Boulevard of broken dreams

di Gringoire
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** O'children ***
Capitolo 2: *** Papa, can you hear me? ***
Capitolo 3: *** Nothing left of me ***
Capitolo 4: *** Hurricane ***
Capitolo 5: *** E.T. ***
Capitolo 6: *** My body is a cage ***
Capitolo 7: *** Rolling in the deep ***
Capitolo 8: *** Starlight ***
Capitolo 9: *** Find a way ***
Capitolo 10: *** Seize the day ***
Capitolo 11: *** When we collide ***
Capitolo 12: *** One more cup of coffee ***
Capitolo 13: *** Bittersweet ***
Capitolo 14: *** Goodnight, travel well ***



Capitolo 1
*** O'children ***


1. O'children

Boulevard of broken dreams

1 – O’children

Vide la mamma avvicinarsi, come sempre, tenendo fra le dita una delle sue sigarette alla menta.
Sospirò rassegnato, osservando i cocci di vetro a terra. Non aveva fatto apposta a rompere il vaso, ma lei non lo avrebbe ascoltato, come tutte le altre volte.
Alzò la maglietta, vedendo la donna a pochi passi da lui.
Se la portò sulla testa. Dopo tutti quegli anni aveva capito come nasconderle le lacrime ed evitare così la doppia punizione.
Si morse il labbro quando, dallo specchio, la vide allungare la mano. Portò la maglia a coprirgli completamente il viso. Era pronto. Quella volta sarebbe riuscito a non urlare e forse anche a non piangere.
Sussultò violentemente quando la mano di sua madre, dalle unghie laccate, gli strinse il fianco per impedirgli di muoversi.
E poi lo sentì.
Il fuoco gli bruciava la schiena, penetrandogli nelle viscere e portandogli via gli ultimi residui dell’infanzia come una colata di lava distruttiva.
Si morse a sangue il labbro, già costellato di cicatrici. Non doveva urlare. Non doveva assolutamente.
Gli sembrò che quella tortura durasse secoli, ma finalmente quella mano gli abbandonò il fianco, lasciandolo libero di fuggire in camera. Non si preoccupò nemmeno di abbassare la maglietta, permise a malapena agli occhi di sbirciare dal bordo del colletto per evitare di rompere qualcos’altro ed ottenere una nuova punizione. La sua schiena ne era già costellata a colpa della sua maledettissima goffaggine.
Chiuse la porta della stanza alle sue spalle e si sfilò lentamente la maglia, rabbrividendo dal dolore quando il tessuto ruvido gli sfiorò il livido fresco appena dietro la spalla, dove nessuno poteva notarlo per sbaglio. Li sceglieva bene i posti dove ferirlo. La schiena in particolare era la zona preferita, ma quando combinava qualcosa di grosso poteva arrivare a ferirlo anche sulle braccia, le gambe – l’inguine particolarmente, diceva che poteva sentire meglio il dolore in un posto tanto delicato -, il busto. Un paio di volte in viso, costringendolo ad inventarsi una caduta dalle scale particolarmente violenta.
Ma le sue punizioni preferite rimanevano sempre le bruciature di sigaretta. O sigaro. O qualunque cosa infuocata.
Si portò davanti allo specchio come ogni volta che lo feriva alla schiena, a fare la stima dei danni.
Quasi non sentiva nemmeno più il dolore atroce che aveva provato la prima volta. Talmente intenso da fargli desiderare di morire.
A otto anni.
Trovò la nuova bruciatura, rosso ardente, sotto alla scapola destra, lontana un paio di centimetri da quella di sigaro risalente ad un paio di settimane prima, quando aveva sporcato il tappetino d’ingresso di fango.
Era stata una giornata orribile, quella. Aveva piovuto ininterrottamente per quasi due giorni e a scuola i compagni gli avevano rubato le scarpe di ricambio, così che, giunto a casa bagnato fradicio – “Un po’ d’acqua non ti farà certo male.” Gli aveva risposto sua madre la prima ed unica volta che le aveva chiesto un ombrello – e pieno di fango fino nei capelli, non aveva potuto indossare le scarpe pulite per entrare in casa.
Aveva provato ad entrare in punta di piedi, muovendosi il meno velocemente possibile per evitare che anche una minuscola goccia di fango cadesse sul pavimento immacolato.
Ma la fortuna non era dalla sua parte.
La cagnetta di sua madre era sbucata all’improvviso, azzannandogli come solito il polpaccio e facendolo inciampare e finire lungo disteso.
Aveva avuto paura persino a muoversi ed era rimasto fermo là, tremando come una foglia, finchè sua madre ed il suo nuovo fidanzato – “E’ molto ricco, tesoro. Cosa ne dici di chiamarlo papà?” – non erano accorsi.
Il sigaro di lui – forse il più grosso che avesse mai visto – gli era penetrato a fondo nella pelle, facendolo gridare come non mai.
Ma fortunatamente era riuscito a non piangere. Se solo sua madre si fosse accorta di una lacrima, per quanto piccola e ben nascosta, le bruciature sarebbero moltiplicate immediatamente.
“La vita fa schifo, Jude. Devi imparare a sopportare il dolore, gli uomini non piangono.” Lo ammoniva ogni volta, prima di lasciargli un nuovo segno.
Sgattaiolò in bagno e si chiuse a chiave, pregando che sua madre non lo avesse visto.
Non voleva – e a ragione - che andasse in giro senza maglia, chiunque avrebbe potuto vederlo. Notare le cicatrici, i lividi, le bruciature che aveva sul corpo.
Strappò un paio di pezzetti di carta igienica e li bagnò sotto al rubinetto. Torse leggermente il busto fino a riuscire ad osservare il punto ferito nello specchio a figura intera appeso alla porta. Allungò il braccio il più possibile, arrivando a sfiorare con la pezza bagnata la bruciatura fresca.
Strizzò gli occhi.
Non era doloroso come appena fatto, ma non era nemmeno piacevole.
La inumidì completamente, dopodiché gettò i residui di carta nel water e tirò lo sciacquone.
Rinfilò la maglia, di nuovo cercando di non sfiorare la ferita fresca e serrando gli occhi dal dolore quando invece il tessuto, quasi beffandosi delle sue paure, gli strisciò pesantemente sulla bruciatura.
Sapeva di meritarsi ogni singola punizione, ma diamine, quanto faceva male.
Aprì lentamente la porta del bagno, tentennando, sperando che sua madre non fosse appostata lì fuori, testimone oculare del fatto che avesse percorso il corridoio a petto nudo e quindi pronta ad un nuovo rimprovero. Per una volta, la fortuna lo strinse tra le sue braccia effimere, mostrandogli una via di fuga completamente libera.
Ritornò in camera, chiudendosi la porta alle spalle.
Si guardò attorno, in cerca di un modo per passare il tempo quantomeno fino a lunedì, fino al suo ritorno a scuola. I compiti li aveva fatti quella mattina, quando si era svegliato, qualche minuto prima del sorgere del sole. La notte soffriva di incubi tremendi, non appena riusciva a svegliarsi fuggiva dal letto, da quella stretta che rappresentavano i lenzuoli e le coperte. Aveva paura del giorno in cui non si sarebbe risvegliato da quegli incubi che gli facevano trattenere il fiato, che gli impedivano di riaprire gli occhi.
Trovò il libro che aveva preso in prestito dalla biblioteca tra il diario ed il quaderno di matematica, nascosto perché sua madre non lo vedesse e, in un impeto di pazzia, lo gettasse nel cestino. Lo estrasse dal suo rifugio, cercando di non far crollare i libri sopra al diario e ritornò con la mente al mattino precedente, in cerca del segno.
Pagina 112.
Lo aprì e provò a stendersi sul letto, ma rimanere sdraiato di schiena in quella condizione era una cosa impossibile e si voltò di pancia.
Riuscì a leggere appena un paio di pagine prima di sentire la porta della stanza di sua madre sbattere e le molle del letto cigolare sotto il suo peso. Doveva essere arrivato il suo fidanzato.
Sospirando rassegnato chiuse il libro – pagina 115, cercò di tenere a mente – e lo mise di lato, portando le mani a coprirsi le orecchie. L’ultima volta aveva sentito ogni cosa e le urla di piacere di sua madre erano il ricordo che nessun bambino vorrebbe avere.
Prese a fissare l’orologio sul comodino, seguendo con lo sguardo il ticchettare della lancetta dei secondi, sperando che girasse più in fretta.

 

 

Spazio autrice:
Una nuova long, già ._.
Aspettate almeno il prossimo capitolo, prima di uccidermi per averne cominciata un’altra, per favore T____T
Comunque *mette le mani avanti, in caso* ho già un paio di capitoli pronti ed un’ispirazione folle, perciò spero di non farvi dannare per gli aggiornamenti e, per dimostrare il fatto che vengo in pace, a breve arriverà anche un nuovo capitolo di Lollolandia, perciò risparmiatemi, grazie ù_ù
Dimenticavo: il titolo della fic è preso – come immagino tutte saprete – dalla canzone dei Green Day, anche se la versione che ho usato e che, siete pregate di non etichettarmi come eretica, mi piace di più, è quella dei Gregorian; mentre il titolo del capitolo è preso dall’omonima canzone di Nick Cave, presente anche in Harry Potter. Se riuscite ascoltatevele entrambe, meritano *O*
Direi che ho detto tutto ù_ù
A presto.

-J

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Capitolo 2
*** Papa, can you hear me? ***


2. Papa, can you hear me?

2 - Papa, can you hear me?


Papa are you near me?
Papa, can you hear me?
Papa, can you help me not be frightened?

Finalmente il suo amato lunedì era giunto.
Per qualsiasi ragazzo il lunedì era sinonimo di disperazione, la fine della pacchia e l’inizio di una nuova settimana, ma Jude si sentiva incredibilmente sollevato quando arrivava davanti all’edificio
dipinto di giallo che era la sua scuola. Era felice di rivedere ogni singolo mattone.
Si diresse all’armadietto, camminando raso muro per evitare che come solito alcuni ragazzini lo prendessero a spallate facendolo cadere, e sorrise quando, aprendolo, ritrovò la foto di lui appena nato in braccio al padre.
Sfiorò i contorni bruciacchiati – l’aveva salvata qualche anno prima dalle fiamme tra cui sua madre l’aveva gettata perché etichettata come “ricordo non voluto”, guadagnandosi in cambio l’enorme livido ancora visibile all’altezza dell’inguine – e come ogni mattina diede il buongiorno all’uomo che gli sorrideva dall’immagine.
Peter Law era morto quando lui aveva appena compiuto un anno, travolto da un auto che sfrecciava a tutta velocità quando una sera era uscito a comprargli il latte per la cena.
Inutile dire che sua madre l’aveva sempre incolpato di ogni cosa.
“Se non fossi stato allergico al mio latte, tuo padre sarebbe ancora con noi!” gli gridava ogni volta che le veniva uno dei suoi attacchi violenti, per poi in seguito picchiarlo. “E’ tutta colpa tua!” gli ripeteva, ad ogni colpo. E lui restava là, inerte, perché sapeva di meritarsi ogni singola cosa.

Appese la giacca e la sciarpa e lasciò i libri che non gli servivano. Sorrise di nuovo alla foto, chiuse l’armadietto e si diresse alla prima lezione.

***

Passarono quasi cinque anni da quel lunedì.
Cinque anni fatti di giorni sempre uguali, cinque anni di lividi, bruciature, punizioni di ogni tipo. Dolorose ma necessarie. Dovute.
Si caricò lo zaino in spalla, trattenendo un gemito di dolore quando si ricordò della striscia di carne fiammeggiante  che si era procurato il giorno prima, quando sua madre, ubriaca, l’aveva preso pesantemente a cinghiate solo perché esisteva.
Cambiò spalla alla tracolla, sistemandola di modo che non desse fastidio al livido appena sotto il collo, afferrò le chiavi di casa ed uscì, richiudendosi la porta alle spalle cercando di non fare il minimo rumore. Sua madre dormiva ancora, se l’avesse svegliata a quell’ora del mattino sarebbe stato punito severamente.
Si incamminò.
Era al terzo anno di liceo, aveva scelto una scuola vicino casa perché sua madre si era detta non più disposta a sborsare soldi per l’abbonamento dell’autobus, ed ogni mattina lo aspettava una buona ventina di minuti di cammino. Il che, calcolata la sua statura e quindi la lunghezza delle gambe e la secchezza del fisico, non era questa gran fatica. Era abituato ad alzarsi presto o non dormire affatto e tenere un buon passo nelle giornate d’inverno, per scacciare il freddo che minacciava di avvolgergli le membra al di sotto della leggera giacchetta di pelle ormai lisa dalla frequenza degli utilizzi e dei lavaggi.
Quando arrivò nel cortile, i primi raggi del sole cominciarono a fare capolino all’orizzonte, cercando di riscaldare l’aria pungente dell’inverno con scarso successo.
Si strinse nella casacca ed entrò nell’edificio, dirigendosi a colpo sicuro in biblioteca.
L’odore di carta ed il calore del riscaldamento lo accolsero, festeggiando quando entrò nella sala. Forse gli unici felici di vederlo, esclusa la bibliotecaria. Salutò la signora dietro il bancone con un sorriso ed un cenno del capo, per poi dirigersi al solito tavolo, il più lontano possibile dagli spifferi della finestra, nascosto alla vista dalla scaffalatura dei gialli.
Mancava poco meno di mezz’ora all’inizio delle lezioni; ogni mattina arrivava in anticipo per potersi ritagliare un poco di tempo per se stesso.
Sua madre ultimamente aveva cominciato a disprezzare qualunque libro non scolastico capitasse in casa, costringendolo a nascondere le sue letture nell’armadietto a scuola. Tutti i giorni arrivava prima di tutti gli altri e si rifugiava in biblioteca con il libro di turno.
In poco tempo si era fatto amico l’anziana bibliotecaria, che gli permetteva di rimanere chiuso in quel posto anche oltre l’orario di chiusura. Non gli aveva mai chiesto il perché e Jude l’apprezzava anche per questo, ringraziandola mentalmente ogni singola volta che leggeva nei suoi occhi domande scomode che tuttavia sapeva non gli avrebbe posto.
Si sedette, cercando di non far strisciare la sedia sul pavimento – sua madre odiava enormemente quando capitava -, ed aprì il volume, immergendosi nella lettura.
Il suono della prima campanella lo riscosse, il vociare degli studenti cominciò a farsi sentire in corridoio. Uscì, diretto agli spogliatoi accanto alla palestra. Prima ora di educazione fisica, avrebbe fatto prima a spararsi.
Solo quando giunse là si rese conto di non aver indossato la solita maglietta da ginnastica, sotto quella normale. Quando aveva educazione fisica di solito si premurava di vestirsi a casa per evitare che gli altri ragazzi notassero i segni della sua disobbedienza, ma quella mattina, sicuramente troppo preso dall’essere silenzioso per non svegliare sua madre, non si era accorto di non aver indossato la t-shirt.
Aprì l’armadietto. Fortunatamente ne aveva sempre una di ricambio in caso di emergenze. Il passato lo aveva reso previdente; pronto ad ogni evenienza.
 Come quella volta che lo avevano pestato nei bagni e la maglia gli si era intrisa di sangue, costringendolo a cambiarla prima della lezione per non dover dare spiegazioni scomode.
Abbandonò lo zaino sulla panca e si assicurò che in giro non ci fosse nessuno, dopodiché si tolse velocemente il maglione e sospirò sollevato quando indossò l’altra maglietta, coprendo di nuovo il corpo martoriato.
Non si era accorto che un ragazzo era entrato nello spogliatoio proprio mentre si cambiava e, purtroppo per lui, ci vedeva fin troppo bene.

---

Doveva parlare con la coach.
Dopo la storta al piede che gli era costato quasi due settimane di allenamenti giusto poco prima del saggio di metà corso, la sua insegnante di ballo gli aveva preparato un esonero dalle lezioni di ginnastica fino alla fine della scuola.
Quell’anno avrebbero fatto Romeo e Giulietta, non poteva assolutamente permettere che il suo protagonista finisse k.o. per una rognosissima lezione di educazione fisica.
“Bale!” fermò un ragazzo, afferrandolo per la manica della felpa.
Blu e giallo. I colori della squadra di football del liceo.
L’altro si divincolò come scottato.
“Non mi toccare, Downey.”
Robert alzò le mani.
“Come desideri.”
“Cosa vuoi?” lo squadrò, assottigliando gli occhi e muovendo qualche passo lontano da lui, guardandosi attorno furtivo. Dovette giudicare il corridoio sgombro da pericoli, perché tornò a rivolgere tutte le sue attenzioni al ragazzo.
Nessuno doveva vederlo parlare con quella checca di Downey; quello che come sport praticava il balletto. Girava voce che le docce comuni nello spogliatoio maschile gli piacessero parecchio. Era come un meno venti sulla scala della popolarità.
“Solo chiederti se la coach è in palestra.”
“Non ne ho idea. L’ultima volta che l’ho vista era negli spogliatoi.”
“Grazie.” Con un cenno del capo sparì dietro l’angolo.
Decise di passare prima dagli spogliatoi, per sicurezza. Bale era un cazzone in gruppo, ma se preso singolarmente riusciva quasi a salvarsi. Quasi.
Spalancò la porta dello spogliatoio, riuscendo a bloccarla con un piede giusto un paio di secondi prima che andasse a schiantarsi contro al muro e impedendo alla sua presenza di palesarsi.
Fece il giro di tutto lo spogliatoio prima di rendersi conto che l’unica persona presente era un ragazzo mingherlino, talmente sottile che sembrava potesse volare via con un soffio di vento, con capelli biondicci, di quel colore indefinito tendente al castano che, per quanto tu ci possa riflettere tutta la vita, quando giungi ad una conclusione finisci inevitabilmente per ritrattare tutto.
Solo in un secondo momento, osservandolo meglio per cercare di identificarlo tra le migliaia di studenti che affollavano i corridoi, notò i segni che gli ricopriva tutta la porzione di pelle che riusciva a vedere.
Inclinò la testa, cercando di trovare un motivo a quei segni, come a voler ricostruire un reticolato tra quelle ferite che gli svelasse il nome di chi le aveva generate. Perché se c’era una cosa certa, era che non fossero ferite casuali.
Vide il ragazzo afferrare una maglia ed infilarsela velocemente, fece giusto in tempo a stamparsi l’immagine nel cervello, cosa per nulla difficile per una memoria paurosa come la sua.
Quando l’altro si voltò, certo di aver registrato uno spostamento d’aria alle sue spalle, non vide nulla se non la porta che si apriva mentre i suoi compagni entravano, accompagnati dalla campanella.

***

“Signor preside, la prego, mi ascolti! So quello che ho visto!”
L’uomo di fronte a lui congiunse le mani sotto al mento, fissandolo da sopra gli occhiali.
“La causa di quei segni può essere stata qualunque cosa. Una caduta, una perdita di equilibrio, una rissa. Qualunque cosa.”
“Ne aveva la schiena coperta. Qualche segno si estendeva perfino al torace. Una caduta non può combinare cose del genere. Nemmeno se tutti gli eventi da lei nominati accadessero insieme potrebbe venirsi a creare una cosa del genere, mi creda.”
L’uomo continuò a guardarlo.
“Sono più che certo che qualcuno a casa sua lo maltratti. Mi sono informato, si chiama Jude Law, il padre è morto e non ha sorelle né fratelli, vive solo con la madre. Sono più che sicuro che sia lei la colpevole. O quantomeno un di lei fidanzato. Non ci sono tracce di un nuovo matrimonio.”
Il preside alzò gli occhiali, pizzicandosi la base del naso.
“Non hai prove per dimostrare una cosa del genere, ragazzo. E’ una cosa molto grave, quella che dici.”
Robert si proiettò in avanti, deciso a non mollare.
Ne aveva visti, di casi simili, suo padre era psicologo. Doveva intervenire prima che fosse troppo tardi. Prima che il ragazzo si convincesse di meritarsi sul serio quei marchi.
“Erano segni di cinghiate, e qua e là c’erano anche bruciature di ogni tipo e lividi grandi come piattini da tè. Di certo non se li è fatti da solo, non crede?”
L’uomo dietro la scrivani si tolse gli occhiali, poggiandoli sul legno chiaro.
“Mi servono prove, Downey, non posso andare in giro ad accusare genitori di violenze perpetrate ai danni dei figli così, senza una buona motivazione e qualcosa di decisivo tra le mani.”
Robert si sporse ulteriormente, spingendosi sul bordo della sedia e poggiando le mani sulla scrivania.
“Se gliele fornirò, mi promette che farà tutto ciò che è in suo potere per aiutarlo?”
Il preside sospirò, rassegnato.
“Tutto ciò che posso.”
Robert raccolse la tracolla da terra e se la infilò velocemente, già con un piede fuori dalla porta.
“Scoprirò quello che serve.” E se la sbattè alle spalle, catapultandosi a tutta velocità in corridoio.

