Occhi di giada

di miseichan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Mathias Reed ***
Capitolo 3: *** Turner e Hutch ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


1

 

 

Occhi di giada

 

- Che dici? -

- Assolutamente no –

Il silenziò calò, avvolgendo la stanza, regnando sovrano per qualche secondo.

- E tu che dici? -

- Non se ne parla neanche –

E quel re, spodestato per un attimo, salì nuovamente al trono.

I tre uomini fissavano il giornale, scambiandosi di tanto in tanto un’occhiata incerta. Seduti attorno ad una scrivania mal illuminata, la giornata ormai finita. Quello che era al centro non si arrese e dopo aver fatto fare un giro alla sedia tornò alla carica:

- Siete sicuri? –

Gli altri due sorrisero, aprendo la bocca per rispondere come era dovuto.

Non ci riuscirono, però, le parole che venivano interrotte sul nascere dai passi che risuonarono chiari lungo il corridoio. Saltarono in piedi in contemporanea, affaccendandosi per chiudere il giornale ed assumere l’espressione più innocente possibile.

Chiunque, tuttavia, entrando in quella stanza avrebbe sospettato qualcosa.

Chiunque, vedendoli tesi e tanto impegnati a coprire la scrivania, avrebbe capito che qualcosa non andava. O che, più probabilmente, erano loro ad aver fatto qualcosa che non andava fatto.

Chiunque, quindi, lo avrebbe capito. Figurarsi lei.

- Che facevate? -

- Niente – risposero i tre, in contemporanea, mostrando sorrisi palesemente falsi.

Lei annuì, fintamente condiscendente, cercando di girare attorno alla scrivania. Si muoveva piano, osservando attenta le mosse degli uomini che a loro volta studiavano i movimenti di lei.

Si era spostata appena di qualche centimetro quando, inaspettato, il telefono suonò:

- Beckett -

Ryan sospirò, guardando con sollievo le spalle che la donna aveva rivolto loro: afferrò il giornale e lo passò ad Esposito che, tanto abilmente quanto furtivamente, lo fece sparire all’interno di un cassetto. Lì sarebbe stato al sicuro: sepolto fra verbali che di interessante avevano ben poco.

- C’è mancato poco – sussurrò Castle, sorridendo di sbieco e lasciandosi cadere su una sedia – Spero solo che non sia un… -

- Un omicidio – disse Beckett, girandosi e chiudendo lo slide del cellulare – Sulla Quinta avenue –

Castle fece una smorfia, borbottando qualcosa:

- Ma non c’è un orario di chiusura? – si lamentò, guardando malevolo l’orologio che segnava un quarto d’ora alle due di notte. O di mattina, a seconda dei punti di vista.

- Il crimine non dorme mai – affermò Ryan, stringendosi nelle spalle e indossando il cappotto.

- Non sei costretto a venire, Castle – disse Beckett, sistemando la fondina attorno alla vita – Ce la facciamo anche senza di te –

- No, grazie, vengo – sorrise lui – Non ho niente di meglio da fare –

Afferrò la giacca e si avviò verso l’ascensore.

Beckett, dietro di lui, sospirò: lanciò un’occhiata alla scrivania, trovandola completamente vuota e scosse la testa. Entrando nell’ascensore sorrise sorniona: una volta tornata in centrale avrebbe controllato il cassetto dei verbali di Esposito.

 


*

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** Mathias Reed ***


2

 

 

Occhi di giada

 

§ Mathias Reed §

 

 

 

 

- Che abbiamo, Lanie? -

La donna era inginocchiata all’angolo della strada: la luce di un riflettore ad illuminare quel breve tratto di marciapiede. Non c’era la luna, quella notte. Diverse teste si erano sollevate, incuriosite dall’assenza di quel familiare chiarore, per scontrarsi bruscamente con una scura coltre di nubi.

L’aria era ferma ed inquietante era il silenzio che gravava sulla zona. Era strano sentirsi parte di una quiete del genere, a New York. Capitava assai di rado in una metropoli del genere di riuscire a sentire i propri pensieri. Forse per questo, ognuno tentava di distrarsi, a modo suo.

- Cosa abbiamo? – mormorò la donna, senza guardarli – Posso dirti cosa non ho. Non ho una coperta, un letto, un cuscino. Li avevo, certo, ma a quanto pare raramente riesco a tenerli con me la notte -

- Nessuno di noi ci riesce, purtroppo – approvò Esposito, spingendo le mani a fondo nelle tasche.

