Dormi Virginia dormi

di mugsy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1-1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***
Capitolo 5: *** 5 ***
Capitolo 6: *** 6 ***
Capitolo 7: *** 7 ***
Capitolo 8: *** 8 ***
Capitolo 9: *** SOTTO PRESCRIZIONE DEL DOTTOR HUXLEY ***
Capitolo 10: *** 9 ***
Capitolo 11: *** 10 ***
Capitolo 12: *** 11 ***
Capitolo 13: *** 12 ***
Capitolo 14: *** 13 ***
Capitolo 15: *** 14 ***
Capitolo 16: *** 15 ***
Capitolo 17: *** 16 ***
Capitolo 18: *** 17 ***
Capitolo 19: *** 17 Tir nel cortile ***
Capitolo 20: *** 18 ***
Capitolo 21: *** 19 ***
Capitolo 22: *** 20 ***
Capitolo 23: *** 21 ***
Capitolo 24: *** 22 e 23 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1-1 ***


1)
Fuggi coniglio.
Fuggi bastardo.
Fuggi preda.

Fuggi dal campo visivo. Fuggi perché vorresti salvarti, vorresti metterti in salvo. Ma non ci riuscirai. La tua patetica vita non merita di essere salvata. E  non sarò certo io quello che te la lascerà. La vita non dovrebbe esser data a persone patetiche come te.
Ormai sei mio. Smettila di fuggire. Sei troppo lento per me. Troppo lento, e troppo stupido.
Sei mio ormai. Mio, mio e soltanto mio. Cosa scappi a fare? Solo per allungare le tue sofferenze? Che sforzo vano, il tuo. Che inutile e infruttuoso spreco di energie. Pochi metri ti separano da me. 3 metri. Riesco a sentire il tuo odore. Odori di paura. 2 metri. 1 metro. Ti ho preso. E ora muori.







Di nuovo pioggia. Ancora pioggia. Sono giorni che il cielo non fa altro che eruttare pioggia. Non capisco da dove provenga tutta quest’acqua. Mah! Non capirò mai per quale motivo deve piovere. A cosa diavolo serve la pioggia? Ma soprattutto, a che diavolo serve l’acqua? È un elemento insulso e inutile, l’acqua. Non serve assolutamente a nulla. Che me ne faccio di tutto sto liquido, quando nella vita contano soprattutto le cose solide, come il ghiaccio, la terraferma, la roccia, il fuoco… quelle si che sono cose utili.
Ovviamente, quella stupida della mia matrigna non la pensa così. Pensa che l’acqua sia un elemento importantissimo per la vita sulla terra. “Senza acqua, come faremmo noi donne a truccarci? E poi, l’acqua rende più sexy. Tuo padre infatti mi ha conosciuto proprio mentre uscivo dall’acqua durante una giornata a mare”. Mio Dio, ma mio padre quel giorno non poteva rimanersene a casa?








Mamma mia quanto è buona la grappa di Joe! È una vera sinfonia per il palato. Dopo un buon omicidio, non c’è niente di meglio di quel nettare per rimettersi in sesto.
Sarà meglio tornare a casa, però. Quelle due squinternate di Federica e Virginia si staranno sicuramente chiedendo che fine ho fatto. È comprensibile, visto che sono le due di notte passate. Accidenti, uccidere quel pezzo di merda si è rivelato più difficile di quanto pensassi. Non credevo davvero di metterci tutto questo tempo.







“Ron, finalmente sei tornato. Ma dove cazzo sei stato?”. Non imparerà mai. “Veramente mi chiamo Robert. Federica, quando capirai come mi chiamo il mondo sarà finito”. “Fa lo stesso, Bob. Vieni, sbrigati. Virginia ha avuto un’altra crisi. Sei il solo che può aiutarmi”. “Ti prego, Fede, non stasera. Ho avuto una giornata pesantissima. Abbi pietà di me”. Nel frattempo, Virginia, in preda alla pazzia, urla e si dimena come un ossessa. Sembra veramente una bestia scatenata, pronta a sbranare chiunque si fosse avvicinato. Per fortuna sono ormai abituato a questi atteggiamenti, quindi vederla in quelle condizioni non mi fa più tanto effetto.
Ricordo che la prima volta che la vidi così, per poco non ci rimasi secco: Virginia infatti con un gran balzo mi fece cadere per terra, e la mia testa sfiorò lo spigolo di un mobile.
Da quell’episodio rimasi così traumatizzato che non uscii di casa per giorni.
“AHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHH…BASTAAAAAAAAAAAAAAAAA!”.“Cazzo che vocione che ha. Meno male che nel palazzo oltre a noi non abita nessuno. Ma mi spieghi com’è successo?”. “Niente, stavamo discutendo delle posizioni migliori per scopare, e all’improvviso si è messa ad urlare VOGLIO UN CAZZO, VOGLIO UN CAZZO!”. “COSA?”
C’è poco da fare, quando uno nella sua vita pensa di averle sentite tutte, succede sempre qualcosa di peggio.





Incazzata. Ecco come mi sento in questo fottuto momento. Incazzata con tutto e tutti.
Incazzata con questa stupida pioggia, che non accenna a smettere e non mi fa dormire. Incazzata con quell’arpia della mia matrigna, che anche stasera mi ha fatto uscire di senno con i suoi discorsi “da brava ragazza educata”. Incazzata soprattutto con mio padre, che si fa mettere i piedi in testa da quella puttana vestita da modella.
Dio, quanto la odio.
Quanto vorrei uccidere quella troia e riportare in vita mia madre. Sarebbe la cosa più bella del mondo. Eravamo così felici quando c’era mia madre, così allegri, spensierati, pieni di vita… sembrava che la vita per noi fosse solo un gran divertimento, un’enorme giostra dalla quale non volevamo scendere mai. Era così divertente passare i pomeriggi insieme. Ricordo ancora quel giorno che andammo a Roma: fu uno dei giorni più belli della mia vita. Un giorno che rimarrà per sempre nel mio cuore. Cuore che, da quando mia madre è morta, non fa che provare odio.






“Vieni qui, porco”. Senza nemmeno darmi il tempo di riflettere, Virginia decide di passare all’azione: prima mi tocca il pacco, durissimo perché eccitato dalla strana situazione, poi si abbassa, mi toglie pantaloni e mutande e lo prende in mano. “Però. Devo ammettere che, se non fossi lesbica, ci farei un pensierino su di te”. “Federica, per favore. È gia abbastanza imbarazzante”. “Ma come, un uomo forte come te che si imbarazza a stare nudo davanti a due donne? E che sarà mai?”. “Eh si, che sarà mai. Come se fosse una cosa normale”. “Ma da quanto non scopi?”. Tasto dolente.
Effettivamente non sono mai stato un granché con le donne, anzi, se devo proprio dirla tutta, sono una vera frana. “Sinceramente parlando, da parecchioooooo”. Virginia è passata alle vie di fatto: in questo momento è difatti impegnata a ciucciarmi il cazzo. “Oh, si, cazzo, si”. Devo ammettere che è piuttosto brava: le sue labbra aderiscono perfettamente al mio pene e la sua lingua, ruotando con maestria, mi sta portando a vette di piacere mai toccate. Istintivamente, le metto una mano sulla testa, accompagnandone i movimenti, mentre Federica mi sussurra all’orecchio frasi dolci: “Ti piace come succhia la mia ragazza, eh? Maiale. Scommetto che avresti voluto che te lo succhiassi anch’io. Immagina: due troie a tua disposizione, pronte a fare qualunque cosa per soddisfarti e per accedere al tuo succo del piacere”. Le parole di Federica mi mandano fuori di testa, tanto da farmi venire con un copioso getto di sperma in bocca alla sua ragazza.









Un terribile temporale infuriava quella notte. Un temporale che sarebbe rimasto a lungo nella memoria di tutti. Un temporale così terribile da far rimanere sveglia la gran parte degli abitanti.

Tra questi, vi era anche Erika che dai suoi occhioni azzurri faceva trapelare solo un sentimento: la paura. Lei non aveva mai amato la pioggia, anzi, l’aveva sempre odiata con tutte le sue forze, e ancora di più odiava i temporali. Non poteva davvero sopportare il terribile, sordo rumore dei tuoni che si abbattevano sulla città. E dire che Erika, di norma, era una ragazza molto coraggiosa, che non aveva paura di nulla. Tuttavia, i temporali proprio non riusciva a sopportarli. Era più forte di lei.



Nello stesso momento, un serial killer stava facendo finalmente ritorno a casa, soddisfatto e beato come non mai. D’altronde, come dargli torto? Aveva anche quella sera ucciso un altro sporco e bastardo individuo che non meritava di vivere, ed inoltre Virginia, la sua vicina di casa, che di regola è lesbica, gli aveva fatto un pompino sotto gli occhi di Federica, la sua ragazza. Tutto questo per calmare quella pazza che, come sempre, aveva dato di matto per chissà quale motivo assurdo. A volte il killer si chiedeva com’era possibile che una ragazza dolce e bella (anche se strana) come Federica perdesse tempo con quella psicotica, mentre la fuori c’erano altre mille ragazze che sarebbero cadute ai suoi piedi. Non riusciva davvero a crederci.


