Il Segno dell'Uomo

di Imrahil
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'avventura ha inizio ***
Capitolo 2: *** Incontri e sogni ***
Capitolo 3: *** L'essenza degli Aurorei ***
Capitolo 4: *** La lotta con i Siguya ***
Capitolo 5: *** Sogni e partenze ***
Capitolo 6: *** Dàimon! ***
Capitolo 7: *** Arrivo alla Fortezza ***
Capitolo 8: *** La Torre Bianca ***
Capitolo 9: *** Alreyd e il Re ***
Capitolo 10: *** La battaglia ha inizio ***
Capitolo 11: *** Il duello e la trappola ***
Capitolo 12: *** La sfida del dio ***
Capitolo 13: *** La fine della battaglia e l'inizio della guerra ***
Capitolo 14: *** Il commiato e la partenza ***
Capitolo 15: *** Il guado ***
Capitolo 16: *** Il popolo notturno ***
Capitolo 17: *** Sire Alcols ***
Capitolo 18: *** Combattimenti ***
Capitolo 19: *** Disperazione e salvezza ***
Capitolo 20: *** Zeriol e il popolo del Sud ***
Capitolo 21: *** La difesa di Condios e l'arrivo dei Siguya ***
Capitolo 22: *** Yonuel e Ràidames preparano la battaglia ***
Capitolo 23: *** I Cavalieri traditori, la fonte del sangue ***
Capitolo 24: *** Layrus ***
Capitolo 25: *** La guerra contro i morti, Ghanay contro Ràidames, ***
Capitolo 26: *** Il fuoco rivelatore e la decisione del Principe ***
Capitolo 27: *** Dailone, la città di Delos, la decisione di Urionar ***
Capitolo 28: *** La vendetta di Layrus e l'attacco di Mory ***



Capitolo 1
*** L'avventura ha inizio ***


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Il Segno dell’Uomo

 

Prologo

 

La luna tinta di un velo sanguigno brillava nella notte priva di stelle che copriva le strade silenziose. Non si udiva un solo rumore, se non il tenue fruscio del vento che fuggiva per i vicoli bui. L’intera città era sopita in un torpore foriero di tempesta. Al centro della capitale il castello reale si ergeva maestoso, con alti bastioni che svettavano nel cielo notturno. Bracieri ardenti sulle torri ne rivelavano la mole imponente. All’interno, ogni stanza, ogni corridoio era permeato dal silenzio. Nessun rumore si udiva nelle vaste aule marmoree. Solo un debole suono, ovattato, quasi impercettibile: un respiro affannato che alcuno avrebbe potuto percepire nel vuoto che circondava la stanza del Signore di Maruyl. La tenue luce della luna pioveva nell’ampio salone spoglio e austero da alte vetrate, illuminando la figura del Principe. Era il Sire della città, la carica affidata di generazione in generazione ai più meritevoli. Il designato doveva essere un condottiero infallibile, forte di umanità, saggezza e coraggio e il suo unico proposito il bene del popolo. Il Principe di allora incarnava alla perfezione quei requisiti. Quell’uomo si accingeva però ad affrontare forze al di sopra della sua natura mortale. Avvertiva strani presagi nell’aria. Con lo sguardo perso nel vuoto sedeva immobile sul suo trono, costruito su una piattaforma rialzata, dominando l’intera sala. Vestiva una tunica di porpora, che gli avvolgeva il corpo con delicatezza. Un elmo d’oro con fini rilievi  cremisi gli nascondeva i lineamenti del volto, celando la sua espressione. Il respiro affannoso e spezzato scuoteva l’aria della stanza, infrangendone l’immobilità. Una voce eterea nacque d’improvviso dal nulla e l’oscurità si infittì nel salone.

“Misero mortale…Umano di cui farò il mio strumento…”

L’uomo sentì l’aria fremere intorno a sé. Il suo respiro divenne ancor più irregolare.

Il Principe fissò rapito il buio davanti a sé, appoggiandosi stanco allo schienale.

Le sue parole suonarono flebili e atone: “Chi sei? Chi sei tu che assoggetti il mio spirito?” “Inginocchiati!” Mosso da una forza estranea, l’uomo si alzò lento dal trono, cercando di controllare il violento fremito che gli faceva fremere l’animo. Si inginocchiò davanti a un’ immagine di nero assoluto che andava formandosi davanti a lui. “Io sono la forza che presiede alla vita e alla morte dei viventi…Io sono ciò che giace nel profondo dello spirito di ogni essere…Io sono…il Potere!” Al centro esatto del nulla nero, due occhi vuoti brillavano di una luce livida. Una gigantesca mano artigliata comparve dal vuoto e una luce di fuoco si agitava nel suo palmo.

“Oggi, principe dei mortali, io ti dono la mia essenza e la mia effige. Con questo tu dominerai su tutti gli esseri viventi.”

“Cosa può darmi un tale potere?” Alla domanda del Principe la luce si condensò fino a formare i contorni di una spada lucente. Il pomo recava incisi due fulmini che s’intrecciavano tra loro, al centro dell’elsa risplendeva il simbolo di un sole a cui lati si innalzavano un  dragone azzurro e uno nero. Sotto il freddo dell’elmo, gli occhi dell’uomo si serrarono rapiti sui contorni della lama. “Prendila!”. Il Principe esitò, fermando la sua mano che già si protendeva verso l’elsa splendente. Infinite possibilità si aprivano nella sua mente, sogni irraggiungibili, desideri inappagati, ora a portata della sua mano. Eppure aveva l’impressione che tutto ciò fosse sbagliato. Sapeva che il potere ottenuto contando sugli altri era effimero e pericoloso e spariva con la stessa rapidità con la quale lo si otteneva. Lo spirito oscuro avvertì la riluttanza nell’animo dell’uomo. Avrebbe dovuto far leva sulle sue debolezze per convincerlo. Ne avvolse dolcemente la mente mostrandogli le potenzialità della spada. Gli promise una forza senza lati oscuri. Gli mostrò le vittorie che avrebbe ottenuto in nome dei suoi ideali. Predisse il bene e la gloria del suo popolo. Il Principe si avvicinò tremante all’arma. Quasi sbaragliato nelle difese, la sfiorò debolmente ed infine serrò la mano con forza intorno all’elsa.

Un dolce potere si liberò, avvolgendolo sin nel profondo della sua intima essenza. Avvertì la stretta che fino ad allora l’aveva agitato sciogliersi veloce, lasciando posto a sensazioni indescrivibili. Nuove energie diventavano parte di lui, lo cambiavano, lo mutavano, ma era troppo concentrato sulla Spada per accorgersene. Si sentiva un essere nuovo, traboccante di forza, invincibile. Quando ogni parte di lui fu intrisa di nuove vitalità, il suo animo era già stato corrotto.

Le buone intenzioni per il bene della sua gente erano state accantonate, rigettate nel fondo della sua mente. Tutto il suo spirito era concentrato su di sé e ammirava sognante i suoi limiti di mortale allargarsi, diventare sempre più ampi fino a sparire. Non si accorse nemmeno dell’ombra oscura che diminuì fino a sparire dentro di lui, radicandosi  nel suo essere. Le ultime parole lo risvegliarono dal torpore che gli avvolgeva mente e sensi. “Hai accettato…Ora siamo una cosa sola…”

Il Principe si guardò improvvisamente intorno  come per sincerarsi di non aver sognato. Il suo sguardo si fermò su ciò che aveva ottenuto. Impugnò la spada con maggior forza, tenendola alta di fronte a sé. La ammirò a lungo nella pallida luce della sala. I simboli incisi palpitanti, quasi  l’arma avesse vene pulsanti. Si sedette nuovamente sul trono, incapace di distogliere lo sguardo da essa. Non si rese conto del tempo che scorreva silenzioso e veloce.

Un improvviso rumore interruppe la contemplazione del Principe e la porta del salone si aprì di colpo. Provò a scorgere la figura dell’intruso nell’oscurità della sala, ma ne udì solo la voce, dura e profonda. “Siamo giunti tardi a quanto pare.” La figura di un uomo insolitamente alto, muscoloso e di candida carnagione, si fermò ai limiti della zona illuminata della stanza. Indossava una armatura metallica che ne proteggeva quasi tutto il corpo e brandiva due asce. Dietro le spalle possenti si potevano scorgere i contorni di una grande ascia forgiata in metallo rosso. Il viso ieratico e bello era incorniciato da una rada barba bionda e da lunghi capelli altrettanto chiari.

Una seconda voce giunse in risposta alle sue parole. “Non è mai troppo tardi, amico mio.”

La figura di un secondo uomo si fermò al fianco del precedente. Vestiva completamente di bianco e sia i capelli che  gli occhi erano dello stesso colore. Il viso era marchiato da segni nivei che, simili a saette, gli illuminavano il volto terminando intorno agli occhi.  Brandiva un bastone di candido legno che aveva inciso nella sommità la testa di un dragone. Le fauci spalancate della creatura stringevano un globo trasparente. Il Principe si rivolse con tono distaccato ai due intrusi. “Che cosa fanno nella mia fortezza l’Astro Bianco, Re degli Ateloi dell’ Aurora e Mastro Earnor, Sire del popolo degli Albii?” Ma l’umano sapeva già la risposta, lo Spirito del Potere gliela suggeriva, sussurrandogli parole languide nell’animo: “Sono qui per lei, per prenderti ciò che ti appartiene.”

Una terza persona si palesò alla luce della luna e le sue parole suonarono piene di rammarico e dolore. “ Giungiamo per fare ciò che è giusto, mio re” Assiso sul suo trono, il Principe si meravigliò di vedere che a parlare era stato Nicolas, Signore della Casata Guerriera, suo fidato amico e consigliere. Brandiva due daghe corte e aveva appesa alla vita una lunga spada.“Nicolas, anche tu qui? Ti rivolti dunque contro il tuo re?” Le parole del Principe erano deformate dalla rabbia e l’odio si insinuava ormai tra i suoi pensieri. I presenti che ne ascoltavano la voce, udivano solo un sibilo ferino. “Quello che ho davanti a me non è più il mio re.” Disse costernato il Signore della Casata  e i suoi occhi grigi erano velati di tristezza. “Come osi, traditore?” La rabbia del Principe esplose a quelle parole e si alzò in piedi furioso. Puntò la Spada verso l’amico e raggi azzurrini la avvolsero. Nicolas non si scansò, abbassò le daghe verso terra e rimase fermo a fissare quello che era stato il suo Signore per anni. Deboli sussurri annebbiavano la ragione e alteravano i sensi del Principe. Di colpo un lampo azzurro scaturì rapido dalla spada verso l’uomo indifeso, ma non raggiunse il bersaglio. Una figura ammantata di nero si pose davanti il guerriero, sostenne con il suo bastone d’ebano la mirabile potenza del fulmine e lo disperse. Questo uomo sembrava l’opposto dell’ Astro Bianco. Il colore degli occhi e dei capelli evocavano l’oscurità e la pelle era stranamente violacea, mentre i lineamenti delicati erano marcati da sinuose linee nere che si incrociavano sul viso in un disegno ammaliante. Anche lui aveva incastonato sul bastone un drago. “ Mi aspettavo di incontrarvi, Astro Nero, Re degli Ateloi della Notte.”.

“Vi consiglio di moderarvi, Principe. Siamo qui per parlare, non per combattere.” Disse con determinazione l’atelos. “Poco credibile se detto da voi, che siete quattro tra i maggiori potenti del mondo. Raramente ci siamo incontrati assieme. Una tal concilio non accadeva da tempo immemore.” “Un’urgente necessità l’ha richiesta.” Intervenne l’Astro Bianco. “Avevo previsto questo evento, ma le distanze che ci separano ci hanno impedito di agire prima.”

“Agire prima ?”Chiese il Principe che non aveva capito a cosa l’auroreo si riferisse.

“Per evitare che voi otteneste ciò che stringete in pugno.” Concluse l’Astro Bianco.

“Perché mai non avrei dovuto ottenerla? Il destino mi ha donato questo potere. Io merito di averlo!” “Sapete bene che non è la verità” ribatté l’Astro Nero “ Ciò che otteniamo crescendo, con le nostre sole forze, è naturale e giusto.”. Il Principe rispose esitante, quasi cercando di convincere se stesso. “Che cosa importa da dove esso provenga? L’importante è il fine. Io lo userò per il bene del mio popolo.”

“Forse, all’inizio. Ma alla fine ne sareste corrotto. Sapete bene, voi che siete re, quanto sia facile, troppo facile, farsi forviare dalle lusinghe del potere e deviare dalla via della giustizia.” Le parole degli ateloi lo ferivano più di una spada e le certezze che si erano radicate da troppo poco in lui iniziarono a sgretolarsi. Lo spirito del Potere vide il suo schiavo vacillare. Rinforzò allora la sua morsa e tinse della sua stessa sostanza i pensieri del Principe. Avvicinò la sua essenza alla propria, fino a renderlo simile a sé. Il viso dell’uomo si contorse per il dolore. Si piegò a metà, tenendosi la testa, come ad arginare il dolore che gli dilaniava la mente. L’elmo gli cadde dal capo, rotolando sul pavimento di marmo. I presenti inorridirono davanti a ciò che videro. I capelli chiari del Principe diventarono lentamente scuri, di un colore che richiamava il buio della notte. La pelle si scurì e gli occhi iniziarono a brillare di  luce vuota. Improvvisamente smise di agitarsi. Si rialzò e tenne la spada alta dinanzi a sé. L’uomo di una volta si sarebbe spaventato nel vedere il proprio riflesso sulla lama lucente. Ma quello di allora ne fu soddisfatto. I dubbi e le incertezze che l’avevano turbato erano scomparsi. Non sentiva più nessun dolore, ma un piacere come non ne aveva mai provati. Tutti si accorsero con sgomento di ciò che era accaduto. Non ci fu bisogno di parole di intesa. Sarebbe stato necessario l’uso della forza. Prepararono le loro armi, pronti al combattimento. Solo Nicolas ancora esitava. Il Principe era stato più di un amico per lui, quasi un fratello e non poteva credere di doverlo salvare da sé stesso con la violenza. Avanzò lento e deciso verso il trono con il viso che esprimeva la stessa determinazione che mostrava in battaglia. Giunto a pochi passi dal suo signore, lasciò cadere le daghe e sfoderò la  sua spada lunga. La lama brillava d’argento alla luce della Luna e le lettere azzurre incise nell’acciaio brillavano. Si inginocchiò al cospetto del suo re, che lo fissava imperscrutabile. Appoggiandosi  con entrambe le mani sulla spada, rimase alcuni secondi in silenzio, come a voler cercare le parole giuste. Alzò lo sguardo verso quello del Principe. Quella vista lo sgomentò ancor di più, ma non perse la speranza di salvarlo. Quando parlò i suoi occhi esprimevano una ferrea convinzione. “Mio Re…Questa città è la casa dove viviamo e che amiamo…Voi siete la colonna portante di questa casa… Non potete spezzarvi e crollare. Non potete cedere a questo maleficio!” Il Principe non rispose, ma per un attimo Nicolas vide una antica luce negli occhi del Principe, che scomparve subito. Il suo Signore stava lottando per tornare in sé. Si alzò e il tono della sua voce era deciso e speranzoso.

“La fede del nostro popolo sta in ogni parte del vostro corpo. Loro hanno fiducia in voi e voi in loro… E’ questo che significa essere Principe…Amare il popolo e proteggere chi ha fiducia in

voi … questo è il vostro compito…Tornate in voi!”

Le parole sincere di Nicolas ebbero l’effetto insperato. Gettarono luce nell’oscurità che aveva avvolto come un manto il Principe. Lo spirito del Potere non l’avrebbe permesso. Ora che i suoi piani erano quasi giunti a compimento non avrebbe permesso che fossero rovinati. Prese possesso con ferocia del corpo che cercava di ribellarsi e con un movimento rapido del braccio tentò un affondo verso il ventre del guerriero. Nicolas riuscì a deflettere a stento il colpo e senza quasi volerlo contrattaccò. Girando veloce su se stesso riuscì a ferire di striscio la spalla destra del suo Principe. Intanto Earnor e i due Re ateloi erano accorsi in aiuto del guerriero, armi in pugno. Accadde tutto come lo Spirito sperava: il dolore della ferita e la vista dei nemici che lo attaccavano spense il tentativo di ribellione del Principe. “Difenditi!” Gli urlò perentoria una voce nella testa e lui obbedì. Ma mentre alzava la spada per attaccare, incrociò il suo sguardo con quello di Nicolas. Non vide nessuna ombra di odio o rancore trasparire dai suoi occhi, solo onore e valore. Esitò per un attimo.

L’acuto tintinnio dell’acciaio contro l’acciaio riecheggiò nella sala, mentre le spade si scontravano le une con le altre. Lampi di magia esplosero nell’aria, illuminando la battaglia. Urla di sgomento e dolore, sangue…Se qualcuno avesse assistito allo scontro, gli sarebbe parso che fossero stati degli dei a darsi battaglia. Pochi poterono raccontare ciò che era accaduto. Lo scontro tra il potere  assoluto e la volontà di fermarlo provocò, infatti, un’esplosione tale da radere al suolo quasi l’intera Maruyl . Nessuno tra i contendenti sopravvisse, ma il loro ricordo e quello della Spada del Sole rimasero custoditi dai loro discendenti. Adesso, a venti anni di distanza, gli stessi eventi si ripetono e gli eredi di chi perì per la propria patria tornano a combattere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** Incontri e sogni ***


k

Il sole inondava con gli ultimi raggi la valle, che dalle falde dei monti si estendeva all’ infinito verso occidente. Le vette delle montagne, ancora innevate all’inizio della primavera, brillavano di rosa lucido contro il blu pallido del cielo. Profondi passaggi scavati nella nuda roccia tagliavano le catene di monti creando un labirinto di gole, passi e burroni dove nulla viveva se non un profondo silenzio interrotto solo dall’incessante soffio del vento. Una figura solitaria ed esile emerse dall’intrico di roccia e la sua ombra si allungò lungo il versante della montagna quando il sole la illuminò. Si fermò alcuni secondi, ammirando un paesaggio che per la prima volta da giorni non era la nuda ossatura della terra. Ogni albero, pianta o fiore davanti a lui era tinto di rosso sanguigno. Sembrava quasi che la terra versasse lacrime di sangue al suo arrivo. Un brivido lo percorse a quel pensiero e per scrollarsi di dosso l’ansia si inoltrò nel rosso della prateria, lasciandosi alle spalle le montagne. Quando il sole scomparve oltre l’orizzonte e l’oscurità della notte lo sorprese durante il cammino, lasciò che la pallida luce della luna e delle stelle lo guidasse. Si fermò sotto le fronde scure di un vecchio albero nodoso, che si stagliava su una piccola collina sperduta nella pianura aperta. L’erba, piegata da folate  lente e continue di vento, assomigliava al frangersi continuo delle onde del mare sulla spiaggia. Raccolse alcuni rami e foglie secchi e accese un piccolo fuoco, per potersi riscaldare nella fresca aria notturna. Seduto attorno al fuoco si liberò della sua sacca e si abbassò il cappuccio del mantello che fino ad allora aveva tenuto sul capo. Il calore del fuoco gli riscaldò le membra e la luce viva ne rivelò i lineamenti. Era un uomo. La corta e rada barba ne testimoniava la giovane età. I capelli, d’oro, con striature bianche, erano lunghi, e terminavano in una lunga coda raccolta. Gli occhi erano di un colore indefinito. Variava come lo sfavillare delle lingue di fuoco che fissavano, cambiando da un azzurro chiaro a nero profondo. E rispecchiavano un animo inquieto. Rivelavano una natura selvaggia, un’anima placida e mite, che se stimolato poteva mutare bruscamente in violenta e passionale. Il ragazzo si avvolse meglio nel mantello e si accomodò tra le radici dell’albero, osservando con attenzione la valle oltre lo sfavillare del fuoco. Avrebbe vegliato fino a poco prima del sorgere del sole, per poi rimettersi in cammino. Preferiva riposare alla luce del giorno, che tante creature temevano e paventavano. Era inevitabile adottare tali  cautele in quei tempi malvagi. Anche quelle contrade, che conducevano alle città degli Uomini, adesso non erano più sicure. Vegliò per quelle che a lui sembrarono ore interminabili, osservando le stelle nel cielo limpido e ravvivando di tanto in tanto la fiamma con qualche sterpaglia. Quando l’alba era ormai vicina e il torpore della stanchezza lo assopiva, colse un movimento alcuni metri davanti a lui. Si alzò di scatto in piedi, portando la mano destra ad afferrare qualcosa appeso alla cinta. Aguzzò gli occhi e tentò di individuare di nuovo ciò che aveva visto. Oltre alla vista acuta, poteva contare anche su un udito molto fine: due qualità che potevano spesso salvare la vita.  La individuò quasi subito: una figura incappucciata, avvolta in un manto, che recava incisi strani simboli brillanti. Il viandante si fermò a pochi metri, guardando nella direzione del ragazzo, come avendo capito di essere stato visto, poi si avvicinò lentamente al focolare. L’umano mise mano all’elsa della spada che gli pendeva dal fianco, rilucente di rosso e lingue di fuoco. L’incappucciato si fermò e disse con calma, quasi incurante della presenza dell’umano.

“Sono un atelos. Il mio nome è Ràikas ”. Detto questo si fece avanti, mostrando il viso e le mani levate, in segno di resa.

Il ragazzo costatò che, in effetti, era davvero un atelos e della razza aurorea. Il viso chiaro, dagli occhi nivei, incorniciato da una folta chioma bianca e gli occhi penetranti e sottili erano una prova più che sufficiente. Ma ciò che catturò lo sguardo del ragazzo erano dei segni bianchi, lame aguzze luminose, dipinte ai lati del viso come fulmini sfavillanti nel cielo notturno. Inoltre quel nome, Ràikas, sembrava riportargli alla mente qualcosa che gli sfuggiva.

“Sono un viandante… ” Cominciò il viaggiatore, ma il ragazzo gli tagliò le parole in bocca, interrompendolo con tono brusco:

“Qui ci sono solo io. Cosa vuoi?” Rispose il ragazzo.

“Posso fermarmi qui?” Gli chiese semplicemente l’atelos, notando il carattere scontroso dell’umano. Il ragazzo sembrò pensarci per alcuni secondi, poi rispose, con fare più calmo:

“Fa come credi, ma se solo provi a fare qualcosa di strano… – l’auroreo rimase impassibile a queste parole senza prestare troppa attenzione al tono minaccioso che lasciavano intendere.

“Non ne è ho mai avuto intenzione” Concluse con noncuranza sedendosi davanti al fuoco. Il ragazzo si sedette nuovamente con la schiena appoggiata al vecchio albero, senza mai distogliere lo sguardo dall’estraneo. Non sapeva quali fossero le sue reali intenzioni, ma sapeva che gli aurorei erano di indole buona. Passò del tempo e non distolse mai lo sguardo dall’altro. Questi dopo un po’ sembrava essersi addormentato, rimanendo immobile, seduto, anche se il ragazzo non ne era sicuro. Gli aelta, infatti, non avevano bisogno tanto del riposo della mente, quanto di quello del corpo. Come divinità dal cuore umano, lasciavano che il sonno ridesse forza alle loro membra, mentre la loro mente rimaneva lucida e vigile.

Quando finalmente giunse l’alba, vinto dalla stanchezza, il ragazzo chiuse gli occhi, quasi senza accorgersene. In pochi attimi l’oscurità lo avvolse e si addormentò profondamente.

Aprì gli occhi, ma non si svegliò. Stava sognando, non avvertiva nulla, il suo corpo era spento ed era immobile ad osservare la visione che aveva davanti. Si trovava nel suo villaggio natio. Era una notte buia e senza luce. Nubi cupe e tuoni fragorosi turbavano il sonno del paese. La piazza centrale del villaggio, piatta e vuota, circondata da piccole abitazioni di legno e paglia, era deserta. Improvvisamente un rombo fragoroso squarciò la notte e un bagliore ad Ovest  lacerò le tenebre. Passarono pochi secondi in cui il silenzio fu assoluto, anche lo scorrere del tempo sembrava essersi fermato.  Poi ci fu un lampo, improvviso e violento si abbatté con fragore sul centro della piazza. Il ragazzo chiuse gli occhi, accecato dalla luce, così improvvisa e vicina. Il boato violento ruppe vetri e finestre e per un attimo la terra fremette. Il bagliore rosso durò pochi istanti, per poi dissolversi. Quando aprì gli occhi rimase sconcertato: nel punto dove si era abbattuto il fulmine  ora giaceva un piccolo fagotto avvolto in fasce nere.

Rimase fermo, interdetto e stupito da quel prodigio.

La porta della casa di fronte a lui si aprì, lenta. Un uomo si stagliò sulla soglia della sua abitazione con una lucerna in mano, gettando luce sul luogo immerso nell’oscurità . Altri abitanti imitarono il primo e ben presto molte altre porte si aprirono e numerose persone si affacciarono dagli usci delle loro case. Nessuno osava però avvicinarsi al misterioso involucro, che rimaneva immobile al centro della piazza. Alcune gocce bagnarono il terreno e ben presto una leggera pioggia iniziò a cadere sul villaggio. Dei tenui vagiti e il pianto di un bambino ruppero il silenzio. Al centro della piazza c’era dunque un neonato avvolto nelle fasce scure. Un’anziana donna si mosse dal cerchio degli abitanti esitanti, l’unica che avesse il coraggio di avvicinarsi, quasi la pioggia fresca l’avesse liberata dalla paura che ancora bloccava tutti. Il ragazzo la riconobbe. Era la sua madre adottiva. Si avvicinò con passo lento al fagotto e lo raccolse con esitazione e lentezza dal suolo, tenendolo con delicatezza fra le braccia, calmandone il pianto. Il ragazzo si avvicinò senza volerlo alla donna, quasi fosse qualcun altro a voler vedere tramite lui la creatura che teneva in grembo. Per pochi istanti poté osservare il bambino. Il piccolo viso addormentato e delicato pareva quello di un bambino qualunque, uno come tanti. Eppure il ragazzo avvertiva una terribile consapevolezza: quelle scene accadute venti anni prima riguardavano lui, quel trovatello in fasce nato dalla folgore era lui. E la verità gli appariva davanti agli occhi solo ora. Tutto intorno a lui si dissolse come nebbia al sole, lasciandolo solo con i suoi dubbi. D’improvviso il sogno era ricominciato e in un vortice di immagini e colori passavano davanti a lui scene spezzate di tutta la sua vita. Sembrava che qualcuno stesse scrutando nel suo passato. Vide la madre che raccontava al giovane di allora come l’aveva trovato sull’uscio di casa, abbandonato. Menzogne, se ciò che aveva visto era vivo.

Visse nuovamente le emarginazioni e l’isolamento in cui l’avevano rilegato gli abitanti del villaggio. Adesso capiva perché nessuno aveva mai voluto stringere legami con lui. Avevano tutti paura. Era la paura che si annidava dietro l’odio che leggeva negli occhi di chi lo aveva disprezzato sin da piccolo. E si rivide anche quando, pochi giorni prima aveva deciso di mettersi in viaggio per giungere a Fearin, la città dove forse avrebbe potuto ottenere le risposte alle sue domande. Le visioni cessarono d’improvviso, lasciando il ragazzo solo con i suoi pensieri, circondato dal nulla.

Fu la voce di Ràikas a svegliarlo: “Forza, ragazzo, ormai il sole è sorto da tempo. E’ ora che entrambi riprendiamo il cammino.”

Si mise in piedi lentamente, destandosi e risvegliando le membra intorpidite, sorpreso che l’atelos fosse ancora lì e che non se ne fosse già andato e soprattutto ancora stordito dallo strano sogno che aveva fatto. L’elfo sembrò non notare l’aria turbata del ragazzo e gli si rivolse con voce indifferente: “Sei fin troppo distratto. Non solo accendi un fuoco, rivelando così la tua presenza nel raggio di molte miglia, ma ti addormenti alla presenza di uno sconosciuto di cui non sai nulla.”.

“Pare che non mi sia sbagliato sul tuo conto, Ràikas, giacché sono ancora vivo.” Ribatté il ragazzo.

“Ma non lo sarai ancora per molto, nonostante la tua vista e il tuo udito.”

Il ragazzo rimase sorpreso del particolare notato dall’altro e si incuriosì di quel personaggio di cui conosceva, di fatto, soltanto il nome.

“Allora mi accompagnerai per evitarmi una brutta fine?” Chiese ironico a Ràikas.

“Sì, se sei diretto ad Ovest.”

“E’ proprio la direzione che seguo.”

“Allora la percorreremo insieme finché le nostre strade non si divideranno.”

Annuì. L’auroreo gli ispirava fiducia e per la prima volta da settimane avrebbe trascorso del tempo con compagnie diverse dal vento e da sé stesso.

Si misero subito in marcia, lasciandosi alle spalle il vecchio albero avvizzito mentre le loro ombre li precedevano verso occidente al crescere del sole.

…………………………………………………………………………………….

Alcune ore dopo,  intorno alle ceneri del fuoco intorno a cui i due avevano riposato, si trovavano altre persone, se così si poteva descriverle. Erano quattro, tutti abbassati a terra e annusavano l’aria come le belve fiutano la traccia. Portavano lunghi stracci grigi come vestiti, forati in più punti, come se qualcosa di appuntito e massiccio li avesse trapassati. Avevano capelli grigi, lunghi, che lasciavano sciolti. Sarebbero potuti sembrare comuni Uomini se non fosse stato per gli occhi. Estremamente dilatati e neri come la pece, brillavano di una luce rossa che pareva sangue. Improvvisamente si voltarono tutti nella direzione che l’umano e l’aelto avevano intrapreso tempo prima. Si incamminarono rapidi nello stesso cammino, correndo agili nell’erba alta, quasi non toccassero il suolo. La caccia era iniziata.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 3
*** L'essenza degli Aurorei ***


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I due viandanti viaggiarono senza alcuna sosta per molte ore, senza scambiarsi alcuna parola. Il ragazzo fissava spesso il suo compagno, incuriosito ed attratto dalla sua natura aurorea. Non aveva mai incontrato atols nel suo villaggio a Est. Di questo popolo sapeva ben poco, solo ciò che dicevano le storie, come tutto ciò che riguardava il mondo al di fuori del suo paese natio. Le leggende narravano che gli dei avessero infuso una scintilla di essenza divina negli atelos, a differenza degli altri uomini, alla creazione del mondo. Per questo avevano fama di essere immortali, saggi e capaci di usare la magia al di sopra dei comuni umani. Sapeva inoltre che la stirpe atelos era divisa in due, quella aurorea e quella notturna. Quale relazione e differenza ci fosse tra le due, lo ignorava. Tanti e tali pensieri gli affollavano la mente, che non si accorse del tempo che rimase a fissare l’aelto, senza rendersi peraltro conto che egli si era accorto del suo sguardo.  Spesso volgeva la mente a ciò che aveva sognato e si interrogava sul significato della prima visione. Era anche roso dai dubbi; perché sua madre gli aveva mentito sul modo in cui l’aveva trovato? Non riusciva a trovare risposta e intanto rabbia e sconcerto si accavallavano nel suo animo, mentre il tempo passava e proseguivano verso occidente. L’atelos pareva anch’egli immerso nei propri pensieri.

Sembrava che durante la notte qualcosa lo avesse profondamente turbato e faceva ben attenzione a tenere nascosto il corpo sotto il mantello. Nascoste, le ferite provocate da quella che sembrava esser  una profonda ustione, facevano ancora tremare le sue braccia per il dolore.

Trascorsero così parecchie ore, quando i due giunsero infine ai piedi di un’alta collina. “Vorresti accamparti qui o preferisci viaggiare anche di notte?” Gli chiese l’auroreo, poiché ormai il sole stava per tramontare. “Accampiamoci pure”.

Salirono in poco tempo lungo i fianchi del colle, totalmente spoglio, ma dalla cui sommità si poteva scorgere tutto il paesaggio circostante. L’orizzonte si tingeva di porpora agli ultimi raggi del tramonto quando i due si sedettero uno al fianco dell’altro.

L’atelos alzò gli occhi bianchi verso l’alto, fissando le stelle che compivano il loro eterno ciclo celeste. Il suo sguardo scorreva rapido sulle costellazioni, soffermandosi su ogni punto luminoso, quasi stesse leggendo le parole di un libro. Nell’oscurità sempre più fitta sembrava che la sua figura risplendesse di una luce flebile. “ Studi le stelle?” Gli chiese il ragazzo.

“Studio i messaggi che mi trasmettono.” Corrugò leggermente la fronte, preoccupato. “Questa notte, però, emanano bagliori rapidi e complessi che non riesco a decifrare.”

“Se hai qualcosa da chiedermi - disse, intuendo forse i pensieri del ragazzo - non esitare”.

Per alcuni istanti regnò il silenzio, poi il giovane parlò, valutando l’efficacia di ogni sua singola parola. “Io non so molto a proposito degli ateloi, solo le storielle che raccontano gli anziani. Vorrei quindi che mi raccontassi qualcosa a proposito della tua razza, degli aurorei e dei notturni.”.

Ràikas rimase alcuni secondi silenzioso, sempre mirando attento il flusso degli astri, poi parlò con voce ironica. “Sei come una rana in un pozzo, che vive del tutto ignara della grandezza dell’oceano.” Il timbro della voce poi cambiò, divenendo austero, sereno e fermo.

“Io appartengo alla nobile stirpe degli Ateloi, gli uomini del Drago Azzurro, del Sole Sorgente. Gli dei ci preservarono, il giorno della nostra creazione, dalla mortalità, entro la fine del mondo. Possiamo in ogni caso morire, per violenza e dolore. Noi e i nostri fratelli, i Notturni, quando la nostra razza era giovane, eravamo tuttavia intrappolati dalla nostra immortalità. Ci eravamo cristallizzati, e oltre a non poter invecchiare, non potevamo nemmeno maturare, crescere spiritualmente. Avevamo colto l’istante e non riuscivamo a superarlo, se mi intendi.”

“Credo di capire.” Disse rapito il ragazzo, che mai aveva sentito narrare una storia con tale intensità. “Noi eravamo e siamo tutto uno con la terra e i nostri destini, vicende ed emozioni erano legati ad essa come tralci inerpicati su torri altere e immobili. Vivevamo sì in armonia con il mondo, ma eravamo intenti in sogni anziché nella realtà. Furono i due Saggi, i primi due Astri a svegliare il nostro popolo dalla sua immobilità.

La potenza degli dei scorreva in loro, riunirono gli atelos e li guidarono verso due strade diverse, ma parallele. Essi mostrarono agli aelta la bellezza del mondo nel suo cambiare, quella che dimora e muta in ogni istante e quella che dura in eterno, aumentando ogni giorno di luce e bellezza. Il nostro popolo sentì il potere crescere nella sua anima, quando capì che la terra pulsava di tumultuosa vita ed essa poteva dimorare nei nostri cuori se l’avessimo fatta nostra.

Quella consapevolezza ci ha sempre accompagnato e ora sappiamo che un tempo non eravamo che una fiamma che non traeva sostegno dal legno che le dava vita.

Ad un certo punto, le due Stirpi si divisero e i due Astri si separarono e ancora oggi non c’è conciliazione tra i due popoli.

Ahimè, purtroppo lo splendore che dava sostentamento alla mia stirpe, quella Aurorea, richiamò presenze oscure e crudeli nei nostri cuori. Ci eravamo liberati da una maledizione eterna, ma diventammo deboli. Con il passare del tempo, che ora avvertiamo con più forza, divenimmo compiacenti. Dimenticammo lo spirito d’armonia che ci univa alla nostra terra.

Moltissimi morirono, corrotti dalla cupidigia e da oscuri sentimenti, lasciandosi consumare da essi, visto che la nostra natura divina ci impedisce di coltivare certe passioni. Ponemmo delle restrizioni alle nostre vite, affinché non commettessimo lo stesso errore. Adesso frantumiamo le nostre vite, viviamo un’esistenza di privazioni e focalizziamo il nostro essere solo su taluni aspetti, inseguendo in loro la perfezione. Non desideriamo provare ogni sensazione, ogni emozione del mondo. Coloro che lo fanno capiscono, prima della fine, che questo desiderio è un’immagine allo specchio, una riflessione dei nostri peggiori eccessi, portata in vita dalla decadenza.”.

L’umano rimase alcuni secondi a riflettere su ciò che aveva udito, poi disse: “La vostra scelta di vita è del tutto differente da quella di noi uomini comuni. Noi siamo spinti dalla curiosità a provare ogni frutto che la terra ci offre. Ciò non accade quindi agli atelos. Così imperturbabili sono i vostri spiriti?”

L’auroreo sospirò e il suo sguardo si fece assente, quasi rimembrasse tempi passati o pensasse a un terribile futuro.

“Molti di noi cadono negli anni della maturità, abbandonando le nostre regole e la grande tragedia della nostra razza accade ancora e ancora, mentre il numero delle nostre genti diminuisce di generazione in generazione.”

Il ragazzo tacque, fissando anch’egli le stelle, dispiacendosi di aver fatto parlare Ràikas di qualcosa di tanto spiacevole. Non poté fare a meno di pensare che, nonostante tutto, gli atelos erano ancora un popolo potente, che aveva una grande influenza sul suo, specialmente sulle grandi città del Sud, i più grandi insediamenti dopo la caduta di Maruyl venti anni prima.

Il ragazzo si voltò verso l’atelos, notando che si era alzato fissando con sguardo sempre più accorato il cielo.

“E’ il momento in cui la luce che si riversa sulla terra svela il fato.”disse con calma. “Esse annunciano il destino”. Ciò che lesse in seguito lo sigillò tuttavia nel proprio cuore.

“E’ il filo della casualità a tessere il nostro cammino?” Si domandò quando ebbe decifrato l’oracolo dei numi.

Il ragazzo che per caso aveva incontrato, che di un dio aveva uguale indole, sarebbe stato d’innumerevoli lotte la causa, e di fiumi di sangue la fonte. Tutto ciò che vedeva era la sventura, la morte, la decadenza e la sagoma di una grandiosa divinità che si ergeva nuovamente. Cosa doveva fare?  “Cosa vedi?” gli chiese il ragazzo, notando  l’espressione turbata dell’elfo. “Nulla che possa interessarti.” Disse, troncando il discorso. Si sedette nuovamente, immergendosi nei suoi pensieri, riportando alla mente ricordi lontani.

Quando infine Ràikas gli rivolse nuovamente la parola mancava poco tempo all’alba e nessuno dei due aveva dormito. Gli parlò, nuovamente pacato: “Non mi hai detto nulla di te. Puoi avere i tuoi segreti, ma per ancora un po’ di tempo saremo compagni. Potresti almeno dirmi come ti chiami.”

“Elios.”rispose quasi senza riflettere.

“Elios? E’ chiaramente uno pseudonimo. Capisco che tu non riesca a fidarti di me, ma provaci, perché io ti proteggerò.”.

“Cosa ti spinge a farlo?”

“Avere la possibilità di proteggere gli altri è estremamente importante, non credi?”

“E’ questo il tuo senso dell’onore, Ràikas?” Chiese dubbioso il ragazzo.

“Ciò di cui parlo non è onore, ma orgoglio.” Lo corresse l’auroreo.

Elios rimase alcuni istanti in silenzio, riflettendo su quelle parole. Ràikas disse infine:

“Adesso basta parlare, è tardi, riposa pure, ti sveglierò fra qualche ora.”

Il ragazzo non pose domande. Era molto stanco e aveva bisogno di un po’ di riposo. Si stese sull’erba e rimase per un po’ di tempo ad occhi aperti. Ràikas guardava ancora le stelle e gli dava le spalle. Quando il sonno lo colse, l’ultima cosa che vide fu il viso dell’atelos che fissava il suo. I suoi occhi rispecchiavano un animo dibattuto come chi sia messo di fronte a un terribile bivio. Per un attimo ebbe paura di ciò che quegli occhi esprimevano. Poi si addormentò

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 4
*** La lotta con i Siguya ***


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Si risvegliò improvvisamente, senza una ragione particolare. Ràikas era chino su di lui, gli occhi bianchi velati di oscura preoccupazione e gli indicava di fare silenzio. Lo teneva fermo con un braccio e alla sua vista, per poco non ebbe un’esclamazione di stupore. Il braccio era ferito. Recava tagli e segni d’ustioni in più punti. Non riusciva ad immaginare come si fosse potuto procurare simili lesioni. L’auroreo avvertì lo sguardo di Ary e scostò il braccio, lasciando che si mettesse a sedere e indicandogli con un cenno del capo una zona ai piedi del colle immersa nell’oscurità. Il ragazzo cercò di scrutare con attenzione e dopo alcuni secondi riuscì a distinguere  due figure abbastanza lontane, che si avvicinavano. Gli sembrò di udire un debolissimo rumore:  il fiutare di cani da caccia che annusano l’aria per percepire l’odore della preda. Tornando a guardare Ràikas si accorse che intorno a lui scintillavano dei bagliori d’oro e che la sua figura era più sfocata, quasi non riuscisse a distinguerne i contorni con precisione. Si rese conto che lo stesso accadeva al suo corpo, anch’esso circondato da quelle strane luci. Fissò con sguardo interrogativo Ràikas e questi gli sussurrò debolmente:

“E’ un mio incantesimo, adesso siamo svaniti alla vista di chiunque.”

Rimasero in silenzio, attendendo che i due intrusi si avvicinassero. Le due figure si accostarono e il loro fiutare divenne ora ben udibile alle orecchie dei due. Portavano logori abiti grigi strappati in più punti e le lunghe chiome cineree brillavano ai raggi della luna. Nulla traspariva dei loro corpi, i vestiti lunghi e larghi nascondevano anche le mani, solo il volto, dalle fattezze umane, era visibile. Uno dei due si diresse verso di loro. Si fermò a pochi passi, guardando fisso nella loro direzione. Per alcuni secondi, che si dilatarono in un’eternità, Ary e quello strano essere si fissarono negli occhi, senza che nessuno dei due distogliesse lo sguardo, tanto che il ragazzo temette che fossero stati scoperti. D'improvviso gli occhi di quello che sembrava un uomo si dilatarono orribilmente, divenendo neri. In quell’istante lance ossee ricurve spuntarono ovunque dalla sua figura e questi urlò, con voce terribile, allungando una mano artigliata: “Vi ho trovati!”

Non fu abbastanza rapido. L’auroreo, che fino ad allora era stato all’erta, seguendo ogni loro piccola mossa, si era preparato. Ràikas, Astro Bianco degli Atelos, aveva tenuto pronta la sua potentissima magia. Anticipò quell’essere immondo che li aveva trovati e gli scatenò contro la sua forza. Richiamando a sé la temuta potenza degli aurorei scagliò contro il nemico un ardente dardo di brillante energia bianca. Ary rimase accecato dall’improvviso bagliore e per alcuni secondi non vide più nulla. Quando riaprì gli occhi, vide Ràikas, poco distante, chino sull’essere che giaceva al suolo immobile.

L’elfo alzò la mano destra al cielo ed evocando i tumultuosi vortici della magia, la avvolse di crepitante folgore. Con fragore abbatté il violento colpo sul corpo dell’avversario, passandolo da parte a parte, togliendogli ogni vita. Ary rimase stupefatto: Ràikas era dunque uno dei maghi ateloi, che avevano fama di essere i migliori del mondo. L’auroreo si volse verso di lui, staccandosi dal corpo dell’avversario battuto.

“Stai in guardia - gli disse - ne sono rimasti ancora due e questi non sono semplici uomini.”

“Cosa sono allora?” Gli chiese Ary, sguainando la spada e mettendosi al fianco di Ràikas.

“Siamo i Siguya, mortale.”

Ary si voltò. Poche volte provò un orrore simile. Non credette di avere davanti né Uomini né  Demoni ma mostri terrificanti.

….…………………………………………………………………………….

La storia dei Siguya era scritta con il sangue. Razza più giovane degli Atelos e degli uomini comuni, erano comparsi nella storia duecento anni prima. Molti li consideravano demoni, ma i più eruditi sapevano che erano i Figli della Terra. Nati da essa nelle sue profondità, ne avevano ereditato l’ossatura invincibile e praticamente indistruttibile e la forza travolgente. Ma come una fiamma troppo violenta consuma subito il suo sostentamento, così i Siguya quasi si estinsero in poco tempo. Essi, infatti, benché fortissimi, non erano numerosi e quando sfidarono anni prima le forze degli Uomini, a quel tempo all’apice della forza, furono sconfitti e sterminati. Solo i più forti e giovani sopravvissero. Nonostante avessero fama di immortalità al pari degli Ateloi, il fatto che non fossero proliferi ne decretò l’estinzione totale come prossima. I sopravvissuti erano considerati un popolo belligerante senza cervello. Amavano a tal punto combattere che sembrava che solo sul campo di battaglia fossero a loro agio. Ma un branco ingenuo e assetato di sangue non poteva continuare ad esistere. O almeno così si credeva. E invece i Siguya resistevano. Divisi e sparpagliati per tutta la terra, combattevano e sfidavano chiunque potesse essere degno di combattere contro di loro. Come gli Atelos avevano trovato la loro ragion d’essere nel raggiungimento della perfezione così i Siguya l’avevano trovata nell’uccidere e assaporavano la vita in questo modo. Tutto ciò Ràikas, Astro Bianco, lo conosceva e sapeva che non sarebbe stato facile uccidere quei due Siguya. Elios invece fissava con terrore gli avversari avvicinarsi. L’uno al fianco dell’altro, entrambi fissavano il corpo del loro compagno caduto. Ma le fattezze del morto, tornato all’apparenza umano, non avevano niente in comune con le loro. I visi, bestiali, erano grigi e macchie nere circondavano gli occhi, di un rosso violento, visibile anche nell’oscurità. I capelli, bianchissimi, ricadevano sulle spalle ricurve. Ciò che caratterizzava i Siguya era tuttavia ben altro. Gli abiti erano squarciati in più punti da enormi tronchi e lame ossee che spuntavano dalla pelle come rami da un albero. Il Siguya davanti ad Ary ne aveva due, come uncini ricurvi, sulle spalle e dalla schiena sporgevano enormi scaglie bianche. La cosa più sorprendente era la coda, lunga e squamata con spuntoni affilati che la ricoprivano ovunque. Dal braccio destro inoltre nascevano quattro lame ossee, che terminavano affilate oltre il pugno. Il secondo mostro non differiva molto dal secondo. Non aveva la coda, ma il suo braccio sinistro era inquietante. Dal gomito in giù, infatti, c’erano due enormi ossa, che, avvolgendosi a spirale, terminavano in una punta acuminata, simile a quella di una freccia.

Il mostro vicino a Raikas, parlò, fissandolo attento. La sua voce era cavernosa e profonda ed inquietante: “Auroreo, hai ucciso un nostro fratello, uno dei Siguya, gli dei partoriti dalla madre terra. Non gioire della tua effimera vittoria, perché presto lo seguirai nei regni ultraterreni.”

Si avventarono feroci su entrambi. Ràikas non ebbe il tempo di aiutare Elio, poiché dovette subito difendersi. Il Siguya che aveva parlato gli si fece contro con rapidità sorprendente, ma fortunatamente l’affondo del suo braccio mancò il bersaglio e affondò a vuoto nella terra. Il ragazzo era nella stessa situazione. Intento a schivare i colpi della coda del mostro e i fendenti del suo braccio, non riusciva a trovare il tempo per contrattaccare. Infine, quando il mostro lo mancò nuovamente, dandogli le spalle, vibrò un fendente sulla schiena scoperta del Siguya. La lama colpì la pelle grigia e si spezzò all’altezza dell’elsa nell’impatto. Il mostro  si voltò e lo derise con voce malvagia. “Stolto uomo, solo con la magia più potente avresti una possibilità di uccidermi. Come le dure pietre dei monti, così la nostra pelle è stata forgiata.” Ràikas lo sapeva bene, e come aveva fatto in precedenza,  imbrigliò il potente flusso della magia e ne conquistò la mirabile potenza, scatenandola contro il suo avversario. La sua mano fu avvolta da un intenso bagliore e per un istante, tutti si fermarono, abbagliati.

“Poiché il vostro corpo è insensibile a qualsiasi attacco fisico, proverò a spazzarlo via con il bagliore di stelle generato dalla mia magia.”

I due avversari urlarono furiosi gettandosi su di lui, ma Ràikas fu più rapido. Aprendo il palmo della propria mano verso i Siguya, ne riversò  la luce contro di loro, investendoli e avvolgendoli completamente. E lentamente iniziarono a svanire, assorbiti dalla luce, incapaci di reagire.

La voce calma di Ràikas suonò come una condanna. “Questo incanto è come una guida . Nessun essere al mondo può evitare di essere condotto dalla sua luce. Infine, una volta che la porta luminosa si chiude – disse, serrando debolmente il pugno – tutto svanisce…” L’intensa luminosità svanì, portando con sé i mostri e la loro vita e di essa non rimase che una pallida nebbia dorata che svanì rapida nell’aria.  Elios si lasciò cadere a terra, sedendosi sull’erba, fissando stupito eppur felice l’auroreo. Gettò l’elsa della spada ormai spezzata e rimase in silenzio, incapace di parlare. Ràikas gli si avvicinò lento e il ragazzo notò che sembrava spossato. Si alzò e gli si fece incontro fermandosi davanti a lui. “Ero già molto debole e l’uso di una magia tanto potente mi ha stremato.” Gli disse, notando la sua espressione preoccupata. “Potrai riposare quanto vuoi, Ràikas, è finita”

Una voce senza corpo alle spalle di Elios li fece sobbalzare entrambi.

“Muori, debole ed insignificante essere umano.”.

L’auroreo non ebbe un solo momento di esitazione, spinse di lato Ary gettandolo a terra ed accusò l’attacco del quarto Siguya al posto suo. Il colpo, terribile, affondò nelle sue carni all’altezza del petto e per alcuni secondi atelos e mostro si fissarono. Ràikas disse quasi in un sussurro: “Non ti ho sentito avvicinarti avete imparato a usare la magia?” Siguya non rispose, ma estrasse il braccio dal corpo dell’auroreo, che cadde in ginocchio per il dolore. Anche ferito a morte, però, rimaneva un nemico temibile. Chiamando a sé tutta la magia che il suo corpo poteva contenere, scatenò una saetta contro il Siguya, scaraventandolo come un fantoccio a diversi metri di distanza, nell’oscurità che si schiariva al sopraggiungere dell’alba. Ary si chinò sul corpo dell’amico, stendendolo sull’erba che già si macchiava del suo sangue. Quando ritrasse le mani dal corpo esanime erano sporche di sangue, chiaro e lucido.

La sua voce spezzata era carica di dolore, ma anche di rabbia.

“Perché Ràikas? Perché mi hai protetto? Tu non correvi alcun pericolo!” L’atelos parlò debolmente e i segni bianchi intorno al suo viso iniziarono a svanire, quasi ciò indicasse la vita che abbandonava il suo corpo ferito. “Mi chiedi…perché ti ho protetto? Non riesci nemmeno…a comprendere i comportamenti più naturali, quindi?” Tossì. “ Aiutare le persone è una cosa naturale, ricordalo. Non è un gesto inutile… ma un comportamento ovvio. Per proteggere qualcuno a rischio della vita…non servono… motivazioni. Non dimenticarlo.” Chiuse gli occhi per un attimo e quando li riaprì erano colmi di stanchezza e disperazione. Sollevò a fatica il braccio destro e strinse il polso sinistro del ragazzo con una forza che non poteva appartenere ad un moribondo. Elio sentì una fitta di dolore che lo fece sussultare, ma non si mosse.

“Un’ultima fatica.”Sussurrò in un sorriso forzato l’elfo. Chiuse gli occhi, come a volersi concentrare in quegli ultimi momenti. La sua mano fu avvolta da un debole bagliore che si trasferì lentamente al braccio del ragazzo, avvolgendolo fino ad avvilupparlo del tutto. La luce si spense subito, svanendo come rugiada al mattino.

Ràikas aprì gli occhi, fissando il proprio sguardo in quello del ragazzo. Doveva ancora portare a compimento molte cose e nel suo sguardo c’era la sconforto di chi sapeva di avere il dovere di terminare qualcosa ma non aveva più tempo per farlo. E il suo era giunto. I suoi occhi scrutarono nell’animo del ragazzo ed Elios ebbe l’impressione che lo avesse guardato fin nel più profondo recesso della sua anima. Un sorriso gentile  gli apparve sul viso, sembrava soddisfatto di ciò che aveva capito. Mormorò: “Recati alla Torre Bianca, cerca Alreyd. ” Chiuse gli occhi ed emise un ultimo, lungo e stanco sospiro. I segni bianchi sul suo viso sparirono. Non sentì più nessun dolore e l’oscurità lo avvolse. Accanto a lui, Ary urlò tutta la sua frustrazione contro il cielo. Sensazioni contrastanti si agitavano in lui, ma soprattutto sentiva crescere una strana trepidazione.

Un potere che già poche volte prima di allora aveva avvertito si ridestava nelle sue membra stanche e nel suo animo afflitto. Era una forza che aumentava con la violenza delle sue emozioni. E quando scorse il Siguya risalire il pendio della collina verso di loro, se ne sentì pervaso completamente. Il mostro vide il cadavere dell’atelos ed infierì con tono malvagio: “Il suo sacrificio non è servito a niente. Anche tu morirai qui.”

“Invece ti sbagli” disse Elio pacato, alzandosi e voltandosi verso l’assassino.

Il Siguya sussultò. Il ragazzo era circondato da una luce di fuoco vermiglio e se fosse riuscito a scorgerne il volto in quel momento, forse avrebbe provato terrore.

Il ragazzo continuò, con voce ferma, di chi cova un’ira terribile.

“Egli ha eliminato la debolezza che minava il mio cuore, convincendomi che non bisogna cercare il significato di ciò che si fa in nome degli altri.”

Il Siguya si avvicinò lentamente e la sua gigantesca mole sovrastò quella del ragazzo. “Allora gli chiederai direttamente perdono, perché quell’auroreo ti sta aspettando nel mondo dei morti”.

“Il mondo dei morti? Non farmi ridere, sarai solo tu ad andare nell’oltretomba. Io sono il tuo personale dio della morte e ora mi prenderò la tua vita.”. Tale era la fermezza e la determinazione di Elios che il Siguya indietreggiò di un passo, intimorito.

Le parole del ragazzo divennero ora piene della rabbia fino ad allora trattenuta. “Per le persone perite a causa della stupida superbia della tua razza e per Ràikas, che è morto per la tua insensata violenza, farò si che tu patisca la disperazione della morte.”

Il corpo del ragazzo si ricoprì di bagliori rossi, che ruggivano intorno alla sua figura. La sua voce suonava ora inesorabile come una condanna a morte. “Non ti chiederò come ti chiami. Non ci sarà una tomba con il tuo nome.”

Il mostro si riprese. Quelle minacce di morte lo fecero talmente infuriare, che si gettò sul ragazzo quasi senza pensare. Non si rese contò di ciò che accadde. Un lampo rosso lo investì e cadde a terra. Capì solo che centinaia di migliaia di scintille lo avevano penetrato in un istante. Il suo corpo era ridotto a brandelli. Un pugno di luce fu l’ultima cosa che vide.

…………………………………………………...

L’alba stava sorgendo. I primi raggi del sole illuminarono la terra e sorpresero Elios in piedi vicino al corpo di Ràikas. Il ragazzo aveva coperto il colpo con il suo mantello e ora lo fissava con un’espressione indecifrabile. Era tornato il ragazzo di sempre e la rabbia aveva lasciato il posto alla tristezza e al rimpianto. Sembrava che parlasse con l’auroreo, quasi pensasse che il suo spirito potesse sentirlo. “Non mi sono mai interessato al mio prossimo. Credevo che ciò che accadesse nel mondo non mi riguardasse. Io desideravo solo vivere per me stesso e che i colpevoli della disgrazia della mia vita scomparissero. Sono stato uno sciocco a non capirlo.” Lacrime amare scesero dai suoi occhi, neri come la pece. “Perdonami, Ràikas, tu mi hai protetto e io non ti ho nemmeno rivelato il mio nome. Ma di sicuro non dimenticherò il tuo, perciò vorrei che anche tu conoscessi il mio. Io mio chiamo Anarion… Anarion, uomo maledetto dal potere.”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 5
*** Sogni e partenze ***


l

 

Anarion si era sopito, vinto dalla stanchezza e dalle fatiche della notte, alle prime luci dell’alba. Giaceva addormentato vicino alle immortali spoglie di Ràikas, il viso umido di pianto per la scomparsa dell’auroreo. Ebbe un sonno agitato, carico di sogni dal significato oscuro. Intorno a lui tutto era avviluppato da una rada oscurità. Era fermo su una scalinata sospesa nel vuoto. Avanti e dietro sembrava continuare all’infinito. Centinaia di altre gradinate si incrociavano con questa, dando vita a un labirinto di gradini che si sviluppava su un’infinità di piani ed altezze.  Una luce illuminava debolmente quello spazio, provenendo da qualche parte davanti a lui. Iniziò a dirigersi verso la fonte di quel bagliore, attratto come una falena dalla fiamma.

Proseguì senza sosta, gli sembrò di viaggiare attraverso le infinità del tempo e l’oscurità più profonda. Infine giunse alla sorgente dalla vaga luminosità che si irradiava in quel luogo innaturale.

Tutte le gradinate sembravano confluire su una vasta piattaforma di roccia sospesa nel vuoto, una sorta di limbo, un luogo senza vita né tempo. Quando mise finalmente piede sulla nuda terra, poté vedere chiaramente la sorgente della luce che l’aveva guidato fin lì.

C’era solo una figura ammantata di nero, il cui viso era celato da un cappuccio. Il mantello scuro, lacero in più punti, sembrava usurato dal lento scorrere del tempo. Era seduto immobile, fermo in una posa che lo faceva assomigliare ad una statua. Aveva il braccio mancino appoggiato con debolezza al ginocchio sinistro, alzato. La mano destra appoggiata al suolo lo sosteneva, mentre l’altra gamba era stesa allungata al suolo. Intorno a quella figura, così ferma e silenziosa brillavano folgori e lampi che rinchiudevano lo sventurato in una gabbia luminosa.

Anarion notò che era legato al suolo da pesanti catene e che gli era quasi impossibile muoversi. Gli si avvicinò con passo esitante, sentiva l’irresistibile bisogno di aiutare quella persona a liberarsi dal giogo che lo intrappolava. Tese la mano, tremante, verso la figura, che da sotto il cappuccio sembrava fissarlo. Nell’istante in cui stava per toccare le sbarre sfavillanti, la figura scomparve e con lei il mondo in cui era imprigionata, lasciandolo solo. Un’altra apparve davanti a lui. Era una fanciulla, la più bella che avesse mai visto in vita sua, tanto da mozzargli il fiato e fargli bollire il sangue nelle vene. Non era la prima volta che incontrava quella ragazza nei suoi sogni, l’aveva già vista molte volte prima di allora e anche adesso come tutte le volte, rimase fulminato dalla sua visione. L’aspetto della ragazza lo affascinava. I lunghi capelli d’ebano, che scendevano lungo  le braccia scoperte e i fianchi sinuosi, risaltavano sul viso chiaro, dai lineamenti stupendi. L’espressione malinconica della ragazza lo ammaliava, così come la profondità degli occhi, simili a due laghi cristallini. Vestiva solo un peplo leggero che lasciava trasparire tutta la sua bellezza. Aveva un collo liscio e morbido, spalle dritte, seni turgidi ed eretti. Tale era la potenza del suo sguardo e della sua esile figura, che non pareva un umana, ma una dea. Il ragazzo sarebbe rimasto lì ad ammirarla per giorni interi, ma dopo pochi istanti la ragazza si dissolse dopo averlo guardato con un ultimo sguardo colmo di tristezza.

