LoveInDisguise; IRON

di Sintesi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** » Prologo; ***
Capitolo 2: *** » 1 Le ali di una farfalla; ***
Capitolo 3: *** » 2 Sono un assassino; ***
Capitolo 4: *** » 3 Mani gelide; ***



Capitolo 1
*** » Prologo; ***


Prologo.
 
Rabbia.
 C'è odore di rabbia nell'aria. Il vento la trascina nel cuore di ogni persona. È come ossigeno cattivo che pur di infilarsi dentro di noi spinge con tutte le sue forze verso la meta.
Mi fanno schifo i miei simili.
Non riescono a percepire tutto questo, ma io sì. Io riesco a toccare tutta questa furia, questo terrore.
Fa veramente freddo fuori. L'estate fa paura se guardando il cielo vedi cadere la neve.
Allungando una mano la sento sui polpastrelli, mi cade sul naso che il cappuccio non copre, scivola sulle mie guance e mi fa piangere.
La neve è la mia personale maschera per sembrare esattamente uguale agli altri.
Osservo la gente fuori e non mi sembra vero di essere uno di loro.
Ma è davvero così?
Con il pollice mi tocco la punta delle altre dita. Non sento la pelle che sfioro. La incido con l'unghia del dito opponibile e ci scopro sotto milioni di fili. Metallo lucido e gelido, che la neve tocca con un soffio leggero.
Ecco, si, mi ricordo. Tu baciavi come se avessi della neve in bocca.
Eri gelida. Le tue labbra quasi non venivano a contatto con le mie quando le avvicinavamo tra di loro.
Perché?
Oh, lo so. Non dovrei pormi domande stupide, ma è davvero difficile per me eliminare i ricordi, sono ancorati dentro il mio bios.
Una macchina non può provare emozioni, vero?
Ma quando tu mi hai preso per mano, quando mi hai guardato così a lungo da fotografarmi ogni respiro, quando mi hai detto, dolcemente: "Ti amo, Iron", in quel momento … oddio, non mi serviva la mia maschera di neve per versare calde lacrime di gioia e paura.

 
 

 
Siete mai stati innamorati?
Innamorati come … come se tutto quello che riguarda ciò che amate vi mozzasse il respiro e la felicità vi costringesse a sorridere con tutto il viso e non solo con le labbra?
Se avete provato questa sensazione, allora vi prego, spiegatemi com'è.
Perché io l'amore non l'ho mai conosciuto.

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Capitolo 2
*** » 1 Le ali di una farfalla; ***


Capitolo 1; Le ali di una farfalla.

"Prego inserire chiave di lettura" gracchiò il computer e sul suo sottilissimo mega schermo comparirono strani numeri digitati in una sequenza misteriosa, come dei riti di qualche formula magica.
Chi li digitava con tanta cura era un anziano signore sui sessant'anni, brizzolato e molto alto. Nonostante l'età era ancora di bell'aspetto: i capelli nascevano neri sulla sua testa, e andavano via via schiarendosi fino ad adagiarsi sulle spalle squadrate, dritte. Aveva un collo sottile che teneva tirato in una smorfia di ansia, la mascella ben definita coperta da una leggera barba, che gli circondava le labbra rosee e carnose. Si tirava su spesso gli occhiali sul naso aquilino, quasi come un tic nervoso. Aveva uno sguardo profondo e deciso, forse rafforzato dal vivido color verde delle iridi. Era magro, il suo respiro era forzatamente calmo.
Improvvisamente smise di pigiare i tasti sulla tastiera e restò immobile per un secondo.
"Dati inseriti correttamente. Inizio procedura di formattazione"
L'uomo abbassò gli occhi e si guardò le mani. Tremavano come non mai.
Sorrise, ripetendo il solito tic nervoso. Agguantò una tazzina di caffè ormai freddo vicino a lui e bevve un lungo sorso.
"Accidenti, ce l'hai fatta George!" esclamò parlando da solo, "ce l'hai fatta veramente!"
Il suo sorriso si allargò e si mise addirittura a volteggiare sulla sedia girevole. Si diede una spinta con le mani sul tavolo e si portò a fianco di un lettino da ospedale, su cui sopra era adagiata una figura coperta da un telo nero.
"Mio caro Iron, presto sarai pronto … il sogno della mia vita sta per coronarsi!"
Sghignazzò, fregandosi le mani sudate. Si tirò di nuovo su gli occhiali e scoprì il telo, che rivelò un robot dalle fattezze umane.
Il suo corpo era formato da fili che ricordavano molto vene ed arterie, e la sua armatura era lucida e fatta di acciaio inossidabile e plastica molto leggera.
Il dottor Mcgrant prese la mano del suo paziente e la strinse fra le sue. Regalò a quell'ammasso di circuiti e placche di metallo il suo calore, mentre lo guardava ostinatamente negli occhi chiusi.
"Certo che sei venuto fuori proprio bene, Iron …" sussurrò, sfiorandogli uno zigomo con il dorso della mano. La fede che portava al dito si rifletté sul suo viso scolpito, illuminandolo.
Ci erano voluti anni per portare a termine la sua creazione. Investimenti, rinunce, sconfitte … Mcgrant non aveva avuto vita facile in quegli anni. Ma alla fine ce l'aveva fatta.
Giocherellò con l'indice sulle labbra bianche di Iron, seguendone le linee sinuose e smussate.
Pensare che era fatto di acciaio e plastica lo faceva quasi intristire. Era così bello, così curato. Così umano.
Iron, seppur non fosse costruito in ferro, aveva ricevuto quel nome perché la sua pronuncia ricordava al dottore uno di quegli uccelli altissimi e fantastici che vedeva volare da bambino nell'immenso lago vicino a casa sua.
"Formattazione eseguita senza errori. Salvataggio dei dati in corso … " la voce del computer lo riportò alla realtà.
Si alzò dalla sedia e aspettò che il processore finisse di scrivere i dati sulla microscopica memoria estendibile.
Quando il computer sputò il micro cip, il dottor Mcgrant lo prese con mani tremanti. Il sudore gli colava lungo le tempie, come se la sua mente stesse piangendo pensieri.
Tornò verso il lettino e pigiò con forza il petto del robot. Esso si aprì come una specie di vortice, rivelando un grosso agglomerato di cavi e fili raggruppati fino a formare un cuore luminoso, di un blu abbacinante. Il dottor Mcgrant inserì la memoria nell'apposito spazio e richiuse tutto.
Iron aveva un cuore, si. Glielo aveva creato così per dargli la possibilità di assomigliare ancora di più ad un uomo.
Rimase immobile per alcuni secondi, ascoltando i battiti del suo, più vecchio, più stanco, ma incredibilmente eccitato in quel momento.
Si schiarì la voce, febbricitante: "Svegliati Iron" disse con tono fermo.
Il robot reagì quasi subito al comando, spalancando gli occhi. Non si mosse di un millimetro, schiuse solo un poco le labbra.
"Mettiti seduto" gli ordinò, e lui obbedì, tirandosi su facendo forza sulle braccia.
Il dottor Mcgrant non poteva credere a quello che i suoi occhi vedevano: "Parlami Iron, parlami. Dimmi qualcosa … "
Il robot lo guardò per lunghi istanti, scrutandolo e immagazzinando informazioni. L'uomo notò la sua espressione curiosa, e il suo sguardo lilla, profondo e incredibilmente dolce.
Il dottore si umettò le labbra secche e Iron lo imitò: "Avanti, parlami Iron" lo incalzò.                                                                                        
La macchina aprì e chiuse ripetutamente gli occhi e alzò la testa per guardarsi intorno: "La vita …" mormorò, colpito dall'arcobaleno che il sole aveva disegnato sul muro attraversando il vetro del laboratorio, "la vita esiste davvero"
George Mcgrant non piangeva da quando, trent'anni fa, aveva visto sua moglie morirgli fra le braccia in uno squallido ospedale della metropoli, eppure quelle parole smossero in lui un sentimento che non sentiva da anni.
Iron lo guardò perplesso, osservando quelle gocce d'acqua che gli colavano lungo le guance: "Cosa è?" chiese, allungando una mano ad indicarne una.
"Felicità" spiegò Mcgrant tra un sospiro spezzato e l'altro.
Iron annuì: "La felicità scivola sulla tua pelle".
"Le lacrime Iron, le lacrime sono felicità"
"Lacrime … Piangere?" chiese per un'improvvisa associazione di idee passata nel suo cervello meccanico.
Il professore sorrise, annuendo: "Piangere"
Il robot sembrò accigliato. Si portò più vicino al suo creatore e gli mise titubante una mano sulla spalla: "Piangere lacrime di felicità …" sussurrò e la sua presa divenne più decisa, "Perché felicità?"
"Perché sei vivo Iron. E perché diamine, sei perfetto!"
Iron copiò l'espressione dell'uomo, stirando le labbra in un ghigno forzato: "Perfetto. Io? Io non so piangere. Lacrime. Felicità. Io non sono felice … o forse, forse si?"
Mcgrant si asciugò le lacrime e scosse la testa, prendendo la mano di Iron: "Non ti preoccupare, imparerai. Sei stato creato per questo"
"Ma io non …" l'uomo mise una mano sulla bocca del robot, invitandolo a rimanere in silenzio.
I due rimasero in ascolto. Strani rumori provenivano dal corridoio che portava al laboratorio del professore.
Stavano arrivando, si disse Mcgrant con un brivido di terrore. Guardò la sua creazione con tenerezza, come fa un padre col proprio figlio appena nato e con un moto d'affetto di cui non credeva essere dotato, l'abbracciò.
"Ti prego Iron, perdonami. Perdonami se ti ho fatto nascere ora ma avevamo bisogno di te. Avevamo tutti bisogno di te"
Il robot ricambiò la stretta in modo più rigido, non sapendo bene come comportarsi.
Restarono così per lungo tempo. Li trovarono ancora abbracciati quando irruppero nella stanza. Li divisero e nessuno dei due oppose resistenza, il primo perché sapeva di essere impotente, e l'altro perché semplicemente seguiva quello che gli veniva detto.
Iron guardò il dottor Mcgrant e i suoi occhi lilla fissarono quelli verdi del vecchio. La curiosità lo trascinò via, trasformata in quell'uomo forzuto che lo spingeva lungo il corridoio e lo sbatteva dentro una cella, mentre il dottor Mcgrant veniva rinchiuso in un'altra gabbia adiacente.
Si attaccò alle sbarre, ancora intontito.
Il dottor Mcgrant si prese la testa fra le mani, lasciandosi cadere a terra.
"Tutto, mi prenderanno tutto!" mormorava.
"Cosa?" domandò il robot, aggrottando il solco delle sue sopracciglia.
L'uomo alzò la testa: "Mi hanno dato tutti i soldi di cui avevo bisogno per costruirti perché sapevano che tu potevi essere in grado di assecondare i loro piani. Mi hanno fatto promettere di affidarti alle loro mani una volta che saresti stato acceso. Ma io non potevo, capisci? Non potevo lasciare che loro … ti facessero del male, Iron. Non potevo"
Mcgrant gli accarezzò le dita gelide: "Mi rimanevi solo tu" mormorò, guardandolo tristemente negli occhi.
Un uomo tarchiato si avvicinò alle due gabbie e tuonò: "Sai le procedure, vecchio. Non ci servi più"
Il professore annuì piano, alzandosi in piedi. La guardia aprì le sbarre e lo prese in malo modo da sotto un'ascella, trascinandolo via con sé.
Si voltò una volta sola a guardare quello che aveva creato.
E sorrise, George Mcgrant, perché stava per morire, sì, ma il suo spirito sarebbe vissuto ancora dentro quella splendida macchina che ora lo guardava andarsene con una mano protesa verso di lui.
Inghiottì un fastidioso nodo alla gola e sentì il cuore accelerare. Si chiese come doveva essere il passaggio dalla vita alla morte e si mise a ricordare tutte le fasi più importanti della sua vita. Strano che alcune cose gli tornassero alla memoria proprio in quel momento.
Elisabeth, sua moglie, gli sorrise tra i suoi pensieri. Fra poco mia cara, si disse, fra poco saremo di nuovo insieme.
La guardia si fermò davanti ad una porta nera e massiccia. La colpì tre volte con l'enorme pugno chiuso e attese risposta.
Il dottore chiuse gli occhi. Elisabeth scomparve e Iron si materializzò nella sua mente.
Strinse forte le palpebre e varcò la sua ultima soglia. La sua anima continuava a guardarlo da dentro la gabbia e questo lo rese forte.
La paura scomparve e restò solo il silenzio e il fluorescente colore di un liquido ambiguo dentro una siringa piantata nelle vene: "Ti voglio bene, figlio mio" disse in un soffio.
 

