Listen to your Heart

di Miss Demy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Piccola Lolita ***
Capitolo 2: *** Una nuova sensazione ***
Capitolo 3: *** Se fuori piove ***
Capitolo 4: *** Sensi di colpa ***
Capitolo 5: *** Flashback - parte prima ***
Capitolo 6: *** Flashback - parte seconda ***



Capitolo 1
*** Piccola Lolita ***


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Capitolo 1:  Piccola Lolita
 
L’aveva osservata per qualche istante. Se ne restava con il busto leggermente in avanti, gli avambracci ben poggiati alla bassa ringhiera di ferro. 
Quella domenica di inizio giugno i gabbiani attraversavano il cielo limpido per poi planare sulla coltre d’acqua salata. I raggi del sole creavano punte di diamante che si riflettevano anche sulla costa sabbiosa, distesa dorata.
Usagi da quella prospettiva sembrava proprio una bambina. Si lasciava accarezzare il volto dal vento proveniente da est che agitava i rami degli alberi in lontananza e faceva ondeggiare le foglie verdi. Socchiudeva gli occhi per non venire accecata dalla luce del sole che le andava incontro mentre amava perdersi nell’immensità dell’orizzonte di fronte a sé.
Sembrava un’anima in pena quando riempiva i polmoni per poi rilasciare un respiro agitato, cercando conforto in quell’aria calda che odorava di salsedine e di natura, mentre le sue ciocche miele fluttuavano ribelli seguendo la spinta del vento.
Decise di intervenire.
«A che pensi?» le domandò poggiando una mano sulla sua spalla scoperta. 

Lei avrebbe riconosciuto quel tocco tra tanti.
«Niente» rispose, scrollando via i pensieri dalla testa e forzando un sorriso; il suo sguardo non voleva abbandonare l’orizzonte.

«Dai, Odango, cos’è successo?» A Mamoru la risposta non aveva convinto, non si arrese; si era arrogato il titolo di confidente, o meglio, così credeva.
 
La ragazza alzò le spalle e, voltandosi verso di lui, si lasciò andare: «Il fatto è che…» iniziò, prima di tentennare timidamente, come se tutto sommato certi argomenti fossero imbarazzanti se affrontati con Mamo-chan.
 
«Dai, Usa, perché questo faccino pensieroso?» Mamoru poggiò una mano sul mento della ragazza obbligandola a guardarlo. «Sai che con me puoi parlare.»
Tante volte aveva dovuto insistere ma dopo lei aveva ceduto e si era confidata. Era l’unico amico, lui lo sapeva.  

«È per Seiya» spiegò, lo sguardo sul pavimento di terracotta, «sono giorni che litighiamo, lo vedo sempre più lontano, come se fosse assente.» Silenzio. «E poi stasera ci sarà la festa di compleanno di Ami e so già che lui ricomincerà con la solita storia.»
Il tono della sua voce era imbarazzato e i suoi occhi in cerca di rifugio verso il mare di fronte a sé.

Mamoru voleva che lei desse valore a ciò che stava per suggerirle, la guardò negli occhi e proseguì: «Stai tranquilla, non prendere decisioni per paura delle sue reazioni, fai ciò che senti di voler fare.»

Lei annuì. «Sì, è quello che finora ho cercato di fargli capire, che non mi sentivo pronta, ma lui…» Si voltò a incontrare gli occhi di lui, sentiva le guance pizzicare dal sole. «Tutta questa sua pressione mi fa stare male, non ci posso fare nulla, e tutto ciò crea attrito che ci allontana. Non sono pronta ma lui non lo vuole capire. Sembra che a lui non interessi.»
I raggi erano diventati pesanti, così come le sue preoccupazioni; si portò le mani a proteggere il volto, a nascondersi per un po’ dal mondo.

«Usa, stare insieme significa capire se si sta bene con l’altra persona.» Lui la raggiunse nel suo rifugio. «Se questa storia non ti fa più stare bene, lascialo andare, non ci perdi di certo tu.»

Eccolo che, ancora una volta, trovava il pretesto per evidenziare quanto Seiya fosse inadatto per lei. Da quando tre mesi prima gli aveva confidato di aver iniziato a frequentare quel ragazzo conosciuto a una serata universitaria, lui non aveva mai perso occasione per farla riflettere. 
 
Cosa pensi potranno mai avere in comune una studentessa universitaria e un musicista? Secondo me ti sei lasciata attrarre dal fascino dell’artista. Che poi, non è che sia un lavoro effettivo, lui con le serate nei locali pensa di potersi guadagnare da vivere? Cosa resterà quando la passione iniziale lascerà posto alla quotidianità? Passione ecco, passione che Seiya reclamava come un diritto e che lei non riusciva a concedergli.

In dieci anni le chiacchierate tra di loro erano state tante, troppe, e lui non aveva mai perso occasione per evidenziare che quegli otto anni di differenza tra loro fossero sufficienti per elargire consigli a suo avviso saggi. Sperò di esserne capace anche quella volta. 

La avvolse nel suo braccio, tirandola fuori dalla tana che si era costruita. «Quando arriverà il momento giusto lo capirai da sola.»

Usagi sentì il cuore più leggero, non era quindi lei a essere sbagliata; con gli occhi azzurri e vispi su quelli blu di lui, accennò un sorriso. «Grazie Mamo-chan; vedi, quando vuoi riesci a sembrare persino un saggio simpatico.»

Lui ridacchiò divertito. Simpatico. Saggio. Ci era dunque riuscito ancora una volta e sapeva che ogni discorso con Usagi non poteva terminare se son con qualche battuta. Era la loro complicità. 
«Adesso però andiamo a mangiare, Setsuna e mia madre avranno già portato i piatti in tavola» le rispose con un occhiolino, avviandosi all’interno dell’appartamento.
 

«Grazie per aver cucinato, Hana,» Setsuna posò le posate sul piatto di porcellana, iniziando a massaggiarsi il collo con entrambe le mani, «i turni di notte sono micidiali.»
«Ma figurati, lo sai, per me è sempre un piacere potervi essere d’aiuto.» 
Da quando Mamoru aveva acquistato quella casa, per Hana ogni occasione che si presentava era una opportunità per rendersi utile. Suo figlio era un medico, per l’esattezza un chirurgo, Hana lo scandiva con orgoglio quando parlava con le amiche o ai negozianti della zona; quel figlio le sembrava sempre più impegnato, con sempre meno tempo libero da dedicarle. Le mancava.
«Hana, questo riso al curry era buonissimo!» Per Usagi non c’era chef migliore di quella cara vicina di casa e non perdeva occasione per farle sapere di aver apprezzato i suoi esperimenti culinari. 
«Abbiamo notato, Odango!» Mamoru neanche perdeva occasione, quella testolina buffa era il suo divertimento preferito, le espressioni indispettite sul suo viso lo facevano sorridere. «Hai svuotato il piatto dopo aver fatto il bis, ma dove lo metti tutto questo cibo?» Il suo corpo asciutto non sembrava idoneo a contenere tutto ciò che mangiava.
Un’occhiata infastidita lo colpì. «Smettila, fatti gli affari tuoi!»
Hana scosse la testa, ciocche del caschetto biondo vibrarono all’aria. Un sorriso le sfuggì dalle labbra, si alzò da tavola. «Non vi stancate mai, vero?» Sembravano due bambini che pensavano già alla frecciatina successiva. Era da dieci anni che portavano avanti quel teatrino.

«Usa-chan, ho saputo che i tuoi sono partiti.» Setsuna era già stanca delle solite battute tra il suo fidanzato e la ragazzina. «Hana mi ha detto che sono andati a festeggiare il venticinquesimo anniversario, l’Italia deve essere bellissima.» Chissà se finalmente poteva inserirsi in un discorso serio, se c’era spazio anche per lei, se finalmente si sarebbero accorti di lei, stanca di sostituire i colleghi di notte e stanca di sentirsi invisibile di fronte a loro due.

Hana tornò con una fruttiera colma di fragole e ciliegie. Usagi allungò un braccio per afferare una fragola. 
«Hm mh» annuì addentandola, «i piccioncini gireranno venti giorni per diverse città con un gruppo organizzato.»
«Come sta andando questa libertà? Ti sta piacendo restare da sola?» Non sapeva da dove le era arrivata quella frase, voleva soltanto creare una complicità con lei, studiarla, capire perché tra Mamo e quella ragazzina fosse così naturale essere complici e con lei invece no, in fondo si conoscevano oramai da due anni.
Usagi posò il suo sguardo sugli occhi nocciola della ragazza, piccole pagliuzze rosse che rendevano quelle iridi simili alle ciliegie sul tavolo.
 «A volte tutta questa libertà mi sembra soffocante.» Usagi avrebbe voluto riempire il silenzio della propria casa con presenza piena d’affetto, parole di conforto. Ultimamente, i suoi erano sempre fuori.
«Ti soffoco io, piccolina mia.» Il profumo di Hana era caldo e avvolgente, rassicurante, proprio come quella stretta da dietro che percepì. Profumo materno. Profumo di chi ha perso tanto e ha dentro ancora tanto amore inutilizzato.
Mamoru osservò la scena. «Dai, andiamo a vedere un po’ di tv» disse, la sua mano intrecciò le dita di Setsuna. Quella situazione che non gli piaceva. Usagi che ancora una volta lasciava percepire la mancanza di affetto familiare, Usagi che si buttava tra le braccia di persone poco adatte a lei per colmare quel vuoto affettivo. Usagi che finiva per soffrire per le inevitabili rotture, tornando a sentirsi ancora più sola. Sarebbe accaduto ancora una volta, era inevitabile, un fallimento già garantito.
 
Sul divano dalla morbida imbottitura, finalmente Setsuna si poteva rilassare, chiudere gli occhi e sentire il cuore di Mamoru sotto il proprio orecchio. Lui che, appoggiato alla spalliera del divano di pelle bianca, le accarezzava i lunghi capelli lisci. Avrebbe voluto tagliarli, sfrangiarli, o magari osare un bob all’altezza delle spalle, di quelli visti alle attrici di Hollywood sull’ultimo tappeto rosso e, perché no, togliersi quelle sfumature artificiali e ritornare mora. A Mamoru piacevano così però, lunghi fino al fondo schiena e con quei riflessi che la illuminavano, e a lei piaceva piacere a Mamoru. 
“Vorrei che questo momento durasse a lungo” pensava. Era piacevole passare quei momenti di meritato riposo abbracciati l’uno all’altra, accompagnati dal leggero venticello che entrava dalla portafinestra lasciata aperta e portava con sé l’odore salmastro del mare. Erano pochi, sempre più rari, quei momenti in cui non erano solo colleghi intenti a effettuare interventi chirurgici o ad alternarsi i turni, togliendo loro la possibilità di vivere quell’amore sbocciato due anni prima, tra le corsie di chirurgia, e che cercavano di ritrovare in quell’appartamento sul mare. 

Usagi posò gli ultimi piatti sporchi all’interno del lavabo ma la voce di Hana la fermò. 
«Va’ a guardare la tv anche tu, ci penso io qui.»
Non se lo fece ripetere due volte, sorrise e andò a sedere sulla poltrona adiacente al divano.


Dallo schermo piatto quarantotto pollici una giornalista nel suo tailleaur grigio mostrava ciò che restava di un palazzo crollato in un paese vicino Tokyo. I morti erano stati dieci, i feriti ventiquattro. Sul volto di alcuni inquilini il terrore si mischiava alla polvere. 
Usagi sentì l’angoscia pervaderle il cuore, farsi largo dentro di sé. Come era possibile per una madre perdere un figlio così? Quanto avrebbero sofferto i familiari di quelle persone in bilico tra la vita e la morte? Quei volti disperati, straziati, ricoperti di sangue la colpirono come un pugno allo stomaco. Flashback cercavano di ritornare alla mente.
Basta. Non aveva intenzione di continuare a vedere quelle immagini, tanta sofferenza.
La brunetta ritornò sullo schermo, pulita e ben pettinata per annunciare la pubblicità. Era il momento perfetto per Usagi, allungò il braccio verso il tavolino basso prendendo il telecomando e cambiando canale.
«Usa, rimetti il notiziario.» Mamoru ordinò, il suo tono era scocciato ma non sorpreso. 
«Ma sta per iniziare Grey’s Anatomy…» lo implorò, sperando che il suo sguardo dolce e supplichevole potesse intenerirlo. Fu invano. Guardò Setsuna. Lei non interferiva mai. In quel momento era serena, con gli occhi chiusi e le braccia attorno alla vita di Mamo-chan, non avrebbe fatto caso al cambiamento di programma.
«Setsuna, non ti dispiace se guardiamo questo telefilm, non è vero?»
«No, tanto andrò a riposarmi a letto» le rispose con voce stanca alzandosi dal divano. La pace era terminata, avrebbero ripreso a battibeccare e a far casino e non avrebbero potuto seguire né il notiziario né le vicende di quei giovani medici americani. Tanto valeva stendersi la schiena e recuperare un po’ di sonno.

Quando la ragazza lasciò il salone, Usagi allargò un sorrisetto, guardando Mamoru negli occhi e presagendo una nuova vittoria.
«Ridammi il telecomando, Odango» insisté lui, era stanco di dover sempre assecondare i suoi capricci infantili, non era quello il momento.
Lei scosse la testa, non era più un cucciolo tenero ma una prepotente impassibile. Nascose il telecomando dietro la schiena, incrociando le braccia al petto e guardandolo con aria di sfida. 
«Voglio guardare questo programma, dai, non fare il prepotente.»

Mamoru lo sapeva che l’emotività di Usagi si era accentuata nel tempo, a volte era davvero impossibile comprenderla. Si era estraniata sempre di più in un mondo tutto suo, dove non c’era spazio per il dolore, dove la morte non doveva esistere. I notiziari erano banditi nel suo mondo. Una nuova Alice nel Paese delle meraviglie, così l’aveva ribattezzata lui. Era davvero fastidiosa. Voleva farle superare quel blocco ma forse non ci sarebbe mai riuscito, o forse si rendeva conto che ci stava provando nel modo sbagliato.
«Alice, lei permette che io mi tenga informato su ciò che accade nel mondo?»
Vederlo così gentile, che dipendeva da lei, che le chiedeva le cose con garbo, dopo essere stato scontroso e aver capito che non avrebbe ottenuto niente se non la reazione opposta, la divertiva parecchio; le espressioni quasi indifese e speranzose che il suo viso dalla barba leggermente incolta acquisiva erano per lei una pura soddisfazione. Il gioco era diventato ancora più divertente. 
Con le braccia conserte, scosse la testa. «No!» I suoi occhi furbi e vispi sfidavano quelli di lui.
«Okay.» La tregua era solo apparente.
Mamoru si alzò dal divano andandole incontro. Lo vide dal basso verso l’alto, il suo sguardo era enigmatico.
Usagi non capiva se fosse spazientito o pronto ad arrendersi. I suoi occhi blu si avvicinavano sempre di più fin quando lo ritrovò inginocchiato davanti a sé. 
Lui portò una mano ben aperta sulla la vita di lei, tirandola a sé per farla staccare dalla spalliera. La trascinò verso il suo abbraccio, diminuendo sempre più la distanza tra loro. 
Lei premette le mani sulle spalle di lui cercando di fare forza per distaccarsi e ritornare indietro verso lo schienale. Sembrava inutile, lui la teneva a sé mentre si inclinava in avanti stendendo la mano libera verso il telecomando. 
«Mamo-chan, lasciami, smettila!» urlava lei. Lasciò una spalla di lui per cercare di non permettergli di prendere l’oggetto. Le dita delle loro mani si intrecciarono proprio lì. Lui però riuscì ad afferrarlo. 
Usagi non avrebbe perso, non poteva accettare una sconfitta. La sua mano ferma sulla spalla di lui avvolse in un abbraccio il suo collo, l’altra si agitava all’aria nel desiderio di riprendere il telecomando. Aveva paura che lui si alzasse trionfante. Avvinghiò le sue gambe al busto di Mamo-chan. Una presa più stabile. Erano così vicini che poteva percepire il respiro agitato sulla propria pelle. Dimenandosi, sporgendosi in avanti, si ritrovò di nuovo con la mano su quella di lui che stringeva il motivo della lotta, fu in quel momento che alzò lo sguardo notando quegli occhi blu fissi sui propri e il respiro caldo di Mamoru che le accarezzava il viso.

Un colpo di tosse li destò da quella pericolosa lite.

Voltandosi verso l’arco che collegava il salone al resto dell’appartamento, gli occhi spalancati e imbarazzati di Hana li osservavano. Non era l’unica.
Setsuna, aveva assistito. Avrebbe voluto intervenire ma tutto era stato così veloce, così impensabile, aveva quindi deciso di aspettare, di vedere fino a che punto si sarebbero spinti; voleva verificare se era lei la solita esagerata, come lui soleva farla passare ogniqualvolta si parlava del rapporto tra quei due. Era curiosa di ascoltare come il suo fidanzato avrebbe giustificato quella scena che lo vedeva ancora in ginocchio, tra le gambe dischiuse di Usagi, cingendole la vita e con il viso a pochi centimetri di distanza da quello della ragazzina. Che nervi.

Furono gli occhi delle due donne su di loro a far rendere conto a entrambi fino a che punto, inavvertitamente, si erano spinti. Mamoru si alzò subito, spegnando la tv e tirando il telecomando sul divano con aria dispiaciuta, mentre Setsuna abbassò le palpebre quando incontrò gli occhi mortificati del ragazzo prima di voltarsi e tornare in camera da letto. 

Anche Usagi si mise in piedi, mantenendo gli occhi sul parquet. L’aveva combinata grossa, capì.
Con lui poteva giocare, scherzare, confidarsi, nel tempo avevano creato una complicità del tutto spontanea, naturale. Però non tutti, anzi quasi nessuno riusciva a comprendere quella loro ingenua amicizia. Aveva appena creato, in qualche modo, problemi a Mamo-chan. Avvicinarsi ad Hana era l’unico modo per trovare soccorso dopo la battaglia. 

«Vieni, Usagi, andiamo» le disse la donna poggiandole una mano sulla spalla. 
«Mamo, ho già fatto i piatti, va’ a riposarti, noi andiamo.» Ogni parola sembrava troppo assordante in quel silenzio misto tra imbarazzo e rabbia.
«Grazie mamma» si limitò a dire lui con voce bassa. Avrebbe voluto scomparire ma sapeva che una nuova battaglia stava per iniziare. Era stanco di dover combattere. Attese che le due uscissero e si affrettò a raggiungere Setsuna in camera da letto.


Setsuna era sdraiata su un fianco dando le spalle alla porta della camera; i lunghi capelli erano pece sul materasso, i raggi del sole che penetravano dal balcone ne accentuavano riflessi; il giovane si sfilò la maglia di cotone prima si stendersi accanto a lei e premere il suo petto sulla schiena della ragazza, avvolgendola nel suo abbraccio.
«La prossima volta dille di non urlare, stavo cercando di riposare.» La voce della ragazza era piena di delusione, nelle sue vene scorreva rabbia ma cercò di non farlo trasparire, non si sarebbe sentita dire nuovamente che era una gelosia assurda la sua. Restava in attesa di una spiegazione. Curiosa, sempre più impaziente.

Mamoru sapeva che il problema non erano le urla, il solito problema si ripresentava ma come sempre decise di essere coerente con la sua idea che i rapporti dovevano basarsi su sincerità e fiducia. Lui voleva essere onesto, perché lei non aveva fiducia?
«È una stupida ragazzina viziata» esordì lui, quella volta avrebbe cambiato approccio, forse sarebbe stato capace a evitare guerre inutili. 
«Non bastava che i suoi la assecondassero sempre, pure mia madre ci si mette tante volte.»
Le diede un bacio sul collo facendo scivolare le labbra lungo la spalla. 
«Mi dispiace, amore» sussurrò, mentre una mano scorreva sotto la gonna di lino viola e accarezzava la coscia della ragazza.

Setsuna si irrigidì a quel tocco. Avrebbe veramente affrontato l’argomento così? Aveva già chiuso il discorso? Il sangue nelle sue vene ribolliva, si sentiva agitata, inquieta. Mamoru voleva far finta di nulla e passare al sesso? Era troppo. Posò la sua mano su quella di lui, bloccandola.
«Lasciami» ordinò trascinandosi in avanti per allontanarsi da lui. In quel momento avrebbe desiderato prenderlo a pugni, fargli provare lo stesso dolore che le attanagliava l’orgoglio. Quel contatto le dava fastidio, perché lui non si spostava?

«Mi manchi. Tra i turni in ospedale e il fatto che litighiamo spesso ultimamente, ormai è da una settimana che non lo facciamo» confessò lui. Di quella loro relazione avvertiva sempre di più solo gli aspetti negativi. Le baciò il lobo dell’orecchio, come una proposta di pace.

«Se ultimamente litighiamo è perché tu non perdi mai occasione per fare lo scemo con quella» fu la risposta di lei, provò a mostrarsi calma, ma la rabbia era avvinghiata alla sua voce, la tradì. 
Mamoru rimase per un attimo ad analizzare quelle parole. Lo scemo? Con Usagi? Setsuna era forse impazzita.

«Lasciami stare, vattene, se hai voglia fallo con Usagi, sono certa non sta aspettando altro.»

Farlo con Usagi? Era evidente, stava delirando. La gelosia era un mostro verde che accecava. Setsuna ne era stata vittima.
«Stai scherzando, vero?»
Mamoru sapeva, capiva, che l’atteggiamento di poco prima aveva infastidito la sua donna, anche se sperava che lei riuscisse a comprendere che quella situazione non meritava importanza.
Vista da occhi estranei quella scena, dove lui che, con il busto tra le gambe lasciate scoperte da un paio di shorts, stringeva la ragazza per riprendere il telecomando, poteva essere poco piacevole, se ne rendeva conto, ma per lui non c’era malizia.

Conosceva Usagi da dieci anni, da quando i coniugi Tsukino e la loro bambina di dieci anni avevano traslocato in un appartamento nello stesso condominio dei Chiba. Ricordava il giorno in cui l’aveva conosciuta. Aveva appena compiuto diciotto anni, usciva dalla palazzina per raggiungere gli amici trovandosi di fronte a sé un uomo e una donna con degli scatoloni tra le mani. Tenne il portone aperto, permettendo a entrambi di entrare. “Grazie mille” avevano risposto all’unisono, poi la donna aveva chiamato: Vieni Usagi” e lui aveva intravisto una bambina intenta a spazzolare i capelli della sua barbie. Era corsa dentro, ignorandolo e raggiungendo i genitori all’apertura dell’ascensore. 

Setsuna si alzò dal letto di scatto: «Mi sono stancata, Mamoru» iniziò alzando il tono della voce, «sono stanca di vederti scherzare con lei, prenderla in braccio per tuffarla in acqua quando siamo al mare, di sentirti stuzzicarla mentre mangiamo!»
Con il respiro affannato e una convinzione che le spezzava il cuore al ricordo di quella scena, aggiunse: «Deve essere sempre così?» A lei proprio non andava giù. «Prima sembrava che te la volessi fare.» Il respiro affannato di lui mentre si guardavano ormai stanchi di dimenarsi ma non di arrendersi era ancora un’immagine che non voleva andare via dalla sua mente. 

«Ora stai delirando!» Mamoru non ne poté più. Si sedette sul letto e riprese. «A trent’anni come fai a essere gelosa di una ragazzina? È soltanto Usagi!»
Lei sbuffò nervosamente. «Senti, io non sono mai stata gelosa di te, neanche quando vedo le nostre colleghe fare le sceme con te o certe pazienti farti sorrisini ammiccanti» spiegò lentamente, come se in quel modo lui avesse potuto capire bene tutto ciò che provava, «però con lei è diverso, tu sei diverso.»

Lui scosse la testa più volte, capendo che Setsuna non avrebbe mai compreso. 
«Io le voglio bene, frequenta sempre casa dei miei e quando abitavo là me la ritrovavo in continuazione tra i piedi. Siamo cresciuti insieme, abbiamo sempre scherzato, sempre litigato.» Parlò con tutta la dolcezza che aveva nel cuore cercando di rassicurarla. 
«In quello che è successo prima ti assicuro che non c’è stato nulla di malizioso.» Si alzò avvicinandosi alla ragazza che aveva regolarizzato il respiro, «sei tu la mia donna, è te che desidero.»

Lei lo guardò con aria poco convinta. Aveva tanto bisogno di udire quelle parole, erano una rassicurazione, una conferma costante. In fondo, c’era lei lì con lui, non Usagi, quella la conosceva da sempre; se l’avesse veramente voluta, ci avrebbe provato prima, non si sarebbe messo con lei.
Si sentì più leggera. In quel momento lui era lì, accanto a lei, senza maglietta e con la voglia di lei. In fondo, anche l’intimità creava complicità, li avrebbe uniti. Setsuna gli avrebbe dato tutto ciò che cercava così che non avrebbe desiderato averlo da qualcun’altra. Gli sorrise.
Presto si ritrovò avvolta nel caldo abbraccio di Mamoru, sentendo una scia di baci lungo il suo collo. Non si oppose, anzi, gli cinse la schiena con le braccia assaporando quel contatto e inebriandosi del profumo così intenso di lui. Lo amava più della sua stessa vita, non voleva perderlo, era per quello che tante volte era rimasta in silenzio, cercando di mantenere il controllo, nonostante il suo cuore sembrasse spezzarsi in tanti piccoli frammenti alla vista di lui e Usagi guardarsi, scherzare, ridere, in maniera complice. quella complicità che lei non riusciva mai a creare con lui.
Con il tempo lui avrebbe cambiato atteggiamento, lei ne era convinta, o forse ci sperava solamente. 
Mamoru la fece indietreggiare, continuando a stringerla, iniziando a baciarla sulle labbra, fino a quando si ritrovò distesa sotto di lui che cercava di sbottonarle la camicetta. Era suo, era tutto suo.



Un ultimo ritocco al rossetto rosso, un altro agli odango perfettamente rotondi e resi lucidi da uno spray per capelli, e Usagi scese dalla Toyota blu di Minako abbassando il tubino nero che le fasciava il corpo e lasciava scoperte le gambe.
«Dai, su, Usa-chan, Yaten mi ha scritto che è già arrivato, entriamo!» Minako con voce entusiasta e impaziente, si avviò, nei suoi sandali arancioni dal tacco alto dieci centimetri verso la porta d’ingresso, guardandosi indietro in attesa di essere raggiunta dalla sua amica.
“Meno male che ci sei tu” pensò Usagi chiudendo la portiera della vettura senza far attendere troppo Minako.

Si erano conosciute a Settembre, durante l’immatricolazione dei nuovi studenti di Giurisprudenza.
“Anche tu segui il corso di diritto privato I?” aveva esordito Minako, in fila per i tesserini delle matricole.
Usagi aveva sorriso, annuendo e porgendo una mano. “Piacere, sono Usagi Tsukino.”
Crearsi una nuova rete di amici all’Università era quello che desiderava e quella ragazza dai capelli biondi e lunghi e gli occhi chiari come i suoi le sembrò ben disposta verso di lei. Nei mesi avevano scoperto che oltre agli aspetti estetici, avevano tanti punti che le accomunavano: entrambe credevano negli ideali di giustizia e di amore, tanto da essere definite Le paladine della legge, avevano la stessa allegria e lo stesso entusiasmo e, come se non bastasse, amavano Grey’s Anatomy e le feste. 