 

 

 

Spazio autrice:
Spazio per chiarire giusto il titolo, preso dall’omonima “Papa, can you hear me?” di Barbra Streisand. O da Glee, a seconda di quale vi piaccia di più xD
Giusto, dimenticavo, le lineette (---), segnano un cambio di POV, anche se credo sia una precisazione inutile, ma tant’è.
Lettore avvisato, mezzo salvato ù_ù xD

A presto,
- J

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Capitolo 3
*** Nothing left of me ***


3. Nothing left of me

3 – Nothing left of me


There's no escaping
And no one's getting out alive




Era riuscito a tornare a casa sano e salvo, incredibilmente.
Nessuno l’aveva fermato, nessuno gli aveva parlato. Ma soprattutto nessuno l’aveva picchiato, quell’oggi, fortunatamente.
Bè, nessuno l'aveva picchiato per ora.
Giunse nella via dove abitava ed estrasse le chiavi da una delle taschine dello zaino, facendole tintinnare lievemente.
Quando arrivò nei pressi della porta, la solita sensazione di terrore gli invase le vene, facendogliele tremare come se scosse da una corrente d'aria troppo violenta. Fece un respiro profondo.
Coraggio, è stata una bella giornata e continuerà ad esserlo.

Training autogeno. Nessuno gliel'aveva mai insegnato, aveva imparato da solo a calmarsi quando tornava a casa, quel posto tanto familiare che non gli inviava quella sensazione di sicurezza e sollievo che dava al resto del mondo, ma solo brividi freddi lungo la schiena ed un leggero tremore sparso egualmente in tutto il corpo.
La chiave girò nella toppa e, con un clac che gli parve più rumoroso di un colpo di cannone, la porta si aprì. Estrasse il pezzo di metallo, riponendolo al sicuro nella tasca della giacca mentre questo tintinnava allegramente tutt'intorno, come felice di essere tornato al suo luogo di appartenenza.
Con un sospiro allungò la mano e girò la maniglia, facendo girare il pezzo di legno su cardini e facendosi invadere dall'ombra che usciva da quel posto nonostante le enormi e luminose finestre che davano sulla strada.
Mosse qualcche passo incerto in avanti, richiudendosi la porta alle spalle il più silenzioso possibile.
Aveva paura, come sempre. Ma aveva imparato a gestirla.
Aveva imparato a gestire quasi ogni cosa, in effetti, non avendo nessuno pronto ad aiutarlo e tendergli quantomeno una mano nei momenti di bisogno.
Richiuse l'uscio dietro di sè e si addentrò nell'ingresso, stando bene attento che la cagnetta di sua madre non fosse in giro e cercando di fiutare nell'aria se c'era l'odore di pericolo che aveva cominciato a riconoscere da quasi dieci anni.
Si mosse veloce e silenzioso, dopo aver verificato che la via fosse libera, e si rinchiuse in camera, sigillandovisi dentro come all'interno di un castello.
La sua fortezza personale, seppur sprovvista di ponte levatoio e fossato.
Non aveva trovato traccia di sua madre, sperava fosse uscita, in modo che potesse tranquillamente sedersi al tavolo della cucina a fare i compiti.
Era diventata la sua personale soddisfazione, nonostante capisse che dopotutto era come mentire ad una donna che tutto sommato gli voleva bene.
Si cambiò, posando accuratamente la tracolla accanto alla scrivania ed indossando una tuta pescata a caso dall'armadio.
Si infagottò per bene nella felpa troppo larga appartenuta a suo padre, come se quel capo potesse fornirgli il calore umano di cui aveva bisogno, e provò ad uscire in esplorazione.
Dopo un terzo giro di ricognizione, le sue mani smisero inspiegabilmente di tremare.
Sua madre era fuori. Rimase fermo qualche secondo, sperando si divertisse e stesse bene, si meritava un po' di svago. Lei gli voleva bene. Quando era piccolo l'aveva tenuto a vivere con lei sebbene non amasse molto i bambini, a dispetto della proposta di sua zia di prenderlo a vivere con sè, con i suoi cugini.
Tornò in camera e recuperò i libri di matematica, il diario e l'astuccio e, sentendosi in pace con il mondo, si sedette al tavolo di cucina, spargendo le sue cose tutt'intorno. Sorrise, osservando quella disposizione. Lo faceva sentire stranamente libero, sua madre odiava il disordine e non gli permetteva mai di uscire dalla camera finchè non avesse finito i compiti.
Aprì il diario e decise di cominciare da algebra.

---

Era stato un gioco da ragazzi infilarsi in segreteria e distrarre la nuova addetta, spedendola in un'ala della scuola con la scusa che qualcuno aveva bisogno di lei.
Una richiesta così urgente - "Dai piani alti", le aveva detto - che lei non si era nemmeno posta il problema di lasciarlo solo in un posto solitamente vietato agli studenti, con la promessa che, in caso di emergenza mentre era via, si sarebbe occupato lui del malcapitato di turno.
Non appena era sparita dietro l'angolo, era strisciato fino allo schedario alto fino al soffitto che occupava quasi una parete intera di quel misero buco che era la segreteria e, individuata la lettera L, aveva scorso i fascicoli degli studenti fino a trovare ciò che gli serviva.
Si guardò intorno, adocchiando un blocco di post-it - gialli, che schifezza classica - sulla scrivania. Meno di un minuto dopo era uscito dalla stanza, richiudendosi la porta alle spalle e sparendo in corridoio come se nulla fosse, con il foglietto con l'indirizzo di Jude Law al sicuro nel suo portafoglio, tra le banconote di paghetta fresche fresche di quella mattina.
Il cellulare gli vibrò nella tasca posteriore dei jeans.
Rispose senza nemmeno leggere il nome del mittente, era più tardi del solito, quella al telefono doveva essere senz'altro sua madre, preoccupata e ansiosa di sapere dove fosse finito.
"Robert Downey Junior!" sbraitò una voce al telefono.
Infatti.
"Ciao, mamma."
"Si può sapere dove diavolo sei finito?! Ti rendi conto che sei in ritardo di un'ora e mezza?! Un'ora e mezza, ragazzo!"
Avvertì in sottofondo la voce di suo padre che cercava di calmare la moglie, mentre sua madre, ignorandolo, continuava imperterrita ad urlare come un'aquila nel suo timpano.
Allontanò la cornetta, cercando di mantenere un minimo di udito. Quel poco che gli avrebbe giusto permesso di sentire gli AC/DC in caso si fossero messi a suonare a meno di mezzo metro da lui.
Sospirò quando udì provenire dal cellulare solo gli ansiti furibondi di sua madre, che, dopo avergli urlato contro giust'appena un polmone, cercava di riprendere aria.
Chiuse gli occhi, riportando la cornetta all'orecchio.
"Mamma, non urlare così tanto, che sai che poi ti viene la pressione alta."
Udì la donna ringhiare qualcosa, mentre la immaginava che scacciava malamente la mano di suo padre intenta ad accarezzarle affettuosamente la schiena per farla calmare. Prima che potesse anche solo pensare di aprire bocca di nuovo - ormai la conosceva, di solito riprendeva dopo un bel respiro profondo come quello appena sentito -, la interruppe.
"Sto venendo a casa, comunque, arrivo."
"Sarà meglio." la udì borbottare mentre chiudeva la conversazione.
Ripose il cellulare ed affondò le mani nelle tasche dei pantaloni, pensando ad una tabella di marcia per quel che gli restava della giornata.
Un passaggio a casa giusto per tranquillizzare i suoi e poi avrebbe provato a passare da casa di Jude.

---

Aprì il libro di chimica, mentre con una smorfia spostava quello di geometria su una delle sedie libere.
Odiava la geometria, e dei problemi per il giorno dopo non glien'era venuto nemmeno uno. Figurarsi. Lui odiava la geometria e la geometria odiava lui, pace.
Pescò una matita dall'astuccio e posò gli occhi sul primo paragrafo.
Non aveva letto nemmeno un paio di righe, quando suonarono alla porta.
Probabilmente era sua madre che aveva scordato le chiavi di casa. Come sempre.
Si alzò, dirigendosi alla porta, ma poi si ricordò del disordine sul tavolo di cucina. Se fosse stata veramente sua madre l'avrebbe punito seriamente.
Velocemente impilò tutto quello che gli capitava sotto mano e corse in camera da letto, gettando il tutto malamente sul letto e chiudendo la porta alle sue spalle quando uscì.
Si controllò nello specchio del corridoio, sistemando la felpa perchè coprisse tutti i segni sulle spalle ed il collo, e corse ad aprire. Sarebbe stato punito, se lo sentiva, ci aveva messo troppo ad aprire e se sua madre aveva qualcosa che le mancava, quella era la pazienza.
Solo quando allungò la mano si accorse che essa aveva ricominciato a tremare, come scossa da spasmi involontari. Gli ci vollero un paio di tentativi prima di riuscire ad aprire.
Ma quello che trovò sulla porta gliela fece immediatamente richiudere.
In piedi fuori dalla porta stava un suo compagno di scuola. L'aveva visto giusto un paio di volte, frequentavano storia insieme, ma si dava quasi sempre alla macchia, bigiando la lezione. Se lo ricordava bene, però, spesso udiva conversazioni che lo avevano come protagonista, e la maggior parte delle volte - tutte, effetivamente - era associato alla parola gay.
Rimase con la mano sulla maniglia, gli occhi sgranati dal terrore.
Non poteva, non poteva.
Non poteva invitare conoscenti a casa, non poteva nemmeno portarli fin sul vialetto, quel ragazzo doveva andarse assolutamente. Se sua madre l'avesse visto sostare davanti alla loro porta avrebbe senza dubbio capito tutto e lui sarebbe stato punito davvero violentemente, per quello.
Provò a ragionare il più velocemente possibile.
Decise per la soluzione migliore e, mettendo la catena alla porta, la socchiuse, rimanendo nascosto nell'ombra.
Lui era ancora là, sorridente, che si dondolava sui talloni.
"Tu devi essere Jude, io sono Robert."
Jude si ritrasse ulteriormente, rimanendo in silenzio.
"Vai via." lo pregò, sussurrando.
"E perchè mai?"
"Vai... vai via, solo questo."
Da quanto tempo era che non parlava con qualcuno della sua età? Probabilmente settimane, se non mesi. Non gli era assolutamente permesso avere amici.
Robert non lasciò perdere. Non era nella sua natura, dopotutto.
"Posso entrare?" Cercò di mantenere il sorriso, nonostante il suo istinto gli dicesse di entrare in casa a forza e portare quel ragazzo via da quel posto, lontano anni luce da quella donna orribile che si ostinava a chiamare madre. Portarlo magari al sicuro nel calore di casa sua, dove avrebbe potuto prendersi cura di lui. Suo padre l'aveva fatto così tante volte con ragazzi che avevano problemi simili ai suoi, sapeva per certo che non gli avrebbe detto di no.
Ma non poteva, era troppo presto, agire d'istinto l'avrebbe fatto chiudere a riccio, doveva conoscerlo meglio e aspettare che si fidasse di lui.
"No, ti prego, solo... vattene. Per favore."
Decise che per quel giorno era già un grande passo avanti, si erano conosciuti - anche se Jude sembrava già aver ben presente chi fosse, possibile che solo lui non si fosse mai accorto di quel ragazzino mingherlino, tutt'ossa, che camminava nei corridoi magari accanto a lui?
Alzò le mani in segno di resa.
"Come vuoi, me ne vado."
Effettivamente non si era nemmeno preparato una scusa da rifilargli per quell'intrusione, andarsene era senza dubbio la cosa migliore da fare in quel momento. Per entrambi.
"Ciao, Jude." sorrise, cercando di trasmettergli un po' di quel calore che era certo gli mancasse da sempre, vista la condizione in cui viveva, e girò sui tacchi, sparendo nel vialetto.
Jude richiuse la porta e volò in camera, chiudendo anche quella porta, con il cuore in gola e gli occhi ancora spalancati dal terrore. 
Dopo qualche minuto udì la porta di casa aprirsi, mentre sua madre entrava con qualche difficoltà, ridendo - quasi sicuramente in compagnia del suo nuovo fidanzato -, e lanciava un paio di esclamazioni di sorpresa trovando la catenella agganciata.
Fortunatamente fu troppo presa dal trascinarsi e trascinare il suo uomo in camera da letto per provare anche solo a chiamare Jude e chiedergli spiegazioni.
Per una volta, quando udì la porta della stanza accanto sbattere, si sentì un minimo più sollevato.
Prese la sua solita posizione a letto, sempre con gli occhi fissi sulla sveglia, impegnandosi sul ticchettare dell'orologio quasi dimentico dell'incontro di poco prima.
Ma quando udì delle grida dall'altro lato del muro e la porta di casa sbattere dopo passi veloci, le sue mani cominciarono a muoversi a scatti, tremando violentemente, pronte anche per quella sera alla resa dei conti.

Perchè, per quanto lui credesse che tutto quello che stava passando fosse meritato, il suo corpo ancora riconosceva il giusto e lo sbagliato.




[Non si nota che non ho ispirazione manco per una cippa, vero? Però continuo ad amare troppo questa storia, perciò sono relativamente soddisfatta.]

Spazio solito per la canzone: Ben Moody – Nothing left of me
Se le altre volte ero certissima della mia scelta musicale, questa volta non mi piace completamente, abbinata al capitolo, ma nulla toglie che è una canzone magnifica, perciò ascoltatela come sempre ù_ù
Ce l’abbiamo fatta, un altro capitolo, qualcosa di piccolo si è mosso nel mondo.
Vi lascio il solito schema e fine, và, meglio ._.

Lunedì: Vuole che le arredi la camera da letto, Sir?
Giovedì (ogni 2 settimane): Mary Poppins a Lollolandia
Sabato (ogni 2 settimane): Growing up together
Domenica: Boulevard of broken dreams

A domani con qualcosa di più allegro, quantomeno :D
- J


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Capitolo 4
*** Hurricane ***


4. Hurricane

4 – Hurricane


This hurricane’s chasing us
all underground

Si mosse irrequieto sul materasso, stringendosi nelle coperte.
Non riusciva a dormire e - seppur facessero una grande differenza - la colpa non era di certo del livido violaceo, fresco di appena qualche ora, che gli campeggiava sul fianco destro o della morsa stringente del freddo che si insinuava attraverso gli spifferi ed i vetri sottili della finestra accanto al letto.
Alzò le lenzuola fin sopra la testa, mentre uno sbuffo d’aria ghiacciata s’infilava nel minuscolo spazio creatosi durante il movimento.
Rabbrividì e si voltò sul fianco sano, chiudendo gli occhi in cerca delle famose braccia di Morfeo.
Che a quanto pareva non volevano accoglierlo.
Soffrì improvvisamente il caldo e abbassò le coperte, voltandosi e rivoltandosi tra smorfie di dolore.
Possibile che non riuscisse a dormire per così poco? Non credeva che la visita improvvisa di quel ragazzo l’avrebbe sconvolto così tanto. Nemmeno se in ballo c’era la rabbia giustificata di sua madre.
E poi il giorno dopo c’era scuola. Si pizzicò la base del naso, stendendosi di pancia.
Attese qualche minuto.
Sbadigliò quando finalmente l’intorpidimento associato al sonno ormai prossimo lo accolse, ed in meno di un attimo si ritrovò in mezzo ai soliti incubi che ormai gli erano divenuti terribilmente familiari.

***

Si svegliò come da abitudine: alzandosi di scatto a sedere sul letto in un bagno di sudore, il terrore negli occhi.
Rimase fermo immobile qualche istante, rincorrendo il respiro difficoltoso che ogni volta lo costringeva a svegliarsi perché incanalava troppo poco ossigeno. Grazie al cielo il suo cervello era sveglio, alla prima avvisaglia di apnea notturna mandava segnali in tutto il corpo e lo svegliava. Per quanto fosse di soprassalto, quantomeno era vivo.
Era quello il motivo che lo spingeva ad avere paura del risveglio, di quando non si sarebbe più risvegliato. Perché sapeva che un giorno sarebbe successo, che gli impulsi sarebbero arrivati un secondo troppo tardi.
Sua madre ne sarebbe rimasta sconvolta, non poteva permetterlo.
Non appena i polmoni ripresero ad incanalare la giusta quantità d’aria, Jude scostò le coperte e scese dal letto, rabbrividendo nell’aria gelida della stanza. Il riscaldamento costava troppo ed a detta di sua madre a breve sarebbe arrivata la primavera, quindi sarebbe stato inutile accenderlo per sole poche notti.
Si vestì il più velocemente possibile, infilandosi una maglia sopra l’altra, e gettò un’occhiata all’orologio. Le cinque meno venti.
Non si stupì nemmeno, aveva dormito addirittura dieci minuti in più del solito.
Si guardò attorno ed individuò il libro di matematica, lo afferrò e si stese sul letto a ripassare per la ventesima volta gli argomenti del compito di quella mattina.

---

Robert era uscito in ritardo.
Come sempre.
Ma quella mattina non si era perso come tutte le altre mattine davanti allo specchio cercando di dare una forma a quello che aveva in testa, si era anche svegliato venti minuti – venti! – prima del solito perché sperava di intercettare suo padre a colazione e spenderci due parole.
Si era buttato sulla sedia di cucina a tutta velocità, sedendosi con la grazia di un elefante.
“Undici anni di danza buttati dalla finestra.” Aveva sentito sua madre borbottare al nulla, mentre scuoteva la testa e faceva saltare la pancetta in padella.
Suo padre si limitò ad alzare appena il giornale, inarcando un sopracciglio.
“A cosa dobbiamo l’onore della tua presenza a colazione?” mordicchiò un toast, mentre la moglie lasciava sul tavolo un piatto fumante.
“Papà.” Aveva iniziato Robert in tono da diplomatico. “Ho una domanda sul tuo lavoro. Ipotetica, sia chiaro.”
Doveva essere riuscito ad attirare tutta l’attenzione di Robert Senior, perché questi chiuse il giornale, lo piegò e lo lasciò di lato, afferrando la pancetta.
“Ti ascolto.”
Robert incrociò le mani sotto al mento.
“Se conoscessi qualcuno con un problema di violenza domestica, cosa faresti?”
Il signor Downey prese a masticare lentamente la pancetta, osservando intensamente il figlio.
“Conosci bene questa persona?” prese ad elencare mentalmente gli amici del figlio, chiedendosi chi fosse il genitore feccia che osava una cosa simile.
“No, di vista. E poi stiamo parlando di una persona ipotetica.”
L’altro annuì. “Certo, certo. Ragazzo o ragazza?”
“Un ipotetico ragazzo.”
“Che subisce violenza fisica, per quel che ho capito.”
“Esattamente.”
“Un’ipotetica violenza fisica.” Si ricordò di rimarcare per l’ennesima volta. Se c’era una persona particolarmente brava a mangiare la foglia, quella era suo padre. Dimenticarsi anche solo un secondo di star parlando per ipotesi l’avrebbe lasciato immediatamente scoperto.
Suo padre si perse tra i pensieri, fermo con lo sguardo tra le venature del legno del tavolo.
Poi, improvvisamente, rialzò lo sguardo su di lui, come a leggergli l’anima.
“Invitalo a casa.”
Ecco, come non detto.
Era stato scoperto in quanto? Dieci minuti?
Ma quella non era di certo la cosa peggiore.
La vicenda veramente complicata sarebbe stata invitare Jude a casa.
Le rotelle del suo cervello si misero a lavorare febbrilmente, in cerca di una soluzione.
“Ci sono!” scattò in piedi, rovesciando quasi il piatto di frittelle che sua madre stava portando in tavola. Fece le scale che portavano in camera a due a due, tanto era eccitato.
“Per l’amor del cielo, caro, chiama un esorcista!” udì sua madre esclamare all’indirizzo del marito, mentre a tutta velocità si infilava una maglietta ed un paio di jeans qualunque, già in un tremendo ritardo come solito.
Doveva sbrigarsi se voleva parlare con la professoressa prima che cominciasse la lezione.