Freddo.
Èra così freddo quel posto. Intorno a me c'erano quattro uomini con il volto coperto. Uno lo riuscivo a riconoscere meglio rispetto agli altri. Aveva dei folti riccioli che gli scendevano fin oltre le spalle, mente gli altri tre erano tutti pelati e le luci dei neon riflettevano sulle loro teste.
"Vediamo come se la cava questo robottino ..." borbottò il riccio puntandomi una pila dritta negli occhi. Li chiusi per proteggerli, ma li riaprii subito, costatando che non mi dava alcun fastidio.
"Ti chiami?" fece l'uomo rivolto a me.
Volevano sapere il mio nome, ma perché? Il dottor Mcgrant avrebbe voluto che io lo dicessi loro?
"Iron" risposi alla fine.
L'altro annuì, sorridendo maleficamente: "E dimmi, Iron, sai perché sei qui?"
Guardai il cielo che si intravedeva da uno spiraglio fra le spesse tende rosso sangue della stanza: "No …" ammisi, inespressivo.
"Sei qui …" cominciò l'uomo vagando per la stanza mentre gli altri tre continuavano a studiare ogni mia parte de corpo, "perché noi abbiamo bisogno di te. Tu sei … come dire, speciale. Hai un dono, Iron. Il dono di riuscire a viaggiare nel tempo"
Per la prima volta da quando ero entrato in quella stanza lo guardai negli occhi. I suoi, castani e famelici, scintillarono: "Anni fa, più o meno cento anni fa, un uomo di fama mondiale inventò una macchina rivoluzionaria. Una macchina con dei pensieri che non erano solo dati immessi alla rinfusa nella sua memoria, ma erano vere e proprie sensazioni. Quel robot era a tutti gli effetti un uomo. Ma sai, la tecnologia è pur sempre più avanzata di un vecchio scienziato pazzo, che vuoi farci … e in poco tempo il robot si rifiutò di stare sotto il nostro comando. Minacciò di distruggere la Terra se il Governo non gli avesse dato i pezzi e le attrezzature che richiedeva. La sua richiesta venne esaudita, e lui costruì interi eserciti di bastardi uguali a lui"
Digrignò i denti, ma cercò di rimanere calmo quando si accorse del mio sguardo perplesso: "Quei … quegli umanoidi ci resero schiavi e ci permisero a malapena di poter vivere nelle nostre case, per i primi tempi. Dopodiché beh, come si suol dire … demmo loro una mano e loro si presero tutto il braccio. Ci disintegrarono e poco fecero le nostre rivolte. Morivamo come scarafaggi, diventavamo polvere mentre quegli esseri conquistavano l'intero pianeta. Alla fine, ridotti quasi all'estinzione, ci siamo rifugiati nei ghiacci e sulle montagne. Ricostruimmo i nostri laboratori con quello che potevamo, fin quando siamo riusciti a riassemblare almeno un laboratorio degno di nota, segreto, dove potevamo fare quello che volevamo e poteva studiare ai fini della realizzazione della macchina che ci avrebbe salvati tutti. Tu, Iron"
Mi sorrise, cercando di sembrare affabile, ma io riuscivo solo a pensare al fatto che detestavo il modo in cui pronunciava il mio nome.
Risultava pesante, quasi disarmonico quando usciva dalla sua bocca. Affondava nell'aria invece di rimanere sospeso, come un macigno invisibile. E più lo ripeteva più questi macigni si accavallavano nella mia mente e mi facevano sentire oppresso e stanco.
Strinsi la mano in un pugno rigido: "E questo cosa dovrebbe significare?"
L'uomo fece un voluttuoso gesto con la mano: "Oh, niente di particolare. Solo che tu, da bravo robot intelligente, dovrai viaggiare nel tempo fino a cent'anni fa e uccidere quello scienziato. E' per questo che il tuo paparino ti ha progettato, no? Perché sei una macchina mortale e pressoché indistruttibile, in grado di sconfiggere il nostro temibile nemico. Il dottor Mcgrant, che Dio l'abbia in gloria pover'uomo, era una mente geniale. È stato un peccato doversene liberare in un modo così … drastico" sul suo viso si formò un ghigno spietato e l'ombra in cui era avvolto gli fece risaltare gli zigomi magri e sporgenti come una maschera spaventosa.
"Morte …" sussurrai perso nei miei pensieri.
L'altro roteò gli occhi: "Non devi essere troppo triste per lui, Iron. Alla fine, è stata una sua decisione"
Lo guardai con astio, alzando il mento in segno di sfida. Lui non si scompose, sostenendo lo sguardo.
"Ma prima che tu parta per questa missione, abbiamo bisogno di fare alcuni accertamenti su di te" ci interruppe uno degli uomini pelati.
Il riccio si voltò a guardarlo con superiorità, ma poi annuì, rigirandosi verso di me: "Esatto. Dobbiamo vedere fino a che punto tu puoi esserci utile"
"E se io non dovessi obbedirvi?" chiesi.
Una breve risata ruppe il silenzio che si era creato fra di noi. Mi mise una mano sulla spalla, avvicinando la bocca al mio orecchio: "Io sono il padrone, Iron" sussurrò, e un altro macigno mi cadde addosso, "tu sei solo un mio burattino"
 