Si risvegliò, madido di sudore, mettendosi a sedere. Il sole era alto in cielo, ma il vento  che soffiava da Nord rinfrescava l’aria. Si rialzò e si voltò verso il corpo di Ràikas; non sapeva cosa avrebbe dovuto fare, non conosceva i rituali funebri degli aurorei, né aveva gli strumenti per scavare un tumulo per seppellirlo. Ma non poteva nemmeno lasciarlo esposto alle intemperie. Mentre si arrovellava con tali problemi, il suo udito percepì qualcosa. Un rombo lontano, indistinto, tanto che non riusciva a capire cosa potesse provocarlo. Si voltò verso Ovest e i suoi occhi videro in lontananza sollevarsi un fitto polverone, che si muoveva nella sua direzione. Aguzzò gli occhi e notò che in mezzo al polverone si muovevano quattro figure, quattro cavalieri. Ma avvertiva un altro suono. Si voltò a destra e a manca, ma non vide nulla. Alzò allora lo sguardo verso il cielo e per un attimo le sagome di enormi uccelli coprirono il disco del sole, proiettando le loro ombre sulla collina. Per alcuni secondi il ragazzo pensò a come dovesse agire. Non poteva scappare a piedi da inseguitori a cavallo, né nascondersi in quell’enorme distesa piatta di erba. Decise infine che avrebbe aspettato lì, se non altro per difendere le spoglie di Ràikas. Rimase così, fermo e immobile fissando i quattro cavalieri avvicinarsi. Giunsero al galoppo, fermandosi ai piedi della collina. Notò subito che un cavallo era senza cavaliere. I presenti vestivano abiti scuri e leggeri, da esploratori, con ampi cappucci calati sul viso e stoffe davanti alla bocca, sicché era possibile vederne solo gli occhi. Dalle cinture pendevano ampie e lunghe lame, dai foderi decorati con motivi naturali in oro e dalle else finemente avvolte in fasce di seta. A tracolla portavano archi lunghi di legno chiaro e faretre colme di frecce dalle piume rosse. Il cavaliere che per portamento pareva il capo si avvicinò ad Anarion con passo lento, ma deciso, mentre i suoi compagni rimasero in sella ai cavalli, impassibili. Il ragazzo fece qualche passo indietro, intimorito dallo sconosciuto, fino ad arrivare vicino al corpo di Ràikas. Si fermò, allora, fissando il cavaliere  con sguardo smarrito. Questi, intuendo i sentimenti del ragazzo, si fermò a sua volta e si scoprì il volto. Con gesti lenti si abbassò il cappuccio e si tolse il drappo davanti alla bocca. Anarion sussultò per la sorpresa e ringraziò gli dei per ciò che vide. Chi gli stava davanti era un auroreo, dagli occhi azzurri e i capelli bruni. Gli sorrise, lasciando che la tensione diminuisse, ma l’espressione dell’altro non era affatto rincuorante. Non tradiva alcun emozione, solo gli occhi trasmettevano qualcosa ed erano tristezza e dolore. E in essi si agitava una luce, una velatura scura che li incupiva. Parlò con voce profonda e autoritaria “Sono Olos, Capitano della Fortezza Bianca.”.

Il ragazzo rispose, esitante: “Sono Anarion”. Non sapeva cosa dire, né intuiva cosa gli ateloi volessero da lui. Poi si ricordò di Ràikas. Quasi gli avesse letto nei pensieri Olos disse:

“Siamo qui per prendere il corpo dell’Astro Bianco affinché abbia la sepoltura che gli spetta.” Anarion rimase pietrificato, l’atelos che aveva dato la vita per lui era l’Astro Bianco, uno degli esseri più potenti del mondo. Aveva fama di potente mago e la storia della pace che si era avuta grazie alla sua mediazione tra le razze era conosciuta anche nel suo villaggio. Un così grande individuo era morto per lui. Stentava a crederlo. Si costrinse a riscuotersi e con aria piuttosto scossa parlò: “Ràikas è qui - disse indicando il corpo coperto dal mantello – ma come avete fatto a sapere che era qui?” Ma il Capitano non gli prestava più attenzione. L’aveva sorpassato e si era chinato al fianco del caduto, scoprendone il volto. Lo fissò con sguardo vitreo, senza lasciar trapelare nulla. Sembrava piuttosto che anziché mirare il viso di Ràikas, Olos guardasse lontano, ricordando e vivendo antichi ricordi. Passò la mano delicatamente sul viso, sfiorandolo dove prima erano impressi i segni bianchi ormai scomparsi. I lineamenti del volto avevano mantenuto inalterata tutta la loro bellezza, anche se oramai era scomparsa la tenue luminosità che in vita lo avvolgeva. L’atelos ricoprì con  fare frettoloso il viso di Ràikas, alzandosi, apparentemente per nulla scosso. Guardò un attimo verso il cielo e mettendosi due dita sulle labbra emise un lungo e potente fischio, il cui suono si diffuse potente nella zona. Pochi istanti dopo due ombre enormi si proiettarono al suolo e Anarion vide due gigantesche aquile che scendevano a terra volando in ampi giri finché entrambe in pochi secondi atterrarono con delicatezza al suolo. Si trattava di due Aquile Giganti, i destrieri alati che venivano allevati dagli atelos per essere usati come messaggeri o in battaglia. Simili ad aquile, ma dalle dimensioni dieci volte superiori, erano estremamente longeve e intelligenti e il loro piumaggio bruno rimaneva lo stesso per quasi tutta la loro vita. Il becco appuntito e il temperamento irascibile li rendevano animali assai difficili da crescere, compito che tuttavia gli aurorei riuscivano a svolgere egregiamente. Ma quelli erano i primi esemplari che il ragazzo vedeva e la sua sorpresa fu grande. E la sua meraviglia crebbe ulteriormente quando vide che le Aquile portavano sulla groppa dei cavalieri. Gli aurorei, in tenuta simile a quella di Olos, sedevano su selle sul dorso degli animali e tenevano due briglie legate ai morsi che stringevano nei becchi. Con fare attento i Solca Cielo, come erano chiamati dai loro simili, scesero di sella, lasciando le briglie senza tuttavia che gli animali accennassero a scappare. Scrutarono appena la salma dell’Astro Bianco e poi si voltarono verso Olos, inchinando leggermente il capo in segno di rispetto. I tre si scambiarono alcune parole sottovoce. I Solca Cielo sollevarono delicatamente il corpo senza vita di Ràikas e uno dei due, salito in sella, lo assicurò al proprio corpo con corde legate alla sella. Lo avvolse meglio nel mantello e sussurrò alcune parole all’ Aquila che emise un verso acuto per risposta. Quando anche l’altro risalì poi con agilità in groppa alla sua Aquila e afferrò le briglie, urlarono una parola dal suono acuto e stridente, simile ad un fischio, e le due Aquile, aperte le ali, spiccarono il volo, salendo in cielo con ampi giri prima di allontanarsi nell’aria. Anarion rimase alcuni secondi osservando le Aquile andarsene, poi si volse verso Olos, sicuro che lo avrebbe visto allontanarsi a cavallo. Invece il Capitano si era messo ad esaminare i corpi dei Siguya uccisi e si era soffermato su quello sconfitto da Anarion. Quando ebbe finito gli tornò vicino, fissandolo con sguardo imperscrutabile, quasi attendesse una sua parola. Invece fu lui a parlare: “Verrai con noi…” Quella frase suonava più come un ordine che una richiesta.

“Dove?” Chiese Anarion, sorpreso.

“Alla Fortezza Bianca.”

“Perché?” Osò ribattere il ragazzo, sebbene lo sguardo di Olos era quello di chi non ammette obbiezioni.

“E’ un ordine del Consiglio, che governa la città in assenza del Re.”

“Ma…”incominciò a protestare e le sue parole furono troncate sul nascere.

“Partiamo ora, subito”. E l’auroreo si volse, scendendo la collina, e salì con un movimento felino sul cavallo, alzandosi sulle staffe per osservare il ragazzo che era rimasto interdetto sulla collina.

Anarion non sapeva davvero cosa fare, ma pensava che la scelta presa fosse senza dubbio la più saggia. Prima di tutto perché gli atelos l’avrebbe comunque potuto costringere con la forza; in secondo luogo perché doveva assolutamente incontrare l’auroreo nominato da Ràikas, Alreyd, e infine, non aveva alcuna fretta nel raggiungere la sua meta. Aveva atteso per venti anni e quella deviazione avrebbe ritardato il suo viaggio di quanto? Tre giorni, una settimana? Si risolse quindi a raccogliere l’invito o l’ordine, non avrebbe saputo dirlo, di Olos. Scese rapido la collina dopo aver raccolto le sue cose, sotto gli occhi vigili degli esploratori. Salì sul cavallo che era stato preparato per lui e  si guardò intorno. I cavalieri si erano disposti tutti intorno a lui, con Olos in testa. L’auroreo fissava il cielo verso Ovest, nella direzione in cui erano sparite le Aquile. Sembrò scorgere qualcosa e dopo un suo cenno della mano, partirono. Spronarono i cavalli e,  dapprima al passo, poi rapidi al galoppo, si allontanarono veloci da quel luogo di dolore. Mentre spariva attorniato dagli aurorei verso Occidente, Anarion non sapeva quanto i suoi calcoli si sarebbero rivelati sbagliati.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 6
*** Dàimon! ***


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Il sole stava lentamente calando oltre l’orizzonte, ponendo termine a quella prima giornata di viaggio. Avevano cavalcato tutto il tempo, eccezion fatta per le poche soste effettuate per rifocillarsi. Durante quei pochi minuti di riposo il ragazzo non aveva potuto scambiare alcuna parola con Olos, che approfittava di quelle pause per parlare con uno dei suoi cavalieri, che stava in retroguardia, cavalcando abbastanza dietro da poter a malapena esser visto. Anarion non era riuscito a capire nulla delle loro conversazioni, ma aveva notato che mentre l’auroreo parlava con Olos, spesso volgeva lo sguardo verso Est, accompagnando le sue parole con gesti concitati delle mani. Per il resto aveva cavalcato tutto il tempo in silenzio, pensando agli ultimi avvenimenti, senza quasi guidare il cavallo, che sembrava seguire la strada da solo. Sentiva gli sguardi degli esploratori costantemente su di sé. Quelle poche volte che riusciva a incrociarne lo sguardo e a fissarne gli occhi celati nell’ombra dei cappucci, riusciva a distinguerne le emozioni che celavano. Avvertiva la caratteristica apatia degli aurorei, benessere misto ad atarassia, o pacatezza, non sapeva dirlo. E anche rabbia, repressa, celata, ma presente. La maggior parte del tempo, guardava avanti, oltre la figura silenziosa di Olos che lo precedeva, osservando i luoghi che attraversavano. La prateria scorreva rapida intorno a loro, mentre i cavalli galoppavano instancabili su un sentiero pietroso e poco battuto, lasciando dietro di loro una densa scia di polvere. Il paesaggio iniziava tuttavia a mutare. La piatta prateria lasciava crescere alcuni alberi, dapprima radi e man mano che avanzavano più numerosi. Vedeva inoltre profilarsi verso Nord la mole imponente di una catena montuosa, le cui vette sparivano nella foschia che precede il tramonto. Quando erano infine smontati da cavallo, ognuno si era messo all’opera, senza bisogno che Olos desse ordini. I cavalieri sapevano già qual era il loro compito. Si accamparono a rispettosa distanza dalla strada, in modo da celare la loro presenza. Un cavaliere si occupò dei cavalli e li legò a degli alberi lontano dalla strada, in modo che non venissero notati. Un altro si diede da fare nei pressi del sentiero per cancellare le tracce della loro deviazione. Il terzo raccolse alcuni bagagli che fino ad allora avevano portato sui cavalli e li depose affianco ad Anarion, che sedeva per terra vicino alla figura taciturna e pensierosa di Olos, anch’esso seduto, forse aspettando che i suoi cavalieri svolgessero i loro compiti. Il ragazzo era sfinito dalle fatiche della cavalcata, alle quali non era abituato, ma aveva l’impressione che la giornata non fosse affatto finita. Anarion pensò che quella sarebbe stata forse l’unica occasione per poter parlare con Olos e fattosi coraggio gli rivolse la parola:

“Olos- disse esitante- quanto manca ancora alla Fortezza Bianca?”

Il Capitano rispose, senza degnarlo di uno sguardo: “ Sei ore di viaggio a cavallo”

Anarion lo incalzò: “Come avete fatto allora ad arrivare al luogo dal quale siamo partiti in meno di dodici ore dalla morte di Ràikas e come facevate ad esserne a conoscenza?” Olos ebbe un moto di stizza quando Anarion pronunciò il nome dell’ Astro Bianco, ma rispose secco, senza esitazione: “La notizia ci è stata riferita dai Solca Cielo che hai visto mentre tornavamo da un viaggio, passando non lontano dal luogo dove ti abbiamo preso.” Il Capitano terminò la frase con il tono di chi considera l’ argomento chiuso, perciò, nonostante le domande di Anarion fossero ancora molte il ragazzo rimase in silenzio. Pochi secondi dopo, mentre gli ultimi raggi del sole illuminavano di porpora terra e cielo, gli altri tre aurorei si unirono ad Olos e Anarion, sedendosi in modo da formare un cerchio. Erano ancora in tenuta da viaggio e nessuno aveva abbandonato le armi. Si erano solo liberati dai cappucci e dai drappi che ne nascondevano il viso e fissavano il loro Capitano con attenzione, pronti ad obbedire ai suoi ordini. L’atelos li guardò uno ad uno come per valutarne le energie che ancora possedevano, poi parlò con loro per alcuni minuti, con voce lenta e seria. Olos non solo stabilì i turni di guardia e le indicazioni per il giorno successivo, ma istruì i suoi compagni d’arme su ciò che il cavaliere della retroguardia gli aveva riportato. Il Capitano riferì che erano inseguiti da un grave pericolo. Durante la loro ricognizione, che li aveva portati nelle terre a Nord - Est della Fortezza Bianca, si erano imbattuti in una colonna di Dàimon diretta a Sud - Ovest. Uno degli aurorei era stato ucciso e loro ne avevano uccisi molti con archi e frecce. Si erano allontanati a cavallo, portando il caduto e distanziando molto i nemici, che erano a piedi. Erano stati quindi raggiunti dalle Aquile Giganti con l’ordine di recarsi anch’essi a recuperare il corpo dell’Astro Bianco. Avevano caricato il caduto su un’Aquila affinché lo riportasse alla Fortezza. Si erano poi recati a recuperare Ràikas e fatto ciò si erano messi sulla strada di casa, dando ad Anarion il cavallo del compagno ucciso. Ora però sembrava che i Dàimon li avessero raggiunti. Facendo, infatti, una deviazione verso Sud per recuperare la salma di Ràikas, avevano dato il tempo a quelle creature di proseguire nel loro percorso che li stava portando esattamente nella loro stessa direzione. Ciò non solo rappresentava un problema, poiché non erano in numero sufficiente per affrontare un battaglione di nemici, ma anche fonte di dubbi per Olos. Perché i Dàimon stavano seguendo la strada che portava ai territori degli aurorei? Quella domanda non gli dava pace e sentiva l’urgenza di dover portare la notizia alla Fortezza. Non potevano  in ogni caso continuare la marcia perché era evidente che il ragazzo era allo stremo e inoltre era deciso a scoprire se i Dàimon puntavano effettivamente verso i loro territori. Decise che avrebbero aspettato nascosti il passaggio dei nemici e avrebbero proseguito galoppando paralleli alla strada, tenendosi a un miglio da essa. Mantenne la mente lucida e il sangue freddo e ripeté gli ordini ai cavalieri. Tutti quanti, a turni di due ore si sarebbero appostati vicino la strada per controllarla e sarebbero ripartiti due ore dopo l’alba. Sei ore di riposo sarebbero bastate al ragazzo per riprendere le forze. Si coricarono vicino ai cavalli, gli esploratori nel loro vigile riposo, Anarion profondamente addormentato. Per un po’ il ragazzo si sarebbe liberato dal peso che preoccupazioni, dolori e nostalgie provocavano sul suo animo.

………………………………………………………………………………………

La notte era silenziosa e oscura. Ogni cosa era immersa nell’immobilità e nella fioca luce che nasceva dall’opaca falce della luna. Il primo turno passò senza che nulla accadesse. Il secondo trascorse anch’esso tranquillamente, con l’oscurità che si infittiva. Intorno alla mezzanotte, mentre l’ultimo cavaliere di guardia si preparava alla veglia notturna, i suoi occhi captarono un movimento rapido e lontano verso oriente. Aspettò alcuni secondi e lo colse nuovamente. Qualcosa si muoveva a destra e a sinistra della strada, seguendo un percorso parallelo. Aguzzò la vista, perforando con lo sguardo le fitte tenebre notturne. Riuscì ad individuarli: l’aspetto altero del corpo esile e aggraziato, la pelle bluastra e fredda e gli occhi verdastri e luminosi non lasciavano dubbi. Erano quattro Dàimon, probabilmente esploratori. Precedevano l’armata perlustrando il percorso prima del passaggio dei compagni. Tese le orecchie per udire suoni che potessero dirgli qualcosa di più e sentì non troppo lontano, oltre i sibili ferini degli esploratori, il passo leggero e cadenzato del resto dei Dàimon. Alla fine i nemici li avevano raggiunti. Si mosse rapido e silenzioso come un’ombra fino a raggiungere il comandante che dormiva con gli altri. Gli si avvicinò, ma prima che potesse chiamarlo Olos aprì gli occhi e disse: “Sono arrivati.”.

…………………………………………………………………………………..

Non ci fu bisogno di svegliare nessuno, nemmeno Anarion, che forgiato da lunghe veglie e brevi riposi era abituato a svegliarsi al minimo rumore. I tre cavalieri e Anarion stavano aspettando dove si erano addormentati che Olos tornasse dopo essere andato a controllare di persona la situazione. Tornò poco dopo, con la solita espressione imperturbabile in viso. Si sedette sull’erba vicino ai suoi facendo con loro il punto della situazione, con voce tranquilla:

“Sono quattro esploratori. Avanzano in coppie di due elementi. Distano una cinquantina di passi gli uni dagli altri e tra non molto ci passeranno vicino, ma se restiamo nascosti qui non ci noteranno. Voglio vedere quanti sono e come sono armati. Tenete lo stesso le frecce incoccate, non voglio rischiare.

Tutto chiaro?” Gli aurorei annuirono impercettibilmente e prepararono gli archi.

Quando Anarion chiese ad Olos cosa potesse fare questi si limitò a rispondere con modo autoritario:  “Abbiamo un piccolo problema, fai silenzio e tieniti pronto vicino ai cavalli.”

Il tono del Capitano l’aveva offeso, anche se non lo diede a vedere. Si limitò ad un accenno del capo e a stare zitto.

………………………………………………………………………………………..

Alcuni minuti dopo iniziarono a distinguere distintamente le figure dei quattro Dàimon. Avanzavano a una discreta distanza gli uni dagli altri, senza luci, in modo da potersi a mala pena riconoscere nell’oscurità notturna. Gli ateloi invece erano distesi a terra nell’erba folta e tenevano pronti gli archi. Quasi non respiravano e nessuno emetteva il benché minimo rumore. Anarion trattenne il fiato, con il sudore che gli imperlava la fronte, mentre due  passavano davanti a loro, a pochi passi di distanza. I nemici camminavano con noncuranza, chiacchierando e sghignazzando nella loro lingua ferina, ignari che solo un schiocco delle dita auroree li separasse dalla morte. Il ragazzo tirò un sospiro di sollievo quando li vide allontanarsi, passando avanti senza notare gli aurorei. In quel preciso istante tutto accadde talmente rapidamente che Anarion quasi non se ne rese conto. Uno dei due Dàimon emise un suono raggelante, un lungo sibilo da rettile che giunse fino alle orecchie dei cavalli al fianco di Anarion. Immediatamente gli animali si spaventarono, nitrendo fragorosamente. Olos non aspettò nemmeno che quelle immonde creature voltassero il capo verso di loro. Bisbigliò una specie di fischio e due micidiali dardi trapassarono le gole dei due esploratori, che caddero inermi al suolo. Mentre il rumore secco dello scoccare delle corde moriva anche il Capitano e un  altro auroreo tesero gli archi, mirando agli altri due ad oltre cinquanta passi di distanza. Le frecce sibilarono nell’aria e raggiunsero i loro bersagli. Uno morì senza emettere un suono, colpito in piena fronte. L’altro, ferito alla spalla, ebbe solo il tempo di urlare freneticamente nella sua lingua per alcuni attimi prima che altri tre dardi lo raggiungessero. Cadde senza vita a terra, ma il suo allarme fu raccolto dai compagni e subito si udì il rumore di numerosi guerrieri che sopraggiungevano. Olos si volse verso i cavalli, veloce e silenzioso, e i suoi cavalieri dietro di lui. Anarion fece appena in tempo a slegare gli animali che già gli ateloi lo avevano raggiunto e come lui montarono subito a cavallo, imbracciando ancora gli archi. Dietro di loro si sentivano le urla concitate dei Dàimon, che scoperto l’assassinio delle loro sentinelle cercavano i colpevoli urlando furenti. Alcuni trovarono solo la morte a causa dei dardi elfici, che li colpivano con mortale precisione. I sopravvissuti si tuffarono a terra, cercando scampo e vi rimasero anche quando oramai i cavalieri erano già molto lontani.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 7
*** Arrivo alla Fortezza ***


l

 

 

Anarion assaporava l’aria della notte che gli rinfrescava il viso mentre cavalcava veloce, circondato dagli aurorei. Erano scappati da pochi minuti, ma avevano già posto una tale distanza tra loro e i Dàimon, da farlo sentire al sicuro. Volse lo sguardo intorno, osservando il paesaggio che mutava rapido al loro incedere. La prateria si costellava di folti alberi e le montagne si facevano sempre più vicine. Il ragazzo poteva distinguere una fitta foresta che ne ricopriva le falde e che si estendeva fino a qualche miglio da loro. L’aria in quel momento si faceva più chiara, negli attimi che precedevano l’alba. Poteva scorgere il sentiero che fino ad allora avevano seguito, interrompersi poco prima di finire inghiottito nel folto della vegetazione. Poi arrivò l’alba e in pochi istanti l’oscurità si dissolse davanti al rapido avanzare della luce del nuovo giorno. Tutto si tinse di limpido rosa e il sole sorse oltre le cime aguzze delle montagne ad oriente. Quando la notte svanì, rimase abbagliato da un violento riflesso che risplendeva ad occidente. Allora la vide. Un’altissima torre bianca che svettava dall’intrico verde, perforando, altissima, le nuvole di porpora che la sovrastavano. Mille bagliori la avvolgevano, simili alle stelle del firmamento, quasi fosse fatta di limpido vetro. Ma una stella brillava su tutte le altre. Una luce ardeva violenta sulla cima della torre, quasi volesse rivaleggiare con lo splendore del sole. Poi si spense improvvisa e il suo bagliore morì nella luce intesa dell’alba, che rivelava la splendida struttura della torre. La superficie liscia e nivea era frastagliata da guglie, cuspidi e pinnacoli di avorio che salivano ovunque nell’aria e sulla sommità si innalzavano quattro vertici che tagliavano il cielo indicando i punti cardinali. Centinaia di finestre luminose si affacciavano da essa, catturando i raggi del sole, tanto che la torre riverberava come una costellazione nel cielo del mattino. Lo spettacolo catturò la vista di Anarion così come quello degli aurorei che lo ammiravano ogni giorno da secoli. Erano arrivati. Erano giunti alla Fortezza Bianca.

…………………………………………….

I silenziosi confini della foresta si aprivano davanti a loro. Gli alberi imponenti, le cui chiome brillavano di smeraldo alla luce del sole, si innalzavano alti verso il cielo. L’occhio si perdeva nel verde, che si confondeva con i fasci di luce che penetravano tra le foglie e con i colori vivaci della natura. Gli alberi crescevano gli uni vicini agli altri, quasi a formare un muro che la natura avesse costruito per proteggere le terre degli aelta. I cavalli si erano fermati a pochi passi dai confini del territorio boscoso, scalpitando e attendendo di seguire la via che proseguiva nei meandri della foresta. Si fermarono pochi attimi, Olos davanti a tutti, fissando da sotto il cappuccio i confini della sua terra natia. Tirò le redini del cavallo e si inoltrò tra gli alberi, seguito dai suoi cavalieri e da Anarion. I cavalli si muovevano senza fare alcun rumore. L’intera foresta sembrava, infatti, adagiarsi su un morbido tappeto di foglie, verdi come se la linfa scorresse ancora dentro di loro. Sopra di loro, le fronde ondeggiavano lentamente nel brusio del vento e il soffice suono si univa armoniosamente a quello degli uccelli che volavano da un albero all’altro. Le folte chiome delle piante, i cui tronchi erano lisci e perfetti, lasciavano passare poca luce. Sicché essa ricadeva in coni luminosi dagli alberi, mentre le foglie volteggiavano sospinte dal vento. L’aria che si respirava fremeva, carica dell’antica bellezza del luogo e dalla forza che esso racchiudeva. Anarion volgeva il capo intorno a sé, ammirando lo splendore che gli stava intorno. In quel momento capì perché gli aelta amassero tanto la loro terra. Essa conservava intatta e stupendamente inalterata la bellezza che gli aveva in un certo senso dato la vita. Ed essi erano pronti a darla per difendere la loro patria. Olos ne era la prova vivente. Il ragazzo intuiva che nel Capitano risiedevano gli ideali più nobili della sua razza. Lo capiva dalla profondità dei suoi occhi, dall’ intensità del suo sguardo.

L’atelos galoppava immerso nei propri pensieri, angosciato. Gli ultimi eventi lo avevano molto scosso, anche se non lo dava a vedere. Non doveva farlo. Sapeva che se lui avesse ceduto avrebbe trasmesso la sua inquietudine a coloro che da lui dipendevano. Sospirò. Ora come ora l’unica cosa da fare era portare l’unico testimone della morte dell’Astro Bianco alla Fortezza. La sua mente non trovava riposo da quando avevano preso con loro il ragazzo. Come poteva quell’umano essere sopravvissuto quando nemmeno Ràikas, il suo Re, aveva potuto? Non riusciva a capire e questa sua ignoranza gli provocava una rabbia che lo bruciava dentro. L’aveva colta anche nei suoi uomini e anche se sapeva che stavano sbagliando, non riusciva a farne a meno. Sperava che il Consiglio avrebbe risolto la faccenda. Anche perché oltre alla sospetta presenza dei Dàimon nel loro territorio, sentiva qualcosa cambiare nell’aria, mutare, e non in positivo.

Passarono così il tempo fino a mezzogiorno, quando si fermarono per rifocillarsi. Anarion sedeva tra le radici di un grosso albero, godendo della frescura e dell’ombra in quei momenti caldi del giorno. Si rivolse ad Olos, prendendo dalle sue mani la boraccia che gli aveva teso.

“Quanto manca ormai?”

“Poco, verso sera saremo alle porte della città” Rispose l’auroreo.

“Cosa mi accadrà una volta che sarò arrivato?”

Olos distolse lo sguardo dal ragazzo, guardando verso la torre bianca che si intravedeva tra le foglie.

“Sarai condotto innanzi al Consiglio per rispondere alle domande che ti saranno poste, credo.”.

“E poi?”

“Deciderà il Consiglio.”

“Sono un prigioniero, dunque” Costatò il ragazzo, con una nota di disappunto nella voce.

“No, affatto, ” disse Olos, volgendosi nuovamente verso di lui “ ma devi capire che tu sei stato l’ultimo a vedere e a parlare con Ràikas, uno degli esseri più importanti e potenti della terra e questo ti fa portatore di un grave fardello che ...”

“Che non ho chiesto” Concluse il ragazzo.

“Anche se non lo sopporti, devi farlo. Almeno per la memoria di Sire Ràikas.” E detto ciò si riprese la borraccia e rimontò a cavallo. Anche gli altri risalirono sulle rispettive cavalcature, per ultimo il ragazzo. Continuarono a viaggiare nel più assoluto silenzio. Il ragazzo notò però che gli ateloi si voltavano spesso intorno, quasi notassero qualcosa di strano intorno a loro. Alzò lo sguardo verso l’alto e una foglia gli cadde delicatamente sul viso, cullata dal vento. Era gialla e venature rosse la facevano brillare come se fosse stata d’oro. La strinse per alcuni secondi tra le dita e poi la lasciò cadere al suolo. Quando si voltò avanti notò che Olos aveva lo sguardo posato sulla foglia appena caduta e appena pochi secondi dopo spronò il cavallo al galoppo, imitato immediatamente da tutti altri. Qualcosa in quell’evento aveva messo addosso all’aureoreo una strana fretta, anche se Anarion non ne capiva il motivo. Cavalcarono veloci e silenziosi e i loro destrieri si destreggiavano tra gli alberi con agilità. Passarono alcune ore, non avrebbe saputo dire quante, quando infine uscirono fuori dal bosco. Quasi non se ne accorse. Uscirono con un balzo fuori dalla fitta boscaglia e si fermarono immediatamente, osservando il territorio dove sorgeva la fortezza. Sullo sfondo si ergevano imponenti le catene massicce di impervie montagne. La foresta ne lambiva le falde, fino a scomparire man mano che l’occhio si spingeva verso le cime dei monti, spoglie e nude. Davanti a loro però, l’intera distanza che li separava dalle montagne, circa un miglio, era occupata da una piana e chiara pianura. Su di essa, costruita per buona parte a ridosso dei monti, sorgeva  la Fortezza Bianca degli Aurorei. La cinta muraria, altissima, partiva dai fianchi dei monti e circondava l’intera città, eccezion fatta per la parte che aveva alle spalle i fianchi delle montagne, difesa più che sufficiente. Le mura, alte quasi cinquanta piedi, erano di bianchissima pietra, liscia e perfetta, quasi fossero state intagliate direttamente nella nuda roccia.

Ripresero ad avanzare lentamente, ogni loro movimento era scandito dal rumore degli zoccoli dei cavalli, attutito dall’ erba.

Anarion riusciva a scorgere meglio l’imponente cancello delle mura man mano che si avvicinavano.

Costruito in materiale ceruleo, irradiava riflessi azzurrini quando la luce che balenava tra le nuvole lo colpiva. Recava intagliati su tutti e quattro i lati  motivi floreali e naturali, alcuni rappresentanti parole di benedizione e potenza. Nel metallo erano poi state incise scene di epiche battaglie. La violenza del combattimento, la foga dei corpi nella mischia furiosa, il dolore e la forza dei combattenti erano rinchiusi nei freddi altorilievi, liberati ogni qual volta vi veniva posato occhio.

Al centro ognuno dei due battenti aveva scolpito in bassorilievo la figura di un atelos che vestiva una tunica dai panneggi squisiti e reggeva rispettivamente nella destra e nella sinistra un bastone con inciso nella sommità la testa di un dragone. I visi e i lineamenti di quelle statue erano raffigurati con tale realismo, da sembrare due vivi e vigili custodi a guardia della città. Gli occhi erano sfere completamente bianche, quasi la loro candida assenza di profondità indicasse una onnisciente visione. Essi vigilavano sulle sorti della battaglia attorno a loro e su tutto ciò che accadeva intorno alla Fortezza.

Anarion ebbe l’impressione che quegli occhi stessero fissando anche lui e gli altri cavalieri mentre si avvicinavano al cancello. Due imponenti torri circolari si ergevano ai lati di esso e il ragazzo poteva notare rapidi movimenti in cima ad esse, seguiti da bagliori accecanti, quasi qualcosa di luminoso si aggirasse sulle mura. Lungo queste ultime, a metà tra le pareti dei monti e il cancello si innalzavano due torri di guardia, sopraelevate rispetto al cancello. Oltre l’imponente cerchio delle mura, svettava la Torre delle Stelle, alta e solenne, abbagliante nella sua scintillante bellezza. Quando giunsero ai piedi del cancello, tuttavia, deviarono verso destra, fino a una postierla in ferro battuto che permetteva il passaggio di non più di due persone a cavallo alla volta. Quando si fermarono davanti all’ entrata sbarrata, Olos scese da cavallo e aspettò alcuni secondi, volgendo spesso lo sguardo verso la sommità delle mura.

Improvvisamente con un sordo rumore di ferri e chiavistelli, il portone si spalancò cigolando, lasciando libero il passaggio all’interno della fortezza.

Olos, libero dal cappuccio e dal drappo che ne nascondevano il viso, e Anarion erano davanti agli altri, tenendo per le briglie i cavalli. Prima che potessero entrare, due soldati si fermarono davanti a loro, salutando il loro capitano con un accenno rispettoso del capo. Portavano pesanti armature a scaglie dai riflessi dorati, che ne difendevano il busto, le gambe e le braccia, ricoprendoli quasi completamente di metallo brillante. Sotto il metallo arricchito da rilievi d’oro e argento, si intravedevano fini vesti di seta verde. Gli elmi, anch’essi splendenti, ne nascondevano del tutto i lineamenti del viso, eccezion fatta per occhi e bocca. Alle cinture, decorate con motivi floreali d’argento, portavano appese daghe ricurve, tenute nei foderi di metallo d’ebano. Nelle mani destre, protette da guanti d’arme, tenevano con fierezza e forza lunghe sarisse, aste lignee alte e fini, alte all’incirca sedici piedi. Fendevano l’aria, terminando in acuminate punte metalliche. Legati ai bracci sinistri avevano inoltre scudi a mezzaluna che avevano scolpiti in argento e pietre glauche un dragone con le fauci spalancate verso l’alto.

La guardia di destra si rivolse con tono reverente ad Olos:

“Kaise, Olos!”

“Kaise.” Lo salutò pacato il Capitano.

“Alreyd vi riceverà immediatamente, Capitano…”

Olos annuì con un cenno del capo e, dopo che ebbero consegnato i cavalli a degli scudieri seguirono i due soldati all’interno della fortezza. Alle loro spalle si ergeva il maestoso cancello e le mura nivee. Il ragazzo poté notare che sui ballatoi delle mura si muovevano con passo altero e solenne, come in un rituale, decine di arcieri e soldati.

Si spostarono verso sinistra, su una grande strada che partiva dal cancello, costruita con pietre piatte e perfettamente incastrate tra loro. Davanti a sé Anarion poteva vedere una seconda cinta muraria, di forma semicircolare, che partiva da due punti delle mura più esterne, esattamente quelli tra i torrioni del cancello e le torri di guardia. Una era costruita a ridosso della guardiola dalla quale erano passati poco prima. La strada  che percorrevano tagliava esattamente a metà la seconda cinta, attraverso un complesso di tre larghi archi a sesto acuto, perfettamente identici. Anche in cima a queste mura si potevano vedere aggirarsi guerrieri dorati, le cui armature lucenti rilucevano di bagliori accecanti.

Una volta entrati nella parte più interna della Fortezza, Anarion rimase sbalordito da ciò che vide.

Due altissime statue si ergevano davanti alla Torre. Costruite in liscio marmo bianco e appoggiate su piattaforme quadrate, montavano la guardia all’entrata della torre. La statua di sinistra ritraeva un guerriero nell’atto di sfoderare con  la sinistra la spada. Non indossava nessun elmo e i capelli lunghi e lisci ricadevano dietro le spalle, sciolti. I lineamenti del viso erano alteri e severi, e gli occhi scrutavano diritto davanti a sé. Indossava una corazza simile a quella dei soldati aurorei, anche se questa era arricchita da fregi e decorazioni in altorilievo. La mano sinistra era stretta intorno al fodero della spada mentre la destra, serrata intorno all’elsa, era ferma nell’atto di sfoderarla.

La seconda statua  rappresentava un mago atelos. Il capo, dai lineamenti simili a quelli del soldato, era rivolto quasi impercettibilmente verso l’alto, quasi l’auroreo scrutasse il cielo sopra di sé. Vestiva una semplice tunica, che ricadeva rivestendone tutto il corpo, avvolgendolo con delicatezza con panneggi stupendi. Una cintura stretta in vita, con al centro una pietra preziosa,  dava risalto alla figura longilinea del mago. Le braccia si spingevano in avanti, debolmente, e le mani stringevano entrambe un lungo bastone, che l’accurato lavoro degli scultori faceva sembrare di legno anziché di duro marmo. Il legno appoggiava a terra, davanti ai piedi dell’atelos e recava incastonata sulla sommità una pietra rozzamente intagliata. Le due statue erano state costruite poco innanzi all’ingresso della Torre e quando Anarion passò lentamente tra i due colossi, dimentico di tutto ciò che gli accadeva intorno, quasi non si accorse di essere ormai giunto all’ingresso del torrione.

………………………………………………………………………

Solo adesso che si erano fermati Anarion gettò sguardi curiosi agli abitanti della Fortezza. Erano tutti aurorei, vestiti alla maniera degli esploratori, con lunghi archi ricurvi a tracolla, o soldati rivestiti di metallo lucente con lunghe sarisse o spade rinfoderate. Camminavano per le strade anche cavalieri e aelta senza armatura che brandivano lunghi bastoni o legni dalle forme longilinee, maghi, pensò Anarion. Una cosa però li accomunava tutti: una straniante sensazione di tristezza che si sprigionava ogni qual volta il ragazzo incontrava il loro sguardo. Fu riscosso dalla voce del Capitano che lo incitava a proseguire. I due soldati che gli avevano fatto da guida si congedarono, allontanandosi con passo rapido. Entrarono attraverso un imponente portone di legno e si ritrovarono in un gigantesco salone circolare. La sala, completamente spoglia al centro, era piena del brusio che le decine di guerrieri e maghi provocavano uscendo ed entrando in continuazione dalla torre e discutendo tra loro. C’era una particolare agitazione nell’aria, che il ragazzo avvertiva chiaramente dalla parole che suonavano stranamente concitate e agitate per gli aelta. Quando poi i presenti si accorsero del loro arrivo tutti ammutolirono fissandoli. Cercando di non badare alle occhiate insistenti che gli erano rivolte, il ragazzo s’incamminò seguendo Olos verso la parte opposta della sala, dove regnava adesso il silenzio. Il suo sguardo si fermò per poco sulle decine di volti sconosciuti e si posò poi sugli stendardi variopinti che erano appesi alle pareti. Indugiò infine su un particolare che non aveva notato all’inizio. Lungo tutto il muro c’erano, infatti, disposte dodici lastre rettangolari di vetro lucente. I suoi occhi scrutarono a lungo la stanza. Non c’era traccia di scale o porte. Come si faceva dunque ad accedere ai piani superiori della Fortezza?

I suoi occhi ottennero subito la risposta, anche se impiegò del tempo per convincersi di non aver sognato. Da uno dei vetri sulla sua sinistra era uscito con noncuranza uno dei soldati e poté notare che effettivamente gli atelos uscivano ed entravano normalmente da quelle che erano delle porte di cristallo. Ma quale prodigio permetteva che ciò accadesse?

“Atelargento” gli disse Olos, intuendo perfettamente i pensieri del ragazzo “E’ un metallo che accuratamente lavorato con la magia, permette ai soli possessori di sangue auroreo di passare attraverso di esso. In tal modo chiunque non appartenga al nostro popolo non può entrare nelle stanze superiori della Fortezza.”

“O scappare da essa” disse fra se il ragazzo, pensando al suo caso.

Nel frattempo giunsero alla quinta porta da sinistra. Il limpido vetro della lastra rifletteva l’immagine distorta del ragazzo, mentre quella di Olos appariva nitida sul cristallo lucente. Anarion vi posò la mano distesa e sentì che il vetro era tiepido al tatto, quasi all’interno vi scorresse una corrente calda. Il ragazzo rivolse uno sguardo interrogativo all’auroreo: come avrebbe fatto lui a passare? Olos allungò la sua mano destra e l’affiancò a quella del ragazzo sul vetro.

Nell’istante in cui la mano sfiorò la superficie del vetro, questo iniziò a mutare, increspandosi dapprima, quasi dovesse andare in frantumi e trasformandosi infine in gorgogliante e limpida acqua. Anarion ritirò la mano, sorpreso: il portale di liquido cristallino permetteva adesso il passaggio, anche se il ragazzo era molto riluttante a fidarsi della magia.

“Avanti, entra” Gli disse in tono perentorio Olos e notando l’aria diffidente del ragazzo disse. “ Una volta che la porta viene aperta, chiunque può passare. E adesso muoviti.”

Il ragazzo si fece coraggio, chiuse gli occhi e avanzò di un passo varcando la soglia cristallina, con il cuore che batteva all’impazzata.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 8
*** La Torre Bianca ***


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Aprì debolmente gli occhi, senza avere idea di ciò che avrebbe visto. E invece si trovava in una normalissima stanza, anzi era in un  corridoio visto che c’era solo una ampia vetrata, che si affacciava sull’esterno, e muri completamente spogli, eccezion fatta per una serie di scudi neri con draghi argentati in rilievo, appesi uno al fianco dell’altro per tutta la lunghezza delle pareti. Dietro di lui la porta si richiuse e la soglia si trasformò nuovamente in vetro.

Olos riprese ad avanzare, senza rivolgere nessuna parola al ragazzo, senza badare se lo seguisse o meno. Sapeva che Anarion aveva capito di non avere altra scelta che stargli dietro se voleva muoversi all’interno della fortezza. Il ragazzo gli si affiancò a passi rapidi, ormai abituato al silenzio misterioso dell’aelto. Passarono attraverso altri portali, percorrendo lunghe stanze e corridoi quasi sempre deserti, eccezion fatta per alcuni guerrieri che incrociavano nelle loro ronde. Il ragazzo incominciava a chiedersi dove si stessero dirigendo con tutta quella urgenza che non permetteva ad Olos nemmeno di cambiarsi dagli indumenti di viaggio ancora sporchi e impolverati.

Attraversata l’ennesima porta finalmente si fermarono. Si trovavano in una sala semi-circolare. Ciò che colpì la vista di Anarion non fu l’insolito numero di atelos e uomini che giravano nella sala, entrando e uscendo da altre due porte laterali, né i drappi neri appesi ai muri che recavano tutti scritti in bianco un ideogramma per lui intraducibile, raffigurante un cerchio spezzato, ma il massiccio portone in legno che si ergeva davanti a loro. Sopra i due battenti dai cardini poderosi, era intagliata nella nuda pietra una scritta in ideogrammi.

Non riusciva a capirne il significato, ma nuovamente Olos sembrò intuire i suoi pensieri e gliela lesse, col sorriso sulle labbra.

“Conosci te stesso, conoscerai il mondo” disse, guardando con ammirazione le parole incise nella parete. “Conoscere se stessi è la sfida più ardua e difficile, poiché coinvolge oltre alla nostra razionalità, anche paure, istinti e desideri. Se si riesce a comprendere a fondo se stessi però, si riesce anche a capire gli altri e il senso di ciò che ci circonda.”

“Che significato può avere quella scritta in un luogo come questo?” Chiese Anarion, mentre ricominciavano a camminare tra i sempre più numerosi sguardi impassibili che si voltavano al loro passaggio.

“Coloro che fanno parte del Consiglio portano il fardello della salvezza del nostro popolo. Devono prendere decisioni che determinano il fato della nostra patria. Per poter scegliere tra le varie strade che il destino traccia per gli aurorei devono saper conoscere ogni aspetto della vita  e del mondo affinché possano guidarci verso il cammino più facile e sicuro.”.

“E perché questa entrata non è in Atelargento?”Chiese con curiosità.

“Avrai notato che ci sono anche uomini di altri popoli qui, vero?” Disse, rispondendo a domanda con un’altra domanda. “Certo, anzi chi sono?”

“Sono delegati delle città del Sud, che si rivolgono al Consiglio per avere consigli  per risolvere i problemi che li affliggono. E proprio perché qui si trovano esponenti di razze diverse noi non poniamo barriere che possano intralciarli nella loro strada verso l’aiuto reciproco.”

“Almeno in apparenza.” Notò con ironia mal celata il ragazzo.

“I simboli a volte contano più delle azioni.”. Rispose Olos. “Ora entriamo, siamo attesi.”

Colmarono a passi svelti la distanza che li separava dalla porta e giunti davanti all’entrata il Capitano si volse verso di lui con un tono di maggiore confidenza.

“Stai attento. L’atmosfera qui è molto inquieta dalla caduta di Sire Ràikas e il Consiglio potrebbe anche assumere un atteggiamento duro nei tue confronti. Modera le parole e andrà tutto bene.”

Il ragazzo non poté fare a meno di fare un’infelice osservazione: “ Tu invece non sembri colpito dalla morte del tuo Re.”. Nello stesso istante avrebbe voluto rimangiarsi tutte le proprie parole, ma il Capitano ebbe una reazione del tutto inaspettata.

“Io sono un guerriero, il migliore della mia patria, credo.”disse con calma profonda. “Se la mia volontà vacillasse, scossa dai sentimenti, tutti coloro che da me dipendono cadrebbero con me. Ci sarà il tempo del commiato per il Re, ora non lo è”.

“E che tempo sarebbe?”

Non ebbe risposta. Olos pose una mano sulla porta e spingendola con forza, entrò.

Anarion inspirò profondamente e calmando il battito del suo cuore, seguì l’auroreo, pronto a superare quella nuova prova che gli si parava davanti.

……………………………………………………………………….

Per alcuni istanti rischiò di rimanere abbagliato, come quando aveva ammirato per la prima volta la Torre Bianca della Fortezza alla luce dell’alba.

Riuscì ad abituarsi alla forte luce che regnava nella stanza, in modo da poter rimanere nuovamente ammaliato da ciò che ammirava.

La sala, che rappresentava l’altra metà della precedente, aveva le pareti costruite di vetro trasparente. La luce crepuscolare filtrava attraverso il metallo finissimo illuminando perfettamente la stanza ed era possibile ammirare tutto il paesaggio circostante, quasi le lastre non si frapponessero tra interno ed esterno.

Anarion guardò con attenzione oltre i vetri, troppo attratto dalle meraviglie di quel posto per badare ai presenti. Da lì si poteva ammirare dall’alto la foresta spingersi verso occidente, circondando in un intrico verde la Fortezza. Si trovavano all’incirca a metà della Torre; erano saliti così in alto senza che fosse riuscito ad accorgersi che le porte di atelargento permettevano i collegamenti anche tra i vari piani. Riscossosi dalla sorpresa notò che Olos lo fissava, con aria paziente, attendendo fermo a pochi passi da lui. Solo allora il ragazzo si accorse che tutti lo aspettavano. Si affrettò ad affiancarsi al Capitano e abbassando lo sguardo lo seguì fino al centro della grande stanza.

Si fermarono ed Olos si inginocchiò, imitato da Anarion. Solo allora ebbe il coraggio di alzare lo sguardo per osservare i membri del Consiglio. Erano seduti dietro lunghi seggi di legno scuro, disposti a semicerchio, lungo il perimetro della stanza.

Tutti i seggi erano occupati, tranne quello centrale, posto più in alto, rimasto vuoto.

Ognuno degli aurorei presenti lo fissava con una tale profondità dello sguardo o con un’aria di austero ed elevato lignaggio che era sempre costretto a distogliere gli occhi quando ne incrociava lo sguardo. Uno in particolare, dagli occhi cerulei e i capelli grigi, che aveva l’aspetto di chi ha subito una perdita ingente tale da ferire fisico e animo, lo fissava con espressione di dolore e rabbia. Dodici erano gli eateloi che gli stavano davanti, che lo fissavano con sguardi taglienti e imperscrutabili. Un altro, vestito completamente di bianco, gli dava le spalle e osservava il paesaggio che si scorgeva dalle finestre della stanza. Anarion poteva vedere solo che aveva i capelli completamente bianco lucenti. Un altro personaggio attirò la sua attenzione. Di costui riusciva a reggere lo sguardo, non perché difettasse di aspetto o portamento rispetto agli altri, ma solo perché l’ atelos teneva gli occhi chiusi e nel viso dai lineamenti dolci ed aggraziati non leggeva rabbia né freddezza, ma solo comprensione e calore.

Fu proprio lui a parlare, alzandosi dal suo seggio e rivolgendosi con tono gentile ad Olos, sempre tenendo gli occhi chiusi:

“Capitano, non sono necessarie queste formalità qui con noi, quante volte dovrò ripetertelo?” Anarion si sorprese di come l’atelos sapesse che Olos fosse inginocchiato senza aprire gli occhi. L’auroreo intanto si era alzato e per la prima volta il ragazzo lo vide sorridere, mentre anche lui si levava in piedi.

“Hai portato egregiamente a compimento la tua missione”. Disse accennando ad Anarion. “Ti dispiacerebbe farci un resoconto,  prima di ritirarti per goderti il tuo meritato riposo?

Purtroppo noi non troviamo oramai sosta da parecchio tempo e le tue informazioni ci servono subito.”

Il Capitano assentì lievemente col capo e iniziò a narrare tutta la sua avventura. Dall’incursione alla colonna di Dàimon all’incontro con Anarion, dalla sua preoccupazione per il nemico a quella per la situazione del reame auroreo.

“E’ necessario inoltre accelerare il tempo per l’investitura del nuovo Re.”. Disse con tono risoluto, posando brevemente lo sguardo sull’atelos di spalle. “La foresta inizia già a morire, la magia degli Astri la sta abbandonando, lasciandola appassire.”

Il viso del giovane auroreo si fece più preoccupato, ascoltando quelle parole e rispose con sincero dispiacere nella voce. “Purtroppo ci sono cose sulle quali non possiamo interferire e …”Ma fu interrotto bruscamente dall’auroreo seduto alla sua sinistra, che Anarion aveva notato per il suo sguardo penetrante. Rispose con tono brusco ad Olos:

“Credi forse che i nostri occhi siano cechi … Capitano?” Disse pronunciando con enfasi il titolo di Olos, quasi a denigrarlo, ma si interruppe un attimo, guardando con imbarazzo l’auroreo che aveva interrotto, poi continuò risoluto. “Da tempo ci siamo già accorti del decadimento della foresta. Pensi che stessimo aspettando la tua opinione per intervenire?”

Sospirò spazientito, eppure con un accenno di dispiacere negli occhi, quasi si sentisse colpevole di aver scaricato le proprie frustrazioni sull’innocente Olos.

Tuttavia il Capitano abbassò il capo in segno di scusa, ma il ragazzo poteva vedere che serrava la mascella, come chi reprimesse parole che bruciano in gola.

L’auroreo dagli occhi cerulei continuò, stavolta alzandosi, mentre il giovane che aveva parlato con Olos si sedette: “Ora dobbiamo discutere col giovane che è stato presente alla morte di Sire Ràikas. La morte è accaduta due notti fa e sia Alreyd – disse accennando al giovane auroreo – sia i maghi che osservavano le stelle dall’ Altura degli Astri l’hanno avvertita chiaramente.” Anarion sussultò sentendo il nome del giovane atelos dagli occhi chiusi. Era dunque lui che Ràikas gli aveva dato il compito di incontrare. Ma la voce incalzante dell’auroreo lo fece riscuotere dai propri pensieri. “Alreyd riuscì a capire inoltre che una persona aveva assistito all’evento oltre agli aggressori, un umano, il qui presente.” Si interruppe un attimo, chiudendo gli occhi, come chi cerca maggiore concentrazione.

La voce di Alreyd lo riscosse:

“Forse hai bisogno di riposo, Ulmyo. Non riposi da due giorni ormai…”

“Affatto, voglio continuare.” Si girò verso Anarion, fissandolo col suo sguardo di pietra.

“Ora, ragazzo, dovrai raccontarci per filo e per segno ciò che hai visto.”.

“Poi potrò andarmene?”

“Dipende da ciò che dirai.”

Anarion aveva compreso la situazione in cui si trovava: molto probabilmente avrebbe dovuto tacere sul  suo potere e suo ciò che gli aveva fatto Ràikas prima di morire, o sarebbe stato costretto a rimanere in quella fortezza per giorni, settimane o forse mesi.

Raccontò del suo incontro col Sire auroreo nelle terre ad Est e dell’attacco dei Siguya, di come Ràikas li avesse combattuti per difenderlo e fosse morto nel tentativo, riuscendo però prima a sterminare tutti nemici.

“Una morte valorosa, la migliore che potesse chiedere” Osservò l’aelto. “Ricordi per caso se la sera dell’attacco il Re interrogò le stelle?”

“Sì, lo fece”

“E ti disse qualcosa?”

“No, ma sembrava preoccupato.”

Trascorsero alcuni momenti di silenzio, poi improvvisamente Ulmyo disse, quasi agitato.

“Questa è la parte che ci preme maggiormente. Devi dirci quali sono state le sue ultime parole.”

Anarion lo guardò con sguardo sorpreso. Sapeva che avrebbe dovuto mentire, ma avrebbe significato tradire la memoria dell’atelos a cui doveva la vita e non ne era capace:

“Mi ha detto di cercare Alreyd.”

Un brusio si alzò dagli elfi, anche l’auroreo più giovane che Anarion aveva capito essere Alreyd appariva sorpreso, sembrava quasi che quelle poche parole avessero un significato immensamente maggiore rispetto a quello che sembrava.

Ulmyo continuò, con l’agitazione nella voce mal celata.

“E ha fatto qualcosa di particolare prima di morire?”

Anarion si stupì, sembrava quasi che prima di morire Ràikas avesse compiuto un rituale che tutti conoscevano. Tuttavia la sua risposta fu secca, anzi lui stesso si stupì di essere riuscito a mentire su una questione tanto delicata: “No!”

La delusione coprì il volto dei presenti, la costernazione quello di Ulmyo, solo Alreyd sembrava aver percepito la menzogna, anzi quando Anarion lo guardò in viso ebbe la certezza che l’auroreo sapesse che aveva mentito.

Anarion si girò verso Olos, quasi a chiedere quanto sarebbe durato ancora quell’interrogatorio. Una voce alla sua sinistra gli venne in aiuto. Apparteneva ad uno dei dodici del Consiglio. Disse con tono quieto:“Ulmyo, capisco il tuo dolore, ma è evidente che il ragazzo non sa nient’altro, lasciamolo andare.”

L’elfo non ebbe esitazioni nel rispondere: “Mente.”

Anarion sentì il cuore morirgli nel petto.

“Ma io posso scoprirlo.” La voce gli tremò. “Posso usare la Parola dei Dormienti 

Alreyd balzò in piedi, mentre molti dei presenti si guardarono in faccia l’un l’altro con un espressione tra l’incredulo e l’orrore.

Tra lo stupore generale, Anarion poté vedere che l’auroreo bianco vestito che gli dava le spalle aveva girato il capo e osservava con occhi vitrei Ulmyo. Aveva sul viso i medesimi segni di Ràikas anche se poco accennati e quando ne incrociò per un attimo lo sguardo non poté fare a meno di stupirsi: aveva gli stessi occhi nivei e i lineamenti gentili del viso di Ràikas, anche se appariva più giovane del defunto Astro Bianco. L’auroreo girò rapido il viso, tornando a osservare l’esterno e l’attenzione di Anarion fu attirata dall’agitazione che ormai regnava nella sala.

“Mai!” Gridò Alreyd. “La Parola dei Dormienti non è mai stata usata, nemmeno per Sire Ràidas. Non permetterò che un tale incantesimo disturbi il  riposo di uno spirito.”.

Ulmyo tacque, sedendosi nuovamente, ma continuava a rimuginare con se stesso, tenendo lo sguardo basso. Alreyd distolse lo sguardo da lui e in un attimo riassunse la sua espressione pacata.

“Capitano” disse con tono serio e controllato “conduci il ragazzo nell’alloggio che gli è stato preparato. Rimarrà lì sotto la mia tutela fino a nuovo ordine.”.

“Come ordini” assentì Olos, con un cenno del capo, ma prima che potesse voltarsi la voce dell’auroreo lo fermò.

“Un’ultima cosa. Raduna tutti i nostri uomini e lascia solo i Guardavia nella foresta. Voglio il nostro esercito pronto e in armi. Non permetterò che quei miseri demoni invadano le nostre terre senza combattere. Mi affido completamente a te, non deludermi”.

“Come ordini” ripeté meccanicamente il Capitano.

“Allora potete andare.”

Si accostò lentamente alla parete di vetro, vicino all’auroreo che era rimasto in silenzio fino ad allora, e mentre osservava ad occhi chiusi la foresta illuminata dal sole del tramonto, scambiò con lui alcune parole che non riuscì a sentire. Anarion lo osservò fino a quando le porte non si richiusero dietro di loro, lasciando il Consiglio alle sue gravose decisioni.

……………………………………………………………………..

Il ragazzo si lasciò cadere stancamente sul letto, sospirando. Si rialzò quasi subito, incrociando il suo sguardo con quello di Olos. L’atelos gli stava innanzi, impassibile come una statua di pietra.

“Allora, cosa mi farete?” Chiese abbattuto Anarion.

“Nulla” rispose il Capitano “Sei sotto la protezione di Alreyd, nessuno oserà toccarti.”

“Raccontami qualcosa di lui.” Chiese il ragazzo, attratto dall’immagine dell’atelos.

“E’ stato una delle migliori spade degli aurorei e anche uno dei suoi più grandi maghi. Ha percorso a fondo entrambi i sentieri della guerra degli aurorei.”

“Perché parli al passato?” lo interruppe Anarion.

“Perché lui è uno dei pochi che assistettero alla caduta di Maruyl venti anni fa e che sia rimasto in vita. Tuttavia ha pagato un prezzo altissimo che gli impedisce di rivaleggiare con i migliori della nostra razza, sebbene qualcuno dica che i suoi poteri siano stati inferiori solo a quelli dell’ultimo Astro Bianco.”

“Quale sarebbe lo scotto di cui parli?”

“Non lo hai capito?” Chiese  con sorpresa l’auroreo. “Parlo della vista: è cieco.”

Anarion spalancò gli occhi dalla sorpresa, il fatto che fosse cieco spiegava tante cose. Si rivolse poi nuovamente al Capitano.

“Parlami anche degli altri, di Ulmyo e dell’atelos che ci dava le spalle al Consiglio.”

“Ulmyo era il miglior amico di Sire Ràikas. E’ rimasto profondamente turbato dalla sua morte.

Spero che le ferite del suo animo si rimarginino presto.” Il ragazzo potè avvertire una lieve nota di irrequietezza nelle ultime parole del Capitano.

“E cosa puoi dirmi dell’ultimo auroreo?”

“Stavo per parlartene.” Il Capitano sembrò riflettere un attimo su ciò che stava per dire. “Colui di  cui parliamo è Principe Ràidames, il figlio di Re Ràikas, e sarà il prossimo Astro Bianco.”.

Anarion rimase in silenzio, ammutolito, senza avere il coraggio di guardare Olos negli occhi.

Quella notizia l’aveva turbato molto, anche se non ne capiva il perché.

“Ora devo andare, ho molti compiti da svolgere. Stai qui e non cercare di allontanarti.”

“Come se potessi” disse scoraggiato il ragazzo, guardandolo scomparire dietro la porta di atelargento, lasciandolo solo e prigioniero in quella stanza. Sospirò, sentendo che le cose per lui non volgevano al meglio, ben consapevole che il suo viaggio non stava prendendo la piega che aveva sperato.

Si alzò e si guardò intorno, la stanza era abbastanza grande e aveva un lungo balcone che si affacciava sulle montagne alle spalle della fortezza. Uscì fuori e si appoggiò con i gomiti al parapetto e si mise ad osservare le terre ad Est che si oscuravano. Ai lati delle mura le montagne svettavano altissime, formando un muro invalicabile. Un’entrata di ferro battuto nelle mura orientali chiudeva il passaggio che dalla fortezza portava alle terre degli Aurorei ad Oriente. La Fortezza Bianca era il primo baluardo di difesa e nessun nemico dalla sua costruzione era riuscito a superarlo per invadere le terre atelee a quanto sapeva.

Improvvisamente qualcosa destò la sua attenzione: un fitto polverone che si alzava da oriente.

Quando si avvicinò alla fortezza, riuscì a distinguere chi lo provocava: cavalieri, molti cavalieri.

A prima vista dovevano essere trecento. Quando si fermarono vicino le mura poté osservarli nitidamente. Erano tutti ben armati: indossavano armature pesanti nere come la notte ed elmi alti che lasciavano scoperti bocca e occhi. Imbracciavano scudi a goccia con inciso lo stemma del dragone e lunghe lance.

Quando il cancello di ferro si aprì per farli passare, sfilarono ordinatamente fino a sparire in direzione del Cancello principale, oltre la visuale di Anarion.

“Quelli erano i Dragoni, la nostra migliore cavalleria.”