***

Arrivò a scuola proprio mentre suonava l’ultima campanella, fiondandosi in corridoio e poi nell’aula di storia a tutta velocità.
Fortunatamente erano presenti solo un paio di ragazze, troppo intente ad osservarsi lo smalto per prestare attenzione a lui. La professoressa, poi, nemmeno l’aveva notato.
Si stampò in viso il suo miglior sorriso e prese ad emanare charme da tutti i pori. Lo charme di emergenza, quello che occasionalmente utilizzava per non farsi pestare a sangue.
“Professoressa!” poggiò i palmi sulla cattedra, mentre la donna seduta alzava lo sguardo.
“Downey, buongiorno. Mi meraviglia vederti qui…” osservò l’orologio al polso “…prima delle otto e mezza.”
Robert ignorò la frecciatina, mentre con la coda dell’occhio notava la solita ressa all’entrata dell’aula. In fondo alla fila, invisibile a chiunque, Jude, indeciso sulla soglia dell’aula. E la colpa era di certo sua.
“Mi chiedevo se potesse assegnare un lavoro a coppie, sono ansioso di approfondire con qualcuno la storia rinascimentale.”
Doveva parlargli, e in fretta, farselo amico il prima possibile e fargli rivelare la sua situazione a casa.
La Paltrow lo guardò da sopra gli occhiali.
“Sei forse malato, Downey?”
Fece scintillare sguardo e denti, tornando con l’attenzione pienamente su di lei. “Per niente, mai stato più serio, professoressa.”
La vide sfogliare l’agenda. “Veramente oggi avevo intenzione di partire con le riforme religiose in Europa, ma se ci tieni tanto potrei darlo come compito a casa.”
“Mi farebbe veramente molto contento, e nel prossimo compito potrei perfino riuscire a prendere una sufficienza, con questo approfondimento.” Se possibile ampliò il sorriso.
La donna sospirò.
“E sia. Ora però vatti a sedere, cominciamo.”

---

Quando era arrivato sulla porta della classe di storia, non aveva potuto evitare di pietrificarsi, lo sguardo puntato alla cattedra.
Quella mattina era talmente sovrappensiero che si era dimenticato che Downey – Robert – frequentava la sua stessa lezione. E non solo quella, purtroppo.
Ma la cosa peggiore non era stata la sua presenza – anche se per un attimo aveva davvero pensato di svignarsela -, la cosa peggiore la stava vivendo in quel momento.
La professoressa era ferma davanti alla cattedra, con un sorriso che andava da un orecchio all’altro.
“Per questa settimana, come compito a casa, avrete un approfondimento sulla storia rinascimentale.” Giurò di vederla lanciare un’occhiata soddisfatta a Robert, in prima fila, mentre il resto della classe si lanciava in un mugugno di disapprovazione. “E dovrete farlo a coppie. Prego, vi lascio gli ultimi dieci minuti per dividervi.” Fece il giro del tavolo, tornando a sedersi alla scrivania e prendendo a riordinare tra le sue carte.
Se non avesse giurato di non soffrirne, Jude sarebbe stato certo di essere sull’orlo di un attacco d’asma. Non riusciva a respirare, non riusciva a respirare.
Si fece il più piccolo possibile sulla sedia, diventando quasi un tutt’uno con il banco. Di solito nessuno lo notava, ma con Robert in giro non si poteva mai sapere.
E quando lo vide avvicinarsi con un sorriso smagliante, fu definitivamente certo di essere diventato asmatico.
Il panico gli strinse la gola. Doveva stargli lontano, non doveva avere amici, non poteva, non gli era concesso. Se fosse rimasto con lui avrebbe fatto una brutta fine, nel minore dei casi sarebbe rimasto scioccato a vita. Non voleva nemmeno pensare al peggiore.
No, no.
Si era infilato improvvisamente nella sua vita come un uragano: non voluto ed altrettanto distruttivo.
“Ti va di fare coppia con me?”
Un uragano che gli dava la caccia da sottoterra e che gli avrebbe fatto crollare il terreno sotto i piedi, se lo sentiva nelle vene.




 

 
[Il periodo di non-ispirazione continua, ma nessuno lo nota, vero? Naaaah, nessuno, nessuno.]

Capitolo inutile e tremendamente in ritardo. Il mio incubo peggiore si sta avverando, sto rovinando anche la storia a cui tenevo.
Posso anche andare a spararmi.
Prima però vi lascio la solita tabella e il titolo della canzone, che immagino conosciate.
Canzone: 30 Seconds To Mars - Hurricane.
Ed ora la tabella.

Lunedì: Vuole che le arredi la camera da letto, Sir?
Giovedì (ogni 2 settimane): Mary Poppins a Lollolandia
Sabato (ogni 2 settimane): Growing up together
Domenica: Boulevard of broken dreams

Gli insulti nell’apposita cassetta, grazie.
- J

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Capitolo 5
*** E.T. ***


5. E.T.

5 – E.T.


You're so hypnotizing
Could you be the devil
Could you be an angel


Robert l’aveva tenuto inchiodato al banco finchè non era stato certo che si, avrebbero fatto coppia per il progetto.
Non sapeva ancora se quel ragazzo fosse bene o male, sapeva soltanto che nessuno con un minimo di cervello gli avrebbe detto di no. Lo ipnotizzava.
Quando aveva sentito finalmente la campanella, Jude aveva raccolto di corsa le sue cose, scappando fuori dall’aula in tutta fretta.
Si rinchiuse in bagno. L’aveva fatta grossa, cavolo.
Questa sua madre non gliel’avrebbe mai perdonata, ne era certo. Ma nonostante sapesse bene cosa lo aspettava, l’unica cosa di cui riusciva a preoccuparsi era il fatto che si sarebbe certamente dovuto tirare indietro dal lavoro e avrebbe finito inevitabilmente con il deludere Robert.
Si morse il labbro, pensando alla sua eventuale reazione. Non lo avrebbe sopportato, l’avrebbe deluso davvero tantissimo, era stato lui a presentarglisi davanti pregandolo per un suo si. E quell’espressione fiduciosa che aveva, il sorriso che era apparso a dividergli il viso quasi a metà, tanto era immenso.
Si passò una mano tra i capelli, scompigliandoli.
L’avrebbe deluso e anche Robert avrebbe finito con il picchiarlo. Senza poi contare che il loro rapporto sarebbe stato irrimediabilmente distrutto.

***

Ed anche il compito di matematica era passato, tra i suoi alti e bassi. E così anche la mattinata.
Non era riuscito a concentrarsi un granchè, con il pensiero del progetto che ancora gli infettava la mente.
Avrebbe affrontato la prova del nove più tardi, rincasando, ma per il momento voleva solo chiudersi in biblioteca, sedersi al suo tavolo e perdersi tra le parole rassicuranti di un libro.

---

Aveva camminato a sei metri da terra per tutto il giorno, con un sorriso talmente ampio che temeva che, se avesse smesso, la faccia gli si sarebbe sgretolata dallo sforzo.
Il suo piano funzionava, anche troppo bene.
Quando era rincasato, gridando un “Buon pomeriggio!” persino alla vecchietta antipatica che viveva con il suo deambulatore nella casa accanto, sua madre era corsa da lui con un termometro.
“Sei malato.” Aveva decretato, infilandoglielo in bocca. “Non c’è altra spiegazione.”
“Mamma, shto benisshimo.” Aveva mormorato lui, facendo tintinnare il vetro contro i denti. Rassegnato, aveva aspettato comunque i cinque minuti necessari, sperando sua madre riuscisse finalmente a convincersi della sua quasi totale sanità mentale.
Quando le aveva reso il bastoncino - “Trentasei e cinque,” le aveva sorriso “sono anche più freddo del normale, potrei essere morto.” – sua madre l’aveva guardato con diffidenza, studiandogli ogni singola ruga del viso in cerca di un indizio.
“D’accordo.” Aveva poi detto cautamente, spostandosi per lasciargli libero accesso alle scale.
Robert salì i primi gradini canticchiando, mentre la donna dietro di lui continuava a guardarlo diffidente.
“Ah!” si era voltato su uno degli ultimi gradini “Domani viene un mio compagno di classe per un progetto.” Ed era sparito in corridoio, praticamente saltellando.
Elsie scosse la testa. E dire che di casi di malattie mentali non  ne erano stati diagnosticati né nella sua famiglia né in quella di suo marito.
I misteri della vita.

---

Jude non fece in tempo a muovere un passo dentro casa, che immediatamente sua madre spuntò dal salotto, correndo verso di lui e stringendolo in un abbraccio spezza ossa, sorridendo come se fosse in paradiso.
Immediatamente era stato contagiato dal suo buonumore e aveva ricambiato, affondando il viso tra i suoi capelli e respirando l’odore che riconosceva come “casa”.
“Oh, tesoro!” sua madre si era messa a dondolare sul posto senza allentare la presa. L’aveva seguita senza indugi.
“Mamma, che cosa è successo?”
Finalmente lei l’aveva lasciato andare.
Il tremore alle mani si era fermato improvvisamente.
“Tom mi ha chiesto di sposarlo!” e di nuovo si era gettata su di lui, ridendo alla follia.
Lui aveva chiuso gli occhi, al settimo cielo. Un po’ di felicità le serviva, aveva passato solo anni bui ultimamente.
“Sono contentissimo per voi, davvero.”
Sua madre era allegra come non la vedeva da secoli. Forse non l’aveva mai vista così. Il cuore gli si riscaldò in petto.
Forse era il momento buono per provarle a chiedere del progetto, quella felicità improvvisa lo faceva sperare terribilmente per l’approvazione.
“Mamma, ti devo chiedere una cosa.” Il tremore era ripreso quando si era staccato dall’abbraccio, posandole le mani sulle braccia ancora tese di lei. Le aveva sorriso, mentre ogni poro le trasudava felicità. “Vedi…” dannatissime mani, che imparassero a stare un po’ ferme, che diamine! “oggi a scuola ci hanno assegnato un progetto in coppia.”
Maggie annuì senza smettere di sorridere.
“Domani dovrei andare a casa di un mio compagno per cominciare a lavorarci su.”
Si preparò alla sfuriata che ne sarebbe seguita. Non gli era concesso uscire di casa se non per andare a scuola o a fare la spesa, non gli era concesso avere amici e tantomeno trascorrere pomeriggi in case altrui.
“Certo, caro. Vai pure.”
Qualche centimetro di più e la mascella gli sarebbe caduta, fracassandosi in millemila pezzi.
“Sei… sei sicura?”
Maggie si voltò, tornando in salotto.
“Ma certo!” gli urlò, canticchiando qualcosa.
Jude rimase immobile nell’ingresso, lo zaino ancora a tracolla, gli occhi sbarrati e le braccia ancora alzate nell’abbraccio di poco prima.
Aveva accettato senza indugi, non si era arrabbiata e non l’aveva picchiato per la sua terribile disobbedienza.
Non avrebbe deluso Robert.

---

Da quanto tempo era che non metteva in ordine la sua camera? Un secolo? Due?
Si era messo a riordinare il pomeriggio prima, appena tornato da scuola, pensando a Jude ed al fatto che durante la sua visita avrebbe dovuto sentirsi al sicuro, a casa, e che perciò non poteva presentargli quel posto dal disordine infernale che si ostinava a chiamare camera da letto.
Aveva persino ricordato a sua madre di riordinare tutta casa – non che ce ne fosse bisogno, vista la sua mania a lucidare a specchio qualunque cosa le capitasse tra le mani – ed aveva istruito entrambi i genitori sul comportamento da tenere.
“Sorridenti, tranquilli, amichevoli.” Aveva elencato, radunandoli nell’ingresso a qualche minuto dall’arrivo di Jude, dando loro ordini come un generale al suo plotone. Nessuno dei due ancora sapeva che Jude era il ragazzo ipotetico di cui avevano parlato a colazione qualche giorno prima, ma non c’era fretta di scoprirlo, ogni cosa a tempo debito.
Suonarono al campanello e Robert scivolò fino all’entrata, pattinando sulle sue ciabatte di Iron Man. Posò la mano sulla maniglia e si voltò un’ultima volta verso i genitori, minaccioso, alzando un dito in segno di ammonimento.
Suo padre annuì per l’ennesima volta, mentre la madre si sistemava la collana.
Si stampò in faccia il suo miglior sorriso e finalmente aprì la porta.
Jude era là, timido, impacciato, ma con un sorriso meraviglioso ad illuminargli il viso.
Ancora non riusciva a capacitarsi di come avesse fatto a non notarlo prima.
“Benvenuto.” Lo fece entrare. “Questa è casa mia.”

 

[Lalalalalalalala.]
Incredibilmente, questo capitolo non mi fa completamente schifo, suvvia ù_ù
Si è mosso anche qualcosa, che non fa mai male, almeno non è un capitolo completamente inutile.
La canzone riportata è E.T. di Katy Perry, giusto a titolo informativo, sono entrata in fissa stamattina, perciò ve la sorbite tutta ù_ù
Bene, sono abbastanza soddisfatta, vi lascio la tabella.

Lunedì: Vuole che le arredi la camera da letto, Sir?
Giovedì (ogni 2 settimane): Mary Poppins a Lollolandia
Sabato (ogni 2 settimane): Growing up together
Domenica: Boulevard of broken dreams

A domani,
- J

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Capitolo 6
*** My body is a cage ***


6. My body is a cage

6 – My body is a cage


My body is a cage that keeps me
From dancing with the one I love
But my mind holds the key


Era entrato timidamente, pulendosi bene i piedi sullo stuoino all’ingresso e chinando il capo come un gentiluomo di altri tempi quando aveva oltrepassato la soglia.
La prima cosa che aveva notato erano i genitori di Robert, ritti ai piedi dello scalone, due sorrisi identici in volto. Calore, gentilezza.
Si voltò, ricordandosi improvvisamente di aver dimenticato di chiudere la porta, ma Robert, pronto a tutto, si era premurato di farlo prima che lui se ne sentisse in dovere e gli si affiancò con un sorriso smagliante e le mani affondate nelle tasche dei jeans.
Era tutto così bello. Fece vagare lo sguardo per la stanza, notando i soffitti alti, la luminosità talmente… luminosa da sembrare di essere in paradiso, la luce calda che gli carezzava la pelle entrando dalle enormi finestre sparse ovunque.
E nonostante fosse un luogo immacolato, ordinato e splendente, riusciva a percepire comunque a pelle il calore che racchiudeva, il nome di casa scritto a caratteri cubitali su ogni muro.
“E’ magnifica.”
“Grazie mille, caro.”
Elsie gli si avvicinò, allungando la mano, e Jude pensò che non aveva mai visto una signora più bella e cordiale nonostante l’aria distinta che le fuoriusciva da ogni singolo poro.
Le strinse leggermente la mano, perdendosi nel suo viso gentile.
“Io sono Elsie. Questo vecchio maleducato” si voltò appena verso il marito, rimasto leggermente in disparte “è mio marito, Robert. Bè, quello lì immagino lo conoscerai” allungò quindi lo sguardo verso Rob, ancora fermo al suo fianco. “è Junior.”
“Mamma!” la richiamò questi, stizzito, mettendo il broncio.
Elsie ridacchiò in modo cristallino, avvicinandosi leggermente a Jude in tono cospiratorio “Se gli vuoi fare un dispetto, chiamalo Junior, lo odia.”
“Appunto, quindi evitiamo, grazie.” Intervenne Robert, le braccia incrociate e lo sguardo arcigno.
Jude, sognante, se possibile arricciò ulteriormente gli angoli della bocca.
“Lieto di conoscervi.”
In quel momento Robert senior si fece avanti, richiamato da chissà cosa, credendo che fosse il suo turno di farsi avanti, nonostante la presentazione della moglie.
Allungò a sua volta la mano, sorridendo cortesemente.
“Bob, per evitare fraintendimenti. Chiamare mio figlio come me non è stata esattamente una cosa intelligente.” Strinse la mano anche a lui, incerto se ridere o meno e scegliendo alla fine di optare per un sorrisino divertito.
“Bene, bene.” Intervenne Rob, liberando la sua mano da quella del padre e stringendola nella sua. “Noi andiamo di sopra a fare i compiti.” Si avviò alla volta delle scale, trascinandosi dietro Jude.
Si bloccò all’improvviso, sul primo gradino, e si voltò con un sorriso angelico a millecinquecento denti. “Mamma, se volessi portarci la merenda tra un paio d’ore, te ne sarei davvero riconoscente.”
Jude strabuzzò gli occhi, alzando lo sguardo sul viso di Robert. Come si permetteva a parlare così ai suoi genitori?
Si voltò verso i due adulti ancora nei pressi della porta, certo di vedere la madre trasformarsi in una furia da un momento all’altro. Una signora così bella. Ma d’altronde anche sua madre era bella, e si arrabbiava lo stesso.
E non poteva dare torto ad Elsie; per quanto stesse cominciando ad affezionarsi a Robert – perché si, alla fine aveva capito che stava cominciando a provare affetto per lui, il suo primo vero amico a quanto sembrava -, quello non era di certo il modo di comportarsi.
“Robert! Cosa sono, la tua cameriera?” gridò infatti la donna, ma la vide distendersi immediatamente qualche secondo dopo, tornando a sorridergli bonariamente, scuotendo la testa. “Ve la porto, ve la porto.”
Jude si immobilizzò là dove si trovava. Niente urla spacca timpani? Niente minacce? Niente… punizioni?
Tornò a fissare Robert, che sorrideva apertamente. Nessuna paura di venire punito, niente rimorsi per il tono usato.
Passò quindi a Robert senior, ma si accorse solo in quel momento del lembo della sua giacca che spariva in quello che presumeva essere il soggiorno.
Nessuna reazione, niente di niente. Un dito alzato, uno sguardo storto. Assolutamente nulla da nessuno dei genitori.
“Jude, caro, preferisci qualcosa in particolare?”
Tornò a puntare lo sguardo su Elsie, cercando di riprendersi dalla semi-catalessi in cui era caduto.
“N-no, grazie mille.” Le rispose immediatamente. Sua madre odiava i silenzi troppo lunghi dopo una domanda.
“Benissimo, allora, divertitevi.”
“Mamma, andiamo a studiare, non al luna park.” Di nuovo quel tono troppo impertinente. Questa volta non l’avrebbe scampata assolutamente.
“Oh…” Elsie agitò una mano in aria come a scacciare una mosca.
Di nuovo nessuna reazione. Ma in che famiglia era capitato?
“Sapessi io e tuo padre quanto ci divertivamo a studiare chimica…” e gli fece l’occhiolino.
Immediatamente Jude arrossì. Chi erano queste persone, che scherzavano come se fossero tutti coetanei e permettevano al figlio di rivolgersi a loro in maniera tanto sgarbata? Alieni, forse?
“Mamma!” Robert proruppe in una risata che gli scaldò il cuore, facendolo voltare di nuovo verso di lui come attratto da una calamita.
“Andiamo, o qui veniamo a scoprire cose che preferirei ignorare.” Riprese a salire le scale sempre senza mollargli la mano, continuando a ridere sonoramente finché non arrivarono in cima e poi in camera.
Solo lì lo lasciò andare, scuotendo la testa con ancora l’ombra di un sorriso sul volto, mentre recuperava i libri dalla mensola accanto al letto.
Jude rimase immobile, in piedi sulla soglia, un’improvvisa corrente di aria fredda che gli frustava la mano. Di nuovo, si perse ad ammirare gli spazi di quella casa.
La camera di Robert, poi, era la parte migliore per quel che aveva potuto vedere fino a quel momento. Era ciò che lui definiva enorme, con le solite spaziose finestre che aveva notato in tutta casa sparse sulla parete del letto, una porta-finestra che dava su un terrazzo nella parete alla sua destra, una porta accanto ad essa che immaginò essere il bagno e mobilio moderno sparso per tutta la stanza.
Wow.
Notò Robert che lo fissava assorto, i libri ancora stretti in mano e, quando notò il suo sguardo vagare fino a lui, sembrò riscuotersi, aprendosi immediatamente in un sorriso forse anche più luminoso della luce che proveniva dalle finestre.
“Che maleducato, mettiti pure comodo.” Gli passò davanti, dirigendosi alla scrivania e invitandolo a sedersi alla sua destra con un cenno del capo. “Vieni, dai, ammirerai bene la mia stanza più tardi.” Ridacchiò, allungando una mano ad accendere il computer.
Jude mosse qualche passo incerto fino a lui, poggiando lo zaino a terra accanto alla sedia e sedendosi in punta di questa, rigido come uno stoccafisso.
“Rilassati, non ti mangio.” Sorrise Robert, notandolo con la punta dell’occhio mentre faceva scorrere il mouse sul desktop.
L’altro si sforzò di sorridere. Era nervoso, in imbarazzo, e non sapeva nemmeno il perché. Si sentiva a disagio, in quella casa era tutto così… accogliente, caldo, gentile.
“Allora.” Battè le mani Robert, facendolo saltare. “Da dove cominciamo?”
Si maledì mentalmente. Erano tutti così gentili, disponibili, e tutto ciò che lui riusciva a fare era saltare sulla sedia e dire si e no due parole. Cominciava davvero ad odiarsi per il suo modo di essere.

