Boulevard
of broken dreams
1
– O’children
Vide la mamma avvicinarsi, come sempre, tenendo fra le
dita una delle sue sigarette alla menta.
Sospirò rassegnato, osservando i cocci di vetro a terra. Non aveva fatto
apposta a rompere il vaso, ma lei non lo avrebbe ascoltato, come tutte le altre
volte.
Alzò la maglietta, vedendo la donna a pochi passi da lui.
Se la portò sulla testa. Dopo tutti quegli anni aveva capito come nasconderle
le lacrime ed evitare così la doppia punizione.
Si morse il labbro quando, dallo specchio, la vide allungare la mano. Portò la
maglia a coprirgli completamente il viso. Era pronto. Quella volta sarebbe
riuscito a non urlare e forse anche a non piangere.
Sussultò violentemente quando la mano di sua madre, dalle unghie laccate, gli
strinse il fianco per impedirgli di muoversi.
E poi lo sentì.
Il fuoco gli bruciava la schiena, penetrandogli nelle viscere e portandogli via
gli ultimi residui dell’infanzia come una colata di lava distruttiva.
Si morse a sangue il labbro, già costellato di cicatrici. Non doveva urlare.
Non doveva assolutamente.
Gli sembrò che quella tortura durasse secoli, ma finalmente quella mano gli
abbandonò il fianco, lasciandolo libero di fuggire in camera. Non si preoccupò
nemmeno di abbassare la maglietta, permise a malapena agli occhi di sbirciare
dal bordo del colletto per evitare di rompere qualcos’altro ed ottenere una
nuova punizione. La sua schiena ne era già costellata a colpa della sua
maledettissima goffaggine.
Chiuse la porta della stanza alle sue spalle e si sfilò lentamente la maglia,
rabbrividendo dal dolore quando il tessuto ruvido gli sfiorò il livido fresco
appena dietro la spalla, dove nessuno poteva notarlo per sbaglio. Li sceglieva
bene i posti dove ferirlo. La schiena in particolare era la zona preferita, ma
quando combinava qualcosa di grosso poteva arrivare a ferirlo anche sulle
braccia, le gambe – l’inguine particolarmente, diceva che poteva sentire meglio
il dolore in un posto tanto delicato -, il busto. Un paio di volte in viso,
costringendolo ad inventarsi una caduta dalle scale particolarmente violenta.
Ma le sue punizioni preferite rimanevano sempre le bruciature di sigaretta. O
sigaro. O qualunque cosa infuocata.
Si portò davanti allo specchio come ogni volta che lo feriva alla schiena, a
fare la stima dei danni.
Quasi non sentiva nemmeno più il dolore atroce che aveva provato la prima
volta. Talmente intenso da fargli desiderare di morire.
A otto anni.
Trovò la nuova bruciatura, rosso ardente, sotto alla scapola destra, lontana un
paio di centimetri da quella di sigaro risalente ad un paio di settimane prima,
quando aveva sporcato il tappetino d’ingresso di fango.
Era stata una giornata orribile, quella. Aveva piovuto ininterrottamente per
quasi due giorni e a scuola i compagni gli avevano rubato le scarpe di
ricambio, così che, giunto a casa bagnato fradicio – “Un po’ d’acqua non ti
farà certo male.” Gli aveva risposto sua madre la prima ed unica volta che le
aveva chiesto un ombrello – e pieno di fango fino nei capelli, non aveva potuto
indossare le scarpe pulite per entrare in casa.
Aveva provato ad entrare in punta di piedi, muovendosi il meno velocemente
possibile per evitare che anche una minuscola goccia di fango cadesse sul
pavimento immacolato.
Ma la fortuna non era dalla sua parte.
La cagnetta di sua madre era sbucata all’improvviso, azzannandogli come solito
il polpaccio e facendolo inciampare e finire lungo disteso.
Aveva avuto paura persino a muoversi ed era rimasto fermo là, tremando come una
foglia, finchè sua madre ed il suo nuovo fidanzato – “E’ molto ricco, tesoro.
Cosa ne dici di chiamarlo papà?” – non erano accorsi.
Il sigaro di lui – forse il più grosso che avesse mai visto – gli era penetrato
a fondo nella pelle, facendolo gridare come non mai.
Ma fortunatamente era riuscito a non piangere. Se solo sua madre si fosse
accorta di una lacrima, per quanto piccola e ben nascosta, le bruciature
sarebbero moltiplicate immediatamente.
