi a raccogliere l’invito o l’ordine, non avrebbe
saputo dirlo, di Olos. Scese rapido la collina dopo aver raccolto le sue cose,
sotto gli occhi vigili degli esploratori. Salì sul cavallo che era stato
preparato per lui esi guardò
intorno. I cavalieri si erano disposti tutti intorno a lui, con Olos in testa.
L’auroreo fissava il cielo verso Ovest, nella direzione in cui erano sparite le
Aquile. Sembrò scorgere qualcosa e dopo un suo cenno della mano, partirono.
Spronarono i cavalli e,dapprima al
passo, poi rapidi al galoppo, si allontanarono veloci da quel luogo di dolore.
Mentre spariva attorniato dagli aurorei verso Occidente, Anarion non sapeva
quanto i suoi calcoli si sarebbero rivelati sbagliati.
Il sole stava lentamente calando oltre l’orizzonte,
ponendo termine a quella prima giornata di viaggio. Avevano cavalcato tutto il
tempo, eccezion fatta per le poche soste effettuate per rifocillarsi. Durante
quei pochi minuti di riposo il ragazzo non aveva potuto scambiare alcuna parola
con Olos, che approfittava di quelle pause per parlare con uno dei suoi
cavalieri, che stava in retroguardia, cavalcando abbastanza dietro da poter a
malapena esser visto. Anarion non era riuscito a capire nulla delle loro
conversazioni, ma aveva notato che mentre l’auroreo parlava con Olos, spesso
volgeva lo sguardo verso Est, accompagnando le sue parole con gesti concitati
delle mani. Per il resto aveva cavalcato tutto il tempo in silenzio, pensando
agli ultimi avvenimenti, senza quasi guidare il cavallo, che sembrava seguire la
strada da solo. Sentiva gli sguardi degli esploratori costantemente su di sé.
Quelle poche volte che riusciva a incrociarne lo sguardo e a fissarne gli occhi
celati nell’ombra dei cappucci, riusciva a distinguerne le emozioni che
celavano. Avvertiva la caratteristica apatia degli aurorei, benessere misto ad
atarassia, o pacatezza, non sapeva dirlo. E anche rabbia, repressa, celata, ma
presente. La maggior parte del tempo, guardava avanti, oltre la figura
silenziosa di Olos che lo precedeva, osservando i luoghi che attraversavano. La
prateria scorreva rapida intorno a loro, mentre i cavalli galoppavano
instancabili su un sentiero pietroso e poco battuto, lasciando dietro di loro
una densa scia di polvere. Il paesaggio iniziava tuttavia a mutare. La piatta
prateria lasciava crescere alcuni alberi, dapprima radi e man mano che
avanzavano più numerosi. Vedeva inoltre profilarsi verso Nord la mole imponente
di una catena montuosa, le cui vette sparivano nella foschia che precede il
tramonto. Quando erano infine smontati da cavallo, ognuno si era messo
all’opera, senza bisogno che Olos desse ordini. I cavalieri sapevano già qual
era il loro compito. Si accamparono a rispettosa distanza dalla strada, in modo
da celare la loro presenza. Un cavaliere si occupò dei cavalli e li legò a degli
alberi lontano dalla strada, in modo che non venissero notati. Un altro si diede
da fare nei pressi del sentiero per cancellare le tracce della loro deviazione.
Il terzo raccolse alcuni bagagli che fino ad allora avevano portato sui cavalli
e li depose affianco ad Anarion, che sedeva per terra vicino alla figura
taciturna e pensierosa di Olos, anch’esso seduto, forse aspettando che i suoi
cavalieri svolgessero i loro compiti. Il ragazzo era sfinito dalle fatiche della
cavalcata, alle quali non era abituato, ma aveva l’impressione che la giornata
non fosse affatto finita. Anarion pensò che quella sarebbe stata forse l’unica
occasione per poter parlare con Olos e fattosi coraggio gli rivolse la
parola:
“Olos- disse esitante- quanto manca ancora alla Fortezza
Bianca?”
Il Capitano rispose, senza degnarlo di uno sguardo: “
Sei ore di viaggio a cavallo”
Anarion lo incalzò: “Come avete fatto allora ad arrivare
al luogo dal quale siamo partiti in meno di dodici ore dalla morte di Ràikas e
come facevate ad esserne a conoscenza?” Olos ebbe un moto di stizza quando
Anarion pronunciò il nome dell’ Astro Bianco, ma rispose secco, senza
esitazione: “La notizia ci è stata riferita dai Solca Cielo che hai visto mentre
tornavamo da un viaggio, passando non lontano dal luogo dove ti abbiamo preso.”
Il Capitano terminò la frase con il tono di chi considera l’ argomento chiuso,
perciò, nonostante le domande di Anarion fossero ancora molte il ragazzo rimase
in silenzio. Pochi secondi dopo, mentre gli ultimi raggi del sole illuminavano
di porpora terra e cielo, gli altri tre aurorei si unirono ad Olos e Anarion,
sedendosi in modo da formare un cerchio. Erano ancora in tenuta da viaggio e
nessuno aveva abbandonato le armi. Si erano solo liberati dai cappucci e dai
drappi che ne nascondevano il viso e fissavano il loro Capitano con attenzione,
pronti ad obbedire ai suoi ordini. L’atelos li guardò uno ad uno come per
valutarne le energie che ancora possedevano, poi parlò con loro per alcuni
minuti, con voce lenta e seria. Olos non solo stabilì i turni di guardia e le
indicazioni per il giorno successivo, ma istruì i suoi compagni d’arme su ciò
che il cavaliere della retroguardia gli aveva riportato. Il Capitano riferì che
erano inseguiti da un grave pericolo. Durante la loro ricognizione, che li aveva
portati nelle terre a Nord - Est della Fortezza Bianca, si erano imbattuti in
una colonna di Dàimon diretta a Sud - Ovest. Uno degli aurorei era stato ucciso
e loro ne avevano uccisi molti con archi e frecce. Si erano allontanati a
cavallo, portando il caduto e distanziando molto i nemici, che erano a piedi.
Erano stati quindi raggiunti dalle Aquile Giganti con l’ordine di recarsi
anch’essi a recuperare il corpo dell’Astro Bianco. Avevano caricato il caduto su
un’Aquila affinché lo riportasse alla Fortezza. Si erano poi recati a recuperare
Ràikas e fatto ciò si erano messi sulla strada di casa, dando ad Anarion il
cavallo del compagno ucciso. Ora però sembrava che i Dàimon li avessero
raggiunti. Facendo, infatti, una deviazione verso Sud per recuperare la salma di
Ràikas, avevano dato il tempo a quelle creature di proseguire nel loro percorso
che li stava portando esattamente nella loro stessa direzione. Ciò non solo
rappresentava un problema, poiché non erano in numero sufficiente per affrontare
un battaglione di nemici, ma anche fonte di dubbi per Olos. Perché i Dàimon
stavano seguendo la strada che portava ai territori degli aurorei? Quella
domanda non gli dava pace e sentiva l’urgenza di dover portare la notizia alla
Fortezza. Non potevanoin ogni caso
continuare la marcia perché era evidente che il ragazzo era allo stremo e
inoltre era deciso a scoprire se i Dàimon puntavano effettivamente verso i loro
territori. Decise che avrebbero aspettato nascosti il passaggio dei nemici e
avrebbero proseguito galoppando paralleli alla strada, tenendosi a un miglio da
essa. Mantenne la mente lucida e il sangue freddo e ripeté gli ordini ai
cavalieri. Tutti quanti, a turni di due ore si sarebbero appostati vicino la
strada per controllarla e sarebbero ripartiti due ore dopo l’alba. Sei ore di
riposo sarebbero bastate al ragazzo per riprendere le forze. Si coricarono
vicino ai cavalli, gli esploratori nel loro vigile riposo, Anarion profondamente
addormentato. Per un po’ il ragazzo si sarebbe liberato dal peso che
preoccupazioni, dolori e nostalgie provocavano sul suo
animo.
………………………………………………………………………………………
La notte era silenziosa e oscura. Ogni cosa era immersa
nell’immobilità e nella fioca luce che nasceva dall’opaca falce della luna. Il
primo turno passò senza che nulla accadesse. Il secondo trascorse anch’esso
tranquillamente, con l’oscurità che si infittiva. Intorno alla mezzanotte,
mentre l’ultimo cavaliere di guardia si preparava alla veglia notturna, i suoi
occhi captarono un movimento rapido e lontano verso oriente. Aspettò alcuni
secondi e lo colse nuovamente. Qualcosa si muoveva a destra e a sinistra della
strada, seguendo un percorso parallelo. Aguzzò la vista, perforando con lo
sguardo le fitte tenebre notturne. Riuscì ad individuarli: l’aspetto altero del
corpo esile e aggraziato, la pelle bluastra e fredda e gli occhi verdastri e
luminosi non lasciavano dubbi. Erano quattro Dàimon, probabilmente esploratori.
Precedevano l’armata perlustrando il percorso prima del passaggio dei compagni.
Tese le orecchie per udire suoni che potessero dirgli qualcosa di più e sentì
non troppo lontano, oltre i sibili ferini degli esploratori, il passo leggero e
cadenzato del resto dei Dàimon. Alla fine i nemici li avevano raggiunti. Si
mosse rapido e silenzioso come un’ombra fino a raggiungere il comandante che
dormiva con gli altri. Gli si avvicinò, ma prima che potesse chiamarlo Olos aprì
gli occhi e disse: “Sono arrivati.”.
…………………………………………………………………………………..
Non ci fu bisogno di svegliare nessuno, nemmeno Anarion,
che forgiato da lunghe veglie e brevi riposi era abituato a svegliarsi al minimo
rumore. I tre cavalieri e Anarion stavano aspettando dove si erano addormentati
che Olos tornasse dopo essere andato a controllare di persona la situazione.
Tornò poco dopo, con la solita espressione imperturbabile in viso. Si sedette
sull’erba vicino ai suoi facendo con loro il punto della situazione, con voce
tranquilla:
“Sono quattro esploratori. Avanzano in coppie di due
elementi. Distano una cinquantina di passi gli uni dagli altri e tra non molto
ci passeranno vicino, ma se restiamo nascosti qui non ci noteranno. Voglio
vedere quanti sono e come sono armati. Tenete lo stesso le frecce incoccate, non
voglio rischiare.
Tutto chiaro?” Gli aurorei annuirono impercettibilmente
e prepararono gli archi.
Quando Anarion chiese ad Olos cosa potesse fare questi
si limitò a rispondere con modo autoritario:“Abbiamo un piccolo problema, fai
silenzio e tieniti pronto vicino ai cavalli.”
Il tono del Capitano l’aveva offeso, anche se non lo
diede a vedere. Si limitò ad un accenno del capo e a stare
zitto.
………………………………………………………………………………………..
Alcuni minuti dopo iniziarono a distinguere
distintamente le figure dei quattro Dàimon. Avanzavano a una discreta distanza
gli uni dagli altri, senza luci, in modo da potersi a mala pena riconoscere
nell’oscurità notturna. Gli ateloi invece erano distesi a terra nell’erba folta
e tenevano pronti gli archi. Quasi non respiravano e nessuno emetteva il benché
minimo rumore. Anarion trattenne il fiato, con il sudore che gli imperlava la
fronte, mentre due passavano
davanti a loro, a pochi passi di distanza. I nemici camminavano con noncuranza,
chiacchierando e sghignazzando nella loro lingua ferina, ignari che solo un
schiocco delle dita auroree li separasse dalla morte. Il ragazzo tirò un sospiro
di sollievo quando li vide allontanarsi, passando avanti senza notare gli
aurorei. In quel preciso istante tutto accadde talmente rapidamente che Anarion
quasi non se ne rese conto. Uno dei due Dàimon emise un suono raggelante, un
lungo sibilo da rettile che giunse fino alle orecchie dei cavalli al fianco di
Anarion. Immediatamente gli animali si spaventarono, nitrendo fragorosamente.
Olos non aspettò nemmeno che quelle immonde creature voltassero il capo verso di
loro. Bisbigliò una specie di fischio e due micidiali dardi trapassarono le gole
dei due esploratori, che caddero inermi al suolo. Mentre il rumore secco dello
scoccare delle corde moriva anche il Capitano e unaltro auroreo tesero gli archi, mirando
agli altri due ad oltre cinquanta passi di distanza. Le frecce sibilarono
nell’aria e raggiunsero i loro bersagli. Uno morì senza emettere un suono,
colpito in piena fronte. L’altro, ferito alla spalla, ebbe solo il tempo di
urlare freneticamente nella sua lingua per alcuni attimi prima che altri tre
dardi lo raggiungessero. Cadde senza vita a terra, ma il suo allarme fu raccolto
dai compagni e subito si udì il rumore di numerosi guerrieri che
sopraggiungevano. Olos si volse verso i cavalli, veloce e silenzioso, e i suoi
cavalieri dietro di lui. Anarion fece appena in tempo a slegare gli animali che
già gli ateloi lo avevano raggiunto e come lui montarono subito a cavallo,
imbracciando ancora gli archi. Dietro di loro si sentivano le urla concitate dei
Dàimon, che scoperto l’assassinio delle loro sentinelle cercavano i colpevoli
urlando furenti. Alcuni trovarono solo la morte a causa dei dardi elfici, che li
colpivano con mortale precisione. I sopravvissuti si tuffarono a terra, cercando
scampo e vi rimasero anche quando oramai i cavalieri erano già molto
lontani.
Anarion assaporava l’aria della notte che gli
rinfrescava il viso mentre cavalcava veloce, circondato dagli aurorei. Erano
scappati da pochi minuti, ma avevano già posto una tale distanza tra loro e i
Dàimon, da farlo sentire al sicuro. Volse lo sguardo intorno, osservando il
paesaggio che mutava rapido al loro incedere. La prateria si costellava di folti
alberi e le montagne si facevano sempre più vicine. Il ragazzo poteva
distinguere una fitta foresta che ne ricopriva le falde e che si estendeva fino
a qualche miglio da loro. L’aria in quel momento si faceva più chiara, negli
attimi che precedevano l’alba. Poteva scorgere il sentiero che fino ad allora
avevano seguito, interrompersi poco prima di finire inghiottito nel folto della
vegetazione. Poi arrivò l’alba e in pochi istanti l’oscurità si dissolse davanti
al rapido avanzare della luce del nuovo giorno. Tutto si tinse di limpido rosa e
il sole sorse oltre le cime aguzze delle montagne ad oriente. Quando la notte
svanì, rimase abbagliato da un violento riflesso che risplendeva ad occidente.
Allora la vide. Un’altissima torre bianca che svettava dall’intrico verde,
perforando, altissima, le nuvole di porpora che la sovrastavano. Mille bagliori
la avvolgevano, simili alle stelle del firmamento, quasi fosse fatta di limpido
vetro. Ma una stella brillava su tutte le altre. Una luce ardeva violenta sulla
cima della torre, quasi volesse rivaleggiare con lo splendore del sole. Poi si
spense improvvisa e il suo bagliore morì nella luce intesa dell’alba, che
rivelava la splendida struttura della torre. La superficie liscia e nivea era
frastagliata da guglie, cuspidi e pinnacoli di avorio che salivano ovunque
nell’aria e sulla sommità si innalzavano quattro vertici che tagliavano il cielo
indicando i punti cardinali. Centinaia di finestre luminose si affacciavano da
essa, catturando i raggi del sole, tanto che la torre riverberava come una
costellazione nel cielo del mattino. Lo spettacolo catturò la vista di Anarion
così come quello degli aurorei che lo ammiravano ogni giorno da secoli. Erano
arrivati. Erano giunti alla Fortezza Bianca.
…………………………………………….
I silenziosi confini della foresta si aprivano davanti a
loro. Gli alberi imponenti, le cui chiome brillavano di smeraldo alla luce del
sole, si innalzavano alti verso il cielo. L’occhio si perdeva nel verde, che si
confondeva con i fasci di luce che penetravano tra le foglie e con i colori
vivaci della natura. Gli alberi crescevano gli uni vicini agli altri, quasi a
formare un muro che la natura avesse costruito per proteggere le terre degli
aelta. I cavalli si erano fermati a pochi passi dai confini del territorio
boscoso, scalpitando e attendendo di seguire la via che proseguiva nei meandri
della foresta. Si fermarono pochi attimi, Olos davanti a tutti, fissando da
sotto il cappuccio i confini della sua terra natia. Tirò le redini del cavallo e
si inoltrò tra gli alberi, seguito dai suoi cavalieri e da Anarion. I cavalli si
muovevano senza fare alcun rumore. L’intera foresta sembrava, infatti, adagiarsi
su un morbido tappeto di foglie, verdi come se la linfa scorresse ancora dentro
di loro. Sopra di loro, le fronde ondeggiavano lentamente nel brusio del vento e
il soffice suono si univa armoniosamente a quello degli uccelli che volavano da
un albero all’altro. Le folte chiome delle piante, i cui tronchi erano lisci e
perfetti, lasciavano passare poca luce. Sicché essa ricadeva in coni luminosi
dagli alberi, mentre le foglie volteggiavano sospinte dal vento. L’aria che si
respirava fremeva, carica dell’antica bellezza del luogo e dalla forza che esso
racchiudeva. Anarion volgeva il capo intorno a sé, ammirando lo splendore che
gli stava intorno. In quel momento capì perché gli aelta amassero tanto la loro
terra. Essa conservava intatta e stupendamente inalterata la bellezza che gli
aveva in un certo senso dato la vita. Ed essi erano pronti a darla per difendere
la loro patria. Olos ne era la prova vivente. Il ragazzo intuiva che nel
Capitano risiedevano gli ideali più nobili della sua razza. Lo capiva dalla
profondità dei suoi occhi, dall’ intensità del suo
sguardo.
L’atelos galoppava immerso nei propri pensieri,
angosciato. Gli ultimi eventi lo avevano molto scosso, anche se non lo dava a
vedere. Non doveva farlo. Sapeva che se lui avesse ceduto avrebbe trasmesso la
sua inquietudine a coloro che da lui dipendevano. Sospirò. Ora come ora l’unica
cosa da fare era portare l’unico testimone della morte dell’Astro Bianco alla
Fortezza. La sua mente non trovava riposo da quando avevano preso con loro il
ragazzo. Come poteva quell’umano essere sopravvissuto quando nemmeno Ràikas, il
suo Re, aveva potuto? Non riusciva a capire e questa sua ignoranza gli provocava
una rabbia che lo bruciava dentro. L’aveva colta anche nei suoi uomini e anche
se sapeva che stavano sbagliando, non riusciva a farne a meno. Sperava che il
Consiglio avrebbe risolto la faccenda. Anche perché oltre alla sospetta presenza
dei Dàimon nel loro territorio, sentiva qualcosa cambiare nell’aria, mutare, e
non in positivo.
Passarono così il tempo fino a mezzogiorno, quando si
fermarono per rifocillarsi. Anarion sedeva tra le radici di un grosso albero,
godendo della frescura e dell’ombra in quei momenti caldi del giorno. Si rivolse
ad Olos, prendendo dalle sue mani la boraccia che gli aveva
teso.
“Quanto manca ormai?”
“Poco, verso sera saremo alle porte della città” Rispose
l’auroreo.
“Cosa mi accadrà una volta che sarò
arrivato?”
Olos distolse lo sguardo dal ragazzo, guardando verso la
torre bianca che si intravedeva tra le foglie.
“Sarai condotto innanzi al Consiglio per rispondere alle
domande che ti saranno poste, credo.”.
“E poi?”
“Deciderà il Consiglio.”
“Sono un prigioniero, dunque” Costatò il ragazzo, con
una nota di disappunto nella voce.
“No, affatto, ” disse Olos, volgendosi nuovamente verso
di lui “ ma devi capire che tu sei stato l’ultimo a vedere e a parlare con
Ràikas, uno degli esseri più importanti e potenti della terra e questo ti fa
portatore di un grave fardello che ...”
“Che non ho chiesto” Concluse il
ragazzo.
“Anche se non lo sopporti, devi farlo. Almeno per la
memoria di Sire Ràikas.” E detto ciò si riprese la borraccia e rimontò a
cavallo. Anche gli altri risalirono sulle rispettive cavalcature, per ultimo il
ragazzo. Continuarono a viaggiare nel più assoluto silenzio. Il ragazzo notò
però che gli ateloi si voltavano spesso intorno, quasi notassero qualcosa di
strano intorno a loro. Alzò lo sguardo verso l’alto e una foglia gli cadde
delicatamente sul viso, cullata dal vento. Era gialla e venature rosse la
facevano brillare come se fosse stata d’oro. La strinse per alcuni secondi tra
le dita e poi la lasciò cadere al suolo. Quando si voltò avanti notò che Olos
aveva lo sguardo posato sulla foglia appena caduta e appena pochi secondi dopo
spronò il cavallo al galoppo, imitato immediatamente da tutti altri. Qualcosa in
quell’evento aveva messo addosso all’aureoreo una strana fretta, anche se
Anarion non ne capiva il motivo. Cavalcarono veloci e silenziosi e i loro
destrieri si destreggiavano tra gli alberi con agilità. Passarono alcune ore,
non avrebbe saputo dire quante, quando infine uscirono fuori dal bosco. Quasi
non se ne accorse. Uscirono con un balzo fuori dalla fitta boscaglia e si
fermarono immediatamente, osservando il territorio dove sorgeva la fortezza.
Sullo sfondo si ergevano imponenti le catene massicce di impervie montagne. La
foresta ne lambiva le falde, fino a scomparire man mano che l’occhio si spingeva
verso le cime dei monti, spoglie e nude. Davanti a loro però, l’intera distanza
che li separava dalle montagne, circa un miglio, era occupata da una piana e
chiara pianura. Su di essa, costruita per buona parte a ridosso dei monti,
sorgevala Fortezza Bianca
degli Aurorei. La cinta muraria, altissima, partiva dai fianchi dei monti e
circondava l’intera città, eccezion fatta per la parte che aveva alle spalle i
fianchi delle montagne, difesa più che sufficiente. Le mura, alte quasi
cinquanta piedi, erano di bianchissima pietra, liscia e perfetta, quasi fossero
state intagliate direttamente nella nuda roccia.
Ripresero ad avanzare lentamente, ogni loro movimento
era scandito dal rumore degli zoccoli dei cavalli, attutito dall’
erba.
Anarion riusciva a scorgere meglio l’imponente cancello
delle mura man mano che si avvicinavano.
Costruito in materiale ceruleo, irradiava riflessi
azzurrini quando la luce che balenava tra le nuvole lo colpiva. Recava
intagliati su tutti e quattro i latimotivi floreali e naturali, alcuni rappresentanti parole di benedizione e
potenza. Nel metallo erano poi state incise scene di epiche battaglie. La
violenza del combattimento, la foga dei corpi nella mischia furiosa, il dolore e
la forza dei combattenti erano rinchiusi nei freddi altorilievi, liberati ogni
qual volta vi veniva posato occhio.
Al centro ognuno dei due battenti aveva scolpito in
bassorilievo la figura di un atelos che vestiva una tunica dai panneggi squisiti
e reggeva rispettivamente nella destra e nella sinistra un bastone con inciso
nella sommità la testa di un dragone. I visi e i lineamenti di quelle statue
erano raffigurati con tale realismo, da sembrare due vivi e vigili custodi a
guardia della città. Gli occhi erano sfere completamente bianche, quasi la loro
candida assenza di profondità indicasse una onnisciente visione. Essi vigilavano
sulle sorti della battaglia attorno a loro e su tutto ciò che accadeva intorno
alla Fortezza.
Anarion ebbe l’impressione che quegli occhi stessero
fissando anche lui e gli altri cavalieri mentre si avvicinavano al cancello. Due
imponenti torri circolari si ergevano ai lati di esso e il ragazzo poteva notare
rapidi movimenti in cima ad esse, seguiti da bagliori accecanti, quasi qualcosa
di luminoso si aggirasse sulle mura. Lungo queste ultime, a metà tra le pareti
dei monti e il cancello si innalzavano due torri di guardia, sopraelevate
rispetto al cancello. Oltre l’imponente cerchio delle mura, svettava
la Torre delle
Stelle, alta e solenne, abbagliante nella sua scintillante bellezza. Quando
giunsero ai piedi del cancello, tuttavia, deviarono verso destra, fino a una
postierla in ferro battuto che permetteva il passaggio di non più di due persone
a cavallo alla volta. Quando si fermarono davanti all’ entrata sbarrata, Olos
scese da cavallo e aspettò alcuni secondi, volgendo spesso lo sguardo verso la
sommità delle mura.
Improvvisamente con un sordo rumore di ferri e
chiavistelli, il portone si spalancò cigolando, lasciando libero il passaggio
all’interno della fortezza.
Olos, libero dal cappuccio e dal drappo che ne
nascondevano il viso, e Anarion erano davanti agli altri, tenendo per le briglie
i cavalli. Prima che potessero entrare, due soldati si fermarono davanti a loro,
salutando il loro capitano con un accenno rispettoso del capo. Portavano pesanti
armature a scaglie dai riflessi dorati, che ne difendevano il busto, le gambe e
le braccia, ricoprendoli quasi completamente di metallo brillante. Sotto il
metallo arricchito da rilievi d’oro e argento, si intravedevano fini vesti di
seta verde. Gli elmi, anch’essi splendenti, ne nascondevano del tutto i
lineamenti del viso, eccezion fatta per occhi e bocca. Alle cinture, decorate
con motivi floreali d’argento, portavano appese daghe ricurve, tenute nei foderi
di metallo d’ebano. Nelle mani destre, protette da guanti d’arme, tenevano con
fierezza e forza lunghe sarisse, aste lignee alte e fini, alte all’incirca
sedici piedi. Fendevano l’aria, terminando in acuminate punte metalliche. Legati
ai bracci sinistri avevano inoltre scudi a mezzaluna che avevano scolpiti in
argento e pietre glauche un dragone con le fauci spalancate verso
l’alto.
La guardia di destra si rivolse con tono reverente ad
Olos:
“Kaise, Olos!”
“Kaise.” Lo salutò pacato il
Capitano.
“Alreyd vi riceverà immediatamente,
Capitano…”
Olos annuì con un cenno del capo e, dopo che ebbero
consegnato i cavalli a degli scudieri seguirono i due soldati all’interno della
fortezza. Alle loro spalle si ergeva il maestoso cancello e le mura nivee. Il
ragazzo poté notare che sui ballatoi delle mura si muovevano con passo altero e
solenne, come in un rituale, decine di arcieri e soldati.
Si spostarono verso sinistra, su una grande strada che
partiva dal cancello, costruita con pietre piatte e perfettamente incastrate tra
loro. Davanti a sé Anarion poteva vedere una seconda cinta muraria, di forma
semicircolare, che partiva da due punti delle mura più esterne, esattamente
quelli tra i torrioni del cancello e le torri di guardia. Una era costruita a
ridosso della guardiola dalla quale erano passati poco prima. La stradache percorrevano tagliava esattamente a
metà la seconda cinta, attraverso un complesso di tre larghi archi a sesto
acuto, perfettamente identici. Anche in cima a queste mura si potevano vedere
aggirarsi guerrieri dorati, le cui armature lucenti rilucevano di bagliori
accecanti.
Una volta entrati nella parte più interna della
Fortezza, Anarion rimase sbalordito da ciò che vide.
Due altissime statue si ergevano davanti alla Torre.
Costruite in liscio marmo bianco e appoggiate su piattaforme quadrate, montavano
la guardia all’entrata della torre. La statua di sinistra ritraeva un guerriero
nell’atto di sfoderare conla
sinistra la spada. Non indossava nessun elmo e i capelli lunghi e lisci
ricadevano dietro le spalle, sciolti. I lineamenti del viso erano alteri e
severi, e gli occhi scrutavano diritto davanti a sé. Indossava una corazza
simile a quella dei soldati aurorei, anche se questa era arricchita da fregi e
decorazioni in altorilievo. La mano sinistra era stretta intorno al fodero della
spada mentre la destra, serrata intorno all’elsa, era ferma nell’atto di
sfoderarla.
La seconda statuarappresentava un mago atelos. Il capo, dai lineamenti simili a quelli del
soldato, era rivolto quasi impercettibilmente verso l’alto, quasi l’auroreo
scrutasse il cielo sopra di sé. Vestiva una semplice tunica, che ricadeva
rivestendone tutto il corpo, avvolgendolo con delicatezza con panneggi stupendi.
Una cintura stretta in vita, con al centro una pietra preziosa,dava risalto alla figura longilinea del
mago. Le braccia si spingevano in avanti, debolmente, e le mani stringevano
entrambe un lungo bastone, che l’accurato lavoro degli scultori faceva sembrare
di legno anziché di duro marmo. Il legno appoggiava a terra, davanti ai piedi
dell’atelos e recava incastonata sulla sommità una pietra rozzamente intagliata.
Le due statue erano state costruite poco innanzi all’ingresso della Torre e
quando Anarion passò lentamente tra i due colossi, dimentico di tutto ciò che
gli accadeva intorno, quasi non si accorse di essere ormai giunto all’ingresso
del torrione.
………………………………………………………………………
Solo adesso che si erano fermati Anarion gettò sguardi
curiosi agli abitanti della Fortezza. Erano tutti aurorei, vestiti alla maniera
degli esploratori, con lunghi archi ricurvi a tracolla, o soldati rivestiti di
metallo lucente con lunghe sarisse o spade rinfoderate. Camminavano per le
strade anche cavalieri e aelta senza armatura che brandivano lunghi bastoni o
legni dalle forme longilinee, maghi, pensò Anarion. Una cosa però li accomunava
tutti: una straniante sensazione di tristezza che si sprigionava ogni qual volta
il ragazzo incontrava il loro sguardo. Fu riscosso dalla voce del Capitano che
lo incitava a proseguire. I due soldati che gli avevano fatto da guida si
congedarono, allontanandosi con passo rapido. Entrarono attraverso un imponente
portone di legno e si ritrovarono in un gigantesco salone circolare. La sala,
completamente spoglia al centro, era piena del brusio che le decine di guerrieri
e maghi provocavano uscendo ed entrando in continuazione dalla torre e
discutendo tra loro. C’era una particolare agitazione nell’aria, che il ragazzo
avvertiva chiaramente dalla parole che suonavano stranamente concitate e agitate
per gli aelta. Quando poi i presenti si accorsero del loro arrivo tutti
ammutolirono fissandoli. Cercando di non badare alle occhiate insistenti che gli
erano rivolte, il ragazzo s’incamminò seguendo Olos verso la parte opposta della
sala, dove regnava adesso il silenzio. Il suo sguardo si fermò per poco sulle
decine di volti sconosciuti e si posò poi sugli stendardi variopinti che erano
appesi alle pareti. Indugiò infine su un particolare che non aveva notato
all’inizio. Lungo tutto il muro c’erano, infatti, disposte dodici lastre
rettangolari di vetro lucente. I suoi occhi scrutarono a lungo la stanza. Non
c’era traccia di scale o porte. Come si faceva dunque ad accedere ai piani
superiori della Fortezza?
I suoi occhi ottennero subito la risposta, anche se
impiegò del tempo per convincersi di non aver sognato. Da uno dei vetri sulla
sua sinistra era uscito con noncuranza uno dei soldati e poté notare che
effettivamente gli atelos uscivano ed entravano normalmente da quelle che erano
delle porte di cristallo. Ma quale prodigio permetteva che ciò
accadesse?
“Atelargento” gli disse Olos, intuendo perfettamente i
pensieri del ragazzo “E’ un metallo che accuratamente lavorato con la magia,
permette ai soli possessori di sangue auroreo di passare attraverso di esso. In
tal modo chiunque non appartenga al nostro popolo non può entrare nelle stanze
superiori della Fortezza.”
“O scappare da essa” disse fra se il ragazzo, pensando
al suo caso.
Nel frattempo giunsero alla quinta porta da sinistra. Il
limpido vetro della lastra rifletteva l’immagine distorta del ragazzo, mentre
quella di Olos appariva nitida sul cristallo lucente. Anarion vi posò la mano
distesa e sentì che il vetro era tiepido al tatto, quasi all’interno vi
scorresse una corrente calda. Il ragazzo rivolse uno sguardo interrogativo
all’auroreo: come avrebbe fatto lui a passare? Olos allungò la sua mano destra e
l’affiancò a quella del ragazzo sul vetro.
Nell’istante in cui la mano sfiorò la superficie del
vetro, questo iniziò a mutare, increspandosi dapprima, quasi dovesse andare in
frantumi e trasformandosi infine in gorgogliante e limpida acqua. Anarion ritirò
la mano, sorpreso: il portale di liquido cristallino permetteva adesso il
passaggio, anche se il ragazzo era molto riluttante a fidarsi della
magia.
“Avanti, entra” Gli disse in tono perentorio Olos e
notando l’aria diffidente del ragazzo disse. “ Una volta che la porta viene
aperta, chiunque può passare. E adesso muoviti.”
Il ragazzo si fece coraggio, chiuse gli occhi e avanzò
di un passo varcando la soglia cristallina, con il cuore che batteva
all’impazzata.
Aprì debolmente gli occhi, senza avere idea di ciò che
avrebbe visto. E invece si trovava in una normalissima stanza, anzi era in
uncorridoio visto che c’era solo
una ampia vetrata, che si affacciava sull’esterno, e muri completamente spogli,
eccezion fatta per una serie di scudi neri con draghi argentati in rilievo,
appesi uno al fianco dell’altro per tutta la lunghezza delle pareti. Dietro di
lui la porta si richiuse e la soglia si trasformò nuovamente in
vetro.
Olos riprese ad avanzare, senza rivolgere nessuna parola
al ragazzo, senza badare se lo seguisse o meno. Sapeva che Anarion aveva capito
di non avere altra scelta che stargli dietro se voleva muoversi all’interno
della fortezza. Il ragazzo gli si affiancò a passi rapidi, ormai abituato al
silenzio misterioso dell’aelto. Passarono attraverso altri portali, percorrendo
lunghe stanze e corridoi quasi sempre deserti, eccezion fatta per alcuni
guerrieri che incrociavano nelle loro ronde. Il ragazzo incominciava a chiedersi
dove si stessero dirigendo con tutta quella urgenza che non permetteva ad Olos
nemmeno di cambiarsi dagli indumenti di viaggio ancora sporchi e
impolverati.
Attraversata l’ennesima porta finalmente si fermarono.
Si trovavano in una sala semi-circolare. Ciò che colpì la vista di Anarion non
fu l’insolito numero di atelos e uomini che giravano nella sala, entrando e
uscendo da altre due porte laterali, né i drappi neri appesi ai muri che
recavano tutti scritti in bianco un ideogramma per lui intraducibile,
raffigurante un cerchio spezzato, ma il massiccio portone in legno che si ergeva
davanti a loro. Sopra i due battenti dai cardini poderosi, era intagliata nella
nuda pietra una scritta in ideogrammi.
Non riusciva a capirne il significato, ma nuovamente
Olos sembrò intuire i suoi pensieri e gliela lesse, col sorriso sulle
labbra.
“Conosci te stesso, conoscerai il mondo” disse,
guardando con ammirazione le parole incise nella parete. “Conoscere se stessi è
la sfida più ardua e difficile, poiché coinvolge oltre alla nostra razionalità,
anche paure, istinti e desideri. Se si riesce a comprendere a fondo se stessi
però, si riesce anche a capire gli altri e il senso di ciò che ci
circonda.”
“Che significato può avere quella scritta in un luogo
come questo?” Chiese Anarion, mentre ricominciavano a camminare tra i sempre più
numerosi sguardi impassibili che si voltavano al loro
passaggio.
“Coloro che fanno parte del Consiglio portano il
fardello della salvezza del nostro popolo. Devono prendere decisioni che
determinano il fato della nostra patria. Per poter scegliere tra le varie strade
che il destino traccia per gli aurorei devono saper conoscere ogni aspetto della
vitae del mondo affinché possano
guidarci verso il cammino più facile e sicuro.”.
“E perché questa entrata non è in Atelargento?”Chiese
con curiosità.
“Avrai notato che ci sono anche uomini di altri popoli
qui, vero?” Disse, rispondendo a domanda con un’altra domanda. “Certo, anzi chi
sono?”
“Sono delegati delle città del Sud, che si rivolgono al
Consiglio per avere consigliper
risolvere i problemi che li affliggono. E proprio perché qui si trovano
esponenti di razze diverse noi non poniamo barriere che possano intralciarli
nella loro strada verso l’aiuto reciproco.”
“Almeno in apparenza.” Notò con ironia mal celata il
ragazzo.
“I simboli a volte contano più delle azioni.”. Rispose
Olos. “Ora entriamo, siamo attesi.”
Colmarono a passi svelti la distanza che li separava
dalla porta e giunti davanti all’entrata il Capitano si volse verso di lui con
un tono di maggiore confidenza.
“Stai attento. L’atmosfera qui è molto inquieta dalla
caduta di Sire Ràikas e il Consiglio potrebbe anche assumere un atteggiamento
duro nei tue confronti. Modera le parole e andrà tutto
bene.”
Il ragazzo non poté fare a meno di fare un’infelice
osservazione: “ Tu invece non sembri colpito dalla morte del tuo Re.”. Nello
stesso istante avrebbe voluto rimangiarsi tutte le proprie parole, ma il
Capitano ebbe una reazione del tutto inaspettata.
“Io sono un guerriero, il migliore della mia patria,
credo.”disse con calma profonda. “Se la mia volontà vacillasse, scossa dai
sentimenti, tutti coloro che da me dipendono cadrebbero con me. Ci sarà il tempo
del commiato per il Re, ora non lo è”.
“E che tempo sarebbe?”
Non ebbe risposta. Olos pose una mano sulla porta e
spingendola con forza, entrò.
Anarion inspirò profondamente e calmando il battito del
suo cuore, seguì l’auroreo, pronto a superare quella nuova prova che gli si
parava davanti.
……………………………………………………………………….
Per alcuni istanti rischiò di rimanere abbagliato, come
quando aveva ammirato per la prima volta la Torre Bianca della Fortezza alla
luce dell’alba.
Riuscì ad abituarsi alla forte luce che regnava nella
stanza, in modo da poter rimanere nuovamente ammaliato da ciò che
ammirava.
La sala, che rappresentava l’altra metà della
precedente, aveva le pareti costruite di vetro trasparente. La luce crepuscolare
filtrava attraverso il metallo finissimo illuminando perfettamente la stanza ed
era possibile ammirare tutto il paesaggio circostante, quasi le lastre non si
frapponessero tra interno ed esterno.
Anarion guardò con attenzione oltre i vetri, troppo
attratto dalle meraviglie di quel posto per badare ai presenti. Da lì si poteva
ammirare dall’alto la foresta spingersi verso occidente, circondando in un
intrico verde la Fortezza.
Si trovavano all’incirca a metà della Torre; erano saliti così
in alto senza che fosse riuscito ad accorgersi che le porte di atelargento
permettevano i collegamenti anche tra i vari piani. Riscossosi dalla sorpresa
notò che Olos lo fissava, con aria paziente, attendendo fermo a pochi passi da
lui. Solo allora il ragazzo si accorse che tutti lo aspettavano. Si affrettò ad
affiancarsi al Capitano e abbassando lo sguardo lo seguì fino al centro della
grande stanza.
Si fermarono ed Olos si inginocchiò, imitato da Anarion.
Solo allora ebbe il coraggio di alzare lo sguardo per osservare i membri del
Consiglio. Erano seduti dietro lunghi seggi di legno scuro, disposti a
semicerchio, lungo il perimetro della stanza.
Tutti i seggi erano occupati, tranne quello centrale,
posto più in alto, rimasto vuoto.
Ognuno degli aurorei presenti lo fissava con una tale
profondità dello sguardo o con un’aria di austero ed elevato lignaggio che era
sempre costretto a distogliere gli occhi quando ne incrociava lo sguardo. Uno in
particolare, dagli occhi cerulei e i capelli grigi, che aveva l’aspetto di chi
ha subito una perdita ingente tale da ferire fisico e animo, lo fissava con
espressione di dolore e rabbia. Dodici erano gli eateloi che gli stavano
davanti, che lo fissavano con sguardi taglienti e imperscrutabili. Un altro,
vestito completamente di bianco, gli dava le spalle e osservava il paesaggio che
si scorgeva dalle finestre della stanza. Anarion poteva vedere solo che aveva i
capelli completamente bianco lucenti. Un altro personaggio attirò la sua
attenzione. Di costui riusciva a reggere lo sguardo, non perché difettasse di
aspetto o portamento rispetto agli altri, ma solo perché l’ atelos teneva gli
occhi chiusi e nel viso dai lineamenti dolci ed aggraziati non leggeva rabbia né
freddezza, ma solo comprensione e calore.
Fu proprio lui a parlare, alzandosi dal suo seggio e
rivolgendosi con tono gentile ad Olos, sempre tenendo gli occhi
chiusi:
“Capitano, non sono necessarie queste formalità qui con
noi, quante volte dovrò ripetertelo?” Anarion si sorprese di come l’atelos
sapesse che Olos fosse inginocchiato senza aprire gli occhi. L’auroreo intanto
si era alzato e per la prima volta il ragazzo lo vide sorridere, mentre anche
lui si levava in piedi.
“Hai portato egregiamente a compimento la tua missione”.
Disse accennando ad Anarion. “Ti dispiacerebbe farci un resoconto,prima di ritirarti per goderti il tuo
meritato riposo?
Purtroppo noi non troviamo oramai sosta da parecchio
tempo e le tue informazioni ci servono subito.”
Il Capitano assentì lievemente col capo e iniziò a
narrare tutta la sua avventura. Dall’incursione alla colonna di Dàimon
all’incontro con Anarion, dalla sua preoccupazione per il nemico a quella per la
situazione del reame auroreo.
“E’ necessario inoltre accelerare il tempo per
l’investitura del nuovo Re.”. Disse con tono risoluto, posando brevemente lo
sguardo sull’atelos di spalle. “La foresta inizia già a morire, la magia degli
Astri la sta abbandonando, lasciandola appassire.”
Il viso del giovane auroreo si fece più preoccupato,
ascoltando quelle parole e rispose con sincero dispiacere nella voce. “Purtroppo
ci sono cose sulle quali non possiamo interferire e …”Ma fu interrotto
bruscamente dall’auroreo seduto alla sua sinistra, che Anarion aveva notato per
il suo sguardo penetrante. Rispose con tono brusco ad
Olos:
“Credi forse che i nostri occhi siano cechi … Capitano?”
Disse pronunciando con enfasi il titolo di Olos, quasi a denigrarlo, ma si
interruppe un attimo, guardando con imbarazzo l’auroreo che aveva interrotto,
poi continuò risoluto. “Da tempo ci siamo già accorti del decadimento della
foresta. Pensi che stessimo aspettando la tua opinione per
intervenire?”
Sospirò spazientito, eppure con un accenno di dispiacere
negli occhi, quasi si sentisse colpevole di aver scaricato le proprie
frustrazioni sull’innocente Olos.
Tuttavia il Capitano abbassò il capo in segno di scusa,
ma il ragazzo poteva vedere che serrava la mascella, come chi reprimesse parole
che bruciano in gola.
L’auroreo dagli occhi cerulei continuò, stavolta
alzandosi, mentre il giovane che aveva parlato con Olos si sedette: “Ora
dobbiamo discutere col giovane che è stato presente alla morte di Sire Ràikas.
La morte è accaduta due notti fa e sia Alreyd – disse accennando al giovane
auroreo – sia i maghi che osservavano le stelle dall’ Altura degli Astri l’hanno
avvertita chiaramente.” Anarion sussultò sentendo il nome del giovane atelos
dagli occhi chiusi. Era dunque lui che Ràikas gli aveva dato il compito di
incontrare. Ma la voce incalzante dell’auroreo lo fece riscuotere dai propri
pensieri. “Alreyd riuscì a capire inoltre che una persona aveva assistito
all’evento oltre agli aggressori, un umano, il qui presente.” Si interruppe un
attimo, chiudendo gli occhi, come chi cerca maggiore
concentrazione.
La voce di Alreyd lo riscosse:
“Forse hai bisogno di riposo, Ulmyo. Non riposi da due
giorni ormai…”
“Affatto, voglio continuare.” Si girò verso Anarion,
fissandolo col suo sguardo di pietra.
“Ora, ragazzo, dovrai raccontarci per filo e per segno
ciò che hai visto.”.
“Poi potrò andarmene?”
“Dipende da ciò che dirai.”
Anarion aveva compreso la situazione in cui si trovava:
molto probabilmente avrebbe dovuto tacere sulsuo potere e suo ciò che gli aveva fatto
Ràikas prima di morire, o sarebbe stato costretto a rimanere in quella fortezza
per giorni, settimane o forse mesi.
Raccontò del suo incontro col Sire auroreo nelle terre
ad Est e dell’attacco dei Siguya, di come Ràikas li avesse combattuti per
difenderlo e fosse morto nel tentativo, riuscendo però prima a sterminare tutti
nemici.
“Una morte valorosa, la migliore che potesse chiedere”
Osservò l’aelto. “Ricordi per caso se la sera dell’attacco il Re interrogò le
stelle?”
“Sì, lo fece”
“E ti disse qualcosa?”
“No, ma sembrava preoccupato.”
Trascorsero alcuni momenti di silenzio, poi
improvvisamente Ulmyo disse, quasi agitato.
“Questa è la parte che ci preme maggiormente. Devi dirci
quali sono state le sue ultime parole.”
Anarion lo guardò con sguardo sorpreso. Sapeva che
avrebbe dovuto mentire, ma avrebbe significato tradire la memoria dell’atelos a
cui doveva la vita e non ne era capace:
“Mi ha detto di cercare Alreyd.”
Un brusio si alzò dagli elfi, anche l’auroreo più
giovane che Anarion aveva capito essere Alreyd appariva sorpreso, sembrava quasi
che quelle poche parole avessero un significato immensamente maggiore rispetto a
quello che sembrava.
Ulmyo continuò, con l’agitazione nella voce mal
celata.
“E ha fatto qualcosa di particolare prima di
morire?”
Anarion si stupì, sembrava quasi che prima di morire
Ràikas avesse compiuto un rituale che tutti conoscevano. Tuttavia la sua
risposta fu secca, anzi lui stesso si stupì di essere riuscito a mentire su una
questione tanto delicata: “No!”
La delusione coprì il volto dei presenti, la
costernazione quello di Ulmyo, solo Alreyd sembrava aver percepito la menzogna,
anzi quando Anarion lo guardò in viso ebbe la certezza che l’auroreo sapesse che
aveva mentito.
Anarion si girò verso Olos, quasi a chiedere quanto
sarebbe durato ancora quell’interrogatorio. Una voce alla sua sinistra gli venne
in aiuto. Apparteneva ad uno dei dodici del Consiglio. Disse con tono
quieto:“Ulmyo, capisco il tuo dolore, ma è evidente che il ragazzo non sa
nient’altro, lasciamolo andare.”
L’elfo non ebbe esitazioni nel rispondere:
“Mente.”
Anarion sentì il cuore morirgli nel
petto.
“Ma io posso scoprirlo.” La voce gli tremò. “Posso usare
la Parola dei
Dormienti”
Alreyd balzò in piedi, mentre molti dei presenti si
guardarono in faccia l’un l’altro con un espressione tra l’incredulo e
l’orrore.
Tra lo stupore generale, Anarion poté vedere che
l’auroreo bianco vestito che gli dava le spalle aveva girato il capo e osservava
con occhi vitrei Ulmyo. Aveva sul viso i medesimi segni di Ràikas anche se poco
accennati e quando ne incrociò per un attimo lo sguardo non poté fare a meno di
stupirsi: aveva gli stessi occhi nivei e i lineamenti gentili del viso di
Ràikas, anche se appariva più giovane del defunto Astro Bianco. L’auroreo girò
rapido il viso, tornando a osservare l’esterno e l’attenzione di Anarion fu
attirata dall’agitazione che ormai regnava nella sala.
“Mai!” Gridò Alreyd. “La Parola dei Dormienti non è mai stata
usata, nemmeno per Sire Ràidas. Non permetterò che un tale incantesimo disturbi
ilriposo di uno
spirito.”.
Ulmyo tacque, sedendosi nuovamente, ma continuava a
rimuginare con se stesso, tenendo lo sguardo basso. Alreyd distolse lo sguardo
da lui e in un attimo riassunse la sua espressione pacata.
“Capitano” disse con tono serio e controllato “conduci
il ragazzo nell’alloggio che gli è stato preparato. Rimarrà lì sotto la mia
tutela fino a nuovo ordine.”.
“Come ordini” assentì Olos, con un cenno del capo, ma
prima che potesse voltarsi la voce dell’auroreo lo fermò.
“Un’ultima cosa. Raduna tutti i nostri uomini e lascia
solo i Guardavia nella foresta. Voglio il nostro esercito pronto e in armi. Non
permetterò che quei miseri demoni invadano le nostre terre senza combattere. Mi
affido completamente a te, non deludermi”.
“Come ordini” ripeté meccanicamente il
Capitano.
“Allora potete andare.”
Si accostò lentamente alla parete di vetro, vicino
all’auroreo che era rimasto in silenzio fino ad allora, e mentre osservava ad
occhi chiusi la foresta illuminata dal sole del tramonto, scambiò con lui alcune
parole che non riuscì a sentire. Anarion lo osservò fino a quando le porte non
si richiusero dietro di loro, lasciando il Consiglio alle sue gravose
decisioni.
……………………………………………………………………..
Il ragazzo si lasciò cadere stancamente sul letto,
sospirando. Si rialzò quasi subito, incrociando il suo sguardo con quello di
Olos. L’atelos gli stava innanzi, impassibile come una statua di
pietra.
“Allora, cosa mi farete?” Chiese abbattuto
Anarion.
“Nulla” rispose il Capitano “Sei sotto la protezione di
Alreyd, nessuno oserà toccarti.”
“Raccontami qualcosa di lui.” Chiese il ragazzo,
attratto dall’immagine dell’atelos.
“E’ stato una delle migliori spade degli aurorei e anche
uno dei suoi più grandi maghi. Ha percorso a fondo entrambi i sentieri della
guerra degli aurorei.”
“Perché parli al passato?” lo interruppe
Anarion.
“Perché lui è uno dei pochi che assistettero alla caduta
di Maruyl venti anni fa e che sia rimasto in vita. Tuttavia ha pagato un prezzo
altissimo che gli impedisce di rivaleggiare con i migliori della nostra razza,
sebbene qualcuno dica che i suoi poteri siano stati inferiori solo a quelli
dell’ultimo Astro Bianco.”
“Quale sarebbe lo scotto di cui
parli?”
“Non lo hai capito?” Chiesecon sorpresa l’auroreo. “Parlo della
vista: è cieco.”
Anarion spalancò gli occhi dalla sorpresa, il fatto che
fosse cieco spiegava tante cose. Si rivolse poi nuovamente al
Capitano.
“Parlami anche degli altri, di Ulmyo e dell’atelos che
ci dava le spalle al Consiglio.”
“Ulmyo era il miglior amico di Sire Ràikas. E’ rimasto
profondamente turbato dalla sua morte.
Spero che le ferite del suo animo si rimarginino
presto.” Il ragazzo potè avvertire una lieve nota di irrequietezza nelle ultime
parole del Capitano.
“E cosa puoi dirmi dell’ultimo
auroreo?”
“Stavo per parlartene.” Il Capitano sembrò riflettere un
attimo su ciò che stava per dire. “Colui dicui parliamo è Principe Ràidames, il
figlio di Re Ràikas, e sarà il prossimo Astro Bianco.”.
Anarion rimase in silenzio, ammutolito, senza avere il
coraggio di guardare Olos negli occhi.
Quella notizia l’aveva turbato molto, anche se non ne
capiva il perché.
“Ora devo andare, ho molti compiti da svolgere. Stai qui
e non cercare di allontanarti.”
“Come se potessi” disse scoraggiato il ragazzo,
guardandolo scomparire dietro la porta di atelargento, lasciandolo solo e
prigioniero in quella stanza. Sospirò, sentendo che le cose per lui non
volgevano al meglio, ben consapevole che il suo viaggio non stava prendendo la
piega che aveva sperato.
Si alzò e si guardò intorno, la stanza era abbastanza
grande e aveva un lungo balcone che si affacciava sulle montagne alle spalle
della fortezza. Uscì fuori e si appoggiò con i gomiti al parapetto e si mise ad
osservare le terre ad Est che si oscuravano. Ai lati delle mura le montagne
svettavano altissime, formando un muro invalicabile. Un’entrata di ferro battuto
nelle mura orientali chiudeva il passaggio che dalla fortezza portava alle terre
degli Aurorei ad Oriente. La Fortezza Bianca era il primo
baluardo di difesa e nessun nemico dalla sua costruzione era riuscito a
superarlo per invadere le terre atelee a quanto sapeva.
Improvvisamente qualcosa destò la sua attenzione: un
fitto polverone che si alzava da oriente.
Quando si avvicinò alla fortezza, riuscì a distinguere
chi lo provocava: cavalieri, molti cavalieri.