Lanie sospirò, girandosi finalmente a guardarli. Sorrise, scostando una ciocca di capelli dal viso con il dorso della mano. Indietreggiò, lasciando modo anche agli altri di vedere il corpo su cui era china.

Ciò che si notava a un primo impatto era solamente un cadavere prono.

Prestando maggiore attenzione, poi, si registravano altri particolari: le gambe appena divaricate, le braccia stese lungo i fianchi, le mani aperte. I vestiti non avevano alcunché di particolare: un paio di semplici pantaloni neri e una camicia bianca con le maniche lunghe.

E, come ultima cosa, gli occhi di chi guarda notano quelle striscioline rosse. Sottili, sparpagliate sulla schiena del cadavere. Il sangue era rappreso attorno alle ferite e creava un contrasto non indifferente con il pallido candore dell’indumento. Pugnalate.

- Fammi indovinare – sussurrò Castle, inclinandosi sul corpo – Ucciso a coltellate –

- Sbagliato - ribatté Lanie, senza smettere di sorridere.

Spostò il peso sui talloni, indicando con la mano le numerose ferite:

- Nove coltellate – disse – Profonde almeno un paio di centimetri, apparentemente inferte secondo un ordine casuale. Non sono state la causa della morte -

Lanie si avvicinò di qualche centimetro alla schiena: con due dita mostrò i contorni dei tagli.

- Non c’è stata una grande fuoriuscita di sangue, segno che… -

- Sono state inferte post mortem – concluse per lei Castle, annuendo con il capo, convinto.

- Esattamente – concordò la donna, lanciandogli un’occhiata – Credo invece che la morte sia da attribuirsi a questa…  - disse, spostando la mano verso il collo del corpo e facendo sì che l’attenzione di tutti si spostasse su di esso: una lunga striscia rossa, profonda, ne percorreva il perimetro.

- Strangolamento? – domandò Beckett, inginocchiandosi di fianco alla donna.

- Sì – mormorò Lanie, annuendo – Con una fune o una cordicella, ora non posso essere più precisa –

- Cosa denota accoltellare qualcuno per ben nove volte dopo averlo strangolato? – domandò Castle, incrociando lo sguardo di Beckett soprappensiero.

- Odio – rispose lei, l’espressione seria – Una profonda volontà di far soffrire. Rabbia repressa –

- Niente di buono, insomma – sospirò Ryan, passandosi una mano fra i capelli.

- Non possiamo girarlo? – s’intromise Esposito, reprimendo uno sbadiglio – Tanto per capire con chi abbiamo a che fare

Lanie annuì, facendo cenno ad un tecnico vestito di bianco di avvicinarsi. Insieme voltarono il corpo, lasciandolo supino sull’asfalto. E fu come se tutti seguissero un copione prefissato, perché arretrarono in contemporanea, come un sol corpo. Un passo all’indietro, le labbra dischiuse in un’espressione di pura e genuina sorpresa. Rimasero in silenzio ad osservare il corpo senza vita del ragazzo.

Giovane, non poteva avere più di trent’anni. E, semplicemente, era…

- Bellissimo – biascicò Beckett, senza riuscire a distogliere lo sguardo da quello senza vita di lui.

Gli occhi erano ancora aperti e sembravano fissare tutti i presenti. Non erano di un normale azzurro: pieni invece di striature, venature differenti e variegate. Celeste, fiordaliso, acquamarina e cobalto, si confondevano, alternandosi e amalgamandosi. Un gioco ingannevole e affascinante. Ipnotizzava, rendendo difficile, quasi impossibile, non lasciarsi conquistare.

Lanie gli abbassò delicatamente le palpebre con un sospiro.

- Bellissimo, davvero – mormorò, afferrando un blocco appunti alla sua destra.

- Maschio, età approssimabile ai trent’anni – cominciò ad elencare, prendendo quindi nota di volta in volta – Biondo, occhi azzurri. Un metro e ottanta circa –

Mentre lei parlava sarebbe stato difficile capire se gli altri la stessero o no ascoltando.

Beckett lasciò scorrere ancora una volta lo sguardo sul volto del ragazzo, incredula. Non aveva mai visto tratti così perfetti: erano delicati, quasi eterei. Quelli di un principe, o di un angelo.

Il viso sottile, la pelle diafana. Le labbra sembravano boccioli di rosa e i riccioli biondi contornavano la fronte con leggiadria, come se un pittore li avesse puntigliosamente disegnati uno ad uno.

