Milano Summer Racers

di StephEnKing1985
(/viewuser.php?uid=4263)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** CAPITOLO 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


…zzz…

zzz

Come ogni mattina, Marco De Cristina giaceva nel suo lettone matrimoniale, avvolto dalle coperte come una farfalla nel suo bozzolo. Intorno a lui, una stanza da letto all’insegna del buon gusto, con scaffali pieni di libri e stampe di automobili alle pareti, ascoltava silenziosa i suoi respiri. Tutto era calmo, nulla fuori posto. Il buon Marco dormiva con la bocca semiaperta, mentre un pupazzo dalle fattezze di Winnie The Pooh guardava nel vuoto e spalancava il suo sorriso di peluche, con la mano di Marco sulla pancia. Sparsi sul letto, una caterva di giornaletti manga, e sulla scrivania, un sacco di disegni fatti male dei medesimi personaggi della carta stampata che ogni sera Marco leggeva prima di andarsene a dormire.

 

Accanto a questi disegni, c’erano i libri di testo dell’università: Manuali di gestione aziendale, matematica, statistica e marketing, i quali recavano le etichette con il nome del proprietario e specificatamente il corso che frequentava, “Economia e Finanza per l’Impresa”, a cui Marco era iscritto fuori corso da almeno cinque o sei anni, per volere del padre Alfio.

“Un giorno io non ci sarò più, e tu dovrai dirigere ciò che io ho costruito dal nulla!” gli diceva sempre, e Marco dentro di sé pensava “Papà, ma se dici sempre che i De’ Cristina esistono da quando è esistita l’automobile? Come fai a dire che hai costruito tutto questo da solo?

Di conseguenza, ogni volta che si metteva a studiare, pensando a quelle parole, prima rideva e poi chiudeva i libri, andandosene sul letto a leggersi un’altra avventura da destra verso sinistra.

Anche quello era un problema, la politica. Destra e Sinistra, gli eterni antipodi italiani. Ovviamente suo padre era fermo sostenitore della Destra, e ogni due per tre saltava fuori con discorsi sul lavoro e sul sacrificio, che a suo dire, quelli di Sinistra non avevano mai potuto concepire come valori fondanti. Ovviamente in contrasto con le idee del padre, Marco non poteva nemmeno ricondursi ad un ideale politico tipicamente opposto, in quanto era abbastanza conosciuto da mezza Torino, e quando disgraziatamente passava per un centro sociale, gli davano dello “Sporco capitalista rotto in culo”, provocando in lui un sospiro di rassegnazione e stanchezza, nonché un senso di smarrimento pari forse a quello di un tedesco che si smarrisce in una remota località calabrese senza il navigatore satellitare.

Il senso di smarrimento aumentava se gli veniva la malaugurata idea di pensare ai suoi amici: più che altro erano compagni di scuola (ovviamente privata) figli degli amici di suo padre, che, sotto le influenze dei genitori, erano stati plasmati a loro immagine e somiglianza. Dei perfetti boriosi rompiscatole, che pensavano solo a comprare l’ultimo modello di auto uscita sul mercato, accaparrarsi i migliori orologi delle gioiellerie, ostentare la loro ricchezza, nonché a partecipare ai congressi politici dei vari schieramenti destrorsi.

Insomma, nella sua perfetta vita, gli unici agi che si concedeva erano un credito illimitato presso la bottega dei fumetti, un bel bagno caldo la sera… e dei weekend a Milano, dove viveva Riky (pseudonimo di Riccardo), il suo fidanzato.

Per ovvi motivi, nessuno sapeva che Marco fosse gay. All’inizio aveva pensato di dirlo, ma quando suo padre era saltato su con un’esclamazione piuttosto arrogante riguardo ad un membro del consiglio d’amministrazione che sembrava un gay, si era ben guardato dal fare qualunque dichiarazione.

Tutto sommato la sua storia se la viveva bene, nonostante le varie incazzature di suo padre e l’indifferenza di sua madre, che, fin troppo conscia di non vivere un sogno, spendeva i soldi del marito in crociere e feste ai quattro angoli del mondo, magari visitando anche letti diversi. Ma questo ovviamente a Marco non importava.

 

Quella mattina fu svegliato da un messaggio sul cellulare.

Aprì lentamente gli occhi, investito da un fascio di luce che a quell’ora cadeva sempre direttamente sulla sua testiera. Se li coprì con la mano, quindi si tirò a sedere e acchiappò il cellulare dal comodino. Un giornaletto scivolò sulle coperte fino a raggiungere la moquette del pavimento, mentre Marco apriva e vedeva chi era.

*Se le nuvole potessero ascoltarmi, porterebbero il messaggio del mio cuore e lo sussurrerebbero alle tue orecchie: Ti amo, mio dolce gianduiotto.*

Il messaggio era firmato da Riky. Sorrise, e rispose con un

*Amore mio, mi manchi tanto. Vorrei venire lì e vederti, ma oggi devo andare a lezione. Penserò ai tuoi baci infuocati ed al tuo corpo sopra il mio.*

Sorridendo sognante, si distese sul letto e sospirò di felicità.

Il suo attimo di estasi, tuttavia durò poco.

- Marco!!! - Si sentì chiamare dal padre. La voce diveniva sempre più potente man mano che si avvicinava.

- Oh cazzo! - mormorò il povero Marco, nel sentire il padre che scalpitava sul parquet del corridoio, chiaramente diretto verso la sua stanza. Siccome sapeva che il padre non poteva sopportare di vederlo nel letto a poltrire, soprattutto con i giornalini manga (che suo padre odiava categoricamente), fece un balzo dal letto e scivolò sulle coperte, cadendo sulla moquette e sbattendo così forte il sedere che vide le stelle.

- Ahio! - gemette, quindi strisciò sul letto e tirò via tutti i giornalini, ficcandoli sotto il letto e sistemando le coperte alla bene meglio. Fece appena in tempo a sistemarle, che suo padre irruppe in camera.

- Oh, ben svegliato, eh? Sono le dieci e mezza e ancora non sei vestito? - incominciò suo padre. Indossava un bel completo blu ed una cravatta azzurrina. Si era rasato di fresco ed i capelli grigi erano ben pettinati all’indietro con un po’ di brillantina. Anche da quella distanza Marco poteva sentirne il profumo, quel buon profumo che da piccolo gli piaceva tanto, quando ancora aveva un dialogo con suo padre.

- B.. buongiorno anche a te, Papà. - disse timidamente Marco, massaggiandosi il sedere per la botta di prima.

- E togliti quelle mani dal sedere, cribbio. Mi sembri una donna che l’ha appena preso in culo da un violentatore! – esclamò suo padre, provocando l’immediata reazione di Marco, che si tolse le mani dal sedere e si sedette sul letto. Era vestito solo con canottiera e mutande.

- Allora. Ascoltami bene, perché non voglio ripetere le cose due volte: Questa mattina devi andare a Milano. È arrivata un’automobile e io non posso andare a prenderla, perché mi hanno appena chiamato dei miei amici, che mi aspettano a Trieste per un congresso. –

A Milano? Pensò Marco, con un misto di eccitazione e smarrimento. Magari mentre vado lì posso passare da Riky e fargli un saluto… e magari… inconsapevolmente, assunse un aspetto sognante. Il padre se ne accorse, e lo redarguì nuovamente.

- E togliti quella faccia da pesce lesso! Allora, dicevo… Qui ho un biglietto di sola andata per Milano. – e tirò fuori un biglietto del treno – Vai dal concessionario a mio nome, prelevi l’auto e torni qui. È tutto chiaro? – disse, guardandolo di traverso.

- S… Sì, papà. Va bene. –

- Hm. – mormorò il padre – Sul mio tavolo c’è una cartella blu che contiene tutto. La mia delega, le fotocopie firmate dei miei documenti, e tutto quanto l’occorrente. – concluse, e si avviò alla porta. La aprì e se la chiuse alle spalle. Marco fece il gesto dell’ombrello ed una pernacchietta, quando all’improvviso, la porta si spalancò nuovamente. Marco si ricompose immediatamente, con un tuffo al cuore.

- Ah dimenticavo. Se perdi un solo documento o se fai un graffio all’auto… Non disturbarti a tornare a casa. – disse il padre, con uno sguardo truce.

- Oh… va… va bene, papà. Ci starò attento. – promise Marco, mentre il padre annuiva e si richiudeva la porta alle spalle. Lo sentì che camminava in corridoio, e mentre i suoi passi scomparivano, pensò Che fortuna, vado a trovare il mio amore!!!

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


La stazione di Porta Nuova anche quel giorno era gremita di gente

La stazione di Porta Nuova anche quel giorno era gremita di gente. Non gli era mai piaciuto quel posto, nonostante fosse stata parecchio rimodernata di recente. Con la sua bella borsa a tracolla di colore blu, Marco si avviò verso l’obliteratrice e timbrò il biglietto, eccitato dal fatto che fra non molto avrebbe rivisto il suo amato Riky.

Oh amore mio, come sono felice di venire da te in questo fuori programma! Pensò Marco, mentre saliva sul treno. Una volta trovato un posto decente, si accomodò e si mise a guardare fuori dal finestrino la gente che saliva e scendeva dagli altri treni.

Tra le tante persone che transitavano da lì, Marco vide una coppietta che litigava. Lui che agitava le mani in cerchio e le urlava qualcosa, e lei che replicava muovendo la mano destra come un’accetta su un piano immaginario, come a ribadire le cose che probabilmente aveva già detto. Lei tirava una valigia trolley rossa, e sembrava abbastanza ben tenuta: poco truccata, e vestita molto bene.

Si sporse dal finestrino e la vide salire sul suo treno.

Pochi istanti dopo, la ragazza entrò nel suo scompartimento.

- Scusa – disse a Marco – sono liberi questi posti? –

- Certo, accomodati pure. – rispose Marco. La ragazza lo guardò. Sicuramente le era sembrato strano vedere un ragazzo così giovane che portava un completo con camicia bianca e cravatta, ma non gli fece domande. Si accomodò sul suo posto di fronte a Marco e prese a leggere una rivista per donne.

 

- Vai a Milano anche tu? – domandò la ragazza.

- Sì. Anche tu? –

- Già. Mi sono lasciata con il mio ragazzo, sto tornando a casa. –

- Mi dispiace. – mormorò Marco, guardandola negli occhi.

- A me no. Era uno stronzo. Mi tradiva con tutti, approfittando del nostro rapporto a distanza. – rivelò la ragazza, accavallando le gambe stizzita.

- Davvero? –

- Sì. –

- Accidenti. Gli uomini sono un po’ bastardi, eh? –

- Sì. Che merde. – disse la ragazza, poi si corresse – A parte te, ovviamente. – e sorrise.