Anarion sobbalzò, sentendo quella voce inconfondibile alle sue spalle. Si girò e vide Alreyd, che lo fissava, se così si poteva dire, col suo sguardo dolce e mite.

Anarion stentava a credere ai suoi occhi: come aveva fatto quell’auroreo, sebbene cieco, a comparire alle sue spalle senza che lui se ne accorgesse? E soprattutto come poteva sapere che stava osservando i cavalieri neri?

Non disse una parola, ma continuando a fissare l’atelos, si spostò di alcuni passi verso sinistra e notò con stupore che gli occhi chiusi dell’auroreo lo seguivano come se lo vedessero nitidamente.

“Ma come… come puoi?” Chiese con stupore.

“Anarion, anche ad occhi chiusi, anche cieco…” disse toccandosi debolmente le pupille “non c’è cosa a questo mondo che io non possa vedere.”

“Ora, se non ti spiace, entriamo dentro, ho urgente bisogno di parlare con te.” Entrò nella stanza e si sedette con calma su una delle sedie che circondavano un piccolo tavolo circolare, aspettando con lo sguardo fisso innanzi a sé.

Il ragazzo lo seguì, senza mai distogliere lo sguardo dalla sua figura, attratto da essa. Si sedette di fronte a lui e aspettò, in silenzio.

“Tu hai mentito, prima, innanzi al Consiglio.” Anarion non disse niente, sapeva che oramai era inutile negare. “Una decisione alquanto stupida, se mi permetti.”. Il ragazzo cercò di ribattere, ma un gesto della mano dell’altro lo zittì. “ Alcuni di noi, tra i quali me, Ulmyo e Sire Ràidames, sono capaci di “sentire”quando una persona mente, e tu hai dimostrato loro che sei una di queste. E le costringerai ad agire di conseguenza.” Esitò per alcuni istanti, poi riprese.

“Non costringerci a mostrarti il peggio della nostra natura.”. Anarion sentì in quelle parole una vaga minaccia, che tuttavia non lo spaventò.

“Mi stai minacciando?”chiese con tono duro. “Affatto, ti sto mettendo in guardia, perché la verità che tu celi può evitare molti dolori ad entrambi.”.

Il ragazzo si alzò e mentre camminava nervosamente per la stanza, si sentiva indeciso, per la prima volta nella sua vita.

“Ti racconterò una storia che è successa molto tempo fa. Forse ti aiuterà a decidere cosa fare”

Si sedette sul letto e lo fissò, con lo sguardo attento.

“E forse”continuò l’auroreo “ti renderai conto che nelle tue mani è forse racchiuso il destino della nostra razza.”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 9
*** Alreyd e il Re ***


l

“Conosci la storia della caduta di Maruyl, Anarion?”

Il ragazzo l’aveva già sentita raccontare molte volte. In mille modi diversi, tutti molto vaghi, anche se tutti concordavano che l’esplosione che aveva distrutto la città aveva risparmiato pochissimi sopravvissuti.

“Io ti posso raccontare la vera storia” disse l’atelos “ perché io c’ero, io ero lì insieme a Sire Ràidas e  suo figlio Ràikas. Mi ero ripromesso di non parlarne a nessuno, ma visto che Re Ràikas si è fidato  di te, lo farò anch’io.”

Volse lo sguardo verso il mondo che si scorgeva dal balcone e il suo sguardo sembrò rimirare un mondo e un tempo lontani.

“Venti anni, sono passati. Un’inezia per un atelos, ma per me sono stati venti tra i più duri della mia vita immortale.”

“Quella notte eravamo giunti alla città perché Re Ràidas doveva parlare con il Principe degli uomini e come appresi quella notte, non era il solo. Io e Ràikas lo aspettammo, come ordinatoci, alle mura della città. Un’ora più tardi successe: un grido disumano squarciò il silenzio della notte e prima che potessimo fare qualunque cosa l’esplosione ci investì. Fummo duramente feriti, ma rimanemmo in vita. Io ero riuscito a rimanere cosciente, mentre Ràikas giaceva svenuto al mio fianco.

Controllai che fosse vivo e mi diressi, nonostante le ferite, verso il castello del Principe, preoccupato per il mio Signore.

Ovunque c’erano morte e distruzione e nessuno ai miei occhi, che allora avevano ancora il dono della vista, era sopravvissuto. Infine giunsi dove una volta c’era il castello. Allora c’era solo un cratere enorme. Mi avvicinai e lo vidi. Era il Re.”

Una lacrima gli bagnò il viso e per un attimo interruppe il suo racconto.

“Pochissimi sono coloro che conoscono la verità su questa vicenda. Se la necessità non mi spingesse a farlo, non l’avrei mai raccontata a un estraneo, perciò ricorda di non parlare mai di questo con nessuno.”

Anarion accennò col il capo un tacito assenso, sicuro che l’auroreo potesse capirlo.

“Puoi ben immaginare la mia gioia e il mio sollievo quando vidi il mio Re inaspettatamente vivo.

Mi fermai stremato e lo osservai attentamente mentre mi si avvicinava. Non portava con sé il suo bastone. Capii quasi subito che c’era qualcosa di strano e un’inquietudine insostenibile si impadronì di me. Il battito del mio cuore mi assordava quasi. Quando mi fu davanti tremai. Avevo capito la tremenda verità ma la mia mente non l’accettava. Il Re non aveva ferite e il bel volto non era velato da ombra alcuna. Piansi e lui mi sorrise.

“Alreyd, dov’è mio figlio?” mi disse e la sua voce era eterea, lontana.

“E’ svenuto, ma vivo, mio Re” Il suo sguardo si rabbuiò. “Non c’è più tempo.” Disse.

“Devo farti carico di un pesante fardello. Giurami di aiutare mio figlio dopo che l’avrai condiviso con lui.”

“Lo giuro, mio Re” Mi toccò il braccio e fu allora che lo sentii. Un dolore come non ne avevo mai provati, oscuro e profondo e freddo. Il tocco della morte, pensai. Quando la morsa mi abbandonò, caddi sulle ginocchia, stremato. Riaprii gli occhi e vidi che Sire Ràidas mi fissava.

Piangeva mite. “Confido in te, amico mio. E perdonami se puoi. Spero tu possa capirmi.” Si girò dandomi le spalle. Io mi alzai, perché avevo capito quello che accadeva e non potevo accettarlo.

La figura del mio Re iniziò a svanire, divenendo polvere portata dal vento sotto i miei occhi. Prima che potessi arrivare a toccarlo era già scomparso.”

“Com’è possibile?” Chiese il ragazzo, che si era lasciato trasportare dal racconto dell’atelos.

“Lo chiamano la Parola dei Dormienti, è un incantesimo che permette allo spirito di un defunto di tornare tra i vivi per parlare con loro per poco tempo. Ma è una pratica proibita perché lo spirito rivive il dolore della morte per la seconda volta.”

“Quindi Ràidas…”iniziò a dire con orrore Anarion “Sì, aveva lanciato l’incantesimo su sé stesso un istante prima di morire.”Continuò Alreyd.

“E…E poi cosa è successo?”Lo incalzò il ragazzo.

L’atelos gli si avvicinò, lo guardò in viso e per la prima volta aprì gli occhi.

Erano neri, come l’oscurità che regna in una notte senza luna e stelle. Avrebbe voluto distogliere lo sguardo,  ma era come ipnotizzato da quegli occhi innaturali e quello sguardo profondo. “Sei sicuro di volerlo sapere?”

“Sì”rispose senza esitazione nella voce.

“Allora lo vedrai con i tuoi stessi occhi, ma stai attento perché io potrei anche scoprire ciò che mi nascondi.”

“Sono pronto a correre il rischio. Ora mostramelo.” Rispose il ragazzo, spinto da una irrefrenabile curiosità. Si fissarono pochi attimi negli occhi e Anarion vide l’oscurità che albergava negli occhi dell’altro afferrarlo, fino ad avvolgerlo completamente. Non distinse più nulla. Si trovava in un piazzale di una città distrutta. Maruyl, pensò. Pochi passi davanti a lui, stavano due ateloi, ritti uno davanti all’altro. Uno era Alreyd, l’altro Ràikas.

“Non può essere, ti stai sbagliando.” Ràikas stava urlando contro il compagno. Era inferocito nonostante fosse ferito e perdesse sangue.

Alreyd lo implorava, cercando di calmarlo: “Adesso ascoltami, non c’è tempo per farsi travolgere dal dolore. Non potrò resistere a lungo.”

Anarion si avvicinò e li poté vedere entrambi in viso. Ràikas era ancora agitato, ma si era calmato. Alreyd pareva sofferente, come se portasse un peso opprimente e gli occhi erano spalancati, come  aperti su una visione terrificante.

“Possiate perdonarmi” disse in un fiato Alreyd e cinse con le braccia le spalle di Ràikas. Un’intesa luce li avvolse e Anarion si sentì trasportato nella mente di Alreyd.

Davanti a lui stava Sire Ràidas o almeno una figura evanescente che ne aveva le sembianze. Iniziò subito a parlare con voce pressante, quasi non avesse più tempo.

“Spero che queste mie ultime parole giungano sino a te, figlio mio.

Sono caduto in battaglia per difendere non solo la nostra razza, ma tutti i popoli di questa terra da un pericolo quali non ci hanno mai minacciato prima d’ora.

La volontà di un dio si cela dietro questi eventi: Sèlonir, il Potere.

Essendo privo del corpo, ha cercato di prendere il possesso di quello del Principe, corrompendone l’animo puro con un oggetto che ne racchiude gli intenti di conquista: la Spada del Sole.

A costo della nostra vita, io, l’Astro Nero, Sire Urionar e il guerriero Nicolas abbiamo abbattuto il Principe. Il dio è riuscito tuttavia a dare un’altra forma alla Spada del Potere, senza che noi potessimo distruggerla o scoprirne la nuova forma. Siamo tuttavia riusciti ad intrappolarlo all’interno della nuova Spada con un incanto di costrizione, ma non è che una soluzione provvisoria.

Devi trovare e distruggere l’incarnazione della Spada, prima che Potere possa possederla. Se lo facesse, sarebbe la fine. Non possiamo vincere una guerra contro un dio.”

La figura scomparve, nebbia che si dissolve al sole, prima che potesse terminare di parlare. Si ritrovò nella città distrutta e davanti a lui, giacevano inermi, stesi al suolo, i due uomini. Lentamente, tutto intorno a lui iniziò a svanire, stemperandosi in un vuoto bianco. Riaprì gli occhi e si ritrovò steso sul letto. Su di lui stava Ràikas, ansimante, con gli occhi nuovamente chiusi.

Il ragazzo si rialzò e rimasero entrambi in silenzio finché non si furono ripresi dalla fatica. “Cos’è successo, poi?” Chiese subito Anarion.

“Quando ci risvegliammo” continuò pacato Alreyd “io avevo già perso la vista. Il contatto con lo spirito del Re mi debilitò duramente, ma mi diede un dono ben più grande della comune vista.”.

Anarion ascoltava attento, rapito da quell’ individuo misterioso.

“Adesso sono in grado di percepire le energie spirituali.” disse con calma l’atelos.

Il ragazzo lo guardò con aria interrogativa. “Sei ben consapevole che ogni persona, anzi ogni cosa al mondo, è pervasa da energia, un soffio vitale?”

“Credo di sì.” Rispose il ragazzo con tono incerto.

“Bene, io sono capace di captare, quando ho gli occhi chiusi, le energie di chi mi sta davanti, e in un certo senso posso vederlo. Quando ho gli occhi aperti invece posso vedere chiaramente i flussi energetici che mi circondano inclusi quelli dell’aria e della terra. In un posto come questo però, dove si trovano potenti maghi e guerrieri, mi capita spesso di rimanere abbagliato dalle loro energie.

Ironico, non trovi? Un cieco che rimane abbagliato.”

Sorrise tristemente, poi ricominciò a parlare.

“Dove eravamo rimasti?” Si voltò verso Anarion. Il ragazzo notò che era da un po’ di tempo che l’auroreo lo fissava con intensità mentre parlava, sebbene nuovamente ad occhi chiusi. “Stavi raccontandomi di ciò che successe quando vi riprendeste dalla visione.” Gli rammentò il ragazzo.

L’auroreo continuava insistentemente a fissarlo, mentre riprendeva a parlare:

“Sire Ràikas incominciò subito a compiere ciò che suo padre gli aveva ordinato di fare.

Iniziò a girare il mondo, sempre da solo, alla ricerca dell’Incarnazione della Spada. Strinse legami nuovi con altri popoli e rinforzò le vecchie alleanze. I suoi pellegrinaggi divennero famosi per ogni dove. Tornava ogni tanto per renderci partecipi dei suoi viaggi, che portavano sempre esito negativo. Infine una notte di tre giorni fa non ha più fatto ritorno.

Sai questo cosa vuol dire?”

“Che ha affidato a me il suo ultimo messaggio.” Rispose Anarion, che finalmente riusciva a capire il senso degli ultimi gesti di Ràikas.

“Esatto. Capisci quindi che ciò che ti è stato affidato è di fondamentale importanza. Noi dobbiamo saperlo. Ora devi raccontarmi l’intera storia. E che questa volta sia la verità.”

…………………………………………………………………………..

Era passata all’incirca un’ ora da quando Alreyd era entrato nella stanza e nella coscienza di Anarion. Ora l’auroreo sapeva tutto ciò che aveva chiesto.

“Cosa intendi fare adesso?” Chiese il ragazzo. “Da quello che mi hai detto, credo che Sire Ràikas ti abbia lanciato un incantesimo appena prima di morire, ma non so quale sia e quindi non sono capace di scogliere il sigillo che nasconde il suo ultimo messaggio.” Si alzò in piedi, passeggiando per un po’ avanti e indietro per la stanza, sotto lo sguardo attento del ragazzo. “Non ci resta che andare avanti per tentativi.” Il mago fece segno al ragazzo di alzarsi e si mise davanti a lui, con aria concentrata.

Mormorò alcune parole flebili e la sua mano destra fu immediatamente avvolta da un tiepido bagliore. Sfiorò debolmente la fronte del ragazzo, scostandone i capelli biondi che ne coprivano la fronte e rimase immobile, in attesa. Passarono alcuni secondi  ma non successe nulla. Si scostò da Anarion e riprovò. Unì i palmi delle mani davanti a sé, rimanendo in silenzio, ma anche quando d’improvviso il corpo del giovane fu avvolto per un istante da una luce rossa, non accadde nulla.

L’auroreo si sedette sconsolato su una delle sedie, incrociando le braccia sul petto e pensando ad occhi chiusi. Quando oramai il ragazzo pensava che il mago si fosse arreso, questi si alzò lentamente, dicendo risoluto: “Ho pensato a decine di possibilità, ma solo una mi pare ormai plausibile. Spero di sbagliarmi.” Sospirò a fondo e per un attimo il suo sguardo si intristì.

“Se nemmeno questa funziona, non ci resterà che provarle tutte.”

Si avvicinò al ragazzo, che durante tutto quel tempo era rimasto in piedi a fissarlo.

Gli afferrò le mani, stringendole con forza e iniziò a mormorare a bassa voce complicate parole di cui il ragazzo non comprendeva il significato.

Quando i suoni arcani morirono nel silenzio della stanza, i due rimasero perfettamente immobili, anche i respiri di entrambi cessarono per un attimo.

Improvvisamente nel buio che copriva gli occhi di Alreyd si aprì uno squarciò e nella sua mente apparve nitida e forte la stessa luce bianca che l’aveva reso cieco venti anni prima.

……………………………………………………………………..

L’auroreo aveva davanti Ràikas  e lo poteva guardare come se avesse ancora il dono della vista. Il re auroreo indossava il mantello scuro da viaggiatore lacero e sporco di sangue che vestiva al momento della sua morte. L’espressione del viso era tuttavia calma e serena. Quando parlò, Alreyd notò che aveva la stessa voce lontana e profonda che aveva avuto Ràidas quando aveva usato la Parola dei Dormienti.

“Immaginavo che saresti stato tu a sciogliere il sigillo del mio incantesimo. Non mi hai deluso, amico mio.”

Alreyd aveva le lacrime agli occhi e fissava con tristezza il proprio Re. Non osava toccarlo o avvicinarsi, semplicemente lo fissava immobile.

“ Mi dispiace non essere stato con te in quel momento. Avrei potuto salvarti.” Disse l’atelos con amarezza. Il re gli rispose con calma: “Non essere così triste, amico mio. Morire non significa cessare di esistere. Il mio spirito si unirà a quello dei miei padri e continuerà a preservare la bellezza delle terre auroree in eterno. La mia volontà e le mie energie continueranno ad esistere in te e in tutti coloro che hanno condiviso i miei ideali.” Sospirò “Ma adesso basta con queste parole tristi.” Continuò il Re. “Abbiamo altro da fare e ci serviranno tutte le tue forze per portarle a termine.”

A quelle parole Alreyd si riscosse, tornando lucido e controllato.

“Cosa hai scoperto, Re?” Chiese con agitazione nella voce.

“Ho trovato l’Incarnazione.” Disse con voce atona, piatta. “E l’hai distrutta?” Domandò impaziente Alreyd.

“Non ne ho avuto la forza di volontà.”

“Perché?” esclamò Alreyd. “La nostra salvezza dipende dalla sua distruzione.”.

“Io non sono un dio. Non ho il diritto di decidere della vita e della morte di innocenti.” Si difese il sovrano. Alreyd rimase folgorato. Credeva di intendere le parole del Re ma stentava a crederci.

“Penso che tu l’abbia già intuito.” Costatò con calma Ràikas. “Il ragazzo in cui ho lasciato un brandello della mia anima affinché vi pervenisse questo messaggio è l’incarnazione della Spada del Sole, il corpo che racchiude lo spirito di Potere.”

“Non è possibile” mormorò Alreyd “Io credevo che l’Incarnazione fosse un oggetto inanimato.”.

“Lo credevo anch’io. Puoi ben immaginare quindi la mia indecisione quando scoprii che questo ragazzo era l’Incarnazione. Non potevo ucciderlo, non ne avevo il diritto, ma avevo il dovere di proteggerlo, visto che i Siguya che ho affrontato seguivano me e non lui. Sarebbe quasi ironico: sono morto per la salvezza di ciò che ho cercato di distruggere per anni.”

“Siete sicuro di ciò che dite?” Chiese senza convinzione Alreyd.

“Più che certo.” Rispose senza esitazione alcuna il Re. “Dovresti essertene già accorto con la tua vista, o sbaglio? Credo proprio che tu ti stia affezionando al ragazzo. Comunque con la magia ho frugato nella sua mente alla ricerca di prove. I suoi ricordi sono stati più che sufficienti. E inoltre c’è una prova tangibile, la più importante: sulla schiena porta inciso a fuoco il simbolo del sole.”

Lo sconforto si dipinse sul volto dell’atelos. “Cosa dovremmo fare ora?” Chiese rassegnato. “Io non posso fare niente.”

“Perché?”

“Perché oramai i miei legami con il mondo materiale si sono spezzati. Il mio spirito viene sempre più spinto verso il posto che gli spetta. Starà a voi decidere.”

L’auroreo rimase con il capo chino, attanagliato da mille dubbi.

“Ho fiducia in te e in mio figlio. Sono sicuro che prenderete la giusta decisione.”.

“Ma come faremo a sapere quale sarà quella giusta ?” Gli chiese Alreyd.

“Rimanete sempre fedeli a voi stessi e alla vostra natura e non fallirete.”.

Il re sospirò e chiuse gli occhi. “Ora devo andare, ci separeremo qui. Ognuno deve compiere il proprio destino e il mio si compie adesso. Il mio unico rimpianto è di non aver visto un’ultima volta mio figlio per dirgli quanto lo amavo.”

Riaprì debolmente gli occhi e il suo corpo iniziò a svanire in particelle di luce.

“Siate forti.” Disse e svanì nell’aria.

Alreyd fu travolto dai sentimenti e ancora una volta, tutto intorno a lui tornò nero.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 10
*** La battaglia ha inizio ***


l

“I Guardavia hanno riferito la presenza di un accampamento di Dàimon non lontano dalla Fortezza e i Solca Cielo hanno avvistato numerose colonne di altri nemici giungere nella Foresta.”

Un’altra voce rispose alla prima.

“Probabilmente attaccheranno domani, abbiamo poche ore di tempo per ultimare i preparativi.”

La mente di Alreyd era ancora avvolta dal torpore, ma le concitate voci che lo avevano destato gli restituirono la lucidità. Cercò di ricordare gli ultimi attimi che aveva vissuto prima di svenire. L’ultima cosa di cui serbava ricordo erano le parole di Ràikas, poi il buio. Riaprì debolmente gli occhi, ma scorse solo la debole energia dell’aria che respirava. Era nuovamente cieco. Alzò debolmente la schiena e i suoi sensi ripresero velocemente a funzionare. Adesso percepiva chiaramente la presenza di Ulmyo e Ràidames davanti al letto nella sua camera.

“Come stai Alreyd? Sei rimasto addormentato per due giorni interi.”

Gli disse con tono preoccupato Ràidames.

“Cos’è successo?” Domandò pacato Alreyd mettendosi a sedere.

“Poco dopo che essere entrato nella stanza del ragazzo” iniziò a dire Ulmyo “le guardie l’hanno sentito urlare aiuto e quando sono entrate ti hanno visto a terra inerme. Sei stato portato qui e hai dormito fino ad ora.”

“Cosa avete fatto al ragazzo?”

“Nulla” rispose Ràidames “non avevi ferite ed era improbabile che disarmato avesse potuto farti qualcosa. Ci ha spiegato quello che era successo e gli abbiamo concesso di accompagnare Olos durante lo svolgimento delle sue mansioni all’interno della Fortezza.”

“Cosa mi dite dei Dàimon?” Continuò a domandare Alreyd.

“L’attacco è imminente. Pensiamo che attaccheranno domattina, dopo che tutte le loro truppe si saranno riunite. Sono un’infinità Alreyd, ci servirà tutta la nostra forza per respingerli.”

“Avete provato a mandare loro un’ambasceria?”

“Certo.” Disse Ulmyo. “Abbiamo tentato molte volte la via del dialogo, ma non c’è stato verso di ottenere un incontro. Non sappiamo neanche perché abbiano voluto attaccarci così d’improvviso.”.

Rimasero tutti e tre in silenzio. Ulmyo fu il primo a parlare:

“Devo ritirarmi, mancano solo poche ore all’alba e devo prepararmi per la battaglia.”Si voltò e prima di sparire attraverso la porta, si congedò con un lieve cenno del capo. Nello stesso istante in cui l’atelos ebbe varcato la soglia, Ràidames si voltò verso il mago e con voce pressante gli disse:

“Allora: hai scoperto ciò che volevi? Parla!” Alreyd sospirò profondamente, si alzò lentamente e si trovò faccia a faccia con il suo Re.

Sentimenti diversi gli agitavano spirito e mente ed infine iniziò a raccontare ciò che il cuore gli dettava.

………………………………………………………………………………

Mancava poco tempo oramai all’alba. L’aria notturna iniziava già a schiarirsi e il buio andava via via scemando. Eppure, nonostante il giorno fosse ancora così giovane, l’atmosfera era molto agitata all’interno della Fortezza degli aurorei. Mentre camminava accanto ad Olos in direzione dell’armeria, Anarion non poteva fare a meno di notare il trambusto e l’aria frenetica intorno a lui.

Ma non ne rimase stupito più di tanto. L’esercito era in allarme da due giorni oramai. I nemici erano accampati in pratica ai cancelli della Fortezza e la battaglia sarebbe iniziata tra breve. La tranquillità e la quiete che regnavano nella Fortezza quando vi era giunto erano scomparsi da tempo. Ora si sentivano solo inquietudine e tensione. Anarion aveva a volte addirittura la sensazione di sentirsi soffocare. Solo quando era con Olos gli sembrava di potersi sentire tranquillo. La sola presenza del Capitano riusciva ad infondergli sicurezza e calma. Anche i soldati, che rimanevano impassibili nelle loro fredde armature, sembravano ritrovare il calore quando vedevano il loro Capitano.

Si volse verso Olos e ammirandone la figura austera e altera, il ragazzo non poté fare a meno di pensare che la vittoria sarebbe stata dalla loro parte finché il Capitano li avesse guidati.

Eppure c’era un particolare che lo riempiva di inquietudine: il velo d’ombra che incupiva gli occhi dell’auroreo era aumentato, coprendo come un sudario la naturale lucentezza dei suoi occhi.

Quando si riscosse dai propri pensieri erano già giunti all’armeria. Le porte del locale erano spalancate e un fitto brusio proveniva dall’interno. Quando entrarono ognuno dei presenti si voltò e chinò rispettosamente il capo in direzione di Olos, per poi tornare alle proprie occupazioni. Ovunque si trovavano raccolte in grandi fasce armi e scudi di ogni genere e foggia, lunghe spade ricurve dalle punte larghe e appuntite, scudi neri a goccia e a mezza luna, con incisi i simboli del dragone azzurro.

In un angolo erano raccolte in grandi cataste le lunghissime sarisse dei fanti elfici, che come il ragazzo aveva potuto costatare costituivano il nerbo dell’esercito.

Lungo la parete sinistra un esiguo numero di elfi lavoravano alla costruzione dei famosi archi ateloi, armi conosciute in tutto il mondo come le migliori in assoluto per combattere a distanza. I costruttori tastavano gli archi qua e là, per controllare che i corni fossero ancora in ottime condizioni, tendevano le corde sui bischeri, fissando i budelli ben torti, pizzicando e provando i nervi, come i musici con la cetra.

Si fermarono solo quando arrivarono a un lungo tavolo che si trovava in fondo alla stanza. Sul legno erano ammassate spade e lance dalle forme più svariate.

Olos appoggiò le mani al tavolo e si rivolse ad un auroreo che si trovava dall’altro lato, esaminando con attenzione la lama di una spada corta che teneva in mano. Aveva gli occhi castani e i capelli bruni e le fattezze del suo viso erano tagliate da lunghe cicatrici.

“Kaizar, ho bisogno di te.” Disse l’auroreo.

“Dimmi pure, Olos.” Anarion non poté fare a meno di notare la famigliarità che c’era fra i due.

“Ho bisogno di un’arma per questo ragazzo.”.

“Che tipo di arma preferisci, spada o lancia?” Chiese con tono interessato l’atelos, guardandolo dritto negli occhi.

“La spada lunga. Prima che mi si spezzasse, usavo una spada lunga.”

Mentre l’auroreo rovistava in un mucchio di spade, Olos gli chiese.“Questa volta parteciperai ai combattimenti?”

Kaiza rispose sorridendo, senza smettere di cercare, come se recitasse una cantilena:

“Io sono un fabbro. Datemi una spada e ucciderò qualche nemico. Datemi martello e fucina e cambierò le sorti della battaglia.” Kaizar gli porse un’arma bianca dalla lama leggera e fine. Impugnandola sicuro il ragazzo la fece roteare un paio di volte con maestria e la ripose nel fodero finemente decorato.

“Questa è quella giusta.” Disse Kaizar, voltò loro le spalle e tornò  trafficare con le sue armi.

Lasciando l’armaiolo, passarono in un locale attiguo, dove lavorava il fabbro. Lì presero un’armatura in cuoio rinforzata con scaglie metalliche della misura del ragazzo, che la indossò immediatamente.

Quando riuscirono all’aperto, oramai albeggiava. Olos gli rivolse uno sguardo serio.

“Sei sicuro della tua decisione, ragazzo? Sei ancora in tempo per cambiare idea, nessuno ti biasimerà. Questa non è la tua guerra.”

“Ma io ho un debito da pagare nei confronti di Ràikas. E questo è l’unico modo che ho per farlo, non temere per me, non morirò.” Rispose sicuro il ragazzo.

“Allora andiamo, la battaglia ci attende.”

Un corno suonò in direzione dei cancelli. Il suono profondo e forte rimbombò per tutta la valle, infrangendosi contro le rocce dei monti e spandendosi per tutta la foresta.

Era la chiamata alla guerra, alle armi, al sangue.

……………………………………………………………………

Anarion attendeva fuori dalla stanza con trepidazione. All’esterno giungevano già i richiami degli aurorei sulle mura e i gridi sordi e profondi dei corni. I nemici erano oramai in procinto di attaccare. Era questione di minuti. Olos era all’interno di una delle stanze del bastione sinistro del cancello.

Stava cambiandosi per prepararsi alla battaglia.  Improvvisamente la porta si aprì e Anarion rimase a bocca aperta vedendo la trasformazione subita dal Capitano. Indossava un’armatura leggera che gli ricopriva busto, avambracci e cosce. La corazza sembrava forgiata con oro e argento, tale era la luminosità che emanava. Ogni pezzo era finemente decorato con rilievi bianchi e azzurri di incisioni naturali. L’elmo gli lasciava scoperto gran parte del capo, proteggendogli solo fronte e orecchi, sicché i fulgidi capelli dorati e l’autorità del viso altero erano ben visibili. La destra  stringeva con forza una lunga lancia, che terminava in una doppia punta, con un corno più lungo dell’altro.

Nello stesso istante dall’esterno giunse un uomo. Sembrava un guerriero. Indossava una corazza di cuoio a protezione del busto e non portava alcun altra protezione. In vita aveva però legate due armi a doppia lama, lunghe ognuna quasi quanto lui stesso.

Non si inchinò davanti ad Olos, ma si limitò a salutarlo con tono amichevole.

“Salve Olos, ero venuto a chiederti se posso unirmi alla battaglia.”

“Ogni aiuto è il benvenuto, se poi ad offrirlo è uno dei dodici Cavalieri del Sole, lo accetto volentieri.” Rispose il Capitano. “Ma ora muoviamoci, manchiamo solo noi.”

L’auroreo notò lo sguardo interrogativo che Anarion rivolgeva al cavaliere e disse rapido, mentre uscivano nel piazzale dietro il cancello.

“Ragazzo, questo è Zacho, un rappresentante della delegazione di una delle città umane meridionali che hai visto tre giorni fa al consiglio.”

Le urla improvvise provenienti dalla sommità delle mura interruppero il discorso. Salirono le scale che portavano ai ballatoi e le file di arcieri presenti sulle mura fecero passare il loro Capitano e i suoi due compagni fino al parapetto. In quel momento il disco del sole salì oltre le punte dei monti, inondando di luce la valle. Dai margini della foresta, per tutta la lunghezza della valle, si vedeva emergere l’infinito numero dell’esercito dei Dàimon. Le file scomposte e disordinate dei demoni iniziarono a emergere dalla vegetazione una dopo l’altra ma si fermarono a poche decine di metri oltre i margini della foresta.

Fu allora che uno sparuto gruppo di quelle bestiali creature si distaccò dal centro dello schieramento, dirigendosi a passo affrettato verso i cancelli. Quando già molti arcieri avevano  incoccato i dardi in attesa dell’ordine di tirare, un  malconcio drappo bianco fu issato dal piccolo gruppo che si fermò, in attesa.

Olos si voltò verso il primo soldato alla sua sinistra e gli ordinò di mandare un’ambasceria incontro a quel drappello. Era curioso di sapere cosa potessero volere in quel momento quelle creature infide. Cosa doveva aspettarsi da individui che combattevano perché combattere era più semplice che pensare a cos’altro fare?

 

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Capitolo 11
*** Il duello e la trappola ***


l

 

Un duello. Il capo dell’armata nemica sfidava due combattenti dell’esercito auroreo a combattere contro due dei suoi campioni. La sfida era stata naturalmente accettata: quando era necessario difendere l’onore, gli ateloi non si tiravano mai indietro. E infatti molti si erano offerti volontari. La scelta non era stata in ogni caso molto difficile. Olos sarebbe stato il primo e la sua decisione era indiscutibile, mentre la scelta del Capitano per il secondo combattente ricadde su Zacho. “Ho un debito da pagare nei suoi confronti” disse Olos impassibile “quindi non posso declinare la sua offerta.”

Fu così che Anarion osservò, dal ballatoio sopra il cancello, i due guerrieri avviarsi da soli verso il luogo del duello.  Nello stesso momento due figure massicce si fecero largo tra le file nemiche, andando incontro ai due sfidanti. Anarion riusciva a malapena a distinguerli, tanto erano lontani.

Non sembravano diversi dai loro simili, ma erano comunque alti anche più degli aurorei e la muscolatura possente era protetta da grezze armature o forse era la loro stessa pelle ispida. Brandivano entrambi enormi bipenne, ma i loro stessi corpi, temprati alla battaglia, erano armi temibili.

Quando i quattro furono quasi uno di fronte all’altro, si fermarono, aspettando. Si trovavano all’incirca a metà strada tra la fortezza e la schiera nemica. Il ragazzo non poté fare a meno di notare che Olos e Zacho sarebbero potuti essere raggiunti facilmente dagli avversari prima di riuscire a tornare al sicuro. D’improvviso un corno suonò, riscuotendolo dai suoi pensieri e si voltò per vedere i guerrieri che si preparavano a duellare.

Quando il suono si spense, Zacho afferrò entrambe le spade che aveva legate alla cinta e le sfilò con un  gesto fluido, imbracciandole con forza, mentre Olos pose la sua lancia tra sé e il suo avversario, puntandolo con la doppia lama della sua lancia.

I due Dàimon sibilarono versi ferini, emettendo dalle fauci versi inquietanti e alzarono lentamente le loro armi sopra la testa, pronti a farle cadere con violenza sui loro avversari. Quando si precipitarono in avanti, Zacho ebbe il tempo di dire ad Olos:

“Fin troppo facile, Capitano”.

L’ascia stava per cadere su di lui, quando l’umano l’evitò balzando in avanti, addosso al suo nemico e con un gesto rapido, quasi invisibile agli occhi, lo trafisse con la lama alla gola, che non era protetta dall’armatura. La bestia si accasciò al suolo con un gemito, senza avere il tempo di reagire. La battaglia di Olos non fu meno rapida. Scartando sulla sinistra il primo colpo diretto alla faccia, l’auroreo colpì in pieno viso la creatura con il legno della lancia, poi piegandosi con agilità nonostante l’armatura, compì una potente spazzata sulle gambe del Dàimon facendolo cadere con fragore sulla schiena. Senza arrestarsi un attimo, balzò sul corpo disteso del nemico, e imbracciando l’arma a due mani, colpì con forza inaudita la bestia all’altezza del cuore, trafiggendo incredibilmente anche la bipenne che il Dàimon aveva messo davanti a sé.

Un boato di esultanza dalle mura della Fortezza esplose alla vittoria dei due guerrieri. Un altro giunse però in risposta. Centinaia di mostri iniziarono a correre disordinatamente per raggiungere i due guerrieri, prima che potessero tornare all’interno della fortezza. Nella fuga Olos incrociò gli occhi neri come la pece di un Dàimon,  rimasto fermo, che gli fecero scorrere un brivido freddo lungo la schiena. Poi lui e Zacho iniziarono a correre rapidi verso la porta laterale al cancello, che era rimasta aperta. Tuttavia i nemici li incalzavano anche dai lati e molte frecce iniziarono a piovere intorno a loro senza colpirli. Gli aurorei non si fecero però trovare impreparati: dalla posterla uscirono due cavalieri, galoppando con tutta la velocità dei loro destrieri.

Sulle mura intanto Ulmyo aveva preparato il contrattacco. Già da molto i difensori erano pronti, con le frecce incoccate. L’auroreo aspettò che tutte le prime file fossero entro la gittata e poi gridò l’ordine con forza, seguito dall’eco dei suoi sottoposti. Come un sol uomo gli arcieri lasciarono andare le corde degli archi e una pioggia di dardi si levò da tutta la lunghezza delle mura, seminando morti e feriti tra gli attaccanti. Nel frattempo Olos e Zacho erano saliti sui cavalli e in poco tempo avevano passato la postierla, che si era richiusa pesantemente alle loro spalle. Dopo che ebbero ringraziato i due soldati che li avevano aiutati, i due incontrarono Anarion che li attendeva con trepidazione. Ritrovatisi, salirono verso i ballatoi, dove l’assalto era iniziato. Una volta giunti in cima, videro che in numerosi punti delle mura la battaglia si era accesa. I Dàimon, arrivati ai piedi delle mura, avevano issato le scale, che una volta appoggiate, si agganciavano con uncini ai parapetti, in modo che era molto difficile spingerle indietro. Molti arcieri avevano lasciato cadere gli archi e avevano messo mano alle spade, ingaggiando i nemici che riuscivano a salire in furiosi combattimenti. Zacho corse rapido verso sinistra, dove gli arcieri stavano subendo pesanti perdite. Olos e Anarion, uno al fianco dell’altro, andarono sul tratto di mura sopra i cancelli, sul quale la battaglia era ormai violenta. Il Capitano falciava qualunque nemico gli si parava davanti, brandendo con terribile precisione la sua lancia e ovunque lo vedevano gli ateloi si battevano con rinnovato vigore.

Anche Anarion si batteva bene, ma a dare forza ai suoi colpi non era la sete di giustizia e l’orgoglio che animavano Olos, ma la volontà di non scappare. Quella era la sua prima battaglia ed era la prima volta che uccideva. Le grida, il sangue, la morte lo circondavano con crescente crudezza e aumentavano in lui il desiderio di allontanarsi, nascondersi per non assistere a quel macabro spettacolo. Man  mano che continuava a combattere quel desiderio cresceva e solo brandendo con maggior forza la sua arma riusciva a scacciarlo. Il pensiero di dover ripagare Ràikas scompariva ogni volta che incrociava lo sguardo con uno dei caduti, gli occhi sbarrati nel dolore della morte lo colpivano profondamente. Fortunatamente non aveva il tempo di soffermasi su questi pensieri. I nemici lo attaccavano in continuazione e doveva fare appello a tutte le sue forze per riuscire ad abbatterli. Quelle creature lo stupivano sempre di più. Combattevano con una luce di follia negli occhi e, incuranti della loro stessa vite e di quella dei loro compagni, compivano le azioni più scellerate e folli.

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Passò un’ora e la battaglia non accennava ancora a smettere. Anche i maghi aurorei erano giunti a rinforzare la linea difensiva. Bagliori e lampi serpeggiavano ovunque lungo le mura, spezzando le ondate dell’avanzata avversaria. Circondato dai suoi stregoni, Alreyd osservava lo svolgersi della battaglia dal bastione settentrionale delle mura.

Ovunque giacevano ormai i corpi dei morti, che aumentavano con l’infuriare della battaglia. Le scale venivano issate sempre più numerose e ogni volta che una veniva distrutta, altre la sostituivano. Un pesante ariete manovrato da decine di robuste creature martellava oramai da tempo contro i battenti del cancello, senza riuscire però nemmeno a incrinarlo. Il grosso dell’esercito auroreo, la cavalleria e la fanteria pesante, aspettavano ancora dietro i cancelli di poter combattere, mentre all’esterno si iniziava solo a intravedere la fine dell’esercito nemico. L’attacco veniva in qualche modo arginato e Olos, Ulmyo, Anarion e Zacho in quel momento si erano fermati, riprendendo fiato. Erano tutti feriti, anche se leggermente, anche Anarion, che si stupiva di essere riuscito a sopravvivere quando molti guerrieri erano invece caduti. Non si era accorto che i due ateloi e il Cavaliere gli venivano continuamente in soccorso, proteggendolo quando era in pericolo. “I tuoi guerrieri sono esausti, Olos, e anche noi, non potresti chiamare quelle truppe che sono ancora fresche?” disse Zacho accennando ai picchieri.

“I picchieri servono a poco se non possiamo usarli in campo aperto.” Rispose il Capitano.

“Un modo ci sarebbe” suggerì Ulmyo “ma è rischioso.”

I tre rivolsero uno sguardo attento all’auroreo: era evidente che aveva in mente un piano d’azione.

“C’è una grande galleria nel fianco destro della montagna ” iniziò a dire “sufficiente abbastanza per far passare tutta la nostra cavalleria, che sbuca poco più a Nord, oltre i nostri nemici. Potremmo prenderli alle spalle.”

“Perché non l’hai detto prima?” domandò con una punta di irritazione nella voce Zacho.

“Perché l’uscita è chiusa da un incantesimo. Devono aprirla due aurorei contemporaneamente dall’esterno e dall’interno e gli unici a custodire la formula siamo io e Alreyd.

Io sono il Custode della chiave Interna e lui di quella Esterna. Ma lui è cieco, non può…”

“Ti stupiresti di cosa sono ancora capace di fare” La voce di Alreyd li sorprese tutti. L’auroreo, vestito della sua normale veste bianca, cinta solamente da una cintura con incise scritte d’oro e bronzo, sembrava indifferente alla violenza del combattimento.

“Se con la mia vita e la mia morte, posso salvare i miei fratelli, non esiterò a farlo.

Userò un’ Aquila per giungere alla porta esterna,  voi radunate la cavalleria e raggiungetemi il più presto possibile.” Anarion era sul punto di ribattere, ma tutti sembravano d’accordo con la decisione dell’auroreo.

“Olos, tu naturalmente resterai qui, devi guidare l’esercito. Quando udirai il nostro richiamo, spalanca le porte e fai uscire la fanteria con le sarisse abbassate: schiacceremo il nemico da entrambi i lati.” Anche stavolta nessuno trovò nulla da obbiettare, ma Anarion non seppe trattenersi:

“Permettimi di venire con te, Alreyd.”

“Non è possibile, l’ Aquila sopporterebbe difficilmente il peso di due persone, ma se proprio lo desideri, potrai entrare con Ulmyo nella galleria, così tornerai con me alla Fortezza una volta richiusa la porta.” Anarion annuì con debolezza. “Ora muoviamoci!” disse l’auroreo e ognuno iniziò a svolgere il proprio compito: Zacho e Olos iniziarono a mettere in assetto da combattimento la fanteria, Anarion e Ulmyo si avviarono con la cavalleria verso la porta del passaggio e Alreyd, dopo aver chiamato con un fischio un’Aquila, scomparì con quella oltre le montagne settentrionali.

Mentre si avviavano verso la porta scavata nella nuda pietra della montagna, Anarion sperava che Alreyd non si fosse sbagliato.

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Il mago sentiva l’aria accarezzargli il viso con dolcezza, una sensazione che non provava da tempo, ormai. Le grida e il rumore della battaglia parevano lontanissime mentre l’Aquila sorvolava, ad ali spiegate, le fronde silenziose della foresta. In poco tempo, scese in uno spiazzo aperto nella vegetazione, lasciando che il suo cavaliere scendesse con calma. Alreyd smontò con grazia e si girò intorno, cercando di ricordare dove dovesse andare. L’immagine della porta balenò nella sua mente e si diresse verso sinistra fino a toccare un punto preciso della parete rocciosa con la mano destra.

“L’ho trovata.” Disse sorridendo l’incantatore.

Una voce rauca e crudele alle sue spalle lo fece sobbalzare.“L’unica cosa che hai trovato è il luogo dove morirai.”

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La porta nella roccia si era spalancata. Rispondendo al richiamo magico di Ulmyo, due enormi battenti si erano improvvisamente aperti verso l’interno della montagna. La galleria era talmente grande che le file dei cavalieri potevano passare comodamente. Entrati tutti a cavallo, dovettero accendere le torce per farsi luce nel buio che ben presto li aveva avvolti. La luce soffusa  disegnava immagini grottesche sulle pareti di nuda  pietra e anche il più piccolo rumore veniva amplificato e deformato per tutta la lunghezza della galleria. Senza sapere il perché, Anarion si sentiva stranamente inquieto. Dopo pochi minuti, giunsero alla fine della galleria e Ulmyo scese da cavallo, accostandosi alla parete di roccia e toccandola delicatamente con la destra.

“E’ già aperta.” Notò con stupore. “ Alreyd ha fatto in fretta.”

Una debole luminescenza scaturì dalla mano dell’atelos e dopo alcuni secondi di attesa la parete si aprì verso l’esterno con fragore, lasciando libero il passaggio. La luce del mattino li accecò per un attimo, ma quando finalmente videro ciò che avevano davanti, Anarion urlò inorridito.

Steso al suolo, bagnato dal suo stesso sangue, c’era la figura riversa di Alreyd, immobile.

Anarion scese con un balzo da cavallo, gettandosi al fianco dell’auroreo. Lo girò delicatamente verso l’alto, osservandone il viso. Aveva gli occhi chiusi e il viso era terribilmente ferito. Tagli ed escoriazioni deturpavano il viso mite. Il petto era squarciato da un taglio profondo e aveva una violenta emorragia. Il respiro era tenue e fievole, anche se l’auroreo viveva ancora, nulla l’avrebbe potuto salvare. Nessuno degli aurorei si era avvicinato, poiché i cavalli erano restii di attraversare la soglia rocciosa. Ulmyo scese da cavallo e si affiancò ad Anarion con le lacrime agli occhi e sussurrò commosso il nome dell’amico, stringendogli con forza entrambe le mani.

Quasi rispondesse al richiamo l’atelos aprì debolmente gli occhi e il ragazzo notò che non erano più neri. Il velo di oscurità che li aveva coperti per tanti anni era scomparso ed essi brillavano della luce azzurra che la vita gli aveva dato alla nascita. “Non tentare la magia, Ulmyo.” Disse a fatica. “Non c’è incantesimo che possa salvare un uomo sulla soglia della morte.” Tossì, sputando sangue dalla bocca. “ Alreyd, chi è stato? Chi?”. Chiese con rabbia incontrollabile Ulmyo.

“Non so, adesso se n’è andato, spero.” Tossì e riprese a dire: “Dovete fuggire, se tornasse non avreste scampo.”

“Ma, dobbiamo portare a termine la nostra battaglia.” Obbiettò l’auroreo.

“Non potete farcela, solo Sire Ràidames, forse. Tornate indietro!”

Dietro di loro, i battenti di pietra si richiusero con un tonfo, lasciando i cavalieri chiusi nella galleria. “Non potete tornare indietro. Dovrete prima affrontare me.” Davanti alla parete di pietra, a pochi passi da loro, si stagliava la figura minacciosa e tenebrosa dall’assassino di Alreyd.

 

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Capitolo 12
*** La sfida del dio ***


l

Dopo aver affrontato i Siguya, Anarion non pensava che avrebbe potuto provare nuovamente un terrore tanto forte. Era evidente che si sbagliava. La sola vista di quell’essere lo spaventava.

Aveva l’apparenza di un Dàimon. Alto, dalla figura robusta e massiccia, vestiva abiti laceri e scuri, quasi usurati dallo scorrere del tempo. Appeso alla cintura portava uno spadone con lama larga e dall’elsa nera. I capelli lunghi e violacei erano ispidi e mossi. I lineamenti erano brutali e duri, mentre gli occhi non tradivano nessuna emozione, solo furia omicida.

Quando il ragazzo ne incrociò gli occhi, una fitta terribile lo colpì alla schiena. Il dolore sparì  però quasi subito. Si voltò verso Ulmyo, senza sapere cosa fare. L’auroreo gli parlò senza voltarsi:

“Prenditi cura di lui. Io mi occupo di questo Dàimon.”

“Dàimon è una definizione da essere mortale.” Disse mentre Ulmyo gli si parava davanti, la spada sguainata. “Io sono un dio!”

“Il mio nome è Ipurio. Sono uno dei dodici figli di Potere, rinati al richiamo della Incarnazione.”

“Il mio nome è Ulmyo, cavaliere della Fortezza Bianca. Adesso te la farò pagare per ciò che hai fatto ad Alreyd, pseudo-divinità.”.

“Credi di forse di spaventarmi?” disse ridendo sguaiatamente “Perché mai dovrei temerti? Ascolta e impara: al cospetto degli dei, a creature del vostro stampo è concesso solo di provare paura, poiché la divinità stessa rappresenta il terrore.” Detto ciò, sguainò la spada, che riluceva di nero alla luce del giorno.

Ulmyo iniziò a combattere, colpendo di affondo e di lato il nemico, ma questo parava e deviava gli attacchi con facilità sorprendente, quasi combattesse con un bambino. Anarion osservava rapito, quando la voce  di Alreyd lo riscosse. “Ragazzo…” Sembrava non avere più la forza per parlare.  “Aiutami ad alzarmi.”

Anarion non osava protestare. Lo aiutò e lentamente l’auroreo riuscì, anche se a stento, a rialzarsi.

L’urlo di Ulmyo li fece sobbalzare entrambi. Era stato trafitto al fianco destro dal primo attacco di Ipurio. Il guerrierp si rendeva adesso conto della differenza che c’era tra loro. Non aveva potuto parare l’attacco perché troppo violento, pensò che nemmeno Olos potesse qualcosa contro un simile guerriero. Adesso capiva perché Alreyd era stato sconfitto: non era riuscito a sostenere quella violenza che non aveva nulla di normale. Cadde sulle ginocchia, sconfitto, e la spada, scalfita, gli scivolò dalle mani. Rimase immobile, lottando per non svenire.

“Pensavi davvero di farcela?” Lo colpì al petto con un calcio, facendolo rotolare per qualche metro. Prima che potesse voltarsi, un torrente di luce lo colpì in pieno sul fianco, travolgendone la figura per qualche istante, senza però nemmeno scuoterlo.

Alreyd era in piedi, trattenendo con la destra l’emorragia e aveva la sinistra ancora avvolta dalla luce dell’incantesimo.

“Il corpo di noi divinità è capace di sopportare energie e forze che vanno ben al di là di quelle che voi possedete.” Disse sorridendo malignamente il dio.

Alreyd cadde a terra sfinito e il ragazzo gli fu nuovamente vicino, fissandolo negli occhi.

“Un dono, amico mio, prima della mia morte.” Gli strinse le mani e gli trasmise le sue ultime energie. Anarion provò una sensazione di calore e tepore come non ne aveva mai provati prima e fu avvolto completamente da una tenue luminescenza.

“E’ bello morire qui, tra i colori della mia foresta. Li avevo dimenticati.” Fissò il cielo per un istante e poi i suoi occhi si spensero. La morte lo fece suo, liberando il suo spirito nella bellezza della foresta, che a lungo gli era stata negata.

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“Morto. E il suo compagno sta per raggiungerlo.” Disse il dio imperturbabile.

“Fermo.” Ipurio si voltò: il ragazzo insignificante che stava al fianco dell’auroreo, si era alzato e ora gli stava quasi dinanzi, con il capo chino.

“La pagherai cara per aver osato colpire coloro che mi hanno difeso. Preparati a morire.” Il dio non ebbe il tempo nemmeno di replicare: un lampo scaturito dal braccio del ragazzo lo investì in pieno, scaraventandolo contro la parete di pietra. Si rialzò senza aver accusato nessuna ferita, solo i vestiti si erano bruciati in più punti.

“Chi sei tu?” Chiese con voce turbata.

“Chi sono io? Sono colui che ridurrà a brandelli il tuo corpo e il tuo spirito.”

Ipurio scattò in direzione del ragazzo, con l’arma sguainata. Gli fu addosso in un attimo, con la spada levata, ma nuovamente un fulmine rosso lo colpì, buttandolo a terra. Stavolta il corpo del dio era rimasto ferito: gocce di sangue quasi trasparente colavano dalla spalla sinistra, ferita da un taglio profondo.

“Al mio cospetto Uomini ed Aurorei non sono altro che vermi e i vermi non sono capaci di simili gesta!” Disse con rabbia. “Mai accadrà che un dio venga piegato da un uomo.”. Urlò.

“Vorresti dire che è naturale che un uomo debba soccombere contro un dio? E chi l’ha stabilito?” Continuò pacato Anarion. “Non è altro che una sciocchezza decisa da voi divinità!”

Alzando entrambe le braccia contro Ipurio, un potente getto di fiamma scaturì dalle sue dita, investendo ed avvolgendo completamente il dio. Quando la furia del fuoco si estinse, tuttavia la figura del dio era ancora in piedi, anche se tremante.

“Sei fuori di senno?! Credi di poterla scampare dopo aver fatto una cosa simile ad un dio?” Disse con la rabbia a stento repressa.

“Allora ti chiedo…”replicò il ragazzo, imperturbabile. “Gli uomini dovrebbero perdonare agli dei qualsiasi sopruso? Se gli dei feriscono e uccidono i deboli, solo per far sfoggio della propria forza, come possiamo venerare come divinità esseri tanto abbietti e meschini? Noi non siamo così stupidi!” Una nuovo getto di folgore bianca scaturì dalla figura di Anarion e stavolta, quando venne colpito, Ipurio urlò, provando per la prima volta in vita sua paura.

Un denso polverone si alzò e per alcuni secondi, tutto tacque. Quando infine poté nuovamente vedere, Anarion scorse la figura di Ipurio poco lontana appoggiata alla parete rocciosa.

Il ragazzo avvicinò i palmi delle mani gli uni agli altri, fissando negli occhi il dio. Anche stavolta una fitta di dolore alla schiena lo scosse, ma tale era il potere che si era risvegliato in lui insieme alla magia donatagli da Alreyd che subito scomparve. Ipurio invece fissò con stupore gli occhi vermigli del ragazzo, senza riuscire a muoversi. Anarion parlò di nuovo, con voce stavolta rabbiosa:

“Io non credo che tu sia un dio, ma non sei neppure un Dàimon. Sei soltanto un mostro.”

Tra i palmi delle mani, una violenta luce iniziò ad agitarsi, contorcendosi ed emettendo rapidi bagliori. “Io non credo negli dei. L’unica cosa in cui ripongo fede sono i miei ideali, in cui credo e che difendo. Questo mi hanno insegnato i sacrifici di Ràikas ed Alreyd.”

Ipurio lo fissò con sconcerto; poi d'improvviso un lampo gli attraversò la mente.

Gridò qualcosa al ragazzo, disperato, ma la luce racchiusa nelle mani di Anarion lo investì con violenza inaudita, schiacciandolo contro la parete di pietra e lottando per consumarlo.

Per alcuni secondi Ipurio sostenne con la propria spada la forza del getto di energia, poi quando questa venne ridotta in frantumi, urlò, investito in pieno dalla luce.

Quando l’incantesimo cessò, di lui era rimasto solo l’eco dell’urlo terribile.

La parete, colpita dal potere scatenato dal ragazzo, iniziò a sbriciolarsi, aprendo nuovamente il passaggio per i cavalieri chiusi dall’altra parte.

Anarion si guardò un attimo intorno, sentendo le forze diminuirgli attimo dopo attimo. Ulmyo si era lentamente rialzato, sebbene ferito e aveva lanciato un ultimo sguardo commosso ad Alreyd prima di brandire nuovamente la spada. Anche lo sguardo del ragazzo si posò sul corpo esanime dell’auroreo. Vide che aveva la stessa espressione placida e mite che aveva da vivo. Pensò che il suo spirito afflitto dovesse aver trovato finalmente la pace che a lungo aveva desiderato.

Le energie gli mancarono improvvisamente e cadde sulle ginocchia, respirando a fatica. Non capiva cosa stesse succedendo. Pochi istanti prima era traboccante di potere e adesso non riusciva nemmeno a stare in piedi. Gli occhi gli si chiusero e sentì ogni rumore intorno a lui farsi lontano e indistinto. Capì con orrore che stava perdendo i sensi. Cercò di alzarsi ma non ci riuscì. Si voltò verso l’entrata della grotta: i cavalieri galoppavano rapidi sui loro destrieri sparendo nella foresta, incitando i cavalli. Ignoravano del tutto lui e la morte di Alreyd, andando incontro alla battaglia. Il pensiero dello scontro gli balenò nella mente per un attimo, riscuotendolo, poi cadde al suolo, in preda alla semi-incoscienza. Nell’ultimo barlume di lucidità, udì il sordo richiamo di un corno poi, in risposta, il grido della schiera dei Dragoni, che urlavano la loro furia contro il cielo.

 

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Capitolo 13
*** La fine della battaglia e l'inizio della guerra ***


l

Il sole stava tramontando oltre i limiti della foresta e le prime luci delle stelle notturne balenavano tra le nuvole sempre più gonfie. Zacho camminava sul campo di battaglia, mentre le prime gocce di pioggia iniziavano a cadere. Sangue ed acqua bagnavano l’erba e sembrava quasi che la terra stesse piangendo per la morte dei figli caduti per difenderla. Nel suo cuore il guerriero sperava che l’acqua e la luce che in quel momento si riversavano insieme sul campo di battaglia portassero consolazione alle anime dei caduti.

A migliaia i corpi giacevano al suolo, davanti ai bastioni, dove la battaglia aveva visto il suo epilogo. Poche ore prima lui era lì, tenendo a freno l’assalto nemico insieme ad Olos. La situazione si era fatta difficile e la sortita dei cavalieri tardava ad arrivare. Poi l’avevano visto: una lampo fulmineo a settentrione, seguito dal boato di un tuono. Per pochi secondi la battaglia si era placata e l’assalto fermato. Sembrava che tutti fossero rimasti colpiti da quell’evento inaspettato. Poi l’attacco era ripreso, più violento di prima. Lui e Olos si erano spostati ai piedi del cancello, al centro della prima linea della fanteria. Avevano deciso di tentare il tutto per tutto, senza aspettare il segnale. Sporco del proprio sangue e di quello nemico, l’umano sentiva la sua energia fisica pervaderlo fino allo spasmo, stimolata dal dolore,  in procinto di esplodere. Succedeva ogni volta che si apprestava a rischiare la vita:  l’ansia, la paura e l’eccitazione si condensavano in una emozione che raddoppiava le sue forze.

Non aveva atteso molto, che il rombo del corno li aveva raggiunti nitido oltrepassando il rumore del combattimento, risvegliando la speranza nei loro cuori. I Dragoni erano pronti a combattere! Dapprima solo poche decine di cavalieri, poi l’intera cavalleria si schierò lungo tutto il margine della foresta. Al centro dello schieramento c’era Ulmyo, che, sebbene ferito,guidava i suoi soldati in battaglia.

Un’altra volta il corno di Ulmyo suonò, seguito stavolta da quello di tutti i Dragoni: il boato si infranse contro le mura della Fortezza e si moltiplicò in centinaia di echi assordandi che si propagarono sulle montagne. Il suono non morì nemmeno quando l’urlo dei cavalieri riempì la vallata. Veloci e inarrestabili come il vento, si lanciarono in avanti, galoppando uniti, come una marea nera.

Le ultime file dei Dàimon avevano interrotto l’attacco, voltandosi verso la nuova minaccia e dando le spalle alla Fortezza, dimentichi dei nemici al suo interno.

L’impatto fu tremendo e devastante: i Dragoni travolsero le prime linee nemiche e spinti dall’impeto della carica penetrarono a fondo nello schieramento dell’esercito, vincendone la resistenza e piegandone le forze. Le lance dei cavalieri abbatterono a centinaia i corpi inermi dei mostri, spazzandoli via come pula al vento e calpestandoli sotto gli zoccoli delle loro cavalcature. Sopportato però l’impatto iniziale le creature contrattaccarono, buttando giù di sella i cavalieri e azzoppando i cavalli. Talmente furiosa era la mischia che non si riusciva a capire quale parte stesse avendo la meglio. Poi, d’improvviso i cancelli si spalancarono verso l’interno, e le viscide creature vi si riversarono numerose , scampando alla furia dei cavalieri. Non ebbero nemmeno il tempo di avanzare: la linea della fanteria aurorea costituiva un muro invalicabile di scudi dai quali spuntavano  le sarisse, schierate in una selva affilata e mortale. I fanti avanzarono con passo lento e ritmato, trafiggendo qualunque cosa si avvicinasse abbastanza. Molti nemici morirono impalati sulle punte delle lance, mentre gli altri calpestavano i corpi dei caduti per non fare la stessa fine.

Quando i soldati ebbero raggiunto il punto in cui la battaglia era più cruenta, le prime file lasciarono aperti dei varchi tra gli scudi, facendo passare fanti che impugnavano scudi e spade e che si lanciarono nella mischia, accorrendo in aiuto dei loro fratelli. Gli altri rimasero a protezione del cancello, per evitare che i Dàimon potessero guadagnarne l’ingresso. I demoni combattevano con la forza della disperazione, chiusi tra le lance dei fanti e le cariche dei cavalieri, mentre gli aurorei lottavano animati dalla volontà di difendere la propria terra. Nel mezzo della lotta Ulmyo si batteva con un vigore che tradiva le ferite del suo corpo. Trafitto da una freccia alla spalla sinistra e perduto il cavallo, aveva imbracciato spada e scudo e si era aperto a colpi affilati di fendente la strada tra i nemici, guidando l’avanzata dei suoi cavalieri. Ma la sua foga l’aveva  separato dai compagni, e così si era ritrovato isolato, circondato dai nemici. Combatté valorosamente, abbattendo numerosi avversari, ma ben presto le forze gli mancarono e quando anche l’ultimo dei suoi avversari cadde a terra morto, lui, trafitto da altre due frecce e coperto di tagli, si reggeva a stento in piedi.