Federica, dal canto suo, a differenza della sua ragazza, faticava a prendere sonno. Era ormai qualche notte che non riusciva a dormire, probabilmente perché l’ultima volta che aveva cercato di riposare si era ritrovata appesa penzoloni al balcone, e Dio solo sa come sia riuscita a non cadere giù. Per cui, in mancanza di sonno, faceva quello che da parecchio era ormai diventato il suo scaccia crisi: mangiare schifezze del supermercato.



Virginia, invece, dormiva beata.



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Capitolo 2
*** 2 ***


Un timido e pallido sole illuminava le strade della città. La terribile pioggia dei giorni precedenti era sparita, dissolta nel nulla. L’unica cosa che testimoniava il suo passaggio erano le profonde pozzanghere rimaste sulla strada. Pozzanghere piene di acqua piovana, acqua causa di tante sofferenze, ma anche di tanta gioia e felicità. Acqua che lava via le preoccupazioni. Acqua che nutre le piante. Acqua che ingrossa i fiumi e rompe gli argini. Acqua da bere. Acqua per irrigare. Pura e semplice acqua.



Erika, dal canto suo, era sollevata della fine del Grande Diluvio. Erano giorni ormai che era chiusa in camera sua, fredda e tremante come un ghiacciolo. Nemmeno gli abbracci del suo caro paparino erano riusciti a calmarla.
Quel soleggiato giorno di metà Novembre si sentiva diversa. Più carica, forse.
Il sole, seppur pallido, aveva sortito i suoi benefici effetti, ed Erika era pronta ad affrontare i suoi terribili compagni di classe.

Nessuna persona le era amica in quella scuola. La ritenevano strana, fin troppo alternativa e fin troppo particolare per loro. D’altronde, in un posto dove il più intelligente sa a malapena le tabelline e dove la massima aspirazione è diventare velina o calciatore, non è così difficile esser diversi. Erika a volte non riusciva a spiegarsi i motivi per cui i suoi compagni fossero così. In fondo, non erano figli di famiglie povere, anzi, erano tutti piuttosto ricchi, e potevano benissimo permettersi gli studi. Ma, evidentemente, studiare per loro era semplicemente un optional, abituati com’erano ad avere tutto. La cosa più divertente era che molti di quei tipi prendevano voti più alti dei suoi. Evidentemente, leccare culi era uno sport molto praticato da quelle parti.


“Ehi, guardate. C’è Lisa Simpson”. A parlare era stato Tonio, il più stupido e cretino della scuola. Un nanerottolo malefico alto si e no uno e cinquanta, che aveva come unica qualità quello di essere bellissimo e di essere, come conseguenza, molto popolare. “Oh, Guarda. C’è Tonio Cartonio”. L’apostrofò Erika con malignità. Tonio, sorpreso, decise di mollare la presa, mentre la ragazza rise. Anche stavolta l’aveva messo apposto. Le piccole soddisfazioni della vita.


 


Tutto questo, mentre Virginia dormiva beata.

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Capitolo 3
*** 3 ***


Robert si era appena alzato stancamente dal letto. Come sempre, non aveva nessuna voglia di alzarsi, ma non poteva fare diversamente: il lavoro lo chiamava. Il ragazzo, infatti, aveva una doppia vita: di giorno faceva l’impiegato, di notte uccideva la gente. Il perché lo facesse, sinceramente, mi è ignoto. Probabilmente, come molti seriali, aveva avuto da piccolo delle esperienze così terribili da averlo traumatizzato. Non sarebbe il primo ne l’ultimo. Se uno da piccolo subisce queste cose, o diventa un omicida o fa lo scrittore. Matematico. Lui aveva scelto la prima via.

Dopo aver fatto una doccia rigenerante, Robert mangiò i suoi amati Pan di Stelle e bevve il suo amato latte. Aveva un rituale ormai consolidato: prendeva il primo biscotto, lo mangiava, beveva tutto il latte, mangiava gli altri biscotti e si versava altro latte. Un’abitudine che prese da piccolo, e che non aveva mai perso.
In seguito, si mise il suo maglione nero di flanella, il suo jeans nero di qualche marca strana e le sue scarpe nere di Prada. Queste ultime erano per lui una vera fissazione: poteva vestirsi pure con un sacco della mondezza, ma alle sue Prada non poteva rinunciare. Ci era troppo affezionato.
Dopo essersi vestito di tutto punto, chiuse la porta di casa, scese le scale e andò in garage, dove trovò la sua amata Mini Cooper grigia. Poi salì in macchina e andò al lavoro.





Tutto questo, mentre Virginia dormiva beata.

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Capitolo 4
*** 4 ***


Come ogni mattina, Erika trovò ad attenderla alla porta i suoi simpaticissimi compagni di classe che, al suo passaggio, intonavano intelligentissimi cori come “Vattene via, soggetta vattene via” o
“Erika Presta pezza di merda”. La ragazza non ci faceva più tanto caso. Ormai si era totalmente assuefatta a quei cori da stadio che accompagnavano la sua entrata e che, in un certo senso, la inorgoglivano: infatti i ragazzi prestavano più attenzione a lei che alle fighe della classe ed era ormai diventata “popolare” nella sua triste e noiosa scuola. In ogni caso, dopo aver evitato il solito scherzo della borsa rumorosa sotto la sedia, prese posto al primo banco, ribattezzato Banco Solitario per ovvi motivi. Si, perché la povera Erika era sola al mondo: l’unica persona che realmente si preoccupava di lei era infatti suo padre, dal momento che la matrigna la odiava, i parenti non li vedeva mai e i compagni di scuola la consideravano come l’ultima dei paria. Che quei decelebrati non la sopportassero non le importava tanto, ma le dispiaceva moltissimo non avere nessun amico su cui contare, con cui parlare. Le mancava molto una figura di riferimento con cui discutere, confidarsi, divertirsi. Era ovvio che il padre non poteva assolvere tutte queste funzioni. Lei aveva bisogno di un amico vero, sincero, diverso dalle persone che vedeva ogni giorno a scuola, che le sembravano così vuote, intente solo a farsi belle e a esser popolari, senza fregarsene di niente e nessuno.
Come un rituale ormai consolidato, prese dallo zaino una boccetta di grappa e ne bevve un abbondante sorso, mentre i suoi compagni, ipocritamente, la guardavano schifata. Erika adorava la grappa: la prima volta che ne bevve una goccia fu due anni prima, quando sua madre gliele fece assaggiare. A lei piacque molto.
Fu una delle ultime cose che la madre fece prima di morire.




E Virginia continuava a dormire beata

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Capitolo 5
*** 5 ***


“Sto bene se non torni mai, mai”.
Questa era la frase che Federica si ripeteva nella mente da quando era uscita di casa. Una ridicola, semplice frase, che tuttavia non riusciva a smettere di ripetere con la bocca e col cervello.
Era come se questa frase le fosse entrata nelle ossa, nei muscoli e in ogni fibra del suo corpo.
E non riusciva a liberarsene.

Non ricordava esattamente quando e in che occasione l’aveva sentita. Forse apparteneva a qualche canzone che distrattamente aveva ascoltato alla radio, in uno dei rari momenti di lucidità che Virginia le concedeva.
Gia, Virginia, la sua amata Virginia. Ogni volta che Federica pensava a lei, era invasa da un senso di oppressione, come se la sua fidanzata fosse una presenza talmente totalizzante da impedirle di vivere la sua vita. In realtà, era proprio questo che era Virginia per Federica: un ostacolo, un impedimento, una sorta di posto di blocco tra lei e il resto del mondo. Tuttavia, lei faceva sempre finta di nulla, poiché vedeva nella sua ragazza la reincarnazione dell’amore vero, quello a cui non si potrebbe rinunciare per nulla al mondo. Una povera sciocca, si potrebbe dire. Una povera sciocca che non aveva ancora capito che l’amore vero è solo una gran cazzata, utile solo a illudere la gente e a vendere i baci perugina.

Ad ogni modo, Federica, tra un pensiero e un altro, era arrivata ad un piccolo supermarket, mentre Virginia dormiva beata.

