Dormi Virginia dormi di mugsy (/viewuser.php?uid=52038)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1-1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***
Capitolo 5: *** 5 ***
Capitolo 6: *** 6 ***
Capitolo 7: *** 7 ***
Capitolo 8: *** 8 ***
Capitolo 9: *** SOTTO PRESCRIZIONE DEL DOTTOR HUXLEY ***
Capitolo 10: *** 9 ***
Capitolo 11: *** 10 ***
Capitolo 12: *** 11 ***
Capitolo 13: *** 12 ***
Capitolo 14: *** 13 ***
Capitolo 15: *** 14 ***
Capitolo 16: *** 15 ***
Capitolo 17: *** 16 ***
Capitolo 18: *** 17 ***
Capitolo 19: *** 17 Tir nel cortile ***
Capitolo 20: *** 18 ***
Capitolo 21: *** 19 ***
Capitolo 22: *** 20 ***
Capitolo 23: *** 21 ***
Capitolo 24: *** 22 e 23 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1-1 ***
1)
Fuggi coniglio.
Fuggi bastardo.
Fuggi preda.
Fuggi dal campo visivo.
Fuggi perché vorresti salvarti, vorresti metterti in salvo.
Ma non ci riuscirai. La tua patetica vita non merita di essere salvata.
E non sarò certo io quello che te la
lascerà. La vita non dovrebbe esser data a persone patetiche
come te.
Ormai sei mio. Smettila
di fuggire. Sei troppo lento per me. Troppo lento, e troppo stupido.
Sei mio ormai. Mio, mio e
soltanto mio. Cosa scappi a fare? Solo per allungare le tue sofferenze?
Che sforzo vano, il tuo. Che inutile e infruttuoso spreco di energie.
Pochi metri ti separano da me. 3 metri. Riesco a sentire il tuo odore.
Odori di paura. 2 metri. 1 metro. Ti ho preso. E ora muori.
Di nuovo pioggia. Ancora
pioggia. Sono giorni che il cielo non fa altro che eruttare pioggia.
Non capisco da dove provenga tutta quest’acqua. Mah! Non
capirò mai per quale motivo deve piovere. A cosa diavolo
serve la pioggia? Ma soprattutto, a che diavolo serve
l’acqua? È un elemento insulso e inutile,
l’acqua. Non serve assolutamente a nulla. Che me ne faccio di
tutto sto liquido, quando nella vita contano soprattutto le cose
solide, come il ghiaccio, la terraferma, la roccia, il
fuoco… quelle si che sono cose utili.
Ovviamente, quella
stupida della mia matrigna non la pensa così. Pensa che
l’acqua sia un elemento importantissimo per la vita sulla
terra. “Senza acqua, come faremmo noi donne a truccarci? E
poi, l’acqua rende più sexy. Tuo padre infatti mi
ha conosciuto proprio mentre uscivo dall’acqua durante una
giornata a mare”. Mio Dio, ma mio padre quel giorno non
poteva rimanersene a casa?
Mamma mia quanto
è buona la grappa di Joe! È una vera sinfonia per
il palato. Dopo un buon omicidio, non c’è niente
di meglio di quel nettare per rimettersi in sesto.
Sarà meglio
tornare a casa, però. Quelle due squinternate di Federica e
Virginia si staranno sicuramente chiedendo che fine ho fatto.
È comprensibile, visto che sono le due di notte passate.
Accidenti, uccidere quel pezzo di merda si è rivelato
più difficile di quanto pensassi. Non credevo davvero di
metterci tutto questo tempo.
“Ron,
finalmente sei tornato. Ma dove cazzo sei stato?”. Non
imparerà mai. “Veramente mi chiamo Robert.
Federica, quando capirai come mi chiamo il mondo sarà
finito”. “Fa lo stesso, Bob. Vieni, sbrigati.
Virginia ha avuto un’altra crisi. Sei il solo che
può aiutarmi”. “Ti prego, Fede, non
stasera. Ho avuto una giornata pesantissima. Abbi pietà di
me”. Nel frattempo, Virginia, in preda alla pazzia, urla e si
dimena come un ossessa. Sembra veramente una bestia scatenata, pronta a
sbranare chiunque si fosse avvicinato. Per fortuna sono ormai abituato
a questi atteggiamenti, quindi vederla in quelle condizioni non mi fa
più tanto effetto.
Ricordo che la prima
volta che la vidi così, per poco non ci rimasi secco:
Virginia infatti con un gran balzo mi fece cadere per terra, e la mia
testa sfiorò lo spigolo di un mobile.
Da
quell’episodio rimasi così traumatizzato che non
uscii di casa per giorni.
“AHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHH…BASTAAAAAAAAAAAAAAAAA!”.“Cazzo
che vocione che ha. Meno male che nel palazzo oltre a noi non abita
nessuno. Ma mi spieghi com’è successo?”.
“Niente, stavamo discutendo delle posizioni migliori per
scopare, e all’improvviso si è messa ad urlare
VOGLIO UN CAZZO, VOGLIO UN CAZZO!”.
“COSA?”
C’è
poco da fare, quando uno nella sua vita pensa di averle sentite tutte,
succede sempre qualcosa di peggio.
Incazzata. Ecco come mi
sento in questo fottuto momento. Incazzata con tutto e tutti.
Incazzata con questa
stupida pioggia, che non accenna a smettere e non mi fa dormire.
Incazzata con quell’arpia della mia matrigna, che anche
stasera mi ha fatto uscire di senno con i suoi discorsi “da
brava ragazza educata”. Incazzata soprattutto con mio padre,
che si fa mettere i piedi in testa da quella puttana vestita da
modella.
Dio, quanto la odio.
Quanto vorrei uccidere
quella troia e riportare in vita mia madre. Sarebbe la cosa
più bella del mondo. Eravamo così felici quando
c’era mia madre, così allegri, spensierati, pieni
di vita… sembrava che la vita per noi fosse solo un gran
divertimento, un’enorme giostra dalla quale non volevamo
scendere mai. Era così divertente passare i pomeriggi
insieme. Ricordo ancora quel giorno che andammo a Roma: fu uno dei
giorni più belli della mia vita. Un giorno che
rimarrà per sempre nel mio cuore. Cuore che, da quando mia
madre è morta, non fa che provare odio.
“Vieni qui,
porco”. Senza nemmeno darmi il tempo di riflettere, Virginia
decide di passare all’azione: prima mi tocca il pacco,
durissimo perché eccitato dalla strana situazione, poi si
abbassa, mi toglie pantaloni e mutande e lo prende in mano.
“Però. Devo ammettere che, se non fossi lesbica,
ci farei un pensierino su di te”. “Federica, per
favore. È gia abbastanza imbarazzante”.
“Ma come, un uomo forte come te che si imbarazza a stare nudo
davanti a due donne? E che sarà mai?”.
“Eh si, che sarà mai. Come se fosse una cosa
normale”. “Ma da quanto non scopi?”.
Tasto dolente.
Effettivamente non sono
mai stato un granché con le donne, anzi, se devo proprio
dirla tutta, sono una vera frana. “Sinceramente parlando, da
parecchioooooo”. Virginia è passata alle vie di
fatto: in questo momento è difatti impegnata a ciucciarmi il
cazzo. “Oh, si, cazzo, si”. Devo ammettere che
è piuttosto brava: le sue labbra aderiscono perfettamente al
mio pene e la sua lingua, ruotando con maestria, mi sta portando a
vette di piacere mai toccate. Istintivamente, le metto una mano sulla
testa, accompagnandone i movimenti, mentre Federica mi sussurra
all’orecchio frasi dolci: “Ti piace come succhia la
mia ragazza, eh? Maiale. Scommetto che avresti voluto che te lo
succhiassi anch’io. Immagina: due troie a tua disposizione,
pronte a fare qualunque cosa per soddisfarti e per accedere al tuo
succo del piacere”. Le parole di Federica mi mandano fuori di
testa, tanto da farmi venire con un copioso getto di sperma in bocca
alla sua ragazza.
