Boulevard of broken dreams di Gringoire (/viewuser.php?uid=68800)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** O'children ***
Capitolo 2: *** Papa, can you hear me? ***
Capitolo 3: *** Nothing left of me ***
Capitolo 4: *** Hurricane ***
Capitolo 5: *** E.T. ***
Capitolo 6: *** My body is a cage ***
Capitolo 7: *** Rolling in the deep ***
Capitolo 8: *** Starlight ***
Capitolo 9: *** Find a way ***
Capitolo 10: *** Seize the day ***
Capitolo 11: *** When we collide ***
Capitolo 12: *** One more cup of coffee ***
Capitolo 13: *** Bittersweet ***
Capitolo 14: *** Goodnight, travel well ***
Capitolo 1 *** O'children ***
1. O'children
Boulevard
of broken dreams
1
– O’children
Vide la mamma avvicinarsi, come sempre, tenendo fra le
dita una delle sue sigarette alla menta.
Sospirò rassegnato, osservando i cocci di vetro a terra. Non aveva fatto
apposta a rompere il vaso, ma lei non lo avrebbe ascoltato, come tutte le altre
volte.
Alzò la maglietta, vedendo la donna a pochi passi da lui.
Se la portò sulla testa. Dopo tutti quegli anni aveva capito come nasconderle
le lacrime ed evitare così la doppia punizione.
Si morse il labbro quando, dallo specchio, la vide allungare la mano. Portò la
maglia a coprirgli completamente il viso. Era pronto. Quella volta sarebbe
riuscito a non urlare e forse anche a non piangere.
Sussultò violentemente quando la mano di sua madre, dalle unghie laccate, gli
strinse il fianco per impedirgli di muoversi.
E poi lo sentì.
Il fuoco gli bruciava la schiena, penetrandogli nelle viscere e portandogli via
gli ultimi residui dell’infanzia come una colata di lava distruttiva.
Si morse a sangue il labbro, già costellato di cicatrici. Non doveva urlare.
Non doveva assolutamente.
Gli sembrò che quella tortura durasse secoli, ma finalmente quella mano gli
abbandonò il fianco, lasciandolo libero di fuggire in camera. Non si preoccupò
nemmeno di abbassare la maglietta, permise a malapena agli occhi di sbirciare
dal bordo del colletto per evitare di rompere qualcos’altro ed ottenere una
nuova punizione. La sua schiena ne era già costellata a colpa della sua
maledettissima goffaggine.
Chiuse la porta della stanza alle sue spalle e si sfilò lentamente la maglia,
rabbrividendo dal dolore quando il tessuto ruvido gli sfiorò il livido fresco
appena dietro la spalla, dove nessuno poteva notarlo per sbaglio. Li sceglieva
bene i posti dove ferirlo. La schiena in particolare era la zona preferita, ma
quando combinava qualcosa di grosso poteva arrivare a ferirlo anche sulle
braccia, le gambe – l’inguine particolarmente, diceva che poteva sentire meglio
il dolore in un posto tanto delicato -, il busto. Un paio di volte in viso,
costringendolo ad inventarsi una caduta dalle scale particolarmente violenta.
Ma le sue punizioni preferite rimanevano sempre le bruciature di sigaretta. O
sigaro. O qualunque cosa infuocata.
Si portò davanti allo specchio come ogni volta che lo feriva alla schiena, a
fare la stima dei danni.
Quasi non sentiva nemmeno più il dolore atroce che aveva provato la prima
volta. Talmente intenso da fargli desiderare di morire.
A otto anni.
Trovò la nuova bruciatura, rosso ardente, sotto alla scapola destra, lontana un
paio di centimetri da quella di sigaro risalente ad un paio di settimane prima,
quando aveva sporcato il tappetino d’ingresso di fango.
Era stata una giornata orribile, quella. Aveva piovuto ininterrottamente per
quasi due giorni e a scuola i compagni gli avevano rubato le scarpe di
ricambio, così che, giunto a casa bagnato fradicio – “Un po’ d’acqua non ti
farà certo male.” Gli aveva risposto sua madre la prima ed unica volta che le
aveva chiesto un ombrello – e pieno di fango fino nei capelli, non aveva potuto
indossare le scarpe pulite per entrare in casa.
Aveva provato ad entrare in punta di piedi, muovendosi il meno velocemente
possibile per evitare che anche una minuscola goccia di fango cadesse sul
pavimento immacolato.
Ma la fortuna non era dalla sua parte.
La cagnetta di sua madre era sbucata all’improvviso, azzannandogli come solito
il polpaccio e facendolo inciampare e finire lungo disteso.
Aveva avuto paura persino a muoversi ed era rimasto fermo là, tremando come una
foglia, finchè sua madre ed il suo nuovo fidanzato – “E’ molto ricco, tesoro.
Cosa ne dici di chiamarlo papà?” – non erano accorsi.
Il sigaro di lui – forse il più grosso che avesse mai visto – gli era penetrato
a fondo nella pelle, facendolo gridare come non mai.
Ma fortunatamente era riuscito a non piangere. Se solo sua madre si fosse
accorta di una lacrima, per quanto piccola e ben nascosta, le bruciature
sarebbero moltiplicate immediatamente.
“La vita fa schifo, Jude. Devi imparare a sopportare il dolore, gli uomini non
piangono.” Lo ammoniva ogni volta, prima di lasciargli un nuovo segno.
Sgattaiolò in bagno e si chiuse a chiave, pregando che sua madre non lo avesse
visto.
Non voleva – e a ragione - che andasse in giro senza maglia, chiunque avrebbe
potuto vederlo. Notare le cicatrici, i lividi, le bruciature che aveva sul
corpo.
Strappò un paio di pezzetti di carta igienica e li bagnò sotto al rubinetto.
Torse leggermente il busto fino a riuscire ad osservare il punto ferito nello
specchio a figura intera appeso alla porta. Allungò il braccio il più
possibile, arrivando a sfiorare con la pezza bagnata la bruciatura fresca.
Strizzò gli occhi.
Non era doloroso come appena fatto, ma non era nemmeno piacevole.
La inumidì completamente, dopodiché gettò i residui di carta nel water e tirò
lo sciacquone.
Rinfilò la maglia, di nuovo cercando di non sfiorare la ferita fresca e
serrando gli occhi dal dolore quando invece il tessuto, quasi beffandosi delle
sue paure, gli strisciò pesantemente sulla bruciatura.
Sapeva di meritarsi ogni singola
punizione, ma diamine, quanto faceva male.
Aprì lentamente la porta del bagno, tentennando, sperando che sua madre non
fosse appostata lì fuori, testimone oculare del fatto che avesse percorso il
corridoio a petto nudo e quindi pronta ad un nuovo rimprovero. Per una volta,
la fortuna lo strinse tra le sue braccia effimere, mostrandogli una via di fuga
completamente libera.
Ritornò in camera, chiudendosi la porta alle spalle.
Si guardò attorno, in cerca di un modo per passare il tempo quantomeno fino a
lunedì, fino al suo ritorno a scuola. I compiti li aveva fatti quella mattina,
quando si era svegliato, qualche minuto prima del sorgere del sole. La notte
soffriva di incubi tremendi, non appena riusciva a svegliarsi fuggiva dal
letto, da quella stretta che rappresentavano i lenzuoli e le coperte. Aveva
paura del giorno in cui non si sarebbe risvegliato da quegli incubi che gli
facevano trattenere il fiato, che gli impedivano di riaprire gli occhi.
Trovò il libro che aveva preso in prestito dalla biblioteca tra il diario ed il
quaderno di matematica, nascosto perché sua madre non lo vedesse e, in un
impeto di pazzia, lo gettasse nel cestino. Lo estrasse dal suo rifugio,
cercando di non far crollare i libri sopra al diario e ritornò con la mente al
mattino precedente, in cerca del segno.
Pagina 112.
Lo aprì e provò a stendersi sul letto, ma rimanere sdraiato di schiena in
quella condizione era una cosa impossibile e si voltò di pancia.
Riuscì a leggere appena un paio di pagine prima di sentire la porta della
stanza di sua madre sbattere e le molle del letto cigolare sotto il suo peso.
Doveva essere arrivato il suo fidanzato.
Sospirando rassegnato chiuse il libro – pagina 115, cercò di tenere a mente – e
lo mise di lato, portando le mani a coprirsi le orecchie. L’ultima volta aveva
sentito ogni cosa e le urla di piacere di sua madre erano il ricordo che nessun
bambino vorrebbe avere.
Prese a fissare l’orologio sul comodino, seguendo con lo sguardo il ticchettare
della lancetta dei secondi, sperando che girasse più in fretta.
Spazio
autrice:
Una nuova long, già ._.
Aspettate almeno il prossimo capitolo, prima di uccidermi per averne cominciata
un’altra, per favore T____T
Comunque *mette le mani avanti, in caso* ho già un paio di capitoli pronti ed
un’ispirazione folle, perciò spero di non farvi dannare per gli aggiornamenti
e, per dimostrare il fatto che vengo in pace, a breve arriverà anche un nuovo
capitolo di Lollolandia, perciò risparmiatemi, grazie ù_ù
Dimenticavo: il titolo della fic è preso – come immagino tutte saprete – dalla
canzone dei Green Day, anche se la versione che ho usato e che, siete pregate
di non etichettarmi come eretica, mi piace di più, è quella dei Gregorian;
mentre il titolo del capitolo è preso dall’omonima canzone di Nick Cave,
presente anche in Harry Potter. Se riuscite ascoltatevele entrambe, meritano *O*
Direi che ho detto tutto ù_ù
A presto.
-J
|
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Capitolo 2 *** Papa, can you hear me? ***
2. Papa, can you hear me?
2 - Papa, can you hear me?
Papa are you near me?
Papa, can you hear me?
Papa, can you help me not be frightened?
Finalmente
il suo amato lunedì era giunto.
Per qualsiasi ragazzo il lunedì era sinonimo di
disperazione, la fine della
pacchia e l’inizio di una nuova settimana, ma Jude si sentiva
incredibilmente
sollevato quando arrivava davanti all’edificio
dipinto di giallo che era la sua scuola. Era felice di rivedere ogni
singolo
mattone.
Si diresse all’armadietto, camminando raso muro per evitare
che come solito
alcuni ragazzini lo prendessero a spallate facendolo cadere, e sorrise
quando,
aprendolo, ritrovò la foto di lui appena nato in braccio al
padre.
Sfiorò i contorni bruciacchiati –
l’aveva salvata qualche anno prima dalle
fiamme tra cui sua madre l’aveva gettata perché
etichettata come “ricordo non
voluto”, guadagnandosi in cambio l’enorme livido
ancora visibile all’altezza
dell’inguine – e come ogni mattina diede il
buongiorno all’uomo che gli
sorrideva dall’immagine.
Peter Law era morto quando lui aveva appena compiuto un anno, travolto
da un
auto che sfrecciava a tutta velocità quando una sera era
uscito a comprargli il
latte per la cena.
Inutile dire che sua madre l’aveva sempre incolpato di ogni
cosa.
“Se non fossi stato allergico al mio latte, tuo padre sarebbe
ancora con noi!”
gli gridava ogni volta che le veniva uno dei suoi attacchi violenti,
per poi in
seguito picchiarlo. “E’ tutta colpa tua!”
gli ripeteva, ad ogni colpo. E lui restava
là, inerte, perché sapeva di meritarsi ogni
singola cosa.
Appese
la giacca e la sciarpa e lasciò i libri che
non gli servivano. Sorrise di nuovo alla foto, chiuse
l’armadietto e si diresse
alla prima lezione.
***
Passarono
quasi cinque anni da quel lunedì.
Cinque anni fatti di giorni sempre uguali, cinque anni di lividi,
bruciature,
punizioni di ogni tipo. Dolorose ma necessarie. Dovute.
Si caricò lo zaino in spalla, trattenendo un gemito di
dolore quando si ricordò
della striscia di carne fiammeggiante
che si era procurato il giorno prima, quando sua madre,
ubriaca, l’aveva
preso pesantemente a cinghiate solo perché
esisteva.
Cambiò spalla alla tracolla, sistemandola di modo che non
desse fastidio al
livido appena sotto il collo, afferrò le chiavi di casa ed
uscì, richiudendosi
la porta alle spalle cercando di non fare il minimo rumore. Sua madre
dormiva
ancora, se l’avesse svegliata a quell’ora del
mattino sarebbe stato punito
severamente.
Si incamminò.
Era al terzo anno di liceo, aveva scelto una scuola vicino casa
perché sua
madre si era detta non più disposta a sborsare soldi per
l’abbonamento
dell’autobus, ed ogni mattina lo aspettava una buona ventina
di minuti di
cammino. Il che, calcolata la sua statura e quindi la lunghezza delle
gambe e
la secchezza del fisico, non era questa gran fatica. Era abituato ad
alzarsi
presto o non dormire affatto e tenere un buon passo nelle giornate
d’inverno,
per scacciare il freddo che minacciava di avvolgergli le membra al di
sotto
della leggera giacchetta di pelle ormai lisa dalla frequenza degli
utilizzi e
dei lavaggi.
Quando arrivò nel cortile, i primi raggi del sole
cominciarono a fare capolino
all’orizzonte, cercando di riscaldare l’aria
pungente dell’inverno con scarso
successo.
Si strinse nella casacca ed entrò nell’edificio,
dirigendosi a colpo sicuro in
biblioteca.
L’odore di carta ed il calore del riscaldamento lo accolsero,
festeggiando
quando entrò nella sala. Forse gli unici felici di vederlo,
esclusa la bibliotecaria.
Salutò la signora dietro il bancone con un sorriso ed un
cenno del capo, per
poi dirigersi al solito tavolo, il più lontano possibile
dagli spifferi della
finestra, nascosto alla vista dalla scaffalatura dei gialli.
Mancava poco meno di mezz’ora all’inizio delle
lezioni; ogni mattina arrivava
in anticipo per potersi ritagliare un poco di tempo per se stesso.
Sua madre ultimamente aveva cominciato a disprezzare qualunque libro
non
scolastico capitasse in casa, costringendolo a nascondere le sue
letture
nell’armadietto a scuola. Tutti i giorni arrivava prima di
tutti gli altri e si
rifugiava in biblioteca con il libro di turno.
In poco tempo si era fatto amico l’anziana bibliotecaria, che
gli permetteva di
rimanere chiuso in quel posto anche oltre l’orario di
chiusura. Non gli aveva
mai chiesto il perché e Jude l’apprezzava anche
per questo, ringraziandola
mentalmente ogni singola volta che leggeva nei suoi occhi domande
scomode che tuttavia
sapeva non gli avrebbe posto.
Si sedette, cercando di non far strisciare la sedia sul pavimento
– sua madre
odiava enormemente quando capitava -, ed aprì il volume,
immergendosi nella
lettura.
Il suono della prima campanella lo riscosse, il vociare degli studenti
cominciò
a farsi sentire in corridoio. Uscì, diretto agli spogliatoi
accanto alla
palestra. Prima ora di educazione fisica, avrebbe fatto prima a
spararsi.
Solo quando giunse là si rese conto di non aver indossato la
solita maglietta
da ginnastica, sotto quella normale. Quando aveva educazione fisica di
solito
si premurava di vestirsi a casa per evitare che gli altri ragazzi
notassero i
segni della sua disobbedienza, ma quella mattina, sicuramente troppo
preso
dall’essere silenzioso per non svegliare sua madre, non si
era accorto di non aver
indossato la t-shirt.
Aprì l’armadietto. Fortunatamente ne aveva sempre
una di ricambio in caso di
emergenze. Il passato lo aveva reso previdente; pronto ad ogni
evenienza.
Come quella volta
che lo avevano pestato
nei bagni e la maglia gli si era intrisa di sangue, costringendolo a
cambiarla
prima della lezione per non dover dare spiegazioni scomode.
Abbandonò lo zaino sulla panca e si assicurò che
in giro non ci fosse nessuno,
dopodiché si tolse velocemente il maglione e
sospirò sollevato quando indossò
l’altra maglietta, coprendo di nuovo il corpo martoriato.
Non si era accorto che un ragazzo era entrato nello spogliatoio proprio
mentre
si cambiava e, purtroppo per lui, ci vedeva fin troppo bene.
---
Doveva
parlare con la coach.
Dopo la storta al piede che gli era costato quasi due settimane di
allenamenti giusto
poco prima del saggio di metà corso, la sua insegnante di
ballo gli aveva
preparato un esonero dalle lezioni di ginnastica fino alla fine della
scuola.
Quell’anno avrebbero fatto Romeo e Giulietta, non poteva
assolutamente
permettere che il suo protagonista finisse k.o. per una rognosissima
lezione di
educazione fisica.
“Bale!” fermò un ragazzo, afferrandolo
per la manica della felpa.
Blu e giallo. I colori della squadra di football del liceo.
L’altro si divincolò come scottato.
“Non mi toccare, Downey.”
Robert alzò le mani.
“Come desideri.”
“Cosa vuoi?” lo squadrò, assottigliando
gli occhi e muovendo qualche passo
lontano da lui, guardandosi attorno furtivo. Dovette giudicare il
corridoio
sgombro da pericoli, perché tornò a rivolgere
tutte le sue attenzioni al
ragazzo.
Nessuno doveva vederlo parlare con quella checca di Downey; quello che
come
sport praticava il balletto. Girava
voce che le docce comuni nello spogliatoio maschile gli piacessero
parecchio.
Era come un meno venti sulla scala della popolarità.
“Solo chiederti se la coach è in
palestra.”
“Non ne ho idea. L’ultima volta che l’ho
vista era negli spogliatoi.”
“Grazie.” Con un cenno del capo sparì
dietro l’angolo.
Decise di passare prima dagli spogliatoi, per sicurezza. Bale era un
cazzone in
gruppo, ma se preso singolarmente riusciva quasi a salvarsi. Quasi.
Spalancò la porta dello spogliatoio, riuscendo a bloccarla
con un piede giusto
un paio di secondi prima che andasse a schiantarsi contro al muro e
impedendo
alla sua presenza di palesarsi.
Fece il giro di tutto lo spogliatoio prima di rendersi conto che
l’unica
persona presente era un ragazzo mingherlino, talmente sottile che
sembrava
potesse volare via con un soffio di vento, con capelli biondicci, di
quel
colore indefinito tendente al castano che, per quanto tu ci possa
riflettere
tutta la vita, quando giungi ad una conclusione finisci inevitabilmente
per
ritrattare tutto.
Solo in un secondo momento, osservandolo meglio per cercare di
identificarlo
tra le migliaia di studenti che affollavano i corridoi, notò
i segni che gli
ricopriva tutta la porzione di pelle che riusciva a vedere.
Inclinò la testa, cercando di trovare un motivo a quei
segni, come a voler
ricostruire un reticolato tra quelle ferite che gli svelasse il nome di
chi le
aveva generate. Perché se c’era una cosa certa,
era che non fossero ferite
casuali.
Vide il ragazzo afferrare una maglia ed infilarsela velocemente, fece
giusto in
tempo a stamparsi l’immagine nel cervello, cosa per nulla
difficile per una
memoria paurosa come la sua.
Quando l’altro si voltò, certo di aver registrato
uno spostamento d’aria alle
sue spalle, non vide nulla se non la porta che si apriva mentre i suoi
compagni
entravano, accompagnati dalla campanella.
***
“Signor
preside, la prego, mi ascolti! So quello che
ho visto!”
L’uomo di fronte a lui congiunse le mani sotto al mento,
fissandolo da sopra
gli occhiali.
“La causa di quei segni può essere stata qualunque
cosa. Una caduta, una
perdita di equilibrio, una rissa. Qualunque cosa.”
“Ne aveva la schiena coperta.
Qualche
segno si estendeva perfino al torace. Una caduta non può
combinare cose del
genere. Nemmeno se tutti gli eventi da lei nominati accadessero insieme
potrebbe venirsi a creare una cosa del genere, mi creda.”
L’uomo continuò a guardarlo.
“Sono più che certo che qualcuno a casa sua lo
maltratti. Mi sono informato, si
chiama Jude Law, il padre è morto e non ha sorelle
né fratelli, vive solo con
la madre. Sono più che sicuro che sia lei la colpevole. O
quantomeno un di lei
fidanzato. Non ci sono tracce di un nuovo matrimonio.”
Il preside alzò gli occhiali, pizzicandosi la base del naso.
“Non hai prove per dimostrare una cosa del genere, ragazzo.
E’ una cosa molto
grave, quella che dici.”
Robert si proiettò in avanti, deciso a non mollare.
Ne aveva visti, di casi simili, suo padre era psicologo. Doveva
intervenire
prima che fosse troppo tardi. Prima che il ragazzo si convincesse di
meritarsi
sul serio quei marchi.
“Erano segni di cinghiate, e qua e là
c’erano anche bruciature di ogni tipo e
lividi grandi come piattini da tè. Di certo non se li
è fatti da solo, non crede?”
L’uomo dietro la scrivani si tolse gli occhiali, poggiandoli
sul legno chiaro.
“Mi servono prove, Downey, non posso andare in giro ad
accusare genitori di
violenze perpetrate ai danni dei figli così, senza una buona
motivazione e
qualcosa di decisivo tra le mani.”
Robert si sporse ulteriormente, spingendosi sul bordo della sedia e
poggiando
le mani sulla scrivania.
“Se gliele fornirò, mi promette che
farà tutto ciò che è in suo potere per
aiutarlo?”