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Capitolo 6
*** 6 ***


virginia Come ogni mattina, Erika aveva esagerato con la grappa, ritrovandosi ubriaca sul suo banco.
E, come ogni mattina, stava avendo strane visioni dovute all’eccesso di alcol nel suo organismo. Questa volta stava immaginando di correre in un prato, libera, completamente libera. Libera dalle catene, dalle costrizioni e dalle inutili convenzioni che la tenevano ancorata al suolo, incapace di volare e di scappare. Aveva davvero una gran voglia di fuggire da tutto e tutti, lasciandosi tutto alle spalle. Ma non poteva farlo: sarebbe stato un colpo troppo grosso per suo padre, che gia aveva dovuto subire la perdita della sua adorata moglie, morta in circostanze misteriose due anni prima. No, non poteva fare questo a suo padre. Decisamente non poteva.
E, come ogni mattina, Erika iniziò a piangere, tra l’indifferenza dei compagni e della prof.


Mentre Virginia dormiva beata.

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Capitolo 7
*** 7 ***


La notizia della morte della signorina Petrachi si era sparsa velocemente per la scuola. La sera prima, la ragazza era stata trovata morta sotto un albero di betulle in una zona periferica della città. Nessuno aveva idea di come un fatto del genere fosse potuto accadere, polizia compresa, che aveva solo una certezza: la ragazza era stata uccisa.
L’intera comunità era rimasta davvero scossa da una notizia del genere: Alessandra Petrachi era infatti tutt’altro che una ragazza difficile o pericolosa, anzi, era una ragazza modello, studiosa e molto popolare nella scuola, e i genitori, pur non essendo ricchissimi, erano stimati dall’intera cittadinanza. Restava quindi un mistero il movente di questo delitto.



Nel frattempo Robert stava, come sempre, litigando col suo datore di lavoro.
Volete un esempio di persone che si sopportano talmente poco da incazzarsi tra loro appena si rivolgono la parola? Ecco, Robert e il suo capo Paolo ne erano l’esempio più calzante. Gli altri impiegati dell’azienda non avevano mai visto quei due parlare senza litigare, e spesso i litigi si risolvevano con urla e spintoni vari. Nessuno dei due, tuttavia, aveva interesse a fare del male all’altro: Robert aveva bisogno di un lavoro decente, mentre Paolo, pur non sopportandolo, doveva ammettere che Robert era il suo miglior impiegato, e licenziarlo avrebbe comportato un danno notevole alla sua azienda.



“Hai sentito Tonio? È morta Alessandra”. “Si, l’ho saputo purtroppo. Quando Sandro me l’ha detto ci sono rimasto di merda”. “Povera Sabrina. La sua amata sorella uccisa così, senza un motivo”. “Ma perché prendersela con una come lei? Io non capisco”. “Nemmeno io, Loris. Nemmeno io”.
Erika, nonostante la sua poca lucidità, riuscì a cogliere i loro discorsi: “Alessandra è morta? Come diavolo è successo? Incredibile come esista gente capace di tutto al giorno d’oggi. Ma, in fondo, non ne sentirò la mancanza. Quella stronza non faceva altro che mettermi in ridicolo ogni volta che la incontravo. Lo sapevo che prima o poi sarebbe finita nei guai”.



Tutto mentre Virginia sognava di morire


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Capitolo 8
*** 8 ***


Quell’imbranata di Federica aveva compiuto un impresa più unica che rara: quella di perdersi in quel minuscolo supermercato di periferia. Era incredibile come quella ragazza non avesse il minimo senso dell’orientamento. Anche quand’era piccola si perdeva quasi sempre, e spesso i suoi poveri genitori impiegavano ore per ritrovarla. Era una bambina molto curiosa, la piccola Federica. Anche troppo, a volte: le capitava spesso infatti di seguire senza timore gli sconosciuti nella speranza di avere qualche caramella. Tuttavia, la ragazza raccontava con orgoglio di non esser mai finita in ospedale, nonostante tutto.

“Dove cazzo sono i prodotti per la casa? Maledizione, che razza di labirinto che è questo posto. Scommetto che pure Teseo avrebbe avuto difficoltà ad orientarsi qui dentro, per giove”. I riferimenti a personaggi greci non eran casuali: Federica infatti adorava la letteratura greca, e passava interi pomeriggi a leggere tragedie come “L’Agamennone” o commedie come “Le Nuvole”. Ma c’era una scrittrice che più di tutte l’attirava: Saffo. Federica era completamente pazza della scrittrice di Lesbo, tanto da erigerla a vera e propria divinità della scrittura. Nessun altro personaggio ha avuto un’influenza tale non solo nella formazione letteraria, ma anche caratteriale, della ragazza. Basti pensare che è proprio per l’influenza di Saffo che Fede diventò lesbica.

All’improvviso, una ragazza piombò addosso a Federica.




“Non può essere vero, sto sognando, ditemi che sto sognando”. Furono queste le esatte parole di Sabrina alla notizia della morte di Alessandra, trovata morta in una via periferica della città. Non poteva credere ad una notizia tanto sconvolgente: Alessandra, la sua amata sorellina, morta, uccisa da chissà quale barbaro e bieco individuo. Sabrina non potè sopportare oltre: prese le chiavi di casa e scappò, incurante dei genitori che le urlavano “Torna qui, torna qui”.
No, non poteva tornare li. Sabrina non poteva tornare li. Non dopo quanto era successo. Era troppo scossa, troppo turbata per poter anche solo ragionare. La sua testa era ormai solo un disordinato flusso di coscienza, che si dipanava ad una velocità impressionante. I suoi pensieri vorticavano imperiosamente, come un mare in tempesta, e la sua unica salvezza da quel mare di pensieri era la fuga. Una soluzione molto codarda, ma anche l’unica possibile, in casi come questo.
Era confusa, Sabrina. Confusa e ben poco felice. Non era mai stata così disperata e svagata in tutta la sua vita. Era talmente disperata e svagata che non si era accorta di essere finita in un supermarket di periferia, e quando se ne rese conto… fu travolta da una ragazza più distratta di lei.


Mentre Virginia sognava di essere analizzata.

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Capitolo 9
*** SOTTO PRESCRIZIONE DEL DOTTOR HUXLEY ***



“Dottore, regalami euforia. Se nuoto nel fango, è solo colpa mia”. Non so bene il motivo, ma furono le prime parole che uscirono dalla mia bocca all’inizio della seduta. Mi vennero spontanee, naturali, come se dovessi dirle per forza. Come se non dirle mi sarebbe costato qualche punizione divina.

Il dottor Huxley era seduto di fronte a me, serio e preciso, affondato nella sua poltrona di camoscio, che era tanto brutta quanto estremamente comoda. Sembrava davvero adatta ad uno strizzacervelli del suo alto lignaggio. Perché il signor Huxley non era certo l’ultimo dei pirla. Lui era una delle massime autorità al mondo nell’ambito della psicologia. Forse, solo l’esimio signor Sigmund era sopra di lui in un’ipotetica scala di strizzacervelli. Il che non era certo una cosa lusinghiera.
Gli psicologi erano, e lo sono ancora, la razza più infame e bastarda sulla faccia della terra. Sempre bravi a giudicarti e a spillarti soldi con le loro cazzate esistenziali. Sicuramente inizierà a blaterare stronzate del tipo che io sono pazza, che devo essere curata in qualche clinica… minchiate. Solo minchiate. La verità è che il caro signor Huxley è solo un dannato servo del sistema e dello stato. Uno dei tanti, si direbbe, ma lui era il più triste e meschino. Gia il suo aspetto lo faceva intuire: il dottore aveva infatti degli enormi baffoni da Mr Birra Moretti (o da Roberto “Baffo” Da Crema, se preferite). Questo per me era un cattivo segno. Se c’era infatti qualcosa che quella puttana di mia madre mi aveva insegnato, erano le equazioni “baffi uguale comunista” e “comunista uguale pericolo“. Diceva sempre di non fidarsi dei comunisti, perché predicano bene e razzolano male e perché sono guidati dal demonio. Sarà perché il mio caro paparino era anch’esso comunista? Bah.



Ad ogni modo, comunista o masochista, Huxley stava li, con tutta la sua alterigia e tracotanza. Non si muoveva, era impassibile, completamente impassibile, come una statua di cera di Madame Tousseau. Totalmente, completamente immobile. Se non avesse avuto gli occhi aperti, avrei anche potuto pensare che fosse morto.
“Dottore, regalami euforia. Se nuoto nel fango, è solo colpa mia”. Di nuovo quella frase. Avrei voluto dire tutt’altro, ma dalla bocca mi era uscita solo questa insulsa, inutile frase, che avevo sentito chissà dove in chissà che CD di chissà quale gruppo strano. Eppure, mai frase sembrò più azzeccata allo stato in cui trovavo. Era inutile, malgrado odiassi ammetterlo, avevo dei seri problemi mentali. Solo, mi appariva insopportabile chiedere aiuto proprio a quel bastardo comunista. Anzi, non volevo chiedere aiuto a nessuno. Volevo uscire da sola dalle mie pazzie, dai miei timori e dalle mie paure. E non volevo l’aiuto di nessuno. Ne da Robert, ne dalla mia amata Federica, ne tanto meno da sto dottore scemo. Volevo prendere da sola le mie ali e volare via da qui. Lontana da questo mondo di merda, dove tutti mi giudicano pazza o anormale, dove tutti mi credono stupida o che, dove mia madre mi odia e mio padre non esiste, dove un Huxley qualunque si arroga il diritto di analizzarmi. Ma che ti devi analizzare? Sarò anche pazza, ma ti dico una cosa: io almeno ho un sogno, quello di voler andar via da qui. E tu? Tu ce l’hai un sogno? Ce l’hai, razza di scarto umano?