- Tutto bene? -

Beckett si girò, richiamata alla realtà dalla voce preoccupata di Castle. Annuì, accennando un sorriso.

- Certo – disse, schiarendosi la voce – Documenti? – chiese, poi, rivolta a nessuno in particolare.

- Non solo – rispose Esposito, diversi fogli stretti nella mano inguantata. Ne tenne un paio e ne passò altri a Ryan. Li sfogliarono rapidamente, mormorando qualcosa alternativamente:

– Mathias Reed –

- Uno scontrino del supermercato -

- Ricevuta della lavanderia –

- E cartacce varie – concluse Ryan, infilandoli tutti in una busta trasparente.

Beckett annuì, guardandoli entrambi e poi spostando un’ultima volta gli occhi su Lanie.

- Fra le quattro o le cinque ore fa – rispose alla muta domanda la donna – Non posso dirtelo con certezza, ad ogni modo -

- Benissimo, non perdiamo tempo – annuì Beckett – Ryan, Esposito – chiamò – Conoscenti, legami, impegni, tempo libero. Castle e io interroghiamo nei dintorni –

I due uomini assentirono, facendo per allontanarsi:

- Ci rivediamo in centrale –

 

*

 

 

 

 

 

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Capitolo 3
*** Turner e Hutch ***


3

 

 

Occhi di giada 

 

 

§ Turner e Hutch §

 

 

 

 

- Non ci apriranno –

Beckett alzò gli occhi al cielo, esasperata.

- La smetti di ripeterlo, Castle? – sbuffò, guardandolo di sbieco.

- Io la smetterei anche, ma tu non mi ascolti –

- E’ il mio lavoro, Castle – ribatté lei, severa.

- Non ascoltarmi? – chiese lui, inarcando un sopracciglio.

- Interrogare chi può sapere qualcosa per ottenere informazioni – sospirò Beckett, fortemente tentata di affibbiargli seduta stante uno scapaccione. Forse, però, non sarebbe stato il caso.

- E io lo capisco – accondiscese Castle, sbadigliando – Certo non puoi pretendere, tuttavia, che la gente ti apra la porta di casa alle tre di notte –

- Del mattino, Castle – sibilò Beckett – E sì, lo pretendo –

Senza aggiungere un’altra parola la donna salì gli ultimi scalini e si affrettò a suonare il campanello della porta del primo appartamento. Attese qualche minuto dopo la prima scampanellata, ma non proveniva alcun rumore dall’interno della casa, così si decise a bussare.

Aumentò la forza dei colpi nel momento stesso in cui vide il ghigno di Castle con la coda dell’occhio: non gliel’avrebbe data vinta per nessun motivo. A costo di sfondarla, quella dannatissima porta.

- Sto arrivando! – si sentì improvvisamente gridare nell’appartamento.

Beckett smise di tempestare di pugni l’uscio e sorrise, altezzosa, in direzione dell’uomo al suo fianco.

Dopo pochi istanti la porta venne spalancata, lasciando che la figura di un signore attempato sulla mezza età si delineasse davanti ai due. Castle accennò un sorriso imbarazzato, per poi arretrare con noncuranza di un passo alla vista del bastone che l’uomo stringeva nella mano destra.

- Chi siete? – berciò il signore, inforcando con dita tremanti un paio di occhiali spessi come fondi di bottiglia. Li fissò, scrutandoli con occhi malevoli, le labbra contratte in una smorfia di disappunto.

- Polizia di New York, signore – rispose Beckett, mostrandogli il distintivo – Scusi il disturbo, ma vorremmo farle delle domande –

- Sa che ore sono, signorina? – s’impuntò l’uomo, l’espressione seria e bellicosa.

- Le tre – annuì Beckett, nascondendo il disagio – Sono mortificata, ma… -

- Le tre, dodici minuti e trentanove secondi – la interruppe l’uomo, scandendo le parole – Ero riuscito a prendere sonno da meno di un’ora. Sa cosa significa soffrire d’insonnia, signorina? –

- No, non lo so – balbettò Beckett, irritata tanto dalle parole del suo interlocutore quanto dalla risata repressa di Castle accanto a sé – So, però, che devo necessariamente farle delle domande –

- E le faccia allora, coraggio – sospirò l’uomo, concedendole un’altra occhiata biasimevole.

- Ce… certo – annuì lei, sorpresa dal repentino cambio di discorso.

- Ma che problema ha? – grugnì il signore, rivolgendosi ad un falsamente compunto Castle.

