La casa di Candledoore Square

di Elos
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** prologo ***
Capitolo 2: *** sonaglio ***
Capitolo 3: *** carillon ***
Capitolo 4: *** armadio ***
Capitolo 5: *** benda ***
Capitolo 6: *** nastro ***
Capitolo 7: *** talismani ***
Capitolo 8: *** fiocco ***



Capitolo 1
*** prologo ***


Il cimitero di St.George, in Victoria Lane, di giorno non era dissimile da un arioso, fresco e lucente giardino pubblico, di quelli che d'estate si riempivano di graziose famigliole al gran completo, con il cane al seguito, le borse piene di teli e panini e adorabili bambinetti urlanti che facevano su e giù per le stradine, tra le tombe, giocando a palla e a salta la corda tra le ossa dei nonni defunti.
Era bello.
C'erano panchine sotto ad ogni albero. La fontana mormorava verde e molle di muschio, e c'era un tetto di salici e faggi spesso come una coltre di nuvole scure. Al tramonto le strade si riempivano di oro rosso. Nei pomeriggi di pioggia avevano una luce da acqua chiarissima.
Il cimitero di St.George, in Victoria Lane, era a solo pochi passi di distanza da Candledoore Square. Candledoore Square era un angolo di città molto poetico, molto bizzarro: c'erano alcuni dei palazzi più antichi di Londra, lì, e poi altre cose che erano come piccoli inni all'insolito, negozi aperti fino a notte tarda, lampioni opachi. Giravano un sacco di storie su Candledoore Square.
Il cimitero di St.George, in Victoria Lane, chiudeva alle otto di sera, tutte le sere. La gente non passeggiava in Victoria Lane dopo il calar del sole: i lampioni erano rotti da anni - erano rotti da sempre - e a nessuno piaceva passeggiare nei pressi di un cimitero buio.
Il cimitero di St.George, in Victoria Lane, aveva un custode. Il custode del cimitero di St.George si chiamava William Blame.
Il signor William Blame viveva in un'amabile casupola all'interno delle mura di recinzione, con un meraviglioso giardinetto pieno di primule e di lavanda che d'estate era una gioia per gli occhi e d'inverno si riempiva delle bacche rosse del pungitopo. Il signor William Blame non usciva mai di casa dopo il tramonto: a settantasette anni, compiuti ad aprile, aveva scommesso con il suo migliore amico - il signor Gregory Pack, di professione macellaio - che sarebbe arrivato ad ottanta senza colpo ferire. Al signor William Blame non piaceva perdere le scommesse. Il signor William Blame sbarrava le finestre quando faceva buio.

Il cimitero di St.George, in Victoria Lane, di giorno appariva come un piccolo, accogliente, soleggiato parco di città.
Quel che appariva di notte era un'altra storia.



La casa di Candledoore Square




The steeples are white in the wild moonlight,
And the trees have a silver glare;
Past the chimneys high see the vampires fly,
And the harpies of upper air,
That flutter and laugh and stare.

For the village dead to the moon outspread
Never shone in the sunset's gleam,
But grew out of the deep that the dead years keep
Where the rivers of madness stream
Down the gulfs to a pit of dream.


A cantare sopra tutte le altre voci c'era quella dell'androgino vestito d'azzurro che la sera prima aveva aperto il corteo, e quella prima ancora, e quella prima ancora. Teneva la mano di una bambina pallida come la Morte, facendola girare in cerchio come per mostrarla, che era la sua copia precisa - solo dieci anni più piccola.
La bambina era bellissima, una perla, e l'androgino cantava come avrebbero dovuto cantare solo gli Angeli. Non era un angelo caduto, quello, affatto. Gli aveva visto aprire il collo di una donna con i denti tanto affondati nella sua giugulare che il sangue era sprizzato a fontana, caldissimo, e gli aveva insozzato i capelli d'argento. La bambina aveva leccato il sangue sulla spalla. Aveva bevuto dalle sue mani.
La bambina era bellissima e l'androgino cantava come gli Angeli, ma non erano loro due quelli che preferiva.

A chill wind blows through the rows of sheaves
In the meadows that shimmer pale
And comes to twine where the headstones shine
And the ghouls of the churchyard wail
For harvests that fly and fail.

Not a breath of the strange grey gods of change
That tore from the past its own
Can quicken this hour, when a spectral power
Spreads sleep o'er the cosmic throne,
And looses the vast unknown.


Dietro l'androgino e dietro la bambina cantavano tutti gli altri. C'era il mangiafuoco che inghiottiva palle di pece infiammata, le mandava giù come fossero caramelle e poi rideva e soffiava. Aveva le vampe a uscirgli dalle labbra, alla luce rossa il sudore sul suo torace nudo lo rendeva più invitante, lucido, faceva danzare guizzi di muscoli ferini ad ogni movimento.
Aveva occhi selvaggi, la pelle color dell'ebano e vellutata agli occhi di chi l'osservava, un viso da lottatore, ma non era neanche lui quello che preferiva.

So here again stretch the vale and plain
That moons long-forgotten saw,
And the dead leap gay in the pallid ray,
Sprung out of the tomb's black maw
To shake all the world with awe.

And all that the morn shall greet forlorn,
The ugliness and the pest
Of rows where thickrise the stones and brick,
Shall some day be with the rest,
And brood with the shades ombre unblest.


Nel mezzo del corteo camminava la donna vestita di veli bianchi che trascinava sei metri di stoffa di seta dietro di sé: c'erano ossa minuscole incastrate nei suoi capelli a mo' di fermagli, stelle di piccolissimi femori sulla sua veste, residui di corpi morti da anni, da secoli, e lei aveva un viso da Madonna rinascimentale tutto curve dolci e occhi gentili, morbidissimi.
Quando sorrideva scopre denti bianchi e curvi come zanne. Aveva passato troppo tempo a nutrirsi da mostro, e adesso non riusciva più a nascondere come e quanto lo era. Doveva essere vecchissima. Doveva essere millenaria.
Era bella e lo affascinava, si faceva chiamare Isis e la cosa gli piaceva, ma no, no, non era lei quella che preferiva.

Then wild in the dark let the lemurs bark,
And the leprous spires ascend;
For new and old alike in the fold
Of horror and death are penned,
For the hounds of Time to rend.


Quella che preferiva era ancora dietro. Era quasi in fondo al corteo, ma tutti le facevano cerchio per lasciarle spazio: così poteva saltare, poteva camminare, poteva muoversi. Le avevano appeso addosso catenelle sottili come fili, campanelle d'argento che ad ogni passo erano una musica, e lei ballava e ballava e ballava, girava in cerchio e vorticava come una luna cadente, non cantava e non parlava con nessuno, ma sembrava ascoltarli tutti.
Finirono la filastrocca scura e ricominciarono dal principio, ancora e ancora, e lei non era mai stanca di ballare. Si fermarono nel mezzo del cimitero e la spinsero avanti: si lasciò spintonare e guidare come se dopotutto non le importasse molto, e non era neanche una di loro, niente denti che sporgevano, occhi che brillavano, mani pallide allungate come artigli, era solo tanto umana e nemmeno poi davvero bella, solo che ballava, ballava, non smetteva mai ed aveva il viso trasognato, sembrava si fosse persa dietro alle sue campanelle.
Era lei che gli piaceva, lei che preferiva, tutta catene d'argento e sonagli e pelle d'oro. Era liquida, fusa, si scioglieva. Tintinnava. La voleva. Le fece scorrere una mano tra i capelli quando gli passò accanto in una giravolta confusa e infinita da bambina, e lei si fermò e lo guardò, stupita, e di nuovo non parve spaventata. Questo gli piacque quanto lei gli piaceva, forse anche di più: perché Gabriel si era guardato allo specchio prima di uscire, il vetro rotto come un riflesso moltiplicato mille e mille volte, mille Gabriel a fissare occhi scurissimi e vacui e folli e la pelle livida, chiara, le occhiaie e le cicatrici, e non era stata una bella vista. Aveva spaventato i più giovani tra gli invitati alla festa in St.George, aveva attirato l'attenzione della bella Madonna pallida e mostruosa. La ragazza che ballava, invece, lo fissò e sorrise solo, piano, senza paura alcuna e con pochissimo interesse, e poi riprese a girare.
Gli piaceva, la voleva.

Fu così che la prese.






Questa storia si è classificata prima su quattordici partecipanti al concorso Once upon a Bloody December, indetto da storyteller lover e vincitrice del Premio per l'Attinenza alla traccia e all'uso degli oggetti. Scopo del concorso era scrivere una storia che rispettasse i seguenti parametri: a) doveva parlare di vampiri, e i vampiri non dovevano essere quelli di Twilight; b) una scena almeno doveva essere ambientata in un luogo tipicamente vampiresco, come un castello medievale, delle rovine diroccate, un'abbazia, un monastero abbandonato, un cimitero; c) nella storia dovevano essere presenti alcuni oggetti, scelti da una lista consegnata dalla giudiciA.

Le parole da me scelte per il concorso sono state la 2 (armadio), la 4 (nastro), la 14 (carillon), la 24 (fiocco), la 38 (sonaglio), la 59 (talismani) e la 117 (benda), e a ciascuna di esse è ispirato un capitolo: sette capitoli in totale, quindi, più un preludio che introduce al racconto.
Come luogo “vampiresco” ho scelto il cimitero.
Per quanto riguarda gli avvertimenti: l'avviso Slash è lì esclusivamente per segnalare la presenza di un lievissimo rapporto omosessuale, non principale all'interno della storia e assolutamente non descrittivo, svoltosi in un momento antecedente alla stessa. Quello di Non per stomaci delicati, invece, ha una ragion d'essere: nella storia è presente almeno una scena piuttosto violenta ed altre scene discretamente sgradevoli.
I vampiri di questo racconto non si ispirano a quelli di nessun romanzo in particolare: forse assomigliano un po' a quelli di Cronache dei vampiri, di A.Rice (ebbene sì, le ho lette! xD), ma hanno tratti e caratteristiche che li differenziano. Diciamo che si rifanno a gran parte delle leggende rese famose da Dracula in poi: succhiano sangue e sono pallidi, ma non volano, e, soprattutto, non luccicano al sole. Con buona pace della famiglia Cullen (... e, prima che mi si dica qualcosa, sì, ho letto anche Twilight, no, il film non mi è piaciuto ma anche no, non ho nulla contro il libro. I vampiri tecnicamente non esistono, se ne conoscete uno presentatemelo, indi per cui possono anche essere ricoperti di perline rosa e andare in giro a mezzogiorno cantando I will survive, se la cosa fa piacere all'autore).
Qui potete trovare una traduzione della canzone che i vampiri cantano nel cimitero, e che è Halloween in a suburb, di H.P.Lovecraft.
Il cimitero di St.George, così come Victoria Lane e Candledoore Square, non esistono veramente: alo stesso modo dei personaggi di “La casa di Candledoore Square”, sono una mia invenzione.

Vorrei ringraziare ancora storyteller lover per la cortesia, la disponibilità e l'accuratezza dei giudizi, e Prisca Turazzi per i banner stupendi. Sono tanto belli che quello per la posizione ho deciso di usarlo come immagine d'apertura dei capitoli; quello per il Premio Attinenza, invece, finisce qui:


Qua sotto potete trovare i collegamenti alle storie già pubblicate. Buona lettura!
La Bambina e il Lupo di schwarzlight
Ezili di Misery13
Qualcosa per cui vivere di Emily Alexandre
Lost souls di Amantide
Le Notti di Sangue dell'Okiya Sugita di Laudica_2204
Amethyst's eyes di Piccolo Fiore del Deserto
Aggiungerò i collegamenti alle storie di tutti mano a mano che verranno pubblicate su EFP!