A prima vista dovevano essere trecento. Quando si
fermarono vicino le mura poté osservarli nitidamente. Erano tutti ben armati:
indossavano armature pesanti nere come la notte ed elmi alti che lasciavano
scoperti bocca e occhi. Imbracciavano scudi a goccia con inciso lo stemma del
dragone e lunghe lance.
Quando il cancello di ferro si aprì per farli passare,
sfilarono ordinatamente fino a sparire in direzione del Cancello principale,
oltre la visuale di Anarion.
“Quelli erano i Dragoni, la nostra migliore
cavalleria.”
Anarion sobbalzò, sentendo quella voce inconfondibile
alle sue spalle. Si girò e vide Alreyd, che lo fissava, se così si poteva dire,
col suo sguardo dolce e mite.
Anarion stentava a credere ai suoi occhi: come aveva
fatto quell’auroreo, sebbene cieco, a comparire alle sue spalle senza che lui se
ne accorgesse? E soprattutto come poteva sapere che stava osservando i cavalieri
neri?
Non disse una parola, ma continuando a fissare l’atelos,
si spostò di alcuni passi verso sinistra e notò con stupore che gli occhi chiusi
dell’auroreo lo seguivano come se lo vedessero
nitidamente.
“Ma come… come puoi?” Chiese con
stupore.
“Anarion, anche ad occhi chiusi, anche cieco…” disse
toccandosi debolmente le pupille “non c’è cosa a questo mondo che io non possa
vedere.”
“Ora, se non ti spiace, entriamo dentro, ho urgente
bisogno di parlare con te.” Entrò nella stanza e si sedette con calma su una
delle sedie che circondavano un piccolo tavolo circolare, aspettando con lo
sguardo fisso innanzi a sé.
Il ragazzo lo seguì, senza mai distogliere lo sguardo
dalla sua figura, attratto da essa. Si sedette di fronte a lui e aspettò, in
silenzio.
“Tu hai mentito, prima, innanzi al Consiglio.” Anarion
non disse niente, sapeva che oramai era inutile negare. “Una decisione alquanto
stupida, se mi permetti.”. Il ragazzo cercò di ribattere, ma un gesto della mano
dell’altro lo zittì. “ Alcuni di noi, tra i quali me, Ulmyo e Sire Ràidames,
sono capaci di “sentire”quando una persona mente, e tu hai dimostrato loro che
sei una di queste. E le costringerai ad agire di conseguenza.” Esitò per alcuni
istanti, poi riprese.
“Non costringerci a mostrarti il peggio della nostra
natura.”. Anarion sentì in quelle parole una vaga minaccia, che tuttavia non lo
spaventò.
“Mi stai minacciando?”chiese con tono duro. “Affatto, ti
sto mettendo in guardia, perché la verità che tu celi può evitare molti dolori
ad entrambi.”.
Il ragazzo si alzò e mentre camminava nervosamente per
la stanza, si sentiva indeciso, per la prima volta nella sua
vita.
“Ti racconterò una storia che è successa molto tempo fa.
Forse ti aiuterà a decidere cosa fare”
Si sedette sul letto e lo fissò, con lo sguardo
attento.
“E forse”continuò l’auroreo “ti renderai conto che nelle
tue mani è forse racchiuso il destino della nostra razza.”
“Conosci la storia della caduta di Maruyl,
Anarion?”
Il ragazzo l’aveva già sentita raccontare molte volte.
In mille modi diversi, tutti molto vaghi, anche se tutti concordavano che
l’esplosione che aveva distrutto la città aveva risparmiato pochissimi
sopravvissuti.
“Io ti posso raccontare la vera storia” disse l’atelos “
perché io c’ero, io ero lì insieme a Sire Ràidas esuo figlio Ràikas. Mi ero ripromesso di
non parlarne a nessuno, ma visto che Re Ràikas si è fidatodi te, lo farò
anch’io.”
Volse lo sguardo verso il mondo che si scorgeva dal
balcone e il suo sguardo sembrò rimirare un mondo e un tempo
lontani.
“Venti anni, sono passati. Un’inezia per un atelos, ma
per me sono stati venti tra i più duri della mia vita
immortale.”
“Quella notte eravamo giunti alla città perché Re Ràidas
doveva parlare con il Principe degli uomini e come appresi quella notte, non era
il solo. Io e Ràikas lo aspettammo, come ordinatoci, alle mura della città.
Un’ora più tardi successe: un grido disumano squarciò il silenzio della notte e
prima che potessimo fare qualunque cosa l’esplosione ci investì. Fummo duramente
feriti, ma rimanemmo in vita. Io ero riuscito a rimanere cosciente, mentre
Ràikas giaceva svenuto al mio fianco.
Controllai che fosse vivo e mi diressi, nonostante le
ferite, verso il castello del Principe, preoccupato per il mio
Signore.
Ovunque c’erano morte e distruzione e nessuno ai miei
occhi, che allora avevano ancora il dono della vista, era sopravvissuto. Infine
giunsi dove una volta c’era il castello. Allora c’era solo un cratere enorme. Mi
avvicinai e lo vidi. Era il Re.”
Una lacrima gli bagnò il viso e per un attimo interruppe
il suo racconto.
“Pochissimi sono coloro che conoscono la verità su
questa vicenda. Se la necessità non mi spingesse a farlo, non l’avrei mai
raccontata a un estraneo, perciò ricorda di non parlare mai di questo con
nessuno.”
Anarion accennò col il capo un tacito assenso, sicuro
che l’auroreo potesse capirlo.
“Puoi ben immaginare la mia gioia e il mio sollievo
quando vidi il mio Re inaspettatamente vivo.
Mi fermai stremato e lo osservai attentamente mentre mi
si avvicinava. Non portava con sé il suo bastone. Capii quasi subito che c’era
qualcosa di strano e un’inquietudine insostenibile si impadronì di me. Il
battito del mio cuore mi assordava quasi. Quando mi fu davanti tremai. Avevo
capito la tremenda verità ma la mia mente non l’accettava. Il Re non aveva
ferite e il bel volto non era velato da ombra alcuna. Piansi e lui mi
sorrise.
“Alreyd, dov’è mio figlio?” mi disse e la sua voce era
eterea, lontana.
“E’ svenuto, ma vivo, mio Re” Il suo sguardo si rabbuiò.
“Non c’è più tempo.” Disse.
“Devo farti carico di un pesante fardello. Giurami di
aiutare mio figlio dopo che l’avrai condiviso con lui.”
“Lo giuro, mio Re” Mi toccò il braccio e fu allora che
lo sentii. Un dolore come non ne avevo mai provati, oscuro e profondo e freddo.
Il tocco della morte, pensai. Quando la morsa mi abbandonò, caddi sulle
ginocchia, stremato. Riaprii gli occhi e vidi che Sire Ràidas mi
fissava.
Piangeva mite. “Confido in te, amico mio. E perdonami se
puoi. Spero tu possa capirmi.” Si girò dandomi le spalle. Io mi alzai, perché
avevo capito quello che accadeva e non potevo accettarlo.
La figura del mio Re iniziò a svanire, divenendo polvere
portata dal vento sotto i miei occhi. Prima che potessi arrivare a toccarlo era
già scomparso.”
“Com’è possibile?” Chiese il ragazzo, che si era
lasciato trasportare dal racconto dell’atelos.
“Lo chiamano la Parola dei Dormienti, è un incantesimo
che permette allo spirito di un defunto di tornare tra i vivi per parlare con
loro per poco tempo. Ma è una pratica proibita perché lo spirito rivive il
dolore della morte per la seconda volta.”
“Quindi Ràidas…”iniziò a dire con orrore Anarion “Sì,
aveva lanciato l’incantesimo su sé stesso un istante prima di morire.”Continuò
Alreyd.
“E…E poi cosa è successo?”Lo incalzò il
ragazzo.
L’atelos gli si avvicinò, lo guardò in viso e per la
prima volta aprì gli occhi.
Erano neri, come l’oscurità che regna in una notte senza
luna e stelle. Avrebbe voluto distogliere lo sguardo,ma era come ipnotizzato da quegli occhi
innaturali e quello sguardo profondo. “Sei sicuro di volerlo
sapere?”
“Sì”rispose senza esitazione nella
voce.
“Allora lo vedrai con i tuoi stessi occhi, ma stai
attento perché io potrei anche scoprire ciò che mi nascondi.”
“Sono pronto a correre il rischio. Ora mostramelo.”
Rispose il ragazzo, spinto da una irrefrenabile curiosità. Si fissarono pochi
attimi negli occhi e Anarion vide l’oscurità che albergava negli occhi
dell’altro afferrarlo, fino ad avvolgerlo completamente. Non distinse più nulla.
Si trovava in un piazzale di una città distrutta. Maruyl, pensò. Pochi passi
davanti a lui, stavano due ateloi, ritti uno davanti all’altro. Uno era Alreyd,
l’altro Ràikas.
“Non può essere, ti stai sbagliando.” Ràikas stava
urlando contro il compagno. Era inferocito nonostante fosse ferito e perdesse
sangue.
Alreyd lo implorava, cercando di calmarlo: “Adesso
ascoltami, non c’è tempo per farsi travolgere dal dolore. Non potrò resistere a
lungo.”
Anarion si avvicinò e li poté vedere entrambi in viso.
Ràikas era ancora agitato, ma si era calmato. Alreyd pareva sofferente, come se
portasse un peso opprimente e gli occhi erano spalancati, comeaperti su una visione
terrificante.
“Possiate perdonarmi” disse in un fiato Alreyd e cinse
con le braccia le spalle di Ràikas. Un’intesa luce li avvolse e Anarion si sentì
trasportato nella mente di Alreyd.
Davanti a lui stava Sire Ràidas o almeno una figura
evanescente che ne aveva le sembianze. Iniziò subito a parlare con voce
pressante, quasi non avesse più tempo.
“Spero che queste mie ultime parole giungano sino a te,
figlio mio.
Sono caduto in battaglia per difendere non solo la
nostra razza, ma tutti i popoli di questa terra da un pericolo quali non ci
hanno mai minacciato prima d’ora.
La volontà di un dio si cela dietro questi eventi:
Sèlonir, il Potere.
Essendo privo del corpo, ha cercato di prendere il
possesso di quello del Principe, corrompendone l’animo puro con un oggetto che
ne racchiude gli intenti di conquista: la Spada del Sole.
A costo della nostra vita, io, l’Astro Nero, Sire
Urionar e il guerriero Nicolas abbiamo abbattuto il Principe. Il dio è riuscito
tuttavia a dare un’altra forma alla Spada del Potere, senza che noi potessimo
distruggerla o scoprirne la nuova forma. Siamo tuttavia riusciti ad
intrappolarlo all’interno della nuova Spada con un incanto di costrizione, ma
non è che una soluzione provvisoria.
Devi trovare e distruggere l’incarnazione della Spada,
prima che Potere possa possederla. Se lo facesse, sarebbe la fine. Non possiamo
vincere una guerra contro un dio.”
La figura scomparve, nebbia che si dissolve al sole,
prima che potesse terminare di parlare. Si ritrovò nella città distrutta e
davanti a lui, giacevano inermi, stesi al suolo, i due uomini. Lentamente, tutto
intorno a lui iniziò a svanire, stemperandosi in un vuoto bianco. Riaprì gli
occhi e si ritrovò steso sul letto. Su di lui stava Ràikas, ansimante, con gli
occhi nuovamente chiusi.
Il ragazzo si rialzò e rimasero entrambi in silenzio
finché non si furono ripresi dalla fatica. “Cos’è successo, poi?” Chiese subito
Anarion.
“Quando ci risvegliammo” continuò pacato Alreyd “io
avevo già perso la vista. Il contatto con lo spirito del Re mi debilitò
duramente, ma mi diede un dono ben più grande della comune
vista.”.
Anarion ascoltava attento, rapito da quell’ individuo
misterioso.
“Adesso sono in grado di percepire le energie
spirituali.” disse con calma l’atelos.
Il ragazzo lo guardò con aria interrogativa. “Sei ben
consapevole che ogni persona, anzi ogni cosa al mondo, è pervasa da energia, un
soffio vitale?”
“Credo di sì.” Rispose il ragazzo con tono
incerto.
“Bene, io sono capace di captare, quando ho gli occhi
chiusi, le energie di chi mi sta davanti, e in un certo senso posso vederlo.
Quando ho gli occhi aperti invece posso vedere chiaramente i flussi energetici
che mi circondano inclusi quelli dell’aria e della terra. In un posto come
questo però, dove si trovano potenti maghi e guerrieri, mi capita spesso di
rimanere abbagliato dalle loro energie.
Ironico, non trovi? Un cieco che rimane
abbagliato.”
Sorrise tristemente, poi ricominciò a
parlare.
“Dove eravamo rimasti?” Si voltò verso Anarion. Il
ragazzo notò che era da un po’ di tempo che l’auroreo lo fissava con intensità
mentre parlava, sebbene nuovamente ad occhi chiusi. “Stavi raccontandomi di ciò
che successe quando vi riprendeste dalla visione.” Gli rammentò il
ragazzo.
L’auroreo continuava insistentemente a fissarlo, mentre
riprendeva a parlare:
“Sire Ràikas incominciò subito a compiere ciò che suo
padre gli aveva ordinato di fare.
Iniziò a girare il mondo, sempre da solo, alla ricerca
dell’Incarnazione della Spada. Strinse legami nuovi con altri popoli e rinforzò
le vecchie alleanze. I suoi pellegrinaggi divennero famosi per ogni dove.
Tornava ogni tanto per renderci partecipi dei suoi viaggi, che portavano sempre
esito negativo. Infine una notte di tre giorni fa non ha più fatto
ritorno.
Sai questo cosa vuol dire?”
“Che ha affidato a me il suo ultimo messaggio.” Rispose
Anarion, che finalmente riusciva a capire il senso degli ultimi gesti di
Ràikas.
“Esatto. Capisci quindi che ciò che ti è stato affidato
è di fondamentale importanza. Noi dobbiamo saperlo. Ora devi raccontarmi
l’intera storia. E che questa volta sia la verità.”
…………………………………………………………………………..
Era passata all’incirca un’ ora da quando Alreyd era
entrato nella stanza e nella coscienza di Anarion. Ora l’auroreo sapeva tutto
ciò che aveva chiesto.
“Cosa intendi fare adesso?” Chiese il ragazzo. “Da
quello che mi hai detto, credo che Sire Ràikas ti abbia lanciato un incantesimo
appena prima di morire, ma non so quale sia e quindi non sono capace di
scogliere il sigillo che nasconde il suo ultimo messaggio.” Si alzò in piedi,
passeggiando per un po’ avanti e indietro per la stanza, sotto lo sguardo
attento del ragazzo. “Non ci resta che andare avanti per tentativi.” Il mago
fece segno al ragazzo di alzarsi e si mise davanti a lui, con aria
concentrata.
Mormorò alcune parole flebili e la sua mano destra fu
immediatamente avvolta da un tiepido bagliore. Sfiorò debolmente la fronte del
ragazzo, scostandone i capelli biondi che ne coprivano la fronte e rimase
immobile, in attesa. Passarono alcuni secondima non successe nulla. Si scostò da
Anarion e riprovò. Unì i palmi delle mani davanti a sé, rimanendo in silenzio,
ma anche quando d’improvviso il corpo del giovane fu avvolto per un istante da
una luce rossa, non accadde nulla.
L’auroreo si sedette sconsolato su una delle sedie,
incrociando le braccia sul petto e pensando ad occhi chiusi. Quando oramai il
ragazzo pensava che il mago si fosse arreso, questi si alzò lentamente, dicendo
risoluto: “Ho pensato a decine di possibilità, ma solo una mi pare ormai
plausibile. Spero di sbagliarmi.” Sospirò a fondo e per un attimo il suo sguardo
si intristì.
“Se nemmeno questa funziona, non ci resterà che provarle
tutte.”
Si avvicinò al ragazzo, che durante tutto quel tempo era
rimasto in piedi a fissarlo.
Gli afferrò le mani, stringendole con forza e iniziò a
mormorare a bassa voce complicate parole di cui il ragazzo non comprendeva il
significato.
Quando i suoni arcani morirono nel silenzio della
stanza, i due rimasero perfettamente immobili, anche i respiri di entrambi
cessarono per un attimo.
Improvvisamente nel buio che copriva gli occhi di Alreyd
si aprì uno squarciò e nella sua mente apparve nitida e forte la stessa luce
bianca che l’aveva reso cieco venti anni prima.
……………………………………………………………………..
L’auroreo aveva davanti Ràikase lo poteva guardare come se avesse
ancora il dono della vista. Il re auroreo indossava il mantello scuro da
viaggiatore lacero e sporco di sangue che vestiva al momento della sua morte.
L’espressione del viso era tuttavia calma e serena. Quando parlò, Alreyd notò
che aveva la stessa voce lontana e profonda che aveva avuto Ràidas quando aveva
usato la Parola
dei Dormienti.
“Immaginavo che saresti stato tu a sciogliere il sigillo
del mio incantesimo. Non mi hai deluso, amico mio.”
Alreyd aveva le lacrime agli occhi e fissava con
tristezza il proprio Re. Non osava toccarlo o avvicinarsi, semplicemente lo
fissava immobile.
“ Mi dispiace non essere stato con te in quel momento.
Avrei potuto salvarti.” Disse l’atelos con amarezza. Il re gli rispose con
calma: “Non essere così triste, amico mio. Morire non significa cessare di
esistere. Il mio spirito si unirà a quello dei miei padri e continuerà a
preservare la bellezza delle terre auroree in eterno. La mia volontà e le mie
energie continueranno ad esistere in te e in tutti coloro che hanno condiviso i
miei ideali.” Sospirò “Ma adesso basta con queste parole tristi.” Continuò il
Re. “Abbiamo altro da fare e ci serviranno tutte le tue forze per portarle a
termine.”
A quelle parole Alreyd si riscosse, tornando lucido e
controllato.
“Cosa hai scoperto, Re?” Chiese con agitazione nella
voce.
“Ho trovato l’Incarnazione.” Disse con voce atona,
piatta. “E l’hai distrutta?” Domandò impaziente Alreyd.
“Non ne ho avuto la forza di
volontà.”
“Perché?” esclamò Alreyd. “La nostra salvezza dipende
dalla sua distruzione.”.
“Io non sono un dio. Non ho il diritto di decidere della
vita e della morte di innocenti.” Si difese il sovrano. Alreyd rimase folgorato.
Credeva di intendere le parole del Re ma stentava a
crederci.
“Penso che tu l’abbia già intuito.” Costatò con calma
Ràikas. “Il ragazzo in cui ho lasciato un brandello della mia anima affinché vi
pervenisse questo messaggio è l’incarnazione della Spada del Sole, il corpo che
racchiude lo spirito di Potere.”
“Non è possibile” mormorò Alreyd “Io credevo che
l’Incarnazione fosse un oggetto inanimato.”.
“Lo credevo anch’io. Puoi ben immaginare quindi la mia
indecisione quando scoprii che questo ragazzo era l’Incarnazione. Non potevo
ucciderlo, non ne avevo il diritto, ma avevo il dovere di proteggerlo, visto che
i Siguya che ho affrontato seguivano me e non lui. Sarebbe quasi ironico: sono
morto per la salvezza di ciò che ho cercato di distruggere per
anni.”
“Siete sicuro di ciò che dite?” Chiese senza convinzione
Alreyd.
“Più che certo.” Rispose senza esitazione alcuna il Re.
“Dovresti essertene già accorto con la tua vista, o sbaglio? Credo proprio che
tu ti stia affezionando al ragazzo. Comunque con la magia ho frugato nella sua
mente alla ricerca di prove. I suoi ricordi sono stati più che sufficienti. E
inoltre c’è una prova tangibile, la più importante: sulla schiena porta inciso a
fuoco il simbolo del sole.”
Lo sconforto si dipinse sul volto dell’atelos. “Cosa
dovremmo fare ora?” Chiese rassegnato. “Io non posso fare niente.”
“Perché?”
“Perché oramai i miei legami con il mondo materiale si
sono spezzati. Il mio spirito viene sempre più spinto verso il posto che gli
spetta. Starà a voi decidere.”
L’auroreo rimase con il capo chino, attanagliato da
mille dubbi.
“Ho fiducia in te e in mio figlio. Sono sicuro che
prenderete la giusta decisione.”.
“Ma come faremo a sapere quale sarà quella giusta ?” Gli
chiese Alreyd.
“Rimanete sempre fedeli a voi stessi e alla vostra
natura e non fallirete.”.
Il re sospirò e chiuse gli occhi. “Ora devo andare, ci
separeremo qui. Ognuno deve compiere il proprio destino e il mio si compie
adesso. Il mio unico rimpianto è di non aver visto un’ultima volta mio figlio
per dirgli quanto lo amavo.”
Riaprì debolmente gli occhi e il suo corpo iniziò a
svanire in particelle di luce.
“Siate forti.” Disse e svanì
nell’aria.
Alreyd fu travolto dai sentimenti e ancora una volta,
tutto intorno a lui tornò nero.
“I Guardavia hanno riferito la presenza di un
accampamento di Dàimon non lontano dalla Fortezza e i Solca Cielo hanno
avvistato numerose colonne di altri nemici giungere nella
Foresta.”
Un’altra voce rispose alla prima.
“Probabilmente attaccheranno domani, abbiamo poche ore
di tempo per ultimare i preparativi.”
La mente di Alreyd era ancora avvolta dal torpore, ma le
concitate voci che lo avevano destato gli restituirono la lucidità. Cercò di
ricordare gli ultimi attimi che aveva vissuto prima di svenire. L’ultima cosa di
cui serbava ricordo erano le parole di Ràikas, poi il buio. Riaprì debolmente
gli occhi, ma scorse solo la debole energia dell’aria che respirava. Era
nuovamente cieco. Alzò debolmente la schiena e i suoi sensi ripresero
velocemente a funzionare. Adesso percepiva chiaramente la presenza di Ulmyo e
Ràidames davanti al letto nella sua camera.
“Come stai Alreyd? Sei rimasto addormentato per due
giorni interi.”
Gli disse con tono preoccupato
Ràidames.
“Cos’è successo?” Domandò pacato Alreyd mettendosi a
sedere.
“Poco dopo che essere entrato nella stanza del ragazzo”
iniziò a dire Ulmyo “le guardie l’hanno sentito urlare aiuto e quando sono
entrate ti hanno visto a terra inerme. Sei stato portato qui e hai dormito fino
ad ora.”
“Cosa avete fatto al ragazzo?”
“Nulla” rispose Ràidames “non avevi ferite ed era
improbabile che disarmato avesse potuto farti qualcosa. Ci ha spiegato quello
che era successo e gli abbiamo concesso di accompagnare Olos durante lo
svolgimento delle sue mansioni all’interno della
Fortezza.”
“Cosa mi dite dei Dàimon?” Continuò a domandare
Alreyd.
“L’attacco è imminente. Pensiamo che attaccheranno
domattina, dopo che tutte le loro truppe si saranno riunite. Sono un’infinità
Alreyd, ci servirà tutta la nostra forza per respingerli.”
“Avete provato a mandare loro
un’ambasceria?”
“Certo.” Disse Ulmyo. “Abbiamo tentato molte volte la
via del dialogo, ma non c’è stato verso di ottenere un incontro. Non sappiamo
neanche perché abbiano voluto attaccarci così
d’improvviso.”.
Rimasero tutti e tre in silenzio. Ulmyo fu il primo a
parlare:
“Devo ritirarmi, mancano solo poche ore all’alba e devo
prepararmi per la battaglia.”Si voltò e prima di sparire attraverso la porta, si
congedò con un lieve cenno del capo. Nello stesso istante in cui l’atelos ebbe
varcato la soglia, Ràidames si voltò verso il mago e con voce pressante gli
disse:
“Allora: hai scoperto ciò che volevi? Parla!” Alreyd
sospirò profondamente, si alzò lentamente e si trovò faccia a faccia con il suo
Re.
Sentimenti diversi gli agitavano spirito e mente ed
infine iniziò a raccontare ciò che il cuore gli dettava.
………………………………………………………………………………
Mancava poco tempo oramai all’alba. L’aria notturna
iniziava già a schiarirsi e il buio andava via via scemando. Eppure, nonostante
il giorno fosse ancora così giovane, l’atmosfera era molto agitata all’interno
della Fortezza degli aurorei. Mentre camminava accanto ad Olos in direzione
dell’armeria, Anarion non poteva fare a meno di notare il trambusto e l’aria
frenetica intorno a lui.
Ma non ne rimase stupito più di tanto. L’esercito era in
allarme da due giorni oramai. I nemici erano accampati in pratica ai cancelli
della Fortezza e la battaglia sarebbe iniziata tra breve. La tranquillità e la
quiete che regnavano nella Fortezza quando vi era giunto erano scomparsi da
tempo. Ora si sentivano solo inquietudine e tensione. Anarion aveva a volte
addirittura la sensazione di sentirsi soffocare. Solo quando era con Olos gli
sembrava di potersi sentire tranquillo. La sola presenza del Capitano riusciva
ad infondergli sicurezza e calma. Anche i soldati, che rimanevano impassibili
nelle loro fredde armature, sembravano ritrovare il calore quando vedevano il
loro Capitano.
Si volse verso Olos e ammirandone la figura austera e
altera, il ragazzo non poté fare a meno di pensare che la vittoria sarebbe stata
dalla loro parte finché il Capitano li avesse guidati.
Eppure c’era un particolare che lo riempiva di
inquietudine: il velo d’ombra che incupiva gli occhi dell’auroreo era aumentato,
coprendo come un sudario la naturale lucentezza dei suoi
occhi.
Quando si riscosse dai propri pensieri erano già giunti
all’armeria. Le porte del locale erano spalancate e un fitto brusio proveniva
dall’interno. Quando entrarono ognuno dei presenti si voltò e chinò
rispettosamente il capo in direzione di Olos, per poi tornare alle proprie
occupazioni. Ovunque si trovavano raccolte in grandi fasce armi e scudi di ogni
genere e foggia, lunghe spade ricurve dalle punte larghe e appuntite, scudi neri
a goccia e a mezza luna, con incisi i simboli del dragone
azzurro.
In un angolo erano raccolte in grandi cataste le
lunghissime sarisse dei fanti elfici, che come il ragazzo aveva potuto costatare
costituivano il nerbo dell’esercito.
Lungo la parete sinistra un esiguo numero di elfi
lavoravano alla costruzione dei famosi archi ateloi, armi conosciute in tutto il
mondo come le migliori in assoluto per combattere a distanza. I costruttori
tastavano gli archi qua e là, per controllare che i corni fossero ancora in
ottime condizioni, tendevano le corde sui bischeri, fissando i budelli ben
torti, pizzicando e provando i nervi, come i musici con la
cetra.
Si fermarono solo quando arrivarono a un lungo tavolo
che si trovava in fondo alla stanza. Sul legno erano ammassate spade e lance
dalle forme più svariate.
Olos appoggiò le mani al tavolo e si rivolse ad un
auroreo che si trovava dall’altro lato, esaminando con attenzione la lama di una
spada corta che teneva in mano. Aveva gli occhi castani e i capelli bruni e le
fattezze del suo viso erano tagliate da lunghe cicatrici.
“Kaizar, ho bisogno di te.” Disse
l’auroreo.
“Dimmi pure, Olos.” Anarion non poté fare a meno di
notare la famigliarità che c’era fra i due.
“Ho bisogno di un’arma per questo
ragazzo.”.
“Che tipo di arma preferisci, spada o lancia?” Chiese
con tono interessato l’atelos, guardandolo dritto negli
occhi.
“La spada lunga. Prima che mi si spezzasse, usavo una
spada lunga.”
Mentre l’auroreo rovistava in un mucchio di spade, Olos
gli chiese.“Questa volta parteciperai ai combattimenti?”
Kaiza rispose sorridendo, senza smettere di cercare,
come se recitasse una cantilena:
“Io sono un fabbro. Datemi una spada e ucciderò qualche
nemico. Datemi martello e fucina e cambierò le sorti della battaglia.” Kaizar
gli porse un’arma bianca dalla lama leggera e fine. Impugnandola sicuro il
ragazzo la fece roteare un paio di volte con maestria e la ripose nel fodero
finemente decorato.
“Questa è quella giusta.” Disse Kaizar, voltò loro le
spalle e tornòtrafficare con le
sue armi.
Lasciando l’armaiolo, passarono in un locale attiguo,
dove lavorava il fabbro. Lì presero un’armatura in cuoio rinforzata con scaglie
metalliche della misura del ragazzo, che la indossò
immediatamente.
Quando riuscirono all’aperto, oramai albeggiava. Olos
gli rivolse uno sguardo serio.
“Sei sicuro della tua decisione, ragazzo? Sei ancora in
tempo per cambiare idea, nessuno ti biasimerà. Questa non è la tua
guerra.”
“Ma io ho un debito da pagare nei confronti di Ràikas. E
questo è l’unico modo che ho per farlo, non temere per me, non morirò.” Rispose
sicuro il ragazzo.
“Allora andiamo, la battaglia ci
attende.”
Un corno suonò in direzione dei cancelli. Il suono
profondo e forte rimbombò per tutta la valle, infrangendosi contro le rocce dei
monti e spandendosi per tutta la foresta.
Era la chiamata alla guerra, alle armi, al
sangue.
……………………………………………………………………
Anarion attendeva fuori dalla stanza con trepidazione.
All’esterno giungevano già i richiami degli aurorei sulle mura e i gridi sordi e
profondi dei corni. I nemici erano oramai in procinto di attaccare. Era
questione di minuti. Olos era all’interno di una delle stanze del bastione
sinistro del cancello.
Stava cambiandosi per prepararsi alla battaglia.Improvvisamente la porta si aprì e
Anarion rimase a bocca aperta vedendo la trasformazione subita dal Capitano.
Indossava un’armatura leggera che gli ricopriva busto, avambracci e cosce. La
corazza sembrava forgiata con oro e argento, tale era la luminosità che emanava.
Ogni pezzo era finemente decorato con rilievi bianchi e azzurri di incisioni
naturali. L’elmo gli lasciava scoperto gran parte del capo, proteggendogli solo
fronte e orecchi, sicché i fulgidi capelli dorati e l’autorità del viso altero
erano ben visibili. La destrastringeva con forza una lunga lancia, che terminava in una doppia punta,
con un corno più lungo dell’altro.
Nello stesso istante dall’esterno giunse un uomo.
Sembrava un guerriero. Indossava una corazza di cuoio a protezione del busto e
non portava alcun altra protezione. In vita aveva però legate due armi a doppia
lama, lunghe ognuna quasi quanto lui stesso.
Non si inchinò davanti ad Olos, ma si limitò a salutarlo
con tono amichevole.
“Salve Olos, ero venuto a chiederti se posso unirmi alla
battaglia.”
“Ogni aiuto è il benvenuto, se poi ad offrirlo è uno dei
dodici Cavalieri del Sole, lo accetto volentieri.” Rispose il Capitano. “Ma ora
muoviamoci, manchiamo solo noi.”
L’auroreo notò lo sguardo interrogativo che Anarion
rivolgeva al cavaliere e disse rapido, mentre uscivano nel piazzale dietro il
cancello.
“Ragazzo, questo è Zacho, un rappresentante della
delegazione di una delle città umane meridionali che hai visto tre giorni fa al
consiglio.”
Le urla improvvise provenienti dalla sommità delle mura
interruppero il discorso. Salirono le scale che portavano ai ballatoi e le file
di arcieri presenti sulle mura fecero passare il loro Capitano e i suoi due
compagni fino al parapetto. In quel momento il disco del sole salì oltre le
punte dei monti, inondando di luce la valle. Dai margini della foresta, per
tutta la lunghezza della valle, si vedeva emergere l’infinito numero
dell’esercito dei Dàimon. Le file scomposte e disordinate dei demoni iniziarono
a emergere dalla vegetazione una dopo l’altra ma si fermarono a poche decine di
metri oltre i margini della foresta.
Fu allora che uno sparuto gruppo di quelle bestiali
creature si distaccò dal centro dello schieramento, dirigendosi a passo
affrettato verso i cancelli. Quando già molti arcieri avevanoincoccato i dardi in attesa dell’ordine
di tirare, unmalconcio drappo
bianco fu issato dal piccolo gruppo che si fermò, in
attesa.
Olos si voltò verso il primo soldato alla sua sinistra e
gli ordinò di mandare un’ambasceria incontro a quel drappello. Era curioso di
sapere cosa potessero volere in quel momento quelle creature infide. Cosa doveva
aspettarsi da individui che combattevano perché combattere era più semplice che
pensare a cos’altro fare?
Un duello. Il capo dell’armata nemica sfidava due
combattenti dell’esercito auroreo a combattere contro due dei suoi campioni. La
sfida era stata naturalmente accettata: quando era necessario difendere l’onore,
gli ateloi non si tiravano mai indietro. E infatti molti si erano offerti
volontari. La scelta non era stata in ogni caso molto difficile. Olos sarebbe
stato il primo e la sua decisione era indiscutibile, mentre la scelta del
Capitano per il secondo combattente ricadde su Zacho. “Ho un debito da pagare
nei suoi confronti” disse Olos impassibile “quindi non posso declinare la sua
offerta.”
Fu così che Anarion osservò, dal ballatoio sopra il
cancello, i due guerrieri avviarsi da soli verso il luogo del duello.Nello stesso momento due figure massicce
si fecero largo tra le file nemiche, andando incontro ai due sfidanti. Anarion
riusciva a malapena a distinguerli, tanto erano lontani.
Non sembravano diversi dai loro simili, ma erano
comunque alti anche più degli aurorei e la muscolatura possente era protetta da
grezze armature o forse era la loro stessa pelle ispida. Brandivano entrambi
enormi bipenne, ma i loro stessi corpi, temprati alla battaglia, erano armi
temibili.
Quando i quattro furono quasi uno di fronte all’altro,
si fermarono, aspettando. Si trovavano all’incirca a metà strada tra la fortezza
e la schiera nemica. Il ragazzo non poté fare a meno di notare che Olos e Zacho
sarebbero potuti essere raggiunti facilmente dagli avversari prima di riuscire a
tornare al sicuro. D’improvviso un corno suonò, riscuotendolo dai suoi pensieri
e si voltò per vedere i guerrieri che si preparavano a
duellare.
Quando il suono si spense, Zacho afferrò entrambe le
spade che aveva legate alla cinta e le sfilò con ungesto fluido, imbracciandole con forza,
mentre Olos pose la sua lancia tra sé e il suo avversario, puntandolo con la
doppia lama della sua lancia.
I due Dàimon sibilarono versi ferini, emettendo dalle
fauci versi inquietanti e alzarono lentamente le loro armi sopra la testa,
pronti a farle cadere con violenza sui loro avversari. Quando si precipitarono
in avanti, Zacho ebbe il tempo di dire ad Olos:
“Fin troppo facile, Capitano”.
L’ascia stava per cadere su di lui, quando l’umano
l’evitò balzando in avanti, addosso al suo nemico e con un gesto rapido, quasi
invisibile agli occhi, lo trafisse con la lama alla gola, che non era protetta
dall’armatura. La bestia si accasciò al suolo con un gemito, senza avere il
tempo di reagire. La battaglia di Olos non fu meno rapida. Scartando sulla
sinistra il primo colpo diretto alla faccia, l’auroreo colpì in pieno viso la
creatura con il legno della lancia, poi piegandosi con agilità nonostante
l’armatura, compì una potente spazzata sulle gambe del Dàimon facendolo cadere
con fragore sulla schiena. Senza arrestarsi un attimo, balzò sul corpo disteso
del nemico, e imbracciando l’arma a due mani, colpì con forza inaudita la bestia
all’altezza del cuore, trafiggendo incredibilmente anche la bipenne che il
Dàimon aveva messo davanti a sé.
Un boato di esultanza dalle mura della Fortezza esplose
alla vittoria dei due guerrieri. Un altro giunse però in risposta. Centinaia di
mostri iniziarono a correre disordinatamente per raggiungere i due guerrieri,
prima che potessero tornare all’interno della fortezza. Nella fuga Olos incrociò
gli occhi neri come la pece di un Dàimon,rimasto fermo, che gli fecero scorrere un brivido freddo lungo la
schiena. Poi lui e Zacho iniziarono a correre rapidi verso la porta laterale al
cancello, che era rimasta aperta. Tuttavia i nemici li incalzavano anche dai
lati e molte frecce iniziarono a piovere intorno a loro senza colpirli. Gli
aurorei non si fecero però trovare impreparati: dalla posterla uscirono due
cavalieri, galoppando con tutta la velocità dei loro
destrieri.
Sulle mura intanto Ulmyo aveva preparato il
contrattacco. Già da molto i difensori erano pronti, con le frecce incoccate.
L’auroreo aspettò che tutte le prime file fossero entro la gittata e poi gridò
l’ordine con forza, seguito dall’eco dei suoi sottoposti. Come un sol uomo gli
arcieri lasciarono andare le corde degli archi e una pioggia di dardi si levò da
tutta la lunghezza delle mura, seminando morti e feriti tra gli attaccanti. Nel
frattempo Olos e Zacho erano saliti sui cavalli e in poco tempo avevano passato
la postierla, che si era richiusa pesantemente alle loro spalle. Dopo che ebbero
ringraziato i due soldati che li avevano aiutati, i due incontrarono Anarion che
li attendeva con trepidazione. Ritrovatisi, salirono verso i ballatoi, dove
l’assalto era iniziato. Una volta giunti in cima, videro che in numerosi punti
delle mura la battaglia si era accesa. I Dàimon, arrivati ai piedi delle mura,
avevano issato le scale, che una volta appoggiate, si agganciavano con uncini ai
parapetti, in modo che era molto difficile spingerle indietro. Molti arcieri
avevano lasciato cadere gli archi e avevano messo mano alle spade, ingaggiando i
nemici che riuscivano a salire in furiosi combattimenti. Zacho corse rapido
verso sinistra, dove gli arcieri stavano subendo pesanti perdite. Olos e
Anarion, uno al fianco dell’altro, andarono sul tratto di mura sopra i cancelli,
sul quale la battaglia era ormai violenta. Il Capitano falciava qualunque nemico
gli si parava davanti, brandendo con terribile precisione la sua lancia e
ovunque lo vedevano gli ateloi si battevano con rinnovato
vigore.
Anche Anarion si batteva bene, ma a dare forza ai suoi
colpi non era la sete di giustizia e l’orgoglio che animavano Olos, ma la
volontà di non scappare. Quella era la sua prima battaglia ed era la prima volta
che uccideva. Le grida, il sangue, la morte lo circondavano con crescente
crudezza e aumentavano in lui il desiderio di allontanarsi, nascondersi per non
assistere a quel macabro spettacolo. Manmano che continuava a combattere quel desiderio cresceva e solo brandendo
con maggior forza la sua arma riusciva a scacciarlo. Il pensiero di dover
ripagare Ràikas scompariva ogni volta che incrociava lo sguardo con uno dei
caduti, gli occhi sbarrati nel dolore della morte lo colpivano profondamente.
Fortunatamente non aveva il tempo di soffermasi su questi pensieri. I nemici lo
attaccavano in continuazione e doveva fare appello a tutte le sue forze per
riuscire ad abbatterli. Quelle creature lo stupivano sempre di più. Combattevano
con una luce di follia negli occhi e, incuranti della loro stessa vite e di
quella dei loro compagni, compivano le azioni più scellerate e
folli.
………………………………………………………………………………………
Passò un’ora e la battaglia non accennava ancora a
smettere. Anche i maghi aurorei erano giunti a rinforzare la linea difensiva.
Bagliori e lampi serpeggiavano ovunque lungo le mura, spezzando le ondate
dell’avanzata avversaria. Circondato dai suoi stregoni, Alreyd osservava lo
svolgersi della battaglia dal bastione settentrionale delle
mura.
Ovunque giacevano ormai i corpi dei morti, che
aumentavano con l’infuriare della battaglia. Le scale venivano issate sempre più
numerose e ogni volta che una veniva distrutta, altre la sostituivano. Un
pesante ariete manovrato da decine di robuste creature martellava oramai da
tempo contro i battenti del cancello, senza riuscire però nemmeno a incrinarlo.
Il grosso dell’esercito auroreo, la cavalleria e la fanteria pesante,
aspettavano ancora dietro i cancelli di poter combattere, mentre all’esterno si
iniziava solo a intravedere la fine dell’esercito nemico. L’attacco veniva in
qualche modo arginato e Olos, Ulmyo, Anarion e Zacho in quel momento si erano
fermati, riprendendo fiato. Erano tutti feriti, anche se leggermente, anche
Anarion, che si stupiva di essere riuscito a sopravvivere quando molti guerrieri
erano invece caduti. Non si era accorto che i due ateloi e il Cavaliere gli
venivano continuamente in soccorso, proteggendolo quando era in pericolo. “I
tuoi guerrieri sono esausti, Olos, e anche noi, non potresti chiamare quelle
truppe che sono ancora fresche?” disse Zacho accennando ai
picchieri.
“I picchieri servono a poco se non possiamo usarli in
campo aperto.” Rispose il Capitano.
“Un modo ci sarebbe” suggerì Ulmyo “ma è
rischioso.”
I tre rivolsero uno sguardo attento all’auroreo: era
evidente che aveva in mente un piano d’azione.
“C’è una grande galleria nel fianco destro della
montagna ” iniziò a dire “sufficiente abbastanza per far passare tutta la nostra
cavalleria, che sbuca poco più a Nord, oltre i nostri nemici. Potremmo prenderli
alle spalle.”
“Perché non l’hai detto prima?” domandò con una punta di
irritazione nella voce Zacho.
“Perché l’uscita è chiusa da un incantesimo. Devono
aprirla due aurorei contemporaneamente dall’esterno e dall’interno e gli unici a
custodire la formula siamo io e Alreyd.
Io sono il Custode della chiave Interna e lui di quella
Esterna. Ma lui è cieco, non può…”
“Ti stupiresti di cosa sono ancora capace di fare” La
voce di Alreyd li sorprese tutti. L’auroreo, vestito della sua normale veste
bianca, cinta solamente da una cintura con incise scritte d’oro e bronzo,
sembrava indifferente alla violenza del combattimento.
“Se con la mia vita e la mia morte, posso salvare i miei
fratelli, non esiterò a farlo.
Userò un’ Aquila per giungere alla porta esterna,voi radunate la cavalleria e
raggiungetemi il più presto possibile.” Anarion era sul punto di ribattere, ma
tutti sembravano d’accordo con la decisione dell’auroreo.
“Olos, tu naturalmente resterai qui, devi guidare
l’esercito. Quando udirai il nostro richiamo, spalanca le porte e fai uscire la
fanteria con le sarisse abbassate: schiacceremo il nemico da entrambi i lati.”
Anche stavolta nessuno trovò nulla da obbiettare, ma Anarion non seppe
trattenersi:
“Permettimi di venire con te,
Alreyd.”
“Non è possibile, l’ Aquila sopporterebbe difficilmente
il peso di due persone, ma se proprio lo desideri, potrai entrare con Ulmyo
nella galleria, così tornerai con me alla Fortezza una volta richiusa la porta.”
Anarion annuì con debolezza. “Ora muoviamoci!” disse l’auroreo e ognuno iniziò a
svolgere il proprio compito: Zacho e Olos iniziarono a mettere in assetto da
combattimento la fanteria, Anarion e Ulmyo si avviarono con la cavalleria verso
la porta del passaggio e Alreyd, dopo aver chiamato con un fischio un’Aquila,
scomparì con quella oltre le montagne settentrionali.
Mentre si avviavano verso la porta scavata nella nuda
pietra della montagna, Anarion sperava che Alreyd non si fosse
sbagliato.
………………………………………………………………………………
Il mago sentiva l’aria accarezzargli il viso con
dolcezza, una sensazione che non provava da tempo, ormai. Le grida e il rumore
della battaglia parevano lontanissime mentre l’Aquila sorvolava, ad ali
spiegate, le fronde silenziose della foresta. In poco tempo, scese in uno
spiazzo aperto nella vegetazione, lasciando che il suo cavaliere scendesse con
calma. Alreyd smontò con grazia e si girò intorno, cercando di ricordare dove
dovesse andare. L’immagine della porta balenò nella sua mente e si diresse verso
sinistra fino a toccare un punto preciso della parete rocciosa con la mano
destra.
“L’ho trovata.” Disse sorridendo
l’incantatore.
Una voce rauca e crudele alle sue spalle lo fece
sobbalzare.“L’unica cosa che hai trovato è il luogo dove
morirai.”
……………………………………………………………………………
La porta nella roccia si era spalancata. Rispondendo al
richiamo magico di Ulmyo, due enormi battenti si erano improvvisamente aperti
verso l’interno della montagna. La galleria era talmente grande che le file dei
cavalieri potevano passare comodamente. Entrati tutti a cavallo, dovettero
accendere le torce per farsi luce nel buio che ben presto li aveva avvolti. La
luce soffusadisegnava immagini
grottesche sulle pareti di nudapietra e anche il più piccolo rumore veniva amplificato e deformato per
tutta la lunghezza della galleria. Senza sapere il perché, Anarion si sentiva
stranamente inquieto. Dopo pochi minuti, giunsero alla fine della galleria e
Ulmyo scese da cavallo, accostandosi alla parete di roccia e toccandola
delicatamente con la destra.
“E’ già aperta.” Notò con stupore. “ Alreyd ha fatto in
fretta.”
Una debole luminescenza scaturì dalla mano dell’atelos e
dopo alcuni secondi di attesa la parete si aprì verso l’esterno con fragore,
lasciando libero il passaggio. La luce del mattino li accecò per un attimo, ma
quando finalmente videro ciò che avevano davanti, Anarion urlò
inorridito.
Steso al suolo, bagnato dal suo stesso sangue, c’era la
figura riversa di Alreyd, immobile.
Anarion scese con un balzo da cavallo, gettandosi al
fianco dell’auroreo. Lo girò delicatamente verso l’alto, osservandone il viso.
Aveva gli occhi chiusi e il viso era terribilmente ferito. Tagli ed escoriazioni
deturpavano il viso mite. Il petto era squarciato da un taglio profondo e aveva
una violenta emorragia. Il respiro era tenue e fievole, anche se l’auroreo
viveva ancora, nulla l’avrebbe potuto salvare. Nessuno degli aurorei si era
avvicinato, poiché i cavalli erano restii di attraversare la soglia rocciosa.
Ulmyo scese da cavallo e si affiancò ad Anarion con le lacrime agli occhi e
sussurrò commosso il nome dell’amico, stringendogli con forza entrambe le
mani.
Quasi rispondesse al richiamo l’atelos aprì debolmente
gli occhi e il ragazzo notò che non erano più neri. Il velo di oscurità che li
aveva coperti per tanti anni era scomparso ed essi brillavano della luce azzurra
che la vita gli aveva dato alla nascita. “Non tentare la magia, Ulmyo.” Disse a
fatica. “Non c’è incantesimo che possa salvare un uomo sulla soglia della
morte.” Tossì, sputando sangue dalla bocca. “ Alreyd, chi è stato? Chi?”. Chiese
con rabbia incontrollabile Ulmyo.
“Non so, adesso se n’è andato, spero.” Tossì e riprese a
dire: “Dovete fuggire, se tornasse non avreste scampo.”
“Ma, dobbiamo portare a termine la nostra battaglia.”
Obbiettò l’auroreo.
“Non potete farcela, solo Sire Ràidames, forse. Tornate
indietro!”
Dietro di loro, i battenti di pietra si richiusero con
un tonfo, lasciando i cavalieri chiusi nella galleria. “Non potete tornare
indietro. Dovrete prima affrontare me.” Davanti alla parete di pietra, a pochi
passi da loro, si stagliava la figura minacciosa e tenebrosa dall’assassino di
Alreyd.
Dopo
aver affrontato i Siguya, Anarion non pensava che avrebbe potuto provare
nuovamente un terrore tanto forte. Era evidente che si sbagliava. La sola vista
di quell’essere lo spaventava.
Aveva l’apparenza di un Dàimon. Alto, dalla figura
robusta e massiccia, vestiva abiti laceri e scuri, quasi usurati dallo scorrere
del tempo. Appeso alla cintura portava uno spadone con lama larga e dall’elsa
nera. I capelli lunghi e violacei erano ispidi e mossi. I lineamenti erano
brutali e duri, mentre gli occhi non tradivano nessuna emozione, solo furia
omicida.
Quando il ragazzo ne incrociò gli occhi, una fitta
terribile lo colpì alla schiena. Il dolore sparìperò quasi subito. Si voltò verso Ulmyo,
senza sapere cosa fare. L’auroreo gli parlò senza
voltarsi:
“Prenditi cura di lui. Io mi occupo di questo
Dàimon.”
“Dàimon è una definizione da essere mortale.” Disse
mentre Ulmyo gli si parava davanti, la spada sguainata. “Io sono un
dio!”
“Il mio nome è Ipurio. Sono uno dei dodici figli di
Potere, rinati al richiamo della Incarnazione.”
“Il mio nome è Ulmyo, cavaliere della Fortezza Bianca.
Adesso te la farò pagare per ciò che hai fatto ad Alreyd,
pseudo-divinità.”.
“Credi di forse di spaventarmi?” disse ridendo
sguaiatamente “Perché mai dovrei temerti? Ascolta e impara: al cospetto degli
dei, a creature del vostro stampo è concesso solo di provare paura, poiché la
divinità stessa rappresenta il terrore.” Detto ciò, sguainò la spada, che
riluceva di nero alla luce del giorno.
Ulmyo iniziò a combattere, colpendo di affondo e di lato
il nemico, ma questo parava e deviava gli attacchi con facilità sorprendente,
quasi combattesse con un bambino. Anarion osservava rapito, quando la vocedi Alreyd lo riscosse. “Ragazzo…”
Sembrava non avere più la forza per parlare.“Aiutami ad
alzarmi.”
Anarion non osava protestare. Lo aiutò e lentamente
l’auroreo riuscì, anche se a stento, a rialzarsi.
L’urlo di Ulmyo li fece sobbalzare entrambi. Era stato
trafitto al fianco destro dal primo attacco di Ipurio. Il guerrierp si rendeva
adesso conto della differenza che c’era tra loro. Non aveva potuto parare
l’attacco perché troppo violento, pensò che nemmeno Olos potesse qualcosa contro
un simile guerriero. Adesso capiva perché Alreyd era stato sconfitto: non era
riuscito a sostenere quella violenza che non aveva nulla di normale. Cadde sulle
ginocchia, sconfitto, e la spada, scalfita, gli scivolò dalle mani. Rimase
immobile, lottando per non svenire.
“Pensavi davvero di farcela?” Lo colpì al petto con un
calcio, facendolo rotolare per qualche metro. Prima che potesse voltarsi, un
torrente di luce lo colpì in pieno sul fianco, travolgendone la figura per
qualche istante, senza però nemmeno scuoterlo.
Alreyd era in piedi, trattenendo con la destra
l’emorragia e aveva la sinistra ancora avvolta dalla luce
dell’incantesimo.
“Il corpo di noi divinità è capace di sopportare energie
e forze che vanno ben al di là di quelle che voi possedete.” Disse sorridendo
malignamente il dio.
Alreyd cadde a terra sfinito e il ragazzo gli fu
nuovamente vicino, fissandolo negli occhi.
“Un dono, amico mio, prima della mia morte.” Gli strinse
le mani e gli trasmise le sue ultime energie. Anarion provò una sensazione di
calore e tepore come non ne aveva mai provati prima e fu avvolto completamente
da una tenue luminescenza.
“E’ bello morire qui, tra i colori della mia foresta. Li
avevo dimenticati.” Fissò il cielo per un istante e poi i suoi occhi si
spensero. La morte lo fece suo, liberando il suo spirito nella bellezza della
foresta, che a lungo gli era stata negata.
………………………………………………………………………………………
“Morto. E il suo compagno sta per raggiungerlo.” Disse
il dio imperturbabile.
“Fermo.” Ipurio si voltò: il ragazzo insignificante che
stava al fianco dell’auroreo, si era alzato e ora gli stava quasi dinanzi, con
il capo chino.
“La pagherai cara per aver osato colpire coloro che mi
hanno difeso. Preparati a morire.” Il dio non ebbe il tempo nemmeno di
replicare: un lampo scaturito dal braccio del ragazzo lo investì in pieno,
scaraventandolo contro la parete di pietra. Si rialzò senza aver accusato
nessuna ferita, solo i vestiti si erano bruciati in più
punti.
“Chi sei tu?” Chiese con voce
turbata.
“Chi sono io? Sono colui che ridurrà a brandelli il tuo
corpo e il tuo spirito.”
Ipurio scattò in direzione del ragazzo, con l’arma
sguainata. Gli fu addosso in un attimo, con la spada levata, ma nuovamente un
fulmine rosso lo colpì, buttandolo a terra. Stavolta il corpo del dio era
rimasto ferito: gocce di sangue quasi trasparente colavano dalla spalla
sinistra, ferita da un taglio profondo.
“Al mio cospetto Uomini ed Aurorei non sono altro che
vermi e i vermi non sono capaci di simili gesta!” Disse con rabbia. “Mai accadrà
che un dio venga piegato da un uomo.”. Urlò.