Mi portarono in un'altra stanza altrettanto cupa nonostante le luci artificiali fossero abbastanza forti da metterne in risalto ogni più piccolo anfratto.
"Siediti lì, robot" grugnì uno dei tre uomini pelati, mentre gli altri due suoi colleghi mi bloccavano le gambe ad uno strano lettino di metallo.
"I tuoi poteri, Iron, sono immensi" dichiarò l'uomo che mi aveva parlato nell'altra stanza, "tu controlli il tempo, sai come far funzionare le lancette del mondo. Tu solo sai creare quel varco che ci permetterà di salvare la nostra specie. Intendi di cosa parlo, vero?"
Annuii, osservandolo.
Lui sorrise, compiaciuto: "Carl, fai partire la macchina" ordinò.
Carl azionò un gigantesco computer abbassando con calma e ammirazione una leva. Mille luci di altrettanti colori si accesero all'unisono, abbacinandomi.
"Le luci della ribalta …" mormorò il capo degli altri tre, passandosi una mano fra i riccioli neri. Voltò la testa verso di me e mi si avvicinò: "Ora voglio che tu chiuda gli occhi e immagini un posto qualunque. Concentrati, Iron. Prova a pensare di esserci dentro, fuso in quel paesaggio. Avanti, stupiscimi!"
Lo fissai per un attimo, poi chiusi gli occhi. Non sapevo che luogo immaginare, perché io il mondo non l'avevo mai visto.
Però il pofessor Mcgrant doveva avermi immesso nella memoria alcune immagini di esso, perché ad un certo punto nel vuoto infinito della mia mente si materializzò una figura i cui contorni non erano ben definiti, anzi, sembravano fatti d'acqua, che si schiantava e si frammentava ad ogni scatto delle mie palpebre forzatamente serrate.
Cercai di mettere a fuoco quella forma. Aveva un intenso color blu scuro, lucente, bellissimo. Mi venne da sorridere e non riuscii a trattenermi.
Sentii distrattamente la voce del riccio nella stanza che mi ripeteva di continuare.
Aguzzai la vista, e finalmente la vidi. Volava in un immenso mare verde che profumava d'estate e di fiori freschi. Mi dava l'idea di un qualcosa di leggero, di fragile, di effimero. Allungai una mano, senza toccarla. La farfalla si avvicinò e mi si posò sull'indice. Sentivo le sue antenne vibrare, smosse dal vento. Improvvisamente fummo una cosa sola, e ne saggiai la vera forza. Mi sentii potente, indistruttibile.
La farfalla sbattè le ali, e volammo insieme. Ero leggero, ero fuori da me stesso, lo sentivo. Ero etereo.
"Apri gli occhi, Iron …" sussurrò l'uomo scuotendomi dal torpore.
Mi risvegliai stralunato, guardandomi intorno senza riuscire a capire subito dove mi trovavo.
Tutti nella stanza mi guardavano sbalorditi.
"Mio Dio, è … è incredibile!" esclamò prendendomi per le spalle con tutte e due le mani. Scuotendomi, non riuscì a soffocare una risata soddisfatta.
"Signori, avete appena assistito alla potenza di quest'essere. Osservate quanto può essere forte il genio della mente umana!"
Gli altri batterono le mani, entusiasti: "Gary tu sì che ci sai fare!" esclamò uno dei tre.
Gary - finalmente ne conoscevo il nome - fece un lieve indichino e tornò a sorridermi famelico.
"Sai smaterializzarti bene, mio caro. Col tempo saprai farlo sempre meglio. Per questo dobbiamo insegnarti come sfruttare al meglio questa tua capacità, prima di farti partire per la missione" sogghignò, incrociando le dita delle mani come per pregare. Al suo dito medio della mano sinistra luccicò un anello dì'oro con delle parole incise sopra.
Sempre più in alto di voi, c'era scritto. Un po' egocentrico il tipo, pensai con un mezzo sorriso.
"Ti terremo qui, e ti dimostreremo che con un po' di buona volontà potrai fare qualunque cosa, Iron. Anche uccidere" e disse l'ultima frase dilatando gli occhi, già di per sé terrificanti.
Lo guardai bieco, senza muovermi. L'idea di uccidere un uomo non mi allettava per niente. Specialmente se dovevo farlo così, senza motivo. A freddo, come se io fossi stato progettato solo per questo.
"Non voglio. Non ucciderò. Trova un'altra soluzione"
Gary si passò con noncuranza la lingua sui denti bianchi. La corta barba del pizzetto sembrava un cespuglio di rovi. Restò in silenzio per un attimo, come soppesando le parole da dirmi, poi, lentamente, mi cinse il collo con una mano e mi sorrise: "La vera differenza fra me e te sai qual è, Iron?"
Sentii le sue dita spostarsi su di me, fino ad incontrare un minuscolo bottone posto dietro la mia nuca.
Cercai di evadere dalla sue presa appena mi resi conto di quello che stava per accadere, ma lui fu più veloce. Con uno scatto pigiò la mia pelle e tutto divenne irrimediabilmente nero. La stanza vorticò sotto i miei occhi, e l'unica cosa che sentii prima di cadere nel vuoto, fu il suo respiro caldo su di me e la sua voce che piano sussurrava: " È che io non ho nessun pulsante di spegnimento!"
 

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Capitolo 3
*** » 2 Sono un assassino; ***


Ed eccoci al secondo capitolo gente!
Personalmente non mi piace molto, è troppo incasinato e la fine l'avevo prevista diversa. Insomma, un bel pasticcio .__.
In ogni caso spero lo apprezziate lo stesso, prometto che il prossimo sarà migliore.
Un grazie a tutti quelli che lo leggeranno/recensiranno/eccetera, ma un grazie particolare va a LaMiya
, che mi ha supportato fino ad adesso e se questa storia sta avendo un seguito è anche merito dei suoi consigli e suggerimenti (:
Buona lettura, pipols


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Capitolo 2; Sono un assassino.
 
Ero dentro ad un sogno, me ne resi conto fin da subito.
Una valle immensa si estendeva davanti ai miei occhi per migliaia di chilometri, e sotto i miei piedi vi erano così tanti fiori, che i loro petali riuscivano a reggere il mio peso. Mi guardavo attorno e vedevo solo montagne sfocate all'orizzonte, coperte da uno spesso strato di neve.
Feci un passo avanti e i fiori vacillarono sotto di me. Mi abbassai e con due dita staccai una viola dal suolo. Ne respirai il profumo ad occhi chiusi. Era così buono che potevo sentirlo con tutto il corpo. Fili e fili elettrici racchiusi dentro di me trasportarono al mio cervello questa informazione:
da quel fiore conobbi il vero odore della vita.
 
