La casa di Candledoore Square di Elos (/viewuser.php?uid=75887)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** prologo ***
Capitolo 2: *** sonaglio ***
Capitolo 3: *** carillon ***
Capitolo 4: *** armadio ***
Capitolo 5: *** benda ***
Capitolo 6: *** nastro ***
Capitolo 7: *** talismani ***
Capitolo 8: *** fiocco ***
Capitolo 1 *** prologo ***
Il cimitero di St.George, in Victoria Lane, di giorno non era dissimile da un arioso,
fresco e lucente giardino pubblico, di quelli che d'estate si riempivano di graziose
famigliole al gran completo, con il cane al seguito, le borse piene di teli e panini e
adorabili bambinetti urlanti che facevano su e giù per le stradine, tra le tombe, giocando
a palla e a salta la corda tra le ossa dei nonni defunti.
Era bello.
C'erano panchine sotto ad ogni albero. La fontana mormorava verde e molle di muschio, e
c'era un tetto di salici e faggi spesso come una coltre di nuvole scure. Al tramonto le
strade si riempivano di oro rosso. Nei pomeriggi di pioggia avevano una luce da acqua
chiarissima.
Il cimitero di St.George, in Victoria Lane, era a solo pochi passi di distanza da
Candledoore Square. Candledoore Square era un angolo di città molto poetico, molto
bizzarro: c'erano alcuni dei palazzi più antichi di Londra, lì, e poi altre cose che erano
come piccoli inni all'insolito, negozi aperti fino a notte tarda, lampioni opachi.
Giravano un sacco di storie su Candledoore Square.
Il cimitero di St.George, in Victoria Lane, chiudeva alle otto di sera, tutte le sere. La
gente non passeggiava in Victoria Lane dopo il calar del sole: i lampioni erano rotti da
anni - erano rotti da sempre - e a nessuno piaceva passeggiare nei pressi di un cimitero
buio.
Il cimitero di St.George, in Victoria Lane, aveva un custode. Il custode del cimitero di
St.George si chiamava William Blame.
Il signor William Blame viveva in un'amabile casupola all'interno delle mura di
recinzione, con un meraviglioso giardinetto pieno di primule e di lavanda che d'estate era
una gioia per gli occhi e d'inverno si riempiva delle bacche rosse del pungitopo. Il
signor William Blame non usciva mai di casa dopo il tramonto: a settantasette anni,
compiuti ad aprile, aveva scommesso con il suo migliore amico - il signor Gregory Pack, di
professione macellaio - che sarebbe arrivato ad ottanta senza colpo ferire. Al signor
William Blame non piaceva perdere le scommesse. Il signor William Blame sbarrava le
finestre quando faceva buio.
Il cimitero di St.George, in Victoria Lane, di giorno appariva come un piccolo,
accogliente, soleggiato parco di città.
Quel che appariva di notte era un'altra storia.
La casa di Candledoore
Square
The steeples are white in the wild moonlight,
And the trees have a silver glare;
Past the chimneys high see the vampires fly,
And the harpies of upper air,
That flutter and laugh and stare.
For the village dead to the moon outspread
Never shone in the sunset's gleam,
But grew out of the deep that the dead years keep
Where the rivers of madness stream
Down the gulfs to a pit of dream.
A cantare sopra tutte le altre voci c'era quella dell'androgino vestito d'azzurro che la
sera prima aveva aperto il corteo, e quella prima ancora, e quella prima ancora. Teneva la
mano di una bambina pallida come la Morte, facendola girare in cerchio come per mostrarla,
che era la sua copia precisa - solo dieci anni più piccola.
La bambina era bellissima, una perla, e l'androgino cantava come avrebbero dovuto cantare
solo gli Angeli. Non era un angelo caduto, quello, affatto. Gli aveva visto aprire il
collo di una donna con i denti tanto affondati nella sua giugulare che il sangue era
sprizzato a fontana, caldissimo, e gli aveva insozzato i capelli d'argento. La bambina
aveva leccato il sangue sulla spalla. Aveva bevuto dalle sue mani.