---

Era andato tutto come previsto. O quasi. Riflettè, osservando Jude fermo sulla soglia della stanza.
I suoi genitori erano stati meravigliosi e lui aveva cercato di fare del suo meglio, ma poteva vedere benissimo che Jude non era a suo agio per niente.
Lo vedeva incerto, imbarazzato, e proprio non capiva dove aveva sbagliato.
Forse erano stati tutti troppo meravigliosi, era stato certamente quello a metterlo a disagio.
Sospirò leggermente, continuando a fissarlo mentre il suo sguardo vagare per la stanza e si faceva via via più luminoso a seconda del riflesso della luce.
Sospirò di nuovo, stringendo i libri.
Che fossero serviti dieci o cento pomeriggi, l’avrebbe aiutato ad ogni costo.
Vide il suo sguardo passare a lui e immediatamente si stampò in faccia il suo miglior sorriso. Cercava di rassicurarlo spandendo sorrisi tutt’intorno fin da quando aveva suonato alla porta, ma tutto ciò che aveva ottenuto era solo un ragazzo a disagio sulla porta della sua camera ed una tremenda voglia di mandare a puttane il ‘andiamoci con piedi di piombo’ e abbracciarlo lì seduta stante per fargli capire che non era solo. Ma l’esperienza gli aveva insegnato che facendo così non avrebbe ottenuto assolutamente nulla. Anzi, forse avrebbe rischiato addirittura di retrocedere di qualche passo.
“Che maleducato, mettiti pure comodo.” Gli passò davanti diretto alla scrivania, rafforzando ulteriormente la presa sui libri, per poi abbandonarli accanto al computer e voltarsi di nuovo verso Jude.
“Vieni, dai, ammirerai bene la mia stanza più tardi.” Provò a buttarla sullo scherzo, ridacchiando ed allungandosi sul bottone di accensione del MAC.
Avvertì ogni singolo movimento che fece, l’incertezza dei suoi passi. L’atteggiamento protettivo del suo corpo quando si sedette in punta alla sedia, pronto a scappare in caso di pericolo.
Era tremendamente rigido. Azzardò una mossa estremamente pericolosa.
“Rilassati, non ti mangio.” E di nuovo sorrise, fingendo di essere impegnato con il mouse.
Ottenne solamente un sorriso timido, ma ritenne fosse un grande passo avanti. Almeno Jude non aveva preso la battuta come un ammonimento negativo.
“Allora.” Battè le mani e, con una stretta al cuore, lo vide saltare sulla sedia. Porca miseria, che guaio. Si sarebbe pentito quella sera, ora era troppo impegnato a provare a farlo sentire a suo agio, non poteva perdersi nel suo cervello a pensare troppo, doveva agire.
“Da dove cominciamo?”

***

Era stato in tensione tutto il pomeriggio, anche per la minima cosa. Non credeva di essere nervoso quanto Jude, ma un paio di volte era arrivato a pensare che forse gli arrivava davvero vicino.
Si chiuse la porta alle spalle dopo aver salutato un’ultima volta Jude, e si lasciò cadere seduto a terra, sfinito. Tenere i nervi in tensione tutto il pomeriggio non era piacevole per lui, di certo non lo era stato nemmeno per Jude, avrebbe dovuto trovare un modo per farlo sciogliere di più o sarebbe stato tutto inutile. Sperò vivamente che con il tempo avrebbe cominciato automaticamente a prendere più confidenza, perché davvero lui su quel fronte non sapeva come gestire la cosa, chiunque lo conoscesse un minimo si trovava quasi immediatamente a suo agio con lui, non aveva mai avuto un problema del genere. Con le dovute eccezioni, certo, ma fondamentalmente nessuno aveva problemi di disagio, al suo fianco.
Sua madre apparve dalla cucina, guardandolo sconsolata.
“Tesoro.” Gli si avvicinò, chinandosi a scompigliargli i capelli.
“Non ha voluto che lo riaccompagnassi a casa, ha insistito per andare da solo.”
Lo sguardo di Elsie, se possibile, si addolcì ulteriormente.
“E’ lui il ragazzo ipotetico di cui ci hai parlato a colazione, vero?”
Robert alzò lo sguardo su di lei.
La donna sorrise gentilmente. Il suo bambino.
“L’abbiamo capito appena lo abbiamo visto. Dopotutto sai che papà è avvezzo a cose del genere.”
“E’ stato un fallimento. Ogni cosa, tutto il pomeriggio. Tu e papà siete stati meravigliosi, ma io non mi sono sforzato abbastanza, era continuamente in tensione, a disagio.”
Gli carezzò il viso.
“Non è vero, so che hai fatto del tuo meglio. E’ questione di tempo, vedrai che già dalla prossima volta sarà più rilassato.”
“Ci spero.”
“Sai bene cosa fare, non è il primo caso che affronti, Robert.”
“Il mio obiettivo è farlo aprire fino a riuscire a fargli confessare che la madre lo picchia. Farlo trasferire qui nella stanza degli ospiti, farlo sentire al sicuro.”
“Lo so, caro. Quando accadrà, la stanza degli ospiti è già pronta, sta solo a te, ora.”
La determinazione gli accese gli occhi. Doveva riuscirci per il bene di Jude.
“Ce la farò.”




[99 scimmie saltavano sul letto.]

Stavolta sono ampiamente soddisfatta, perciò voglio almeno una festa in mio onore, visto che credo sia il primo capitolo che mi piace così tanto ù_ù
E poi mercoledì è il mio compleanno, suvvia ù_ù
Basta, sono tremendamente soddisfatta :D Sia dei personaggi che del capitolo in sé, non me l’immaginavo proprio così (a partire dal dialogo alla fine tra Rob ed Elsie, inizialmente doveva essere Robert senior l’altro interlocutore), ma mi piace assai, stappiamo lo champagne!
Buon annoooo!
Vi lascio la tabella.

Lunedì: Vuole che le arredi la camera da letto, Sir?
Giovedì (ogni 2 settimane): Mary Poppins a Lollolandia
Sabato (ogni 2 settimane): Growing up together
Domenica: Boulevard of broken dreams

A domani, se riesco ad inventarmi qualcosa per Camera da letto.
Sono troppo euforica ed un capitolo brutto mi ucciderebbe, casomai mi metterò a scriverlo domani come sempre ù_ù
A presto :D
- J

P.S.: Come capita sempre, ultimamente, Gianni si è dimenticato di dirvi la canzone, perciò ecco qui: è My body is a cage di Peter Gabriel, di cui mi sono innamorata un paio di mesetti fa, dopo averla sentita in Dr. House *-*
Ascoltatela, ne vale davvero la pena *O* Anche se la scena in cui era presente mi ha quasi fatto venire un infarto, ma dettagli, è bellissima lo stesso ù_ù
E con questo vado sul serio.

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Capitolo 7
*** Rolling in the deep ***


7. Rolling in the deep

7 – Rolling in the deep


There’s a fire starting in my heart
Reaching a fever pitch,
it’s bringing me out the dark


Girò le chiavi nella toppa ed entrò in casa con un sorriso che andava da un orecchio all’altro.
Era stato un bel pomeriggio, dopotutto, togliendo il nervosismo che lo aveva preso sin da quando si era ritrovato sulla soglia di casa Downey.
Si chiuse la porta alle spalle, piombando nel freddo di casa.
Rabbrividì nella giacca e si diresse in camera, ma prima che potesse anche solo muovere un passo in quella direzione, la voce di sua madre lo bloccò.
“Sei in ritardo. Dove sei stato?”
Si voltò lentamente, mentre le sue mani cominciavano il loro solito inarrestabile viaggio.
In ritardo? Non gli aveva nemmeno dato un orario di ritorno, si preoccupò Jude, certo di essere in ritardo sul serio e lanciando un’occhiata fugace all’orologio in corridoio. Le sette. Era in ritardo senza ombra di dubbio, per i suoi standard.
Era pronto a quello che ne sarebbe conseguito.
La donna era seduta nella poltrona in salotto che affacciava direttamente sul corridoio. Era la sua poltrona, quella leggermente ruotata di modo che la sua occupante riuscisse a vedere il televisore e a tenerlo d’occhio allo stesso tempo.
“Dal compagno di classe che ti dicevo, mamma. Abbiamo cominciato il lavoro per storia.” Si perse un secondo tra i ricordi di quel pomeriggio, sorridendo lievemente. Ma poi gli tornò alla mente il nervosismo terribile che gli aveva impedito di mostrarsi cordiale e disponibile verso Robert ed i suoi genitori come invece avrebbe voluto e le labbra si incurvarono all’ingiù. “Siamo… siamo a buon punto.”
Vide sua madre annuire, assorta, mentre fissava la trama del tappeto ai suoi piedi. Improvvisamente rialzò lo sguardo su di lui, le iridi color del ghiaccio gli ferirono la pelle senza che nemmeno se ne rendesse conto.
Erano identiche alle sue, ma quelle di lei trattenevano decisamente meno calore.
“Togliti la maglia.” Gli ordinò, noncurante, mentre armeggiava con il pacchetto delle sigarette accanto a lei.
Jude strinse lo spallaccio della tracolla, facendo sbiancare le nocche. Sospirò, annuendo nella sua direzione. “Appoggio lo zaino.” Ci mancava solo che lo punisse perché, per la troppa fretta di obbedirle, avesse dimenticato le regole ferree riguardanti l’ordine impeccabile e avesse abbandonato lo zaino lì dove si trovava.
Si liberò velocemente della tracolla e della giacca, abbandonandole sul letto, e si tolse le scarpe, lasciandole ben allineate nella scarpaia e indossando le ciabatte. Sentì distintamente il clic dell’accendino, mentre quella dannatissima mano non ne voleva sapere di chiudere una volta per tutte e con un colpo secco l’anta del porta scarpe.
“Jude.”
L’aveva chiamato. Un brivido freddo gli corse lungo la schiena, infastidendolo. Non voleva quei brividi freddi, non li aveva chiesti lui. E non voleva che la madre lo chiamasse, voleva dire solo una cosa: ci stava mettendo troppo, avrebbe subito ulteriormente.
Aiutandosi con l’altra mano – di certo non messa meglio della prima, ma quanto meno utilizzabile – chiuse finalmente la scarpaia.
Tornò in salotto, prendendo un paio di respiri profondi quando arrivò al centro del tappeto.
“Ci hai messo tanto.”
Maggie si alzò dalla poltrona, una sigaretta tra le labbra e lo zippo d’argento che sbucava appena dalla tasca, pronto in ogni momento a riaccendere il bastoncino.
“S-scusa.” Non aveva chiesto nemmeno il balbettio, accidenti.
Alzò la maglia mentre la donna si avvicinava, drizzandosi in tutta la sua altezza per permetterle di scegliere meglio il prossimo punto da bruciare. Avvertì un dito scorrergli tra le scapole ed il brivido gelato di prima gli fece drizzare tutti i capelli sulla testa. Si maledì un paio di volte. Cos’erano quelle brutte sensazioni? Non le aveva reclamate lui, non le sopportava. Era perfettamente a suo agio, in quella situazione, non faceva nemmeno più caso al dolore.
Un unghia gli picchiettò la pelle appena sopra il bordo dei pantaloni, facendogli intendere che la punizione avrebbe colpito esattamente in quel punto.
Prese il respiro più lungo che i suoi polmoni gli permettessero, mentre senza nessun preavviso la sigaretta prendeva a strofinarglisi contro la pelle, arrossandola e bruciandola. Durò un paio di secondi, nemmeno l’aveva avvertita.
“Per il ritardo senza permesso.” Lo avvisò sua madre. Annuì, rendendosi conto solo in quel momento del labbro stretto a sangue dai denti. Lo rilasciò; cominciava a provare dolore e non gli serviva di certo un’altra punizione per un labbro gonfio fin troppo evidente.
Di nuovo il fuoco gli marchiò la pelle.
“Per avermi fatta aspettare, poco fa, mentre appoggiavi la cartella.”
Di nuovo senza preavviso, lo colse completamente alla sprovvista, questa volta, facendolo inarcare contro la sua volontà. Le dita di sua madre gli strinsero un fianco.
“Stai fermo.” Sibilò, tirandogli uno schiaffo sul primo marchio di fuoco e facendolo rabbrividire dal dolore mentre la carne molle gli pizzicava sotto al colpo.
Una lacrima si infranse sul tappeto mentre per la terza volta veniva marchiato, in un punto a poca distanza dagli altri due.
Anche quella notte avrebbe dormito a pancia sotto. Poco male, ormai ci era abituato, stava anche comodo.
Sperò che la donna non avesse visto la scena, troppo presa dal riaccendersi la sigaretta, perché un nuovo colpo di nuovo senza preavviso sarebbe stato insopportabile, avrebbe urlato e avrebbe dato inizio ad un cerchio infinito.
“Puoi andare. Spero tu abbia imparato la lezione.”
Jude annuì, incapace di fare altro, riabbassando la maglietta leggera e camminando alla volta della camera. Si chiuse dentro, attese un paio di minuti e sparì in bagno a fare la stima dei danni.
Tre segni spiccavano sulla pelle chiara della schiena, interrotta da lividi, cicatrici e graffi di ogni tipo, come una piccola costellazione della disobbedienza che aveva portato avanti in tutti quegli anni.
Sospirò, asciugandosi gli occhi ancora umidi e rifugiandosi di nuovo in camera.

---

Quando lo vide traballare verso di lui, gli occhi bassi, si aprì istantaneamente in un sorriso luminoso.
“Jude.” Lo salutò, rallegrandosi immensamente del fatto che fosse andato lui a cercarlo e non il contrario come accadeva sempre.
“R-robert. Se non è di troppo disturbo…” si morse un labbro, torturandosi le mani come turbato da qualcosa. Lo prese alla sprovvista rialzando lo sguardo su di lui e facendogli mancare il fiato per la torbidità delle iridi. “Venerdì possiamo spostare il progetto ad un’ora prima? Mia mamma ha fatto qualche storia per l’ora in cui sono rientrato.”
Quindi l’aveva picchiato di nuovo. Puttana eva.
La dichiarazione lo colpì come un pugno allo stomaco, ma si costrinse a continuare a sorridere, o l’avrebbe fatto scappare inutilmente; di certo l’avrebbe frainteso, mettendosi ulteriori problemi.
“Ma certo, nessun problema.” E capì che i suoi sforzi erano stati pienamente ripagati quando Jude gli sorrise grato.
“Grazie davvero.”
“Di niente.” Improvvisamente lo vide instabile sulle gambe. “Vuoi sederti?” accennò al posto accanto a lui.
“No, grazie. Sono di fretta, scusa.” Gli sorrise timidamente, di sicuro in imbarazzo per il disappunto che credeva di avergli creato rifiutando la sua offerta.
“Non ti preoccupare. Allora, venerdì va bene all’una appena usciti da scuola?”
“Per-perfetto, gr-grazie.”
Aveva sentito bene? Erano ansiti quelli che aveva udito nascosti dalle parole? In un nanosecondo collegò l’instabilità e lo sguardo torbido e si alzò velocemente, giusto in tempo per prenderlo al volo esattamente un secondo prima che toccasse terra.
“Jude, mi senti?” si allarmò, vedendolo ansimare sempre più sonoramente, gli occhi chiusi ed una mano a penzoloni nel vuoto. Portò una mano a toccargli la fronte: scottava come il fuoco stesso. Aveva senza dubbio la febbre alta ed era certo che sua madre non l’avrebbe curato, doveva portarlo a casa sua il più in fretta possibile.
Per una volta ringraziò la palestra che suo padre lo costringeva a fare per rafforzare il fisico. Gli sfilò la borsa dalla spalla, abbandonandola malamente sul prato e lo sollevò alla meno peggio. Sarebbe tornato indietro a prendere tutto solo una volta che avesse sistemato Jude in macchina. Quantomeno era relativamente vicina, per una decina di metri ce l’avrebbe potuta fare, soprattutto visto che l’altro pesava si e no dieci chili, giudicò bruciando in un attimo la distanza dall’automobile. In un attimo di lucidità sentì la sua mano stringergli la felpa e un baluginio azzurro sostituire le palpebre chiuse. “Robert. Sto bene, mettimi giù.”
“Non me la bevo, ti porto a casa mia.”
“No, no!” lo sentì irrigidirsi immediatamente, spalancando gli occhi probabilmente pensando a ciò che gli avrebbe fatto sua madre non appena avesse saputo di quel fuori programma. Svenne prima che potesse rassicurarlo.
Lo sdraiò gentilmente sul sedile posteriore dell’Audi e chiuse la portiera, per poi correre indietro a recuperare le borse abbandonate e gettarsele bruscamente accanto sul sedile del passeggero, partendo a tutto gas.

---

Non ricordava nulla, sapeva solo che quella mattina, quando si era svegliato, non si sentiva bene per niente. Riusciva ad arrivare fino a quando aveva parlato con Robert, e poi il nulla lo catturava.
Quando aprì gli occhi, notando una testa scura fin troppo conosciuta appoggiata sul cuscino accanto a lui, i ricordi lo colpirono violentemente.
Era svenuto addosso a Robert e lui l’aveva portato a casa sua per curarlo. Spalancò gli occhi. Quante scuse che gli doveva, per il suo essere un peso così grande. Per lui, per sua madre, per tutti quelli che lo conoscevano. Non voleva che si arrabbiasse. Si morse il labbro quando vide l’altro voltarsi verso di lui, stiracchiandosi e sbadigliando a tutto andare, gli occhi scuri aperti quel tanto che bastava per capire chi o cosa fosse e dove si trovasse al momento. Quando posò lo sguardo su di lui, si drizzò immediatamente a sedere, avvicinandosi.
“Come stai?”
Non seppe se fu la sua aria scarmigliata, i suoi capelli da tutte le parti, la sua espressione mezza imbronciata e insonnolita o la sua aria così preoccupata da sembrare quasi comica, fatto sta che per la prima volta dopo quasi dieci anni, Jude scoppiò a ridere sonoramente.

---

Rideva. Rideva e non poteva chiedere di meglio.
Non riusciva nemmeno a sentirsi arrabbiato per il fatto che ridesse della sua preoccupazione, tanto aveva sognato quella risata.
Dio, quanto era bello.
Lui rideva, rideva come non l’aveva mai visto prima, rideva tenendosi la pancia e riscaldandogli il cuore in un modo che credeva l’avrebbe fatto scoppiare.
E tutto ciò a cui riusciva a pensare Robert era che voglia avesse di baciarlo lì, ora.

 

 

 

 

 

[Basta, il capitolo mi piace troppo, non ho niente da dire. Ora spiegatemi voi come faccio ad andare a studiare con quest’immagine nel cervello.]
Tabella.

Lunedì: Vuole che le arredi la camera da letto, Sir?
Giovedì (ogni 2 settimane): Mary Poppins a Lollolandia
Sabato (ogni 2 settimane): Growing up together
Domenica: Boulevard of broken dreams

Canzone:
Rolling in the deep - Versione di Glee
(quella principalmente usata, che preferisco per le due voci di Rachel e Jesse <3)
oppure
Rolling in the deep - Versione di John Legend (sempre <3)

- J

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Capitolo 8
*** Starlight ***


8. Starlight

8 – Starlight


My life
You electrify my life


“Dove sono i miei vestiti?” gli chiese, allarmato, toccando il pigiama sottile.
Ecco. Era un idiota. Temeva quel momento sin da quando l’aveva spogliato dei suoi abiti, resistendo stoicamente per non sfiorargli nemmeno una di quelle cicatrici che gli percorrevano il corpo. Era stata dura, più dura di qualsiasi cosa; tutto ciò che voleva era solo curarlo, fargli provare meno dolore, ma sapeva bene di non poter fare assolutamente niente.
Si grattò la testa, in imbarazzo, continuando ripetutamente a darsi dell’idiota nonostante l’avesse fatto a fin di bene.
“La poltrona.” Allungò un dito, lasciando l’altra mano tra i capelli ed evitando di guardare Jude. Già si sentiva in colpa così, figurarsi con il suo sguardo puntato addosso.
Era a fin di bene, era a fin di bene, era a fin di bene, era a fin di bene…
“Tu…” il panico puro nella sua voce lo costrinse ad alzare lo sguardo, fissandolo da sotto in su.
“So tutto.” Esalò semplicemente con un filo di voce.