“Vorresti dire che è naturale che un uomo debba
soccombere contro un dio? E chi l’ha stabilito?” Continuò pacato Anarion. “Non è
altro che una sciocchezza decisa da voi divinità!”
Alzando entrambe le braccia contro Ipurio, un potente
getto di fiamma scaturì dalle sue dita, investendo ed avvolgendo completamente
il dio. Quando la furia del fuoco si estinse, tuttavia la figura del dio era
ancora in piedi, anche se tremante.
“Sei fuori di senno?! Credi di poterla scampare dopo
aver fatto una cosa simile ad un dio?” Disse con la rabbia a stento
repressa.
“Allora ti chiedo…”replicò il ragazzo, imperturbabile.
“Gli uomini dovrebbero perdonare agli dei qualsiasi sopruso? Se gli dei
feriscono e uccidono i deboli, solo per far sfoggio della propria forza, come
possiamo venerare come divinità esseri tanto abbietti e meschini? Noi non siamo
così stupidi!” Una nuovo getto di folgore bianca scaturì dalla figura di Anarion
e stavolta, quando venne colpito, Ipurio urlò, provando per la prima volta in
vita sua paura.
Un denso polverone si alzò e per alcuni secondi, tutto
tacque. Quando infine poté nuovamente vedere, Anarion scorse la figura di Ipurio
poco lontana appoggiata alla parete rocciosa.
Il ragazzo avvicinò i palmi delle mani gli uni agli
altri, fissando negli occhi il dio. Anche stavolta una fitta di dolore alla
schiena lo scosse, ma tale era il potere che si era risvegliato in lui insieme
alla magia donatagli da Alreyd che subito scomparve. Ipurio invece fissò con
stupore gli occhi vermigli del ragazzo, senza riuscire a muoversi. Anarion parlò
di nuovo, con voce stavolta rabbiosa:
“Io non credo che tu sia un dio, ma non sei neppure un
Dàimon. Sei soltanto un mostro.”
Tra i palmi delle mani, una violenta luce iniziò ad
agitarsi, contorcendosi ed emettendo rapidi bagliori. “Io non credo negli dei.
L’unica cosa in cui ripongo fede sono i miei ideali, in cui credo e che difendo.
Questo mi hanno insegnato i sacrifici di Ràikas ed
Alreyd.”
Ipurio lo fissò con sconcerto; poi d'improvviso un lampo
gli attraversò la mente.
Gridò qualcosa al ragazzo, disperato, ma la luce
racchiusa nelle mani di Anarion lo investì con violenza inaudita, schiacciandolo
contro la parete di pietra e lottando per consumarlo.
Per alcuni secondi Ipurio sostenne con la propria spada
la forza del getto di energia, poi quando questa venne ridotta in frantumi,
urlò, investito in pieno dalla luce.
Quando l’incantesimo cessò, di lui era rimasto solo
l’eco dell’urlo terribile.
La parete, colpita dal potere scatenato dal ragazzo,
iniziò a sbriciolarsi, aprendo nuovamente il passaggio per i cavalieri chiusi
dall’altra parte.
Anarion si guardò un attimo intorno, sentendo le forze
diminuirgli attimo dopo attimo. Ulmyo si era lentamente rialzato, sebbene ferito
e aveva lanciato un ultimo sguardo commosso ad Alreyd prima di brandire
nuovamente la spada. Anche lo sguardo del ragazzo si posò sul corpo esanime
dell’auroreo. Vide che aveva la stessa espressione placida e mite che aveva da
vivo. Pensò che il suo spirito afflitto dovesse aver trovato finalmente la pace
che a lungo aveva desiderato.
Le energie gli mancarono improvvisamente e cadde sulle
ginocchia, respirando a fatica. Non capiva cosa stesse succedendo. Pochi istanti
prima era traboccante di potere e adesso non riusciva nemmeno a stare in piedi.
Gli occhi gli si chiusero e sentì ogni rumore intorno a lui farsi lontano e
indistinto. Capì con orrore che stava perdendo i sensi. Cercò di alzarsi ma non
ci riuscì. Si voltò verso l’entrata della grotta: i cavalieri galoppavano rapidi
sui loro destrieri sparendo nella foresta, incitando i cavalli. Ignoravano del
tutto lui e la morte di Alreyd, andando incontro alla battaglia. Il pensiero
dello scontro gli balenò nella mente per un attimo, riscuotendolo, poi cadde al
suolo, in preda alla semi-incoscienza. Nell’ultimo barlume di lucidità, udì il
sordo richiamo di un corno poi, in risposta, il grido della schiera dei Dragoni,
che urlavano la loro furia contro il cielo.
Capitolo 13 *** La fine della battaglia e l'inizio della guerra ***
l
Il sole stava tramontando oltre i limiti della foresta e
le prime luci delle stelle notturne balenavano tra le nuvole sempre più gonfie.
Zacho camminava sul campo di battaglia, mentre le prime gocce di pioggia
iniziavano a cadere. Sangue ed acqua bagnavano l’erba e sembrava quasi che la
terra stesse piangendo per la morte dei figli caduti per difenderla. Nel suo
cuore il guerriero sperava che l’acqua e la luce che in quel momento si
riversavano insieme sul campo di battaglia portassero consolazione alle anime
dei caduti.
A migliaia i corpi giacevano al suolo, davanti ai
bastioni, dove la battaglia aveva visto il suo epilogo. Poche ore prima lui era
lì, tenendo a freno l’assalto nemico insieme ad Olos. La situazione si era fatta
difficile e la sortita dei cavalieri tardava ad arrivare. Poi l’avevano visto:
una lampo fulmineo a settentrione, seguito dal boato di un tuono. Per pochi
secondi la battaglia si era placata e l’assalto fermato. Sembrava che tutti
fossero rimasti colpiti da quell’evento inaspettato. Poi l’attacco era ripreso,
più violento di prima. Lui e Olos si erano spostati ai piedi del cancello, al
centro della prima linea della fanteria. Avevano deciso di tentare il tutto per
tutto, senza aspettare il segnale. Sporco del proprio sangue e di quello nemico,
l’umano sentiva la sua energia fisica pervaderlo fino allo spasmo, stimolata dal
dolore,in procinto di esplodere.
Succedeva ogni volta che si apprestava a rischiare la vita:l’ansia, la paura e l’eccitazione si
condensavano in una emozione che raddoppiava le sue forze.
Non aveva atteso molto, che il rombo del corno li aveva
raggiunti nitido oltrepassando il rumore del combattimento, risvegliando la
speranza nei loro cuori. I Dragoni erano pronti a combattere! Dapprima solo
poche decine di cavalieri, poi l’intera cavalleria si schierò lungo tutto il
margine della foresta. Al centro dello schieramento c’era Ulmyo, che, sebbene
ferito,guidava i suoi soldati in battaglia.
Un’altra volta il corno di Ulmyo suonò, seguito stavolta
da quello di tutti i Dragoni: il boato si infranse contro le mura della Fortezza
e si moltiplicò in centinaia di echi assordandi che si propagarono sulle
montagne. Il suono non morì nemmeno quando l’urlo dei cavalieri riempì la
vallata. Veloci e inarrestabili come il vento, si lanciarono in avanti,
galoppando uniti, come una marea nera.
Le ultime file dei Dàimon avevano interrotto l’attacco,
voltandosi verso la nuova minaccia e dando le spalle alla Fortezza, dimentichi
dei nemici al suo interno.
L’impatto fu tremendo e devastante: i Dragoni travolsero
le prime linee nemiche e spinti dall’impeto della carica penetrarono a fondo
nello schieramento dell’esercito, vincendone la resistenza e piegandone le
forze. Le lance dei cavalieri abbatterono a centinaia i corpi inermi dei mostri,
spazzandoli via come pula al vento e calpestandoli sotto gli zoccoli delle loro
cavalcature. Sopportato però l’impatto iniziale le creature contrattaccarono,
buttando giù di sella i cavalieri e azzoppando i cavalli. Talmente furiosa era
la mischia che non si riusciva a capire quale parte stesse avendo la meglio.
Poi, d’improvviso i cancelli si spalancarono verso l’interno, e le viscide
creature vi si riversarono numerose , scampando alla furia dei cavalieri. Non
ebbero nemmeno il tempo di avanzare: la linea della fanteria aurorea costituiva
un muro invalicabile di scudi dai quali spuntavanole sarisse, schierate in una selva
affilata e mortale. I fanti avanzarono con passo lento e ritmato, trafiggendo
qualunque cosa si avvicinasse abbastanza. Molti nemici morirono impalati sulle
punte delle lance, mentre gli altri calpestavano i corpi dei caduti per non fare
la stessa fine.
Quando i soldati ebbero raggiunto il punto in cui la
battaglia era più cruenta, le prime file lasciarono aperti dei varchi tra gli
scudi, facendo passare fanti che impugnavano scudi e spade e che si lanciarono
nella mischia, accorrendo in aiuto dei loro fratelli. Gli altri rimasero a
protezione del cancello, per evitare che i Dàimon potessero guadagnarne
l’ingresso. I demoni combattevano con la forza della disperazione, chiusi tra le
lance dei fanti e le cariche dei cavalieri, mentre gli aurorei lottavano animati
dalla volontà di difendere la propria terra. Nel mezzo della lotta Ulmyo si
batteva con un vigore che tradiva le ferite del suo corpo. Trafitto da una
freccia alla spalla sinistra e perduto il cavallo, aveva imbracciato spada e
scudo e si era aperto a colpi affilati di fendente la strada tra i nemici,
guidando l’avanzata dei suoi cavalieri. Ma la sua foga l’avevaseparato dai compagni, e così si era
ritrovato isolato, circondato dai nemici. Combatté valorosamente, abbattendo
numerosi avversari, ma ben presto le forze gli mancarono e quando anche l’ultimo
dei suoi avversari cadde a terra morto, lui, trafitto da altre due frecce e
coperto di tagli, si reggeva a stento in piedi.
Quasi senza accorgersene si era ritrovato davanti Olos e
lui, cheavevano condotto
l’offensiva della fanteria dalla fortezza. Così si ritrovarono, circondati dai
loro soldati, ansimanti e coperti di sangue nel turbine impetuoso della
lotta.
Ulmyo era al limite: lasciò cadere lo scudo, ma
l’orgoglio gli diede la forza di non abbandonare la spada. Tutto intorno a lui
si spense: il rumore assordantee
orribile delle urla, l’odore acre e ferroso delsangue. Vide Olos fissarlo impotente,
mentre cadeva all’indietro, senza forze. Avvertìa malapena l’urto sull’erba fresca.
Sentì le membra immortali rilassarsi, il dolore abbandonarlo, sostituito da una
sensazione indefinita. Per un breve istante le iridi spente fissarono il cielo
ancora limpido. Il suo spirito volò nell’aria con l’ultimo sospiro,
libero.
Fu lui stesso a chiudere gli occhi all’auroreo. Mormorò
una preghieraper l’anima del
caduto e ritornò alla battaglia. Vide Olos e rimase interdetto: pareva un demone
incarnato. Urlava e combatteva con la furia didio. Chiunque si battesse con lui andava
incontro alla morte. Brandendo la lancia mortalmente, il sangue dei nemici lo
macchiò anche sul viso dove si mescolava con le lacrime che gli scorrevano senza
controllo dagli occhi., ma nonostante tutto continuava a combattere. Sembrava
che uccidere e combattere fossero l’unico modo per non farsi sopraffare dal
dolore. Incitando con le sue gesta gli aurorei a difendere le proprie vite e la
propria terra, riuscì a portare le sorti dello scontro dalla loro parte. In poco
tempo, grazie a lui, riuscirono a mettere in rotta l’esercito avversario. I
sopravvissuti vennero inseguiti e finiti dai Dragoni, sicchésolo poche decine riuscirono a scappare
nella foresta.
Olos alzò la lancia verso il cielo, urlando con tutta la
forza che aveva, sfogando verso il cielo la tensione, la rabbia e il dolore che
aveva in corpo. I suoi soldati lo imitarono, alcuni addirittura piansero, in
silenzio. Il Capitano li guardò: avevano sfiorato la morte, avevano visto i loro
fratelli cadere e adesso che il pericolo era passato potevano finalmente
sfogarsi. Tornò dove Ulmyo era caduto e ne fissò il viso pacato nell’immobilità
della morte. La lanciagli cadde
dalle mani e si lasciò cadere sulle ginocchia con stanchezza: si sentiva
completamente svuotato. Alzò lo sguardo verso la Fortezza e fu allora che la sua
vista colse ciò che mandò definitivamente in frantumi ciò che rimaneva della sua
compostezza. Su una barella improvvisata di lance e scudi passava, tra due ali
di guerrieri che chinavano il capo in segno di rispetto per il caduto, il corpo
esanime di Alreyd. Fu allora che pianse con amarezzae nel suo animo qualcosa si incrinò. Lui
gli si era avvicinato guardando pacato la scena.
Gli aurorei stavano sfiorando l’estinzione. Il loro
numero, già di per sé esiguo, si era ulteriormente affievolito a seguito di
quella guerra. I morti che erano caduti per la salvezza dei loro fratelli,
lasciavano ai vivi un enorme fardello. Avevano superato quella prova: avevano sì
vinto, ma a che prezzo? Quella domanda aveva presto smesso di assillarlo. Non
avevano avuto nemmeno il tempo di curarsi: dovevano occuparsi dei feriti. Mentre
si aggiravatra i caduti nei pressi
della foresta, udì un nitrito dal fitto degli alberi. Mise mano rapido alla
spada e tese gli occhi nella boscaglia. D’improvviso ne balzò fuori uncavallo bianco, che si arrestò, nitrendo
e scalpitando davanti a lui. Una donna lo cavalcava con fierezza. Vestita larghi
calzoni e una veste di tessuto leggero. Teneva appesa alla vita una lunga spada
ricurva e un vistoso ciondolo circolare con inciso al centro una fiamma le
pendeva dal collo. Portava i capelli biondi sciolti, lunghi e il bel viso,
delicato e serio, spaziava sulla battaglia, indifferente.
“Sei in ritardo, Serìa.” Disse Zacho, riponendo la spada
sugli agganci ai fianchi.
“Lo vedo, ma non sono potuta venire più
velocemente…”Rispose la donna, smontando. “Vedo comunque che avete
vinto…”
“Se la si può definire una vittoria…” Rispose
amareggiato Zacho.
“Non capisco perché tu sia tanto dispiaciuto… Dopotutto,
la morte e la vita fanno parte dell’ordine delle cose. Se gli aurorei si
estingueranno, vorrà dire che era il destino scelto per loro dagli dei.”
Concluse pacata la ragazza, avviandosi a piedi, sempre tenendo il cavallo per le
briglie.
“Non fare questo genere di discorsi. Sai bene come la
penso a riguardo. Il nostro destino è quello che strappiamo agli dei
combattendo…”
“Avremo modo di verificare se ciò che hai detto è
vero.”Disse Serìa sorridendo
sarcastica. “Sono stata mandata da Sire Ràidames. A quanto pare sta per
ricominciare una antica guerra.”Affermò con eccitazione mal celata nella
voce.
“Una guerra?” Chiese sconcertato
l’uomo.
“Sì, una guerra tra noi umani e gli
dei…”
…………………………………………………………………………..…..
Potere si alzò lentamente, le catene gli serravano
ancora con forza gli arti, ma riusciva per lo meno a compiere piccoli movimenti.
Se non fosse stato orribile, sarebbe stato quasi buffo. Un dio, uno dei più
potenti, incatenato nell’anima di un uomo: condannato a provare sulle sue
spoglie immortali i dolori degli uomini e morire, lui, un immortale, lo stesso
giorno del suo “contenitore”.
Quell’uomo, quell’Anarion, lo stava tuttavia
impressionando. Riusciva ad usare il potere che le catene gli sottraevano e ad
usarlo quasi sempre secondo la sua volontà. Doveva essergli grato: agendo in
quel modo indeboliva i legami della sua schiavitù e la sua aura poteva liberarsi
temporaneamente dal giogo che la sopprimeva. La prova era che i suoi Figli si
erano ridestati: sopitisi quando lui era caduto venti anni prima, si stavano
risvegliando uno dopo l’altro. Peccato che uno si fosse già riaddormentato, per
sempre. Ma non gli interessava: Ipurio era sempre stato uno stolto e il più
debole. Lo aveva visto, attraverso gli occhi del ragazzo, combattere e cadere.
C’era da immaginarsi che solo lui, divinità guerriera e sanguinaria, potesse
riuscire a comandare creature come i Dàimon. Ma stavolta aveva incontrato un
nemico al di sopra delle sue possibilità. Con estremo sforzò tentò di toccare le
sbarre luminose della sua prigione, ma quelle lo respinsero, crepitando, come le
sfiorò. Si mantennela mano
destra,tremante, e nonostante il
dolore, sorrise. L’incantesimo stava perdendo la sua efficacia. Si sedette,
concentrandosi profondamente, cercando di rimettere la sua mente in contatto con
quella del ragazzo. Entrò subito in sintonia con lo spirito dell’umano,
contaminandolo con la sua energia. Se Ràidas aveva sbagliato qualcosa era stato
intrappolarlo all’interno dell’ incarnazione umana. Esseri che passano la loro
vita appagando ogni loro desiderio e cercando di infrangere i limiti posti per
loro dagli dei: questi erano gli uomini. Sarebbe stato fin troppo facile
plagiare quel ragazzo. Presto, molto presto il suo piano si sarebbe compiuto e
lui sarebbe stato nuovamente libero.
Un rumore lo scosse da questi pensieri e aprì gli occhi.
Come poteva sentire un rumore in quel limbo dove nulla esisteva tranne la sua
prigionia? Seduto davanti a lui, stava Ràikas.
“Come, come è possibile?” Disse il dio senza tuttavia
muoversi.
L’auroreo non rispose, ma sorrise. “Ti spaventa, il solo
pensiero ti terrorizza.”
Ci fu un rapido momento in cui i due si fissarono. “La
possibilità di poter morire non ti ha mai abbandonato un solo momento in questi
ultimi venti anni.”
“Tu invece sei stato piegato dal
destino.”
“Oh, ti sbagli!” disse mite l’auroreo. “Io ho scelto di
lasciare questo mondo, poiché io solo sono l’artefice del mio destino. Penso
anzi di aver superato la morte, perché il mio ricordo resterà impresso in questa
terra finché essa continuerà ad esistere.”
Potere non poteva comprendere quelle parole, per lui non
avevano alcun senso.
“Solo parole di uno stolto che ora non può più evitare
la sconfitta della sua causa.”
“Quale sconfitta?” Ribatté il re. “Non riuscirai a
disperdere i nostri sogni, poiché i sogni dei mortali non svaniscono
mai…Ricordalo: non cancellerai il nostro sangue.”
Dettò ciò scomparve, fondendosi nell’aria. Il dio urlò
con tutta la rabbia che aveva nello spirito, squarciando la solitudine che lo
tornava ad avvolgere.
L’esercito auroreo era schierato in tutta la sua
sfolgorante bellezza: la fanteria, con le lance che assomigliavano a boschetti
spogli illuminati dalla luce intensa di mezzodì e la cavalleria, con i Dragoni
alti e fieri nelle loro armature d’ebano. Tutti gli sguardi erano puntati su un’
altissima pira funebre al centro della piana antistante la fortezza. Altre
cinquanta erano disposte per tutta la valle. Gli elfi restituivano le spoglie
dei caduti all’aria nella quale erano state liberate le loro
anime.
Olos, davanti al suo esercito, vestiva d’oro e in un
commosso silenzio teneva gli occhi chiusi sotto l’elmo bronzeo. Sembrava quasi
ascoltare le voci dei defunti nel debole vento pomeridiano. In cima alla pira
centrale giacevano uno al fianco dell’altro Alreyd e Ràikas e Ulmyo. Nelle vesti
bianche, rifulgenti d’argento, sembravano riposare. E cos’era la morte se non un
sogno eterno, pensò Ràidames salendo le scale di legno della pira con una
fiaccola in mano. Spesso aveva sentito dire da Alreyd che la morte era un dono,
elargito dagli dei agli uomini. Rendeva eccezionale e irripetibile la vita,
dandogli ciò che gli dei non potevano avere, l’unicità. Una vita, anche
immortale, senza emozioni, che senso poteva avere? Lui non lo sapeva e nemmeno
suo padre e Alreyd. Gli dicevano di non temere la morte, poiché tutti dovevano
affrontarla prima o poi, anche gli aurorei. Arrivò in cima alla pira e per un
attimo il suo sguardo si posò sui presenti e sull’imponenza della città. Gli
tornarono alla mente altri ricordi, altre immagini. Era nella sala del trono e
suo padre stava piangendo la scomparsa di Re Ràidas. Lui era ancora un giovane
per la sua razza e lo era ancora adesso. Il padre lo abbracciò con forza e lui
gli chiese se il dolore per la morte del nonno sarebbe passato. “Dolore?”Chiese
Ràikas. “Io non provo dolore, solo nostalgia. Adesso la sua anima è libera. Mi
spiace solo di non poter vedere più il suo viso.” Alzò in alto la fiaccola che
stringeva nella mano destra e ogni presente mormorò tra le labbra una preghiera
per le anime dei caduti.
Lasciò cadere la fiaccola, imitato dagli ateloi disposti
sulle altre pire e queste iniziarono ad ardere con vigore. In breve le
gigantesche strutture furono avvolte dalle fiamme. L’odore acre del legno
bruciato si diffuse nella zona e un fumo scuro si levò alto nel cielo, portando
con sé le spoglie dei combattenti. Braci turbinarono nell’aria e lingue di fuoco
si levarono altissime. In breve tempo rimase solo la cenere di tre dei più
grandi eroi di ogni tempo e dei loro compagni d’arme.
Ràidames chiuse gli occhi e ascoltò il vento che portava
con sé gli spiriti dei caduti. Li avrebbe raggiunti e insieme avrebbero compiuto
il più grande viaggio oltre la vita.
………………………………………………………………………………
Anarion sedeva nell’ampia anticamera spoglia che
precedeva quella del trono. In attesa di essere ricevuto dal nuovo Astro Bianco,
era rimasto da solo con i propri pensieri. Non aveva pianto per la morte di
Alreyd, ma l’auroreo era diventato in breve tempo un amico e la sua prematura
scomparsa lo aveva fatto soffrire terribilmente. Si era svegliato quando i
funerali dei caduti si erano già compiuti e si era rammaricato di non aver
potuto rendere l’estremo saluto a chi aveva dato la vita anche per lui. Poi era
stato convocato quasi subito dal re, che secondo quanto gli aveva detto Olos,
gli avrebbe concesso di lasciare la fortezza. Erano ormai passati parecchi
minuti da quando il Capitano era entrato, che la porta di atelargento si aprì e
Olos ne uscì, invitandolo a entrare.
Passò attraverso l’entrata e si ritrovò nella stanza
dove pochi umani avevano messo piede prima di lui. La vasta sala circolare
presentava lungo il perimetro una doppia fila di colonne rastremate e dai
capitelli decorati con foglie d’acanto e figurazioni naturali. Sul fondo della
sala un’ampia vetrata si affacciava ad Oriente, ma il sole oramai quasi
tramontato non poteva far entrare la sua luce, sicché l’unica fonte erano le
poche fiaccole appese alla parete. Al centro della sala c’era una vasca
quadrata, dai lati lunghi all’incirca cinque metri e profonda un paio,
contenente acqua limpida e cristallina. Un sentiero di marmo si estendeva dal
lato più vicino all’entrata per terminare al centro della vasca. In fondo alla
sala c’era il trono. Semplice e austero, la costruzione in marmo non aveva nulla
di inusuale. Vi era però posato un piccolo copricapo. Formato da ramoscelli
d’oro che s’intrecciavano armoniosamente a formare un diadema, aveva un gemma
dalla squisita fattura a forma e dal colore di foglia e dalle venature argentee
all’altezza della fronte. Doveva essere la corona reale. Ma dov’era il re?
Girandosi intorno vide che a destra e a sinistra dell’entrata due gradinate di
scale poste dietro le colonne salivano verso l’alto scomparendo in una vaga
luminescenza rossastra. Salì seguendo Olos per le scale sulla sinistra e quando
si ritrovò in cima, dovette chiudere gli occhi per il vento improvviso che
spirava sulla cima della Torre Bianca. Li riaprì e le verdi terre auroree,
tornate al loro immortale splendore si spingevano sotto i suoi occhi, tingendosi
di rosa e porpora al calare del tramonto. Non era il solo a trovarsi lì, dove
sembrava di poter toccare il cielo. C’erano il Re atelos, che reggeva sul destro
guantato un falco, Zacho, una donna
che lo colpì per l’ espressione enigmatica con la quale lo fissava, oltre
naturalmente ad Olos. Il re lo guardava con sguardo amichevole e il viso era
gentile e sereno. Il ragazzo notò inoltre che i segni bianchi sul viso erano
adesso marcati e decisi.
“Salve, Anarion. Come ti senti?” gli chiese, come se
nulla fosse successo.
“B - bene, sire.” Rispose esitante il
ragazzo.
“Ti ho chiamato per delle ragioni ben precise.” Sospirò
“Per prima cosa ti voglio ringraziare per il servizio reso a me e a tutto il mio
popolo. Mi dispiace non aver preso parte al combattimento, ma ho dovuto compiere
il rito per ereditare tutti i poteri lasciatimi da mio padre e non sono riuscito
ad ultimarlo prima della fine della battaglia. Se avessi atteso nel farlo non
avrei potuto compierlo mai più.”
Rimase in silenzio alcuni secondi, forse pensando se le
sue decisioni erano davvero giuste.
“In secondo luogo ti volevo comunicare che sei
finalmente libero di andare. Alreyd mi raccontò tutto ciò che venne a sapere da
te, quindi la tua permanenza non è più necessaria.”
“Quindi posso andare?” Chiese speranzoso il
ragazzo.
“Sì, ma nel tuo viaggio sarai accompagnato da questi
miei due amici.”
“Amici è una parola un po’ forte, Ràidames.” Disse con
tono impudente la ragazza.
“Come osi rivolgerti così al Re?” Esclamò con rabbia
Olos, mettendo mano alla lancia. Serìa a sua volta sguainò la spada, con aria di
sfida, ma la voce ferma e altera del re li bloccò
entrambi.
“Non sarà versato sangue in questo luogo!” I due
abbassarono le armi, ma continuarono a guardarsi in cagnesco. “Queste due
persone” disse il Re correggendosi, recuperata la sua aria tranquilla “sono due
dei Dodici Cavalieri del Sole, la guardia personale del Principe di Fearin e ti
accompagneranno, come ho chiesto loro, fino alla fine del tuo viaggio, che a
quanto ho capito, porta a Fearin. Ti conviene prepararti, partirete subito.”
Alzando il braccio verso l’alto, l’aquila dispiegò le ali e spiccò il volo,
dirigendosi verso Ovest. Solo allora il ragazzo notò che l’uccello aveva un
messaggio legato alla zampa. “Forse questo vi aiuterà.” Concluse l’Astro
Bianco.
Zacho e Serìa si congedarono subito, sparendo nella sala
del trono con il Re. Olos e Anarion rimasero alcuni secondi in silenzio, poi
Olos parlò, con la stessa espressione di sempre. “Finalmente sei libero,
ragazzo. Ma stai attento.” Gli disse con aria seria. “Diffida di alcuni dei
Dodici Cavalieri. Sono un ordine antico e formato sì dai guerrieri più valorosi
del popolo del Sud, ma anche dai più terribili.”
“Lo farò, Olos, non temere.” Gli rispose sicuro. “Ormai
sono un guerriero anch’io.”
Si strinsero la mano e ad Anarion sembrò che quella di
Olos tremasse, anche se il suo viso conservava la sua espressione indecifrabile.
Quando lasciò andare la presa, il ragazzo, con un nodo alla gola, voltò le
spalle al Capitano e scese le scale, lasciando il guerriero da solo. Olos iniziò
a tremare adesso più forte. La lancia gli scivolò dalla sinistra e anche lui
cadde sulle ginocchia. Gli occhi sgranati esprimevano incredulità e
inquietudine. Pochi attimi prima, per alcuni lunghissimi istanti aveva avvertito
l’istinto irrefrenabile di uccidere il ragazzo. Per fortuna non l’aveva fatto.
Per fortuna?
………………………………………………………………………………..
Alle prime luci dell’alba erano finalmente pronti a
partire. Zacho e Serìa lo stavano aspettando a cavallo, immobili. Tutto era
silenzioso e quieto. Sembrava che non ci fossero nemmeno le
guardie.
Salì a cavallo e si guardò nuovamente intorno:
nessuno.
Gli ricordava molto il momento in cui aveva lasciato il
suo villaggio. Anche allora nessuno si era degnato di salutarlo. Iniziarono ad
incamminarsi: la postierla era aperta e poterono oltrepassarlo senza problemi.
Mentre passavano attraverso la piana, Anarion notò i resti delle pire funebri e
per qualche attimo fu di nuovo colto dalla tristezza. Forse era il suo destino
abbandonare sempre i luoghi dove trovava qualcosa per cui valeva la pena vivere
e andarsene così, in silenzio.
Quando giunsero ai margini della foresta si voltò
indietro, proprio mentre il sole sorgeva oltre i picchi dei monti. Una nuova
luce si univa a quella del nuovo giorno, brillando sulla cima della Torre
Bianca. Era il Re. Con il capo cinto dal diadema reale, stringeva, alto, nella
destra, un bastone di niveo legno, dalla forma di dragone. E il globo che
stringeva tra le fauci brillava intensamente,come una stella, a salutare la sua
partenza.
Forse quando tutto sarebbe finito, avrebbe avuto un
posto dove tornare. Un posto da poter chiamare casa.
Il viaggio durava da molto ormai e per di più né Zacho
né Serìa sembravano avere intenzionedi rivolgergli la parola. Avevano viaggiato per quattro giorni, dormendo
poche ore e fermandosi solo per far riposare i cavalli e mangiare e bere e
Anarion era oramai stravolto. Aveva le membra intorpidite e indolenzite, per non
parlare del dolore e delle escoriazioni che gli tormentavano le gambe. In alcuni
momenti era davvero tentato di lasciarsi andare e cadere da cavallo, per porre
fine se non altro a quello che era in taluni momenti un vero e proprio
supplizio. Era sera inoltrata quando finalmente si fermarono. “Perché
cavalchiamo verso Occidente e non verso Sud?” Chiese il ragazzo mentre
smontavano.
“Perché” rispose seccata la donna “è la strada più
sicura.” Disse lanciandogli la sacca delle provviste. “Se cavalcassimo verso
Sud, costeggeremo le terre dei Druidi ed è una cosa che preferisco evitare.
Mentre con questa strada anche se allungheremo, al massimo ci imbatteremo negli
Albi, che non ci sono nemici. Adesso mangia e vai a dormire che domani guaderemo
lo Spaccaterre, tempo permettendo.”
Anarion non protestò, memore delle parole di Olos, ma
avrebbe volentieri fatto rimangiare alla donna la sua
arroganza.
Fu così, che mentre il cielo si rabbuiava, il ragazzo
chiuse gli occhi senza però riuscire ad addormentarsi. Non lontano da lui,
intorno al fuoco, i due cavalieri parlavano animatamente.
“Non dovremmo fermarci, sai com’è la situazione attuale,
vero? Siamo sull’orlo di una guerra civile!” Disse la donna cercando di
trattenersi.
“Lo so, Serìa. Il ragazzo però deve giungere dal
Principe “in buone condizioni” e una marcia forzata fino al castello potrebbe
anche stroncarlo. Lo sai anche tu cos’ha detto il Re degli
Aurorei.”
“Cosa vuoi che me ne importi di Ràidames?” Disse
seccata.
“A te non importa nulla, se non combattere.” Constatò il
cavaliere.
“Non cambiare argomento.” Lo minacciò la donna. “Sono
anche preoccupata per il nostro itinerario. Dopo la catastrofe di Maruyl, i
rapporti tra le razze si erano incrinati e solo Ràikas era riuscito a stabilire
una pace provvisoria. Ma adesso che lui è morto tutto è
cambiato.”
“Cos’è successo mentre io ero via?” Chiese Zacho
ansioso.
“E’ scoppiata una guerra che coinvolge Notturni e Albi.
I Druidi si muovono a Est e i Siguya…” disse la ragazza con un tono di
inquietudine nella voce.” Sono stati avvistati all’incirca diecimila Siguya
scendere dal nord. Diecimila, come cento anni fa!”
“Tutto accade nello stesso momento. E’ troppo strano che
siano solo coincidenze.” Mormorò Zacho.
“Anche tu la pensi come me.” Sussurrò Serìa con voce
esasperata. “E’ lui la causa di tutto questo.”
“Non ne siamo sicuri.” La interruppe Zacho. “Lo stesso
Re auroreo è stato molto vago quando ci ha parlato della situazione. Solo lui e
il Principe sanno tutti i particolari. Non ci resta che aspettare di giungere al
castello.”
“Allora chiudiamo qui la discussione, prima che mi
innervosisca.” Disse la donna.“Faccio io il primo turno.”
Anarion non aveva colto tutte le parole della
conversazione, perché era piombato in una sorta di dormiveglia e quando sentì
Zacho stendersi vicino a lui, si addormentò completamente.
Sognò di nuovo la ragazza dai capelli neri. Ma non aveva
più l’aria malinconica e mite che le vedeva spesso, anzi, sembrava arrabbiata e
triste. Indossava un’armatura leggera e uno scudo rotondo in legno. Brandiva una
spada lunga, sporca di sangue. Quando lo fissò gli sembrò che gli chiedesse
aiuto, ma la donna scomparve improvvisamente.
Si era svegliato di soprassalto. Pioveva furiosamente e
Zacho e Serìa stavano preparando in fretta e furia i cavalli. Il cavaliere gli
lanciò un mantello per coprirsi e gli urlò:
“Andiamo!” Si misero subito in marcia, cavalcando quasi
stesi sulle cavalcature.
Nelle orecchie l'eco del vento, gli occhi appannati di
pioggia. Nel paesaggio che si sfumava, notò, sulla linea dell’orizzonte,
delinearsi i contorni sfocati dello Spaccaterre, il fiume che tagliava a metà i
territori settentrionali di quelle terre. La forte pioggia l’aveva fatto
ingrossare e l’acqua agitata sembrava dover straripare da un momento all’altro.
“Non possiamo guadarlo.”Pensò Anarion. “E’ impossibile”.
Invece, con Serìa in testa, cavalcarono verso Sud in
cerca di un guado finché parecchio tempo dopo, la donna non si fermò vicino alle
acque tumultuose del fiume.
“Passeremo in questo punto.”Urlò per sovrastare il rumore del
vento.
“E’ un suicidio!” Gli rispose
Anarion.
“Il ragazzo ha ragione, inoltre i cavalli sono
sfiancati!” intervenne Zacho “dobbiamo aspettare che il tempo cambi o andare ai
ponti a sud.”
“No!”rispose la donna. “E’ proprio il tempo che non
abbiamo! Ce la faremo: io vado avanti, il ragazzo al centro e tu per
ultimo.”
Detto ciò, iniziarono a guadare il fiume. Ma era
un’impresa incredibilmente ardua. I cavalli erano terrorizzati, sicché era
difficilissimo farli procedere, mentre la forza dell’acqua aumentava di minuto
in minuto. I cavalli erano immersi fino ai fianchi e il freddo dell’acqua
ghiacciata arrivava fino alle ossa del ragazzo.
Avevano percorso quasi una trentina di passi ed erano
più o meno a metà strada.Poi
d’improvviso il suo cavallo si lasciò afferrare dalla corrente, stroncato dalla
fatica o dal freddo, e fu solo grazie a Zacho, che gli afferrò la mano, che
riuscì a rimanere a galla.
Il peso della spada e degli indumenti lo tirava verso il
basso e per il freddo, aveva perso la sensibilità a quasi tutto il
corpo.
La voce di Zacho giungeva ora lontana e sommessa:
“Resisti ragazzo, resisti!
Il rumore lontano di un corno sembrò restituirgli un po’
di forza, insieme alle parole del cavaliere:
“E’ Shalia, è arrivata Shalia!”
Ma avevano cantato vittoria troppo presto. Qualcosa urtò
contro il cavallo di Zacho, che perse l’equilibrio e cadde in acqua insieme ad
Anarion.
Il ragazzo finì sott’acqua e facendo forza con le gambe,
riuscì a stento ritornare in superficie.
Mentre la corrente lo spingeva sempre più lontano, vide
una cosa incredibile: il cavaliere era stato sollevato in aria e portato sulla
riva da una lunga figura d’acqua, proprio mentre Serìa giungeva col cavallo al
sicuro. L’essere si diresse poi verso di lui: era un enorme serpente d’acqua, ma
un attimo prima che potesse afferrarlo, venne inghiottito dall’acqua verso il
fondo e mentre tutto intorno a lui diventava buio riuscì solo a pensare: “E’
finita…”
……………………………………………………………………………
“Maledizione!” Inveì Potere dal profondo della sua
prigione luminosa.
“Non può finire così! IO NON VOGLIO
MORIRE!”
Si alzò in piedi, sebbene saldamente legato da pesanti
catene e iniziò a sprigionare tutta la sua energia nel corpo del ragazzo. Subito
le folgori che lo circondavano si strinsero intorno a lui, affondando la loro
fiamma direttamente nella sua anima. Ma non urlò. Era un dolore inimmaginabile,
come non ne aveva mai provato, probabilmente la morte avrebbe solamente potuto
alleviare quella sofferenza, ma l’orgoglio e la volontà lo fecero resistere.
Continuò finché non ebbe per un attimo il pieno controllo del corpo del ragazzo
e solo allora urlò, sprigionando tutta la forza verso l’esterno. Poi le catene
allentarono la loro morsa e lui cadde riverso al suolo,
incosciente.
…………………………………………………………………………………
L’atelos camminava tranquillo nella tempesta, sembrava
completamente indifferente ad essa. Ma non era così, in realtà vi era totalmente
concentrato. Ogni volta era diversa. Acqua dal cielo come non l'aveva mai vista.
Si lasciava conquistare, palmo dopo palmo, dalla scia umida delle gocce rotonde,
si lasciava percorrere dentro e fuori dell'anima, sotto la pelle intorpidita da
quel freddo sconosciuto, unico, il freddo dei temporali, sugli occhi che ormai
non vedevano che lei, la pioggia. Attorno a lui i campi si allagavano, i
fiori cedevano sotto i colpi di quel temporale… era la battaglia più serena e
vivificante che avrebbe mai potuto immaginare, a suggellare l’inizio della
guerra della sua razza.La sua
terra,lavata da un temporale,
fremente come un animale ferito. Nelle orecchie l'eco del vento, gli occhi
appannati di pioggia. Un rumore arrivò da lontano, forse un tuono, riscuotendolo
bruscamente. Si volse verso le acque vorticose del fiume e una colonna d’acqua
enorme si levò improvvisa dalla superficie dello Spaccaterre. Per un attimo il
corso dell’acqua si fermò, sconvolto dall’ esplosione. Poi l’acqua ricadde
pesantemente nel fiume e la corrente riprese a scorrere
impetuosa.
Pochi metri davanti a lui, qualcosa piovve dal cielo,
cadendo con un tonfo sordo. Vi si avvicinò con aria circospetta, cercando di
capire cosa fosse successo. Fendendo le ombre riuscì a scorgere il profilo del
ragazzo accasciato per terra. Chinatosi su di lui, lo osservò con
attenzione.
Aveva capelli lunghi biondi a tratti bianchi e il viso
sbiancato.
Era quasi nudo: i resti dei vestiti che aveva addosso
erano brandelli bruciati. Portava con sé una spada in un fodero di fattura
aurorea che era rimasto miracolosamente agganciato al corpo. Non indugiò oltre
poiché l’umano, svenuto e con gli occhi riversi all’indietro, era preda a tratti
di violente convulsioni.
Si tolse il pesante mantello e con quello avvolse il
ragazzo, se non altro per ripararlo dal freddo e dalla pioggia. La luce
balenante dei fulmini per un attimo ne illuminò la figura.
Era un atelos della razza notturna. La pelle era scura,
quasi grigia, e i capelli avevano riflessi violacei. Aveva un drappo nero legato
al braccio destro, come in segno di lutto.Gli occhi, neri come la pece, guardarono un attimo a settentrione,
preoccupati. Strane energie si avvicinavano da Nord ed era meglio evitarle. Si
caricò il ragazzo sulle spalle e si diresse a Ovest. Presto si dileguò nella
notte, come ombra nell’oscurità.
………………………………………………………………………….
Più a Nord, lungo la riva destra dello Spaccaterre,
Zacho era appena stato portato a terra da un serpente d’acqua. Adesso quella
creatura innaturale stava scandagliando il fiume alla ricerca del ragazzo. Il
guerriero tossì violentemente, sputando l’acqua che aveva
bevuto.
Quando riuscì ad alzarsi, la prima cosa che vide, sotto
la pioggia scrosciante, fu Serìa, ancora a cavallo, che fissava una donna ferma
sulla riva del fiume. La donna aveva capelli corti, scuriti e appiccicati sulla
fronte e sul viso gentile dall’acqua. Straordinariamente, la ragazza vestiva
semplicemente leggeri vestiti all’amazzone, che le facevano risaltare le forme
sensuali. Anche lei aveva un ciondolo circolare. Stava immobile, con gli occhi
chiusi, quasi stesse ascoltando una voce che solo lei poteva sentire. Era
Shalia, una dei Dodici Cavalieri del Sole. Quando lui e Serìa le furono vicini,
aprì gli occhi e disse dispiaciuta:
“Non sono riuscita a prenderlo, la corrente l’ha
trasportato troppo lontano.”
Fu allora che Zacho perse del tutto la calma: “Sarai
contenta Serìa, vero? Abbiamo perso il ragazzo, che adesso probabilmente è
morto! Sarebbe bastato aspettare altri pochi minuti o cercare un guado a Sud
seppur vicino a Maruyl, che Shalia ci avrebbe raggiunti e aperto la strada nel
fiume!”
Si girò spazientito, guardando verso Sud, imprecando.
Aveva anche perso tutto il suo equipaggiamento e le spade. Serìa non rispose, ma
si rivolse a Shalia cercando di rimanere lucida: “Non c’è altra scelta , devi
pensarci tu. Riprendilo a qualunque costo”.
La ragazza non rispose subito, guardò negli occhi Serìa
con espressione mite, poi il cielo che ancora riversava acqua sul mondo. Sospirò
tranquilla e si avvicinò alle acque tumultuose del fiume. I suoi due compagni si
allontanarono, montando l’una sul suo cavallo e l’altro sul cavallo di Shalia.
La ragazza si voltò un attimo e sorrise. Poi si girò nuovamente verso il fiume e
si lasciò cadere, ad occhi chiusi, nelle acque tumultuose, sparendo alla vista.
Zacho e Serìa spronarono i cavalli e iniziarono a cavalcare verso Sud, sicuri
che lì avrebbero rivisto la loro compagna con il ragazzo.
Erano passati alcuni minuti da quando aveva raccolto il
ragazzo. Mentre correva il notturno udì un rumore strano: sembrava uno
scrosciare d’acqua più intenso del rumore della pioggia che gli cadeva intorno.
Non ci fece caso più di tanto e guardò il buio davanti a sé: presto sarebbe
arrivato al luogo del raduno nella foresta. Iniziò a inoltrarsi nella fitta
boscaglia, lasciandosi alle spalle la prateria aperta. Continuava a sentire
quello strano rumore ovattato seguirlo, ma non si preoccupava: nessun pericolo
mortale l’avrebbe mai colto lì e adesso, lo sapeva. Si mise una mano nella tasca
dei calzoni e ne estrasse una pietra dalla forma romboidale. Brillava
tenuemente: significava che era vicino alla porta. D’improvvisosentì un tonfo sordo alcuni metri dietro
di lui: un albero cadde, mancandolo di pochi passi. Colui che l’aveva abbattuto
si elevò in tutta la sua altezza, superando anche le cime degli alberi: un
gigantesco serpente d’acqua. Il notturno lo fissò meravigliato…non avrebbe mai
immaginato che qualcuno avesse mai osato far ricorso a una magia tanto potente
nel territorio notturno. Fissò con rabbia le squame brillanti della bestia e gli
occhi sottili come fessure. Da qualche parte doveva trovarsi l’artefice di
quell’incanto. Purtroppo non aveva né le forze necessarie né le armi per
affrontare un simile avversario, inoltre doveva pensare al ragazzo. Si girò
d’improvviso e iniziò a correre con quanto fiato avesse in corpo. La pietra che
stringeva in mano brillava ora più intensamente. Oramai era a pochi metri dal
portale. Dietro di lui poteva sentire il rettile aprirsi la strada, svellendo la
terra e abbattendo gli alberi. Nonostante sapesse che il suo destino non si
sarebbe compiuto lì, non poteva fare a meno di avere paura, un sentimento
dimenticato da tempo. Gli dolevano le braccia e iniziava a rimanere senza fiato,
quando finalmente si ritrovò nella radura. La pietra nella sua mano brillava
ardentemente e il notturno pensò di essere finalmente al sicuro. Era a pochi
passi dal centro della spiazzo, quando uno spettacolo incredibile e terrificante
lo costrinse a fermarsi: davanti a lui era comparso dal suolo un muro d’acqua,
che gli sbarrava il cammino, impenetrabile. Velocemente il muro lo chiuse in un
semicerchio d’acqua che tagliava a metà il prato e gli chiudeva ogni via di
fuga. Provò a toccare l’acqua, ma la mano venne spinta via dal liquido, come se
all’interno vi scorresse una corrente indomabile e fortissima. Non poteva
proseguire e nemmeno scappare. Il serpente si precipitò nella radura con un
guizzo rapido, passando attraverso la barriera come se nulla fosse. Si
raggomitolò su sé stesso e mostrò le fauci brillanti all’atelos. Il notturno si
aspettava l’assalto da un momento all’altro, invece, improvvisamente, il
serpente si sfaldò, ritornando semplice acqua, che cadde a bagnare la terra. Il
notturno tuttavia né si rilassò né abbassò la guardia, sapeva benissimo che
l’artefice di tutto questo stava per uscire allo scoperto. L’inseguitore si
palesò senza frettapochi passi davanti
a lui.
L’acqua al suolo iniziò lentamente a raccogliersi, dando
forma a poco a poco a una nuda figura di natura umana, priva di lineamenti o
particolari. Il notturno stentò a credere ai suoi occhi. Non avrebbe mai pensato
che un Elementale dell’acqua gli stesse dando la caccia. Erano creature mitiche,
antiche quanto il mondo. Possedevano la forza e il vigore degli elementi, oltre
che la loro forma. Ma da secoli si erano estinte e le loro tracce persistevano
solamente in alcuni umani che discendevano dall’unione tra un Elementale e un
essere umano. Doveva trattarsi di uno degli Impuri: umani in tutto e per tutto,
ma alcune volte, non troppe per non compromettere il loro equilibrio fisico,
potevano assumere forma Elementale. Gli unici di cui si avesse notizia però
militavano tra i Dodici Cavalieri del Principe.
L’atelos avrebbe voluto urlare, sperando di non essersi
sbagliato, ma il Patto glielo impediva. Improvvisamente avvertì che la pioggia
che continuava a cadere era diventata più pesante e appuntita. Alcune gocce
addirittura gli ferivano il viso. Era l’Elementale. Poteva controllare tutta
l’acqua che la sua mente poteva immaginare e manovrarla a piacimento. E lui si
trovava immerso nel suo elemento.
Sentì due voci a destra e a sinistra. Due volti
femminili d’acqua gli stavano accanto, sospesi nel vuoto, vicino alle orecchie.
Il notturno non poteva saperlo, ma quello era il viso di
Shalia.
“Dammi il ragazzo, io desidero solo lui!” Gli
sussurrarono all’orecchio due voci atone.
Non prestò più attenzione a quei volti: la sua
attenzione era stata catturata da qualcosa che invece sfuggiva a Shalia. Dietro
di lei, una sottile scia di ghiaccio si faceva strada attraverso l’erba,
passando sotto la barriera d’acqua, avvicinandosi sempre di più. Distolse lo
sguardo: intorno a lui si erano formate dal nulla una dozzina di lance
acuminate, che brillavano di chiarore mortale, nonostante la scarsa
luce.
“Ti prego!” Sentì nuovamente il notturno stavolta in
tono impaziente e pressante.
Poi in un istante, tutto si dissolse. Il muro d’acqua,
le lance e i volti. La scia di ghiaccio, una volta raggiunto l’Elementale, lo
aveva congelato in un attimo, interrompendo i flussi del suo potere. L’autore di
quella magia si era già messo a correre a perdifiato verso l’atelos, urlando a
squarciagola: “Svelto, aziona il portale! Si libererà.”
Il notturno gettò la pietra in un punto preciso del
prato e non appena questa toccò terra, una colonna di luce si levò dal suolo,
illuminando a giorno la zona. Vi saltò dentro e mentre veniva avvolto
dall’intensa luminescenza, si voltò indietro. Adesso poté vedere chiaramente la
figura del suo salvatore: la veste semplice verde scuro, il cappuccio tirato sul
viso, nascosto dietro una maschera dalle fattezze animali di una volpe, non
lasciavano dubbi.
“Un druido!” Gridò, senza poter fare nient’altro che
vedere impotente come questi saltava all’interno della luce, travolgendo lui e
il ragazzo nel portale. Un istante dopo, dove si trovavano, due fruste d’acqua
si abbatterono, troppo tardi, nel vuoto. Shalia aveva
fallito.
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Per un brevissimo istante i tre rimasero sospesi nel
vuoto, circondati da un caleidoscopio di colori la cui luce feriva gli occhi. I
loro corpi si erano come spenti, sembrava quasi che tempo e spazio si fossero
annullati, solo i pensieri palpitavano ancora.Poi il tempo ricominciò a scorrere e
rotolarono bruscamente a terra. Sia il notturno che il druido erano rimasti
storditi e giacevano a terra, senza fiato. Quanto ad Anarion, giaceva immobile a
terra, ancora privo di sensi. “Chi sei?” Avrebbe voluto domandare rintronato il
notturno, mantenendosi la testa con la mano, come a voler calmare la confusione
che aveva in testa. “Mi dispiace, ma devo prendere il ragazzo!” Disse secco il
druido, alzandosi. Nello stesso istante una decina di lance si abbassarono
intorno a lui, circondandolo e impedendogli ogni gesto. “Non credo proprio,
maledetto…” Affermò un notturno dai capelli e gli occhi color cobalto,
puntandogli la punta della lancia alla gola. “L’Astro Nero avrà il piacere di
parlare con te per decidere del tuo destino.”
“E’ così che accogliete i vostri fratelli?” Chiese
ironico il druido.
Un lampo attraversò gli occhi dell’ atelos che lo aveva
minacciato, che gettando a terra la lancia e quasi buttando a terra il
prigioniero, gli tolse cappuccio e maschera.
Quando lo vide in faccia, lasciò cadere la maschera
dalla sorpresa. Il viso era deturpato da lunghe cicatrici sugli zigomi e
all’altezza degli occhi, ma i lineamenti erano ateloi, della razza notturna.
“Tu, traditore!” Urlò, più di qualcuno. “Come osi tornare dopo aver tradito la
tua patria e il tuo popolo?”
……………………….………………………………………………
Quando Anarion si risvegliò, rimase alcuni secondi
fermo, in silenzio. Il dolore che sentiva pervadergli ogni arto, ogni muscolo
era la conferma di essere ancora vivo. Non riusciva a crederci. Pensava di
essere affogato nel fiume e invece era lì, vivo. Sì, ma dove? Cercò di
alzarsi, ma dovette rinunciare, quando una fitta dolorosa lo percorse alla
schiena, facendolo ricadere sul freddo giaciglio dove si trovava. Girò la testa
a destra e sinistra per cercare di capire dove si trovasse: era solo in una
tenda oscura, sdraiato su un sottile materasso poggiato sul pavimento. Non
riusciva a capire come avesse fatto a ritrovarsi in quel posto. Il tenue fruscio
dellatenda lo avvertì che qualcuno
era entrato e si era inginocchiato accanto a lui. Il ragazzo si voltò per vedere
in viso chi fosse e incrociò gli occhi d’ossidiana di un notturno. Anche nella
penombra che gli ostacolava la vista, Anarion potè capire che era di elevato
lignaggio dalla bellezza dei lineamenti. Sul fisico slanciato, incurvato come
sotto il peso di un pesante fardello, vestiva una tunica nera, parecchio
sgualcita e rovinata e i lunghi capelli erano incorniciati da un diadema
d’argento che si intrecciava sulla fronte in una gemma di rosso
sfavillante.
“Chi sei?” Chiese stentatamente Anarion, senza riuscire
a sollevare il capo per fissare negli occhi l’altro. “E dove mi
trovo?”
Il notturno rimase inginocchiato, le mani in grembo, e
rispose con tono neutro.
“Sei stato portato qui da un notturno che ti ha trovato
ferito vicino alla riva dello Spaccaterre.” Si fermò un attimo, poi riprese,
come se essere lì gli costasse grande fatica. “Io sono Alcols e ti trovi in un
accampamento notturno.”
