Asso di Picche di HamletRedDiablo (/viewuser.php?uid=56405)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Sigaretta ***
Capitolo 2: *** Primo Capitolo - Mazzo di carte ***
Capitolo 3: *** Consolazioni Fasulle ***
Capitolo 1 *** Prologo - Sigaretta ***
A
Rota, perché mi ha fatto innamorare della coppia<3
Alla
figlia, perché è tanto che sbandiero il proposito
di scrivere una poker
e
non l’avevo ancora fatto.
A
entrambe, che hanno avuto la pazienza di aspettarmi<3
E
perché
vi voglio bene<3<3<3
L’uomo
inclinò la testa per osservare
meglio lo sgorbietto rattrappito in un cumulo di neve sporca.
Le gambe ossute affondavano nella coltre bianca,
abbandonate al loro
fato dai pantaloni, che arrivavano a malapena al ginocchio con il loro
bordo sdrucito.
Una giacca troppo grande copriva quel corpicino denutrito con fare
quasi
materno, ma le raffiche improvvise di vento rendevano vane le premure
dell’indumento: gli zefiri dicembrini allargavano facilmente
i bordi che non
potevano più contare sull’aiuto dei bottoni, e la
stoffa si gonfiava nell’aria
come una spettrale vela scura, dopo essere stata depredata di tutto il
calore
che il piccolo aveva faticosamente incamerato.
Un
guanto più adatto per il forno che
per la neve gli avviluppava la mano sinistra, che lo scricciolo teneva
parata
davanti al volto per proteggersi almeno in parte dal gelo di quella
notte.
Tormentò la sigaretta che teneva svogliatamente
tra le labbra con le
dita. Non aveva nemmeno provato ad accenderla: sapeva che quel vento
non gli
avrebbe permesso neppure di estrarre l’accendino. Era stato
per consuetudine
che si era incastrato in bocca la solita cicca: ormai era abituato al
suo peso
sul labbro inferiore, senza contare che era utilissima per ricordargli chi era in quel momento.
Un uomo comune, di stazza ed altezza perfettamente nella
norma, gli
occhi coperti da impenetrabili lenti da vista e i capelli disposti
senza alcun
ordine attorno al capo. La barba non rasata e i vestiti nostalgici di
sapone
conferivano un tocco trasandato al tutto, così come le mani
callose dalle
unghie indurite e scheggiate.
Triturò la sigaretta con i polpastrelli fino a
renderla un cumulo
informe di tabacco e carta. Lasciò i residui marroncini ad
inzupparsi di neve e
di gelo mentre si avvicinava al cucciolo.
«Come
mai sei qui fuori, piccolo?»
Per
un attimo credette che il moccioso
fosse morto: era rimasto totalmente immobile nella sua posizione, dando
l’idea
di essersi trasformato in una statua di ghiaccio.
Poi il bimbo forzò i muscoli semi assiderati
del collo a ruotare e lo
fissò con gli occhi stretti per via del vento.
Il marmocchio era ad un passo dal congelamento:
un’impalpabile brina gli
aveva steso un sottile manto bluastro sulla pelle, rendendolo
grottescamente
simile ad un gargoyle. Le sopracciglia erano indurite da una coltre di
cristalli artici, ed il vento aveva scavato sulle labbra del piccolo
profondi
solchi. Le lesioni alla bocca, unite al tremito convulso di tutti i
muscoli,
resero quasi incomprensibili i balbettii del cucciolo.
«Non
hai una casa?»
Il sussultante cenno di
assenso del piccolo
gli diede conferma.
«Sei
orfano?»
chiese
l’uomo, inarcando un sopracciglio: la neve aveva quasi smesso
di sciogliersi attorno
al corpo rachitico del bambino. La sua temperatura corporea doveva
essere davvero
irrisoria.
Le folate ruggenti sminuzzarono la risposta del bimbo, ma
l’uomo
comprese comunque.
«Si
chiamava Mana, eh?»
estrasse
una seconda sigaretta dalla tasca dei pantaloni, ma, anziché
accenderla,
cominciò a farla ruotare tra le dita. «Ti
manca?»
Il
volto del
piccolo affondò tra le ginocchia appuntite, bloccando la
stentata
conversazione.
Il cucciolo non voleva parlarne. Gli bastava pronunciarne
il suo nome per
sentirsi strangolato da un cappio di lacrime, come se
“Mana” fosse il mantra
segreto per evocare il dolore.
L’uomo non indagò oltre.
«Morirai.»
La sentenza, ancora più glaciale
dell’aria circostante, fece emergere
dalle gambe il viso congestionato del marmocchio.
«Tutti
dobbiamo morire, prima o poi»
minimizzò
l’uomo, introducendo la sigaretta tra le labbra per
mordicchiarne l’estremità. «È
una legge di natura, e la accettiamo nascendo. Ma tu morirai prima di
tanti
altri, se resti in quel buco di ghiaccio.»
Le palpebre calarono un paio di volte sugli occhi azzurro
fumo, prima
che le labbra screpolate si muovessero per gracidare una semplice
domanda.
«Non
ho nessun motivo in particolare per
aiutarti. Mi sembra solo stupido gettare la propria vita in questo modo.»
I
denti dell’uomo si serrarono con
forza, decapitando la sigaretta: la testa cadde sulla neve, ed il resto
venne
sputato poco più in là.
«Cammina
da quella parte. C’è un centro
di accoglienza»
gli
consigliò spiccio lui, stendendo il
braccio verso ovest. Le correnti d’aria gli appiattirono la
manica al braccio e
gli arruffarono i capelli, creando la ridicola imitazione di uno
spaventapasseri dalla chioma corvina.
Le labbra dell’uomo si incurvarono in un ghigno
nell’udire la debole
richiesta del bimbo.
«Vacci
da solo. Hai avuto la forza per
piangere, troverai anche quella per camminare.»
Il
piccolo gracchiò un’ultima domanda.
Lui frugò di nuovo nelle tasche, estraendo
l’ultima sigaretta.
«Tieni»
disse,
ficcandola tra le dita gonfie ed insensibili del marmocchio. «Quando
ci incontreremo di nuovo, ti farò un regalo più
bello. E ti dirò il mio nome»
gli
occhiali risalirono appena sul naso tanto fu ampio il sorriso imbevuto
di
sarcasmo con cui lo salutò: «Buona
fortuna,
piccolo.»