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Capitolo 2
*** sonaglio ***




1. sonaglio



- Ho fiducia in te. - aveva detto Etienne mille miliardi di anni prima, un'altra vita, un altro mondo. - So che farai il meglio per noi. -
Ma lui non era riuscito a farlo. Oh, no.


Gli ospiti di Gabriel avevano trovato per lui una casa in un incrocio di Candledoore Square, persa in un dedalo di strade tutte uguali e di graziose, alte villette dai giardini curati con fontanelle, archi e orribili statue di gnomi e fatine.
La casa che aveva cercato era una casa come queste: una bella casa vecchia e grande, una casa con delle scale, grosse persiane di legno, una porta che si potesse sprangare. Doveva avere un cortile riparato più che un giardino - e questa ce l'aveva - e una cantina, una soffitta, tanti ripostigli. La casa in Candledoore Square era tutto questo e, inoltre, era proprio in fondo alla strada che portava a Victoria Lane. Gli ospiti di Gabriel erano stati molto accurati, molto premurosi. Gli ospiti di Gabriel avevano paura di lui.
Lui era vecchio, era potente. Lo sapevano tutti che era pazzo, e mai, mai, mai si discuteva con i pazzi.
Nella casa in Candledoore Square nessuno abitava più da anni. Conservava un odore di stanze abusate e di vecchio, e aveva pavimenti marciti e imposte rovinate, ma c'erano ancora i mobili, dentro, tavoli e sedie storpiati, i lavelli rotti, due grosse vasche e armadi pieni di tarme e di scheletri di topi. Gabriel salì fino al secondo piano, tirandosi dietro la ragazza, e spalancò tutte le porte finché non trovò quel che faceva al caso suo: una stanza impolverata con una grande finestra - e tutte le finestre avevano grate di metallo, in Candledoore Square - e un vecchio letto a baldacchino posto proprio nel mezzo. Fece sedere la ragazza sul materasso sfatto. Le molle cigolavano, c'era odore di muffa.
- Te ne prenderò uno nuovo. - le disse. Le accarezzò i capelli, parlando, e la ragazza smise di guardarsi intorno e lo fissò curiosa. Non aveva ancora detto una parola e forse, pensò Gabriel, era muta: ebbe l'improvvisa tentazione di cacciarle un'unghia nella gola per sentire se avrebbe strillato, se si sarebbe lamentata, ma la represse. Sarebbe uscito del sangue, se l'avesse fatto. Gli sarebbe venuto appetito.
- Devi stare qui se io non ti dico di fare diversamente, hai capito? -
Lei aveva i capelli più neri del nero. Erano lisci e sottili e non avevano riflessi. Le avrebbe tinto qualche ciocca di blu, decise Gabriel, o di viola. Sarebbe stata più bella, così, con l'arcobaleno in testa. Lei non sembrava aver sentito quel che lui le aveva detto, e Gabriel le strattonò una manciata di capelli per costringerla a guardarlo.
- Se provi a scappare ti trovo e ti ammazzo. -
Lei aveva gli occhi azzurri. Pallidissimi, nebbiosi, sembravano gli occhi di una bambola: ma erano privi di lucidità, di fissità, e vagavano distratti come libellule senza fermarsi su nulla. Anche la minaccia non sembrò colpirla particolarmente. Forse era davvero sorda. Gabriel decise di mettere alla prova l'ipotesi e le chiese:
- Hai fame? -
Stavolta c'era stato un barlume di interesse in quello sguardo pieno di niente. Lei aveva il viso così magro che gli occhi sembravano sprofondarci dentro, e un naso aquilino che le dava un aspetto stranamente aguzzo, rapace, da corvo. Continuò a guardarlo e non disse niente, e Gabriel sorrise.

- Hai fame? - domandò ancora. E poi, abbassando la voce quel tanto che gli serviva per farla risuonare minacciosamente: - Non avrai niente finché non rispondi. -
La ragazza annuì. Non era sorda, allora.
Gabriel avrebbe voluto sentirla parlare. Per un attimo pensò di volerla sentire urlare, anche, gridare e piangere, perché così forse gli occhi nebbiosi sarebbero apparsi più svegli, più presenti, e lei sarebbe sembrata più solida. Sarebbe sembrata più lì, con lui. Forse aveva un buon sapore, forse un assaggio non le avrebbe fatto poi tanto male. Magari, quando l'avesse nutrita, lo avrebbe fatto.
- Molto bene. - le disse. Le passò una mano tra i capelli e la ragazza non si ritrasse: quando le dita di lui le accarezzarono un orecchio, anzi, spinse il viso contro il suo palmo, contro i suoi polsi sporchi e bendati. Gabriel aveva già cominciato a ritrarre la mano, ma il gesto gli piacque infinitamente; si fermò a grattarle il collo - lei sembrò trovarlo gradevole, perché abbozzò un sorriso trasognato - e ripeté più piano: - Molto bene. -

Gabriel conservava ricordi estremamente vaghi riguardo a ciò che era essere umani. Era passato troppo tempo per lui, troppi giorni che erano diventati mesi ed anni e secoli, tutto tempo senza sole che aveva trascorso a non invecchiare.
Gli esseri umani dovevano mangiare, e questa era una certezza. Cosa dovessero mangiare, invece, rimaneva un mistero.
Gli esseri umani dovevano dormire, e anche questa era una certezza. I suoi ospiti gli avrebbero procurato un materasso nuovo, come lui aveva promesso alla ragazza, e Gabriel avrebbe cercato di ricordarsi che lei non poteva fargli compagnia durante tutto il giorno.
Gli ospiti di Gabriel, la gens del cimitero, gli avevano fatto trovare sulla porta di casa una grossa valigia piena di vestiti spumosi e variopinti che, gli avevano lasciato scritto su un biglietto, erano quelli di Morrigan, gli abiti di Morrigan. Poteva vestirla con quelli. A Gabriel occorsero diversi minuti per realizzare che Morrigan era un nome. Il nome di lei. Spinto dalla curiosità tornò nella sua stanza e la chiamò:
- Morrigan. -
Era notte fonda. La casa era buia, le stanze immobili, silenziose. C'era una falena intrappolata tra il vetro e le persiane a sbattere le ali freneticamente. La ragazza, che era rimasta seduta sul letto esattamente dove lui l'aveva lasciata, alzò la testa e cominciò a cercarlo con gli occhi: nell'oscurità cieca e umida delle imposte sbarrate non poteva vederlo, ma ci provò lo stesso. Gabriel lo trovò divertente.
- Morrigan. - la chiamò ancora. - Vieni qui, Morrigan. -
E la ragazza lo fece. Si mise in piedi e avanzò nella camera goffamente, le mani tese avanti a sé per non andare a sbattere contro i mobili. Gabriel allungò un braccio e l'afferrò un attimo prima che lei inciampasse e finisse faccia a terra, perché era umana, era fragile, si sarebbe spezzata. Non voleva che lei venisse rotta. Se fosse stata rotta non avrebbe potuto ballare.
Gli ospiti di Gabriel gli avevano fatto trovare anche una cassa di bottiglie piene di un liquido chiaro e grasso: a lui bastò annusarlo una sola volta per ritrarsene stomacato. Sulle confezioni c'era scritto latte. Gabriel ricordava poco del latte. Ricordava che era stato bianco, che aveva avuto sapore di dolce. Non ricordava com'era stato succhiarlo dal seno di sua madre - ma chi lo ricordava? Ricordava vagamente che non bastava a riempire lo stomaco, da solo, che bisognava metterci qualcos'altro accanto. Insieme alla cassa di bottiglie c'era una scatola di cartone dove erano state pigiate buste di plastica che scrocchiavano mentre lui le apriva, seduto ad un tavolo malmesso al pianterreno, e le esaminava curioso. L'odore gli risultò sempre stomachevole, ma Morrigan parve interessata: allungò le mani verso le buste e prese una manciata di quei cosi tondi che c'erano all'interno. Si sbriciolavano anche sotto alle sue dita fragilissime e ossute, da uccellino, e mentre lei cominciava a masticare Gabriel ricordò e realizzò. Biscotti, si disse, e ne spinse una busta piena verso la ragazza.
Non c'erano bicchieri. Lasciò che Morrigan bevesse dalla bottiglia e pensò che il giorno dopo si sarebbe fatto portare un servizio da tè, un bellissimo servizio da tè. Non era ben sicuro che potesse andare bene anche per il latte, ma ricordava con piacere com'era stato, anni e anni e anni prima, tenere la porcellana fragilissima e liscia sotto le dita, le decorazioni lucenti d'oro, gli smalti.
Gabriel osservò Morrigan nutrirsi. Studiò il punto in cui il boccone premeva sulla gola ogni volta che deglutiva, il sangue che pulsava a fior di pelle in quella graziosa, piccola vena tracciata in azzurro dal mento alle clavicole. Aveva ossa sottili, la ragazza, un collo magrissimo. Gabriel sentì l'appetito crescergli nello stomaco come un mostro agitato, ruggire, ma si disse che poteva resistere un altro po'.
Guardarla mangiare era divertente. Guardarla respirare era divertente. Non voleva ucciderla, ancora.

Gabriel aveva portato con sé un grosso armadio di mogano scuro.
La gens del cimitero non aveva detto nulla, vedendolo arrivare con un armadio sulle spalle, e non aveva mostrato nessuna curiosità. Gabriel era pazzo. Lo sapevano tutti. Gabriel era pazzo e viaggiava in compagnia di un armadio. Gabriel non si separava mai dal suo armadio.
Lo appoggiò in un'altra delle stanze al secondo piano e ne accarezzò il legno con reverenza. Non lo aprì - Gabriel non ricordava neanche quand'era stata l'ultima volta in cui lo aveva aperto - e chiuse la porta della camera a chiave prima d'uscire.

Erano arrivati a Candledoore Square che era passata da poco la mezzanotte, ed adesso era ormai l'alba. Morrigan aveva il viso annebbiato di sonno, gli occhi lucidi. Si muoveva goffamente e, quando Gabriel le si inginocchiò davanti e le sollevò un piede, lo lasciò fare passivamente.
Lui le legò un nastrino attorno alla caviglia sinistra e vi fece scorrere un sonaglio d'ottone a mo' di ciondolo.
- Cammina. - le ordinò poi.
Morrigan fece un passo, tintinnio, un altro passo, tintinnio. Girò su sé stessa senza che lui avesse bisogno di dirglielo, e il tintinnio adesso era una cascata, un'ondata di suoni liquidi come argento mentre le braccia della ragazza disegnavano spirali nell'aria muffita della casa. Gabriel sorrise, soddisfatto.
- Non devi toglierlo mai. -
Avrebbe fatto musica, così, lei. Avrebbe fatto musica per lui, sempre.


Immagine di Prisca Turazzi.