Una ragazza dal caschetto blu come la notte andò ad aprire accogliendo con un dolce sorriso ospitale le due ragazze nel proprio appartamento. Una volta dentro, una nebbia densa di fumo copriva parte dell’ampio salone rendendo l’aria soffocante. Usagi con un colpo di tosse cercò di schiarirsi la gola che iniziava a sentire pungere.
“Ma come fanno a fumare questo schifo?” si domandava ogni volta. Facendosi spazio tra i tanti ragazzi che ballavano sulle note di On the floor, si avvicinò al tavolo con le bibite, cercando qualcosa che potesse farla stare meglio. 
Tra la musica assordante, la voce squillante di Minako ebbe la meglio. «Vado a cercare Yaten» urlò per farsi ascoltare, prima di mandare giù alcuni sorsi di punch.
Usagi annuì, aveva compreso, poi la vide voltarsi e allontanarsi accompagnata dal fluire dei suoi capelli legati in una mezza coda da un nastrino rosso. Riempì un bicchiere di cartone blu mischiando la vodka alla fragola al Martini bianco. Quello sì che le piaceva tantissimo. Si lasciò trasportare dalla musica ritmica ed energica, mentre il retrogusto fruttato le faceva sembrare la serata ancora più interessante. 
Due mani calde le cinsero la vita da dietro, due labbra premettero sul suo collo. Un brivido le percorse la schiena. Si voltò verso il ragazzo di fronte a sé, sorridendogli con entusiasmo. 

«Ciao, dolcezza» la salutò lui prima di carezzarle le labbra con le proprie.
Usagi ridacchiò divertita da quel tocco. «Seiya, finalmente mi hai trovata» sussurrò in quel bacio caldo e sensuale.
Quel contatto le piaceva sempre di più. «Sai, non avevo voglia di restare ancora tutta sola» confessò strofinando la sua guancia su quella poco ruvida di lui, cercando di fingere un innocente broncio.
Seiya l’avvolse in un abbraccio, iniziando ad accarezzarle le lunghe ciocche.

L’aria fu invasa da una musica tribal, per Seiya fu difficile restare fermo.
«Balliamo?» le domandò allenando il contatto tra di loro e prendendole una mano.
Usagi annuì, svuotò il liquido rosato all’interno del suo bicchiere prima di lasciarlo accanto ad altri bicchieri sporchi sul tavolo da buffet. La gola iniziò a bruciarle e il calore che iniziava a propagarsi in tutto il suo corpo la condusse a una sensazione di leggerezza. Desiderò lasciarsi trasportare dalla musica, di seguirla a ritmo, di dimenticare tutto il resto.  
Si faceva spazio tra i tanti coetanei invitati alla festa, cercava lo sguardo del ragazzo al quale dedicava quei movimenti audaci che amava associare a sguardi ingenui.
Seiya la scrutava partendo dalle labbra e percorrendo il suo corpo. Si soffermava sulle sue forme prosperose e ritornava a fissare quegli occhi che sembravano provocarlo.
A Usagi vederlo attratto dai suoi gesti aumentava l’autostima. Era bello sapere di piacere, era una conferma costante. Forse quella sarebbe stata la loro serata. Forse era pronta. 

«Che ne dici di sederci un po’?» Seiya lo domandò tamponando un fazzoletto sulla sua fronte imperlata di sudore. Era già trascorsa un’ora da quando avevano iniziato a ballare, Usagi avvertiva dolore ai piedi, i tacchi alti erano belli ma avevano un prezzo da pagare. Aveva bisogno di fare una pausa. Annuì, intrecciò le dita a quelle del ragazzo conducendolo verso il tavolo da buffet. Altra Vodka, ulteriore Martini.  

 «Ti va di fare un giro?» Seiya lo propose con la speranza che oramai portava dentro di sé da parecchio tempo. Dopo quegli sguardi e quei movimenti dedicati a lui forse era la volta buona. «Prendiamo un po’ d’aria fresca.» Magari con quella specificazione la sua proposta sarebbe risultata meno pressante. 
Usagi annuì, accennando un sorriso imbarazzato. Lui le cinse la vita stringendola a sé e conducendola verso la porta d’ingresso.
«Devo avvertire Minako» precisò, aveva bisogno di non sentirsi abbandonata a una situazione che si stava creando. Aveva bisogno di un supporto. La cercò invano, uscì fuori ma la Toyota non c’era più. Se n’era andata senza avvertirla. 
“Di questo parliamo domani, Mina-chan” aveva detto tra sé prima di richiudere la porta alle loro spalle.



Dall’altura di periferia i grattacieli in lontananza sembravano puntini luminosi e la torre illuminata rappresentava un  riferimento. La luna crescente abbagliava il buio della notte, le stelle affollavano il cielo, punte di diamante a tratti impercettibili.
Uno scenario suggestivo in quel luogo rinomato per accogliere coppie in cerca di intimità.
Nel silenzio di quel luogo, alla vista di quel panorama, Usagi si sentiva serena. Il vento le strofinò addosso la propria scia, lei l’avvertì sulle braccia. Un brivido.

«Vieni qui.» Seiya alzò il finestrino, sporgendosi col busto in avanti verso la ragazza; la riscaldò nel suo abbraccio, il profumo di lei era così buono, caldo e floreale, voleva inebriarsene sempre di più. Lasciò sotto l’orecchio un bacio delicato prima di alzare il volto e trovare le sue labbra rosse e carnose. Le accarezzò con le proprie prima di schiuderle ed esplorare la bocca di lei. 
Usagi si abbandonò a quel contatto, stringendolo ancora più forte, in quel momento sì che stava veramente bene.

Lui iniziò ad accarezzarle la nuca. La guardò negli occhi, erano contornati da ciglia lunghe e nere e il buio della notte li rese più intensi e profondi. 
«Sei bellissima» le sussurrò sfiorandole la guancia con l’indice mentre l’altra mano cercava la leva del sedile. Lo reclinò, poteva coccolarla meglio in quel modo. 
Usagi non rispose, si limitò a reclamare ancora le labbra del ragazzo, come se quel bacio potesse confortarla. Non mancò ad arrivare, con dolcezza ma allo stesso tempo passione e voglia di farle capire che il desiderio lo faceva ardere, voleva soddisfarlo con lei.
Le loro lingue si intrecciarono, i loro respiri si fondevano creandone uno solo sempre più caldo e affannato; le mani di Seiya si fecero strada sotto l’abito aderente di lei, esplorarono la sua pelle liscia, ne avvertirono la tensione dei muscoli. Ebbe la percezione che lei volesse comunicargli qualcosa.
«Shhh…» la rassicurò, come una carezza calda e sensuale sul suo viso. La accarezzò ancora, una scia umida che si faceva strada nella sua scollatura. Le sfiorò la pelle abbassandole le spalline, iniziando ad accarezzare i suoi seni sodi e caldi mentre le labbra cercavano le labbra di lei.

Il cuore di Usagi scalpitava. 

Le dita di Seiya scivolavano lentamente verso le gambe di Usagi, si creavano spazio, cercavano di arrivare a quel triangolo caldo e proibito. Lo trovarono, iniziarono ad accarezzarlo sopra la stoffa dell’intimo.

Usagi si irrigidì ancora di più. Davvero desiderava ciò? Era veramente così che voleva la sua prima volta? Voleva sul serio che accadesse in un’auto, su un sedile reclinato, in una serata diventata afosa? Era realmente pronta per quel passo importante che avrebbe ricordato per tutta la vita? Era lui il ragazzo che avrebbe voluto associare alla sua prima volta? Lui che aveva conosciuto e frequentava da tre mesi? Lo amava? No. Non lo amava, non per il momento, almeno. Forse col tempo i sentimenti sarebbero sbocciati come una rosa e lei sarebbe stata pronta a sbocciare insieme ad essa. Come una rosa bianca che pian piano schiudeva i suoi petali delicati mostrando qualche venatura rosea al suo interno.
Chiuse gli occhi e fu proprio quando le labbra di lui lasciarono un bacio all’altezza del suo cuore che istintivamente Mamoru si fece immagine nella sua mente, come un appiglio pronto a tirarla fuori dai guai.
“Fai ciò che ti dice il tuo cuore” le diceva. Non ebbe più dubbi.
«Scusami, Seiya, non posso» disse nervosamente, bloccando la sua mano che cercava di scivolare sotto gli slip. 
Aprì gli occhi, incrociando quelli glaciali del ragazzo sorpreso.

Lui non rispose, si limitò a prendere il volto della ragazza tra le mani facendo forza coi gomiti sulla spalliera del sedile. Le sfiorò le guance con le proprie e, come una carezza calda sul volto di lei, confessò:
«Usa, sto impazzendo, ti desidero troppo» mentre con una mano iniziò ad accarezzare i suoi lunghi codini.
«Sei tu che mi fai impazzire, guardati.» La sua voce era eccitata, i suoi occhi ipnotizzati da quella pelle scoperta che metteva in luce le sue forme prosperose e rotonde. Le sue gambe, gli slip ancora visibili tra le gambe dischiuse. Perché indossava quella biancheria ricamata se non aveva voglia di spingersi oltre? Sarebbe impazzito davvero. Cosa avrebbe dovuto fare per convincerla?
«Non ti farò male.» Magari voleva solo essere rassicurata. E mentre la sua mano lasciava i capelli scivolando sul seno ancora scoperto, Usagi scosse la testa spingendolo indietro e alzando le spalline dell’abito. 

«No, Seiya, non insistere, ti prego!»

Un sorriso agitato uscì dalle labbra del giovane che si riportò seduto sul sedile del guidatore continuando a guardarla in viso. 
«Ho voglia di fare l’amore con te, piccola, non devi avere paura.»

Usagi tirò giù il vestito per ricoprirsi le gambe. Con lo sguardo basso, precisò: «Non ho paura, è solo che non sono pronta.»

Seiya roteò gli occhi, quanto ancora avrebbe dovuto aspettare? Perché alla festa si era divertita a provocarlo con gli sguardi e con le movenze se poi non aveva intenzione di fare l’amore? Lo illudeva, lo faceva esplodere dal desiderio e poi lo lasciava con l’amaro in bocca. Non era giusto.
«A te piace giocare a fare la piccola Lolita, sei ancora una bambina.» Iniziò a ridere nervosamente, sì, era sicuramente quello il motivo degli atteggiamenti incoerenti di Usagi.
 «Una roba del genere non mi è mai capitata, neppure con le ragazze più piccole di te.»

Usagi si sentì mortificata, lei non era una bambina e non le piaceva essere paragonata alle altre; lei amava essere se stessa, sempre, nel bene e nel male; non avrebbe fatto mai nulla per compiacere quelli come Seiya. Amava essere libera di decidere, senza vergognarsi di come sarebbe apparsa agli occhi degli altri. Istintivamente, sentendosi ferita nel suo orgoglio femminile, con una mano aperta colpì la guancia del ragazzo che la osservava con aria di sfida. O di sufficienza. 
«Sei solo uno stronzo! Accompagnami subito a casa!» La rabbia le scorreva nelle vene, la delusione cresceva sempre di più dentro di sé. Voleva andare via, stare lontana da lui.

Lui sgranò gli occhi sentendo la guancia bruciare. Era arrivata veramente a compiere quel gesto? Avrebbe potuto avere tutte le ragazze universitarie, era uno popolare lui, il fascino del musicista lo rendeva irresistibile. Eppure aveva voluto lei, le era stato fedele, era rimasto paziente nonostante la voglia che ogni volta lei gli faceva venire con il suo modo di porsi. Una Lolita, appunto. 

Lei continuava ad agitarsi, i suoi occhi erano scintille di fuoco, la sua mano pronta a colpirlo ancora. 

Seiya non ci pensò due volte, col palmo ben aperto diede uno schiaffo in pieno viso con tutta la forza che possedeva a quella ragazzina che usava la forza su di lui. 
«Scendi dalla mia auto» urlò in collera mentre la sua guancia continuava a bruciare.

Usagi rimase immobile, la mano premuta sulla guancia. Ahi, che dolore. Stava accadendo davvero? Notò le dita sporche di sangue, il labbro inferiore bruciava, si era spaccato. Voleva piangere.
«Voglio andare a casa, portami a casa» urlava mostrandosi forte e sicura. Non gli avrebbe mostrato le sue lacrime. Sembrava che lui non l’ascoltasse. Iniziò ad agitarsi, cercando di battere i pugni sul petto di lui che però la bloccò per i polsi. 
«Ahi, mi fai male» riuscì a dire, la pressione sulla sua pelle si fece sempre più intensa, insopportabile. Pianse. E pianse anche perché non era riuscita a trattenere le lacrime.  

Seiya lasciò la presa. Scese dalla vettura, colmo di ira per come era stato trattato, e, aprendo la portiera del passeggero, le afferrò un braccio e la trascinò fuori.

Per la spinta, Usagi perse l’equilibrio, i suoi tacchi non erano idonei a reggere il contraccolpo. Cadde a terra sbattendo le ginocchia, le braccia strofinarono sul terriccio. Ahi.
Il rumore sordo della portiera che veniva richiusa con forza le fece dimenticare per un istante il dolore provato; alzò il viso e il suo cuore mancò un battito quando sentì il motore dell’auto accendersi.
«No! Non mi puoi lasciare qui!» gridò mentre le lacrime le rigavano le gote. 

Lui non la assecondò. Dal finestrino tirò fuori la borsetta nera. Gli oggetti al suo interno attraversarono l’aria, si schiantarono al suolo. 
Usagi non fece in tempo a mettersi in piedi che Seiya aveva già fatto sgommare le ruote sollevando il terriccio prima di accelerare e allontanarsi sempre di più.
Quando lui fu fuori dalla sua visuale, la rabbia provata per lo schiaffo, la delusione per quei commenti squallidi, lasciarono posto alla paura. Era sola, di notte, in un luogo buio, isolato, a parecchi chilometri di distanza dalla città. Il suo respiro divenne sempre più affannato quando, con le mani tra i capelli, si guardò intorno vedendo che non c’erano altre auto parcheggiate.
In che situazione si era messa? Come ci era arrivata? In quel momento non aveva importanza, doveva reagire, trovare una soluzione per andare via da lì.
Si alzò di scatto cercando per terra il cellulare, trovò la batteria e il terrore che il telefono si fosse rotto la fece andare nel panico. Pianse ancora una volta. Riinserì la batteria con mani tremanti e, premendo il tasto di accensione, tirò un sospiro di sollievo quando il display si illuminò.
Scorrendo tra le ultime chiamate effettuate, trovò subito il numero di Minako.
«Il telefono della persona da Lei chiamata potrebbe essere spento o non raggiungibile.»
Portò una mano tremante alla bocca, guardandosi intorno per paura di trovarvi qualche guardone.
C’era soltanto una persona che poteva chiamare, che teneva sempre il telefono acceso e della quale si fidava ciecamente.
La cercò scorrendo indietro la lista dei contatti. Sembrava che il tempo non l’aiutasse nel suo desiderio di abbandonare quel luogo.

Dopo un paio di squilli a vuoto, quando la voce rispose al telefono, Usagi rilasciò all’aria un respiro sofferto, sospiro di speranza.
«Mamo-chan, per favore, vieni a prendermi» pregò con voce tremante, di chi tratteneva un singhiozzo. 
«Ho tanta paura.»
 
 
 
Il punto dell'autrice

24.05.2020

Complice la situazione particolare da COVID-19, sono riuscita a riprendere questa fanfiction dopo ben otto anni. Questa versione è la revisione di ciò che avevo pubblicato anni fa, spero di essere riuscita nel mio intento di riproporvela migliorata prima di proseguire con la revisione dei capitoli successivi e la pubblicazione dell'ancora inedito capitolo 5.
Questa long-fic un esperimento perché, come potete notare, questi pairing iniziali, da lettrice, fanno soffrire un’accanita fan di Usa e Mamo, figuriamoi a scriverli!
Ho cercato di presentare i personaggi con naturalezza, senza far sentire troppo la mia presenza nel testo. Pian piano comunque tutto diverrà sempre più chiaro e molti aspetti saranno approfonditi.
Il titolo della fan fiction, Listen to your Heart (tradotto: Ascolta il tuo cuore) è ispirato all’omonima canzone di Roxette, soundtrack usata per questa storia. 
Come sempre, ringrazio tutti coloro che sono entrati a leggere questo primo capitolo.
Spero tanto di ricevere le vostre opinioni su questa mia nuova follia. Sia positive che negative, saranno molto apprezzate.
Precisazione che tengo a fare: amo Usagi e Mamoru e mi piace creare e sperimentare sempre nuovi contesti e situazioni con loro protagonisti, quindi non chiedetemi di scrivere Originali perchè sarebbe tempo sprecato. Ho inserito la nota OOC e AU continuando così scrivere in questo fandom.
Un ringraziamento speciale va anche stavolta alla Straordinaria Charlie per aver realizzato il logo per Listen to your Heart. Grazie di cuore!
Un bacione e a presto!

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Capitolo 2
*** Una nuova sensazione ***


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Capitolo 2: Una nuova sensazione
 
Mamoru aveva tenuto il piede sull’acceleratore per tutto il tempo. Il percorso verso l’altura di periferia, quella notte, sembrava ancora più lungo rispetto a quando la percorreva insieme alla ragazza del periodo seduta al suo fianco, persino con la stessa Setsuna prima di acquistare l’appartamento sul mare.

Gli alberi e i lampioni ai lati della strada apparivano e sparivano subito dopo alle sue spalle mentre la lancetta dei chilometri orari segnava una velocità non consentita dalle norme stradali. Nonostante il manto stradale fosse libero, aveva l’impressione di non arrivare mai.
Per tutto il tragitto con il cellulare all’orecchio aveva cercato di farsi presenza con Usagi. Era spaventata, lui lo percepiva dal tono e dalla ripetuta domanda che gli poneva. «A che punto sei arrivato?»
«Usa, ho la batteria scarica, se dovesse spegnersi il telefono tu non avere paura, io sto arrivando.» Quell’avvertimento divenne realtà.

Usagi continuava a sentirsi in un luogo senza tempo, una condizione estenuante per chi attende. La paura che qualche malintenzionato arrivasse le restava avvinghiata nelle ossa. Da quando anche la voce di Mamo-chan l’aveva abbandonata, nella solitudine di quella schiera di alberi, in fondo al grande spiazzale da cui era possibile ammirare il panorama della città, aveva pianto ancora. Rivolta alla luna, pregava affinché Mamoru arrivasse in fretta.

Trascorsero venti minuti circa, poi due fari illuminarono di giallo la strada davanti a sé; Usagi si staccò dalla corteccia ruvida mentre il rumore dell’auto si faceva sempre più intenso. Quando riuscì a scorgere un’Audi A4 grigia metallizzata, tirò un profondo sospiro di sollievo.
“Mamo-chan” il suo cuore aveva sospirato.
Pian piano cercò di raggiungere la vettura. A ogni passo, il ginocchio destro sembrava lacerarsi.

Mamoru scrutò lo spiazzale, il buio della notte rendeva difficile la ricerca, i fari aiutavano nell’intento. Notò una sagoma farsi avanti e quando riuscì a illuminarla, capendo che era proprio lei, Usagi, con i codini allentati, il viso sporco dal trucco colato sulle guance e che a fatica riusciva a camminare, spense il motore, aprì la portiera e si avviò a passo svelto verso di lei.
«Sono qui, Usako.»

Lei alzò lo sguardo, annullando la distanza tra di loro. Allungò d’istinto le braccia cingendogli il collo in un abbraccio mentre la sua guancia trovava conforto sulla spalla di lui. 
«Grazie» si limitò a sussurrare tremando, mentre intensificava la stretta. «Grazie, grazie, grazie.» Non riusciva a dire altro, sembrava una nenia necessaria per esorcizzare la paura.

Mamoru rimase spiazzato da quell’atteggiamento. Sembrava che lei non volesse staccarsi da lui. Si sentiva un salvagente che lei aveva afferrato dopo aver rischiato di annegare. La cinse per la schiena, la strinse forte a sé cercando di infonderle quella protezione che Usagi reclamava. La percepì tremante in quell’abbraccio, tesa.
«Dimmi solo che è tutto okay» si limitò a dire con voce ferma vicino all’orecchio di Usako. 

Lei annuì, strofinando la guancia sulla sua spalla. Iniziò ad avvertirla rilassarsi in quell’abbraccio, stava già meglio. 

«Andiamo a casa.» Le accarezzò la nuca prima di allentare la presa. Sostenendola per la vita, l’aiutò ad arrivare al sedile dell’auto.
«Riesci a camminare con quei cosi?» La aiutò a sedersi per poi andare dal lato del guidatore.

«Non è per i tacchi, è il ginocchio che mi fa male.»

Accese la luce all’interno dell’auto poggiando una mano sul ginocchio di Usagi e voltandolo verso sé. Escoriazioni profonde e del terriccio sulla parte sporca di sangue.

Usagi tenne gli occhi bassi e le mani a strofinare le braccia incrociate sul petto. Si sentiva in imbarazzo, era già stato difficile parlare con lui di sesso quella mattina, non avrebbe mai pensato di arrivare a dover chiamare proprio Mamoru per farsi venire a prendere in un posto frequentato da coppiette. Non avrebbe voluto farsi trovare in quelle condizioni. 

Mamoru continuava a guardarla. L’aria era calda eppure lei sembrava volesse riscaldarsi. Le guance rigate di nero dal mascara colato, gli occhi arrossati e umidi, il labbro gonfio e scuro. Che cosa aveva dovuto subire la sua Usako? Cosa le avevano fatto? Quanta paura le aveva istillato quella situazione?
Si tolse la giacca posandola sulle braccia di lei. La coprì, forse non dal freddo ma di certo dall’imbarazzo.

Lei si voltò verso di lui, trovò il suo profilo, la mandibola leggermente squadrata, la lieve ricrescita della barba evidenziata dal chiaro di luna e i ciuffi ribelli che vibravano all’aria. Era bello Mamo-chan.

«Tieni, bevi un po’ d’acqua» la esortò dopo aver preso dal sedile posteriore una bottiglietta. Lei fece fatica a poggiare le labbra sulla plastica. «Guarda come ti ha ridotta.» Una consapevolezza amara da mandare giù. Che uomo avrebbe mai alzato le mani su una ragazza? «Se me lo ritrovo davanti, giuro che lo gonfio.»

Dopo aver mandato giù alcuni sorsi e aver schiarito la bocca dal gusto salato delle lacrime, Usagi poggiò il braccio sulla portiera a sostenere la testa. Con l’atra portò al collo la giacca di Mamoru, come a coprirsi dal mondo. Sì sentì vuota, un senso di inquietudine si propagava dentro di lei lasciandola in una confusione che non sapeva razionalizzare. Pianse, senza vergognarsene, abbandonandosi a quelle emozioni che non riusciva a gestire. 

Per Mamoru quella scena era straziante, non aveva mai visto Usagi in quelle condizioni.

Ricordava tutte le volte che era tornata a casa dopo aver litigato con qualche fidanzato. Aveva pianto fino a far diventare gli occhi gonfi e rossi. In tante occasioni, sua madre Hana aveva cercato di tirarla su portandola per le vie del centro a fare acquisti o preparando qualche dolce insieme a lei, davanti a lui che la prendeva in giro dicendole che, se si fosse consolata coi dolci, non avrebbe più trovato qualche altro pazzo a mettersi con una ragazzina capricciosa come lei. Sua madre non aveva mai perso l’abitudine di colpirlo con il mattarello per aver insultato la sua Usagi, provocandole un'istintiva risata. I pianti erano scemati e pian piano il buon umore era ritornato. A lui quel rapporto andava bene, sapeva che per sua madre Usagi non era la figlia rubata dal cielo ma un dono con il quale qualcuno chiamato Destino, in qualche modo, aveva voluto farsi perdonare.

«Usa…» era riuscito soltanto a sibilare piano mentre la osservava; quella situazione era imbarazzante anche per lui. Avrebbe preferito che lì con loro ci fosse stata Setsuna, lei da donna forse non le avrebbe creato lo stesso disagio che era certo di suscitarle. O forse Usagi si sarebbe sentita ancora più esposta davanti a qualcuno diverso da lui. Era convinto che proprio la loro complicità l’avesse spinta a chiedere il suo soccorso.

Usagi non rispose, con le spalle voltate e la testa sul braccio, lasciava che il suo sfogo prendesse il sopravvento dopo quei momenti che le erano apparsi infiniti. Aveva bisogno di lasciar scorrere l’ansia che aveva accumulato prima che lui arrivasse a porre fine all’incubo.
«La colpa è mia, soltanto mia» metabolizzò affranta, «ora l’ho perso.» In attesa di Mamoru, aveva pensato e ripensato a ciò che era successo e aveva capito che spesso la sua impulsività l’aveva trascinata su sentieri sbagliati, a compiere scelte o azioni di cui poi si era inevitabilmente pentita. Non avrebbe dovuto alzare le mani a Seiya, forse non avrebbe dovuto neppure offenderlo. Avrebbe potuto rimanere in silenzio e farsi riaccompagnare a casa; tutto si sarebbe risolto nel migliore dei modi, probabilmente nei giorni seguenti avrebbero fatto persino pace e lei gli avrebbe dimostrato che era una donna e non una ragazzina.

«Guardami, Usako» le disse accarezzandole la nuca, come se quel gesto potesse calmarla.

Lei si voltò lentamente tenendo basso lo sguardo sul ginocchio sporco di sangue e terra bianca.

«Meglio che sia finita» affermò lui con tono nervoso cercando di incontrare i suoi occhi tanto azzurri quanto tristi, «non avrebbe dovuto farti tutto questo, non avrebbe dovuto lasciarti qui.» La rabbia era tanta. «Non sai quanto vorrei avercelo davanti in questo momento.»

Usagi scosse la testa. «No, sono io che ho iniziato ad alzare le mani, ecco perché ora mi sento così» singhiozzava afflitta dai rimorsi, «lui ha sbagliato a fare certi paragoni ma la colpa è tutta mia.» 
Fece una pausa per trovare il coraggio di ammetterlo, poi lo disse: «Forse avete ragione tutti a dire che sono solo una ragazzina.» 
Non riusciva a guardare quell’uomo che l’aveva sempre presa in giro dicendole quanto fosse immatura e infantile. Non poteva ora che anche il suo ragazzo le aveva fatto capire che in realtà era quello: una ragazzina e non una donna. Si sentiva ferita ora che la realtà le era stata sbattuta in faccia. Le ferite dell’orgoglio impiegavano molto più tempo rispetto a quelle di un labbro spaccato.
Cercò di porre fine a quella circostanza. Con il dorso delle mani sfregò via dalle guance le lacrime, tirò su con il naso e allacciò la cintura di sicurezza.
«Ti prego Mamo-chan, andiamo via da questo posto» implorò.

Mamoru annuì, mise in moto l’auto e lasciò quel luogo isolato e buio.

Sulla strada del ritorno, Usagi non disse una parola; rimase voltata verso il finestrino a osservare le strade, gli alberi, e tutti i palazzi che pian piano divenivano più vicini e maestosi.
Dopo qualche minuto ad ascoltare il silenzio, Mamoru decise di fermarlo. Ricordava le parole dette dalla ragazza al telefono mentre cercava di raggiungerla. Lei gli aveva raccontato tutto: dall’insistenza di Seiya, ai paragoni che l’avevano resa aggressiva fino allo spavento mentre lo aveva visto sgommare l’auto e lasciarla lì da sola.
«Vuoi ascoltare un po’ di musica?» cercò di allentare la tensione che avvertiva.

Lei scosse il capo voltandosi verso il ragazzo. «Mi dispiace, Mamo-chan» sussurrò pentita, «mi spiace davvero tanto » prima di abbassare lo sguardo.

«Per cosa, Usa?» domandò sorpreso aggrottando la fronte.