Il
turbinio della neve lo nascose alla
sua vista; quando la bufera si placò, l’uomo era
sparito, fagocitato dall’ombra
notturna.
***
Ora capiva quale fosse il particolare stonato di quel
ricordo.
Nonostante la tempesta incalzante,
quell’individuo si era comportato
come se tutt’attorno splendesse una tiepida giornata
primaverile: la posa
dinoccolata, l’atteggiamento rilassato, la voce per nulla
arrochita… si sarebbe
detto quasi immune ad un qualunque agente atmosferico.
Solo il Diavolo non avverte il
freddo, perché nelle sue vene scorre la lava
dell’Inferno. Se ciò che dici è
vero, quello che hai incontrato era Satana!
Quella era stata la predica forsennata che si era
guadagnato per aver
parlato di quell’uomo al prete che gestiva il centro in cui
aveva trovato
rifugio la notte di tanti anni prima.
Il bambino, fattosi ragazzo con il passare del tempo,
frizionò tra
pollice ed indice la minuscola testimonianza tangibile di
quell’incontro.
Che razza di diavolo avrebbe mai
lasciato una sigaretta come pegno?
Ormai la cartina era consunta ed ingiallita, e il tabacco
fuoriusciva in
ciuffetti sporchi dove il rivestimento si faceva più
cedevole.
Sospirò, rimettendola via.
Ma non era nemmeno degno del
titolo di salvatore. In fondo, lo aveva abbandonato nel bel mezzo della
tormenta, dopo avergli dato una blanda indicazione su dove avrebbe
potuto
trovare asilo.
Scrollò
le spalle, riprendendo la sua
marcia attraverso i vagoni del treno.
Chissà dove era finito Crowley…
Dunque.
Siamo giunti alle postille
finali. Ahahah.
Che
dire… l’idea è partita da
“Scrivo
una PWP poker!” che poi è diventato un
“Scrivo una one poker!” che poi si è
evoluto in “Scrivo una mini long poker!”. Quindi la
cosa che state leggendo (o da
cui state scappando) avrà cinque capitoli circa, non di
più. Più o meno della
lunghezza del primo. Almeno nel progetto iniziale. Avrete capito da
sopra che
sono una persona estremamente decisa.
Ma
basta parlare della scrittrice e
parliamo della storia.
Allora,
non è un’AU, anche se non è
proprio il mondo classico di D.Gray Man quello di cui si
andrà a narrare. Mi
spiego: questa storia si concentrerà sui sentimenti dei
personaggi e sulle
relazioni che si verranno a creare tra loro. La storia canonica
raccontata nel
manga, quindi, resterà come sfondo e subirà
alcune licenze artistiche per
esigenze di copione. Il mondo è quello del fumetto, ma
riadattato per la fan
fiction.
Il
pairing principale sarà il poker,
ovvero la TykiAllen, con accenni LaviAllen e ManaAllen
(quest’ultimo come
rapporto padre-figlio).
Solo
un’ultima cosa: si è parlato spesso
di Tyki come “quell’uomo”,
“l’uomo”; questo perché volevo
ricalcare il fatto
che, quando l’ha incontrato, Allen era solo un bambino, per
di più ottenebrato
dalla tempesta e sfiancato dal dolore, quindi non si è
soffermato a pensare dei
sinonimi per definire quello sconosciuto. Allo stesso modo, Tyki non si
è
fermato troppo ad osservarlo vista la bufera e lo scarso interesse per
quel
ragnetto. Ma avranno modo di osservarsi per bene più avanti
*smirk*.
Bon,
fine delle postille.
Al
prossimo capitolo
Red
P.S.
Quasi dimenticavo: tra qualche capitolo la fic diventerà arancione cupo facilmente
convertibile in rosso. Perchè Allen, in questa storia,
è maggiorenne, vaccinato e consenziente u.u See you<3
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Primo Capitolo - Mazzo di carte ***
† Mazzo di Carte
†
Si era augurato di non dover mai assistere ad uno scempio simile.
La sua immagine ideale di vampiro algido e tenebroso era appena stata
disintegrata: Crowley era inginocchiato a terra,
l’espressione piagnucolosa e una piccola goccia che faceva
capolino dalla narice destra. Ma non era quello il dettaglio
agghiacciante: il vampiro era in mutande. Grossi mutandoni con
l’elastico alto in vita, tronfi nella loro sgargiante
fantasia a cuori rossi.
Vampiro. Mutandoni. Cuori. C’era qualcosa che strideva quasi
dolorosamente in quell’accostamento di concetti.
«Cosa stai facendo, Crowley?»
«Questi gentili signori mi hanno invitato ad unirmi a loro
per un giuoco chiamato “poker”, invero»
rispose il vampiro, le parole arrotondate dal principio di raffreddore
che gli faceva gocciolare il naso: tutte le consonanti sembravano
sorelle della “b”.
Allen alzò lo sguardo sui “gentili
signori”: le facce erano accese da uno scintillio di astuzia
sinistra, e torte da plateali ghigni da carcere. Il ragazzo chiuse gli
occhi per evitare la scortesia di ruotarli verso il cielo. Non era
difficile capire che quel branco di predatori aveva visto in Crowley un
pollo da spennare con facilità, ed il nobile sprovveduto era
istantaneamente caduto nella loro trappola.
Allen si sfilò la giacca, e la poggiò con grazia
inglese sul piatto.
«I bottoni e le rifiniture di questo cappotto sono
d’argento. Sono sufficienti per aver diritto a cinque carte,
giusto?»
Il suo sorriso si incrinò impercettibilmente quando
prestò maggiore attenzione all’uomo davanti a lui.
Bastò un solo istante per riconoscerlo: gli occhiali, lo
stile sciatto, perfino la barba ed i capelli sembravano gli stessi di quella notte.
Rabbrividì istintivamente, serrando le dita sul colletto
scuro della giacca che ancora teneva tra le mani. Erano passati dieci
anni da allora. In quel lasso di tempo, i suoi arti si erano allungati
e assottigliati, gli occhi si erano appena ristretti sul viso che
intanto si affilava, la voce aveva perso le sue punte più
stridule: da bambino gracile ed indifeso era diventato un ragazzo
forte, orgoglioso di vestire la divisa degli Esorcisti.