La bambina era bellissima e l'androgino cantava come gli Angeli, ma non erano loro due
quelli che preferiva.
A chill wind blows through the rows of sheaves
In the meadows that shimmer pale
And comes to twine where the headstones shine
And the ghouls of the churchyard wail
For harvests that fly and fail.
Not a breath of the strange grey gods of change
That tore from the past its own
Can quicken this hour, when a spectral power
Spreads sleep o'er the cosmic throne,
And looses the vast unknown.
Dietro l'androgino e dietro la bambina cantavano tutti gli altri. C'era il mangiafuoco che
inghiottiva palle di pece infiammata, le mandava giù come fossero caramelle e poi rideva e
soffiava. Aveva le vampe a uscirgli dalle labbra, alla luce rossa il sudore sul suo torace
nudo lo rendeva più invitante, lucido, faceva danzare guizzi di muscoli ferini ad ogni
movimento.
Aveva occhi selvaggi, la pelle color dell'ebano e vellutata agli occhi di chi l'osservava,
un viso da lottatore, ma non era neanche lui quello che preferiva.
So here again stretch the vale and plain
That moons long-forgotten saw,
And the dead leap gay in the pallid ray,
Sprung out of the tomb's black maw
To shake all the world with awe.
And all that the morn shall greet forlorn,
The ugliness and the pest
Of rows where thickrise the stones and brick,
Shall some day be with the rest,
And brood with the shades ombre unblest.
Nel mezzo del corteo camminava la donna vestita di veli bianchi che trascinava sei metri
di stoffa di seta dietro di sé: c'erano ossa minuscole incastrate nei suoi capelli a mo'
di fermagli, stelle di piccolissimi femori sulla sua veste, residui di corpi morti da
anni, da secoli, e lei aveva un viso da Madonna rinascimentale tutto curve dolci e occhi
gentili, morbidissimi.
Quando sorrideva scopre denti bianchi e curvi come zanne. Aveva passato troppo tempo a
nutrirsi da mostro, e adesso non riusciva più a nascondere come e quanto lo
era. Doveva essere vecchissima. Doveva essere millenaria.
Era bella e lo affascinava, si faceva chiamare Isis e la cosa gli piaceva, ma no, no, non
era lei quella che preferiva.
Then wild in the dark let the lemurs bark,
And the leprous spires ascend;
For new and old alike in the fold
Of horror and death are penned,
For the hounds of Time to rend.
Quella che preferiva era ancora dietro. Era quasi in fondo al corteo, ma tutti le facevano
cerchio per lasciarle spazio: così poteva saltare, poteva camminare, poteva muoversi. Le
avevano appeso addosso catenelle sottili come fili, campanelle d'argento che ad ogni passo
erano una musica, e lei ballava e ballava e ballava, girava in cerchio e vorticava come
una luna cadente, non cantava e non parlava con nessuno, ma sembrava ascoltarli tutti.
Finirono la filastrocca scura e ricominciarono dal principio, ancora e ancora, e lei non
era mai stanca di ballare. Si fermarono nel mezzo del cimitero e la spinsero avanti: si
lasciò spintonare e guidare come se dopotutto non le importasse molto, e non era neanche
una di loro, niente denti che sporgevano, occhi che brillavano, mani pallide allungate
come artigli, era solo tanto umana e nemmeno poi davvero bella, solo che ballava, ballava,
non smetteva mai ed aveva il viso trasognato, sembrava si fosse persa dietro alle sue
campanelle.