Quasi senza accorgersene si era ritrovato davanti Olos e lui, che  avevano condotto l’offensiva della fanteria dalla fortezza. Così si ritrovarono, circondati dai loro soldati, ansimanti e coperti di sangue nel turbine impetuoso della lotta.

Ulmyo era al limite: lasciò cadere lo scudo, ma l’orgoglio gli diede la forza di non abbandonare la spada. Tutto intorno a lui si spense: il rumore assordante  e orribile delle urla, l’odore acre e ferroso del  sangue. Vide Olos fissarlo impotente, mentre cadeva all’indietro, senza forze. Avvertì  a malapena l’urto sull’erba fresca. Sentì le membra immortali rilassarsi, il dolore abbandonarlo, sostituito da una sensazione indefinita. Per un breve istante le iridi spente fissarono il cielo ancora limpido. Il suo spirito volò nell’aria con l’ultimo sospiro, libero.

Fu lui stesso a chiudere gli occhi all’auroreo. Mormorò una preghiera  per l’anima del caduto e ritornò alla battaglia. Vide Olos e rimase interdetto: pareva un demone incarnato. Urlava e combatteva con la furia di  dio. Chiunque si battesse con lui andava incontro alla morte. Brandendo la lancia mortalmente, il sangue dei nemici lo macchiò anche sul viso dove si mescolava con le lacrime che gli scorrevano senza controllo dagli occhi., ma nonostante tutto continuava a combattere. Sembrava che uccidere e combattere fossero l’unico modo per non farsi sopraffare dal dolore. Incitando con le sue gesta gli aurorei a difendere le proprie vite e la propria terra, riuscì a portare le sorti dello scontro dalla loro parte. In poco tempo, grazie a lui, riuscirono a mettere in rotta l’esercito avversario. I sopravvissuti vennero inseguiti e finiti dai Dragoni, sicché  solo poche decine riuscirono a scappare nella foresta.

Olos alzò la lancia verso il cielo, urlando con tutta la forza che aveva, sfogando verso il cielo la tensione, la rabbia e il dolore che aveva in corpo. I suoi soldati lo imitarono, alcuni addirittura piansero, in silenzio. Il Capitano li guardò: avevano sfiorato la morte, avevano visto i loro fratelli cadere e adesso che il pericolo era passato potevano finalmente sfogarsi. Tornò dove Ulmyo era caduto e ne fissò il viso pacato nell’immobilità della morte. La lancia  gli cadde dalle mani e si lasciò cadere sulle ginocchia con stanchezza: si sentiva completamente svuotato. Alzò lo sguardo verso la Fortezza e fu allora che la sua vista colse ciò che mandò definitivamente in frantumi ciò che rimaneva della sua compostezza. Su una barella improvvisata di lance e scudi passava, tra due ali di guerrieri che chinavano il capo in segno di rispetto per il caduto, il corpo esanime di Alreyd. Fu allora che pianse con amarezza  e nel suo animo qualcosa si incrinò. Lui gli si era avvicinato guardando pacato la scena.

Gli aurorei stavano sfiorando l’estinzione. Il loro numero, già di per sé esiguo, si era ulteriormente affievolito a seguito di quella guerra. I morti che erano caduti per la salvezza dei loro fratelli, lasciavano ai vivi un enorme fardello. Avevano superato quella prova: avevano sì vinto, ma a che prezzo? Quella domanda aveva presto smesso di assillarlo. Non avevano avuto nemmeno il tempo di curarsi: dovevano occuparsi dei feriti. Mentre si aggirava  tra i caduti nei pressi della foresta, udì un nitrito dal fitto degli alberi. Mise mano rapido alla spada e tese gli occhi nella boscaglia. D’improvviso ne balzò fuori un  cavallo bianco, che si arrestò, nitrendo e scalpitando davanti a lui. Una donna lo cavalcava con fierezza. Vestita larghi calzoni e una veste di tessuto leggero. Teneva appesa alla vita una lunga spada ricurva e un vistoso ciondolo circolare con inciso al centro una fiamma le pendeva dal collo. Portava i capelli biondi sciolti, lunghi e il bel viso, delicato e serio, spaziava sulla battaglia, indifferente.

“Sei in ritardo, Serìa.” Disse Zacho, riponendo la spada sugli agganci ai fianchi.

“Lo vedo, ma non sono potuta venire più velocemente…”Rispose la donna, smontando. “Vedo comunque che avete vinto…”

“Se la si può definire una vittoria…” Rispose amareggiato Zacho.

“Non capisco perché tu sia tanto dispiaciuto… Dopotutto, la morte e la vita fanno parte dell’ordine delle cose. Se gli aurorei si estingueranno, vorrà dire che era il destino scelto per loro dagli dei.” Concluse pacata la ragazza, avviandosi a piedi, sempre tenendo il cavallo per le briglie.

“Non fare questo genere di discorsi. Sai bene come la penso a riguardo. Il nostro destino è quello che strappiamo agli dei combattendo…”

“Avremo modo di verificare se ciò che hai detto è vero.”  Disse Serìa sorridendo sarcastica. “Sono stata mandata da Sire Ràidames. A quanto pare sta per ricominciare una antica guerra.”Affermò con eccitazione mal celata nella voce.

“Una guerra?” Chiese sconcertato l’uomo.

“Sì, una guerra tra noi umani e gli dei…”

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Potere si alzò lentamente, le catene gli serravano ancora con forza gli arti, ma riusciva per lo meno a compiere piccoli movimenti. Se non fosse stato orribile, sarebbe stato quasi buffo. Un dio, uno dei più potenti, incatenato nell’anima di un uomo: condannato a provare sulle sue spoglie immortali i dolori degli uomini e morire, lui, un immortale, lo stesso giorno del suo “contenitore”.

Quell’uomo, quell’Anarion, lo stava tuttavia impressionando. Riusciva ad usare il potere che le catene gli sottraevano e ad usarlo quasi sempre secondo la sua volontà. Doveva essergli grato: agendo in quel modo indeboliva i legami della sua schiavitù e la sua aura poteva liberarsi temporaneamente dal giogo che la sopprimeva. La prova era che i suoi Figli si erano ridestati: sopitisi quando lui era caduto venti anni prima, si stavano risvegliando uno dopo l’altro. Peccato che uno si fosse già riaddormentato, per sempre. Ma non gli interessava: Ipurio era sempre stato uno stolto e il più debole. Lo aveva visto, attraverso gli occhi del ragazzo, combattere e cadere. C’era da immaginarsi che solo lui, divinità guerriera e sanguinaria, potesse riuscire a comandare creature come i Dàimon. Ma stavolta aveva incontrato un nemico al di sopra delle sue possibilità. Con estremo sforzò tentò di toccare le sbarre luminose della sua prigione, ma quelle lo respinsero, crepitando, come le sfiorò. Si mantenne  la mano destra,  tremante, e nonostante il dolore, sorrise. L’incantesimo stava perdendo la sua efficacia. Si sedette, concentrandosi profondamente, cercando di rimettere la sua mente in contatto con quella del ragazzo. Entrò subito in sintonia con lo spirito dell’umano, contaminandolo con la sua energia. Se Ràidas aveva sbagliato qualcosa era stato intrappolarlo all’interno dell’ incarnazione umana. Esseri che passano la loro vita appagando ogni loro desiderio e cercando di infrangere i limiti posti per loro dagli dei: questi erano gli uomini. Sarebbe stato fin troppo facile plagiare quel ragazzo. Presto, molto presto il suo piano si sarebbe compiuto e lui sarebbe stato nuovamente libero.

Un rumore lo scosse da questi pensieri e aprì gli occhi. Come poteva sentire un rumore in quel limbo dove nulla esisteva tranne la sua prigionia? Seduto davanti a lui, stava Ràikas.

“Come, come è possibile?” Disse il dio senza tuttavia muoversi.

L’auroreo non rispose, ma sorrise. “Ti spaventa, il solo pensiero ti terrorizza.”

Ci fu un rapido momento in cui i due si fissarono. “La possibilità di poter morire non ti ha mai abbandonato un solo momento in questi ultimi venti anni.”

“Tu invece sei stato piegato dal destino.”

“Oh, ti sbagli!” disse mite l’auroreo. “Io ho scelto di lasciare questo mondo, poiché io solo sono l’artefice del mio destino. Penso anzi di aver superato la morte, perché il mio ricordo resterà impresso in questa terra finché essa continuerà ad esistere.”

Potere non poteva comprendere quelle parole, per lui non avevano alcun senso.

“Solo parole di uno stolto che ora non può più evitare la sconfitta della sua causa.”

“Quale sconfitta?” Ribatté il re. “Non riuscirai a disperdere i nostri sogni, poiché i sogni dei mortali non svaniscono mai…Ricordalo: non cancellerai il nostro sangue.”

Dettò ciò scomparve, fondendosi nell’aria. Il dio urlò con tutta la rabbia che aveva nello spirito, squarciando la solitudine che lo tornava ad avvolgere.

 

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Capitolo 14
*** Il commiato e la partenza ***


l

L’esercito auroreo era schierato in tutta la sua sfolgorante bellezza: la fanteria, con le lance che assomigliavano a boschetti spogli illuminati dalla luce intensa di mezzodì e la cavalleria, con i Dragoni alti e fieri nelle loro armature d’ebano. Tutti gli sguardi erano puntati su un’ altissima pira funebre al centro della piana antistante la fortezza. Altre cinquanta erano disposte per tutta la valle. Gli elfi restituivano le spoglie dei caduti all’aria nella quale erano state liberate le loro anime.

Olos, davanti al suo esercito, vestiva d’oro e in un commosso silenzio teneva gli occhi chiusi sotto l’elmo bronzeo. Sembrava quasi ascoltare le voci dei defunti nel debole vento pomeridiano. In cima alla pira centrale giacevano uno al fianco dell’altro Alreyd e Ràikas e Ulmyo. Nelle vesti bianche, rifulgenti d’argento, sembravano riposare. E cos’era la morte se non un sogno eterno, pensò Ràidames salendo le scale di legno della pira con una fiaccola in mano. Spesso aveva sentito dire da Alreyd che la morte era un dono, elargito dagli dei agli uomini. Rendeva eccezionale e irripetibile la vita, dandogli ciò che gli dei non potevano avere, l’unicità. Una vita, anche immortale, senza emozioni, che senso poteva avere? Lui non lo sapeva e nemmeno suo padre e Alreyd. Gli dicevano di non temere la morte, poiché tutti dovevano affrontarla prima o poi, anche gli aurorei. Arrivò in cima alla pira e per un attimo il suo sguardo si posò sui presenti e sull’imponenza della città. Gli tornarono alla mente altri ricordi, altre immagini. Era nella sala del trono e suo padre stava piangendo la scomparsa di Re Ràidas. Lui era ancora un giovane per la sua razza e lo era ancora adesso. Il padre lo abbracciò con forza e lui gli chiese se il dolore per la morte del nonno sarebbe passato. “Dolore?”Chiese Ràikas. “Io non provo dolore, solo nostalgia. Adesso la sua anima è libera. Mi spiace solo di non poter vedere più il suo viso.” Alzò in alto la fiaccola che stringeva nella mano destra e ogni presente mormorò tra le labbra una preghiera per le anime dei caduti.

Lasciò cadere la fiaccola, imitato dagli ateloi disposti sulle altre pire e queste iniziarono ad ardere con vigore. In breve le gigantesche strutture furono avvolte dalle fiamme. L’odore acre del legno bruciato si diffuse nella zona e un fumo scuro si levò alto nel cielo, portando con sé le spoglie dei combattenti. Braci turbinarono nell’aria e lingue di fuoco si levarono altissime. In breve tempo rimase solo la cenere di tre dei più grandi eroi di ogni tempo e dei loro compagni d’arme.

Ràidames chiuse gli occhi e ascoltò il vento che portava con sé gli spiriti dei caduti. Li avrebbe raggiunti e insieme avrebbero compiuto il più grande viaggio oltre la vita.

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Anarion sedeva nell’ampia anticamera spoglia che precedeva quella del trono. In attesa di essere ricevuto dal nuovo Astro Bianco, era rimasto da solo con i propri pensieri. Non aveva pianto per la morte di Alreyd, ma l’auroreo era diventato in breve tempo un amico e la sua prematura scomparsa lo aveva fatto soffrire terribilmente. Si era svegliato quando i funerali dei caduti si erano già compiuti e si era rammaricato di non aver potuto rendere l’estremo saluto a chi aveva dato la vita anche per lui. Poi era stato convocato quasi subito dal re, che secondo quanto gli aveva detto Olos, gli avrebbe concesso di lasciare la fortezza. Erano ormai passati parecchi minuti da quando il Capitano era entrato, che la porta di atelargento si aprì e Olos ne uscì, invitandolo a entrare.

Passò attraverso l’entrata e si ritrovò nella stanza dove pochi umani avevano messo piede prima di lui. La vasta sala circolare presentava lungo il perimetro una doppia fila di colonne rastremate e dai capitelli decorati con foglie d’acanto e figurazioni naturali. Sul fondo della sala un’ampia vetrata si affacciava ad Oriente, ma il sole oramai quasi tramontato non poteva far entrare la sua luce, sicché l’unica fonte erano le poche fiaccole appese alla parete. Al centro della sala c’era una vasca quadrata, dai lati lunghi all’incirca cinque metri e profonda un paio, contenente acqua limpida e cristallina. Un sentiero di marmo si estendeva dal lato più vicino all’entrata per terminare al centro della vasca. In fondo alla sala c’era il trono. Semplice e austero, la costruzione in marmo non aveva nulla di inusuale. Vi era però posato un piccolo copricapo. Formato da ramoscelli d’oro che s’intrecciavano armoniosamente a formare un diadema, aveva un gemma dalla squisita fattura a forma e dal colore di foglia e dalle venature argentee all’altezza della fronte. Doveva essere la corona reale. Ma dov’era il re? Girandosi intorno vide che a destra e a sinistra dell’entrata due gradinate di scale poste dietro le colonne salivano verso l’alto scomparendo in una vaga luminescenza rossastra. Salì seguendo Olos per le scale sulla sinistra e quando si ritrovò in cima, dovette chiudere gli occhi per il vento improvviso che spirava sulla cima della Torre Bianca. Li riaprì e le verdi terre auroree, tornate al loro immortale splendore si spingevano sotto i suoi occhi, tingendosi di rosa e porpora al calare del tramonto. Non era il solo a trovarsi lì, dove sembrava di poter toccare il cielo. C’erano il Re atelos, che reggeva sul destro guantato un falco,  Zacho, una donna che lo colpì per l’ espressione enigmatica con la quale lo fissava, oltre naturalmente ad Olos. Il re lo guardava con sguardo amichevole e il viso era gentile e sereno. Il ragazzo notò inoltre che i segni bianchi sul viso erano adesso marcati e decisi.

“Salve, Anarion. Come ti senti?” gli chiese, come se nulla fosse successo.

“B - bene, sire.” Rispose esitante il ragazzo.

“Ti ho chiamato per delle ragioni ben precise.” Sospirò “Per prima cosa ti voglio ringraziare per il servizio reso a me e a tutto il mio popolo. Mi dispiace non aver preso parte al combattimento, ma ho dovuto compiere il rito per ereditare tutti i poteri lasciatimi da mio padre e non sono riuscito ad ultimarlo prima della fine della battaglia. Se avessi atteso nel farlo non avrei potuto compierlo mai più.”

Rimase in silenzio alcuni secondi, forse pensando se le sue decisioni erano davvero giuste.

“In secondo luogo ti volevo comunicare che sei finalmente libero di andare. Alreyd mi raccontò tutto ciò che venne a sapere da te, quindi la tua permanenza non è più necessaria.”

“Quindi posso andare?” Chiese speranzoso il ragazzo.

“Sì, ma nel tuo viaggio sarai accompagnato da questi miei due amici.”

“Amici è una parola un po’ forte, Ràidames.” Disse con tono impudente la ragazza.

“Come osi rivolgerti così al Re?” Esclamò con rabbia Olos, mettendo mano alla lancia. Serìa a sua volta sguainò la spada, con aria di sfida, ma la voce ferma e altera del re li bloccò entrambi.

“Non sarà versato sangue in questo luogo!” I due abbassarono le armi, ma continuarono a guardarsi in cagnesco. “Queste due persone” disse il Re correggendosi, recuperata la sua aria tranquilla “sono due dei Dodici Cavalieri del Sole, la guardia personale del Principe di Fearin e ti accompagneranno, come ho chiesto loro, fino alla fine del tuo viaggio, che a quanto ho capito, porta a Fearin. Ti conviene prepararti, partirete subito.” Alzando il braccio verso l’alto, l’aquila dispiegò le ali e spiccò il volo, dirigendosi verso Ovest. Solo allora il ragazzo notò che l’uccello aveva un messaggio legato alla zampa. “Forse questo vi aiuterà.” Concluse l’Astro Bianco.

Zacho e Serìa si congedarono subito, sparendo nella sala del trono con il Re. Olos e Anarion rimasero alcuni secondi in silenzio, poi Olos parlò, con la stessa espressione di sempre. “Finalmente sei libero, ragazzo. Ma stai attento.” Gli disse con aria seria. “Diffida di alcuni dei Dodici Cavalieri. Sono un ordine antico e formato sì dai guerrieri più valorosi del popolo del Sud, ma anche dai più terribili.” 

“Lo farò, Olos, non temere.” Gli rispose sicuro. “Ormai sono un guerriero anch’io.”

Si strinsero la mano e ad Anarion sembrò che quella di Olos tremasse, anche se il suo viso conservava la sua espressione indecifrabile. Quando lasciò andare la presa, il ragazzo, con un nodo alla gola, voltò le spalle al Capitano e scese le scale, lasciando il guerriero da solo. Olos iniziò a tremare adesso più forte. La lancia gli scivolò dalla sinistra e anche lui cadde sulle ginocchia. Gli occhi sgranati esprimevano incredulità e inquietudine. Pochi attimi prima, per alcuni lunghissimi istanti aveva avvertito l’istinto irrefrenabile di uccidere il ragazzo. Per fortuna non l’aveva fatto. Per fortuna?

………………………………………………………………………………..

Alle prime luci dell’alba erano finalmente pronti a partire. Zacho e Serìa lo stavano aspettando a cavallo, immobili. Tutto era silenzioso e quieto. Sembrava che non ci fossero nemmeno le guardie.

Salì a cavallo e si guardò nuovamente intorno: nessuno.

Gli ricordava molto il momento in cui aveva lasciato il suo villaggio. Anche allora nessuno si era degnato di salutarlo. Iniziarono ad incamminarsi: la postierla era aperta e poterono oltrepassarlo senza problemi. Mentre passavano attraverso la piana, Anarion notò i resti delle pire funebri e per qualche attimo fu di nuovo colto dalla tristezza. Forse era il suo destino abbandonare sempre i luoghi dove trovava qualcosa per cui valeva la pena vivere e andarsene così, in silenzio.

Quando giunsero ai margini della foresta si voltò indietro, proprio mentre il sole sorgeva oltre i picchi dei monti. Una nuova luce si univa a quella del nuovo giorno, brillando sulla cima della Torre Bianca. Era il Re. Con il capo cinto dal diadema reale, stringeva, alto, nella destra, un bastone di niveo legno, dalla forma di dragone. E il globo che stringeva tra le fauci brillava intensamente,  come una stella, a salutare la sua partenza.

Forse quando tutto sarebbe finito, avrebbe avuto un posto dove tornare. Un posto da poter chiamare casa.

 

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Capitolo 15
*** Il guado ***


l

 

Il viaggio durava da molto ormai e per di più né Zacho né Serìa sembravano avere intenzione  di rivolgergli la parola. Avevano viaggiato per quattro giorni, dormendo poche ore e fermandosi solo per far riposare i cavalli e mangiare e bere e Anarion era oramai stravolto. Aveva le membra intorpidite e indolenzite, per non parlare del dolore e delle escoriazioni che gli tormentavano le gambe. In alcuni momenti era davvero tentato di lasciarsi andare e cadere da cavallo, per porre fine se non altro a quello che era in taluni momenti un vero e proprio supplizio. Era sera inoltrata quando finalmente si fermarono. “Perché cavalchiamo verso Occidente e non verso Sud?” Chiese il ragazzo mentre smontavano.

“Perché” rispose seccata la donna “è la strada più sicura.” Disse lanciandogli la sacca delle provviste. “Se cavalcassimo verso Sud, costeggeremo le terre dei Druidi ed è una cosa che preferisco evitare. Mentre con questa strada anche se allungheremo, al massimo ci imbatteremo negli Albi, che non ci sono nemici. Adesso mangia e vai a dormire che domani guaderemo lo Spaccaterre, tempo permettendo.”

Anarion non protestò, memore delle parole di Olos, ma avrebbe volentieri fatto rimangiare alla donna la sua arroganza.

Fu così, che mentre il cielo si rabbuiava, il ragazzo chiuse gli occhi senza però riuscire ad addormentarsi. Non lontano da lui, intorno al fuoco, i due cavalieri parlavano animatamente.

“Non dovremmo fermarci, sai com’è la situazione attuale, vero? Siamo sull’orlo di una guerra civile!” Disse la donna cercando di trattenersi.

“Lo so, Serìa. Il ragazzo però deve giungere dal Principe “in buone condizioni” e una marcia forzata fino al castello potrebbe anche stroncarlo. Lo sai anche tu cos’ha detto il Re degli Aurorei.”

“Cosa vuoi che me ne importi di Ràidames?” Disse seccata.

“A te non importa nulla, se non combattere.” Constatò il cavaliere.

“Non cambiare argomento.” Lo minacciò la donna. “Sono anche preoccupata per il nostro itinerario. Dopo la catastrofe di Maruyl, i rapporti tra le razze si erano incrinati e solo Ràikas era riuscito a stabilire una pace provvisoria. Ma adesso che lui è morto tutto è cambiato.”

“Cos’è successo mentre io ero via?” Chiese Zacho ansioso.

“E’ scoppiata una guerra che coinvolge Notturni e Albi. I Druidi si muovono a Est e i Siguya…” disse la ragazza con un tono di inquietudine nella voce.” Sono stati avvistati all’incirca diecimila Siguya scendere dal nord. Diecimila, come cento anni fa!”

“Tutto accade nello stesso momento. E’ troppo strano che siano solo coincidenze.” Mormorò Zacho.

“Anche tu la pensi come me.” Sussurrò Serìa con voce esasperata. “E’ lui la causa di tutto questo.”

“Non ne siamo sicuri.” La interruppe Zacho. “Lo stesso Re auroreo è stato molto vago quando ci ha parlato della situazione. Solo lui e il Principe sanno tutti i particolari. Non ci resta che aspettare di giungere al castello.”

“Allora chiudiamo qui la discussione, prima che mi innervosisca.” Disse la donna.“Faccio io il primo turno.”

Anarion non aveva colto tutte le parole della conversazione, perché era piombato in una sorta di dormiveglia e quando sentì Zacho stendersi vicino a lui, si addormentò completamente.

Sognò di nuovo la ragazza dai capelli neri. Ma non aveva più l’aria malinconica e mite che le vedeva spesso, anzi, sembrava arrabbiata e triste. Indossava un’armatura leggera e uno scudo rotondo in legno. Brandiva una spada lunga, sporca di sangue. Quando lo fissò gli sembrò che gli chiedesse aiuto, ma la donna scomparve improvvisamente.

Si era svegliato di soprassalto. Pioveva furiosamente e Zacho e Serìa stavano preparando in fretta e furia i cavalli. Il cavaliere gli lanciò un mantello per coprirsi e gli urlò:

“Andiamo!” Si misero subito in marcia, cavalcando quasi stesi sulle cavalcature.

Nelle orecchie l'eco del vento, gli occhi appannati di pioggia. Nel paesaggio che si sfumava, notò, sulla linea dell’orizzonte, delinearsi i contorni sfocati dello Spaccaterre, il fiume che tagliava a metà i territori settentrionali di quelle terre. La forte pioggia l’aveva fatto ingrossare e l’acqua agitata sembrava dover straripare da un momento all’altro. “Non possiamo guadarlo.”Pensò Anarion. “E’ impossibile”.

Invece, con Serìa in testa, cavalcarono verso Sud in cerca di un guado finché parecchio tempo dopo, la donna non si fermò vicino alle acque tumultuose del fiume.

“Passeremo in questo punto.”  Urlò per sovrastare il rumore del vento.

“E’ un suicidio!” Gli rispose Anarion.

“Il ragazzo ha ragione, inoltre i cavalli sono sfiancati!” intervenne Zacho “dobbiamo aspettare che il tempo cambi o andare ai ponti a sud.”

“No!”rispose la donna. “E’ proprio il tempo che non abbiamo! Ce la faremo: io vado avanti, il ragazzo al centro e tu per ultimo.”

Detto ciò, iniziarono a guadare il fiume. Ma era un’impresa incredibilmente ardua. I cavalli erano terrorizzati, sicché era difficilissimo farli procedere, mentre la forza dell’acqua aumentava di minuto in minuto. I cavalli erano immersi fino ai fianchi e il freddo dell’acqua ghiacciata arrivava fino alle ossa del ragazzo.

Avevano percorso quasi una trentina di passi ed erano più o meno a metà strada.  Poi d’improvviso il suo cavallo si lasciò afferrare dalla corrente, stroncato dalla fatica o dal freddo, e fu solo grazie a Zacho, che gli afferrò la mano, che riuscì a rimanere a galla.

Il peso della spada e degli indumenti lo tirava verso il basso e per il freddo, aveva perso la sensibilità a quasi tutto il corpo.

La voce di Zacho giungeva ora lontana e sommessa: “Resisti ragazzo, resisti!

Il rumore lontano di un corno sembrò restituirgli un po’ di forza, insieme alle parole del cavaliere:

“E’ Shalia, è arrivata Shalia!”

Ma avevano cantato vittoria troppo presto. Qualcosa urtò contro il cavallo di Zacho, che perse l’equilibrio e cadde in acqua insieme ad Anarion.

Il ragazzo finì sott’acqua e facendo forza con le gambe, riuscì a stento ritornare in superficie.

Mentre la corrente lo spingeva sempre più lontano, vide una cosa incredibile: il cavaliere era stato sollevato in aria e portato sulla riva da una lunga figura d’acqua, proprio mentre Serìa giungeva col cavallo al sicuro. L’essere si diresse poi verso di lui: era un enorme serpente d’acqua, ma un attimo prima che potesse afferrarlo, venne inghiottito dall’acqua verso il fondo e mentre tutto intorno a lui diventava buio riuscì solo a pensare: “E’ finita…”

……………………………………………………………………………

“Maledizione!” Inveì Potere dal profondo della sua prigione luminosa.

“Non può finire così! IO NON VOGLIO MORIRE!”

Si alzò in piedi, sebbene saldamente legato da pesanti catene e iniziò a sprigionare tutta la sua energia nel corpo del ragazzo. Subito le folgori che lo circondavano si strinsero intorno a lui, affondando la loro fiamma direttamente nella sua anima. Ma non urlò. Era un dolore inimmaginabile, come non ne aveva mai provato, probabilmente la morte avrebbe solamente potuto alleviare quella sofferenza, ma l’orgoglio e la volontà lo fecero resistere. Continuò finché non ebbe per un attimo il pieno controllo del corpo del ragazzo e solo allora urlò, sprigionando tutta la forza verso l’esterno. Poi le catene allentarono la loro morsa e lui cadde riverso al suolo, incosciente.

…………………………………………………………………………………

L’atelos camminava tranquillo nella tempesta, sembrava completamente indifferente ad essa. Ma non era così, in realtà vi era totalmente concentrato. Ogni volta era diversa. Acqua dal cielo come non l'aveva mai vista. Si lasciava conquistare, palmo dopo palmo, dalla scia umida delle gocce rotonde, si lasciava percorrere dentro e fuori dell'anima, sotto la pelle intorpidita da quel freddo sconosciuto, unico, il freddo dei temporali, sugli occhi che ormai non vedevano che lei, la pioggia.
Attorno a lui i campi si allagavano, i fiori cedevano sotto i colpi di quel temporale… era la battaglia più serena e vivificante che avrebbe mai potuto immaginare, a suggellare l’inizio della guerra della sua razza.  La sua terra,  lavata da un temporale, fremente come un animale ferito. Nelle orecchie l'eco del vento, gli occhi appannati di pioggia. Un rumore arrivò da lontano, forse un tuono, riscuotendolo bruscamente. Si volse verso le acque vorticose del fiume e una colonna d’acqua enorme si levò improvvisa dalla superficie dello Spaccaterre. Per un attimo il corso dell’acqua si fermò, sconvolto dall’ esplosione. Poi l’acqua ricadde pesantemente nel fiume e la corrente riprese a scorrere impetuosa.

Pochi metri davanti a lui, qualcosa piovve dal cielo, cadendo con un tonfo sordo. Vi si avvicinò con aria circospetta, cercando di capire cosa fosse successo. Fendendo le ombre riuscì a scorgere il profilo del ragazzo accasciato per terra. Chinatosi su di lui, lo osservò con attenzione.

Aveva capelli lunghi biondi a tratti bianchi e il viso sbiancato.

Era quasi nudo: i resti dei vestiti che aveva addosso erano brandelli bruciati. Portava con sé una spada in un fodero di fattura aurorea che era rimasto miracolosamente agganciato al corpo. Non indugiò oltre poiché l’umano, svenuto e con gli occhi riversi all’indietro, era preda a tratti di violente convulsioni.

Si tolse il pesante mantello e con quello avvolse il ragazzo, se non altro per ripararlo dal freddo e dalla pioggia. La luce balenante dei fulmini per un attimo ne illuminò la figura.

Era un atelos della razza notturna. La pelle era scura, quasi grigia, e i capelli avevano riflessi violacei. Aveva un drappo nero legato al braccio destro, come in segno di lutto.  Gli occhi, neri come la pece, guardarono un attimo a settentrione, preoccupati. Strane energie si avvicinavano da Nord ed era meglio evitarle. Si caricò il ragazzo sulle spalle e si diresse a Ovest. Presto si dileguò nella notte, come ombra nell’oscurità.

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Più a Nord, lungo la riva destra dello Spaccaterre, Zacho era appena stato portato a terra da un serpente d’acqua. Adesso quella creatura innaturale stava scandagliando il fiume alla ricerca del ragazzo. Il guerriero tossì violentemente, sputando l’acqua che aveva bevuto.

Quando riuscì ad alzarsi, la prima cosa che vide, sotto la pioggia scrosciante, fu Serìa, ancora a cavallo, che fissava una donna ferma sulla riva del fiume. La donna aveva capelli corti, scuriti e appiccicati sulla fronte e sul viso gentile dall’acqua. Straordinariamente, la ragazza vestiva semplicemente leggeri vestiti all’amazzone, che le facevano risaltare le forme sensuali. Anche lei aveva un ciondolo circolare. Stava immobile, con gli occhi chiusi, quasi stesse ascoltando una voce che solo lei poteva sentire. Era Shalia, una dei Dodici Cavalieri del Sole. Quando lui e Serìa le furono vicini, aprì gli occhi e disse dispiaciuta:

“Non sono riuscita a prenderlo, la corrente l’ha trasportato troppo lontano.”

Fu allora che Zacho perse del tutto la calma: “Sarai contenta Serìa, vero? Abbiamo perso il ragazzo, che adesso probabilmente è morto! Sarebbe bastato aspettare altri pochi minuti o cercare un guado a Sud seppur vicino a Maruyl, che Shalia ci avrebbe raggiunti e aperto la strada nel fiume!”

Si girò spazientito, guardando verso Sud, imprecando. Aveva anche perso tutto il suo equipaggiamento e le spade. Serìa non rispose, ma si rivolse a Shalia cercando di rimanere lucida: “Non c’è altra scelta , devi pensarci tu. Riprendilo a qualunque costo”.

La ragazza non rispose subito, guardò negli occhi Serìa con espressione mite, poi il cielo che ancora riversava acqua sul mondo. Sospirò tranquilla e si avvicinò alle acque tumultuose del fiume. I suoi due compagni si allontanarono, montando l’una sul suo cavallo e l’altro sul cavallo di Shalia. La ragazza si voltò un attimo e sorrise. Poi si girò nuovamente verso il fiume e si lasciò cadere, ad occhi chiusi, nelle acque tumultuose, sparendo alla vista. Zacho e Serìa spronarono i cavalli e iniziarono a cavalcare verso Sud, sicuri che lì avrebbero rivisto la loro compagna con il ragazzo.

 

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Capitolo 16
*** Il popolo notturno ***


l

Erano passati alcuni minuti da quando aveva raccolto il ragazzo. Mentre correva il notturno udì un rumore strano: sembrava uno scrosciare d’acqua più intenso del rumore della pioggia che gli cadeva intorno. Non ci fece caso più di tanto e guardò il buio davanti a sé: presto sarebbe arrivato al luogo del raduno nella foresta. Iniziò a inoltrarsi nella fitta boscaglia, lasciandosi alle spalle la prateria aperta. Continuava a sentire quello strano rumore ovattato seguirlo, ma non si preoccupava: nessun pericolo mortale l’avrebbe mai colto lì e adesso, lo sapeva. Si mise una mano nella tasca dei calzoni e ne estrasse una pietra dalla forma romboidale. Brillava tenuemente: significava che era vicino alla porta. D’improvviso  sentì un tonfo sordo alcuni metri dietro di lui: un albero cadde, mancandolo di pochi passi. Colui che l’aveva abbattuto si elevò in tutta la sua altezza, superando anche le cime degli alberi: un gigantesco serpente d’acqua. Il notturno lo fissò meravigliato…non avrebbe mai immaginato che qualcuno avesse mai osato far ricorso a una magia tanto potente nel territorio notturno. Fissò con rabbia le squame brillanti della bestia e gli occhi sottili come fessure. Da qualche parte doveva trovarsi l’artefice di quell’incanto. Purtroppo non aveva né le forze necessarie né le armi per affrontare un simile avversario, inoltre doveva pensare al ragazzo. Si girò d’improvviso e iniziò a correre con quanto fiato avesse in corpo. La pietra che stringeva in mano brillava ora più intensamente. Oramai era a pochi metri dal portale. Dietro di lui poteva sentire il rettile aprirsi la strada, svellendo la terra e abbattendo gli alberi. Nonostante sapesse che il suo destino non si sarebbe compiuto lì, non poteva fare a meno di avere paura, un sentimento dimenticato da tempo. Gli dolevano le braccia e iniziava a rimanere senza fiato, quando finalmente si ritrovò nella radura. La pietra nella sua mano brillava ardentemente e il notturno pensò di essere finalmente al sicuro. Era a pochi passi dal centro della spiazzo, quando uno spettacolo incredibile e terrificante lo costrinse a fermarsi: davanti a lui era comparso dal suolo un muro d’acqua, che gli sbarrava il cammino, impenetrabile. Velocemente il muro lo chiuse in un semicerchio d’acqua che tagliava a metà il prato e gli chiudeva ogni via di fuga. Provò a toccare l’acqua, ma la mano venne spinta via dal liquido, come se all’interno vi scorresse una corrente indomabile e fortissima. Non poteva proseguire e nemmeno scappare. Il serpente si precipitò nella radura con un guizzo rapido, passando attraverso la barriera come se nulla fosse. Si raggomitolò su sé stesso e mostrò le fauci brillanti all’atelos. Il notturno si aspettava l’assalto da un momento all’altro, invece, improvvisamente, il serpente si sfaldò, ritornando semplice acqua, che cadde a bagnare la terra. Il notturno tuttavia né si rilassò né abbassò la guardia, sapeva benissimo che l’artefice di tutto questo stava per uscire allo scoperto. L’inseguitore si palesò senza fretta  pochi passi davanti a lui.

L’acqua al suolo iniziò lentamente a raccogliersi, dando forma a poco a poco a una nuda figura di natura umana, priva di lineamenti o particolari. Il notturno stentò a credere ai suoi occhi. Non avrebbe mai pensato che un Elementale dell’acqua gli stesse dando la caccia. Erano creature mitiche, antiche quanto il mondo. Possedevano la forza e il vigore degli elementi, oltre che la loro forma. Ma da secoli si erano estinte e le loro tracce persistevano solamente in alcuni umani che discendevano dall’unione tra un Elementale e un essere umano. Doveva trattarsi di uno degli Impuri: umani in tutto e per tutto, ma alcune volte, non troppe per non compromettere il loro equilibrio fisico, potevano assumere forma Elementale. Gli unici di cui si avesse notizia però militavano tra i Dodici Cavalieri del Principe.

L’atelos avrebbe voluto urlare, sperando di non essersi sbagliato, ma il Patto glielo impediva. Improvvisamente avvertì che la pioggia che continuava a cadere era diventata più pesante e appuntita. Alcune gocce addirittura gli ferivano il viso. Era l’Elementale. Poteva controllare tutta l’acqua che la sua mente poteva immaginare e manovrarla a piacimento. E lui si trovava immerso nel suo elemento.

Sentì due voci a destra e a sinistra. Due volti femminili d’acqua gli stavano accanto, sospesi nel vuoto, vicino alle orecchie. Il notturno non poteva saperlo, ma quello era il viso di Shalia.

“Dammi il ragazzo, io desidero solo lui!” Gli sussurrarono all’orecchio due voci atone.

Non prestò più attenzione a quei volti: la sua attenzione era stata catturata da qualcosa che invece sfuggiva a Shalia. Dietro di lei, una sottile scia di ghiaccio si faceva strada attraverso l’erba, passando sotto la barriera d’acqua, avvicinandosi sempre di più. Distolse lo sguardo: intorno a lui si erano formate dal nulla una dozzina di lance acuminate, che brillavano di chiarore mortale, nonostante la scarsa luce.

“Ti prego!” Sentì nuovamente il notturno stavolta in tono impaziente e pressante.

Poi in un istante, tutto si dissolse. Il muro d’acqua, le lance e i volti. La scia di ghiaccio, una volta raggiunto l’Elementale, lo aveva congelato in un attimo, interrompendo i flussi del suo potere. L’autore di quella magia si era già messo a correre a perdifiato verso l’atelos, urlando a squarciagola: “Svelto, aziona il portale! Si libererà.”

Il notturno gettò la pietra in un punto preciso del prato e non appena questa toccò terra, una colonna di luce si levò dal suolo, illuminando a giorno la zona. Vi saltò dentro e mentre veniva avvolto dall’intensa luminescenza, si voltò indietro. Adesso poté vedere chiaramente la figura del suo salvatore: la veste semplice verde scuro, il cappuccio tirato sul viso, nascosto dietro una maschera dalle fattezze animali di una volpe, non lasciavano dubbi.

“Un druido!” Gridò, senza poter fare nient’altro che vedere impotente come questi saltava all’interno della luce, travolgendo lui e il ragazzo nel portale. Un istante dopo, dove si trovavano, due fruste d’acqua si abbatterono, troppo tardi, nel vuoto. Shalia aveva fallito.

………………………………………………………………………………………

Per un brevissimo istante i tre rimasero sospesi nel vuoto, circondati da un caleidoscopio di colori la cui luce feriva gli occhi. I loro corpi si erano come spenti, sembrava quasi che tempo e spazio si fossero annullati, solo i pensieri palpitavano ancora.  Poi il tempo ricominciò a scorrere e rotolarono bruscamente a terra. Sia il notturno che il druido erano rimasti storditi e giacevano a terra, senza fiato. Quanto ad Anarion, giaceva immobile a terra, ancora privo di sensi. “Chi sei?” Avrebbe voluto domandare rintronato il notturno, mantenendosi la testa con la mano, come a voler calmare la confusione che aveva in testa. “Mi dispiace, ma devo prendere il ragazzo!” Disse secco il druido, alzandosi. Nello stesso istante una decina di lance si abbassarono intorno a lui, circondandolo e impedendogli ogni gesto. “Non credo proprio, maledetto…” Affermò un notturno dai capelli e gli occhi color cobalto, puntandogli la punta della lancia alla gola. “L’Astro Nero avrà il piacere di parlare con te per decidere del tuo destino.”

“E’ così che accogliete i vostri fratelli?” Chiese ironico il druido.

Un lampo attraversò gli occhi dell’ atelos che lo aveva minacciato, che gettando a terra la lancia e quasi buttando a terra il prigioniero, gli tolse cappuccio e maschera.

Quando lo vide in faccia, lasciò cadere la maschera dalla sorpresa. Il viso era deturpato da lunghe cicatrici sugli zigomi e all’altezza degli occhi, ma i lineamenti erano ateloi, della razza notturna. “Tu, traditore!” Urlò, più di qualcuno. “Come osi tornare dopo aver tradito la tua patria e il tuo popolo?”

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Quando Anarion si risvegliò, rimase alcuni secondi fermo, in silenzio. Il dolore che sentiva pervadergli ogni arto, ogni muscolo era la conferma di essere ancora vivo. Non riusciva a crederci. Pensava di essere affogato nel fiume e invece era lì, vivo. Sì, ma dove?
Cercò di alzarsi, ma dovette rinunciare, quando una fitta dolorosa lo percorse alla schiena, facendolo ricadere sul freddo giaciglio dove si trovava. Girò la testa a destra e sinistra per cercare di capire dove si trovasse: era solo in una tenda oscura, sdraiato su un sottile materasso poggiato sul pavimento. Non riusciva a capire come avesse fatto a ritrovarsi in quel posto. Il tenue fruscio della  tenda lo avvertì che qualcuno era entrato e si era inginocchiato accanto a lui. Il ragazzo si voltò per vedere in viso chi fosse e incrociò gli occhi d’ossidiana di un notturno. Anche nella penombra che gli ostacolava la vista, Anarion potè capire che era di elevato lignaggio dalla bellezza dei lineamenti. Sul fisico slanciato, incurvato come sotto il peso di un pesante fardello, vestiva una tunica nera, parecchio sgualcita e rovinata e i lunghi capelli erano incorniciati da un diadema d’argento che si intrecciava sulla fronte in una gemma di rosso sfavillante.

“Chi sei?” Chiese stentatamente Anarion, senza riuscire a sollevare il capo per fissare negli occhi l’altro. “E dove mi trovo?”

Il notturno rimase inginocchiato, le mani in grembo, e rispose con tono neutro.

“Sei stato portato qui da un notturno che ti ha trovato ferito vicino alla riva dello Spaccaterre.” Si fermò un attimo, poi riprese, come se essere lì gli costasse grande fatica. “Io sono Alcols e ti trovi in un accampamento notturno.”

Mille pensieri gli attraversarono la mente a quelle parole e soprattutto si accorse con preoccupazione di non potersi muovere liberamente. I suoi movimenti erano come legati, intorpiditi. Fu Alcols a riscuoterlo, sempre col suo tono pacato, quasi grave:

“Non devi preoccuparti, l’effetto della paralisi scomparirà gradualmente. E’ un effetto collaterale dovuto all’incantesimo che ho usato per curarti, purtroppo la magia rigeneratrice non mi appartiene.”

Il ragazzo sospirò, si sentiva a disagio in quella situazione. Il notturno sembrò leggere i suoi pensieri perché disse: “Parlerò con te più tardi.” Disse semplicemente e senza cenno di congedo, uscì dalla tenda, dove regnava ora il silenzio. Dopo alcuni minuti Anarion fu finalmente in grado di muoversi e faticosamente riuscì a mettersi a sedere.

Nella sua mente continuavano a susseguirsi domande senza risposta: dov’erano Zacho e Serìa? Come aveva fatto a salvarsi da morte quasi certa? Cosa ne sarebbe stato di lui? Il filo dei suoi pensieri fu spezzato dalla voce di un atelos che gli era arrivato molto vicino senza che lui se ne fosse accorto. Il notturno si presentò come Yonuel. Era un notturno dai capelli e gli occhi d’oltremare. Gli diede dei vestiti di squisita fattura e gli restituì la sua arma. Passò del tempo con lui senza che nessuno ponesse domande all’altro. Solo alla fine, quando si apprestarono ad abbandonare il luogo, il ragazzo chiese con esitazione. “Chi era l’atelos che si è occupato di me?”

“Era Sire Alcols, l’ultimo Astro Nero del popolo notturno.”

“Perché l’ultimo?”Domandò sorpreso d’improvviso il ragazzo. “Perché il nostro oramai è un popolo senza re.”

…………………………………………………………………..

Anarion trascorse molto tempo in compagnia di Yonuel.  Era un notturno proveniente dai territori meridionali, sul mare. Fissandolo negli occhi, si poteva scorgere il riflesso purpureo dell’oceano  al tramonto e il bagliore accecante del sole infranto sulla spuma, impressi nelle sue iridi. Non era molto estroverso, ma come molti della sua razza lasciava trasparire dalle sue parole una saggezza che ammaliava e affascinava.

Camminarono a lungo nei sentieri pietrosi dell’accampamento. Il tratto di bosco sul quale sorgeva era stato trasformato dalla guerra in un borgo fortificato. Bassi muri di legno rinforzati con pietre circondavano il luogo e piccole torri di guardia erano state costruite lungo il perimetro delle mura. Oltre agli alloggi per i soldati, alcune tende erano usate come armerie e infermerie. Molta dell’antica e florida bellezza derivata dalla pace era stata sciupata e cancellata. Non mercanti o fanciulli si attardavano in quella che sembrava un’ordinata città ma gruppi di soldati vestiti di corazze cerulee e coppie isolate di notturni che tenevano appesi alle braccia drappi neri. L’atmosfera era tagliente e intensa, sebbene fosse quasi mezzodì regnava un silenzio innaturale interrotto solo da brevi folate di vento e dalle parole sussurrate dai passanti. Era quello l’aspetto più viscido e meschino della guerra. Un’influenza, un sordido cambiamento più temibile e pericoloso delle schiere nemiche, che nessun muro poteva fermare e dal quale nessuna armatura o scudo poteva difendere. Si fermarono in un piazzale deserto, su delle seggiole abbandonate.

Rimasero alcuni secondi in silenzio, respirando i profumi sospesi nell’aria, poi Yonuel parlò: “E’ circa un paio di mesi che questa situazione si è venuta a creare. Carovane e accampamenti indistintamente di notturni e albi sono state attaccati e sterminati.  Ovunque le tracce sia di un attacco di notturni che di albi: segni di armi di grossa fattura e frecce atelos e nella pietra incisi epitaffi funebri per i caduti di entrambi gli eserciti.. Nemmeno uno dei corpi degli aggressori è stato trovato. Da questo accadimento se ne sono susseguiti moltissimi simili e nonostante i due popoli si siano uniti per scongiurare questi eventi, non sono cessati.”

“E si sta giungendo alla guerra aperta?” Chiese il ragazzo, interessato a quella storia dove c’erano molti, forse troppi elementi indefiniti.

“Non siamo ancora in guerra.” Specificò . “Ma alcune nostre spie, hanno scoperto che i nemici si stanno muovendo in questa zona e stiamo cercando di circondarli.” Sospirò con rassegnazione.

“Per dopodomani è fissata la riunione delle nostre truppe.” Anarion rimase alcuni secondi in silenzio. Un’altra guerra. Gli sembrava di ricordare di aver sentito Serìa parlare di come la situazione stesse precipitando ovunque.

“La situazione è tragica proprio come immagini.” Continuò il notturno “Senza un re il nostro popolo non può rischiare la guerra.” “Me ne avevi accennato anche prima” Incalzò il ragazzo “Perché Alcols non è più il vostro re?” Il notturno sospirò. “Accadde tutto con la caduta del Principe degli Uomini. Quando Maruyl fu distrutta, rimasero coinvolti non solo il precedente Astro, che morì, ma anche Alcols e sua moglie. Entrambi sopravvissero, ma le ferite che riportarono furono tali che lei morì non lontano da qui, tra le braccia del suo amato, che le rimase accanto fino alla fine e che purtroppo per noi rifiuta di lasciarla anche ora.” Anarion si incuriosì “Cosa intendi?”

“Che negli ultimi venti anni il Re non si è quasi mosso dalla tomba della donna per la quale lui stesso l’ ha costruita, senza voler adempiere ai propri doveri di reggente” Sospirò l’atelos. “Stranamente però ha espresso il desiderio di parlare con te” Il notturno sorrise, speranzoso. “Forse tu riuscirai a strapparlo ai rimpianti del suo passato.” Il ragazzo per un momento rimase indeciso, gli sembrava che la sua meta, Fearin, si allontanasse sempre di più. Si alzò ancora pieno di dubbi, poi il pensiero di incontrare quel re solitario accese la sua curiosità e decise che, dopo tutto, il suo sogno poteva ancora aspettare.

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Uscirono dall’accampamento pochi minuti dopo, quando il sole accennava a salire sulla sua traiettoria celeste. Scortati da nessun altro che da due notturni silenziosi, si incamminarono su un appena accennato sentiero tra gli alberi. “Chi sono quei due?” Sussurrò Anarion a Yonuel, accennando ai due notturni che li seguivano a qualche passo di distanza. “Sono membri dell’ordine dei Proscritti.” Yonuel accelerò quasi impercettibilmente il passo. “Più a sud di qui, nella capitale, si trova il tempio del Fuoco Rivelatore. In quel luogo è possibile conoscere, per chi desidera saperlo, il preciso momento della propria morte, che il fuoco, che lì brucia, descrive a caratteri ardenti sulle pareti del tempio. Tale conoscenza porta però con sé il fardello del mutismo.” Anarion ascoltava meravigliato le parole del notturno, mentre procedevano sempre più nel profondo della foresta e la luce andava sempre più diminuendo.“In tal modo, abbiamo creato un ordine di assassini e guerrieri che affrontano la battaglia senza alcuna paura, lottando dove lo scontro è più disperato e sapendo già se ne usciranno vivi o morti.” Rallentarono il passo fino a fermarsi, dove l’aria si era fatta più pesante e gli alberi così vicini che pochissima luce riusciva a filtrare tra le chiome cupe. Il sentiero continuava serpeggiando tra gli alberi, perdendosi tra curve buie, ma nessuno dei notturni sembrava intenzionato a continuare. “Prosegui pure da solo, non puoi smarrirti.” Il ragazzo non rispose, era ormai abituato a queste frasi enigmatiche degli atelos. Diresse i propri passi verso il cammino di tenebra davanti a sé e dopo pochi attimi si ritrovò avvolto dall’oscurità.

 

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Capitolo 17
*** Sire Alcols ***


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“Phuà!” Il druido sputò un fiotto di sangue dalla bocca. Era ferito a braccia, gambe e torace. L’avevano appeso tra due alberi con pesanti catene di ferro. Ai suoi piedi avevano lasciato la maschera dalle fattezze di volpe. Nonostante il sangue gli scorresse davanti al capo poteva fissare nitidamente gli occhi del suo torturatore, con la stessa facilità con cui poteva vedere i freddi strumenti di tortura vicino a lui che bramavano la sua carne. E nonostante tutto, sul viso, tra vecchie e nuove cicatrici, spuntò un sorriso beffardo. Il gesto non sfuggì al suo carnefice. Era il notturno che gli aveva tolto per primo la maschera. “Perché ridi?” Sembrava che l’atteggiamento del druido lo innervosisse. “Rido perché vedo l’anima nera dei notturni, nera, così nera…” Un colpo di frusta lo raggiunse, facendolo sobbalzare. “Rido di questa totale mancanza di evoluzione. In questi lunghi anni siete vissuti all’ombra di divinità capricciose e dei loro campioni: gli uomini comuni.”

Una seconda sferzata. “Io ho aperto gli occhi. Sono entrato nei druidi, la mia anima è diventata tutt’ uno con il potere illimitato della natura!”

Un terzo colpo lo stava per raggiungere, quando mutando l’espressione in una maschera di rabbia, urlò: “Basta!” La frusta si frantumò fino all’impugnatura, con fragore, gettando a terra il notturno.

“Stupido. Credi che questi sigilli di contenimento servano a fermare il potere che traggo dalla natura?” Sputò a terra. Radici sbucarono dal terreno, strappando le catene del druido, che cadde a terra con un tonfo. Il notturno lo fissò con un misto di rabbia e impotenza. Sapeva che era inutile fermarlo, come chiamare le guardie. Il druido si rialzò, mettendosi la maschera. E così, altero e coperto di ferite, rimase immobile finché poco a poco la sua figura si sfaldò, come nebbia colorata.

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Anarion iniziava a temere quel luogo, se così si poteva chiamarlo. Sembrava che nulla esistesse fuorché il buio. Erano bastati pochi passi per ritrovarsene completamente avvolto. Eppure camminava senza esitazione alcuna, un passo dietro l’altro, come se fosse legato e sospinto dalla tenebra a proseguire in quella direzione. Poi si fermò, gli sembrò quasi di aver perso ogni volontà di proseguire, non riusciva più ad avanzare né a tornare. Rimase ad aspettare: era sicuro, non sapeva come, che sarebbe successo qualcosa. Ma come un sudario l’oscurità si fece più opprimente, fino a mozzargli il respiro e a stringergli la mente in una morsa ferrea. Sembrava quasi che l’oscurità covasse una volontà omicida terrificante contro di lui. Quando stava per disperare la presa ebbe un fremito e poi svanì del tutto, finché anche l’ombra non sbiadì fino a diventare sottile patina che ricopriva ogni cosa. Si trovava in una piccola radura circondata da un muro impenetrabile di alberi che si chiudevano a cupola sul luogo angusto, lasciando al centro un unico spiraglio, una balaustra di rami dalla quale un sottile raggio di luce fendeva il buio. Al centro, confondendosi con le ombre, stava la sagoma d’ebano dell’Astro Nero. Davanti a lui un bastone dalle fattezze draconiche, che reggeva un globo opaco tra le fauci, era conficcato nel terreno per metà. Anarion si avvicinò di qualche passo, osservando attentamente quell’oggetto. Era ricoperto da un sottile strato di polvere, come se non venisse toccato da tempo immemore. Ad un dente delle fauci nere era appeso un ciondolo ovale, con incastonato al centro un opale bianco che però appariva privo di qualunque splendore. Gli occhi del notturno fissavano persi il ciondolo. Dalle iridi di pece non traspariva alcuna vitalità, anche il corpo sembrava privo di qualsiasi vita, mentre sedeva immobile. Il ragazzo si inginocchiò alla sinistra del notturno, silenzioso, fissando prima il ciondolo, poi il re ed infine chiuse gli occhi. Si sentiva soffocare in quel luogo angusto e pensava che trascorrervi troppo tempo  potesse condurre alla pazzia. “Hai paura del buio, Anarion?” Chiese Alcols, senza distogliere lo sguardo dal ciondolo. “Ho paura di ciò che non posso vedere.” Anarion riaprì gli occhi. “Come fai a conoscere il mio nome?” Il ragazzo non potè fare a meno di notare che al contrario dell’Astro Bianco, il Re dei notturni non incuteva lo stesso rispetto. Il suo aspetto misero e malinconico lo facevano sembrare lo spettro del grande Re che sarebbe dovuto essere. “Perché ti stai recando a Fearin?” Il Re  aveva ignorato completamente la domanda del ragazzo. “Voglio scoprire qual è l’origine del mio potere.” Anarion fissava il vuoto, sentendo un’ansia progressiva crescere in sé. “Davvero non lo immagini?” Il notturno si girò verso il ragazzo e per la prima volta lo fissò negli occhi. Il viso, al pari di quello di Ràidames, era marchiato da linee nere lungo i lineamenti e intorno occhi. Anarion abbassò lo  sguardo e gli sfuggì un singhiozzo, si portò una mano a coprirsi gli occhi, ma non riuscì a trattenere le lacrime, che gli rigarono il volto numerose. Quell’ atmosfera tranquilla, seppur cupa, aveva contribuito a dare sfogo a quelle preoccupazioni e foschi pensieri che fino ad allora aveva represso grazie al rapido susseguirsi degli eventi. “Ti pesa così tanto riconoscere che Selonir è stato rinchiuso dentro di te?” Lo incalzò Alcols. Il ragazzo pianse per qualche momento, senza riuscire a parlare, preda di forti singhiozzi. “Non riesci ad accettare di essere la creazione di un dio, mirata al dominio e alla tirannia.” Era incredibile, sembrava che l’atelos conoscesse ogni suo pensiero e si stesse limitando a metterglieli di fronte con terrificante limpidezza. Il notturno tornò a fissare il ciondolo con sguardo lontano: “E più di ogni altra cosa non riesci a sopportare di essere stato e di essere tutt’ ora la causa del dolore e della morte di innocenti.” Anarion continuò a piangere, quelle parole dette con semplicità stupefacente non facevano altro che accrescere una sofferenza e un’ ansia che fino ad allora era riuscito a reprimere non pensandoci. “Ti sbagli, c’è dell’altro!” Ebbe la forza di dire il ragazzo. “Quando capii la realtà, pensai la cosa più dolorosa ed era inevitabile che la pensassi.” I’Astro Nero si voltò per la seconda volta, benché il suo volto continuasse a non esprimere emozione alcuna. “Percepii con esattezza che la mia esistenza era inutile, che non aveva senso.” “Continua” Disse il Re. “Io sono un mostro dalla nascita. Il legame che mi lega a questo mondo si fonda sull’odio e sull’assassinio.”

L’atelos sorrise tra sé e sé, pensando: “Quindi s’è ne accorto…” Anarion continuò.  “Allora per quale motivo esisto e vivo? Ponendomi questa domanda non riuscii a trovarvi risposta.” Il ragazzo digrignò i denti, arrabbiato. “Però per vivere ho bisogno di una ragione,  altrimenti equivarrebbe a essere morto. E così ero giunto alla conclusione che esistevo per scoprire le mie origini, ma una volta raggiunto il mio obbiettivo, non solo ho sentito un grande vuoto dentro di me, ma mi sono sentito nuovamente morto e continuo ad esserlo adesso.” Si asciugò le lacrime e poggiò le mani al suolo, piantandole con forza nella terra. “Perché queste cosa è accaduta a me? Cosa dovrebbe spingermi a vivere? Cosa darà ancora senso alla mia esistenza?”

“Io ti capisco.” Disse toccando con debolezza il ciondolo tenute tra le fauci del drago. “Conosco fin troppo bene la sofferenza che comporta vivere una vita priva di sogni e di qualcuno che abbia bisogno di te.” Il colore degli occhi del notturno sembrò stemperarsi in un ricordo ormai perduto.

“Io vivevo amando mio padre e quando egli venne ucciso, mia moglie…” Si fermò. “Ero felice.”

“Poi quando anche lei mi abbandonò” Si portò una mano all’altezza del cuore. “ Lei che mi aveva salvato da un mondo di solitudine e sofferenza, era divenuta per me molto importante. Desideravo esaudirne tutti i desideri ed assaporare la vita con lei.”

Lasciò che la mano abbandonasse il petto e la appoggiò sulle gambe.

“Ho capito che una persona può divenire forte solo quando vuole difendere qualcosa di importante.” Si voltò nuovamente verso Anarion. “Io non ho nulla che io ritenga valga la pena di difendere, quindi ho perso quasi tutto il mio potere come Astro dei Notturni.”

Sorrise tristemente. “Ma tu…tu sei diverso.”

“La tua vita ha ancora un senso preciso…Tu puoi ancora combattere per ciò per cui vale la pena morire.” Anarion chiese, ancora il viso rigato dalle lacrime.

“Per cosa dovrei ancora vivere? Perché non morire e concludere questa maledizione adesso?

“Sii pronto a sacrificarti non per te stesso, ma per gli altri. Per una vita in procinto di spegnersi per dissennata violenza, per una familiare, per colei che amerai, per giovani vite, per un amico fidato o ancora…”  Il suo volto si intristì “…per il popolo. Per tutte queste persone vale la pena rischiare la vita. La tua forza e la tua vita saranno tese per proteggere le vite innocenti.”