Quell’uomo, invece, non sembrava mutato di una cellula:
nessun capello bianco ad interrompere il fluido corvino della chioma
ribelle, nemmeno l’ombra di una ruga sui lineamenti marcati,
non vi erano scalfiture ad intaccare la superficie degli occhiali. Era
come se per lui il tempo si fosse paralizzato in quella notte
d’inverno, preservandolo da qualsiasi segno di invecchiamento.
L’uomo, al contrario, non diede segno di aver rivisto in lui
l’orfanello spaurito che aveva “aiutato”
dieci anni prima: restò accasciato nella sua posa
dinoccolata a gambe incrociate, interessato più al valore
del cappotto che al ragazzo che lo aveva messo in palio. Allen
frugò brevemente nelle tasche ed estrasse l’unico
oggetto che avrebbe potuto confermare o smentire i suoi sospetti.
Aggiunse la sigaretta logora al piatto ed inalberò davanti
al viso le cinque carte da gioco, in attesa.
«Ehi, ragazzino, guarda che quella non vale niente»
lo riprese bruscamente il tizio alla sua sinistra.
«Vale» decise l’uomo occhialuto, aprendo
a ventaglio le carte. «Il piccolo ha avuto il coraggio di
mettere in palio un suo ricordo.»
Il sogghigno che spianò le labbra sotto le pesanti lenti era
lo stesso che quel tizio aveva sfoggiato nel salutarlo quando era un
bambino ad un passo dall’assideramento. Allen non nutriva
più alcun dubbio a riguardo.
«Giochiamo?»
***
Il commento di Lavi al racconto della vittoria schiacciante di Allen
venne spezzato in singhiozzi convulsi dal riso implacabile che lo
scuoteva:
«Chi di mutande ferisce, di mutande perisce, eh?»
Allen mantenne un contegno invidiabile, da vero signorino britannico,
mentre attendeva che le risate cessassero.
«È stato straordinario, invero!» lo
esaltava Crowley, entusiasta dell’abilità mostrata
dal ragazzo albino. «Ha sbaragliato quei furfanti in pochi
giri di carte!»
Allen soppesò i vestiti che teneva tra le braccia,
combattuto: non gli sembrava giusto lasciare che quei poveretti
restassero senza indumenti durante giornate così fredde. Le
sue gambe ancora tremavano al pensiero di quell’inverno in
cui erano state quasi ghiacciate.
«Dove stai andando?» s’informò
Lavi, vedendo il ragazzo uscire dallo scompartimento.
«Vado a restituire questi ai legittimi proprietari»
rispose lui, accennando agli abiti che teneva in braccio.
«Loro non avrebbero fatto la stessa cosa per
Crowlino» notò incolore l’erede di
Bookman. Asciugò l’occhio ancora appannato dalle
risa e lo puntò su Allen, che gli restituì uno
sguardo deciso. E Lavi capì immediatamente che non sarebbe
mai riuscito a smuoverlo dal suo intento.
«Sei proprio un damerino» sospirò,
rassegnato. «Vai pure. Ti aspetteremo nel vagone letto, ormai
è tardi.»
Allen annuì ed imboccò l’uscita,
accompagnato dalle entusiastiche decantazioni di Crowley sulla sua
ineguagliabile nobiltà d’animo.
***
Il buio avviluppava ogni cosa all’interno di quel treno: le
lampade ad olio, imbullonate alle pareti dei vagoni per scongiurare il
rischio di incendi colposi, avevano quasi esaurito il combustibile, ed
agonizzavano in sparuti singulti luminosi appena più intensi
delle lucciole estive. Del tutto inadatti ad illuminare il corridoio,
che restava inglobato nella notte, palesandosi solo in pochi angoli del
mobilio appena toccati dalla luce artificiale.
Allen arrancò attraverso le tenebre, saggiando il pavimento
con i piedi e l’aria con le mani per prevenire eventuali
ostacoli. Fu durante una di queste manovre che il palmo sinistro si
scontrò con qualcosa di robusto e tiepido.
«Questa si chiama “molestia sessuale”,
piccolo» lo avvertì una voce profonda come le
ombre tutt’attorno. Un rumore raschiato, ed un fiammifero
spuntò nell’oscurità, per poi tracciare
un semicerchio che lo condusse davanti alle labbra dell’uomo,
ad accendere la punta della sigaretta.
Il cerino venne scosso un paio di volte nell’aria
finché la fiammella sulla sua testa non si spense. Rimase
solo il cerchio ardente della cicca accesa ad indicare la posizione
dell’individuo che aveva appena parlato.
«Voi avete raggirato il mio amico»
replicò Allen, fissando un punto ragionevolmente vicino alla
sigaretta, dove supponeva si trovassero gli occhi dell’uomo.
«E tu l’hai riscattato barando» una
copiosa voluta di fumo venne sospinta verso la sua faccia, costringendo
l’inglese ad arricciare il naso, disgustato
dall’odore pestilenziale del tabacco bruciato.
«Sono venuto a portarvi questi»
annunciò, tendendo al buio i vestiti che ancora gli pesavano
tra le braccia.
Le ombre non riuscirono a celare il ghigno derisorio
dell’uomo, che balenò perlaceo ed irriverente
nella notte.
«Che bravo bambino» una mano sgusciò ad
afferrargli il polso e, prima che se ne accorgesse, Allen si
ritrovò con le dita schiacciate sullo sterno
dell’uomo. Almeno, immaginò fosse quel punto
poiché avvertiva la consistenza solida dei pettorali premuta
contro i polpastrelli, ed il battito ritmico del cuore sotto il palmo.
Era la seconda volta in cinque minuti che palpeggiava il petto di quel
tizio, anche se non per libera scelta.
«Ma, come puoi notare, avevamo un cambio
d’abito» seguitò l’uomo,
usando maggior forza sul suo polso in modo che le fibre della maglia si
stampassero sul palmo dell’Esorcista.
«Sono comunque cose che vi appartengono»
reiterò Allen. Strattonò il polso con uno scatto
infastidito, ma la cosa non sembrò turbare minimamente
l’individuo con cui aveva a che fare.
«Tenete» lo invitò con maggiore
gentilezza, porgendogli di nuovo gli indumenti.