---

Sentì l’attacco di pani crescergli nel petto, il respiro accelerare in maniera esagerata ed un groppo di dimensioni gigantesche crearsi in gola, bloccandogli definitivamente le vie aeree.
Sapeva tutto, aveva visto i lividi, i tagli, le cicatrici. Spalancò la bocca in cerca d’aria, mentre capiva a malapena quello che gli accadeva intorno.
Vide Robert sbiancare, le sue labbra si muovevano, probabilmente gridava il suo nome, ma nelle orecchie sentiva solo un fastidiosissimo ronzio. E l’aria non gli arrivava ai polmoni.
Coraggio, coraggio.
Provò seriamente a calmarsi, applicando quegli esercizi che gli avevano salvato la vita più di una volta in circostanze simili. Ma lui sapeva di sua madre, lo odiava per quello che era, per ciò che il suo corpo era, per la sua famiglia, la sua vita. Lo odiava certamente, ora che aveva capito in che tipo di guaio si era cacciato facendo amicizia con quel ragazzino che di amici non se ne poteva permettere. Di nuovo il respiro prese ad accelerare.
Avvertì un formicolio alla mano e cercando di abbassare gli occhi vide entrambe le mani di Robert strette intorno alla sua, talmente tanto strette da fargli male. Aveva uno sguardo terrorizzato, continuava a mormorare un qualcosa che assomigliava terribilmente a “Non ti preoccupare”, e forse fu proprio quell’idea che gli permise di smantellare le pareti di quel blocco in gola, mentre l’aria tornava lentamente a bruciargli i polmoni.
Prese respiri più profondi che poteva; gli girava la testa. Provò a fermarla con una mano, ma era tutto terribilmente confuso, non sentiva nulla, nemmeno più il suo corpo.
E poi, improvvisamente, il calore ed il buio lo avvolsero, accompagnati da un profumo da uomo familiare quasi quanto quello che lo accoglieva in biblioteca.
Incredibilmente ricominciò a sentire.
“Non aprire gli occhi, la testa te la tengo ferma io. Se devi vomitare non farti problemi. Coraggio, Jude.”
Robert lo abbracciava stretto, avvolto intorno al suo corpo come una morbida e profumata coperta, solido come una roccia mentre una mano gli carezzava dolcemente i capelli seppur mantenendo la presa ferrea sulla sua testa, provando ad evitargli la sensazione di sballottamento e di giramento.
Provò ad allungare timidamente le mani sulla sua maglia, chiedendosi se fosse la cosa giusta: se Robert lo stava abbracciando voleva dire che forse poteva permettersi un piccolo contatto anche lui. Non troppo invasivo, chiaro, o lo avrebbe allontanato immediatamente, additandolo come ragazzino incapace, buono a nulla ed inutile come faceva sua madre.
La presa sulla stoffa si fece più salda quando sentì che Robert non si era spostato di un millimetro, rischiò sul serio per una volta.
Qualche altro respiro profondo e già andava molto meglio, anche se credeva che il merito non fosse completamente della sua tecnica anti panico. Senza dubbio c’era lo zampino di qualcos’altro o sarebbe stato impossibile per lui da solo.

---

Aveva cominciato improvvisamente a respirare affannosamente, stringendosi una mano alla gola come se non riuscisse a respirare, gli occhi si erano fatti vacui.
Sapeva di essere sbiancato. Non aveva esperienza in quel genere di cose e con la poca lucidità dovuta al panico non gli era nemmeno passato per l’anticamera del cervello di provare a chiamare i suoi genitori. Un urlo e sarebbero accorsi in un nanosecondo, ma decisamente non era il tipo che nei momenti di panico dava il meglio di sé. Tutti lo stimavano per il suo sangue freddo invidiabile – nulla lo spaventava, a detta dei suoi amici -, ma nessuno l’aveva mai visto in momenti davvero di emergenza come quello.
“Jude! Jude! Jude!” l’aveva chiamato una decina di volte, ma tutto ciò che aveva ricevuto era una leggerissima occhiata da parte di quegli occhi troppo chiari, semi-trasparenti per la vacuità di cui erano intrisi.
Era rimasto a fissarlo, sentendosi impotente, uno schifo, inutile quando invece avrebbe dovuto scattare ed essere pronto ad ogni cosa.
E poi l’illuminazione. Aveva cercato di riportarlo sulla terraferma, gli aveva stretto la mano così forte che aveva dovuto richiedere l’ausilio di entrambe le sue nonostante gli innumerevoli esercizi di palestra. E a quanto pareva, seppur per pochi attimi, Jude era tornato in quella stanza con lui, aveva fissato le sue mani e il respiro si era leggermente calmato, ma qualcosa l’aveva bloccato di nuovo e di nuovo la stanza si era riempita del suo respiro talmente affannato da far risuonare ogni singolo sbuffo d’aria come un colpo di cannone che gli feriva le orecchie. O forse era solo lui che lo percepiva così. Lui che non riusciva a fare assolutamente niente se non stare a guardare e stringergli la mano più forte che poteva.
Si era arreso ad un certo punto, vedendo la sua testa barcollare da una parte e dall’altra e sperando di prendere per una volta una diagnosi.
Si era buttato sul letto, afferrandogli la testa e portandosela al petto, tenendolo fermo il più possibile per evitare la nausea dovuta al giramento di testa.
“Non aprire gli occhi, la testa te la tengo ferma io. Se devi vomitare non farti problemi. Coraggio, Jude.”
Cristo, quella era la prova che sarebbe stato disposto a fare ogni cosa per lui. Ogni. Singola. Cosa.
Non gli importava del vomito, l’avrebbe lavato, non era il suo problema maggiore, al momento.
Non gli importava di stringere talmente tanto il suo corpo da farsi formicolare le braccia, l’importante era che lui non sentisse male e stesse il meglio possibile. Che si riprendesse. La febbre era passata completamente, di certo era solo stanchezza, ma ora avevano quel problema ad aggiungersi al carico.
E quando sentì le sue mani salire timidamente fino al colletto, il respiro domato seppur in minima parte, solo in quel momento si permise di allentare appena la presa.
Sperò che Jude capisse che non si sarebbe spostato, che poteva stringersi a lui, morderlo, insultarlo, piangere, vomitare, fare quello che voleva, ma da lì non si sarebbe mosso. E sospirò quando l’altro sembrò capirlo davvero, rafforzando lentamente la stretta sulla maglietta. Gli respirò tra i capelli mentre lo sentiva respirare a pieni polmoni, forse di nuovo con lui.
Si arrischiò ad allontanare leggermente la testa dal suo petto e riuscì persino ad accennare un sorriso.
“Ehi. Tutto ok?”
Jude annuì appena, ma bastò per farlo calmare immediatamente.
“Benissimo.” Sospirò, continuando a sorridergli. Era imbarazzato da morire, lo si notava da qualunque mossa anche solo accennata, e non volevo farlo sentire ulteriormente a disagio, c’era già riuscito perfettamente con quell’abbraccio inaspettato.
Lo lasciò dolcemente contro i cuscini e si premurò di scendere velocemente dal letto, come se nulla fosse successo, lasciando all’altro il tempo, che sapeva non sarebbe mai giunto, di abituarsi.
Dopotutto era solo colpa sua. Se solo avesse seguito il cervello che gli diceva di lasciarlo vestito dei suoi abiti, invece di seguire l’idea del cuore che gli sussurrava di permettergli di stare comodo almeno mentre dormiva, di certo gli avrebbe risparmiato tutta quella sofferenza.
Si morse il labbro e si alzò, tenendo lo sguardo basso, colpevole.
“Ti prendo dell’acqua.” E sparì in corridoio.

---

Non capiva cosa fosse successo.
Sapeva solo che Robert aveva visto quei segni orrendi sul suo corpo. Meritati, certo, ogni singolo livido o cicatrice, ma orrendi da vedere per una persona come Robert.
Lisciò le coperte, stirò il pigiama con le mani e sprimacciò i cuscini.
Ed ora Robert era uscito con la scusa di un bicchiere d’acqua quando entrambi sapevano che l’aveva fatto per evitare di guardarlo di nuovo in faccia, di ricordare quella cosa orrenda che era, quel corpo che si ritrovava, quell’inutilità che lo permeava in ogni fibra del suo essere.
Così era anche riuscito a disturbarlo, alla fine, svenendogli praticamente in braccio e avendo un attacco di panico nella sua camera da letto dopo che l’aveva aiutato dal suddetto svenimento. Magnifico, davvero magnifico. Non si sarebbe meravigliato se si fosse ritrovato la signora Downey sulla porta, qualche minuto dopo, inviata per conto del figlio e terribilmente scocciata, che lo pregava di andarsene da casa sua e non tornare mai più.
E invece tutto ciò che tornò fu davvero Robert con una vero bicchiere pieno d’acqua tra le mani, ma lo sguardo ancora basso.
Apprezzava il coraggio di essere andato a dirglielo di persona, ma preferiva fosse sua madre a metterlo alla porta, avrebbe sofferto di meno. Anche se non ne aveva affatto il diritto, di soffrire. Aveva disturbato terribilmente e si meritava quantomeno l’esilio perenne da quel posto.

---

Tornò in camera, il coraggio per guardarlo negli occhi ancora perso chissà dove dopo ciò che lo aveva costretto a passare per quel cambio di vestiti che si era rivelato essere un errore colossale.
Si odiava in quel momento. Lui non era così, lui era il tipo carismatico, pronto ad aiutare, pronto a sostenerlo quando avrebbe avuto bisogno e si fosse finalmente confessato. Lui non era così, era Jude che lo rendeva tremendamente insicuro per una volta nella sua vita.
Gli porse il bicchiere, cercando di cogliere il coraggio a due mani.
Con un respiro, alzò lo sguardo. Ma stavolta era Jude ad occultare il suo, troppo perso dietro i suoi pensieri.
Poi, improvvisamente, lo vide scostare velocemente le coperte e cercare di scendere dal letto.
“Io… io ti ringrazio davvero tanto. Sono mortificato per il disturbo, me ne vado subito.” Mosse qualche passo incerto verso la poltrona ed i vestiti, mentre Robert rimaneva sbigottito da quelle parole, impossibilitato a muoversi per l’ennesima volta.
Si era forse bevuto il cervello?
Quasi buttò il bicchiere sul comodino, rischiando di far straripare l’acqua e creare un corto cortocircuito in tutta casa, ma riuscì a bloccare Jude trattenendolo leggermente per un polso. Era maltrattato quasi ogni giorno, di sicuro non gli serviva ulteriore violenza.
“Rimani, non disturbi per niente, fidati.”

---

Gli credette quasi, quando lo vide con quello sguardo sincero fisso nel suo, ma sapeva benissimo di essere una scocciatura, un peso, se lo sentiva ripetere di continuo da diciassette anni.
“No, io… io devo andare a casa, mia madre non deve sapere che sono stato qui, non posso permettermelo e poi… se arrivo in ritardo è una gran confusione.”
“Tua madre ti punirebbe severamente, non è vero?”
No, no, aveva già visto i segni delle sue punizioni, ma non poteva dirglielo, assolutamente no. Rimase semplicemente in silenzio, sperando Robert rinunciasse alle sue intenzioni e lo lasciasse semplicemente andare a casa a prendere ciò che gli spettava di diritto per la sua orribile, orribile disobbedienza.
“Io-Noi possiamo proteggerti.”
Di nuovo, quasi gli credette.
Ma non poteva permetterselo.
Posò lo sguardo sul pavimento. Voleva andare a casa.
“Voglio solo andare a casa…” mormorò flebilmente.
“Come desideri.” Robert gli lasciò il polso, concedendogli di afferrare i suoi vestiti. “Una parola, Jude. Una parola e ti possiamo aiutare, fidati.”
No, non poteva, non poteva.
“Posso… posso usare il bagno?”
“Puoi fare quello che vuoi, a casa mia, ricordatelo sempre.”
Si chiuse in bagno e si cambiò il più velocemente possibile, ripiegando il pigiama e lasciandolo sul bordo della vasca. Quando uscì, Robert era ancora fermo nella stessa identica posizione in cui l’aveva lasciato. Si voltò appena verso di lui quando ne avvertì la presenza.
“Lasciati aiutare.” Sembrava davvero addolorato, ma non poteva provare dolore per uno come lui, era solo un fastidio che doveva scomparire il più in fretta possibile, sparire possibilmente su un altro pianeta.
“Gra-grazie di tutto.” Si mosse verso la porta e la voce di Robert lo accompagnò fino a casa.
“Ci vediamo venerdì per il progetto.”

 

 

[Che schifo, mamma mia.]
Novità: non è uscito nemmeno lentamente come lo immaginavo.
Merito la lapidazione. Per una volta che era anche più lungo del solito -.-‘’ E’ più lungo perché pieno di cose inutili, semplice, non ho reso niente di quello che dovevo rendere.
Vi lascio la ‘nuova’ tabella, che è meglio.

Lunedì: Vuole che le arredi la camera da letto, Sir?
Quando avrò ispirazione (al momento sono concentrata su questa e Camera da letto, anche se stanno diventando orrende entrambe): Mary Poppins a Lollolandia
Come sopra: Growing up together
Domenica: Boulevard of broken dreams

Canzone (che le personcine come Manu avranno di certo riconosciuto <3):
Muse – Starlight
A presto,
- J

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Capitolo 9
*** Find a way ***


9. Find a way

9 – Find a way


Hold on,
What's the rush? What's the rush? We're...
not done away
Cause I don't need to change this atmosphere we made if
you can stay one more hour
Can you stay one more hour?
You know I'm gonna find a way to let you have your way with me
You know I'm gonna find the time to catch you and,
and make you stay



Erano riusciti a conoscersi, lentamente.
Molto lentamente. Ma quantomeno Jude cominciava a sciogliere appena il ghiaccio sulla superficie del loro rapporto.
Avevano terminato il progetto con successo, la professoressa era stata contenta, avevano preso un bel voto. E allora perché Robert si stava avvicinando di nuovo al suo banco? Lo faceva sentire come un animale braccato, ogni volta, nonostante il rapporto leggermente più intimo che si era creato tra loro ed il suo sorriso costante.
Si rimpicciolì istintivamente sulla sedia, finendo per strisciare la schiena ferita contro al bordo della sedia; Robert gli arrivò di fronte appena in tempo per notare la sua smorfia di dolore.
Sembrava preoccupazione, quella nei suoi occhi, ma di certo lo aveva avvicinato per chiedergli di fargli i compiti, visto il bel voto che avevano ottenuto in storia. Anche se effettivamente avevano lavorato insieme, non era stato solo merito suo.
Prese un respiro profondo, vedendo Robert aprire la bocca.
“Se continuassi ad invitarti a casa mia accetteresti?” una semplice richiesta. Eppure gli faceva sudare freddo in un modo copioso. Deglutì, valutando i pro ed i contro e prendendosi un paio di minuti per rispondere.

***

“Puoi dire a tua madre che ancora non abbiamo finito…” tentò Robert, vedendolo terribilmente in difficoltà. Sapeva bene di avergli creato un disagio infinito, con quella richiesta, e gli dispiaceva tremendamente chiedergli di mentire a sua madre nonostante sapesse bene cosa ciò comportasse, ma doveva assolutamente trovare un modo per stargli il più vicino possibile.
Non era la sua pelle, che rischiava, ed era la sua riserva più grande.
Se fosse fallito tutto, sarebbe stato Jude a rimetterci, non lui, non la sua famiglia.
Solo e soltanto Jude. E la cosa non gli andava giù per niente.
Sospirò, passandosi una mano tra i capelli, vedendo Jude restio. Come dargli torto.
Pregò tutti i santi che conosceva perché accettasse.
Strinse appena i pugni lungo i fianchi. Se solo fosse riuscito a farlo trasferire in casa sua, lo avrebbe protetto lui da qualunque cosa. Ma era la prima, la parte più difficile, ed era ancora talmente annebbiata che non riusciva a vedere oltre il suo naso.

***

Nemmeno si accorse di quando, esattamente, iniziò a tremare. Seppe solo che improvvisamente aveva visto Robert sporgersi appena verso di lui, come pentito. Si maledisse per tutto ciò che gli faceva passare. E non riusciva nemmeno a controllare più il suo corpo, maledizione!
“Stai bene?” si era sentito chiedere, limitandosi a rispondere con un cenno della testa.
Non poteva mentire a sua madre, assolutamente non poteva. Ma d'altronde era Robert che glielo chiedeva, a lui era impossibile resistere, l’aveva scoperto a sue spese mentre facevano il progetto. Non che fosse prepotente o cose del genere, ma per lui semplicemente era impossibile resistergli quando gli sorrideva. O semplicemente lo guardava in quel modo. Quel modo che l’avrebbe spinto a regalargli la statua della libertà se solo l’avesse desiderata.
“Cosa ne dici?” lo incalzò Robert.
Jude prese un respiro talmente profondo che credeva avrebbe aspirato anche un polmone.
“Va bene.” Soffiò.

***

Si era impedito di esultare davanti a Jude – era certo che lo considerasse già gravemente malato di mente, figurarsi mettersi a saltare per una sua semplice risposta -, ma arrivato a casa nessuno gliel’aveva impedito, con il risultato di tirarsi addosso due paia d’occhi che lo fissavano stralunati.
“Uno psichiatra?” aveva sentito sua madre proporre al marito. E la cosa gli era sembrata così divertente che era scoppiato a ridere fragorosamente, ancora in piedi nell’ingresso, facendo accorrere la povera donna.
“Tu hai qualche problema. Di sicuro.” Si era fermata a qualche passo da lui, le mani sui fianchi, mentre lo osservava contorcersi sul pavimento.

---

Gli aprì la porta sorridendo, sorriso che si spense immediatamente non appena lo vide zoppicare vistosamente dentro casa.
“Cosa facciamo oggi?” Jude gli sorrise, cercando di distrarlo. Senza dubbio si era sciolto notevolmente dal loro primo incontro, ma quella rigidità di base rimaneva, impregnando le sue parole ed i suoi movimenti.
Robert rimase terribilmente serio, stringendo i pugni tanto da far sbiancare le nocche. Era arrabbiato con sé stesso, per l’ennesima volta, per non aver pensato alle conseguenze. Da bravo ragazzino viziato agiva, e cosa importava del dopo.
“Ti ha picchiato.” Non era una domanda, ne riconosceva i segni, ed ognuno di quelli gli bruciava sulla pelle come se fossero stati fatti a lui.
Jude fece una smorfia, senza smettere di sorridere. “Un piccolo screzio, niente di che.”
Una parte minima di Robert si rilassò. Forse non era tutta colpa sua, per una volta.
“Cos’è, hai dimenticato di lavarti le mani?” ringhiò.
“Di pettinarmi, in realtà.” Lo vide distogliere lo sguardo.
Neanche fosse stata colpa sua, se sua madre era una troia schizofrenica.
“Vai.” Gli diceva il suo cuore. Robert prese un bel respiro, cercando di scacciare la negatività e non agire impulsivamente, uscendo di casa di corsa e finendo a casa dell’altro a spaccare la faccia a quella che osava definire madre. Poteva essere considerato un insulto pesante, in quell’accezione. Anzi, doveva.
Provò a sorridere. Aveva già una situazione di merda a casa, il suo obiettivo era farlo stare a suo agio almeno in quel luogo.
“Vieni” gli tese la mano “andiamo di sopra.”

***

Era gentile. Così gentile che quasi gli faceva male vederlo così arrabbiato per qualcosa che era stato, dopotutto, solo colpa sua. Aveva scordato di pettinarsi, sua madre l’aveva punito. Svolgimento naturale delle cose, gli sembrava giusto.
Quando gli tese la mano, il cuore quasi gli si fermò.
Mano, aiuto.
E la stava tendendo verso di lui.
Interesse, forse affetto.
Cercando di zoppicare il meno possibile – non voleva farlo angustiare di nuovo – gli si avvicinò e poggiò la mano sulla sua, non avendo l’ardore di stringerla.
Ci pensò Robert, a quello, intrecciando le dita con le sue e guidandolo al piano di sopra.
Prima che potesse accorgersene, Jude stava ricambiando la stretta, beandosi del calore che emanava l’altro.