Un terribile temporale infuriava quella notte. Un temporale che sarebbe
rimasto a lungo nella memoria di tutti. Un temporale così
terribile da far rimanere sveglia la gran parte degli abitanti.
Tra questi, vi era anche Erika che dai suoi occhioni azzurri faceva
trapelare solo un sentimento: la paura. Lei non aveva mai amato la
pioggia, anzi, l’aveva sempre odiata con tutte le sue forze,
e ancora di più odiava i temporali. Non poteva davvero
sopportare il terribile, sordo rumore dei tuoni che si abbattevano
sulla città. E dire che Erika, di norma, era una ragazza
molto coraggiosa, che non aveva paura di nulla. Tuttavia, i temporali
proprio non riusciva a sopportarli. Era più forte di lei.
Nello stesso momento, un serial killer stava facendo finalmente ritorno
a casa, soddisfatto e beato come non mai. D’altronde, come
dargli torto? Aveva anche quella sera ucciso un altro sporco e bastardo
individuo che non meritava di vivere, ed inoltre Virginia, la sua
vicina di casa, che di regola è lesbica, gli aveva fatto un
pompino sotto gli occhi di Federica, la sua ragazza. Tutto questo per
calmare quella pazza che, come sempre, aveva dato di matto per
chissà quale motivo assurdo. A volte il killer si chiedeva
com’era possibile che una ragazza dolce e bella (anche se
strana) come Federica perdesse tempo con quella psicotica, mentre la
fuori c’erano altre mille ragazze che sarebbero cadute ai
suoi piedi. Non riusciva davvero a crederci.
Federica, dal canto suo, a differenza della sua ragazza, faticava a
prendere sonno. Era ormai qualche notte che non riusciva a dormire,
probabilmente perché l’ultima volta che aveva
cercato di riposare si era ritrovata appesa penzoloni al balcone, e Dio
solo sa come sia riuscita a non cadere giù. Per cui, in
mancanza di sonno, faceva quello che da parecchio era ormai diventato
il suo scaccia crisi: mangiare schifezze del supermercato.
Virginia, invece, dormiva beata.
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Capitolo 2 *** 2 ***
Un timido e pallido sole illuminava le strade della città.
La terribile pioggia dei giorni precedenti era sparita, dissolta nel
nulla. L’unica cosa che testimoniava il suo passaggio erano
le profonde pozzanghere rimaste sulla strada. Pozzanghere piene di
acqua piovana, acqua causa di tante sofferenze, ma anche di tanta gioia
e felicità. Acqua che lava via le preoccupazioni. Acqua che
nutre le piante. Acqua che ingrossa i fiumi e rompe gli argini. Acqua
da bere. Acqua per irrigare. Pura e semplice acqua.
Erika, dal canto suo, era sollevata della fine del Grande Diluvio.
Erano giorni ormai che era chiusa in camera sua, fredda e tremante come
un ghiacciolo. Nemmeno gli abbracci del suo caro paparino erano
riusciti a calmarla.
Quel soleggiato giorno di metà Novembre si sentiva diversa.
Più carica, forse.
Il sole, seppur pallido, aveva sortito i suoi benefici effetti, ed
Erika era pronta ad affrontare i suoi terribili compagni di classe.
Nessuna persona le era amica in quella scuola. La ritenevano strana,
fin troppo alternativa e fin troppo particolare per loro.
D’altronde, in un posto dove il più intelligente
sa a malapena le tabelline e dove la massima aspirazione è
diventare velina o calciatore, non è così
difficile esser diversi. Erika a volte non riusciva a spiegarsi i
motivi per cui i suoi compagni fossero così. In fondo, non
erano figli di famiglie povere, anzi, erano tutti piuttosto ricchi, e
potevano benissimo permettersi gli studi. Ma, evidentemente, studiare
per loro era semplicemente un optional, abituati com’erano ad
avere tutto. La cosa più divertente era che molti di quei
tipi prendevano voti più alti dei suoi. Evidentemente,
leccare culi era uno sport molto praticato da quelle parti.
“Ehi, guardate. C’è Lisa
Simpson”. A parlare era stato Tonio, il più
stupido e cretino della scuola. Un nanerottolo malefico alto si e no
uno e cinquanta, che aveva come unica qualità quello di
essere bellissimo e di essere, come conseguenza, molto popolare.
“Oh, Guarda. C’è Tonio
Cartonio”. L’apostrofò Erika con
malignità. Tonio, sorpreso, decise di mollare la presa,
mentre la ragazza rise. Anche stavolta l’aveva messo apposto.
Le piccole soddisfazioni della vita.
Tutto questo, mentre Virginia dormiva beata.
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Capitolo 3 *** 3 ***
Robert si era appena alzato stancamente dal letto. Come sempre, non
aveva nessuna voglia di alzarsi, ma non poteva fare diversamente: il
lavoro lo chiamava. Il ragazzo, infatti, aveva una doppia vita: di
giorno faceva l’impiegato, di notte uccideva la gente. Il
perché lo facesse, sinceramente, mi è ignoto.
Probabilmente, come molti seriali, aveva avuto da piccolo delle
esperienze così terribili da averlo traumatizzato. Non
sarebbe il primo ne l’ultimo. Se uno da piccolo subisce
queste cose, o diventa un omicida o fa lo scrittore. Matematico. Lui
aveva scelto la prima via.
Dopo aver fatto una doccia rigenerante, Robert mangiò i suoi
amati Pan di Stelle e bevve il suo amato latte. Aveva un rituale ormai
consolidato: prendeva il primo biscotto, lo mangiava, beveva tutto il
latte, mangiava gli altri biscotti e si versava altro latte.
Un’abitudine che prese da piccolo, e che non aveva mai perso.
In seguito, si mise il suo maglione nero di flanella, il suo jeans nero
di qualche marca strana e le sue scarpe nere di Prada. Queste ultime
erano per lui una vera fissazione: poteva vestirsi pure con un sacco
della mondezza, ma alle sue Prada non poteva rinunciare. Ci era troppo
affezionato.
Dopo essersi vestito di tutto punto, chiuse la porta di casa, scese le
scale e andò in garage, dove trovò la sua amata
Mini Cooper grigia. Poi salì in macchina e andò
al lavoro.
Tutto questo, mentre Virginia dormiva beata.
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Capitolo 4 *** 4 ***
Come ogni mattina, Erika trovò ad attenderla alla porta i
suoi simpaticissimi compagni di classe che, al suo passaggio,
intonavano intelligentissimi cori come “Vattene via, soggetta
vattene via” o
“Erika Presta pezza di merda”. La ragazza non ci
faceva più tanto caso. Ormai si era totalmente assuefatta a
quei cori da stadio che accompagnavano la sua entrata e che, in un
certo senso, la inorgoglivano: infatti i ragazzi prestavano
più attenzione a lei che alle fighe della classe ed era
ormai diventata “popolare” nella sua triste e
noiosa scuola. In ogni caso, dopo aver evitato il solito scherzo della
borsa rumorosa sotto la sedia, prese posto al primo banco, ribattezzato
Banco Solitario per ovvi motivi. Si, perché la povera Erika
era sola al mondo: l’unica persona che realmente si
preoccupava di lei era infatti suo padre, dal momento che la matrigna
la odiava, i parenti non li vedeva mai e i compagni di scuola la
consideravano come l’ultima dei paria. Che quei decelebrati
non la sopportassero non le importava tanto, ma le dispiaceva
moltissimo non avere nessun amico su cui contare, con cui parlare. Le
mancava molto una figura di riferimento con cui discutere, confidarsi,
divertirsi. Era ovvio che il padre non poteva assolvere tutte queste
funzioni. Lei aveva bisogno di un amico vero, sincero, diverso dalle
persone che vedeva ogni giorno a scuola, che le sembravano
così vuote, intente solo a farsi belle e a esser popolari,
senza fregarsene di niente e nessuno.