Il preside sospirò, rassegnato.
“Tutto ciò che posso.”
Robert raccolse la tracolla da terra e se la infilò
velocemente, già con un
piede fuori dalla porta.
“Scoprirò quello che serve.” E se la
sbattè alle spalle, catapultandosi a tutta
velocità in corridoio.
Spazio
autrice:
Spazio per chiarire giusto il titolo, preso dall’omonima
“Papa, can you hear
me?” di Barbra Streisand. O da Glee, a seconda di quale vi
piaccia di più xD
Giusto, dimenticavo, le lineette (---), segnano un cambio di POV, anche
se
credo sia una precisazione inutile, ma tant’è.
Lettore avvisato, mezzo salvato ù_ù xD
A presto,
- J
|
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Capitolo 3 *** Nothing left of me ***
3. Nothing left of me
3
– Nothing left of me
There's no escaping
And no one's getting out alive
Era riuscito a tornare a
casa sano e salvo, incredibilmente.
Nessuno l’aveva fermato, nessuno gli aveva parlato. Ma soprattutto nessuno l’aveva
picchiato, quell’oggi, fortunatamente.
Bè, nessuno l'aveva picchiato per ora.
Giunse nella via dove abitava ed estrasse le chiavi da una delle taschine dello zaino, facendole tintinnare lievemente.
Quando arrivò nei pressi della porta, la solita sensazione di
terrore gli invase le vene, facendogliele tremare come se scosse da una
corrente d'aria troppo violenta. Fece un respiro profondo.
Coraggio, è stata una bella giornata e continuerà ad esserlo.
Training autogeno. Nessuno gliel'aveva mai insegnato, aveva imparato da
solo a calmarsi quando tornava a casa, quel posto tanto familiare che
non gli inviava quella sensazione di sicurezza e sollievo che dava al
resto del mondo, ma solo brividi freddi lungo la schiena ed un leggero
tremore sparso egualmente in tutto il corpo.
La chiave girò nella toppa e, con un clac
che gli parve più rumoroso di un colpo di cannone, la porta si
aprì. Estrasse il pezzo di metallo, riponendolo al sicuro nella
tasca della giacca mentre questo tintinnava allegramente tutt'intorno,
come felice di essere tornato al suo luogo di appartenenza.
Con un sospiro allungò la mano e girò la maniglia,
facendo girare il pezzo di legno su cardini e facendosi invadere
dall'ombra che usciva da quel posto nonostante le enormi e luminose
finestre che davano sulla strada.
Mosse qualcche passo incerto in avanti, richiudendosi la porta alle spalle il più silenzioso possibile.
Aveva paura, come sempre. Ma aveva imparato a gestirla.
Aveva imparato a gestire quasi ogni cosa, in effetti, non avendo
nessuno pronto ad aiutarlo e tendergli quantomeno una mano nei momenti
di bisogno.
Richiuse l'uscio dietro di sè e si addentrò
nell'ingresso, stando bene attento che la cagnetta di sua madre non
fosse in giro e cercando di fiutare nell'aria se c'era l'odore di
pericolo che aveva cominciato a riconoscere da quasi dieci anni.
Si mosse veloce e silenzioso, dopo aver verificato che la via fosse
libera, e si rinchiuse in camera, sigillandovisi dentro come
all'interno di un castello.
La sua fortezza personale, seppur sprovvista di ponte levatoio e fossato.
Non aveva trovato traccia di sua madre, sperava fosse uscita, in modo
che potesse tranquillamente sedersi al tavolo della cucina a fare i
compiti.
Era diventata la sua personale soddisfazione, nonostante capisse che
dopotutto era come mentire ad una donna che tutto sommato gli voleva
bene.
Si cambiò, posando accuratamente la tracolla accanto alla scrivania ed indossando una tuta pescata a caso dall'armadio.
Si infagottò per bene nella felpa troppo larga appartenuta a suo
padre, come se quel capo potesse fornirgli il calore umano di cui aveva
bisogno, e provò ad uscire in esplorazione.
Dopo un terzo giro di ricognizione, le sue mani smisero inspiegabilmente di tremare.
Sua madre era fuori. Rimase fermo qualche secondo, sperando si divertisse e stesse bene, si meritava un po' di svago. Lei gli voleva bene. Quando era piccolo l'aveva tenuto a vivere con lei sebbene non amasse molto i bambini, a dispetto della proposta di sua zia di prenderlo a vivere con sè, con i suoi cugini.
Tornò in camera e recuperò i libri di matematica, il
diario e l'astuccio e, sentendosi in pace con il mondo, si sedette al
tavolo di cucina, spargendo le sue cose tutt'intorno. Sorrise,
osservando quella disposizione. Lo faceva sentire stranamente libero,
sua madre odiava il disordine e non gli permetteva mai di uscire dalla
camera finchè non avesse finito i compiti.
Aprì il diario e decise di cominciare da algebra.
---
Era
stato un gioco da ragazzi infilarsi in segreteria e distrarre la
nuova addetta, spedendola in un'ala della scuola con la scusa che
qualcuno aveva bisogno di lei.
Una richiesta così urgente - "Dai piani alti", le aveva detto -
che lei non si era nemmeno posta il problema di lasciarlo solo in un
posto solitamente vietato agli studenti, con la promessa che, in caso
di emergenza mentre era via, si sarebbe occupato lui del malcapitato di
turno.
Non appena era sparita dietro l'angolo, era strisciato fino allo
schedario alto fino al soffitto che occupava quasi una parete intera di
quel misero buco che era la segreteria e, individuata la lettera L,
aveva scorso i fascicoli degli studenti fino a trovare ciò che
gli serviva.
Si guardò intorno, adocchiando un blocco di post-it - gialli,
che schifezza classica - sulla scrivania. Meno di un minuto dopo era
uscito dalla stanza, richiudendosi la porta alle spalle e sparendo in
corridoio come se nulla fosse, con il foglietto con l'indirizzo di Jude
Law al sicuro nel suo portafoglio, tra le banconote di paghetta fresche
fresche di quella mattina.
Il cellulare gli vibrò nella tasca posteriore dei jeans.
Rispose senza nemmeno leggere il nome del mittente, era più
tardi del solito, quella al telefono doveva essere senz'altro sua
madre, preoccupata e ansiosa di sapere dove fosse finito.
"Robert Downey Junior!" sbraitò una voce al telefono.
Infatti.
"Ciao, mamma."
"Si può sapere dove diavolo sei finito?! Ti rendi conto che sei in ritardo di un'ora e mezza?! Un'ora e mezza, ragazzo!"
Avvertì in sottofondo la voce di suo padre che cercava di
calmare la moglie, mentre sua madre, ignorandolo, continuava
imperterrita ad urlare come un'aquila nel suo timpano.
Allontanò la cornetta, cercando di mantenere un minimo di udito.
Quel poco che gli avrebbe giusto permesso di sentire gli AC/DC in caso
si fossero messi a suonare a meno di mezzo metro da lui.
Sospirò quando udì provenire dal cellulare solo gli
ansiti furibondi di sua madre, che, dopo avergli urlato contro
giust'appena un polmone, cercava di riprendere aria.
Chiuse gli occhi, riportando la cornetta all'orecchio.
"Mamma, non urlare così tanto, che sai che poi ti viene la pressione alta."
Udì la donna ringhiare qualcosa, mentre la immaginava che
scacciava malamente la mano di suo padre intenta ad accarezzarle
affettuosamente la schiena per farla calmare. Prima che potesse anche
solo pensare di aprire bocca di nuovo - ormai la conosceva, di solito
riprendeva dopo un bel respiro profondo come quello appena sentito -,
la interruppe.
"Sto venendo a casa, comunque, arrivo."
"Sarà meglio." la udì borbottare mentre chiudeva la conversazione.
Ripose il cellulare ed affondò le mani nelle tasche dei
pantaloni, pensando ad una tabella di marcia per quel che gli restava
della giornata.
Un passaggio a casa giusto per tranquillizzare i suoi e poi avrebbe provato a passare da casa di Jude.
---
Aprì il libro di chimica, mentre con una smorfia spostava quello di geometria su una delle sedie libere.
Odiava la geometria, e dei problemi per il giorno dopo non glien'era
venuto nemmeno uno. Figurarsi. Lui odiava la geometria e la geometria
odiava lui, pace.
Pescò una matita dall'astuccio e posò gli occhi sul primo paragrafo.
Non aveva letto nemmeno un paio di righe, quando suonarono alla porta.
Probabilmente era sua madre che aveva scordato le chiavi di casa. Come sempre.
Si alzò, dirigendosi alla porta, ma poi si ricordò del
disordine sul tavolo di cucina. Se fosse stata veramente sua madre
l'avrebbe punito seriamente.
Velocemente impilò tutto quello che gli capitava sotto mano e
corse in camera da letto, gettando il tutto malamente sul letto e
chiudendo la porta alle sue spalle quando uscì.
Si controllò nello specchio del corridoio, sistemando la felpa
perchè coprisse tutti i segni sulle spalle ed il collo, e corse
ad aprire. Sarebbe stato punito, se lo sentiva, ci aveva messo troppo
ad aprire e se sua madre aveva qualcosa che le mancava, quella era la
pazienza.
Solo quando allungò la mano si accorse che essa aveva
ricominciato a tremare, come scossa da spasmi involontari. Gli ci
vollero un paio di tentativi prima di riuscire ad aprire.
Ma quello che trovò sulla porta gliela fece immediatamente richiudere.
In piedi fuori dalla porta stava un suo compagno di scuola. L'aveva
visto giusto un paio di volte, frequentavano storia insieme, ma si dava
quasi sempre alla macchia, bigiando la lezione. Se lo ricordava bene,
però, spesso udiva conversazioni che lo avevano come
protagonista, e la maggior parte delle volte - tutte, effetivamente -
era associato alla parola gay.
Rimase con la mano sulla maniglia, gli occhi sgranati dal terrore.
Non poteva, non poteva.
Non poteva invitare conoscenti a casa, non poteva nemmeno portarli fin
sul vialetto, quel ragazzo doveva andarse assolutamente. Se sua madre
l'avesse visto sostare davanti alla loro porta avrebbe senza dubbio
capito tutto e lui sarebbe stato punito davvero violentemente, per
quello.
Provò a ragionare il più velocemente possibile.
Decise per la soluzione migliore e, mettendo la catena alla porta, la socchiuse, rimanendo nascosto nell'ombra.
Lui era ancora là, sorridente, che si dondolava sui talloni.
"Tu devi essere Jude, io sono Robert."
Jude si ritrasse ulteriormente, rimanendo in silenzio.
"Vai via." lo pregò, sussurrando.
"E perchè mai?"
"Vai... vai via, solo questo."
Da quanto tempo era che non parlava con qualcuno della sua età?
Probabilmente settimane, se non mesi. Non gli era assolutamente
permesso avere amici.
Robert non lasciò perdere. Non era nella sua natura, dopotutto.
"Posso entrare?" Cercò di mantenere il sorriso, nonostante il
suo istinto gli dicesse di entrare in casa a forza e portare quel
ragazzo via da quel posto, lontano anni luce da quella donna orribile
che si ostinava a chiamare madre. Portarlo magari al sicuro nel calore
di casa sua, dove avrebbe potuto prendersi cura di lui. Suo padre
l'aveva fatto così tante volte con ragazzi che avevano problemi
simili ai suoi, sapeva per certo che non gli avrebbe detto di no.
Ma non poteva, era troppo presto, agire d'istinto l'avrebbe fatto
chiudere a riccio, doveva conoscerlo meglio e aspettare che si fidasse
di lui.
"No, ti prego, solo... vattene. Per favore."
Decise che per quel giorno era già un grande passo avanti, si
erano conosciuti - anche se Jude sembrava già aver ben presente
chi fosse, possibile che solo lui non si fosse mai accorto di quel
ragazzino mingherlino, tutt'ossa, che camminava nei corridoi magari
accanto a lui?
Alzò le mani in segno di resa.
"Come vuoi, me ne vado."
Effettivamente non si era nemmeno preparato una scusa da rifilargli per
quell'intrusione, andarsene era senza dubbio la cosa migliore da fare
in quel momento. Per entrambi.
"Ciao, Jude." sorrise, cercando di trasmettergli un po' di quel calore
che era certo gli mancasse da sempre, vista la condizione in cui
viveva, e girò sui tacchi, sparendo nel vialetto.
Jude richiuse la porta e volò in camera, chiudendo anche quella
porta, con il cuore in gola e gli occhi ancora spalancati dal
terrore.
Dopo qualche minuto udì la porta di casa aprirsi, mentre sua
madre entrava con qualche difficoltà, ridendo - quasi
sicuramente in compagnia del suo nuovo fidanzato -, e lanciava un paio
di esclamazioni di sorpresa trovando la catenella agganciata.
Fortunatamente fu troppo presa dal trascinarsi e trascinare il suo uomo
in camera da letto per provare anche solo a chiamare Jude e chiedergli
spiegazioni.
Per una volta, quando udì la porta della stanza accanto sbattere, si sentì un minimo più sollevato.
Prese la sua solita posizione a letto, sempre con gli occhi fissi sulla
sveglia, impegnandosi sul ticchettare dell'orologio quasi dimentico
dell'incontro di poco prima.
Ma quando udì delle grida dall'altro lato del muro e la porta di
casa sbattere dopo passi veloci, le sue mani cominciarono a muoversi a
scatti, tremando violentemente, pronte anche per quella sera alla resa
dei conti.
Perchè, per quanto lui
credesse che tutto quello che stava passando fosse meritato, il suo
corpo ancora riconosceva il giusto e lo sbagliato.
[Non
si nota che non ho ispirazione manco per una cippa, vero? Però continuo ad
amare troppo questa storia, perciò sono relativamente soddisfatta.]
Spazio solito per la canzone: Ben Moody – Nothing left of me
Se le altre volte ero certissima della mia scelta musicale, questa volta non mi
piace completamente, abbinata al capitolo, ma nulla toglie che è una canzone
magnifica, perciò ascoltatela come sempre ù_ù
Ce l’abbiamo fatta, un altro capitolo, qualcosa di piccolo si è mosso nel
mondo.
Vi lascio il solito schema e fine, và, meglio ._.
Lunedì:
Vuole che le arredi la camera da letto, Sir?
Giovedì (ogni 2 settimane): Mary
Poppins a Lollolandia
Sabato (ogni 2 settimane): Growing
up together
Domenica: Boulevard of broken dreams
A domani con qualcosa di
più allegro, quantomeno :D
- J
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Capitolo 4 *** Hurricane ***
4. Hurricane
4
– Hurricane
This hurricane’s chasing us
all underground
Si
mosse irrequieto sul materasso, stringendosi
nelle coperte.
Non riusciva a dormire e - seppur facessero una grande differenza - la
colpa
non era di certo del livido violaceo, fresco di appena qualche ora, che
gli
campeggiava sul fianco destro o della morsa stringente del freddo che
si insinuava
attraverso gli spifferi ed i vetri sottili della finestra accanto al
letto.
Alzò le lenzuola fin sopra la testa, mentre uno sbuffo
d’aria ghiacciata s’infilava
nel minuscolo spazio creatosi durante il movimento.
Rabbrividì e si voltò sul fianco sano, chiudendo
gli occhi in cerca delle
famose braccia di Morfeo.
Che a quanto pareva non volevano accoglierlo.
Soffrì improvvisamente il caldo e abbassò le
coperte, voltandosi e rivoltandosi
tra smorfie di dolore.
Possibile che non riuscisse a dormire per così poco? Non
credeva che la visita
improvvisa di quel ragazzo l’avrebbe sconvolto
così tanto. Nemmeno se in ballo
c’era la rabbia giustificata di sua madre.
E poi il giorno dopo c’era scuola. Si pizzicò la
base del naso, stendendosi di
pancia.
Attese qualche minuto.
Sbadigliò quando finalmente l’intorpidimento
associato al sonno ormai prossimo
lo accolse, ed in meno di un attimo si ritrovò in mezzo ai
soliti incubi che
ormai gli erano divenuti terribilmente familiari.
***
Si
svegliò come da abitudine: alzandosi di scatto a
sedere sul letto in un bagno di sudore, il terrore negli occhi.
Rimase fermo immobile qualche istante, rincorrendo il respiro
difficoltoso che
ogni volta lo costringeva a svegliarsi perché incanalava
troppo poco ossigeno.
Grazie al cielo il suo cervello era sveglio, alla prima avvisaglia di
apnea
notturna mandava segnali in tutto il corpo e lo svegliava. Per quanto
fosse di
soprassalto, quantomeno era vivo.
Era quello il motivo che lo spingeva ad avere paura del risveglio, di
quando
non si sarebbe più risvegliato. Perché sapeva che
un giorno sarebbe successo,
che gli impulsi sarebbero arrivati un secondo troppo tardi.
Sua madre ne sarebbe rimasta sconvolta, non poteva permetterlo.
Non appena i polmoni ripresero ad incanalare la giusta
quantità d’aria, Jude
scostò le coperte e scese dal letto, rabbrividendo
nell’aria gelida della
stanza. Il riscaldamento costava troppo ed a detta di sua madre a breve
sarebbe
arrivata la primavera, quindi sarebbe stato inutile accenderlo per sole
poche
notti.
Si vestì il più velocemente possibile,
infilandosi una maglia sopra l’altra, e
gettò un’occhiata all’orologio. Le
cinque meno venti.
Non si stupì nemmeno, aveva dormito addirittura dieci minuti
in più del solito.
Si guardò attorno ed individuò il libro di
matematica, lo afferrò e si stese
sul letto a ripassare per la ventesima volta gli argomenti del compito
di
quella mattina.
---
Robert
era uscito in ritardo.
Come sempre.
Ma quella mattina non si era perso come tutte le altre mattine davanti
allo
specchio cercando di dare una forma a quello che aveva in testa, si era
anche
svegliato venti minuti – venti! – prima del solito
perché sperava di
intercettare suo padre a colazione e spenderci due parole.
Si era buttato sulla sedia di cucina a tutta velocità,
sedendosi con la grazia
di un elefante.
“Undici anni di danza buttati dalla finestra.”
Aveva sentito sua madre
borbottare al nulla, mentre scuoteva la testa e faceva saltare la
pancetta in
padella.
Suo padre si limitò ad alzare appena il giornale, inarcando
un sopracciglio.
“A cosa dobbiamo l’onore della tua presenza a
colazione?” mordicchiò un toast,
mentre la moglie lasciava sul tavolo un piatto fumante.
“Papà.” Aveva iniziato Robert in tono da
diplomatico. “Ho una domanda sul tuo
lavoro. Ipotetica, sia chiaro.”
Doveva essere riuscito ad attirare tutta l’attenzione di
Robert Senior, perché questi
chiuse il giornale, lo piegò e lo lasciò di lato,
afferrando la pancetta.
“Ti ascolto.”
Robert incrociò le mani sotto al mento.
“Se conoscessi qualcuno con un problema di violenza
domestica, cosa faresti?”
Il signor Downey prese a masticare lentamente la pancetta, osservando
intensamente il figlio.
“Conosci bene questa persona?” prese ad elencare
mentalmente gli amici del
figlio, chiedendosi chi fosse il genitore feccia che osava una cosa
simile.
“No, di vista. E poi stiamo parlando di una persona ipotetica.”
L’altro annuì. “Certo, certo. Ragazzo o
ragazza?”
“Un ipotetico ragazzo.”
“Che subisce violenza fisica, per quel che ho
capito.”
“Esattamente.”
“Un’ipotetica
violenza fisica.” Si ricordò
di rimarcare per l’ennesima volta. Se c’era una
persona particolarmente brava a
mangiare la foglia, quella era suo padre. Dimenticarsi anche solo un
secondo di
star parlando per ipotesi l’avrebbe lasciato immediatamente
scoperto.
Suo padre si perse tra i pensieri, fermo con lo sguardo tra le venature
del
legno del tavolo.
Poi, improvvisamente, rialzò lo sguardo su di lui, come a
leggergli l’anima.
“Invitalo a casa.”
Ecco, come non detto.
Era stato scoperto in quanto? Dieci minuti?
Ma quella non era di certo la cosa peggiore.
La vicenda veramente complicata sarebbe stata invitare Jude a casa.
Le rotelle del suo cervello si misero a lavorare febbrilmente, in cerca
di una
soluzione.
“Ci sono!” scattò in piedi, rovesciando
quasi il piatto di frittelle che sua
madre stava portando in tavola. Fece le scale che portavano in camera a
due a
due, tanto era eccitato.
“Per l’amor del cielo, caro, chiama un
esorcista!” udì sua madre esclamare
all’indirizzo
del marito, mentre a tutta velocità si infilava una
maglietta ed un paio di
jeans qualunque, già in un tremendo ritardo come solito.
Doveva sbrigarsi se voleva parlare con la professoressa prima che
cominciasse
la lezione.
***
Arrivò
a scuola proprio mentre suonava l’ultima
campanella, fiondandosi in corridoio e poi nell’aula di
storia a tutta
velocità.
Fortunatamente erano presenti solo un paio di ragazze, troppo intente
ad
osservarsi lo smalto per prestare attenzione a lui. La professoressa,
poi,
nemmeno l’aveva notato.
Si stampò in viso il suo miglior sorriso e prese ad emanare
charme da tutti i
pori. Lo charme di emergenza, quello che occasionalmente utilizzava per
non
farsi pestare a sangue.