 

 

 

 

[Dio, un parto.]
Bello, eh? Seriamente, una meraviglia *inserire ironia qui, prego*
E la cosa divertente è che ci sono sopra da tre settimane e questo è tutto quello che sono riuscita a produrre, meraviglia delle meraviglie.
Quantomeno ho aggiornato.
Canzone (anche se immagino che tutte le… ehm… veterane del fandom abbiano riconosciuto, visto che è la stessa del video che ha dato inizio a tutto questo <3):
Safetysuit – Find a way
E se volete vedere il video ditemelo, che vi passo il link, perché davvero merita, è grazie a lui che ora sono qui <3
Con questo vi saluto, mie care.
A presto,
- J

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Capitolo 10
*** Seize the day ***


10. Seize the day

10 – Seize the day


Seize the day or die regretting the time you lost



Si arruffò i capelli con entrambe le mani.
Cristo, non riusciva a venirne a capo!
Lanciò un’occhiataccia al padre che lo fissava  in tralice da sopra la pagina della borsa.
“Non mi aiuti, così, sai?”
Per tutta risposta l’altro si strinse nelle spalle, chiudendo il giornale e ritirandosi nello studio.
Era seduto sul divano da almeno un paio d’ore. E sdraiato da almeno una e mezza. Fermo, a fissare il soffitto sperando che la soluzione gli si illuminasse nel cervello contornata da un coro angelico formato da voci di cherubini grassocci, ma niente. Nada de nada, nisba, zero.
Due ore – senza contare tutto il tempo che spendeva a scuola, in giro, a danza, ovunque, insomma – a pensare a come far trasferire Jude lì da lui. E ancora un fottutissimo niente.
“Ahhh!” si scompigliò di nuovo i capelli, ottenendo solo un’acconciatura alla afro, ma ancora nessuna idea. Vuoto assoluto.
Ruzzolò giù dal divano, schiantandosi al suolo con un tonfo e sperando che la fantomatica lampadina gli si accendesse nel cervello. Quantomeno un brillio dovuto all’impatto.
Sbuffò, faccia a faccia con il tappeto, il naso affondato tra le trame.
“Tesoro?”
“Mmmh.”
“Non annusare le fibre del tappeto, non è salutare. E poi non passo l’aspirapolvere da ieri, chissà quanti germi ci saranno lì in mezzo!” non poteva vederla, perso com’era tra le fibre puramente indiane, ma immaginò la sua espressione scioccata, con tanto di bocca spalancata e mani su di essa.
“Sopravviverò.” Mugugnò.
“Dai, caro, alzati, è sporco!”
Non si trattenne dal ridere. Sporco, certo, con una maniaca della pulizia del genere in casa, sporco era una parola esiliata persino dal dizionario.
Si convinse ad alzarsi solo quando i colpetti sul suo fianco si fecero più insistenti, tanto che temette che la punta delle scarpe di sua madre gli sarebbe penetrata fino allo stomaco.
Sbuffando fece leva sulle braccia e si alzò da terra.
“Bravo il mio bambino.” Gli sorrise Elsie, dandogli qualche colpetto sulla maglia, forse sperando di liberarlo da quegli insistenti granelli di polvere invisibili.
Le fece un mezzo sorriso, per poi sparire per le scale dopo un ultimo colpo ad altezza dell’ombelico. Si buttò a peso morto sul letto, riprendendo la posizione a quattro di spade adottata sul tappeto.
Era certo che non ne sarebbe arrivato a capo nemmeno tra un miliardo di anni.

***

“Toc toc.” Robert Senior apparve sulla soglia della stanza del figlio.
“Non mi sei utile, al momento, papà.”
Incurante delle sue parole brusche, entrò lo stesso, andando a sedersi ai piedi del letto.
“Robert, non posso fare nulla.”
Junior si voltò a pancia in su, mettendosi seduto ed incrociando le braccia sul petto, fulminandolo con un’occhiata.
“Non vuoi fare nulla, specifica.”
L’uomo sospirò, passandosi le dita tra i capelli corti e puntando lo sguardo in quello del figlio.
“Non posso.”
“Ma io li ho visti, papà!” Rob si avvicinò gattonando, infervorandosi.
“Ed io ti credo. Ma il resto del mondo no, lo sai. Sarebbe la parola di un adolescente contro quella di un adulto. E se poi Jude all’ultimo momento si rifiutasse di mostrare i segni, saresti tu a finire nei guai.”
“Ma Jude lo farà!”
“Ne sei sicuro? Gliel’hai chiesto?”
Robert Junior distolse lo sguardo, puntandolo sulle trame della trapunta.
“Lo farà.” Mugugnò, suonando alle sue stesse orecchie come un bambino di cinque anni. “Devo solo fargli capire che quello che gli fa la madre non è giusto.”
Senior rise. “Niente, insomma.”
“Bè” Rob allungò le dita sulla coperta, trovando un filo scoperto “con un altro paio di incontri…”
“Sai che è ben più difficile di così.”
“E tu non mi vuoi aiutare.”
L’uomo si pizzicò la base del naso con due dita, sospirando.
“Dovrei vedere i segni di persona, Robert. Allora si che potrò testimoniare in un tribunale.”
Robert tirò il filo fino a strapparlo. “Sarà impossibile.”

---

Jude si sedette alla scrivania, lanciando un’occhiata tanto per informarsi all’orologio.
Le cinque meno dieci del mattino.
Che novità.
Effettivamente, pensandoci bene, era da un po’ che non si svegliava così presto. Ultimamente almeno alle sei ci arrivava. E, anche se non si permetteva di pensarlo, sapeva bene di chi era il merito.
Sospirò, aprendo il libro di letteratura e provando a ripassare qualcosa su Machiavelli.

***

Un altro venerdì era arrivato.
Era un sollievo per tutta la scuola, la settimana era finita, ma per Jude significava solo una cosa: Robert. E conseguente e solita paura di non essere all’altezza.
Alzò la mano e suonò il campanello. Con il tempo, ormai, era riuscito ad impedirsi di esitare, quantomeno.
“Jude!” con un semi urlo la porta si spalancò, facendo apparire Robert in tutto il suo splendore di capelli arruffati e sorrisi splendenti.
Impossibili da non ricambiare.
“Ciao.”
“Vieni, entra.”
Emise i primi passi nell’ingresso. Incerti, ancora, come sempre.
“Mamma, c’è Jude!”
Elsie apparve dalla cucina, spazzandosi le mani su di uno strofinaccio appeso alla cintura.
“Ciao, caro.”
“Buongiorno.”
E con un sorriso scomparve di nuovo tra il profumo di cibo.
Prima che potesse rendersene conto, Robert gli prese la mano, come ormai d’abitudine, precedendolo su per le scale e trascinandoselo dietro come un fedele cagnolino.
“Cosa dobbiamo fare oggi?”
“Mmmm…” Jude frugò tra i pensieri, cercando un qualcosa che avesse a che fare con la scuola e non con le dita di Robert intrecciate alle sue. “Algebra.”
“Oddio, che schifo.”
Rise al commento dell’altro, scoprendosi a pensarla esattamente come lui.

---

Era già su di giri quando gli aveva aperto la porta, figurarsi quando l’aveva visto davvero, non attraverso lo spioncino.
Se prima il suo mondo girava attorno al venerdì perché era l’ultimo giorno di scuola – e ciò significava festa a tutto andare, partitone ad Assassin’s Creed lunghe secoli o ore in piscina -, ora vi girava attorno semplicemente per la visita di Jude.
Avevano fatto passi da gigante, quelle ultime volte, lo vedeva sempre meno rigido, meno formale, più aperto e disponibile a contatto umano. Ed era questo che gli forniva l’euforia necessaria per tirare avanti.
Si lasciò andare contro lo schienale della sedia, facendola roteare.
“Abbiamo finitoooo!” alzò le braccia al cielo, un peso in meno. Ed anche i compiti per lunedì erano andati, lo aspettava un weekend di pigrizia assoluta. “Dio ti ringrazio.” Esalò poi, accasciandosi sulla sedia.
Jude, accanto a lui, rise mentre riponeva i libri al loro posto – ci teneva a farlo, ed ormai sapevo meglio di lui cosa andasse dove – e si preparava già la cartella per il ritorno a casa.
“Bè, visto che è presto” cominciò Robert, avventurandosi su un terreno spinoso, osservando l’orologio “cosa ne dici di un gelato?”
“Se è quello al cioccolato di tua madre, volentieri.” Gli sorrise.
“No, è decisamente più buono.” Si alzò di scatto dalla sedia, stiracchiandosi come un gatto per poi tendergli di nuovo la mano. “Andiamo, ne rimarrai affascinato.”
Sorrise caldamente quando Jude balzò in piedi, afferrandola immediatamente e lasciandosi trascinare nel suo vortice.
Il problema si fece avanti quando arrivarono alla porta di casa e Robert si infilò cappello e occhiali da sole. Lo sapeva, lo sapeva. Ora doveva solo giocarsela bene.
“D-dove andiamo?” lo vide deglutire, sbiancando. Strinse i denti, non avrebbe mollato la presa.
“A prendere il gelato.”
“No, fuori… no. Non posso.”
“Si che puoi, Jude.” Robert conquistò faticosamente un contatto con i suoi occhi, stabilendo una connessione forte tra i loro sguardi.
“E se mia madre mi vede? No, non se ne parla.” Distolse lo sguardo e gli lasciò la mano, e fu quello a fargli più male di tutto.

---

Se ne pentì un secondo dopo averlo detto.
Era stato rude, cattivo.
E Robert non meritava nulla di tutto quello.
Non voleva, non voleva. Ma se poi sua madre fosse stata là fuori, pronta a scovarlo? Non voleva essere punito.
Se fosse uscito se lo sarebbe meritato – dopotutto lui e Robert avevano deciso di continuare a vedersi solo se lo scopo fosse stato fare i compiti -, ma non voleva, gli ultimi segni sulla schiena gli dolevano ancora in modo tremendo.
“Io…” rifugiò in tasca le mani tremanti, fissando il pavimento. “Io non volevo, mi dispiace.”
Sentì gli occhi inumidirsi, ma non poteva permetterselo.
Lo colpì sul petto.
“Gli uomini non piangono, Jude. Per nessun motivo al mondo.”
Un altro colpo.
“M-mi dispiace, mi dispiace…” continuò a ripeterlo come una litania, senza osare alzare lo sguardo su Robert per paura di vedere la delusione in fondo ai suoi occhi, la rabbia.
Un secondo dopo si sentì stringere, racchiuso di nuovo in quel profumo confortante.
“Non è successo niente, niente. Non provare anche solo a colpevolizzarti.” Gli sussurrò Robert all’orecchio, portandoselo contro.
“Va tutto bene.”
In quel momento, solo in quel momento, Jude si permise di perdere una lacrima.



 

[Ma ce l’ha un senso? Io lo sto ancora cercando.]
Già, alla fine sono riuscita ad aggiornare ._.
Era meglio andare a zappare, almeno sarei stata utile a qualcosa. Mi piace giusto l’ultimo pezzo, se il resto volete anche denigrarlo, fate pure ù_ù Vi basti sapere che ci sono sopra dalle tre, tipo, ed ora che ho finito e sto scrivendo le note sono quasi le sei e mezza. Ed il capitolo è una schifezza. No, ma consolante .-.
Comunque.
La canzone, questa volta, è Seize the day degli Avenged Sevenfold, che potete trovare qui (e vedete di trovarla davvero, perché è da ascoltare ù_ù Lo so, lo dico per tutte le canzoni, ma se le uso per i capitoli di una storia a cui tengo, vuol dire che tengo anche alle canzoni, no? Ok, mi defilo, che è meglio).
Santa pazienza, prima o poi un capitolo non mi farà schifo, si spera, intanto ciucciatevi questo obbrobrio -.-‘’
A presto,
- J

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Capitolo 11
*** When we collide ***


11. When we collide

11 – When we collide


When we collide we come together
If we don’t we’ll always be apart



Non poteva deluderlo.
Non doveva deluderlo.
Era stato quello il pensiero che gli aveva dato la forza per andare avanti.
Robert era sempre gentile, con lui, disponibile all’inverosimile. E tutto ciò che lui era capace di rendergli era un misero aiuto nei compiti – perché nonostante ciò che volesse dare a vedere, Robert era intelligente, e parecchio – e una risposta scortese quando lo invitava fuori per un gelato.
Non andava.
Non gli importava se sua madre fosse stata appostata dietro l’angolo, pronta ad assalirlo, a prenderlo a cinghiate o a marchiarlo a fuoco, il suo obiettivo per il momento era non deludere Robert.
Trasgredirai.
Verrai punito.
No, non poteva uscire. Non con tutti i possibili pericoli che gli si affollavano nella mente. Ultimamente provava un dolore incredibile anche con le ferite minime, non sapeva come ma la sua pelle doveva essere in un qualche modo essere diventata più sensibile e non, come sperava, abbastanza provata da riuscire ad isolare le ferite.
Però, Robert.
Strinse il tessuto della maglietta dell’altro tra le dita con tutta la sua forza.
No, no, no.
Finirà male, e lo sai.
Non puoi violare le regole.

Avrebbe accettato la punizione.
Ma sarebbe stata dolorosa.
No, glielo doveva e basta.
Incapperai in una punizione.
La bruciatura appena sopra al ginocchio bruciò come a ricordargli a cosa andava incontro.
Dolore.
Male, male, troppo male, avrebbe voluto urlare.
Strizzò gli occhi. Quella voce nella sua testa gli impediva di pensare in modo coerente. Strinse i denti per le fitte che gli dava la gamba.
Le lacrime continuavano a scendere copiose, come se quell’avventuriera di poco prima avesse dato il via ad una scia di sfogo che non aveva da anni. E mai si era sentito così al sicuro.
Non voleva uscire, non voleva uscire, sarebbe stato disubbidiente, avrebbe sofferto per altro dolore meritato che gli sarebbe stato inflitto. Non voleva uscire. Non voleva nemmeno provare, a rischiare. Non voleva uscire.
Jude, glielo devi.
Basta, basta, non sapeva più a chi dare ascolto, sembrava che nella sua testa parlassero in mille; voci proveniente da vecchi ricordi, voci che gli dicevano cosa fare, cosa non fare, spezzoni inutili di cose passate. Tutto si mescolava in un vortice confuso.
Poi, una voce si levò sopra le altre, risvegliandolo dallo stato pietoso in cui era caduto, in quel tunnel senza uscita.
“Va tutto bene. Ti proteggo io. Va tutto bene.”
Robert.
Una voce amica che gli prometteva sicurezza, calore, affetto, protezione, e qualunque cosa di buono ci fosse al mondo.
Ma non capiva perché, lui aveva già tutto quello.
“Va tutto bene.”
Ed improvvisamente, le voci non parlarono più ed il tremolio che lo scuoteva si fermò, come sospeso nel tempo.

---

Continuò a tenerlo stretto finchè non smise di tremare, aggrappato con tutte le forze alla sua maglietta.
“Andiamo, ci sarà sicuramente del gelato avanzato in freezer, mia madre ne fa sempre quantità industriali quando il venerdì si avvicina.” Gli sorrise, quando alzò la testa. “Ormai sa bene quanto ti piaccia il suo gelato.”
“No, usciamo.” Si liberò gentilmente dall’abbraccio, asciugandosi gli occhi malamente con i palmi delle mani.
Robert lo guardò sorpreso, inclinando leggermente la testa come se ciò servisse a fargli comprendere cosa passava per la testa di quel ragazzo prima tanto debole tra le sue braccia ed ora come animato da un nuovo fuoco nelle vene. Incatenò lo sguardo al suo. Una nuova luce gli infiammava gli occhi, ma non capiva.
Lo scrutò in profondità. Fin dove gli riusciva, quantomeno, aveva qualcosa che lo bloccava pochi livelli sotto la superficie. Molto probabilmente lo spettro di sua madre che incombeva su ogni singolo secondo della sua vita.
Per la terza volta quel giorno, gli tese la mano.
Non c’era bisogno di parole, non in quel momento.

***

Ancora non capiva cosa gli passasse per la testa, e questo lo mandava letteralmente fuori.
Aveva ripreso a tremare leggermente, appena fuori di casa, non avevano nemmeno mosso un passo in strada, si erano fermati ai piedi degli scalini fuori dalla porta.
Jude non era riuscito a guardarlo in faccia, come impegnato a studiare l’acciottolato, ma gli aveva stretto forte la mano, e ciò gli bastava.
Gli si era affiancato, intrecciando più saldamente le loro dita e muovendo qualche passo incerto verso il gelataio all’angolo. Poi, improvvisamente colpito da un pensiero, si immobilizzò.
“Jude.” Ancora non lo guardava in viso, non voleva mostrargli quanto era combattuto, sapeva bene che per lui uscire a prendere un gelato era già un divieto, figurarsi farlo con un amico che non gli era concesso avere e soprattutto con una mano intrecciata alla sua.
Gli si avvicinò appena.
“Quello che stai facendo non è sbagliato.”
Si irrigidì appena nella sua stretta.
“Io… si, invece. Mia madre non vuole.”
“Non sempre gli adulti hanno ragione.”
Si spaventò appena quando Jude alzò finalmente il viso, un’espressione scura in volto.
Ecco fatto, l’ennesima cazzata.
“Mia madre si.”
Boccheggiò un paio di volte, mortificato. Sapeva bene quanto Jude tenesse alla madre, non aveva scelto per nulla le parole giuste. Fin lì ci era arrivato, lui vedeva quella donna come la voce della verità, colei che gli aveva concesso la vita, che faceva ogni cosa per il suo bene, che gli dava regole giuste, che lo puniva a fin di bene per impartirgli un’educazione equilibrata. Pensava ad essere lui il figlio sbagliato, il figlio ingrato per una donna che provava solo affetto per lui, che si donava ogni istante della sua vita per il suo solo ed unico bene. Cosa che non era mai accaduta, quella donna era solo una cagna e nulla più.
Lo sguardo di Robert si indurì per un attimo, portandolo a serrare istintivamente la mascella e la mano libera. Erano pensieri fantascientifici, quelli, ma dopo sedici anni passati in quel modo, non poteva biasimare Jude per credere ad ogni singola parola che sua madre gli dava a bere.
Ed era questo ciò di cui aveva paura, di non riuscire a distoglierlo da quei pensieri. Perché anche se fosse riuscito a farlo affezionare a lui quel tanto che bastava, il legame madre-figlio, per quanto la madre potesse essere carogna, sarebbe rimasto la cosa più salda.
Aveva paura che piuttosto che andare contro alla madre, avrebbe rotto ogni contatto tra loro. Ma c’era anche il colpo di testa di poco prima.
Aveva capito quanto era combattuto - almeno quello era riuscito a leggerlo, nel suo sguardo criptico -, era un sentimento chiaro e cristallino quasi quando i suoi stessi occhi. Eppure c’era la decisione di poco prima, non dettata solamente dal bisogno di ribellione che prima o poi prova ogni singolo adolescente – soprattutto non se questa ribellione veniva poi punita così ferocemente -, aveva sentito come se fosse stato qualcosa di più profondo. Sperava in quello; era andato contro alla madre per non dare un dispiacere a lui.
A quell’ultimo pensiero i suoi occhi si spalancarono, e la bocca formò una o perfetta.
Jude lo fissava ancora con sguardo scuro, nebuloso, ma in quel momento sapeva per certo che stava guadagnando terreno. E forse sarebbe riuscito a guadagnarne talmente tanto da riuscire a scalfire un minimo le sue convinzioni. Quel tanto che bastava per trarlo in salvo da se stesso.

***

Non si era scusato.
Gli dispiaceva da morire quel passo falso, ma non aveva intenzione di scusarsi.
“Non è un male, Jude. Cerca di capirlo.” Gli ripetè. Era una mossa azzardata – rischiava che gli si rivoltasse contro come poco prima -, ma era più forte di lui, doveva fargli capire almeno quello. Doveva, doveva.
Provò una tattica che gli era balenata in mente in quel momento, e la buttò sullo scherzo.
“Sentiamo” gli sorrise, come canzonandolo. Non poteva osare, ma se non avesse osato non sarebbero arrivati mai da nessuna parte “perché non potresti mangiare un gelato?”
“Veramente non posso uscire se non per andare a scuola. E non posso avere amici.”
“E perché, tua madre te l’ha mai spiegato?”
Lo vide distogliere lo sguardo e puntarlo lontano, perso, pensieroso.
Centro.
Gli sembrarono attimi infiniti quelli che trascorsero tra domanda e risposta.
“Effetivamente… no. Dice solo che non merito nulla.”
Era il tono leggero con cui l’aveva detto che lo faceva imbestialire. Come se lui accettasse quell’etichetta di nullità che lei gli aveva cucito addosso e anzi, fosse persino felice di portarla proprio perché era stata lei a dargliela. Un genitore. Coloro di cui ti fidi ciecamente, che non credi possano volere altro che il tuo bene. Stronzate, nella sua famiglia, solo un gigantesco mucchio di stronzate.
Respirò a fondo, ripescando la sua idea.
Ora doveva passare dal lato del diavolo tentatore.
“Allora, se non ti ha mai dato una buona ragione per non farlo… perché non farlo?” Diamine, quella frase era sembrata astrusa pure alle sue orecchie. Sperò che almeno quel poco di parte sana che era in Jude, che ancora riconosceva il giusto – perché esisteva, quella parte, era la stessa fiamma che aveva visto poco prima, ne era certo -, gliela facesse intendere. A costo di obbligarlo.
Dallo sguardo accigliato che gli rivolse, capì che un buco nel muro ora c’era.
Ed ora di nuovo se stesso, gentile, disponibile. Non poteva azzardare di più, era già un passo da gigante così, era meglio non forzare la mano, non con Jude.
“Coraggio.”
Ripresero il cammino verso il gelataio, come due bambini, mano nella mano, ma era quel tremito continuo che non dava pace a Robert. Per un attimo non l’aveva sentito, durante il suo discorso, ma non era sicuro che fosse svanito, poteva benissimo non averlo percepito solo perché troppo assorto in ciò che stava facendo. Fatto sta che era ricominciato, ed era quello ad agitargli l’anima.
Strinse la mano di Jude, affondando nelle tasche dei pantaloni ed assumendo la sua aria più rilassata. Gli servivano solo stabilità, tranquillità e un minimo di serenità, non chiedeva molto.
Lo vide arrossire appena con la punta dell’occhio, e sorrise apertamente.