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Capitolo 3
*** carillon ***




2. carillon



Edouard Le Chavalier l'aveva rubato ad una vita tranquilla e ad un amatissimo fratello per dargli qualcosa che era altro, che era oltre.
Questo altro, questo oltre, aveva deciso Gabriel, era meraviglioso.
Era come volare senza avere bisogno delle ali. Era correre, essere libero. Sentire tutte le cose tre volte, sei volte, dieci volte di più. Era non avere più obblighi, più restrizioni. Il senso di colpa si dissolveva come nebbia e non aveva valore, non più, non in questo corpo.
- Mi piacevano i tuoi occhi. - Gli aveva detto Edouard. - Avevano l'aria di dire di no a tutto. Uno come te potrebbe bruciare per un attimo glorioso, potrebbe farsi ammazzare, ma sarebbe un peccato. -
Gli accarezzava il viso con il dorso di una mano, parlando, con gentilezza.
- Una cosa così bella andrebbe conservata con infinita cura. -


Nella casa di Candledoore Square, Gabriel e Morrigan trovarono sette specchi: uno in ciascuno dei due bagni, uno nel corridoio dell'ingresso, uno nel corridoio del piano superiore, due nella grande camera da letto padronale nella quale Gabriel aveva riposto l'armadio e uno nella stanza di Morrigan.
Lasciò intatto quello nella camera di Morrigan, un grande, alto specchio dalla cornice d'argento vecchio e dalla superficie ossidata, ma spezzò tutti gli altri.
Gabriel non amava gli specchi. Davanti a ogni specchio c'era Etienne ad aspettarlo, con quattrocento anni e nulla di più a separarlo da lui: ma, a guardar bene, Gabriel vedeva le cicatrici, le cicatrici, e il riflesso si deformava, si spezzava. Il viso di Gabriel non era più quello di Etienne.
Il viso allo specchio aveva occhi scuri, lineamenti regolari. Il viso allo specchio era bello e armonioso, e un tempo Monsieur Le Chevalier l'aveva apprezzato grandemente. Il viso allo specchio era giovane in eterno, e pallido in eterno, ed eterne sarebbero state così anche le cicatrici sulla guancia e sulla fronte, sulle labbra e sul naso, lunghe e affilate e argentate come segni d'artigli: quelle non c'erano state, prima. Etienne non le aveva mai avute.
L'unico specchio sopravvissuto alla distruzione, dunque, era stato quello di Morrigan. Gabriel l'aveva risparmiato per permetterle di prepararsi, di vestirsi, di raccogliersi i capelli. Le cose belle gli piacevano, e Morrigan poteva essere bella. Era bella quando ballava. Era bella quando roteava attraverso le stanze della casa, piene di cose vecchie, cose rotte e marcite, e la luce che si rifletteva sulla sua pelle chiarissima diventava polverosa e come d'oro.
Due giorni dopo il loro arrivo Gabriel la mise seduta sul bordo della vasca e le tinse i capelli come aveva detto che avrebbe fatto: ciocche viola e ciocche blu, seguire le istruzioni sulla scatola era stato più facile del previsto, e alla fine c'erano strisce variopinte in quel nero senza sfumature. La prese tra le braccia, dopo averle tolto l'asciugamano dalla testa, e la portò in stanza per sistemarla davanti allo specchio. Morrigan guardò il proprio riflesso per un lungo istante. Si passò le dita tra i capelli, socchiuse le labbra e parve incantata; le sue mani cercarono lo specchio, i suoi occhi cercarono Gabriel. Gabriel le sorrise.
- Ci sono poche regole... - le disse una notte, mentre se ne stavano seduti sulle scale senza far niente di particolare: - ... e, se le seguirai, starai bene con me. Devi fare tutto quel che ti dico, quando te lo dico, ogni volta che te lo dico. Non devi provare a scappare. Se scappi, ti trovo e ti ammazzo. Puoi uscire dalla tua camera ma, se chiudo la porta a chiave, vuol dire che devi rimanerci, che non devi provare ad andartene. Annuisci se hai capito. -
Morrigan annuì. Giocherellava con un gomitolo di polvere, e aveva gli occhi persi in un qualche universo infinitamente distante da lì, da lui, infinitamente nebbioso.
- E devi stare lontana dal mio armadio. - aggiunse Gabriel. Questo era importante. Le afferrò il mento per costringerla a guardarlo, così, mentre lo ripeteva con voce più bassa, più dura, rauca e gelida e minacciosa: - Starai lontana dal mio armadio. Fa' cenno di sì. -
Morrigan fece cenno di sì.
Quasi sempre, Morrigan era una cosina docile e graziosa, e molto decorativa. A Gabriel piaceva guardarla, gli piaceva seguirla con lo sguardo mentre scendeva le scale e il sonaglio tintinnava senza sosta, incessantemente, gli piaceva lasciarla stare seduta sul divano sfasciato del pianterreno - un grande divano che un tempo doveva aver avuto un rivestimento sontuoso di damasco a fiorami, ma con il tempo la stoffa era diventata grigia, logora, le molle erano emerse dall'imbottitura affiorando come tronchi caduti in acqua - e mettersi proprio accanto a lei per spiare il modo in cui il respiro le riempiva i polmoni, il petto, e poi la gola, le guance, il naso. Morrigan non aveva paura, Morrigan non gli faceva domande. Morrigan non guardava le cicatrici. Morrigan era infinitamente paziente, infinitamente ubbidiente.
Morrigan sembrava molto poco lucida per gran parte del tempo; ma poi c'erano delle volte in cui lo fissava, e lo fissava in quel modo, e gli occhi grigi diventavano specchi spaccati, infranti, schegge lucidissime nelle quali Gabriel riusciva per un attimo a vedersi.
E quel che vedeva riflesso lo spaventava.

Nella cassa di vestiti che la gens del cimitero gli aveva consegnato, la cassa per Morrigan, c'erano abiti vaporosi di stoffe consunte, multicolori, rosse, dorate, color della polvere, stringhe viola e nastri blu, nastri neri, pizzi che il tempo aveva ingiallito e che gli sembravano più belli, così, più veri. Il mondo fuori dalla casa aveva televisioni e antenne, macchine a sfrecciare lungo la strada, neon azzurri accesi a illuminare le strade, ma nella casa di Candledoore Square l'orologio si era rotto e non scorreva più.
A Gabriel questo piaceva. Gabriel sapeva quanto era prezioso il tempo, quanto valore aveva il passato, com'era delicato, fragile, una cosa intrappolata dietro un vetro sottilissimo. Se il vetro si fosse rotto, se il tempo avesse ripreso a scorrere, il passato sarebbe fuggito via.
La grande giacca di Gabriel era stata di Monsieur Le Chevalier. Aveva ancora il suo sangue a intridere le pieghe del petto, attorno ad uno strappo che Gabriel conosceva benissimo - l'aveva aperto lui, dopotutto. La giacca era di velluto blu, lucido e sottile per i secoli in cui era stata maneggiata, indossata, lavata, piegata e riposta, e aveva grandi bottoni d'oro sul torace e sui polsini. Gabriel la indossava solo nelle grandi occasioni.
Possedeva molte camicie, poi, sicuro. Camicie e maglie e calzoni che gli permettevano di girare inosservato, durante la notte, in mezzo agli umani. Tutti guardavano le cicatrici, guardavano il suo bel viso che non era più quello di Etienne, no, ma sembrava umano anche per quelle, ma nessuno badava troppo a com'era vestito. La camicia preferita di Gabriel aveva più di un secolo e mezzo cucito nel suo tessuto logoratissimo, ormai rado e impalpabile come una ragnatela. L'aveva acquistata per lui una donna molto bella, dai gusti eccellenti e dal sangue dolcissimo. Gabriel l'aveva cullata gentilmente mentre la spingeva a sdraiarsi, ad addormentarsi, e le diceva che non avrebbe fatto male, no, no, no, e invece aveva fatto male, molto, e lei aveva urlato. Di quei tredici giorni trascorsi in sua compagnia gli era rimasta la camicia, però. Gli erano rimasti anche i suoi orecchini. Ne aveva appeso uno ad un lacciolo di cuoio, e adesso lo portava al collo.
Gabriel aveva addosso tanti laccioli, tanti ciondoli: ne prendeva uno nuovo per ogni posto nel quale viveva, per ogni persona interessante che incontrava, ed erano i suoi amuleti, i suoi fermatempo. Gli anni che aveva vissuto sarebbero rimasti con lui finché li avesse portati indosso, pensava Gabriel, non sarebbero mai andati via.
Morrigan sembrava essere affascinata da tutti quei ciondoli, così com'era affascinata da qualunque cosa splendesse, luccicasse o fosse colorata.
Un giorno ne afferrò uno - una larga moneta di bronzo antichissimo, resa opaca da tutte le dita che si erano posate su di essa nel corso dei secoli - e Gabriel le allontanò la mano, senza violenza ma con fermezza.
- Lasciala stare. - le disse. E poi, con un sorriso solo un po' divertito, e molto beffardo: - Ne prenderò uno anche per te, se ci tieni tanto. -
Ne avrebbe preso uno da lei, pensò, perché a lei non sarebbe servito. Ai morti non serve fermare il tempo.
Non voleva ucciderla, ancora, ma ancora non è sempre.

Le bende attorno ai polsi di Gabriel avevano il sentore secco delle cose molto antiche. Sfilacciate, devastate, le maglie del tessuto si erano slabbrate con il passare dei secoli.
Quando il giorno arrivava, portandogli il sonno profondissimo e immobile al quale non c'era modo di sfuggire, si rannicchiava sempre sdraiato su un fianco e con i polsi vicini alla faccia. L'odore secco di tempo perduto sembrava sparire, allora, e tornava invece quello di Etienne. Etienne, Etienne. Le bende conservavano ancora l'odore di Etienne.

Permetteva a Morrigan di uscire quasi tutte le notti: non fuori dalla porta di casa, in strada, ma nel cortile interno.
Il cortile era un rettangolo stretto ed allungato ingombro di verde incolto: l'erica era cresciuta ovunque, selvaggiamente, e apriva infiorescenze che di giorno sarebbero state violacee, ma dopo il tramonto erano blu e nere. C'erano ranuncoli che la luna faceva di un pallido azzurro, ed edera attorcigliata alle pareti rovinate. La pozza d'acqua al centro del cortile era coperta da una spessa, morbida pellicola vellutata di muschio e foglie morte; una volta doveva essere stata un'elegante vasca di pietra, una fontana, ma adesso l'acqua era scura, il fondo non si vedeva più. Nel mezzo facevano bella mostra di sé due ninfee sopravvissute ostinatamente allo sfacelo della casa.
Il cielo sopra il cortile era nulla più che un riquadro di buio e di stelle.
A Morrigan piacevano i fiori dell'erica. Stava inginocchiata in mezzo alle foglie e ai fusti contorti e se li faceva passare tra le dita con lente carezze.

Gabriel teneva Morrigan con sé fin quasi al mattino. In giardino o nella casa, la prendeva sulle ginocchia e la fiutava, l'annusava, le accarezzava i capelli per cercarvi l'odore dell'erica del cortile, quello della polvere, quello dei vestiti e del materasso nuovo. La lasciava girare nel cortile, nei corridoi, nelle camere. Le dava da mangiare e la guardava mentre si cacciava in bocca pane, latte, biscotti, la carne in scatola e le cipolle sottaceto.
C'era un negozio, all'angolo orientale di Candledoore Square, che la sera restava aperto fino a tardi. Gabriel andava a fare la spesa come facevano la spesa gli umani: aveva un cucciolo d'uomo, adesso, e doveva prendersene cura. Doveva nutrirlo, doveva dargli da mangiare cose che lo facessero stare bene. Morrigan lo divertiva, Morrigan era piacevole. Non la voleva morta, ancora.
Un giorno ritornò a casa con una busta di limoni. Guardò Morrigan aprirne uno, morderne la polpa liquida, luminosa, e poi sputare e tossire e respingere il frutto con una smorfia. Un'altra volta le prese un cilindro di plastica morbida piena di qualcosa chiamato yogurt. Gabriel non ricordava di averne mai mangiato, da vivo, ma a Morrigan sembrò piacere.
Le mele. Le labbra di Morrigan bagnate del succo dolce, gli occhi scintillanti perché quelle cose gialle e tonde e dure dovevano essere buone, di suo gradimento. Gelato, l'aveva visto nelle mani di una coppia di adolescenti appena fuori dal supermercato e aveva pensato che Morrigan l'avrebbe apprezzato. Osservare Morrigan mangiare la carne cruda di manzo, le dita sporche di rosso, il viso macchiato, e scoprire il giorno dopo che avrebbe dovuto cuocerla, prima.
Le dita sporche di rosso. Gabriel aveva dovuto usarsi violenza per resistere, per non bloccarla contro il tavolino e affondarle le zanne nella gola e bere, berla. Doveva essere dolce, Morrigan, anche per nutrirsi.