Usagi alzò le spalle. «Per oggi, per come mi sono comportata con te a casa tua» rivelò mettendo da parte l’orgoglio che spesso le impediva di chiedere scusa dopo aver sbagliato. «Sono stata prepotente, non lo meritavi.» Lui era sempre pronto ad aiutarla, a confortarla. Lui era presenza nella sua vita.
«Non volevo crearti problemi con Setsuna, non volevo creare problemi e basta.» Aveva notato lo sguardo di Setsuna, sapeva che lui avrebbe dovuto affrontarla, magari avevano litigato per colpa sua. Non era giusto, Mamo-chan non lo meritava.

Un sorriso nacque sulle labbra del ragazzo.
Per la seconda volta quella sera, Usagi lo aveva sorpreso. Lui non era abituato ad abbracci intensi in situazioni imbarazzanti né aveva mai ricevuto scuse dalla prepotente di Usagi che comprendeva i propri errori. Stava forse crescendo?
«Non importa, non ci pensare più» si limitò a risponderle strizzandole un occhiolino con tono rassicurante e protettivo. La verità la sapeva solo lui. Setsuna di problemi ne aveva creati dopo quel battibecco, aveva frainteso, e lui aveva persino litigato con la sua donna. Ma ciò non lo rivelò alla ragazza. Lei non avrebbe saputo che Setsuna era gelosa di lei. Erano questioni tra lui e la sua fidanzata.

Sorrise pure lei, rincuorata. «Mi spiace anche per averti disturbato, a quest’ora staresti già dormendo.» La giacca sulle sue gambe le ricordò che Mamoru era stato a lavorare. Si voltò indietro, riponendola sul sedile posteriore. Il viso di lui, di profilo, le apparve stanco mentre rimaneva concentrato sulla strada.

“Avrei voluto che tu passassi una bella serata” pensò il cuore di Mamoru. «Non devi dispiacerti per queste cose, se ti avessi lasciata lì, mia madre mi avrebbe ucciso» ironizzò mostrandosi convincente.
Usagi spalancò la bocca per lo stupore, mentre il suo viso diveniva sempre più divertito. «Ah, e così lo hai fatto solo per Hana?» esclamò attirando quegli occhi blu e profondi sui suoi.
Rilasciò un sorriso, lui la seguì. Risero insieme, ricacciarono via la tristezza e l’imbarazzo.

«Mamo, posso chiederti una cosa?» Usagi tornò seria.

«Certo.»

«Perché voi uomini siete così impazienti, insomma, perché non sapete aspettare?» 

Mamoru scalò la marcia mentre raggiungeva l’ingresso della città. «Non generalizzare, Usa» la corresse, «non siamo tutti uguali.» 
Con lo sguardo verso il semaforo rosso che lo obbligò a fermarsi, spiegò:
«Ricordi Michiru, la ragazza con gli occhi verdi? Stavamo assieme nove anni fa.» 

Usagi annuì, «Sì certo, mi aiutava a fare le trecce alle bambole mentre finivi di prepararti.» 

Mamoru sorrise. «Esatto. Io l’ho aspettata per sei mesi.» Ingranò la marcia e ripartì quando il segnale luminoso cambiò colore.

Usagi voltò di scatto la testa verso di lui. «E poi? L’hai lasciata?» domandò delusa.

«No, che dici!» si sorprese lui aggrottando la fronte. «Poi una sera mi disse che era pronta e così…» 

«Ok, basta, risparmiami i dettagli!» Usagi agitò le mani strizzando le palpebre, mentre le gote rigate dal mascara si imporporavano.

Una fragorosa risata uscì dalla bocca di lui. «Questo per dirti che non è vero che non sappiamo aspettare» spiegò, «se un ragazzo ci tiene a te aspetta, altrimenti credimi, è meglio perderlo.» 

Per la prima volta dopo dieci anni, da quando conosceva Mamoru Chiba, dopo infiniti scherzi, battibecchi, sguardi pieni di complicità e di onesti dispetti, dopo innumerevoli confidenze e perle di saggezza elargite da Mamo-chan, Usagi sentì uno strano, dolce, piacevole calore al cuore quando gli occhi blu di lui incontrarono i suoi, accompagnati da un dolce sorriso sulle labbra.
Un senso di confusione la assalì prima di confessare:
«Sai, a volte mi confondi. Penso che tu sia l’odioso, prepotente, dispettoso di sempre che ama torturare una povera ragazza ma poi…» lasciò andare una leggera risata consapevole, «ma poi sei il migliore amico che una povera ragazza possa avere.» 

Il sorriso di Usagi fu così puro che le illuminò gli occhi. Spazzò via tutto ciò che di brutto era accaduto quella notte. Non c’era più tristezza, né malinconia in lei, solo pace, serenità, percezione di non essere sola, di avere qualcuno su cui poter contare, qualcuno che riusciva a capirla anche quando ciò era difficile persino per se stessa.
Mamoru scorse un barlume di luce in quegli occhi sempre ribelli e dispettosi, rimase abbagliato da quel candore. 
Solo un po’, un poco alla volta, prima di sbattere le palpebre come a voler tornare alla realtà, temendo di venir accecato da quella strana e rassicurante luce. 
Non rispose. Avrebbe potuto fare qualche solita battuta alla quale lei avrebbe sicuramente reagito con qualche smorfia; avrebbe potuto dimostrarsi Mamoru, il solito Mamoru, però quella volta preferì evitare; quel sorriso luminoso non poteva essere spezzato, la magia di quel momento doveva continuare, lui voleva farla continuare. Anche se soltanto per un altro poco. 

Mamoru rallentò sempre più mentre raggiungeva il parcheggio adiacente al palazzo in cui abitava Usagi e, fino a pochi mesi prima, pure lui.
Alle due e mezza di notte, non vi erano auto, né motorini che disturbavano la quiete del quartiere. 
Il giovane spense i fari solo dopo aver parcheggiato tra altre due auto, di fronte al cancello automatico che conduceva alla palazzina grigia.

«Grazie di tutto, Mamo-chan,» sussurrò con un’espressione riconoscente, sganciando la cintura di sicurezza, «buonanotte.» 

Mamoru non rispose. Aprendo la portiera, con un cenno della testa disse: «Andiamo, salgo con te.» 

«No, no, non c’è bisogno, davvero, va’ pure a casa» ribadì lei, ma non ebbe il tempo di continuare che lui aveva già fatto il giro dell’auto e aperto la portiera del passeggero.
«Con il ginocchio fai fatica a camminare e poi quelle ferite vanno disinfettate.» Le cinse la schiena con un braccio.

Lei insisté, anche se era piacevole sentirsi sostenuta. «Posso farlo da sola, vai da Setsuna, si starà chiedendo che fine hai fatto» ma lui ridendo divertito non si fece convincere. 

«Setsuna ha il turno di notte, non fare la furba, ti conosco benissimo e so che preferiresti farti venire qualche infezione pur di non farti medicare con il disinfettante.»

“Ma brucia” avrebbe voluto ribadire lei. Non gli poteva nascondere nulla, era vero, lui la conosceva bene. Le sue labbra si stropicciarono in una smorfia di rassegnazione. 

Dentro l’ascensore, Usagi poggiò la schiena alla parete mentre i pulsanti lampeggiavano verso l’alto. Osservò per un attimo Mamoru, attratta e incuriosita dal gesto col quale massaggiava i muscoli del collo e strizzava le palpebre. Si sentì in colpa.
«Sei stanco Mamoru, dovevi andare a letto invece di trattarmi come una bambina» osservò con voce dispiaciuta che lasciava spazio a un pizzico di disapprovazione.

Mamoru passò la mano tra i folti capelli corvini portando indietro alcune ciocche ribelli e con un’espressione ironica corresse:
«Eh no, le bambine non fanno i capricci anche per il disinfettante.»

 Le porte scorrevoli si aprirono non appena il piano 4 fu raggiunto, togliendo l’opportunità alla ragazza di controbattere. Non poteva fare rumore sul pianerottolo.

Una volta dentro l’appartamento, Mamoru si lasciò cadere sul confortevole divano dall’imbottitura foderata da una stoffa fresca e leggera. Poggiò la testa sulla spalliera abbassando per qualche minuto le palpebre.
Usagi tornò dopo pochi minuti con la boccetta del disinfettante e dei batuffoli di cotone. Quando si trovò il ragazzo davanti, un sorriso colmo tenerezza le dipinse il viso.
Lui era lì, con le gambe aperte e il braccio poggiato sul bracciolo del divano. Il respiro era regolare, il suo volto sempre dipinto da espressioni che lo mostravano sicuro, fiero di sé, in grado di ispirare protezione, aveva lasciato posto a un’aria indifesa e piena di dolcezza. Inavvertitamente un piacevole e, allo stesso tempo, inspiegabile calore si propagò dentro al suo cuore dilagando per tutto il corpo.
Cos’era quella sensazione? Perché la provava? Perché non l’aveva mai provata prima? Era così bella ma anche così dannatamente dolorosa che temette di impazzire. 
Sbatté le palpebre e portò le mani all’altezza del cuore, cercando di fermare quel calore sempre più forte che ardeva dentro di sé alla vista del ragazzo.
Posando il disinfettante sul divano, si sedette accanto a lui.
«Mamo-chan, dormi?» La sua domanda fu simile a un sussurro; lui scosse la testa e rimanendo con gli occhi chiusi rispose:
«No, riposavo gli occhi.» Tirò un sospiro profondo e si staccò dalla spalliera.
Prese la boccetta bianca e svitò il tappo mentre Usagi distendeva le gambe verso il tavolino basso di fronte al divano.
Lentamente lasciò scorrere il liquido trasparente su un ginocchio, tamponando i bordi col cotone per evitare di bagnare per terra.

Il viso di Usagi assunse espressioni di preoccupazione prima e di pura sofferenza dopo, cercando di trattenersi da qualche urlo di fastidio quando il disinfettante iniziò a bruciare. Finito il primo, Mamoru passò all’altro ginocchio mentre lei era sempre più concentrata a tenere a bada le urla con una mano chiusa a pugno sulle labbra.
«Brucia, brucia!» piangeva fremendo sul divano e soffiando sulle ginocchia quando lui ebbe terminato. Quell’atteggiamento così infantile e ingenuo gli procurò una sana risata che, scompigliandole la frangia, esclamò: «Sei stata bravissima, stai diventando una signorina!» 

Usagi, infastidita stropicciò le labbra nervosamente prima di uscire la lingua per una di quelle smorfie che riservava a lui durante i loro battibecchi. Non avrebbe dovuto trattarla da bambina. Si rese conto che la sua reazione, tuttavia, aveva confermato che Mamoru di motivi per non trattarla da adulta ne aveva eccome.

Lui rise un altro po’, soddisfatto. Non si smentiva mai Usako. 
Si alzò, seguito dalla ragazza che lo accompagnò all’ingresso.

«Buonanotte, Mamo-chan, grazie di tutto» sussurrò dolcemente sollevandosi sulle punte e premendo le labbra sulla guancia ruvida di lui.

Mamoru con un sorriso le accarezzò una guancia. «Buonanotte, piccola peste, mi raccomando, non metterti in altri casini, okay?» 

Lei sorrise di rimando. Con i casini aveva già fatto troppo. Annuì solamente mentre attendeva che lui entrasse in ascensore.
Richiuse la porta alle sue spalle, poggiandovi la testa e portando le mani a contatto con la schiena; sospirò profondamente, avvertendo che la stanza era ancora impregnata del profumo forte e intenso di Mamoru.
Un tuffo al cuore la costrinse a chiudere per un attimo gli occhi. Quando li riaprì, come d’istinto, corse alla finestra della sua stanza. Scostò di poco le tende accorgendosi del ragazzo che stava per entrare in auto; si appoggiò per un attimo alle pareti fredde di quella camera ancora al buio.
Quella sera si erano verificati troppi eventi che avevano scosso la sua anima, valutò.
Ritrovarsi da sola in un luogo che in molti ricordano con piacere ma che a lei aveva soltanto fatto sperare di tornare presto a casa sana e salva; l’arrivo di colui che da sempre considerava come un fratello maggiore e che, invece, quella notte, con un semplice sorriso e una ingenua espressione le aveva scaldato il cuore costringendola a provare una nuova sensazione.
“Meglio andare a dormire” si era detta spogliandosi di quell’abito oramai sporco di terra bianca e sciogliendo gli odango allentati. Non aveva voglia di fare una doccia per togliersi dalla pelle l’odore di Seiya misto di polvere e disinfettante.
Senza sollevare il lenzuolo, si rannicchiò su se stessa portando la testa sotto al cuscino.
Aveva promesso a Mamoru che avrebbe evitato di mettersi in altri casini però aveva come la sensazione di averlo appena fatto.
Un casino dal quale neppure lui avrebbe potuto salvarla.
Chiuse gli occhi, sperando che il giorno dopo giungesse in fretta e riportasse con sé la normalità.
E mentre iniziava a rilassarsi, il bruciore tornò a farsi sentire. Non proveniva dalle ginocchia però ma direttamente dal cuore.



Il punto dell'autrice

25.05.2020
Questa è la revisione di ciò che pubblicai anni addietro. Spero di avervela ripresentata migliorata.
Questo capitolo non svela nulla di nuovo, se non la nuova sensazione di Usagi e in parte anche di Mamoru. Ho deciso di idearlo appositamente così dato che dal prossimo questa coppia non avrà la stessa attenzione che le riservo in altre mie fic perché lo spazio verrà dato ai personaggi separatamente.

Proprio per questo spero di ricevere i vostri pareri su come migliorare la storia.
Detto ciò, vi ringrazio di cuore per aver letto e per tutto l’affetto che mi dimostrate quotidianamente. Spero di fare sempre meglio, per me ma soprattutto per voi, regalandovi capitoli ogni volta migliori.
Un bacione e a presto!

Demy

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Capitolo 3
*** Se fuori piove ***


                              
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Capitolo 3: Se fuori piove
 
Quel letto matrimoniale dalle lenzuola di seta nera era troppo grande, troppo freddo quando lei non lo condivideva con lui.
Voltato su un fianco, occhi chiusi, Mamoru distese il braccio disegnando un arco con il palmo, sperando di poterla trovare lì, accarezzare la sua pelle calda e liscia ricevendo il miglior buongiorno che avesse mai potuto desiderare. Lei non c’era. Ultimamente i loro turni lavorativi non coincidevano.
Sollevò le palpebre. La sveglia segnava le 07.39. Poté riabbassarle riprendendo a dormire. Fino al pomeriggio non avrebbe dovuto mettere piede in ospedale. Uno scatto della serratura che faceva aprire la porta gli dipinse un sorriso istintivo sulle labbra, una sensazione di sorpresa e gioia al cuore. Sentì dei passi leggeri farsi sempre più vicini; aprì gli occhi di nuovo e, nella penombra della camera, poté intravedere la giovane donna davanti alla porta, irradiata da un sottile fascio di fioca luce gialla che filtrava dalle fessure della tapparella abbassata. Sorrise ancora, il suo braccio si distese di nuovo per reclamarla come un bisogno.
Non dovette attendere molto, lei lo accontentò subito.

Setsuna sbottonò la sua camicia di raso bianco, sfilandosela e poggiandola sulla panca di legno posta ai piedi del letto. Lui la seguì con lo sguardo mentre abbassava la gonna del tailleur lilla. In quel completo intimo color avorio la sua pelle ambrata sembrava ancora più tonica, una visione bellissima. Si sdraiò accanto a lui, premendo le forme sul suo corpo. Abbassò le palpebre, percepì quel contatto caldo colmo di energia.

«Mi sei mancata» le sussurrò con la voce impastata dal sonno, prima di premere le sue labbra su quelle di lei e stringerla ancora più forte, fino a percepire il suo profumo e il suo respiro caldo, «tanto, tanto…»

«Anche tu, amore mio.» Lei gli accarezzò la guancia ruvida, riposando finalmente gli occhi dopo un’intera notte passata tra le corsie del reparto di chirurgia. «Volevo sentirti in un momento di calma ma il tuo telefono era spento» sussurrò, cercando di rilassarsi sempre di più in quell’abbraccio che aveva desiderato per tutta la notte. 

«Hm mh, era scarico e non sono tornato subito qui dopo il lavoro» fu la sua risposta a metà tra il mondo dei sogni e quello reale. «Usa si è messa nei casini e sono dovuto andare a prenderla.» Lei non lo aveva domandato ma per lui fu giusto specificare cosa avesse fatto. Non voleva avere segreti con la sua donna. 

Setsuna sussultò a quelle parole, l’attimo di meritato relax era finito non appena lui aveva pronunciato quel nome. Percepiva il loro rapporto speciale anche dal modo in cui la nominava. Non Usagi. Usa.
«Che ha combinato?»  domandò sforzandosi di rimanere calma. Perché doveva sempre chiamare lui? Chi era lui? Un Mamoru Chiba?
Sì, in fondo lo era ma era il suo Mamoru Chiba, il suo e solo suo Mamoru. Eppure tante volte sembrava lei l’intrusa nel rapporto Mamoru-Usagi. 

«Ha litigato con Seiya e il bastardo l’ha lasciata da sola sull’altura.» Spiegò con calma e naturalezza. Sembrava avesse appena parlato delle previsioni del tempo.

«Quell’altura?» La ragazza sollevò la testa, fissandolo incredula e sperando di aver capito male. Per quanto Usagi rappresentasse spesso un problema, intuì che forse, quella volta, anche lei avrebbe agito allo stesso modo di Mamoru. Non avrebbe mai voluto che le accadesse qualcosa di brutto. In fondo, non lo meritava.

«Sì, hanno litigato, lui le ha pure alzato le mani e ridotta male, così mi ha chiamato e sono andata a prenderla, poi l’ho portata a casa e le ho disinfettato le ferite» spiegò tutto nei dettagli, voleva renderla partecipe, non fare alimentare la sua gelosia insensata. «Dopo sono tornato qui e ho dimenticato di accendere il cellulare, scusami.»
La baciò di nuovo sulle labbra. «Raccontami di te, com’è andata stanotte?» chiese piano, bloccandole un fianco con la gamba e tenendola stretta.

«Tutto tranquillo, per fortuna, nessun caso d’urgenza.» Lei strofinò la guancia sulla maglia bianca di cotone di lui, gli accarezzò un braccio.

«Hai finito di fare favori ad Haruka, non è vero?» sembrava quasi una speranza, più che una domanda. Era bello quando lui le faceva percepire di avvertire la sua mancanza. Sorrise in quell’abbraccio.

«Sì, ho finito, sono tutta per te, Mamo-chan.» Non chiedeva di meglio.

«Fino a stasera voglio restare così.» Intensificò la stretta, si inebriò del profumo dei suoi capelli. «Dormiamo così, ti va?»

«Non aspettavo altro, dottor Chiba» gli solleticò con le labbra sulle sue.

Si era aspettato un buongiorno da lei quella mattina ma quella inaspettata buonanotte per lui fu ancora più bella.
  
  
  
Si era voltata nel letto in continuazione tutta la notte senza riuscire a riposare; sembrava che la sua pelle stesse per prendere fuoco e lei non trovasse una parte del cuscino ancora fresca. Era rovente.
Sbuffò, mettendosi seduta e portando il palmo della mano alla fronte, la trovò madida di sudore, così come il collo.
In quella camera, la luce del sole che penetrava attraverso la finestra lasciata aperta, le permise di accorgersi dei graffi sulle ginocchia.
Non era stato un sogno, capì.
Aveva bisogno di una doccia, ne avrebbe avuto bisogno già la sera precedente ma il desiderio di eclissarsi dal mondo aveva avuto la meglio. 
Si fece coraggio e si alzò. Un senso di spossatezza la costrinse a reggersi alla parete; la testa le girava e un po’ di debolezza le fece rimpiangere di aver lasciato quel letto infuocato.
Trascinò verso il bagno le gambe indolenzite, faceva ancora fatica a piegare il ginocchio.
Lasciò scivolare per terra la biancheria intima, poggiò i palmi sul lavabo di porcellana bianca e si guardò allo specchio. Fu lì che lo vide: un mostro.
La sua pelle era spenta e pallida, due semicerchi viola spiccavano sotto gli occhi azzurri e opachi e, sull’angolo della bocca, un ematoma rosso scuro rendeva le sue labbra ancora più gonfie del solito. Strizzò le palpebre. Abbassò lo sguardo, rifiutò la sua stessa immagine. Non accettava di vedersi in quel modo. L’amarezza della sera prima riemerse come un fiume in piena, lacrime le rigarono le guance, prima di bagnare il pavimento. Usagi non le fermò, non le asciugò, sentì solo un senso di vuoto, un enorme dispiacere per quella se stessa riflessa nello specchio, ne provò compassione.
La paura della sera precedente, la mortificazione per colpa di Seiya, il litigio e la disperazione fino all’arrivo di Mamo-chan non potevano essere dimenticate facilmente, non era servita una notte per spazzarle via. Erano ancora lì, sul suo viso, sulle sue gambe. Cercò di lottare contro se stessa, imponendosi di non pensare più a tutto ciò e iniziando a lasciarsi tutto alle spalle. Doveva almeno provarci.
Si fece confortare dal getto tiepido e dall’odore del suo bagnoschiuma alla fragola e lì, mentre l’acqua bagnava il suo viso, pianse ancora, permettendo che tutte le sue emozioni uscissero fuori. Forse era quello che serviva.
  
Il campanello suonò quando l’orologio sulla parete della cucina segnava le 9:00; con una camicia da notte di lino bianco addosso e i capelli raccolti nei suoi soliti odango, Usagi a fatica raggiunse la porta d’ingresso. Dall’occhiello il caschetto biondo incorniciava un viso sorridente in attesa.
Lasciò uscire un sospiro nervoso. Hana si sarebbe preoccupata vedendola in quello stato, le voleva bene, aveva rassicurato i suoi genitori per il periodo in cui sarebbero stati in Italia lasciandola da sola. Cosa le avrebbe raccontato? Cosa si sarebbe inventata per spiegare l’ematoma e il suo stato pietoso?
Il suono del campanello che veniva premuto di nuovo la obbligò ad aprire senza darle altro tempo per lasciarsi andare a ulteriori riflessioni; il sorriso che la donna aveva sul volto, però, sparì nell’istante in cui Usagi apparve dalla fessura della porta.

«Usagi, che cosa è successo?» Spalancò gli occhi, avvicinandosi e posando una mano sul mento della ragazza con aria incredula.

«Niente, non è nulla di grave» cercò di rassicurarla forzando un sorriso con lo sguardo basso, richiudendo la porta alle sue spalle.

Hana non ne era convinta, però.
«Come nulla? Chi ti ha ridotto così?» Doveva sapere chi era stato, perché di certo qualcuno era stato. Poggiò il vassoio che teneva tra le mani sul tavolino basso del salone e le si parò davanti, costringendola a guardarla.
«Dimmelo, Usagi, chi è stato?»

Usagi non tacque più. Incontrando gli occhi blu della donna dall’aria dispiaciuta, rivelò: «Seiya» prima di sedersi sul divano e continuare. «Abbiamo litigato, ma non temere, sto bene.»

Hana scosse la testa, sedendosi accanto a lei e lasciando scorrere la sua mano sulla guancia di Usako. 
«Tu scotti, hai la febbre» constatò prima di abbassare lo sguardo e notare le ginocchia escoriate che la camicia da notte lasciava scoperte. «Oh Santo Cielo!» Come avevano ridotto quella ragazza? E perché? Voleva comprendere per quali ragioni Seiya fosse arrivato a quel riprovevole comportamento.

Usagi intuì che Hana avrebbe continuato a porre domande ma lei non aveva le forze per parlare, per spiegare, per scendere nei dettagli. Poggiò la testa alla spalliera, trovò conforto. 
«Avrò preso un colpo d’aria aspettando Mamo-chan.» In effetti, nell’agitazione aveva sudato parecchio e l’attesa di Mamoru era stata accompagnata da una intensa frescura. Sicuramente portava ancora addosso il contrasto di quell’atmosfera.
«Sta’ tranquilla, davvero.» Magari con quella risposta sarebbe riuscita a toglierle quelle sopracciglia tirate verso l’alto da una espressione allarmata.

La donna alzò lo sguardo verso il volto pallido di Usagi e domandò: «Mamo? Il mio Mamo?» In fondo sapeva che di Mamoru non ce ne erano tanti.

Usagi annuì strofinando la guancia sul tessuto del divano, iniziava a riscaldarsi pure quello. «Sì, ieri sera ho chiamato lui dopo aver litigato con Seiya ed è venuto subito a prendermi.» 

Ricordava Mamoru che scendeva dall’auto, percepiva ancora le braccia di lui che la stringevano forte a sé infondendole protezione, riviveva la scena nella quale lui le cingeva la vita per aiutarla a camminare.
Ripensava alle sue espressioni rassicuranti mentre elargiva saggi consigli e le parlava con tono dolce. Lo immaginava di nuovo lì, su quel divano, con un’aria sensuale ma ingenua allo stesso tempo.
Il cuore le si scaldò d’improvviso, una sensazione di infinita dolcezza le donò un inaspettato senso di benessere.
Sorrise, con lo sguardo perso nel vuoto.

«Hai già fatto colazione?» Hana la destò da quei ricordi, scartando il vassoio e prendendo il piatto con una grossa fetta di torta. «L’ho fatta alla frutta, come piace a te. Così dopo prendi l’antipiretico.»

Usagi sorrise, portandosi in avanti e abbracciando la donna. «Grazie, Hana, ti voglio bene» sussurrò dolcemente.
Quel contatto era simile a una coperta nelle notti d’inverno. Aria condizionata nelle giornate roventi.
«Come farei senza di te?» Era una confessione. Era consapevole che Hana non era solo una vicina di casa per lei ma che rappresentasse molto di più. Era simile a una mamma, di quelle presenti e affettuose, era una amica pronta a tirarla su nei momenti tristi. Si sentiva meno sola al pensiero che lei fosse presente nella propria vita.

«Ti voglio bene anche io, piccolina» sussurrò strofinando una mano sulla schiena della ragazza. Il suo tono era ancora preoccupato. «Coraggio, andiamo a fare colazione in cucina, ti preparo il caffè.»
Cercò di mostrarsi energica, Usagi aveva bisogno di sentirsi meglio, di stare bene.
«Per oggi è meglio che ti riposi, resto io qui con te» le consigliò entrando in cucina e preparando la macchina per il caffè mentre Usagi prendeva posto su una delle quattro sedie attorno al tavolo.

Concentrarsi in quelle condizioni sarebbe stato impossibile. «Sì, mi riposo, non ho voglia di studiare, anche perché mi fa male il fianco.» Poggiò la mano sul fianco destro, arricciando le labbra in una smorfia di dolore per quella sensazione di fastidio mai provato prima. «Però tu vai a casa, stai tranquilla.»

Hana le si avvicinò, guardandola in quegli occhi tanto azzurri quanto spenti e premendo la mano sulla sua fronte.
«Usa, non mi fare preoccupare» disse incurvandosi in avanti verso di lei, «non è meglio se chiamiamo Mamoru? Magari ti visita e ci dice cosa fare.» Per la febbre l’antipiretico poteva andare bene ma il dolore al fianco? Meglio il parere di un medico, del suo medico di fiducia. Il suo Mamoru.

Usagi scosse la testa al solo pensiero. Non voleva che Mamo-chan la vedesse in quel modo, che scorgesse la stessa Usagi che lei aveva visto poco prima allo specchio; ripensava alla sera precedente, alla sua dolcezza e a quel senso di protezione che non aveva mai provato con nessuno dei ragazzi con cui era uscita. Non capiva perché l’immagine di lui che le sorrideva con occhi blu e luminosi non riuscisse ad abbandonare i suoi pensieri; non sapeva spiegarsi perché, per la prima volta, l’idea che lui la scorgesse in quello stato la imbarazzava. In fondo era lui, Mamoru, il suo amico di sempre. 
«No, non ce ne è bisogno, davvero; sarò solo indolenzita, stai tranquilla.» Voleva apparire convincente, se Hana avesse insistito era certa che lo avrebbe chiamato e se lo sarebbe ritrovato lì, a vederla pallida, con le occhiaie e le labbra gonfie. 
«Ti spiace se la mangio dopo? Vorrei andare a letto e riposare.» Si alzò lentamente, premette le labbra sulla guancia di Hana sentendo il dolore al fianco aumentare. «Vai a casa, Hana, se ho bisogno ti chiamo, promesso» la rassicurò ancora, forzando un sorriso. 