Marco scosse la testa, sorridendo, come per dire “non fa niente”. La ragazza gli sorrise, e lì si concluse la loro conversazione.

Fuori dal finestrino, le immagini dell’esterno correvano veloci, e Marco si perse a guardarle e a fantasticare. Più in là, oltre l’Italia, c’era la Svizzera, e più in là ancora gli altri stati europei. Avrebbe potuto esplorarli tutti, grazie alle disponibilità economiche che aveva, se solo avesse voluto. La verità era che era un gran pigrone. E da gran pigrone quale era, si accomodò sulla testiera del sedile e si addormentò, tenendo stretta a sé la borsa a tracolla.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Una volta sceso dal treno, Marco si ritrovò sotto l’immensa cupola a forma di mezzo cilindro della stazione di Milano Centrale

Una volta sceso dal treno, Marco si ritrovò sotto l’immensa cupola a forma di mezzo cilindro della stazione di Milano Centrale. Lì c’era molta meno gente rispetto a Torino, ma in compenso faceva un caldo da morire.

- Uff! Che caldo! – esclamò Marco, agitando un depliant informativo di Trenitalia a mo’ di ventaglio – Forse avrei dovuto mettermi qualcosa di più leggero… Accidenti a mio padre che mi ha addobbato come un manichino per prendere una stupida macchina! – si lamentò, proseguendo poi verso l’interno della stazione.

 

L’assenza di gente era un chiaro sintomo della crisi del turismo. Ricordava anni in cui quella stessa stazione in quel periodo dell’anno era gremita di gente: turisti, gruppi parrocchiali, e tanti altri tipi di persone assortite, che andavano a visitare la città della Madonnina. Lui andava sempre a trovare il suo ragazzo, da quattro anni a quella parte, e di anno in anno aveva notato questa tendenza al ribasso del numero dei turisti.

- Capperi, e meno male che continuano a dire “meno male che Silvio c’è” … e se non c’era? Veniva il deserto, qui? –

Camminò verso l’uscita, e qui fu investito da una scarica di raggi solari a picco, che istantaneamente lo fecero sudare.

- Oh porca paletta! Fa un caldo bestiale, qui! Se non mi tolgo la giacca, rischio di finire arrosto! –

Esclamando tra sé e sé, provò a togliersi la giacca, quando fu intercettato da quattro ragazzini di etnia rom.

- Ehi ciao amico, ci dai un euro per andare a mangiare? – disse uno. Era alto e portava un paio di pantaloni corti, ciabatte infradito ed una sudicia maglietta gialla.

- Dai, solo un euro. – disse un altro.

- Anche a me, dai, dai. Sei buono! – questo era più giovane, avrà avuto sì e no sei anni, ma si era già aggrappato ai pantaloni di Marco. Questi cercò di divincolarsi, ma non servì a nulla. Anche a Torino c’erano rom ed immigrati, ma per lo meno non l’avevano mai toccato. Evidentemente alcuni dei loro genitori lavoravano per suo padre, per cui sarebbe stato un inutile spreco di energie andare a chiedergli l’elemosina, e poi per quel poco che usciva Marco, si poteva dire che non conoscesse bene il mondo esterno.

- Buoni, buoni – cercò di calmarli Marco, tenendo stretta sul petto la sua borsa a tracolla con dentro la cartellina blu necessaria allo sdoganamento dell’auto di suo padre – Vi do cinque euro – disse, tirando fuori il portafogli. Quelli si calmarono, mentre lui li porgeva al ragazzo più alto. Avuti i denari, tutti i ragazzini scapparono via, ringraziandolo da lontano con cenni delle braccia. Lui ridacchiò, quindi proseguì per la sua strada.

 

- Dunque, dunque… la concessionaria è esattamente in Via Redecesio. Quindi, facendo un po’ di calcoli… - rifletté, guardando una mappa della metropolitana milanese. Con tutte quelle linee che si incrociavano, non capiva niente. Se solo suo padre gli avesse detto a quale fermata scendere, sarebbe stato tutto più facile. Gli venne un’idea.

- Scusi, buon uomo! – chiese, ad un anziano signore con gli occhiali ed il cappello che passava di là – Che linea devo prendere per Redecesio? –

- Sta scherzando? – lo apostrofò il signore – Lei non è di qui, vero? –

- Eh no, infatti sono di Torino. – disse, con un sorriso a trentadue denti. A quella rivelazione, l’uomo scosse la testa e si mise ad imprecare.

- di Torino? Ma và a via i ciapp, Juventino de la Madonna! – disse l’uomo, stizzito. Con l’indice ancora alzato e lo sguardo perso nel vuoto, Marco lo guardò e vide che portava una sciarpa rossonera.

- Balengu! – replicò Marco, poi aggiunse – E comunque per sua informazione, io i “ciapp” come li chiama lei, li do’ solo al mio fidanzato, néh! – e si aggiustò la cravatta mentre lo diceva. Vicino a lui passò una coppietta, che lo guardò e mormorò a mezza voce “Un altro culattone. Non se ne può più…”

- Ehi! Ma ce l’avete tutti con me, oggi??? – E così dicendo, saltò sul treno sotterraneo che era appena arrivato, senza sapere bene dove l’avrebbe portato.

 

Nel vagone che si era scelto non c’era nessuno. Soltanto lui ed un mistico silenzio, quasi innaturale. Sulle poltrone, un bel po’ di giornali lasciati lì da passeggeri sporcaccioni, che Marco prese e iniziò a leggere.

- Bah, sono di ieri… - mormorò, mentre si sedeva sulla poltroncina di plastica - …”Esodo da Milano.” – strillava il titolo della prima pagina, che Marco lesse ad alta voce – Si stima che nelle prossime settimane Milano sarà deserta; il picco più basso di presenze si registrerà nelle due settimane a cavallo di Ferragosto… -

Continuò a leggere per un bel po’, osservando le fermate che il treno faceva. Non sapeva bene dove stava andando, ma si augurò che fosse la strada giusta. In fondo, doveva andare a Milano Est, e forse il treno viaggiava in quella direzione. Massì, pensò, se tante volte dovessi perdermi, ho sempre con me il mio portafogli ed il mio cellulare. Cosa può accadermi di tanto brutto?

Poi l’occhio gli cadde su una pagina del giornale. Questa volta il titolo incitava alla prudenza a causa del caldo soffocante degli ultimi giorni. Effettivamente da quando era sceso dal treno si era sentito soffocare dalla cappa di calore che avvolgeva la città, e ancora adesso, nonostante si fosse tirato su le maniche della camicia, sentiva ancora caldo. L’unica cosa che gli venne in mente per cercare di sopportare il caldo era di mettersi nudo, ma non poteva, quindi si limitò ad usare il giornale che aveva letto come un ventaglio.

L’immagine di sé stesso nudo lo riportò indietro nel tempo alle prime volte in cui si vedeva con il suo ragazzo Ricky. Si erano conosciuti proprio in estate, sulla riviera toscana… Lui, appena diciottenne, aveva una bella casa in affitto, viveva da solo e ogni tanto i suoi venivano a trovarlo. Ci verresti a vedere casa mia? Gli aveva chiesto un giorno. Marco aveva risposto di sì, felicemente. Chiacchierarono a lungo, quel giorno… poi, dopo le chiacchiere, venne l’amore. Ricordò come si erano spogliati, l’uno di fronte all’altro… Ricky era semplicemente stupendo, con quel suo fisico definito e muscoloso. Sé stesso invece era un po’ gracilino, ma tutto sommato un bel ragazzo. Ricky lo prese e lo penetrò a fondo, con quella foga che soltanto i ragazzini riescono ad avere. E dopo quel giorno, ce ne furono altri, e dopo quegli altri, passarono tre anni in una relazione a distanza, che vedeva Marco a Torino e Ricky a Milano; ciascuno con la propria vita, ma uniti dal loro amore.

Per sua espressa volontà, quel giorno non l’aveva avvertito del suo arrivo. Gli avrebbe fatto una sorpresa. E meno male che il treno era vuoto: avessero visto come gongolava di gioia, l’avrebbero preso per scemo. Fece per prendere il cellulare dalla tasca della tracolla, ma si  trattenne. Non voleva rovinare la sorpresa. Sarebbe andato lì a casa sua, avrebbe aperto la porta (strano ma vero, Ricky gli aveva concesso il lusso di avere le chiavi) e gli sarebbe corso incontro a braccia aperte. Una scena che nella mente di Marco, in quei minuti si ripeteva come un filmato in looping. Dolce e spettacolare al tempo stesso.

Il viaggio intanto continuava. Tra poco il treno sarebbe uscito dai limiti della città, per entrare in periferia.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Sotto il sole cocente, l’asfalto sembrava fondere

Sotto il sole cocente, l’asfalto sembrava fondere. Un odore acre intenso saliva dal fondo stradale ad infastidire il naso di Marco, che camminava ormai da quasi un’ora senza trovare la concessionaria. Era l’una del pomeriggio, aveva fame e sete, ma a parte pochissime auto vaganti, in quel quartiere non c’era anima viva.

 

Vetrine, bar, negozi, avevano tutti la saracinesca abbassata e la scritta “Chiuso per ferie” che strillava ai passanti, e molti degli appartamenti lì intorno erano chiusi perché i loro inquilini erano in vacanza.

- Porca paletta – mormorò Marco, camminando e passandosi una mano sulla fronte per tergersi il sudore – qui non c’è anima viva… una desolazione totale… -

Si fermò un attimo a riprendere fiato. Possibile che la concessionaria non ci fosse ancora? Di solito le concessionarie Mercedes hanno l’insegna con lo stemma luminoso che si vede a dieci chilometri di distanza… invece questa doveva essere molto anonima, in quanto doveva trovarsi su quella via, ma effettivamente non c’era. Tirò fuori dalla borsa il foglietto con l’indirizzo.

- Via Redecesio 110 – disse, piano – E allora dove cazzo è questa merda concessionaria??? – sbottò.

- Cerca la concessionaria Mercedes? – una voce alle sue spalle lo fece trasalire. Si voltò, era un anziano signore che fumava una pipa. Doveva essere apparso dal nulla, siccome prima non l’aveva visto. Marco si stupì di come il vecchio, con tutto il caldo che faceva, potesse indossare un giubbotto color kaki, un paio di pantaloni di velluto a coste ed un cappello di lana stile inglese.

- S… sì. – rispose Marco, annuendo – Lei sa dove…? –

- Prima erano qui – ed il vecchio indicò un capannone che effettivamente poteva essere stato una concessionaria: un ampio salone con le vetrine ed un parcheggio antistante. – Adesso si sono trasferiti. –

A Marco sembrò cadere il mondo addosso - Cosa??? Ma quando? –

- Appena due giorni fa. Non l’hanno avvertita? –

Solitamente quando una concessionaria si trasferisce, i clienti dovrebbero ricevere avvisi di cambiamento di sede legale, ma se suo padre non l’aveva avvertito, voleva soltanto dire una cosa: che aveva rilasciato un indirizzo e-mail fasullo oppure un altro numero di telefono, condannando il povero Marco a cercare dove fosse la concessionaria.