Anarion provò finalmente del conforto sentendo le parole del notturno e capì con chiarezza la sincerità e la fiducia di cui erano intrise. “Proteggili tutti, Anarion. Nell’esatto momento in cui senti che una  vita è sul punto di venir meno riversa tutta la tua anima in sua difesa e combatti. Sarà allora che il potere mortifero di Selonir si tramuterà nella pura luce che da te sgorgherà.”

Aveva terminato, Anarion osservò per alcuni secondi la figura del notturno, tornata nuovamente immobile. Non potè fare a meno di provare pena per il notturno, che perse tutte le persone a lui care, aveva deciso di passare probabilmente il resto della sua vita immortale a custodire il sentimento amoroso che così saldamente l’aveva tenuto legato alla vita. Il ragazzo si alzò, ancora stordito per la tempesta emotiva di sentimenti che l’aveva travolto.

“Ti ringrazio per le tue parole. Solo oggi ho compreso la semplice verità che finora il mio egoismo mi aveva celato. Penserò io a difendere tutti , lo giuro.” Si voltò e con passo lento, ma privo di indecisione si inoltrò negli alberi, restituendo Alcols alla sua solitudine.

………………………………………………………………………………………………

“Non mi piace questa situazione.” Ràidames  uscì dal folto degli alberi, con il bastone bianco dalle fattezze draconiche, fermandosi in piedi davanti al Saggio Nero. “Cosa ne pensate del ragazzo, Alcols?”

Il notturno si alzò, fissando il Re auroreo negli occhi. “ Selinor sta prendendo il sopravvento. Influenza chiunque venga a contatto con l’Incarnazione e lo spinge ad attaccarlo. Prima, mentre stava venendo qui, ho quasi rischiato di ucciderlo. Il potere di Selinor mi ha sorpreso.” Concluse con sguardo serio.

“Cosa suggerite?” Ràidames lo guardò con sguardo indagatore.

Il notturno si risedette. “Non ti suggerisco nulla. Il mio posto è questo, non mi interessa nulla di ciò che accade all’esterno.”

“Come fate a dire una cosa simile?” L’auroreo si era infuriato alle ultime parole dell’Astro Nero. “Non potete continuare a rimanere di guardia a questa tomba, siete uno stolto!” Ansimò come colto da un improvviso malore “Che ne sarà del sogno di pace dei nostri padri?” Ràidames tremò. Tuttavia la pressione della magia di Alcols non mutò. L’oscurità intorno al Saggio Bianco si infittì ed egli stesso sentì una stretta stringersi sul suo corpo. “Non infastidirmi.” Rispose, secco. “Sei ancora giovane e inesperto.” Continuò, freddamente. “Il mio sogno non è nel futuro, ma nel passato.” L’Astro Bianco trovava sempre più difficoltà nel parlare, ma non si arrese, appoggiandosi al bastone. “Come potete aver curato l’anima del ragazzo se la vostra è ferita in modo insanabile?” Il notturno rimase in silenzio, ma la presa sull’auroreo non si allentò. “Credete che non sia in grado di capire? Ed invece vedo benissimo l’illusione che avete costruito intorno a voi” Alzò il bastone e la luce bianca che ne scaturì  invase per un momento la radura e quando dopo un attimo scomparve, una nuova figura si era palesata nel luogo. Era una donna di fiori rosa, di straordinaria bellezza, i cui capelli lunghi, petali rosso sangue, erano lunghi quasi quanto lei stessa. Eppure ogni espressione di vita era scomparsa dal viso grazioso e splendente, che stava quasi immobile appoggiato a quello rapito di Alcols. “Cos’è, vi vergognate a mostrare la vostra debolezza agli altri?” Un grido di dolore sfuggì a Ràidames. “Non ti servirà a nulla eliminarmi. Sai che ciò che dico è vero!” Respirando a fatica l’auroreo insistette “Come potete aver dimenticato l’ideale che vi univa, per il quale lei ha dato la vita!” Una risata cristallina, senza allegria, interruppe l’accorato appello di Ràidames. Alcols scattò in piedi e cingendogli le ginocchia con le braccia rosee la donna rimase immobile. Un atelos, un notturno, si fece avanti nella radura, entrando nell’esile zona illuminata, applaudendo sarcasticamente. “Davvero un amore che trascende il tempo, giovane notturno.” L’atelos era a petto nudo e portava legati a tracolla un arco lungo e una faretra colma di frecce, mentre dalla vita gli pendeva una lunga spada ricurva, dal metallo nero. Alcols fremette per la rabbia e fendenti neri iniziarono a vorticare intorno alla figura dell’intruso, mentre le tenebre abbandonarono Ràidames, che rimase a stento in piedi, guardando con preoccupazione lo strano notturno. Era insolitamente alto e portava i capelli lunghi fino alle ginocchia: l’aspetto rude e selvaggio ricordava ai due Astri quello di un cacciatore. Un suo gesto seccato della mano disperse i lembi vorticosi che gli giravano intorno. “Perché tutta questa rabbia?” Chiese sorridendo “Sono venuto a proporti un patto in cambio della tua neutralità.”

L’Astro Bianco digrignò i denti dietro di loro “Figlio di Potere, abbandona questo luogo, prima che…” Tum.  Ràidames cadde al suolo con un tonfo e il suo bastone rotolò sull’erba urtando quello d’ebano di Alcols. Su di lui torreggiava la figura alta e robusta di un albo armato pesantemente. Quasi completamente ricoperto da un’armatura d’acciaio, brandiva due spade e da una delle due colava il sangue del Saggio Bianco. Ràidames era rimasto a mala pena cosciente e quando cercò, strisciando, di afferrare il proprio bastone, l’albo gli bloccò la mano pestandogliela con un piede.  Tuttavia Alcols non sembrava intenzionato ad aiutarlo.

“Riporterò in vita tua moglie con il mio potere.” Disse Reinor, il notturno figlio di Selonir. L’Astro Nero spalancò gli occhi, poi fissò il fantasma dell’amata da lui creato. Gli prese il viso tra le mani, sussurrando: “Di nuovo uniti, di nuovo insieme.” Intanto Ràidames aveva perso la pazienza. Non avrebbe voluto combattere in quel luogo, ma non aveva scelta. Facendo appello alla magia ereditata da suo padre, evocò un getto di crepitante energia che scaturito dalla sua mano libera investì l’albo, scaraventandolo nel folto degli alberi. Poi afferrò il proprio bastone, ma prima che potesse richiamarne il potere, una freccia gli trapassò il braccio destro, facendogli cadere l’oggetto di mano. Reinor aveva messo mano all’arco e aveva colpito con mortale precisione l’Astro Bianco proprio all’altezza del gomito, impedendogli ogni ulteriore uso del braccio. Ràidames cadde a terra, impietrito dal dolore. “In cosa dovrei essere neutrale?” Alcols era indifferente ad ogni evento “Io e mio fratello Sular abbiamo intenzione di ingaggiare battaglia con i nostri rispettivi popoli, stiamo radunando un’armata demoniaca e fra breve passeremo all’attacco. Vogliamo verificare quale sia il migliore in battaglia.” “Proprio così.” Confermò l’albo, entrando nuovamente nella radura, senza aver riportato alcun danno dall’attacco dell’Auroreo. Il Re notturno non proferì verbo, ma dall’espressione allucinata, l’auroreo non ebbe dubbi che avrebbe accettato. Tuttavia entrambi gli Astri si erano dimenticati dei legami che li vincolavano ai loro doveri. Ci furono secondi di terrificante silenzio, durante i quali ogni sguardo era posato sulla figura tremante di Alcols. Questi poi versò un’unica lacrima dagli occhi, quasi il suo cuore piangesse per le sue stesse azioni. Nello stesso istante in cui Alcols sussurrò “Accetto” tenendo il viso della propria amata tra le mani, la ninfa fiorita iniziò a disperdersi, quasi una folata di vento improvvisa l’avesse portata via. Persino i due Figli di Potere rimasero stupiti, solo Ràidames sembrava essersi avvicinato a comprendere la verità e ne ebbe la conferma pochi istanti dopo. Il notturno, disorientato da quell’evento, afferrò il proprio bastone, estraendolo dal terreno e il ciondolo cadde per terra, dimenticato. In pochi attimi il bastone draconico iniziò a sbriciolarsi in polvere sotto gli occhi atterriti del Re notturno. Il globo opaco si infranse in mille frammenti, che svanirono immediatamente in cenere. Alcols cadde sulle ginocchia intontito proprio davanti alla figura tremante di Ràidames. “Hai perso i tuoi poteri.” Mormorò con voce vibrante l’Astro Bianco “Accettando lo sterminio del tuo popolo, hai abiurato al tuo ruolo di Sire. Hai tradito i tuoi ideali!”Ansimò “Gli stessi per i quali Erenil è morta!” Quel nome, pronunciato con tanta veemenza sembrò riportare la vita negli occhi del re decaduto, che si inumidirono subito di amare lacrime. Contemporaneamente l’oscurità nella radura iniziò a infittirsi, facendo sparire alla vista i due Figli di Potere.

“Solo per una volta avrei voluto poterla guardare, poterla toccare. Il suo solo ricordo mi inumidisce gli occhi.” Singhiozzò e finalmente rivide il ciondolo e lo afferrò con delicatezza, stringendolo nel pugno. “E finalmente mi sono reso conto della mia totale stupidità.” Le lacrime iniziarono a rigargli il volto “Mi ero dimenticato che un fiore appassito non rifiorisce più e che sia i mortali che le stelle posseggono una sola vita” Si rialzò in piedi. Stringendogli la mano, aiutò Ràidames a rialzarsi. “Ho sbagliato e devo rimediare ai miei errori.” Intorno a loro sentirono nuovamente i passi delle due divinità. “Raggiungi Anarion e aiutalo, non difenderlo. I druidi gli danno la caccia.” I’Astro Bianco raccolse piegandosi con fatica il proprio bastone. “Permettimi di rimanere, se combatti da solo morirai.” Alcols sorrise. “Io non sono solo.” E il ciondolo tenuto nel pugno, fino ad allora opaco, rifulse talmente intensamente da lacerare in parte l’oscurità del luogo. “Ora vai, e perdonami se puoi.” Sorrise tristemente. Ràidames si allontanò a passo zoppicante, appoggiandosi sul bastone e ad ogni passo piangeva, perché aveva capito il senso del sacrificio che Alcols si apprestava a compiere. “Sei il degno figlio di tuo padre, dimostra la sua stessa forza nel combattere per entrambi i nostri Reami d’ora in poi.” L’Astro Bianco si fermò un attimo e senza voltarsi disse: “Mi renderò degno anche di Sire Alcols, ultimo e nobile erede dei Re notturni.” Dettò ciò sparì nella boscaglia, lasciando dietro di sé la figura tremante di Alcols. Il notturno aprì il palmo  della mano con il ciondolo davanti a sé e mormorò “Grazie”. Il ciondolo esplose in lampo di bagliori dorati e tutto fu avvolto da vivida luce.

 

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Capitolo 18
*** Combattimenti ***


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La luce sprigionata dal ciondolo si trasformò in breve in polvere luminosa che lentamente cadde al suolo. Alcols strinse il pugno che prima manteneva il ciondolo e intorno a lui lembi di oscurità iniziarono a vorticare talmente velocemente che per alcuni secondi la sua figura ne fu totalmente celata. Fu in quel momento che le due divinità riapparsero nella radura, le armi in pugno. “Nascondeva dunque un tale potere?”  Chiese Sular sorpreso. “Esatto” Mormorò Reinor “E’ l’Elementale dell’Oscurità.”

La creatura che si mostrò ai divini occhi non era più Alcols, ma un essere che sembrava trascendere la comune comprensione mortale. Una sagoma di pulsante tenebra che sembrava contenere in sé l’essenza stessa dell’universo si stagliava immobile al centro della radura, lo sguardo fisso nel vuoto, in attesa. Non si riusciva a distinguerne né i contorni, né a fissarne il volto o reggerne lo sguardo perché gli occhi potevano perdersi nel vuoto infinto di cui l’Elementale era l’emanazione. Le due divinità si sentivano schiacciare sia sulla pelle che nel cuore. Sembrava che ciò che era diventato Alcols fosse in grado di controllare il buio non solo nella natura, ma anche la tenebra dell’anima di ogni essere vivente. L’Elementale ebbe un lieve fremito e l’oscurità intorno a lui tremò. Una luce accecante esplose proprio davanti a lui, tanto che solo la sua sagoma oscura rimase nitida nel bagliore scaturito dalle ultime scintille del ciondolo. La luce diminuì, ma rimase tanto forte che sembrava contrastare, anzi equivalere e rimanere in armonia con l’oscurità precedente. Sforzandosi, in quello spettacolo del tutto innaturale per i mortali, le due divinità riuscirono ad intravedere una figura nell’accecante luminosità, fatta della sua stessa sostanza. L’Elementale della Luce era l’opposto di quello dell’Oscurità, eppure erano indissolubilmente legati l’uno all’altro. I suoi contorni erano sfuggenti, sembravano espandersi e variare continuamente, come pura essenza vitale mutevole e cangiante. Le unica cose definite erano il volto, bellissimo, che sembrava brillare di uno splendore ancora più intenso di quello di cui era circonfuso e la chioma dorata, simile a una cascata di stelle in un cielo diurno. Giorno e Notte, luce e buio erano di nuovo congiunti e uniti e i loro Elementali di nuovo insieme, uno davanti a l’altro. “Erenil” Alcols mormorò tenuemente quel nome e una lacrima gli scese sul viso, una stella cadente dell’universo che dal suo viso si intravedeva. Erenil alzò una mano a sfiorare il viso dell’amato e al contatto le due forze generano un bagliore di scintille cristalline. Le due divinità assistevano del tutto inermi a quello spettacolo, incapaci di muoversi o reagire contro forze tanto colossali. Alcols si avvicinò all’amata, cingendole la vita con le braccia ed Erenil si abbandonò all’abbraccio dell’amato, appoggiandogli le mani sul petto. Due mondi si fusero e luce e tenebra presero a vorticare sempre più veloci intorno ai loro detentori, fondendosi in scintille abbaglianti che tutto nascondevano eccetto i volti dei due amanti. “Di nuovo insieme” Sussurrò la donna alle labbra del notturno. Alcols chiuse gli occhi, felice “Stavolta per sempre…” I due amanti si congiunsero nel bacio colmo di passione, divisi dalla morte e riuniti dall’amore, e sparirono insieme alla vista, circondati dalle energie da loro stessi evocate a difendere il mondo che li aveva uniti. Per un momento tutto si fermò, il silenzio fu assoluto e Reinor intuì ciò che stava per accadere, ma non ebbe il tempo di scappare. L’esplosione di scintilla vitale che seguì travolse ogni cosa, privandola della vita e disperdendola in particelle di luce e tenebra finché dopo il rombo di potenza non tornò il silenzio e la pace nella radura. Nulla era rimasto tranne il soffice manto erboso e il bastone di Alcols. Il legno d’ebano era nuovamente conficcato nel terreno e dalle sua fauci pendeva di nuovo il ciondolo di Erenil. Nelle profondità insondabili della magia, avrebbero sorvegliato l’inizio e la fine di ogni vita, insieme all’anima dei due innamorati.

Alcune ore più tardi, quando calò la sera, un lieve vento iniziò a soffiare sulla radura deserta e una figura alata atterrò silenziosa sul luogo. Nascosta completamente da un manto bianco, nulla lasciava trasparire sotto le vesti nivee. Rimase a lungo in silenzio, mentre il vento agitava le piume candide delle sue ali. La voce morbida e delicata suonò malinconica, parlando all’aria: “Quando innumerevoli vite sono perdute e la battaglia è finita, posso percepire nel vento le anime addormentate in questa terra, dopo aver consumato la mia, e quelle di chiunque sia entrato nella leggenda.” Sospirò lievemente. “Continueremo insieme a vivere nel vento.”

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Il grido lacerante di Yonuel squarciò il silenzio tenebroso delle foreste atelee. Il sangue scorreva a fiotti dalle ferite causate dalle antiche maledizioni invocate dal druido, mescolandosi alla terra bruciata in pochi istanti dai fulmini evocati tramite la sua magia. I corpi straziati dei Proscritti giacevano al suolo, privi di vita e lo stesso Yonuel avvertiva il suo spirito abbandonare le membra attraverso le ferite. Cercando disperatamente di rimanere cosciente il notturno riusciva a malapena  a distinguere la figura immobile del druido.

“Che desolazione!” Il traditore rise sarcastico “Meritate davvero l’estinzione.”

Compì alcuni passi verso Yonuel che, steso a terra, cercava invano di rialzarsi. “Sai cosa mi irrita maggiormente di voi? Questa totale e assoluta mancanza di evoluzione.” Si chinò sulle ginocchia, alzando con una mano il viso del notturno in modo che i loro sguardi si incrociassero.

“Potreste dominare, ergervi al di sopra delle altre razze e avere il controllo sulla vita  e la morte degli esseri viventi.” Sputò a terra “ E invece vivete rilegati in queste misere lande, tenendo fede alla vostra tradizione di semplici osservatori.” Sorrise, maligno. “Basterà la mia forza a spazzare via ben più della razza notturna.” Yonuel alzò il braccio destro, come a voler fermare quel delirio, ma la mano gli cadde priva di forza sull’erba, mentre lui scivolava nell’incoscienza.

L’ultima cosa che vide fu, oltre la figura china del druido, la sagoma ormai familiare di Anarion sbucare dal fitto degli alberi, avvolto da una pallida luce. Poi il buio.

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Anarion aveva immediatamente avvertito un pericolo incombente nel medesimo istante in cui aveva      abbandonato la prateria di Alcols. Eppure non riusciva a capire se tale pericolo venisse dietro di     lui o lo aspettasse fuori dalla foresta. I suoi sensi erano ancora alterati dai sentimenti che la conversazione con l’Astro Nero aveva suscitato in lui. Eppure dopo la presa di coscienza della sua situazione, con la consapevolezza aumentava anche la facilità con cui riusciva a richiamare il potere di cui Selonir lo dotava. Già allora, man mano che sentiva il pericolo incombere, la magia di Potere si sprigionava in luce dal suo corpo, pronta ad essere usata al primo accenno di pericolo. A ogni passo vedeva la luce farsi più forte, fino a quando fu finalmente fuori dall’intrico di alberi e oscurità. Eppure gli bastò un’occhiata per capire che i problemi di quella giornata errano ancora ben lontani dalla loro conclusione. Davanti ai suoi occhi, in un lago di sangue giacevano Yonuel e i due Proscritti e il loro carnefice lo fissava immobile, con una maschera che gli copriva il viso. Altro sangue era stato versato per lui, per proteggerlo. Non riuscì a fare a mano di odiarsi in quel momento. Riuscì a stento a controllare l’energia che spingeva per prorompere dal suo corpo. Non doveva lasciarsi manovrare come un burattino dai suoi poteri, ma agire come essere umano consapevole, si ripeté. Si diresse verso il druido e questi disse: “Finalmente ti vedo Incarnazione, l’attesa dei Druidi durata venti anni è finalmente terminata.” Ma Anarion lo ignorò completamente, passandogli accanto senza nemmeno degnarlo di uno sguardo, con stupore e rabbia del druido. Il ragazzo si inginocchiò al fianco del morente Yonuel. Non aveva mai provato a usare la magia per scopi curativi, ma forse poteva ancora salvarlo. Concentrò la sua magia sulle punta delle dita, avvolte da una chiara luminescenza, ma non riuscì a sfiorare il corpo dell’auroreo. Un aculeo di roccia emerso dal terreno cercò di trafiggerlo al petto e solo gettandosi di lato riuscì ad evitarlo.

“Dove credi di essere?” Urlò il druido “Sei sul campo di battaglia e hai un nemico davanti a te!

Se ti distrai morirai, stanne certo.” Gli occhi di Anarion, spazientito da quelle parole arroganti, arsero d’improvviso come braci. “Se davvero desideri che ti mostri la via verso l’oltretomba sarai accontentato.” Si rialzò d’improvviso e un lampo bianco scaturì dalla sua figura dirigendosi contro il notturno. Lame di roccia spuntante dal suolo si frapposero tra il druido e la magia di Anarion, disperdendola. In un attimo poi una violenta corrente d’aria foggiata a mo di lancia colpì in pieno       petto il ragazzo, che sputando un fiotto di sangue dalla bocca, venne scaraventato contro un albero, cadendo poi al suolo. Più che al dolore Anarion non riusciva a fare a meno di pensare quanto fosse potente il suo  avversario. “Ora che l’hai provato sulla tua pelle, riesci a comprendere?”          

Disse il Druido con voce atona. “La tua forza non può ancora nulla su di me.” Iniziò ad avvicinarsi al ragazzo a passo lento. “Tuttavia l’energia di divina origine che in te alberga ti ha permesso di resistere al mio attacco senza morire.” Lo fissò con sguardo quasi eccitato. “In te è imprigionato un dio… Uno dei più potenti: Selonir. Ma se il suo potere è detenuto da un essere indegno quale tu sei, non è altro che un’inutile zavorra.” Pestò il viso del ragazzo con un piede.

“Quando ti rechi sul campo di battaglia non dimenticare di preparare adeguate protezioni.” Fece più forza con il piede, sentendo che il ragazzo cercava di liberarsi. “Per di più non ti sei accertato della mia forza prima di affrontarmi e mi hai attaccato frontalmente senza alcuna strategia.” Un’altra saetta fluì dalle braccia del ragazzo, ma con un salto all’indietro il druido schivò il potente ma goffo attacco. “Il mio potere mi consente il completo dominio dei fenomeni della natura.” Anarion riuscì  a stento a rialzarsi, ascoltando incredulo le parole del notturno. “Ciò che rende la natura imprevedibile per l’uomo è il fatto che essa distribuisce i maniera del tutto casuale vita e morte agli uomini.” Nuvole nere iniziarono a raccogliersi su si loro, mentre un rombo indefinito e lontano sembrava provenire dal sottosuolo con crescente forza.

“Io invece posso volgere in una manifestazione esclusivamente mortifera qualunque fenomeno naturale.”  Sospirò a fondò, mentre le sue braccia fendevano l’aria e le sue mani disegnavano i contorni delle costellazioni nell’aria.

“Volgo in morte la pioggia, una veste ghiacciata che tutto trapassa e trasformo le vene della terra che serpeggiano nelle sue profondità in una morte di nuda pietra che riduce ogni cosa in cenere.” Decine di lame di nuda roccia taglienti come lame sorsero dal terreno dirigendosi sul ragazzo come dotate di volontà propria. L’energia di Anarion riuscì a malapena a salvargli la vita, ma non poté evitare di rimanere imprigionato e pesantemente ferito. “Dispera, mortale!”

Stille di pioggia nere e velocissime iniziarono a cadere dal cielo trafiggendo le membra di Anarion. La malvagità a guisa di pioggia nera trafisse il ragazzo fino nello spirito come una lancia acuminata, una lama che risucchiava la vita. Eppure con il dolore che cresceva e avvertendo la morte alitargli sul collo, Anarion avvertiva sempre più forte qualcosa farsi largo nella sua coscienza, una forza che lottava per uscire  allo scoperto e distruggere il sigillo che la bloccava. Non riusciva a capire cosa fosse, né a controllarlo, qualcosa dentro di lui glielo impediva.. Il ragazzo non riusciva in alcun modo a difendersi, era travolto da forze così spaventose quali non aveva mai sperimentato. Nemmeno l’energia di Selonir valeva a disperdere l’inferno che lo circondava. Più volte provò a far esplodere la sua energia, ma non era valsa a fermare che  per pochi secondi gli attacchi del notturno. Quando ormai era convinto che fosse finita, ogni cosa si placò e lui rimase  immobile, ormai privo di forze, trafitto e immobilizzato tra le rocce. Il sangue sgorgava a fiotti dalle sue ferite, bagnando la pietre e scendendo a rigagnoli fino a bagnare il suolo. D’improvviso le rocce si ritirarono e lui cadde  riverso sul suolo, come un fantoccio. Riusciva a malapena  a distinguere la figura del Druido. Egli non lo fissava più, anzi adesso aveva lo sguardo fisso verso la foresta dove risiedeva Alcols, sembrava preoccupato per qualcosa, come se cercasse di capire cosa stesse succedendo lontano da lì. Improvvisamente una fortissima esplosione squarciò l’aria, l’aria fremette e un rombo violento scosse ogni cosa. Una colonna di luce ed ombra strettamente intrecciate si sollevò dalla foresta, perforò il cielo e squarciò l’oscurità che avvolgeva il luogo come un sudario. Ogni angolo e anfratto della foresta fu investito da un bagliore accecante e in pochi istanti tutto si dissolse in una cortina dorata che sfumò ogni dettaglio in particelle di luce.

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Sovrastando la confusione e il dolore che permeavano i suoi sensi, Anarion sentì una voce parlargli   come sussurrata alle orecchie. “Cosa stai facendo?” Gli domandò con tono di rimprovero. “Non avevi forse promesso ad Alcols di combattere? Hai già dimenticato che Ràikas e Alreyd si sono spenti affidando le loro speranze a te?” Il ragazzo rispose, come cercando di scusarsi.

“Ma il notturno è troppo forte, troppo.” Chiuse gli occhi disperato “Non c’è più niente che mi sostenga.” La voce si fece comprensiva. “Non temere”. Gli sembrava di averla già udita in passato, ma non faceva parte dei suoi ricordi.  Si sentì afferrare e sollevare delicatamente, sospeso a mezz’aria. Si voltò. Un essere ammantato completamente di bianco e dalle eburnee ali piumate lo sorreggeva. Ebbe un sussulto. Il viso nascosto sotto il cappuccio era quello di Alcols. Anzi no, era più maturo e negli occhi di questo erano impressi una serenità e una regalità che l’Astro Nero non possedeva. “Saranno i cuori di coloro che credono in te a darti la forza di avanzare.”

“Ma anche se mi rialzassi, il suo potere è comunque troppo superiore.”

L’alato sorrise. “Alzati e vai avanti, chi ti sosterrà è già al tuo fianco.”

 

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Capitolo 19
*** Disperazione e salvezza ***


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Riaprì gli occhi, in piedi, saldo e fermo nonostante le ferite. L’esplosione si era placata, ma l’

aria ancora fremeva. Il druido adesso lo fronteggiava nuovamente, ma stavolta Anarion non era  solo. La figura torreggiante di Ràidames si stagliava al suo fianco e la sua pelle era avvolta da un niveo bagliore. Il braccio destro era nascosto sotto il mantello, mentre la sinistra stringeva il bastone draconico, sfolgorante di energia. I segni del viso erano più luminosi che mai e il candore degli occhi totale; pareva che i lineamenti scomparissero nella luce che li avvolgeva. Sorrise alla vista  dell’amico ritrovato: sì, oramai lo considerava un amico, forse era stupido a pensarla così  e forse era anche l’unico dei due a farlo, ma il suo legame con l’auroreo era la cosa che conosceva che più si avvicinasse all’amicizia. L’Elementale alla sua sinistra per un attimo lo lasciò allibito. Non era riuscito immediatamente a notare la forma vagamente umana che le fiamme disegnavano. Era una donna composta di fuoco crepitante, che bruciava senza consumare nulla o diminuire d’intensità la sua violenza. Anzi pareva che poco a poco il volume delle fiamme aumentasse. Dovette fissarne il viso per parecchio tempo prima di riconoscerla: era Serìa. Emanava un calore sorprendente, quasi opprimente, come una fiamma che si agita per bruciare ogni alito di vita. I lineamenti bianchi, unica cosa ferma nel volto continuamente in movimento, esprimevano una gioia sadica, una trepidazione a stento trattenuta. Girò debolmente il viso indietro, con la vista leggermente opaca per il sangue che colava dalle ferite, sugli occhi. Il viso mite di Zacho incontrò il  suo e per un momento Anarion si scoprì rassicurato, la presenza di quel uomo che stava divenendo per lui qualcosa di più di un compagno d’armi lo rassicurava. I suoi occhi scivolarono poi sulla figura accanto a quella del guerriero. Era una donna dalla dolcissima bellezza. I lineamenti candidi e il chiarore niveo della gote erano incorniciati da una bruna chioma di corti capelli, tenuti sciolti. Gli occhi della misteriosa donna irradiavano una tranquillità che scioglieva ogni preoccupazione. Quando gli sorrise, Anarion arrossì, sorpreso: sembrava che ogni suo dolore e rammarico fossero stati mondati dalla tenera grazia della donna. Il rombo della terra sotto i suoi piedi ruppe il  fragile incanto che si era venuto a creare in quel teatro di morte. Si girò di scatto e ogni tranquillità era sparita dal suo viso, divenuto una maschera di astio e rancore. Il druido era ancora lì immobile, con il viso celato ancora dai fittizi lineamenti animali della sua maschera. Sembrava non curarsi del fatto di essere rimasto solo contro una simile compagnia.

“Fatti da parte, ragazzo.” Le fiamme di Serìa crepitarono queste parole. “E’ evidente che si tratta di un avversario al di là delle tue forze.” E con tracotanza fece un passo avanti, bruciando l’erba sulla quale il suo piede avanzò. Ma una mano la fermò, trattenendola per il braccio. Si girò furiosa e sorpresa: chiunque veniva divorato dalle fiamme prima ancora di poterla sfiorare. Eppure la mano di Anarion non ricevette ingiuria alcuna dalle fiamme rabbiose della donna. “Mi dispiace, Serìa” disse pacato, ma perentorio. “Quel notturno mi deve pagare diversi debiti e devo farmeli restituire adesso e per intero, quindi non intrometterti.” La donna cercò di divincolarsi con un gesto di stizza, ma il ragazzo non allentò la morsa. Sembrava che dalla sua figura mite si stagliasse un ombra scura e tetra che irradiava una tale oscurità e un tale potere da annichilare ogni volontà di contrastarlo.                                                                                                  

Serìa si arrese e quando Anarion la lasciò andare arretrò di un paio di passi, visibilmente corrucciata, senza proferire verbo. Zacho sorrise, compiaciuto:  il ragazzino immaturo, continuamente dominato dalle sue emozioni e preoccupazioni, quasi da esserne schiavo, in pochi giorni aveva acquisito una tale sicurezza da maturare fino a quel punto, sia come guerriero che come uomo. Tuttavia Ràidames non pareva convinto e si avvicinò al ragazzo, rimanendogli appena dietro le spalle, limitandosi a parlargli, a bassa voce. “Cerca di non esagerare, Anarion.” Il tono delle sue parole era sinceramente preoccupato. “Se abuserai incautamente del potere di Selonir, i legami che lo tengono prigioniero dentro di te si allenterebbero fino a liberarlo e allora avrebbe il pieno controllo su di te.” Il ragazzo sentì un brivido percorrergli la schiena. “Devi essere tu a controllare l’energia che in te alberga e non viceversa; devi agire come essere umano consapevole e non come un burattino.” Il ragazzo ebbe l’impressione di aver già sentito quelle parole, gli ricordavano quelle di Alcols. Il solo pensiero del notturno, della consapevolezza che esisteva qualcun altro che aveva patito la sua stessa sofferenza, lo fece sentire sollevato. Non era più solo: adesso era circondato da persone che avevano fiducia in lui e volevano proteggerlo. Ma sarebbe stato lui a proteggerli tutti. Non avrebbe più permesso che nessuno morisse per l’assurda brama di potere del mostro imprigionato dentro di lui. A costo di perire lui stesso.

L’energia premeva con violenza sotto la pelle, quasi volesse squarciarla per uscire all’esterno. Eppure non aveva paura né provava dolore, anzi, intuiva distintamente che liberare tutto quel potere non avrebbe avuto nessuna ripercussione su di lui, anzi l’avrebbe aiutato. Aiutato a distruggere il druido, il nemico che gli si opponeva ancora con sfrontata caparbietà, nonostante solo contro molti suoi pari. Ancora adesso sembrava quasi che la maschera con la quale il notturno si nascondeva il volto gli ridesse malvagia, lo deridesse per l’impotenza appena dimostratagli nell’opporsi ai suoi poteri.

“Persisti nella tua resistenza?” Sibilò, maligno. “Per quante volte tu possa rialzarti, io continuerò ad atterrarti.” Alzò la mano destra,col palmo aperto,  puntando le dita affusolate verso il ragazzo.

“A vermi del tuo stampo non è dato di superarmi.” E scomparve. In pochi istanti la sua immagine si riempì di crepe e si frantumò in mille cocci multicolori, che scomparvero quasi immediatamente in polvere. Anarion sapeva che il druido era ancora lì, ora invisibile, e si stava preparando ad attaccare. Anarion notò con soddisfazione che il notturno era diventato più cauto nel suo agire, forse spaventato dal numero dei nemici o dalla nuova risoluzione del ragazzo. Un pensiero gli attraversò la mente, una rapida intuizione che avrebbe salvato la sua vita e quella degli altri. Iniziò a far fluire la magia che gli restava nel suolo, attraverso i piedi e un tenue bagliore si sprigionò, disperdendosi rapido nei fili d’erba tutto intorno. Ora bisognava solo aspettare. Gli altri erano tutti immobili, nessuno si muoveva, erano tutti ugualmente tesi nel cogliere possibili movimenti del nemico invisibile. Solo la ragazza, Shalia, pareva indifferente a tutto, staccata leggermente dagli altri, concentrata unicamente nel tentativo di strappare alla morte Yonuel. Il notturno era incredibilmente ancora vivo, tuttavia versava in condizioni terribili. Ustionato terribilmente e con uno squarcio all’altezza della spalle destra, aveva gli occhi vitrei fissi verso il cielo. Eppure Shalia pose con speranza le mani su di lui e lentamente rivoli d’acqua argentei fluirono dalle sue dita, bagnando il corpo martoriato del notturno, alleviando le bruciature e ricucendo i tagli man mano che i fili argentei vi scorrevano sopra. L’acqua, pura e vitale, lavava via la morte dal corpo del notturno, restituendolo poco  a poco alla vita. Poche gocce di sudore imperlarono la fronte della donna, che fragile ed indifesa, stava china sul corpo del ferito, totalmente priva di protezione. D’improvviso una voce interruppe la sua concentrazione, facendo scattare in allerta tutti gli presenti. “E così tu vorresti farmela pagare?” Il tono sarcastico fece tremare dall’impazienza e dalla rabbia il ragazzo, ed una vaga luminescenza nera iniziò a sprigionarsi dal simbolo rosso sulla sua schiena. “E così vorresti difenderli tutti? Cosa mi dici allora di Alcols, il cui corpo vaga ora in polvere su questa terra? Dovevi difendere anche lui?” Il ragazzo si guardò attorno, agitando i pugni verso il vuoto. “Tu menti!” Urlò.

La voce del druido gli rispose, stavolta incredibilmente vicina. “Chiedi all’ auroreo.” Anarion si girò di scatto, fissando il viso di Ràidames, cercando nei suoi occhi la smentita a quelle parole. Ma la risposta gli era negata, gli occhi dell’Astro Bianco erano chiusi, in un dignitoso dolore. Il ragazzo serrò i pugni, mordendosi il labbro per non urlare, talmente forte che iniziò a sanguinare. Il ragazzo non avvertiva adesso più la resistenza alla rimozione del sigillo che fino ad allora aveva combattuto dentro di lui. Era stato scardinato, distrutto insieme alla consapevolezza della perdita del proprio autocontrollo. “Non temere, altri lo seguiranno.” Ancora prima di finire di parlare, la figura del druido emerse dal nulla, come partorita dall’aria stessa, rapida come fulmine che si abbatte al suolo e sparisce con altrettanta velocità dopo aver devastato ogni cosa. Il suo pugno avvampante si abbatté con ferocia sull’immobile Shalia, che nemmeno distolse lo sguardo da Yonuel per fissare il suo assalitore. E infatti la fiamma non la raggiunse. Il fuoco divampò, deflagrò con potenza ma venne respinto, a pochi centimetri dal corpo di Shalia, da una barriera invisibile e la fiamma magica disegnò la sua sagoma esile contro il cielo: una piccola cupola che racchiudeva al suo interno tutti i presenti, tranne Anarion, preservandoli dalla furia del notturno. Il Druido fissò esterrefatto la barriera e il suo fuoco scomparve, sconfitto. “Ti avevo detto che li avrei protetti io.” Disse la voce stravolta trionfante di Anarion alle sue spalle. Il druido non fece in tempo a voltarsi. Una mano nera lo trapassò alla schiena, da parte a parte, tanto che le dita macchiate di sangue  del ragazzo spuntarono dal petto del notturno, che pervaso dal dolore non riuscì nemmeno ad urlare, ma solo a rigurgitare sangue a fiotti dalla bocca. L’atelos non riusciva a crederci, il ragazzo si era portato alle sue terga con inaudita rapidità e aveva raccolto potere a sufficienza per sopraffarlo, il potere di Selonir. Le parole suadenti di Anarion gli giunsero  mormorate all’orecchio, suonando come l’eco di una voce lontana. “Era questo il potere che bramavi, stupido?” Rise sommessamente, sadico. “Allora morirai per mano mia, perché mio è il potere che desideravi.” Estrasse con un movimento rapido il braccio dalle viscere del druido, che cadde a terra, come un fantoccio, coperto di sangue. I presenti rimasero increduli, assistendo al cambiamento che Anarion aveva subito. Aveva occhi di brace, i capelli, ora sciolti, stavano lentamente mutando di colore, divenendo neri e si muovevano come mossi da tenuissima brezza, e pareva avvolto completamente da un mantello, che tuttavia era l’aura d’ebano che egli stesso emanava e che separava dal mondo esterno come un sudario. Con gesto brusco, voltò il corpo esanime del druido, in modo che lo potesse fissare negli occhi. Incredibilmente il notturno era ancora vivo, aveva raccolto tutta la sua magia all’altezza del torace per fermare l’emorragia e attingeva all’energia della terra per curare il suo corpo distrutto. Era uno sforzo terribile, che gli stava costando tutte le sue risorse fisiche e mentali, eppure i suoi occhi annebbiati manifestavano una volontà ferrea di aggrapparsi alla vita. Anarion non si impietosì e mettendosi sopra il notturno, sovrastandolo completamente, gli serrò le mani intorno al collo, stringendo con forza omicida.  A nulla valsero le urla disperate dell’Astro Bianco e di Zacho  per riportarlo alla ragione, impossibilitati ad agire a causa della barriera che li intrappolava e li proteggeva al contempo. Nessun suono giungeva alla mente ottenebrata di Anarion, che lentamente sfociava in un’incosciente perdita del controllo del proprio corpo, sempre meno lucido e consapevole. A salvarlo fu il sangue. Il sangue sgorgava dalla bocca del druido, scorrendogli copioso sulle mani, la vaga lucentezza del liquido scuro e appiccicoso gli avvolgeva il braccio destro, l’odore acre e acido che scaturiva dal ventre del notturno e di cui era intrisa la pelle del ragazzo gli colpiva acuto l’olfatto e del liquido scuro che gli macchiava perfino viso e occhi avvertiva il sapore sulla lingua. Fu sorpreso di non svenire per tanto orrore e terrorizzato, perchè non riusciva a staccare le mani dal collo dell’atelos, non riusciva ad evitare che altro sangue lo toccasse, non riusciva a fuggire. Con un urlo terrorizzato si staccò con violenza dal corpo del notturno, che tossì con violenza, tornando a respirare e rimanendo immobile, concentrato per riuscire a raccogliere abbastanza magia da sopravvivere. Il ragazzo si fissò le mani, che grondavano sangue, e inorridito cercò di muoversi, urlare, scappare, ma ai suoi occhi si affacciarono due terrificanti visioni. L’oscurità avvolgeva ormai la sua vista, aprendo per lui uno squarcio della sua vita e mostrandoglielo. Non erano sue le mani che grondavano sangue stavolta, ma quelle di un altro uomo, i cui occhi e capelli neri richiamavano il colore della notte. Ma il sangue l’avvolgeva comunque completamente, in una spirale terribile, per tutta la lunghezza del suo corpo freddo e affilato. Lui era la spada che stava affondando nella carni di Ràidas. Urlò con disperazione lucida e limpida, di nuovo travolto dalla crudezza del suo passato. Era di nuovo in sé, ma in un futuro vicino. Avvolto da una tenebra centinaia di volte più fitta e crudele di quella che lo straziava adesso, stringeva fra le mani qualcosa. Non avrebbe voluto guardare e infatti non avrebbe mai dimenticato quella visione. Imbrattato di cinabro sangue, stringeva fra le braccia un corpo esanime, che fissava con indifferenza e freddezza. Gli occhi riversi all’indietro e i lineamenti gentili sbiancati dalla violenza della morte erano quelli della ragazza che incontrava nei suoi sogni. Ebbe allora la certezza che la ragazza esisteva non solo nella sua mente. E seppe anche l’avrebbe uccisa.

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Selonir avrebbe voluto esultare dalla gioia; erano decenni che una sensazione così umana non albergava in lui. Era semplicemente esaltato. Le catene che per così tanto tempo l’avevano imprigionato erano polvere ai suoi piedi, solo le saette ancora resistevano intorno a lui. Eppure una ad una cedevano, sparendo in rapidi guizzi e bagliori. Poteva già controllare il ragazzo e a poco a poco la sua aura di tenebra si sostituiva alla volontà di lui, sopendola contemplatamene. Nulla avrebbe potuto impedirlo stavolta. Né spiriti, né magie. Non esisteva nessuno abbastanza potente tra coloro che adesso circondavano il ragazzo da poter impedire ciò che ormai era inevitabile. Nonostante tutto una sensazione di disagio si impadronì di lui. Aveva dimenticato qualcosa, anzi qualcuno. Mentre fissava angustiato il terreno arido della piana desolata che l’aveva trattenuto per anni, notò che acqua iniziava a scorrervi a fiumi. Tutte le scale senza fine che portavano al luogo ne erano inondate e in pochi secondi tutto lo spiazzo ne era occupato e l’acqua cominciò persino a cadere oltre i bordi della spianata, precipitando in una cascata continua nel vuoto. E l’acqua era strana, era carica di energia, pura e vitale, animata da una forza incredibile, magica, quasi con volontà propria. Eppure i sigilli di folgore non la respingevano, le sbarre luminose avrebbero dovuto reagire contro ogni forma di energia, eppure l’acqua le sorpassava senza difficoltà, bagnando perfino i piedi del dio. La divinità guardò la propria immagine riflessa nell’acqua e per un attimo la sua sagoma nera fu sostituita da quella esile e tranquilla di Shalia. Il piede di Sèlonir calò implacabile sull’immagine, dissolvendola nell’acqua increspata. Non servì a nulla; alzando lo sguardo, i suoi occhi, ridotti a una luce livida, lontana nell’oscurità sotto il cappuccio, incontrarono quelli della ragazza, azzurri e limpidi, liberi da qualunque paura. La figura della donna pareva del tutto sovrannaturale, dal viso fino alla vita conservava le sue fattezze umane, mentre la parte inferiore del corpo era del tutto trasfigurata, mutata in un vortice di acqua vorticante.“Tu sei un Elementale dell’Acqua, una Dama dell’Acqua?” Chiese incredulo il dio. “Credevo di avere eliminato l’ultima di quella stirpe venti anni or sono.” Shalia sorrise tristemente in risposta, sembrava non dovesse far nulla, si limitava a star ferma, quasi ad aspettare una reazione della divinità. Nessuno dei due si mosse per alcuni secondi, poi Selonir quasi riluttante, disse: “Cosa sei venuta a fare qui?” Alzò la mano nera verso le sbarre cadenti: “Non mi temi? Fra breve le catene cederanno e io avrò libero accesso al mondo.” La donna non ebbe nessuna reazione, sembrava del tutto sorda alle velate minacce che le venivano avanzate. Avanzò verso le sbarre e le attraversò senza che queste le bloccassero il passaggio. Si fermò quando il viso fu a pochi centimetri dal baratro di tenebra che si scorgeva dal cappuccio del dio. “Non mi conosci così bene.” Alzò la mano, sfiorando debolmente il cappuccio con le dita. “La Dama dell’Acqua è l’esatto opposto della negatività ed è capace di farsi carico delle colpe e dei dolori dei guerrieri.” La mano si strinse sul cappuccio, ma non si mosse. “Non riesco davvero a capire il significato delle tue azioni, Selonir.” Una lacrima segnò il viso della donna, sinceramente triste. “Nemmeno tu esisti  semplicemente per ferire ed essere ferito. Solo altro dolore scaturirà dalle tue azioni.” La mano di Shalia abbassò esitante il cappuccio, rivelando il volto del dio. Lunghi capelli argentei cadevano dietro la nuca in una cascata di riflessi azzurrini. Il viso, mite e dai lineamenti dolci, non recava il segno di alcuna imperfezione o ingiuria, era semplicemente perfetto, come marmo ricoperto da cera rosa. Gli occhi non tradivano alcun sentimento o esitazione. L’occhio sinistro era rosso come braci ardenti e i riflessi dorati che lo illuminavano sembravano lingue di fuoco avide di vita. Quello destro invece era limpido, azzurro come il cielo terso e nessuna ombra lo agitava, solo bagliori argentei lo percorrevano con la stessa velocità del pensiero. Erano due specchi dell’anima, vetri che si affacciavano sui più profondi recessi dello spirito immortale di Selonir. Odio, ferocia e passione ed ogni pensiero oscuro alimentavano le buie luminosità dell’occhio sinistro, mentre purezza, saggezza e fermezza tali facevano splendere il destro da essere impensabili per un essere umano.

Il dio scansò con tranquillità la mano della donna, sfiorando poi la pelle del viso bagnata dalle lacrime. “Non capirò mai il significato del tuo dolore, Dama dell’Acqua.”

Sospirò, rassegnato. “Fa ciò che devi, non tediarmi con i tuoi sentimentalismi.” La fissò con intensità e per un attimo le vampe dell’occhio sinistro aumentarono d’intensità, mentre una lieve oscurità rabbuiò la limpidezza dell’altro. “Ma ricorda, per ora non posso fermarti, ma un giorno questo ragazzo sarà mio e allora avrò la mia vendetta su tutti coloro che mi hanno ostacolato.”

Sorrise alla ragazza e i suoi occhi tornarono normali. “Quello stesso giorno ti eliminerò come feci con tua madre.” Si voltò, riportandosi il cappuccio a coprire il capo, nascondendolo di nuovo con le tenebre. “A presto.”

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Anarion riaprì gli occhi, era di nuovo in sé, nuovamente nel suo corpo, macchiato del sangue del notturno e dalla corruzione di Selonir. Sentiva la venefica influenza divina insinuarsi nella sua mente e nelle sue membra come rampicanti che velocemente distruggono le pietre della torre sulla quale si inerpicano. Non riusciva a rallentare quel rapido processo di disintegrazione della sua coscienza, che procedeva come un veleno inarrestabile dentro di lui. Sentiva crescere il terrore in lui, con l’avanzare di quel male subdolo, una paura che cresceva con l’orribile sensazione che la sua pelle pulsasse, anzi che il sangue che da lui grondava vibrasse come vivo. Fissò con crescente orrore le sue mani, sicuro che non ce l’avrebbe fatta, che stavolta non ci sarebbe stato Ràikas o Alreyd a salvarlo e  chiuse gli occhi, spaventato. Avvertì mani fresche stringere le sue. Riaprì gli occhi e vide il viso di Shalia davanti al suo, rassicurante e stranamente sereno. Di nuovo sentì un vago tepore pervaderlo per tutto il corpo, come la prima volta che aveva visto la donna.  Stavolta però avvertiva con chiarezza un potere caldo e dolce sprigionarsi dalla donna e fluire in lui, pervadendolo completamente. Lo penetrò in profondità, riempiendo perfino i più bui recessi della sua coscienza, mondandoli dal veleno che li infettava. Era come se un torrente di acqua gli scorresse nelle vene e nello spirito, rimuovendo al suo passaggio le macchie di corruzione che cercavano di prendere il sopravvento. Si sentì rinascere; il suo animo era stato purificato da ogni peccato, mentre l’acqua aveva guarito le ferite di corpo e mente. Chiuse gli occhi, avvolto da un vago tepore e  accolse con piacere il velo di nebbia che l’incoscienza recava con sé ad annebbiare i suoi sensi. 

 

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Capitolo 20
*** Zeriol e il popolo del Sud ***


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Zeriol arrancò spaventosamente, lottando con tutte le sue forze per mettersi in ginocchio. La maschera gli impediva la respirazione e con un gesto stizzito della sinistra se la strappò dal viso, gettandola a terra, mentre la destra era ancora mantenuta al petto, cercando di arginare il dolore e il sangue che copiosi gli sgorgavano intrecciati dallo squarcio al petto. Gli occhi, iniettati di sangue, erano incorniciati da occhiaie marcate, lo stesso tenerli aperti gli costava uno sforzo notevole. Non si rendeva nemmeno conto di ciò che gli accadeva attorno, intuiva solo che Sèlonir aveva trovato un nuovo ostacolo a trattenerlo e che lui stesso doveva ritirarsi il più presto possibile per trovare un luogo migliore dove risanare le proprie ferite. Si alzò stentatamente, compiendo pochi passi verso il fitto degli alberi, ma inciampò nel corpo martoriato di uno dei Proscritti da lui uccisi e rovinò a terra, senza fiato, continuando a mantenere il palmo della destra sulla ferita, senza interrompere il flusso rigeneratore di magia. Sentiva le forze diminuirgli lentamente poco a poco, insieme alla lucidità mentale. Non avevo altra scelta, doveva tentare. Staccò la destra dalla ferita, rivelando uno squarcio ancora in gran parte non sanato e posò entrambi i palmi delle mani a terra. Il suo stesso sangue, ancora fluido, dalle mani macchiò l’erba, formando una piccola pozza. Bagnò le punte delle dita della mano destra col proprio sangue e disegnò una semicirconferenza davanti a sé, sul terreno. Intinse quelle della mano sinistra nel sangue del notturno che giaceva esanime al suo fianco e col suo sangue tracciò l’altra metà del cerchio. Infine vi tracciò all’interno, con linee discontinue di sangue una stella a cinque punte. Sorrise quando ebbe completato l’immagine e stancamente pose entrambe le mani all’interno del cerchio, con i palmi rivolti verso il terreno, sulla stella. Mormorò a fior di labbra suoni impercettibili per chiunque tranne che per lui, mentre le stesse parole che pronunciava svanivano dalla sua mente, ormai al collasso per lo sforzo oneroso e continuato. Quando ebbe completato la formula, crollò sul fianco destro, sfinito e soddisfatto; il sangue era sparito, assorbito dalla terra.  D’improvviso il suo corpo venne avvolto da particelle di luce grigiastra, acquistando sempre maggiore inconsistenza. Con la vista  ormai annebbiata, volse un ultimo sguardo agli avversari che si lasciava indietro. L’Incarnazione giaceva svenuta tra le braccia della Dama dell’Acqua, mentre tutti gli altri erano improvvisamente scomparsi. Dov’erano? Alzò lo sguardo e rabbrividì. Intorno a lui, come statue altere e severe stavano immoli le figure di Ràidames, Zacho e Serìa. Sorrise, nonostante tutto, avvertendo l’incantesimo fare effetto e il suo corpo mutare in sostanza incorporea. Chiuse gli occhi e promise: “A presto.” In un lampo di luce scomparve, dissolvendosi in particelle di luce. 

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Il suo corpo si spostava velocissimo nel Piano Spirituale, trasportato da un vento fortissimo, ormai pagliuzza nella tempesta. Inerme per la potenza dell’incantesimo usato, era la sua forza mentale a guidarlo attraverso lo spazio deformato del mondo spirituale e a continuare l’incantesimo di guarigione che lo stava strappando alla morte. Aveva l’illusione che fosse il mondo a scorrere rapido  verso ovest e non lui a volare verso est. Immagini sfocate del mondo reale scorrevano intorno a lui, frastornandolo, oltre le linee di fiumi e praterie e attraverso le sagome di monti e villaggi. Si sforzò per concentrare la propria mente sul luogo da raggiungere, visualizzandolo nella propria mente. La memoria si sforzò di dare forma vivida  e reale ai ricordi, di costruire nella valle oscura della propria mente la propria meta. Tratteggiò l’abbozzo di una foresta lussureggiante, sempre più intricata e oscura, man mano che ci si avventurava per gli inesplorati meandri delle sue propaggini, tagliata da una striscia d’oro, un fiume stupendo, innaturale e letale, prima e non unica difesa del bastione dei Druidi. Risalì con la mente fino alla sorgente del fiume, fino ad un’imponente parete di roccia dalla cui base sgorgava la sorgente del fiume dorato.  Immaginò di poggiare una mano sul portale e al solo suo tocco venature multicolori rifulsero intensamente, disegnando complessi motivi che ignorò, spingendosi all’interno, bramoso di tornare alla sua patria. Avvertì un forte scossone scuoterlo,  un nodo alla gola e un fiotto di sangue gli uscì con violenza dalla bocca. Il dolore gli tolse la concentrazione necessaria a mantenere l’incantesimo e  ritornò bruscamente alla realtà, strappato al Piano Spirituale. Cadde con un tonfo al suolo, avvertendo solo leggermente l’urto contro un terreno freddo e spoglio.

Consapevole di avere solo pochi attimi prima di sprofondare in una pericolosa incoscienza, usò le ultime stille di energie rimastagli per chiudere la ferita. Poi le membra contratte per il dolore si rilassarono improvvisamente, mentre gli occhi, colmi della smania di restare aggrappato alla vita, conobbero finalmente un forzato  riposo.  

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L’ampia terrazza della torre si affacciava senza parapetto sull’infinita distesa piatta e quasi immota del mare. Ovunque lo sguardo potesse posarsi non si intravedevano altro che mare e cielo, due infiniti posti l’uno di fronte all’altro, perfetti e complementari nella loro sublime bellezza, si congiungevano in una linea  indefinita nel punto più lontano dell’orizzonte. Il crepuscolo era al suo apice di sanguigna lucentezza, quando il punto più basso del sole si appresta a scomparire dietro la linea dell’orizzonte. Ponente irradiava gli ultimi afflati della stella diurna, fendendo il cielo in spicole rossastre, stemperanti in una sempre più vaga luminosità che tingeva di rosa gli stralci di nuvole che macchiavano la volta celeste. Solo un taglio di sole si rifletteva  luminoso e quasi più splendente nello specchio marino, mentre l’oscurità crescente ingoiava la luce catturata dall’acqua. Quasi nessun rumore poteva essere avvertito, se non il ritmico e continuo fluire delle onde che si frangevano sulle nascoste spiagge pietrose. La pace e l’ armonia del mondo venivano a celarsi in quei pochi attimi di sublime e grandioso spettacolo della natura, così teso verso l’infinito da poter quasi atterrire l’animo dell’uomo. Osservò con le pupille socchiuse l’epilogo del miracolo del vespro e ne catturò l’immagine nella memoria, imprigionandola in un passato di limpido cristallo, conservandolo come memoria di divina e misteriosa bellezza. Giaceva immobile al centro del balcone, seduto sulla tiepida pietra a gambe incrociate. Chiuse gli occhi, sospirando. Il momento di pura perfezione era passato e con esso il conforto e la tranquillità dell’animo che esso portava: già altri sentimenti, legati a ben altri ricordi, premevano per tornare vividi alla mente. Portò automaticamente la mano ad un sacchetto legato in vita e ne estrasse una foglia a cinque punte di grandezza decrescente e dal colorito  verde brillante, allora grigiastro nell’oscurità che si addensava, e se la cacciò in bocca, masticandola lentamente. Non passò molto che gli effetti del vegetale cominciassero a fare effetto. I pensieri smisero di premere al cervello uno dopo l’altro, disperdendosi in un’intenzione vaga ed indefinita, accantonati in qualche luogo recondito dell’io. La mente fu finalmente libera da ogni preoccupazione e non più velata da ombra alcuna, sembrava quasi che lo stesse spirito potesse elevarsi, ormai non più represso dalle inutili zavorre di timori o futili ragionamenti, libero di inflazionarsi nell’ampia realtà che si dispiegava di fronte ai suoi occhi. Il corpo stesso non era più pesante prigione dell’anima, non lo costringeva più alle regole dure e crudeli della realtà, ma si transumanava in un qualcosa di più puro e trasparente, conformandosi alle leggi dell’immaginazione. Nulla contava più, non esistevano più legami e la coscienza stessa di sé si diluiva, tutto si immergeva e si fondeva nell’eternità e nell’infinito che apparivano ora con chiarezza alla mente, normalmente vincolata e imprigionata a tal punto da non poter cogliere l’inconcepibile, che adesso si mostrava a portata di pensiero. La vista dell’anima vagava nell’infinito e tutto apparve in ogni cosa, riuscì a cogliere lo spettacolo dell’esistenza dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo, colse l’intima grandezza dell’universo e si spaventò di quanto fugace e miserabile si presentasse la vita umana, eppure unico vincolo tra l’infinità divina e quella del reale, unico soggetto degno capace di dare un senso a ogni cosa. L’apoteosi della sua intuizione, che scorreva rapida e semplice, slegata da qualunque opposizione, lo fece rabbrividire, conferendogli un senso di inaspettato piacere fisico, che per un attimo lo riportò alla realtà del proprio corpo. Fuggì nuovamente da esso e per un mero istante la sua essenza si avvicinò a quella divina. Si allontanò progressivamente dall’immagine di sé stesso seduto innanzi al tramonto, per poi ritrovarsi ad ammirare il ricordo di quel momento protetto in puro cristallo. Fermò ogni sua cognizione a quel momento, non esisteva futuro o passato, ma un solo adesso, un solo ora e un solo ovunque. Colse l’attimo, si rifugiò in esso, raccolse tutte le possibili percezioni, tutti i possibili sentimenti, tutte le visuali ed i punti di vista, le vite e le morti, tutto ciò che era l’infinito in quel momento e se ne nutrì con piacere sfrenato, senza procedere oltre, poiché nessun mutamento o cambiamento avrebbe potuto giovarlo, ma solo annichilirlo. Era un dio e, in quell’attimo fu davvero immortale. Poi il tempo riprese a correre ed il cuore a battere e fu strappato dalla sua visione con violenza, tanto che forse la sua stessa anima provò dolore, e riportato alla sua dolorosa realtà. Un cambiamento repentino e terribile che minacciò di annientarlo; e riaprì gli occhi. L’effetto lenitivo della droga sarebbe durato ancora abbastanza da evitare che la sua mente potesse venire straziata dai pensieri che la tormentavano come fantasmi inquieti, eppure adesso era anche pienamente cosciente, era diviso tra i due mondi, quello del sogno e quello della realtà e il primo lo illudeva dalla tristezza del secondo.   

Una figura silenziosa si pose davanti all’uomo, mettendone in ombra il viso sottile  e gli occhi, marchiati da profonde occhiaie. Condios tuttavia non si mosse, continuò a guardare fisso davanti a sé, come se l’altro non esistesse. “Scusatemi se non mi alzo, Principe.”

L’interlocutore non rispose, non c’era bisogno di parlare perché Condios capisse cosa il suo Principe desiderava da lui, la sua sola presenza bastava per ricordargli i suoi doveri.

“Perché non mandate i vostri soldati?” Chiese il Cavaliere con una nota supplichevole, vergognandosi delle sue stesse parole. Il Principe ebbe un lieve moto di stizza, poi parlò con voce atona, lenta e calma. “Perché dovrei sprecare le vite dei miei soldati quando ho te?” Rimase in silenzio per alcuni istanti, poi riprese: “Pensavo di avertelo già detto. Odio ripetermi.”

Si allontanò non appena finito di parlare, senza aggiungere altri ordini o dettagli; Condios sapeva benissimo ciò che lo attendeva. Passarono alcuni secondi di immobile silenzio, poi si alzò stancamente  e con passo incerto camminò fino al bordo del terrazzo.

Tirò un profondo sospiro: i fantasmi che lo tormentavano avrebbero presto ripreso il vigore necessario a spingerlo sul baratro della follia. Presto avrebbero trovato il loro nutrimento nel sangue che si apprestava a versare. Ancora una volta. Chissà se qualcosa l’avrebbe salvato sul precipizio come allora… Si lasciò cadere in avanti, inerme, ad occhi chiusi, scivolando nel vuoto.