La donna annuì, Usako era testarda, inutile insistere. Attese che entrasse nella sua camera prima di lasciare l’appartamento. In fondo, Ikuko le aveva lasciato le chiavi per quelle tre settimane, se Usagi non si fosse fatta sentire, sarebbe andata a controllare.
  
  
Mamoru era seduto sul divano, la testa ben poggiata alla spalliera e le dita perse tra le folte ciocche verdi di Setsuna; la televisione mostrava un documentario sulle piramidi che aveva catturato la loro attenzione. Si erano ripromessi che prima o poi sarebbero andati a visitare quei luoghi incantevoli avvolti da un alone di mistero. I vari programmi televisivi per il momento erano tutto ciò che avrebbe permesso loro di arrivare al viaggio con una certa conoscenza. Si consolavano con la fantasia, in attesa di un periodo di ferie che li avrebbe visti prendere un aereo e condurli al Tempo dei Faraoni.
Le lancette sopra il televisore segnava le 15.00 quando il telefono squillò.
Mamoru si allungò verso destra, afferrando il telefono cordless posto sul tavolino adiacente. 

«Ho preparato una torta alla frutta, passate a mangiarne una fetta?»  

«Grazie mamma ma non credo usciremo oggi» le rispose lui continuando ad accarezzare la ragazza stretta al suo busto, «stasera ho il turno e Setsuna ha il giorno libero; resteremo a casa a riposarci.» Aveva voglia di riposarsi fino all’ultimo istante.
«Portane un po’ ad Usagi.» Fu un pensiero istintivo.  

«Già fatto» si sentì rispondere.

Era ovvio, figurarsi se sua madre non avesse già pensato a Usako. «Strano allora che ne sia rimasta pure per me e Setsuna!» 

«Veramente non l’ha neppure assaggiata» spiegò lei «anzi, in realtà sono preoccupata.»

Mamoru aggrottò la fronte. «Che vuoi dire? Che succede?»

«Ha la febbre, sta malissimo.» Un sospiro lo raggiunse attraverso il telefono. «Per non parlare di come l’ha ridotta quello lì.»

Lui deglutì a fatica, ricordando la sera precedente.
Usagi spaventata, sporca di terra e dai segni addosso, che lo abbracciava tremando e lo ringraziava più volte si fece immagine.
«Stai tranquilla, si riprenderà presto» cercò di tranquillizzarla, sapendo che era nella natura di sua madre essere apprensiva sia con Usagi che persino con lui che era ormai un uomo.
  
«Sai, stavo pensando che il prossimo week end potremmo andare a fare una gita nelle vicinanze.» Setsuna si accoccolò meglio a lui quando ripose il cordless. «Da quant’è che non organizziamo qualcosa solo tu e io?»

Lui abbassò la testa verso quegli occhi simili a due rubini colmi d’amore. «Sentiamo, dove vorrebbe andare, signorina?»

La sua voce era ironica ma allo stesso tempo calda e sensuale, a Setsuna non sfuggì quel connubio che la rendeva pazza di lui, che le faceva battere il cuore e le ricordava quanto fosse fortunata ad avere un uomo come Mamoru.
Era bellissimo da lasciare senza fiato tante giovani donne, attratte dal suo fascino naturale e dal suo sguardo magnetico, ma era anche sempre pronto a fare di tutto pur di renderla felice. Il suo Mamoru era una bella persona.
«Non importa dove, scegli pure tu, a me basta andare un po’ via da Tokyo» confessò spegnendo il televisore e sedendosi cavalcioni su di lui, «staccare con la routine e godermi il mio Mamo-chan.»

Mamoru rise di gusto, scostando alcune ciocche che ricadevano sulle spalle della giovane.
«Che cos’è questo? Un modo per convincermi?» domandò con aria maliziosa. 

Lei sorrise, mordendogli piano l’orecchio e sussurrando: «Forse…»

Lo convinse.
  
  
  
«Sì mamma, qui è tutto apposto.» Aveva cercato di rassicurare Ikuko. «Roma deve essere bellissima da come la descrivi, non dimenticarti di portarmi un regalo da lì.» Cambiare discorso l’avrebbe aiutata a non farle percepire il proprio malessere, non voleva farla preoccupare, in fondo, cosa avrebbe potuto fare dall’altro capo del mondo? 
Izzie Stevens e Alex Karev si contendevano un intervento chirurgico in tv, il resto non riusciva a seguirlo, la sua testa faticava a concentrarsi sulle scene. Sul tavolino basso del salone metà fetta di torta era ancora nel piatto, non era riuscita ad assaporarla, sembrava troppa per poterla terminarla.
Il display del suo cellulare segnava le 19.00, aveva bisogno di stendersi, quella giornata sarebbe terminata in quel modo. Affondò la testa sul cuscino, chiuse gli occhi ma il rombo di un tuono la fece sussultare, accelerando d’istinto i battiti del suo cuore. Nascose la testa sotto al fresco guanciale ma un rumore più intenso le fece strizzare le palpebre.
Odiava i tuoni, soprattutto quelli estivi, e odiava, ancora di più, stare da sola durante i temporali. Odiava stare da sola sempre, in verità.

Il citofono suonò dopo un arco di tempo indefinito, facendole aggrottare la fronte. Chi poteva mai essere a quell’ora? Non aspettava visite. Con la mano alla fronte, cercando di bloccare quell’interminabile mal di testa, si trascinò lungo il corridoio della casa buia fino alla porta d’ingresso.
«Chi è?» domandò con le poche energie, mentre la sua fronte iniziava a imperlarsi di sudore.

«Io. Mamoru.» Un sussulto, una stretta al cuore. «Posso salire?»

Usagi non rispose, si limitò a premere il pulsante del citofono. Respirò profondamente.
Sulla soglia di casa, lo scorse non appena l’ascensore si aprì e i suoi capelli corvini fecero capolino. Aveva un’espressione dolce sul volto. Usagi iniziò a prestare attenzione anche ai piccoli movimenti facciali. Rimase attratta da come lui, con le mani tra i capelli, cercasse di togliere le gocce di pioggia in eccesso. La dolcezza del suo viso si era trasformata in un’aria sensuale. Ritrovò i suoi occhi blu sui propri, lo vide strofinare i piedi sullo zerbino e raggiungerla in casa. Era così vicino che venne inebriata dal profumo speziato che era solo suo.
«Ciao» gli sussurrò. Solo in quel momento comprese quanto in realtà avesse avuto bisogno della sua presenza. «Che ci fai qui?» Continuò a fissarlo, e per un istante suppose che fosse stata Hana a chiedergli di visitarla.

Lui rispose chiedendole: «Come stai?» Lo sguardo ancora fisso sul viso pallido e stanco davanti a sé. Stropicciò le labbra in una smorfia quando notò il livido violaceo sull’angolo della bocca. 

Usagi voltò il viso dalla parte opposta. Si sentì esposta a quello sguardo insistente e profondo, come se lui riuscisse a leggere le emozioni che aveva provato per tutto il giorno. Raggiunse il divano stringendo al petto uno dei cuscini quadrati. Percepì gli occhi di lui addosso, li incrociò trovandoli preoccupati.
«Bene, ho solo un po’ di febbre» sibilò. Sicuramente lo sapeva già.

Nella penombra del salone, la luce dei lampi illuminava Usagi. Mamoru la osservò mentre portava le ginocchia al petto. La veste le era scivolata sulle gambe lasciandogliele scoperte. Il lino bianco si univa al candore della sua pelle, i lunghi capelli sciolti le accarezzavano le braccia. Era bella.
Lei gli donò uno sguardo, stringendo un cuscino tra le braccia come se cercasse un conforto. Gli suscitò tenerezza. 
«Hai preso l’antipiretico?»

Usagi annuì leggermente.
Il rombo di un tuono la fece sussultare; d’istinto strizzò le palpebre, stringendo il cuscino ancora più forte a sé.
E lì, in quel preciso momento, in quella stanza buia che veniva illuminata a tratti, Mamoru provò una stretta al cuore, un calore allo stomaco. Realizzò, per la prima volta, che non era capace di fare una delle sue solite battute per prenderla in giro o per farla arrabbiare. Non erano reazioni che avrebbe voluto scatenare in lei. Non voleva neanche interrompere quell’atmosfera distraendola o facendola sorridere.
Cosa voleva allora? Non lo capiva. Era come se quell’immagine stesse assorbendo tutta la sua energia, tutto se stesso.
Aveva bisogno di percepire quell’energia più intensamente. Fu istintivo, si avvicinò a lei, le sedette accanto e, con una mano sulla sua spalla la spinse a sé, incrociando le braccia sulla schiena di lei. Si sentì immediatamente bene, come se fosse finalmente in pace con se stesso.
«Shh» sussurrò con il mento sulla sua soffice testa bionda, cullandola dolcemente con gli occhi chiusi, «non avere paura.»

Per un attimo a Usagi mancò il respiro. Quella sensazione inaspettata, quel calore al cuore provato mentre veniva spinta verso il corpo di Mamo, quel conforto che solo lui riusciva a donarle mentre l’avvolgeva tra le sue braccia forti, le fecero rallentare la presa sul cuscino. Portò le mani sulla vita del ragazzo, intensificando quell’abbraccio e poggiando meglio la testa sul suo petto. In quel momento sì che finalmente, dopo un’intera giornata, stava meglio.

Per qualche istante, nessuna parola ebbe il coraggio di coprire lo scroscio della pioggia che si infrangeva violenta sui balconi, sulle ringhiere. Nessuno dei due riusciva a spezzare quell’atmosfera strana e insolita che si era creata all’interno dell’appartamento buio.

Mamoru guardò l’orologio appeso alla parete di fronte a sé.
«Non voglio che resti da sola, Usa» sussurrò accarezzandole con una mano la nuca. L’altra non riusciva a scostarsi dalla pelle della schiena di lei. 

«Resta qui con me, Mamo-chan.» Le braccia si erano irrigidite, contrarie a lasciarlo andare. Quella richiesta era venuta fuori simile a una supplica contro la sua razionalità. Credette che fosse colpa della febbre.

Mamoru lasciò uscire un sorriso divertito, spostando una mano dalla schiena di lei e accarezzandole le lunghe ciocche, mentre i suoi occhi rimanevano chiusi. «Devo andare a lavoro, Usako; ti porto da mia mamma, che ne dici?» propose cercando di convincerla. «C’è la mia stanza libera e per qualsiasi cosa non saresti da sola.»

Usagi sollevò la testa, incontrando gli occhi intensi di lui.
«Mi fa stare bene dormire nella mia stanza, avere le mie cose.» Avrebbe voluto anche Mamo-chan lì con lei. Quella consapevolezza la intristì. Tornò ad appoggiarsi a lui. «Non fa nulla, non ti preoccupare.»

«Ma perché devi dire sempre di no a tutto?» sbuffò lui, allentando la presa con aria seria per poterla guardare in viso. «Almeno per stanotte, fin quando non ti passa la febbre.»

 Lei scosse il capo, tornando in posizione retta e stringendosi su stessa.
«No, davvero, non ti preoccupare…»

Mamoru roteò gli occhi, guardando in alto, prima di sospirare e passare la mano nervosamente tra i capelli. «Lo vedi? Certe volte è davvero impossibile farsi comprendere da te.» Perché non capiva che lui si preoccupava per lei? Perché non cercava di farlo stare sereno? Era così complicato?

La ragazza provò una stretta al cuore al suono di quella voce leggermente infastidita. Non era più divertente come tutte le altre volte, non le dava più soddisfazioni, anzi. Aprì la bocca, per cercare di spiegarsi, di farlo calmare mentre lo vedeva alzarsi. Non voleva che andasse via prima di aver… fatto pace? In realtà non avevano litigato, allora perché saperlo infastidito la faceva agitare? Alzandosi, un lamento uscì spontaneo dalle sue labbra, non riuscì a controllarlo.
«Ahi» sibilò premendo la mano sul basso ventre, incurvandosi in avanti.  

Mamoru spalancò gli occhi, la raggiunse. «Cosa c’è? Cosa ti senti?» domandò avvolgendola sotto il suo braccio e aiutandola a stendersi sul divano. 

«Mi fa male il fianco» biascicò priva di energie per spiegare, «è da stamattina che mi fa male ma ora passa.»

Lui si sedette sul tavolino basso, posò una mano su quella di lei ancora sul fianco e, cercando di rassicurarla con un sorriso, provò: «Me lo fai visitare questo pancino?»

Una sola domanda, un tono dolce e caldo che la fece tremare; scosse la testa, guardandolo e sperando che i suoi occhi tristi potessero rivelare tutte le emozioni che stava provando in quel momento. Forse erano troppe, forse troppo confuse, o forse talmente assurde e prive di senso che lui non le avrebbe mai capite, mai prese in considerazione. Forse non le capiva neppure lei.
«Non parlarmi come se fossi una bambina…» mosse piano le labbra, permettendo alla sua voce di esprimere quei pensieri colmi di confusione, «non lo sono più, Mamo-chan.»

Mamoru lesse lo specchio della sua anima; quelle iridi lucide, quel viso malinconico, quei capelli che il sudore rendeva un tutt’uno con la sua fronte, gli fecero provare di nuovo quel calore allo stomaco che, seppure fosse un medico, non riusciva a capire.
“Perché mi guardi così?” pensò tra sé, scrutando quegli occhi come se fosse la prima volta, trovandovi un’intensità nuova che lo fece sentire in colpa per come le si era rivolto. “Che le sta prendendo?” Non riusciva a darsi delle risposte.
Perché non si arrabbiava? Poteva fare una linguaccia o usare dei toni scocciati per essere stata trattata da bambina. Invece no. Non era per il dolore, né per la febbre, di ciò ne era certo conoscendola. Lei lo aveva chiesto con una tale dolcezza, come se essere guardata e trattata da adulta fosse l’unica cosa che desiderasse, l’unica cosa importante.
«Scusami» continuò con voce pentita, non riusciva a scherzare più neanche lui. Non insisté, lei avrebbe continuato a dire di no, non si sarebbe fatta visitare. 
Si alzò dal tavolino. Avrebbe voluto darle un bacio sulla fronte ma si limitò a dirle: «Io devo andare.» Si schiarì la voce. «In caso, mi raccomando, chiama mia madre.» 
La vide annuire debolmente prima di richiudere la porta alle sue spalle. Sospirò.
  
  
  
Erano le 00.25 quando il giovane medico si avviò verso il distributore automatico posto alla fine del lungo corridoio del reparto di chirurgia. Selezionò un caffè amaro e attese che la spia gli indicasse di poter prendere il bicchiere.
Dalla grande vetrata di fronte a sé la pioggia non intendeva smettere di scendere fitta e veloce; un lampo improvviso schiarì di giallo il cielo nero. Scosse la testa, prendendo il suo caffè e sorseggiandolo cautamente.
L’immagine di Usagi si presentò nella sua mente al secondo rombo di tuono. Chissà come stava, chissà se stava avendo paura. Forse dormiva già. 
Il suono del suo cercapersone lo destò da quei pensieri troppo insistenti; gettò via il bicchiere ormai vuoto nel porta rifiuti e raggiunse le infermiere che attendevano l’ascensore in fondo al corridoio. Sospirò. Doveva dirigersi verso la sala operatoria. Un intervento urgente di appendicectomia lo attendeva.


Il punto dell'autrice

27.05.2020
Finalmente sono tornata a revisionare quanto scritto anni fa. 
Nella mia mente certe scene sono molto belle, spero di averle migliorate in questa nuova versione. 
Dal capitolo 5 potrò integrare tante parti e dare spazio a personaggi per ora solo presentati di sfuggita. In questa revisione dei primi capitoli 4 mi sarebbe piaciuto farlo ma sto cercando di non alterare troppo il testo, sarà nel proseguo che riprenderò a scrivere secondo il mio stile di adesso e secondo le consapevolezze delle "falle" di questi capitoli iniziali. 
In ordine a Usagi: i suoi stati d’animo alla vista di Mamoru in parte sono dettati dalla solitudine, in parte dalla febbre, e in parte da un nuovo sentimento che si alimenterà piano piano. Per quanto riguarda Setsuna e Mamoru, i loro stati d'animo verranno approfonditi, per mia scelta, nel capitolo successivo. 
Spero questa nuova versione possa piacervi, i vostri pareri sono importanti per me.
Un abbraccio, a presto

Demy 

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Capitolo 4
*** Sensi di colpa ***


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 Capitolo 4: Sensi di colpa 

«Ma proprio adesso doveva accadere?» Hiroshi continuava a domandarselo da quasi un’ora. Non c’era nulla che egli potesse fare per sistemare quella situazione imprevista, si limitava a dondolarsi avanti e indietro, su una di quelle sedie di plastica rigida attaccate alla parete cercando scaricare l'agitazione. Con il busto incurvato e i gomiti sulle gambe, strofinava il pollice sul mento ruvido, osservando la moglie camminare lungo il corridoio e sospirare nervosamente. Sebbene ci provasse, non riusciva a togliersi dalla mente l’immagine di quella ragazza spaventata che piangeva, riuscendo a farlo sentire in colpa mentre la prendeva in braccio e cercava di calmarla sussurrandole: «Stai tranquilla, non puoi più restare in queste condizioni, dobbiamo farti visitare.»

Il cuore gli si stringeva nel petto mentre lei, madida di sudore, continuava ad aggrapparsi a lui, come a volergli impedire di avviarsi verso la porta d’ingresso. «No, no, non ci voglio andare in ospedale» lo implorava con voce flebile, mentre stringeva la sua camicia e cercava di combattere contro il forte dolore che le impediva persino di respirare.
 
Sospirò Hiroshi, portandosi dritto e passando una mano tra i folti capelli, ai quai i suoi cinquantaquattro anni avevano donato l’effetto sale-pepe.
«Allora?» aggrottò la fronte, facendo così accentuare le piccole rughe.
La donna arrestò il suo passo nervoso; l’ansia, che quella situazione le aveva messo addosso la faceva sentire come se una bomba ad orologeria fosse stata innestata nel suo cervello, col rischio di esplodere da un momento all’altro.
Nella sua vita non erano mancati momenti difficili in cui maturare meglio il ruolo di madre ma occuparsi di qualcuno che non fosse sua figlia l’aveva ricoperta di responsabilità troppo pesanti anche per lei. Fissò il marito negli occhi tanto blu quanto stanchi.
«Niente, è spento, non so come rintracciarli» spiegò stringendo il telefono cellulare.

Hiroshi si alzò, andandole vicino e scrutando il lungo corridoio; il suo sguardo era sempre più agitato mentre attendeva di veder comparire colui che stavano attendendo con ansia.
Si domandò se in quell’ospedale i medici fossero sempre così lenti ad arrivare o se quell’attesa così lunga e snervante fosse solo una sua impressione dovuta dalla circostanza.
Lasciando uscire un sospiro di sollievo, l’uomo posò una mano sulla spalla della donna facendo un cenno con il capo davanti a sé ed esortandola a voltarsi.
«Ecco, è arrivato.»
 
 
Mentre si avviava a passo svelto verso la camera pre-operatoria, il volto di Mamoru veniva impallidito dalle luci al neon situate sul soffitto, mentre il suo camice spiccava tra le pareti giallo ocra dell’ampio corridoio. Di certo, i turni di notte non erano il massimo che un medico potesse desiderare e spesso sperava che tutto fosse tranquillo senza casi d’urgenza per i quali dover intervenire. Aveva bisogno di una bella vacanza, di spezzare la routine fatta solo di lavoro, casa, e sporadiche serate in qualche bel ristorantino insieme alla sua donna. Una volta terminato l’intervento di appendicectomia, avrebbe parlato con il primario: se gli avesse concesso il venerdì, avrebbe potuto accontentare Setsuna portandola fuori città per un week end. L’avrebbe resa felice e lui ne avrebbe approfittato per rigenerarsi dalla solita vita. Bloccò i suoi pensieri rimanendo sorpreso quando si accorse dell’uomo dai capelli brizzolati che, con aria preoccupata, sibilò qualcosa alla donna non appena lo notò.
 
«Che ci fate qui?» si avvicinò a loro a passo spedito, con sguardo curioso e il tono della voce un po’ più alto del solito; non sembravano star male, eppure uno strano presentimento si faceva strada in lui rendendolo inquieto.
 
«Mamoru, Usagi è stata male stanotte, l’abbiamo portata al pronto soccorso perché continuava a lamentarsi per il forte dolore» spiegò la donna con voce agitata, guardandolo come se solo lui potesse lenire quella sensazione di spavento che l’attanagliava.

«Al pronto soccorso hanno fatto degli accertamenti e hanno detto che è appendicite e va operata subito» Hiroshi specificò, facendo qualche passo indietro e appoggiando la schiena alla parete. L'immagine di Usagi che,  appresa la notizia, aveva iniziato a piangere e urlare si palesò nella sua mente.
Mamoru rilasciò all'aria un sospirò profondo, portando entrambe le mani a strofinare il viso. Conosceva Usagi, sapeva quanto fosse spaventata al solo pensiero di mettere piede in un ospedale e immaginava le sue lacrime, il suo disappunto per quella situazione che non avrebbe potuto evitare. Usagi era cocciuta e testarda, calmarla sarebbe stato arduo.
«Mamoru, ci hanno detto che la opererai tu, dimmi che è vero.» Più che una domanda di conferma, quella della donna era una speranza.

Lui annuì più volte, guardando la madre e scorgendovi tensione. «Stai tranquilla, ci penso io a lei» posò una mano sulla sua spalla con fare rassicurante, «avete chiamato Ikuko?»

«Sì, ci ho provato finora.»  Il telefono cellulare nella sua mano lo testimoniava. «Ma è spento e non so come avvisarli.»
Mamoru sembrò non essere in grado di dare consigli alla madre, il suo unico pensiero era entrare in sala operatoria e rasserenare Usagi, immaginandola come un indifeso coniglietto tremante. «Okay, adesso vado dentro, vi faccio sapere qualcosa appena potrò.»
 
 
 
In quel momento, il suo corpo era simile a una piccola foglia in un giorno di vento gelido, le sue membra tremavano, come avevano fatto solo poche volte nella vita, attraversate da un misto di paura irrefrenabile e un senso di impotenza per non poter fare altro che accettare la situazione senza poterla cambiare.
 
C’era stato il giorno in cui il suo cuore si era fermato per alcuni minuti. Una mattina di due anni addietro, la sensazione era stata quella di perdere il respiro, come se stesse morendo soffocata, quando un malinconico sussurro che invocava il suo nome l’aveva riportata alla realtà dal mondo dei sogni.
«Usa…» e Usagi si era svegliata, notando Mamo-chan seduto sul suo letto con lo sguardo triste e ansioso di incontrare i suoi occhi che, pian piano, spuntavano dalle palpebre.
Lo aveva visto lì, accanto a sé, con i pugni chiusi sul materasso e le labbra serrate; i flebili raggi di Sole che filtravano dalla saracinesca abbassata creavano giochi di luce sul suo viso, facendo sì che i ciuffi sulla sua fronte rendessero ombrata la zona dei suoi occhi. Non aveva avuto il tempo per domandarsi come mai il suo amico e vicino di casa fosse nella sua camera alle 6.30 del mattino, a svegliarla dolcemente. Le era bastato osservare il suo volto dalle espressioni troppo serie, non in grado di proferir parola, per capire tutto. Sussultando, si era automaticamente messa a sedere, sgranando gli occhi, ancora fissi su quelli di lui, e scuotendo la testa più volte, non accettando lo sguardo triste ed eloquente del ragazzo che valeva più di mille parole.
«No!» aveva sussurrato, stringendo il lenzuolo tra le mani, come se non volesse crederci, accettarlo. «No…»
Mamoru aveva avvolto le mani su quelle rigide di lei. «Se ne è andato nel sonno, non ha sofferto, Usa,» aveva cercato di edulcorare quell’amara realtà che faceva male.
Al diavolo il fatto che è anziano e malato,” aveva pensato lei, era una magra consolazione, vana, perché nonostante cercasse di razionalizzare l’accaduto, gli occhi continuavano a bruciare e il cuore sembrava essersi fermato sgretolandosi nel suo petto.
Per diciotto anni, c’era stato tanto amore per lei da parte di quella figura simile più a un padre che a un nonno, non poteva dissolversi o cancellarsi come se non fosse mai esistito, neppure il tempo lo avrebbe permesso.

Le lacrime erano uscite istintive, mentre lei rimaneva a fissare un punto indefinito del lenzuolo, non sapendo ancora che da quel momento in poi il dolore provato in quegli istanti avrebbe avuto il colore dell’alba che pian piano iniziava a rischiarire il buio della sua stanza, e il profumo sarebbe stato quello troppo aspro di Mamoru che le era rimasto sulla pelle anche dopo quell’abbraccio pieno di comprensione e conforto.
 
 
Smise di ricordare quel giorno. Nonostante tante volte, quando era in difficoltà, pensasse a suo nonno sperando riuscisse in qualche modo ad aiutarla, il tremore non si placava e la paura cresceva, scandita dall’infernale rumore dei ferri. Si voltò alla sua destra. Dalla posizione orizzontale, le infermiere ricoperte da camici di poliestere verde sistemavano il carrello degli strumenti operatori. Le sentiva parlare, ridere, anche se a lei arrivavano solo fastidiosi suoni confusi.
“Stupide insensibili senza rispetto per chi soffre” pensò tra sé, mentre una mano premeva sulla fronte, intenta ad attutire l’atroce mal di testa.
Il rumore della porta che veniva aperta attirò la sua attenzione. Voltandosi dalla parte opposta, il cuore smise di battere per un istante.
«Mamo-chan» sibilò, mentre una lacrima tra le sue ciglia scivolò sul tavolo operatorio. Il suo cuore riprese a battere così forte che per un attimo riuscì a distrarsi da ogni altro suono all’interno della stanza.
Mamoru era arrivato, e con lui tutta la protezione e la sicurezza che da sempre rappresentava per lei. Lui sistemò la mascherina sul viso prima di avvicinarsi e sfoggiare uno dei suoi sorrisi rassicuranti. Poco importava se il suo volto fosse per metà coperto, lei riuscì a scorgere la sua espressione attraverso la luce che riflettevano i suoi occhi blu.
«E io che pensavo che non ti avrei più rivista per qualche giorno!» Ironizzò cercando di smorzare la paura che leggeva sul suo viso umido.

«Dottor Chiba, qui è tutto pronto, stiamo aspettando l’anestesista.» L’infermiera lo aiutò a infilare i guanti di lattice osservandolo annuire soltanto, con occhi concentrati sulla ragazza.

«Mamo-chan, ti prego, troviamo una soluzione» tremava, allungando il braccio libero dalla flebo verso l’amico, «prenderò le medicine ma fammi andare via… Ti prego.» Un singhiozzo pose fine a quella vana richiesta, ma il suo sguardo eloquente non intendeva arrendersi.

«La signorina non ha smesso di piangere neppure per un attimo.»
E Usagi odiò ancora di più quella donna insensibile dal tono ironico. Che diavolo aveva da ridere in un momento tragico e delicato come quello?
«Ho tanta paura…» sussurrò, ignorando l’infermiera, mentre la sua mano si posava sul polso del ragazzo; lo strinse, come se quel contatto più intenso servisse a far capire le sensazioni di fragilità e sconforto che dilagavano come un fiume in piena dentro di sé. E forse, solo con il tono della sua voce riuscì a trasmettere la sua disperazione. «Sono sola, sono tanto sola, e tutto questo sembra un incubo.»
Mamoru sfilò i guanti, provocando disappunto nell’assistente di sala.