“La vita fa schifo, Jude. Devi imparare a sopportare il dolore, gli uomini non
piangono.” Lo ammoniva ogni volta, prima di lasciargli un nuovo segno.
Sgattaiolò in bagno e si chiuse a chiave, pregando che sua madre non lo avesse
visto.
Non voleva – e a ragione - che andasse in giro senza maglia, chiunque avrebbe
potuto vederlo. Notare le cicatrici, i lividi, le bruciature che aveva sul
corpo.
Strappò un paio di pezzetti di carta igienica e li bagnò sotto al rubinetto.
Torse leggermente il busto fino a riuscire ad osservare il punto ferito nello
specchio a figura intera appeso alla porta. Allungò il braccio il più
possibile, arrivando a sfiorare con la pezza bagnata la bruciatura fresca.
Strizzò gli occhi.
Non era doloroso come appena fatto, ma non era nemmeno piacevole.
La inumidì completamente, dopodiché gettò i residui di carta nel water e tirò
lo sciacquone.
Rinfilò la maglia, di nuovo cercando di non sfiorare la ferita fresca e
serrando gli occhi dal dolore quando invece il tessuto, quasi beffandosi delle
sue paure, gli strisciò pesantemente sulla bruciatura.
Sapeva di meritarsi ogni singola
punizione, ma diamine, quanto faceva male.
Aprì lentamente la porta del bagno, tentennando, sperando che sua madre non
fosse appostata lì fuori, testimone oculare del fatto che avesse percorso il
corridoio a petto nudo e quindi pronta ad un nuovo rimprovero. Per una volta,
la fortuna lo strinse tra le sue braccia effimere, mostrandogli una via di fuga
completamente libera.
Ritornò in camera, chiudendosi la porta alle spalle.
Si guardò attorno, in cerca di un modo per passare il tempo quantomeno fino a
lunedì, fino al suo ritorno a scuola. I compiti li aveva fatti quella mattina,
quando si era svegliato, qualche minuto prima del sorgere del sole. La notte
soffriva di incubi tremendi, non appena riusciva a svegliarsi fuggiva dal
letto, da quella stretta che rappresentavano i lenzuoli e le coperte. Aveva
paura del giorno in cui non si sarebbe risvegliato da quegli incubi che gli
facevano trattenere il fiato, che gli impedivano di riaprire gli occhi.
Trovò il libro che aveva preso in prestito dalla biblioteca tra il diario ed il
quaderno di matematica, nascosto perché sua madre non lo vedesse e, in un
impeto di pazzia, lo gettasse nel cestino. Lo estrasse dal suo rifugio,
cercando di non far crollare i libri sopra al diario e ritornò con la mente al
mattino precedente, in cerca del segno.
Pagina 112.
Lo aprì e provò a stendersi sul letto, ma rimanere sdraiato di schiena in
quella condizione era una cosa impossibile e si voltò di pancia.
Riuscì a leggere appena un paio di pagine prima di sentire la porta della
stanza di sua madre sbattere e le molle del letto cigolare sotto il suo peso.
Doveva essere arrivato il suo fidanzato.
Sospirando rassegnato chiuse il libro – pagina 115, cercò di tenere a mente – e
lo mise di lato, portando le mani a coprirsi le orecchie. L’ultima volta aveva
sentito ogni cosa e le urla di piacere di sua madre erano il ricordo che nessun
bambino vorrebbe avere.
Prese a fissare l’orologio sul comodino, seguendo con lo sguardo il ticchettare
della lancetta dei secondi, sperando che girasse più in fretta.
Spazio
autrice:
Una nuova long, già ._.
Aspettate almeno il prossimo capitolo, prima di uccidermi per averne cominciata
un’altra, per favore T____T
Comunque *mette le mani avanti, in caso* ho già un paio di capitoli pronti ed
un’ispirazione folle, perciò spero di non farvi dannare per gli aggiornamenti
e, per dimostrare il fatto che vengo in pace, a breve arriverà anche un nuovo
capitolo di Lollolandia, perciò risparmiatemi, grazie ù_ù
Dimenticavo: il titolo della fic è preso – come immagino tutte saprete – dalla
canzone dei Green Day, anche se la versione che ho usato e che, siete pregate
di non etichettarmi come eretica, mi piace di più, è quella dei Gregorian;
mentre il titolo del capitolo è preso dall’omonima canzone di Nick Cave,
presente anche in Harry Potter. Se riuscite ascoltatevele entrambe, meritano *O*
Direi che ho detto tutto ù_ù
A presto.
-J