“Professoressa!” poggiò i palmi sulla
cattedra, mentre la donna seduta alzava
lo sguardo.
“Downey, buongiorno. Mi meraviglia vederti
qui…” osservò l’orologio al
polso “…prima
delle otto e mezza.”
Robert ignorò la frecciatina, mentre con la coda
dell’occhio notava la solita ressa
all’entrata dell’aula. In fondo alla fila,
invisibile a chiunque, Jude,
indeciso sulla soglia dell’aula. E la colpa era di certo sua.
“Mi chiedevo se potesse assegnare un lavoro a coppie, sono
ansioso di
approfondire con qualcuno la storia rinascimentale.”
Doveva parlargli, e in fretta, farselo amico il prima possibile e
fargli
rivelare la sua situazione a casa.
La Paltrow lo guardò da sopra gli occhiali.
“Sei forse malato, Downey?”
Fece scintillare sguardo e denti, tornando con l’attenzione
pienamente su di
lei. “Per niente, mai stato più serio,
professoressa.”
La vide sfogliare l’agenda. “Veramente oggi avevo
intenzione di partire con le
riforme religiose in Europa, ma se ci tieni tanto potrei darlo come
compito a
casa.”
“Mi farebbe veramente molto contento, e nel prossimo compito
potrei perfino riuscire
a prendere una sufficienza, con questo approfondimento.” Se
possibile ampliò il
sorriso.
La donna sospirò.
“E sia. Ora però vatti a sedere,
cominciamo.”
---
Quando
era arrivato sulla porta della classe di
storia, non aveva potuto evitare di pietrificarsi, lo sguardo puntato
alla
cattedra.
Quella mattina era talmente sovrappensiero che si era dimenticato che
Downey –
Robert – frequentava la sua stessa lezione. E non solo
quella, purtroppo.
Ma la cosa peggiore non era stata la sua presenza – anche se
per un attimo
aveva davvero pensato di svignarsela -, la cosa peggiore la stava
vivendo in
quel momento.
La professoressa era ferma davanti alla cattedra, con un sorriso che
andava da
un orecchio all’altro.
“Per questa settimana, come compito a casa, avrete un
approfondimento sulla
storia rinascimentale.” Giurò di vederla lanciare
un’occhiata soddisfatta a
Robert, in prima fila, mentre il resto della classe si lanciava in un
mugugno
di disapprovazione. “E dovrete farlo a coppie. Prego, vi
lascio gli ultimi
dieci minuti per dividervi.” Fece il giro del tavolo,
tornando a sedersi alla
scrivania e prendendo a riordinare tra le sue carte.
Se non avesse giurato di non soffrirne, Jude sarebbe stato certo di
essere sull’orlo
di un attacco d’asma. Non riusciva a respirare, non riusciva
a respirare.
Si fece il più piccolo possibile sulla sedia, diventando
quasi un tutt’uno con
il banco. Di solito nessuno lo notava, ma con Robert in giro non si
poteva mai
sapere.
E quando lo vide avvicinarsi con un sorriso smagliante, fu
definitivamente certo
di essere diventato asmatico.
Il panico gli strinse la gola. Doveva stargli lontano, non doveva avere
amici,
non poteva, non gli era concesso. Se fosse rimasto con lui avrebbe
fatto una
brutta fine, nel minore dei casi sarebbe rimasto scioccato a vita. Non
voleva
nemmeno pensare al peggiore.
No, no.
Si era infilato improvvisamente nella sua vita come un uragano: non
voluto ed
altrettanto distruttivo.
“Ti va di fare coppia con me?”
Un uragano che gli dava la caccia da
sottoterra e che gli avrebbe fatto crollare il terreno sotto
i piedi, se lo
sentiva nelle vene.
[Il
periodo di non-ispirazione continua, ma nessuno lo nota, vero? Naaaah,
nessuno,
nessuno.]
Capitolo inutile e tremendamente in ritardo. Il mio incubo peggiore si
sta
avverando, sto rovinando anche la storia a cui tenevo.
Posso anche andare a spararmi.
Prima però vi lascio la solita tabella e il titolo della
canzone, che immagino conosciate.
Canzone: 30 Seconds To Mars - Hurricane.
Ed ora la tabella.
Lunedì:
Vuole che le arredi la camera da letto,
Sir?
Giovedì (ogni 2 settimane):
Mary Poppins a Lollolandia
Sabato (ogni 2 settimane): Growing up together
Domenica: Boulevard
of broken dreams
Gli
insulti nell’apposita
cassetta, grazie.
- J
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Capitolo 5 *** E.T. ***
5. E.T.
5 – E.T.
You're so hypnotizing
Could you be the devil
Could you be an angel
Robert l’aveva tenuto inchiodato al banco finchè non
era stato certo che si, avrebbero fatto coppia per il progetto.
Non sapeva ancora se quel ragazzo fosse bene o male, sapeva soltanto che
nessuno con un minimo di cervello gli avrebbe detto di no. Lo ipnotizzava.
Quando aveva sentito finalmente la campanella, Jude aveva raccolto di corsa le
sue cose, scappando fuori dall’aula in tutta fretta.
Si rinchiuse in bagno. L’aveva fatta grossa, cavolo.
Questa sua madre non gliel’avrebbe mai perdonata, ne era certo. Ma nonostante
sapesse bene cosa lo aspettava, l’unica cosa di cui riusciva a preoccuparsi era
il fatto che si sarebbe certamente dovuto tirare indietro dal lavoro e avrebbe
finito inevitabilmente con il deludere Robert.
Si morse il labbro, pensando alla sua eventuale reazione. Non lo avrebbe
sopportato, l’avrebbe deluso davvero tantissimo, era stato lui a presentarglisi
davanti pregandolo per un suo si. E quell’espressione fiduciosa che aveva, il sorriso
che era apparso a dividergli il viso quasi a metà, tanto era immenso.
Si passò una mano tra i capelli, scompigliandoli.
L’avrebbe deluso e anche Robert avrebbe finito con il picchiarlo. Senza poi
contare che il loro rapporto sarebbe stato irrimediabilmente distrutto.
***
Ed anche il compito di matematica era passato, tra i
suoi alti e bassi. E così anche la mattinata.
Non era riuscito a concentrarsi un granchè, con il pensiero del progetto che
ancora gli infettava la mente.
Avrebbe affrontato la prova del nove più tardi, rincasando, ma per il momento
voleva solo chiudersi in biblioteca, sedersi al suo tavolo e perdersi tra le
parole rassicuranti di un libro.
---
Aveva camminato a sei metri da terra per tutto il
giorno, con un sorriso talmente ampio che temeva che, se avesse smesso, la
faccia gli si sarebbe sgretolata dallo sforzo.
Il suo piano funzionava, anche troppo bene.
Quando era rincasato, gridando un “Buon pomeriggio!” persino alla vecchietta
antipatica che viveva con il suo deambulatore nella casa accanto, sua madre era
corsa da lui con un termometro.
“Sei malato.” Aveva decretato, infilandoglielo in bocca. “Non c’è altra
spiegazione.”
“Mamma, shto benisshimo.” Aveva mormorato lui, facendo tintinnare il vetro
contro i denti. Rassegnato, aveva aspettato comunque i cinque minuti necessari,
sperando sua madre riuscisse finalmente a convincersi della sua quasi
totale sanità mentale.
Quando le aveva reso il bastoncino - “Trentasei e cinque,” le aveva sorriso
“sono anche più freddo del normale, potrei essere morto.” – sua madre l’aveva
guardato con diffidenza, studiandogli ogni singola ruga del viso in cerca di un
indizio.
“D’accordo.” Aveva poi detto cautamente, spostandosi per lasciargli libero
accesso alle scale.
Robert salì i primi gradini canticchiando, mentre la donna dietro di lui
continuava a guardarlo diffidente.
“Ah!” si era voltato su uno degli ultimi gradini “Domani viene un mio compagno
di classe per un progetto.” Ed era sparito in corridoio, praticamente
saltellando.
Elsie scosse la testa. E dire che di casi di malattie mentali non ne erano stati diagnosticati né nella sua
famiglia né in quella di suo marito.
I misteri della vita.
---
Jude non fece in tempo a muovere un passo dentro
casa, che immediatamente sua madre spuntò dal salotto, correndo verso di lui e
stringendolo in un abbraccio spezza ossa, sorridendo come se fosse in paradiso.
Immediatamente era stato contagiato dal suo buonumore e aveva ricambiato,
affondando il viso tra i suoi capelli e respirando l’odore che riconosceva come
“casa”.
“Oh, tesoro!” sua madre si era messa a dondolare sul posto senza allentare la
presa. L’aveva seguita senza indugi.
“Mamma, che cosa è successo?”
Finalmente lei l’aveva lasciato andare.
Il tremore alle mani si era fermato improvvisamente.
“Tom mi ha chiesto di sposarlo!” e di nuovo si era gettata su di lui, ridendo
alla follia.
Lui aveva chiuso gli occhi, al settimo cielo. Un po’ di felicità le serviva,
aveva passato solo anni bui ultimamente.
“Sono contentissimo per voi, davvero.”
Sua madre era allegra come non la vedeva da secoli. Forse non l’aveva mai vista
così. Il cuore gli si riscaldò in petto.
Forse era il momento buono per provarle a chiedere del progetto, quella
felicità improvvisa lo faceva sperare terribilmente per l’approvazione.
“Mamma, ti devo chiedere una cosa.” Il tremore era ripreso quando si era
staccato dall’abbraccio, posandole le mani sulle braccia ancora tese di lei. Le
aveva sorriso, mentre ogni poro le trasudava felicità. “Vedi…” dannatissime
mani, che imparassero a stare un po’ ferme, che diamine! “oggi a scuola ci
hanno assegnato un progetto in coppia.”
Maggie annuì senza smettere di sorridere.
“Domani dovrei andare a casa di un mio compagno per cominciare a lavorarci su.”
Si preparò alla sfuriata che ne sarebbe seguita. Non gli era concesso uscire di
casa se non per andare a scuola o a fare la spesa, non gli era concesso avere
amici e tantomeno trascorrere pomeriggi in case altrui.
“Certo, caro. Vai pure.”
Qualche centimetro di più e la mascella gli sarebbe caduta, fracassandosi in
millemila pezzi.
“Sei… sei sicura?”
Maggie si voltò, tornando in salotto.
“Ma certo!” gli urlò, canticchiando qualcosa.
Jude rimase immobile nell’ingresso, lo zaino ancora a tracolla, gli occhi
sbarrati e le braccia ancora alzate nell’abbraccio di poco prima.
Aveva accettato senza indugi, non si era arrabbiata e non l’aveva picchiato per
la sua terribile disobbedienza.
Non avrebbe deluso Robert.
---
Da quanto tempo era che non metteva in ordine la sua
camera? Un secolo? Due?
Si era messo a riordinare il pomeriggio prima, appena tornato da scuola,
pensando a Jude ed al fatto che durante la sua visita avrebbe dovuto sentirsi
al sicuro, a casa, e che perciò non poteva presentargli quel posto dal
disordine infernale che si ostinava a chiamare camera da letto.
Aveva persino ricordato a sua madre di riordinare tutta casa – non che ce ne
fosse bisogno, vista la sua mania a lucidare a specchio qualunque cosa le
capitasse tra le mani – ed aveva istruito entrambi i genitori sul comportamento
da tenere.
“Sorridenti, tranquilli, amichevoli.” Aveva elencato, radunandoli nell’ingresso
a qualche minuto dall’arrivo di Jude, dando loro ordini come un generale al suo
plotone. Nessuno dei due ancora sapeva che Jude era il ragazzo ipotetico di cui
avevano parlato a colazione qualche giorno prima, ma non c’era fretta di
scoprirlo, ogni cosa a tempo debito.
Suonarono al campanello e Robert scivolò fino all’entrata, pattinando sulle sue
ciabatte di Iron Man. Posò la mano sulla maniglia e si voltò un’ultima volta
verso i genitori, minaccioso, alzando un dito in segno di ammonimento.
Suo padre annuì per l’ennesima volta, mentre la madre si sistemava la collana.
Si stampò in faccia il suo miglior sorriso e finalmente aprì la porta.
Jude era là, timido, impacciato, ma con un sorriso meraviglioso ad illuminargli
il viso.
Ancora non riusciva a capacitarsi di come avesse fatto a non notarlo prima.
“Benvenuto.” Lo fece entrare. “Questa è casa mia.”
[Lalalalalalalala.]
Incredibilmente, questo capitolo non mi fa completamente schifo, suvvia ù_ù
Si è mosso anche qualcosa, che non fa mai male, almeno non è un capitolo
completamente inutile.
La canzone riportata è E.T. di Katy Perry, giusto a titolo informativo, sono entrata in fissa stamattina, perciò ve la sorbite tutta ù_ù
Bene, sono abbastanza soddisfatta, vi lascio la tabella.
Lunedì:
Vuole che le arredi la camera da letto,
Sir?
Giovedì (ogni 2 settimane): Mary Poppins a Lollolandia
Sabato (ogni 2 settimane): Growing up together
Domenica: Boulevard of broken dreams
A domani,
- J
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Capitolo 6 *** My body is a cage ***
6. My body is a cage
6
– My body is a cage
My body is a cage that keeps me
From dancing with the one I love
But my mind holds the key
Era
entrato timidamente, pulendosi bene i piedi
sullo stuoino all’ingresso e chinando il capo come un
gentiluomo di altri tempi
quando aveva oltrepassato la soglia.
La prima cosa che aveva notato erano i genitori di Robert, ritti ai
piedi dello
scalone, due sorrisi identici in volto. Calore, gentilezza.
Si voltò, ricordandosi improvvisamente di aver dimenticato
di chiudere la
porta, ma Robert, pronto a tutto, si era premurato di farlo prima che
lui se ne
sentisse in dovere e gli si affiancò con un sorriso
smagliante e le mani
affondate nelle tasche dei jeans.
Era tutto così bello. Fece vagare lo sguardo per la stanza,
notando i soffitti
alti, la luminosità talmente… luminosa
da sembrare di essere in paradiso, la luce calda che gli carezzava la
pelle
entrando dalle enormi finestre sparse ovunque.
E nonostante fosse un luogo immacolato, ordinato e splendente, riusciva
a
percepire comunque a pelle il calore che racchiudeva, il nome di casa
scritto a
caratteri cubitali su ogni muro.
“E’ magnifica.”
“Grazie mille, caro.”
Elsie gli si avvicinò, allungando la mano, e Jude
pensò che non aveva mai visto
una signora più bella e cordiale nonostante l’aria
distinta che le fuoriusciva
da ogni singolo poro.
Le strinse leggermente la mano, perdendosi nel suo viso gentile.
“Io sono Elsie. Questo vecchio maleducato” si
voltò appena verso il marito,
rimasto leggermente in disparte “è mio marito,
Robert. Bè, quello lì immagino
lo conoscerai” allungò quindi lo sguardo verso
Rob, ancora fermo al suo fianco.
“è Junior.”
“Mamma!” la richiamò questi, stizzito,
mettendo il broncio.
Elsie ridacchiò in modo cristallino, avvicinandosi
leggermente a Jude in tono
cospiratorio “Se gli vuoi fare un dispetto, chiamalo Junior,
lo odia.”
“Appunto, quindi evitiamo, grazie.” Intervenne
Robert, le braccia incrociate e
lo sguardo arcigno.
Jude, sognante, se possibile arricciò ulteriormente gli
angoli della bocca.
“Lieto di conoscervi.”
In quel momento Robert senior si fece avanti, richiamato da
chissà cosa,
credendo che fosse il suo turno di farsi avanti, nonostante la
presentazione
della moglie.
Allungò a sua volta la mano, sorridendo cortesemente.
“Bob, per evitare fraintendimenti. Chiamare mio figlio come
me non è stata
esattamente una cosa intelligente.” Strinse la mano anche a
lui, incerto se
ridere o meno e scegliendo alla fine di optare per un sorrisino
divertito.
“Bene, bene.” Intervenne Rob, liberando la sua mano
da quella del padre e
stringendola nella sua. “Noi andiamo di sopra a fare i
compiti.” Si avviò alla
volta delle scale, trascinandosi dietro Jude.
Si bloccò all’improvviso, sul primo gradino, e si
voltò con un sorriso angelico
a millecinquecento denti. “Mamma, se volessi portarci la
merenda tra un paio d’ore,
te ne sarei davvero riconoscente.”
Jude strabuzzò gli occhi, alzando lo sguardo sul viso di
Robert. Come si
permetteva a parlare così ai suoi genitori?
Si voltò verso i due adulti ancora nei pressi della porta,
certo di vedere la
madre trasformarsi in una furia da un momento all’altro. Una
signora così
bella. Ma d’altronde anche sua madre era bella, e si
arrabbiava lo stesso.
E non poteva dare torto ad Elsie; per quanto stesse cominciando ad
affezionarsi
a Robert – perché si, alla fine aveva capito che
stava cominciando a provare
affetto per lui, il suo primo vero amico a quanto sembrava -, quello
non era di
certo il modo di comportarsi.
“Robert! Cosa sono, la tua cameriera?”
gridò infatti la donna, ma la vide
distendersi immediatamente qualche secondo dopo, tornando a sorridergli
bonariamente, scuotendo la testa. “Ve la porto, ve la
porto.”
Jude si immobilizzò là dove si trovava. Niente
urla spacca timpani? Niente
minacce? Niente… punizioni?
Tornò a fissare Robert, che sorrideva apertamente. Nessuna
paura di venire
punito, niente rimorsi per il tono usato.
Passò quindi a Robert senior, ma si accorse solo in quel
momento del lembo
della sua giacca che spariva in quello che presumeva essere il
soggiorno.
Nessuna reazione, niente di niente. Un dito alzato, uno sguardo storto.
Assolutamente nulla da nessuno dei genitori.
“Jude, caro, preferisci qualcosa in particolare?”
Tornò a puntare lo sguardo su Elsie, cercando di riprendersi
dalla
semi-catalessi in cui era caduto.
“N-no, grazie mille.” Le rispose immediatamente.
Sua madre odiava i silenzi
troppo lunghi dopo una domanda.
“Benissimo, allora, divertitevi.”
“Mamma, andiamo a studiare, non al luna park.” Di
nuovo quel tono troppo
impertinente. Questa volta non l’avrebbe scampata
assolutamente.
“Oh…” Elsie
agitò una mano in aria come a scacciare una
mosca.
Di
nuovo nessuna reazione. Ma in che famiglia era capitato?
“Sapessi io e tuo padre quanto ci divertivamo a studiare
chimica…” e gli fece l’occhiolino.
Immediatamente Jude arrossì. Chi erano queste persone, che
scherzavano come se
fossero tutti coetanei e permettevano al figlio di rivolgersi a loro in
maniera
tanto sgarbata? Alieni, forse?
“Mamma!” Robert proruppe in una risata che gli
scaldò il cuore, facendolo
voltare di nuovo verso di lui come attratto da una calamita.
“Andiamo, o qui veniamo a scoprire cose che preferirei
ignorare.” Riprese a
salire le scale sempre senza mollargli la mano, continuando a ridere
sonoramente finché non arrivarono in cima e poi in camera.
Solo lì lo lasciò andare, scuotendo la testa con
ancora l’ombra di un sorriso
sul volto, mentre recuperava i libri dalla mensola accanto al letto.
Jude rimase immobile, in piedi sulla soglia, un’improvvisa
corrente di aria
fredda che gli frustava la mano. Di nuovo, si perse ad ammirare gli
spazi di
quella casa.
La camera di Robert, poi, era la parte migliore per quel che aveva
potuto
vedere fino a quel momento. Era ciò che lui definiva enorme,
con le solite
spaziose finestre che aveva notato in tutta casa sparse sulla parete
del letto,
una porta-finestra che dava su un terrazzo nella parete alla sua
destra, una
porta accanto ad essa che immaginò essere il bagno e mobilio
moderno sparso per
tutta la stanza.
Wow.
Notò Robert che lo fissava assorto, i libri ancora stretti
in mano e, quando
notò il suo sguardo vagare fino a lui, sembrò
riscuotersi, aprendosi
immediatamente in un sorriso forse anche più luminoso della
luce che proveniva
dalle finestre.
“Che maleducato, mettiti pure comodo.” Gli
passò davanti, dirigendosi alla
scrivania e invitandolo a sedersi alla sua destra con un cenno del
capo. “Vieni,
dai, ammirerai bene la mia stanza più tardi.”
Ridacchiò, allungando una mano ad
accendere il computer.
Jude mosse qualche passo incerto fino a lui, poggiando lo zaino a terra
accanto
alla sedia e sedendosi in punta di questa, rigido come uno stoccafisso.
“Rilassati, non ti mangio.” Sorrise Robert,
notandolo con la punta dell’occhio
mentre faceva scorrere il mouse sul desktop.
L’altro si sforzò di sorridere. Era nervoso, in
imbarazzo, e non sapeva nemmeno
il perché. Si sentiva a disagio, in quella casa era tutto
così… accogliente,
caldo, gentile.
“Allora.” Battè le mani Robert,
facendolo saltare. “Da dove cominciamo?”
Si maledì mentalmente. Erano tutti così gentili,
disponibili, e tutto ciò che
lui riusciva a fare era saltare sulla sedia e dire si e no due parole.
Cominciava davvero ad odiarsi per il suo modo di essere.