Come un rituale ormai consolidato, prese dallo zaino una boccetta di
grappa e ne bevve un abbondante sorso, mentre i suoi compagni,
ipocritamente, la guardavano schifata. Erika adorava la grappa: la
prima volta che ne bevve una goccia fu due anni prima, quando sua madre
gliele fece assaggiare. A lei piacque molto.
Fu una delle ultime cose che la madre fece prima di morire.
E Virginia continuava a dormire beata
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Capitolo 5 *** 5 ***
“Sto bene se non torni mai, mai”.
Questa era la frase che Federica si ripeteva nella mente da quando era
uscita di casa. Una ridicola, semplice frase, che tuttavia non riusciva
a smettere di ripetere con la bocca e col cervello.
Era come se questa frase le fosse entrata nelle ossa, nei muscoli e in
ogni fibra del suo corpo.
E non riusciva a liberarsene.
Non ricordava esattamente quando e in che occasione l’aveva
sentita. Forse apparteneva a qualche canzone che distrattamente aveva
ascoltato alla radio, in uno dei rari momenti di lucidità
che Virginia le concedeva.
Gia, Virginia, la sua amata Virginia. Ogni volta che Federica pensava a
lei, era invasa da un senso di oppressione, come se la sua fidanzata
fosse una presenza talmente totalizzante da impedirle di vivere la sua
vita. In realtà, era proprio questo che era Virginia per
Federica: un ostacolo, un impedimento, una sorta di posto di blocco tra
lei e il resto del mondo. Tuttavia, lei faceva sempre finta di nulla,
poiché vedeva nella sua ragazza la reincarnazione
dell’amore vero, quello a cui non si potrebbe rinunciare per
nulla al mondo. Una povera sciocca, si potrebbe dire. Una povera
sciocca che non aveva ancora capito che l’amore vero
è solo una gran cazzata, utile solo a illudere la gente e a
vendere i baci perugina.
Ad ogni modo, Federica, tra un pensiero e un altro, era arrivata ad un
piccolo supermarket, mentre Virginia dormiva beata.
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Capitolo 6 *** 6 ***
virginia
Come ogni mattina, Erika aveva esagerato con la grappa, ritrovandosi
ubriaca sul suo banco.
E, come ogni mattina, stava avendo strane visioni dovute
all’eccesso di alcol nel suo organismo. Questa volta stava
immaginando di correre in un prato, libera, completamente libera.
Libera dalle catene, dalle costrizioni e dalle inutili convenzioni che
la tenevano ancorata al suolo, incapace di volare e di scappare. Aveva
davvero una gran voglia di fuggire da tutto e tutti, lasciandosi tutto
alle spalle. Ma non poteva farlo: sarebbe stato un colpo troppo grosso
per suo padre, che gia aveva dovuto subire la perdita della sua adorata
moglie, morta in circostanze misteriose due anni prima. No, non poteva
fare questo a suo padre. Decisamente non poteva.
E, come ogni mattina, Erika iniziò a piangere, tra
l’indifferenza dei compagni e della prof.
Mentre Virginia dormiva beata.
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Capitolo 7 *** 7 ***
La notizia della morte della signorina Petrachi si era sparsa
velocemente per la scuola. La sera prima, la ragazza era stata trovata
morta sotto un albero di betulle in una zona periferica della
città. Nessuno aveva idea di come un fatto del genere fosse
potuto accadere, polizia compresa, che aveva solo una certezza: la
ragazza era stata uccisa.
L’intera comunità era rimasta davvero scossa da
una notizia del genere: Alessandra Petrachi era infatti
tutt’altro che una ragazza difficile o pericolosa, anzi, era
una ragazza modello, studiosa e molto popolare nella scuola, e i
genitori, pur non essendo ricchissimi, erano stimati
dall’intera cittadinanza. Restava quindi un mistero il
movente di questo delitto.
Nel frattempo Robert stava, come sempre, litigando col suo datore di
lavoro.
Volete un esempio di persone che si sopportano talmente poco da
incazzarsi tra loro appena si rivolgono la parola? Ecco, Robert e il
suo capo Paolo ne erano l’esempio più calzante.
Gli altri impiegati dell’azienda non avevano mai visto quei
due parlare senza litigare, e spesso i litigi si risolvevano con urla e
spintoni vari. Nessuno dei due, tuttavia, aveva interesse a fare del
male all’altro: Robert aveva bisogno di un lavoro
decente, mentre Paolo, pur non sopportandolo, doveva ammettere che
Robert era il suo miglior impiegato, e licenziarlo avrebbe comportato
un danno notevole alla sua azienda.
“Hai sentito Tonio? È morta Alessandra”.
“Si, l’ho saputo purtroppo. Quando Sandro me
l’ha detto ci sono rimasto di merda”.
“Povera Sabrina. La sua amata sorella uccisa così,
senza un motivo”. “Ma perché prendersela
con una come lei? Io non capisco”. “Nemmeno io,
Loris. Nemmeno io”.
Erika, nonostante la sua poca lucidità, riuscì a
cogliere i loro discorsi: “Alessandra è morta?
Come diavolo è successo? Incredibile come esista gente
capace di tutto al giorno d’oggi. Ma, in fondo, non ne
sentirò la mancanza. Quella stronza non faceva altro che
mettermi in ridicolo ogni volta che la incontravo. Lo sapevo che prima
o poi sarebbe finita nei guai”.
Tutto mentre Virginia sognava di morire
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Capitolo 8 *** 8 ***
Quell’imbranata di Federica aveva compiuto un impresa
più unica che rara: quella di perdersi in quel minuscolo
supermercato di periferia. Era incredibile come quella ragazza non
avesse il minimo senso dell’orientamento. Anche
quand’era piccola si perdeva quasi sempre, e spesso i suoi
poveri genitori impiegavano ore per ritrovarla. Era una bambina molto
curiosa, la piccola Federica. Anche troppo, a volte: le capitava spesso
infatti di seguire senza timore gli sconosciuti nella speranza di avere
qualche caramella. Tuttavia, la ragazza raccontava con orgoglio di non
esser mai finita in ospedale, nonostante tutto.
“Dove cazzo sono i prodotti per la casa? Maledizione, che
razza di labirinto che è questo posto. Scommetto che pure
Teseo avrebbe avuto difficoltà ad orientarsi qui dentro, per
giove”. I riferimenti a personaggi greci non eran casuali:
Federica infatti adorava la letteratura greca, e passava interi
pomeriggi a leggere tragedie come
“L’Agamennone” o commedie come
“Le Nuvole”. Ma c’era una scrittrice che
più di tutte l’attirava: Saffo. Federica era
completamente pazza della scrittrice di Lesbo, tanto da erigerla a vera
e propria divinità della scrittura. Nessun altro personaggio
ha avuto un’influenza tale non solo nella formazione
letteraria, ma anche caratteriale, della ragazza. Basti pensare che
è proprio per l’influenza di Saffo che Fede
diventò lesbica.