«Non permetti a nessuno di ribellarsi alla tua
cortesia» un fruscio e l’odore fattosi
più penetrante della nicotina gli fecero capire che
l’uomo gli si era avvicinato. Con un sospiro esasperato
pregno di fumo, il carico del giovane si spostò tra le
braccia del suo interlocutore.
«E tu, invece?» domandò
l’uomo, le parole appena sbiascicate dal tentativo in corso
di spostare la sigaretta da un lato all’altro della bocca.
«Cosa?» chiese di rimando Allen, aggrottando le
sopracciglia candide per scrutare l’uomo attraverso il velo
di ombre. Riuscì a scorgere la forma scarmigliata dei
capelli, tratteggiata sommariamente dai singhiozzi lacrimosi della
lampada in fondo al corridoio, e gli immancabili occhiali che
riflettevano gli scarsi fotoni presenti nell’aria. I vestiti
erano una matassa scura di cui solo pochissime pieghe godevano delle
carezze della luce artificiale prossima al collasso, ed il volto era
pressoché indefinibile, eccezion fatta per la minuscola area
circolare rischiarata dalla sigaretta.
«Il tuo soprabito mi pare scomodo»
insinuò l’uomo, stritolando la cicca tra i denti
mentre questi si scoprivano in un sogghigno. «Anzi, credo
proprio che ti stia
stretto,
piccolo.»
La fronte del ragazzo si sollevò per esternare scetticismo,
e si riabbassò in un’espressione guardinga: il
tono serpentino di quel tizio gli aveva dato la spiacevole sensazione
che il suo discorso non si limitasse alla sartoria, ma si spingesse su
un terreno ben più subdolo. Stava mettendo in dubbio la sua
fedeltà all’ordine degli Esorcisti.
«È tagliato perfettamente su misura. Come una
seconda pelle» ribatté rigido. Uno sconosciuto non
aveva alcun diritto di mettere in dubbio la sua appartenenza ai seguaci
dell’Innocence.
«Ero convinto che non ti trovassi a tuo agio, piccolo. Sembra
così scomodo…»
insistette quello, aspirando una lunga boccata che liberò
nell’aria quasi con voluttà.
«È perfetto» Allen cercò di
dare un tono perentorio alle sue parole per concludere quella
conversazione degenerata.
Ma l’enigmatico individuo non aveva intenzione di far
terminare così il loro incontro.
«Mi sembri stanco, piccolo» commentò,
molleggiando i vestiti sugli avambracci.
«È tardi» ribatté ovvio Allen.
«No, non è quel tipo di stanchezza» lo
contraddisse il sogghignante uomo. «E non è
nemmeno la spossatezza di chi ha sopportato un lungo cammino»
rigirò la sigaretta con le labbra prima di proseguire:
«È l’affaticamento di chi sa che
dovrà viaggiare ancora per molto tempo.»
Di nuovo, ebbe l’impressione che l’uomo non
parlasse solo del tragitto in treno.
Le lenti rotonde si appuntarono sui suoi capelli, studiandone
l’insolito colore lattescente, come se la neve di quella
notte dicembrina si fosse fusa alla sua chioma. Scivolarono sulla linea
della fronte e ritrovarono la medesima tinta immacolata sulle
sopracciglia ben definite e sulle corte ciglia che contornavano gli
occhi grigiastri. Un sorriso furfantesco gli spianò le
labbra quando spostò l’attenzione sul lato
sinistro del viso del giovane.
«Questa non c’era, dieci anni fa»
notò, tracciando con la punta dell’indice il
contorno del simbolo vermiglio: scostò i ciuffi di frangia
imbiancata per ridisegnare il contorno della stella, scese a sfiorare
con l’unghia il sinuoso tratto orizzontale,
ripassò sul suo zigomo e sulla guancia la linea discendente,
fino a fermarsi con il dito poco distante dalla punta esterna delle
labbra.
«Sei stato maledetto» risolse, lanciando uno
sguardo alla mano sinistra, ben infilata in un guanto.
Allen si scostò composto con un unico passo
all’indietro.
«Vi ho restituito quanto vi dovevo. Posso
andarmene» si congedò, garbato.
L’uomo terminò la sigaretta in un’unica
boccata, rilasciò il fumo acre in un lungo respiro verso il
soffitto e gettò a terra il mozzicone, spegnendolo con la
suola dello scarpone. Allen stava giusto per fargli notare quanto fosse
maleducato nei confronti altrui appestare l’aria con il puzzo
di sigaretta e addirittura spegnerla sul pavimento, ma di nuovo
l’uomo si mosse prima che lui riuscisse a vederlo: le mani
avevano lasciato cadere a terra gli abiti ripiegati e, finalmente
libere, si erano strette attorno ai suoi fianchi minuti per
strattonarlo contro il corpo di quel tizio astruso.
Erano talmente vicini che Allen avvertì non solo il calore
dell’uomo attraverso i suoi abiti, ma anche la sagoma della
sua muscolatura celata dalla maglia informe e l’odore di fumo
mescolato a quello più selvatico della pelle olivastra. Gli
parve di poter calcolare perfino la vicinanza del suo respiro, prima
che la sensazione di una mano estranea che scivolava lungo le sue anche
annullasse ogni altra percezione.
«Che diavolo state facendo?» si ribellò,
spintonando con forza l’incomprensibile personaggio.
«Ho mantenuto la promessa, piccolo» si difese
l’altro, ironicamente serafico. «Ti ho fatto un
regalo più bello.»
Allen tastò la tasca dei pantaloni, effettivamente
appesantita da qualcosa che si rivelò essere un mazzo di
carte da poker, con l’asso di picche in bella mostra.
«Ma per il nome dovrai aspettare» le dita
dell’uomo calarono sul suo capo, a scompigliargli i capelli
fini. «Buonanotte, piccolo.»
Proprio come nella bufera invernale, il suo
“salvatore” sparì senza lasciargli tempo
di replicare.
Allen tornò sui propri passi, sconcertato.
Quell’uomo lo confondeva quando era bambino e lo disorientava
ancora nonostante fosse cresciuto.
Scosse la testa, entrando nel suo vagone. Era tardi, era stanco ed
assonnato: si sarebbe goduto una sana dormita e avrebbe lasciato da
parte le stranezze di quel soggetto almeno per il resto della nottata.