---
Era
andato tutto come previsto. O quasi. Riflettè,
osservando Jude fermo sulla soglia della stanza.
I suoi genitori erano stati meravigliosi e lui aveva cercato di fare
del suo
meglio, ma poteva vedere benissimo che Jude non era a suo agio per
niente.
Lo vedeva incerto, imbarazzato, e proprio non capiva dove aveva
sbagliato.
Forse erano stati tutti troppo meravigliosi, era stato certamente
quello a
metterlo a disagio.
Sospirò leggermente, continuando a fissarlo mentre il suo
sguardo vagare per la
stanza e si faceva via via più luminoso a seconda del
riflesso della luce.
Sospirò di nuovo, stringendo i libri.
Che fossero serviti dieci o cento pomeriggi, l’avrebbe
aiutato ad ogni costo.
Vide il suo sguardo passare a lui e immediatamente si stampò
in faccia il suo
miglior sorriso. Cercava di rassicurarlo spandendo sorrisi
tutt’intorno fin da
quando aveva suonato alla porta, ma tutto ciò che aveva
ottenuto era solo un
ragazzo a disagio sulla porta della sua camera ed una tremenda voglia
di
mandare a puttane il ‘andiamoci con piedi di
piombo’ e abbracciarlo lì seduta
stante per fargli capire che non era solo. Ma l’esperienza
gli aveva insegnato
che facendo così non avrebbe ottenuto assolutamente nulla.
Anzi, forse avrebbe
rischiato addirittura di retrocedere di qualche passo.
“Che maleducato, mettiti pure comodo.” Gli
passò davanti diretto alla scrivania,
rafforzando ulteriormente la presa sui libri, per poi abbandonarli
accanto al
computer e voltarsi di nuovo verso Jude.
“Vieni, dai, ammirerai bene la mia stanza più
tardi.” Provò a buttarla sullo
scherzo, ridacchiando ed allungandosi sul bottone di accensione del MAC.
Avvertì ogni singolo movimento che fece,
l’incertezza dei suoi passi. L’atteggiamento
protettivo del suo corpo quando si sedette in punta alla sedia, pronto
a
scappare in caso di pericolo.
Era tremendamente rigido. Azzardò una mossa estremamente
pericolosa.
“Rilassati, non ti mangio.” E di nuovo sorrise,
fingendo di essere impegnato
con il mouse.
Ottenne solamente un sorriso timido, ma ritenne fosse un grande passo
avanti.
Almeno Jude non aveva preso la battuta come un ammonimento negativo.
“Allora.” Battè le mani e, con una
stretta al cuore, lo vide saltare sulla
sedia. Porca miseria, che guaio. Si sarebbe pentito quella sera, ora
era troppo
impegnato a provare a farlo sentire a suo agio, non poteva perdersi nel
suo
cervello a pensare troppo, doveva agire.
“Da dove cominciamo?”
***
Era
stato in tensione tutto il pomeriggio, anche per
la minima cosa. Non credeva di essere nervoso quanto Jude, ma un paio
di volte
era arrivato a pensare che forse gli arrivava davvero vicino.
Si chiuse la porta alle spalle dopo aver salutato un’ultima
volta Jude, e si
lasciò cadere seduto a terra, sfinito. Tenere i nervi in
tensione tutto il
pomeriggio non era piacevole per lui, di certo non lo era stato nemmeno
per
Jude, avrebbe dovuto trovare un modo per farlo sciogliere di
più o sarebbe stato
tutto inutile. Sperò vivamente che con il tempo avrebbe
cominciato
automaticamente a prendere più confidenza, perché
davvero lui su quel fronte
non sapeva come gestire la cosa, chiunque lo conoscesse un minimo si
trovava
quasi immediatamente a suo agio con lui, non aveva mai avuto un
problema del
genere. Con le dovute eccezioni, certo, ma fondamentalmente nessuno
aveva
problemi di disagio, al suo fianco.
Sua madre apparve dalla cucina, guardandolo sconsolata.
“Tesoro.” Gli si avvicinò, chinandosi a
scompigliargli i capelli.
“Non ha voluto che lo riaccompagnassi a casa, ha insistito
per andare da solo.”
Lo sguardo di Elsie, se possibile, si addolcì ulteriormente.
“E’ lui il ragazzo ipotetico di cui ci hai parlato
a colazione, vero?”
Robert alzò lo sguardo su di lei.
La donna sorrise gentilmente. Il suo bambino.
“L’abbiamo capito appena lo abbiamo visto.
Dopotutto sai che papà è avvezzo a
cose del genere.”
“E’ stato un fallimento. Ogni cosa, tutto il
pomeriggio. Tu e papà siete stati
meravigliosi, ma io non mi sono sforzato abbastanza, era continuamente
in
tensione, a disagio.”
Gli carezzò il viso.
“Non è vero, so che hai fatto del tuo meglio.
E’ questione di tempo, vedrai che
già dalla prossima volta sarà più
rilassato.”
“Ci spero.”
“Sai bene cosa fare, non è il primo caso che
affronti, Robert.”
“Il mio obiettivo è farlo aprire fino a riuscire a
fargli confessare che la
madre lo picchia. Farlo trasferire qui nella stanza degli ospiti, farlo
sentire
al sicuro.”
“Lo so, caro. Quando accadrà, la stanza degli
ospiti è già pronta, sta solo a
te, ora.”
La determinazione gli accese gli occhi. Doveva riuscirci per il bene di
Jude.
“Ce la farò.”
[99 scimmie saltavano sul letto.]
Stavolta sono ampiamente soddisfatta, perciò voglio almeno
una festa in mio
onore, visto che credo sia il primo capitolo che mi piace
così tanto ù_ù
E poi mercoledì è il mio compleanno, suvvia
ù_ù
Basta, sono tremendamente soddisfatta :D Sia dei personaggi che del
capitolo in
sé, non me l’immaginavo proprio così (a
partire dal dialogo alla fine tra Rob
ed Elsie, inizialmente doveva essere Robert senior l’altro
interlocutore), ma
mi piace assai, stappiamo lo champagne!
Buon annoooo!
Vi lascio la tabella.
Lunedì:
Vuole che le arredi la camera da letto,
Sir?
Giovedì (ogni 2 settimane):
Mary Poppins a Lollolandia
Sabato (ogni 2 settimane): Growing up together
Domenica: Boulevard
of broken dreams
A
domani, se riesco ad inventarmi qualcosa per Camera
da letto.
Sono troppo euforica ed un capitolo brutto mi ucciderebbe, casomai mi
metterò a
scriverlo domani come sempre ù_ù
A presto :D
- J
P.S.:
Come capita
sempre, ultimamente, Gianni si è dimenticato di dirvi la
canzone, perciò ecco
qui: è My body is a cage di Peter Gabriel, di cui mi sono
innamorata un paio di
mesetti fa, dopo averla sentita in Dr. House *-*
Ascoltatela, ne vale davvero la pena *O* Anche se la scena in cui era
presente
mi ha quasi fatto venire un infarto, ma dettagli, è
bellissima lo stesso ù_ù
E con questo vado sul serio.
|
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Capitolo 7 *** Rolling in the deep ***
7. Rolling in the deep
7 – Rolling in the deep
There’s a fire starting in my heart
Reaching a fever pitch,
it’s bringing me out the dark
Girò
le chiavi nella toppa ed entrò in casa con un
sorriso che andava da un orecchio all’altro.
Era stato un bel pomeriggio, dopotutto, togliendo il nervosismo che lo
aveva
preso sin da quando si era ritrovato sulla soglia di casa Downey.
Si chiuse la porta alle spalle, piombando nel freddo di casa.
Rabbrividì nella giacca e si diresse in camera, ma prima che
potesse anche solo
muovere un passo in quella direzione, la voce di sua madre lo
bloccò.
“Sei in ritardo. Dove sei stato?”
Si voltò lentamente, mentre le sue mani cominciavano il loro
solito
inarrestabile viaggio.
In ritardo? Non gli aveva nemmeno dato un orario di ritorno, si
preoccupò Jude,
certo di essere in ritardo sul serio e lanciando un’occhiata
fugace
all’orologio in corridoio. Le sette. Era in ritardo senza
ombra di dubbio, per
i suoi standard.
Era pronto a quello che ne sarebbe conseguito.
La donna era seduta nella poltrona in salotto che affacciava
direttamente sul
corridoio. Era la sua poltrona, quella leggermente ruotata di modo che
la sua
occupante riuscisse a vedere il televisore e a tenerlo
d’occhio allo stesso
tempo.
“Dal compagno di classe che ti dicevo, mamma. Abbiamo
cominciato il lavoro per
storia.” Si perse un secondo tra i ricordi di quel
pomeriggio, sorridendo
lievemente. Ma poi gli tornò alla mente il nervosismo
terribile che gli aveva
impedito di mostrarsi cordiale e disponibile verso Robert ed i suoi
genitori
come invece avrebbe voluto e le labbra si incurvarono
all’ingiù. “Siamo… siamo
a buon punto.”
Vide sua madre annuire, assorta, mentre fissava la trama del tappeto ai
suoi
piedi. Improvvisamente rialzò lo sguardo su di lui, le iridi
color del ghiaccio
gli ferirono la pelle senza che nemmeno se ne rendesse conto.
Erano identiche alle sue, ma quelle di lei trattenevano decisamente
meno
calore.
“Togliti la maglia.” Gli ordinò,
noncurante, mentre armeggiava con il pacchetto
delle sigarette accanto a lei.
Jude strinse lo spallaccio della tracolla, facendo sbiancare le nocche.
Sospirò, annuendo nella sua direzione. “Appoggio
lo zaino.” Ci mancava solo che
lo punisse perché, per la troppa fretta di obbedirle, avesse
dimenticato le
regole ferree riguardanti l’ordine impeccabile e avesse
abbandonato lo zaino lì
dove si trovava.
Si liberò velocemente della tracolla e della giacca,
abbandonandole sul letto,
e si tolse le scarpe, lasciandole ben allineate nella scarpaia e
indossando le
ciabatte. Sentì distintamente il clic
dell’accendino, mentre quella dannatissima mano non ne voleva
sapere di
chiudere una volta per tutte e con un colpo secco l’anta del
porta scarpe.
“Jude.”
L’aveva chiamato. Un brivido freddo gli corse lungo la
schiena, infastidendolo.
Non voleva quei brividi freddi, non li aveva chiesti lui. E non voleva
che la
madre lo chiamasse, voleva dire solo una cosa: ci stava mettendo
troppo,
avrebbe subito ulteriormente.
Aiutandosi con l’altra mano – di certo non messa
meglio della prima, ma quanto
meno utilizzabile – chiuse finalmente la scarpaia.
Tornò in salotto, prendendo un paio di respiri profondi
quando arrivò al centro
del tappeto.
“Ci hai messo tanto.”
Maggie si alzò dalla poltrona, una sigaretta tra le labbra e
lo zippo d’argento
che sbucava appena dalla tasca, pronto in ogni momento a riaccendere il
bastoncino.
“S-scusa.” Non aveva chiesto nemmeno il balbettio,
accidenti.
Alzò la maglia mentre la donna si avvicinava, drizzandosi in
tutta la sua
altezza per permetterle di scegliere meglio il prossimo punto da
bruciare.
Avvertì un dito scorrergli tra le scapole ed il brivido
gelato di prima gli
fece drizzare tutti i capelli sulla testa. Si maledì un paio
di volte.
Cos’erano quelle brutte sensazioni? Non le aveva reclamate
lui, non le
sopportava. Era perfettamente a suo agio, in quella situazione, non
faceva
nemmeno più caso al dolore.
Un unghia gli picchiettò la pelle appena sopra il bordo dei
pantaloni,
facendogli intendere che la punizione avrebbe colpito esattamente in
quel
punto.
Prese il respiro più lungo che i suoi polmoni gli
permettessero, mentre senza
nessun preavviso la sigaretta prendeva a strofinarglisi contro la
pelle, arrossandola
e bruciandola. Durò un paio di secondi, nemmeno
l’aveva avvertita.
“Per il ritardo senza permesso.” Lo
avvisò sua madre. Annuì, rendendosi conto
solo in quel momento del labbro stretto a sangue dai denti. Lo
rilasciò;
cominciava a provare dolore e non gli serviva di certo
un’altra punizione per
un labbro gonfio fin troppo evidente.
Di nuovo il fuoco gli marchiò la pelle.
“Per avermi fatta aspettare, poco fa, mentre appoggiavi la
cartella.”
Di nuovo senza preavviso, lo colse completamente alla sprovvista,
questa volta,
facendolo inarcare contro la sua volontà. Le dita di sua
madre gli strinsero un
fianco.
“Stai fermo.” Sibilò, tirandogli uno
schiaffo sul primo marchio di fuoco e
facendolo rabbrividire dal dolore mentre la carne molle gli pizzicava
sotto al
colpo.
Una lacrima si infranse sul tappeto mentre per la terza volta veniva
marchiato,
in un punto a poca distanza dagli altri due.
Anche quella notte avrebbe dormito a pancia sotto. Poco male, ormai ci
era
abituato, stava anche comodo.
Sperò che la donna non avesse visto la scena, troppo presa
dal riaccendersi la
sigaretta, perché un nuovo colpo di nuovo senza preavviso
sarebbe stato
insopportabile, avrebbe urlato e avrebbe dato inizio ad un cerchio
infinito.
“Puoi andare. Spero tu abbia imparato la lezione.”
Jude annuì, incapace di fare altro, riabbassando la
maglietta leggera e
camminando alla volta della camera. Si chiuse dentro, attese un paio di
minuti
e sparì in bagno a fare la stima dei danni.
Tre segni spiccavano sulla pelle chiara della schiena, interrotta da
lividi,
cicatrici e graffi di ogni tipo, come una piccola costellazione della
disobbedienza che aveva portato avanti in tutti quegli anni.
Sospirò, asciugandosi gli occhi ancora umidi e rifugiandosi
di nuovo in camera.
---
Quando
lo vide traballare verso di lui, gli occhi
bassi, si aprì istantaneamente in un sorriso luminoso.
“Jude.” Lo salutò, rallegrandosi
immensamente del fatto che fosse andato lui a
cercarlo e non il contrario come accadeva sempre.
“R-robert. Se non è di troppo
disturbo…” si morse un labbro, torturandosi le
mani come turbato da qualcosa. Lo prese alla sprovvista rialzando lo
sguardo su
di lui e facendogli mancare il fiato per la torbidità delle
iridi. “Venerdì
possiamo spostare il progetto ad un’ora prima? Mia mamma ha
fatto qualche
storia per l’ora in cui sono rientrato.”
Quindi l’aveva picchiato di nuovo. Puttana
eva.
La dichiarazione lo colpì come un pugno allo stomaco, ma si
costrinse a
continuare a sorridere, o l’avrebbe fatto scappare
inutilmente; di certo l’avrebbe
frainteso, mettendosi ulteriori problemi.
“Ma certo, nessun problema.” E capì che
i suoi sforzi erano stati pienamente
ripagati quando Jude gli sorrise grato.
“Grazie davvero.”
“Di niente.” Improvvisamente lo vide instabile
sulle gambe. “Vuoi sederti?”
accennò al posto accanto a lui.
“No, grazie. Sono di fretta, scusa.” Gli sorrise
timidamente, di sicuro in
imbarazzo per il disappunto che credeva di avergli creato rifiutando la
sua
offerta.
“Non ti preoccupare. Allora, venerdì va bene
all’una appena usciti da scuola?”
“Per-perfetto, gr-grazie.”
Aveva sentito bene? Erano ansiti quelli che aveva udito nascosti dalle
parole?
In un nanosecondo collegò l’instabilità
e lo sguardo torbido e si alzò
velocemente, giusto in tempo per prenderlo al volo esattamente un
secondo prima
che toccasse terra.
“Jude, mi senti?” si allarmò, vedendolo
ansimare sempre più sonoramente, gli
occhi chiusi ed una mano a penzoloni nel vuoto. Portò una
mano a toccargli la
fronte: scottava come il fuoco stesso. Aveva senza dubbio la febbre
alta ed era
certo che sua madre non l’avrebbe curato, doveva portarlo a
casa sua il più in
fretta possibile.
Per una volta ringraziò la palestra che suo padre lo
costringeva a fare per
rafforzare il fisico. Gli sfilò la borsa dalla spalla,
abbandonandola malamente
sul prato e lo sollevò alla meno peggio. Sarebbe tornato
indietro a prendere
tutto solo una volta che avesse sistemato Jude in macchina. Quantomeno
era
relativamente vicina, per una decina di metri ce l’avrebbe
potuta fare,
soprattutto visto che l’altro pesava si e no dieci chili,
giudicò bruciando in
un attimo la distanza dall’automobile. In un attimo di
lucidità sentì la sua
mano stringergli la felpa e un baluginio azzurro sostituire le palpebre
chiuse.
“Robert. Sto bene, mettimi giù.”
“Non me la bevo, ti porto a casa mia.”
“No, no!” lo sentì irrigidirsi
immediatamente, spalancando gli occhi
probabilmente pensando a ciò che gli avrebbe fatto sua madre
non appena avesse
saputo di quel fuori programma. Svenne prima che potesse rassicurarlo.
Lo sdraiò gentilmente sul sedile posteriore
dell’Audi e chiuse la portiera, per
poi correre indietro a recuperare le borse abbandonate e gettarsele
bruscamente
accanto sul sedile del passeggero, partendo a tutto gas.
---
Non
ricordava nulla, sapeva solo che quella mattina,
quando si era svegliato, non si sentiva bene per niente. Riusciva ad
arrivare
fino a quando aveva parlato con Robert, e poi il nulla lo catturava.
Quando aprì gli occhi, notando una testa scura fin troppo
conosciuta appoggiata
sul cuscino accanto a lui, i ricordi lo colpirono violentemente.
Era svenuto addosso a Robert e lui l’aveva portato a casa sua
per curarlo.
Spalancò gli occhi. Quante scuse che gli doveva, per il suo
essere un peso così
grande. Per lui, per sua madre, per tutti quelli che lo conoscevano.
Non voleva
che si arrabbiasse. Si morse il labbro quando vide l’altro
voltarsi verso di
lui, stiracchiandosi e sbadigliando a tutto andare, gli occhi scuri
aperti quel
tanto che bastava per capire chi o cosa fosse e dove si trovasse al
momento.
Quando posò lo sguardo su di lui, si drizzò
immediatamente a sedere,
avvicinandosi.
“Come stai?”
Non seppe se fu la sua aria scarmigliata, i suoi capelli da tutte le
parti, la
sua espressione mezza imbronciata e insonnolita o la sua aria
così preoccupata
da sembrare quasi comica, fatto sta che per la prima volta dopo quasi
dieci
anni, Jude scoppiò a ridere sonoramente.
---
Rideva.
Rideva e non poteva chiedere di meglio.
Non riusciva nemmeno a sentirsi arrabbiato per il fatto che ridesse
della sua
preoccupazione, tanto aveva sognato quella risata.
Dio, quanto era bello.
Lui rideva, rideva come non l’aveva mai visto prima, rideva
tenendosi la pancia
e riscaldandogli il cuore in un modo che credeva l’avrebbe
fatto scoppiare.
E tutto ciò a cui riusciva a pensare Robert era che voglia
avesse di baciarlo
lì, ora.
[Basta,
il capitolo mi piace troppo, non ho niente da dire. Ora spiegatemi voi
come
faccio ad andare a studiare con quest’immagine nel cervello.]
Tabella.
Lunedì:
Vuole che le arredi la camera da letto,
Sir?
Giovedì (ogni 2 settimane):
Mary Poppins a Lollolandia
Sabato (ogni 2 settimane): Growing up together
Domenica: Boulevard
of broken dreams
Canzone:
Rolling in the deep - Versione di Glee
(quella principalmente usata, che preferisco per le due voci di Rachel
e Jesse
<3)
oppure
Rolling in the deep - Versione di John Legend (sempre
<3)
- J
|
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Capitolo 8 *** Starlight ***
8. Starlight
8 – Starlight
My life
You electrify my life
“Dove
sono i miei vestiti?” gli chiese, allarmato,
toccando il pigiama sottile.
Ecco. Era un idiota. Temeva quel momento sin da quando
l’aveva spogliato dei
suoi abiti, resistendo stoicamente per non sfiorargli nemmeno una di
quelle
cicatrici che gli percorrevano il corpo. Era stata dura, più
dura di qualsiasi
cosa; tutto ciò che voleva era solo curarlo, fargli provare
meno dolore, ma
sapeva bene di non poter fare assolutamente niente.
Si grattò la testa, in imbarazzo, continuando ripetutamente
a darsi dell’idiota
nonostante l’avesse fatto a fin di bene.
“La poltrona.” Allungò un dito,
lasciando l’altra mano tra i capelli ed
evitando di guardare Jude. Già si sentiva in colpa
così, figurarsi con il suo
sguardo puntato addosso.
Era a fin di bene, era a fin di bene, era
a fin di bene, era a fin di bene…
“Tu…” il panico puro nella sua
voce lo costrinse ad alzare lo sguardo,
fissandolo da sotto in su.
“So tutto.” Esalò semplicemente con un
filo di voce.
---
Sentì
l’attacco di pani crescergli nel petto, il
respiro accelerare in maniera esagerata ed un groppo di dimensioni
gigantesche
crearsi in gola, bloccandogli definitivamente le vie aeree.