La concitazione del momento mi face uscire una calda lacrima dai miei occhi. Vorrei dire tante cose a quell’individuo, ma l’unica cosa che riesco a dire è: 
“Dottore, regalami euforia. Se nuoto nel fango, è solo colpa mia”.

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Capitolo 10
*** 9 ***


Lavorare per quel bastardo del mio capo non è affatto facile: quello non fa altro che darci ordini, comandare a bacchetta e fracassare i coglioni a tutti. Ci da ordini strani, direttive assurde che capisce solo lui, e pretende che noi eseguiamo con la massima prontezza, destrezza e velocità, altrimenti sono cazzi nostri. Magari finivi in qualche pressa, o in qualche macchinario pericoloso, parassita umano. Ricordati che è solo grazie a tuo padre che sei qui, non certo per le tue scarse doti di imprenditore. Maledetta merda umana, non sai quanto vorrei picchiarti o ucciderti. Purtroppo, al di là delle offese verbali non posso andare, ed è gia tanto che posso farle, visto la tua posizione… e il mio perenne bisogno di soldi. Meno male che madre natura mi ha dato in dono una gran voglia di fare, se no sarei stato licenziato gia da tempo immemore.


La cosa più triste di tutta questa storia è che per colpa sua gli altri lavoratori mi odiano. Dicono che se ogni giorno licenzia un sacco di persone per i motivi più stupidi è perché ogni volta lo faccio incazzare. Ma è colpa mia se questo qui è un coglione? È colpa mia se vuole avere ragione anche quando ha palesemente torto? È colpa mia se la gente perde il lavoro? Evidentemente si, a detta degli altri. Maledetto capo di merda. Pagherai anche questa.



Quei cazzoni maledetti. Ahhhhhh. Li ucciderò tutti, uno per uno. Dannati bastardi.

Stavo tranquillamente dormicchiando sul mio banco, come sempre faccio dopo aver bevuto la mia grappa, quando all’improvviso… ho iniziato a sentire un odore strano, decisamente sgradevole. Ho cercato di capire da dove provenisse, e sapete da dove veniva? Dai miei capelli. Qualche bastardo mi aveva riempito i capelli di merda di cane. Ovviamente tutte le galline e i galletti della mia classe si sono messi a ridere come scemi, mentre la prof mi ha detto di andare in bagno. Sicuramente ora quei bastardi staranno subendo una bella ramanzina. Ma non basta. Non mi basta di certo. La devono pagare, uno dopo l’altro. La pagheranno tutti quanti.

“Ahah, hai visto come era riempita di merda quella sfigata?”. “Ho visto, Mary. Troppo forte la faccia che ha fatto. Sembrava davvero sul punto di piangere. Ahahahah”. “Che soggetta. Così  impara a voler mettere i bastoni tra le ruote a Tonio”. “Mamma mia, non nominarmelo sennò sborro nelle mutande. Quanto cazzo è figo, porca miseria. Me lo farei volentieri, cazzarola. Secondo me è anche bravissimo a letto”. “Non per niente è stato nominato rappresentante d’istituto. Uno così bello non poteva non essere eletto. Era impossibile”. “Non mi sorprende che quello scemo sia stato eletto rappresentante. D’altronde, con la schiera di fans che ha…”. “Chi cazzo… Erika Presta? E tu che fai qui?”. “Che domande fate? Lisa Simpson sta cercando di lavarsi dalla merda che qualche vostro amico mi ha gentilmente regalato. Ma tranquille, faccio subito. Il tempo di sciacquarmi i capelli”. “Sarà meglio che ti sbrighi, prima che ti facciamo male, sfigata del cazzo. Non ti vogliamo in questa scuola”. “Oh, che paura che mi fate. Fatevi sotto, ho messo apposto gente più grossa di voi”. Non è vero, ma dirlo fa scena. “Peccato che sei in inferiorità numerica. Non riusciresti mai a fare niente contro di noi, cretina. Ma tranquilla, ce ne andiamo. Non vogliamo infierire. Sarebbe come sparare sulla croce rossa”. “Ahahahahah”.

Non so se avete presente Battery dei Metallica. Se non l’avete presente, ve la spiego io. In pratica, quella canzone parte lenta, per poi esplodere all’improvviso in un velocissimo viaggio rabbioso. È  così che mi sento. Come Battery, sono pronta ad esplodere. E non credo sarà un bello spettacolo.





Quel giorno divenne tristemente famoso come “il giorno della violenza”. In tutta la scuola quel giorno si sentirono altissime urla, talmente alte che si racconta che le sentirono pure le classi che stavano facendo ginnastica in palestra, o le classi impegnate nei laboratori.
Quelle grida provenivano dai bagni numero 41, in cui furono trovate due ragazze esanimi a terra. Entrambe erano ricoperte di sangue, ed entrambe avevano gambe e braccia fratturate in più punti. Erano così rintronate, che quando chiesero loro chi era stato a ridurle così, risposero: “Cliff Burton”.




Tutto questo, mentre Virginia continuava a fare strani sogni.







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Capitolo 11
*** 10 ***


È incredibile come si possano fare strani incontri in un anonimo supermercato di periferia. Uno sta cercando di trovare qualcosa da mettere sotto i denti, oppure cerca di comprare qualcosa per la moglie rompicoglioni che ormai non si ama più, o per il pargolo, usato a sua insaputa come collante di una relazione ormai andata a puttane, oppure, più semplicemente, per se stessi, che all’improvviso incontri persone che mai avresti pensato di incontrare fino a due secondi prima, persone a cui magari non pensavi più da una vita oppure credevi morte in chissà quale circostanza bislacca. E tu magari non lo sai, ma quell’incontro può cambiarti la vita, facendola uscire dalla monotonia e dalla mediocrità, oppure farla precipitare nell’abisso. Tutto questo solo per aver incontrato quella persona. Tutto questo solo per essere andato a quello sciatto supermercato di periferia. La vita è strana, a volte.

Federica in quel momento però non pensava certo a cosa avrebbe portato quell’incontro, anzi per meglio dire scontro, con quella ragazza. L’unica cosa a cui pensava in quel momento è di esser finita in paradiso e di essersi scontrata con un angelo. Perché se quella ragazza non era un angelo, poco ci mancava: bionda, bellissimi occhi azzurri e un viso da fare invidia ad una top model (oltre ad un corpo ben fatto), attirò immediatamente l’attenzione di Federica. “Scusami, ti sei fatta male?”. disse la ragazza. “Oh no, non preoccuparti”. disse Federica ancora intontita. “Davvero, scusami, non capisco come sia potuto succedere. Andavo di fretta e non guardavo dove andavo”. “E dove stavi andando?”. “Bella domanda. A dire il vero, non lo so. Credo proprio di non sapere dove andare”. Una lacrima dispettosa uscì dagli occhi della ragazza, attraversandole tutto il viso. Fede prontamente l’asciugò. Non sapeva bene come, ma doveva aiutarla. Anche se per lei era in pratica una sconosciuta. “Cos’è successo?”. Chiese. “…ecco, il fatto è…” ma non finì la frase, gettandosi tra le braccia di Federica, il quale, pur non conoscendola, la strinse forte.
E Federica sentì un grande calore nel cuore e nel basso ventre.


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Capitolo 12
*** 11 ***


La lenta catena di montaggio della Elor Giocattoli stava lavorando a pieno regime da parecchie ore ormai. Alcuni operai, i più mattinieri, stavano per finire il loro turno, e gia pregustavano le prelibatezze che le loro solerti mogli avrebbero loro preparato. Salerni, per esempio, non vedeva l’ora di rifarsi il palato con il consommé di patate che sua moglie Roberta aveva promesso di preparagli. Vincenzo Salerni era probabilmente, e non dico chiacchiere, uno degli uomini più fortunati della città. Malgrado fosse un modesto impiegatuccio di un’anonima fabbrica di periferia, aveva tutto quello che un uomo può desiderare: la moglie, caso più unico che raro, a distanza di anni lo amava ancora moltissimo, come lui amava lei, aveva due figli meravigliosi, a cui donava tanto amore e comprensione, e amici che gli volevano bene e avrebbero continuato a farlo fino alla morte. Insomma, il classico esempio di uomo modesto ma che con le poche cose che possiede ha costruito la sua felicità. E non parlo di serenità, parlo proprio di felicità, onorevole condizione che tutti agognano, ma pochissimi ottengono, e magari nemmeno per loro meriti. La felicità è un’entità sconosciuta, misteriosa, sognata, che in pochi hanno veramente potuto toccare, e nemmeno a lungo. Perché la felicità, purtroppo, non è per sempre. Anzi, è una condizione piuttosto breve ed effimera, spesso, a parte rari casi. E, anche se ancora non lo sapeva, Salerni e la sua famiglia non rientravano in quei rari casi. Un cecchino pazzo e ben poco accondiscendente stava infatti per mettersi sulla sua strada, e il povero impiegato non ne sarebbe uscito certo indenne.