Mille pensieri gli attraversarono la mente a quelle
parole e soprattutto si accorse con preoccupazione di non potersi muovere
liberamente. I suoi movimenti erano come legati, intorpiditi. Fu Alcols a
riscuoterlo, sempre col suo tono pacato, quasi grave:
“Non devi preoccuparti, l’effetto della paralisi
scomparirà gradualmente. E’ un effetto collaterale dovuto all’incantesimo che ho
usato per curarti, purtroppo la magia rigeneratrice non mi
appartiene.”
Il ragazzo sospirò, si sentiva a disagio in quella
situazione. Il notturno sembrò leggere i suoi pensieri perché disse: “Parlerò
con te più tardi.” Disse semplicemente e senza cenno di congedo, uscì dalla
tenda, dove regnava ora il silenzio. Dopo alcuni minuti Anarion fu finalmente in
grado di muoversi e faticosamente riuscì a mettersi a
sedere.
Nella sua mente continuavano a susseguirsi domande senza
risposta: dov’erano Zacho e Serìa? Come aveva fatto a salvarsi da morte quasi
certa? Cosa ne sarebbe stato di lui? Il filo dei suoi pensieri fu spezzato dalla
voce di un atelos che gli era arrivato molto vicino senza che lui se ne fosse
accorto. Il notturno si presentò come Yonuel. Era un notturno dai capelli e gli
occhi d’oltremare. Gli diede dei vestiti di squisita fattura e gli restituì la
sua arma. Passò del tempo con lui senza che nessuno ponesse domande all’altro.
Solo alla fine, quando si apprestarono ad abbandonare il luogo, il ragazzo
chiese con esitazione. “Chi era l’atelos che si è occupato di
me?”
“Era Sire Alcols, l’ultimo Astro Nero del popolo
notturno.”
“Perché l’ultimo?”Domandò sorpreso d’improvviso il
ragazzo. “Perché il nostro oramai è un popolo senza re.”
…………………………………………………………………..
Anarion trascorse molto tempo in compagnia di
Yonuel.Era un notturno proveniente
dai territori meridionali, sul mare. Fissandolo negli occhi, si poteva scorgere
il riflesso purpureo dell’oceanoal
tramonto e il bagliore accecante del sole infranto sulla spuma, impressi nelle
sue iridi. Non era molto estroverso, ma come molti della sua razza lasciava
trasparire dalle sue parole una saggezza che ammaliava e
affascinava.
Camminarono a lungo nei sentieri pietrosi
dell’accampamento. Il tratto di bosco sul quale sorgeva era stato trasformato
dalla guerra in un borgo fortificato. Bassi muri di legno rinforzati con pietre
circondavano il luogo e piccole torri di guardia erano state costruite lungo il
perimetro delle mura. Oltre agli alloggi per i soldati, alcune tende erano usate
come armerie e infermerie. Molta dell’antica e florida bellezza derivata dalla
pace era stata sciupata e cancellata. Non mercanti o fanciulli si attardavano in
quella che sembrava un’ordinata città ma gruppi di soldati vestiti di corazze
cerulee e coppie isolate di notturni che tenevano appesi alle braccia drappi
neri. L’atmosfera era tagliente e intensa, sebbene fosse quasi mezzodì regnava
un silenzio innaturale interrotto solo da brevi folate di vento e dalle parole
sussurrate dai passanti. Era quello l’aspetto più viscido e meschino della
guerra. Un’influenza, un sordido cambiamento più temibile e pericoloso delle
schiere nemiche, che nessun muro poteva fermare e dal quale nessuna armatura o
scudo poteva difendere. Si fermarono in un piazzale deserto, su delle seggiole
abbandonate.
Rimasero alcuni secondi in silenzio, respirando i
profumi sospesi nell’aria, poi Yonuel parlò: “E’ circa un paio di mesi che
questa situazione si è venuta a creare. Carovane e accampamenti indistintamente
di notturni e albi sono state attaccati e sterminati.Ovunque le tracce sia di un attacco di
notturni che di albi: segni di armi di grossa fattura e frecce atelos e nella
pietra incisi epitaffi funebri per i caduti di entrambi gli eserciti.. Nemmeno
uno dei corpi degli aggressori è stato trovato. Da questo accadimento se ne sono
susseguiti moltissimi simili e nonostante i due popoli si siano uniti per
scongiurare questi eventi, non sono cessati.”
“E si sta giungendo alla guerra aperta?” Chiese il
ragazzo, interessato a quella storia dove c’erano molti, forse troppi elementi
indefiniti.
“Non siamo ancora in guerra.” Specificò . “Ma alcune
nostre spie, hanno scoperto che i nemici si stanno muovendo in questa zona e
stiamo cercando di circondarli.” Sospirò con
rassegnazione.
“Per dopodomani è fissata la riunione delle nostre
truppe.” Anarion rimase alcuni secondi in silenzio. Un’altra guerra. Gli
sembrava di ricordare di aver sentito Serìa parlare di come la situazione stesse
precipitando ovunque.
“La situazione è tragica proprio come immagini.”
Continuò il notturno “Senza un re il nostro popolo non può rischiare la guerra.”
“Me ne avevi accennato anche prima” Incalzò il ragazzo “Perché Alcols non è più
il vostro re?” Il notturno sospirò. “Accadde tutto con la caduta del Principe
degli Uomini. Quando Maruyl fu distrutta, rimasero coinvolti non solo il
precedente Astro, che morì, ma anche Alcols e sua moglie. Entrambi
sopravvissero, ma le ferite che riportarono furono tali che lei morì non lontano
da qui, tra le braccia del suo amato, che le rimase accanto fino alla fine e che
purtroppo per noi rifiuta di lasciarla anche ora.” Anarion si incuriosì “Cosa
intendi?”
“Che negli ultimi venti anni il Re non si è quasi mosso
dalla tomba della donna per la quale lui stesso l’ ha costruita, senza voler
adempiere ai propri doveri di reggente” Sospirò l’atelos. “Stranamente però ha
espresso il desiderio di parlare con te” Il notturno sorrise, speranzoso. “Forse
tu riuscirai a strapparlo ai rimpianti del suo passato.” Il ragazzo per un
momento rimase indeciso, gli sembrava che la sua meta, Fearin, si allontanasse
sempre di più. Si alzò ancora pieno di dubbi, poi il pensiero di incontrare quel
re solitario accese la sua curiosità e decise che, dopo tutto, il suo sogno
poteva ancora aspettare.
………………………………………………………………………
Uscirono dall’accampamento pochi minuti dopo, quando il
sole accennava a salire sulla sua traiettoria celeste. Scortati da nessun altro
che da due notturni silenziosi, si incamminarono su un appena accennato sentiero
tra gli alberi. “Chi sono quei due?” Sussurrò Anarion a Yonuel, accennando ai
due notturni che li seguivano a qualche passo di distanza. “Sono membri
dell’ordine dei Proscritti.” Yonuel accelerò quasi impercettibilmente il passo.
“Più a sud di qui, nella capitale, si trova il tempio del Fuoco Rivelatore. In
quel luogo è possibile conoscere, per chi desidera saperlo, il preciso momento
della propria morte, che il fuoco, che lì brucia, descrive a caratteri ardenti
sulle pareti del tempio. Tale conoscenza porta però con sé il fardello del
mutismo.” Anarion ascoltava meravigliato le parole del notturno, mentre
procedevano sempre più nel profondo della foresta e la luce andava sempre più
diminuendo.“In tal modo, abbiamo creato un ordine di assassini e guerrieri che
affrontano la battaglia senza alcuna paura, lottando dove lo scontro è più
disperato e sapendo già se ne usciranno vivi o morti.” Rallentarono il passo
fino a fermarsi, dove l’aria si era fatta più pesante e gli alberi così vicini
che pochissima luce riusciva a filtrare tra le chiome cupe. Il sentiero
continuava serpeggiando tra gli alberi, perdendosi tra curve buie, ma nessuno
dei notturni sembrava intenzionato a continuare. “Prosegui pure da solo, non
puoi smarrirti.” Il ragazzo non rispose, era ormai abituato a queste frasi
enigmatiche degli atelos. Diresse i propri passi verso il cammino di tenebra
davanti a sé e dopo pochi attimi si ritrovò avvolto
dall’oscurità.
“Phuà!” Il druido sputò un fiotto di sangue dalla bocca.
Era ferito a braccia, gambe e torace. L’avevano appeso tra due alberi con
pesanti catene di ferro. Ai suoi piedi avevano lasciato la maschera dalle
fattezze di volpe. Nonostante il sangue gli scorresse davanti al capo poteva
fissare nitidamente gli occhi del suo torturatore, con la stessa facilità con
cui poteva vedere i freddi strumenti di tortura vicino a lui che bramavano la
sua carne. E nonostante tutto, sul viso, tra vecchie e nuove cicatrici, spuntò
un sorriso beffardo. Il gesto non sfuggì al suo carnefice. Era il notturno che
gli aveva tolto per primo la maschera. “Perché ridi?” Sembrava che
l’atteggiamento del druido lo innervosisse. “Rido perché vedo l’anima nera dei
notturni, nera, così nera…” Un colpo di frusta lo raggiunse, facendolo
sobbalzare. “Rido di questa totale mancanza di evoluzione. In questi lunghi anni
siete vissuti all’ombra di divinità capricciose e dei loro campioni: gli uomini
comuni.”
Una seconda sferzata. “Io ho aperto gli occhi. Sono
entrato nei druidi, la mia anima è diventata tutt’ uno con il potere illimitato
della natura!”
Un terzo colpo lo stava per raggiungere, quando mutando
l’espressione in una maschera di rabbia, urlò: “Basta!” La frusta si frantumò
fino all’impugnatura, con fragore, gettando a terra il
notturno.
“Stupido. Credi che questi sigilli di contenimento
servano a fermare il potere che traggo dalla natura?” Sputò a terra. Radici
sbucarono dal terreno, strappando le catene del druido, che cadde a terra con un
tonfo. Il notturno lo fissò con un misto di rabbia e impotenza. Sapeva che era
inutile fermarlo, come chiamare le guardie. Il druido si rialzò, mettendosi la
maschera. E così, altero e coperto di ferite, rimase immobile finché poco a poco
la sua figura si sfaldò, come nebbia colorata.
…………………………………………………………………………………
Anarion iniziava a temere quel luogo, se così si poteva
chiamarlo. Sembrava che nulla esistesse fuorché il buio. Erano bastati pochi
passi per ritrovarsene completamente avvolto. Eppure camminava senza esitazione
alcuna, un passo dietro l’altro, come se fosse legato e sospinto dalla tenebra a
proseguire in quella direzione. Poi si fermò, gli sembrò quasi di aver perso
ogni volontà di proseguire, non riusciva più ad avanzare né a tornare. Rimase ad
aspettare: era sicuro, non sapeva come, che sarebbe successo qualcosa. Ma come
un sudario l’oscurità si fece più opprimente, fino a mozzargli il respiro e a
stringergli la mente in una morsa ferrea. Sembrava quasi che l’oscurità covasse
una volontà omicida terrificante contro di lui. Quando stava per disperare la
presa ebbe un fremito e poi svanì del tutto, finché anche l’ombra non sbiadì
fino a diventare sottile patina che ricopriva ogni cosa. Si trovava in una
piccola radura circondata da un muro impenetrabile di alberi che si chiudevano a
cupola sul luogo angusto, lasciando al centro un unico spiraglio, una balaustra
di rami dalla quale un sottile raggio di luce fendeva il buio. Al centro,
confondendosi con le ombre, stava la sagoma d’ebano dell’Astro Nero. Davanti a
lui un bastone dalle fattezze draconiche, che reggeva un globo opaco tra le
fauci, era conficcato nel terreno per metà. Anarion si avvicinò di qualche
passo, osservando attentamente quell’oggetto. Era ricoperto da un sottile strato
di polvere, come se non venisse toccato da tempo immemore. Ad un dente delle
fauci nere era appeso un ciondolo ovale, con incastonato al centro un opale
bianco che però appariva privo di qualunque splendore. Gli occhi del notturno
fissavano persi il ciondolo. Dalle iridi di pece non traspariva alcuna vitalità,
anche il corpo sembrava privo di qualsiasi vita, mentre sedeva immobile. Il
ragazzo si inginocchiò alla sinistra del notturno, silenzioso, fissando prima il
ciondolo, poi il re ed infine chiuse gli occhi. Si sentiva soffocare in quel
luogo angusto e pensava che trascorrervi troppo tempo potesse condurre alla pazzia. “Hai paura
del buio, Anarion?” Chiese Alcols, senza distogliere lo sguardo dal ciondolo.
“Ho paura di ciò che non posso vedere.” Anarion riaprì gli occhi. “Come fai a
conoscere il mio nome?” Il ragazzo non potè fare a meno di notare che al
contrario dell’Astro Bianco, il Re dei notturni non incuteva lo stesso rispetto.
Il suo aspetto misero e malinconico lo facevano sembrare lo spettro del grande
Re che sarebbe dovuto essere. “Perché ti stai recando a Fearin?” Il Reaveva ignorato completamente la domanda
del ragazzo. “Voglio scoprire qual è l’origine del mio potere.” Anarion fissava
il vuoto, sentendo un’ansia progressiva crescere in sé. “Davvero non lo
immagini?” Il notturno si girò verso il ragazzo e per la prima volta lo fissò
negli occhi. Il viso, al pari di quello di Ràidames, era marchiato da linee nere
lungo i lineamenti e intorno occhi. Anarion abbassò losguardo e gli sfuggì un singhiozzo, si
portò una mano a coprirsi gli occhi, ma non riuscì a trattenere le lacrime, che
gli rigarono il volto numerose. Quell’ atmosfera tranquilla, seppur cupa, aveva
contribuito a dare sfogo a quelle preoccupazioni e foschi pensieri che fino ad
allora aveva represso grazie al rapido susseguirsi degli eventi. “Ti pesa così
tanto riconoscere che Selonir è stato rinchiuso dentro di te?” Lo incalzò
Alcols. Il ragazzo pianse per qualche momento, senza riuscire a parlare, preda
di forti singhiozzi. “Non riesci ad accettare di essere la creazione di un dio,
mirata al dominio e alla tirannia.” Era incredibile, sembrava che l’atelos
conoscesse ogni suo pensiero e si stesse limitando a metterglieli di fronte con
terrificante limpidezza. Il notturno tornò a fissare il ciondolo con sguardo
lontano: “E più di ogni altra cosa non riesci a sopportare di essere stato e di
essere tutt’ ora la causa del dolore e della morte di innocenti.” Anarion
continuò a piangere, quelle parole dette con semplicità stupefacente non
facevano altro che accrescere una sofferenza e un’ ansia che fino ad allora era
riuscito a reprimere non pensandoci. “Ti sbagli, c’è dell’altro!” Ebbe la forza
di dire il ragazzo. “Quando capii la realtà, pensai la cosa più dolorosa ed era
inevitabile che la pensassi.” I’Astro Nero si voltò per la seconda volta, benché
il suo volto continuasse a non esprimere emozione alcuna. “Percepii con
esattezza che la mia esistenza era inutile, che non aveva senso.” “Continua”
Disse il Re. “Io sono un mostro dalla nascita. Il legame che mi lega a questo
mondo si fonda sull’odio e sull’assassinio.”
L’atelos sorrise tra sé e sé, pensando: “Quindi s’è ne
accorto…” Anarion continuò.“Allora
per quale motivo esisto e vivo? Ponendomi questa domanda non riuscii a trovarvi
risposta.” Il ragazzo digrignò i denti, arrabbiato. “Però per vivere ho bisogno
di una ragione,altrimenti
equivarrebbe a essere morto. E così ero giunto alla conclusione che esistevo per
scoprire le mie origini, ma una volta raggiunto il mio obbiettivo, non solo ho
sentito un grande vuoto dentro di me, ma mi sono sentito nuovamente morto e
continuo ad esserlo adesso.” Si asciugò le lacrime e poggiò le mani al suolo,
piantandole con forza nella terra. “Perché queste cosa è accaduta a me? Cosa
dovrebbe spingermi a vivere? Cosa darà ancora senso alla mia
esistenza?”
“Io ti capisco.” Disse toccando con debolezza il
ciondolo tenute tra le fauci del drago. “Conosco fin troppo bene la sofferenza
che comporta vivere una vita priva di sogni e di qualcuno che abbia bisogno di
te.” Il colore degli occhi del notturno sembrò stemperarsi in un ricordo ormai
perduto.
“Io vivevo amando mio padre e quando egli venne ucciso,
mia moglie…” Si fermò. “Ero felice.”
“Poi quando anche lei mi abbandonò” Si portò una mano
all’altezza del cuore. “ Lei che mi aveva salvato da un mondo di solitudine e
sofferenza, era divenuta per me molto importante. Desideravo esaudirne tutti i
desideri ed assaporare la vita con lei.”
Lasciò che la mano abbandonasse il petto e la appoggiò
sulle gambe.
“Ho capito che una persona può divenire forte solo
quando vuole difendere qualcosa di importante.” Si voltò nuovamente verso
Anarion. “Io non ho nulla che io ritenga valga la pena di difendere, quindi ho
perso quasi tutto il mio potere come Astro dei Notturni.”
Sorrise tristemente. “Ma tu…tu sei
diverso.”
“La tua vita ha ancora un senso preciso…Tu puoi ancora
combattere per ciò per cui vale la pena morire.” Anarion chiese, ancora il viso
rigato dalle lacrime.
“Per cosa dovrei ancora vivere? Perché non morire e
concludere questa maledizione adesso?
“Sii pronto a sacrificarti non per te stesso, ma per gli
altri. Per una vita in procinto di spegnersi per dissennata violenza, per una
familiare, per colei che amerai, per giovani vite, per un amico fidato o
ancora…”Il suo volto si intristì
“…per il popolo. Per tutte queste persone vale la pena rischiare la vita. La tua
forza e la tua vita saranno tese per proteggere le vite
innocenti.”
Anarion provò finalmente del conforto sentendo le parole
del notturno e capì con chiarezza la sincerità e la fiducia di cui erano
intrise. “Proteggili tutti, Anarion. Nell’esatto momento in cui senti che
unavita è sul punto di venir meno
riversa tutta la tua anima in sua difesa e combatti. Sarà allora che il potere
mortifero di Selonir si tramuterà nella pura luce che da te
sgorgherà.”
Aveva terminato, Anarion osservò per alcuni secondi la
figura del notturno, tornata nuovamente immobile. Non potè fare a meno di
provare pena per il notturno, che perse tutte le persone a lui care, aveva
deciso di passare probabilmente il resto della sua vita immortale a custodire il
sentimento amoroso che così saldamente l’aveva tenuto legato alla vita. Il
ragazzo si alzò, ancora stordito per la tempesta emotiva di sentimenti che
l’aveva travolto.
“Ti ringrazio per le tue parole. Solo oggi ho compreso
la semplice verità che finora il mio egoismo mi aveva celato. Penserò io a
difendere tutti , lo giuro.” Si voltò e con passo lento, ma privo di indecisione
si inoltrò negli alberi, restituendo Alcols alla sua
solitudine.
………………………………………………………………………………………………
“Non mi piace questa situazione.” Ràidamesuscì dal folto degli alberi, con il
bastone bianco dalle fattezze draconiche, fermandosi in piedi davanti al Saggio
Nero. “Cosa ne pensate del ragazzo, Alcols?”
Il notturno si alzò, fissando il Re auroreo negli occhi.
“ Selinor sta prendendo il sopravvento. Influenza chiunque venga a contatto con
l’Incarnazione e lo spinge ad attaccarlo. Prima, mentre stava venendo qui, ho
quasi rischiato di ucciderlo. Il potere di Selinor mi ha sorpreso.” Concluse con
sguardo serio.
“Cosa suggerite?” Ràidames lo guardò con sguardo
indagatore.
Il notturno si risedette. “Non ti suggerisco nulla. Il
mio posto è questo, non mi interessa nulla di ciò che accade all’esterno.”
“Come fate a dire una cosa simile?” L’auroreo si era
infuriato alle ultime parole dell’Astro Nero. “Non potete continuare a rimanere
di guardia a questa tomba, siete uno stolto!” Ansimò come colto da un improvviso
malore “Che ne sarà del sogno di pace dei nostri padri?” Ràidames tremò.
Tuttavia la pressione della magia di Alcols non mutò. L’oscurità intorno al
Saggio Bianco si infittì ed egli stesso sentì una stretta stringersi sul suo
corpo. “Non infastidirmi.” Rispose, secco. “Sei ancora giovane e inesperto.”
Continuò, freddamente. “Il mio sogno non è nel futuro, ma nel passato.” L’Astro
Bianco trovava sempre più difficoltà nel parlare, ma non si arrese,
appoggiandosi al bastone. “Come potete aver curato l’anima del ragazzo se la
vostra è ferita in modo insanabile?” Il notturno rimase in silenzio, ma la presa
sull’auroreo non si allentò. “Credete che non sia in grado di capire? Ed invece
vedo benissimo l’illusione che avete costruito intorno a voi” Alzò il bastone e
la luce bianca che ne scaturìinvase per un momento la radura e quando dopo un attimo scomparve, una
nuova figura si era palesata nel luogo. Era una donna di fiori rosa, di
straordinaria bellezza, i cui capelli lunghi, petali rosso sangue, erano lunghi
quasi quanto lei stessa. Eppure ogni espressione di vita era scomparsa dal viso
grazioso e splendente, che stava quasi immobile appoggiato a quello rapito di
Alcols. “Cos’è, vi vergognate a mostrare la vostra debolezza agli altri?” Un
grido di dolore sfuggì a Ràidames. “Non ti servirà a nulla eliminarmi. Sai che
ciò che dico è vero!” Respirando a fatica l’auroreo insistette “Come potete aver
dimenticato l’ideale che vi univa, per il quale lei ha dato la vita!” Una risata
cristallina, senza allegria, interruppe l’accorato appello di Ràidames. Alcols
scattò in piedi e cingendogli le ginocchia con le braccia rosee la donna rimase
immobile. Un atelos, un notturno, si fece avanti nella radura, entrando
nell’esile zona illuminata, applaudendo sarcasticamente. “Davvero un amore che
trascende il tempo, giovane notturno.” L’atelos era a petto nudo e portava
legati a tracolla un arco lungo e una faretra colma di frecce, mentre dalla vita
gli pendeva una lunga spada ricurva, dal metallo nero. Alcols fremette per la
rabbia e fendenti neri iniziarono a vorticare intorno alla figura dell’intruso,
mentre le tenebre abbandonarono Ràidames, che rimase a stento in piedi,
guardando con preoccupazione lo strano notturno. Era insolitamente alto e
portava i capelli lunghi fino alle ginocchia: l’aspetto rude e selvaggio
ricordava ai due Astri quello di un cacciatore. Un suo gesto seccato della mano
disperse i lembi vorticosi che gli giravano intorno. “Perché tutta questa
rabbia?” Chiese sorridendo “Sono venuto a proporti un patto in cambio della tua
neutralità.”
L’Astro Bianco digrignò i denti dietro di loro “Figlio
di Potere, abbandona questo luogo, prima che…” Tum.Ràidames cadde al suolo con un tonfo e
il suo bastone rotolò sull’erba urtando quello d’ebano di Alcols. Su di lui
torreggiava la figura alta e robusta di un albo armato pesantemente. Quasi
completamente ricoperto da un’armatura d’acciaio, brandiva due spade e da una
delle due colava il sangue del Saggio Bianco. Ràidames era rimasto a mala pena
cosciente e quando cercò, strisciando, di afferrare il proprio bastone, l’albo
gli bloccò la mano pestandogliela con un piede.Tuttavia Alcols non sembrava
intenzionato ad aiutarlo.
“Riporterò in vita tua moglie con il mio potere.” Disse
Reinor, il notturno figlio di Selonir. L’Astro Nero spalancò gli occhi, poi
fissò il fantasma dell’amata da lui creato. Gli prese il viso tra le mani,
sussurrando: “Di nuovo uniti, di nuovo insieme.” Intanto Ràidames aveva perso la
pazienza. Non avrebbe voluto combattere in quel luogo, ma non aveva scelta.
Facendo appello alla magia ereditata da suo padre, evocò un getto di crepitante
energia che scaturito dalla sua mano libera investì l’albo, scaraventandolo nel
folto degli alberi. Poi afferrò il proprio bastone, ma prima che potesse
richiamarne il potere, una freccia gli trapassò il braccio destro, facendogli
cadere l’oggetto di mano. Reinor aveva messo mano all’arco e aveva colpito con
mortale precisione l’Astro Bianco proprio all’altezza del gomito, impedendogli
ogni ulteriore uso del braccio. Ràidames cadde a terra, impietrito dal dolore.
“In cosa dovrei essere neutrale?” Alcols era indifferente ad ogni evento “Io e
mio fratello Sular abbiamo intenzione di ingaggiare battaglia con i nostri
rispettivi popoli, stiamo radunando un’armata demoniaca e fra breve passeremo
all’attacco. Vogliamo verificare quale sia il migliore in battaglia.” “Proprio
così.” Confermò l’albo, entrando nuovamente nella radura, senza aver riportato
alcun danno dall’attacco dell’Auroreo. Il Re notturno non proferì verbo, ma
dall’espressione allucinata, l’auroreo non ebbe dubbi che avrebbe accettato.
Tuttavia entrambi gli Astri si erano dimenticati dei legami che li vincolavano
ai loro doveri. Ci furono secondi di terrificante silenzio, durante i quali ogni
sguardo era posato sulla figura tremante di Alcols. Questi poi versò un’unica
lacrima dagli occhi, quasi il suo cuore piangesse per le sue stesse azioni.
Nello stesso istante in cui Alcols sussurrò “Accetto” tenendo il viso della
propria amata tra le mani, la ninfa fiorita iniziò a disperdersi, quasi una
folata di vento improvvisa l’avesse portata via. Persino i due Figli di Potere
rimasero stupiti, solo Ràidames sembrava essersi avvicinato a comprendere la
verità e ne ebbe la conferma pochi istanti dopo. Il notturno, disorientato da
quell’evento, afferrò il proprio bastone, estraendolo dal terreno e il ciondolo
cadde per terra, dimenticato. In pochi attimi il bastone draconico iniziò a
sbriciolarsi in polvere sotto gli occhi atterriti del Re notturno. Il globo
opaco si infranse in mille frammenti, che svanirono immediatamente in cenere.
Alcols cadde sulle ginocchia intontito proprio davanti alla figura tremante di
Ràidames. “Hai perso i tuoi poteri.” Mormorò con voce vibrante l’Astro Bianco
“Accettando lo sterminio del tuo popolo, hai abiurato al tuo ruolo di Sire. Hai
tradito i tuoi ideali!”Ansimò “Gli stessi per i quali Erenil è morta!” Quel
nome, pronunciato con tanta veemenza sembrò riportare la vita negli occhi del re
decaduto, che si inumidirono subito di amare lacrime. Contemporaneamente
l’oscurità nella radura iniziò a infittirsi, facendo sparire alla vista i due
Figli di Potere.
“Solo per una volta avrei voluto poterla guardare,
poterla toccare. Il suo solo ricordo mi inumidisce gli occhi.” Singhiozzò e
finalmente rivide il ciondolo e lo afferrò con delicatezza, stringendolo nel
pugno. “E finalmente mi sono reso conto della mia totale stupidità.” Le lacrime
iniziarono a rigargli il volto “Mi ero dimenticato che un fiore appassito non
rifiorisce più e che sia i mortali che le stelle posseggono una sola vita” Si
rialzò in piedi. Stringendogli la mano, aiutò Ràidames a rialzarsi. “Ho
sbagliato e devo rimediare ai miei errori.” Intorno a loro sentirono nuovamente
i passi delle due divinità. “Raggiungi Anarion e aiutalo, non difenderlo. I
druidi gli danno la caccia.” I’Astro Bianco raccolse piegandosi con fatica il
proprio bastone. “Permettimi di rimanere, se combatti da solo morirai.” Alcols
sorrise. “Io non sono solo.” E il ciondolo tenuto nel pugno, fino ad allora
opaco, rifulse talmente intensamente da lacerare in parte l’oscurità del luogo.
“Ora vai, e perdonami se puoi.” Sorrise tristemente. Ràidames si allontanò a
passo zoppicante, appoggiandosi sul bastone e ad ogni passo piangeva, perché
aveva capito il senso del sacrificio che Alcols si apprestava a compiere. “Sei
il degno figlio di tuo padre, dimostra la sua stessa forza nel combattere per
entrambi i nostri Reami d’ora in poi.” L’Astro Bianco si fermò un attimo e senza
voltarsi disse: “Mi renderò degno anche di Sire Alcols, ultimo e nobile erede
dei Re notturni.” Dettò ciò sparì nella boscaglia, lasciando dietro di sé la
figura tremante di Alcols. Il notturno aprì il palmodella mano con il ciondolo davanti a sé
e mormorò “Grazie”. Il ciondolo esplose in lampo di bagliori dorati e tutto fu
avvolto da vivida luce.
La luce sprigionata dal ciondolo si trasformò in breve
in polvere luminosa che lentamente cadde al suolo. Alcols strinse il pugno che
prima manteneva il ciondolo e intorno a lui lembi di oscurità iniziarono a
vorticare talmente velocemente che per alcuni secondi la sua figura ne fu
totalmente celata. Fu in quel momento che le due divinità riapparsero nella
radura, le armi in pugno. “Nascondeva dunque un tale potere?”Chiese Sular sorpreso. “Esatto” Mormorò
Reinor “E’ l’Elementale dell’Oscurità.”
La creatura che si mostrò ai divini occhi non era più
Alcols, ma un essere che sembrava trascendere la comune comprensione mortale.
Una sagoma di pulsante tenebra che sembrava contenere in sé l’essenza stessa
dell’universo si stagliava immobile al centro della radura, lo sguardo fisso nel
vuoto, in attesa. Non si riusciva a distinguerne né i contorni, né a fissarne il
volto o reggerne lo sguardo perché gli occhi potevano perdersi nel vuoto infinto
di cui l’Elementale era l’emanazione. Le due divinità si sentivano schiacciare
sia sulla pelle che nel cuore. Sembrava che ciò che era diventato Alcols fosse
in grado di controllare il buio non solo nella natura, ma anche la tenebra
dell’anima di ogni essere vivente. L’Elementale ebbe un lieve fremito e
l’oscurità intorno a lui tremò. Una luce accecante esplose proprio davanti a
lui, tanto che solo la sua sagoma oscura rimase nitida nel bagliore scaturito
dalle ultime scintille del ciondolo. La luce diminuì, ma rimase tanto forte che
sembrava contrastare, anzi equivalere e rimanere in armonia con l’oscurità
precedente. Sforzandosi, in quello spettacolo del tutto innaturale per i
mortali, le due divinità riuscirono ad intravedere una figura nell’accecante
luminosità, fatta della sua stessa sostanza. L’Elementale della Luce era
l’opposto di quello dell’Oscurità, eppure erano indissolubilmente legati l’uno
all’altro. I suoi contorni erano sfuggenti, sembravano espandersi e variare
continuamente, come pura essenza vitale mutevole e cangiante. Le unica cose
definite erano il volto, bellissimo, che sembrava brillare di uno splendore
ancora più intenso di quello di cui era circonfuso e la chioma dorata, simile a
una cascata di stelle in un cielo diurno. Giorno e Notte, luce e buio erano di
nuovo congiunti e uniti e i loro Elementali di nuovo insieme, uno davanti a
l’altro. “Erenil” Alcols mormorò tenuemente quel nome e una lacrima gli scese
sul viso, una stella cadente dell’universo che dal suo viso si intravedeva.
Erenil alzò una mano a sfiorare il viso dell’amato e al contatto le due forze
generano un bagliore di scintille cristalline. Le due divinità assistevano del
tutto inermi a quello spettacolo, incapaci di muoversi o reagire contro forze
tanto colossali. Alcols si avvicinò all’amata, cingendole la vita con le braccia
ed Erenil si abbandonò all’abbraccio dell’amato, appoggiandogli le mani sul
petto. Due mondi si fusero e luce e tenebra presero a vorticare sempre più
veloci intorno ai loro detentori, fondendosi in scintille abbaglianti che tutto
nascondevano eccetto i volti dei due amanti. “Di nuovo insieme” Sussurrò la
donna alle labbra del notturno. Alcols chiuse gli occhi, felice “Stavolta per
sempre…” I due amanti si congiunsero nel bacio colmo di passione, divisi dalla
morte e riuniti dall’amore, e sparirono insieme alla vista, circondati dalle
energie da loro stessi evocate a difendere il mondo che li aveva uniti. Per un
momento tutto si fermò, il silenzio fu assoluto e Reinor intuì ciò che stava per
accadere, ma non ebbe il tempo di scappare. L’esplosione di scintilla vitale che
seguì travolse ogni cosa, privandola della vita e disperdendola in particelle di
luce e tenebra finché dopo il rombo di potenza non tornò il silenzio e la pace
nella radura. Nulla era rimasto tranne il soffice manto erboso e il bastone di
Alcols. Il legno d’ebano era nuovamente conficcato nel terreno e dalle sua fauci
pendeva di nuovo il ciondolo di Erenil. Nelle profondità insondabili della
magia, avrebbero sorvegliato l’inizio e la fine di ogni vita, insieme all’anima
dei due innamorati.
Alcune ore più tardi, quando calò la sera, un lieve
vento iniziò a soffiare sulla radura deserta e una figura alata atterrò
silenziosa sul luogo. Nascosta completamente da un manto bianco, nulla lasciava
trasparire sotto le vesti nivee. Rimase a lungo in silenzio, mentre il vento
agitava le piume candide delle sue ali. La voce morbida e delicata suonò
malinconica, parlando all’aria: “Quando innumerevoli vite sono perdute e la
battaglia è finita, posso percepire nel vento le anime addormentate in questa
terra, dopo aver consumato la mia, e quelle di chiunque sia entrato nella
leggenda.” Sospirò lievemente. “Continueremo insieme a vivere nel vento.”
………………………………………………………………………………
Il grido lacerante di Yonuel squarciò il silenzio
tenebroso delle foreste atelee. Il sangue scorreva a fiotti dalle ferite causate
dalle antiche maledizioni invocate dal druido, mescolandosi alla terra bruciata
in pochi istanti dai fulmini evocati tramite la sua magia. I corpi straziati dei
Proscritti giacevano al suolo, privi di vita e lo stesso Yonuel avvertiva il suo
spirito abbandonare le membra attraverso le ferite. Cercando disperatamente di
rimanere cosciente il notturno riusciva a malapenaa distinguere la figura immobile del
druido.
“Che desolazione!” Il traditore rise sarcastico
“Meritate davvero l’estinzione.”
Compì alcuni passi verso Yonuel che, steso a terra,
cercava invano di rialzarsi. “Sai cosa mi irrita maggiormente di voi? Questa
totale e assoluta mancanza di evoluzione.” Si chinò sulle ginocchia, alzando con
una mano il viso del notturno in modo che i loro sguardi si
incrociassero.
“Potreste dominare, ergervi al di sopra delle altre
razze e avere il controllo sulla vitae la morte degli esseri viventi.” Sputò a terra “ E invece vivete
rilegati in queste misere lande, tenendo fede alla vostra tradizione di semplici
osservatori.” Sorrise, maligno. “Basterà la mia forza a spazzare via ben più
della razza notturna.” Yonuel alzò il braccio destro, come a voler fermare quel
delirio, ma la mano gli cadde priva di forza sull’erba, mentre lui scivolava
nell’incoscienza.
L’ultima cosa che vide fu, oltre la figura china del
druido, la sagoma ormai familiare di Anarion sbucare dal fitto degli alberi,
avvolto da una pallida luce. Poi il buio.
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Anarion aveva immediatamente avvertito un pericolo
incombente nel medesimo istante in cui avevaabbandonato la
prateria di Alcols. Eppure non riusciva a capire se tale pericolo venisse dietro
dilui o lo
aspettasse fuori dalla foresta. I suoi sensi erano ancora alterati dai
sentimenti che la conversazione con l’Astro Nero aveva suscitato in lui. Eppure
dopo la presa di coscienza della sua situazione, con la consapevolezza aumentava
anche la facilità con cui riusciva a richiamare il potere di cui Selonir lo
dotava. Già allora, man mano che sentiva il pericolo incombere, la magia di
Potere si sprigionava in luce dal suo corpo, pronta ad essere usata al primo
accenno di pericolo. A ogni passo vedeva la luce farsi più forte, fino a quando
fu finalmente fuori dall’intrico di alberi e oscurità. Eppure gli bastò
un’occhiata per capire che i problemi di quella giornata errano ancora ben
lontani dalla loro conclusione. Davanti ai suoi occhi, in un lago di sangue
giacevano Yonuel e i due Proscritti e il loro carnefice lo fissava immobile, con
una maschera che gli copriva il viso. Altro sangue era stato versato per lui,
per proteggerlo. Non riuscì a fare a mano di odiarsi in quel momento. Riuscì a
stento a controllare l’energia che spingeva per prorompere dal suo corpo. Non
doveva lasciarsi manovrare come un burattino dai suoi poteri, ma agire come
essere umano consapevole, si ripeté. Si diresse verso il druido e questi disse:
“Finalmente ti vedo Incarnazione, l’attesa dei Druidi durata venti anni è
finalmente terminata.” Ma Anarion lo ignorò completamente, passandogli accanto
senza nemmeno degnarlo di uno sguardo, con stupore e rabbia del druido. Il
ragazzo si inginocchiò al fianco del morente Yonuel. Non aveva mai provato a
usare la magia per scopi curativi, ma forse poteva ancora salvarlo. Concentrò la
sua magia sulle punta delle dita, avvolte da una chiara luminescenza, ma non
riuscì a sfiorare il corpo dell’auroreo. Un aculeo di roccia emerso dal terreno
cercò di trafiggerlo al petto e solo gettandosi di lato riuscì ad
evitarlo.
“Dove credi di essere?” Urlò il druido “Sei sul campo di
battaglia e hai un nemico davanti a te!
Se ti distrai morirai, stanne certo.” Gli occhi di
Anarion, spazientito da quelle parole arroganti, arsero d’improvviso come braci.
“Se davvero desideri che ti mostri la via verso l’oltretomba sarai
accontentato.” Si rialzò d’improvviso e un lampo bianco scaturì dalla sua figura
dirigendosi contro il notturno. Lame di roccia spuntante dal suolo si frapposero
tra il druido e la magia di Anarion, disperdendola. In un attimo poi una
violenta corrente d’aria foggiata a mo di lancia colpì in pienopetto il
ragazzo, che sputando un fiotto di sangue dalla bocca, venne scaraventato contro
un albero, cadendo poi al suolo. Più che al dolore Anarion non riusciva a fare a
meno di pensare quanto fosse potente il suoavversario. “Ora che l’hai provato sulla
tua pelle, riesci a comprendere?”
Disse il Druido con voce atona. “La tua forza non può
ancora nulla su di me.” Iniziò ad avvicinarsi al ragazzo a passo lento.
“Tuttavia l’energia di divina origine che in te alberga ti ha permesso di
resistere al mio attacco senza morire.” Lo fissò con sguardo quasi eccitato. “In
te è imprigionato un dio… Uno dei più potenti: Selonir. Ma se il suo potere è
detenuto da un essere indegno quale tu sei, non è altro che un’inutile zavorra.”
Pestò il viso del ragazzo con un piede.
“Quando ti rechi sul campo di battaglia non dimenticare
di preparare adeguate protezioni.” Fece più forza con il piede, sentendo che il
ragazzo cercava di liberarsi. “Per di più non ti sei accertato della mia forza
prima di affrontarmi e mi hai attaccato frontalmente senza alcuna strategia.”
Un’altra saetta fluì dalle braccia del ragazzo, ma con un salto all’indietro il
druido schivò il potente ma goffo attacco. “Il mio potere mi consente il
completo dominio dei fenomeni della natura.” Anarion riuscìa stento a rialzarsi, ascoltando
incredulo le parole del notturno. “Ciò che rende la natura imprevedibile per
l’uomo è il fatto che essa distribuisce i maniera del tutto casuale vita e morte
agli uomini.” Nuvole nere iniziarono a raccogliersi su si loro, mentre un rombo
indefinito e lontano sembrava provenire dal sottosuolo con crescente forza.
“Io invece posso volgere in una manifestazione
esclusivamente mortifera qualunque fenomeno naturale.”Sospirò a fondò, mentre le sue braccia
fendevano l’aria e le sue mani disegnavano i contorni delle costellazioni
nell’aria.
“Volgo in morte la pioggia, una veste ghiacciata che
tutto trapassa e trasformo le vene della terra che serpeggiano nelle sue
profondità in una morte di nuda pietra che riduce ogni cosa in cenere.” Decine
di lame di nuda roccia taglienti come lame sorsero dal terreno dirigendosi sul
ragazzo come dotate di volontà propria. L’energia di Anarion riuscì a malapena a
salvargli la vita, ma non poté evitare di rimanere imprigionato e pesantemente
ferito. “Dispera, mortale!”
Stille di pioggia nere e velocissime iniziarono a cadere
dal cielo trafiggendo le membra di Anarion. La malvagità a guisa di pioggia nera
trafisse il ragazzo fino nello spirito come una lancia acuminata, una lama che
risucchiava la vita. Eppure con il dolore che cresceva e avvertendo la morte
alitargli sul collo, Anarion avvertiva sempre più forte qualcosa farsi largo
nella sua coscienza, una forza che lottava per uscireallo scoperto e distruggere il sigillo
che la bloccava. Non riusciva a capire cosa fosse, né a controllarlo, qualcosa
dentro di lui glielo impediva.. Il ragazzo non riusciva in alcun modo a
difendersi, era travolto da forze così spaventose quali non aveva mai
sperimentato. Nemmeno l’energia di Selonir valeva a disperdere l’inferno che lo
circondava. Più volte provò a far esplodere la sua energia, ma non era valsa a
fermare cheper pochi secondi gli
attacchi del notturno. Quando ormai era convinto che fosse finita, ogni cosa si
placò e lui rimaseimmobile, ormai
privo di forze, trafitto e immobilizzato tra le rocce. Il sangue sgorgava a
fiotti dalle sue ferite, bagnando la pietre e scendendo a rigagnoli fino a
bagnare il suolo. D’improvviso le rocce si ritirarono e lui cadderiverso sul suolo, come un fantoccio.
Riusciva a malapenaa distinguere
la figura del Druido. Egli non lo fissava più, anzi adesso aveva lo sguardo
fisso verso la foresta dove risiedeva Alcols, sembrava preoccupato per qualcosa,
come se cercasse di capire cosa stesse succedendo lontano da lì. Improvvisamente
una fortissima esplosione squarciò l’aria, l’aria fremette e un rombo violento
scosse ogni cosa. Una colonna di luce ed ombra strettamente intrecciate si
sollevò dalla foresta, perforò il cielo e squarciò l’oscurità che avvolgeva il
luogo come un sudario. Ogni angolo e anfratto della foresta fu investito da un
bagliore accecante e in pochi istanti tutto si dissolse in una cortina dorata
che sfumò ogni dettaglio in particelle di luce.
…………………………………………………………………………………………………
Sovrastando la confusione e il dolore che permeavano i
suoi sensi, Anarion sentì una voce parlarglicome sussurrata alle orecchie.
“Cosa stai facendo?” Gli domandò con tono di rimprovero. “Non avevi forse
promesso ad Alcols di combattere? Hai già dimenticato che Ràikas e Alreyd si
sono spenti affidando le loro speranze a te?” Il ragazzo rispose, come cercando
di scusarsi.
“Ma il notturno è troppo forte, troppo.” Chiuse gli
occhi disperato “Non c’è più niente che mi sostenga.” La voce si fece
comprensiva. “Non temere”. Gli sembrava di averla già udita in passato, ma non
faceva parte dei suoi ricordi.Si
sentì afferrare e sollevare delicatamente, sospeso a mezz’aria. Si voltò. Un
essere ammantato completamente di bianco e dalle eburnee ali piumate lo
sorreggeva. Ebbe un sussulto. Il viso nascosto sotto il cappuccio era quello di
Alcols. Anzi no, era più maturo e negli occhi di questo erano impressi una
serenità e una regalità che l’Astro Nero non possedeva. “Saranno i cuori di
coloro che credono in te a darti la forza di avanzare.”
“Ma anche se mi rialzassi, il suo potere è comunque
troppo superiore.”
L’alato sorrise. “Alzati e vai avanti, chi ti sosterrà è
già al tuo fianco.”
Riaprì gli occhi, in piedi, saldo e fermo nonostante le
ferite. L’esplosione si era placata, ma l’
aria ancora fremeva. Il druido adesso lo fronteggiava
nuovamente, ma stavolta Anarion non erasolo. La figura torreggiante di Ràidames si stagliava al suo fianco e la
sua pelle era avvolta da un niveo bagliore. Il braccio destro era nascosto sotto
il mantello, mentre la sinistra stringeva il bastone draconico, sfolgorante di
energia. I segni del viso erano più luminosi che mai e il candore degli occhi
totale; pareva che i lineamenti scomparissero nella luce che li avvolgeva.
Sorrise alla vistadell’amico
ritrovato: sì, oramai lo considerava un amico, forse era stupido a pensarla
cosìe forse era anche l’unico dei
due a farlo, ma il suo legame con l’auroreo era la cosa che conosceva che più si
avvicinasse all’amicizia. L’Elementale alla sua sinistra per un attimo lo lasciò
allibito. Non era riuscito immediatamente a notare la forma vagamente umana che
le fiamme disegnavano. Era una donna composta di fuoco crepitante, che bruciava
senza consumare nulla o diminuire d’intensità la sua violenza. Anzi pareva che
poco a poco il volume delle fiamme aumentasse. Dovette fissarne il viso per
parecchio tempo prima di riconoscerla: era Serìa. Emanava un calore
sorprendente, quasi opprimente, come una fiamma che si agita per bruciare ogni
alito di vita. I lineamenti bianchi, unica cosa ferma nel volto continuamente in
movimento, esprimevano una gioia sadica, una trepidazione a stento trattenuta.
Girò debolmente il viso indietro, con la vista leggermente opaca per il sangue
che colava dalle ferite, sugli occhi. Il viso mite di Zacho incontrò ilsuo e per un momento Anarion si scoprì
rassicurato, la presenza di quel uomo che stava divenendo per lui qualcosa di
più di un compagno d’armi lo rassicurava. I suoi occhi scivolarono poi sulla
figura accanto a quella del guerriero. Era una donna dalla dolcissima bellezza.
I lineamenti candidi e il chiarore niveo della gote erano incorniciati da una
bruna chioma di corti capelli, tenuti sciolti. Gli occhi della misteriosa donna
irradiavano una tranquillità che scioglieva ogni preoccupazione. Quando gli
sorrise, Anarion arrossì, sorpreso: sembrava che ogni suo dolore e rammarico
fossero stati mondati dalla tenera grazia della donna. Il rombo della terra
sotto i suoi piedi ruppe ilfragile
incanto che si era venuto a creare in quel teatro di morte. Si girò di scatto e
ogni tranquillità era sparita dal suo viso, divenuto una maschera di astio e
rancore. Il druido era ancora lì immobile, con il viso celato ancora dai fittizi
lineamenti animali della sua maschera. Sembrava non curarsi del fatto di essere
rimasto solo contro una simile compagnia.
“Fatti da parte, ragazzo.” Le fiamme di Serìa
crepitarono queste parole. “E’ evidente che si tratta di un avversario al di là
delle tue forze.” E con tracotanza fece un passo avanti, bruciando l’erba sulla
quale il suo piede avanzò. Ma una mano la fermò, trattenendola per il braccio.
Si girò furiosa e sorpresa: chiunque veniva divorato dalle fiamme prima ancora
di poterla sfiorare. Eppure la mano di Anarion non ricevette ingiuria alcuna
dalle fiamme rabbiose della donna. “Mi dispiace, Serìa” disse pacato, ma
perentorio. “Quel notturno mi deve pagare diversi debiti e devo farmeli
restituire adesso e per intero, quindi non intrometterti.” La donna cercò di
divincolarsi con un gesto di stizza, ma il ragazzo non allentò la morsa.
Sembrava che dalla sua figura mite si stagliasse un ombra scura e tetra che
irradiava una tale oscurità e un tale potere da annichilare ogni volontà di
contrastarlo.
Serìa si arrese e quando Anarion la lasciò andare
arretrò di un paio di passi, visibilmente corrucciata, senza proferire verbo.
Zacho sorrise, compiaciuto:il
ragazzino immaturo, continuamente dominato dalle sue emozioni e preoccupazioni,
quasi da esserne schiavo, in pochi giorni aveva acquisito una tale sicurezza da
maturare fino a quel punto, sia come guerriero che come uomo. Tuttavia Ràidames
non pareva convinto e si avvicinò al ragazzo, rimanendogli appena dietro le
spalle, limitandosi a parlargli, a bassa voce. “Cerca di non esagerare,
Anarion.” Il tono delle sue parole era sinceramente preoccupato. “Se abuserai
incautamente del potere di Selonir, i legami che lo tengono prigioniero dentro
di te si allenterebbero fino a liberarlo e allora avrebbe il pieno controllo su
di te.” Il ragazzo sentì un brivido percorrergli la schiena. “Devi essere tu a
controllare l’energia che in te alberga e non viceversa; devi agire come essere
umano consapevole e non come un burattino.” Il ragazzo ebbe l’impressione di
aver già sentito quelle parole, gli ricordavano quelle di Alcols. Il solo
pensiero del notturno, della consapevolezza che esisteva qualcun altro che aveva
patito la sua stessa sofferenza, lo fece sentire sollevato. Non era più solo:
adesso era circondato da persone che avevano fiducia in lui e volevano
proteggerlo. Ma sarebbe stato lui a proteggerli tutti. Non avrebbe più permesso
che nessuno morisse per l’assurda brama di potere del mostro imprigionato dentro
di lui. A costo di perire lui stesso.
L’energia premeva con violenza sotto la pelle, quasi
volesse squarciarla per uscire all’esterno. Eppure non aveva paura né provava
dolore, anzi, intuiva distintamente che liberare tutto quel potere non avrebbe
avuto nessuna ripercussione su di lui, anzi l’avrebbe aiutato. Aiutato a
distruggere il druido, il nemico che gli si opponeva ancora con sfrontata
caparbietà, nonostante solo contro molti suoi pari. Ancora adesso sembrava quasi
che la maschera con la quale il notturno si nascondeva il volto gli ridesse
malvagia, lo deridesse per l’impotenza appena dimostratagli nell’opporsi ai suoi
poteri.
“Persisti nella tua resistenza?” Sibilò, maligno. “Per
quante volte tu possa rialzarti, io continuerò ad atterrarti.” Alzò la mano
destra,col palmo aperto,puntando
le dita affusolate verso il ragazzo.
“A vermi del tuo stampo non è dato di superarmi.” E
scomparve. In pochi istanti la sua immagine si riempì di crepe e si frantumò in
mille cocci multicolori, che scomparvero quasi immediatamente in polvere.
Anarion sapeva che il druido era ancora lì, ora invisibile, e si stava
preparando ad attaccare. Anarion notò con soddisfazione che il notturno era
diventato più cauto nel suo agire, forse spaventato dal numero dei nemici o
dalla nuova risoluzione del ragazzo. Un pensiero gli attraversò la mente, una
rapida intuizione che avrebbe salvato la sua vita e quella degli altri. Iniziò a
far fluire la magia che gli restava nel suolo, attraverso i piedi e un tenue
bagliore si sprigionò, disperdendosi rapido nei fili d’erba tutto intorno. Ora
bisognava solo aspettare. Gli altri erano tutti immobili, nessuno si muoveva,
erano tutti ugualmente tesi nel cogliere possibili movimenti del nemico
invisibile. Solo la ragazza, Shalia, pareva indifferente a tutto, staccata
leggermente dagli altri, concentrata unicamente nel tentativo di strappare alla
morte Yonuel. Il notturno era incredibilmente ancora vivo, tuttavia versava in
condizioni terribili. Ustionato terribilmente e con uno squarcio all’altezza
della spalle destra, aveva gli occhi vitrei fissi verso il cielo. Eppure Shalia
pose con speranza le mani su di lui e lentamente rivoli d’acqua argentei
fluirono dalle sue dita, bagnando il corpo martoriato del notturno, alleviando
le bruciature e ricucendo i tagli man mano che i fili argentei vi scorrevano
sopra. L’acqua, pura e vitale, lavava via la morte dal corpo del notturno,
restituendolo pocoa poco alla
vita. Poche gocce di sudore imperlarono la fronte della donna, che fragile ed
indifesa, stava china sul corpo del ferito, totalmente priva di protezione.
D’improvviso una voce interruppe la sua concentrazione, facendo scattare in
allerta tutti gli presenti. “E così tu vorresti farmela pagare?” Il tono
sarcastico fece tremare dall’impazienza e dalla rabbia il ragazzo, ed una vaga
luminescenza nera iniziò a sprigionarsi dal simbolo rosso sulla sua schiena. “E
così vorresti difenderli tutti? Cosa mi dici allora di Alcols, il cui corpo vaga
ora in polvere su questa terra? Dovevi difendere anche lui?” Il ragazzo si
guardò attorno, agitando i pugni verso il vuoto. “Tu menti!”