- Credo sia la stanchezza – sorrise lui, ignorando l’espressione rabbiosa di Beckett.

- Questi giovani d’oggi – concordò l’altro – Non sanno più cosa sia l’educazione –

Beckett alzò gli occhi al cielo, mordendosi la lingua per non lasciarsi sfuggire alcun commento.

- Ha sentito qualche rumore, signor… - lanciò un’occhiata alla targhetta fuori la porta - … Kane? -

- Rumori di che genere? – chiese l’uomo, stancamente.

- Fra le dieci e la mezzanotte – disse Beckett – In questo arco di tempo, ha per caso sentito qualcosa, si è accorto di qualcosa di strano? Spostamenti, grida… -

- Non ho né sentito né visto alcunché –

- Ne è sicuro? – insisté Beckett, ignorando i segnali che Castle le stava facendo con le mani.

- Al cento per cento – berciò l’uomo – E ora, se a lei sta bene, gradirei tornare nel mio letto. Dove, per inciso, ci sono pochissime probabilità che io riesca a riprendere sonno

- Certo – annuì Beckett, demordendo.

- Scusi ancora per il disturbo – lo salutò Castle, appena un istante prima che la porta venisse chiusa con violenza davanti ai loro occhi. Sorrise, un “te l’avevo detto” che gli pizzicava la lingua, insistendo per essere pronunciato. Si trattenne, limitandosi ad ampliare il sorriso.

- Smettila, Castle – soffiò Beckett, avvicinandosi alla porta successiva.

- Non ho detto niente – ghignò lui, fermandosi di fianco a lei.

- Lo stai pensando –

Beckett fece per suonare il campanello, ma Castle la fermò, scuotendo la testa:

- Lascia provare me – disse, mettendosi un passo avanti a lei.

Batté tre volte sulla porta, delicatamente, quindi arretrò appena. Silenzioso.

Beckett sorrise, divertita dall’inutile tentativo di lui. Schiuse le labbra, pronta a commentare, quando la porta venne aperta con un sottile cigolio. Spalancò gli occhi, osservando incredula la vecchietta che era appena apparsa: minuta, avvolta in una vestaglia da notte rosa confetto. Un libro stretto in mano, sorrise,  guardandoli con benevolenza:

- Posso esservi d’aiuto? -

- Ci spiace disturbarla a quest’ora di notte, signora, ma dovremmo farle qualche domanda – disse Castle, un sorriso sempre impresso sulle labbra.

- Voi siete…? – domandò ancora l’anziana signora, tutta l’attenzione rivolta a Castle.

- Polizia di New York –

Beckett strinse le labbra, trattenendosi a stento dall’intervenire con acredine.

- Oh, certo – annuì la vecchietta, stringendosi nella vestaglia – Mi dica. Spero solo di poterle essere d’aiuto -

- Lo sarà sicuramente – mormorò Castle, il tono stucchevole – Allora, verso le… -

- Oh, ma non restiamo sulla porta – lo bloccò la signora, arpionandogli il braccio con la mano libera, e trascinandolo verso l’interno della casa – Entrate, così vi offro un caffè e ci sediamo un po’ –

Si ritrovarono in un minuscolo salotto, semplice: un paio di divani e una poltrona. La luce era soffusa, proveniente unicamente da una lampada che sovrastava la poltrona. Beckett si guardò attorno con aspettativa, sicura di veder comparire ovunque gatti di tutte le razze. In silenzio, prese posto su un divano a caso, imitata subito dopo da Castle. L’anziana signora poggiò il libro sul bracciolo della poltrona e si voltò a guardarli, rivolgendosi poi solamente a Castle:

- Un caffè va bene, allora? -

- Non si deve disturbare, signora –

- Oh – s’imbronciò lei, incrociando le braccia delusa – Nemmeno un sorso di tè? L’ho già pronto –

- Se insiste… - accondiscese Castle, facendo tornare il sorriso alla signora.

- Benissimo – gioì lei, allontanandosi velocemente – Torno subito –

Beckett grugnì, accomodandosi meglio ed incrociando lo sguardo divertito di Castle. Sbuffò, incapace di contenersi, e gli scoccò un’occhiata furente:

- Non è giusto – mugugnò, irritata.

- Cosa? – chiese lui, fingendo di non capire.

- Bussi tu e ti capita la dolce nonnina – si lamentò Beckett – Busso io e mi tocca lo scorbutico –

- Zucchero? – sbucò la testa della signora dal corridoio.