Mi risvegliai in una stanza completamente buia, accasciato in un angolo e con i sensi annebbiati.
Cercai di mettermi in piedi ma non ci riuscii: qualcuno mi aveva manomesso le articolazioni.
"Gary!" urlai alle tenebre, ma mi rispose solo il silenzio. Poi, dopo qualche secondo, la lieve fiamma di un accendino mi illuminò il viso, e mi ritrovai faccia a faccia con la sua, resa ancora più tetra da quella flebile luce.
"Come ti senti, Iron? Un po' abbattuto, forse?" e sorrise, beffardo.
Io scrollai le spalle, cercando di riprendermi completamente dal sonno improvviso che mi aveva colto.
"Rimettimi a posto, Gary" mormorai.
Lui scosse con lentezza il capo, ostentando quel sorriso. Digrignai i denti come un cane rabbioso.
"Lavora per me, Iron. Diventa mio alleato"
"No! Io non farò mai quello che mi chiedi" dissi alzando la voce.
Gary mi prese il volto fra le dita di una mano e mi fissò per alcuni secondi: "I tuoi occhi Iron. I tuoi occhi cosa vedono?"
"Niente …" vagai con lo sguardo in cerca di aiuto, "niente"
Lui annuì, compiaciuto, poi schioccò le dita della mano libera e intorno a me si espanse un paesaggio immenso, uguale a quello del mio sogno.
"E ora?" mi domandò con enfasi.
Restai a bocca aperta a contemplare quella meraviglia, ammaliato da tutti quei colori.
"I miei pensieri … tu, voi leggete la mia mente?" chiesi con risentimento. Il mio primo vero sogno era stato scoperto con così poco tatto, denudato con così tanta semplicità, che mi sentii debole e senza difese.
"Noi possiamo fare qualunque cosa. Noi regoliamo le tue emozioni, mio caro amico. Noi decidiamo cosa farti sentire e cosa evitare di farti conoscere. Noi abbiamo libero accesso alla tua mente. Potremmo cancellare dalla tua memoria tutto quello che hai appreso fino ad adesso, se volessimo. Ma sarebbe controproducente, in effetti. Sei così intelligente, Iron, così perfetto e così … ingenuo, che è difficile per noi comprendere appieno le tue reali potenzialità per adesso. Sappiamo solo che, se solo collaborassi, potresti creare un nuovo mondo, distruggendo quello in cui viviamo ora"
Scossi con convinzione la testa, deciso a non cedere ai suoi allettanti discorsi di gloria. I suoi scagnozzi mi guardavano da lontano, parlottando fra di loro.
Gary si scrocchiò lentamente le dita di entrambe le mani, aspettando che io dicessi qualcosa.
"Rimettimi a posto …" ripetei.
Lui sogghignò, un sorriso sghembo e intimidatorio, poi chinò lo sguardo sui legamenti di un mio ginocchio e si mise sapientemente a manovrarne i fili e le giunture. Fece lo stesso con l'altro ginocchio, poi tornò a guardarmi: "E ora? Cosa farai? Scapperai? Ti alleerai col nemico? Vivrai da eremita in uno dei tanti monti in cui siamo costretti a sopravvivere?"
"Non lo so" mormorai.
"Pensaci, Iron. Pensa a quello che ti sto per dire. Pensa alle guerre, pensa ai morti, pensa agli uomini da cui tu sei nato, pensa alla Terra come quando era come nei tuoi sogni"
Il paesaggio cambiò di colpo e davanti a me si proiettarono immagini orribili. Sangue, uomini agonizzanti in mezzo alle strade. Una macchina infernale puntava a scatti il braccio meccanico verso una casa o un grattacielo e dall'enorme cannone che gli sostituiva la mano scaturiva una micidiale palla di fuoco che radeva al suolo qualunque cosa.
Vidi un bambino che usciva da sotto al corpo di sua madre, morta sul ciglio di un marciapiede. Lo vidi guardarla con gli occhi pieni di lacrime, e capii. Capii che quella non era felicità.
"Morte …" sussurrai, ricordando improvvisamente il dottor Mcgrant.
"Esatto Iron. Morte"
Annuii, cercando di distogliere lo sguardo da quei pezzi di storia, ma mi era impossibile farlo. C'erano troppe cose che non conoscevo, troppe cose che mi spaventavano e allo stesso tempo incuriosivano di quelle immagini. La mia mente correva, immagazzinava informazioni, cresceva. Avevo il respiro corto, mozzato da troppa emozione.
Guardavo quegli uomini che piangevano, guardavo quel signore anziano che inveiva contro quella macchina che gli aveva portato via la moglie, e vidi quella stessa macchina disintegrare anche lui in un batter d'occhio. Cadaveri, corpi bianchi e senza vita, mi guardavano senza vedermi, e dentro di me tremai.
C'erano folle di persone che scappavano, che si nascondevano, urlando e chiedendo pietà. Vidi troppe case vuote, troppi angoli pieni di gente che sperava di scampare quel genocidio, ma invano.
Scorsi uomini armati che cercavano di fermare l'avanzamento di quelle creature, li vidi puntare le armi contro i nemici, li vidi sparare, vidi i loro sguardi delusi e terrorizzati nel constatare che il loro attacco non sortiva nessun effetto.
Sentii le loro sensazioni, ebbi paura, fui uno di loro e mi sembrò quasi di morire insieme a loro.
Scossi la testa, serrando i pugni: "Chi può fare una cosa del genere?"
Gary abbassò lo sguardo, puntandolo sul suo anello. Anche a lui forse, quelle immagini facevano impressione. Forse anche il suo animo aveva i brividi nel percepirle sulla pelle.
"Un tuo simile, Iron" mormorò infine, una smorfia di collera sul viso. Aveva un cipiglio severo quando alzò la testa a guardarmi. Sondò ogni mio meccanismo, mentre le immagini si susseguivano e si imprimevano nella mia mente, diventando indelebili.
Non poteva essere, mi ripetevo. Io mi sentivo diverso da quell'immenso congegno. Dovevo essere diverso.
"È stato uno uguale a te che ha fatto tutto questo, proprio così. La realtà, amico mio, è sadica. Tu vorresti scacciarla da te, ma lei è più forte. Ti schiaccia. Ti butta a terra e ti guarda dall'alto con un sorriso beffardo e crudele da assassino. La verità, è che noi non siamo stati abbastanza onesti con noi stessi. Volevano qualcosa di così potente, che nemmeno Dio avrebbe potuto sconfiggere. E ora, ora che ce l'abbiamo, guardaci: siamo solo vermi che vivono nel terrore di essere schiacciati da una di quelle gigantesche mani meccaniche. Non abbiamo più una vita, non abbiamo più cibo, non abbiamo nemmeno più un cielo a cui rivolgere le nostre più disperate preghiere"  
Lo guardai, sondando le sue iridi.
Ora, in quella stanza, sentivo freddo. Era una sensazione strana, quella che provavo, già sperimentata non appena il dottor Mcgrant mi aveva acceso la prima volta. Mi sembrava di essermi appena scongelato dopo anni di ibernazione in uno stato di annullamento totale del mio spirito.
"Nessuno, Iron, nessuno dovrebbe patire una tale sofferenza. Nemmeno degli esseri imperfetti ed ingrati quali sono gli umani"
Venni colto da un brivido leggero, mentre lui si alzava.
Si diresse verso lo schermo più vicino, faccia a faccia con uno dei tanti robot che si scorgevano per le strade. Lo fissò, immobile, perso fra i ricordi.
"Io non ho visto ciò con i miei occhi, ma mio padre sì. Mio padre c'era, mio padre li ha combattuti, quei bastardi. Mio padre ne ha anche ammazzato uno ma …" qui la sua voce si incrinò, fino a spegnersi in un sussurro: " … oggi sarebbe fiero di me" concluse poi, infilando le mani in tasca.
Ne tirò fuori una stecca di sigarette e ne accese una. Fece un tiro, buttando fuori il fumo con un lungo sospiro. Chiuse gli occhi e rimase così, con la bocca socchiusa e la sigaretta che gli pendeva dal labbro inferiore per lunghi istanti.
"Quando riuscirono ad avere la meglio su di noi, i pochi superstiti cercarono in ogni modo di scappare e trovare rifugio in ogni modo. Chi veniva scoperto ancora in vita, si faceva semplicemente morire. Ci cercarono ovunque, quelle bestie. E sai cosa facevo io quando ero un bambino e quegli esseri vagano per le città, dopo la loro vittoria sul genere umano? Chiudevo gli occhi e facevo finta di trovarmi in un altro luogo. Così, come se anch'io potessi smaterializzarmi e viaggiare nel tempo"
Di scatto, si appressò a me e mi soffiò una boccata di fumo in faccia: "Perché tu che puoi farlo davvero non vuoi collaborare?"
Mi guardai distrattamente la punta dei piedi nudi, placcati di lucida plastica bianca.
"Perché non voglio essere come loro e …" lo fissai per un attimo prima di parlare. Come sembrava cadaverico, sotto quella luce sintetica. Provai l'irrefrenabile voglia di scorgere un raggio di sole, in quel momento, dentro la stanza: "uccidere. Io non ucciderò" conclusi fermamente.
Ma lui come al solito non prese bene questa mia decisione, per l'ennesima volta mi prese per le spalle e mi gridò contro. Ancora, ancora, ancora.
Serrai i pugni e senza accorgermene ripensai al mio primo vero sogno. Ripensai alla distesa di fiori che avevo cavalcato, e mi ritornò alla memoria quel profumo, il suo profumo, l'inconfondibile aroma della libertà.
Con queste immagini che riempivano ogni più piccolo anfratto dei miei circuiti, puntai lo sguardo verso quelle immagini orribili, piene di sangue, di morte, di panico e non potei fare a meno di pensare che i miei sogni cozzavano in modo sconcertante con la realtà.
"Io non voglio tutto questo" mormorai come in trance. Gary smise di strattonarmi e rimase in silenzio, lasciandomi parlare.
"E se … e se i miei sogni diventassero la realtà? E se avessi la forza di trasformare tutto quel sangue in gocce di pioggia? Tutti quei morti in fiori? E se riuscissi a trovarla, poi, alla fine di tutto?"
Gary mi guardava, attonito: "Chi devi riuscire a trovare, Iron?" mi domandò.
Io gli sorrisi, come avevo visto fare al professor Mcgrant a me quando ero nato. Una smorfia tanto strana e buffa quanto sincera.
"Il fiore della mia vita" sussurrai, ostentando quel ghigno.
Lui scosse la testa, incredulo, non riuscendo a comprendermi: "Non ha senso quello che dici, mio piccolo robottino. Tu parli di fiori, di speranza, di pioggia, persino d'amore. Ma tu realmente sai cosa sono tutte queste cose? Come puoi tu conoscere sentimenti che sono solo doti degli esseri umani? Io c'ero Iron! C'ero quando vedevo i miei amici morire, quando macchine infernali vagavano per strada e faticavamo anche solo a respirare tale era la paura che ci schiacciava il petto! E tu osi parlare di trasformare tutto in una specie di favola?"
Annuii, mentre tutti i miei ragionamenti sfumavano all'istante. Aveva ragione. Quell'uomo davanti a me, che mi urlava contro di essere solo ammasso di bulloni e fili elettrici aveva ragione. Io non sapevo cos'era l'amore. Le lacrime di Mcgrant, rammentai, per me non erano altro che secrezioni d'acqua che scivolavano lungo le sue guance, mentre per lui erano semplicemente felicità. E io, come l'amore, non l'avrei mai provata.
Lo osservai attentamente scrutando la sua espressione adirata e il colore vivido delle sue guance, i denti scoperti dalla rabbia, come un animale furioso. Tremava leggermente mentre mi stringeva le mani sulle spalle, ma io non sentivo il tocco delle sue dita. Le mie gote, invece, non cambiavano colore, le mie pupille non si riducevano quando venivano colpite dalla luce dei neon, le mie gambe cedevano solo se qualcuno ne manometteva i circuiti.  
"Io non voglio che tu cambi il passato, Iron … io voglio che tu lo distrugga"
Mi guardai attorno, accerchiato da tutti quei filmati e tra tutto quell'orrore mi aggrappai disperato al paesaggio che avevo creato nella mia mente.
Una improvvisa folgorazione mi prese alla sprovvista, annebbiandomi i sensi: fino a quel momento, ora me ne rendevo conto, avevo solo creduto di star male, di tremare davanti a tutti quei morti, e niente mi aveva veramente spaventato, ma piuttosto mi aveva semplicemente sfiorato l'armatura, come un soffio di vento che passa e non lascia segni. Avevo mentito a me stesso, imponendo al mio cervello di catturare delle emozioni che non mi appartenevano.
Eppure allora perché, mi chiesi, continuavo a reprimere con tutto me stesso quel sangue, quelle urla, quelle lacrime? Perché mi sembrava di sudare, un sudore freddo e opprimente, che non riuscivo a sopportare?
Gary scostò lo sguardo dal mio, ancora infuriato. Stringeva in un pugno il filtro della sigaretta spenta.
Le immagini cambiarono, tornarono a riflettere le scene del mio sogno. Forse uno di quegli uomini calvi aveva capito che quello scenario di morte non faceva altro che agitare sia me che il loro capo.
"Non ti rendi conto, Iron, che tu non sei altro che un esperimento? Sei solo un robot appena nato, che si stiracchia alle prime luci del suo primo mattino. Devi ancora farne di strada, per capire davvero ciò che è giusto e ciò che è sbagliato".
Mi sentii frastornato, come se uno dei miei circuiti non funzionasse più a dovere.
Guardai quello scenario fiabesco e tentai di credere fervidamente che ciò fosse la realtà, che quello che avevano scorto pochi minuti prima i miei occhi non erano altro che macabre fotografie di un sadico artista.
Ma questa volta, lo capii da solo, quell'artista era un mio simile. Un mio fratello. Generato dallo stesso grembo smanioso di fama e gloria, appartenente ad una madre imperfetta, che aveva osato creare un qualcosa di superiore alle sue capacità. Mia madre, nostra  madre, non era altro che l'effimera mente umana.
Scrutai la distesa di quei magnifici fiori e, come fosse stato un angelo custode, uno fra tutti, bagnato dalla rugiada, luccicò al riverbero del sole.
"Gli eroi muoiono di questi tempi, Iron. I principi azzurri non esistono più. Ci restano solo gli assassini" dichiarò Gary con un freddo tono di voce, quasi metallico.
Io mi limitai a distendere e irrigidire i muscoli, senza smettere di guardarmi attorno. C'era quel fiore, quella viola, che era così bella che mi sembrava di poterne ancora sentire il profumo. E allora chiusi gli occhi, inspirando l'aria attorno a me, mi sentivo leggero, fluttuante, carico adrenalina. Ero energia pura.
Sullo schermo su cui venivano proiettati i miei sogni, Gary vide un'enorme farfalla che volava sopra la distesa di fiori, e non sapendo che fare, mi prese dalle spalle e mi strattonò, riportandomi prepotentemente alla realtà.
"No Iron, no! Non si scappa così dai problemi!"
Venni richiamato nella stanza buia con una tale prepotenza, che d'istinto mi alzai in piedi, sovrastando di qualche centimetro il mio interlocutore. Ora aveva paura, quell'uomo dai riccioli ribelli, glielo si leggeva in faccia. Tentò di tenermi fermo, ma con scarsi risultati. Questa volta non mi sarei fatto spegnere con molta facilità.
Mi prese con forza un braccio, ma io non feci fatica a liberarmi dalla stretta. Mi divincolai con prepotenza, andando ad urtare con un gomito un computer appeso al muro dietro di me. Il sottilissimo schermo andò in frantumi, producendo qualche lieve scintilla.
"Fermati stupido, mi distruggerai il laboratorio!" inveì Gary, sforzandosi di rimettermi a sedere. Tentò di sganciarmi una giuntura della caviglia, ma fui più svelto questa volta: gli bloccai il polso e feci forza su di esso, fino a sentirlo urlare.
"Carl! Carl muoviti, aiutami!"
Carl, l'uomo che nella sala antecedente a quella in cui ci trovavamo ora aveva azionato le luci, arrivò di corsa ad aiutare il suo capo.
Mollai la presa su Gary e mi preparai a ricevere il colosso che mi stava venendo addosso. Mi caricò con tutto il suo peso, tanto che per fermarlo scavai due solchi nel pavimento coi talloni. Lo afferrai per le spalle e lo sollevai sopra la mia testa, scaraventandolo poi contro il muro che segnava la fine della stanza. Il suo corpo produsse un colpo forte e cupo contro la pietra grigia a levigata. Credevo avesse perso i sensi, invece si rimise in piedi e ritornò alla carica. Questa volta riuscii a prenderlo per un braccio, avvicinandolo abbastanza a me da sondargli l'animo, scorgendoci dentro solo stupide ambizioni fallite nel corso degli anni.
Avrei dovuto provare pena per lui, ma questo non faceva parte dei miei piani. Con gli schermi ancora accessi, e con l'abbondanza di elettricità ad alto voltaggio di quel posto, mi scansai velocemente, prendendogli il cranio con la mano aperta e schiacciandolo con veemenza contro il computer che avevo rotto prima. Ne scaturì una saetta molto più potente di quella precedente, che lo fulminò all'istante.
Sentii i muscoli del collo di quel colosso diventare turgidi come aste di ferro, mentre tentava invano di allontanarmi da lui.
Per lunghi secondi rimanemmo immobili, in attesa. Quando poi l'uomo smise di divincolarsi, lo lascia scivolare a terra, col volto carbonizzato e senza vita.
Lo guardai con risolutezza, senza emozioni. Alzai il mio sguardo su Gary, che si stava ancora tenendo il polso dolorante con l'altra mano. Aveva le dita  quasi bluastre, data la potenza con cui l'avevo stretto.
"Cosa hai fatto, Iron?" mi chiese, senza riuscire a guardare il corpo del suo subalterno.
Alzai le spalle, andandogli più vicino. Guardai quel fiore proiettato dietro la sua schiena, ricordai i miei sogni spezzati, mi resi conto che la morte di Carl era stata semplicemente la mia rivincita sul destino crudele che aveva deciso di farmi nascere sotto le spoglie di un insulso essere antropomorfo.
"Uccidere …" mormorai col fiato corto, "quando non puoi scappare dai tuoi problemi, uccidili" sentenziai.
Nonostante la paura e l'atmosfera lugubre di quel posto, vidi un leggero sorriso comparire sul volto provato del riccio: "Sei pronto, adesso, mia piccola bomba atomica"
 