Urlò.
La voce del druido gli rispose, stavolta incredibilmente
vicina. “Chiedi all’ auroreo.” Anarion si girò di scatto, fissando il viso di
Ràidames, cercando nei suoi occhi la smentita a quelle parole. Ma la risposta
gli era negata, gli occhi dell’Astro Bianco erano chiusi, in un dignitoso
dolore. Il ragazzo serrò i pugni, mordendosi il labbro per non urlare, talmente
forte che iniziò a sanguinare. Il ragazzo non avvertiva adesso più la resistenza
alla rimozione del sigillo che fino ad allora aveva combattuto dentro di lui.
Era stato scardinato, distrutto insieme alla consapevolezza della perdita del
proprio autocontrollo. “Non temere, altri lo seguiranno.” Ancora prima di finire
di parlare, la figura del druido emerse dal nulla, come partorita dall’aria
stessa, rapida come fulmine che si abbatte al suolo e sparisce con altrettanta
velocità dopo aver devastato ogni cosa. Il suo pugno avvampante si abbatté con
ferocia sull’immobile Shalia, che nemmeno distolse lo sguardo da Yonuel per
fissare il suo assalitore. E infatti la fiamma non la raggiunse. Il fuoco
divampò, deflagrò con potenza ma venne respinto, a pochi centimetri dal corpo di
Shalia, da una barriera invisibile e la fiamma magica disegnò la sua sagoma
esile contro il cielo: una piccola cupola che racchiudeva al suo interno tutti i
presenti, tranne Anarion, preservandoli dalla furia del notturno. Il Druido
fissò esterrefatto la barriera e il suo fuoco scomparve, sconfitto. “Ti avevo
detto che li avrei protetti io.” Disse la voce stravolta trionfante di Anarion
alle sue spalle. Il druido non fece in tempo a voltarsi. Una mano nera lo
trapassò alla schiena, da parte a parte, tanto che le dita macchiate di
sanguedel ragazzo spuntarono dal
petto del notturno, che pervaso dal dolore non riuscì nemmeno ad urlare, ma solo
a rigurgitare sangue a fiotti dalla bocca. L’atelos non riusciva a crederci, il
ragazzo si era portato alle sue terga con inaudita rapidità e aveva raccolto
potere a sufficienza per sopraffarlo, il potere di Selonir. Le parole suadenti
di Anarion gli giunseromormorate
all’orecchio, suonando come l’eco di una voce lontana. “Era questo il potere che
bramavi, stupido?” Rise sommessamente, sadico. “Allora morirai per mano mia,
perché mio è il potere che desideravi.” Estrasse con un movimento rapido il
braccio dalle viscere del druido, che cadde a terra, come un fantoccio, coperto
di sangue. I presenti rimasero increduli, assistendo al cambiamento che Anarion
aveva subito. Aveva occhi di brace, i capelli, ora sciolti, stavano lentamente
mutando di colore, divenendo neri e si muovevano come mossi da tenuissima
brezza, e pareva avvolto completamente da un mantello, che tuttavia era l’aura
d’ebano che egli stesso emanava e che separava dal mondo esterno come un
sudario. Con gesto brusco, voltò il corpo esanime del druido, in modo che lo
potesse fissare negli occhi. Incredibilmente il notturno era ancora vivo, aveva
raccolto tutta la sua magia all’altezza del torace per fermare l’emorragia e
attingeva all’energia della terra per curare il suo corpo distrutto. Era uno
sforzo terribile, che gli stava costando tutte le sue risorse fisiche e mentali,
eppure i suoi occhi annebbiati manifestavano una volontà ferrea di aggrapparsi
alla vita. Anarion non si impietosì e mettendosi sopra il notturno,
sovrastandolo completamente, gli serrò le mani intorno al collo, stringendo con
forza omicida.A nulla valsero le
urla disperate dell’Astro Bianco e di Zachoper riportarlo alla ragione,
impossibilitati ad agire a causa della barriera che li intrappolava e li
proteggeva al contempo. Nessun suono giungeva alla mente ottenebrata di Anarion,
che lentamente sfociava in un’incosciente perdita del controllo del proprio
corpo, sempre meno lucido e consapevole. A salvarlo fu il sangue. Il sangue
sgorgava dalla bocca del druido, scorrendogli copioso sulle mani, la vaga
lucentezza del liquido scuro e appiccicoso gli avvolgeva il braccio destro,
l’odore acre e acido che scaturiva dal ventre del notturno e di cui era intrisa
la pelle del ragazzo gli colpiva acuto l’olfatto e del liquido scuro che gli
macchiava perfino viso e occhi avvertiva il sapore sulla lingua. Fu sorpreso di
non svenire per tanto orrore e terrorizzato, perchè non riusciva a staccare le
mani dal collo dell’atelos, non riusciva ad evitare che altro sangue lo
toccasse, non riusciva a fuggire. Con un urlo terrorizzato si staccò con
violenza dal corpo del notturno, che tossì con violenza, tornando a respirare e
rimanendo immobile, concentrato per riuscire a raccogliere abbastanza magia da
sopravvivere. Il ragazzo si fissò le mani, che grondavano sangue, e inorridito
cercò di muoversi, urlare, scappare, ma ai suoi occhi si affacciarono due
terrificanti visioni. L’oscurità avvolgeva ormai la sua vista, aprendo per lui
uno squarcio della sua vita e mostrandoglielo. Non erano sue le mani che
grondavano sangue stavolta, ma quelle di un altro uomo, i cui occhi e capelli
neri richiamavano il colore della notte. Ma il sangue l’avvolgeva comunque
completamente, in una spirale terribile, per tutta la lunghezza del suo corpo
freddo e affilato. Lui era la spada che stava affondando nella carni di Ràidas.
Urlò con disperazione lucida e limpida, di nuovo travolto dalla crudezza del suo
passato. Era di nuovo in sé, ma in un futuro vicino. Avvolto da una tenebra
centinaia di volte più fitta e crudele di quella che lo straziava adesso,
stringeva fra le mani qualcosa. Non avrebbe voluto guardare e infatti non
avrebbe mai dimenticato quella visione. Imbrattato di cinabro sangue, stringeva
fra le braccia un corpo esanime, che fissava con indifferenza e freddezza. Gli
occhi riversi all’indietro e i lineamenti gentili sbiancati dalla violenza della
morte erano quelli della ragazza che incontrava nei suoi sogni. Ebbe allora la
certezza che la ragazza esisteva non solo nella sua mente. E seppe anche
l’avrebbe uccisa.
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Selonir avrebbe voluto esultare dalla gioia; erano
decenni che una sensazione così umana non albergava in lui. Era semplicemente
esaltato. Le catene che per così tanto tempo l’avevano imprigionato erano
polvere ai suoi piedi, solo le saette ancora resistevano intorno a lui. Eppure
una ad una cedevano, sparendo in rapidi guizzi e bagliori. Poteva già
controllare il ragazzo e a poco a poco la sua aura di tenebra si sostituiva alla
volontà di lui, sopendola contemplatamene. Nulla avrebbe potuto impedirlo
stavolta. Né spiriti, né magie. Non esisteva nessuno abbastanza potente tra
coloro che adesso circondavano il ragazzo da poter impedire ciò che ormai era
inevitabile. Nonostante tutto una sensazione di disagio si impadronì di lui.
Aveva dimenticato qualcosa, anzi qualcuno. Mentre fissava angustiato il terreno
arido della piana desolata che l’aveva trattenuto per anni, notò che acqua
iniziava a scorrervi a fiumi. Tutte le scale senza fine che portavano al luogo
ne erano inondate e in pochi secondi tutto lo spiazzo ne era occupato e l’acqua
cominciò persino a cadere oltre i bordi della spianata, precipitando in una
cascata continua nel vuoto. E l’acqua era strana, era carica di energia, pura e
vitale, animata da una forza incredibile, magica, quasi con volontà propria.
Eppure i sigilli di folgore non la respingevano, le sbarre luminose avrebbero
dovuto reagire contro ogni forma di energia, eppure l’acqua le sorpassava senza
difficoltà, bagnando perfino i piedi del dio. La divinità guardò la propria
immagine riflessa nell’acqua e per un attimo la sua sagoma nera fu sostituita da
quella esile e tranquilla di Shalia. Il piede di Sèlonir calò implacabile
sull’immagine, dissolvendola nell’acqua increspata. Non servì a nulla; alzando
lo sguardo, i suoi occhi, ridotti a una luce livida, lontana nell’oscurità sotto
il cappuccio, incontrarono quelli della ragazza, azzurri e limpidi, liberi da
qualunque paura. La figura della donna pareva del tutto sovrannaturale, dal viso
fino alla vita conservava le sue fattezze umane, mentre la parte inferiore del
corpo era del tutto trasfigurata, mutata in un vortice di acqua vorticante.“Tu
sei un Elementale dell’Acqua, una Dama dell’Acqua?” Chiese incredulo il dio.
“Credevo di avere eliminato l’ultima di quella stirpe venti anni or sono.”
Shalia sorrise tristemente in risposta, sembrava non dovesse far nulla, si
limitava a star ferma, quasi ad aspettare una reazione della divinità. Nessuno
dei due si mosse per alcuni secondi, poi Selonir quasi riluttante, disse: “Cosa
sei venuta a fare qui?” Alzò la mano nera verso le sbarre cadenti: “Non mi temi?
Fra breve le catene cederanno e io avrò libero accesso al mondo.” La donna non
ebbe nessuna reazione, sembrava del tutto sorda alle velate minacce che le
venivano avanzate. Avanzò verso le sbarre e le attraversò senza che queste le
bloccassero il passaggio. Si fermò quando il viso fu a pochi centimetri dal
baratro di tenebra che si scorgeva dal cappuccio del dio. “Non mi conosci così
bene.” Alzò la mano, sfiorando debolmente il cappuccio con le dita.
“La Dama
dell’Acqua è l’esatto opposto della negatività ed è capace di farsi carico delle
colpe e dei dolori dei guerrieri.” La mano si strinse sul cappuccio, ma non si
mosse. “Non riesco davvero a capire il significato delle tue azioni, Selonir.”
Una lacrima segnò il viso della donna, sinceramente triste. “Nemmeno tu
esistisemplicemente per ferire ed
essere ferito. Solo altro dolore scaturirà dalle tue azioni.” La mano di Shalia
abbassò esitante il cappuccio, rivelando il volto del dio. Lunghi capelli
argentei cadevano dietro la nuca in una cascata di riflessi azzurrini. Il viso,
mite e dai lineamenti dolci, non recava il segno di alcuna imperfezione o
ingiuria, era semplicemente perfetto, come marmo ricoperto da cera rosa. Gli
occhi non tradivano alcun sentimento o esitazione. L’occhio sinistro era rosso
come braci ardenti e i riflessi dorati che lo illuminavano sembravano lingue di
fuoco avide di vita. Quello destro invece era limpido, azzurro come il cielo
terso e nessuna ombra lo agitava, solo bagliori argentei lo percorrevano con la
stessa velocità del pensiero. Erano due specchi dell’anima, vetri che si
affacciavano sui più profondi recessi dello spirito immortale di Selonir. Odio,
ferocia e passione ed ogni pensiero oscuro alimentavano le buie luminosità
dell’occhio sinistro, mentre purezza, saggezza e fermezza tali facevano
splendere il destro da essere impensabili per un essere umano.
Il dio scansò con tranquillità la mano della donna,
sfiorando poi la pelle del viso bagnata dalle lacrime. “Non capirò mai il
significato del tuo dolore, Dama dell’Acqua.”
Sospirò, rassegnato. “Fa ciò che devi, non tediarmi con
i tuoi sentimentalismi.” La fissò con intensità e per un attimo le vampe
dell’occhio sinistro aumentarono d’intensità, mentre una lieve oscurità rabbuiò
la limpidezza dell’altro. “Ma ricorda, per ora non posso fermarti, ma un giorno
questo ragazzo sarà mio e allora avrò la mia vendetta su tutti coloro che mi
hanno ostacolato.”
Sorrise alla ragazza e i suoi occhi tornarono normali.
“Quello stesso giorno ti eliminerò come feci con tua madre.” Si voltò,
riportandosi il cappuccio a coprire il capo, nascondendolo di nuovo con le
tenebre. “A presto.”
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Anarion riaprì gli occhi, era di nuovo in sé, nuovamente
nel suo corpo, macchiato del sangue del notturno e dalla corruzione di Selonir.
Sentiva la venefica influenza divina insinuarsi nella sua mente e nelle sue
membra come rampicanti che velocemente distruggono le pietre della torre sulla
quale si inerpicano. Non riusciva a rallentare quel rapido processo di
disintegrazione della sua coscienza, che procedeva come un veleno inarrestabile
dentro di lui. Sentiva crescere il terrore in lui, con l’avanzare di quel male
subdolo, una paura che cresceva con l’orribile sensazione che la sua pelle
pulsasse, anzi che il sangue che da lui grondava vibrasse come vivo. Fissò con
crescente orrore le sue mani, sicuro che non ce l’avrebbe fatta, che stavolta
non ci sarebbe stato Ràikas o Alreyd a salvarlo echiuse gli occhi, spaventato. Avvertì
mani fresche stringere le sue. Riaprì gli occhi e vide il viso di Shalia davanti
al suo, rassicurante e stranamente sereno. Di nuovo sentì un vago tepore
pervaderlo per tutto il corpo, come la prima volta che aveva visto la
donna.Stavolta però avvertiva con
chiarezza un potere caldo e dolce sprigionarsi dalla donna e fluire in lui,
pervadendolo completamente. Lo penetrò in profondità, riempiendo perfino i più
bui recessi della sua coscienza, mondandoli dal veleno che li infettava. Era
come se un torrente di acqua gli scorresse nelle vene e nello spirito,
rimuovendo al suo passaggio le macchie di corruzione che cercavano di prendere
il sopravvento. Si sentì rinascere; il suo animo era stato purificato da ogni
peccato, mentre l’acqua aveva guarito le ferite di corpo e mente. Chiuse gli
occhi, avvolto da un vago tepore eaccolse con piacere il velo di nebbia che l’incoscienza recava con sé ad
annebbiare i suoi sensi.
Zeriol arrancò spaventosamente, lottando con tutte le
sue forze per mettersi in ginocchio. La maschera gli impediva la respirazione e
con un gesto stizzito della sinistra se la strappò dal viso, gettandola a terra,
mentre la destra era ancora mantenuta al petto, cercando di arginare il dolore e
il sangue che copiosi gli sgorgavano intrecciati dallo squarcio al petto. Gli
occhi, iniettati di sangue, erano incorniciati da occhiaie marcate, lo stesso
tenerli aperti gli costava uno sforzo notevole. Non si rendeva nemmeno conto di
ciò che gli accadeva attorno, intuiva solo che Sèlonir aveva trovato un nuovo
ostacolo a trattenerlo e che lui stesso doveva ritirarsi il più presto possibile
per trovare un luogo migliore dove risanare le proprie ferite. Si alzò
stentatamente, compiendo pochi passi verso il fitto degli alberi, ma inciampò
nel corpo martoriato di uno dei Proscritti da lui uccisi e rovinò a terra, senza
fiato, continuando a mantenere il palmo della destra sulla ferita, senza
interrompere il flusso rigeneratore di magia. Sentiva le forze diminuirgli
lentamente poco a poco, insieme alla lucidità mentale. Non avevo altra scelta,
doveva tentare. Staccò la destra dalla ferita, rivelando uno squarcio ancora in
gran parte non sanato e posò entrambi i palmi delle mani a terra. Il suo stesso
sangue, ancora fluido, dalle mani macchiò l’erba, formando una piccola pozza.
Bagnò le punte delle dita della mano destra col proprio sangue e disegnò una
semicirconferenza davanti a sé, sul terreno. Intinse quelle della mano sinistra
nel sangue del notturno che giaceva esanime al suo fianco e col suo sangue
tracciò l’altra metà del cerchio. Infine vi tracciò all’interno, con linee
discontinue di sangue una stella a cinque punte. Sorrise quando ebbe completato
l’immagine e stancamente pose entrambe le mani all’interno del cerchio, con i
palmi rivolti verso il terreno, sulla stella. Mormorò a fior di labbra suoni
impercettibili per chiunque tranne che per lui, mentre le stesse parole che
pronunciava svanivano dalla sua mente, ormai al collasso per lo sforzo oneroso e
continuato. Quando ebbe completato la formula, crollò sul fianco destro, sfinito
e soddisfatto; il sangue era sparito, assorbito dalla terra.D’improvviso il suo corpo venne avvolto
da particelle di luce grigiastra, acquistando sempre maggiore inconsistenza. Con
la vistaormai annebbiata, volse un
ultimo sguardo agli avversari che si lasciava indietro. L’Incarnazione giaceva
svenuta tra le braccia della Dama dell’Acqua, mentre tutti gli altri erano
improvvisamente scomparsi. Dov’erano? Alzò lo sguardo e rabbrividì. Intorno a
lui, come statue altere e severe stavano immoli le figure di Ràidames, Zacho e
Serìa. Sorrise, nonostante tutto, avvertendo l’incantesimo fare effetto e il suo
corpo mutare in sostanza incorporea. Chiuse gli occhi e promise: “A presto.” In
un lampo di luce scomparve, dissolvendosi in particelle di luce.
……………………………………………………………………………………………
Il suo corpo si spostava velocissimo nel Piano
Spirituale, trasportato da un vento fortissimo, ormai pagliuzza nella tempesta.
Inerme per la potenza dell’incantesimo usato, era la sua forza mentale a
guidarlo attraverso lo spazio deformato del mondo spirituale e a continuare
l’incantesimo di guarigione che lo stava strappando alla morte. Aveva
l’illusione che fosse il mondo a scorrere rapidoverso ovest e non lui a volare verso
est. Immagini sfocate del mondo reale scorrevano intorno a lui, frastornandolo,
oltre le linee di fiumi e praterie e attraverso le sagome di monti e villaggi.
Si sforzò per concentrare la propria mente sul luogo da raggiungere,
visualizzandolo nella propria mente. La memoria si sforzò di dare forma
vividae reale ai ricordi, di
costruire nella valle oscura della propria mente la propria meta. Tratteggiò
l’abbozzo di una foresta lussureggiante, sempre più intricata e oscura, man mano
che ci si avventurava per gli inesplorati meandri delle sue propaggini, tagliata
da una striscia d’oro, un fiume stupendo, innaturale e letale, prima e non unica
difesa del bastione dei Druidi. Risalì con la mente fino alla sorgente del
fiume, fino ad un’imponente parete di roccia dalla cui base sgorgava la sorgente
del fiume dorato.Immaginò di
poggiare una mano sul portale e al solo suo tocco venature multicolori rifulsero
intensamente, disegnando complessi motivi che ignorò, spingendosi all’interno,
bramoso di tornare alla sua patria. Avvertì un forte scossone scuoterlo,un nodo alla gola e un fiotto di sangue
gli uscì con violenza dalla bocca. Il dolore gli tolse la concentrazione
necessaria a mantenere l’incantesimo eritornò bruscamente alla realtà, strappato al Piano Spirituale. Cadde con
un tonfo al suolo, avvertendo solo leggermente l’urto contro un terreno freddo e
spoglio.
Consapevole di avere solo pochi attimi prima di
sprofondare in una pericolosa incoscienza, usò le ultime stille di energie
rimastagli per chiudere la ferita. Poi le membra contratte per il dolore si
rilassarono improvvisamente, mentre gli occhi, colmi della smania di restare
aggrappato alla vita, conobbero finalmente un forzatoriposo.
………………………………………………………………………………………………
L’ampia terrazza della torre si affacciava senza
parapetto sull’infinita distesa piatta e quasi immota del mare. Ovunque lo
sguardo potesse posarsi non si intravedevano altro che mare e cielo, due
infiniti posti l’uno di fronte all’altro, perfetti e complementari nella loro
sublime bellezza, si congiungevano in una lineaindefinita nel punto più lontano
dell’orizzonte. Il crepuscolo era al suo apice di sanguigna lucentezza, quando
il punto più basso del sole si appresta a scomparire dietro la linea
dell’orizzonte. Ponente irradiava gli ultimi afflati della stella diurna,
fendendo il cielo in spicole rossastre, stemperanti in una sempre più vaga
luminosità che tingeva di rosa gli stralci di nuvole che macchiavano la volta
celeste. Solo un taglio di sole si riflettevaluminoso e quasi più splendente nello
specchio marino, mentre l’oscurità crescente ingoiava la luce catturata
dall’acqua. Quasi nessun rumore poteva essere avvertito, se non il ritmico e
continuo fluire delle onde che si frangevano sulle nascoste spiagge pietrose. La
pace e l’ armonia del mondo venivano a celarsi in quei pochi attimi di sublime e
grandioso spettacolo della natura, così teso verso l’infinito da poter quasi
atterrire l’animo dell’uomo. Osservò con le pupille socchiuse l’epilogo del
miracolo del vespro e ne catturò l’immagine nella memoria, imprigionandola in un
passato di limpido cristallo, conservandolo come memoria di divina e misteriosa
bellezza. Giaceva immobile al centro del balcone, seduto sulla tiepida pietra a
gambe incrociate. Chiuse gli occhi, sospirando. Il momento di pura perfezione
era passato e con esso il conforto e la tranquillità dell’animo che esso
portava: già altri sentimenti, legati a ben altri ricordi, premevano per tornare
vividi alla mente. Portò automaticamente la mano ad un sacchetto legato in vita
e ne estrasse una foglia a cinque punte di grandezza decrescente e dal
coloritoverde brillante, allora
grigiastro nell’oscurità che si addensava, e se la cacciò in bocca, masticandola
lentamente. Non passò molto che gli effetti del vegetale cominciassero a fare
effetto. I pensieri smisero di premere al cervello uno dopo l’altro,
disperdendosi in un’intenzione vaga ed indefinita, accantonati in qualche luogo
recondito dell’io. La mente fu finalmente libera da ogni preoccupazione e non
più velata da ombra alcuna, sembrava quasi che lo stesse spirito potesse
elevarsi, ormai non più represso dalle inutili zavorre di timori o futili
ragionamenti, libero di inflazionarsi nell’ampia realtà che si dispiegava di
fronte ai suoi occhi. Il corpo stesso non era più pesante prigione dell’anima,
non lo costringeva più alle regole dure e crudeli della realtà, ma si
transumanava in un qualcosa di più puro e trasparente, conformandosi alle leggi
dell’immaginazione. Nulla contava più, non esistevano più legami e la coscienza
stessa di sé si diluiva, tutto si immergeva e si fondeva nell’eternità e
nell’infinito che apparivano ora con chiarezza alla mente, normalmente vincolata
e imprigionata a tal punto da non poter cogliere l’inconcepibile, che adesso si
mostrava a portata di pensiero. La vista dell’anima vagava nell’infinito e tutto
apparve in ogni cosa, riuscì a cogliere lo spettacolo dell’esistenza
dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo, colse l’intima grandezza
dell’universo e si spaventò di quanto fugace e miserabile si presentasse la vita
umana, eppure unico vincolo tra l’infinità divina e quella del reale, unico
soggetto degno capace di dare un senso a ogni cosa. L’apoteosi della sua
intuizione, che scorreva rapida e semplice, slegata da qualunque opposizione, lo
fece rabbrividire, conferendogli un senso di inaspettato piacere fisico, che per
un attimo lo riportò alla realtà del proprio corpo. Fuggì nuovamente da esso e
per un mero istante la sua essenza si avvicinò a quella divina. Si allontanò
progressivamente dall’immagine di sé stesso seduto innanzi al tramonto, per poi
ritrovarsi ad ammirare il ricordo di quel momento protetto in puro cristallo.
Fermò ogni sua cognizione a quel momento, non esisteva futuro o passato, ma un
solo adesso, un solo ora e un solo ovunque. Colse l’attimo, si rifugiò in esso,
raccolse tutte le possibili percezioni, tutti i possibili sentimenti, tutte le
visuali ed i punti di vista, le vite e le morti, tutto ciò che era l’infinito in
quel momento e se ne nutrì con piacere sfrenato, senza procedere oltre, poiché
nessun mutamento o cambiamento avrebbe potuto giovarlo, ma solo annichilirlo.
Era un dio e, in quell’attimo fu davvero immortale. Poi il tempo riprese a
correre ed il cuore a battere e fu strappato dalla sua visione con violenza,
tanto che forse la sua stessa anima provò dolore, e riportato alla sua dolorosa
realtà. Un cambiamento repentino e terribile che minacciò di annientarlo; e
riaprì gli occhi. L’effetto lenitivo della droga sarebbe durato ancora
abbastanza da evitare che la sua mente potesse venire straziata dai pensieri che
la tormentavano come fantasmi inquieti, eppure adesso era anche pienamente
cosciente, era diviso tra i due mondi, quello del sogno e quello della realtà e
il primo lo illudeva dalla tristezza del secondo.
Una figura silenziosa si pose davanti all’uomo,
mettendone in ombra il viso sottilee gli occhi, marchiati da profonde occhiaie. Condios tuttavia non si
mosse, continuò a guardare fisso davanti a sé, come se l’altro non esistesse.
“Scusatemi se non mi alzo, Principe.”
L’interlocutore non rispose, non c’era bisogno di
parlare perché Condios capisse cosa il suo Principe desiderava da lui, la sua
sola presenza bastava per ricordargli i suoi doveri.
“Perché non mandate i vostri soldati?” Chiese il
Cavaliere con una nota supplichevole, vergognandosi delle sue stesse parole. Il
Principe ebbe un lieve moto di stizza, poi parlò con voce atona, lenta e calma.
“Perché dovrei sprecare le vite dei miei soldati quando ho te?” Rimase in
silenzio per alcuni istanti, poi riprese: “Pensavo di avertelo già detto. Odio
ripetermi.”
Si allontanò non appena finito di parlare, senza
aggiungere altri ordini o dettagli; Condios sapeva benissimo ciò che lo
attendeva. Passarono alcuni secondi di immobile silenzio, poi si alzò
stancamentee con passo incerto
camminò fino al bordo del terrazzo.
Tirò un profondo sospiro: i fantasmi che lo tormentavano
avrebbero presto ripreso il vigore necessario a spingerlo sul baratro della
follia. Presto avrebbero trovato il loro nutrimento nel sangue che si apprestava
a versare. Ancora una volta. Chissà se qualcosa l’avrebbe salvato sul precipizio
come allora… Si lasciò cadere in avanti, inerme, ad occhi chiusi, scivolando nel
vuoto.
………………………………………………………………………………………………
Zacho sedeva con i gomiti appoggiati sulle ginocchia,
tenendo le mani inermi tra le gambe. Il viso spaziava tranquillo
sull’accampamento che da qualche giorno era diventato la sua casa. Vestiva abiti
aurorei, leggeri e chiari, fin troppo eleganti per lui. Si appoggiò allo
schienale di legno del seggio che aveva spostato davanti all’ingresso della sua
tenda. Si voltò verso Ràidames, che si era voluto fermare per discorrere con
lui, ma che da quando si era seduto, non aveva ancora aperto bocca. In questi
ultimi giorni l’Astro Bianco era stato oberato dalle molte responsabilità: sia
verso il suo popolo, dovendo amministrare a distanza il governo del reame
auroreo, sia verso i suoi fratelli notturni, poiché il Concilio, l’assemblea
della nobiltà notturna, aveva chiesto la sua collaborazione nella scelta del
nuovo Astro Nero. Quello era il primo momento di tranquillità che si concedeva
da cinque giorni, da quando Anarion era quasi caduto preda di Selonir. Ma adesso
il ragazzo era salvo e diretto verso sud, strettamente sorvegliato da Sèria, con
meta la capitale della nazione notturna, dietro sua esplicita richiesta. Nessuno
intuiva cosa volesse fare laggiù, perché dopo aver esaudito la sua richiesta
nella semi-incoscienza, dovuta alle gravi ferite mentali riportate dalla tentata
possessione, era piombato in un sonno eterno concessogli da Shalia, che sarebbe
terminato una volta che il corpo e la mente del ragazzo si fossero riprese
completamente. E intanto loro dovevano affrontare un’altra minaccia. Nonostante
i due figli di Potere fossero stati eliminati dal defunto Alcols, come gli era
stato riferito dall’auroreo, l’esercito da loro evocato non era, a quanto pare,
scomparso con essi. E nonostante Ràidames non sapesse darne spiegazione, tutti i
maghi avvertivano forti presenze negative in quel tratto delle foreste
dell’ovest, senza riuscire a dargli forma o ad individuarle. Sospirò, voltandosi
verso il Re. Lo stava fissando con pazienza, quasi avesse seguito passo passo il
filo dei suoi pensieri e adesso fosse pronto a concluderlo con ciò che aveva da
dirgli. Lo anticipò, desideroso di apprendere prima ciò che gli premeva
maggiormente. “Come intende procedere il Concilio, Sire?”
Il Re si massaggiò il braccio destro, bendato
all’altezza del gomito, dicendo: “La carica passerà a un altro lato della
dinastia, precisamente alla nipote di Sire Alcols, ancora molto giovane. Ho
sentito dire tuttavia che sia molto dotata nell’uso della magia e di una
intelligenza strepitosa.”
Zacho annuì distrattamente: “E cosa sappiamo di questo
fantomatico esercito?”
L’auroreo sospirò. “Nulla, o meglio quasi nulla.” Alzò
gli occhi verso il cielo, congiungendo le mani in grembo. “Esploratori e
Proscritti seguono ombre evanescenti, che sfuggono sempre alle trappole e
riescono a seminare anche i più abili inseguitori.” Rivolse poi lo sguardo
all’uomo, sereno. “Ma almeno stanotte riusciremo a sapere qualcosa. Ci sarà la
luna piena.”
Zacho lo fissò con aria interrogativa, senza capire.
“Potrò interrogare il fato leggendo le stelle.”
L’uomo annuì nuovamente, poi tornò a guardare
distrattamente il paesaggio davanti a sé, quasi la conversazione per lui fosse
terminata. “Mi è stato riferito che Fearin è nel caos. E’ scoppiata la guerra
civile. Inoltre i Siguya si spingono sempre più a sud, sono quasi a Maruyl.
Stavolta non sarete abbastanza uniti da respingerli.” Sentenziò con tono piatto.
“Il Principe è il fratello del suo successore. Tuttavia
la maggior parte della popolazione desidera che al trono salga la figlia del
precedente reggente.”
L’auroreo corrugò la fronte. “Come mai il popolo stesso
e non la ragazza, sempre che sia vero, reclamano una diversa successione al
trono?” Zacho si alzò, senza voltarsi, ma incrociando le braccia al petto,
meditabondo. “Per via di un oracolo che gli astronomi reali vaticinarono dopo
gli eventi di Maruyl: “Le colpe del padre saranno riscattate dalla figlia, la
fanciulla della nave del popolo sarà la chiglia. Di sangue e morte e
disperazione per gli uomininon ci
sarà condono, il sacrificio sarà il prezzo per ottenere della salvezza il dono.”
“Sembra molto chiaro.” Asserì Ràidames. “La figlia del
defunto Principe, la cui colpa fu di cedere a Selonir, deve ereditare il trono e
rimediare agli errori del padre.”
“Non è così semplice.” Zacho si voltò, rivelando un
animo afflitto. “L’Assemblea, che costituisce la volontà suprema del Regno, ha
designato Sire Eirior come tutore della Principessa cinque anni fa, ritenendo la
figlia, allora quindicenne, troppo giovane. Tuttavia, poco meno di un anno fa,
al suo ventesimo compleanno l’Assemblea ha confermato il titolo di Principe a
Sire Eirior, negando il titolo alla Principessa. E da allora il nostro popolo si
è diviso.”
L’Astro Bianco si alzò anch’egli, fermandosi al fianco
dell’uomo, fissando con lui la foresta che oltre le difese, si estendeva verso
Ovest. “E tu cosa ne pensi?”
“Io
non penso proprio niente.” Si affrettò a precisare Zacho con tono serio. “Io ho
giurato di proteggere e obbedire unicamente al Principe.” Abbassò lo sguardo,
rattristato. “Tuttavia quattro dei Cavalieri hanno tradito e si sono uniti alle
file dei rivoltosi. Può anche darsi che gli uomini si sterminino tra di loro
ancora prima di essere attaccati dai Siguya.”
Capitolo 21 *** La difesa di Condios e l'arrivo dei Siguya ***
l
Condios si ergeva solo davanti ai cancelli, cesellati di
bronzo e, stranamente, aperti. Se qualcuno avesse potuto osservarlo da vicino
avrebbe potuto notare che i piedi dell’uomo non poggiavano al suolo, ma si
staccavano di alcuni centimetri da terra, trovando sostegno nell’aria come sullo
stesso suolo. Le pupille erano dilatate e gli occhi leggermente rossi. La mente
era tornata dolorosamente lucida, anche se riusciva tuttavia a controllare con i
suoi stessi poteri il flusso dei suoi pensieri. Il corpo era ancora intorpidito
e accaldato, sia per gli effetti della droga che a causa della sua stessa
natura. Davanti ai suoi occhi appannati, una vasta schiera di uomini si
avvicinava minacciosa, ancora lontana. Dietro di lui, oltre la cancellata
aperta, una esigua guarnigione di uomini armati di scudiampi e rotondi e spade lunghe, assisteva libero da qualunque
preoccupazione alla scena.
La città, protetta dall’imponente cinta di mura quasi
circolare, si ergeva verso nord contro un’ampia foresta, fitta e scura, alle sue
spalle invece, dall’alto della sua posizione sopraelevata dominava su una
prateria sulla quale si ergeva in lontananza, verso sud, la capitale Fearin
sullo sfondo azzurro del mare. Karaiza era la prima difesa della capitale.
Fortezza senza la quale non si poteva pensare di conquistare Fearin, senza
correre il rischio di venire attaccati dal contingente stanziato nella città che
le fungeva da scudo. I rivoltosi avevano quindi intenzione di conquistare prima
tale roccaforte e successivamente puntare alla capitale. Erano in numero
sufficiente per riuscirci, ma un grosso ostacolo si frapponeva tra loro e
Karaiza: Condios. Sei attacchi erano stati portati alla città, tutti respinti,
tutti vanificati da lui solo. Nessun altro soldato rischiava la vita, ma il
Principe preferiva mettere in campo uno dei suoi Campioni anzicchè rischiare uno
scontro più aperto. E anche allora, al rinnovarsi dell’assedio,Condios era l’unico ad opporsi ai
ribelli. Un uomo si staccò dalle fila degli attaccanti, disarmato e senza
protezioni, che allora come in precedenza prima di ogni scontro cercava di
trattare con il difensore. Si chiedeva quali sentimenti animassero realmente la
mente del Cavaliere del Sole. Come ogni volta, si ergeva solitario oltre la
gittata degli archi della fortezza, in modo che il loro combattimento non
potesse essere disturbato dai suoi alleati, tattica che sicuramente lo avrebbe
favorito. Ed inoltre c’era una cosa che non dava pace all’ambasciatore: prima di
versare sangue, Condios dava fondo a tutti i suoi poteri e abilità pur di non
uccidere. Perché allora non si univa a loro? Furono le esatte parole che ripeté
al guerriero. “Perché non vi unite a noi, Cavaliere?” Gli chiese nuovamente,
speranzoso. “Altri vostri pari l’hanno già fatto.”
“Essi non sono miei pari. Sono traditori, io devo tenere
fede al giuramento che fece mio padre prima di me e suo padre prima ancora.”
Disse con tono vago. L’ambasciatore tuttavia non si
arrese.
“Quel giuramento ha perso il suo significato; anche
vostro …” Le parole gli morirono in bocca. Prima che potesse concludere, lo
sguardo di Condios mutò radicalmente espressione, come una brezza leggera con in
pochi istanti diviene freddo e violento turbine.
L’uomo sospirò rassegnato, anche stavolta aveva fallito.
Si voltò e tornò tra le file dei suoi compagni. L’armata si preparò al
combattimento, sotto il rumore di armi ed armature, tuttavia nessuno si mosse.
Tutti rimasero nelle loro posizioni, a diverse centinaia di passi da Condios,
vicini al limitare del bosco, che sembrava nascondere ancora uomini e
armi.
Poi lentamente e a passo ritmato la schiera iniziò ad
avanzare, anche se non troppo ordinatamente. Il nerbo principale era costituito
tuttavia da un’ordinata schiera di opliti, che apparivano armati con le medesime
armi e vestiti con gli stessi colori, argento ed blu, di quelli che stavano di
guardia all’interno della fortezza. Quando la schiera giunse a metà strada tra
il limitare della foresta ed il difensore, innumerevoli sibili fenderono l’aria
e dalle fronde oscure degli alberi innumerevoli dardi presero il volo , fendendo
l’aere a salve regolari. Nessun dardo tuttavia, raggiunse l’uomo: molti gli
cadevano intorno, mancandolo completamente, altri, che avrebbero dovuto
colpirlo, modificavano completamente la loro traiettoria, crollando a terra,
come respinte da scudi invisibili. E l’espressione di Condios non mutò. Dopo la
terza salva, i tiri di freccia terminarono e l’avanzata riprese più veloce,
trasformandosi quasi in una corsa, come se ogni guerriero volesse prendere la
rincorsa prima di un balzo. Mancavano una dozzina di passi per raggiungere il
difensore, che l’andatura di quasi tutti i combattenti rallentò, come se
ostacoli invisibili ostacolassero la loro avanzata. Era la stessa aria che
sembrava aumentare in pressione e consistenza, opponendosi come un solido
muro.Eppure Condios non poteva reggere su un così ampio fronte, con centinaia
di guerrieri che premevano per oltrepassare la sua barriera d’aria. I più forti,
quelli che lo fronteggiavano direttamente, già iniziavano a varcare la sua
difesa, tanto che poteva vederne gli occhi, sotto gli elmi, completamente
protesi nello sforzo. Chiuse allora gli occhi, per tentare di isolarsi
dall’esterno, ed incanalò tutta la sua magia nell’aria e ne inviò i flussi nelle
narici e nelle bocche dei suoi avversari, empiendolecompletamente. E lentamente la magia,
guidata dall’aria raggiunse ogni punto dei loro corpi fino al cervello e lì
iniziò a sprigionarsi debolmente. Alterò le percezioni, agendo sui sensi dei
guerrieri, grazie all’aria, che fungendo da canale poteva ovunque. Influenzò i
loro occhi, proponendo alle loro menti la vista di mostri giganteschi, titani,
che si avvicinavano minacciosi dalle porte aperte, di serpi velenose che
strisciavano tra i loro piedi e demoni alati, forme nere che piombavano su di
loro dal cielo. Era tuttavia uno sforzo enorme, che richiedeva l’impiego di
tutte le sue forze e più ne attingeva, più la sua forma variava, rivelando la
sua vera natura; in pochi attimi l’ Elementale dell’Aria si sostituì
all’immagine di Condios. Vaghi contorni bianchi disegnavano nell’aria i
lineamenti del viso; senza le linee sinuose che ne tratteggiavano il corpo,
abbozzandolo in una forma vagamente umana, non si sarebbe riuscito a
distinguerlo. Il peso dei suoi sforzi iniziò a gravare di meno quando la sua
trasformazione fu ultimata e la magia continuò rapidamente a seguire i suoi
intenti. Ora poteva persino vederlo. Il suo flusso magico sgorgava da lui come
corrente e in linee sinuose, portate dall’aria si insinuava nei corpo di tutti,
impregnando le membra e la mente. Oltre che la vista, stravolse le percezioni
dei suoi nemici facendogli avvertire grida strazianti nelle orecchie e morsi
voraci nelle carni e innumerevoli insetti sulla pelle, con un bruciore intenso
sotto la pelle, come per effetto di un qualche potente
veleno.
Ci riuscì. Alcuni caddero a terra, bocconi, coprendosi
le orecchie con le mani o strofinandosi con esse la pelle come per allontanare
le visioni che li tormentavano, pochi fuggirono. Le urla erano talmente forti
che rischiavano di stordirlo: le voci, seguendo al contrario i flussi della
magia giungevano fino a lui, assordandolo e mettendo a dura prova la sua
concentrazione. Voci indistinte giungevano da tergo, quelle dei soldati che
gremivano gli spalti, entusiasti per quello che da un momento all’altro si
sarebbe potuto trasformare in un mattatoio dei loro fratelli. Infatti altri, chi
perché in possesso di rudimenti di magia, chi perché aveva già affrontato quelle
visioni e ne conosceva la natura illusoria, riuscì a continuare con la sua
pressione contro la barriera. Avrebbe tuttavia resistito finchè non si fossero
arresi, era disposto a qualunque cosa pur di non uccidere nessuno. Poi accadde
ciò che non si aspettava. Udì un rumore secco provenire da lontano, forse dalla
foresta, seguito da un sibilo lungo e prolungato. Alzò gli occhi al cielo e
capì: catapulte. Due enormi massi volarono da dietro lo sbarramento visivo degli
alberi contro la folla che gremiva gli spalti dei cancelli. Fece appena in
tempo. Alzò un braccio incorporeo verso i due macigni ed entrambi si fermarono a
mezz’aria , cadendo pesantemente al suolo. Lo spostamento della sua attenzione
fece però crollare le illusioni e in pochi secondi, prima che potesse
ripristinarne il flusso, tutta la violenza della carica nemica si riversò sulle
sue difese, quasi piegandole.
Davanti a lui, due soldati erano ormai prossimi a
raggiungerlo. Avevano le spade sguainate e cercavano con ogni forza dei loro
muscoli di portare un affondo al ventre traslucido dell’Elementale. Un paio di
passi di aria separavano la punta delle spadedal corpo di Condios. Il Cavaliere
tuttavia non se ne curò, il normale acciaio non poteva ferirlo quando era pura
aria. Qualcosa però attirò la sua attenzione. Uno dei due, d’improvviso, lasciò
andare la propria spada, che cadde con un rumore sordo a terra, come schiacciata
da una fortissima pressione, e, poste con fatica le mani sull’elsa dell’arma del
compagno insieme alle sue, lo aiutò a spingere. Lentamente, congiungendo le
proprie forze allo spasimo riuscirono a fare avanzare la spada, seppur di poco.
E Condios notò una scintilla baluginare sulla lama, per trasformarsi subito in
debole luminescenza. E con il diminuire della distanza, il bagliore aumentava,
trasformandosi infine in fiamma fredda e rossa che percorreva tutta la lama,
fino all’elsa, senza bruciare le mani di coloro che la brandivano. Condios se ne
ricordò: era una spada magica, armi rare, che pochi fortunati possedevano e che
avevano capacità offensive al di fuori del normale, capaci perfino di prevalere
su creature magiche come lui. Sentì un forte bruciore all’altezza del ventre, le
fiamme ormai arrivavano quasi a toccarlo; stavano per trafiggerlo. Altre pietre
volarono contro la fortezza e fu costretto ad indebolire la barriera d’aria per
frantumarle prima che potessero raggiungere le mura. Intanto anche gli altri
soldati avanzavano sempre più, mentre coloro che prima erano stati dispersi
dalle illusioni, ora che queste non li tormentavano più, erano tornati. Non
poteva reggere anche loro e come se non bastasse sentiva un bruciore crescente
all’addome. Abbassò lo sguardo e vide la punta d’acciaio penetrargli senza
difficoltà nelle carni e il sangue scuro che scivolava sul metallo evaporava in
un istante bruciato dalla spada. Il dolore gli cancellò ogni velleità pacifica.
Con la velocità del pensiero le correnti d’aria che bloccavano il passaggio ai
ribelli esplosero verso di essi con violenza, sbalzandoli da terra e
sollevandoli a diversi piedi d’altezza. Con un ruggito di rabbia
dell’Elementale, i venti si mutarono in lame affilate e trafissero ogni cosa,
spezzarono le spade, ammaccarono gli scudi, penetrarono le armature e tagliarono
le carni dei combattenti. Vortici di sangue si dispersero nell’aria, sulle ali
delle folate della magia e per qualche istante gli occhi di Condios non videro
che il rosso del sangue versato e le sue orecchie esplosero delle urla delle sue
vittime. Tanto fu lo stordimento, che interruppe d’un colpo il suo attacco,
tagliando i torrenti della sua magia. Non più travolti nei vortici d’aria, le
centinaia dei corpi dei combattenti ricaddero scompostamente al suolo, in una
pioggia macabra e innaturale. La magia che pervadeva i loro corpi li abbandonò e
come fuoco fatuo, rientrò in spirali sanguigne all’interno dell’Elementale,
riempiendolo nuovamente di tutti i suoi poteri. Insieme alla magia, il sangue,
il dolore e le urla si riversarono in Condios, che assorbì ogni cosa con
lentezza dolorosa ed estenuante, tornando infine normale essere umano alla fine
del terribile processo. Crollò stremato sulle ginocchia, tenendosi la testa fra
le mani, tremante, sicuro che sarebbe potuta esplodere da un momento all’altro.
Non alzò nemmeno gli occhi per osservare l’ennesima strage dei suoi stessi
fratelli. Ci pensavano le loro ultime urla a dilaniargli la mente con freddezza
ed era il loro sangue, che adesso sentiva scorrere nelle sue stesse vene, a
gridargli che li aveva traditi, a ricordargli la sua
colpa.
La mano destra corse immediatamente al sacchetto che
teneva appeso in vita ed in pochi attimi ne estrasse l’erba allucinogena e la
mangiò, per lenire lo squarcio che gli feriva la mente. Prima che l’erba gli
annebbiasse i sensi, fece appello alle sue energie ed in una folata di vento
sparì verso sud, verso Fearin, lasciando ai nemici la possibilità di recuperare
i morti e i feriti e agli alleati il compito di chiudere il cancello e
ristabilire le difese. Ricadde lungo disteso sulla terrazza della torre rivolta
verso sud, quella da cui amava fissare i tramonti. Lì finalmente concedette al
suo spirito martoriato il riposo che desiderava.
…………………………………………………………………………………………….
I primi raggi d’oro e rosa dell’alba tagliavano il manto
frastagliato e bianco di nubi, riversando la loro tenue luce anche sul picco
innevato che ancora nessun piede mortale aveva calcato. Un silenzio irreale
regnava lì, dove il mondo finiva ed iniziava il dominio del cielo e dove i raggi
del sole baciavano con tocchi rosa una punta innevata che solo occhi immortali
avevano potuto ammirare prima di allora. E sospesi tra divino e mortale erano
gli occhi di vetro lucido che ammiravano dal tetto del mondo ogni cosa su cui
quella vetta dominava. Rivelavano un’anima afflitta, profondamente rattristata
da ciò che vedeva; e la sua vista perforava ogni cosa, oltrepassava miglia e
miglia di cielo e spaziava su tutte le terre abitate dalle creature degli dei.
Ovunque il suo pensiero desiderasse posarsi, lì l’occhio poteva giungere, fosse
la cima della Torre Bianca, le rovine devastate di Maruyl, la città gremita
diumani di Fearin, le cittadelle
sotterranee degli Albi o la stessaanima dell’Incarnazione. Da lì l’auroreo poteva vedere il proprio padre,
libero dei vecchi legami e prigioniero di una cupola d’acqua cristallina,
creazione di costrizione della Dama dell’Acqua. Sigillo irritante e resistente,
impossibile da spezzare, anche per lui, primo tra i figli di Selonir nell’uso
della magia. Adesso però non poteva pensare a liberare il proprio padre, sarebbe
giunto tanto prima o poi il momento della sua liberazione, che lui facesse o
meno qualcosa. Di questo era certo. Ora un’altra faccenda esigeva la sua
attenzione: aveva il dovere di vendicare i suoi fratelli uccisi e di portare a
termine i loro propositi. Suo fratello Siguya lo avrebbe aiutato ed esaudito e
avrebbe proceduto con la distruzione della Fortezza Bianca e della guarnigione
atelos a suo presidio. Poi avrebbe potuto anche distruggere tutte le terre
dell’Est, non gli importava. Lui invece avrebbe disperso le due popolazioni che
Reinor e Sular avevano avuto intenzione di combattere: notturni e albi.
Avrebbero pagato entrambe per la tracotanza che Alcols aveva dimostrato nel
volerle proteggere a prezzo della propria vitae di quelle dei suoi due fratelli. La
luce più intensa del sole nascente lo riscosse dai suoi propositi di rivalsa. I
preparativi erano quasi ultimati. Chiuse gli occhi, sorridendo e sospirò
profondamente. Quando li riaprì era in piedi, circondato da ombre nere nel pieno
delle foreste dell’Ovest. “Preparatevi! Richiamerò gli ultimi e poi partiremo.”
Nell’ombra scura degli alberi, notturni e albi obbedirono.
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Innumerevoli creature brulicavano nel crepuscolo che si
addensava sulla piana desolata e vuota che portava a Maruyl. Erano una
moltitudine compatta ma che si muoveva senza alcuna formazione precisa. Ogni
tanto piccoli gruppetti giungevano da ovest, est e nord per unirsi a quella
marea nera, che avanzava lentamente verso le rovine della vecchia capitale.
Procedevano con lentezza, muovendo a passi ritmati e pesanti le enormi moli dei
corpo informi, provocando un cupo rimbombo della terra. Poi incredibilmente,
d’improvviso tutti si fermarono quasi nel medesimo istante. Bastò un gesto della
guida, l’essere che precedeva tutti i suoi compagni, per far fermare tutti gli
altri. Davanti ai suoi piedi, più simili a zampe artigliate, stava disteso un
notturno svenuto. Portava addosso i segni di una recente battaglia e in
particolare la cicatrice enorme di uno squarcio sul ventre. Piegò la mole
enorme, curvandosi in avanti per osservarlo meglio. Le cicatrici sul volto non
lasciavano alcun dubbio, doveva trattarsi di un druido. Sorrise malignamente:
erano secoli che non trattava con qualcuno di quella sciocca setta, magari
sarebbe stato divertente maltrattarlo un po’ prima del massacro. Ebbe un brivido
e tutte le protuberanze mostruose del suo corpo si ritrassero, fino a scomparire
e la sua taglia diminuì fino a che il suo aspetto non ritornò vagamente umano.
Pose una mano biancastra sul ventre di Zeriol e il druido spalancò gli occhi,
ansimando e guardandosi attorno disorientato. “Alzati.” Gli ordinò il capo
dell’esercito. Il notturno dapprima non si mosse, respirando affannosamente e
sembrando ancora in parte frastornato. Alzandosi lentamente, intorpidito,
sussultò per una fitta di dolore che lo colse rapida allo stomaco. Si guardò la
ferita ormai rimarginata e poi volse intorno lo sguardo con ansia, individuando
con stupore le ombre colossali che aspettavano immobili nell’oscurità. “Dimmi
chi sei!” Gli chiese in tono perentorio il comandante dell’esercito. “Ci si
presenta prima di chiedere il proprio nome.” Rispose con un sorriso spavaldo
Zeriol, alzando il pugno vicino al viso del suo interlocutore. Il pugno emanò
una pallida luminescenza e il notturno poté fissare negli occhi chi aveva di
fronte. Sarebbe stato meglio se non lo avesse fatto. Ogni arroganza sparì dal
viso e la sorpresa fu tale che perse il controllo di quella seppur semplice
magia e il debole pallore si esaurì immediatamente. Per la seconda volta nella
sua vita ebbe paura.
…………………………………………………………………………………………
L’Astro Bianco alzò lo sguardo al cielo notturno e i
fulmini bianchi sul suo viso brillarono alla tenue luce stellare. Una esile
cortina di nubi velava il firmamento conferendo una luminescenza più opaca agli
astri, eppure dai loro perpetui percorsi celesti si riusciva comunque a carpire
le intenzioni del destino. Come bagliori e pioggia di luce, le parole delle
stelle giunsero dal cielo, come stille di rugiada cadenti dalle fronde e gli
occhi di Ràidames si atterrirono quando anche l’ultima parola fu intesa, come se
un nuovo peso gravasse su di lui.
“Ombre…” Sussurrò, portandosi una mano al capo,
incredulo.
“Spiegati meglio.” Disse Zacho, rivolgendosi con tono
interrogativo all’auroreo, mentre Shalia rimaneva silenziosa al suo fianco. “I -
i morti.” Balbettò disorientato l’atelos. “I morti sono stati evocati per
combattere…”.
“Sei sicuro di quello che dici? Non sarà che la vista ti
ha giocato un brutto scherzo?” Chiese scettico Zacho. “No, non si sbaglia.”
Shalia intervenne improvvisamente, facendo girare entrambi verso di lei. “Posso
sentire il dolore di un numero sempre crescente di anime sorgere dalla terra.”
Il Re abbandonò la leggera altura del suo posto di
osservazione e si fermò corrucciato vicino ai due Cavalieri, dicendo. “Dobbiamo
radunare immediatamente le nostre forze.” Fissò preoccupato gli occhi dei due.