Di tanto in tanto Gabriel lasciava la casa e si allontanava per le strade della città.
Tornava prima dell'alba: apriva la stanza di Morrigan, la portava in cortile e restava con lei finché il sole non sorgeva. A volte aveva dei regali, come a volersi far perdonare l'assenza: ciondoli e collane e orecchini, borse, una giacca di seta, un paio di scarpe di velluto. Erano regali che avevano l'aspetto di qualcosa già messo, già usato, con l'odore di altre pelli, altri colli e capelli e mani, ma Morrigan sembrava felice lo stesso.
Gabriel faceva ritorno da queste sue gite sazio e quieto.

Vivevano una vita scandita da un sonaglio d'ottone, una vita come un carillon, fatta di abitudini che si ripetevano un giorno dopo l'altro, una notte dopo l'altra.
La loro vita cominciava poco prima del tramonto e finiva con l'alba.

Una sera Gabriel si sedette sul divano, le gambe allungate e una mano abbandonata sul bracciolo con una sorta di indolente, stracca eleganza, a osservare pigramente Morrigan: la ragazza se ne stava sdraiata per terra, prona, intenta a giocare con un grosso ragno. Aveva i capelli sciolti sulle spalle e sul collo, le striature viola e blu a spiccare come nastri sotto la luce della lampada da tavolo, il viso chiaro appena curioso, appena interessato. Sorrideva come sorrideva di solito, due punte di cortese disinteresse ed una di contentezza distratta.
Tutto ad un tratto si mise in ginocchio, tenendo il ragno stretto nel pugno sinistro, e gattonò verso Gabriel: si arrampicò sul divano per sederglisi accanto, il campanello d'ottone a tintinnare rumorosamente appeso alla sua caviglia, e allungò la mano verso di lui.
Il ragno le si arrampicava lentamente tra le dita, grosso come una moneta, di un marrone scurissimo. Gli occhi di Gabriel erano in grado di vedere tutto quel che era: la piega adunca delle zampe simili ad artigli, gli occhi spalancati come grumi minuscoli attaccati alla testa, il punto in cui il filo della ragnatela spariva nel corpo rigonfio.
- Ti piace? - le chiese.
Morrigan inclinò la testa da una parte e annuì.
- Non ti fa paura? - Morrigan sembrò stupita dalla domanda. Scosse la testa, l'espressione perplessa, e allungò ancora la mano - e il ragno - verso di lui, come un'offerta.
Gabriel le accarezzò la testa, distrattamente, osservando il piccolo mostro mentre le si incamminava sul palmo e cominciava ad inerpicarsi su per la manica del suo vestito.
- E io? - le chiese morbido. - Ti piaccio, io? -
Morrigan non ebbe bisogno di pensarci su: annuì senza neanche sollevare lo sguardo, con tanta sicurezza e tanta spontaneità che Gabriel non riuscì a trattenersi, e sorrise di nuovo. La strinse in vita e se la tirò addosso, ordinandole:
- Vieni qui. -
Ancora il tintinnare del sonaglio, mentre lei gli obbediva. Il ragno ne approfittò per tentare la fuga e Morrigan si sporse oltre il bracciolo del divano per provare a riacchiapparlo senza dover scendere dalle gambe di Gabriel. Lui la lasciò fare, divertito, strofinandole una ciocca tra le dita.
- Anche tu mi piaci. - le disse.
Anche lei gli piaceva. Era per questo che l'aveva presa, era per questo che non la uccideva, ancora.

Novembre passò in una bruma di notti tranquille.
Con la prima neve, arrivò dicembre.


Mi scuso per il ritardo nell'aggiornamento: avevo perso il conto delle settimane.
Immagine di Prisca Turazzi

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Capitolo 4
*** armadio ***




3. armadio



- Si tratta solo di un anno. - dice Monsieur Edouard Le Chevalier. - Un anno passa in fretta, dopotutto, e per te non passerà affatto. Al termine dell'accordo avrai esattamente lo stesso aspetto che hai adesso. -
Ma per Etienne non sarà così, Gabriel lo sa. Per Etienne quell'anno passerà, Etienne crescerà. A diciassette anni bastano pochi giorni a scavare gole di pietra su di un viso, far crescere una barba che quel viso lo cambia, incidere striature, cicatrici, cambiare uno sguardo pulito in quello aspro di un vecchio.
Etienne avrà il tempo di cambiare, mentre Gabriel non cambierà.
- Ho promesso. - dice allora. Edouard non lo ascolterà, oggi, ma forse domani lo farà. Se non domani, dopodomani. Il giorno dopo ancora. Quello dopo ancora. - Non serve usarlo. Farò quel che ho detto, io ho giurato, ho promesso. Vi prego. -
Edouard ride. Ha l'aspetto di un uomo meravigliosamente affascinante sui trent'anni, giovanile e sorridente, con occhi azzurri e un viso perlato. Veste come un nobile, parla come un nobile. Gabriel l'ha visto nutrirsi dal collo di una tredicenne mentre lei gridava, gridava, con il sangue a colarle sulle vesti chiare, e poi sorridere chinato sul suo cadavere. Edouard sceglie solo il meglio per sé, nulla che non abbia sangue di purissima aristocrazia nelle vene, nulla che non sia bello, che non sia aggraziato. Ha preso Gabriel per i suoi occhi nerissimi e i suoi capelli rossi e lucenti, e gli è piaciuto abbastanza da volerlo tenere anche
dopo.
Gabriel non lo odia per questo. Gabriel vivrà in eterno. Avrà in eterno capelli rossi, mai grigi, in eterno il suo viso liscio, integro e intatto, eternamente invischiato nella primavera della sua giovinezza come una libellula nell'ambra vetrificata.
Gabriel non odia Edouard. Gabriel odia che non ci sia Etienne, con lui, a spartire tutta quell'eternità giovanissima e meravigliosa che possono avere.
- So che mi sarai fedele. - Gli dice Edouard, e sorride indulgente. Aveva quel sorriso mentre spingeva la bambina a girarsi e le affondava le zanne nel collo. Ha quel sorriso ogni volta che si nutre. - Vogliamo fare un accordo, Gabriel...? -
Gabriel e Edouard hanno già un accordo. L'hanno stretto nel momento stesso in cui Gabriel si è reso conto che il suo nuovo corpo è stupendo e che ogni oncia di dolore provato durante la metamorfosi non è niente, nel confronto, assolutamente niente... ma Etienne non è stato trasformato. Etienne è rimasto umano. Mortale. Vulnerabile. Gabriel ha promesso a Edouard un anno di servizio, uno e uno solo, in cambio dell'eternità di Etienne.
La vuole. Vuole che vivano insieme, ancora, che siano eternamente insieme.
Edouard allunga una mano per accarezzargli il viso, brevemente, prima di girarsi per guardare il paesaggio che scorre al di fuori della carrozza. La Provenza è bellissima in questa stagione, viola di lavanda, verde di muschio e di pietre, bella anche nel buio. La luna bagna le cose di luce più che rischiararle.
- Servimi bene, Gabriel. - dice Edouard. - Servimi bene e in tutto. Se lo farai, penserò ad Etienne prima della fine dell'anno. Non è questo che vuoi? -
Edouard sorride, ma Gabriel non ci bada più. Meno che un anno. Meno che un anno e poi Etienne e Gabriel per tutta un'eternità. Non è questo che vuole?
- Sì. -


Sulla casa di Candledoore Square la neve era scesa per sigillare le porte e per mettere in ombra le stanze, accumulandosi agli angoli delle finestre e davanti ad ogni stipite. Tutto quel bianco purissimo, azzurrato, faceva sembrare ancora più scure le pareti scrostate; il cortile si era trasformato in una distesa uniforme, le ninfee erano appassite nella pozza ghiacciata, ogni lastra come uno specchio spezzato a riflettere il cielo grigio.
Durante la prima nevicata, Morrigan aveva alzato la testa, in giardino, e aveva spinto la lingua fuori dalla bocca per cercare di catturare un fiocco. Aveva rabbrividito a quel tocco freddo,e poi aveva sorriso. Era il quattro di dicembre.
Il giorno dopo Gabriel portò a casa una giacca di pelle da uomo che recava cucito sulla fodera un biglietto con un nome e un cognome che decisamente non erano i suoi; la diede a Morrigan perché faceva freddo, sempre più freddo a ogni giorno che passava, e il cuoio l'avrebbe tenuta asciutta, calda.
Non gli piaceva la neve, non gli piaceva vederla cadere. Non gli piaceva il silenzio improvviso delle notti di inverno, non gli piaceva il ghiaccio incrostato agli angoli delle finestre. Non gli piaceva veder piovere fiocchi bianchi sui capelli di Morrigan, guardare i suoi piedi affondare nello strato bianco, molle, infido, non gli piaceva. Non gli piaceva che fosse dicembre. Dicembre non era un buon mese.
Tutte le sere Gabriel passava del tempo con il suo armadio. Lo apriva e metteva le mani nei cassetti, tra gli oggetti, spalancava le ante e accarezzava quel che c'era all'interno, dicendo che dicembre sarebbe passato presto, sarebbe finito.
Dicembre portava la neve. Dicembre portava Etienne e portava Edouard. Dicembre lo rendeva nervoso e irritabile.