All’improvviso, una ragazza piombò addosso a
Federica.
“Non può essere vero, sto sognando, ditemi che sto
sognando”. Furono queste le esatte parole di Sabrina alla
notizia della morte di Alessandra, trovata morta in una via periferica
della città. Non poteva credere ad una notizia tanto
sconvolgente: Alessandra, la sua amata sorellina, morta, uccisa da
chissà quale barbaro e bieco individuo. Sabrina non
potè sopportare oltre: prese le chiavi di casa e
scappò, incurante dei genitori che le urlavano
“Torna qui, torna qui”.
No, non poteva tornare li. Sabrina non poteva tornare li. Non dopo
quanto era successo. Era troppo scossa, troppo turbata per poter anche
solo ragionare. La sua testa era ormai solo un disordinato flusso di
coscienza, che si dipanava ad una velocità impressionante. I
suoi pensieri vorticavano imperiosamente, come un mare in tempesta, e
la sua unica salvezza da quel mare di pensieri era la fuga. Una
soluzione molto codarda, ma anche l’unica possibile, in casi
come questo.
Era confusa, Sabrina. Confusa e ben poco felice. Non era mai stata
così disperata e svagata in tutta la sua vita. Era talmente
disperata e svagata che non si era accorta di essere finita in un
supermarket di periferia, e quando se ne rese conto… fu
travolta da una ragazza più distratta di lei.
Mentre Virginia sognava di essere analizzata.
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Capitolo 9 *** SOTTO PRESCRIZIONE DEL DOTTOR HUXLEY ***
“Dottore, regalami euforia. Se nuoto nel fango, è
solo colpa mia”. Non so bene il motivo, ma furono le prime
parole che uscirono dalla mia bocca all’inizio della seduta.
Mi vennero spontanee, naturali, come se dovessi dirle per forza. Come
se non dirle mi sarebbe costato qualche punizione divina.
Il dottor Huxley era seduto di fronte a me, serio e preciso, affondato
nella sua poltrona di camoscio, che era tanto brutta quanto
estremamente comoda. Sembrava davvero adatta ad uno strizzacervelli del
suo alto lignaggio. Perché il signor Huxley non era certo
l’ultimo dei pirla. Lui era una delle massime
autorità al mondo nell’ambito della psicologia.
Forse, solo l’esimio signor Sigmund era sopra di lui in
un’ipotetica scala di strizzacervelli. Il che non era certo
una cosa lusinghiera.
Gli psicologi erano, e lo sono ancora, la razza più infame e
bastarda sulla faccia della terra. Sempre bravi a giudicarti e a
spillarti soldi con le loro cazzate esistenziali. Sicuramente
inizierà a blaterare stronzate del tipo che io sono pazza,
che devo essere curata in qualche clinica… minchiate. Solo
minchiate. La verità è che il caro signor Huxley
è solo un dannato servo del sistema e dello stato. Uno dei
tanti, si direbbe, ma lui era il più triste e meschino. Gia
il suo aspetto lo faceva intuire: il dottore aveva infatti degli enormi
baffoni da Mr Birra Moretti (o da Roberto “Baffo”
Da Crema, se preferite). Questo per me era un cattivo segno. Se
c’era infatti qualcosa che quella puttana di mia madre mi
aveva insegnato, erano le equazioni “baffi uguale
comunista” e “comunista uguale pericolo“.
Diceva sempre di non fidarsi dei comunisti, perché predicano
bene e razzolano male e perché sono guidati dal demonio.
Sarà perché il mio caro paparino era
anch’esso comunista? Bah.
Ad ogni modo, comunista o masochista, Huxley stava li, con tutta la sua
alterigia e tracotanza. Non si muoveva, era impassibile, completamente
impassibile, come una statua di cera di Madame Tousseau. Totalmente,
completamente immobile. Se non avesse avuto gli occhi aperti, avrei
anche potuto pensare che fosse morto.
“Dottore, regalami euforia. Se nuoto nel fango, è
solo colpa mia”. Di nuovo quella frase. Avrei voluto dire
tutt’altro, ma dalla bocca mi era uscita solo questa insulsa,
inutile frase, che avevo sentito chissà dove in
chissà che CD di chissà quale gruppo strano.
Eppure, mai frase sembrò più azzeccata allo stato
in cui trovavo. Era inutile, malgrado odiassi ammetterlo, avevo dei
seri problemi mentali. Solo, mi appariva insopportabile chiedere aiuto
proprio a quel bastardo comunista. Anzi, non volevo chiedere aiuto a
nessuno. Volevo uscire da sola dalle mie pazzie, dai miei timori e
dalle mie paure. E non volevo l’aiuto di nessuno. Ne da
Robert, ne dalla mia amata Federica, ne tanto meno da sto dottore
scemo. Volevo prendere da sola le mie ali e volare via da qui. Lontana
da questo mondo di merda, dove tutti mi giudicano pazza o anormale,
dove tutti mi credono stupida o che, dove mia madre mi odia e mio padre
non esiste, dove un Huxley qualunque si arroga il diritto di
analizzarmi. Ma che ti devi analizzare? Sarò anche pazza, ma
ti dico una cosa: io almeno ho un sogno, quello di voler andar via da
qui. E tu? Tu ce l’hai un sogno? Ce l’hai, razza di
scarto umano?
La concitazione del momento mi face uscire una calda lacrima dai miei
occhi. Vorrei dire tante cose a quell’individuo, ma
l’unica cosa che riesco a dire è:
“Dottore, regalami euforia. Se nuoto nel fango, è
solo colpa mia”.
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Capitolo 10 *** 9 ***
Lavorare per quel
bastardo del mio capo non è affatto facile: quello non fa
altro che darci ordini, comandare a bacchetta e fracassare i coglioni a
tutti. Ci da ordini strani, direttive assurde che capisce solo lui, e
pretende che noi eseguiamo con la massima prontezza, destrezza e
velocità, altrimenti sono cazzi nostri. Magari finivi in
qualche pressa, o in qualche macchinario pericoloso, parassita umano.
Ricordati che è solo grazie a tuo padre che sei qui, non
certo per le tue scarse doti di imprenditore. Maledetta merda umana,
non sai quanto vorrei picchiarti o ucciderti. Purtroppo, al di
là delle offese verbali non posso andare, ed è
gia tanto che posso farle, visto la tua posizione… e il mio
perenne bisogno di soldi. Meno male che madre natura mi ha dato in dono
una gran voglia di fare, se no sarei stato licenziato gia da tempo
immemore.
La cosa più
triste di tutta questa storia è che per colpa sua gli altri
lavoratori mi odiano. Dicono che se ogni giorno licenzia un sacco di
persone per i motivi più stupidi è
perché ogni volta lo faccio incazzare. Ma è colpa
mia se questo qui è un coglione? È colpa mia se
vuole avere ragione anche quando ha palesemente torto? È
colpa mia se la gente perde il lavoro? Evidentemente si, a detta degli
altri. Maledetto capo di merda. Pagherai anche questa.
Quei cazzoni maledetti.
Ahhhhhh. Li ucciderò tutti, uno per uno. Dannati bastardi.