“Un nemico costituito da simili avversari è un pericolo che non abbiamo mai
sperimentato.” Si volse vero Shalia, con tono adesso frettoloso, mentre si
incamminava. “Credo che avremo soprattutto bisogno del tuo aiuto come Dama
dell’Acqua, Shalia.” La donna sorrise, apparentemente contenta di poter rendersi
utile ancora una volta. Si avviarono insieme verso il centro dell’accampamento,
dominato da un’ampia tenda, dove il redivivo Yonuel adempiva dalla sua tenda ai
suoi compiti di generale. Avevano appena sorpassato le due guardie poste
all’esterno della tenda, che un corno, dal suono basso, cavernoso e prolungato
fece udire il suo richiamo alle porte dell’accampamento. “Albi.” Sentenziò
Zacho. “Era solo una questione di tempo prima che arrivassero.” Aggiunse l’Astro
Bianco. “Avranno scoperto a loro spese qual è la nuova minaccia che incombe su
di noi.
…………………………………………………………………………………………
“Tu… tu…non puoi…sei… sei Siguya.” Una risata rauca e
prolungata suonò in risposta alle parole di Zeriol. “E’ un onore che un insetto
come te mi conosca.” Si fissarono nel buio, senza che nessuno dei due si
muovesse, ma il notturno si accorse con rabbia che gli tremavano le mani.
“Il vecchio Golaros deve averti parlato di me, presumo.”
Zeriol ringhiò sommessamente a sentire quel nome, pronunciato con tanta
irriverenza. “Non penso che stia molto bene, se è ancora vivo. Purtroppo le
ferite da me inflitte non si possono risanare se non con i poteri di un
Elementale dell’Acqua.” Siguya distolse lo sguardo dal notturno, iniziando a
passeggiare sadico intorno a lui, come un cacciatore che si diverte a torturare
la preda, ormai in trappola. “Raccontami, te ne prego, ti avrà pur detto
qualcosa di me.”
Il druido serrò la mascella, ma cercando di mantenere la
calma e la mente lucida, rispose: “ Tu sei Siguya della razza Siguya, figlio di
Selonir, così potente da poter portare il nome della tua stessa razza.” Il
mostro batté le mani, sarcastico. “Ottimo, e poi?” Zeriol mosse gli occhi
attorno, con la mente alla frenetica ricerca di una qualche possibilità di fuga.
“So che su dite non ha alcun potere la magia dei druidi o quella degli
Elementali, che nemmeno le armi magiche hanno effetto sulla tua pelle. Inoltre
le ferite che procuri non si possono rimarginare.”
“Nulla di più giusto.” Confermò Siguya. “E dimmi
un’altra cosa. Tu sei il suo Erede, giusto? Altrimenti non avresti potuto sapere
di me. Chi ha avuto abbastanza potere da ridurti così?” Chiese incuriosito
accennando alla cicatrice al petto, fissandolo negli occhi. “Non sembra una
delle vostre ferite rituali.” Zeriol deglutì. Doveva farlo adesso, altrimenti
non avrebbe avuto altre occasioni per scappare.
“Allora? Cos’è?” Insistette Siguya. “Questo è …” disse
sorridendo forzatamente il druido. “… un segreto.”
Nello stesso istante una luce fortissima e accecante
scaturì dal corpo del notturno, abbagliando chiunque lo stesse fissando. Siguya
urlò di rabbia, portandosi le mani a coprire gli occhi, che bruciavano come se
fossero stati di fuoco. Sentì distintamente un debole sbattere d’ali davanti a
se e quando pochi istanti dopo riuscì a vedere, sfocatamene, del druido non
c’era più alcuna traccia.
Si guardò intorno, senza trovarlo, poi alzò rabbioso lo
sguardo al cielo e lo vide. Un falco dal piumaggio bluastro si stava sollevando
sempre più in alto, sbattendo velocemente le ali verso est, verso la salvezza.
Siguya inveì contro la sua stupidità ad alta voce: aveva dimenticato che alcuni
tra i druidi apprendono l’arte della metamorfosi animale. Non importava, dopo
aurorei ed umani, avrebbe regolato i conti anche con Golaros e i suoi folli
discepoli. Con un gesto spazientito, il suo esercito si rimise in moto: ormai
Maruyl era già in vista.
…………………………………………………………………………………….
Gli ultimi raggi del sole morirono a ovest, togliendo la
luce alle fiamme baluginante degli occhi di Serìa. Era agitata e contrariata e
mal sopportava la lenta andatura a cui lei stessa costringeva il proprio
cavallo. Si guardò intorno per controllare che tutto fosse in ordine. Tutte le
sentinelle erano ai loro posti, anche quelle che non sarebbe dovuta essere stata
in grado di vedere. Avvertiva di tutte il calore vitale, sicché poteva
facilmente individuarle anche nell’oscurità più totale. In tutto venticinque
notturni la stavano accompagnando nel suo compito di scorta del ragazzo. Il
carro procedeva ad andatura lenta, in maniera quasi allucinante, ma non avevano
altra maniera per trasportare Anarion. A cavallo avrebbero impiegato poco più di
una settimana, mentre allora erano in cammino da cinque giorni e non avevano
coperto nemmeno un quarto del percorso. E lei aveva una fretta incredibile di
tornare a Fearin per proteggere il Principe ed estirpare la rivolta. Al solo
pensarci, un brivido di rabbia le contrasse i muscoli ed alcune scintille di
luce iniziarono a brillare intorno a lei. Il nitrito del cavallo, allarmato
dall’innaturale evento, la fece calmare. Nell’ultimo periodo non aveva fatto
altro che tormentarsi, costretta a crogiolarsi nell’inattività, ma finalmente il
tempo di tornare in campo stava giungendo. Non avrebbe permesso a quei
facinorosi di sconvolgere l’ordine centenario che governava sul Regno degli
Uomini del Sud. Non poteva credere che la figlia del precedente Principe,
Mighel, potesse farsi promotrice di una rivolta capace di distruggere il regno
di suo padre. E che dire dei quattro traditori che l’avevano seguita? Avevano
gettato fango sull’onore dei Cavalieri del Sole. Un onore che lei avrebbe
ripristinato uccidendoli, se necessario, o se glielo avesse ordinato il
Principe. E adesso stava portando a Fearin l’arma che avrebbe garantito loro una
vittoria assoluta sulla rivolta. Il ragazzo sarebbe stato uno strumento
facilmente utilizzabile per gli scopi del Re e sarebbe bastata l’influenza di
Condios per piegarlo ai propri scopi. Sorrise fra sé. Forse non ci sarebbe
nemmeno stato il bisogno che si scomodasse lei in persona: sarebbe stato il
ragazzo a sporcarsi le mani con il sangue delle migliaia di
rivoltosi.
Capitolo 22 *** Yonuel e Ràidames preparano la battaglia ***
l
Un’atmosfera carica di tensione permeava l’ampia tenda
da campo di Yonuel. Il generale sedeva, fasciato abbondantemente all’altezza del
petto e sulle braccia, dietro una piccola scrivania colma di mappe e fogli di
missive dalla capitale. Il capelli blu cobalto erano spettinati e quasi per
nulla curati. Da che si era ripreso dal suo scontro con il druido, quasi
ininterrottamente per quattro giorni non aveva fatto altro che lavorare,
organizzando le difese, rispondendo alle missive del Concilio e a quelle del
nuovo Astro Nero, accogliendo i reparti di rinforzo che giungevano da ogni parte
del regno e ascoltando personalmente i rapporti che i suoi esploratori gli
portavano. Aveva gli occhi cerchiati da profonde occhiaie, che risaltavano anche
sulla pelle scura. “Ben trovati” disse a Ràidames e ai Cavalieri quando
entrarono, alzandosi a fatica dal proprio seggio e appoggiandosi con le mani al
tavolo. “Siedi pure.” Disse l’Astro Bianco, pacato, e il notturno obbedì, grato.
“Sedete anche voi” Yonuel indicò alcuni seggi alla sua
destra. “Sto per ascoltare alcuni albi giunti dal nord con notizie importanti, a
quanto pare.”
Rumori concitati appena fuori dalla tenda fecero voltare
tutti gli astanti e pochi secondi dopo quattro figure longilineee muscolose oltrepassarono la soglia
della tenda. Si trattava degli albi annunciati dal generale. Avevano tutti i
capelli chiari e carnagione altrettanto candida, arrossata e screpolata dal
sole, a cui non erano abituati, e occhi luminosi e sottili, simili a quelli dei
felini.
Portavano elmi leggeri sul capo e vestivano cotte di
maglia e sopra di esse corpetti di cuoio borchiato. Non portavano con loro armi,
che evidentemente era stato richiesto loro di lasciare all’esterno della tenda;
una precauzione che nonostante notturni e albi fossero alleati, era resaquasi necessaria dallo stato di allarme
nel quale versava l‘accampamento. Avevano un’aria inquieta, come se l’incalzare
degli eventi premesse su di loro, sensazione che trasparì anche dalla fretta con
la quale il primo del gruppo si fece avanti con un rapido inchino del capo e
portatosi quasi davanti al tavolo del re, rifiutò con un cenno sbrigativo
l’invito a sedersi, iniziando subito a dire: “Non abbiamo tempo per i
convenevoli, Generale. Siamo prepotentemente schiacciati dagli eventi: quale è
la consistenza delle tue forze?” Yonuel non si scompose, ma fissò negli occhi
l’albo, notando come il braccio destro gli tremasse lievemente sotto la cotta.
“Novemila spade, tremila cavalli, cento cinquanta incantatori e cento guaritori.
La quasi totalità dell’esercito.” Tacque qualche secondo. “La guerra dunque
preme a nord?” L’albo sorrise, suo malgrado. “La guerra è su di noi.” Strinse i
denti, dissimulando stentatamente un improvviso dolore. “Un male che non
comprendiamo tenta di distruggerci. Migliaia di albi attaccano da ovest.” Il
generale si alzò lentamente, sorpreso. “Ribelli?” “No. Morti.” Si limitò a
rispondere laconico l’ albo. “Cosa intendi dire?” Intervenne l’Astro Bianco.
L’inviato sembrò accorgersi sol ora della presenza degli altri presenti. “Non
sappiamo spiegarlo con precisione.” Disse riavvolgendo lentamente la cotta di
maglia dall’altezza del polso a quella del gomito. “Sono anime di defunti. Ombre
evanescenti del passato, dotate di sostanza e tornate a distruggerci.”Zacho volle allora chiedere: “Non vi
sarete lasciati ingannare?”
“Ah!” Rise amaramente l’albo, mostrando un’orrenda
ferita lungo il braccio, fradicia e infetta, come in putrefazione. “Fantasmi, vi
dico. Sono quasi immuni alle nostre armi e le armature non servono a difendere
dalle loro lame incorporee. Una ferita inferta da loro degenera rapidamente,
come se il corpo venisse infettato da un qualche morbo che lo debilita
fortemente. Solo la magia le guarisce e noi abbiamo pochi guaritori. E’
richiesto il vostro immediato aiuto.” Concluse secco l’inviato, riavvolgendo la
cotta di maglia sopra la ferita, non senza una smorfia di
dolore.
Yonuel sembrò rifletterealcuni secondi, poi si alzò, ordinando
con il tono autoritario che la sua carica gli conferiva: “Metà dell’esercito
partirà con voi, da me guidato, per recare aiuto. Non intendo fare di più.”
Precisò vedendo la faccia delusa dell’albo. “Non lascerò sguarnita la difesa
delle nostre terre.” Fissò l’albo negli occhi. “D’altronde non abbiamo garanzie
che questi…” esitòun
secondo”…fantasmi non attacchino anche le nostre terre.” Sospirò, risedendosi
sul suo seggio, come cercando di ritrovare la forza per pensare lucidamente.
“Andate a farvi medicare. Fra sei ore partiremo.”
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Lasciarono il campo esattamente come aveva stabilito il
Generale. L’esercito si diresse ordinato e silenzioso verso Nord, incuneandosi
attraverso le rade foreste che si inerpicavano verso i territori degli Albi.
Dietro l’avanguardia della cavalleria leggera seguivano, circondati da una
numerosa scorta di Proscritti, il generale Yonuel e il suo seguito di compagni,
costituito dall’Astro Bianco, i Cavalieri Zacho e Shalia. Non potevano procedere
troppo velocemente poiché la maggior parte dell’esercito, appiedato, non avrebbe
potuto sostenere la fatica di una marcia a tappe forzate per poi unirsi ad uno
scontro che a quanto era stato loro riferito, già infuriava. Ai combattimenti
aveva preso parte anche il Re degli Albi, Urionar, che insieme a pochi altri
guerrieri, era capace di tener testa in battaglia ai morti senza venirne
sopraffatto e che riusciva seppur stentatamente a mantenere ferma la linea del
fronte di battaglia al Monte Metlox, un enorme cratere di origine antichissima
che si trovava all’incirca alla linea di confine tra i territori delle due
popolazioni. Yonuel camminava silenzioso davanti a tutti, sforzandosi di
mantenersi il più alto e sicuro possibile agli occhi dei suoi soldati. La
notizia di un male misterioso che si dibatteva a nord per invaderli serpeggiava
già tra le fila del proprio esercito, fiaccandone il morale e finanche le
energie. Doveva dimostrarsi pronto e coraggioso contro qualunque avversità che
gli si fosse parata contro, se non avesse affrontato per primo gli stessi
pericoli che chiedeva ai suoi soldati di combattere, essi non avrebbero potuto
trovare la risoluzione e la forza d’animo necessari per sopravvivere. Così,
nonostante i consigli di Ràidames, si ostinava a cavalcare quasi al passo,
sempre davanti a tutti, riposando alla maniera aurorea, che così pochi notturni
erano ancora in grado di praticare, solo poche ore. Anche la seconda delle due
notti di viaggio, all’alba del loro arrivo al campo di battaglia, non fece altro
che girare per tutto il campo e per ogni guerriero ebbe una parola, un sorriso,
per coloro che affilavano le spade, per i molti raccolti intorno ai fuochi del
campo e perfino per le sentinelle disposte intorno all’accampamento, che si
sincerò di salutare personalmente prima che si recassero ai loro turni di
guardia. Ovunque la sua presenza recava conforto e rafforzava gli animi e quando
a tarda notte, tornò esausto alla sua tenda, si accasciò quasi senza forze sul
suo giaciglio, rassicurato. Aveva svolto bene il suo compito: i suoi uomini
l’avrebbero seguito verso qualunque destino.
Ben altri pensieri agitavano invece la mente dell’Astro
Bianco. Per la durata di tutto il primo giorno l’auroreo aveva scandagliato la
sua memoria alla ricerca di ricordi fra le proprie memorie e quelle ereditate
dal padre che potessero aiutarlo in quel momento. Riuscì solamente a richiamare
alla memoria che l’evocazione di un’ombra, di un morto e l’intento di
conferirgli nuovamente una forma corporea e tangibile richiedeva una notevole
quantità del sangue per eseguire il rituale. La possibilità che qualcuno potesse
aver compiuto un simile sacrificio di vite lo faceva rabbrividire. Un pensiero
gli attraversò la mente;esisteva
tuttavia un sangue così intriso di magia e vita che una sola stilla poteva
bastare a richiamare decine di fantasmi: l’Idor, che si diceva scorresse nelle
vene degli dei immortali. Sin da tempi antichissimi il sangue divino era ciò che
celava il segreto dell’immortalità e della forza delle divinità ed era
considerato la fonte dalla quale sgorgava il loro incontrastabile potere.
Liquido brillante e trasparente, era intriso della scintilla di vita immortale
che gli dei avevano sempre posseduto ed il sangue di ogni divinità custodiva
caratteristiche peculiari, straordinarie. Non sarebbe stato quindi assurdo
pensare, secondo il pensiero di Ràidames, che qualcuno dei figli di Sèlonir
stesse continuando le macchinazioni dei propri fratelli, le stesse che Sire
Alcols aveva sventato con il proprio sacrificio. In tal caso il loro nemico
sarebbe stato dieci volte più pericoloso di quanto non temesse già. Erano
tuttavia solo sue supposizioni. E inoltre si palesava il problema di come
affrontare l’armata di morti viventi che si apprestavano a combattere. Non
sapevano quasi nulla dei loro nemici, se non che le loro armi ferivano le carni
senza intaccare le armature e i loro corpi non conoscevano l’ingiuria delle armi
degli Albi. Come avevano fatto quindi gli Albi a resistere? Le notizie riportate
dai delegati non erano state sufficienti a chiarirgli la situazione: avevano
infatti riferito che alcuni albi, in
momenti diversi riuscivano a
combattere ad armi pari, quindi non erano sempre gli stessi guerrieri a
riuscirci, anche se Sire Urionar e la sua Corte erano sempre tra questi. Non era
riuscito a sciogliere il quesito e il metodo per riuscire a sconfiggere le ombre
gli sfuggiva ancora: avrebbe dovuto affrontarli in battaglia per riuscirci, ma
forse allora sarebbe stato troppo tardi. Trascorse anche tutto il secondo giorno
di marcia a meditare, spesso ponendo domande per chiarimenti ai delegati e
alleviando il peso delle proprie preoccupazioni confidando i propri dubbi ai due
Cavalieri. Non riuscì tuttavia a giungere ad una conclusione nemmenoalla fine del secondo giorno, quando lo
scontro ormai già infuriava aNord
e per loro incalzava entro l’indomani. Quando si sedette scoraggiato sulla
branda della sua tenda, era disperato e soprattutto furente: odiava sentirsi
impotente, lui, detentore di un retaggio di potere e saggezza che affondava le
sue radici in secoli di passato. Fissò la pietra trasparente trattenuta nella
fauci del suo bastone ed un lampo bianco baluginò in essa allo stringere della
sua presa. Non aveva altra scelta, sarebbe dovuto andare a spiare il nemico sul
campo di battaglia Era rischioso, pericoloso e audace fino all’incoscienza, ma
necessario. Inoltre quello era davvero il momento opportuno, se uno scontro era
già in atto non lontano da loro. Respirò a fondo e, con lentezza carica di
tensione, si inginocchiò al suolo, tenendo il bastone in terra davanti a sé e
rimase in una quieta concentrazione per parecchi minuti. Stille di sudore gli
rigarono la fronte e le guance, gocciolandogli dal mento in grembo. Teneva le
mani immobili, con i palmi sui ginocchi, ma ad intervalli irregolari, sempre più
frequentemente, gli fremevano per pochi istanti. Aveva gli occhi bianchi aperti,
ma erano fissi sul vuoto, intenti a scrutare un’immagine che gli sfuggiva
continuamente. In pochi attimi persero candore e splendore e i fulmini
baluginanti del volto si ritirarono, togliendo ogni luminosità ai lineamenti di
Ràidames. Il respiro non mutò mai d’intensità, ma rimase sempre regolare,
ritmato e profondo, come di chi inspiri con forza prima di un balzo. La magia
sgorgò dal suo corpo come una violenta eruzione e lo spazio intorno all’auroreo
rifulse delle correnti di energia bianca che da ogni parte della sua pelle si
sprigionarono. Aleggiarono attorno al loro possessore pochi istanti, per poi
rifluire, condotte docilmente, all’interno della sfera del bastone dacronico. La
magia palpitò qualche attimo nella pietra e poi scomparve togliendole ogni
luminescenza e lasciando l’intera tenda nel buio. Nulla vi si vedeva o si udiva,
anche il respiro dell’auroreo si era interrotto. Il suo corpo si era accasciato
su un fianco ed ora giaceva immobile al suolo, privo di qualsiasi vita. L’Astro
Bianco era morto.
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La ragazza si destò all’improvviso, sconvolta e
disorientata dalla visione a cui aveva assistito in sogno. Aveva sognato il
ragazzo. Ancora una volta. Questa però differiva dalle altre. Spesso lo aveva
osservato mentre camminava triste e solo per ampie vallate o valichi pietrosi,
con i capelli biondi striati di macchie bianche e gli occhi incupiti da un velo
di tristezza. Altre volte di spalle, a torso nudo e tra i capelli che gli
ricadevano fluidi lungo il dorso aveva visto con stupore, impresso a fuoco sui
muscoli, il disegno di un sole. Ogni visione era sempre accomunata dalle
medesime apparenze: il ragazzo era sempre d’aspetto calmo e mite, vestito di
umili abiti, e talvolta con le lacrime agli occhi, quando chiuso in sé stesso,
sedeva immobile a fissare il vuoto. Negli ultimi tempi, tuttavia, il ragazzo era
cambiato. Una prima volta l’aveva ammirato brillare, come di magia, in armatura
aurorei e stava eretto, con il viso umido di pianto e gli occhi divisi tra
rabbia e dolore, a fronteggiare un nemico che non le era dato scorgere. Altre
due visioni inusuali si erano succedute nell’ultimo periodo, addirittura a
distanza di una sola notte. La prima visione l’aveva molto impressionata. A
stento aveva riconosciuto il ragazzo. Era mutato nell’aspetto a tal punto da
spaventarla. I capelli dai riflessi dorati erano diventati di un nero cinereo e
gli aleggiavano intorno sospesi a mezz’aria. La pelle chiara si era inscurita, i
muscoli si erano gonfiati, come se una grande pressione rischiasse di
distruggerlo dall’interno, gli occhi avevano perso il colore limpido pertrasformarsi in braci ardenti. Quella
notte si era svegliata con l’impressione che un grande pericolo gravasse sul
ragazzo ed aveva quasi la consapevolezza che riguardasse anche lei. Il sogno
successivo l’aveva in parte tranquillizzata e preoccupata. Il ragazzo era
tornato alla normalità, ma giaceva immobile. Sembrava essere caduto in un sogno,
o forse era morto? Il dubbio l’aveva tormentata per qualche tempo, ma infine
l’aveva liberata. Era una sicurezza strana: non aveva alcuna prova che il
ragazzo fosse vivo, eppure sentiva senza alcuna incertezza che lo era. Non
riusciva a spiegarlo neppure a sé stessa, era come se tra lei e il ragazzo dei
suoi sogni esistesse un legame empatico che le permetteva di percepire i suoi
sentimenti senza scambiarsi parole. E c’era un’altra cosa di cui era certa: il
ragazzo non era frutto della sua immaginazione; esisteva, esisteva davvero e
sentiva che presto si sarebbero incontrati, avvertiva con chiarezza che i loro
cammini stavano procedendo ineluttabili per intrecciarsi. Sospirò sconsolata,
portandosi una mano sugli occhi, per schiarirsi i pensieri già così confusi; con
tutti gli eventi che la stavano travolgendo non avrebbe dovuto lasciarsi
distrarre dalle sue fantasie. Uno stridio la fece voltare. La porta della sua
stanza si aprì e nella penombra un uomo entrò a capo chino. “Principessa…”
L’uomo esitò attendendo che la ragazza gli concedesse la parola. “Parla pure,
Cedrio.” Si alzò stancamente dal giaciglio. “Temo sia inutile continuare a
ricordarti di non usare certi atteggiamenti con me, come di usare il mio nome
senza titolo onorifico.” Cedrio sembrò ignorare le parole della ragazza,
riferendo la situazione in tono freddo e distaccato. “Condios ha respinto anche
l’ultimo nostro assalto a Karaiza e stavolta le perdite sono state maggiori
rispetto alle altre volte.” La ragazza rimase immobile,
silenziosa.
“Tuo fratello sta facendo davvero un ottimo lavoro a
quanto pare.” Osservò stancamente.
L’uomo non ebbe alcun segno di reazione, ma continuò con
voce atona. “Questa è già la sesta volta che si trasforma in appena due
settimane. Il suo corpo non ne reggerà un’altra.”
La ragazza lo fissò con intensità: “Cosa consigli?” Il
tono di Cedrio non variò di intensità.
“Non mandare più solo piccoli battaglioni, stavolta
scaglia tutta la nostra forza radunata davanti Karaiza. Non potrà resistere e lo
scontro sarà finalmente ad armi pari. Anzi probabilmente la fortuna sarà dalla
nostra, visto che ci sottovalutano con una guarnigione di difesa
insufficiente”.
La ragazza
rimase silenziosa, quasi non pareva convinta. “Inoltre manda anche Deidre.
Nell’eventualità che qualche altro Cavaliere prenda parte alla difesa.”
La
Principessa si avvicinò all’uomo, posandogli una mano sulla
spalla. “La tua fedeltà è una delle cosepiù care che posseggo, Cedrio, ma…” Esitò pochi istanti. “Non ti dispiace
per tuo fratello?” L’uomo nonmosse
un muscolo, né la sua voce si incrinò:
“Io ho scelto la mia strada, lui la sua. Non rimpiango
la mia scelta.” Solo ora si risolse a guardare negli occhi la ragazza. “Posso
prendere congedo?” La
Principessa tolse la mano dalla spalle dell’uomo. “Dai pure
ordine di agire come mi hai consigliato. Puoi andare.” Cedrio si voltò e
silenzioso chinò il capo e un attimo prima di chiudere la porta disse: “Ho fatto
un giuramento a tuo padre, Principessa. Gli ho giurato che ti avrei difeso
contro chiunque, fosse anche il mondo intero, e che ti sarei stato vicino in
ogni situazione. Tu vieni prima di ogni cosa per me”. Ciò detto si chiuse la
porta alle spalle e ora che nessuno lo poteva vedere, gli occhi gli si
inumidirono di dolore. Orgoglio, onore e affetto gli si dibattevano nell’animo,
sconvolgendolo con sentimenti e pensieri contrastanti. Scosse la testa. Forse
presto il sollievo sarebbe giunto anche per lui, sottraendolo a quella
situazione dolorosa priva d’uscita, che da un lato lo vedeva assassino dei suoi
fratelli e dall’altro traditore degli ideali difesi per secoli dalla sua
famiglia. Forse la morte sarebbe venuta a trarre in salvo anche
lui.
Capitolo 23 *** I Cavalieri traditori, la fonte del sangue ***
l
La stanza sotterranea era permeata dal silenzio e dalla
tranquillità. I muri di pietra, umidi e scuri, erano la cornice di una stanza al
cui centro un tavolo circolare in legno con quattro sedie costituiva l’unico
arredamento. La sola fonte di luce era costituita da una lampada ad olio posta
al centro del tavolo, mentre l’unica via d’uscita era una porta di legno
massiccio, completamente aperta e affacciata sul buio. Uno solo dei seggi era
occupato. Un giovaneuomo dalla
scura barba rada ed un cappello a falde larghe sedeva fissando il soffitto.
Vestiva abiti stracciati e miseri e non portava con sé nulla se non una sacca da
viaggio e bottiglia di liquore larga e dal collo stretto. Il liquido era così
forte che l’odore acre saturava completamente l’aria e per la bassa temperatura
del locale, si condensava in sottili fili divapore ogni qual volta toglieva il tappo
di sughero alla bottiglia. Ne bevve alcuni sorsi, con noncuranza, e le gote gli
si arrossarono. I minuti passarono lenti e quieti e sembrò quasi che l’uomo
stesse per addormentarsi, quando, chiudendo gli occhi e sedendo sulla sedia in
equilibrio sulle gambe posteriori e con i piedi poggiati sul tavolo, il suo
respiro divenne regolare e profondo, come nel sonno. Nulla si mosse nella
stanza, che l’uomo aprì debolmente gli occhi e mormorò: “Non capisco davvero
cosa ti costringa ad arrivare in ritardo alle riunioni, Mory.” Il seggio alla
destra dell’uomo si spostò all’indietro e un attimo dopo, un uomo incappucciato
vi sedeva immobile. La sua voce fredda e atona risuonò nella sala sotterranea.
“Le difese magiche attorno a Fearin sono aumentate a tal punto che nemmeno
unapersona invisibile può entrare
ed uscire tranquillamente.” Il volto sotto il cappuccio si voltò verso l’uomo.“E
comunque, Layrus, non sono certo l’ultimo ad essere arrivato.” Layrus tolse i
piedi dal tavolo, mettendosi stancamente a sedere e bevendo un’ampia sorsata del
suo liquore. “Solo perpoco, Deidre
è appena giunto.” Un guizzo di luce serpeggiò nella stanza, fermandosi sul
seggio alla sinistra dell’uomo e condensandosi nella figura snella e slanciata
di un uomo dai capelli corti e biondi. L’uomo guardò per un secondo gli altri
due, poi quando Layrus bevve un altro sorso della sua bevanda e si sentì
rimproverare dal nuovo arrivato: “Non pensi di esagerare?” In tutta risposta
l’uomo sbuffò: “Non assillarmi, Deidre. Piuttosto sei in ritardo…” Osservò con
sguardo accusatore. Deidre si limitò ad alzare le spalle: “Credi che abbia vita
facile con il mio potere?” Si portò stancamente una mano tra i capelli.
“Nonostante siamo dei traditori, la Principessa mi ha manda
costantemente a pattugliare i territori orientali, anche per il bene di quelli
che ci danno la caccia.”Si
appoggiò stancamente alla sedia, alzando gli occhi al soffitto. “Ieri ho dovuto
affrontare una dozzinadi druidi
che si stavano dirigendo a Loidra. Una dozzina! Da solo, non so se ti è chiaro!”
Disse con sguardo veemente.
“E soprattutto come mai non ti sei ancora lamentato del
ritardo di Cedrio? E’ l’ultimo oggi.”
Layrus sbuffò. “Ma che dici? E’ già qui, non vedi?” Il
biondo si girò verso l’ultimo seggio e constatò con sorpresa che era adesso
effettivamente occupato dall’uomo che aveva nominato.
“Non vi capisco proprio, ragazzi.” Sbuffò Layrus,
togliendosi il cappello e rivelando una corta capigliatura terrea e scapigliata.
“Non sapete proprio fare a meno di queste entrate ad
effetto?”
Il corpo di Mory si agitò leggermente sotto il mantello
e la sua voce sibilante suonò leggermente irritata: “Se ricorriamo ai nostri
poteri anche per incontrarci è per attirare il meno possibile l’attenzione e per
non mettere a rischio la segretezza delle nostre riunioni, come fai tu con il
tuo atteggiamento disfattista.” Poggiò un pugno guantato sul tavolo di legno.
“Sai in quanti mi pedinavano? Cinque! Ed io posso rendermi invisibile!” Layrus
bevve noncurante dalla sua bottiglia, mentre Mory continuò, nervoso: “Immagina
quanti avranno seguito te, che agisci senza pensare alle conseguenze!” Il
bevitore si girò di scatto, rabbioso: “Idiota, ho seminato tutti i miei
inseguitori. E almeno io non ho dovuto ucciderli.” La mano di Cedrio calò sul
tavolo, aperta, con un tonfo sordo che placò gli animi dei due, riportandoli al
silenzio. “Non è il momento.” Li guardò tutti con aria imperturbabile. “Sarò
breve. Deidre, unisciti alle nostre truppe davanti Karaiza e conduci l’assalto
alla città. Layrus, vai a nord portando con te non più di tre dei tuoi uomini
migliori. Abbiamo avuto notizie su un esercito di Siguya in avvicinamento,
controlla la veridicità di queste notizie e ritorna a riferirmele. Mi troverai
ad Aziarak con la
Principessa.” Tutte e due le volte che nominò i Cavalieri li
fissò negli occhi, per sincerarsi delle loro intenzioni dalle espressioni dei
loro visi, che rimasero pressoché inespressive, tranne lievi cenni di assenso.
Quando si volse verso Mory esitò qualche secondo prima di parlare, cercando
vanamente di penetrare con gli occhi l’oscurità che gli celava il viso sotto il
cappuccio. “Mory, recati dalle nostre unità infiltrate a Delos, prepara
l’insurrezione per quando le nostre truppe attaccheranno la città. Resta lì in
attesa di istruzioni.”
“Ho il permesso di uccidere?” Chiese Mory con voce
atona, quasi non avesse alcun altro interesse. “No.” Rispose perentorio Cedrio.
“Il tuo modo di uccidere è inconfondibile e uccisioni indiscriminate potrebbero
inimicarci il favore del popolo, che adesso ci appoggia.”
“Nemmeno se avessi la possibilità di uccidere i capi
delle forze lealiste o i Cavalieri di stanza nella città?” Cedrio non rispose,
ma si limitò a dire. “Adesso andate.”
Deidre chinò il capo e la sua immagine si illuminò un
attimo, sparendo, e una striscia di luce guizzò oltre la porta. Layrus grugnì in
segno di assenso e alzandosi, lanciò, ancora arrabbiato, la propria bottiglia,
ormai vuota, contro la parete, mandandola in frantumi. Si voltò un’ultima volta
verso gli ultimi due Cavalieri, con sguardo indecifrabile, poi si inoltrò nel
corridoio buio.
Cedrio e Mory rimasero immobili e silenziosi finché i
passi di Layrus non si spensero in lontananza.
Le
parole dell’ assassino suonarono di nuovo, insistenti e suadenti, come se
riprendesse un discorso appena interrotto: “Allora?” La voce di Cedrio tremò: aborriva più di ogni altra cosa quel modo
di agire, ma non poteva farne a meno in quel momento: “Solo i Capitani e i
Cavalieri.” Detto ciò scomparve, lasciando dietro di sé solo una scia di
minuscoli cristalli ghiacciati.
Mory, rimasto solo, stette immobile ancora alcuni
secondi, come in attesa, tenendo la testa abbassata. Poi tutto si svolse a
velocità impressionante. Fu come se l’udito dell’assassino percepisse un rumore
fragoroso deflagrare all’interno della stanza, eppure nulla che sensi umani
avrebbero potuto percepire si mosse o si udì. Si voltò di scatto verso destra ed
al suo movimento fece seguito quello del braccio, talmente rapido che nessuno
avrebbe potuto vedere il pugnale dall’ elsa d’argento partire veloce e micidiale
dalle maniche del mantello. Nemmeno la spia al servizio del Principe se ne
accorse. Sentì solo un bruciore violento alla gola e il sapore ferroso del
sangue che gli riempiva la bocca. Non mosse nemmeno un muscolo e la mente gli
impazzì pervasa da un frenetico susseguirsi di pensieri mozzati e intenzioni
irrealizzabili, per poi spegnersi d’un tratto, facendolo crollare a terra, come
un burattino a cui erano stati spezzati i fili. Il suo corpo apparve lentamente,
come se un velo gli venisse lentamente sfilato dal corpo, rivelando il viso di
un ragazzino dagli occhi azzurri e i lunghi capelli biondi, completamente
avvolto da un mantello simile a quello del suo assassino, solo imbrattato dal
sangue che copioso sgorgava dalla gola. Mory si avvicinò al corpo della sua
vittima e con lentezza sfilò il pugnale imbrattato di sangue, fissando il volto
del giovane. Si ricordava di lui. Doveva chiamarsi Sila, se non s’ingannava. Era
il suo miglior allievo quando era a capo dell’ordine degli assassini del
Principe. Peccato. Con calma freddezza, pulì il pugnale nel mantello del vecchio
discepolo e rimase fermo a fissarlo. Lentamente la sua immagine iniziò a
fondersi nell’oscurità sempre più densa del sotterraneo. In breve di lui non
rimase nulla. E mentre scivolava, silenzioso come un gatto, attraverso l’uscita,
ripromise a sé stesso di essere più attento e prudente. Se i membri del suo
ex-ordine erano sulle sue tracce, non poteva permettersi errori. Finalmente la
faccenda iniziava a farsi più divertente.
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Ciò che in vita era Ràidames vagò alla velocità del
pensiero verso nord, fermandosi di colpo, come spirito incorporeo, sopra il
valico di Metlox. Si concentrò con molta fatica ma i suoi sensi e le sue
percezioni si agitavano lottando tra di loro. La vista del mondo spirituale era
sconvolgente. Ogni elemento del reale proiettava in quell’altro mondo le
radiazioni delle proprie energie: pietre,alberi e animali non erano che deboli luminescenze ed un vento incessante
squassava ogni cosa, mutando continuamente la forma e la quantità delle
radiazioni. L’unica cosa sempre uguale era il cambiamento, unica costante di
quel mondo in continua agitazione. Spostò la sua percezione sulla battaglia ed
il suo spirito quasi si spezzò cercando di cogliere nella sua interezza i
combattimenti. A prima vista pareva un incendio. Continuando ad osservare però,
notò che le fiamme lottavano tra loro, vampe rosse e violente che si dibattevano
attorcigliandosi con una moltitudine di esili fiamme bluastre. E queste ultime
avvolgevano in sottile spirali le altre, sopprimendole e spegnendole. Solo al
centro del cratere una lingua di fuoco sanguigna si dibatteva, quasi solitaria,
consumando qualunque altra le si avvicinasse. Un intenso dolore lo fece
sobbalzare: capì ce in quello stato non aveva tempo da perdere. Focalizzò la sua
attenzione solo sulle fiamme bluastre. Notò che sottili fili grigiastri si
dipartivano da ognuna di esse, legandole, ed ogni catena convergeva verso ovest,
tra le sottili emanazioni degli alberi. Le seguì fluttuando fra di esse e più
avanzava, più si concentravano e sentiva di protendere sempre più verso la loro
origine. Vi entrò all’interno imbevendosi della natura dei tramiti di quei fili,
pura magia, e li seguì fino a giungere ad un estremo, uno degli spiriti evocati.
Scandagliò fin nelle più intime profondità del fantasma, sicuramente quello se
ne accorse, ma non tentò resistenze, anzi sembrò quasi che lo aiutasse,
portandogli alle mente tutto ciò che voleva sapere: in poco tempo scoprì tutta
la verità. Uscì allora dallo spirito percorrendo il filo argenteo all’inverso
fino alla sua fonte, ma prima ne uscì, per non venirne risucchiato. Fu allora
che la vide, la sorgente di una luce pura e accecante. Aveva una forma vagamente
umanoide, forse aurorea, non avrebbe saputo dirlo, e manteneva, con le mani
protese verso l’alto tutti i lacci che stringevano le vampe azzurre. I
lineamenti sparivano avvolti dalla luce e niente pareva intaccarla. Anche il
soffio innaturale che tutto tramutava indugiava su di essa, lasciandola immutata
e perfetta, solo elemento inalterato in quel mondo cangiante. Si avvicinò a
quell’essere, attrattone irresistibilmente. Sembrava che al centro della luce
pura che dall’essere sgorgava qualcosa pulsasse, pieno di vita. Era quasi sicuro
si trattasse di magia, ma non ne aveva mai sentita di così concentrata e
potente. Si avvicinò incorporeo a quel nucleo, desideroso di comprendere quel
mistero così appetibile per la sua sete di conoscenza e la cui soluzione era
così a portata di mano. D’improvviso si sentì afferrare alla gola e a nulla
valse la forza delle sue braccia eteree per liberarsi da quella morsa. I fili di
potere reggevano da soli le volontà degli spiriti da loro controllati, mentre le
mani di Ghanay, figlio di Selonir, si stringevano più e più forti sul collo
dell’auroreo. Ràidames tuttavia si controllò. Non poteva morire in quello stato,
poteva soffrire, sì, ma non morire, a meno che non fosse restato in forma di
spirito il tempo necessario a recidere definitivamente i vincoli che lo
ancoravano al suo corpo. Fissò negli occhi il figlio di Selonir, ma non vide
altro che una luce, che adesso gli appariva sinistra, vuota e spaventevole,
troppo grande. Con uno sforzo di volontà dissolse lentamente le sue percezioni
per annullarle completamente. Era un processo lento e aberrante, simile ad un
suicidio, al termine del quale, con l’ultima stilla di lucidità costrinse il suo
spirito ad assopirsi completamente. Privo di volontà, lo spirito di Ràidames fu
tirato indietro, come se anche lui fosse legato da una catena invisibile al suo
corpo. Liberato dalla stretta del dio e tornato nuovamente in sé, l’auroreo
respirò affannosamente, nuovamente vincolato dalle leggi del corpo reale.
Nonostante fosse scosso e sanguinante da naso e bocca, ritrovò a tentoni il
bastone abbandonato di fronte a sé e uscì arrancando fuori dalla tenda. A grandi
passi si diresse verso la tenda di Shalia, con la mente che freneticamente
ripercorreva tutte le nozioni che aveva appreso a costo di una
morte.
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Zeriol stava immobile, inginocchiato e prosternato a
capo chino davanti al capo del suo ordine, Golaros. La prima volta che gli era
stato accordato l’onore di vederlo, in quanto druido designato come suo
successore ed Erede, aveva rischiato di svenire. Golaros non gli era sembrato un
essere di quel mondo allora, come non lo sembrava in quel momento, quanto
piuttosto una creatura d’incubo, partorita da qualche psiche malata.
Quello che doveva essere stato un uomo giaceva in una fossa colma d’acqua, come
in un grottesco dipinto. Si ergeva dalla vita in su fuori dal liquido, a petto
nudo, martoriato da innumerevoli tagli ovunque. Il sangue sgorgava a rivoli da
ogni ferita, come se fosse stata inflitta solo pochi attimi prima, colorando di
un rosso pallido l’acqua. Perfino il viso era devastato e i lineamenti alterati
dalle escoriazioni, eppure si poteva intravedere, nonostante la rovina del
corpo, parte dell’antica fierezza e regalità emergere dalla fiera posizione
statuaria e dalla profondità degli occhi inviolati. Innumerevoli vene di pietra
pulsanti si staccavano dalla volta rocciosa attaccandosi come sanguisughe alla
schiena e alle braccia dell’uomo ed erano tuttavia tali legami con la terra a
tenerlo in vita, trasferendogli di continuo magia e forze.
“E così hai incontrato Siguya, Zeriol?” Il notturno si
limitò ad annuire debolmente con il capo, senza avere l’ardire di alzare il
capo. “Sei stato fortunato a sopravvivere.” Stavolta il notturno non si mosse
nemmeno. “Torna ad ovest, trova il ragazzo e stavolta convincilo a seguirti con
l’astuzia. Con l’inganno se serve.” La voce, atona e priva di incrinature, non
lasciava spazio ad alcuna reazione. “Entro trenta giorni, che tu abbia compiuto
o meno tale missione, torna da me. Compiremo il rituale sotto la luce della luna
nuova.” Il corpo dell’umano fremette un attimo dall’emozione. “Finalmente sarò
libero da questa caricatura di essere vivente.” Il notturno non proferì verbo.
Si alzò lentamente e solo per un attimo i suoi occhi incontrarono quelli di
Golaros. Erano quelli la cosa che più lo spaventavano del suo maestro.
Brillavano di una luce antica, bramosa di vita e conoscenza. Erano le luci di
uno spirito che aveva divorato decine e decine di anime e corpi, ansioso di
immortalità e spaventato dalla morte. E adesso sarebbe stato lui il successivo
contenitore, il tramite di un sogno che perdurava da secoli. Non l’avrebbe
permesso. Giurò a sé stesso quella promessa per l’ennesima volta mentre
abbandonava l’odore di morte che permeava l’aria.
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La donna camminava con passo ondeggiante nella piccola
radura erbosa, dominata da una tersa oscurità e rischiarata solamente da stelle
inusuali e costellazioni sconosciute. La carnagione biancastra risaltava per i
lunghissimi capelli neri, che incorniciavano un viso dalla bellezza semplice e
selvatica, esaltata da due occhi d’ebano che sembravano evocare un’oscura
infinità. Cingeva con il suo cammino circolare due vasche, colme di liquidi
frementi e ne osservava il continuo ribollire con attenzione. La fontana alla
sua destra era circolare, in marmo bianco. Al suo centro emergeva dalla
superficie liquida un’egida circolare, priva di qualunque simbolo o vessillo.
Era tuttavia riccamente decorata, al contrario del resto del monumento, semplice
e spartano. Era divisa in sei circoli concentrici, ognuno dei quali aveva
scolpito delle particolari raffigurazioni. Il più esterno raffigurava una massa
eterogenea di persone, uomini e donne di tutte le razze, che non sembravano
avere alcun legame tra di loro che non fosse appunto quello di appartenere alla
medesima schiatta, uniti da un legame simile a quello di sangue. Il secondo
circolo aveva una raffigurazione più cruda e cruenta: numerose persone giacevano
al suolo, supplichevoli o terrorizzate, mentre le armi di carnefici senza volto
minacciavo di abbattersi su di loro per derubarli di ogni vita. Il sentimento
cupo del secondo circolo svaniva nel terzo, lasciando spazio alla tranquillità e
alla serenità. Uomini stretti in calorosi abbracci, intenti in piacevoli
conversazioni, per scambiarsi sogni ed ambizioni o vicini gli uni agli altri con
le armi in pugno, emergevano con realismo comunicativo dal marmo. Il penultimo
circolo era ormai visibilmente più sottile eppure sembrava capace di trasmettere
sensazioni più di tutti gli altri, poiché una percezione infinitamente calda e
dolce traspariva dalle immagini di donne indifese, avvolte da pepli leggeri e
corone di fiori, con gli occhi sognanti e felici di chi è pervaso completamente
dal sentimento d’amore. L’ultimo circolo era un tripudio di forme e volumi quasi
giocosi. Figure di bambini sembravano prorompere con allegria ed energia dalla
superficie liscia del piano. Innocenza ed ingenuità si delineavano dagli occhi
calcarei, dai volti privi della triste consapevolezza dell’esistenza, che seppur
in gradazioni diverse affiorava dalle sculture di ogni circolo. I contorni ed i
rilievi dell’egida rilucevano di aurei bagliori, lambiti dal liquido brillante
che sgorgava ininterrottamente dalla fontana. Pulsava di energia propria e un
occhio attento avrebbe potuto notare che diverse correnti si agitavano nel
fluido scorrere dell’oro disciolto, quasi fosse animato da diverse volontà. Ben
diversa appariva l’altra fonte. Anche questa era di forma circolare e spoglia,
ma la sua scultura centrale era ben diversa: tre spade disposte a triangolo
affondavano per metà della lama nel liquido rossastro e sanguigno che sgorgava a
fiotti, simile al sangue versato da una profonda ferita aperta. L’elsa di ogni
spada riluceva di un bagliore rossastro che si rifrangeva in mille riflessi sul
marmo nero delle impugnature. La luce sanguigna non faceva altro che aggiungere
una velatura macabra alle tre raffigurazioni riportate in piccoli quadranti su
ciascun elsa.
La prima raffigurava un uomo, delirante e ansioso,
mangiare manciate di monete per saziare un appetito di ricchezza, delineando i
contorni di una scena macabra e sconcertante. La seconda ritraeva un uomo
nell’atto di pugnalare un suo simile alle spalle, con gli occhi iniettati di
violenza e bramosia mentre scivolava fuori dall’ombra. La terza raffigurazione
aveva un che di enigmatico e misterioso: riproduceva un uomo che, preda di una
follia così completa e totale di distruggere ogni razionalità e cognizione e
ridotto ad un burattino preda di istinti ferini, stringeva nella mano destra un
cuore sanguinante. Le tre visioni sconcertanti parevano anch’esse essere quasi
animate, tanto che il ribollire sinistro e continuo del liquido sanguigno
sembrava derivare dal continuo aggravarsi delle degenerazioni della mente umana
che le tre else riproducevano.
“Quale fazione sta vincendo, Keres?” La donna non si
voltò, ma si limitò a fissare i vortici dorati che andavano creandosi nella
fontana dell’egida.
“Non pensavo che il tuo risveglio fosse già avvenuto.”
Mormorò con voce sommessa la donna, sussurro che tuttavia risuonò nitido nel
luogo, non contrastato da alcun altro suono.
La figura di un uomo dall’altezza e la robustezza non
comune si delineò vicino alla fontana dai riverberi cremisi. Nell’ombra
addensante nere ali di pipistrello trepidarono leggermente, avvolgendo in un
abbraccio protettivo l’intruso di quel sito nascosto.
Una mano dalle squame rosse e le lunghe unghie nere si
immerse lentamente nel sangue della fontana rosso vivo ed un intenso odore di
bruciato colpì le narici di entrambe le creature, come se il liquido della
fontana cercasse di divorare la mano dell’avventato demone, bruciandola
completamente. Quando tuttavia la creatura estrasse la mano essa non aveva
ingiuria alcuna.
“Credevi davvero che io potessi assopirmi?” Le ali si
aprirono, dispiegandosi per tutta la loro apertura, rivelando un corpo nudo,
privo di qualunque carattere sessuale, ricoperto da squame rosse e rilucenti di
un bagliore verdastro, sinistro. Una capigliatura ossea, dal colore grigiastro,
scendeva lungo la schiena del mostro simile a una parete rocciosa, incupendo il
colore rosso lucido di un viso da rettile, con i lineamenti appena accennati e
labbra quasi ritirate all’indietro. Occhi da serpente squadravano la donna,
sottili e lunghi, gialli e brillanti nell’oscurità, sbarrati al centro da
fessure nere. “Io sono l’Uomo.” Sorrise, passandosi una lingua orridamente lunga
sulle labbra. “Sono stato definito come la parte più oscura della sua anima.”
Iniziò a girare lentamente intorno alla fontana cremisi, ripiegando le ali
dietro la schiena. “Io penso di essere ciò che l’uomo è in realtà. Se la razza
umana potesse specchiarsi e vedere riflessa la propria essenza, vedrebbe me.”
Affermò con veemenza dilatando gli occhi. “Odio, rabbia, invidia, ambizione,
lussuria, ignavia, ingordigia, tradimento, bramosia, violenza. Sono queste le
vere componenti dell’anima umana.”
“Ti sbagli” Mormorò Keres e immerse a sua volta la
propria pallida mano nella fonte aurea e quando la tolse parve avvolta da
bagliori dorati, come polvere di stelle.
Ma il demone continuò il proprio monologo, nel suo
oscuro ragionamento.
“Esseri che vivono cercando di infrangere i limiti
imposti loro dagli dei. Che si spingono a voler provare i sentimenti più
distruttivi e iniqui. Che non riescono ad accettare l’unico cosa equa e giusta
dell’esistenza: la morte.” Mostrò denti affilati e ferini.
“Finché loro esisteranno io non potrò essere assopito,
né sconfitto.” Si diresse a lenti passi verso la donna, avvolgendola in un
macabro abbraccio con le sue ali. “Potrò cambiare forma o nome, ma ci sarò
sempre. Per sempre.”
La donna sorrise, in maniera beffarda. “E’ strano che tu
dica una cosa del genere proprio qui, Kàkos.”Allungò una mano verso l’addome del
demone e quello, quasi spaventato, fece un enorme balzo all’indietro, volando
fino ad atterrare all’interno della fontana gorgogliante di sangue, affondandone
fino alle ginocchia.
“Quella in cui affondi le tue gambe è la Fonte del Sangue.” Continuò
la donna. “Il sangue che vi scorre di continuo appartiene a coloro che hanno
versato il proprio e quello altrui per i propri oscuri desideri, per appagare la
fame di ricchezze, le bramosie di potere o seguendo gli istinti più vili e
meschini scaturiti dalla parte oscura della loro psiche.” Fissò negli occhi il
mostro.
“Lì scorre anche l’Idor dei tuoi fratelli.” Keres
sospirò, tornando a specchiare il volto nei riflessi aurei dell’altra fonte. “Il
loro sangue si mescola adesso senza armonia e distinzione a quello pervaso di
malvagità di coloro che in vita si sono comportati nella medesima maniera.”
Affondò completamente il braccio nell’oro liquido e il suo viso si rigò di
lacrime di dolore. “La
Fonte dell’Idor raccoglie i dolori e le sofferenze patite da
coloro che contro ogni logica hanno sfidato la sorte e sono morti in nome dei
loro ideali.” Keres estrasse il braccio, grondante di luce, e immagini e colori
si andarono formando nella fonte, descrivendo una tetra scena di un sacrificio
passato. “Cosa distingue il sangue umano da quello divino, figlio di Sèlonir?”
Il demone abbassò lo sguardo, fissando con interesse la medesima scena che si
proponeva alla sua interlocutrice, sebbene da punti di vista diversi. L’una
guardava attraverso gli occhi del difensore, l’altro del carnefice. “Il nostro
sangue ci rende immortali.” Rispose il demone, continuando a fissare con
intensità la scena.
“Costoro hanno guadagnato a tutti gli effetti
un’immortalità che agli dei non è concessa.” Affermò sicura la donna. “Questi
mortali continueranno a vivere finché i loro principi verranno ereditati dai
loro discendenti. Invece anche se gli dei continuassero a vivere in eterno,
quando di loro si perderà memoria, saranno morti comunque a tutti gli effetti.”
Kàkos sembrò ignorare la donna, guardando con maggiore
attenzione le immagini che gli scorrevano davanti agli occhi nel sangue. Un
notturno, sicuramente un Astro Nero, a giudicare dai lampi di tenebra incisi sul
viso, fronteggiava un oscuro ammasso di potere, che gli si ergeva davanti
minaccioso nella figura di un uomo dalla chioma nera. Un lampo illuminò la
visione ed una spada dorata trafisse al petto l’elfo, passandolo da parte a
parte. Fiamme bluastre si dipartirono dalla lama, avvolgendo il notturno in un
sudario di morte e fiamme. La scena si interruppe per entrambi, stroncata da un
gesto quasi rabbioso di Keres.
“La mia fede nella razza umana sgorga insieme all’Idor
da questa fonte.” La donna ebbe un fremito. Si voltò verso destra, fissando un
punto preciso oltre l’oscurità. “Altro sangue nobile và aggiungendosi, altri
sacrifici compiuti.” La risata del demone risuonò rauca e violenta.