Se ne rese conto la sera in cui andò a cercare Morrigan, subito dopo il tramonto, e non la trovò nella sua stanza.
Non era la prima volta che accadeva: le aveva dato il permesso di girare per la casa a suo piacimento, dopotutto, e certe volte Morrigan scendeva giù per le scale e si sedeva sul divano del soggiorno, oppure percorreva tutto il corridoio del piano superiore e andava ad aspettare Gabriel davanti alla porta della sua stanza. Non usciva mai da sola, però. Neanche per andare in cortile.
Era tutto nella norma, insomma, ma quella sera gli parve intollerabile cercarla e non trovarla. Morrigan doveva essere dove lui voleva. Morrigan era lì perché lui l'aveva presa, l'aveva tolta alla gens del cimitero, e le aveva dato una stanza, un letto, le portava da mangiare e la lasciava vivere, e razionalmente Gabriel si rendeva conto del fatto che Morrigan sorrideva sempre e non cercava di scappare solo perché non era normale, non era lucida, era pazza com'era pazzo lui, anche se in maniera diversa, Gabriel si rendeva conto che Morrigan non gli era grata, non poteva ragionevolmente essergli grata, ma questo non gli impedì, quando non la vide dove si era aspettato di trovarla, di sentirsi furioso.
- Morrigan! - ringhiò, scendendo le scale. - Morrigan! -
Un tintinnio nell'atrio, e Morrigan apparve sull'ultimo gradino. Gabriel fece per andarle incontro, e sentiva tanto di quel freddo bruciante nello stomaco che pensò per un attimo che l'avrebbe presa, l'avrebbe bloccata contro il muro e, finalmente, avrebbe bevuto da lei; se ne sarebbe nutrito, com'era giusto, come doveva essere: ma Morrigan gli sorrise, trasognata, e gli andò incontro su per le scale.
Ad ogni passo un tintinnare, argentino, faceva musica.
Gabriel guardò il sorriso. Guardò il campanello. La fissò mentre gli si fermava accanto e guardava su, verso di lui, e pensò che un'altra ragazza, un'altra donna, umana o appartenente alla gens che fosse, avrebbe avuto orrore del suo viso sfregiato e rabbioso, delle sue ossessioni, un'altra avrebbe avuto paura, adesso, nel sentirlo urlare così furiosamente. Morrigan non aveva paura. Forse non era capace di provarne. Forse non capiva quanto lui fosse pericoloso, e questo era stupendo.
Allungò una mano per accarezzarle i capelli, invece che per schiaffeggiarla, e sentì il blocco ghiacciato nel suo stomaco sciogliersi in un qualcosa di liquido e caldo quando Morrigan non solo non si ritrasse, ma gli andò anche incontro con il viso.
- Domani uscirò. - le disse. - Starò via per tutta la notte. Vuoi andare in cortile, ora? -
Dicembre era un pessimo mese, pensò Gabriel, e nei pessimi mesi lui aveva bisogno di nutrirsi molto, di nutrirsi a lungo. La notte successiva avrebbe preso tutto il sangue che poteva, e questo - forse - l'avrebbe aiutato a lasciar stare Morrigan ancora per un po'.
Lei gli teneva la mano, mentre scendevano le scale, ed era calda.
Solo un po', si disse. Ancora un altro po'.

- Non è poi tanto importante. - Gli dice Etienne. - Stare così mi va bene, dopotutto. -
Gabriel siede dall'altra parte del tavolo e lo osserva mangiare. Il cibo si trasforma in sangue per Etienne, in carne e forza e vita, e questo è meraviglioso: ma ogni boccone che va giù è un boccone di qualcosa di
mortale, qualcosa che sta lì a ribadire che lui e Etienne non sono uguali. Non più. Non ancora.
- Non sarò tranquillo finché quest'anno non sarà passato. - Replica Gabriel. - E prima passerà, meglio sarà. Vuoi un'altra mela? -
- Sì, grazie. -
Gabriel non chiama un servo, ma si alza, si avvicina alla fruttiera, sceglie un pomo e lo sbuccia con cura per suo fratello.
Edouard ha al suo servizio decine di servi: servi che respirano, servi umani, eleganti valletti nelle loro divise color porpora e mela, i camerieri personali che si occupano di preparare le sue stanze, quelli che puliscono, quelli che cucinano, quelli che curano il giardino. Nessuno di essi dura mai più di qualche mese, così come mai più di qualche mese durano le case che abita.
- Non restare mai nello stesso posto... - Ha spiegato a Gabriel un giorno. - … tanto a lungo da permettere agli umani di vedere che c'è qualcosa di strano. Liberati di tutti quelli che hai avuto intorno, poi, e non preoccuparti della discrezione. - Quella sera aveva scelto per sé una ragazza graziosa dai grandi, immensi occhi azzurrissimi, fatti rotondi dal terrore. La teneva sulle ginocchia e lei, la gola forata, il sangue a scorrere giù tra i seni acerbi e pallidi, non aveva più neanche la forza di gridare, di reagire. Ma era cosciente, era lucida abbastanza da provare panico e nausea. Sapeva cosa le stava succedendo.
Edouard le aveva accarezzato una guancia distrattamente.
- Finché sei ricco, finché spargerai denaro e potere intorno a te, nessuno baderà alle piccole scomparse. Compra quelli che puoi, terrorizzane altri, uccidi il resto. Avrai una lunga vita, così. -
Gabriel aveva obiettato:
- Ma io non sono ricco. -
- Lo sarai. Tutto quel che è mio sarà tuo. -
- E di Etienne. -
Lo sguardo di Monsieur Le Chevalier si era fatto acuto, bizzarro. Aveva rivolto a Gabriel un'occhiata obliqua, prima di affermare:
- Penso che potrei essere sinceramente geloso di tuo fratello, Gabriel. -
Nel dirlo era stato quieto, molto quieto, ma Gabriel non riusciva, a ripensarci adesso, a non sentire un lieve brivido scorrergli giù per la schiena.
- Credo che Edouard non desideri trasformarti. - dice ad Etienne. - Sta lasciando passare troppo tempo. -
Etienne allunga una mano per prendere una fetta di mela dal piatto che il fratello gli porge:
- Non c'è fretta. - E poi, masticando il frutto con gusto: - L'anno non è ancora finito. No? -
Non c'era fretta, era vero, pensò Gabriel. Guardò Etienne mangiare e pensò che gli sarebbe mancato vederlo così. Il viso arrossato, il petto che si alzava e si abbassava. La pelle calda. Così vivo.


Etienne era stato un bambino gentile e un ragazzo adorabile.
Etienne era stato delizioso nel suo candore, delizioso nel modo in cui guardava con curiosità il sangue sulla tavola, quando Gabriel o Edouard lo lasciavano in giro, e non ne aveva paura.
Etienne aveva avuto fiducia in Gabriel.
Etienne non era diventato adulto. Etienne non era diventato immortale.
Erano passati quattrocento anni e, pensava Gabriel certe volte, non ne sarebbero bastati quattromila per riuscire a dimenticarsi di questo.


Il cinque dicembre, il sette. Il tredici, il sedici. La notte del diciassette - mancava una settimana a Natale - le vetrine di Candledoore Square erano piene di luci, e Gabriel avrebbe voluto romperle, infrangerle, allungare le mani e afferrare le decorazioni sfavillanti, i cristalli e i festoni, e strappare via tutto. Macchiare le vetrine di sangue, sporcare la neve con i cadaveri: sarebbe apparsa meno bianca, poi, meno assoluta. Non l'avrebbe più schiacciato.
Tornò a casa sentendo una specie di rabbia sorda, opaca, riempirgli lo stomaco e mescolarsi con il sangue del quale si era nutrito. Andava a cercarsi la cena lontano da Candledoore Square, perché le tracce andavano lasciate lontane dal proprio rifugio, aveva detto Edouard una notte di molti, molti, molti anni prima. Di giorno sarebbe stato indifeso, aveva aggiunto poi. Debole e dormiente. Aveva bisogno di un posto sicuro in cui stare, un posto segreto.
Spalancò la porta e chiamò:
- Morrigan! -
La ragazza doveva essere ancora nelle sue stanze, perché non ci fu nessun tintinnio di sonagli a rispondergli. Salì le scale, scacciando oziosamente con la mano un grosso ragno che si stava inerpicando su per la ringhiera.
Voleva portarla in giardino, lasciarla stare per un po' all'aperto. Voleva imboccarla con lo yogurt - aveva scoperto che era divertente darle da mangiare così, era personale. A Morrigan piaceva. Voleva spingerla a ballare nel corridoio, e il campanello alla sua caviglia avrebbe suonato così forte da coprire il rumore della neve che cadeva.
- Morrigan? - chiamò ancora, spingendo la porta della sua stanza. S'aspettava di trovarla lì, seduta sul letto, ma nella camera buia non c'era nessuno. Aggrottò la fronte. In cortile, forse...? In bagno? In cucina?
Ripercorse il corridoio e stava per scendere nuovamente le scale quando qualcosa tintinnò precisamente alla sua sinistra.
C'era la camera di Gabriel, lì.
La camera di Gabriel. La camera. L'armadio.
Sentì qualcosa salirgli dentro, crescere. Era qualcosa come rabbia, ma gelida, ghiacciata, incredula. Morrigan nella sua camera. Aprì la porta e la vide, per terra, di fronte all'armadio aperto. Morrigan nella sua camera. Di fronte all'armadio. Lei si girò, lo vide, si fece tutto ad un tratto molto rigida, molto ferma. Aveva le mani piene di oggetti, di stoffa, camicie. Morrigan nella sua camera. Di fronte all'armadio.
Stava toccando le cose di Etienne.


Un grazie a Tatan che ha accolto il richiamo della foresta e si è fermata a commentare lo scorso capitolo. xD

Immagine di Prisca Turazzi

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Capitolo 5
*** benda ***




4. benda



- Sento un po' di freddo. - aveva detto Etienne, e poi il vaso gli era caduto di mano.

Gabriel pensò per un attimo che l'avrebbe uccisa, mentre ringhiava e poi ruggiva e si spingeva nella stanza con forza tale da divellere la porta. Morrigan rimase immobile al suo posto, seduta in mezzo alle cose dell'armadio, le cose di Etienne, di Etienne, finché Gabriel non si chinò, non l'afferrò per un braccio e la strattonò in piedi.
La scrollò con violenza e non ebbe pietà nel sentire l'osso della spalla cigolare, la cartilagine spezzarsi. Morrigan spalancò la bocca e gridò per il dolore, la voce acutissima e infranta e come nuova, una voce mai usata. Morrigan non aveva mai parlato, prima. Non aveva mai pianto, mai urlato. Gabriel sentì di volerne ancora, di quella voce.
- Ti avevo detto di non farlo! - La trascinò fuori dalla stanza reggendola per il braccio lesionato e, quando la sentì afflosciarsi, le ginocchia che cedevano, invece che lasciarla andare insisté con maggiore ferocia.
Da Morrigan emerse un suono a metà tra un rantolo e un singhiozzo, debolissimo, prima che un altro strattone di Gabriel la facesse gridare nuovamente.
Scesero le scale e per un attimo lui pensò di portarla fuori, di buttarla in mezzo alla neve del cortile e straziarla lì, bere da lei, berla, finalmente fare quello che avrebbe dovuto fare sin dall'inizio. Avrebbe potuto ucciderla in cucina. L'aveva imboccata su quello stesso tavolo, e invece adesso ce l'avrebbe sgozzata sopra, come su un altare. Nell'atrio, sulle scale. Sul divano.
- Hai pensato che sarebbe stato divertente guardare dove non dovevi? - Sibilò feroce. - Hai pensato che non ti avrei fatto nulla? Che saresti stata perdonata? Ti stavo risparmiando! - La urlò, l'ultima parola, rabbiosamente. - Ti stavo risparmiando! Saresti vissuta ancora un po' se tu non fossi stata così stupida! -
Ai piedi delle scale, finalmente, si fermò. Morrigan tremava lì accanto, la spalla slogata piegata ad un'angolazione innaturale, il braccio che oscillava vistosamente, rigida per la sofferenza. Aveva il viso pallido, gli occhi sgranati, le pupille gigantesche. Guardava nel vuoto, con il respiro a sollevarle affannosamente il petto.
In cucina? Si chiese Gabriel, serrandole il polso con forza bastante a farlo scricchiolare. In cortile?
E invece spalancò la porta del ripostiglio delle scope, ai piedi delle scale, e ce la buttò dentro. Morrigan finì in ginocchio sul pavimento di legno. Si rannicchiò a chiocciola attorno al braccio leso, non appena si fu ripresa dalla caduta, e alzò gli occhi per guardare Gabriel.
Uccidila. Si disse lui. Uccidila, uccidila.
Ha disobbedito. Ha toccato le cose di Etienne, e le avevi detto di non farlo. Uccidila, uccidila. E' il momento giusto.
Sbatté la porta con forza, facendo girare la chiave due volte nella serratura, e le urlò attraverso il battente di legno:
- E ci morirai, lì dentro! -