- No! E adesso…? –

- Oh, non si sono trasferiti tanto lontano… Dovrebbe soltanto prendere il metrò e… - velocemente il vecchio gli spiegò come raggiungere il posto. Ringraziato velocemente l’anziano signore, Marco si avviò per la fermata del metrò, in preda ad una strana eccitazione. Non sapeva nemmeno a che ora chiudeva la concessionaria, ma qualcosa gli diceva che sarebbe stato meglio per lui se si fosse dato una mossa.

 

Altro giro, altra corsa. Dopo un altro po’ di tempo sotto terra, Marco si sentiva bagnato dalla testa ai piedi. Tutto il caldo che stava irrorando Milano sembrava essersi concentrato. Normale, alle due del pomeriggio, ma Marco non ci era abituato, lui che ogni anno in estate metteva il condizionatore di casa a tutto regime per poi vestirsi pesante a causa del freddo… Boccheggiava, ansimando.

- Acqua… ho bisogno di una bibita fresca. –

La gola riarsa gli faceva male per la siccità, tanto che provò a massaggiarsela. Anche in quel quartiere non c’era nulla di aperto, nemmeno un distributore automatico.

- Se non bevo entro due minuti, mi disidraterò… - mormorò, camminando ancora piano.

Con il caldo, gli sembrò di scorgere qualcosa in lontananza.

Un miraggio?

Un’oasi?

No!

Era un logo Mercedes!!!

- Miracolo!!! Sono arrivato!!! – corse in quella direzione, con la borsa a tracolla che gli sbatteva sul fianco, sgambettando felice. Non era tanto felice per aver quasi assolto il compito affidatogli dal padre, quanto perché se in concessionaria avevano un bicchiere d’acqua, oltre ad averli benedetti per avergli salvato la vita, avrebbe dato loro una bella banconota da cinquanta euro di mancia.

 

Tracannò a garganella la poca acqua del boccione presente nella sala di attesa dedicata ai clienti. Qui, insieme a lui c’erano un uomo distinto con la barba bianca che si sventagliava con un depliant ed una ragazza abbastanza carina, forse ventenne, che si rifaceva il trucco allo specchio. Tutti rigorosamente in silenzio, attendevano ciascuno il loro commerciale che avrebbe dovuto consegnare le vetture.

- Che caldo – disse l’uomo barbuto.

- Veramente… Milano è proprio invivibile d’estate. – rispose la ragazzina, chiudendo lo specchietto portatile.

- Non solo per il caldo. Ogni estate questa città si svuota talmente tanto che c’è anche pericolo di uscire da casa. – rispose l’uomo, continuando a sventagliarsi e guardando un punto nel vuoto, forse una delle tante stampe che recavano le pubblicità della Mercedes appese al muro. Non badandoci più di tanto, Marco continuò a tracannare un altro bicchiere d’acqua. Che ore erano? Non portando mai l’orologio, Marco consultava solo quello sul display del suo cellulare. Si tastò la tasca posteriore dei pantaloni per prenderlo, ma …

… non c’era.

- Glab! – gemette, mentre l’acqua gli andava di traverso. Tossì rumorosamente per un bel po’, tanto che l’uomo si alzò e andò a dargli dei colpetti sulla schiena per farlo riprendere.

- Coraggio, coraggio! Tossisca! –

Marco tossì ancora. Tra un colpo e l’altro riuscì a dire – Sto… Sto bene, ma… mi hanno… rubato il cellulare! –

Quasi come se avesse detto apertamente che era un alieno venuto da Venere, i due lo guardarono straniti. La ragazza fece una smorfia di comprensione simile a quelle che fanno i commessi di un negozio di telefonia quando ti informano che il tuo cellulare è ormai troppo vecchio per supportare le nuove tecnologie. L’uomo anziano scosse la testa dispiaciuto.

- E’ stato avvicinato da qualcuno, nelle ultime ore? –

- Beh, da un po’ di persone… Un signore, una ragazza… e… -

Improvvisamente, gli venne in mente chi poteva essere stato.

- Oh no! I rom della stazione…! – esclamò. Il vecchio alzò le sopracciglia e spalancò gli occhi.

- Non bisogna lasciarli avvicinare! Quelli sono abili e addestrati! – poi aggiunse – A me riuscirono a rubare il navigatore satellitare! Ladruncoli… - Concluse, andando a sedersi sulla poltroncina.

Mentre Marco si disperava, controllò che almeno il portafogli ci fosse ancora. Fortunatamente, era ancora lì al sicuro nella tasca della sua tracolla. Se gli avessero rubato anche quello, era bello che fregato.

Appena prendo questo schifo di auto me ne vado da Ricky e poi torno a casa. Pensò, mentre dal vetro si vedeva un ragazzo molto carino in giacca e cravatta con il cartellino di dipendente “Mercedes”, che aprì la porta della sala d’aspetto e chiamò Marco.

- Signor De Cristina? Mi segua, la sua auto è pronta. – disse, sorridendo.

 

- Settantacinquemila seicentotrenta euro per quest’auto? Chissà che cazzo se ne farà mio padre… - borbottò Marco, al volante del nuovo giocattolo del padre. Anche con il sedile tutto tirato avanti a causa della ridotta statura di Marco, il ragazzo faceva fatica a guidarla. I pedali gli sembravano troppo sensibili. Più di una volta gli scivolò la frizione facendo spegnere il motore, ma per fortuna non c’era nessuno a strombazzargli dietro ai semafori.

- Bene, ora vediamo di tornare a casa… Uhm… -

Guidando, cercò di capire quale strada prendere. Le volte in cui era andato a Milano era sempre andato con il treno, nonostante possedesse una bellissima auto anche lui, non la guidava mai. Preferiva girare per Torino in bicicletta, o a piedi… o usando i mezzi pubblici, con tutti i rischi che ne derivavano. Evidentemente il padre non conosceva abbastanza il figlio, per affidargli un compito così importante.

- E adesso dove vado? – mormorò, fermo ad un incrocio. Andando dritto si poteva raggiungere Cormano, a destra Cernusco… e a sinistra Pero.

- Un bel dilemma… -

Anziché proseguire, fece inversione di marcia, tornando indietro. Doveva raggiungere l’appartamento del suo ragazzo, in un modo o nell’altro. La sfiga più grande era che gli avevano rubato il cellulare. Aveva anche pensato a riattivare la scheda e comprarne uno nuovo, ma i negozi erano tutti chiusi. Non c’era nulla di aperto nel raggio di 200 chilometri. Così si fece anima e coraggio e provò ad escogitare un modo per raggiungere casa del suo fidanzato.

Non sapendo bene dove andare, continuò dritto per una strada piena di semafori. Addentrandosi nel centro, sembrava che ci fosse più gente. Non era molta, ma già quattro persone si potevano considerare una folla, rispetto a quello che aveva visto prima. Tra le altre cose, vide qualcosa che gli fece venire un’idea.

- Ho trovato!!! – esclamò. Fermò in fretta e furia l’auto e la parcheggiò alla bene meglio, incurante che sarebbe rimasta incustodita per un po’ di tempo.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Pochi minuti dopo era su di un taxi, seduto tranquillamente aspettando di arrivare a destinazione

Pochi minuti dopo era su di un taxi, seduto tranquillamente aspettando di arrivare a destinazione. Se la ghignava molto bene, pensando a Ricky e alla gioia che avrebbe avuto rivedendolo.

- E’ abbastanza lontano – aveva detto il tassista, un uomo robusto che aveva avuto circa cinquant’anni – Non ce l’ha il navigatore satellitare, quella macchina da cui è sceso? –

- Sì, ce l’ha – rispose Marco – Ma l’ho appena presa, non so esattamente come funzioni. –

- Capisco – acconsentì il tassista, mentre svoltava – Immagino che l’auto non sia sua. –

Marco scosse la testa, sorridendo – Infatti è di mio padre. Mi ha mandato qui a prenderla… Vengo da Torino. –

- Da Torino! – esclamò l’autista – Ci sono stato un po’ di volte, mio figlio studia all’università lì. –

- Ah, e che cosa studia? – domandò sorridendo Marco.

- Ingegneria meccanica. Eh sì, è un grande appassionato di auto, e un giorno spera di entrare a lavorare lì da voi, alla FIAT. –

- Ma che bella notizia. Senta, come si chiama suo figlio? –

- Michele, perché? –

Sorridendo, Marco si sporse tra i due sedili davanti e disse – Magari si potrebbe fare qualcosa. Mio padre conosce alcuni papaveri dell’Azienda, e magari...

- Davvero??? – domandò stupito il tassista, sgranando gli occhi – Oh, credo che ne sarebbe felicissimo! –

- Sicuro. Mi dia soltanto il suo nome e cognome con numero di telefono, poi penseremo a tutto noi. – rispose sorridente Marco.

- Oh, lei non sa quanto io… sia contento di… -

- Non mi ringrazi. È un piacere aiutare, se si può. –

- Lei… ehm… posso darti del tu, vero? Penso che tu abbia la stessa età di mio figlio. –

- Ma certo! –

- Tu sei veramente molto gentile. – rispose l’uomo, fermandosi. – Eccoci, siamo arrivati. –

 

Il posto era un complesso residenziale formato da cinque palazzine di venti piani ciascuna. Entrando, si poteva ammirare un giardino che sembrava una foresta amazzonica, piena d’alberi ben curati ed altre piante, alcune anche esotiche, puntualmente tenute a regime dai custodi, che s’intendevano di alto giardinaggio e floricoltura tropicale.

A fare da contrasto al bellissimo giardino interno, c’erano le palazzine. Di un grigio cinereo che incupivano il cuore soltanto a guardarle, che nelle giornate di pioggia sembravano fondersi con il cielo scuro ad aumentare la sensazione di disagio che già si provava quando cadeva acqua dal cielo. L’effetto ottico era impressionante: sembrava di vedere delle finestre fluttuare nell’aria, invece era solo il cemento delle costruzioni che si mimetizzava quasi bene con lo sfondo grigio. La situazione non migliorava durante le belle giornate, dove il cielo azzurro veniva sporcato dal grigiore della civiltà moderna. Tante volte Marco aveva pensato che il giardino fosse così curato per non dare l’impressione ai visitatori del complesso di entrare in un campo di concentramento. Ci sarebbe mancata solo la scritta Arbeit Macht Frei al cancello dell’entrata, non ci fosse stato il giardino a tamponare quell’orrore.