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Zacho sedeva con i gomiti appoggiati sulle ginocchia, tenendo le mani inermi tra le gambe. Il viso spaziava tranquillo sull’accampamento che da qualche giorno era diventato la sua casa. Vestiva abiti aurorei, leggeri e chiari, fin troppo eleganti per lui. Si appoggiò allo schienale di legno del seggio che aveva spostato davanti all’ingresso della sua tenda. Si voltò verso Ràidames, che si era voluto fermare per discorrere con lui, ma che da quando si era seduto, non aveva ancora aperto bocca. In questi ultimi giorni l’Astro Bianco era stato oberato dalle molte responsabilità: sia verso il suo popolo, dovendo amministrare a distanza il governo del reame auroreo, sia verso i suoi fratelli notturni, poiché il Concilio, l’assemblea della nobiltà notturna, aveva chiesto la sua collaborazione nella scelta del nuovo Astro Nero. Quello era il primo momento di tranquillità che si concedeva da cinque giorni, da quando Anarion era quasi caduto preda di Selonir. Ma adesso il ragazzo era salvo e diretto verso sud, strettamente sorvegliato da Sèria, con meta la capitale della nazione notturna, dietro sua esplicita richiesta. Nessuno intuiva cosa volesse fare laggiù, perché dopo aver esaudito la sua richiesta nella semi-incoscienza, dovuta alle gravi ferite mentali riportate dalla tentata possessione, era piombato in un sonno eterno concessogli da Shalia, che sarebbe terminato una volta che il corpo e la mente del ragazzo si fossero riprese completamente. E intanto loro dovevano affrontare un’altra minaccia. Nonostante i due figli di Potere fossero stati eliminati dal defunto Alcols, come gli era stato riferito dall’auroreo, l’esercito da loro evocato non era, a quanto pare, scomparso con essi. E nonostante Ràidames non sapesse darne spiegazione, tutti i maghi avvertivano forti presenze negative in quel tratto delle foreste dell’ovest, senza riuscire a dargli forma o ad individuarle. Sospirò, voltandosi verso il Re. Lo stava fissando con pazienza, quasi avesse seguito passo passo il filo dei suoi pensieri e adesso fosse pronto a concluderlo con ciò che aveva da dirgli. Lo anticipò, desideroso di apprendere prima ciò che gli premeva maggiormente. “Come intende procedere il Concilio, Sire?”

Il Re si massaggiò il braccio destro, bendato all’altezza del gomito, dicendo: “La carica passerà a un altro lato della dinastia, precisamente alla nipote di Sire Alcols, ancora molto giovane. Ho sentito dire tuttavia che sia molto dotata nell’uso della magia e di una intelligenza strepitosa.”

Zacho annuì distrattamente: “E cosa sappiamo di questo fantomatico esercito?”

L’auroreo sospirò. “Nulla, o meglio quasi nulla.” Alzò gli occhi verso il cielo, congiungendo le mani in grembo. “Esploratori e Proscritti seguono ombre evanescenti, che sfuggono sempre alle trappole e riescono a seminare anche i più abili inseguitori.” Rivolse poi lo sguardo all’uomo, sereno. “Ma almeno stanotte riusciremo a sapere qualcosa. Ci sarà la luna piena.”

Zacho lo fissò con aria interrogativa, senza capire. “Potrò interrogare il fato leggendo le stelle.”

L’uomo annuì nuovamente, poi tornò a guardare distrattamente il paesaggio davanti a sé, quasi la conversazione per lui fosse terminata. “Mi è stato riferito che Fearin è nel caos. E’ scoppiata la guerra civile. Inoltre i Siguya si spingono sempre più a sud, sono quasi a Maruyl. Stavolta non sarete abbastanza uniti da respingerli.” Sentenziò con tono piatto.

“Il Principe è il fratello del suo successore. Tuttavia la maggior parte della popolazione desidera che al trono salga la figlia del precedente reggente.”

L’auroreo corrugò la fronte. “Come mai il popolo stesso e non la ragazza, sempre che sia vero, reclamano una diversa successione al trono?” Zacho si alzò, senza voltarsi, ma incrociando le braccia al petto, meditabondo. “Per via di un oracolo che gli astronomi reali vaticinarono dopo gli eventi di Maruyl: “Le colpe del padre saranno riscattate dalla figlia, la fanciulla della nave del popolo sarà la chiglia. Di sangue e morte e disperazione per gli uomini  non ci sarà condono, il sacrificio sarà il prezzo per ottenere della salvezza il dono.”

“Sembra molto chiaro.” Asserì Ràidames. “La figlia del defunto Principe, la cui colpa fu di cedere a Selonir, deve ereditare il trono e rimediare agli errori del padre.”

“Non è così semplice.” Zacho si voltò, rivelando un animo afflitto. “L’Assemblea, che costituisce la volontà suprema del Regno, ha designato Sire Eirior come tutore della Principessa cinque anni fa, ritenendo la figlia, allora quindicenne, troppo giovane. Tuttavia, poco meno di un anno fa, al suo ventesimo compleanno l’Assemblea ha confermato il titolo di Principe a Sire Eirior, negando il titolo alla Principessa. E da allora il nostro popolo si è diviso.”

L’Astro Bianco si alzò anch’egli, fermandosi al fianco dell’uomo, fissando con lui la foresta che oltre le difese, si estendeva verso Ovest. “E tu cosa ne pensi?”

“Io non penso proprio niente.” Si affrettò a precisare Zacho con tono serio. “Io ho giurato di proteggere e obbedire unicamente al Principe.” Abbassò lo sguardo, rattristato. “Tuttavia quattro dei Cavalieri hanno tradito e si sono uniti alle file dei rivoltosi. Può anche darsi che gli uomini si sterminino tra di loro ancora prima di essere attaccati dai Siguya.”                                            

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Capitolo 21
*** La difesa di Condios e l'arrivo dei Siguya ***


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Condios si ergeva solo davanti ai cancelli, cesellati di bronzo e, stranamente, aperti. Se qualcuno avesse potuto osservarlo da vicino avrebbe potuto notare che i piedi dell’uomo non poggiavano al suolo, ma si staccavano di alcuni centimetri da terra, trovando sostegno nell’aria come sullo stesso suolo. Le pupille erano dilatate e gli occhi leggermente rossi. La mente era tornata dolorosamente lucida, anche se riusciva tuttavia a controllare con i suoi stessi poteri il flusso dei suoi pensieri. Il corpo era ancora intorpidito e accaldato, sia per gli effetti della droga che a causa della sua stessa natura. Davanti ai suoi occhi appannati, una vasta schiera di uomini si avvicinava minacciosa, ancora lontana. Dietro di lui, oltre la cancellata aperta, una esigua guarnigione di uomini armati di scudi  ampi e rotondi e spade lunghe, assisteva libero da qualunque preoccupazione alla scena.

La città, protetta dall’imponente cinta di mura quasi circolare, si ergeva verso nord contro un’ampia foresta, fitta e scura, alle sue spalle invece, dall’alto della sua posizione sopraelevata dominava su una prateria sulla quale si ergeva in lontananza, verso sud, la capitale Fearin sullo sfondo azzurro del mare. Karaiza era la prima difesa della capitale. Fortezza senza la quale non si poteva pensare di conquistare Fearin, senza correre il rischio di venire attaccati dal contingente stanziato nella città che le fungeva da scudo. I rivoltosi avevano quindi intenzione di conquistare prima tale roccaforte e successivamente puntare alla capitale. Erano in numero sufficiente per riuscirci, ma un grosso ostacolo si frapponeva tra loro e Karaiza: Condios. Sei attacchi erano stati portati alla città, tutti respinti, tutti vanificati da lui solo. Nessun altro soldato rischiava la vita, ma il Principe preferiva mettere in campo uno dei suoi Campioni anzicchè rischiare uno scontro più aperto. E anche allora, al rinnovarsi dell’assedio,  Condios era l’unico ad opporsi ai ribelli. Un uomo si staccò dalle fila degli attaccanti, disarmato e senza protezioni, che allora come in precedenza prima di ogni scontro cercava di trattare con il difensore. Si chiedeva quali sentimenti animassero realmente la mente del Cavaliere del Sole. Come ogni volta, si ergeva solitario oltre la gittata degli archi della fortezza, in modo che il loro combattimento non potesse essere disturbato dai suoi alleati, tattica che sicuramente lo avrebbe favorito. Ed inoltre c’era una cosa che non dava pace all’ambasciatore: prima di versare sangue, Condios dava fondo a tutti i suoi poteri e abilità pur di non uccidere. Perché allora non si univa a loro? Furono le esatte parole che ripeté al guerriero. “Perché non vi unite a noi, Cavaliere?” Gli chiese nuovamente, speranzoso. “Altri vostri pari l’hanno già fatto.”

“Essi non sono miei pari. Sono traditori, io devo tenere fede al giuramento che fece mio padre prima di me e suo padre prima ancora.” Disse con tono vago. L’ambasciatore tuttavia non si arrese.

“Quel giuramento ha perso il suo significato; anche vostro …” Le parole gli morirono in bocca. Prima che potesse concludere, lo sguardo di Condios mutò radicalmente espressione, come una brezza leggera con in pochi istanti diviene freddo e violento turbine.

L’uomo sospirò rassegnato, anche stavolta aveva fallito. Si voltò e tornò tra le file dei suoi compagni. L’armata si preparò al combattimento, sotto il rumore di armi ed armature, tuttavia nessuno si mosse. Tutti rimasero nelle loro posizioni, a diverse centinaia di passi da Condios, vicini al limitare del bosco, che sembrava nascondere ancora uomini e armi.

Poi lentamente e a passo ritmato la schiera iniziò ad avanzare, anche se non troppo ordinatamente. Il nerbo principale era costituito tuttavia da un’ordinata schiera di opliti, che apparivano armati con le medesime armi e vestiti con gli stessi colori, argento ed blu, di quelli che stavano di guardia all’interno della fortezza. Quando la schiera giunse a metà strada tra il limitare della foresta ed il difensore, innumerevoli sibili fenderono l’aria e dalle fronde oscure degli alberi innumerevoli dardi presero il volo , fendendo l’aere a salve regolari. Nessun dardo tuttavia, raggiunse l’uomo: molti gli cadevano intorno, mancandolo completamente, altri, che avrebbero dovuto colpirlo, modificavano completamente la loro traiettoria, crollando a terra, come respinte da scudi invisibili. E l’espressione di Condios non mutò. Dopo la terza salva, i tiri di freccia terminarono e l’avanzata riprese più veloce, trasformandosi quasi in una corsa, come se ogni guerriero volesse prendere la rincorsa prima di un balzo. Mancavano una dozzina di passi per raggiungere il difensore, che l’andatura di quasi tutti i combattenti rallentò, come se ostacoli invisibili ostacolassero la loro avanzata. Era la stessa aria che sembrava aumentare in pressione e consistenza, opponendosi come un solido muro.                                      Eppure Condios non poteva reggere su un così ampio fronte, con centinaia di guerrieri che premevano per oltrepassare la sua barriera d’aria. I più forti, quelli che lo fronteggiavano direttamente, già iniziavano a varcare la sua difesa, tanto che poteva vederne gli occhi, sotto gli elmi, completamente protesi nello sforzo. Chiuse allora gli occhi, per tentare di isolarsi dall’esterno, ed incanalò tutta la sua magia nell’aria e ne inviò i flussi nelle narici e nelle bocche dei suoi avversari, empiendole  completamente. E lentamente la magia, guidata dall’aria raggiunse ogni punto dei loro corpi fino al cervello e lì iniziò a sprigionarsi debolmente. Alterò le percezioni, agendo sui sensi dei guerrieri, grazie all’aria, che fungendo da canale poteva ovunque. Influenzò i loro occhi, proponendo alle loro menti la vista di mostri giganteschi, titani, che si avvicinavano minacciosi dalle porte aperte, di serpi velenose che strisciavano tra i loro piedi e demoni alati, forme nere che piombavano su di loro dal cielo. Era tuttavia uno sforzo enorme, che richiedeva l’impiego di tutte le sue forze e più ne attingeva, più la sua forma variava, rivelando la sua vera natura; in pochi attimi l’ Elementale dell’Aria si sostituì all’immagine di Condios. Vaghi contorni bianchi disegnavano nell’aria i lineamenti del viso; senza le linee sinuose che ne tratteggiavano il corpo, abbozzandolo in una forma vagamente umana, non si sarebbe riuscito a distinguerlo. Il peso dei suoi sforzi iniziò a gravare di meno quando la sua trasformazione fu ultimata e la magia continuò rapidamente a seguire i suoi intenti. Ora poteva persino vederlo. Il suo flusso magico sgorgava da lui come corrente e in linee sinuose, portate dall’aria si insinuava nei corpo di tutti, impregnando le membra e la mente. Oltre che la vista, stravolse le percezioni dei suoi nemici facendogli avvertire grida strazianti nelle orecchie e morsi voraci nelle carni e innumerevoli insetti sulla pelle, con un bruciore intenso sotto la pelle, come per effetto di un qualche potente veleno.

Ci riuscì. Alcuni caddero a terra, bocconi, coprendosi le orecchie con le mani o strofinandosi con esse la pelle come per allontanare le visioni che li tormentavano, pochi fuggirono. Le urla erano talmente forti che rischiavano di stordirlo: le voci, seguendo al contrario i flussi della magia giungevano fino a lui, assordandolo e mettendo a dura prova la sua concentrazione. Voci indistinte giungevano da tergo, quelle dei soldati che gremivano gli spalti, entusiasti per quello che da un momento all’altro si sarebbe potuto trasformare in un mattatoio dei loro fratelli. Infatti altri, chi perché in possesso di rudimenti di magia, chi perché aveva già affrontato quelle visioni e ne conosceva la natura illusoria, riuscì a continuare con la sua pressione contro la barriera. Avrebbe tuttavia resistito finchè non si fossero arresi, era disposto a qualunque cosa pur di non uccidere nessuno. Poi accadde ciò che non si aspettava. Udì un rumore secco provenire da lontano, forse dalla foresta, seguito da un sibilo lungo e prolungato. Alzò gli occhi al cielo e capì: catapulte. Due enormi massi volarono da dietro lo sbarramento visivo degli alberi contro la folla che gremiva gli spalti dei cancelli. Fece appena in tempo. Alzò un braccio incorporeo verso i due macigni ed entrambi si fermarono a mezz’aria , cadendo pesantemente al suolo. Lo spostamento della sua attenzione fece però crollare le illusioni e in pochi secondi, prima che potesse ripristinarne il flusso, tutta la violenza della carica nemica si riversò sulle sue difese, quasi piegandole.

Davanti a lui, due soldati erano ormai prossimi a raggiungerlo. Avevano le spade sguainate e cercavano con ogni forza dei loro muscoli di portare un affondo al ventre traslucido dell’Elementale. Un paio di passi di aria separavano la punta delle spade  dal corpo di Condios. Il Cavaliere tuttavia non se ne curò, il normale acciaio non poteva ferirlo quando era pura aria. Qualcosa però attirò la sua attenzione. Uno dei due, d’improvviso, lasciò andare la propria spada, che cadde con un rumore sordo a terra, come schiacciata da una fortissima pressione, e, poste con fatica le mani sull’elsa dell’arma del compagno insieme alle sue, lo aiutò a spingere. Lentamente, congiungendo le proprie forze allo spasimo riuscirono a fare avanzare la spada, seppur di poco. E Condios notò una scintilla baluginare sulla lama, per trasformarsi subito in debole luminescenza. E con il diminuire della distanza, il bagliore aumentava, trasformandosi infine in fiamma fredda e rossa che percorreva tutta la lama, fino all’elsa, senza bruciare le mani di coloro che la brandivano. Condios se ne ricordò: era una spada magica, armi rare, che pochi fortunati possedevano e che avevano capacità offensive al di fuori del normale, capaci perfino di prevalere su creature magiche come lui. Sentì un forte bruciore all’altezza del ventre, le fiamme ormai arrivavano quasi a toccarlo; stavano per trafiggerlo. Altre pietre volarono contro la fortezza e fu costretto ad indebolire la barriera d’aria per frantumarle prima che potessero raggiungere le mura. Intanto anche gli altri soldati avanzavano sempre più, mentre coloro che prima erano stati dispersi dalle illusioni, ora che queste non li tormentavano più, erano tornati. Non poteva reggere anche loro e come se non bastasse sentiva un bruciore crescente all’addome. Abbassò lo sguardo e vide la punta d’acciaio penetrargli senza difficoltà nelle carni e il sangue scuro che scivolava sul metallo evaporava in un istante bruciato dalla spada. Il dolore gli cancellò ogni velleità pacifica. Con la velocità del pensiero le correnti d’aria che bloccavano il passaggio ai ribelli esplosero verso di essi con violenza, sbalzandoli da terra e sollevandoli a diversi piedi d’altezza. Con un ruggito di rabbia dell’Elementale, i venti si mutarono in lame affilate e trafissero ogni cosa, spezzarono le spade, ammaccarono gli scudi, penetrarono le armature e tagliarono le carni dei combattenti. Vortici di sangue si dispersero nell’aria, sulle ali delle folate della magia e per qualche istante gli occhi di Condios non videro che il rosso del sangue versato e le sue orecchie esplosero delle urla delle sue vittime. Tanto fu lo stordimento, che interruppe d’un colpo il suo attacco, tagliando i torrenti della sua magia. Non più travolti nei vortici d’aria, le centinaia dei corpi dei combattenti ricaddero scompostamente al suolo, in una pioggia macabra e innaturale. La magia che pervadeva i loro corpi li abbandonò e come fuoco fatuo, rientrò in spirali sanguigne all’interno dell’Elementale, riempiendolo nuovamente di tutti i suoi poteri. Insieme alla magia, il sangue, il dolore e le urla si riversarono in Condios, che assorbì ogni cosa con lentezza dolorosa ed estenuante, tornando infine normale essere umano alla fine del terribile processo. Crollò stremato sulle ginocchia, tenendosi la testa fra le mani, tremante, sicuro che sarebbe potuta esplodere da un momento all’altro. Non alzò nemmeno gli occhi per osservare l’ennesima strage dei suoi stessi fratelli. Ci pensavano le loro ultime urla a dilaniargli la mente con freddezza ed era il loro sangue, che adesso sentiva scorrere nelle sue stesse vene, a gridargli che li aveva traditi, a ricordargli la sua colpa.

La mano destra corse immediatamente al sacchetto che teneva appeso in vita ed in pochi attimi ne estrasse l’erba allucinogena e la mangiò, per lenire lo squarcio che gli feriva la mente. Prima che l’erba gli annebbiasse i sensi, fece appello alle sue energie ed in una folata di vento sparì verso sud, verso Fearin, lasciando ai nemici la possibilità di recuperare i morti e i feriti e agli alleati il compito di chiudere il cancello e ristabilire le difese. Ricadde lungo disteso sulla terrazza della torre rivolta verso sud, quella da cui amava fissare i tramonti. Lì finalmente concedette al suo spirito martoriato il riposo che desiderava.

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I primi raggi d’oro e rosa dell’alba tagliavano il manto frastagliato e bianco di nubi, riversando la loro tenue luce anche sul picco innevato che ancora nessun piede mortale aveva calcato. Un silenzio irreale regnava lì, dove il mondo finiva ed iniziava il dominio del cielo e dove i raggi del sole baciavano con tocchi rosa una punta innevata che solo occhi immortali avevano potuto ammirare prima di allora. E sospesi tra divino e mortale erano gli occhi di vetro lucido che ammiravano dal tetto del mondo ogni cosa su cui quella vetta dominava. Rivelavano un’anima afflitta, profondamente rattristata da ciò che vedeva; e la sua vista perforava ogni cosa, oltrepassava miglia e miglia di cielo e spaziava su tutte le terre abitate dalle creature degli dei. Ovunque il suo pensiero desiderasse posarsi, lì l’occhio poteva giungere, fosse la cima della Torre Bianca, le rovine devastate di Maruyl, la città gremita di  umani di Fearin, le cittadelle sotterranee degli Albi o la stessa  anima dell’Incarnazione. Da lì l’auroreo poteva vedere il proprio padre, libero dei vecchi legami e prigioniero di una cupola d’acqua cristallina, creazione di costrizione della Dama dell’Acqua. Sigillo irritante e resistente, impossibile da spezzare, anche per lui, primo tra i figli di Selonir nell’uso della magia. Adesso però non poteva pensare a liberare il proprio padre, sarebbe giunto tanto prima o poi il momento della sua liberazione, che lui facesse o meno qualcosa. Di questo era certo. Ora un’altra faccenda esigeva la sua attenzione: aveva il dovere di vendicare i suoi fratelli uccisi e di portare a termine i loro propositi. Suo fratello Siguya lo avrebbe aiutato ed esaudito e avrebbe proceduto con la distruzione della Fortezza Bianca e della guarnigione atelos a suo presidio. Poi avrebbe potuto anche distruggere tutte le terre dell’Est, non gli importava. Lui invece avrebbe disperso le due popolazioni che Reinor e Sular avevano avuto intenzione di combattere: notturni e albi. Avrebbero pagato entrambe per la tracotanza che Alcols aveva dimostrato nel volerle proteggere a prezzo della propria vita  e di quelle dei suoi due fratelli. La luce più intensa del sole nascente lo riscosse dai suoi propositi di rivalsa. I preparativi erano quasi ultimati. Chiuse gli occhi, sorridendo e sospirò profondamente. Quando li riaprì era in piedi, circondato da ombre nere nel pieno delle foreste dell’Ovest. “Preparatevi! Richiamerò gli ultimi e poi partiremo.” Nell’ombra scura degli alberi, notturni e albi obbedirono.

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Innumerevoli creature brulicavano nel crepuscolo che si addensava sulla piana desolata e vuota che portava a Maruyl. Erano una moltitudine compatta ma che si muoveva senza alcuna formazione precisa. Ogni tanto piccoli gruppetti giungevano da ovest, est e nord per unirsi a quella marea nera, che avanzava lentamente verso le rovine della vecchia capitale. Procedevano con lentezza, muovendo a passi ritmati e pesanti le enormi moli dei corpo informi, provocando un cupo rimbombo della terra. Poi incredibilmente, d’improvviso tutti si fermarono quasi nel medesimo istante. Bastò un gesto della guida, l’essere che precedeva tutti i suoi compagni, per far fermare tutti gli altri. Davanti ai suoi piedi, più simili a zampe artigliate, stava disteso un notturno svenuto. Portava addosso i segni di una recente battaglia e in particolare la cicatrice enorme di uno squarcio sul ventre. Piegò la mole enorme, curvandosi in avanti per osservarlo meglio. Le cicatrici sul volto non lasciavano alcun dubbio, doveva trattarsi di un druido. Sorrise malignamente: erano secoli che non trattava con qualcuno di quella sciocca setta, magari sarebbe stato divertente maltrattarlo un po’ prima del massacro. Ebbe un brivido e tutte le protuberanze mostruose del suo corpo si ritrassero, fino a scomparire e la sua taglia diminuì fino a che il suo aspetto non ritornò vagamente umano. Pose una mano biancastra sul ventre di Zeriol e il druido spalancò gli occhi, ansimando e guardandosi attorno disorientato. “Alzati.” Gli ordinò il capo dell’esercito. Il notturno dapprima non si mosse, respirando affannosamente e sembrando ancora in parte frastornato. Alzandosi lentamente, intorpidito, sussultò per una fitta di dolore che lo colse rapida allo stomaco. Si guardò la ferita ormai rimarginata e poi volse intorno lo sguardo con ansia, individuando con stupore le ombre colossali che aspettavano immobili nell’oscurità. “Dimmi chi sei!” Gli chiese in tono perentorio il comandante dell’esercito. “Ci si presenta prima di chiedere il proprio nome.” Rispose con un sorriso spavaldo Zeriol, alzando il pugno vicino al viso del suo interlocutore. Il pugno emanò una pallida luminescenza e il notturno poté fissare negli occhi chi aveva di fronte. Sarebbe stato meglio se non lo avesse fatto. Ogni arroganza sparì dal viso e la sorpresa fu tale che perse il controllo di quella seppur semplice magia e il debole pallore si esaurì immediatamente. Per la seconda volta nella sua vita ebbe paura.

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L’Astro Bianco alzò lo sguardo al cielo notturno e i fulmini bianchi sul suo viso brillarono alla tenue luce stellare. Una esile cortina di nubi velava il firmamento conferendo una luminescenza più opaca agli astri, eppure dai loro perpetui percorsi celesti si riusciva comunque a carpire le intenzioni del destino. Come bagliori e pioggia di luce, le parole delle stelle giunsero dal cielo, come stille di rugiada cadenti dalle fronde e gli occhi di Ràidames si atterrirono quando anche l’ultima parola fu intesa, come se un nuovo peso gravasse su di lui.

“Ombre…” Sussurrò, portandosi una mano al capo, incredulo.

“Spiegati meglio.” Disse Zacho, rivolgendosi con tono interrogativo all’auroreo, mentre Shalia rimaneva silenziosa al suo fianco. “I - i morti.” Balbettò disorientato l’atelos. “I morti sono stati evocati per combattere…”.

“Sei sicuro di quello che dici? Non sarà che la vista ti ha giocato un brutto scherzo?” Chiese scettico Zacho. “No, non si sbaglia.” Shalia intervenne improvvisamente, facendo girare entrambi verso di lei. “Posso sentire il dolore di un numero sempre crescente di anime sorgere dalla terra.”

Il Re abbandonò la leggera altura del suo posto di osservazione e si fermò corrucciato vicino ai due Cavalieri, dicendo. “Dobbiamo radunare immediatamente le nostre forze.” Fissò preoccupato gli occhi dei due. “Un nemico costituito da simili avversari è un pericolo che non abbiamo mai sperimentato.” Si volse vero Shalia, con tono adesso frettoloso, mentre si incamminava. “Credo che avremo soprattutto bisogno del tuo aiuto come Dama dell’Acqua, Shalia.” La donna sorrise, apparentemente contenta di poter rendersi utile ancora una volta. Si avviarono insieme verso il centro dell’accampamento, dominato da un’ampia tenda, dove il redivivo Yonuel adempiva dalla sua tenda ai suoi compiti di generale. Avevano appena sorpassato le due guardie poste all’esterno della tenda, che un corno, dal suono basso, cavernoso e prolungato fece udire il suo richiamo alle porte dell’accampamento. “Albi.” Sentenziò Zacho. “Era solo una questione di tempo prima che arrivassero.” Aggiunse l’Astro Bianco. “Avranno scoperto a loro spese qual è la nuova minaccia che incombe su di noi.

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“Tu… tu…non puoi…sei… sei Siguya.” Una risata rauca e prolungata suonò in risposta alle parole di Zeriol. “E’ un onore che un insetto come te mi conosca.” Si fissarono nel buio, senza che nessuno dei due si muovesse, ma il notturno si accorse con rabbia che gli tremavano le mani.

“Il vecchio Golaros deve averti parlato di me, presumo.” Zeriol ringhiò sommessamente a sentire quel nome, pronunciato con tanta irriverenza. “Non penso che stia molto bene, se è ancora vivo. Purtroppo le ferite da me inflitte non si possono risanare se non con i poteri di un Elementale dell’Acqua.” Siguya distolse lo sguardo dal notturno, iniziando a passeggiare sadico intorno a lui, come un cacciatore che si diverte a torturare la preda, ormai in trappola. “Raccontami, te ne prego, ti avrà pur detto qualcosa di me.”

Il druido serrò la mascella, ma cercando di mantenere la calma e la mente lucida, rispose: “ Tu sei Siguya della razza Siguya, figlio di Selonir, così potente da poter portare il nome della tua stessa razza.” Il mostro batté le mani, sarcastico. “Ottimo, e poi?” Zeriol mosse gli occhi attorno, con la mente alla frenetica ricerca di una qualche possibilità di fuga. “So che su dite non ha alcun potere la magia dei druidi o quella degli Elementali, che nemmeno le armi magiche hanno effetto sulla tua pelle. Inoltre le ferite che procuri non si possono rimarginare.”

“Nulla di più giusto.” Confermò Siguya. “E dimmi un’altra cosa. Tu sei il suo Erede, giusto? Altrimenti non avresti potuto sapere di me. Chi ha avuto abbastanza potere da ridurti così?” Chiese incuriosito accennando alla cicatrice al petto, fissandolo negli occhi. “Non sembra una delle vostre ferite rituali.” Zeriol deglutì. Doveva farlo adesso, altrimenti non avrebbe avuto altre occasioni per scappare.

“Allora? Cos’è?” Insistette Siguya. “Questo è …” disse sorridendo forzatamente il druido. “… un segreto.”

Nello stesso istante una luce fortissima e accecante scaturì dal corpo del notturno, abbagliando chiunque lo stesse fissando. Siguya urlò di rabbia, portandosi le mani a coprire gli occhi, che bruciavano come se fossero stati di fuoco. Sentì distintamente un debole sbattere d’ali davanti a se e quando pochi istanti dopo riuscì a vedere, sfocatamene, del druido non c’era più alcuna traccia.

Si guardò intorno, senza trovarlo, poi alzò rabbioso lo sguardo al cielo e lo vide. Un falco dal piumaggio bluastro si stava sollevando sempre più in alto, sbattendo velocemente le ali verso est, verso la salvezza. Siguya inveì contro la sua stupidità ad alta voce: aveva dimenticato che alcuni tra i druidi apprendono l’arte della metamorfosi animale. Non importava, dopo aurorei ed umani, avrebbe regolato i conti anche con Golaros e i suoi folli discepoli. Con un gesto spazientito, il suo esercito si rimise in moto: ormai Maruyl era già in vista.

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Gli ultimi raggi del sole morirono a ovest, togliendo la luce alle fiamme baluginante degli occhi di Serìa. Era agitata e contrariata e mal sopportava la lenta andatura a cui lei stessa costringeva il proprio cavallo. Si guardò intorno per controllare che tutto fosse in ordine. Tutte le sentinelle erano ai loro posti, anche quelle che non sarebbe dovuta essere stata in grado di vedere. Avvertiva di tutte il calore vitale, sicché poteva facilmente individuarle anche nell’oscurità più totale. In tutto venticinque notturni la stavano accompagnando nel suo compito di scorta del ragazzo. Il carro procedeva ad andatura lenta, in maniera quasi allucinante, ma non avevano altra maniera per trasportare Anarion. A cavallo avrebbero impiegato poco più di una settimana, mentre allora erano in cammino da cinque giorni e non avevano coperto nemmeno un quarto del percorso. E lei aveva una fretta incredibile di tornare a Fearin per proteggere il Principe ed estirpare la rivolta. Al solo pensarci, un brivido di rabbia le contrasse i muscoli ed alcune scintille di luce iniziarono a brillare intorno a lei. Il nitrito del cavallo, allarmato dall’innaturale evento, la fece calmare. Nell’ultimo periodo non aveva fatto altro che tormentarsi, costretta a crogiolarsi nell’inattività, ma finalmente il tempo di tornare in campo stava giungendo. Non avrebbe permesso a quei facinorosi di sconvolgere l’ordine centenario che governava sul Regno degli Uomini del Sud. Non poteva credere che la figlia del precedente Principe, Mighel, potesse farsi promotrice di una rivolta capace di distruggere il regno di suo padre. E che dire dei quattro traditori che l’avevano seguita? Avevano gettato fango sull’onore dei Cavalieri del Sole. Un onore che lei avrebbe ripristinato uccidendoli, se necessario, o se glielo avesse ordinato il Principe. E adesso stava portando a Fearin l’arma che avrebbe garantito loro una vittoria assoluta sulla rivolta. Il ragazzo sarebbe stato uno strumento facilmente utilizzabile per gli scopi del Re e sarebbe bastata l’influenza di Condios per piegarlo ai propri scopi. Sorrise fra sé. Forse non ci sarebbe nemmeno stato il bisogno che si scomodasse lei in persona: sarebbe stato il ragazzo a sporcarsi le mani con il sangue delle migliaia di rivoltosi.

 

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Capitolo 22
*** Yonuel e Ràidames preparano la battaglia ***


l

Un’atmosfera carica di tensione permeava l’ampia tenda da campo di Yonuel. Il generale sedeva, fasciato abbondantemente all’altezza del petto e sulle braccia, dietro una piccola scrivania colma di mappe e fogli di missive dalla capitale. Il capelli blu cobalto erano spettinati e quasi per nulla curati. Da che si era ripreso dal suo scontro con il druido, quasi ininterrottamente per quattro giorni non aveva fatto altro che lavorare, organizzando le difese, rispondendo alle missive del Concilio e a quelle del nuovo Astro Nero, accogliendo i reparti di rinforzo che giungevano da ogni parte del regno e ascoltando personalmente i rapporti che i suoi esploratori gli portavano. Aveva gli occhi cerchiati da profonde occhiaie, che risaltavano anche sulla pelle scura. “Ben trovati” disse a Ràidames e ai Cavalieri quando entrarono, alzandosi a fatica dal proprio seggio e appoggiandosi con le mani al tavolo. “Siedi pure.” Disse l’Astro Bianco, pacato, e il notturno obbedì, grato.

“Sedete anche voi” Yonuel indicò alcuni seggi alla sua destra. “Sto per ascoltare alcuni albi giunti dal nord con notizie importanti, a quanto pare.”

Rumori concitati appena fuori dalla tenda fecero voltare tutti gli astanti e pochi secondi dopo quattro figure longilinee  e muscolose oltrepassarono la soglia della tenda. Si trattava degli albi annunciati dal generale. Avevano tutti i capelli chiari e carnagione altrettanto candida, arrossata e screpolata dal sole, a cui non erano abituati, e occhi luminosi e sottili, simili a quelli dei felini.

Portavano elmi leggeri sul capo e vestivano cotte di maglia e sopra di esse corpetti di cuoio borchiato. Non portavano con loro armi, che evidentemente era stato richiesto loro di lasciare all’esterno della tenda; una precauzione che nonostante notturni e albi fossero alleati, era resa  quasi necessaria dallo stato di allarme nel quale versava l‘accampamento. Avevano un’aria inquieta, come se l’incalzare degli eventi premesse su di loro, sensazione che trasparì anche dalla fretta con la quale il primo del gruppo si fece avanti con un rapido inchino del capo e portatosi quasi davanti al tavolo del re, rifiutò con un cenno sbrigativo l’invito a sedersi, iniziando subito a dire: “Non abbiamo tempo per i convenevoli, Generale. Siamo prepotentemente schiacciati dagli eventi: quale è la consistenza delle tue forze?” Yonuel non si scompose, ma fissò negli occhi l’albo, notando come il braccio destro gli tremasse lievemente sotto la cotta. “Novemila spade, tremila cavalli, cento cinquanta incantatori e cento guaritori. La quasi totalità dell’esercito.” Tacque qualche secondo. “La guerra dunque preme a nord?” L’albo sorrise, suo malgrado. “La guerra è su di noi.” Strinse i denti, dissimulando stentatamente un improvviso dolore. “Un male che non comprendiamo tenta di distruggerci. Migliaia di albi attaccano da ovest.” Il generale si alzò lentamente, sorpreso. “Ribelli?” “No. Morti.” Si limitò a rispondere laconico l’ albo. “Cosa intendi dire?” Intervenne l’Astro Bianco. L’inviato sembrò accorgersi sol ora della presenza degli altri presenti. “Non sappiamo spiegarlo con precisione.” Disse riavvolgendo lentamente la cotta di maglia dall’altezza del polso a quella del gomito. “Sono anime di defunti. Ombre evanescenti del passato, dotate di sostanza e tornate a distruggerci.”  Zacho volle allora chiedere: “Non vi sarete lasciati ingannare?”

“Ah!” Rise amaramente l’albo, mostrando un’orrenda ferita lungo il braccio, fradicia e infetta, come in putrefazione. “Fantasmi, vi dico. Sono quasi immuni alle nostre armi e le armature non servono a difendere dalle loro lame incorporee. Una ferita inferta da loro degenera rapidamente, come se il corpo venisse infettato da un qualche morbo che lo debilita fortemente. Solo la magia le guarisce e noi abbiamo pochi guaritori. E’ richiesto il vostro immediato aiuto.” Concluse secco l’inviato, riavvolgendo la cotta di maglia sopra la ferita, non senza una smorfia di dolore.

Yonuel sembrò riflettere  alcuni secondi, poi si alzò, ordinando con il tono autoritario che la sua carica gli conferiva: “Metà dell’esercito partirà con voi, da me guidato, per recare aiuto. Non intendo fare di più.” Precisò vedendo la faccia delusa dell’albo. “Non lascerò sguarnita la difesa delle nostre terre.” Fissò l’albo negli occhi. “D’altronde non abbiamo garanzie che questi…” esitò  un secondo”…fantasmi non attacchino anche le nostre terre.” Sospirò, risedendosi sul suo seggio, come cercando di ritrovare la forza per pensare lucidamente. “Andate a farvi medicare. Fra sei ore partiremo.”

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Lasciarono il campo esattamente come aveva stabilito il Generale. L’esercito si diresse ordinato e silenzioso verso Nord, incuneandosi attraverso le rade foreste che si inerpicavano verso i territori degli Albi. Dietro l’avanguardia della cavalleria leggera seguivano, circondati da una numerosa scorta di Proscritti, il generale Yonuel e il suo seguito di compagni, costituito dall’Astro Bianco, i Cavalieri Zacho e Shalia. Non potevano procedere troppo velocemente poiché la maggior parte dell’esercito, appiedato, non avrebbe potuto sostenere la fatica di una marcia a tappe forzate per poi unirsi ad uno scontro che a quanto era stato loro riferito, già infuriava. Ai combattimenti aveva preso parte anche il Re degli Albi, Urionar, che insieme a pochi altri guerrieri, era capace di tener testa in battaglia ai morti senza venirne sopraffatto e che riusciva seppur stentatamente a mantenere ferma la linea del fronte di battaglia al Monte Metlox, un enorme cratere di origine antichissima che si trovava all’incirca alla linea di confine tra i territori delle due popolazioni. Yonuel camminava silenzioso davanti a tutti, sforzandosi di mantenersi il più alto e sicuro possibile agli occhi dei suoi soldati. La notizia di un male misterioso che si dibatteva a nord per invaderli serpeggiava già tra le fila del proprio esercito, fiaccandone il morale e finanche le energie. Doveva dimostrarsi pronto e coraggioso contro qualunque avversità che gli si fosse parata contro, se non avesse affrontato per primo gli stessi pericoli che chiedeva ai suoi soldati di combattere, essi non avrebbero potuto trovare la risoluzione e la forza d’animo necessari per sopravvivere. Così, nonostante i consigli di Ràidames, si ostinava a cavalcare quasi al passo, sempre davanti a tutti, riposando alla maniera aurorea, che così pochi notturni erano ancora in grado di praticare, solo poche ore. Anche la seconda delle due notti di viaggio, all’alba del loro arrivo al campo di battaglia, non fece altro che girare per tutto il campo e per ogni guerriero ebbe una parola, un sorriso, per coloro che affilavano le spade, per i molti raccolti intorno ai fuochi del campo e perfino per le sentinelle disposte intorno all’accampamento, che si sincerò di salutare personalmente prima che si recassero ai loro turni di guardia. Ovunque la sua presenza recava conforto e rafforzava gli animi e quando a tarda notte, tornò esausto alla sua tenda, si accasciò quasi senza forze sul suo giaciglio, rassicurato. Aveva svolto bene il suo compito: i suoi uomini l’avrebbero seguito verso qualunque destino.

Ben altri pensieri agitavano invece la mente dell’Astro Bianco. Per la durata di tutto il primo giorno l’auroreo aveva scandagliato la sua memoria alla ricerca di ricordi fra le proprie memorie e quelle ereditate dal padre che potessero aiutarlo in quel momento. Riuscì solamente a richiamare alla memoria che l’evocazione di un’ombra, di un morto e l’intento di conferirgli nuovamente una forma corporea e tangibile richiedeva una notevole quantità del sangue per eseguire il rituale. La possibilità che qualcuno potesse aver compiuto un simile sacrificio di vite lo faceva rabbrividire. Un pensiero gli attraversò la mente;  esisteva tuttavia un sangue così intriso di magia e vita che una sola stilla poteva bastare a richiamare decine di fantasmi: l’Idor, che si diceva scorresse nelle vene degli dei immortali. Sin da tempi antichissimi il sangue divino era ciò che celava il segreto dell’immortalità e della forza delle divinità ed era considerato la fonte dalla quale sgorgava il loro incontrastabile potere. Liquido brillante e trasparente, era intriso della scintilla di vita immortale che gli dei avevano sempre posseduto ed il sangue di ogni divinità custodiva caratteristiche peculiari, straordinarie. Non sarebbe stato quindi assurdo pensare, secondo il pensiero di Ràidames, che qualcuno dei figli di Sèlonir stesse continuando le macchinazioni dei propri fratelli, le stesse che Sire Alcols aveva sventato con il proprio sacrificio. In tal caso il loro nemico sarebbe stato dieci volte più pericoloso di quanto non temesse già. Erano tuttavia solo sue supposizioni. E inoltre si palesava il problema di come affrontare l’armata di morti viventi che si apprestavano a combattere. Non sapevano quasi nulla dei loro nemici, se non che le loro armi ferivano le carni senza intaccare le armature e i loro corpi non conoscevano l’ingiuria delle armi degli Albi. Come avevano fatto quindi gli Albi a resistere? Le notizie riportate dai delegati non erano state sufficienti a chiarirgli la situazione: avevano infatti riferito che alcuni albi, in momenti diversi riuscivano a combattere ad armi pari, quindi non erano sempre gli stessi guerrieri a riuscirci, anche se Sire Urionar e la sua Corte erano sempre tra questi. Non era riuscito a sciogliere il quesito e il metodo per riuscire a sconfiggere le ombre gli sfuggiva ancora: avrebbe dovuto affrontarli in battaglia per riuscirci, ma forse allora sarebbe stato troppo tardi. Trascorse anche tutto il secondo giorno di marcia a meditare, spesso ponendo domande per chiarimenti ai delegati e alleviando il peso delle proprie preoccupazioni confidando i propri dubbi ai due Cavalieri. Non riuscì tuttavia a giungere ad una conclusione nemmeno  alla fine del secondo giorno, quando lo scontro ormai già infuriava a  Nord e per loro incalzava entro l’indomani. Quando si sedette scoraggiato sulla branda della sua tenda, era disperato e soprattutto furente: odiava sentirsi impotente, lui, detentore di un retaggio di potere e saggezza che affondava le sue radici in secoli di passato. Fissò la pietra trasparente trattenuta nella fauci del suo bastone ed un lampo bianco baluginò in essa allo stringere della sua presa. Non aveva altra scelta, sarebbe dovuto andare a spiare il nemico sul campo di battaglia Era rischioso, pericoloso e audace fino all’incoscienza, ma necessario. Inoltre quello era davvero il momento opportuno, se uno scontro era già in atto non lontano da loro. Respirò a fondo e, con lentezza carica di tensione, si inginocchiò al suolo, tenendo il bastone in terra davanti a sé e rimase in una quieta concentrazione per parecchi minuti. Stille di sudore gli rigarono la fronte e le guance, gocciolandogli dal mento in grembo. Teneva le mani immobili, con i palmi sui ginocchi, ma ad intervalli irregolari, sempre più frequentemente, gli fremevano per pochi istanti. Aveva gli occhi bianchi aperti, ma erano fissi sul vuoto, intenti a scrutare un’immagine che gli sfuggiva continuamente. In pochi attimi persero candore e splendore e i fulmini baluginanti del volto si ritirarono, togliendo ogni luminosità ai lineamenti di Ràidames. Il respiro non mutò mai d’intensità, ma rimase sempre regolare, ritmato e profondo, come di chi inspiri con forza prima di un balzo. La magia sgorgò dal suo corpo come una violenta eruzione e lo spazio intorno all’auroreo rifulse delle correnti di energia bianca che da ogni parte della sua pelle si sprigionarono. Aleggiarono attorno al loro possessore pochi istanti, per poi rifluire, condotte docilmente, all’interno della sfera del bastone dacronico. La magia palpitò qualche attimo nella pietra e poi scomparve togliendole ogni luminescenza e lasciando l’intera tenda nel buio. Nulla vi si vedeva o si udiva, anche il respiro dell’auroreo si era interrotto. Il suo corpo si era accasciato su un fianco ed ora giaceva immobile al suolo, privo di qualsiasi vita. L’Astro Bianco era morto.

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La ragazza si destò all’improvviso, sconvolta e disorientata dalla visione a cui aveva assistito in sogno. Aveva sognato il ragazzo. Ancora una volta. Questa però differiva dalle altre. Spesso lo aveva osservato mentre camminava triste e solo per ampie vallate o valichi pietrosi, con i capelli biondi striati di macchie bianche e gli occhi incupiti da un velo di tristezza. Altre volte di spalle, a torso nudo e tra i capelli che gli ricadevano fluidi lungo il dorso aveva visto con stupore, impresso a fuoco sui muscoli, il disegno di un sole. Ogni visione era sempre accomunata dalle medesime apparenze: il ragazzo era sempre d’aspetto calmo e mite, vestito di umili abiti, e talvolta con le lacrime agli occhi, quando chiuso in sé stesso, sedeva immobile a fissare il vuoto. Negli ultimi tempi, tuttavia, il ragazzo era cambiato. Una prima volta l’aveva ammirato brillare, come di magia, in armatura aurorei e stava eretto, con il viso umido di pianto e gli occhi divisi tra rabbia e dolore, a fronteggiare un nemico che non le era dato scorgere. Altre due visioni inusuali si erano succedute nell’ultimo periodo, addirittura a distanza di una sola notte. La prima visione l’aveva molto impressionata. A stento aveva riconosciuto il ragazzo. Era mutato nell’aspetto a tal punto da spaventarla. I capelli dai riflessi dorati erano diventati di un nero cinereo e gli aleggiavano intorno sospesi a mezz’aria. La pelle chiara si era inscurita, i muscoli si erano gonfiati, come se una grande pressione rischiasse di distruggerlo dall’interno, gli occhi avevano perso il colore limpido per  trasformarsi in braci ardenti. Quella notte si era svegliata con l’impressione che un grande pericolo gravasse sul ragazzo ed aveva quasi la consapevolezza che riguardasse anche lei. Il sogno successivo l’aveva in parte tranquillizzata e preoccupata. Il ragazzo era tornato alla normalità, ma giaceva immobile. Sembrava essere caduto in un sogno, o forse era morto? Il dubbio l’aveva tormentata per qualche tempo, ma infine l’aveva liberata. Era una sicurezza strana: non aveva alcuna prova che il ragazzo fosse vivo, eppure sentiva senza alcuna incertezza che lo era. Non riusciva a spiegarlo neppure a sé stessa, era come se tra lei e il ragazzo dei suoi sogni esistesse un legame empatico che le permetteva di percepire i suoi sentimenti senza scambiarsi parole. E c’era un’altra cosa di cui era certa: il ragazzo non era frutto della sua immaginazione; esisteva, esisteva davvero e sentiva che presto si sarebbero incontrati, avvertiva con chiarezza che i loro cammini stavano procedendo ineluttabili per intrecciarsi. Sospirò sconsolata, portandosi una mano sugli occhi, per schiarirsi i pensieri già così confusi; con tutti gli eventi che la stavano travolgendo non avrebbe dovuto lasciarsi distrarre dalle sue fantasie. Uno stridio la fece voltare. La porta della sua stanza si aprì e nella penombra un uomo entrò a capo chino. “Principessa…” L’uomo esitò attendendo che la ragazza gli concedesse la parola. “Parla pure, Cedrio.” Si alzò stancamente dal giaciglio. “Temo sia inutile continuare a ricordarti di non usare certi atteggiamenti con me, come di usare il mio nome senza titolo onorifico.” Cedrio sembrò ignorare le parole della ragazza, riferendo la situazione in tono freddo e distaccato. “Condios ha respinto anche l’ultimo nostro assalto a Karaiza e stavolta le perdite sono state maggiori rispetto alle altre volte.” La ragazza rimase immobile, silenziosa.

“Tuo fratello sta facendo davvero un ottimo lavoro a quanto pare.” Osservò stancamente.

L’uomo non ebbe alcun segno di reazione, ma continuò con voce atona. “Questa è già la sesta volta che si trasforma in appena due settimane. Il suo corpo non ne reggerà un’altra.”

La ragazza lo fissò con intensità: “Cosa consigli?” Il tono di Cedrio non variò di intensità.

“Non mandare più solo piccoli battaglioni, stavolta scaglia tutta la nostra forza radunata davanti Karaiza. Non potrà resistere e lo scontro sarà finalmente ad armi pari. Anzi probabilmente la fortuna sarà dalla nostra, visto che ci sottovalutano con una guarnigione di difesa insufficiente”.

 La ragazza rimase silenziosa, quasi non pareva convinta. “Inoltre manda anche Deidre. Nell’eventualità che qualche altro Cavaliere prenda parte alla difesa.” La Principessa si avvicinò all’uomo, posandogli una mano sulla spalla. “La tua fedeltà è una delle cose  più care che posseggo, Cedrio, ma…” Esitò pochi istanti. “Non ti dispiace per tuo fratello?” L’uomo non  mosse un muscolo, né la sua voce si incrinò:

“Io ho scelto la mia strada, lui la sua. Non rimpiango la mia scelta.” Solo ora si risolse a guardare negli occhi la ragazza. “Posso prendere congedo?” La Principessa tolse la mano dalla spalle dell’uomo. “Dai pure ordine di agire come mi hai consigliato. Puoi andare.” Cedrio si voltò e silenzioso chinò il capo e un attimo prima di chiudere la porta disse: “Ho fatto un giuramento a tuo padre, Principessa. Gli ho giurato che ti avrei difeso contro chiunque, fosse anche il mondo intero, e che ti sarei stato vicino in ogni situazione. Tu vieni prima di ogni cosa per me”. Ciò detto si chiuse la porta alle spalle e ora che nessuno lo poteva vedere, gli occhi gli si inumidirono di dolore. Orgoglio, onore e affetto gli si dibattevano nell’animo, sconvolgendolo con sentimenti e pensieri contrastanti. Scosse la testa. Forse presto il sollievo sarebbe giunto anche per lui, sottraendolo a quella situazione dolorosa priva d’uscita, che da un lato lo vedeva assassino dei suoi fratelli e dall’altro traditore degli ideali difesi per secoli dalla sua famiglia. Forse la morte sarebbe venuta a trarre in salvo anche lui.

 

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Capitolo 23
*** I Cavalieri traditori, la fonte del sangue ***


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La stanza sotterranea era permeata dal silenzio e dalla tranquillità. I muri di pietra, umidi e scuri, erano la cornice di una stanza al cui centro un tavolo circolare in legno con quattro sedie costituiva l’unico arredamento. La sola fonte di luce era costituita da una lampada ad olio posta al centro del tavolo, mentre l’unica via d’uscita era una porta di legno massiccio, completamente aperta e affacciata sul buio. Uno solo dei seggi era occupato. Un giovane  uomo dalla scura barba rada ed un cappello a falde larghe sedeva fissando il soffitto. Vestiva abiti stracciati e miseri e non portava con sé nulla se non una sacca da viaggio e bottiglia di liquore larga e dal collo stretto. Il liquido era così forte che l’odore acre saturava completamente l’aria e per la bassa temperatura del locale, si condensava in sottili fili di  vapore ogni qual volta toglieva il tappo di sughero alla bottiglia. Ne bevve alcuni sorsi, con noncuranza, e le gote gli si arrossarono. I minuti passarono lenti e quieti e sembrò quasi che l’uomo stesse per addormentarsi, quando, chiudendo gli occhi e sedendo sulla sedia in equilibrio sulle gambe posteriori e con i piedi poggiati sul tavolo, il suo respiro divenne regolare e profondo, come nel sonno. Nulla si mosse nella stanza, che l’uomo aprì debolmente gli occhi e mormorò: “Non capisco davvero cosa ti costringa ad arrivare in ritardo alle riunioni, Mory.” Il seggio alla destra dell’uomo si spostò all’indietro e un attimo dopo, un uomo incappucciato vi sedeva immobile. La sua voce fredda e atona risuonò nella sala sotterranea. “Le difese magiche attorno a Fearin sono aumentate a tal punto che nemmeno una  persona invisibile può entrare ed uscire tranquillamente.” Il volto sotto il cappuccio si voltò verso l’uomo.“E comunque, Layrus, non sono certo l’ultimo ad essere arrivato.” Layrus tolse i piedi dal tavolo, mettendosi stancamente a sedere e bevendo un’ampia sorsata del suo liquore. “Solo per  poco, Deidre è appena giunto.” Un guizzo di luce serpeggiò nella stanza, fermandosi sul seggio alla sinistra dell’uomo e condensandosi nella figura snella e slanciata di un uomo dai capelli corti e biondi. L’uomo guardò per un secondo gli altri due, poi quando Layrus bevve un altro sorso della sua bevanda e si sentì rimproverare dal nuovo arrivato: “Non pensi di esagerare?” In tutta risposta l’uomo sbuffò: “Non assillarmi, Deidre. Piuttosto sei in ritardo…” Osservò con sguardo accusatore. Deidre si limitò ad alzare le spalle: “Credi che abbia vita facile con il mio potere?” Si portò stancamente una mano tra i capelli. “Nonostante siamo dei traditori, la Principessa mi ha manda costantemente a pattugliare i territori orientali, anche per il bene di quelli che ci danno la caccia.”  Si appoggiò stancamente alla sedia, alzando gli occhi al soffitto. “Ieri ho dovuto affrontare una dozzina  di druidi che si stavano dirigendo a Loidra. Una dozzina! Da solo, non so se ti è chiaro!” Disse con sguardo veemente.

“E soprattutto come mai non ti sei ancora lamentato del ritardo di Cedrio? E’ l’ultimo oggi.”

Layrus sbuffò. “Ma che dici? E’ già qui, non vedi?” Il biondo si girò verso l’ultimo seggio e constatò con sorpresa che era adesso effettivamente occupato dall’uomo che aveva nominato.

“Non vi capisco proprio, ragazzi.” Sbuffò Layrus, togliendosi il cappello e rivelando una corta capigliatura terrea e scapigliata. “Non sapete proprio fare a meno di queste entrate ad effetto?”

Il corpo di Mory si agitò leggermente sotto il mantello e la sua voce sibilante suonò leggermente irritata: “Se ricorriamo ai nostri poteri anche per incontrarci è per attirare il meno possibile l’attenzione e per non mettere a rischio la segretezza delle nostre riunioni, come fai tu con il tuo atteggiamento disfattista.” Poggiò un pugno guantato sul tavolo di legno. “Sai in quanti mi pedinavano? Cinque! Ed io posso rendermi invisibile!” Layrus bevve noncurante dalla sua bottiglia, mentre Mory continuò, nervoso: “Immagina quanti avranno seguito te, che agisci senza pensare alle conseguenze!” Il bevitore si girò di scatto, rabbioso: “Idiota, ho seminato tutti i miei inseguitori. E almeno io non ho dovuto ucciderli.” La mano di Cedrio calò sul tavolo, aperta, con un tonfo sordo che placò gli animi dei due, riportandoli al silenzio. “Non è il momento.” Li guardò tutti con aria imperturbabile. “Sarò breve. Deidre, unisciti alle nostre truppe davanti Karaiza e conduci l’assalto alla città. Layrus, vai a nord portando con te non più di tre dei tuoi uomini migliori. Abbiamo avuto notizie su un esercito di Siguya in avvicinamento, controlla la veridicità di queste notizie e ritorna a riferirmele. Mi troverai ad Aziarak con la Principessa.” Tutte e due le volte che nominò i Cavalieri li fissò negli occhi, per sincerarsi delle loro intenzioni dalle espressioni dei loro visi, che rimasero pressoché inespressive, tranne lievi cenni di assenso. Quando si volse verso Mory esitò qualche secondo prima di parlare, cercando vanamente di penetrare con gli occhi l’oscurità che gli celava il viso sotto il cappuccio. “Mory, recati dalle nostre unità infiltrate a Delos, prepara l’insurrezione per quando le nostre truppe attaccheranno la città. Resta lì in attesa di istruzioni.”

“Ho il permesso di uccidere?” Chiese Mory con voce atona, quasi non avesse alcun altro interesse. “No.” Rispose perentorio Cedrio. “Il tuo modo di uccidere è inconfondibile e uccisioni indiscriminate potrebbero inimicarci il favore del popolo, che adesso ci appoggia.”

“Nemmeno se avessi la possibilità di uccidere i capi delle forze lealiste o i Cavalieri di stanza nella città?” Cedrio non rispose, ma si limitò a dire. “Adesso andate.”

Deidre chinò il capo e la sua immagine si illuminò un attimo, sparendo, e una striscia di luce guizzò oltre la porta. Layrus grugnì in segno di assenso e alzandosi, lanciò, ancora arrabbiato, la propria bottiglia, ormai vuota, contro la parete, mandandola in frantumi. Si voltò un’ultima volta verso gli ultimi due Cavalieri, con sguardo indecifrabile, poi si inoltrò nel corridoio buio.

Cedrio e Mory rimasero immobili e silenziosi finché i passi di Layrus non si spensero in lontananza.

Le parole dell’ assassino suonarono di nuovo, insistenti e suadenti, come se riprendesse un discorso appena interrotto: “Allora?” La voce di Cedrio tremò: aborriva più di ogni altra cosa quel modo di agire, ma non poteva farne a meno in quel momento: “Solo i Capitani e i Cavalieri.” Detto ciò scomparve, lasciando dietro di sé solo una scia di minuscoli cristalli ghiacciati.

Mory, rimasto solo, stette immobile ancora alcuni secondi, come in attesa, tenendo la testa abbassata. Poi tutto si svolse a velocità impressionante. Fu come se l’udito dell’assassino percepisse un rumore fragoroso deflagrare all’interno della stanza, eppure nulla che sensi umani avrebbero potuto percepire si mosse o si udì. Si voltò di scatto verso destra ed al suo movimento fece seguito quello del braccio, talmente rapido che nessuno avrebbe potuto vedere il pugnale dall’ elsa d’argento partire veloce e micidiale dalle maniche del mantello. Nemmeno la spia al servizio del Principe se ne accorse. Sentì solo un bruciore violento alla gola e il sapore ferroso del sangue che gli riempiva la bocca. Non mosse nemmeno un muscolo e la mente gli impazzì pervasa da un frenetico susseguirsi di pensieri mozzati e intenzioni irrealizzabili, per poi spegnersi d’un tratto, facendolo crollare a terra, come un burattino a cui erano stati spezzati i fili. Il suo corpo apparve lentamente, come se un velo gli venisse lentamente sfilato dal corpo, rivelando il viso di un ragazzino dagli occhi azzurri e i lunghi capelli biondi, completamente avvolto da un mantello simile a quello del suo assassino, solo imbrattato dal sangue che copioso sgorgava dalla gola. Mory si avvicinò al corpo della sua vittima e con lentezza sfilò il pugnale imbrattato di sangue, fissando il volto del giovane. Si ricordava di lui. Doveva chiamarsi Sila, se non s’ingannava. Era il suo miglior allievo quando era a capo dell’ordine degli assassini del Principe. Peccato. Con calma freddezza, pulì il pugnale nel mantello del vecchio discepolo e rimase fermo a fissarlo. Lentamente la sua immagine iniziò a fondersi nell’oscurità sempre più densa del sotterraneo. In breve di lui non rimase nulla. E mentre scivolava, silenzioso come un gatto, attraverso l’uscita, ripromise a sé stesso di essere più attento e prudente. Se i membri del suo ex-ordine erano sulle sue tracce, non poteva permettersi errori. Finalmente la faccenda iniziava a farsi più divertente.