Fu l'alba, poi di nuovo il tramonto.
Scese le scale di legno e accostò l'orecchio alla porta. Non proveniva nessun suono, dall'interno, nessun rumore: ma, aguzzando l'udito, Gabriel sentì Morrigan respirare.
Era ancora viva.
C'era un ubriaco che camminava da solo in una strada buia a due isolati da Candledoore Square. Era ancora molto vicino a casa, ma lui aveva molta fame. Gli scivolò alle spalle senza nessun rumore, gli posò un braccio intorno alla schiena. Lo tenne fermo mentre gli affondava le zanne nella gola e l'uomo mugolava, inorridito, con le corde vocali lacerate e il sangue che scorreva addosso a entrambi come un fiume, e poi lo colpì ancora e ancora, con ferocia, finché non ci fu più nulla, dentro di lui, che potesse essere bevuto.
Tornato nella casa, si fermò nuovamente davanti alle scale.
Doveva ucciderla, ucciderla, si disse. Doveva farla a pezzi, buttare i resti in mezzo alla neve e poi lasciare quella casa, quella città. La gens del cimitero ne sarebbe stata sollevata - Gabriel era un ospite inquietante e inopportuno - e tutto sarebbe tornato a posto.
Aveva avuto il suo giocattolo. Aveva avuto il suo carillon. Si era divertito abbastanza, e adesso il giocattolo si era rotto. Era tempo di cambiare zona.
Uscì nuovamente. Seguì una coppia appena uscita da un pub e stette loro alle calcagna per un po'. Erano giovani, erano carini. Lei forse aver bevuto un po' troppo, barcollava, lui la teneva in piedi. Uccise per primo il ragazzo, senza astio, per poi bloccare a terra la donna. Aveva lunghi, lunghissimi capelli neri che assomigliavano un po' a quelli di Morrigan.
- Ti prego. - singhiozzò lei. - Ti prego. -
La voce non era quella di Morrigan. Morrigan alla quale aveva slogato il braccio, che aveva fatto urlare. Morrigan che aveva chiuso nell'armadio delle scope.
Le spezzò l'osso del collo, prima di bere da lei. Quando ebbe finito con entrambi aveva la camicia viscida di sangue, la gola e il mento sporchi, appiccicosi. Trascinò i cadaveri fino al fiume - il fiume di Londra, grigio come il petrolio - e ce li lasciò cadere dentro: poi, senza pensare a ripulirsi la bocca, riprese la strada di casa.
Sentiva ancora fame, sentiva ancora vuoto.
Quando si fermò ad ascoltare, con la testa appoggiata alla porta dello sgabuzzino in Candledoore Square, il respiro di Morrigan era spezzato e affannoso.

Gabriel chiuse tutte le imposte, poco prima che il sole sorgesse. Mise i cuscini attorno al letto, si sdraiò su un fianco. Cercò la posizione più comoda e si portò le mani vicino al viso. Le bende erano circondate da un olezzo sottile e persistente, penetrante come una lama scura, che era sopravvissuto agli anni, ai secoli, ai viaggi.
Le bende venivano da un posto dove Etienne respirava ancora, da una camicia che Etienne indossava, da un tempo in cui Etienne era stato vivo, e con lui. Odoravano di vecchio. Di malato.
Gabriel le teneva accostate alla bocca perché così, pensava, nel sonno potevano parlarsi. Almeno nel sonno.
La luce del sole filtrò in Candledoore Square, ma non raggiunse l'interno della vecchia casa.

- Sento un po' di freddo. - aveva detto Etienne, e poi il vaso gli era caduto di mano.
Gabriel si era precipitato ad afferrare suo fratello prima che seguisse sul pavimento il vaso; l'aveva sollevato e preso in braccio in un unico movimento, era corso al piano di sopra e l'aveva deposto nel letto. Etienne scottava, bruciava di febbre. Aveva gli occhi lucidi.
- Fa molto freddo. - aveva detto ancora, bisbigliando. - Molto. -
Gabriel aveva pensato
aiuto. Aiuto, aiuto, aiuto...

La terza notte non aveva ancora voglia di vedere Morrigan, ma sapeva che, se l'avesse lasciata nello sgabuzzino senza far nulla in proposito, sarebbe morta lì dentro di fame e di sete, molto semplicemente. E questo non andava bene, pensò Gabriel. Se fosse morta così non avrebbe potuto berla.
Aprì la porta ai piedi delle scale e un odore rancido di fluidi, di secrezioni e di dolore emerse in una nube quasi tangibile. Morrigan era esattamente dove l'aveva lasciata, raggomitolata nel buio, e lo guardava con un'espressione confusa, annebbiata. Non sembrava troppo presente a sé stessa.
Gabriel aveva pensato di buttarle dentro qualcosa da mangiare e di richiudere la porta subito dopo, ma il fetore era troppo anche per lui. Non lo sopportava. Non gli piaceva. Non si sentiva l'odore di Morrigan, così, non si sentiva il suo sangue.
Provò a tirarla fuori dallo sgabuzzino a forza di strattoni, ma lei inciampava, barcollava. Sbatté contro una parete e singhiozzò quando l'urto le scosse la spalla ferita. Gabriel si risolse, alla fine, a prenderla in braccio e portarla in bagno. La mise nella vasca, così vestita com'era, e aprì l'acqua corrente per lavarla: quella che usciva dai lavandini era rugginosa, come sempre, e a malapena tiepida, ma, quando Gabriel ebbe finito, Morrigan era pulita. Le tolse i vestiti, senza troppo curarsi del suo braccio dolorante, e gliene diede di puliti. La imboccò e la ragazza mangiò dalle sue mani, avidamente. Aveva provato a bere l'acqua che usciva dal tubo, prima, ma Gabriel gliel'aveva impedito colpendola sulla faccia ad ogni tentativo. Le diede una bottiglia di latte, adesso, e l'acqua pulita che acquistava in casse al negozio all'angolo. Morrigan bevve tutto, mangiò tutto, e si lasciò tirar fuori dalla vasca e riportare indietro senza cercare di resistere.
- Ti strapperò gli occhi, forse. - disse, e lo pensava davvero. - O le orecchie. Se non le usi per ascoltare gli ordini, allora a che ti servono? -
Morrigan strinse con una mano il braccio di Gabriel, quando furono nuovamente ai piedi delle scale, ma lui si limitò a scrollarsela di dosso e a spingerla nuovamente dentro lo sgabuzzino.
Un attimo prima che la porta si chiudesse vide gli occhi della ragazza levarsi a guardarlo, argentati come specchi rotti.

Gabriel aveva supplicato Edouard.
- Aiutami. Ti prego. L'anno è quasi finito. Avevi detto che l'avresti trasformato. Avevi detto che l'avresti fatto, se ti avessi servito, e io ho fatto tutto quel che mi hai ordinato. Farò tutto quello che mi ordinerai fino alla fine dell'anno ma, ti prego, fa' questo per me. -
E' il momento giusto, questo, è l'ultimo momento possibile. Edouard non rifiuterà. Edouard trasformerà Etienne. Lo renderà immortale. Edouard lo salverà.
Ma Edouard alza la testa, fissa Gabriel con quello strano sguardo che ha sempre sul viso quando si parla di Etienne e, molto semplicemente, dice:
- No. -


Un grazie a schwarzlight, che partecipa al programma Adotta una storia anche tu
, e a Piccolo Fiore del Deserto, Tatan e Thiliol che si sono fermati a commentare lo scorso capitolo. Grazie a Ichibanme_Arisu per la segnalazione di questa storia per la Scelte.

Un'osservazione di schwarzlight sulla scelta del nome di Morrigan mi ha fatto realizzare che, in effetti, non avevo spiegato ancora il perché dei nomi.
Partiamo proprio da Morrigan: Mòrrigan, (vedi qui) è una divinità femminile irlandese che governa la morte, la passione, la guerra. Generalmente raffigurata come una donna dai capelli e dalle vesti rosse, o sottoforma di corvo, uno dei possibili - ma non probabili - significati del suo nome è regina dei morti; alcuni linguisti associano il suo nome alla stessa radice di Muirgen, derivato di "mor", "mare", che in italiano diviene Morgana. Gabriele, (vedi qui), angelo o arcangelo, è figura comune alla religione cristiana, a quella ebraica o a quella musulmana. Il suo significato, derivato dall'arabo, è "Dio è grande", ma anche "Uomo di Dio". Tradizionalmente è messaggero di Dio, portatore del suo giudizio. Etienne, o Stefano (vedi qui), è il primo martire cristiano. Il nome Edouard deriva da "ead", "terra", "proprietà", "ricchezza", e "ward", "custode", "guerriero", "guardiano"; è poi un nome ricorrente nelle famiglie regnanti d'Inghilterra. Per un personaggio così possessivo, mi sembrava l'ideale.

Immagine di Prisca Turazzi

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Capitolo 6
*** nastro ***




5. nastro



Gabriel tiene la mano di Etienne mentre questi tossisce sangue sulla sua camicia bianchissima, mentre boccheggia, gli lava la bocca con un panno pulito, gli asciuga la fronte. Lo tiene al caldo e lo culla, dolcemente, dicendogli che andrà tutto bene, mentendogli, andrà tutto bene, Etienne, tutto bene. Andrà tutto bene.
Cade una neve pesante oltre le cortine e le tende, oltre i vetri alle finestre, che dipinge ogni cosa di bianco e di gelo.
E' quasi l'alba quando lascia sul letto a raffreddarsi il cadavere di suo fratello, perché ci sarà tempo per il lutto, poi, tutto il tempo di questo mondo, un'eternità e anche oltre, e raggiunge le stanze di Edouard.

Il sole sorge la mattina di Natale su un mondo innevato in cui Etienne non respira più, e Gabriel nemmeno - però è vivo - e i loro visi non sono più uguali.
Edouard è morto, adesso. Gabriel è solo. Edouard l'ha sfregiato durante lo scontro, e Gabriel è solo. Notte, notte. Vorrebbe che venisse notte per sempre.