 

Puffpant… Ma … ma perché quando ci sono venti piani servono anche le scale? Non sarebbe meglio un modulo teletrasportante per ogni piano? Pensò Marco, guardando il visore sulla porta dell’ascensore che, a lettere LED rosse strillava la scritta GUASTO a tutti i condomini della palazzina.

- Sì certo … - Ansimò Marco, in debito d’ossigeno, mentre saliva gli ultimi gradini verso l’appartamento del suo ragazzo – E magari mi verranno anche …. A… - sbuffò - …raccontare che è quasi Ferragosto … e sono tutti in ferie, eh? –

Crollò su un gradino, mettendosi a sedere. Venti piani erano davvero troppi anche per lui. Il suo ragazzo abitava proprio all’ultimo piano, dove l’attico offriva una bella visione del panorama cittadino, nonché dei fumi dello smog che salivano dalla bella città della Madonnina. Estrasse le chiavi dalla borsa. Dai bello. Manca solo un piano. Cerca di non tirare le cuoia, altrimenti oggi non si tromba. E per cosa sei venuto a Milano, allora? Solo per ritirare quello schifo di macchina? Non dimentichiamoci anche delle tue parti basse, che se continua così, ci vorrà un comitato di casalinghe disperate che ti porti ad uno spogliarello show, per farti fare un po’ di sesso come si deve. Arrossì violentemente. Cosa mai aveva pensato quel suo cervellino birichino!

Ma sì dai, togliti quell’abito da santarellina, se ci riesci. La verità è che tu sei porcellino dentro, caro il mio Marco, e che per il tuo ragazzo faresti di tutto, anche venti piani a piedi. Non è forse vero? Non dire di no, tanto sei al diciannovesimo piano e mezzo, e sarebbe una solenne puttanata negare. Quindi coraggio, fatti gli ultimi gradini, dì “ciao” al tuo bel fidanzatino e fatti scopare come cinque mesi fa, quando sul calendario non era ancora primavera ma il tuo bel Ricky aveva già le scalmane. E tu con lui!

- Eh già. Ho le scalmane. – mormorò, riprendendo fiato. Scosse la testa, ormai ristorato dai pochi minuti seduto sul gradino. Si spazzolò ben bene il sedere (anche se il marmo era talmente lucido che ci si avrebbe potuto mangiare sopra) dalla polvere e riprese il cammino.

Arrivato. La porta ovviamente era chiusa, ma il cancelletto protettivo no. Segno chiarissimo che Ricky era in casa. Se lo immaginò spaparanzato sul divano a guardare un film in DVD oppure al computer. L’effetto sorpresa sarebbe risultato ancor più grande quando gli avrebbe detto che non aveva potuto avvisarlo per via del furto del suo telefonino, quindi… chissà che gioia vederselo arrivare in casa! E magari per premiarlo avrebbero fatto l’amore

(Ahi ahi ahi Marcolino, stiamo cedendo di nuovo al romanticismo? Ma sei sicuro che è quello che vuoi?)

e poi avrebbero cenato insieme, proprio come due fidanzatini. E chi se ne importava di suo padre? Tanto ogni volta che andava in viaggio per lavoro, era sempre la solita solfa: non tornava mai il giorno prestabilito, ma sempre due o tre giorni dopo. Anche lui, chissà se aveva un’amante o più di una in giro per l’Italia?

La cosa non gli importava. Se a suo padre non importava di quello che faceva, perché sarebbe dovuto importare a lui?

Si avvicinò alla porta, chiavi alla mano. Infilò lentamente la chiave nella serratura, badando di non fare troppo rumore: non voleva assolutamente rovinare la sorpresa.

Tlac.

Uno scatto. L’eccitazione di Marco gli fece battere forte il cuore.

Tlac.

Due scatti. E la porta non era più bloccata.

Girò la maniglia e la porta si aprì, rivelando il bellissimo salotto dell’attico di Ricky, all’insegna del design più all’avanguardia e del gusto sobrio. Dalle finestre oscurate entrava una luce soffusa molto suggestiva, che anche se piuttosto sfalsata, colpiva i cristalli dei soprammobili e creava degli arcobaleni sui quadri e sulle pareti, dando all’ambiente una sensazione di rilassamento.

La televisione era accesa, ma a volume bassissimo. In onda c’era un vecchio film di Alberto Sordi, su Rai Uno.

Marco adorava i vecchi film, e magari lo avrebbero guardato assieme. Strano però che Ricky non fosse lì sul divano. Dov’era?

Attraversò la cucina, dove due cartoni per la pizza erano stati lasciati lì in bella mostra. Uno contro l’altro, nel piccolo tavolino che spesso li aveva visti cenare insieme dopo un weekend di sesso sfrenato… Perplesso, sollevò un sopracciglio. La sua perplessità aumentò quando guardò sotto il tavolo.

Sgranò gli occhi: lì sotto c’erano un paio di Converse verdi, perfettamente unite che sembrava ci fosse un fantasma seduto sulla sedia, le cui scarpe erano però visibili. Si accucciò, e sotto l’altra sedia, quella opposta, vide un paio di calze a righe nere e rosa. Se fosse stato un investigatore, avrebbe esattamente ricostruito un possibile scenario: La persona A si era tolta le scarpe per qualche motivo e la persona B aveva tolto il calzini alla persona A per qualche altro stranissimo motivo. Non essendo lui un investigatore, l’unica cosa che pensò fu Ah, Ricky Ricky… sempre disordinato. E sorrise, raccogliendo le scarpette ed i calzini. Non registrò per niente che quelle scarpe erano almeno un quarto del piedone di Ricky.

Come un novello Pollicino, Marco trovò nel corridoio un altro indumento. Stavolta era una maglietta nera con l’immagine di un gatto bianco disegnata. Sollevò nuovamente il sopracciglio, ma si limitò a pensare ancora una volta quanto Ricky fosse disordinato.

Le tracce terminavano ad una porta. Guarda caso, era proprio quella della camera da letto. La porta era socchiusa, e dall’interno giungevano mugolii sommessi e la colonna sonora di una musica punk. Improvvisamente, come un fulmine a ciel sereno, Marco capì che cosa stava succedendo. Con un calcione alla porta entrò nella stanza e vide ciò che non avrebbe mai voluto vedere.

- Ricky!!! – Urlò, con gli occhi sgranati.

Il letto era sistemato in modo perpendicolare alla porta. Così Marco ebbe una chiara visione di entrambi: di Ricky e di un ragazzetto giovane, biondo ossigenato, bianco come un cadavere che stava sotto di lui a gambe aperte. La visione svanì immediatamente quando i due amanti si resero conto che Marco era lì, vivo e reale, e non era un’allucinazione. In fretta e furia il ragazzino biondo si coprì, avvolgendosi nelle coperte fino alle orecchie, sgranando gli occhi chiari e tenendo le labbra carnose aperte un silenzioso “oh” di stupore.

Sotto lo sguardo ammutolito ed anche molto incazzato di Marco, Ricky mise le mani avanti. Il suo membro eretto stava tutt’altro che perdendo quota. Forse era per il fatto di essere stato beccato in flagrante, e l’adrenalina di Ricky era alle stelle.

- T… tesoro. Che.. che cosa… Che cosa ci fai qui? – deglutì, rispondendo a fatica.

- Che cosa ci faccio IO qui??? Che cosa ci fa LUI qui!!! – strillò, indicando il ragazzo biondo che si coprì, forse sperando che ci fosse un mago Silvan da qualche parte in grado di pronunciare le parole “Sim Sala Bim” e farlo scomparire in un’altra dimensione.

- Ehm… tesoro, calmati. –

- Non chiamarmi tesoro, porca puttana! – urlò nuovamente, con le guance rosse per l’incazzatura – Chi cazzo è quella puttana bionda, e tu che cazzo stavi facendo???

- Ricky, ma che succede? – domandò il ragazzino biondo, facendo capolino dalle coperte.

- Niente, Brian.. niente. –

- Niente?!? – ripeté Marco – Adesso te lo dico io cosa succede! – lasciò andare tutti i vestiti che aveva raccolto pensando che fossero del fidanzato e prese a picchiarlo sulla testa con una delle scarpe verdi che aveva trovato sotto il tavolo. Ricky cercò di divincolarsi, andando dietro al ragazzo di nome Brian, ma la furia di Marco colpì anche questi, che scappò via e chiuse la porta, portandosi via le coperte. Purtroppo per lui Marco tirò via le coperte ed il ragazzo cadde nudo disteso sul parquet, scivolando e gemendo di dolore.

- Ahia!!!

- Vi ammazzo! A tutti e due!!! – urlò, avventandosi sul ragazzino. Quello strisciò verso la porta, ma Marco lo agguantò per una caviglia e lo tirò a sé.

- Lasciami!!! Stronzo!! – urlò Brian, e gli tirò una pedata in pieno viso, facendogli volare via gli occhiali. Quella mossa fece incazzare ancora di più Marco, che gli andò addosso e gli mise le mani al collo cercando di strozzarlo. Digrignando i denti, strinse la morsa delle mani, e Brian per tutta risposta lo tirò per la cravatta, soffocandolo a sua volta.

- Aaaarrrggghhh!!! Coff!!! – tossì, sputò e urlò, mentre Ricky cercava di dividerli. Marco era agguerrito, ma anche Brian non scherzava. Purtroppo per il povero Ricky ricevette un pugno diretto sul naso, che lo mandò a sedere e a sbattere la testa sull’armadio, mentre quei due ancora si azzuffavano.

- Ti ammazzo, puttanella schifosa!!! – urlava Marco, cercando di soffocarlo con le sue stesse mani – Ricky è mio e soltanto mio, hai capito??? –

- Nooo!! Coff!! Ricky è uno scopatore da primato, ed io voglio farmi scopare soltanto da lui!!! Quindi vai via, stronzetto da quattro soldi!!! – stridette il biondino. A quel punto Marco prese a sbatterlo violentemente sul parquet, in modo da fargli male sul serio al cranio. La sua testa fece un bel rumore, ed oltretutto servì a calmarlo. Quando si fu calmato, Marco scese da lui e carponi tirò un sospiro di sollievo.

- Ahio… - gemette Brian.

- Ahi… - rispose Marco.

- Ra… ragazzi… - mugolò Ricky. Entrambi si voltarono lentamente a guardarlo. Sanguinava dalla testa e dal naso.

 

 

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Non si degnò neanche di aiutare il povero (si fa per dire) Ricky, che dopo aver battuto la testa contro l’armadio stava perdendo un po’ di sangue

Non si degnò neanche di aiutare il povero (si fa per dire) Ricky, che dopo aver battuto la testa contro l’armadio stava perdendo un po’ di sangue. Solo ora si rendeva conto di aver fatto una cazzata: e se Ricky avesse menzionato il suo nome e cognome?