I tanto contesi vestiti restarono accasciati al suolo, dimenticati da
entrambe le parti.
***
E così quel marmocchio era diventato un Esorcista. Avrebbe
dovuto ammazzarlo anziché aiutarlo, dieci anni prima.
«Non si può prevedere tutto»
esalò, togliendosi gli occhiali.
Avrebbe potuto rimediare quella stessa notte e ucciderlo nel sonno. Ma
era meglio non creare scompiglio in un luogo pubblico: tutte le grida e
l’isterismo scatenate dal ritrovamento di un cadavere lo
irritavano, per non parlare delle lunghissime indagini della polizia e
il fastidio di doversi inventare un alibi… Senza contare che
i suoi compagni Esorcisti avrebbero setacciato il treno alla ricerca
del colpevole.
Decisamente troppa confusione. Meglio ritirarsi ed attendere ordini del
Conte a riguardo.
Si issò sulla propria cuccetta e attese, supino,
l’arrivo del sonno.
L’invito del Conte lo pungolò proprio quando stava
per scivolare tra le braccia di Morfeo. Ma non riuscì a
trattenere un sorriso perfido, nonostante il brusco risveglio.
Non ci sarebbero voluti altri dieci anni per incontrare di nuovo il
piccoletto.
Grazie<3<3<3
Grazie a tutte voi che
mi avete incoraggiato nel primo capitolo<3
Red
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Consolazioni Fasulle ***
† Consolazioni
Fasulle †
Allen era bravo
a consolarsi. Aveva imparato
il giorno in cui Mana lo aveva abbandonato.
Non
è
morto. Si sta solo riposando. Chiamalo più forte, vedrai che
si sveglierà. E ti
prenderà in giro per esserti tanto impaurito.
Lo aveva
chiamato. Tante, tante volte. Così
tante da scorticarsi l’ugola.
Quando la sua
voce si era spenta in un
ultimo rantolo rauco, si era accorto che il sole era tramontato.
Sono
state le tue urla a stufare il sole: ora non sorgerà mai
più.
Aveva infossato
il viso smunto nella ginocchia
ossute e aveva pianto finché gli occhi non gli erano
diventati tanto gonfi da
occupare tutta l’orbita, aveva pianto per il sole che se ne
era andato, e per
Mana, che se ne era andato ancora di più.
Era tornata
qualche giorno più tardi, quella
vocetta infame, quando stava vagabondando senza una
meta
in un mondo sprofondato in uno degli inverni più gelidi
dell’ultimo ventennio.
Mana
se ne è andato, ma è andato in un posto migliore.
Questo Paradiso
non doveva essere poi così
ben protetto, se il Conte del Millennio riusciva ad intrappolare con
tanta
facilità le anime nei suoi marchingegni infernali, gli
Akuma.
Non
hanno paura di te. Semplicemente, non comprendono appieno il tuo
potenziale.
Questo
la vocina glielo aveva sussurrato quando aveva notato gli sguardi
carichi di
apprensione degli altri Esorcisti. Un’apprensione che
affondava le sue radici
nel sospetto, non nella perplessità. Quella volta, Allen non
era riuscito ad essere
forte: aveva ceduto alle lusinghe della sua intangibile consigliera,
rifugiandosi dietro una convinzione più fragile di un fiocco
di neve. Aveva
voltato gli occhi per non incrociare i volti sospettosi degli altri,
aveva
finto di non sentire gli sguardi fissi e i commenti sul suo braccio,
che i più
maligni definivano “diabolico”.
Non voleva
credere di essere rimasto di
nuovo solo. Non proprio ora che era circondato dalla gente.
A volte si
persuadeva di avere una sorta di
maledizione intorno a sé, come un’aura malefica
che spingeva gli altri ad
allontanarsi da lui. Il dolore che si era sedimentato nella sua anima
in tutto
quel tempo fungeva da repellente sia per le persone felici, che non
volevano
essere contaminate da tanta mestizia, che da quelle tristi, che non
volevano
aggravare ulteriormente il loro fardello di pene.
E la
solidarietà? Che fine aveva fatto?
Possibile che nemmeno gli Esorcisti, che pure sanavano il mondo dalla
piaga
degli Akuma, avessero un cuore abbastanza grande da ricavare uno spazio
anche
per l’albino orfano?
L’unico
cuore che lo avesse mai ospitato era
fermo da tempo, era stato dilaniato dalla resurrezione in Akuma e ora,
con
tutta probabilità, era nello stomaco di un verme.
L’unico posto che avesse
avuto nel mondo giaceva nell’apparato digerente di un
invertebrato.
Eppure, gli
sembrava che tutto ciò che gli
era accaduto in passato fosse stato pianificato per spingerlo, un passo
e una
lacrima alla volta, verso gli Esorcisti… non era disposto ad
accettare che
tutta la sua vita, perfino la morte cruenta di Mana, fossero servite
solo a
condurlo su un binario morto. Doveva essere
quella la sua strada, e quella la sua casa.
Non vi erano
altre spiegazioni possibili.
***
Perché
simili ragionamenti giungessero
proprio in quel momento, non riusciva a capirlo.
Sarebbe stato
più logico, più sensato se
avesse cercato di elaborare un piano di fuga, o anche solo uno
stratagemma per
derubare l’aria di un'altra boccata d’ossigeno.
Non era per
niente saggio rammaricarsi delle
sue tristi giornate mentre i muscoli erano diventati cenere e il sangue
acqua,
il suo braccio sinistro era l’unica parte ancora sensibile
del suo corpo, e il
Noah sogghignava con aria satanica davanti a lui, serrandogli la
trachea tra le
impietose dita guantate.
Aveva notato
come il sorriso malefico
dell’uomo si estendesse man mano che aumentavano i segni
della sua sofferenza,
per cui represse a forza uno spasmo muscolare per non dare ulteriore
diletto al
nemico.
«Peccato,
piccolo. Mi sarebbe piaciuto fare
un’altra partita a poker con te.»
Le pareti delle
vene erano gonfie fino allo
spasmo: con tutta l’anidride carbonica strozzata
all’interno, le arterie si
stavano espandendo fino al loro limite; se il Noah non lo avesse
liberato,
sarebbero esplose come una diga troppo piena. Con il sangue
impossibilitato a
scendere oltre la gola strangolata, tutti gli arti languivano per la
denutrizione,
e si afflosciavano inerti nella neve circostante .