Il sole tramontò la sera della viglia di Natale. Nella casa di Candledoore Square Gabriel se ne stava seduto davanti ad un armadio spalancato e teneva tra le mani diciassette anni di vita, i diciassette anni che avevano contato più che tutti quelli che erano seguiti, poi, più che tutti quelli che sarebbero seguiti mai.
Aveva tra le dita la seta di una sciarpa vaporosa, vecchissima, trasparente, la fibbia metallica di una cinta. Le bende gli s'erano sciolte attorno ai polsi e pendevano molli, flosce. Tutto aveva odore d'Etienne, sentore d'Etienne, forma d'Etienne, ricordo d'Etienne. Tutto era come i talismani che teneva al collo, antico e morto e perduto, ma le cose nell'armadio non servivano a fermare il tempo. Etienne non sarebbe stato mai più con lui. Non l'avrebbe avuto mai più, neanche dopo, perché Etienne era morto come un essere umano, e Gabriel, invece...
Affondò il viso in una camicia e pensò che doveva essere dolore, quello, straziante. Sentiva un vuoto allo stomaco che era come quello della fame, ma incandescente. Lo logorava.
Pensò che avrebbe potuto uscire a cercarsi una cena. Trovare un posto pieno di luci di Natale, di decorazioni, ed entrare per uccidere le persone al suo interno. Strappare il vischio dalle pareti e bruciarlo nei caminetti accesi, sporcare con il sangue l'albero, il pavimento. Macchiare la neve, macchiarla.
Pensò che avrebbe potuto dar fuoco alla casa. Portare fuori l'armadio e poi appiccare l'incendio ai mobili polverosi, e guardarla bruciare. Il legno vecchio e asciutto sarebbe arso in un attimo, e dopo ne sarebbero rimaste solo ceneri.
Pensò che c'era Morrigan, nello sgabuzzino. Morrigan che respirava ancora, ma che domattina non avrebbe più respirato.
Si alzò e lasciò cadere a terra le cose di Etienne. Strinse le bende tra le mani, aggrappandosi ad esse come fossero funi, corde, una rete verso la salvezza, mentre usciva dalla stanza. Scese le scale - lentamente. Non c'era fretta, non c'era ansia. L'alba era ancora lontana.
Avrebbe bevuto dal collo di Morrigan. Si sarebbe seduto sull'ultimo gradino in fondo alle scale e l'avrebbe tenuta ferma tra le braccia mentre si nutriva da lei, di lei. Morrigan aveva sbagliato. Morrigan sarebbe stata punita, ma lui sarebbe stato misericordioso, in questo, non le avrebbe causato troppo dolore. Sarebbe stato gentile con lei.
Dalla porta chiusa proveniva il suono debolissimo di un respiro molto stanco. Era un suono fievole, affannato, e tutto ad un tratto Gabriel si scoprì immobile sulla soglia, senza alcun desiderio di aprirla. Doveva aprirla. L'avrebbe fatto. L'avrebbe uccisa. Aprila, si disse. Aprila.
Lo fece.
Lo sgabuzzino buio, la nuvola di fetore. Il gelo e il panico e gli occhi grigi che si sollevavano verso di lui, che si serravano nel tentativo di metterlo a fuoco.
- Sento un po' di freddo. - aveva detto Etienne.
Anche Morrigan doveva avere freddo, adesso. Stava piegata tutta da una parte attorno al braccio ferito, e Gabriel si chiese se avrebbe potuto ballare anche così, se si sarebbe potuta alzare in piedi e girare, girare, girare...
Ma tanto, che importava? A chi importava, adesso? Stava per morire.
Glielo disse:
- Stai per morire. - Morrigan lo guardava ancora e non sembrava spaventata, confusa, niente. Solo molto lucida, e molto stanca.
- Stai per morire. - ripeté lui. - Non hai paura? -
Morrigan non annuì né scosse la testa, ma si avvicinò alla porta dello sgabuzzino - si avvicinò a lui. Dovette strisciare per riuscirci, perché non sembrava capace di risollevarsi da terra.
- Stai per morire. - Ancora e ancora. - Ti ucciderò. -
Si accovacciò davanti a lei, allungò una mano per sollevarle la testa ed esporle il collo. Morrigan si piegò in avanti e, inaspettatamente, gli appoggiò una guancia alla spalla.
- Mio. - gli disse.
Aveva una voce meravigliosamente rauca, roca, una voce che sembrava uscire dal fondo del suo stomaco più che della gola, una voce che non sembrava essere stata usata spesso. Una voce come miele, liquida, fusa, e con quella fusa voce lei gli disse di nuovo:
- Mio. -
E poi gli annidò la testa contro il collo.

Anche Edouard l'aveva guardato, un attimo prima che la testa gli venisse staccata dal corpo con uno strattone, e non aveva detto niente. Aveva sorriso, solo, di quello strano sorriso che aveva sempre prima di nutrirsi, e Gabriel se n'era sentito agitato, spaventato, per un attimo; ma poi Edouard aveva chiuso gli occhi e il suo capo era volato via.
Non aveva opposto molta resistenza, aveva pensato Gabriel, inebetito. Guardando il cadavere, si era sentito tutto ad un tratto vuoto.
Edouard aveva lasciato morire Etienne. Edouard aveva preso Gabriel con sé, era stato indulgente, accomodante. Edouard aveva accontentato tutti i suoi capricci, tranne quello che proprio capriccio non era - non l'aveva accontentato per Etienne. Edouard era stato geloso, adesso Gabriel lo capiva, geloso e frustrato e furioso perché il compagno dai capelli rossi e dagli occhi neri che s'era scelto, il bel compagno educato che non sapeva bene cosa fosse la morale umana, questi, ebbene, aveva un fratello, la sua cosa preziosa. Non si possono avere due cose preziose contemporaneamente, questo Edouard l'aveva capito.
Era morto per questo.
Fissando la sua testa spiccata, Gabriel si era detto:
sono solo, adesso. Sono solo.

Gabriel tolse Morrigan dallo sgabuzzino prendendola tra le braccia, con delicatezza, badando a non toccare la sua spalla slogata.
Mio, si ricordava tutte le volte che per la testa gli passava il pensiero che avrebbe dovuto ucciderla, punirla.
Mio. La portò in bagno, riempì la vasca con l'acqua più calda che c'era. La lavò, l'asciugò. La mise sul letto e la vestì con gli abiti più belli che la gens gli avesse lasciato per lei. Le intrecciò i capelli, dopo averli pettinati, e, invece che cercare un nastro, sciolse una delle bende che aveva ai polsi ed usò quella.
Morrigan gli appoggiò ancora la testa contro una spalla e lui se la prese in braccio, sedendosi sul letto, per poterle passare le dita sulla schiena.
- Era di Etienne, ma adesso è tuo. Lo puoi tenere. - le disse, accarezzando il fiocco in fondo alla treccia. Era ruvido, mentre i capelli di Morrigan erano lisci, serici. Avevano un odore buonissimo, quand'erano puliti, buono quanto quello di Etienne.

Poco prima che fosse l'alba, si sfregò un polso contro le zanne sino a lacerare la carne innaturalmente liscia e le premette la ferita aperta sulla bocca.
- Bevi. -
Morrigan oppose resistenza, scosse la testa e cercò di tirarsi indietro, ma lui insisté:
- Obbedisci, avanti! -
E Morrigan lo fece. Succhiò piano e poi leccò il sangue che usciva con la punta della minuscola lingua rosata, e come un gatto inseguì le gocce sul palmo e sulle dita. Gabriel la osservava con curiosità, perché all'inizio Morrigan era sembrata preoccupata, timorosa, ma poi il sapore dovette piacerle, la sensazione - il potere - dovette inebriarla. Bevve e bevve e lui che le accarezzava il braccio sentì finalmente la cartilagine rimarginarsi, l'osso tornare nella sua sede. Morrigan mugolò per un'ultima fitta improvvisa di dolore, ma poi fu tutto guarito.
- Lo sai cosa sono io? - le chiese.
Morrigan annuì e rispose sicura:
- Mio. -
Mio.
La parola si trasformò in un brivido di piacere assoluto giù per la sua schiena, e Gabriel dimenticò tutto ad un tratto qualunque discorso razionale avesse in mente di portare avanti. Morrigan non aveva più paura e, ora che non era più rigida per il dolore, era morbida, era leggera. Era di nuovo il suo carillon ma adesso, mio, era ancora meglio di prima.
- Avrò cura di te... - esclamò. - … se resterai con me. -
Lo diceva, lo pensava.
Morrigan ricambiò il suo sguardo: e, per una volta, il viso che quegli occhi d'argento riflettevano apparve perfettamente integro, intatto.


Grazie di cuore a tutti coloro che si sono fermati a commentare lo scorso capitolo. Pubblico appena scoccata la mezzanotte, come Cenerentola, perché i prossimi due giorni saranno caotici come non mai, e non voglio trovarmi in ritardo con la pubblicazione di un altro capitolo.

Un altro capitolo, poi un breve epilogo, e la storia sarà conclusa. Per il 12 Febbraio, quindi, dovrebbe essere pubblicata integralmente. Al prossimo capitolo!


Immagine di Prisca Turazzi

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Capitolo 7
*** talismani ***




6. talismani



La notte successiva Gabriel spalancò le finestre nella stanza di Morrigan e divelse le sbarre della grata, accartocciandola come fosse stata fatta di cartapesta invece che di ferro. C'era una luna bianchissima, fuori, e nessuno a passeggiare per Candledoore Square. La mise a sedere sul davanzale mentre spostava il letto al centro della stanza, strappava via i vecchi tendaggi scuri e logori del baldacchino e li sostituiva con altri più luminosi, più vivaci. Li aveva tolti ad una delle camere del piano inferiore: avevano grossi buchi da tarme, bordi sfrangiati, ma alla luce della luna sembravano tingersi d'argento e di porpora.
Appese i pezzi degli specchi rotti al baldacchino, ed ogni raggio che vi finiva sopra era un riflesso di sole sull'acqua, una stella intrappolata nella stoffa. Morrigan sorrise, a vederlo, e fece oscillare le gambe allegramente. Il suono del sonaglio riempì la camera.
Gabriel portò nella stanza una poltrona, poi un basso, grazioso tavolino di legno al quale mancava una gamba. Strappò le tende alle finestre delle altre stanze per foderare le pareti e coprire le chiazze di muffa, scovò un grande tappeto polveroso che nascose le assi malandate del pavimento. Riempì la camera di cose che luccicavano, cose che splendevano. Un vecchio vaso di vetro dal becco rotto, pezzi d'ottone, pezzi d'argento ossidato. Ne appese diversi ad una striscia di rete e li fece calare giù dal lampadario. Appoggiò candelabri ovunque, in ogni angolo, riempì d'acqua una bacinella di porcellana scheggiata e lasciò a galleggiare sulla sua liscia superficie trasparente una candela di cera bianchissima, accesa.
Morrigan scivolò giù dal davanzale e si accovacciò lì accanto, e Gabriel si mise a sedere vicino a lei per poterla prendere in braccio.
- Ti piace? -
Lei annuì. Gli cacciò la testa contro una spalla, strofinandogli il naso lungo il collo. Lo cercava e lo toccava molto più spesso, adesso, con una fiducia assoluta, disarmante, le dita leggere come zampe di ragno posate sulle sue braccia, la pelle liscia di una guancia contro quella di Gabriel - che era liscia anche quella, sì, ma molto più tesa, molto più resistente, come qualcosa di molto elastico e molto robusto.
- C'è qualcos'altro che ti piacerebbe? - le chiese.
Morrigan lo guardò, l'espressione interrogativa, e Gabriel si domandò che cosa piacesse in genere alle ragazze. Aveva un vago ricordo di stanze piene di ninnoli, bambole, argenteria.
- Una bambola? -
Lei inclinò il capo da una parte e la sua perplessità sembrò aumentare.
- Fiori? -
Lei sorrise.
- Erica. - decise Gabriel.
Il giardino era stato pieno d'erica, pieno dei suoi fiori azzurri, e quando la neve si sarebbe sciolta ce ne sarebbero stati ancora, altri, nuovissimi e freschi nella primavera della casa antica.
Le avrebbe appeso festoni d'erica alle pareti. Ninfee nella bacinella, foglie secche, dorate, quello dell'autunno avanzato, in uno strato croccante a fare da tappeto in quella stanza.
Appese lenzuola vecchissime e consunte, il tessuto trasparente per i molti anni in cui erano rimaste ad aspettare negli armadi della biancheria, ai supporti del letto: ne fece una cortina tutt'attorno, un nido, e fece colare della cera sulla testiera per poterci fissare una candela. Il letto sfasciato sembrava una nuvola, ora, con Morrigan nel mezzo. La fiammella disegnava riflessi ambrati sulla sua pelle, ma più giù c'era la luna a bagnarle le gambe, le braccia, a farle di seta la pelle. In quella luce così pallida le sue vesti erano come nuove. Tutta la stanza era come nuova, e il viso di Gabriel aveva perso le sue cicatrici.
Si tolse dal collo un talismano prima che la notte finisse, la larga moneta antica di secoli che aveva portato per innumerevoli anni appesa al collo, e lo passò attorno alla gola sottile di Morrigan.
- Questo è il primo. - le disse, e sorrise nel guardarla torcere il capo per cercare di osservare la moneta.