Improbabile. E poi che spiegazione avrebbe dato? Che era un suo amico venuto da lontano per salutarlo? Anche Ricky come il suo fidanzato (oramai ex) non era dichiarato, e forse ci teneva più di tutti a mantenere le apparenze, data la vita piena di relazioni sociali che conduceva.

Solo non mi aspettavo che tra le tue relazioni ci fosse una puttana bionda di nome Brian, brutto porco. Pensò Marco, camminando sul marciapiede, cercando di ricordare la strada che aveva fatto in taxi. Praticamente un’impresa, visto che il luogo da dove erano partiti e dove era parcheggiata l’auto nuova di suo padre era molto distante da lì. Incominciò a chiedersi se non fosse stato il caso di chiamare una nuova vettura. Già, e con quale telefono? A meno che non avesse fermato un passante per la strada, i negozi erano tutti chiusi, quindi non si poteva sperare di fare una telefonata al servizio radiotaxi. Tornare da Ricky? Giammai! Quell’idea era proprio fuori discussione, almeno dopo ciò che era stato costretto a vedere.

- Marco! – si sentì chiamare da lontano. Girandosi, vide un ciuffo di capelli biondi che si muovevano a ritmo della corsetta, un paio di occhiali scuri su un visino perfetto e l’immagine di Brian che si avvicinava sgambettando. Ora le scarpe verdi e la maglietta avevano un proprietario.

Ignorò la chiamata, accelerando il passo.

- Marco! – Brian gli andò vicino. Sbuffò un po’ di fiato per la fatica di correre, poi allungò la mano e prese il gomito di Marco. – Aspetta – disse – Io devo parlarti. –

- Ah sì, e di cosa? – fece Marco, e al tempo stesso diede uno strattone al braccio che costrinse Brian a mollare la presa.

- Sono stato un cretino, e vorrei scusarmi. –

- Torna dal tuo amante. Vai a scopartelo allegramente, io e te non abbiamo più nulla da dirci. – replicò Marco, freddo e con le mani in tasca. Oltretutto la colluttazione gli aveva sgualcito il vestito, e di questo non ne fu molto contento. Si levò la giacca, allentandosi un po’ la cravatta.

- Senti… vieni, andiamo a casa mia. Abito qui, a pochi passi. –

Marco si fermò. Forse non era tutto sbagliato ciò che stava accadendo, e se quel pisquanello aveva anche a disposizione un’auto per portarlo fino a dove aveva lasciato il giocattolino nuovo di papà, forse non l’avrebbe ammazzato. Forse.

 

*****

 

L’appartamento di Brian era un bell’appartamentino al primo piano. Viveva con i suoi genitori, che al momento non c’erano, e suo fratello, un impiegato presso un’azienda di produzioni elettriche.

- Ho conosciuto Ricky grazie a mio fratello. – stava spiegando Brian mentre versava il caffè nella tazzina di Marco – lo abbiamo invitato qui a casa nostra una sera, e lui non ha mai smesso di tenermi gli occhi addosso… e così… beh… -

- Te lo sei preso. – concluse Marco per lui, sorseggiando il caffè.

Sospirando, Brian annuì e si sedette. Le sue mani erano chiuse in un unico pugno, con le dita intrecciate. Il ciuffo biondo ora copriva gli occhi, e forse qualcos’altro. Dall’espressione sembrava che da un momento all’altro il ragazzo si sarebbe messo a piangere.

- Quanti anni hai, Brian? –

- Eh…? Diciotto. – rispose. Marco lo guardò torvo, ben sapendo che stava mentendo – E va bene, ne ho diciassette e mezzo… faccio ancora la quarta superiore. –

- Da quanto frequentavi Ricky? –

- Circa un anno. Ovviamente non ci vedevamo spesso. Non sapevo nemmeno che tu esistessi. Mi ha sempre fatto credere che fosse single. Che stronzo… - scosse la testa, incrociando le braccia sul petto. Marco pensò che Ricky fosse stato doppiamente stronzo, e non c’era alcun paragone tra la situazione di Marco e quella di Brian. Li aveva trattati entrambi malissimo allo stesso modo, e questa convinzione rafforzò la sua autostima per averlo lasciato lì a soffrire col suo dolore. Per un anno aveva fatto una doppia vita, e se non fosse stato per questo casuale viaggio fuori porta a Milano, sicuramente avrebbe continuato… Grazie papà, a te ed alle tue stupide auto, pensò Marco, stancamente.

Beh, era andata. Aveva creduto di avere un fidanzato per più di un anno ed ora era punto e accapo. Niente più messaggini dolci prima di dormire, niente conversazioni-fiume tra una lezione e l’altra dell’università… e soprattutto… niente più sesso, che era una delle cose principali per cui Marco aveva eletto Ricky a suo fidanzato.

La sua insaziabilità a letto era soltanto pari alla sua bellezza. Ogni volta che Marco aveva fatto l’amore con lui, era stato come volare, ed ogni volta era sicuro che la volta dopo sarebbe stata migliore, ancor più soddisfacente. E poi essere stretto fra le sue braccia una volta raggiunto l’amplesso, sentire il suo respiro sul petto mentre dormiva, ascoltare le sue parole quando parlava nel sonno… Tutte cose che adesso, almeno per un po’, avrebbe dovuto mettere da parte.

- E adesso? – domandò Brian, interrompendo il corso dei pensieri di Marco.

- Cosa? –

- E adesso cosa facciamo? –

- Tu non lo so – rispose Marco – Io so solo che devo tornare a Torino. Si è fatto parecchio tardi, e se mio padre non mi vede senza la sua auto, le mie corna non saranno più l’unico problema, perché mio padre mi ucciderà. – concluse, ben sapendo che il padre sicuramente non era ancora tornato a casa. – Anzi, a proposito. Potrei fare una telefonata? –

 

*****

 

- Pronto? – rispose una voce all’altro capo del telefono.

- Papà? Ciao, sono Marco. – disse Marco, sorridendo.

- Ehi, dimmi, Marco. Hai preso la macchina? – domandò il padre, come se fosse stato lui il primo a chiamare. Marco annuì, con la cornetta in mano, aggiungendo un sì.

- Oh, molto bene. E dove sei ora? –

- Sono a Milano. Mi sono fermato a salutare un amico. –

- Amico? Che amico? – domandò suo padre, dopo un momento di pausa.

- Uno dell’università, papà. Non lo conosci… si chiama Brian. –

Mentre era in cucina, Brian fece capolino dalla porta e gli sorrise. Marco ricambiò il sorriso, e quello gli fece l’occhiolino.

- Ah, davvero? E com’è? – la domanda di suo padre lo lasciò un po’ spiazzato.

- I… in che senso, papà? – domandò Marco balbettando.

- Descrivimelo fisicamente, no? Figlio tontolone. –

         - E’ magro, biondo, occhi chiari. È studente… - cercò di inventarsi una facoltà – di matematica. – Brian scoppiò a ridere in silenzio, e fece dei chiari segnali con le dita portate fino alla bocca per dire che a lui la matematica faceva vomitare. Marco arrossì, cercando di calmarsi. Poi suo padre disse – Capisco. Allora ti dico una cosa. Resta lì ancora un giorno, d’accordo? –

Sbalordito da tanta cordialità, Marco chiese il perché.

- Perché … ecco… - rispose suo padre balbettando – Perché devono venire a casa alcuni miei amici, e ho bisogno che le stanze siano libere. Quindi, stai pure ancora un giorno. – concluse il padre.

- Oh, d’accordo. – annuì Marco. Stranamente il padre era troppo morbido con lui, quella sera. Era forse la distanza oppure c’era qualcos’altro? Immaginò suo padre seduto in poltrona a guardare la televisione, solo che accanto a lui non c’era sua madre ma bensì un’amante, una ragazza bella e tutta curve che lo coccolava provocatoriamente Il pensiero lo fece ridere. Udendo la risata, il Signor Alfio si alterò. 

- Comunque ci tengo a che tu non faccia cazzate, d’accordo? Ricorda che quell’auto che hai preso non è tua! Quindi parcheggiala bene, non lasciarla incustodita, non lasciare oggetti personali sui sedili… - e partì con un migliaio di altre raccomandazioni, alle quali Marco rispose di sì senza altri complimenti.

Chiusa la conversazione, Marco ringraziò Brian per la sua gentilezza. Era vero che gli aveva rubato il fidanzato, ma in quanto a fregatura, erano sulla stessa barca.

- Vuoi restare qui per la notte? – domandò Brian, facendo capolino dalla porta della cucina.

- Eh? – fece Marco – No, grazie. Sei gentile, ma penso che me ne tornerò a casa… - non gli disse che il padre gli aveva detto di restare lì a Milano, semplicemente perché non voleva rimanere a casa dell’amante del suo oramai ex fidanzato.

- Dai, mi farebbe piacere. – sorrise Brian, di un sorriso molto dolce che per poco a Marco fece mancare il fiato.

- Grazie, ma veramente… hai già fatto troppo per me. – sorrise imbarazzato Marco.

- Un caffè non mi regalerà un’aureola. Siamo stati fregati dallo stesso uomo, per cui mi sembra il minimo che ci sosteniamo a vicenda… - ribatté Brian, incrociando le braccia. A quell’affermazione, Marco non seppe cosa rispondere, se non facendo spallucce.

- Comunque – riprese Brian – Se proprio vuoi andare… va bene… - Sospirò. – Uh! Aspetta. – Corse in cucina e tornò poco dopo con un bigliettino con su scritto un numero.

- Grazie. Cos’è? –

- Il mio cellulare. Chiamami qualche volta. – E sorrise nuovamente.

- Lo farò senz’altro. – rispose Marco, sorridendo.

- Milano non è una città amichevole per i forestieri. So che tu venivi qui ogni tanto, ma stare a casa di un amante non è la stessa cosa di stare in giro per strada. Sappilo. – Lo raccomandò con uno sguardo preoccupato. Poi aggiunse – Se per caso hai bisogno d’aiuto, chiamami. –

- Speriamo di no! – esclamò Marco, e si mise a ridere. Brian rise con lui.

 

*****

 

Ma va’ a quel paese, schifoso che mi hai rubato il fidanzato. Col cavolo che rimango da te. Chiama qualcuno dei tuoi amici per farti fare compagnia, io non resto. Vaffanculo!

Pensò tra sé e sé mentre guidava l’auto, diretto forse verso l’autostrada, o almeno così sembrava. Ripensare a Ricky che l’aveva ingannato per così tanto tempo, gli bruciò il cuore. Ma come poteva essere stato così idiota da non capire che una relazione a distanza è pur sempre una relazione instabile? Cercò di non pensarci, trattenendo le lacrime che erano pronte a sgorgare copiose dai suoi occhi. La verità era che aveva bisogno di un altro fidanzato, se non altro perché sentiva bisogno di sesso più che mai.