Aveva la
sensazione di aver ingoiato un otre
di fuoco greco tanto gli organi interni bruciavano e dolevano, pronti a
scoppiare da un momento all’altro per la troppa pressione. La
sua coscienza si
sfilacciava in un grumo informe di pensieri sconnessi, fino a
degenerare in una
fitta caligine, prima avvisaglia dello svenimento.
Fu proprio
quando i sensi stavano per
abbandonarlo definitivamente che il Noah rilasciò la presa.
Lo fece così
all’improvviso che Allen realizzò solo qualche
secondo dopo di essere libero,
precisamente quando il gelo della neve gli agguantò le
guance con tanta
irruenza da fargli riprendere di colpo conoscenza. La sua bocca
spalancata
incamerò generose boccate di ossigeno direttamente nei
polmoni quasi avvizziti
e i bronchi pomparono con rinnovata foga il gas vitale in tutto il
corpo, facendogli
riacquisire la sensibilità nei tessuti intirizziti dal
freddo. L’aria
corroborante lo aiutò a snebbiare la mente, donando nuova
lucidità ai suoi
pensieri.
La sensazione di
precario benessere non durò
molto: la suola di una scarpa calò spietata tra le sue
scapole, mozzandogli il
respiro appena recuperato e affondandogli la faccia nella neve.
Lottò
strenuamente per riuscire a rialzare
la testa da quella bianca assassina che cercava di ostruirgli il naso e
la
bocca, soffocandolo in un modo ancora più atroce di quello
tentato poco prima
dal Noah, e finalmente riuscì a sollevare il capo,
nonostante il tacco ancora
conficcato nella sua schiena.
«Arrivano.»
L’uomo
pronunciò quell’unica parola prima di
alleggerirlo del peso della sua scarpa.
L’inglese
tossì rauco la neve che gli era
entrata in gola, sorreggendosi con le ultime forze ancora presenti nel
braccio
destro. Batté più volte gli occhi per liberarli
dai cristalli artici
intrappolati nelle ciglia, impossibilitato ad usare sia il braccio
sinistro,
completamente prosciugato di energie, che quello destro, impegnato a
sorreggere
il corpo. Solo dopo svariati tentativi riuscì finalmente a
distinguere con
chiarezza le figure scure che li accerchiavano: divise nere rifinite in
argento, armi divine e fuoco negli occhi. Gli Esorcisti erano arrivati.
Il Noah
sollevò appena il cappello in un saluto
di scherno e flautò, derisorio:
«Complimenti,
signori: mi avete trovato.»
***
Quell’ufficio
era una scultura alla
burocrazia e allo zelo professionale: sulla scrivania non vi erano
altro che
fogli e documenti impilati con ordine millimetrico, completati da un
calamaio
diligentemente riempito ed un pennino in ottone lustrato con attenzione
maniacale; le forme scomode della sedia erano state pensate apposta per
scacciare l’indolenza ed il sonno ed incoraggiare un impegno
sempre maggiore
nel lavoro, così come dalla libreria in fondo
all’ufficio erano state bandite
le opere di narrativa in favore di codici civili e manuali specifici.
Era facile
intuire il carattere del proprietario
di un simile cimitero di umanità: tempra di ferro e anima di
acciaio donavano i
natali ad un uomo più macchina che cuore.
La luce della
lampada si insinuò tra le
rughe di concentrazione che spezzavano i suoi lineamenti marcati, e
creavano
uno strano gioco di chiaroscuro su quel volto austero, facendolo
assomigliare
al disadorno abbozzo di una scultura in marmo.
La porta,
aprendosi, distolse la sua
attenzione dalle carte, ed il nuovo arrivato di guadagnò
un’occhiata di
sprezzante biasimo per averlo interrotto in un momento così
cruciale. Tuttavia,
la notizia che il messaggero portava lo convinse a smussare lievemente
il suo
cipiglio tirannico.
«Abbiamo
catturato un Noah, signore»
annunciò quello, immobilizzato sull’attenti.
«Chi
l’ha catturato?» pretese di sapere il burocrate,
spostando il plico di
documenti a lato della scrivania.
«Il
gruppo di Esorcisti diretto in Cina»
strombazzò l’araldo, ancora pietrificato.
«Abbiamo ordinato loro di fare immediatamente
ritorno. Saranno qui tra tre giorni.»
Le dita
dell’uomo pungolarono il mento
rettangolare, levigato dall’ultima rasatura, poi si mossero
in un cenno
sbrigativo diretto al legato perché abbandonasse la stanza.
«Signore…»
barcollò questo, dondolandosi
incerto sulle ginocchia. «Allen Walker, il nuovo arrivato del
gruppo Komui, era
insieme al Noah. Ed era illeso.»
«Sapevo
che era stato ferito gravemente»
obiettò il funzionario.
«Le
lesioni riportate sono una conseguenza
del combattimento con il traditore dell’Innocence,
Suman» specificò il
messaggero. «Gli Esorcisti non sono giunti tempestivamente
sul luogo dello
scontro, quindi il Noah avrebbe avuto tutto il tempo di ucciderlo, se
solo
avesse voluto. Invece, non l’ha neppure scalfito.»
L’uomo
quasi stritolò la radice del naso tra
il pollice e l’indice, mentre una ragnatela di grinze si
diramava dalle
palpebre troppo strette. Un altro potenziale traditore, per di
più in combutta
con i Noah? L’invio di una squadra di emergenza avrebbe messo
in allarme Walker
e gli avrebbe dato il tempo di scappare, se davvero era un falso
apostolo. Era
forse troppo azzardato lasciarli da soli con il Noah per tre giorni? In
fin dei
conti, avevano dimostrato il loro valore imprigionandolo…
Emise
un lungo, esasperato sospiro
«Date
ordine che Allen Walker non resti mai
da solo con il Noah. Per nessun motivo. E fateli sorvegliare in
segreto.»
«Signore…»
«Fai
come ti ho detto.»
Il legato
annuì con una smorfia, si inchinò
e corse ad informare chi di dovere della decisione del suo superiore.
Si augurava solo
che l’anziano burocrate non
avesse commesso un mortale passo falso.