Sapeva tutto, aveva visto i lividi, i tagli, le cicatrici.
Spalancò la bocca in
cerca d’aria, mentre capiva a malapena quello che gli
accadeva intorno.
Vide Robert sbiancare, le sue labbra si muovevano, probabilmente
gridava il suo
nome, ma nelle orecchie sentiva solo un fastidiosissimo ronzio. E
l’aria non
gli arrivava ai polmoni.
Coraggio, coraggio.
Provò seriamente a calmarsi, applicando quegli esercizi che
gli avevano salvato
la vita più di una volta in circostanze simili. Ma lui
sapeva di sua madre, lo
odiava per quello che era, per ciò che il suo corpo era, per
la sua famiglia,
la sua vita. Lo odiava certamente, ora che aveva capito in che tipo di
guaio si
era cacciato facendo amicizia con quel ragazzino che di amici non se ne
poteva
permettere. Di nuovo il respiro prese ad accelerare.
Avvertì un formicolio alla mano e cercando di abbassare gli
occhi vide entrambe
le mani di Robert strette intorno alla sua, talmente tanto strette da
fargli
male. Aveva uno sguardo terrorizzato, continuava a mormorare un
qualcosa che
assomigliava terribilmente a “Non ti preoccupare”,
e forse fu proprio quell’idea
che gli permise di smantellare le pareti di quel blocco in gola, mentre
l’aria
tornava lentamente a bruciargli i polmoni.
Prese respiri più profondi che poteva; gli girava la testa.
Provò a fermarla
con una mano, ma era tutto terribilmente confuso, non sentiva nulla,
nemmeno
più il suo corpo.
E poi, improvvisamente, il calore ed il buio lo avvolsero, accompagnati
da un
profumo da uomo familiare quasi quanto quello che lo accoglieva in
biblioteca.
Incredibilmente ricominciò a sentire.
“Non aprire gli occhi, la testa te la tengo ferma io. Se devi
vomitare non
farti problemi. Coraggio, Jude.”
Robert lo abbracciava stretto, avvolto intorno al suo corpo come una
morbida e
profumata coperta, solido come una roccia mentre una mano gli carezzava
dolcemente i capelli seppur mantenendo la presa ferrea sulla sua testa,
provando ad evitargli la sensazione di sballottamento e di giramento.
Provò ad allungare timidamente le mani sulla sua maglia,
chiedendosi se fosse
la cosa giusta: se Robert lo stava abbracciando voleva dire che forse
poteva
permettersi un piccolo contatto anche lui. Non troppo invasivo, chiaro,
o lo
avrebbe allontanato immediatamente, additandolo come ragazzino
incapace, buono
a nulla ed inutile come faceva sua madre.
La presa sulla stoffa si fece più salda quando
sentì che Robert non si era
spostato di un millimetro, rischiò sul serio per una volta.
Qualche altro respiro profondo e già andava molto meglio,
anche se credeva che
il merito non fosse completamente della sua tecnica anti panico. Senza
dubbio c’era
lo zampino di qualcos’altro o sarebbe stato impossibile per
lui da solo.
---
Aveva cominciato
improvvisamente a respirare
affannosamente, stringendosi una mano alla gola come se non riuscisse a
respirare, gli occhi si erano fatti vacui.
Sapeva di essere sbiancato. Non aveva esperienza in quel genere di cose
e con
la poca lucidità dovuta al panico non gli era nemmeno
passato per l’anticamera
del cervello di provare a chiamare i suoi genitori. Un urlo e sarebbero
accorsi
in un nanosecondo, ma decisamente non era il tipo che nei momenti di
panico
dava il meglio di sé. Tutti lo stimavano per il suo sangue
freddo invidiabile –
nulla lo spaventava, a detta dei suoi amici -, ma nessuno
l’aveva mai visto in
momenti davvero di emergenza come quello.
“Jude! Jude! Jude!” l’aveva chiamato una
decina di volte, ma tutto ciò che
aveva ricevuto era una leggerissima occhiata da parte di quegli occhi
troppo
chiari, semi-trasparenti per la vacuità di cui erano intrisi.
Era rimasto a fissarlo, sentendosi impotente, uno schifo, inutile
quando invece
avrebbe dovuto scattare ed essere pronto ad ogni cosa.
E poi l’illuminazione. Aveva cercato di riportarlo sulla
terraferma, gli aveva
stretto la mano così forte che aveva dovuto richiedere
l’ausilio di entrambe le
sue nonostante gli innumerevoli esercizi di palestra. E a quanto
pareva, seppur
per pochi attimi, Jude era tornato in quella stanza con lui, aveva
fissato le
sue mani e il respiro si era leggermente calmato, ma qualcosa
l’aveva bloccato
di nuovo e di nuovo la stanza si era riempita del suo respiro talmente
affannato da far risuonare ogni singolo sbuffo d’aria come un
colpo di cannone
che gli feriva le orecchie. O forse era solo lui che lo percepiva
così. Lui che
non riusciva a fare assolutamente niente se non stare a guardare e
stringergli
la mano più forte che poteva.
Si era arreso ad un certo punto, vedendo la sua testa barcollare da una
parte e
dall’altra e sperando di prendere per una volta una diagnosi.
Si era buttato sul letto, afferrandogli la testa e portandosela al
petto,
tenendolo fermo il più possibile per evitare la nausea
dovuta al giramento di
testa.
“Non aprire gli occhi, la testa te la tengo ferma io. Se devi
vomitare non
farti problemi. Coraggio, Jude.”
Cristo, quella era la prova che sarebbe stato disposto a fare ogni cosa
per
lui. Ogni. Singola. Cosa.
Non gli importava del vomito, l’avrebbe lavato, non era il
suo problema
maggiore, al momento.
Non gli importava di stringere talmente tanto il suo corpo da farsi
formicolare
le braccia, l’importante era che lui non sentisse male e
stesse il meglio
possibile. Che si riprendesse. La febbre era passata completamente, di
certo
era solo stanchezza, ma ora avevano quel problema ad aggiungersi al
carico.
E quando sentì le sue mani salire timidamente fino al
colletto, il respiro
domato seppur in minima parte, solo in quel momento si permise di
allentare
appena la presa.
Sperò che Jude capisse che non si sarebbe spostato, che
poteva stringersi a
lui, morderlo, insultarlo, piangere, vomitare, fare quello che voleva,
ma da lì
non si sarebbe mosso. E sospirò quando l’altro
sembrò capirlo davvero,
rafforzando lentamente la stretta sulla maglietta. Gli
respirò tra i capelli
mentre lo sentiva respirare a pieni polmoni, forse di nuovo con lui.
Si arrischiò ad allontanare leggermente la testa dal suo
petto e riuscì persino
ad accennare un sorriso.
“Ehi. Tutto ok?”
Jude annuì appena, ma bastò per farlo calmare
immediatamente.
“Benissimo.” Sospirò, continuando a
sorridergli. Era imbarazzato da morire, lo
si notava da qualunque mossa anche solo accennata, e non volevo farlo
sentire
ulteriormente a disagio, c’era già riuscito
perfettamente con quell’abbraccio
inaspettato.
Lo lasciò dolcemente contro i cuscini e si
premurò di scendere velocemente dal
letto, come se nulla fosse successo, lasciando all’altro il
tempo, che sapeva
non sarebbe mai giunto, di abituarsi.
Dopotutto era solo colpa sua. Se solo avesse seguito il cervello che
gli diceva
di lasciarlo vestito dei suoi abiti, invece di seguire l’idea
del cuore che gli
sussurrava di permettergli di stare comodo almeno mentre dormiva, di
certo gli
avrebbe risparmiato tutta quella sofferenza.
Si morse il labbro e si alzò, tenendo lo sguardo basso,
colpevole.
“Ti prendo dell’acqua.” E
sparì in corridoio.
---
Non capiva cosa
fosse successo.
Sapeva solo che Robert aveva visto quei segni orrendi sul suo corpo.
Meritati,
certo, ogni singolo livido o cicatrice, ma orrendi da vedere per una
persona
come Robert.
Lisciò le coperte, stirò il pigiama con le mani e
sprimacciò i cuscini.
Ed ora Robert era uscito con la scusa di un bicchiere d’acqua
quando entrambi
sapevano che l’aveva fatto per evitare di guardarlo di nuovo
in faccia, di
ricordare quella cosa orrenda che era, quel corpo che si ritrovava,
quell’inutilità
che lo permeava in ogni fibra del suo essere.
Così era anche riuscito a disturbarlo, alla fine,
svenendogli praticamente in
braccio e avendo un attacco di panico nella sua camera da letto dopo
che l’aveva
aiutato dal suddetto svenimento. Magnifico, davvero magnifico. Non si
sarebbe
meravigliato se si fosse ritrovato la signora Downey sulla porta,
qualche
minuto dopo, inviata per conto del figlio e terribilmente scocciata,
che lo
pregava di andarsene da casa sua e non tornare mai più.
E invece tutto ciò che tornò fu davvero Robert
con una vero bicchiere pieno d’acqua
tra le mani, ma lo sguardo ancora basso.
Apprezzava il coraggio di essere andato a dirglielo di persona, ma
preferiva
fosse sua madre a metterlo alla porta, avrebbe sofferto di meno. Anche
se non
ne aveva affatto il diritto, di soffrire. Aveva disturbato
terribilmente e si
meritava quantomeno l’esilio perenne da quel posto.
---
Tornò
in camera, il coraggio per guardarlo negli
occhi ancora perso chissà dove dopo ciò che lo
aveva costretto a passare per
quel cambio di vestiti che si era rivelato essere un errore colossale.
Si odiava in quel momento. Lui non era così, lui era il tipo
carismatico,
pronto ad aiutare, pronto a sostenerlo quando avrebbe avuto bisogno e
si fosse
finalmente confessato. Lui non era così, era Jude che lo
rendeva tremendamente
insicuro per una volta nella sua vita.
Gli porse il bicchiere, cercando di cogliere il coraggio a due mani.
Con un respiro, alzò lo sguardo. Ma stavolta era Jude ad
occultare il suo,
troppo perso dietro i suoi pensieri.
Poi, improvvisamente, lo vide scostare velocemente le coperte e cercare
di
scendere dal letto.
“Io… io ti ringrazio davvero tanto. Sono
mortificato per il disturbo, me ne
vado subito.” Mosse qualche passo incerto verso la poltrona
ed i vestiti,
mentre Robert rimaneva sbigottito da quelle parole, impossibilitato a
muoversi
per l’ennesima volta.
Si era forse bevuto il cervello?
Quasi buttò il bicchiere sul comodino, rischiando di far
straripare l’acqua e
creare un corto cortocircuito in tutta casa, ma riuscì a
bloccare Jude
trattenendolo leggermente per un polso. Era maltrattato quasi ogni
giorno, di
sicuro non gli serviva ulteriore violenza.
“Rimani, non disturbi per niente, fidati.”
---
Gli
credette quasi, quando lo vide con quello
sguardo sincero fisso nel suo, ma sapeva benissimo di essere una
scocciatura,
un peso, se lo sentiva ripetere di continuo da diciassette anni.
“No, io… io devo andare a casa, mia madre non deve
sapere che sono stato qui,
non posso permettermelo e poi… se arrivo in ritardo
è una gran confusione.”
“Tua madre ti punirebbe severamente, non è
vero?”
No, no, aveva già visto i segni delle sue punizioni, ma non
poteva dirglielo,
assolutamente no. Rimase semplicemente in silenzio, sperando Robert
rinunciasse
alle sue intenzioni e lo lasciasse semplicemente andare a casa a
prendere ciò
che gli spettava di diritto per la sua orribile, orribile disobbedienza.
“Io-Noi possiamo proteggerti.”
Di nuovo, quasi gli credette.
Ma non poteva permetterselo.
Posò lo sguardo sul pavimento. Voleva andare a casa.
“Voglio solo andare a casa…”
mormorò flebilmente.
“Come desideri.” Robert gli lasciò il
polso, concedendogli di afferrare i suoi
vestiti. “Una parola, Jude. Una parola e ti possiamo aiutare,
fidati.”
No, non poteva, non poteva.
“Posso… posso usare il bagno?”
“Puoi fare quello che vuoi, a casa mia, ricordatelo
sempre.”
Si chiuse in bagno e si cambiò il più velocemente
possibile, ripiegando il
pigiama e lasciandolo sul bordo della vasca. Quando uscì,
Robert era ancora
fermo nella stessa identica posizione in cui l’aveva
lasciato. Si voltò appena
verso di lui quando ne avvertì la presenza.
“Lasciati aiutare.” Sembrava davvero addolorato, ma
non poteva provare dolore
per uno come lui, era solo un fastidio che doveva scomparire il
più in fretta
possibile, sparire possibilmente su un altro pianeta.
“Gra-grazie di tutto.” Si mosse verso la porta e la
voce di Robert lo
accompagnò fino a casa.
“Ci vediamo venerdì per il progetto.”
[Che
schifo, mamma mia.]
Novità: non è uscito nemmeno lentamente come lo
immaginavo.
Merito la lapidazione. Per una volta che era anche più lungo
del solito -.-‘’ E’
più lungo perché pieno di cose inutili, semplice,
non ho reso niente di quello
che dovevo rendere.
Vi lascio la ‘nuova’ tabella, che è
meglio.
Lunedì:
Vuole che le arredi la camera da letto,
Sir?
Quando avrò ispirazione (al momento
sono
concentrata su questa e Camera da letto, anche se stanno diventando
orrende
entrambe): Mary Poppins a
Lollolandia
Come sopra: Growing
up together
Domenica: Boulevard
of broken dreams
Canzone
(che le personcine come Manu avranno di
certo riconosciuto <3):
Muse
– Starlight
A presto,
- J
|
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Capitolo 9 *** Find a way ***
9. Find a way
9 – Find a way
Hold on,
What's the rush? What's the rush? We're...
not done away
Cause I don't need to change this atmosphere we made if
you can stay one more hour
Can you stay one more hour?
You know I'm gonna find a way to let you have your way with me
You know I'm gonna find the time to catch you and,
and make you stay
Erano riusciti a conoscersi, lentamente.
Molto lentamente. Ma quantomeno Jude
cominciava a sciogliere appena il ghiaccio sulla superficie del loro rapporto.
Avevano terminato il progetto con successo, la professoressa era stata
contenta, avevano preso un bel voto. E allora perché Robert si stava
avvicinando di nuovo al suo banco? Lo faceva sentire come un animale braccato,
ogni volta, nonostante il rapporto leggermente più intimo che si era creato tra
loro ed il suo sorriso costante.
Si rimpicciolì istintivamente sulla sedia, finendo per strisciare la schiena
ferita contro al bordo della sedia; Robert gli arrivò di fronte appena in tempo
per notare la sua smorfia di dolore.
Sembrava preoccupazione, quella nei suoi occhi, ma di certo lo aveva avvicinato
per chiedergli di fargli i compiti, visto il bel voto che avevano ottenuto in
storia. Anche se effettivamente avevano lavorato insieme, non era stato solo
merito suo.
Prese un respiro profondo, vedendo Robert aprire la bocca.
“Se continuassi ad invitarti a casa mia accetteresti?” una semplice richiesta.
Eppure gli faceva sudare freddo in un modo copioso. Deglutì, valutando i pro ed
i contro e prendendosi un paio di minuti per rispondere.
***
“Puoi dire a tua madre che ancora non abbiamo
finito…” tentò Robert, vedendolo terribilmente in difficoltà. Sapeva bene di
avergli creato un disagio infinito, con quella richiesta, e gli dispiaceva
tremendamente chiedergli di mentire a sua madre nonostante sapesse bene cosa
ciò comportasse, ma doveva assolutamente trovare un modo per stargli il più
vicino possibile.
Non era la sua pelle, che rischiava, ed era la sua riserva più grande.
Se fosse fallito tutto, sarebbe stato Jude a rimetterci, non lui, non la sua
famiglia.
Solo e soltanto Jude. E la cosa non gli andava giù per niente.
Sospirò, passandosi una mano tra i capelli, vedendo Jude restio. Come dargli
torto.
Pregò tutti i santi che conosceva perché accettasse.
Strinse appena i pugni lungo i fianchi. Se solo fosse riuscito a farlo
trasferire in casa sua, lo avrebbe protetto lui da qualunque cosa. Ma era la
prima, la parte più difficile, ed era ancora talmente annebbiata che non
riusciva a vedere oltre il suo naso.
***
Nemmeno si accorse di quando, esattamente, iniziò a
tremare. Seppe solo che improvvisamente aveva visto Robert sporgersi appena
verso di lui, come pentito. Si maledisse per tutto ciò che gli faceva passare.
E non riusciva nemmeno a controllare più il suo corpo, maledizione!
“Stai bene?” si era sentito chiedere, limitandosi a rispondere con un cenno
della testa.
Non poteva mentire a sua madre, assolutamente non poteva. Ma d'altronde era
Robert che glielo chiedeva, a lui era impossibile resistere, l’aveva scoperto a
sue spese mentre facevano il progetto. Non che fosse prepotente o cose del
genere, ma per lui semplicemente era impossibile resistergli quando gli
sorrideva. O semplicemente lo guardava in quel modo. Quel modo che l’avrebbe
spinto a regalargli la statua della libertà se solo l’avesse desiderata.
“Cosa ne dici?” lo incalzò Robert.
Jude prese un respiro talmente profondo che credeva avrebbe aspirato anche un
polmone.
“Va bene.” Soffiò.
***
Si era impedito di esultare davanti a Jude – era certo
che lo considerasse già gravemente malato di mente, figurarsi mettersi a
saltare per una sua semplice risposta -, ma arrivato a casa nessuno gliel’aveva
impedito, con il risultato di tirarsi addosso due paia d’occhi che lo fissavano
stralunati.
“Uno psichiatra?” aveva sentito sua madre proporre al marito. E la cosa gli era
sembrata così divertente che era scoppiato a ridere fragorosamente, ancora in
piedi nell’ingresso, facendo accorrere la povera donna.
“Tu hai qualche problema. Di sicuro.” Si era fermata a qualche passo da lui, le
mani sui fianchi, mentre lo osservava contorcersi sul pavimento.
---
Gli aprì la porta sorridendo, sorriso che si spense
immediatamente non appena lo vide zoppicare vistosamente dentro casa.
“Cosa facciamo oggi?” Jude gli sorrise, cercando di distrarlo. Senza dubbio si
era sciolto notevolmente dal loro primo incontro, ma quella rigidità di base
rimaneva, impregnando le sue parole ed i suoi movimenti.
Robert rimase terribilmente serio, stringendo i pugni tanto da far sbiancare le
nocche. Era arrabbiato con sé stesso, per l’ennesima volta, per non aver
pensato alle conseguenze. Da bravo ragazzino viziato agiva, e cosa importava del
dopo.
“Ti ha picchiato.” Non era una domanda, ne riconosceva i segni, ed ognuno di
quelli gli bruciava sulla pelle come se fossero stati fatti a lui.
Jude fece una smorfia, senza smettere di sorridere. “Un piccolo screzio, niente
di che.”
Una parte minima di Robert si rilassò. Forse non era tutta colpa sua, per una
volta.
“Cos’è, hai dimenticato di lavarti le mani?” ringhiò.
“Di pettinarmi, in realtà.” Lo vide distogliere lo sguardo.
Neanche fosse stata colpa sua, se sua madre era una troia schizofrenica.
“Vai.” Gli diceva il suo cuore. Robert
prese un bel respiro, cercando di scacciare la negatività e non agire
impulsivamente, uscendo di casa di corsa e finendo a casa dell’altro a spaccare
la faccia a quella che osava definire madre. Poteva essere considerato un
insulto pesante, in quell’accezione. Anzi, doveva.
Provò a sorridere. Aveva già una situazione di merda a casa, il suo obiettivo
era farlo stare a suo agio almeno in quel luogo.
“Vieni” gli tese la mano “andiamo di sopra.”
***
Era gentile. Così gentile che quasi gli faceva male
vederlo così arrabbiato per qualcosa che era stato, dopotutto, solo colpa sua.
Aveva scordato di pettinarsi, sua madre l’aveva punito. Svolgimento naturale
delle cose, gli sembrava giusto.
Quando gli tese la mano, il cuore quasi gli si fermò.
Mano, aiuto.
E la stava tendendo verso di lui.
Interesse, forse affetto.
Cercando di zoppicare il meno possibile – non voleva farlo angustiare di nuovo –
gli si avvicinò e poggiò la mano sulla sua, non avendo l’ardore di stringerla.
Ci pensò Robert, a quello, intrecciando le dita con le sue e guidandolo al
piano di sopra.
Prima che potesse accorgersene, Jude stava ricambiando la stretta, beandosi del
calore che emanava l’altro.
[Dio,
un parto.]
Bello, eh? Seriamente, una meraviglia *inserire ironia qui, prego*
E la cosa divertente è che ci sono sopra da tre settimane e questo è tutto
quello che sono riuscita a produrre, meraviglia delle meraviglie.
Quantomeno ho aggiornato.
Canzone (anche se immagino che tutte le… ehm… veterane del fandom abbiano riconosciuto, visto che è la stessa del
video che ha dato inizio a tutto questo <3):
Safetysuit – Find a way
E se volete vedere il video ditemelo, che vi passo il link, perché davvero
merita, è grazie a lui che ora sono qui <3
Con questo vi saluto, mie care.