***

Si ritrovarono seduti su una panchina con un gelato a testa ancora prima che se ne potessero accorgere. Era come aver percorso un chilometro in una maratona lunga infinita che rappresentava la liberazione di Jude dalle grinfie di sua madre.
Si sentiva leggero come un palloncino, quel chilometro l’aveva percorso lui tutto da solo, tenendo stretta la mano di Jude e nascondendola all’interno della tasca dei pantaloni come il tesoro da custodire che era.

 

 

 

[Bah.]
Capitolo utile quanto il cappotto quando fai il bagno.
Mi sono persa in divagazioni inutili ed il succo è
un bel niente, già.
Nemmeno commento che è meglio.
Canzone (ovviamente da ascoltare. Se poi siete depressi come me al momento – e come spesso ultimamente, non chiedetemi perché -, è una chicca): Biffy Clyro – When we collide, qui.
A presto,
- J

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Capitolo 12
*** One more cup of coffee ***


12. One more cup of coffee

12 – One more cup of coffee


One more cup of coffee ‘fore I go


Lo sapeva, lo sentiva nelle viscere ad ogni singola leccata che dava al gelato. Sapeva che sarebbe successo, perciò quando entrò in casa, trovando sua madre nell’ingresso, per la prima volta in vita sua non avvertì nemmeno quella paura così sbagliata che gli attanagliava sempre le viscere. E non si chiese nemmeno come avesse fatto, chi l’avesse tradito, perché era certo che in un momento simile non avrebbe ottenuto risposta.
A testa bassa si diresse in camera, cercando di convincersi che andare con Robert era stata la cosa giusta. “Appoggio lo zaino e arrivo subito.”
Si sorprese a pensare che non aveva bisogno di convinzioni, avrebbe rifatto la stessa cosa altre dieci volte, se fosse stato necessario per vedere quel sorriso sul volto di Robert. Il sorriso di chi è fiero, soddisfatto, pieno di un qualcosa di inesprimibile a parole che riguardasse l’altro. Ed era orgoglioso di dire che per una volta l’altro di cui essere fieri era lui. E se dieci altri gesti simili avessero comportato dieci punizioni, le avrebbe accettate.
Però. Il male.
Tornò in soggiorno, sua madre era già pronta.

---

“Robert!” il grido di sua madre arrivò chiaro alle orecchie di entrambi.
Il soggetto lasciò cadere la biro che aveva tra i denti, tendendo le orecchie a captare ogni suono.
“Cosa?” gridò di rimando.
“C’è tua sorella al telefono!”
“Allyson!” Robert si buttò letteralmente fuori dalla stanza, troppo contento anche solo per notare l’occhiata perplessa di Jude.

***

Quando tornò in camera, un sorriso che andava da un orecchio all’altro, si sedette a braccia spalancate, sapendo che doveva delle risposte.
“Chiedi tutto quello che vuoi.”
Jude si morse un labbro, sicuramente riluttante nel farsi gli affari di qualcun altro, anche se incitato.
Dopo quella che sembrò una lunga e sanguinosa battaglia interiore, finalmente si decise a parlare e anche a sorridere, a quanto pareva, notò Robert stirando le labbra, certo di aver fatto l’ennesima stronzata. Quella non era semplice riluttanza a farsi gli affari altrui, c’era di più. Dio.
“E così hai una sorella.” Annuì, serio. Jude sembrava molto a disagio, forse anche imbarazzato. Ma in modo negativo, e quella storia non gli piaceva per niente.
“Quanti anni ha?”
“Quattro più di me, venti. E’ al college.”
“Che fortuna, sarebbe piaciuto anche a me avere una sorella.”
Si vedeva lontano un miglio – o forse solo Robert lo vedeva, avendo ormai imparato ogni sua singola sfumatura sin da quando lo conosceva – che si sforzava di essere entusiasta, anche se a Robert sembrava di vedere una base di sincerità, in quelle parole.
Il silenzio permeò la stanza, entrandogli nelle ossa e facendolo sentire un fallito completo. E lui doveva essere il salvatore, la cosiddetta luce, ma prima di tutto un amico, una persona che pensasse a mettere a suo agio Jude, qualcuno che non aveva di certo mai incontrato e che avrebbe pensato solo ed esclusivamente al suo bene. Eppure quel silenzio lo accusava, gli puntava contro un dito accusatore; missione fallita.
In momenti come quello non aveva dubbi, gli veniva il desiderio prepotente di buttare tutto all’aria, urlare che non era altro che un fallito, era solo un ragazzo e già doveva occuparsi di una situazione del genere, chi glielo aveva fatto fare. Poi accadeva qualcosa. Qualcosa che spaziava da un misero lampo azzurro visto per caso ad una matita, ed altre cose altrettanto inutili, usuali, ma che c’entravano sempre in qualche modo con Jude. Era in quei momenti che si sentiva invincibile, pronto a qualunque cosa pur di proteggerlo, ma doveva ammettere a se stesso che da qualche giorno non vedeva altro che la parte oscura della cosa. Non c’erano passi avanti, quel poco che aveva ottenuto quel giorno dal gelataio era riuscito a rimangiarselo subito con piccoli gesti che – Dio, si odiava per la sua ottusità – lo costringevano a piccoli passi indietro. Piccoli, certo, ma uno dopo l’altro diventavano velocemente una distanza enorme. E non poteva permettersi di perdere terreno perché, in fatti, di terreno non ne aveva.
Si chiese più di una volta cosa avesse sbagliato, ma non ebbe il coraggio di chiedere; il silenzio pesante avrebbe premuto ancora di più sulle loro teste.
Riacquistò la sua facciata di bronzo ed il buonumore – seppur fittizio – che essa comportava d’obbligo, soprattutto se non ce n’era di base e si trovava alle prese con Jude.
Battè le mani, richiamando l’attenzione di Jude persa con lo sguardo da qualche parte sul pavimento.
Il suo azzurro – perché di suo si trattava, in tutta la sua vita non ne aveva mai visto uno simile, anche solo molto lontanamente somigliante – come sempre gli fece perdere il contatto con la realtà, incantandolo come la migliore delle fattucchiere.
“Mia madre ha fatto la granita, ti va?”
Gli avrebbe offerto il mondo, se solo avesse potuto.
Era certo di essersi appena fottuto completamente il cervello, e purtroppo credeva di avere un’idea ben definita di quale fosse la causa. Ed in quella situazione non era bene per niente.

---

Gli si mozzò il respiro, quando la ragazza prese ad avvicinarsi.
Sentì l’attacco di panico in gola, ma ultimamente ci avevano lavorato sopra, con Robert, sentiva di poterlo superare con calma ed un centinaio di respiri profondi. Gli venne da ridere, ricordandosi di quando Robert gli aveva mostrato gli esercizi di respirazione che conosceva. Era divertente in modo ridicolo. Ed era più che sicuro che l’avesse fatto apposta per farlo ridere, ormai quello sembrava essere il suo unico scopo di vita. Quello ed ucciderlo con i sorrisi che gli lanciava ogni tanto sempre e che gli mozzavano il respiro.
Fatto sta che ora anche solo il ricordo dei loro pomeriggi era riuscito a tranquillizzarlo, e non vedeva più l’avvicinarsi della ragazza come una catastrofe ambulante.
“Tu sei il ragazzo che sta sempre con Downey, vero?”
Brividi freddi gli corsero lungo la schiena. Cos’aveva fatto, cos’aveva combinato? Stava con lui, era vero, era colpevole, di qualunque cosa si trattasse.
“S-si, sono io.”
La ragazza sorrise. Certo che era bella davvero.
“Jude, giusto?”
Annuì.
“Io sono Katie.” Gli allungò la mano, che Jude strinse dopo qualche momento d’esitazione, rimanendo comunque poco convinto.
“Piacere.” Poco convinto, ma le buone maniere inglesi non gliele toglieva nessuno. Anche perché sua madre gliele aveva impresse a fuoco sulla pelle – letteralmente – quando era bambino.
“Volevo chiederti se potevi dargli questo.” Gli consegnò un foglietto, lasciò dietro di sé un ultimo sorriso, e prima che potesse controbattere la sua lunga coda di capelli scuri sparì in mezzo agli altri studenti. Sul semplice pezzetto di carta, un numero di cellulare.
Jude sentì come una colata di ghiaccio scivolargli nello stomaco. Non aveva mai provato nulla prima; era terribilmente tentato di gettare via il biglietto e fare finta di nulla. Ma lui none ra quel tipo di persona, non capiva il perché. Perché avrebbe dovuto privare una ragazza del suo sogno d’amore? Non aveva senso. Si strinse nelle spalle e si mise a guadare quella marea di studenti in cerca dell’ormai conosciuto ciuffo ribelle di Robert.

---

Sinceramente non sapeva cosa farsene, del biglietto che Jude gli aveva consegnato timidamente, dicendogli solo che apparteneva a una ragazza bellissima di nome Katie, per poi dileguarsi nel nulla così come era apparso.
Lo fissò per un paio di minuti, per poi decidersi a tenerlo. Non per uscire con la suddetta ragazza, no di certo, lui era già invischiato in qualcosa di grosso, ma quantomeno per chiamarla e comunicarle che era lusingato – soprattutto se era così bella come diceva Jude, non aveva mai disdegnato una bella ragazza, ma… - ma non poteva accettare. Se sua madre si fosse rivelata utile come sperava, quel pomeriggio avrebbe capito senza ombra di dubbio che ormai il suo cuore apparteneva a qualcun altro, gli serviva solo una conferma.

***

Non si sentiva particolarmente imbarazzato ad affrontare l’argomento. In effetti sarebbe stato impossibile raggiungere i livelli di quando suo padre l’aveva braccato in camera sua e costretto ad ascoltare un lungo ed estenuante discorso su api e fiori, cavoli e cicogne. Salvo poi rimanere palesemente deluso quando Robert l’aveva fermato a l’impollinazione, comunicandogli che sapeva già tutto. Se li spartivano a dovere, gli argomenti, perciò dopo aver conosciuto la teoria del sesso dal punto di vista del padre, era il turno di chiedere alla mamma. Aveva sempre avuto un ottimo rapporto con i genitori, su quello non c’era dubbio.
Fatto sta che era decisamente rilassato quando sua madre entrò in camera e si sedette sul letto accanto a lui, sorridendogli gentilmente.
“Avevi bisogno, tesoro?”
Robert si alzò a sedere, prestandole tutta l’attenzione di cui era capace.
“Mamma.”
Elsie lo interruppe, ridacchiando. “Mi spaventi quando cominci così seriamente, sappilo.”
Robert sorrise, lasciando cadere lo sguardo sulla coperta.
“Come hai capito di essere innamorata di papà?” rialzò immediatamente gli occhi per captare ogni singolo gesto, parola.
Elsie parve perdersi nell’alba dei tempi, picchiettandosi un indice sul mento.
“Argomento interessante, in effetti. Bè, diciamo che l’ho sentito e basta. Capisci da solo quando sei innamorato, nessuno te lo può dire.” Sorrise. “Però diciamo che ci sono alcuni segnali riconosciuti universalmente. Quando ti sembra di pendere dalle sue labbra, non riesci a togliergli gli occhi di dosso, quando lo senti nominare improvvisamente il tuo udito si affina, vorresti vivere in simbiosi con lui per qualche giorno per riuscire a conoscere tutto, dalle sue abitudini a ciò che legge, che ascolta, che guarda. Oppure, semplicemente, se quando lo vedi ti si mozza il fiato e passeresti ore a guardarlo negli occhi.”
Robert le sorrise leggermente. “Grazie.”
La donna gli scompigliò i capelli, per poi sparire in corridoio nella sua scia di profumo al gelsomino.
Si sentiva come un malato dal dottore, quanto il paziente rivelava i sintomi ed il medico trovava semplicemente una spiegazione ed un nome alla malattia.
Ecco, ora ne era certo, era andato, la sua malattia era la dipendenza da Jude.

---

“Meglio che vada, si avvicina il coprifuoco.” Aveva raccolto libri e zaino, sorridendo apertamente, per poi dirigersi verso la porta.
“Aspetta.” L’aveva fermato Robert, trattenendolo per un braccio. E come solito Jude non respirò quando quel sorriso spuntò dal nulla. “Resta per un’altra tazza di caffè.”
Rise alla citazione. “Non bevo caffè, ma per Bob questo ed altro.”
Si accorse solo più tardi, a casa, della frase altamente fraintendibile, ma dopotutto non era che la verità.
Per Bob avrebbe fatto quello ed altro.


 

 

 

[Per la serie: prima o poi ritornano – io, dal mare -. I sopravvissuti, fuck yeah.]
In effetti non ce ne sono, di sopravvissuti, se non contiamo il povero Gianni che ormai potrebbe sopravvivere anche alla bomba atomica, unico superstite da sempre.
E non ce ne sono perché li ho spremuti fino all’ultimo (spremuti, poi, sempre e solo lui, Gianni Mononeurone, il mio fedele compagno di vita) per scrivere ciò.
Ma c’è un motivo!
Come voi tutte saprete (bè, la maggior parte di voi) il compleanno di Fra la Vecchia, alias la cara velocity_girl (<3), si avvicina inesorabile come la fine del mondo, e visto che ho insistito per farle un regalo (mi sembra giusto ù_ù) ecco spiegato il perché di questo capitolo e della canzone che ha scelto lei e che io ho usato nel modo peggiore possibileche, per inciso, è One more cup of coffee di Bob Dylan (che è impossibile da trovare e quindi se volete sentirla ve la passo - gentilmente concessa a me da Fra, appunto -, gentili donzelle, che ne vale la pena, ma YouTube è contro di me DD: mi ha anche fornito lo spunto per la battuta di chiusura, non ci credevo ò_ò).
Perciò, riassumendo (è tardi ._.), il capitolo è dedicato per un 98% a quella brava personcina di Fra, per il fatto che esista, che sia sempre così gentile, che scriva delle cose così belle, che sia così simpatica, perché in queste ultime settimane ho imparato a conoscerla meglio, perché mi ha recensito TUTTI (non scherzo) i capitoli precedenti, facendosi una pera assurda (e la adoro anche per questo) e bla, bla, bla, le solite cose (che penso davvero, chiariamo), ma soprattutto perché presto compirà gli anni! *lancia stelle filanti e coriandoli*
Ti farò gli auguri quando sarà il momento, cara, che mi dicono dalla regia che farli in anticipo porta sfiga, perciò attendi e leggi, su ù_ù E voi, donnine care, ricordatevi di farglieli, mi raccomando (disse colei che se lo dimenticò per prima. Succederà sicuramente, perciò, Fra, non prendertela a male).
Comunque. Dicevamo che a Fra dedico solo il 98%. E l’altro 2%? In beneficienza?
L’altro 2% lo vorrei dedicare ad un gruppo di donnine (di cui fa parte anche la suddetta Fra, ma tu la tua dedica l’hai già avuta, perciò cuccia ù_ù) formato da Manu, Vane e perché negli ultimi giorni mi sono data alle relazioni sociali ( o/ ) - via computer, ma tant’è, è quello che passa il convento - con loro, perciò sentivo di dovere anche loro un pezzettino di dedica , ci tenevo <3 Spartitevi da brave il 2%, su, su ù_ù Al massimo chiedete un pezzettino del suo 98 a Fra, anche se non penso sia bendisposta nel concedervelo, ma provate, non si sa mai.
Ora direi che posso chiudere, le note sono quasi più lunghe del capitolo ò_ò
Adieu,
- G

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Capitolo 13
*** Bittersweet ***