***
Una mano gentile
lo scosse per la spalla, facendolo
dondolare dolcemente sul materasso morbido.
«Allen,
come ti senti?»
La voce accorata
di Lavi gli accarezzò piano
la spalla prima di scivolare nel suo orecchio.
Il ragazzo
albino girò cautamente su se
stesso, i muscoli ancora memori del terribile scontro subito, fino a
ritrovarsi
con il viso contro il petto accogliente del compagno.
«Abbastanza
bene da poter fare il mio turno
di guardia» articolò. Sbirciò la luce
che trapelava dalle finestre per cercare
di intuire che ore fossero: i raggi rettangolari proiettati dalle
persiane
chiuse erano opalescenti e fiacchi, troppo smorti per appartenere al
sole.
«Quanto
ho dormito?» s’informò.
«Parecchio»
fu la risposta evasiva di Lavi.
«Ne avevi bisogno, Allen: oggi sei quasi morto.»
Oggi.
Quindi non era passato troppo tempo, rifletté con sollievo.
«Il
Noah?» chiese di nuovo, agitazione e
calma in conflitto dentro di lui: era in ansia perché temeva
che
quell’individuo potesse fare del male agli altri Esorcisti, e
allo stesso tempo
era tranquillo perché nessun suono inconsulto proveniva
dall’esterno. Se il
Noah avesse cercato di evadere, certamente non ci sarebbe stata una
simile
quiete tutt’intorno.
«Crowlino,
Linalee e il vecchio lo stanno
sorvegliando» lo acquietò Lavi. Insinuò
le dita tra le fini ciocche albine,
quasi volesse dipanare la tensione del ragazzo assieme ai piccoli nodi
che
aggrovigliavano la chioma lattea.
«Vi
siete fermati qui solo per farmi
riposare?»
«Siamo
tutti stanchi, Allen.»
«Vi
sto rallentando» si ostinò il giovane,
interrompendo a metà il tentativo di staccarsi
dall’erede di Bookman: le ferite
ancora fresche trafissero i suoi centri nervosi con scariche di dolore
intollerabili, e lo costrinsero ad appoggiarsi sfinito al materasso e
al
compagno. «Lasciatemi qui: quando mi sarò ripreso
vi raggiungerò.»
«Allen,
non prenderla come una critica
personale, ma cosa pensi di fare in queste condizioni?» lo
riprese cortesemente
Lavi. Gli accarezzò la schiena con la delicatezza di un
alito di vento e,
nonostante questa sua premura, i muscoli dell’Esorcista si
irrigidirono a quel
contatto imprevisto con le lesioni ancora non cicatrizzate.
«Perfino un Livello
Uno potrebbe finirti. Viaggerai con noi, e speriamo di non metterci
troppo a
tornare a casa.»
Allen
appoggiò la testa al cuscino con un
lungo sospiro.
«Domani
mattina ci rimetteremo in viaggio»
ordinò, prima di chiudere gli occhi.
Una sensazione
morbida avvolse le sue labbra
appena dischiuse, mentre un sapore ben conosciuto si insinuava al loro
interno.
«Ripartiremo
domani mattina. Ma ora riposati»
sussurrò Lavi sulla sua bocca, sostandovi ancora un poco
prima di allontanarsi
e permettergli di poggiare il viso nell’incavo del suo collo.
Un
sorriso tenue spianò le labbra dell’inglese ancora
tiepide per il bacio, mentre
rilassava i muscoli tesi ed indolenziti per abbandonarsi alla quiete di
Morfeo.
***
Il suo sonno non
fu per nulla sereno.
Si era immerso
nell’angoscia di Suman, aveva
condiviso i suoi ricordi più cari, aveva sentito il suo
disperato desiderio di
vita risuonargli nelle ossa, scuotendolo fino al midollo… e
i sogni non
facevano che riproporgli quegli allucinanti stralci di vita come un
sanguinario
carillon che non smetteva di suonare la stessa, macabra melodia: le
grida di
Suman, il suo fallimento nel salvarlo, la sofferenza
dell’apostolo abbandonato
dall’Innocence, e poi il dolore più forte di
tutti, il suo…
Si
risvegliò con i capelli appiccicati al
volto dal sudore freddo che gli ricopriva tutto il corpo e lo faceva
tremare
come una foglia in autunno. Si rialzò a sedere in una feroce
protesta di membra
ancora irrigidite dagli sforzi della giornata, e notò che
Lavi non occupava più
il posto al suo fianco. Passò le dita nella frangia
perlacea, senza porsi
troppe domande a riguardo: probabilmente l’anziano Bookman
era venuto a
prelevare il suo allievo nottetempo.
Sgusciò
fuori dalle coperte calde e
rabbrividì a contatto con la pietra gelida del pavimento; fu
lesto ad infilarsi
le scarpe e, ignorando i polpacci anchilosati, uscì dalla
propria camera e si
diresse verso la stanza di detenzione del Noah.
L’ambiente
era piccolo e spoglio, in modo
che il nemico dell’Innocence non potesse utilizzare nulla
come arma
improvvisata o come elemento per una qualche fattucchieria: non vi
erano altro
che quattro mura di nudo intonaco, il pavimento in lastroni calcarei e
un
fazzoletto di cielo incastrato nella cornice della piccola finestrella
quadrata, poco sotto il soffitto.
Il Noah era
stato spogliato del cilindro,
dei guanti e del cappotto per evitare che potesse nascondervi qualche
diavoleria; non gli avevano consentito di tenere neppure le scarpe.
Eppure non aveva
perso la sua aura di
inesplicabile eleganza nemmeno ora che il suo vestiario aristocratico
era stato
sfoltito: la posa rilassata lasciava intendere un languore insolito per
un
prigioniero costretto a sedere sulla dura pietra, e il viso scuro non
lasciava
trasparire il minimo disagio per quella situazione malagevole; al
contrario,
ogni battito di ciglia pareva essere una frecciatina sarcastica
scoccata agli
Esorcisti. Perfino i capelli, morbidamente modellati in ricci corvini,
sembravano disegnati secondo un complicato quadro di disordine ben
calcolato:
anche le ciocche più spettinate riuscivano a ricadere in
modo da sottolineare
la curva piacevole dello zigomo, il caldo oro delle iridi o la forma
ben
tracciata delle sopracciglia. I
due
Esorcisti davanti a lui non facevano che rendere ancora più
evidente la serena ed
irriverente alterigia del Noah: Crowley e Linalee sedevano uno di
fronte e uno
di spalle al carcerato, la pelle tesa sui lineamenti contratti e sui
muscoli
irrigiditi, le labbra ridotte ad una fessura nervosa.