“Proprio non riesco a capire il senso delle loro
azioni.” La donna non si voltò nemmeno, iniziando a compiere piccoli passi nel
buio. “Si pentono mai della loro scelta quando ti vedono arrivare per portarli
nell’aldilà?” Chiese provocatorio Kàkos. La figura di Keres iniziava a svanire
lentamente quando fece udire nuovamente la sua voce. “Chiunque muoia porta con
sé il proprio passato, il presente ed il proprio futuro. Sebbene abbia dei forti
legami con la vita quali la famiglia, l’amore, l’amicizia o degli ideali, decide
di rischiare la vita proprio perché per lui sono importanti. Forse un giorno
capirai.” Disse scomparendo. “I tuoi fratelli hanno tremato di terrore innanzi
alla morte, al mio arrivo.” L’urlo rabbioso del demone, ferito nell’orgoglio, fu
l’ultima cosa che la donna sentì prima del clamore di un’altra
battaglia.
Il grido lacerante di Yonuel squarciò il silenzio tenebroso delle
foreste elfiche
Il grido lacerante di Yonuel
squarciò il silenzio tenebroso delle foreste elfiche. Il sangue scorreva a
fiotti dalle ferite causate dalle antiche maledizioni invocate dal Druido,
mescolandosi alla terra bruciata in pochi istanti dai fulmini evocati tramite
la sua magia. I corpi straziati dei Proscritti giacevano al suolo, privi di
vita e lo stesso Yonuel avvertiva il suo spirito abbandonare le membra
attraverso le ferite. Cercando disperatamente di rimanere cosciente l’elfo
riusciva a malapenaa distinguere la
figura immobile del Druido.
Compì alcuni passi verso Yonuel
che, steso a terra, cercava invano di rialzarsi. “Sai cosa mi
irrita maggiormente di voi? Questa totale e assoluta mancanza di evoluzione.” Si chinò sulle ginocchia, alzando con una
mano il viso dell’elfo in modo che i loro sguardi si incrociassero.
“Potreste dominare, ergervi al di sopra delle altre razze e avere il controllo sulla
vitae la morte degli esseri viventi.”
Sputò a terra “ E invece vivete rilegati in queste misere lande, tenendo fede
alla vostra tradizione di semplici osservatori.”
Sorrise, maligno. “Basterà la mia forza a spazzare via ben più della razza
notturna.” Yonuel alzò il braccio destro, come a voler
fermare quel delirio, ma la mano gli cadde priva di forza sull’erba, mentre lui
scivolava nell’incoscienza.
L’ultima cosa che vide fu, oltre
la figura china del Druido, la sagoma ormai familiare di Anarion
sbucare dal fitto degli alberi, avvolto da una pallida luce. Poi il buio.
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Anarion aveva immediatamente
avvertito un pericolo incombente nel medesimo istante in cui avevaabbandonato la prateria di Alcols.
Eppure non riusciva a capire se tale pericolo venisse dietro di lui o
lo aspettasse fuori dalla foresta. I suoi sensi erano
ancora alterati dai sentimenti che la conversazione con il Saggio Nero aveva
suscitato in lui. Eppure dopo la presa di coscienza
della sua situazione, con la consapevolezza aumentava anche la facilità con cui
riusciva a richiamare il potere di cui Selonir lo dotava. Già allora, man mano
che sentiva il pericolo incombere, la magia di Selonir si sprigionava in luce
dal suo corpo, pronta ad essere usata al primo accenno di pericolo. A ogni passo vedeva la luce farsi più forte, fino a quando
fu finalmente fuori dall’intrico di alberi e oscurità. Eppure gli bastò
un’occhiata per capire che i problemi di quella giornata errano
ancora ben lontani dalla loro conclusione. Davanti ai suoi occhi, in un lago di sangue giacevano Yonuel e i due Proscritti e il loro
carnefice lo fissava immobile, con una maschera che gli copriva il viso. Altro
sangue era stato versato per lui, per proteggerlo. Non riuscì a fare a mano di
odiarsi in quel momento. Riuscì a stento a controllare l’energia che spingeva
per prorompere dal suo corpo. Non doveva lasciarsi manovrare come un burattino
dai suoi poteri, ma agire come essere umano
consapevole. Si diresse verso il Druido e questi disse: “Finalmente ti vedoIncarnazione, l’attesa dei Druidi durata venti
anni è finalmente terminata.”Ma
Anarion lo ignorò completamente, passandogli accanto senza nemmeno degnarlo di
uno sguardo, con stupore e rabbia del Druido. Il ragazzo si inginocchiò
al fianco del morente Yonuel. Forse poteva ancora salvarlo. Concentrò la sua
magia sulle punta delle dita, avvolte da una chiara
luminescenza, ma non riuscì a sfiorare il corpo dell’elfo. Un aculeo di roccia
emerso dal terreno cercò di trafiggerlo al petto e solo gettandosi di lato
riuscì ad evitarlo.
“Dove credi di
essere?” Urlò il Druido “Sei sul campo di battaglia e hai un nemico
davanti a te!
Se ti distrai morirai, stanne certo.” Gli occhi di Anarion, spazientito da quelle parole arroganti, arsero
d’improvviso come braci. “Se davvero desideri che ti mostri la via verso
l’oltretomba sarai accontentato.” Si rialzò
d’improvviso e un lampo bianco scaturì dalla sua figura dirigendosi contro il
notturno. Lame di roccia spuntante dal suolo si frapposero tra il Druido e la
magia di Anarion, disperdendola. In un attimo poi una
violenta corrente d’aria foggiata a mò di lancia colpì in pienopetto il ragazzo, che sputando un fiotto di
sangue dalla bocca, venne scaraventato contro un
albero,cadendo poi al suolo. Più che al dolore Anarion non
riusciva a fare a meno di pensare quanto fosse potente il suoavversario. “Ora che l’hai provato su
di te, riesci a comprendere?”
Disse il Druido con voce atona.
“La tua forza non può ancora nulla su di me.” Iniziò
ad avvicinarsi al ragazzo a passo lento. “Tuttavia l’energia di divina origine
che in te alberga ti ha permesso di resistere al mio attacco senza morire.” Lo fissò con sguardo quasi eccitato. “In te è imprigionato
un dio… Uno dei più potenti: Selonir. Ma se il suo potere è detenuto da un
essere indegno quale tu sei, non è altro che un’inutile zavorra.” Pestò il viso del ragazzo con un piede “Quando ti rechi sul campo di battaglia non dimenticare di preparare
adeguate protezioni.” Fece più forza con il piede, sentendo che il ragazzo
cercava di liberarsi. “Per di più non ti sei accertato della mia forza prima di
affrontarmi e mi hai attaccato frontalmente senza alcuna strategia.” Un’altra saetta fluì dalle braccia del ragazzo, ma con un
salto all’indietro il Druido schivò il potente ma goffo attacco. “Il mio potere
mi consente il completo dominio dei fenomeni della natura.”
Anarion riuscìa stento a rialzarsi,
ascoltando incredulo le parole del notturno. “Ciò che rende la Natura imprevedibile per l’uomo è il fatto che essa
distribuisce i maniera del tutto casuale vita e morte agli uomini.” Nuvole nere
iniziarono a raccogliersi su si loro, mentre un rombo
indefinito e lontano sembrava provenire dal sottosuolo con crescente forza.
“Io invece posso volgere in una
manifestazione esclusivamente mortifera qualunque fenomeno naturale.”“Volgo in morte la
pioggia, una veste ghiacciata che tutto trapassa e trasformo le vene della
terra che serpeggiano nelle sue profondità in una morte di nuda pietra che
riduce ogni cosa in cenere.” Decine di lame di nuda
roccia taglienti come lame sorsero dal terreno dirigendosi sul ragazzo come dotate di volontà propria. L’energia del ragazzo riuscì a
malapena a salvargli la vita, ma non poté evitare di rimanere imprigionato e
pesantemente ferito. “Dispera mortale!”
Stille di pioggia nere e velocissime
iniziarono a cadere dal cielo trafiggendo le membra di Anarion.
La malvagità a guisa di pioggia nera trafisse il ragazzo fino nello spirito
come una lancia acuminata, una lama che risucchiava la vita. Eppure
con il dolore che cresceva e sentendo la morte alitargli sul collo, Anarion
avvertiva sempre più forte qualcosa farsi largo nella sua coscienza, unaforza
che lottava per uscire allo scoperto e
distruggere un sigillo che la bloccava. Non riusciva a capire cosa
fosse, né a controllarlo, qualcosa dentro di lui glielo impediva.. Il ragazzo non riusciva in alcun modo a difendersi, era
travolto da forze così spaventose quali non aveva mai sperimentato. Nemmeno
l’energia di Selonir valeva a disperdere l’inferno che lo circondava. Più volte
aveva provato a far esplodere la sua energia, ma non era valsa a fermare che per pochi secondi gli attacchi del notturno.
Quando ormai era convinto che fosse finita, ogni cosa si placò e rimase immobile, ormai privo di forze, trafitto e
immobilizzato tra le rocce.. Il sangue sgorgava a
fiotti dalle sue ferite, bagnando la pietre e scendendo a rigagnoli fino a
bagnare il suolo. D’improvviso le rocce si ritirarono e lui cadderiverso sul suolo, come un fantoccio. Riusciva
a malapenaa distinguere la figura del
Druido. Egli non lo fissava più, anzi adesso aveva lo sguardo fisso verso la
foresta dove risiedeva Alcols, sembrava preoccupato per qualcosa, come se
cercasse di capire cosa stesse succedendo lontano da
lì. Improvvisamente una fortissima esplosione squarciò l’aria, l’aria fremette
e un rombo violento scosse ogni cosa. Una colonna di luce ed ombra strettamente
intrecciate si sollevò dalla foresta, perforò il cielo e squarciò l’oscurità
che avvolgeva il luogo come un sudario. Ogni angolo e anfratto della foresta fu investito da un bagliore accecante e in pochi istanti
tutto si dissolse in una cortina dorata che sfumò ogni dettaglio in particelle
di luce.
…………………………………………………………………………………………………
Sovrastando la confusione e il
dolore che permeavano i suoi sensi, Anarion sentì una voce parlarglicome
sussurrata alle orecchie. “Cosa stai facendo?” Gli
domandò con tono di rimprovero. “Non avevi forse promesso ad Alcols di
combattere? Hai già dimenticato che Raikas e Alreyd si sono spenti affidando le
loro speranze a te?” Il ragazzo rispose, come cercando
di scusarsi.
“Ma
l’elfo è troppo forte, troppo.” Chiuse gli occhi disperato “Non c’è più niente
che mi sostenga.” La voce si fece comprensiva. “Non
temere”. Gli sembrava di averla già udita in passato,
ma non faceva parte dei suoi ricordi. Si
sentì afferrare e sollevare delicatamente, sospeso a mezz’aria. Si voltò. Un
essere ammantato completamente di bianco e dalle eburnee ali piumate lo
sorreggeva. Ebbe un sussulto. Il viso nascosto sotto il cappuccio era quello di Alcols. Anzi no, era più maturo
e negli occhi di questo erano impressi una serenità e una regalità che il
Saggio Nero non possedeva. “Saranno i cuori di coloro che
credono in te a darti la forza di avanzare.”
“Ma anche se mi rialzassi, il suo potere è comunque troppo superiore.”
L’alato
sorrise. “Alzati e vai avanti, chi
ti sorreggerà è già al tuo fianco.”
Capitolo 25 *** La guerra contro i morti, Ghanay contro Ràidames, ***
l
“Combattete! Non abbiate timore della morte! Avanzate!
Avanzate!” La voce possente di Urionar sovrastava il frastuono dei
combattimenti, facendosi udire ovunque sul campo. Se la sua voce bastava a
compattare le sue schiere, vederlo combattere infondeva nei suoi soldati forza e
orgoglio tali da lanciarli nella battaglia con rinnovate energie. Indossava
un’armatura completa di ferro, argento e oro, che lo ricopriva quasi
completamente,lasciandogli scoperto il viso: ogni piastra o anello della cotta
splendeva di aurei bagliori per via del metallo prezioso fuso sull’ acciaio
lucente per disegnare il simbolo di forza di due fulmini intrecciati. L’elmo,
forgiato in modo da apparire come le fauci di un serpente, riluceva di bagliori
verdi anche nell’oscurità addensante, rendendo il re visibile per i propri
uomini ovunque sul campo di battaglia. Nella destra reggeva un’ascia dal colore
cremisi, forgiata in maniera tale che la parte posteriore della testa dell’arma
raffigurasse un vulcano in eruzione, le cui fiamme formavano invece la lama
dentellata anteriore, mentre nella sinistra reggeva uno scudo rettangolare,
fabbricato in metallo scuro, con foggiato al suo centro un’unica runa
rappresentante la casata d’appartenenza del Re. Il Sire stesso pareva un
terribile rettile, le cui squame si accendevano di bagliori, erto forte ed
indomito e i cui artigli spezzavano qualunque avversario. La sua arma colpiva
inesorabile chiunque avesse l’ardire di pararsi davanti a lui, recando aiuto
ovunque lungo la linea dei combattimenti dove la ressa fosse più accesa o il
pericolo più grande. Nessuno gli si poteva opporre e avanzava attraverso i suoi
nemici come un turbine scuote foglie cadute. Eppure era pur sempre un solo
guerriero. Nessuno dei suoi riusciva ad imitare l’ardore e la fermezza con la
quale si batteva contro siffatti avversari. Migliaia di Albi dalla pelle scura
ed i contorni evanescenti si facevano sempre avanti,portando armature tetre e brandendo armi
nere. I loro occhi erano buchi neri che si affacciavano sulle loro anime
implacabili. Non conoscevano esitazione o pietà e combattevano incuranti di
qualunque prudenza, guidati da una ferocia e un odio inspiegabili. I guerrieri
di Urionar non riuscivano ad opporre nemmeno una strenue resistenza. Non molti
avevano il coraggio di attaccare i propri nemici, quasi tutti esitavano prima di
vibrare un colpo contro quelli che gli apparivano come consanguinei.
L’esitazione nascondeva la verità ai loro occhi, che sembravano scorgere in
quello di ogni fantasma dallo sguardo spaventoso, il volto del padre o di
qualche parente ormai defunto. Chi mai poteva avere il coraggio di levare la
spada contro la propria stessa famiglia senza alcuna esitazione? E così anche
quando i loro colpi andavano a segno, spesso tagliavano vanamente l’aria, senza
scalfire i corpi immateriali dei loro nemici, mentre molti cadevano,
esterrefatti quando le armi nemiche li ferivano attraversando scudi e armature.
Centinaia cadevano senza avere la possibilità di vibrare anche un solo colpo,
trasformando il campo in un mattatoio di quei guerrieri che scendevano pronti a
dare la vita per il loro popolo e il proprio onore. Era merito solo della Corte
del Re, un gruppo di cento
guerrieri animati dalla stessa determinazione del sovrano, che l’esercito
resisteva. Questi possenti guerrieri si ergevano davanti a tutti, reggendo
innumerevoli colpi e vibrando fendenti terribili che riuscivano ad infrangere le
difese eteree dei loro avversari. Sangue nero colava dalle ferite di quegli
spettri sfuggenti, che evaporava sulle lame o quando bagnava il suolo. Eppure ad
ogni colpo menato o ferita causata, qualcosa negli spiriti degli Albi
s’incrinava, un senso di colpa che li affliggeva come una pesante fardello
incancellabile. Fu così che al completo calare delle tenebre, dopo alterne fasi
di avanzate e ripiegamenti, i due eserciti si ritirarono, ognuno ai bordi
opposti dell’enorme cratere che era stato reso teatro di quella guerra senza
significato. Una di guaritori degli Albi si incamminarono a passo frettoloso e
inquieto sul campo, scortati dalla Corte del Re, a soccorrere i feriti e a
raccogliere i caduti, che dall’inizio della battaglia, quattro giorni prima, non
facevano che aumentare. Nessun corpo dei propri avversari fu trovato. Da tempo
gli Albi si erano accorti che i corpi di quegli spettri tornavano di nuovo
polvere non appena uccisi. E la consapevolezza di essere assassini dei propri
padri e fratelli gravava sempre di più alla fine di ogni giornata di
guerra.
………………………………………………………………………………………………..
Il Sire degli Albi sedeva immobile e corrucciato sul suo
austero scranno di legno, volgendo le spalle all’entrata della sua tenda
spartana e osservando la propria arma stretta fra le mani. Gli occhi limpidi
come acqua non lasciavano trasparire alcunché, eccetto forza e determinazione.
Voci profonde di corni gli fecero alzare lo sguardo. Gli ateloi erano giunti,
finalmente. Si alzò stancamente, voltandosi verso l’entrata. Poggiò con
delicatezza l’Ascia di Fuoco su un tavolo di legno e rimase in piedi, fiero e
altezzoso a fissare l’entrata, in attesa. Dopo pochi minuti, tre figure
entrarono scortate da due membri della Corte. La prima la conosceva bene:
l’aveva visto spesso alle riunioni strategiche che suo padre, di cui portava il
medesimo nome, teneva spesso con il Generale Yonuel. Era un buon combattente,
anche se lo ricordava maggiormente per la sua qualità di fine stratega. Sarebbe
stato un ottimo alleato, se non altro aveva bisogno dei suoi soldati. La donna
alla sua destra invece gli era del tutto sconosciuta, anche se lo colpì per la
sua espressione, dolce e tranquilla. Non capitava spesso di incontrare persone
così serene e placide nei pressi del campo di battaglia. L’ultimo ad entrare lo
stupì più di tutti. Era Ràidames, il figlio di Ràikas. Conosceva perfettamente
il padre. Molto spesso si recava a trovarlo, nella sua Rocca Sotterranea,
prodigo di aiuto e di consigli, un sostegno saldo per lui, ancora giovane e
inesperto sovrano. Si vociferava che il figlio fosse degno di suo padre.
Guardandolo notò che senz’altro ne aveva eredito l’aspetto e la regalità, eppure
aveva un’aria strana. Era pallidissimo e sembrava mortalmente stanco. “Ben
arrivati.” Disse ritornando in sé, notando che i presenti lo osservavano in
attesa. “Siamo giunti il prima possibile, Sire.” Yonuel salutò il re con un
leggero cenno del capo. “Le nostre truppe si uniranno alle vostre già nella
battaglia di oggi, che speriamo sia l’ultima.” “Non credo.” Rispose crudo
l’albo.
“Per quale motivo parlate così Urionar?” Intervenne
l’Astro Bianco, sedendosi su uno dei seggi posti ai lati della tenda. “Perché i
nostri nemici non sono avversari convenzionali.”Shalia nel frattempo si sedette al
fianco dell’auroreo, tenendogli dolcemente la mano sinistra, come cercando di
alleviargli l’affanno. “Abbiamo già trovato la soluzione, riguardo a questo.”
Disse con tono rassicurante Ràidames. “La risposta è la fermezza”. Per alcuni
secondi il silenzio regnò nella tenda, poiché nessuno, eccezion fatta per Shalia
e lo stesso auroreo, aveva capito realmente il senso di queste parole. “Lasciate
che mi spieghi meglio.” Continuò l’auroreo. “Ciò che serve è uno spirito che non
conosca esitazione o paura nel vibrare un colpo contro questi spiriti, loro
simili. Sostanzialmente dovete eliminare dall’esercito tutti coloro che non sono
soldati di mestiere e sono stati radunati tramite coscrizioni.” Urionar sorrise,
beffardo. “Rimarremmo davvero in pochi allora, io e la mia Corte e pochi altri a
quanto pare, plasmati alla crudezza dall’inferno delle battaglia combattute in
difesa del popolo.”
“Anche nel mio esercito sono pochi capaci di combattere
in tal maniera, solo Proscritti, specialmente se tra i nostri nemici ci sono
anche spiriti di notturni.” Ammise Yonuel. “Radunate tutti questi soldati,
allora.” Disse serio l’Astro Bianco. “E chiamate a raccolta anche tutti gli
incantatori, anche le poche decine che fanno parte dei vostri ranghi, Urionar.”
Chiese alzandosi al Re. “Ma contando la Corte, la mia Guardia e tutti gli incantatori di entrambi gli
eserciti non arriveremo a più di trecento elementi.” Protestò il Generale. “Ci
sono alcuni di noi che valgono quanto cento guerrieri, Yonuel.” Disse il Saggio
Bianco con tono tranquillizzante, posandogli una mano sulla spalla. “E inoltre
noi possiamo contare sui poteri della Dama dell’Acqua.” Disse indicando Shalia e
avviandosi con lei verso l’uscita della tenda, camminando con l’aiuto del
bastone draconico. “E adesso dove state andando?” Chiese il re, tra l’incredulo
e il curioso. “Vado a prepararmi, combatterò anch’io. Vi lascio a organizzare le
truppe scelte.” E detto ciò lasciò i due a guardarsi increduli e scettici negli
occhi, all’alba di una nuova giornata di guerra.
…………………………………………………………………………………
Due ore dopo l’alba, l’esiguo contingente di combattenti
guadagnò a passo lento il bordo orientale del valico, affacciando le proprie
fila sul campo di battaglia. La debole luce del sole sfiorava delicatamente la
conca, incapace ancora di fendere le ombre circostanti. Cinquecento tra notturni
e nani spinsero lo sguardo oltre tutto lo spoglio campo fino ai confini
occidentali, dove il nemico ancora non appariva dalle propaggini della foresta.
Nei primi ranghi venivano la
Corte di Sire Urionar e la Guardia del Generale, d’aspetto
nobile e possente nelle sfavillanti armature rituali, nere e argento per i
notturni, d’oro e grigio per gli albi, tutti fieri e orgogliosi di essere stati
scelti per accompagnare i loro signori in battaglia. I due schieramenti
contavano tra le loro fila non più di duecento elementi, ma altrettanti soldati
si aggiungevano ai loro compagni, i migliori scelti dai propri comandanti, ma
anche volontari che si sentivano in grado di affrontare una così ardua impresa.
Un centinaio di incantatori poi, in massima parte notturni, erano stati
distribuiti in piccoli gruppi lungo la prima linea dello schieramento per poter
recare aiuto ovunque il pericolo di far cedere le linee fosse maggiore. Tali
individui si distinguevano dagli altri per il fatto di essere disarmati e di non
indossare nient’altro che bracciali e cinte dai colori sfavillanti sopra le
normali vesti da viaggio. Davanti a tutti, forti della fedeltà dei propri
uomini, il Generale Yonuel e Sire Urionar osservavano il sentiero roccioso
distendersi oltre i propri piedi, cercando qualunque segno della presenza dei
loro avversari. Eppure nessuno era in vista. Yonuel si voltò con sguardo
interrogativo prima verso Urionar e poi verso Ràidames e Zacho che aspettavano
pochi passi dietro di loro. L’Astro Bianco aveva ancora la stessa espressione
esausta di poche ore prima, che contrastava con l’aria di regalità e magia che
irradiava. Vestiva una tunica bluastra, tendente a tinte più fosche, decorata
con fulmini bianchi ricamati ovunque sul tessuto. Il diadema reale gli cingeva
delicatamente la fronte, aumentando con i propri bagliori la già intensa
luminosità che il viso del re irradiava. Aveva il collo cinto da una collana da
cui pendeva un piccolo drago argenteo, incastonato tra fili d’oro. Attorno ai
polsi teneva spessi bracciali d’argento, con rilievi verdi e oro che disegnavano
complessi motivi floreali. Stringeva nella destra il bastone bianco, con il
globo acceso di lucenti bagliori, e nella sinistra una spada d’acciaio bianco e
argento, con fuso al centro dell’elsa oro brillante rappresentante un piccolo
fulmine. Zacho invece si limitava ad indossare una cotta di maglia che gli
copriva solo il busto, lasciandogli molta agilità in combattimento, mentre gli
albi gli avevano fatto dono di un paio di spade a doppia lama di fine
fattura.
Entrambi, uomo ed auroreo, erano eccezionalmente calmi e
controllati.
“Questo ritardo ci avvantaggia.” Disse fiducioso l’Astro
Bianco. “La Dama
dell’Acqua avrà tutto il tempo per intensificare i suoi legami con voi.” Ed
infatti Shalia ai limiti dell’accampamento, affiancata dalla maggior parte del
resto dell’esercito che guardava con apprensione e anche vergogna i propri
compagni, già intesseva la fitta rete dei propri incanti, tramando fitti di
vincoli di energia e protezione tra lei e chiunque si apprestasse a combattere.
La natura dei legami da lei creati era della medesima di quelli intessuti da
Ghanay per controllare i suoi spiriti, solo che quelli di Shalia erano tesi non
al controllo, ma alla protezione e alla guarigione. In pochi minuti il suo
incanto fu completato e la sua rete intessuta, avvolgendo chiunque, eccezion
fatta per il Saggio Bianco, che le aveva espressamente richiesto di non
proteggerlo.
Erano tutti pronti, chiunque calato nell’ansia a stento
repressa e nell’agitazione fremente che stringe in una morsa mente e corpo del
guerriero prima dello scontro mortale. I muscoli si contraevano
involontariamente e le mani stringevano fino allo spasmo le else e gli scudi,
mentre la pelle bollente percorsa da rivoli di sudore tremava al contatto
dell’acciaio ghiacciato delle armature. La paura di un orrore che si faceva
scudo dei loro stessi sentimenti attentava alla fermezza degli Albi, loro unica
arma contro i nemici che avevano sterminato i loro fratelli e compagni, lo
sgomento dell’ignoto e di un male potente e stregato derubava delle loro
resistenze i notturni, turbandoli ancor prima che il nemico si palesasse ai loro
occhi. Shalia li mondò di ogni angoscia. La sua magia passò sui loro spiriti
come un’ondata, lasciandole libere da ogni turbamento o fosco pensiero al suo
ritirarsi e donandogli un senso di vigore e rinnovata energia. Ràidames sorrise
soddisfatto, voltandosi verso l’altra parte della vallata. Avevano fatto tutto
quello che era in loro potere per vincere, adesso era tutto nelle mani del
destino. Sentì una vaga emanazione di magia permeare la metà occidentale della
valle, per tramutarsi in un’aura sempre più forte e fremente.
In pochi attimi un vento innaturale iniziò a spirare con
forza, squassando la vallata e alzando un fitto polverone che calò su ogni cosa
come un sudario e coprendo con una fitta nebbia terrea il luogo. “Infine l’ora è
giunta.” Sospirò l’Astro Bianco. Una nuova folata, più forte, dissipò la fitta
nube di polvere che impediva la visuale rivelando l’esercito di tenebre che
tornava a distruggere i propri eredi. Migliaia di notturni e albi dai visi
oscurati di pazzia gridarono con furia selvaggia, alzando armi e urla verso il
cielo in pochi istanti di follia collettiva. E iniziarono ad avanzare spietati,
in una folle corsa, quasi ognuno agognasse di poter vibrare il primo mortale
corpo. Nello stesso istante Ràidames e l’esercito che aveva preparato si fecero
avanti, a passo lento e ritmato, senza infrangere le fila e all’unisono tutti
sfoderarono le armi, creando un bagliore simile all’improvviso sfavillare di
centinaia di stelle in un terso crepuscolo.
Pochi passi separavano le prime linee dell’ondata dei
fantasmi dall’ impatto, che un bagliore infuocato illuminò la vallata come se il
sole stesso fosse esploso nel cielo. I’Astro Bianco alzò il proprio bastone e
una catena di fulmini scaturita dal globo traslucido incenerì centinaia di
spettri, catturandoli uno dopo l’altro, consumandoli completamente in pochi
istanti. Al suo incantesimo fecero eco quelli di notturni e albi e decine di
vampe di fiamme bluastre bruciarono avide l’aria, incenerendo qualunque cosa
incontrassero lungo il cammino. La prima carica era stata spezzata, ma i corpi
dei caduti non erano ancora diventati polvere che altri spettri si fecero
avanti, implacabili, e stavolta l’impatto fu inevitabile. Un cozzare feroce di
scudi e corpi trasformò per alcuni momenti la battaglia in un groviglio di corpi
e armi in feroce lotta dove si riusciva a stento a riconoscere i propri alleati,
dove la differenza fra la vita e la morte era una lotta incessante di rapide
reazioni e istinti. Superato lo sconvolgimento iniziale la battaglia si
trasformò in quell’evento spietato e implacabile di selezione dei sopravvissuti,
i più forti. Albi e notturni si battevano con forza e coraggio indomabili,
abbattendo i propri avversari in scontri che si rivelavano stavolta ad armi
pari. Sire Urionar combatteva con la stessa foga che l’aveva già
contraddistinto, colpendo d’ascia e di scudo e aprendosi un tenue varco al
centro dell’esercito che minacciava di travolgerli con la semplice superiorità
numerica. Yonuel e la sua Guardia erano un baluardo imprendibile e resistevano
ai lati dello schieramento, dove c’era il rischio di essere accerchiati,
opponendosi con valore a nemici superiori in numero e crudeltà. Ovunque lungo il
campo serpeggiavano saette di crepitante folgore o avvampante fiamma, che
bruciavano e divoravano i corpi dei fantasmi, ignorando la loro natura
incorporea. Zacho era un vessillo abbandonato, circondato su ogni lato,
dimentico dei propri alleati e abbandonato da questi ultimi, mentre solitario
avanzava abbattendo qualunque nemico. Appariva come il punto di quiete
all’interno di un ciclone, nulla lo raggiungeva o rallentava anche nella ressa
più accanita; sembrava quasi danzasse, aggraziato, muovendosi agilmente tra
colpi mortali e veloce come un lampo menava e parava fendenti con precisione e
grazia terribili. Il Saggio Bianco sovrastava chiunque sul campo di battaglia,
volando su di esso come una cometa, sospeso grazie alle proprie arti magiche e
circondato da un alone bluastro che lo difendeva da qualunque cosa. Appariva ai
propri nemici come un angelo della morte, che implacabile e mortale, riversava
una pioggia magica di dardi saettanti su di essi. Mentre la schiera nemica
riusciva seppur con sforzi incredibili ad essere contenuta, nessuno dei
guerrieri di Yonuel e Urionar era ancora caduto. Nessuna ingiuria, nessun
dolore, nemmeno una stilla di sangue aveva conosciuto il corpo di quelle poche
centinaia che, stoiche, si opponevano ai loro stessi sentimenti e paure.
Ogniqualvolta una lama tentava di ingiuriarli, aprendosi un varco nelle loro
difese, l’arma trapassava i loro corpi come se avesse avuto la stessa
consistenza dell’aria. Tutti si erano accorti di quell’apparente invulnerabilità
che aveva permesso loro di scampare alla morte in più di un’occasione e questa
rinnovata consapevolezza animava i loro spiriti di un coraggio e una forza ancor
maggiori. Colei che sembrava soffrire maggiormente in quella situazione di
visibile vantaggio era proprio Shalia, che lontana e isolata dalla battaglia,
stava dando fondo a tutte le sue energie, mettendo a repentaglio la propria vita
per salvaguardare quella degli altri. Ogni ferita che avrebbe dovuto subire uno
dei suoi alleati, ricadeva invece su di lei, ferendo il suo corpo di Dama
dell’Acqua, che benché capace di guarirla in pochi istanti, percepiva ugualmente
il dolore in forma distinta e nitida. Continue ferite la ingiuriavano e la sua
magia non faceva in tempo a rigenerarle che nuove le si aggiungevano. Questo
lento e straziante sacrificio si consumava ormai da circa mezz’ora, sotto gli
occhi increduli di coloro che erano tenuti in disparte dal combattimento, che il
Saggio Bianco si rese conto che ben presto la resistenza di Shalia sarebbe
venuta meno. Dovevano sbrigarsi, altrimenti la Dama avrebbe sacrificato senza
ripensamenti la sua vita. Alzò la spada verso l’alto e puntò il bastone verso il
basso, verso il poderoso esercito di ombre evanescenti. Mentre parole a mala
pena sospirate gli fuggivano dalle labbra, chiuse gli occhi, come se il privarsi
dalla vista avesse potuto attenuare il dolore che presto, lo sapeva, avrebbe
scosso il suo corpo fin nelle viscere. Dopo pochi istanti nuvole nere sempre più
numerose e scure sembrarono rispondere al suo richiamo, apparendo quasi dal
nulla e radunandosi sopra di lui in un ammasso buio e crepitante di energia.
Sottili saette e scintille balenarono sopra l’auroreo, minacciando una tempesta
che sarebbe potuta scatenarsi da un momento all’altro. Poi, d’improvviso, un
lampo enorme e abbagliante eruppe dal cielo nero, investendo in pieno l’Astro
Bianco, trasmettendo all’interno del suo corpo un’energia devastante e
incontenibile attraverso la spada. I bracciali ai suoi polsi brillarono
violentemente e le pietre verdi e argento risplendettero di un’intensa
luminosità insieme al pendente. Per
un istante il corpo dell’auroreo resistette, trattenendo al suo interno
quell’incredibile potere, ma infine il flusso magico sgorgò con violenza,
seguito dal rombo di tuono, calando come un torrente in piena sulla valico,
piombando sulle ombre di notturni e albi attraverso le fauci spalancate del
bastone. Il lampo setacciò tutto il campo alla loro ricerca, come un cacciatore,
consumandoli all’istante in uno sfavillio di scintille luminose ovunque li
trovasse, evitando di colpire a stento gli alleati del suo evocatore, che
controllava a fatica quell’incantesimo che minacciava di travolgerlo e
sopraffarlo.
In pochi istanti la folgore si spense e le nuvole si
dispersero, restituendo al campo di battaglia la tenue luminosità del sole
ancora sorgente. Un silenzio irreale regnava sul luogo dello scontro, sedando
gli echi del boato furioso che si era incuneato fin nei profondi recessi della
foresta circostante. Migliaia di corpi carbonizzati si ridussero in polvere,
svanendo rapidi al ritorno del sole, dissolvendosi come incubi notturni al
risveglio. L’auroreo, stremato, ridiscese lentamente al suolo, atterrando al
fianco del Re degli albi, la cui armatura e ascia baluginava dei riflessi del
sangue nero dei morti, che come un liquido malsano, evaporava in sottili
filamenti di fumo nerastro. Ogni membro del piccolo esercito fissava
esterrefatto il Sire degli Aurorei che si appoggiava stancamente al proprio
bastone, come un vecchio che fatichi a camminare. Yonuel si fece largo tra la
folla immobile dei propri guerrieri, portandosi al fianco del mago e
appoggiandogli delicatamente una mano sulla spalla, con dipinta sul viso
un’espressione di sollievo. “Ce l’abbiamo fatta, Ràidames. Abbiamo
vinto.”
Il Generale sobbalzò per lo stupore quando il Saggio
Bianco voltò il suo sguardo verso di lui. Aveva gli occhi dilatati e rossi, con
vene pulsanti in rilievo perfino sui lineamenti del viso. Respirava
stentatamente e serrava la mascella come se stesse, ancora in quel momento,
sopportando un profondo dolore. “Yonuel, falli ritirare, o sarà un massacro.” Il
Generale lo fissò incredulo e cercando di parlargli con tono rassicurante gli
disse: “Ràidames, non siete più in voi, non vedete che non è rimasto più
nessun…” L’auroreo, gridò improvvisamente, quasi con tono rabbioso.
“C’è n’è ancora uno, purtroppo, e il mio incanto non
l’ha nemmeno scalfito. Fateli ritirare, è troppo forte e io mi sono esaurito
completamente.” Gridò frettolosamente, come impazzito. “Presto o …”
“Morirete tutti.” Concluse Ghanay, apparendo al fianco
dei due elfi.
Istintivamente tutti fecero un passo indietro, sorpresi
e intimoriti dall’improvvisa apparizione di quello strano auroreo, tutti tranne
Ràidames, che con gli occhi tra il disperato e rabbioso, fissava l’avversario
che sapeva non sarebbe stato in grado di affrontare da solo. Il dio non portava
con sé armi, né protezioni di alcun tipo. Non ne aveva bisogno o almeno questo
lasciava intendere la sicurezza assoluta che traspariva dagli occhi vitrei, di
ghiaccio. Capelli biondi, tendenti ad un colore chiaro, quasi bianco, calavano
lunghi sul torso nudo, sui cui muscoli scolpiti si disegnava un serpente dalle
squame violacee, le cui spire avvolgevano più e più volte il busto dell’uomo,
terminando nella testa con le fauci spalancate all’altezza dello sterno.
“Falli ritirare.” Disse in tono neutro il Re degli Elfi
e nessuno capì se si stesse rivolgendo a Ghanay o ancora a Yonuel. Nessuno si
mosse, tutti osservavano i due aurorei fissarsi negli occhi e a chiunque sembrò
che l’Astro non potesse competere in alcun modo con quel nuovo temibile
avversario. L’atmosfera pareva insostenibile, eppure il Sire auroreo sospirò e
si voltò verso Yonuel, dicendo. “Ritiratevi.” E ripeté la stessa cosa a Sire
Urionar. Entrambi i condottieri avrebbero voluto protestare, eppure erano
perfettamente consapevoli che se l’auroreo fosse stato un mago, almeno potente
quanto il Saggio Bianco, loro non avrebbero potuto fare nulla, anche con tutti i
loro soldati. Dopotutto, la prova di potere data dallo stesso Ràidames poco
prima dimostrava in maniera inequivocabile che solo un mago poteva affrontarne
un altro. Così, in maniera ordinata, il reggimento, seppur scosso da un leggero
brusio, si riunì al resto dell’esercito, al di là dei confini della vallata. Gli
occhi di tutti erano fissi sulla scena, sui due contendenti rimasti al centro
del campo di battaglia, e davanti a tutti, Urionar, Yonuel, Zacho e Shalia
assistevano con un misto di preoccupazione e curiosità all’epilogo di quella
battaglia.
Quando anche l’ultimo guerriero ebbe varcato i bordi
della valle, Ràidames tornò a fissare il proprio avversario. “Cosa intendi
fare?”.
“Vi sterminerò tutti, dal primo all’ultimo.” Ràidames
sembrò ignorare la crudezza della risposta e lentamente si spogliò della parte
superiore della tunica, lasciandola pendere sostenuta dalla cintura. Anche il
corpo del Sire elfico mostrava un tatuaggio: aveva un drago impresso sulla
schiena, le cui scaglie si accendevano di bagliori azzurrini. Posò lentamente
spada e bastone a al suolo e iniziò a togliersi i bracciali, senza fretta,
apparentemente senza badare al proprio avversario.
“Non ce la farai in ogni caso, anche se ti libererai dei
tuoi bracciali di contenimento.” Sorrise Ghanay, ironico. “La tua forza non ti
servirà contro colui che ha insegnato la magia agli
ateloi.”
L’auroreo terminò di togliersi i bracciali lasciandoli
cadere al suolo. Poi raccolse il bastone e la spada e tornò a fissare nuovamente
il dio, fermi a meno di dieci passi di distanza. “Morirai qui e il tuo popolo ti
seguirà a breve.”
Lo sguardo del Re si incupì e nel medesimo istante i due
maghi alzarono l’uno le braccia contro l’altro. Una tempesta di saette balenò
dalle mani del dio e dalla spada dell’Astro, ruggendo rapide e scontrandosi le
une contro le altre a metà strada fra i due, in uno scintillio indistinto di
luminosità e acuto stridio.
“Sei ancora debilitato per quello che ti ho fatto quando
eri sotto forma di spirito.” Disse trionfante Ghanay, mentre dalle sue mani
continuava a sgorgare un fiume di luce mortale. Ràidames continuava a reggere il
confronto, a testa bassa e denti stretti. Anche adesso che usufruiva di tutti i
suoi pieni poteri, senza frenarsi tramite i bracciali, che evitavano che troppo
magia, magia dannosa scorresse nel suo corpo, sentiva netta la sua inferiorità.
“Patetico.” Sentì dire l’auroreo, quando le energie a confronto deflagrarono
violentemente, sbattendolo al suolo. Si rialzò immediatamente, miracolosamente
illeso. Il suo avversario non si era spostato di un passo e lo attendeva, quasi
pazientemente. “Ricorri al bastone.” Gli suggerì il dio.
L’auroreo non se lo fece ripetere. Piantò la spada al
suolo, facendone affondare la lama nella terra e alzò il bastone verso
l’auroreo, con le fauci rivolte verso il nemico. Il globo rifulse intensamente,
fino a tramutarsi in una massa informe d’oro. In un alone argentato l’oro si
staccò dalle fauci e assunse le forme scintillanti di un drago enorme, che si
innalzò nel cielo in ampie spirali. Al ruggito violento del drago tutta la
foresta sembrò tremare, poi, risplendendo in una torre di luce, si gettò in
picchiata e a fauci spalancate sul dio. Gli calò sopra con violenza mostruosa,
aprendo una voragine enorme nel terreno, disintegrandolo completamente
nell’impatto e scomparendo in uno sfavillio di stelle subito dopo. Eppure Ghanay
non si mosse nemmeno, né degno di sguardo la bestia magica. Fissò per tutto il
tempo l’avversario, con sguardo altero. Ràidames ricambiò lo sguardo, adirato e
impotente. Lasciò cadere il bastone, il cui globo era scomparso, e cadde sulle
ginocchia, stremato. Tremava visibilmente e mentre il dio gli si avvicinava, a
passo lento, allungò la mano verso la spada, ma cadde lungo disteso al suolo,
senza forze, prima di poterne sfiorare l’elsa.
Il figlio di Selonir si fermò davanti a lui, fissandolo
pacato.
Non lo degnò di parole, non considerandolo un suo degno
avversario. Alzò il palmo della mano destra sopra il suo corpo, pronto a
finirlo, che un particolare colpì il suo sguardo. Da un sottile taglio
dell’indice della sua mano colavano piccole stille di sangue trasparente, il
suo.
Il viso gli si contorse in una maschera di rabbia
fremente e urlò contro l’auroreo, che, sospeso nella semi-incoscienza, riusciva
a stento a sentirlo.
“Come hai osato?” La mano destra del dio venne avvolta
da un pallido bagliore, avvolgendo il corpo di Ràidames in un alone di polvere
dorata, che lentamente lo assorbì, fino a farlo scomparire, senza lasciarne
nulla. I’Astro se ne era andato, senza un grido o una parola di pietà. Nessuno
nella lunga schiera dell’esercito dispiegato aveva osato muovere un dito, come
se stessero assistendo a uno spettacolo al quale sapeva di non essere degno di
partecipare. Quando il Sire era scomparso in un bagliore di luci, nessuno aveva
reagito, come bloccato in uno stupore e torpore collettivo. Prima ancora che
qualcuno potesse pensare cosa fare, una nuova esplosione di luce deflagrò dove
prima giaceva il corpo di Ràidames. L’auroreo riapparve, ancora vivo, tremante e
grondante sangue, ma vivo. Sembrava dovesse crollare da un momento all’altro
sulle ginocchia. La collana che
teneva al suo collo si staccò, cadendo a terra, e il drago ad essa legato perse
lucentezza e si spezzo in mille frammenti vitrei.
“La
Stella del Drago è in grado di strappare dalla morte chi la
possiede.” Disse pacato il dio, indifferente. “Non cambierà nulla, guardati. Sei
comunque ferito e sconfitto, senza il tuo bastone per giunta.”Mentre parlava, ai
piedi di Ràidames iniziò a formarsi una piccola pozza del sangue che le sue
ferite versavano a fiotti. “Non ti rimane più nulla.” Concluse impassibile il
dio.
“Ti sbagli.” Sorrise Ràidames, mentre il suo sangue,
colato al suolo, spariva, divorato in sacrificio dalla terra. “Ho tutti loro con
me.” Parte della luminescenza che l’elfo irradiava si staccò dal suo corpo,
riunendosi in piccole sfere luminose, simili a lucciole vaganti, che, rapite da
un vortice invisibile, si condensarono in una dozzina di figure di pura luce. Il
loro bagliore pulsante scemò in pochi secondi, rivelando i contorni di dodici
aurori dall’aspetto regale, fra cui vi erano anche i volti di Ràikas e Ràidas. Si
stagliavano intorno al dio come un muro invalicabile, proteggendo il loro
evocatore. Eppure non erano solo fantasmi dallo sguardo vuoto, i loro occhi
erano gli specchi di spiriti vivi e liberi, non controllati da alcuna volontà
esterna. “Uso il tuo stesso incantesimo, anche se da adesso in poi è una mia
variante.” Ghanay non si mosse, conservava sempre la stessa espressione
ieratica, anche se velata da un’ombra di inquietudine. “Esiste una magia antica
e potente che permette, in cambio della propria vita, di cancellare quella di un
altro essere vivente.” Ansimò, mentre il pallore del suo viso andava aumentando,
derubato dalla sua forza e del suo sangue dal proprio stesso incanto. “Purtroppo
non basterebbe la mia vita a strappare quella di un dio. Così ho chiesto a tutti
i miei predecessori di sacrificare la propria anima per eliminarti. Nessuno di
loro sceglierebbe la salvezza in cambio di quella del proprio popolo. Nemmeno
io.” Il dio sorrise, beffardo. “Non basterà morire una seconda volta. Al massimo
potrai ferirmi e nemmeno in maniera mortale.”
“Lo sappiamo.” Disse Ràidames, con espressione ferma e
decisa e lo sguardo di tutti gli aurorei esprimeva la stessa ferma decisione di
sacrificio. “Noi rinunciamo al riposo della morte e scegliamo per le nostre
anime un’eternità errabonda su questa terra. Noi scegliamo di rinunciare sia
alla vita che alla morte”. I fantasmi aurorei tesero le mani in avanti e catene
di luce si dipartirono dalle loro dita, avvolgendo in una stretta morsail dio, che aveva perso tutto il suo
sangue freddo. Ora urlava, senza controllarsi. “Sei un folle! Se tu muori qui,
chi salverà il tuo popolo dall’armata dei Siguya che si sta dirigendo contro si
esso?” Gridò, nell’estrema speranza di seminare il dubbio nella mente
dell’auroreo, che ora teneva stretta in pugno la sua vita.
Infatti il Saggio Bianco esitò, il suo primo compito era
quello della difesa del suo popolo e preso dagli eventi che riguardavano
l’Incarnazione, se n’era dimenticato. Doveva tornare, non c’era nessuno in grado
di succedergli, non poteva morire. Esitò e rimase per alcuni secondi immobile,
sempre più debole. Furono gli altri a fugare i suoi dubbi. Il padre, abbandonato
il cerchio che teneva prigioniero Ghanay, gli si avvicinò e posandogli
lentamente una mano sugli occhi, calò un pietoso velo di incoscienza sulla sua
mente, prima che potesse reagire e opporsi. Lo appoggiò delicatamente al suolo,
ancora bagnato di sangue, e polvere e ritornò al suo posto all’interno del
cerchio.
“Basteremo noi ad abbattere questo nemico della nostra
razza.” Disse con sicurezza Ràikas. “I nostri doveri non ci abbandonano mai,
nemmeno alla morte.” Continuò Ràidas. “Non sia mai detto che gli Astri Bianchi
abbandonino un proprio discendente alla mercè di un tale mostro.” Aggiunse un
altro Re, con tono serio e implacabile. “Non accadrà mai che i nostri nomi
vengano tacciati di tale infamia.” Concluse un altro. Così, lentamente il
cerchio intorno alla divinità si strinse, finché non fu in grado di guardare
nitidamente gli occhi degli ateloi che aveva davanti. “Siete dei folli.” Urlò
ancora, persa ogni compostezza. “Io ho insegnato la magia al primo della vostra
casata, che ora siede al consesso degli dei. Io sono il dio che vi ha reso ciò
che siete!” Ansimò, guardandosi follemente intorno, tentando vanamente di
liberarsi dalla catene di folgore che lo immobilizzavano. “Avete dunque il
coraggio di uccidermi?”
“Non del coraggio di uccidere si tratta, ma del coraggio
di proteggere.” Sentì mormorare nelle sue orecchie prima di svanire insieme ai
Re aurorei. Sparirono tutti nel medesimo istante, in un guizzo di luce,
seguendoil destino deciso da loro
stessi. Nessun rumore che non fosse il soffio del maestrale poteva udirsi nella
valle dopo la loro scomparsa. Pochi avevano compreso cosa fosse successo,
Shalia, Zacho, Yonuel e pochi incantatori notturni, che per abilità e competenza
nella loro arte, avevano inteso il senso di quell’arte magica di sacrificio.
Alcuni notturni, in testa Yonuel, insieme a Zacho e Shalia, si fecero avanti a
passo cauto e guardingo, poiché ancora non credevano che la vittoria avesse
arriso al Re nella battaglia con un dio così potente. Shalia si inchinò subito
su di lui e in pochi minuti ne fermò le numerose emorragie e ne curò le ferite.
“Ci hai fatto davvero preoccupare, Ràidames.” Disse
Zacho con tono sollevato, vedendo l’auroreo socchiudere gli occhi. “Abbiamo
vinto.” Continuò. “Hai vinto.” Concluse veemente.
“Tutti loro ci hanno aiutato.” Ansimò l’elfo, distrutto
e spossato, e chiuse gli occhi, che ponendo fine alla vista del tragico epilogo
della battaglia, si inumidirono di lacrime d’orgoglio e rammarico per il
sacrificio a cui i suoi padri erano stati pronti a prendere parte anche in sua
vece.
Capitolo 26 *** Il fuoco rivelatore e la decisione del Principe ***
l
Il sole declinava rapidamente, rubando gli ultimi
istanti di rosea luminosità alla capitale notturna, che presto sarebbe rimasta
immersa nel buio. Altissimi edifici spiccavano per decine di piedi oltre la
cinta muraria e i tetti della città, evocando l’immagine di alberi di vetro e
marmo svettanti oltre le chiome del resto del bosco, a stento contenuto dietro
barriere di pietra. Guglie e pinnacoli e archi rampanti si arrampicavano lungo i
contorni dei palazzi, rami sinuosi di snelle costruzioni. Cupole dalle vitree
volte svettanti e finestre e portali a sesto acuto catturavano eriflettevano i bagliori cremisi dei
raggi solari. Tali erano le altezze che le regge raggiungevano che la luce a
stento riusciva a filtrare tra le costruzione barocche fino a raggiungere il
suolo e illuminare le strade. Eppure non ci si sentiva oppressi dalle
sorprendenti dimensioni della città, né in alcun modo schiacciati o repressi
nell’animo. Le ampie vie serpeggianti che fendevano quelle costruzioni
arrampicatrici del cielo, lasciavano osservare il firmamento ritagliato oltre i
contorni delle cime di vetro. Mossi a sollevare il viso verso l’alto, come se la
strada fiancheggiata da alte pareti spingesse a farlo, si avvertiva
distintamente lo spirito elevarsi e protendere verso l‘altezza ritagliata del
cielo. Le stesse forme slanciate e saettanti che componevano la città,
spingevano d’intuito a levare cuore e spirito verso uno stato d’animo di
sintonia con le libere distese celesti. In definitiva era la stessa città che
fomentava gli animi affinché si sentissero liberi e diventassero desiderosi di
cercare sempre nuovi luoghi e emozioni intrise di passione, anche oltre gli
apparenti confini della natura.
Anarion distolse lo sguardo dalla finestra che si
affacciava sulla città e chiuse gli occhi, respirando profondamente. Stentava a
credere che dopo gli eventi di Alcols avrebbe potuto nuovamente sentirsi tanto
calmo e tranquillo. Eppure il calore e la pace di quella stanza, l’ultima sala
del Tempio del Fuoco Rivelatore, riuscivano a rasserenare il suo animo come non
gli capitava da tempo. Voltò le spalle alla visione della capitale, ormai invasa
dalle ombre della notte e volse il suo sguardo al centro della sala. Marmo dai
riflessi d’argento e porpora ricopriva il pavimento dell’ampio salone, coperto
da una cupola di pietra scura dalle venature azzurre. Al centro un enorme
braciere d’oro ospitava la fiamma imperitura venerata dai notturni. Lingue di
fuoco cremisi si sollevavano fin quasi al soffitto, lambendo l’intero luogo con
un calore intenso ma non soffocante. E la fiamma pareva bruciare senza bisogno
di consumare alcunché, né fumo si sollevava dai filamenti di fuoco la cui
intensità non conosceva riposo o diminuzione. La crepitante luce di cui il fuoco
era l’unica fonte bagnava le pareti circostanti ondeggiando con l’impeto del
fuoco e rivelando bagliori bluastri tremolanti impressi nella viva pietra.