Se devo esser sincero fino in fondo, faccio fatica a capire il motivo per cui Robert sia così stronzo da uccidere la gente, così come del resto faccio fatica a capire il motivo per cui Paolo sia il capo di un’azienda (seppur piccola) nonostante i suoi ben pochi meriti. Paolo Elor in effetti non era certo un esempio di rettitudine: unico figlio di Augusto Elor, uomo tutto d’un pezzo, dalla grande inventiva e lungimiranza, che a differenza di certi individui alti a stento uno e cinquanta si era realmente fatto da solo, Paolo non aveva fatto altro che sfruttare il successo del padre. Tuttavia, presto la sua inadeguatezza ed incapacità venne a galla: la Elor Giocattoli infatti sotto la sua gestione iniziò ad avere grossi problemi di bilancio, provocate in massima parte dalle sue spese folli (Porsche, brillanti per donne che di brillante avevano solo la zoccolaggine, alcool, droghe sintetiche e ammennicoli vari). Tra l’altro, a differenza di suo padre, gli impiegati dell’azienda lo odiavano a morte, e avrebbero voluto vederlo su un rogo a chiedere pietà.

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Capitolo 13
*** 12 ***


Erika quel giorno era tornata a casa prima. A quanto pare, due ragazze nella sua scuola erano state aggredite da uno squilibrato nei bagni, in preda a chissà quale follia omicida. Le ragazze, interrogate, avevano risposto che a picchiarle era stato un tale “Cliff Burton”. Erika fu molto sorpresa da questa strana coincidenza. Cliff Burton era stato infatti il primo bassista dei Metallica, il suo gruppo preferito dopo i Verdena e gli Articolo 31, e per lui aveva una vera e propria venerazione. La sua stanza era infatti piena di poster del suo idolo, e aveva inoltre tutti gli spartiti delle sue due canzoni preferite dei ‘Tallica, ovviamente composte da Cliff: Orion e (Anesthesia) Pulling Theeth. La ragazza adorava quelle due canzoni, e adorava la buonanima di Cliff, che, a parere di Erika (e non solo suo) ha lasciato nel metal un vuoto difficilmente colmabile. Per capire l’importanza che ebbe quel bassista su di lei, basti pensare che fu proprio per imitarlo e seguire le sue orme che Erika comprò Melissa, il suo amato basso, nonché sua unica amica. Probabilmente era proprio grazie a Melissa che Erika era ancora viva. Quel basso era ciò che Erika aveva di più caro, dopo suo padre.

“Allora, Melissa, che ne dici di una bella strimpellata? E da un po’ che non ne facciamo una come si deve, o ricordo male? Dai, lo so che sei incazzata, non far finta. Ti conosco come le mie tasche vuote ormai, e so che ti sei offesa perché ti ho trascurata. Hai ragione. Rimedio subito”.
Erika, dopo aver delicatamente sollevato Melissa, chiuse gli occhi e iniziò a suonare. Era più forte di lei, non riusciva a suonare con gli occhi aperti. Preferiva di gran lunga chiuderli per concentrarsi sul suono dello strumento. Grazie a quest’abitudine entrava in empatia con Melissa, riuscendo a tirar fuori il meglio dal suo amato basso. Non a caso, i vicini tutte le volte che Erika suonava non solo non si incazzavano, ma anzi interrompevano quello che stavano facendo per sentirla meglio, e tutti nel palazzo erano concordi nell’affermare che la ragazza era molto brava.
Tuttavia, c’era una persona che non gradiva molto l’attività di Erika: Michela Romandini, conosciuta anche come Zia Desdy, ovvero l’odiata matrigna. Il soprannome di Zia Desdy fu inventato proprio da Erika: zia, perché lei aveva un pessimo rapporto con le sue zie (che infatti non vedeva quasi mai), Desdy, da Desdemona, la cattiva di un romanzo di Isabella Santacroce che le era piaciuto molto. Zia Desdy, dicevamo, era l’unica a non vedere di buon occhio la passione di Erika per i Metallica. Diceva che il metal era una musica satanista, che predicava il demonio, che era rumore e non musica… insomma, le cazzate che si dicono in giro. Sicuramente questo era uno dei motivi per i quali Erika odiava la sua matrigna, ma non era certo l’unico: le due avevano infatti caratteri totalmente antitetici ed erano totalmente incapaci di aprirsi l’una con l’altra. La Zia Desdy aveva provato per un breve periodo ad andare d’accordo con Erika, ma non c’era nulla da fare, e ben presto il loro divenne un rapporto di reciproca antipatia, che sfociò infine in odio puro. Entrambe volevano solo la morte dell’altra, magari in modo atroce, ed entrambe cercavano di accattivarsi le simpatie di Luciano, padre di Erika nonché marito di Desdy, che si trovò con la casa divisa da un invisibile muro di Berlino.

La rabbia repressa di Erika era in perenne stato di guardia: d’altronde, circondata com’era da persone che avrebbero voluto cancellarla dal loro percorso di vita, era comprensibile esser sempre così nervosi ed irritabili. Nessuno poteva, o voleva, capire quello che la ragazza stava passando, e lei si sentiva sempre più sola e oppressa. Tutti la giudicavano, la criticavano, la deridevano, e per una ragazza di appena 17 anni questo può essere davvero un colpo tremendo.



L’unica cosa che la faceva andare avanti era il padre.


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Capitolo 14
*** 13 ***


Robert era al lavoro da più di quattro ore ormai. Quattro interminabili ore in cui il nostro serial killer non aveva fatto altro che controllare delle buste da imballaggio. Lavoro non certo faticoso, ma noioso e snervante. Talmente snervante che gia mezz’ora dopo Rob ne aveva le palle piene.Non vedeva l’ora di tornare a casa e mangiarsi i suoi amati Pan di Stelle. Non poteva farci nulla, andava pazzo per quei biscotti. Non mangiava altro che quelli, a colazione, pranzo e cena. Persino al lavoro si portava appresso i suoi biscotti prediletti. I Pan di Stelle eran sempre stati la sua passione. Già quand’era piccolo ne mangiava tonnellate, e diceva sempre ai genitori che da grande avrebbe lavorato in una fabbrica di Pan di Stelle, avrebbe fatto carriera e si sarebbe comprato l’azienda che li produceva. Beata innocenza. Certo che, se uno ci ripensa, se ne dicono di stronzate da bambini. Stronzate in cui noi crediamo. Stronzate che abbiamo l’illusione che si avverino. Stronzate che chiamiamo sogni, e a cui spesso ci aggrappiamo nei momenti di droga mentale. Solo che spesso questi sogni non si avverano, anzi diventan pure chimere, e in alcuni casi, invece di aiutarci, ci spingono sempre più verso l’abisso del collasso psichico. E Robert questo lo sapeva bene.

Federica in quel momento non se la passava affatto male. Era infatti abbracciata ad una perfetta sconosciuta, che tuttavia in quel momento aveva un disperato bisogno di conforto e comprensione, anche se non capiva il perché. Sabrina, dal canto suo, sentì una stranissima sensazione invaderle il corpo.
Onde marine le attraversavano il corpo e la mente, che la facevano sentire beata, in pace con se stessa e col mondo. Nonostante la morte della sorella, Sabrina non si sentiva più triste, ma potente ed invincibile. Si sentiva pronta a scalare l’Everest a mani nude, a dominare il mondo e a spazzar via chiunque osasse intralciarla. Nulla avrebbe potuto fermarla in quel momento. Nemmeno la fine del mondo.



E Virginia? Be, continuava a fare quello che le riusciva meglio. Dormire beata, per trovare, almeno nei sogni, quella pace che non aveva.

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Capitolo 15
*** 14 ***


Nonostante le grida di quella odiosa gallina di Zia Desdy, Erika continuava a suonare la sua amatissima Melissa. La ragazza ricordava perfettamente il giorno la vide per la prima volta. Era li, maestosa, in quel negozio di musica che si trovava in Via Settembrini 7, in fondo alla strada. Sembrava che fosse la regina degli strumenti musicali del negozio, con quel suo colore viola così intenso e così ipnotico, quasi ammaliante. Erika appena aveva visto quel basso era rimasta incantata ed onorata di poter assistere ad un simile spettacolo. Sembrava che la dea della musica fosse li, davanti a lei, incarnata in quello strumento. Strumento che, non a caso, era molto ambito, ma anche molto costoso. Quando Erika sentì il prezzo, quasi le venne un tuffo al cuore: non avrebbe mai potuto permettersi quel meraviglioso basso.