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Ciò che in vita era Ràidames vagò alla velocità del pensiero verso nord, fermandosi di colpo, come spirito incorporeo, sopra il valico di Metlox. Si concentrò con molta fatica ma i suoi sensi e le sue percezioni si agitavano lottando tra di loro. La vista del mondo spirituale era sconvolgente. Ogni elemento del reale proiettava in quell’altro mondo le radiazioni delle proprie energie: pietre,  alberi e animali non erano che deboli luminescenze ed un vento incessante squassava ogni cosa, mutando continuamente la forma e la quantità delle radiazioni. L’unica cosa sempre uguale era il cambiamento, unica costante di quel mondo in continua agitazione. Spostò la sua percezione sulla battaglia ed il suo spirito quasi si spezzò cercando di cogliere nella sua interezza i combattimenti. A prima vista pareva un incendio. Continuando ad osservare però, notò che le fiamme lottavano tra loro, vampe rosse e violente che si dibattevano attorcigliandosi con una moltitudine di esili fiamme bluastre. E queste ultime avvolgevano in sottile spirali le altre, sopprimendole e spegnendole. Solo al centro del cratere una lingua di fuoco sanguigna si dibatteva, quasi solitaria, consumando qualunque altra le si avvicinasse. Un intenso dolore lo fece sobbalzare: capì ce in quello stato non aveva tempo da perdere. Focalizzò la sua attenzione solo sulle fiamme bluastre. Notò che sottili fili grigiastri si dipartivano da ognuna di esse, legandole, ed ogni catena convergeva verso ovest, tra le sottili emanazioni degli alberi. Le seguì fluttuando fra di esse e più avanzava, più si concentravano e sentiva di protendere sempre più verso la loro origine. Vi entrò all’interno imbevendosi della natura dei tramiti di quei fili, pura magia, e li seguì fino a giungere ad un estremo, uno degli spiriti evocati. Scandagliò fin nelle più intime profondità del fantasma, sicuramente quello se ne accorse, ma non tentò resistenze, anzi sembrò quasi che lo aiutasse, portandogli alle mente tutto ciò che voleva sapere: in poco tempo scoprì tutta la verità. Uscì allora dallo spirito percorrendo il filo argenteo all’inverso fino alla sua fonte, ma prima ne uscì, per non venirne risucchiato. Fu allora che la vide, la sorgente di una luce pura e accecante. Aveva una forma vagamente umanoide, forse aurorea, non avrebbe saputo dirlo, e manteneva, con le mani protese verso l’alto tutti i lacci che stringevano le vampe azzurre. I lineamenti sparivano avvolti dalla luce e niente pareva intaccarla. Anche il soffio innaturale che tutto tramutava indugiava su di essa, lasciandola immutata e perfetta, solo elemento inalterato in quel mondo cangiante. Si avvicinò a quell’essere, attrattone irresistibilmente. Sembrava che al centro della luce pura che dall’essere sgorgava qualcosa pulsasse, pieno di vita. Era quasi sicuro si trattasse di magia, ma non ne aveva mai sentita di così concentrata e potente. Si avvicinò incorporeo a quel nucleo, desideroso di comprendere quel mistero così appetibile per la sua sete di conoscenza e la cui soluzione era così a portata di mano. D’improvviso si sentì afferrare alla gola e a nulla valse la forza delle sue braccia eteree per liberarsi da quella morsa. I fili di potere reggevano da soli le volontà degli spiriti da loro controllati, mentre le mani di Ghanay, figlio di Selonir, si stringevano più e più forti sul collo dell’auroreo. Ràidames tuttavia si controllò. Non poteva morire in quello stato, poteva soffrire, sì, ma non morire, a meno che non fosse restato in forma di spirito il tempo necessario a recidere definitivamente i vincoli che lo ancoravano al suo corpo. Fissò negli occhi il figlio di Selonir, ma non vide altro che una luce, che adesso gli appariva sinistra, vuota e spaventevole, troppo grande. Con uno sforzo di volontà dissolse lentamente le sue percezioni per annullarle completamente. Era un processo lento e aberrante, simile ad un suicidio, al termine del quale, con l’ultima stilla di lucidità costrinse il suo spirito ad assopirsi completamente. Privo di volontà, lo spirito di Ràidames fu tirato indietro, come se anche lui fosse legato da una catena invisibile al suo corpo. Liberato dalla stretta del dio e tornato nuovamente in sé, l’auroreo respirò affannosamente, nuovamente vincolato dalle leggi del corpo reale. Nonostante fosse scosso e sanguinante da naso e bocca, ritrovò a tentoni il bastone abbandonato di fronte a sé e uscì arrancando fuori dalla tenda. A grandi passi si diresse verso la tenda di Shalia, con la mente che freneticamente ripercorreva tutte le nozioni che aveva appreso a costo di una morte.

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Zeriol stava immobile, inginocchiato e prosternato a capo chino davanti al capo del suo ordine, Golaros. La prima volta che gli era stato accordato l’onore di vederlo, in quanto druido designato come suo successore ed Erede, aveva rischiato di svenire. Golaros non gli era sembrato un essere di quel mondo allora, come non lo sembrava in quel momento, quanto piuttosto una creatura d’incubo,  partorita da qualche psiche malata. Quello che doveva essere stato un uomo giaceva in una fossa colma d’acqua, come in un grottesco dipinto. Si ergeva dalla vita in su fuori dal liquido, a petto nudo, martoriato da innumerevoli tagli ovunque. Il sangue sgorgava a rivoli da ogni ferita, come se fosse stata inflitta solo pochi attimi prima, colorando di un rosso pallido l’acqua. Perfino il viso era devastato e i lineamenti alterati dalle escoriazioni, eppure si poteva intravedere, nonostante la rovina del corpo, parte dell’antica fierezza e regalità emergere dalla fiera posizione statuaria e dalla profondità degli occhi inviolati. Innumerevoli vene di pietra pulsanti si staccavano dalla volta rocciosa attaccandosi come sanguisughe alla schiena e alle braccia dell’uomo ed erano tuttavia tali legami con la terra a tenerlo in vita, trasferendogli di continuo magia e forze.

“E così hai incontrato Siguya, Zeriol?” Il notturno si limitò ad annuire debolmente con il capo, senza avere l’ardire di alzare il capo. “Sei stato fortunato a sopravvivere.” Stavolta il notturno non si mosse nemmeno. “Torna ad ovest, trova il ragazzo e stavolta convincilo a seguirti con l’astuzia. Con l’inganno se serve.” La voce, atona e priva di incrinature, non lasciava spazio ad alcuna reazione. “Entro trenta giorni, che tu abbia compiuto o meno tale missione, torna da me. Compiremo il rituale sotto la luce della luna nuova.” Il corpo dell’umano fremette un attimo dall’emozione. “Finalmente sarò libero da questa caricatura di essere vivente.” Il notturno non proferì verbo. Si alzò lentamente e solo per un attimo i suoi occhi incontrarono quelli di Golaros. Erano quelli la cosa che più lo spaventavano del suo maestro. Brillavano di una luce antica, bramosa di vita e conoscenza. Erano le luci di uno spirito che aveva divorato decine e decine di anime e corpi, ansioso di immortalità e spaventato dalla morte. E adesso sarebbe stato lui il successivo contenitore, il tramite di un sogno che perdurava da secoli. Non l’avrebbe permesso. Giurò a sé stesso quella promessa per l’ennesima volta mentre abbandonava l’odore di morte che permeava l’aria.

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La donna camminava con passo ondeggiante nella piccola radura erbosa, dominata da una tersa oscurità e rischiarata solamente da stelle inusuali e costellazioni sconosciute. La carnagione biancastra risaltava per i lunghissimi capelli neri, che incorniciavano un viso dalla bellezza semplice e selvatica, esaltata da due occhi d’ebano che sembravano evocare un’oscura infinità. Cingeva con il suo cammino circolare due vasche, colme di liquidi frementi e ne osservava il continuo ribollire con attenzione. La fontana alla sua destra era circolare, in marmo bianco. Al suo centro emergeva dalla superficie liquida un’egida circolare, priva di qualunque simbolo o vessillo. Era tuttavia riccamente decorata, al contrario del resto del monumento, semplice e spartano. Era divisa in sei circoli concentrici, ognuno dei quali aveva scolpito delle particolari raffigurazioni. Il più esterno raffigurava una massa eterogenea di persone, uomini e donne di tutte le razze, che non sembravano avere alcun legame tra di loro che non fosse appunto quello di appartenere alla medesima schiatta, uniti da un legame simile a quello di sangue. Il secondo circolo aveva una raffigurazione più cruda e cruenta: numerose persone giacevano al suolo, supplichevoli o terrorizzate, mentre le armi di carnefici senza volto minacciavo di abbattersi su di loro per derubarli di ogni vita. Il sentimento cupo del secondo circolo svaniva nel terzo, lasciando spazio alla tranquillità e alla serenità. Uomini stretti in calorosi abbracci, intenti in piacevoli conversazioni, per scambiarsi sogni ed ambizioni o vicini gli uni agli altri con le armi in pugno, emergevano con realismo comunicativo dal marmo. Il penultimo circolo era ormai visibilmente più sottile eppure sembrava capace di trasmettere sensazioni più di tutti gli altri, poiché una percezione infinitamente calda e dolce traspariva dalle immagini di donne indifese, avvolte da pepli leggeri e corone di fiori, con gli occhi sognanti e felici di chi è pervaso completamente dal sentimento d’amore. L’ultimo circolo era un tripudio di forme e volumi quasi giocosi. Figure di bambini sembravano prorompere con allegria ed energia dalla superficie liscia del piano. Innocenza ed ingenuità si delineavano dagli occhi calcarei, dai volti privi della triste consapevolezza dell’esistenza, che seppur in gradazioni diverse affiorava dalle sculture di ogni circolo. I contorni ed i rilievi dell’egida rilucevano di aurei bagliori, lambiti dal liquido brillante che sgorgava ininterrottamente dalla fontana. Pulsava di energia propria e un occhio attento avrebbe potuto notare che diverse correnti si agitavano nel fluido scorrere dell’oro disciolto, quasi fosse animato da diverse volontà. Ben diversa appariva l’altra fonte. Anche questa era di forma circolare e spoglia, ma la sua scultura centrale era ben diversa: tre spade disposte a triangolo affondavano per metà della lama nel liquido rossastro e sanguigno che sgorgava a fiotti, simile al sangue versato da una profonda ferita aperta. L’elsa di ogni spada riluceva di un bagliore rossastro che si rifrangeva in mille riflessi sul marmo nero delle impugnature. La luce sanguigna non faceva altro che aggiungere una velatura macabra alle tre raffigurazioni riportate in piccoli quadranti su ciascun elsa.

La prima raffigurava un uomo, delirante e ansioso, mangiare manciate di monete per saziare un appetito di ricchezza, delineando i contorni di una scena macabra e sconcertante. La seconda ritraeva un uomo nell’atto di pugnalare un suo simile alle spalle, con gli occhi iniettati di violenza e bramosia mentre scivolava fuori dall’ombra. La terza raffigurazione aveva un che di enigmatico e misterioso: riproduceva un uomo che, preda di una follia così completa e totale di distruggere ogni razionalità e cognizione e ridotto ad un burattino preda di istinti ferini, stringeva nella mano destra un cuore sanguinante. Le tre visioni sconcertanti parevano anch’esse essere quasi animate, tanto che il ribollire sinistro e continuo del liquido sanguigno sembrava derivare dal continuo aggravarsi delle degenerazioni della mente umana che le tre else riproducevano.

“Quale fazione sta vincendo, Keres?” La donna non si voltò, ma si limitò a fissare i vortici dorati che andavano creandosi nella fontana dell’egida.

“Non pensavo che il tuo risveglio fosse già avvenuto.” Mormorò con voce sommessa la donna, sussurro che tuttavia risuonò nitido nel luogo, non contrastato da alcun altro suono.

La figura di un uomo dall’altezza e la robustezza non comune si delineò vicino alla fontana dai riverberi cremisi. Nell’ombra addensante nere ali di pipistrello trepidarono leggermente, avvolgendo in un abbraccio protettivo l’intruso di quel sito nascosto.

Una mano dalle squame rosse e le lunghe unghie nere si immerse lentamente nel sangue della fontana rosso vivo ed un intenso odore di bruciato colpì le narici di entrambe le creature, come se il liquido della fontana cercasse di divorare la mano dell’avventato demone, bruciandola completamente. Quando tuttavia la creatura estrasse la mano essa non aveva ingiuria alcuna.

“Credevi davvero che io potessi assopirmi?” Le ali si aprirono, dispiegandosi per tutta la loro apertura, rivelando un corpo nudo, privo di qualunque carattere sessuale, ricoperto da squame rosse e rilucenti di un bagliore verdastro, sinistro. Una capigliatura ossea, dal colore grigiastro, scendeva lungo la schiena del mostro simile a una parete rocciosa, incupendo il colore rosso lucido di un viso da rettile, con i lineamenti appena accennati e labbra quasi ritirate all’indietro. Occhi da serpente squadravano la donna, sottili e lunghi, gialli e brillanti nell’oscurità, sbarrati al centro da fessure nere. “Io sono l’Uomo.” Sorrise, passandosi una lingua orridamente lunga sulle labbra. “Sono stato definito come la parte più oscura della sua anima.” Iniziò a girare lentamente intorno alla fontana cremisi, ripiegando le ali dietro la schiena. “Io penso di essere ciò che l’uomo è in realtà. Se la razza umana potesse specchiarsi e vedere riflessa la propria essenza, vedrebbe me.” Affermò con veemenza dilatando gli occhi. “Odio, rabbia, invidia, ambizione, lussuria, ignavia, ingordigia, tradimento, bramosia, violenza. Sono queste le vere componenti dell’anima umana.”

“Ti sbagli” Mormorò Keres e immerse a sua volta la propria pallida mano nella fonte aurea e quando la tolse parve avvolta da bagliori dorati, come polvere di stelle.

Ma il demone continuò il proprio monologo, nel suo oscuro ragionamento.

“Esseri che vivono cercando di infrangere i limiti imposti loro dagli dei. Che si spingono a voler provare i sentimenti più distruttivi e iniqui. Che non riescono ad accettare l’unico cosa equa e giusta dell’esistenza: la morte.” Mostrò denti affilati e ferini.

“Finché loro esisteranno io non potrò essere assopito, né sconfitto.” Si diresse a lenti passi verso la donna, avvolgendola in un macabro abbraccio con le sue ali. “Potrò cambiare forma o nome, ma ci sarò sempre. Per sempre.”

La donna sorrise, in maniera beffarda. “E’ strano che tu dica una cosa del genere proprio qui, Kàkos.”  Allungò una mano verso l’addome del demone e quello, quasi spaventato, fece un enorme balzo all’indietro, volando fino ad atterrare all’interno della fontana gorgogliante di sangue, affondandone fino alle ginocchia.

“Quella in cui affondi le tue gambe è la Fonte del Sangue.” Continuò la donna. “Il sangue che vi scorre di continuo appartiene a coloro che hanno versato il proprio e quello altrui per i propri oscuri desideri, per appagare la fame di ricchezze, le bramosie di potere o seguendo gli istinti più vili e meschini scaturiti dalla parte oscura della loro psiche.” Fissò negli occhi il mostro.

“Lì scorre anche l’Idor dei tuoi fratelli.” Keres sospirò, tornando a specchiare il volto nei riflessi aurei dell’altra fonte. “Il loro sangue si mescola adesso senza armonia e distinzione a quello pervaso di malvagità di coloro che in vita si sono comportati nella medesima maniera.” Affondò completamente il braccio nell’oro liquido e il suo viso si rigò di lacrime di dolore. “La Fonte dell’Idor raccoglie i dolori e le sofferenze patite da coloro che contro ogni logica hanno sfidato la sorte e sono morti in nome dei loro ideali.” Keres estrasse il braccio, grondante di luce, e immagini e colori si andarono formando nella fonte, descrivendo una tetra scena di un sacrificio passato. “Cosa distingue il sangue umano da quello divino, figlio di Sèlonir?” Il demone abbassò lo sguardo, fissando con interesse la medesima scena che si proponeva alla sua interlocutrice, sebbene da punti di vista diversi. L’una guardava attraverso gli occhi del difensore, l’altro del carnefice. “Il nostro sangue ci rende immortali.” Rispose il demone, continuando a fissare con intensità la scena.

“Costoro hanno guadagnato a tutti gli effetti un’immortalità che agli dei non è concessa.” Affermò sicura la donna. “Questi mortali continueranno a vivere finché i loro principi verranno ereditati dai loro discendenti. Invece anche se gli dei continuassero a vivere in eterno, quando di loro si perderà memoria, saranno morti comunque a tutti gli effetti.”

Kàkos sembrò ignorare la donna, guardando con maggiore attenzione le immagini che gli scorrevano davanti agli occhi nel sangue. Un notturno, sicuramente un Astro Nero, a giudicare dai lampi di tenebra incisi sul viso, fronteggiava un oscuro ammasso di potere, che gli si ergeva davanti minaccioso nella figura di un uomo dalla chioma nera. Un lampo illuminò la visione ed una spada dorata trafisse al petto l’elfo, passandolo da parte a parte. Fiamme bluastre si dipartirono dalla lama, avvolgendo il notturno in un sudario di morte e fiamme. La scena si interruppe per entrambi, stroncata da un gesto quasi rabbioso di Keres.

“La mia fede nella razza umana sgorga insieme all’Idor da questa fonte.” La donna ebbe un fremito. Si voltò verso destra, fissando un punto preciso oltre l’oscurità. “Altro sangue nobile và aggiungendosi, altri sacrifici compiuti.” La risata del demone risuonò rauca e violenta.

“Proprio non riesco a capire il senso delle loro azioni.” La donna non si voltò nemmeno, iniziando a compiere piccoli passi nel buio. “Si pentono mai della loro scelta quando ti vedono arrivare per portarli nell’aldilà?” Chiese provocatorio Kàkos. La figura di Keres iniziava a svanire lentamente quando fece udire nuovamente la sua voce. “Chiunque muoia porta con sé il proprio passato, il presente ed il proprio futuro. Sebbene abbia dei forti legami con la vita quali la famiglia, l’amore, l’amicizia o degli ideali, decide di rischiare la vita proprio perché per lui sono importanti. Forse un giorno capirai.” Disse scomparendo. “I tuoi fratelli hanno tremato di terrore innanzi alla morte, al mio arrivo.” L’urlo rabbioso del demone, ferito nell’orgoglio, fu l’ultima cosa che la donna sentì prima del clamore di un’altra battaglia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 24
*** Layrus ***


Il grido lacerante di Yonuel squarciò il silenzio tenebroso delle foreste elfiche

Il grido lacerante di Yonuel squarciò il silenzio tenebroso delle foreste elfiche. Il sangue scorreva a fiotti dalle ferite causate dalle antiche maledizioni invocate dal Druido, mescolandosi alla terra bruciata in pochi istanti dai fulmini evocati tramite la sua magia. I corpi straziati dei Proscritti giacevano al suolo, privi di vita e lo stesso Yonuel avvertiva il suo spirito abbandonare le membra attraverso le ferite. Cercando disperatamente di rimanere cosciente l’elfo riusciva a malapena a distinguere la figura immobile del Druido.

“Che desolazione!”Il traditore rise sarcastico “Voi elfi meritate davvero l’estinzione.

Compì alcuni passi verso Yonuel che, steso a terra, cercava invano di rialzarsi. “Sai cosa mi irrita maggiormente di voi? Questa totale e assoluta mancanza di evoluzione.” Si chinò sulle ginocchia, alzando con una mano il viso dell’elfo in modo che i loro sguardi si incrociassero.

“Potreste dominare, ergervi al di sopra delle altre razze e avere il controllo sulla vita e la morte degli esseri viventi.” Sputò a terra “ E invece vivete rilegati in queste misere lande, tenendo fede alla vostra tradizione di semplici osservatori. Sorrise, maligno. “Basterà la mia forza a spazzare via ben più della razza notturna. Yonuel alzò il braccio destro, come a voler fermare quel delirio, ma la mano gli cadde priva di forza sull’erba, mentre lui scivolava nell’incoscienza.

L’ultima cosa che vide fu, oltre la figura china del Druido, la sagoma ormai familiare di Anarion sbucare dal fitto degli alberi, avvolto da una pallida luce. Poi il buio.

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Anarion aveva immediatamente avvertito un pericolo incombente nel medesimo istante in cui aveva abbandonato la prateria di Alcols. Eppure non riusciva a capire se tale pericolo venisse dietro di lui o lo aspettasse fuori dalla foresta. I suoi sensi erano ancora alterati dai sentimenti che la conversazione con il Saggio Nero aveva suscitato in lui. Eppure dopo la presa di coscienza della sua situazione, con la consapevolezza aumentava anche la facilità con cui riusciva a richiamare il potere di cui Selonir lo dotava. Già allora, man mano che sentiva il pericolo incombere, la magia di Selonir si sprigionava in luce dal suo corpo, pronta ad essere usata al primo accenno di pericolo. A ogni passo vedeva la luce farsi più forte, fino a quando fu finalmente fuori dall’intrico di alberi e oscurità. Eppure gli bastò un’occhiata per capire che i problemi di quella giornata errano ancora ben lontani dalla loro conclusione. Davanti ai suoi occhi, in un lago di sangue giacevano Yonuel e i due Proscritti e il loro carnefice lo fissava immobile, con una maschera che gli copriva il viso. Altro sangue era stato versato per lui, per proteggerlo. Non riuscì a fare a mano di odiarsi in quel momento. Riuscì a stento a controllare l’energia che spingeva per prorompere dal suo corpo. Non doveva lasciarsi manovrare come un burattino dai suoi poteri, ma agire come essere umano consapevole. Si diresse verso il Druido e questi disse: “Finalmente ti vedo Incarnazione, l’attesa dei Druidi durata venti anni è finalmente terminata. Ma Anarion lo ignorò completamente, passandogli accanto senza nemmeno degnarlo di uno sguardo, con stupore e rabbia del Druido. Il ragazzo si inginocchiò al fianco del morente Yonuel. Forse poteva ancora salvarlo. Concentrò la sua magia sulle punta delle dita, avvolte da una chiara luminescenza, ma non riuscì a sfiorare il corpo dell’elfo. Un aculeo di roccia emerso dal terreno cercò di trafiggerlo al petto e solo gettandosi di lato riuscì ad evitarlo.

“Dove credi di essere?” Urlò il Druido “Sei sul campo di battaglia e hai un nemico davanti a te!

Se ti distrai morirai, stanne certo.” Gli occhi di Anarion, spazientito da quelle parole arroganti, arsero d’improvviso come braci. “Se davvero desideri che ti mostri la via verso l’oltretomba sarai accontentato. Si rialzò d’improvviso e un lampo bianco scaturì dalla sua figura dirigendosi contro il notturno. Lame di roccia spuntante dal suolo si frapposero tra il Druido e la magia di Anarion, disperdendola. In un attimo poi una violenta corrente d’aria foggiata a mò di lancia colpì in pieno petto il ragazzo, che sputando un fiotto di sangue dalla bocca, venne scaraventato contro un albero,cadendo poi al suolo. Più che al dolore Anarion non riusciva a fare a meno di pensare quanto fosse potente il suo avversario. “Ora che l’hai provato su di te, riesci a comprendere?”

Disse il Druido con voce atona. “La tua forza non può ancora nulla su di me. Iniziò ad avvicinarsi al ragazzo a passo lento. “Tuttavia l’energia di divina origine che in te alberga ti ha permesso di resistere al mio attacco senza morire. Lo fissò con sguardo quasi eccitato. “In te è imprigionato un dio… Uno dei più potenti: Selonir. Ma se il suo potere è detenuto da un essere indegno quale tu sei, non è altro che un’inutile zavorra. Pestò il viso del ragazzo con un piede “Quando ti rechi sul campo di battaglia non dimenticare di preparare adeguate protezioni.” Fece più forza con il piede, sentendo che il ragazzo cercava di liberarsi. “Per di più non ti sei accertato della mia forza prima di affrontarmi e mi hai attaccato frontalmente senza alcuna strategia. Un’altra saetta fluì dalle braccia del ragazzo, ma con un salto all’indietro il Druido schivò il potente ma goffo attacco. “Il mio potere mi consente il completo dominio dei fenomeni della natura. Anarion riuscì a stento a rialzarsi, ascoltando incredulo le parole del notturno. “Ciò che rende la Natura imprevedibile per l’uomo è il fatto che essa distribuisce i maniera del tutto casuale vita e morte agli uomini.” Nuvole nere iniziarono a raccogliersi su si loro, mentre un rombo indefinito e lontano sembrava provenire dal sottosuolo con crescente forza.

“Io invece posso volgere in una manifestazione esclusivamente mortifera qualunque fenomeno naturale. “Volgo in morte la pioggia, una veste ghiacciata che tutto trapassa e trasformo le vene della terra che serpeggiano nelle sue profondità in una morte di nuda pietra che riduce ogni cosa in cenere. Decine di lame di nuda roccia taglienti come lame sorsero dal terreno dirigendosi sul ragazzo come dotate di volontà propria. L’energia del ragazzo riuscì a malapena a salvargli la vita, ma non poté evitare di rimanere imprigionato e pesantemente ferito. “Dispera mortale!”

Stille di pioggia nere e velocissime iniziarono a cadere dal cielo trafiggendo le membra di Anarion. La malvagità a guisa di pioggia nera trafisse il ragazzo fino nello spirito come una lancia acuminata, una lama che risucchiava la vita. Eppure con il dolore che cresceva e sentendo la morte alitargli sul collo, Anarion avvertiva sempre più forte qualcosa farsi largo nella sua coscienza, una forza che lottava per uscire allo scoperto e distruggere un sigillo che la bloccava. Non riusciva a capire cosa fosse, né a controllarlo, qualcosa dentro di lui glielo impediva.. Il ragazzo non riusciva in alcun modo a difendersi, era travolto da forze così spaventose quali non aveva mai sperimentato. Nemmeno l’energia di Selonir valeva a disperdere l’inferno che lo circondava. Più volte aveva provato a far esplodere la sua energia, ma non era valsa a fermare che per pochi secondi gli attacchi del notturno. Quando ormai era convinto che fosse finita, ogni cosa si placò e rimase immobile, ormai privo di forze, trafitto e immobilizzato tra le rocce.. Il sangue sgorgava a fiotti dalle sue ferite, bagnando la pietre e scendendo a rigagnoli fino a bagnare il suolo. D’improvviso le rocce si ritirarono e lui cadde riverso sul suolo, come un fantoccio. Riusciva a malapena a distinguere la figura del Druido. Egli non lo fissava più, anzi adesso aveva lo sguardo fisso verso la foresta dove risiedeva Alcols, sembrava preoccupato per qualcosa, come se cercasse di capire cosa stesse succedendo lontano da lì. Improvvisamente una fortissima esplosione squarciò l’aria, l’aria fremette e un rombo violento scosse ogni cosa. Una colonna di luce ed ombra strettamente intrecciate si sollevò dalla foresta, perforò il cielo e squarciò l’oscurità che avvolgeva il luogo come un sudario. Ogni angolo e anfratto della foresta fu investito da un bagliore accecante e in pochi istanti tutto si dissolse in una cortina dorata che sfumò ogni dettaglio in particelle di luce.

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Sovrastando la confusione e il dolore che permeavano i suoi sensi, Anarion sentì una voce parlargli come sussurrata alle orecchie. “Cosa stai facendo?” Gli domandò con tono di rimprovero. “Non avevi forse promesso ad Alcols di combattere? Hai già dimenticato che Raikas e Alreyd si sono spenti affidando le loro speranze a te?” Il ragazzo rispose, come cercando di scusarsi.

Ma l’elfo è troppo forte, troppo.” Chiuse gli occhi disperato “Non c’è più niente che mi sostenga.” La voce si fece comprensiva. “Non temere”. Gli sembrava di averla già udita in passato, ma non faceva parte dei suoi ricordi. Si sentì afferrare e sollevare delicatamente, sospeso a mezz’aria. Si voltò. Un essere ammantato completamente di bianco e dalle eburnee ali piumate lo sorreggeva. Ebbe un sussulto. Il viso nascosto sotto il cappuccio era quello di Alcols. Anzi no, era più maturo e negli occhi di questo erano impressi una serenità e una regalità che il Saggio Nero non possedeva. “Saranno i cuori di coloro che credono in te a darti la forza di avanzare.”

“Ma anche se mi rialzassi, il suo potere è comunque troppo superiore.”

L’alato sorrise. “Alzati e vai avanti, chi ti sorreggerà è già al tuo fianco.

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Capitolo 25
*** La guerra contro i morti, Ghanay contro Ràidames, ***


l

“Combattete! Non abbiate timore della morte! Avanzate! Avanzate!” La voce possente di Urionar sovrastava il frastuono dei combattimenti, facendosi udire ovunque sul campo. Se la sua voce bastava a compattare le sue schiere, vederlo combattere infondeva nei suoi soldati forza e orgoglio tali da lanciarli nella battaglia con rinnovate energie. Indossava un’armatura completa di ferro, argento e oro, che lo ricopriva quasi completamente,lasciandogli scoperto il viso: ogni piastra o anello della cotta splendeva di aurei bagliori per via del metallo prezioso fuso sull’ acciaio lucente per disegnare il simbolo di forza di due fulmini intrecciati. L’elmo, forgiato in modo da apparire come le fauci di un serpente, riluceva di bagliori verdi anche nell’oscurità addensante, rendendo il re visibile per i propri uomini ovunque sul campo di battaglia. Nella destra reggeva un’ascia dal colore cremisi, forgiata in maniera tale che la parte posteriore della testa dell’arma raffigurasse un vulcano in eruzione, le cui fiamme formavano invece la lama dentellata anteriore, mentre nella sinistra reggeva uno scudo rettangolare, fabbricato in metallo scuro, con foggiato al suo centro un’unica runa rappresentante la casata d’appartenenza del Re. Il Sire stesso pareva un terribile rettile, le cui squame si accendevano di bagliori, erto forte ed indomito e i cui artigli spezzavano qualunque avversario. La sua arma colpiva inesorabile chiunque avesse l’ardire di pararsi davanti a lui, recando aiuto ovunque lungo la linea dei combattimenti dove la ressa fosse più accesa o il pericolo più grande. Nessuno gli si poteva opporre e avanzava attraverso i suoi nemici come un turbine scuote foglie cadute. Eppure era pur sempre un solo guerriero. Nessuno dei suoi riusciva ad imitare l’ardore e la fermezza con la quale si batteva contro siffatti avversari. Migliaia di Albi dalla pelle scura ed i contorni evanescenti si facevano sempre avanti,  portando armature tetre e brandendo armi nere. I loro occhi erano buchi neri che si affacciavano sulle loro anime implacabili. Non conoscevano esitazione o pietà e combattevano incuranti di qualunque prudenza, guidati da una ferocia e un odio inspiegabili. I guerrieri di Urionar non riuscivano ad opporre nemmeno una strenue resistenza. Non molti avevano il coraggio di attaccare i propri nemici, quasi tutti esitavano prima di vibrare un colpo contro quelli che gli apparivano come consanguinei. L’esitazione nascondeva la verità ai loro occhi, che sembravano scorgere in quello di ogni fantasma dallo sguardo spaventoso, il volto del padre o di qualche parente ormai defunto. Chi mai poteva avere il coraggio di levare la spada contro la propria stessa famiglia senza alcuna esitazione? E così anche quando i loro colpi andavano a segno, spesso tagliavano vanamente l’aria, senza scalfire i corpi immateriali dei loro nemici, mentre molti cadevano, esterrefatti quando le armi nemiche li ferivano attraversando scudi e armature. Centinaia cadevano senza avere la possibilità di vibrare anche un solo colpo, trasformando il campo in un mattatoio di quei guerrieri che scendevano pronti a dare la vita per il loro popolo e il proprio onore. Era merito solo della Corte del Re, un gruppo di  cento guerrieri animati dalla stessa determinazione del sovrano, che l’esercito resisteva. Questi possenti guerrieri si ergevano davanti a tutti, reggendo innumerevoli colpi e vibrando fendenti terribili che riuscivano ad infrangere le difese eteree dei loro avversari. Sangue nero colava dalle ferite di quegli spettri sfuggenti, che evaporava sulle lame o quando bagnava il suolo. Eppure ad ogni colpo menato o ferita causata, qualcosa negli spiriti degli Albi s’incrinava, un senso di colpa che li affliggeva come una pesante fardello incancellabile. Fu così che al completo calare delle tenebre, dopo alterne fasi di avanzate e ripiegamenti, i due eserciti si ritirarono, ognuno ai bordi opposti dell’enorme cratere che era stato reso teatro di quella guerra senza significato. Una di guaritori degli Albi si incamminarono a passo frettoloso e inquieto sul campo, scortati dalla Corte del Re, a soccorrere i feriti e a raccogliere i caduti, che dall’inizio della battaglia, quattro giorni prima, non facevano che aumentare. Nessun corpo dei propri avversari fu trovato. Da tempo gli Albi si erano accorti che i corpi di quegli spettri tornavano di nuovo polvere non appena uccisi. E la consapevolezza di essere assassini dei propri padri e fratelli gravava sempre di più alla fine di ogni giornata di guerra.

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Il Sire degli Albi sedeva immobile e corrucciato sul suo austero scranno di legno, volgendo le spalle all’entrata della sua tenda spartana e osservando la propria arma stretta fra le mani. Gli occhi limpidi come acqua non lasciavano trasparire alcunché, eccetto forza e determinazione. Voci profonde di corni gli fecero alzare lo sguardo. Gli ateloi erano giunti, finalmente. Si alzò stancamente, voltandosi verso l’entrata. Poggiò con delicatezza l’Ascia di Fuoco su un tavolo di legno e rimase in piedi, fiero e altezzoso a fissare l’entrata, in attesa. Dopo pochi minuti, tre figure entrarono scortate da due membri della Corte. La prima la conosceva bene: l’aveva visto spesso alle riunioni strategiche che suo padre, di cui portava il medesimo nome, teneva spesso con il Generale Yonuel. Era un buon combattente, anche se lo ricordava maggiormente per la sua qualità di fine stratega. Sarebbe stato un ottimo alleato, se non altro aveva bisogno dei suoi soldati. La donna alla sua destra invece gli era del tutto sconosciuta, anche se lo colpì per la sua espressione, dolce e tranquilla. Non capitava spesso di incontrare persone così serene e placide nei pressi del campo di battaglia. L’ultimo ad entrare lo stupì più di tutti. Era Ràidames, il figlio di Ràikas. Conosceva perfettamente il padre. Molto spesso si recava a trovarlo, nella sua Rocca Sotterranea, prodigo di aiuto e di consigli, un sostegno saldo per lui, ancora giovane e inesperto sovrano. Si vociferava che il figlio fosse degno di suo padre. Guardandolo notò che senz’altro ne aveva eredito l’aspetto e la regalità, eppure aveva un’aria strana. Era pallidissimo e sembrava mortalmente stanco. “Ben arrivati.” Disse ritornando in sé, notando che i presenti lo osservavano in attesa. “Siamo giunti il prima possibile, Sire.” Yonuel salutò il re con un leggero cenno del capo. “Le nostre truppe si uniranno alle vostre già nella battaglia di oggi, che speriamo sia l’ultima.” “Non credo.” Rispose crudo l’albo.

“Per quale motivo parlate così Urionar?” Intervenne l’Astro Bianco, sedendosi su uno dei seggi posti ai lati della tenda. “Perché i nostri nemici non sono avversari convenzionali.”  Shalia nel frattempo si sedette al fianco dell’auroreo, tenendogli dolcemente la mano sinistra, come cercando di alleviargli l’affanno. “Abbiamo già trovato la soluzione, riguardo a questo.” Disse con tono rassicurante Ràidames. “La risposta è la fermezza”. Per alcuni secondi il silenzio regnò nella tenda, poiché nessuno, eccezion fatta per Shalia e lo stesso auroreo, aveva capito realmente il senso di queste parole. “Lasciate che mi spieghi meglio.” Continuò l’auroreo. “Ciò che serve è uno spirito che non conosca esitazione o paura nel vibrare un colpo contro questi spiriti, loro simili. Sostanzialmente dovete eliminare dall’esercito tutti coloro che non sono soldati di mestiere e sono stati radunati tramite coscrizioni.” Urionar sorrise, beffardo. “Rimarremmo davvero in pochi allora, io e la mia Corte e pochi altri a quanto pare, plasmati alla crudezza dall’inferno delle battaglia combattute in difesa del popolo.”

“Anche nel mio esercito sono pochi capaci di combattere in tal maniera, solo Proscritti, specialmente se tra i nostri nemici ci sono anche spiriti di notturni.” Ammise Yonuel. “Radunate tutti questi soldati, allora.” Disse serio l’Astro Bianco. “E chiamate a raccolta anche tutti gli incantatori, anche le poche decine che fanno parte dei vostri ranghi, Urionar.” Chiese alzandosi al Re. “Ma contando la Corte, la mia Guardia  e tutti gli incantatori di entrambi gli eserciti non arriveremo a più di trecento elementi.” Protestò il Generale. “Ci sono alcuni di noi che valgono quanto cento guerrieri, Yonuel.” Disse il Saggio Bianco con tono tranquillizzante, posandogli una mano sulla spalla. “E inoltre noi possiamo contare sui poteri della Dama dell’Acqua.” Disse indicando Shalia e avviandosi con lei verso l’uscita della tenda, camminando con l’aiuto del bastone draconico. “E adesso dove state andando?” Chiese il re, tra l’incredulo e il curioso. “Vado a prepararmi, combatterò anch’io. Vi lascio a organizzare le truppe scelte.” E detto ciò lasciò i due a guardarsi increduli e scettici negli occhi, all’alba di una nuova giornata di guerra.

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Due ore dopo l’alba, l’esiguo contingente di combattenti guadagnò a passo lento il bordo orientale del valico, affacciando le proprie fila sul campo di battaglia. La debole luce del sole sfiorava delicatamente la conca, incapace ancora di fendere le ombre circostanti. Cinquecento tra notturni e nani spinsero lo sguardo oltre tutto lo spoglio campo fino ai confini occidentali, dove il nemico ancora non appariva dalle propaggini della foresta. Nei primi ranghi venivano la Corte di Sire Urionar e la Guardia del Generale, d’aspetto nobile e possente nelle sfavillanti armature rituali, nere e argento per i notturni, d’oro e grigio per gli albi, tutti fieri e orgogliosi di essere stati scelti per accompagnare i loro signori in battaglia. I due schieramenti contavano tra le loro fila non più di duecento elementi, ma altrettanti soldati si aggiungevano ai loro compagni, i migliori scelti dai propri comandanti, ma anche volontari che si sentivano in grado di affrontare una così ardua impresa. Un centinaio di incantatori poi, in massima parte notturni, erano stati distribuiti in piccoli gruppi lungo la prima linea dello schieramento per poter recare aiuto ovunque il pericolo di far cedere le linee fosse maggiore. Tali individui si distinguevano dagli altri per il fatto di essere disarmati e di non indossare nient’altro che bracciali e cinte dai colori sfavillanti sopra le normali vesti da viaggio. Davanti a tutti, forti della fedeltà dei propri uomini, il Generale Yonuel e Sire Urionar osservavano il sentiero roccioso distendersi oltre i propri piedi, cercando qualunque segno della presenza dei loro avversari. Eppure nessuno era in vista. Yonuel si voltò con sguardo interrogativo prima verso Urionar e poi verso Ràidames e Zacho che aspettavano pochi passi dietro di loro. L’Astro Bianco aveva ancora la stessa espressione esausta di poche ore prima, che contrastava con l’aria di regalità e magia che irradiava. Vestiva una tunica bluastra, tendente a tinte più fosche, decorata con fulmini bianchi ricamati ovunque sul tessuto. Il diadema reale gli cingeva delicatamente la fronte, aumentando con i propri bagliori la già intensa luminosità che il viso del re irradiava. Aveva il collo cinto da una collana da cui pendeva un piccolo drago argenteo, incastonato tra fili d’oro. Attorno ai polsi teneva spessi bracciali d’argento, con rilievi verdi e oro che disegnavano complessi motivi floreali. Stringeva nella destra il bastone bianco, con il globo acceso di lucenti bagliori, e nella sinistra una spada d’acciaio bianco e argento, con fuso al centro dell’elsa oro brillante rappresentante un piccolo fulmine. Zacho invece si limitava ad indossare una cotta di maglia che gli copriva solo il busto, lasciandogli molta agilità in combattimento, mentre gli albi gli avevano fatto dono di un paio di spade a doppia lama di fine fattura.

Entrambi, uomo ed auroreo, erano eccezionalmente calmi e controllati.

“Questo ritardo ci avvantaggia.” Disse fiducioso l’Astro Bianco. “La Dama dell’Acqua avrà tutto il tempo per intensificare i suoi legami con voi.” Ed infatti Shalia ai limiti dell’accampamento, affiancata dalla maggior parte del resto dell’esercito che guardava con apprensione e anche vergogna i propri compagni, già intesseva la fitta rete dei propri incanti, tramando fitti di vincoli di energia e protezione tra lei e chiunque si apprestasse a combattere. La natura dei legami da lei creati era della medesima di quelli intessuti da Ghanay per controllare i suoi spiriti, solo che quelli di Shalia erano tesi non al controllo, ma alla protezione e alla guarigione. In pochi minuti il suo incanto fu completato e la sua rete intessuta, avvolgendo chiunque, eccezion fatta per il Saggio Bianco, che le aveva espressamente richiesto di non proteggerlo.

Erano tutti pronti, chiunque calato nell’ansia a stento repressa e nell’agitazione fremente che stringe in una morsa mente e corpo del guerriero prima dello scontro mortale. I muscoli si contraevano involontariamente e le mani stringevano fino allo spasmo le else e gli scudi, mentre la pelle bollente percorsa da rivoli di sudore tremava al contatto dell’acciaio ghiacciato delle armature. La paura di un orrore che si faceva scudo dei loro stessi sentimenti attentava alla fermezza degli Albi, loro unica arma contro i nemici che avevano sterminato i loro fratelli e compagni, lo sgomento dell’ignoto e di un male potente e stregato derubava delle loro resistenze i notturni, turbandoli ancor prima che il nemico si palesasse ai loro occhi. Shalia li mondò di ogni angoscia. La sua magia passò sui loro spiriti come un’ondata, lasciandole libere da ogni turbamento o fosco pensiero al suo ritirarsi e donandogli un senso di vigore e rinnovata energia. Ràidames sorrise soddisfatto, voltandosi verso l’altra parte della vallata. Avevano fatto tutto quello che era in loro potere per vincere, adesso era tutto nelle mani del destino. Sentì una vaga emanazione di magia permeare la metà occidentale della valle, per tramutarsi in un’aura sempre più forte e fremente.

In pochi attimi un vento innaturale iniziò a spirare con forza, squassando la vallata e alzando un fitto polverone che calò su ogni cosa come un sudario e coprendo con una fitta nebbia terrea il luogo. “Infine l’ora è giunta.” Sospirò l’Astro Bianco. Una nuova folata, più forte, dissipò la fitta nube di polvere che impediva la visuale rivelando l’esercito di tenebre che tornava a distruggere i propri eredi. Migliaia di notturni e albi dai visi oscurati di pazzia gridarono con furia selvaggia, alzando armi e urla verso il cielo in pochi istanti di follia collettiva. E iniziarono ad avanzare spietati, in una folle corsa, quasi ognuno agognasse di poter vibrare il primo mortale corpo. Nello stesso istante Ràidames e l’esercito che aveva preparato si fecero avanti, a passo lento e ritmato, senza infrangere le fila e all’unisono tutti sfoderarono le armi, creando un bagliore simile all’improvviso sfavillare di centinaia di stelle in un terso crepuscolo.

Pochi passi separavano le prime linee dell’ondata dei fantasmi dall’ impatto, che un bagliore infuocato illuminò la vallata come se il sole stesso fosse esploso nel cielo. I’Astro Bianco alzò il proprio bastone e una catena di fulmini scaturita dal globo traslucido incenerì centinaia di spettri, catturandoli uno dopo l’altro, consumandoli completamente in pochi istanti. Al suo incantesimo fecero eco quelli di notturni e albi e decine di vampe di fiamme bluastre bruciarono avide l’aria, incenerendo qualunque cosa incontrassero lungo il cammino. La prima carica era stata spezzata, ma i corpi dei caduti non erano ancora diventati polvere che altri spettri si fecero avanti, implacabili, e stavolta l’impatto fu inevitabile. Un cozzare feroce di scudi e corpi trasformò per alcuni momenti la battaglia in un groviglio di corpi e armi in feroce lotta dove si riusciva a stento a riconoscere i propri alleati, dove la differenza fra la vita e la morte era una lotta incessante di rapide reazioni e istinti. Superato lo sconvolgimento iniziale la battaglia si trasformò in quell’evento spietato e implacabile di selezione dei sopravvissuti, i più forti. Albi e notturni si battevano con forza e coraggio indomabili, abbattendo i propri avversari in scontri che si rivelavano stavolta ad armi pari. Sire Urionar combatteva con la stessa foga che l’aveva già contraddistinto, colpendo d’ascia e di scudo e aprendosi un tenue varco al centro dell’esercito che minacciava di travolgerli con la semplice superiorità numerica. Yonuel e la sua Guardia erano un baluardo imprendibile e resistevano ai lati dello schieramento, dove c’era il rischio di essere accerchiati, opponendosi con valore a nemici superiori in numero e crudeltà. Ovunque lungo il campo serpeggiavano saette di crepitante folgore o avvampante fiamma, che bruciavano e divoravano i corpi dei fantasmi, ignorando la loro natura incorporea. Zacho era un vessillo abbandonato, circondato su ogni lato, dimentico dei propri alleati e abbandonato da questi ultimi, mentre solitario avanzava abbattendo qualunque nemico. Appariva come il punto di quiete all’interno di un ciclone, nulla lo raggiungeva o rallentava anche nella ressa più accanita; sembrava quasi danzasse, aggraziato, muovendosi agilmente tra colpi mortali e veloce come un lampo menava e parava fendenti con precisione e grazia terribili. Il Saggio Bianco sovrastava chiunque sul campo di battaglia, volando su di esso come una cometa, sospeso grazie alle proprie arti magiche e circondato da un alone bluastro che lo difendeva da qualunque cosa. Appariva ai propri nemici come un angelo della morte, che implacabile e mortale, riversava una pioggia magica di dardi saettanti su di essi. Mentre la schiera nemica riusciva seppur con sforzi incredibili ad essere contenuta, nessuno dei guerrieri di Yonuel e Urionar era ancora caduto. Nessuna ingiuria, nessun dolore, nemmeno una stilla di sangue aveva conosciuto il corpo di quelle poche centinaia che, stoiche, si opponevano ai loro stessi sentimenti e paure. Ogniqualvolta una lama tentava di ingiuriarli, aprendosi un varco nelle loro difese, l’arma trapassava i loro corpi come se avesse avuto la stessa consistenza dell’aria. Tutti si erano accorti di quell’apparente invulnerabilità che aveva permesso loro di scampare alla morte in più di un’occasione e questa rinnovata consapevolezza animava i loro spiriti di un coraggio e una forza ancor maggiori. Colei che sembrava soffrire maggiormente in quella situazione di visibile vantaggio era proprio Shalia, che lontana e isolata dalla battaglia, stava dando fondo a tutte le sue energie, mettendo a repentaglio la propria vita per salvaguardare quella degli altri. Ogni ferita che avrebbe dovuto subire uno dei suoi alleati, ricadeva invece su di lei, ferendo il suo corpo di Dama dell’Acqua, che benché capace di guarirla in pochi istanti, percepiva ugualmente il dolore in forma distinta e nitida. Continue ferite la ingiuriavano e la sua magia non faceva in tempo a rigenerarle che nuove le si aggiungevano. Questo lento e straziante sacrificio si consumava ormai da circa mezz’ora, sotto gli occhi increduli di coloro che erano tenuti in disparte dal combattimento, che il Saggio Bianco si rese conto che ben presto la resistenza di Shalia sarebbe venuta meno. Dovevano sbrigarsi, altrimenti la Dama avrebbe sacrificato senza ripensamenti la sua vita. Alzò la spada verso l’alto e puntò il bastone verso il basso, verso il poderoso esercito di ombre evanescenti. Mentre parole a mala pena sospirate gli fuggivano dalle labbra, chiuse gli occhi, come se il privarsi dalla vista avesse potuto attenuare il dolore che presto, lo sapeva, avrebbe scosso il suo corpo fin nelle viscere. Dopo pochi istanti nuvole nere sempre più numerose e scure sembrarono rispondere al suo richiamo, apparendo quasi dal nulla e radunandosi sopra di lui in un ammasso buio e crepitante di energia. Sottili saette e scintille balenarono sopra l’auroreo, minacciando una tempesta che sarebbe potuta scatenarsi da un momento all’altro. Poi, d’improvviso, un lampo enorme e abbagliante eruppe dal cielo nero, investendo in pieno l’Astro Bianco, trasmettendo all’interno del suo corpo un’energia devastante e incontenibile attraverso la spada. I bracciali ai suoi polsi brillarono violentemente e le pietre verdi e argento risplendettero di un’intensa luminosità insieme al pendente.  Per un istante il corpo dell’auroreo resistette, trattenendo al suo interno quell’incredibile potere, ma infine il flusso magico sgorgò con violenza, seguito dal rombo di tuono, calando come un torrente in piena sulla valico, piombando sulle ombre di notturni e albi attraverso le fauci spalancate del bastone. Il lampo setacciò tutto il campo alla loro ricerca, come un cacciatore, consumandoli all’istante in uno sfavillio di scintille luminose ovunque li trovasse, evitando di colpire a stento gli alleati del suo evocatore, che controllava a fatica quell’incantesimo che minacciava di travolgerlo e sopraffarlo.

In pochi istanti la folgore si spense e le nuvole si dispersero, restituendo al campo di battaglia la tenue luminosità del sole ancora sorgente. Un silenzio irreale regnava sul luogo dello scontro, sedando gli echi del boato furioso che si era incuneato fin nei profondi recessi della foresta circostante. Migliaia di corpi carbonizzati si ridussero in polvere, svanendo rapidi al ritorno del sole, dissolvendosi come incubi notturni al risveglio. L’auroreo, stremato, ridiscese lentamente al suolo, atterrando al fianco del Re degli albi, la cui armatura e ascia baluginava dei riflessi del sangue nero dei morti, che come un liquido malsano, evaporava in sottili filamenti di fumo nerastro. Ogni membro del piccolo esercito fissava esterrefatto il Sire degli Aurorei che si appoggiava stancamente al proprio bastone, come un vecchio che fatichi a camminare. Yonuel si fece largo tra la folla immobile dei propri guerrieri, portandosi al fianco del mago e appoggiandogli delicatamente una mano sulla spalla, con dipinta sul viso un’espressione di sollievo. “Ce l’abbiamo fatta, Ràidames. Abbiamo vinto.”

Il Generale sobbalzò per lo stupore quando il Saggio Bianco voltò il suo sguardo verso di lui. Aveva gli occhi dilatati e rossi, con vene pulsanti in rilievo perfino sui lineamenti del viso. Respirava stentatamente e serrava la mascella come se stesse, ancora in quel momento, sopportando un profondo dolore. “Yonuel, falli ritirare, o sarà un massacro.” Il Generale lo fissò incredulo e cercando di parlargli con tono rassicurante gli disse: “Ràidames, non siete più in voi, non vedete che non è rimasto più nessun…” L’auroreo, gridò improvvisamente, quasi con tono rabbioso.

“C’è n’è ancora uno, purtroppo, e il mio incanto non l’ha nemmeno scalfito. Fateli ritirare, è troppo forte e io mi sono esaurito completamente.” Gridò frettolosamente, come impazzito. “Presto o …”    

“Morirete tutti.” Concluse Ghanay, apparendo al fianco dei due elfi.

Istintivamente tutti fecero un passo indietro, sorpresi e intimoriti dall’improvvisa apparizione di quello strano auroreo, tutti tranne Ràidames, che con gli occhi tra il disperato e rabbioso, fissava l’avversario che sapeva non sarebbe stato in grado di affrontare da solo. Il dio non portava con sé armi, né protezioni di alcun tipo. Non ne aveva bisogno o almeno questo lasciava intendere la sicurezza assoluta che traspariva dagli occhi vitrei, di ghiaccio. Capelli biondi, tendenti ad un colore chiaro, quasi bianco, calavano lunghi sul torso nudo, sui cui muscoli scolpiti si disegnava un serpente dalle squame violacee, le cui spire avvolgevano più e più volte il busto dell’uomo, terminando nella testa con le fauci spalancate all’altezza dello sterno.       

“Falli ritirare.” Disse in tono neutro il Re degli Elfi e nessuno capì se si stesse rivolgendo a Ghanay o ancora a Yonuel. Nessuno si mosse, tutti osservavano i due aurorei fissarsi negli occhi e a chiunque sembrò che l’Astro non potesse competere in alcun modo con quel nuovo temibile avversario. L’atmosfera pareva insostenibile, eppure il Sire auroreo sospirò e si voltò verso Yonuel, dicendo. “Ritiratevi.” E ripeté la stessa cosa a Sire Urionar. Entrambi i condottieri avrebbero voluto protestare, eppure erano perfettamente consapevoli che se l’auroreo fosse stato un mago, almeno potente quanto il Saggio Bianco, loro non avrebbero potuto fare nulla, anche con tutti i loro soldati. Dopotutto, la prova di potere data dallo stesso Ràidames poco prima dimostrava in maniera inequivocabile che solo un mago poteva affrontarne un altro. Così, in maniera ordinata, il reggimento, seppur scosso da un leggero brusio, si riunì al resto dell’esercito, al di là dei confini della vallata. Gli occhi di tutti erano fissi sulla scena, sui due contendenti rimasti al centro del campo di battaglia, e davanti a tutti, Urionar, Yonuel, Zacho e Shalia assistevano con un misto di preoccupazione e curiosità all’epilogo di quella battaglia.

Quando anche l’ultimo guerriero ebbe varcato i bordi della valle, Ràidames tornò a fissare il proprio avversario. “Cosa intendi fare?”.

“Vi sterminerò tutti, dal primo all’ultimo.” Ràidames sembrò ignorare la crudezza della risposta e lentamente si spogliò della parte superiore della tunica, lasciandola pendere sostenuta dalla cintura. Anche il corpo del Sire elfico mostrava un tatuaggio: aveva un drago impresso sulla schiena, le cui scaglie si accendevano di bagliori azzurrini. Posò lentamente spada e bastone a al suolo e iniziò a togliersi i bracciali, senza fretta, apparentemente senza badare al proprio avversario.

“Non ce la farai in ogni caso, anche se ti libererai dei tuoi bracciali di contenimento.” Sorrise Ghanay, ironico. “La tua forza non ti servirà contro colui che ha insegnato la magia agli ateloi.”

L’auroreo terminò di togliersi i bracciali lasciandoli cadere al suolo. Poi raccolse il bastone e la spada e tornò a fissare nuovamente il dio, fermi a meno di dieci passi di distanza. “Morirai qui e il tuo popolo ti seguirà a breve.”

Lo sguardo del Re si incupì e nel medesimo istante i due maghi alzarono l’uno le braccia contro l’altro. Una tempesta di saette balenò dalle mani del dio e dalla spada dell’Astro, ruggendo rapide e scontrandosi le une contro le altre a metà strada fra i due, in uno scintillio indistinto di luminosità e acuto stridio.

“Sei ancora debilitato per quello che ti ho fatto quando eri sotto forma di spirito.” Disse trionfante Ghanay, mentre dalle sue mani continuava a sgorgare un fiume di luce mortale. Ràidames continuava a reggere il confronto, a testa bassa e denti stretti. Anche adesso che usufruiva di tutti i suoi pieni poteri, senza frenarsi tramite i bracciali, che evitavano che troppo magia, magia dannosa scorresse nel suo corpo, sentiva netta la sua inferiorità. “Patetico.” Sentì dire l’auroreo, quando le energie a confronto deflagrarono violentemente, sbattendolo al suolo. Si rialzò immediatamente, miracolosamente illeso. Il suo avversario non si era spostato di un passo e lo attendeva, quasi pazientemente. “Ricorri al bastone.” Gli suggerì il dio.

L’auroreo non se lo fece ripetere. Piantò la spada al suolo, facendone affondare la lama nella terra e alzò il bastone verso l’auroreo, con le fauci rivolte verso il nemico. Il globo rifulse intensamente, fino a tramutarsi in una massa informe d’oro. In un alone argentato l’oro si staccò dalle fauci e assunse le forme scintillanti di un drago enorme, che si innalzò nel cielo in ampie spirali. Al ruggito violento del drago tutta la foresta sembrò tremare, poi, risplendendo in una torre di luce, si gettò in picchiata e a fauci spalancate sul dio. Gli calò sopra con violenza mostruosa, aprendo una voragine enorme nel terreno, disintegrandolo completamente nell’impatto e scomparendo in uno sfavillio di stelle subito dopo. Eppure Ghanay non si mosse nemmeno, né degno di sguardo la bestia magica. Fissò per tutto il tempo l’avversario, con sguardo altero. Ràidames ricambiò lo sguardo, adirato e impotente. Lasciò cadere il bastone, il cui globo era scomparso, e cadde sulle ginocchia, stremato. Tremava visibilmente e mentre il dio gli si avvicinava, a passo lento, allungò la mano verso la spada, ma cadde lungo disteso al suolo, senza forze, prima di poterne sfiorare l’elsa.

Il figlio di Selonir si fermò davanti a lui, fissandolo pacato.

Non lo degnò di parole, non considerandolo un suo degno avversario. Alzò il palmo della mano destra sopra il suo corpo, pronto a finirlo, che un particolare colpì il suo sguardo. Da un sottile taglio dell’indice della sua mano colavano piccole stille di sangue trasparente, il suo.

Il viso gli si contorse in una maschera di rabbia fremente e urlò contro l’auroreo, che, sospeso nella semi-incoscienza, riusciva a stento a sentirlo.

“Come hai osato?” La mano destra del dio venne avvolta da un pallido bagliore, avvolgendo il corpo di Ràidames in un alone di polvere dorata, che lentamente lo assorbì, fino a farlo scomparire, senza lasciarne nulla. I’Astro se ne era andato, senza un grido o una parola di pietà. Nessuno nella lunga schiera dell’esercito dispiegato aveva osato muovere un dito, come se stessero assistendo a uno spettacolo al quale sapeva di non essere degno di partecipare. Quando il Sire era scomparso in un bagliore di luci, nessuno aveva reagito, come bloccato in uno stupore e torpore collettivo. Prima ancora che qualcuno potesse pensare cosa fare, una nuova esplosione di luce deflagrò dove prima giaceva il corpo di Ràidames. L’auroreo riapparve, ancora vivo, tremante e grondante sangue, ma vivo. Sembrava dovesse crollare da un momento all’altro sulle ginocchia.  La collana che teneva al suo collo si staccò, cadendo a terra, e il drago ad essa legato perse lucentezza e si spezzo in mille frammenti vitrei.

La Stella del Drago è in grado di strappare dalla morte chi la possiede.” Disse pacato il dio, indifferente. “Non cambierà nulla, guardati. Sei comunque ferito e sconfitto, senza il tuo bastone per giunta.”Mentre parlava, ai piedi di Ràidames iniziò a formarsi una piccola pozza del sangue che le sue ferite versavano a fiotti. “Non ti rimane più nulla.” Concluse impassibile il dio.

“Ti sbagli.” Sorrise Ràidames, mentre il suo sangue, colato al suolo, spariva, divorato in sacrificio dalla terra. “Ho tutti loro con me.” Parte della luminescenza che l’elfo irradiava si staccò dal suo corpo, riunendosi in piccole sfere luminose, simili a lucciole vaganti, che, rapite da un vortice invisibile, si condensarono in una dozzina di figure di pura luce. Il loro bagliore pulsante scemò in pochi secondi, rivelando i contorni di dodici aurori dall’aspetto regale, fra cui vi erano anche  i volti di Ràikas e Ràidas. Si stagliavano intorno al dio come un muro invalicabile, proteggendo il loro evocatore. Eppure non erano solo fantasmi dallo sguardo vuoto, i loro occhi erano gli specchi di spiriti vivi e liberi, non controllati da alcuna volontà esterna. “Uso il tuo stesso incantesimo, anche se da adesso in poi è una mia variante.” Ghanay non si mosse, conservava sempre la stessa espressione ieratica, anche se velata da un’ombra di inquietudine. “Esiste una magia antica e potente che permette, in cambio della propria vita, di cancellare quella di un altro essere vivente.” Ansimò, mentre il pallore del suo viso andava aumentando, derubato dalla sua forza e del suo sangue dal proprio stesso incanto. “Purtroppo non basterebbe la mia vita a strappare quella di un dio. Così ho chiesto a tutti i miei predecessori di sacrificare la propria anima per eliminarti. Nessuno di loro sceglierebbe la salvezza in cambio di quella del proprio popolo. Nemmeno io.” Il dio sorrise, beffardo. “Non basterà morire una seconda volta. Al massimo potrai ferirmi e nemmeno in maniera mortale.”