Il sedile su cui poggiavo la schiena era di un tenue rosa carne, questa volta non aveva cinture che potessero tenermi fermo, ero libero, per la prima volta.
Gary, con la mano ora fasciata da uno spesso strato di garza, digitava strani numeri sul display di un altro computer, mentre gli altri due  suoi uomini, titubanti, mi guardavano di sottecchi, badando bene a starmi alla larga.
"prima di mandarti nel passato, voglio che tu indossa questa speciale muta che ti consentirà di assumere delle sembianze umane. Avrai della pelle vera, vere unghie, vere cicatrici se ti farai del male, ma non sgorgherà del vero sangue dalle tue ferite. Potresti considerarti quasi un dio, in effetti. Un essere superiore che subisce ma non demorde, che incassa i colpi senza perdere vita"
Mentre parlava guardavo le mie mani bianche, e mi chiesi come sarei stato da umano.
"Come avete fatto a ricavare della vera pelle umana da darmi?" chiesi serrando un po' gli occhi.
Gary fece un gesto di noncuranza con la mano, atto che lo contraddistingueva parecchio, a mio avviso: "Possiamo dire che Carl ha avuto una buona sepoltura. Sarà più utile da morto di quanto non lo sia stato da vivo". Non riuscì a reprimere un ghigno di soddisfazione nel darmi quella spiegazione.
Nel frattempo il processore aveva concluso di riconoscere i dati immessi qualche minuto prima, e ce lo comunicò con un acuto bip che risuonò nella stanza.
Gary si sfregò le mani e premette un pulsante, dopodiché si voltò e con una mano appoggiata alla tastiera e l'altra lungo il fianco si sistemò per godersi appieno la scena.
Mi venne applicata addosso una lastra fatta di un materiale molto simile al lattice, che aderì completamente al mio corpo. Sentii un lieve formicolio sul volto, prima in fronte, poi sugli occhi e sul naso, fino ad arrivare alle labbra, alle guance, alle orecchie, al mento. Avvertivo qualcosa crescere sulla mia testa, e percepivo dei peli che crescevano sulla mia mandibola, sulle braccia, sulle gambe e nell'incavo di quest'ultime. Crebbe in me qualcosa che i miei circuiti non conoscevano ancora, qualcosa che gli uomini chiamavano ormoni. Conobbi la voglia di possedere un essere simile a me ma di dimensioni più aggraziate, mentre la spina dorsale lentamente accoglieva quel tessuto nuovo e mai sperimentato che non era altro che pelle. Quando tutto ebbe preso forma, sbattei con forza le palpebre, rendendomi conto che il mio nuovo corpo era così sensibile, che percepivo persino il tocco delle ciglia a contatto con gli zigomi ogni volta che chiudevo gli occhi.
"Mh" fece Gary massaggiandosi la mascella con sguardo critico: "Per quanto sei bello, potremmo quasi essere gemelli"
Io mi limitai a ritirare su le mani e guardarmele con meraviglia. Vene, nocche, linee e polpastrelli avevano sostituito le mie vere sembianze: "Sono un …uomo?" mi chiesi, ma forse sembrava molto di più un'affermazione che una domanda.
"Non esagerare, Iron! Diciamo che ora passerai molto più inosservato e inoltre avrai la possibilità di disfarti di questa muta quando vorrai. Incidendo la pelle, noterai ancora tutti i tuoi circuiti, quindi se subirai troppi danni, la muta non si rimarginerà più, e non ti resterà altro da fare se non squarciarla completamente e gettarla via"
Serrai con decisione le mani in un pugno, provando per la prima volta quel senso che a me mancava, il tatto. Toccai la pelle morbida della sedia sulla quale ero seduto, mossi i piedi nudi e mi guardai l'inguine non più vuoto come una volta.
"Ora avrò delle emozioni?" sussurrai piano.
Gary mi mise una mano sulla spalla: "Mio caro Iron, sei una macchina! Non sai nemmeno cosa siano, le emozioni. Sei un bel ragazzo di vent'anni, goditi questo stato di giovinezza piuttosto che pensare ai sentimenti. Scoprirai ben presto che il cuore è solo un organo, e non ha bisogno di amore per continuare a battere"
Alzai la testa a guardarlo negli occhi e annuii, rassegnato: "Cosa devo fare ora, padrone?"