«Allen!»
si preoccupò Linalee, vedendolo
entrare. «Dovresti stare a letto!»
«Sei
ancora lontano dalla guarigione, invero»
il mantello del vampiro frusciò vellutato mentre
l’uomo cadaverico gli si
avvicinava. «Dovresti riposarti.»
L’inglese
quasi non ascoltò i suggerimenti
dei compagni: il Noah lo aveva trapassato con il suo sguardo dorato non
appena
aveva varcato la soglia. Allen avvertì quasi un bruciore
fisico nei punti in
cui l’uomo lo fissava, come se gli avessero premuto due
tizzoni ardenti sulla
pelle.
«Piccolo,
tu sei Allen Walker?»
«Non
devi rispondergli» lo freddò Linalee, lanciando
uno sguardo torvo al prigioniero.
«Sono
venuto a fargli una domanda» bisbigliò
Allen a Crowley.
«Non
te la lasceranno fare» il Noah ghignò
sagace mentre appoggiava il mento nel palmo della mano con
insopportabile
superiorità. «Hanno ricevuto ordini precisi: Allen
Walker non deve avere alcun
contatto con il Noah.»
«E’
per difenderlo dalle tue nefandezze!»
reagì Crowley, dispiegando un’ala del mantello
davanti all’inglese per
proteggerlo.
«Oppure
perché dubitano delle sue capacità
da Esorcista. O, ancora peggio, della sua lealtà»
sospettò l’uomo; gli occhi si strinsero in un
ghigno nel notare il cambiamento
di espressione del ragazzo albino.
«Devo
fargli solo una domanda. Non ci
impiegherò molto tempo.»
A
quell’ultimo tentativo dell’inglese,
Crowley si fece da parte a malincuore e tenne fisso lo sguardo sul
ragazzo
mentre questo avanzava verso il Noah: aveva colto una specie di
tensione
elettrica quando Allen aveva incassato l’accusa del loro
nemico, e temeva che
quest’ultimo potesse fargli ancora del male con le sue
insinuazioni. Richiamò l’Innocence
nelle zanne, pronto ad intervenire in qualsiasi momento, imitato da
Linalee che
caricò l’energia necessaria negli stivali.
Un sogghigno
raffinato e insolente aleggiava
sulle labbra sottili dell’uomo mentre attendeva che il
giovane Esorcista si
chinasse davanti a lui.
«Per
quale motivo mi hai lasciato in vita?»
volle sapere Allen, una volta portato il viso allo stesso
livello
del Noah.
«Non
per l’intervento dei tuoi valorosi
compagni» rispose derisorio l’uomo.
«Cosa
stai pianificando?»
«Per
quale motivo dovrei rivelarti le mie
intenzioni?» gli angoli della bocca scattarono verso
l’alto quando il sorriso
perverso del prigioniero si ampliò. «Sei un ottimo
giocatore di poker, dovresti
saperlo che non si rivelano le proprie carte agli avversari.»
«Non
stiamo parlando di…»
Il cravattino
che portava al collo venne
strattonato dalle dita di ferro del Noah; quando il mondo intorno a lui
tornò
fermo, Allen si ritrovò con il mento puntato sulla spalla
dell’uomo, e l’orecchio
solleticato dai mormorii suadenti del carcerato:
«Hai
mai giocato ad othello, piccolo?» le
labbra del Noah gli lambivano impercettibilmente il lobo ad ogni
lettera,
soffiandogli le parole nell’orecchio con una
fluidità quasi ipnotica. «Il
bianco diventa nero in un attimo, il colore delle pedine non
è mai definitivo.
Ti consiglio di informarti bene sui trascorsi del tuo gruppo prima di
decidere
a che bandiera votarti.»
Degli artigli
acuminati lo strattonarono lontano
dal nemico, strappandolo dal sortilegio della sua voce persuasiva e del
suo
profumo paralizzante.
«Lascialo
stare» ringhiò Crowley, parandosi
davanti ad Allen con i canini affilati esibiti tra le labbra tese.
Il Noah si
limitò a riacquisire la sua posa
scultorea, senza emettere un solo suono superfluo.
«Stai
bene, invero?» si impensierì il
vampiro, voltandosi verso il giovane.
«Sto
bene» Allen coprì il viso con il dorso
della mano nel rassicurare Crowley: sarebbe morto di vergogna se
qualcuno
avesse notato quanto le sue guance fossero diventate paonazze.
Lasciò
in fretta la stanza, tra l’ansietà
degli Esorcisti e il sadico divertimento del Noah.
Quell’uomo
era pericoloso. Molto più di
quanto pensassero gli altri.
Per anni aveva
covato dentro il pensiero di
non aver trovato il suo posto nel mondo, e perfino tra gli Esorcisti
non si era
sentito del tutto integrato: ma una persona che lo conosceva da pochi
minuti,
la maggior parte dei quali passata a tentare di ucciderlo, non poteva
aver
capito ciò che marciva dentro di lui da tutta una vita.
I suoi genitori
lo avevano abbandonato,
negandogli il nido domestico. Mana lo aveva accolto, ma la tomba lo
aveva
reclamato troppo presto. E ora il Noah metteva in dubbio che il suo
vero posto
fosse tra gli apostoli dell’Innocence.
Quel che era
peggio, era che lo credeva lui
stesso.
Scosse il capo
con furia, stendendosi sul
letto con enorme sollievo dei muscoli spossati.
Non avrebbe mai
più parlato con quell’uomo.
Mai.
Credici,
Allen xD
Okay, poche cose da dire su questo capitolo: è stato un
parto da scrivere,
veramente un parto, perchè da questo signorino che avete
appena letto dipende
tutto lo svolgersi della trama futura. E, nei miei progetti, dovrebbe
essere
anche l'ultimo che Tyki e Allen passano così lontani. Basta
molestie
occasionali u.u
Capitolo di passaggio, insomma, che spiana la strada al prossimo.
Indi, al quarto, miei cari<3
Red
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=747119
|