Era lei che gli piaceva, lei che preferiva, tutta catene d'argento e sonagli e pelle
d'oro. Era liquida, fusa, si scioglieva. Tintinnava. La voleva. Le fece scorrere una mano
tra i capelli quando gli passò accanto in una giravolta confusa e infinita da bambina, e
lei si fermò e lo guardò, stupita, e di nuovo non parve spaventata. Questo gli piacque
quanto lei gli piaceva, forse anche di più: perché Gabriel si era guardato allo specchio
prima di uscire, il vetro rotto come un riflesso moltiplicato mille e mille volte, mille
Gabriel a fissare occhi scurissimi e vacui e folli e la pelle livida, chiara, le occhiaie
e le cicatrici, e non era stata una bella vista. Aveva spaventato i più giovani tra gli
invitati alla festa in St.George, aveva attirato l'attenzione della bella Madonna pallida
e mostruosa. La ragazza che ballava, invece, lo fissò e sorrise solo, piano, senza paura
alcuna e con pochissimo interesse, e poi riprese a girare.
Gli piaceva, la voleva.
Fu così che la prese.
Questa storia si è classificata
prima su quattordici partecipanti al concorso Once upon a
Bloody December, indetto da storyteller lover e vincitrice
del Premio per l'Attinenza alla traccia e all'uso degli oggetti. Scopo del concorso era
scrivere una storia che rispettasse i seguenti parametri: a) doveva parlare di vampiri, e
i vampiri non dovevano essere quelli di Twilight; b) una scena almeno doveva essere
ambientata in un luogo tipicamente vampiresco, come un castello medievale, delle rovine
diroccate, un'abbazia, un monastero abbandonato, un cimitero; c) nella storia dovevano
essere presenti alcuni oggetti, scelti da una lista consegnata dalla giudiciA.
Le parole da me scelte per il concorso sono state la 2 (armadio), la 4 (nastro), la 14
(carillon), la 24 (fiocco), la 38 (sonaglio), la 59 (talismani) e la 117 (benda), e a
ciascuna di esse è ispirato un capitolo: sette capitoli in totale, quindi, più un preludio
che introduce al racconto.
Come luogo “vampiresco” ho scelto il cimitero.
Per quanto riguarda gli avvertimenti: l'avviso Slash è lì esclusivamente per
segnalare la presenza di un lievissimo rapporto omosessuale, non principale all'interno
della storia e assolutamente non descrittivo, svoltosi in un momento antecedente alla
stessa. Quello di Non per stomaci delicati, invece, ha una ragion d'essere: nella
storia è presente almeno una scena piuttosto violenta ed altre scene discretamente
sgradevoli.
I vampiri di questo racconto non si ispirano a quelli di nessun romanzo in particolare:
forse assomigliano un po' a quelli di Cronache dei vampiri, di A.Rice (ebbene sì,
le ho lette! xD), ma hanno tratti e caratteristiche che li differenziano. Diciamo che si
rifanno a gran parte delle leggende rese famose da Dracula in poi: succhiano sangue e sono
pallidi, ma non volano, e, soprattutto, non luccicano al sole. Con buona pace della
famiglia Cullen (... e, prima che mi si dica qualcosa, sì, ho letto anche Twilight,
no, il film non mi è piaciuto ma anche no, non ho nulla contro il libro. I vampiri
tecnicamente non esistono, se ne conoscete uno presentatemelo, indi per cui possono anche
essere ricoperti di perline rosa e andare in giro a mezzogiorno cantando I will
survive, se la cosa fa piacere all'autore).
Qui potete trovare una
traduzione della canzone che i vampiri cantano nel cimitero, e che è Halloween in a
suburb, di H.P.Lovecraft.
Il cimitero di St.George, così come Victoria Lane e Candledoore Square, non esistono
veramente: alo stesso modo dei personaggi di “La casa di Candledoore Square”, sono una mia
invenzione.
Vorrei ringraziare ancora storyteller lover per la
cortesia, la disponibilità e l'accuratezza dei giudizi, e Prisca Turazzi per i banner
stupendi. Sono tanto belli che quello per la posizione ho deciso di usarlo come immagine
d'apertura dei capitoli; quello per il Premio Attinenza, invece, finisce qui:
Qua sotto potete trovare i collegamenti alle storie già pubblicate. Buona lettura!