Se è soltanto quello il tuo problema, puoi sempre fermarti in un locale qui a Milano e prenderne quanto ne vuoi. Sei un bel ragazzo, sei ricco, hai una casa di proprietà… A cosa ti serve un fidanzato?

La voce era quella del suo “io” interiore, con cui sovente aveva dei colloqui.

- Forse perché trovo che due persone debbano prima avere dei sentimenti, per scopare, no? –

Ma smettila. E poi non sei stato santo nemmeno tu, dato che ad ogni bel fusto che ti passava davanti, ti veniva il cosino duro come un sasso. Prova a negarlo!

- Non lo nego – rispose con calma Marco – Ma io non ci sono andato a letto come ha fatto quello stronzo di Ricky, cazzo!!! – sbottò.

In ogni caso, non stare a correre dietro ai sentimentalismi. Vai, offri il tuo sedere a chi lo vuole, godi un po’ … e poi se sei stato bravo a far godere anche il tuo partner ad ore, ti richiamerà per il secondo round, altrimenti … via uno, avanti un altro. È così che funziona, che ha sempre funzionato, che sempre funzionerà. Lo sappiamo benissimo tutt’e due.

E sì. Ormai aveva imparato ad accettare che la sua voce interiore fosse il Marco che lui non era mai stato: ovvero pratico, spigliato, a tratti cinico e furbo.

- Bene, spero solo che quando tornerò a casa, tu potrai darmi una mano a scovarne uno di qualità… - mormorò Marco, sempre guidando. Fuori, in strada, vide un cartello verde che indicava la direzione da seguire per raggiungere l’autostrada verso Torino.

La strada si apriva con un tratto asfaltato, che scorreva dritta per i primi cinque chilometri, per poi procedere piuttosto a zig-zag verso un complesso di alveari cittadini, dei palazzi molto alti che si stagliavano nel blu del crepuscolo, arrivando a sembrare dei giganti addormentati complice l’assenza totale di illuminazione all’infuori dei fari della Mercedes di Marco.

- Brrr. Questo posto mi mette i brividi. – disse, per poi accorgersi che non aveva ancora chiuso le sicure agli sportelli. Pigiò un bottoncino con sopra disegnata una chiave sulla plancia dei comandi e le serrature delle due portiere scattarono con un clic.

Intanto il percorso continuava ad essere asfaltato, ma c’era qualcosa che non quadrava. Non c’erano auto lì in giro, neanche una di passaggio. Niente illuminazione, nessuno che circolasse. Marco scalò la marcia e rallentò, cercando di fare il punto della situazione. Sulla plancia dei comandi, tra le altre cose c’era il navigatore satellitare integrato. E va bene… vediamo se questo coso funziona. Pensò, e pigiò alcuni tasti sullo schermo.

- Il dispositivo deve essere configurato. Collegare il dispositivo ad un computer tramite il cavo USB che trovate… - disse il computer di bordo con voce metallica, e nel mentre sullo schermo compariva un’animazione che faceva vedere dove era posizionato il cavetto nell’automobile. Marco fermò totalmente il veicolo, e spense il motore.

-Fanculo. – disse tra i denti – Tecnologia moderna un cazzo. – si stese sul sedile, chiudendo gli occhi. In basso, attaccato al sedile, c’era un interruttore. Lo pigiò, e lo schienale del sedile iniziò lentamente ad andare giù… lo tirò giù quasi tutto, fino ad assumere una posizione sdraiata. Chiuse gli occhi.

Non è prudente stare qui, Marco. Disse la sua voce interiore, ma lui rispose che aveva solo bisogno di riposarsi un attimo. Era troppo frastornato. Troppo.  

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** CAPITOLO 7 ***


Non era passata neanche un’ora, che Marco si ridestò, svegliato da rumori di motori

Non era passata neanche un’ora, che Marco si ridestò, svegliato da rumori di motori. Erano rumori intensi, ruggenti, parecchio fuori dalla norma. Con gli occhi semichiusi per il sonno, Marco arraffò gli occhiali e pigiò sul tastino sul sedile per risollevare lo schienale, quindi guardò fuori dal parabrezza cosa stesse succedendo.

- Oh porca paletta. – disse – Sto… sto sognando o cosa? –

La grande spianata di asfalto con tutte quelle rotonde, che al suo arrivo era stata silenziosa ed inquietante, adesso era diventata un grande circuito per gare automobilistiche. Poteva vederli anche da lì, i veicoli in gara: automobili che anni prima erano state normali, adesso erano diventate dei bolidi, colorate con colori sgargianti e decorate di insegne aggressive.

Non già spaventato, quanto leggermente in allerta, Marco pigiò sul pedale della frizione e schiacciò il pulsante di “Start”, che mise in moto il veicolo. L’auto partì silenziosamente, ma la carissima Signora Sfiga era lì in agguato, pronta ad attraversargli la strada.

 

Intanto, nel circuito, la gara continuava. I veicoli sfrecciavano come delle auto di Formula Uno, ben consapevoli che lì non ci fossero altre auto in transito. Una di queste, una bellissima Ford Escort rossa, si portò in testa a tutte le altre, sterzando paurosamente in curva, ma senza perdere la strada. Il pilota guardò un momento lo specchietto, per poi prendersi uno spavento immenso quando guardò fuori dal parabrezza.

- Cazzo!!!!!

Un’auto che non faceva parte della scuderia (Una Mercedes Classe E tutta grigia recante targa civile), si era immessa nel circuito, persino con il lampeggiante destro acceso! Che cazzo ci fa questo imbecille in mezzo ai coglioni??? Un altro vecchiaccio alla ricerca di puttane da incaprettare??? Pensò il pilota, mentre con il piede schiacciò forte sull’acceleratore, portando il motore a seimila giri, mentre l’auto lussuosa inchiodava.

- Quell’idiota si è fermato nel circuito!!! – esclamò il pilota, mentre con l’altra mano afferrava il microfono della radio.

- Fireball chiama Andy. Fireball chiama Andy. Rispondi, Andy! Passo. – scandì quello alla radio.

- Qui Andy. Che cazzo vuoi, Fireball? Passo. –

- Abbiamo un Codice Rosso. Un veicolo civile che non è dei nostri si è piazzato in mezzo alla strada, c’è pericolo che… – si fermò, guardando le altre auto che gli sfrecciavano intorno dallo specchietto retrovisore – … che interferisca con la gara. Passo. –

Si sentì una bestemmia dall’altra parte. Poi la voce di “Andy” parlò di nuovo.

- Circondate quella merda di intruso e portatemelo qui. Vivo o morto. Passo. –

- Ricevuto. Passo. -

 

Mentre Marco procedeva tranquillamente, cercando una via d’uscita da quel casino, dato che sentiva che se fosse rimasto lì sarebbero stati guai seri. Non trovandolo, si mise a percorrere la strada, quando ad un tratto…

- Che cosa…? –

Tutte le auto della gara si erano piazzate a bloccargli la strada. I guidatori, tutti ragazzi e ragazze dall’aspetto duro ed inquietante, stazionavano tranquilli a braccia incrociate. Quando lo videro, si mossero in truppa verso di lui.

- N…no… - mormorò Marco, con la paura che già gli stava salendo in corpo. Chiuse le sicure delle portiere, quindi innestò la retromarcia e cercò di fuggire, facendo inversione. Quelli iniziarono a correre, qualche auto si mise in moto e lo inseguì. Tra queste, una Audi TT gli sfrecciò a sinistra per poi inchiodargli di fronte.

- Ahhh!!! – urlò Marco, inchiodando a sua volta.

Dall’auto scesero due ragazzi. Uno era biondo, vestito con una maglietta a maniche corte ed una tuta di jeans tipo quelle che usavano i minatori inglesi. Alle orecchie portava un bel po’ di orecchini colorati e lo sguardo era parecchio incazzato. L’altro invece era un ragazzo dai capelli rossicci, il volto pieno di lentiggini e anche lui pieno di piercing. Questi era vestito un po’ più tranquillo, infatti portava soltanto una felpa Lonsdale ed un paio di pantaloni neri da ginnastica con due strisce bianche ai lati. In breve arrivarono gli altri compagni, e l’auto di Marco fu circondata.

- Scendi, merdaccia. – ringhiò fra i denti il ragazzo biondo. Marco si limitò ad abbassare il finestrino di pochissimo, quel tanto che bastava a farsi sentire.

- Ehm… Guardate che … io non ho… fatto … niente – balbettò.

- Non me ne frega un cazzo! Scendi! – ripeté quello. Nei suoi occhi c’era una malvagità terribile, che a Marco fece paura. Ma non si decise a scendere. Restò lì al suo posto. Comprendendo le sue intenzioni, il biondo tirò fuori una pistola da una tasca dei pantaloni. Marco si spaventò ancor di più.

- Se non scendi, ti sparo. –

- Va bene, va bene, scendo. Ma non arrabbiarti. – disse Marco, sbloccando le sicure e aprendo la portiera. Una volta uscito dall’abitacolo, fu peggio che andar di notte. Il ragazzo biondo lo acchiappò per la cravatta, quasi strozzandolo. A Marco scappò un colpo di tosse. Tutta intorno si era radunata la folla dei corridori, che stavano ridacchiando al trattamento che il loro capo stava riservando al povero malcapitato.

- Chi cazzo sei – disse il biondo, guardandolo negli occhi, mentre con la mano continuava a tenerlo per la cravatta – Voglio sapere nome, cognome, indirizzo, numero civico… ma soprattutto… che cazzo ci fai qui. –

- M…Ma… Mar… Marco D… De C… Cristina. – disse Marco, balbettando per la paura. Dopo che ebbe risposto, ci fu una risata generale da parte dei partecipanti, compresa quella del ragazzaccio biondo.

- Ah ah ah! Ma avete sentito? Questo balbetta come un demente! – poi tornò a guardare Marco, puntandogli la pistola sotto il mento. – E sentiamo, oltre ad avere un nome ridicolo, che cazzo ci fai qui, eh? –

Non trovando giustificazione migliore, Marco disse la verità – I…I… Io… m… mi sono… p…perso. – La bocca della pistola sotto il mento gli faceva male, ma si impose di non discutere. Gli venne da piangere.

Altra risata generale.

- Ah, ti sei perso? E che cazzo di milanese sei se ti perdi nella tua città? – disse ridendo malvagiamente il biondo.

- V… Veramente io… io non sono di Mi… Milano. Io s.. sono di … T… Torino! –

- Ohhh, sei di Torino? Quindi sei anche un merdoso tifoso della Juventus! Sentito, ragazzi???

- Merdaccia! – disse qualcuno dal pubblico.

- Schifosi juventini, andate in giro in Mercedes perché rubate le partite! – disse una ragazza, attaccando poi a ridere sguaiatamente.