«Dottor Chiba, dopo dovrà lavarsi di nuovo!»

«Lo so» la liquidò con noncuranza mentre si sedeva sullo sgabello riservato all’anestesista e lo avvicinava al tavolo operatorio; prese la mano dell’amica e, quando la trovò gelida, iniziò a strofinarla con la sua, cercando di riscaldarla.
«Ehi, ascoltami.» La vide annuire con aria spaventata e continuò. «Non sei sola, ci sono io qui con te e ti prometto che non ti lascerò sola finché sarai in questo ospedale.» E alla parola ospedale, il pianto di Usagi riprese, le lacrime bagnarono le sue ciglia scivolando sulle guance rosse.
«Per favore, Usako, calmati,» la pregò con voce paziente, portando entrambe le mani a riscaldare quella di lei. Una si posò dopo su quel viso agitato provando a rilassarla con il suo tocco delicato. «Questo è l’intervento più facile che ci sia in chirurgia. Sai, è così semplice che è il primo intervento che spiegano agli specializzandi del primo anno.»

Sì, vero, lo avevano spiegato pure a Grey's Anatomy pensò ma quello non era un telefilm e lei non voleva essere sottoposta a nessun intervento chirurgico.
«Mi spavento, Mamo, per favore, cerchiamo una soluzione.» Cosa avrebbe dovuto fare per convincerlo?

Mamoru scosse la testa, lasciò la sua guancia andando a poggiare la mano sul fianco destro coperto solo da un telo blu. Lei trattenne il fiato, mordendosi il labbro inferiore per celare il dolore.
«Usa, questa è peritonite, non basta prendere medicine.»

Una voce lo interruppe. «Eccomi qui, Mamoru!» E Usagi credé di svenire non appena l’anestesista, nel suo camice blu, entrò sistemandosi i guanti. «Pronti per iniziare?»

«No, no, no, ti prego Mamo-chan, no!» Se non avesse avuto la flebo e il dolore al fianco che le impediva quasi di respirare, sarebbe scesa dal tavolo e scappata lontano.
«Mamo-chan?» Il dottor Tomoe sollevò un sopracciglio, lasciandosi sfuggire un mezzo sorriso dietro la mascherina; il ragazzo non vi badò, sospirò cercando di trovare le parole giuste in grado di calmare l’amica.
«Te lo prometto, andrà tutto benissimo e quando ti sveglierai mi troverai accanto a te, a prenderti in giro per questa cuffietta che ti hanno messo.» 

«Non la voglio la cicatrice.» Iniziò a piangere come una bambina, capendo che non avrebbe potuto far nulla per evitarlo.

«Resterà solo un segno leggerissimo, te lo prometto.» E con quel sussurro, mentre avvertiva gli occhi del medico e delle infermiere addosso, Mamoru cercò di celare la tenerezza che gli occhi lucidi di lei gli trasmettevano; era come se cercassero di trattenerlo, trovando in lui un’ancora di salvezza per far fronte a un pericolo troppo imminente, dal quale lui non poteva però proteggerla se non operandola.

«Okay, Dottor Chiba, se la soap opera è finita, io direi di iniziare.» Tomoe con tono sarcastico fece notare la sua impazienza; essere svegliato nel cuore della notte dal rumore fastidioso del suo cercapersone lo rendeva nervoso, non c’era posto per le smancerie durante quello che era stato considerato un intervento d’urgenza.
«Non iniziare finché non torno» lo ammonì Mamoru, alzandosi e andandosi a lavare di nuovo le mani, lanciando un occhiolino alla ragazza. Lei lo seguì con lo sguardo finché non lo vide scomparire dalla sua visuale. Sentì il cuore scalpitare mentre il dottor Tomoe dava un’occhiata alla sua cartella clinica, prima di posizionarsi dietro di lei sullo sgabello.
Mamoru ritornò dopo poco, infilò i guanti e si avvicinò al tavolo.
«Andrà tutto okay, te lo garantisco. Adesso però fai un bel respiro e conta fino a dieci.» E a quelle parole che venivano pronunciate con dolcezza, dietro quella mascherina che seguiva il fiato del ragazzo, Usagi respirò profondamente, riempiendosi i polmoni, mentre vedeva l’anestesista iniettarle qualcosa nel tubo della flebo. Annuì lentamente prima di iniziare a contare. «Uno. Due. Tre. Quattro. Cinq…»
E Mamoru continuò: «Bisturi dieci.»
Era arrivato il momento di incidere la pelle.
 
 
 
Pensò di avere un macigno sulle palpebre quando tentò di alzarle; la vista era appannata, come se si trovasse in un luogo avvolto dalla nebbia. Era il senso di stordimento quello che prevaleva. Si accorse di essere sveglia, ancora viva. Il suo animo si alleggerì. 
«Hmm…» biascicò muovendo poco la testa, mentre pian piano la visione davanti a sé iniziava a farsi più limpida.

«Ti sei svegliata, finalmente.» E quella voce calda e confortante, come una coperta in una notte d’inverno, l’avrebbe riconosciuta ovunque, in qualunque circostanza. Cercò di mettere a fuoco l’immagine offuscata. Fu grazie al suono dei passi sempre più vicini che capì che lui la stava raggiungendo e, quando il materasso si mosse, ebbe la conferma di averlo lì, accanto a sé, mentre si sedeva sul bordo del letto e le stringeva la mano.
«Sei stata bravissima. È andato tutto alla grande.»

Iniziò finalmente a scorgerlo, notandogli segni di affaticamento sotto gli occhi, e apprezzò ancora di più quel suo sorriso rassicurante che, ancora una volta, era rivolto a lei. Ricordò il dolore così intenso da svegliarla nel cuore della notte, della sua incapacità persino di respirare che l’aveva costretta a telefonare ad Hana, e dell’intervento subìto nonostante i suoi tentativi di evitarlo.
«Non mi sento molto bene» sibilò portando una mano a coprirle il viso.

«Tranquilla, è normale, adesso inizierai a sentirti sempre meglio.» Mamoru regolò il flusso della flebo, allentandolo.

«I miei sanno che sono qui?» Ricordò di non aver avuto modo di informarli. Quando il dolore era diventato insostenibile persino per lei, Hana era sembrata la persona più adatta da chiamare.
«Mia madre è qui fuori, sta provando a rintracciarli, per via del fuso orario il telefono sarà ancora spento.»
La vide annuire lentamente e sperò che sua madre fosse riuscita a mettersi in contatto con Ikuko. Non aveva dimenticato neppure per un istante le parole tristi che Usako gli aveva ripetuto in sala operatoria.
Sono sola, sono tanto sola…
 
Nonostante l’avesse sempre considerata una ragazza viziata e capricciosa, per una volta si rese conto della dura realtà. Lei era davvero sola. Da quando la conosceva non l’aveva mai vista – a parte Minako negli ultimi nove mesi – con delle amiche. E anche Ikuko approfittava spesso del fatto che sua figlia non fosse più una bambina per lasciarla da sola e seguire suo marito Kenji nei viaggi di lavoro, rimanendo lontano dalla città per intere settimane. Usagi restava spesso da sola. In quel momento realizzò appieno il significato di quell’affermazione che rimbombava nella sua mente ancora una volta, e capì di più il dolore e la nostalgia che le leggeva negli occhi ogniqualvolta si parlasse del nonno.
Ricordò tutte le volte che lo incrociava sul pianerottolo. Lui usciva di casa per andare in ospedale e Satoru Tsukino entrava nell’appartamento della nipote dopo la scuola. Si facevano compagnia a vicenda e ciò influenzava il suo carattere rendendolo più docile e dolce.
Per un solo istante ebbe la conferma di non essersi mai sbagliato su Usagi: era stato proprio dopo la morte di Satoru che aveva iniziato a colmare quella mancanza con atteggiamenti infantili sempre pronti ad attirare l’attenzione dei genitori. Ciò che però otteneva non era quell’affetto che tanto bramava, bensì regali e consensi a fare ciò che voleva, pronti a sostituirsi a un abbraccio o a una chiacchierata fatta di confidenze e consigli tra madre e figlia. E la cosa più grave era che per sfuggire alla solitudine, tante volte si era buttata tra le braccia di ragazzi che lei stessa sapeva benissimo essere non adatti a lei.
Almeno, quella continuava a essere la sua opinione.
 
«Dai, li informeremo presto, nel frattempo c’è mia madre qui con te.» Cercò di non mostrarle il dispiacere che quelle frasi gli avevano trasmesso e alle quali inevitabilmente continuava a pensare vedendola in quel letto. Attese una sua reazione ma non la ottenne. «Ci sono io» aggiunse, come se fosse tutto ciò che lei dovesse sapere.
Continuò ad osservarla, attendendo una sua frase, una parola, anche una sola sillaba.
Lei però non disse niente.
«Sai, il dottor Tomoe è rimasto molto colpito da te e anche l’infermiera di sala» ridacchiò piano per mettere a tacere quell’opprimente silenzio.
«Li odio» rispose lei, decisa nonostante la voce flebile, «odio tutti i medici.»
Una risata, notando che la solita Usagi si stava svegliando. La provocò. «Odi quindi anche me?»
Lei scosse lentamente la testa. «No. Mai.»

E lui accennò un sorriso. Ci avrebbe scommesso in quella sua risposta, la conosceva già, però era bello sentirglielo dire. Vide la sua mano scivolarle dal volto e posarsi sul materasso, proprio accanto alla propria gamba, mentre una smorfia di fastidio le stropicciò le labbra secche. Usagi provò a renderle umide con la lingua, invano.
«Ho sete» mugolò trovando fatica a parlare per via della bocca amara.

«Usa, per ora è meglio non bere»  le spiegò come un sussurro delicato per le orecchie. «Dopo avrai tutta l’acqua che vorrai.»

Ma quelle parole non furono piacevoli quanto la sua voce.
«Ho sete Mamo, per favore dammi un sorso d'acqua.» implorava lamentandosi, cercando ancora una volta di togliersi con la lingua la sensazione di asciutto.
Mamoru si lasciò tentare da quell’immagine sofferente; non sapeva se fosse dipeso dal suo viso pallido, dalla sua bocca che esprimeva necessità o dai movimenti deboli delle braccia con le quali cercava di sistemarsi meglio, ma quando si alzò e versò un po’ d’acqua in uno dei bicchieri di plastica posti sul vassoio accanto al comodino, capì che in fondo non c’era nulla  di male in ciò che stava per fare.

«Ti bagno solo le labbra per ora» patteggiò, tornando a sedersi sul letto. Con delicatezza, le accarezzò la bocca con un fazzoletto umido, rimanendo attratto dai movimenti delle sue labbra che, carnose e avide, cercavano di dissetarsi impossessandosi di quel pezzo di carta bagnata che egli teneva in mano.

«Ancora…» supplicò.

Solo allora lui distolse lo sguardo, realizzando che la solita fossetta sopra il labbro superiore era stata coperta dall’ematoma, troppo esteso rispetto a come lo ricordava il giorno prima.
«Va bene così?» Lo disse piano, mentre poggiava ancora il fazzoletto sulla sua bocca. «Faccio male?»
Come avrebbe mai potuto farle del male? Usagi se lo chiese in silenzio; scosse lentamente la testa, donandogli un sorriso colmo di gratitudine.
«No. tu non me ne fai mai.» Quelle erano le uniche parole che la sua mente fosse in grado di pensare. Le pronunciò spontaneamente. Non poté fare a meno di continuare a fissarlo, notando quanta delicatezza ci fosse in ogni suo tocco gentile e premuroso. Attese di incontrare i suoi occhi e iniziò a parlar loro con i propri.

Grazie. Perché nel momento in cui avrei preferito morire piuttosto che essere operata, non mi hai trattata da bambina come al solito ma mi hai stretto la mano infondendomi coraggio e protezione.
Grazie. Perché hai mantenuto la tua promessa, facendoti trovare qui al mio risveglio con uno dei tuoi sorrisi più belli.
Grazie. Perché è bello sapere che, nonostante tutto, finché ci sei tu, io non sarò mai sola.

Sperò con tutta l’anima che nelle proprie iridi, lui riuscisse a leggere ciò che il cuore le urlava fino quasi ad esplodere, incapace di trattenere tutte quelle emozioni contrastanti e confuse che non riusciva a spiegarsi.
 
«Okay, più tardi avrai tutta l’acqua che vorrai.» Si alzò per posare il bicchiere sul vassoio, poi tornò a fissarle le labbra. «E dopo torno e ti porto una pomata per quello; non mi piace vederti così.»
Si meravigliò vedendola annuire, avrebbe scommesso in uno dei suoi soliti no.
 
«Mamoru.» Hana entrò nella stanza, richiudendo la porta delicatamente. Si avvicinò alla ragazza con il telefono in mano.
«Usagi, parla con la mamma» le sorrise, porgendole l’apparecchio e scostandole alcuni ciuffi dalla fronte. Esortò il figlio a raggiungerla davanti alla porta e bisbigliò:
«Allora, come sta? È tutto okay?»

«Sì, stai tranquilla, pian piano si sentirà sempre meglio.» La rassicurò con un sussurro, mentre le sue labbra disegnavano un sorriso sul suo volto; con un braccio la strinse a sé, sentendola sospirare. E mentre scrutò la ragazza annuire al telefono, attratto dalla sua espressione malinconica, capì che neppure per sua madre era stato semplice affrontare quella situazione nel cuore della notte, soprattutto considerando che Usagi aveva un’influenza particolare su di lei. Riusciva sempre a convincerla a fare ciò che voleva e ciò contribuiva a renderla viziata e ribelle.

«Mamo-chan…» E lui si scostò dalla madre per raggiungere quella voce flebile; lo fece a passo più svelto, non appena la vide stendere il braccio libero dalla flebo per porgergli il telefono. «Mia mamma vuole parlarti.»
 
 
 
Il brusio lungo il corridoio gli ricordò che un nuovo giorno era iniziato. Nuovi pazienti in sala d’attesa da visitare, nuovi interventi da effettuare e persone già operate da tenere sotto controllo. Sperò che l’ascensore arrivasse il prima possibile. Talvolta era l’unico posto in cui riusciva a trovare un po’ di tranquillità e silenzio, anche se per pochi istanti.
Sbuffò premendo per la seconda volta il pulsante d’acciaio prima affondare le mani nelle tasche del camice. Un rumore sordo lo distrasse non appena si voltò alla sua destra, attratto da una barella che veniva condotta verso la sala operatoria; si accorse solo allora che le porte si erano aperte. I pensieri iniziarono ad affollargli la mente sempre più insistentemente, come se non volessero lasciarlo solo in quella scatola che saliva e scendeva in continuazione; si sentiva in preda al panico, come se il tempo fosse suo nemico e, ogni secondo che passava, ogni lampeggiare dei vari pulsanti, gli urlava che si stava avvicinando sempre più al piano terra e a tutto ciò che esso rappresentava: scelte, inevitabili delusioni. Cercò di non farsi travolgere dall’ansia che iniziava a farlo soffocare sempre di più, rendendolo incapace persino di riflettere su quale sarebbe stata la decisione migliore.
“Che devo fare, adesso?” Una parte del suo cuore lo ripeté più volte, simile a un urlo interiore col quale implorava il suo cervello di aiutarlo a trovare una risposta. Invano.
Lasciò aderire la schiena alla parete e, mentre abbassava le palpebre, capì che, nonostante sperasse che nessuno rimanesse deluso da lui, ciò inevitabilmente sarebbe accaduto. Quel luogo gli sembrò sempre più stretto, inidoneo a procurargli l’ossigeno sufficiente per respirare e far ragionare la sua testa. Si riempì i polmoni più che poté, rimanendo in quella posizione ancora per un poco, fin quando le porte si aprirono e un sussulto uscì spontaneo dalle sue labbra.
«Ehi!» sibilò, imprecando tacitamente contro se stesso per non aver ancora trovato le parole giuste con cui introdurre il discorso.

«Ciao, ti cercavo…» E lui ne era consapevole. «Prendiamo un caffè, prima che vai a casa?» Si avvicinò a lui, sfiorandogli la guancia con la sua mano liscia.

Mamoru chiuse gli occhi, lasciandosi avvolgere dal profumo aspro e intenso della donna prima di percepire le sue labbra calde e morbide sulle proprie.
«Certo, amore» le sussurrò sulla bocca, «ne ho veramente bisogno.»
Le circondò la vita con un braccio, conducendola verso il piccolo bar situato vicino l’ingresso dell’ospedale.

«Hai per caso parlato con il primario per avere il venerdì libero?» C’era tanta speranza in quegli occhi luminosi come due rubini, e un’aura di entusiasmo sul suo volto coperto da un leggero filo di trucco, che il giovane medico provò un bruciore al cuore sempre più intenso, in grado di togliergli il respiro.

«Setsuna, amore, so che avrei dovuto parlare con Galaxia…» introdusse lentamente, come se le frasi potessero formarsi spontanee, «è solo che è stata una notte terribile: ho dovuto effettuare un’appendicectomia d’urgenza e…» Le parole lo lasciarono da solo, solo con colei alla quale voleva dimostrare giorno dopo giorno tutto l’amore che sentiva di provare solo per lei; la stessa donna a cui puntualmente faceva sorgere dubbi ogniqualvolta il nome Usagi veniva pronunciato dalla propria bocca, ogni volta che quella ragazzina era insieme a loro suscitando nella sua fidanzata quella gelosia che lui non riusciva ancora a spiegarsi.
Non voleva deludere Setsuna, voleva renderla felice, eppure non poteva neppure abbandonare quel piccolo coniglietto impaurito e sempre solo.

«Beh, parlale adesso e poi vai a riposarti» rispose con un sorriso. Era così semplice per la bella dottoressa.

Lui deglutì, provando a mandare al suo posto il cuore che sentiva in gola.
«In caso le parlerò più tardi, tanto non vado via.» Ringraziò il cielo per non dover incontrare il suo sguardo e notare la sua reazione: lo avrebbe fatto sentire ancora più in colpa di come si sentisse già; era come se il suo corpo fosse impreparato a incassare i colpi che la confusione interna stava tirando, era stato tutto inaspettato, troppo veloce per essere organizzato e quella sensazione iniziava a fargli esplodere la testa.
«Due caffè, per favore» ordinò al ragazzo dal ciuffo spettinato dietro il bancone del bar.
Dopo però, fu costretto a fissare la sua espressione stupita, soprattutto quando lei chiese: «Perché non vai via? Chi devi sostituire?»

«Nessuno.» E il caffè servito in una tazza di bianca ceramica lo aiutò a temporeggiare. «Setsuna, credimi, la preparazione all’intervento di ieri notte è stata estenuante.» Un sorso, e per una volta sperò che il liquido fosse così rovente da scottargli la lingua e avere il pretesto per non continuare e prendere tempo. Era caldo ma, sfortunatamente per lui, non troppo.
Lei aggrottò la fronte fissando il suo fidanzato con perplessità. Dov’era finito il Mamoru Chiba che vedeva il reparto di chirurgia come un campo di guerra in cui lottare e vincere sugli altri colleghi per ottenere gli interventi migliori? Dov’era l’uomo che amava e che considerava un’appendicectomia un intervento da novellini? Portò la tazza alla bocca, sorseggiando il suo caffè in attesa di capire meglio cosa stava accadendo.

«I miei hanno portato qui Usagi stanotte e l’ho dovuta operare d’urgenza.»

Ah ecco, Usagi c'entrava ancora una volta. Rimase intenta ad ascoltarlo.

Proseguì, sentendo sciogliere un po’ la tensione che aveva accumulato pensando a quel discorso e al modo in cui avrebbe voluto convincerla a rimandare il week end fuori città; in fondo, non era stato così difficile come aveva immaginato, forse si era preoccupato per nulla. «Era terrorizzata in sala operatoria, le infermiere mi hanno raccontato che hanno fatto fatica con lei prima del mio arrivo.»

Un sorriso, accompagnato dal rumore della ceramica che veniva allontanata verso la parte opposta del bancone. «Come sta adesso?» domandò. «Sono appena arrivata, non ho ancora guardato le cartelle cliniche.»

Mamoru annuì più volte. «Bene, clinicamente parlando, bene» spiegò. «È  il resto che non mi piace.»

Lasciarono quel piccolo luogo di ristoro gremito di uomini e donne nei loro camici bianchi, avviandosi di nuovo verso l’ascensore.
«Che vuoi dire?» Setsuna lo guardò con aria seria e sempre più curiosa.

«Niente, Setsuna, il fatto è che tutte le impressioni che ho sempre avuto su di lei adesso mi sembrano sempre più giuste.» Sbuffò, poggiando la schiena alla parete e incrociando le braccia sul petto.

«Mamoru, hai intenzione di parlare a mezze frasi tutto il tempo?» Un’occhiata eloquente e infastidita, prima di entrare in ascensore, seguita da lui.
«Non te lo so spiegare» introdusse premendo il pulsante che li avrebbe condotti al terzo piano, «è solo che da quando è morto suo nonno è cambiata, come se quella perdita l’avesse segnata irreparabilmente.»

Setsuna lo osservò con attenzione, notando il suo sguardo perso nel vuoto; aveva l’impressione che il suo corpo fosse lì con lei ma la mente no: quella era ancora una volta con Usagi.
«Scusami, a costo di sembrare insensibile, ma cosa c’entra con l’appendicectomia? Non capisco!»

E lui tornò a fissare i suoi occhi, notandoli spenti e confusi.
«Soffre» spiegò sperando di riuscire a farsi comprendere. «Soffre perché da quando è morto Satoru, lei si sente sola.»
Portò una mano ai capelli, facendo scorrere le dita tra le ciocche corvine e sistemandole all’indietro.
«Sai, io l’ho sempre considerata una ragazzina troppo viziata però stanotte, distesa su quel tavolo operatorio, con le lacrime agli occhi e tremante, non sai quanta tenerezza mi abbia fatto.»

Le porte si aprirono e alcuni infermieri entrarono; i giovani medici si affrettarono ad uscire e, solo quando ritornarono ad essere soli, Setsuna riprese:
«Beh, è normale, è una persona che conosci, è ovvio che tu fossi coinvolto» provò a mantenere la calma e mostrare la maturità che la contraddistingueva e che la faceva ammirare da molti colleghi, compreso lo stesso Mamoru. Nonostante sapesse che razionalmente non c’era stata malizia in quelle parole, sapeva però che si trattava ancora una volta di Usagi, la ragazza a cui bastava la semplice presenza per scatenare da sempre nel suo fidanzato tante emozioni contrastanti, e sebbene cercasse di scacciarla via, la frase “Non sai quanta tenerezza mi ha fatto” continuò a rimbombarle in testa come un martello pneumatico, logorandole il cuore. La razionalità lasciò posto all’istinto:
«A mio avviso non avresti dovuto neppure operarla!»

«Lei si fida di me e io non l’avrei fatta toccare da nessun altro.»

Bang! Dritto al cuore come una lama affilata. La donna si arrestò al centro di quel corridoio troppo affollato, incrociò le braccia al petto e fissò quegli occhi blu cerchiati da profonde occhiaie.  
«Arriva al punto, Mamo, devo iniziare le visite!»
C’era così tanta rabbia in quegli occhi sempre simili a due gemme preziose che per un attimo Mamoru capì che – per quanto lo avesse sempre desiderato – con la sua donna non poteva avere un rapporto di confidenze. Almeno non quando si trattava di Usagi. Ammorbidì i toni, posando le sue mani sulle spalle della ragazza.
«Il punto è che è impaurita dagli ospedali e anche se so che è molto infantile come ragionamento, dopo averla vista in quello stato ieri notte, vorrei che fin quando sarà ricoverata, possa sapere che ci sono io e che non è sola.»

Lei annuì, serrando le labbra così tanto da far formare tante piccole rughe d’espressione attorno alla bocca. «Ho capito.» Si allontanò da lui raggiungendo il bancone in fondo al corridoio. «Beh, allora resta qui, io vado a controllare le cartelle cliniche dei pazienti e inizio le visite.»

Mamoru la osservò allontanarsi sempre di più, accompagnata dall’ondeggiare del camice aperto. La vide arrestarsi poco prima di arrivare al banco delle infermiere, voltare la testa verso di lui mentre ciocche corvine della sua coda si sfilacciavano seguendo i suoi movimenti.

«Avete già avvisato i suoi?»

Lui non rispose, si limitò ad avanzare sempre di più diminuendo la distanza tra loro. «Non verranno.» Tono secco e deciso, unito a uno sguardo eloquente che valeva più di mille parole.

«Non verranno? Che vuol dire?» Setsuna spalancò gli occhi lasciando che un raggio di luce donasse loro le sfumature del rosso più intenso e brillante.

«Vuol dire che Ikuko mi ha chiesto se fosse il caso mandare all’aria le loro vacanze in Italia e tornare qui considerando che tra un paio di giorni Usagi sarà dimessa.» Lo disse tutto d’un fiato, incapace di continuare a tenere per sé quei commenti che nella sua testa dilagavano da quando aveva sentito la donna al telefono.

«Ti ha detto proprio così?» Neppure la bella dottoressa poté celare la sua indignazione.

«No, non esattamente, ma il concetto è questo.» Le sfiorò la guancia con il dorso dell’indice e accennando un sorriso aggiunse: «Ha solo mia madre e me, capisci adesso?»

E quel tocco delicato che le era mancato tanto per tutta la notte, quella voce calda e piena di dolcezza, quello sguardo con cui le trasmetteva tutto l’amore che provava per lei, le donarono un sorriso. La gelosia ancora una volta era stata spazzata via dalla razionalità: Mamoru, il suo Mamoru, aveva un cuore grande e un animo sensibile e lei lo amava anche per quello.
«Sì» gli sussurrò sulla bocca prima di schioccare un bacio sulle sue labbra carnose. «Vado a lavoro, ricordati di parlare con Galaxia dopo» aggiunse incrociando i suoi occhi.
Setsuna era comprensiva, ma il week end non andava messo in discussione. «Venerdì Usagi sarà già a casa e lei è terrorizzata dagli ospedali, non da casa sua, giusto?» Con un’occhiata eloquente sorrise ancora, prima di voltarsi e allontanarsi sempre di più da lui.

Mamoru rimase al centro di quel corridoio, inerme e incapace di dire qualsiasi cosa, anche perché non c’era proprio nulla che egli potesse obiettare: Usagi temeva gli ospedali ma casa di Hana, dove lui le avrebbe ordinato di trasferirsi in quel periodo, era difficile da temere. In quel momento capì che tutta la confusione e il timore che lo avevano logorato in attesa di quel discorso erano stati vani. Vani perché non era riuscito a confessare alla sua donna ciò che in realtà preferiva. Se fino alla notte precedente tutto ciò che aveva desiderato era fare un week end lontano dalla monotonia, dopo l’intervento si rese conto che voleva restare lì, cercando di attutire quello straziante senso di solitudine che Usagi avrebbe trovato fra le stanze vuote della sua abitazione. Voleva esserci anche per sua madre, aiutarla a prendersi cura di quella ragazza e alleviare quel senso di responsabilità da cui era stata colta all’improvviso come un fulmine a ciel sereno. Perché era così difficile da confessare? Perché tutto ciò che aveva a che fare con quella ragazzina doveva essere motivo di astio con la sua donna? Sbuffò, affondando le mani nelle tasche di cotone e avviandosi verso gli spogliatoi.
 