La Bambina e il Lupo di schwarzlight
Ezili di Misery13
Qualcosa per cui vivere di Emily Alexandre
Lost souls di Amantide
Le Notti di Sangue dell'Okiya Sugita di Laudica_2204
Amethyst's eyes di Piccolo Fiore del Deserto
Aggiungerò i collegamenti alle storie di tutti mano a mano che verranno pubblicate su EFP!
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Capitolo 2 *** sonaglio ***
1. sonaglio
- Ho fiducia in te. - aveva detto Etienne mille miliardi di anni prima, un'altra vita, un altro
mondo. - So che farai il meglio per noi. -
Ma lui non era riuscito a farlo. Oh, no.
Gli ospiti di Gabriel avevano trovato per lui una casa in un incrocio di Candledoore Square, persa in
un dedalo di strade tutte uguali e di graziose, alte villette dai giardini curati con fontanelle,
archi e orribili statue di gnomi e fatine.
La casa che aveva cercato era una casa come queste: una bella casa vecchia e grande, una casa con
delle scale, grosse persiane di legno, una porta che si potesse sprangare. Doveva avere un cortile
riparato più che un giardino - e questa ce l'aveva - e una cantina, una soffitta, tanti ripostigli. La
casa in Candledoore Square era tutto questo e, inoltre, era proprio in fondo alla strada che portava a
Victoria Lane. Gli ospiti di Gabriel erano stati molto accurati, molto premurosi. Gli ospiti di
Gabriel avevano paura di lui.
Lui era vecchio, era potente. Lo sapevano tutti che era pazzo, e mai, mai, mai si discuteva con i
pazzi.
Nella casa in Candledoore Square nessuno abitava più da anni. Conservava un odore di stanze abusate e
di vecchio, e aveva pavimenti marciti e imposte rovinate, ma c'erano ancora i mobili, dentro, tavoli e
sedie storpiati, i lavelli rotti, due grosse vasche e armadi pieni di tarme e di scheletri di topi.
Gabriel salì fino al secondo piano, tirandosi dietro la ragazza, e spalancò tutte le porte finché non
trovò quel che faceva al caso suo: una stanza impolverata con una grande finestra - e tutte le
finestre avevano grate di metallo, in Candledoore Square - e un vecchio letto a baldacchino posto
proprio nel mezzo. Fece sedere la ragazza sul materasso sfatto. Le molle cigolavano, c'era odore di
muffa.
- Te ne prenderò uno nuovo. - le disse. Le accarezzò i capelli, parlando, e la ragazza smise di
guardarsi intorno e lo fissò curiosa. Non aveva ancora detto una parola e forse, pensò Gabriel, era
muta: ebbe l'improvvisa tentazione di cacciarle un'unghia nella gola per sentire se avrebbe strillato,
se si sarebbe lamentata, ma la represse. Sarebbe uscito del sangue, se l'avesse fatto. Gli sarebbe
venuto appetito.
- Devi stare qui se io non ti dico di fare diversamente, hai capito? -
Lei aveva i capelli più neri del nero. Erano lisci e sottili e non avevano riflessi. Le avrebbe tinto
qualche ciocca di blu, decise Gabriel, o di viola. Sarebbe stata più bella, così, con l'arcobaleno in
testa. Lei non sembrava aver sentito quel che lui le aveva detto, e Gabriel le strattonò una manciata
di capelli per costringerla a guardarlo.