A presto,
- J
|
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Capitolo 10 *** Seize the day ***
10. Seize the day
10 – Seize the day
Seize the day or die regretting the time
you lost
Si
arruffò i capelli con entrambe le mani.
Cristo, non riusciva a venirne a capo!
Lanciò un’occhiataccia al padre che lo fissava
in tralice da sopra la pagina della borsa.
“Non mi aiuti, così, sai?”
Per tutta risposta l’altro si strinse nelle spalle, chiudendo
il giornale e
ritirandosi nello studio.
Era seduto sul divano da almeno un paio d’ore. E sdraiato da
almeno una e
mezza. Fermo, a fissare il soffitto sperando che la soluzione gli si
illuminasse nel cervello contornata da un coro angelico formato da voci
di
cherubini grassocci, ma niente. Nada de nada, nisba, zero.
Due ore – senza contare tutto il tempo che spendeva a scuola,
in giro, a danza,
ovunque, insomma – a
pensare a come
far trasferire Jude lì da lui. E ancora un fottutissimo
niente.
“Ahhh!” si scompigliò di nuovo i
capelli, ottenendo solo un’acconciatura alla
afro, ma ancora nessuna idea. Vuoto assoluto.
Ruzzolò giù dal divano, schiantandosi al suolo
con un tonfo e sperando che la
fantomatica lampadina gli si accendesse nel cervello. Quantomeno un
brillio
dovuto all’impatto.
Sbuffò, faccia a faccia con il tappeto, il naso affondato
tra le trame.
“Tesoro?”
“Mmmh.”
“Non annusare le fibre del tappeto, non è
salutare. E poi non passo l’aspirapolvere
da ieri, chissà quanti germi ci saranno lì in
mezzo!” non poteva vederla, perso
com’era tra le fibre puramente indiane, ma
immaginò la sua espressione
scioccata, con tanto di bocca spalancata e mani su di essa.
“Sopravviverò.” Mugugnò.
“Dai, caro, alzati, è sporco!”
Non si trattenne dal ridere. Sporco, certo, con una maniaca della
pulizia del
genere in casa, sporco era una parola esiliata persino dal dizionario.
Si convinse ad alzarsi solo quando i colpetti sul suo fianco si fecero
più
insistenti, tanto che temette che la punta delle scarpe di sua madre
gli
sarebbe penetrata fino allo stomaco.
Sbuffando fece leva sulle braccia e si alzò da terra.
“Bravo il mio bambino.” Gli sorrise Elsie, dandogli
qualche colpetto sulla maglia,
forse sperando di liberarlo da quegli insistenti granelli di polvere
invisibili.
Le fece un mezzo sorriso, per poi sparire per le scale dopo un ultimo
colpo ad
altezza dell’ombelico. Si buttò a peso morto sul
letto, riprendendo la
posizione a quattro di spade adottata sul tappeto.
Era certo che non ne sarebbe arrivato a capo nemmeno tra un miliardo di
anni.
***
“Toc
toc.” Robert Senior apparve sulla soglia della
stanza del figlio.
“Non mi sei utile, al momento, papà.”
Incurante delle sue parole brusche, entrò lo stesso, andando
a sedersi ai piedi
del letto.
“Robert, non posso fare nulla.”
Junior si voltò a pancia in su, mettendosi seduto ed
incrociando le braccia sul
petto, fulminandolo con un’occhiata.
“Non vuoi fare nulla,
specifica.”
L’uomo sospirò, passandosi le dita tra i capelli
corti e puntando lo sguardo in
quello del figlio.
“Non posso.”
“Ma io li ho visti, papà!” Rob si
avvicinò gattonando, infervorandosi.
“Ed io ti credo. Ma il resto del mondo no, lo sai. Sarebbe la
parola di un
adolescente contro quella di un adulto. E se poi Jude
all’ultimo momento si
rifiutasse di mostrare i segni, saresti tu a finire nei guai.”
“Ma Jude lo farà!”
“Ne sei sicuro? Gliel’hai chiesto?”
Robert Junior distolse lo sguardo, puntandolo sulle trame della
trapunta.
“Lo farà.” Mugugnò, suonando
alle sue stesse orecchie come un bambino di cinque
anni. “Devo solo fargli capire che quello che gli fa la madre
non è giusto.”
Senior rise. “Niente, insomma.”
“Bè” Rob allungò le dita
sulla coperta, trovando un filo scoperto “con un altro
paio di incontri…”
“Sai che è ben più difficile di
così.”
“E tu non mi vuoi aiutare.”
L’uomo si pizzicò la base del naso con due dita,
sospirando.
“Dovrei vedere i segni di persona, Robert. Allora si che
potrò testimoniare in
un tribunale.”
Robert tirò il filo fino a strapparlo.
“Sarà impossibile.”
---
Jude si sedette
alla scrivania, lanciando un’occhiata
tanto per informarsi all’orologio.
Le cinque meno dieci del mattino.
Che novità.
Effettivamente, pensandoci bene, era da un po’ che non si
svegliava così
presto. Ultimamente almeno alle sei ci arrivava. E, anche se non si
permetteva
di pensarlo, sapeva bene di chi era il merito.
Sospirò, aprendo il libro di letteratura e provando a
ripassare qualcosa su
Machiavelli.
***
Un altro
venerdì era arrivato.
Era un sollievo per tutta la scuola, la settimana era finita, ma per
Jude
significava solo una cosa: Robert. E conseguente e solita paura di non
essere
all’altezza.
Alzò la mano e suonò il campanello. Con il tempo,
ormai, era riuscito ad
impedirsi di esitare, quantomeno.
“Jude!” con un semi urlo la porta si
spalancò, facendo apparire Robert in tutto
il suo splendore di capelli arruffati e sorrisi splendenti.
Impossibili da non ricambiare.
“Ciao.”
“Vieni, entra.”
Emise i primi passi nell’ingresso. Incerti, ancora, come
sempre.
“Mamma, c’è Jude!”
Elsie apparve dalla cucina, spazzandosi le mani su di uno strofinaccio appeso alla cintura.
“Ciao, caro.”
“Buongiorno.”
E con un sorriso scomparve di nuovo tra il profumo di cibo.
Prima che potesse rendersene conto, Robert gli prese la mano, come
ormai d’abitudine,
precedendolo su per le scale e trascinandoselo dietro come un fedele
cagnolino.
“Cosa dobbiamo fare oggi?”
“Mmmm…” Jude frugò tra i
pensieri, cercando un qualcosa che avesse a che fare
con la scuola e non con le dita di Robert intrecciate alle sue.
“Algebra.”
“Oddio, che schifo.”
Rise al commento dell’altro, scoprendosi a pensarla
esattamente come lui.
---
Era
già su di giri quando gli aveva aperto la porta,
figurarsi quando l’aveva visto davvero, non attraverso lo
spioncino.
Se prima il suo mondo girava attorno al venerdì
perché era l’ultimo giorno di
scuola – e ciò significava festa a tutto andare,
partitone ad Assassin’s Creed
lunghe secoli o ore in piscina -, ora vi girava attorno semplicemente
per la
visita di Jude.
Avevano fatto passi da gigante, quelle ultime volte, lo vedeva sempre
meno
rigido, meno formale, più aperto e disponibile a contatto
umano. Ed era questo
che gli forniva l’euforia necessaria per tirare avanti.
Si lasciò andare contro lo schienale della sedia, facendola
roteare.
“Abbiamo finitoooo!” alzò le braccia al
cielo, un peso in meno. Ed anche i
compiti per lunedì erano andati, lo aspettava un weekend di
pigrizia assoluta. “Dio
ti ringrazio.” Esalò poi, accasciandosi sulla
sedia.
Jude, accanto a lui, rise mentre riponeva i libri al loro posto
– ci teneva a
farlo, ed ormai sapevo meglio di lui cosa andasse dove – e si
preparava già la
cartella per il ritorno a casa.
“Bè, visto che è presto”
cominciò Robert, avventurandosi su un terreno spinoso,
osservando l’orologio “cosa ne dici di un
gelato?”
“Se è quello al cioccolato di tua madre,
volentieri.” Gli sorrise.
“No, è decisamente più
buono.” Si alzò di scatto dalla sedia,
stiracchiandosi
come un gatto per poi tendergli di nuovo la mano. “Andiamo,
ne rimarrai
affascinato.”
Sorrise caldamente quando Jude balzò in piedi, afferrandola
immediatamente e
lasciandosi trascinare nel suo vortice.
Il problema si fece avanti quando arrivarono alla porta di casa e
Robert si
infilò cappello e occhiali da sole. Lo sapeva, lo sapeva.
Ora doveva solo
giocarsela bene.
“D-dove andiamo?” lo vide deglutire, sbiancando.
Strinse i denti, non avrebbe
mollato la presa.
“A prendere il gelato.”
“No, fuori… no. Non posso.”
“Si che puoi, Jude.” Robert conquistò
faticosamente un contatto con i suoi
occhi, stabilendo una connessione forte tra i loro sguardi.
“E se mia madre mi vede? No, non se ne parla.”
Distolse lo sguardo e gli lasciò
la mano, e fu quello a fargli più male di tutto.
---
Se ne
pentì un secondo dopo averlo detto.
Era stato rude, cattivo.
E Robert non meritava nulla di tutto quello.
Non voleva, non voleva. Ma se poi sua madre fosse stata là
fuori, pronta a
scovarlo? Non voleva essere punito.
Se fosse uscito se lo sarebbe meritato – dopotutto lui e
Robert avevano deciso
di continuare a vedersi solo se lo scopo fosse stato fare i compiti -,
ma non
voleva, gli ultimi segni sulla schiena gli dolevano ancora in modo
tremendo.
“Io…” rifugiò in tasca le
mani tremanti, fissando il pavimento. “Io non volevo,
mi dispiace.”
Sentì gli occhi inumidirsi, ma non poteva permetterselo.
Lo colpì sul petto.
“Gli uomini non piangono, Jude. Per nessun motivo al
mondo.”
Un altro colpo.
“M-mi dispiace, mi dispiace…”
continuò a ripeterlo come una litania, senza
osare alzare lo sguardo su Robert per paura di vedere la delusione in
fondo ai
suoi occhi, la rabbia.
Un secondo dopo si sentì stringere, racchiuso di nuovo in
quel profumo
confortante.
“Non è successo niente, niente. Non provare anche
solo a colpevolizzarti.” Gli sussurrò
Robert all’orecchio, portandoselo contro.
“Va tutto bene.”
In quel momento, solo in quel momento, Jude si permise di perdere una
lacrima.
[Ma
ce l’ha un senso? Io lo sto ancora cercando.]
Già, alla fine sono riuscita ad aggiornare ._.
Era meglio andare a zappare, almeno sarei stata utile a qualcosa. Mi
piace
giusto l’ultimo pezzo, se il resto volete anche denigrarlo,
fate pure ù_ù Vi
basti sapere che ci sono sopra dalle tre, tipo, ed ora che ho finito e
sto
scrivendo le note sono quasi le sei e mezza. Ed il capitolo
è una schifezza.
No, ma consolante .-.
Comunque.
La canzone, questa volta, è Seize the day degli Avenged
Sevenfold, che potete
trovare qui (e vedete di trovarla davvero,
perché è da ascoltare ù_ù
Lo so, lo
dico per tutte le canzoni, ma se le uso per i capitoli di una storia a
cui
tengo, vuol dire che tengo anche alle canzoni, no? Ok, mi defilo, che
è meglio).
Santa pazienza, prima o poi un capitolo non mi farà schifo,
si spera, intanto
ciucciatevi questo obbrobrio -.-‘’
A presto,
- J
|
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Capitolo 11 *** When we collide ***
11. When we collide
11 – When we collide
When we collide we come together
If we don’t we’ll always be apart
Non poteva
deluderlo.
Non doveva deluderlo.
Era stato quello il pensiero che gli aveva dato la forza per andare
avanti.
Robert era sempre gentile, con lui, disponibile
all’inverosimile. E tutto ciò
che lui era capace di rendergli era un misero aiuto nei compiti
– perché
nonostante ciò che volesse dare a vedere, Robert era
intelligente, e parecchio
– e una risposta scortese quando lo invitava fuori per un
gelato.
Non andava.
Non gli importava se sua madre fosse stata appostata dietro
l’angolo, pronta ad
assalirlo, a prenderlo a cinghiate o a marchiarlo a fuoco, il suo
obiettivo per
il momento era non deludere Robert.
Trasgredirai.
Verrai punito.
No, non poteva uscire. Non con tutti i possibili pericoli che
gli si
affollavano nella mente. Ultimamente provava un dolore incredibile
anche con le
ferite minime, non sapeva come ma la sua pelle doveva essere in un
qualche modo
essere diventata più sensibile e non, come sperava,
abbastanza provata da
riuscire ad isolare le ferite.
Però, Robert.
Strinse il tessuto della maglietta dell’altro tra le dita con
tutta la sua
forza.
No, no, no.
Finirà male, e lo sai.
Non puoi violare le regole.
Avrebbe accettato la punizione.
Ma sarebbe stata dolorosa.
No, glielo doveva e basta.
Incapperai in una punizione.
La bruciatura appena sopra al ginocchio bruciò come a
ricordargli a cosa andava
incontro.
Dolore.
Male, male, troppo male, avrebbe voluto
urlare.
Strizzò gli occhi. Quella voce nella sua testa gli impediva
di pensare in modo
coerente. Strinse i denti per le fitte che gli dava la gamba.
Le lacrime continuavano a scendere copiose, come se
quell’avventuriera di poco
prima avesse dato il via ad una scia di sfogo che non aveva da anni. E
mai si
era sentito così al sicuro.
Non voleva uscire, non voleva uscire, sarebbe stato disubbidiente,
avrebbe
sofferto per altro dolore meritato che gli sarebbe stato inflitto. Non
voleva
uscire. Non voleva nemmeno provare, a rischiare. Non voleva uscire.
Jude, glielo devi.
Basta, basta, non sapeva più a chi dare ascolto, sembrava
che nella sua testa
parlassero in mille; voci proveniente da vecchi ricordi, voci che gli
dicevano
cosa fare, cosa non fare, spezzoni inutili di cose passate. Tutto si
mescolava
in un vortice confuso.
Poi, una voce si levò sopra le altre, risvegliandolo dallo
stato pietoso in cui
era caduto, in quel tunnel senza uscita.
“Va tutto bene. Ti proteggo io. Va tutto bene.”
Robert.
Una voce amica che gli prometteva sicurezza, calore, affetto,
protezione, e
qualunque cosa di buono ci fosse al mondo.
Ma non capiva perché, lui aveva già tutto quello.
“Va tutto bene.”
Ed improvvisamente, le voci non parlarono più ed il tremolio
che lo scuoteva si
fermò, come sospeso nel tempo.
---
Continuò
a tenerlo stretto finchè non smise di
tremare, aggrappato con tutte le forze alla sua maglietta.
“Andiamo, ci sarà sicuramente del gelato avanzato
in freezer, mia madre ne fa
sempre quantità industriali quando il venerdì si
avvicina.” Gli sorrise, quando
alzò la testa. “Ormai sa bene quanto ti piaccia il
suo gelato.”
“No, usciamo.” Si liberò gentilmente
dall’abbraccio, asciugandosi gli occhi
malamente con i palmi delle mani.
Robert lo guardò sorpreso, inclinando leggermente la testa
come se ciò servisse
a fargli comprendere cosa passava per la testa di quel ragazzo prima
tanto
debole tra le sue braccia ed ora come animato da un nuovo fuoco nelle
vene.
Incatenò lo sguardo al suo. Una nuova luce gli infiammava
gli occhi, ma non
capiva.
Lo scrutò in profondità. Fin dove gli riusciva,
quantomeno, aveva qualcosa che
lo bloccava pochi livelli sotto la superficie. Molto probabilmente lo
spettro
di sua madre che incombeva su ogni singolo secondo della sua vita.
Per la terza volta quel giorno, gli tese la mano.
Non c’era bisogno di parole, non in quel momento.
***
Ancora non
capiva cosa gli passasse per la testa, e
questo lo mandava letteralmente fuori.
Aveva ripreso a tremare leggermente, appena fuori di casa, non avevano
nemmeno
mosso un passo in strada, si erano fermati ai piedi degli scalini fuori
dalla
porta.
Jude non era riuscito a guardarlo in faccia, come impegnato a studiare
l’acciottolato, ma gli aveva stretto forte la mano, e
ciò gli bastava.
Gli si era affiancato, intrecciando più saldamente le loro
dita e muovendo
qualche passo incerto verso il gelataio all’angolo. Poi,
improvvisamente
colpito da un pensiero, si immobilizzò.
“Jude.” Ancora non lo guardava in viso, non voleva
mostrargli quanto era
combattuto, sapeva bene che per lui uscire a prendere un gelato era
già un
divieto, figurarsi farlo con un amico che non gli era concesso avere e
soprattutto con una mano intrecciata alla sua.
Gli si avvicinò appena.
“Quello che stai facendo non è
sbagliato.”
Si irrigidì appena nella sua stretta.
“Io… si, invece. Mia madre non vuole.”
“Non sempre gli adulti hanno ragione.”
Si spaventò appena quando Jude alzò finalmente il
viso, un’espressione scura in
volto.
Ecco fatto, l’ennesima cazzata.
“Mia madre si.”
Boccheggiò un paio di volte, mortificato. Sapeva bene quanto
Jude tenesse alla
madre, non aveva scelto per nulla le parole giuste. Fin lì
ci era arrivato, lui
vedeva quella donna come la voce della verità, colei che gli
aveva concesso la
vita, che faceva ogni cosa per il suo bene, che gli dava regole giuste,
che lo
puniva a fin di bene per impartirgli un’educazione
equilibrata. Pensava ad
essere lui il figlio sbagliato, il figlio ingrato per una donna che
provava
solo affetto per lui, che si donava ogni istante della sua vita per il
suo solo
ed unico bene. Cosa che non era mai accaduta, quella donna era solo una
cagna e
nulla più.
Lo sguardo di Robert si indurì per un attimo, portandolo a
serrare
istintivamente la mascella e la mano libera. Erano pensieri
fantascientifici,
quelli, ma dopo sedici anni passati in quel modo, non poteva biasimare
Jude per
credere ad ogni singola parola che sua madre gli dava a bere.
Ed era questo ciò di cui aveva paura, di non riuscire a
distoglierlo da quei
pensieri. Perché anche se fosse riuscito a farlo affezionare
a lui quel tanto
che bastava, il legame madre-figlio, per quanto la madre potesse essere
carogna, sarebbe rimasto la cosa più salda.
Aveva paura che piuttosto che andare contro alla madre, avrebbe rotto
ogni
contatto tra loro. Ma c’era anche il colpo di testa di poco
prima.
Aveva capito quanto era combattuto - almeno quello era riuscito a
leggerlo, nel
suo sguardo criptico -, era un sentimento chiaro e cristallino quasi
quando i
suoi stessi occhi. Eppure c’era la decisione di poco prima,
non dettata
solamente dal bisogno di ribellione che prima o poi prova ogni singolo
adolescente – soprattutto non se questa ribellione veniva poi
punita così
ferocemente -, aveva sentito come se fosse stato qualcosa di
più profondo.
Sperava in quello; era andato contro alla madre per non dare un
dispiacere a
lui.
A quell’ultimo pensiero i suoi occhi si spalancarono, e la
bocca formò una o
perfetta.
Jude lo fissava ancora con sguardo scuro, nebuloso, ma in quel momento
sapeva
per certo che stava guadagnando terreno. E forse sarebbe riuscito a
guadagnarne
talmente tanto da riuscire a scalfire un minimo le sue convinzioni.
Quel tanto
che bastava per trarlo in salvo da se stesso.
***
Non si era
scusato.
Gli dispiaceva da morire quel passo falso, ma non aveva intenzione di
scusarsi.
“Non è un male, Jude. Cerca di capirlo.”
Gli ripetè. Era una mossa azzardata –
rischiava che gli si rivoltasse contro come poco prima -, ma era
più forte di
lui, doveva fargli capire almeno quello. Doveva, doveva.
Provò una tattica che gli era balenata in mente in quel
momento, e la buttò
sullo scherzo.
“Sentiamo” gli sorrise, come canzonandolo. Non
poteva osare, ma se non avesse
osato non sarebbero arrivati mai da nessuna parte
“perché non potresti mangiare
un gelato?”
“Veramente non posso uscire se non per andare a scuola. E non
posso avere
amici.”
“E perché, tua madre te l’ha mai
spiegato?”
Lo vide distogliere lo sguardo e puntarlo lontano, perso, pensieroso.
Centro.
Gli sembrarono attimi infiniti quelli che trascorsero tra domanda e
risposta.
“Effetivamente… no. Dice solo che non merito
nulla.”
Era il tono leggero con cui l’aveva detto che lo faceva
imbestialire. Come se
lui accettasse quell’etichetta di nullità che lei
gli aveva cucito addosso e
anzi, fosse persino felice di portarla proprio perché era
stata lei a
dargliela. Un genitore. Coloro di cui ti fidi ciecamente, che non credi
possano
volere altro che il tuo bene. Stronzate, nella sua famiglia, solo un
gigantesco
mucchio di stronzate.
Respirò a fondo, ripescando la sua idea.
Ora doveva passare dal lato del diavolo tentatore.
“Allora, se non ti ha mai dato una buona ragione per non
farlo… perché non
farlo?” Diamine, quella frase era sembrata astrusa pure alle
sue orecchie.