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Capitolo 4
*** » 3 Mani gelide; ***


  Torno con il terzo capitolo, finalmente! (:
Questo già mi piace di più, e spero che piacerà anche a voi.
Scusate il ritardo, buona lettura, pipols!


~

Capitolo 3; Mani gelide.

Gary sembrò soddisfatto di quell'appellativo. Padrone … gustò quella parola strofinando la lingua contro il palato, come per assaporare appieno un sorso di vodka gelato. Sì, decisamente gli piaceva venir chiamato in quel modo, me ne resi conto.
"Come prima cosa, dovrai riuscire a smaterializzarti nel passato, e per farlo ti serviranno alcune informazioni che credo il dottor Mcgrant ti abbia già impiantato nella memoria. Ma come dico sempre io, prevenire è meglio che curare, quindi ascolta bene …"
Si voltò a guardare lo schermo del computer e fece una rapida ricerca su internet: "Lo scienziato che ha inventato quella macchina infernale che ci ha sterminati si chiama Clement Deon Morgan, laureato in ingegneria nucleare, nonché psicologo di fama mondiale, scienziato i cui esperimenti e creazioni erano conosciuti in tutti il mondo. Dopo gli studi, ha subito messo in pratica le sue conoscenze, mettendosi d'impegno per creare il robot più intelligente del mondo. Il NCB, New Clever Bios, venne portato a termine molti anni dopo la sua programmazione, in quanto, almeno così si dice, i fondi per lanciarlo sul mercato scarseggiavano"
I suoi occhi vagavano in cerca di informazioni utili, ma evidentemente non riuscì a trovare quel che sperava di sapere, perché aggrottò le sopracciglia in una cipiglio infastidito, mentre con una mano tamburellava il piano di lavoro, in ansia.
"Non abbiamo informazioni sulla sua vita privata, in quanto non si è mai fatto fare un'intervista degna di questo nome. Della sua famiglia si sa soltanto che è morta dopo la creazione del primo robot, assassinata da Morgan stesso, impazzito per aver messo al mondo una creatura tanto spregevole" sorrise, ripescando nelle tasche dei pantaloni l'accendino e una sigaretta: "Me la ricordo quella frase, quella che rinvennero scritta su un piccolo foglio sul tavolo del suo studio, quando lo trovarono morto dopo che si era avvelenato per non essere costretto a dover distruggere quello che aveva creato: 'Non è l'uomo che comanda,  non è la macchina che subisce. O almeno, non più'"
Si accese la sigaretta e aspirò per un lungo istante. pinzò il filtro tra l'indice e il medio della mano destra e si girò a guardarmi, con un'espressione impassibile: "Mi dispiace, ma è tutto quello che si sa su quella sottospecie di scienziato pazzo. Di Morgan si sanno tante cose in campo lavorativo, ma poche cose in quello familiare. Non so se ha mai avuto figli, il nome di sua moglie, non so nemmeno dove viveva, si sa solo che il NCB fu terminato a Kroywen City, quella che una volta, tempo fa, veniva chiamata New York"
Mi guardai attorno con curiosità, osservando ora una ragnatela sul soffitto, ora i mocassini neri di uno dei due scagnozzi di Gary. Tutto quello che quest'ultimo mi diceva mi era completamente indifferente. Immagazzinavo informazioni solo per poter compiere il mio compito, nient'altro. A me interessava solo scoprire come poter raggiungere questo fantomatico dottor Morgan, tutto quello che non era tangibile, come i suoi sentimenti, la sua pazzia e le sue paure non erano un mio problema.
"Mi duole non poterti dare più informazioni, Iron, ma purtroppo non c'è nessun'altra notizia a riguardo ma … " sorrise, avvicinandosi a me e prendendomi il mento con due dita: "Non credo tu ne abbia bisogno, non è così, mio piccolo amico?"
Sorrisi anch'io, questa volta con delle labbra vere, di carne, che si incurvarono fino a diventare identiche alle sue: "Certo che no, Gary"
"Bene" asserì, per poi alzarsi e aggirare la mia sedia, mettendomi poi le mani sulle spalle. Alle narici mi arrivò l'odore penetrante della sua sigaretta e non mi sembrò quasi vero di provare una simile sensazione.
"È giunto il momento che tu compia quello per cui sei stato progettato, Iron. Pensi di potercela fare?" mi chiese con tono beffardo e canzonatorio. Per tutta risposta mi alzai in piedi, sovrastandolo di alcuni centimetri e barcollando sulle mie nuove gambe mi avviai al computer e fissai per lunghi istanti il volto della mia vittima:"Com' è il mondo al di fuori da qui, padrone?"
A Gary scappò una risata leggera:"Mio caro amico, il mondo al di fuori da qui è immenso. Pieno di insidie, di inganni, di creature crudeli che vogliono solo farti del male e che non esitano a porre fine alla tua vita appena se ne presenta loro l'occasione"
"E non esistono cose piacevoli? Mcgrant mi ha insegnato a cogliere solo i lati positivi ma dai tuoi discorsi non riesco a captarne nemmeno uno"
"Mcgrant era solo un ciarlatano" disse con il suo solito gesto di non curanza con la mano destra, spandendo nell'aria cerchi irregolari di fumo, "molti anni or sono un famoso profeta disse ai suoi discepoli che era cosa buona e giusta fidarsi del nostro prossimo ma a giudicare dalla fine che ha fatto mi viene da pensare che il suo consiglio non fosse, per così dire … esatto. Io ancora adesso mi chiedo perché un uomo debba sacrificare se stesso per portare una croce carica dei peccati degli altri. E il tuo caro paparino, se pur in un modo più lieve, ha subito lo stesso calvario"
Continuai a guardare l'immagine del dottor Morgan e senza pensarci indietreggiai e mi risedetti alla mia postazione. E sia, avrei fatto quello che mi era stato ordinato, avrei ucciso quell'uomo prima che avesse terminato la costruzione dell'NCB.
"Allora, procediamo Iron?"
Annuii serrando le mani attorno ai braccioli della sedia, quindi chiusi gli occhi e mi preparai al mio viaggio attraverso il tempo.
Non mi era più possibile trarre il mio potere dal mio sogno, in quanto, ora me ne rendevo conto, esso era solo frutto di un caso, di un malfunzionamento dei miei circuiti. Io non avevo la capacità di usare la fantasia; ma nonostante questo quando chiusi gli occhi mi tornò alla memoria i colori vividi di quella distesa di fiori e mi chiesi perché mai quelle visioni continuavano a tormentarmi. Decisi che dovevo oppormi, decisi che avrei dovuto trovare un'altra soluzione per smaterializzare il mio nuovo corpo.
"Ehi, voi due! Portami un bicchiere d'acqua per favore" urlò Gary ai suoi due scagnozzi, "ho la gola secca dopo tutte queste emozioni"
Buttò la cicca della sigaretta a terra, senza curarsi troppo di cercare un posacenere. Il pavimento della sala era pieno dei suoi mozziconi, segno dell'ansia e della febbrile tensione che doveva avere subito in tutti quegli anni di volontario esilio.
Uno dei due uomini arrivò poco dopo con una brocca ed un bicchiere sbrecciato. Glielo riempì e glielo porse, defilandosi subito dopo essersi inchinato al suo cospetto.
Il riccio bevve un lungo sorso e sospirò soddisfatto, schioccando la lingua contro il palato. Io guardai quel liquido a me ignoto con curiosità.
"È così rara l'acqua di questi tempi …" mormorò rigirandosi il bicchiere tra le mani, "una volta invece era così abbondante che gli uomini ne sprecavano in quantità sproporzionate. È' proprio vero che più possiedi e meno ti curi di quello che hai"
Posò il bicchiere vicino alla fine tastiera del pc, fissandomi ostinatamente negli occhi: "E tu, che sei così unico al mondo, quanto tieni alla tua vita?"
Vedendo che non rispondevo, continuò a parlare: "Io ci tengo alla mia, di vita. Proprio per questo voglio tornare indietro e sconvolgere il passato. Non importa cosa succederà, ma pretendo che anche il mio percorso sia rimodellato all'altezza dei sogni che ho"
Annuii, come se davvero comprendessi i suoi discorsi, poi spostai lo sguardo sulle bollicine che l'acqua creava nel bicchiere. Mi persi fra di esse, mi immedesimai nel loro circolo vizioso, a contatto col vetro salivo anch'io fino in superficie fino a scoppiare nell'aria.
Erano semplici leggi della fisica. La gravità le portava in alto e loro sparivano. Non sceglievano loro dove andare, non c'era una bollicina ribelle che invece di salire scendeva in fondo. Seguivano soltanto gli ordini di una forza più potente di loro.
Richiusi gli occhi, e questa volta mi ritrovai immerso in un'immensità d'acqua frizzante. Mi sentivo leggevo e senz'anima, propria come una bolla. Alle mie orecchie arriva solo la voce ovattata di Gary, che blaterava qualcosa sul destino. Mi concentrai, sentendo le mie membra formicolare: percepivo concretamente le dita della mano che iniziavano e scomparire, i muscoli della gambe che svanivano e i miei circuiti che, sotto la pelle, erano posseduti da una potenza inimmaginabile.
La pressione dell'acqua mi spingeva in alto, ma avevo ancora abbastanza coscienza da riuscire ad oppormi. Poi però mi resi conto che era stupido farlo, che io dovevo solamente accettare la mia natura. Aprii la bocca, che venne invasa da quel liquido trasparente, provai l'immenso piacere di riempirmi lo stomaco, per poi scoprire la sensazione di annegamento, oppresso dalla forza del mio nuovo padrone. Mi rilassai, lasciando che anche il resto del mio corpo si fondesse con l'infinito.
Nel bicchiere di vetro vicino alla sua mano, Gary notò un barlume di luce risplendere tra le bolle, e in una crescente intensità, vide il mio corpo scomparire dalla sedia. Ero in un'altra dimensione, naufrago nell'etere.