- Se provi a scappare ti trovo e ti ammazzo. -
Lei aveva gli occhi azzurri. Pallidissimi, nebbiosi, sembravano gli occhi di una bambola: ma erano
privi di lucidità, di fissità, e vagavano distratti come libellule senza fermarsi su nulla. Anche la
minaccia non sembrò colpirla particolarmente. Forse era davvero sorda. Gabriel decise di mettere alla
prova l'ipotesi e le chiese:
- Hai fame? -
Stavolta c'era stato un barlume di interesse in quello sguardo pieno di niente. Lei aveva il viso così
magro che gli occhi sembravano sprofondarci dentro, e un naso aquilino che le dava un aspetto
stranamente aguzzo, rapace, da corvo. Continuò a guardarlo e non disse niente, e Gabriel
sorrise.
- Hai fame? - domandò ancora. E poi, abbassando la voce quel tanto che gli serviva per farla risuonare
minacciosamente: - Non avrai niente finché non rispondi. -
La ragazza annuì. Non era sorda, allora.
Gabriel avrebbe voluto sentirla parlare. Per un attimo pensò di volerla sentire urlare, anche, gridare
e piangere, perché così forse gli occhi nebbiosi sarebbero apparsi più svegli, più presenti, e lei
sarebbe sembrata più solida. Sarebbe sembrata più lì, con lui. Forse aveva un buon sapore, forse un
assaggio non le avrebbe fatto poi tanto male. Magari, quando l'avesse nutrita, lo avrebbe fatto.
- Molto bene. - le disse. Le passò una mano tra i capelli e la ragazza non si ritrasse: quando le dita
di lui le accarezzarono un orecchio, anzi, spinse il viso contro il suo palmo, contro i suoi polsi
sporchi e bendati. Gabriel aveva già cominciato a ritrarre la mano, ma il gesto gli piacque
infinitamente; si fermò a grattarle il collo - lei sembrò trovarlo gradevole, perché abbozzò un
sorriso trasognato - e ripeté più piano: - Molto bene. -
Gabriel conservava ricordi estremamente vaghi riguardo a ciò che era essere umani. Era passato troppo
tempo per lui, troppi giorni che erano diventati mesi ed anni e secoli, tutto tempo senza sole che
aveva trascorso a non invecchiare.
Gli esseri umani dovevano mangiare, e questa era una certezza. Cosa dovessero mangiare, invece,
rimaneva un mistero.
Gli esseri umani dovevano dormire, e anche questa era una certezza. I suoi ospiti gli avrebbero
procurato un materasso nuovo, come lui aveva promesso alla ragazza, e Gabriel avrebbe cercato di
ricordarsi che lei non poteva fargli compagnia durante tutto il giorno.
Gli ospiti di Gabriel, la gens del cimitero, gli avevano fatto trovare sulla porta di casa una
grossa valigia piena di vestiti spumosi e variopinti che, gli avevano lasciato scritto su un
biglietto, erano quelli di Morrigan, gli abiti di Morrigan. Poteva vestirla con quelli. A Gabriel
occorsero diversi minuti per realizzare che Morrigan era un nome. Il nome di lei. Spinto
dalla curiosità tornò nella sua stanza e la chiamò:
- Morrigan. -
Era notte fonda. La casa era buia, le stanze immobili, silenziose. C'era una falena intrappolata tra
il vetro e le persiane a sbattere le ali freneticamente. La ragazza, che era rimasta seduta sul letto
esattamente dove lui l'aveva lasciata, alzò la testa e cominciò a cercarlo con gli occhi:
nell'oscurità cieca e umida delle imposte sbarrate non poteva vederlo, ma ci provò lo stesso. Gabriel
lo trovò divertente.
- Morrigan. - la chiamò ancora. - Vieni qui, Morrigan. -
E la ragazza lo fece. Si mise in piedi e avanzò nella camera goffamente, le mani tese avanti a sé per
non andare a sbattere contro i mobili. Gabriel allungò un braccio e l'afferrò un attimo prima che lei
inciampasse e finisse faccia a terra, perché era umana, era fragile, si sarebbe spezzata. Non voleva
che lei venisse rotta. Se fosse stata rotta non avrebbe potuto ballare.