Sperò che almeno quel poco di parte sana che era in Jude,
che ancora
riconosceva il giusto – perché esisteva, quella
parte, era la stessa fiamma che
aveva visto poco prima, ne era certo -, gliela facesse intendere. A
costo di
obbligarlo.
Dallo sguardo accigliato che gli rivolse, capì che un buco
nel muro ora c’era.
Ed ora di nuovo se stesso, gentile, disponibile. Non poteva azzardare
di più,
era già un passo da gigante così, era meglio non
forzare la mano, non con Jude.
“Coraggio.”
Ripresero il cammino verso il gelataio, come due bambini, mano nella
mano, ma
era quel tremito continuo che non dava pace a Robert. Per un attimo non
l’aveva
sentito, durante il suo discorso, ma non era sicuro che fosse svanito,
poteva
benissimo non averlo percepito solo perché troppo assorto in
ciò che stava
facendo. Fatto sta che era ricominciato, ed era quello ad agitargli
l’anima.
Strinse la mano di Jude, affondando nelle tasche dei pantaloni ed
assumendo la
sua aria più rilassata. Gli servivano solo
stabilità, tranquillità e un minimo
di serenità, non chiedeva molto.
Lo vide arrossire appena con la punta dell’occhio, e sorrise
apertamente.
***
Si ritrovarono
seduti su una panchina con un gelato
a testa ancora prima che se ne potessero accorgere. Era come aver
percorso un
chilometro in una maratona lunga infinita che rappresentava la
liberazione di
Jude dalle grinfie di sua madre.
Si sentiva leggero come un palloncino, quel chilometro
l’aveva percorso lui
tutto da solo, tenendo stretta la mano di Jude e nascondendola
all’interno
della tasca dei pantaloni come il tesoro da custodire che era.
[Bah.]
Capitolo utile quanto il cappotto quando fai il bagno.
Mi sono persa in divagazioni inutili ed il succo è un
bel niente, già.
Nemmeno
commento che è meglio.
Canzone
(ovviamente da ascoltare. Se poi siete depressi come me al momento
– e come
spesso ultimamente, non chiedetemi perché -, è
una chicca): Biffy Clyro – When
we collide, qui.
A presto,
- J
|
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Capitolo 12 *** One more cup of coffee ***
12. One more cup of coffee
12 – One more cup of coffee
One more cup of coffee ‘fore I go
Lo sapeva, lo
sentiva nelle viscere ad ogni singola
leccata che dava al gelato. Sapeva che sarebbe successo,
perciò quando entrò in
casa, trovando sua madre nell’ingresso, per la prima volta in
vita sua non
avvertì nemmeno quella paura così sbagliata che
gli attanagliava sempre le
viscere. E non si chiese nemmeno come avesse fatto, chi
l’avesse tradito,
perché era certo che in un momento simile non avrebbe
ottenuto risposta.
A testa bassa si diresse in camera, cercando di convincersi che andare
con
Robert era stata la cosa giusta. “Appoggio lo zaino e arrivo
subito.”
Si sorprese a pensare che non aveva bisogno di convinzioni, avrebbe
rifatto la
stessa cosa altre dieci volte, se fosse stato necessario per vedere quel sorriso sul volto di Robert. Il
sorriso di chi è fiero, soddisfatto, pieno di un qualcosa di
inesprimibile a
parole che riguardasse l’altro. Ed era orgoglioso di dire che
per una volta
l’altro di cui essere fieri era lui. E se dieci altri gesti
simili avessero
comportato dieci punizioni, le avrebbe accettate.
Però. Il male.
Tornò in soggiorno, sua madre era già pronta.
---
“Robert!”
il grido di sua madre arrivò chiaro alle
orecchie di entrambi.
Il soggetto lasciò cadere la biro che aveva tra i denti,
tendendo le orecchie a
captare ogni suono.
“Cosa?” gridò di rimando.
“C’è tua sorella al telefono!”
“Allyson!” Robert si buttò letteralmente
fuori dalla stanza, troppo contento
anche solo per notare l’occhiata perplessa di Jude.
***
Quando
tornò in camera, un sorriso che andava da un
orecchio all’altro, si sedette a braccia spalancate, sapendo
che doveva delle
risposte.
“Chiedi tutto quello che vuoi.”
Jude si morse un labbro, sicuramente riluttante nel farsi gli affari di
qualcun
altro, anche se incitato.
Dopo quella che sembrò una lunga e sanguinosa battaglia
interiore, finalmente
si decise a parlare e anche a sorridere, a quanto pareva,
notò Robert stirando
le labbra, certo di aver fatto l’ennesima stronzata. Quella
non era semplice
riluttanza a farsi gli affari altrui, c’era di
più. Dio.
“E così hai una sorella.”
Annuì, serio. Jude sembrava molto a disagio, forse
anche imbarazzato. Ma in modo negativo, e quella storia non gli piaceva
per
niente.
“Quanti anni ha?”
“Quattro più di me, venti. E’ al
college.”
“Che fortuna, sarebbe piaciuto anche a me avere una
sorella.”
Si vedeva lontano un miglio – o forse solo Robert lo vedeva,
avendo ormai
imparato ogni sua singola sfumatura sin da quando lo conosceva
– che si
sforzava di essere entusiasta, anche se a Robert sembrava di vedere una
base di
sincerità, in quelle parole.
Il silenzio permeò la stanza, entrandogli nelle ossa e
facendolo sentire un
fallito completo. E lui doveva essere il salvatore, la cosiddetta luce,
ma
prima di tutto un amico, una persona che pensasse a mettere a suo agio
Jude,
qualcuno che non aveva di certo mai incontrato e che avrebbe pensato
solo ed
esclusivamente al suo bene. Eppure quel silenzio lo accusava, gli
puntava
contro un dito accusatore; missione fallita.
In momenti come quello non aveva dubbi, gli veniva il desiderio
prepotente di
buttare tutto all’aria, urlare che non era altro che un
fallito, era solo un
ragazzo e già doveva occuparsi di una situazione del genere,
chi glielo aveva
fatto fare. Poi accadeva qualcosa. Qualcosa che spaziava da un misero
lampo
azzurro visto per caso ad una matita, ed altre cose altrettanto
inutili,
usuali, ma che c’entravano sempre in qualche modo con Jude.
Era in quei momenti
che si sentiva invincibile, pronto a qualunque cosa pur di proteggerlo,
ma
doveva ammettere a se stesso che da qualche giorno non vedeva altro che
la
parte oscura della cosa. Non c’erano passi avanti, quel poco
che aveva ottenuto
quel giorno dal gelataio era riuscito a rimangiarselo subito con
piccoli gesti
che – Dio, si odiava per la sua ottusità
– lo costringevano a piccoli passi
indietro. Piccoli, certo, ma uno dopo l’altro diventavano
velocemente una
distanza enorme. E non poteva permettersi di perdere terreno
perché, in fatti,
di terreno non ne aveva.
Si chiese più di una volta cosa avesse sbagliato, ma non
ebbe il coraggio di
chiedere; il silenzio pesante avrebbe premuto ancora di più
sulle loro teste.
Riacquistò la sua facciata di bronzo ed il buonumore
– seppur fittizio – che
essa comportava d’obbligo, soprattutto se non ce
n’era di base e si trovava
alle prese con Jude.
Battè le mani, richiamando l’attenzione di Jude
persa con lo sguardo da qualche
parte sul pavimento.
Il suo azzurro – perché di suo si trattava, in
tutta la sua vita non ne aveva
mai visto uno simile, anche solo molto lontanamente somigliante
– come sempre
gli fece perdere il contatto con la realtà, incantandolo
come la migliore delle
fattucchiere.
“Mia madre ha fatto la granita, ti va?”
Gli avrebbe offerto il mondo, se solo avesse potuto.
Era certo di essersi appena fottuto completamente il cervello, e
purtroppo
credeva di avere un’idea ben definita di quale fosse la
causa. Ed in quella
situazione non era bene per niente.
---
Gli si
mozzò il respiro, quando la ragazza prese ad
avvicinarsi.
Sentì l’attacco di panico in gola, ma ultimamente
ci avevano lavorato sopra,
con Robert, sentiva di poterlo superare con calma ed un centinaio di
respiri
profondi. Gli venne da ridere, ricordandosi di quando Robert gli aveva
mostrato
gli esercizi di respirazione che conosceva. Era divertente in modo
ridicolo. Ed
era più che sicuro che l’avesse fatto apposta per
farlo ridere, ormai quello
sembrava essere il suo unico scopo di vita. Quello ed ucciderlo con i
sorrisi
che gli lanciava ogni tanto sempre e che gli
mozzavano il respiro.
Fatto sta che ora anche solo il ricordo dei loro pomeriggi era riuscito
a
tranquillizzarlo, e non vedeva più l’avvicinarsi
della ragazza come una
catastrofe ambulante.
“Tu sei il ragazzo che sta sempre con Downey, vero?”
Brividi freddi gli corsero lungo la schiena. Cos’aveva fatto,
cos’aveva
combinato? Stava con lui, era vero, era colpevole, di qualunque cosa si
trattasse.
“S-si, sono io.”
La ragazza sorrise. Certo che era bella davvero.
“Jude, giusto?”
Annuì.
“Io sono Katie.” Gli allungò la mano,
che Jude strinse dopo qualche momento
d’esitazione, rimanendo comunque poco convinto.
“Piacere.” Poco convinto, ma le buone maniere
inglesi non gliele toglieva
nessuno. Anche perché sua madre gliele aveva impresse a
fuoco sulla pelle –
letteralmente – quando era bambino.
“Volevo chiederti se potevi dargli questo.” Gli
consegnò un foglietto, lasciò
dietro di sé un ultimo sorriso, e prima che potesse
controbattere la sua lunga
coda di capelli scuri sparì in mezzo agli altri studenti.
Sul semplice pezzetto
di carta, un numero di cellulare.
Jude sentì come una colata di ghiaccio scivolargli nello
stomaco. Non aveva mai
provato nulla prima; era terribilmente tentato di gettare via il
biglietto e
fare finta di nulla. Ma lui none ra quel tipo di persona, non capiva il
perché.
Perché avrebbe dovuto privare una ragazza del suo sogno
d’amore? Non aveva
senso. Si strinse nelle spalle e si mise a guadare quella marea di
studenti in
cerca dell’ormai conosciuto ciuffo ribelle di Robert.
---
Sinceramente non
sapeva cosa farsene, del biglietto
che Jude gli aveva consegnato timidamente, dicendogli solo che
apparteneva a
una ragazza bellissima di nome Katie, per poi dileguarsi nel nulla
così come
era apparso.
Lo fissò per un paio di minuti, per poi decidersi a tenerlo.
Non per uscire con
la suddetta ragazza, no di certo, lui era già invischiato in
qualcosa di
grosso, ma quantomeno per chiamarla e comunicarle che era lusingato
–
soprattutto se era così bella come diceva Jude, non aveva
mai disdegnato una
bella ragazza, ma… - ma non poteva accettare. Se sua madre
si fosse rivelata
utile come sperava, quel pomeriggio avrebbe capito senza ombra di
dubbio che
ormai il suo cuore apparteneva a qualcun altro, gli serviva solo una
conferma.
***
Non si sentiva
particolarmente imbarazzato ad
affrontare l’argomento. In effetti sarebbe stato impossibile
raggiungere i
livelli di quando suo padre l’aveva braccato in camera sua e
costretto ad
ascoltare un lungo ed estenuante discorso su api e fiori, cavoli e
cicogne.
Salvo poi rimanere palesemente deluso quando Robert l’aveva
fermato a l’impollinazione,
comunicandogli che
sapeva già tutto. Se li spartivano a dovere, gli argomenti,
perciò dopo aver
conosciuto la teoria del sesso dal punto di vista del padre, era il
turno di
chiedere alla mamma. Aveva sempre avuto un ottimo rapporto con i
genitori, su
quello non c’era dubbio.
Fatto sta che era decisamente rilassato quando sua madre
entrò in camera e si
sedette sul letto accanto a lui, sorridendogli gentilmente.
“Avevi bisogno, tesoro?”
Robert si alzò a sedere, prestandole tutta
l’attenzione di cui era capace.
“Mamma.”
Elsie lo interruppe, ridacchiando. “Mi spaventi quando
cominci così seriamente,
sappilo.”
Robert sorrise, lasciando cadere lo sguardo sulla coperta.
“Come hai capito di essere innamorata di
papà?” rialzò immediatamente gli occhi
per captare ogni singolo gesto, parola.
Elsie parve perdersi nell’alba dei tempi, picchiettandosi un
indice sul mento.
“Argomento interessante, in effetti. Bè, diciamo
che l’ho sentito e basta.
Capisci da solo quando sei innamorato, nessuno te lo può
dire.” Sorrise. “Però
diciamo che ci sono alcuni segnali riconosciuti universalmente. Quando
ti
sembra di pendere dalle sue labbra, non riesci a togliergli gli occhi
di dosso,
quando lo senti nominare improvvisamente il tuo udito si affina,
vorresti
vivere in simbiosi con lui per qualche giorno per riuscire a conoscere
tutto,
dalle sue abitudini a ciò che legge, che ascolta, che
guarda. Oppure,
semplicemente, se quando lo vedi ti si mozza il fiato e passeresti ore
a
guardarlo negli occhi.”
Robert le sorrise leggermente. “Grazie.”
La donna gli scompigliò i capelli, per poi sparire in
corridoio nella sua scia
di profumo al gelsomino.
Si sentiva come un malato dal dottore, quanto il paziente rivelava i
sintomi ed
il medico trovava semplicemente una spiegazione ed un nome alla
malattia.
Ecco, ora ne era certo, era andato, la sua malattia era la dipendenza
da Jude.
---
“Meglio
che vada, si avvicina il coprifuoco.” Aveva
raccolto libri e zaino, sorridendo apertamente, per poi dirigersi verso
la
porta.
“Aspetta.” L’aveva fermato Robert,
trattenendolo per un braccio. E come solito
Jude non respirò quando quel sorriso spuntò dal
nulla. “Resta per un’altra
tazza di caffè.”
Rise alla citazione. “Non bevo caffè, ma per Bob
questo ed altro.”
Si accorse solo più tardi, a casa, della frase altamente
fraintendibile, ma
dopotutto non era che la verità.
Per Bob avrebbe fatto quello ed altro.
[Per
la serie: prima o poi ritornano – io, dal mare -. I
sopravvissuti, fuck yeah.]
In effetti non ce ne sono, di sopravvissuti, se non contiamo il povero
Gianni
che ormai potrebbe sopravvivere anche alla bomba atomica, unico
superstite da
sempre.
E non ce ne sono perché li ho spremuti fino
all’ultimo (spremuti, poi,
sempre e solo lui, Gianni
Mononeurone, il mio fedele compagno di vita) per scrivere
ciò.
Ma c’è un motivo!
Come voi tutte saprete (bè, la maggior parte di voi) il
compleanno di Fra la
Vecchia, alias la cara velocity_girl (<3), si avvicina
inesorabile come la
fine del mondo, e visto che ho insistito per farle un regalo (mi sembra
giusto
ù_ù) ecco spiegato il perché di questo
capitolo e della canzone che ha scelto
lei e che io ho usato nel modo peggiore possibileche,
per inciso, è One
more cup of coffee di Bob Dylan (che è impossibile da trovare e
quindi se volete sentirla ve la passo - gentilmente concessa a me da
Fra, appunto -, gentili donzelle, che ne vale la pena, ma YouTube
è contro di me DD: mi
ha anche
fornito lo spunto per la battuta di chiusura, non ci credevo
ò_ò).
Perciò, riassumendo (è tardi ._.), il capitolo
è dedicato per un 98% a quella
brava personcina di Fra, per il fatto che esista, che sia sempre
così gentile,
che scriva delle cose così belle, che sia così
simpatica, perché in queste
ultime settimane ho imparato a conoscerla meglio, perché mi
ha recensito TUTTI
(non scherzo) i capitoli precedenti, facendosi una pera assurda (e la
adoro
anche per questo) e bla, bla, bla, le solite cose (che penso davvero,
chiariamo), ma soprattutto perché presto compirà
gli anni! *lancia stelle
filanti e coriandoli*
Ti farò gli auguri quando sarà il momento, cara,
che mi dicono dalla regia che
farli in anticipo porta sfiga, perciò attendi e leggi, su
ù_ù E voi, donnine
care, ricordatevi di farglieli, mi raccomando (disse colei che se lo
dimenticò
per prima. Succederà sicuramente, perciò, Fra,
non prendertela a male).
Comunque. Dicevamo che a Fra dedico solo il 98%. E l’altro
2%? In beneficienza?
L’altro 2% lo vorrei dedicare ad un gruppo di donnine (di cui
fa parte anche la
suddetta Fra, ma tu la tua dedica l’hai già avuta,
perciò cuccia ù_ù) formato
da Manu, Vane e Bà perché negli ultimi giorni mi
sono data alle relazioni
sociali ( o/ ) - via computer, ma tant’è,
è quello che passa il convento - con
loro, perciò sentivo di dovere anche loro un pezzettino di
dedica , ci tenevo <3
Spartitevi da brave il 2%, su, su ù_ù Al massimo
chiedete un pezzettino del suo
98 a Fra, anche se non penso sia bendisposta nel concedervelo, ma
provate, non
si sa mai.
Ora direi che posso chiudere, le note sono quasi più lunghe
del capitolo ò_ò
Adieu,
- G
|
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Capitolo 13 *** Bittersweet ***
13. Bittersweet
13 – Bittersweet
Bittersweet
I want you
I'm only wanting you
And I need you
I'm only needing you
Non
lo vedeva a scuola da due giorni.
Due lunghi, eterni giorni. E conoscendo la sua situazione a casa
nessuno l’avrebbe
biasimato per quella paura che gli aveva stretto lo stomaco sin dal
primo
momento in cui non era passato a salutarlo all’inizio della
giornata.
Venerdì. Se quel pomeriggio non si fosse presentato a casa
sua, a costo di
vederlo avrebbe chiamato la polizia con una scusa e condotta fino a
casa sua.
Avrebbe sfondato la porta, se necessario, sarebbe entrato dalla
finestra.
Cristo.
Magari era solamente malato.
Conoscendo sua madre, non avrebbe acconsentito che rimanesse a casa a
meno che
non avesse come minimo la peste bubbonica, era necessariamente qualcosa
di
grave. E lui non sopportava di sentirsi così tremendamente
inutile.
Osservò la lavagna senza davvero vederla, mordendosi
furiosamente il labbro e
sperando che le dannate etichette dell’orologio volassero
sopra i numeri.
La campanella del venerdì era sempre particolarmente
gioiosa, per tutti, perché
annunciava un weekend libero, finalmente, ma quella che
suonò quel pomeriggio
gli sembrò più un coro di angeli.
Aveva la cartella pronta da almeno venti minuti, con il risultato che
gli
ultimi appunti – solitamente i più importanti,
perché agli insegnanti sembrava
sempre che gli argomenti più importanti venissero in mente
solo quando mancava
poco alla fine della lezione – erano solamente scritti alla
lavagna e non sul
suo quaderno.
Poco male, in quel momento non era la scuola la cosa più
importante, di certo
sarebbe riuscito a convincere qualcuno a farseli passare senza indugi.
Volò fuori dalla stanza, travolgendo qualcuno al suo
passaggio, ma senza
nemmeno fermarsi a chiedere scusa, in
quel momento non gli interessava. Corse fuori dalla porta,
saltando in un
balzo i gradini e correndo a perdifiato sul prato come se non avesse un
domani,
rischiando più volte di perdere qualche arto lungo il
percorso.
Si diede più volte dell’idiota, mentre cercava di
infilare la chiave nella
serratura dell’auto.
Cazzo, mancavano anche le mani che tremavano!
Doveva andare a casa sua quella mattina, se lo sentiva. O quantomeno
rimanere a
casa ad elaborare un piano. Ma no, lui era andato a scuola, seguendo
quella
vocina inutile che gli diceva che sarebbe andato tutto bene, che Jude
sarebbe
stato a scuola con una spiegazione banalissima per l’assenza
del giorno prima.
Ma nulla andava mai tutto bene.
Avrebbe
dovuto capirlo, dopo tutti quegli anni.
Lanciò la borsa sui sedili posteriori, buttandosi a sedere e
tirando così
velocemente la cintura che temeva gli sarebbe rimasta in mano.
Allacciò e partì
sgommando verso casa, là avrebbe davvero deciso cosa fare,
al momento aveva
solo bisogno di fermarsi e ragionare. E magari anche calmarsi,
pensò mentre insultava
volgarmente un uomo solo perché aveva osato girare a destra
come lui invece che
a sinistra.
Parcheggiò alla bell’e meglio, quasi finendo sul
prato – sua madre l’avrebbe
come minimo castrato.
Capì di essere davvero, davvero, davvero
distrutto psicologicamente solo quando cercò di buttarsi
fuori dalla macchina
con ancora la cintura allacciata. La slacciò con rabbia,
scendendo e sbattendo
lo sportello con furia, tanto che il suono rimbombò un paio
di secondi tra le
case eleganti ed i prati curati. Non si sarebbe stupito di averlo
minimo staccato.
O aver ammaccato la macchina.
Arrivò in camera alla velocità della luce,
salendo i gradini due a due e
chiudendosi dentro. Se qualcuno l’avesse disturbato in quel
momento, avrebbe
rischiato sul serio di staccargli la testa a morsi. Letteralmente.