Stavo tranquillamente
dormicchiando sul mio banco, come sempre faccio dopo aver bevuto la mia
grappa, quando all’improvviso… ho iniziato a
sentire un odore strano, decisamente sgradevole. Ho cercato di capire
da dove provenisse, e sapete da dove veniva? Dai miei capelli. Qualche
bastardo mi aveva riempito i capelli di merda di cane. Ovviamente tutte
le galline e i galletti della mia classe si sono messi a ridere come
scemi, mentre la prof mi ha detto di andare in bagno. Sicuramente ora
quei bastardi staranno subendo una bella ramanzina. Ma non basta. Non
mi basta di certo. La devono pagare, uno dopo l’altro. La
pagheranno tutti quanti.
“Ahah, hai
visto come era riempita di merda quella sfigata?”.
“Ho visto, Mary. Troppo forte la faccia che ha fatto.
Sembrava davvero sul punto di piangere. Ahahahah”.
“Che soggetta. Così impara a voler
mettere i bastoni tra le ruote a Tonio”. “Mamma
mia, non nominarmelo sennò sborro nelle mutande. Quanto
cazzo è figo, porca miseria. Me lo farei volentieri,
cazzarola. Secondo me è anche bravissimo a letto”.
“Non per niente è stato nominato rappresentante
d’istituto. Uno così bello non poteva non essere
eletto. Era impossibile”. “Non mi sorprende che
quello scemo sia stato eletto rappresentante. D’altronde, con
la schiera di fans che ha…”. “Chi
cazzo… Erika Presta? E tu che fai qui?”.
“Che domande fate? Lisa Simpson sta cercando di lavarsi dalla
merda che qualche vostro amico mi ha gentilmente regalato. Ma
tranquille, faccio subito. Il tempo di sciacquarmi i
capelli”. “Sarà meglio che ti sbrighi,
prima che ti facciamo male, sfigata del cazzo. Non ti vogliamo in
questa scuola”. “Oh, che paura che mi fate. Fatevi
sotto, ho messo apposto gente più grossa di voi”.
Non è vero, ma dirlo fa scena. “Peccato che sei in
inferiorità numerica. Non riusciresti mai a fare niente
contro di noi, cretina. Ma tranquilla, ce ne andiamo. Non vogliamo
infierire. Sarebbe come sparare sulla croce rossa”.
“Ahahahahah”.
Non so se avete presente Battery dei Metallica. Se non
l’avete presente, ve la spiego io. In pratica, quella canzone
parte lenta, per poi esplodere all’improvviso in un
velocissimo viaggio rabbioso. È così
che mi sento. Come Battery, sono pronta ad esplodere. E non credo
sarà un bello spettacolo.
Quel giorno divenne tristemente famoso come “il
giorno della violenza”. In tutta la scuola quel giorno si
sentirono altissime urla, talmente alte che si racconta che le
sentirono pure le classi che stavano facendo ginnastica in palestra, o
le classi impegnate nei laboratori.
Quelle grida provenivano dai bagni numero 41, in cui furono trovate due
ragazze esanimi a terra. Entrambe erano ricoperte di sangue, ed
entrambe avevano gambe e braccia fratturate in più punti.
Erano così rintronate, che quando chiesero loro chi era
stato a ridurle così, risposero: “Cliff
Burton”.
Tutto questo, mentre Virginia continuava a fare strani sogni.
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Capitolo 11 *** 10 ***
È incredibile come si possano fare strani incontri in un
anonimo supermercato di periferia. Uno sta cercando di trovare qualcosa
da mettere sotto i denti, oppure cerca di comprare qualcosa per la
moglie rompicoglioni che ormai non si ama più, o per il
pargolo, usato a sua insaputa come collante di una relazione ormai
andata a puttane, oppure, più semplicemente, per se stessi,
che all’improvviso incontri persone che mai avresti pensato
di incontrare fino a due secondi prima, persone a cui magari non
pensavi più da una vita oppure credevi morte in
chissà quale circostanza bislacca. E tu magari non lo sai,
ma quell’incontro può cambiarti la vita, facendola
uscire dalla monotonia e dalla mediocrità, oppure farla
precipitare nell’abisso. Tutto questo solo per aver
incontrato quella persona. Tutto questo solo per essere andato a quello
sciatto supermercato di periferia. La vita è strana, a volte.
Federica in quel momento però non pensava certo a cosa
avrebbe portato quell’incontro, anzi per meglio dire scontro,
con quella ragazza. L’unica cosa a cui pensava in quel
momento è di esser finita in paradiso e di essersi scontrata
con un angelo. Perché se quella ragazza non era un angelo,
poco ci mancava: bionda, bellissimi occhi azzurri e un viso da fare
invidia ad una top model (oltre ad un corpo ben fatto),
attirò immediatamente l’attenzione di Federica.
“Scusami, ti sei fatta male?”. disse la ragazza.
“Oh no, non preoccuparti”. disse Federica ancora
intontita. “Davvero, scusami, non capisco come sia potuto
succedere. Andavo di fretta e non guardavo dove andavo”.
“E dove stavi andando?”. “Bella domanda.
A dire il vero, non lo so. Credo proprio di non sapere dove
andare”. Una lacrima dispettosa uscì dagli occhi
della ragazza, attraversandole tutto il viso. Fede prontamente
l’asciugò. Non sapeva bene come, ma doveva
aiutarla. Anche se per lei era in pratica una sconosciuta.
“Cos’è successo?”. Chiese.
“…ecco, il fatto
è…” ma non finì la frase,
gettandosi tra le braccia di Federica, il quale, pur non conoscendola,
la strinse forte.
E Federica sentì un grande calore nel cuore e nel basso
ventre.
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Capitolo 12 *** 11 ***
La lenta catena di montaggio della Elor Giocattoli stava lavorando a
pieno regime da parecchie ore ormai. Alcuni operai, i più
mattinieri, stavano per finire il loro turno, e gia pregustavano le
prelibatezze che le loro solerti mogli avrebbero loro preparato.
Salerni, per esempio, non vedeva l’ora di rifarsi il palato
con il consommé di patate che sua moglie Roberta aveva
promesso di preparagli. Vincenzo Salerni era probabilmente, e non dico
chiacchiere, uno degli uomini più fortunati della
città. Malgrado fosse un modesto impiegatuccio di
un’anonima fabbrica di periferia, aveva tutto quello che un
uomo può desiderare: la moglie, caso più unico
che raro, a distanza di anni lo amava ancora moltissimo, come lui amava
lei, aveva due figli meravigliosi, a cui donava tanto amore e
comprensione, e amici che gli volevano bene e avrebbero continuato a
farlo fino alla morte. Insomma, il classico esempio di uomo modesto ma
che con le poche cose che possiede ha costruito la sua
felicità. E non parlo di serenità, parlo proprio
di felicità, onorevole condizione che tutti agognano, ma
pochissimi ottengono, e magari nemmeno per loro meriti. La
felicità è un’entità
sconosciuta, misteriosa, sognata, che in pochi hanno veramente potuto
toccare, e nemmeno a lungo. Perché la felicità,
purtroppo, non è per sempre. Anzi, è una
condizione piuttosto breve ed effimera, spesso, a parte rari casi. E,
anche se ancora non lo sapeva, Salerni e la sua famiglia non
rientravano in quei rari casi. Un cecchino pazzo e ben poco
accondiscendente stava infatti per mettersi sulla sua strada, e il
povero impiegato non ne sarebbe uscito certo indenne.
Se devo esser sincero fino in fondo, faccio fatica a capire il motivo
per cui Robert sia così stronzo da uccidere la gente,
così come del resto faccio fatica a capire il motivo per cui
Paolo sia il capo di un’azienda (seppur piccola) nonostante i
suoi ben pochi meriti. Paolo Elor in effetti non era certo un esempio
di rettitudine: unico figlio di Augusto Elor, uomo tutto d’un
pezzo, dalla grande inventiva e lungimiranza, che a differenza di certi
individui alti a stento uno e cinquanta si era realmente fatto da solo,
Paolo non aveva fatto altro che sfruttare il successo del padre.