Vincendo l’incerta penombra che stringeva la stanza intorno al fuoco come una
morsa, si scoprivano essere fiamme tremule quelle che ardevano in caratteri
fissi ai muri. E l’intera parete circolare era ricoperta da scritte bluastre,
per tutte la sua altezza e lunghezza, lasciando solo talvolta qualche spazio
vuoto, dove il destino non era ancora stato chiesto o già concluso. Un piccolo
varco semicircolare, unico punto nero della sala, che si affacciava con ampie
vetrate sull’intera città, costituiva il solo punto d’acceso e d’uscita. Un
vecchio notturno varcò l’uscio, avvicinandosi a passo lento al ragazzo. Anarion
si stupì non poco nel vedere l’atelos, aspettandosi che fosse stata Serìa ad
assisterlo nel rituale, visto che l’aveva accompagnato fin lì. Forse il vecchio
era più indicato per un simile incarico. L’umano non aveva mai visto ateloi
anziani. Gli aurorei erano immortali e non conoscevano il lento decadimento
fisico della vecchiaia, quindi nemmeno la morte, sua inseparabile compagna. I
notturni erano invece condannati a condividere un destino simile a quello che
affliggeva gli uomini. Eppure anche in questa loro tragica somiglianza si
distinguevano. Il notturno non aveva il viso segnato dalle imperfezioni e i
danni della tarda età umana, solo aveva lineamenti più dolci e rilassati
rispetto a quelli di un giovane notturno e gli occhi erano di un colore più
chiaro e luminoso, come se la stessa mente percepisse con maggiore chiarezza e
lucidità ciò che non le era riuscito in gioventù. Portava i capelli bianchi e
lucidi raccolti in una lunga coda, folta e brillante, che ricadeva lungo la
schiena, risaltando sulla tunica scura. Si accompagnava con un bastone nodoso,
eppure non difettava né nel portamento né nel camminare, avanzando eretto e
sicuro, con fisico esile e fine, ma sinuoso e aggraziato. “Siete pronto?” Gli
chiese con voce ferma e profonda il notturno. Anarion annuì con il capo. Era
diventato più pacato e riflessivo dopo essersi risvegliato dal sonno di Shalia.
Anche dopo essersi destato e aver coperto la strada a cavallo con Serìa, non
aveva fatto altro che meditare profondamente, ponderando con attenzione sulla
propria scelta. Anche adesso, mentre avanzava verso il calore ed il fuoco, si
convinceva sempre di più di quanto stava per compiere. Chissà quale sarebbe
stata il suo fato? L’avrebbe seguito davvero senza sbagliare, fino in fondo?
Come sarebbe stata la sua vita con il peso del mutismo? Il rituale avrebbe avuto
lo stesso effetto su di lui, il primo essere umano a sperimentarlo? Tutte le
domande tornavano in quei pochi attimi, ad ogni passo verso le fiamme, con
maggior forza e clamore nella sua testa. Ma ormai era finita. Si fermò
all’interno di un piccolo cerchio contrassegnato da rune e disegni geometrici,
incisi in argento nel pavimento, e attese. L’anziano notturno si allontanò,
sempre a passo lento, arrestandosi ai bordi della sala. Passarono alcuni secondi
di totale immobilità e silenzio, eccezion fatta per il crepitare del fuoco,
durante i quali Anarion si limitò a fissare le fiamme. Si stupì quando tra il
perenne fluire delle fiamme gli sembrò di intravedere un volto, il volto di un
bellissimo atelos dagli occhi rossi e bianchi e la carnagione cremisi, che si
dileguò in lingue di fiamme non appena scorto. Fu allora che il rituale ebbe
inizio. Strisce cremisi e scintille brillanti esplosero a mezz’aria vorticando
velocemente intorno al braciere, spostandosi poi con altrettanta velocità
intorno al ragazzo, formando anelli di fiamma intorno al suo corpo. Anarion non
si mosse, benché sorpreso e in parte spaventato dal rituale. Si sentiva scottare
la pelle e bruciare dentro, come se le fiamme lo stessero scrutando fin dentro
le viscere e gli divorassero l’anima. D’improvviso però il rituale cessò e le
fiamme smisero di assillarlo, riducendosi a scintille dalla vacua luminosità. I
bagliori in una scia luminosa abbandonarono il ragazzo e andarono a fissarsi su
una porzione vuota di parete, fra molte scritte di fiamma azzurra. Lì
ricominciarono a brillare intensamente, componendosi fino a formare una frase
dai caratteri di fuoco. Eppure qualcosa non funzionava, se ne accorse Anarion,
che si avvicinò alla parete per riuscire a decifrare i caratteri, che non
assumevano una forma definita, e se rese conto parimenti il vecchio, che a passo
lento si affiancò al giovane. La frase era di fatto illeggibile, non erano altro
che fiamme baluginanti che non lasciavano discernere i caratteri che
rappresentavano.
“Perché non riesco a leggere la scritta?” Chiese
incredulo il ragazzo.
“Perché non chiedi invece perché riesci ancora a
parlare, ragazzo?” Chiese di rimando il notturno, senza distogliere lo sguardo
dalla scritta. Anarion si portò stupito una mano a toccarsi la gola eppure non
riusciva ancora a capire il perché di quella eccezione. Forse perché lui era un
umano e non un notturno?
“Probabilmente dipende dal fatto che appartieni al
nostro popolo.” Confermò il vecchio ai pensieri del ragazzo. “Questo come può
influenzare il verdetto del Fuoco?” Chiese deluso Anarion. “Apparteniamo a due
razze simili eppur troppo diverse.” Sospirò il vecchio.
“I notturni si sottopongono al rituale accettando il suo
verdetto e consapevoli che da esso non c’è fuga o scampo. Una volta che ne
vengono a conoscenza non fanno nulla che possa cambiarlo, anzi si dedicano con
tutte le loro forze per rispettare il fato scelto per loro dagli
dei.”
“Quindi perché con me non ha funzionato? Cosa ho
sbagliato?” Insistette il ragazzo.
“Il tuo sangue ti tradisce.” Gli disse il vecchio. “La
razza umana è soggetta a turbamenti e sconvolgimento continui di animo e cuore
che sarebbe del tutto impossibile per essi compiere un destino di cui sono a
conoscenza. Chiunque di loro agirebbe sicuramente in modo da cambiare o deviare
il corso degli eventi.” Il ragazzo rimase immobile e silenzioso, deluso e in
parte anche incapace di comprendere quelle parole. “Cercherò di spiegarmi
meglio.” Disse il notturno.
“Alla base della differenza tra le due razze vi è la
scelta.” Continuò il vecchio. “I notturni accettano il loro fato, qualunque esso
sia, e scelgono come loro forma di libertà la possibilità di impegnarsi in vista
del compimento del loro destino.”
“Non lo subiscono in maniera passiva.” Concluse Anarion
guardando il notturno negli occhi.
“Esattamente.” Disse il vecchio, sorridendo. “Per gli
umani la situazione è completamente diversa.”
Continuò con tono mite e sereno. “ L’uomo comune non
accetta fondamentalmente il proprio destino e la propria vita. Cerca
continuamente di modificarla, di migliorarla in definitiva, per il conseguimento
di sogni e desideri. La sua è una ricerca, un desiderare continuo e senza fine.”
Sorrise suo malgrado. “Nessuno di voi, saputo quale sia il suo destino,
riuscirebbe a continuare a vivere senza tentare consciamente o meno di cambiare
il corso dell’esistenza secondo le proprie aspettative o i propri desideri.”
“Dunque non posso beneficiare del verdetto perché non
potrei accettarlo?”Chiese il
ragazzo.
“Vero per metà.” Rispose enigmatico il vecchio. “Tu vuoi
questo verdetto perché stai scappando.”
Il ragazzo non rispose, restando in un silenzio
difensivo. “Stai scappando dal dovere che hai di vivere la tua esistenza. Hai
paura di commettere errori, di sbagliare, quindi vuoi giungere direttamente
all’esito delle tue azioni per poter agire senza il timore di errare nelle tue
scelte, sapendo quale rimarrebbe comunque il tuo destino. E già agendo così
l’avresti modificato.”
Alzarono entrambi lo sguardo verso la scritta, ancora
indecifrabile. “Temo che il “beneficio”, come tu l’hai definito, del Fuoco
Rivelatore, sia precluso a te e a quelli della tua razza.”
“Temo anch’io.” Disse Anarion voltandosi e dirigendosi a
grandi passi verso l’uscita, talmente amareggiato e scontento, da non voltarsi
nemmeno una volta prima di abbandonare la stanza, sotto lo sguardo indecifrabile
del notturno.
Quando i suoi passi morirono in lontananza, il notturno
tornò a rimirare la scritta e notò, senza sorpresa, che una parte era ora, in
caratteri fiammeggianti, chiara e definita. Tra le lingue di fuoco senza forma
la parola
“DOLORE” brillava di riflessi scuri e
inquietanti.
…………………………………………………………………………………………………
Il vasto salone era rischiarato da una vaga luminescenza
argentea che sfumava in bagliori chiari ogni cosa, lasciando immersi
nell’oscurità i volti e le espressioni dei presenti. Una vetrata lucida si
apriva sulla grandezza di Fearin, lasciando intravedere il paesaggio notturno
dei contorni accennati e silenzioso della città. Un uomo guardava verso il
cielo, superando la barriera trasparente e lasciando vagare la mente nello
spettacolo celeste. Un secondo uomo attendeva poco dietro, inginocchiato alle
spalle del suo Principe, con il capo chino in segno di rispetto. Vestiva una
divisa rituale cremisi, decorata con figure leonine d’oro e argento e al suo
fianco era poggiato un elmo bronzeo raffigurante le fauci spalancate di una
fiera. La calma e la quiete del luogo ingannavano gli spiriti colmi di tensione
e indecisione dei due.
“Ordino che tutte le nostre truppe vengano richiamate e
accorrano a Fearin per ricostituire l’esercito. Che le due città settentrionali
della Stellae i villaggi
circostanti vengano evacuati e gli abitanti portati a Fearin.” Il guerriero non
si mosse e rispose con voce atona. “Come comandi Principe.” Attese alcuni minuti
e chiese dubbioso. “Cosa decidi riguardo ai Siguya? L’esercito non sarà pronto
prima di una settimana e la forza dei Dodici Cavalieri del Sole è venuta meno.”
Constatò con voce atona il Cavaliere. Il Principe non rispose subito. La
situazione era davvero incresciosa. Non avrebbero potuto affrontare una minaccia
esterna, quando le loro forze erano minate da una guerra intestina. Inoltre
necessitavano di tempo, tempo per riunire tutte le loro forze e dare al popolo
la speranza di sopravvivere.
“Che siano inviati i duecento soldati della Fauci di
Leone al Ponte. Che attendano lì l’esercito nemico e ingaggino battaglia fino
alla fine, dandoci il tempo di organizzare le difese.”
Il guerriero sollevò lievemente lo sguardo verso la
figura del suo Principe. Gli stava ordinando di sacrificare senza alcuna
esitazione la vita dei suoi duecento uomini in una battaglia che non potevano
vincere, con l’unico scopo di dare una speranza al loro
popolo.
“Obbedisco.” Rispose senza esitazione il capo
dell’Armata Fauci di Leone. Si alzò con gesto meccanico, tenendo l’elmo bronzeo
sotto il braccio euscendo a passo
svelto, senza voltarsi. Aveva la gola terribilmente secca. Gli sembrava di
sentire già le mani della morte stringergli il collo.
Capitolo 27 *** Dailone, la città di Delos, la decisione di Urionar ***
Le acque tranquille dello Spaccaterre scorrevano lente,
lucide e trasparenti, nell’enorme letto che scavava in quel punto i territori
settentrionali del Regno. Il Ponte dell’Esin era immerso nel silenzio e nei
bagliori dorati della luce riflessa sui flutti quieti del fiume. Le sponde
lussureggianti spingevano i rami dei propri alberi a proteggere in una volta
verde il corso dell’acqua, lasciando tuttavia una lunga fessura nella cupola
smeraldo che lasciava filtrare i raggi d’oro del sole.
Una larga strada sterrata da sud si apriva un varco
nell’intrico verde, raggiungeva l’imponente ponte di pietra grigia, largo più di
trenta piedi, e fuggiva verso nord, perdendosi alla vista dopo pochi passi.
Duecento uomini riposavano immobili e silenziosi ai bordi della strada, come
guardie silenziose. Alcuni sedevano appostati come alberi saldi lungo il
versante meridionale del fiume, pochi sedevano ai limiti della sponda opposta,
al limitare del ponte. Vesti cremisi scintillavano di riflessi ignei brillando
nei colori della foresta, simili a fasci di polveri di astri infuocati. Lance
bronzee spiccavano dal sottobosco ed erano l’appoggio di coloro che irrequieti
spingevano lo sguardo a penetrare la vegetazione che impediva loro di capire
quando il nemico sarebbe giunto. Nessuno osava alzare lo sguardo a incrociarlo
con quello dei compagni attorno o rivolgere la parola a qualcuno di essi. A
nulla valeva lo splendore della natura tutt’attorno. Lo spettro dell’angoscia e
della paura mutavano ogni colore, il verde dell’erba, l’azzurro dell’acqua e il
rosso sanguigno profondo delle vesti delle Fauci di Leone in un velo informe di
grigio pallido e sbiadito.
Un silenzio foriero di tempesta inghiottiva anche i
suoni della natura, dando l’impressione che anche le acque del fiume
scivolassero senza il minimo rumore. E il tempo nel frattempo scorreva
inesorabile: i minuti scorrevano lenti e le ore veloci, nell’attesa del fatidico
momento.
La pressione della morte era spaventosa, anche per
guerrieri plasmati alla guerra quali erano i duecento Leoni, una tortura e una
violenza tali da spezzare ogni volontà e fiaccare ogni energia. Nessun senso di
fervida attesa e nessuna energia o eccitazione adrenalinica prima dello scontro,
nessuna speranza c’era per coloro che sapevano di essere destinati quel giorno
alla morte.
Lo scontro per loro era già iniziato e i loro animi ne
stavano uscendo straziati. Poi, improvviso, un suono soffuso, una fievole nota
di una voce calda e soave invase ogni anfratto della foresta, smorzando ogni
tensione e paura.Una lunghissima
parola di malinconica tranquillità si sostituì ad ogni altro suono, empiendo
l’aria di un canto quale nessuna voce mortale sarebbe potuta essere capace.
Molti sollevarono il capo, guardandosi curiosi e tranquillamente sorpresi
tutt’attorno, gli altri, chi conosceva il mistero di quel prodigio, chiudevano
piacevolmente gli occhi e lasciavano che quei suoni divini purificassero loro
l’anima. Il Cavaliere Dailone, ormai l’unico soldato rimasto sulla sponda
settentrionale, stava in piedi oltre il ponte, ascoltando, appoggiato alla
propria lancia, la nenia struggente. Era stranamente in ansia, teso e anche
rammaricato. Agitazione e inquietudine erano compagni del suo animo da anni e
aveva imparato a conviverci. Non erano affatto paura o insicurezza, sentimenti
fatali al guerriero. Da anni ormai considerava la morte come probabilità
concreta della propria vita, l’aveva accettata come possibilità e aveva imparato
a convivere al suo pensiero. Non ne era spaventato e in un certo senso, forse,
aveva rinunciato a vivere. Ma non era questo il problema. Adesso era arrabbiato
per ciò che stava accadendo. I suoi uomini avevano paura, paura di combattere
una battaglia in cui con ogni probabilità avrebbero perso. Non riusciva a
capirli, ma dopotutto la cosa era comprensibile. La sua natura differiva dalla
loro, ma nonostante questo i suoi compagni erano quanto di più avesse vicino al
concetto di famiglia. In cinquanta anni, anni di guerre, sangue e morte, aveva
combattuto su innumerevoli campi di battaglia, contro e insieme a innumerevoli
persone e aveva sempre portato la sua armata, i suoi Leoni, alla vittoria. Aveva
sempre garantito ai suoi compagni che sarebbero morti per la vittoria e invece
stavolta non aveva parole, uno scopo da proporgli per cui valesse la pena
morire. L’ideale della salvezza del popolo gli pareva fittizio, troppo lontano
dalla realtà di crudezza e dolore che stavano affrontando e soprattutto tutti
erano perfettamente consapevoli che il loro sacrificio in quel momento e in quel
modo, non sarebbe valso a nulla. C’era tuttavia un sentimento che presto,
nell’istante cruciale, si sarebbe risvegliato nei suoi uomini, che adesso
sentiva tanto lontani da lui.
Erano l’ orgoglio e sete di gloria, la volontà di
mantenere intatta la leggenda di invincibilità dei Leoni; sarebbero stati quei
sentimenti a mantenere vivi i loro spiriti fino alla morte. “Oltre la morte” era
proprio il loro grido di battaglia.
Il Cavaliere abbandonò il filo dei propri pensieri; il
canto era terminato. La ninfa dei Guadi aveva interrotto il suo canto, la sua
preghiera funebre era terminata. Tuttavia non si mosse. Il suo sguardo era
ancora perso nell’ammirazione della natura nuovamente silenziosa. Percepì con
chiarezza un movimento d’aria alle sue spalle e sorrise divertito. Lo avrebbe
ignorato per il momento. Non gli interessava battersi con lui e in fondo, poteva
comprenderne le azioni.
Si voltò e tornò a lenti passi dai suoi uomini,
sull’altra riva, a viso basso, accompagnandosi con la lancia ad ogni passo. Si
fermò e alzò lo sguardo: erano tutti davanti a lui e lo fissavano in attesa,
duecento anime legate alla sua. Per un attimo si sentì sgomento, non aveva mai
sentito tanto il peso delle proprie responsabilità su di sé come in quel
momento, faceva ancora fatica ad accettare per quella volta il suo compito. Aprì
la bocca per parlare, quando percepì che sull’altro argine qualcosa si era
mosso. Si volse di scatto. Sembrava un uomo. Vestiva usurati abiti grigi e aveva
una pelle biancastra, d’alabastro, e portava i capelli lunghi, bianchi e lucidi,
fino alla vita. Gli occhi erano fessure feline, lampi gialli che brillavano
anche nella penombra della foresta. Dailone non si fece ingannare. Lo riconobbe
subito, dall’aura mortifera che emanava, dalla sensazione di ghiaccio e oscurità
che lo avvolgevano come una corazza. L’aveva già incontrato, cento anni prima,
nella grande battaglia tra uomini e Siguya. Talvolta sognava ancora nei suoi
incubi l’orrore, la morte e la devastazione che accompagnavano come araldi
fedeli il dio in battaglia. E adesso che lo incontrava ancora capì subito che
non sarebbe sopravvissuto. Poteva sentire la pressione della morte che finora
aleggiava come uno spettro diventare quasi tangibile. Stava per schiacciarli
tutti con la sola presenza. Strinse con più forza la lancia, ma non si
mosse.
“Siguya…” Lo salutò con voce metallica da sotto
l’elmo.
“Dailone, perché sei venuto?” Chiese con voce vuota il
mostro. “Sto per sterminare un popolo che in fondo non ti appartiene.”
“Sono venuto per fermarti.” Rispose con voce ferma e
sicura.
Siguya sorrise falsamente, divertito da quelle parole.
“In duecento anni quanti hanno provato ad uccidermi? Umani, Aurorei, Notturni,
Albii, Cavalieri e Impuri. Ma alla fine non ci siete riusciti.” Rise ancora,
sarcastico. “Si sa che nessuno può uccidermi.”
Fece un primo passo, salendo sul ponte. “Ascoltami, io
non vi ucciderò. Ma tu dovrai unirti a me.” Sorrise sadico. “In fondo siamo
uniti da un profondo legame…” Il Cavaliere non si mosse. “Non ti chiedo di
uccidere, solo di tornare con un tuo pari.”
Gli occhi del dio si ridussero a fessure. “Io non sono
così cattivo…Non voglio costringerti, tu stesso dovresti desiderare di riunirti
a me.”
Fece un altro passo leggero, mentre ogni cosa era ferma,
in trepidante attesa.
“Adesso comincio ad uccidere ogni altro essere umano,
questi poveri duecento folli…”
Per la prima volta, mosse anche le braccia, indicando la
schiera di uomini che lo fissavano silenziosi e la stessa aria ebbe un fremito
al suo gesto. “Ma se vuoi tornare con me, per riprendere il tuo posto, allora
potrei perdonare questi stupidi uomini.” Erano davvero ridicoli. Lo
fronteggiavano ignari e inconsapevoli di aver di fronte la morte, senza sapere
di essere insetti sul punto di essere schiacciati.
“Tanto loro ormai sono finiti, sono già sfiancati… tutto
dipende da te.”
Il Cavaliere voltò il capo verso i suoi uomini, senza
muoversi, un’occhiata veloce, che gli bastò a capire quanto fossero vere le
parole di quel mostro. I suoi uomini erano sfiniti, quei guerrieri temprati da
fuoco e dolore erano stati devastati dalla sola aura venefica di quel dio
oscuro.
Era diventata una sottile e diabolica tortura
psicologica.
“O stai con me e sopravvivi con i tuoi uomini, che
stranamente consideri più importanti di me e degli altri, o combatti con loro
contro di me.”
“Ma attento…” Ci fu un lunghissimo attimo di silenzio.
“…conosci già il risultato.”
Dailone abbassò il capo e sentì il sudore scorrergli
ghiacciato sulla fronte. Com’era crudele! Se avesse rifiutato la proposta,
avrebbe condannato a morte tutti. Non gli importava di se stesso, ma che diritto
aveva lui di scegliere con una propria decisione, per una causa così personale,
la vita e la morte dei suoi compagni? Se invece avesse scelto di sottomettersi a
Siguya avrebbe salvato la vita dei suoi duecento uomini, ma avrebbe abbandonato
il resto del popolo alla mercè dei Siguya. Ma comunque quei mostri li avrebbero
spazzati via e sarebbero proseguiti ugualmente verso le città del sud. Tanto
valeva permettere ai Leoni di combattere in una situazione più favorevole, con
il resto dell’esercito magari. Ma non riusciva a decidersi. Avvertiva con
angoscia terribile di essere completamente solo in quel momento, davanti a
quella terribile scelta.
Il Capo dei Leoni sospirò e, incredibilmente, sorrise.
Doveva farsi forza.
Diede le spalle al nemico e si volse verso i suoi Leoni.
Duecento uomini erano tesi fino allo spasimo per la tensione e l’ansia e
trattenevano il respiro in attesa delle parole del loro comandante.
Urlò ad alta voce, con tono squillante e limpido: “Mi
dispiace per voi!”
Sorrise, tristemente felice: “Morirete con me!”
I suoi compagni gli risposero all’unisono, come un sol
uomo, guidati dalla prova di sprezzante coraggio del loro comandante: “Oltre la
morte! Oltre la morte!”
Il viso di Siguya si contorse in una maschera di rabbia:
“Quindi vuoi farli morire tutti?”
“Leoni!” Gridò Dailone, ignorando il mostro. E iniziò a
sbattere violentemente la propria lancia contro lo scudo, urlando come in preda
a una furia improvvisa e tutti i suoi uomini lo imitarono generando un frastuono
di metallo e urla sovrumane che riempì l’intera foresta, scuotendola fin nei
suoi anfratti più profondi. Il malefico dio oscuro era scomparso, inghiottito
dall’oscurità della foresta, eppure si poteva sentire un rombo, un basso
rimbombo di pesanti passi avvicinarsi e contrastare le urla dei guerrieri. Il
Cavaliere si voltò e avanzò a grandi passi, seguito dai suoi, guadagnando la
metà del ponte. “Leoni!” Urlò ancora, seguito dalla grida furiose e violente dei
suoi. Le sagome colossali e mostruose di esseri d’incubo, torri di lame e
artigli e di pietra, sbucarono dal folto della foresta, gettandosi d’impeto sul
ponte, facendolo tremare violentemente.
“Oltre la morte!” E il suo urlo, simile a un ruggito di
una belva ferina, rimbombò come un’eco di rabbia per tutta la foresta,
accendendo la rabbia e la furia nei cuori dei suoi uomini.
Ancora una volta, fino al parossismo, i ruggiti dei suoi
Leoni lo seguirono e duecento lance si alzarono all’unisono verso il cielo,
avvampando violentemente di fiamme sanguigne e scintille crepitanti.
…………………………………………………………………………………………
“Così
sarebbe questa Delos?” Chiese Anarion alla sua accompagnatrice, mentre il suo
sguardo spaziava sulla città dall’alto di una balconata. “Ci fermeremo qui solo
per oggi, il tempo strettamente necessario per permettermi di rispondere ad
alcuni miei doveri.” Gli disse Serìa con il tono di chi non ha alcuna voglia di
continuare la conversazione. Lo lasciò solo, scomparendo nell’ombra delle sale
interne. Il ragazzo si voltò un secondo per vederla scomparire e si appoggiò
nuovamente alla balaustra, osservando la città alle prime luci dell’alba. Erano
giunti di notte, in silenzio, quando la città era ancora addormentata,
percorrendo la via principale, ancora deserta. La strada principale si
inerpicava in salita sulla collina sulla quale poggiavano le fondamenta della
città, conducendo al centro della città. Il ragazzo non potè fare a meno di
notare allora come Delos fosse una città bella, ma triste. Conservava pressoché
intatta molta dell’antica bellezza che un tempo possedeva in quanto capitale e
centro religioso del Regno degli Uomini. Piccole case costruite in mattoni
bianchi, grigi e bluastri, costruzioni molto antiche dove vivevano le sole due
migliaia di abitanti, incorniciavano giganteschi giardini di piante e pietra,
dove alberi e colonne e statue marmoree si ergevano in armonia con parimenti
bellezza. Enormi templi bianchi dai fregi multicolori e i colonnati silenziosi e
ombrosi erano avvolti da un’aura di austerità e maestosità e da un silenzio
interrotto solo dal tenue suono del peregrinare delle centinaia di fedeli che
ogni giorno visitavano la città per rendere omaggio agli dei o osservare almeno
una volta la città immortale. Che lo sguardo si posasse su una delle case delle
divinità, avvolte dalle nenie rituali e dall’odore dell’incenso, sulle colossali
statue di grandi uomini ed eroi del glorioso passato, dai visi d’oro ed avorio e
le armi bronzee, o si perdesse nel fragile splendore dei giardini protetti dalle
immortali bellezze di marmo, una sensazione di perduta grandezza pervadeva ogni
cosa. Imprigionato nella maestosità delle sue forme eterne, il passato glorioso
di Delos strideva con il tempo presente, generando una diacronia, un’alienazione
che allontanava lo spettatore dalla visione splendente della città,
ricordandogli che essa era una pietra miliare, superstite di un’ era migliore,
antica e ormai conclusa, di cui lui era il figlio minore, indegno. E Anarion non
potè fare a meno di percepire la propria piccolezzadi fronte ai giganti del passato, agli
sguardi alteri e ieratici ritratti nel marmo, di Principi e Cavalieri
probabilmente ormai polvere, ma il cui ricordo era rimasto sigillato e custodito
per sempre per la memoria dei loro concittadini.
E infine c’era l’ Apogerao, sede della Corte Suprema del
Regno e dell’Oracolo di Delos, dove lui stava attendendo. Situato sull’altura
che dominava l’intera città, il grandioso palazzo di vetro e roccia bianca
rifletteva in bagliori accecanti i raggi solari di mezzodì. Costruito da tempo
immemorabile, la costruzione aveva soffitti e pareti di limpido vetro nel
tribunale, le cui azioni dovevano essere agli occhi dei cittadini limpide e
chiare, mentre la parte dedicata all’oracolo era in bianchissimo marmo, dando
una sensazione di purezza e perfezione ai sacri locali dove il Mages, il sommo
sacerdote, svolgeva il suo ruolo di portavoce degli dei.
L’ingresso della corte la divideva dalle strade della
città avvolgendola in una cintura di terra battuta e polverosa, deserta. Mentre
gli occhi vagavano senza pensieripercepì immediatamente qualcosa di strano, come uno sguardo penetrante
osservarlo, mentre il suo istinto gli allertava i sensi e l’attenzione, eppure
nessuno nelle vicinanze era in vista. Era diverso tempo ormai che sentiva le sue
percezioni affinarsi e farsi più acute. Resistette ancora pochi secondi a quella
pressione immotivata, poi si costrinse a cercare protezione nei locali interni
della Corte. Pochi attimi dopo un tonfo a malapena percettibile si udì sulla
balconata, seguito da un silenzio assoluto. I raggi del sole sorgente fecero
risplendere di una luce livida un pugnale dall’elsa d’argento per un istante.
Poi svanì in pieghe invisibili.
………………………………………………………………………………………
Urionar era immerso fino al collo nelle acque bollenti
che riempivano un piccolo cratere nelle vicinanze dell’accampamento. Il calore
intenso restituiva forza e vigore alle sue membra provate dalla violenta
battaglia. Sentiva il fuoco lambirgli ogni tratto della pelle, accarezzandolo
delicatamente. Si sentiva rinascere, anche se respirava a fatica, complice
l’inteso vapore che si sprigionava dall’acqua e l’affanno che ancora non
l’abbandonava, come un veleno che non riusciva a estirpare. Respirò a fondo e
scivolò lentamente sotto l’acqua. Si lasciò affondare sempre più in profondità,
senza opporre alcuna resistenza. Aprì gli occhi e fissò i vapori bianchi e
l’acqua fosca senza pensare. Sentiva un acuto senso di inutilità affiggerlo come
un peso insostenibile. Cosa aveva fatto finora? Si era allenato per anni, nelle
infuocate profondità della sua terra, per essere un guerriero degno della sua
stirpe e per poter proteggere la sua gente. Migliaia erano caduti davanti ai
suoi occhi, in una guerra ancora più vacua e sterile di tutte quelle che aveva
combattuto fino ad allora. Aveva dato il meglio di sé e non era bastato.
Si sentiva inadeguato. Il suo popolo si distingueva per
forza e abilità nella guerra più di uomini comuni, aurorei, notturni e Dàimon
eppure non erano riusciti a vincere da soli. La vittoria che avevano riportato
non gli apparteneva. Non era valsa la sua discendenza dagli spiriti del fuoco,
che faceva ardere negli Albii una possanza sopranaturale, a difenderli. Quando
toccò il fondo bollente della fonte si diede una violenta spinta con i piedi e
riemerse in superficie infrangendo d’impeto lo specchio vaporoso dell’acqua,
inspirando con forza aria nei polmoni.
“Siete ancora indignato per la nostra sconfitta,
Urionar?” Chiese Yonuel dal bordo del cratere, la figura longilinea sfocata e
avvolta dai vapori dell’acqua. Vestiva abiti neri e argento, legati in vita da
una cinta da cui penzolava un lungo pugnale.
L’albo non si voltò nemmeno, continuando a fissare la
cortina che gli nascondeva ogni tratto definito dell’ambiente circostante. “Sire
Ràidames è partito?” Chiese con voce atona.
“Quasi immediatamente.” Rispose il Generale, con voce
ovattata dall’aria densa.
“Ciò che ha detto quel dio è dunque vero? I Siguya
marciano verso la
Torre Bianca?” Non suonava come una domanda,
quanto una presa d’atto della situazione.
“Come dovremmo agire?” Continuò il notturno. “Dovremmo
inviare le nostre truppe in supporto alla difesa delle terre atelèe? Una azione
non combinata sarebbe del tutto inutile.”
“Ne hanno davvero bisogno?” Disse con voce esitante
l’albo, consapevole della gravità delle proprie parole. “Ho parlato con l’Astro
Bianco prima che partisse.” Rispose Yonuel con tono grave. “Ha preso in
considerazione la possibilità di svuotare la Fortezza e di ritirarsi nelle terre
orientali.”
“A cosa servirebbe tale ritirata? Verrebbero solo
inseguiti nelle loro stesse terre.” Constatò Urionar.
“Voi non ne siete a conoscenza, ma esiste
un’antichissima magia posta a protezione del popolo auroreo.”
“Essendo immortali, l’abbandonare le loro terre, per
avventurarsi nel mondo, costituisce un pericolo enorme per la loro
sopravvivenza. E’ così che il servizio di leva alla Fortezza Bianca richiama a
turno sempre un certo numero di aurorei, in modo che non siano sempre gli stessi
a rischiare la propria immortalità. Ci sono comunque coloro che non vengono
convocati perché speciali, ma questo non ci interessa
ora.”
“Eccezion fatta per il Re, i dodici del Consiglio e il
Capitano, la legge stabilisce che non più di tremila aurorei possono giungere
alla fortezza in due mesi. E sai quanti ne sono caduti contro i Dàimon?” Chiese
con retorica a Urionar. “Sono morti all’incirca mille e trecento aurorei. Questo
significa che ad affrontare i Siguya sono rimasti meno di duemila soldati, che
non possono e non vogliono ricevere rinforzo per non arrecare ulteriore danno ai
propri fratelli.”
“Non siete ancora giunto al punto, Yonuel.” L’albo si
girò verso di lui e lentamente iniziò a nuotare verso la riva rocciosa del
lago.
“Il punto è che ritirarsi, azione plausibile in queste
condizioni, non significa abbandonare semplicemente la propria posizione, ma
pagare un prezzo enorme.” Il notturno e l’albo potevano adesso quasi fissarsi
negli occhi, penetrando la densa foschia. “Se tutti gli ateloi si ritirassero
oltre il Cancello, le mura più orientali, esso si sigillerebbe per sempre,
difendendo le loro terre e chiudendo il loro unico accesso, ma non permettendo
più il passaggio degli aurorei nel mondo. Li perderemmo per sempre.”
Il Sire degli Albii si sentì nuovamente smarrito. Cosa
avrebbe dovuto fare? L’angoscia di quelle scelte solitarie lo tormentava e lo
sviliva più di qualunque ferita.
“Voi cosa proponete?” Si sentì chiedere, aggravando il
peso della propria scelta.
I due rimasero in silenzio, finchè l’albo non uscì con
un guizzo dall’acqua, avvolto da densi vapori. “Cosa proponete?” Ripeté con voce
atona il notturno.
“Porteremo duecento soldati, la Guardia e la Corte, alla Fortezza
Bianca.”
Il notturno non rispose immediatamente. Sorrise alle
parole del re albo, i cui pensieri e intenzioni erano così affini alle sue.
Magari sarebbe stata questa loro comune caparbietà a condurre entrambi alla
morte. “Lo fate per voi stesso o per gli aurorei?” Chiese Yonuel, fissando negli
occhi il Re, che a pochi passi da lui lo superava in altezza di una spanna e
mezzo.
“Affrontare la morte sul campo di battaglia, come un
vero guerriero, lo considero l’unico modo per evitare che il valore del mio
popolo e il suo onore vengano tacciati di infamia.” Strinse i pugni, quasi con
ira.
“L’unico modo per cancellare l’indignazione mia e dei
miei guerrieri di non essere riusciti a difendere da soli il nostro popolo…”
Il notturno sorrise, ammirato sempre più dal
temperamento del Re.
“Allora partiremo domani, il tempo necessario per far
riposare i nostri soldati e preparare la partenza.”
“Bene.” Si limitò a rispondere il Re.
“Vi conviene riposarvi, Sire.” Disse il notturno, con
aria enigmatica. “Domani potrete ammirare la
Torre Bianca in tutto il suo splendore.” E si
voltò, incamminandosi in direzione dell’accampamento.
Urionar non chiese nulla. Il prodigio che avrebbe usato
il Generale per farli giungere in un solo giorno alla Fortezza non lo
interessava. Si tuffò nuovamente nelle acque bollenti, abbandonando ogni
pensiero fosco sulle pareti del cratere. Ora avvertiva solo una strana
eccitazione pervaderlo sin nelle viscere.
Capitolo 28 *** La vendetta di Layrus e l'attacco di Mory ***
l
La foresta dei Guadi era immersa nel silenzio più
assoluto, nemmeno i normali suoni notturni potevano essere percepiti. Sembrava
che ogni cosa fosse sepolta sotto un sudario impenetrabile di oscurità e
immobilità. La parte di bosco a settentrione dei Guadi era addirittura avvolta
in un’atmosfera sinistra che faceva parer immota anche l’aria stessa. Poi
nell’oscurità il falco colse una luce baluginare e sparire. Si mosse tra un
albero e l’altro volando silenzioso con grazia e silenzio, fino a fermarsi ad
osservare dall’alto di un ramo una figura quasi immobile, legata saldamente al
tronco di un gigantesco albero. La veste rossa del prigioniero rifulse ancora di
sanguigni bagliori quando la luce della luna penetrò di nuovo il denso fogliame
soprastante. Ai suoi piedi giacevano la sua lancia, intatta, e un elmo dorato
spaccato, sporco di sangue, e stille rosse gocciolavano sopra di esso dal capo
dell’uomo. Il Leone si mosse appena, apparentemente stremato, nel vano tentativo
di allentare le corde. Il suo guardiano lo guardava con aria inespressiva.
“Hai paura di morire?” Gli chiese atono Siguya. Il Leone
sputò ai piedi del dio, sfidandolo senza paura. “Avrei solo preferito morire
cercando di ucciderti, con la mia lancia il mano, demone.”
Ebbe la forza di dire senza paura. “Perché mi avete
fatto prigioniero? Finora ci avete massacrato senza pietà.” Il dio sembrò
ignorarlo. Dal palmo della sua mano spuntò una punta acuminata e recise con un
taglio netto le corde che legavano l’uomo. Il guerriero non ebbe esitazioni,
rapido, per quanto le ferite glielo permettessero, raccolse la sua lancia e si
allontanò di qualche passo dal mostro, puntandogliela contro. “Voglio che prima
di morire tu ti renda conto che agli uomini non è dato sconfiggere gli dei.” La
lancia del Leone venne avvolta dalle fiamme e con un urlo si slanciò sul mostro.
Siguya non si mosse e quando la punta dell’arma gli colpì la gola si fracassò al
solo impatto, senza che risentisse minimante dell’urto. Incredulo, l’uomo vide i
frammenti di metallo, al suolo, spegnersi, ma prima che potesse muoversi, le
esili mani del dio gli bloccarono le braccia all’altezza dei tricipiti. Con un
minimo sforzo strinse la propria presa e un suono di ossa rotte riempì l’aria.
Il guerriero urlò di dolore, cadendo sulle ginocchia con le braccia lungo i
fianchi, incapace di muoverle. Senza un parola Siguya alzò un braccio e dal
palmo spuntò una lunga lama ossea. I due si fissarono per alcuni secondi, poi il
dio calò il proprio braccio verso la gola dell’uomo. Ma il suo colpo non la
raggiunse. Venne colpito alla nuca e stavolta cadde riverso al suolo, rotolando
per alcuni metri, seppur senza emettere un gemito. Si rialzò immediatamente,
furioso, urlando come una bestia. I suoi occhi, ardenti di una luce dorata,
maligna, si fissarono su colui che aveva osato colpirlo. Layrus gli stava
davanti senza alcun timore o esitazione e la rabbia che esprimevano i suoi occhi
era forse maggiore di quella del dio. “Come hai osato?” Urlò furioso il mostro,
trasformandosi. La sua figura aumentò improvvisamente d’altezza di più di mezzo
metro, la sua muscolatura triplicò e il Cavaliere ebbe l’impressione che la sua
pelle mutasse, divenendo più simile alla roccia. Senza una parola il dio si
gettò sul Cavaliere, con una rapidità sovrannaturale per una creatura di quella
stazza e dalla sua figura spuntarono d’improvviso più di una decina di lame
ossee, da spalle, braccia e mani. Il Leone, ancora immobile, non riuscì a
seguire con chiarezza i movimenti dei due contendenti. Le lame delle mani di
Siguya calarono con precisione sul collo del Cavaliere, sovrastato completamente
dal dio, ma l’uomo abbassandosi con agilità, le evitò per un soffio, tanto che
queste gli tagliarono alcuni capelli. Rannicchiato sotto il mostro,
approfittando della falla nella sua difesa, Layrus puntò al petto, scoperto, ma
un attimo prima che potesse colpirlo, tre lame spuntarono dal petto, mirando al
suo volto. Sorpreso non poté fare altro che gettarsi d’istinto all’indietro,
schivando anche stavolta per pochissimo il colpo. Si rialzò immediatamente, ma
il mostro fu in un attimo su di lui e stavolta non sarebbe stato capace di
schivarlo. Non seppe mai chi o cosa lo salvò. Catene di terra spuntate dal suolo
avvolsero gli arti e il busto del mostro, bloccandogli ogni movimento, a pochi
centimetri da Layrus. Il mostro urlò e l’uomo esitò solo un secondo, il tempo di
vedere che già i legami di terra iniziavano a cedere. Si voltò e con tutta la
rapidità di cui era capace prese il Leone sulle spalle e si gettò nel fitto
sottobosco. Pochi secondo dopo Siguya frantumò le catene di terra e urlò
furioso, preda di rabbia e frustrazione. Seduto sul ramo dell’albero a cui era
prima legato il prigioniero, Zeriol sorrise, divertito. Aveva avuto la
vendettache desiderava sul dio.
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Layrus continuò a correre senza sosta, portando con sé
il Leone, ormai privo di sensi per il dolore e la spossatezza e non rallentò
finchè non raggiunse il ponte dell’Esin e non ebbe guadagnato la sponda
meridionale del fiume. Si inoltrò di pochi passi nella boscaglia e poi adagiò il
corpo esanime del guerriero al suolo. Solo allora si accorse di essere
circondato da una trentina di Leoni, tutti con le armi sguainate e puntate verso
di lui. L’avevano riconosciuto e tutti sapevano perfettamente che era un
traditore. “Abbassate le armi” sentì dire dalla voce familiare di Dailone.
“Portate al sicuro Feitas e curatelo.” Il Cavaliere entrò all’interno del
cerchio dei propri soldati e fissando negli occhi Layrus ordinò: “Lasciateci
soli.”
I soldati si allontanarono senza fiatare, portando con
sé il compagno.
Pareva che nell’intera foresta fossero rimasti solo
Daiolone e Layrus.
“Ti ringrazio per aver salvato uno dei miei soldati.”
Disse inespressivo il Leone.
“Non c’è niente di cui ringraziare” disse Layrus,
grattandosi la testa con noncuranza, guardando altrove. “Io ero interessato al
mostro e lui era lì con lui.”
“Se cerchi vendetta” lo ammonì Dailone “non l’avrai mai.
Siguya è invincibile.”
“E allora cosa ci fai qui?” gli chiese Layrus,
guardandolo con la coda dell’occhio “Se non c’è speranza, stai solo imponendo ai
tuoi uomini una morte certa.”
“Ogni morte è certa” gli rispose. “E poi tu sai
benissimo perché siamo qui.”Continuò il Leone. “Né io né i miei uomini potremmo
continuare a vivere con la vergogna di essere scappati davanti al
pericolo.”
“Stai combattendo per la pace e gli ideali del nostro
popolo. Ed anche io. Non siamo avversari.” Continuò serio. “Abbiamo scelto solo
strade diverse e sono ambedue molto difficili.”
Layrus rimase in silenzio pensando a quelle
parole.
“Layrus, vedo molta rabbia in te. Abbandona la vendetta.
E’ un sentimento sterile, che non genera nulla se non dolore e altra
morte.”
“Cosa puoi saperne tu dei miei
sentimenti?”
Dailone sorrise suo malgrado. “Hai già dimenticato chi
sono? Anche se io combatto per gli uomini e vivo con essi, sono pur sempre un
dio, uno dei dodici figli di Sèlonir. So leggere i cuori delle
persone.”
Layrus non disse nulla. Non l’aveva
dimenticato.
“Io ti ammiro, Dailone. Lo sai.” Rispose il Cavaliere.
“Ma se mai ricevessi l’ordine di ucciderti, sarei costretto a farlo.” Sorrise
tristemente. “Pregherò affinché quel giorno non arrivi
mai.”
“Lo farò anche io.” Dailone sorrise. “Anche se credo che
questo onere toccherà prima a mio fratello Siguya.”
“Quanto resisterete ancora?” chiese preoccupato il
Cavaliere.
“Tre giorni, forse quattro.” Rispose imperturbabile. “Mi
sono rimasti solo centoventinove uomini dopo due giorni.”
“Ma se sarà Siguya a combattere, nemmeno
uno.”
“Sarò di ritorno da te fra quattro giorni, dopo aver
incontrato la principessa e averle riferito la situazione.” Promise senza
esitazione Layrus.
“Non capisco perché attendere così tanto.” Disse una
voce, intromettendosi nella conversazione.
Un uomo dai corti capelli dorati uscì dalla folta
boscaglia, unendosi ai suoi due pari, avvolto da una pallida luce.
“Deidre” mormorarono i due Cavalieri. “La città di
Karaiza è stata evacuata e prenderla non è stato un grande problema. Così in
attesa di ordini sono venuto a dare un’occhiata.”
“Sei venuto ad unirti ai combattimenti?” Gli chiese
Layrus, mentre Dailone fissava il giovane, conoscendo già la risposta.
“Ovviamente no.” Rispose il giovane Cavaliere. “Anche se
ti ammiro per la tua forza e il tuo coraggio, Dailone, non posso aiutare un
nemico.” Sorrise, continuando a parlare. “Niente mi impedisce però di aiutare un
amico.”
“Riferirò io il messaggio alla principessa e tornerò
indietro con i suoi nuovi ordini. Se sarai ancora vivo ovviamente. Sarò di
ritorno fra un giorno.”
“Ti ringrazio.” Disse il Leone chinando il capo.
“Sei sicuro di fare in tempo?” Chiese con aria di sfida
Layrus. Non amava essere aiutato.
“Un semplice grazie sarebbe andato bene ugualmente.”
Disse sorridendo Deidre. “Il Lampo Giallo non fallirà,
fidatevi.”
Strinse con forza la mano ad entrambi i compagni e disse
“Buona fortuna.”
La luminosità intorno a lui aumentò, fino ad irradiare
sottili saette e piccoli lampi.
Sorridendo scomparve in una striscia di luce verso sud
ovest, illuminando a giorno la foresta.
I due Cavalieri si fermarono a guardarlo volare rapido,
quando rumori improvvisi e minacciosi li sorpresero. La terra tremava sotto i
loro piedi e grida bestiali di rabbia si avvicinavano. La battaglia eraricominciata.
………………………………………………………………………………………..
Anarion sedeva con i gomiti poggiati sulle ginocchia,
tenendo il capo fra le mani. Era solo nella piccola stanza. Una pallida luce
filtrava dall’unica finestra, protetta da sbarre di ferro, e l’unica porta era
chiusa a chiave, dall’interno. La sala di meditazione in cui Sèria gli aveva
detto di riposare era silenziosa e l’aria immobile.
“Chi c’è?” Chiese Anarion, sollevando il capo,
percependo d’improvviso qualcuno nella stanza.
Non poteva esserci nessuno, era impossibile, eppure
percepiva distintamente la presenza di un estraneo vicino a
lui.
“Chi sei?” Disse una voce ovattata e sibilante.
“Non presto ascolto a chi non mostra il proprio volto.”
Rispose arrogante il ragazzo, senza muoversi, ma guardandosi attorno alla
ricerca della fonte di quella voce.
“Se mi vedessi in volto” rise la voce “sarei costretto a
ucciderti.”
Anarion iniziò con suo stesso stupore a tremare e
sudare. Sentiva che l’intruso percepiva anche il suo minimo battito di ciglia.
La situazione era di colpo diventata insostenibile. Provava una terrificante
tensione omicida.
Era come se la sua vita fosse stata afferrata, alla
totale mercé dell’intruso. Il brusco cambiamento d’atmosfera era tale che valeva
la pena morire da sé, che lasciare che quella lenta tortura continuasse. Mory
rise fra sè, il prigioniero di Serìa tremava come una foglia. Poverino, avrebbe
posto subito fine alle sue sofferenza. Si sarebbe divertito un pò con lui e poi
avrebbe svolto i suoi compiti. Mise mano al pugnale, quando sentì un fremito
fuori dalla stanza, proprio davanti alla porta. Un’esplosione di fiamme guadagnò
l’ingresso, divorando il legno della porta in pochi attimi. La figura minacciosa
di Serìa guadagnò l’uscio, con una mano avvolta da fiamme sanguigne, guardandosi
attorno fremente di eccitazione.
“Vieni fuori, Mory. So che sei qui.” Disse trionfante.
“Battiti con un tuo pari, traditore!”
Un pugnale dall’elsa di bronzo partorito dal nulla volò
verso la gola della donna, la trapassò da parte a parte e sparì oltre l’uscio.
La donna non fece una singola piega, la lama le era passata attraverso senza
arrecarle alcun danno.
“Io sto dalla parte che mi permette di divertirmi di
più” rise Mory sprezzante “Sono diventato un Cavaliere solo perché il Principe
mi permetteva di uccidere chi volessi.”
Nel frattempo Anarion si era alzato, rimanendo immobile
al centro della stanza. Sia lui che la donna scrutavano attentamente la stanza,
alla ricerca del più piccolo movimento o rumore.
La figura incappucciata dell’assassino comparve tra i
due e Serìa non ebbe un attimo di esitazione.
Con un movimento repentino del braccio scaricò un
torrente di fiamme bluastre sulla figura, con un urlo di trionfo. Mory scomparve
nuovamente nel nulla e le fiamme saettarono invece su Anarion, che ebbe appena
il tempo di coprirsi il volto con le mani prima di venire ingoiato dal fuoco. Le
fiamme si scagliarono su di lui con violenza, scaraventandolo contro la parete e
avvolgendolo in un sudario di morte fiammeggiante. Si estinsero in pochi
secondi, lasciando la figura tremante, ma illesa del ragazzo rannicchiata al
suolo. I suoi vestiti caddero a brandelli fumanti, quando si rialzò guardando
con astio Serìa, che lo ignorava completamente, irritata solo per aver mancato
l’assassino. Mory era ora affianco al ragazzo, immobile ed invisibile, con il
pugnale argentato pronto ad uccidere. Poi i suoi occhi si fissarono sul simbolo
di un sole marchiato a fuoco sulla schiena della sua vittima. Rimase ancora
fermo, mentre Serìa faceva balenare fiamme per tutta la stanza, cercando
vanamente di colpirlo. L’Incarnazione era davanti ai suoi occhi, pronta per
essere ghermita, ma una morte simile non gli avrebbe dato alcuna soddisfazione.
Il ragazzino non era ancora una preda appetibile. Lui voleva un avversario che
lo facesse sudare, sputare sangue. La vita era così noiosa senza degni avversari
da distruggere. L’avrebbe lasciato in vita, riferito della sua presenza e in
seguito qualunque fossero stati gli ordini, l’avrebbe ucciso. Qualche giorno
sarebbe bastato al ragazzo per diventare più forte, poteva capirlo guardandolo.
Una fiamma che gli passò pericolosamente vicino lo
distolse dai suoi pensieri. Si voltò verso Serìa e sorrise divertito dagli
sforzi della donna. Non era capace di individuarlo con precisione perchè lui era
capace di celare talmente bene la propria presenza da cancellare il proprio
odore e finanche di trattenere il proprio calore corporeo. Si avvicinò a lenti
passi verso di lei, schivando gli attacchi che la donna lanciava a caso, nella
speranza di colpirlo. Si stava trasformando, il suo corpo iniziava sempre di più
a prendere la consistenza del fuoco e allora sarebbe diventata pericolosa anche
per lui. Senza che la donna se ne accorgesse le fu davanti e sorrise.
“Qual è il tuo ultimo pensiero?” le sussurrò debolmente,
mentre il pugnale argentato saettava verso la gola della donna. Il sangue
sprizzò come una fontana dalla ferita, macchiandogli il mantello. Guardò
soddisfatto la donna, ma rimase incredulo. Serìa era sì impietrita, ma anch’ella
dalla sorpresa. Il pugnale aveva trafitto la mano di Anarion sul palmo da parte
a parte e la punta affilata quasi sfiorava tremante la pelle della donna.
L’assassino si voltò verso il ragazzo. Si era portato alle sue terga senza che
lui se ne accorgesse e aveva eguagliato la velocità del suo attacco, parandolo.
Ma soprattutto, lo vedeva. Un alone rosso aleggiava sugli occhi del ragazzo, la
cui fronte era imperlata di sudore sia per il dolore della ferita, che per lo
sforzo sostenuto per violare l’invisibilità del Cavaliere. Mory girò con rabbia
la lama nella ferita e il ragazzo urlò, cadendo al suolo, sfilando la propria
mano dalla lama. Il Cavaliere si voltò verso Serìa per finirla, ma questa
l’aveva anticipato. Nell’attacco aveva sciolto la propria invisibilità e dopo i
primi istanti di stupore Serìa poteva adesso reagire con precisione. Avvolta
completamente dalle fiamme, entrambe le sue mani partirono un inferno di fuoco
su Mory, abbattendosi su di lui con tal forza da scaraventarlo contro la
finestra e sotto la pressione delle fiamme, il corpo si schiantò sulle
inferriate facendole saltare nell’urto. Il corpo nero di Mory volò nel vuoto,
scomparendo alla vista
Serìa sputò a terra, sicura che il suo attacco non fosse
bastato ad uccidere l’assassino, le cui difese erano molte e potenti. Si voltò
verso il ragazzo: si era rialzato, ma la mano perdeva sangue a fiotti e lui
resisteva a stento al dolore. Come se non bastasse, il Cavaliere si ricordò che
Mory era uso fare ricorso ad armi avvelenate. Lo afferrò per la spalla destra e
quasi di peso lo portò fuori dalla stanza.
“Di niente, Serìa.” Mormorò sarcastico il ragazzo,
mentre si sentiva bruciare la pelle e ghiacciare le viscere. La ragazza ebbe un
moto di stizza. Le avevano insegnato a non chiedere mai l’aiuto di nessuno, né
tantomeno a chiedere scusa o a ringraziare. E non avrebbe certo iniziato
allora.