- Sì, grazie – risposero in coro.

- Sei impossibile – sorrise Castle.

- E tu insopportabile –

- Eccomi qui – canticchiò la vecchietta, tornando nel salotto e avvicinandosi con un piccolo vassoio fra le mani. Porse una tazza ad entrambi, quindi prese posto sulla poltrona, placida.

- Chiedete pure – mormorò, puntando gli occhi su Castle.

- Ecco… - cominciò lui – Nell’arco di tempo fra le dieci e mezzanotte ha sentito o visto qualcosa di strano? Rumori sospetti, grida, o qualsiasi altra cosa? –

- Fatemi pensare – prese tempo la donna – Una cosa in effetti c’è stata: credo sia successo all’incirca alle dieci: è passata una macchina. Che sarà mai, direte voi… -

Prese un sorso dalla tazza rosa che stringeva fra le mani, invitando i suoi due ospiti a fare altrettanto.

Castle ubbidì, la strana sensazione di essere tornato nel passato: a quelle rare volte in cui passava la serata a casa della nonna. Ecco, si sentiva proprio così. Un docile nipotino che beveva il tè.

- … eppure, mi ha colpito in qualche modo, quella macchina. Ha fatto un sacco di rumore; sbandava: si sentiva dal rumore frequente dei freni e dalle accelerazioni successive. E all’interno ci dovevano essere parecchi ragazzi. Giovani, credo. Sicuramente ubriachi -

- Ubriachi? – intervenne Castle, attento e curioso – Ne è sicura? –

- Certamente – sorrise la nonnina – Urlavano, ridevano… e a un certo punto, giurerei di aver anche sentito il rumore di un vetro che si rompeva. Forse una bottiglia che veniva spaccata, non saprei

Castle annuì, bevendo gli ultimi sorsi dalla sua tazza.

- Non ricorda nient’altro? – domandò, protendendosi verso la vecchietta.

Quella stava per rispondere, quando dei rumori provennero dal corridoio. Si voltarono tutti e tre, ma la signora si limitò a scuotere la testa, tranquilla:

- Oh, non preoccupatevi – rise – Sono solo Turner e Hutch -

Non si aspettava certo di veder sobbalzare i suoi due ospiti, la signora, pronunciando quei nomi. Del resto, lei non era certo al corrente di tutti i loro battibecchi. Non avrebbe potuto capire, perciò, il sorriso che passò sulle labbra di entrambi mentre si scambiavano una veloce occhiata.

Castle annuì ancora, incapace di fare altro.

Beckett, invece, si sporse curiosa verso il corridoio chiedendosi che razza di gatti potessero essere per meritarsi nomi del genere. E sussultò di nuovo, sotto lo sguardo sorpreso di Castle.

- Che c’è? – le chiese lui, zittendosi l’attimo dopo, all’entrata dei due animali.

Non erano gatti, bensì due enormi pitbull. Castle tossì più volte, pallido in volto, e immediatamente ricevette un’occhiata preoccupata da parte della signora che si affrettò a spiegare:

- Oh, ma non deve sentirsi a disagio – sorrise lei – Sono dolcissimi, non tema -

Castle annuì, ancora una volta, quasi per inerzia.

- Se non ha altro da dirci, signora… - disse, facendo per alzarsi, portandosi subito lontano dai due mastini. Beckett lo seguì a ruota, camminando all’indietro.

Aprirono la porta e si fondarono fuori, mettendosi a distanza di sicurezza.

-La ringraziamo infinitamente, signora – disse Castle – Ci è stata di grande aiuto –

- Oh, è stato un piacere – rise la vecchietta – Tornate quando volete –

Detto questo, sorrise un’ultima volta e chiuse delicatamente la porta.

Rimasero immobili, lasciando che il silenzio scendesse su di loro per qualche minuto, avvolgendoli come una tiepida e rilassante coperta. Si guardarono, leggermente restii, sogghignando poi d’istinto:

- Non ti aspettavi i cani, dì la verità -

- Pitbull? – sorrise Beckett – Assolutamente no. Ero indecisa fra persiani e york -  

Si avvicinarono alla terza porta, guardandosi indecisi sul da farsi.

- Busso io? – chiese Castle, inarcando un sopracciglio.