Il giorno del suo compleanno era un vero rito per Erika e la sua famiglia. Ogni volta lei con i suo genitori andavano in un locale sempre diverso e, dopo averlo annunciato a tutti gli avventori del locale (camerieri compresi) aprivano il regalo, che era sempre qualcosa di unico. Quella volta i suoi avevano portato un enorme pacco viola, così grande che dovettero usare una sedia per reggerlo. Erika era così curiosa che passo tutto il tempo del pranzo a fissare il pacco.
“Attenzione gente” esordì improvvisamente il signor Luciano “oggi è un giorno importante. Mia figlia compie 14 anni, e voglio rendervi partecipi, anche se non vi conosco, di questo momento”. Erika, come consuetudine, arrossì come un peperone troppo cotto. “Avanti, figlia mia. Aprilo”. Emozionatissima, Erika aprì l’enorme pacco viola. Al suo interno, vi era una cosa che lei aveva sempre desiderato, e che sognava di possedere da quando l’aveva visto troneggiare in quel negozio: un magnifico basso. La sua Melissa.

Melissa aveva uno strano effetto sulla mente di Erika: anche le volte che era più incazzata, grazie a quello strumento la ragazza riusciva sempre a calmarsi. Entrava in uno strano stato di benessere, quasi catatonico, da cui non avrebbe voluto uscire mai. E in quello stato spesso si immaginava le più feroci torture da infliggere a quella puttana della sua matrigna. Immaginava per esempio di legarla mani e piedi vicino a una radio che trasmettesse musica metal a tutto volume, oppure musica che lei non sopportava affatto (anche perché spesso non la capiva, preferendo ascoltare canzonette come quelle di Lady Gaga, Avril Lavigne, Marco Carta, Tokio Hotel e “musica” simile). Oppure immaginava che Melissa prendesse vita e la uccidesse con le sue corde, strangolandola. Probabilmente non c’era nessuna donna al mondo che lei odiasse di più, sia perché era assolutamente insopportabile e sia perché pretendeva di prendere il posto di sua madre, cosa che nessuno poteva fare, nemmeno la persona più buona e cara dell’universo. Nemmeno Dio.


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Capitolo 16
*** 15 ***


Niente. Assolutamente niente. Era questo che c’era nella testa di Sabrina in questo momento. La sua testa era vuota, assolutamente sgombra da pensieri. Assolutamente sgombra da angosce, timori, paure e ricordi. Solo vuoto. Il vuoto più assoluto. E a lei andava benissimo così. Dopo quello che le era successo, non aveva nessuna voglia di pensare e di avere la testa occupata. L’unica cosa che voleva fare era fumarsi la sua Winston blu, in attesa dei prossimi eventi. In attesa della fine dell’incubo. Perché, nonostante sapesse benissimo di non stare sognando, una parte di lei continuava a credere che questa non fosse realtà, che stesse vivendo solo un’illusione, un’inutile, stupida illusione. Ma purtroppo, non era affatto un’illusione quella che stava vivendo. Era decisamente troppo brutta per esserlo. E quando succede qualcosa di veramente brutto, non è mai un sogno. È sempre la pura, stupida e mortificante realtà.
Sabrina si rese davvero conto di non stare sognando solo quando finì la sua Winston. Lei infatti odiava fumare, e rimproverava sempre le sue amiche quando lo facevano. E difficilmente una come lei avrebbe potuto sognare di fumare. Quella sigaretta era stato un dono di sua sorella, che le aveva detto di usarla solamente in situazioni di emergenza. E, purtroppo, quella situazione di emergenza si era verificata. Tuttavia, quella Winston le era piaciuta. L’aveva definitivamente rilassata, calmata, ed aveva definitivamente svuotato la sua mente dai pensieri negativi. Quello che voleva fare in quel momento, era stendersi su quella scalinata e godersi i suoi 40 secondi di niente.
Al resto, avrebbe pensato dopo.


40 secondi. Tanto era durato l’abbraccio tra Federica e Sabrina. I 40 secondi più strani della vita della ragazza, perlomeno quella recente. Poi, come era venuta, Sabrina si dileguò, lasciando Federica con un palmo di naso. Probabilmente aveva voglia di pensare da sola, senza nessuno che le rompesse le scatole.
Quei 40, fugaci secondi furono però per Federica come un fulmine a ciel sereno. Perché aveva sentito qualcosa che non avvertiva da così tanto tempo, che aveva ormai dimenticato cosa fosse. Qualcosa di talmente grande da farle dimenticare di fare la spesa per la Virginia, la donna che amava. O meglio, che era convinta di amare.



Tutto questo, mentre Virginia sognava tir sulla neve.

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Capitolo 17
*** 16 ***


Fischiava, fischiava Salerni. Ma ne aveva ben donde: il suo turno in fabbrica era finalmente finito, e poteva tornarsene a casa dalla sua amatissima moglie e dai suoi bellissimi ed altrettanto amati figli. Non poteva davvero chiedere di meglio alla vita. Fin da piccolo lui non aveva mai avuto grosse ambizioni. L’unica pretesa che aveva era quella di trovarsi una brava moglie e avere dei figli, del resto non gli sarebbe importato. E Salerni, con impegno e dedizione era riuscito a realizzare la sua unica ambizione, il suo unico desiderio. Non voleva davvero avere nulla di più, ne lo pretendeva, anche perché fin da ragazzo si era reso conto di non poter aspirare a chissà quale vita ambiziosa, e, a differenza di Vasco, lui voleva una vita tranquilla e senza grandi scosse. Solo realizzare questo desiderio l’avrebbe reso felice. E infatti, chi era più felice di lui?



Rumoreggiava, rumoreggiava Robert. Rumoreggiava perché era in attesa della sua tanto agognata preda. Preda che non vedeva l’ora di uccidere, per soddisfare la sua immensa sete di sangue. Sangue di cui lui si nutriva, di cui si cibava, di cui aveva un gran bisogno.
Lui viveva per il sangue, viveva per uccidere la gente. Era l’unica cosa che lo teneva in vita, che lo faceva stare bene, che lo teneva a galla. Perché lui era un fallito, un reietto, uno che non aveva sogni da realizzare e non aveva scopi nella vita. Non viveva, si limitava ad esistere per inerzia, facendosi trascinare dagli eventi e dal mondo. Lui non aveva la forza, o forse la voglia, di perder tempo a cercare di contare qualcosa, a cercare di essere una persona migliore. Probabilmente non l’aveva mai avuta in vita sua. E solo uccidere lo teneva in vita, lo faceva sentire importante. Lui era Robert Paulo, il serial killer più temuto della città, il terrore della Ciociaria, ed era orgoglioso di esserlo, perché così aveva l’illusione di contare qualcosa.



“Erika, la vuoi smettere con questo cazzo di baccano? Non riesco a sentire la radio, porca troia”.
“A parte che questo non è baccano, ma musica. Tutto il contrario di quello che senti tu”.
“Perché tu vorresti dire che sta roba è musica? Ma non farmi ridere. Si vede che non conosci la vera musica, ovvero quella che ascolto io”. “Cioè Carta Igienica e Lady Merda? Wow che gusti!”. “Brutta stronza, ma come ti permetti? Mo ti faccio vedere io. Posa quella chitarra!”. “Basso, non chitarra. Hai mai sentito parlare di basso? Eppure non dovrebbe risultarti nuovo come termine, considerando la tua statura e la tua scarsa morale”. “Brutta bastarda. Ringrazia che ora stanno trasmettendo la mia canzone preferita, se no ti avrei già punita come meriti”. “Wow che paura!”.
Dopo questa calma e tranquilla conversazione, Zia Desdy uscì sbattendo la porta come non aveva mai fatto in vita sua. Era più forte di lei, con Erika non riusciva davvero a trattenersi. Non sapeva più come prendere quella ragazza, con cui litigava un giorno si e l’altro… pure. Le due non riuscivano proprio a capirsi, a comprendersi, e correvano su due binari paralleli. All’inizio lei aveva cercato di instaurare un dialogo, di farsi accettare da quella ragazza dal carattere così difficile. Purtroppo ogni suo sforzo risultò inutile, ed Erika le sembrava una persona così lontana, distante da lei, e di questo non si dava pace.