Tuttavia, presto la sua inadeguatezza ed incapacità venne a
galla: la Elor Giocattoli infatti sotto la sua gestione
iniziò ad avere grossi problemi di bilancio, provocate in
massima parte dalle sue spese folli (Porsche, brillanti per donne che
di brillante avevano solo la zoccolaggine, alcool, droghe sintetiche e
ammennicoli vari). Tra l’altro, a differenza di suo padre,
gli impiegati dell’azienda lo odiavano a morte, e avrebbero
voluto vederlo su un rogo a chiedere pietà.
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Capitolo 13 *** 12 ***
Erika quel giorno era tornata a casa prima. A quanto pare, due ragazze
nella sua scuola erano state aggredite da uno squilibrato nei bagni, in
preda a chissà quale follia omicida. Le ragazze,
interrogate, avevano risposto che a picchiarle era stato un tale
“Cliff Burton”. Erika fu molto sorpresa da questa
strana coincidenza. Cliff Burton era stato infatti il primo bassista
dei Metallica, il suo gruppo preferito dopo i Verdena e gli Articolo
31, e per lui aveva una vera e propria venerazione. La sua stanza era
infatti piena di poster del suo idolo, e aveva inoltre tutti gli
spartiti delle sue due canzoni preferite dei ‘Tallica,
ovviamente composte da Cliff: Orion e (Anesthesia) Pulling Theeth. La
ragazza adorava quelle due canzoni, e adorava la buonanima di Cliff,
che, a parere di Erika (e non solo suo) ha lasciato nel metal un vuoto
difficilmente colmabile. Per capire l’importanza che ebbe
quel bassista su di lei, basti pensare che fu proprio per imitarlo e
seguire le sue orme che Erika comprò Melissa, il suo amato
basso, nonché sua unica amica. Probabilmente era proprio
grazie a Melissa che Erika era ancora viva. Quel basso era
ciò che Erika aveva di più caro, dopo suo padre.
“Allora, Melissa, che ne dici di una bella strimpellata? E da
un po’ che non ne facciamo una come si deve, o ricordo male?
Dai, lo so che sei incazzata, non far finta. Ti conosco come le mie
tasche vuote ormai, e so che ti sei offesa perché ti ho
trascurata. Hai ragione. Rimedio subito”.
Erika, dopo aver delicatamente sollevato Melissa, chiuse gli occhi e
iniziò a suonare. Era più forte di lei, non
riusciva a suonare con gli occhi aperti. Preferiva di gran lunga
chiuderli per concentrarsi sul suono dello strumento. Grazie a
quest’abitudine entrava in empatia con Melissa, riuscendo a
tirar fuori il meglio dal suo amato basso. Non a caso, i vicini tutte
le volte che Erika suonava non solo non si incazzavano, ma anzi
interrompevano quello che stavano facendo per sentirla meglio, e tutti
nel palazzo erano concordi nell’affermare che la ragazza era
molto brava.
Tuttavia, c’era una persona che non gradiva molto
l’attività di Erika: Michela Romandini, conosciuta
anche come Zia Desdy, ovvero l’odiata matrigna. Il soprannome
di Zia Desdy fu inventato proprio da Erika: zia, perché lei
aveva un pessimo rapporto con le sue zie (che infatti non vedeva quasi
mai), Desdy, da Desdemona, la cattiva di un romanzo di Isabella
Santacroce che le era piaciuto molto. Zia Desdy, dicevamo, era
l’unica a non vedere di buon occhio la passione di Erika per
i Metallica. Diceva che il metal era una musica satanista, che
predicava il demonio, che era rumore e non musica… insomma,
le cazzate che si dicono in giro. Sicuramente questo era uno dei motivi
per i quali Erika odiava la sua matrigna, ma non era certo
l’unico: le due avevano infatti caratteri totalmente
antitetici ed erano totalmente incapaci di aprirsi l’una con
l’altra. La Zia Desdy aveva provato per un breve periodo ad
andare d’accordo con Erika, ma non c’era nulla da
fare, e ben presto il loro divenne un rapporto di reciproca antipatia,
che sfociò infine in odio puro. Entrambe volevano solo la
morte dell’altra, magari in modo atroce, ed entrambe
cercavano di accattivarsi le simpatie di Luciano, padre di Erika
nonché marito di Desdy, che si trovò con la casa
divisa da un invisibile muro di Berlino.
La rabbia repressa di Erika era in perenne stato di guardia:
d’altronde, circondata com’era da persone che
avrebbero voluto cancellarla dal loro percorso di vita, era
comprensibile esser sempre così nervosi ed irritabili.
Nessuno poteva, o voleva, capire quello che la ragazza stava passando,
e lei si sentiva sempre più sola e oppressa. Tutti la
giudicavano, la criticavano, la deridevano, e per una ragazza di appena
17 anni questo può essere davvero un colpo tremendo.
L’unica cosa che la faceva andare avanti era il padre.
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Capitolo 14 *** 13 ***
Robert era al lavoro da più di quattro ore ormai. Quattro
interminabili ore in cui il nostro serial killer non aveva fatto altro
che controllare delle buste da imballaggio. Lavoro non certo faticoso,
ma noioso e snervante. Talmente snervante che gia mezz’ora
dopo Rob ne aveva le palle piene.Non vedeva l’ora di tornare
a casa e mangiarsi i suoi amati Pan di Stelle. Non poteva farci nulla,
andava pazzo per quei biscotti. Non mangiava altro che quelli, a
colazione, pranzo e cena. Persino al lavoro si portava appresso i suoi
biscotti prediletti. I Pan di Stelle eran sempre stati la sua passione.
Già quand’era piccolo ne mangiava tonnellate, e
diceva sempre ai genitori che da grande avrebbe lavorato in una
fabbrica di Pan di Stelle, avrebbe fatto carriera e si sarebbe comprato
l’azienda che li produceva. Beata innocenza. Certo che, se
uno ci ripensa, se ne dicono di stronzate da bambini. Stronzate in cui
noi crediamo. Stronzate che abbiamo l’illusione che si
avverino. Stronzate che chiamiamo sogni, e a cui spesso ci aggrappiamo
nei momenti di droga mentale. Solo che spesso questi sogni non si
avverano, anzi diventan pure chimere, e in alcuni casi, invece di
aiutarci, ci spingono sempre più verso l’abisso
del collasso psichico. E Robert questo lo sapeva bene.
Federica in quel momento non se la passava affatto male. Era infatti
abbracciata ad una perfetta sconosciuta, che tuttavia in quel momento
aveva un disperato bisogno di conforto e comprensione, anche se non
capiva il perché. Sabrina, dal canto suo, sentì
una stranissima sensazione invaderle il corpo.
Onde marine le attraversavano il corpo e la mente, che la facevano
sentire beata, in pace con se stessa e col mondo. Nonostante la morte
della sorella, Sabrina non si sentiva più triste, ma potente
ed invincibile. Si sentiva pronta a scalare l’Everest a mani
nude, a dominare il mondo e a spazzar via chiunque osasse intralciarla.
Nulla avrebbe potuto fermarla in quel momento. Nemmeno la fine del
mondo.
E Virginia? Be, continuava a fare quello che le riusciva meglio.
Dormire beata, per trovare, almeno nei sogni, quella pace che non aveva.