Marco chiuse gli occhi, cercando di ricacciare indietro le lacrime. Sapeva bene che sarebbe stato inutile sollevare obiezioni del tipo che non era mai stato in uno stadio in vita sua…

- Bene, cara Cristina da Torino. Ho due notizie per te. Una è cattiva, l’altra è cattivissima. Ale! Matt! Venite qui! – chiamò.

Arrivarono due ragazzi, uno con i capelli rosso fuoco e un altro con i capelli gialli.

- Matt, tu perquisisci l’auto. Ale, tu questa merdaccia. –

- Ok Capo. – dissero entrambi, dividendosi.

- C.. che volete… fare…? –

- Taci tu. Qui le domande le faccio io. – disse il biondo – Tornando a noi, la cattivissima notizia è che noi ci prendiamo la tua auto ed il tuo portafogli … Quella cattiva invece… -

Marco aspettò. E nel mentre, le gambe gli tremavano.

- Ragazzi, pestatelo! –

Come delle belve aizzate dal loro padrone, tutti i presenti andarono verso di lui, circondandolo. La loro rabbia fu accentuata dagli insulti verso la squadra piemontese (che comunque Marco non tifava), mentre i loro pugni erano forti ed i loro calci ancor di più. Il povero Marco cercò di scappare, di difendersi blandamente, ma quelle erano bestie, non persone. Un calcio lo colpì dritto alla milza, facendogli espettorare un po’ di sangue dalla bocca.

- Aaaarghhh… -

Un pugno in faccia gli fece perdere gli occhiali, e mentre cercava di scappare, un ragazzo gli si avventò addosso, mandandolo a sbattere con la fronte sul marciapiede adiacente.

Poi per lui fu il buio. Non vide più nulla.

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


- Ohi … che male… - biascicò Marco, risvegliandosi dal suo torpore

- Ohi … che male… - biascicò Marco, risvegliandosi dal suo torpore. La testa gli faceva male, ma quella era il meno. Si sentiva il corpo tutto dolorante, e non sapeva bene dove si trovasse. Intorno a lui, di nuovo tanti palazzi, questa volta più popolati. Tra la gente che passava, notò uno spazzino che lo osservava. Fece per alzarsi, ma avvertì un dolore fitto alla schiena.

- Ahi!!! – gemette – Che male!!! –

- Se dormi in mezzo alla strada, è logico che poi ti senti dolorante! Che ci facevi lì? – domandò lo spazzino dall’altra parte del marciapiede. Marco fece per replicare che era stato vittima di un pestaggio e che gli avevano rubato tutti gli effetti personali, quando all’improvviso si sentì di non poterlo fare. Buttò lì una scusa.

- La … la mia fidanzata mi ha lasciato, così … io mi sono … ubriacato. – mentire gli venne bene, così bene che se ne sarebbe potuto auto convincere. Dopotutto, in parte era vero. Il suo fidanzato l’aveva tradito, e lui avrebbe benissimo potuto infilarsi in una taverna qualsiasi ad annegare i dispiaceri insieme al Dio Bacco.

- Ah, capisco… Ma vai a darti una ripulita, che sembri un Baluba extracomunitario con la cravatta, eh! – disse infine lo spazzino, continuando il suo giro.

- Certo Signore. Non mancherò. Buongiorno! – disse, inchinandosi riverente. Se avesse avuto un cappello, se lo sarebbe tolto e l’avrebbe ringraziato così, in perfetto stile inglese.

 

Poco dopo, Marco era seduto su una sgangherata panchina a fare il punto su ciò che gli era accaduto da quando aveva messo piede sul suolo lombardo.

Dunque, ricapitoliamo: mi hanno fregato il cellulare, l’auto di mio padre, il mio portafogli ed i miei effetti personali… Ah già, non dimentichiamoci di quello stronzo di Ricky che mi ha tradito, e chissà da quanto tempo lo faceva. Anche lui mi è stato rubato da una sciacquetta di nome Brian.

…Il che si riduceva tutto ad un inventario delle cose che gli erano state rubate. Che con lui la vita non fosse stata prodiga di fortuna (no, non lo era stata, nonostante l’essere nato in una famiglia stra-ricca) era un dato di fatto, ma addirittura scontare tutte quelle sfighe in un giorno solo, gli parve eccessivo. Mentre pensava, la preoccupazione incominciò a farsi strada dentro di lui. L’auto del padre era nuovissima, e soprattutto costosissima. Si mangiò le unghie pensando a ciò che quei delinquenti avrebbero potuto farne. Sicuramente l’avrebbero trasformata in un’auto da corsa come quelle che possedevano loro, oppure (peggio ancora!!!) l’avrebbero venduta al chilo, sotto forma di pezzi di ricambio. Dunque, che fare?

La polizia! Certo, la polizia aiuta tutti, trova i delinquenti, li punisce e in qualche caso riescono anche a farla franca.

Ma la polizia chiede anche generalità, numero di telefono, indirizzo, dati dell’intestatario del veicolo (Suo padre), che se quest’ultimo fosse venuto a conoscenza che la sua auto era sparita, avrebbe fatto fuoco e fiamme.

Quindi quell’ipotesi era da scartare.

Scartata l’ipotesi della polizia, cosa rimaneva?

Ah sì! Tornare da Ricky o da Brian e farsi aiutare da loro!

E come?

Marco non sapeva come, ma sicuramente avrebbero potuto aiutarlo… o no?

Oh santa polenta Valsugana. Siamo ritornati a fare i sentimentali, eh, Marco? Sveglia, pappamolle! Che cosa credi che possano fare il tuo ex ragazzo e quella sciacquetta del suo amante? Comprarti un’auto nuova? O magari farti da avvocati difensori contro l’ira di tuo padre? Eh? Ti conviene pensare a qualcosa di meglio, caro mio, perché questa mattina fai veramente schifo in quanto ad arguzia!

Di nuovo la voce del “Marco-Pragmatico” che gli urlava dai profondi recessi della sua mente, amichevolmente sconsigliandogli di lasciar perdere quei due.

E allora, cosa si poteva fare?

Tanto per cominciare, una bella colazione. Sarò solo una voce nel tuo cervello bacato, ma posso dire per certo che tu hai una fame da lupo. Indi per cui alza quelle chiappette mosce e vai a spararti una colazione, prima di morire di fame.

- Hai ragione. Si pensa meglio a stomaco pieno, caro Marco! – esclamò ad alta voce. Poco prima era arrivata una signora con un passeggino, che teneva in braccio un neonato. Marco non se n’era accorto e la signora si era spaventata.

- Ehm … Ma che bel bambino, è suo? – domandò Marco, al colmo dell’imbarazzo.

La signora rimise il bambino sul passeggino e si allontanò a gambe levate, senza degnarlo di risposta. Che figura, pensò Marco, mentre si avviava verso l’uscita del parco, diretto verso il primo bar che il buon Signore gli avesse messo sulla strada.

 

Entrò in un tipico bar milanese, di quelli con il mobilio in legno ed i quadri calcistici in bella mostra. Tutto lì era all’insegna del Milan, e Marco, conscio della grande simpatia che i milanesi avevano verso i piemontesi come lui, fossero o meno tifosi di calcio, lo spinse a non rivelare a nessuno che veniva da quelle valli. Anche se sarebbe stato meglio se me ne fossi rimasto a casa mia, porca paletta!!! Pensò, mentre varcava la soglia del locale. Qui, c’erano tanti uomini ed un gran brusio, tipico della prima mattina. Chi parlava di calcio e chi raccontava di come aveva passato il weekend, a Marco sembrò di capire una cosa: che buona parte degli avventori di quel locale, almeno un gruppetto, erano tassisti. La sua supposizione fu confermata quando vide fuori dalla vetrina del locale un bel po’ di auto bianche, con tutta probabilità possedute da alcuni dei clienti del bar.

 

Senza pensarci, Marco si avvicinò alla teca delle brioches e ne acchiappò due. Una se la mise in bocca, l’altra la tenne per dopo. La barista lo osservò attentamente. Un ragazzo basso, scarmigliato e che strabuzzava gli occhi per cercare di vedere. Se non destava sospetti lui, voleva dire che tutti lì erano ciechi. Lui non se ne accorse, ma la donna lo apostrofò – Sono due euro per i cornetti. –

A Marco gli si fermò il boccone in gola. Era pur vero che non possedeva più il portafogli, in mano a quei bastardi di corridori clandestini. Purtroppo la sua abitudine di prendere cose nei bar e lasciare una lauta mancia al momento di pagare, l’aveva fregato.

- Ehm… Cara signora – esordì Marco, nel modo più gentile possibile e sempre tenendo in mano il cornetto salato – Avrei un problema da risolvere… -

La donna non lo fece continuare – Spero non sia un problema di denaro. Mi farebbe incazzare assai sapere che non puoi pagarmi le brioches. – disse la donna, mettendo le mani sui fianchi. Dalla cucina, arrivò anche un uomo, che Marco intuì essere il marito.

- Che succede qui? – disse l’uomo. Marco fece per replicare, ma fu interrotto dalla donna.

- Questo signore qui non ha i soldi per pagare. – disse, senza nemmeno sapere che Marco non aveva il portafogli. Esperienza di una locandiera?

- Male, molto male. – disse l’uomo.

Prima ancora che Marco si sciogliesse in lacrime davanti a tutto il locale per la vergogna, una mano gli toccò la spalla.

- Ehi, ma dove ti eri cacciato? Ti avevo detto di aspettarmi in macchina! –

Si voltò. Chi aveva parlato era stato un ragazzo alto forse un metro e novanta, con i capelli di taglio medio ed un pizzetto alla Brad Pitt. Gli occhi erano dello stesso colore dell’attore. Azzurro cielo, e nell’insieme non era davvero niente male. Indossava una camicia a quadrettoni ed un paio di jeans strappati sulle ginocchia.

- Ma… parli con me? – ebbe solo il coraggio di domandare Marco.

Per tutta risposta, il ragazzo alto si abbassò e gli sussurrò in un orecchio – Se vuoi uscirne pulito da questa storia, stai al gioco. Fai finta di conoscermi, O.K.? –

Marco annuì.

- E allora, cuginetto! Hai preso questi due cornetti? Ci penso io a pagarli, che tu sei sempre così distratto che lasci il portafogli in macchina – concluse con una risatina il ragazzone. Se ciò era servito ad evitargli rogne con il bar, sicuramente non gli aveva evitato un certo imbarazzo a cui non era abituato negli ambienti che frequentava a Torino.

- Non ci avevi mai detto di avere un cugino, Emanuele… - disse la donna, arraffando i due euro e battendo uno scontrino al registratore.

-  Davvero? Me ne sarò dimenticato, allora. Mi perdoni, Evalda? –

La donna gli sorrise amorevole – Solo se ci prometti di continuare a fare colazione qui. – concluse, strizzandogli l’occhio.