L'uomo dai riccioli ribelli sogghignò soddisfatto, sfregandosi le mani: "Dopo tutto questo tempo, la mia vendetta sarà molto più gustosa di quanto me la fossi mai immaginata … John!" chiamò, e uno dei due uomini gli arrivò al fianco: "Dica, padrone …"
Gary gli accarezzò una guancia paffuta, ostentando quel sorriso: "Prepara il pranzo, da bravo. Il nostro caro robottino starà via per molto tempo e non mi sembra il caso di morire di stenti proprio ora che il gioco è iniziato"
 

Non so per quanto rimasi in quello stato di annullamento totale, cullato dal nulla e dalle tenebre, ma mi sentivo in pace con me stesso, rilassato e senza preoccupazioni. Avrei voluto rimanere così per sempre. Ma poi, di scatto, venni investito da una luce potente, che mi accecò la vista per qualche istante. Il mio corpo riprese forma, e sentii l'impatto doloroso della mia schiena con il suolo. Aprii controvoglia gli occhi, abbacinato da un bagliore che non era certo tenue come quello prodotto dai neon del laboratorio.
Mi guardai attorno per scoprire da dove provenisse tutto quel luccichio e per la prima volta nella mia vita vidi il Sole. Un immensa palla bianca, che a guardarla troppo a lungo iniziò a disegnare strani giochi di luce nei miei occhi. Serrai le palpebre e lo rividi ancora, nel buio, proprio come se fosse dentro ai miei occhi.
Scrollai le spalle e puntai i gomiti a terra, alzando la testa. Mi trovavo in un vicolo deserto, nudo vicino a dei sacchi neri. Gattonai fino al più vicino e lo aprii, scoprendo che conteneva del cibo. Dall'odore non sembrava molto commestibile, ma la mia fame prese il sopravvento e staccai lo stesso un morso ad un frutto quasi completamente nero: "Mela?" sussurrai, mentre dentro di mente le informazione saettavano da un lato all'altro del mio cervello. Ne mangiai ancora, sputando i semi che mi finivano in bocca.
Era tutto strano per me, tutto nuovo, così che mi meraviglia quando il mio corpo rabbrividì ad una folata di corrente gelata.
Poco più in là c'erano alcuni vestiti abbandonati in un angolo del vicolo. Scovai una giacca e la indossai, senza badare all'odore fastidioso che aveva, poi presi dei pantaloni sgualciti e feci forza sulle braccia per mettermi a sedere.
 Mi guardai attorno senza sapere dove mi trovassi e quale fosse la mia meta … o meglio, la conoscevo, sì, ma non sapevo come arrivarci.
Alle mie spalle sentivo delle voci indistinte e qualcosa mi disse che dirigermi in quella direzione fosse la mossa più intelligente da farsi; mi alzai in piedi e mossi una decina di passi, ciondolando per riuscire a tenere su gli indumenti troppo grandi per la mia corporatura.
Davanti a me vidi centinaia di persone che sfrecciavano a pochi centimetri dal suolo a bordo di strani veicoli la cui carrozzeria mi ricordavano il colore della mia vera pelle, lucida e bianca quasi fosse un bozzolo di seta.
Un istinto a me sconosciuto mi spinse a mettere un piede sulla strada nera come la pece e subito l'altro piede lo seguì e in breve tempo mi ritrovai in mezzo a quelle macchine ma non ebbi paura perché per la prima volta mi sentivo in mezzo a dei miei, seppur meno elaborati, simili, fatti di circuiti e ingranaggi e valvole, esattamente come me. Ma ben presto scoprii che il mondo era veramente come me l'aveva descritto Gary: dietro di me udii un acuto stridio e mi girai di scatto, in tempo per rendermi conto che uno di quegli strani congegni fluttuanti mi stava venendo addosso. La mia reazione fu fulminea, mi gettai a terra e il fondo liscio di quell'insolito oggetto mi sfiorò il capo. Dall'interno del veicolo sentii una voce inveire contro di me per poi diventare sempre più flebile man mano che essa si allontanava da me, scomparendo all'orizzonte.
Nuove sensazioni crebbero in me, che non avevo ancora provato, come l'accelerare del battito cardiaco ed il movimento ritmato del mio petto che cercava disperatamente di riprendere fiato mentre, ancora madido di sudore, mi rimettevo in piedi e con maggior prudenza mi appressavo a raggiungere l'altra estremità di quella via.
Quando fui sicuro di essere in salvo, mi accorsi che davanti a me si ergeva un enorme edificio di un delicato materiale simile al vetro, ma molto più luminoso e resistente.
Posai una mano su di esso, era liscio e scaldato dal sole, e la mia immagine si rifletté distintamente tra le sue sfaccettature.
Non dimostravo più di trent'anni: il mio viso era affusolato e magro, di un colorito latteo e lievemente più arrossato attorno agli zigomi alti, con un naso che disegnava una linea dritta e sottile nel centro del mio volto, al di sotto del quale due labbra carnose e rosee spiccavano tra la leggera barba bruna che mi copriva la mascella scolpita e il mento tondeggiante. I capelli, di un biondo scuro, mi crescevano fino al collo, andando a coprire le orecchie e buona parte della fronte. Solo gli occhi erano rimasti del loro tenue lilla originale, unica pecca testimone della mia maschera apparentemente perfetta. Deglutii, abbassando lo sguardo sulle mie mani e sul mio corpo, così perfetto e così immacolato, che solo apparentemente poteva sembrare umano.
Poggiai un palmo sulla superficie liscia dell'edificio, accarezzandolo e avvertendo sotto ai polpastrelli il tocco leggero delle impercettibile sfregiature causate dal tempo e dall'usura. Quel luogo mi infondeva un rassicurante sonno, tanto che mi sdraia ai suoi piedi e chiusi gli occhi, cullato dallo sfrecciare continuo delle macchine sulla strada, piene di fretta, piene di impazienza, di smania di arrivare al più presto alla meta. E io, proprio come una macchina, attendevo impaziente che il mio primo indizio mi arrivasse tra le mani.
Tra i miei pensieri ricomparve quella viola, dal profumo inconfondibile. Ancora una volta sognai di raccoglierla, di portarmela al viso ed annusarne la fragranza delicata. Quando poi vi poggiai sopra le labbra, un calore potente mi invase, e fu come se mi avvolgesse fra i suoi petali in un abbraccio materno e rassicurante.
Mi risvegliai di soprassalto da quel sogno, colto da un lieve tremore. Serrai gli occhi e i pugni, scuotendo la testa. No, non dovevo farmi sopraffare da quei maledetti ingranaggi difettosi nel mio cervello. Tutto quello che dovevo fare era concentrarmi sulla mia missione e niente di più. Al diavolo i sogni e i fiori, era giunto il tempo che la mia dolce favola della buonanotte si tingesse del rosso vermiglio del sangue.
Tornai a rannicchiarmi al suolo, passando a rassegna tutte le informazioni che avevo sul dottor Morgan. Nessun altro essere umano era più importante della mia vittima e del mio destino.
 