 
 
Se avesse dovuto descriversi in quel momento, il termine “svuotata” sarebbe stato il più appropriato, e non per via dell’appendice che le era stata asportata; era una sensazione angosciante che la logorava dentro sempre più intensamente, facendola sentire in balia alla solitudine e allo sconforto. Si guardò intorno. 
Crepe sul soffitto di quella stanza dalle pareti bianche si diramavano fino a scomparire dietro un armadio grigio a due ante. Spostò lo sguardo verso la finestra adiacente, attratta dalla tendina color panna dai bordi sfilacciati; un piccolo televisore era collocato su un braccio per pareti di fronte a lei ma non aveva voglia di accenderlo. Il silenzio era già interrotto dall'orologio che scandendo i secondi segnava le 15.30.
Decise di fare qualcosa, di ingannare il tempo, altrimenti quei giorni sarebbero risultati ancora più lunghi e pesanti di quanto aveva previsto. Voltandosi alla sua destra, allungò un braccio verso il comodino fin quando un dolore al basso ventre, attorno alla ferita, la fece pentire di quel gesto.
«Ahi» mugolò tornando a sdraiarsi; il dolore non si assopì e lei cercò di attutirlo portando una mano a massaggiare l’addome. «Dannazione, no…» Gli occhi iniziarono a bruciare, facendo uscire salate gocce di sconforto, e lei maledisse ancora una volta quella crudele solitudine. Singhiozzò, portando il braccio a coprirle gli occhi.
 
«Usako…» Sulla soglia della stanza 3006, Mamoru lo mormorò in mente, mentre un velo di tristezza gli coprì il volto; il pianto che la ragazza cercava di soffocare col braccio sul viso, e il suo corpo che si muoveva seguendo un respiro agitato, lo fecero sentire impotente. E invece tutto ciò che desiderava in quel momento era aiutarla, calmarla, e farle capire che lui sarebbe rimasto lì con lei e che tutto sarebbe andato bene. Respirò profondamente, assumendo un’espressione rilassata e sorridente prima di avanzare verso il letto.
«Se continui così ti disidraterai» cercò di ironizzare.

Usagi lasciò scivolare il braccio di lato, liberando gli occhi azzurri e umidi e posandoli su quelli stanchi di lui.
«Smettila di scherzare, mi sento male» ordinò, asciugando le guance con il dorso della mano.

Lui si arrestò quando le ginocchia toccarono il materasso, la guardò con aria preoccupata, e domandò:
«Cos’hai? Ti fa male la ferita?»

La paziente annuì, le labbra serrate per trattenere il dolore. «Non passa, Mamo-chan, non passa.» E il pianto riprese, senza vergogna di mostrarsi in quel modo, senza paura che lui potesse dire qualcosa di indelicato. Sapeva che non lo avrebbe fatto.

«Sei solo stordita, Usa» sussurrò, sedendosi sul bordo del letto e posando una mano sulla sua fronte. «Basta piangere, dai, così è peggio.» Non era un tono imperioso il suo, ma dolce e delicato, proprio come la carezza che lei avvertì sulla frangia; il suo viso sembrò ricevere un calore che iniziò a propagarsi per tutto il corpo.
Era una sensazione rassicurante e colma di conforto quella che percepì da quel contatto dolce, reso più intenso dallo sguardo premuroso e sorridente di Mamo-chan. Nessun antidolorifico avrebbe mai potuto sortire in lei lo stesso effetto. Il suo respiro iniziò a regolarizzarsi e un lieve sorriso dipinse le sue labbra secche e con alcuni lividi.
«Non è solo per lo stordimento, non è vero?» I suoi occhi erano ancora fissi su quelli di lei, consapevoli anche di ciò che lei non diceva. Non a parole, almeno.
«Volevo solo prendere quel libro» deviò l’argomento, facendo cenno con la testa verso il comodino accanto al ragazzo. «Tua madre ha portato qui le mie cose ma credo di aver dormito tutta la mattinata perché quando mi sono svegliata lei non c’era.»

«Sì, ho detto ai miei di andare a riposarsi» spiegò il medico. «Tu dormivi e se ti fossi svegliata ci sarei stato io a tenerti compagnia» aggiunse. 
Era fondamentale farle capire che non sarebbe rimasta sola in quell’ospedale. Non dopo averla vista piangere, non dopo che le sue parole "Sono sola… Sono tanto sola…” lo avevano torturato da quella notte, senza lasciargli un attimo di tregua.
«Volevi prendere questo?» Mamoru roteò il busto, allungando un braccio e afferrando l’oggetto posto sul comodino. Guardò la copertina rigida di un blu intenso come la notte e seguì con gli occhi le lettere dorate che spiccavano in alto, proprio sopra l’immagine di una ragazza in penombra illuminata solo dal chiaro di Luna.
«Moonlight.»

«Sì, grazie Mamo-chan» rispose, sollevando la mano dal materasso per prendere il libro tra le mani del ragazzo. Lui lo allontanò, alzando il braccio tanto da renderlo irraggiungibile per l’amica.

«Prima dimmi la verità, Usagi.» Era un compromesso molto difficile, lui lo sapeva, ma si era ripromesso di aiutarla, di confortarla e di esserci per lei, ma non poteva riuscirci se lei non glielo avesse permesso, se non si fosse confidata con lui.

Quegli occhi blu profondi e simili a un’ancora di salvezza erano ancora fissi sui suoi; iniziò a percepire il peso di quello sguardo sempre più insistente e per nulla intenzionato ad arrendersi finché non avesse ottenuto le risposte che chiedeva.
Usagi si lasciò andare. In fondo, di lui si fidava e ogniqualvolta aveva confidato i suoi dubbi e problemi a Mamo-chan si era poi sentita più leggera, compresa.

«Di’ la verità, è per i tuoi genitori?» Mamoru cercò di aiutarla ad affrontare l’argomento. «Avresti preferito sapere che stavano tornando qui, non è così?»

«No» lo spiazzò, con tono fermo e deciso.

Mamoru aggrottò la fronte, rimanendo a guardare quel viso stanco, dalle palpebre rosse e le labbra gonfie, in attesa di capire meglio quale fosse il vero problema.

«Ti sembrerà stupido, però ci sono momenti in cui vorrei essere come Minako» introdusse, «o come te.» Voltò lo sguardo dalla parte opposta, concentrandosi sulla tendina sfilacciata.

«Usa, come siamo io e Minako?» Lui non capiva cosa potesse avere in comune con una ragazza di vent’anni che studiava Giurisprudenza e faceva baldoria la sera. Che fosse perché entrambi erano di bell’aspetto? L’idea lo abbandonò un istante dopo. Usagi non avrebbe avuto nulla da invidiare loro. Lei era splendida ai suoi occhi. Pestifera e viziata ma splendida.

Lei alzò le spalle, rimanendo lontana da quegli occhi così profondi e blu in cui avrebbe potuto annegare.
«Minako ha Yaten, lui la ama, si prende cura di lei.» Una pausa, accompagnata da un sorriso nervoso. «E tu hai Setsuna… la ami e lei ama te.» Sfidò l’imbarazzo e si voltò. Lui era rimasto fisso a guardarla, non esitò.
«A volte, vorrei anche io sentirmi speciale per qualcuno… Vorrei soltanto che qualcuno potesse amare me, proprio me.» Sorrise, abbassando lo sguardo. «Lo so, è stupido come ragionamento da fare qui dentro.»

«Usa, tu sei speciale» sussurrò simile a una melodia delicata e triste, mentre la sua mano trovava quella di lei e la teneva stretta alla propria. «Arriverà l’amore anche per te, vedrai, dai solo tempo al tempo e tutto si sistemerà.»

Sentiva i suoi occhi addosso, con gentilezza. Percepiva quel conforto che la sua mano infondeva con dolcezza, e per un attimo credé di provare di nuovo quel bruciore al cuore che aveva avvertito la sera in cui lui l’aveva riportata a casa dall’altura. Quelle parole erano così sincere e piene d’affetto che le donarono un sorriso amaro.
«No, Mamo, non arriverà mai, non è mai arrivato.» Incrociò i suoi occhi e riprese: «I ragazzi non sembrano interessati ad amare me.»

«Sì che arriverà, e sarà quello giusto che ti farà battere il cuore come non ha mai fatto nessun altro… e allora capirai che è valsa la pena aspettarlo.»

Usagi sospirò, non sapeva se le parole di Mamoru sarebbero diventate realtà ma di certo avevano rappresentato una carezza confortevole per il suo cuore. Annuì, stringendo ancora più forte la mano del ragazzo.
«Grazie Mamo-chan, ti voglio bene.» Lui non avrebbe mai potuto comprendere quanto gliene volesse. Si finse offesa e continuò. «Anche se mi hai lasciato una cicatrice che terrà lontano i ragazzi!»

Mamoru rise, lasciandole la mano. «Ti voglio bene anche io, anche se sei terribile e mi hai fatto vedere l’Inferno ieri notte prima dell’intervento!» Forse la tensione non era stata generata dalla paura di lei. Forse avrebbe provato quella sensazione a prescindere. In fondo, avrebbe dovuto operare lei, la sua Usako. Forse Setsuna aveva ragione, era troppo coinvolto.
Tornò serio subito dopo, lasciando che l’istinto parlasse per lui, che a volte con le parole non era bravo come con il bisturi. «E fidati, sei così bella che se un ragazzo guardasse la cicatrice vorrebbe dire che non capisce nulla.»
Si pentì subito dopo, forse aveva parlato troppo. Le gote della ragazza che si tingevano di un rosso pallido lo fecero riflettere. Era ancora più bella quando arrossiva. Cambiò discorso, per non metterla a disagio. 
«Allora, di cosa parla questo libro?» chiese rigirandoselo tra le mani.

«Parla di un amore bellissimo, di un uomo disposto a tutto pur di salvare la ragazza che ama da un lavoro squallido…»

Il ragazzo aggrottò la fronte, sorridendo per quell’espressione entusiasta che le dipingeva il volto.
«Vedi, questi libri fanno arricchire gli autori ma rovinano le ragazze che si convincono che la realtà sia come nei romanzi.»

«Oh no! È una storia reale, accaduta a New York all’autore e alla sua fidanzata.»  

«Usa, ma che ne sai? Non credere a tutto ciò che leggi o ascolti, a volte sono trovate pubblicitarie per rendere la storia più credibile.» Aprì il libro, sfogliandolo a mo’ di ventaglio.

«Io ci credo» controbatté lei, «voglio crederci… ho bisogno di crederci.»

Le pagine si fermarono a quasi metà libro, e il giovane medico venne attratto da un capoverso:
 
Solo due persone sensibili come noi potevano però scorgere i sentimenti provati dall’uno per l’altra. E li avvertivamo, quella notte, tra le molte persone interessate solo al suo corpo1.
 
Sfogliò ancora, finché le pagine si fermarono di nuovo a più della metà del libro. Seguì le righe con gli occhi:
 
Il Moonlight era un luogo in cui entrare e trovare il piacere dei sensi grazie a tante ragazze che si muovevano sinuosamente, in mini abiti, scatenando le fantasie più perverse che un uomo potesse mai osare fare;
il Moonlight era la passione che si avvertiva, mentre l’adrenalina nasceva nel corpo e faceva bollire il sangue dentro le vene, alla vista delle curve mozzafiato e degli sguardi ammiccanti che tutte le ragazze più belle di NYC dedicavano ai clienti.
Il Moonlight era soddisfazione sapendo che non c’era bisogno di parlare, di chiedere; un solo incrocio di occhi bramosi e ogni desiderio carnale veniva appagato.
Il Moonlight era un locale magico: si entrava per soddisfare i sensi e qualche volta, come nel mio caso, si trovava l’Amore.
Assurdo, vero? Beh, no se la Città è NYC!1
 
Lo richiuse, porgendolo all’amica e alzandosi dal letto. «Non è il genere che fa per me!»

Lei sorrise, continuando a guardarlo. «Torni a lavoro?»

«No, fino a domani mattina niente lavoro.»

Per un attimo lei non capì ma quando lui le donò uno sguardo, di quelli che parlavano da soli, il suo cuore sembrò sciogliersi come neve al sole.
«Vai a risposarti, Mamo-chan» rispose con premura e gratitudine, «io sto bene e tu sei stanco.»

«Stai tranquilla» la rassicurò; affondò una mano nella tasca dei pantaloni e riprese: «Vado a parlare con il primario e poi torno.»

«Va bene, Mamo-chan.» La ragazza terribile e pronta sempre a lamentarsi si era dissolta, lasciando posto una fanciulla dolce e gentile; realizzò così di non essersi mai sbagliato su di lei. Tutto ciò che serviva a Usagi era affetto, tutto ciò che desiderava erano premure e dimostrazioni che qualcuno la considerasse speciale. Strizzò l’occhio e lasciò la stanza, rincuorato dal fatto che per un po’ non sarebbe rimasta sola coi suoi pensieri. Moonlight le avrebbe tenuto compagnia.
 
 
 
«Posso parlarti un attimo?» Mamoru aprì la porta dopo aver bussato, senza attendere il permesso ad entrare.

La donna sollevò gli occhi da alcuni fogli che era intenta a leggere, comodamente seduta sulla sua poltrona dietro la scrivania. «Certo, accomodati pure, ho qualche minuto prima di fare il giro in reparto.» Scostò dalla spalla alcune ciocche bionde dalle sfumature rossicce, prima di riprendere. «C’è qualcosa che non va?»

«No, tutto okay,» rispose lui, prendendo posto su una delle due sedie di fronte alla dottoressa dal camice bianco su cui spiccava una massiccia collana d’oro giallo. «Volevo chiederti un favore… Sempre se è possibile, sia chiaro!»

Il primario di chirurgia sorrise, aggrottando di poco la fronte. «Dimmi, se posso volentieri.»

«Volevo chiederti se venerdì potessi concedermi un giorno di ferie.» La guardò negli occhi e cercò di essere più convincente. «Sai, è da tantissimo che non prendo un giorno libero, non te lo chiederei se non fosse importante.» Osservò il suo volto. Aveva uno sguardo enigmatico, degli occhi nocciola dai quali non era quasi mai possibile capire che cosa stesse pensando. Deglutì, immaginando che non avrebbe mai concesso un giorno libero con così poco preavviso. E in parte si sentiva rincuorato; forse in quel modo avrebbe dimostrato a Setsuna di averci provato, e allo stesso tempo, avrebbe potuto fare ciò che era giusto: rimanere lì dove desiderava rimanere. Per Usagi e sua madre.

«D’accordo» fu la sua risposta, decisa e secca. «Prendi pure il venerdì!»

Lui la guardò incredulo, e mentre lei gli sorrideva con labbra serrate e sguardo eloquente, avvertì una sensazione di delusione e stupore farsi strada dentro di sé, fino a raggiungere il cuore e sentirlo stringersi nel suo petto.  
«Che c’è? Non sei contento?» Quel tono lo avrebbe classificato come un tono di sfida.

«No, no, certo che no» rispose, «cioè, sì, ne sono contento.» Si alzò di scatto, sperando che la donna non si fosse accorta della sua reazione contraddittoria alla richiesta fatta. Accennò un sorriso e voltò le spalle, avviandosi verso la porta.

«Grazie, Galaxia, per la comprensione, ti auguro una buona giornata.» Richiuse la porta alle sue spalle, poggiando la schiena alla parete e sospirando con gli occhi chiusi. Cercò di convincersi che in fondo era meglio così. Erano solo tre giorni e sua madre se la sarebbe cavata alla grande con Usagi, e quando sarebbe ritornato, l’avrebbe aiutata a prendersi cura di lei. Si scostò dal muro e cercò di dipingersi sul volto un’espressione contenta. Era giunto il momento di dare la bella notizia alla sua fidanzata.
 
 
 
«Sono io, volevo informarti che è andato tutto bene.»

Dall’altro capo del telefono, la donna tirò un sospiro di sollievo, iniziando a sentirsi più leggera. «Grazie. Grazie davvero!»

«Sei sicura che sia stata una buona mossa?» L’interlocutrice lo domandò dubbiosa. «Insomma, quando tornerete, lui sarà ancora più contento di rivederla dopo tre giorni; non dirmi che non ci hai pensato.»

Setsuna annuì, anche se Galaxia non poteva vederla. «Sì che ci ho pensato.»

«Inoltre questo favore ti costerà doppi turni al vostro ritorno» continuò con sicurezza, «non ti è venuto in mente che lui potrebbe approfittare della tua assenza per fare le visite a domicilio

Setsuna si sentì pervasa da un senso di rabbia che le fece battere il cuore più forte, come se tutto stesse sfuggendo al suo controllo.
«Galaxia, credi che non abbia pensato a tutto questo?» Lei non era una stupida, neppure ingenua. «So bene tutto questo, ma cosa dovrei fare?» il tono della sua voce si alzò d’istinto, mentre il respiro si affannava. «Lo vedi che anche se è distrutto è da ieri che non torna a casa per stare con lei? E questo solo perché lei è Usagi.» Sospirò, cercando di calmarsi. «Non lascerò che passi anche il week end con lei.»

Sentì un sospiro, e le parole dell’amica e complice. «Lo sai che non è tenendolo lontano da lei per tre giorni che riuscirai ad averlo tutto per te anche quando tornerete, non è vero?»

«Lo so, ma fidati, a noi serve solo una vacanza per ritrovare la nostra complicità, lontano da tutto.» Fece una pausa e aggiunse. «E soprattutto da lei.»

«Setsuna, spero tu possa aver ragione.»

«Non so se ho ragione, ma una cosa è certa: non permetterò che una ragazzina si metta tra noi. Lo amo troppo e farei di tutto per lui.»

Il primario sorrise. «Buona fortuna, tienimi aggiornata, mi raccomando.» Si alzò dalla poltrona e concluse. «Vado a fare il giro del reparto, a dopo.»

La donna dagli occhi color rubino chiuse la telefonata, riponendo il cellulare all’interno della tasca del camice. Sospirò, cercando di calmarsi e di assumere un’espressione serena. Doveva farsi trovare sorpresa quando lui le avrebbe detto dell’incontro con Galaxia.
 
 
 
Quando attraversò il corridoio per cercare Setsuna, la stanza 3006 gli venne incontro, ritrovandosela alla sua sinistra. La porta era semi aperta e la voglia di entrare a controllare fu talmente tanta che si concesse di farlo. O forse era solo un senso di colpa a cui non riusciva a dare una spiegazione del tutto razionale. Decise di fermarsi per un po’. Avrebbe parlato con Setsuna quando lei avrebbe terminato il turno. Spinse la porta e si arrestò subito dopo, avvertendo una sensazione così strana ma allo stesso tempo tanto bella che gli scaldò il cuore come non era mai successo prima. Non con Usako, almeno.
Ad ogni passo delicato, col quale cercava di non far rumore con le suole delle scarpe, un sorriso che nasceva da dentro e metteva in subbuglio il suo animo gli incurvò le labbra. Rimase immobile, vicino al letto, osservando la ragazza che con gli occhi chiusi riposava serenamente. Gli sembrò simile a una di quelle protagoniste di favole per bambini. Deglutì, incapace di distogliere lo sguardo dal viso incorniciato da tante ciocche dorate che le ricoprivano le spalle e il petto prima di rivestire parte del materasso. Il suo corpo continuava a muoversi lentamente, seguendo un respiro regolare. La sensazione inspiegabile, anche per un medico come lui, divenne più intensa, così tanto che per un istante gli sembrò che il suo organo vitale stesse per bruciare. Con accortezza, cercando di non svegliarla, sollevò il libro aperto che la ragazza teneva sul ventre con la mano libera dalla flebo. Lo richiuse, posandolo sul comodino. Si voltò a guardarla di nuovo, come se non riuscisse a farne a meno e per lui fu necessario farlo, doveva farlo se voleva alleviare quella sensazione che lo tormentava da quando era entrato nella stanza. Si chinò verso di lei e con dolcezza premette le sue labbra sulla fronte fresca e libera dalla frangia della ragazza. Stava già meglio. Decise di lasciarla riposare ma non di lasciarla da sola; sedette su una poltroncina accanto al letto e, dopo averla osservata per l’ultima volta, chiuse gli occhi con quell’immagine ancora in mente.
 
 
La donna scosse la testa, lasciando uscire un sospiro colmo di rassegnazione ma non di sorpresa. Rimase davanti alla porta della stanza 3006 ancora per qualche istante. Aveva già visto troppo. L’unica cosa che sperò mentre attraversava il corridoio era che la sua amica Setsuna non vedesse mai una scena del genere. Avrebbe avvertito solo dolore. Capì che in fondo la bella dottoressa non era così esagerata e ossessiva per come l’aveva descritta inizialmente, quando l’aveva implorata di aiutarla a tenere alla larga il suo fidanzato da quella ragazzina. Si era sbagliata, capì.
Su una cosa però era ancora certa. Non sarebbe bastato un week end romantico a togliere dalla testa di Mamoru quella Bella Addormentata.


 



 
Il punto dell’autrice.

28.05.2020

Di questo capitolo mi sono limitata a sistemare un po' lo stile e la punteggiatura senza apportare modifiche. Rispetto ai precedenti, l'ho trovato migliore. Per ora va bene così.

Alla nota 1, molti di voi avranno riconosciuto pezzi della mia storia Moonlight, pubblicata qui su EFP. Per chi non lo sapesse, Moonlight, il libro che ha letto Usagi in questo capitolo, è lo stessa storia che ho scritto io e pubblicato qui ormai due anni fa. Sembrerà forse un po’ megalomane come idea però a me piaceva, spero sia stata gradita anche da voi. 
Ringraziandovi ancora una volta, tutte quante, per aver letto e per l’affetto che dimostrate sempre nei miei confronti, ci tenevo a dire Grazie a Federika21 per alcuni chiarimenti in merito all’appendicectomia, dato che io non ho mai avuto una tale esperienza.
Questo capitolo è dedicato a tutte voi, ragazze, sperando sia potuto piacere e soprattutto che non abbia deluso le vostre aspettative. Se vi va, sarei felice di un vostro parere.
Un bacione, a prestissimo!

Demy

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Capitolo 5
*** Flashback - parte prima ***


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Capitolo 5: Flashback - parte prima
 
«Avanzo mangiando e… Dama!» esclamò Usagi, battendo le mani mentre la sua bocca si apriva in una espressione di soddisfazione. Guardò di fronte a sé. Hiroshi nella sua polo aragosta annuiva, una curva sulle labbra sottili ad accentuare le rughe d’espressione attorno alla bocca e agli occhi. 
«Hai vinto ancora una volta» affermò con tono pacato riposizionando le pedine sui quadrati neri della scacchiera. «Brava, Usagi.» 
Era troppo tranquillo. «Secondo me mi hai lasciata vincere ancora una volta» sentenziò strofinando le mani sul cotone azzurro della lunga gonna. Il suo entusiasmo lasciò posto alla deludente consapevolezza. Uffa.
«No. Ma che dici, Usagi-chan, non avevo riflettuto sul fatto che mangiando la tua pedina ti avrei lasciato lo spazio per arrivare a Dama.»
A parere di lei, non era stata una semplice distrazione. «Dai, ti do la rivincita» gli rispose distendendo la fronte per rinforzare il tono magnanimo, e portò una mano sul tavolo per aiutarlo a completare la sistemazione delle pedine bianche.

Come una spettatrice teatrale, Hana rimase a osservarli poggiata allo stipite della porta del salone. Di fronte a sé, l’ampia vetrata faceva da sfondo al tavolo quadrato a scacchiera. Usagi muoveva una pedina e, nell’attesa della mossa avversaria, guardava attraverso il vetro che mostrava il parcheggio retrostante del palazzo.
Quell’immagine le apparve una chiave per ritornare indietro nel tempo.