- Contaci! – replicò “Emanuele”, facendo il gesto della pistola e ricambiando l’occhiolino. – Andiamo, cuginetto? – fece poi a Marco.

 

Poco dopo, erano nell’abitacolo del taxi di Emanuele, una normalissima Renault Megane vecchio modello.

- Grazie… - disse Marco.

- Credevo che non me l’avresti mai detto, principino. – replicò Emanuele.

- Principino? Non mi chiamo principino. –

- E allora, come ti chiami? –

- Marco. –

- Bel nome – disse Emanuele – Una volta conoscevo un ragazzo che si chiamava Marco. Era piccolo e brutto, e … - si fermò, e guardò Marco che ascoltava attentamente.

- E… ovviamente non sei tu. – E si mise a ridere.

Marco lo guardò sollevando un sopracciglio, trovando che quel ragazzo fosse un po’ strano. Guidava il suo veicolo con una sicurezza incredibile, riuscendo quasi a “dribblare” il traffico, mantenendo comunque un’andatura spedita. Guardandolo, Marco pensò a se stesso, che nonostante possedesse un’auto full optional (una Grande Punto comprata sei anni prima ma ancora nuova), non la usava mai, perché preferiva andare in bicicletta piuttosto che rimanere bloccato nel traffico. Di Emanuele osservò la sicurezza, il savoir-faire che aveva avuto con lui ed i modi gentili nonostante la faccia da malandrino che portava.

- Allora, dove vuoi che ti lasci? –

- Eh? … Io… io non … non lo so. –

- Come sarebbe a dire che non lo sai? Non abiti qui? –

- Io… veramente… no. –

Erano fermi ad un semaforo. Per un attimo Emanuele si voltò verso il suo passeggero e lo guardò attentamente. Marco si voltò ed incrociò il suo sguardo. Di solito era piuttosto restio ad affrontare sguardi che non erano quelli di sua madre o del suo fidanzato (al secolo Ricky), per via di una sua timidezza atavica che non gli consentiva di reggere uno sguardo per più di due secondi. Con Emanuele invece riuscì a gestire benissimo questa timidezza. Forse perché gli occhi del tassista erano così attraenti che non si poteva fare a meno di guardarli? Oppure c’era qualcos’altro?

- E dove abiti, sentiamo? – gli domandò, sempre senza staccare lo sguardo dal suo.

- Abito a.. a Torino. – disse Marco, sbattendo un po’ le palpebre. Emanuele sgranò gli occhi sorpresi.

- Ma mi stai prendendo in giro? – domandò il tassista. Allora Marco distolse lo sguardo, imbarazzato.

- Ehi, no… - disse Emanuele, dandogli un buffetto sul braccio. Marco si ritrasse e digrignò i denti, gemendo di dolore. – Non aver paura, non voglio farti del male. Ma… mi sembra che tu… -

- Ahio! –

- Ti porto a casa mia. –

 

Non perse nemmeno tempo a chiedergli se si fidasse di lui, che Marco si lasciò condurre nell’appartamento del ragazzo, un bilocale spazioso molto ben arredato.

- Non mi ero accorto che il tuo viso fosse così pieno di escoriazioni. – disse Emanuele preparando un impacco freddo da mettere in faccia a Marco.

- Mi sono sciacquato ad una fontana prima di entrare nel bar. –

- Capisco. Accidenti, ti hanno fatto proprio una bella festa, eh? Mi piacerebbe proprio sapere chi è che ce l’ha avuta così a morte con te… sembri innocuo. – disse Emanuele, accavallando le lunghe gambe, seduto sul divano, mentre Marco era sdraiato.

- Sapessi… mi è successa una cosa terribile. Anzi… una serie di cose terribili. – disse Marco mentre si massaggiava il viso con l’impacco freddo. Non si era guardato allo specchio, ma sentiva che il suo occhio sinistro si era tumefatto in un livido.

- Me ne vuoi parlare? – domandò Emanuele, assumendo quasi l’aspetto di un fratello maggiore che volesse spingere il fratellino a confessare la marachella che aveva combinato. Non sapeva come né perché, ma sentiva di potersi fidare dell’alto tassista.

Lentamente, Marco tirò fuori ciò che gli era capitato da quando era sceso dal treno, in un racconto denso ma conciso, e di come dei teppisti l’avevano beccato e gli avevano rubato l’auto nuova di suo padre, che era sicuramente il pezzo forte di tutta la narrazione.

- …E infine, eccomi qui. –

- Già. Eccoti qui. –

- Perseguitato dalla sfiga. Sarebbe stato meglio se non mi fossi mosso di casa, ieri… - sospirò ampiamente, mentre Emanuele si alzava.

- Dove vai? – chiese Marco.

- Hm? – mormorò Emanuele – Da nessuna parte… vado un attimo in bagno. – disse, e scomparve dietro una porticina adiacente alla cucina. Stranamente, a Marco era sembrato che stesse nascondendo qualcosa.

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Altro giorno, altra telefonata

Altro giorno, altra telefonata. Marco aveva chiamato suo padre verso le undici del mattino, ora in cui sapeva che il genitore poteva rispondere perché in ufficio.

- Non sono in ufficio. – aveva detto il padre a Marco.

- Ah… no? E dove sei, dunque? – domandò Marco, con la cornetta del telefono di Emanuele premuta sull’orecchio sinistro.

- A casa. Sto… ehm… sbrigando alcune faccende con una persona. – Il tono era imbarazzato, e Marco se ne accorse. Tuttavia non riuscì a tradire una risata, e subito il padre lo apostrofò – Ma insomma, quando ti decidi a tornare? Non è ancora finita la visita da questo tuo amico?!? A me serve l’auto! –

Tentato dal dirgli la verità, Marco fece per aprire bocca e spifferargli tutto quanto, ma si trattenne, pensando alla fattura dell’auto. Chiuse gli occhi, cercando di filtrare tutta la preoccupazione che aveva dentro, respirando profondamente. Il padre gli chiese cos’avesse, non perché si preoccupasse del suo stato di salute, quanto perché poteva capire che suo figlio stesse nascondendo qualcosa.

- Niente, papà. Ho avuto solo un piccolo capogiro, niente di grave. –

- Sarà meglio. Beh insomma, fai un po’ quello che vuoi, ma non rovinare l’auto! –

- Non preoccuparti, papà… - disse, e salutando in fretta, chiuse la comunicazione. Adesso per un bel po’ di tempo sei sistemato. Pensò Marco, allontanandosi verso la cucina.

 

L’appartamento di Emanuele era veramente molto ben tenuto. Non c’era neanche una cosa fuori posto, e l’arredamento era anche di buon gusto. Dato che lui non c’era, decise di fare un giro turistico.

Le pareti erano ornate da poster di gruppi musicali, o locandine di film. Sui mobili c’erano un sacco di gadget tipo quelli che si vedono nelle vetrine degli articoli da regalo, ed un sacco di libri stipati in una libreria. Per lo più romanzi di Stephen King, genere horror.

In cucina c’era un normalissimo piano cottura con una credenza ed i cassetti, tutto perfettamente pulito ed in ordine. Ed un tavolo ad angolo con due sedie, il che fece pensare a Marco che Emanuele non ricevesse mai troppe visite alla volta.

Ciò che lo colpì maggiormente, fu la stanza da letto del giovane tassista. L’armadio, interamente tappezzato di fotografie di ragazzetti giovani prese da riviste, conteneva un sacco di annotazioni del tipo “mi piaci” e “ti vorrei”. Poco lontano dal letto c’era anche una piccola scrivania con sopra un computer. Marco lo toccò, e vide che era acceso. La schermata si aprì su Facebook. Scoprì che il suo cognome era “Ricciarelli”, che non era nato a Milano bensì a Viterbo, che aveva fatto solo tre anni di scuola superiore e che era nato l’undici giugno del 1982.

Incredibile la quantità di informazioni che puoi trovare su Facebook pensò di nuovo, chiudendo quella schermata e sentendosi attirato da una cartella del computer.  

“Vittime”, lesse Marco nella sua mente. Sgranò gli occhi, impaurito. Con un doppio click aprì la cartella e vide che conteneva un bel po’ di cartelle. Queste cartelle a loro volta contenevano un piccolo documento di testo e delle fotografie…

Ragazzi bellissimi, efebici, molto ben tenuti erano ritratti nelle fotografie. Ed erano ragazzi di ogni parte d’Italia. Marco fece un “ha” di stupore nel vederle, e si rallegrò che anche il tassista fosse gay. Non si rallegrò più di tanto invece quando vide la foto di una sua recente conoscenza.

Anche Brian era stato una “vittima” di Emanuele, e le nota esplicativa sul foglietto di testo diceva “…Ragazzo sexy, molto dolce prima del rapporto e molto piccante durante. Pelle liscia e sedere sodo. Veramente una bomba sexy, non è mai stanco di fare sesso. Nel leggere quelle parole, Marco arrossì, nel sentire che in mezzo alle sue gambe qualcosa si stava muovendo di nuovo.

Ma che cosa ti salta in mente adesso? Non vorrai mica masturbarti qui? E poi a te questi ragazzi qui, così femminili non ti piacciono. Piuttosto cerca di allontanarti da qui, che se quello torna e ti becca a curiosare nel suo computer, ci fai una figura di merda!

- Sì, hai ragione… - mormorò Marco alla sua voce interiore, quella del Marco Pragmatico, che era in allerta più che mai. Chiuse tutte le cartelle, rimise a posto la schermata sulla pagina di Facebook e si alzò dalla scrivania. Passando per lo specchio vide che il suo occhio si era tumefatto sul serio, dandogli l’aspetto di un panda. In più, non ci vedeva bene senza i suoi occhiali, persi chissà dove mentre veniva pestato dai corridori.

Appena torna mi faccio accompagnare a comprarne un altro paio… pensò, e si distese sul divano, a pensare quanto fosse stato fortunato ad incontrare Emanuele. Nella malasorte, gli era andata abbastanza bene. Solo una cosa lo turbava: quell’espressione di Emanuele alla fine del suo racconto. Una volta tornato dal bagno il ragazzo l’aveva salutato dicendogli che poteva stare a casa sua quanto voleva (aggiungendo scherzosamente che non c’era nulla da rubare) e che sarebbe tornato al massimo nel pomeriggio. Non abituato a tanta cordialità, il giovane Marco aveva accettato non vedendo quale altra soluzione poteva adottare, e si era disposto a passare quelle ore da solo, in casa di uno sconosciuto. Per ovvi motivi di vista, non poteva guardare la televisione, per cui si mise a leggere uno dei libri di Emanuele, rompendo la sua tradizionale passione per i fumetti manga. Tuttavia, l’interrogativo sull’espressione di Emanuele rimaneva.

Chissà cosa mi nasconde…

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=718682