Gli ospiti di Gabriel gli avevano fatto trovare anche una cassa di bottiglie piene di un liquido
chiaro e grasso: a lui bastò annusarlo una sola volta per ritrarsene stomacato. Sulle confezioni c'era
scritto latte. Gabriel ricordava poco del latte. Ricordava che era stato bianco, che aveva
avuto sapore di dolce. Non ricordava com'era stato succhiarlo dal seno di sua madre - ma chi lo
ricordava? Ricordava vagamente che non bastava a riempire lo stomaco, da solo, che bisognava metterci
qualcos'altro accanto. Insieme alla cassa di bottiglie c'era una scatola di cartone dove erano state
pigiate buste di plastica che scrocchiavano mentre lui le apriva, seduto ad un tavolo malmesso al
pianterreno, e le esaminava curioso. L'odore gli risultò sempre stomachevole, ma Morrigan parve
interessata: allungò le mani verso le buste e prese una manciata di quei cosi tondi che c'erano
all'interno. Si sbriciolavano anche sotto alle sue dita fragilissime e ossute, da uccellino, e mentre
lei cominciava a masticare Gabriel ricordò e realizzò. Biscotti, si disse, e ne spinse una
busta piena verso la ragazza.
Non c'erano bicchieri. Lasciò che Morrigan bevesse dalla bottiglia e pensò che il giorno dopo si
sarebbe fatto portare un servizio da tè, un bellissimo servizio da tè. Non era ben sicuro che potesse
andare bene anche per il latte, ma ricordava con piacere com'era stato, anni e anni e anni prima,
tenere la porcellana fragilissima e liscia sotto le dita, le decorazioni lucenti d'oro, gli
smalti.
Gabriel osservò Morrigan nutrirsi. Studiò il punto in cui il boccone premeva sulla gola ogni volta che
deglutiva, il sangue che pulsava a fior di pelle in quella graziosa, piccola vena tracciata in azzurro
dal mento alle clavicole. Aveva ossa sottili, la ragazza, un collo magrissimo. Gabriel sentì
l'appetito crescergli nello stomaco come un mostro agitato, ruggire, ma si disse che poteva resistere
un altro po'.
Guardarla mangiare era divertente. Guardarla respirare era divertente. Non voleva ucciderla,
ancora.
Gabriel aveva portato con sé un grosso armadio di mogano scuro.
La gens del cimitero non aveva detto nulla, vedendolo arrivare con un armadio sulle spalle, e
non aveva mostrato nessuna curiosità. Gabriel era pazzo. Lo sapevano tutti. Gabriel era pazzo e
viaggiava in compagnia di un armadio. Gabriel non si separava mai dal suo armadio.
Lo appoggiò in un'altra delle stanze al secondo piano e ne accarezzò il legno con reverenza. Non lo
aprì - Gabriel non ricordava neanche quand'era stata l'ultima volta in cui lo aveva aperto - e chiuse
la porta della camera a chiave prima d'uscire.
Erano arrivati a Candledoore Square che era passata da poco la mezzanotte, ed adesso era ormai l'alba.
Morrigan aveva il viso annebbiato di sonno, gli occhi lucidi. Si muoveva goffamente e, quando Gabriel
le si inginocchiò davanti e le sollevò un piede, lo lasciò fare passivamente.
Lui le legò un nastrino attorno alla caviglia sinistra e vi fece scorrere un sonaglio d'ottone a mo'
di ciondolo.
- Cammina. - le ordinò poi.
Morrigan fece un passo, tintinnio, un altro passo, tintinnio. Girò su sé stessa senza
che lui avesse bisogno di dirglielo, e il tintinnio adesso era una cascata, un'ondata di suoni liquidi
come argento mentre le braccia della ragazza disegnavano spirali nell'aria muffita della casa.
Gabriel sorrise, soddisfatto.
- Non devi toglierlo mai. -
Avrebbe fatto musica, così, lei. Avrebbe fatto musica per lui, sempre.
Immagine di Prisca
Turazzi. |
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