«Hanno suonato, va’ ad aprire» le aveva ripetuto la sua mente, ma a lei non era importato. Quel suono acuto prima o poi avrebbe smesso di riecheggiare invadente, l’avrebbe lasciata in pace, sdraiata nel buio della sua camera da letto dopo aver capito che non aveva senso fare nulla, se non stringere al seno il gatto di peluche con la mezza luna sulla fronte. Era il preferito di Lei, se lo trascinava ovunque. “Luna!” La sua vocina che parlava a quel pupazzo albergava nella memoria come un tormento. Lei non era più lì a riempire il silenzio con le sue filastrocche e le scenette che metteva in atto insieme a Luna solo per lei: la sua mammina. I ricordi squarciavano l’anima come coltelli affilati attraverso le immagini che affollavano la sua testa, infrangendo il suo cuore senza sosta. Il campanello aveva suonato ancora. Lei aveva sospirato. Che ore erano? La sveglia sul comodino aveva segnato le 11:00.
“Devi combattere, devi farlo per tuo figlio, lui ha bisogno di te.” 
Poteva essere Mamoru, chi altro avrebbe continuato a insistere? Lui aveva sicuramente dimenticato le chiavi di casa, quel periodo aveva messo a dura prova anche un ragazzo assennato come suo figlio. Doveva farsi forza per lui. Aveva preso un profondo respiro per rilasciarlo all’aria, cercando di continuare ad affrontare la realtà.
«Buongiorno, mi scusi per il disturbo, sono Ikuko Tsukino, la sua nuova vicina di casa» aveva pronunciato dietro un sorriso la donna dai lunghi capelli blu di fronte a lei. «Mio marito e io ci siamo trasferiti ieri sera qui accanto, mi faceva piacere presentarmi.» Gli occhi nocciola della nuova inquilina erano rimasti in cerca di empatia. «Anche a mio marito avrebbe fatto piacere conoscervi ma, se avessi atteso la fine dei suoi impegni lavorativi, credo avremmo fatto questa presentazione a Natale.» Aveva sperato di apparire socievole, di riempire il silenzio stimolando una frase, ma lei era rimasta spiazzata, incapace di ricambiare gentilezze. 
Una voce l’aveva distratta nuovamente dalla sua realtà ovattata. «E io sono Usagi. Ciao!» Era una bambina, sbucata da dietro l’ampia gonna lunga di Ikuko. I suoi occhi azzurro cielo le illuminavano il viso paffuto; il vestito, dalle maniche a sbuffo color carta da zucchero, aveva reso la sua carnagione chiara ancora più delicata; portava i capelli biondi in due codini alti, simili agli odango. Era la moda del momento, lei lo sapeva bene. Guardarla sorridere le aveva pugnalato il cuore.
“Perché tutto questo?” si ripeteva come una nenia. Avrebbe voluto dire di andare via, che non stava molto bene, o magari sperava che quelle due figure di fronte a sé intuissero che il suo abito nero non rappresentava una scelta casuale.
«Prego, entrate pure, io sono Hana Chiba» le era apparsa la frase più consona da proferire.
Usagi aveva aperto la bocca, come se fosse entrata in un negozio di giocattoli, appena aveva notato il tavolo in noce con la superficie a scacchiera di fronte l’ingresso del salone. «Oh… che bello!» ed era corsa a osservarlo da vicino, sedendo sulla sedia predisposta per uno dei due giocatori. Aveva poggiato il braccio sul tavolo, a mo’ di cuscino per la guancia e aveva iniziato a spostare alfieri e Re, a caso, seguendo un percorso immaginario.
«Usagi!» Ikuko aveva cercato di richiamarla, scusandosi per il comportamento della figlia, ma lei non gli aveva dato la stessa importanza. In quel periodo non le importava più di nulla.
«Non si preoccupi, la lasci giocare, quella scacchiera è stata acquistata per mio marito ma non ha più tempo per esercitarsi.» E neanche più voglia di partecipare al torneo di scacchi al quale si era iscritto prima della tragedia. «Purtroppo non è in casa altrimenti anche lui avrebbe avuto il piacere di conoscervi.» Aveva usato una frase di circostanza ma sapeva che neppure Hiroshi aveva interesse per qualcosa. Ultimamente stava poco in casa, affrontava il dolore lontano da quel luogo intriso di ricordi. Lei lo comprendeva ma non le importava più neppure di attraversare il dolore insieme a lui. Nulla aveva più veramente un senso.
Parlare con Ikuko l'aveva distratta dal proprio mondo, per qualche istante si era sentita più leggera. Quella bimba aveva continuato a parlare agli scacchi come se fossero state persone; tutte le bambine avevano questo modo di trattare le bambole o i peluche, lei lo ricordava. Usagi aveva attirato l’attenzione con la sua vocina stridula, mentre continuava a divertirsi muovendo entrambi i colori degli alfieri. Dalla sua prospettiva, era apparsa avvolta da una luce calda proveniente dall’esterno.
«Beh, allora vorrà dire che organizzeremo una cena a casa mia non appena i nostri mariti riusciranno a essere liberi.» Ikuko lo aveva proposto con gentilezza. Lei aveva percepito la voglia nella sua vicina dagli occhi castani di istaurare un buon rapporto di vicinato. Avevano aspetti in comune, come mariti sempre assenti e bambine-
Era il caso di scusarsi e mandarle via.
«Hana, giochi con me?» Usagi aveva voltato lo sguardo, i suoi occhi avevano fatto capolino dalla guancia che, premuta sul braccio, appariva più paffuta. Quelle iridi erano sembrate un tutt’uno con quel vestito azzurro. Le era sembrata un angelo. Per un istante le era piaciuto credere che non fosse stato un incontro casuale, in un momento altrettanto casuale, con parole pronunciate a caso. Forse era tutto ciò che il suo cuore aveva bisogno di immaginare. Quegli occhi erano restati fissi sui propri, la continuando a supplicarla; si sentì in colpa per ciò che stava per dire. Qualcosa di inspiegabile l'aveva spinta a ricredersi.
«Mi spiace, tesoro, ma io non so giocare» aveva deciso di rispondere accennando un sorriso. Era una bambina dolce, non aveva colpe.
Il silenzio imbarazzante aveva sicuramente indotto Ikuko a parlare. «Hana, è stato un piacere conoscerla, noi adesso andiamo a casa, si è fatto tardi.» La donna aveva richiamato l’attenzione della figlia ma lei aveva scosso la testa, le lunghe ciocche erano vibrate all’aria. «No, aspetta, voglio capire come si gioca con questi. Hana, posso restare?»
Il cuore di Hana si era sciolto a quella lamentela, uno strano calore l’aveva riscaldata a quella richiesta; qualcosa dentro di lei aveva sentito il bisogno di accontentare quella bambina. «Non si preoccupi, se vuole può rimanere qui, tra un po’ rientrerà mio figlio, lui sa giocare.»
Hana era rimasta per tutto il tempo seduta sul divano a fissare Usagi immersa nel mondo degli scacchi. A volte gli alfieri saltavano, altre si trascinavano sulla scacchiera, altre ancora assumevano la sua voce. A volte quella bimba si sentiva osservata e si voltava verso di lei donandole un sorriso prima di ricominciare a giocare.
Mamoru era rientrato poco dopo. La aveva trovata persa in quella immagine di fronte a sé. 
«Mamma, ma questa bambina è la figlia dei nuovi vicini…» Lui l’aveva incrociata la sera precedente nell’androne del palazzo. Lei aveva annuito, guardandolo con occhi lucidi. Mamoru si era seduto accanto a lei stringendola a sé. «Stai bene?» le aveva domandato con tono preoccupato. Lei aveva annuito, accarezzandogli una guancia sbarbata. «Si chiama Usagi» gli aveva chiarito.
«Ciao Usagi.» Mamoru aveva attratto la sua attenzione e le aveva mostrato la lingua in una smorfia divertente. Usagi aveva sussultato a quel gesto inaspettato. Aveva sicuramente provato vergogna, voltando la testa verso la vetrata come a volersi nascondere. Lei l’aveva scorta sorridere tra sé dal riflesso della vetrata prima di si girarsi verso di lui, offrendogli una linguaccia accompagnata da un effetto sonoro. «Uhm…»
Alla vista di quegli occhi socchiusi per concentrarsi meglio sull’espressione dispettosa di chi si difende rincarando la dose, lei aveva trovato la forza per accennare un sorriso. Per un attimo aveva realizzato di essersi distolta dal pensiero di quella vocina che, dentro la sua testa, continuava a chiamarla mamma e bere tè con i peluche. Per un po’ si era sentita meno vuota.
«Gioca con lei, Mamo-chan.» Lo aveva sussurrato con uno sguardo eloquente e, in quegli occhi blu sofferti di chi aveva pianto per un mese intero, era certa che suo figlio avesse letto una richiesta d’amore. Amore per ciò che ancora aveva nel cuore. Amore per ciò che si illudeva di non dover lasciare andare. «E mi raccomando, lasciala vincere, è solo una bambina.»
 
«Amore, va tutto bene?» Hiroshi la riportò alla realtà. Di fronte a sé, lui e Usagi la fissavano. 
«Oh sì, sai che mi piace guardarvi giocare.»
«Hana, vengo ad aiutarti con il pranzo!» L’orologio al polso di Hiroshi segnava le 12:00; Usagi si rese conto che era trascorsa già un’ora dalla prima partita. 
«Oh, no, Usa-chan, continuate pure, e poi voglio che per ora non fai molti movimenti. La ferita è ancora fresca.» E suo figlio era appena partito per il week end con Setsuna. Voleva evitare di dover affrontare eventuali imprevisti fino al suo rientro. 
Hana voltò lo sguardo per ritornare alla quotidianità. C’erano le zucchine da bollire e le patate da pelare. Per un istante la coccarda blu sulla cornice attirò la sua attenzione dalla mensola della parete attrezzata. All’interno del portafoto, Hiroshi in una camicia nera sorrideva stringendola a sé con un braccio, mentre l’altra mano alzava in alto uno scacco d’argento a forma di Re per essersi classificato secondo al torneo di scacchi. Al suo fianco, Mamoru teneva le mani sulle spalle di Usagi, posta davanti a lui. Entrambi indossavano le magliette bianche sulle quali lei aveva fatto stampare in azzurro Team Hiroshi. Apparivano felici. Rifletté sul fatto che quella foto era stata scattata circa un anno dopo il giorno in cui Usagi aveva varcato per la prima volta l’ingresso di casa andandosi a sedere al tavolo a scacchiera. 
Negli anni, Usagi non aveva imparato a giocare, se non a dama, ma la sua ingenua insistenza a imparare, aveva permesso a suo marito di ritornare a sedersi a quel tavolo per insegnarle, finendo con il riprendere ad esercitarsi. Lo aveva incoraggiato a partecipare al torneo, lei era così curiosa di assistere a una vera e propria gara di scacchi. Aveva fatto sì che lui ritornasse a vivere il dolore in quella casa; senza saperlo, le aveva restituito il suo Hiroshi-chan.
Usagi era entrata in quella casa quando il sole si era spento e le tenebre avevano trovato stabile dimora nei loro cuori. Non era stato semplice, l’oscurità era sempre presente però quando lei arrivava, era come se portasse con sé quella luce calda che le aveva visto quella lontana mattina di agosto di dieci anni prima. Quella volta, le era sembrata provenire dalla vetrata, pronta ad avvolgere quella bambina, e invece la luce Usagi la portava con sé, era parte di lei. Quell’immagine aveva un valore che andava oltre l’apparenza, aveva voluto incorniciarla ed esporla per ricordarlo. Nella vita spesso si cade, si perde, ma con fatica e tempo è possibile ricominciare a vivere. Accarezzò il vetro con il pollice, dando l’idea che volesse rimuovere pulviscoli di polvere depositati in superficie, e si avviò in cucina a preparare le patate al forno. Usagi ne era ghiotta ed era appena stata dimessa dall’ospedale; viziarla con i suoi cibi preferiti le sembrava una buona idea. 

 
 
 
 
Ritornò a casa dopo pranzo per riposare un po’. Il borsone ancora sul suo letto chiedeva di essere svuotato. Usagi lo fissò poggiando la schiena alla fresca parete della sua camera. L’oggetto dalla forma rettangolare restava in attesa, un fascio di luce fioca proveniente dalla finestra ne rischiariva i coniglietti bianchi ai lati, morendo sulle stelle e i cuori del suo copriletto. Aprire la cerniera e togliere i vestiti, beauty case e libri dal suo interno avrebbe significato che la brutta esperienza in ospedale era terminata quel venerdì mattina. 
 
Mamoru l’aveva riaccompagnata a casa, nonostante Hiroshi e Hana avessero insistito per andare a prenderla e portarla con loro. Neppure lei era riuscita a convincerlo adducendo che era da tre giorni che le era rimasto accanto, che poteva andare a casa a prepararsi per il week end.
Aveva portato quel borsone dalla camera di degenza all’auto, e dal parcheggio fino all’appartamento, per non farle fare il minimo sforzo. Lo aveva adagiato sul letto come aveva suggerito lei. Aveva mantenuto uno sguardo serio, a tratti rammaricato, forse pensieroso. Lei avrebbe voluto chiedere per comprendere cosa lo turbasse, eppure era rimasta in silenzio insieme a lui. Ritrovarsi in compagnia di Mamoru alimentava una sensazione di pace e benessere, il silenzio permetteva di creare una sintonia che non voleva perdere. 
Dalla notte sull’altura di periferia, aveva iniziato a osservarlo con attenzione; il senso di protezione che le trasmetteva attraverso i piccoli gesti lo facevano apparire avvolto da un’aura sensuale; quella consapevolezza le era rimasta addosso, rimarcata dalla sua capacità di fissarsi su ciò che avrebbe dovuto non evidenziare. Invece, inevitabilmente, Mamoru contribuiva a instillarla, alimentandola ogni giorno con nuovi gesti dolci e affettuosi, acquisendo nei suoi pensieri una nuova luce che le scioglieva il cuore, che glielo incendiava quando lui la fissava o le sorrideva. 
La aveva resa più taciturna in sua presenza, incapace di fare dispetti e linguacce, e timorosa di apparire una bambina che arrossiva quando incrociava i suoi occhi. Che guaio!
«Alzo io la serranda, non fare sforzi» aveva esordito nella penombra della camera. 
«Mi raccomando, Usako, disinfetta la ferita e applica un cerotto nuovo ogni giorno» le aveva detto dopo, porgendole una boccetta e uno scatolo di cerotti larghi da medicazione. «Io resterò via solo tre giorni.» E, con quella frase, gli occhi di Mamoru si erano incupiti. «Ma tu chiamami se stai male.» E il suo tono aveva voluto farsi presenza nonostante la lontananza.
Si era limitata a distendere le labbra, mentre i suoi occhi erano rimasti incatenati a quelli blu di lui. Chissà se Mamo-chan aveva scorto il dispiacere nel doverlo lasciare andare. Aveva annuito. 
«Non ti preoccupare, Mamo-chan, piuttosto, pensa a divertirti e a rilassarti. Io starò bene, ci saranno Hana e Hiroshi con me. Magari riprendiamo a giocare a dama.»
Aveva pensato a un modo per ingannare il tempo fino al suo ritorno, espedienti per non avvertire sempre di più quella mancanza che già in quel momento si era fatta ingombrante. Non avrebbe voluto farlo stare in pensiero, avrebbe preferito vederlo sorridere, scorgere luce in quegli occhi profondi e rattristati. Avrebbe desiderato accarezzargli una guancia. In passato lo avrebbe fatto con spontaneità ma in quel momento si sentiva bloccata, compromessa. 
Lui era rimasto di fronte a lei, in silenzio ancora una volta, la aveva guardata negli occhi, dandole l’impressione di volerle gridare qualcosa che, tuttavia, non aveva trovato il coraggio di pronunciare. O forse era mera suggestione per ciò che lei stessa voleva implorare a quel volto serio ma dolce. 
La suoneria del telefono di lui aveva infranto l’atmosfera strana che sembrava averli inchiodati l’uno di fronte all’altra. Mamoru aveva abbassato le palpebre, il suo respiro si era fatto più intenso, come a trattenere un sospiro, prima di prendere il cellulare dalla tasca posteriore dei jeans e guardare il display. Aveva silenziato quella musica, ritornando a guardarla. Aveva disteso un braccio e le aveva accarezzato la nuca. «Devo andare, Usa, Setsuna mi sta aspettando.» 
Setsuna… lui era di Setsuna. Lui amava Setsuna. Quella consapevolezza l’aveva colpita come una mazza al centro del cuore. Aveva compreso che tutti quei pensieri non avrebbero portato a nulla di buono, solo a tormenti irrisolvibili. Aveva cercato di razionalizzare. Che sciocca che era stata. Lui era premuroso con lei perché l’aveva vista sola, ferita, perché aveva dovuto operarla. Ecco la spiegazione a tanta dolcezza. Eppure quell’aura sensuale gli era rimasta attorno, e lei non aveva saputo come scacciarla via. Setsuna. 
«Fai buon viaggio, Mamo-chan» gli aveva risposto prima di abbassare lo sguardo, temendo che lui avesse potuto leggere sul suo viso il desiderio di restare ancora un po’ insieme a lui. Aveva voltato le spalle, accompagnandolo verso l’uscio di casa. Sulla porta d’ingresso, si era arrestata. L’energia di quella presenza tra poco si sarebbe dissolta e, con essa, il profumo caldo e ambrato di lui. Si era voltata, lui era a un passo da lei con gli occhi rivestiti da una patina di dispiacere che attendevano di incrociare i suoi. Non parlò e, nel silenzio, ancora una volta, aveva permesso allo specchio della propria anima di rivelare che quei giorni in ospedale le avevano permesso di legarsi a lui ancora di più. 
Perché le era rimasto accanto, giorno e notte? Perché le aveva dedicato premure e sorrisi? Perché le aveva fatto credere di essere importante per lui? Perché non era abbastanza importante quanto lo fosse lui per lei? Non sapeva se Mamo-chan fosse stato capace di leggere quelle lettere scritte dall’anima, aveva visto solo che lui restava in attesa. Quelle iridi blu parlavano ma lei non riusciva a decifrare, eppure qualsiasi parola sarebbe apparsa senza senso, forse fuori luogo. Aveva disteso una mano sulla guancia di lui, volendo mutare quella malinconia, percepire un contatto tra di loro prima che lui se ne andasse.
A quel tocco, Mamoru aveva abbassato le palpebre, quasi a volerlo intensificare attraverso le sensazioni che gli trasmetteva; lei lo aveva visto abbandonarsi a esso. Aveva voltato la guancia ancora sul palmo di Usagi, come una carezza, finché le labbra avevano premuto su quella mano che custodiva il suo viso. Non la aveva baciò ma lei aveva avvertito un’espressione di conforto ritrovato. Il cuore aveva iniziato a bruciarle, il desiderio di stringerlo a sé era aumentato.  
«Adesso vai, Mamo-chan…» aveva sussurrato trattenendo un dolore all’anima. Lui aveva annuito mantenendo gli occhi chiusi, poi si era scostato da quel tocco e l’aveva fissata per un istante prima di lasciare l’appartamento. Non era riuscito a parlare. 
Di nuovo sola, aveva rilasciato un sospiro all’aria, catturando quel che restava della scia dell’odore di Mamoru. Aveva portato i palmi al viso, come a nascondersi dalle proprie emozioni e da quella dura realtà, ritrovando sulla mano che aveva accarezzato il volto di lui il suo profumo. Aveva pensato che sarebbe scoppiata a piangere, eppure il vuoto che provava dentro le aveva prosciugato persino le lacrime. Si era diretta a passo svelto verso la sua camera, dalla finestra lo aveva osservato raggiungere l’Audi. Lui aveva sollevato la testa verso di lei, i loro sguardi si erano incrociati di nuovo. Lei non aveva alzato la mano per salutarlo, lui neanche. Eppure, nel silenzio, aveva percepito che gli occhi di lui le avevano voluto parlare e, di rimando, dal proprio cuore gli aveva urlato: “Mi mancherai, Mamo-chan.”
 
Tirò verso il basso la zip del borsone, la stoffa grigia della camicia da notte fu la prima a emergere da quella apertura. Ripose tutto. Si sdraiò a letto; non riusciva a restare supina ma la ferita era ancora fresca e quando provava a girarsi avvertiva dolore. Si innervosì. Il ticchettio della sveglia a forma di uovo scandiva la sua solitudine. Le lancette segnavano le 18:00. Chissà che cosa stava facendo Mamoru in quel momento… 
Era con Setsuna, le ricordò la sua mente. 
L’immagine di lui che baciava quella bellissima donna dai capelli lunghi scuri e dai modi aggraziati apparve vivida. Strizzò le palpebre, volendo cancellare quel pensiero istintivo. Il cuore iniziò a bruciare, un’agitazione accresceva sempre di più dentro le sue viscere.
“Ragiona, Usagi, lo sai bene che sta con Setsuna, è da due anni che stanno insieme. Perché adesso fai così?” Eppure ciò non bastava per spegnere quel fuoco che le bruciava dentro. Le lacrime iniziarono a bagnarle le ciglia per poi rigarle le tempie e morire tra i capelli. Pianse. 
“Perché sono gelosa” si rispose.


 

Il punto dell'autrice:

A distanza di otto anni, dopo aver revisionato i capitoli precedenti, finalmente ritorno su questo fandom con questa fanfiction che per diverso tempo chiedeva alla mia mente di essere continuata. 
I primi quattro capitoli mi rendo conto che sono molto focalizzati su Usagi e Mamoru, a discapito di altri personaggi principali o coppie. Da questo capitolo cercherò di mettere in luce anche gli altri. Ho preferito spezzare il capitolo perché vorrei dare spazio alla coppia Setsuna e Mamoru (e ai pensieri di lui) durante il loro week end e, se lo avessi fatto qui, credo avrei appesantito la lettura.
Per me non è stato semplice riprendere e reimpostare la storia, anche per quanto riguardo l'arco temporale, che fino al cap. 4 è stato molto veloce. Non volevo mostrare i giorni della degenza in ospedale perchè, come avrete potututo intuire, qualcosa che ha cambiato un po' entrambi è accaduta. Usagi ha acquisito e confermato una nuova consapevolezza, e Mamoru... chissà. I tre giorni in ospedale saranno comunque mostrati sotto forma di flashback, per ora voglio che siano avvolti da un alone di mistero (e non di mera lacuna) che permetterà di leggere il proseguo con più interesse.
Come ho già annunciato sulla mia pagina facebook, ho intenzione di pubblicare un capitolo al mese, sperando che in tal modo io possa essere costante con gli aggiornamenti, ma per il capitolo 6, parte seconda di questo, credo di farcela entro fine mese.
Questo capitolo rappresenta un esperimento per migliorare alcuni aspetti della storia. Spero abbiate potuto apprezzarlo e spero in un vostro commento, per me importante e prezioso come sempre.
Un abbraccio,

Demy


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Capitolo 6
*** Flashback - parte seconda ***


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Capitolo 6: Flashback – parte seconda
 
Il giorno in cui aveva conosciuto la nuova vicina di casa, lei era intenta a spazzolare i capelli della sua bambola; gli era passata accanto, incrociandolo all’ingresso del palazzo e superandolo, come se lui fosse stato invisibile. In fondo era una bambina, non prestava attenzione ai ragazzi. 
Il giorno dopo, non si sarebbe mai aspettato di ritrovarla. In casa propria. Di nuovo concentrata. Quella volta, in una conversazione con gli scacchi che Hiroshi faceva avanzare da solo in vista del torneo.
Aveva sorriso divertito guardandola mentre usava gli alfieri a mo’ di cavalli galoppanti. Avrebbe rinunciato a uscire per una settimana di fila pur di vedere la reazione di suo padre; che cosa avrebbe detto a quella pestifera lui che raccomandava sempre di stare attenti a non spostare i suoi scacchi in corso di partita? 

Era entrato in casa e quella birbante lo aveva ignorato di nuovo; lui non se ne era capacitato, non gli era mai piaciuto essere considerato invisibile. 
Aveva deciso di sfidarla con l’intento di attirare la sua attenzione. Chiamarla per nome, solamente, avrebbe potuto non sortire effetto, in fondo non conosceva le reazioni di quella sconosciuta.
Aveva preferito stuzzicarla con una linguaccia e si era sentito soddisfatto, finalmente di nuovo visibile, quando lei era arrossita in un misto tra imbarazzo e vergogna. 

La parte bella era arrivata dopo, quando la piccola timidina lo aveva ripagato con una linguaccia rumorosa di chi vuole colpire per bene. Le sue guance paffute e rosse avevano donato a quel viso d’angelo un aspetto divertente e lui, dopo diverse settimane oramai, aveva riso di nuovo. 
Usagi Tsukino era diventata la sua coniglietta, da provocare con battute e dispetti per poter rivedere le sue facce buffe e sentirsi allegro. Era simpaticissima, una faccia di luna piena, rotonda come un ovetto pronto a scoppiare. 
 
L’imperiosa distesa di alberi verdi che si propinava all’orizzonte ritornò ad attirare la sua attenzione. Con gli occhi seguì le foglie dalle molteplici sfumature; gli apparvero simili a smeraldi che il vento smuoveva creando un suono rilassante. La brillante vegetazione conduceva al Monte Fuji; dietro la cima, il Sole dalle tonalità rossastre iniziava a scomparire, l’arancio e il rosa si fondevano attorno all’astro morente mentre il cielo assumeva un colore azzurro intenso. 
Che panorama mozzafiato.
Chiuse gli occhi, il fruscio delicato era in grado di placare il suo animo, lasciando spazio al barlume di nuove consapevolezze che negli ultimi giorni si era acceso in lui.
Usako faccia di Luna era diventata grande. Da molti atteggiamenti era rimasta quella bambina intenta a rincarare la dose dei dispetti subiti, eppure era accaduto davvero, e lui avrebbe dovuto pagare il prezzo di quella realtà.
Ma quando è diventata donna? Come ho fatto a non accorgermene prima?
Come sempre, anche quella volta aveva chiesto alla sua mente di guidarlo nella ricerca verso le risposte. Non era semplice trovarle e, per ovviare, aveva intrapreso un nuovo sentiero.
Quando avrei dovuto capire che Usa non è più né una bimba né una ragazzina?
Aveva preso il capo iniziale di un filo invisibile ed era andato a ritroso. Ricordare era troppo impegnativo; non aveva mai fatto caso a quel tipo di cose con Usako. Decise di concentrarsi almeno sugli ultimi giorni. 
Usagi aveva offerto opportunità per permettergli di accorgersene? 
Gli apparve, come una scintilla nel buio dei ricordi, la sera di ritorno dall’altura. 

L’aveva fissata per tutto il tempo, incredulo, notando i suoi occhi colmi di lacrime e delusione; le sue labbra erano gonfie, maltrattate; il volto intriso di amarezza e dolore. Quando però lui aveva cercato di confortarla, lei si era voltata verso di lui, attenta alle sue parole, e finalmente l’aveva notata rasserenata. 
Non aveva saputo spiegarselo neanche lui, eppure la luce, che quel viso sofferto e quegli occhi azzurri e spenti avevano emanato, lo avevano fatto sussultare. 
Quella Usagi impaurita, che era stata abbandonata, che a quasi ventun’anni non riusciva a fare l’amore ma che si calmava lasciandosi cullare da lui, gli aveva fatto tremare il cuore per un istante. Erano solo quelle emozioni che riusciva a ricordare. 
Era così bella in quel dolore che aveva cercato di medicare attraverso il dialogo con lui, di lenire con la sua presenza, che non aveva potuto dissolvere quelle sensazioni mai provate con lei, e incapace di spiegarsi, attraverso una mera battuta. 
Usagi, con il viso dispiaciuto ma la luce della speranza che le brillava negli occhi, era incantevole e a lui non era importato se quando gonfiava le guance in preda ai dispetti era simpatica e lo rendeva allegro perché quella sera, Usagi, con quella inconsapevole e non ordinaria bellezza, lo aveva abbagliato più del chiaro di luna.  
Forse era stato per quello che la sera successiva aveva deciso di non prenderla in giro per la sua infantile paura dei tuoni. 
Forse, egoisticamente, aveva avuto bisogno di riprovare quelle inspiegabili e non razionalizzabili emozioni. Gli era apparsa di nuovo sofferente e quella volta non perché lo avesse ostentato come un capriccio, anzi, ricordava come avesse provato a fingersi serena, a mostrarsi matura. 
Usa, però, era un libro aperto; le sue espressioni malinconiche mentre stringeva il cuscino al seno e lasciava che la veste le scoprisse le gambe erano state una visione che aveva scosso tutto il suo essere. Era così inspiegabile quando lasciava i capelli finalmente sciolti. La sua ingenuità e quei modi infantili, fusi a espressioni distratte, la rendevano sensuale anche se lei non si rendeva conto dell’effetto che provocava senza neppure volerlo. 

Ma che stava pensando?!
Ebbene sì. Doveva accettare la realtà. Usagi Tsukino era diventata una bellissima ragazza sensuale. 
“Okay, Mamoru, è diventata una gnocca mentre tu eri distratto dalla tua vita, ma quando è diventata adulta? Perché ti logori il cervello alla ricerca del momento in cui hai capito che iniziavi a vederla come una bellissima adulta? Che poi, a che ti serve questa consapevolezza?” 
Il filo invisibile della ragione lo aveva condotto a nuove ricerche. 

Era accaduto giovedì mattina. Era tornato a casa per fare una doccia dopo aver trascorso la notte del post intervento con Usagi. 
Setsuna era in cucina avvolta nella sua vestaglia di raso viola che le lasciava scoperte le gambe ambrate, la stanza impregnata del profumo del suo tè ai frutti rossi. L’aveva raggiunta, abbracciandola, pronto a prendersi un bacio tanto agognato, ma lei aveva continuato a impugnare la sua tazza dal liquido fumante, scostando le labbra prima che lui potesse premerle contro le proprie in cerca di tenerezze, del loro buongiorno. 
Aveva aumentato la distanza tra di loro prima di voltargli le spalle. Lui era rimasto per qualche minuto immobile, poggiato al tavolo, sentendo la porta della stanza da letto richiudersi. 
Sets aveva il turno, di certo non aveva tempo per le ripicche emotive, stava per vestirsi aveva presunto. Ma perché chiudersi in camera? 
Aveva dovuto ammettere che lei aveva messo in atto un silenzio offesa. Che lui avesse trascorso la notte in ospedale con Usa a lei non era passata. Neanche fosse stato con amici a fare baldoria o in compagnia di un’amante, aveva pensato istintivamente. 
Quella volta non si sarebbe giustificato pur di evitare i suoi atteggiamenti, si stava stancando di quelle prese di posizione. Quella reazione era stata inaccettabile dopo averle dimostrato che per amore suo aveva deciso di partire ugualmente per le terme di Hakone. Il pensiero di Usa in convalescenza e di sua madre a doversi occupare di qualunque problema lo avevano tormentato, avrebbe preferito restare reperibile in città ma per Sets si era fatto coraggio lasciando il suo senso di responsabilità in un angolo della sua mente.
Aveva sbuffato, stanco di combattere guerre assurde, ed era andato a farsi una doccia prima di riprendere a lavorare. Quando aveva riaperto la porta del bagno, la casa era vuota.
Sets non lo aveva aspettato. 
Aveva iniziato a sentire il sangue ribollire nelle vene, una rabbia che nasceva da dentro, agitando il suo animo, e che cercava di lasciar uscire attraverso respiri affannati. La parete del corridoio gli era apparsa perfetta per sferrare un pugno e potersi sentire meglio subito dopo. Se non avesse dovuto lavorare con le mani, lo avrebbe fatto.
Aveva sospirato, affondando le dita tra le ciocche dei suoi capelli.