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Capitolo 15 *** 14 ***
Nonostante le grida di quella odiosa gallina di Zia Desdy, Erika
continuava a suonare la sua amatissima Melissa. La ragazza ricordava
perfettamente il giorno la vide per la prima volta. Era li, maestosa,
in quel negozio di musica che si trovava in Via Settembrini 7, in fondo
alla strada. Sembrava che fosse la regina degli strumenti musicali del
negozio, con quel suo colore viola così intenso e
così ipnotico, quasi ammaliante. Erika appena aveva visto
quel basso era rimasta incantata ed onorata di poter assistere ad un
simile spettacolo. Sembrava che la dea della musica fosse li, davanti a
lei, incarnata in quello strumento. Strumento che, non a caso, era
molto ambito, ma anche molto costoso. Quando Erika sentì il
prezzo, quasi le venne un tuffo al cuore: non avrebbe mai potuto
permettersi quel meraviglioso basso.
Il giorno del suo compleanno era un vero rito per Erika e la sua
famiglia. Ogni volta lei con i suo genitori andavano in un locale
sempre diverso e, dopo averlo annunciato a tutti gli avventori del
locale (camerieri compresi) aprivano il regalo, che era sempre qualcosa
di unico. Quella volta i suoi avevano portato un enorme pacco viola,
così grande che dovettero usare una sedia per reggerlo.
Erika era così curiosa che passo tutto il tempo del pranzo a
fissare il pacco.
“Attenzione gente” esordì
improvvisamente il signor Luciano “oggi è un
giorno importante. Mia figlia compie 14 anni, e voglio rendervi
partecipi, anche se non vi conosco, di questo momento”.
Erika, come consuetudine, arrossì come un peperone troppo
cotto. “Avanti, figlia mia. Aprilo”.
Emozionatissima, Erika aprì l’enorme pacco viola.
Al suo interno, vi era una cosa che lei aveva sempre desiderato, e che
sognava di possedere da quando l’aveva visto troneggiare in
quel negozio: un magnifico basso. La sua Melissa.
Melissa aveva uno strano effetto sulla mente di Erika: anche le volte
che era più incazzata, grazie a quello strumento la ragazza
riusciva sempre a calmarsi. Entrava in uno strano stato di benessere,
quasi catatonico, da cui non avrebbe voluto uscire mai. E in quello
stato spesso si immaginava le più feroci torture da
infliggere a quella puttana della sua matrigna. Immaginava per esempio
di legarla mani e piedi vicino a una radio che trasmettesse musica
metal a tutto volume, oppure musica che lei non sopportava affatto
(anche perché spesso non la capiva, preferendo ascoltare
canzonette come quelle di Lady Gaga, Avril Lavigne, Marco Carta, Tokio
Hotel e “musica” simile). Oppure immaginava che
Melissa prendesse vita e la uccidesse con le sue corde, strangolandola.
Probabilmente non c’era nessuna donna al mondo che lei
odiasse di più, sia perché era assolutamente
insopportabile e sia perché pretendeva di prendere il posto
di sua madre, cosa che nessuno poteva fare, nemmeno la persona
più buona e cara dell’universo. Nemmeno Dio.
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Capitolo 16 *** 15 ***
Niente. Assolutamente niente. Era questo che c’era nella
testa di Sabrina in questo momento. La sua testa era vuota,
assolutamente sgombra da pensieri. Assolutamente sgombra da angosce,
timori, paure e ricordi. Solo vuoto. Il vuoto più assoluto.
E a lei andava benissimo così. Dopo quello che le era
successo, non aveva nessuna voglia di pensare e di avere la testa
occupata. L’unica cosa che voleva fare era fumarsi la sua
Winston blu, in attesa dei prossimi eventi. In attesa della fine
dell’incubo. Perché, nonostante sapesse benissimo
di non stare sognando, una parte di lei continuava a credere che questa
non fosse realtà, che stesse vivendo solo
un’illusione, un’inutile, stupida illusione. Ma
purtroppo, non era affatto un’illusione quella che stava
vivendo. Era decisamente troppo brutta per esserlo. E quando succede
qualcosa di veramente brutto, non è mai un sogno.
È sempre la pura, stupida e mortificante realtà.
Sabrina si rese davvero conto di non stare sognando solo quando
finì la sua Winston. Lei infatti odiava fumare, e
rimproverava sempre le sue amiche quando lo facevano. E difficilmente
una come lei avrebbe potuto sognare di fumare. Quella sigaretta era
stato un dono di sua sorella, che le aveva detto di usarla solamente in
situazioni di emergenza. E, purtroppo, quella situazione di emergenza
si era verificata. Tuttavia, quella Winston le era piaciuta.
L’aveva definitivamente rilassata, calmata, ed aveva
definitivamente svuotato la sua mente dai pensieri negativi. Quello che
voleva fare in quel momento, era stendersi su quella scalinata e
godersi i suoi 40 secondi di niente.
Al resto, avrebbe pensato dopo.
40 secondi. Tanto era durato l’abbraccio tra Federica e
Sabrina. I 40 secondi più strani della vita della ragazza,
perlomeno quella recente. Poi, come era venuta, Sabrina si
dileguò, lasciando Federica con un palmo di naso.
Probabilmente aveva voglia di pensare da sola, senza nessuno che le
rompesse le scatole.
Quei 40, fugaci secondi furono però per Federica come un
fulmine a ciel sereno. Perché aveva sentito qualcosa che non
avvertiva da così tanto tempo, che aveva ormai dimenticato
cosa fosse. Qualcosa di talmente grande da farle dimenticare di fare la
spesa per la Virginia, la donna che amava. O meglio, che era convinta
di amare.
Tutto questo, mentre Virginia sognava tir sulla neve.
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Capitolo 17 *** 16 ***
Fischiava, fischiava Salerni. Ma ne aveva ben donde: il suo turno in
fabbrica era finalmente finito, e poteva tornarsene a casa dalla sua
amatissima moglie e dai suoi bellissimi ed altrettanto amati figli. Non
poteva davvero chiedere di meglio alla vita. Fin da piccolo lui non
aveva mai avuto grosse ambizioni. L’unica pretesa che aveva
era quella di trovarsi una brava moglie e avere dei figli, del resto
non gli sarebbe importato. E Salerni, con impegno e dedizione era
riuscito a realizzare la sua unica ambizione, il suo unico desiderio.
Non voleva davvero avere nulla di più, ne lo pretendeva,
anche perché fin da ragazzo si era reso conto di non poter
aspirare a chissà quale vita ambiziosa, e, a differenza di
Vasco, lui voleva una vita tranquilla e senza grandi scosse. Solo
realizzare questo desiderio l’avrebbe reso felice. E infatti,
chi era più felice di lui?
Rumoreggiava, rumoreggiava Robert. Rumoreggiava perché era
in attesa della sua tanto agognata preda. Preda che non vedeva
l’ora di uccidere, per soddisfare la sua immensa sete di
sangue. Sangue di cui lui si nutriva, di cui si cibava, di cui aveva un
gran bisogno.
Lui viveva per il sangue, viveva per uccidere la gente. Era
l’unica cosa che lo teneva in vita, che lo faceva stare bene,
che lo teneva a galla. Perché lui era un fallito, un
reietto, uno che non aveva sogni da realizzare e non aveva scopi nella
vita. Non viveva, si limitava ad esistere per inerzia, facendosi
trascinare dagli eventi e dal mondo. Lui non aveva la forza, o forse la
voglia, di perder tempo a cercare di contare qualcosa, a cercare di
essere una persona migliore. Probabilmente non l’aveva mai
avuta in vita sua. E solo uccidere lo teneva in vita, lo faceva sentire
importante. Lui era Robert Paulo, il serial killer più
temuto della città, il terrore della Ciociaria, ed era
orgoglioso di esserlo, perché così aveva
l’illusione di contare qualcosa.