Recisa con
un colpo secco.
Prese qualche respiro profondo, appese la giacca, e si sedette a gambe
incrociate sul letto, tenendo il cellulare accanto e la sveglia davanti.
Le lancette scorrevano fin troppo lente.
Sua madre bussò un paio di volte senza ricevere risposta, la
cosa migliore per
farla andare via senza fare domande, di certo credeva si fosse
addormentato.
Le tre arrivarono e passarono.
Di Jude nessuna traccia e lui si sentiva il cuore in gola ed i polmoni
improvvisamente privi di aria.
Certo, ora ci mancava un attacco di
panico come quelli di Jude, rise istericamente, passandosi le
mani tra i
capelli.
Le quattro.
Le quattro e mezza.
Le cinque.
Non avrebbe mai avuto il coraggio di ritardare così.
Scese dal letto, aprì la porta, e corse di sotto nello
studio di suo padre,
sperando di trovarlo.
Spalancò la porta troppo violentemente, mandandola a
sbattere contro il muro,
ma se ne fregò altamente.
Niente, la poltrona era vuota.
Fece dietrofront, correndo in cucina.
Vuota.
“Mamma!”
Il salotto. Nulla.
“Mamma!”
Il giardino.
“MAMMA!”
Elsie era china su un libro, pigramente abbandonata su una chaise
longue
accanto alla piscina. I lunghi capelli scuri erano stretti severamente
solo il
largo cappello di paglia.
“MAMMA!”
Alzò la testa, gli occhi nascosti da grandi occhiali scuri.
Il ritratto della
calma, ancora più evidente visto ciò che si
agitava in lui.
“Dimmi.”
“Dov’è papà?”
“In ufficio, stasera fa tardi. Avevi bisogno?”
Quasi urlò, a quella risposta. Dio, lo sapeva, lo sapeva.
Nulla andava mai nel
verso giusto. Mai.
“No, non importa, grazie.”
“Chiedi a me, vedo cosa posso fare.” Rispose lei,
ma quando terminò Robert era
già scomparso di nuovo dentro casa.
Non aveva mai corso così tanto in vita sua, nemmeno nelle
ore di ginnastica.
Lui odiava ginnastica e odiava correre, ma gli sembrava questione di
vita o di
morte.
Recuperò le chiavi della macchina ed uscì di
nuovo, sbattendosi la porta alle
spalle.
Quasi fece un testacoda davanti a casa di Jude, quando
arrivò.
Scese lasciando aperto lo sportello e prese a bussare violentemente
alla porta,
alternando con sonore scampanellate. Non gli importava che la madre di
Jude lo
vedesse, che lo mandasse via. Aveva tutta l’intenzione di
portarlo
definitivamente via di lì, avrebbe affrontato dopo le
conseguenze,
semplicemente non poteva ridursi in quello stato se non lo vedeva per
un minimo
lasso di tempo, averlo costantemente sott’occhio sarebbe
stato più facile. L’avrebbe
osservato costantemente, a costo di doversi accampare con un sacco a
pelo nella
camera degli ospiti e seguirlo anche in bagno.
Era affrettato, era sbagliato, un errore gigantesco, colossale, ma non
ce la
faceva più, davvero.
Gli scoppiava la testa.
E nessuno rispondeva.
“QUALCUNO MI APRA O CHIAMO LA POLIZIA.” Si mise a
gridare, certo che la
minaccia avrebbe funzionato se qualcuno fosse stato in casa.
Niente, la porta rimaneva desolatamente chiusa.
Non seppe trattenersi, cominciò a pensare al peggio.
Recuperò il cellulare dalla tasca e riuscì
miracolosamente a comporre il numero
del servizio informazioni.
“Mi metta in contatto con...” si prese un secondo
per pensare, mentre la voce
del centralinista lo incalzava dalla cornetta. Se si fosse fatto male,
di certo
sua madre l’avrebbe portato all’ospedale
più piccolo, più nascosto, per evitare
problemi. “…l’ospedale più
piccolo nei paraggi.”
Benedì l’inventore del GPS, mentre
l’uomo cercava.
Partì a tutta velocità con un indirizzo ben
stampato in mente e terrore puro
che gli mangiava il fegato.
---
Aprì
gli occhi, venendo accecato da tutto quel
bianco. Li richiuse il più in fretta possibile.
“Oh, finalmente sei sveglio. Bene, credo di poter andare,
ora, i medici mi
hanno costretta a rimanere almeno finchè non avessi aperto
gli occhi. Se hai
bisogno c’è l’infermiera, se non
è troppo occupata.”
Sorrise. Si era preoccupata per lui, come sempre. Era rimasta
nonostante gli
innumerevoli impegni che aveva di certo.
“Grazie, mamma.”
Socchiuse appena un occhio, ma lei era già andata.
Si allungò di lato, cercando la caraffa
dell’acqua, ed il dolore alla gamba gli
ricordò l’incidente.
Sentì la tristezza ed il dispiacere opprimerlo.
Non avrebbe più visto Robert, sua madre sapeva.
Ripensò con orrore a quando
gliel’aveva confessato, risucchiandogli tutta
l’aria dai polmoni.
L’aveva picchiato bene, quel pomeriggio, fin troppo. E non
poteva biasimarla,
sapeva dall’inizio che era sbagliato frequentarlo, eppure era
andato avanti
testardamente a vederlo. Se l’era cercata, niente di meno.
Gli aveva rotto una gamba.
Un prezzo minuscolo, per un errore così grande. Senza poi
contare il peso che
era stato portarlo all’ospedale ed ora il ricovero, la
vigilanza costante che,
era certo, sua madre gli aveva tenuto mentre dormiva. E, a giudicare
dall’orologio
attaccato alla parete e dal buio oltre la finestra, doveva essere stato
incosciente almeno un giorno. Troppi antidolorifici. Era certo che sua
madre l’avesse
fatto a fin di bene per fargli provare meno dolore, ma purtroppo aveva
di certo
sbagliato la dose.
Si rattristò pensando a lei seduta là ad
aspettare che aprisse gli occhi. Da
sola, annoiata.
Era solo un peso, e lei era così buona, gli voleva
così bene.
Si appuntò mentalmente di scusarsi, quando fosse tornata. E
ringraziarla di
nuovo per le cure.
Bevve avidamente, ritornando a posto sempre con qualche gemito causato
dalla
gamba. Gli faceva un male pazzesco.
Mentre si risistemava sui cuscini, un pensiero orribile lo
inchiodò. Lo avevano
visitato, lo avevano spogliato.
Avevano visto i segni.
Terrorizzato, provò a calmarsi pensando che di certo sua
madre aveva spiegato
ogni cosa. Avrebbe dovuto chiederle anche cosa avrebbe dovuto
confermare ai
dottori, in caso, quando sarebbe tornata. Se fosse tornata, era sempre
così
impegnata.
Si guardò intorno, cercando un qualcosa per passarsi il
tempo.
Poi tra i pensieri si infilò poco galantemente anche lui,
sgusciando qui e là.
Dopo la punizione non era riuscito a pensare a nulla, accecato dal
dolore, ma
avrebbe dovuto trovare al più presto una scusa per Robert.
Un motivo che
giustificasse il perché in futuro non si sarebbero
più visti nemmeno per
sbaglio.
Gli sarebbe mancato tanto, ne era certo, lui, i suoi grandi occhi
scuri, i suoi
capelli scompigliati. Ridacchiò appena, vedendoselo
perfettamente davanti, aperto
in uno di quei sorrisi letali.
L’aveva deluso. E non l’avrebbe rivisto mai
più.
Mentre si stendeva per provare a dormire ancora un poco, si
sentì infinitamente
triste.
Chiuse gli occhi, dicendo addio ad un pezzo del suo cuore.
[Mah.]
Volevo scrivere ed ho scritto nonostante abbia cominciato tipo
all’una.
E si vede, direi, Madonna santa che schifezza.
Bè, intanto si avvicina la grande svolta
muahahahahahahahahahahaha.
E… ah, la canzone è Bittersweet –
Apocalyptica ft. Ville Valo & Lauri
Ylonen, una meraviglia, ascoltatela, ve lo ordino *A*
Poi direi basta così, stasera sono di poche parole,
all’alba delle due vado a
dormire.
- G
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Capitolo 14 *** Goodnight, travel well ***
14. Goodnight, travel well
14
– Goodnight, travel well
And all that stands between the souls
release ?
This temporary flesh and bone
We know that it's over now
La
pioggia scendeva torrenziale da nuvole nere come
il petrolio, il vento soffiava forte, ululando tra le foglie
dell’albero che
vedeva fuori dalla finestra.
Buffo come il tempo rispecchiasse il suo umore, per una volta. Da
bambino, le
prime volte che sua madre lo picchiava, quando desiderava di morire,
c’erano volte
in cui pregava almeno per una buona tempesta. Sperava si scatenasse
così
potente da rimbombargli nel cervello e spegnergli a forza i pensieri,
le
lacrime, il desiderio di morte che gli assorbiva mente e corpo. Ed ora
eccolo
lì, semplice. Si preparava forse la tempesta migliore degli
ultimi anni, a
giudicare dal nero minaccioso che incombeva sulla città.
Sua madre non era tornata a trovarlo, ma non era quello il problema.
Era
impegnata, non si aspettava una sua visita, nulla di nuovo, no.
La cosa che lo infastidiva al momento era se stesso, in effetti, come
da
diciassette anni a quella parte. Lo tormentava quel desiderio che gli
scivolava
tra neurone e neurone da ormai qualche giorno - più o meno
da quando era stato
ricoverato, in effetti – ed era la speranza che Robert si
facesse vivo. Anche
solo per un secondo, per insultarlo, picchiarlo, quello che voleva.
Sognava
solo una possibilità di spiegargli i motivi che avrebbero
portato al loro
distacco totale in un futuro ormai schifosamente prossimo. E si odiava
perché continuava
a desiderarlo quando sapeva bene che Robert non sarebbe passato, aveva
di
meglio da fare e quasi sicuramente nemmeno sapeva che fosse in ospedale.
Ecco, appunto, non sa che sei in
ospedale, altrimenti figurati se non passerebbe.
Dio, quella voce. Lo stesso tono derisorio che continuava a ripetere le
stesse
cose piene di speranza nonostante avesse più volte cercato
di sopprimerlo. Le
speranze non esistevano per le persone come lui che semplicemente non
le
meritavano.
---
Aveva
girato circa dodici ospedali, eppure non vi
era traccia di un paziente di nome Jude Law. Ed era più che
certo che non ci
fossero errori, Jude non era poi un nome così comune.
Probabilmente il suo Jude era
l’unico Jude della città se
non dell’intero Paese.
Si risedette in macchina, lasciandosi andare contro il sedile del
guidatore. Cazzo,
se c’era qualcosa che non mancava in quella città
del cavolo erano gli
ospedali.
Ne rimanevano otto. Solo otto fottuti ospedali. E se non
l’avesse trovato? E se
quella puttana – perché di una puttana si
trattava, non aveva intenzione di
addolcire i toni, per niente – della madre avesse fornito un
nome falso?
Dannazione.
Ed ora ci si era messo anche il tempo, a rompergli le palle. Era zuppo,
ma al
momento non c’era cosa che gli fregasse di meno.
Prese a sberle il volante, anche se in effetti avrebbe preferito
prendere a
sberle se stesso. Era una persona inutile. Completamente. E se
c’era una cosa
che odiava era proprio non essere di nessun aiuto, diamine.
Mise in moto.
Otto ospedali.
***
“Scusi,
può ripetere?”
“Stanza 221.” Sillabò
l’infermiera, come se stesse parlando ad un idiota. Beh,
in effetti al momento ci andava parecchio vicino. “Sicuro di
stare bene?”
“Mai stato meglio, grazie.”
Aveva corso per tre piani, prima di pensare anche solo a dare un senso
logico
alla cosa. Si fermò al centro del corridoio, guardando i
numeri sulle stanze.
413.
Cazzo, era sul piano sbagliato.
Rifece la strada al contrario, fermandosi a quello giusto, stavolta.
Trovò la 221 in un batter d’occhio e ne spinse la
porta lentamente,
terrorizzato da cosa avrebbe potuto trovarci dietro.
La prima cosa che vide fu la gamba ingessata. Strinse i pugni,
continuando
nella sua esplorazione e salendo con gli occhi verso il viso del
ragazzo.
Gli occhi. I suoi.
“Grazie a Dio.” Lo abbracciò,
fregandosene altamente.
---
Un
miraggio.
Era stato questo quello a cui aveva pensato appena quella massa
disordinata di
capelli corvini gli era capitata nel campo visivo.
Una visione.
Stava sognando.
La seconda cosa a cui aveva pensato, immediatamente dopo, era
“E’ zuppo, Cristo
santo”.
Poi però lui l’aveva abbracciato e gli era venuto
naturale ricambiare,
respirando a pieni polmoni direttamente dalla sua pelle.
Forse anche i desideri dei ragazzi cattivi si avveravano, ma era sempre
meglio
non sperarci troppo.
---
Robert
Senior entrò nella stanza come una furia,
anche se l’espressione euforica lo smentiva.
Adocchiò il figlio – sapeva di trovarlo
là; da quando aveva scoperto dove era
ricoverato Jude era perennemente in ospedale -, seduto come sempre a
lato del
letto. Un libro tra le mani e un’espressione di sforzo
immane, cercava di
sostenere la testa e impedirle di ciondolare dal sonno.
Era distrutto e si vedeva, ma non aveva la minima intenzione di
riposare.
Non finchè era con Jude, quantomeno, il suo nuovo ed unico
scopo era tenerlo d’occhio.
Quasi non si accorse dell’entrata del padre, nonostante il
baccano, ma sobbalzò
sulla sedia quando l’uomo pronunciò le parole che
non avrebbe mai voluto
sentire in presenza di Jude.
“Maggie è in prigione.”
Controllò che Jude dormisse, lanciò
un’occhiataccia al padre, e lo trascinò in
corridoio. Lasciò la porta appena socchiusa e si
posizionò in modo da vedere
perfettamente il letto all’interno.
“Bè, le congratulazioni?”
“Prima voglio i dettagli.”
“Chiedi pure.” Il Robert anziano si sedette su una
delle sedie di plastica lì
accanto, appoggiando i gomiti sulle ginocchia e sorridendo come un
invasato.
“Quando è successo?”
“Quando Jude è stato ricoverato, i medici hanno
denunciato quelle decine di segni
che hanno trovato sul suo corpo. Troppi per essere casuali,
è stata la
giustificazione. Hanno aperto un fascicolo in tribunale, l’ho
scoperto per caso,
ma era stato messo da parte per mancanza di prove. Ho sguinzagliato il
miglior
investigatore privato della città dietro a Maggie ed ho
trovato il nome del suo
nuovo fidanzato. Mi sono presentato a casa sua, gli ho chiesto cosa
sapeva –
rimarresti sorpreso anche tu nel sapere quante cose ha spiattellato -,
ho
provato ad intimidirlo – sai che mi riesce bene – e
lui ha acconsentito a
testimoniare ieri in tribunale. Considerando l’aggravante
della gamba rotta,
dei lividi e delle bruciature, ha guadagnato tre anni in cella.
Voilà.”
Robert si lasciò andare appena contro lo stipite,
sospirando. “E’ finita
davvero. Ma cosa faremo quando uscirà?”
Senior si alzò in piedi, senza smettere un secondo di
sorridere, e lo strinse
in un abbraccio.
“Ci penseremo a tempo debito, ma di sicuro vedremo di farle
avere un divieto di
avvicinamento parecchio severo. Non è
meraviglioso?”
“Troppo. Ora bisogna solo spiegare a Jude che quello che gli
ha fatto sua madre
per tutti questi anni non era necessario né tantomeno
meritato.” Sospirò nel cappotto
del padre, chiudendo gli occhi per un attimo. Dio, era finita sul
serio, si
sentiva come se un macigno gigantesco gli si fosse appena sollevato
dalle
spalle.
“Ho la chiave di casa, vado a prendere la roba di Jude e la
sposto nella stanza
degli ospiti.”
L’uomo si dileguò nel corridoio e Robert
ritornò nella stanza. Jude dormiva
ancora profondamente, anche se ogni tanto si agitava per il male alla
gamba. Si
morse un labbro, vedendo una smorfia di dolore nascergli sul viso, e si
chiese
come avrebbe fatto a fargli capire quello che doveva.
Ritornò alla sua sedia, il sonno completamente evaporato.
Era dannatamente
preoccupato per la reazione di Jude alla notizia, ma contemporaneamente
euforico in un modo incontrollabile. L’avrebbe tenuto al
sicuro lui, da quel
momento, l’incubo era finito.
Jude aprì gli occhi improvvisamente, ansimando appena.
“Ehi. Tutto ok?”
L’altro si affrettò a sorridergli, mentre
rincorreva il respiro. “Benissimo,
grazie.”
Robert si permise solo in quel momento di imitarlo e aprirsi in un
sorriso che
andava da un orecchio all’altro. Aveva una voglia matta di
saltare, urlare,
festeggiare. E l’avrebbe fatto, a tempo debito. Con Jude.
Aspettò che riprendesse coscienza della realtà e
recuperasse il fiato,
dopodichè gli porse un bicchiere d’acqua e lo
aiutò a sistemare i cuscini. Si
sedette sul bordo del letto, serio tutt’a un tratto .
“Ho una notizia.”
Jude invece non accennava a voler spegnere la luce del suo sorriso.
“Dimmi.”
---
Non
gli aveva nemmeno chiesto se fosse una notizia
bella o brutta, non ne sentiva la necessità, da Robert
avrebbe accettato
entrambe.
La bocca si stese in una linea, improvvisamente. A meno che non gli
dicesse che
non lo voleva più vedere. Dopotutto avrebbe poi anticipato
le cose solo di
qualche giorno, glielo voleva dire lui stesso, ma gli sembrava di non
trovare
mai il momento adatto. Lui era sempre là, così
gentile, cortese, disponibile in
un modo nemmeno lontanamente immaginabile.
“Bè, ecco…” Robert aveva
preso a giocherellare con le sue dita, facendogli
sentire un improvviso calore alle falangi, come se fosse troppo vicino
ad una
fiamma. Non gli dispiaceva. Proprio affatto. Sperò
terribilmente che
continuasse in eterno.
Quando poi puntò lo sguardo nel suo – gli occhi
scuri carichi di… dispiacere?
Felicità? Sentimenti contrastanti -, non capì
più nulla.
“Jude. Tua madre è stata arrestata.”
No, doveva aver capito male.
“Come, scusa?”
L’altro abbassò lo sguardo e gli lasciò
la mano, facendogli sentire
improvvisamente un freddo glaciale tutto intorno.
“Tua
madre… è in prigione.”
“Che cosa significa? Perché?” si sporse
sul letto, avvicinandosi
inconsciamente. Non capiva.
---
Dio,
quanto era difficile.
Provò ad afferrare il coraggio a due mani, nonostante
continuasse a scivolargli
da qualche parte tra il cuore ed il cervello, dopodichè
riportò lo sguardo nel
suo, credendo per un attimo che fosse un pezzo di cielo.
“Ti ha picchiato, Jude. Per diciassette anni. Questo
è reato. Grave.”
Di nuovo intuì in anticipo la sua reazione. Vide che
cominciava a tremare,
aprendo e chiudendo la bocca senza emettere un suono. Gli occhi erano
spalancati
ed il fiato era di nuovo corto. Attacco di panico.
Si avvicinò immediatamente, pronto a combattere, se
necessario, per lasciare
che lo stringesse e tranquillizzasse, ma incredibilmente Jude non lo
respinse.
Lo strinse invece così forte che temette gli si sarebbe
rotto un braccio, visto
quanto era sottile.
Quella volta era pronto, dopo il primo attacco – che ora
sembrava lontano anni
luce - si era documentato. Avevano lavorato molto, negli ultimi tempi,
su
quegli attacchi, e Jude aveva praticamente imparato a tenerli a bada da
solo,
ma ora voleva esserci e tranquillizzarlo, anticipandogli un minimo di
quella
sicurezza e protezione che gli avrebbe donato, se glielo avrebbe
permesso, per
il resto dei suoi giorni.
Si calmò molto in fretta, considerando
l’entità della notizia, ma Robert non
aveva intenzione di lasciarlo finchè non glielo avesse
chiesto lui
espressamente.
---
Stava
bene in quell’abbraccio. C’era calore,
c’era
sicurezza.
Mamma è in prigione.
Senza di lei sarebbe finito, se lo sentiva, nonostante Robert fosse
là,
presente. Chi si sarebbe preso cura di lui? Vedeva solo un enorme buco
nero,
davanti a sé.
Poi alzò una mano e la portò tra i capelli di
Robert. Era reale.
Davanti a sé c’era lui, fermo poco prima
dell’imboccatura di quel tunnel nero
come la notte.
Robert si sarebbe preso cura di lui.
Era un pensiero egoista, non si meritava nessuno, era una palla al
piede ed ora
aveva preso in mezzo anche qualcuno a cui teneva enormemente, sua madre
non c’era
più e- oddio.
Rafforzò la presa.
Però sentiva che sarebbe stato così, Robert non
gli avrebbe permesso di cadere.
[Chi
non muore si rivede, diceva quello.]
Si.
Già.
Che schifo.
Canzone: The Killers –
Goodnight, travel well.
- G
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