Un sorso, due sorsi, ancora uno e poi smetto, ma se smetto poi mi ritorna in mente, quella faccia di bronzo di riace, vestita versace, voglio che taci, occhi di vuoto, occhi cattivi, occhi che esprimono la sua indole perversa, occhi freddi e pericolosi, come pericolosa è la sua forma, pericolose le sue mani, pericolose le sue parole, taglienti come lame, velenose, ingannatrici. Vuoi togliermi tutto, ladra. Vuoi soffocare la mia volontà, i miei pensieri, le mie parole, vuoi che io mi faccia da parte, vuoi che ceda, vuoi che faccia harakiri come i samurai. Ma io non sono come mio padre. Mio padre è buono, troppo buono, troppo debole nei tuoi confronti, ma io non mi farò crocifiggere da te. Non riuscirai a farmi desistere, non ci riuscirai. Io resisterò, io riuscirò a cacciarti dalla mia casa, dalla mia vita e da quella di mio padre. Ce la farò. Questo non mi riporterà indietro mia madre, ma almeno avrò estirpato una gramigna dal mio prato.
Devo calmarmi ora però, se no faccio qualche cazzata.
Grappa, aiutami tu. Aiutami a calmarmi, almeno per ora. Non devo commettere sciocchezze.
Non è il momento, non è ora. Aiutami, aiutami, aiutami. Calmami calmami calmami.

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Capitolo 18
*** 17 ***


Chissà per quale motivo, ma a Federica a quel momento venne in mente quel lontano giorno in cui la neve in città si era fatta talmente fitta da impedire alle auto e a qualsiasi mezzo di trasporto di passare. Era incredibile una simile nevicata in un posto che alle nevicate non era certo abituato, e Federica, approfittando di questo, decise di approfittarne per fare una passeggiata in mezzo a quel  meraviglioso manto bianco. La ragazza era eccitatissima all’idea di poter ammirare tanta neve, dal momento che non l’aveva mai vista dal vivo. E la camminata si rivelò per lei un vero toccasana, consentendole di dimenticare tutti i suoi problemi e le sue preoccupazioni. Preoccupazioni fissate su quel segno rosso a forma di mano aperta che le era stato lasciato pochi minuti prima da colei che l’aveva generata. Tutto era nato a causa di una rivelazione fatta da Federica a questa persona, a cui lei voleva un bene dell’anima e a cui faceva male mentire. Probabilmente tale rivelazione si era rivelata troppo forte, troppo potente per questa persona, al punto da indurla a lasciare a Federica un segno nella faccia, ma soprattutto nell’anima. Perché esser trattati a quel modo da chi ti ha messi al mondo è probabilmente una delle cose peggiori che possano capitare, talmente brutta che nessuno la augurerebbe a nessuno, nemmeno al peggior nemico. D’altronde, ci sarà un perché se Saffo è stata così malvista in tutto questo tempo…



Con la mente libera da tali veleni, la ragazza si godette pienamente quell’improvvisa e inconsueta spruzzata di candido manto bianco, giocandoci, lanciandoselo addosso e costruendo improbabili pupazzi di neve, magari con il corpo più piccolo della testa, o con un sorriso stentato, o magari senza cappello… ma a lei non importava, perché stava incredibilmente bene in quel momento, senza timore, pressioni, paure, preoccupazioni. Si sentiva incredibilmente viva, attiva, giocosa, senza freni ne inibizioni.
E probabilmente era così che doveva sentirsi una strana ragazza che si trovava di fronte a lei, che, chissà perché, attirò immediatamente l’attenzione di Federica.
Il suo nome, in quel momento ancora sconosciuto, sarebbe diventato ben presto fin troppo familiare. Perché era il nome del suo più grande amore, nonché della sua più grande condanna.

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Capitolo 19
*** 17 Tir nel cortile ***


Neve.

È tutto quello che vedo ora davanti a me, insieme a strani camion lunghi chilometri che sono insediati da chissà quanto nel mio cortile.

Camion lunghi chilometri.

Ho provato a contarli, e sfortunatamente sono 17, come il numero sfigato, quello che porta sfortuna, che porta cattivi auspici e fa star male la gente. Se devo esser sincera, io alla superstizione non ho mai dato molto peso, ma questa per me fa eccezione. Probabilmente perché è collegato ad un avvenimento molto spiacevole, che non mi va ne di ricordare, ne di raccontare, perché se mi ritorna in mente GIURO CHE LO PICCHIO PER POI SCORTICARLO VIVO PER POI CUOCERLO SUI CARBONI E FARLO FINIRE IN QUALCHE FOSSA COMUNE, DATO CHE QUELLO è SOLO UN PEZZO DI MERDA CHE SI MERITA DI MORIRE SCHIACCIATO SOTTO UN MEZZO PESANTE, MAGARI SOTTO QUEI TIR DI MERDA CHE STANNO QUI A INVADERE QUESTO CAZZO DI CORTILE DELLA MINCHIA CHE NON SO DI CHI SIA NE DA DOVE VENGA (calma, devo star calma).

Forse è per questo che ci sono questi tir. Evidentemente servono a schiacciare tutte le persone storte che ho trovato sul mio camino. Evidentemente sono per me.
MA SI, è OVVIO CHE SONO PER ME! Come ho fatto a non pensarci prima? Per chi devono essere, allora? Ci sono solo io in questo cortile diroccato. Ora devo solo prenderne uno e spazzare via tutto, a mo di schiacciasassi.
Devo distruggere tutto ciò che c’è di storto nella mia vita.
Tutto.
Non devo lasciare niente.
Niente.

Virginia la dea della distruzione sta venendo a prendervi, pezzi di merda.

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Capitolo 20
*** 18 ***


Virginia si muoveva sul suo letto in maniera piuttosto convulsa, quasi compulsiva. Evidentemente nemmeno nel sonno riusciva a essere esente dai veleni della sua mente deviata e oscura.
Mente che ormai non riesce più a funzionare come dovrebbe, martoriata da terribili esperienze che l’hanno profondamente segnata. In primis, l’abbandono del padre, avvenuto un lontano Venerdì di Febbraio di più di ven’anni prima. A quel tempo Virginia era poco più di una bambina, e non poteva sapere che i suoi genitori erano in piena crisi a causa dei problemi con l’alcool della madre, che non poteva fare a meno della sua bottiglia di whisky quotidiana. Problemi con l’alcool che ovviamente dopo l’abbandono del padre si complicarono, e a pagarne le conseguenze fu soprattutto la piccola Virginia, che veniva sistematicamente maltrattata e a volte addirittura picchiata con violenza, come quando era stata appesa per i piedi al soffitto mentre dormiva, o quando veniva spinta in acqua nel lavandino in cucina. Tutte queste violenze avevano ovviamente segnato in maniera deleteria il suo carattere, tanto da farla diventare quello che è ora: una gioia per i seguaci di Sigmund, una criminale per le persone comuni.
C’era solo una persona che al momento riusciva a mantenerla appesa a quel filo sottile che era la vita: la sua amata Federica, l’unica persona al mondo con meno senno di lei, l’unica capace di sopportarla e di starle vicino, e che temeva di perdere un giorno l’altro. Virginia non l’avrebbe mai ammesso, ma aveva una paura fottuta che un giorno la sua amata, stanca di lei, non sarebbe più tornata a casa.
Paura che probabilmente non era poi così infondata.

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Capitolo 21
*** 19 ***


Confusione. Solo pura e nera confusione regnava nella mente di Erika. Non era ancora riuscita a tornare del tutto in se, dopo la discussione ben poco simpatica con zia Desdy. La sua testa era diventata un turbinio di parole sconnesse, di sentimenti contrastanti, di pensieri a vuoto. Non riusciva più a distinguere la rabbia dall’odio, la pena dall’antipatia. A malapena riusciva ad articolare le parole. Sembrava una pazzia in preda ad un forte attacco schizofrenico, o ad un attacco epilettico acuto. Chissà per quale motivo, la ragazza invece di allarmarsi prese carta e penna ed iniziò ad annotare tutte le parole che le passavano per la mente in quel momento.

Placo l’ira funesta legata ad una convinzione di potenza dominio supremazia sensoriale sulle storture che sanno di mele marce bucate da un raggio di vita universale scaturita dalla luna calante delle nostre anime.



Erika rise: in quel momento iniziò ad avere una vaga idea di come i Verdena scrivevano le loro canzoni.

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Capitolo 22
*** 20 ***


Con il suo consueto passo felino, Zoe stava tranquillamente passeggiando per la città, in cerca di qualcosa di sostanzioso da mettere sotto i denti. La ragazza era piuttosto affamata: d’altronde, Alfred era famoso per durare parecchio a letto, e come si sa, il sesso è un’attività che consuma molte energie. Per questo era solita mangiare dopo una sana scopata, consumata spesso con ragazzi sconosciuti o poco più. Alfred probabilmente credeva che l’avrebbe rivista, ma si sbagliava di grosso. Zoe non andava mai con lo stesso ragazzo più di una volta, perché si sarebbe sicuramente annoiata a morte, e anche perché le sarebbe sembrato una sorta di legame. E lei non voleva legami con nessuno, ne di tipo sessuale, ne soprattutto di tipo amoroso. Era indipendente sotto ogni punto di vista, e voleva continuare ad esserlo. Le bastava solo scopare, non desiderava nulla di più.
E d’altronde, con quei suoi capelli neri, quegli occhi castani, quell’intrigante viso da lolita e quel corpo da urlo, rimanere a secco era praticamente impossibile: le bastava muovere un po’ il culo e fare la troia, che i maschi cadevano ai suoi piedi. Nulla di più semplice.