Il traffico di quella mattina era stato più intenso del solito; a causa di un incidente, le auto avevano dovuto procedere a rilento. Si era sentito come una molla pronta a saltare, una bomba a orologeria in fase di esplosione. 

Era arrivato al desk delle infermiere del reparto con venti minuti di ritardo; la prima cartella clinica era proprio di Tsukino Usagi. Il nervoso gli aveva allargato le labbra in un sorriso di incredulità inducendolo a battere velocemente i polpastrelli sul bancone in cerca di uno sfogo. 

Setsuna l’aveva lasciata a lui di proposito. Che scema. 

Usagi era apparsa alla sua visuale non appena aveva varcato la stanza 3006. Era seduta sul letto, le gambe ricoperte dal vassoio per la colazione. Era così intenta a seguire i dialoghi tra i personaggi del suo telefilm preferito, nella tv di fronte a sé, da masticare lentamente ciò che mancava alla fetta biscottata nella sua mano. Aveva un’espressione assorta, incorniciata da lunghe ciocche che le accarezzavano le braccia scoperte. 
Quella scena gli aveva mostrato una ragazzina tenera che, nonostante i presunti drammi, conduceva una esistenza estranea ai problemi di cui lui si faceva carico. Quella consapevolezza gli aveva disteso le labbra in un sorriso, permettendo a una insolita energia di vibrare intorno al suo cuore.
Per la prima volta, quella mattina, era riuscito ad allentare la tensione accumulata fino a quel momento. 
Aveva avanzato nella stanza; lei si era voltata, le labbra distese dalla serenità che provava quando lui arrivava, una luce diversa sprigionata dalle sue iridi azzurre. Lui percepiva i cambiamenti dell’umore di lei e, per quella ragione, aveva deciso di farsi presenza, nonostante tutto.
«Buongiorno, Dott. Chiba» lo aveva accolto con tono di chi volesse giocare, scrutandolo nel suo camice bianco; la sua voce aveva vibrato su alte frequenze. 
Lui aveva sorriso. Era strano sentirsi chiamare in quel modo da Usako.
«Come sta la mia paziente preferita?» Era stato al gioco, ponendosi con un tono professionale, mentre la testa si abbassava verso i fogli della cartella in cerca delle ultime analisi. 
«Mi sento meglio» lo aveva rassicurato lei, ma la sua voce era stanca, debilitata. Usagi che non si lamentava lo aveva sorpreso.
«Tu, invece, come stai, Mamo-chan?»
Era stato strano di nuovo. Aveva lasciato uscire una sottile risata che gli aveva incurvato le labbra serrate. I suoi occhi si erano sollevati dai valori delle analisi incontrando le iridi di lei, fisse su di lui in attesa di una risposta interessata. Usagi si preoccupava veramente per lui, era il volto curioso e serio che glielo rivelava. 
«Sto bene, piccola» l’aveva rassicurata, mentre una carezza invisibile aveva sembrato confortare la propria anima, rendendola più leggera. «Scusami, ma da quanto in qua è il paziente che domanda sulla salute del medico?»
Il suo tono era diventato ironico; scherzare con lei aveva il potere di calmarlo. 
«Sei rimasto qui tutta la notte per me, e adesso devi lavorare. Sarai distrutto, Mamo-chan.» Il suo sguardo colpevole e l’espressione dispiaciuta dipinta su quel viso etereo gli avevano incendiato il cuore. 
Era riuscita a spiazzarlo per la terza volta di fila. Quella non era la solita Usagi; che fine aveva fatto la sua amica? E chi era quella dolce e attenta ragazza che riusciva a metterlo in soggezione, a sorprenderlo con delle semplici frasi di affetto, in quella situazione che la sua amica avrebbe di certo reso più difficile? Le sue parole erano state di riconoscenza e premure. Setsuna, invece, non gli aveva chiesto nulla, aveva giocato a fare l’offesa e a fargli saltare i nervi.
«Il labbro sta guarendo» le aveva fatto notare, non sapendo cosa risponderle. 
Usagi aveva annuito, un sorriso triste, malinconico, sofferto. L’aveva vista spingere con le mani il carrello del vassoio verso i piedi, scostando il lenzuolo che le ricopriva le gambe. 
«Che stai facendo?» Lui aveva continuato a scrutarla con attenzione. 
«Devo andare in bagno» gli aveva chiarito, mettendosi seduta, voltando il busto e le gambe e cercando con i piedi le pantofole.
Lui l’aveva percepita debole dal tremolio delle sue braccia mentre cercava di poggiare le mani al materasso, in cerca di un sostegno per alzarsi; lo sguardo basso sulle gambe, di chi non voleva mostrare il proprio malessere. 
Si era affrettato a posare sul letto la cartella clinica che ancora teneva tra le mani e, allungando le braccia verso i fianchi di lei, le aveva sussurrato: «Vieni qui, tieniti a me.»
Respirava a fatica, stropicciando le labbra per trattenere il dolore piuttosto che lasciarlo andare in un lamento. Quando si era messa in piedi, le aveva cinto la schiena in una presa più stabile, stringendola al suo fianco e accompagnandola a piccoli passi verso la porta del bagno in camera. 
«Ce la fai?» le aveva chiesto con tono preoccupato, notando le sue gambe trascinarsi. «Ti chiamo un’infermiera?»
Lei aveva scosso la testa e, flebilmente, aveva sussurrato: «No, Mamo-chan, ce la faccio» mentre lo sguardo non aveva avuto la forza di incontrare gli occhi di lui. 
Era rimasto in attesa accanto alla porta, pronto a riportarla a letto. Quando lei era comparsa, aveva notato la mucosa delle sue labbra troppo chiara, il colorito del volto troppo pallido e un senso di sofferenza riversarsi su quel corpo coperto da una camicia da notte smanicata di cotone grigio. 
Lei, senza sibilare alcuna parola, si era subito aggrappata al braccio di lui con entrambe le mani, in cerca di un appiglio per non annegare; lui aveva portato il braccio libero a circondarle la vita stringendola a sé, mentre lei allentava la presa dandogli la possibilità di avanzare di qualche passo.
Si era arrestata subito dopo; il respiro affannato, le palpebre abbassate, la tensione dei muscoli allentata. L’aveva vista quasi svenire nella sua stretta e, mantenendosi lucido, l’aveva ingabbiata portando anche l’altro braccio a stringerla per la schiena. 

«Usa!» aveva urlato, rendendosene conto solo dopo, mentre lei aveva continuato a rilassarsi fino a cedere in quell’abbraccio, con gli occhi chiusi e la testa pronta a piegarsi indietro. 
Il suo cuore aveva iniziato a martellare nel petto, un senso di angoscia e paura avevano dilagato nelle sue vene. Che stava succedendo? In fondo lo sapeva, realizzò ripensando alle analisi sulla cartella.
Si era incurvato in avanti, per afferrarle le gambe con un braccio e sollevarla da terra, tenendola ben stretta a sé. Il volto di lei aveva trovato conforto sull’incavo della sua spalla mentre una mano rimaneva ferma sul ventre all’altezza dei punti. In quella posizione gli era apparsa talmente indifesa da scatenare in lui una sensazione di dolore; avrebbe voluto lasciar uscire quel dispiacere avvinghiato alle sue ossa, e aveva deciso di farlo premendo le labbra sulla fronte fredda di lei in un bacio che sapeva di dolce, che odorava di buono.
«Stai tranquilla, Usako, stai tranquilla…» aveva ripetuto come un sussurro sul suo viso, una nenia per tranquillizzare anche se stesso. L’aveva stesa a letto, sedendosi sul bordo del materasso e premendo il campanello sulla parete della testata. 
Usagi aveva aperto lentamente gli occhi, lui non aveva smesso di accarezzarle la fronte, le guance, la testa fino alle lunghezze dei capelli.
«Va tutto bene, piccola, sei solo molto debole ma tra poco starai bene, te lo prometto» le aveva spiegato tenendo una mano sul materasso accanto al fianco di lei mentre l’altra non smetteva di accarezzarla ancora. 
Il suo sguardo era stato rassicurante verso quel viso privo di energie e, quando le labbra di lei avevano iniziato a muoversi piano, desiderose di lasciar uscire una parola, il pollice della mano aperta sul viso di lei aveva interrotto le carezze sulla guancia per premere sulla sua bocca.
«Shhh, non ti affaticare, va tutto bene, ci sono io qui con te.»
I passi dell’infermiera erano divenuti sempre più intensi, lui aveva voltato lo sguardo verso la porta e, prima che la ragazza potesse dire qualcosa, aveva ordinato: «Preparate una soluzione elettrolitica. Immediatamente!»
Le ciocche castane della coda di cavallo della ragazza avevano librato all’aria mentre si era affrettata ad annuire e a voltarsi, per poi scomparire a passo svelto dalla camera. 
Lui aveva sospirato, tornando con gli occhi sulle ciglia di lei che sbattevano indicando che le palpebre lottavano per rimanere alzate. Le aveva sorriso, desiderando di infonderle rassicurazione. La mano di Usagi si era posata sulla propria, ferma sul materasso. Era fredda, un tocco flebile, una conferma di presenza reclamata. D’istinto, aveva roteato la propria per poterla custodire e accarezzare con il pollice. 
«Va tutto bene, Usa, sono qui con te» le aveva ripetuto, mentre le nocche dell’altra mano avevano continuato a scorrere sulla guancia, alternandosi a scie delicate dei polpastrelli sulla fronte e sui capelli.
Lei aveva lottato ancora, contro la debolezza, pur di accennargli un sorriso. Le palpebre si erano abbassate di nuovo. 


Erano rimasti in quella posizione per un tempo che a lui era apparso eterno. Aveva riflettuto su Usagi che, con la sua assurda paura degli ospedali, era sempre apparsa ai suoi occhi infantile ed esagerata; lui le aveva promesso che tutto sarebbe andato bene e, in quel momento, aveva riconosciuto che Usa non si era lasciata intimorire da uno dei suoi incubi reali bensì si era dimostrata forte, matura, addirittura premurosa verso di lui; aveva preferito trattenere il proprio malessere piuttosto che lamentarsi.
Forse aveva voluto stupirlo. Forse, stava crescendo.


«Non trattarmi come una bambina, non lo sono più.» Le parole proferite da lei nel salone dell’appartamento rischiarito dai lampi, il giorno in cui era andato a trovarla prima dell’intervento, avevano illuminato la sua memoria.
E lì, in quella stanza ospedaliera senza testimoni, aveva permesso alle lacrime, intrise di consapevolezza, la possibilità di bruciargli gli occhi e rigargli le guance. 
“Mi dispiace” il suo cuore aveva pianto, e le parole non erano bastate; aveva avuto bisogno di un contatto fisico con lei, di trasmetterle ciò che il proprio animo urlava spingendolo a incurvarsi in avanti e a premere le labbra ancora una vota sulla fronte di lei.

Quando Usagi aveva sollevato le palpebre, lo aveva trovato ancora lì, seduto sul letto, con la mano a custodire quella di lei. Si era guardata attorno, scorgendo una striscia di cerotto attraversarle la piega del braccio; un filtro trasparente la collegava a una flebo che, a goccia lenta, le veniva trasfusa nella vena. 
«Come ti senti, Usa?» le aveva domandato. «Avevi i valori degli elettroliti bassi, ecco perché hai avuto un mancamento, ma con questa flebo tornerai a stare bene.»
«Sei rimasto qui tutto il tempo?»
Lui aveva annuito, sorprendendosi per l’ennesima volta. Usagi aveva attribuito importanza a quel dettaglio, evidenziandolo, come se tutto ciò che veramente contasse consistesse nel non essere da sola. «Te lo avevo promesso che sarei rimasto con te.»
«Come farei senza di te, Mamo-chan?» 
Era stata una voce consapevole più che una domanda, mentre due iridi azzurro cielo gli avevano trasmesso gratitudine, dichiarato quanto fosse indispensabile.
Si era abbassato verso di lei, tanto da poter percepire il suo respiro regolare, il suo odore naturale che stranamente lo riportava alle feste cittadine intrise di zucchero filato e odango, e le aveva premuto le labbra sulla fronte. Quando si era staccato da quel bacio, lei aveva sollevato il mento, le labbra di lui, ancora ferme, erano separate da quelle di lei da pochi millimetri d’aria. 
Si era arrestato e allontanato lentamente sempre di più, riportandosi seduto e avvertendo un bruciore al cuore. Era come se il proprio corpo gli parlasse, urlasse, avvertendolo attraverso un malessere che era in disappunto con lui. Era curioso, desideroso di scoprire il gusto di quel contatto con la parte di lei che non aveva mai assaggiato. 


“Bene, Mamoru, hai finalmente trovato un momento dove lei è un’adulta, una bellissima adulta. Ora però spiega perché ti sei arrovellato la mente? A cosa è servita questa indagine certosina?”
La risposta era arrivata dal suo cuore come un lampo nella notte.
“Perché non riesco a smettere di pensare a lei.”
 
«Più resto ad Hakone e più vorrei non dover ritornare al lavoro. Questo luogo è incantevole.»
Mamoru si voltò alle sue spalle verso la voce che aveva cacciato via i suoi pensieri. 
Il viso di Setsuna era rilassato, la nuca poggiata alla parete rivestita in pietra grigia, i capelli raccolti in uno chignon alto dal quale sottili ciocche ribelli scivolavano per aderire al collo della donna, ritrovandosi immerse nell’acqua termale all’interno della vasca privata. 
«Sì, devo dire che Haruka ti ha consigliato molto bene, è un luogo incantevole che trasmette serenità.»
Lei annuì sorridendo, gli occhi fissi di fronte a sé verso il panorama per alleviare la sua anima, mentre l’acqua calda coccolava il suo corpo. 
«Dovremmo venirci più spesso» propose.
«Già» sospirò lui, rimuovendo l’accappatoio e raggiungendola dentro la vasca.
Setsuna lo osservò mentre le si sedeva accanto. Rimase attratta dal modo col quale, portando le braccia lungo i bordi della vasca di pietra, i suoi bicipiti apparivano tonici, i pettorali ben definiti. Si sciolse alla vista di lui che inclinava la testa indietro, chiudendo gli occhi e permettendo alla sua mandibola spigolosa si venire evidenziata da quella posizione. Aveva quella solita paura di perderlo che l’attanagliava ogniqualvolta si abbandonava alla consapevolezza che lui fosse tutto ciò che avesse sempre desiderato.
A volte le sembrava troppo per lei. Troppo bello, troppo serio, troppo gentile e generoso.
Gli sedette cavalcioni, lasciando scorrere le mani bagnate sul petto di lui, mentre le labbra raggiungevano l’angolo della mandibola, il punto dietro l’orecchio, la guancia poco ruvida che la faceva impazzire. 

Oggi sei stato molto silenzioso, qualcosa ti preoccupa? Si era stancata di osservarlo assorto nei suoi pensieri. Avrebbe voluto farglielo notare ma quella domanda era stata frenata dal timore che lui negasse l’evidenza, dalla paura che bastasse una frase fuori luogo a far esplodere di nuovo un litigio. 
La casa era stata vuota negli ultimi giorni. Da martedì aveva dormito da sola. I turni non coincidevano quasi mai e lei lo aspettava consolandosi al pensiero di recuperare il tempo trascorso senza di lui al suo rientro. Mamoru non era rientrato per tre notti, però. Il letto era rimasto freddo, così come il suo cuore che si riscaldava solo quando lui la stringeva a sé, nutrendosi di quell’energia, rassicurandosi a quel contatto. 
Si era sentita incompresa. Non riusciva a fargli capire il suo malessere, a lui sembrava non importare, come se fosse tutto frutto della sua fervida e suggestiva immaginazione. Che motivo c’era di restare notte e giorno in ospedale con Usagi? Aveva subìto un’appendicectomia, non un trapianto al rene. Perché non si era lasciato convincere da Hana? Sua madre si era offerta di occuparsi di quella paziente, e la stessa Usa aveva cercato di rassicurarlo. Perché per lui era stato così importante non ascoltarle e rimanere lì accanto a lei? 
Si chiedeva se prima o poi tutto ciò sarebbe cambiato, ma poi realizzava che il tempo le era ostile, lasciandola nella sua solitudine e incomprensione, accanto a un uomo bellissimo che tuttavia non riusciva mai a sentire veramente suo. Si era domandata tante volte il significato di amore, e la risposta che il proprio cuore offriva atteneva alla complicità di sguardi, alla sintonia inspiegabile capace di far riconoscere anche agli altri un legame tra due persone. Era quello l’amore che desiderava da sempre e che ritrovava osservando Mamo e Usa, scaturendo e alimentando in lei insicurezze e paure. Lei le considerava sensazioni e per quel sesto senso restava incompresa, annegando in un pozzo di solitudine interiore in un luogo senza tempo dove l’amore sembrava rimanere irrealizzabile per lei.


Quel giovedì mattina aveva visto Mamo raggiungerla a passo svelto. Le guance più rosse del solito contrastavano con il camice bianco. Le labbra serrate, lo sguardo intenso e inquieto, e quel movimento con la mano a sfregare la barba poco ruvida, che ormai sapeva essere indice di nervosismo. Aveva voluto comprendere se lui avrebbe avuto il coraggio di farle notare il silenzio di qualche ora prima, a casa. 
Mamoru avrebbe dovuto comprendere sulla propria pelle le sensazioni di invisibilità che lei stava provando in quei giorni.
«Devi occuparti anche delle altre cartelle cliniche per oggi» le aveva detto raggiungendola. Il suo respiro era agitato. 
Certo, c’era Usagi, non poteva dedicarsi al suo lavoro. I pazienti non erano tutti uguali e non lo sarebbero stati fin quando quella ragazza sarebbe rimasta lì. Un senso di frustrazione e nervoso stava iniziando a riaffiorare nel suo animo. Era stanca di sentirsi considerata solo se si parlava di Usa.
«Perché?» si era limitata a chiedere, scommettendo con se stessa sulla risposta.
Lui aveva sbuffato, passando una mano tra i capelli, dandole l’idea che stesse cercando di trattenersi. Si era guardato intorno in quel corridoio affollato da infermieri e colleghi. L’aveva presa per un braccio e l’aveva condotta nella stanza in fondo al reparto, adibita a magazzino. Lì, al riparo da occhi e orecchie, aveva dato sfogo al suo nervoso. 
«Possiamo ignorarci quanto vuoi, se è questo che vuoi.»
Ancora una volta quelle parole l’avevano ferita. Per lui era indifferente, la faceva sentire come se non contasse davvero nella sua vita, se esserci o meno non portasse distinzione.
«Ma al lavoro non voglio vederti fare giochetti del cazzo!» Aveva lasciato andare un respiro agitato e avvicinandosi di più a lei, aveva continuato. 
«Perché la cartella di Tsukino Usagi stamattina era al desk? Hai controllato la conta degli elettroliti quando sei arrivata?»
Quegli occhi incendiati da fiamme di rabbia l’avevano fissata, il suo respiro le aveva sbattuto sul viso quel rimprovero.
«Non potevo prenderle tutte. Sapevo che stavi per arrivare, e sapevo anche che avresti preferito seguirla tu dato che-» “hai un rapporto in simbiosi con lei.” 
Avrebbe voluto urlargli la realtà, ma lui era così agitato che aveva temuto di restare incompresa ancora una volta. «Dato che l’hai seguita dall’intervento.»
Lui aveva trovato spazio sull’estremità di una sedia sulla quale era poggiata una scatola aperta contenente provette vuote.
Lo aveva visto mentre poggiava i gomiti sulle gambe e le mani a sostenergli la fronte. In quella posizione curva le era apparso un essere logorato da un demone che lui stesso non riusciva ad accettare.
«Gli elettroliti erano bassissimi.» Si era voltato verso di lei riprendendo. «Mi è svenuta tra le braccia. Sai cosa significa questo?»
Che Usagi si era trovata tra le sue braccia prima di svenire? Perché? 
Se lo avesse detto, sarebbe risultata la solita gelosa. Era rimasta in silenzio.
«Che se non ci fossi stato io, qualcuno avrebbe riferito tutto a Galaxia e tu saresti passata per un medico negligente.»
Ah, tutto quel nervoso perché si era preoccupato per lei? Il proprio cuore aveva sentito che non era credibile.
«Ti sei preoccupato per me?»
«No» le aveva dato conferma lui. «Ma cerca di non lasciarti influenzare sul lavoro da Usagi e dalla tua gelosia insensata.»
«Ti sto dicendo che non è stata negligenza e non c’entra nulla la gelosia. C’erano dieci cartelle del post intervento, non potevo prenderle tutte, te ne ho lasciate cinque tra cui lei perché la segui dal suo ricovero, conosci bene la sua situazione clinica e sapevo che avresti voluto occupartene tu. Dimmi se sbaglio.»
L’agitazione le si era avvinghiata alla gola. Si era sentita svuotata delle buone intenzioni che, nonostante tutto, cercava di mantenere, per venire riempita da accuse e pregiudizi. 
Perché lui non comprendeva le sue parole? Perché pensava male di lei? Quelle domande martellavano la sua mente togliendole energie. 
Lui si era alzato, quegli occhi blu e profondi, carichi di rabbia, erano attraversati da scintille di dubbi. Aveva portato le mani sui fianchi, continuando a fissarla ma restando in silenzio. Era stato un no tacito, di chi non aveva avuto il coraggio per ammetterlo. Non si era sbagliata.
«Vai al diavolo, Mamoru» aveva pronunciato, avvertendo un nodo alla gola. Si era voltata, aprendo la porta e permettendo che un fascio di luce penetrasse all’interno della stanza buia, prima di richiuderla alle sue spalle.

 
«Vuoi scendere al ristorante o preferisci fare un giro e fermarci a mangiare qualcosa in paese?»
La voce calda e rilassata di lui la riportò alla realtà. 
«Decidi tu, è la nostra ultima sera qui, cosa preferisci fare?»
Lui lasciò che una risata gli stendesse le labbra mantenute chiuse; scosse la testa limitandosi a lasciare le labbra sulla spalla spigolosa di lei. 
«Ma perché per una volta non decidi semplicemente invece di rispondere con un’altra domanda?»
Di lei non comprendeva quel non saper decidere, lasciando a lui la scelta definitiva in tutte le questioni di poco conto, finendo invece a litigare per le situazioni importanti nelle quali avrebbe desiderato averla complice.
“Con Usa è al contrario; litighiamo per le cazzate come i programmi tv e siamo in sintonia su ciò che conta.”
Il ricordo della lite per il telecomando, la sintonia al ritorno dall’altura e in ospedale ritornarono a riecheggiare con insistenza nella sua memoria, scandendone come una melodia i punti salienti.
«Va bene, allora restiamo qui, adoro il loro dolce del giorno.»
«Così mi piaci di più» le dichiarò percorrendo la sua schiena nuda con le mani aperte fino ad arrestarle sui glutei. Lei iniziò a dondolarsi lentamente, le sue iridi nocciola contenevano scintille di desiderio che scrutavano negli occhi blu di fronte a sé un mare dal quale lasciarsi travolgere. Gli baciò le labbra, addentando l’angolo della mandibola per poi percorrergli la linea del collo con la lingua. Mamoru chiuse gli occhi, lasciando che quelle sensazioni prendessero il sopravvento conducendolo nell’oblio dei ricordi. Almeno per un po’.
 
«Mi dispiace, ho esagerato, sono stati giorni pesanti.»
Il calore di quelle parole le aveva scaldato il cuore, accarezzato il volto, mentre le mani di Mamo l’avevano avvolta in un abbraccio. Tregua.
«Domattina accompagno Usa a casa e partiamo per Hakone.» Gli occhi di lui si erano accesi di scintille di amore, un misto tra pentimento e richiesta di perdono.
«Dimmi che vuoi partire ancora, Sets.»
Si era abbandonata a quelle carezze sul suo volto, chiudendo gli occhi e lasciando che un balsamo invisibile curasse le ferite provocate dai loro litigi. Lo aveva appena ritrovato, contava solo quello per lei. Aveva annuito, come una coccola sul petto di lui mentre si stringeva in quell’abbraccio. Era di nuovo a casa.
«Certo che voglio partire, Mamo.» Si era allontanata dalla sua stretta, solo per poter vedere i suoi occhi, permettergli di leggere nei propri. «Non pensare più male di me, per favore.»
Lui aveva abbassato le palpebre, tenendo custoditi dentro di sé i propri dubbi e limitandosi ad annuire prima di posare un bacio sulla sua fronte, sulle guance, sulle labbra. Si era finalmente sentita compresa, riemersa dal pozzo della solitudine. Sorrise.
 
Finì di ripensare a quel giovedì sera quando il suo dischetto di cotone si colorò di nero avvertendola che le sue ciglia erano del tutto struccate dal mascara. Aveva ancora sulle labbra il gusto degli odango, il dolce del giorno che amava di quel luogo paradisiaco.
«Sono stati carini a regalarci un sacchetto di odango.» La sua voce cercò di raggiungere Mamo nella stanza da letto, prima di affondare il volto tra le mani giunte colme di acqua tiepida per risciacquare il volto completamente struccato. 
Nello spazio limitato che separava il bagno dalla stanza matrimoniale, rimase per un attimo appoggiata allo stipite della porta. 
Mamoru sdraiato, gli occhi chiusi e un’espressione serena sul volto le riempirono il cuore di gioia; comprese il motivo della mancata risposta alla sua esclamazione nostalgica. Si adagiò accanto a lui, poggiando la testa sul suo petto e accoccolandosi nel suo abbraccio.
Lui le baciò la testa, girando il volto a sinistra in una posizione più comoda. C’era la sveglia da puntare, l’indomani avrebbero dovuto lasciare la camera. 
L’orologio riposto sul comodino segnava le 23:30. Accanto, un sacchetto trasparente stretto da un nastro blu, contente i dolcetti rotondi omaggiati dal ristorante del resort.
Richiuse gli occhi, passando la lingua tra le labbra. Il sapore degli odango continuava a rimanergli in bocca, protagonista assoluto dei suoi sensi, rievocandogli l’odore delle cose buone, di Usako.
 “Odango…” Fu un pensiero istintivo, accompagnato da un tacito sorriso di rassegnazione e consapevolezza. Anche senza volerlo, lei continuava ad affiorare tra i suoi pensieri, mai invadente, in modo dolce. 
«Buonanotte, amore mio» sussurrò tra i capelli di Setsuna prima di richiudere gli occhi e abbandonarsi a un sonno profondo. Tra meno di dodici ore sarebbe ritornato alla routine frenetica della città.
Non vedeva l’ora. 


 
Il punto dell'autrice

Dopo un'estenuante pausa, eccomi ad aggiornare questa storia, completando il capitolo dedicato ai flashback dei personaggi Mamo e Setsuna.
Chi mi segue su Facebook alla pagina Moonlight fan club (siete tanti e vi ringrazio di cuore), sa già che questo doveva essere un capitolo incentrato sulla coppia Mamo&Setsuna eppure, ancora una volta, il mio cuore mi ha spinto a rendere Usa protagonista, spero riuscirete a perdonarmi anche questa! :D
A parte gli scherzi, in questo capitolo ho cercato di far comprendere meglio a Mamoru ciò che pian piano inizia a pensare di Usagi, di come inizia a vederla dato che per tanti anni è stata solo un'amica di famiglia, una piccola amica di famiglia.
Questa fanfiction nacque come esperimento per cercare di saper descrivere l'evoluzione di un sentimento che nasce come amicizia e si trasforma lentamente.
Spero che questo capitolo vi abbia potuto tenere compagnia e che vi sia piaciuto.
Se vi va, vi sarei grata per i vostri commenti in una recensione; fatemi sapere cosa vi è piaciuto, cosa non avete apprezzato e le frasi più belle per voi del capitolo, così da poterne fare delle note su Facebook per tutti voi.
Un abbraccio, a presto

Demy 

 
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