Mentre l'alba iniziava, si sdraiò accanto a lei.
Morrigan gli si incuneò tra le braccia, rannicchiandosi, gli avvolse le braccia attorno allo stomaco e chiuse gli occhi. Lui non la strinse: addormentandosi sarebbe diventato gelido e rigido, come un cadavere, un corpo che non respira, che non parla, che non si sveglia, un corpo senza un cuore che batte. Non voleva che lei fosse costretta a restargli accanto, poi. Forse ne sarebbe stata spaventata. Le dita di Morrigan giocarono tra i suoi capelli rossi e, così pallide, erano come neve nel sangue. Lui la lasciò fare, socchiudendo gli occhi. Era stanco. Era sempre così stanco cinque minuti prima dell'alba, sempre così intorpidito, svuotato. Le augurò piano:
- Buon riposo. -
Si assopì mentre il sole accendeva in cielo, levandosi oltre le imposte sbarrate, strisce d'oro.

Quando si svegliò, Morrigan dormiva ancora attorcigliata addosso a lui. Il talismano al suo collo splendeva come un occhio caduto.


Qualche sera più tardi le chiese:
- Vuoi uscire? -
La ragazza, seduta sulle sue ginocchia, sorrise e assentì. Gabriel le premette la mano sulla schiena, lievemente, spingendola via:
- Va' a prendere la tua giacca, allora. -
Quando Morrigan scese le scale, cinque minuti più tardi, con la giubba di pelle troppo larga per lei a penderle addosso come da una stretta stampella, puntò diritta verso la porta che dava sul cortile; ma Gabriel la fermò e scosse la testa:
- Andremo da un'altra parte, stanotte. -
Gli occhi di Morrigan si accesero, scintillarono, e tutto il grigio che avevano attorno alle pupille si fece argento liquido.
Era la notte del trentuno dicembre. Le luci di Natale splendevano ancora oltre le vetrine ma, adesso, gli parevano più sopportabili: perché Morrigan ne era entusiasta. Morrigan correva da un negozio all'altro, da un lampione all'altro, cercando d'allungare le mani per toccare le lampadine colorate. Sulla neve lasciava impronte leggerissime, a malapena visibili, e il vento le soffocava con neve nuova in un battibaleno. Gabriel vestiva di nero, le strade erano buie e bianche. Morrigan aveva una gonna rossa, una camicia azzurra. Morrigan aveva le braccia piene di pizzi, una giacca di pelle marrone. Sotto ad ogni lampione la sua treccia scintillava di blu e di viola e il nastro che la chiudeva, il nastro che era stato una benda, prima, e prima ancora una camicia, sembrava a sua volta violetto nel riflesso.
Morrigan era colore e musica in un muto dicembre che di colori non ne aveva. Il sonaglio accompagnava i suoi passi tintinnando, e lei faceva giravolte in mezzo alla strada che erano come una danza di bambina, ininterrotta, senza pudore, senza vergogna, senza mostra. Spontanea come le ninfee ostinate.
Lasciarono Candledoore Square e le sue strade e imboccarono Victoria Lane. I muri del cimitero vennero loro incontro, e poi ci furono gli alberi, larici e querce e un grande salice piangente, tutto piegato oltre la recinzione, che si sporgeva verso il cancello con i suoi rami ad oscillare come un vessillo.

Il cimitero di St.George, in Victoria Lane, la notte era un paesaggio lunare. Non c'erano famiglie a camminare sui prati innevati, niente che respirasse all'interno delle sue mura. I defunti vegliavano, i lumini accesi sulle loro tombe come minuscoli occhi dorati, fuochi fatui.
Era bello.
Le panchine vuote sembravano ospitare gli spiriti dei morti. La fontana mormorava cantando azzurrata sotto ad una fetta di luna pallidissima, e il tetto dei salici e dei faggi era nero come inchiostro versato. C'era una luce chiara, nebbiosa, che trasformava le tombe in pietre cadute dal cielo, i fiori deposti in muschi, licheni rocciosi cresciuti a ricoprire il terreno alieno.
Morrigan scavalcò una lapide senza badarvi, e si fermò a raccogliere un grande fiore freschissimo da un vaso. Se lo appese ai capelli e Gabriel pensò per un attimo, distrattamente, che era sleale rubare ai morti: ma il proprietario della tomba sarebbe stato contento, si disse poi, perché Morrigan era bella, così. A tutti piacciono le cose belle.
Lei si mise a sedere su una grande, vecchia pietra tombale di roccia grigia e porosa, e Gabriel le si sistemò accanto. Morrigan piegò la testa per appoggiargli una guancia alla spalla, e lui sorrise e le avvolse un braccio attorno alle spalle. Era piacevole reggerla così, badare a tenere lenta la stretta, morbide le dita, perché la ragazza che aveva tra le mani era umana, fragile e delicata, e lui doveva aver cura di quel che ne faceva, se la voleva conservare per sé.
La prese in braccio, dopo un po', per non lasciarla stare seduta a contatto con la tomba gelata. Si disse che era diventata una sensazione familiare, quella, un modo familiare di starle vicino: e tutto ad un tratto gli venne da chiedersi se qualcun altro mai l'avesse tenuta così, se qualcun altro l'avesse presa in braccio, mai, abbracciata, avuta.
Due mesi prima aveva pensato che la gens del cimitero l'avesse rubata ad un manicomio. C'erano ancora i manicomi in questo secolo, sì? Forse Morrigan veniva da lì, Morrigan e le sue assenze, Morrigan che aveva parlato per dire mio, sì, ma poi non aveva più detto nulla. Morrigan che aveva la testa e gli occhi sempre fissi su un qualche universo infinitamente distante. Aveva creduto potesse essere una buona ipotesi, ma non gli era interessato abbastanza da indagare: dopotutto, Morrigan sarebbe vissuta poco, no? Lui l'avrebbe uccisa presto. L'avrebbe tenuta in vita, ma solo per un po'.
Solo che adesso questo po' sembrava essere divenuto tutto ad un tratto molto.
Si scoprì a desiderare di saperlo. Voleva sapere da dove veniva, che cosa aveva fatto prima di finire a ballare in un cimitero davanti agli occhi dei morti - quelli che camminavano e quelli che riposavano sotto la terra quieta. Voleva sapere chi era stata sua madre, chi era stato suo padre. Da quale posto era arrivata. Voleva sapere altro, di lei, perché ogni cosa che avesse scoperto avrebbe contribuito a fargliela avere un po' di più, ancora di più, sempre di più.
Si chinò per strofinarle il naso contro il collo, contrastando la sensazione di fame violenta che gli sorse nello stomaco a fiutarla così.
- Il mio nome è Gabriel. - le disse. - E vengo da molto lontano. -


L'ultimo vero capitolo. Dopo il prossimo, un brevissimo epilogo, la storia sarà conclusa: non pubblico i due capitoli insieme perché credo che ciascuno dei due abbia dignità di capitolo a sè stante, per così dire. xD

Un grazie a chi segue questa storia e si è fermato a lasciare un commento allo scorso capitolo. I ringraziamenti completi al prossimo - ultimo - aggiormanento!


Immagine di Prisca Turazzi

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Capitolo 8
*** fiocco ***




. fiocco



Nella penombra nebbiosa che precedeva l'alba, la casa in Candledoore Square aveva l'aspetto di un qualcosa molto più luminoso, molto più nuovo, come era stato il viso di Gabriel dal giorno in cui aveva tirato Morrigan fuori dallo sgabuzzino.
La ragazza spalancò la porta dell'abitazione ed entrò, ognuno dei suoi allegri saltelli sottolineato dal cantare del sonaglio, sparendo nell'atrio buio. Gabriel rimase indietro, osservandola, e si fermò sul primo gradino. La soglia, la casa, era quieta e silenziosa. Il cielo era grigio, ormai, un cielo da aurora imminente, e tutti i nervi in lui strillavano e gridavano che doveva entrare, ora, subito, mettersi al riparo prima che la luce e il calore lo raggiungessero e facessero di lui cenere. Gabriel era antico, e potente, ma non abbastanza da poter sopravvivere al sole.
Rimanere lì fuori sarebbe stata la morte.
Già morto, pensò, sono già morto.
Chiuse gli occhi. L'aria gli sembrava più calda, adesso, più densa. Era l'aria del giorno. Restare lì fuori era la morte. Restare lì fuori, aspettare che il sole sorgesse, e così non avrebbe avuto davvero più cicatrici, e tutto ad un tratto si sentì come se centinaia di anni di odio e follia gli fossero stati strappati di dosso. Il velo era caduto, e ora percepiva acutamente la nostalgia di Etienne - che non era più dolore - e quella per Edouard - e ne aveva nostalgia, oh, sì, Edouard che gli aveva dato una vita immortale, Edouard che l'aveva amato, che l'aveva scelto, Edouard che avrebbe voluto tenerlo come suo compagno e che gli aveva insegnato tutto quel che gli poteva insegnare, che l'aveva fatto nutrire da sé perché fosse potente, perché fosse al sicuro. Edouard che lui aveva ucciso, Edouard che gli aveva portato via la sua cosa preziosa.
Sempre più calore, giù, lungo la schiena, come un brivido ininterrotto. Il vento che gli si infilava nella maglia aveva il tocco di una bocca da forno, ma Gabriel sapeva che non era veramente così, che era solo una sua impressione. Era inverno. Nevicava. Non c'era nulla di veramente caldo, lì intorno, salvo...
- Gabriel? -
Vengo da molto lontano, le aveva detto, e poi: mi chiamo Gabriel.
Aprì gli occhi e Morrigan lo stava guardando, appoggiata con entrambe le mani allo stipite della porta. Aveva l'espressione confusa, uno sguardo interrogativo. Il nastro che Gabriel le aveva regalato - la benda di Gabriel, la camicia di Etienne - era stretto in un fiocco in fondo alla lunga treccia scura che le pendeva sulla spalla, morbidamente. La ragazza tese una mano verso di lui e chiamò ancora:
- Gabriel? -
Gabriel sospirò. Gli sembrò strano far passare l'aria in questo modo giù per la gola, giù nei polmoni. Muscoli atrofizzatisi dopo decenni d'inattività si mossero lentamente.
Salì un gradino, poi un altro, e Morrigan si allungò per stringergli il braccio. Gli strofinò le dita sottilissime, ossute, contro la spalla, le unghie a graffiarlo appena attraverso la stoffa; si chinò, poi, per appoggiargli il capo contro il torace.
- Mio. - espirò, contenta.
Gabriel sorrise. Le accarezzò la schiena, la treccia, giocò con il fiocco. Assentì:
- Sì. -

Mentre rientravano in casa, la porta che si chiudeva cigolando alle loro spalle, il sole si alzò a tagliare il cielo in una vampa di luce. Accese le nuvole, infiammò il vento.
Era il primo giorno dell'anno nuovo.


E con questo, La casa di Candledoore Square si conclude.

Di nuovo, grazie a storyteller lover, senza la quale questa storia non sarebbe mai nata; a Salice, che mi supporta ogni volta che prendo la tastiera in mano; a schwarzlight, che ha seguito questa storia dall'inizio alla fine, a Tatan, Thiliol, Gloria Caelum, Piccolo Fiore del Deserto, Emily Alexandre, che si sono fermati a lasciarmi un parere, un'opinione, consigli.
Un grazie a tutti voi, che avete letto.


Immagine di Prisca Turazzi

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