“Erika, la vuoi smettere con questo cazzo di baccano? Non
riesco a sentire la radio, porca troia”.
“A parte che questo non è baccano, ma musica.
Tutto il contrario di quello che senti tu”.
“Perché tu vorresti dire che sta roba è
musica? Ma non farmi ridere. Si vede che non conosci la vera musica,
ovvero quella che ascolto io”. “Cioè
Carta Igienica e Lady Merda? Wow che gusti!”.
“Brutta stronza, ma come ti permetti? Mo ti faccio vedere io.
Posa quella chitarra!”. “Basso, non chitarra. Hai
mai sentito parlare di basso? Eppure non dovrebbe risultarti nuovo come
termine, considerando la tua statura e la tua scarsa morale”.
“Brutta bastarda. Ringrazia che ora stanno trasmettendo la
mia canzone preferita, se no ti avrei già punita come
meriti”. “Wow che paura!”.
Dopo questa calma e tranquilla conversazione, Zia Desdy uscì
sbattendo la porta come non aveva mai fatto in vita sua. Era
più forte di lei, con Erika non riusciva davvero a
trattenersi. Non sapeva più come prendere quella ragazza,
con cui litigava un giorno si e l’altro… pure. Le
due non riuscivano proprio a capirsi, a comprendersi, e correvano su
due binari paralleli. All’inizio lei aveva cercato di
instaurare un dialogo, di farsi accettare da quella ragazza dal
carattere così difficile. Purtroppo ogni suo sforzo
risultò inutile, ed Erika le sembrava una persona
così lontana, distante da lei, e di questo non si dava pace.
Un sorso, due sorsi,
ancora uno e poi smetto, ma se smetto poi mi ritorna in mente, quella
faccia di bronzo di riace, vestita versace, voglio che taci, occhi di
vuoto, occhi cattivi, occhi che esprimono la sua indole perversa, occhi
freddi e pericolosi, come pericolosa è la sua forma,
pericolose le sue mani, pericolose le sue parole, taglienti come lame,
velenose, ingannatrici. Vuoi togliermi tutto, ladra. Vuoi soffocare la
mia volontà, i miei pensieri, le mie parole, vuoi che io mi
faccia da parte, vuoi che ceda, vuoi che faccia harakiri come i
samurai. Ma io non sono come mio padre. Mio padre è buono,
troppo buono, troppo debole nei tuoi confronti, ma io non mi
farò crocifiggere da te. Non riuscirai a farmi desistere,
non ci riuscirai. Io resisterò, io riuscirò a
cacciarti dalla mia casa, dalla mia vita e da quella di mio padre. Ce
la farò. Questo non mi riporterà indietro mia
madre, ma almeno avrò estirpato una gramigna dal mio prato.
Devo calmarmi ora
però, se no faccio qualche cazzata.
Grappa, aiutami tu.
Aiutami a calmarmi, almeno per ora. Non devo commettere sciocchezze.
Non è il
momento, non è ora. Aiutami, aiutami, aiutami. Calmami
calmami calmami.
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Capitolo 18 *** 17 ***
Chissà per quale motivo, ma a Federica a quel momento venne
in mente quel lontano giorno in cui la neve in città si era
fatta talmente fitta da impedire alle auto e a qualsiasi mezzo di
trasporto di passare. Era incredibile una simile nevicata in un posto
che alle nevicate non era certo abituato, e Federica, approfittando di
questo, decise di approfittarne per fare una passeggiata in mezzo a
quel meraviglioso manto bianco. La ragazza era eccitatissima
all’idea di poter ammirare tanta neve, dal momento che non
l’aveva mai vista dal vivo. E la camminata si
rivelò per lei un vero toccasana, consentendole di
dimenticare tutti i suoi problemi e le sue preoccupazioni.
Preoccupazioni fissate su quel segno rosso a forma di mano aperta che
le era stato lasciato pochi minuti prima da colei che l’aveva
generata. Tutto era nato a causa di una rivelazione fatta da Federica a
questa persona, a cui lei voleva un bene dell’anima e a cui
faceva male mentire. Probabilmente tale rivelazione si era rivelata
troppo forte, troppo potente per questa persona, al punto da indurla a
lasciare a Federica un segno nella faccia, ma soprattutto
nell’anima. Perché esser trattati a quel modo da
chi ti ha messi al mondo è probabilmente una delle cose
peggiori che possano capitare, talmente brutta che nessuno la
augurerebbe a nessuno, nemmeno al peggior nemico. D’altronde,
ci sarà un perché se Saffo è stata
così malvista in tutto questo tempo…
Con la mente libera da tali veleni, la ragazza si godette pienamente
quell’improvvisa e inconsueta spruzzata di candido manto
bianco, giocandoci, lanciandoselo addosso e costruendo improbabili
pupazzi di neve, magari con il corpo più piccolo della
testa, o con un sorriso stentato, o magari senza cappello…
ma a lei non importava, perché stava incredibilmente bene in
quel momento, senza timore, pressioni, paure, preoccupazioni. Si
sentiva incredibilmente viva, attiva, giocosa, senza freni ne
inibizioni.
E probabilmente era così che doveva sentirsi una strana
ragazza che si trovava di fronte a lei, che, chissà
perché, attirò immediatamente
l’attenzione di Federica.
Il suo nome, in quel momento ancora sconosciuto, sarebbe diventato ben
presto fin troppo familiare. Perché era il nome del suo
più grande amore, nonché della sua più
grande condanna.
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Capitolo 19 *** 17 Tir nel cortile ***
Neve.
È tutto quello che vedo ora davanti a me, insieme a strani
camion lunghi chilometri che sono insediati da chissà quanto
nel mio cortile.
Camion lunghi chilometri.
Ho provato a contarli, e sfortunatamente sono 17, come il numero
sfigato, quello che porta sfortuna, che porta cattivi auspici e fa star
male la gente. Se devo esser sincera, io alla superstizione non ho mai
dato molto peso, ma questa per me fa eccezione. Probabilmente
perché è collegato ad un avvenimento molto
spiacevole, che non mi va ne di ricordare, ne di raccontare,
perché se mi ritorna in mente GIURO CHE LO PICCHIO PER POI
SCORTICARLO VIVO PER POI CUOCERLO SUI CARBONI E FARLO FINIRE IN QUALCHE
FOSSA COMUNE, DATO CHE QUELLO è SOLO UN PEZZO DI MERDA CHE
SI MERITA DI MORIRE SCHIACCIATO SOTTO UN MEZZO PESANTE, MAGARI SOTTO
QUEI TIR DI MERDA CHE STANNO QUI A INVADERE QUESTO CAZZO DI CORTILE
DELLA MINCHIA CHE NON SO DI CHI SIA NE DA DOVE VENGA (calma, devo star
calma).
Forse è per questo che ci sono questi tir. Evidentemente
servono a schiacciare tutte le persone storte che ho trovato sul mio
camino. Evidentemente sono per me.
MA SI, è OVVIO CHE SONO PER ME! Come ho fatto a non pensarci
prima? Per chi devono essere, allora? Ci sono solo io in questo cortile
diroccato. Ora devo solo prenderne uno e spazzare via tutto, a mo di
schiacciasassi.
Devo distruggere tutto ciò che c’è di
storto nella mia vita.
Tutto.
Non devo lasciare niente.
Niente.
Virginia la dea della distruzione sta venendo a prendervi, pezzi di
merda.
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