Violet sedeva composta sulla polverosa sedia imbottita della libreria. Sfogliava assorta un libro consunto e dalla copertina di pelle nera, su cui il titolo dell'opera, non più visibile, era stato scritto a mano dalla bibliotecaria: "I viaggi di Gulliver". Leggendo qualcosa riguardante gli struldbrugs, esseri costretti alla vita eterna senza poter trovare un po' di pace dai dolori e dalla vecchiaia nella morte, provò un immensa pena per tutti i robot che giravano senza intralci per la sua città, condannati alla stessa sorte. Era un pensiero struggente, che suo padre avrebbe definito inutile, ma tant'era. Non riusciva a non provare compassione per quegli esseri, non poteva disfarsi tanto facilmente dei suoi sentimenti come invece avevano fatto tutti gli altri suoi conoscenti. Violet non era nemmeno simile alle sue coetanee. Aveva da poco compiuto vent'anni e il suo viso era ancora quello grazioso e leggermente paffuto di una bambina, su cui spiccavano due bellissimi occhi di un verde profondo, simile al colore dolce delle colline che scorgeva in lontanza dalla piccola finestrella della biblioteca.
Si aggiustò una ciocca di capelli neri dietro all'orecchio, bagnandosi con la punta della lingua due dita e pizzicando l'angolo della pagina che aveva appena finito di leggere. La voltò, ricominciando a divorare le parole con un tenero sorriso sognante in viso. Le piacevano i libri, quelli vecchi e polverosi che poteva trovare solo più in quella vecchia biblioteca che persisteva nel tempo. Era un affronto per lei leggere sullo schermo di un pc, non riusciva a cogliere il vero significato di ciò che i suoi occhi catturavano, perché i colori, le parole, le immagini erano finti, scritte da un macchina senz'anima che nemmeno sapeva quanto sudore e lacrime e sorrisi aveva potuto portare quell'opera al suo creatore.
Per quello veniva in quel posto, attorniata solo dal'odore stantio di carta consumata e ingiallita, rinchiudendosi in un mondo fatto di draghi, di damigelle in pericolo, di principi azzurri in sella a cavalli alati e neri come l'ebano o bianchi come la neve.
Si aggiustò il vestito color miele sulle ginocchia, accavallando le gambe e umettandosi le labbra lievemente colorate di rosso, appoggiò il piccolo mento ai palmi delle mani, sostenendosi sul tavolo di legno.
Trascorse così ancora alcune ore, poi il campanile immenso di Perdura Street suonò le sette. Si ricordò improvvisamente che lei tra un'ora avrebbe avuto un appuntamento col suo ragazzo, Shaun, e non poteva certo mancare: era il loro primo anniversario!
Richiuse il libro a lo mise accuratamente dentro la tracolla bianca, che riconobbe le impronte digitali della ragazza e con un sommesso tic si richiuse all'istante.
Passò dalla bibliotecaria, una signora anziana almeno quanto l'edificio in cui lavorava, che le sorrise increspando le molteplici rughe del viso. Gli occhi stanchi della donna incrociarono quelli vispi della ragazza, e le due si scambiarono un gesto d'intesa.
"A domani, Violetta" le disse la vecchia con voce roca, e lei annuì, uscendo in strada.
 
Fuori, l'atmosfera non era certo calda come dentro al suo rifugio. Era l'inizio di ottobre, le foglie cadute degli alberi cadevano e rotolavano per le strade, unica forma di natura in quella immensa metropoli. Violet si alzò il bavero della giacca e si incamminò verso la Fontana di Kroywen, gigantesca struttura costruita in marmo e cristallo, come del resto tutte le case e i grattacieli della città. Si ravviò i capelli spettinati dal vento e attraversò la strada per poter così passare per Winoa Square e raggiungere il suo fidanzato. Sopra la sua testa, milioni di passerotti cinguettavano infreddoliti, tornando a casa. Il suo sguardo si perse nel cielo tinto di rosa ed oro del tramonto, intristito da alcune placide nuvole all'orizzonte che facevano trapelare il bagliore del sole rosso che si nascondeva tra le colline.
Allargò le braccia e comminò ad occhi chiusi, immersa nei suoi mondi fantastici, tanto che non si rese conto dell'uomo in cui inciampò, e gli rovinò addosso. Il tizio si svegliò di soprassalto, guardandola di traverso. Lei si raddrizzò e si portò le mani alla bocca dispiaciuta: "Oh, Dio, scusami! Non volevo venirti addosso, davvero, non l'ho fatto apposta! Stai bene? Ti sei fatto male?"
L'uomo, che aveva due splendide iridi di un viola chiaro, la guardò per alcuni istanti, fisso sulle sue guance imporporate per la vergogna e il freddo. Le sembrò che le stesse sondando l'anima, tanto era carico il suo sguardo. Ed era bello, questo Violet lo notò fin da subito; una bellezza sconvolgente, che le mozzò il fiato. Gli osservò i lineamenti gentili ma forti, e sbatté delicatamente le ciglia mentre seguiva il suo petto alzarsi e abbassarsi a ritmo del suo respiro affannato.
"Sto bene" rispose dopo un po', annuendo impercettibilmente.
Lei si portò una mano al petto, rasserenata: "Meno male. Sai, il cielo è così bello questa sera, che non potevo non guardarlo"
" … senza finirmi addosso" obiettò lui con un punta di rimprovero.
Violet abbozzò un sorriso imbarazzato: "Già … già … scusami" ripeté.
Lui alzò la mano con un gesto di noncuranza, sostenendo il suo sguardo scuro: "Sono in Kroywen City?" chiese, cambiando discorso.
Annuì: "Si, ma ora devo proprio andare, ho un appuntamento. Mi dispiace se ti ho svegliato, ma ti converrebbe metterti al riparo, sta per piovere mi sa. Se stai lì sotto ti bagnerai tutto. Tieni, ecco, prendi questo" gli porse una moneta da due Rail, e gliela posò nel palmo che lui gli aveva proteso.
Toccando la sua pelle un brivido di freddo la percorse da capo a piedi, e lei si ritrasse spaventata a quel tocco.
"Puoi andare in una Casa di Mattoni, lì ti accoglieranno e ti daranno anche da mangiare" gli disse con un sorriso.
Lui ne abbozzò uno, che non durò molto sul suo viso: "Mi aiuti?" le chiese, inclinando un po' la testa.
Violet alzò le spalle: "Ti sono venuta addosso e ti ho svegliato: è il minimo che possa fare, non ti sembra?"
Lui annuì, serrando le dita attorno ai due Rail: "Grazie" mormorò, e le sue labbra le fecero venire improvvisamente voglia di una calda giornata d'estate.
"D-di niente, non preoccuparti. Passa una buona serata!" esclamò per poi incamminarsi di nuovo verso la fontana, senza aspettare che quello strano tipo le rispondesse.
Aveva freddo adesso, scossa da violenti tremori non dovuti solamente al vento che le correva sotto le gambe.
Quando vide il suo ragazzo gli sorrise, correndogli incontro. Ma le carezze calde di Shaun sulla sua pelle non le fecero dimenticare quelle mani gelide che, solo per un attimo, erano entrate in contatto con le sue, scombussolando ogni granello del suo animo.  
   

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