13. Bittersweet

13 – Bittersweet


Bittersweet
I want you
I'm only wanting you
And I need you
I'm only needing you



Non lo vedeva a scuola da due giorni.
Due lunghi, eterni giorni. E conoscendo la sua situazione a casa nessuno l’avrebbe biasimato per quella paura che gli aveva stretto lo stomaco sin dal primo momento in cui non era passato a salutarlo all’inizio della giornata.
Venerdì. Se quel pomeriggio non si fosse presentato a casa sua, a costo di vederlo avrebbe chiamato la polizia con una scusa e condotta fino a casa sua. Avrebbe sfondato la porta, se necessario, sarebbe entrato dalla finestra.
Cristo.
Magari era solamente malato.
Conoscendo sua madre, non avrebbe acconsentito che rimanesse a casa a meno che non avesse come minimo la peste bubbonica, era necessariamente qualcosa di grave. E lui non sopportava di sentirsi così tremendamente inutile.
Osservò la lavagna senza davvero vederla, mordendosi furiosamente il labbro e sperando che le dannate etichette dell’orologio volassero sopra i numeri.
La campanella del venerdì era sempre particolarmente gioiosa, per tutti, perché annunciava un weekend libero, finalmente, ma quella che suonò quel pomeriggio gli sembrò più un coro di angeli.
Aveva la cartella pronta da almeno venti minuti, con il risultato che gli ultimi appunti – solitamente i più importanti, perché agli insegnanti sembrava sempre che gli argomenti più importanti venissero in mente solo quando mancava poco alla fine della lezione – erano solamente scritti alla lavagna e non sul suo quaderno.
Poco male, in quel momento non era la scuola la cosa più importante, di certo sarebbe riuscito a convincere qualcuno a farseli passare senza indugi.
Volò fuori dalla stanza, travolgendo qualcuno al suo passaggio, ma senza nemmeno fermarsi a chiedere scusa, in quel momento non gli interessava. Corse fuori dalla porta, saltando in un balzo i gradini e correndo a perdifiato sul prato come se non avesse un domani, rischiando più volte di perdere qualche arto lungo il percorso.
Si diede più volte dell’idiota, mentre cercava di infilare la chiave nella serratura dell’auto.
Cazzo, mancavano anche le mani che tremavano!
Doveva andare a casa sua quella mattina, se lo sentiva. O quantomeno rimanere a casa ad elaborare un piano. Ma no, lui era andato a scuola, seguendo quella vocina inutile che gli diceva che sarebbe andato tutto bene, che Jude sarebbe stato a scuola con una spiegazione banalissima per l’assenza del giorno prima.
Ma nulla andava mai tutto bene. Avrebbe dovuto capirlo, dopo tutti quegli anni.
Lanciò la borsa sui sedili posteriori, buttandosi a sedere e tirando così velocemente la cintura che temeva gli sarebbe rimasta in mano. Allacciò e partì sgommando verso casa, là avrebbe davvero deciso cosa fare, al momento aveva solo bisogno di fermarsi e ragionare. E magari anche calmarsi, pensò mentre insultava volgarmente un uomo solo perché aveva osato girare a destra come lui invece che a sinistra.
Parcheggiò alla bell’e meglio, quasi finendo sul prato – sua madre l’avrebbe come minimo castrato.
Capì di essere davvero, davvero, davvero distrutto psicologicamente solo quando cercò di buttarsi fuori dalla macchina con ancora la cintura allacciata. La slacciò con rabbia, scendendo e sbattendo lo sportello con furia, tanto che il suono rimbombò un paio di secondi tra le case eleganti ed i prati curati. Non si sarebbe stupito di averlo minimo staccato. O aver ammaccato la macchina.
Arrivò in camera alla velocità della luce, salendo i gradini due a due e chiudendosi dentro. Se qualcuno l’avesse disturbato in quel momento, avrebbe rischiato sul serio di staccargli la testa a morsi. Letteralmente. Recisa con un colpo secco.
Prese qualche respiro profondo, appese la giacca, e si sedette a gambe incrociate sul letto, tenendo il cellulare accanto e la sveglia davanti.
Le lancette scorrevano fin troppo lente.
Sua madre bussò un paio di volte senza ricevere risposta, la cosa migliore per farla andare via senza fare domande, di certo credeva si fosse addormentato.
Le tre arrivarono e passarono.
Di Jude nessuna traccia e lui si sentiva il cuore in gola ed i polmoni improvvisamente privi di aria.
Certo, ora ci mancava un attacco di panico come quelli di Jude, rise istericamente, passandosi le mani tra i capelli.
Le quattro.
Le quattro e mezza.
Le cinque.
Non avrebbe mai avuto il coraggio di ritardare così.
Scese dal letto, aprì la porta, e corse di sotto nello studio di suo padre, sperando di trovarlo.
Spalancò la porta troppo violentemente, mandandola a sbattere contro il muro, ma se ne fregò altamente.
Niente, la poltrona era vuota.
Fece dietrofront, correndo in cucina.
Vuota.
“Mamma!”
Il salotto. Nulla.
“Mamma!”
Il giardino.
“MAMMA!”
Elsie era china su un libro, pigramente abbandonata su una chaise longue accanto alla piscina. I lunghi capelli scuri erano stretti severamente solo il largo cappello di paglia.
“MAMMA!”
Alzò la testa, gli occhi nascosti da grandi occhiali scuri. Il ritratto della calma, ancora più evidente visto ciò che si agitava in lui.
“Dimmi.”
“Dov’è papà?”
“In ufficio, stasera fa tardi. Avevi bisogno?”
Quasi urlò, a quella risposta. Dio, lo sapeva, lo sapeva. Nulla andava mai nel verso giusto. Mai.
“No, non importa, grazie.”
“Chiedi a me, vedo cosa posso fare.” Rispose lei, ma quando terminò Robert era già scomparso di nuovo dentro casa.
Non aveva mai corso così tanto in vita sua, nemmeno nelle ore di ginnastica. Lui odiava ginnastica e odiava correre, ma gli sembrava questione di vita o di morte.
Recuperò le chiavi della macchina ed uscì di nuovo, sbattendosi la porta alle spalle.
Quasi fece un testacoda davanti a casa di Jude, quando arrivò.
Scese lasciando aperto lo sportello e prese a bussare violentemente alla porta, alternando con sonore scampanellate. Non gli importava che la madre di Jude lo vedesse, che lo mandasse via. Aveva tutta l’intenzione di portarlo definitivamente via di lì, avrebbe affrontato dopo le conseguenze, semplicemente non poteva ridursi in quello stato se non lo vedeva per un minimo lasso di tempo, averlo costantemente sott’occhio sarebbe stato più facile. L’avrebbe osservato costantemente, a costo di doversi accampare con un sacco a pelo nella camera degli ospiti e seguirlo anche in bagno.
Era affrettato, era sbagliato, un errore gigantesco, colossale, ma non ce la faceva più, davvero.
Gli scoppiava la testa.
E nessuno rispondeva.
“QUALCUNO MI APRA O CHIAMO LA POLIZIA.” Si mise a gridare, certo che la minaccia avrebbe funzionato se qualcuno fosse stato in casa.
Niente, la porta rimaneva desolatamente chiusa.
Non seppe trattenersi, cominciò a pensare al peggio.
Recuperò il cellulare dalla tasca e riuscì miracolosamente a comporre il numero del servizio informazioni.
“Mi metta in contatto con...” si prese un secondo per pensare, mentre la voce del centralinista lo incalzava dalla cornetta. Se si fosse fatto male, di certo sua madre l’avrebbe portato all’ospedale più piccolo, più nascosto, per evitare problemi. “…l’ospedale più piccolo nei paraggi.”
Benedì l’inventore del GPS, mentre l’uomo cercava.
Partì a tutta velocità con un indirizzo ben stampato in mente e terrore puro che gli mangiava il fegato.

---

Aprì gli occhi, venendo accecato da tutto quel bianco. Li richiuse il più in fretta possibile.
“Oh, finalmente sei sveglio. Bene, credo di poter andare, ora, i medici mi hanno costretta a rimanere almeno finchè non avessi aperto gli occhi. Se hai bisogno c’è l’infermiera, se non è troppo occupata.”
Sorrise. Si era preoccupata per lui, come sempre. Era rimasta nonostante gli innumerevoli impegni che aveva di certo.
“Grazie, mamma.”
Socchiuse appena un occhio, ma lei era già andata.
Si allungò di lato, cercando la caraffa dell’acqua, ed il dolore alla gamba gli ricordò l’incidente.
Sentì la tristezza ed il dispiacere opprimerlo.
Non avrebbe più visto Robert, sua madre sapeva. Ripensò con orrore a quando gliel’aveva confessato, risucchiandogli tutta l’aria dai polmoni.
L’aveva picchiato bene, quel pomeriggio, fin troppo. E non poteva biasimarla, sapeva dall’inizio che era sbagliato frequentarlo, eppure era andato avanti testardamente a vederlo. Se l’era cercata, niente di meno.
Gli aveva rotto una gamba.
Un prezzo minuscolo, per un errore così grande. Senza poi contare il peso che era stato portarlo all’ospedale ed ora il ricovero, la vigilanza costante che, era certo, sua madre gli aveva tenuto mentre dormiva. E, a giudicare dall’orologio attaccato alla parete e dal buio oltre la finestra, doveva essere stato incosciente almeno un giorno. Troppi antidolorifici. Era certo che sua madre l’avesse fatto a fin di bene per fargli provare meno dolore, ma purtroppo aveva di certo sbagliato la dose.
Si rattristò pensando a lei seduta là ad aspettare che aprisse gli occhi. Da sola, annoiata.
Era solo un peso, e lei era così buona, gli voleva così bene.
Si appuntò mentalmente di scusarsi, quando fosse tornata. E ringraziarla di nuovo per le cure.
Bevve avidamente, ritornando a posto sempre con qualche gemito causato dalla gamba. Gli faceva un male pazzesco.
Mentre si risistemava sui cuscini, un pensiero orribile lo inchiodò. Lo avevano visitato, lo avevano spogliato.
Avevano visto i segni.
Terrorizzato, provò a calmarsi pensando che di certo sua madre aveva spiegato ogni cosa. Avrebbe dovuto chiederle anche cosa avrebbe dovuto confermare ai dottori, in caso, quando sarebbe tornata. Se fosse tornata, era sempre così impegnata.
Si guardò intorno, cercando un qualcosa per passarsi il tempo.
Poi tra i pensieri si infilò poco galantemente anche lui, sgusciando qui e là. Dopo la punizione non era riuscito a pensare a nulla, accecato dal dolore, ma avrebbe dovuto trovare al più presto una scusa per Robert. Un motivo che giustificasse il perché in futuro non si sarebbero più visti nemmeno per sbaglio.
Gli sarebbe mancato tanto, ne era certo, lui, i suoi grandi occhi scuri, i suoi capelli scompigliati. Ridacchiò appena, vedendoselo perfettamente davanti, aperto in uno di quei sorrisi letali.
L’aveva deluso. E non l’avrebbe rivisto mai più.
Mentre si stendeva per provare a dormire ancora un poco, si sentì infinitamente triste.
Chiuse gli occhi, dicendo addio ad un pezzo del suo cuore.


 

 

 

[Mah.]
Volevo scrivere ed ho scritto nonostante abbia cominciato tipo all’una.
E si vede, direi, Madonna santa che schifezza.
Bè, intanto si avvicina la grande svolta muahahahahahahahahahahaha.
E… ah, la canzone è Bittersweet – Apocalyptica ft. Ville Valo & Lauri Ylonen, una meraviglia, ascoltatela, ve lo ordino *A*
Poi direi basta così, stasera sono di poche parole, all’alba delle due vado a dormire.
- G

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Capitolo 14
*** Goodnight, travel well ***


14. Goodnight, travel well

14 – Goodnight, travel well


And all that stands between the souls release ?
This temporary flesh and bone
We know that it's over now


La pioggia scendeva torrenziale da nuvole nere come il petrolio, il vento soffiava forte, ululando tra le foglie dell’albero che vedeva fuori dalla finestra.
Buffo come il tempo rispecchiasse il suo umore, per una volta. Da bambino, le prime volte che sua madre lo picchiava, quando desiderava di morire, c’erano volte in cui pregava almeno per una buona tempesta. Sperava si scatenasse così potente da rimbombargli nel cervello e spegnergli a forza i pensieri, le lacrime, il desiderio di morte che gli assorbiva mente e corpo. Ed ora eccolo lì, semplice. Si preparava forse la tempesta migliore degli ultimi anni, a giudicare dal nero minaccioso che incombeva sulla città.
Sua madre non era tornata a trovarlo, ma non era quello il problema. Era impegnata, non si aspettava una sua visita, nulla di nuovo, no.
La cosa che lo infastidiva al momento era se stesso, in effetti, come da diciassette anni a quella parte. Lo tormentava quel desiderio che gli scivolava tra neurone e neurone da ormai qualche giorno - più o meno da quando era stato ricoverato, in effetti – ed era la speranza che Robert si facesse vivo. Anche solo per un secondo, per insultarlo, picchiarlo, quello che voleva. Sognava solo una possibilità di spiegargli i motivi che avrebbero portato al loro distacco totale in un futuro ormai schifosamente prossimo. E si odiava perché continuava a desiderarlo quando sapeva bene che Robert non sarebbe passato, aveva di meglio da fare e quasi sicuramente nemmeno sapeva che fosse in ospedale.
Ecco, appunto, non sa che sei in ospedale, altrimenti figurati se non passerebbe.
Dio, quella voce. Lo stesso tono derisorio che continuava a ripetere le stesse cose piene di speranza nonostante avesse più volte cercato di sopprimerlo. Le speranze non esistevano per le persone come lui che semplicemente non le meritavano.

---

Aveva girato circa dodici ospedali, eppure non vi era traccia di un paziente di nome Jude Law. Ed era più che certo che non ci fossero errori, Jude non era poi un nome così comune. Probabilmente il suo Jude era l’unico Jude della città se non dell’intero Paese.
Si risedette in macchina, lasciandosi andare contro il sedile del guidatore. Cazzo, se c’era qualcosa che non mancava in quella città del cavolo erano gli ospedali.
Ne rimanevano otto. Solo otto fottuti ospedali. E se non l’avesse trovato? E se quella puttana – perché di una puttana si trattava, non aveva intenzione di addolcire i toni, per niente – della madre avesse fornito un nome falso?
Dannazione.
Ed ora ci si era messo anche il tempo, a rompergli le palle. Era zuppo, ma al momento non c’era cosa che gli fregasse di meno.
Prese a sberle il volante, anche se in effetti avrebbe preferito prendere a sberle se stesso. Era una persona inutile. Completamente. E se c’era una cosa che odiava era proprio non essere di nessun aiuto, diamine.
Mise in moto.
Otto ospedali.

***

“Scusi, può ripetere?”
“Stanza 221.” Sillabò l’infermiera, come se stesse parlando ad un idiota. Beh, in effetti al momento ci andava parecchio vicino. “Sicuro di stare bene?”
“Mai stato meglio, grazie.”
Aveva corso per tre piani, prima di pensare anche solo a dare un senso logico alla cosa. Si fermò al centro del corridoio, guardando i numeri sulle stanze.
413.
Cazzo, era sul piano sbagliato.
Rifece la strada al contrario, fermandosi a quello giusto, stavolta.
Trovò la 221 in un batter d’occhio e ne spinse la porta lentamente, terrorizzato da cosa avrebbe potuto trovarci dietro.
La prima cosa che vide fu la gamba ingessata. Strinse i pugni, continuando nella sua esplorazione e salendo con gli occhi verso il viso del ragazzo.
Gli occhi. I suoi.
“Grazie a Dio.” Lo abbracciò, fregandosene altamente.

---

Un miraggio.
Era stato questo quello a cui aveva pensato appena quella massa disordinata di capelli corvini gli era capitata nel campo visivo.
Una visione.
Stava sognando.
La seconda cosa a cui aveva pensato, immediatamente dopo, era “E’ zuppo, Cristo santo”.
Poi però lui l’aveva abbracciato e gli era venuto naturale ricambiare, respirando a pieni polmoni direttamente dalla sua pelle.
Forse anche i desideri dei ragazzi cattivi si avveravano, ma era sempre meglio non sperarci troppo.

---

Robert Senior entrò nella stanza come una furia, anche se l’espressione euforica lo smentiva.
Adocchiò il figlio – sapeva di trovarlo là; da quando aveva scoperto dove era ricoverato Jude era perennemente in ospedale -, seduto come sempre a lato del letto. Un libro tra le mani e un’espressione di sforzo immane, cercava di sostenere la testa e impedirle di ciondolare dal sonno.
Era distrutto e si vedeva, ma non aveva la minima intenzione di riposare.
Non finchè era con Jude, quantomeno, il suo nuovo ed unico scopo era tenerlo d’occhio.
Quasi non si accorse dell’entrata del padre, nonostante il baccano, ma sobbalzò sulla sedia quando l’uomo pronunciò le parole che non avrebbe mai voluto sentire in presenza di Jude.
“Maggie è in prigione.”
Controllò che Jude dormisse, lanciò un’occhiataccia al padre, e lo trascinò in corridoio. Lasciò la porta appena socchiusa e si posizionò in modo da vedere perfettamente il letto all’interno.
“Bè, le congratulazioni?”
“Prima voglio i dettagli.”
“Chiedi pure.” Il Robert anziano si sedette su una delle sedie di plastica lì accanto, appoggiando i gomiti sulle ginocchia e sorridendo come un invasato.
“Quando è successo?”
“Quando Jude è stato ricoverato, i medici hanno denunciato quelle decine di segni che hanno trovato sul suo corpo. Troppi per essere casuali, è stata la giustificazione. Hanno aperto un fascicolo in tribunale, l’ho scoperto per caso, ma era stato messo da parte per mancanza di prove. Ho sguinzagliato il miglior investigatore privato della città dietro a Maggie ed ho trovato il nome del suo nuovo fidanzato. Mi sono presentato a casa sua, gli ho chiesto cosa sapeva – rimarresti sorpreso anche tu nel sapere quante cose ha spiattellato -, ho provato ad intimidirlo – sai che mi riesce bene – e lui ha acconsentito a testimoniare ieri in tribunale. Considerando l’aggravante della gamba rotta, dei lividi e delle bruciature, ha guadagnato tre anni in cella. Voilà.”
Robert si lasciò andare appena contro lo stipite, sospirando. “E’ finita davvero. Ma cosa faremo quando uscirà?”
Senior si alzò in piedi, senza smettere un secondo di sorridere, e lo strinse in un abbraccio.
“Ci penseremo a tempo debito, ma di sicuro vedremo di farle avere un divieto di avvicinamento parecchio severo. Non è meraviglioso?”
“Troppo. Ora bisogna solo spiegare a Jude che quello che gli ha fatto sua madre per tutti questi anni non era necessario né tantomeno meritato.” Sospirò nel cappotto del padre, chiudendo gli occhi per un attimo. Dio, era finita sul serio, si sentiva come se un macigno gigantesco gli si fosse appena sollevato dalle spalle.
“Ho la chiave di casa, vado a prendere la roba di Jude e la sposto nella stanza degli ospiti.”
L’uomo si dileguò nel corridoio e Robert ritornò nella stanza. Jude dormiva ancora profondamente, anche se ogni tanto si agitava per il male alla gamba. Si morse un labbro, vedendo una smorfia di dolore nascergli sul viso, e si chiese come avrebbe fatto a fargli capire quello che doveva.
Ritornò alla sua sedia, il sonno completamente evaporato. Era dannatamente preoccupato per la reazione di Jude alla notizia, ma contemporaneamente euforico in un modo incontrollabile. L’avrebbe tenuto al sicuro lui, da quel momento, l’incubo era finito.
Jude aprì gli occhi improvvisamente, ansimando appena.
“Ehi. Tutto ok?”
L’altro si affrettò a sorridergli, mentre rincorreva il respiro. “Benissimo, grazie.”
Robert si permise solo in quel momento di imitarlo e aprirsi in un sorriso che andava da un orecchio all’altro. Aveva una voglia matta di saltare, urlare, festeggiare. E l’avrebbe fatto, a tempo debito. Con Jude.
Aspettò che riprendesse coscienza della realtà e recuperasse il fiato, dopodichè gli porse un bicchiere d’acqua e lo aiutò a sistemare i cuscini. Si sedette sul bordo del letto, serio tutt’a un tratto .
“Ho una notizia.”
Jude invece non accennava a voler spegnere la luce del suo sorriso. “Dimmi.”

---

Non gli aveva nemmeno chiesto se fosse una notizia bella o brutta, non ne sentiva la necessità, da Robert avrebbe accettato entrambe.
La bocca si stese in una linea, improvvisamente. A meno che non gli dicesse che non lo voleva più vedere. Dopotutto avrebbe poi anticipato le cose solo di qualche giorno, glielo voleva dire lui stesso, ma gli sembrava di non trovare mai il momento adatto. Lui era sempre là, così gentile, cortese, disponibile in un modo nemmeno lontanamente immaginabile.
“Bè, ecco…” Robert aveva preso a giocherellare con le sue dita, facendogli sentire un improvviso calore alle falangi, come se fosse troppo vicino ad una fiamma. Non gli dispiaceva. Proprio affatto. Sperò terribilmente che continuasse in eterno.
Quando poi puntò lo sguardo nel suo – gli occhi scuri carichi di… dispiacere? Felicità? Sentimenti contrastanti -, non capì più nulla.
“Jude. Tua madre è stata arrestata.”
No, doveva aver capito male.
“Come, scusa?”
L’altro abbassò lo sguardo e gli lasciò la mano, facendogli sentire improvvisamente un freddo glaciale tutto intorno.
 “Tua madre… è in prigione.”
“Che cosa significa? Perché?” si sporse sul letto, avvicinandosi inconsciamente. Non capiva.

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Dio, quanto era difficile.
Provò ad afferrare il coraggio a due mani, nonostante continuasse a scivolargli da qualche parte tra il cuore ed il cervello, dopodichè riportò lo sguardo nel suo, credendo per un attimo che fosse un pezzo di cielo.
“Ti ha picchiato, Jude. Per diciassette anni. Questo è reato. Grave.”
Di nuovo intuì in anticipo la sua reazione. Vide che cominciava a tremare, aprendo e chiudendo la bocca senza emettere un suono. Gli occhi erano spalancati ed il fiato era di nuovo corto. Attacco di panico.
Si avvicinò immediatamente, pronto a combattere, se necessario, per lasciare che lo stringesse e tranquillizzasse, ma incredibilmente Jude non lo respinse. Lo strinse invece così forte che temette gli si sarebbe rotto un braccio, visto quanto era sottile.
Quella volta era pronto, dopo il primo attacco – che ora sembrava lontano anni luce - si era documentato. Avevano lavorato molto, negli ultimi tempi, su quegli attacchi, e Jude aveva praticamente imparato a tenerli a bada da solo, ma ora voleva esserci e tranquillizzarlo, anticipandogli un minimo di quella sicurezza e protezione che gli avrebbe donato, se glielo avrebbe permesso, per il resto dei suoi giorni.
Si calmò molto in fretta, considerando l’entità della notizia, ma Robert non aveva intenzione di lasciarlo finchè non glielo avesse chiesto lui espressamente.

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Stava bene in quell’abbraccio. C’era calore, c’era sicurezza.
Mamma è in prigione.
Senza di lei sarebbe finito, se lo sentiva, nonostante Robert fosse là, presente. Chi si sarebbe preso cura di lui? Vedeva solo un enorme buco nero, davanti a sé.
Poi alzò una mano e la portò tra i capelli di Robert. Era reale.
Davanti a sé c’era lui, fermo poco prima dell’imboccatura di quel tunnel nero come la notte.
Robert si sarebbe preso cura di lui.
Era un pensiero egoista, non si meritava nessuno, era una palla al piede ed ora aveva preso in mezzo anche qualcuno a cui teneva enormemente, sua madre non c’era più e- oddio.
Rafforzò la presa.
Però sentiva che sarebbe stato così, Robert non gli avrebbe permesso di cadere.

 

 

 



 

[Chi non muore si rivede, diceva quello.]
Si.
Già.
Che schifo.
Canzone: The Killers – Goodnight, travel well.
- G

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