Beckett sembrò pensarci su, alla fine scosse la testa e sospirò:

- Insieme -

Dovettero aspettare per diversi minuti, prima che un tramestio confuso e soffocato giungesse alle loro orecchie dall’interno dell’appartamento. Attesero pazienti, reprimendo a forza l’impulso di bussare ancora, fin quando l’uscio non venne socchiuso. La catenella non era stata tolta.

- Polizia di New York – annunciò Beckett – Possiamo farle qualche domanda? -

Dallo spiraglio buio si intravedeva unicamente un occhio. Dopo che ebbe esaminato il distintivo, il ragazzo aprì completamente la porta. Indossava solo un paio di boxer: bianchi, con tante impronte di labbra rosse disegnate sopra. Castle sorrise, guardandoli con maggiore attenzione: non erano disegni della stoffa, erano baci lasciati con il rossetto. Sghignazzò, rialzando lo sguardo ed incontrando quello del ragazzo. Era nervoso, terribilmente nervoso ed imbarazzato.

- Potremmo fare in fretta, agenti? – chiese, riuscendo unicamente a far sorridere Beckett.

Castle scosse la testa. Non era un sorriso, quello. Era una promessa di guerra.

- Come ho già detto – sibilò, infatti, Beckett – Abbiamo delle domande da farle -

- Certo – annuì il giovane, intuendo di non avere scampo – Dite pure –

Non li invitò ad entrare, cercò invece di chiudere un po’ la porta, come a nascondere l’interno della casa. Castle si mosse con nonchalance, appoggiandosi all’uscio così da farlo spalancare.

- L’abbiamo disturbata? – s’informò a quel punto Beckett, gli occhi fissi sulla carta rossa e vuota di un preservativo che il ragazzo aveva incollata vicino ad una gamba.

- No – proruppe lui, togliendo la carta con uno scatto della mano – Certo che no! –

- Sicuro? – ridacchiò Castle – Perché a me sembra che avesse da fare… -

Il ragazzo impallidì, per poi arrossire di colpo. Non poteva avere più di diciotto anni.

- Le domande – ricordò a Beckett, agitandosi scomposto.

- Vive da solo? –

- Come? – balbettò il giovane – No… i miei… non sono in casa

- Capisco – annuì Beckett – Senta, nell’arco di tempo fra le dieci e mezzanotte, ha per caso sentito qualche rumore sospetto: grida, risse, scontri? –

Il ragazzo corrugò la fronte, girandosi nervoso e guardandosi alle spalle: una ragazza bionda si stava avvicinando, con indosso solo una camicia di parecchie taglie più grandi.

- Cinthya, torna in camera – strillò lui, fulminandola con lo sguardo.

- Ma… - balbettò la ragazza - … e tu? –

- Arrivo subito – ringhiò il ragazzo, tornando a guardare Beckett – No, non ricordo alcun rumore –

- Ne è sicuro? –

- Io… sì, credo di sì – sospirò il ragazzo – Non ricordo niente di particolare –

- Neanche la sua amica? –

Il giovane sussultò, scuotendo la testa e girandosi d’istinto un’altra volta.

- No, sono sicuro di no – disse, una goccia di sudore ad imperlargli la fronte.

- E l’altra sua amica? – domandò Castle, al settimo cielo.

Il ragazzo gemette, voltandosi esasperato: ad avvicinarsi questa volta era una brunetta in slip.

- Karen – la riprese, duro – Torna in camera –

- Vieni anche tu, idiota! – fece lei in risposta, altrettanto severa.

- Ho da fare al momento – sbraitò il ragazzo, tornando infine a guardare Beckett.

- Scusatele – sospirò – Comunque no, non ricordo davvero niente –

- Capisco – mormorò Beckett – Scusi per il… -

Non riuscì neanche a concludere la frase che la porta era già stata chiusa.

- Aveva da fare a quanto pare – sussurrò Beckett, fra se e se.

- Un’orgia, ecco cosa aveva da fare – ghignò Castle – Hai capito i giovani d’oggi! Quando non ci sono i genitori… come si dice, quando il gatto non c’è i topi ballano

Il sorriso che aveva sulle labbra gli morì improvviso, portato via da un improvviso dubbio.

Beckett sorrise, soddisfatta:

- Pensi ad Alexis, vero? -

Castle annuì, passandosi una mano sul volto: - Non lo farebbe mai, vero? –

Lei non rispose, ferma davanti ad una nuova porta. Guardò il campanello, quasi timorosa.

- Sai una cosa, Castle? – mormorò, ottenendo la sua attenzione.

- Cosa? –

- La prossima volta porto Ryan con me –

 

*

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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