“Lo sappiamo.” Disse Ràidames, con espressione ferma e decisa e lo sguardo di tutti gli aurorei esprimeva la stessa ferma decisione di sacrificio. “Noi rinunciamo al riposo della morte e scegliamo per le nostre anime un’eternità errabonda su questa terra. Noi scegliamo di rinunciare sia alla vita che alla morte”. I fantasmi aurorei tesero le mani in avanti e catene di luce si dipartirono dalle loro dita, avvolgendo in una stretta morsa  il dio, che aveva perso tutto il suo sangue freddo. Ora urlava, senza controllarsi. “Sei un folle! Se tu muori qui, chi salverà il tuo popolo dall’armata dei Siguya che si sta dirigendo contro si esso?” Gridò, nell’estrema speranza di seminare il dubbio nella mente dell’auroreo, che ora teneva stretta in pugno la sua vita.

Infatti il Saggio Bianco esitò, il suo primo compito era quello della difesa del suo popolo e preso dagli eventi che riguardavano l’Incarnazione, se n’era dimenticato. Doveva tornare, non c’era nessuno in grado di succedergli, non poteva morire. Esitò e rimase per alcuni secondi immobile, sempre più debole. Furono gli altri a fugare i suoi dubbi. Il padre, abbandonato il cerchio che teneva prigioniero Ghanay, gli si avvicinò e posandogli lentamente una mano sugli occhi, calò un pietoso velo di incoscienza sulla sua mente, prima che potesse reagire e opporsi. Lo appoggiò delicatamente al suolo, ancora bagnato di sangue, e polvere e ritornò al suo posto all’interno del cerchio.

“Basteremo noi ad abbattere questo nemico della nostra razza.” Disse con sicurezza Ràikas. “I nostri doveri non ci abbandonano mai, nemmeno alla morte.” Continuò Ràidas. “Non sia mai detto che gli Astri Bianchi abbandonino un proprio discendente alla mercè di un tale mostro.” Aggiunse un altro Re, con tono serio e implacabile. “Non accadrà mai che i nostri nomi vengano tacciati di tale infamia.” Concluse un altro. Così, lentamente il cerchio intorno alla divinità si strinse, finché non fu in grado di guardare nitidamente gli occhi degli ateloi che aveva davanti. “Siete dei folli.” Urlò ancora, persa ogni compostezza. “Io ho insegnato la magia al primo della vostra casata, che ora siede al consesso degli dei. Io sono il dio che vi ha reso ciò che siete!” Ansimò, guardandosi follemente intorno, tentando vanamente di liberarsi dalla catene di folgore che lo immobilizzavano. “Avete dunque il coraggio di uccidermi?” 

“Non del coraggio di uccidere si tratta, ma del coraggio di proteggere.” Sentì mormorare nelle sue orecchie prima di svanire insieme ai Re aurorei. Sparirono tutti nel medesimo istante, in un guizzo di luce, seguendo  il destino deciso da loro stessi. Nessun rumore che non fosse il soffio del maestrale poteva udirsi nella valle dopo la loro scomparsa. Pochi avevano compreso cosa fosse successo, Shalia, Zacho, Yonuel e pochi incantatori notturni, che per abilità e competenza nella loro arte, avevano inteso il senso di quell’arte magica di sacrificio. Alcuni notturni, in testa Yonuel, insieme a Zacho e Shalia, si fecero avanti a passo cauto e guardingo, poiché ancora non credevano che la vittoria avesse arriso al Re nella battaglia con un dio così potente. Shalia si inchinò subito su di lui e in pochi minuti ne fermò le numerose emorragie e ne curò le ferite.

“Ci hai fatto davvero preoccupare, Ràidames.” Disse Zacho con tono sollevato, vedendo l’auroreo socchiudere gli occhi. “Abbiamo vinto.” Continuò. “Hai vinto.” Concluse veemente.

“Tutti loro ci hanno aiutato.” Ansimò l’elfo, distrutto e spossato, e chiuse gli occhi, che ponendo fine alla vista del tragico epilogo della battaglia, si inumidirono di lacrime d’orgoglio e rammarico per il sacrificio a cui i suoi padri erano stati pronti a prendere parte anche in sua vece.

 

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Capitolo 26
*** Il fuoco rivelatore e la decisione del Principe ***


l

 

Il sole declinava rapidamente, rubando gli ultimi istanti di rosea luminosità alla capitale notturna, che presto sarebbe rimasta immersa nel buio. Altissimi edifici spiccavano per decine di piedi oltre la cinta muraria e i tetti della città, evocando l’immagine di alberi di vetro e marmo svettanti oltre le chiome del resto del bosco, a stento contenuto dietro barriere di pietra. Guglie e pinnacoli e archi rampanti si arrampicavano lungo i contorni dei palazzi, rami sinuosi di snelle costruzioni. Cupole dalle vitree volte svettanti e finestre e portali a sesto acuto catturavano e  riflettevano i bagliori cremisi dei raggi solari. Tali erano le altezze che le regge raggiungevano che la luce a stento riusciva a filtrare tra le costruzione barocche fino a raggiungere il suolo e illuminare le strade. Eppure non ci si sentiva oppressi dalle sorprendenti dimensioni della città, né in alcun modo schiacciati o repressi nell’animo. Le ampie vie serpeggianti che fendevano quelle costruzioni arrampicatrici del cielo, lasciavano osservare il firmamento ritagliato oltre i contorni delle cime di vetro. Mossi a sollevare il viso verso l’alto, come se la strada fiancheggiata da alte pareti spingesse a farlo, si avvertiva distintamente lo spirito elevarsi e protendere verso l‘altezza ritagliata del cielo. Le stesse forme slanciate e saettanti che componevano la città, spingevano d’intuito a levare cuore e spirito verso uno stato d’animo di sintonia con le libere distese celesti. In definitiva era la stessa città che fomentava gli animi affinché si sentissero liberi e diventassero desiderosi di cercare sempre nuovi luoghi e emozioni intrise di passione, anche oltre gli apparenti confini della natura.

Anarion distolse lo sguardo dalla finestra che si affacciava sulla città e chiuse gli occhi, respirando profondamente. Stentava a credere che dopo gli eventi di Alcols avrebbe potuto nuovamente sentirsi tanto calmo e tranquillo. Eppure il calore e la pace di quella stanza, l’ultima sala del Tempio del Fuoco Rivelatore, riuscivano a rasserenare il suo animo come non gli capitava da tempo. Voltò le spalle alla visione della capitale, ormai invasa dalle ombre della notte e volse il suo sguardo al centro della sala. Marmo dai riflessi d’argento e porpora ricopriva il pavimento dell’ampio salone, coperto da una cupola di pietra scura dalle venature azzurre. Al centro un enorme braciere d’oro ospitava la fiamma imperitura venerata dai notturni. Lingue di fuoco cremisi si sollevavano fin quasi al soffitto, lambendo l’intero luogo con un calore intenso ma non soffocante. E la fiamma pareva bruciare senza bisogno di consumare alcunché, né fumo si sollevava dai filamenti di fuoco la cui intensità non conosceva riposo o diminuzione. La crepitante luce di cui il fuoco era l’unica fonte bagnava le pareti circostanti ondeggiando con l’impeto del fuoco e rivelando bagliori bluastri tremolanti impressi nella viva pietra. Vincendo l’incerta penombra che stringeva la stanza intorno al fuoco come una morsa, si scoprivano essere fiamme tremule quelle che ardevano in caratteri fissi ai muri. E l’intera parete circolare era ricoperta da scritte bluastre, per tutte la sua altezza e lunghezza, lasciando solo talvolta qualche spazio vuoto, dove il destino non era ancora stato chiesto o già concluso. Un piccolo varco semicircolare, unico punto nero della sala, che si affacciava con ampie vetrate sull’intera città, costituiva il solo punto d’acceso e d’uscita. Un vecchio notturno varcò l’uscio, avvicinandosi a passo lento al ragazzo. Anarion si stupì non poco nel vedere l’atelos, aspettandosi che fosse stata Serìa ad assisterlo nel rituale, visto che l’aveva accompagnato fin lì. Forse il vecchio era più indicato per un simile incarico. L’umano non aveva mai visto ateloi anziani. Gli aurorei erano immortali e non conoscevano il lento decadimento fisico della vecchiaia, quindi nemmeno la morte, sua inseparabile compagna. I notturni erano invece condannati a condividere un destino simile a quello che affliggeva gli uomini. Eppure anche in questa loro tragica somiglianza si distinguevano. Il notturno non aveva il viso segnato dalle imperfezioni e i danni della tarda età umana, solo aveva lineamenti più dolci e rilassati rispetto a quelli di un giovane notturno e gli occhi erano di un colore più chiaro e luminoso, come se la stessa mente percepisse con maggiore chiarezza e lucidità ciò che non le era riuscito in gioventù. Portava i capelli bianchi e lucidi raccolti in una lunga coda, folta e brillante, che ricadeva lungo la schiena, risaltando sulla tunica scura. Si accompagnava con un bastone nodoso, eppure non difettava né nel portamento né nel camminare, avanzando eretto e sicuro, con fisico esile e fine, ma sinuoso e aggraziato. “Siete pronto?” Gli chiese con voce ferma e profonda il notturno. Anarion annuì con il capo. Era diventato più pacato e riflessivo dopo essersi risvegliato dal sonno di Shalia. Anche dopo essersi destato e aver coperto la strada a cavallo con Serìa, non aveva fatto altro che meditare profondamente, ponderando con attenzione sulla propria scelta. Anche adesso, mentre avanzava verso il calore ed il fuoco, si convinceva sempre di più di quanto stava per compiere. Chissà quale sarebbe stata il suo fato? L’avrebbe seguito davvero senza sbagliare, fino in fondo? Come sarebbe stata la sua vita con il peso del mutismo? Il rituale avrebbe avuto lo stesso effetto su di lui, il primo essere umano a sperimentarlo? Tutte le domande tornavano in quei pochi attimi, ad ogni passo verso le fiamme, con maggior forza e clamore nella sua testa. Ma ormai era finita. Si fermò all’interno di un piccolo cerchio contrassegnato da rune e disegni geometrici, incisi in argento nel pavimento, e attese. L’anziano notturno si allontanò, sempre a passo lento, arrestandosi ai bordi della sala. Passarono alcuni secondi di totale immobilità e silenzio, eccezion fatta per il crepitare del fuoco, durante i quali Anarion si limitò a fissare le fiamme. Si stupì quando tra il perenne fluire delle fiamme gli sembrò di intravedere un volto, il volto di un bellissimo atelos dagli occhi rossi e bianchi e la carnagione cremisi, che si dileguò in lingue di fiamme non appena scorto. Fu allora che il rituale ebbe inizio. Strisce cremisi e scintille brillanti esplosero a mezz’aria vorticando velocemente intorno al braciere, spostandosi poi con altrettanta velocità intorno al ragazzo, formando anelli di fiamma intorno al suo corpo. Anarion non si mosse, benché sorpreso e in parte spaventato dal rituale. Si sentiva scottare la pelle e bruciare dentro, come se le fiamme lo stessero scrutando fin dentro le viscere e gli divorassero l’anima. D’improvviso però il rituale cessò e le fiamme smisero di assillarlo, riducendosi a scintille dalla vacua luminosità. I bagliori in una scia luminosa abbandonarono il ragazzo e andarono a fissarsi su una porzione vuota di parete, fra molte scritte di fiamma azzurra. Lì ricominciarono a brillare intensamente, componendosi fino a formare una frase dai caratteri di fuoco. Eppure qualcosa non funzionava, se ne accorse Anarion, che si avvicinò alla parete per riuscire a decifrare i caratteri, che non assumevano una forma definita, e se rese conto parimenti il vecchio, che a passo lento si affiancò al giovane. La frase era di fatto illeggibile, non erano altro che fiamme baluginanti che non lasciavano discernere i caratteri che rappresentavano.

“Perché non riesco a leggere la scritta?” Chiese incredulo il ragazzo.

“Perché non chiedi invece perché riesci ancora a parlare, ragazzo?” Chiese di rimando il notturno, senza distogliere lo sguardo dalla scritta. Anarion si portò stupito una mano a toccarsi la gola eppure non riusciva ancora a capire il perché di quella eccezione. Forse perché lui era un umano e non un notturno?

“Probabilmente dipende dal fatto che appartieni al nostro popolo.” Confermò il vecchio ai pensieri del ragazzo. “Questo come può influenzare il verdetto del Fuoco?” Chiese deluso Anarion. “Apparteniamo a due razze simili eppur troppo diverse.” Sospirò il vecchio.

“I notturni si sottopongono al rituale accettando il suo verdetto e consapevoli che da esso non c’è fuga o scampo. Una volta che ne vengono a conoscenza non fanno nulla che possa cambiarlo, anzi si dedicano con tutte le loro forze per rispettare il fato scelto per loro dagli dei.”

“Quindi perché con me non ha funzionato? Cosa ho sbagliato?” Insistette il ragazzo.

“Il tuo sangue ti tradisce.” Gli disse il vecchio. “La razza umana è soggetta a turbamenti e sconvolgimento continui di animo e cuore che sarebbe del tutto impossibile per essi compiere un destino di cui sono a conoscenza. Chiunque di loro agirebbe sicuramente in modo da cambiare o deviare il corso degli eventi.” Il ragazzo rimase immobile e silenzioso, deluso e in parte anche incapace di comprendere quelle parole. “Cercherò di spiegarmi meglio.” Disse il notturno.  

“Alla base della differenza tra le due razze vi è la scelta.” Continuò il vecchio. “I notturni accettano il loro fato, qualunque esso sia, e scelgono come loro forma di libertà la possibilità di impegnarsi in vista del compimento del loro destino.”

“Non lo subiscono in maniera passiva.” Concluse Anarion guardando il notturno negli occhi.

“Esattamente.” Disse il vecchio, sorridendo. “Per gli umani la situazione è completamente diversa.”

Continuò con tono mite e sereno. “ L’uomo comune non accetta fondamentalmente il proprio destino e la propria vita. Cerca continuamente di modificarla, di migliorarla in definitiva, per il conseguimento di sogni e desideri. La sua è una ricerca, un desiderare continuo e senza fine.” Sorrise suo malgrado. “Nessuno di voi, saputo quale sia il suo destino, riuscirebbe a continuare a vivere senza tentare consciamente o meno di cambiare il corso dell’esistenza secondo le proprie aspettative o i propri desideri.”

“Dunque non posso beneficiare del verdetto perché non potrei accettarlo?”  Chiese il ragazzo.

“Vero per metà.” Rispose enigmatico il vecchio. “Tu vuoi questo verdetto perché stai scappando.”

Il ragazzo non rispose, restando in un silenzio difensivo. “Stai scappando dal dovere che hai di vivere la tua esistenza. Hai paura di commettere errori, di sbagliare, quindi vuoi giungere direttamente all’esito delle tue azioni per poter agire senza il timore di errare nelle tue scelte, sapendo quale rimarrebbe comunque il tuo destino. E già agendo così l’avresti modificato.”

Alzarono entrambi lo sguardo verso la scritta, ancora indecifrabile. “Temo che il “beneficio”, come tu l’hai definito, del Fuoco Rivelatore, sia precluso a te e a quelli della tua razza.”

“Temo anch’io.” Disse Anarion voltandosi e dirigendosi a grandi passi verso l’uscita, talmente amareggiato e scontento, da non voltarsi nemmeno una volta prima di abbandonare la stanza, sotto lo sguardo indecifrabile del notturno.

Quando i suoi passi morirono in lontananza, il notturno tornò a rimirare la scritta e notò, senza sorpresa, che una parte era ora, in caratteri fiammeggianti, chiara e definita. Tra le lingue di fuoco senza forma la parola “DOLORE” brillava di riflessi scuri e inquietanti.

…………………………………………………………………………………………………

Il vasto salone era rischiarato da una vaga luminescenza argentea che sfumava in bagliori chiari ogni cosa, lasciando immersi nell’oscurità i volti e le espressioni dei presenti. Una vetrata lucida si apriva sulla grandezza di Fearin, lasciando intravedere il paesaggio notturno dei contorni accennati e silenzioso della città. Un uomo guardava verso il cielo, superando la barriera trasparente e lasciando vagare la mente nello spettacolo celeste. Un secondo uomo attendeva poco dietro, inginocchiato alle spalle del suo Principe, con il capo chino in segno di rispetto. Vestiva una divisa rituale cremisi, decorata con figure leonine d’oro e argento e al suo fianco era poggiato un elmo bronzeo raffigurante le fauci spalancate di una fiera. La calma e la quiete del luogo ingannavano gli spiriti colmi di tensione e indecisione dei due.

“Ordino che tutte le nostre truppe vengano richiamate e accorrano a Fearin per ricostituire l’esercito. Che le due città settentrionali della Stella  e i villaggi circostanti vengano evacuati e gli abitanti portati a Fearin.” Il guerriero non si mosse e rispose con voce atona. “Come comandi Principe.” Attese alcuni minuti e chiese dubbioso. “Cosa decidi riguardo ai Siguya? L’esercito non sarà pronto prima di una settimana e la forza dei Dodici Cavalieri del Sole è venuta meno.” Constatò con voce atona il Cavaliere. Il Principe non rispose subito. La situazione era davvero incresciosa. Non avrebbero potuto affrontare una minaccia esterna, quando le loro forze erano minate da una guerra intestina. Inoltre necessitavano di tempo, tempo per riunire tutte le loro forze e dare al popolo la speranza di sopravvivere.

“Che siano inviati i duecento soldati della Fauci di Leone al Ponte. Che attendano lì l’esercito nemico e ingaggino battaglia fino alla fine, dandoci il tempo di organizzare le difese.”

Il guerriero sollevò lievemente lo sguardo verso la figura del suo Principe. Gli stava ordinando di sacrificare senza alcuna esitazione la vita dei suoi duecento uomini in una battaglia che non potevano vincere, con l’unico scopo di dare una speranza al loro popolo.

“Obbedisco.” Rispose senza esitazione il capo dell’Armata Fauci di Leone. Si alzò con gesto meccanico, tenendo l’elmo bronzeo sotto il braccio e  uscendo a passo svelto, senza voltarsi. Aveva la gola terribilmente secca. Gli sembrava di sentire già le mani della morte stringergli il collo.

 

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Capitolo 27
*** Dailone, la città di Delos, la decisione di Urionar ***


 

Le acque tranquille dello Spaccaterre scorrevano lente, lucide e trasparenti, nell’enorme letto che scavava in quel punto i territori settentrionali del Regno. Il Ponte dell’Esin era immerso nel silenzio e nei bagliori dorati della luce riflessa sui flutti quieti del fiume. Le sponde lussureggianti spingevano i rami dei propri alberi a proteggere in una volta verde il corso dell’acqua, lasciando tuttavia una lunga fessura nella cupola smeraldo che lasciava filtrare i raggi d’oro del sole.

Una larga strada sterrata da sud si apriva un varco nell’intrico verde, raggiungeva l’imponente ponte di pietra grigia, largo più di trenta piedi, e fuggiva verso nord, perdendosi alla vista dopo pochi passi. Duecento uomini riposavano immobili e silenziosi ai bordi della strada, come guardie silenziose. Alcuni sedevano appostati come alberi saldi lungo il versante meridionale del fiume, pochi sedevano ai limiti della sponda opposta, al limitare del ponte. Vesti cremisi scintillavano di riflessi ignei brillando nei colori della foresta, simili a fasci di polveri di astri infuocati. Lance bronzee spiccavano dal sottobosco ed erano l’appoggio di coloro che irrequieti spingevano lo sguardo a penetrare la vegetazione che impediva loro di capire quando il nemico sarebbe giunto. Nessuno osava alzare lo sguardo a incrociarlo con quello dei compagni attorno o rivolgere la parola a qualcuno di essi. A nulla valeva lo splendore della natura tutt’attorno. Lo spettro dell’angoscia e della paura mutavano ogni colore, il verde dell’erba, l’azzurro dell’acqua e il rosso sanguigno profondo delle vesti delle Fauci di Leone in un velo informe di grigio pallido e sbiadito.     

Un silenzio foriero di tempesta inghiottiva anche i suoni della natura, dando l’impressione che anche le acque del fiume scivolassero senza il minimo rumore. E il tempo nel frattempo scorreva inesorabile: i minuti scorrevano lenti e le ore veloci, nell’attesa del fatidico momento.

La pressione della morte era spaventosa, anche per guerrieri plasmati alla guerra quali erano i duecento Leoni, una tortura e una violenza tali da spezzare ogni volontà e fiaccare ogni energia. Nessun senso di fervida attesa e nessuna energia o eccitazione adrenalinica prima dello scontro, nessuna speranza c’era per coloro che sapevano di essere destinati quel giorno alla morte.

Lo scontro per loro era già iniziato e i loro animi ne stavano uscendo straziati. Poi, improvviso, un suono soffuso, una fievole nota di una voce calda e soave invase ogni anfratto della foresta, smorzando ogni tensione e paura.  Una lunghissima parola di malinconica tranquillità si sostituì ad ogni altro suono, empiendo l’aria di un canto quale nessuna voce mortale sarebbe potuta essere capace. Molti sollevarono il capo, guardandosi curiosi e tranquillamente sorpresi tutt’attorno, gli altri, chi conosceva il mistero di quel prodigio, chiudevano piacevolmente gli occhi e lasciavano che quei suoni divini purificassero loro l’anima. Il Cavaliere Dailone, ormai l’unico soldato rimasto sulla sponda settentrionale, stava in piedi oltre il ponte, ascoltando, appoggiato alla propria lancia, la nenia struggente. Era stranamente in ansia, teso e anche rammaricato. Agitazione e inquietudine erano compagni del suo animo da anni e aveva imparato a conviverci. Non erano affatto paura o insicurezza, sentimenti fatali al guerriero. Da anni ormai considerava la morte come probabilità concreta della propria vita, l’aveva accettata come possibilità e aveva imparato a convivere al suo pensiero. Non ne era spaventato e in un certo senso, forse, aveva rinunciato a vivere. Ma non era questo il problema. Adesso era arrabbiato per ciò che stava accadendo. I suoi uomini avevano paura, paura di combattere una battaglia in cui con ogni probabilità avrebbero perso. Non riusciva a capirli, ma dopotutto la cosa era comprensibile. La sua natura differiva dalla loro, ma nonostante questo i suoi compagni erano quanto di più avesse vicino al concetto di famiglia. In cinquanta anni, anni di guerre, sangue e morte, aveva combattuto su innumerevoli campi di battaglia, contro e insieme a innumerevoli persone e aveva sempre portato la sua armata, i suoi Leoni, alla vittoria. Aveva sempre garantito ai suoi compagni che sarebbero morti per la vittoria e invece stavolta non aveva parole, uno scopo da proporgli per cui valesse la pena morire. L’ideale della salvezza del popolo gli pareva fittizio, troppo lontano dalla realtà di crudezza e dolore che stavano affrontando e soprattutto tutti erano perfettamente consapevoli che il loro sacrificio in quel momento e in quel modo, non sarebbe valso a nulla. C’era tuttavia un sentimento che presto, nell’istante cruciale, si sarebbe risvegliato nei suoi uomini, che adesso sentiva tanto lontani da lui.     

Erano l’ orgoglio e sete di gloria, la volontà di mantenere intatta la leggenda di invincibilità dei Leoni; sarebbero stati quei sentimenti a mantenere vivi i loro spiriti fino alla morte. “Oltre la morte” era proprio il loro grido di battaglia.

Il Cavaliere abbandonò il filo dei propri pensieri; il canto era terminato. La ninfa dei Guadi aveva interrotto il suo canto, la sua preghiera funebre era terminata. Tuttavia non si mosse. Il suo sguardo era ancora perso nell’ammirazione della natura nuovamente silenziosa. Percepì con chiarezza un movimento d’aria alle sue spalle e sorrise divertito. Lo avrebbe ignorato per il momento. Non gli interessava battersi con lui e in fondo, poteva comprenderne le azioni.

Si voltò e tornò a lenti passi dai suoi uomini, sull’altra riva, a viso basso, accompagnandosi con la lancia ad ogni passo. Si fermò e alzò lo sguardo: erano tutti davanti a lui e lo fissavano in attesa, duecento anime legate alla sua. Per un attimo si sentì sgomento, non aveva mai sentito tanto il peso delle proprie responsabilità su di sé come in quel momento, faceva ancora fatica ad accettare per quella volta il suo compito. Aprì la bocca per parlare, quando percepì che sull’altro argine qualcosa si era mosso. Si volse di scatto. Sembrava un uomo. Vestiva usurati abiti grigi e aveva una pelle biancastra, d’alabastro, e portava i capelli lunghi, bianchi e lucidi, fino alla vita. Gli occhi erano fessure feline, lampi gialli che brillavano anche nella penombra della foresta. Dailone non si fece ingannare. Lo riconobbe subito, dall’aura mortifera che emanava, dalla sensazione di ghiaccio e oscurità che lo avvolgevano come una corazza. L’aveva già incontrato, cento anni prima, nella grande battaglia tra uomini e Siguya. Talvolta sognava ancora nei suoi incubi l’orrore, la morte e la devastazione che accompagnavano come araldi fedeli il dio in battaglia. E adesso che lo incontrava ancora capì subito che non sarebbe sopravvissuto. Poteva sentire la pressione della morte che finora aleggiava come uno spettro diventare quasi tangibile. Stava per schiacciarli tutti con la sola presenza. Strinse con più forza la lancia, ma non si mosse.

“Siguya…” Lo salutò con voce metallica da sotto l’elmo.

“Dailone, perché sei venuto?” Chiese con voce vuota il mostro. “Sto per sterminare un popolo che in fondo non ti appartiene.”

“Sono venuto per fermarti.” Rispose con voce ferma e sicura.

Siguya sorrise falsamente, divertito da quelle parole. “In duecento anni quanti hanno provato ad uccidermi? Umani, Aurorei, Notturni, Albii, Cavalieri e Impuri. Ma alla fine non ci siete riusciti.” Rise ancora, sarcastico. “Si sa che nessuno può uccidermi.”

Fece un primo passo, salendo sul ponte. “Ascoltami, io non vi ucciderò. Ma tu dovrai unirti a me.” Sorrise sadico. “In fondo siamo uniti da un profondo legame…” Il Cavaliere non si mosse. “Non ti chiedo di uccidere, solo di tornare con un tuo pari.”

Gli occhi del dio si ridussero a fessure. “Io non sono così cattivo…Non voglio costringerti, tu stesso dovresti desiderare di riunirti a me.”

Fece un altro passo leggero, mentre ogni cosa era ferma, in trepidante attesa.

“Adesso comincio ad uccidere ogni altro essere umano, questi poveri duecento folli…”

Per la prima volta, mosse anche le braccia, indicando la schiera di uomini che lo fissavano silenziosi e la stessa aria ebbe un fremito al suo gesto. “Ma se vuoi tornare con me, per riprendere il tuo posto, allora potrei perdonare questi stupidi uomini.” Erano davvero ridicoli. Lo fronteggiavano ignari e inconsapevoli di aver di fronte la morte, senza sapere di essere insetti sul punto di essere schiacciati.  

“Tanto loro ormai sono finiti, sono già sfiancati… tutto dipende da te.”

Il Cavaliere voltò il capo verso i suoi uomini, senza muoversi, un’occhiata veloce, che gli bastò a capire quanto fossero vere le parole di quel mostro. I suoi uomini erano sfiniti, quei guerrieri temprati da fuoco e dolore erano stati devastati dalla sola aura venefica di quel dio oscuro.

Era diventata una sottile e diabolica tortura psicologica.

“O stai con me e sopravvivi con i tuoi uomini, che stranamente consideri più importanti di me e degli altri, o combatti con loro contro di me.”

“Ma attento…” Ci fu un lunghissimo attimo di silenzio. “…conosci già il risultato.”

Dailone abbassò il capo e sentì il sudore scorrergli ghiacciato sulla fronte. Com’era crudele! Se avesse rifiutato la proposta, avrebbe condannato a morte tutti. Non gli importava di se stesso, ma che diritto aveva lui di scegliere con una propria decisione, per una causa così personale, la vita e la morte dei suoi compagni? Se invece avesse scelto di sottomettersi a Siguya avrebbe salvato la vita dei suoi duecento uomini, ma avrebbe abbandonato il resto del popolo alla mercè dei Siguya. Ma comunque quei mostri li avrebbero spazzati via e sarebbero proseguiti ugualmente verso le città del sud. Tanto valeva permettere ai Leoni di combattere in una situazione più favorevole, con il resto dell’esercito magari. Ma non riusciva a decidersi. Avvertiva con angoscia terribile di essere completamente solo in quel momento, davanti a quella terribile scelta.

Il Capo dei Leoni sospirò e, incredibilmente, sorrise. Doveva farsi forza.  

Diede le spalle al nemico e si volse verso i suoi Leoni. Duecento uomini erano tesi fino allo spasimo per la tensione e l’ansia e trattenevano il respiro in attesa delle parole del loro comandante.

Urlò ad alta voce, con tono squillante e limpido: “Mi dispiace per voi!”

Sorrise, tristemente felice: “Morirete con me!” 

I suoi compagni gli risposero all’unisono, come un sol uomo, guidati dalla prova di sprezzante coraggio del loro comandante: “Oltre la morte! Oltre la morte!”

Il viso di Siguya si contorse in una maschera di rabbia: “Quindi vuoi farli morire tutti?”

“Leoni!” Gridò Dailone, ignorando il mostro. E iniziò a sbattere violentemente la propria lancia contro lo scudo, urlando come in preda a una furia improvvisa e tutti i suoi uomini lo imitarono generando un frastuono di metallo e urla sovrumane che riempì l’intera foresta, scuotendola fin nei suoi anfratti più profondi. Il malefico dio oscuro era scomparso, inghiottito dall’oscurità della foresta, eppure si poteva sentire un rombo, un basso rimbombo di pesanti passi avvicinarsi e contrastare le urla dei guerrieri. Il Cavaliere si voltò e avanzò a grandi passi, seguito dai suoi, guadagnando la metà del ponte. “Leoni!” Urlò ancora, seguito dalla grida furiose e violente dei suoi. Le sagome colossali e mostruose di esseri d’incubo, torri di lame e artigli e di pietra, sbucarono dal folto della foresta, gettandosi d’impeto sul ponte, facendolo tremare violentemente.

“Oltre la morte!” E il suo urlo, simile a un ruggito di una belva ferina, rimbombò come un’eco di rabbia per tutta la foresta, accendendo la rabbia e la furia nei cuori dei suoi uomini.

Ancora una volta, fino al parossismo, i ruggiti dei suoi Leoni lo seguirono e duecento lance si alzarono all’unisono verso il cielo, avvampando violentemente di fiamme sanguigne e scintille crepitanti.    

…………………………………………………………………………………………

 “Così sarebbe questa Delos?” Chiese Anarion alla sua accompagnatrice, mentre il suo sguardo spaziava sulla città dall’alto di una balconata. “Ci fermeremo qui solo per oggi, il tempo strettamente necessario per permettermi di rispondere ad alcuni miei doveri.” Gli disse Serìa con il tono di chi non ha alcuna voglia di continuare la conversazione. Lo lasciò solo, scomparendo nell’ombra delle sale interne. Il ragazzo si voltò un secondo per vederla scomparire e si appoggiò nuovamente alla balaustra, osservando la città alle prime luci dell’alba. Erano giunti di notte, in silenzio, quando la città era ancora addormentata, percorrendo la via principale, ancora deserta. La strada principale si inerpicava in salita sulla collina sulla quale poggiavano le fondamenta della città, conducendo al centro della città. Il ragazzo non potè fare a meno di notare allora come Delos fosse una città bella, ma triste. Conservava pressoché intatta molta dell’antica bellezza che un tempo possedeva in quanto capitale e centro religioso del Regno degli Uomini. Piccole case costruite in mattoni bianchi, grigi e bluastri, costruzioni molto antiche dove vivevano le sole due migliaia di abitanti, incorniciavano giganteschi giardini di piante e pietra, dove alberi e colonne e statue marmoree si ergevano in armonia con parimenti bellezza. Enormi templi bianchi dai fregi multicolori e i colonnati silenziosi e ombrosi erano avvolti da un’aura di austerità e maestosità e da un silenzio interrotto solo dal tenue suono del peregrinare delle centinaia di fedeli che ogni giorno visitavano la città per rendere omaggio agli dei o osservare almeno una volta la città immortale. Che lo sguardo si posasse su una delle case delle divinità, avvolte dalle nenie rituali e dall’odore dell’incenso, sulle colossali statue di grandi uomini ed eroi del glorioso passato, dai visi d’oro ed avorio e le armi bronzee, o si perdesse nel fragile splendore dei giardini protetti dalle immortali bellezze di marmo, una sensazione di perduta grandezza pervadeva ogni cosa. Imprigionato nella maestosità delle sue forme eterne, il passato glorioso di Delos strideva con il tempo presente, generando una diacronia, un’alienazione che allontanava lo spettatore dalla visione splendente della città, ricordandogli che essa era una pietra miliare, superstite di un’ era migliore, antica e ormai conclusa, di cui lui era il figlio minore, indegno. E Anarion non potè fare a meno di percepire la propria piccolezza  di fronte ai giganti del passato, agli sguardi alteri e ieratici ritratti nel marmo, di Principi e Cavalieri probabilmente ormai polvere, ma il cui ricordo era rimasto sigillato e custodito per sempre per la memoria dei loro concittadini.

E infine c’era l’ Apogerao, sede della Corte Suprema del Regno e dell’Oracolo di Delos, dove lui stava attendendo. Situato sull’altura che dominava l’intera città, il grandioso palazzo di vetro e roccia bianca rifletteva in bagliori accecanti i raggi solari di mezzodì. Costruito da tempo immemorabile, la costruzione aveva soffitti e pareti di limpido vetro nel tribunale, le cui azioni dovevano essere agli occhi dei cittadini limpide e chiare, mentre la parte dedicata all’oracolo era in bianchissimo marmo, dando una sensazione di purezza e perfezione ai sacri locali dove il Mages, il sommo sacerdote, svolgeva il suo ruolo di portavoce degli dei.   

L’ingresso della corte la divideva dalle strade della città avvolgendola in una cintura di terra battuta e polverosa, deserta. Mentre gli occhi vagavano senza pensieri  percepì immediatamente qualcosa di strano, come uno sguardo penetrante osservarlo, mentre il suo istinto gli allertava i sensi e l’attenzione, eppure nessuno nelle vicinanze era in vista. Era diverso tempo ormai che sentiva le sue percezioni affinarsi e farsi più acute. Resistette ancora pochi secondi a quella pressione immotivata, poi si costrinse a cercare protezione nei locali interni della Corte. Pochi attimi dopo un tonfo a malapena percettibile si udì sulla balconata, seguito da un silenzio assoluto. I raggi del sole sorgente fecero risplendere di una luce livida un pugnale dall’elsa d’argento per un istante. Poi svanì in pieghe invisibili.

………………………………………………………………………………………

Urionar era immerso fino al collo nelle acque bollenti che riempivano un piccolo cratere nelle vicinanze dell’accampamento. Il calore intenso restituiva forza e vigore alle sue membra provate dalla violenta battaglia. Sentiva il fuoco lambirgli ogni tratto della pelle, accarezzandolo delicatamente. Si sentiva rinascere, anche se respirava a fatica, complice l’inteso vapore che si sprigionava dall’acqua e l’affanno che ancora non l’abbandonava, come un veleno che non riusciva a estirpare. Respirò a fondo e scivolò lentamente sotto l’acqua. Si lasciò affondare sempre più in profondità, senza opporre alcuna resistenza. Aprì gli occhi e fissò i vapori bianchi e l’acqua fosca senza pensare. Sentiva un acuto senso di inutilità affiggerlo come un peso insostenibile. Cosa aveva fatto finora? Si era allenato per anni, nelle infuocate profondità della sua terra, per essere un guerriero degno della sua stirpe e per poter proteggere la sua gente. Migliaia erano caduti davanti ai suoi occhi, in una guerra ancora più vacua e sterile di tutte quelle che aveva combattuto fino ad allora. Aveva dato il meglio di sé e non era bastato.

Si sentiva inadeguato. Il suo popolo si distingueva per forza e abilità nella guerra più di uomini comuni, aurorei, notturni e Dàimon eppure non erano riusciti a vincere da soli. La vittoria che avevano riportato non gli apparteneva. Non era valsa la sua discendenza dagli spiriti del fuoco, che faceva ardere negli Albii una possanza sopranaturale, a difenderli. Quando toccò il fondo bollente della fonte si diede una violenta spinta con i piedi e riemerse in superficie infrangendo d’impeto lo specchio vaporoso dell’acqua, inspirando con forza aria nei polmoni.

“Siete ancora indignato per la nostra sconfitta, Urionar?” Chiese Yonuel dal bordo del cratere, la figura longilinea sfocata e avvolta dai vapori dell’acqua. Vestiva abiti neri e argento, legati in vita da una cinta da cui penzolava un lungo pugnale.

L’albo non si voltò nemmeno, continuando a fissare la cortina che gli nascondeva ogni tratto definito dell’ambiente circostante. “Sire Ràidames è partito?” Chiese con voce atona.

“Quasi immediatamente.” Rispose il Generale, con voce ovattata dall’aria densa.

“Ciò che ha detto quel dio è dunque vero? I Siguya marciano verso la Torre Bianca?” Non suonava come una domanda, quanto una presa d’atto della situazione.

“Come dovremmo agire?” Continuò il notturno. “Dovremmo inviare le nostre truppe in supporto alla difesa delle terre atelèe? Una azione non combinata sarebbe del tutto inutile.”

“Ne hanno davvero bisogno?” Disse con voce esitante l’albo, consapevole della gravità delle proprie parole. “Ho parlato con l’Astro Bianco prima che partisse.” Rispose Yonuel con tono grave. “Ha preso in considerazione la possibilità di svuotare la Fortezza e di ritirarsi nelle terre orientali.”

“A cosa servirebbe tale ritirata? Verrebbero solo inseguiti nelle loro stesse terre.” Constatò Urionar.

“Voi non ne siete a conoscenza, ma esiste un’antichissima magia posta a protezione del popolo auroreo.”

“Essendo immortali, l’abbandonare le loro terre, per avventurarsi nel mondo, costituisce un pericolo enorme per la loro sopravvivenza. E’ così che il servizio di leva alla Fortezza Bianca richiama a turno sempre un certo numero di aurorei, in modo che non siano sempre gli stessi a rischiare la propria immortalità. Ci sono comunque coloro che non vengono convocati perché speciali, ma questo non ci interessa ora.”

“Eccezion fatta per il Re, i dodici del Consiglio e il Capitano, la legge stabilisce che non più di tremila aurorei possono giungere alla fortezza in due mesi. E sai quanti ne sono caduti contro i Dàimon?” Chiese con retorica a Urionar. “Sono morti all’incirca mille e trecento aurorei. Questo significa che ad affrontare i Siguya sono rimasti meno di duemila soldati, che non possono e non vogliono ricevere rinforzo per non arrecare ulteriore danno ai propri fratelli.”   

“Non siete ancora giunto al punto, Yonuel.” L’albo si girò verso di lui e lentamente iniziò a nuotare verso la riva rocciosa del lago.

“Il punto è che ritirarsi, azione plausibile in queste condizioni, non significa abbandonare semplicemente la propria posizione, ma pagare un prezzo enorme.” Il notturno e l’albo potevano adesso quasi fissarsi negli occhi, penetrando la densa foschia. “Se tutti gli ateloi si ritirassero oltre il Cancello, le mura più orientali, esso si sigillerebbe per sempre, difendendo le loro terre e chiudendo il loro unico accesso, ma non permettendo più il passaggio degli aurorei nel mondo. Li perderemmo per sempre.” 

Il Sire degli Albii si sentì nuovamente smarrito. Cosa avrebbe dovuto fare? L’angoscia di quelle scelte solitarie lo tormentava e lo sviliva più di qualunque ferita.

“Voi cosa proponete?” Si sentì chiedere, aggravando il peso della propria scelta.

I due rimasero in silenzio, finchè l’albo non uscì con un guizzo dall’acqua, avvolto da densi vapori. “Cosa proponete?” Ripeté con voce atona il notturno.

“Porteremo duecento soldati, la Guardia e la Corte, alla Fortezza Bianca.”

Il notturno non rispose immediatamente. Sorrise alle parole del re albo, i cui pensieri e intenzioni erano così affini alle sue. Magari sarebbe stata questa loro comune caparbietà a condurre entrambi alla morte. “Lo fate per voi stesso o per gli aurorei?” Chiese Yonuel, fissando negli occhi il Re, che a pochi passi da lui lo superava in altezza di una spanna e mezzo.

“Affrontare la morte sul campo di battaglia, come un vero guerriero, lo considero l’unico modo per evitare che il valore del mio popolo e il suo onore vengano tacciati di infamia.” Strinse i pugni, quasi con ira.

“L’unico modo per cancellare l’indignazione mia e dei miei guerrieri di non essere riusciti a difendere da soli il nostro popolo…”

Il notturno sorrise, ammirato sempre più dal temperamento del Re.

“Allora partiremo domani, il tempo necessario per far riposare i nostri soldati e preparare la partenza.”

“Bene.” Si limitò a rispondere il Re.

“Vi conviene riposarvi, Sire.” Disse il notturno, con aria enigmatica. “Domani potrete ammirare la Torre Bianca in tutto il suo splendore.” E si voltò, incamminandosi in direzione dell’accampamento.

Urionar non chiese nulla. Il prodigio che avrebbe usato il Generale per farli giungere in un solo giorno alla Fortezza non lo interessava. Si tuffò nuovamente nelle acque bollenti, abbandonando ogni pensiero fosco sulle pareti del cratere. Ora avvertiva solo una strana eccitazione pervaderlo sin nelle viscere.

 

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Capitolo 28
*** La vendetta di Layrus e l'attacco di Mory ***


l

 

La foresta dei Guadi era immersa nel silenzio più assoluto, nemmeno i normali suoni notturni potevano essere percepiti. Sembrava che ogni cosa fosse sepolta sotto un sudario impenetrabile di oscurità e immobilità. La parte di bosco a settentrione dei Guadi era addirittura avvolta in un’atmosfera sinistra che faceva parer immota anche l’aria stessa. Poi nell’oscurità il falco colse una luce baluginare e sparire. Si mosse tra un albero e l’altro volando silenzioso con grazia e silenzio, fino a fermarsi ad osservare dall’alto di un ramo una figura quasi immobile, legata saldamente al tronco di un gigantesco albero. La veste rossa del prigioniero rifulse ancora di sanguigni bagliori quando la luce della luna penetrò di nuovo il denso fogliame soprastante. Ai suoi piedi giacevano la sua lancia, intatta, e un elmo dorato spaccato, sporco di sangue, e stille rosse gocciolavano sopra di esso dal capo dell’uomo. Il Leone si mosse appena, apparentemente stremato, nel vano tentativo di allentare le corde. Il suo guardiano lo guardava con aria inespressiva.

“Hai paura di morire?” Gli chiese atono Siguya. Il Leone sputò ai piedi del dio, sfidandolo senza paura. “Avrei solo preferito morire cercando di ucciderti, con la mia lancia il mano, demone.”

Ebbe la forza di dire senza paura. “Perché mi avete fatto prigioniero? Finora ci avete massacrato senza pietà.” Il dio sembrò ignorarlo. Dal palmo della sua mano spuntò una punta acuminata e recise con un taglio netto le corde che legavano l’uomo. Il guerriero non ebbe esitazioni, rapido, per quanto le ferite glielo permettessero, raccolse la sua lancia e si allontanò di qualche passo dal mostro, puntandogliela contro. “Voglio che prima di morire tu ti renda conto che agli uomini non è dato sconfiggere gli dei.” La lancia del Leone venne avvolta dalle fiamme e con un urlo si slanciò sul mostro. Siguya non si mosse e quando la punta dell’arma gli colpì la gola si fracassò al solo impatto, senza che risentisse minimante dell’urto. Incredulo, l’uomo vide i frammenti di metallo, al suolo, spegnersi, ma prima che potesse muoversi, le esili mani del dio gli bloccarono le braccia all’altezza dei tricipiti. Con un minimo sforzo strinse la propria presa e un suono di ossa rotte riempì l’aria. Il guerriero urlò di dolore, cadendo sulle ginocchia con le braccia lungo i fianchi, incapace di muoverle. Senza un parola Siguya alzò un braccio e dal palmo spuntò una lunga lama ossea. I due si fissarono per alcuni secondi, poi il dio calò il proprio braccio verso la gola dell’uomo. Ma il suo colpo non la raggiunse. Venne colpito alla nuca e stavolta cadde riverso al suolo, rotolando per alcuni metri, seppur senza emettere un gemito. Si rialzò immediatamente, furioso, urlando come una bestia. I suoi occhi, ardenti di una luce dorata, maligna, si fissarono su colui che aveva osato colpirlo. Layrus gli stava davanti senza alcun timore o esitazione e la rabbia che esprimevano i suoi occhi era forse maggiore di quella del dio. “Come hai osato?” Urlò furioso il mostro, trasformandosi. La sua figura aumentò improvvisamente d’altezza di più di mezzo metro, la sua muscolatura triplicò e il Cavaliere ebbe l’impressione che la sua pelle mutasse, divenendo più simile alla roccia. Senza una parola il dio si gettò sul Cavaliere, con una rapidità sovrannaturale per una creatura di quella stazza e dalla sua figura spuntarono d’improvviso più di una decina di lame ossee, da spalle, braccia e mani. Il Leone, ancora immobile, non riuscì a seguire con chiarezza i movimenti dei due contendenti. Le lame delle mani di Siguya calarono con precisione sul collo del Cavaliere, sovrastato completamente dal dio, ma l’uomo abbassandosi con agilità, le evitò per un soffio, tanto che queste gli tagliarono alcuni capelli. Rannicchiato sotto il mostro, approfittando della falla nella sua difesa, Layrus puntò al petto, scoperto, ma un attimo prima che potesse colpirlo, tre lame spuntarono dal petto, mirando al suo volto. Sorpreso non poté fare altro che gettarsi d’istinto all’indietro, schivando anche stavolta per pochissimo il colpo. Si rialzò immediatamente, ma il mostro fu in un attimo su di lui e stavolta non sarebbe stato capace di schivarlo. Non seppe mai chi o cosa lo salvò. Catene di terra spuntate dal suolo avvolsero gli arti e il busto del mostro, bloccandogli ogni movimento, a pochi centimetri da Layrus. Il mostro urlò e l’uomo esitò solo un secondo, il tempo di vedere che già i legami di terra iniziavano a cedere. Si voltò e con tutta la rapidità di cui era capace prese il Leone sulle spalle e si gettò nel fitto sottobosco. Pochi secondo dopo Siguya frantumò le catene di terra e urlò furioso, preda di rabbia e frustrazione. Seduto sul ramo dell’albero a cui era prima legato il prigioniero, Zeriol sorrise, divertito. Aveva avuto la vendetta  che desiderava sul dio.

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Layrus continuò a correre senza sosta, portando con sé il Leone, ormai privo di sensi per il dolore e la spossatezza e non rallentò finchè non raggiunse il ponte dell’Esin e non ebbe guadagnato la sponda meridionale del fiume. Si inoltrò di pochi passi nella boscaglia e poi adagiò il corpo esanime del guerriero al suolo. Solo allora si accorse di essere circondato da una trentina di Leoni, tutti con le armi sguainate e puntate verso di lui. L’avevano riconosciuto e tutti sapevano perfettamente che era un traditore. “Abbassate le armi” sentì dire dalla voce familiare di Dailone. “Portate al sicuro Feitas e curatelo.” Il Cavaliere entrò all’interno del cerchio dei propri soldati e fissando negli occhi Layrus ordinò: “Lasciateci soli.” 

I soldati si allontanarono senza fiatare, portando con sé il compagno.

Pareva che nell’intera foresta fossero rimasti solo Daiolone e Layrus.

“Ti ringrazio per aver salvato uno dei miei soldati.” Disse inespressivo il Leone.

“Non c’è niente di cui ringraziare” disse Layrus, grattandosi la testa con noncuranza, guardando altrove. “Io ero interessato al mostro e lui era lì con lui.”

“Se cerchi vendetta” lo ammonì Dailone “non l’avrai mai. Siguya è invincibile.”

“E allora cosa ci fai qui?” gli chiese Layrus, guardandolo con la coda dell’occhio “Se non c’è speranza, stai solo imponendo ai tuoi uomini una morte certa.”

“Ogni morte è certa” gli rispose. “E poi tu sai benissimo perché siamo qui.”Continuò il Leone. “Né io né i miei uomini potremmo continuare a vivere con la vergogna di essere scappati davanti al pericolo.”

“Io devo andare.” Cambiò bruscamente discorso il Cavaliere. “Intendi forse fermarmi?”

“Perché dovrei?”

“Non sono forse un traditore?”

“Stai combattendo per la pace e gli ideali del nostro popolo. Ed anche io. Non siamo avversari.” Continuò serio. “Abbiamo scelto solo strade diverse e sono ambedue molto difficili.”

Layrus rimase in silenzio pensando a quelle parole.

“Layrus, vedo molta rabbia in te. Abbandona la vendetta. E’ un sentimento sterile, che non genera nulla se non dolore e altra morte.”

“Cosa puoi saperne tu dei miei sentimenti?”

Dailone sorrise suo malgrado. “Hai già dimenticato chi sono? Anche se io combatto per gli uomini e vivo con essi, sono pur sempre un dio, uno dei dodici figli di Sèlonir. So leggere i cuori delle persone.”

Layrus non disse nulla. Non l’aveva dimenticato.

“Io ti ammiro, Dailone. Lo sai.” Rispose il Cavaliere. “Ma se mai ricevessi l’ordine di ucciderti, sarei costretto a farlo.” Sorrise tristemente. “Pregherò affinché quel giorno non arrivi mai.”

“Lo farò anche io.” Dailone sorrise. “Anche se credo che questo onere toccherà prima a mio fratello Siguya.”

“Quanto resisterete ancora?” chiese preoccupato il Cavaliere.

“Tre giorni, forse quattro.” Rispose imperturbabile. “Mi sono rimasti solo centoventinove uomini dopo due giorni.”

“Ma se sarà Siguya a combattere, nemmeno uno.”

“Sarò di ritorno da te fra quattro giorni, dopo aver incontrato la principessa e averle riferito la situazione.” Promise senza esitazione Layrus. 

“Non capisco perché attendere così tanto.” Disse una voce, intromettendosi nella conversazione.

Un uomo dai corti capelli dorati uscì dalla folta boscaglia, unendosi ai suoi due pari, avvolto da una pallida luce.

“Deidre” mormorarono i due Cavalieri. “La città di Karaiza è stata evacuata e prenderla non è stato un grande problema. Così in attesa di ordini sono venuto a dare un’occhiata.”

“Sei venuto ad unirti ai combattimenti?” Gli chiese Layrus, mentre Dailone fissava il giovane, conoscendo già la risposta.

“Ovviamente no.” Rispose il giovane Cavaliere. “Anche se ti ammiro per la tua forza e il tuo coraggio, Dailone, non posso aiutare un nemico.” Sorrise, continuando a parlare. “Niente mi impedisce però di aiutare un amico.”

“Riferirò io il messaggio alla principessa e tornerò indietro con i suoi nuovi ordini. Se sarai ancora vivo ovviamente. Sarò di ritorno fra un giorno.”

“Ti ringrazio.” Disse il Leone chinando il capo.

“Sei sicuro di fare in tempo?” Chiese con aria di sfida Layrus. Non amava essere aiutato.

“Un semplice grazie sarebbe andato bene ugualmente.” Disse sorridendo Deidre. “Il Lampo Giallo non fallirà, fidatevi.”

Strinse con forza la mano ad entrambi i compagni e disse “Buona fortuna.”

La luminosità intorno a lui aumentò, fino ad irradiare sottili saette e piccoli lampi.

Sorridendo scomparve in una striscia di luce verso sud ovest, illuminando a giorno la foresta.

I due Cavalieri si fermarono a guardarlo volare rapido, quando rumori improvvisi e minacciosi li sorpresero. La terra tremava sotto i loro piedi e grida bestiali di rabbia si avvicinavano. La battaglia era  ricominciata.

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Anarion sedeva con i gomiti poggiati sulle ginocchia, tenendo il capo fra le mani. Era solo nella piccola stanza. Una pallida luce filtrava dall’unica finestra, protetta da sbarre di ferro, e l’unica porta era chiusa a chiave, dall’interno. La sala di meditazione in cui Sèria gli aveva detto di riposare era silenziosa e l’aria immobile.

“Chi c’è?” Chiese Anarion, sollevando il capo, percependo d’improvviso qualcuno nella stanza.

Non poteva esserci nessuno, era impossibile, eppure percepiva distintamente la presenza di un estraneo vicino a lui.

“Chi sei?” Disse una voce ovattata e sibilante.

“Non presto ascolto a chi non mostra il proprio volto.” Rispose arrogante il ragazzo, senza muoversi, ma guardandosi attorno alla ricerca della fonte di quella voce.

“Se mi vedessi in volto” rise la voce “sarei costretto a ucciderti.”

Anarion iniziò con suo stesso stupore a tremare e sudare. Sentiva che l’intruso percepiva anche il suo minimo battito di ciglia. La situazione era di colpo diventata insostenibile. Provava una terrificante tensione omicida.

Era come se la sua vita fosse stata afferrata, alla totale mercé dell’intruso. Il brusco cambiamento d’atmosfera era tale che valeva la pena morire da sé, che lasciare che quella lenta tortura continuasse. Mory rise fra sè, il prigioniero di Serìa tremava come una foglia. Poverino, avrebbe posto subito fine alle sue sofferenza. Si sarebbe divertito un pò con lui e poi avrebbe svolto i suoi compiti. Mise mano al pugnale, quando sentì un fremito fuori dalla stanza, proprio davanti alla porta. Un’esplosione di fiamme guadagnò l’ingresso, divorando il legno della porta in pochi attimi. La figura minacciosa di Serìa guadagnò l’uscio, con una mano avvolta da fiamme sanguigne, guardandosi attorno fremente di eccitazione.

“Vieni fuori, Mory. So che sei qui.” Disse trionfante. “Battiti con un tuo pari, traditore!”

Un pugnale dall’elsa di bronzo partorito dal nulla volò verso la gola della donna, la trapassò da parte a parte e sparì oltre l’uscio. La donna non fece una singola piega, la lama le era passata attraverso senza arrecarle alcun danno. 

“Io sto dalla parte che mi permette di divertirmi di più” rise Mory sprezzante “Sono diventato un Cavaliere solo perché il Principe mi permetteva di uccidere chi volessi.”

Nel frattempo Anarion si era alzato, rimanendo immobile al centro della stanza. Sia lui che la donna scrutavano attentamente la stanza, alla ricerca del più piccolo movimento o rumore.

La figura incappucciata dell’assassino comparve tra i due e Serìa non ebbe un attimo di esitazione.

Con un movimento repentino del braccio scaricò un torrente di fiamme bluastre sulla figura, con un urlo di trionfo. Mory scomparve nuovamente nel nulla e le fiamme saettarono invece su Anarion, che ebbe appena il tempo di coprirsi il volto con le mani prima di venire ingoiato dal fuoco. Le fiamme si scagliarono su di lui con violenza, scaraventandolo contro la parete e avvolgendolo in un sudario di morte fiammeggiante. Si estinsero in pochi secondi, lasciando la figura tremante, ma illesa del ragazzo rannicchiata al suolo. I suoi vestiti caddero a brandelli fumanti, quando si rialzò guardando con astio Serìa, che lo ignorava completamente, irritata solo per aver mancato l’assassino. Mory era ora affianco al ragazzo, immobile ed invisibile, con il pugnale argentato pronto ad uccidere. Poi i suoi occhi si fissarono sul simbolo di un sole marchiato a fuoco sulla schiena della sua vittima. Rimase ancora fermo, mentre Serìa faceva balenare fiamme per tutta la stanza, cercando vanamente di colpirlo. L’Incarnazione era davanti ai suoi occhi, pronta per essere ghermita, ma una morte simile non gli avrebbe dato alcuna soddisfazione. Il ragazzino non era ancora una preda appetibile. Lui voleva un avversario che lo facesse sudare, sputare sangue. La vita era così noiosa senza degni avversari da distruggere. L’avrebbe lasciato in vita, riferito della sua presenza e in seguito qualunque fossero stati gli ordini, l’avrebbe ucciso. Qualche giorno sarebbe bastato al ragazzo per diventare più forte, poteva capirlo guardandolo.

Una fiamma che gli passò pericolosamente vicino lo distolse dai suoi pensieri. Si voltò verso Serìa e sorrise divertito dagli sforzi della donna. Non era capace di individuarlo con precisione perchè lui era capace di celare talmente bene la propria presenza da cancellare il proprio odore e finanche di trattenere il proprio calore corporeo. Si avvicinò a lenti passi verso di lei, schivando gli attacchi che la donna lanciava a caso, nella speranza di colpirlo. Si stava trasformando, il suo corpo iniziava sempre di più a prendere la consistenza del fuoco e allora sarebbe diventata pericolosa anche per lui. Senza che la donna se ne accorgesse le fu davanti e sorrise.

“Qual è il tuo ultimo pensiero?” le sussurrò debolmente, mentre il pugnale argentato saettava verso la gola della donna. Il sangue sprizzò come una fontana dalla ferita, macchiandogli il mantello. Guardò soddisfatto la donna, ma rimase incredulo. Serìa era sì impietrita, ma anch’ella dalla sorpresa. Il pugnale aveva trafitto la mano di Anarion sul palmo da parte a parte e la punta affilata quasi sfiorava tremante la pelle della donna. L’assassino si voltò verso il ragazzo. Si era portato alle sue terga senza che lui se ne accorgesse e aveva eguagliato la velocità del suo attacco, parandolo. Ma soprattutto, lo vedeva. Un alone rosso aleggiava sugli occhi del ragazzo, la cui fronte era imperlata di sudore sia per il dolore della ferita, che per lo sforzo sostenuto per violare l’invisibilità del Cavaliere. Mory girò con rabbia la lama nella ferita e il ragazzo urlò, cadendo al suolo, sfilando la propria mano dalla lama. Il Cavaliere si voltò verso Serìa per finirla, ma questa l’aveva anticipato. Nell’attacco aveva sciolto la propria invisibilità e dopo i primi istanti di stupore Serìa poteva adesso reagire con precisione. Avvolta completamente dalle fiamme, entrambe le sue mani partirono un inferno di fuoco su Mory, abbattendosi su di lui con tal forza da scaraventarlo contro la finestra e sotto la pressione delle fiamme, il corpo si schiantò sulle inferriate facendole saltare nell’urto. Il corpo nero di Mory volò nel vuoto, scomparendo alla vista

Serìa sputò a terra, sicura che il suo attacco non fosse bastato ad uccidere l’assassino, le cui difese erano molte e potenti. Si voltò verso il ragazzo: si era rialzato, ma la mano perdeva sangue a fiotti e lui resisteva a stento al dolore. Come se non bastasse, il Cavaliere si ricordò che Mory era uso fare ricorso ad armi avvelenate. Lo afferrò per la spalla destra e quasi di peso lo portò fuori dalla stanza.

“Di niente, Serìa.” Mormorò sarcastico il ragazzo, mentre si sentiva bruciare la pelle e ghiacciare le viscere. La ragazza ebbe un moto di stizza. Le avevano insegnato a non chiedere mai l’aiuto di nessuno, né tantomeno a chiedere scusa o a ringraziare. E non avrebbe certo iniziato allora.

 

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