“Ciao Zoe! Il solito panino al peperoncino calabrese?”. “Certo che si Mario. Mi conosci, no?”.
Mario era il proprietario del chiosco in fondo alla strada, famoso per i suoi panini e per essere l’unica persona, parenti esclusi, che non ci abbia mai provato con Zoe. L’unico uomo di cui lei si fidasse fino in fondo. “Prima o poi dovrai spiegarmi come cazzo fai a mangiare una roba così piccante. Porca miseria, è immangiabile”. “Poche storie e servimelo. Ho bisogno di energia. Sai com’è…”. “Sempre la solita: ma quando ti deciderai a mettere la testa a posto? Non puoi passare tutta la vita a buttare ragazzi”. “Quando i ragazzi la smetteranno di esser così superficiali. E poi ti confesso che è divertente spremere la loro linfa vitale e poi lasciarli li privi di forze. L’uomo senza pisello è nulla, poco da fare”. “Non cambierai mai. Toh, tieni il panino, mangiauomini dei miei stivali”. Mario sorrise. Sapeva che quella ragazza era fatta così, ma forse sperava che prima o poi sarebbe cambiata e avrebbe acconsentito a farsi amare. Se lo augurava di tutto cuore.


Robert era terribilmente incazzato: Salerni, la sua preda, era infatti riuscito a sfuggirli, e come se non bastasse era finito in una zona della città che non conosceva minimamente. “Dove cazzo sono finito, fanculo? Che giornata di merda”. Non sapendo cosa fare, decise di chiedere a quel chiosco di panini. Tuttavia, i suoi intenti cambiarono quando vide una ragazza meravigliosa addentare un panino al peperoncino.


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Capitolo 23
*** 21 ***


Vento leggero lambiva gli alberi in quel soleggiato pomeriggio di metà primavera. Finalmente, dopo tanta pioggia, la natura aveva finalmente deciso di mostrare il suo lato più bello agli occhi dell’uomo. D’altronde, la pioggia non poteva durare in eterno. Prima o poi doveva arrivare il sole.

Erika tuttavia non credeva molto alla storiella della “quiete dopo la tempesta”: la sua confusione mentale durava infatti da troppo tempo ormai, e non si accennava a placarsi. Era perennemente inquieta, malinconica e insofferente. Non sopportava praticamente nessuna presenza umana: ne Zia Desdy, ne i compagni di scuola, ne i coglioni che a volte ci provavano con lei, convinti che sarebbe bastato mostrare i muscoli per conquistarla. Non avevano capito che lei non era affatto come una delle tante troiette che affollavano la sua scuola, in perenne ricerca di modi strani per soddisfare il fortunale che gli ormoni stavano provocando nei loro miseri e inutili corpi. Fortunale che sarebbe stato placato solo con una buona dose di viscido liquido seminale maschile. Erika stentava a credere che c’erano ragazze a cui lo sperma piacesse. Le era sempre sembrato un liquido schifoso e appiccicoso, al limite del rivoltante. Ma d’altronde, sui gusti non si discute, no?

Incurante dei richiami di Zia Desdy, Erika imbraccio Melissa e iniziò a suonare le note di Pea, personalizzando il testo a modo suo.


Non ne posso più
Di te che mi tratti male
Soffro come un cane
Perché
Mi tratti come tale
Sei una troia
Fanculo
Vai a battere le strade
Vai a vivere
Dai cani da cui ti fai scopare

Vai via da me
Vai via da qui

Fanculo troia
Vai a lavare i portoni
Non venire a piangere qui da me

Fanculo amor
Fanculo amor
Fanculo amor
Fanculo amor


Il testo probabilmente sarebbe stato più indicato per un ragazzo, ma alla ragazza non interessava.
In quel momento, voleva solo lasciarsi i problemi alle spalle. Voleva solo suonare Melissa. Il resto era secondario.

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Capitolo 24
*** 22 e 23 ***


22)

Federica era da poco tornata a casa. Stanca e provata, decise di stendersi sul divano di casa e fare un piccolo riposino. Le serviva proprio un po’ di riposo. La ragazza infatti, dopo quello strano incontro al supermarket, aveva sbrigato un mucchio di commissioni e non ne poteva più. Per fortuna quel giorno non doveva andare al lavoro.

Morfeo il divano plebeo cullava dolcemente Federica, che si abbandonò alle rilassanti onde del sonno temporaneo. Aveva proprio bisogno di farsi una bella dormita. Le sembrava di non farlo da chissà quanto tempo, e si sentiva debole e senza forze. Forze che erano le state assorbite tutte dalla sua amata Virginia, e che probabilmente avrebbe preferito dedicare a se stessa… ma  questo non voleva ancora ammetterlo.

Sabrina intanto passeggiava stancamente per la città in cerca di chissà quale risposta divina ai suoi perché, soprattutto al perché più importante: sua sorella. Non riusciva ancora a credere che qualcuno ce l’avesse con lei a tal punto da ucciderla. Eppure era una ragazza così solare, sorridente, piena di vita e di sogni… non poteva credere che qualcuno la odiasse. Le sembrava una cosa assurda e senza senso. Che non poteva restare impunita.

Doveva assolutamente saperne di più.



23)

“Un panino al peperoncino, grazie”.
La richiesta di Robert colpì molto Mario. Lui era infatti una delle pochissime persone che gli chiedevano quel pestifero panino, che fin dall’apertura del chiosco era sempre stato nel menù delle specialità della casa. Tuttavia, per molti anni, nessuno ebbe il coraggio di assaggiarlo, probabilmente perché Mario era solito esagerare col piccante anche nei panini che non lo richiedevano (l’unico difetto dei suoi prodotti). Nessuno tranne Zoe, qualche anno prima, mentre tornava da una delle sue tante, innumerevoli scopate occasionali. Scopate che a Mario non facevano tanto piacere: lui infatti avrebbe voluto che la sua nipote acquisita (così infatti considerava Zoe) si accasasse sul serio con qualche bravo ragazzo, invece di farsi sbattere ogni giorno come una zoccola solo perché non voleva legami. Tuttavia, non poteva permettersi di giudicare le sue scelte. In fondo, non era suo padre. Padre che Zoe tecnicamente aveva, ma praticamente era come se non esistesse, come se fosse morto. Già, perché Marcus, il padre, era un uomo violento e ubriacone, che non faceva altro che bere e prendere a calci qualunque cosa, moglie e figlia comprese, che non avendo il coraggio di ribellarsi subivano in silenzio. Mario odiava profondamente Marcus: le pochissime volte che l’aveva visto, l’aveva trattato in maniera arrogante e vigliacca. Il paninaro non era quindi stupito del fatto che Zoe era sempre in giro, ma nonostante questo non gli piaceva lo stile di vita della ragazza. Avrebbe tanto voluto che conducesse una vita serena e piena di belle esperienze amorose irripetibili, ma a lei a quanto pare stava bene così. E Mario soffriva in silenzio, come sempre.

La richiesta di Robert tuttavia colpì molto anche Zoe: non credeva che ci fosse qualcuno così coraggioso da provare l’ultrapiccante panino di Mario. Tuttavia, prima di lodare lo sconosciuto preferiva aspettare che finisse il panino. D’altronde, anche quell’arrogante di suo padre, per fare lo sborone, un giorno si era comprato uno di quei panini, con risultati catastrofici, così catastrofici che la ragazza rise per giorni e fu ovviamente pestata quasi a morte. Zoe ricordava molto bene quei momenti: Marcus l’aveva presa e gettata da una parte all’altra, poi l’aveva colpita con due tre pugni violentissimi prima di tapparle la bocca alla sua maniera. La cosa buffa fu però che il ricordo di quel pestaggio non la faceva star male, anzi la divertiva, forse perché era ormai così abituata alle botte che non  badava più ai dolori.

Robert, intanto, incurante delle strane occhiate che i due gli lanciavano, iniziò ad addentare il suo panino super piccante. Lui aveva sempre amato il piccante, fin da quando suo padre gli fece assaggiare un peperoncino calabrese, prelevato direttamente da Soverato, che, nonostante ne abbia mangiato tantissimi tipi, rimangono i migliori peperoncini che lui abbia mai assaggiato. Non sapeva dire cosa, ma quei peperoncini avevano qualcosa di speciale, eran quasi magici. E per lui era sempre un piacere assaggiarli.

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